Tell God He's Got A Dirty Angel

di Hermione Weasley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Alejado ***
Capitolo 2: *** 02. Waiting ***
Capitolo 3: *** 03. Panic ***
Capitolo 4: *** 04. Cursed ***
Capitolo 5: *** 05. Straniero ***
Capitolo 6: *** 06. Malchance ***
Capitolo 7: *** 07. Neve ***



Capitolo 1
*** 01. Alejado ***


Allora, prima di tutto volevo ringraziare chi ha recensito le mie ff di Heroes <3 Grazie mille!
Secondo di poi, questa ff potrebbe contenere SPOILERS per la seconda stagione.
Il prompt usato è "Udito" per le 100 FF su Sylar. Perché sono un po' masochista.

01. Alejado


In principio, era la convinzione di precipitare.
Sempre in più basso, in un caotico vortice di niente.
Poi erano voci.
Ed era come se dicessero tutto e niente.
Erano familiari.
Ma non le capiva.
Erano lontane, ma gli risuonavano in petto.
Il lento dondolare di quelle che parevano note scoordinate.
Come un pianoforte non accordato.
Ma era perfetta armonia nella disarmonia.
Era l'ordine nel caos.
Il punto immobile in un girare senza senso.
Né partenza, né traguardo.
Era il calore di quelle parole, il tepore di quella cadenza.
Era il salire e lo scendere, in un turbine di sabbia e sole.
Era il sudore sulla sua pelle, e quel profumo strano che sapeva di fiori e afa.
La fine non arrivava.
Solo giù.
Giù.
Era l'altezza che gli toglieva il respiro.
Era il dolore sordo al petto, che martelleva senza alcun riguardo.
Era l'inerzia di quella strada assolata.
Di quella torrida atmosfera.
E di nuovo quelle voci.
O forse solo una.
Fastidiosa.
Pungente.
Scomoda.
Trattenne malamente il fiato, quando ormai la caduta sembrava essere imminente.

Spalancò gli occhi, infastidito dalla luce insistente.
Li richiuse subito dopo.
Giusto una breve occhiata a quella deprimente stanza di motel riusciva a dargli il voltastomaco.
Quel pigro silenzio lo assordava.
Solo il gracchiare di un'emittente radiofonica spagnola dalla stanza accanto.

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Capitolo 2
*** 02. Waiting ***


Prompt usato: Natale sempre per le 100 FF su Sylar.
Niente spoilers stavolta.


02. Waiting


Assottiglia lo sguardo.
Chiude un occhio.
Poi l'altro.
E' divertito dallo spostamento apparente del bue.
O dell'asinello.
Li riapre entrambi, riprendendo a studiare le espressioni di quelle minuscole statuine.
Mani premute le une sulle altre, in una religiosa immobilità.
La culla vuota.
Avrebbe trovato degno occupante solo qualche ora più tardi.
Gabriel sa che Babbo Natale non esiste.
Non lo aspetta, anche se una minuscola parte di lui spera che arrivi comunque.
Anche solo un segno.
Un rumore dal camino che possa smentirlo.
Non è la prima volta che si immagina di correre in cucina, con un sorriso trionfante, pronto a provare a sua madre che si sbaglia.
Che si è sempre sbagliata.
Una vaga occhiata in direzione del fuoco morente.
Occhiata che vorrebbe essere disinteressata, ma che non lo è.
Fugace e rapida.
Gabriel ha il terrore che se restasse a guardarlo per troppo tempo, non accadrà niente.
Non vuole mostrarsi troppo speranzoso.
Sa che le sue aspettative rischiano di essere tradite ancora una volta.
Ma non riesce a fare altrimenti.
E' una sensazione troppo piena.
Gli prende tutto il petto e glielo riempie.
Una speranza troppo grande per un bambino così piccolo.
Dà un colpetto ad uno dei pastori.
E' troppo vicino ai Re Magi, e gli dà fastidio vedere una composizione così sbilanciata.
Urta per sbaglio una pecorella.
E la rimette in piedi, ignorando le voci sommesse dei suoi genitori nell'altra stanza.
I suoi amici lo hanno preso in giro quando ha detto loro che in casa sua non usano addobbare un abete a Natale.
Solo il Presepe.
Sua madre dice che è abbastanza.
Che è un giorno importantissimo, non un'ostentazione di decorazioni.
Per questo la loro casa è sempre buia anche sotto il periodo natalizio.
Gabriel finge di non interessarsene.
Spaccia il suo dispiacere per superiorità.
Risponde bruscamente che lui non ne ha bisogno.
Che è già grande.
Grande anche per le decorazioni e per le luci intermittenti.
E continua a ripeterselo, forse nel tentativo di renderlo più convincente.
Sospira di nuovo, soffiando un po' della farina che funge da neve nella capanna.
La paglia della culla è leggermente imbiancata.
Quest'anno non verrà lo zio dal Michigan.
Pare che abbia avuto un contrattempo.
Non gli interessa poi molto.
Non ne ricorda nemmeno il nome.
Sa solo che è solito portargli un po' di cioccolata.
Negli anni precedenti, è riuscito a mangiarne solo una minuscola parte.
Con una qualche scusa, sua madre gliele nasconde sempre.
Molto probabilmente la butta.
Gabriel è convinto che abbia una strana concezione del Bene e del Male.
Vorrebbe dirle che non c'è niente di diabolico in una barretta di cioccolato.
Ma non ha mai trovato il coraggio di farlo.
Tace e annuisce.
Non vuole dispiacere a sua madre.
Non vuole farla arrabbiare.
L'ultima volta che si è adirata con lui, l'ha mandato a letto senza cena.
E poi gli piacciono quei racconti della sera.
Parabole, episodi dei Vangeli, che sua madre gli racconta prima di andare a dormire.
Gli piace la sua aria accorata e coinvolta.
Poi, quando ha finito, si sporge verso di lui.
Gli posa un leggero bacio sulla fronte e gli sistema i capelli.
Mormora una sommessa preghiera e gli sorride.
Si alza, spenge la luce, ed esce.
Non gli piace fare a meno del rito della buonanotte.
Non vuole ammetterlo, ma a volte corre a letto prima dell'orario stabilito, solo per quello.
Tenta di non mostrarsi impaziente, soltanto per sentire quelle labbra sulla fronte.
Rialza lo sguardo solo quando una voce lo richiama dalla cucina.
E' pronto.
Si solleva, rimettendo Baldassare al suo posto.
Viene un buon odore dalla cucina.
Gabriel corre in quella direzione.
Ignora volutamente il caminetto silenzioso.
Lo sorpassa, fingendosi disinteressato a quell'ennesimo tradimento.
Fa finta di niente.
Forse sua madre gli farà dire la preghiera prima di iniziare a mangiare.
Conta di chiederglielo.

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Capitolo 3
*** 03. Panic ***


Prompt: Porpora per le 100 FF su Sylar.
No spoiler.


03. Panic


Un fremito incontrollato lo scosse prepotentemente.
Non era paura.
Panico.
Era panico e sembrava vivo.
Come una sordida presenza che si dimenava furiosamente nel suo stomaco.
Mura che non gli erano mai sembrate tanto strette.
L'avvicinarsi delle parete.
Claustrofobica sensazione di soffocamento.
Il tic-tac lontano.
Sempre lo stesso, ripetitivo.
Nessun battito familiare.
Non c'era vita nelle vicinanze.
Solo morte.
Morte dal profumo conosciuto e acre e violento.
Lo svincolarsi di qualcosa che usava chiamare coscienza, che fino ad allora aveva taciuto.
Silenziosa.
Muta.
Ma quei fiumi di porpora, stavano urlando.
Gridavano.
Folli, senza alcun controllo.
Urla che gli laceravano i timpani.
Che gli strappavano sospiri impauriti.
Non aveva mai desiderato tornare indietro, cancellare il tempo.
Non fino a quel momento.
Era una fiamma conosciuta che si era spenta.
E l'aveva vista tremula, prima di spegnersi.
Definitivamente.
Sicuro che il suo cuore avesse perso un battito.
Aveva cercato una scintilla di vita in quegli occhi che rispecchiavano perfettamente i suoi.
Ma erano gelidi e immobili.
In fissa del vuoto.
Senza una parola, assistevano alla sua punizione.
Un silenzio insopportabile.
Mani che l'avevano accarezzato.
Morte.
Abbracci in cui aveva cercato conforto.
Come congelati.
Labbra che avevano sentenziato la sua innocenza o la sua colpevolezza.
Livide.
Impresse in una pallida smorfia d'accusa.
Di profonda delusione e tradimento.

Sua madre come pietrificata.
In un letto di sangue.

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Capitolo 4
*** 04. Cursed ***



04. Cursed

Il cielo era azzurro e sereno.
Col naso all'insù osservava distrattamente la luce che pioveva tra le fronde degli alberi.
Tutt'intorno solo voci ovattate di altri bambini: chi piangeva, chi rideva, chi urlava dopo essere inciampato nel bel mezzo di una folle corsa senza meta.
Non conosceva esattamente l'attrativa del restarsene sdraiato su quella panchina, ignorando le grida di chi, intorno a lui, si stava impegnando maniacalmente in una partita di calcio improvvisata, con una palla altrettanto di fortuna: un po' di carta appallottolata e fermata con dello scotch da pacchi.
Era stato lui a spiegar loro come fare.
Non amava particolarmente parlare con gli altri bambini, ma a volte gli piaceva mostrar loro di cosa era capace.
Si divertiva così.
Tornò a chiudere gli occhi, per un attimo abbagliato dallo splendore del sole.
Faceva caldo, e sua madre cantava sommessamente mentre lavorava qualcosa all'uncinetto.
"Gabriel?"
"Sì, mamma?" Sollevò pigramente una palpebra, occhieggiando la donna che lo stava guardando con estrema attenzione.
Il tempo sembrò dilatarsi sotto il suo sguardo, allungandosi fino all'inverosimile.
Stupidamente, gli sembrò che quell'attimo non sarebbe mai finito, che sarebbe stato eterno.
Trattenne il respiro senza nemmeno accorgersene.
"Niente," soggiunse lei, mentre un ampio sorriso le distendeva i tratti del volto.
Increspò le labbra in una smorfia che doveva assomigliare ad un sorriso di risposta e benché sapesse di non essere stato convincente, sua madre parve accontentarsi.
Seguì il basso volo di un uccello, guardandolo mentre si fermava su uno dei rami più alti dell'albero dirimpetto alla panchina, per poi spiccare nuovamente il volo.
Fu costretto a richiudere gli occhi non appena la traiettoria della tortora andò a tuffarsi dritta nel cerchio luminoso del sole.
Avrebbe voluto seguirla.
In alto.



Abbassò con un gesto secco le tapparelle del negozio: la luce che vi filtrava attraverso portava gli unici spicchi di sole in quella tetra stanza che ticchettava senza sosta.
Il condizionatore si era rotto la settimana prima. Nonostante Gabriel sapesse esattamente cosa non andasse in quella dannata macchina, non aveva intenzione di spendere un solo minuto del suo tempo per ripararla.
Si era accontentato di un vecchio ventilatore che aveva ritrovato nella cantina della bottega.
Muoveva pigramente la testa da una parte e dall'altra, emettendo un sinistro gracchiare che riusciva ad infastidirlo fino all'inverosimile.
C'era puzzo di chiuso là dentro.
Stantio mischiato all'odore che emanava la sua pelle bollente.
Sua madre l'aveva pregato di prendersi un periodo di ferie e andare a trovare la nonna o uno degli zii, "per cambiare aria" aveva detto.
Ma Gabriel non aveva bisogno di cambiare aria: era lì che si sentiva a casa.
Lontano dal caos della metropoli e rinchiuso nella sua ticchettante condizione di emarginato.
Aveva sviluppato l'opprimente convinzione di essere nel giusto, di non essere compreso... ma sapeva che prima o poi si sarebbero dovuti ricredere su di lui.
Perché le foglie ingialliscono, e attendono la nuova stagione per cadere.
E sembrano talmente tanto belle e tanto forti quando verdeggiano sotto gli occhi di tutti, che nessuno oserebbe mai pensarle polverizzate sotto un passo un po' più deciso in una strada qualunque di quell'enorme città.
Eppure era così che si sentiva.
Aspettava solo una nuova stagione.
Aspettava un altro tempo.
"Beati gli ultimi," gli ricordava sempre sua madre, "perché saranno i primi".
Gabriel ci aveva sempre creduto.
Ci doveva credere.



Il cielo si stava già tingendo di rosso quando la luna lo sorprese.
Aveva una camminata lenta, ma sostenuta.
Tremava.
Forse per il freddo: non si era nemmeno messo una giacca, come se non gli importasse minimamente della propria salute.
Senza rendersene conto, aveva imboccato la strada per il parco.
Già gli alberi costeggiavano la strada, proiettando sinistre figure sull'asfalto: allungate e deformi.
Irriconoscibili.
Tentò di focalizzare la sua attenzione solo sul suono dei suoi passi... ma era tutto così tremendamente amplificato nella sua testa che anche solo il cadere di una goccia d'acqua sarebbe riuscito a farlo impazzire.
Solo dopo qualche attimo si rese conto del continuo scricchiolare delle foglie sotto le sue scarpe.
Lo infastidiva.
L'assurda certezza che ogni cosa fosse nata per essere infranta, riusciva a destabilizzarlo.
Le mani si muovevano frenetiche nelle tasche del golf macchiato.
Possibile che non sentisse più l'odore acre del sangue che gli impregnava gli abiti?
Possibile che fosse talmente abituato alla morte, da non esserne più toccato?
L'aveva guardata in faccia, di questo era certo... ma l'aveva realmente vista?
O erano soltanto i tratti confusi di un viso che non esisteva affatto?
Come uno scatto sfocato che non ci si prende nemmeno la briga di guardare.
Eppure, mentre il vento gli sferzava impietosamente il volto, il rumore di quelle foglie polverizzate riusciva a terrorizzarlo.
Come puoi rimettere insieme i miliardi di minuscoli pezzettini in cui si spezza dopo essere caduta?
Come si ripara qualcosa che non puoi riparare?
Non può nemmeno tornare sui rami più alti.
E' solo destinata ad una lenta, ma inesorabile dissoluzione.



Era una mano scarna quella che faceva capolino dall'ingombrante piumino scolorito che indossava.
La neve incessante l'aveva costretto a rifugiarsi nel primo locale aperto: un'anonima tavola calda, frequentata da persone anonime, su un'altrettanto anonima strada statale.
L'ululare del vento l'aveva spinto sin lì.
Non amava particolarmente la neve, ma, come la pioggia, gli dava una piacevole idea di catarsi.
Era come se quel manto bianco potesse ricoprire e cancellare tutto lo schifo che l'anno aveva portato con sé, per poi ricominciare da capo.
Di nuovo.
Prese posto ad uno dei tavoli più lontani dall'entrata, assicurandosi di essere abbastanza nascosto per poter sfuggire a occhiate indiscrete.
Le detestava.
Ordinò un caffè senza zucchero, con un tono di voce basso e rauco al quale non si era ancora abituato.
Non si ricordava come fosse una volta la sua voce.
Adesso c'era solo quella, e per quanto sgraziata fosse, aveva deciso di non dispiacersene troppo.
Le mani gli tremavano, ma non era per il freddo.
Era qualcos'altro.
Qualcosa che lo stava lentamente divorando dall'interno.
Col passare degli anni, aveva semplicemente affibbiato a quella sensazione il nome di "senso di colpa" o "rancore", che dir si voglia.
Non gli importava il come, era il cosa che lo interessava.
O il perché.
Perché il tempo gli avesse permesso di vedere così tanti inverni, ad esempio.
Non era passato un giorno, uno solo, in cui non se lo fosse domandato fino alla nausea.
Ma si era anche abituato a quel sordo mutismo che riceveva in risposta.
Nessuno gli avrebbe rivolto né una parola di conforto, né un crudo insulto urlato a squarciagola.
Sylar non esisteva.
Gabriel non esisteva.
Si era annullato in se stesso per la peggiore delle condanne.
Era morto per tutti, ma non per se stesso.
Forse se lo meritava. Si meritava tutto quel silenzio.
Non c'era altra spiegazione logica.
Non ringraziò la cameriera quando gli portò la sua tazza di caffè.
Volse il capo verso il vetro che dava direttamente sulla strada deserta.
Il sole stava tramontando, pronto a portarsi via il giorno ancora una volta.
Si chiedeva perché non potesse portarsi via anche lui.
Lontano da lì, una volta per tutte.
Soffocato dalla neve e spazzato via con il nascere della nuova stagione.
Non ci sarebbero state più primavere per lui, o estati... solo un gelido e duraturo inverno che non avrebbe avuto pietà.
Non per lui.
Non stavolta.

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Capitolo 5
*** 05. Straniero ***


Liberamente ispirata a L'Etranger di Baudelaire.

05. STRANIERO



Gli chiesero se amasse la sua donna. Rispose che non ne aveva una.
Gli chiesero se amasse la sua famiglia. Rispose che non si ricordava nemmeno cosa fosse, una famiglia.
Gli chiesero se amasse il suo lavoro. Rispose che non ne aveva più uno da tempo.
Gli chiesero se amasse i suoi amici. Rispose che non ne aveva mai avuti.
Gli chiesero se amasse il denaro. Rispose che non aveva mai avuto interesse per la ricchezza.
Gli chiesero se amasse se stesso. Rispose: "come potrei?"
Gli chiesero se amasse la sua terra. Rispose che non apparteneva a nessun luogo.
Gli chiesero se amasse i suoi poteri. Rispose che non ricordava che effetto facesse averne.
Gli chiesero se amasse uccidere. Rispose che l'aveva sempre fatto per necessità.
Gli chiesero se amasse qualcuno o qualcosa. Rispose che no, non amava niente e nessuno.
Gli chiesero se amasse la vita. Rispose che l'amava tanto quanto la morte.
Gli chiesero se amasse Dio. Rispose che il perdono non esisteva.

Gli chiesero se avesse mai amato.

Tacque.

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Capitolo 6
*** 06. Malchance ***


- Ridavano alcuni episodi di Heroes ieri sera, uno era quello in cui Gabriel fa a far visita alla madre (1x21: The Hard Part). Virginia menziona i frequenti viaggi di Gabriel che - a suo dire - avrebbe visto tutto il mondo. Quindi... mi sono sentita ispirata in questo senso :] Parigi è la prima tappa! Gli avvenimenti di questa flash-fic si collocano prima del Volume I, prima di Sylar in pratica.
- Malchance significa "sfortuna" in francese.



06. Malchance.

*


Rue Jules Verne, 35
75011 Paris
France


Rilegge le poche righe scritte a mano sul foglietto schizzato di inchiostro, prima di accartocciarlo.

L'insegna del negozio pende di lato: un vecchio orologio stilizzato che reca il nome della bottega subito sotto.

Gabriel socchiude per un secondo gli occhi, sforzandosi di non perdere la pazienza quando il suo sguardo si sofferma ancora una volta sul cartello che avvisa la gentile (e probabilmente inesisente) clientela che l'attività è chiusa fino a data da destinarsi.

Era sicuro che sarebbe riuscito a trovare i pezzi che gli servono, lì a Parigi, ma a quanto pare ha sbagliato a fare i conti.

Un viaggio a vuoto.

Dà le spalle alla vetrina sporca e polverosa, dalla quale riesce ad intravedere varie pendole, cucù, quadranti e lancette, batuffoli grigi negli angoli più bui della stanza.

Pensa con disgusto che, in confronto, la bottega di suo padre è la reggia di un sovrano.

"Ça va, monsieur?"

Una voce di donna lo raggiunge inaspettatamente. Si volta di lato, senza vedere nessuno.

"Su, monsieur!"

Alza di scatto il capo, mentre una donna appoggiata al davanzale dell'appartamento sopra il negozio, gli rivolge un gran sorriso.

Ha su per giù trentacinque anni, grandi occhi neri, capelli corvini che le circondano il viso in ciuffi scomposti, e una scollatura degna di nota accentuata dalla posizione china alla finestra.

"Cercavo...," Gabriel indica la vetrina. Non parla francese, lo spiccica un po', ma non ha intenzione di fare una qualche pessima figura con una donna del genere.

"Monsieur Barton?" Scuote vigorosamente la testa, senza smettere di sorridergli. "Il est mort."

Morto. Gabriel abbassa il capo, maledicendo la sua cattiva sorte.

"Vous le connaissez?"

Non solleva lo sguardo per per poterla guardare, limitandosi a scuotere la testa in cenno di diniego. No, non lo conosceva.

"Il était très malade," continua la donna, senza togliergli gli occhi di dosso, "et très bizarre, aussi. Voulez-vous boire quelque chose, Monsieur?"

Gabriel fa un passo indietro, scendendo dal marciapiede per avere una visuale migliore.

"No, grazie," si limita a risponderle, sempre in inglese, senza accennare ad un sorriso.

"Vous êtes fatigué, n'est-ce pas?"
"Un po'," dopo un viaggio così lungo, chiunque lo sarebbe.
"Vous pourriez faire une petite pause ici," propone lei.

I suoi grandi occhi neri si accendono di una luce strana, qualcosa che Gabriel non può riconoscere.

"Davvero, non -"
"Oh, allons monsieur! Je ne suis pas un terrible assassin!"
"Non -"
"Allez, je vous ouvre la porte!"
"Io -"
La vede sparire dalla sua visuale, probabilmente lanciata verso la porta, ma ricompare qualche secondo dopo, inaspettatamente.

"Votre nom?"
"Gabriel."
"Gabriel...," si illumina appena, ripetendosi il nome, "comme l'archange, n'est-ce pas? C'est jolie."

Gabriel le rivolge un sorriso strano, annuendo appena.

Sì.
Sì, come l'arcangelo.

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Capitolo 7
*** 07. Neve ***



Un'altra doppia drabble su Sylar :) Volevo ringraziare _Sophy__xX: la tua recensione mi ha fatto davvero piacere^^; Purtroppo Heroes in Italia è abbastanza snobbato ç_ç Sigh. Grazie mille, sul serio!


07. Neve.


Vittime di lente e pigre traiettorie piegate alle leggi fisiche della gravità. Un attimo, un solo stupidissimo attimo, in cui si trovavano sospesi a mezz'aria, in un turbinio danzante di fiocchi di neve.

Uno diverso l'altro, ognuno di essi speciale nella propria solitudine.

Era una breve illusione quella che li faceva volare (o cadere?) nell'aria tersa di quel rigido inverno.

Gioivano di un'inesorabile discesa che si sarebbe conclusa in qualche squallido e patetico monticello di neve bagnata, ingiallita e sporca ai lati di una qualunque, sudicia strada secondaria.

Condannati ad una vita breve, fuggevole, apparentemente perfetta, consumata in un immobile e gelido silenzio, rischiarato soltanto dal pallido sole di dicembre.

Il loro essere speciale era una condanna alla solitudine.
A che serviva esserlo se non c'era nessuno che poteva compiacersene, oltre al loro labile ego?

Gabriel sentiva soltanto il freddo che gli bruciava le guance e il lento soffiare del vento ghiacciato dalla finestra aperta.

Non riusciva a smettere di gioire di quella sua cocente e tremenda disgrazia.

Poi la neve tornò a depositarsi sul fondo della sfera di vetro.

Sua madre gli intimò di posarla immediatamente.

Obbedì.

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