Il ragazzo dalle Ali di Cristallo.

di Rei_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo giorno a Roma ***
Capitolo 2: *** Nicolò ***
Capitolo 3: *** Occhi verdi ***
Capitolo 4: *** Responsabilità ***
Capitolo 5: *** Accordi incrociati ***
Capitolo 6: *** Fantasmi ***
Capitolo 7: *** Oscurità ***
Capitolo 8: *** Sfumature ***
Capitolo 9: *** Ostruzionismo ***
Capitolo 10: *** Poco prima dello schianto ***
Capitolo 11: *** Cause perse ***
Capitolo 12: *** Convergenze ***
Capitolo 13: *** Quella piccola luce ***
Capitolo 14: *** Gratitudine ***
Capitolo 15: *** Un mare in tempesta ***
Capitolo 16: *** Altezze ***
Capitolo 17: *** Maschere ***
Capitolo 18: *** il Giorno del Ricordo ***
Capitolo 19: *** Caduta libera ***
Capitolo 20: *** La bomba ***
Capitolo 21: *** Dimissioni ***
Capitolo 22: *** La locomotiva ***
Capitolo 23: *** Il colore dei sogni ***
Capitolo 24: *** Irreparabile ***
Capitolo 25: *** Leader ***
Capitolo 26: *** Buongiorno, notte. ***
Capitolo 27: *** Tramonto ***
Capitolo 28: *** Nota finale ***



Capitolo 1
*** Primo giorno a Roma ***


Era tutto buio.
Buie le quattro pareti troppo vicine al suo corpo, buia anche l'aria che cercava a fatica di far entrare nei polmoni.
Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando era finito lì dentro. Aveva urlato fino a perdere il fiato, picchiato la porta fino a farsi sanguinare le nocche. Era caduto a terra sulle ginocchia, fissando la debole luce che filtrava da sotto il legno spesso nell’inutile tentativo di frenare il panico.
«Fatemi uscire...» pregò, picchiando per l’ennesima volta la mano piccola contro la superficie della porta, unica pesante barriera che lo separava dal resto della scuola. Sentiva delle risate dall’altra parte. Erano voci giocose di bambini e chiunque, passando di lì, avrebbe solo visto cinque ragazzini che si stavano divertendo. Nulla di strano, nulla di anomalo.
«Michelino, hai paura del buio?»
Non riuscì a rispondere. I respiri si rincorrevano veloci, la testa pulsava dolorosamente, il sudore freddo gli aveva appiccicato la maglietta alla pelle. In mezzo a quel buio totale, le pareti dello sgabuzzino sembravano ancora più vicine tra loro. Provò a chiudere gli occhi per tranquillizzarsi, cercando di immaginare di essere nella sua cameretta, ma così facendo gli sembrava che l'aria mancasse ancora di più, e a nulla serviva la debole convinzione che il buco della serratura l'avrebbe salvato dal soffocamento. Perché nessuno si era accorto che era chiuso lì dentro?
Perché nessuno si stava preoccupando per lui? Il cuore gli batteva veloce, molto forte, facendogli male. Non voleva piangere, si rifiutava di dar loro anche la soddisfazione di vederlo debole, ma le lacrime sembravano voler uscire da sole. Erano lacrime di impotenza, perché in nessun modo avrebbe potuto liberarsi da lì se non gliel'avrebbero permesso loro. Nessun altro lo avrebbe salvato. Si sedette per terra appoggiandosi alla porta, pensando che così avrebbe respirato la poca aria che entrava dalla fessura, ma quando sentì dei passi allontanarsi il panico prese il sopravvento. «Ciao Michelì, ci vediamo in classe!» «No! Aprite!» Cercò di gridare, ma la sua voce si espresse solo in un debole rantolo di terrore. Riprovò, più e più volte, fino a che non sentì più alcun rumore. A quel punto la disperazione vinse l’ostinazione, e Michele crollò di nuovo a terra. Più il tempo passava, più si illudeva che sarebbero tornati presto a tirarlo fuori. Quanto può durare uno stupido scherzo? Non si rendevano conto che aveva paura? Che poteva davvero soffocare?

Perse la cognizione del tempo mentre piangeva e tremava, rinchiuso in un buio soffocante. Negli anni successivi, non riuscì mai a ricordare vividamente il suo risveglio sul letto dell'infermeria. Nella sua mente erano rimasti solo dei flash in cui sua madre piangeva, suo padre lo scrollava violentemente per le spalle e suo fratello maggiore rideva di nascosto, mentre lui non diceva niente e fissava il vuoto.
Una sola, vivida immagine era rimasta impressa nella sua memoria. Il sole, fuori dalla finestra, stava tramontando dietro le case, e questo voleva dire una cosa sola: per almeno otto ore era rimasto chiuso dentro uno sgabuzzino.

Aveva undici anni.


 
*



Il taxi viaggiava veloce per le strade di Roma. Faceva slalom tra le macchine, schivava pedoni e ciclisti con un’agilità a cui Michele Martino non era abituato. Per lui, che veniva da un piccolo paese della Calabria, le strade di Roma apparivano minacciose e confuse. E quella stramba città, che a vederla scorrere sembrava una scatola di giochi che un bambino annoiato si era divertito a disordinare il più possibile, quel giorno era diventata la sua nuova casa.
Quando Michele scese finalmente dal taxi rabbrividì per un secondo trovandosi davanti al luogo dove, se tutto fosse andato bene, avrebbe trascorso i futuri cinque anni della sua vita.
Palazzo Montecitorio.

Il secondo uomo che scese con lui era molto più anziano. I capelli erano corti e grigi, come i baffi rasati con precisione. Portava una ventiquattrore stretta nella mano enorme e aveva addosso un cappotto marrone, elegante, al di sotto del quale si intravedeva una camicia bianca e una cravatta blu annodata all'inglese. Una volta fuori dall’abitacolo, l'uomo tirò fuori dal taschino un sigaro, bruciandone la punta con uno scatto dell'accendino.
«Sei agitato, compagno?»
Lo chiamava sempre “compagno” quando voleva dargli forza. Forse quel giorno avrebbe anche potuto osare chiamandolo “onorevole”, ma l’uomo conosceva da tanti anni Michele, perciò sapeva che quell’appellativo lo avrebbe turbato ancora di più. «No, non credo» rispose serenamente il più giovane. L'altro tirò del fumo, pensieroso. Sapeva bene che Michele era tutt’altro che tranquillo, così come sapeva che mai avrebbe mostrato le sue paure.
«Entriamo, dai».
Michele annuì e varcarono l'ingresso, trovandosi subito dentro una sala ampia, con il pavimento in marmo decorato e diverse porte laterali. I deputati presenti parlavano tra loro in piccoli gruppi, e per un secondo Michele ebbe l'immagine di una scuola, con i bambini con grembiulini identici che affollavano il cortile a gruppetti.
Una signora alla reception gli consegnò il suo tesserino da deputato. Vedere la sua foto con impressa a fianco il logo della Camera dei deputati bastò a fargli sudare le mani dall’emozione. Anche l’anziano prese il tesserino. A fianco della sua foto c'era impresso il nome “Arturo Costa”. Era un nome conosciuto da tante persone, che veniva citato nei talk show e nei tg. Il nome di Michele invece era ancora sconosciuto, anonimo. Arturo rivolse uno sguardo al giovane, ed entrambi sorrisero. Michele sapeva bene cosa significasse quel sorriso. Erano stati entrambi eletti, grazie al loro impegno. Avevano vinto insieme.
«Eccolo finalmente, il grande compagno Costa!» Un uomo arrivò loro incontro e abbracciò forte Arturo.
«Buongiorno, carissimo compagno Greco» ricambiò.
«I tg ne hanno parlato fino allo sfinimento, il grande ritorno del vecchio Arturo! Non ci avrei scommesso una lira sulla tua rielezione! Ovviamente scherzo! E tu sei Martino, giusto? Mi ricordo di te allo scorso congresso…» Michele sorrise timidamente.
«Sì, sono io».
«Thomas, è di nuovo un piacere» l’uomo gli strinse vigorosamente la mano. Michele studiò il suo interlocutore. Si ricordava abbastanza bene di lui, lo aveva visto spesso nei talk show. Se la cavava molto con la parlantina, ma era un tipo insolito. Aveva dei capelli biondo scuro ricci e folti, con un ciuffo che gli pendeva lungo la fronte. La cravatta, dello stesso colore giallo, era annodata sopra una camicia a righe colorate altrettanto fuori dal comune. Cercò di trattenersi dal commentare quell'insolito completo, limitandosi a sorridere e a ricambiare con forza la stretta. Fu proprio Arturo però a farglielo notare, subito dopo.
«Almeno il primo giorno non potevi vestirti in modo normale?» «Certo che no! Ormai dovresti conoscermi, vecchiaccio!»
Michele seguì i due deputati per i corridoi. Entrambi incontrarono e salutarono un non indifferente numero di persone, e alcuni addirittura abbracciarono Arturo in lacrime, come se fosse un caro vecchio parente che non rivedevano da tantissimo tempo.
«Vecchio volpone…» commentò Arturo non appena ebbero superato un anziano con un’espressione particolarmente rigida accentuata da numerose rughe. Thomas sorrise, mentre Michele si sforzava di ricordare chi fosse. Lo aveva notato al tavolo dei dirigenti, al congresso di due anni prima. Doveva trattarsi di Goffredo Ranieri, il presidente del partito. La sua elezione era stata motivo di scontro in quell’occasione. Si accorse ben presto, man a mano che avanzava verso il corridoio principale, che l'età media dei deputati era di sicuro al di sopra dei quaranta. Forse era quella divisa che faceva sembrare vecchio anche chi non lo era, fatto sta che erano rari quelli che sembravano avvicinarsi ai suoi ventisette anni.
«Sono il più giovane?» chiese subito, cercando di non far vedere quanto la cosa lo turbasse.
«Ma no, ma no! La vera domanda è: quanto sarai vecchio quando uscirai da qui? Si dice che una volta entrati sia difficile andarsene» gli rispose Thomas, strizzandogli l'occhio con fare amichevole.
A Michele quelle parole fecero uno strano effetto. Guardò indietro verso la porta che avevano appena oltrepassato, chiedendosi se un giorno avrebbe desiderato fuggire da quel posto, che in quel momento gli sembrava il massimo della carriera a cui un uomo potesse aspirare.
«Lascialo perdere, dice una marea di stronzate» intervenne sospirando Arturo. Arrivarono in breve tempo davanti alle porte aperte dell'aula parlamentare, passando attraverso mille altri saluti e strette di mano. Non appena Michele arrivò a mettere il primo piede oltre le enormi porte di legno, il respiro gli si bloccò. L'aveva vista diverse volte in televisione, e altrettante volte si era immaginato quel momento, ma non si aspettava che fosse veramente così enorme. Era come se quell’immensità spingesse tutta insieme sul suo petto, impedendo al cuore di farsi spazio per battere.
Sentì come se il peso di quella divisa in giacca e cravatta, delle decorazioni in marrone scuro, delle poltrone rosse eleganti e delle luci soffuse che imponevano un'aria quasi religiosa, gli fosse arrivato addosso in un solo secondo, gridandogli a gran voce che anche lui, da quel momento, apparteneva a quel mondo. Lui, proprio lui, era diventato un deputato di Sinistra Democratica, era entrato a far parte di quell’assemblea dove si prendevano le decisioni per il Paese intero, quel mondo che per anni aveva solo sognato come un'ipotesi lontana e remota. Con quella strana impressione nel cuore seguì i suoi due colleghi fin nell'ala sinistra dell'aula, salendo le scale fino alla terzultima fila. Strinse la mano ad almeno una decina di persone che si stavano sedendo davanti e dietro di lui, dimenticandosi un secondo dopo tutti i nomi. Guardando verso il basso notò Goffredo piazzarsi circa tre file sotto di lui, a fianco del segretario del loro partito, Riccardo Marchesi, eletto anche lui nell'ultimo congresso.
Se la ricordava bene la sua elezione. Era stato appoggiato da una netta maggioranza del partito ma, nonostante questo, la battaglia congressuale era stata feroce. Arturo era stato da subito contrario alla sua candidatura ed era riuscito a convincere molti altri compagni, compreso lui e Thomas, a votare contro. Perché Marchesi era un uomo che proveniva da associazioni studentesche di stampo cattolico e dalla Democrazia Cristiana, una cosa inaccettabile per un partito storicamente di sinistra. Però Marchesi era anche un militante di lungo corso, un uomo che negli anni della Rinascita Fascista aveva combattuto in prima linea, e per questo il resto del partito lo aveva sostenuto a spada tratta. Michele continuò a guardarsi intorno mentre l'aula lentamente si riempiva per la prima seduta ufficiale della nuova legislatura. Gli era abbastanza facile distinguere i deputati in base alla loro appartenenza. Il suo partito, Sinistra Democratica, occupava due degli spicchi dell'ala sinistra. Alla loro destra sedevano numerosi i membri del Nuovo Partito Popolare, circondati dai ben più ridotti deputati del Movimento del Futuro Ambientalista. Alla loro sinistra c'era, invece, un'intera fila di banchi popolati da persone vestite in modo uguale.
Avevano una camicia rossa sotto una giacca nera, e una cravatta con un simbolo che da lontano non riusciva a riconoscere. «Chi sono quelli?»
«Il Fronte per l'Indipendenza» comunicò Thomas, «a quanto pare oggi avevano voglia di fare scena».
Di loro si era parlato tanto, anche nel suo circolo di Cutro, ma più se ne parlava e meno lui capiva. La maggior parte dei membri erano operai o impiegati e quasi nessuno apparteneva alle alte sfere della società, e l'odio verso le istituzioni dello Stato lo faceva assomigliare più a un movimento anarchico che ad un partito politico. Il loro programma era scarno, tranne per un tratto forte di legalità. Metteva insieme eguaglianza sociale, ecologismo sfrenato, e soprattutto l’idea utopistica di dar vita a città e paesi autogestiti. Molti deputati del suo gruppo si erano voltati a osservare quello strano assembramento di deputati che, non si sapeva per quale motivo, avevano deciso di distinguersi esteticamente non solo dal resto dell'aula, ma anche dal buon costume di ogni parlamentare. Sembrava che avere la piena attenzione fosse esattamente il loro obiettivo.
«La scorsa legislatura ci hanno dato problemi» aggiunse Thomas.
«Perché?» chiese Michele.
«Ostruzionismo. Bloccavano i lavori parlamentari per giorni interi. Ed erano solo una ventina di parlamentari, pensa a cosa faranno adesso che sono una settantina!» si lamentò, «per fortuna che avevamo il grande Marcello Pasqui come capogruppo. Lui sì che sapeva come trattarli. Sicuramente lo rieleggeremo anche quest’anno, lo conoscerai, è una macchina da guerra quell’uomo.»
Tre file più in basso, Goffredo stava parlando fitto con Marchesi, il segretario. Molti lo avevano definito come il suo “figlio politico”, affermando che Marchesi aveva scalato il partito grazie a quell'anziano signore che gli aveva dato le spinte giuste.
L'istante successivo, Michele vide entrambi rivolgergli uno sguardo con la coda dell’occhio per qualche secondo. Non fece in tempo a chiedersi il perché di quell’occhiata, che la seduta iniziò.
Erano già stati predisposti i seggi per l'elezione del Presidente della Camera. La votazione era per appello nominale, e ci volle molto tempo perché ciascuno votasse singolarmente. Alla fine, il presidente della Camera fu eletto con solo i voti contrari del Fronte. Si trattava di un signore sulla sessantina, appartenente al gruppo dei Popolari. Non appena Michele sentì il nome agli altoparlanti della Camera lo ricordò subito: era un uomo che era stato ministro in diversi governi passati, sia di destra che di sinistra.
«Quello le poltrone sicuramente non le schifa» commentò Thomas una volta uscito dall'aula, tirandosi fuori un pacchetto di sigarette dalla ventiquattrore, anch'essa ovviamente con colori fuori dal normale. Michele sorrise, ma Arturo mostrò subito uno sguardo di rimprovero.
«Invece è un uomo serio. E poi è stato scelto da Pasqui, pensavo foste ancora amici»
«Sono cambiate un po' di cose dopo quel congresso, Arturo...» rispose amaramente Thomas.
Fu quella sera che Michele scoprì chi fosse il capogruppo Pasqui di cui si parlava tanto, mentre si recava alla prima riunione ufficiale di partito, nella sala Berlinguer di Montecitorio. Era un uomo molto alto, sulla quarantina, con un paio di occhiali dalla montatura spessa che gli conferivano un'aria seria, e teneva davanti a sé un non indifferente numero di fogli scritti.
«Lui è un genio del male» gli sussurrò Thomas, «in quei fogli ha scritto tutto lo scibile umano. Conosce tutti e si ricorda tutto»
Michele si era ormai convinto che il suo collega romano fosse uno abituato a ingigantire le cose, ma in effetti la mole di carta era sconvolgente. Dal banco dove stava si potevano vedere fogli con schizzi disordinati uniti ad altri puliti e schematici. Solo a vederli facevano impressione.
Quando finalmente la sala si fu riempita, Goffredo alzò il microfono per prendere la parola.
«Bene, benvenuti a tutti. Un caloroso benvenuto in particolare a chi oggi ha inaugurato la sua prima legislatura. Come possiamo notare, è avvenuto un significativo ricambio generazionale durante le ultime elezioni, oltre che un aumento complessivo dei nostri seggi, e questo è senz'altro un fatto positivo. Non possiamo che complimentarci con tutti voi per tutte le migliaia e migliaia di preferenze che ciascuno ha portato alla nostra grande famiglia»
Partì un applauso, subito placato dalla sua mano alzata.
«Un nostro particolare benvenuto va a Michele Martino, che viene da Cutro e con i suoi ventisette anni è il più giovane deputato del nostro gruppo e dell’intera Camera dei deputati!»
Partì un secondo applauso e tutti seguirono la linea dello sguardo di Goffredo, girandosi immediatamente verso Michele. I colleghi che aveva a fianco si alzarono subito per stringergli la mano. L’applauso sembrò durare un’ora intera, e quando il giovane si risedette era convinto di avere in viso tutte le possibili sfumature del rosso.
«Oh, ti hanno portato in tintoria insieme alle bandiere?» scherzò Thomas.
“Ecco perché prima in aula mi indicavano” ricordò subito, sentendosi oltremodo imbarazzato da quella specie di medaglia che gli era stata affibbiata per qualcosa che non c’entrava niente con i meriti, ma solo con l'anagrafe.
«Dunque, all'ordine del giorno abbiamo l'elezione del capogruppo... » continuò Goffredo, cercando di riprendere l'attenzione della platea, «la proposta unitaria della segreteria è quella di ricandidare Marcello Pasqui, già capogruppo nella scorsa legislatura. Ci sono controproposte?»
Nessuna mano si alzò, e la candidatura venne presa con mormorii di approvazione.
«Bene» sorrise l’anziano, «immagino che allora non ci sia bisogno di procedere alla votazione».
Scoppiò subito un fragoroso applauso e il capogruppo si alzò in mezzo ai suoi fogli, ergendosi in tutta la sua altezza. Scrutò la folla attraverso gli occhiali spessi e abbozzò un sorriso, ma Michele notò che si stava solo sforzando di piegare le labbra mentre l’espressione restava severa.
«Lascio la parola al segretario» concluse Ranieri. Abbassò il microfono e contemporaneamente alzò quello dell'uomo seduto alla sua destra. Anche se Marchesi leggeva il suo discorso da un foglio, dalle sue parole scaturiva una certa autorità. Non vi era esitazione nella voce, e le pause erano anch’esse dense di carica.
«Care compagne, cari compagni. Cari amici e care amiche...» Marchesi parlava curvato leggermente in avanti. Era molto esile, ma questo sembrava conferirgli ancora più autorità di quella che già scaturiva dal tono fermo e controllato. I capelli scuri e la barba leggera circondavano il viso scavato e i due occhi penetranti. L’abito era di un blu scuro elegante e, anche da qualche metro di distanza, appariva molto costoso.
«Finalmente il nostro ottimo risultato a queste elezioni ci consentirà di entrare al governo. Non serve che io vi dica quanto è importante questo risultato per noi. Dopo anni di dura battaglia abbiamo l'occasione di far approvare le nostre leggi, e soprattutto di mettere in riga quei gruppi che, anni fa, hanno cercato di impedirci di fare politica»
Il discorso fu interrotto da un applauso fragoroso. Michele notò Arturo battere le mani senza troppa convinzione. Marchesi continuò il discorso per un quarto d'ora, toccando svariati temi. Sapeva mettere gli accenti nel posto giusto, calcolando bene dove sarebbe partito l'applauso. Solo verso la fine la sua voce si incrinò lievemente.
«Al governo non puntiamo ad essere presenti di persona. Noi vogliamo portare le nostre idee, le leggi scritte nella Carta Antifascista che tutti abbiamo sottoscritto. Lo faremo ad ogni costo, perché anche se qui dentro tutti noi abbiamo idee diverse, sono certo che una cosa ci accomuna: nessuno potrà più permettersi di ostacolare la democrazia. In questo noi crediamo, e in questo saremo uniti!»
Il discorso si concluse e scattò l'applauso, mentre Goffredo fece a Marchesi un impercettibile segno di approvazione. «Ad ogni costo» ripeté Thomas a bassa voce, «non sono sicuro che saremo tutti d’accordo…»

A fine giornata, Michele salutò tutti e finalmente uscì all'aperto. Fu molto strano sentire un'aria diversa da quella del suo paese, senza l’odore di salsedine, ed ebbe un improvviso momento di nostalgia mentre saliva sull'auto blu. La sua nuova casa era a piazza Istria, in un quartiere signorile e tranquillo. Aveva le valigie ancora ammassate in salotto e sul tavolo aveva appoggiato i regali che gli amici gli avevano dato il giorno prima. Nessuno in paese si era aspettato che ce l'avrebbe fatta per davvero. Era stata una sorpresa per tutti, soprattutto per lui. Si spogliò dei suoi vestiti, restando solo con i boxer. Ripiegò ciascun capo e lasciò tutto impilato sulla sedia, poi accese l’abat-jour, il suo antidoto contro il buio della notte. Come sempre aprì le persiane della finestra di poco, controllando che passasse l'aria.

Accostò la porta di qualche millimetro e controllò che la chiave fosse al suo posto prima di infilarsi a letto. Con il sorriso sulle labbra si addormentò subito, stanco morto, dimenticandosi di tutte le incertezze che quel nuovo giorno stava portando con sé.

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Capitolo 2
*** Nicolò ***


Il fumo della sigaretta si levava sinuoso nell’aria, diffondendo l'odore di nicotina in tutto lo spiazzo vuoto del tetto del palazzo.
«Si potrà stare qui?» chiese Giorgio, avvicinando la sigaretta alla fiamma accesa che l'amico gli porgeva.
«Non lo so Giò, è il primo giorno, credo che siamo scusati per non saperlo!» rispose Nicolò, tirando una boccata molto lunga e appoggiandosi al muretto con la schiena.
«Dovevo immaginarlo» sorrise pazientemente Giorgio.
Per entrambi era la prima volta in Parlamento, e il fatto di essere entrambi vestiti con camicia rossa e cravatta ornata con lo stemma del partito lasciava intendere quanto il protocollo istituzionale era l'ultimo dei loro problemi.
In realtà, nessuno dei due uomini si era candidato con la seria intenzione di essere eletto. La notte delle elezioni, tutti e due si trovavano alla sede c’entrale di Milano, con il fiato sospeso e il bicchiere in mano, pronti a festeggiare i loro colleghi. Quando la voce del giornalista aveva annunciato che il Fronte per l'Indipendenza aveva eletto a Milano Nicolò Andreani e Giorgio Iannello, si erano subito guardati negli occhi, eccitati e intimoriti allo stesso tempo.
Avevano puntato a fare campagna elettorale sui candidati di spicco della sezione milanese: quelli che erano stati più apprezzati durante la scorsa legislatura e quelli che avevano lavorato di più sul territorio.
Quella di Nicolò e Giorgio era stata solamente una candidatura di servizio per riempire le liste, nulla di più.
Anche se, a dirla tutta, per Nicolò era stata anche un premio. Era dentro quel partito da solo un anno e mezzo, ma fin da subito si era impegnato a testa bassa, aveva fatto tante iniziative, aveva messo tutto il suo cuore in quel progetto. Così, derogando una regola del partito lo avevano candidato e, contro ogni previsione, ce l'aveva fatta.
Il problema era che nessuno dei due si era preparato all'eventualità della propria elezione, sicuri com'erano di non prendere abbastanza preferenze. Per tutto il tragitto in treno si erano interrogati su come se la sarebbero cavata una volta lì dentro. Però, a mano a mano che il treno superava la pianura e scendeva sempre più a sud, avevano iniziato a scambiarsi battute e a guadagnare entusiasmo, capendo che quella era una grande occasione da prendere al balzo.
Giorgio era un veterano uomo di partito. Era entrato in quel mondo da giovanissimo, e aveva passato anni a portare avanti le sue idee, anche quando era rimasto da solo contro tutti. Per Nicolò invece era una sfida, ma le sfide per lui non erano mai state un elemento di preoccupazione.
L'idea di mettersi “in divisa” il primo giorno era venuta a uno di loro, e subito era stata accettata da tutti con entusiasmo. L'effetto era riuscito alla grande, e aveva già fatto il grosso del lavoro di creazione dello spirito di gruppo. Così, quando in riunione il promotore dell'idea si propose come capogruppo, l’elezione avvenne per acclamazione.
I due deputati scesero alla buvette, per festeggiare il loro primo giorno insieme agli altri. Nicolò sentiva dentro un fuoco fortissimo. Lui, che non si era mai interessato alla politica e che a malapena andava a votare prima di allora oggi era lì, e brindava insieme a persone che avevano la sua stessa voglia di lottare.
«Al governo andrà il Nuovo Partito Popolare, sicuro. E Sinistra Democratica gli voterà la fiducia. Stanno facendo patti, lo sanno tutti».
Nicolò ascoltava senza troppo interesse le teorie dell’amico. Odiava le logiche politiche, preferendo la lotta diretta e plateale. Come quando era bambino, che sognava di essere un nativo americano che difendeva la sua terra dagli invasori spagnoli, con l’arco e le frecce, da solo contro le baionette.
Si prese del tempo per uscire di nuovo per fumare in cortile. Era una bella notte, non poteva negarlo, e lui si sentiva bene, ma quella non era veramente casa sua. Dentro di sé sapeva che la politica era solo una passione temporanea, un momento della sua crescita, che poi sarebbe passato. Aveva trentuno anni e aveva viaggiato in diversi posti, lavorando dove capitava, e ogni viaggio gli regalava qualcosa di diverso. Ogni volta che rimetteva piede a casa sua e disfava le valigie sentiva un forte senso di malinconia dentro di sé, una sensazione inesprimibile che riusciva a far tacere solo con un altro viaggio, come se viaggiare fosse l'unica ancora della sua vita, l'unica fonte di novità.
Di sicuro non aveva mai avuto problemi di soldi. I suoi genitori erano soci di una fortunata azienda milanese, ma questo non c’entrava nulla né con le sue idee politiche né con l’indipendenza che si era guadagnato da solo. In effetti, la sua posizione economica non aveva nulla che potesse essere associato all’idea di “proletario”, che tanto era caro ad alcuni membri del suo partito, ma ugualmente era riuscito a guadagnarsi l'affetto e la stima dei suoi compagni.
Già, era stata la politica ad arrivare come un fulmine a ciel sereno nella sua vita, portandolo verso nuove rotte.
All'una di notte, Nicolò e Giorgio solcarono le vie di Roma a bordo di un motorino blu cromato, arrivando in una traversa buia nei pressi di San Giovanni. Il trabiccolo a due ruote era di Nicolò. In qualunque città avesse abitato non si era quasi mai spostato in macchina, neanche per lavoro. La moto era parte integrante della sua libertà, come un cavallo per il cowboy.
Nessuno dei due, quella sera, aveva voglia di disfare le valigie, perciò passarono il tempo nella piccola cucina, a fumare e parlare.
«Che tipo è il nostro capogruppo?»
«Un pazzo, Nico, un pazzo. È de Roma, e ti assicuro che qua sono tutti pazzi. Ho visto come fa alle riunioni. È capace di rimproverarti per mezza parola in più detta a un giornalista, e il momento dopo te lo ritrovi a ballare sul tavolo».
Nicolò si accigliò. Era strano vedere tipi del genere nelle fila del suo partito. Lui era dentro da poco, ma già aveva compreso la sottile logica dietro alcune ferree regole. La prima, più importante, era che non ci si poteva candidare se non dopo cinque anni di militanza nel partito. L’impegno che avevi messo in quegli anni doveva essere anche valutato positivamente dagli altri compagni, che davano il vaglio alla tua candidatura. Così facendo non c’era rischio di avere nelle proprie fila approfittatori o matti.
Solo per Nicolò era stato fatto lo strappo alla regola.
«Non lo so, Giò. Non mi piace com’è fatto. Questa cosa di metterci in divisa… mi aspettavo una cosa meno pacchiana e più combattiva. Insomma, è la prima volta che siamo così tanti in Parlamento, no?»
«Dagli tempo, dagli tempo» sorrise l’amico, «faremo grandi cose in questa legislatura, me lo sento».
E, tra una chiacchiera e l’altra, tirarono mattina.
 
 
*
 
 
«Un’intervista. Non è passata neanche una settimana e già mi chiedono un’intervista»
Thomas Greco sbuffava percorrendo Transatlantico, agitando i ricci biondi come un’anima in pena.
Michele, su suggerimento di Arturo, aveva rimediato dei vestiti nuovi e ora si confondeva elegantemente con gli altri suoi colleghi. Quel giorno aveva addosso un completo grigio con una cravatta rossa fiammante. I capelli corti e scuri erano stati tagliati e pettinati, e al polso spiccava l'orologio che Arturo gli aveva regalato anni fa, per la sua laurea.
Thomas, invece, ogni giorno sfoggiava un nuovo improbabile completo dai colori sgargianti. Ormai Michele si era convinto che quello era il suo strambo modo di mantenere il personaggio, non c’erano altre spiegazioni.
«Oh, Martino» Marcello Pasqui li raggiunse a passi svelti, «ti ho inserito in commissione Affari Costituzionali, d’accordo?»
Michele si guardò intorno, cercando sostegno. Thomas gli ammiccò.
«Tu invece, ovviamente sei agli Esteri» continuò il capogruppo, noncurante della possibile risposta di Michele.
«Ovviamente, compagno.»
I due si scambiarono un mezzo sorriso prima che l’altro se ne andasse.
Michele lanciò un’occhiata dubbiosa a Thomas.
«Pensavo che perlomeno chiedesse…»
«Certo che no! Lui non ha bisogno di chiedere».
 
 
I giorni procedevano speditamente. Il governo venne finalmente formato con l’accordo tra i popolari e SD, e andò a giurare nelle mani del presidente. A tutti i media venne presentato come una grande vittoria, per il solo fatto che l'immagine principale del governo era la premier: Anita de Santis.
Donna del Nuovo Partito Popolare, naturalmente. Una donna di una certa età, che andava bene un po’ a tutti, perché in fondo aveva la fama dell’onestà.
Il giorno della fiducia era cominciato un po' come tutti gli altri. Arturo aveva portato Michele e Thomas a fare colazione in un bar abbastanza mediocre. Lo faceva spesso, ricordando loro che era importante stare in mezzo alla gente comune e sentire ciò che dicevano. L'anziano osservava sempre con attenzione la gente e lo schema era più o meno lo stesso ogni giorno: qualcuno leggeva il giornale, lo gettava in malo modo sul tavolo, poi si produceva in commenti acidi del tipo: «Tutte cazzate!» oppure «non c'è più giustizia in questo Stato!» A quel punto, le persone vicine rispondevano con gesti di approvazione, oppure si univano anche loro ai commenti, ciascuno aumentando l’intensità scurrile rispetto al commento precedente. Arturo di solito ascoltava e basta, con lo sguardo fisso e pensieroso.
«È un metodo stupido» commentava sempre Thomas, «le persone dicono la prima cosa che pensano e spesso si fermano all'opinione più superficiale».
«Proprio per questo vanno ascoltate» ribatteva sempre Arturo, placidamente.
Poi, avevano fatto come ogni giorno la strada a piedi fino a Montecitorio. La mattina presto, a Roma, non c'era in giro nessuno a parte qualche turista, spesso giapponesi riuniti in gruppo, sempre fermi con la bocca aperta e la fotocamera accesa davanti a una chiesa 
o una fontana davanti alle quali i deputati passavano tutti i giorni senza nemmeno guardarle.
Ogni tanto alcuni cittadini fermavano Thomas per una foto. Non tutti sapevano che era un politico, la maggior parte lo riconosceva come uno che stava in TV, ma lui accettava sempre e si metteva in posa con il suo smagliante sorriso.
Nel palazzo, l'aria era carica di elettricità. I giornalisti inseguivano ciascun deputato per il corridoio, chiedendogli un’opinione sul nuovo governo, e a Michele impressionò quanto i deputati evitassero i microfoni come la peste. Thomas gli spiegò il fenomeno dicendo che quelli nuovi avevano paura di sbagliare le parole da dire, e quelli vecchi erano abbastanza esperti per avere un discreto timore dei “mostri della penna”.
«Onorevole! Perché il vostro partito ha ottenuto solo due ministri? Che compromesso c'è stato?»
La domanda che gli arrivò di sorpresa alle spalle riuscì a farlo trasalire. Non se l’aspettava che prendessero di mira lui.
Si girò istintivamente verso Arturo, che gli annuì sorridendo. In un lampo la paura svanì e le parole iniziarono a fluire da sole.
«Noi siamo stati impegnati a formare un governo che possa esprimere le competenze e le volontà giuste per il cambiamento, soprattutto per l'approvazione della Nuova Carta Antifascista... » disse tutto d'un fiato, «le poltrone non ci interessano».
Respirò profondamente, pensando di essersela cavata così. Non fece in tempo a tirare il fiato che però subito un altro giornalista gli avvicinò il secondo microfono.
«Ci risulta che il vostro ministro dell'agricoltura sia indagato per riciclaggio di denaro. Non le sembra una pessima figura affidare proprio a lui quel ministero?»
Se avesse risposto di no, avrebbe voluto dire che approvava quel tipo di comportamento, e a quel punto il titolo-vergogna era bello pronto per i giornali. Doveva aggirare la domanda, in qualche modo.
«Guardi, in questo momento ci interessa avere un governo che funzioni. Le indagini faranno il loro corso, ma il problema giudiziario non è in questo momento un problema politico».
 
Si era fatto prendere dal panico. Le mani gli sudavano, il cuore aveva automaticamente accelerato, tanto che era quasi sicuro che si potessero sentire i battiti attraverso quel microfono e, più gli imponeva di rallentare, più sembrava di non volerne sapere.
Eppure la risposta, inaspettatamente, sembrò placare i giornalisti, che lo liberarono dall'ingombro dei microfoni.
Michele riprese a respirare. Si voltò verso Arturo, che lo stava osservando da lontano, sorridendo.
«Niente male, ragazzino!» commentò Thomas, battendogli una sonora pacca sulla spalla.
 
 
L’aula di Montecitorio era gremita per il voto di fiducia.
Dalle tribune si sentivano continuamente partire raffiche di click quando entrava un deputato importante, ma per il resto dello spazio non volava una mosca.
Michele appuntò sulla sua agenda tutto l'intervento della De Santis, cosa non molto semplice, perché la parlata era tutt'altro che spedita.
«Guarda come se la ridono quelli» Thomas indicò i banchi del Nuovo Partito Popolare, «tutti i ministeri chiave sono loro. Scommetto che Marchesi gli ha promesso di tutto pur di farci andare al governo».
«Ne sei sicuro?» chiese Michele. Non poteva credere che avrebbero dovuto sottostare completamente al programma di quel partito di stampo conservatore, molto distante dai loro ideali.
«Vedrai quando inizieranno ad arrivare le proposte di legge. Ci sarà da ridere, se non da piangere».
Restarono a discutere, coinvolgendo anche i colleghi a fianco, finché Goffredo, il presidente del partito, si voltò. A quel punto Arturo impose il silenzio con un gesto secco della mano e tutti si ammutolirono all’istante.
Per Michele era impressionante vedere quanto quell’uomo godeva di un rispetto fortissimo all’interno di Sinistra Democratica. Non sapeva tantissimo sulla sua storia, almeno non più di quello che sapevano anche gli altri, perché Arturo era sempre stato riservato. Sapeva che 
da parlamentare aveva condotto una grande lotta contro la mafia, scrivendo delle leggi insieme ai magistrati e alle vittime delle stragi. Poi però il PCI si era sciolto, lui si era candidato per la segreteria della neonata Sinistra Democratica e, dopo aver perso, si era ritirato dalla vita politica finché non aveva conosciuto Michele.
Gli interventi da parte dei gruppi parlamentari si susseguivano velocemente. Michele cercava di appuntare tutto, Thomas invece parlava in continuazione con chiunque gli desse corda.
«Chiede la parola il deputato Nicolò Andreani per il Fronte per l'Indipendenza. Ne ha facoltà» annunciò ad un certo punto il presidente della Camera.
«Non è un altro il capogruppo del Fronte? Un certo Chiarelli?» chiese Michele, ricordandosi di aver visto recentemente sul giornale la foto di un uomo con le folte sopracciglia e i capelli a caschetto. Già dalla faccia quell'uomo gli era sembrato uno strambo, quasi quanto Thomas.
«Sì, ma all'ultimo momento hanno deciso di far parlare questo. Dicono in giro che sia uno che ha fatto tanti comizi a Milano e che si è preso qualche decina di migliaia di preferenze» rispose Thomas, senza nascondere una certa invidia.
L’intervento di Andreani non assomigliava per niente a quelli degli altri deputati. Anzi, non assomigliava nemmeno ad un qualsiasi intervento mai pronunciato da un politico. Le sue parole rompevano gli schemi della formalità con una sicurezza disarmante. Era evidente che quell’uomo era abituato a fare comizi in piazza.
«Dunque, la presidente De Santis farà sicuramente meglio perché è donna, dicono i popolari. È molto bello vedere che i centristi rivalutano le donne, dopo averle volute per anni in casa a figliare». Tutto il gruppo di Andreani rise ed applaudì. Il resto dell'aula era chiuso in un silenzio imbarazzante, e anche i deputati vicino a Michele si guardavano perplessi.
«Ma i nostri migliori auguri vanno al ministro dell'agricoltura! Dov'è? Ah, eccolo! Buongiorno!» Andreani salutò con la mano il ministro, il quale fece però finta di non vederlo, «per fortuna che almeno c'è un ministro di sinistra in questo governo! Ah, in effetti è 
indagato per riciclaggio. Sembrerebbe che tra le fila di SD non ne hanno trovato uno senza un processo in corso».
Scattarono altri applausi da parte del Fronte. Qualcuno di Sinistra Democratica si alzò per fischiare, ma Pasqui riuscì velocemente a farlo tacere.
Michele sentiva il cuore battere forte, incerto se fosse per l'indignazione o per l'imbarazzo di sentire parole così forti e così arroganti in quello che lui aveva sempre considerato il tempio della democrazia. Cercò subito con gli occhi l'autore di quell'intervento e vide un uomo in piedi, con giacca nera e camicia rossa, circa tre file più in basso a sinistra di lui. La pelle era leggermente scura, i capelli castani erano raccolti in una specie di codino. Tra le mani teneva dei fogli che in realtà non sembrava neanche stesse leggendo, muovendoli da una parte all'altra con una mano, mentre con l'altra gesticolava rivolto verso la presidenza.
«Il nostro, quindi, è di sicuro un no alla fiducia a questo governo. Non aspettatevi però che ci fermeremo e che vi permetteremo di danneggiare questo Paese con le vostre leggi scellerate. Auguri, soprattutto per i vostri processi in corso.»
Finito l'intervento ci fu un’ovazione da parte del Fronte. Una macchia di giacche nere e camicie rosse si alzò in piedi, applaudendo per un bel po' di tempo, sotto gli occhi sprezzanti dell’aula.
Michele aveva notato Pasqui continuare a scrivere di getto durante quell’intervento, in preda ad una rabbia compulsiva. Arturo, invece, mostrava una certa preoccupazione nel viso scavato nelle rughe, ma non diceva niente.
Subito dopo toccò proprio a Pasqui parlare. Il suo intervento era abbastanza prevedibile: complimenti alla De Santis, difesa del programma di governo, e un attacco a volto scoperto al deputato che aveva appena parlato.
«Trovo disdicevole, parlo a nome del mio gruppo, che si usi quest'aula del Parlamento come un mercato del pesce, dove si urla e la si spara grossa. Pregherei al deputato Andreani di tornare a fare comizi nelle piazze. Questo è un posto per gente seria, non per buffoni».

Applaudì tutto il gruppo. Thomas si alzò addirittura in piedi. Dai banchi del Fronte si levarono fischi, ma ormai la discussione era chiusa. La fiducia venne approvata con 427 voti.
 
 
*
 
 
Ci furono abbracci, pacche e strette di mano. Chiarelli, il capogruppo del Fronte, ci mise un bel po' a riuscire a separare Nicolò dalla comitiva di onorevoli che lo stavano per portare in trionfo, esaltati dall’energia trasmessa da quell’intervento.
«Ti ringrazio per aver accettato di parlare al posto mio. Sai, alla scorsa legislatura non ho mai parlato tanto, avevo paura di non fare un intervento efficace. Tu invece sei bravissimo, li hai lasciati tutti a bocca aperta, avresti dovuto vedere le loro facce...»
Nicolò si stupì per quel riconoscimento. Non gli stava molto simpatico il capogruppo, ma rispose al sorriso e gli strinse la mano. Quello era sempre stato il suo modo di fare, ovunque si trovasse.
Così era diventato qualcuno: regalando una buona parola a tutti.
«Ti ringrazio io per avermi fatto parlare. Sei certamente un capogruppo molto capace. Dovremmo agire sempre con questo spirito di unità».
A fine serata, Nicolò prese la via di casa con il suo nuovo motorino. Passò per via Cavour, osservando i turisti che passeggiavano per la città senza una meta. Poi costeggiò Santa Maria Maggiore e percorse tutta via Merulana fino al suo appartamento a San Giovanni.
Restò ad osservare a lungo il tramonto dal balcone. La città non gli piaceva così tanto, anzi, Forse era una delle peggiori nella quale era finito, per la confusione e la sporcizia. Eppure, in qualche modo, quelle guglie irregolari che tagliavano il tramonto stavano iniziando a dargli un senso di serenità.
Per ora sarebbe stato quello il suo posto.


 

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Capitolo 3
*** Occhi verdi ***


Dopo il giorno della fiducia, le cose sembravano procedere senza tanti intoppi alla Camera dei deputati.
Michele era quasi riuscito ad imparare a memoria il regolamento della Camera, che gli altri suoi colleghi invece avevano a malapena letto. Arturo sembrava molto felice di questa sua propensione naturale allo studio dei meccanismi parlamentari e parlava sempre bene di lui agli altri, ma tutte le volte Michele non rispondeva ai complimenti. Gli sembrava insensato che si congratulassero per qualcosa che avrebbe dovuto essere una buona norma di tutti, anche se in realtà non lo era.
In ogni caso, erano rare le volte in cui gli altri deputati di SD lo trattavano alla pari. Nel migliore dei casi era riconosciuto come "il figlioccio di Arturo", nel peggiore "il pischello del partito", e la sua bassa statura certo non aiutava nello scrollarsi di dosso i nomignoli. I lavori parlamentari, comunque, richiedevano molto impegno. Si alternavano giorni dove la seduta durava un'ora o due a giorni in cui invece poteva durare da mattina fino a tarda sera, con pochissime pause. I deputati che erano sempre presenti non erano poi tanti e Michele, dopo qualche settimana di presenze costanti, li aveva conosciuti un po' tutti.
Aveva così capito che molti non erano finiti lì dentro per passione o per un’ideale. Questi parlamentari stavano in aula solo un'ora o due, prendevano l'aperitivo al bar parlando sempre al telefono, e all'uscita scansavano in malo modo tutti i giornalisti, per poi farsi rivedere solo dopo diverse settimane. A Michele non piacevano per niente. Non offrivano un contributo, non erano nessuno se non degli intermediari di affari probabilmente poco puliti.
Per lui la politica vera era un’altra cosa. Ancora si ricordava quando, in prima liceo, aveva studiato la definizione di politica a lezione di greco, scoprendo che il suo significato era “l’arte del bene comune”. A solo quattordici anni, quelle parole lo avevano colpito. Quel giorno aveva passato il resto della lezione a immaginare uomini seri, che avevano a cuore il bene comune, riuniti in una sala. Lì decidevano se iniziare una guerra, se costruire un asilo, come e dove alzare le tasse. Ma era stato dall’anno successivo che aveva iniziato a pensare davvero alla politica, trovandosi nel mezzo della sua prima manifestazione studentesca.
Era ancora molto piccolo, ma quella volta aveva sentito una forza dentro che non si sarebbe più dimenticato: la forza di tante voci che si univano in una sola, i pugni che si alzavano in aria, la musica che riempiva le strade della sua città. Era sentirsi parte di qualcosa, qualcosa di ancora sconosciuto. Con il tempo, quelle emozioni si erano sedimentate dentro di lui, e il desiderio di continuare a essere parte di quella forza immensa che portava le persone a stare insieme diventò sempre più importante.
A questo continuò a pensare mentre apriva la porta della sua casa romana, stanco morto, tornando a rinchiudersi nella solitudine del suo appartamento. Estrasse subito dalla dispensa un pezzo di spianata e accese la TV.
Si ritrovò inaspettatamente nello schermo Thomas Greco, in primo piano con il suo solito sorriso smagliante ad un talk-show. Michele rise tra sé per come si era vestito: non solo era in un appariscente completo giallo canarino, ma aveva anche il colletto della camicia fuori posto e nessuno degli altri ospiti glielo aveva fatto notare. Tra i deputati presenti in studio riconobbe Nicolò Andreani, il deputato che con il suo primo discorso alla Camera lo aveva indignato profondamente. Dopo quel discorso, molti colleghi di vari partiti avevano iniziato a chiamarlo “buffone rompicoglioni” per i suoi modi di fare strafottenti. Non piaceva a nessuno, a parte a quelli del suo gruppo che sembravano adorarlo. Quando passava per i corridoi fissava tutti con aria di superiorità, la faccia tosta sicuramente non gli mancava.
Quella sera, comunque, non era vestito con la divisa del Fronte, ma aveva una normalissima giacca grigia e una camicia bianca. Le telecamere mostravano il suo primo piano mentre sorrideva con fare ironico durante l’intervento di Thomas.
«Forse l'onorevole Greco non ha ancora capito che il taglio delle tasse è solo una mossa propagandistica per tagliare ancora i servizi essenziali. Vorrei che uno del suo partito ci spiegasse come si può dare la fiducia a un governo del genere, con un ministro con un’indagine in corso. Nessuno di noi presterebbe dei soldi a qualcuno che ha la fama di essere un ladro, non crede?»
Thomas arrossì un po', strabuzzò gli occhi e si schiarì la voce. Si vedeva chiaramente quanto non fosse a suo agio.
«Il collega Andreani è sicuramente un uomo con seri principi garantisti se considera un indagato alla pari di un ladro...» L'altro lo interruppe subito, rispondendo a tono.
«Lei invece li ha sicuramente i principi morali se non batte ciglio mentre un indagato del suo partito siede al governo. Sono sicuro che Berlinguer avrebbe fatto la stessa cosa».
Andreani sorrise sprezzante. Non stava urlando come in aula, il suo tono era molto più pacato ma proprio per questo motivo le sue parole sembravano ancora più taglienti. Michele si preoccupò di vedere Thomas in difficoltà, i salotti televisivi erano sempre stati il suo campo di battaglia. Per fortuna il giornalista lo tolse dall'imbarazzo di rispondere, mandando un servizio.
L'argomento poi cambiò, passando alla lotta alla mafia, e anche lì Thomas arrancò, privo della solita enfasi che tanto entusiasmava il pubblico. Il problema principale era che nel programma di governo non c'era neanche una menzione riguardante quell’argomento, e tale mancanza era indifendibile da chiunque. E, come se non bastasse, Andreani aveva iniziato a portare il dibattito intorno agli scandali, raccontando di quanto la mafia era cresciuta a Milano negli ultimi anni e di quanto nessuno stava denunciando per la paura di finirci in mezzo.
«Una volta avevo appena finito un comizio, quando si avvicina una persona e mi intima di stare attento a ciò che vado a dire in giro. Una volta a casa ho trovato le finestre di casa mia tutte rotte, e nessuno dei vicini ha visto niente».
Lo studio rimase in silenzio mentre Andreani finiva di raccontare l'episodio. Michele pensò subito a una storia messa lì solo per far scena, ma la voce di quell'uomo non tradiva la minima esitazione.
«A quel punto ho avuto paura, ma poi ho capito che era proprio questo che volevano ottenere. E allora ho continuato a parlare e a denunciare. Loro hanno paura del Fronte, perché noi siamo quelli che non accetteranno mai di piegarsi a loro».
Una parte del pubblico applaudì l’intervento. La trasmissione finì poco dopo e l'ultimo fotogramma mostrò un primo piano del suo collega romano, evidentemente amareggiato da quella che era stata una vera e propria sconfitta.
 

«Mi ha praticamente asfaltato!» borbottò il deputato romano con tono mogio, mentre faceva passare dalla mano alla bocca la spianata che Michele gli aveva portato.
«Non hai dato proprio il meglio di te» commentò Arturo, sfogliando distrattamente il giornale.
Era un tranquillo lunedì a Montecitorio. Michele aveva notato che quel giorno c’erano ancora meno deputati che in tutti gli altri giorni della settimana. Alla buvette c'erano solo loro tre e pochi altri.
«Avrei voluto vedere te!» abbaiò Thomas, «non è facile parlare quando ogni parola che dici viene usata per tirare fuori uno sproloquio senza capo né coda! Ma hai sentito ‘sto soggetto?
Minacciato dalla mafia! Ma chi si crede di essere?»
Il deputato romano smise di mangiare e iniziò con la mano a tirarsi indietro il ricciolo biondo in modo quasi ossessivo. Gli occhi strabici erano contornati di rosso, segno che quella notte non aveva dormito. Michele gli appoggiò una mano sulla spalla.
«Dai, andrà meglio la prossima volta. Se Andreani è un buffone, tu devi usare la forza degli argomenti».
Thomas gli sorrise e il giovane calabrese fece per tirargli una pacca amichevole di consolazione, ma poi sentì una mano estranea afferrare la sua spalla, costringendolo a voltarsi.
«Come mi hai chiamato, scusa?»
Era Andreani. I suoi occhi verdi perforarono quelli di Michele come due raggi laser. Il giovane, preso alla sprovvista, simulò una parvenza di calma, mentre sentiva il battito cardiaco accelerare contro la sua volontà.
«Dicevo che ti ho visto in TV ieri sera. Non hai fatto una bella figura» disse velocemente, curandosi di non alzare troppo la voce. Si sentiva intimidito da quella vicinanza e faceva fatica a mantenere il contatto visivo per la differenza di altezza.
«Quindi io sarei un buffone? Hai il coraggio di ripetermelo in faccia?»
Il tono di Andreani era fermo e pacato, tanto da risultare minaccioso. Michele resse poco quello sguardo. Gli occhi verdi di quell'uomo sembravano trapassarlo da parte a parte.
Si guardò in giro, non sapendo cosa fare, finché intervenne Arturo.
«A posto le mani, giovane».
Gli altri pochi presenti li guardavano, incuriositi. Michele sentì la mano allentare lentamente la presa, mentre quegli occhi erano ancora puntati dentro i suoi. Non riusciva a dire niente, e ogni secondo che passava sapeva di dover dire qualcosa per spezzare la tensione, ma la sua mente in quel momento era completamente annebbiata.
Un uomo prese il braccio di Andreani, staccandoglielo del tutto dalla sua spalla. Poi fissò per un attimo il suo collega negli occhi, come per comunicargli qualcosa. Era il capogruppo del Fronte, Augusto Chiarelli.
I due se ne andarono per il corridoio. Michele cercò di riprendere il ritmo regolare del respiro, mentre delle immagini stavano riaffiorando davanti ai suoi occhi, contro la sua volontà.
Sangue. Buio. La gola secca per la troppa corsa.
Risate. Il riflesso dei suoi occhi arrossati nello specchio di camera sua.
«Avanti, scappa!»
Arturo lo toccò piano.
«Tutto bene?»
Michele ingoiò quelle immagini nei suoi occhi scuri. Guardò i suoi amici e compagni con un finto sorriso tranquillo sulla faccia.
«Sì».
 
Thomas gli diede uno spintone amichevole.
«Dillo che ti piace cacciarti nei guai, Miché!»
 
 
*
 
 
«Si può sapere che stavi facendo?»
Il capogruppo del Fronte stava praticamente gridando addosso a Nicolò, in un corridoio del secondo piano della Camera, ma il giovane deputato milanese evitava il suo sguardo. Odiava essere rimproverato come uno scolaretto. Non aveva mai permesso a nessuno di farlo.
«Un bel niente. Stavo solo parlando, non hai visto?»
«Ma bravo! Ci manca solo che facciamo partire una rissa per farci parlare dietro dalla stampa. Non ti hanno spiegato come ci si comporta qui dentro?»
Andreani si avvicinò di più all’uomo, arrivando a far sfiorare le punte dei loro nasi.
«Che pensi, che lo avrei preso a pugni? Volevo solo insegnargli ad avere rispetto. E tu, abbassa la voce, che non sei mio padre!»
Il capogruppo non rispose più. Gli rivolse un'ultima occhiata di odio prima di allontanarsi del tutto.
 
 
*
 
 
Dopo cinque minuti dall’inizio della seduta, Michele uscì dall’aula per andare in bagno.
La testa gli girava per l’episodio di prima. Aveva sentito qualcosa rompersi dentro di sé, e sapeva che doveva soffocarlo prima che tornasse a galla.
«Martino!»
Vide il segretario Marchesi chiamarlo dal corridoio. Non gli aveva mai rivolto la parola, e Michele non sapeva nemmeno se avesse dovuto dargli del “lei”, anche se sapeva che tra compagni di partito ci si dava del tu.
«Non ho ancora avuto occasione di dirtelo, ma le tue uscite con i giornalisti sono state ottime. Non me l'aspettavo, vista la tua moderata esperienza».
Vide un sorriso smagliante comparire sul viso del suo segretario. Non era abituato a rispondere ai complimenti, tantomeno a sorridere, quindi produsse una specie di smorfia di stupore cercando di non sembrare scortese.
«Ti ringrazio».
Il segretario fece per battergli una pacca sulla spalla, ma Michele si scansò istintivamente. Non amava farsi toccare da chi non conosceva, ma subito dopo si rese conto di essere stato sgarbato.
«Scusa, devo tornare dentro». E tornò indietro a passo svelto.
 
 
*
 
 
Nicolò Andreani percorse con lo sguardo i banchi di Sinistra Democratica. Fino a quel giorno sapeva chi fosse Michele Martino solo per alcune brevi interviste. In quelle prime settimane si era documentato su molti deputati della maggioranza, alla ricerca di qualche scheletro nell'armadio che un giorno poteva essergli utile in caso di attacco. Aveva seguito in modo maniacale tutte le interviste, i telegiornali e i talk e alla fine aveva scoperto che erano tutti uguali: difendevano bene o male la linea del loro partito senza tante storie.
Alcuni argomentavano bene, altri facevano pena, ma nessuno aveva un pensiero personale di spessore. E tal Michele Martino era solo un pesce piccolo che sembrava esser finito lì per caso. Sempre a posto, pulito, obbediente e in ordine come uno scolaretto. Vomitevolmente mediocre.
Nelle sue interviste, Nicolò aveva visto chiaramente quanto quel deputato non pensava nemmeno una delle parole che diceva. Bastava notare il tremolio della sua mano o i suoi occhi che cambiavano direzione.
Inoltre, giravano voci che Martino fosse uno raccomandato. Era stato Arturo Costa, ex deputato del PCI ed ex candidato alla segreteria a curargli in ogni dettaglio la campagna elettorale. Nessuno di così giovane, senza esperienza e senza talento, avrebbe mai preso da solo quella decina di migliaia di preferenze, e Nicolò sentiva già l’odore inconfondibile della mafia. Doppiamente vomitevole.
Il suo sguardo si soffermò su di lui, in alto sui banchi c’entrali. Incrociò i suoi occhi per un secondo solo prima che l’altro deviò lo sguardo, e tinse la sua espressione di tutto il disprezzo di cui era capace.
 
 
*
 
 
«Mah!»
Thomas ripiegò il giornale, abbandonandolo su un angolo del tavolo. Erano solo le sette di mattina e al bar dove li aveva portati Arturo quella mattina c'era solo qualche turista.
«Il buffone è stato eletto nuovo capogruppo del Fronte. Ci faremo grasse risate quando gli toccherà contrattare con Pasqui. L’hanno scelto perché sa alzare la voce, ma la politica vera è ben altra cosa» rise Thomas.
Michele non commentò. Non era per niente stupito che quell’uomo fosse riuscito a fare carriera così velocemente, tutti sarebbero stati capaci con quella faccia tosta. Ma Thomas aveva ragione, la politica era un’altra cosa.
Camminarono a piedi fino alla Camera dei deputati. Michele passò dal suo ufficio come ogni mattina, prendendo dal suo assistente i documenti che avrebbe dovuto studiare.
«Buona giornata anche a te» scherzò Michele, reggendo a fatica il faldone contenente le nuove leggi in discussione.
«Ti ho messo anche una schedina con il riassunto» strizzò l’occhio lui, «ah, poi hanno chiamato da La7 per invitarti a un talk stasera. Che faccio, gli dico di sì?»
Michele rimase un attimo impietrito. Perché proprio lui? Era tra i deputati più nuovi e sconosciuti del Parlamento - a parte la tanto detestata storia dell'età - e desiderava solo continuare a esserlo.
Poi, però, si ricordò dei complimenti del suo segretario ed ebbe un moto di orgoglio. Non poteva essere così difficile, bastava prepararsi bene.
«Va bene».
Entrò in un’aula deserta. Quella mattina c’era il question time, e solo i deputati che avevano delle domande da fare ai ministri erano presenti, gli altri stavano in ufficio o a farsi gli affari loro. Lui però ci andava lo stesso, un po’ per rispetto delle istituzioni, un po’ per fare esperienza di come si parla in aula.
Si sedette al suo solito posto. La voce del presidente della Camera rimbombava nell'aula semivuota. L'aria era pesante, e le luci soffuse sembravano invitarlo a dormire.
Il giovane si armò di buona volontà e tirò fuori la propria agenda per prendere appunti. Ogni tanto si distrasse, facendo passare lo sguardo su tutto l'emiciclo. Gli capitava spesso di immaginare che nel posto dove era lui ora, prima si erano seduti uomini come Togliatti, De Gasperi o Berlinguer. Forse era proprio in quel punto lì che Matteotti aveva fatto il suo ultimo intervento prima di essere ucciso. Forse anche loro avevano visto quell'aula da quell'esatto punto di vista, si erano alzati in piedi per fare interventi come lui e avevano allungato la mano per votare le leggi come aveva fatto anche lui. Solo a pensarci gli venivano i brividi.
I suoi pensieri vennero bloccati da un uomo che gli parlò da dietro, facendolo sobbalzare.
«Che fai qui?»
Era il suo segretario, Riccardo Marchesi, unico altro deputato di Sinistra Democratica presente in aula.
«Beh... ascolto» farfugliò Michele, preso alla sprovvista dall’insolita domanda.
«Scusa se mi intrometto» sorrise il segretario, appoggiando il cellulare sul banco accanto a lui, “ma di solito al question time non viene mai nessuno, a meno che non si deve fare un'interrogazione».
«Sto prendendo appunti» si giustificò, indicando l'agendina sul banco. Il segretario restò molto colpito.
«Però! Penso che tu sia il primo della storia della Repubblica a fare una cosa simile. Ti spiace se mi siedo qui?»
Prima di ricevere una risposta si trasferì nel posto accanto. Michele continuò a prendere appunti, ma si sentiva un po’ oppresso da quella presenza. Aveva l'impressione che l’altro lo stesse studiando, anche se in realtà guardava il cellulare. Non riuscì a non far cadere l’occhio sui gemelli che aveva ai polsi, dorati e luccicanti.
«Domani mi tocca andare al Minerva con un imprenditore. Conosci il posto?»
«No».
«Certo, tu non sei di qui» sorrise Marchesi, come se si fosse ricordato solo in quel momento, «allora ti ci dovrò portare. Una volta nella vita bisogna andarci».
«È tipo un ristorante?» Marchesi sgranò gli occhi.
«Ristorante!» rise di gusto, «è uno dei posti più chic di Roma, e io li conosco tutti».
Michele lo guardò di sbieco, tornando a concentrarsi sui suoi appunti.
«Mi spiace, ma non credo sia roba per me».
L'altro non rispose. Lo fissò con aria pensierosa, come se non si aspettasse proprio quel tipo di risposta,
«Capisco» sospirò, evidentemente deluso, «se un’altra volta vorrai venire, l’invito è valido, naturalmente».
Michele cercò i suoi occhi, cercando di intercettare un barlume di senso a quella proposta che gli era stato appena fatta senza alcun apparente motivo, ma Marchesi stava già raccogliendo le sue cose, preso da una fretta improvvisa.
«A presto, buona giornata!»
E uscì, senza dare il tempo a Michele di rispondere.
«Qui ti servono i consigli dell'esperto!» ammiccò Thomas, una volta che l’ebbe raggiunto nel cortile.
Michele non lo sopportava quando si vantava in quel modo, ma in effetti era così. Tra tutti i colleghi che aveva conosciuto, Thomas era senza dubbio il più spavaldo con le telecamere, oltre che quello con cui era più in confidenza.
«Prima regola: conosci il tuo nemico. Chi sono gli altri invitati?»
«Devo ancora controllare».
Michele cercò tra le e-mail. Quando scorse i nomi degli ospiti, però, un nodo gli attorcigliò lo stomaco. Con lui in studio c’era il nuovo capogruppo del Fronte.
«C’è quel pazzo di Andreani. Quello mi asfalta!»
«Uh, però!» si esaltò Thomas, «grande, hai l’occasione di dire due cose a quel pallone gonfiato! Il segreto è interromperlo sempre, non fagli concludere una frase».
«Ma che dici?» lo interruppe Michele, «non posso andare in trasmissione con lui. Se non ce l’hai fatta te, figurati io!»
Deviò lo sguardo, imbarazzato dall’aver detto ciò che effettivamente pensava. Thomas rispose con uno sguardo di sufficienza.
«Peccato. Davvero un peccato. Ero convinto che fossi uno in gamba».
Michele restò impietrito, incapace di reagire a quelle parole così taglienti, dette da un collega che ormai stava iniziando a considerare un amico.
«Lo sento Arturo. Tutti ti fanno i complimenti, vero? Che sei così giovane, così precisino, così in gamba! Un ragazzino bello pulito, appena uscito dalla gavetta, vero? E tra uno, due, tre anni, sarai sempre il ragazzino. Non sarai mai responsabile di niente, e per ogni piccola cosa riceverai solo la parolina buona. È questo che sarai se ora rifiuti questo dibattito. Perché gli altri nostri colleghi ti daranno ragione. Anzi, ti diranno che sei stato saggio a non andarci!» Michele si era allontanato di un passo. Non aveva mai visto Thomas così serio.
«Quando è nata Sinistra Democratica, a fare politica si rischiavano le botte. Nessuno ci ha mai costretto ad andare avanti. Eravamo ragazzi, avevamo il diritto a stare in pace, a prenderci una laurea e farci la nostra vita. Pensa che stronzi che siamo stati, in quel dannato momento in cui invece abbiamo deciso di iniziare una resistenza.
Ogni tanto ci penso, forse avremmo dovuto farci i cazzi nostri». Thomas gli rivolse un rapido sguardo inespressivo e uscì dal cortile. Per tutto il resto della giornata non lo sentì, né lo vide.

 
Su via Tiburtina le macchine si accalcavano cercando di uscire per prime dal traffico. Michele era arrivato con l’auto blu, stupendosi di quanto una macchina così grande potesse cavalcare le strade affollate, schivando agilmente tutti gli ostacoli.
Per un moto di orgoglio non aveva detto a Thomas che aveva deciso di partecipare alla trasmissione, ma ora stava iniziando a pentirsene. In quel momento aveva davvero bisogno dei suoi consigli. Poteva anche cavarsela discretamente nelle interviste brevi, ma i talk erano tutt’altra cosa.
Si sentì completamente solo. Forse non era stata una buona idea accettare. Le parole del suo collega lo avevano scosso, ma coscientemente sapeva che non era pronto e che stava per fare una grande figura di merda. Aveva studiato, si era preparato sull’attualità, sulle leggi in discussione, sulla linea del partito che altri deputati ripetevano nelle interviste, ma non sarebbe bastato per rispondere ad un oratore esperto.
Non sapeva perché lo stesse facendo. Forse per convincere Thomas che era davvero in gamba come credeva. O forse per convincere se stesso.
Fece un profondo respiro e varcò la soglia degli Studios, con il cuore che batteva all’impazzata.

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Capitolo 4
*** Responsabilità ***


Nicolò arrivò agli studi di La7 perfettamente in orario.
La sua prima giornata da capogruppo era andata piuttosto bene. Il suo lavoro essenzialmente consisteva in carte da firmare e riunioni ed eventi ai quali era tenuto a partecipare. Ma la parte interessante consisteva nell’intervenire a nome del gruppo per tutte le dichiarazioni di voto più importanti, con tutti i rischi e le responsabilità che questo comportava.
Ormai era più di un mese che era parlamentare e aveva già partecipato a diversi talk show. Era una cosa completamente nuova per lui, ma già sentiva la sottile soddisfazione di mettere sotto con le parole gli avversari politici. E quel giorno sarebbe stato ancora più divertente, perché con lui era stato invitato Michele Martino.
Nicolò sapeva che quell'uomo poteva essere solo un raccomandato o un mafioso. Non c'era altro modo per spiegare come uno inesperto e sconosciuto come lui fosse arrivato a quel risultato. Non come lui, che invece aveva fatto campagna elettorale per altri ma era stato votato in massa ugualmente, per l’impegno che aveva dimostrato. La forza di quei voti era il più grande orgoglio della sua vita.
«Andreani? Prego».
Un signore lo fece entrare in studio e gli indicò una poltrona. Su un’altra c’era un deputato sconosciuto del Movimento del Futuro Ambientalista, mentre sulla terza c’era Martino, gli occhi inequivocabilmente sperduti e le mani tremanti.
Lo fissò, divertito. Aveva le gambe incrociate e stava fissando il telefono, classica scusa per non guardare qualcuno in faccia.
«Buonasera!» lo salutò vivacemente.
Lui quasi sobbalzò, mentre gli rispose a fatica con un cenno freddo del capo.
Nicolò trattenne una risata. Con uno così era anche troppo facile. Si sedette sulla sua poltrona, fissandolo in modo insistente, divertendosi a fargli sentire il suo sguardo addosso mentre l’altro continuava a fissare il telefono.
 
La trasmissione iniziò poco dopo affrontando il tema della riforma delle pensioni, argomento spinoso di quei giorni.
«Onorevole Martino, lei è d'accordo sull'innalzamento dell'età pensionabile previsto dalla riforma?» chiese il giornalista.
Gli occhi del raccomandato di SD si spostarono in automatico verso l’alto, come se stesse per rispondere a memoria a una domanda che conosceva bene.
«Certamente sì, è una riforma di buonsenso dal momento che l'età media si è alzata negli ultimi cinquant'anni».
Chiaro, semplice, diretto. E ingenuo.
«Giusto! Mi piacerebbe anche che l'onorevole Martino ci spiegasse anche come fa a lavorare un operaio a settant'anni dopo aver passato la vita in fabbrica. Faccia uno sforzo di immaginazione, visto che lei non ha mai lavorato un giorno in vita sua» intervenne Nicolò, cogliendo prontamente la palla al balzo.
Martino avvampò subito per la risposta improvvisa, ma per sua fortuna il giornalista lo tolse dall'imbarazzo.
«La prego onorevole Andreani, aspetti il suo turno».
Invitò il deputato di Sinistra Democratica a continuare. Martino si schiarì la voce, gli occhi marrone chiaro che guizzavano di insicurezza mal celata.
«Dicevo, è giusto che l'età pensionabile sia proporzionale all'aspettativa di vita. Nel complesso la nostra è una buona riforma di stampo progressista, sarebbe ipocrita negarlo. D'altra parte, lei non può permettersi di darmi lezioni visto che il suo lavoro è sempre stato all'interno di un consiglio di amministrazione...»
Ma come osava quello? Nicolò, colto sul vivo, sentì l’impulso scattare in piedi, ma all'ultimo riuscì a resistere alla tentazione.
«Non ti permettere!» gridò.
«Calma, uno per volta! Ci fermiamo per una pausa» il giornalista li placò prontamente, annunciando la pubblicità.
Il nuovo capogruppo del Fronte sentiva già un calore adrenalinico bruciargli fin dentro le viscere dal nervoso.
 
«Ehi, raccomandato» lo chiamò, avvicinandosi alla sua poltrona, «prova a dire ancora qualcosa su di me e giuro che ti sputtano. Non mi conosci, non sai che cos’ho fatto nella mia vita. Tu non sei nessuno».
Subito gli si avvicinò un uomo della sicurezza, chiedendogli di tornare al suo posto. Nicolò borbottò qualcosa sul fatto che stava solo discutendo civilmente, ma poi ubbidì senza obiettare. Non aveva voglia di passare nei guai per quel tipo.
Martino comunque non aveva risposto alla provocazione. Lo stava del tutto ignorando, concentrandosi su qualsiasi cosa che non fosse lui. Nicolò sorrise. Aveva centrato il suo obiettivo, intimorendolo quanto bastava per non avere problemi.
La trasmissione riprese. Questa volta il giornalista riuscì a far parlare gli ospiti uno per volta, senza tuttavia evitare che ciascuno mandasse frecciatine all'altro durante ogni intervento.
«Ma ci rendiamo conto che in questa riforma nessuno parla di abolire le pensioni d'oro? Con tutti i pensionati in difficoltà nel nostro Paese, che cos’ha da dire la sinistra?» intervenne Nicolò ad un certo punto. Il pubblico esultò ed applaudì, ma Martino restò impassibile e freddo. Non ribatté, nonostante il giornalista lo guardasse, aspettandosi che dicesse qualcosa in quanto deputato “di sinistra”.
«Prego, onorevole Martino, lei cosa ne pensa sul tema?» lo incalzò. Lui ci mise un po' prima di rispondere, con quel di fare così impostato per cui sembrava non credesse nemmeno a ciò che diceva.
«Guardi, le pensioni d'oro sono diritti acquisiti, non è possibile metterci le mani. La riforma è molto equa e le pensioni saranno proporzionate per assistere chi si trova in condizioni di svantaggio». Nicolò smise di fissarlo con odio, tramutando il suo sguardo in una maschera di totale disgusto. La trasmissione finì poco dopo, e non fece in tempo ad alzarsi che un gruppo di persone tra il pubblico scese dagli spalti per salutarlo.
«Ti ho sentito intervenire alla Camera, sei un mito!»
«Posso stringerti la mano?»
«Gliene hai dette in faccia a quello, grande!»
Dispensò strette di mano e sorrisi a tutti. Capitava che dopo un comizio le persone gli si avvicinavano e gli facevano i complimenti, ma non si aspettava che tutta quella gente di Roma lo conoscesse già, visto che era in Parlamento da così poco.
Mentre usciva dallo studio, era talmente euforico di aver stretto la mano con tante nuove persone che notò dopo la presenza di Martino nell’ingresso. Non fu in grado di trattenersi.
«Diritti acquisiti, eh? E tu saresti un esponente della sinistra? State facendo passare una riforma indecente e non dite una parola!
Dovreste vergognarvi!»
Per l'ennesima volta non gli arrivò una risposta, solo due occhi color nocciola che lo trapassavano, indifferenti. Era come se non lo sentisse neppure o come se davvero non avesse nulla da dire, nulla da difendere.
Montò sulla moto più schifato di prima. Nella sua vita non aveva mai sopportato i raccomandati, ma ancora meno le persone senza palle, e ne aveva incontrate tante. Leccavano culi a destra e a manca pur di ottenere una posizione, ma appena il capo usciva dall'ufficio, passavano il tempo a spettegolare e a farsi i cazzi loro. Persone inutili, senza un obiettivo.
La sua rabbia fu tale che sfrecciò velocissimo sulle strade vuote, prendendo tre gialli di fila senza rendersene conto. A casa scaraventò la borsa sul divanetto, tirò fuori una birra dal frigo e ne bevve metà in una botta. Il momento dopo si trovò davanti il suo amico Giorgio, in canottiera, con un'espressione più che euforica.
«Vieni qui fratello! L'hai fatto a pezzi!»
Nicolò gli batté il cinque offrendogli la bottiglia, ma rimase in silenzio.
«Che c’è?»
«Mi ha fatto incazzare quell'idiota raccomandato. Odio la gente come lui. Hai visto come ha difeso la riforma delle pensioni? Quanto era falso! C'era da vomitare!»
«Beh, ripete le cose degli altri soldatini del suo partito» commentò Giorgio, svuotando la bottiglia, «nulla di nuovo, mi sembra».
 
«Già, tutti bravi soldatini del cazzo. Neanche se li prendi da soli hanno le palle di dire come la pensano. Vado a dormire, sennò mi sale la bile».
E se ne andò nella sua stanza.
 
 
*
 
 
Aveva cercato di sistemarsi il viso come meglio poteva, ma anche con due strati di fondotinta la sua faccia appariva più sbattuta di quanto volesse far sembrare.
Era arrivato alle sette alla Camera dei deputati per non incontrare nessuno. Il piano era prendersi la colazione con calma, andare nel suo ufficio a lavorare fino alle undici e presentarsi poi alla seduta in aula cercando il posto più lontano possibile da Thomas.
Per tutta la mattina percorse i corridoi a passi svelti, attaccato alle pareti, evitando le parole e gli sguardi dei suoi colleghi. Sapeva che vi avrebbe trovato solo pena o rimprovero, e non sapeva nemmeno quale delle due cose lo intristiva di più.
Era riuscito a partire bene in quel primo mese, a guadagnarsi la stima di molti deputati, tra tutte anche quella del suo segretario. Ora tutto era andato a rotoli. Aveva dimostrato la sua incapacità, nessuno più gli avrebbe rivolto una parola di stima.
Arrivato in aula, sedette in uno dei banchi in fondo. Tirò fuori la sua agenda e cominciò a prendere appunti, cercando di impedire che il suo sguardo si posasse sui banchi di SD o su quelli del Fronte.
In pochi minuti riuscì ad isolarsi in un modo così perfetto che trasalì quando una voce lo raggiunse dal banco alla sua destra.
«Ciao».
«Ciao», rispose.
Thomas aveva la sua solita camicia sgargiante, ma conservava nello sguardo la stessa serietà del loro ultimo discorso.
 
I lenti secondi di silenzio crearono un imbarazzo tagliente. Era evidente che si era seduto lì solo per parlargli, ma sembrava incapace di farlo.
«Senti» sospirò pesantemente, «ieri non so che mi è preso, mi sono innervosito. Non pensavo che alla fine saresti andato lo stesso, se
l’avessi saputo ti avrei dato una mano. Non era mia intenzione farti sentire obbligato a partecipare, davvero. A volte non penso a quello che dico».
Si sistemò con una mano il ciuffo di capelli. Fece un lungo respiro, come se si sentisse già più libero.
«E comunque, Arturo e io pensiamo che non sei andato così male. Hai difeso la linea del partito, hai fatto il tuo dovere. Sei stato coraggioso, visto chi avevi davanti».
Michele cercò di sorridere, capendo che l’amico stava cercando di dargli conforto. Anche se, quando Andreani aveva parlato di abolire le pensioni d'oro, il suo primo istinto era stato quello di dargli ragione, perché in fondo era d’accordo con lui. Per un attimo si era chiesto perché avrebbe dovuto difendere un presunto bene superiore del suo partito al posto di dire ciò che realmente pensava.
Se fosse stato al posto di Andreani, probabilmente si sarebbe insultato da solo per quella frase sui “diritti acquisiti”. Quell’uomo aveva ragione. Era questo che, più della sconfitta e dell’umiliazione, lo faceva stare male.
Ad ogni modo, gli insulti verso di lui erano stati tutti gratuiti, tra cui quel “raccomandato” che chissà da dove gli era uscito. Gli era anche venuto a muso duro per intimorirlo, e lui da perfetto idiota non era stato in grado di rispondere per le rime. Anzi, non poteva nemmeno rispondere, perché doveva difendere la linea della maggioranza, difendere il suo partito. Così facevano tutti, così gli avevano insegnato.
 
 
Buio.
Un senso di oppressione al petto.
 
Il cortile di scuola ondeggiava sotto i suoi occhi mentre correva.
«Dove scappi?»
Correva, non sapeva nemmeno lui dove. Sapeva solo che avrebbe corso finché le gambe non lo avrebbero retto e i polmoni non si fossero svuotati dell'ultimo fiato di ossigeno. Correva sempre sapendo bene che era inutile, che non correva mai abbastanza veloce da non farsi raggiungere e farsi sbattere a terra da un calcio sul polpaccio. E quella volta era stato stupido, perché era corso troppo lontano e nessuno avrebbe visto ciò che sarebbe successo.
Nessuno lo avrebbe aiutato.
Cadde rovinosamente a terra, strisciando il gomito contro le pietre. Il sangue iniziò a colorare il terreno di rosso mentre cinque ombre lo sovrastarono.
«Fine della corsa!»
Si sentì afferrare il braccio e venne strattonato con forza da mani che purtroppo conosceva bene. Sapeva perfettamente che era inutile ribellarsi, ma cercò lo stesso di sfilare l'arto con movimenti decisi, fino a quando un pugno sullo stomaco lo fece piegare in due. Sputò della saliva mentre ansimava forte, immobilizzato.
«Occhio Michelino, ti sei sporcato!»
Qualcuno prese una manciata di terra e gliela lanciò in faccia. La sabbia gli inondò le narici mentre cercava di tossirla via. Sentì i polmoni andare in fiamme. Ogni respiro gli costava una fatica enorme, provocandogli bruciori al naso e alla bocca. Una scia umida di sangue gli scese lungo il gomito.
«Attento che se ti sporchi poi mammina ti sgrida!»
Un bambino da dietro gli abbassò il collo, con una forza improvvisa. Un altro gli afferrò il braccio, rivoltandolo dietro la schiena. Michele sentì tirare e iniziò ad agitarsi. Erano in cinque, lui uno solo. Era il più piccolo della classe, non giocava a calcio, non faceva lunghe nuotate, non riusciva a correre se non per qualche metro. Non sarebbe riuscito a difendersi con uno solo di loro, figurarsi con cinque.
«Lasciatemi! Lasciatemi, per favore!»
Non avrebbe voluto dirlo. Non avrebbe voluto arrivare a supplicarli, ma aveva paura. Il tendine del braccio gli tirava fino a fargli male e
 
non sapeva se sarebbero arrivati a romperglielo.
«Ehi, Michè, facciamo a braccio di ferro!»
«Smettila, mi fai male!» gemette tra i respiri affannosi. La vista davanti a sé traballava, tutto era annebbiato comprese le gambe che lo circondavano. Era sparito dalla sua vista anche l'edificio della scuola, unica lontana speranza di salvarsi.
Era in trappola.
Eppure avrebbe dovuto impararlo, dopo tutte quelle volte. Primo: non scappare, non uscire mai dalla visuale degli insegnanti. Secondo: non mostrare paura, non emettere alcun suono, non supplicarli in alcun modo, perché così avrebbero solo continuato. Possibile che il suo istinto doveva prevalere sempre sulla ragione, cacciandolo puntualmente nei guai?
Uno strattone più forte sul braccio lo costrinse a mordersi forte il labbro per evitare di urlare. Chiuse gli occhi. Aveva imparato che era quello il metodo più efficace per limitare il dolore. Bastava non vedere, far finta che non stava succedendo niente, far finta di essere da un'altra parte.
Adesso era sulla barca di suo zio, con la testa che bruciava piacevolmente per il sole, il vento che gli sferzava le guance, gli spruzzi d'acqua che lo bagnavano e il movimento delle onde che lo cullava...
Ma la barca stava scricchiolando. E non solo scricchiolava, ma faceva anche male, un dolore acuto e forte.
«Dai Miché, chiama la maestra».
Ci furono delle risate. Doveva essere divertente avere uno della loro età a cui potevano fare ciò che volevano, senza preoccuparsi delle conseguenze. Chiamare aiuto era un invito allettante, ma Michele non poteva. Lo sapeva, sapeva già che sarebbe stato inutile. Non lo avrebbero sentito, perché dar loro anche quella soddisfazione?
Iniziò a pensare, terrorizzato, a cosa sarebbe potuto succedere se gli avessero davvero rotto il braccio. Non sarebbe potuto tornare in aula o avrebbero chiamato a casa, e suo padre avrebbe scoperto che si era fatto picchiare di nuovo. Avrebbe dovuto prima correre in un nascondiglio, pulirsi, cercare di presentarsi a casa con una scusa credibile e sperare che nessuno in famiglia si accorgesse del suo braccio, altrimenti sarebbero stati guai. E poi come si sarebbe curato? Il respiro si affannò ancora di più e iniziò a sudare freddo, preso da un terrore puro.
«No! Per favore!»
Questa volta la paura ebbe il sopravvento sull’orgoglio. Li fissò uno ad uno, terrorizzato. Le lacrime premevano per uscire, ma era inutile. Non era così che avrebbe suscitato loro qualche tipo di pietà.
Perché? Perché tutto questo succedeva a lui?
Richiuse gli occhi. Sarebbe almeno riuscito a non urlare? Erano settimane che si era esercitato a non emettere alcun suono quando lo picchiavano, ma non erano ancora arrivati a slogargli un osso.
Avrebbe fatto abbastanza male da rompere le sue difese?
Fece un ultimo respiro atterrito prima di rendersi conto che c'era più di una mano a tirare il suo braccio. Non riuscì a stare fermo come si era imposto quando sentì che qualcosa dentro il suo corpo si muoveva contro la sua volontà. In un impeto di terrore provò a divincolarsi con tutte le forze residue, ma non riuscì a fare niente.
Le sue urla riecheggiarono nel vuoto, ma solo per pochi secondi, perché una mano intervenne prontamente per ricacciargliele in gola. Si accasciò per terra, con gli occhi sgranati, aperti in un urlo soffocato. Sentiva delle risate intorno a sé, ma non capiva se fossero reali o no. L'unica certezza impressa nei suoi occhi era che qualcosa non era più al suo posto.
Era come se avesse delle lame conficcate nella carne. Il dolore si concentrava in tanti lampi, acuti e intensi.
Era caduto dalla barca, e stava affogando. Ma per quanto si sforzasse di perdere la coscienza, i suoi occhi rimanevano ostinatamente aperti. E vedevano tutto.
 

Si svegliò in un bagno di sudore e istintivamente mosse la mano alla ricerca dell'interruttore della luce, tirandosi a sedere con molta fatica, scosso da tremiti forti. Cercò di respirare normalmente ma non era un compito facile: sentiva i polmoni compressi da un peso troppo grande, come se qualcosa lo stesse schiacciando.
“Sono nella mia camera, sono nella mia camera, è un sogno, solo un sogno…”
La mano andò a toccare il braccio destro, tornato al suo posto originario dopo tutti quegli anni. Corse in bagno, ci buttò addosso dell'acqua fredda e lo toccò ossessivamente in ogni punto.
Lo sguardo poi gli cadde sullo specchio, che rifletteva un viso terribilmente pallido.
“Era un ricordo, solo un ricordo, non è successo niente” si ripeté mentalmente più e più volte, come un mantra.
Andò in salotto con passi svelti. Si sedette sul divano, con la testa tra le mani. Gli ci vollero parecchi minuti prima di calmarsi del tutto e far scomparire il sudore, che lasciò una scia gelida lungo tutto il suo corpo. Quando fu abbastanza sicuro di averne la forza, si rialzò per prepararsi una camomilla. L'odore dolce e familiare lo calmò, ma sapeva che non sarebbe riuscito comunque a tornare a dormire. Non ce l’aveva mai fatta dopo quegli incubi.
Guardò l'orologio: erano solo le quattro di mattina. Quel giorno la seduta sarebbe stata solo pomeridiana, ma sarebbe comunque potuto andare lì presto. Poteva portarsi avanti con il lavoro, studiare carte, o fare qualsiasi cosa che gli impedisse di pensare troppo.
Si sedette su una sedia, tenendo la tazza tra le mani per riscaldarsi. Di nuovo quei sogni. Era la prima volta che gli succedeva da quando era lì a Roma. Negli ultimi anni gli era successo solo quando era tornato a Cutro, una volta laureato. Lì erano ripresi gli incubi, che per tutti gli anni in cui era stato a Palermo si erano spenti, donandogli quella magnifica illusione di aver lasciato tutto alle spalle. Non avrebbe mai pensato che gli sarebbe ricapitato lì, a Roma.
Il calore dell'acqua bollente nello stomaco lo calmò. Ritornò a letto, provando a riaddormentarsi.

 

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Capitolo 5
*** Accordi incrociati ***


Nicolò inforcò la sua moto, godendo dell’aria fresca del mattino.
In quei giorni sentiva l’adrenalina a mille. Era la settimana del voto alla riforma delle pensioni, la prima occasione di opposizione. Come gruppo del Fronte avrebbero presentato diversi emendamenti, tra cui quello che avrebbe abolito le pensioni d’oro. Nel momento in cui la maggioranza del governo avrebbe dato il suo voto negativo, sarebbero stati pronti a bombardare tutti i media per attaccarli. Era un giochino che lo divertiva sempre molto.
«Grandi notizie, collega» Chiarelli lo raggiunse all’ingresso di Montecitorio, «delle fonti mi dicono che alcune correnti di SD stanno ribollendo per la riforma e vogliono presentare degli emendamenti.
Se ce li votassimo a vicenda avremmo possibilità di fare passare i nostri».
«Davvero?» rise Nicolò «e perché dovrebbero farlo? Il loro governo andrebbe sotto».
Chiarelli fece un gesto circolare con la mano.
«Giochi di potere interni. Questa riforma è poco in vista rispetto ad altre questioni, è il terreno perfetto in cui la minoranza di sinistra può dare segnali alla segreteria di Marchesi».
«Capisco» rifletté Nicolò, «beh e come funziona in questi casi?»
«Ci si incontra e si contratta. Ovviamente al riparo da occhi indiscreti. Siamo convocati alle nove nell’ufficio di Greco».
«Quello!» rise il capogruppo, «sì, l’ho smerdato un po’ di tempo fa in televisione. E così vorrebbe cambiare la riforma?»
«Sì, lui e il vecchio Costa fanno parte della corrente opposta a Marchesi. Non sono pochi, Costa è molto influente sui deputati di lungo corso. Andremo insieme a contrattare con loro».
«Posso andare benissimo da solo» obiettò subito Nicolò, squadrando l’altro con sospetto. Chiarelli gli aveva ceduto il posto da capogruppo con troppa gentilezza, e non faceva altro che chiedersi se quel gesto non avesse altri scopi nascosti.
 
«È meglio sempre essere più di uno in questi casi. Senza contare che tu sei nuovo e non hai mai contrattato. C’è qualche problema?» Chiarelli gli rivolse uno sguardo di sfida. Nicolò rispose allo sguardo, ma restò in silenzio. In altre occasioni avrebbe risposto a tono. In quel momento, però, non era il caso di litigare. In fondo aveva bisogno dell’esperienza di Chiarelli, anche se non gli piaceva il tono con cui gli si stava rivolgendo.
«No, nessuno. A dopo, allora».
E girò i tacchi, nascondendo la sua aria stizzita.
 
 
*
 
 
«Contrattare con il Fronte?»
Michele ascoltava i discorsi concitati nel cortile. I deputati dalla parte di Thomas, quelli più schierati a sinistra che al congresso non avevano votato Marchesi, erano radunati tutti lì e si scambiavano parole sottovoce.
«Loro presenteranno degli emendamenti, sicuramente vorranno abolire le pensioni d’oro. Ma anche noi ne presenteremo, e di sicuro almeno con uno saranno d’accordo. Se anche uno dei nostri passerà daremo un segnale forte a Marchesi. Non se lo aspetterà, alzerà la nostra capacità di influenza».
Thomas era parecchio su di giri. Sembrava non riuscisse a stare fermo o zitto e con la giacca arancione addosso svolazzava da un gruppetto all’altro.
«E loro accetteranno?» chiese Michele, scettico. Non ce lo vedeva proprio uno come Andreani a mettersi d’accordo con qualcuno.
«Ma certo!» gridò giulivo Thomas, «è la loro grande opportunità di mettere sotto il governo! Gli altri partiti d’opposizione sono già d’accordo, perciò i nostri voti saranno decisivi!»
Michele annuì. Era abbastanza contento di quella prospettiva. Se i loro emendamenti sarebbero stati approvati la riforma poteva essere sicuramente migliore di quella che aveva dovuto difendere nel salotto televisivo. Sarebbe stato fiero della prima riforma approvata dalla Camera con il suo voto.
«Beh, che dici Miché?» ammiccò Thomas, «ci vieni con me a contrattare, così vedi come si fa?»
Michele abbozzò un sorriso. Sapeva che Thomas stava cercando di farsi perdonare per le parole dell’altro giorno, ma non si sentiva così pronto a trovarsi di nuovo faccia a faccia con il capogruppo del Fronte.
«Non lo so…»
«Dai, sarà divertente!» insistette Thomas, «non dovrai parlare per forza, sarà una roba di dieci minuti».
Arturo gli aggiunse una pacca sulla schiena.
«Vai, compagno Michele!» Non riuscì a rifiutare.
 
 
L’orologio appeso alla parete segnava le nove in punto.
Michele si trovava dentro l’ufficio di Thomas. Mentre aspettavano quelli del Fronte, aveva avuto il tempo di osservare a lungo le particolarità di quella stanza.
Le pareti erano ricoperte di una carta da parati gialla a pois, con diversi quadri astratti appesi da ogni lato. Da una parte, in un angolo, vi era una bandiera del PCI, mentre dall’altro quella di SD. La scrivania era piena di fogli sparsi ed evidenziatori colorati. C’erano numerose foto incorniciate ritraenti manifestazioni e assemblee di varia data, ma due in particolare troneggiavano sulla scrivania.
In una vi era un giovane Thomas che stringeva una bambina più piccola, con i suoi stessi occhi e lunghi capelli biondi. Nell’altra c’era un Thomas un po’ più grande che rideva con il pugno alzato, steso su quello che sembrava un letto d’ospedale, circondato da tanti ragazzi.
«La mia sorellina Chiara» disse Thomas, notando la sua curiosità,
«una matta scatenata. Sapeva tirare sempre fuori un gioco divertente da quella testolina. Per scherzare mi nascondeva sempre i fiori dentro i vestiti. Io facevo finta di non accorgermene e mentre camminavo mi spuntavano delle margheritine dai pantaloni. Era un vero spasso».
Michele sorrise.
«Quanti anni ha?»
«Adesso ne avrebbe trentadue. Ma sicuramente è rimasta una giocherellona come allora. Ce la vedo proprio a nascondere i fiori sotto le vesti degli angeli».
Scoppiò in una risata serena, e Michele rimase impietrito, più per la tranquillità con cui Thomas stesse parlando della sorella morta che per l’imbarazzo di aver fatto una gaffe.
«Scusa, non lo sapevo» balbettò.
«E di che ti scusi?» sorrise Thomas, «sono contento di avertela presentata, sarebbe stata simpaticissima anche a te».
Prima che Michele potesse replicare, dalla soglia d’ingresso entrarono i deputati del Fronte, Chiarelli e Andreani.
«’sera» salutò il capogruppo.
Michele iniziò a provare una certa agitazione vedendo quegli occhi verdi che lo squadravano con aria di sfida. Al contrario, Thomas fece un largo sorriso mentre li invitava a sedersi.
«Buonasera. Questi cinque sono i nostri emendamenti».
Andreani e Chiarelli si accomodarono e presero i fogli dalle mani di Thomas. Il primo li lesse attentamente, mentre il secondo li sfogliò in fretta, come se sapesse già il contenuto.
«Il due e il tre possiamo votarveli senza problemi, in cambio dei nostri sulle pensioni d’oro, naturalmente» disse Chiarelli.
«Solo il due» lo interruppe subito Andreani, «il tre non mi convince. Toglierà fondi alle pensioni minime».
«Beh, quei fondi serviranno per altre categorie svantaggiate» intervenne Thomas.
«Non sono d’accordo su questo. Ci sono già altri tipi di aiuti per le categorie svantaggiate» ribatté Andreani.
Il vicecapogruppo lo guardava di sottecchi, cercando di comunicargli qualcosa, ma l’altro lo ignorava.
«Votiamo un emendamento vostro per un emendamento nostro» intervenne Michele, cercando di imporsi anche lui.
 
Gli occhi verdi di Andreani fiammeggiarono nella sua direzione.
«Proprio tu parli! Quanto sei falso! In trasmissione hai difeso le pensioni d’oro dicendo che sono diritti acquisiti, e ora voterai il nostro emendamento solo per uno stupido tatticismo! Ma non ti vergogni?»
Michele abbassò istintivamente lo sguardo, sentendo le guance in fiamme. Avrebbe voluto ribattere, gridargli in faccia, ma riuscì solo a tacere.
«Restiamo al nostro accordo» si intromise Thomas, «come dice Martino, voteremo un emendamento per un emendamento. Se non ne trovate un altro votabile, restiamo a uno a testa».
«Va bene così» concluse Chiarelli prima che il capogruppo potesse aprire bocca, «è sufficiente. Grazie e buona serata».
Si alzò e strinse le mani a entrambi. Anche Andreani si alzò, ma strinse solo per mezzo secondo il palmo di Thomas, ignorando Michele.
«Lascialo perdere» gli disse il deputato romano quando i due deputati del Fronte furono usciti, «non tutti sono fatti per la politica».
Michele si morse il labbro, pensando che quell’affermazione si adattava perfettamente anche a lui.
 
 
Passò una settimana e arrivò il giorno della votazione.
Arturo era eccessivamente euforico. Non la smetteva di sorridere, incurvando le labbra sottili sul volto scavato dalle rughe. Salutava tutti calorosamente e si fermava a parlare anche con i deputati di destra, che fino al giorno prima non considerava nemmeno.
Lo sguardo di Michele si perdeva tra i banchi del Fronte. Si erano di nuovo messi in divisa, come succedeva durante le sedute più importanti. Notò Andreani e Chiarelli in piedi, nel pieno centro dello spicchio dei banchi del loro gruppo, come dei generali prima della battaglia. Andreani si stava divertendo a fare gesti plateali e a mandare cenni di vittoria. Sembrava gli piacesse da morire farsi vedere.
 
Michele sorrise tra sé, pensando che Thomas aveva pienamente ragione: il capogruppo del Fronte non era portato per la politica. In politica le vere battaglie si fanno nelle segrete stanze, a bassa voce. Non fanno notizia, non hanno foto e titoli enormi. I veri uomini di Stato, i veri autori delle leggi, i veri pilastri del governo non hanno bisogno di farsi vedere. Stanno al loro banco e votavano, magari senza neanche parlare spesso. Era quella la politica, quella vera.
Ad un certo punto Andreani si voltò e incrociò i suoi occhi. Michele se ne accorse in tempo e si affrettò a distogliere lo sguardo.
Il segretario Marchesi era in un completo blu brillante, elegantissimo come al solito. Aveva stretto la mano ad alcuni deputati seduti a destra, del gruppo dei popolari. Poi aveva strizzato l'occhio a Pasqui, prendendo posto tra il capogruppo e Goffredo.
Michele prese in mano agenda e penna, iniziando ad appuntarsi di getto l'intervento del relatore, anche se gli importava poco in quel momento. Riuscì a limitare le distrazioni continuando a scrivere, mentre Thomas sbadigliava continuamente, chiacchierando con chiunque gli desse corda.
«Passiamo all'articolo quattro» la voce del presidente della Camera era stanca e monotona «c'è un emendamento a prima firma Marchesi. Ci sono interventi?»
Nessuno chiese di intervenire. Michele notò con la coda degli occhi Thomas sfogliare nervosamente la pila di fogli per arrivare a quello in discussione.
«Ma quando l’ha presentato? Questo non me lo ricordo proprio…» L’emendamento fu messo in votazione. Il capogruppo Pasqui alzò il pollice per dare indicazione di votare a favore.
Michele infilò la mano per votare, ma all’ultimo si astenne. Iniziava ad avere un sospetto su quell’emendamento.
«La camera approva» continuò il presidente, «con l’approvazione decadono gli emendamenti centocinquanta a firma Greco e centocinquantuno a firma Andreani».
«Che cosa?» Michele sgranò gli occhi, interdetto.
«Ci ha fregati» Thomas sbatté il pugno sul tavolo, «ha sicuramente saputo del nostro accordo con il Fronte e ha presentato un emendamento che cambiasse parte dell’articolo. È un trucco classico. Così i nostri emendamenti alla vecchia versione dell’articolo quattro decadono dalla votazione, perché ormai l’articolo è cambiato.» Michele restò di sasso. Non aveva previsto quella possibilità, e sentì montargli dentro una rabbia feroce.
Il presidente stava per chiamare il voto all’articolo quattro. Le luci del gruppo di SD e dei popolari iniziarono a illuminarsi di verde, mentre ai rami estremi dell’opposizione c'era un rosso uniforme.
«Michele, vota. Dobbiamo votare a favore lo stesso, o ci faranno il culo. Ormai è andata così» gli intimò Thomas.
Il giovane strinse forte la mano destra in quella sinistra, come se volesse impedirsi di farlo. Dopo tutta la fatica per concludere quell’accordo. Era stato contento, perché avrebbe potuto votare qualcosa che rispecchiasse le sue idee. E invece non gli era stato permesso di farlo.
«Michele? Che stai facendo?»
La voce di Arturo gli arrivò come da lontano, anche se era appena sopra le sue spalle. Thomas gli piantò gli occhi addosso.
«Vota! Non ti servirà a niente non farlo. Non farai la differenza con un voto solo!»
Michele guardò il tabellone. La sua era l'unica lampadina che non si era ancora accesa, e tutti intorno lo fissavano. Si aspettavano qualcosa da lui, e lui avrebbe dovuto mentire a se stesso per la seconda volta, fare di nuovo qualcosa in cui non credeva.
“Così si sta in un partito.”
Allungò la mano per votare, tenendo gli occhi bassi. Non voleva guardare in faccia nessuno mentre l'avrebbe fatto.
La sua mano tremava ancora quando la ritirò a votazione chiusa. Ma forse non era solo la mano, ma tutto il corpo a tremare, come se l'aria intorno si fosse abbassata di molti gradi.
Thomas gli toccò delicatamente una spalla. La sua espressione era un misto di pietà e sconcerto. Anche lui non si aspettava la mossa di Marchesi, ma a differenza di Michele aveva votato senza battere ciglio.
«Sei pallido. Vieni a bere qualcosa, ti accompagno».

Michele si alzò lentamente dallo scranno, bloccando subito l’altro.
«Vado da solo» sussurrò, «per favore» aggiunse poi, pensando di sembrare scortese.
Il deputato biondo restò in piedi a metà, non sapendo cosa fare. Michele uscì dall’aula, da solo e a testa bassa. Anche senza guardarsi attorno sapeva che qualcuno, in quel momento, lo stava fissando con assoluto disprezzo.
 
Cercò il bagno più lontano e si chiuse dentro. Le pareti erano bianche e strette, la porta chiusa a chiave. Non c'erano finestre in quel bagno, illuminato solo da una luce al neon in alto. In un'altra situazione simile non sarebbe stato nemmeno un secondo lì dentro, e non avrebbe di sicuro chiuso di sua volontà la porta. Ma in quel momento era come se si fosse dimenticato di aver paura.
Si sedette sul pavimento, appoggiato alla porta, immobile e in silenzio.
Sarebbe uscito solo quando avrebbe ritrovato, da solo, la forza per affrontare gli eventi.

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Capitolo 6
*** Fantasmi ***


Quando si decise ad aprire quella dannata porta, ebbe l'impressione di aver lasciato dentro quel bagno un pezzo della sua anima.
Sciacquò il viso, guardandosi allo specchio. Aveva gli occhi spenti e rassegnati di una persona che è stata costretta a fare ciò che non voleva.
Tornò in aula. Non sapeva quanto tempo esattamente fosse passato, ma la seduta era chiusa. Non c'era più nessuno dentro l'emiciclo e pochi ancora nel corridoio. Prese l’agenda aveva abbandonato sul banco e uscì nel Transatlantico, il corridoio principale, con lo sguardo basso e le mani in tasca. Era un metodo che funzionava quando non si volevano incrociare i giornalisti, che nei momenti difficili come quello assomigliavano più a degli avvoltoi. Peccato che chi si trovò davanti era molto peggio di un giornalista.
Arturo.
«Michele» iniziò, «so quello che stai pensando, ma lascia che ti dica due parole».
Il giovane annuì passivamente.
«Non starò qui a farti il sermone da vecchio su cose che entrambi sappiamo. Ci sono due modi per fare politica. In uno porti avanti solo i tuoi valori, le cose che ritieni giuste, e quando queste cose non sono giuste come vuoi tu, le rifiuti. Nell’altro modo… cerchi di fare ciò che è giusto, ma ciò che non puoi cambiare lo accetti anche se non ti piace, perché solo accettandolo puoi portare avanti i tuoi ideali.
Questo è fare compromessi».
Di nuovo, Michele annuì. Sapeva anche questo. Non era il fatto di saperlo che però avrebbe placato la sua amarezza.
«So bene che non è facile, anche io ci ho messo il mio tempo ad accettarlo, sai,» mormorò, «ma non ti servirà a niente continuare a far combattere i tuoi ideali contro la realtà. Prima la accetti, meglio starai. Capisci?»
Michele annuì e abbozzò un sorriso finto. Voleva bene ad Arturo, ma
 
in quel momento ciò di cui aveva meno bisogno era un rimprovero velato da consiglio paternale.
Salutò Arturo, con la scusa di dover recarsi nel suo ufficio. Una volta girato l’angolo, iniziò a correre freneticamente sulle scale, con l'intenzione di andarsene il più in fretta possibile da quel palazzo.
Voleva stare lontano da tutti, in particolare dal segretario del suo partito, che così subdolamente gli aveva impedito di esercitare il suo diritto democratico di emendare una legge.
Sentì i passi di qualcuno che stava salendo le scale nel senso opposto. Si bloccò, vedendolo. L'altro lo riconobbe in un istante e i suoi occhi verdi si tramutarono in una maschera di odio.
«Mi sono fatto prendere per il culo da te come un idiota!» rise Andreani in un eccesso di sarcasmo, dopo che ebbe superato Michele, fermandosi tre gradini più in su.
Il deputato più giovane non rispose. Avrebbe voluto negare, ma a che sarebbe servito? Non gli avrebbe creduto in nessun caso.
«E dire che c'ero anche cascato! Che stupido sono stato, vero? Tu e il tuo segretario eravate già d’accordo. Volevate fare il giochino per sondare il terreno dalla nostra parte, e intanto fare gli interessi dei vostri alleati di governo. Di fare leggi giuste a voi non importa un accidente!»
Michele strinse i pugni. Non poteva lasciarsi parlare in quel modo. Che ne sapeva lui di quello che aveva fatto? Della sua esitazione nel votare, della sua amarezza?
Fece un respiro, cercando di calmarsi. Non doveva darvi peso. Quell'uomo non era nessuno.
Continuò a scendere le scale a lunghi passi, ma l'altro lo rincorse giù e gli si piazzò davanti, in un gesto di sfida.
«Ah, nemmeno provi a negarlo? Allora è proprio vero! Sei un falso doppiogiochista del cazzo, un burattino di merda che è pronto a sputtanarsi solo per fare carriera!» gridò con rabbia.
Michele evitò il contatto visivo mentre incassava e cercava delle parole per reagire. Non era facile, non con lui davanti, a pochi centimetri dal viso. Ma una punta di dignità spingeva dentro di lui, imponendogli di non lasciarsi umiliare in quel modo.
 
«Tu non sai niente di me. Io non sono quel tipo di persona, chiaro? Quando abbiamo fatto l’accordo siamo stati sinceri. Marchesi ha presentato quell’emendamento senza che lo sapessimo».
Il capogruppo del Fronte restò con la bocca aperta a metà per qualche secondo, spiazzato dalla risposta. Poi, la rabbia riprese il sopravvento.
«Ah, non lo sapevate, eh? E chissà perché alla votazione dell’articolo eravate tutti a favore!» urlò Andreani.
Michele sperò che quelle urla fossero arrivate in qualche corridoio, in modo che qualcuno passasse, salvandolo da quella situazione.
Cosa poteva fare in quel momento, se non rispondere con la verità?
«Lo so, ma non volevo, cazzo! Ho dovuto farlo e basta! Non sarebbe cambiato nulla votando contro!» urlò in risposta.
La frase riecheggiò un po' sulle scale semibuie. Poi accadde tutto molto in fretta. Il viso di Nicolò si indurì in una smorfia severa, la sua mano destra si alzò, il dorso colpì la sua faccia in pieno, gli occhi di Michele si girarono insieme al resto del viso e un rumore sordo riempì il silenzio.
Il giovane chiuse gli occhi, aspettandosi di svegliarsi da un momento all'altro. Non poteva essere reale ciò che era appena successo.
«Tu non vali proprio niente».
Quella sola frase gelida uscì dalla bocca di Nicolò e congelò l'aria intorno a loro. Michele premette forte una mano sulla guancia.
Bruciava insieme all'occhio colpito, mentre l'orecchio aveva iniziato a fischiare in modo fastidioso. Tolse la mano, e si accorse che dal labbro stava uscendo un liquido caldo.
Sangue. Il suo sangue.
Lo sguardo di Nicolò indugiò un po' sul suo labbro rotto. Ma i suoi occhi tradivano ancora tutto il disprezzo che aveva dentro. Michele abbassò gli occhi d'istinto, aspettandosi di essere colpito di nuovo, ma Andreani stava già andando via, riprendendo a salire le gradinate. Aspettò di non sentire più il rumore dei passi, poi si sedette sugli scalini. Estrasse un fazzoletto dalla borsa, portandoselo al labbro per fermare il sangue. Lo premette forte fin quasi a farsi male.
 
Era surreale tutto ciò. Non era possibile che lì, nel tempio della democrazia, un deputato lo avesse schiaffeggiato. Chiuse gli occhi, ma le immagini che stavano facendo capolino nella sua testa non erano quelle della sua camera da letto, l'unico luogo che gli compariva davanti quando gli accadeva di risvegliarsi da incubi in cui era costretto a rivivere il suo passato.
No, le immagini erano quelle di un corridoio di scuola.
 
 
«Tieni Michele, il tuo compito è eccellente! Scommetto che non vedi l'ora di farlo vedere ai tuoi genitori».
«Grazie, maestra!»
Era al settimo cielo. Il suo primo compito delle medie era andato bene, e da quell'anno aveva deciso che si sarebbe impegnato al massimo. Aveva solo undici anni, ma sapeva di essere molto più sveglio degli altri bambini. In matematica riusciva a fare calcoli che gli altri non erano capaci di fare. Chissà, forse in futuro sarebbe diventato uno di quegli scienziati che mandano missili nello spazio, quelli che vedeva sempre nelle riviste con i camici bianchi. Ogni volta che li guardava gli sembrava che avessero nella testa migliaia e migliaia di pensieri che le persone comuni non potevano capire.
«Vieni qui, Michè!»
Un gruppo di bambini sostava appena dietro il cancello della scuola, e sembravano aspettare proprio lui.
«Ti avevo chiesto di darmi una mano durante il compito, e tu non ti sei girato!»
Michele non capì il senso di quella frase. Era naturale che non ci si potesse aiutare durante un compito in classe! Cercò di passare oltre, ma venne prontamente spinto per terra. Cadde con un tonfo. Cercò di tirarsi su facendo forza sulle piccole braccia, ma nel frattempo gli altri lo avevano circondato.
«Ho preso un’insufficienza per colpa tua, e adesso la devi pagare».
Il ragazzo gli tirò un pugno dritto in faccia. Lui indietreggiò di qualche passo, sconvolto. Prima che potesse cercare una via di fuga o una persona qualsiasi a cui chiedere aiuto, un secondo pugno gli atterrò dritto nello stomaco. Michele sentì la testa girare vorticosamente e i polmoni annaspare per la mancanza d'aria. Una stretta lancinante e dolorosa lo costrinse a piegarsi a metà, cadendo sulle ginocchia. I ragazzi intorno risero, visibilmente divertiti.
«Ti serva da lezione!»
Lo abbandonarono lì, piegato in due e dolorante. Gli occhi gli bruciavano, al di fuori del suo controllo.
Era entrato in un incubo, e ancora non sapeva che non ne sarebbe più uscito.
 
 
Riaprì gli occhi. Era ancora lì, sulle scale di Montecitorio, che tremava leggermente. Le sue mani erano diventate umide di sudore, la sua bocca era secca e il sangue sul suo labbro rotto si era rappreso. Si alzò, controllando che intorno non ci fosse nessuno. Corse in bagno e si gettò l'acqua fredda sul viso. La guancia gli bruciò come se vi stesse gettando fuoco e si era tinta di un insolito colorito violaceo.
“Maledizione!”
Camminò a passi svelti verso l’uscita, facendo slalom tra i pochi onorevoli, finché non si trovò al sicuro nel retro di un auto blu. Una volta arrivato a casa, si spogliò completamente. Si fece una doccia lunga e, senza rivestirsi, si buttò sul letto.
La camera sembrava sempre troppo buia, anche con la luce dei lampioni. Il battito del suo cuore non voleva saperne di calmarsi. Il respiro era affannoso, il sudore gli usciva copiosamente da ogni parte del corpo, mentre i pensieri si rincorrevano nella sua mente.
Sapeva come far cessare tutto. Aveva calmanti e sonniferi dentro l’ultimo cassetto, ma aveva giurato a se stesso, anni prima, che non li avrebbe più toccati, anche se per sicurezza li aveva conservati. Si portò le mani ai capelli, tirandoseli dal nervoso. No, non poteva cedere così.
Prese il cellulare. Non poteva combattere questa guerra da solo.
 
Sarebbe stato capace di chiedere aiuto? Compose un numero. Squillò una volta sola.
«Miché?»
«Thomas?» iniziò.
Si bloccò subito. E ora che gli avrebbe detto?
Tacque per un periodo troppo lungo per avere la possibilità di far credere all’amico che si trattava solo di una chiamata di cortesia.
«Tutto bene? Stai pensando ancora al voto?»
Michele si distese sul letto. Non rispose, desiderando ardentemente che Thomas potesse leggergli nel pensiero, risparmiandosi di dovergli raccontare l’accaduto.
«Miché, guarda che ti capisco, anche a me è successo tante volte. Ma quando penso al nostro partito e a tutta la lotta che abbiamo fatto, so che è qualcosa che va oltre le nostre convinzioni ideologiche su una legge del cazzo. Anni fa non eravamo niente, Miché, niente! Ma è grazie a noi che è rinata la politica, l’abbiamo portata per le strade prima di essere in Parlamento, mentre rischiavamo la pelle. Io combatto per le mie idee nel partito, ma non posso metterle prima del partito stesso».
Michele restò disteso sul letto ad ascoltare. Era raro sentir parlare Thomas in modo così serio.
«Ho capito…»
«Daje, Miché. Non ci pensare più! Noi continueremo a lavorare piano piano, e vedrai che i risultati li porteremo a casa».
«Hai ragione. Grazie Thomas».
Si salutarono, e Michele spense il cellulare, buttandolo sul comodino. Per il resto del weekend non sentì né vide nessuno.
 
 
*
 
 
Erano quasi le nove di sera, e Nicolò era ancora nel suo ufficio. Avrebbe tanto voluto lavorare in pace, ma il pensiero di ciò che era appena successo continuava a tormentarlo con incessanti colpi di martello nella testa. Se prima aveva immaginato e desiderato molte volte di fare ciò che aveva fatto, sia in trasmissione sia al loro inutile colloquio nell'ufficio di Greco, adesso dei pensieri angoscianti si erano sostituiti in fretta alla soddisfazione di averlo fatto sul serio. “E se mi denuncia ai questori? Sarebbe la mia parola contro la sua, potrei anche cavarmela. Però perdeva sangue, se gli è rimasto il segno sono bello che fregato! Cazzo, qui succederà un casino!”
Il vicecapogruppo lo guardava dall'altra scrivania. Restavano quasi sempre a lavorare insieme e di solito chiacchieravano per alleggerirsi il carico a vicenda, ma quella sera Nicolò era più silenzioso che mai.
«Nico, la Moni non ti stacca gli occhi di dosso. Fossi in te me la farei».
«Mh»
«Oh, mi hai sentito?»
«Sì, Chià, ti sento».
«Non sarà sta gran figa, ma un culo così io non l’ho mai visto!» Nicolò non rispose. Stava valutando cosa dire nel suo film mentale in cui compariva davanti ai questori della Camera. Forse fare finta di niente sarebbe stata la cosa migliore. Tanto non potevano avere delle prove contro di lui.
«Oggi sei strano», Chiarelli arrivò davanti alla sua scrivania, «che c’è, ti sei innamorato?»
Fece un sorriso alquanto stupido, e Nicolò sentì l’istinto di schiaffeggiare pure lui per i suoi modi odiosi.
«Sono solo stanco. Me ne torno a casa».
Lo salutò in fretta e uscì dal palazzo, montando sulla moto blu. Raggiunse i cento all'ora nel tragitto verso San Giovanni ma non se ne accorse neppure, distratto da altri pensieri.
Entrato in casa trovò Giorgio in salotto, davanti alla tv.
«Ci stanno birre?» urlò Nicolò dall'ingresso.
«Ho appena finito l’ultima!»
«Fanculo».
L'amico fece capolino dal salotto.
«Ma che ti è successo? Hai una faccia...»
«Lascia perdere, è meglio».
 
Sciolse il codino, lasciando i capelli scompigliati liberi di coprirgli una parte del volto, prima di versarsi dell’inutile succo d’arancia analcolico.
«Hai discusso con Chiarelli?»
«No, macché».
Sospirò. A qualcuno doveva pur dirlo. Se non altro perché gli sarebbe servita una mano per uscire dai futuri probabili guai.
«Ascolta, ho fatto una stronzata».
«Nulla di nuovo allora» rise l’altro.
«No, una cazzata vera» rispose serio Nicolò, «c’entra Martino».
«Il raccomandato di SD?»
«Eh,» sospirò Nico, cercando mentalmente le parole giuste per spiegarsi, «non so che cazzo mi è preso, ero incazzato per la storia del voto. L’ho incrociato per le scale e l’ho preso a parole. E lui si è giustificato dicendomi che non voleva votare a favore, ma che tanto non sarebbe cambiato nulla. E lì mi sono incazzato veramente».
«In che senso?» chiese Giorgio, temendo già dove stava andando a parare il discorso.
«Gli ho tirato una sberla».
Nicolò osservò tutte le sfumature del viso dell’amico mentre lentamente passava da uno stupore incredulo ad una smorfia severa.
«Ma sei impazzito? Come cazzo ti è saltato in mente?»
Non rispose, lasciando che un silenzio imbarazzante calasse nella stanza. Non si era mai vergognato così tanto in vita sua. Ora che
l’aveva detto a qualcuno poteva rendersi finalmente conto di quanto avesse fatto un’idiozia.
«Non è che mi è saltato in mente. Non ci ho proprio pensato in quel momento, mi sono fatto prendere dalla rabbia».
«Cazzo!» imprecò Giorgio, «quando ho proposto la tua candidatura pensavo che un po’ di testa ce l’avessi. Tu sei il capogruppo, Nicolò, ti rendi conto? Non solo sei responsabile verso il partito, ogni tua azione influisce su tutti noi! E ciò nonostante alzi le mani così, senza pensarci? Per giunta all’interno della Camera!»
«Basta così, ok?» mormorò a denti stretti Nicolò, rosso per la rabbia e l’umiliazione di essere rimproverato come un adolescente, «le so tutte queste cose, non mi servono prediche. Ho fatto una cazzata e ci penso io a risolverla. Non verrà fuori niente che possa danneggiare il partito».
Giorgio gli rivolse un’ultima occhiataccia prima di tornare in salotto, in silenzio. Nicolò si buttò su una sedia, mettendosi le mani nei capelli. Tirò fuori una sigaretta dal taschino e se la accese.
“Guarda te se mi devo far mettere nei guai da quell’idiota di un raccomandato. E adesso dovrò pure umiliarmi e scusarmi per evitare il finimondo!”
Quella sera i due coinquilini cenarono in silenzio, poi ciascuno si ritirò nella propria camera. Nicolò odiava quello stato di tensione, ma sapeva che sarebbe bastato risolvere la situazione, o almeno provarci, perché l’amico smettesse di portargli rancore. Lo conosceva abbastanza bene. Restò davanti alla TV a guardare qualche talk show, poi passò ad un film d’azione e verso le due decise di andare a dormire, cosa che non fu per niente facile.
Per un’ora intera restò a fissare il soffitto. Ripensò a tutte le volte che si era ritrovato dentro delle risse. Da adolescente aveva frequentato per molto tempo i centri sociali, e molto spesso la sua ira era scattata, soprattutto quando qualcuno sfiorava anche di poco il suo orgoglio, complice lo stato di sballo causato qualche sostanza. Pretendere rispetto dagli altri era sempre stata la regola primaria della sua vita.
Era anche grazie a quella regola che era diventato l’uomo che era: una persona tutto sommato di successo.
Ma ciò che aveva fatto quel giorno, a differenza di tutti gli altri episodi, riusciva a impedirgli di prendere sonno. Rivide più volte la scena nella sua mente, provando addirittura disgusto verso se stesso. E più cercava di ripetersi che in fondo Martino se l’era meritato,
meno quell’argomentazione suonava convincente.
Forse il problema era che Martino era più basso e più esile rispetto a lui, se fosse stato uno della sua stazza non si sarebbe sentito così male. Era riuscito a fargli perdere sangue con un solo schiaffo. Cercò di ricordare quanta forza ci avesse messo, ma non ci riuscì, e il dubbio di aver veramente perso il controllo in quel momento andava e veniva nella sua mente.

Forse, però, non era nemmeno quello il problema. No, il problema principale era che Martino non aveva risposto al suo schiaffo. Non aveva provato a reagire, nemmeno a parole. Era questo che non gli tornava, che riusciva a far sembrare quello scatto d’ira una cosa terribilmente indegna.
Non si poteva definire rissa, quella. Una rissa è quando qualcuno ad un pugno ti risponde con un calcio o con una spinta, e non resta lì a fissarti con quello sguardo che sembra riflettere l'ingiustizia che hai compiuto e te la sbatte in faccia, mettendoti da solo davanti alle tue evidenti colpe.
C’era solo una cosa che poteva fare per non finire nei guai. Una cosa che aveva fatto poche volte nella sua vita: chiedere scusa. Gli sarebbe costato molto, ma era un uomo maturo e lo avrebbe dimostrato. Era il capogruppo del Fronte per l'Indipendenza, e sarebbe stato all'altezza del suo ruolo.
Anche a costo di mortificare, per una volta, il suo orgoglio.

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Capitolo 7
*** Oscurità ***


Il lunedì successivo, Nicolò si svegliò più presto del solito. Si mise seduto, passandosi una mano sugli occhi stanchi e sui capelli arruffati, poi buttò un occhio alla sveglia. Sei in punto.
Il pensiero lo condusse subito a ciò che lo aspettava. Desiderò solo ributtarsi sul cuscino per non affrontare quel fatidico momento, ma poi si convinse che prima lo faceva, prima avrebbe evitato il peggio. Tirò fuori dal guardaroba un paio di jeans, optando per un abbigliamento meno formale del solito. Prese le solite scarpe in tela marrone e le indossò. Abbottonò la camicia bianca in fretta, sistemandosi bene il colletto. Infine, prese la giacca più usata che aveva, l'unica del suo guardaroba che lo faceva sembrare un po' meno parlamentare e un po' più se stesso.
Fece una lunga colazione pensando a tutti i dettagli delle sue scuse. Sarebbe passato casualmente dal corridoio dove c’era l’ufficio di Martino, camminando avanti e indietro finché non lo avrebbe incrociato. A quel punto gli avrebbe chiesto se avesse un minuto e lo avrebbe condotto fuori con la scusa della sigaretta, in modo da poter parlare lontano dal campo di orecchie indiscrete. Sarebbe bastato dirgli che gli dispiaceva, che quel giorno era nervoso e stressato per la votazione, che faceva fatica a reggere la tensione di essere da poco parlamentare e capogruppo e altre stronzate del genere. Se si fosse mostrato dispiaciuto, Martino non poteva che perdonarlo, e a quel punto era salvo. Avrebbe finito il tutto velocemente, così da dover sopportare il meno possibile l’imbarazzo dell’umiliazione.
Uscì di casa e inforcò la moto, pronto per la sua sfida più grande.
 
 
*
 
 
Aveva passato quel weekend principalmente a leggere e cucinare. Poi, però, non si era sentito di mangiare e aveva congelato quasi
 
tutto, prendendosi mentalmente l'impegno di invitare Thomas per smaltire tutta la roba.
Michele percorse la strada per Montecitorio con aria assente, come se ci fosse qualcun altro a muovere il suo corpo e lui stesse solo osservando dall’esterno. Era così sovrappensiero che neanche si accorse di aver chiamato l’ascensore per salire al suo ufficio, al posto di prendere le scale come al solito. La paura non fece in tempo a trattenerlo dall’entrare dentro quella scatola chiusa, e Michele non si accorse nemmeno che un’altra persona stava entrando dietro di lui.
I loro sguardi si incrociarono per un breve, brevissimo istante, ma tanto bastò perché il più giovane sussultasse.
«Secondo o terzo?» chiese Andreani con voce pacata, come se nulla fosse, come se con lui ci fosse una qualsiasi altra persona.
«Terzo» rispose Michele, cercando di imitare il tono indifferente mentre dentro di sé tutte le paure avevano iniziato a ribollire insieme. Provò a concentrarsi su qualsiasi cosa che non fossero le pareti strette dell'ascensore. Si era ritrovato esattamente dietro Andreani, e fu molto grato che lui non fosse girato nella sua direzione. Aveva una giacca vecchia e un paio di jeans, in un accostamento con le scarpe piuttosto trasandato. Michele si fissò su quei particolari a debita distanza, così da far passare il più velocemente possibile quei secondi che lo distanziavano dalla libertà.
La luce del secondo piano si illuminò quasi subito, ma quella del terzo continuò a lampeggiare per un tempo troppo lungo. Andreani schiacciò di nuovo un paio di volte il tasto, ma Michele percepì chiaramente che l'ascensore aveva rallentato, fino ad essere praticamente fermo tra i due piani.
«Ma che ha sto affare?» sbuffò il capogruppo del Fronte, premendo contemporaneamente tutti i tasti del pannello.
Michele vide chiaramente la luce interna dare due lampeggi. Scacciò subito dalla sua mente l'immagine del peggio. Era solo una malfunzione, solo questo e nient'altro.
Si avvicinò al pannello anche lui e schiacciò il tasto d'emergenza un paio di volte. Si sentì chiaramente un suono acuto, ma non successe nulla.
 
«Siamo... fermi?» chiese in un sussurro, senza riuscire a mantenere un tono indifferente.
«A quanto pare. Ma che cazzo! Non li controllano mai sti affari?» sbuffò Andreani, iniziando a girare in tondo nella piccola cabina. L'istante dopo, la luce interna lampeggiò di nuovo, oscurando e illuminando lo spazio ad un ritmo sempre più rado.
Michele la fissava, trattenendo il fiato. “Ti prego, non spegnerti, ti prego!” Poi, il buio totale invase l'intero spazio.
Il giovane deputato appoggiò la schiena alla parete dietro di sé, respirando piano. Le mani percorsero il metallo freddo, come per trovarne un punto di fuga. Sentiva il respiro iniziare a mancargli. No, non poteva succedergli questo. Non lì dentro, e soprattutto non con quell’uomo!
«Tutto bene?»
Nel sentire quella voce rivolta a lui provò subito l'impulso di allontanarsi il più possibile. La sua schiena si schiacciò ancora di più contro la parete, strisciandoci addosso fino a farlo arrivare allo spigolo. Le ginocchia cedettero e Michele restò a terra, nell’angolo.
«Che succede? Sei caduto?»
La voce nemica era più vicina, insieme alla sua sagoma buia. Michele la distingueva a malapena. Le palpebre si stavano appiccicando agli occhi per tutto il sudore freddo che gli stava uscendo da ogni poro.
«Sto bene».
Aveva parlato davvero? O aveva solo immaginato di farlo? Non lo sapeva, ma nel momento in cui provò a rimettersi in piedi sentì la testa fare numerose giravolte su se stessa, e l'istante dopo il suo corpo intero si trovò avvolto dentro il freddo del metallo. Tremò d’istinto per la differenza di temperatura con il corpo, ma poco dopo anche quella sensazione svanì, abbandonandolo ad un dolce torpore.
«Ehi! Cazzo, svegliati!»
Dopo l'ennesimo strattone, riprese lentamente coscienza. Fu sollevato di vedere una luce colpire i suoi occhi, ma era solo un debole led di emergenza, che a fatica rischiarava l'ambiente.
 
Qualcosa dietro la nuca gli stava provocando un dolore acuto. Ci portò istintivamente la mano, che si trovò immediatamente a contatto con un liquido caldo.
«Non muoverti».
Andreani stava armeggiando attorno alla sua borsa, e poco dopo gli appoggiò un fazzoletto all'orecchio sinistro. Solo in quel momento Michele realizzò che stava perdendo sangue.
Andreani lo stava guardando, ma lui restò ostinatamente con lo sguardo fisso verso il basso. Dopo un po' di tempo sentì il suo tocco sull'orecchio. Controllava che il sangue si fosse fermato, ma nonostante avesse intuito la sua intenzione si scostò istintivamente.
«Tranquillo, si è fermato».
Il capogruppo del Fronte gli tolse il fazzoletto, ormai completamente rosso per il sangue, per dargliene un altro pulito.
«Non c’è campo qua dentro per chiamare, ma ho scritto a Chiarelli con il wi-fi della Camera. Stanno arrivando a tirarci fuori».
Michele lo ascoltava a malapena mentre faceva scorrere freneticamente lo sguardo su tutte e quattro le pareti, da cima a fondo e in ogni angolo, alla ricerca di uno spazio aperto dove potesse passare l’aria. Provò a fare due respiri profondi, cercando di convincersi che di ossigeno ce n'era abbastanza, ma per qualche motivo gli sembrava che l'aria fosse d'un tratto diventata pesante e irrespirabile. La luce d'emergenza diede un altro lampeggio preoccupante, e immediatamente il suo viso si imperlò di altro sudore freddo. Strinse forte entrambi i pugni, cercando di controllare l'ansia crescente.
«Ehi, tutto bene?»
Michele si asciugò il sudore con la manica della giacca. Il respiro gli era diventato eccessivamente affannoso, per quanto tentasse in ogni modo di ridurlo al silenzio. Mai avrebbe voluto mostrare la sua paura più profonda davanti a quell’uomo. Al terrore di essere chiuso dentro un posto stretto e buio si aggiungeva la pesante umiliazione di mostrarsi debole con la persona che, solo qualche giorno fa, lo aveva trattato come una nullità.
«Sei claustrofobico per caso?»
 
La mano di Andreani aveva raggiunto la sua spalla. Provò subito a scrollarla via, ma l’altro la strinse saldamente.
«Perché non mi rispondi e basta? Cazzo, sto solo cercando di darti una mano!» gridò.
«Non sono claustrofobico...» sussurrò lui, infastidito.
Più cercava di riacquistare controllo, più sembrava perderlo del tutto. E maledizione, perché lui doveva stargli così vicino? Perché doveva stringergli così forte la spalla?
«Lasciami! Non mi toccare!» gemette, in preda ad un panico improvviso.
«Non ti tocco! Calmati!»
Michele continuò a muovere lo sguardo attorno a sé, come se fosse in trappola e con gli occhi misurasse le pareti della sua cella.
«Non vi ho fatto niente! Fatemi uscire! FATEMI USCIRE, BASTARDI!»
«Ma che dici? Che ti prende?»
Stava perdendo sensibilità ai muscoli. Lentamente la schiena scivolò lungo la parete dov’era appoggiata, raggiungendo di nuovo il pavimento freddo. Sentì tutta la fatica di riempire i polmoni. Come si faceva a respirare? Avrebbe dovuto essere un riflesso involontario, perché allora era così faticoso?
Il suo cervello era stretto in una morsa. Vide il suo corpo schiacciato tra le pareti, sgonfiato, con ciascun osso che si staccava e schizzava via dal suo posto, e lui che cercava di respirare ma l'aria non c'era, non c'era, non c'era...
«Per favore… per favore, fatemi uscire… non vi ho fatto niente…» Non era più dentro un ascensore. Era dentro uno sgabuzzino buio pesto, e il suo corpo era quello di un bambino, quel bambino troppo piccolo per ribellarsi, per buttare giù a calci la porta, per pensare anche solo di sfuggire a qualunque cosa gli capitasse.
Come odiava quel maledetto bambino. Come avrebbe voluto sfogare tutto quell'odio che negli anni aveva accumulato nel cuore. Togliersi di dosso quella vergogna di non riuscire nemmeno a nascondersi, a soffrire in silenzio e composto, perché dentro di sé sapeva che stava urlando e tremando in modo ridicolo.
 
In quel momento desiderò solo sprofondare nell'oblio, per non vedersi, non sentirsi urlare, non avere pietà di quel bambino così debole, non essere cosciente dell’umiliazione che stava passando. Dopo un tempo che sembrava interminabile, riprese pienamente coscienza. Il suo corpo era freddo a contatto con il pavimento, ma la sua testa era tenuta sollevata da una mano che non era sua.
Andreani lo stava guardando. E anche nel buio riusciva a intuire lo sgomento nascosto nel suo sguardo silenzioso.
Michele mosse la schiena con l'intenzione di tirarsi su, ma quel semplice movimento gli costò uno sforzo immane e fu comunque inutile, perché la mano di Andreani lo trattenne.
«Aspetta, è meglio che non ti muovi. Ho un po’ di acqua».
Gli passò una bottiglia di plastica, e Michele si tirò su quel poco che gli serviva per bere. Sentiva forti battiti premergli contro il petto ma ne percepiva la regolarità, e questo bastò a tranquillizzarlo un po'.
Probabilmente aveva appena dato uno spettacolo ridicolo e pietoso. Immaginò con disgusto Andreani che, una volta uscito, raccontava ciò che era appena successo ai suoi compagni di partito, ridendoci su. Anche se ora lo stava semplicemente guardando, con un’espressione indecifrabile in quel buio.
«Ti senti meglio?» gli chiese.
Michele sentì gli occhi bruciargli. Non si sentiva affatto meglio. Si sentiva stupido, debole, senza difese.
«Sì, un po’» rispose, forzando il tono per farlo sembrare tranquillo.
«Ma che ti salta in testa, eh?» Andreani alzò la voce mentre camminava nella piccola cabina, «prendere l’ascensore sapendo che sei claustrofobico! È completamente da irresponsabile!»
«Lo so» ammise piano, spiazzato di fronte a quell’accusa.
Per diversi minuti nessuno disse una parola, e l’unico rumore furono i passi di Andreani. Quando poi tornò a sedersi, si tolse la giacca e la porse a Michele.
«Cosa?» domandò lui secco, senza nascondere il risentimento nel tono della voce.
«Stai tremando da mezz'ora» tagliò corto Andreani. Michele la accettò senza ringraziare, irritato.
 
«Stanno arrivando. Non ci vorrà ancora molto, credo» buttò lì il capogruppo del Fronte.
Michele annuì leggermente. Stava provando degli esercizi di respirazione per calmarsi, ma non riusciva lo stesso a fermare i brividi. La conosceva bene quella sensazione. Aveva già vissuto tutto questo. A undici anni, per sei ore o qualcosa di più.
Ma almeno l'altra volta era da solo.
Si sarebbe tolto volentieri quella giacca. L'avrebbe gettata addosso all’altro, dicendogli che poteva tenersela, che di sicuro non gli serviva la sua pietà, ma la verità era che avere quel poco calore sul corpo lo stava facendo sentire meglio. Anche solo avere addosso un
odore diverso dal suo lo aiutava a non concentrarsi sulle pareti strette dell’ascensore.
«Senti» Andreani ruppe il silenzio, «riguardo l’altro giorno… io ero davvero fuori di me. Puoi capirne il motivo, visto ciò che è successo, ma non è una giustificazione. Mi dispiace per quello che ho fatto».
Sembrava che stesse misurando bene le parole. Probabilmente non era sincero, anche se quel tono rammaricato gli era uscito quasi del tutto credibile.
Michele sentì gli occhi bruciargli al solo ricordo, e girò il viso dall’altra parte. Nessuna scusa avrebbe riparato a ciò che era
successo. Anche con tutta la sua volontà, Andreani poteva scusarsi solo dello schiaffo. Per lui era stato solo quello, ma per Michele era un abisso che gli si era riaperto sotto i piedi. Cosa poteva saperne Andreani di tutto ciò che aveva rivissuto in quei giorni?
E poi, quelle scuse erano decisamente false. Era fin troppo evidente il motivo per cui lo stava facendo.
«Puoi stare tranquillo, non ti denuncerò» rispose lapidario Michele. Il silenzio che seguì fu carico di tensione. Evidentemente non si aspettava quel tipo di risposta.
«Non è quello il problema, okay? Mi sto scusando perché è giusto che lo faccia. Io non sono quel tipo di persona».
Questa volta la convinzione nelle sue parole assomigliava a quella dei suoi discorsi in Parlamento, e toccò a Michele non sapere come replicare.
 
Inspirò ritmicamente il profumo della giacca. Non riuscì a ricordare l’ultima volta che aveva avuto così vicino un odore estraneo.
Chiuse gli occhi per cercare di rilassarsi, ma ad occhi chiusi il buio era ancora più opprimente. Tenendoli aperti, però, sentiva le pareti strette della cabina bloccargli il respiro. Non sapendo cosa fare li tenne semichiusi, alzando e abbassando le palpebre al ritmo del respiro. Con la coda nell'occhio, notò Andreani di fianco a sé.
Guardava un punto fisso e non diceva una parola.
«Senti... tu vedi un condotto d'aria o qualcosa di simile?» chiese il giovane, esitando.
Andreani passò l'occhio sulle pareti.
«No…»
Michele lo vide alzarsi in piedi per controllare negli angoli e poi rivolgergli uno sguardo preoccupato. Ogni volta gli sembrava che quegli occhi verdi lo guardassero dentro.
«Hai paura che finisca l'aria?»
«No».
Cercò di sembrare sicuro almeno a parole, ma il tremito delle sue gambe e le pupille traballanti parlavano da sole. Quanto era stupido, non era neanche capace di mentire.
Andreani si sedette di fronte a lui, serio.
«Prova a fare come ti dico. Chiudi gli occhi, inspira forte ed espira lentamente».
Michele non lo fece. Lo guardò mostrando tutta la sua incertezza sul dubbio che volesse solo umiliarlo di nuovo.
Andreani sembrò non capire il suo sguardo.
«Ti aiuterà, dico davvero. Chiudi gli occhi, respira come ti ho detto e immagina un posto che ti è familiare».
Michele eseguì. Il profumo della giacca gli entrava nelle narici a fiotti, ad ogni respiro. Cercò di concentrarsi su quello, portando la sua mente da tutt'altra parte.
Immaginò il mare. Da bambino amava andare in barca con suo zio. Gli piaceva credere di arrivare in terre lontanissime e scoprire popoli nuovi, magari in qualche isola che nessuno ancora conosceva. A volte giocava con le reti da pesca, impigliandosi dentro. La cosa più bella però era avere in mano la vela e sentire il vento che faceva muovere la barca lontano, veloce veloce…
La sua testa iniziò a vagare da sola per paesaggi indefiniti, nel sole cocente d’estate. Era da solo nella sua barca a vela, eppure si sentiva così protetto. Il profumo era fresco, l’aria leggera, sapeva che niente poteva fargli del male.
Fu risvegliato dalle porte dell'ascensore che si erano riaperte al terzo piano, facendo entrare finalmente la luce.
«Onorevoli? State bene?»
C'era un commesso della Camera davanti a loro, con un’aria apprensiva dipinta in faccia.
«Il mio collega ha picchiato la testa, è meglio che vada in infermeria» rispose Andreani, mentre si alzava in piedi.
Michele cercò di tirarsi su, a fatica. Si era addormentato con il viso sopra il colletto della giacca di Andreani. Se la tolse dalle spalle, come se d'improvviso avesse iniziato a scottare, rimettendosi in piedi di scatto.
«No, sto bene, non è niente».
Restituì la giacca al proprietario con un grazie quasi sussurrato. Andreani se la rimise addosso senza fare commenti. In quel momento lo stava fissando con due occhi verdi penetranti. Michele distolse lo sguardo e indugiò sul corridoio ampio e sulla luce che entrava dalle finestre, lasciando che entrasse anche dentro di lui. Finalmente poteva tornare a respirare.
«Venga, la accompagno in infermeria» si offrì il commesso. Michele lo seguì controvoglia. In quel momento desiderava solo uscire da quello spazio chiuso e respirare quanta più aria possibile. L’infermiere gli disinfettò la ferita e il giovane non perse un altro minuto. Per la prima volta ignorò i suoi impegni da parlamentare e chiamò un taxi per farsi portare al parco di Villa Borghese.
Camminò per tutta la giornata, traendo conforto dal rumore leggero della natura, infine tornò a casa sua.
Si distese sul letto, respirando profondamente.
Era rimasto chiuso dentro un ascensore, al buio, per più di un’ora.

E lui, la notte, dormiva con porta e la finestra aperte. Quando era parecchio nervoso, lasciava anche accesa l'abat-jour. Aveva gli incubi. Da quando era stato chiuso in quello sgabuzzino non aveva più preso nessun tipo di ascensore, e non entrava mai in una camera prima di aver controllato le vie di fuga. Eppure…
Chiuse gli occhi per un attimo e bevve un sorso di tè alla vaniglia. Il sapore dolce della bevanda assorbì ogni suo pensiero, e gli sembrò che quel buio delle sue palpebre chiuse, per la prima volta dopo sedici anni, aveva smesso di fargli paura.

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Capitolo 8
*** Sfumature ***


L'ufficio che condivideva con Chiarelli sembrava ancora più luminoso, forse perché aveva passato l'ultima ora nel buio più totale. Andreani non parlò molto durante la giornata. Ogni tanto si forzò a dire due o tre battute, per sembrare almeno lo stesso di sempre, ma la sua mente era assorbita da ben altri pensieri.
Martino aveva avuto un vero e proprio attacco di panico. Era svenuto, non aveva smesso di tremare e solo alla fine, con molta fatica, si era calmato, anche grazie al suo intervento. Non aveva mai visto nessuno ridotto in quello stato, e lui lo aveva aiutato, perché quella era la migliore occasione che potesse capitargli per impedire che Michele Martino decidesse di prendere provvedimenti contro il suo gesto dell’altro giorno.
Uscì molto presto dall'ufficio e si catapultò sulla moto. A casa trovò Giorgio in cucina, circondato da un invitante profumo di arrosto di tacchino, e Nico per una volta sentì distintamente i morsi della fame, causati probabilmente dalla giornata assurda che aveva appena passato, in cui, tra le altre cose, non aveva toccato cibo.
Il capogruppo del Fronte intravide lo sguardo dell’amico, e si ricordò in quel momento della loro discussione dell’altro giorno.
«È tutto a posto. Non mi denuncerà».
Subito Giorgio assunse un’aria più rilassata, servendogli l’arrosto nel piatto.
«Mi stupisci sempre di più. Sinceramente, conoscendoti non pensavo che ti saresti scusato».
«Non solo mi sono scusato» sorrise Nicolò, «l’ho aiutato mentre eravamo chiusi dentro un ascensore, al buio, con lui che era in preda ad un attacco di claustrofobia» concluse con fierezza.
Giorgio restò con la forchetta penzolante nella mano. Ma gli bastò uno sguardo per capire che l'amico non stava inventando storie.
«Cosa?»
«Proprio così» rispose Nicolò con tono piatto, mentre faceva a pezzettini una fetta di carne.
«È stato male?»
«Sì» rispose lui, «molto».
Si inscurì in volto e non disse più una parola. Uno strano senso di colpa, più acuto di quello dell’altro giorno, lo stava tormentando da quando era uscito da quell'ascensore.
Finita la cena, scherzò un po’ con Giorgio per sembrare lo stesso Nicolò spensierato di sempre. Poi si buttò sul letto, di nuovo pensieroso.
In fondo andava molto fiero di quello che aveva fatto, ma per qualche strano motivo non si sentiva a posto. Restò a fissare il soffitto, pensando e ripensando a quella giornata. Poi, d'un tratto, tutto gli divenne chiaro.
Non c’entrava quello che era successo in ascensore, no. Si sentiva in colpa perché aveva schiaffeggiato qualcuno che, chiuso in un ascensore, era stato preso da attacchi di panico. Un uomo che si era mostrato estremamente fragile davanti a lui.
Era una sensazione strana, quella. Se prima ne aveva solo il sospetto, ora era sicuro di essere stato veramente ingiusto e meschino. Non poteva più mantenere intatto il suo orgoglio e accettare le sue azioni. Per Nicolò mantenersi una persona integra era sempre stato un requisito primario della sua indipendenza e del suo orgoglio.
Quell’azione lo aveva macchiato indelebilmente, e doveva rimediare in qualche modo.
Iniziò a camminare nervosamente, non sapendo come fare. Sarebbe dovuto andare dai questori della Camera e denunciarsi da solo? Ma no, non aveva senso, dopo tutta la fatica fatta!
Si cambiò i vestiti, mettendosi addosso una tuta nera da ginnastica e scarpe da jogging. L’aria fresca della sera lo avrebbe aiutato. Uscì e iniziò a correre sempre più veloce sull'asfalto, con nelle cuffie quelle canzoni di rivolta che, da quando era giovane, non lo avevano mai abbandonato.
 
*
 
 
Michele sedeva al bar insieme ad Arturo e Thomas, come tutte le mattine. Anzi, non proprio come tutte. Quella mattina era diversa dalle solite, perché quella notte era stata diversa.
Mai avrebbe pensato di riuscirci. Aveva chiuso porte e finestre, aveva spento le luci ed era rimasto lì da solo nell'oscurità. Solo lui e il suo cuore nel petto, che batteva regolare. Aveva dormito sereno, senza interruzioni, e al risveglio non aveva nemmeno ricordato i suoi sogni. Stava bene, stava dannatamente bene. Non riusciva a spiegarselo, ma nemmeno gli importava. Era uscito di casa tranquillo, in pace con il mondo, senza aver bisogno del fondotinta per nascondere le occhiaie, senza brutti ricordi freschi nella mente, e ora era seduto al bar a mangiare come non aveva mai fatto. Riusciva addirittura a sorridere spontaneamente, qualche volta, di sfuggita, senza rendersene conto.
Thomas lo fissò mentre Michele divorava il secondo cornetto.
«Michè, stai mangiando più di me! Hai deciso che vuoi crescere?» sorrise lui, pulendosi le briciole dalla camicia a scacchi rosa e gialli. Il giovane lo spinse amichevolmente, fingendosi offeso. Arturo li guardava e sorrideva. Sia lui che Thomas non potevano che essere contenti nel vedere Michele così ripreso dopo l’episodio del voto.
Quella mattina il bar era pieno, perché la seduta sarebbe iniziata solo alle nove. Michele si guardò in giro, osservando i presenti. Pasqui, il loro capogruppo, era seduto un po' in disparte e parlava con il capogruppo dei popolari e due ministri. In un altro tavolo c'era Chiarelli, il vicecapogruppo del Fronte, che leggeva il giornale da solo, con molta attenzione.
Alle otto e mezza, il bar si svuotò e tutti andarono in aula per la seduta. Quel giorno Michele fu attento come non era mai stato, prendendo appunti di getto su ogni intervento. Quando la seduta finì, il capogruppo di Sinistra Democratica salì le gradinate per avvicinarsi al suo banco.
«Martino» comunicò freddo Pasqui, aggiustandosi gli occhiali sul viso, «il segretario desidera vederti nel suo ufficio.»
Detto questo, ridiscese le scale, senza aspettare risposta.
Il giovane guardò i due amici con un misto di ansia e preoccupazione.
«Cosa vuole da me?»
«Non ne ho la minima idea» alzò le spalle Thomas, «ma non ti preoccupare. Tra i due è Pasqui quello che fa paura».
Michele sospirò. Non era affatto consolante.
Mentre saliva le scale, ripensò al suo primo incontro in aula con il segretario. Gli era sembrato strano e decisamente eccentrico per i suoi modi di fare, ma tutto sommato una brava persona. Ora però non poteva fare a meno di detestarlo per il suo emendamento in aula. Non era stata una mossa corretta, sicuramente non qualcosa che un vero sostenitore della democrazia parlamentare avrebbe fatto.
Bussò tre volte. La porta aveva inchiodata una targhetta d’oro con inciso il suo nome.
«Entra pure!»
L’ufficio di Marchesi era davvero spazioso, almeno il doppio di quello degli altri colleghi. Le vetrate erano ampie e la luce del sole entrava copiosamente. Qua e là erano appese foto, quadri e targhe di onorificenza. Michele non perse tempo a curiosare con lo sguardo, sapeva bene che Marchesi era considerato una specie di eroe da gran parte dell’opinione pubblica, ed era evidente che la cosa non gli dispiacesse.
Il segretario sedeva scomposto dietro la scrivania. Quando lo vide gli fece un gran sorriso, indicandogli la sedia.
«Come stai? È passato più di un mese dalle elezioni, ormai. Ti stai trovando bene?»
Michele annuì freddamente. Non riusciva a credere che quella fosse una domanda disinteressata.
«So cosa stai pensando» Marchesi sorrise, con la sicurezza di chi ha tutto sotto controllo, «sì, mi sembrava giusto che noi parlassimo chiaramente di ciò che è successo l’altro giorno».
«Avevamo solo presentato degli emendamenti» Michele lo interruppe, incapace di trattenersi, «non penso che possa considerarsi sbagliato. Poter modificare delle leggi è un principio importante per la democrazia».
Marchesi si accigliò, poi sorrise bonario.
«Ma certo Michele! Non posso che essere d’accordo con te su questo, non c’è dubbio!»
Il segretario prese a camminare per la stanza, sotto lo sguardo severo di Michele. Quel giorno non sentiva alcuna paura a dire chiaramente ciò che pensava.
«Sai, il punto è che noi siamo al governo, ma in minoranza» continuò, «il Nuovo Partito Popolare è maggioritario, e io e Pasqui abbiamo un contatto costante con loro, al fine di poter governare insieme con armonia. Gli emendamenti presentati da voi avrebbero sicuramente portato la legge ad una maggiore giustizia sociale, e questo è molto giusto…»
Fece un enorme sorriso, che a Michele apparve sincero.
«Ma, come dicevo, non siamo noi la maggioranza. Approvare le vostre modifiche avrebbe aperto uno scontro all’interno del governo, e per questo ho dovuto rimediare personalmente».
Michele abbassò lo sguardo. Era difficile dargli contro, ora che gli aveva dato delle motivazioni giustificabili.
«Sì, capisco».
Il segretario sorrise di nuovo. Michele non riuscì a fare a meno di chiedersi perché quell’uomo avesse giudicato così importante spiegarsi personalmente con lui, quando sicuramente la sua giornata era piena di mille impegni.
«Bene, sono contento che ci siamo chiariti» si avvicinò per dargli una pacca amichevole sulla spalla, «oh, ma ti sei fatto male?»
Michele seguì il suo sguardo e notò che puntava al livido dello schiaffo sullo zigomo, ormai quasi scomparso.
«No, no! Non è niente».
Marchesi sorrise enigmatico e Michele per un attimo si chiese se, in qualche assurdo modo, lui fosse al corrente di tutto.
Si congedò subito dopo, scendendo le scale a passi veloci.
 
 
*
 
«Ehi, Ric, la mammina non ti vuole a casa? Vedi che sta arrivando la limousine a prenderti!»
Riccardo Marchesi correva lungo un vicolo buio, con le scarpe nuove che si sporcavano per le pozzanghere.
Odiava quegli imbecilli. Se solo avesse voluto, avrebbe potuto fargliela pagare a tutti quanti. Ma questo non avrebbe cambiato la situazione, né il loro odio verso di lui. Sarebbe stato anche inutile spiegargli che non vedeva i suoi genitori da due anni ormai.
Spense il cellulare, anche se nessuno lo avrebbe cercato a quell’ora di notte. Goffredo ogni tanto lo chiamava per controllarlo, ma per la maggior parte del tempo i suoi rimproveri riguardavano la politica, le sue responsabilità, il rispetto delle scadenze e cose simili. Di tutto il resto della sua vita non gli importava nulla. D’altra parte, non era suo padre. Non che a suo padre fosse mai importato qualcosa.
Si rifugiò dentro un pub che non conosceva. Non era mai uscito tanto la sera. Anche se erano passati pochi anni, a volte non si ricordava nemmeno cosa facesse ai tempi del liceo o gli amici che aveva allora, se li aveva mai avuti. In università qualcuno se ne stava facendo,
impegnandosi con le attività dell’Associazione Giovanile Universitaria.
Goffredo gli aveva consigliato di inserirsi, perché un futuro dirigente di partito come lui deve essere dentro ovunque, in tutte le
associazioni e i movimenti che hanno a che fare con l’area cattolica. Strategia, strategia, apparato, ancora strategia. Era solo questo che importava a Goffredo Ranieri. Se vuoi essere dirigente devi fare questo e quello. Devi passare i tuoi giorni dentro un ufficio, impegnarti con lo studio, devi organizzare e coordinare, chiamare, dialogare, fare accordi.
La musica dentro il pub era forte, abbastanza da stordirlo. Si sedette al bancone e ordinò una birra. La barista gliela portò e gli chiese se dopo avesse dovuto guidare. Rispose di no, dicendole che era venuto a piedi, anche se non era vero. Non voleva passare per quello che ha tanti soldi. Non voleva che anche lei lo odiasse, anche se non lo conosceva nemmeno.
In pochi minuti, Riccardo finì la birra. Forse aveva bevuto troppo in fretta, perché sentì subito l’impulso urgente di andare in bagno. Si staccò dalla sedia e si fece largo in mezzo alla gente che ballava ubriaca. Cercò il cartello della toilette e vi si rifugiò dentro, apprezzando subito il maggiore silenzio rispetto alla sala.
Mentre si sciacquava le mani, al suo fianco notò un tizio che aveva in mano un oggettino quadrato che teneva davanti alla bocca aperta.
Aveva qualche anno in più, ma era decisamente molto diverso da lui, con gli occhi fuori dalle orbite, i capelli quasi rasati e i vestiti larghi. Riccardo restò a fissarlo per un po’ di tempo, indugiando sulla cosa che teneva nel palmo della mano.
«Dì un po’, sarai mica uno sbirro in borghese tu?» gli fece ad un certo punto il ragazzo, sentendosi osservato.
«No» rispose.
«Ah», il giovane sembrò tranquillizzarsi. Si leccò le labbra, scrutandolo da capo a piedi, «e perché allora sei vestito in quel modo? Cazzo, sembri uscito da una di quelle fiction di ricconi viziati!»
«Probabilmente lo sono, un riccone viziato» sbottò Riccardo. Aveva già capito l’antifona e stava per andarsene. Non aveva intenzione di farsi insultare anche lì dentro. Voleva solo essere lasciato in pace, perché era sempre così difficile?
«Ehi, riccone, frena un attimo!» lo fermò quello, «vuoi qualcosa? MD, speed, crack?»
Riccardo aveva solo una vaga idea di ciò che gli stava offrendo. A scuola aveva studiato qualcosa di vago riguardo le droghe, abbastanza da sapere che “facevano male”, e questo gli era sempre bastato per tenersene alla larga. Ora però, una curiosità improvvisa stava iniziando a minare le fondamenta delle sue fragili idee sull’argomento. E se invece fossero state solo cazzate per ragazzini le cose che lui sapeva? Perché la gente si drogava, in fondo, se le droghe facevano solo male? Probabilmente qualche bell’effetto lo facevano pure.
«E che ti fanno?» gli chiese. Si rese conto di apparire come un completo ignorante, ma non vi diede importanza. Tanto non lo conosceva.
Lui lo guardò, con il sorrisone sulle labbra di chi è già sicuro di aver trovato un cliente:
«Beh, tante cose, dipende un po’ da cosa vuoi. Ti tengono carico, principalmente. Ti senti felice, libero e senza pensieri».
«Tu ti senti così?» insistette Marchesi. Non sapeva ancora se credergli, d’altra parte non lo conosceva.
«Beh, io tra tutte preferisco questa» gli fece vedere il quadrato di cartone che aveva in mano, «con questa puoi vedere tante cose e puoi viaggiare oltre i limiti dello spazio e del tempo» concluse, con un movimento ampio della mano come ad indicare un universo esclusivo che solo lui conosceva.
Marchesi guardò prima lui e poi la sua mano, perplesso. Il suo istinto gli diceva che non stava mentendo, e lui sapeva riconoscerle le persone che mentivano. Era immischiato con la politica da quando aveva sedici anni e ora ne aveva quattro in più, figurarsi se si lasciava fregare da uno spacciatore di periferia.
Mise mano al portafoglio, tirando fuori una banconota da cinquanta.
«Ti bastano?»
Il ragazzo sorrise, mollandogli il cartoncino. Infilò la banconota nel tascone, tirandosi fuori un’altra dose per lui.
«Sei uno a posto, riccone, quindi ti darò un consiglio. Non leccarlo qui, vattene fuori in un posto tranquillo e stai lì buono. Attento che non è una caramella, il mood è importante!»
Riccardo non capì del tutto le sue parole ma apprezzò lo stesso il consiglio, facendo scivolare il cartone nella tasca dei Levi’s. Salutò il ragazzo allungandogli la mano destra, come da sempre era abituato, ma lui non la strinse e gli batté invece un pugno contro il palmo.
Una volta fuori, chiamò un taxi e si fece portare in piazza del Gesù. Entrò dentro al cortile decorato, salì al secondo piano e aprì la porta con la targa “Circolo Giovanile dell’Azione Cattolica”. Una volta dentro, si chiuse la porta alle spalle e si lasciò cadere su una delle poltrone, seguendo alla lettera le istruzioni del ragazzo.
Dopo qualche minuto provò una sensazione strana, come se quella stanza conosciuta non fosse la stessa di sempre. Eppure non c’erano dubbi, doveva essere la sua, altrimenti la chiave non l’avrebbe aperta. Il suo cuore accelerò leggermente e Riccardo si accorse con stupore che i suoi occhi, muovendosi, creavano delle forme insolite. Iniziò a camminare per la stanza a casaccio, toccando qualsiasi oggetto che gli capitava sottomano. Sentiva il liscio, il ruvido, apprezzava la consistenza delle superfici. Si sentì felice, perché era lì nella stanza, da solo, con la porta chiusa a chiave e niente poteva fargli del male, non c’erano quelli che lo insultavano perché era ricco, non c’era nemmeno Goffredo che gli dicesse cosa doveva fare.
C’era solo lui, lui e la sua libertà.
Continuò ad aggirarsi freneticamente per la stanza, immaginando i suoi genitori, gli insegnanti e gli ex compagni di classe. Si rese conto che sembravano reali, come se fossero realmente presenti. I suoi pensieri avevano una consistenza, non doveva fare nessuno sforzo per creare le immagini.
«Avete visto?» gridò esaltato, «questa è la mia nuova casa, stronzi! Diventerò chi mi pare, alla faccia vostra! E voi dovrete solo scusarvi per tutto quello che mi avete fatto passare!»
Riccardo corse e ballò a casaccio per la stanza, canticchiando qualche canzone dei Guns ‘n Roses, finché non si stancò e si stese semplicemente sul pavimento.
Era libero, libero, libero.
Ringraziò mentalmente il ragazzo che gli aveva regalato quella magia, e focalizzò nei ricordi il locale dove era appena stato per tornarci il prima possibile, infine chiuse gli occhi e si addormentò. E, dormendo, sognò di volare sulla sua città e sputare giù su tutte le case, le strade e le persone che ora avrebbero dovuto fare come voleva lui.
 
 
*
 
 
Il cortile del palazzo era ancora più bello la sera, quando era semideserto. Ogni tanto gli piaceva sedersi lì a cercare le stelle, chiedendosi in che modo si vedevano, in quello stesso momento, dal suo paese natale. Era un modo per sentirsi meno lontano da casa, che a volte funzionava e a volte meno. Si era abituato ormai alla vita romana, tanto da temere che, un giorno, non desiderasse più tornare indietro. Era ciò di cui aveva paura e allo stesso tempo ciò che in fondo al cuore voleva di più: avere una casa nuova, senza più brutti ricordi con cui dover convivere.
Senza accorgersene, il momento dopo si trovò davanti un uomo alto, imbacuccato dentro ad un giaccone verde.
Andreani aveva appena estratto un accendino per accendersi la sigaretta che teneva tra le labbra. Nuvole di fumo uscivano dalla sua bocca, al ritmo del suo respiro. Michele aveva notato spesso il capogruppo del Fronte nel cortile, ma per l'abitudine ad evitarlo non lo aveva mai incrociato volontariamente.
Si fissarono negli occhi troppo a lungo prima che uno dei due si decise a rompere l’imbarazzo di dire qualcosa.
«La tua ferita è a posto?» chiese Andreani, nascondendo l’espressione dietro al fumo della sigaretta.
«Sì» rispose telegrafico.
«Bene».
Passarono altri lunghissimi secondi di silenzio. Michele si sentiva quasi in dovere di ringraziarlo, perché alla fine era stato grazie a lui se era riuscito a riprendere il controllo dentro quell’ascensore, ma il ricordo di quello schiaffo bruciava ancora.
«Riguardo la legge di settimana prossima, sugli investimenti nelle opere pubbliche» disse Andreani, «che avete intenzione di fare?» Michele sapeva bene a cosa si riferisse, sulla stampa in quei giorni non si parlava di altro. Quella legge era stata proposta dal Nuovo Partito Popolare, e secondo le inchieste giornalistiche era un modo per togliere i controlli pubblici agli appalti, rendendoli permeabili alle organizzazioni mafiose.
«Io sono contrario» rispose sicuro Michele, «ma cercheremo una posizione di compromesso all’interno del partito. È questo il modo più efficace per fare battaglia.»

Guardò Andreani. Temeva un altro scontro, ma quel giorno non se la sentiva di tacere i suoi pensieri.
L’uomo sorrise, facendo un tiro lungo.
«Lo immaginavo. Non sono per niente d’accordo con il vostro metodo, qualsiasi posizione di compromesso sarà comunque un danno al Paese e un favore alle mafie».
«Il compromesso è l’unico mezzo accettabile in democrazia» ribatté Michele.
«Forse» replicò Andreani, «o forse, invece, le leggi inaccettabili non si possono bloccare con semplici mezzi accettabili».
Michele cercò di reggere lo sguardo di sfida, ma ad un certo punto abbassò gli occhi. La convinzione dell’altro sembrava impossibile da scalfire.
Andreani spense la sigaretta, espirando l’ultimo fiato bianco di fumo. Con un’ultima, fugace occhiata se ne andò, lasciando Michele da solo con i suoi pensieri.

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Capitolo 9
*** Ostruzionismo ***


La sera era inoltrata, e Nicolò e Augusto Chiarelli erano ancora in riunione con il gruppo. L’idea del capogruppo fu accolta con boati e sorrisi di grande eccitazione: ostruzionismo.
Sarebbe bastato presentare una decina di emendamenti per ciascun parlamentare del gruppo, e la legge sarebbe stata bloccata per almeno un mese, intasando i lavori parlamentari. La stampa si sarebbe focalizzata sulla questione e il dibattito sarebbe esploso al punto che la maggioranza non sarebbe più stata in grado di difendere la legge. Nicolò uscì a fumare, facendosi largo tra i complimenti dei suoi colleghi per la sua proposta. Si sentiva elettrizzato per la guerra che stava per compiere. La lotta alla mafia era uno di quegli ideali che più degli altri lo avevano spinto alla politica, e avrebbe combattuto con le unghie e con i denti per far ritirare quella legge assurda.
Sorrise tra sé immaginando i giorni successivi, dove i deputati sarebbero stati costretti a rimanere in aula fino a notte fonda a causa dell’ostruzionismo. Questo era ciò che per Nicolò significava lottare per davvero.
Osservò il cortile completamente deserto delle undici di sera. Prima, quando aveva visto Martino da solo su una delle panchine, aveva sentito il forte impulso di scusarsi di nuovo con lui, nella speranza di togliersi di dosso quel senso di colpa che da giorni lo tormentava.
Non ne aveva avuto il coraggio, ma la discussione aveva preso tutt’altra piega.
Ora, Nicolò non vedeva l’ora di dimostrare a Martino quanto lui fosse ingenuo con la sua idea di cercare il compromesso. Gli avrebbe fatto vedere cosa significasse avere le palle di lottare per ciò in cui si crede.
Lottare per davvero.
 
 
*
 
Il primo giorno di discussione sulla legge fu il più noioso che Michele ricordasse. Gli interventi dell'opposizione erano vuoti e privi di senso, spesso riguardanti cose come la sintassi delle frasi, e venivano tirati in lungo apposta per perdere tempo, tanto che il presidente della Camera aveva ben presto iniziato ad innervosirsi, non trovando un modo legale per fermare tutta quella perdita di tempo.
Michele non aveva mai visto Pasqui così sudato, scomposto e inferocito. Ad ogni sospensione lo vedeva andare dal presidente della Camera chiedendogli di far cessare questo delirio, ma l'altro era inflessibile: nessuna norma gli avrebbe permesso di farlo. L'unica soluzione era sospendere la seduta e cercare un accordo per far ritirare gli emendamenti all'opposizione, cosa che Pasqui non era affatto disposto a fare anche se, con il passare delle ore, ciascun deputato di SD gli aveva disperatamente chiesto di percorrere quella pista.
«È una zucca dura, quell’uomo. Quando si mette in testa una cosa non lo schiodi» rispondeva Thomas a tutti i deputati che venivano a chiedergli di provare lui a convincerlo, in nome della loro vecchia amicizia.
Più le ore passavano, più la stanchezza aumentava tra le fila dell'aula. Quando anche il presidente della Camera non ne poté più, annunciò la sospensione della seduta per mezz'ora.
«Era ora» sospirò Thomas, con un’aria così grigia che anche la cravatta giallo canarino non sembrava vivace come al solito, «caffè, mi servirà tanto caffè!»
Mentre i suoi colleghi si sgranchivano le gambe, Michele osservò i movimenti nell’emiciclo. Tanti deputati stavano attorniando le due persone responsabili dell’ostruzionismo: Chiarelli e Andreani. Le personalità più importanti di SD e del gruppo dei popolari gesticolavano con rabbia contro i due dell'opposizione, i quali invece rimanevano impassibili. Non solo, Andreani aveva anche dipinto in faccia un arrogante sorriso di sfida.
 
Il loro ostruzionismo poteva, d’altra parte, essere anche una possibilità. La loro pressione avrebbe sicuramente favorito un compromesso tra la sinistra di SD, anche in questo caso contraria alla legge, e la dirigenza del partito. Nonostante quindi i suoi ideali lo portassero a preferire una soluzione politica a quel blocco un po’ sopra le righe, Michele non riuscì a non provare un po’ di ammirazione per la tenacia della lotta dei deputati di opposizione.
 
 
All'una di notte, molti deputati avevano deciso di andarsene, con scuse che variavano dalla menzogna spudorata alla necessità fantasiosa. Pasqui era diventato pazzo a furia di tener conto dei numeri, ma alla fine aveva concesso almeno ai deputati over sessanta di andarsene a casa, cosa che Arturo aveva molto apprezzato e Thomas molto contestato, ritenendola una discriminazione ingiusta. Michele, che non avrebbe mai immaginato che l'ostruzionismo potesse arrivare a richiedere sedute notturne, ad ogni pausa era costretto a imbottirsi di caffè al bar in fondo al Transatlantico.
Rischiava di addormentarsi davvero durante quelle lunghe ore in cui, anche con tutta la forza di volontà, i discorsi nell'aula si erano fatti talmente noiosi e ripetitivi che concentrarsi a seguirli era una vera impresa. Il capogruppo del Fronte era intervenuto più di tutti gli altri in quella seduta, inventando dei veri e propri trattati linguistici su ciascuna parola di ciascun emendamento, con un entusiasmo mai fiacco.
Lo incontrò al bar proprio durante una delle tante brevi pause notturne. Era appoggiato con la schiena al bancone, e reggeva un bicchiere di liquido trasparente nella mano sinistra.
«Quanto dovrà durare questa cosa?» gli chiese.
«Finché non otterremo il ritiro della legge» rispose a tono l’altro. Michele sospirò. Gli occhi verdi del capogruppo avevano un tenace bagliore di sfida, e nessun ragionamento in quel momento sarebbe servito a qualcosa.
 
«Non dirmi che sei già stanco!» aggiunse Andreani, sorridendo ironico.
«Assolutamente no» rispose Michele, voltando un po’ il viso per nascondere le prime occhiaie, «ma ciò che state facendo non servirà. Bisogna piuttosto fare pressione su Pasqui per un accordo».
«Voi fate pure le vostre cosette da bravi ometti di partito» disse Andreani, più sorridente che mai, «noi continueremo a fare le cose serie, visto che qui c’è in gioco la legalità. E ora torno dentro, ho proprio voglia di fare un lungo intervento».
Se ne andò, sorridendo fiero. Michele non riuscì in nessun modo a spiegarsi come potesse avere ancora tutte quelle energie, mentre lui era stanchissimo senza aver nemmeno intervenuto.
“Ti dimostrerò che ti sbagli” pensò, più convinto che mai.
 
 
La mattina dopo, in aula, tutti quanti erano a pezzi. Thomas si era appisolato sul banco e non c'era modo di svegliarlo. Pasqui era il nervosismo fatta persona, con due borse enormi sotto gli occhiali spessi, mentre faceva chiamate a destra e a manca per far arrivare tutti, camminando su e giù dalle scalinate come un'anima in pena. Michele stava cercando di tenersi impegnato in ogni modo, scrivendo o leggendo qualcosa, ma la testa gli aveva iniziato a pesare notevolmente sulla testa. Dovette aspettare la prima pausa caffè perché la sua mente fosse abbastanza sveglia per parlare con Thomas.
«Potremmo provare l’accordo con Pasqui. Se siamo in tanti non sarà difficile. Basterà convincerlo ad accettare delle modifiche alla legge per rendere gli appalti più controllati. Sono sicuro che può funzionare, anche lui sa che avere la stampa contro per tutto il tempo dell’ostruzionismo provocherà solo un danno di immagine».
«Miché» sospirò Thomas, con uno sguardo che tradiva la tenerezza per la sua ingenuità, «ci abbiamo pensato, ma è come la storia
dell’altra volta, qualunque cosa gli diciamo non accetterà mai. Non possono rischiare di aprire una crisi di governo».
«E allora non vogliamo fare niente?» ribatté con rabbia il giovane.
«Certo che sì. Questa sera una nostra delegazione chiederà udienza a Pasqui. Andrò io personalmente» intervenne Arturo, comparendo al loro fianco. Le sopracciglia folte dell’anziano erano contratte in una smorfia severa.
«Arturo, ti illudi se credi di fargli cambiare idea» ribatté Thomas.
«Non possiamo far altro che tentare» ribadì lui, «qua si sta parlando di mafie, e su queste cose non si scherza».
Michele si rincuorò. Sapeva che se sarebbe andato Arturo a cercare l’accordo poteva solo andare bene. La sua esperienza e la sua autorevolezza politica bastavano come garanzia di successo.
La giornata passò come quella precedente, con gli interventi lunghissimi degli esponenti del Fronte, soprattutto quelli di Andreani, e la rabbia e la stanchezza degli altri deputati. Michele rimase fermo al suo banco, tesissimo. Se Arturo non fosse riuscito a concludere un accordo, come avrebbero fatto? Sarebbe finita come l’altra volta, con lui che era stato praticamente costretto a votare a favore?
Iniziò a fissare il capogruppo del Fronte, quasi invidiandolo per la veemenza e l’energia dei suoi discorsi. In quel momento desiderava solo avere almeno un po’ di quella libertà.
La sera Michele trascorse il tempo passando dal cortile al bar e dal bar al suo ufficio, aspettando notizie da Arturo.
La cinica freddezza di Thomas lo aveva infastidito. Non assomigliava affatto a quel Thomas di cui tanto parlavano le televisioni, che in gioventù aveva combattuto coraggiosamente i nuovi fascisti, subendo anche delle aggressioni. Più Michele scopriva cose sulla sua storia, più non si capacitava di come si fosse trasformato.
A mezzanotte, Arturo scese alla buvette. La sua faccia tesa e stanca non lasciò spazio a dubbi.
«L’accordo non è riuscito». Non c’era tanto altro da dire.
 
 
Michele passò la notte in totale agitazione.
Era tornato a casa per qualche ora prima che ricominciasse la seduta la mattina dopo, ma non era riuscito comunque a chiudere occhio.
I ricordi del talk show, delle interviste, di quel voto, dello schiaffo di Andreani non facevano che tormentarlo. Si sarebbe ripetuto tutto?
Con lui che avrebbe dovuto giustificare qualcosa che in realtà non voleva fare?
Il primo voto effettivo all’articolo uno della legge sarebbe stato domani. Aveva meno di ventiquattr’ore per fare qualcosa.
Il cuore gli batteva per l’ansia. Non faceva altro che alzarsi, andare in bagno e camminare nervosamente tra camera sua e la cucina. Se nemmeno Arturo era riuscito a fare niente, lui che cosa poteva fare? La coscienza di non poter risolvere la situazione faceva a botte con la sua rabbia di non poter accettare di non fare niente.
Tornò alla Camera molto presto, erano le cinque e mezza di mattina. Passò una buona ora a passeggiare per i corridoi, non sapendo che fare e con chi parlare. Nella sua testa avrebbe voluto mobilitare le folle, l’opinione pubblica, qualche gruppo di deputati onesti del suo partito, ma la realtà continuava a indicargli che nulla di tutto ciò sarebbe servito a qualcosa. Quando arrivò alla decisione di chiudersi nel suo ufficio per riposare una mezz’oretta, sentì i passi affrettati e pesanti di Pasqui echeggiare nel corridoio.
Quei brevi istanti in cui quell’uomo gli passò davanti furono lunghissimi per Michele.
«Pasqui, hai un minuto?»
Gli occhi del capogruppo si girarono di pochi gradi verso di lui, come a segnalare che volesse prestargli meno attenzione possibile.
«Uno solo, sta cominciando la riunione dei capigruppo». Michele fece un respiro profondo, sentendo il cuore battere velocemente per il passo che aveva fatto, ben oltre ciò che il suo
senso di pericolo gli consentiva. Intorno a lui i pochi deputati presenti andavano e venivano, nessuno lo stava guardando, eppure aveva
l’impressione di essere comunque al centro dell’attenzione.
«Io penso che questa legge andrebbe radicalmente modificata. Così com’è renderà più facile l’infiltrazione della mafia nelle opere pubbliche. Tutti i giornali ne parlano, e noi non possiamo passare per quelli che approveranno questa vergogna senza fare qualcosa per cambiarla».
Pasqui non reagì minimamente, restando nella stessa posizione di prima.
«Come lei ben sa, onorevole Martino, il nostro patto di governo prevede che le leggi siano concordate con tutti i partiti di maggioranza. Questa legge è già stata frutto di compromesso in fase di elaborazione dunque, per rispetto dei patti, sarà approvata in questa esatta maniera».
Michele cercò velocemente qualcosa da rispondere.
«Questo non toglie la gravità del merito della legge! Con che faccia potremo votarla?»
Subito temette di aver usato parole troppo aggressive e cercò di darsi un contegno, rilassando i muscoli del viso. Sentiva le guance in fiamme dal rossore.
Pasqui lo squadrò dall’alto con aria di sufficienza.
«Non c’è bisogno che ti ricordi che è tua responsabilità attenerti alle indicazioni del gruppo in fase di voto. Se non sarai leale verso il partito puoi dirlo chiaramente, e prenderemo le dovute conseguenze». Detto questo, Pasqui continuò per il corridoio come se nulla fosse,
togliendo Michele dall’imbarazzo di rispondere di nuovo.
Il giovane restò fermo, impalato, a fissare quel corridoio che gli mostrava un orribile senso unico in cui avrebbe dovuto, di nuovo, fare qualcosa in cui non credeva.
 
 
*
 
 
La giornata fu stancante e felice come le precedenti.
Nicolò non aveva perso tempo. Scriveva, alzava la mano, parlava, si risedeva, rialzava la mano. Sapeva che ogni minuto in cui interveniva era un minuto guadagnato prima della votazione del primo articolo e non intendeva fermarsi, soprattutto perché vedere i volti esasperati dei colleghi della maggioranza (o mafioranza, come li chiamava durante le interviste) non aveva prezzo.
Tra un intervento e l’altro riuscì a tirare in lungo la seduta fino alle diciotto, quando venne sospesa con l’annuncio che al rientro sarebbe stato finalmente votato il primo articolo.
«Bene, poi si lotterà sul secondo!» disse Andreani ai suoi colleghi, coinvolgendoli con la sua grinta.
Era in aula dalle sette di mattina, ma non sentiva minimamente la fame. Si intrattenne in cortile a fumare e a scherzare con gli altri del gruppo, sognando di poter arrivare a vincere per davvero quella battaglia per lo sfinimento degli avversari.
La mezz’ora di pausa passò in un lampo e i deputati ritornarono alla spicciolata dentro l’aula per votare. Nicolò si accese un’altra sigaretta da solo, per essere sicuro di avere abbastanza scorta di nicotina nel sangue per quella che si prospettava essere ancora una lunga serata, quando notò che nel cortile era rimasto un altro deputato.
Lo riconobbe subito. Era appoggiato ad una colonna, in piedi in un angolo del cortile, e guardava fisso per terra.
«Non ci torni in aula?»
Il deputato di Sinistra Democratica alzò di poco gli occhi, e Nicolò capì immediatamente che c’era qualcosa che non andava. Il viso era più bianco del solito, gli occhi erano un po' gonfi e il suo modo di respirare, anche da una certa distanza, era evidentemente affannato.
«Sì, adesso vado».
Nicolò arricciò il labbro, sentendo nel tono dell’altro qualcosa che gli ricordava inquietantemente l’episodio dell’ascensore.
«La tua strategia sul compromesso è andata a buon fine?»
Il giovane infilò entrambe le mani nella tasca della giacca, senza smettere di guardare per terra.
«No».
Nicolò sospirò. Aveva tenuto pronte diverse battute per l’occasione e per un attimo selezionò mentalmente la migliore, ma poi le sue labbra restarono sigillate attorno alla sigaretta.
Guardò l’ora. Era già in ritardo e se non correva si sarebbe perso la votazione, eppure non riusciva a decidere di andarsene.
«Beh abbiamo cinque minuti, io mi faccio un caffè, vieni?» Martino alzò un braccio per guardare l’orologio.
«È già tardi, dovremmo andare a votare».
La sua voce sembrava provenire da un altro universo. Lontana, senza colore né espressione.
«Beh» sorrise ironico Nicolò, «saremmo comunque uno a favore e uno contro, se la matematica non è un’opinione il risultato sarà lo stesso».
Detto ciò, si avviò verso la buvette. L’altro si mosse molto dopo, seguendolo a qualche passo di distanza.
Dentro il piccolo bar non c’era nessuno. Tutti quanti erano in aula a votare, chi per bloccare e chi per approvare. Nicolò si ritrovò a pensare a quanti interventi aveva ancora da fare quella sera, ma per qualche motivo la sua grinta di prima non riusciva a imporsi per riportare il suo corpo sul campo di battaglia.
«Beh, come mai i vostri grandi partigiani dirigenti vi hanno negato l’accordo?» buttò lì.
«Non mi è stata data una spiegazione».
«Molto bene!» si scaldò Nico, «vedremo se non cambieranno idea dopo che starete in aula a votare sul niente per un mese di fila. Voi credete che ci fermeremo, ma non sapete con chi avete a che fare!» Martino incrociò i suoi occhi, e per quell'attimo al capogruppo del Fronte parve di notare un sorriso dentro il suo sguardo perso.
Sembrava che avesse intenzione di dirgli qualcosa, e Nicolò alzò un sopracciglio come per invitarlo a parlare, ma qualunque cosa volesse dirgli non venne svelata. In ogni caso, il capogruppo ebbe la forte impressione che le sue ultime parole avessero incontrato il suo consenso.
Restarono in silenzio per interminabili minuti, finché non arrivò il capogruppo di Sinistra Democratica. Nico ebbe un sussulto di spavento, trovandosi d'un tratto davanti quell'uomo enorme, con un atteggiamento tutt'altro che amichevole.
«Che stai facendo qui? Poco fa abbiamo votato, nel caso ti fosse sfuggito» disse tagliente, rivolto a Martino.
Nicolò scattò subito in piedi, non riuscendo a trattenersi.
«Chiedo scusa, non mi sembrano questi i modi con cui rivolgersi a un deputato della Repubblica. L’onorevole Martino ha piena facoltà di decidere in autonomia se entrare o no in aula».
Per un attimo, Nico ebbe seriamente paura di avere acceso la miccia di una bomba. Pasqui gli rivolse uno sguardo incendiario.
«Non sto parlando con te. Torna in aula a giocare al ribelle».
«Certo che ci torno! E tu tornaci a fare leggi per i tuoi amici mafiosi» ribatté subito Nicolò.
Pasqui lo ignorò, tornando a rivolgersi a Martino.
«Che hai intenzione di fare?»
«Non sta bene» si intromise di nuovo Nicolò, «stava tornando in aula ma ha avuto un calo di pressione, così gli ho suggerito di prendersi un caffè».
Il capogruppo del Fronte fu colpito dalla sua stessa prontezza con cui aveva mentito in quel modo così convincente. Pasqui soffermò il suo sguardo sul deputato di Sinistra Democratica, come per constatare le sue condizioni.
«Capisco» concluse, riprendendo il solito tono freddo, «in tal caso puoi tornare a casa a riposare. Ma tienimi aggiornato, e cerca di tornare il prima possibile».
Detto questo, il capogruppo di SD uscì dalla buvette.
Quando se ne fu andato, Michele rivolse a Nicolò uno sguardo interrogativo.
«È la prima cosa che mi è venuta in mente» si giustificò lui, «ho immaginato che tu non volessi tornare in aula».
Michele alzò un sopracciglio, non sapendo cosa rispondere. Prese le sue cose e indossò il soprabito.
«Beh, grazie» mormorò, «ovviamente è tutto a vostro vantaggio, sarò un voto in meno per la mafioranza» aggiunse, ironico.
«Saresti stato comunque un voto in meno alla mafioranza» sorrise Nicolò, «ed è proprio per questo che non sei andato in aula a votare. Mi sbaglio?»
L’altro resse lo sguardo, ma non rispose.
«Buona serata».

«A te».
Anche Nicolò si alzò, finalmente pronto per tornare in aula a lottare.
 
 
*
 
 
La testa gli doleva per la stanchezza e lo stomaco si lamentava rumorosamente per la fame, mentre Michele fissava il soffitto nel vano tentativo di prendere sonno. Gettò indietro le coperte in un gesto rabbioso e afferrò il cellulare dal comodino. Erano le due e quarantaquattro.
Probabilmente erano tutti ancora in aula a votare, e probabilmente Andreani era impegnato in uno dei suoi soliti interventi. Immaginò il suo sguardo, quegli occhi convinti mentre all’interno del bar gli ribadiva che avrebbe vinto con la sua ostinazione, e provò nuovamente un moto di rabbia e di invidia per quell’uomo così diverso da lui. Era stato completamente preda dell’ansia quando aveva saputo che alle diciotto si sarebbe votato il primo articolo. Non si era sentito pronto a sopportare di nuovo di votare ciò che riteneva profondamente sbagliato.
E come se non bastasse, c’era l’immagine di Arturo, Thomas e gli altri compagni di partito che avevano sicuramente votato a favore, dopo l’accordo fallito. Sembrava che l’unico a porsi seriamente il problema morale fosse lui. Non era abbastanza inquadrato
dall’obbedire al suo partito e basta, senza opporsi alle decisioni altrui, ma non era nemmeno abbastanza coraggioso da opporsi in maniera netta a ciò che riteneva sbagliato. Come un vigliacco, aveva scelto di non tornare in aula, ingabbiato nel vortice dell’indecisione.
Quanto avrebbe retto, andando avanti così, dentro quella Camera fatta di squali?
La domanda restò sospesa, mentre i contorni della sua stanza lentamente svanirono davanti ai suoi occhi.

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Capitolo 10
*** Poco prima dello schianto ***


Un pacchetto di cracker. Un libro da leggere, preso a caso dall'enorme libreria di suo padre, il quale tanto non si sarebbe mai accorto di quella mancanza. I libri di scuola, quei pochi che servivano per non destare alcun sospetto. E, per ultima, una coperta di lana, che aveva piegato e schiacciato per far entrare nello zaino, perché era metà novembre e aveva imparato a sue spese che restare fuori la mattina con addosso solo un paio di jeans e la giacchetta imbottita non era la cosa migliore da fare per non soffrire il freddo.
«Sto uscendo!»
«Ciao Michelì!» lo salutò la madre dalla cucina, come ogni mattina. L'aria fredda invase subito il suo piccolo corpo fin dentro le ossa. Per arrivare più in fretta, Michele iniziò a correre per quelle stradine nascoste che ormai conosceva bene. Aveva imparato con il tempo a evitare le strade principali, dove chiunque poteva vedere dove stava andando, notando quindi che la direzione che aveva preso era quella opposta alla fermata dell'autobus, unico posto in cui un ragazzo con uno zaino in spalla avrebbe dovuto trovarsi a quell'ora del mattino.
Correva radente i muri, con il bavero della giacca tirato su fino al naso e il berretto blu tirato giù fin quasi sugli occhi. Ogni tanto si chiedeva se a correre così tanto sarebbe, prima o poi, diventato veloce e forte come i suoi compagni di scuola, ma la maggior parte delle volte era solo un'illusione che si creava per confortarsi durante la lunga strada che c'era tra casa sua e quel posto nascosto dove, da due settimane a quella parte, trascorreva ogni mattina.
Ogni giorno il timore che qualcuno lo avesse potuto scoprire lo assaliva, terrorizzandolo nel profondo. Non poteva neanche immaginare come avrebbe reagito suo padre se lo avesse saputo. Aveva già fatto una cosa del genere l'anno scorso, per più di un mese. Il suo compagno di banco sapeva falsificare bene le firme, perciò a lui bastava presentarsi a scuola un giorno a settimana con il libretto delle giustificazioni, magari facendo finta di stare male per rendere più credibile la bugia, e il gioco era fatto. Se non che, alla fine aveva rischiato di perdere l'anno, e i professori avevano avuto la brillante idea di chiamare a casa, scoprendo in un attimo la verità. Ma nonostante la rabbia di suo padre, le lacrime di sua madre e la delusione degli insegnanti, non aveva mai rivelato a nessuno il vero motivo di tutte quelle assenze.
Erano passati due mesi dall’inizio della seconda media, ma quel breve tempo gli era bastato per far ricominciare lo stesso incubo di prima. Da quando l'anno scorso lo avevano rinchiuso in quello sgabuzzino, i suoi compagni avevano imparato bene quali erano i mezzi migliori per fargli paura. A confronto dell’ansia provocata da quel ricordo, il resto non gli sembrava così spaventoso, neanche le botte che avrebbe preso da suo padre se lo avesse scoperto.
Forse solo sua madre era riuscita ad accorgersi di quanto quel trauma fosse ancora forte. Ogni sera la notava, sotto le palpebre semichiuse, mentre veniva nella sua camera e controllava che la finestra fosse aperta anche solo di poco e che la luce filtrasse da qualche parte. Era una cosa che lui faceva già prima di andare a dormire, ma che spesso suo fratello maggiore non considerava quando rientrava tardi la notte e chiudeva sia la porta che le persiane, lasciando la stanza nel buio totale.
Arrivò nel suo rifugio segreto solo dopo trenta minuti di corsa intensa, alternata a camminate stanche. Con il fiato corto salì i gradini di quell'ultima stradina fino ad arrivare ad un piccolo parco. Era talmente lontano e nascosto che nessuno ci passava mai, tranne di sera qualche adolescente per fumare di nascosto e bere alcolici, come testimoniavano le diverse bottiglie di vetro che ingombravano i cestini. Intorno al parco c'erano pochi alberi rinsecchiti per il freddo, e in lontananza si vedeva tutta la campagna. D'estate era meraviglioso venire lì all'alba e vedere il sole sorgere dietro le colline, illuminando a poco a poco gli ulivi.
Michele si lasciò cadere su una delle panchine, mettendosi la coperta sulle ginocchia. In quel momento non sentiva freddo, perché la corsa lo aveva fatto sudare abbastanza, ma sapeva che quel calore non sarebbe durato più di qualche minuto.
Tirò fuori dallo zaino quaderni e libri, decidendo di dare un'occhiata prima agli esercizi di matematica. Se doveva restare assente da scuola per un po' avrebbe dovuto comunque mantenere alti i voti presentandosi di tanto in tanto per le verifiche, in modo che i suoi genitori non sospettassero niente. E poi, non aveva alcuna intenzione di perdere l'anno solo perché non riusciva a sconfiggere le sue paure. Le ore passarono abbastanza in fretta. A metà mattina ricacciò nello zaino i libri di scuola e tirò fuori il libro che aveva preso a casa.
Aveva sempre amato leggere. Tutte quelle parole gli facevano venire in mente tanti pensieri che gli rendevano più piacevole il viaggio di ritorno verso casa sua, come se al posto delle gambe gli fossero cresciute delle ali di cui solo lui potesse apprezzarne la bellezza.
Al ritorno non correva mai. Preferiva camminare lentamente, gustandosi gli odori che provenivano dalle case intorno, dove tante madri cucinavano il pranzo ai figli che stavano per tornare da scuola. A volte si domandava se in una di quelle case abitasse un ragazzo come lui. Uno che al posto di andare a scuola passava le mattine a leggere in un parco sperduto e poi, al ritorno, mentiva ai suoi genitori, falsificando le giustifiche. La risposta a quel dubbio era sempre la stessa: se anche ci fosse stato, quel ragazzo, lui non l'avrebbe mai conosciuto.
Quando aprì la porta di casa, il profumo della carne gli invase nelle narici e gli fece subito brontolare lo stomaco dalla fame. Trovò sua madre sulla soglia della cucina, in piedi, ma quando notò l'espressione che aveva dipinta in volto, ogni pensiero piacevole svanì dalla sua mente.
Forse non capì subito. Forse capì solo qualche secondo dopo, quando lei scosse la testa, sussurrando qualcosa come: «Michè, cosa m’hai combinato…»
O magari fu la faccia di suo padre, che fece capolino dal salotto poco dopo, a fargli perdere l'ultima speranza di avere mal interpretato quelle parole.
A quel punto avrebbe solo voluto scappare. Poteva farcela, era ancora vicino all'ingresso di casa. Poteva correre, forse avrebbe corso più velocemente di suo padre e si sarebbe potuto nascondere da qualche parte.
 
Ma poteva davvero? E poi cos’avrebbe fatto?
Fu la paura a immobilizzarlo mentre una mano grande lo afferrava, sollevandolo, e l'altra lo schiaffeggiava ripetutamente.
Lo zaino che teneva in mano fu il primo a cadere per terra con un tonfo sordo. Poi cadde il berretto, poi ancora il sangue.
Le orecchie gli fischiavano così forte che non sentì niente, né le grida arrabbiate del padre, né quelle disperate della madre. Tutti i suoi sforzi erano concentrati sui suoi occhi. Non doveva piangere.
Questa volta no.
Ma era successo tutto fin troppo in fretta per prepararsi anche quell'autodifesa. Insieme al sangue, del naso e della bocca iniziarono a cadere le lacrime, spazzate via dai violenti colpi della mano aperta sulle guance.
Quando l'uomo lo lasciò a terra, la testa gli vorticava fortissimo e gli occhi erano diventati così gonfi che a malapena riusciva a vedere.
Sua madre cercò di avvicinarsi a lui, ma l'uomo glielo impedì. Poi Michele sentì un colpo allo stomaco e rotolò sul pavimento, sputando della saliva e annaspando per l'aria che d'un tratto era venuta a mancare.
Era finito per terra, raggomitolato e piangente.
“Ti odio”
Doveva gridarlo, non pensarlo, maledizione!
«Ti odio!»
«Cos’hai detto?»
«TI ODIO!»
Il calcio dopo gli arrivò in faccia. La bocca si riempì di altro sangue. Doveva rialzarsi. Doveva fare qualcosa.
Almeno avrebbe urlato, sì, glielo avrebbe urlato in faccia…
 
 
«Ti odio...»
Si accorse di avere gli occhi umidi solo mentre li riapriva lentamente, realizzando in fretta che quella camera era troppo grande per essere quella dove aveva abitato per vent'anni, e che anche il suo corpo, nonostante non fosse cresciuto molto, non era quello del dodicenne dentro cui si trovava fino a un momento fa.
Altrettanto velocemente si accorse che la cosa che lo aveva svegliato era lo squillo acuto del cellulare sul suo comodino.
Lo prese in mano d'istinto, senza neanche guardare il mittente della chiamata.
«Pronto…?»
«Michele?»
Quella voce familiare non era calma come da sempre era abituato a sentirla. Dietro di essa si sentivano altre voci, meno riconoscibili, ma tutte concitate.
«Arturo?»
«Oh, finalmente! Ma dov’eri sparito? Forza, vieni subito qui!» Michele capì subito che qualcosa non andava. La sua voce era allegra, fin troppo per Arturo, che era sempre stato una persona di un certo contegno.
«Che sta succedendo?»
«L'abbiamo bloccata! La legge! Abbiamo iniziato a votare gli emendamenti del Fronte, la maggioranza è andata sotto, e poi l'hanno ritirata!»
Al microfono riecheggiò la voce di un altro deputato che Michele conosceva bene.
«Miché! Ma che stai facendo? Vieni qui, muoviti, siamo tutti al bar di fronte a festeggiare!»
«Ma… cosa…»
Il giovane deputato rimase immobile. La sua mente iniziò ad afferrare qualcosa.
«Sto arrivando».
Si scaraventò giù dal letto, cercando degli abiti decenti, la sua giacca e le scarpe. Corse fuori di casa in un lampo, senza nemmeno guardarsi allo specchio. Probabilmente aveva un aspetto orribile, ma non era importante.
Il taxi arrivò quasi subito. Durante il viaggio riuscì a notare tutte le notifiche di chiamata e di messaggi concitati a cui non aveva risposto.
 
Scese nella piazza di fronte al palazzo e andò alla ricerca del bar. Non ci volle molto tempo per identificarlo: era affollato di tanti deputati che conosceva, tutti della sua corrente. Entrò dentro al locale, e la prima cosa che gli apparì davanti fu la testa bionda e la camicia sgargiante di Thomas.
«Eccoti qui, finalmente! Ma dov'eri sparito? Vabbè, lascia perdere, prendi da bere!»
Prima che potesse opporsi o dire qualcosa si trovò in mano un bicchiere da prosecco. Dentro il piccolo bar, il brusio delle tante voci era così forte da coprire del tutto la musica di sottofondo.
«Beh, sei riuscito a stupirmi» Arturo comparve dietro di lui, «proprio non mi aspettavo che tu affrontassi Pasqui faccia a faccia. Hai avuto un gran fegato.»
«Ma come…?»
«Delle grandi palle, Arturo! Questa è la definizione migliore!» aggiunse Thomas, più sorridente che mai, «e Michele, non penserai davvero che ciò che fai all’interno dei corridoi sia privato, vero?
L’hanno saputo tutti, portinai compresi!»
Michele sospirò, arrossendo per la vergogna di essere stato così ingenuo da pensare che nessuno lo sapesse.
«Ma… insomma, avete convinto Pasqui?»
«Non abbiamo convinto proprio nessuno!» Thomas gonfiò il petto con orgoglio, «dopo il voto sul primo articolo, abbiamo votato insieme alle opposizioni qualche emendamento. La maggioranza è andata sotto, e fuori i giornalisti stavano iniziando a sbavare per i titoloni. Il nostro Pasqui è una testa dura, ma è anche una testa intelligente. Ha capito che la cosa migliore da fare era evitare il casino, così ha convocato la riunione dei capigruppo per rimandare la discussione della legge a data da destinarsi, quando il polverone si sarà abbassato. E questo è quanto».
Sorrise. Michele, rintontito dalla stanchezza, confuso dal sogno e sconvolto dagli ultimi sviluppi, riuscì solo a fissare il suo compagno con aria sperduta. Non se lo aspettava, soprattutto dopo che Thomas si era mostrato così rassegnato nel combattere quella legge.
In qualche strano modo, avevano vinto la battaglia.
 
E la cosa più sconvolgente era che, stavolta, c’era anche lui dalla parte dei vincitori.
 
 
*
 
 
«Ti prego, dai, raccontala un’altra volta!»
Il capogruppo del Fronte scoppiò di nuovo a ridere, proprio mentre stava inspirando dalla sigaretta, provocandosi un attacco di tosse compulsiva. Era almeno la quinta volta che raccontava la reazione di Pasqui ai suoi colleghi, ma ancora non era riuscito a dirla tutta senza ridere.
«Allora!» si schiarì la voce, «eravamo tutti seduti al tavolo, mancava solo il capogruppo di SD. Ci stanno quelli del NPP che bisbigliano tra loro: “dove diavolo è Pasqui, perché non si muove!”»
I colleghi risero, e Nicolò si gustò la pausa ad effetto.
«Ed eccolo che entra, finalmente! Non guarda in faccia nessuno, sbatte la porta e va a sedersi. Rigido come se avesse una scopa in culo».
Imitò la postura e lo sguardo severo, causando altre risate isteriche.
«Propongo di rimandare la discussione della legge, dice. Chi vota a favore? Quelli della mafioranza alzano tutti la mano, erano già d’accordo prima. A quel punto io alzo un dito. Andreani, lei è a favore? Mi chiede la presidente. No, rispondo, volevo solo oppormi a questa decisione. Questa legge è molto utile per il Paese, non riesco a capire perché dovremmo fermarci a questo punto. Allora Pasqui si gira verso di me…»
Imitò lo sguardo corrucciato del capogruppo di SD e tutti risero a crepapelle, tanto che Nicolò non poté terminare di nuovo il racconto. Non si era mai divertito tanto in tutta la sua vita, considerando che erano giorni che non dormiva. Ma questa era la prima battaglia vinta del suo partito. Non poteva essere più felice di così, e lo sarebbe stato anche senza l’immagine esilarante della faccia di Pasqui.

 
Era ormai notte fonda. I deputati del Fronte erano fuori dal bar a fumare e bere, mentre dentro vi erano alcuni di Sinistra Democratica, quelli che avevano iniziato a votare contro le indicazioni ufficiali del gruppo. L’alcool aveva fatto il suo degno effetto e Nicolò rideva, chiacchierava e fumava, libero da qualsiasi preoccupazione.
«E allora!» salutò un uomo che stava uscendo dal bar, riconoscendolo velocemente dalla statura, «che dici? Ce le avete avute le palle, alla fine!»
L’onorevole Martino sorrise e annuì, rilassato ma imbarazzato. Era completamente avvolto da giaccone e sciarpa, con le mani dentro le tasche e il viso rosso, leggermente alticcio.
Si fermò a scambiare due parole con la cerchia del Fronte, poi chiamò un taxi e restò in silenzio ad aspettare, appoggiato alla parete. Nicolò lo raggiunse, accendendosi una sigaretta vicino a lui.
«Devo ammetterlo, non me l’aspettavo proprio da te» gli disse, solo vagamente cosciente della sua attuale parlata poco sobria, «dì un po’, è vero che sei andato da Pasqui da solo e gliene hai cantate quattro?»
Il giovane deputato abbassò lo sguardo, nascondendo un mezzo sorriso d’orgoglio.
«Sì, ma non è servito a concluderci qualcosa. Ha fatto tutto Thomas».
«Beh, forse ti sbagli» esclamò Nico, «mi sembra che sia stato proprio da quell’episodio a spingere i tuoi compagni a votare contro. Anche se non l’hai convinto sei stato coraggioso, e a volte il coraggio di un singolo uomo può smuovere una massa intera!»
Michele lo fissò stranito, e Nicolò si rese conto che il livello di alcool nel suo cervello aveva già impedito ogni filtro tra la testa e la bocca.
«Beh, immagino che tu questo lo sappia bene» rispose lui, accennando un sorriso.
Nicolò tirò dalla sigaretta, sentendo un moto di orgoglio sproporzionato rispetto al modesto complimento sottinteso. Con due cocktail, tre birre e diversi bicchieri di vino in corpo, gli episodi antichi e recenti della sua vita erano molto più vividi nella sua testa, e riaffioravano in ordine scomposto, tra cui quello ancora vivo del loro incontro sulle scale.
«Senti, mi dispiace davvero tanto per quello schiaffo. Cioè, lo so che mi sono già scusato, ma davvero non sai quanto mi sono sentito una merda. Io credo che una persona il rispetto debba meritarselo, perciò delle volte posso mancare di rispetto se penso che qualcuno non se lo meriti, ma non ho mai fatto del male a nessuno. Cioè…»
Ripensò a tutte le risse della gioventù, accorgendosi che non era del tutto vero.
«Cioè, non ho mai davvero alzato le mani su qualcuno come ho fatto con te, e mi dispiace davvero, perché in fin dei conti, in certe occasioni tipo queste siamo dalla stessa parte. E vista com’è andata oggi potremmo provare ad avere dei rapporti civili e magari collaborare, se c’è occasione. Che ne dici?»
In quel momento, senza un apparente motivo, quella risposta gli sembrava di importanza vitale e fissò l’altro con un autentico speranzoso sguardo di rimorso.
Michele gli allungò la mano destra.
«Perché no?»
Nicolò la strinse energicamente.
Il taxi si portò via il deputato di SD e Nicolò tornò dai suoi compagni, finalmente libero anche da quel peso.

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Capitolo 11
*** Cause perse ***


«Amò, che dici di questa collana?»
Il freddo dell'inverno milanese si faceva sentire anche a quell'ora di pomeriggio, nonostante la giacca di piumino e il maglione di lana.
«Non lo so, Marti, fai tu…»
Erano in giro dalla mattina presto per cercare un regalo per una loro amica. A Nicolò non poteva importare di meno, in mezzo a tutto quel gelo. Fosse stato per lui sarebbe stato a casa a riposare, nell'unico giorno in cui non doveva lavorare. Era stato da poco nominato nel Cda di una compagnia di assicurazioni, non proprio ciò che si poteva definire “un lavoretto rilassante”.
«Uff! Non so proprio! Magari questo colore non sta bene con la pelle chiara…»
Nicolò sospirò impaziente, guardandosi intorno per distrarsi un po', ma non fece in tempo a voltare la testa che si trovò davanti al naso un volantino di color arancione acceso.
Ebbe quasi un sussulto di spavento, non capendo da dove era saltato fuori.
«Salve! Siamo del Fronte per l'Indipendenza, stiamo raccogliendo le firme per un referendum sull'abolizione degli inceneritori nel nostro territor-»
«No, grazie» rispose in automatico Nicolò, senza neanche ascoltare ciò che l'altro gli stava dicendo.
«Lei sa che danno può portare un inceneritore? Sa le malattie che può causare, a chi ha la sfortuna di viverci vicino?»
Nico sbuffò, profondamente irritato. Ma che voleva questo?
«Sì, come vuoi, ma non sarà la mia firma a far cambiare le cose» borbottò distrattamente.
«No, se ci saranno sempre persone troppo pigre per decidere di cambiarle» replicò l'altro.
L'uomo con cui stava discutendo doveva avere più di cinquant’anni: capelli parzialmente scoloriti, postura un po' storta, barba incolta di un colore chiaro e orecchie a sventola.
Gli lanciò un'occhiata fulminante. Odiava quelli che sapevano come farlo sentire in colpa.
«Va bene, se è solo una firma che vuoi te la metto».
“Ci mancavano anche questi” pensò sospirando, mentre si avvicinava al gazebo lì accanto. Notò subito le quattro bandiere identiche appese agli angoli, con un simbolo strano su sfondo rosso, e subito gli tornarono in mente le occupazioni delle scuole fatte in gioventù dove le bandiere rosse sventolavano ovunque, con gli studenti a cui importava però solo di perdere giorni di lezione per fare del sano casino.
«Serve solo un documento» disse l’uomo.
Nicolò tirò fuori la carta d'identità dal portafoglio. Mentre l'altro riportava i suoi dati, si guardò intorno. Sotto al gazebo, oltre a loro due, c’era un ragazzo sui diciott'anni e una donna sui quaranta. “Ma dove vogliono andare questi?” pensò tra sé e sé mentre, svogliatamente, lasciava il suo autografo sul modulo.
«Bene! Con il tuo piccolo gesto forse riusciremo a salvare un po' questo ambiente già ampiamente inquinato» sorrise l'uomo.
«Sì… da quanto esistete? Trent'anni, di più? Non mi sembra che abbiate mai salvato alcunché» gli sfuggì.
La donna e il ragazzo si voltarono per guardarlo storto, ma l'uomo gli sorrise paziente.
«Immagino che tu abbia ragione. Sai, è sempre dura cambiare il mondo quando si è in pochi. Per tua informazione, comunque, il partito ne ha ventisei di anni, appena compiuti» disse, compiaciuto.
«Ci sarà un motivo se siete in pochi. Il mondo non si cambia con le belle paroline» ribatté Nicolò, un po' irritato dal sorriso bonario dell'altro.
«Sono d'accordo con te…» lesse il nome sul modulo «…Nicolò. Il mondo si cambia quando si è in tanti a volerlo fare attivamente, che sia una raccolta di firme o una battaglia sindacale…»
«…ma purtroppo il mondo è fatto di persone troppo pigre per lottare, che si inventano mille scuse, anche per spendere quei due minuti utili a mettere una firma» concluse il ragazzo a fianco, con un sorriso soddisfatto.
 
«Via, Teo! Non è il caso di essere scortesi, sono sicuro che il signore sta già facendo la sua parte per rendere migliore il nostro mondo» lo rimbeccò l’altro.
«A che serve lottare? Avete mai ottenuto qualcosa?» gridò Nicolò, irritato del fatto che parlassero di lui in quel modo, senza nemmeno sapere chi fosse. Lavorava sei giorni su sette e a volte la domenica trovava il tempo di fare volontariato, era una persona onesta, pagava le tasse, cos'altro avrebbe dovuto fare nella sua vita secondo questi buoni a nulla?
«Mmm…» l'uomo si grattò la testa. «In effetti sì. Qualche anno fa, in consiglio comunale abbiamo bloccato l'ordinanza di sgombero dei centri sociali della città».
Nico sgranò gli occhi. Lui, da giovane, li aveva frequentati i centri sociali. Sapeva bene cosa significasse venire sgomberati diverse volte in un mese, probabilmente aveva ancora da qualche parte i segni dei manganelli.
«Beh, non l'avrei mai detto» ammise.
L'uomo sorrise di nuovo. Il ragazzo, invece, gli rivolse un altro sguardo fulminante prima di tornare ad occuparsi dei moduli.
Nico restò incantato a osservarlo. Come mai un ragazzo così giovane si dava tanto da fare? Era quasi impossibile che sarebbero riusciti a tirare su tutte le firme necessarie per quel referendum. Erano veramente in pochi dentro quel partito. Erano sempre stati pochi, evidentemente. E a che serve impegnarsi in qualcosa, se tanto sai già che perderai?
«Beh, devo andare… la mia ragazza mi starà aspettando».
L'uomo gli lasciò immediatamente in mano un pieghevole tra quelli sul tavolo.
«Lì c'è il nostro indirizzo. Quando avrai tempo vieni a farti una chiacchierata. Chissà, potresti imparare qualcosa, o noi potremmo imparare qualcosa da te!»
Poi sorrise, per l'ennesima volta.
«D’accordo» annuì Nicolò.
Non pensava veramente di farlo. Anche volendo, non ne avrebbe avuto il tempo. E poi, lui e i partiti non erano mai andati d'accordo.
 
Non avrebbe mai accettato di farne parte. Lui era un uomo libero, e avrebbe continuato ad esserlo.
«A presto allora. Ah, non mi sono presentato!» L'uomo si alzò in piedi di scatto, tendendogli la mano.
«Sono Giorgio Iannello».
 
 
*
 
 
Nella sala riunioni erano presenti tutti. Non mancava nessuno, nemmeno i deputati più assenteisti. Pasqui e Marchesi si parlavano all'orecchio in un angolo della sala da mezz'ora. La tensione nell'aria saliva di minuto in minuto e tutti la percepivano chiaramente.
«Ci fa un culo stratosferico, ve lo dico io» mormorò Thomas, tenendosi la testa tra le mani, disperato come non mai.
«Piantala di essere drammatico! Non può prendere alcun provvedimento o la stampa capirebbe che il rimando della legge è stato fatto perché c’è una spaccatura interna» sbottò Gianmaria Scano, il deputato più lucido della loro corrente.
Michele capiva benissimo che quell'assemblea non era come le altre. Si era consumata la prima vera rottura dall’inizio della legislatura, con un pezzo di partito che aveva festeggiato per il ritiro di una legge sostenuta dal suo stesso partito.
«Compagne e compagni, prego di prendere posto» esordì Pasqui con tono seccato. Già dal suo sguardo si vedeva bene come quel giorno il suo umore era anche peggiore del solito.
Tutti fecero subito silenzio.
«Bene. Penso che siamo tutti al corrente del perché oggi siamo riuniti, ma nel caso a qualcuno fosse sfuggito ho qui pronto un breve riassunto» il capogruppo sogghignò in modo inquietante, «un gruppo di persone di questo partito, contrariamente alle indicazioni dello stesso, ha votato alcuni emendamenti che hanno cercato di bloccare la legge. Tutti sappiamo quanto era importante l'approvazione di quella legge per la stabilità del governo e del rapporto con i nostri alleati…»
La sala trattenne il fiato mentre Pasqui si interrompeva per bere un sorso d'acqua. Thomas e Arturo si guardarono di sfuggita. Marchesi fissava il capogruppo, con un’espressione completamente rilassata.
«…e tutti sappiamo quanto è importante l'unità del nostro partito, tanto importante da essere uno dei punti cardine del nostro statuto. Proprio per questo motivo siamo stati costretti a salvare la faccia con la stampa, anche se due giornali hanno ventilato dubbi sull’opportunità della nostra scelta di rimandare la legge».
Iniziò a leggere gli articoli dei giornali. Michele prese qualche appunto sulla sua agenda, evitando di guardare Pasqui per paura di incrociare lo sguardo. Il capogruppo finì in fretta la lettura e buttò i fogli sul banco alla rinfusa, interrompendo quel flusso di parole per fare una risata inquietante.
«Come potremmo definirla, se non una grandiosa figura di merda?» Subito l'intera platea si allarmò. Non si era mai visto Pasqui parlare con quel tono. Tirò fuori un foglio tra quelli che aveva sul tavolo.
«Qui c'è l'elenco delle persone che dobbiamo ringraziare per questa bella figura. Li prego cortesemente, se hanno abbastanza coraggio, di alzarsi tutti in piedi».
Nessuno si mosse di un millimetro mentre Pasqui scorreva velocemente i cognomi in ordine alfabetico. Comparì quello di Arturo, quello di Thomas e quello di Gianmaria. Il cognome di Michele non figurava tra i presenti, perché effettivamente era stato assente nel momento del voto, ma per il giovane non fece molta differenza. Si sentiva pienamente dalla loro parte.
Passò gli occhi su ciascuno dei nominati, leggendo la preoccupazione e la diffidenza sui volti. Si sarebbero davvero alzati in piedi? Era un'umiliazione atroce, anche senza le telecamere.
Riuscì, con la coda dell'occhio, a notare Thomas che guardava fisso verso il basso, con una mano tremante dalla rabbia.
«Avanti, alzatevi. Fatevi un po' vedere» sfidò Pasqui.
A fianco, Marchesi sorrideva divertito e Goffredo guardava fisso tra la folla, mentre gli altri si cercavano discretamente con gli occhi.
Thomas fu il primo a fare un movimento, e Michele intuì in fretta cosa stava per fare. Gli afferrò il braccio d’istinto, impedendogli di alzarsi.
«No» disse solo, con un tono normale, ma abbastanza forte da farsi sentire in mezzo al silenzio assoluto.
Tutti quanti si voltarono verso di lui. Il giovane sentì numerose paia di occhi su di sé e il suo cuore accelerò. Non aveva previsto di
trovarsi così all’improvviso al centro dell’attenzione.
«Vuole dire qualcosa, onorevole Martino?» disse Pasqui con un tono più simile allo scherno che alla domanda.
«Sì» rispose Michele.
Il cuore gli stava praticamente esplodendo mentre si alzò in piedi, tenendo le mani sul banco come se fosse bastato quello come appiglio per dargli la forza di fare ciò che non aveva mai né fatto, né pensato di fare in tutta la sua vita.
«Volevo solo dire che questa gogna pubblica è fuori luogo, e soprattutto contraria allo spirito del nostro statuto».
La sua voce riecheggiò per le pareti mentre si risedeva piano, rosso in viso e tremante per la rabbia e l’imbarazzo. Non avrebbe accettato una tale umiliazione sui suoi compagni, soprattutto da parte di uno come Pasqui. Alcuni della corrente di Marchesi mormorarono delle cattiverie. Ad un certo punto uscì fuori a chiara voce anche un “sta zitto”, ma Michele non riuscì ad individuarne la provenienza tra quegli sguardi sprezzanti e sfuggenti.
Il capogruppo lo fissò con odio, ma non fece in tempo a rispondere perché qualcuno intervenne prima.
«Posso dire due parole?»
Marchesi non aspettò risposta e si alzò, allungando l'asticella del microfono. Tutti quanti si guardarono negli occhi, chiedendosi cosa volesse dire il segretario, che di solito non interveniva mai nelle riunioni di gruppo.
«Compagni e compagne. Sono circa venti anni che faccio militanza politica. In tutti questi anni, come voi, ho vissuto il fascismo, lo squadrismo, la violenza, l'intimidazione, il gioco sporco. E finalmente, oggi, in questa nuova legislatura, riesco finalmente ad avere la speranza di vedere approvare le nostre leggi scritte nella Carta Antifascista, che tutti quanti abbiamo sottoscritto insieme e che sono le fondamenta per ripristinare l'ordine e la giustizia nel nostro Paese».
Partì un applauso, sostenuto da tutta l’ala maggioritaria.
«Ci mancava un po' di retorica sull'antifascismo» borbottò Thomas a bassa voce.
«Come tutti noi sappiamo, siamo dovuti giungere a molti compromessi per portare avanti questo grande progetto. Non siamo disponibili, perciò, a tollerare altri attacchi come quello che drammaticamente abbiamo vissuto con quel voto in aula».
Marchesi non stava parlando con la solita finta serietà da cerimonia. Questa volta nella sua voce c'era una forza e una convinzione tale da far mancare il fiato a tutta la platea.
«Chi non era d'accordo con questo progetto avrebbe potuto andarsene a tempo debito quando insieme, al congresso, abbiamo deciso questa linea. Ora non accetteremo freni a ciò per cui duramente abbiamo combattuto. La prossima volta verrà applicata la procedura di sospensione per chi trasgredisce alle decisioni del partito, come prevede il nostro statuto. Ma so bene che non ce ne sarà bisogno, perché tutti noi abbiamo lo stesso grande obiettivo che ci unisce nella lotta».
La sala si ammutolì di colpo dopo quel breve discorso. Poi tutti applaudirono, tranne gli oppositori e pochi altri.
La riunione finì, e la maggioranza dei deputati uscì con addosso il ghigno beffardo di chi stava dalla parte del più forte.
 
 
*
 
 
«Non hai un po' esagerato?»
Pasqui si sistemò come al solito sopra la scrivania, mettendo in ordine i fogli e le penne che Riccardo teneva sempre sparsi in giro.
«Il primo a esagerare sei stato tu. Non c'era affatto bisogno di scatenare un processo pubblico contro chi ci ha fatto fare... »
«...una figura di merda?» concluse il capogruppo «e invece sinceramente sì, ne avevo proprio bisogno. Dopo quello che mi è toccato inventarmi con i giornalisti!»
«Come se ti fosse difficile inventare le cose!» scherzò Marchesi. Il capogruppo lo fulminò con lo sguardo.
«Se permetti la regola della sospensione da te proposta è peggio di ciò che stavo facendo io».
«Ah, sì?» rise Marchesi, «e dire che persino il ragazzino ti ha fatto notare che i tuoi metodi erano troppo da...» si bloccò, meditando un attimo, «troppo forti».
«Da fascisti?» lo incoraggiò Pasqui, non senza una punta di stizza nella voce, «stavi per dire da fascisti?»
«Sai cosa intendo» rispose Marchesi.
Il capogruppo sbatté una mano aperta contro il piano del tavolo.
«Non ti do il permesso di pensare una cosa del genere!»
Pasqui stava tremando per la rabbia, con uno sguardo infuocato. Nessuno poteva dargli del fascista, non dopo quello che avevano passato. Soprattutto Marchesi, colui che ne sapeva più di tutti gli altri.
«Pensi che Francesco lo penserebbe o no, se fosse qui? Avanti, rispondi!» lo sfidò il segretario con il suo sguardo lampeggiante, mettendosi come poteva all'altezza dei suoi occhi.
«Non nominare Francesco» mormorò Pasqui.
«E perché, Marcè? Io non avrei il diritto di nominarlo?» Marchesi si avvicinò, minaccioso. Avrebbe volentieri alzato le mani in quel momento, anche se davanti aveva il suo più caro amico.
Si guardarono intensamente, ma non riuscirono a reggere per troppo tempo il contatto visivo. Ciascuno sapeva perfettamente cosa l’altro pensasse.
«Non è il momento. Abbiamo da lavorare» il segretario si ricompose, tornando alla scrivania, i pensieri risucchiati dagli occhi scuri, inespressivi.
«Vado a parlare con la stampa».
Il capogruppo uscì, senza rivolgere neanche uno sguardo all’amico.

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Capitolo 12
*** Convergenze ***


Alle otto di sera, Nicolò poteva dirsi soddisfatto. Era riuscito a sentire i compagni di Milano per organizzare una grande manifestazione per la legalità ed era anche riuscito a studiare la legge che sarebbe stata messa in discussione il giorno dopo.
«Almeno potremo finalmente iniziare a discutere le famose leggi antifasciste» commentò al suo vice, spegnendo il PC e stiracchiandosi lungo la sedia.
«Già, finalmente. Mi chiedo se i popolari si vendicheranno del giochetto sulla legge finanziamento ripagandoli con la stessa moneta» ribatté Chiarelli, allungando i piedi sulla scrivania.
A Nicolò piaceva il palazzo la sera tardi, dove i pochi presenti andavano e venivano dal bar a gruppetti e non c'era il solito viavai di persone, tra deputati, collaboratori e stampa.
Uscì a fumare come suo solito e poi passò alla buvette per un amaro prima di prendere la via di casa.
Notò Martino poco distante, che stava prendendo un caffè insieme a Greco e a Costa. Tutti avevano una faccia da funerale.
«Che dici?» si avvicinò, «si dice in giro che Pasqui vi abbia strigliato per bene!»
Martino alzò gli occhi, a indicare che in quel momento non era il suo argomento preferito di conversazione.
«Sì, non è stato proprio comprensivo, diciamo così».
«Ehi!» esclamò Nico, «dico, avete contribuito a bloccare una legge sbagliata. Lasciate abbaiare il cane e andate avanti, tanto per ora non può fare niente».
Arturo Costa lo squadrò con sufficienza, mentre Greco lo ignorò del tutto. Michele Martino, invece, alzò le spalle.
«Scusate, onorevoli, avreste un minuto?»
Nico si voltò. Dietro di loro erano comparsi due giovani, uno vestito con pantaloni a scacchi e maglietta arcobaleno e un altro con dei jeans in pelle e una macchina fotografica di quelle professionali penzolante al collo.
 
«Siamo inviati di una rivista LGBT, la Pride Press. Stiamo cercando sostegno alla nostra lotta per riconoscere finalmente il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso. Voi come vi dichiarate rispetto a questa proposta?»
Si guardarono, e Martino fece un cenno impercettibile per indicargli che poteva rispondere prima lui.
Nonostante la domanda improvvisa, Nicolò non impiegò troppo tempo a imbastire una risposta convincente.
«Beh, sono ovviamente d’accordo. Quando si parla di estendere diritti non c’è motivo di opporsi, soprattutto se le motivazioni contrarie sono legate a tradizionalismi religiosi».
Sorrise e i ragazzi annuirono, spostando il microfono verso Martino, mentre Costa e Greco si erano prontamente allontanati.
«Concordo con l’onorevole Andreani, non vi è motivo di negare l’estensione di un diritto, e certamente anche il nostro partito è progressista dal punto di vista delle libertà».
«Bene!» esultò uno dei due, «sono molto contento di queste vostre dichiarazioni. Vorremmo, se possibile, chiedervi anche una foto. Ne abbiamo raccolte tante, ma qui in Parlamento ancora nessuno ha accettato di farla».
«E perché?» chiese subito Nico.
I due ragazzi si scambiarono un sorriso d’intesa.
«Perché stiamo chiedendo la foto di un bacio. Fa parte della nostra campagna “We Love Rights”, che vuole dimostrare che l’amore non è mai schifoso o scandaloso!»
Nico accigliò lo sguardo. Era comprensibile che cercassero una foto del genere in Parlamento: avere dei parlamentari a sostegno di quella causa poteva dare un bello slancio alla campagna. E lui, di sicuro, non si sarebbe mai tirato indietro davanti ad una lotta sociale che riteneva giusta. Non da quando era entrato a far parte del Fronte, uscendo dalla sua area di cinica indifferenza.
«Beh, per me non c’è problema!»
Martino era diventato rosso in viso, evidentemente poco avvezzo a quel tipo di richieste. Stava cercando con gli occhi i suoi colleghi per chiedere supporto, ma si erano spostati più avanti a chiacchierare con altri del gruppo di SD.
«Dai, è solo una foto. Non può essere peggio che cantarle in faccia al vostro capogruppo, no?» lo invitò Nicolò.
«Va bene» acconsentì Martino, evidentemente impossibilitato a dire di no davanti all’entusiasmo dei due ragazzi.
Si sporse in avanti di poco, e Nico colmò la distanza velocemente, arrivando a toccare con la sua la bocca dell’altro. Restarono in quella posizione con le bocche serrate per pochi secondi, il tempo di sentire gli scatti della macchina.
«Grazie mille ragazzi!» disse il ragazzo con la maglietta arcobaleno, visibilmente entusiasta, «ce ne ricorderemo nel seggio!»
«Sono proprio forti, chissà se ce la faranno» commentò distrattamente Nicolò, cercando di rimuovere il leggero imbarazzo per ciò che aveva appena fatto. Come al solito aveva agito senza pensarci due volte, e solo ora stava realizzando che quella era la prima volta che baciava un uomo. Non che gli fosse mai particolarmente importato, ma era una di quelle cose che non avrebbe mai pensato di fare nella vita, prima di farla per davvero.
«Io credo di sì, ormai la società dovrebbe essere abbastanza evoluta per questo».
Anche Martino stava evidentemente cercando di celare l’imbarazzo, guardandosi attorno per controllare che nessuno li stesse fissando.
«Beh, in ogni caso vedo che abbiamo iniziato bene a collaborare dall’altra sera!» sdrammatizzò Nico.
 
 
*
 
 
La mattina dopo, Michele non fece in tempo a finire il consueto tè alla vaniglia che vide Pasqui precipitarsi al bar e sbattergli addosso un giornale.
«Mi spieghi che significa?»
Michele guardò solo il titolo e la foto di copertina. Non c'era bisogno di cercare altro per capire cosa intendesse Pasqui.
 
Sì AI MATRIMONI GAY: FPI E SD UNITI PER #WELOVERIGHTS
 
Michele studiò la sua immagine stampata, un po' meno pallida di com’era realmente. I capelli gli coprivano gli occhi e la cravatta era un po' storta, ma la maggior parte del volto era comunque sovrastato dalla faccia di Andreani, che anche da quel semplice istante impresso su carta sembrava a suo agio e in qualche modo padrone dell’imprevista situazione.
Il giovane cadde dalle nuvole. Non sapeva se essere più scosso dalla presenza di quella foto in prima pagina su un quotidiano o dalla reazione inviperita del suo capogruppo.
«Erano venuti due ragazzi di un'associazione a chiederci una foto e un parere del tutto personale sull’argomento. Non immaginavo che sarebbe finita sul giornale».
Appena finito di pronunciare la frase, Michele si rese subito conto di quanto, ancora una volta, era stato completamente ingenuo. Era abbastanza ovvio che qualsiasi opinione personale era facilmente intesa dai media come opinione politica espressa a nome del partito, e non era nemmeno difficile immaginare che una foto come quella poteva interessare ad altri giornali, oltre che a quella rivista.
Pasqui alzò gli occhi, furente, lasciando intendere quanto gli scocciasse dover spiegare ciò che a lui risultava ovvio.
«Primo, non è consono avallare una tale richiesta fotografica, anche fosse stato per una giusta causa. Secondo, la linea si decide collegialmente, e mai è stata espressa un’opinione favorevole del partito rispetto al tema dei matrimoni omosessuali. Mi sembrava che quella riunione fosse stata abbastanza chiara riguardo la disciplina, ma mi rendo conto che qua qualcuno è un po’ duro di orecchi».
Michele strinse i denti, ben sapendo che stavolta non aveva possibilità di controbattere. Si era un po’ fatto trascinare nel fare quella foto, non volendo dare l’immagine del bigotto di sinistra.
 
«Ho capito… proverò a rimediare, farò un comunicato stampa» buttò lì, poco convinto.
«Lascia perdere» troncò il capogruppo, «non fare niente, è meglio». Se ne andò, lasciando il giornale steso sul bancone, come per evidenziare ancora di più il suo gravissimo, imperdonabile errore.
 
 
*
 
 
Quella mattina, Nicolò fece molta fatica a scegliere il giornale da comprare in edicola. Su tutte le prime pagine, alcune più in grande, altre più in piccolo, era stampata la foto di un suo primo piano con gli occhi chiusi e la bocca appoggiata a quella di un altro uomo.
Decise di acquistare il Corriere, perché era quello con la foto più grande. Si lesse l'articolo con calma nel suo ufficio, con un sorriso enorme di soddisfazione sulle labbra, fino a che una decina di suoi parlamentari fecero irruzione dalla porta.
«Nicolò, sei qui?»
La voce era quella di Chiarelli, che entrò in fretta e furia insieme agli altri, accerchiandolo attorno al tavolo.
«Che succede? Vi vedo agitati» osservò lui, fingendo uno dei suoi sorrisi innocenti.
«Ma non li hai visti i giornali? Che diavolo significa?»
Chiarelli era rossissimo in viso mentre sventolava davanti a Nicolò un mazzo di prime pagine, tutte più o meno simili.
«Significa che ho portato una delle nostre battaglie all'attenzione di tutti. Non dico che mi aspetto degli applausi, ma potresti anche non aggredirmi così» ribadì, offeso.
«E quella foto?» urlò il vicecapogruppo.
«Non capisco il tuo problema».
«Nico, porca puttana!» imprecò Chiarelli, «ti sei già dimenticato che noi siamo all'opposizione? Questa foto per i giornali vuol dire inciucio, e noi ora dovremo spiegarlo ai nostri elettori!»
«Ma sei rincoglionito?» Nico scattò in piedi, facendo sussultare tutti quanti, «così potremo fare pressione su SD per l’approvazione di una legge in merito, no? Ci arrivi a vedere al di là del tuo naso? O la questione è che sei anche tu, sotto sotto, un democristiano del cazzo?»
Detto questo uscì dall'ufficio, trascinandosi dietro tutti i fascicoli su cui doveva lavorare. Sentì Chiarelli ribattere da lontano, ma non lo ascoltò minimamente. La rabbia che provava rendendosi conto di avere per la prima volta i suoi colleghi contro, accompagnò i suoi passi nervosi fino all’ufficio di Martino.
«Avanti» sentì gridare.
Nico entrò senza farsi troppi scrupoli e riuscì a notare un mal celato sorriso imbarazzato comparire sul volto pallido dell'altro.
«A quanto pare siamo al centro del dibattito nazionale!» esultò, tirando fuori tutto l’entusiasmo finora trattenuto per aver raggiunto la visibilità sulla stampa.
«Ho notato» rispose lui, con un tono molto più freddo.
La sua scrivania era ordinatissima: mucchi di carte disposti in fascicoli colorati ed etichettati, qualche foto incorniciata e i libri perfettamente impilati.
«Beh, qual è il problema?» disse Nicolò intendendo arrivare dritto al punto, non sopportando quel velo sottinteso di non detto.
«Che non avrei dovuto farlo» rispose lui, «nel mio partito, come penso anche nel tuo, le posizioni si decidono collegialmente. Non avrei dovuto esprimere la mia senza quest’accortezza, per quanto io la ritenga giusta».
Non lo stava guardando negli occhi, e Nicolò riconobbe subito il solito tono dettato dal “dovere di partito”. Lo stesso dell’intervista televisiva, lo stesso di quando avevano litigato sulle scale.
«Okay» annuì, i muscoli tremanti per quanto si stava trattenendo dal dire ciò che realmente pensava, «bene, non è stato corretto».
Fece per andarsene, con l’intenzione di sfogare il nervosismo in sigarette, ma Martino parlò di nuovo.
«Io sono d’accordo con te. Sul merito dei diritti la penso esattamente come te. Se fossi solo io a decidere staremmo già scrivendo la legge. Ma non è così, e più di combattere all’interno non posso fare».
 
Nicolò sentì l’umiliazione dell’altro dentro quell’ammissione, e immediatamente la sua rabbia si calmò.
«Ascoltami. Lo so che è stato un atto di leggerezza, e né io né te ci abbiamo pensato tanto. Anche i miei colleghi mi hanno rimproverato, lo ammetto. Ma quando si è in politica gli errori non si subiscono, si prendono al balzo. Quindi, ora la cosa più saggia che possiamo fare è cavalcare l’onda, e non rimangiarci tutto. Dici che vorresti scrivere la legge? Siamo deputati della Repubblica, possiamo farlo. Non la discuteranno? Problemi loro. Ma noi intanto avremmo portato avanti una battaglia».
L’altro non rispose, evitando i suoi occhi per fissare il legno della scrivania.
«Ho capito» sospirò Nicolò, «lascerò che ci pensi. Mi rendo conto che per te è difficile decidere qualcosa spontaneamente».
E uscì dalla stanza, più irritato di prima. Si rese conto subito dopo di aver esagerato, e una stretta di rimorso lo attanagliò mentre raggiungeva il cortile, scansando i tentativi di conversazione dei colleghi.
 
 
Stringeva tra i guanti di lana quel volantino con l'indirizzo, con il gelo invernale che aveva completamente avvolto le strade di Milano. Il palazzo dove era arrivato era enorme, ma la sezione del Fronte per l'Indipendenza non copriva nemmeno un piano intero. Fece le scale a piedi fino al quinto piano e poi bussò nervosamente alla porta con sopra quello strano simbolo che aveva visto sulle bandiere.
Non sapeva nemmeno che ci facesse lì, ma quella mattina si era svegliato con quel pensiero fisso. Erano passate due settimane da quella firma, e in realtà si era completamente e volutamente dimenticato della faccenda. Se non che, proprio quella mattina, era riemerso quel famoso volantino da una tasca della giacca costringendolo, durante la doccia mattutina, a ripensare al dialogo avuto con quelle persone.
Lo avevano colpito, anche se faceva fatica ad ammetterlo a se stesso.
Non era mai stato davvero coinvolto con la politica. Certo, a scuola partecipava attivamente ai collettivi, ma poi era cresciuto. Ora aveva un lavoro importante, conviveva da qualche mese e si stava lentamente costruendo una vita tranquilla e normale. Ma per qualche ignota ragione, sentiva comunque di dover fare un tentativo con quella gente.
“Faremo solo due chiacchiere e finirà lì, così mi metterò il cuore in pace e dimostrerò una volta per tutte di essere diverso da loro”, pensò mentre bussava.
La porta si spalancò e la faccia paffuta di Giorgio Iannello, l'uomo che gli aveva fatto firmare quel modulo, gli comparve davanti, con uno dei suoi soliti affabili sorrisi a trentadue denti.
«Ah! Tu devi essere quello al gazebo… Nicolò?»
Come facesse a ricordarsi il suo nome era un vero e proprio mistero. La sorpresa di Iannello di ritrovarselo davanti era evidente, neanche lui pensava che sarebbe mai venuto.
«Sì. Ero di passaggio e sono salito per… beh, fare due chiacchiere».
«Ma certo, entra!»
Nico si guardò intorno. Lo spazio era piccolo, c’erano una libreria, una stufetta elettrica, delle sedie e dei tavoli sparsi. In un angolo c'era una scrivania con un PC e una stampante, al quale stava lavorando lo stesso giovane che aveva visto quella volta al gazebo. Si sedettero uno di fronte all'altro, vicino alla stufetta accesa. Nico cercò con tutte le sue forze di concentrarsi su quell'uomo, ma una forza estranea lo spingeva a sbirciare il ragazzo seduto al PC il quale, tra l’altro, non l'aveva nemmeno salutato.
«Allora, hai deciso che vuoi unirti a chi cerca di cambiare il mondo?» chiese euforico Iannello.
«No… cioè, insomma, non lo so…» Non aveva veramente una risposta.
«Beh, sei qui, no? Hai firmato contro gli inceneritori, o sbaglio? Perché non ci aiuti a raccogliere quelle firme? Non ci conosciamo, però da come parli sembri un uomo molto in gamba».
«Beh…»
Era abbastanza difficile dare una risposta dura ai modi gentili di quell’uomo.
«Insomma, in realtà credo sia inutile. Nel senso, lo so, è giusto provarci. Però la realtà oggettiva dei fatti è che è impossibile. Non so quanti siate voi in tutto, ma so come finiscono queste battaglie…» Vide Giorgio rabbuiarsi un attimo. Il ragazzo al computer smise per qualche secondo di battere sulla tastiera. Poi riprese subito, ma sbattendo le dita sui tasti con una forza maggiore.
«Sì, Nicolò» Giorgio sorrise, di nuovo, «hai ragione tu, è probabile che non ce la faremo, la maggior parte delle nostre battaglie è finita in un nulla di fatto, anche se qualche risultato lo abbiamo portato a casa».
Nico tenne gli occhi fissi sui suoi, dispiaciuto per ciò che gli aveva appena detto. L'ultima cosa che avrebbe voluto era distruggere i sogni e le speranze di qualcuno. Ma aveva imparato durante anni di lavoro che non ha senso scommettere sull'impossibile. Chi osa farlo perde solo tempo, a dispetto di tutte le frasi fatte.
Fu a quel punto che il ragazzo seduto al PC si voltò verso di lui.
«Chi non lotta ha già perso. Se oggi il mio ambiente è inquinato è solo perché sono pochi quelli come il compagno Giorgio che si alzano e combattono. Molti di più sono quelli che, al posto di farlo, accampano scuse!»
Quelle frasi gli arrivarono dritte in faccia come uno schiaffo. Non seppe come rispondere. Non era abituato a trattare con gente che ancora viveva nel mondo delle idee, persa in cose impossibili da realizzare. Ma quel discorso era riuscito a rompere un muro. Poteva davvero accettare l'idea di non stare facendo abbastanza per il mondo in cui viveva? Non ne era così sicuro, e il fatto che glielo stesse dicendo un ragazzo così giovane riuscì a ferirlo nella coscienza.
Forse per abitudine, forse per desiderio di realizzarsi, stava diventando una di quelle persone che lui stesso, da giovane, aveva odiato.
«Teo!» lo rimbeccò Giorgio «dai, abbiamo un ospite qui, sii gentile».
«Dico quello che penso» ribatté lui, «è facile lamentarsi delle cose se poi non si fa niente per cambiarle!»
«Perdonalo» disse Giorgio, «è fatto così, ha molta rabbia dentro. Vuoi una tazza di tè?»
Senza aspettare risposta accese un fornello da campeggio sopra la stufa e vi sistemò sopra un po' d'acqua in un padellino.
Per un attimo Nico si sentì in colpa. Era venuto lì solo per chiarirsi un po’ le idee e ora si stava facendo offrire del tè da quelle persone alle quali non aveva dato niente, se non uno scarabocchio su un foglio di carta e tante inutili giustificazione.
«Beh, la raccolta firme a che punto è?» chiese, giusto per rompere il silenzio.
«Non bene ad essere sinceri» sorrise Giorgio, questa volta con un po' di amarezza, «dobbiamo arrivare a cinquecentomila in due mesi, siamo sì e no a un decimo».
Nicolò si rivide nella mente la scena di settimana scorsa, con quegli uomini sotto al gazebo in mezzo al gelo, a cercare di convincere tutti i passanti a lasciare una firma. La loro tenacia aveva un che di commovente.
Passò circa un’ora e mezza a chiacchierare, scoprendo che Giorgio lavorava in un'industria tessile come operaio specializzato e aveva una figlia molto piccola, che purtroppo non riusciva spesso a vedere. Faceva politica da molti anni e ad un certo punto aveva anche pensato di smettere, ma quando sua moglie era rimasta incinta aveva capito che non avrebbe avuto il coraggio di dire ad un suo futuro figlio che suo padre si era arreso solo perché nessuno era più interessato ad ascoltare dei pazzi illusi di poter cambiare il mondo.
«Sai, a mia figlia dico sempre: tuo padre sta combattendo per te. Lei non lo capisce perché ha solo due anni, ma poi mi sorride e mi manda sempre baci, come se volesse augurarmi buona fortuna».
Nico aveva ascoltato in silenzio per la maggior parte del tempo. Più ascoltava, più tutta la sua vita al confronto gli sembrava stupida. Lui aveva un ottimo lavoro, tanti soldi, poteva viaggiare e fare ciò che voleva, eppure spesso bastava un piccolo scazzo al lavoro per farlo diventare scontroso e irritabile. Giorgio non aveva quasi niente, se non dei sogni e una bambina che gli regalava affetto, eppure sorrideva sempre, come se non desiderasse altro dalla vita.
«Se io dovessi convincere la gente, al posto che andare in centro dove le persone vengono fermate ad ogni metro, andrei più nelle periferie. Molto spesso basta dire alla gente chiaramente cosa si pensa per scuotere le coscienze» disse Nicolò.
Il ragazzo si voltò con la sedia, improvvisamente incuriosito.
«Può essere un'idea, ma bisogna poi essere capaci di convincerle, quelle persone» mormorò sconsolato Giorgio.
«Neanche convincere è così difficile, ci sono dei modi. Potrei tentare» propose Nico.
Tutti e due lo fissarono, increduli.
«È solo un tentativo» si affrettò ad aggiungere Nico, «me la cavo abbastanza a parlare, lo faccio di lavoro. Poi non avrò il tempo per impegnarmi davvero, ma un solo sabato non mi cambierà la vita. Sempre se volete».
Era il giusto compromesso. Per un giorno avrebbe dato il suo contributo e poi sarebbe tornato quello di sempre, ma con la coscienza un po’ più tranquilla.
«Sicuro!» esultò Giorgio, «allora ci vediamo sabato prossimo! Ti sono davvero grato».
Nicolò non riuscì a non sorridere di rimando, vedendo quella gioia immensa dipinta sul volto dell'uomo. Anche il ragazzo tolse ogni traccia dello sguardo gelido che aveva avuto fino a quel momento, stringendogli la mano.
Quando uscì da quel palazzo, il suo cuore era un po' più leggero del solito. Ma su una cosa aveva completamente sbagliato le sue previsioni, perché sarebbe bastato quel sabato, una settimana dopo, a cambiargli la vita.

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Capitolo 13
*** Quella piccola luce ***


L'insegna con la falce e martello gli creò non poca tensione mentre, incerto, si avvicinava a piccoli passi alla sede di quello che sapeva essere il circolo territoriale del partito che, solo qualche giorno fa, aveva organizzato la manifestazione degli studenti a Cutro, la prima alla quale avesse partecipato. Nonostante avesse il cappuccio tirato su fino agli occhi, dentro i vestiti era fradicio. Il vento gli aveva distrutto l'ennesimo ombrello, e ora vagava per le strade del suo paese cercando riparo di tettoia in tettoia.
Non sapeva cosa fare. Voleva entrare lì dentro, certo, ma poi? Come si sarebbe presentato?
La politica lo affascinava. Quella manifestazione gli aveva aperto un mondo del quale era troppo curioso di saperne di più, ma non era stato solo quel motivo a spingerlo lì, quel giorno. In realtà gli serviva solo un posto tranquillo dove studiare, perché non poteva tornare a casa. Non oggi, perché suo padre era ancora arrabbiato con lui per essere andato a quella manifestazione, saltando un giorno di scuola. E sapeva bene che cosa significasse tornare a casa quando suo padre era arrabbiato. Non poteva scappare di casa per davvero, perché avrebbe solo peggiorato la situazione, ma il solo fatto di rimandare quell'inevitabile punizione gli bastava a dargli un briciolo di respiro. Aveva imparato a non pensarci, a ritagliarsi dei momenti solo suoi in cui nessuno potesse fargli del male.
Dentro la sezione del partito era accesa la luce e delle voci concitate si alternavano tra loro, rimbombando anche nel cortile esterno.
Michele fece un profondo respiro, poi si decise a bussare.
Un uomo venne ad aprire la porta. Aveva la testa rasata e una barba scura che gli copriva buona parte del volto.
«Chi sei?»
La voce non era scontrosa, ma Michele sentì comunque un groppo alla gola. Si morse il labbro e abbassò gli occhi, fissando le sue scarpe bianche inzuppate di pioggia.
«Mi chiamo Michele» iniziò, cercando inutilmente di mantenere un tono di voce superiore al sussurro, «ero alla manifestazione di venerdì. Mi chiedevo se…»
Un altro uomo un po' grassoccio si avvicinò alla porta, a fianco del primo, squadrando Michele da capo a piedi.
«Chi abbiamo qui? Ma sei tutto inzuppato, che fai lì fuori? Vieni dentro, su!»
Senza farselo ripetere due volte, Michele entrò nel locale, chiudendosi la pesante porta alle spalle. Il calore della stanza gli penetrò piacevolmente fin dentro i vestiti, arrossandogli il viso e le mani. La sala non era grandissima: c'era un tavolo con davanti qualche fila di sedie, un angolino con una scrivania e vari ripiani colmi di fogli sparsi e di giornali. Alcuni uomini, la maggior parte con i capelli bianchi, avevano disposto le sedie in cerchio, e lì seduti continuavano a chiacchierare tra loro, senza badare al nuovo ragazzo che aveva varcato la soglia.
Michele si concentrò sui due uomini che gli avevano aperto, incerto su cosa dire.
«Ecco… mi chiedevo se potevo restare qui, oggi. Solo fino a sera. È che a casa non riesco a concentrarmi, vorrei solo studiare. Non darò fastidio».
L’uomo grassottello rispose per primo, sorridendogli.
«Non preoccuparti ragazzo! Puoi metterti su quella scrivania. Come ti chiami?»
«Michele Martino» rispose, iniziando a togliersi di dosso tutti gli strati di vestiti fradici.
Al sentire quel nome, i due uomini si lanciarono un'occhiata d'intesa, che poi subito dissimularono.
«Martino? Sei il figlio di Nello Martino?» chiese l'uomo con la barba. Li fissò titubante. Come facevano a sapere chi era suo padre? Era venuto fino a lì proprio per stargli lontano e dopo solo due minuti era ricomparsa la sua ombra.
«Sì. Lo conoscete?»
Nessuno dei due rispose. Si mandarono sguardi incerti a vicenda, alternandoli ad occhiate fugaci alla piccola figura magra e inzuppata di Michele.
«Ci si conosce tutti, in paese. Ma sta' tranquillo, ragazzo! Vai a studiare, puoi stare quanto vuoi».
Michele appoggiò lo zaino fradicio, sollevato dall’accoglienza ricevuta.
Le ore passarono veloci lì dentro. Ogni tanto si distraeva dallo studio per ascoltare le conversazioni degli altri perché, sebbene non ne capisse molto, c'era qualcosa nel loro tono di voce che gli piaceva inspiegabilmente.
«Tieni, o avrai un calo di zuccheri a furia di stare sui libri!»
Quando alzò gli occhi e notò l'ora sull'enorme orologio a cucù rosso fuoco, si accorse di quanto era volato il tempo. Davanti a lui, l'uomo grassoccio gli stava porgendo del latte caldo in un bicchiere di plastica.
«Grazie, ma devo davvero scappare. Si è fatto tardi».
«Tieni, tieni!» insistette lui, mollandogli il bicchiere in mano,
«comunque quando vuoi puoi venire pure a studiare, ci fa piacere che qualcuno passi di qui, oltre a questi vecchi bacucchi!»
«Davvero posso?» chiese Michele, stupito. La notizia di aver trovato un posto al riparo da suo padre e dai suoi compagni di scuola gli sembrava troppo bella per essere vera.
«Ma certo!» sorrise l'uomo, «d’altra parte, se davvero sei venuto a manifestare venerdì, significa che questa è casa tua».
Gli allungò la mano, e quella piccola del ragazzo scomparì nella sua. Non poteva immaginare che quella sarebbe stata solo la prima di altre innumerevoli strette di mano con Antonio, il segretario territoriale di quel partito che, da lì a poco, gli avrebbe stravolto la vita.
 

Il suo cellulare era sul tavolo della cucina, ma dall’altra parte rispetto al posto che Michele stava occupando.
Doveva assolutamente resistere alla tentazione di chiamare Thomas o Arturo. Perché quella sarebbe stata la soluzione più semplice: raccontare tutto a loro e chiedere un parere rispetto all’idea di Andreani. Che poi, a dirla tutta, era stata sua l’idea: aveva lanciato quel sasso durante la loro ultima conversazione, non prevedendo che l’altro lo avrebbe raccolto al volo, mostrando sia entrambe le mani che la solita faccia tosta di chi può fare qualsiasi cosa senza rispondere a nessuno, se non ai propri ideali.
D’altra parte, l’errore era stato suo. Aveva lasciato intendere al capogruppo del Fronte di essere aperto rispetto alle sue posizioni politiche e quell’uomo lo aveva preso in parola, mettendolo in mezzo alle sue strambe iniziative. Così era successo con quella dannata foto, che non avrebbe potuto rifiutare in nessun caso, perché che figura ci avrebbe fatto con i ragazzi dell’associazione? E con che coraggio avrebbe sostenuto una posizione opposta a quella che pensava, rispetto al tema dei matrimoni gay?
Ormai la bomba era stata lanciata, e da quel punto di vista aveva ragione Andreani: era meglio cavalcarla che tirarsi indietro. Solo che in quel caso sarebbe servito tanto coraggio, e lui ne aveva una quantità scarsa, confinata dentro tutte le paure dietro ogni possibile scelta. Passò due ore a rimuginare su ogni evenienza, bevendo una quantità spropositata di tisana, e quando fu quasi mezzanotte si decise.
Andò in camera sua, trovando dopo un po’ l’agenda con i contatti dei principali esponenti di ciascun partito, sommersa da emendamenti e testi di leggi. Aveva il numero, e anche se l’ora era tarda non poteva rimandare, non ora che aveva trovato il giusto compromesso da proporre.
Dopo tre squilli, una voce rispose.
«Pronto?»
«Sono Michele Martino».
Il cuore gli batteva a mille. Sapeva che avrebbe dovuto dosare bene le parole con quell’uomo, e questo lo agitava.
«Buonasera» la voce non aveva traccia della minima sonnolenza, nonostante l’ora tarda.
«Sì, ecco» si sedette sul letto, con le braccia che tremavano, «ho pensato meglio a quello che mi hai detto, e credo che la legge potremmo scriverla».
 
Con il tono della voce fece finta di non avere altro da aggiungere, lasciando all’altro la soddisfazione per quella che si prospettava essere un’altra bomba da lanciare nel dibattito pubblico.
«Oh» Andreani rimase per un attimo senza parole, lasciando intendere quanto non si aspettasse quel risvolto, «sono contento che tu ti sia convinto. Beh, come vogliamo fare?»
«Però» si affrettò ad aggiungere Michele, rendendosi conto che l’altro stava già iniziando a viaggiare verso l’atto pratico, «la
condizione è che fin quando il testo non sarà pronto, questa cosa non sarà resa pubblica. Nemmeno all’interno dei rispettivi partiti».
Andreani restò un attimo in silenzio, ma Michele riuscì ad avvertire ugualmente il suo solito sorriso beffardo e divertito.
«Non vuoi avere cazzi con lo spilungone psicopatico, eh?»
«E un’altra cosa» intervenne di nuovo, rincuorato che tutto stesse procedendo liscio, «la legge sarà calendarizzata dopo la discussione delle leggi antifasciste».
«Lontana dal dibattito?» Andreani sembrò dubbioso, «okay, senti, tutto quello che vuoi, ma la vogliamo scrivere o no? Quando iniziamo?»
«Da domani per me si può fare».
«Perfetto, allora domani inizieremo. Ci vediamo dopo la seduta nel mio ufficio e facciamo un piano di lavoro».
Michele avvertì subito che la decisione ferrea dell’altro era anche per mettere alla prova la sua e capire se si sarebbe tirato indietro. Ma ormai il passo era fatto, le condizioni erano stabilite, non c’erano più scuse per non farlo.
«Okay per me. A domani».
 
 
*
 
 
Undici di sera passate.
La seduta era finita solo da un'ora, e Nicolò aveva avuto giusto il tempo di mangiare e fumarsi una sigaretta prima di dover tornare in ufficio ad aspettare Michele Martino.
Sulla scrivania c'erano già i vari fascicoli prodotti dai suoi collaboratori che sarebbero serviti per conoscere le leggi vigenti e i precedenti dibattiti sul tema. Quella sarebbe stata la prima legge che avrebbe scritto e intendeva farla al meglio. E soprattutto l’avrebbe portata fino all’approvazione, perché era la sua di battaglia.
Aveva accettato le condizioni di Martino, quindi non avrebbe provocato il dibattito mediatico per il momento, ma fantasticava già su come prendersi le prime pagine in futuro.
«Posso?» chiese una voce conosciuta da dietro la porta.
«Avanti, entra».
Michele entrò furtivamente nella stanza, richiudendo piano la porta con eccessiva attenzione. Era evidentemente agitato. Nicolò gli indicò la sedia davanti al pc acceso, e lui vi sedette.
«Questa settimana avremo sedute in aula da mattina a sera per la legge del tuo gruppo, più le riunioni di commissione. Se dovremo lavorare seriamente, quindi, sarà sempre a quest'ora» comunicò Nicolò con un sospiro rassegnato. Neanche lui era entusiasta di lavorare così tardi, ma non c'era altra scelta. Era stato lui a fare pressioni perché iniziassero subito, e certamente non sarebbe stato il primo a tirarsi indietro.
Michele annuì, senza scomporsi.
Iniziarono passando in rassegna tutta la documentazione, sottolineando con due evidenziatori diversi. Il silenzio, interrotto solo da occasionali frasi brevi, li accompagnò fin quando entrambi decisero che per quella sera poteva bastare.
Quando uscirono sul corridoio principale, il palazzo era deserto. I pochi commessi della Camera che incontrarono durante il cammino verso l'uscita li salutarono quasi affettuosamente, non abituati a vedere dei parlamentari lavorare a quell'ora di notte.
«Continuiamo domani allora?» chiese Nicolò, scrutando l’altro alla ricerca di ogni possibile sfumatura di indecisione.
«Sì» Martino restituì lo sguardo, quasi sfidandolo a ribattere. Nessuno dei due mostrò la minima esitazione ed entrambi tornarono a casa, ciascuno con i suoi pensieri.
 
 
*
 
 
Non fu per niente facile svegliarsi presto quella mattina.
Passò le ore in aula a prendere appunti per tenere sveglia la mente. Sui banchi del Fronte, Andreani appariva nervoso. Usciva molto spesso a fumare, e quando restava seduto raramente sembrava attento alla discussione.
Quella era la prima discussione in assoluto su una legge presente nella Carta Antifascista, il documento presentato da SD dopo che si furono spenti gli anni del terrore, in cui aveva perso la vita anche un ragazzo di Bologna, Francesco Venturi. Schierati in prima fila, il capogruppo e il segretario del partito avevano gli occhi puntati su chi parlava, prendevano vari appunti e si consultavano con la massima concentrazione. Era un momento solenne. Non un solo deputato di Sinistra Democratica si era permesso di assentarsi. La seduta fu tolta solo alle dieci di sera, e il giovane ebbe giusto il tempo di cenare con un panino veloce prima di salire all'ufficio di Andreani.
Fu piuttosto consolatorio trovare il capogruppo più stanco di quanto avesse previsto. Nessuno dei due avrebbe retto quel ritmo per una settimana intera ma, se anche Andreani si fosse stancato, sarebbe stato più facile decidere una tregua di comune accordo.
Michele non poteva permettersi di chiedergliela per primo, non voleva dargli l'idea di non voler veramente fare la legge. Era una questione di orgoglio, non poteva sopportare di essere considerato come un semplice soldatino di partito. Non era questo che voleva essere.
«Buonasera» salutò educatamente, prendendo posto sulla stessa sedia del giorno prima.
L'ufficio di Andreani era molto più disordinato del suo. Ovunque spuntavano post-it colorati e fogli sparsi, ma sembrava che per il deputato milanese non fosse un problema lavorare in mezzo a quel macello.
«Buonasera» rispose lui, battendo velocemente delle righe al PC
«arrivo subito, sto finendo una lettera che devo mandare come capogruppo».
Michele si ricordò solo in quel momento del ruolo di Andreani. Sapeva bene che un capogruppo aveva molto più lavoro di un normale deputato. Solo un essere sovrumano avrebbe potuto fare tutti quei compiti, sopportare sedute interminabili e nel frattempo scrivere anche un disegno di legge. La sua fronte abbronzata era un po' sudata e rifletteva la luce delle lampadine. Il colletto della camicia era fuori posto, e un accenno di occhiaie iniziava a spuntare sul volto contratto dalla stanchezza.
«Eccomi. Dove eravamo rimasti?»
In due ore e mezza riuscirono a mettere giù l'ossatura del testo. Scrivere una legge si rivelò non essere per niente un lavoro facile, come a Michele era sempre sembrato dall'esterno. Sapeva che molti deputati lasciavano la stesura ai collaboratori della Camera, ma Andreani mandava solo le bozze da correggere durante il giorno, lasciando per loro due il lavoro più faticoso di scrittura.
Il capogruppo del Fronte uscì per fumare, facendo ritorno con due tazze di tisana.
«Credo proprio che possiamo staccare» annunciò allegramente il capogruppo del Fronte, «con questo ritmo non ci vorrà molto, una settimana, massimo due».
Michele sorseggiò il liquido ambrato che subito gli diede un piacevole brivido di calore. L'idea di dover abbandonare l'ufficio accogliente per tuffarsi nel freddo di una notte di dicembre non lo entusiasmava, ma almeno ora riusciva ad intravedere il suo letto, che in quei giorni era l'unico luogo rimasto dove la sua mente non doveva per forza stare attenta a qualcosa di vitale come leggi, riunioni e discussioni.
Uscirono fuori insieme poco dopo, allungandosi la mano a vicenda per salutarsi come il giorno prima.
«A domani».
«A domani».
«Ehi, Martino!»
Michele si stava già voltando per andarsene, ma si rigirò di scatto non appena sentì il suo nome. Teneva le mani in tasca e tremava in modo ridicolo per il freddo che gli penetrava nelle caviglie e nelle maniche della giacca. Non vi era abituato, nel suo paese non faceva mai così freddo, nemmeno d'inverno.
«Mi dispiace che siamo costretti a lavorare a quest'ora, dopo queste giornate faticose. Però sono molto contento di ciò che stiamo facendo».
Gli occhi di Michele si illuminarono, riconoscenti per l’incoraggiamento sotteso.
«Anche io lo sono. Buonanotte!» rispose.
Salì su un taxi, tornando a mimetizzarsi nel gelo della notte.
 
 
Le giornate si susseguirono monotone e logoranti.
Si alzava all’alba, con la consueta compagnia di un rovente mal di testa, causato dalla totale mancanza di sonno. Lo stress accumulato a volte gli impediva di dormire, e anche quando ci riusciva era per un lasso di tempo troppo breve per essere riposante.
Poi incontrava al bar Arturo e Thomas. Il biondo ogni giorno gli faceva puntualmente notare le occhiaie mal celate, ricevendo in cambio solo uno dei suoi soliti sguardi distaccati. Arturo invece non gli parlava più di tanto, e Michele aveva il sospetto che, fosse venuto a conoscenza di ciò che stava facendo, ma non aveva né la voglia, né il coraggio di affrontarlo.
Alle otto entrava in aula e non vi usciva per le dieci ore seguenti, se non per esattamente cinque pause caffè, le quali non potevano durare più di dieci minuti, e due pause pranzo di massimo quarantacinque minuti. Gli orari li scandiva Pasqui, pretendendo che tutti fossero puntuali in aula alla ripresa, minacciando chiunque vedesse attardarsi in cortile. Dopo aver terminato la seduta, confuso per tutte quelle ore passate ad ascoltare, Michele correva a mangiare qualcosa e alle undici si presentava puntuale a bussare all'ufficio di Nicolò Andreani. Il lavoro sulla legge, nonostante tutto quello stress, andava avanti speditamente. Ciascuno dei due scriveva un articolo e, una volta finito, se li scambiavano per correggerseli a vicenda. I battibecchi erano la norma, dovuti per la maggior parte all'esasperante intransigenza di Andreani.
«Non possiamo comprendere anche l'emancipazione minorile. Questa parte va tolta per intero» sospirò stancamente per l'ennesima volta Michele, cancellando con un tasto tutto il paragrafo che l'altro aveva appena scritto.
«Ehi!» protestò Andreani, «e per quale motivo? Se per legge saresti maturo per sposarti con il consenso dei genitori, lo sei per farlo anche con chi è del tuo stesso sesso, o no?»
L'altro alzò gli occhi al cielo. Era almeno la centesima volta che ci discuteva, ma ogni volta la testa di legno di quell'uomo si induriva di più.
«Io sono d'accordo con te, ma ti ricordo che per fare passare la legge non bastano due voti. Saranno tanti quelli a dire che a sedici anni non puoi avere chiaro il tuo orientamento sessuale, non credi?»
«Che si fottano ‘sti democristiani!» replicò Andreani come al solito, cadendo di peso sullo schienale della poltrona. Non protestò però quando Michele salvò il documento senza la parte scritta da lui. Era già venerdì, e se solo due giorni prima il capogruppo del Fronte era capace di fare storie di un'ora per una virgola fuori posto, adesso si vedeva che anche lui era a pezzi e che desiderava solo finire quanto prima quella legge.
La mezzanotte scattò sull'orologio di Andreani, segnalando che era ora della pausa.
«Vado a fumare» avvisò, prendendo il cappotto dall'attaccapanni.
«Va bene, io intanto continuo».
«Sei sicuro? Fermati un attimo, tanto siamo già a buon punto».
«No, vado avanti. Non sono stanco» insistette Michele. Dopo una settimana passata a lavorare a tempo pieno, ormai la stanchezza faceva parte di lui, tanto che gli pareva di non sentirla praticamente più.
La sua mano continuò a volare sulla tastiera del pc per qualche minuto. Gli occhi nocciola, con le occhiaie ormai fisse di contorno, scorrevano il testo alla velocità della luce, fino a che la vibrazione del cellulare non lo costrinse a fermarsi.
Un messaggio da parte di Marchesi.
 
Michele,
quello che stai facendo con Andreani non è stato concordato, e può portare a gravissime conseguenze d’immagine per il nostro partito. Devo suggerirti di fermarti ora.
Rm
 
 
*
 
 
«Un caffè macchiato e uno lungo, giusto?»
Ormai il barista aveva imparato a memoria ciò che il capogruppo del Fronte gli ordinava tutte le sere. Nicolò annuì con un sorriso.
«Fammeli carichi, o il mio collega mi si addormenta sulla sedia» scherzò.
Dopo aver fumato si sentiva già meglio. Quella era stata la settimana più intensa di quei suoi primi mesi da parlamentare, ma finalmente era finita, e quella notte avrebbe potuto farsi una dormita come si deve. Stava arrivando il weekend, e non vedeva l’ora di uscire a correre per la Caffarella e sentire i compagni di Milano, informandosi su come stavano andando le attività nel nord, da cui non aveva notizie da un po'.
Quando tornò nel suo ufficio, notò subito che Martino stava davvero lavorando ancora. Non si aspettava così tanta determinazione da lui, e ogni volta che la notava si sentiva soddisfatto di essere riuscito a coinvolgerlo in quel modo. Si sarebbe aspettato che da un giorno all'altro mollasse, trovando qualche scusa, invece si era piacevolmente sbagliato.
«Ecco il caffè. Fermati un minuto, Schumacher!»
Martino cancellò le ultime due frasi che aveva scritto, e poi si fermò, stiracchiandosi con le braccia. Nico notò solo in quel momento che, da quando era uscito, il suo collega era andato avanti solo di una riga, tra l'altro piena di parole sottolineate in rosso dal correttore di Word.
«Qualcosa non va?» gli chiese con tutta la discrezione di cui era capace, porgendogli la tazzina direttamente tra le mani.
«No, niente».
Martino lasciò scivolare la tazzina tra le dita, che lasciò cadere il caffè sui fogli sparsi. Doveva essere eccessivamente stanco, era il quinto giorno che lavoravano senza pausa.
«Se preferisci ci fermiamo qui per oggi. Lunedì riprenderemo con calma, così saremo entrambi più freschi e lavoreremo meglio» propose Nicolò.
Il giovane scosse impercettibilmente la testa. Era pallido, ma in quei giorni il biancore del viso non era una novità per nessuno dei due.
«No, andiamo avanti».
Nico non osò ribattere. Nei minuti successivi, però, si rese conto che Michele non stava procedendo di un solo millimetro. Scriveva poche frasi e le cancellava il momento dopo con un rumore secco della tastiera. Nicolò riuscì a finire di scrivere un intero paragrafo, mentre il suo collega tornava per l'ennesima volta al punto di partenza, eliminando due righe con un'imprecazione appena sussurrata.
Il capogruppo del Fronte gli arrivò accanto e spense il suo PC con un colpo secco sul tasto di accensione, lasciando l'altro attonito, con le mani ancora sui tasti e gli occhi mezzi chiusi.
«Per oggi basta, d'accordo? Adesso andiamo a farci una tisana e poi a nanna. Dai, che ormai siamo agli sgoccioli!»
Non ricevette risposta a quel moto di incoraggiamento. Il giovane lo seguì come un'ombra fino al bancone del bar, e non disse nulla mentre lui ordinava le tisane. Da vicino Nicolò vedeva ancora più chiaramente quanto fosse a pezzi, con gli occhi ridotti a due fessure e il consueto tremolio della mano.
«Ti senti bene?» gli chiese cautamente, senza smettere di scrutarlo.
«Non lo so...» il giovane fece roteare gli occhi, evitando il suo sguardo, «credo di essere stanco».
Nicolò allungò una mano per toccargli la fronte, notandola particolarmente lucida, e per un attimo non cadde dallo sgabello.
Sembrava stesse per andare a fuoco.
«Senti, ti accompagno io a casa. Avrei dovuto accorgermene prima che non stavi bene» decise immediatamente Nicolò, offrendogli la mano per alzarsi.
Un tarlo che fino a quel momento si era dimenticato di avere fece di nuovo la sua comparsa all’altezza dello stomaco. Sapeva che cos’era, e non voleva affrontarlo di nuovo. Ingoiò saliva, pensando in fretta a come risolvere quella situazione.
Uscì dalla porta principale, reggendo il suo collega per la mano, e chiamò un taxi al volo, non curandosi nemmeno di stare lasciando la sua fidata moto nel parcheggio.
 
 
*
 
 
Il messaggio di Marchesi ancora gli rimbalzava nella mente mentre si immergeva nella notte nera e gelida della città. Era un freddo strano, quello. Quel tipo di quel freddo che ti entra nella pelle, ti penetra come un ago e più tremi, più sembra scavare in profondità.
Una mano familiare lo stava guidando da qualche parte, ma lui non riuscì a sentirsi al sicuro nemmeno quando salì sul retro di un taxi bianco. Avrebbe dovuto essere caldo quell'abitacolo, ma per qualche motivo sentiva che il calore fuggiva da lui, anzi, si rifiutava proprio di entrargli nel corpo.
«Non mi sento bene…»
«Calmati, stiamo andando al pronto soccorso».
Una scossa alle spalle lo riportò violentemente alla realtà di quei sedili in pelle sui quali, in qualche modo, era finito sdraiato sopra. Sentì una giacca conosciuta posarsi sul suo corpo, e quando inspirò quell’odore familiare chiuse gli occhi, arrendendosi alla stanchezza.

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Capitolo 14
*** Gratitudine ***


«Che stai facendo?»
Erano le tre di mattina, e il capogruppo di Sinistra Democratica non sarebbe mai entrato a quell'ora a palazzo Montecitorio se non fosse stato sicuro di trovare dentro un certo ufficio il suo segretario di partito, sveglio e vigile come solo lui poteva essere a quell'ora.
«Niente di che» rispose Marchesi seduto sulla sua poltrona, intento a guardare fuori dalla finestra con aria assorta.
«Allora potresti anche pensare di andare a casa a dormire» ribatté Pasqui tranquillamente.
«Sto meglio qui dentro».
«Mi avevi fatto una promessa, Ric» il capogruppo si accomodò sopra la scrivania, a pochi centimetri di distanza dall’amico e collega, studiandone lo sguardo e tutti i significati che esso portava dentro,
«in tutti questi anni, non c’è stata una volta in cui l’hai rispettata. Non so cosa tu abbia nel cervello».
In quel momento l'unica cosa razionale che avrebbe potuto fare Marcello Pasqui era andare a casa e dormire, dopo quell'eterna e faticosa settimana in cui avevano raggiunto il primo grande traguardo per il loro partito: la prima discussione di una legge scritta sulla Carta Antifascista. Invece, Pasqui si alzò per versarsi con estrema calma un bicchiere di vino dalla bottiglia sulla mensola, come se ormai non avesse altra scelta che stare lì, come se fosse solo una tranquilla nottata come le altre.
Non poteva arrabbiarsi, né urlargli addosso, né andarsene sbattendo la porta. Forse, se non avessero vissuto ciò che avevano vissuto, avrebbe agito in quel modo, ma la loro vita aveva preso una piega diversa, e allora poteva solo stargli vicino.
Le parole di entrambi finirono lì, perché solo loro due sapevano capirsi anche quando non dicevano niente.
Restarono da soli in quella stanza fino al mattino dopo, aspettando in religioso silenzio la tranquillizzante normalità di un nuovo giorno che arrivava.
 
 
*
 
 
«Ma ti sembra il caso? Ma dove ce l'hai la testa?»
Il casino che Nicolò aveva fatto per entrare in casa aveva svegliato Giorgio, nonostante l'ora. Non aveva potuto evitarlo: aveva dovuto sostenere Michele con un braccio, aprire la porta e metterlo sul letto, causando un gran fracasso perché sbatteva inevitabilmente contro tutti i mobili.
«Te lo ripeto un'altra volta, così anche una testa vuota come la tua lo capisce. Ha la febbre a quaranta, l'ho provata poco fa. Sul taxi stava praticamente delirando, e al pronto soccorso hanno avuto il coraggio di darmi il codice verde. Potrò chiamare un medico solo domani mattina, dove cazzo avrei dovuto mollarlo secondo te? Per strada?» Erano le tre di notte, e avrebbe tanto voluto picchiare Giorgio in quel momento, perché quell'uomo doveva sempre dargli torto nei momenti meno opportuni.
Giorgio chiuse il frigo, sbattendo l'anta con un colpo secco.
«Arrangiati. Domani mattina io parto comunque, perché non mi perdo il compleanno di mia figlia solo perché tu ti crei sempre problemi. Ho cercato di avvisarti lunedì di evitare di lavorare su questa legge proprio questa settimana, ed ecco il risultato. Sai una cosa? Quando ti ho conosciuto sembravi quasi un uomo responsabile, e adesso ti comporti come uno stupido adolescente!»
Nicolò preferì non rispondere e lasciò cadere la questione, tornandosene in camera sua.
Era colpa sua, aveva ragione Giorgio, anche se non l'avrebbe mai ammesso. E lui, per l'ennesima volta, non sapeva come rimediare.
 
 
Michele Martino era raggomitolato sotto le coperte. Respirava regolarmente, ma in modo così calmo e silenzioso che, ad un primo sguardo, Nicolò ebbe quasi paura che non lo stesse facendo.
Gli toccò la fronte di nuovo, con l'inutile speranza che fosse meno calda di prima, ma così non fu.
«Cazzo!»
Imprecò a bassa voce per non svegliarlo, anche se era improbabile che accadesse, dato che dormiva profondamente da quando erano arrivati a casa. Appoggiò un fazzoletto bagnato sulla sua fronte. Non sarebbe servito a molto, ma non c'era tanto altro che potesse fare in quel momento.
Era stato uno stupido. Anche avendolo sotto gli occhi tutto il tempo, non si era mai curato del suo stato di salute. Probabilmente Michele non aveva mai avuto il coraggio di chiedergli una pausa per il patto che si erano fatti la prima sera, impegnandosi entrambi a continuare il lavoro a ritmo serrato. Non era possibile che gli fosse salita tutta quella febbre in una sola sera, doveva averla già da qualche giorno.
Il capogruppo si svestì lentamente, mentre un nuovo senso di colpa più angosciante gli stava facendo salire una rabbia incontenibile contro se stesso. Era molto difficile ignorarlo in quel momento, con una persona sofferente, vittima anche della sua negligenza, distesa nel suo letto.
Abbandonò la camicia appallottolata su una sedia in un angolo della stanza, restando con addosso solo la canottiera, e si infilò sotto le coperte. Gli bastò fissare il soffitto per qualche minuto per capire che non sarebbe stata la notte lunga e riposante che si era prefissato solo poche ore fa. Nicolò non riuscì a fare a meno di allungare una mano verso l’altro, incontrando delle guance rosse, lisce e bollenti.
Non era necessario essere un medico per capire che quel livello di febbre era pericoloso. La speranza di addormentarsi e di svegliarsi l'indomani vedendolo il suo collega stare meglio veniva sconfitta nella sua mente dal terrore di chiudere gli occhi e di trovarsi a fianco un uomo che, al contrario, non si sarebbe alzato da quel letto così facilmente.
Forse aveva ragione Giorgio. Era rimasto un ragazzino, uno di quelli che agiscono senza preoccuparsi delle conseguenze, e questo era il risultato della sua sfida al lavoro estremo, dovuto alla scarsità di fiducia che ancora nutriva nei suoi confronti.
«Scusami».
Michele non avrebbe sentito sicuramente quella parola, addormentato com'era, ma per Nicolò era importante dirla. Era importante pronunciarla ad alta voce, per far sì che diventasse reale e che non rimanesse solo un suo pensiero evanescente.
Chiuse gli occhi, lasciando che la stanchezza piano piano vincesse sulla paura, trascinandolo dritto dentro ad un consolante oblio.
 
 
*
 
 
Il risveglio, la mattina dopo, fu veramente insolito.
Forse fu il fazzoletto che gli bagnava la fronte, forse l'odore delle lenzuola che non assomigliava per nulla a quello di casa sua, forse le finestre serrate da cui filtrava solo il sottilissimo alone della luce di un lampione, o forse fu tutto insieme, in un singolo istante, a suggerirgli che non si trovava nella sua camera.
Con la memoria tornò ai suoi ultimi ricordi. Si visualizzò mentre usciva dal palazzo, con un freddo tremendo nelle ossa, desiderando solo di andare a casa il più in fretta possibile. Era salito su un taxi… e poi il buio. Mosse un braccio alla ricerca del suo cellulare, ma non era sul comodino a fianco, e non avrebbe avuto la forza di alzarsi per andare a cercarlo altrove. Subito dopo sobbalzò, perché un'altra presenza nel letto si era mossa di scatto.
«Mmh…»
Andreani aprì lentamente gli occhi, poi li richiuse, infine li spalancò. Non appena lo vide sveglio, si mise seduto di scatto, toccandogli la fronte senza troppe cerimonie.
«Ehi! Come ti senti?»
Solo in quel momento Michele capì di trovarsi nella stanza di Andreani.
«Non molto bene… mi fa male la testa. Ma che è successo?» mormorò confusamente.
«Aspetta, prendo il termometro».
Michele si infilò l’oggetto sotto la camicia, notando alla luce
l’aspetto completamente disfatto del suo collega, con grandi borse sotto gli occhi verdi.
«Ho la febbre?» indovinò, impassibile nel tono di voce. Erano giorni che sospettava di averla.
La risposta gliela diede subito il termometro: trentanove e otto. Andreani glielo strappò praticamente di mano, fissandolo per diversi secondi in silenzio.
«Ti prendo una tachipirina. Alle sette arriverà il dottore, ho insistito che venisse il prima possibile. Mi hanno passato il contatto dei miei colleghi, è uno che segue diversi parlamentari. Non ti devi preoccupare».
Lo sentì muoversi freneticamente nel corridoio e udì il rumore di scatole che venivano spostate e rovesciate del loro contenuto con varie imprecazioni, fino a che Andreani tornò da lui con la scatola di tachipirine e un bicchiere d'acqua.
«Grazie… ma perché mi trovo qui?» chiese Michele, ancora confuso. Per un attimo gli sembrò che Nicolò non volesse rispondergli. Era strano vederlo in quel modo, seduto sul letto con aria sconfitta e inquietantemente insicura.
«Non mi sono fidato a riportarti a casa tua, stavi molto male. Ho cercato di portarti al pronto soccorso stanotte, però... Insomma, c’era molto da aspettare, e non sapevo cosa fare».
«Non c’era bisogno che ti preoccupassi tanto. Tra qualche giorno mi passerà» rispose Michele tranquillo. Era abbastanza abituato alla febbre.
«Ma che dici? Hai la febbre altissima! Mi sto prendendo le mie responsabilità, è anche mia la colpa, oltre che tua, perché avresti dovuto dirmelo invece di fare come se niente fosse».
Aveva alzato la voce, ma non sembrava arrabbiato con Michele, piuttosto con se stesso. Aveva la stessa rabbia convinta di quando sferrava un attacco politico in aula.
Andreani abbassò lo sguardo, come per cercare di ricomporsi.
«Comunque non importa, adesso devi riposare. Ti sveglierò io quando arriverà il dottore, per qualsiasi cosa basta che mi chiami». E uscì dalla stanza, lasciando la porta accostata.
 
 
*
 
 
Se infine riuscì a riaddormentarsi sul divano del salotto, dormì veramente poco.
La paura, da qualche ora, aveva deciso di diventare la sua migliore amica per quella notte. Si alzò diverse volte per girare per il corridoio, spiando di sottecchi per controllare che Martino dormisse. Quando si furono fatte le sei e mezza, si alzò definitivamente per fare il caffè. Lo avrebbe dovuto svegliare in qualche modo prima che arrivasse il dottore, e forse era il caso di dargli un pigiama.
Proprio in quel momento, Giorgio si presentò in cucina. Nicolò si avvicinò alla finestra per fumare, così da dargli completamente le spalle.
«Senti» l’amico ruppe il silenzio, «deve stare a letto e mangiare cose liquide e calde. Dagli della frutta magari, e tieni sempre aperta la finestra in camera».
Nico annuì senza voltarsi.
«Grazie».
Finì la sigaretta e tornò in camera. Il suo collega dormiva profondamente, con il respiro quasi non si sentiva. Lo scosse leggermente, sperando che bastasse per svegliarlo. Non voleva toccarlo troppo, solo avvertire il calore sulla mano lo inquietava. Martino aprì gli occhi, si girò nel letto, li richiuse, li riaprì, e infine si stiracchiò. Nel frattempo, Nicolò aveva già preso un pigiama dall'armadio.
«Mettiti questo».
Michele si tolse la camicia bianca, ormai sgualcita e umida di sudore, scoprendo il petto rosso per il calore. Nicolò gliela prese dalle mani, indugiando con lo sguardo sulla sua pelle. C'erano impresse sopra delle tracce anomale, dal colore un po' diverso dal rosso febbrile: segni neri e cicatrici violacee, sbiadite ma ancora visibili.
«Che cos’è?» chiese istintivamente, indicando uno dei segni più evidenti.
Michele chinò lo sguardo sul suo petto, come se non capisse il riferimento.
«Niente di importante» rispose frettolosamente.
Fu costretto ad arrotolare le maniche del pigiama, per quanto gli stava largo. Nicolò aspettò che si mettesse anche i pantaloni, poi gli lasciò in mano una tazza di camomilla.
«Tra poco arriverà il dottore. Come ti senti?»
«Abbastanza bene».
Nicolò sospirò, capendo bene che non era esattamente la verità. Il campanello suonò e il capogruppo del Fronte si precipitò ad aprire la porta, conducendo il dottore fino alla stanza.
Dopo un quarto d'ora, il dottore uscì dalla camera.
«Allora?» chiese Nico, impaziente di avere qualche rassicurazione.
«Dai sintomi non sembra esserci infezione, a parer mio è stress, aggiunto a qualche colpo di freddo. Le dia il paracetamolo due volte al giorno, non di più. Per il resto, basta che riposi».
«E in quanto si riprenderà?»
«Tra qualche giorno scenderà la febbre, ma è necessario che stia a riposo per almeno una settimana».
«Capisco. La ringrazio davvero» Nicolò si lasciò andare ad un sospiro di sollievo, felice che almeno la situazione non fosse grave.
«Se insorgono problemi, non esiti a chiamarmi immediatamente. Buona giornata».
Nicolò tornò nella stanza, trovando Michele già riaddormentato. Accese il PC sulla scrivania. Tanto valeva portarsi avanti con il lavoro, visto che di andare a correre o riposare non se ne sarebbe parlato per quel giorno.
 
 
*
 
Si risvegliò lentamente, mentre un ticchettio costante sui tasti faceva di sottofondo ai suoi sogni confusi. Si era ritrovato disteso in diagonale, con le gambe da una parte del letto e la testa sul cuscino opposto. Si raggomitolò istintivamente nelle coperte, più stanco di prima.
«Sei sveglio?» gli chiese Andreani.
L’uomo era seduto e vigile sulla scrivania, mentre batteva velocemente un documento al PC. Si era fermato un attimo da quell'attività solo per rivolgergli un insolito sguardo apprensivo.
«Ti ho svegliato io? Scusami, ho pensato che nel frattempo potevo finire di scrivere la legge».
«La legge? Pensavo la finissimo insieme…» rispose, ancora piuttosto intontito dalla stanchezza e dalla luce del giorno.
«Viste le tue condizioni, credo che tu abbia finito di lavorare per un po'» gli sorrise Andreani tagliando corto.
«Cosa?»
«D’accordo, d’accordo» sospirò il capogruppo, «allora, prima ti faccio qualcosa di leggero da mangiare, poi ti leggo la parte che ho scritto e se c'è qualcosa che non ti convince mi fermi e correggiamo. Va bene?»
Michele annuì. Non sentiva molta fame, ma qualcosa doveva ben buttare giù.
Andreani uscì dalla camera e ritornò poco dopo con una scodella di minestra.
«Stai lì» minacciò subito, quando notò il suo mezzo intento di alzarsi dal letto.
«D'accordo…» acconsentì il giovane, completamente imbarazzato di esser costretto a mangiare su un letto estraneo.
In due ore, Michele si sforzò il più possibile di mangiare e di ascoltare, chiedendosi come fosse possibile che Andreani continuasse a lavorare e non fosse stanco neanche un po', dopo la settimana che avevano appena trascorso. Lo bloccò solo tre volte per correggere ma, più andava avanti a leggere, meno Michele riusciva ad ascoltare, tanto che chiuse gli occhi numerose volte prima di arrendersi di nuovo al sonno.
 
 
*
 
 
Il debole sole del tramonto filtrava tra le tende. Nicolò si rialzò di scatto, realizzando solo in quel momento di essersi addormentato sulla scrivania, con la testa tra le braccia. Le immagini offuscate di un probabile sogno in cui era tornato con la fantasia al suo lavoro precedente si dissiparono lentamente, e immediatamente si girò per controllare lo stato del suo collega.
Nicolò sussultò. Non c'era, il letto era disfatto.
Confuso, uscì velocemente dalla stanza, ma bastò annusare l'aria e udire lo sfrigolio delle pentole per capire che, dal momento che Giorgio era partito, la seconda presenza in casa sua poteva essere solo quella del giovane calabrese.
«Martino? Ma che fai in piedi?»
Quando aprì la porta della cucina si trovò davanti Michele Martino, con le maniche del pigiama arrotolate davanti ai fornelli, occupato a preparare la causa del profumo, un misto di carne, verdure ed erbe aromatiche che bollivano insieme in una pentola.
«Ah, ciao» sorrise lui, come se non ci fosse nulla di strano in quella situazione, «non ti arrabbiare, mi sentivo un po' meglio e ho pensato che potevi avere fame. E beh…» abbassò gli occhi, chiaramente imbarazzo, «ho pensato di sdebitarmi per il disturbo».
Nico restò immobile sulla soglia, incerto se arrabbiarsi o tacere, intorpidito dai forti brontolii dello stomaco provocati da quei profumi deliziosi, frutto di chissà quale ricetta ignota che quell’uomo era riuscito a generare dalla sua dispensa, che di solito conteneva solo carne in scatola e sughi pronti.
«Dovresti restare a letto...» sospirò pazientemente, «non ce n’era bisogno, avrei ordinato da mangiare».
«Cucinare mi rilassa» si giustificò l’altro, mentre mescolava lentamente, «e qualunque cosa avresti ordinato non sarebbe stata così buona» sorrise.
Nicolò restò spiazzato da quel moto di orgoglio inaspettato. Non aveva mai visto Martino così a suo agio come lo era in quel momento tra i fornelli, e apparecchiò in silenzio il tavolo.
Notò che l’altro studiava di nascosto le sue espressioni mentre mangiavano, ma non ebbe bisogno di fingere di apprezzare, perché era tutto squisito, e divorò il piatto più velocemente di quanto il galateo gli imponesse. Aveva davvero fame, non mangiava un pasto abbondante da giorni a causa del lavoro.
«È davvero buono, ma non avresti dovuto farlo nelle tue condizioni» ribadì, mentre sparecchiava. Adesso era lui a sentirsi imbarazzato.
Non ricordava che qualcuno gli avesse mai preparato la cena in quel modo, nemmeno i suoi genitori, che impegnati com’erano ordinavano sempre da fuori.
«Era il minimo per il disturbo».
«Non c’è disturbo» insistette Nicolò mentre ammucchiava i piatti nel lavello, «non stai bene, è un tuo diritto riprenderti. Tanto non avrei avuto granché da fare» mentì.
«Posso chiamare un taxi e tornare a casa».
«Non pensarci nemmeno» Nicolò sentì il senso di colpa bruciargli più intensamente all’idea, «è meglio non scherzare su queste cose. Quando scende la febbre potrai andare, ti dico che non disturbi. A proposito, dopo provatela di nuovo».
Martino sospirò pesantemente, segnalando che avrebbe accettato senza ribattere.
 
 
*
 
 
Andreani aveva insistito molto per mettergli addosso la coperta sul divano del salotto, nonostante le sue continue proteste di avvertire già troppo caldo con il pigiama. Era surreale vedere che uno come lui, così libertino sulle regole in politica, in quel momento era diventato un vigile irremovibile. Se non avesse avuto fame, Michele era pronto a scommettere che si sarebbe addirittura arrabbiato per averlo visto fuori dal letto a cucinare.
«Goool!»
La televisione fece rivedere diverse volte il pallonetto preciso dell'attaccante con la maglia rossonera mentre Andreani esultava, spalancando le braccia con i pugni alzati. Michele non aveva mai apprezzato granché il calcio, ma aveva accettato di stare a guardare la partita in salotto, mentre distrattamente leggeva un articolo di giornale. Era decisamente stufo di stare a letto.
«Ma tu davvero non tifi nessuna squadra?» gli chiese Andreani ad un certo punto, senza staccare gli occhi dallo schermo.
«Non ne ho mai avvertito l'utilità» rispose lui, indifferente.
«Ma dai! Da ragazzo non tifavi?»
«Seguivo il ciclismo, nient'altro».
Il capogruppo del Fronte si arrese con uno sbuffo esasperato, come se per lui fosse inconcepibile che qualcuno potesse non seguire il calcio. Quando finì il primo tempo, Michele sentì il volume della TV abbassarsi di molto. Stava quasi per chiudere gli occhi, preso da una stanchezza intensa e improvvisa, ma Andreani gli parlò di nuovo.
«Posso chiederti una cosa?»
«Cosa?»
«Quei segni che hai sul corpo, da quanto tempo li hai?»
Michele era in uno stato a metà tra il sonno e la veglia, ma riuscì comunque a distinguere la potenziale pericolosità di quella domanda. Con gli occhi cercò un punto lontano da fissare, mentre la sua testa si arrovellava per trovare il modo più sicuro per evadere dall'argomento.
«Tanti anni. Te l'ho detto, non è niente di importante» rispose a bassa voce.
«Non te li sei fatti per un incidente, ho ragione?» Annuì. Era troppo anche per lui mentire in quei termini.
«Perché ti interessa saperlo?»
«Beh» Andreani si sistemò meglio sul divano, piegando le gambe e stendendo il busto, «non c'è un motivo particolare, ho solo notato i segni e mi sono preoccupato».
Michele era in un vicolo cieco. Non aveva più argomenti per rispondere. Irritato e rosso in viso per quella domanda, sbottò un
«perché dovresti preoccuparti?», poi però si morse subito la lingua. Stava sembrando un maledetto ingrato, ma non lo pensava davvero. Era semplicemente nervoso e stanco, e l'ultima cosa che desiderava era tirare fuori quei residui di passato che con tanta fatica stava tenendo al loro posto, confinati nei ricordi.
«Di solito si fa così quando si vede una persona avere un problema, no? Si parla, si ascolta, ci si aiuta. Ti sembra così strano?»
«Nessuno mi ha mai fatto queste domande» rispose secco Michele, biascicando le parole per la troppa stanchezza.
E quella era la verità. La crudele e inammissibile verità.
Per metà era colpa sua, che non l'aveva mai detto a nessuno. Per metà la colpa era degli altri, che non si erano mai accorti dell'inferno che stava vivendo. E, se mai ne avevano avuto il sospetto, si erano sempre girati dall’altra parte. I suoi problemi non erano mai stati i problemi di qualcun altro, ma sempre e soltanto i suoi.
«Allora le ipotesi sono due» rise Nicolò, nel chiaro intento di sdrammatizzare, «o sono strano io, oppure devi aver conosciuto solo persone di dubbia umanità, e non offenderti».
Non si offese. Non ne aveva nemmeno la forza.
Per fortuna che il sonno lo stava tirando via da quel discorso imbarazzante e irrimediabilmente triste, tornando a mostrargli il suo rassicurante buio personale.

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Capitolo 15
*** Un mare in tempesta ***


Era seduto sopra il suo letto, mentre lo osservava.
Vedeva il suo corpo liscio, la sua pelle priva di imperfezioni, le piccole venature dei muscoli che modellavano le braccia, appoggiate distese sopra le lenzuola. I suoi capelli erano lunghi. Di giorno se li tirava su con il gel, ma la notte finivano scompigliati sul cuscino di seta di color azzurro chiaro, coprendogli il viso in modo scomposto. Quel particolare colore azzurro era quello prevalente nella camera di Riccardo. Ne erano tinteggiate le pareti e il soffitto, a diverse sfumature. Un po' gli ricordava il cielo, ma per il resto gli ricordava l'unica cosa che aveva rappresentato un po' di stabilità nella sua vita: la sua attività politica.
Sopra il cuscino dormiva Francesco Venturi, nudo tranne che per i boxer di color rosso acceso, lo stesso colore dei suoi capelli. E Riccardo gli era a fianco nel letto, come accadeva da diversi anni, durante i quali una persona comune si sarebbe abituata a quell'affetto speciale e nascosto che si era creato tra di loro.
Lui invece no. Tutte le notti si svegliava, mettendosi a sedere nell'oscurità. E lì, nel buio totale, silenziava il suo respiro per sentire quello dell'altro. Non lo avrebbe mai toccato mentre dormiva, si sarebbe sentito in colpa a svegliarlo. Gli bastava essere sicuro che lui fosse lì presente. Che c'era ancora, che non se n'era andato, che non era stata tutta un'illusione.
A volte, però, non gli bastava sentirlo respirare per convincersi che era lì. Quindi accendeva l'abat-jour, studiava la figura che riempiva l'altra metà letto, riconoscendo che i capelli rossicci erano proprio i suoi e l'orecchino che portava era proprio quello che gli aveva regalato lui e poi, tranquillo, ritornava a dormire. Non sempre, tuttavia, quel rapido bagliore di luce soffusa riusciva a non svegliare il suo compagno.
«Ric?»
Riccardo mugugnava sempre, facendo finta di stare dormendo, anzi, di non essersi mai svegliato, di non aver mai avuto quelle paure stupide che lo ossessionavano ogni notte.
«Perché sei sveglio?»
«Nulla, Francè, dormi».
«Ti ho sentito che ti muovevi».
«Dormi, dai che domani ci dobbiamo alzare presto…»
Finiva sempre così quella discussione tra loro, e Riccardo lo sapeva bene. Però continuava a fare quell'operazione tutte le notti, ostinatamente, perché la paura finiva per vincerlo ogni volta che si addormentava.
Diversi anni dopo, invece, accadeva che in quelle poche sere in cui andava a casa a dormire si svegliava alla stessa ora di un tempo e, come d’abitudine, si metteva seduto per cercare l’altro con lo sguardo, ma udiva solo il suo stesso respiro.
Non c'era più alcun rumore che accompagnasse il suo fiato. Non c'era più niente. Avrebbe anche potuto accendere la luce, ma non avrebbe visto altro che la sua ombra proiettata su quelle stesse lenzuola di tanti anni fa, di color azzurro cielo, così chiare che quando la luce del sole entrava dalle tende riusciva ad accecare ogni suo risveglio, illudendolo che quel giorno sarebbe stato davvero luminoso.
Una persona comune sarebbe andata oltre ad una mancanza. Avrebbe dimenticato, avrebbe ricucito con il tempo le ferite, avrebbe spento le ansie e taciuto le illusioni irrazionali.
Ma lui no, perché non era una persona comune, ma un mare azzurro destinato a rimanere in tempesta.
 
 
*
 
 
Fu il rumore delle macchine che passavano sulla strada a segnalargli che doveva essere già mattina inoltrata.
Era domenica, e lui si trovava ancora in quella camera estranea dove aveva passato le ultime ventiquattro ore, una sola giornata che sembrava essere durata una vita, anche se per la maggior parte del tempo aveva dormito, vittima della stanchezza causata dalla febbre.
Aveva avuto modo di osservare la camera di Andreani durante i brevi momenti di veglia. Ovunque erano appese foto, talmente tante che non c'era quasi un angolo di muro visibile. Alcune di esse ritraevano l'attuale capogruppo del Fronte con in mano la bandiera del suo partito, ma per la maggior parte riguardavano i suoi viaggi. Erano poche le persone che si ripetevano in quelle foto. Solo una ragazza compariva in addirittura tre cornici, mentre le altre erano in una, massimo due immagini.
Per il resto, la camera di Andreani era un deposito di oggetti ammucchiati sugli scaffali. Souvenir, libri, scatole, sciarpe rossonere, zainetti da viaggio, peluche, trofei di varia statura e dimensione.
Michele si era incuriosito vedendoli, ma non aveva avuto ancora occasione di avvicinarsi per scoprire a cosa fossero dovuti.
Lui nella sua camera aveva portato solo l'essenziale: qualche libro dei suoi preferiti, un album di foto e per il resto solo vestiti. Il resto era rimasto a Cutro, e non ne aveva affatto sentito la mancanza.
Si rigirò nel letto. Era stata una notte tranquilla. Niente incubi, niente paure, nemmeno la porta e le finestre chiuse erano riuscite a impedirgli di dormire beatamente, anche se non aveva ricordi di come fosse finito in camera da letto. L'ultima cosa che si ricordava era lui addormentato sul divano, mentre guardava una partita di calcio.
Nelle ultime ventiquattr'ore si era addirittura abituato alla vicinanza di Andreani, che in quel momento respirava rumorosamente, disteso supino su tutta la lunghezza del letto.
Michele aveva fame, abituato com’era a svegliarsi presto la mattina per fare colazione. Cercò di spostare le coperte il meno possibile mentre, con movimenti minimi, provava a sgusciare via dal letto, ma non bastò a impedire che l’altro si svegliasse.
«Mh? Che ore sono?» mugugnò.
«Saranno le dieci, credo».
Nicolò si mise a sedere, strofinandosi gli occhi ancora stanchi.
«Ti stai alzando? Come ti senti?»
«Mi sento meglio».
«Provati la febbre».
Gli lanciò il termometro, e Michele ubbidì. Non aveva mentito, si sentiva davvero meglio. La testa aveva smesso di pulsare dolorosamente, e gran parte della stanchezza se n’era andata.
«Trentasette e sei».
«Uh» Nicolò si alzò del tutto, nascondendo a fatica il senso di sollievo per quella notizia, «è scesa! Io vado a farmi una doccia, tu se vuoi mangiare non farti problemi. Nello sportello più a destra c’è un cestino con i tè e le tisane. Fatti qualcosa di caldo, devi bere molto». Michele non se lo fece ripetere due volte. Nello sportello indicato tirò fuori una tisana allo zenzero, aspettò che l’acqua bollisse e se ne versò una tazza.
Dopo un quarto d’ora, Nicolò lo raggiunse in cucina portandogli degli asciugamani puliti. Michele si chiuse a chiave dentro il bagno ancora umido e caldo per il vapore, buttandosi sotto il getto di acqua calda. Quando ne uscì, si sentì completamente rigenerato.
Ritrovò Nicolò in cucina, a fumare e a leggere i giornali dal tablet.
«Tutto a posto?» gli chiese, puntandogli addosso due occhi verdi decisamente più sereni del giorno prima.
«Sì. Ti ringrazio davvero tanto per l’ospitalità, ma posso tornare a casa adesso, non c’è bisogno che ti disturbi ulteriormente».
Nicolò lo scrutò a lungo, ma poi annuì.
«Va bene. Ti accompagnerei io, ma con la moto prenderesti troppa aria. Ti chiamo il taxi, tu riposati un attimo».
Michele ringraziò di nuovo e tornò in stanza, ammucchiando tutte le sue cose sparse: la camicia, la giacca, i calzini, la borsa, il caricatore del cellulare, e lasciò il pigiama di Andreani ripiegato sul letto.
Si sedette, perdendo ulteriore tempo a osservare la stanza. Gli dava un certo senso di serenità, forse per le foto appese. Non ce n’era una in cui Andreani non sorridesse, quel suo solito sorriso di chi non è turbato da nessun pensiero perché è abituato ad affrontarli di petto. In fondo, avrebbe voluto essere anche lui così, ma la sua vita era andata diversamente.
«È arrivato il taxi!» sentì gridare dall’altra stanza.
«Arrivo!»
Ci fu un silenzio carico di imbarazzo mentre si congedava alla porta d’ingresso.
«Beh, riprenditi! Per quanto riguarda la legge… ne riparleremo in un periodo più calmo, se sei d’accordo».
Annuì, riuscendo a modulare un raro sorriso di gratitudine.
«E comunque se hai bisogno non farti problemi a chiamare» aggiunse poi, mentre scendeva le scale.
 
 
*
 
 
Non si era mai accorto prima di allora che la sua casa era così silenziosa.
Appena riappoggiò le chiavi sulla mensola ebbe l'impressione di sentire l'eco di quel tocco rimbombare sulle pareti, cosa che gli fece quasi paura. Nella sua camera, il letto era completamente disfatto, ma trovò il pigiama piegato con cura.
Nella sua vita aveva subito molte cose. Era scappato di casa, aveva preso manganellate dai poliziotti, aveva concluso relazioni alle quali gli sembrava di tenere molto. Eppure, in nessuna circostanza aveva ancora mai affrontato il mostro del senso di colpa. E forse, dopo averlo finalmente fatto, poteva dire che era la più infida bestia tra tutte quelle che aveva affrontato.
Era ancora pieno giorno, ma Nicolò non aveva voglia di fare niente. Guardò il cellulare per diversi minuti, rileggendo mille volte le stesse notizie. Accese il PC e scaricò la mail, ma essendo domenica non c’erano nuovi messaggi. Pensò di andare a correre per sfogarsi. Si preparò in fretta, infilandosi la tuta blu, prese anche le cuffie per l'mp3, ma quando appoggiò la mano sulla maniglia della porta si accorse che non aveva voglia nemmeno di fare quello.
Finì per gettarsi sul letto, senza neanche togliersi i vestiti. Sulle lenzuola c'era ancora un discreto calore, residuo di quella febbre per cui era stato in ansia più di un giorno. Restò immobile in quella posizione, e solo dopo parecchi minuti si decise ad alzarsi.
Maledizione, non era da lui comportarsi così! Aveva sistemato il suo danno, perché allora si comportava come un misero depresso?
Andò in cucina, evitando di darsi una risposta a quella domanda. Aprì il frigo scoprendo la presenza degli avanzi della cena di ieri.
Quel semplice gesto era stato qualcosa di gratuito e di spontaneo, del tutto diverso dai regali che, quando lavorava a Milano, si scambiava con i colleghi in ufficio a Natale, facendoli anche alle persone che gli stavano antipatiche solo per quell’ipocrita invenzione chiamata educazione. Ma era diverso anche dai “pensieri” che faceva ai parenti quando li andava a trovare dopo tanto tempo, portando la prima cosa che trovava per casa. No, quel gesto era stato così vero da bastare a ripagare quella strana giornata.
Stufo di stare lì a indugiare davanti al frigo, si decise a tirare fuori il piatto e a scaldarlo al microonde. Lo finì in soli cinque minuti.
Si rialzò da tavola, cercando le chiavi della moto sulla mensola. Aria e velocità, ecco di cosa aveva bisogno.
 
 
*
 
 
«Caffè?»
Marchesi annusò il liquido nella tazza bianca che gli stava porgendo il capogruppo.
«Questo non è caffè» osservò subito.
«Bevilo e non fare storie».
Pasqui si sedette sulla poltrona distendendo le gambe lungo il piano della scrivania come al solito, mentre Marchesi ubbidiva in silenzio, appuntandosi mentalmente che più tardi sarebbe comunque sceso a prendersi il suo caffè.
«Notizie sulla nostra legge?» chiese poi.
«Ho lavorato tutta notte per selezionare gli emendamenti che voteremo. Ho già contrattato con i nostri alleati, ovviamente. Ti ho fatto un fascicolo con il resoconto».
Marchesi non riuscì a stupirsi a dovere per l’inquietante precisione e velocità del suo collega. Si era abituato, ormai.
«Ottimo. Gli darò un'occhiata».
«Pensavo ti fidassi e basta» sogghignò Pasqui.
«Anche un cervellone come te può sbagliare, Marcé» rispose Marchesi.
In realtà non lo pensava veramente. Su una legge del genere né lui, né Marcello avrebbero sbagliato una virgola. Era una delle promesse che si erano fatti, l'unica che per ora stavano entrambi mantenendo.
«Per la legge di Martino, invece?» domandò subito dopo.
«Le mie fonti dicono che non l’hanno ancora finita» rispose distrattamente Pasqui, lanciando una gomma da cancellare contro l'armadio, la quale rimbalzò e cadde per terra. Lo faceva spesso quando si annoiava.
«Basta che non si mettano tra i piedi» sospirò Marchesi.
«Non succederà. Prima le nostre leggi, poi le inezie. E se il buffone anarchico in riunione insisterà per calendarizzarla gliela farò vedere io. Metterlo a tacere è sempre una soddisfazione».
Marchesi spezzò la matita che teneva in mano, e l'eco del rumore riempì il successivo silenzio della stanza. Squadrò Pasqui a lungo, fino a che lui non capì da solo il grave errore che aveva appena fatto pronunciando una frase del genere.
«Smettila di agitarti, non intendevo in quel senso» borbottò, alzandosi in piedi con uno scatto irritato.
«Certo, non lo intendi mai» Marchesi appoggiò la matita spezzata sul tavolo, facendola ruotare su se stessa, «però lo dici come se niente fosse. Avevamo promesso che non saremmo stati così, come quelli che lo hanno ucci-»
«Io non sono così!» urlò Marcello interrompendolo, al limite della collera, «e poi tu, proprio tu vieni a parlarmi di promesse?»
«Non stiamo parlando di quello!» gridò Marchesi, alzandosi anche lui in piedi.
Uno dei collaboratori di Marchesi entrò dalla porta, squadrando i due litiganti con un'espressione interrogativa.
«Niente» bofonchiò il segretario di Sinistra Democratica, calmandosi subito, «è tutto a posto, Alfrè. Sto andando a farmi un caffè».
Uscì dal suo ufficio, senza rivolgere nemmeno uno sguardo al suo più caro amico.
 
 
*
 
 
Si prese tre giorni interi di riposo prima di fare la sua ricomparsa a Montecitorio. Aveva passato diverso tempo al telefono sia con Thomas che con Arturo, venendo informato sull’evoluzione della discussione della legge. Da quelle conversazioni sembrava emergere una tensione evidente nella maggioranza, in particolare tra Pasqui e il gruppo dei popolari, e certamente il giovane non moriva dalla voglia di immergersi in fretta dentro un clima del genere. Per cui, anche se al terzo giorno la febbre se n’era del tutto andata, preferì non presentarsi in aula e restare a casa per studiare da solo la legge e gli emendamenti.
Il giovedì si presentò all’ingresso di Montecitorio per le otto, puntuale per la seduta delle otto e mezza. La prima persona che notò fu Andreani, intento a parcheggiare lo scooter litigando con il cavalletto tra feroci imprecazioni.
«Ehi!»
«Ah, Martino!»
Diede un forte strattone al veicolo per farlo stare in piedi, poi lo appoggiò per il lato orizzontale al muretto, fissando la catena.
«Come stai?»
«Tutto bene, grazie».
«Ti sei perso un po’ di giornatine tranquille, eh? Facciamoci un caffè».
Michele lo seguì all’interno dell’edificio, osservando che salutava allegramente tutti quelli del suo gruppo. Tuttavia, non riuscì a fare a meno di notare che non sempre veniva contraccambiato, e che anzi molti sembravano far finta di non vederlo.
Una volta alla buvette, il giovane diventò ancora più nervoso. Era evidente che tutti gli sguardi dei presenti erano puntati su di loro e, non appena li intercettava, venivano distolti alla svelta. Andreani sembrò non accorgersene fino a che non vide un deputato del Nuovo Partito Popolare indicarlo palesemente con l’indice ad un collega, il quale, appena si fu voltato per guardarlo, scoppiò a ridere di gusto.
«Sbaglio o qualcuno sta parlando alle nostre spalle?» chiese, mentre si stava evidentemente sforzando di tenere lo sguardo basso per controllare l'irritazione.
«Sì, me ne sono accorto anche io» ammise Michele.
Il mistero si risolse solo quando comparve Thomas, con un’espressione a metà tra l’irritazione e il divertimento.
«È per questo che stanno a ride’» annunciò sottovoce, senza il bisogno di aspettare la domanda.
Aprì davanti a loro un settimanale di bassa lega. Nelle prime pagine compariva un’enorme foto in cui lui e il capogruppo del Fronte stavano uscendo dal palazzo, la sera tardi, mano nella mano. Era piena notte e la foto era scura, ma Michele riuscì a intravederci le fitte gelate e l’atroce mal di testa.
Lo stomaco gli si annodò a doppio giro leggendo qualche riga dell’articolo.
 

CONTINUA IL FLIRT PIÙ PICCANTE DEL PALAZZO!

Dopo il famoso episodio del bacio tra Andreani, noto capogruppo del Fronte per l’Indipendenza e Martino di Sinistra Democratica, sembra che qualcosa sia scattato. I due sono stati visti uscire dal palazzo a tarda notte, da soli e mano nella mano. Si racconta che siano saliti sullo stesso taxi. Altre fonti ci informano che i due deputati sono impegnati nella scrittura di una legge. Sembrerebbe che però sia solo una copertura, e che i due deputati trascorrano diverse ore serali nello stesso ufficio, al riparo da occhi indiscreti.
 
Smise di leggere, rifiutandosi di andare oltre. Non riusciva ad accettarlo. Chissà quante persone avevano letto quello stupido articolo. In quel momento si trovava completamente sopraffatto dagli eventi, senza possibili vie per fermare quelle subdole menzogne.
Forse, dopo tanti anni, sentiva il bisogno di piangere, solo per il gusto di sfogare in qualche modo quell'ennesima ingiustizia che era costretto a subire. Nello stesso momento, però, Andreani si era alzato in piedi, ribaltando lo sgabello con un tonfo che fece sussultare tutti i presenti.
«Deficienti che non siete altro! Ipocriti e coglioni, ecco cosa siete! Vi basta una cazzo di foto per sentirvi superiori e spettegolare come oche, non è vero? Non avete neanche un briciolo di vergogna!»
Nella sala avevano tutti smesso di sorseggiare il caffè o leggere il giornale e un silenzio di piombo calò all’istante. Andreani stava fulminando tutti con i suoi occhi verdi. Non risparmiò neanche un paio di colleghi del suo gruppo, i quali non ressero nemmeno lo sguardo.
«Ascoltatemi bene, coglioni e creduloni che non siete altro. Lo sapete perché c’è questa foto sul giornale? Perché quella sera Martino aveva la febbre e io l’ho accompagnato a prendere un taxi. Avete capito di chi state ridendo alle spalle? Fate veramente vomitare!»
Thomas per una volta rimase serio, mentre ascoltava e annuiva impercettibilmente alle parole di Nicolò. Michele invece continuò a tenere lo sguardo basso, tremante di rabbia e umiliazione.
«Ah, però se fossero stati un uomo o una donna immagino che non avreste avuto niente da ridere, giusto? Siete solo dei vergognosi bigotti, ecco cosa siete! E voi pretendete di cambiare l'Italia? Iniziate prima a cambiare le vostre teste di cazzo!»
Picchiò con forza la mano sul tavolo, provocando un secondo sussulto collettivo. Con un calcio fece rotolare lo sgabello per terra. Prese la rivista, la sbatté sul pavimento, la calpestò più volte e infine se ne andò.
Michele sentiva il cuore battere incessantemente. Nessuno gli rivolse lo sguardo mentre usciva dalla buvette a testa china, come mai avrebbe sperato di fare in quel palazzo. Thomas non lo seguì, conoscendolo abbastanza bene per capire che in quel momento voleva restare solo.

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Capitolo 16
*** Altezze ***


Trovò Andreani solo dopo aver chiesto a diversi commessi dove fosse. Si era rifugiato sul tetto del palazzo ed era appoggiato al muretto, con in bocca la sigaretta. Sembrava che tutto l'impeto di rabbia esploso poco prima fosse ormai cessato, anche se tamburellava con il piede ripetutamente in un tic nervoso.
Michele gli si avvicinò senza sapere cosa dire. Il silenzio gli fischiò nelle orecchie per diversi minuti, ma alla fine fu Nicolò a parlare per primo.
«Credi che abbia esagerato?»
«Non lo so» ammise lui.
Ci aveva pensato su per un po'. Forse, con un po' di coraggio in più, avrebbe fatto lo stesso anche lui, anche solo per prendersi una soddisfazione davanti a quelle persone. Ma lui era Michele Martino e non era realmente capace di fare una cosa del genere.
«Beh, comunque non sono affatto pentito» precisò Andreani, «se me ne sono andato è stato solo per risparmiare quei poveretti, perché un minuto in più là dentro e mi sarebbero partite le mani. Gente ipocrita e vigliacca!»
Buttò la cicca della sigaretta giù dal tetto. Michele non riuscì a vedere dove atterrò.
«Immagino che non hai intenzione di andare in aula allora» disse Michele. Quel giorno ci sarebbe stata la prima votazione sulla prima legge della Carta Antifascista di Sinistra Democratica, praticamente uno dei momenti più importanti di quella legislatura.
Nicolò gli rivolse uno sguardo verde che lasciava intendere quanto l’idea di comparire in aula non gli passasse nemmeno per la testa.
«Tu hai davvero voglia di sederti vicino a quelle persone che ti hanno appena mancato di rispetto?»
Michele abbassò gli occhi. Di voglia non ne aveva proprio, ma di senso del dovere un po’ sì, nonostante tutto.
«È una legge importante, non è il caso di mettere davanti l’orgoglio». Fece per andarsene, ma non riuscì a muovere un passo. Vide se stesso dentro l'aula, seduto sul suo banco, circondato da chi prima aveva riso alle sue spalle, e sentì lo stomaco ribollirgli.
«Fai come ti pare, io non ho intenzione di muovermi da qui. Non mi importa dell’orgoglio, semplicemente non voglio condividere lo stesso spazio con quella gente» ribadì Nicolò.
Michele fissò i suoi occhi e fissò le scale. Per la centesima volta era indeciso sul da farsi, e la causa erano di nuovo i modi di fare di quell’uomo. Solo lui sembrava capace di scuotere il suo mondo, annientare le sue certezze.
«Non ho ancora deciso se ci andrò o no».
 
 
*
 
 
La luce del tramonto filtrava dalle finestre.
A Roma i tramonti invernali visti dall’alto erano spesso tinti di un rosso acceso, ma quella sera invece l’ultima luce del giorno era di un chiarore fastidioso.
In mezzo a quella luce bianca le figure che gli comparivano davanti agli occhi erano sfocate, delle ombre. Uomini e donne vestiti eleganti camminavano dentro il suo ufficio, quell’enorme stanza dove da qualche mese vi lavorava in qualità di segretario di partito.
Camminavano e parlavano tra loro, con dei finti sorrisi dipinti sulle facce cadaveriche. Marchesi li osservava con scarso interesse. Sapeva che prima, molto prima, era anche lui come loro. I primi giorni credeva di essere felice per essere arrivato fino a quel punto. Per la seconda volta era entrato in Parlamento, ma questa volta lo aveva fatto da segretario di un partito non più insignificante, che finalmente si preparava ad approdare al governo, dalla parte di chi decideva.
Ma ora non aveva più nemmeno l'ombra di quella gioia autentica carica di aspettative.
«Piantatela di sorridere. Tanto lo so che non siete realmente felici» mormorò a bassa voce alle ombre. Ovviamente non lo stavano ascoltando, perché non erano reali. Erano solo nella sua testa, per quanto fastidiose.
«Poveri scemi» mormorò di nuovo, ostentando la sua supremazia su quelle anime vuote e finte, non potendo togliersele dalla vista.
«Neanche tu sei felice» gli sussurrò una delle ombre.
Marchesi ebbe uno scatto involontario. Non si aspettava di sentire qualcuno parlare. Di solito nessuna ombra gli parlava.
«Non è vero» rispose, alterato dall'insolenza di quella specie di fantasma della sua mente.
«Sei solo invidioso» parlò di nuovo l'ombra, che poi scoppiò in una risata spettrale, «vuoi solo dimenticare ma non puoi, è per questo che ti fai come un dannato».
«Ti sbagli» ribatté di nuovo Marchesi, ma ormai aveva perso ogni traccia di convinzione. L'ombra aveva ragione, e non poteva essere diversamente, perché apparteneva a lui, al suo inconscio.
«Non mi sono mai sbagliato su di te».
La voce si era fatta più chiara, più giovane, quasi dolce, e ora Marchesi riusciva a riconoscerla. I suoi occhi si sbarrarono mentre camminava istintivamente all'indietro, nel vano tentativo di sfuggire all'immagine che avrebbe visto di lì a breve.
«Francesco?»
Desiderò chiudere gli occhi per far sparire quell'ombra all'istante, ma non lo fece. Forse per paura, forse per un remoto desiderio di rivederlo. Non lo sapeva neanche lui.
L'ombra arrivò a pochi centimetri da lui e il volto lentamente prese forma, esattamente come se lo ricordava l'ultima volta che lo aveva visto. Il viso cadaverico, gli occhi fuori dalle orbite, il naso rotto, il labbro tagliato in più punti e cosparso del sangue che usciva copiosamente dalla bocca. Le guance erano solo due enormi macchie blu, le orecchie due buchi sanguinolenti.
Marchesi restò paralizzato dal terrore mentre il liquido rosso riempiva ogni centimetro dell'immagine di quello che un tempo era stato il corpo di un giovane ragazzo.
«No, vattene!» urlò.
Chiuse gli occhi e fece uno scatto indietro, ma inciampò in una sedia e cadde disteso per terra, urlando con tutto il fiato che aveva.
Era sdraiato sul pavimento, ma aveva comunque l'impressione di cadere nel vuoto. Le ombre erano sparite, ma l'immagine di Francesco con il volto tumefatto continuò a restare fissa sotto le sue palpebre. Sentì il forte impulso di vomitare, ma riuscì solo a sputare della saliva. Quel giorno non aveva toccato cibo, anche volendo il suo stomaco non aveva niente da rigettare.
La porta si aprì senza che se ne rendesse conto. Forse erano passati minuti, forse ore. Sapeva di non avere alcuna cognizione del tempo in quelle condizioni.
«Bevi».
Deglutì da un bicchiere un liquido zuccherino. Conosceva quella voce, sapeva che poteva fidarsi ciecamente.
«Ce la faccio da solo» mormorò come al solito, prendendo il bicchiere tra le mani tremanti.
«Se fosse così non avrei le chiavi del tuo ufficio» sorrise pazientemente Pasqui, pulendosi gli occhiali nella camicia.
«Non te le ho date per questo. Mi hai sentito urlare?» si informò Marchesi, cercando di controllare il suo corpo per mantenere almeno una posizione seduta che non sembrasse ridicola.
«No. Sono passato solo per controllare la situazione e ti ho trovato per terra. È appena finita la seduta, se ti interessa».
Riccardo sospirò pesantemente. Non vi aveva partecipato quel giorno, e dopo il litigio con il capogruppo non lo aveva nemmeno avvertito. Era la prima volta che saltava una seduta quando era in discussione una delle Leggi Antifasciste, e aveva saltato proprio la più importante. Marcello non lo avrebbe mai perdonato.
«Te lo si legge in faccia che vorresti tirarmi un ceffone».
Il capogruppo non si scompose. Lo fissò inespressivo mentre lo sosteneva con un braccio.
«Hai indovinato. Ce la fai a tirarti su?»
Accettò il sostegno dell'amico e si alzò sulle gambe. A malapena riuscì a reggersi per pochi secondi, prima di ricadere a peso morto sulla stessa sedia che prima lo aveva fatto inciampare.
«So gestire queste situazioni, non ho bisogno di aiuto».
Il capogruppo annuì con scarsa convinzione. Tirò fuori dalla borsa una scatolina, mettendogli una pastiglia nella mano. Marchesi la riconobbe subito, gli era anche fin troppo familiare.
«Farò in modo che nessuno venga a disturbarti. Naturalmente, non pensare neanche per un istante di essere scusato per oggi» avvertì severamente mentre girava i tacchi per uscire.
Marchesi ingoiò la pasticca. Il suo corpo si rilassò in automatico, cosciente che da lì in poi sarebbe stato meglio.
«L'ho rivisto. Mi ha parlato» mormorò infine il segretario.
Non sapeva se il suo amico avrebbe raccolto quelle parole o le avrebbe considerate gli ultimi deliri di un pazzo, ma non sentì lo scatto della porta che veniva chiusa, segno che Pasqui lo stava ancora ascoltando.
Pasqui lo fissò severamente.
«Lui non esiste più».
 
 
*
 
 
Il sole tramontava in lontananza dal tetto di Montecitorio, inabissandosi tra le guglie in una sfumatura di grigio invernale. Da quando Nicolò era salito lassù, era riuscito a buttare a terra almeno venti mozziconi di sigaretta. Ogni volta che era salita una persona per chiedere a lui e a Martino di scendere ne aveva accesa una, e al quarto invito anche il giovane di SD aveva accettato di farsi offrire una Marlboro Light, tossendo forte non appena il fumo gli percorreva la trachea.
Dopo qualche ora avevano entrambi perso il conto delle persone che erano salite per convincerli ad entrare in aula. Si alternavano deputati del Fronte a deputati di SD, chi con toni docili, chi con parole intrise di rancore. E uno appartenente proprio a quest'ultima categoria era Chiarelli, il suo vicecapogruppo.
«Non so per quale motivo ti è salita quest'assurda regressione infantile, Andreani, ma vedi di rientrare in aula immediatamente!» aveva urlato con il tono più severo di cui era capace.
Nicolò non aveva fatto una piega. Si era sempre divertito a mostrarsi calmo di fronte a persone infuriate, era il suo modo di dire che non gli importava niente di ciò che gli dicevano.
«Cosa credi, che non ti abbia visto ridere? Fai pena. Hai una bella faccia tosta a venire a parlarmi» aveva risposto placidamente.
«Cazzo!» aveva imprecato Chiarelli, gesticolando nervosamente, «sei stupido o cosa? Per questo te la prendi? Dovresti saperlo che certi giornali si nutrono di queste stupidaggini! Dovresti anche essere maturo abbastanza per fartene una ragione e riderci su anche tu! Ti ricapiterà altre cento volte, e non accetto che ti comporti ogni volta come un ragazzino!»
«Uh, così mi ferisci!» aveva riso di gusto, «senti Chià, ti consiglio di andartene. Io e il mio collega qua abbiamo da fare, stiamo fabbricando altre foto per i giornaletti».
«Tutti si accorgeranno che non ci sei. Sia gli altri partiti, sia i giornali, sia i fotografi. Faremo una figura di merda, e sarà tutta colpa dei criceti che ti trovi nel cervello. Consideralo il tuo ultimo giorno da capogruppo».
Non si curò di quella minaccia. Anche se fosse stata vera gli importava relativamente: da quando era capogruppo aveva solo grane e lavoro in più, oltre ad una maggiore visibilità sui media che ora iniziava a dargli fastidio, visti i risultati.
Il problema più grande invece fu quando salirono Thomas Greco e Gianmaria Scano, due deputati della corrente di Martino.
«Michè…» aveva iniziato Thomas, cercando di continuare la frase in mille modi senza successo, perché lo sguardo con cui Michele rispondeva era serio e gelido, «sappiamo come ti senti per quello che è successo, non intendiamo giustificare i nostri colleghi, ma la discussione in corso è importantissima, non puoi mancare assolutamente! Pasqui è già incazzato perché Marchesi non si è fatto vedere e non è nelle condizioni ideali per fartela passare liscia».
Martino però non si era lasciato convincere. Aveva sorriso ai suoi due colleghi, senza far intendere se fosse per sbeffeggiarli o per compatire il loro inutile tentativo.
«Grazie, ma accetterò le conseguenze. Non penso di essere capace ora di votare insieme a chi, prima, ha deciso di ridermi in faccia». Nicolò aveva sorriso, stupito di sentire quelle parole, forse le prime davvero sincere che Martino aveva mai pronunciato dentro quel palazzo. Thomas aveva insistito, promettendogli che se qualcuno avesse provato anche solo a ridere di lui lo avrebbe pestato con le sue mani, ma l’altro aveva declinato anche quell'offerta.
Per tutte quelle ore, Michele e Nicolò non si erano mossi da quel tetto, passando il tempo fumando sigarette e ascoltando musica alla radio, evitando ogni notizia che riguardasse il Parlamento o la politica. Avevano entrambi il bisogno primario di distrarsi da quel mondo, che ora sembrava così ostile.
«Sono le diciotto in punto e Pasqui non è ancora salito» annunciò Andreani, quasi sconsolato per la scena divertente che si erano persi
«penso che fumerò un'altra sigaretta». Michele gli lanciò il pacchetto.
«Già, a quanto pare è troppo arrabbiato anche per venire a insistere. Ora avranno finito, comunque».
Dopo pochi minuti, infatti, la porta esterna si spalancò di nuovo, facendo entrare tre deputati di Sinistra Democratica, che Andreani conosceva solo di viso. Riconobbe subito una delle facce, presente quella mattina al bar.
«Hai tradito il tuo partito, non ti vergogni?» iniziò uno. Martino sbuffò per la centesima volta in quella giornata. Restò appoggiato al tetto e guardò giù, fingendo di non sentire.
«Sta parlando con te. Pensi di farci una bella figura? Sei un parlamentare, non sei al liceo!» rincarò un altro.
Di nuovo, Michele non rispose. Chiese un’altra sigaretta a Nicolò per avere una scusa per non parlare e lui gliela offrì abbozzando un sorriso divertito. Quell'attività di cacciare con vari modi tutti quelli che salivano lassù stava quasi compensando l’amarezza della giornata.
«Frocio» borbottò acidamente il terzo ai due colleghi. Nicolò squadrò il tizio con odio mentre Michele continuava imperterrito a fissare la strada.
«Ripetilo davanti a me. Penso di aver sentito male» scandì lentamente, avvicinandosi a lunghi passi a quel gruppo di onorevoli. Era serio, abbastanza da incutere un certo timore, anche se era da solo contro tre. I deputati di SD si guardarono tra loro e andarono via.
«Simpatici» scherzò Nicolò, tornando vicino a lui, «soprattutto coraggiosi. Come devono essere i geni che li hanno votati, immagino».
Martino tornò a sedersi per terra. Non sembrava dell'umore di scherzare.
«Non dirmi che te la sei presa!»
In tutta risposta, il giovane abbassò lo sguardo.
«Ma dai, non ne vale la pena, hai visto che sono dei coglioni» sbottò Nico, «comunque, adesso ci ordiniamo una bella pizza, perché io sto morendo di fame, e di sicuro non ho voglia di scendere a mangiare insieme a quei minorati mentali».
Michele lo fissò stranito mentre componeva il numero di telefono del suo ufficio. Nicolò però non stava affatto scherzando.
 
 
*
 
 
La pizza arrivò tiepida e in ritardo, ma entrambi avevano talmente tanta fame e freddo che non si lamentarono.
Michele si dimenticò in fretta di essere un parlamentare, di essere seduto per terra sul tetto di palazzo Montecitorio e di avere tra le mani il cartone di una pizza di asporto. Mangiò come non aveva mai fatto in vita sua, senza avanzare nemmeno una crosta, e in quel momento gli sembrò che quella fosse la pizza più buona che avesse mai mangiato.
Ad un certo punto, fecero la loro comparsa Giorgio e un altro parlamentare del Fronte, uno dei tanti giovani del partito, con un aspetto ribelle simile a quello di Nicolò.
«Freschino quassù» commentò subito Giorgio, sporgendosi dal muretto, «non avete freddo?»
Michele riuscì a vedere Nicolò lanciargli uno sguardo sospettoso, come a dirgli: vieni-al-dunque.
«No Andrè, non ti farò la predica. Non oggi almeno» sorrise Giorgio Iannello, «Martino, tutto a posto? La febbre?» chiese gentilmente.
«Passata» sorrise Michele.
«Ottimo!» rispose Giorgio, accovacciandosi sulle ginocchia «ho pensato che avreste avuto sete» sorrise gioviale, indicando il sacchetto stracolmo che aveva in mano.
Andreani non si fece pregare. Tirò fuori una delle bottiglie e la aprì facendo leva sul muretto del tetto. Il tappo schizzò giù e la schiuma della birra si riversò un po' ovunque.
«C'è il cavatappi, genio!» intervenne l'altro deputato del Fronte, mentre offriva una birra a Michele.
«Con questo non significa che condivido le vostre azioni» si affrettò a precisare Giorgio, senza però alcuna durezza nella voce, «significa solo che comprendo le vostre ragioni, e non trovo alcuna giustificazione dietro l'atteggiamento dei nostri colleghi. Volendo, potreste sporgere querela contro il giornale».
Michele restò a fissarlo, incredulo. Dopo una giornata dove entrambi erano stati ripetutamente rimproverati per la scelta di non entrare, le parole di quell'uomo erano una piacevole ventata d'aria fresca.
«Macché Giò, non servirebbe a niente. Li lasciamo nuotare nella loro mediocrità».
«Esatto» concordò Michele, che di certo non aveva voglia di far continuare quella storia offrendo altri pretesti. Prese anche lui una birra, la aprì e ne svuotò metà in un sorso.
«Anvedi Martino!» rise Giorgio, «una giornata con te e si è trasformato!»
«Ma va! Sta solo mostrando la sua vera natura!»
Gli strizzò l’occhio. Michele singhiozzò dopo aver bevuto tutta quella birra in un fiato. Non era realmente abituato all’alcool, ma in quel momento lo poteva aiutare a dimenticare la giornata.
La notte avanzò mentre le bottiglie vuote di birra si aggiungevano alle altre, allineate contro il muro. Michele iniziò a provare un senso di vertigini ogni volta che chiudeva gli occhi. Rideva in continuazione, mentre i discorsi si facevano via via più frivoli, mano a mano che il tempo passava e l’alcool saliva.
Quando salì un commesso per dirgli che il palazzo avrebbe chiuso a momenti, celando lo sguardo di disgusto dietro il solito contegno istituzionale, il gruppo scese le scale barcollando.
«Quello ci ha pure chiesto scusa!» biascicò Nicolò, «perché non si possono permettere di dirci qualcosa, perché siamo deputati. Capite? In che posto di merda siamo finiti!»
I due del Fronte ridacchiarono e Michele non rispose. Faceva già una fatica immane a trascinarsi nel corridoio.
«Oh, non mi svenire di nuovo!» scherzò Nicolò, reggendolo con un braccio, «che sennò ci becchiamo l’editoriale di Repubblica a ‘sto giro».
«Repubblica! Bel colpo, Repubblica!» rispose sconnessamente lui.
«S’è ‘mbriacato, ragazzi!» rise Nicolò.
«Mi gira la testa» si lamentò Michele, ridendo anche lui della sua condizione ridicola.
«Hai bevuto troppo» rispose Nicolò, «senti, prendo il taxi con te. Tanto ormai sputtanati siamo sputtanati, tanto vale che arrivi a casa senza problemi».
Il taxi arrivò in fretta e il deputato di SD dovette ripetere per tre volte la via per farsi capire, e alla prima curva cadde addormentato tra i sedili.
«Ehi» lo scosse l’altro, «non stare sdraiato, non va bene se hai bevuto. Lo dico per te».
Fu l’ultima cosa che ricordò di quella notte, prima di crollare di nuovo con la testa schiacciata contro il finestrino.
 
 
*
 
 
Michele dormiva silenziosamente, con ancora i vestiti addosso. Nicolò era rimasto a controllarlo per almeno due ore, per essere sicuro che non vomitasse. Aveva preferito entrare anche lui nel suo appartamento, dal momento che l’altro non era riuscito nemmeno a infilare le chiavi nella toppa, e alla fine aveva deciso di restarci a dormire, essendo già molto tardi e non avendo voglia di chiamare un altro taxi per farsi mezza Roma. Probabilmente l’altro era così intontito che si sarebbe accorto solo la mattina dopo che c’era anche lui in casa, il che rendeva la situazione quasi divertente.
La luce che entrava dalle finestre rivelava tutti i contorni della stanza, molto più povera di oggetti rispetto alla sua. Annoiato e sprovvisto di sonno, si aggirò silenziosamente tra gli scaffali. La camera di Michele era veramente sgombra. Non c'era quasi niente, solo una scrivania con un PC, un armadio, una televisione e un ripiano colmo di libri. Lesse qualche titolo, notando che per la maggior parte erano saggi di politica. Alcuni, quelli dalla copertina più malridotta, erano classici della letteratura: Verga, Pavese, Pirandello e altri, nomi che Nicolò aveva sentito per l'ultima volta al liceo.
Un raccoglitore più spesso degli altri attirò la sua attenzione. Era di color mattone, con la copertina di un cartone spesso.
Lo prese in mano, scoprendo foto di Michele ai tempi dell'università. Le persone ricorrevano nelle foto, in particolare Arturo Costa in vari momenti della campagna elettorale e un uomo con una folta barba scura dentro un ufficio disordinato. In quelle foto, Michele non sorrideva praticamente mai. O meglio, aveva quel suo solito sorriso finto che mostrava sempre.
Dall'album cadde una busta gonfia. Nicolò la raccolse subito, controllando che Michele stesse ancora dormendo. La busta non era sigillata. Dentro c'erano dei fogli a righe ripiegati uno dentro l’altro. Vinto dalla curiosità, accese la torcia del cellulare per leggere.
La calligrafia era piccola e ordinata, senza sbavature.
 
“Caro Antonio,
come stai? Mi fa uno strano effetto scriverti una lettera. Sono a Palermo solo da tre mesi, ma mi mancate già tutti e non vedo l’ora di venire a trovarvi, anche se mi piace tanto studiare qui. Convincere i miei genitori a iscrivermi non è stato semplice, come tu sai bene. Ora mi sto cercando di arrangiare con qualche lavoretto, ma l'aria che si respira qui odora di mafia da tutte le parti.
A proposito, alla prima lezione è venuto Arturo Costa a parlarci. Tu l'hai mai conosciuto? Qua sembra essere molto popolare. Viene spesso in università ed è un uomo dalla cultura eccezionale. Sono contento di averlo incontrato, magari potremmo invitarlo al circolo. Comunque, non ti sto scrivendo solo per raccontarti della mia vita a Palermo. Sono altre le cose che sento l'urgenza di scriverti, e che in tanti anni non ho mai avuto il coraggio di dirti di persona. Anzi, penso che se non ti invio oggi stesso questa lettera non avrò mai la forza di farlo, quindi spero capirai quanto mi pesano queste parole. Per favore, non preoccuparti per quello che leggerai. Te lo sto scrivendo in un momento molto brutto per me, ma è solo un momento. Non voglio che ti preoccupi inutilmente, non c'è davvero nessun motivo per cui tu debba farlo, anzi, se puoi, non rispondere nemmeno a questa lettera. Vorrei che tu la leggessi e basta, solo questo. Non ho mai raccontato a nessuno nulla di ciò che sto per raccontarti, e penso che non lo dirò mai a nessun altro, ma non pensare che è per mancanza di fiducia. Voglio molto bene a Serena, a Gennaro, a Totò, che mi ha sempre spronato a continuare sulla strada della politica, ma non voglio mostrare questo lato di me. Vorrei continuare a essere quel ragazzo che tutti voi avete sempre conosciuto. So che mi capirai.
Ricordi il primo giorno in cui ci siamo conosciuti? Io lo ricordo benissimo, soprattutto perché diluviava ed ero in giro senza ombrello quando sono entrato nel circolo di Cutro per la prima volta. Non sai quanto vi sono ancora grato ancora per avermi fatto entrare. Penso che tu l'abbia intuito, perché sono stati tanti i pomeriggi in cui sono venuto a studiare in sezione: non c’era un bel clima in famiglia. Mio padre aveva il vizio di sfogare la sua rabbia su di me. Comandava lui in casa e se qualcosa non gli piaceva di come ti comportavi era la fine. Con gli anni la situazione si è un po' allentata, ma quando avevo quattordici anni ricordo che avevo sempre paura di tornare.
Alle scuole medie è successo più di una volta che sono stato picchiato per aver saltato la scuola. So che difficilmente crederai al fatto che marinassi la scuola, visto che mi hai visto studiare molte volte e conosci bene le mie pagelle, ma prima che tu rimanga deluso ti voglio spiegare perché lo facevo.
Qua a Palermo si cita molte volte una frase di Paolo Borsellino, che dice: “chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Penso sia una grande verità. Io ho vissuto ogni giorno, per anni, con una costante paura. Ma non una di quelle paure che hai un giorno e poi ti passa. È stata una paura che mi ha immobilizzato e che ha continuato ad ossessionarmi. Forse la mia storia sarà simile a tante altre. So bene di non essere l'unica persona ad avere vissuto cose del genere, ma non passa un giorno in cui non mi chieda il perché di tutto questo.
È iniziato tutto alle elementari. Sono sempre stato scarso il più scarso tra i maschi negli sport, e alcuni bambini avevano iniziato a prendermi in giro. La cosa mi dava fastidio, ma per tutti era normale che da piccoli si facciano e si dicano cattiverie. Nessuno lo chiamava bullismo, per i maestri erano giochi e basta. A volte, durante l'ora di ginnastica, mi tiravano apposta il pallone in faccia, ma ancora non immaginavo quello che sarebbe successo gli anni dopo.
In prima media, sempre gli stessi ragazzi mi chiesero di fargli copiare un compito in classe. Negli sport ero negato, ma sapevano tutti che ero bravo a scuola. Non glielo lasciai fare, perché lo ritenni scorretto. Fuori dalla classe, mi picchiarono per la prima volta. Due mi tenevano immobilizzato, un altro mi tirava calci nello stomaco.
Ancora lo ricordo vividamente. Nessuno lo seppe mai.
Però, lì non avevo ancora paura. Era stato solo un caso e non l'avrebbero più fatto, pensavo, perché era rischioso: un insegnante avrebbe potuto notarli facilmente, anche se quella volta l'avevano passata liscia.
Invece, quella situazione andò avanti. Prima accadeva solo quando mi rifiutavo di far copiare i compiti, perché nonostante sapessi che mi avrebbero picchiato non volevo cedere. Dopo un po', invece, diventò quasi uno svago per loro. Lo facevano anche alla fermata dell'autobus, e lì mi accorsi in fretta che nessuno degli altri ragazzi mi avrebbe difeso. Ridevano e basta, guardando un povero bambino che veniva spintonato per terra ogni volta che si rialzava.
A volte mi chiedo se, al loro posto, mi sarei aiutato o avrei fatto come loro. Non mi so dare una risposta. Non li voglio incolpare, è difficile non seguire il branco, soprattutto quando si è ancora piccoli, però sarebbe bastato uno solo. Uno che fosse stato dalla mia parte, anche solo a parole.
Ma la cosa peggiore accadde a dicembre di quello stesso anno, quando mi rinchiusero per scherzo dentro ad uno sgabuzzino. Pensavo che mi avrebbero tirato fuori subito, ma mi sbagliavo. Non sono mai stato claustrofobico, ma lo spazio era stretto e dopo mezz'ora iniziai a sentire l'aria mancare.
Mi lasciarono lì l'intera giornata. Fu il custode a trovarmi dentro, quando stava chiudendo la scuola. Ricordo chiaramente la paura che provai ogni singolo minuto di morire soffocato. Sei ore erano sembrate sei giorni. Nessuno della mia famiglia sembrò comprendere appieno tutto quello che mi trascinai dietro dopo quella volta.
Attacchi di panico, incubi, paure improvvise. Dormivo due ore a notte, mangiavo pochissimo, marinavo la scuola per la paura di tornare in quello sgabuzzino, non riuscivo più a stare in luoghi chiusi o bui. Mi inventavo dei metodi per non dormire, perché dormendo i miei sogni erano sempre vuoti, spaventosi, oscuri. A scuola, ogni tanto, avevo attacchi di panico improvvisi, e tutti pensavano fosse l'ansia per l’interrogazione. Nessuno ha mai saputo la verità.
Gli insegnanti parlarono con i miei genitori, che mi portarono da uno psicologo. Ressi la bugia della paura delle interrogazioni, perché dire la verità era troppo doloroso. Mio papà sapeva che ero stato chiuso in uno sgabuzzino, sapeva che mi prendevano di mira. Voleva che mi difendessi da solo, ma non ne ero in grado, e mi dava la colpa per ciò che subivo.
Mi vennero prescritti dei farmaci. Gli attacchi di panico finirono, e da lì iniziai a diventare apatico e spento. Con il passare dei mesi, mi accorsi che non riuscivo più a sorridere. Un giorno, un mio compagno di classe fece una battuta che fece ridere tutti, persino il professore. Io cercai di ridere, ma mi uscì solo una smorfia poco convinta. Trovavo divertente la battuta ma, per qualche motivo, non riuscivo ad esprimere ciò che provavo.
Smisi anche di piangere. Continuavo a essere preso di mira, quando non ero abbastanza svelto per scappare, ma cercavo di non mostrare segni di cedimento. Una volta riuscirono a slogarmi un braccio e per un po' dovetti nasconderlo a tutti per la mia paura di chiedere aiuto. È un altro dei miei incubi ricorrenti.
Se ora ci ripenso, credo che sia stato grazie al circolo, alla politica e al vostro affetto che tornai lentamente a sorridere. Ma non fu facile, perché ormai avevo passato troppi anni dentro quella bolla di odio, e solo quando diventai maturo mi accorsi di quanto mi aveva cambiato. In quarta superiore ho smesso i farmaci. Volevo smettere di essere dipendente da quella roba, sapevo che mi toglieva un pezzo di me stesso, e invece ora sono tornato a prenderli. Pensavo di aver superato tutto questo, e invece questa notte sono finito di nuovo dentro quello sgabuzzino. Quell’inferno continua ad inseguirmi anche qui.
Mi serve aiuto, lo so, forse dovrei andare da uno psichiatra. Ma non posso ammettere a me stesso di dover ricominciare ad affrontare tutto. Ora che sono un po' cresciuto, so che avrei potuto difendermi da piccolo, e se lo avessi fatto ora sarebbe diverso. Avevo dei genitori e degli insegnanti e, se non vedevano, io avrei potuto convincerli in qualche modo. Ma ho avuto troppa paura anche per fare questa semplice cosa che mi avrebbe salvato.
Qualche prepotente è riuscito a togliermi tutte le cose belle che avrei potuto vivere e che invece non avrò mai vissuto, tutti quei ricordi piacevoli che hanno gli altri della loro infanzia. È questa consapevolezza a farmi più male dei ricordi.
Però, Antonio, non voglio che tu faccia niente per me. Mi dispiace di averti turbato. Non era questa la mia intenzione. Ti ho scritto solo perché”
 
La lettera si interrompeva con quella parola. La fine del foglio aveva l'inchiostro sbavato, come se ci fosse caduta sopra dell'acqua.
Acqua salata. Lacrime.

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Capitolo 17
*** Maschere ***


Nicolò continuò a fissare quell'ultima riga. Le mani gli tremavano, il cuore gli batteva incessantemente.
Non poteva crederci.
In un attimo, rivide Michele dentro l’ascensore, accasciato a terra, sconvolto dalla paura, che chiedeva a qualcuno di non ben precisato di tirarlo fuori. Cercò di immaginarselo da piccolo mentre veniva buttato in uno sgabuzzino. L'immagine era ripugnante, fin troppo per poterci pensare un attimo di più. Rivide quello schiaffo che gli aveva dato sulle scalinate e il suo sguardo confuso e spaesato mentre non si difendeva, non si ribellava. Risentì quelle parole incerte quando a stento cercava di ribattere alle sue parole nel talk show.
Era quello il vero Michele.
E lui, ora, era il primo ad averlo scoperto, perché quella lettera non era mai stata conclusa né inviata, perché Michele non aveva avuto il coraggio necessario e per qualche motivo l'aveva conservata, forse pensando un giorno di spedirla.
Ripiegò i fogli dentro la busta e rimise a posto il portafoto, senza far rumore. Tornò ad infilarsi silenziosamente sotto le coperte, fissando l’altro come per trovare dipinto nel suo volto un qualche senso inesistente a tutte quelle cose che aveva letto.
Finché, forse per la troppa vicinanza del suo fiato, Michele aprì gli occhi.
 
 
*
 
 
«Ma… che ci fai qui?» chiese, con la voce impastata dal sonno e dall’alcool, rivolto ai due bagliori verdi che lo stavano inquietantemente fissando.
«Beh…» Andreani si girò nel letto, «è che sei crollato nel taxi, ti ho aiutato ad entrare in casa e vista l’ora sono rimasto. Scusa».
Michele si mise seduto, accedendo l’abat-jour, riacquisendo lentamente i vaghi ricordi della sera prima. Non ricordava neanche di essere arrivato a casa, e si rese conto con un brivido che, se l’altro lo aveva addirittura portato dentro, doveva essere stato in pessime condizioni.
«Figurati, non ti devi scusare» rispose, pensando di aver avuto un tono troppo maleducato, «non riesci a dormire?»
«No», ammise Andreani.
«Aspetta, vado a fare una camomilla».
Si alzò per andare in cucina, sentendo un mal di testa atroce. Non si aspettava di avere Andreani in casa, e si vergognò di se stesso notando tutto il macello che aveva lasciato in giro. Cercò di svuotare velocemente il lavello mentre i passi silenziosi dell’altro lo raggiungevano.
Il capogruppo del Fronte si sedette al tavolo, senza fare il minimo rumore.
«Scusa, c’è un po’ di casino».
«Scusami tu».
Michele si bloccò per un secondo, confuso.
«Per cosa?»
«Ho fatto una cosa che non dovevo fare» rispose lapidario l’altro.
«Bere birra sul tetto di Montecitorio?»
«No, darti quello schiaffo».
Michele si girò per guardarlo, ritrovandosi completamente spaesato dall’espressione dell’altro, completamente abbattuta.
«Non c’è bisogno che ti scusi di nuovo» rispose, imbarazzato. Andreani iniziò a guardarsi intorno, mentre si mordeva nervosamente l’unghia del pollice.
«Ascolta. Non ti arrabbiare, io…» si chiuse il viso fra le mani per diversi secondi, «non riuscivo a dormire, così ho curiosato per la tua stanza. E ho letto la lettera nel portafoto».
Michele cercò di ricordarsi a cosa si riferisse. Aveva quel portafoto da anni: dentro ci aveva accumulato diversi ricordi sparsi, però c'era solo una lettera che aveva scritto e mai inviato. E mai neanche buttato sperando, un giorno, di avere davvero il coraggio di consegnarla ad Antonio, il segretario del circolo di Cutro e l’uomo che lo aveva accolto.
Guardò Andreani, ferito da quella notizia. Lui non avrebbe mai dovuto leggerla né, a maggior ragione, guardare tra le sue cose. Iniziò a tremare, cosciente che qualcuno ora conosceva ciò che aveva nascosto per anni, e quel qualcuno era proprio davanti a lui.
«Stavo cazzeggiando» continuò lui, per una volta senza la minima traccia di spavalderia nella voce, «non potevo immaginare cosa ci fosse scritto».
«Beh, e ora sei contento?» replicò Michele, scocciato.
«No!» lo fissò, più rammaricato che mai, «ascolta, mi dispiace davvero, non avrei dovuto farlo. Ma ascoltami, non puoi continuare a chiuderti dentro una maschera, non ti serve a niente nascondere ciò che sei».
Michele non disse niente mentre versava la camomilla per entrambi e prendeva la sua tazza, portandosela in camera.
Lasciò fuori dalla porta tutte le cose di Andreani, ammucchiandole in malo modo, e si chiuse dentro a chiave.
 
 
*
 
 
Era mattina inoltrata quando riaprì gli occhi.
Il divano di Martino era scomodo, in più senza coperte aveva continuato a svegliarsi per il freddo, ma nonostante questo era così stanco che ogni volta si era riaddormentato.
Il suo primo istinto, vedendo le sue cose fuori dalla stanza di Martino, era stato quello di insultarlo dietro la porta e andarsene. Subito dopo si era però ricordato di essere lui nel torto, quindi aveva incassato, ma con la prospettiva di non lasciare chiusa la questione. Guardò l’orologio sul telefono. Erano già le undici, era molto difficile che Martino dormisse ancora.
Si avvicinò alla sua stanza, porgendo discretamente l’orecchio alla porta. Non sentì alcun rumore.
Fece un respiro e bussò.
«Michele?»
Passarono diversi secondi prima che Nicolò sentì il rumore della chiave nella toppa.
«Che ci fai ancora qui?»
Il giovane aveva gli occhi cerchiati di rosso, e un viso tutt’altro che riposato. I capelli scuri erano più spettinati che mai, ma il suo sguardo tradiva lo stupore di averlo ancora in casa.
«Beh, non me ne sono mai andato…»
Si avvicinò di più a Martino e lo fissò negli occhi, serissimo.
«Senti, non sono abituato a queste situazioni» ammise, «mi dispiace davvero per quello che hai vissuto, e mi dispiace di aver letto le tue cose. Il fatto è che da quando ti ho dato quello schiaffo mi sono sentito in colpa verso di te, e tutto quello che ho fatto fino ad oggi è stato provare a rimediare al mio errore. Quindi, per favore, proviamo a trovare un punto di incontro».
Martino sembrò pensarci a lungo, ma fortunatamente non c’era più traccia del rancore di ieri sera.
«Vieni, facciamo colazione».
Lo seguì in silenzio in cucina, dove Martino non proferì parola mentre apparecchiava la tavola e preparava la moka.
Quando poi si sedettero, accadde l'inaspettato. Martino iniziò a raccontare.
I primi furono frammenti di ricordi confusi tra di loro. Frasi appena sussurrate che parlavano di un bambino che in quel momento sembrava essere un'altra persona rispetto a lui. Nicolò cercò di aiutarlo, restando in silenzio per la maggior parte del tempo ed esortandolo con un cenno a continuare quando Martino interrompeva quel flusso continuo di parole, via via sempre più sicure, più limpide.
«Quella volta ero in cortile, stavamo giocando. Sono stato un coglione, perché mi sono allontanato. Mi hanno raggiunto, volevano farmela pagare perché qualche giorno prima non avevo suggerito a uno di loro. Allora mi hanno preso un braccio e hanno cominciato a tirare…»
La voce era poco più di un sussurro, che a quel punto della storia si ruppe di colpo.
Nicolò vide spuntare una prima lacrima. Nicolò si morse forte il labbro per non avere la stessa reazione, distogliendo lo sguardo. La verità era che partecipare silenziosamente a quel dolore lo stava facendo diventare anche un suo dolore.
Istintivamente, gli posò una mano sulla spalla. Poi aggiunse anche l'altra e si avvicinò, stringendolo a sé, senza metterci troppa forza. Lasciò che la testa di Michele si appoggiasse sul suo petto, nascosta dalle sue braccia, come se in quel momento ci fosse stato il mondo intero spettatore pronto a vedere le sue lacrime e la sua debolezza, e lui fosse incaricato di proteggerlo per non mostrare a nessuno la verità dipinta sulla sua faccia.
Le lacrime di Martino formarono una macchia umida e tiepida sulla sua camicia. Lasciò che finisse da solo, che si spegnesse lentamente tutto quanto, che ogni motivo di quelle lacrime si esaurisse.
Quando si staccò, si creò un imbarazzante silenzio, interrotto solo da qualche singhiozzo e soffiata di naso.
«Forse è meglio se riposi ancora un po’, che dici?» mormorò dopo un po’ Nicolò, notando che l’altro aveva il viso stravolto dalla stanchezza.
«Sì, hai ragione. Scusami se ti ho sbattuto fuori così».
«Ma va, figurati» cercò di sorridere.
Martino lo accompagnò alla porta. In qualche modo, anche con gli occhi ancora gonfi dal pianto, appariva più sereno di prima.
Si strinsero la mano, e bastò uno sguardo veloce per dirsi quei “grazie” che nessuno dei due era in grado di esprimere a parole.
 
 
*
 
 
Adorava i suoi ciuffi biondi disordinati, quelli che quando andava in bici gli ondeggiavano davanti agli occhi. Anche le ragazze ne andavano matte, e forse era anche grazie al suo fascino che la giovanile universitaria che lui dirigeva poteva vantarsi di essere la più grande di tutta Roma.
Quel giorno di fine ottobre, Thomas parcheggiò la bicicletta nel suo solito posto. Era famoso in università per quella bicicletta variopinta, l’esatto opposto del concetto di “maschile”. Ma sua sorella l’aveva decorata personalmente, quindi non se ne sarebbe mai separato, nonostante il giudizio altrui.
Subito la sua espressione si fece perplessità quando vide un altro ragazzo davanti allo Spazio dello Studente.
«E tu che ci fai qui? Oggi abbiamo riunione noi! Ancora non li hai imparati i turni?» sbottò di colpo.
L’altro ragazzo si girò, alzando un sopracciglio. Era solito reagire con modi da signore, da vero democristiano, come commentava sempre Thomas, che apprezzava decisamente poco quello studente vestito fin troppo bene, con i capelli sempre freschi di parrucchiere e un taxi che lo prendeva e portava in università ogni santo giorno.
«Veramente no. La segreteria mi ha informato che per questa settimana vi siete fatti spostare» rispose placidamente, perché uno come lui non alzava mai la voce. Non ne aveva mai avuto bisogno uno come Riccardo Marchesi.
«La segreteria avrà capito male, e infatti come vedi il calendario è rimasto uguale» ribatté Thomas.
L’altro guardò il foglio appeso alla porta, con scarso interesse. Alzò le spalle.
«Ormai ho avvertito i miei. Vorrà dire che voi andrete domani al posto nostro».
«E perché mai dovresti averla vinta tu, damerino?» Thomas gli si piazzò faccia a faccia, squadrandolo dall’alto in basso. Era abituato a trattare con Riccardo ormai. L’importante era non lasciarsi mettere in soggezione dal suo ego smisurato.
«Perché noi discutiamo di cose importanti, come aprire veri progetti per gli studenti. Non perdiamo tempo a organizzare grigliate e feste idiote dove la gente va a drogarsi».
Gli occhi di Riccardo scintillarono in segno di sfida. Thomas non arretrò.
«Certo! Ecco arrivato Riccardo Marchesi, il paladino degli studenti! Mi raccomando, attenzione a non sporcarvi troppo le mani con quei progetti, credo che la tua giacca costi quanto il reddito di uno studente medio!»
Continuarono a discutere animatamente per qualche minuto, menando colpi su colpi. Tra di loro finiva sempre così, perché nessuno dei due poteva darla vinta all’altro, era una questione di principio. Ad un certo punto, però, dei passi nei corridoi li costrinsero a smettere.
Un insolito gruppo di giovani aveva fatto la sua comparsa, ciascuno dotato di testa rasata, felpa nera, catenina al collo e anfibi.
Non era poi difficile riconoscerli. Anche uno stupido avrebbe saputo chi fossero: tutti avevano visto persone vestite in modo simile nei telegiornali solo qualche giorno prima, mentre assaltavano un circolo di partito a Bologna. Ma nessuno dei due aveva mai considerato l’idea di avere a che fare con un gruppo del genere lì, dentro l’università.
Thomas e Riccardo si fissarono per un minuto buono, incerti su chi dovesse parlare, ma fu Marchesi il primo a non aspettare di ottenere un permesso.
«E voi che volete?» chiese, senza nascondere l’ostilità.
«Smammate. Quest’aula adesso è nostra» annunciò uno della banda. Si avvicinò a loro, ma nessuno dei due si mosse di un millimetro.
«No, questa è un’aula ad uso delle organizzazioni studentesche. Se volete utilizzarla dovete chiedere il permesso alla segreteria.
Ciascuno ha il suo turno qui» rispose Thomas, evitando il più possibile il contatto visivo.
«Ah davvero?» tutti risero, «invece adesso è nostra, peccato!» Marchesi fece uno scatto in avanti. Tutti lo fissarono, evidentemente desiderosi di vedere le scintille.
«Chiamo la polizia se non ve ne andate. È un nostro diritto stare qui». Il gruppo intero scoppiò di nuovo a ridere, sbeffeggiandolo apertamente.
«Chiama pure, dai! Vedrai se arriveranno!»
Thomas osservò Riccardo agitarsi come un’anima in pena mentre diceva diverse parole concitate al telefono, evidentemente sprovvisto di un interlocutore che lo prendesse sul serio. Neanche quello era un fatto nuovo. La polizia faceva finta di non capire, o prometteva di venire e non arrivava, anche quelle erano tutte scene già viste e sentite. Chiuse la chiamata, furioso. Uno come lui non era per niente abituato a non far valere i suoi diritti.
«E adesso smammate, pischelli» rilanciò una delle teste rasate. Thomas e Riccardo si guardarono di nuovo, incerti se obbedire o meno. Nessuno dei due era mai stato abituato ad abbassare la testa, specialmente davanti a dei prepotenti, ma quelli erano in tanti, e loro erano solo due.
«Noi da qui non ce ne andiamo» annunciò Thomas.
Uno del gruppo di teste rasate si fece avanti, estraendo un tirapugni dalla tasca e infilandoselo tra le dita. I due ragazzi indietreggiarono istintivamente.
«Smammate con le buone o con le cattive?»
Thomas si morse il labbro inferiore, fissando prima lo sconosciuto e poi Riccardo. Indietreggiare sarebbe stato più che istintivo, scappare anche, ma qualcosa nella sua testa gli diceva che non doveva farlo. Non se lo sarebbe mai perdonato. Che razza di vile sarebbe stato?
Che esempio poteva essere per i suoi compagni? Si lasciò raggiungere, tremando leggermente.
Non doveva indietreggiare, non doveva indietreggiare…
Si accorse solo l’istante dopo che nemmeno Marchesi aveva indietreggiato. Se ne accorse proprio quando il pugno metallico colpì il viso candido del suo giovane avversario politico, mandandolo a terra tra schizzi di sangue. Thomas restò immobile, paralizzato
dall’orrore.
«E adesso smammate. Se vi fate vedere qui di nuovo ve la faremo pagare. L’aula ora è nostra».
Entrarono dentro senza chiedere il permesso. Erano circa una decina, ma dalle urla e dal vociare allegro sembravano un centinaio. Tutti i quadri e le foto vennero buttati a terra tra l’euforia generale. Lo statuto dell’aula, appeso al muro, venne stracciato e gettato via.
Thomas girò immediatamente lo sguardo, come se la sola visione gli bruciasse gli occhi. Si chinò su Marchesi, il quale non aveva ancora emesso un suono, anche se era ancora vigile e cosciente. La vista del sangue addosso al suo principale avversario gli provocò subito una repulsione istintiva.
«Andiamo. Ti porto in infermeria».
«Ho il mio medico privato» protestò Riccardo, mentre sputava il sangue che ancora aveva in bocca.
«Sì, ma ti devi almeno disinfettare».
Lo trascinò via a fatica da quella che un tempo era stata la loro aula. Non erano mai stati insieme lì dentro nello stesso momento, ma era la loro casa, anche se in fondo si trattava di due case diverse che coesistevano. E ora un gruppo di fascisti gliel’aveva rubata, con un’ingiusta prepotenza.
Thomas non smise di tremare di rabbia nemmeno quando lui e Riccardo furono arrivati all’infermeria, dove spiegarono l’accaduto. L’infermiera li incoraggiò a chiamare di nuovo la polizia, ma era inutile, e loro erano abbastanza svegli da saperlo. Tutti gli organi di ordine pubblico erano stati infiltrati da quei gruppi, per quello potevano permettersi di fare ciò che volevano. I telegiornali non facevano che dare notizie di intere squadre di forze dell’ordine che si rifiutavano di intervenire in quelle situazioni, e i gruppi di comando, per qualche motivo, non avevano ancora preso provvedimenti.
Tutti tacevano, perché conveniva tacere.
«Dobbiamo fare qualcosa» esordì Riccardo, che per tutto il tempo della medicazione non aveva pronunciato una parola.
«Sì…» rispose Thomas, con scarsa convinzione. Non avrebbero potuto fare niente, e lo sapevano benissimo, anche se nei fatti erano in tanti, perché loro due insieme rappresentavano il collettivo e
l'associazione più grande dell’Università La Sapienza. Ma entrambi sapevano che un’organizzazione può vivere solo insieme agli studenti, e tutti si sarebbero presto tirati indietro una volta visto il rischio. Forse qualche coraggioso sarebbe rimasto, ma non sarebbe servito a molto.
Marchesi capì al volo le intenzioni del suo nemico storico.
«Non dirmi che vuoi tirarti indietro. Proprio tu, che parli sempre di coraggio!» gli gridò contro.
«Guarda il tuo livido! Ecco cosa ce ne facciamo del coraggio! Non è un gioco questo, io e te siamo solo in due e non arriviamo a cinquant'anni insieme, cazzo!» rispose Thomas, gridando più forte. Odiava essere punto sul coraggio. Non lui, che durante le assemblee parlava di rivoluzione e che aveva fatto mettere un quadro di Mao Tse Tung in quell’aula che ora non gli apparteneva più.
«Sai quanti anni avevano i partigiani quando combatterono il fascismo?» chiese Riccardo.
«Non tirare in mezzo i partigiani!» sbuffò Thomas.
«Beh, sai cosa? Non mi importa. Fa’ quello che vuoi, scappa pure, come farebbe un vero comunista. Io domani chiamerò a raccolta tutte le associazioni e i sindacati universitari, e vedremo di riprenderci la nostra aula. Voi deciderete se presentarvi o fare i codardi».
Thomas sentì risalire il suo odio per quel ragazzo. Strinse i pugni per placarlo, uscendo dall'infermeria.
Quella notte la trascorse a pensare. Da una parte c’era la sua carriera universitaria quasi perfetta, dall’altra la politica, la democrazia, la giustizia, tutti quei valori che gli insegnavano nei corsi universitari e che ora non erano più concetti astratti dentro fogli di appunti, ma valori concreti per i quali toccava darsi da fare per difenderli.
Il giorno dopo, all’assemblea convocata da Marchesi con tutte le associazioni e i sindacati studenteschi, non fu molto difficile contare in quanti sarebbero stati. Due.
Due persone che a malapena si erano mai parlate e che ora si ritrovavano dalla stessa parte della barricata, perché erano rimasti da soli.
«Ci toccherà lavorare insieme».
Marchesi gli allungò la mano, offrendo per prima la tregua. Thomas fissò prima lui poi la sua mano, notando l’enorme sforzo che stava compiendo nel dargliela, e le loro mani si strinsero, per la prima volta senza rancore.
 
 
*
 
«Non so se ti sei reso conto di ciò che hai fatto».
Michele osservò la moquette e i mobili di legno scuro. Non era mai stato dentro quell’ufficio, molto più spartano rispetto a quello di Marchesi. Non c’erano mobili pregiati, né quadri astratti, né onorificenze. Vi era solo uno schedario grande tutta la parete e poche foto sparse.
«Sì. Sono stato assente due giorni, e non ho partecipato alla votazione finale sulla prima legge della Carta Antifascista» rispose Michele, come un bravo scolaretto. Almeno avrebbe avuto la soddisfazione di prenderlo in giro.
Quando era tornato a Montecitorio, dopo quell’insolita giornata in cui aveva, per la prima volta, parlato della sua vita con qualcuno, la sua paura di affrontare il capogruppo si era attenuata di molto, sostituita dalla rassegnazione per l’inevitabilità degli eventi. Fin da quando aveva deciso di stare su quel tetto, sapeva benissimo che prima o poi avrebbe dovuto affrontarne le conseguenze. In qualche modo,
l’insolita vicinanza con il capogruppo del Fronte gli aveva fornito anche un po’ del suo coraggio e della sua faccia tosta.
Pasqui si alzò in piedi. Era parecchio più alto di lui, tanto da costringerlo a tendere il collo per non interrompere il contatto visivo. Quando vide l’uomo muoversi, Michele indietreggiò istintivamente, ma lui lo oltrepassò, arrivando fino allo schedario in fondo alla sala per armeggiare con degli enormi raccoglitori. Michele si tenne le mani in mano, incerto su cosa sarebbe successo, in qualche modo intimorito dal silenzio dell’altro.
Alla fine, il capogruppo tornò verso di lui con un foglio A4 dentro una busta di plastica, che gli sbatté in faccia senza alcuna gentilezza.
«Lo riconosci?»
Lesse qualche riga. Lo riconosceva bene, era il patto di fedeltà che ogni deputato di Sinistra Democratica aveva firmato prima di essere eletto: quel patto che impegnava tutti a rispettare la Carta Antifascista, facendo di quei valori un impegno attivo
nell’approvazione di tutte le sue leggi.
La sua firma in calce gli dondolò davanti agli occhi. L’istante dopo Pasqui estrasse il foglio dalla busta e Michele sussultò, ritrovandoselo in mano.
«Hai trasgredito alla tua stessa firma. Adesso straccia quel documento» sorrise sprezzante.
Il giovane deputato strinse il foglio tra le mani. Non poteva parlare sul serio. Lo stava solo provocando.
«No. Io credo ancora in quello che ho firmato» gridò, stupendosi di quanto forte riusciva a gridare e di quanto poco era abituato a sentire il suono della sua voce alta.
Pasqui continuò a fissarlo con superiorità.
«No, non ci credi. Ieri è stata approvata una di queste leggi. Tu dov’eri?»
«Stavo male» rispose piano, conscio che per quanto fosse vero non sarebbe stato creduto.
Pasqui scoppiò a ridere, senza la minima traccia di gioia.
«Hai la minima idea delle condizioni in cui abbiamo fatto politica noi, alla tua età? Hai idea del significato delle parole scritte su quel foglio? Non sono disposto a tollerare la tua insolenza un minuto di più. Straccialo subito o lo straccerò io!»
Era fin troppo serio nella sua freddezza. Michele strinse il foglio più forte.
Non lo avrebbe fatto. Non gliel’avrebbe data vinta.
Era salito su quel tetto in un momento di amarezza e di debolezza. Non poteva essere quella stupidaggine a rovinare per sempre la sua carriera politica.
«No» gridò di nuovo.
Trattenne quel foglio con tutte le sue forze, ma il suo capogruppo riuscì a prenderglielo, aprendogli le mani con la forza. Quando si rese conto che stava davvero per strapparlo non ci vide più. Spinse Marcello Pasqui con tutta l’energia che aveva in corpo, facendolo appena barcollare indietro.
Il foglio cadde a terra. Quel fragile e prezioso documento dove c’era scritto tutto il suo impegno da parlamentare si era un po’ stropicciato, ma era ancora intero. Si chinò per raccoglierlo, sentendo il suo cuore minacciare di esplodere di lì a poco per quello che era appena successo.
Alzò lo sguardo verso Pasqui, incerto. Lui, di nuovo, lo fissò con sufficienza, come si guarda un insetto. Non sembrava avere più voglia di discutere. A quanto pareva, il suo scopo era solo provocarlo, e lo aveva raggiunto benissimo.
«Rimettilo nello schedario e sparisci. Chiudi la porta». Pasqui tornò a sedersi alla sua scrivania mentre il giovane, lentamente, ubbidiva.
La porta si chiuse con un tonfo sordo, riportando il silenzio in quell’angolo di palazzo.
 
 
*
 
 
Da quando era arrivato a palazzo Montecitorio stava fumando più del solito. Chissà come stava apparendo, in quel momento, agli occhi dei suoi colleghi. Era sempre stato abituato a prendere la vita con leggerezza, e ora non faceva a meno di chiedersi se il peso di ciò che aveva provato il giorno prima era abbastanza forte da cambiargli l’espressione del viso.
Il capogruppo del Fronte sistemò i fascicoli, rispose alle mail, studiò la prossima legge che avrebbero votato e chiamò la sede di Milano per informarsi sul loro operato. Il lavoro di solito riusciva a rilassarlo, ma ogni volta che alzava lo sguardo oltre lo schermo e vedeva Chiarelli seduto al PC di fronte a lui, sentiva il sangue ribollirgli nelle vene. Non aveva certo dimenticato che lo aveva deriso.
Quell’articolo di giornale era stato di pessimo gusto. Certo, erano solo stupidaggini di gossip. Ma perché qualcuno aveva deciso di scriverci addirittura un articolo così lungo, equivocando volontariamente ciò che effettivamente ritraeva la foto rubata?
Chiuse il PC con uno scatto secco. Chiarelli sussultò per il rumore improvviso.
«Io vado» annunciò.
«Dove pensi di andare?» gridò il suo vice.
«Dove cazzo mi pare» ribadì lui.
«Io e te faremo i conti, stronzo!»
Quell’ultimo urlo gli arrivò soffuso, perché aveva già chiuso la porta. Tornò in cortile e si accese l’ennesima sigaretta. Era già sera, e lui non se n’era accorto. Quell’assurda giornata era passata, in qualche modo.
Sentiva il bisogno di stare da solo a pensare, e in quel momento stava pensando a Michele. Alla sua storia, alle sue lacrime, all’abbraccio che gli aveva dato.
Aveva provato a immaginare cosa poteva essere realmente alzarsi tutte le mattine e avere paura di essere picchiati dal padre o dai compagni di scuola. Era una cosa così lontana dalla sua vita che faceva veramente fatica a figurarsi in quella condizione, e questo lo riempiva di sconforto. Nonostante tutte le scuse che gli aveva fatto, non riusciva ancora a dimenticare quello schiaffo e come si era rivolto a lui quando erano stati in trasmissione insieme.
Buttò la cicca a terra. Non era da lui restare a rimuginare e subire gli eventi. Era il momento di riappropriarsi del suo spirito combattivo. Se il senso di colpa lo tormentava, allora avrebbe agito. Avrebbe aiutato Michele, come aveva fatto il giorno prima.
 
 
*
 
 
La mattina dopo, trovò Thomas curvo sul giornale, con il ciuffo biondo che gli nascondeva il viso e la colazione davanti a sé, ancora intatta.
Michele alzò un sopracciglio. Era facile capire come lo stesse ignorando di proposito. In quei primi mesi in Parlamento non aveva mai visto Thomas leggere un giornale. Gli arrivò molto vicino, restando comunque alle sue spalle. Lui si irrigidì, ma non si voltò.
«Thomas?»
Il deputato di Roma fece finta di niente e girò una pagina. Michele stava iniziando a innervosirsi per quell’atteggiamento, ma doveva assolutamente risolvere quella situazione. Erano colleghi, non potevano ignorarsi per il resto della loro vita solo perché lui aveva saltato un voto, per quanto fosse pesata la sua assenza.
«Se mai te lo stessi chiedendo, sono stato convocato nell’ufficio di Pasqui. Stava per strappare il mio Patto di Elezione davanti a me». Tacque, cercando di scorgere l’effetto di quella notizia, anche se non riusciva a vedere il suo collega in faccia.
L’altro, in risposta, si avvicinò la tazzina di caffè e vi mescolò nervosamente lo zucchero.
«So che qualunque cosa ti dirò non giustificherà la mia assenza. Però volevo almeno chiederti scusa, perché so quanto sono importanti per te quelle leggi. Sono stato su quel tetto per un eccesso di emotività, non per scarso interesse verso il lavoro del nostro partito».
Si ritrovò fulminato dagli occhi di Thomas, che facevano capolino dai ricci biondi. Abbassò lo sguardo, non aspettandosi una reazione tanto diretta. Deglutì forzatamente, sentendo la gola improvvisamente secca. Non era per niente abituato a fare certi discorsi. Il giorno precedente aveva pensato a lungo al modo migliore per affrontare la situazione, imparando a memoria quelle due frasi che sarebbero state più adatte a mantenere una certa dignità, ma l’effetto non corrispondeva a quello che si era immaginato.
«Sai, Francesco Venturi un tempo era il migliore amico di Pasqui. Quando perdi un caro amico, anche a distanza di anni, ti dimentichi il galateo istituzionale, soprattutto quando ci sono in ballo delle leggi che, in qualche modo, stiamo votando in suo onore».
Non sembrava per niente arrabbiato con lui, nonostante il suo sguardo non fosse per niente il suo solito scanzonato.
«Posso capire» mormorò il giovane.
«Non puoi» ribatté Thomas, smettendo finalmente di far finta di leggere il giornale e buttandolo in un angolo, «non hai mai vissuto tutto questo. Noi eravamo qua mentre tutto accadeva davanti ai nostri occhi, mentre il partito nasceva in un mare di litigi, mentre i fascisti vandalizzavano le nostre sedi e mentre Francesco veniva ucciso. Non sai cosa vuol dire fare politica e rischiare la vita».
Michele fissò il pavimento. Erano rare le occasioni in cui Thomas era serio, e quando succedeva sapeva bene di non poter rispondere a dovere.
Il deputato biondo fece un lungo respiro per calmarsi. Poi si alzò e gli appoggiò una mano sulla spalla.
«Però, non è colpa tua se non hai vissuto i nostri tempi bui. E ha poco senso, adesso, rivangare il passato. Siediti e mangia qualcosa».
Il giovane accettò volentieri l’invito di pace. Si fece portare una brioche alla crema e un caffè lungo. Gli ritornò un po’ il sorriso. In fondo, gli era mancato stare con Thomas dentro l’aula e ascoltare le battute che si inventava quando si annoiava.
«Michele?»
Si voltò subito a quella voce familiare, notando subito il suo amico più anziano in piedi, con un giornale che pendeva dalla mano e uno sguardo cupo e penetrante dipinto in faccia.
«Ciao», Michele tentò subito un sorriso incerto mentre indicava Thomas con lo sguardo, come per fargli capire che ora era tutto a posto, «mi dispiace davvero per essermi perso il voto».
Arturo sospirò e si sedette nel posto libero, meditabondo.
«Qualcosa non va?»
L’anziano non rispose. Posò un giornale sul tavolo, sfogliandolo fino alla pagina dieci. Michele sentì un tuffo al cuore, mentre sentiva il caffè iniziare a fare il percorso inverso dentro il suo stomaco. Davanti ai suoi occhi c’era di nuovo quella foto, affiancata da quella più vecchia del loro bacio.

 

IL FUOCO DELLA PASSIONE ACCENDE LA CAMERA!

Un fotografo anonimo ha immortalato Michele Martino (SD) e Nicolò Andreani (FPI), mano nella mano all’uscita da Montecitorio all’una di notte. I due erano già stati protagonisti della campagna #WeLoveRights, creando non poco scompiglio nel dibat-
 
Prese la pagina del giornale e la appallottolò in una mano, senza finire di leggerla. Impresse nel pugno tutta la forza che aveva, per poi mollare la presa e lasciare la pagina accartocciata sul tavolo.
Arturo e Thomas si avvicinarono a lui, evidentemente preoccupati dalla sua reazione. Il più anziano lo prese per entrambe le spalle con dolcezza, spalancando gli occhi cristallini.
«Michele, questo non è un giornale di gossip, ma il Corriere della Sera. Questa attenzione mediatica non è normale, qualcuno sta cercando di ridicolizzare te o Andreani. Devi mantenere il sangue freddo, capito?»
Il giovane abbassò lo sguardo, cercando di non mostrare la sua frustrazione ai compagni. Sentiva l’infantile bisogno di piangere o mettersi a urlare, solo quello poteva fare davanti alle cose da cui non poteva difendersi.
Dentro il bar, diverse paia di occhi erano voltati verso di loro. Michele dovette fare molti respiri per riuscire a controllarsi. Non poteva mostrarsi debole, soprattutto non lì dentro.
«Beh? Che succede qui?»
Nicolò Andreani si palesò con un caffè in mano, facendo passare lo sguardo da Michele al giornale appallottolato.
Il giovane parlamentare sussultò quando lo vide dispiegare la pagina per leggerla, ricordando bene la reazione che aveva avuto solo pochi giorni prima. Nicolò Andreani, tuttavia, restò impassibile mentre leggeva, scorrendo con calma gli occhi chiari fino alla fine della pagina.
Appallottolò di nuovo il foglio di giornale e fece canestro nel cestino lì vicino, scoppiando subito in una sonora risata. Tutti si voltarono a fissarlo.
«Niente male, eh?» commentò, «abbiamo di nuovo bucato la stampa!»
I tre deputati di Sinistra Democratica lo fissavano come se fosse impazzito. Lui, in tutta risposta, si avvicinò a Michele, gli diede una pacca sulla spalla e con un braccio lo condusse discretamente tre passi lontano dagli altri.
«Non ti devi preoccupare di queste cazzate. Chiunque ha deciso di romperci i coglioni la pagherà. Stai tranquillo».
Si allontanò, con quel suo passo deciso e risoluto, come se fosse il padrone del palazzo e gli altri solo parte di uno sfondo anonimo.

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Capitolo 18
*** il Giorno del Ricordo ***


Non teneva mai quella foto sulla scrivania. Lì sopra ci teneva solo quelle meno importanti: principalmente lui e Goffredo in diversi anni della loro vita politica. Invece, quella foto stava sul ripiano più alto dello scaffale, quello dove conservava gli alcolici e i calici da vino.
Per arrivarci serviva una scaletta, ma Riccardo Marchesi utilizzava sempre la sedia per pigrizia.
Quel giorno sentiva la voglia di rivederla, perciò la prese in mano, soffiandoci via la polvere. C’erano tanti ragazzi e ragazze, ammassati in una saletta. Alcuni avevano una mano alzata con un cartellino, simbolo che si stava votando qualcosa, altri invece stavano applaudendo e sorridevano. Al centro dei loro sguardi c’era un tavolo, dove un ragazzo giovane e ben vestito stava nascondendo un sorriso enorme, mentre un altro stava per abbracciarlo.
Era la sua elezione a presidente dell’associazione universitaria, uno dei ricordi più belli della sua vita, ma ne aveva solo una foto sfocata, segno che neanche quel primo momento di gloria sarebbe potuto rimanere, nel tempo, una valida certezza della sua vita.
«Ho qua un articolo fresco di stampa» annunciò Pasqui, come al solito entrando senza bussare, «che stai facendo?»
L’aria tra loro era un po’ meno tesa ora che avevano approvato la Prima Legge Antifascista. Avevano festeggiato sia in modo sobrio e istituzionale, sia solo tra di loro, ricolmi di una gioia segreta che altri potevano solo immaginare. Poi avevano fatto un rapido giro di interviste e dichiarazioni prima di riprendere la solita routine, fatta di contrattazioni con il Nuovo Partito Popolare e incontri con personaggi influenti.
«Niente» rispose il segretario di Sinistra Democratica, rimettendo la foto al suo posto e prendendo il foglio di giornale dalle mani di Pasqui. Arricciò il naso, leggendo qualche parola qua e là.
«Beh, tutto bene, no?»
«No!» ribatté Pasqui, «dopo che è uscito questo articolo è andata peggio. Ogni volta che ci sono i giornalisti camminano apposta mano nella mano. E Andreani rincara la dose quando va in tv. Sui media girano solo le sue dichiarazioni stupide, non prendono più la cosa sul serio e continuano ad avere visibilità».
Marchesi sospirò. Quando anche Pasqui iniziava ad essere agitato, voleva dire che toccava a lui fare qualcosa.
«Ci penso io al buffone del Fronte. Non ti preoccupare».
«Ottimo» prese il foglio di giornale e lo ridusse a piccoli pezzettini, abbandonandoli per terra. Tanto qualcuno sarebbe venuto a pulire.
«Siamo una squadra» concluse Riccardo con un sorrisone. Si abbracciarono con diverse pacche sulla schiena, e Marcello rubò un sorso dalla bottiglia di vino aperta sulla scrivania.
 
 
*
 
 
Non si era mai divertito così tanto come in quei giorni.
Non sapeva neanche lui come aveva fatto. Aveva trasformato un fatto drammatico come quell’articolo sul giornale in una serie di spassose interviste, dove faceva la parte della checca innamorata. Ogni tanto tirava in mezzo anche Michele quando era nel corridoio, improvvisandogli improbabili poesie recitate ad alta voce o prendendolo sottobraccio maliziosamente. L’altro si ritrovava sempre rosso come un peperone, ma il più delle volte stava al gioco, e la sera si divertivano a sentirsi al telefono per esaminare le reazioni dei media e dei social, che ormai erano invasi dai meme su di loro.
Nicolò era sereno sapendo che, se qualcuno aveva fatto tutto questo per rovinarli, non aveva avuto successo.
La sua rinnovata visibilità era riuscita a fare miracoli, portandolo anche a fare pace con Chiarelli e a ritrovare la stima all’interno del gruppo parlamentare. Il Nicolò battagliero era tornato alla ribalta, e passava le giornate a lavorare senza sosta, oltre a fare interviste a radio, televisione e stampa. Molte volte incontrava Martino in cortile quando andava a fumare, e riuscire a farsi quelle due risate assieme leggendo le discussioni sui social che li riguardavano era benefico per entrambi. Il suo collega ora era molto più tranquilli di come l’aveva conosciuto, e anche lui tra i suoi colleghi godeva dei benefici di una certa visibilità mediatica.
Il venerdì, Nicolò uscì molto tardi dagli studi di La7, dopo una lunghissima intervista che era riuscito a gestire trattando sia i temi seri, sia la parte meno seria sulla sua presunta relazione clandestina. Decise di tornare al volo a Montecitorio per recuperare alcuni faldoni da studiare durante il weekend. Lo scooter blu quasi volò sulle strade libere, raggiungendo il centro della città in poco tempo.
Si tolse il casco. L’aria fredda della sera gli aveva arrossato le guance. Fece uno scatto di corsa sulle scale fino al suo ufficio, iniziando a cercare nell’abituale disordine. Fu in quel momento che qualcuno bussò alla porta.
«Avanti» disse automaticamente, dimenticandosi di che ora fosse.
«Buonasera».
Si girò, stranito dal sentire quella voce dentro il suo ufficio. Riccardo Marchesi era davanti a lui, l’abito blu impeccabile, la cravatta annodata perfettamente, le scarpe lucide a puntino. Sorrideva.
«Cosa posso fare per lei?» chiese, curandosi di far trasparire il tono ironico. Era molto più abituato ad avere a che fare con Pasqui, Marchesi invece era ancora un’incognita. Compariva in TV molto poco per qualche singola intervista, alla Camera era cordiale e amichevole con tutti, ma era quel tipo di gentilezza macchiata dalla evidente presunzione di superiorità.
«Oh, molte cose» iniziò lui, mentre cercava di mascherare l’irritazione di essere trattato in quel modo, «vorrei che parlassimo un po’ di Martino, se non ti dispiace. Vi vedo molto in confidenza».
«Preferisco che mi si dia del lei» puntualizzò Nicolò, continuando a restare girato di spalle per cercare nello schedario, «in ogni caso sì, siamo fidanzati e abbiamo intenzione di trasferirci negli USA per sposarci a breve».
Si godette quei secondi di silenzio innervosito del segretario, cercando di trattenersi dal ridere.
«Già, di questo volevo parlare» Marchesi si sedette senza invito, cancellando ogni parvenza di cordialità, «mi sembra che tu ti stia divertendo molto in questa situazione, ma io ho il dovere di proteggere un mio deputato dalle diffamazioni. Non ti preoccupi minimamente di lui e della sua immagine, e questo non mi piace». Sottolineò le ultime due parole per farne intendere la gravità, mentre Nicolò sorrideva di nascosto.
«Ma per favore! Ormai lo hanno capito tutti che siamo sotto un attacco mediatico, a cui io sto rispondendo per difendere sia me che Martino. E scommetterei che tu e Pasqui sapete chi c’è dietro, non ci credo che non ne sapete niente. In ogni caso, vorrei che mi sia dato del lei» ripeté.
«Caro Nicolò» riprese Marchesi, ignorando la richiesta dell’altro, «come staresti cercando di proteggere il mio deputato? A suon di schiaffi?»
Nicolò si immobilizzò, riconoscendo che quell’insinuazione non poteva essere casuale. Rimise a posto con calma, voltandosi finalmente verso il suo interlocutore che sorrideva tranquillo, ora che finalmente era venuto al dunque della visita. Avrebbe dovuto
aspettarselo, non poteva essersi scomodato a quell’ora solo per fargli la predica.
Il segretario di Sinistra Democratica tirò fuori il cellulare, rivolgendolo a lui per mostrargli un video ripreso dall’alto, in cui si sentiva chiaramente la sua voce mentre gridava addosso a Michele, finché non si rivide nel momento in cui gli diede il ceffone.
Iniziò a tremare senza controllo. Nella sua mente, non se lo ricordava proprio in quel modo. Per la prima volta stava rivivendo la scena vedendo in faccia l’uomo che aveva colpito.
Non se lo aspettava. Si sentì colpito, come se quello schiaffo l’avesse ricevuto lui ora, in quell’esatto momento.
«Pensavi davvero che questa cosa rimanesse segreta?» scoppiò a ridere, sbeffeggiandolo, «ah, carissimo, ne hai da capire di cose in politica!»
«Che cosa vuoi?» ringhiò Andreani, che ogni minuto che passava faceva veramente fatica a trattenersi dal tenere le mani a posto.
«Che tu la smetta, è abbastanza semplice. Basta interviste, basta finte smancerie. E soprattutto, quella bella legge che tu e Michele avete scritto deve restare nel cassetto».
Andreani tremò più forte. Come poteva sapere anche della legge? Avevano rimandato la stesura alla fine della discussione sulle leggi antifasciste, e né lui, né Michele ne avevano mai parlato in pubblico. In condizioni normali, lo avrebbe insultato e deriso per quel ricatto da quattro soldi. Ma non poteva permetterselo, quel video non riguardava solo lui, ma anche Michele. Avrebbe dovuto obbedire, almeno per il momento, o sarebbero stati altri problemi per entrambi, almeno finché le carte in gioco non sarebbero cambiate.
«Come dici tu. E adesso vattene». Marchesi si alzò dalla sedia, raggiante.
«Ero sicuro che saremmo arrivati ad un accordo. Siamo tra persone ragionevoli».
Si congedò, senza premurarsi di chiudere la porta.
Quando si fu allontanato, Nicolò buttò in aria tutti i raccoglitori e le cartelline, rovesciandone il contenuto. Chiuse a chiave l’ufficio, tornò verso lo scooter e si allontanò il più velocemente possibile dal palazzo.
 
 
*
 
 
La settimana seguente, Andreani stranamente smise di fare scenette o interviste ironiche, schivando i giornalisti con una scusa diversa ogni volta.
Era un po’ un peccato, perché in quel periodo Michele aveva scoperto di non avere più paura degli sguardi e dei bisbigli dei colleghi. Attraversava il Transatlantico camminando in mezzo al corridoio, fregandosene di tutto e di tutti. Nelle pause usciva con Nicolò a fumare, e ciascuno raccontava le faccende della propria parte politica.
Rispetto a prima, il capogruppo del Fronte sembrava più pensieroso e meno incline alla battuta, ma nonostante questo riusciva sempre a trovare qualcosa per cui prendere la giornata nel verso giusto.
Dopo il battibecco con Pasqui, Michele era tornato a impegnarsi nel suo incarico di deputato molto più di prima. In commissione prendeva spesso la parola, proponendosi spesso di fare da relatore. Era molto più facile per lui intervenire così, perché doveva occupare i banchi davanti dell’aula e non vedeva le centinaia di facce rivolte verso di lui, come quando faceva un intervento dal suo posto.
Arturo e Thomas si prodigavano spesso in complimenti, specialmente davanti agli altri.
«E allora, Miché!» Thomas lo prese circondandogli il collo con un braccio, cosa che il giovane odiava, perché si sentiva ancora più basso di quanto già non fosse, «che mi posso mettere per la giornata del ricordo? Cravatta rosa e giacca blu o cravatta blu e giacca gialla?»
«Pensavo che per un giorno come quello avresti deciso di vestirti normale» sorrise Michele.
«Ma benedetto ragazzo!» rise Thomas, «sono mesi che ci conosciamo, dovresti saperlo che per me normale è noioso!»
Il giorno del ricordo era un anniversario importante per il loro partito. Ufficialmente si festeggiava la nascita di Sinistra Democratica, ma in realtà era un’occasione per ricordare gli anni bui della Rinascita Fascista e la resistenza messa in atto dal partito, l’unico che all’inizio aveva continuato ad agire in clandestinità.
Per il fatidico giorno, Michele indossò un nuovo abito grigio e la cravatta rossa di Arturo. Arrivò alla Camera molto presto, fece colazione assieme a Thomas, il quale aveva optato per un completo verde pisello, e insieme ai suoi colleghi entrò in aula.
Ci fu una breve celebrazione, durante la quale Michele non riuscì a fare a meno di notare Andreani, tre file e due bancate più a sinistra, che sbadigliava ripetutamente e alzava gli occhi al cielo. Nel pomeriggio poi, il primo piano del palazzo si animò di una mostra fotografica e diversi incontri di testimonianza con vari esponenti del partito e intellettuali. Thomas era ovunque a parlare, presentare, fare interviste. Pasqui appariva soddisfatto nel suo sobrio abito nero, mentre presentava quasi tutti gli incontri e si lasciava abbagliare dai flash dei fotografi senza battere ciglio. Marchesi tenne solo un incontro, sparendo poi dalla circolazione fino a quella sera.
Alle ventidue infatti, i deputati di SD si ritrovarono all’interno di un’enorme stanza addobbata sobriamente con i colori del partito. Diversi commessi servivano lo champagne nei bicchieri. L’aria che si respirava era seria e carica di aspettativa.
«Compagni, compagne» Marchesi entrò insieme al presidente Ranieri, e non ebbe bisogno di alzare la voce per ottenere il silenzio assoluto, «ho ritenuto che ci dovesse essere un momento di questa giornata dedicato a noi soltanto. Noi, impegnati oggi in un momento storico nell’approvazione delle leggi della Carta Antifascista.
Nessuno ci avrebbe dato una lira quando io e Thomas Greco, da soli, abbiamo deciso di ribellarci quando ci occuparono l’aula».
Fece un cenno con la mano per indicare Thomas e scoppiò un applauso fragoroso, che il deputato biondo cercò subito di placare, imbarazzato.
«Ma oggi siamo qui, insieme, dentro questa grande casa che ci ha regalato momenti straordinari e momenti difficili. Ed è grazie a tutti voi che siamo qui oggi, grazie ai vostri voti. Per questo propongo un brindisi! A voi!»
«Al segretario!» gridarono tutti in coro, prima di svuotare il bicchiere. Michele sentì subito il poco alcool andargli pericolosamente alla testa.
Alcuni deputati avevano iniziato a spingere Thomas al centro, per farlo parlare. Lui all’inizio cercò di tirarsi indietro, poi su insistenza di Pasqui e di Marchesi si arrese, prendendo il microfono in mano.
«Che dire, non pensavo davvero che un giorno mi sarei ritrovato a parlare di fianco a ‘sto damerino democristiano» scherzò. La sala rise.
«Sembra passata un’eternità da quei giorni in cui potevamo rischiare la vita solo passeggiando in strada» Thomas si fece improvvisamente serio, «ne abbiamo passate tante, e abbiamo messo sempre in gioco la nostra stessa pelle per i nostri ideali. Ma alla fine solo uno ci ha rimesso, e quello è Venturi. E io sono sicuro che lui è qui con noi, dalla nostra parte, anche se non c’è più».
Si voltò verso Marchesi. Era inespressivo, ma la mano gli tremava leggermente. Pasqui si mordeva un labbro di nascosto, pulendosi ripetutamente gli occhiali con il viso girato.
«E se lui è qui con noi, io propongo di cantargli una canzone». Thomas alzò la voce «una mattina, mi son svegliato, o bella ciao bella ciao…»
La sala iniziò a cantare ed applaudire a ritmo. Marchesi e Pasqui si unirono al canto, entrambi con gli occhi ormai lucidi, mentre il presidente Goffredo muoveva appena le labbra per far intendere di stare cantando anche lui. L’ultima strofa finì tra gli applausi generali, e il momento solenne terminò lì. I deputati di SD si riversarono sul tavolo del buffet e delle bevande, e ben presto il chiacchiericcio animato riempì la sala.
Michele passò di gruppo in gruppo ad ascoltare gli aneddoti più disparati, e non riuscì a dire di no ai numerosi inviti ai brindisi. Ben presto iniziò a barcollare, e la lucidità rimasta gli impose di andarsene via per non fare brutte figure.
Prese istintivamente la strada che portava al cortile, abituato com’era ad andarci spesso, e vi incontrò il capogruppo del Fronte completamente sdraiato su una panchina, con una nuvola di fumo che si librava nell’aria.
«Che ci fai ancora qui?» gli sorrise.
«Uh, buonasera! Ho un sacco di lavoro da sbrigare! Com’è andata la festa?»
«Carina. Il segretario ha fatto un discorso molto bello sul partito».
«Marchesi, eh?» si chiuse un attimo in silenzio, prima di rivolgere gli occhi verdi a Michele, «ma che, hai bevuto di nuovo?»
Il giovane arrossì violentemente, pensando che probabilmente lo aveva capito perché stava facendo cose imbarazzanti, tipo dondolare su se stesso o tenere un’espressione stupida.
«E bravo! Vorrà dire che ti darò un passaggio a casa sul mio magico scooter, visto che se ti prendi un taxi di solito finisce male!»
«Tu sei tutto matto» biascicò lui, «non avevi del lavoro da fare? E poi scommetto che sei uno che va come un pazzo sopra quell’affare».
«Finirò domani, ormai è tardi» rispose lui, «e sei tu il pazzo se ti perdi l’opportunità di spararti via del Corso a cento all’ora!» Michele non trovò più altro da dire.
Mezz’ora più tardi, si ritrovò sul due ruote sparato a manetta. Nicolò schivava macchine, accelerava, frenava, mentre Michele sentiva il cuore battere a mille, non sapeva nemmeno lui se per l’ansia di schiantarsi o per l’alcool in corpo.
«Avevo ragione che ne valeva la pena?»
«Sì» borbottò, scendendo barcollante dalla moto, «ma ribadisco che sei tutto matto».
«Grazie del complimento! Ci si vede domani!»
E schizzò via di nuovo, con un rombo prolungato del motore.
 
 
Fu il suono acuto della suoneria del cellulare a svegliarlo di colpo, quella notte. Lo raccolse dal comodino per riflesso, senza neanche riaprire gli occhi. Le immagini confuse di sogni poco allegri gli stavano ancora riempiendo la testa, mentre il corpo faceva sentire tutta la sua spossatezza per il troppo alcool della serata.
Premette il tasto per rispondere mentre lentamente la sua camera ritornava vivida.
«Pronto?» biascicò, con la bocca ancora impastata per l’alcool.
«Michele?»
Era Thomas. Cercò di focalizzare la mente per capire che cosa poteva essere successo per ricevere la sua chiamata ad un’ora simile.
«Stavo dormendo…» borbottò, tornando a sdraiarsi su un lato per cercare di limitare il mal di testa.
«Hai lasciato il cappotto al guardaroba».
«Ah, sì, hai ragione… domani lo riprendo».
Ci fu uno strano silenzio dall’altro capo. Non era proprio da lui.
«Thomas?»
«Non hai nient’altro da dirmi? Pensaci bene».
Michele sentì la voce del collega tremare un po’ dall’altoparlante del telefono. Cercò di mettersi seduto, preoccupato e confuso.
«Senti, scusa per ieri. Non mi sentivo benissimo e sono andato via senza avvisare ness-»
«Michele, porca puttana!» Thomas urlò all’improvviso, facendolo sobbalzare, «come cazzo ti è saltato in mente, me lo dici? Stavo prendendo il tuo cappotto dal guardaroba quando è caduta dalla tasca! Ora ce l’hanno i questori dalla Camera e qui sta scoppiando un polverone assurdo! Ti rendi conto in che cazzo di situazione ci hai messo?»
Michele sentì il cuore aumentare vertiginosamente i battiti. Ma di che stava parlando? Che stupido scherzo era?
«Thomas, ma che stai dicendo?» mormorò, ferito per lo sfogo di rabbia immeritato che aveva appena ricevuto.
Ci fu una lunga pausa di silenzio dall’altro capo. Quando il compagno si decise a rispondergli non c’era più traccia della rabbia di prima, anche se il tremito della sua voce non era ancora cessato del tutto.
«Tu ora vieni qui e mi giuri che non è tua e che non ne sai niente. Ma lo devi giurare davanti a me e Arturo, e ci devi guardare dritto negli occhi!»
«Mi puoi spiegare di che diavolo stai parlando?» urlò Michele, che a quel punto aveva perso l’ultimo barlume di calma.
«Della bustina di coca, Michele. Quella nella tasca interna della tua giacca».
Sgranò gli occhi, mentre un rivolo di sudore percorreva lentamente la sua fronte. Chiuse la chiamata, sentendo che le ultime forze lo stavano abbandonando mentre, di nuovo, si ritrovava da solo contro un nemico invisibile.

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Capitolo 19
*** Caduta libera ***


Non c’era alcuna traccia di serenità nelle gocce di pioggia che, rapidamente, schizzavano sull’asfalto.
Era da un po’ di tempo che non pioveva lì a Roma. Riccardo guardava la pioggia dalla finestra seduto alla sua scrivania, con le gambe distese che ciondolavano nel vuoto. Stava spesso in quella posizione, da lì poteva vedere il mondo fuori dalle grandi finestre, molto più interessante del mondo “dentro”.
Molti anni fa, quando ancora era un giovane liceale, si ritrovava spesso a guardare la pioggia. Era l’unica fonte di distrazione dalla quotidiana fatica di apprendere una nozione dopo l’altra, dentro quella cameretta che troppo spesso gli stava stretta. A volte, nel segreto di quelle quattro pareti, si ritrovava a sorridere pensando che i ragazzi che affollavano il parco sotto casa sua, divertendosi mentre lui studiava, erano costretti per un giorno anche loro a fissare sconsolati la pioggia dalla finestra.
Ma questo prima che tutto accadesse. Prima che la pioggia potesse acquisire un altro significato, molto meno rassicurante.
«Sta piovendo» fece candidamente notare a Marcello Pasqui, quando lo sentì entrare dalla porta del suo ufficio.
«Già» sospirò lui, ignorando volutamente ogni tipo di allusione che quell’affermazione comportava, «ci sono i giornalisti giù. Che facciamo?»
Riccardo spinse la sedia con la scarpa, facendola sbilanciare abbastanza per farla cadere con un tonfo leggero.
«Non lo so. Non riesco a pensare con questa pioggia».
Pasqui sospirò, dirigendosi verso la bottiglia di vino sulla mensola.
«Immagino che dovrò pensarci io allora».
Nell’istante immediatamente successivo, la quiete del terzo piano del palazzo fu interrotta da dei passi affrettati nel corridoio e dal rumore della porta che si apriva di scatto.
«Bastardo!»
Marchesi si ritrovò afferrato per la giacca, ancor prima di poter ragionare sull’autore del gesto. Fortunatamente, Pasqui si era già precipitato a fermare l’assalitore, frapponendosi tra i due.
«Lo so che sei stato tu! Sei tu il vigliacco ricattatore qui dentro!» Marchesi studiò il viso infuriato di Nicolò Andreani. Non era per niente intimorito da lui. Aveva imparato, durante la sua vita, che c’erano due tipi di uomini pericolosi: quelli in giacca e cravatta e i rissosi da bar. Tuttavia, un rissoso da bar con addosso una giacca e una cravatta non comportava alcun potenziale rischio.
«Marcello, per favore» gli sorrise Riccardo, calmo «offri un bicchiere di vino al capogruppo».
Nicolò continuò a tenere stretti i pugni, squadrandolo con odio e confusione, mentre riceveva in mano un bicchiere.
«Che diavolo significa?» gridò, trattenendosi dal ridurre in frantumi il vetro.
«Significa siediti e parliamo con calma. Non mi piace la gente che urla, specialmente prima di mezzogiorno» ribatté placidamente Riccardo.
«Non sono qui per giocare. Hai capito?» urlò l’altro.
«Neanche io, infatti ho cose più serie da fare che nascondere buste di coca ai miei deputati» sorrise lui.
«Vuoi farmi credere che non centri niente?» gridò di nuovo il capogruppo del Fronte, agitando il bicchiere nella mano e rovesciandone il contenuto, «e chi altro può essere stato, sentiamo?» Riccardo Marchesi afferrò un bicchiere pulito e si versò altro vino dalla bottiglia. Schioccò le labbra dopo aver bevuto, gustandosi quella pausa d’attesa carica di elettricità.
«Non lo so, forse tu. D’altra parte, sei l’unico qui che ha sempre odiato il nostro giovane deputato».
Nicolò fece per saltargli addosso, ma di nuovo gli fu impedito da Marcello Pasqui.
«O forse lui stesso. Hai mai pensato a questa ipotesi?» aggiunse il segretario.
«Non le fa queste stronzate lui!» urlò di nuovo Andreani, ma senza la stessa convinzione di prima.
«Bene» Riccardo sorrise soddisfatto, scendendo dalla sua posizione sopraelevata sulla scrivania, «allora, dato che le nostre posizioni sono chiarite, penso che non avrai problemi ad andare in sala stampa insieme a Marcello per difendere Martino».
Pasqui lo guardò interrogativo, ma dissimulò subito lo sguardo. Quella mossa non l’avevano prevista, ma improvvisare, per lui, non era mai stato un gran problema.
Nicolò, invece, non riuscì a nascondere la propria sorpresa.
«Insieme?»
 
 
*
 
 
Fare finta di niente.
Era quello il segreto, era quello l’unico modo per uscire vivi da quella giornata e da tutte le altre che sarebbero seguite.
Non poteva essere così difficile. In tanti ci riuscivano. I giornalisti li inseguivano e loro scappavano, flemmatici, indifferenti, come se quelle domande pungenti non li infastidissero in alcun modo.
Era arrivato alla Camera dei deputati ancora con l’impressione di essere dentro un qualche tipo di sogno strano. Ogni tanto aveva provato a ragionare su cosa dire e come rispondere a chi gli avesse chiesto che ci faceva quella busta di cocaina nella sua tasca, ma più ci pensava, più tutto gli sembrava irrealistico.
Mostrare la propria sicurezza di sé era una delle regole d’oro per chi entrava in politica, così gli aveva insegnato Arturo. Ma come poteva essere sicuro di una cosa di cui non sapeva niente?
Quella mattina non aveva fatto in tempo a scendere dal taxi, che il giovane si ritrovò al centro di un circolo di microfoni, telecamere e facce concitate.
Già, le loro facce. Era quella la parte peggiore. Quelle facce che sembravano come animate da una scarica, gioiose per avere sottomano un nuovo caso con cui riempire le prime pagine.
E il caso era lui. Era quel giovane deputato che per diversi motivi era già riuscito a far parlare di sé, e che ora si trovava coinvolto in un caso ambiguo, da solo, facile preda delle loro domande.
«Fa uso di cocaina?»
«Dove l’ha presa?»
«Da chi?»
«C’è un giro di droga in Parlamento?»
«I suoi colleghi lo sanno?»
«La spingono a dimettersi?»
Forse la cosa migliore, in quel momento, sarebbe stata tacere. Invece lui rispose. Perché quelle parole non gli erano scivolate addosso.
Perché quella busta non era sua. Il mondo intero avrebbe dovuto capire che lui non c’entrava niente.
«Non ne so niente…»
Aveva mormorato. Si era lasciato intimorire. Non era sembrato sicuro, e se ne era accorto subito dopo aver pronunciato quelle quattro parole. Le ripetè un’altra volta, poi un’altra ancora, le stesse quattro parole per ogni domanda come un mantra.
Cercò di muoversi, ma non ci riuscì. Ad ogni suo passo, i microfoni, le telecamere e le facce lo seguivano. Era chiuso dentro una gabbia, un’altra volta.
Non riuscì a mantenere il viso composto. Forse avrebbe pianto.
Immaginò di vedersi piangere in TV, quella sera, all’apertura di un qualche tg, sotto gli occhi di tutti i suoi colleghi e di migliaia e migliaia di telespettatori.
No.
Perché doveva succedergli questo?
Morse forte le labbra, cercando di rilassare il viso. Chissà che faccia stava avendo in quel momento. Chissà come sarebbe comparso in foto. Il panico iniziò a salirgli. Come si faceva a mandarli via? Un tempo era stato capace di farlo, ma questa volta sembrava un’impresa irrealizzabile.
«Non ne so niente, per favore» scandì, cercando di sembrare deciso «devo andare, per favore. Mi aspettano. Non ne so niente…»
«Ehi, scusate!»
Un uomo biondo era entrato nella sua gabbia. Lo sguardo severo, benché non gli appartenesse per niente, aveva un che di rassicurante.
«Ci lasciate lavorare? Sapete, per fare il meglio per il nostro Paese ci serve concentrazione, e voi state stressando il mio collega».
Le parole risuonarono come macigni, e nessun giornalista osò più chiedere nulla. Qualcuno riprese la scena con il cellulare e poi se ne andò, cercando un altro obiettivo da intervistare.
Michele si permise di respirare, abbandonandosi alla parete, con le mani ancora tremanti per la rabbia e per l’ansia.
«Grazie Tom».
Thomas gli si piazzò davanti. Aveva la stessa espressione seria di prima, ma un po’ più impietosita.
«Non è tua quella busta, non è così?»
Michele annuì, cercando di mostrarsi il più sicuro possibile. Era insopportabile il fatto che anche Thomas avesse sospettato di lui.
«Allora devi andare dai questori della Camera e dirgli quello che sai. Buona fortuna».
Michele si staccò dall’appoggio stabile del muro, tornando sulle proprie gambe. Annuì appena all’amico, iniziando a camminare rassegnato verso il proprio destino.
La stampa non gli avrebbe creduto. Certo, non avevano prove, ma questa cosa lo avrebbe marchiato a vita. Non importava quanto fosse vera o falsa una notizia, se c’era di mezzo uno scandalo e qualche politico il fango era assicurato. Ormai lo sapeva.
«Devi solo dire la verità, Michi» gli gridò dietro Thomas. «vedrai che si sistemerà tutto».
Michele si morse un labbro. Sapeva quanto quelle parole fossero niente più di una speranza irrealizzabile.
«Certo» mormorò, con scarsa convinzione.
Si avviò verso le scale, diretto al terzo piano di Palazzo Montecitorio.
Da solo, un’altra volta.
 
 
Cutro. Il suo paese.
La stazione. La chiesa. Quel parco lontano dove andava da bambino. La piazza, le case, il sole, il caldo, il paesaggio immobile.
Era questo lo sfondo mentre Michele trascinava la valigia lungo la via. Passare occasionalmente dal paese durante i suoi weekend da universitario non era la stessa cosa che tornare per davvero. Ora riusciva a sentire chiaramente quanto non fosse più abituato a tutto ciò che mancava a Cutro e che invece aveva trovato a Palermo.
Le case, la gente, i posti dove andare, le panchine dove ci si poteva sedere e i bar doveva poteva stare per ore a leggere. Niente di tutto questo c’era in quel paese. Non c’era quell’aria, quella di quando c’è qualcosa che sta sempre per accadere e che ti invita ad assistere, a stare attento e a tenere gli occhi aperti per non perdertelo.
No, Cutro era vuota. Era una piccola città fatta di assenze.
Sarebbe dovuto arrivare a casa, prima di tutto, per sistemare la valigia nella sua vecchia stanza. Poi sarebbe andato alla sede del suo partito, dove lo aspettavano tutti per riabbracciarlo.
Mentre si stava per incamminare, il telefono squillò. Sarà stata la centesima volta, quel giorno. Tutti a chiedergli dov’era e come stava andando il viaggio. Diverse volte aveva avuto voglia di non rispondere e darsi per disperso.
«Pronto?»
«Ciao Michele!»
Il suo cuore per poco non si fermò. Era Arturo Costa!
Per tutti gli anni in cui aveva frequentato l’università, avevano continuato a vedersi occasionalmente. Si scambiavano letture, discutevano di politica e partecipavano insieme alle manifestazioni contro la mafia. Tuttavia, ora che Michele era tornato nella sua città natale, le loro vite avrebbero sicuramente preso strade diverse.
«Ehi! Sono appena arrivato a Cutro».
«Bene, bene… Immagino che vorrai riposare, allora. Sarò veloce, volevo parlarti delle prossime elezioni».
«Che è successo?»
«Niente è successo!» rise Arturo, «ma qualcosa potrebbe succedere!»
«Cioè?»
Ci fu una pausa di silenzio. Michele trattenne il fiato.
«Ho intenzione di candidarmi alle elezioni».
Il giovane per poco non sobbalzò. Arturo Costa candidato, dopo tutti quegli anni fuori dalla politica istituzionale?
«Ma… è fantastico! Saranno tutti contenti nel partito!»
Si ricordava benissimo che al congresso aveva visto Arturo essere amato e rispettato da tutti. Certo, aveva preso una posizione molto netta riguardo alla nuova segreteria di Marchesi, ma era pur sempre uno dei massimi esponenti della lotta alla mafia e dell’ex PCI.
«Dici? Beh, questo non lo so, ma di sicuro non possono impedirmelo!»
Rise leggermente. Michele sorrise.
«A questo proposito, dovrei chiederti un favore».
«Qualsiasi cosa».
«Dovresti candidarti con me in lista».
Michele lasciò andare improvvisamente la valigia, che cadde sull’asfalto con un tonfo sordo.
«Io…?»
«Sì, tu».
«Ma… non posso. Non sarei capace, non so come… e poi perché?»
«Perché?» Arturo restò in silenzio per un po’, «ricordo che la prima volta che ci siamo conosciuti mi dicesti che mai avresti voluto intraprendere la carriera da parlamentare».
«Appunto!» confermò Michele, leggermente innervosito, «non voglio!»
«Proprio per questo dovresti farlo!» ribadì Arturo, «ascoltami bene, il Parlamento è pieno di arrivisti. Persone che sono lì solo per soddisfare il proprio ego o per vivere nel lusso. Pensi che loro siano interessati al bene comune?»
Michele non rispose. La risposta a quella domanda era ovvia. Ma questo cosa c’entrava con lui? Non era nessuno per potersi candidare.
«Ti prego di pensarci, almeno un po’».
«Arturo…»
«No, non rispondermi ora. Pensa a quello che ti ho detto e poi mi risponderai».
La telefonata si interruppe. Michele restò con il cellulare in mano, sconvolto, alle prese con una scelta che si prospettava essere tutt’altro che semplice.
 
 
*
 
 
La sala stampa era piena zeppa di giornalisti.
Nicolò non ne aveva mai visti così tanti insieme in una volta sola. Erano peggio degli avvoltoi: quando c’era qualcosa di marcio di cui nutrirsi si radunavano subito in massa. Solo che questa volta quel “marcio” riguardava Michele.
La sua entrata, preceduta da quella di Pasqui, fu accolta dai flash simultanei delle macchine fotografiche. Nicolò abbassò gli occhi, abbagliato. Pasqui invece camminò dritto fino al suo posto davanti alle telecamere, impassibile. Quell’uomo emanava un’aura autoritaria, dalla punta delle scarpe fino all’ultimo capello. Forse era la sua smisurata altezza, forse quello sguardo che appariva sempre freddo, scocciato e indifferente.
D’altra parte, Nicolò era lì per una giusta causa. Fare una dichiarazione insieme avrebbe dato maggiore forza alle loro parole, e dimostrato che anche due forze politiche contrastanti possono prendere una posizione unitaria per una giusta causa.
«Siamo qui solo per una dichiarazione» esordì subito il capogruppo di Sinistra Democratica, «niente domande, per favore».
Tutti i giornalisti restarono in silenzio con i microfoni puntati.
«Siamo stati informati in mattinata del ritrovamento nella giacca di un mio deputato, Michele Martino, di quella che sembra essere una sostanza stupefacente illegale».
“Cocaina” pensò subito Nicolò “perché deve fare giri di parole inutili?”
«Esprimo a nome mio e del gruppo che rappresento il completo sostegno e la vicinanza a Martino, del quale ho fiducia e stima, augurandomi che possa al più presto chiarire la sua posizione di estraneità al fatto».
A quel punto Pasqui girò lo sguardo verso Nicolò, per invitarlo a continuare. Il capogruppo del Fronte si schiarì la gola, fissando uno ad uno negli occhi ciascun giornalista misurando bene, per una volta, le parole che stava per pronunciare.
«Bene. Anche io esprimo a nome mio e del mio gruppo la totale fiducia all’Onorevole Martino. Quello che è avvenuto non è
nient’altro che un increscioso fattaccio, mirato proprio a screditare il mio collega».
Pasqui lo stava guardando di sottecchi. Forse si stava spingendo un po’ oltre, ma preferiva dire ciò che pensava.
«Sono sicuro che l’onorevole Martino non ha nulla a che fare con questa storia. Ha la mia totale fiducia».
I due capigruppo ringraziarono i giornalisti e uscirono dalla stanza.
«Spero proprio che il tuo segretario non c’entri niente con questa storia, o giuro che me la pagherà cara» gli disse poi Nicolò, una volta rimasti soli.
Pasqui sogghignò con aria di superiorità.
«Sei fuori strada. Per quanto ne so potrebbe anche essere stato il tuo amico. Che, per inciso, ho difeso solo perché me l’ha chiesto il segretario».
Nicolò si morse un labbro. Lo avrebbe volentieri spintonato, se non fosse che poi sarebbe stato lui a finire al tappeto.
 
 
*
 
 
Michele uscì dalla stanza con i polmoni completamente privi d’aria. Era stato un vero e proprio interrogatorio. Un solo tavolo, lui da una parte e cinque persone dall’altra, con ciascuno che lo guardava come se già si fosse dichiarato colpevole. Lui che provava a spiegare la sua versione dei fatti, venendo interrotto a metà di ogni frase con altre domande. Era stato sincero, ma nessuno di loro gli aveva creduto, lo aveva capito dai loro sguardi.
Non avevano prove per prendere provvedimenti contro di lui, ma ormai il danno era fatto. La macchina mediatica aveva iniziato a colpire e non c’era più modo di fermarla. Lo aveva imparato guardando i politici delle varie legislature: un danno d’immagine era un marchio a vita, per quanto fallace potesse essere.
Non appena scese le scale, si ritrovò di nuovo una discreta folla di giornalisti ad aspettarlo. Tenne lo sguardo basso, cercando di camminare velocemente per non essere fermato, ma questo non impedì loro di bloccargli la strada, circondandolo di microfoni.
«Onorevole! Cosa le hanno detto? Che provvedimenti ci saranno?» Michele si guardò intorno, in cerca di un qualsiasi appiglio.
«Non sono tenuto a rispondere» mormorò, cosciente che quella non- risposta avrebbe solo peggiorato le cose.
«Perché non può rispondere?»
«Cosa c’è dietro?»
Sentì il flash di parecchie macchine fotografiche e socchiuse gli occhi. Si stava rovinando da solo, con le sue stesse mani.
Come facevano gli altri a risolvere quel tipo di situazione? Perché nessuno gli aveva mai detto cosa doveva fare in certi casi?
Si morse un labbro, cercando di non guardare nessuna delle telecamere.
«Non ci sarà nessun provvedimento. Io non ho fatto niente». Com’era ovvio, i giornalisti continuarono a fargli domande a raffica. Domande che esigevano una risposta, perché quella sua intervista sarebbe sicuramente finita su tutti i telegiornali.
«Devo andare, per favore…»
Cercò di mostrarsi deciso mentre rompeva il muro di persone e si fiondava nel bagno più vicino, chiudendosi la porta alle spalle tra gli scatti dei fotografi. Aveva fatto un danno.
Un enorme danno.
Chiunque, vedendolo in quell’intervista avrebbe potuto pensare che stava nascondendo la verità, e neanche con troppa abilità. Per quanto fosse sincero, non era stato per niente convincente.
L’ansia peggiorò quando si vide allo specchio. Aveva una faccia terribilmente spaventata e impaurita, con le pupille dilatate e le labbra senza la minima traccia di rossore. A pezzi.
Non c’era più via d’uscita, ormai. Non poteva tornare indietro da quel pasticcio. Non poteva neanche pensare di chiudere gli occhi e risvegliarsi due settimane dopo, quando quel ciclone si sarebbe placato e lo avrebbero, forse, lasciato in pace.
No. Avrebbe dovuto vivere il giorno dopo e quello dopo ancora, sopportare i giornalisti, gli sguardi dei colleghi e, nel peggiore dei casi, anche la possibile rabbia dei cittadini.
Non poteva fare nulla.
Chiuse gli occhi, lasciando che le lacrime gli solcassero il viso, vergognandosi fino in fondo di quella sua immagine debole che appariva allo specchio.
Strinse la mano a pugno, mettendoci più forza possibile. Per una volta, voleva farsi del male. Desiderava punire quella persona che era stata così stupida da mettersi nei guai, permettendo che qualcuno gli mettesse della cocaina in tasca.
Sbatté forte il pugno contro il muro. Lo rifece di nuovo, più forte e più forte ancora, fino a che non vide gli schizzi di sangue sulla parete bianca. Continuò, di nuovo e di nuovo ancora, mordendosi le labbra per il dolore, finché la porta del bagno scattò.
«Eccoti! Ma dov’eri finito?»
Andreani era proprio lì, e fissava sconcertato le sue nocche sanguinanti. Lui abbassò lo sguardo, vergognandosi per ciò che stava facendo. Nascose le lacrime con la mano, ma nell’atto di pulirsi si lasciò una scia di sangue sulla faccia.
Nicolò lo prese per un braccio e aprì un rubinetto dell’acqua, accompagnandogli le mani sotto il getto. L’acqua si tinse di rosso e Michele gemette per il bruciore.
«Sei un idiota» sospirò Nicolò, senza però troppa severità.
«Non ce la faccio» mormorò piano Michele, «non li sopporto più». Nicolò gli appoggiò entrambe le mani sulle spalle, dolcemente.
«Ascoltami bene» sussurrò Nicolò, quasi come se avesse paura di alzare la voce, anche se nessuno poteva sentirli, «ho appena fatto una dichiarazione insieme a Pasqui in cui ti diamo la piena fiducia. Non devi affrontare tutto da solo».
Michele si staccò dall’abbraccio, ripulendosi il viso. Si nutrì di tutto il coraggio che quei decisi occhi verdi gli stavano trasmettendo. Assorbì il calore del contatto con le mani dell’altro, che a differenza delle sue non tremavano, non esitavano. Perché Nicolò era certo di ciò che stava facendo, e quindi anche lui avrebbe dovuto esserlo.
 
 
*
 
 
«Che ti salta in mente, eh?»
Chiarelli lo assalì non appena ebbe varcato la soglia dell’ufficio. Nicolò lo ignorò, fingendo interesse per tutte le carte che la sua segretaria gli aveva lasciato sulla scrivania.
«Non puoi fare dichiarazioni a nome di tutto il gruppo se prima non si è discusso! L’hai almeno letto il nostro statuto, o sei talmente arrogante di pensare di poter fare il cazzo che ti pare?» urlò.
Nico alzò appena gli occhi, squadrandolo con disgusto.
Si trattava di difendere una persona da false accuse. Non aveva fatto proprio niente di sbagliato.
«Se sei contrario a ciò che ho detto vai in sala stampa e dì un po’ quello che ti pare. Poi non lamentarti se sui giornali uscirà fuori che siamo divisi al nostro interno».
Chiarelli diventò rosso fino alle orecchie. Rovesciò il suo portapenne con un gran fracasso, ma Nicolò non batté ciglio.
«Tu non sei affatto un dirigente, sei solo un coglione. E quando dimostreranno che quella busta di cocaina era effettivamente sua sarai tu a spiegarlo ai giornalisti, chiaro?»
Nicolò si alzò in piedi. Oltrepassò la scrivania, arrivando a pochi centimetri dal suo vice, con gli occhi che lampeggiavano di odio.
«Che cazzo stai dicendo, eh?»
Chiarelli non indietreggiò, ma faticò a reggere lo sguardo.
«Sto dicendo solo ciò che penso. Sono qui dentro da più tempo di te, e so che nessuno sarebbe così coglione da mettere una busta di coca nella tasca di un altro, con il rischio di farsi beccare».
«Michele non le fa queste cose. Hai capito, testa di cazzo che non sei altro?»
Era in qualche modo calmo mentre avanzava, con gli occhi fissi in quelli del suo vice. Chiarelli fu costretto ad indietreggiare per evitare il contatto fisico, evidentemente infastidito da quell’atteggiamento.
«Se ti scaldi tanto è solo perché sai che ho ragione!»
Nicolò finse di non dare peso a quelle parole, ma in realtà passo diversi momenti a pensarci. Il discorso di Chiarelli, da un certo punto di vista, filava. Certo, Marchesi avrebbe potuto trovare mille modi per infilare quella busta di coca senza farsi vedere. Però, si trattava comunque di un rischio non indifferente. Comunque fosse, l’unica cosa certa era che la coca non poteva essere di Michele.
«Ti conviene stare zitto» sibilò Nicolò.
 
 
*
 
 
«Ehi, riccone! Ma che ci fai qui?»
Riccardo Marchesi si guardò in giro, piuttosto nervoso. Di solito non andava a fare certi incontri in luoghi così affollati, ma quella notte non aveva avuto scelta.
«Senti, me ne servirebbe ancora…» disse piano ad un uomo con due piercing al naso, il pizzetto e una maglietta due taglie più grande.
«Ma sei passato la settimana scorsa! Che fine ha fatto tutta quella roba?»
Marchesi sbuffò, infastidito dal doversi giustificare anche con il suo spacciatore.
«È solo un brutto periodo. Ce l’hai o no?»
«Certo che ce l’ho, riccone» rise lui, «ma se mi chiamassi prima magari eviterei di restare a secco».
«Sì, con il rischio di essere intercettato. Sei un vero genio, Bobo, dovresti entrare anche tu in politica» commentò, ricevendo in mano velocemente una busta bianca piuttosto consistente.
«Ehi frate, cazzo ne so che mi finisci duecento di coca in una settimana?»
Marchesi gli fece segno perché si zittisse, tirando fuori le banconote.
«Anni fa giravi con molta più roba, carissimo» sorrise.
«Sì, prima che mi beccassero!» rimbeccò lui.
«Lo sai che ci sarà sempre qualcuno che ti farà uscire» gli ricordò Riccardo.
«Sicuro, perché la roba che ho io non la trovi da nessun altro!»
Il segretario di Sinistra Democratica gli affibbiò una pacca sulla spalla prima di girare i tacchi. Si era trattenuto anche fin troppo in quel posto.
«Ehi, riccone!» gli urlò dietro lo spacciatore, «guarda che prima di un mese non ti voglio rivedere, capito? Lo dico per te, vacci piano con quella roba!»
Marchesi gli alzò il dito medio. Non gli serviva di certo una paternale. C’era già troppa gente che pretendeva di fargliela, non considerando che da quando aveva diciott’anni aveva sempre scelto da solo che strada prendere.
Se non l’avesse conosciuto quella notte di tanti anni fa, dentro quel bar di periferia, forse la sua vita sarebbe stata diversa. Forse non sarebbe nemmeno mai entrato in Parlamento. E forse, ora, non avrebbe una busta di coca in tasca.
Però, tornare indietro non era più possibile.
E così Marchesi si avviò verso l’auto blu che lo aspettava, con un’inquietudine che per qualche motivo non riusciva a scrollarsi di dosso, allontanandosi nel buio di un desolato quartiere di periferia.

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Capitolo 20
*** La bomba ***


«Uh?»
La porta si aprì di scatto, e il gelo della notte si diffuse velocemente in tutta la stanza. Vi entrò un uomo con un cappotto molto elegante, che si strofinò le scarpe sullo zerbino.
Thomas si alzò a fatica dal divano, rendendosi conto in quel momento che si era addormentato davanti alla televisione.
«Riccardo?»
«Thomas?» rispose Marchesi, altrettanto stupito dell’altrui presenza,
«che ci fai qui?»
«Stavo lavorando e poi ho guardato Michele… alla TV…» biascicò, incapace di mettere due frasi in fila per la stanchezza.
Si alzò per spegnere il televisore, che ormai mostrava il tg della notte, mentre cacciava un sonoro sbadiglio, sistemandosi con la mano i capelli biondi scompigliati.
«E com’è andato?» chiese Marchesi, togliendosi il soprabito e rivelando un maglione blu troppo casual per i suoi standard.
«Direi bene. Ma tu non l’hai visto?»
«No».
Thomas lo guardò male.
«E perché mai? È una faccenda grave, e lui è un tuo deputato!»
«Non mi piacciono i talk show» commentò sbrigativamente Marchesi, andando ad aprire un armadio nel corridoio, «ti va del rum?»
«No» rispose Thomas, «ehi, aspetta, ma che ci fai qui tu a quest’ora?»
Il segretario di Sinistra Democratica riemerse dal buio con la bottiglia in mano.
«Dormo spesso qui» rispose placidamente.
«Nella nostra sede? Non ce l’hai una casa?» commentò ironicamente Thomas, sapendo bene in quale genere di villa abitava il suo segretario.
«Sì, ce l’ho» rispose lui, «ma è troppo piena di ricordi, a volte».
Thomas scrutò il suo segretario da capo a piedi mentre l’altro, con fare indifferente, si versava l’alcolico in un bicchiere. Forse era quel maglione blu a confonderlo, ma ebbe la chiara impressione di vedere qualcosa di diverso in lui. Avevano passato diversi anni della loro vita a odiarsi reciprocamente, e ancora Thomas doveva fare i conti con l’idea di condividere la stessa sede con “Riccardo-il-damerino”.
«Non è consono per un segretario di partito bere alcolici a tarda notte» lo rimbeccò il biondo.
«Non è appropriato per un deputato fare brutte osservazioni sulle abitudini del suo segretario».
Marchesi arricciò il naso con aria di superiorità, e Thomas trattenne una risata. Non era poi così cambiato dalla loro gioventù.
«Non sei stato tu a mettere quella busta nella tasca di Michele» affermò il biondo dopo qualche minuto, rompendo il silenzio che si era creato.
Riccardo sorseggiò il rum con calma. Finito il bicchierino se ne versò un altro, sotto il costante sguardo di rimprovero di Thomas.
«Lo so che non faresti mai qualcosa che va contro il partito. Il nostro partito» insistette il biondo.
Marchesi si leccò un labbro. Aveva gli occhi spenti, come se fossero completamente assenti dal presente.
«Detto da te mi suona strano» sorrise, «ricordo ancora il tuo discorso, il primo giorno che entrai nel vostro partito…»
«Lo ricordo anch’io» lo anticipò Thomas, «ti dissi che voi democristiani eravate alla nostra porta per scopi puramente elettorali, e che mai sareste stati parte integrante di Sinistra Democratica…»
«…ma che, nel nome della lotta al fascismo, voi avreste comunque accettato di condividere il vostro spazio con noi» concluse Marchesi. Il suo volto assunse diverse espressioni mentre ricordava, «un discorso da vero statista, devo dire».
Thomas fece una smorfia. Era fin troppo strano ritrovarsi lì adesso, in quella stessa sede dove avevano preso la decisione storica di accettare che dei democristiani entrassero nel loro partito, a interpretare la replica di loro due da giovani che giocavano al cane e al gatto.
«In parte avevi ragione ad avere dei dubbi. Né io né Goffredo eravamo brave persone, e lo sapevi benissimo. Ma sono successe delle cose, dopo. E ora è tutto diverso…» Marchesi appoggiò il bicchiere vuoto sul tavolo, fissandolo con un sorriso quasi luminoso,
«hai ragione tu, Thomas. Non farei mai nulla contro il nostro partito».
Il deputato biondo sorrise in risposta, sinceramente contento di sentire quelle parole. Si alzò, aprì un armadio e vi trasse fuori due coperte pesanti, lanciandole addosso all’altro.
«Buonanotte. Ti affido la nostra base».
«È in buone mani, caro compagno».
Thomas si congedò subito dopo, lasciando da solo Marchesi con i suoi fantasmi.
 
 
Erano in quattro quella notte. Era stato Francesco a decidere il numero. Di più si rischiava qualche parola di troppo e di fare troppa confusione, di meno non ci sarebbe stato abbastanza rinforzo per tutte le evenienze.
Per Thomas, ventitré anni, una ormai prossima laurea in scienze politiche e già diverso tempo della sua vita riempito con comizi, cortei e comitati fondati su ogni sacrosanta lotta che nasceva in città, quella era la prima volta. Era ancora un mistero come facesse Francesco Venturi, uno che, nonostante tutto, stava dall’altra parte, ad avere certe conoscenze in fatto di bombe artigianali. Venturi, uno che stava nell’Azione Cattolica e nelle associazioni di centro, uno che faceva l’animatore in oratorio la domenica e il catechista il sabato.
«Io sono di Bologna» aveva detto loro l’altra sera, «fare danni qua non mi costa niente, non mi conosce nessuno. Domani sarò a casa mia e potrò ridermela mentre cercheranno il colpevole. Quindi vedete voi se volete prendervi il rischio di accollarvela».
Thomas e gli altri si erano lanciati sguardi eloquenti e avevano discusso tra loro. Nessuno, né nel sindacato né nel partito, aveva mai neanche osato fare una scritta sui muri, figuriamoci far saltare in aria un covo di fascisti. Erano persone pacifiche, per quanto gli altri non li vedessero così. Il problema era Francesco. Francesco il cattolico che proponeva di passare all’azione, al contrattacco, e loro che non potevano farsi vedere conigli davanti ad un democristiano, era una questione di dignità. E poi, Thomas stava iniziando a capire che, per quel periodo storico, non era più il caso di darsele uno contro l’altro, ma di allearsi contro il nemico comune della democrazia. E aveva ragione, perché due anni dopo Sinistra Democratica sarebbe finalmente diventata la casa di tutti loro.
Era un martedì sera buio e deserto, e i loro passi su una via secondaria del Pigneto risuonavano nel vuoto. Francesco procedeva in avanti come se sapesse davvero ciò che stava facendo, con l’ordigno che rimbalzava nello zaino e i ciuffi rossi che gli ricadevano sulla fronte.
«Sei sicuro che funzionerà?»
Gliel’avevano chiesto almeno cinque volte solo in quella giornata, e lui aveva sempre risposto sbuffando e rimproverandoli per la loro scarsa fiducia.
«La chimica non è un’opinione!»
«Ma che ci fa uno che sa costruire bombe dentro l’Azione Cattolica?»
Quello nessuno se lo sarebbe mai spiegato, nemmeno Francesco. Cattolico in effetti lo era, ma non lo sembrava troppo dal carattere. Lo si trovava sempre alle manifestazioni studentesche sul carro del suo gruppo, dove con una grinta innata se la prendeva con questo e quel politico che non faceva abbastanza per gli studenti. Uno che sembrava facesse politica solo per il gusto di fare casino e di stare con la gente. Non c’era persona alla quale non stesse simpatico.
Aveva una buona parola per tutti, tranne che per i comunisti, che prendeva in giro, ma sempre con simpatia. Forse era per quello che era finito tra i democristiani: per il semplice gusto di prendersela con i comunisti.
Di lotta armata contro i fascisti ne parlava solo sottovoce e nei posti giusti. Nessuno, dall’Azione Cattolica all’Associazione Giovanile Universitaria era venuto a sapere della loro incursione notturna. E nessuno lo avrebbe mai saputo. Erano questi i patti.
«Eccoci» annunciò ad un certo punto.
Erano arrivati. Il covo era lì, vuoto, con le serrande chiuse. Sopra c’era un’abitazione con le tapparelle serrate. Anche se avessero sentito il botto, ci avrebbero messo un po’ di tempo prima di tirarle su per guardare in strada.
Francesco tirò fuori con cura l’ordigno, facendosi aiutare a sistemare la miccia in modo da poterlo accendere a debita distanza. Thomas osservò bene come i suoi compagni avessero quasi paura a toccare con i guanti quella roba che da un momento all’altro sarebbe esplosa, mentre Francesco non mostrava alcuna esitazione a infilare la mano per sistemare e raddrizzare.
Quando fu tutto pronto, Thomas estrasse l’accendino. Avrebbero dovuto fare in fretta, senza pensarci troppo, perché altrimenti sarebbe potuto passare qualcuno. La delicatezza del momento era estrema.
«Lo accendi tu?» chiese al roscio. Gli seccava lasciare fare quella cosa a un democristiano, ma, per quanto gli costasse ammetterlo, aveva una paura matta.
«Dà qua, zecca».
Attese un attimo e accese la miccia. Si assicurò per un secondo che seguisse il suo corso senza imprevisti prima di iniziare a correre come un forsennato per la strada.
Thomas fu avvantaggiato dalle gambe lunghe e arrivò più lontano degli altri quando si udì lo scoppio nel silenzio della notte. Era pur sempre un ordigno artigianale, ma qualche danno lo aveva certamente fatto. Come con i regali di Natale, bastava il gesto.
Si ritrovarono in un vicolo, tutti e quattro con il fiatone. Francesco riuscì a sorridere, evidentemente euforico.
«L’ho sempre detto io, che voi comunisti siete i primi a scappare!»
«Non ricominciare, roscio!» lo ammonirono tutti. Poi però scoppiarono a ridere. Era fatta, e loro erano salvi. Domani i giornali avrebbero parlato di quel briciolo di vendetta contro tutti i soprusi perpetuati dai fascisti, e con un po’ di fortuna nessuno li avrebbe mai scoperti.
«Marchesi darà la colpa a noi» si lamentò Thomas, «come gli spieghiamo che l’idea è stata del suo caro, cattolicissimo amichetto Venturi?»
«Semplicemente non glielo spiegate» sorrise Francesco, ma con una certa autorità nella voce. Era il più piccolo, diciassette anni compiuti, ma sapeva bene come farsi ascoltare, «lui non lo deve sapere. Lo sai che non è d’accordo con questo… metodo».
Thomas sospirò, con ancora l’adrenalina nel sangue che gli impediva di stare fermo. D’altra parte, faceva parte dei patti anche quello.
Alzò gli occhi al cielo, assaporando la vista di qualche stella, chiedendosi di sfuggita cosa stesse facendo la sua sorellina lassù. Le mandò un bacio immaginario, mentre un rivolo di sudore freddo faceva il suo corso lungo la schiena.
«Sede nostra o sede tua?» scherzò Thomas, mentre tutti e quattro si sistemavano sugli scooter. Senza fretta, perché ormai ciò che era fatto era fatto.
«Dipende. Ce l’avete del buon vino?» chiese Francesco.
«Mai mancato, quello».
 
 
*
 
 
Trascorse una settimana.
Nonostante la dichiarazione ufficiale di Pasqui in sua difesa, Michele si accorse ben presto che gran parte del partito aveva iniziato a vederlo di pessimo occhio, ancora peggio che dopo i tempi
dell’equivoco articolo di giornale. Lui, con la solita ingenuità, salutava tutti cordialmente, ma in cambio spesso riceveva solo occhiatacce di rimprovero. Avrebbe tanto voluto fregarsene, invece ci soffriva.
Arturo aveva ripreso a stargli accanto come non mai. L’anziano lo rendeva partecipe di tutto ciò di cui si discuteva in Sinistra Democratica, sia apertamente che segretamente. Gli chiedeva opinioni su tutto, e si complimentava quando faceva osservazioni brillanti. E poi, con la sua presenza, costringeva gli altri deputati ad avere almeno un minimo rispetto per lui, almeno quando giravano insieme.
Thomas, invece, era bravissimo a tenerlo il più lontano possibile dai giornalisti. Li scansava e li derideva apertamente, finendo poi su tutti i telegiornali per il suo atteggiamento. Si diceva in giro che molti compagni erano andati a chiedere a Pasqui di dirgli qualcosa per evitare certe figure indegne, ma sembrava che il capogruppo non si sarebbe mai permesso di rimproverare Thomas.
Pasqui, con Michele, aveva conservato lo stesso atteggiamento ostile e indifferente. Invece, Marchesi era diventato più cortese del solito.
Michele non capiva come facesse, ma ogni giorno riusciva a intercettarlo “casualmente” in qualche corridoio, insistendo per offrirgli il caffè o l’amaro. Gli parlava a manetta per un quarto d’ora, offrendogli anche consigli e frasi di incoraggiamento, per poi sparire, preso da qualche impegno sempre urgentissimo.
La strana nascente amicizia con il suo segretario non convinceva per niente Nicolò, e Michele non riusciva a capire perché.
«Mi sembra abbastanza strano che tutto a un tratto abbia preso questo atteggiamento. Secondo me c’è dietro qualcosa» rispose, quando Michele gli chiese per l’ennesima volta cosa avesse contro Marchesi.
«Assolutamente no! Io e lui siamo spesso in disaccordo sulle idee, ero tra quelli che non l’ha votato al congresso e sicuramente non sono stato contento di certi suoi atteggiamenti, ma ha speso la sua vita lottando ed è una brava persona».
«Vedi, è questo il vostro problema!» scattò Andreani, «non è possibile dire niente su di lui perché voi lo mitizzate!»
«Sembra di sentire parlare Arturo» sbuffò Michele.
«Arturo mi sembra quello che più ragiona del partito vostro» ribatté il capogruppo del Fronte, che aveva molta stima dell’anziano deputato per la sua lotta contro la mafia.
«Sì, ma è anche prevenuto, lo conosco».
«Dammi retta, Michele» Andreani gettò la sigaretta, prendendogli dolcemente una spalla per guardarlo negli occhi, «Marchesi non è una brava persona».
 
Michele riuscì ad intuire dal suo sguardo che c’era qualcosa che l’altro non gli stava dicendo. Quando uscì dal cortile, si appuntò mentalmente di indagare meglio la questione.
 
 
*
 
 
«Ho capito».
Marchesi aveva una mano sulla fronte per la noia e l’esasperazione mentre teneva il telefono in mano davanti a sé. Pasqui invece era serissimo, seduto rigidamente sulla poltrona girevole davanti alla scrivania.
«Bel casino» commentò stancamente il segretario, non appena finita l’ennesima chiamata. Si versò un goccio di vino nel bicchiere. Quel giorno stava bevendo poco, doveva mantenersi lucido.
«Il vero casino sarà domani» ribattè, Pasqui, più nervoso che mai, mentre al contrario beveva il vino a grandi sorsi.
«Abbiamo tutta la notte per preparare una linea. Non è quello il punto. Dobbiamo riuscire a bloccare tutto, sai di che parlo» spiegò Marchesi, mentre pasticciava nervosamente un blocco di appunti.
«Goffredo ha chiamato tutte le sue conoscenze. Io ho chiamato i giornali. Abbiamo limitato i danni il più possibile» ragionò Pasqui. Riccardo ascoltava il resoconto dell’amico, ma si distraeva facilmente. Il sole stava già tramontando, e a volte assistere a quello spettacolo riusciva a riempirlo di sconforto. Un tramonto è un giorno che finisce, una vita che si spegne e della quale, forse, rimarrà solo un angoscioso ricordo.
«Servirà altro vino se dobbiamo stare qua tutta la notte» fece notare poco dopo, come se fosse di vitale importanza, prendendo il telefono per avvisare una delle collaboratrici. Non fece in tempo a chiamare, però, che Pasqui gli prese il cellulare in mano.
«Prima dobbiamo fare una cosa».
«Cosa?»
Il capogruppo alzò un sopracciglio.
Marchesi sospirò, anche se sapeva bene che l’altro aveva ragione. Sarebbe stato troppo rischioso.
Gli lanciò le tre bustine che aveva, due nelle tasche interne della giacca e una nella ventiquattrore. Pasqui le prese al volo.
«Cercherò di fidarmi di te».
«Non preoccuparti, erano le ultime».
Riccardo lo fissò innervosito mentre Pasqui se le nascondeva addosso.
«Quanto resisti senza?»
C’era un tono compassionevole nella voce dell’amico, e il segretario ne fu ancora più irritato.
«Quanto voglio».
Pasqui lo fissò negli occhi. Non gli credeva nemmeno un po’, ma fece finta di niente e continuò il resoconto delle misure intraprese. Si prospettava una lunga nottata.
 
 
*
 
 
Nicolò aveva fatto in tempo ad analizzare il calendario dei lavori fino alla prossima settimana.
Vedere che Michele era finalmente quasi fuori dalla scia mediatica di fango lo aveva tranquillizzato un po’, e ora procedeva spedito dentro il suo ufficio, stampando emendamenti di qua e inviando fax di là.
Il sole, fuori dalla finestra, stava tramontando dietro le case. Il capogruppo si ricordò di tutte le volte che lo aveva visto tramontare da altri uffici, perso in altre vite che nulla avevano a che fare con quella. Facendo politica aveva lasciato indietro tutto il resto senza troppi rimpianti, e questo forse voleva dire che aveva trovato la sua strada. Non ne era sicuro al cento per cento, ma quel giorno se lo sentiva più del solito.
Quando Chiarelli entrò, insieme ad altri quattro deputati, Nico era troppo concentrato sul suo lavoro e sui suoi pensieri per accorgersi di loro.
«Nicolò».
Era da un po’ di tempo che non usava quei toni confidenziali con lui. Ultimamente, i loro rapporti si erano ridotti quasi solo a buongiorno e buonasera, e a volte nemmeno quello.
Nico alzò lo sguardo. Davanti a sé c’era il suo vice, Giorgio e altri due tra i deputati di lungo corso del Fronte. Chiarelli aveva in mano dei fogli, ma li teneva in modo tale da non fargli leggere neanche una riga.
«Dobbiamo parlare, è una faccenda molto seria».
«Ah, sì?» ironizzò Nicolò «fammi indovinare, c’è un’altra foto di mezzo? Mi scuserai se non ti do retta, ma starei lavorando per il gruppo».
Chiarelli mandò uno sguardo d’intesa a Giorgio.
«Nico, è una cosa molto seria. Non si parla di una foto, ma di intercettazioni telefoniche» intervenne Giò.
Nicolò drizzò le orecchie, scrutando l’amico. Smise di battere sulla tastiera, improvvisamente serio.
«Vi ascolto».
Chiarelli si sedette vicino a lui, tenendo i fogli sempre capovolti. Cercava il suo sguardo mentre parlava, ma Nicolò continuò ostinatamente a guardare fisso davanti a sé per non incrociarlo.
«Ho un amico che lavora a Repubblica e mi ha mandato un pezzo che uscirà domani. Per ora siamo solo noi a saperlo. La procura di
Catanzaro ha aperto un fascicolo di intercettazioni, con l’obiettivo di inseguire la pista di un clan della ’ndrangheta. Sono saltati fuori dei nomi… Tra cui un certo Vittorio Martino».
Nicolò sussultò sentendo il cognome. Cercò di rimanere impassibile mentre mille domande gli affollavano la mente.
«Vittorio è il fratello di Michele. A quanto pare ha fatto pressione, mesi fa, per un emendamento che SD ha approvato alla finanziaria, aiutando la sua compagnia di assicurazioni».
Il fratello. Non gli aveva mai parlato di un fratello.
La ‘ndrangheta era la criminalità che più di tutte si basava sui legami di famiglia, e lui se l’era sempre ricordato. Era la ‘ndrangheta che aveva colpito a Milano, quella da cui lui stesso era stato minacciato durante la sua campagna elettorale.
«Ma non è tutto…» Chiarelli sospirò, cercando sostegno dagli altri colleghi, «in queste telefonate, si parla chiaramente di come il fratello di Vittorio, Michele, sarebbe stato eletto grazie a migliaia e migliaia preferenze per cui il padre avrebbe sborsato circa duecentomila euro in voti di scambio».
Nicolò registrò quelle parole e il loro significato molto lentamente. Ritornò indietro nel tempo, alla sua prima settimana in Parlamento, dove si era informato riguardo a tutti i suoi colleghi. Ritornò ai primi discorsi fatti a casa con Giorgio, dove gli aveva esposto tutti i suoi sospetti su quelle preferenze prese da quel giovane calabrese che non si era mai visto prima nel mondo politico. Ora c’era la conferma che aveva avuto ragione, quell’unica volta in cui avrebbe desiderato sbagliarsi del tutto.
Gli passarono davanti tutti i momenti delle ultime settimane che aveva trascorso con Michele. Chi era quella persona che aveva difeso dai suoi colleghi, dai giornalisti? Quello con cui aveva passato una settimana chiuso nel suo ufficio per scrivere una legge, finendo per farlo ammalare? Quello con cui aveva bevuto sul tetto, e che aveva abbracciato dopo che gli aveva raccontato tutti gli orrori del suo passato?
Focalizzò ciascun ricordo, unendolo a quella nuova consapevolezza. Avrebbe dovuto riscrivere ogni singolo attimo, in cui con lui ci sarebbe stato un altro Michele. Uno che aveva comprato le preferenze tramite il padre. Uno membro di una famiglia di mafiosi.
Non si era accorto di avere stretto i pugni, istintivamente. Chiarelli gli appoggiò una mano sulla spalla, cercando di calmarlo.
«Capisco come ti senti, ma non è più possibile difenderlo con queste accuse. Dobbiamo preparare delle dichiarazioni da fare».
Nicolò ripensò a quando gli era piaciuto insultare spesso e volentieri i colleghi della maggioranza, tirando fuori cose del loro passato che neanche loro pensavano di avere e utilizzando le calunnie più fantasiose. A quei tempi, questo sarebbe stato il suo più grande piatto d’argento per questa pratica. Ora, invece, era peggio di una coltellata alla schiena.
«Certo» Nicolò fece un sorriso, colmo di tutta l’amarezza che stava provando, «fate come meglio credete, lascio questo compito a voi» rispose calmo.
Si alzò in piedi, rendendosi conto che stava tremando. Non gli era mai successo. Era decisamente fastidioso non avere più neanche il controllo del proprio corpo.
Tutti lo fissarono mentre si chiudeva la porta alle spalle. Erano venuti in quattro, apposta per dargli sostegno e per convincerlo all’azione, e lui se n’era semplicemente andato.
Eppure non gli importava. Nemmeno un po’.
Corse fino al parcheggio delle moto, si indossò il casco e partì a razzo, tra le proteste dei pedoni e i clacson delle macchine.
Non sapeva neanche lui dove stava andando. Per l’ennesima volta nella sua vita, stava viaggiando senza meta e senz’alcun appoggio a cui fare riferimento. Per la prima volta, però, stava viaggiando con un vuoto nel cuore. Una sensazione terribile, di quelle che ti impediscono di respirare, come se fosse il tuo stesso corpo a rifiutare l’ossigeno, e ti fanno sentire la testa compressa dentro pareti troppo strette, intrappolata in un dolore senza via di fuga.
Era così che si sentivano gli altri, quando soffrivano?
Strinse più forte i manubri e accelerò, tenendo gli occhi puntati sulla strada sotto di sé che, mano a mano che avanzava, diventava sempre meno familiare.
 
 
*
 
 
Michele stava lavando i piatti nel lavello, in qualche modo sereno. L’opinione pubblica sembrava aver accettato la sua innocenza, e ormai erano pochi i giornalisti rimasti a dargli ancora fastidio sulla storia della bustina.
La protezione di Nicolò era stata preziosa per dargli coraggio, e alla fine aveva avuto ragione: si era risolto tutto.
D’altra parte, da quando lo conosceva sembrava che tanti problemi che si trascinava dietro da anni fossero diventati più sopportabili. Finì di sistemare la cucina pensando a quanto quell’insolito legame fosse diventato prezioso, prima di sobbalzare quando sbloccò il cellulare e lesse un suo messaggio.
 
Non venire domani a Montecitorio. Aspetta il tempo che ti servirà. Questo è l’ultimo favore che ti faccio.
Domani capirai.
 
Lesse quelle poche righe almeno una decina di volte, pensando ad uno scherzo. Non era lui, non poteva essere un suo messaggio.
Provò a chiamarlo diverse volte, ma il cellulare squillò a vuoto. Non era vero.
Perché?
Che diavolo era successo?
- l’ultimo favore che ti faccio –
La frase gli rimbalzò nella mente diverse volte, mentre piano piano la assimilava, rendendosi conto del suo effettivo significato.
«Ma perché?»
Non si diede il tempo di aspettare la crisi che sentiva che stava per salirgli. Corse in camera, diretto verso il suo comodino. Dal primo cassetto estrasse il blister con i sonniferi, e ne buttò giù tre, uno dietro l’altro.
Fece giusto in tempo a sistemarsi a letto prima che iniziasse l’effetto e la sua camera svanisse in un bianco quasi rassicurante.
Sarebbe stato lontano dalla paura, almeno quella notte.

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Capitolo 21
*** Dimissioni ***


Avviso di garanzia.
Tre semplici parole, che per la legge significavano “diritto di un indagato di essere informato sulle indagini che lo riguardano”, e che invece per il resto dell’opinione pubblica era solo sintomo di marciume e disonestà.
Michele ne aveva spesso sentito parlare prima. Sapeva che quel semplice foglio di carta aveva rovinato tanti personaggi pubblici, molti dei quali si erano dimostrati innocenti quando purtroppo era già troppo tardi, ma gli fece comunque uno strano effetto contemplare quello stesso foglio con sopra il suo nome sul tavolo della cucina.
Gli era bastata una rapida occhiata al TG e ai giornali della mattina per capire tutto. Non si parlava che di lui e della sua famiglia, con la conversazione telefonica di suo fratello messa nero su bianco su tutti i principali quotidiani.
Stava fissando il suo avviso di garanzia da un’ora, ormai. Un’ora in cui la sua mente aveva galoppato abbastanza da vedere il suo futuro prossimo: il suo rapporto rotto con Nicolò, il partito che lo avrebbe odiato, i suoi elettori che avrebbero chiesto la sua immediata espulsione, i suoi amici delusi e sfiduciati.
E lui non aveva possibilità di fare niente. Avrebbero fatto delle indagini e, una volta indagato a fondo, avrebbero scoperto, forse tra qualche anno, che lui non c’entrava niente, che quelle preferenze non se le era comprate lui, che aveva rotto i rapporti con la famiglia da tempo e che mai aveva fatto loro dei favori tramite delle leggi, almeno non volontariamente.
Ma prima avrebbe dovuto subire il fuoco di fila dei media e del partito e uscirne distrutto, cercando ogni giorno di barricarsi dietro ad una debole resistenza. Perché in quel momento non aveva altro che la sua parola per difendersi, e di sicuro non sarebbe stata sufficiente per liberarlo da quel marchio a vita di “parente di mafiosi”, soprattutto dopo l’episodio della busta di cocaina.
No, non avrebbe potuto fare niente per salvarsi, questa volta.
Piegò l’avviso di garanzia e lo rimise nella busta. Poi si alzò dal tavolo del salotto, senza neanche sapere dove andare.
Nell’istante stesso in cui scaricò il peso sulle gambe, sentì il sangue salirgli al cervello e il battito aumentare vertiginosamente. Si risedette, premendosi forte la mano sul petto, come per impedire al suo cuore di uscire fuori dalla gabbia toracica. Si concentrò sulla sua vista, cercando di fare in modo che non si annebbiasse. Provò diversi esercizi che aveva imparato negli anni per calmarsi dagli attacchi di panico, e dopo una buona mezz’ora riuscì a riacquistare lucidità.
Il suo istinto gli diceva di salvarsi, di fare qualcosa. Di chiamare Nicolò, provare a spiegarsi, convocare una conferenza stampa e dire a tutto il mondo che era innocente, ma la sua parte razionale sapeva che era inutile. Nicolò non avrebbe risposto alle sue chiamate e, come tutti gli altri, mai avrebbe creduto che lui non ne sapesse niente di tutta quella storia.
E in fondo non poteva dargli torto. Perché l’idiota era lui. Era lui quello che aveva avuto la mafia in casa e non l’aveva riconosciuta. Il lavoro che gli aveva proposto suo padre alla fine del liceo, suo fratello che si poteva permettere quelle auto costose, tutti quegli ospiti “illustri” con cui aveva condiviso le cene in famiglia e la stessa casa dove abitava, fin troppo lussuosa per quattro bocche e un solo
stipendio. In ventisette anni, non aveva mai capito niente. Era sempre stato la pecora nera della famiglia, e nessuno si era mai degnato di spiegargli che affari vi girassero.
Prese il cellulare in mano. Era intasato di chiamate e messaggi, ma nessuno di questi era di Nicolò. Ignorò tutto, cercando un solo numero in rubrica, e con decisione premette il tasto di chiamata.
Non era in sé, e forse se ne sarebbe pentito solo un’ora più tardi, ma l’avrebbe comunque fatto.
Al terzo squillo, una voce familiare rispose.
«Michè! Come stai? Ho visto i giornali…»
Michele lo fermò subito. Non gli interessava sentire niente di cosa avesse da dire.
«Tu sapevi, Antonio. Sapevi tutto, non è così? Lo sapevi fin dalla prima volta che sono entrato in quella sede e mi hai chiesto il nome di mio padre» gli disse, lapidario.
Antonio ammutolì, e a Michele venne quasi da sorridere per l’ironia della situazione. Ingannato dall’uomo che lo aveva istruito ed iniziato alla politica, l’uomo che per primo gli aveva dato una vera casa e un sogno a cui credere.
«Michele, ascoltami-»
«Vaffanculo Antonio».
Michele chiuse la chiamata, tremante di rabbia. Il suo vecchio mentore provò più volte nei minuti seguenti a richiamarlo, ma non gli concesse alcuna risposta. In quanti sapevano di quella storia, a Cutro? In quanti gli avevano nascosto la verità?
Richiuse gli occhi, cercando di calmarsi. La testa gli girava vorticosamente. Cosa doveva fare, ora? Cosa facevano tutti gli altri politici dopo aver ricevuto quel maledetto foglio di carta, oltre a maledire l’ingiustizia del mondo? Cos’avrebbe fatto Nicolò, al suo posto?
Michele riaprì gli occhi, e una lacrima cadde sul tavolo di legno. Il solo pensiero di Nicolò che adesso, nella migliore delle ipotesi, lo detestava, bastava a farlo soffrire. Non avrebbe più avuto il suo sostegno, il suo coraggio, il suo sorriso pronto ad affrontare qualsiasi avversità. Prese un cuscino dal divano e soffocò un grido, ma le lacrime non uscirono. Buttò giù il divano a calci e prese a pugni il muro, riaprendosi la ferita che si era procurato l’altro giorno, nel bagno della Camera.
Quando le nocche iniziarono a fargli provare dolorosissime pulsioni martellanti, corse in bagno per medicarsele da solo. Le sciacquò sotto l’acqua, riempiendo di sangue l’intero lavandino e sporcando il pavimento immacolato, poi le asciugò e le fasciò, aspettando pazientemente di vedere il sangue coagularsi. Le dita gli facevano così male da non riuscire più a piegarle.
Infine, restò seduto per terra, completamente abbandonato a se stesso. Perse la cognizione del tempo mentre ascoltava i battiti del suo cuore, lasciando che la mente vagasse libera, verso un futuro incerto e quasi privo di speranze.
Passò circa un’ora, senza che mosse un muscolo. Poi, ad un certo punto, si alzò.
Si sciacquò il viso. Riempì il palmo destro di fondotinta e se lo spalmò addosso, facendo un enorme fatica a causa delle mani ancora doloranti, poi si pettinò i capelli e si rasò i pochi peli che gli erano cresciuti nella notte.
Tornò in camera sua, dove al centro c’era il letto ancora disfatto. Indossò la camicia, i pantaloni, strinse la cintura e fece il nodo alla cravatta. Scelse un paio di calzini e infilò le scarpe. Prese dall’appendiabiti la solita giacca grigio topo e la ventiquattrore, afferrò le chiavi dal tavolo del salotto e uscì di casa.
Un’insolita sicurezza lo attraversò durante le numerose volte in cui, nel tragitto sul taxi, immaginò la scena in cui presentava la busta con le sue dimissioni al capogruppo. Sarebbe stata la cosa più giusta da fare in quel momento, non avrebbe perso tempo a montare delle difese. Aveva avuto tutta la mattina per ragionare, ed era abbastanza intelligente e preparato da aver capito che avere la ragione dalla sua parte non sarebbe bastato a convincere tutti gli altri. L’unica cosa che, in quel momento, lo aiutava ad andare avanti, era il pensiero rabbioso di come avrebbe rinfacciato a tutti i suoi compagni di Cutro tutti quegli anni di menzogne.
Una volta arrivato a Montecitorio, raggiunse velocemente il suo ufficio per buttare giù la lettera di dimissioni. Fu felice di non vedere molti deputati nei corridoi, ma i pochi che incrociò lo seguirono a lungo con lo sguardo, parlottando tra loro, e Michele si rese piacevolmente conto che ormai non gli faceva quasi più male. Se c’era una cosa a cui si era abituato era avere sempre delle voci maligne alle spalle. Voci a cui un uomo gli aveva insegnato a non dare peso, un uomo che forse non gli avrebbe nemmeno più rivolto la parola.
Si sforzò di concentrarsi su qualcos’altro mentre batteva a macchina poche righe su un foglio Word. Le stampò velocemente e preparò due buste: una per il segretario e una per il capogruppo. Firmò tutte e due le copie, curandosi che il suo nome risultasse leggibile. Infine, prese entrambe le buste e camminò velocemente verso le scale, diretto al terzo piano.
Il suo cuore batteva forte, testimoniando l’importanza dell’atto che stava per compiere. Si stava per dimettere, e nessuno avrebbe potuto più dire niente su di lui dopo questo gesto, perché era quella la cosa più giusta che poteva fare in quel momento, che avrebbe comunicato al Paese intero quanto il suo senso morale e delle istituzioni era profondo.
Strinse i denti e bussò alla porta dell’ufficio di Pasqui. Nessuna risposta. Fece pochi passi nel corridoio e arrivò davanti all’ufficio di Marchesi. La porta era socchiusa, e dentro si vedeva la sua segretaria che spostava cartelle da uno schedario all’altro.
«Scusi…» esitò Michele, «c’è il segretario?» Lei non staccò neanche gli occhi dal suo lavoro.
«No, mi dispiace. Cosa le serve?»
«Dovrei consegnare… una cosa» mormorò.
«Dia pure a me, provvedo io».
Michele non osò contraddirla e lasciò le due buste sulla scrivania. Ci avrebbe tenuto a farlo di persona, ma alla fine non faceva molta differenza.
Scese le scale lentamente, chiedendosi dove sarebbe andato ora. Tra poco sarebbe iniziata una seduta in aula, ma aveva senso presentarsi lì dentro dopo aver appena consegnato le proprie dimissioni?
Camminò in lungo e in largo per il Transatlantico deserto, senza riuscire a decidersi. Alla fine però, con passi incerti, si decise ad entrare. Almeno avrebbe visto l’aula per l’ultima volta da dentro. Quell’aula che gli aveva dato così tanto e tolto altrettanto. Quella che il primo giorno gli era sembrata immensa e che ora gli sembrava solo una prigione molto ben decorata.
Non appena entrato da un ingresso laterale, alzò con circospezione gli occhi per cercare Andreani al suo solito posto. Sospirò di sollievo, constatando la sua assenza. Se fosse stato presente, non avrebbe avuto il coraggio di fare un altro passo.
Michele immaginò il suo viso, i suoi occhi verdi e la sua giacca poco formale davanti ad una telecamera, dove, con la sua voce squillante da vero rompiballe sarebbe tornato ad attaccarlo, ricordando a tutti che lui lo diceva da sempre che era un raccomandato e che aveva avuto l’appoggio della mafia per la sua elezione. Immaginò la rievocazione degli insulti e delle risate di superiorità che gli aveva dedicato le prime settimane in Parlamento, e il solo pensiero fu sufficiente a dargli la nausea.
Camminò lentamente verso il suo posto, senza badare agli sguardi degli altri né alla voce del presidente della Camera. Lo stomaco gli ribolliva per quell’immagine che aveva appena pensato, e dovette sforzarsi molto per controllare le lacrime che minacciavano di salirgli davanti a tutti.
Una scenata in mezzo all’aula. Solo quello gli mancava, e lui sarebbe stato il parlamentare più ridicolo della storia, altro che prima pagina! Appoggiò la ventiquattrore sullo scranno, tirando furiosamente fuori la sua agenda per gli appunti, così da avere qualcosa da fare che non fosse concentrarsi sui brutti pensieri. Solo a quel punto si accorse di essersi istintivamente seduto al suo solito banco, vicino a Thomas.
L’amico lo stava fissando, ma Michele distolse subito lo sguardo, prendendo a scrivere di getto sul quaderno.
«Mic-»
Il giovane bloccò il collega con uno sguardo di fuoco. Non ricordava di aver mai fatto uno sguardo così cattivo in vita sua. Non avrebbe mai pensato nemmeno di esserne capace.
«Mi dimetto. Ho già dato la mia lettera a Pasqui e Marchesi. Non chiedermi niente, perché tanto la risposta non la so nemmeno io, e comunque non sarebbe credibile. Immagino che…»
Thomas lo fissava, aspettando con la bocca serrata. La sua espressione era indecifrabile.
«…che vi devo delle scuse per tutta questa storia» meditò un attimo, sentendo gli occhi iniziare a bruciare, «sono contento, comunque, di aver conosciuto uno come te. Dico davvero».
Michele voltò bruscamente lo sguardo per non mostrare gli occhi, ma Thomas lo trattenne per una spalla.
«Non stai dicendo sul serio, vero?» Sembrava dispiaciuto.
«Che altro dovrei fare, eh?» si ritrovò a gridare. Nonostante il casino, nessuno si girò a guardarlo. Sembrava essere diventato invisibile agli occhi dei suoi colleghi.
«Tu non c’entri niente. Lo so che non c’entri, e lo sai anche tu. Perché non provi a difenderti?»
Michele si morse forte un labbro. Non si sarebbe mai aspettato che qualcuno potesse stare dalla sua parte, quando tutti gli indizi confluivano contro di lui.
«Perché ti fidi di me?»
Era curioso di saperlo, visto che in quel momento era la persona più indifendibile del Parlamento.
«Ti dirò la verità» sospirò Thomas, «ho avuto anche io i miei dubbi, leggendo stamattina le intercettazioni. Però non ci volevo credere.
Insomma… penso di conoscerti bene ormai. Ne ho parlato con Arturo, e anche lui crede che tu non ne sappia niente di questa storia. Se lui si fida di te, anche io mi fido. E non mi importa di ciò che penseranno i nostri colleghi».
Michele sentì il cuore farsi più leggero. Era già qualcosa avere due persone disposte a credergli.
«Grazie della fiducia, Thomas. Ma non penso di ritirare le mie dimissioni. Non mi va di stare qui e venire attaccato da tutti. I miei voti, comunque, sono stati comprati, e non mi scrollerò mai più di dosso quest’immagine…»
La voce gli si ruppe. Thomas gli strinse forte una mano, e Michele gliene fu grato. Mai come in quel momento aveva avuto bisogno dell’affetto di qualcuno.
«Ripensaci, ti prego. Devi restare e combattere! Ti ricordi quando non volevi andare in trasmissione con Andreani?»
Michele ebbe un leggero scatto sentendo quel nome, e la sua mente si riempì in un attimo di tutti i ricordi che stava faticosamente cercando di non rievocare.
«Thomas, lascia stare. Per favore».
Il collega si accorse di aver toccato il tasto sbagliato, e subito smise di parlare.
Nei minuti successivi, Michele si immerse completamente sull’argomento della seduta. Si era deciso a vivere il suo ultimo giorno da parlamentare in modo serio. Prendeva appunti continuamente, ogni tanto pensando di sfuggita alla fine che avrebbe fatto fare a quell’agenda, piena di informazioni che non gli sarebbero più servite. Quando fu finalmente illuso di aver ritrovato una certa pace interiore, da un ingresso laterale entrò Nicolò Andreani.
Michele non lo avrebbe notato se, proprio in quel momento, non avesse alzato gli occhi. Il cuore iniziò a pompare il sangue in tutti i capillari, e subito sentì il sudore freddo appiccicargli la camicia alla pelle.
Cercò istintivamente il suo sguardo, mentre il capogruppo del Fronte saliva i banchi del suo gruppo. Non sapeva neanche lui cosa volesse. Gli sarebbe bastato un cenno, un mezzo sorriso, un qualsiasi segnale per dirgli che aveva ancora un po’ della sua fiducia.
Invece, Nicolò si sedette al suo posto, sorridendo ai suoi vicini. Scambiò due parole con Chiarelli e si stiracchiò. Girò lo sguardo, passando in rassegna l’intero emiciclo, e i suoi occhi verdi passarono attraverso il banco di Michele come se seduto non ci fosse stato nessuno.
Le mani del giovane calabrese iniziarono a tremare. Forse, l’odio sarebbe riuscito a gestirlo. Forse lo avrebbe compreso, anche. Ma l’indifferenza no.
Non sapeva cosa farsene di quell’indifferenza. Non sapeva come affrontarla, come sconfiggerla. L’indifferenza faceva male e basta, e Michele non era già più in grado di sopportare oltre.
Prese le sue cose e fece un cenno a Thomas. Lui lo guardò interrogativo, non capendo perché se ne stesse andando. Michele gli rivolse uno sguardo affranto, rifiutandosi categoricamente di spiegargli il vero motivo.
Uscì da sopra, così da non dover passare sotto gli occhi di tutti. Sarebbe finito così il suo ultimo giorno da parlamentare.
Con lui che scappava, come aveva sempre fatto.
 
 
*
 
Forse quello, per Nicolò, era stato in assoluto uno dei giorni più silenziosi della sua vita. Non era mai successo che in aula non scambiasse neanche un fugace commento sulla seduta. Nel suo gruppo parlamentare aveva sempre parlato con tutti, scambiando spesso battute. In generale gli bastava poco per attaccare bottone, ovunque si era trovato nella sua vita aveva suscitato simpatia alla maggioranza dei suoi conoscenti. Tranne quel giorno.
La scorsa notte era riuscito ad arrivare fino ad Ostia con la moto. Non aveva fatto altro che fissare il mare, smarrito, e quelle onde gli avevano provocato una certa angoscia. Loro si muovevano, continuamente e senza sosta, lui invece, per la prima volta, si era fermato. D’altra parte il mare è fatto così, va avanti anche se nessuno lo guarda. È nella sua natura, non si può fermare. Al massimo rallenta, si calma, ma non si ferma mai.
Inseguendo quei pensieri aveva capito che doveva tornare. Non era stata la responsabilità a chiamarlo, il grosso del lavoro lo aveva fatto il suo orgoglio: l’orgoglio di essere un uomo che non si era mai fermato, per niente e per nessuno, e ora non avrebbe permesso a Michele Martino di togliergli la grinta.
Lasciò i ricordi di quell’uomo, che lo aveva cambiato più di quanto ne fosse cosciente, su quella spiaggia nera, preparandosi ad un altro giorno alla Camera.
La sera tornò a casa, facendo sbattere rumorosamente la porta ed estraendo l’ennesima sigaretta dal pacchetto. Non faceva altro che fumare dalla sera prima.
«Nico…»
Giorgio lo raggiunse sul balcone, con l’aria di uno che sta per mettere in piedi una bella ramanzina.
«Non mi va di parlare» chiarì subito Nicolò, sapendo bene che non sarebbe stato quell’avvertimento a fermare l’amico.
«È tutto il giorno che non parli. Si può sapere che ti prende? Lo capisco che ci sei rimasto male per quella notizia…»
Nico aspirò una lunga boccata di fumo. Odiava le persone che cercavano di compatirlo.
«Non dirmi che me l’avevi detto. Non sono un bambino».
Giorgio sospirò, cercando di mostrarsi paziente come sempre.
«Lo so. Ma vorrei che ti riprendessi un attimo. Perché devi essere così nervoso? Che importanza ha? Torneremo ad attaccarli come sempre, come sempre hai fatto anche tu».
Nicolò lo fulminò con lo sguardo, ma non rispose. Il suo amico aveva ragione, ma lui non era più lo stesso di prima. In qualche strano modo, senza che ne avesse il controllo, si era permesso di affezionarsi a qualcuno, di modificare leggermente il corso della sua vita per un’altra persona.
Tornò in silenzio in camera sua. Si stese sul letto, sentendo il cuore battere veloce per la rabbia. Per un po’ di ore, mentre la scorsa notte vagava nel nulla con la moto, immerso nei suoi pensieri, aveva vagheggiato l’idea che forse era tutto uno sbaglio. Michele aveva anche provato a chiamarlo, ma non ce l’aveva fatta a rispondere, per paura di ritrovarsi a combattere tra ciò che provava e ciò che invece era la realtà dei fatti.
In giornata, poi, non era uscita alcuna dichiarazione da parte di Michele su giornali o TV per difendersi o per smentire tutto. In corridoio si vociferava di dimissioni, ma Nicolò aveva udito quelle parole solo di sfuggita, perché ogni volta che sentiva qualcuno parlare di quel deputato di SD camminava avanti.
Forse, a mente fredda, se avesse avuto una sola speranza a cui aggrapparsi, una sola parola, sarebbe corso da lui e lo avrebbe obbligato a spiegarsi, a chiarire davanti a lui quella situazione. Invece niente.
Ma non aveva neanche quella, ed ora si ritrovava aggrappato solo a se stesso, scoprendosi più debole di quanto aveva mai temuto di essere.
 
 
*
 
 
Aveva passato il weekend facendo zapping da un programma televisivo all’altro.
Probabilmente sarebbe stata l’ultima volta che si parlava di lui a reti unificate. Da un po’ di tempo aveva smesso di vedere programmi di politica, se non era strettamente necessario. Ora, invece, provava un gusto un po’ morboso a sentire il suo nome su quegli schermi, mentre la sua vita veniva sviscerata, mischiando fatti veri e congetture, alcune così assurde che Michele era riuscito solo a sorridere.
Già, aveva sorriso. Perché lui se ne stava per andare via, lontano da tutti quei casini.
Aveva avuto un po’ di tempo per ragionare sul suo futuro. A Cutro non sarebbe tornato, se non per poco tempo, solo per togliersi qualche sassolino con chi di dovere, poi sarebbe andato a vivere a Palermo. Aveva vissuto lì cinque anni, conosceva qualcuno e i soldi non gli mancavano. Si sarebbe potuto trovare un lavoro comune e cercare a fatica di rifarsi una vita. D’altra parte, negli anni dell’università era stato abbastanza felice lì. Cosa gli impediva di esserlo ancora?
Anche se, in quel momento, la prospettiva di un cambio radicale gli lasciava solo un immenso vuoto nello stomaco, come se lo aspettasse un destino oscuro e freddo, e lui ci stesse volontariamente andando incontro. Sarebbe stata una vita vuota, senza più niente che lo facesse sentire davvero a casa come, nonostante tutto, si era sentito in quegli ultimi mesi. Una specie di stereotipo di vita dove sarebbe mancato
l’essenziale, come un’automobile senza benzina. Come avrebbe fatto senza la politica, dopo che da quasi dieci anni si occupava quasi interamente di quello?
Camminò in fretta verso Montecitorio, cercando di non pensarci. Era notte fonda, e lui stava andando lì un’ultima volta per ritirare le sue cose dall’ufficio, certo dell’assenza di anima viva. A quell’ora si poteva trovare solo il personale della Camera, qualcuno che perlomeno non lo giudicava.
Impiegò poco tempo a inscatolare tutte le foto e i libri. Non aveva molto altro. In un cassetto c’era ancora la copia della proposta di legge, quella scritta con Andreani, e restò a studiarla da vicino con aria di nostalgia. Ci avevano messo tutto il loro impegno, condividendo insieme i giorni e le notti, compresa la sua febbre.
La abbandonò lì, amareggiato, sbattendo il cassetto con un gesto furente. Chiamò un commesso e diede disposizione di recapitare le scatole a casa sua, poi camminò distrattamente per i corridoi, godendo appieno della calma e della desolazione per dire mentalmente addio ad ogni angolo, testimone di un pezzo importante della sua vita che sarebbe presto diventata un ricordo.
Quando arrivò vicino all’imbocco delle scale, si stupì di sentire delle voci provenire dal piano superiore. C’era qualcun altro nel palazzo.
«E Mariucci, allora? Ricordi quando tentava di scroccarmi il pranzo ogni volta?»
La voce profonda e leggermente brilla del segretario si distingueva particolarmente. In sottofondo si udivano anche le risate del capogruppo.
«Ma quello oggi non si regge in piedi. Si sono tutti rovinati, quei deficienti!»
«Dai, non dire così, sono i nostri vecchi amici! Sei il solito burbero!» Forse non sarebbe stato molto educato disturbarli, ma già che era lì avrebbe potuto almeno salutare entrambi e spiegare le sue dimissioni di persona. D’altra parte, dovevano comunque essere votate dall’assemblea, come previsto dal regolamento.
«Ehm… permesso?»
La porta era semichiusa e l’occhio severo di Pasqui balenò subito su di lui attraverso la fessura. Gli permise di entrare con un cenno brusco del capo.
«Ah!» Marchesi sembrò estasiato, e da vicino Michele vide chiaramente quanto fosse ubriaco. Il viso era di un uniforme colore rosso, le palpebre facevano fatica a restare aperte e gli occhi, di solito profondi e intensi, dipingevano uno sguardo spensierato e disteso.
«La nostra mascotte del partito! Anche tu a lavorare a quest’ora?»
«No, è che… la lettera di dimissioni...»
Si sentì improvvisamente imbarazzato e abbassò lo sguardo, colmo di sconforto, aspettandosi di subire qualche tipo di rimprovero da un
momento all’altro per tutto quel casino.
«Lettera?» Marchesi non sembrò afferrare, «aaah! Sì, sì, quella che mi ha portato stamattina la segretaria! Penso di averla appena tritata insieme al resto delle cartacce» sorrise radioso.
Michele cercò lo sguardo del capogruppo, in cerca di spiegazioni. Lui si limitò ad evitarlo.
«Erano le mie dimissioni. Non posso più restare dopo tutta questa storia» commentò acidamente. Il fatto che entrambi si stessero burlando di lui lo infastidiva perché, al contrario, Michele era serissimo.
«E quindi ti dimetteresti per una cosa che non hai fatto?» rifletté Marchesi, con la testa che ciondolava, «solo perché non vuoi difenderti? Non mi sembra il caso».
Michele tremò di rabbia. Cercò ancora lo sguardo di Pasqui, ma il capogruppo, per evitarlo, era concentrato sul cellulare.
«Le mie dimissioni sono definitive!» gridò, «sto solo facendo quello che è giusto! E poi, come sai che sono innocente?»
Marchesi sbarrò gli occhi, evidentemente sorpreso nel vedere uno che, al posto di discolparsi, cercava di mostrarsi più colpevole di come era.
«Michele» sorrise, «lo sappiamo entrambi che tu non sei un mafioso. Le prove sembrano essere contro di te, è vero, ma tu non sei stato condannato, perciò puoi ancora dimostrare la tua estraneità ai fatti.
Certo…» ragionò, lanciando uno sguardo obliquo a Pasqui, «il partito non potrà sostenerti ufficialmente, capisci, la tua posizione è molto scomoda. Questo non vuol dire, però, che ti lasceremo solo. Ci sono molti modi in cui possiamo aiutarti, garantendoti innanzitutto un ottimo staff di comunicazione-»
«No» tagliò corto Michele, un po’ meno arrabbiato, vedendo che Marchesi cercava semplicemente di aiutarlo «non voglio nessuno. È meglio per tutti se mi dimetto».
Il segretario sospirò e si piegò per afferrare una busta dalla scrivania.
«Questa la manda il tuo circolo. Dicono che sei un uomo di indubbia moralità e che non sei mai venuto a sapere niente degli affari loschi della tua famiglia. La firma un certo Antonio Dominiani».
Michele avvertì un sussulto. Allungò la mano per leggerla, verificando subito quanto diceva il suo segretario. Sentì un bruciore agli occhi leggendo quella firma che ben conosceva, preceduta da un mare di belle parole su di lui e sul suo operato a Cutro in quegli anni. Marchesi sembrò soddisfatto.
«Quindi, puoi pure andare a dormire adesso. Domani penseremo anche a questa faccenda».
Michele appoggiò cautamente la lettera, come se fosse stata molto fragile, e squadrò Marchesi seriamente.
«No, segretario. Non puoi impedirmi di andarmene. Non sarò mai capace di reggere una faccenda così…così…»
Lasciò a metà la frase, non trovando l’aggettivo giusto. Riccardo sorrise.
«Invece potremmo ben impedirtelo, semplicemente votando contro in aula. Ma non vogliamo che si arrivi a questo, giusto?»
Michele cercò di assumere un’aria di sfida, ma non era più così sicuro di se stesso, quella lettera era riuscita a incrinare la sua determinazione. Antonio l’aveva scritta dopo che lui l’aveva insultato al telefono. Nessun altro avrebbe mai fatto una cosa simile per lui.
Pasqui alzò gli occhi dal cellulare, fissandoli nei suoi.
«L’ultima volta hai lottato per non farmi strappare la tua firma al Patto di Elezione. Devo portarlo qui e rifare la scenata o cercherai di onorarlo?»
Il giovane calabrese sentì il cuore farsi più leggero sentendo quelle parole anche da quell’uomo a cui, sicuramente, non era mai andato a genio. Solo qualche giorno fa aveva pensato che nessuno più sarebbe stato dalla sua parte, e ora tutti sembravano avere fiducia in lui.
In qualche modo, dentro quell’ufficio, tutto sembrava aver riacquistato un suo ordine, e quell’avviso di garanzia non era più la fine del mondo, ma solo una grana come le altre.
«Posso provarci» mormorò piano. «a difendermi. Ma se non funzionerà, io comunque-»
«Ho capito, ho capito» tagliò corto Marchesi, mentre si alzava in piedi per prendere un calice dallo scaffale «prendi un bicchiere adesso, e poi vai a casa. Domani alle nove ti farò trovare in ufficio un team scelto di vecchi amici, ti aiuteranno loro».
Michele non rifiutò l’offerta alcolica. Il vino era forte, e subito gli diede una sensazione di calore diffuso. Sentì che sarebbe riuscito addirittura a dormire tranquillo quella notte.
«Grazie».
Si congedò velocemente, uscendo dalla stanza con un po’ più di speranza in corpo.
Domani sarebbe stato un altro giorno. Un altro giorno di lui in Parlamento.

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Capitolo 22
*** La locomotiva ***


Michele trascorse il martedì rimbalzando dal suo ufficio alla sala stampa. Dispensava dichiarazioni su dichiarazioni a giornali e TV, ripetendo il mantra che il team di Marchesi gli aveva scritto, e cioè: “gli-affari-di-mio-fratello-non-c’entrano-con-me”, e ribadendo che la busta di coca non aveva nulla a che fare con quella faccenda.
La strategia era quella di dare tutta la colpa al fratello, concentrandosi sui suoi reati che stavano emergendo dalle intercettazioni e non rispondendo alla domanda sulle preferenze comprate dal padre. Così, dicevano, l’opinione pubblica si sarebbe lentamente dimenticata della sua parte in tutta la faccenda, inquadrando il fratello come il vero “cattivo” dell’operazione. Intanto avrebbe dovuto lavorare sulla sua immagine, ricordando tutti gli emendamenti di Arturo che lui aveva controfirmato in quei mesi allo scopo di limitare il potere della criminalità organizzata, in tutte le sue forme.
Era un lavoro lungo e difficile. Michele avrebbe preferito mille volte dimettersi che dover cercare di giustificarsi con l’opinione pubblica, ma il sostegno da parte di Arturo, Thomas e dello staff lo aiutò a darsi forza.
A metà pomeriggio arrivò anche una dichiarazione stampa da parte di Pasqui, dove invitava a “non porre conclusioni affrettate” e a “lasciar lavorare la magistratura sul caso”, ma che comunque “se dovesse risultare qualcosa di illegale, il partito provvederà di conseguenza”.
«Non poteva dire altro, Michè» gli spiegò Thomas una volta vista la sua espressione delusa, «c’è un’indagine in corso, non si tratta di una busta di coca che ti sei ritrovato in tasca stavolta, c’è di mezzo la tua famiglia. È normale che vi sia la massima cautela da parte del partito, con tutto che tutti noi sappiamo che sei innocente!» concluse in fretta.
Michele non ne era così sicuro. Nonostante il vago appoggio di Marchesi e Pasqui, capitava che nei corridoi i deputati del suo gruppo gli rivolgessero sguardi di disapprovazione. I tre che erano saliti sul tetto a intimargli di scendere qualche tempo fa parlavano a voce alta davanti a tutti sulle sue palesi implicazioni con la mafia, e quello che gli aveva dato del frocio aveva preso l’abitudine di cambiare direzione ogni volta che lo incrociava nei corridoi.
Erano già passate le sei del pomeriggio quando nell’ufficio di Michele arrivò un’altra dichiarazione stampa. Questa volta era da parte del Fronte per l’Indipendenza.
 
Il nostro partito giudica intollerabile la posizione del deputato Martino nelle intercettazioni pubblicate ieri. Ci aspettiamo che si rechi al più presto a testimoniare e a denunciare tutti i nomi e i fatti legati alla sua famiglia, e che nel frattempo si dimetta immediatamente per i voti comprati tramite clientelismo.
 
I membri del team di Marchesi si guardarono, dubbiosi, iniziando a snocciolare qualche ragionamento su come rispondere, ma la testa di Michele era completamente concentrata sulle firme a qual comunicato. Mancava quella di Andreani.
Sentì improvvisamente il cuore farsi più leggero. Forse qualche speranza poteva ancora esserci.
«Per oggi basta» comunicò allo staff , «risponderò domani, sono molto stanco. Parlerò anche con il tribunale di Reggio Calabria, per ragionare di una mia testimonianza».
Tutti i membri dello staff andarono a stringergli la mano, congratulandosi personalmente prima di uscire dalla stanza.
Era la cosa giusta. Nonostante in quei ventisette anni non avesse mai capito cosa ci fosse realmente dietro, avrebbe potuto comunque riferire tutto ciò che ricordava. Le persone che erano venute a cena, brandelli di conversazione, anche dei nomi detti velocemente al telefono… tutto sarebbe potuto tornare utile, così non avrebbe lasciato questo alibi ai suoi avversari. Non gli importava granché che fosse la sua famiglia. Se davvero erano implicati con la ‘ndrangheta, avrebbero dovuto subirne le conseguenze, come tutti.
«Andrà tutto bene» sorrise l’ultimo uomo dello staff che stava uscendo, «penso che siamo riusciti a convincerne molti con le dichiarazioni di oggi».
Gli allungò la mano. Michele la strinse
«Giulio Romano. È un piacere lavorare per lei».
 
 
Era sera tardi e Michele era ancora nel suo ufficio, a lavorare da solo. Stava ripensando alla dichiarazione del Fronte davanti ad un caffè, quando Thomas bussò.
«Michele!» disse agitato, entrando «fuori… in piazza… una contestazione…»
Il giovane capì solo quando guardò dalla finestra, vedendo una discreta folla radunata in piazza Montecitorio. Tra tutti i cartelli, uno era il più visibile: “FUORI I MAFIOSI DAL PARLAMENTO”.
Michele sentì un nodo in gola. Tutte quelle persone erano lì a protestare contro di lui, definendolo un mafioso.
Non poteva accettarlo.
Scattò in piedi, superando Thomas a grandi passi. Scese i gradini a due a due dalla rabbia, mentre l’amico gli urlava inutilmente di fermarsi. Si ritrovò fuori in meno di un minuto, e poco a poco la folla concentrò gli sguardi su di lui, riconoscendo chi fosse.
Michele sentì il cuore nel petto minacciare di scoppiare e la paura iniziò a scorrergli nelle vene. Era davanti ad almeno un centinaio di persone che lo odiavano e lui non sapeva perché lo stava facendo. Sapeva solo che doveva fare qualcosa, qualsiasi cosa, perché lui era innocente e nessuno poteva dargli del mafioso.
«Non sono un mafioso» urlò, «io testimonierò in tribunale. Testimonierò contro la mia famiglia, perché io sono innocente».
Si accorse del grosso errore che aveva fatto solo quando si ritrovò accerchiato. Sembrava che nessuno avesse ascoltato davvero le sue parole. Si levarono voci diverse, prima sparse, poi sempre più frequenti. Michele riuscì ad afferrarle al volo, prima che fossero coperte da altre urla e fischi.
«Mafioso!»
«Dimettiti!»
«Criminale!»
Un uomo gli si avvicinò e gli sputò addosso. Michele sentì gli occhi bruciargli per l’umiliazione. Qualche cellulare stava riprendendo la scena. Cercò di indietreggiare e di tornare indietro, ma le persone sembravano sbarrargli ogni via di fuga.
L’istante dopo, un sampietrino gli arrivò dritto in faccia, colpendolo sulla fronte. La folla si voltò come un solo corpo, per cercare l’autore di quel gesto così estremo.
«Pezzo di merda!» gridava l’artefice, raccogliendo un altro sasso da terra, «devi dimetterti, mafioso!»
Michele nel frattempo si era accovacciato per terra, premendosi la fronte per fermare il sangue. Tutto si era fatto buio, e lui si sentì vagare dentro un sogno, uno dei suoi soliti sogni dai quali era difficile svegliarsi. Chiuse immediatamente gli occhi, dimenticando il mondo intorno a sé. Ora si sarebbe svegliato, si sarebbe svegliato nel suo letto, al sicuro…
«Ehi, tu! Vieni qui se hai il coraggio, così ti spacco quella faccia di merda!»
Qualcuno stava urlando, proprio davanti a lui. Michele riaprì gli occhi e notò che la folla si stava lentamente diradando, mentre
l’uomo con il sampietrino ancora in mano lo lasciava lentamente cadere e se ne andava. Ci fu qualche istante di silenzio assoluto, poi una mano lo costrinse a tirarsi su e lo guidò in mezzo alla folla, riportandolo dentro il palazzo, al sicuro.
Michele sentì diverse braccia toccarlo e aiutarlo a sedersi, mentre un panno umido gli veniva posato sulla fronte. Alzò lo sguardo,
incapace di dire una parola. L’uomo davanti a lui lo guardava, e il verde dei suoi occhi rifletteva una paura che poche volte gli aveva visto dipinta in faccia così chiaramente.
«Non fare mai più una sciocchezza del genere. Hai capito?»
Il piccolo gruppo di deputati accanto a lui faceva passare in silenzio lo sguardo da lui a Nicolò, chiedendosi cosa sarebbe successo.
«Nicolò… aspetta… io non…»
Il capogruppo del Fronte si guardò intorno, poi abbassò lo sguardo. Michele cercò di dire qualcosa, ma l’ansia di dire tutto ciò che stava pensando nello stesso momento gli produsse un suono indefinito.
Nicolò scosse la testa, poi sorrise debolmente. I suoi occhi erano lucidi.
«Mi dispiace» disse solo, prima di allontanarsi del tutto, sparendo nel corridoio.
 

Faceva freddo. Michele cercò di stringersi nei vestiti più che poteva, ma non sarebbe stata la maglietta di cotone che aveva addosso a proteggerlo. Tremando, misurò con lo sguardo le pareti dell’aula.
Tutti i suoi compagni di classe lo stavano guardando.
«Mafioso» mormorò uno di loro.
«Vattene via» gridò un altro.
«Bambini, per favore!» la maestra sovrastò le voci, «state attenti!»
«Ma maestra!» piagnucolò in modo irritante uno degli alunni
«Michelino ha comprato i voti. Non può stare qui, lo mandi via!» La maestra si accigliò, e il suo sorriso paziente mutò improvvisamente in uno sguardo severo, rivolto proprio verso di lui.
«Hanno ragione. Esci subito, Michele!»
«Non ho comprato quei voti. Lo giuro, maestra!»
Qualcuno gli tirò un sasso. Qualcun altro gli sputò. Ma Michele restò immobile, mentre assisteva alle pareti che si rimpicciolivano sempre di più, sempre di più…
«Finirai nello sgabuzzino per punizione» sentenziò la maestra, ritornando poi a scrivere alla lavagna come se niente fosse, senza accorgersi che la stanza si stava rimpicciolendo e che la stessa luce del sole si stava spegnendo, lasciando solo un denso buio.
«No! NO!»
Gridò, ma non servì a niente. La luce svanì davanti ai suoi occhi, così come il resto della classe.
Restò da solo, circondato dal buio. Cercò una via di fuga in tutte le direzioni, ma con un solo passo toccò tutte e quattro le pareti che lo isolavano dall’esterno. Sentì forti risate e grida, e Michele non riuscì a smettere di sentirle, neanche tappandosi forte le orecchie con
entrambe le mani. Voleva solo che si fermassero, che lo lasciassero in pace. Voleva uscire di lì, ma l’aria sembrava fuggire dai suoi polmoni e lui non poteva scappare…
La porta si aprì con un tonfo secco, facendolo sussultare. Davanti a lui ricomparve la luce tiepida del suo ufficio spazioso, illuminato dalla lampada sulla scrivania. Alzò la testa cautamente, sentendo la schiena protestare per essersi addormentato in quella posizione scomoda. Davanti ai suoi occhi, comparve la causa del suo risveglio.
«Segretario…»
Marchesi gli sorrideva dall’ingresso. Sembrava inspiegabilmente sveglio e attivo, nonostante l’orologio appeso al muro segnava l’una e mezza di notte.
«Ciao Michele. Non volevo disturbarti, ma ho visto la luce accesa e ho pensato stessi lavorando».
Michele cercò di assumere una posizione decente. Sentiva il viso tirato per la stanchezza e le mani tremare ancora per l’incubo che
aveva appena vissuto. Cercò di ricordare perché si era addormentato nel suo ufficio, e gli avvenimenti della giornata gli tornarono in fretta alla memoria. Lo sputo, il sasso, la folla, Andreani. Lui che si faceva medicare il taglio alla tempia e scappava in ufficio per restare da solo. La folla che era rimasta sotto il palazzo, e lui che si chiudeva nel suo ufficio, perché per nessun motivo sarebbe uscito di lì, anche a costo di doverci passare la notte.
«Io…io resto qui» mormorò piano.
Marchesi lo fissò, interrogativo. Michele deglutì. Aveva ancora senso nascondere a quell’uomo la sua debolezza?
«Ho paura» aggiunse poi, abbassando definitivamente lo sguardo.
L’aveva detto. L’aveva detto a Marchesi, il segretario del suo partito. Perché non aveva più voglia di mentire, e non aveva più neanche la voglia di reggere quella maschera di freddezza che non gli apparteneva per niente.
«Lo so» commentò seriamente Marchesi, «è comprensibile, dopo quello che hai passato ieri pomeriggio. Ma non puoi restare chiuso qui dentro per sempre, no?»
Michele non rispose. Era ovvio che non poteva, ma non poteva neanche uscire, almeno non adesso. Aveva paura di essere preso di mira da qualcuno prima ancora di riuscire a salire su un taxi.
«Conosco posti più comodi per dormire» propose Marchesi, sorridendo come se nulla fosse «vieni con me».
Michele fissò i suoi occhi sorridenti, perplesso. Non aveva il coraggio di dirgli di no. Prese le sue cose, si infilò la giacca e lo seguì. Scesero le scale fino all’ingresso, ma Marchesi evitò la porta principale per prenderne una sul retro, dove a pochi metri di distanza era parcheggiata un auto blu.
«Solito posto, Totò» ordinò Marchesi, salendo sul retro. L’auto partì velocemente nella notte, sfrecciando per le strade, superando le macchine con accelerate brusche, fino ad arrivare in una via di Trastevere. Erano alla sede c’entrale di Sinistra Democratica.
Michele l’aveva vista tante volte, ma non vi era mai entrato. Le bandiere del suo partito sventolavano leggermente dal balconcino. Marchesi estrasse le chiavi e lo condusse dentro. Si ritrovò in uno stanzone enorme, con diverse sedie e divanetti sparsi alla rinfusa. Il segretario prese subito ad affaccendarsi davanti ad una vecchia stufa in un angolo della sala e, pochi minuti dopo, l’ambiente fu reso più accogliente dal debole scoppiettio del fuoco.
«Mettiti pure dove vuoi. Prendo delle coperte».
Michele sedette su uno dei divani più vicini al camino. Non era comodo come il suo letto, ma certamente di più del legno della sua scrivania. Riccardo Marchesi gli lanciò due coperte, spingendo un altro divano vicino al camino.
Michele si tolse le scarpe e la giacca e si sdraiò, abbandonando la
testa su un cuscino. Quell’incubo era riuscito a fargli passare anche il sonno. Osservò a lungo i movimenti di Marchesi mentre si versava da bere, cercando di cancellare tutti i brutti pensieri del giorno appena trascorso.
«Sai, è successo anche a me di essere contestato» raccontò il segretario, «in università, ogni giorno c’era qualcuno contrario alla nostra lotta, che pensava che stavamo solo mettendo gli altri nei guai per il nostro idealismo. Ma io ero cosciente di ciò per cui combattevo, per questo non li ho mai ascoltati».
«Beh… e come si fa a sopportarlo?» mormorò appena Michele.
«Come qualsiasi cosa. Si stringe i denti e si prende la coltellata» rispose Marchesi.
Il giovane non rispose, pensieroso. L’aveva detto ad Arturo che non era pronto per la politica quando l’uomo gli aveva proposto di candidarsi. In quei mesi si era trovato ad affrontare più grane lui di qualunque altro nuovo arrivato, ma a quanto pareva affrontare e superare una sfida non serviva mai a prepararlo a superare meglio quella dopo.
Ci furono diversi minuti di silenzio prima che Marchesi parlò di nuovo.
«Io penso che Andreani ti creda, ma devi dargli tempo. È un po’ infantile, se mi permetti, ma ha anche lui una testa che ragiona».
«Immagino di sì» commentò il deputato più giovane, mettendosi di schiena per fissare il soffitto. Era surreale trovarsi lì, lui e il suo segretario, nella sede del suo partito a chiacchierare in quel modo. Un suono interruppe il silenzio. Riccardo aveva dato due strimpellate a casaccio a una chitarra che chissà da dove aveva tirato fuori, poi iniziò a battere regolarmente le corde seguendo il ritmo. Michele riconobbe vagamente la familiarità della melodia.
«E la locomotiva sembrava un mostro strano…»
Il segretario cantò tre strofe della canzone prima di fermarsi, osservando gli occhi sbigottiti di Michele, che mai si sarebbe aspettato di sentir cantare una canzone di quel genere proprio da lui.
«Sai, convivendo con Thomas in questa sede ho dovuto aggiornare il mio repertorio» si giustificò lui con un sorriso «ho pensato che non sarebbe stata male suonata come ninna-nanna».
Il giovane nascose un sorriso di gratitudine. Il suono di quella chitarra, il calore della stufa e le bandiere e i manifesti appesi su tutte le pareti gli stavano lentamente regalando un senso di rinnovata normalità.
«Abbiamo passato tante serate qui a cantare. Io prendevo sempre in mano la chitarra per primo, ma il primo a cantare era sempre Francesco».
Michele sussultò, realizzando che era la prima volta in assoluto che sentiva parlare il suo segretario di Venturi. Rimase in silenzio, aspettando che Marchesi continuasse.
«Iniziavamo cantando le nostre canzoni, sai… canzoni d’oratorio. Francesco le sapeva tutte, e io gli stavo dietro con gli accordi. Urlava sempre per dare fastidio ai comunisti, il gruppo di Thomas. Allora quelli si innervosivano e iniziavano a cantare bandiera rossa. A quel punto io smettevo di seguire Francesco e accompagnavo quell’orrenda canzone con la chitarra. Lui mi guardava schifato, come se lo stessi tradendo. Io ridevo, lui si sedeva accanto a me e insieme concludevamo la canzone con “evviva il comunismo e la libertà.” Solo che, al posto di comunismo, a sfregio urlavamo
‘capitalismo’. Finivamo per ridere come degli idioti, con Thomas e gli altri che ci insultavano, indignati per aver rovinato la canzone». Marchesi tacque, riempiendo il vuoto con degli arpeggi di chitarra. Michele, che aveva sorriso durante quel breve aneddoto, si rese conto che all’altro doveva essere costato parecchio raccontare una cosa così allegra riguardante un suo caro amico morto. Lo fissò di sottecchi, chiedendosi quanto dolore effettivamente c’era dietro quegli occhi che apparivano così spensierati in quel momento. Sentiva di dover dire qualcosa, anche se non sapeva bene cosa.
«Mi dispiace molto per quello che è successo».
Aveva detto la cosa più scontata che potesse dire, ma Marchesi gli rivolse ugualmente un sorriso sereno prima di riprendere a cantare.
«E sembra dire ai contadini curvi, col suo fischio che si spande in aria…»
Marchesi suonò la canzone fino all’ultima nota, e Michele la canticchiò per intero insieme a lui, sentendo la sua voce affievolirsi per la stanchezza mano a mano che procedeva. Aveva già chiuso gli occhi quando il suo segretario si alzò per rimettere lo strumento al suo posto.
 
 
*
 
Giorgio russava da due ore buone ormai e lui era ancora lì, a fissare il soffitto. Ogni volta che rimaneva sveglio per l’insonnia, gli piaceva vagare con la mente verso universi paralleli, immaginando tutte le cose che avrebbe voluto ancora fare nella sua vita. Quella notte, però, non sembrava esserne capace.
Era sempre stato abituato a cancellare le cose brutte dalla sua vita, e in effetti stava continuando a farlo, passando sopra ai brutti pensieri come se fossero stati tanti minuscoli scarafaggi da calpestare. Il problema era che, una volta ripulita la sua mente da quelli, rimaneva solo un immenso vuoto incolore. Avrebbe tanto voluto parlare con qualcuno, solo per confidare quella sensazione insolita. Desiderava essere capito, avere almeno la conferma di non essere impazzito, e magari sapere anche come fare ad uscire da quel turbine doloroso.
Non aveva mai avuto bisogno di nessuno nella sua vita, anzi, la maggior parte delle volte era lui ad aiutare chiunque fosse in difficoltà. Era sempre stato indipendente, e questo gli aveva permesso di viaggiare ovunque senza preoccuparsi di ciò che si lasciava alle spalle. Anche gli eventi più dolorosi li aveva sempre gestiti senza troppi drammi. Quella sensazione di stare vivendo qualcosa per lui incomprensibile era, quindi, del tutto nuova.
Si alzò dal letto, uscendo sul balcone per accendersi una sigaretta. Istintivamente sbloccò il cellulare. Non sapeva neanche lui cosa aspettarsi. Da un lato avrebbe voluto solo un segnale. Un semplice messaggio con scritto “ti stai sbagliando” o “dobbiamo parlare”.
Dall’altro, sapeva che qualsiasi suo messaggio gli sarebbe arrivato lo avrebbe semplicemente ignorato, giudicandolo solo l’ennesima menzogna di un uomo che si trovava nel punto più basso della sua carriera politica.
C’erano delle intercettazioni scritte, e nessuno poteva contraddirle. Era evidente il suo coinvolgimento, e ogni notizia che saltava fuori in quelle ore sul clan di cui la sua famiglia faceva parte serviva solo a farlo rabbrividire di più. Michele forse poteva anche saperne poco, ma era impossibile che non ne sapesse niente, che ignorasse completamente il ruolo di suo padre e di suo fratello e di come quelle migliaia di preferenze gli fossero piovute addosso. No, lui sapeva e aveva taciuto coscientemente. Forse solo per la sua famiglia o forse per starsene tranquillo, ma in ogni caso aveva mentito. A tutti i suoi elettori, e anche a lui.
Era stato lui a capire subito, fin dal primo giorno, che Michele Martino aveva il marchio della ‘ndrangheta. Aveva avuto ragione. E adesso, cosa se ne sarebbe dovuto fare di quella ragione?
 
 
I giorni seguenti passarono più lentamente di quanto avesse voluto. La mattina si svegliava carico di energia, con una voglia immensa di spaccare il mondo e di continuare a badare alle piccole cose della politica. Durante le sedute in aula cercava di intervenire come prima, mostrando irriverenza verso il deputato di turno della maggioranza che parlava prima di lui, con il risultato che veniva puntualmente ripreso. Era a quel punto che la sua carica di energia si trasformava solo in nervosismo e intrattabilità.
Usciva spesso a fumare, passando la giornata tra il suo ufficio, il bar e il cortile. Ovunque, in ogni momento, sentiva qualcuno parlare di Martino, delle nuove notizie sul giornale e dei suoi comunicati stampa in risposta. Ogni volta, puntualmente, si allontanava da chiunque ne parlasse, diventando ancora di più irascibile.
Gli capitò anche diverse volte di incrociare Michele in corridoio, e ogni volta aveva cambiato direzione. Se fosse stato Nicolò, il vero Nicolò, lo avrebbe affrontato senza problemi. Invece aveva paura, forse paura proprio di aver sempre avuto ragione.
Ogni tanto, però, aveva controllato che non ci fosse nessuno a manifestare di nuovo contro Michele. Perché quella volta, quando aveva visto un uomo tirargli un sasso addosso, aveva perso completamente la testa e aveva deciso di aiutarlo, sapendo benissimo dentro di sé che se in quel momento non fosse stato lì in Parlamento sarebbe stato anche lui tra la folla di manifestanti a dargli del mafioso.
Alla fine di quella settimana, Nicolò era diventato completamente spento. Quel palazzo iniziava a fargli schifo. Anche volendo, lì dentro il Fronte non concludeva mai nulla. Certo, portavano avanti dei progetti, ma erano pur sempre all’opposizione. Era la maggioranza a fare le leggi, loro le contrastavano, e alla fine però quelle leggi passavano. Che senso aveva tutto questo?
«Nicolò, non hai ancora finito la tua parte di emendamenti?» gli chiese gentilmente Chiarelli in ufficio.
Il suo vice, ultimamente, cercava di mostrarsi un po’ più comprensivo, probabilmente per evitare le sue ormai classiche sfuriate. Nicolò, però, non aveva neanche più la forza di arrabbiarsi.
«No, adesso ci penso… nel pomeriggio» borbottò pigramente. Chiarelli gli fece un mezzo sorriso.
«Hai sentito? Domani Martino andrà a testimoniare…»
Il solo sentire il nome gli provocò un fremito di tutto il corpo.
«Non voglio saperne niente» rispose freddamente in automatico, prima ancora di comprendere la frase che gli era stata appena detta. Cosa doveva testimoniare? Non aveva detto di non saperne niente? Sentì la rabbia salirgli dall’interno. Se testimoniava, significava che qualcosa sapeva e non gliene aveva mai parlato.
Uscì dall’ufficio, senza sapere dove andare. Tirò fuori una sigaretta per fumare, poi ne fumò un’altra e poi un’altra ancora. Finì tutto il pacchetto senza neanche accorgersene e stava per dare fuoco anche a quello con l’accendino, ma la suoneria del suo telefono gli bloccò la mano proprio in quel momento.
Era un suo amico, uno conosciuto in un viaggio a Berlino. Faceva parte di un gruppo di italiani con cui aveva legato molto.
Spense momentaneamente il cervello mentre rispose.
«Ehi, Fabio!»
«Ehilà, Nico! Da quanto non ci si sente! Come te la passi? Non mi hai più fatto sapere niente! Parlamentare, eh? Cazzo, bello, hai sfondato alla grande!»
Nicolò impiegò un buon quarto d’ora a raccontare tutto ciò che si era lasciato indietro dall’ultima volta che si erano sentiti, informandosi anche sulla situazione dell’amico e su tutto il resto della compagnia.
«Cazzo, ma vieni a trovarci qualche volta, no? Ti ricordi quando tornavamo a casa la mattina, ubriachi fradici? Non mi dire che ora che stai in Parlamento sei diventato un tipo noioso in giacca e cravatta!» gli disse lui.
«Io? Ma ti pare?» rise Nicolò, mentre i pensieri andavano e venivano nella sua testa. Un viaggio sarebbe stato l’ideale, in quel momento.
Lo avrebbe aiutato a scappare via, via da tutto quello schifo. Forse lo avrebbe aiutato a ritrovarsi. Alla fine, era per questo che viaggiava. Perché poteva tornare a essere solo Nicolò, quello più puro e autentico, quello che non aveva bisogno di nessuno.
Quello libero.
Una folle idea lo percorse da capo a piedi, dandogli i brividi. Chi era lui per contrastare il suo istinto? No, lui era sempre stato quello delle scelte impulsive. Quello che agiva prima di pensare, perché sapeva che il suo cuore lo avrebbe guidato sempre nella direzione giusta.
«Sai che c’è, Fabio? Mi sa che faccio la mattata e domani sono da te!»
«Fai sul serio?»
«Ti sembra che stia scherzando?»
«Cazzo, Nico, ora ti riconosco!»
Bastarono cinque minuti al telefono per mettersi d’accordo sulla logistica. Il tempo di salutarsi, e Nicolò sentiva già le ali ai piedi. Tornò dentro al suo ufficio, libero e raggiante come non mai.
«Chiarè, da domani mi prendo una vacanza!»
 
 
*
 
 
Quella settimana aveva provato, duramente, a rialzarsi. Trascorreva l’intera giornata nel suo ufficio con il suo team, preparando interviste, comunicati stampa e studiando bene tutti gli attacchi a cui rispondere. Il focus principale delle sue risposte era diventata la sua futura testimonianza, e la botta lasciata sulla sua testa da quel sampietrino era diventata una vera e propria benedizione da sbandierare sui giornali, come prova della violenza dei suoi oppositori. Ogni giorno, poi, uno del team si incaricava di studiare la sua popolarità sui social, e Michele notava ogni volta con estremo piacere che era in costante ricrescita.
Durante le pause si vedeva con Arturo, Thomas e Gianmaria, raccontandogli di come portava avanti la sua battaglia contro
l’opinione pubblica. Loro erano sempre comprensivi verso di lui, e riempivano di occhiatacce qualunque deputato del loro partito che non salutava Michele quando lo incrociava in corridoio.
Spesso, poi, il giovane calabrese faceva visita a Marchesi, quando ormai era già tarda notte. Dopo la sera passata con lui alla sede centrale, si era reso conto che il suo segretario si era trasformato in un’ottima compagnia. Era capace di rincuorarlo e di raccontargli mille aneddoti che lo aiutavano a distrarsi un po’ dalla sua vita.
Dentro il suo ufficio, tutto riacquistava senso e ordine.
Quel venerdì mattina, però, tutta quell’ondata di positività venne distrutta con una sola, semplice telefonata, a cui Michele aveva schiacciato il tasto di risposta prima di notare che il numero era coperto.
«Parlo con Michele Martino?»
«Sì…» rispose lui, accorgendosi di sentire una voce distorta.
«Abbiamo saputo che domani dovrai andare a testimoniare in tribunale. Ti conviene non farlo, o ne pagherai le conseguenze». Michele iniziò a tremare e sentì il sudore bagnargli la fronte mentre si guardava attorno, sperando che qualcuno dei presenti si accorgesse che era stato appena ricattato al telefono e corresse ad aiutarlo, o almeno a suggerirgli come doveva comportarsi in quella situazione.
«Ma chi siete? Cosa volete?»
La conversazione si chiuse bruscamente. Michele restò diversi minuti con il cellulare in mano, non sapendo cosa fare. Le opzioni gli galleggiavano lì davanti, ma lui non riusciva ad afferrarle, mentre immaginava con un brivido quali potessero essere le “conseguenze”. Corse in bagno, sciacquandosi diverse volte il viso con l’acqua fredda. Cercò di frenare le lacrime mentre la sua mente ragionava velocemente. Doveva andare dalla polizia. Anzi, doveva testimoniare e dire che lo avevano minacciato. Già ma, le prove? Come avrebbe fatto? Doveva far controllare il cellulare?
L’altra opzione era quella di trovare una scusa per non testimoniare, ma avrebbe subito gli attacchi da parte di tutti i media, a cui da giorni ripeteva che lo avrebbe fatto. No, quell’opzione era fuori discussione. Qualcuno uscì da uno dei bagni, e Michele sobbalzò non appena la sua immagine comparve allo specchio.
Nicolò aveva il solito viso spensierato di sempre e i capelli sciolti che gli circondavano il viso abbronzato. I suoi occhi verdi erano un po’ cerchiati di rosso, ma non aveva la stessa aria sbattuta che gli aveva visto addosso spesso nei corridoi durante quei giorni, giorni in cui avrebbe solo voluto fermarlo e gridargli ciò che pensava, mentre invece si era sempre trattenuto pensando, anche grazie alle parole di Marchesi, che con il tempo avrebbe risolto anche quella situazione.
Nicolò gli rivolse un’occhiata fugace e inespressiva. Si sciacquò velocemente le mani e fece per uscire dal bagno, ma Michele lo afferrò per un braccio, istintivamente.
Il capogruppo del Fronte sembrò combattuto se strapparglielo via o se girarsi verso di lui. Rimase fermo e zitto, attendendo.
Michele ingoiò della saliva.
«Io non ne so niente, Nico. Non c’entro niente con questa storia. Non avrei mai comprato dei voti, e tu lo sai».
«Se non sai niente, esattamente cosa andrai a testimoniare domani?» domandò freddamente Nicolò, evidentemente curioso di sapere la risposta, mentre fissava ostinatamente un angolo della porta.
Michele fece un respiro profondo. Sapeva bene che era una domanda più che legittima.
«Ricordo molti brandelli di conversazioni, ricordo alcune facce che abbiamo avuto a cena, alcuni nomi… Ho delle foto con la mia famiglia insieme a delle persone che magari sono coinvolte. So delle cose sull’azienda di mio fratello, so con chi ha parlato per farla nascere. Non ho mai collegato, ma ora posso aiutare le indagini».
Respirò forte, sperando di essere riuscito a farsi capire. Nicolò gli rivolse uno sguardo carico di ironia.
«Non hai mai collegato, eh? Dì un po’, ti sembra normale avere la mafia in casa per ventisette anni e non accorgersi di nulla?» Michele scosse la testa, colpito nel profondo.
«No, probabilmente non è normale» mormorò piano, «ma è così. Poco fa mi ha chiamato un numero sconosciuto, e mi ha minacciato. Non vogliono che vada a testimoniare. Ma io andrò comunque».
Cercò di sembrare deciso. Nicolò esitò, fissandolo a lungo, poi lo toccò piano sulla spalla.
«Vorrei davvero crederti, te lo assicuro. Ma ogni volta che leggo di quelle preferenze comprate non posso fare a meno di chiedermi quanto tu davvero ne fossi all’oscuro».
«Devi credermi!» Michele si accorse che la sua voce tremava «ti dimostrerò che non centro niente. Ma ho bisogno anche del tuo sostegno, per me è importante».
Era la prima volta che parlava in quei termini e in un attimo avvampò per l’imbarazzo di aver detto veramente ciò che pensava. Nicolò abbassò lo sguardo.
«Ho bisogno di stare da solo. Devo allontanarmi da tutto per un po’ di tempo. Tu cerca di stare attento, abbi cura di te».
Mormorò quelle poche parole a bassa voce prima di voltare lo sguardo e uscire dalla porta del bagno.
 
 
Quella stessa notte, prese un taxi diretto alla sede dei carabinieri più vicina. Avrebbe denunciato il ricatto telefonico, così l’indomani per la testimonianza avrebbe avuto anche la prova della denuncia, nero su bianco.
Quando scese dal taxi, per diversi minuti non riuscì a capire ciò che stava succedendo. Forse, quell’auto con i vetri oscurati parcheggiata proprio davanti all’entrata dell’Arma dei Carabinieri avrebbe dovuto suggerirglielo. E i tre uomini che ne uscirono poco dopo, tutti con gli occhiali scuri diretti verso di lui, sarebbe dovuto essere un segnale abbastanza forte per fargli capire che stava per avere guai.
Solo all’ultimo momento, solo quando non c’era più possibilità di sbagliarsi su ciò che gli stava per succedere, Michele si guardò in giro alla disperata ricerca di aiuto, ma il taxi era già ripartito quando i tre lo afferrarono e lo trascinarono sulla macchina, coperti dal buio della notte.
«Ti avevamo avvisato». Non fece in tempo ad urlare.
Ci furono calci e pugni. Il suo sangue rotolò caldo lungo i vestiti, bagnando il sedile. La sua camicia venne strappata senza riguardo, e altri colpi abbastanza forti gli impedirono di respirare. Michele avrebbe voluto urlare, ma il fiato gli bastava a malapena per respirare. Tremò spaventato quando la macchina si fermò in un vicolo isolato.
Lo avrebbero ucciso, pensò subito. Sì, lo avrebbero ucciso e avrebbero fatto sparire il suo cadavere, come avevano già fatto per i tanti che si erano opposti alla mafia. Non riuscì a fare a meno di pensare a loro, in quel momento. Quegli uomini, quelle donne, quei ragazzi, avrebbero compiuto le stesse scelte sapendo in anticipo la fine che avrebbero fatto?
Si augurò che la risposta fosse di no. Perché in quel momento lui desiderava solo tornare indietro e restare a casa sua, e mai avrebbe voluto rendersi conto di essere meno coraggioso di quanto pensasse di essere.
«No…no…» balbettò terrorizzato, mentre veniva buttato in malo modo sull’asfalto.
Una scarpa lo calpestò all’altezza dello stomaco, spingendolo verso terra con tutto il peso. Qualcuno ridacchiò, e Michele riuscì a pensare solo a quanto tutto quello gli risultava inquietantemente familiare, come se fosse solo un’altra parte di quelle cicatrici invisibili che gli avevano sempre impedito di sorridere, di entrare in un ascensore, di rispondere a tono, di reggere lo sguardo di un’altra persona.
Sentì altri calci colpire il suo corpo, steso a terra. Chiuse gli occhi. Non sarebbe stato quello a fermare il dolore, lo sapeva bene. Ma non avrebbe mostrato il suo sguardo a quelle persone.
Doveva essere forte.
Il sangue gli usciva dal naso, schizzando sulla sua faccia ad ogni colpo.
Doveva essere forte.
Un osso che si incrinava. Conosceva il suono e a il particolare tipo di dolore che ne seguiva.
Doveva essere forte.
Il cemento era gelido, ma dopo un po’ di tempo non sentiva più neanche quel freddo. Sapeva che non era un buon segno, che sarebbe stato molto meglio sentirlo, perché sentirlo voleva dire essere ancora in questo mondo.
Gli uomini gli dissero qualcosa. Non li sentì, aveva l’impressione di non sentire più del tutto.
«Mi dispiace…» boccheggiò, conscio di non stare emettendo alcun suono comprensibile, «mi dispiace».
Rimase da solo. Sdraiato sull’asfalto, con la coscienza che piano piano scivolava via e sembrava volerlo convincere a lasciarla andare lontano dal suo corpo, dove non avrebbe più sentito dolore.
Di solito, a quel punto si svegliava.
Ma quella notte no.

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Capitolo 23
*** Il colore dei sogni ***


Si erano già fatte le due di notte quando uscirono finalmente da quello squallido bar del centro.
Non era mai stato abituato a quel genere di locali. Ma non c’era poi tanta scelta, dopo una giornata passata tra la manifestazione e i concerti all’aperto quello era l’unico posto dove potevano andare a bere tutti insieme. In università sarebbe stato impossibile così come nella loro sede centrale, perché Goffredo non l’avrebbe mai permesso.
Da un po’, Riccardo aveva preso l’abitudine di contare i giorni in cui non si faceva. Il suo record per ora era stato di tre, ma con quello che stava per finire era finalmente arrivato a quattro. La giornata era volata e lui era felicemente brillo, con la fronte sudata e le scarpe di marca ben ricoperte della polvere delle strade.
Una volta fuori, il loro gruppo si sciolse. Solo un ragazzo dai capelli rossicci rimase a fare la strada con lui, sotto la luce fioca dei lampioni.
«Ehi, Riccardo, grazie per l’ospitalità» gli disse allegro, con la voce impastata per le tre birre che si era scolato.
«Ric» borbottò Marchesi, ricordandosi in quel momento a quanto poco fosse abituato al suo nome di battesimo, «non c’è problema. Casa mia è grande e ci abito solo io».
«Vivi in una reggia?» scherzò subito Francesco.
«Sì, più o meno» sorrise lui.
Camminarono silenziosamente per qualche minuto, entrambi piuttosto barcollanti. Quel ragazzo che avrebbe ospitato aveva passato tutto il giorno a correre da tutte le parti, parlare con ogni persona, cantare, ballare, fare cori al megafono, e Marchesi non si spiegava come potesse avere ancora l’energia per camminare.
«Dev’essere bello vivere qui» sospirò il ragazzo dai capelli rossicci «essere a diretto contatto con la politica, lavorare alla sede centrale e tutto».
Riccardo abbassò lo sguardo. L’argomento “lavoro” non era dei più felici in quel momento e l’avrebbe volentieri evitato.
«Sì… tutti amici di Goffredo, compreso il segretario. Si riuniscono sempre nell’ufficio accanto al mio» rispose velocemente, notando subito un bagliore di invidia e ammirazione comparire negli occhi dell’altro.
«Ma è fantastico! Goffredo ti avrà insegnato un mucchio di cose! Diventerai parlamentare un giorno!»
Riccardo cercò di non rispondere, ma l’alcool gli impedì di trattenersi.
«Già. Sono due anni che lavoro come funzionario di partito, e l’unica cosa che fa è rimproverarmi quando sbaglio, farmi leggere carte noiose e affidarmi più incarichi complicati di quanti io abbia il tempo di seguirne».
Francesco rimase in silenzio per un po’ allontanando lo sguardo, evidentemente colpito da quella risposta. Riccardo si accorse di quanto fosse strano non vedere la sua espressione allegra pronta a fare una battuta, dato che non aveva fatto altro tutto il giorno.
«Pensavo fosse tutt’altra cosa» mormorò sincero Francesco, evidentemente deluso «sai, lavorare in un partito. Pensavo fosse tipo come abbiamo fatto oggi, no? Stare insieme alla gente e parlare delle nostre idee».
Riccardo sentì una ferita aprirsi nel cuore per tutta quella ingenuità. Anche lui la vedeva così a sedici anni, ma i suoi sogni si erano infranti molto presto, e anche la sua voglia di lavorare e mettersi in gioco si era persa nel tempo.
«No. Anzi, era un bel po’ che non mi divertivo come oggi» ammise Riccardo, non senza amarezza nella voce.
Francesco continuò a correre sulla strada, fischiettando qualche canzone tra quelle che avevano cantato a squarciagola quel pomeriggio. Marchesi gli camminava lentamente dietro. Tutto quell’entusiasmo un po’ gli metteva allegria, ma un po’ lo riempiva d’invidia. Quel ragazzo poteva ancora divertirsi, era apprezzato da tutti e non aveva un mucchio di doveri a cui pensare. Era libero, più libero di quanto lui avesse mai sognato di essere.
«Cosa c’è lassù?» gli chiese ad un certo punto, indicando una scalinata ripida.
«Il Quirinale» rispose Marchesi distrattamente. Il viso di Francesco si illuminò all’improvviso.
«Oh! Vuoi dire che lì dentro c’è…»
«Cossiga?» Riccardo alzò un sopracciglio, «immagino di sì, anche se credo che a quest’ora starà dormendo».
L’altro lo guardò con un sorriso strano.
«Chi arriva ultimo è un comunista!» urlò ai quattro venti, prima di sgambettare per la collina, con lo zaino che gli rimbalzava sulla schiena.
«Ehi!» protestò Marchesi, preso alla sprovvista.
Iniziò a correre, ma la salita era ripida e si ritrovò a percorrere gli ultimi gradini quasi senza fiato. In cima vide Francesco impegnato a fare giravolte nella piazza, squarciando il silenzio con la sua voce.
«UN PRESIDENTE! C’È SOLO UN PRESIDENTE! UN PRESIDEEEEENTEEEE…»
Riccardo osservò gli sguardi impassibili dei due corazzieri a guardia dell’ingresso. Se avessero potuto muoversi da lì, di sicuro avrebbero già cacciato quel ragazzo che era arrivato a rompere la quiete.
«Sssh! Tu sei fuori di testa!» gli gridò, senza riuscire però a togliersi un sorriso divertito di dosso.
Francesco lo scrutò con un ghigno, che il momento dopo si ricompose in un’espressione solenne.
«Onorevole Marchesi, è in funzione del ruolo conferitomi dal Parlamento che io la nomino Primo Ministro, con l’incarico di formare un governo. Giura di osservare la Costituzione e di rispettarne i suoi principi?»
Il tono solenne di Francesco, unito alla sua pronuncia impastata
dall’alcool, fece scoppiare a ridere Riccardo, mentre assumeva anche lui un’aria fintamente seria.
«Lo giuro».
«E giura di non far mai entrare i comunisti al governo?»
«Giurissimo» ripeté, controllandosi per non ridere.
Francesco gli strinse pomposamente la mano, per poi scoppiare di nuovo a ridere.
«Hai sentito, Cossiga?» urlò di nuovo, rivolto all’enorme palazzo
«Inizia a fare le valigie, perché io e Ric governeremo questo Paese!» Alcune guardie uscirono dal palazzo, esortandoli ad andare via, e Riccardo e Francesco finalmente tornarono sulla via di casa, entrambi ignari che il loro futuro sarebbe stato ben diverso.
 
 
*
 
 
«Ah, finalmente sei sveglio!»
Michele aprì lentamente gli occhi. Il sole invernale riempiva la piccola stanza di luce, riflettendo l’azzurro chiaro delle coperte e l’arancione intenso delle pareti. Vicino a lui c’era un comodino di legno scuro decorato, e a destra una grossa poltrona dove vi era
acciambellato Riccardo Marchesi, con addosso abiti insolitamente informali.
La confusione lo assalì senza neanche dargli il tempo di tirare il respiro, e fu solo con un enorme sforzo che riuscì ad afferrare la raffica di parole del segretario, il quale gli stava raccontando della polizia che lo aveva trovato svenuto sul cemento e di lui che veniva chiamato nel cuore della notte e si precipitava lì.
«Ma… che… dove…?» balbettò Michele. Si sentiva completamente indolenzito e confuso, la testa gli faceva male e aveva difficoltà a respirare. L’istinto gli suggeriva di girarsi sul lato opposto, non abituato a mostrarsi a qualcuno in un tale stato di debolezza, ma muoversi sembrava costargli una spropositata fatica.
«Siamo da un amico» gli comunicò.
Michele, mettendolo più a fuoco, riuscì a notare delle pesanti occhiaie sul suo volto.
«Un amico che ha un ospedale privato, intendo».
«Ma… loro… loro…» biascicò di nuovo. Faceva una gran fatica a parlare, come se avesse qualcosa di incastrato in gola. Si accorse di avere diverse fasciature su tutto il corpo e un tubo infilato nel braccio destro.
«È tutto a posto, Michele» il segretario gli sfiorò delicatamente una mano, «ho pensato io a tutto. Nessun giornalista pubblicherà notizia dell’aggressione, e nel partito ho informato solo pochi fidati. D’altra parte, dopo quel sasso che ti hanno lanciato far girare la notizia servirebbe solo a istigarli. Non mi sarei mai aspettato che arrivassero a tanto. Ma troveremo i colpevoli, te lo assicuro».
Michele cercò di capire a cosa si stesse riferendo. Non riusciva a seguirlo, tutta la sua concentrazione era fissata sul suo tono di voce, colmo di un’apprensione che era sempre sembrata estranea al suo segretario.
«Ho anche litigato con il tuo staff, sai?» continuò, facendo un mezzo sorriso di superiorità, «pensavano che far sapere della tua aggressione sarebbe stato positivo per continuare a dimostrare la violenza di chi ti contesta. Ho risposto che per nessun motivo un giornalista ti avrebbe scattato foto e fatto interviste in queste condizioni, e che potevano pure andare tutti al diavolo».
Fu in quel momento che Michele afferrò. Marchesi non sapeva chi era stato veramente ad aggredirlo, non sapeva della minaccia telefonica e aveva ricostruito a modo suo i fatti, collegandoli all’altra contestazione. Sentì l’istinto di dirgli subito la verità per intero, ma una vocina interiore lo bloccò all’istante. Si morse la lingua, cercando velocemente di valutare i rischi e i benefici nel raccontare tutto al proprio segretario, ma gli era difficile concentrarsi con l’altro che continuava a parlare a ruota libera.
«Certo, comunque potrai decidere tu di rendere pubblico il fatto, ma secondo me…»
Michele scosse la testa, così violentemente che i tendini del collo protestarono per il dolore. Cercò di infondere nello sguardo che rivolse a Marchesi tutto ciò che a parole non sarebbe riuscito ad esprimere.
«No… nessuno… non deve saperlo nessuno…»
L’ansia di finire sui giornali un’altra volta, di sentirsi ancora oggetto dell’attenzione collettiva nel suo momento maggiore di debolezza e di rischiare di nuovo ritorsioni vinse ogni vergogna di fare una richiesta così esplicita.
Riccardo sorrise comprensivo.
«Lo so, tranquillo» gli accarezzò piano il dorso della mano, «ora non ti sforzare però. Vuoi che ti prendo qualcosa da bere?»
Michele scosse la testa debolmente.
«Devo chiamare Andreani».
Sentiva che era l’unico che avrebbe potuto aiutarlo, l’unico che avrebbe potuto dirgli cosa doveva fare. Perché lui non perdeva mai né le battaglie né la faccia, e soprattutto avrebbe avuto il coraggio che a lui mancava.
Marchesi gli porse il cellulare, riluttante.
«Senti Michele, Andreani è partito».
Ma lui non lo stava già più ascoltando mentre componeva il numero. Dall’altoparlante uscì una fredda voce registrata. Il cellulare era spento.
Michele si abbandonò sul letto, sconfitto. Il segretario restò in silenzio per un po’, lasciandolo da solo con i suoi pensieri.
«Vado a prenderti una cioccolata, ti farà bene» comunicò infine, uscendo dalla porta.
L’orologio segnava le tre di pomeriggio quando Arturo e Thomas entrarono nella stanza.
Michele aprì un occhio, smettendo di fare finta di dormire. Aveva passato tutta la mattina a pensare, senza arrivare ad una soluzione su cosa fare. Marchesi era stato a fianco a lui tutto il tempo senza dire una parola, seduto sulla poltrona a fare i suoi affari.
«Michi!»
Thomas lo abbracciò, iniziando a fargli domande a raffica. Per fortuna, Marchesi e Arturo riuscirono a calmarlo.
«Quei bastardi!» inveì il biondo, scuotendo una sedia dalla rabbia,
«se li trovo li ammazzo con le mie mani!»
Michele fissò intensamente Arturo, sperando che interpretasse il suo sguardo nel modo corretto. Era un po’ commosso dalla rabbia di Thomas, ma in quel momento aveva problemi più importanti da risolvere.
«Mi lascereste cinque minuti con Michele?» chiese educatamente l’anziano, raccogliendo al volo la sua espressione.
Thomas uscì senza fare storie. Riccardo Marchesi invece non ubbidì subito, restando fermo al suo posto, come chiedendosi se fosse il caso di adeguarsi a quella richiesta. Infine, però, uscì anche lui.
Arturo si sedette a poca distanza da Michele, più serio che mai, e il giovane iniziò a raccontargli tutto, da quando aveva ricevuto la telefonata minatoria a quando era stato prelevato in strada. Ogni parola che pronunciava sembrava dargli abbastanza coraggio per pronunciare quella dopo.
«Non so cosa fare» ammise infine. Sapeva che Arturo era l’unico che poteva indicargli la via giusta da percorrere.
«Ti hanno fatto questo per spaventarti e impedirti di testimoniare, Michele. A maggior ragione dovresti farlo, e mentre testimonierai dovrai denunciare queste persone. Ma è una tua decisione».
Michele si morse un labbro. Si era preparato a questo, ma era comunque spaventato.
«Una volta che avrò testimoniato mi torneranno a cercare, non è vero?»
«Sì» rispose Arturo. Guardava ostinatamente un punto fisso del muro, cercando di mascherare a Michele la sua stessa paura.
«E… mi daranno la scorta?» chiese lui, cercando di non sembrare spaventato.
«È possibile» rispose di nuovo l’anziano.
Michele fece un respiro profondo, chiedendosi da dove fosse mai partito quel maledetto incubo. In due settimane la sua vita era precipitata in modo irreversibile.
«Non sono pronto» mormorò piano.
«Nessuno lo è mai per questo. Ma tu sei un ragazzo forte, e non sarai mai da solo».
Arturo lo strinse forte e restò in silenzio vicino a lui, sorridendogli per dargli coraggio. E Michele, nonostante le fasciature e i dolori, in quel momento si sentì al sicuro come mai in vita sua.
Lo sguardo indagatore di Marchesi non lo perse di vista per tutto il resto della giornata.
Michele aveva provato più volte a chiamare Nicolò, per poi arrendersi al fatto che aveva il telefono del tutto staccato. Fu tentato diverse volte anche di chiamare Giorgio Iannello almeno per sapere dove fosse andato a finire, ma alla fine non l’aveva fatto. In compenso, era riuscito a contattare il tribunale per far spostare la sua testimonianza di qualche giorno. Non potendo alzarsi dal letto, però, aveva dovuto farlo sotto lo sguardo di Marchesi.
«È Arturo che ti spinge a testimoniare?» commentò il segretario alla fine della chiamata.
«Sì, ma è anche una mia scelta».
Marchesi sospirò. Era stato in quella stanza per tutto il giorno, e Michele non riusciva a spiegarsi come mai non se ne fosse ancora andato. Non che gli dispiacesse, era comunque meglio che restare da solo, ma era certo che il suo segretario avesse mille altre cose importanti da fare piuttosto che rimanere dentro un ospedale a fare compagnia a lui.
«E ovviamente sai a cosa vai incontro» aggiunse poi.
«Sì» rispose di nuovo Michele, ma con una voce decisamente più bassa. Lo immaginava e basta in realtà, ma in quel momento il suo segretario gli parlava come se la sapesse lunga sull’argomento e come se lui avesse fatto la scelta più stupida del mondo.
«Scusami, ma penso che tu non lo sappia davvero. Sai, Arturo è stato sempre un dirigente di punta del PCI da quando ha iniziato la sua lotta contro la mafia. È stato minacciato, ma nessuno gli ha mai fatto niente, perché se qualcuno gli avesse fatto qualcosa l’intera Sicilia sarebbe insorta. Per questo fa lo spavaldo, dimenticandosi che per te il discorso è un po’ diverso».
Michele strinse debolmente i pugni e guardò il segretario con odio, cercando di pensare a come rispondere. Non permetteva mai a nessuno di parlare in quel modo di Arturo, ma non aveva argomenti per contrastare quella brutale verità. Si morse la lingua per non confessare di essere in realtà già stato aggredito.
«Neanche tu sapevi a cosa stavi andando incontro. Però hai combattuto lo stesso i fascisti in università, no?» ribattè acidamente. Marchesi chiuse la bocca, evidentemente spiazzato. Ma non fece in tempo a trovare una risposta che la porta si spalancò ed entrò Marcello Pasqui.
«Ecco dov’eri!» sbottò, rivolto al segretario, «naturalmente ti sarai dimenticato che questa sera dobbiamo vederci con i popolari».
«Marcello» rispose lui tranquillamente, «sono contento che tu sia venuto. Michele ha bisogno di tutto il sostegno possibile».
Il capogruppo lo fulminò con lo sguardo. Poi si voltò verso Michele, con la solita espressione seria e imperscrutabile.
«Mi dispiace molto per ciò che è successo. Ti ho portato qualcosa a nome di tutto il partito».
E appoggiò un enorme vaso di fiori sul tavolo. Michele riuscì a mostrare un debole sorriso al capogruppo, ringraziandolo, anche se notava quanto quel gesto fosse freddo e poco spontaneo.
Nel frattempo, Marchesi si era messo la giacca e si era staccato dalla poltrona.
«Scusa Michele, il dovere chiama. Torno più tardi».
All’ora di cena, un’infermiera giovane e sorridente fece entrare un carrello stracolmo.
«Buonasera, signor Martino!» salutò allegramente.
«’sera» rispose Michele a mezza voce, studiando perplesso l’odore di carne e di zafferano che si stava prepotentemente diffondendo per la camera. Tutto sembrava, tranne che cibo da ospedale.
«Ecco… non so se posso mangiare tutto questo. Insomma, sono in convalescenza».
«Non si preoccupi!» rise la cameriera, come se avesse fatto una battuta divertente «ovviamente il menu è stato concordato con il dottore, e il signor Marchesi si è premurato particolarmente perché mangiasse bene».
Gli venne sistemato il vassoio sulle gambe e Michele sentì solo in quel momento tutta la fame che aveva. Mangiò con gusto ogni boccone, sentendo però una strana sensazione di abbandono. Cenare da solo a casa era un conto, ma cenare da solo in ospedale pietanze così buone aveva intrinsecamente un alone di tristezza profonda.
Una volta finito, cercò di alzarsi dal letto. Era stufo di rimanere lì bloccato, voleva fare qualcosa, anche solo passeggiare su e giù per la stanza per pensare.
Non appena appoggiò i piedi per terra, una scarica fastidiosa di dolore gli percorse la schiena. Si attaccò di peso alla macchina della flebo, muovendo qualche piccolo passo verso la porta. Con grande fatica riuscì a percorrere il corridoio. Intorno a sé notò facce di pazienti felici e grandi quadri appesi alle pareti. Più che un ospedale, sembrava un centro benessere di lusso.
«Onorevole Martino!» gli si avvicinò un uomo in camice bianco «mi rincresce, ma è meglio che lei stia a riposo per qualche giorno. Mi dia il braccio, la riaccompagno in camera».
Michele non poté rifiutare e fu costretto a tornare nella sua piccola prigione dorata. Il dottore lo aiutò a stendersi, offrendogli gentilmente il suo appoggio.
«Mi rincresce molto» ripeté, «ma è meglio così, non vogliamo che la sua condizione peggiori. Se si annoia vado subito a prenderle quello che desidera, abbiamo una vasta biblioteca».
«Quanto dovrò stare qui?» chiese Michele, cercando di non far trapelare la sua disperazione.
«Non si preoccupi, non molto, glielo assicuro. Stiamo facendo il possibile per lei, d’altra parte Ric è un mio caro amico, e ha insistito per avere le migliori cure».
«Lei conosce Marchesi?» si incuriosì Michele.
«Certamente, lo conosco dall’università! Ambienti di un certo livello, non so se mi spiego. Non esiste un piacere che negherei agli amici che conobbi dentro la sua associazione».
Michele rimase spiazzato da quella risposta così calorosa e appassionata. Non sapeva esattamente cosa intendesse per “ambienti di un certo livello”, ma conoscendo Marchesi poteva benissimo immaginarli.
«Soprattutto con Ric, che ha fatto tantissimo per tutti noi. Senza di lui, forse non sarei qui».
Il dottore sorrise di nuovo, uscì e ritornò poco dopo con delle riviste e dei libri, lasciando Michele da solo a pensare a quelle ultime parole.
 
 
*
 
 
Il mondo girava velocemente, più di quanto i suoi occhi riuscissero a captare. La birra aveva fatto il suo effetto. Ne aveva bevuto almeno due litri quella sera. O forse di più, non se lo ricordava.
Le luci venivano sparate ripetutamente sulle sue palpebre semichiuse. Verde, blu, giallo, rosa. Si abbassavano, si alzavano, pulsavano al ritmo della musica. Batteva le mani a tempo, saltava, si piegava sulle ginocchia, muoveva la testa. La melodia lo stava lentamente portando in un’altra dimensione, e il ritmo crescente sembrava prendergli la mano per accompagnarlo in quel viaggio.
Tutti ballavano, tutti sentivano quella cosa dentro, quella cosa che si sente quando si è in tanti a vivere lo stesso momento, a provare le stesse emozioni, a percorrere lo stesso cammino. I suoi amici lo abbracciavano, ballando scatenati, lo spintonavano, cantavano a squarciagola.
Quelle note erano magia pura, e lui non avrebbe smesso per niente al mondo. La sua vita non aveva mai avuto così tanto significato che in quella notte, dove l’importante era solo non fermarsi, non fermare
l’emozione che lo trascinava nella mischia, insieme a tutti gli altri ma comunque da solo con la musica che lo guidava.
Le ore passavano. Più ballava, più i suoi sorrisi si riempivano di gioia e i suoi occhi verdi di voglia di vivere la vita e basta, di andare avanti, di non lasciarsi mai più fermare.
Per quella notte aveva vinto lui. Lui, il vero Nicolò.
 
 
*
 
 
Sussultò, sentendo una mano toccargli una spalla. Probabilmente stava avendo uno dei suoi soliti incubi. La fronte sudava freddo e le mani tremavano, nel vago ricordo di un immaginario stanzino chiuso.
Un libro giaceva stropicciato sul letto. Marchesi lo raccolse e lo sistemò sul comodino, fissando Michele nella penombra e studiando la sua faccia stravolta.
«Stavi facendo un incubo?»
Michele cercò sul comodino un fazzoletto per asciugarsi il sudore. Non si sarebbe messo a raccontare la storia della sua vita a Marchesi, quello era sicuro. Quell’uomo aveva già troppi motivi per compatirlo.
«Ho chiesto dei sonniferi all’infermiera, però…»
«Lo so, non puoi prenderli» concluse Marchesi, riprendendo il posto sulla poltrona, «il dottore pensa che potrebbero inibire alcuni farmaci».
Michele cercò lo sguardo del suo segretario. L’istinto gli stava suggerendo che poteva ottenere ciò che voleva, se solo giocava bene le sue carte.
«Non riesco a dormire senza sonniferi» comunicò convinto, evitando di specificare il perché.
«È comprensibile» sospirò Riccardo.
Per lunghi minuti si fissarono, scambiandosi parole senza realmente pronunciarle. Alla fine, il segretario di Sinistra Democratica tirò fuori da una tasca interna una scatolina, sospirando forte.
«Solo per stanotte».
Michele afferrò la pastiglia, unico suo mezzo di salvezza in quel momento. Per un momento riuscì a dispiacersi realizzando che anche il suo segretario girava con i sonniferi in tasca.
«Resterai qui anche stanotte?» mormorò Michele, aspettando che il sonnifero facesse il suo effetto.
«Certamente. Preferisco che tu non rimanga solo» rispose il segretario, accovacciandosi meglio che poteva sulla poltrona.
«Non è importante, davvero» rispose lui, sentendo le palpebre farsi piacevolmente pesanti.
«Certo che lo è».
Michele restò a fissare il segretario che lavorava con il tablet fino a che i sonniferi fecero effetto.
 
 
Il giorno previsto per la testimonianza di Michele arrivò abbastanza in fretta, ma ogni ora passata dentro quell’ospedale al giovane deputato era sembrata un’eternità.
I ritmi erano scanditi dalla costante presenza di Marchesi, che in realtà non era una vera compagnia perché passava la maggior parte del tempo a lavorare e a fare telefonate. Michele, invece, trascorreva le giornate a leggere per distrarsi dai suoi pensieri, rallegrandosi quando venivano Arturo e Thomas a fargli visita. Il deputato romano sembrava avere sempre mille storie da raccontare sui pettegolezzi della Camera ed era capace di infiammarsi su qualunque polemica politica, provocando diverse occhiatacce da parte di Marchesi.
Il deputato più anziano, invece, lo aveva aiutato a ripetere ciò che avrebbe detto in tribunale. Non era stata però un’impresa facile: avrebbe dovuto misurare bene ogni singola parola per distinguere bene i nomi di cui era sicuro e quelli di cui invece non si ricordava bene. La nota buona di quei momenti era che Arturo, dovendo trovare un modo per stare da solo con lui, lo trascinava nel giardino, permettendogli di respirare. Doveva essere una scena divertente agli occhi degli altri pazienti vedere un signore anziano sorreggere un uomo più giovane sulle stampelle. Grazie al suo aiuto era riuscito anche a concordare segretamente con il tribunale il giorno e l’ora della testimonianza.
Ogni tanto era venuto anche Pasqui a fargli visita, ma le sue apparizioni erano sempre intrise di una fredda formalità, e Michele avrebbe di gran lunga preferito che non venisse.
Aveva provato diverse volte in quei giorni a contattare Nicolò. Lo faceva di nascosto, quando Marchesi usciva per chiamare, ma trovò sempre il cellulare spento.
Il giorno dell’udienza si provò i vestiti che Marchesi gli aveva portato.
«Ti sta veramente bene!» sorrise il segretario.
Michele fece una smorfia, che subito dissimulò. Avrebbe tanto voluto mandare qualcuno a prendergli la sua solita giacca grigia piuttosto che indossare quei vestiti costosi che sembravano addirittura ribellarsi al suo corpo, tanto erano estranei al suo modo di vestire, ma gli era sembrato scortese fare una richiesta del genere, considerata anche la generosità del segretario.
Grazie alle particolari cure a cui era stato sottoposto si era velocemente ripreso, e il giorno dell’udienza riusciva a camminare senza aiuto. Andò in tribunale da solo su un taxi anonimo, in modo che nessuno potesse riconoscerlo.
Rimase lì dentro per tre ore buone. Fu anche più prudente di come concordato con Arturo, dicendo solo i nomi e i fatti di cui era certo al cento per cento. I magistrati gli fecero molte domande, ma lui non si scompose mai. Negli occhi vedeva sempre la possibilità di poter far pace con Andreani, e sapeva bene che ogni parola sbagliata poteva compromettere quella debole speranza di dimostrarsi di nuovo innocente ai suoi occhi. Alla fine, il pubblico ministero gli disse che le sue informazioni sarebbero state preziose, e l’avvocato aggiunse che di sicuro questo avrebbe alleviato l’indagine nei suoi confronti. Michele Martino uscì dal tribunale con il cuore più leggero. Il sole sembrava più luminoso per tutto il tempo che aveva passato senza il suo calore sulla pelle, e il cielo completamente limpido era così bello che gli ridiede non solo la speranza, ma addirittura la totale certezza che, quando Nicolò sarebbe tornato, non avrebbe potuto fare a meno di riconoscere la sua innocenza.
Camminò fischiettando per la strada fino alla fermata del taxi più vicina. Quando scese dal marciapiede per attraversare le strisce, non poté in alcun modo accorgersi della macchina nera senza targa con i finestrini oscurati che aveva svoltato improvvisamente e che stava sfrecciando verso di lui.
Questa volta non ebbe il tempo né di pensare, né di avere paura mentre la macchina lo prendeva in pieno e lo lasciava disteso sul cemento, con ancora il sorriso stampato in faccia per le speranze che non aveva avuto il tempo di spegnere.
 
 
*
 
 
Era il quinto giorno consecutivo in cui cercava di riprendersi, dopo aver passato le notti a ballare e ad alcolizzarsi. La sua testa era un unico fischio continuo e martellante e i suoi sogni erano così assurdi e confusi da lasciarlo stordito più di quanto già lo fosse con gli alcolici e le droghe.
Eppure era felice, schifosamente felice. Leggero come l’aria, libero come un’aquila, senza più problemi a cui dover pensare se non se stesso e, se ogni tanto la malinconia per ciò che aveva lasciato veniva a tormentarlo, bastava alzare un po’ di più il volume delle casse, ridere con qualche sconosciuto e battere le mani a tempo per dimenticare tutto.
Accadde, però, che la mattina del quinto giorno si svegliò presto, madido di sudore. Aveva appena vissuto una scena orribile nei suoi sogni, ma non riuscì a ricordarla.
Inizialmente cercò di affrontare l’episodio con razionalità. Andò in bagno, si fece una doccia veloce e fece colazione da solo con una tazza di latte e cereali. Poi, visto che era ancora presto, tornò in camera e cercò di riaddormentarsi, ripetendosi nella mente che qualunque cosa avesse visto non era reale.
Tuttavia, un dolore strano all’altezza della milza gli impedì di prendere sonno. Non era proprio un male, era più un fastidio, ma era così forte che non riusciva a domarlo in alcun modo.
Qualcosa non andava. Lo sentiva, anzi, lo sapeva per certo. Eppure era una sensazione irrazionale, non poteva in alcun modo essere vera. Per un po’ di tempo si rifiutò di dargli retta, convincendosi che era tutto nella sua testa, ma alla fine il suo istinto gli impose di accendere il cellulare, che aveva fino a quel momento tenuto rinchiuso nel comodino.
Subito l’apparecchio vibrò ininterrottamente per tutta la posta arretrata che stava scaricando, ma prima che Nicolò potesse scorgere una sola parola vide comparire una chiamata sullo schermo.
Una chiamata dalla persona più inaspettata fra tutte. Arturo Costa.
«Pronto?»
«Dove ti trovi?»
La voce dell’anziano era bassa, così tanto che Nicolò dovette premersi il telefono sull’orecchio.
«Sono in vacanza, a Berlino… perché?»
«Devi tornare subito qui, il prima possibile».
«Cosa?» la mente ancora stordita di Nicolò iniziò a lavorare freneticamente, riportandolo a tutto ciò che aveva lasciato indietro da quando era partito da Roma, «Perché? È Michele? È successo qualcosa a Michele?»
Prima ancora che l’anziano gli rispondesse, Nicolò si era già reso conto di sapere la risposta e una fitta di panico gli impedì di respirare. Dall’altro capo del telefono non si sentiva alcun rumore.
«Che è successo? Sta bene, vero? Sta bene? Fammi parlare con lui». La stanza davanti a lui iniziò a girare.
Non poteva essere. Era solo un altro incubo, un altro stupido frutto della sua sadica fantasia.
«Rispondimi! Sta bene?» urlò.
Dall’altro capo continuò il silenzio, e Nicolò smise anche di respirare per poter sentire qualsiasi sussurro.
Attese, e ogni secondo sembrava che una lama gli entrasse nel cuore. Si sentì un singhiozzo, un sospiro, e poi una voce più chiara si sostituì a quella di Arturo.
«È stato investito. Non sanno chi è stato. Alcuni testimoni dicono di aver visto una macchina nera sfrecciare contro di lui, ma non è stata rintracciata. I dottori non ci dicono molto. Per quanto ne sappiamo, potrebbe non farcela».
La voce era sicuramente quella di Thomas, anche se era ben poco riconoscibile. Non c’era il solito tono scherzoso che aveva in aula, né quello combattivo di quando si scontravano in TV.
«No, non può essere…»
Si rannicchiò su se stesso, mentre in tutto il suo corpo i nervi si tendevano così tanto da impedirgli la circolazione.
Fissò il muro bianco davanti a sé, che da lì a poco avrebbe rotto a suon di pugni, mentre restava aggrappato al telefono come se fosse l’ultimo filo a cui era appesa la sua vita.
Thomas Greco non gli rispose più. Nicolò sentì solo un ultimo singhiozzo e un colpo di tosse prima che la chiamata si chiuse.

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Capitolo 24
*** Irreparabile ***


Nessuno parlava dentro la stanza. Sembrava che tutti avessero addirittura il timore di respirare per rompere quell’innaturale silenzio che da qualche minuto si era creato.
Nicolò fissava il letto dove vi era disteso un uomo che sembrava addormentato. Era ingessato in più punti e una parte del suo volto era piena di cicatrici e tagli appena ricuciti. Una maschera gli permetteva di respirare, mentre diversi tubi gli entravano da entrambe le braccia. Attorno a lui c’erano diverse persone ma per Nicolò, in quel momento, erano come parte di uno sfondo anonimo. L’unica cosa che i suoi occhi vedevano era quella figura distesa sul letto, immobile. Le macchine segnalavano costantemente la presenza della vita dentro quel corpo, ma lui in quel momento non riusciva proprio a vederla.
Non sapeva dove aveva trovato la forza di arrivare fino a lì. Da quando aveva ricevuto quella notizia era come se il vero Nicolò se ne fosse tornato a ballare spensierato e un’altra sconosciuta entità razionale aveva preso il suo posto, facendo le cose che andavano fatte e dicendo quelle che andavano dette, senza alcun coinvolgimento emotivo. Soltanto in un primo momento era riuscito ad avere un qualche tipo di reazione, prendendo a pugni il muro della camera fino a far svegliare tutti i suoi amici, godendo fino in fondo dal provocare dolore all’unica persona che in quel momento se lo meritava: se stesso.
Da quando il suo aereo era atterrato a Roma non aveva pianto, neanche una volta. Aveva respinto gli abbracci di Giorgio ed evitato qualsiasi altro contatto fisico. Uno schiaffo lo avrebbe accettato volentieri ma degli abbracci, delle pacche sulle spalle e delle parole vuote non sapeva che farsene. Qualcuno gli aveva parlato spiegandogli ciò che era successo, dalla precedente aggressione che Michele aveva tenuto nascosta a tutti alla sua scelta di testimoniare di nascosto. Nicolò aveva registrato tutte quelle parole nella mente senza mai rispondervi, perché non aveva alcuna risposta da dare.
L’ospedale in cui lo avevano condotto era dipinto con colori troppo vivaci per contenere il dolore che aleggiava nell’aria. Greco e Costa erano seduti su due sedie vicine al letto, mentre Marchesi e Pasqui erano un po’ più distanti. Nessuno parlava, tutti fissavano la piccola figura distesa nel letto come se da un secondo all’altro si fosse potuta risvegliare. Il deputato più anziano aveva il volto scavato dal dolore e a stento riusciva a tenere gli occhi aperti.
Il silenzio innaturale si ruppe solo quando entrò un infermiera, sgridandoli perché non si poteva stare dentro in più di due per volta, e che comunque l’orario delle visite era già ampiamente terminato.
Thomas e Arturo uscirono seguiti da Pasqui, ma il segretario di Sinistra Democratica rimase nella stanza insieme a Nicolò, che non si mosse di un millimetro.
«Per favore, signori» pregò la ragazza.
«Io non me ne vado» chiarì subito Nicolò. Doveva essere la sua solita voce, quella che usava quando voleva fare il testardo, ma in quel momento assomigliava solo ad un lamento disperato.
«Nemmeno io uscirò da questa stanza, e se non è d’accordo chiami pure il direttore» affermò Marchesi con un tono ben più autoritario del suo, ma comunque alterato dal dolore.
«So benissimo chi è lei» precisò l’infermiera, «ma questo non cambia la situazione».
«Mi ascolti bene. Senza il mio contributo quest’ospedale non sarebbe stato neanche costruito. Non ho mai chiesto riconoscenza, è stato il regalo per un amico, chiedo solo di poter stare accanto al mio deputato» comunicò freddamente.
La ragazza sospirò e girò i tacchi, lasciandoli soli nella stanza.
Dopo altri minuti, Nicolò trovò il coraggio di avvicinarsi lentamente al letto. Fece un passo alla volta osservando come, più si avvicinava, più le cicatrici sul volto di Michele diventavano più nitide.
Non poteva essere lui lo stesso uomo con cui aveva diviso il cortile così tante volte, con cui aveva scherzato, mangiato, scritto una legge e curato la febbre. L’uomo che aveva cercato di aiutare e che poi, come un vigliacco, aveva abbandonato nel momento del bisogno.
Gli toccò una mano e la strinse. Non sapeva neanche perché lo stava facendo. Voleva solo avere un segnale, una qualche speranza che non fosse tutto finito.
«Non può sentirti».
Le parole di Marchesi gli arrivarono come un pugno nello stomaco e all’improvviso il vero Nicolò scacciò violentemente la sua caricatura razionale, tornando ad impadronirsi del suo cervello.
«Certo che può!» ribatté, più convinto che mai.
«Oh no, non più».
Marchesi si sedette di fronte a lui, dall’altro lato del letto. In faccia aveva stampato un sorriso che non aveva nulla di felice. Il volto era più scavato del solito e i capelli e la camicia erano in disordine, tanto da togliergli completamente la sua solita aura di superiorità.
«Ha provato a cercarti, sai? Dopo che è stato aggredito. Ti chiamava ogni sera».
Nicolò sentì una fitta allo stomaco, ed ebbe di nuovo il bisogno di prendere a pugni qualcosa. Osservò rabbioso lo sguardo di Marchesi, il quale era evidentemente soddisfatto dell’effetto provocato dalle sue parole.
«E tu? Tu non hai fatto niente per lui. Niente! E non dire che non potevi fare niente. Avevi mille modi per proteggerlo!» gridò in risposta, accecato dalla rabbia.
Riccardo sorrise di nuovo.
«Certo, non ho fatto niente, sono solo stato ogni giorno accanto a lui. Non volevo che si sentisse abbandonato solo perché un vigliacco si rifiutava di rispondergli al telefono. Non se lo meritava, perché lui è sempre stato innocente in questa storia, anche se nessuno gli ha mai creduto. Ho pagato i migliori dottori perché si riprendesse presto e ho assunto degli investigatori per sapere l’identità degli stronzi che lo hanno aggredito. Però hai ragione, non ho fatto assolutamente niente. Avrei dovuto anche io scappare via e ignorarlo completamente».
Nicolò si alzò, raggiunse Marchesi e lo afferrò per la camicia, dandogli uno scossone. Sentiva la mano tremargli per la voglia di dargli un pugno, ma una certa razionalità residua gli impedì di continuare.
Lo spinse via e subito dopo sentì le lacrime riempirgli gli occhi, minacciando di rompere l’assurda compostezza con cui aveva vissuto gli ultimi tragici eventi. Si coprì la bocca con la mano, impedendosi di singhiozzare davanti all’uomo che odiava fin nel profondo, mentre il suo intero corpo minacciava di cedere sotto il peso del senso di colpa, che fino a quel momento aveva tenuto sepolto per poterci fare i conti più tardi.
«Lasciami da solo con lui. Per piacere, solo cinque minuti».
Non si aspettava che Marchesi ubbidisse, ma inspiegabilmente accadde. L’uomo uscì dalla stanza, chiudendosi dietro la porta senza dire una parola.
Frenò le lacrime istantaneamente, avvicinandosi a Michele il più possibile. Doveva fare qualcosa, anche se tutto sembrava suggerirgli che non poteva più fare niente.
Se solo non se ne fosse andato. Se solo avesse preso sul serio la paura di Michele per quella minaccia al telefono.
Se solo avesse risposto ad una sola delle sue chiamate.
La soluzione era sempre stata lì, a portata di mano. Aveva avuto mille occasioni per aiutarlo e non ne aveva colta nessuna per il suo stupido orgoglio.
Afferrò una delle mani immobili di Michele. La strinse forte, come se fosse bastato quel contatto per comunicargli tutto ciò che aveva da dirgli.
«Quella volta, quando ti hanno colpito con quel sasso… Sai, mi sono sentito una merda. Non per averti difeso, naturalmente. Ma perché mi sono reso conto che se oggi non fossi un parlamentare in quella piazza ci sarei stato anche io a contestarti. Mi ha fatto male pensarlo».
Respirò profondamente, come se in ogni parola ci fosse intrisa la possibilità di riaverlo di nuovo guarito e cosciente.
«Io ti ho creduto fin dall’inizio, sai? Dentro di me sapevo che non c’entravi niente. Ma quella sera, quando ho saputo per la prima volta dell’indagine su di te, ho deciso di scappare via. Perché non potevo accettare di avere dei dubbi su di te. Il fatto è che…»
Si morse la lingua, cercando le parole giuste.
«…che se tu non fossi così importante per me, non sarei mai scappato così. Non potevo accettare che tu fossi un mafioso, non dopo tutto ciò che abbiamo vissuto insieme. Non so spiegarti esattamente perché, credo di aver voluto bene a poche persone nella mia vita…»
Gli passò una mano sui capelli. In apparenza erano gli stessi di sempre, tranne che ora appartenevano ad un corpo immobile.
«Sarei dovuto restare accanto a te anche se avevo paura di sbagliarmi. Poteva andare diversamente. Avrei potuto rincorrere quegli stronzi che ti hanno picchiato, avrei potuto mettermi io davanti alla macchina che ti ha investito».
Strinse i capelli di Michele, quasi a volerli strappare. Voleva solo che si svegliasse in qualche modo, che sentisse le sue parole, che lo insultasse, che gli dicesse qualsiasi cosa.
«Ora invece potrei anche cercare quegli stronzi che ti hanno fatto questo e ammazzarli di botte con le mie mani, ma tu continueresti a dormire, vero?»
Appoggiò la testa sul suo petto, bagnando con le lacrime le lenzuola. Lacrime che erano rimaste dentro di lui per troppo tempo e che ora non si sarebbero fermate facilmente. Era come se tutto fosse diventato improvvisamente reale, da un momento all’altro. Non era un sogno, era il presente, lo schifoso e tragico presente, e lui era proprio Nicolò, uno dei colpevoli di quel presente, il coglione che non aveva mai risposto al telefono a quella persona a cui teneva veramente.
«Non so neanche perché ti parlo. Lo so che tanto non mi senti, non sono completamente impazzito. Ma ho bisogno che mi ascolti. Devi svegliarti, perché non posso aiutarti così. Come faccio a rimediare se te ne vai? Come farò a perdonarmi, a guardarmi di nuovo allo specchio? Non puoi farmi questo. Non farlo. Ti prego… ti prego…» Continuò a mormorare quelle ultime due parole come una litania, in mezzo agli innumerevoli singhiozzi. Sentiva solo di non poter smettere. Sapeva che alla centesima o forse alla millesima volta Michele si sarebbe svegliato. ma ad ogni “ti prego” il miracolo continuava a non accadere, e Nicolò non poteva fare altro che piangere, perché non c’erano altre soluzioni da applicare in quei casi, altre cose che con il suo impegno avrebbe potuto migliorare. No, a quel punto era rimasta solo l’amarezza per la realtà, quell’ingiustizia assurda, irreparabile e incancellabile.
Non riuscì a capire quanto tempo era passato quando venne staccato con forza da quel corpo senza calore. Sentì solo il pacco di fazzoletti che gli veniva lanciato in grembo e la presenza di un altro uomo al quale non aveva fatto in tempo a nascondere il suo dolore.
Marchesi si sedette sulla sedia dall’altra parte del letto. Nicolò lo distingueva a malapena attraverso la barriera di lacrime, e
immediatamente si sentì violato nel profondo per quell’atto di intromissione.
Usò l’intero pacchetto di fazzoletti. Gli occhi gli diventarono secchi e gonfi, e la testa iniziò a pulsargli dolorosamente. Sprofondò dentro la poltrona in cui si trovava, sperando che lo ingoiasse completamente. Chiuse gli occhi e per un po’ cercò di udire il respiro di Michele, ma l’unico suono era quello del vento leggero che muoveva le persiane e i passi pesanti degli infermieri nel corridoio.
Prima di rendersene conto, cadde addormentato, con l’ennesima lacrima che ancora non si era del tutto spenta negli occhi verdi.
 
 
Quando si svegliò era già mattina tardi.
Era sdraiato sulla stessa poltrona, con un braccio che sfiorava il pavimento e le gambe fuori da una coperta che non ricordava di essersi mai messo addosso.
«…le sue condizioni sono stabili. Non possiamo agire, purtroppo. In questi casi tentare degli interventi potrebbe essere fatale. Il rischio c’è, ma non sappiamo quantificarlo».
Un uomo con un camice bianco stava parlando con Marchesi, davanti al letto di Michele. Nicolò ebbe un sussulto sentendo la parola “rischio”, e subito scattò in piedi.
«Dottore! Dottore la prego, lo aiuti, faccia qualcosa!» L’uomo si voltò verso di lui, sospirando.
«Mi dispiace onorevole Andreani, stavo giusto informando il suo collega che non è possibile intervenire in queste condizioni.
Dobbiamo monitorare, aspettare una risposta dall’organismo agli stimoli…»
Nicolò ricadde sulla poltrona, fissando il vuoto. Non ricordava di avere mai avuto nella sua vita un risveglio così devastante e amaro.
«La ringrazio, dottore. La prego di fare tutto ciò che è in suo potere, non mancherò di fare fronte a qualsiasi spesa» lo rassicurò Marchesi. I due uomini si salutarono con una stretta di mano, e Nicolò e Riccardo tornarono ad essere le uniche due persone vigili della stanza.
Il silenzio si protrasse per diversi minuti, senza che nessuno dei due si preoccupò di romperlo.
«La sua famiglia è venuta?» mormorò Nico piano, quasi sperando che l’altro non lo sentisse.
«No. Qualche ora fa sono venuti alcuni amici del circolo di Cutro, ma nessun parente» rispose Marchesi.
Nicolò annuì. Non si aspettava altro, naturalmente. Nessuno di quei criminali della sua famiglia lo avrebbe omaggiato per aver rischiato la vita nel testimoniare contro di loro.
«E la polizia?» chiese di nuovo, questa volta più deciso.
«Nessun indizio. Non c’erano telecamere. Qualche testimone dice che la targa dell’auto era stata coperta, ma non sappiamo altro».
Nicolò tirò un pugno al muro. Si era talmente abituato a farlo che si era momentaneamente dimenticato di non essere a casa sua.
«Sappiamo solo che prima della scorsa aggressione qualcuno ha chiamato Michele da un telefono pubblico. Nella telefonata minacciava ritorsioni se lui fosse andato a testimoniare. È sicuramente uno di quelli che lo hanno aggredito e che lo hanno investito con quella macchina».
«Lo so… so di quella chiamata… lui me l’ha detto…» mormorò Nicolò, sconvolto per il rinnovato senso di colpa che non aveva ancora affrontato del tutto. Come aveva potuto non ascoltare la sua richiesta d’aiuto e non prevedere come sarebbe andata a finire?
Si prese la testa tra le mani, coprendosi gli occhi. Non voleva più vedere niente, in particolare se stesso.
«A noi ha fatto credere che l’aggressione fosse stata compiuta da quelli che hanno manifestato contro di lui. Non avevamo elementi per pensarla diversamente. Ci ha chiesto di non dire in giro la notizia, e così facendo abbiamo anche noi dato il contributo a tutto questo. Non gli avrei mai permesso di testimoniare se lo avessi saputo».
La voce del segretario di SD era calma e incredibilmente lucida, ma Nicolò non voleva sentirla. In quel momento voleva solo punirsi il più possibile per ciò che aveva fatto.
«Se vogliamo fare a gara a chi ha più colpe non andremo avanti» insistette il segretario di SD.
Nicolò si chiuse la testa tra le mani per non guardare. In quel momento odiava Marchesi per la sua razionalità, per quanto nonostante la sofferenza trovasse la forza di pensare, di mettere in fila i fatti. Avrebbe voluto farlo anche lui, se solo la sua mente non fosse stata così annebbiata dal dolore e dall’odio.
Dopo quasi un’ora di assoluto silenzio, un uomo fece il suo ingresso nella stanza.
«Nico?»
Era Giorgio, visibilmente preoccupato. Aveva in mano un sacchetto con dei vestiti di ricambio e delle coperte, che subito appoggiò per terra.
«Ho pensato che volessi rimanere qui».
Nicolò non riuscì neanche a mormorare un grazie. Annuì, cercando di sembrare meno distrutto di come non fosse, mentre l’amico si informava sulla situazione di Michele.
«È terribile tutto questo… con la testimonianza di Michele, però, sono partite molte indagini. Forse abbiamo una speranza di fare giustizia».
Giorgio cercò di fare un sorriso incoraggiato, ma Nicolò non vi rispose. In quel momento odiava anche il suo amico per il suo solito, ingenuo ottimismo. Non c’era nulla per cui stare allegri. Non finché Michele non si fosse rialzato da quel letto, sano e cosciente come prima.
Per tutto il resto della giornata, il capogruppo del Fronte assistette immobile alla sfilata di solidarietà di tutti i deputati di SD, di persone che venivano direttamente da Cutro o da Palermo e dei suoi stessi colleghi del Fronte. I fiori si ammucchiarono ai piedi del letto, e Nicolò odiò anche quelli. Li trovava fuori luogo e di pessimo gusto, non era un maledetto funerale.
Ogni volta che un dottore entrava per controllare qualcosa o per cambiare la flebo lui alzava di poco lo sguardo, speranzoso di ricevere una qualsiasi notizia di miglioramento, che però non arrivava mai. Almeno tre volte entrò la stessa giovane infermiera del giorno prima a offrire loro da mangiare, ma Nicolò si rifiutò categoricamente di toccare cibo. Alla terza, Marchesi si spazientì e gli posò il piatto sul tavolino davanti.
«Non è digiunando che lo aiuterai a guarire. Cerca di essere un attimo ragionevole!»
Il capogruppo del Fronte non aspettava che una parola per saltare in aria. Si alzò di scatto, rovesciando il piatto e il suo contenuto per terra.
«RAGIONEVOLE? TI SEMBRA RAGIONEVOLE TUTTO QUESTO? TI SEMBRA RAGIONEVOLE CHE MICHELE STIA MORENDO? COME CAZZO FAI A DIRMI DI MANGIARE IN QUESTO MOMENTO, ME LO SPIEGHI?» urlò.
«Non sta morendo! Smettila!» gridò Riccardo.
Ma il capogruppo del Fronte non era più in grado di trattenere la rabbia. Aveva dentro di sé interi giorni di silenzio razionale da sfogare, e aveva davanti l’uomo che più di tutti gli altri aveva cercato di danneggiare sia lui che Martino, e che ora se ne stava fisso nella sua stanza come se gli fosse sempre stato amico. Lo agguantò per il collo della camicia, lo alzò da terra e colpì con la mano chiusa a pugno tutto ciò che riusciva a colpire, mentre il segretario di Sinistra Democratica non opponeva resistenza.
Forse non sarebbe riuscito a fermarsi facilmente se un uomo più grosso di lui non fosse entrato in quel momento e non lo avesse staccato dall’oggetto del suo odio, spingendolo a terra con così tanta forza che Nicolò non riuscì minimamente a fare resistenza.
«Questa me la paghi» mormorò a denti stretti Pasqui.
«Marcè, fermo, lascialo!» ordinò Marchesi.
Nicolò si tirò su e si appiattì contro la parete, pronto a difendersi da eventuali attacchi. Vide Riccardo con un labbro quasi rotto e un occhio completamente pesto.
«Aveva bisogno di sfogarsi. Va bene così» stabilì il segretario. Il capogruppo di SD non smise di fissarlo, con uno sguardo impregnato di un odio che Nico non gli aveva ancora mai visto addosso.
L’istante dopo, nella stanza entrarono diverse persone in camice bianco. Un uomo si piazzò davanti a tutti gli altri, schiarendosi la voce con fare autoritario.
«Signori, devo chiedervi di lasciare subito la stanza. Mi dispiace Ric, vale anche per te. Questo genere di cose non sono tollerabili».
Nicolò capì in fretta che sarebbe stato inutile protestare, e anche Riccardo uscì dalla stanza senza ribellarsi. Il capogruppo del Fronte fece abilmente slalom tra tutti i vari rimproveri che gli stavano per arrivare addosso, crollando direttamente sulla sedia più vicina.
Iniziò a misurare centimetro per centimetro lo spazio che ora divideva lui da Michele. Ora non poteva più vedere il suo battito sullo schermo, non poteva toccargli la mano per provare a se stesso che era ancora presente.
Tenne lo sguardo fisso davanti a sé, lasciando che il tempo passasse da solo, senza cercare di dargli uno scopo. Vedeva la gente passargli davanti, ma la loro esistenza era completamente estranea alla sua.
Facevano parte di quello sfondo dai colori vivaci, che sembrava prenderli in giro per quanto il resto del mondo proseguisse tranquillo la sua vita, mentre loro erano semplicemente lì, immobili.
Ad ogni ora, le persone diminuivano. All’una di notte non rimase più nessuno, solo qualche infermiera che passava di tanto in tanto per il corridoio.
«Tregua?»
Si ritrovò di nuovo davanti Riccardo Marchesi, mentre gli porgeva un caffè in un bicchiere di carta. Accettò istintivamente, ma non disse una parola. I segni della sua violenza di prima erano stati puliti e rimarginati, ma Nicolò non aveva comunque la forza di chiedere scusa, né di pentirsi sul serio.
«Ho parlato con il mio amico, il direttore. Dice che potremo vedere Michele per massimo cinque minuti al giorno. Ho provato a insistere, ma non ha voluto sentire ragioni» sospirò.
«Per fortuna che è amico tuo» sbottò Nicolò in risposta.
«Beh, la sua amicizia mi è stata molto utile per permettere a me e a te di restare in quella stanza, fino ad oggi» Riccardo scrollò le spalle, sospirando, «in ogni caso, è inutile che adesso resti qui. Non risolverai niente».
«Nemmeno tu, quindi vattene» mormorò Nicolò. Non aveva più la forza di litigare, desiderava solo essere lasciato in pace.
«Me ne vado, certo» lo assecondò Marchesi, «ma prima vorrei che tu ragionassi. La tua rabbia, qui, è inutile. Se fossi in te, sarei subito là fuori a cercare i responsabili, a fare qualcosa nel mio ruolo politico. Non me ne starei qui a fare niente e a punirmi per cose che non si possono riparare».
Nico scosse la testa, come per cacciarlo via. Sapeva che in fondo aveva ragione, che quella era la cosa più razionale da fare, che stare lì fermo non avrebbe salvato Michele né avrebbe dato un significato agli ultimi accadimenti. Ma non poteva ammettere a quell’uomo di non avere la forza di staccarsi da quella stanza, come se all’esterno dell’ospedale ci fosse stata solo l’oscurità più tetra.
«In caso tu ti decidessi, fuori c’è un taxi che ti aspetta. Fai pure con calma, l’ho pagato per la pazienza».
Marchesi si allontanò, lasciandolo solo. Nicolò restò lì immobile per diversi minuti. Dopodiché si strinse nelle spalle, indossò la giacca, tirò un forte pugno alla sedia su cui era seduto e corse fuori senza voltarsi indietro.
 
 
*
 
 
Quel giorno, fuori dalla finestra pioveva a dirotto.
Erano mesi che il cielo di Roma non mandava neanche una goccia d’acqua, tanto che gli abitanti della città si erano dimenticati di come fosse fatta la pioggia, che in quel momento faceva quasi paura per la sua irruenza e per come aveva reso il cielo nero e il paesaggio animato in modo scomposto.
Riccardo era sdraiato per terra nella sua camera da due giorni. Probabilmente si era anche preso una bella febbre, ma non era una cosa importante. La salute, come il partito, Goffredo e l’associazione, faceva parte di quelle cose che prima considerava essenziali, ma che ora occupavano solo un angolo remoto della sua mente, un piccolo spazietto di cui da un po’ si era dimenticato l’esistenza. Il suo stomaco non sentiva il bisogno di mangiare, la sua mente non sentiva il bisogno di distrarsi. Si muoveva dalla sua posizione solo per assumere altre droghe. Un tempo era attentissimo a non mischiarle e a non esagerare, ora invece anche quella premura gli pareva irrilevante. Il suo corpo ogni tanto insisteva nel chiedergli conforto, anche solo con una coperta, un cuscino o qualcosa da mandare giù, ma lui non era disposto a darglielo. Non pensava di meritarselo, gli sarebbe sembrato quasi egoista concedersi dei favori in un momento del genere.
I passi bagnati di una persona che saliva le scale risuonarono per l’enorme villa. Marchesi non perse tempo a fare congetture su chi potesse essere, anche quella era una cosa che non aveva alcuna importanza.
«Ric, sei qui?»
Marcello si chiuse la porta alle spalle senza fare rumore. Riccardo non riuscì a vedere la sua espressione mentre l’amico analizzava la stanza per ricostruire la situazione, studiando la sua figura per terra e le diverse bottiglie sparse intorno.
Marchesi si sentì sollevare da terra come un peso morto. Venne appoggiato sul letto e coperto da numerosi strati di coperte, che mano a mano gli tolsero via il freddo dal corpo. Evitò di posare lo sguardo su Marcello, terrorizzato dall’idea di vedervi rispecchiato il suo stesso dolore.
«Devi smetterla, Ric».
«Non c’è motivo per smetterla».
Aveva un immensa paura dalle parole che sarebbero nate da lì in poi. Ognuno era, fino a quel momento, rimasto da solo nel proprio dolore. Adesso, parlare di ciò che era successo lo avrebbe reso irreversibilmente reale, avrebbe esposto ciascuno alla sofferenza dell’altro.
«La sua foto. Non dovevano. Non dovevano farlo» disse Riccardo.
«Lo so. Abbiamo aperto un procedimento contro i giornali che l’hanno diffusa».
«Non mi importa. Non dovevano. Continuo a vedermelo davanti. Ogni volta che chiudo gli occhi quella foto mi entra nella testa». Aveva intervallato ogni frase con diverse pause, non riconoscendo quelle parole, così deboli e autentiche, come sue. Marcello gli strinse forte una spalla e Riccardo sapeva che stava cercando di controllarsi per non cedere anche lui.
«Dobbiamo andare» disse l’amico ad un certo punto.
«No. Non verrò al funerale. Goffredo vuole che io sia freddo e composto. Freddo e composto» ripeté, come per sottolineare
l’assurdità di quelle parole in quel contesto.
«Non andremo al funerale» sospirò Marcello «andremo via». Riccardo non rispose. Non riusciva a capire cosa volesse dire quella frase.
«Il taxi ci aspetta. L’aereo parte tra un’ora e mezza».
«Per andare dove?»
Non gli interessava affatto saperlo, non gli interessava come ogni altra cosa che era stata svuotata d’importanza nella sua vita, ma voleva capire fin dove era arrivata la pazzia dell’amico.
«Lontano».
Riccardo si rigirò nelle coperte.
«Non voglio andare da nessuna parte. Non voglio più fare niente».
«Già. Starai qui, a stordirti di droghe fino ad ucciderti, non è vero? Perché Francesco voleva questo, giusto?»
Riccardo scattò in piedi e cercò di spintonare l’amico contro il muro, senza però in realtà smuoverlo di un centimetro. Fu allora che notò il suo volto, contrito da un dolore che stava cercando in ogni modo di reprimere, e la visione bastò a fermarlo.
Tornò a sdraiarsi per terra, esausto. Il freddo lo inghiottì di nuovo. Non era riuscito ancora a farci l’abitudine.
Si aspettava che Marcello lo tirasse su di nuovo con la forza per caricarlo su un taxi diretto chissà dove, invece l’amico uscì dalla stanza senza chiudere la porta, come aspettandosi che lo seguisse. Due ore dopo, un aereo solcava il cielo romano fendendo le nuvole, e Riccardo guardava indifferentemente quel paesaggio vuoto,
nell’attesa che quegli anonimi ammassi gassosi si dipanassero per mostrargli qualcosa di diverso da quell’asfissiante vuoto.
 
 
*
 
 
Alla Camera, nulla sembrava essere più come prima.
Non che fosse cambiato tanto nel concreto. A frequentarla erano sempre le stesse persone, che si scambiavano le stesse fredde strette di mano e gli stessi brindisi nei bar, che si riunivano in gruppi per parlare degli affari loro e affollavano gli stessi divanetti di pelle, sempre in attesa che succedesse qualcosa. La differenza, però, Nicolò la notava negli sguardi. In quegli sguardi di solidarietà e di impotente pietà che gli altri deputati rivolgevano agli onorevoli di SD. D’altra parte, c’era ben poco da dire in occasioni del genere. Erano frasi di circostanza quelle che ogni tanto Nicolò intercettava, e non potevano essere altrimenti.
I giorni passavano inesorabilmente, e il capogruppo del Fronte andava ovunque. In televisione, per strada, nelle piazze, sui giornali, in ufficio. Faceva comizi, interviste, spronava i suoi colleghi per fare leggi, emendamenti, mozioni, qualsiasi cosa che potesse fare in modo che quell’organizzazione sporca che aveva quasi ucciso Michele non avrebbe avuto più spazio nel Paese.
I suoi tentativi, però, non producevano grandi risultati. Il Parlamento aveva sempre “altro” da discutere, e i suoi pugni sul tavolo ad ogni conferenza dei capigruppo gli procuravano solo pacche amichevoli sulle spalle e la promessa di avviare la discussione “quanto prima”. A Nicolò, quindi, non restava che commentare i fatti della giornata. La testimonianza di Michele aveva fatto smuovere le indagini, e ogni giorno saltava fuori un nome, un incontro, una conversazione telefonica. Era un puzzle che poco a poco si rivelava, i cui contorni si facevano sempre più inquietanti.
In quelle settimane, Giorgio stava cercando di non tartassarlo, e Nicolò non poteva esserne più sollevato. Si era reso conto di avere bisogno di tantissimo tempo per restare da solo a percorrere con la mente le stesse strade, come per cercare quel dettaglio che gli era sfuggito e che avrebbe risolto tutta la storia.
Una parte di lui aveva ritrovato la voglia di combattere, di mettersi in movimento. L’altra parte invece rideva di quel Nicolò e delle stupide illusioni che si faceva, mentre Michele continuava a dormire in un letto d’ospedale.
Nelle ultime settimane, quasi ogni giorno bussava all’ufficio di Marchesi. Nemmeno per un secondo aveva smesso di odiare
quell’uomo, ma forse era l’unico che in quel momento condivideva la sua stessa determinazione nel fare qualcosa. Né Thomas, né Arturo, sembravano avere troppa forza di reagire. Raramente si vedevano nei corridoi, si rifiutavano di lasciare dichiarazioni e svolgevano il loro lavoro con piatta indifferenza. Nicolò aveva cercato in diverse occasioni di restare loro vicino, specialmente al più anziano, ma si era sempre considerato incapace di consolare altre persone.
Entrò dall’ufficio senza aspettare il permesso, cosa che ogni volta irritava molto il segretario di Sinistra Democratica.
«La legge. A che punto siamo?»
Marchesi gli fece un cenno, invitandolo a sedersi e nel frattempo versandosi un bicchiere di vino. Aveva gli occhi infossati e la mano che tremava da quando se n’erano andati da quell’ospedale, ma ormai Nicolò ci aveva fatto l’abitudine.
«Ho parlato con chi dovevo parlare, ma non faranno un passo
indietro sulle loro idee da bigotti. L’unica soluzione è martellare sulla stampa, cercare di sfigurarli davanti al Paese…»
Nicolò si trattenne dallo sbattere un pugno sul tavolo. Ormai aveva le nocche distrutte a furia di farlo, ma più i giorni passavano, più la rabbia che aveva dentro diventava meno reprimibile.
«Lo sto facendo. Non sto facendo altro, io. Sto girando tutti i giornali e le televisioni, ma non serve a niente!»
«Nella politica bisogna avere pazienza, Andreani» borbottò Marchesi.
«Eppure non vedo il vostro capogruppo in prima linea!» ribattè Nicolò.
Il segretario iniziò a fissare insistentemente il bicchiere che teneva tra le mani. Ogni giorno, tra loro due, i discorsi erano sempre gli stessi.
«Pasqui è in disaccordo. Ho cercato di spiegartelo almeno dieci volte».
«E perché cazzo dovrebbe esserlo? Non stai facendo niente per convincerlo!»
«No, è diverso» sospirò di nuovo Marchesi, «lui non si farebbe convincere da nessuno. Per lui i principi sono sacri».
«Maledetti democristiani del cazzo!» imprecò Nicolò.
«Sto facendo il possibile» sibilò acido Marchesi.
«Non è abbastanza!» gridò Nicolò.
«Perché immagino che tu sia molto più bravo di me, giusto? Quante leggi hai fatto passare, esattamente?»
Il capogruppo del Fronte si prese la testa fra le mani. Sapeva che da solo non sarebbe riuscito a fare niente. Riccardo aveva i contatti, non solo nella politica ma anche con la stampa, con la magistratura e con tutte le persone che contavano. Lui non aveva niente, se non una gran voglia di spaccare il mondo, quello schifoso mondo di merda che aveva quasi ammazzato un uomo innocente.
«Ci sono progressi con…» mormorò infine.
«Nessuno. Non reagisce ancora agli stimoli».
Da quando era corso via da quell’ospedale, non aveva più trovato il coraggio di tornarci. Sapeva che rivedere Michele in quelle condizioni avrebbe fatto crollare in un secondo tutto il suo castello di carte fatto di cose da fare per tenersi impegnato e illudersi di stare andando avanti.
«Qualcuno viene a trovarlo?»
«Thomas viene spesso. Arturo non riesce a guardarlo per più di trenta secondi. Tanti miei deputati passano a lasciare dei fiori. Non ho più visto quelli del suo circolo, ma ogni giorno mi chiamano per avere notizie».
«Fammi sapere se ci sono novità» borbottò congedandosi, sapendo che tanto il giorno dopo avrebbe bussato di nuovo per fare le stesse domande.
 
 
*
 
 
Si svegliò nella penombra, una penombra che però era insolitamente accogliente. Il freddo, che era stato un suo fedele compagno in quelle settimane, lentamente stava andando via, sostituito dal calore che il sangue gli portava in ogni angolo del corpo. Sentiva addirittura il suo stesso battito accelerare piano e i muscoli riprendere poco a poco la sensibilità perduta.
Cercò di alzarsi in piedi, riprendendo possesso delle proprie gambe. Trovò una bottiglia d’acqua con dei bicchieri sul tavolo lì vicino, ma il solo avvinarsi gli causò una fatica enorme, con i muscoli che
minacciavano di cedere da un momento all’altro sotto il suo stesso peso.
Si sedette, sforzandosi di ricordare qualcosa.
Doveva andare a testimoniare, quel giorno. Ma sì, c’era andato! Aveva parlato per più di due ore con i magistrati! E poi? Chiuse gli occhi, cercando di rivivere la giornata, ma non ci riuscì.
Doveva essere successo qualcosa. Per quale motivo il suo corpo era pieno di fasciature? E perché si sentiva così indolenzito?
Il suo ultimo pensiero prima del buio totale era stato per Nicolò. Giusto, doveva andare da Nicolò a dirgli che aveva testimoniato, che era innocente. Non poteva più aspettare. Anche se avesse incontrato il suo coinquilino, Iannello, avrebbe trovato un modo per mettersi in contatto con lui.
Con una fatica enorme si staccò dalla sedia, cercando per la camera i suoi vestiti. Li trovò tutti dentro un sacchetto dove non ricordava di averli mai messi, perfettamente puliti e in ordine.
Impiegò un po’ di tempo a infilarsi un paio di jeans e una maglietta, accorgendosi di stare compiendo enormi sforzi anche solo per le operazioni più elementari.
Poi, con estrema lentezza, percorse il corridoio alla ricerca
dell’uscita. Evitò di incrociare gli infermieri, doveva essere piena notte e con ogni probabilità nessuno gli avrebbe permesso di uscire a quell’ora.
Una volta fuori, fermò il primo taxi che vide passare per strada, per poi accorgersi il momento dopo di non avere dietro il portafoglio.
«Mi scusi, non ho contanti dietro in questo momento. Sono Michele Martino di Sinistra Democratica, sono un parlamentare… le farò un bonifico domani stesso».
«Martino? Ma certo, so chi è lei. Si è ripreso?»
«Sì... sì, credo di sì».
«In tal caso non deve preoccuparsi, per me è un grande onore offrirle la corsa!»
Michele osservò le strade mezze vuote di Roma, con uno strano senso di nostalgia. Sembrava fosse passato troppo tempo da quando le percorreva a piedi, quando ancora non c’era nessuno che lo riconoscesse per strada o che lo contestasse.
Scese in via Merulana, ricordandosi solo vagamente a che altezza stava la casa di Andreani. Si sentiva spossato, come se avesse fatto un’enorme fatica, e mentre camminava sentiva i dolori risvegliarsi in ogni parte del corpo, ma si impose di non ascoltarli.
Trovò il campanello giusto e suonò, un po’ vergognandosi per l’ora tarda. Forse avrebbe aperto Iannello e lo avrebbe cacciato via. Con che coraggio si presentava di punto in bianco a casa loro, poi?
Udì una voce familiare al di là della porta.
«Giò, ma le chiavi non le hai?»
Michele non rispose, sentendo il cuore accelerare nel petto per la paura di trovarsi faccia a faccia con lui. Non se lo aspettava per davvero, era convinto che fosse ancora fuori Roma.
La porta si aprì e Nicolò gli comparve davanti, completamente sveglio e vigile ma con un aspetto diametralmente diverso rispetto all’ultima volta che lo aveva visto. Le guance erano più scavate, il viso sciupato, i capelli ricadevano scomposti attorno al viso e i suoi occhi erano privi della loro solita lucentezza.
«Senti… lo so che non è l’ora, ma ho bisogno di parlarti» mormorò, cercando di imprimere nella voce una certa decisione.
Nicolò si irrigidì. Sgranò gli occhi e lo squadrò da capo a piedi. Aprì bocca, ma non pronunciò alcun suono.
«Oggi sono andato a testimoniare. Ho detto tutto ciò che sapevo sulla mia famiglia. Non posso fare altro per dimostrarti che non c’entro niente con loro. Quei voti non so davvero da dove siano saltati fuori, quando sono stato eletto anche io ne sono rimasto sorpreso. Dopo la minaccia che mi hanno fatto al telefono sono andato a denunciarli e mi hanno aggredito. Non vogliono che testimoni, ma io l’ho fatto lo stesso. Non ho intenzione di fermarmi, perché so che sto facendo la cosa giusta. Ho bisogno solo che tu mi creda, per quanto ti sembri assurda tutta questa storia. Guardami negli occhi, non mi sto inventando niente».
Aveva cercato di sembrare convinto, ma la sua stessa voce faceva una gran fatica ad uscire. Cercò un qualsiasi appiglio dentro quegli occhi verdi, ma per una volta l’espressione di Nicolò era indecifrabile. Lo vide scuotere la testa e indietreggiare di qualche passo, mentre ansimava in modo incontrollato.
«Sto sognando, vero? Non puoi essere davvero tu…»
Michele avanzò cautamente, non riuscendo a comprendere la sua confusione. Gli prese con delicatezza una spalla, sperando che non si sottraesse.
«Per favore, credimi. Io posso andare avanti e combattere, non ho paura, ma la tua fiducia per me è importante».
La mano di Nicolò si strinse forte intorno alla sua, quasi stritolandola, mentre continuava ostinatamente a fissarlo con gli occhi sgranati.
«Così però mi fai male…» si lamentò Michele sottovoce.
Fu a quel punto che, all’improvviso, si ritrovò circondato dalle sue braccia. All’inizio con una stretta esitante, come se Nicolò avesse paura a toccarlo, ma che poi lentamente si trasformò in una stretta forte e decisa. Michele restò immobile, abbastanza sconcertato per quell’atteggiamento che non apparteneva sicuramente a Nicolò.
Stupore che aumentò esponenzialmente quando si accorse che stava piangendo.
Nicolò Andreani stava piangendo. Davanti a lui, per la prima volta. Stava anche dicendo qualcosa, ma quelle parole erano mormorate così piano che Michele non riusciva ad afferrarle.
«Non è possibile… mi dispiace… mi dispiace…»
Sentiva il suo respiro ansimante per i singhiozzi, le sue lacrime che scendevano copiosamente una vicina all’altra bagnandogli la maglietta, la mano che graffiava la sua schiena per quanto lo stringeva forte.
«Nicolò? Che succede?»
Lui non rispose, continuando a stringerlo. Non lo aveva mai visto così sconvolto, e in quel momento non sapeva nemmeno come comportarsi, troppo sconcertato nel vedere un uomo che aveva sempre considerato il più forte e temerario di tutti piangere in quel modo.
Ci volle un bel po’ prima che Nicolò riprendesse il controllo di sé.
«Tu… tu non sai niente? Ma che… aspetta, che ci fai qui?»
«Dovevo parlarti-»
«Ma sei completamente impazzito? Uscire a quest’ora, da solo, dopo quello che ti è successo? Chi è stato ad autorizzarti? Mi sentiranno quei deficienti dei dottori, altro che ospedale d’eccellenza!»
Michele continuò a non afferrare il discorso.
«Ma di che stai parlando?»
«Sei stato in coma, Michele. Per quasi tre settimane. Sembrava che…»
Nico non riuscì a finire la frase. Si coprì gli occhi con una mano, impedendosi di mostrare altre lacrime, poi si accasciò sulle ginocchia. A Michele la notizia arrivò dritta come un pugno nello stomaco.
Tre settimane?
«Io… cosa?»
E poi, all’improvviso, arrivò. Il ricordo fulmineo di una macchina scura che gli piombava addosso, lui che per un secondo aveva sentito la vita scivolargli via…
Tutto iniziò a farsi più confuso. Si premette le mani sulle tempie, vide la propria vista annebbiarsi e sentì di stare cadendo a terra, come se le gambe non riuscissero più a sopportare il suo peso.
«Ehi!»
Nicolò lo afferrò prontamente. Iniziò a gridare sempre più forte, e Michele avrebbe tanto voluto dirgli che lo sentiva, che ora stava bene, ma per qualche motivo non ci riusciva.
«Andrà tutto bene! Tranquillo, ti riporto in ospedale. Adesso andrà tutto bene, ci sono io…»
Michele gli strinse debolmente il braccio, per fargli capire che aveva capito, che era tranquillo, perché ora non era più da solo.
 
 
*
 
 
Nell’ufficio di Marchesi non volava una mosca. Intorno al tavolo c’erano lui, Pasqui e Goffredo Ranieri. Tutti e tre si guardavano in silenzio.
«Maledizione!» sbottò Goffredo ad un certo punto «Tutto questo guaio perché quel bastardo ha parlato, e adesso noi siamo nella merda!»
Riccardo non parlò. Stava osservando il suo avviso di garanzia quasi con curiosità. Poteva essere l’inizio dei suoi guai veri, la fine stessa dell’esperienza di Sinistra Democratica, ed era tutto racchiuso in un semplice foglio.
«Ricorrerò ad ogni mezzo per fermare questa faccenda. Non permetterò a nessuno di fermarci» mormorò Pasqui deciso.
Il segretario di SD, però, non aveva intenzione di stare ad ascoltare le posizioni strategiche dei due colleghi. La sua attenzione era tutta rivolta verso la nuova alba che si faceva spazio nel cielo nero.
Iniziò a contare i giorni in cui aveva assistito all’alba dal suo ufficio, dalla sede del suo partito o dalla finestra di camera sua, e si accorse con sconcertante sorpresa che quella debole luce che racchiudeva la promessa di un nuovo giorno non provocava in lui più alcuna emozione.

 

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Capitolo 25
*** Leader ***


Michele dormiva profondamente sotto l'effetto dei farmaci.
Era riuscito a restare sveglio fino alla chiamata di Thomas e dopo era crollato definitivamente. La notizia del suo risveglio e successiva fuga dall'ospedale era girata in fretta, e già tutti i giornali avevano dato la notizia.
Era l'alba, e Nicolò li sfogliava dal tablet distrattamente. Non era riuscito a prendere sonno nemmeno per un secondo a causa di tutti i pensieri che aveva per la testa. Aveva passato l'intera notte a parlare con Michele finché non si era addormentato, commentando ogni telefonata che l'altro riceveva con lo stesso sprezzo che avevano avuto su quel tetto, quando quella sfilza di ipocriti deputati di SD erano saliti per dire a Michele di scendere dopo averlo insultato, quelle stesse persone che ora lo chiamavano fingendosi premurosi. Erano riusciti, in brevi momenti, anche a ridere assieme, come non succedeva da troppo tempo. Ed era solo di quello che avevano bisogno, perché di lacrime, di dolore e di silenzi ne avevano vissuto entrambi per troppi giorni. Anche se, nel profondo, Nicolò era tormentato dalla paura. La paura di chiudere gli occhi e scoprire che era stata tutta un'illusione, che Michele non si era mai davvero svegliato.
Però, mano a mano che le ore passavano, il capogruppo del Fronte si abituava sempre di più all'idea che Michele era davvero fuori pericolo, e più questa coscienza entrava in lui, più anche lui tornava a essere il Nicolò di sempre. Ogni ombra di tristezza, di rimorso e di paura, alla fine, era sparita in fretta com'era arrivata, e Nicolò adesso riusciva solo a ridere della sua ansia trascorsa, come se fosse sempre stato ovvio che Michele si sarebbe risvegliato.
E poi, c'era anche quel senso di vendetta che montava sempre di più dentro di lui e che si era sostituito al senso di colpa. Quella voglia di scoprire i colpevoli e vederli sbattuti in galera, ovviamente non prima di avergli personalmente sputato in faccia. Ogni minimo particolare che veniva raccontato dai giornali sulle indagini riusciva a riempirlo di un'euforia insolita, la stessa che aveva provato quando il suo partito era riuscito a bloccare la legge.
Il rumore lento della porta che si aprì lo distrasse. Non fece particolare caso all'ingresso di Marchesi, forse perché si era abituato a vederlo spesso. Non diede neanche peso al suo viso bianco come un cadavere e alla sua andatura storta, ormai gli era del tutto palese che quell'uomo si faceva di qualche sostanza, ma non era certamente un problema suo.
«Il dottore pensa che con due o tre settimane di convalescenza si riprenderà del tutto» gli comunicò il segretario di Sinistra Democratica.
«Spero sia così» commentò Nicolò.
Riccardo si sedette sul bordo del letto e sfiorò con la mano la testa di Michele.
«Avrei voluto dargli di persona questo, come augurio di guarigione. Ma non importa, confido che glielo darai tu quando si sveglia».
Appoggiò una piccola scatola nera sul tavolo. Nicolò dedusse dalle dimensioni che si trattava di un orologio, probabilmente molto costoso.
«Bel pensiero, ma non penso che sia roba per lui» gli sfuggì, mentre si rendeva conto subito dopo di aver detto una cosa poco educata.
«Forse hai ragione» commentò Marchesi, uscendo dalla porta. Nicolò restò a meditare un attimo. Era quasi curioso di aprire quella scatola per vedere se c'era davvero dentro un orologio, ma poi lasciò perdere.
 
 
Nel suo ufficio erano in sette, tra parlamentari e staff. C'era da uscire con un comunicato, perché la notizia bomba del giorno era che anche Riccardo Marchesi era stato indagato nella maxi-inchiesta.
La notizia era riuscito a lasciarlo incredulo. Non che avesse mai reputato Riccardo Marchesi un gran stinco di santo, però essere indagati per presunti legami con la mafia non era roba da poco. E poi, per tutti in Parlamento quell'uomo era sempre stato considerato uno di quelli onesti, anche se poco ortodossi.
La situazione era critica. I giornali avevano i riflettori puntati sul palazzo, e la politica rischiava di subire una svolta epocale a causa delle persone che, una ad una, stavano affondando, vittime di quei cannoni chiamati avvisi di garanzia, ma Nicolò quel giorno non aveva gran voglia di prendere parte alla solita guerra contro SD. Quando la riunione finì, fece velocemente le scale per arrivare sul tetto, luogo che ormai preferiva rispetto al cortile per fumare, trovandolo meno affollato e più silenzioso. Non appena arrivato, però, si accorse con meraviglia di non essere da solo.
Sul tetto c'era Riccardo Marchesi, appoggiato al muretto, che guardava il cielo con fare indifferente.
Un ghigno di superiorità percorse il viso del capogruppo del Fronte prima che potesse gestirlo.
«Dunque, sembra che anche tu abbia intrallazzi con la mafia. In effetti, quelle scarpe sono troppo anche per lo stipendio di un politico».
Marchesi lo squadrò di traverso.
«Ma guarda, quindi adesso un avviso di garanzia fa già il colpevole? Chissà cosa ne pensa Michele» rispose, tagliente.
Al solo sentire quel nome, Nicolò sentì qualcosa fargli male dall'interno, segno di un senso di colpa che ancora c’era, nonostante tutto ciò che vi aveva messo sopra per coprirlo. Il sorriso gli scomparve subito dalla faccia mentre freneticamente tirava boccate di fumo.
«È una cosa diversa, e tu lo sai benissimo».
Marchesi accigliò lo sguardo, notando il suo cambio repentino di umore.
«Già, perché in quel caso te ne sei andato all’estero piuttosto che stare dalla sua parte».
Prima che il cervello elaborasse una risposta, il corpo di Nicolò si era già scagliato contro Marchesi e lo aveva inchiodato al muro. Non gli importava chi fosse, non gli importava cosa sarebbe potuto succedere se si fosse lasciato andare, in quel momento voleva solo sputare addosso il più possibile il suo odio a quell'uomo. L'adrenalina gli percorreva le vene mentre Marchesi rimaneva impassibile, a ridosso del muretto e a due centimetri dal suo viso.
«Tu non sai un cazzo! Tu non sai cos'è stato stare a guardare mentre una folla lo massacrava, svegliarsi in piena notte in un Paese straniero e scoprire che era stato investito! Non sai cosa vuol dire, tu eri lì a sbrigare i tuoi affari mentre io ogni giorno pregavo che si svegliasse, perché se fosse morto la colpa sarebbe stata mia! Mia! Tu non capisci, non sai cosa vuol dire avere un senso di colpa così profondo da non riuscire a dormire. Sei solo riuscito a minacciarmi con quel video idiota, e non sai nemmeno quanto ho dovuto litigare con me stesso per superare quel maledetto schiaffo! Tu non sai un cazzo!»
Ansimava, con le lacrime agli occhi per tutto ciò che aveva appena rivangato, scavando con la propria rabbia fino in fondo al suo cuore. Marchesi lo fissava con uno sguardo completamente estraneo. Per un breve istante gli sembrò di vedere un luccichio nei suoi occhi, ma poi entrambi ruppero il contatto visivo.
Nicolò lo lasciò, si appoggiò al muretto e si accese un'altra sigaretta. Avrebbe dovuto sentirsi forte per aver finalmente tirato fuori quel peso che aveva, invece si sentiva peggio di prima.
«Non esiste più quel video, puoi stare tranquillo». Nicolò lo fissò, pieno di risentimento.
«E perché dovrei crederti?»
«Non ha importanza se mi credi o no» ribatté lui, «ma sono soddisfatto della tua reazione di prima».
Fece per andarsene. Nicolò lo osservò, completamente confuso.
«Non ho intenzione di sputtanarti davanti alla stampa» gli gridò da lontano, «sarebbe come sparare sulla croce rossa. Sei un gran pezzo di merda, ma è grazie a te che Michele è vivo».
Il segretario di Sinistra Democratica gli sorrise da lontano prima di uscire, e Nicolò non riuscì a frenare il dubbio che quell’uomo si fosse trovato su quel tetto apposta per incontrare lui.
 
 
*
 
 
Michele uscì da quella stanza di ospedale più volte di quante gli fosse permesso. Ogni persona che lo veniva a trovare per lui era una scusa per fare due passi in mezzo alla natura, lontano da quelle pareti delle quali si era decisamente stufato.
Gli eventi si susseguivano con inquietante velocità. I comunicati stampa e le rare comparsate televisive dei coraggiosi che osavano sfidare la furia giornalistica si rincorrevano tra scandali nascenti e crescenti. L'unica nota positiva era che tale scompiglio aveva quasi fatto dimenticare all'opinione pubblica le sue faccende. Michele aveva smesso di ricevere messaggi e chiamate di giornalisti agguerriti, e tanti suoi colleghi lo venivano a trovare più serenamente, ora che era visto come un eroe che, grazie alla sua testimonianza, stava mettendo in manette mezzo Parlamento.
Michele stava lentamente guarendo, riprendendo mano a mano il possesso dei suoi movimenti. In qualche modo stare lì dentro, fuori dalla tempesta politica, lo stava aiutando tantissimo. Le cose gli passavano a fianco ma non lo toccavano mai, e anche le notizie sugli interrogatori del padre e del fratello lo lasciavano piuttosto indifferente.
Arturo e Thomas, poi, non mancavano mai di far sentire la loro presenza, quando non erano impegnati ad esaltarlo davanti ad una telecamera. Il più anziano aveva iniziato a frequentare i salotti televisivi, difendendo il coraggio di Michele, anche se quel coraggio si era tradotto nell'apertura di diversi fascicoli tra i deputati di SD, di cui il più grave era quello su Marchesi, che il giovane non aveva più rivisto né sentito dal giorno della notizia, ritrovandosi solo un vecchio orologio da parte sua sul comodino.
Il segretario di SD, però, era tutt'altro che solo. Tutti i deputati di tutte le correnti erano incaricati di fargli quadrato attorno, abbaiando come cani feroci quando un giornalista poneva domande e insinuazioni sul suo caso, difendendolo a spada tratta in ogni comunicato stampa e attaccando l'opposizione per deviare l'attenzione. Inoltre, un nugolo di esperti di comunicazione produceva le risposte ai giornali, così incorniciate di retorica che mettevano bene a tacere gli spiriti avversi, almeno per qualche giorno.
Infine c'era Marcello Pasqui, il quale non produceva comunicati né rispondeva alle domande, ma si limitava a fulminare con lo sguardo chiunque si azzardasse a puntargli una telecamera addosso.
Accadde che però, un giorno, Michele accese la televisione della sua stanza come ogni mattina e una notizia, al posto di scivolargli accanto come al solito, lo colpì direttamente in pieno petto.
 
"Augusto Chiarelli, attuale vicecapogruppo del Fronte per l'Indipendenza, è indagato per presunti legami alla maxi-inchiesta sulla 'ndrangheta. Il deputato è accusato di spaccio e consumo di cocaina, e ad una prima perquisizione sono rinvenute buste contenenti la sostanza stupefacente, che il deputato, a quanto si apprende, vendeva come intermediario proprio nelle stanze del potere. Nel Fronte per l'Indipendenza ancora non ci sono alcune reazioni alla notizia. Il capogruppo Andreani non ha risposto alle telecamere, mentre la richiesta di dimissioni piove forte dalla base del partito."
 
Michele fissò sbigottito lo schermo. Non poteva crederci.
Solo qualche giorno prima, Chiarelli era venuto a trovarlo insieme ad una delegazione del Fronte. Insieme gli avevano portato dei fiori e gli avevano fatto gli auguri di pronta guarigione, e avevano persino esultato all'idea che finalmente quella parte marcia della politica andasse in galera.
Aspettò per tutto il giorno l'arrivo di Nicolò, pensando spesso alle cose da dirgli per sostenerlo. Ma Nicolò non venne, ne quel giorno, né quello seguente, e Michele fu costretto a sopportare i volti sorridenti dei deputati del suo partito, felici che l'attenzione si fosse spostata verso il Fronte.
La sera del secondo giorno, però, il giovane deputato prese in mano il cellulare e provò a chiamare Nicolò. Il telefono suonò a vuoto, e decise di provare con il suo coinquilino Iannello.
«Pronto?» gli rispose una voce stanca e spossata.
«Sono Michele. Nico è lì?»
«No. Sono giorni che sta in ufficio, anche la notte. Lo sai cos'è successo, no?» rispose scocciato.
«Sì, certo» si affrettò a dire Michele, un po' offeso «beh, grazie lo stesso».
Scrisse un messaggio per Nicolò poi tornò a sdraiarsi, immaginando lo smarrimento dell’altro in quella situazione assurda.
 
 
*
 
 
«Ora puoi aprire gli occhi!»
Riccardo Marchesi scese dallo scooter e si tolse la benda. Davanti a lui c’era il mare, rischiarato solo dalla fioca luce della luna.
«Ma…»
Non fece in tempo a finire la frase che un nugolo di capelli rossi si avventò sui suoi vestiti tra matte risate. Solo poche ore prima avevano trascorso la giornata in importanti riunioni, e Marchesi vide una delle sue camicie migliori cadere sulla sabbia non proprio pulita di Ostia.
«Avevo voglia di farmi un bagno! Dai, muoviti!»
Francesco ignorò le proteste dell’altro e lo spinse in acqua. I suoi boxer si infradiciarono, ed ebbe l’accortezza di togliersi in fretta l’orologio per impedire che si bagnasse.
«Tu sei completamente matto!» gridò Marchesi, mentre Francesco si tuffava in acqua con un’autentica gioia dipinta in volto.
«No, Ric, tu sei matto se pensi che io mi faccia un viaggio da Bologna solo per farmi noiosissime riunioni!»
Francesco gli spruzzò dell’acqua addosso e Riccardo rispose con altrettanti schizzi.
“Se Goffredo mi vedesse adesso…” pensò, imbarazzato ed eccitato allo stesso momento.
Francesco si mise a morto, galleggiando disteso nell’acqua. Riccardo diede qualche bracciata. Non riusciva a ricordarsi l’ultima volta che era andato al mare. Doveva essere stato parecchi anni prima.
«E così domani torni a casa, eh?» chiese distrattamente, cercando di non fargli capire quanto desiderasse che rimanesse.
«Sì. Ma lo sai che ovviamente scapperò al più presto per tornare qui».
Riccardo sorrise, gustando tra sé il pensiero di quando l’avrebbe rivisto.
«Però ti accompagno io in stazione».
«Eddai! Perché ti devi alzare presto apposta?» sbuffò l’altro, «ci vado anche da solo!»
«Perché mi fa piacere!» ribatté Riccardo con fermezza, «e soprattutto perché non rispetti le più basilari indicazioni di sicurezza del partito. Lo so che ti stanno strette, ma sono abbastanza importanti, sai?»
Come previsto, Francesco sbuffò di nuovo, sprofondando di poco nell’acqua.
«Ma dai! Io ho tutto il diritto di girare a volto scoperto, sono loro a doversi nascondere semmai! E poi non ho paura dei fascisti finché ci sei tu».
Riccardo sorrise imbarazzato, e nuotò per un po’ sott’acqua per non far vedere la sua espressione. Francesco era così. Un attimo prima lo trovavi pronto a spaccare il mondo e l’attimo dopo ti spiazzava con frasi di una dolcezza così sincera da lasciarti senza fiato.
Prima di conoscerlo, non avrebbe mai immaginato che lui, proprio lui, sarebbe stato capace di buttarsi a mare a tarda notte con addosso solo dei boxer. Lui, quello che Goffredo aveva preso sotto la sua ala per trasformarlo in un dirigente. Francesco era stato capace di cambiarlo, un miracolo in cui non avrebbe mai sperato.
Un paio di mani lo spinsero più a fondo sott’acqua, ma non gli ci volle molto per ribaltare la situazione, spingendo a sua volta.
Francesco riemerse ansimante e ridente, con i ciuffi rossi appiccicati al viso.
«Allora vuoi la guerra, eh?»
Si inseguirono, nuotando fino al largo, fino a che entrambi finirono le energie e arrancarono sulla sabbia, stendendosi uno sopra l’altro.
Riccardo riusciva a sentire quel corpo leggero avvinghiato al suo, e gli stampò un bacio che sapeva di sale.
Potevano permetterselo. Erano lì loro due, da soli.
«Mi prometti che ti comporterai bene a Bologna?»
«Cosa vorresti dire?» si indignò Francesco, «io mi sono sempre comportato bene!»
«Lo sai cosa intendo» replicò Riccardo, «profilo basso!» L’altro gli stampò un lungo bacio, con fare seducente.
«Non preoccuparti. Sarò di nuovo a Roma prima che lo zio Gof si accorga che la sua scatola di cubani è sparita».
Riccardo gli tirò uno spintone e Francesco rise a crepapelle, rotolandosi sulla sabbia.
Quella sera improvvisata sulla spiaggia di Ostia se la sarebbe ricordata come l’ultima in cui lo avrebbe visto ridere.
E i sigari cubani di Goffredo non furono mai più restituiti.
 
 
*
 
 
Dentro la sala Aldo Moro c’erano tutti. Tutti tranne Chiarelli, unico assente “giustificato”. Le facce erano serie e impenetrabili. Nicolò non ricordava di aver mai presenziato a una riunione di questa gravità. Fino a quel momento, le loro riunioni erano sempre assomigliate quasi a ritrovi tra amici, anche quando la situazione era dura.
Non si capacitava della situazione, non ancora. Stava per espellere il suo vicecapogruppo, e avrebbe dovuto ripristinare l’ordine e la fiducia dei suoi compagni quando nemmeno lui ne aveva più. Il suo cuore batteva intimorito davanti a quella platea con cui aveva condiviso così tanto. Era diventato capogruppo praticamente senza volerlo, aveva fatto tanti interventi in aula e stretto tante mani riconoscenti, e ora stava per assaggiare il rovescio della medaglia, dove avrebbe dovuto gestire da dirigente una situazione esplosiva.
«Compagni» iniziò, incerto sul tono da usare. Nessuno fiatò.
«Compagni e compagne» ripeté a voce più alta, «sappiamo tutti per quale motivo siamo qui. Un uomo, che fino a poco tempo fa era stato uno dei nostri più cari compagni, ha macchiato il nome del nostro partito con un reato indegno. So che ancora non c’è una sentenza definitiva, ma le notizie ci danno notevoli ragioni per ritenere Augusto Chiarelli inadeguato al suo ruolo».
Cercò di contenere la propria rabbia, mentre la intravedeva riflessa negli sguardi degli altri.
«In accordo con altri compagni, propongo a quest’assemblea di votare la sua immediata espulsione dal parti-»
Non fece in tempo a finire la frase che diverse mani si alzarono, richiedendo la parola. Il primo a parlare fu uno dei membri più anziani.
«Conosco Chiarelli da più di dieci anni, compagni. Abbiamo lottato insieme diverse volte, abbiamo portato avanti delle cause che sembravano perse, sacrificando gratuitamente il nostro tempo e le nostre energie. Non posso accettare che per una stupida inchiesta venga sbattuto fuori!» tuonò l’uomo.
Metà sala applaudì e l’altra metà, Nicolò compreso, restò immobile, attonita da quelle parole.
Subito dopo il momento di shock, il capogruppo si rialzò rabbiosamente in piedi, riprendendosi la parola.
«Compagni» replicò seccato, «davvero non capisco come possiate dire una cosa del genere. È abbastanza chiaro che il vicecapogruppo di questo partito è implicato nella faccenda e, se qualcuno ancora non l’ha capito, si sta parlando di mafia! Non vi sembra un motivo sufficiente? Ragionate! Per tutti i deputati degli altri partiti che in questo momento stanno finendo a processo vi bastano capi d’accusa meno gravi per attaccarli nelle interviste. Che figura faremmo salvando il culo a Chiarelli, solo perché è un nostro compagno?»
«La figura di chi non abbandona i compagni in difficoltà!» rispose un altro deputato più giovane. Altri assentirono.
L’uomo che aveva parlato prima si rialzò in piedi, con un sorriso soddisfatto.
«Di certo una figura migliore di chi condanna tutti, ma difende un solo parlamentare di Sinistra Democratica, e chissà per quale motivo!» disse, allusivo.
Nicolò scavalcò il banco che lo separava dall’uomo con un balzo, ma fortunatamente diversi compagni si frapposero tra i due, consci di ciò che stava per accadere. Ci vollero diversi minuti per far tornare la calma e impedire una rissa. Nicolò si rese conto di aver agito impulsivamente come al solito, proprio nella situazione nella quale non doveva assolutamente farlo.
Una volta che si fu calmato, lasciò che tutti parlassero. Restò in silenzio al suo posto ad ascoltare la posizione di ciascuno e a prendere appunti.
Gli capitò di pensare a come si sarebbe comportato Michele al suo posto. Lui era capace di non urlare mai, di non arrabbiarsi, di riuscire a trovare sempre il compromesso. Nicolò lo aveva sempre giudicato troppo morbido, ma in quel momento si rese conto di quanto gli avrebbe fatto bene imparare qualcosa da lui.
Quando nessuno alzò più la mano, riprese la parola.
«Passiamo alle votazioni».
Molte mani si alzarono per votare la sfiducia a Chiarelli. Le contò: erano la maggioranza.
Sospirò. Ce l’aveva fatta, alla fine.
«La decisione di espellere Augusto Chiarelli è stata presa a maggioranza» concluse, «la riunione è tolta».
Tutti fecero per alzarsi dal banco, ma un uomo in piedi si schiarì la voce. Era Giorgio, che fino a quel momento non aveva ancora parlato.
«Prego, compagno Iannello».
Giorgio camminò fino al centro della sala. Il suo sguardo era serio e deciso.
«Compagni e compagne, non vi ruberò molto tempo, solo qualche minuto per ringraziarvi. Ero un lottatore solitario all’epoca, ma con il partito la mia speranza è rinata. Ho lasciato famiglia e amici per portare avanti ciò in cui credevo, tuttavia le più recenti vicende mi costringono a rivedere le mie convinzioni. Sono sempre stato convinto di vivere in un partito fatto di onesti combattenti come me, ma oggi mi avete dimostrato tutti il contrario». Fece una pausa. Nessuno osò fiatare.
«Ho dovuto assistere ad un mio dirigente, una persona di cui mi fidavo, sbattuto sulla prima pagina dei giornali per uno scandalo che ha a che fare con la mafia. E ho anche dovuto assistere a compagni storici di questo partito che lo hanno difeso, in barba alle nostre regole. Mi chiedo come possiamo dare un’immagine degna ai nostri elettori, se tutto ciò non è nemmeno degno dell’istituzione che rappresentiamo».
Nicolò non gli staccò gli occhi di dosso, non riuscendo a credere a ciò che stava sentendo.
«Ma oggi abbiamo fallito, compagni. Abbiamo fallito, e io mi assumo le mie responsabilità, rassegnando le mie dimissioni al più presto. Oggi il partito ha distrutto la mia voglia di lottare. Mi avete deluso, tutti quanti».
Nicolò non poté far altro che rimanere lì, impalato, mentre l’unico uomo che era riuscito a convincerlo a impegnarsi fino a trascinarlo in quella nuova vita si allontanava lentamente dalla stanza, per non farci mai più ritorno.
 
 
*
 
 
Una macchina nera viaggiava nel buio della notte. Il suo leggero rumore riempiva il vuoto delle strade. Tutto era desolato. Il cielo rumoreggiava, promettendo un bel temporale.
Riccardo Marchesi scese dal taxi, impeccabile nel suo abito nero. La cravatta ricadeva perfettamente dritta fino alla cintura di cuoio e le scarpe lucide scintillavano alla luce del lampione.
Rivolse all’autista il più autentico dei suoi sorrisi. Un sorriso che non mostrava da tanto tempo, che aveva quasi dimenticato.
«Grazie, Totò. Nel cruscotto troverai la tua mancia». L’autista si mostrò imbarazzato.
«Ma signore, non ce n’era bisogno!»
Riccardo fece un gesto sbrigativo con la mano e lo salutò.
In Piazza del Gesù la chiesa svettava come sempre alta e maestosa nel cielo. Riccardo salì le scale della sua vecchia sede. L’aria frizzantina gli entrava nei polmoni a ritmo costante, regalando energia ad ogni suo passo.
Per poco però non inciampò quando vide una figura alta scendere quelle stesse gradinate.
«Ric? Che ci fai qui?»
«Potrei chiederti la stessa cosa, Marcè».
Il capogruppo di SD lo raggiunse e Riccardo gli rivolse il migliore dei suoi sorrisi.
«Stavo recuperando del materiale che era rimasto qui, robe di Goffredo. Forse ci torneranno utili per la tua difesa».
«Grazie del pensiero» il segretario gli appoggiò una mano sulla spalla, «io invece credo che passerò la notte qui».
«Ancora vecchi ricordi?»
«Già».
Entrambi tacquero.
«Tutto cadrà nel vuoto, Ric. Ogni accusa. Non hanno prove e non le avranno mai. Non permetterò che il nostro lavoro di anni venga distrutto dai magistrati. Nessuno saprà mai la verità».
Riccardo sorrise di nuovo.
«Lo so. Sei la persona di cui mi fido di più».
L’amico gli rivolse un mezzo sorriso di complicità, poi continuò la discesa.
«Senti, Marcello».
L’uomo risalì le scale subito. Lo fissò, aspettandosi qualche direttiva importante.
«Stai facendo davvero tanto per me, e io non ti ho mai ringraziato abbastanza».
L’altro alzò un sopracciglio, stranito da quelle parole.
«Non ce n’è bisogno, Ric. Io e te siamo dalla stessa parte». Entrambi continuarono lentamente il loro percorso opposto sulla scalinata. Infine, Marcello gridò dal fondo.
«Domani andiamo fuori Roma a fare colazione. Abbiamo bisogno di tranquillità tutti e due».
Riccardo annuì, coperto da un alone di oscurità.
«Certamente. Grazie, Marcè».
Un’altra macchina nera sfrecciò via nel cuore della notte, mentre il buio nascondeva e proteggeva le ferite nascoste.
 
 
*
 
 
Giorgio cercava inutilmente di spingere tutte le sue cose dentro una striminzita valigia.
Nicolò lo osservava dalla soglia della camera. Non aveva detto niente fino a quel momento, non ne era stato capace. Davanti a lui c’era
l’uomo che non si era mai arreso davanti a nulla, l’uomo che aveva combattuto numerose battaglie impossibili da solo e che ora stava rinunciando a tutto.
«Chi non lotta ha già perso» riuscì a mormorare il capogruppo, incapace di assumere un tono di rimprovero «non è questo ciò che mi avete sempre insegnato tu e Teo?»
Giorgio gli rivolse un fugace sguardo desolante prima di ficcare mucchi di carte in una borsa.
«Vero. Io invece ho lottato, però ho perso lo stesso».
Nicolò strinse la mano sullo stipite della porta. Era arrabbiato, ma sapeva che sfogare la rabbia in quel momento non sarebbe servito a niente.
«Non sei stato tu a spingermi ad iscrivermi a questo maledetto partito, a candidarmi alle elezioni? E adesso vuoi mollare tutto così?» insistette, con la voce che tremava.
Giorgio lo squadrò con aria grave.
«Ho rinunciato alla mia famiglia per fare politica. A dare un sostegno a mia moglie, a veder crescere mia figlia, perfino al mio stesso lavoro, perché sentivo che lo stavo facendo per qualcosa di più grande. E adesso dimmelo tu, dopo quello che è successo in riunione, dovrei esserne ancora convinto?»
Nicolò respirò piano. Sapeva di dovergli dire qualcosa, qualcosa che lo convincesse a non rinunciare, ma non era mai stato bravo in quel ruolo, perché lui era il primo che rinunciava quando le cose si mettevano male. Se anche Giorgio mollava, come poteva avere la forza di ricostruire lui tutto daccapo, da solo? Non ne era mai stato capace. Era stato Giorgio a spingerlo in politica, a portarlo nelle piazze, e questo con la sola forza del suo esempio, l’esempio di un uomo a cui non importava di quanta strada ci fosse da fare, perché sembrava sicuro che prima o poi avrebbe raggiunto la meta.
«E Teo? Cosa dirà Teo?»
«Probabilmente perderà la fiducia anche lui. Dopo quello che è successo non lo puoi biasimare» rispose calmo Giorgio.
«Ma perché?» sbottò Nicolò, «perché abbiamo avuto un furfante come capogruppo? Lo abbiamo sfiduciato, questo non è sufficiente?» L’amico si avvicinò a lui con uno sguardo severo.
«Allora non hai capito proprio niente! Il problema non è Chiarelli. Gli errori di uno si possono rimediare, l’opinione di circa metà gruppo no. Erano pronti a difenderlo, capisci? Quello è il vero problema!»
Nico si sentì improvvisamente stupido per non averlo afferrato prima. Cadde seduto sul letto, incapace di ribattere a una tale verità.
«Questo non è più il mio partito. Mi dispiace».
Giorgio uscì dalla porta di casa, con il trolley in una mano e il borsone sottobraccio. Gli occhi verdi di Nicolò lo seguirono fino all’ingresso, sperando che tornasse indietro e contemporaneamente sapendo che non sarebbe mai successo.
Per la prima volta dopo tanto tempo, il capogruppo sentì lo spiraglio di un vuoto inaspettato aprirsi sotto i suoi piedi.

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Capitolo 26
*** Buongiorno, notte. ***


Michele tornò dal suo giro serale più contento del solito. Era riuscito a camminare tutto il giorno senza un aiuto, e non si sentiva neanche troppo stanco.
Si rigirò di poco nel letto, strofinando i capelli corti sul cuscino, chiedendosi se Nicolò stesse riuscendo a gestire la complicata situazione del Fronte.
Quando fece per prendere l’acqua dal comodino, vide qualcosa che prima non aveva notato. Era una busta gialla voluminosa. La prese in mano, incuriosito, ma la curiosità si mutò in sgomento quando vi lesse il mittente.
Riccardo Marchesi.
La aprì, incerto. Cosa poteva voler scrivere Marchesi a lui? All’interno vi erano diversi fogli numerati, scritti con una calligrafia piccola e ordinata.
 
“Caro Michele,
probabilmente ti sembrerà strano in questo momento ricevere una mia lettera. Ti sembrerò un nostalgico, ma ho sempre ritenuto che certe cose è meglio scriverle a mano.
Prima di tutto i convenevoli, come stai? Mi auguro bene, i dottori mi hanno garantito che stavi guarendo. Spero che uscirai presto, anche se dovrai ammettere che l’ospedale del mio amico non è un posto così brutto dove passare la convalescenza.
So che in questo momento, conoscendoti, sarai preoccupato dal contenuto di questa lettera. È comprensibile, vista l’aria che tira là fuori. Ti chiedo, tuttavia, di leggere tutto con calma. So che sarà lungo, e mi scuso in anticipo per questo. È necessario che tu sappia delle cose che ti riguardano, ma ho pensato che sia più corretto raccontarti la storia per intero.
Non penso che tu sappia molto di me, alcune cose immagino te le abbiano raccontate gli altri e altre le avrai sentite in giro. La mia storia è spesso sbandierata su giornali e televisioni, da signori che pensano di sapere qualcosa di me solo perché è ciò che io voglio far vedere loro.
Ad esempio, sono in pochi a sapere che a diciott’anni sono andato via di casa. Forse ti sembrerò senza cuore, ma non vedo né sento i miei genitori da allora. Mi avevano iscritto ad una scuola privata e controllavano che studiassi notte e giorno. Dovevo avere sempre i voti migliori della classe e non esitavano ad umiliarmi se mi fermavo un millimetro al di sotto delle loro aspettative. Ti lascio immaginare quanto li odiassi, non li ho mai perdonati per avermi considerato solo un oggetto da modellare.
Come puoi immaginare, però, i miei genitori erano molto benestanti. Ho dovuto lottare un bel po’, ma a diciott’anni sono riuscito a reclamare la mia parte di eredità e ad andare a vivere da solo, comprando la mia attuale villa. Ed è stato un uomo ad aiutarmi a fare questo: Goffredo Ranieri. Un uomo che conobbi a sedici anni a scuola proprio grazie ai miei genitori, felicissimi di spingermi dalla parte “giusta” della politica, verso gli alti livelli della società. A dispetto di ciò che volevano i miei, però, la politica diventò la mia valvola di sfogo dallo studio. Nel partito stavo bene, mi sentivo apprezzato per ciò che facevo, ero sempre spronato a fare di più e ogni obiettivo che raggiungevo, anche se piccolo, mi riempiva d’orgoglio. Era il mio piccolo mondo, dove ero qualcuno e dove potevo decidere io il mio destino.
Perciò, una volta che andai via da casa, chiesi a Goffredo un posto di lavoro. Diventai funzionario del partito, stretto collaboratore dei più alti dirigenti. Lavoravo in un ufficio ai piani più alti di piazza del Gesù e rispondevo direttamente a Goffredo di ogni cosa. Pensa Michele, a soli diciott’anni avevo già scavalcato tante persone, senza alcun merito particolare.
Per un anno fui felice. Il partito andava bene, partecipavo a convegni e manifestazioni e conoscevo tante persone. Mi sentivo libero.
Dopo il liceo decisi di iscrivermi alla facoltà di Scienze Politiche della Sapienza, e fu lì che iniziarono i problemi. Ero costantemente diviso tra il lavoro, lo studio, i corsi e le iniziative da portare avanti. Goffredo voleva a tutti i costi insegnarmi ad essere un dirigente, così faceva in modo che io entrassi in ogni organizzazione studentesca affine alla nostra area cattolico-liberale. Lo scopo era sempre recepire informazioni, muovere le fila, imporre un controllo su quel vasto mondo eterogeneo.
Tutto ciò mi causava una gran quantità di lavoro e di stress. Mi alzavo ogni mattina alle sei e crollavo sul letto all’una, passando le serate a fare giri di chiamate per organizzare, mediare, informarmi su tutto. Nonostante questo, non ero mai all’altezza delle aspettative.
Goffredo esigeva sempre di più da me e mi rimproverava per ogni minima sbavatura. Non aveva più affetto nei miei confronti, non mi sorrideva più, non mi cercava se non per darmi nuovi incarichi o per rimproverarmi di quelli trascorsi.
Vedi, Michele, senza accorgermene ero passato da una prigione all’altra. Sono scappato dalla mia famiglia per finire di nuovo in catene, dopo essermi illuso di aver trovato la libertà. E un conto è scappare dalla gabbia dove ti ci hanno messo, un altro è evadere da quella che ti sei costruito attorno. Avevo bisogno di una nuova valvola di sfogo, e la trovai per caso una sera in uno squallido bar di periferia.
Fu uno spacciatore ad offrirmi per primo la mia nuova libertà, dentro un bagno sporco. Non avevo mai provato droghe prima, non ne ero nemmeno mai stato attratto. A scuola circolavano, ma ogni volta che c’era l’opportunità avevo sempre rifiutato. Ma quella sera feci il grande passo. Ero particolarmente arrabbiato, con Goffredo e con me stesso. Avevo bisogno di qualcosa di drastico, di un viaggio di sola andata per un altro mondo, e ottenni ciò che volevo.
Non voglio nasconderti nulla, Michele. Ho passato i successivi due anni a provare di tutto, con preferenze verso gli allucinogeni, alternati spesso ad anfetamine e coca. La mattina studiavo in università, il pomeriggio giravo per riunioni, la sera facevo le solite chiamate e la notte la trascorrevo tra bar malfamati e viaggi mentali di ogni tipo.
Goffredo, ad un certo punto, doveva essersi accorto di questa mia nuova occupazione, ma non mi ha mai detto nulla. A lui bastava che svolgessi il mio dovere come sempre, il resto non era un problema suo. Non gli importava così tanto di me.
Io, invece, mi stavo lentamente accorgendo di stare sviluppando una dipendenza, di esagerare nel mischiare, di stare andando verso il punto di rottura. Eppure, non potevo davvero farne a meno, non riuscivo più a sopportare la giornata, le persone, i rimproveri e i finti elogi senza quella dose di libertà. E più sentivo il rischio di farmi del male, più continuavo, perché in fondo non mi importava così tanto. Non esagero se ti dico che prima o poi sarei morto se avessi continuato con quei ritmi, ma poi qualcosa è cambiato.
L’origine del cambiamento si chiama Francesco, proprio quel Francesco Venturi di cui hai tanto sentito parlare.
La prima volta che lo vidi fu ad una manifestazione organizzata dai sindacati studenteschi. Noi avevamo accettato di sostenere la rivolta insieme alla sinistra, perché gli studenti erano tutti pronti a iniziare una guerra contro la riforma dell’università. Pensa un po’ che strano per me, ritrovarmi in piazza dalla parte degli studenti contro una riforma fatta dal governo del mio partito, di cui ero anche parte
dell’organizzazione. Però fu proprio Goffredo ad incoraggiarmi a partecipare. Era tipico della strategia dei democristiani di un tempo tenere il piede in due scarpe.
Quel giorno fu uno dei più felici per me, dopo anni di apatia fatta di sniffate e pastiglie che pretendono di darti la gioia. Fu una manifestazione bellissima: il nostro camioncino metteva musica e canti popolari, nettamente diversi da quelli di rivolta che il gruppo di studenti capeggiato da Thomas cantava davanti a noi. Io parlavo con tutti, mi riconoscevano e mi sorridevano. Mi sentivo come all’inizio della mia carriera politica: niente impegni, niente responsabilità, niente giochi di palazzo, solo la gioia di un corteo tra la mia gente, fatto di musica e di sano casino.
Francesco mi strinse la mano, presentandosi. Disse che era uno studente di Bologna, estasiato dall’idea di essere a Roma, quella città dove secondo lui tutto poteva succedere. Si presentò praticamente a tutti quel giorno, sembrava che ogni persona del mondo gli stesse simpatica. Passò la giornata intera a fare casino, a prendere in mano il megafono, gridando slogan e lanciando cori. È bastato quel corteo perché piacesse a tutti. Sai, era una di quelle persone che sa come coinvolgere gli altri e rendere allegro ogni momento, uno di quelli che non può in alcun modo starti antipatico.
Sul carro a parlare c’era anche Marcello Pasqui, un altro di quelli venuti da Bologna. La prima volta che lo conobbi a quella manifestazione mi colpì per il suo contegno e la serietà che aveva nel parlare. A quel tempo non mi andava tanto a genio.
Quel giorno fu magico, e la sera tutti ci ritrovammo a bere in un pub. Ero così euforico che non sentivo il bisogno di alcun tipo di droghe, ma solo di una buona birra e la giusta compagnia.
Quando fu ora di andare, Francesco ci comunicò che non aveva un posto dove dormire. Era tipico di lui dire sempre le cose all’ultimo momento, come se fossero di bassissima importanza rispetto al fatto di essere insieme a divertirci.
Mi proposi di ospitarlo a casa mia. Si mostrò subito molto stupito dal fatto che già vivessi da solo, ma molto di più lo colpì l’idea che io lavorassi per i vertici del partito. Gli sembrò una cosa fantastica, per me invece da un po’ era sinonimo di stress e amarezza accumulata.
Con Francesco si creò questa strana situazione. Lui invidiava me, che poco più grande di lui avevo già raggiunto importanti obiettivi. Io invece invidiavo lui, poco più giovane di me, perché era ancora libero di viversi la parte bella della politica, non aveva responsabilità e aveva invece quella sana ingenuità e quel genuino entusiasmo che io avevo perso troppo presto.
Successe che quella notte facemmo una corsa fino al Quirinale, e lui si mise a gridare ai quattro venti come un cretino totale. Voleva farsi vedere. Aveva dentro un fuoco che era impossibile spegnere, e che si manifestava nelle cose più assurde.
Dormimmo in camera mia, e io restai ad osservarlo per un po’ riuscendo solo a pensare a quanto mi avesse rallegrato la giornata, e a quanto fossi fortunato ad averlo conosciuto un po’ meglio.
La mattina dopo ripartì per Bologna. Io tornai alla mia vita quotidiana, alla politica d’ufficio, ai miei studi e alle mie uscite con i peggiori gruppi di persone che puoi incontrare a Roma. Frequentavo spacciatori di basso rango, ragazzetti di strada che vivevano per quello. Mi rispettavano perché ero ricco, e io uscivo con loro solo per avere della droga buona, non erano certamente considerabili amici. Non che in quegli anni avessi mai avuto dei veri amici, intendiamoci. In quello schifoso liceo ho sempre odiato tutti, dal primo all’ultimo. All’università stavo stringendo qualche rapporto grazie ad un’associazione studentesca che fondai assieme ad altri, ma come puoi immaginare era più un rapporto di lavoro che di amicizia vera. Tutt’altra cosa rispetto a ciò che nacque con Francesco. Restammo in contatto tramite e-mail, scrivendoci praticamente ogni giorno. Per la maggior parte del tempo si parlava di politica. Lui voleva sempre sapere le ultime notizie dalle segrete stanze di Piazza del Gesù, e io invece volevo raccontare le piccolezze dell’associazione universitaria, scrivendo delle nostre battaglie e dei litigi con i comunisti di Thomas. Avere qualcuno con cui parlare di queste stupidaggini era importante per me.
Francesco, invece, mi raccontava delle vicende bolognesi, dei piccoli tafferugli tra fazioni e dei problemi del partito, e per ogni cosa chiedeva il mio consiglio. Pensava che essendo “l’uomo di Goffredo” sapessi meglio di altri cosa fare. Io non ne avevo idea, a quei tempi non ero ancora bravo come adesso nel gioco della politica, ma naturalmente facevo finta di saperla lunga per non fare brutta figura. Poi, tra un racconto e l’altro, io e Francesco parlavamo di noi, delle nostre giornate e dei nostri progetti. Alla sera tornavo a casa felice
all’idea di avere una sua e-mail da leggere, e succedeva che a volte mi dimenticavo addirittura di aver bisogno di droghe in corpo.
Parlare con lui mi faceva bene. In qualche strana maniera avevo trovato un amico. Ma le cose cambiarono un’altra volta.
Ero in università quando un gruppo di fascisti impedì a me e a Thomas di accedere all’aula comune delle associazioni, che poi
venne vandalizzata. Quel giorno mi presi un pugno di ferro in faccia perché rifiutai di arretrare. Credimi, non avevo mai visto Thomas così spaventato. Fino a quel momento io e lui eravamo stati avversari. Ce ne dicevamo di tutti i colori: io prendevo in giro lui per i vestiti sgargianti e lui prendeva in giro me per i miei firmati. Da quel momento, però, io e lui non siamo stati più gli stessi.
È strano ritrovarsi catapultati da un momento all’altro nell’età adulta. Prima c’è qualcuno che ti protegge, che ti dice cosa fare. Poi ci sei tu, tu e basta, davanti a dei prepotenti pronti a farti del male.
Convinsi Thomas a convocare una riunione urgente con tutte le sigle dell’università per parlare di ciò che era accaduto. Lui aveva paura, ma alla fine accettò. È fatto così. Ha una morale forte, che non riuscirebbe mai a tradire, e in fondo l’ho sempre ammirato per questo.
Ora, indovina in quanti vennero a quella riunione? Nessuno!
Tutti avevano una paura matta. Il nostro scontro davanti all’aula era già girato di bocca in bocca, e nessuno studente o insegnante intendeva mettersi contro qualcosa che non si poteva sconfiggere.
Pensa che ridere. Un comunista idealista e un cattolico pragmatico, da soli, contro la più grande minaccia politica e sociale degli ultimi tempi.
Non fu per niente facile, te lo posso assicurare. Gli anni che seguirono furono i più complicati in assoluto. I fascisti diventavano più forti, le voci che si opponevano erano sempre meno, e il mio partito iniziava ad essere sommerso dagli scandali di Tangentopoli. Ogni giorno ne arrestavano uno, un po’ come sta accadendo oggi grazie a te. La storia si ripete, come vedi.
In tutto questo casino io e Thomas giravamo per l’università, cercando di convincere gli studenti dell’importanza di combattere. Ma bastava qualche voce anche vaga di studente malmenato dai fascisti per distruggere tutto il nostro lavoro. La paura aveva annientato ogni sano ideale, e noi avevamo disperatamente bisogno di qualcuno che ci sostenesse, e in quel periodo tutti noi giovani stavamo odiando il partito per il suo silenzio.
Fu allora che arrivò Sinistra Democratica.
Negli anni di cui ti parlo, il partito che conosci non esisteva ancora. Al suo posto con quel nome c’era un piccolo partitino fatto degli eredi del defunto PCI. Un partito che aveva appena subito un duro congresso, con la sconfitta del caro Arturo Costa e la successiva perdita in termini di militanza ed entusiasmo di tutta un’area radicale del partito, la quale per nessun motivo accettava di avere perso.
Beh, immaginati un po’ lo stupore mio e di Thomas di vedere questi ultracinquantenni distribuire volantini davanti all’università, inneggiando alla rivolta contro i nuovi fascisti, con tanto di logo su simbolo rosso.
Parlai a lungo con Thomas. Lui li conosceva per sentito dire. A quell’epoca apparteneva all’area dei delusi in cerca di partito, e per uno come lui SD era qualcosa di moderato. Per me, invece, era qualcosa di troppo a sinistra. Comunque, iniziammo un rapporto di dialogo con quei vecchi e svolgemmo qualche iniziativa assieme. Thomas fu il primo a entrare nel partito, tirandosi dietro qualche coraggioso degli studenti di sinistra.
Dentro la DC, invece, il malumore aumentava. Ogni giorno mi arrivavano e-mail arrabbiate da parte di Francesco e di Marcello, che si chiedevano disperati dove fosse il partito e l’Azione Cattolica mentre i neofascisti crescevano. Io cercavo sempre la mediazione, rispondevo che il partito stava valutando azioni politiche, quando invece passavo le sere in ufficio a sfornare comunicati stampa per difenderci dall’ennesimo deputato in manette. La situazione era assurda, e Goffredo non mi ascoltava.
Poco a poco, tutti gli altri partiti sparirono silenziosamente dalla società. All’inizio qualcuno aveva cercato di protestare, ma ogni volta che accadeva c’era una spedizione punitiva il giorno dopo. Le sedi venivano incendiate e vandalizzate, gli esponenti più in vista venivano picchiati per strada, senza che nessuno intervenisse. Ogni notte io e Thomas tornavamo a casa guardandoci le spalle. Io ero più fortunato perché avevo l’autista personale, ma spesso ho avuto paura per la sua incolumità.
In tutto questo, noi studenti non ci siamo mai tirati indietro. Eravamo l’unica vera forza politica rimasta nel paese, ridotta in semi- clandestinità. Grazie a Thomas a Roma e tramite altri contatti in diverse città italiane, riuscimmo ad ottenere le sedi di Sinistra Democratica per riunirci. C’erano semplici studenti, associazioni di vario tipo, tutto un mondo esterno alla sinistra ed esterno anche alla politica, che però aveva intenzione di lottare con le unghie e con i denti, perché sapevamo che i nuovi fascisti non erano solo uno scherzo da ragazzini, come troppo spesso i media lo dipingevano. Da lì in poi, tutto procedette in modo spontaneo. Tutti insieme ci riunivamo con i reduci di Sinistra Democratica e organizzavamo delle azioni condivise, che poi trasmettevamo ai circoli delle altre città. Utilizzavamo la loro fotocopiatrice, i loro spazi, la loro mailing list, la loro forza militante, persino la loro macchinetta del caffè.
Eravamo già un’organizzazione unica senza saperlo, perché eravamo uniti da un nemico così forte che aveva annullato tutti i motivi che avevamo per scontrarci.
Ma c’era di più. Quel piccolo, stupido partito di sinistra, votato da nessuno e frequentato da pochi anziani, era stato l’unico a resistere, ad avere la forza di non piegarsi davanti alla paura di ritorsioni. Il loro coraggio ci dava la spinta per non arrenderci.
Fummo proprio noi giovani cattolici a spingere la DC
all’unificazione. Passai un intero pomeriggio chiuso in una stanza con Goffredo a spiegargli la folle idea, ma lui era contrario.
Abbandonare una tradizione di decenni, di un partito che aveva sempre vinto, moderato e di centro, per finire in una nicchia di comunisti nostalgici e sinistroidi perdenti? Non se ne parlava!
Uscii da quel colloquio deluso come non mai. Giorno dopo giorno mi convinsi che avrei abbandonato per conto mio, che era ora di cambiare la mia casa politica e mandare tutti al diavolo. Ma inaspettatamente, dopo tre giorni Goffredo mi richiamò. Accettava la mia proposta.
Non voglio negarti che ci fu un ragionamento di tipo strumentale. Goffredo è un uomo di grande lungimiranza, sapeva che la DC sarebbe presto affondata e che Sinistra Democratica stava diventando popolare tra i giovani, oltre ad essere l’unico partito rimasto con le sedi aperte. Però, se noi giovani non avessimo mai spinto il partito in quella direzione, mettendoci sia l’entusiasmo sia il rischio
dell’impresa, nulla di tutto questo sarebbe mai successo, e la storia sarebbe andata diversamente.
Io, Francesco e Marcello festeggiammo come non mai. Eravamo i tre che per primi avevano avuto l’idea e che di più si erano spesi, e avevamo vinto. Ci fu un grande congresso di rinnovamento di Sinistra Democratica, ma in quegli anni a nessuno importava che il gruppo dirigente fosse a maggioranza di sinistra o democristiano. Stavamo compiendo una lotta enorme tra i giovani, stavamo risvegliando la partecipazione popolare! I congressi erano inezie a confronto.
Io, Marcello e Francesco ci infilammo nella direzione nazionale, e per Francesco fu una bella scusa per venirmi a trovare più spesso. Non ci eravamo mai smessi di scrivere in quegli anni. Lui era diventato la persona più importante della mia vita, e me ne accorgevo perché quando era in programma una riunione nazionale alla quale partecipava anche lui, i giorni prima iniziavo ad essere inspiegabilmente allegro. A volte passavo le nottate a scrivergli o a rileggermi le sue mail vecchie al posto di uscire per cercare droghe. Comunque, impiegai molto tempo prima di fidarmi così tanto da rivelargli il mio segreto. O meglio, non è che non mi fidassi, ma non volevo assolutamente svelargli quel lato di me. Perché Francesco mi stimava sinceramente, mi ammirava, mi considerava un gran dirigente e un ragazzo d’oro, e io non volevo deluderlo in alcun modo.
Però, una sera mi decisi a farlo. Ero sotto effetto di diverse droghe, tra cui dell’ecstasy mischiata ad alcolici che mi era salita male. Gli scrissi una mail delirante, scusandomi mille volte di quello che ero.
Gli confessai che era solo grazie a lui se mi stavo drogando molto di meno, ma che troppo spesso non reggevo, avevo bisogno di quella roba e non sapevo come uscirne. Lo pregai di non abbandonarmi, di perdonarmi, gli dissi che era la persona più importante per me e che avevo un bisogno disperato di lui. Una mail ridicola e penosa, insomma. Se ci ripenso adesso mi viene da ridere, ma i giorni immediatamente successivi furono un inferno per me, perché lui non mi rispondeva.
Mi aveva abbandonato. E avrebbe fatto bene, perché lo avevo deluso. E invece no.
Dopo quattro giorni me lo trovai al campanello. Non ebbi il coraggio di dire niente. Lui mi abbracciò e io piansi, piansi come un bambino. Sai, ho pianto in pochissime occasioni nella mia vita. Non ho pianto quando sono andato via da casa dei miei. Non ho pianto quando quel fascista mi tirò il pugno di ferro sull’occhio. E quel giorno piansi, perché avevo trovato l’unica persona al mondo che si era preoccupata per me. Che era rimasta, nonostante i miei difetti. Che mi aveva perdonato per ciò che ero.
Quel giorno mi chiese una cosa. Disse che se era vero che per me lui era così importante, avrei dovuto smettere di prendere qualsiasi droga, e io gli feci quella promessa. La rispettai veramente, perché per me quella era una cosa molto seria. O meglio, la rispettai fino al giorno che immagini.
Francesco restò a dormire da me tre giorni. La prima sera dormimmo abbracciati l’uno all’altro. La seconda ci baciammo. La terza
facemmo l’amore per la prima volta.
Non puoi neanche immaginare come mi sono sentito. Fino a quel giorno non avevo mai sfiorato un ragazzo, e andavo con le ragazze ogni tanto giusto per divertimento. Ma quella volta fu completamente diverso, fu la cosa più destabilizzante che provai. In quel momento, tutte le droghe che avevo provato mi sembrarono dei giochetti per pischelli. Ma non solo, mi sembrava di aver vissuto vent’anni e passa rinchiuso in una stanza sola, quando fuori c’era un mondo intero di emozioni che aspettava solo che io aprissi la porta.
Lui dormì con la testa appoggiata sul mio petto, e io mi sentivo il ragazzo più fortunato del mondo. Non affrontammo mai la questione da un punto di vista razionale. Non ce ne fu bisogno, perché io ero convinto che lui era la persona più importante della mia vita. Lui mi accettava, mi cercava, mi voleva bene, e questo mi bastava.
L’anno che venne dopo fu il più intenso della mia vita e senza dubbio il più felice, nonostante fu anche l’anno in cui i fascisti furono più violenti. Ogni giorno c’erano aggressioni a membri di Sinistra Democratica, unico partito schierato apertamente contro quelle organizzazioni, e fu disposto un codice di sicurezza per tutti noi.
Iniziammo a riprenderci gli spazi, a riunirci nelle aule vuote, ad appendere manifesti nella notte. Io e Thomas a Roma, Marcello e Francesco a Bologna, e tanti altri ragazzi nelle università italiane, quelli che oggi vengono definiti “i partigiani del terzo millennio”.
Era diventata una specie di gara di coraggio, e ogni aggressione diventava una medaglia al valore. Questo perché, nonostante la gravità della situazione, sembrava che nessuno rischiasse davvero la vita.
Thomas venne aggredito una notte e fu ricoverato con una costola rotta. Ci fu una grande rivolta del popolo di Roma, che non poteva tollerare che qualcuno commettesse una violenza ad un ragazzo innocente. Vedi, ogni aggressione era in realtà una benedizione, perché aiutava la gente a svegliarsi. Ricordo che in quel periodo Thomas in ospedale aveva sempre qualche compagno attorno. Essere tutti in pericolo ci rendeva uniti e solidali tra noi, come una famiglia. Anche se il resto del partito litigava eccome, con una guerra tra bande per chi dovesse comandare, con Goffredo che muoveva le fila per fare egemonia cattolica.
Eppure, in mezzo al rischio più estremo, ero felice. Avevo la persona che amavo di più al mio fianco, avevo un’associazione universitaria fatta di ragazzi fantastici, che avevano deciso di stare in prima fila insieme a me, che mi volevano bene. Avevo un partito nel quale si discuteva, ma che poi la sera si trasformava in un rifugio, dove noi giovani ci ritrovavamo per cantare, bere insieme e scacciare la paura. Il lavoro che continuavo a svolgere per Goffredo non mi dava più tante grane. Ora mi rispettava, perché sapeva che in quel nuovo partito godevo della massima stima.
E poi, successe.
A questo punto puoi immaginare ciò che ti sto per raccontare. E sai, penso che sia molto giusto scriverti tutto questo, perché tu hai sempre visto solo da lontano queste vicende, e voglio che tu sappia cosa è davvero significato perdere Francesco. Per me, per tutti.
Perché è da questo fatto che in realtà inizia tutto. È per questo che ti sto scrivendo questa lettera.
Mi è un po’ difficile raccontarti a chiare lettere come mi sono sentito. Se ci ripenso, ancora oggi, non ho che un vago ricordo delle mie emozioni.
Ricordo che era venuto da me il giorno prima. Si era fermato per una riunione e mi ha portato a Ostia per farsi il bagno. Quella notte gli dissi di stare attento, perché mi sembrava troppo imprudente. Non rispettava spesso le misure di sicurezza, sfidava apertamente i fascisti e nelle riunioni era quello che più di tutti insisteva per passare al contrattacco. Nonostante ciò, non avevo mai avuto davvero paura per lui, mi sembrava semplicemente impossibile l’idea di perderlo.
Il giorno dopo tornò a Bologna. La sera, mentre camminava per la città, venne catturato da tre ragazzi. Lo uccisero con le botte. Uno lo teneva fermo e gli altri colpivano. Lo picchiarono fino a rompergli tutte le ossa, fino a sfigurargli il viso, fino a impedirgli di respirare, poi lo lasciarono a terra. Ancora oggi non si sa chi siano quei maledetti assassini.
La mattina dopo mi svegliai con la pioggia. Ricordo il cielo grigio, ricordo il rumore rilassante dell’acqua scrosciante. Non sai quante volte ho immaginato di tornare a quel giorno solo per prendere a schiaffi il me stesso di allora, che si era svegliato in quel modo così spensierato, ignaro di ciò che era accaduto.
A casa mia venne tutto lo stato maggiore di SD. Dapprima non gli credetti. Negai il fatto con insistenza e cercai di chiamare Francesco diverse volte senza successo.
A quel punto uscii di casa correndo. Mi sembrava di camminare su un filo sospeso nel vuoto. Continuavo a illudermi per non cadere, inventandomi qualsiasi storia per immaginare come tutto poteva essere falso. Poi, però, capitai davanti ad un’edicola e vidi i giornali esposti.
Nella prima pagina di ciascuno vi era la foto di Francesco, ma non il Francesco che ricordo. No, la foto era quella di Francesco con il volto sfigurato e insanguinato, con gli zigomi rotti e il naso frantumato, con le orecchie fuori dalla loro posizione e gli occhi ancora terrorizzati, senza vita.
Vomitai l’anima in quel momento. Iniziai a gridare, a piangere, a distruggere ogni giornale che mi capitava in mano. Mi portarono via con l’ambulanza.
Per diversi giorni fui in uno stato di totale shock. Quella foto mi ossessionava, mi lampeggiava davanti e io non riuscivo a vedere nient’altro. Fu quell’immagine a distruggermi lentamente, a torturarmi, a farmi desiderare la morte.
La mia vita era finita lì. Perché se Francesco era morto, allora io non potevo vivere. Se qualcuno era stato così sadico da picchiarlo in quel modo, lasciandolo a terra e mandando la foto ai giornali, voleva dire che niente aveva più senso.
Avevano vinto loro.
Una volta uscito dall’ospedale, mi rinchiusi in casa. Non volevo vedere nessuno, specialmente i miei compagni di partito, che invece suonavano insistentemente alla porta e al cellulare. Sapevo che stavano male, che stavano soffrendo molto anche loro, ma non sarei riuscito a dividere quel dolore. Condividerlo lo avrebbe reso più reale di quanto lo fosse, invece fino a quel momento avevo fatto in modo che fosse una cosa solo mia, una faccenda da risolvere contro me stesso.
E la risolsi con l’unico modo che conoscevo: annientandomi. Ingoiavo ogni pasticca, sniffavo ogni sostanza che mi capitava a tiro, mi bucai addirittura. Provavo un piacere innaturale nel farmi del
male. Sapevo che prima o poi sarei morto e l’idea non mi dispiaceva. Non cercavo intenzionalmente la morte, intendiamoci, ma non davo il minimo peso all’eventualità che accadesse.
Non so dirti per quanti giorni continuò questa cosa, faccio fatica a ricordare l’effettivo scorrere del tempo di quel periodo. Mi ero
trasformato in un’altra persona che non sapevo controllare.
Accadde che però un giorno Marcello Pasqui salì le scale di casa mia. Gli avevo dato le chiavi tempo prima, perché all’occorrenza potesse passare a prendere il materiale di propaganda che conservavo nello studio. Entrò nella mia camera senza farsi alcun scrupolo. Mi tirò su da terra e mi appoggiò sul letto, coprendomi. Voleva salvarmi, ma io non volevo essere salvato, e nessuno avrebbe potuto farlo. Quel giorno Marcello Pasqui scoprì ciò che per anni gli avevo nascosto, vedendomi per terra in uno stato pietoso con attorno qualunque tipo di sostanza.
Cercò di parlarmi, ma gli risposi freddamente. Mi aspettavo che da un momento all’altro uscisse, trascinandosi dentro casa il resto del partito, invece no. Era venuto a salvarmi da solo.
E non ce l’avrebbe mai fatta, se io non avessi commesso l’errore di guardarlo negli occhi.
Hai mai visto Marcello Pasqui soffrire per qualcosa, Michele? Ho qualche dubbio. Anche noi che lo conosciamo da tanti anni non lo abbiamo mai visto in momenti di debolezza. Beh, quel giorno la sofferenza si vedeva chiaramente nei suoi occhi. E non vi ero abituato, non ero pronto a vedere il dolore sopra quel viso che normalmente non mostrava mai nessuna emozione.
Mi disse che c’era un taxi fuori che ci aspettava. Che saremmo andati lontano. Io non gli risposi e lui non cercò di trascinarmi fuori.
Semplicemente uscì dalla stanza e mi aspettò giù.
E io, inaspettatamente, lo seguii. Perché la sofferenza di Marcello gridava vendetta al mondo, e io sentivo l’orribile peso della responsabilità. La morte di Francesco non riguardava solo me stesso, finalmente ne avevo una prova tangibile.
Partii perché sapevo che lui aveva bisogno di me. Che da solo non si sarebbe salvato neanche lui e quindi, se anche di me non mi importava, non potevo ignorare la sua vita che minacciava di spegnersi.
La nostra partenza coincise con il giorno del funerale, al quale non andammo. Passammo invece due mesi a girare il mondo, in parte anche con i soldi del partito. Quel viaggio ci cambiò completamente, ma non fu semplice. Passammo giorni interi senza parlarci. Ciascuno aveva i suoi momenti di crisi e di sconforto, e a fatica Marcello riuscì a tenermi lontano da droghe e alcool.
Ma, nonostante ciò, il miracolo riuscì. In mezzo a silenzi, pianti e pochi momenti di spensieratezza, riuscimmo a trovare un valido motivo per tornare a casa e riprendere il mondo sulle spalle.
Dopo due mesi, tra i nostri compagni il dolore per la morte di Francesco si era trasformato in una rabbia totale. Ma non solo tra di loro: la società si era risvegliata e si era mobilitata. Tutti avevano visto il suo volto deturpato sui giornali e quella violenza li aveva indignati.
Le organizzazioni neofasciste furono di lì a poco private di ogni consenso popolare. Ma gli assassini non si trovavano. E questo frustrava particolarmente me e Pasqui, che desideravamo più di ogni altra cosa la vendetta. Te lo dico chiaramente, se mai si fossero trovati gli assassini per me l’ergastolo non sarebbe stato sufficiente. Non avrei risposto delle mie azioni nei loro confronti.
Gli anni passarono. Chi, come noi, aveva combattuto in prima linea contro i fascisti, divenne dirigente di primo piano. Eravamo il vero volto del partito, gli eroi del nuovo secolo.
Intanto, però, il partito restava all’opposizione, mentre fuori a gran voce si chiedeva di andare al governo. Fu in quel periodo che organizzammo un grande convegno per scrivere la Carta Antifascista. Non c’erano solo quelle leggi che avrebbero previsto misure speciali per riconoscere e sciogliere le organizzazioni antidemocratiche, ma anche un vero e proprio riassetto costituzionale, che potenziava le misure di controllo, con nuove autorità indipendenti per sorvegliare i partiti.
Quella Carta fu il mio biglietto da visita per il congresso. Mi ero stufato di stare a guardare mentre gli assassini erano ancora a piede libero. Volevo fare qualcosa per Francesco, e per Francesco vinsi il congresso. Senza il tuo voto, senza il voto di Arturo e senza anche quello di Thomas, che si stava smarcando dalle nostre idee di rivalsa. Certamente vinsi anche con l’aiuto di Goffredo, perché ero pur sempre il suo figlio politico.
Ora che avevo io la situazione in mano, non restava che andare al governo. Quella Carta era la mia vendetta, avrebbe dato un senso al mio essere ancora in vita. Sarei riuscito a immaginare Francesco sorridermi da lassù perché noi, ragazzi di un tempo, stavamo rendendo l’Italia migliore, anche per lui che non c’era più.
Ed è qui che entri in gioco tu.
Sei libero di giudicarmi dopo aver letto questa lettera. Sarai libero di odiarmi quanto vorrai, e ne avresti il diritto. Potrei anche scriverti che sono pentito di ciò che ho fatto, ma spero che tu non sarai così ingenuo da farti bastare delle scuse tardive.
Venni a sapere che il figlio di un certo Nello Martino ha deciso di candidarsi per SD. E si dice in giro che tale Nello Martino sia capace di portare migliaia e migliaia di voti in Calabria e non solo, certo con il dovuto compenso.
Lo incontrai assieme a Marcello Pasqui, mentre Goffredo lo venne a sapere solo a cose fatte. Volevo così tanto vincere che quella volta non mi posi alcun problema di coscienza. Parlai tranquillamente a tuo padre dei voti che mi servivano, e lui decise il prezzo e le condizioni per accettare. Primo, ovviamente far passare alcune leggi per favorire i suoi affari, che dovevano restare sotto silenzio. Secondo, che una parte dei voti sarebbero serviti a portare in Parlamento suo figlio.
La cosa non ci dispiacque. Sapevamo che eri della schiera di Arturo, ma avevi solo ventisette anni ed eri apprezzato da tutti in Calabria. Se anche fossi stato un mafioso, lo avresti sicuramente ben nascosto.
Beh, come ben sai arrivammo secondi e non primi. Perché quell’infame di tuo padre aveva offerto molti voti anche al Nuovo Partito Popolare. Ma poco male, perché vinto o non vinto era il momento di andare al governo.
Accettammo qualsiasi condizione in fase di contrattazione con i popolari pur di trasformare la Carta Antifascista in leggi dello Stato. In quel periodo che io e te ci incontrammo la prima volta. Goffredo era ossessivo, convinto com’era che tu fossi solo un mezzo di rivalsa di Costa. Pesava che quell’uomo si volesse vendicare della sconfitta passata, che volesse riprendersi il partito e farlo tornare agli ideali radicali del PCI. Io, invece, capii in fretta che tu non solo eri finito dentro un mondo che non ti apparteneva, ma anche che non avevi niente a che vedere con la tua famiglia. Eri onesto, pulito, diverso da tutti gli altri. Non ne ero abituato. Più ti conoscevo, più mi sembrava strano pensare di chi fossi figlio.
Decisi di convincere tuo padre a restare fuori dalla tua vita, dicendogli che per qualsiasi favore poteva chiedere direttamente a me. Non volevo che tu ti trovassi in quelle spiacevoli situazioni. Io mi potevo anche sporcare, ma tu no. E il risultato fu quella legge- finanziamento che poi fu bloccata da voi e dal Fronte.
In quel periodo ero ritornato a farmi spesso, nonostante avessi promesso a Marcello, alla fine di quel famoso viaggio, che non avrei più toccato droghe finché non avremmo vendicato Francesco. Ma come potevo rispettare la promessa? Ogni giorno dovevo accettare cose indicibili da parte dei popolari e della tua famiglia, e convincere anche gli altri a farlo o, in casi estremi, farle passare sotto silenzio.
Le mie idee e i miei valori erano morti.
Intanto, Marcello e Goffredo iniziavano ad avere dubbi su di te. Pensavano che essendo il figlio politico di Arturo saresti stato il naturale futuro candidato alla segreteria, e che niente ti importava delle Leggi Antifasciste, a differenza di Thomas, che anche se era della tua stessa area aveva vissuto con noi quegli anni bui.
Però, tu avevi altro a cui pensare, tipo quello schiaffo. Seguivo a distanza la strana evoluzione del rapporto tra te e
Andreani, finché non spuntò la vostra prima foto sul giornale. Sia l’ala cattolica del nostro partito sia il fronte popolare si arrabbiarono tantissimo. Matrimoni gay? Non stava né in cielo né in terra! Tra l’altro, il nostro partito non avrebbe dovuto proporre leggi, se non quelle antifasciste: così erano i patti.
Forse ti sarai chiesto chi c’era dietro alle famose foto sui giornali. Il responsabile è Giulio Romano, un vecchio amico dell’associazione che agiva su mandato di Goffredo.
Ho promesso di dirti tutta la verità, quindi non ti nego che ero al corrente di questa cosa e, pur non essendone direttamente responsabile, non ho mai fatto nulla per impedirla. Mi dispiaceva per te, ma non mi importava così tanto. Volevo solo che voi due smetteste di dare fastidio, perché eravate un ostacolo ai miei obiettivi. Sono persino arrivato a persuadere Andreani con i miei metodi pur di farlo smettere di fare il buffone nelle interviste.
Poi ci fu la questione della bustina di coca. Fu sempre Giulio a mettertela in tasca, grazie anche all’insospettabile contributo di Augusto Chiarelli, a cui ugualmente davi fastidio.
Goffredo era passato alla tecnica del fango, perché stavi diventando troppo popolare sui media. Lo nascosero anche a me, e venni a saperlo solo tramite altre fonti, ma quella volta decisi di difenderti e mandai Pasqui a fare quella conferenza stampa congiunta. Andreani però sospettava di me, e il solo fatto che lui potesse metterti in testa cattiverie sul mio conto un po’ mi feriva. Non so perché, ma vedevo in te un pezzo del ragazzo che ero stato, quello che aveva trovato rifugio nella politica da un mondo che lo aveva rifiutato.
Fu ancora più difficile quando saltarono fuori quelle famose intercettazioni. Io e Marcello le avevamo in tasca dal giorno prima, e c’era una bella parte che riguardava i finanziatori di quelle valanghe di voti per Sinistra Democratica. Abbiamo dovuto ricorrere a svariati mezzi per impedire che uscissero le parti che ci infangavano, ma noi siamo riusciti a coprirci le spalle e l’unico a rimetterci sei stato tu.
Quando mi trovai davanti la tua lettera di dimissioni, per poco non piansi per la seconda volta nella mia vita. Eri finito in mezzo quando non c’entravi niente e non potevi difenderti. Iniziai a sentire il peso del senso di colpa da quel giorno, le azioni fatte in una vita intera mi rimbalzarono addosso tutte insieme. Nei sogni che facevo la notte Francesco mi rimproverava e mi detestava per ciò che stavo facendo, e io sapevo che era la verità, che se fosse stato vivo lo avrebbe pensato veramente.
Decisi di aiutarti, nonostante Marcello e Goffredo fossero contrari. Era controproducente, perché tu in quel momento eri indifendibile e tanto valeva lasciarti cadere e liberarsi di te. Dal punto di vista pratico era così, ma io come avrei potuto dormirci la notte? Ti affidai il mio staff di comunicazione e convinsi un grande pezzo del partito a fare interviste a tuo favore. Non ti avrei lasciato cadere, per niente al mondo.
La sera che ti aggredirono mi sembrava di essere tornato indietro di anni e anni, quando qualche compagno veniva picchiato dai fascisti e noi correvamo in ospedale preoccupati. L’unica differenza era che stavolta la causa ero io.
Cercai di starti più vicino possibile, eppure fui così stupido che non riuscii a impedire ciò che successe dopo. Giulio si era infiltrato nel tuo staff senza dire niente a nessuno, approfittando del subbuglio di quei giorni. Lui ormai non rispondeva neanche più a Goffredo, ma direttamente ai tuoi nuovi nemici.
Ancora una volta, mi ritrovai catapultato nel passato, con tu che rischiavi di morire e Andreani disperato. In quei giorni pensai molto a lui, a come avrebbe vissuto se tu saresti davvero morto. Non ero pronto a questo, a vedere addosso a lui il dolore che io avevo vissuto per tutto quel tempo, amplificato anche dal suo stupido senso di colpa, quando invece la colpa era mia e basta.
Ma poi, tu ti sei svegliato. E nel frattempo i risultati della tua testimonianza ci avevano sommerso, ed era impossibile impedire che anche a me arrivasse il simpatico avviso di garanzia.
E ora eccola qui, Michele. Prima che le indagini impieghino anni a risalire a quell’incontro tra me e tuo padre, hai in mano l’arma che può distruggere sia me che Marcello che Goffredo.
Ed è giusto che ce l’abbia tu e tu soltanto. Sei l’unico che ha il diritto di decidere, sei tu quello che ha sofferto per le scelte sbagliate di altri. Ora sai la storia per intero, ed è qui pronta per finire sui giornali. Il partito probabilmente ne subirà un colpo, ma tu, Arturo e Thomas potrete ripulirlo da tutto il male che abbiamo causato per la nostra sete di vendetta. È questo che ha sempre voluto Arturo per te e, se potessi, anche io ti voterei come prossimo segretario.
Ora, forse ti starai chiedendo che prove hai che questa storia sia vera e che non ti stia ingannando. Ecco, Michele, non ho i mezzi per provarti tutto ciò che ho scritto. Devi solo sapere che non ho motivo di mentirti, perché nel momento in cui starai leggendo questa lettera io sarò già morto.
Esatto, hai letto bene. Ma ti prego, non pensare che lo faccio per fuggire dall’indagine. Volendo avrei potuto superarla pulito, modestamente posso permettermi i migliori avvocati del Paese. Il fatto è che non posso più sopportare il mio senso di colpa. Dovevo portare avanti le leggi antifasciste per migliorare l’Italia, e invece ho rinnegato tutti i miei valori e ho messo in pericolo una persona innocente. Ogni notte in cui mi drogo vedo Francesco che me lo ricorda e io non ce la faccio più, perché so che se fosse qui mi prenderebbe a sberle per tutto ciò che ho fatto indegnamente nel suo nome.
Alla fine, se ci pensi, avrei dovuto essere già morto due volte. Francesco mi salvò dalla droga e Marcello dal dolore. Ho avuto due possibilità, ora non ne ho più una terza ed è giusto così. Sono rimasto in vita per portare avanti un progetto, ma ho fallito completamente.
Mi dispiace, credimi. In un’altra vita, in un’altra storia, io e te avremmo potuto essere amici. Ci saremmo scontrati sulle idee, com’è giusto che sia, e magari prima o poi mi avresti battuto lealmente ad un congresso. Avremmo potuto passare le sere nella nostra sede, ridendo, suonando e chiacchierando dei tempi passati, con la giusta leggerezza di chi sa che quei piccoli momenti sereni sono, in fondo, il vero motivo per cui si vive.
Eppure è dovuta finire così, e non ci si può fare niente. Me ne andrò dove tutto è iniziato, nel mio vecchio ufficio a Piazza del Gesù, ingoiando pillole finché avrò la forza di farlo.
L’unico rimorso che ho è di causare a Marcello l’ennesimo, grande dolore. Se posso, vorrei chiederti di stargli vicino, anche nel caso in cui deciderai di metterlo nei guai con questa lettera. Di tutto il resto non mi importa.
L’orologio che ho consegnato ad Andreani per te è il mio regalo di addio. Fu il regalo di Francesco e Marcello per la mia laurea, e vorrei tanto che tu lo indossassi quando sarai segretario del partito che ho guidato io in questi anni. Alla fine andrà così, ne sono certo. So che sarai in grado di essere un buon segretario, non rifare i miei errori e non seguire la strada di altri, ma solo i tuoi valori.
Avrai sulle spalle una grande storia, la storia di tante vite, di tante lotte, di manifestazioni felici sotto il sole pomeridiano e di notti di compromessi. Ricorda, ricorda sempre tutto questo e sarai davvero libero.
Addio, Ric”

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Capitolo 27
*** Tramonto ***


Si svegliò confuso, con un suono ovattato dentro le orecchie che gli impediva di sentire chiaramente.
Sapeva solo che era giorno, perché il sole implacabile, incurante di tutto ciò che stava accanendo, splendeva dietro la finestra immacolata, promettendo una giornata che non sarebbe stata felice per il giovane uomo che, in quel momento, stringeva tra le dita una lettera tutta spiegazzata e bagnata di lacrime.
Attorno a lui c’erano tante persone, tutte con l’espressione in faccia di chi vorrebbe essere cieco per non vedere il mondo.
«Hanno trovato morto il segretario a Piazza del Gesù. Si è suicidato». Il silenzio venne ripristinato l’istante dopo, tanto che sembrava che nessuno avesse davvero parlato. Invece era tutto reale.
Ci furono poche e confuse voci di chi cercava in qualche modo di giustificare ciò che era ingiustificabile. Si aspettavano una qualche sua reazione, anche solo una condivisione al loro dolore, ma Michele non riusciva a mostrare assolutamente niente mentre stringeva tra le mani le ultime parole di Riccardo Marchesi che solo lui conosceva. Aveva bisogno di pensare.
 
 
*
 
 
Quel giorno aveva addosso la sua camicia a pois gialli. A lui non sarebbe piaciuta, lui che aveva avuto sempre quello stile serio, da ricco. Ma a Thomas non importava, non gli era mai importato cosa gli altri pensassero. Ogni mattina pensava alla sorella quando si vestiva, a come ogni giorno potesse trasformare l’amarezza per la sua definitiva assenza in forza, incorporando dentro di sé la gioia e
l’energia che lei non poteva più avere. In questo caso, però, quella magica trasformazione non si sarebbe potuta ripetere.
Thomas osservava la bara scoperta in silenzio. Dentro vi era un corpo smagrito e pallido, che anche da morto sembrava mostrare un certo contegno da signore. Accanto a lui sfilavano deputati e senatori di basso rango, tutte persone che fingevano di piangere. Sì, molti potevano solo fingere, perché il vero Marchesi non l’avevano conosciuto.
Erano solo ragazzi quando avevano iniziato a combattere, loro due da soli contro quel mondo malvagio che gli aveva rubato la loro aula, il loro spazio. Se solo avessero lasciato stare quella volta, forse avrebbero scelto un futuro migliore per entrambi. Niente doveri o dolori, solo una brillante carriera universitaria e la politica fatta solo come passione, non come principio essenziale di vita.
Invece avevano insistito. Avevano creato un mondo loro due da soli, arrivando addirittura al governo dopo tutti quegli anni.
Ancora non credeva che Marchesi lo avesse fatto davvero. Doveva esserci uno sbaglio, qualcuno lo aveva ammazzato, non poteva assolutamente essersi suicidato. Lui, che non si era fermato dopo aver ricevuto un pugno di ferro in faccia, che era riuscito a superare la morte di Francesco, che aveva speso ogni attimo della sua vita per la causa.
Il volto, privo di vita, era in qualche modo sereno. La bara era di legno lucido, circondata da fiori di varia natura e colore. Le persone andavano e venivano, stringendo e baciando lui e Pasqui. Il capogruppo rispondeva alle condoglianze in automatico, con una maschera di freddezza aristocratica addosso.
«Penso che metà di quei fiori lui li avrebbe bruciati, per quanto puzzano di ipocrisia» commentò, una volta che la sfilata finì e rimasero loro due da soli.
Marcello non rispose, ma iniziò a camminare silenziosamente per la stanza, con passi brevi e pesanti.
Poi, all’improvviso, afferrò tutti i mazzi variopinti che gli capitavano a tiro e li scaraventò negli angoli della stanza, facendoli a pezzi.
Thomas lo lasciò fare per un po’ prima di raggiungerlo. Per fermarlo dovette usare entrambe le braccia per quanto l’altro fosse fuori controllo.
«Marcè, basta».
Il capogruppo era livido, grondante di rabbia. Sudava e tremava, con gli occhi fiammeggianti dal desiderio di distruggere ogni cosa.
«Se n’è andato. Mi ha lasciato da solo, quel bastardo!»
Thomas venne scansato via con rabbia. Restò da solo insieme al morto, che così agghindato e con quello sguardo sereno addosso sembrava potesse ancora prenderlo in giro, come ai tempi dell’università.
 
 
*
 
 
Era ancora un ragazzino quando l’aveva visto la prima volta a quella manifestazione di Roma. La sua prima impressione non era stata granché positiva: un pischello molto benestante, che ostentava la propria ricchezza e che alla sua giovane età era già destinato a diventare il braccio destro di Goffredo Ranieri.
Eppure, con il tempo erano diventati amici. Perché Riccardo era molto più di ciò che poteva apparire e proprio Francesco, il suo migliore amico, era stato il primo ad accorgersene.
Fino ad allora, Marcello aveva sempre pensato di essere stato lui a stargli accanto come un’ombra, a salvarlo dopo la morte di Francesco, ad allontanarlo dal mondo della droga e a cercare in quella speranza di vendetta un barlume di senso per ogni cosa brutta che quell’uomo aveva vissuto. Non si era mai accorto che, invece, era stato Riccardo a stargli sempre accanto, a non lasciarlo mai da solo.
Solo lui aveva visto la sua sofferenza oltre quella maschera di freddezza che si era sempre ostinato ad indossare, anche alla morte di Francesco. Solo lui ne era sempre stato attento, e aveva saputo guarirla con la sua semplice vicinanza.
Era stato Riccardo a salvare lui, quella volta. Erano partiti assieme, e ad ogni giorno trascorso in terre straniere avevano riguadagnato atomi di vita. Avevano pianto in due stanze separate, salvo poi ritrovarsi insieme, con gli occhi asciutti per andare avanti. E lo avevano fatto senza gioia, senza consolazioni, spinti solo da una flebile volontà senza oggetto. Solo così erano riusciti ad andare avanti nel tempo. Quella piccola volontà non sarebbe bastata anche per altro, come per farsi una famiglia, innamorarsi, andare in vacanza o costruirsi dei progetti di vita. No, tutte quelle cose non sarebbero mai esistite per loro.
Marcello tornò a casa sua, trovando la sua stanza ordinatissima come la aveva sempre tenuta. Fu con un senso di profonda liberazione che iniziò a distruggere tutte le cose che gli capitavano a tiro, a lanciarle più lontano che poteva, a spiaccicarle sotto le suole fino a ridurle in poltiglia.
Perché ora Riccardo se n’era andato, portandosi via anche quella piccola volontà, quel soffio di vita che avevano guadagnato insieme. Ora niente aveva più senso, niente meritava di averlo.
 
 
*
 
 
Nicolò misurava a grandi passi la casa dove ormai era rimasto da solo. Aveva provato ad andare in ospedale, ma Michele aveva chiesto agli infermieri di tenere tutti fuori. Lo capiva, anche se avrebbe preferito stargli accanto per non lasciarlo solo con il proprio dolore. Il suicidio di Riccardo Marchesi aveva lasciato tutti sconvolti. Tg e giornali erano già impegnati a reti unificate a fare un quadro delle possibili cause di quel gesto estremo e a ricordare quella grande vita “spesa con generosità per la lotta contro il neofascismo”.
L’ultima volta che aveva parlato con lui era stato sul tetto del palazzo. Marchesi lo aveva provocato e lui aveva reagito aggredendolo. Ma c’era di più.
Ricordando quella conversazione, Nicolò era sicuro che quell’uomo avesse notato la sua presenza costante su quel tetto e ci fosse andato di proposito, aspettandosi di incontrarlo. Poi lo aveva provocato, tirando fuori con frasi mirate tutta la sua rabbia e il suo rimorso.
Ripensandoci ora, con ciò che nel frattempo era accaduto, non riusciva a capirne il motivo. Voleva che gli facesse male? Forse quell’avviso di garanzia aveva la sua parte in tutta quella storia. Intanto, Chiarelli era stato cacciato dal partito, Giorgio se n’era andato, molti altri stavano per seguire il suo esempio e Nicolò era rimasto con in mano il cerino, come se ora toccasse a lui continuare la battaglia, quando invece era il primo che desiderava scappare.
Aveva iniziato a fare politica seguendo Giorgio, lasciandosi contagiare dalla sua passione, da quel sorriso che l’uomo non si toglieva mai, anche davanti a sfide impossibili. Nessuno avrebbe mai scommesso che loro due sarebbero entrati in Parlamento e loro ci erano riusciti come per dispetto, creando quella bellissima illusione che tutto era per davvero a portata di mano se si metteva sul piatto passione e impegno.
Ora che Giorgio aveva abbandonato, però, anche quell’illusione si era rotta. La verità era che il suo amico aveva ragione: ogni cosa che aveva detto era vera. Anche Nico era rimasto schifato dall’atteggiamento dei suoi colleghi. Anche lui avrebbe voluto essere al posto di Giorgio, per poter insultare tutti e poi andarsene. Invece era ancora il capogruppo, e ora il suo dovere gli imponeva di rimanere e farsi carico di ogni grana.
Ma come poteva lui, da solo, rimettere in piedi un partito allo sbando, quando non era neanche capace di stare vicino a Michele? Perché il vero Nicolò non si sarebbe lasciato fermare dagli infermieri. Avrebbe bussato, chiamato, fatto ogni cosa per stargli accanto.
Invece si era arreso. Gettato sul letto, abbandonato come un vecchio vestito, mentre cercava una qualsiasi via di fuga da quella vita che ormai non gli apparteneva più.
 
 
*
 
 
Il cielo era grigio e la pioggia scendeva lentamente sugli abiti scuri della folla.
Michele era in piedi, separato dal gruppo degli onorevoli, immobile e freddo come una statua, mentre pensava con ironia che anche quelle nuvole minacciose erano lì per salutare Marchesi, replicando la stessa pioggia di quando era morto Francesco.
Aveva passato quattro giorni completamente da solo, leggendo e rileggendo quella lettera fino ad impararla a memoria, pensando e ragionando su ogni cosa successa da quando aveva messo piede in quel palazzo.
Non aveva trovato risposte, solo domande in più. Era passato attraverso diverse emozioni, dalla tristezza alla rabbia al rimorso. Ora però anche quelle lo avevano lasciato, ed era rimasto solo un profondo senso di ingiustizia verso una persona che, in ogni caso, non sarebbe dovuta morire.
Al funerale era venuta una marea di persone, molti con le bandiere di Sinistra Democratica. Marcello Pasqui e Goffredo Ranieri erano davanti a tutti, impeccabili e solenni nei loro abiti scuri. Poco più lontano, Thomas e Arturo erano immobili, con lo sguardo fisso sulla bara.
Per tutta la cerimonia, Michele non riuscì a fare altro che a starsene in disparte silenziosamente. Continuava a percepire tutto come un sogno. Quei giorni non gli erano bastati a metabolizzare. Ancora si immaginava di poter vedere Marchesi vivo, di potergli parlare di quella lettera, di potergli dire che le cose si sarebbero risolte in qualche modo.
E invece era lì, poco lontano dalla sua bara. E la pioggia scendeva, bagnando i fiori che si accumulavano sul marmo nudo.
Erano venuti compagni da tutto il Paese per salutarlo. Militanti di SD, dell’Azione Cattolica, di altri partiti e cittadini comuni: ciascuno aveva un motivo diverso per essere lì. Piangevano tutti, ma le loro lacrime sarebbero passate. Invece, alcuni dolori sarebbero rimasti indelebili, come quello di Marcello Pasqui.
Avrebbe dovuto parlare con lui il prima possibile. Per quanto sarebbe stato difficile, sentiva che il destino aveva deciso che avrebbe potuto stargli a fianco sinceramente nel dolore, oltre al fatto non indifferente che avevano molte cose da dirsi.
I suoi pensieri vennero interrotti da due figure anziane, che si fecero largo tra la folla nel silenzio generale. Erano senza dubbio la coppia più elegante tra i presenti. Nascosti dietro occhiali scuri, reggevano un pesante mazzo di fiori variopinti, che lentamente, ad ogni passo, accompagnavano alla loro ovvia destinazione.
Non fu difficile per Michele capire chi fossero. E, una volta capito, si sentì accecato da un istinto fino a quel momento sconosciuto.
Prima che la coppia giunse davanti alla bara, Michele sbarrò loro la strada.
«Lui non vi vorrebbe qui» disse ad alta voce.
I genitori di Marchesi finsero di non capire e cercarono di scavalcare quello sconosciuto che per qualche motivo aveva intenzione di piantare grane, ma Michele pestò un piede in avanti e li bloccò di nuovo.
«Non li vuole i vostri fiori!» gridò più forte.
Il padre di Marchesi si tolse gli occhiali scuri, rivelando degli occhi profondi troppo simili a quelli del figlio.
«E tu chi saresti?» chiese, sprezzante, «chi sei tu per impedirmi di piangere mio figlio?»
Michele non indietreggiò davanti alla minaccia di quello sguardo. Sentiva dentro un fuoco che non riusciva a controllare.
«Sono la persona che sa ciò che gli avete fatto. Non meritate di posare quei fiori, né la compassione di questa gente».
Michele sentì dei movimenti attorno a lui. Sapeva che sarebbe stato cacciato via in malo modo, ma la paura che avrebbe avuto il vero Michele era morta e sepolta insieme al suo segretario.
«Ha ragione. Non siete i benvenuti qui, devo chiedervi anche io di andarvene, per rispetto verso Riccardo».
La voce era autoritaria e perentoria, tanto che lo sguardo di fuoco del padre di Marchesi si tramutò in rabbia impotente.
L’uomo che aveva parlato era Marcello Pasqui.
Il cimitero fremette in un silenzio carico di attesa. Dopo interminabili secondi, il padre di Michele gettò i fiori per terra, prese la moglie sottobraccio e camminò verso l’uscita.
Michele tremava di rabbia, e poteva quasi sentire Marcello tremare vicino a lui.
«Cosa ne sai tu?» gli mormorò a denti stretti il capogruppo.
«Dobbiamo parlare» rispose lui.
Pasqui evitò accuratamente il suo sguardo, puntandolo verso la bara che conteneva il corpo senza vita del suo migliore amico.
«No, non mi interessa. Non mi interessa nulla, lasciami in pace».
L’uomo sparì nella calca. Michele cercò di raggiungerlo, ma dopo un po’ lasciò perdere, capendo che non sarebbe servito.
Riccardo avrebbe sicuramente odiato quella cerimonia. Michele si chiese quanti tra i presenti erano stati suoi ex compagni di classe, ex compagni di partito, ex avversari politici, magari anche ex fascisti. Con quanti di loro aveva discusso, fatto riunioni, cene importanti, serate, preso delle sostanze? Aveva conosciuto e stretto rapporti con un’infinità di persone, ma nessuno era stato in grado di salvarlo.
Fu una donna la prima a prendere la parola. Michele la riconobbe, perché il suo viso era ben noto ai media.
«Sono Adriana, la madre di Francesco Venturi» la voce tremava mentre si asciugava le lacrime, «e ci tengo personalmente a ricordare Riccardo. Non c’è stata persona che è rimasta più accanto alla nostra famiglia dopo la morte di nostro figlio. Fu lui a pagare le spese legali per cercare i colpevoli. Lui trovò lavoro a me e a mio marito, dopo che ci licenziammo entrambi, perché l’azienda in cui lavoravamo prima era di proprietà un neofascista. Fu lui a starci accanto in tutti questi anni, rimandando i suoi impegni per venire spesso a trovarci. Ora che non c’è più è come aver perso di nuovo mio figlio…» Vedere quella signora scoppiare in lacrime, sorretta dal marito e da Pasqui, fu troppo per Michele. Corse via dal cimitero, non voleva più sentire nulla.
«Michele!»
Nicolò lo aveva raggiunto, impeccabile nel suo abito scuro. Il giovane sentì un tuffo al cuore, rendendosi conto che non era affatto pronto ad affrontarlo ora.
Una parte di lui avrebbe voluto raccontargli ogni cosa, per filo e per segno. Gli avrebbe chiesto suggerimenti e sostegno, perché ne aveva un gran bisogno. Ma l’altra parte sentiva che farlo avrebbe voluto dire tradire Riccardo. Perché Nicolò era sempre Nicolò, il capogruppo del Fronte, un uomo onesto e intransigente, che se avesse letto quella lettera sarebbe corso dai giornali a dire tutta la verità per amore di giustizia.
«Se hai bisogno di un aiuto, sai che io ci sono».
Michele alzò lo sguardo su quegli occhi verdi, luminosi e sinceri.
«Ti ringrazio, davvero, ma devo stare da solo per un po’». Si rese conto che aveva ancora la voce che tremava.
Corse via, senza voltarsi indietro, cancellando dalla sua mente quella voce che gli diceva di non farlo. Avrebbe voluto ascoltarla, ma non poteva. Le parole di Riccardo Marchesi erano macigni, e quel peso ora era solo sulle sue spalle.
 
 
Quando si decise a tornare a Montecitorio era già passato qualche giorno.
Era rimasto rinchiuso dentro una bolla. Il tempo passava, ma senza produrre nulla. Non aveva avuto contatti con nessuno dopo il funerale, e quando parlò con un assistente parlamentare si stupì di quanto si fosse dimenticato persino il suono della sua stessa voce. Chiese di Pasqui, venendo a sapere che era rimasto chiuso dentro il suo ufficio tutti quei giorni. Non voleva vedere nessuno, mangiava pochissimo e non si sapeva cosa facesse.
Michele aspettò la notte prima di bussare a quell’ufficio per mantenere quell’incontro il più discreto possibile, anche se non aveva idea di come riuscire a farsi aprire, dal momento che, a quanto pareva, Pasqui non aveva aperto neanche a Goffredo.
Bussò forte, attendendo. Appoggiò l’orecchio alla porta, senza sentire il minimo rumore.
«Marcello, sono io, Michele» si annunciò, alzando timidamente la voce. Era la prima volta che lo chiamava per nome e si accorse che faceva uno strano effetto. La porta, però, restò ostinatamente chiusa.
«Lo so che non hai intenzione di aprirmi» continuò, «ma io non me ne andrò finché non parleremo».
Detto ciò si sedette sul pavimento, prevedendo una lunga attesa. Passò un’ora buona di totale silenzio. Dopodiché, Michele si rialzò e bussò di nuovo.
«È importante, aprimi! Non sono qui per compatirti» si ritrovò a gridare. Non sapeva da dove stava tirando fuori tutto quel coraggio. Forse era l’ora notturna, forse il fatto di aver passato giorni in completo silenzio, ma in quel momento si sentiva più determinato che mai.
«È stato Riccardo a chiedermi di non lasciarti da solo. Come hai fatto tu con lui, quando è morto Francesco».
La porta si aprì con uno scatto, mostrando una figura alta dallo sguardo più severo e buio del solito. Michele si ricordò dei tempi in cui aveva una paura folle anche solo a parlarci, da quanto quell’uomo sembrava duro e insensibile. Ora però, quel tipo di paura gli faceva il solletico.
«Cosa vuoi da me?»
«Parlare, fammi entrare».
Non aveva chiesto nemmeno il permesso e questo sembrò destabilizzare Marcello il quale, colto di sorpresa, non riuscì a impedire al giovane deputato di sgattaiolare dentro.
Parlò subito, per non lasciare tempo all’altro di aggredirlo.
«So tutto. So dell’inchiesta, so di cosa avete fatto. So dei rapporti con mio padre, dei miei voti comprati, di come siete finiti al governo e perché».
Osservò la reazione di Pasqui, il quale non si scompose, anche se non distolse gli occhi dai suoi. Aveva ottenuto la sua piena attenzione.
«Bene. Molto bene» rispose a denti stretti, «sei qui per insultarmi, per sputarmi in faccia il tuo odio? Sprechi il tuo tempo, in questo momento sarà difficile ferirmi ulteriormente. Piuttosto, corri a testimoniare dal giudice, così domani avremo la notizia fresca di stampa».
«Non mi interessa. Non è per questo che sono qui!» sbottò Michele, cercando di trattenere l’irritazione.
«E allora che vuoi da me?» gridò Marcello, evidentemente nervoso.
«Volevo farti leggere questa. Me l’ha scritta Riccardo prima di andarsene».
Marcello lo fissò, imperscrutabile. Qualcosa nella sua maschera di freddezza sembrava aver ceduto.
Tirò fuori la busta e la porse a Pasqui, che la aprì con mani tremanti. Michele aveva pensato a lungo se dargliela o no, ma alla fine quella gli era sembrata la scelta più giusta. Era pericoloso, perché Pasqui in quel momento aveva in mano tutte le prove e avrebbe potuto stracciarle in un secondo.
Una volta finito, Pasqui posò i fogli. Si tolse gli occhiali, facendoli cadere rumorosamente sulla scrivania.
«Ric…» mormorò impercettibilmente.
Scoppiò in lacrime, coprendosi gli occhi con una mano e singhiozzando in silenzio.
Michele restò interdetto. Mai se lo sarebbe aspettato. Non da Pasqui, soprattutto non davanti a lui.
Senza riuscire a controllarsi iniziò a piangere anche lui. Il dolore inespresso uscì fuori tutto in una volta, travolgendo i muri costruiti da entrambi.
Passarono diversi minuti prima che Marcello si ricomponesse. Rimise i fogli nella busta e, con grande stupore di Michele, gliela ridiede.
«Che cos’hai intenzione di fare, dunque?» domandò, inespressivo. Michele strinse le ultime parole di Marchesi tra le mani. Ci aveva pensato e ripensato a sufficienza in quei giorni. Aveva ragionato, calcolato, valutato, e alla fine aveva capito quale fosse la cosa più giusta.
«Non farò assolutamente nulla. Io e te saremo le uniche persone ad aver letto questa lettera. Le indagini su Riccardo ovviamente si fermeranno, ora che lui non c’è più. Perciò tutta questa storia non verrà mai a galla».
Marcello lo fissò, completamente spiazzato da quella risposta. Senza il controllo della situazione, per una volta appariva vulnerabile.
«Perché?»
«È giusto così» rispose sicuro Michele, «che altro dovrei fare? Ricattarti? Avere una specie di vendetta? Non mi interessa nulla di tutto ciò. Quello che è stato è stato, non servirebbe a nulla rovinare il nome del nostro partito per questo».
Marcello si fece più serio che mai. Le lacrime erano completamente scomparse dal suo viso.
«Dunque lasceresti girare altre voci false su di te, pur di non rivelare la verità? Si sta parlando di onestà, Martino. Non è quello che ti ha sempre insegnato Arturo?»
«Non c’entra niente» ribadì il giovane, «io so tutto. So perché tu e Riccardo l’avete fatto. Perché dovrei rovinarti? Non sei un criminale!»
Per una volta, Pasqui rimase senza risposta, non aspettandosi una tale convinzione incrollabile su di lui.
«Capisco...»
La stanza piombò nel silenzio e Michele sentì che era il momento di andare.
«Adesso vado, ma per qualsiasi cosa sentiti libero di contattarmi». Uscì dall’ufficio del suo capogruppo, convinto più che mai di aver fatto la cosa giusta.
 
 
I giorni passarono.
La casa di Michele era sempre più pulita e ordinata. Passava le sue giornate a spolverare in modo maniacale per evitarsi di pensare, e usciva di casa solo per fare la spesa e per passare dall’ufficio di Marcello Pasqui.
Restava in quella stanza per circa un’ora al giorno. I due si parlavano pochissimo, a volte neanche si guardavano. Eppure, Michele sentiva che non avrebbe potuto fare a meno di farlo. Stava creando un rapporto fatto solo di dolore e silenzi, ma doveva. In fondo, erano le ultime volontà del suo segretario, e per qualche motivo la porta dell’ufficio di Pasqui sembrava sempre aperta per dare spazio a quella flebile compagnia.
Fu alla fine di uno di quei bizzarri incontri che Michele incontrò Arturo in uno dei corridoi della Camera. L’ultima volta che lo aveva visto era stato al funerale, e non si erano parlati molto in
quell’occasione.
L’anziano gli fece un cenno e Michele lo seguì nel cortile deserto. Era da un po’ che nel palazzo non si vedevano più molti onorevoli a causa delle inchieste.
«Come ti senti, Michele?»
Il giovane scosse leggermente la testa, segnalandogli che era meglio evitare quella domanda.
«È stato un duro colpo per tutti. Tu forse lo conoscevi ancora poco, ma… beh, mi dispiace molto vederti così. Thomas è distrutto, non c’è verso di farlo stare meglio. Però qualche giorno fa io e lui abbiamo parlato di una cosa, e penso sia il momento di dirtela».
Michele attese in silenzio. Sapeva che Arturo non poteva capire il suo dolore. Non era mai stato un grande amico di Marchesi, dunque non era ragionevole pensare che soffrisse più di chi l’aveva conosciuto.
Ma la verità era diversa, anche se non poteva rivelarla.
«Insomma, prima o poi dovremmo farci i conti. È un grande dolore, ma presto sarà necessario eleggere un nuovo segretario. Ecco, io e Thomas vorremmo che tu fossi il candidato della nostra parte».
Michele fissò il suo vecchio mentore. Un tempo sarebbe stato onorato che qualcuno lo pensasse in grado di ricoprire un tale ruolo. Ora, invece, gli sembrava solo qualcosa di assolutamente stupido. Lui avrebbe dovuto sostituire Marchesi?
«Non ne sono in grado, mi dispiace» rispose, secco. Arturo sospirò, come se si fosse aspettato quella risposta.
«Certo che ne sei in grado, Michele. Marchesi è stato un simbolo umano, ha rappresentato un pezzo importante della nostra storia, anche se con molte criticità. Tu ne rappresenterai un altro, per il coraggio che hai mostrato, per la tua inflessibilità morale».
Michele ripensò agli ultimi bizzarri episodi della sua vita. Era diventato un simbolo perché si era quasi fatto ammazzare, perché Marchesi lo aveva messo nei guai. Aveva rischiato la vita, ma alla fine era stato solo l’ex segretario a rimettercela per davvero.
«È ciò che hai sempre voluto per me, lo so. Ma non posso farlo, mi dispiace. Questa volta non posso essere ciò che tu vorresti».
Si alzò per andarsene, evitando accuratamente di lasciarsi toccare dalla delusione negli occhi del suo vecchio mentore.
 
Si ritrovò di nuovo da solo con se stesso. Lui e quella dannata lettera, alla quale non riusciva a darvi risposta.
 
 
*
 
 
“Caro Thomas,
quando ti arriverà questa lettera, io sarò già morto. Almeno con te, però, preferirei evitare i convenevoli. Tra le persone che conosco penso che tu sia quello in grado di affrontare la morte con più serenità, per la tua storia personale. Spero che tu ti sia vestito sgargiante anche al mio funerale, non ti perdonerei mai in caso contrario.
Volevo avvisarti di persona che la mia villa, nel mio testamento, sarà intestata a te. Lo so, è un po’ ironica la sorte, dal momento che mi hai preso per il culo tante volte per la mia modestissima casa. Ma c’è un motivo per cui la lascio proprio a te: perché so che non ne farai mai un museo o cose simili. Anzi, spero proprio che tu decisa di usarla come ai vecchi tempi, quando l’avevamo sfruttata come base per la resistenza. Ancora mi ricordo tu che suonavi alle sei di mattina per prendere i manifesti. Hai usato la mia cucina per fare la colla, facendomi credere che ne eri capace, e penso che ritroverai alcune tracce del tuo esperimento mai andate via.
Ma ora non è più tempo di rivangare il passato. Ti saluto, caro Thomas. Sono fiero di aver combattuto insieme ad uno sfigato comunista come te. Ti affido il nostro caro, vecchio partito. So che, finché ci sarai tu, sarà al sicuro.
 
Ric”
 
 
*
 
La stazione era buia e deserta mentre Nicolò si trascinava dietro il suo trolley blu.
Da sempre, quello era stato il suo più fedele compagno di viaggi. Con lui era andato ovunque e aveva vissuto le più belle avventure della sua vita. Aveva dimostrato a se stesso di essere indipendente, indistruttibile. Di sapersi ricostruire dalle macerie, di essere aperto a qualsiasi cosa il mondo potesse offrirgli.
Ora, però, non stava partendo per nuovi orizzonti. Stava semplicemente scappando. Per la prima volta, stava tornando indietro.
D’altra parte, a che sarebbe servito restare? Non era più utile a nessuno. Giorgio era andato via, e con lui era morto l’ideale che rappresentava, quello di un uomo che rinuncia a tutto per inseguire i suoi sogni, anche se impossibili. Michele, invece, stava affrontando un dolore troppo grande perché potesse aiutarlo, anche se non riusciva a trovarci un senso, dal momento che lui e Marchesi non erano mai stati molto legati. Doveva esserci qualcosa che non sapeva, ma Nicolò aveva perso la sua solita sfacciataggine che gli avrebbe permesso di restargli accanto ugualmente e di indagare su quella morte assurda e improvvisa.
E poi, il partito era finito. Chiarelli si era dimostrato un falso e un criminale e il resto era alla deriva più totale. Forse sarebbe toccata a lui la responsabilità di tenerlo in piedi, ma in fondo che gli importava?
Non c’era più niente per lui, ormai. Nessuno aveva più bisogno di lui, e neanche lui sentiva di aver bisogno di se stesso.
Il treno partì veloce, superando quella città, ultima tappa di un viaggio ormai rimasto senza meta.

*
 
Era un nuovo giorno.
Michele si alzò dal letto, si stiracchiò, si lavò i denti. Infilò calzini, pantaloni, camicia e scarpe e uscì da casa sua.
Il sole stava ancora nascendo su quella pigra città a cui un po’ si era affezionato dopo quasi un anno. A piedi arrivò su via del Corso, facendo slalom tra i turisti asiatici, unica presenza fissa. Si ritrovò in breve tempo davanti a palazzo Montecitorio, il quale svettava troneggiante sugli edifici attorno.
Erano giorni frenetici, fatti di riunioni, incontri e telefonate. Sebbene TG e giornali ancora ne parlassero, sembrava che il lutto per Riccardo Marchesi fosse già passato nel dimenticatoio del partito, lasciando riaccendere i vecchi malumori e gli scontri di potere assopiti negli ultimi anni in vista del congresso per l’elezione del nuovo segretario.
Michele seguiva quei giochini quotidiani quasi per divertimento. Il suo nome rimbalzava su varie bocche, anche se lui aveva detto espressamente ad Arturo di no. Ma anche quello faceva parte dei giochi, perché tutti sanno che se metà partito ti chiede di candidarti diventa più difficile tirarsi indietro.
E poi, c’erano sempre quelle parole che non riusciva a togliersi dalla testa.
 
“Se potessi, anche io ti voterei come prossimo segretario.”
 
Erano state le ultime volontà di Riccardo Marchesi. Poteva davvero permettersi di ignorarle?
L’orologio che gli aveva regalato era ancora rinchiuso dentro un cassetto della sua scrivania. Non aveva avuto il coraggio di metterlo, né di guardarlo. Quell’orologio conteneva una storia troppo grande perché lui potesse farsene carico.
Lui non era nessuno. Era solo un giovane uomo che era stato messo in mezzo da altri e che, per vari colpi di fortuna, era riuscito a uscirne bene e con una discreta fama sulle spalle.
E ora, davanti a lui sembrava dipanarsi una sola strada possibile, alla quale non poteva sottrarsi e per la quale non si sentiva affatto pronto.
 
 
Quando arrivò il giorno del congresso, ormai tutti i giornali davano per certa la candidatura di Michele, il quale non si era preoccupato di smentire né di confermare la voce.
Il centro congressi era gremito di persone e telecamere e il nervosismo era tangibile. Tutti erano lì per un motivo, chi per guadagnare posizioni, chi per evitare di perderne, in ogni caso per ciascuno quel congresso sembrava essere questione di vita o di morte. Michele si sedette in un angolo della seconda fila. Fece finta di aggiustare il proprio discorso per evitare di parlare con i suoi colleghi, ansiosi di avere una conferma definitiva che lui si sarebbe candidato, convinto dalle tante richieste.
La sala si ammutolì quando entrò Marcello Pasqui insieme a Goffredo. Il capogruppo era vestito di nero. Il viso era colmo di freddezza, e dietro agli occhiali spessi non trapelava alcuna emozione. Reggendo in mano una busta di fogli scarabocchiati, si sedette al suo posto con estrema lentezza, come se quel semplice atto gli costasse un’immane fatica.
Goffredo era anche lui vestito di nero, rasato e con lo sguardo stanco. Appena entrato, iniziò a radunare i suoi per parlarci a bassa voce. Si diceva che la loro area candidasse un certo Dominiani, uomo di provenienza democristiana facente parte anche lui della grande schiera dei “partigiani del terzo millennio”.
Dopo aver dato istruzioni, Goffredo proclamò subito il minuto di silenzio in ricordo di Marchesi. Michele provò ad immaginarselo lì, seduto alla presidenza con il suo solito portamento e lo sguardo sicuro di chi ha in mano la situazione. Si rese conto che l’assenza dell’ex segretario, nonostante non avesse mai parlato molto nelle riunioni, era evidente e pesava come un macigno.
Marcello Pasqui prese la parola per primo. L’atmosfera era intrisa di solennità e non si udiva volare una mosca.
«Grazie a tutti per essere qui. Dopo la mia relazione, sarà possibile intervenire liberamente e far pervenire le candidature per la segreteria alla presidenza».
Si schiarì la voce. Una goccia di sudore gli imperlò la fronte e Michele la osservò scendere, turbato da quell’insolita manifestazione di angoscia.
«Come sapete, non stiamo vivendo tempi semplici, per il partito e per la politica. I partiti di questa maggioranza parlamentare e alcuni
dell’opposizione sono colpiti da sentenze che stanno smascherando un giro inquietante di affari, e tali sentenze minano alle fondamenta della fiducia nelle istituzioni».
Michele strinse i pugni, con la lettera di Riccardo Marchesi che gli rimbalzava prepotentemente in testa con tutto il suo contenuto scottante.
«Credo che sia decisivo che il nostro partito si faccia carico delle responsabilità di questo momento storico e le affronti. E, per prima cosa, dobbiamo affrontare insieme la prematura scomparsa del segretario Marchesi».
La sala tacque ancora di più, come segno di rispetto. Michele sentì le mani sudare. Non si aspettava che Pasqui ne parlasse così esplicitamente.
«In questi giorni» riprese lentamente, «ciascuno di noi ha avuto modo di riflettere, di ricordare. Abbiamo sentito tante storie su Riccardo, da giornalisti, scrittori, storici e politici. Tanti amici e tanti compagni si sono uniti al suo ricordo, tanti fiori hanno adornato la sua lapide. Una parte consistente dell’intero Paese si è unita nel dolore per questa tragica scomparsa. Tuttavia, come ben sapete, io personalmente ne sono rimasto fuori, rifiutandomi di condividere il mio ricordo in qualsiasi occasione pubblica».
Il silenzio si mutò subito da rispetto a curiosità per quelle parole inedite di Marcello Pasqui, uomo che mai si era lasciato andare a sentimentalismi o anche solo alla banale espressione di qualunque cosa lo riguardasse strettamente.
«Questa scelta è sembrata insolita e ha scatenato malumori, ma dietro ad essa non c’è solo il cieco dolore per la scomparsa del mio migliore amico. Un altro sentimento, più difficile da affrontare, è stato la causa del mio silenzio. E ora è proprio quella responsabilità di cui parlavo prima, quella che noi come partito abbiamo per questo momento storico, a spingermi a rompere tale silenzio».
Ci fu un fulmineo istante in cui gli occhi di Pasqui incrociarono quelli di Michele, e durante quel breve contatto il giovane deputato capì immediatamente cosa stesse per succedere, e realizzò solo in quel momento di non aver mai capito niente di Marcello Pasqui, di non averlo mai conosciuto sul serio.
«Quando morì Francesco Venturi» la voce si alzò leggermente, riacquistando sicurezza, «io e Riccardo eravamo appena usciti dall’università, dagli anni più bui della nostra storia recente, e la Carta Antifascista fu il nostro modo di dare un senso alla sua morte. Ma che senso potevamo dargli continuando a restare all’opposizione di un governo presieduto dal Nuovo Partito Popolare? Non avremmo vinto solo propagandando la Carta Antifascista, perché gli anni passavano e il nostro giovane compagno Venturi stava diventando un vago ricordo, una qualunque vittima da relegare nella storia più buia del nostro Paese. Solo noi, noi che avevamo combattuto in prima linea insieme a lui, noi che avevamo visto da vicino la rinascita
fascista capivamo, sentivamo e soffrivamo veramente quell’assenza». Michele cercò di nuovo il suo sguardo, inutilmente. Non sapeva neanche lui se volesse fermarlo o trasmettergli il coraggio di continuare. Sapeva solo che ciò che stava per dire il capogruppo avrebbe modificato gli eventi in modo irreversibile.
«Più di tutti soffriva Riccardo, perché Francesco, per lui, era molto più di un amico, e mai accettò di averlo perso. Mai».
Le persone in sala iniziarono a parlarsi a bassa voce e a cercare lo sguardo altrui, ciascuno improvvisamente disperso in un congresso che stava mutando dal solito prevedibile copione.
«Ebbene, è stata questa sofferenza e questo desiderio di vendetta a spingere Riccardo a candidarsi e a vincere lo scorso congresso. E lo stesso dolore e lo stesso risentimento lo spinsero a vincere le elezioni, comprando i voti dalla cosca della ‘ndrangheta di Nello Martino».
Centinaia di occhi si voltarono subito verso Michele, che subito sentì il cuore perdere un battito.
«Esatto, ci recammo insieme dal padre del nostro compagno Michele per chiedere i voti. Solo io e lui sapevamo di questa cosa e solo noi
l’avremmo saputa. Ci siamo sporcati le mani e per tutto questo tempo abbiamo nascosto la verità, lasciando che fosse Michele, che non c’entrava niente, a portare da solo sulle spalle i nostri errori».
La platea era ormai completamente atterrita. Partì qualche fischio, e Pasqui ne cercò l’origine, con lo sguardo carico del sollievo di chi si sta liberando di un enorme peso.
«Mi prendo tutti i vostri fischi, perché li merito. Io e Riccardo abbiamo arrecato un grave danno al partito. Io avrei potuto fermarlo, avrei potuto capire che ciò che stavamo facendo avrebbe danneggiato noi, la nostra comunità, e soprattutto la sua persona, già provata da diverse ferite. Non l’ho fatto, e oggi sono qui per prendermene la responsabilità davanti a voi».
Nessuno osò più fischiare, e Michele si accorse solo in quel momento che Goffredo era uscito dalla sala.
«Solo la verità potrà permetterci di ricordare davvero Riccardo Marchesi. Sono cosciente che, dicendo questo, il nostro congresso avrà una piega diversa. Da domani la stampa inizierà a bersagliarci, verranno a importunare me e tutta la nostra classe dirigente, sicuramente perderemo voti. Ma solo ammettendo la verità potremo guarire, risollevarci, rinascere e riparare a ciò che abbiamo causato con le nostre scelte sbagliate».
Arturo aveva uno sguardo severo, che non aveva distolto per un solo secondo dal capogruppo. Thomas invece teneva gli occhi bassi, ma si intravedeva la cocente delusione di chi, per la prima volta, vede il lato oscuro di chi ha avuto al suo fianco nella lotta per tutti quegli anni.
«Per i motivi che vi ho ampiamente raccontato, mi dimetto da capogruppo e da deputato. Non sosterrò Dominiani per la segreteria del partito, sebbene sia legato a lui da stima e affetto reciproco.
Credo che l’unica persona che meriti la segreteria sia chi ha saputo con coraggio dimostrarci cosa significa essere onesti, intransigenti e leali. Per questo motivo, indico Michele Martino per la segreteria di Sinistra Democratica».
Pasqui abbassò il microfono e abbandonò i banchi della presidenza, sedendo in platea. Nessuno osò parlare, né applaudire, né fischiare. Tutti si guardarono l’un l’altro, sconvolti, nell’attesa di capire cosa fare. I giochini di potere e i gossip di quelle ultime settimane erano crollati come castelli di carta dopo quelle parole, pesanti come macigni.
Michele sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla. Era Arturo, che gli sorrideva da dietro. In quel sorriso c’era tutta la stima e l’affetto, tutte le parole che da un po’ di tempo si erano allontanate dalle loro brevi e sfuggenti conversazioni.
Dentro quel sorriso Michele rivide Antonio, suo padre, sua madre, il circolo, la scuola, le elezioni, la campagna elettorale, le bottigliette d’acqua che qualche giovane gli portava sui palchetti dei paesini in cui aveva fatto i comizi. Rivide le strette di mano vigorose degli anziani che promettevano di votarlo, Roma, il palazzo, i commessi che gli prendevano il soprabito, le ore passate dentro l’aula, Marchesi che era sempre al telefono, sempre impegnato.
Rivide la lettera, l’orologio, le rare lacrime dello stesso capogruppo che lo aveva odiato a morte e che ora lo stava indicando come segretario. Rivide anche l’ospedale, la macchina senza targa, la confusione, la solitudine, le lacrime a cui non aveva ancora trovato un senso.
Alzò la mano. Per una volta, con la massima decisione. Sapeva cosa doveva fare e cosa doveva dire. E, quando prese in mano in microfono, la sua voce gli risuonò più adulta, più matura.
«Care compagne, cari compagni» iniziò, accorgendosi di quanto forte suonava quel semplice appellativo, «in queste settimane siete stati in molti a chiedermi di candidarmi per la segreteria del partito, e io mi sento davvero di ringraziarvi di cuore per questo. Credo che voi tutti vi aspettiate da me un qualche discorso su come io voglia rilanciare il partito con qualche formula di rinnovamento che a noi sono tanto care. Mi dispiace deludervi, ma non ho pronto niente di tutto questo». La tensione si poteva tagliare con il coltello. Michele prese aria nei polmoni e proseguì.
«Mentre parlava il nostro capogruppo, sono arrivato a chiedermi cosa siano veramente quelle belle parole di cui ci adorniamo: lealtà, onestà, legalità. Ho pensato che è molto facile dire che una persona è onesta perché non ha mai sbagliato. Per coloro che credono di essere onesti, i criminali sono sempre gli altri».
Osservò la platea che lo fissava, in attesa.
«Credo però che il coraggio che ha avuto ora Marcello Pasqui non sia paragonabile a quello di nessuno di noi, nemmeno a quello che in molti mi attribuiscono. È facile recitare la parte dei buoni contro i cattivi. In qualche modo, è stato semplice per me sopportare i ricatti e le infamità, perché mi sentivo dalla parte della ragione, non avevo da combattere con la mia coscienza. Molto più difficile è confessare i propri sbagli, chiedere scusa, mostrarsi colpevoli. Solo una persona che si sente davvero responsabile verso la propria comunità può assumersi un rischio simile».
Marcello lo fissava, impietrito.
«Perciò, io penso che al posto di cercare nella figura del segretario un qualche nuovo eroe, un simbolo di purezza da ostentare, dovremmo invece apprezzare chi è così onesto da mostrare non solo il suo lato migliore, ma anche il peggiore. Per questo motivo intendo ritirare la mia candidatura ed esprimere, a mio nome e a nome di chi vorrà, Marcello Pasqui come candidato alla segreteria».
Le parole di Michele piovvero come pietre in testa a ciascuno dei presenti. In una giornata, con due soli interventi, la situazione politica era stata completamente stravolta. Capicorrente e funzionari si consultavano tra loro, sconvolti, aspettando che qualcuno intervenisse per capire cosa fare.
Nel frattempo, Michele era tornato al suo posto. Il cuore gli pulsava forte, il sangue gli era andato al cervello, ciò nonostante sentiva di aver fatto la cosa giusta.
E lo sentì ancor di più quando uno dei presenti si alzò in piedi ad applaudire. Iniziò da solo, ma l’istante dopo venne seguito a ruota dai suoi vicini di banco. A macchia d’olio si diffuse l’applauso, finché non coinvolse la maggioranza dei presenti, stabilendo che Pasqui sarebbe stato accolto come nuovo segretario.
Thomas, Arturo e gli altri dell’area politica di Michele restarono di sasso. Il giovane sapeva che gli sarebbe toccato discuterci, ma ora non era pronto ad affrontarli.
Fu così che raggiunse il banco dov’era seduto il nuovo segretario di SD. Lo guardò negli occhi e gli sorrise, quasi commosso dallo smarrimento di quell’uomo, che era pronto ad abbandonare la nave e all’improvviso se ne era ritrovato capitano.
Gli legò un orologio al polso e gli strinse la mano. Pasqui lo osservò e capì, ricambiando vigorosamente la stretta. La sala fu tutta uno scrosciare di applausi e di scatti di macchine fotografiche.
Aveva fatto la cosa giusta. Era questo ciò che importava.
 
 
*
 
 
Milano, alle sette di sera, gli era sempre sembrata un grande spettacolo. Quando lavorava lì, anni fa, amava staccare a quell’ora e immergersi nella movida dei bar del centro.
Ora però, uscendo dall’ufficio, ciò che vedeva attorno non gli suonava né piacevole né familiare, ma vuoto e noioso.
Non aveva avuto bisogno di supplicare molto per farsi assumere di nuovo nella compagnia in cui aveva lavorato prima di entrare in politica. Avrebbe preso uno stipendio più basso, ma le sue abilità manageriali erano ben note, e se avesse voluto avrebbe potuto scalare di nuovo la gerarchia aziendale per approdare nelle sale di comando. Se avesse voluto.
Sporadicamente seguiva i telegiornali, provando sentimenti contrastanti alla vista di quel palazzo e di quelle persone che fino a poco tempo fa salutava nei corridoi. Pasqui era stato eletto segretario a dispetto di tutto ciò che aveva confessato al congresso, e Nicolò riuscì solo a pensare a quanto fosse contento di essere lontano da quel mondo sporco e disonesto. Si erano aperte diverse inchieste dopo la sua confessione, ma sembravano procedere a rilento. Tutti i deputati di SD facevano quadrato attorno al nuovo segretario, tra cui il più agguerrito era senza dubbio il nuovo capogruppo, Thomas Greco.
Sentì bussare alla porta. Dovevano essere i colleghi, pronti a chiamarlo per l’ora dell’aperitivo.
«Avanti!»
Per poco non cadde dalla sedia quando si trovò davanti l’ultimo uomo che si sarebbe aspettato di veder entrare da quella porta.
«Ciao».
Michele Martino sembrava un’altra persona rispetto all’ultima volta
in cui l’aveva visto, circa un mese prima al funerale di Marchesi. Non vi era più traccia del pallore del volto, né dell’ombra scura dentro gli occhi color nocciola. Non c’era la minima indecisione nei suoi movimenti quando chiuse accuratamente la porta del suo ufficio.
«Michele? Ma che ci fai qui?»
«Pasqui mi ha dato informazioni su dove fossi» comunicò nel modo più naturale possibile.
Nicolò sospirò, sentendo quel nome a cui ultimamente aveva dedicato gran parte del suo odio privato, inquadrandolo come il principale responsabile ancora vivo di numerose malefatte che avevano coinvolto lui, Michele e l’intero mondo della politica.
«Già, il vostro nuovo segretario. Quello che ti ha inguaiato facendo affari di nascosto con tuo padre».
«Proprio lui» rispose tranquillo Michele, «ma non è per parlare del mio segretario che sono qui».
«Ah, e per cosa?» sbottò Nicolò, che stava iniziando a innervosirsi per quell’uomo del suo passato venuto a importunarlo.
«Per impedirti di fare il vigliacco. Sei scappato come se niente fosse, senza nemmeno presentare le dimissioni al tuo gruppo. Sei un deputato e sei il capogruppo di un partito, non è qui che dovresti stare».
«Questa è bella!» rise Nicolò, impressionato da quella sfacciataggine,
«hai proposto un criminale come segretario del tuo partito al posto di candidarti tu, e ora dai a me del vigliacco?»
«Pasqui non è un criminale» rispose freddo l’altro, «è un uomo che ha commesso degli errori e li ha confessati tutti. Nessuno più di lui merita quel posto».
«È compromesso con la mafia!» sbottò Nicolò, non riuscendo a trattenersi, «ti rendi conto di che persona sia? Come Chiarelli, come metà del mio partito! Lo sai cos’è successo nell’ultima assemblea del mio gruppo, eh? Che hanno avuto il coraggio di difenderlo! Giorgio se n’è andato, schifato. Metà dei circoli territoriali si sono sciolti in protesta. E tu mi chiedi di tornare?»
«Ma che razza di persona sei diventato?» Michele riuscì a guardarlo dall’alto in basso, nonostante la statura non lo aiutasse, «il Nicolò che conoscevo faceva ostruzionismo giorno e notte per non far passare una legge. Non scappava davanti ai problemi, li affrontava!»
Nico si alzò dalla sedia, punto sul vivo.
«E che differenza potrei fare? Non posso cambiare nulla, ormai» gridò.
Ci fu qualche secondo di silenzio prima che il suono di uno schiaffo vibrò nella stanza.
Michele restò diversi secondi con la mano alzata, quasi non credendo di averlo fatto davvero. Nicolò si toccò la guancia colpita, non riuscendo a capacitarsi di quel colpo restituito con mesi di ritardo.
Ricordò quel momento in cui aveva alzato lui la mano contro l’altro, il quale al tempo aveva difeso la sua azione politica dicendo che non avrebbe fatto differenza un voto in più o in meno. Realizzò che la rabbia che aveva mosso la sua mano era la stessa che, in quel momento, aveva fatto scattare quella dell’altro, in un gesto del quale mai lo avrebbe ritenuto capace.
Fissò gli occhi di Michele, ritrovandoci quello sguardo duro e deciso che un tempo apparteneva anche a lui, e che non assomigliava neanche lontanamente a quello spaventato e rassegnato dell’uomo che aveva conosciuto.
Guardò l’altro mentre usciva dal suo ufficio, evidentemente reputandolo indegno anche solo per un saluto.
 
 
*
 
 
Pasqui osservava le stelle dalle finestre ampie del suo nuovo ufficio. Si ritrovò a immaginare tutte le volte che Riccardo vi aveva guardato da quella sua stessa posizione, perso in quei pensieri orribili che lo avevano portato a togliersi la vita.
Aveva sperimentato una commozione mai sentita prima per la protezione del suo partito nei suoi confronti. Thomas, eletto
all’unanimità nuovo capogruppo, si lanciava in ferventi interviste in sua difesa, oltre a venirlo a prendere per il pranzo e per la cena, assicurandosi che mangiasse. Martino, nominato nuovo presidente di SD al posto di Goffredo, si dava un gran daffare per rilanciare l’immagine del partito e per difenderlo dagli attacchi in aula. Persino il vecchio Costa, all’inizio molto contrariato per la sua elezione, aveva speso delle belle parole su di lui.
Una sera di quelle, Marcello aveva trovato Martino da solo al bar, che beveva malinconico più di quanto riuscisse a reggere. Non gli aveva detto niente, ma aveva scritto un messaggio al barista per dirgli di non dargli più alcolici. Il giorno dopo gli aveva fatto trovare un indirizzo sulla scrivania, con un biglietto su cui aveva scritto che c’era qualcuno che ancora poteva riportare indietro. Era uno slancio di gratitudine immenso per lui, perché sapeva che se quell’uomo fosse davvero tornato lo avrebbe sicuramente attaccato, ma lo aveva fatto lo stesso. In fondo, sapeva molto bene cosa significasse perdere un amico.
Mentre era perso nei suoi pensieri, un uomo sconosciuto entrò nel suo ufficio.
«Pasqui Marcello?»
«Sono io».
«Bene» fece pochi passi verso la scrivania, «questo è per lei, buona serata».
Marcello si avvicinò, notando una busta con scritto il suo nome.
«Ma chi è lei?» gridò verso la porta aperta dove l’uomo era scomparso all’improvviso.
Prese la busta in mano, sentendo il cuore accelerare per ciò che vi avrebbe trovato dentro.
 
“Caro Marcello,
mi dispiace. Per confessare la verità ho dovuto ammettere anche le tue colpe, senza il tuo consenso. Per rimediare a quest’ultimo danno ho deciso di lasciarti sia il mio conto in banca che i numeri di alcuni avvocati. Troverai i biglietti da visita dentro la busta, comunque ci ho già parlato io. Nel peggiore dei casi ti daranno qualche mese di servizi sociali e una multa che non avrai difficoltà a saldare. Nel migliore, la verità non verrà mai fuori, perché chi la detiene in questo momento avrà troppo buon cuore per fartela pagare. In qualunque scenario, almeno potrò andarmene con la certezza di averti risparmiato il carcere.
Non potevo andarmene senza salutarti. Non potrò mai ringraziarti abbastanza per ciò che hai fatto per me. Ci ho provato poco fa, quando ti ho incontrato sulle scale di piazza del Gesù. Ma non bastano né poche parole, né la mia eredità a saldare il debito di una vita intera.
So che in questo momento starai provando molto rancore verso di me e non posso impedirtelo. Se potessi rimedierei seduta stante al tuo dolore silenzioso, ma me ne vado con la speranza che qualcuno possa fare ciò che tu hai fatto per me: starmi accanto nel periodo più buio della mia ita.
Non saremo più una squadra, ma avrai sempre un partito su cui contare, spero che tu te lo ricordi sempre. Voglio credere che un giorno potrai tornare a sorridere e, forse, a perdonarmi. Ci crederò con tutte le mie forze, aggrappandomi a questo pensiero fino al mio ultimo respiro. E so che non sto sperando invano, perché tu non mi hai mai deluso.
Ric”
 

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Capitolo 28
*** Nota finale ***


Ciao!

Come avrete notato, la storia è di nuovo completa e pubblicata. Avevo lasciato solo le anteprime dei capitoli perché per un po' ho cercato di pubblicarla come libro, impresa a cui ho presto desistito.
Sarebbe lo spazio ideale per muovere critiche al mercato editoriale attuale, ma la realtà è molto più brutale: non sono una scrittrice e questa è una semplice fanfiction come livello stilistico, era ingiusto pretendere di trasformarla in romanzo. Per questo ho voluto restituirla qui dove apparteneva.
Ho iniziato a scriverla che correva l'anno 2014, ero chiaramente ispirata dal mondo politico di quell'epoca, ma in dieci anni anche le storie invecchiano. Oggi cambierei tante cose, soprattutto a livello stilistico, ma ogni storia è legata a un suo tempo e il perfezionismo che sicuramente impiegherei nel riscriverla come piace alla me di adesso cancellerebbe tutta la spontaneità e la bella ingenuità che questa storia aveva e che mi ha fatto sinceramente amare scriverla.

Purtroppo i capitoli non corrispondono più a quelli originali (ahimè dopo 10 anni di traslochi informatici ho perso la prima stesura). Ma se qualcuno ritornerà qua dopo una vita e recupererà un ricordo o inizierà a leggerla per la prima volta sarà valsa la pena.

Io sono una persona nostalgica di base, ma con questa storia c'è un legame profondo. Passavo diverse sere a scrivere quando ancora ero una studentessa universitaria, adesso sono impiegata (indovinate?) proprio a Montecitorio.
Quando scrivevo queste pagine era ancora un sogno lontano.

Ricopiando tutto il testo ho sentito la voglia di tornare a scrivere, e forse se sarà veramente una necessità dell'anima tornerò a farlo.

Devo tanto a chi è rimasto affezionato, a chi si è fatto sentire dopo anni, a chi mi aveva fatto le bellissime fanart, a chi con pazienza aveva recensito tutti i capitoli e a chi ha provato a farmelo pubblicare il romanzo. Non ho parole migliori per esprimere qualcosa che è rimasto forte in me legato a queste pagine, che so che per me sono molto più di un semplice ricordo.

Alla prossima!

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