I diari di Jay

di BabaYagaIsBack
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter 1: This is Jay ***
Capitolo 2: *** Chapter 2: What a best friend looks like ***
Capitolo 3: *** Chapter 3: When Everything goes wrong ***
Capitolo 4: *** Chapter 4: Can't get along with alcohol ***
Capitolo 5: *** Chapter 5: Jace ***
Capitolo 6: *** Chapter 6: A Shadow ***
Capitolo 7: *** Chapter 7: This was not supposed to happen ***
Capitolo 8: *** Chapter 8: Am I Dreaming? ***
Capitolo 9: *** Chapter 9: Not a Mistake ***
Capitolo 10: *** Chapter 10: Changes in the air ***
Capitolo 11: *** Chapter 11: Nice to meet you ***
Capitolo 12: *** Chapter 12: He's my safe place ***
Capitolo 13: *** Chapter 13: Secrets you keep ***
Capitolo 14: *** Chapter 14: I won't give up ***
Capitolo 15: *** Chapter 15: Just a Step (part one) ***
Capitolo 16: *** Chapter 15: Just a Step (part Two) ***
Capitolo 17: *** Chapter 16: Trust me ***
Capitolo 18: *** Chapert 17: I'll fight for you ***
Capitolo 19: *** Chapter 18: Please, be careful ***
Capitolo 20: *** Chapter 19: Broken Hopes Sounds like Bass Drum (part one) ***
Capitolo 21: *** Chapter 19: Broken hopes sounds like bass drum (part two) ***
Capitolo 22: *** Chapter 19: Broken Hopes Sounds like Bass Drum (part three) ***
Capitolo 23: *** Chapter 19: Broken Hopes Sounds Like Bass Drum (part four) ***
Capitolo 24: *** Chapter 20: You wake up from every dream (part one) ***
Capitolo 25: *** Chapter 20: You wake up from every dream (part two) ***
Capitolo 26: *** Chapter 21: Keeping my promises ***
Capitolo 27: *** Chapter 22: No response ***
Capitolo 28: *** Chapter 23: True friends stab you in the front (part one) ***
Capitolo 29: *** Chapter 23: True friends stab you in the front (part two) ***
Capitolo 30: *** Chapter 24: Come to terms with the enemy ***
Capitolo 31: *** Note to the Readers ***
Capitolo 32: *** Chapter 25: Things get better, things get stranger (Part One) ***
Capitolo 33: *** Chapter 25: Things get better, things get stranger (Part Two) ***
Capitolo 34: *** Chapter 26: Be a man, not a jerk ***
Capitolo 35: *** Chapter 27: Breaking feelings like bones (part one) ***
Capitolo 36: *** Chapter 27: Breaking feelings like bones (part two) ***
Capitolo 37: *** Chapter 28: Where is he? ***
Capitolo 38: *** Chapter 29: Don't let me go (part one) ***
Capitolo 39: *** Chapter 29: Don't let me go (part two) ***
Capitolo 40: *** Chapter 29: Don't let me go (part three) ***
Capitolo 41: *** Chapter 29: Don't let me go (part four) ***
Capitolo 42: *** Chapter 30: All the unspoken things (part one) ***
Capitolo 43: *** Chapter 30: All the unspoken things (part two) ***
Capitolo 44: *** Chapter 31: The truce of the birthday (part one) ***
Capitolo 45: *** Chapter 31: The truce of the birthday (part two) ***
Capitolo 46: *** Chapter 31: The truce of the birthday (part three) ***
Capitolo 47: *** Chapter 32: Things left undone (part one) ***
Capitolo 48: *** Chapter 32: Things left undone (part two) ***
Capitolo 49: *** Chapter 32: Things left undone (part three) ***
Capitolo 50: *** Chapter 33: Can you hear the ice cracking? (part one) ***
Capitolo 51: *** Chapter 33: Can you hear the ice cracking? (part two) ***
Capitolo 52: *** Chapter 34: I'm begging you ***
Capitolo 53: *** Chapter 35: The end will come, but it won't be the end (part one) ***
Capitolo 54: *** Chapter 35: The end will come, but it won't be the end (part two) END ***



Capitolo 1
*** Chapter 1: This is Jay ***




N.B. Buongiorno lettori e benvenuti tra le righe che, ben otto anni fa, mi accingevo a scrivere su un computer fisso pressoché dell'epoca vittoriana.
Questa è la primissima storia che io abbia mai scritto, quindi potrebbe risultare più acerba di altre, ma appunto perchè è l' "inizio" del mio percorso, è quella a cui sono più legata.

Ebbene, a distanza di qualche tempo (molto) dall'ultima revisione che gli ho apportato, oggi mi preparo a ricominciare la correzione e presentarvi un testo nettamente più pulito e, mi auguro, maturo, senza però snaturalizzare la trama e i personaggi che caratterizzano questo racconto.
Spero che questa versione possa essere di vostro gradimento - e che v'invogli a confrontarvi con la sottoscritta.


1. This is Jay
 
 

 

In quello che deve essere il torpore mattutino, una voce squillante e simile allo strillo di una cornacchia s'infila nel mio dormiveglia umido di bava e sogni non adatti ai minori, facendomi rivoltare sotto alle coperte. Mi piacerebbe non sentire nulla, riuscire ad ignorare le minacce e le domande, ma più provo a tornare alle immagini oniriche che riempiono la mia testa, più fatico a far finta di nulla.
«Jane! Diamine Jane! Scendi a fare colazione sì, o no?» 
Vorrei poter fingere che la voce di mia madre non sia irata come tutte le mattine dell'anno, così come vorrei poter dire che qui, a casa Raven, un modesto edificio situato nella zona sud-orientale del Brent, i risvegli traumatici non siano all'ordine del giorno, ma mentirei in entrambi i casi. Non so, credo che nei miei geni ci sia una vera e propria repulsione per le sveglie, per questo mi ritrovo costantemente a fare i conti con i versi da rapace che Catherine emette pur di vedermi comparire in cucina ad un orario abbastanza accettabile da poter adempiere ai miei doveri di figlia, adolescente e studentessa londinese. 
Un nuovo grido giunge dalla base delle scale, disturbando nuovamente la pace che regna sotto al piumone: «Se non ti sbrighi vengo su e ti porto a tavola tirandoti per i capelli! Hai capito?»

Sì Cat, purtroppo ti ho sentita.

È giunto il momento di abbandonare il delizioso calore del letto, volente o nolente – così, come una tartaruga che mette la testa fuori dal proprio guscio, io faccio altrettanto, ritrovandomi a fare i conti con i tiepidi raggi di un sole autunnale che entra dagli spazi tra le tende. Il bruciore agli occhi mi fa mugugnare a denti stretti, peggiorando ancor di più l'umore già instabile del momento. Perché devo fare la mia apparizione nel mondo dei vivi alle nove persino il sabato? Non è considerato giorno feriale da praticamente tutta la città o la Gran Bretagna in generale? 
Mia madre non molla, la sento lamentarsi nuovamente. Ha una perseveranza invidiabile, dote che nessuno in famiglia è riuscito ad ereditare, nemmeno Jace.
Con un movimento deciso del braccio tolgo le coperte da sopra il mio corpo, convinta che sia la cosa migliore da fare per evitare una guerra. Non faccio in tempo a complimentarmi per questa ammirevole scelta che il freddo mi assale con una certa violenza, portandomi quasi alle lacrime.

Voglio morire.

Non si dovrebbe dire, lo so, in fin dei conti si tratta solo di qualche grado in meno rispetto a prima, eppure il fatto di aver appena aperto gli occhi lo rende un fatto di terribile entità, qualcosa di paragonabile ad una strage. La pelle d'oca s'impossessa dell'epidermide chiara, mi fa stringere su me stessa portandomi alla mente una moltitudine fin troppo familiare di domande. Ma perché diamine non posso avere un bel risveglio caldo e accogliente come si vede nelle pubblicità? Perché devo sempre ritrovarmi ad avere a che fare con il cattivo umore già a quest'ora?
Prendo un grosso respiro, mi faccio coraggio e alla fine alzo il sedere dal materasso che mi ha coccolata dal momento in cui sono rientrata a casa la notte precedente. I piedi si muovono lentamente sul parquet, fanno persino fatica ad elevarsi dal suolo; i passi non fanno alcun rumore, corrono silenziosi fino a qualche centimetro dall'enorme affare che ho davanti: lo specchio. Fisso con attenzione la lastra riflettente che ho difronte, provando a mettere a fuoco il mio aspetto, ma soprattutto provando a ricordare cosa ho fatto di preciso la sera scorsa. Tutto mi è chiaro fino a quando non sono salita sull'auto del mio migliore amico, poi credo di aver perso i sensi, sprofondando in un primo sonno appesantito dall'alcol.
Piego la testa da un lato cercando di far mente locale e, mentre ci provo, mi rendo conto di aver un aspetto tutt'altro che accettabile. Nulla sembra essere al posto giusto, nemmeno le ciglia. I capelli sono un ammasso liscio che si va ad aggrovigliare nei pressi delle punte, mentre il trucco ha resistito - si fa per dire - almeno su un occhio. Sembra che abbia fatto a botte, che mi sia ritrovata nel bel mezzo di una rissa a cui era impossibile sfuggire e, pensandoci, potrei utilizzare questa scusa per restare in pigiama a crogiolarmi nella pigrizia del weekend. Sicuramente è una prospettiva estremamente allettante visto il programma che credo mi stia aspettando ai piani inferiori. Certamente mia madre se ne uscirà con un qualche piano malefico capace di trascinarmi fuori dalle mura domestiche accompagnata da lei e mia sorella Elizabeth, Liz per gli amici, anche se non saprei dire esattamente come e perché.
Sbuffando allungo una mano verso il cellulare che lampeggia a qualche centimetro da me, sulla scrivania dove non ricordavo di averlo lasciato. Dò un'occhiata furtiva alla notifica della sera precedente, attentamente ignorata fino all'ultimo per via della sua poca rilevanza. 
Spedito alle 23:30, il messaggio di Jace riporta la buonanotte che, da bravo fratello maggiore, mi manda ogni sacrosanta sera.
Credo che sia il suo modo per non farmi sentire sola, soprattutto ora che se ne è andato lontano, a Parigi. La sua fuga "per studi" è stata vissuta un po' come un trauma dalla sottoscritta; nel nostro rapporto ai limiti della morbosità ha preso l'aspetto di uno strappo al cordone ombelicale che ci ha sempre uniti. E quindi eccoci qui, con lui che mi dimostra di non avermi abbandonata e io che mi prendo il suo posto nella vita che ha lasciato a Londra.
Con il dorso della mano cerco di togliermi una parte del kajal sbavato, ma all'ennesima strillata di mia madre decido di rinunciare all'impresa di riacquistare un minimo di dignità; è palese che ormai Catherine si sia spinta fino alla base delle scale, il prossimo passo è quindi la porta della stanza.
Armando i piedi di calzini e le spalle di una delle tante felpe rubate a Jace, varco la soglia della mia piccola alcova, percorrendo a grandi falcate il corridoio. 
Scendere i gradini che separano i due piani è un gesto meccanico ma necessario, così arrivo fino all'entrata della cucina e qui, mi fermo. Sento l'estrema necessità di prendere un grosso respiro prima d'incontrare altre forme viventi e il perché è semplice: seppur i diciotto anni siano ormai alle porte, gli ormoni adolescenziali non ne vogliono sapere di lasciarmi in pace e, quindi, mi trasformo continuamente in una bomba ad orologeria, soprattutto nei confronti di mia madre. Suppongo sia un passaggio fondamentale della vita di tutti noi e chi ne subisce le conseguenze sono sempre gli adulti, quelli che non ci capiscono mai, che ci tarpano le ali in qualsiasi occasione possibile.
Dopo il breve minuto di raccoglimento decido che è giunto il momento di fare la mia comparsa nel mondo dei vivi, così attraverso l'arco nella parete. Sull'isola al centro della stanza mia sorella se ne sta seduta, mischia i cereali nel latte freddo e mi fissa con una sorta di fastidiosa noia. La sua fase adolescenziale è iniziata qualche anno fa, mentre ora si ritrova completamente travolta dalle migliaia di ormoni che ballano la salsa in tutto il suo essere: per lei, oltre al problema con gli adulti, c'è anche l'insoddisfazione nell'essere l'ultima di tre figli. Trova me un inutile spreco di protozoi – pensiero pressoché condiviso – e Jace un essere mistico a cui ambire.
Le sorrido e lei alza gli occhi al cielo in un innegabile dimostrazione d'affetto.

Anche io ti voglio bene, non preoccuparti.

Mia madre si avvicina sbuffando: «Non sapevo d'aver messo al mondo la prossima regina d'Inghilterra». Il suo tentativo di essere simpatica si conclude con un piatto di uova sbattute e del pane tostato sotto al mio naso, poi imperterrita riprende a sistemare il piano-lavoro su cui, miracolosamente, ha deciso di passare le ultime due ore.
«Peccato, avresti potuto reclamare la corona al posto mio!»
Liz alza un sopracciglio. Non capisco se sia sconvolta dallo scambio di battute infelici o, semplicemente, stia pensando a come farsi diseredare.
«Ti prego, Jay, dimmi che è l'alcol rimastoti in corpo a parlare...» e, nel concludere, lascia cadere sul pianale qualche goccia di latte, incurante dei minuti che solo ieri ho speso per pulire.
Mamma, sentendo le parole della sua pupilla, sussulta. Volta la testa sgranando gli occhi: «Come?! Ho sentito bene? Signorina, quante volte te l'ho detto che non hai ancora l'età per simili sciocchezze?» le sue domande sono stridule come qualsiasi parola che le si riversa fuori dalle labbra, così storco il naso.
«Ora dimmi, cosa dovrebbe pensare una madre difronte a queste tue continue ribellioni?» Catherine picchia il tacco dodici sul pavimento in marmo.
«Che sono una teenager sulla soglia della maggiore età?»
La mia risposta pare contraddirla ancor di più. Si stringe le braccia al petto, scuote la testa riccioluta e cerca di non afferrare alcun oggetto contundente nel tentativo di malmenarmi per l'ennesima mancanza di rispetto nei suoi confronti. 
«Ringrazia il cielo che non mi è stato fatto dono dell'onniscienza, ragazzina! Chissà cosa combini quando te ne esci con quei due! Dio è il solo ad avere la spiacevole fortuna di vedere cosa fai» il suo sfogo pare non avere più alcun freno, ma al posto di incutere timore, genera in entrambe le figlie una sorta d'ilarità. Elizabeth quasi si strozza con i cereali che ha ancora in bocca, mentre io traballo pericolosamente sullo sgabello.
Se non sapessi che la mente di mia madre è quasi del tutto priva di malizia, avrei quasi potuto supporre che, in quell'ultima frase, avesse inteso che su tutti i miei slip è stato ricamato "entrata libera" a caratteri cubitali. 

Bello il sabato mattina a casa Raven.
 



correzione del 10.01.19

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Capitolo 2
*** Chapter 2: What a best friend looks like ***




2. What a best friend looks like


Come dicevo non molto tempo fa – per l’esattezza un’ora e trentasei minuti – il sabato mattina dovrebbe essere un momento sacro, da dedicare in tutto e per tutto al riposo della psiche che ha dovuto affrontare l’estenuante settimana di studio, eppure non è mai così. Sì, perché le urla strazianti di mia madre non erano altro che il suo tentativo per farci arrivare perfettamente puntuali all’incontro con una dei docenti della Saint Jeremy, l’istituto femminile in cui, da quattro anni, sono obbligata a passare le giornate. È un luogo d’inquietante fascino architettonico, rovinato poi dalle fatiscenti opere d’arte di alcune studentesse fin troppo convinte d’essere artiste – me compresa.

Ciclicamente, la signora Raven e io finiamo qui. Nella maggior parte dei casi per via del mio atteggiamento svogliato che irrita gli insegnanti, oppure a causa di una sigaretta fumata quasi segretamente nei bagni o, in ultimo, per via di una risposta un po’ troppo sopra alle righe; alle volte invece, è per via di qualche riconoscimento o possibile attività extra a cui vorrebbero che mi iscrivessi.

Catherine alza la manica del maglioncino, controllando per la terza volta il quadrante del suo orologio d’oro. Con il tacco picchia sul pavimento, tenendo il tempo e mettendo sempre più in mostra il suo nervosismo che, inesorabilmente, sta contagiando tutti i presenti. La sento sbuffare appena e, a questo punto, mi permetto di metterle una mano sulla coscia nel tentativo di calmarla.
«Mamma, vuoi smetterla? Ci sono gl’incontri per le ammissioni del prossimo anno stamane, lo vedi anche tu, no?»
Lei mi fissa con stizza, poi lancia qualche sguardo attorno a sé per scrutare i visi delle altre persone, rendendosi finalmente conto della situazione in cui ci troviamo. Sbuffa ancora, ma almeno smette di produrre quel suono fastidioso con le scarpe.
Grazie al cielo!
Il brutto di frequentare scuole private è anche questo: le madri, perché per lo più si tratta del lato femminile della coppia, fanno a gara per riuscire ad accaparrarsi un appuntamento con i docenti, poi un posto per le loro angeliche figliolette – così, chi prima arriva, meglio alloggia.
«Se è per un’altra lavata di capo, che stiamo perdendo tutto questo tempo, scordati di vedere ancora Charlie e Seth, capito?» le sue minacce arrivano alle orecchie sotto-forma di sussurro, in modo che nessuna delle signore presenti nel corridoio con noi possa sentire quanto scapestrata sia sua figlia. Nel tono è palpabile la rabbia che sta cercando di trattenere, visto che ancora non sa se doversi infuriare o meno; non le ho accennato nulla dell’incontro, ma forse avrei dovuto, risparmiando a entrambe tutta questa agitazione. 

Sicuramente non dev’essere facile per lei, dopo un figlio come Jace – bello, intelligente, furbo e ambizioso – avere a che fare con Liz e me deve essere una specie di tortura. Nessuna delle due eccelle in diligenza, men che meno sembra avere un piano per il futuro. Non siamo trofei da vantare alle cene con gli amici, abbiamo solo alcune passioni che portiamo avanti con una certa mediocrità.

«Vuoi star tranquilla?» chiedo, infastidita più per i pensieri che mi frullano per la testa, che per la sua labile fiducia nei miei confronti.
Prima che Catherine possa formulare una risposta però, la signora seduta alle mie spalle si protende in avanti interrompendoci. Il suo faccione rosso e gonfio ha un ché d’inquietante, soprattutto ora che me lo trovo così vicino: «Posso disturbare?»
No, non può.
Da quando il palloncino di IT ha il dono del verbo?

«Certo, mi dica» mia madre sfodera un sorriso che nulla ha a che fare con le espressioni di poco prima così, basita, la squadro mentre intraprende l’ennesima conversazione con una sconosciuta.
«Sua figlia è già iscritta qui, giusto?» la donna parla come se io fossi una statua, si rivolge a Catherine dando per scontato che io non possa rispondere alle sue domande da sola. 
«Come vi siete trovate in questi anni? Dice che è una buona scuola?»
Ed ecco che lo sproloquio di colei che mi ha partorita parte, elogiando la Saint Jeremy al pari di uno spot pubblicitario. Elenca la moltitudine di pregi che l’istituto può vantare, ricordandosi ogni tanto d’inserire una qualche nota negativa qua e là, giusto per non figurarlo completamente come un paradiso in terra. Mente spudoratamente riguardo all’esperienza d’entrambe in questi ultimi quattro anni, alle volte confondendosi volontariamente tra me ed Elizabeth – in modo da colmare con una i difetti dell’altra.
L’ascolto poco e la fisso molto, cercando di capire con quale coraggio racconti tutte quelle innocenti frottole; le madri son brave in questo, risultano fin troppo credibili. Per non sfigurare difronte alle proprie amiche e simili modificano la realtà con una certa maestria – quando tocca a noi figli però, la cosa si fa assai meno semplice, scoprono le nostre menzogne con un’abilità che ha dell’incredibile.

Alzo gli occhi al cielo e, nel momento esatto in cui provo a formulare un pensiero, il cellulare prende a vibrare con insistenza. Chi sarà il mio salvatore? Chi è il genio capace di avere un simile tempismo?

Senza nemmeno scusarmi, schizzo via dalla sedia su cui sono stata appollaiata per tutto questo tempo e, incurante delle brevi lamentele di Catherine che mi ricorda che “le prossime siamo noi”, inizio a percorrere il lungo corridoio a passo svelto, allontanandomi il più possibile da lei.
Sfilo il telefono giusto in tempo per rispondere e, nella fretta di non far cadere la linea, nemmeno guardo chi mi stia chiamando. Rispondo con un filo di voce, lanciando occhiate sospette verso mamma che, sicuramente, starà cercando di udire qualche mia parola nonostante le sue chiacchiere – in fin dei conti si sa, farsi gli affari altrui è un vizio che non ci si toglie facilmente.

Dall’altra parte della cornetta una risata roca, tipica di chi fuma un po’ troppo, si fa strada verso i timpani. Il suono scivola dritto verso al cuore e una sorta di gioioso calore mi riempie, imponendo alle labbra di tirarsi in un sorriso.
«Ma si può sapere dove sei?» domanda Charlie schiarendosi un poco la gola, in modo d’apparire meno addormentato di quanto non sia in realtà; sì, perché lui, a differenza mia, stamattina ha potuto dormire come un ghiro, riprendendosi dalla serata appena trascorsa.
Compiendo un movimento lesto mi sposto dietro ad alcuni armadietti: «In prigione!» sospiro giocosamente, cercando nel chiodo floreale qualcosa che già so dovrò rimettere in tasca. Per quanto mi venga istintivo mettere tra le labbra il filtro giallo di una Lucky Strike, alla Saint Jeremy è assolutamente proibito fumare – a dire il vero, il regolamento vieta sia l’uso, sia il possesso di qualsiasi oggetto combustibile all’interno delle mura della scuola; il rischio che qualche studentessa dia fuoco ai capelli di un’altra è reale, così come è reale il pericolo che tra un banco e l’altro vengano messe insieme canne rudimentali.
E la droga fa male, si sa.
Il mio migliore amico inizia a tossire convulsamente, forse perché la saliva, o il caffè gli è andato di traverso: «Che?»
«Ho un incontro con Miss Douglas» preciso, in modo da fargli capire che il carcere in cui mi trovo è solo immaginario. Persino lui, con questo commento, pare non riporre eccessiva fiducia nella sottoscritta.

Il ragazzo fa ancora qualche verso strano, poi si riprende: «Per la mostra che mi dicevi? E quando ti liberi?»
Annuisco, anche se ovviamente lui non può vedermi: «Perché, hai programmi?»
«Sni…» accenna Charles Benton dall’altra parte della cornetta: «avevo un paio di commissioni da fare, poi volevo proporti un’uscita romantica allo skate park. Devo allenare un paio di marmocchi».

Rido piano per farmi sentire solo da lui. C’è una sorta di dolcezza in questi suoi modi scherzosi di rivolgersi a me, a tratti mi pare quasi di star parlando con Jace – ed è forse per questo che con lui mi sento sempre a casa.

«È romantica solo se poi mi offri la cena» cerco a mio modo di tenergli testa e, fiera del commento, allargo il sorriso sul viso.
«Se ti accontenti di un kebab ti potrei rendere la donna più felice del mondo» contrattacca, molto più bravo di me in questo gioco di battute. Silenzioso aspetta la mia risposta, ma mentre valuto l’offerta della cena spartana, inizio a sentire in lontananza la voce di Catherine, poi i suoi passi farsi sempre più vicini. Si fa strada verso di me come un razzo, forse sospettando l’imminente arrivo del nostro incontro. Così, meno strada si frappone fra noi, più l’ansia prende a crescermi nel petto. Se non mi accordo ora rischio di giocarmi l’occasione di passare il sabato sera a far baldoria.

Mi mordo il labbro, provando a non farmi sopraffare dall’ennesimo sorriso. Lei è vicina, vicinissima! Posso sentirne il profumo nell’aria.
«Affare fatto! Ti raggiungo tra un paio d’ore» e la chiamata termina giustappunto nel momento in cui mamma fa la sua comparsa nel mio campo visivo.

 


correzione del 18.03.2019

 

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Capitolo 3
*** Chapter 3: When Everything goes wrong ***




Chapter 3
When Everything Goes Wrong



 

Nonostante la riluttanza di mia madre, riesco a fuggir di casa prima del previsto – dopotutto Catherine è rimasta soddisfatta dell'incontro con la signora Douglas, quindi non ha trovato una scusante abbastanza valida per vietarmi d'uscire anche questa sera.
Così, dopo tre fermate d'autobus e una manciata di minuti a piedi, raggiungo la via in cui la casa dei Benton è collocata e, nell'aria, già sento il profumo del kebab che Charlie mi ha promesso. L'acquolina riempie la bocca e in viso mi compare un immenso sorriso. C'è un certo piacere nel sapere di potersi far trattare come una principessa da un ragazzo che non proverà a sfilarci le mutandine, a cena conclusa.

Compio ancora qualche falcata felice prima di comparire difronte alle familiari finestre dalle tende azzurre e, lì, la madre del mio migliore amico mi avvista dalla cucina. Sul suo viso rotondo e pieno di lentiggini appare un'espressione entusiasta e la mano prende a sventolare in segno di saluto. Pare quasi che non mi veda da settimane, quando invece solo due pomeriggi fa mi trovavo seduta proprio al suo tavolo da pranzo.

«Charlie! Jay è arrivata! Alza il culo da quel dannato materasso!» strilla con tanta potenza da oltrepassare persino il legno della porta d'ingresso. Così mi ritrovo ad abbassare la maniglia di casa mentre un moto d'ilarità mi colpisce in pieno viso. Vorrei riuscire a trattenere le risate, ma il modo in cui Molly e suo figlio comunicano è una delle cose più divertenti che io abbia mai udito. Lei, che normalmente appare come una dolce donna dalle guance gonfie e rosee, si trasforma in una specie di Maresciallo alle prese con un cadetto davvero poco diligente – e il dubbio che sia affetta da uno sdoppiamento di personalità diventa reale. 
Mamma Benton, che si trova alla base della scalinata che porta al piano superiore, si volta nella mia direzione appena compaio sulla soglia d'ingresso, facendo entrare insieme a me una brezza frizzante. Mi guarda con dolcezza, poi mi corre incontro afferrandomi il volto tra le mani e stampandomi un caloroso quanto umido bacio sulla fronte: «Guarda che splendore!» afferma, rimirando la bellezza di una ragazza che considera quasi come una figlia – sì, perché come ogni madre avrebbe tanto voluto una femmina, invece le è capitato Charlie, anche se non si lamenta più del dovuto.
Le afferro le mani: «Ciao, Molly» e prima che possa aggiungere una qualsiasi domanda di circostanza, il passo svelto di un giovane uomo cattura la nostra attenzione. Un ragazzo con i capelli arruffati compare nel mio campo visivo sbadigliando. I jeans strappati e lo skate in mano a completarne la figura – quella a cui ormai sono abituata. Svelto si dà un'ultima sistemata al septum e poi, alza gli occhi su di noi, sorridendo sia con le labbra, sia con gli occhi. Ecco il mio migliore amico in tutta la sua bellezza!

«Sempre a importunare?» domanda a sua madre, passandole accanto e agganciandomi per un polso. Sento la sua presa farsi stretta e, prima ancora che possa rendermene conto, siamo nuovamente fuori casa, alla totale mercé del lieve tepore settembrino.

Sua madre gli lancia qualche commento colorito, ma lui non le dà retta, continua a sfoggiare l'eterno buonumore che tanto lo caratterizza, fin quando, arrivati accanto al suo maggiolino giallo, non mi apre la portiera compiendo un mezzo inchino: «Prego, mademoiselle» recita strizzandomi l'occhio e, appena mi accomodo sul sedile, si gira verso Molly alzando le braccia al cielo – e lo skateboard al seguito: «Vedi? Un perfetto gentiluomo!»
La portiera si chiude tra i sorrisi collettivi e in men che non si dica, eccolo accanto a me, seduto al posto di guida.

***
 

Ebbene, nemmeno cinque minuti dopo aver lasciato la via in cui abita Charlie, il suo cellulare a preso a squillare con estrema insistenza, distruggendo completamente il programma che avevamo deciso di adottare per il pomeriggio e la prima serata.

Il mio kebab si è quindi trasformato in Seth Morgestern.

Tanto ipocalorica quanto allettante, quella che avrebbe dovuto essere la mia cena può essere paragonata al terzo membro del clan creato da Jace. Sì, perché Seth ha l'incredibile abilità di far aumentare la salivazione di ogni singola donna che incroci il suo sguardo, me compresa – e questo si può forse riassumere in un unico modo: bad boy. Sbagliato, esattamente come la quantità immane di calorie che ingloberei mangiando un kebab, eppure estremamente buono.

Ed ovviamente, come ogni femmina alle prese con gli ormoni che impazzano senza logica, vorrei poterne prendere un morso, o due – diciamo che anche tutto non sarebbe male.

Charles sbuffa mentre spinge un cd nello stereo, una delle molteplici playlist fatte durante i pomeriggi vuoti passati nel negozio dove lavora e che io tanto amo; e c'è da sottolineare che una delle cose che più lega il nostro gruppo è proprio questa: la passione per la musica, soprattutto se appartenente a un qualche sottogenere del rock.

Una canzone dei Fireflight inizia a riempire l'abitacolo, facendosi sempre più forte e sovrastando così qualsiasi altro rumore. Benton è il primo a intonare il motivetto, conoscendolo fin troppo bene e, dopo qualche istante d'imbarazzo, mi unisco a lui. Entrambi delusi dalla cena mancata e dagli allenamenti persi, ci lasciamo andare sulle note della canzone, riacquistando pian piano la serenità.
Charlie ride e mi guarda, si diverte a sentirmi stonare fino al momento in cui, all'ennesimo semaforo, mette la freccia e svolta nei pressi del luogo in cui Seth ci ha dato appuntamento.
I nostri occhi prendono a vagare lungo i due marciapiedi che si trovano ai lati opposti della strada a senso unico, alla disperata ricerca del principe degli stereotipi.

Allunghiamo i colli e aguzziamo la vista, poi una figura familiare cattura la mia attenzione. Mani ingioiellate spostano ciocche ribelli, una sigaretta penzola pericolosamente da labbra pallide e strette.
Seth appare come la visione più scontata che si possa avere del cattivo ragazzo – e il mio stomaco prende a contorcersi nella pancia.

Svelta inizio a girare la manovella del finestrino e, in men che non si dica, inizio a sventolare la mano in segno di saluto. Il sorriso che mi appare in concomitanza a tutto ciò è del tutto involontario, eppure impossibile da contenere, peccato che appassisca in fretta sulle labbra. Sì, perché quando lo sguardo del nostro amico saetta verso il maggiolino giallo, è impossibile non notare un evidente nervosismo.
Charlie accosta, mi fa scivolare sui sedili posteriori e aspetta l'altro con un'espressione che deve rassomigliare molto la mia: cosa, o chi, può aver fatto arrabbiare Morgesten?

L'interessato sale in auto sbattendo la portiera, butta fuori un soffio di fumo bianco e subito sbotta: «Ho bisogno di bere»
Benton avvicina maggiormente le sopracciglia: «Mi hai fatto rinunciare allo skatepark per questo?» Basta un tono sbagliato per rovinare l'umore generale.
«Potevi dirmi che eri impegnato» 
«Pensavo avessi bisogno di noi!» il maggiolone riparte piano, mentre Charlie lancia all'amico occhiate bieche.
Morgesten fa un gesto stizzito e la cenere della sigaretta cade sul bordo della portiera: «Infatti, ho bisogno di voi per andare a bere. Cosa cazzo c'è di difficile da capire?» più la conversazione va avanti, più il suo grugno si fa minaccioso e io mi sento in dovere d'intervenire; non sono disposta a farmi rovinare il sabato pomeriggio da Seth e il suo malumore, men che meno vederlo aggredire il suo migliore amico per motivi del tutto futili; perché di norma per farlo alterare ci vuole davvero poco. Così, appena sento i toni alzarsi, mi metto in mezzo per evitare che si scannino vivi – cosa possibile, seppur improbabile.
«Si può sapere che diavolo ti prendere?» domando al passeggero, sporgendomi tra i due sedili anteriori. Mi ci vuole un certo sforzo a compiere questo gesto, so che facendo così arriverei a catalizzare su di me tutto il suo fastidio, eppure è la cosa giusta da fare: chi alzerebbe mai la voce con un'innocente diciottenne, soprattutto se sangue dello stesso sangue con il ragazzo che si considera come un fratello? Forse lui.
Seth sbuffa, si volta verso di me con fare scocciato: «Si può sapere chi ti ha chiesto di parlare?» i suoi occhi azzurri sembrano volermi schiaffeggiare, riesco persino a scorgere dell'odio nello sguardo che mi rivolge.
E lo stomaco si stringe ancora, ma questa volta per altri motivi.

«Nessuno» mi lascio sfuggire a denti stretti, in parte offesa; però non demordo, continuo a parlargli per puro masochismo, perché solo così si può definire ciò che mi spinge a perpetrare questa follia: «Solo che Charlie e io ci stavamo godendo il pomeriggio, poi arrivi tu con il tuo stupido broncio e mandi a puttane tutto!» Stavolta il tono è meno pacato, si capisce bene che il suo commento mi ha scalfito l'orgoglio.

Lui ride difronte al mio commento, emettendo una di quelle risate che sanno di superiorità ostentata. Vedo chiaramente, in questa sua reazione, quanto mi consideri infantile a suo confronto, e ingenua. 
La scalfittura si fa sempre più simile a un solco; e lo so che non dovrei prendermela, che quando Morgesten è di cattivo umore diventa uno stronzo in tutto e per tutto e che, per una persona emotiva come me, è un male, eppure non riesco a evitarmi di stringermi nelle spalle – solo che non voglio né dargliela vinta, né fargli vedere quanto lui influisca sul mio umore. Però le cotte funzionano così: l'atteggiamento di uno influenza l'altro.
«Oh, poverina! Ho rovinato il vostro appuntamento? Ora che fai, vai a piangere dal fratellone?»
Charlie gli tira una gomitata, cerca di fermarlo sapendo a cosa si sta per andare incontro: «Smettila» gli ordina, ma Seth è tutto tranne che addomesticabile, quindi continua, imperturbabile e tronfio in questo suo momento di gloria.
Ho già detto di avere un rapporto abbastanza morboso con Jace, no? Ebbene, questo lo rende anche il mio più grande punto debole – e lui lo sa, entrambi lo sanno.
«Che stupido! Non puoi. Ti ha mollata qui per scappare a Parigi» e come un vero maestro d'armi mi dà il colpo di grazia, ferendomi nel profondo. Quando vuole farmi male non sbaglia mai, forse perché sono una sorta di libro aperto, oppure perché sono ancora troppo fragile per sopportare le sue cattiverie.
Sento un misto di rabbia e lacrime gonfiarmi il petto, mentre la voglia di tirargli uno schiaffo su quel bel viso si fa impellente, tanto da far formicolare i palmi. Mi mordo la lingua con forza e il sapore ferroso del sangue inizia a mischiarsi alla saliva e scendere lungo la gola.

Devo uscire da questo abitacolo, mi manca l'aria e potrei fare qualcosa di cui mi pentirei.


«Ferma l'auto» comando in un sussurro a Benton, che prova a dissuadermi dal dare il via a una scenata – ma nulla m'impedirà di scendere dal maggiolone, voglio mettere più distanza possibile tra me e colui che ha osato citare mio fratello, colpirmi, farmi sentire ancora troppo immatura per avere a che fare con loro.
«Jane...»

«Fermati e basta, santo cielo!» dico un'ultima volta sull'orlo delle lacrime. 
Aspetto quindi che l'auto si accosti e poi, come una scheggia, scendo senza salutare.

Il sabato sera è ufficialmente rovinato, grazie Morgesten.
 

***

A Seth non sono servite più di due ore per rintracciarmi. Avrà continuato a discutere con Charlie per qualche chilometro, poi si saranno concessi un paio di birre e infine avrà acceso il cellulare per rintracciarmi con il gps – a quel punto si sarà deciso a raggiungermi.
E quindi eccoci qui, seduti uno accanto all'altro sulla stessa panchina sgangherata. Quando ha fatto la sua comparsa mi è passato davanti senza dire nulla, poi si è lasciato cadere sul legno che ha cigolato sotto il peso di entrambi e, alla fine, ha accorciato le distanze tra i nostri corpi. Nonostante questo suo gesto però, ancora non ci siamo detti nulla; l'unico rumore tra di noi è stato quello della carta delle sigarette che viene bruciata. Non ho nemmeno alzato lo sguardo, anche se il desiderio di ammirare il suo viso, ora che è più tranquillo, mi ha corrosa per i primi dieci minuti.

D'un tratto si piega in avanti, mettendosi in una posizione simile alla mia: «Ce ne andiamo?» mi domanda, indicando con il mento la fermata della metro che, fino ad adesso, ho evitato di prendere per tornare a casa. Per qualche strano motivo ho sperato fino all'ultimo che venisse a cercarmi, se non lui, Charlie. Me ne sono stata qui a sorseggiare succhi di frutta in brik di carta bianca, fumare le sigarette rimastemi nel pacchetto e ascoltare musica, pregando silenziosamente che venissero a prendermi, dimostrandomi che tanto indesiderata, alla fine, non sono.
Annuisco, buttando il mozzicone e incamminandomi senza esitazione. Seth fa altrettanto, seppur con qualche secondo di ritardo e, appena recupera il passo – cosa abbastanza semplice per uno della sua stazza -, mi cinge le spalle con un braccio, tirandomi a sé.
Tanti piccoli brividi prendono a riempirmi il corpo e, a prescindere dall'arrabbiatura nei suoi confronti, non posso far altro che crogiolarmi in questa sua mossa. Gesti d'affetto così evidenti non sono mai stati un problema tra di noi. Jace ha sempre lasciato che i suoi amici mi abbracciassero, baciassero le guance in segno di saluto o accompagnassero a casa sottobraccio, probabilmente per via del fatto che per lui ero un po' come la sorella minore di tutti e tre, ma non ha mai valutato la possibilità che potessi nutrire qualche altra sorta d'interesse nei confronti di uno di loro. Quindi, se ai loro occhi tutto ciò è naturale e innocente, per me equivale a un tuffo al cuore e una sferzata di ormoni.

Scendiamo fianco a fianco fino alla banchina e persino una volta saliti sul vagone i nostri corpi restano vicini – più tempo passa, più il suo calore mi fa rabbrividire. La fantasia prende a vagare in direzioni che sarebbe meglio non prendere. Crea storie con finali improbabili, che vengono alimentati dai suoi gesti. Mi ruba una delle cuffiette, si stravacca sul sedile tanto da riuscire ad appoggiare la testa sulla mia spalla e poi resta lì, immobile a fissare al di là del finestrino – e io mi ritrovo a fissare lui, sentendo la temperatura interna aumentare drasticamente.


Dovrei smetterla di guardarlo, eppure non riesco.
È bello, questa cosa è innegabile. Ha fascino, così come tutti i bad boy che si possono incontrare in una libreria, tra le pagine di storie più dolci del miele stesso e ha un modo di catturare gli sguardi che pare innaturale.

E adesso che è qui, che mi è così vicino, non riesco a far a meno di gioire della cosa, di trovare nella sua espressione rilassata la purezza che negli anni gli ho visto perdere.
Così faccio scivolare lo sguardo sui suoi capelli scuri, sulle guance magre, sulla maglia sgualcita e sui jeans stracciati, impigliandomi poi tra gli anelli elaborati che tiene sulle dita.
«Ti fermi da me, vero?» domanda di punto in bianco, spostando lo sguardo. Vedo il blu dei suoi occhi riempirsi della mia immagine, dove guance rosse fanno trapelare l'imbarazzo di essere stata scoperta in flagrante.

Per un istante vorrei poter sparire, ma come si può scappare da iridi così autorevoli?
«Forse» sussurro. Non sono pronta a dargliela vinta, ha ancora delle scuse da farmi e, men che meno, ora, mi sento pronta a restare sola con lui in un luogo tanto intimo e limitato.
Lui fa una smorfia scocciata, socchiudendo le palpebre: «O è un sì, o è un no, Jay. La prossima fermata è la nostra» mi fa notare. Sposto l'attenzione sul display alla fine del vagone constatando da me che, a disposizione per compiere questa scelta, ho solo un paio di minuti.
Non voglio tornare a casa, ma neppure restar sola con un soggetto irascibile quanto lui, anche se si tratta di una sorta di modello mancato.
Tra le due cose però, quella meno allettante è tornare a casa Raven, chiudersi in camera e sperare che la domenica sia meglio di questo sabato terribile, così alla fine, a dispetto di tutte le belle parole messe insieme fino ad adesso, cedo a Seth: «Okay» e appena acconsento a seguirlo, lui balza in piedi e si porta verso l'uscita.
La sua schiena mi fissa, aspettandosi che anche io mi avvicini e lo segua su per le scale mobili che ci condurranno in strada. Vorrei poter indugiare ancora un po', ma non ci riesco, perché infondo mi piacerebbe davvero riuscire a stare con Morgestern senza dover fare i conti con il malumore o altre persone. La mia cotta nei suoi confronti è più prepotente di qualsiasi altra cosa, persino della volontà o del buonsenso.

Scivoliamo sicuri lungo la stazione e i tunnel che la compongono, riemergendo tra le ombre di una prima sera fresca.
Cammino poco distante dal ragazzo che è con me, cercando di non mettere mai troppi passi tra di noi – non vorrei mai che si accorgesse di quanto, a differenza sua, mi senta ancora a disagio, tesa dopo la crudele battuta che ha fatto su Jace. Lo so che è una reazione infantile la mia, che a diciotto anni non dovrei offendermi per una sciocchezza del genere, eppure non posso impedirmelo, forse perché mio fratello è davvero l'unica persona di cui mi possa fidare ciecamente; il mio migliore amico, la spalla su cui piangere, l'amore mancato o il gemello improbabile.
Nonostante questo però, mi ha tradita, andandosene via.
E' vero, si tratta solo di qualche anno, di un passaggio obbligatorio per chi vuole crescere e cambiare la propria vita, ma fino a quando non mi ha mostrato la mail d'accettazione della Sorbona ho sempre creduto che fossi io, insieme a Charlie e Seth, il suo tutto.

La voce di Morgestern a un tratto spezza il silenzio intorno a noi, così come il mio flusso di pensieri e, quando i nostri occhi s'incrociano, avverto una sensazione simile al vuoto riempirmi lo stomaco.
«E riguardo a prima... scusa Jay, ho esagerato» i suoi passi si fermano, il busto si gira e, senza rendermene conto, finisco tra le sue braccia che mi stringono forte, seppur con una certa dolcezza: «Lo sai che per qualsiasi cosa ci siamo noi».
E persino nolente, non posso far altro che lasciarmi andare nella sua stretta, assimilando il suo calore, il suo profumo e il suono del suo cuore che va appena più veloce del solito, forse per via dello sforzo che un simile gesto gli richiede.

 



correzione del 13.04.19


 


 

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Capitolo 4
*** Chapter 4: Can't get along with alcohol ***




§ Can't get along with alcohol §

Ebbene, a casa di Seth Morgestern potete trovare tre cose: un divano accogliente, musica emessa da casse di ottima qualità e pareti insonorizzate per potersi godere al meglio qualsiasi album senza dover fare i conti con le lamentele dei vicini. Poi ogni tanto ci siamo anche Charlie e io, come stasera.
Quando ho visto il suo bel viso sorridente apparire dalla cucina mi si è levato un peso dal cuore; dopo le vicende con il proprietario di casa proprio non me la sentivo di restar sola con lui.

Così, con la serenità ritrovata, abbiamo dato il via al sabato sera tra una fetta di pizza ordinata al ristorante all'angolo e un sorso di birra fresca. Alla cena si è poi sostituita una partita ai videogiochi, uno spinello passato di mano in mano e, a ogni incontro perso, un'ulteriore sorsata – sta da sé, quindi, che il tasso alcolemico nel sangue è aumentato a dismisura, soprattutto nel mio caso. È così che in meno di due ore ho iniziato a sentir girare la testa e mugugnare lo stomaco, ma non demordo: darla vinta a uno di loro equivale a mettere in evidenza il gap esperienziale che ci separa.

Charlie nota la mia risata troppo allegra e la palpebra pesante, così mi allontana di mano il joystick: «Okay, per Jay la partita finisce qui» il suo essere responsabile emerge, facendomi storcere le labbra. So che lo fa per il mio bene, che è stato Jace a chiedergli di prendersi cura di me, eppure non posso far altro che trovarmi infastidita dalla cosa – seppur involontaria, questa è una resa.
Mugugno qualcosa, cercando d'allungarmi tanto da riprendere l'arma con cui ho provato a difendermi fino a ora, ma finisco con lo sdraiarmi malamente sulle sue gambe. Sento le cosce schiacciarmi il seno, mentre una delle ginocchia prova a stortarmi le costole e comprimere in modo alquanto pericoloso lo stomaco – è talmente pieno e gonfio che se Benton dovesse sbagliare a muoversi finirei con il vomitare l'anima.

D'un tratto Seth ci passa accanto, strappando il joystick dalla presa dell'amico: «Lasciala perdere e bere, almeno mi diverto un po'» scherza, consegnandomi sia il bottino della sua razzia, sia l'ennesima bottiglia appena stappata, da cui avrà preso sì e no un paio di sorsi.

Charlie gli lancia un'occhiata bieca, riluttante all'idea di vedere quanto misera possa diventare a furia d'ingurgitare alcol. Sul suo viso si legge la palese voglia di rimproverarlo, di ricordargli che in fin dei conti sono la cucciola del gruppo e non dovrebbero prendersi simili libertà, soprattutto in assenza di mio fratello, ma si trattiene, forse temendo di finire in mezzo all'ennesimo battibecco.
Sorrido a Morgestern, ringraziandolo per il supporto e il rifornimento, ma appena alle narici arriva il profumo di luppolo, la nausea fa capolino. 
Dovrei smettere ora che ho ancora un briciolo di lucidità, perché se dovessi arrivare alla fine anche di questa bottiglia, non avrei più alcun controllo né sulle mie azioni, pensieri o reazioni del corpo. E sarebbe anche meglio prendere qualche secondo di pausa dall'aria viziata del salotto.
«Devo-devo andare in bagno» dico con la bocca impastata, così Charlie si prodiga a farmi da sostegno mentre cerco di mettermi dritta.
Io barcollo malamente, sentendo la testa girare e lui mi regge.
«Devi vomitare?» mi domanda, spaesato. Sono certa che a nessuno di loro sia mai capitato di dover accompagnare una ragazza a rimettere; nelle serate passate insieme, Jace, Charles e Seth devono essersi accontentati di un angolo appartato, un cestino in mezzo alla strada o chissà che altro, ma al posto di aiutarsi l'un l'altro, devono essersi accontentati di ridere sguaiatamente di fronte al disagio dello sventurato di turno. Con me tutto ciò non è contemplato e, in mancanza del primogenito Raven che mi sorregge la testa, tocca a loro fare da fratelli maggiori.

Seth dal suo divano in pelle si gode la scena ridendo, forse di me, che sono fin troppo impacciata per reggere il loro confronto.
E la cosa mi dà ancor più fastidio.
Sento la frustrazione muoversi tra i fumi dell'alcol – perché in fin dei conti, se non resti allegro diventi una sorta di essere incazzoso.
Scanso Charlie malamente, quasi ringhiando come un cane. Non voglio che mi sorregga, men che meno che metta in mostra le mie debolezze. Bofonchio qualcosa, forse incitandolo a starmi lontano. Se devo essere sincera, ciò che più mi spaventa è apparire ancora piccina, innocua e innocente, quando in realtà sto per superare quella soglia sottile tra adolescenza e età adulta – e vorrei che anche loro, soprattutto Morgestern, lo notassero.

Barcollo in direzione della porta del bagno, anche se i passi sono instabili e i tappeti delle minacce terribili. So che da un momento all'altro potrei combinare il più tragicomico dei disastri, ma provo comunque a resistere. Aver allontanato Benton può essere stata la peggior scelta possibile, soprattutto ora che il piede scalzo s'incastra nella gomma che dovrebbe tener fermo il tappeto tra la camera e la mia destinazione. Sento la birra agitarsi nello stomaco al pari di un maremoto mentre la gravità fa il suo dovere e prima che me ne possa render conto sto precipitando in avanti. 
Chiudo gli occhi in un istintivo gesto di difesa, preparandomi a spiattellare il viso sul pavimento e poi vomitare tutto ciò che mi è possibile. 
È inevitabile che andrà così.
Va sempre così.

Ma prima che il dolore prenda possesso di me, la stretta di mani saldissime afferra il mio ventre, in un disperato tentativo di non spaccarmi il naso. Sento un altro corpo stringersi a me, barcollare per riuscire a tenere in piedi entrambi. E così, fin quando non sono certa di aver recuperato l'equilibrio insieme al mio salvatore, cerco di evitare che dalla bocca mi si riversino fuori i conati.
Aspetto qualche secondo, poi quando finalmente alzo lo sguardo in direzione di chi si è precipitato in mio soccorso, incrocio quello di Charlie. È scuro e furente, ben diverso da quello a cui sono abituata e per un solo istante temo le azioni che non son ben riuscita a controllare.

Certamente devo averlo offeso.

«Ti riporto a casa» sentenzia con fermezza, mentre con un colpo di braccia mi rimette dritta. Lo stomaco si ribalta ancora e l'urto del vomito si fa sempre più intenso.

Al prossimo colpo faccio una strage.

Scuoto la testa con veemenza, convinta che il tragitto in macchina potrebbe solo peggiorare la situazione: «Charlie... lasciami» mugolo, avvertendo l'urgenza d'abbassare la maniglia di fronte a me. Sono così vicina alla tavoletta del water e al contempo così lontana – e più la consapevolezza di ciò si fa strada in me, più vorrei spingerlo via un'ultima volta, per salvarci tutti dai succhi gastrici che si stanno agitando nello stomaco. 
Lui mi guarda con una sorta di strana riluttanza e, nella sua espressione, ora traspare l'uomo che sta diventando.
«Non mi hai sentito?» un nuovo strattone e, inesorabilmente, mi ritrovo a far coppa con le mani sulla bocca. 
Seth si precipita su di noi e, strappando la stretta dell'amico, finalmente mi libera. Lo sento spingermi verso il bagno e in men che non si dica mi ritrovo inginocchiata a terra, cercando di non sporcare ovunque. 

 

***
 

Nel buio delle palpebre ancora chiuse, inizio a risvegliarmi come un bocciolo a primavera, anche se con molta meno poesia a descrivere il momento. La bocca è terribilmente impastata, tanto che pare io abbia dormito per eoni. I muscoli sono intorpiditi e devo stirarmi più e più volte prima di riacquistare una sorta di mobilità. 


Nell'aria mi accoglie un delizioso aroma di caffè, undettaglio che in casa Raven assume la connotazione di "rarità", così non possofar altro che aprire gli occhi per cercare di capire quale occasione specialesia motivo di tale miracolo. 


La luce filtra da oltre le tende e, d'un tratto, mi accorgo non arrivare dalla solita direzione. Sfioro le coperte, le annuso scoprendovi un profumo che non mi appartiene: in quale letto mi trovo?

Salto in piedi sgranando gli occhi, cercando d'identificare il luogo in cui mi trovo, ma prima che le pareti, o le mensole piene di oggetti mi rivelino qualcosa, scorgo il viso paffuto e peloso di Chucky, il blue Prussia di Seth. 
Il gatto mi fissa con un certo astio, mentre io inizio a temere per la mia incolumità, sapendo quanto sia geloso del proprio padrone – e probabilmente anche del suo letto.
Svelta scivolo fuori dalle coperte per ridare al piccolo amico peloso il suo spazio, scoprendo qualcosa che forse avrei preferito non notare. Come nei peggiori romanzi rosa, a tratti simili alle teen fiction, mi ritrovo in calzini, mutante e maglietta, grazie al cielo abbastanza larga da coprire ciò che deve essere celato.

Esattamente, dopo il quarto d'ora passato in bagno a rimettere la pizza e l'acol, cosa mi sono persa?
Chi ha osato sfilarmi i pantaloni? E siamo sicuri che ci si sia limitati solo a questo?

 

Chucky miagola, mi chiama, così quando alzo lo sguardo sul suo musetto scuro mi pare di vedere una certa pena nell'espressione baffuta. 


Sì, so di aver preso peso.
E di non essermi fatta la ceretta nell'ultima settimana – oserei quasi dire "mese".
 


La consapevolezza di ciò non fa altro che peggiorare la situazione. Non so se piangere o nascondermi sotto alle lenzuola per le prossime ore, fin quando Seth non si deciderà a capire se sono morta o meno, o se ne uscirà di casa per andare al lavoro. Sì, mi sembra un buon piano.
Sto per fare dietro front e tornare nel letto, quando una melodia prende a riempire le stanze con allegria. Ci metto qualche istante a capire di che canzone si tratti, ma alla fine, con sorpresa, riconosco qualche giro di chitarra, dando un nome al brano: Hey Soul Sister.

I piedi si muovono involontari verso la porta, dove il desiderio di spiare al di là dello stipite si fa forte. Non credo mi sia mai capitato di restare sola con Morgestern a casa sua, di svegliarmi la mattina con la sua compagnia.

Strizzo gli occhi in direzione del salotto e, non scorgendo nulla, svicolo fuori dalla stanza, sospingendomi fin in fondo al corridoio. Mi sporgo appena in direzione della cucina e lì lo vedo, bello come sempre, mentre canticchia il testo della canzone che ha appena fatto partire. 
Vorrei potermi disincantare, ma non ci riesco. La mia attenzione s'impiglia in ogni dettaglio di lui: tra i capelli scuri tutti spettinati, tra le pieghe delle labbra che sorreggono la sigaretta. Tra le maniche mancanti di una canotta risalente a qualche concerto di anni prima e sulla coulisse dei pantaloni della tuta. Lo vedo muoversi con una naturalezza disarmante, inconsapevole del fatto che lo stia spiando. Si gira verso il fornello, osservando la moka. Ha la schiena ampia, molto più di quello che ricordavo e i muscoli sotto alla pelle chiara si muovono armoniosamente, lasciando all'immaginazione l'opportunità di fantasticare su centinaia di situazioni improbabili. 
Poi, a spezzare la magia, si volta verso il corridoio, scoprendomi in flagranza di reato. Per un attimo resta fermo a fissarmi, forse cercando di realizzare la situazione e poi, con tutta la sua delicatezza, scoppia in una fragorosa risata che mi fa schizzare il cuore in gola.

Con le mani provo a tirar giù l'orlo della maglia, cercando di coprire più coscia possibile. Qualcosa riesco a fare, ma pare sempre non essere abbastanza. I suoi occhi inoltre non si fanno sfuggire nulla, sono predatori, soprattutto quando si tratta di corpi femminili – però con me potrebbe non valere questa sua dote, in fin dei conti sono solo la sorella minore del suo migliore amico, ma ad essere sincere, un po' mi farebbe piacere sapere che ha guardato anche me così.
«Che c'è di così divertente?» gli domando, avvertendo con estrema chiarezza le guance scaldarsi.
Lui scuote la testa, poi mi fa cenno di raggiungerlo: «Sembri un pulcino spaesato, tutto qui» confessa, allungando una tazza di caffè nella mia direzione. Grazie al cielo tra di noi si frappone l'isola della cucina, unico scudo tra la mia pelle eccessivamente nuda e le sue possibili provocazioni.
Bevo.
«Charlie?» domando, sentendo l'urgenza di mettere insieme i pezzi del puzzle che è diventata la serata appena trascorsa.
Seth fa altrettanto, poi butta la cenere nel lavandino e fa un altro tiro dal filtro: «Si è assicurato che stessi bene, mi ha aiutato a portarti sul divano e poi si è rassegnato all'idea che fossi troppo stravolta per essere riportata a casa».

Ah...

«Quindi mi sono addormentata?»
«Brutalmente. Sul divano. Ho faticato non poco a portarti di là e sfilarti felpa e jeans» mi lancia un'occhiata scherzosa e il desiderio di seppellirmi sotto strati e strati di terra si fa concreto. Non posso credere che il ragazzo di cui sono cotta mi abbia dovuta spogliare mentre russavo come un facocero.
Avrei potuto sopportare il fatto di avergli vomitato nel bagno, ma con questo credo di aver raggiunto un picco impossibile da ignorare.

Morgestern sorseggia ancora il suo caffè nero, poi inizia a farsi vicino, pericolosamente: «Sai Jay, stamattina stavo facendo una considerazione alquanto singolare» d'improvviso le sue parole catturano tutta la mia attenzione e l'imbarazzo si attenua appena, dandomi modo di riacquistare una sorta di compostezza. Afferro con entrambe le mani la tazza, sporgendomi nella sua direzione per udire meglio: «Sei rimasta a casa mia per tutta la notte, alticcia e sola, eppure non sei ancora riuscita a perdere la verginità. Mi spieghi come è possibile?» il suo sorriso prende una piega tutt'altro che amichevole, così maliziosa da farmi incastrare il cuore in gola.

No, non può averlo detto sul serio. Non può aver citato un argomento del genere. E poi lui come fa a sapere certe cose?

Salto in piedi, rossa come un pomodoro in viso. Sono incapace di proferire qualsiasi tipo di parola, completamente sopraffatta dall'agitazione, così faccio quello che mi sembra più opportuno fare: scappare da lui. 
Senza esitazione mi lancio verso la porta, la spalanco senza esitazione e me la richiudo alle spalle con un tonfo.

E lui dovrebbe essere uno dei miei migliori amici? Mio fratello si è davvero fidato a lasciarmi nelle mani di un sadico del genere? Non posso crederci! 
Faccio per incamminarmi verso le scale e tornarmene a casa quando, Mrs. McFinnel, la vicina di Seth, mi riprende schiarendosi la gola. Sbatto le palpebre, incapace di capire per quale ragione mi stia fermando; dopotutto sa da sé che se c'è qualcosa di cui lamentarsi lo deve fare con Benton, l'unico di noi che le dà retta.
«Ragazzina, i pantaloni non vanno più di moda?» mi chiede, sistemandosi gli occhiali sul naso mentre mi anticipa nell'abbassare lo sguardo sulle gambe. La vergogna pare volermi prendere alla gola, mentre lacrime di disperazione iniziano a riempirmi gli occhi.

Perché a me?

Rientro in casa di Seth ancor prima di capire quale sia la mossa giusta da fare. Ovunque mi giri mi ritrovo persa in un mare di passi falsi. 

Morgestern mi guarda dal divano, ancora più divertito di prima. Se la ride come di fronte alla commedia più divertente della tv e io vorrei non essermi mai svegliata stamattina.
 

***
 

 

Rimettere piede in casa è equivalso a far scoppiare la terza guerra mondiale. Mia madre, spuntando dal salotto in cui mi ha aspettata per le ultime due ore, ha iniziato a urlare come il rapace che è da anni. Le sue grida stridono contro le orecchie deboli di una persona che è riuscita a star male solo con bevendo birra. 
«Dove sei stata Jane? Ti ho chiamata per tutta la mattina, signorina! Stavo già per chiamare la polizia» 
Addirittura? Non pensavo che una notte fuori potesse causare tutta questa tragedia, soprattutto sapendo che ero accompagnata dai vice di Jace.
Storco le labbra e cerco di non avere qualsiasi reazione che potrebbe peggiorare la situazione, come ad esempio fare una squallida battuta o evidenziare il fatto che è un comportamento pressoché nella norma alla mia età.

Catherine prosegue con le sue domande: perché non le ho risposto? Mi rendo conto della gravità della situazione? So a quali pericoli sarei potuta andare incontro? E perché nemmeno Charlie l'ha richiamata?

Così, richiamata da quei quesiti strillati, fa la sua comparsa nell'androne anche nonna Josephine. Il suo stravagante vestito in stile Disegual è un pugno nell'occhio, in totale contrasto con le pareti bianche e spoglie e, inevitabilmente, sposto lo sguardo su di lei, generando ancor più rabbia in mia madre.
«Jane, non azzardarti a ignorare ciò che ti dico! Questa volta hai davvero esagerato» e per dare ancora più enfasi alla sua minaccia mi strappa di mano la giacca.

Nonna alza le sopracciglia, del tutto confusa, poi decide di prendere una posizione all'interno del furioso soliloquio della donna che mi ha messa al mondo: «Suvvia, Catherine, tutti abbiamo passato almeno una notte fuori casa. Hai nostri tempi inoltre il cellulare nemmeno esisteva!» e un sorriso le tende le labbra corallo. Mamma si volta verso la suocera, la guarda con astio e rinuncia all'idea di replicare, forse sapendo che Josephine potrebbe testimoniare contro di lei, svelando quante notti sia rimasta a dormire con papà senza avvertire casa.
Ovviamente, avrebbe preferito che la vecchia si schierasse dalla sua parte, sostenesse il suo tentativo di farmi una ramanzina, peccato solo che la matriarca di casa Raven abbia una certa propensione nel preferire i nipoti alla nuora.

Mia madre scuote la testa, pesta i piedi e alla fine decide di fuggire in qualche angolo della casa per fumarsi in gran segreto una sigaretta. Lo fa spesso quando è nervosa, credendo di non essere mai stata scoperta e rimproverando me e Jace nel momento in cui facciamo altrettanto. Le piace l'idea di avere ancora una certa autorità su di noi, di poter dettare legge mentre lei è la prima a infrangerla.

Appena restiamo sole, Josephine ritorna con lo sguardo sulla sottoscritta, studiando fino in fondo la mia figura che, certamente, non può che apparire trasandata, visto che non ho né potuto pettinarmi, né lavarmi i denti o compiere qualsiasi altra sorta di igiene personale.

«Che c'è?» le domando, sistemando la borsa sull'attaccapanni ed estraendo sia telefono, sia portafogli, in modo da impedire a chiunque d'impicciarsi degli affari miei più privati.

Lei piega la testa da un lato, mi osserva con una certa insistenza: «Dimmi tu, chérie» e stringe le braccia al petto, trasformandosi improvvisamente in una sorta di caparbio generale. Vorrei poterle rifiutare una risposta, ma so che non si fermerebbe davanti a nulla pur di scoprire in quale situazione mi sia invischiata. Impicciarsi è una dote femminile, e mia nonna ha fatto di quest'affermazione uno dei suoi mantra – più che per piacere, comunque, per prevenzione. Se sa cosa combiniamo, sa come proteggerci.

Prima di risponderle faccio un sospiro, conscia di quali potrebbero essere i suoi pensieri dopo tale confessione.
«Sono rimasta da Seth» una delle sue sopracciglia si alza di scatto, in un gesto stranamente malizioso. Come previsto i suoi pensieri si spingono nelle direzioni in cui avrei preferito che non andassero. Come darle torto però? Senza Jace al mio fianco non ho mai pernottato da nessuno dei suoi amici e già questo può risultare strano, se, inoltre, la prima volta che capita resto a dormire dal ragazzo per cui ho una cotta, i sospetti diventano leciti.

Peccato che non sia successo nulla. 
Non potrebbe mai succedere nulla, visto chi è lui e cosa sono io.

«Non guardarmi a quel modo!» la rimprovero, cercando di mettere subito in chiaro la situazione: «Non sono stata bene, quindi i ragazzi hanno preferito lasciarmi riposare. Alla fine mi sono addormentata, tutto qui»
Nonna non pare ancora convinta, così, sfruttando il suo meraviglioso bilinguismo – abilità che ci aiuta a tenere nascoste a mamma le cose che non vogliamo lei sappia – mi fa la fatidica domanda: «Et de ce qui s'est passè?» 
Forse non è cosa risaputa, ma Josephine è nata a Parigi più di sette decenni fa e, durante i suoi studi all'estero, ha avuto la fortuna d'incontrare l'uomo della sua vita, un sergente dell'esercito inglese qualche anno più vecchio di lei: Philip H. Raven, il capostipite della nostra famiglia.

A quella sua curiosità reagisco con una vampata di calore, ricordandomi le parole di Seth prima che scappassi via dal suo appartamento.
"Sei rimasta a casa mia per tutta la notte, alticcia e sola, eppure non sei ancora riuscita a perdere la verginità. Mi spieghi come è possibile?"
Già, bella domanda vista la sua fama di donnaiolo incallito. E la mia innegabile, quanto ovvia, cotta nei suoi confronti. Oh, e i miei diciott'anni in arrivo.
«Rien, maman!» strillo, probabilmente diventando rossa come un pomodoro. Sgrano gli occhi e scuoto la testa, domandandomi come sia possibile, che un'anziana come lei, si permetta di fare supposizioni del genere nei confronti della nipote. Non dovrebbe considerarmi innocente e casta?
Le passo accanto, superandola e puntando in direzione delle scale, ma prima di salire mi soffermo ancora qualche istante: «Qu'est-ce qui vient à l'esprit?» elei, sogghignando, decide di darmi il colpo di grazia.
«Je t'encourage encore! Il serait aussi temps que tu le fasses».

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Capitolo 5
*** Chapter 5: Jace ***




§ Jace §


 

Dal momento in cui ho aperto gli occhi stamattina, una sola parola ha preso a vorticarmi nella mente: Jace. Quattro semplicissime lettere che hanno il suono più dolce che una ragazza possa immaginare, ma che spesso e volentieri vengono sostituite da JJ, o Jay, esattamente come per me.

Salto gli ultimi gradini che separano il piano superiore da quello inferiore e, scansando Catherine, mi fiondo fuori dalla porta di casa, ritrovandomi immersa nel soleggiato vialetto circondato da ciclamini ormai talmente secchi da risultare inquietanti.

Raggiante, mio fratello scende dal taxi che ho scorto oltre le pallide tende di camera mia, facendomi spuntare un enorme sorriso in viso. Il cuore mi si è riempito di gioia, mentre il corpo si è mosso autonomamente per le stanze della dimora dei Raven, conducendomi da lui. 
Appena la mia figura riempie il suo campo visivo, una lampo di gioia gli illumina lo sguardo e, abbandonando la valigia, allarga le braccia in attesa che mi ci fiondi dentro. Ed io non me lo faccio ripetere due volte. Mi stringo a lui con tutta la forza che ho, cercando di constatare se sia un sogno o meno. Lo palpeggio lungo i fianchi, sentendolo soffocare una risata, poi mi riempio le narici del suo profumo tanto familiare: pino silvestre sporcato di fumo.
E' facile ammettere la mancanza che ho provato durante tutto questo tempo, glielo ripeterei all'infinito pur di convincerlo a non partire più per Parigi, ma mi trattengo, sapendo che un suo rifiuto potrebbe rovinarmi l'umore. 

Jace mi appoggia il mento sulla testa, ricambiando la stretta. 

«Mi sei mancata» sussurra piano, in un gesto di intimo affetto. Strofino il viso sul suo maglioncino pallido: «Toi aussi» gli rispondo mentre Liz fa la sua entrata in scena, schiacciandomi in mezzo ai loro petti. Per quanto tra di noi possa esserci un rapporto di odio e amore, quando si tratta del primo figlio Raven riusciamo a sotterrare l'ascia di guerra: chi non lo farebbe per lui? Nostro fratello ha l'incredibile capacità di rappacificare persino i nemici peggiori, un suo sorriso può mettere d'accordo chiunque.
Così restiamo stretti l'un l'altro, cercando di dirci decine di cose senza però aprir bocca. Diventiamo un tutt'uno per alcuni meravigliosi minuti e poi, a distruggere la magia del momento, si mette in mezzo la più piccina di noi: «Quanti giorni resti?» gli domanda, ricordandomi così che il tempo da spendere con lui è limitato, forse troppo.

Jace d'improvviso allenta la presa, cerca di liberarsi dal nostro abbraccio e recuperare la valigia, quasi sia stato colto senza preavviso dallo stesso malumore che ora si muove in me – in fin dei conti abbiamo sempre condiviso una certa empatia. Si morde il labbro fingendo di non trovare fastidioso rispondere, poi decide di accontentare Liz: «Non molto» ammette avvicinandosi a mamma e Josephine, evitandosi così di guardare la delusione che prende possesso della mia espressione. 

«Una settimana, giusto per festeggiare Natale e Capodanno con voi» aggiunge prima di farsi stampare un bacio su entrambe le guance da Catherine.
Sette giorni non sono niente, eppure mi ritrovo a viverli come se fossero tutto. Non l'ho visto o sfiorato per quattro mesi, quindi piuttosto che rinunciarci ancora, mi faccio andar bene il poco tempo che può dedicarmi, anche se dovrò dividerlo non solo con la famiglia, ma anche con Seth e Charlie che, certamente, vorranno passare ogni sera insieme, tra un concerto di qualche band anonima e un drink al bancone di un pub fumoso.

***

Come previsto, nemmeno una manciata di ore dopo l'arrivo di mio fratello a Londra, esattamente la sera della Vigilia, ci ritroviamo riuniti a casa Benton, dove Molly ci ha fatto assaggiare le migliori leccornie che si possa avere il piacere di mangiare durante le feste.

La musica riempie la stanza di Charlie, l'unico luogo in cui sua madre, ma anche il padre, gli permettono di ascoltare tutto ciò che vuole ed è diverso dai classici dei Beatles o degli Who. L'atmosfera pare essere nettamente più accogliente del solito, forse perché, insieme alla voce di Morrisey, il cantante degli Smiths, ad arrivare ai miei timpani ci sono anche quelle di Seth e Jace che, del tutto sordi alle sonate rock della band, stanno confrontando gli ultimi arrivati sulla scena underground della città.

«Eddai Jay! Non dirmi che ti piacciono quelle fighette!» senza rendermene conto sussulto, girandomi verso la coppia di amici che sorride spensierata. Per un solo istante ho pensato che Morgestern si stesse rivolgendo a me, ma quando i miei occhi hanno incontrato le sue spalle ho capito che no, "Jay" ora è qualcun altro. 
Sì, perché la mente contorta dei coniugi Raven ha voluto che entrambi i primo-geniti avessero nomi similari: Jace Jonathan e Jane Jacqueline.

Involontariamente mi ritrovo a spingere gl'incisivi nella carne delle labbra, delusa. È come se improvvisamente mi avessero esclusa: mio fratello troppo preso a concedersi a tutti, per non far torto a nessuno, e i nostri migliori amici troppo occupati a godersi il terzo membro del loro clan esclusivo, la persona che vorrebbero realmente essere al posto della sottoscritta. Già, perché in fin dei conti sono solo il rimpiazzo, il lascito che si sono ritrovati appresso.

D'un tratto la porta si apre e Charlie fa il suo ingresso armato di bicchieri e una bottiglia di Coca, visto che a casa sua non ci è ancora concesso bere alcol. Per un solo frangente mi sento sopraffare da una sorta di felicità, certa che lui possa essere la mia salvezza, ma, prima che possa rendermene conto, mi molla in mano tutto ciò che ha rubato dalla cucina, sgattaiolando accanto agli amici. Persino lui ha occhi solo per Jace.

«Ve lo faccio conoscere io un gruppo figo! Dopodomani andiamo tutti a sentire i Black Chains e niente storie! Anche a Jane piacciono»

Jane?

Lo stupore mi assale e d'un tratto non so che fare. Credo che siano passati anni dall'ultima volta in cui mi ha chiamata così; c'erano sempre nomignoli o soprannomi a farmi sentire benvoluta, ma stavolta è diverso, mi sento realmente un'estranea.

Mio fratello allarga le palpebre, poi si volta nella mia direzione in cerca di conferma. Gli sorrido per non farlo preoccupare, poi annuisco: «Se la cavano, il batterista ha davvero talento» e lui sembra non accorgersi di nulla.

Nonostante il malumore vorrei che lui si godesse questi pochi giorni a casa. Appena ci saremo abituati a riaverlo qui con noi tutto tornerà alla normalità – e poi lui partirà nuovamente per Parigi.

«Accetto solo perché la mia douceur li approva, sappilo!» prima tira una pacca a Charlie, poi si volta ancora e mi strizza l'occhio con una velata complicità. Persino nolente, mi ritrovo a sorridere ancora, questa volta a causa del suo interessamento nei miei confronti: almeno lui sembra ricordarsi della mia esistenza.

Il padrone di casa molla la presa sulle locandine che ha in mano tornando verso il letto e qui, senza complimenti, inizia a versare da bere. Seth lo segue a ruota e, incurante della presenza di Jace, mi si siede accanto. Solitamente avrebbe dato la precedenza a mio fratello, ma oggi non pare prestare attenzione alla cosa, così, nonostante l'occhiata bieca di "Jay", inizia a sorseggiare la Coca a pochi centimetri dalla mia spalla. 

«Allora, vecchio Raven, quand'è che ti laurei? Iniziamo a sentire la tua mancanza»

«Ho ancora qualche esame da dare, poi si vedrà» risponde a Charlie, tirandosi indietro una ciocca castana. I capelli gli si sono allungati, donando al suo viso duro ancora più armonia e mettendo in luce tutta la sua bellezza – privilegio che i nostri genitori hanno riservato solo a lui, visto come siamo cresciute Liz ed io.

«Non dirmi che stai pensando di fare una specialistica!» lo apostrofa Seth accanto a me. Involontariamente mi ritrovo a fissarlo perché, dalla mattina in cui mi son risvegliata a casa sua, non ci siamo ancora rivolti la parola. Mi ha messa talmente in imbarazzo da farmi sprofondare per tre giorni nella noiosa routine scolastica, ignorando ogni suo messaggio nelle chat di gruppo.

Lascio agli occhi il privilegio di percorrere il suo profilo, passando dalla fronte alle sopracciglia, scivolando lungo il naso perfettamente dritto, accarezzando le labbra e... un dettaglio assai insolito cattura la mia attenzione, così provo ad aguzzare la vista. Ci metto qualche istante a capire che sulla pelle pallida del collo, poco sopra all'orlo della felpa, se ne sta un segno violaceo. Lo rimiro, dandogli infine un'identità: si tratta di un succhiotto. E persino senza pensare, la mia mente corre verso una persona che avrei tanto preferito non ricordare – la sua ragazza, Sharon. Sì, perché anche se Seth ha la fama del donnaiolo, una fidanzata ce l'ha. Stanno insieme da due anni, nonostante entrambi si lascino ammaliare dai piaceri della carne altrui. Ogni tanto litigano, facendomi sperare in una definitiva rottura, ma poi fanno la pace e tutto ricomincia.

Morgestern non la ama, così come lei non prova altro che attrazione per lui, eppure resistono, quasi abbiano paura di non trovare più una persona altrettanto affascinante e disposta a sopportare i loro vizi.

Già, perché nemmeno io riuscirei a farlo, nonostante abbia una cotta per Seth dalla seconda media.

Ci sono cose che persino l'amore non può sopportare, soprattutto quando è a senso unico.

Il ragazzo accanto a me finalmente si accorge del mio sguardo e, voltando appena il capo, mi sorride senza aver capito per quale ragione lo stia fissando. Forse starà credendo che il suo commento mi abbia rattristata, o forse sta provando a far tornare a galla l'imbarazzo generato durante il nostro ultimo incontro, chissà ... sta di fatto che l'urgenza di andare in bagno si fa impellente, così abbandono la stanza con la scusa della pipì.

Ho bisogno di prendere aria.


correzione del 27.07. 2019


 

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Capitolo 6
*** Chapter 6: A Shadow ***




§ A Shadow §

Sul vagone della metro Jace mi tiene stretta, cerca di scaldarmi nella gelida sera dicembrina, mentre il freddo prova a penetrare gli strati di stoffa e carne. Tiene gli occhi chiusi e la testa all'indietro, godendosi la vaga sensazione di tranquillità che permea nel vagone.
Mi fa strano sentire il suo torace sotto al braccio, il suo respiro accanto all'orecchio; a tratti pare un sogno che temo possa finire - perché averlo qui accanto mi dà sicurezza, mi illude che le cose brutte non possano accadere.

Senza preavviso la sua voce spezza il mutismo tra di noi, riportandomi con i piedi per terra: «Parlami di come vanno le cose» sussurra, aprendo una palpebra e scrutandomi.

«Di cosa ti dovrei parlare, esattamente?»

Mio fratello fa spallucce, quasi cercando di far apparire il discorso meno importante, imbarazzante o altro, di quel che è. Nella sua espressione temo di poter trovare la risposta alla domanda appena posta, così evito di voltarmi nella sua direzione e continuo a seguire le linee bluastre che si nascondono sotto l'epidermide della sua mano.

«Stai uscendo con qualcuno? O hai fatto qualche amicizia particolare?» chiede, sistemandosi sul sedile. In un angolo oscuro della mente sento che dovrei essere a disagio di fronte a questa domanda, ma invece, ciò che realmente mi preoccupa, è il fatto che questa sua curiosità possa essere scaturita per via di ciò che è successo con Seth nelle settimane precedenti; dalla litigata nella macchina di Charlie, alla nottata spesa a casa sua.

Alzo gli occhi al cielo, sbuffando: «Cosa ti ha detto?»
«Chi?» la sua espressione prende una piega confusa, quasi non riesca realmente a capire di cosa sto parlando.

«Mi pare ovvio, Seth»

D'improvviso Jace corruga le sopracciglia, sporgendosi in avanti per riuscire a fissarmi in viso. Sembra seriamente non capire e, quasi, mi sorge il dubbio d'aver fatto l'ennesima gaffe. Possibile che il suo fosse un interesse fine a se stesso?

«Cosa c'entra lui?» vorrei davvero ignorare il fatto che dal tono che ha usato sia trapelato del nervosismo, ma non ci riesco e, involontariamente, mi ritrovo a chiedermi cosa lo stia irritando tanto. È successo qualcosa che dovrei sapere?
Finalmente mi ritrovo a ricambiare il suo sguardo e, armandomi di tutta l'innocenza possibile, cerco di scagionare entrambi dai possibili sospetti che hanno preso a riempire la mente del ragazzo accanto a me.

Gli sorrido mestamente: «Nulla, tranquillo! Ha solo messo in evidenza il fatto che ancora non ho avuto un fidanzato, quindi pensavo stessi indagando a riguardo, in modo d'avvertire i ragazzi di tenermi d'occhio» gli rispondo poi, afferrandogli la mano che pende alla fine del braccio con cui mi cinge a sé. Lui scruta la mia faccia, ne indaga ogni sfaccettatura finché, alla fine, si convince che ciò che sto dicendo è la verità.

Anche perché non posso certo dirgli che il suo migliore amico ha avuto il coraggio di lanciarmi umilianti frecciatine a sfondo sessuale!

***

Il giorno di Natale lo abbiamo fatto passare tra un pacchettino scartato, una mangiata salutare, seppur ricca, e una bevuta di vino bianco. Ci siamo concessi i classici cliché dell'occasione, amandoci un po' più del solito anche grazie all'etanolo in corpo.
Così, dopo lo strafogo del pranzo, il pisolino è d'obbligo, ma al posto di seguire Jace e Liz nella stanza di lui, per goderci un bel film e qualche sogno dalle sfumature dubbie, resto qualche minuto in più in salotto, lasciando che i vinili di mio padre coccolino le orecchie.

Lui, l'uomo da cui sono arrivata sottoforma di spermatozoo, se ne sta afflosciato sulla sua poltrona preferita, leggendo e canticchiando piano qualche brano di Bob Dylan.

Lo fisso di sottecchi, mentre di tanto in tanto allontano gli occhi dal puzzle a metà a cui sto lavorando. Ci rivedo tanto di mio fratello nei suoi tratti, così come mi pare, anche se di sfuggita, di scorgere un po' di me nel modo in cui muove le labbra o si gode "Mr Tambourine Man" - forse è proprio da lui che è nata la voglia di Jace di fare musica che, poi, ha influenzato anche me.

«Allora Jane, piani per questi giorni di vacanza?» domanda Jakob alzando gli occhi dal quotidiano che tiene tra le mani e sovrastando la voce di Bob.

Faccio finta di non prestargli grande attenzione, ma sotto sotto avverto un certo piacere nel saperlo interessato a ciò che faccio o che vorrei fare. Passando quasi cinque giorni alla settimana fuori città non può essere sempre presente, eppure quando torna cerca di essere il classico papà che tutti vorrebbero e dovrebbero avere.
Domanda, si tiene aggiornato. Ci coinvolge in discussioni di varia natura o ci porta fuori per il brunch; ogni tanto organizza serate al cinema o piccole gite in cui scoprire le bellezze della Gran Bretagna - insomma, lui c'è e, se non fisicamente, quantomeno con lo spirito.

Alzo le spalle e scuoto la testa: «Non proprio. Sto cercando di stare al passo con Jace» confesso, sapendo che infondo, per il capostipite dei Raven, il legame che c'è tra me e mio fratello è fonte d'orgoglio, soprattutto perché lui non ha mai potuto condividere nulla di simile con qualcuno.

Papà si sistema gli occhiali sul naso, ora più incuriosito di prima: «E basta?»
«Dovrebbe esserci dell'altro?» confusa, lascio perdere il pezzo di puzzle che tengo tra le mani e non so dove collocare, sollevando lo sguardo sull'uomo sedutomi di fronte. Pare quasi che mi stia sfuggendo qualcosa che a lui invece è chiarissima.

Per un attimo restiamo sospesi in uno strano silenzio, tempo che l'uomo volontariamente mi sta lasciando per giungere da sola alle conclusioni più appropriate. Nonostante questo, però, nella mia mente non si può trovare nulla, nemmeno materia grigia in eccesso.

Forse l'alcol mi ha stordita più del dovuto.
O forse è arrivato il momento che vada a pisolare anche io.

«Supponiamo che ancora tu non sia riuscita a farti delle amiche» inizia, chiudendo il giornale: «cosa che ormai credo sia un vero e proprio deficit... ma un ragazzo? Sei sempre circondata da uomini, possibile che nessuno ti abbia chiesto di uscire?»

Ma in questa casa si stanno coalizzando tutti contro di me?

Dalla nonna a papà, da Jace a mia madre, sembra che qui si preoccupino più della mia vita sentimentale che dei problemi reali della famiglia - anche se sono davvero pochi. Perché nessuno si domanda il motivo per cui mio fratello è ancora single? Non dovremmo preoccuparci prima di lui, visto che è più vecchio e più piacente?
D'un tratto mi ritrovo a non sapere se arrossire o sbraitare.

Sbatto le palpebre in un gesto d'evidente incredulità: «Tu non dovresti tifare a favore della mia castità?» mi vien naturale domandare, incapace di elaborare del tutto ciò che sta accadendo.

Di norma, secondo quanto riportato da film, show televisivi, libri e quant'altro, un padre dovrebbe considerare la propria bambina come la cosa più sacra al mondo, diventando persino geloso dell'uomo con cui lei decide di passare il tempo: perché nel mio caso non è così?

Jakob soffoca una risata, perché a differenza della moglie riesce a carpire il velo sottile di umorismo presente nelle risposte che do, ma poi cerca subito di ritornare serio e affrontare un discorso che non son certa volere che mi faccia.
«Per l'amor del cielo, Jane! Credi davvero che sia così facile per me dirti cose come questa? No tesoro, no... Ciò che mi preoccupa non è certo la tua vita sentimentale. Più tardi arriveranno gli spasimanti, più io ne sarò felice» ora il giornale viene abbandonato sul tavolino accanto alla poltrona, mentre papà si sporge in avanti per vedermi meglio - ormai la vista non è più quella d'un tempo.

Con le mani si tocca gli angoli della bocca, portandosi via gli ultimi resti del sorriso.

Adesso le cose sembrano davvero farsi serie.

«Quando è stata l'ultima volta che ti sei fatta degli amici?»

«Io ho degli amici... Seth e Charlie cos'hanno di sbagliato?» la confusione si fa sempre più intensa e temo di non capir proprio dove voglia andare a parare il suo discorso.

Avevo sempre creduto che Morgestern e Benton fossero, tutto sommato, simpatici all'intera famiglia Raven, ma ora mi vien quasi da credere che non sia così, che mio padre non li trovi adatti per la sua piccina.

«Nulla tesoro, figurati! Sono come dei nipoti per me» si affretta a dire.

E allora dove è il problema?

«Solo che sono gli amici di Jace» sottolinea poi in un sussurro.

Sì, sono gli amici di Jace, ma anche i miei.
Lui li ha conosciuti prima grazie alle lezioni di musica e alla scuola, però loro si sono affezionati anche a me e viceversa.

Piego la testa da un lato, sforzandomi davvero di leggere tra i pensieri di Jakob - ma lui sembra indossare un elmo capace di impedirmi di scoprire ciò che nasconde.

«Jane, vedi... ho paura che tu stia vivendo nella sua ombra. Tutto ciò che fai è scandito dal ritmo di tuo fratello» prova ad abbozzare un sorriso, cosa che appare terribilmente stupida ora: non è di un contentino che ho bisogno.

«I suoi amici. I suoi interessi. I suoi passatempi. Lo senti più di chiunque altro lo conosca e sei quella che più di tutti ne soffre l'assenza. Mamma ed io...» picchiando il palmo della mano sul tavolo interrompo il suo discorso, sopraffatta improvvisamente dalla consapevolezza di ciò che è stato detto fin ora e ciò che ancora è da dire.

Mi mordo forte la lingua, provando a trattenere l'infinita malinconia che pare volermi aggredire di sorpresa.
So benissimo di aver vissuto inseguendo la schiena sempre più grande di Jace, ma ciò che ho ora me lo sono guadagnato - se non fossi simpatica a Charlie e Seth non mi farebbero star con loro, men che meno mi cercherebbero.

Ma loro lo fanno, costantemente.
Mi coinvolgono.
Mi insegnano ciò che sanno tra un sorso di qualche bibita e l'altro.
Mi fanno sentire protetta e ben voluta.

Non ho bisogno di altre persone.

«Per favore, non roviniamo la giornata» gli chiedo, visibilmente turbata.
«È una questione d'affrontare, Jane» prova a insistere, a persuadermi.

D'un tratto mi alzo, in testa ho il chiaro intento di sgattaiolare via il prima possibile per riuscire ad andare a cercare conforto proprio da colui che è origine di tutta questa storia: «Non adesso» soffio, sapendo che se dovessi alzare troppo il tono si sentirebbe il tremore nella voce. Abbasso lo sguardo sul puzzle, faticando a sorreggere quello di papà: «Io sto bene dove sono e finché sarà così non avrò bisogno di cambiare» affermo con una certa convenzione, un atteggiamento che non mi sta bene addosso. 
Prendo coraggio e scivolo lungo il lato del tavolo, passando accanto all'albero addobbato e arrivando alla soglia del salotto.

Il vecchio non demorde e, per non lasciarmi andar via con l'amaro in bocca, ci concede un po' di dolcezza: «Sto solo pensando al tuo bene, al tuo futuro e alla donna che potresti diventare se prendessi la tua vita tra le mani».

Già, si usa sempre questa scusa. Il mio bene però è davvero qualcosa di diverso da ciò che ho?

Faccio per imboccare la rampa delle scale quando, come una tempesta, i passi di Jace prendono a riempire l'atrio.
Cammina svelto sul pianerottolo per poi mettersi a scendere i gradini a due a due, ottimizzando i tempi e diminuendo le possibilità che qualcuno possa interromperlo.
Compie falcate sicure, a tratti rabbiose, esattamente come la sua espressione.

«J-» provo a chiamarlo, ma lui mi passa davanti lanciandomi un'occhiata bieca, tanto severa da bloccare il suo nome a metà gola. È un nodo che blocca la salivazione e fa aumentare le domande, ma non riesco più a parlare.

Sfila il cappotto dall'attaccapanni, incurante del macello che si viene a creare mentre gli altri cadono a terra insieme a sciarpe e borse. Non si preoccupa di nulla, nemmeno di quanto strano sia il suo atteggiamento e, infilandosi anche le scarpe, se ne esce sbattendo con violenza la porta.

Che sta succedendo?

Alle mie spalle tuona la voce di Jakob: «Ma lo sapete quanto costa quella porta?!» ma a nessuno importa; né a Jace che ormai è sparito oltre l'anta e l'angolo della via, né a me, che resto interdetta a fissare il fantasma della sua sagoma.

Vederlo arrabbiato, seriamente turbato, è forse una delle cose più rare che possa ricordarmi.
Eppure oggi è così.

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Capitolo 7
*** Chapter 7: This was not supposed to happen ***




§ This was not supposed to happen §

Conto le ore che ci separano dalla partenza di Jace sulle dita di una mano e più le abbasso, più il vuoto allo stomaco si fa grande.
Vorrei poter passare questi ultimi momenti stretta tra le sue braccia mentre guardiamo l'ennesimo film natalizio e parliamo di stupidaggini, ma invece mi tocca osservare il soffitto della stanza mentre la pancia chiama qualsiasi cosa possa definirsi commestibile.

Liz ed io siamo state abbandonate nel silenzio di una casa che ancora non si è abituata all'assenza dei suoi occupanti, in parte perché i nostri genitori son dovuti rientrare sui rispettivi posti di lavoro, in parte perché Josephine ha sequestrato il maggiore dei suoi nipoti, lo stesso che lascerà un vuoto annichilante nel mio cuore, tanto quanto nella camera da letto che si trova di fronte alla mia.
Inevitabilmente, spostando il corpo, lancio uno sguardo stanco in direzione della porta spalancata sulle pareti bluette di Jace. I suoi poster mi fissano, così come i riconoscimenti che ha collezionato negli anni – lo fanno da sempre, ma ultimamente paiono più severi.

E i loro giudizi mi pesano fastidiosamente sulle spalle.

Così con uno sbuffo mi convinco che sia meglio se mi allontano; non voglio rovinarmi maggiormente l'umore.
Con un colpo di reni mi sollevo dal materasso e, a passi sempre più veloci, mi dirigo verso la cucina. Se devo essere messa in soggezione da degli oggetti tanto vale che sia il frigorifero a evidenziare la mia inadeguatezza, magari partendo dalla solita dieta squilibrata che seguo con regolarità dal momento in cui ho varcato la soglia dell'adolescenza.
Sto per svoltare all'interno di quello che è il set domestico del Masterchef nascosto di Catherine quando, senza alcun preavviso, il campanello suona. 
Mia sorella, senza nemmeno lasciarmi il tempo di realizzare cosa stia succedendo, si precipita dal salotto all'ingresso e, prima di aprire, si concede una sistemata veloce alla chioma ribelle. 
Dal modo in cui si muove, del tutto incurante della presenza di qualcuno che potrebbe usare questi suoi atteggiamenti come base per fastidiose battutine, suppongo che stesse aspettando qualcuno, magari una delle sue mille amichette della Saint Jeremy, quelle con cui tanto ama insultarmi nelle rare occasioni in cui c'incrociamo per i corridoi – ed è forse cosa buona e giusta che non mi soffermi qui. Se già normalmente sono il bersaglio mobile dei loro inutili commenti, conciata a questo modo potrei diventare il punto focale di questa giornata casalinga.
Eppure, ciò che mi giunge alle orecchie appena spalanco l'anta del frigo, non è la miriade di striduli saluti che mi sarei aspettata, quanto più una voce familiare e nettamente più baritonale: «Tuo fratello?» sento domandare, così non posso evitarmi di entrare in un totale stato confusionale.

Mollo la presa sulla maniglia, affacciandomi nuovamente sull'androne.

Nonostante la dote a me negata dell'altezza, la testa di Liz non copre a sufficienza il nostro ospite e, quando realizzo di chi si tratta, il cuore non può che accelerare il suo ritmo.

Vestito di scuro, con una maglietta dei Nirvana che gli ha regalato Charlie, alza lo sguardo oltre il viso di mia sorella, accorgendosi finalmente di un'altra presenza che, dall'espressione, non sembrerebbe si fosse aspettato d'incontrare: la mia. È bello come sempre, anzi, oserei dire che dopo qualche giorno di lontananza lo è anche più del solito, ma qualcosa nel suo sguardo mi attorciglia lo stomaco.
Vederlo imbronciato non è una novità, ma questa volta c'è qualcosa di più, una sorta di rabbia che difficilmente si potrebbe ignorare.

«Seth...?» lo saluto, titubando sul fatto che sia o meno la cosa migliore da fare, ma prima che lui possa ricambiare o spiegarmi il motivo per cui si è presentato a casa nostra con quella scintilla assassina negli occhi, un'altra voce tuona alle sue spalle, facendoci sobbalzare tutti – anche in questo caso, seppur non consueto, riconoscerne il proprietario è cosa fin troppo semplice.

Jace piomba nella scena, spintonando l'amico all'interno dell'edificio. Gli ringhia addosso al pari di un animale e, inesorabilmente, Liz ed io ci concediamo un nuovo sussulto.
Lei si spinge sempre più indietro, fino a raggiungermi. Mi è tanto vicina da oscurarmi in parte la visuale e, inoltre, la sento tremare a ridosso della mia spalla; peccato solo che io non sia in grado di trovare la forza per calmarla, troppo occupata a capire cosa diamine stia succedendo.

Seth infuriato è una cosa, ma JJ un'altra; lui non perde mai le staffe, non si porta a muso duro di fronte ad altri. Lui è sorrisi biechi e risate calde, parole ponderate e azioni altrettanto misurate – o almeno è così che io l'ho sempre visto, anche se ora mi vien quasi da dubitare.
La scena che si va a dipingere innanzi ai nostri occhi pare irreale, un incubo che non mi ero mai immaginata potesse prendere forma, eppure sta accadendo, esattamente come un incubo inaspettato.

«Che cazzo ci fai qui?» sbraita Jace, mentre la mascella gli si contrae in un gesto del tutto innaturale per lui. Vederlo così alterato mi spaventa, rende i suoi connotati eccessivamente duri, ma non si può non notare come anche i muscoli siano tesi quasi fino allo spasmo.

Le occhiate che si lanciano non promettono nulla di buono, pare quasi che da un momento all'altro debba scoppiare una guerra, una di quelle che non lascerà speranze per nessuno, né per i vinti, né per i vincitori.

Ed io non so che fare, in che modo impedire la tragedia.

Se loro due stanno litigando, che è ben diverso dai soliti battibecchi tra migliori amici, deve per forza di cose essere successo qualcosa di grave – cosa, però, è un argomento di cui non conosco nulla, né l'origine, né lo sviluppo e men che meno la fine.
Seth d'improvviso reagisce, con i palmi aperti dà un colpo a mio fratello, allontanandolo da sé. 
Vedo la tensione muovere i loro corpi, la rabbia montare sempre più e, di conseguenza, mi ritrovo il cuore bloccato in gola, forse nel tentativo di soffocarmi.
«Sono venuto a mettere in chiaro qualche cosetta» risponde Morgestern dopo lunghissimi momenti, mentre è ovvio che di stia trattenendo dallo sferrare un pugno. Lo noto io come lo nota Liz che, di slancio, cerca di precipitarsi verso di loro, andando in aiuto del nostro Jace. Eppure, qualcosa non va come dovrebbe. Il mio istinto di protezione nei suoi confronti fa capolino in quella che potremmo definire l'occasione peggiore e, afferrandola per la spalla, me la tiro dietro la schiena, stringendo la presa su di lei così tanto da farle male. 

Devo tenerla lontana da quei due a qualsiasi costo, ma allo stesso tempo devo evitare che nostro fratello si faccia male e la casa diventi un campo di battaglia – perché è ovvio che andrà così.

I due intanto si gridano addosso cose che non capisco, parole che non riescono a prendere forma tra i miei pensieri. Continuano a darsi contro a muso duro, si fissano e si incitano come cani rabbiosi e, quando credo che Morgestern sia finalmente sul punto di aggredire Jace, perdo la cognizione del mio corpo, muovendomi all'unisono con il suo braccio tatuato.
A essere sinceri, il mio istinto di sopravvivenza non è mai stato molto sviluppato, la maggior parte delle volte mi ha spinta a fare cose di cui mi sono pentita, come ora, ad esempio. Senza realmente rendermene conto mi comporto come la più temeraria tra le soldatesse, prendendo posizione in questa faida che non mi coinvolge.

Sbatto contro Jace e lo faccio spostare di poco, anche se quel misero movimento è sufficiente per salvarlo, ma non si può dire altrettanto di me.

Come un fulmine a ciel sereno percepisco l'impatto delle nocche contro l'osso altrettanto duro dello zigomo e, stranamente, mi ritrovo a sentire rimbombare il colpo in tutto il viso, quasi a imitare un gong.
Il dolore arriva veloce, inizia a espandersi su tutta la guancia partendo da sotto l'occhio e fermandosi nei pressi del labbro superiore. E fa male, sempre più. Mi pare quasi che una decina di spilli abbiano preso a perforarmi la pelle con violenza – e vorrei non cedere ai singhiozzi, ma pare essere un'impresa titanica per una cosetta come la sottoscritta.
Calde lacrime prendono a scorrermi lungo il viso, andando a schiantarsi sulla maglia, macchiandola e testimoniando contro la fermezza che ho provato a dimostrare con questo folle gesto difensivo – sono una sciocca.

E fa un male boia.

Ovviamente, dopo lo sgomento generale che dura giusto una manciata di secondi, Jace prova a reagire. 
Cerca di allontanarmi per ripagare Seth nello stesso modo, solo che, quando prova a scansarmi con il gomito, mi aggancio al suo braccio al pari di una cozza: «Smettetela, dannazione!» grido, facendo ricorso a tutta l'aria che mi è rimasta in corpo e lasciando che persino i vicini possano udire la tragedia che mi incrina la voce.

Mio fratello non demorde e io nemmeno, così ad ogni suo tentativo di andare avanti, lo tiro indietro.

Non ho idea del perché stia succedendo tutto ciò, ma sono certa che ora deve finire. Basta rabbia, grida, odio e dolore. Basta farvi la guerra. Basta rovinare così il mio mondo idilliaco in cui Jace è la persona perfetta e Seth il suo migliore amico, nonché il ragazzo di cui sono innamorata da anni e che, piuttosto che farci male, scomparirebbe dalle nostre vite.
Morgestern cerca di dirmi qualcosa, di afferrarmi e tirarmi a sé per controllare il danno, ma Liz è più veloce e come una pazza inizia a strillare e spintonarlo via. Lo caccia senza dargli il tempo di capire la gravità della situazione, di scusarsi o altro.

Mia sorella non sembra essere in sé; piange e prova a difendermi alla bene e meglio, ribaltando così i ruoli. Non dovevo essere io quella che si prendeva cura di lei?
Eppure non c'è santo che tenga, ogni nuovo tentativo di Seth d'avvicinarsi a me viene bruscamente bloccato da Liz o Jace, che si trasformano in personali mastini di una ragazza troppo occupata a piangere e restare incollata a un braccio, per prendere una posizione nella situazione.

Nonostante questo, però, e a prescindere dalla vista appannata, riesco a scorgere nell'espressione di Morgestern tutto lo sgomento, la paura e il risentimento che prova nei confronti di quello che è appena successo.
Vorrei dirgli che lo so, che avremmo modo per dimenticare, ma allo stesso tempo provo un inspiegabile nausea all'idea di rivederlo in questa casa. Credo sia lo spavento provato a parlare, la sorpresa di essere stata colpita da qualcuno che ho sempre guardato con tanto desiderio e ammirazione – o forse ho sperato fino all'ultimo che quel pugno non partisse e, vedendo come è andata a finire, non ho potuto che restarne delusa.

Jace ringhia, lancia nuove minacce, si gonfia di una rabbia che non gli appartiene. Vuole vendetta, lo sento dal modo in cui i suoi muscoli, sotto alla manica in jeans, sono ancora contratti e pronti a saettare in direzione di quello che è uno dei suoi più cari amici. Ma io ho bisogno che ora si calmi, che lo lasci andare via. Ho bisogno che mio fratello giri il capo, si liberi di tutta la negatività che ha dentro e mi abbracci finché il dolore non passi.

Così, scorgendo la titubanza di Seth accanto alla porta e sapendo che tutta questa tragedia non finirà fino a quando se ne starà lì, lo esorto anche io: «Vattene! Morgestern, vai via!» e lui corruga la fronte, visibilmente sorpreso dalla richiesta che gli ho appena fatto. Forse non se lo aspettava. Forse pensava che gli avrei dato modo di spiegare, chissà. Sta di fatto che ora ho bisogno di pace e lui è tutto tranne che quello.

Si morde il labbro, trattiene una smorfia, ma alla fine ci dà le spalle, andandosene via.


correzione del 27.07.2019

(spero che arrivati a questo punto la differenza si noti abbastanza)

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Capitolo 8
*** Chapter 8: Am I Dreaming? ***




§ Am I dreaming? §

Jace ed io siamo in bagno, l'infermeria perfetta dopo ciò che è accaduto. Lui con un panno umido mi tampona la zona appena sotto all'occhio, l'unica parte del volto che pare aver riportato danni visibili. Ogni volta che mi tocca però, son costretta a trattenere i guaiti, anche se le goccioline d'acqua fresca provano a distrarmi dal pulsare continuo della pelle che viene sfiorata. Potrei provare a mentire in ogni modo, ma non servirebbe a nulla: il cazzotto di Seth voleva far male, era stato caricato per colpire e lasciare il segno - e così ha fatto, ma sul corpo sbagliato.

Ciò che ne deriva, quindi, è la spaesante certezza che volesse sul serio ferire mio fratello, punirlo per qualcosa che a suo avviso doveva essere giusto e che lui, certamente, avrà ritenuto sbagliato.

Fisso con la coda dell'occhio il viso di Jace, tanto crucciato da far ben capire che si stia rimproverando per ciò che è successo. Quasi mi pare di poter leggere i suoi pensieri.
Si starà ripetendo all'infinito di essere stato un idiota, di non potersi più definire un fratello maggiore degno di tale appellativo - ma lo è, sono io ad essere stata tanto stupida da mettersi nel mezzo di qualcosa che né mi riguardava, né mi competeva.

Così, mentre fisso la sua espressione, mi ricordo che tra poco più di un'ora dovrà scendere le scale del secondo piano, afferrare le valige che ha all'ingresso e andare via, con il cuore pesante e i sensi di colpa a gravare sul suo spirito. 

Mio fratello non è tipo da prendere le cose alla leggera, non si perdonerà per quel che è successo con tanta facilità, anzi, temo che non potrà mai farlo veramente, anche se dovrebbe. L'errore non è stato suo, nemmeno di Seth. L'errore è stato mio, che mi son voluta frapporre tra loro per impedire che la catastrofe avesse luogo, che la loro amicizia si chiudesse con un naso rotto ed entrambi all'ospedale; perché certamente non avrebbero smesso al primo pugno.

«Okay JJ, basta così...» con il braccio gli scosto la mano dal mio viso, cercando di allontanarlo da me. Fatico a reggere il modo che ha di guardarmi l'ematoma, così come non riesco più a sopportare di star qui e respirare i suoi sensi di colpa.

Salto giù dal piano in marmo del lavandino, cercando con la mano di asciugarmi l'umidità appiccicata alle guance: «devi chiamare il taxi e fare un ultimo controllo dei baga-» mi interrompe bruscamente, con un tono di voce capace di scuotermi le budella. Urla ancora, senza capire che non ce n'è motivo, che siamo a meno di due spanne l'uno dall'altra e che il mio udito funziona benissimo: «Cosa vuoi che me ne importi del volo? Jay hai visto come è conciata la tua faccia?»

Sì, sfortunatamente l'ho vista.

Jace scuote la testa, mi afferra per le spalle e cerca di non lasciarmi andare: «Non me ne vado. Dopo quello che è successo tu non resti qui da sola!» la sua preoccupazione ha la stessa intensità delle mani con cui mi stringe, arrivando quasi a far male.
Crede davvero che Seth possa tornare e volermi colpire ancora? Pensa sul serio che l'abbia fatto volontariamente, o che sia una persona tanto spregevole da volersi vendicare su di me per una questione loro?

Non siamo in un film che parla di mafia o gang rivali, Morgenstern non alzerebbe mai un dito su di me e di questo ne sono certa, a prescindere dalla chiazza viola che mi adorna lo zigomo.

Se non ho paura io, che sono diventata la vittima del loro battibecco, certamente non dovrebbe averla lui. Come può dubitare dell'integrità morale di quello che è stato il suo migliore amico per gli ultimi tredici anni? Se potesse, ne sono certa, Seth verrebbe in ginocchio alla porta di casa per chiedermi scusa - o quantomeno questo è quello che accadrebbe nei miei sogni più rosei. Ad ogni modo, so che si farebbe perdonare a qualsiasi costo: mi vuole bene e su questo non ho alcun dubbio.
Con una mano afferro il polso di mio fratello, fissando lo sguardo nel suo. Devo convincerlo che vada tutto bene, che sono in grado di gestire questa situazione da me. Lui ha altro a cui pensare, la sessione invernale si avvicina e dietro d'essa la laurea - non può mandare tutto a quel paese per me, anche se l'idea è lusinghiera.

«E' tutto okay» sussurro, contrastando le sue urla di rabbia con la maggior quantità di calma che riesco a racimolare: «Jace, non mi serve la tua protezione, ora. È stato un incidente, lo sappiamo entrambi, anche se tu non vuoi ammetterlo»
Lui mi incalza, non vuol sentir ragioni: «Ti ha colpita, Jane. Non è una cosa che posso ignorare!» nei suoi occhi c'è la chiara scintilla della decisione. Non vuole demordere, ma deve. Questa questione non è poi tanto importante da rovinarsi il futuro e poi, alla mia età, è giusto che impari a gestire da sola i problemi.

«Mi ha colpita solo perché ero nel mezzo! Se non ci fossi stata il pugno non sarebbe mai arrivato a me» continuo, imperterrita. Se lui non è intenzionato a mollare, non lo sono nemmeno io; è una gara a chi cede per primo.

Jace si morde il labbro. Per la prima volta non sa che rispondermi ed è quindi il momento giusto per avanzare, abbattere tutte le ultime difese che ha: «Non è colpa tua, ficcatelo bene in testa, né di Seth. Però vorrei sapere per quale motivo mi son presa un pugno in faccia». Mio fratello sbuffa, alza gli occhi al cielo e cerca un modo per evitarsi di rispondere, ma non mi sfugge.
«JJ, non farmelo chiedere ancora. Si può sapere che vi è preso?»

«Non sono affari tuoi, okay?» e di rimando, mi indico il viso. Davvero? Perché questa cosa pare dire il contrario.
Nuovamente il ragazzo di fronte a me scuote la testa: «Per una sacrosanta volta, Jane, vuoi darmi retta? Sono tuo fratello maggiore e se dico che non sono affari tuoi, non ti devi impicciare» e così si gioca anche la carta del "più grande", peccato che non abbia mai avuto alcun risultato, come quando Catherine millanta la sua autorità genitoriale.

«Voglio saperlo» sentenzio.
«Non ti devi immischiare» controbatte, senza nemmeno una minima esitazione.

Ci guardiamo con sempre più intensità, provando a persuaderci l'un l'altro, ma alla fine, quello che cede è lui.

«Vuoi che ti lasci qui da sola? Okay, ma ciò che è successo tra me e Seth è solo affar nostro. Ci sono regole da rispettare e rispetto da portare nei confronti di quelli che chiamiamo fratelli, Jay, e lui non l'ha fatto» sbotta infine, riprendendo a torturarsi il labbro prima di uscire dal bagno con passo deciso. Se ne va con i nervi tesi e il sangue a ribollire nelle vene, facendomi vincere questa piccola battaglia, ma senza spiegarmi il motivo della guerra.

***

Finalmente resto sola.
Il silenzio di casa pare improvvisamente essere confortante. Non ci sono grida a spezzare la tranquillità pigra di fine Dicembre, così come non ci sono più le proteste di Jace o i pianti di Liz. Lui è salito sul taxi giusto un'ora fa, diretto verso l'aeroporto, e anche se nel suo sguardo era ancora visibile l'amarezza di lasciarmi qui dopo ciò che "per colpa sua" ho dovuto subire, ho provato a vestire il miglior sorriso che potessi sfoggiare, convincendolo a salire sulla berlina scura. Mia sorella, dopo diversi tentativi da parte di entrambi i maggiori dei figli Raven, è uscita con le sue amichette di scuola - o meglio, le sue migliori amiche, quelle che sarebbero dovute arrivare al posto di Seth. C'è voluto un po', ma alla fine ha indossato scarpe e giubbino ed è sgattaiolata via con loro; chissà quali storie contorte e controverse usciranno dalle loro bocche dopo che mi hanno vista in versione Fight Club.

Eccomi quindi qui, ora occupata a fissare la porta d'ingresso che ho di fronte e ascoltare il nulla. Non ho né la forza per alzarmi dal gradino su cui son seduta, né la voglia di arrovellarmi su qualche pensiero scomodo. Dentro di me c'è però una piccola tempesta che, se mi fermassi ad ascoltare, scoprirei far più baccano del rumore bianco che mi circonda.

La motivazione della sua presenza è ovvia: il terrore che tra Jace, Seth e Charlie si sia irrimediabilmente rotto qualcosa.

Cosa farei, se le mie uniche ancore di salvezza, mi lasciassero annegare nel mare che è Londra per un'adolescente in balìa dell'ignoranza? Non ne ho idea, men che meno vorrei avercela.

Sbuffo, conscia che prima o poi mi toccherà fare i conti con questa situazione. Non potrò fingere indifferenza, tantomeno potrò mollare tutto senza dare alcuna spiegazione o soffrirci. Ci tengo troppo.
E intanto il peso sul petto si fa maggiore, ma prima che le lacrime possano realmente prendere forma e fuoriuscire dagli occhi, un suono attira la mia attenzione.

È qualcosa di familiare, che arriva da lontano, da oltre le mie spalle. 
Forse è il cellulare che ho lasciato in camera.
Mi concentro, provando a identificare per bene l'origine della vibrazione e poi, convincendomi che in casa non vi sia alcun oggetto che possa fare un simile rumore, soprattutto di dubbia utilità e innocenza, balzo in piedi e salgo verso la mia stanza.
Vedo il display illuminarsi a scatti, mettendo in risalto un'immagine che, in questo esatto momento, mi fa stringere lo stomaco fino alla nausea; eppure non mi fermo, allungo il braccio e rispondo giusto in tempo per evitare che s'inserisca la segreteria. E appena la linea si apre, io perdo lucidità. Non c'è più una singola parola capace di uscirmi dalle labbra - forse perché ciò che sto facendo è sbagliato, oppure perché non sono poi tanto pronta ad affrontare la realtà.

«Jay...» la voce dall'altra parte della cornetta è tesa, preoccupata, tremante perfino, eppure mi chiama al pari di un'invocazione - c'è speranza, nel suo tono, la preghiera che sia veramente io a rispondere.

Ma non so che dire, sono spaesata.
Potrei ancora riagganciare, fingere che nulla sia successo e vedere cosa accadrà domani dopo una bella dormita, ma tutto ciò che riesco a fare è restare in attesa.

«Parlami» sembra supplicare.

È la prima volta che lo sento parlare a questo modo, che la sua consueta sicurezza vacilla di fronte a qualcosa che, come me, non sa come affrontare.
«Cosa dovrei dire?» chiedo, avvertendo la stretta allo stomaco farsi più insistente. Basterebbe poco per farmi vomitare, soprattutto perché la tensione che credevo essere svanita, in realtà si è andata a nascondere tra i succhi gastrici e i resti della colazione.

Seth tira un sospiro di sollievo, quasi aver sentito la mia voce sia stato sufficiente a rincuorarlo.
«Sei sola?» domanda piano, in un sussurro. Ed io non so cosa rispondergli. Non so se sia giusto, nei confronti di Jace, incontrare Morgenstern in un qualsiasi momento di questa giornata.
Dovrei dirgli di no, rinviare il nostro incontro e le possibili scuse che ci attendono, però dentro di me, la ragazzina innamorata di lui sogna un lieto fine: un abbraccio in cui mi dice che è stato un incidente, un bacio sulla fronte a mo' di perdono.

Avere questi pensieri, però, non è già di per sé una sorta di ammutinamento nei confronti di mio fratello?

Prima che possa capire cosa sia giusto fare, la sua voce torna a riempirmi l'orecchio, solleticando il timpano: «Possiamo... parlare? Mi apri?» domanda nuovamente, forse immaginando da sé che una casa tanto silenziosa non possa contenere poi tante persone e, visto che tutti eravamo a conoscenza di quale volo avrebbe preso Jace, oltre a me ci potrebbe essere solo Elizabeth; ma lei non è una minaccia, lo sappiamo entrambi.
Così, senza realmente essere cosciente delle mie azioni, lasciandomi trascinare dalla corrente di eventi, interrompo la chiamata, ripercorrendo a ritroso la strada fatta pochi minuti fa. 
Il cuore mi batte nel petto al pari di un martello pneumatico, lo sento sbattere contro la gabbia toracica in una sorta di loop senza fine e tutto ciò a cui riesco a pensare è che, nuovamente, sto dando dimostrazione dell'incapacità d'affrontare determinate situazioni. So cosa sarebbe corretto fare, eppure mi avvicino sempre più alle fauci di una bestia che in futuro non saprò gestire - perché sfido il fatto che mio fratello mi perdonerà una riappacificazione con il nemico, prima che lui abbia dichiarato la fine di questa guerra.

Alzo lo sguardo dalla punta dei miei piedi e, dietro al vetro satinato della porta d'ingresso, vedo l'ombra scura del ragazzo che si è presentato qui poche ore fa. Cosa avrà fatto in questo tempo? Sarà andato ad affogare il dispiacere in qualche lattina di birra scadente? Avrà fumato tutte le sigarette che le sue tasche potevano contenere? Ed è quindi saggio, da parte mia, allungare ora la mano, girare il pomello e spalancare l'anta per permettergli di vedere il disastro che ha combinato?

Forse no, ma lo faccio comunque.

Quando i suoi occhi verdi incontrano il mio viso, è impossibile non notare la luce tetra che gli riempie lo sguardo.
Potrei persino dire di scorgere dell'amarezza, nelle screziature delle sue iridi, o quella che dovrebbe essere colpa, dispiacere.

E il cuore adesso rallenta, per contorcersi su di sé. Mi sento male all'idea che stia guardando i segni della sua rabbia su di me, che si stia rendendo conto di aver indossato il costume del mostro che son certa non sia. Eppure non posso impedirglielo. Ormai siamo faccia a faccia e quel che è successo non può più essere cancellato - o almeno non per i prossimi giorni.

La mano di Seth si posa delicatamente sul mio viso, percorrendo i bordi irregolari della chiazza scura. Lo studia in ogni sua sfumatura, ne prende le misure a suon di battiti di ciglia. Le dita accarezzano piano la pelle, forse temendo di potermi nuovamente far male. Se ne sta in silenzio mentre compie questo gesto, tanto sacro quanto sacrilego. Sì, perché tanta dolcezza pare non poter appartenere a un diavolo come lui, che fino a poco fa si dimenava nell'androne divorato da una rabbia che non sapeva controllare. Nonostante ciò, cerca di non farmi più alcun male, anche se mai era stato nei suoi piani.

Vorrei poter fare una battuta, una di quelle pessime che mi escono sempre nei momenti peggiori, ma sfortunatamente non mi viene in mente nulla. Non una sillaba con cui iniziare, né un aneddoto a cui aggrapparmi per sdrammatizzare.

Come ho detto già troppe volte, non so gestire buona parte delle situazioni in cui mi ficco.

Però ci pensa lui a spezzare il momento, levandomi questo enorme peso dal petto. Senza darmi tempo di capire, Seth mi tira a sé, stringendomi con talmente tanta forza da mozzarmi il respiro. Mi spinge qualche passo verso l'interno della casa, in modo da riuscire a richiudersi la porta alle spalle e, appena sentiamo la serratura scattare, ci si appoggia sopra per trovare sostegno.
Il suo respiro mi sfiora la punta dell'orecchio, mentre le sue braccia mi avvolgono come la coperta più calda che possa trovare in tutta Londra. Mi stringe e tace, facendomi capire quanto si senta in colpa per ciò che è accaduto.

E quanto gioirei, se questo abbraccio fosse avvenuto in un altro contesto. Quanto mi sentirei elettrizzata all'idea che lui, il ragazzo che ha tormentato le mie fantasie giorno e notte, da quelle più romantiche a quelle più peccaminose, mi stia tenendo a sé come se il suo ultimo desiderio fosse quello di perdermi.

Peccato che un'assillante vocetta non faccia altro che riportarmi alla mente il pugno, il livido e la minaccia di Jace.

Seth mi preme contro il suo corpo, tanto che posso sentire il suo petto alzarsi e abbassarsi per il respiro affannato.

«Ti prego...» sussurra, mentre la voce gli trema appena: «non sparire per questo, non odiarmi, Jay. Ti... ti supplico» e vorrei negare a me stessa di non sentirmi morire. Come ho fatto a diventare la cattiva della situazione? Come è possibile che, agendo per il bene, io abbia generato tanto dolore?

Seppur sia conscia di non poter balzare indietro nel tempo e impedirmi di finire in mezzo alla loro rissa, per un attimo desidero poterlo fare, in modo da risparmiargli tutta questa sofferenza.
Non fa bene a nessuno, né a lui, né a mio fratello e, men che meno, a me.

Provo a divincolarmi dalla sua presa, sentendo le lacrime districare il nodo che ho in gola e provare a risalire verso gli occhi, ma più mi sforzo, meno ottengo. Non voglio che mi veda piangere, sarebbe solo un altro motivo per farlo sentire in colpa - e non se lo merita.
Spingo nuovamente contro il suo busto e, finalmente, lui allenta la presa, senza però lasciarmi realmente andare. Lo guardo dritto negli occhi, quei due smeraldi per cui sono impazzita la prima volta che l'ho visto e, cercando in tutti i modi di fare un sorriso convincente, provo a convincerlo ad andare via, in modo che non debba star troppo a rimirare l'ematoma: «E' okay, Seth. So che non volevi colpire me. Ora vai a casa però. Fatti una doccia, metti su qualche brano rilassante e convinciti che non ti do la colpa di nulla. È stato un incidente»
Siamo vicini, troppo forse. Non ricordo di averlo mai potuto osservare da questa prospettiva in un momento di tale intimità - o con la coscienza di avere gli ormoni totalmente in visibilio. Così, mossa dall'idea che in una simile circostanza non mi si possa rimproverare nulla, mettendomi in punta di piedi, mi concedo il lusso di baciarlo.

No, non un bacio come quelli che ho sempre sognato o che nei film riescono ancora a farmi arrossire, bensì qualcosa d'indefinito, a metà tra la guancia e le labbra.

Potrebbe quasi far pensare che abbia preso male le misure, che l'equilibrio sulle punte mi abbia tradita, ma non c'è nulla di casuale in questo gesto - non può essere decretato né come una dichiarazione, né può essere smentito il fatto che lo sia.

Il contatto è breve, anche se nella mia testa pare durare minuti interminabili e, prima di dare l'ultima spinta per liberarmi definitivamente dalle sue braccia - che in realtà vorrei non si staccassero mai - sussurro: «Ti scrivo domani, va bene?» 

Spingo con la schiena, sento la sua stretta diventare sempre più blanda e, quando finalmente mi convinco di aver chiarito la situazione, qualcosa nei piani cambia.
Non ho il tempo di realizzare la sequenza di azioni, che mi ritrovo sopraffatta dalla sensazione più appagante che possa mai ricordare di aver provato.
Le labbra di Seth Morgenstern si schiudono sulle mie, le sue palpebre calano e, improvvisamente, mi scopro a baciare la persona che meno di tutte mi sarei aspettata potesse voler fare una simile cosa con me. L'incredulità però passa presto in secondo piano, anche se prima che possa rincarare la dose e lasciarmi andare a una qualsiasi forma di passione, lui interrompe il contatto sospingendomi lontano dalla sua bocca.

Resto sospesa in una bolla di confusione e parziale delusione, mentre lui accarezza un'ultima volta il livido. Lo fa con lo stesso sguardo colpevole e preoccupato e ciò non promette nulla di buono.

«Okay» sibila, mollando subito dopo la presa e scivolando via da me e oltre la porta, lasciando al suo posto il fantasma di sé.

Più volte sbatto le palpebre, provando a capire se ciò che è appena successo sia reale o meno e poi, riacquistando un minimo di lucidità, mi domando: Okay? Solo questo ha da dire? Non avrebbe dovuto giustificare il suo slancio in una qualche maniera?

No, perché quello che è successo non è certo qualcosa che potrò dimenticare o ignorare con tanta facilità! 
Inoltre... perché lo ha fatto?
Perché ha deciso di baciarmi? Che provasse pietà per me? Che fosse il suo modo per chiedere scusa alla piccola Jay, quella che si è fatta la bua?

Mordo le labbra, sentendomi sempre meno sicura. Il suo sapore se ne resta lì, ma non ha nulla a che fare con il mix tabacco e menta che si inventano quelle strane autrici online; sa più di Lucky Strike rosse e amarezza, pentimento - ma suo, o mio?


correzione del 27.07.2019

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Capitolo 9
*** Chapter 9: Not a Mistake ***


 



Chapter Ten
§ Not a Mistake §


 

"Take me down to the fighting end
Wash the poison from off my skin
Show me how to be whole again
Fly me up on a silver wing
Past the black where the sirens sing
Warm me up in the nova's glow
And drop me down to the dream below"

Castle of Glass - Linkin Park


I giorni son passati senza che io riuscissi a rendermene conto e, dopo il bacio con Seth, di lui non ho avuto più notizie. Mentre Charlie ha condiviso decine di video stupidi e cercato di chiacchierare con me il più possibile, il suo migliore amico è sparito nel nulla - ed io non ho fatto nulla perché fosse diversamente. Non un messaggio o una chiamata, men che meno un'imboscata fuori casa o in qualsiasi altro posto. Me lo sarei aspettato, visto ciò che è successo.
Ho aspettato, arrovellando i pensieri su migliaia di fantasie che non avrei dovuto alimentare, ma le ore di silenzio si sono trasformate in giorni e alla fine, con l'amaro in bocca, ho ceduto all'ovvietà dei fatti: Morgenstern si è pentito.
Quasi sicuramente, una volta varcata la soglia del proprio appartamento, deve essersi domandato cosa diavolo gli sia saltato in mente. Baciare la sorellina del proprio amico non è certo qualcosa che si fa tutti i giorni, soprattutto se si è fidanzati con un'altra persona, si è litigato con il proprio "bestie" e si ha colpito la suddetta giovincella con un pugno ben piazzato al centro dello zigomo.
Il senso di colpa deve aver tradito la sua volontà e, con il senno di poi, deve aver capito di aver solo peggiorato le cose.

Non sembra esserci altra spiegazione.

Ed io non ho voluto fare alcuna prima mossa, nemmeno per accertarmene. Gli avevo promesso un messaggio: non gliel'ho inviato. Avrei potuto chiamarlo: non ne ho avuto il coraggio. Più ci penso e meno mi sento pronta a udire la sua voce, sentire il suo respiro - figurarsi incrociare il suo sguardo! 

Così, pur di non lasciarmi sprofondare in un letto di imbarazzo e paranoia, ho convinto Elizabeth ad accompagnarmi in una passeggiata lungo le vie della City, o di qualsiasi altro quartiere che possa tenermi la mente occupata.

Di fronte alla mia richiesta lei non ha fatto domande, si è infilata le scarpe e ha fatto gli occhi dolci a nostro padre per entrambe, spillandogli il denaro necessario per concederci una merenda ipercalorica e un qualche oggetto dalla dubbia utilità.
Suppongo che l'ombra dell'ematoma che ancora mi adorna il viso sia un'arma contro il buon cuore di mia sorella - perché nonostante tutto, come qualsiasi Raven, anche lei cela sotto al suo corpicino da adolescente riluttante un animo buono.
So di giocare sporco, ma in questi giorni ho bisogno di una spalla per riuscire a scacciare dalla mente i pensieri scomodi: e Liz, nel bene e nel male, è di grandissimo aiuto. Certo, ci sarebbe anche Charles Benton con cui passare il mio tempo, con cui sorridere e fingere che nulla di quello che è successo sia realmente accaduto, ma dubito fortemente che hai suoi occhi, anche sotto a strati di fondotinta, sfuggirebbe il lascito del pugno di Seth. Nemmeno riesco a immaginare la sua reazione e, a dire il vero, un po' la temo. Non so come la sua voce si alteri a causa della rabbia, men che meno ho idea di come il suo viso si contragga in certe situazioni - di certo, visto il suo solito buonumore, per ora non è una minaccia di cui mi debba preoccupare: a quanto pare né mio fratello né Seth devono avergli raccontato nulla.

Liz d'improvviso si volta verso di me, mi riporta alla realtà chiedendomi se sono pronta, ed io per un attimo resto a fissarla, quasi debba riflettere sulle sue parole. Alla fine annuisco, convincendola a uscire.
Così, armate di paranoie e indecisione, ci incamminiamo lungo la via varando vari programmi per occupare il pomeriggio. Passo dopo passo, una proposta dietro l'altra, finiamo col sederci sui sedili di un vagone metropolitano mezzo vuoto. Una accanto all'altra, lasciamo scorrere le fermate senza prestar loro grande attenzione e, una volta arrivate nei pressi di Camden, mia sorella guizza in piedi precipitandosi senza spiegazioni fuori della carrozza. La raggiungo giusto in tempo per non restare chiusa tra le porte automatiche e, una volta afferrato il suo polso le chiedo: «Ma sei scema?»
Lei sgrana gli occhi, confusa: «Perché? Non hai detto che volevi passare al St. Cyr?»

Le mie labbra si schiudono, ma non ne esce alcun suono. Non ricordo di aver suggerito nulla di tutto ciò, eppure dalla sua espressione capisco di essere io quella svampita. Forse ho blaterato qualcosa tra un pensiero e l'altro, incapace di dare effettivamente un senso alle mie stesse parole, però non riesco a ricordarlo e, ora che  siamo qui, tanto vale sfruttare l'occasione.

Mi porto la mano libera al viso: «Ehm... sì, credo» sbuffo poi, ancora poco convinta. «Io... sono un po' stordita, scusa».
Elizabeth corruga la fronte, sembra improvvisamente preoccuparsi: come ho detto, da quando ho questo livido il suo atteggiamento nei miei confronti è drasticamente cambiato. 
«Vuoi tornare a casa?»
Sussulto.
«No, no! E' solo che... ci prendiamo un caffè prima?» Nicotina e caffeina sono solitamente un toccasana per il mio umore e, come lo so io, lo sa anche lei. Dopo tanti anni di convivenza ha imparato come tenermi buona. Non ho bisogno né di supplicarla né di persuaderla, mia sorella cede senza grandi complimenti. Mi conduce sottobraccio alla caffetteria più vicina, arrivando quasi a offrirmi lei stessa, con i soldi di papà, la dose di arabica necessaria per farmi smettere di sognare a occhi aperti - la fermo giusto qualche secondo prima che riesca a trovare il portafogli: già l'ho costretta a passare del tempo con me, non è corretto abusare ulteriormente di lei.

Sorseggiando il caffè, ci inoltriamo tra le strade di Camden in direzione del St. Cyr, un negozietto vintage in cui ho preso tra i capi d'abbigliamento che più preferisco. Avanziamo commentando i possibili acquisti, il tempo, i gossip che aleggiano tra i corridoi della scuola e alcuni film visti di recente fin quando, qualcosa di estremamente allettante, cattura l'attenzione di entrambe.
Una serie di vetrinette sabbiate su cui svetta la vetrofania di un'insegna volontariamente invecchiata ci chiama a sé al pari delle sirene con Ulisse e, persino nolenti, ci ritroviamo ad attraversare la strada seguendo la scia di profumo generata dalla carta stampata, ebbre all'idea di poter sfiorare in punta di dita chissà quali meraviglie - e soprattutto di poter spendere i soldi del nostro amato Jakob per qualche edizione particolarmente interessante. Già, perché sfortunatamente per il portafogli dei coniugi Raven, tutti e tre i figli hanno ereditato un certo amore per la letteratura. Il problema più grande però, è che i generi preferiti spazino in direzioni differenti e le librerie, quindi, si riempiano sempre più, dilapidando paghette e mance.


In men che non si dica ci ritroviamo quindi a oltrepassare la soglia del negozio, immergendoci in una moltitudine di scaffali, colori e tomi che mai ci saremmo aspettate dall'esterno, diventando così come due alcoliste in enoteca.

Non faccio in tempo ad orientarmi, intontita da tanta tracotanza, che Liz sgattaiola verso la sezione dedicata ai gialli abbandonandomi a me stessa e alla confusione più totale. Sembra conoscere questo posto a menadito, eppure dubito che sia mai entrata qui dentro prima d'ora.
Involontariamente mi ritrovo quindi a fissare la sua schiena, cercando qualcosa di indefinito nel modo in cui si muove per il negozio finché, alle mie spalle, qualcuno entra nella libreria obbligandomi a muovere qualche passo verso l'interno.
Mi osservo attorno, probabilmente dando l'impressione di essere folle e, tra uno sguardo e l'altro, mi metto a cercare il reparto biografie. Nel mio scrutare tra le file di scaffali, non posso evitarmi di notare come il commesso più giovane, un tipetto dalla faccia glabra e con ancora qualche residuo di acne sulle guance, si sia messo a fissare con un certo interesse i movimenti di mia sorella, quasi ammaliato. Fortunatamente per lei, Liz ha la stessa bellezza di Jace, ma non si può dire altrettanto quando si parla di " abilità nel saperla usare". In questo caso, purtroppo, ha la mia stessa incapacità nel rapportarsi con il sesso opposto.

E se da un lato lei non si sta accorgendo di nulla, nemmeno di uno sguardo tanto intenso, dall'altro il commesso non sembra in grado di attaccare bottone - così, mossa da chissà quale senso del dovere fraterno, decido di prendere in mano la situazione.

Passando accanto a mia sorella, le pizzico il fianco distraendola dalla spasmodica ricerca di chissà quale volume e, maliziosamente, le strizzo l'occhio: «Qualcuno ha fatto colpo!» Affermo continuando a camminare con nonchalance per la libreria.
Lei all'inizio pare non capire, corruga la fronte e schiude le labbra, poi d'un trattò le gote le si fanno rosse e, con la stessa goffaggine mia, si mette a scrutare i dintorni. Lo sguardo di Liz si sofferma su tutti: dal vecchio che arranca per sistemare un tomo erroneamente preso, al cagnolino che dalla porta cerca di attirare le attenzioni del suo padrone. Le ci voglio molti minuti prima di accorgersi del commesso.

E se mamma e papà l'hanno graziata con la bellezza, non si può dire altrettanto con l'acume.

Gongolandomi nel successo appena ottenuto, certa che vi sarà un primo approccio, decido di lasciare a Elizabeth i propri spazi e, quasi saltellando, mi dirigo verso l'uscita. Le do il tempo di una sigaretta per riuscire a scambiare il numero di telefono con lui, poi me ne andrò senza remore verso il St. Cyr - dopotutto è abbastanza grande per potersi gestire da sola.

Armata di accendino e Chesterfield rossa, mi appoggio al primo angolo di muratura che trovo e, incurante delle condizioni climatiche, sfido la brezza leggera cercando di dar fuoco alla punta della sigaretta - ma la mia è una battaglia già persa in partenza, dovrei saperlo.
Mi ritrovo così a litigare con l'incessante venticello invernale. Provo più e più volte a creare uno scudo con l'unica mano libera che ho a disposizione, ma l'aria passa inesorabile da fessure che non riesco a coprire mettendo all'ingrasso la lista di imprecazioni che inizia a prendere forma nella mente.

Se stavolta non si accende...

D'improvviso altre due mani si chiudono a coppa intorno alla mia e, finalmente, metto un punto alla battaglia tra la fiamma e la brezza. Il tabacco s'infiamma e in un enorme respiro mi riempio i polmoni di nicotina: veleno puro per i bronchi, ma un toccasana per l'incapacità di gestire il nervosismo.
Involontariamente socchiudo le palpebre, mi lascio inebriare dal sapore acre della sigaretta per qualche momento e poi, ricordandomi del buon samaritano che è corso in mio soccorso, mi rivolgo a lui.
«Ti ringra-» peccato che le parole mi muoiano in gola.

C'era un motivo, se quando Elizabeth mi ha detto di Camden mi era apparsa come una proposta impossibile.

Lo sguardo crucciato di Seth mi schiaccia al muro e, come se non fosse già sufficientemente gravoso, lo diventa ancora di più quando mi rendo conto di cosa stia realmente guardando. Quello che fino a qualche giorno fa era un ematoma degno del peggior appassionato di risse da bar, ora non è altro che una chiazza giallognola che il fondotinta fatica a coprire - eppure lui sa dove è, lo trova subito. So che sta analizzando ogni sfumatura che non sono riuscita a camuffare con il trucco; e chissà cosa pensa.

Mentre arranco tra i pensieri alla ricerca di qualcosa da dire, soprattutto per giustificare la mia sparizione, il suo pollice mi si poggia sullo zigomo, accarezzando piano il lascito delle nocche di quella stessa mano.
Il contatto con il polpastrello di Morgenstern mi genera un brivido che dalla base della nuca scivola giù lungo la schiena e, per un attimo, temo di farmi sfuggire un gemito. Ha qualcosa di terribilmente dolce e piacevole, ma non posso negare di trovarlo anche terribilmente sensuale. E nonostante mi abbia toccata decine di volte, prima, ora ogni tocco pare avere un'intensità e significato diversi - purtroppo però, credo che questa sia solo una mia impressione.

«Io ringrazio la tua pellaccia dura, invece. Non pensavo avrebbe iniziato ad andar via così presto» afferma con espressione sempre più critica, analizzando il danno come un medico fa di fronte a un paziente.

Deglutisco a fatica, spalle al muro e palpito a mille - e più resto ferma, più il mio sguardo non riesce a impedirsi di cadere sulle sue labbra, due linee dure, di un pallore disomogeneo che non riesco a definire in alcun modo se non come "rosa perfezione". Si tratta di una cromia unica che, nella mia povera mente da donna che mai ha preso coscienza dell'amore e dei rapporti che vi ruotano attorno, è incantevole. Sì, perché a parte qualche ragazzetto frequentato giusto per estirpare dalla mente dei miei conoscenti l'ipotesi che potessi essere asessuata, non c'è stato altro che questo platonico sentimento per Seth - condito ogni tanto da qualche fantasia a luci rosse.

Cercando di ritrovare il contegno quasi perso, abbozzo un sorriso: «A dire il vero stava iniziando a piacermi. Era una tonalità di viola che faceva perfettamente pendant con le mie occhiaie.»
Peccato che, come sempre, il mio umorismo sembri ottenere l'effetto opposto a quello sperato.
L'espressione di Seth si fa più severa di quanto già non sia e, a dispetto di quello che avrei potuto immaginare, pigia il pollice su quel che resta del livido, facendomi sussultare e arretrare di quei pochi centimetri consentitemi.

Dalle labbra mi sfugge un verso quasi infantile e lui subito prende a rimproverarmi esattamente come una bambina.
«Sei stupida forse? Questo segno deve sparirti il più in fretta possibile» afferma. Incupendosi si morde il labbro per poi diminuire la pressione sullo zigomo: «Non riesco più a sopportare la sua vista.»

Un nuovo brivido mi sorprende, ma del piacere di prima non riesco a percepire alcuna traccia. Si sta colpevolizzando ancora, proprio come ha fatto qualche giorno fa sulla soglia di casa mia, appoggiato a quella porta che poi si è chiuso alle spalle. 

«Mi hai già chiesto scusa un'infinità di volte» dico svelta, temendo forse di farlo sentire più carnefice di quanto in realtà sia. In fin dei conti non ha alcun motivo di accusarsi tanto: è stato un incidente, punto. Non era nulla di premeditato, non dovevo essere io la vittima.
Tiro un sorriso: «e soprattutto lo hai fatto in modi decisamente inaspettati, quindi non credo ci sia bisogno che tu vada avanti a chiedere il mio perdono. Lo hai già, okay?»
«Dici?» mi incalza: «Perché nonostante le mie scuse e le tue promesse sei comunque sparita, mi hai evitato. E se sono riuscito a placcarti qui è solo perché ti sei dimenticata ancora una volta di disattivare la localizzazione.»

La gola si secca, così come le budella mi si strizzano. Se fino all'ultimo avevo inconsciamente sperato che non se la fosse presa per la mia assenza, mi sbagliavo di grosso.

Colta in flagrante, distolgo gli occhi dal suo volto ammettendo le mie colpe: «Permetti che dopo il modo in cui ti sei comportato fossi... spaesata? Non per sottolineare la cosa, ma tra amici non penso sia così normale baciarsi, dopo una litigata...» sento le guance scaldarsi e il cuore accelerare il ritmo. So alla perfezione a quali rischi potrei andare incontro, eppure non riesco a frenare la lingua. Potrebbe dirmi che è stato un errore, un atto di misericordia nei confronti del cucciolo ferito. Potrebbe scoppiare a ridermi in faccia, oppure chiedermi di che diavolo stia parlando - e io probabilmente morirei dall'imbarazzo.

Seth d'un tratto sospira, allontanando la mano dalla mia guancia. Si guarda attorno con fare disorientato e inevitabilmente mi ritrovo a prevedere il discorso che sta per fare.

Lo sapevo, dannazione!

Mi mordo con forza la lingua, cerco di attenuare il dolore che tra poco mi squarcerà il petto. So che sarà atroce, non posso permettermi di cedere di fronte a lui.

Morgenstern scuote la testa, sembra quasi divertito. Come biasimarlo? Di certo per lui quel bacio non è stato altro che una sciocchezza, non gli avrà dato alcun significato, non ci avrà ricamato sopra chissà quali fantasie.
«Sicuramente dopo una litigata con tuo fratello o Benton non mi sognerei mai di ficcargli la lingua in bocca» esordisce, iniziando a frugare nelle tasche del cappotto alla ricerca delle sue tanto amate Lucky Strike: «però tu non sei loro e...» si bagna le labbra, lo fa piano e in quel modo che ancora riesce a creare un senso di vuoto nel mio ventre. «Non credo di pentirmene, Jay» la fermezza con cui pronuncia quelle ultime parole mi lascia di stucco, annulla qualsiasi altra sensazione. Sto forse sognando? O è l'ennesima presa in giro a cui dovrò far fronte?

Arranco, improvvisamente incapace di distinguere la realtà dalla finzione.
«Sono la sorella del tuo migliore amico» per quanto la sua confessione mi stia lusingando e illudendo, c'è un dettaglio che nessuno dei due può ignorare: Jace.
Mio fratello non sarebbe affatto felice di sapere di quel bacio o di questa affermazione - per lui, ora, Seth non è altro che il nemico.
«Sì, Jay, lo so benissimo. Credi non ci abbia già pensato? E' da quando sei rimasta a dormire da me che non riesco a pensare ad altro.»

Oh.
Quindi il suo non è stato un gesto involontario, quel bacio l'ha voluto veramente...

Faccio per rispondere, per confessargli parzialmente ciò che per anni ho tenuto segreto, ma prima che possa dire qualsiasi cosa, una vocina fastidiosa prendere a strillarmi nella testa: Seth ha una fidanzata, Sharon, una ragazza con nulla da invidiare alle fotomodelle che troneggiano sulle copertine patinate delle migliori riviste di moda.
Seth non è fedele a lei, figurarsi se mai lo sarebbe a una come me, che di difetti fisici è piena e non può vantare nemmeno un carattere tanto affabile. Inoltre, Jace non lo perdonerebbe mai. Se sapesse che in un momento tanto delicato ha approfittato della sua sorellina lo etichetterebbe definitivamente come un traditore.
E allora che fare? Confessare o tacere? Se questa fosse la mia unica possibilità di realizzare un sogno taciuto per troppo tempo, per scoprire cosa vuol dire stare con la persona amata, sarei disposta a perderla per questi due motivi?

Ma a prescindere dalla risposta che potrei dare, la voce di Liz mi tedia dalla conversazione e, per evitare ulteriori casini, Morgenstern mi arruffa i capelli in una sorta di giocoso saluto eprima di sgattaiolare via. Se ne va lasciando il discorso tra di noi sospeso nello spazio che ci separa e si fa sempre più grande - ed io vorrei corrergli dietro per capire meglio, per confrontarmi con lui, peccato che non possa.

E una domanda, mentre lo scorgo sparire tra la gente, si fa impellente: voglio davvero sfamare il mio desiderio di lui a tal punto d'affrontare tutte le conseguenze che questo comporta?
 

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Capitolo 10
*** Chapter 10: Changes in the air ***




Chapter Ten
§ Changes in the air §

 

You wake up late for school, man, you don't wanna go
You ask your mom, "Please?", but she still says, "No!"
You missed two classes and no homework

But your teacher preaches class like you're some kind of jerk
You gotta fight for your right to party
Your pop caught you smoking, and he said, "No way!"
That hypocrite smokes two packs a day
Man, living at home is such a drag
Now your mom threw away your best porno "mag"

Fight for your right (to party) - Bestie Boys


Una voce squillante mi perfora le orecchie, ma fatico a volgere l'attenzione nella direzione da cui proviene.
«Miss Raven, le vorrei ricordare che questa è una scuola, non un centro ricreativo» così, sforzandomi, giro la testa verso la cattedra, osservando di bieco la figura della donna che vi sta dietro. I suoi occhialetti blu si appoggiano su di un orribile naso a patata, mentre i ricci biondo paglia contornano il viso stanco e rugoso di quella che è la Signorina Karen Connor.
Insegnante di storia pressoché dal paleolitico, questa donna è uno dei pilastri portanti della Saint Jeremy nonostante per le sue alunne sia solo una sorta di spina nel fianco. Quando si mette a parlare il sonno prende il sopravvento sulla buona volontà e le palpebre, quelle bastarde, diventano pesanti quanto macigni. Stare attente, con lei, diventa un'impresa titanica - eppure qualcuna di noi ci riesce. Come, ancora non lo so.

Ad ogni modo, ora la fisso dritta negli occhi e lei lo fa di rimando, sfidandomi dall'alto della sua autorità scolastica - ben più minacciosa di quanto possa mai essere io. E' in momenti del genere che vorrei cercare sostegno in qualche viso amico, evitando di combattere da sola questa battaglia tra le aule di una scuola privata fin troppo satura di sonnolenza, ma come ogni volta rinuncio ancor prima di provare – nessuna di queste spocchiose ragazzette in divisa blu può essermi d'aiuto e, men che meno, ve ne è una che io possa chiamare "amica".

Sarà che l'idea di avere una persona del mio stesso sesso affianco mi urta - forse perché avere il ciclo coordinato equivale allo scoppio di una bomba nucleare -, o sarà perché son cresciuta a suon di Jace e testosterone, ma non c'è alcuna compagna che abbia mai attirato il mio interesse. L'unica, se così si può dire tale, è la mia più cara e acerrima nemesi: Misha Jocelyn McCoy.

E già il nome preannuncia fastidio, una sorta di prurito che sappiamo non poter grattare.

I nostri trascorsi, così come il presente, non si possono definire dei migliori e il più vago tentativo di approccio "amichevole" si è trasformato in un'apocalisse – ho urtato la sua persona così nel profondo d'averla fatta diventare un'arpia e, anche a distanza di anni, vorremmo non aver mai incrociato il cammino l'una dell'altra. 

Con uno sbuffo chiudo la rivista musicale che ho sulle ginocchia, quella da cui mi sono distratta giusto il tempo di guardar fuori dalla finestra ed essere beccata.
Sbatto più e più volte le palpebre, alzando le sopracciglia e preparandomi a firmare la mia condanna – non che non ci sia abituata, certo, ma ogni volta è comunque stancante.

«Peccato. Sul serio» mi porto una mano sotto al mento: «Lei sa che in alcuni Paesi del Nord Europa esistono delle aule fatte appositamente per dar riposo alla mente? Ci si prende una pausa dalle lezioni per poi tornare più carichi di prima. La trovo un'idea geniale, uno stimolo incredibile per il corpo studentesco. A mio avviso l'Inghilterra non dovrebbe essere da meno, sa? Potremmo ottenere così tanti risultati positivi se adottassimo le stesse tecniche» vedo il viso della professoressa virare verso una preoccupante tonalità di rosso, ma la cosa non pare essere sufficiente a fermare la mia lingua.
Come credo di aver già sottolineato a sufficienza, l'istinto di autoconservazione deve essere stato tolto dalla lista di doti che mi sarebbero dovute essere recapitate a casa: qualcuno lo chiama masochismo.
«Vede, ad esempio... in questo momento il mio cervello è davvero stanco, Miss Connor. E credo che il litigio tra Enrico VIII e la Chiesa sia tra le storie più raccontate in queste aule, per non parlare di tutti i flirt che quell'uomo ha avuto. Un vero casino, sul serio» vado avanti imperterrita dimostrando, quantomeno, di sapere l'argomento di discussione del giorno - e potrei aggravare ancora di più la mia situazione se qualcuno, giusto qualche banco più in là, non si intromettesse.

«Ah, perché? Ti è rimasto qualcosa lì dentro?» L'intervento di Misha pare scatenare l'ilarità del suo gruppetto di amiche, accentuando il prurito che mi assale ogni volta che odo la sua voce - e per evitare di peggiorare la sensazione, decido di non voltarmi: tanto so che mi sta guardando, che non aspetta altro.

«Certe battute chi te le suggerisce, Anna Bolena dall'oltretomba? Si spiegherebbe perché le è stata mozzata la testa...» ma prima che la mia nemica possa rispondere, Miss Connor si mette in mezzo alla discussione, ricordandoci il contesto in cui, purtroppo o fortunatamente, ci troviamo. La sua incapacità nel gestire la rabbia trapela dal colorito del viso e dalle vene che sporgono ai lati del collo e, in men che non si dica, eccola iniziare il proprio monologo.
«È possibile che non sappia mantenere un minimo di contegno, signorina Jane Jacqueline? Sono anni che la riprendiamo sempre per i medesimi motivi, eppure lei si ostina a non voler portare rispetto alle figure e all'istituzione stessa che è questa scuola!» Gli acuti si fanno sempre più intensi, esattamente come il rossore sul suo viso e le pupille dilatate.
Sbuffa e sbraita mentre appoggia il gessetto sul tavolo prima di portarsi le mani ai fianchi ossuti.
«A questo punto non ho altro da fare che chiederle di andare direttamente in presidenza. Mi aspetti lì, appena la lezione sarà conclusa ne parleremo con il Preside e i suoi genitori» e per evitarsi di esplodere di fronte a tutte le sue diligentissime studentesse, chiude il discorso ricorrendo all'autorità della segreteria – un'autorità il cui unico merito è quello di riuscire a fomentare la rabbia di Catherine.

Arrotolando la rivista e infilandomela spudoratamente sotto all'ascella, mi alzo con un sospiro scocciato.

Sto per incamminarmi verso l'uscita quando, con l'ennesimo acuto, aggiunge: «Mi auguro che questa passeggiata possa aiutare il suo cervello a rilassarsi, Miss Raven» e c'è d'ammetterlo, il commento della professoressa Connor è più simpatico di quello di Misha.

Abbozzando un sorriso lascio che il ticchettio delle scarpe – rigorosamente in vernice nera – scandisca la mia uscita di scena. Esito giusto qualche istante nei pressi del banco di Misha, valutando l'idea di usare la rivista come arma, ma poi mi ricordo di essere già abbastanza a rischio e, così, riprendo a camminare rinunciando alla vendetta.
Varco la soglia della classe come se stessi uscendo di galera e, appena fuori, al riparo dagli occhi iniettati di sangue della docente, prendo un lungo respiro di sollievo; per quanto io ami la storia e sia una feticista di biografie, non riesco a sopportare il modo di raccontare di alcuni professori, specialmente la Connor. Involontariamente questi soggetti riescono a farmi andare di traverso anche le tematiche più amate, facendomi così cadere in tentazione - è a questo punto che entrano in scena riviste musicali, artistiche o i fumetti.

Lentamente inizio a muovermi per il corridoio e, spostando gli occhi in ogni direzione, in modo d'essere certa di non correre alcun pericolo, cerco un punto strategico in cui far passare qualche minuto prima di andare a bussare alla porta di un Preside troppo formale per non sembrare lo stereotipo di qualche tv show dozzinale.

Arrivo in prossimità dei bagni in meno di qualche passo e, prima di superarli, devio al loro interno per concedermi a nicotina e tabacco. 

Ho già detto di essere masochista?

Appena l'uscio mi si richiude alle spalle porto la mano libera alla tasca, ma prima che possa tirar fuori il pacchetto di Lucky Strike, uno sciacquone mi fa sussultare.
Come sempre, dimentico di non essere sola.
Svelta nascondo il corpo del reato, conscia che se dovessi imbattermi nella persona sbagliata sarei pressoché rovinata, ma poi, giusto quando la porta di uno dei gabinetti si apre, compare Elizabeth.

Mia sorella strabuzza gli occhi e io faccio altrettanto, stranite dall'incontrarci qui. E' già successo, spesso a dire il vero, però ogni volta ci ritroviamo nella medesima situazione di disagio.

«Stavi fumando?» le domando subito, studiando la sua mise.
Lei corruga le sopracciglia, mi fissa di bieco: «No, non mi rovino i polmoni con certa robaccia, ma suppongo che fosse nei tuoi piani, invece» mi punzecchia, indicando con il mento la mano nascosta dietro la schiena. E da criminale messa all'angolo alzo le braccia in segno di resa, sollevando da una parte la rivista e dall'altra le sigarette – è inutile negare le mie colpe.

Liz sbuffa, andando verso i lavandini: «Ti hanno sbattuta fuori dall'aula un'altra volta?»

Ridacchio, sedendomi sul lavello accanto a lei: «Miss Connor non apprezza il mio humor» ammetto poi, quasi soddisfatta. Non dovrei esserlo, lo so, eppure non riesco a trattenermi.
«Dubito che a parte Charlie ci sia qualcuno che lo faccia» sentenzia lei socchiudendo le palpebre e lasciandosi sfuggire un sospiro rassegnato.

Appoggio la sigaretta tra le labbra, accendendola subito dopo. Mi concedo il lusso di tacere per alcuni istanti gustando il sapore acre della nicotina e avvertendo un certo bruciore in gola. Pace.

«Ti ha mandata in presidenza? Chiameranno mamma?»
Annuisco, buttando fuori una folata bianca: «I miei buoni propositi per quest'anno non coincidono con quelli che aveva in mente lei» sghignazzo tra me e me. So che dovrei far disperare meno Catherine, eppure non ci riesco: paio programmata per darle sui nervi e infrangere i suoi sogni su una prole perfetta.

Elizabeth scuote la testa e si concede un sorriso, poi afferra una salviettina di carta e si porta verso l'uscita: «La farai impazzire!» Butta ciò che ha in mano: «Ah! Sai che è arrivata una nuova studentessa? È del tuo anno, sta nella classe accanto alla mia. Pare venga dal Galles.»
Fisso mia sorella senza capire.
C'è qualche motivo per cui l'argomento debba interessarmi? O forse è stata influenzata anche lei dai discorsi di nostra madre, papà, nonna e Jace?

Prima che possa trovare una qualsiasi frase con cui affrontare il suo commento però, lei sgattaiola via, lasciandomi sola in un bagno che si riempirà presto di fumo.
 

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Capitolo 11
*** Chapter 11: Nice to meet you ***




Chapter 11
§ Nice to meet you §


Attendo con il naso all'insù il mio turno nell'ufficio del preside, troppo occupato a parlare al telefono con un qualche genitore altolocato per ricordarsi che una delle sue studentesse sta aspettando di venir ricevuta da lui. Mi serve solo l'ennesima strigliata, nulla più – inoltre vorrei andar via da queste scomode poltroncine prima che lo sguardo arcigno della mia insegnate riesca a mettermi ansia a sufficienza da farmi iniziare a temere il peggio; sì, perché da oltre la porta aperta della sala docenti, tra un sorso di tè e l'altro, non fa altro che fissarmi.

Non scappo, stia tranquilla.

Sospiro, socchiudendo le palpebre e pregando di non dover arrivare al punto di fondermi con la pelle della seduta in cui sono infossata. Di questo passo, mi prenderò una sgridata anche dal docente di matematica, un altro uomo frustrato che non ha altra vita all'infuori della Saint Jeremy – o quantomeno non l'ha più da quando la moglie è scappata con l'amante.
E a quel pensiero, la mia mente non può evitarsi di atterrare su un pianeta che ho cercato di evitare fino all'ultimo: Seth.
Qualche chiamata ha provato a farla, ma ogni volta ho lasciato che la segreteria rispondesse al mio posto. Come lo affronto?
In tredici anni di conoscenza non mi sarei mai nemmeno immaginata che potesse dirmi ciò che effettivamente ha detto fuori da quella minuscola libreria, dando finalmente una sorta di concretezza ai sogni che ho tenuto segreti per un tempo che nemmeno voglio calcolare e, facendolo, mi ha fatto crollare il mondo sulle spalle.
Che il suo tempismo fosse pessimo, già lo si sapeva. Morgenstern senza ritardo non si può definire tale, ma scegliete un momento tanto delicato è stata davvero un terribile scelta.
Jace è ancora su tutte le furie con lui, mi ha chiesto più volte se lo avessi visto, se si fosse quantomeno degnato di mandarmi un messaggio di scuse – e io ho ovviato quanti più dettagli possibili, in modo da non peggiorare la situazione, ma temo che mio fratello possa già aver intuito che nei miei racconti mancasse qualche dettaglio.
Oltre a lui, non posso evitarmi di pensare a Sharon, al "tira e molla" che è alla base della sua storia con Seth. E se l'interesse di lui per me fosse solo un modo per colmare il loro ennesimo distaccamento? Non mi stupirei affatto, ma certamente ne soffrirei.
Lei, inoltre, non è tipa da lasciarsi sfuggire ciò che le interessa – lo ha dimostrato bene con i mille ragazzi con cui a flirtato senza allontanarsi mai del tutto da colui che ha riempito di tradimenti, ma che alla fine l'ha ripagata nella stessa maniera. 
Io come penso di potere prendere il suo posto? E poi voglio veramente farlo?

Non ne sono convinta. La mia visione ancora troppo romantica della vita non sopporterebbe di sapere che la persona che amo va in giro a tradirmi senza poi grandi remore; già fatico a non distogliere lo sguardo quando Sharon lo prende per mano, oppure a fingere sorrisi quando Morgenstern ha a che fare, per secondi fini, con una qualsiasi donna, figurarsi affrontare qualcosa di tale entità!

Lo stomaco inizia a stringersi.

Perché d'un tratto, al realizzarsi del mio sogno più grande e intimo, lo sto vedendo anche tramutarsi in un incubo?
Non faccio in tempo a valutare una risposta che, un colpetto sulla spalla, mi riporta alla realtà di questo asfissiante corridoio.
Sbattendo più volte le palpebre, il mio sguardo rimette nuovamente a fuoco l'ambiente che mi circonda e, insieme all'architettura romanica dell'edificio, prende forma anche il viso rotondo di una ragazza eccessivamente carina per aver a che fare con la sottoscritta. Quelle con i tratti tanto innocenti son di solito le più arpie – ed io la loro preda per gli scherzi.

Ci fissiamo qualche secondo in silenzio, studiandoci.

L'età è praticamente la stessa, anche se lei potrebbe sembrare più piccola a causa dei connotati da bambola addolciti maggiormente da un caschetto corto che fa sfumare il suo biondo in punte di un rosa scuro, simile al rosso, ma ha anche enormi occhi da gatta di un marrone caldo e accogliente – forse potrei persino definirlo amichevole. È bella e questo è innegabile, eppure non mi dà l'idea di essere la solita principessina che si potrebbe trovare qui – più la osservo, più questa convinzione si fa strada tra i miei pensieri.

«È questo l'ufficio del preside?» mi chiede dopo un po', scoprendo una vocetta squillante da fanciullina. A questa domanda non posso far altro che corrugare le sopracciglia: come fa a non sapere quale sia l'ufficio del tanto temuto direttore dell'istituto? Persino coloro che non fanno tappa fissa qui, come la sottoscritta, sanno quale porta sia necessario evitare per avere una buona permanenza nella scuola. C'è chi lo considera un punto di ritrovo e chi una specie di ripugnante stanza, ma tutti sanno cosa si nasconde oltre l'anta dal vetro sabbiato.

Il modo in cui la sua espressione si fa sempre più dubbiosa però, mi fa ben capire che non si tratta di uno scherzo e che, sul serio, non ha idea di dove andare – che sia lei la nuova arrivata?

Annuisco, provando a ritrovare un po' di contegno sedendomi come è più consono a una ragazza: «Sfortunatamente» aggiungo poi.

Lei si sofferma un attimo a studiare la porta di legno, sospira e poi si lascia cadere sulla seduta accanto alla mia, prendendosi il viso tra le mani con fare scocciato. Con la punta della scarpa in vernice prende a picchiare sul pavimento, scandendo il tempo. Un colpo ogni secondo, anche se, prima di arrivare a battere il minuto, si stufa, buttandosi indietro con la schiena.

«Guarda che se già ora ti annoi, non sopporterai l'attesa per il tuo turno» le faccio notare, alzando appena un sopracciglio. Questo non è un posto per gli impazienti, ma piuttosto una sorta di palestra per affrontare la fretta – che di solito perde spudoratamente.

Lei sgrana gli occhi e si volta: «Scherzi? È uno lento il vostro preside?» e da questa sua affermazione non c'è più alcun dubbio: è la nuova arrivata di cui mi parlava Liz. In effetti non mi era mai capitato di incrociarla nei corridoi, men che meno di vederla a mensa o nei bagni – e il suo taglio di capelli, ne sono certa, non mi sarebbe sfuggito. Poche studentesse osano sfidare i limiti del regolamento scolastico.

Abbozzo un sorriso, scrutando la sala insegnanti prima di azzardarmi a dire qualsiasi cosa che possa essere usata contro di me da Miss Connor, poi torno sulla ragazza che ho accanto: «Diciamo che non è tipo da due chiacchiere...» puntualizzo ironicamente, cosa che a quanto pare non fa altro che peggiorare la situazione.

Lei si copre gli occhi con i palmi, iniziando a disperarsi in modo relativamente contenuto.

«È la prima volta? Che ti fai mandare in presidenza, intendo» cerco di distrarla dalla terribile notizia appena ricevuta, anche se essere amichevole con un'altra donna non è propriamente una delle mie doti migliori.

«No, nella vecchia scuola era già successo, ma non pensavo che qui, per una sciocchezza, potessi ritrovarmi in punizione. Insomma, non è un buon biglietto da visita farsi spedire in presidenza dopo una sola settimana dal mio arrivo!»

Il sorriso sulle mie labbra si fa più grande. Il modo che ha di lamentarsi pare quasi comico: «No, in effetti no. Potevi aspettare la prossima, sai, avrebbe cambiato drasticamente la considerazione che i docenti hanno di te» la punzecchio, evidenziando quanto il semplice fatto che sia qui la stia etichettando come "ribelle" agli occhi degli insegnanti, a prescindere dal tempismo con cui si sia aggiudicata un colloquio con il Grande Capo della Saint Jeremy.

Lei mi fissa con occhi grandi, apparendo basita. Che l'abbia offesa? Beh, non sarebbe la prima volta che una mia battuta viene fraintesa, dopotutto ci sarà pure un motivo se non ho amiche qui dentro.

Con incredibile sorpresa, invece, la biondina scoppia in una sonora risata, attirando a sua volta lo sguardo torvo di Miss Connor che, avanzando verso di noi con l'indice alla bocca, ci sottolinea di dover far silenzio.
Il suo monito però ci mette un po' a trovar risposta sulla nuova arrivata che, rossa come un pomodoro per il fiato corto dovuto alle risa, si tappa le labbra alla bene e meglio. I versi che fa paiono i latrati di un animale in difficoltà, eppure non riesce a fermarsi mai del tutto - ogni tanto pare sul punto di smettere, poi ricomincia.

Resta immobile per qualche istante, mentre io sogghigno sotto ai baffi per l'ennesima figuraccia fatta ed embolo scattato nel corpo della professoressa, ma anche per il modo in cui i suoni escono dal suo corpicino minuto, poi lei allunga un braccio verso di me, porgendomi il palmo.

«Caroline, Caro, per gli amici» il suo sorriso ora è tanto genuino da stupirmi. Per la prima volta in un decennio, una ragazza della Saint Jeremy ha apprezzato una mia battuta: che sia un'allucinazione? Possibile che esista qualcuno a questo mondo che abbia il mio stesso humour e sia costretto a vivere la sua routine scolastica tra un mucchio di spocchiose figlie di papà?

Corrugo la fronte, incerta. Se ora le stringo la mano, siamo sicuri che non firmerò la mia condanna? Sono davvero pronta a dar forma a una conoscenza che, con grande probabilità, appena verrà a scoprire la mia fama qui dentro non vorrà mai tramutarsi in amicizia, deludendomi ancora?

La sua mano tesa e quegli enormi occhi da cerbiatta però non sembrano affatto voler cambiare direzione e così, incoscientemente, ricambio la presentazione: «Jane, piacere».
 


aggiornamento del 20/09/19

 

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Capitolo 12
*** Chapter 12: He's my safe place ***




Chapter 12
§ He's my safe place §


Il viso addormentato di Jace mi fissa da oltre lo schermo del telefono, mentre regolarmente una mano si avvicina agli occhi per strofinarli e farli restare vigili – conoscendolo, avrà passato il venerdì sera a bere e far festa con i suoi amici parigini. Per quanto mamma e papà credano che sia solo colpa di Charlie e Seth se entrambi i loro figli maggiori hanno preso cattive abitudini, in realtà siamo noi a incitare l'ingestione di alcolici e l'assunzione tramite cartina e filtro di sostanze "illegali". E ora che mio fratello è lontano, continua a fare le stesse cose che faceva qui.

«Cosa hai fatto di bello ieri sera?» mi chiede, prendendo una sigaretta dal pacchetto che ha accanto. La maestria con cui riesce a tenere il telefono dritto e maneggiare tutto il resto è fonte di invidia, ma non mi ci soffermo più del dovuto; in fin dei conti si sa che lui è il migliore, tra i due.

Un sorriso imbarazzato mi tende le labbra e con una scrollata di spalle gli rivelo la triste verità: «Liz ed io ci siamo riviste per la sesta volta "Harry Potter e il Calice di Fuoco"». Un po' mi vergogno ad ammetterlo ad alta voce, ma dopotutto dire bugie, soprattutto a lui, non è certo qualcosa che possa dire di saper fare bene – Jace nota tutto, solo ovviare mi è concesso, anche se non so se sia per sua volontà o perché, effettivamente, è un talento.

Avrei potuto fare tante cose, come uscire e andare al solito pub, imbucarmi a qualche concerto, chiedere a Caroline di vederci per capire se possiamo essere amiche o meno...
Insomma, se avessi voluto, nulla mi avrebbe impedito di abbandonare le stanze di questa casa, ma il fantasma di qualcuno proprio non ne voleva sapere di lasciarmi stare; inoltre, questi ultimi giorni li ho passati a sentire le lamentele di Catherine. Ogni scusa era buona per rivangare l'ennesimo incontro che aveva dovuto avere con il preside della Saint Jeremy, o la mia totale mancanza di rispetto nei confronti del corpo docente, oppure la mia riluttanza a seguire "poche e semplici" regole.
Per farla breve, mia madre ha voluto mettere nuovamente in evidenza quanto a suo avviso io sia la pecora nera dei Raven.

E mi ci ha fatta davvero sentire, a un certo punto. Quando anche nonna Josephine ha rinunciato a prendere le mie parti ho capito di aver portato tutti al limite, quindi ho preferito tacere ed entrare in uno stato di momentaneo letargo.

La voce di Jace mi riporta alla realtà, arrivando un po' ovattata da oltre lo speaker: «Come mai Charlie non è venuto? Lui adora Harry Potter!»

«Lui adora Emma Watson nei panni di Hermione, vorrai dire!» rido, rendendomi improvvisamente conto di aver combinato l'ennesimo disastro.

Non sento Charles Benton da esattamente tre giorni, il lasso di tempo più lungo che ci abbia mai separati negli ultimi cinque anni.
Ha taciuto per settantadue ore: non una chiamata, un vocale o un messaggio dal contenuto dubbio - cosa sospetta, più di qualsiasi altra vista l'inclinazione loquace del mio migliore amico.

Non so esattamente quale, tra le espressioni che contorcono il mio viso, aizzi i sensi del maggiore tra i Raven, ma sta di fatto che succede e corrugando la fronte mi domanda: «Lo hai sentito di recente, vero?»

E io non so mentire, lui lo sa meglio di chiunque altro.

«Sei un'idiota...» sbuffa, facendo uscire dalle labbra una nuvola lattiginosa. Il suo sguardo si fa lontano, l'espressione seria. Intuisco da sola a cosa stia pensando e non so se sia il caso di parlare o restare muta a fare i conti con le mie colpe.

Forse sarà meglio che rimedi - a cosa, di preciso, non saprei.

Dovrei scusarmi con Jace per essermi messa in mezzo a qualcosa che non mi compete, così come dovrei alzare il sedere dal materasso e correre da Charlie per dirgli che sono la solita casinista. Inoltre, dovrei capire cosa fare con Seth - e sono certa che sia proprio lui, ora, a occupare i pensieri del ragazzo oltre lo schermo.

Mi mordo il labbro, stringendomi nelle spalle.

Che fare?

Nelle mia testa si scontrano realtà e sogno con una violenza inaudita. Brandiscono entrambi la spada, si colpiscono ferendosi, poi si allontanano, mi fanno credere che la guerra sia finita e poi riprendono, senza fine.

«Lui? Lo hai sentito, vero?»

Alzo lo sguardo che non mi ero accorta aver abbassato, puntandolo in due occhi del medesimo colore dei miei.

«No, non l'ho sentito» dico lapidaria, cercando di mostrarmi indifferente di fronte alla questione - ma non lo sarò mai, me ne rendo conto. I ragazzi sbagliati, quelli ribelli, i "bad boy" della situazione, che potrebbero benissimo essere i personaggi principali di qualche New Adult dai risvolti trash, piacciono in un modo tutto loro, etereo ed eterno, capace comunque di fomentare senza censure l'immaginazione delle sventurate protagoniste e lettrici. E Seth è proprio questo, non potrei desciverlo in altro modo.

Lui ha tutto fuori posto, a parte la bellezza.

Un look trasandato, fatto di anelli grezzi, jeans strappati, stivali di ogni genere e tatuaggi dal dubbio significato; una passione per il rock che attira nella sua trappola fascinosa, un lavoro che non si addice al suo stile di vita sempre al limite tra corretto e scorretto e un bipolarismo che gli ho personalmente diagnosticato all'età di sedici anni - Morgesten è tutto questo e molto altro, ed io l'ho sempre desiderato, pur sapendo i rischi. Eppure, adesso che lui ha confessato l'impensabile, non riesco a far altro se non temerlo.

Jace storce le labbra, aggrotta la fronte e poi sbotta, facendomi sentire dell'amaro in bocca. «Non mi piacciono le cazzate, Jay» c'è una sorta di minaccia velata nel suo tono; ma come può dubitare di me?

Gonfio il petto, forse riuscendo ad abbozzare un'espressione più decisa: «E infatti non lo è. Non ho sentito nessuno dei due, chiaro?» ed è tutto vero. Sono stati giorni di totale silenzio.

«Seth non si è fatto vivo?» mi domanda scettico. Le sue sopracciglia sono due archi scuri che tentano di raggiungere l'attaccatura dei capelli, fallendo.
Che dirgli ora? Come potrebbe reagire di fronte alla verità? E del bacio è meglio se gliene parlo? Forse non ne è il caso...
Eppure mio fratello mi incita, non vuole aspettare, ha fretta di sapere cosa sia successo dal momento della sua partenza.

Mordo la lingua.

«L'ho visto, sì. Ci siamo incontrati a Camden mentre ero con Liz» dico svelta, pregando che non capisca - ma è abituato sia a me, sia al mio modo di parlare, così non gli sfugge nemmeno una sillaba.

Le labbra di Jace si schiudono appena, in un gesto di stupore.

Sul suo viso cala un'ombra scura, segno inconfondibile della disapprovazione che sta crescendo in lui - sarà per via del fatto che non gliene ho parlato prima, o più probabilmente perché ho disubbidito al suo volere.

La nostra videochiamata si tramuta velocemente in uno schermo scuro e nella sua voce che stride da oltre l'altoparlante. E' infuriato, persino un cretino lo capirebbe.

Bofonchia che devo stargli lontana, che ora sta a lui gestire la cosa e che finchè Seth non avrà capito i suoi errori tra noi quattro non potrà esserci più la serenità di prima.
Rivanga cose che non conosco, drammi da cui ho sempre cercato di tenermi fuori. Evidenzia in modo eccessivo i suoi difetti quasi non li conoscessi, ma in realtà li so a menadito, li ho imparati pian piano e alla stessa velocità ho capito di apprezzarli come parte di lui - ma solo nel mio immaginario.

Le parole di Jace diventano tante, troppe, mi assillano e scavano dentro a una coscienza che non voglio venga stuzzicata, ma che comunque mi fa bruciare gli occhi - così scoppio, esattamente come una mocciosa capricciosa.

«Che ti stia bene o no, non mi interessa. Sono anche miei amici chiaro? Entrambi! I problemi con Seth sono solo tuoi invece!» e per la prima volta in anni, sono io quella che mette giù la cornetta, chiudendo la conversazione.

Per quanto sappia di essere dalla parte del torto in questo momento, non voglio allontanarmi da Morgenstern, anche se una sorta di muro ho già iniziato a costruirlo.

La mia è paura, non astio.

Lo sto tenendo a distanza per via del panico che mi assale alla sola idea di poter finalmente avere il ragazzo che rende le mutandine bagnate e sapere di non essere alla sua altezza - da nessun punto di vista.
Per questo Sharon mi fa così tanta invidia, perchè lei sa tenergli testa e, anche dopo i mille colpi bassi, continuano a scegliersi; io non ne sarei in grado, non riuscirei a fargli male, ma lui a me sì, terribilmente.

E mentre lo penso, una lacrima sfugge.

Forse ora ho davvero bisogno di vedere Charlie.

***

Il campanello rimbomba forte tra le pareti di casa, lasciando correre il suono verso chiunque vi sia all'interno, in modo da annunciare l'arrivo di qualche ospite indesiderato - cioè la sottoscritta. 
Da bambina avevo iniziato a disprezzare questo tintinnio metallico. Stava a indicare che Jace sarebbe sparito da qualche parte insieme ai suoi amichetti, abbandonandomi in una casa troppo grande per i miei cinque anni e nessuno con cui stare. Il campanello indicava la fine delle sue attenzioni e l'inizio della sua vita al di fuori delle mura domestiche, dove io non sono stata inclusa per molto tempo.

Ora invece, sulla soglia dell'età adulta, lo sento vibrare al pari del cuore. Vuol dire che qualcuno arriva e, spesso, lo fa per me.

Mrs. Benton apre la porta di casa, riportandomi con una certa brutalità al presente.
Sono qui per Charlie, per vederlo, chiedergli scusa e farmi accogliere dalle sue braccia - le uniche da cui mi lascio stringere senza timore quando Jace non c'è.


Il sorriso di Molly si fa immenso, mostra in modo palese quanto le faccia piacere vedermi sull'uscio dopo tutti questi giorni di lontananza, ma dopo poco nel suo sguardo passa un lampo di dubbio, una sorta di preoccupazione che mi confonde. Forse qualcosa non va, o forse si nota quanto sia turbata - mi è difficile dirlo. Così esordisco con un saluto, tentando di allontanare quanto più possibile questa strana sensazione che qualcosa non vada.

Senza smettere di sorridere per un solo secondo, anche se è un gesto forzato, chiedo subito del figlio. Lo stomaco si contorce appena, forse perchè la paura che non sia qui è tanta, ma conosco i suoi turni a memoria e raramente mi ritrovo a sbagliare quando si tratta di lui e la sua non troppo monotona routine.

La donna si sposta, in modo da aprirmi uno spiraglio verso l'interno della casa: «E' di sopra, in camera» mi avverte prima che varchi la soglia. Annuisco, dandole conferma di aver capito, anche se ormai conosco l'abitazione e i luoghi di Charlie come se fossero i miei.


Appena il mio naso oltrepassa lo stipite della porta un profumo di torta alle mele in fase di cottura lo accoglie, facendomi sentire la benvenuta, esattamente come tutti i pomeriggi invernali passati qui.

La signora Benton ha un lavoro part-time all'asilo di quartiere, dove mocciosi urlanti le riempiono le orecchie di ultrasuoni, così quando torna a casa, giusto in tempo per il pranzo, si rilassa mettendosi ai fornelli. Sforna prelibatezze di ogni tipo, sperimentando ricette da tutto il mondo, ma ciò che le riesce meglio sono proprio le torte, quelle più classiche. Entrare qui è come mettere piede nella casa della nonna, quella dei libri vecchi o delle pubblicità - non certo la mia! Josephine potrebbe bruciare persino del gelato se decidesse di darsi alle arti culinarie.

Resto per un attimo immobile nell'androne, beandomi di tale delizia olfattiva e, sfruttando il momento, Molly mi si fa vicina, appoggia una mano sulla mia spalla e mi chiede: «Jane, posso farti una domanda?» cogliendomi alla sprovvista.

Corrugo la fronte, senza capire.
Si sta riferendo al fatto che non ha avuto mie notizie per tre giorni?

«Lo so che non si origlia, però le pareti qui sono sottili, soprattutto quando qualcuno alza i toni...» inizia, smuovendo una sorta di ilarità nella sottoscritta. E' cosa risaputa che la madre di Charlie sia un'impicciona, le piace conoscere i pettegolezzi riguardanti chiunque, sia questo un vip di alto profilo o il vicino a ridosso del camposanto; non mi stupisce che abbia sentito qualcosa che non avrebbe dovuto. Si bagna le labbra sottili: «Ho saputo che Jace e Seth hanno litigato e che Charles si è messo in mezzo per un qualche motivo. Tu sai perchè? Dopotutto è di tuo fratello che si tratta, sicuramente ne sai di più» a questa domanda sento le gambe farsi molli. D'un tratto mi rendo conto che ciò che è successo non è qualcosa di così semplice, che la gravità del litigio tra Jay Jay e Morgenstern va ben oltre a quel che mi sarei aspettata - ma continuo a non conoscerne il motivo.

Sono davvero l'unica, nel gruppo, a essere stata esclusa da questo scisma? Fino a qualche minuto fa avrei creduto di poter trovare in Benton un appiglio, un simile con cui lamentarmi di questa nauseante situazione, mentre ora mi domando con che faccia riuscirò a guardarlo.

Mi hanno esclusa, esattamente come anni fa.

Contraggo la mandibola: «Saranno le solite cavolate, Molly. Avranno il testosterone che gli preme su un lobo del cervello». Scrollo le spalle e tiro forzatamente le labbra per farle credere che non sia nulla di importante.

Ma lo è.

Per me.

Stanno davvero esagerando con questa storia e se il loro intento è quello di mandare la nostra amicizia a quel paese, io mi oppongo. Non posso perdere nessuno di loro, né Charlie, né Seth.

La donna sbuffa, portandosi le mani paffute alla vita - o quel che ne resta: «Avrai sicuramente ragione! Aver più di vent'anni non li rende ancora uomini, sono solo ragazzini un po' cresciuti» e un passo dietro l'altro si porta in cucina, blaterando qualche altra cosa a riguardo.

Appena la sua sagoma sparisce dalla mia visuale mi rivolgo verso le scale: dodici gradini che saprei fare a occhi chiusi e che, adesso, mi paiono una sorta di invalicabile montagna.

Sospiro rumorosamente, stringendo la presa sulla tracolla e cercando di farmi forza. Non voglio litigare con lui, eppure il fatto che non mi abbia detto nulla di ciò che è successo, dopo ben due settimane, mi manda in bestia. Dovrebbe essere il mio migliore amico, allora perché mi tratta a questo modo? Perché non mi rende partecipe?

Inizio a salire, guardando il pianerottolo con eccessiva intensità. Pochi secondi e sarò al cospetto della sua stanza, quella che mi riempie di calma e che parla di lui in ogni dettaglio. Alle pareti ci sono poster vecchissimi che ha rubato dagli affissi dei locali, sovrastati in alcuni punti da quelli nuovi; sulle mensole troneggiano cd ascoltati fino alla nausea, recuperati in ogni angolo di Londra e non solo; il pavimento è invece una sorta di campo di battaglia quando Molly non rassetta per più di due giorni. Buttati in malo modo ci sono sempre i vestiti del giorno prima, gli spartiti scarabocchiati e pieni di melodie che ancora non gli ho sentito suonare, riviste musicali, di nicchia e, ogni tanto, pure qualche Playboy trovato in negozio e letto di soppiatto, in solitudine.

La sua camera è un'alcova di creatività e adolescenza a cui non si vuole mai rinunciare del tutto - e l'ho amata sin dalla prima volta in cui vi sono entrata.

L'anta in legno, su cui troneggia una foto in bianco e nero di Sid Vicious, è socchiusa, lasciando così uno spiraglio verso l'interno. Più avanzo, più le forme che si possono intravedere oltre si fanno nitide, familiari e l'odore lieve di nicotina pizzica il naso.

Mi sento sempre più nervosa, ma ciò non impedisce alla mia mano di poggiarsi sul petto del più famoso tra i Sex Pistols e spingere con delicatezza la porta, facendola aprire piano.

Trattengo il fiato, anche se il motivo non mi è chiaro. Forse temo di non essere gradita, o forse lo sto conservando per sbraitargli contro, chissà.

Con lo sguardo cerco la sua figura in un qualche angolo del pavimento, ma lui non c'è e, alzando appena gli occhi, mi vedo riflessa in quel che rimane dello specchio. Non si tratta solo dei mille adesivi attaccati sul bordo, a compromettere la mia sagoma c'è anche una ragnatela di crepe la cui origine, osservando bene, pare proprio essere il lascito di un pugno. Quando l'abbia tirato è però un mistero.

Deglutisco, conscia di non voler mai e poi mai vedere Charlie furioso - mi è bastato Jace. Così mi metto a cercarlo con un certo timore, avanzando in punta di piedi tra gli spartiti accartocciati. Mi volto verso l'armadio, spalancato come sempre e poi, sicura di trovarlo, in direzione del letto, dove ne scorgo la sagoma. Il suo corpo è disteso, i jeans stracciati fasciano le gambe lunghe mettendo in evidenza la silhouette dei muscoli che le ore in skate gli hanno donato. La maglia bianca è arricciata sull'addome, lasciando libera la sua pelle inchiostrata. Il suo primo e unico tatuaggio mi fissa, lasciando che i contorni dell'albero spoglio si alzino e abbassino in sincrono con il suo respiro. Sotto ai segni impressi dall'ago di una macchinetta, proprio sulla curva del fianco e in prossimità del bacino, due cicatrici si sommano, formando una sbilenca. Quell'intarsio pallido è il ricordo di un trick fatto male, di una caduta rovinosa allo skate park.

Vorrei allontanare lo sguardo, perché infondo non è corretto che lo fissi in questo modo, ma l'azione sembra essere faticosa anche al solo pensarla. Stranamente è ammaliante, vederlo così beato e indifeso mi lascia stranita - è il mio migliore amico, ma non posso negare che sia a suo volta una bellezza. Potrebbe competere con Seth se non fosse così simile a Jace...

Le enormi cuffie wireless coprono le orecchie, impedendogli di udire i rumori esterni, ma ciò non impedisce loro di far trapelare qualche nota: sta ascoltando una delle solite ballate rilassanti.

Abbandono la tracolla a terra, senza badare su cosa la stia appoggiando realmente. Tutta la rabbia che avevo creduto mi avrebbe assalita si dissipa, lasciandomi addosso solo un'infinita dolcezza.
Mi chino appena, in modo da sentir meglio.

Riconosco i Death Cab for Cutie e in automatico un sorriso mi tende le labbra.

Il suo respiro è così leggero da confondersi con la musica e d'istinto chiudo gli occhi per godermi la pace di questo momento. Ho dormito accanto a Charlie decine di volte, ma nemmeno una mi son concessa il lusso di prestargli così tanta attenzione. Ogni fibra di lui mi conforta, dissolve i miei malumori. E' l'ancòra a cui mi aggrappo, chi sa trattenermi a riva e non lasciarmi naufragare in un oceano di solitudine e decisioni sbagliate.

E mentre sono occupata a godermi la tranquillità di questa camera, immersa in pensieri tanto dolci da portarmi sull'orlo di un diabete, qualcosa mi afferra il viso. La mano di Benton si apre a ragno sul mio naso e la sua risata roca spezza l'atmosfera che si era andata a creare: «Guarda che non mi chiamo Rosaspina, non mi serve un tuo bacio per svegliarmi».

Sento le guance scaldarsi e il cuore andar veloce.

Ora lo uccido!

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Capitolo 13
*** Chapter 13: Secrets you keep ***




Chapter 13
§ Secrets you Keep §


Non ho fatto in tempo ad aggredirlo che lui mi ha presa per i polsi e tirata a sé sul materasso, stringendomi in un abbraccio scherzoso da cui, alla fine, non son più fuggita via. Il mio corpo ha smesso di ribellarsi subito, lasciandosi andare al calore del suo.

Il profumo dei vestiti puliti e il battito del suo cuore, insieme al vago sentore di tabacco rimastogli tra le dita, mi hanno cullata in una sorta di vago dormiveglia. Se non temessi di restar qui più a lungo di quanto concordato con Catherine, probabilmente mi lascerei andare all'ammaliante richiamo di Morfeo.

La sua voce, ancora impastata, prova a tenermi incollata alla realtà: «Che fine hai fatto, dolcezza? Sei sparita in questi giorni...»

Strofino la testa contro il suo petto, tentando di allontanare del tutto il sonno: «Potrei dire lo stesso» biascico poi. Questa è l'occasione perfetta per chiedergli del litigio, eppure vorrei aspettare, bearmi del momento ancora per un po'. Charlie sa di casa, del luogo sicuro a cui far ritorno dopo una giornata troppo pesante: se le sue mura dovessero crollare non saprei più dove andare.
Però chiedo comunque, perchè la lingua pizzica e la curiosità mi logora: «Che succede tra i miei tre moschettieri?» Alzo la testa per poterlo guardare dritto in viso, in modo che non riesca a dirmi bugie.

«Nulla che non sia già successo in passato» afferma mettendosi a frugare sulla testata del letto, lì dove tiene portafogli e sigarette. Cerca di abortire subito il discorso, visibilmente riluttante all'idea di rendermi partecipe della questione.

Appena si mette il filtro giallo tra le labbra gli sottraggo l'accendino, in modo da impedirgli di accendere e cambiare discorso.

Sono categorica, voglio sapere.

Con un movimento lesto mi metto sulle ginocchia: la schiena rivolta alla finestra, gli occhi a lui.

«Davvero? E allora che ti costa parlarmene?» lo ammonisco.

Charlie sospira, poi si passa le mani sul viso, coprendosi gli enormi occhi azzurri: «Eddai, non ho voglia di iniziare discussioni inutili. Stavamo così bene qui a non far niente!» Il suo tono lamentoso ha un chè di fanciullesco, ma non basta per mettere a tacere il mio desiderio di conoscenza. Non sono anche io parte di questo stupido gruppo? Allora perché non posso esserlo a tuttotondo?
Il mio sguardo non lo abbandona nemmeno per un secondo, diventando sempre più intenso. E' una sfida a chi cede per primo, ma visto ciò che c'è in ballo sicuramente non sarò io quella che mollerà - il desiderio viscerale di rimettere pace tra Jace e Seth è più forte della sua volontà, ne sono certa. E poi, se loro smettessero di darsi contro, io potrei valutare con più lucidità il bacio e la confessione di Morgenstern. Il mio migliore amico si sporge con uno slancio, il suo viso arriva a pochi centimetri dal mio. Le punte dei nasi potrebbero sfiorarsi, mentre gli occhi hanno già preso a perdersi gli uni in quelli dell'altro con un'intensità che difficilmente è tipica di Benton. Sbuffa ancora: «Perchè vuoi metterti in mezzo?» mi domanda appoggiando la fronte sulla mia. Quando respira un solletico leggero mi accarezza le guance.

«Perché non mi piace questa situazione».

E alla fine, come previsto, è lui a cedere: «A tuo fratello ha dato fastidio il fatto che sei rimasta da Seth, sola» confessa, facendomi allontanare di colpo da lui.

I nostri corpi si separano, ma non gli sguardi, quelli restano ancorati insieme con stupore e rassegnazione. Non c'è più alcuna tenerezza fraterna a unirci.

«Stai scherzando? Si sono presi a pugni per questo?» scuoto il capo più e più volte, incredula. Charlie prova ad afferrami una mano, forse nel tentativo di calmarmi, ma lo scanso, scivolando via dal suo letto: «Cos'ha che non va Jace? Non è certo la prima volta che dormo fuori! Sono rimasta qui da te decine di volte e-» lui finalmente riesce a prendermi le dite. Mi interrompe a metà frase, sfoggiando una serietà che mi dà fastidio vedergli addosso.

«E' diverso, Jane» la linea dura delle sue labbra non ha più nulla di piacevole, non mi conforta: «Qui siamo in metà di mille... ci sono i miei genitori e io dormo al piano di sotto. Ma da lui? Eravate soli, okay? E tu eri ubriaca» anche se velata, sento nel suo tono una sorta di disapprovazione.
D'improvviso, percependola nelle sue parole, mi sento sopraffare dalle lacrime. Forse ho deluso anche lui - ma perché? In fin dei conti non ho fatto nulla di male, no?

Agito la testa, ancora.
Benton si alza, torna a farsi incredibilmente vicino. Sento il suo calore scivolarmi sui lembi di pelle nuda e d'istinto sento di volerlo sia allontanare, sia stringere forte. 
«Gli voglio bene, a entrambi. Sono i miei migliori amici e per loro darei via un rene, ma sai com'è Seth. La sua fama non è costruita solo su cazzate» dice piano, in modo che nessuno ci possa udire. Ed è vero. Terribilmente. Eppure mentre glielo sento dire qualcosa in me scatta, una sorta di autodifesa. Digrigno i denti e stringo la presa sulle sue dita, le stesse che stanno cercando di trattenermi.

«E quindi date per scontato che mi abbia infilato le mani sotto ai vestiti? Che avesse secondi fini?» sibilo a denti stretti, facendo calare su di lui uno sguardo impassibile e iracondo: «Pensate davvero che possa avermi portata a letto senza badare alle conseguenze di un simile gesto?» domando, avvertendo uno strano tremore scuotermi dentro.

Non ho idea di cosa mi faccia reagire così, ma succede e non riesco a controllarlo.

Charlie agita la testa, facendo ondeggiare la chioma leggermente ramata: «Non dico che lo abbia fatto, ma avrebbe potu-»
Lo bloccò prima ancora che possa finire, districando le nostre mani: «Quindi tu e mio fratello credete che sia una facile?»
«Santo cielo Jay, no!» mi afferra nuovamente, questa volta cingendomi entrambe le braccia e chinandosi un poco per essere alla mia altezza: «Io... io non potrei mai pensare questo di te, chiaro? Così come capirei se vuoi stare con Seth» si bagna le labbra, poi sospira socchiudendo gli occhi. Pare quasi che gli costi fatica parlare della questione, dà l'idea che qualcosa gli si sia incastrato in gola.

«Capisco che ti possa piacere, che sia facile cedergli, però ricordati che lui non è il ragazzo perfetto ed è normale che saperti sola con lui, di notte e a casa sua, possa spaventare Jace. Ti vuole bene, più che a chiunque altro... e sa quanto fa male un cuore infranto» si lascia sfuggire con rassegnazione dopo alcuni istanti di silenzio.

Resto ferma a fissarlo, rendendomi improvvisamente conto di quanto effettivamente mio fratello non avesse altro che le mie stesse paure. Ci siamo fatti un'inutile guerra combattendo per il medesimo motivo. Però mi ferisce sapere che se dovessi scegliere di stare realmente con Morgenstern, senza limitare la possibilità a qualche sogno a occhi aperti, lui non sarebbe dalla mia parte.

Non doveva restarmi accanto nel bene e nel male? Nei giorni importanti e in quelli difficili? Allora cosa gli costa assecondarmi?

Sento la presa di Charlie sulle mie braccia titubare un po' e scorgo nel suo sguardo un dubbio, tanto simile alla paura - è quasi come ritrovarsi nuovamente di fronte alla Molly che mi ha accolto, perchè infondo hanno gli stessi occhi e la medesima espressività. Resto in attesa di qualcosa, forse un'ultima parola rincuorante, ma il suo telefono prende a squillare, distraendolo.
Infila la mano in tasca, poi la estrae. Sul display la sveglia segna il momento della partenza: tra mezz'ora deve essere in negozio, probabilmente a catalogare i nuovi arrivi o finire di sistemare. Così sospira: «Devo andare» bofonchia, mollandomi del tutto.

«Sì, certo...» ma la mia asserzione è solo di circostanza, perché vorrei che invece restasse ancora, che mi dicesse quello che non ha ancora avuto il coraggio di dire: che è dalla sua parte, che fiancheggia Jace in questa lotta tra pari.

***

Un'ora e trenta, questo è il ritardo che ho accumulato sul lasciapassare che Catherine mi aveva concesso.

Con Charlie però il tempo diventa liquido, si dilata. Mi perdo a galleggiare nella pace dei sensi, nelle risa e, purtroppo, alle volte in conversazioni poco piacevoli come quella avuta oggi.
Così corro lungo il vialetto, cercando di non aggiungere nemmeno un minuto in più ai novanta già utilizzabili per farmi l'ennesima strigliata degna di nota. Apro la porta di casa con il cuore che martella in mezzo al petto, preda di una tachicardia che testimonia la mia poca dimestichezza con l'attività fisica e, una volta dentro, mi concedo il lusso di un sospiro.

Se qualche divinità lassù mi sta guardando, la prego di far sì che mia madre non sia in casa o, se proprio pare troppo, che non si sia accorta del mio ritorno.
Ho già subìto abbastanza per oggi, sorbirmi anche i suoi agghiaccianti strilli non mi va affatto.

Resto per un po' in attesa, con le spalle schiacciate contro la porta e il fiato corto, ma lei non sopraggiunge. Il suono dei suoi tacchi non rimbomba sulle pareti, il suo profumo "da ufficio" non aleggia minaccioso nell'aria: pare quasi che non ci sia, se non fosse per la sua risata che, d'un tratto, spezza il silenzio.

Mia madre sa ridere?

Un passo alla volta, più confusa che stupita, mi sospingo verso la stanza da cui arriva quel suono cristallino e, sussultando, mi accorgo che non è sola: c'è qualcuno con lei, qualcuno che però non è mio padre.

Il panico mi assale e il cuore prende una nuova impennata. Che Catherine abbia un amante? Possibile? Credevo mia madre capace di molte cose, ma non certo questa. Papà l'ha sempre trattata come una regina, non voglio credere che possa ripagarlo in questa maniera.
Nei miei quasi diciott'anni di vita non avrei mai potuto immaginare di scoprire una cosa del genere, di arrivare a cogliere in flagranza di reato la donna che mi ha messa al mondo - non so nemmeno come dovrei reagire o se sia giusto farlo; ma sarei capace di vivere con un simile segreto? Riuscirei a guardare in faccia papà e non scoppiare a piangere, sentirmi uno schifo o chissà che altro?

«Giuro, Miss Raven, sua figlia ha mangiato come un bue!» il commento, seguito da un'altra risata lieve, ha uno strano timbro familiare. E' una voce che ho già sentito, che conosco e che ho più volte rievocato nella memoria, soprattutto in questo ultimo periodo - ma è possibile? Non potrebbe essere semplicemente l'ennesimo sogno o un'allucinazione uditiva? Magari la mia mente non vuole accettare la presenza di un uomo estraneo in quello che è stato, ma è anche tutt'ora, il nido d'amore dei miei genitori.
Però...

Mi sporgo appena oltre lo stipite, decisa a capire quanto di ciò che mi circonda sia reale o meno e, una volta messa a fuoco la cucina, riconosco la sagoma di una persona che, forse, non dovrebbe essere qui e che, men che meno, dovrebbe atteggiarsi come se nulla fosse successo.
 


aggiornamento del 20.9.19

 

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Capitolo 14
*** Chapter 14: I won't give up ***



 

§ I won't give up §

"I see that you've come so far
To be right where you are
How old is your soul?
I won't give up on us
Even if the skies get rough"

I won't give up - Jason Mraz

 

Mi ci è voluto un po' prima di riuscire a prendere coraggio e oltrepassare la soglia della cucina; ho dovuto far ricorso a tutta la forza di volontà che avevi in corpo. Una parte di me sa tutt'ora che sia sbagliato ritrovarmi qui con Seth, mentre Catherine prepara una tazza di tè caldo per la sottoscritta, un'altra invece sta cercando di tenere a bada la miriade di farfalle che mi svolazza nello stomaco.

Seth Morgenstern è qui.
E' venuto nel covo dei Raven per me - anche perché non c'è nessun altro in queste quattro mura che possa essere di suo interesse.

Sta rischiando di aizzare nuovamente la furia di Jace su di sé e, il motivo, non sono altro che io.

Mia madre poggia una prima tazza fumante sotto al naso del nostro ospite, poi ne lascia una davanti a me e, chinandosi appena, con i suoi soliti atteggiamenti estremamente scenici e ridicoli, forse persino ammiccando, ci saluta: «Vi lascio un po' soli, ho del lavoro da sbrigare». Una novità, direi.
Così, per evitare di strangolarla, serro le mani intorno alla ceramica bollente e distolgo lo sguardo, portandolo oltre le pallide tendine che danno sulla casa dei vicini, lì dove un muro di mattoni mi fissa di rimando.
Resto in ascolto del congedo, poi dei passi di Catherine e, alla fine, quando sono certa che abbia quantomeno raggiunto metà della scalinata per il piano superiore, mi lascio andare a un sospiro.

«Dove eri finita, piccolo corvo?» domanda teneramente, prendendosi gioco del mio cognome e usando quel nomignolo che non gli sentivo pronunciare da mesi. I suoi occhi verdi me li sento addosso come tizzoni, bruciano perché non lo sto guardando, perché è infastidito - e notando la mia riluttanza, decide di proseguire: «Pensavo ti saresti fatta viva» afferma.

Fate tutti un po' troppo affidamento sul mio desiderio di cacciarmi nei pasticci, a quanto pare...

Sbuffo, spostando lo sguardo dal muro al fumo che si alza dalla tazza, creando arabeschi impalpabili: «Perché?» gli chiedo con un filo di voce, stringendo la presa.

«Perché pensi che mi sarei dovuta far sentire?» finalmente trovo la forza di alzare gli occhi verso di lui, anche se sarebbe stato meglio non farlo.

La luce malata di Gennaio gli sfiora con delicatezza il viso, addolcendone l'espressione corrucciata; rende i suoi capelli ancora più scuri, veri e propri fili d'ombra, mentre i suoi tatuaggi si trasformano in minacciose macchie su pelle, lasciate lì per parlare di tutte le scelte sbagliate e i ricordi tossici da cui non riesce ad allontanarsi.
E io vorrei passare in punta di dita su quegli zigomi alti, sulle tempie, infilare le mani tra quelle ciocche scompigliate e stringermi a lui per un altro bacio, ancora uno.

Ma non posso, non alle spalle di Jace.

Ho già ovviato troppi dettagli da quando se ne è tornato a Parigi, buttarmi su di Seth come una sanguisuga sarebbe quel passo di troppo verso un precipizio che ancora temo.
Però il pericolo è allettante, soprattutto se ha il calore e la morbidezza delle sue labbra.
Lui si sporge sull'isola al centro della cucina. Ci separano qualche manciata di centimetri, troppe poche per non farmi formicolare i palmi. Basterebbe così poco per avvicinarmi, eppure è esattamente ciò che non voglio fare. Mi conosco, so che cederei - perché se la carne è debole, la mia volontà a sottrarmi a lui ancora di più.

«Ma sei seria, Jay?» le sopracciglia si corrugano, arrivando quasi a toccarsi: «Penso sia abbastanza chiaro il motivo, no?»

Devo allontanarlo.
Devo realmente mettere un freno a questa cosa, anche se potrebbe essere la mia unica chance di stare con Seth, colui che infesta i miei sogni e stimola gli ormoni, il ragazzo per cui non ho mai dato più di un bacio a chiunque abbia avuto il coraggio di uscire con me.

E' per lui che ho aspettato, pur sapendo di star intraprendendo una strada a senso unico - o almeno lo credevo fino a un paio di settimane fa.
Lo devo a mio fratello che, grazie a Charlie, ora so avere le mie stesse paure.
Morgenstern è instabile. Una relazione seria credo non l'abbia mai avuta e io, come ha probabilmente previsto Jace, non sono pronta a diventare l'ennesima tacca sulla sua cintura.

«Seriamente Seth,» sposto una ciocca color caramello dietro l'orecchio: «non devi trattenermi a te, okay? Se con Jace le cose vanno male, non vuol dire che io mi allontanerò. Insomma... ti conosco da dieci anni ormai!» sorrido, ma non so nemmeno io perché. Forse voglio illudere entrambi che non mi stia sforzando, forse desidero convincermi che nulla c'era e nulla ci potrebbe essere tra noi - forse mi piacerebbe fargli credere che sono matura abbastanza da capire i suoi pensieri e saperli gestire.
Sta di fatto però, che lui picchia un pugno sul tavolo, facendomi sussultare.

«Ti senti quando parli?» dice in un sibilo, conscio che al piano di sopra ci sia mia madre e che possa sentire i nostri discorsi.

Per un attimo lo fisso senza capire. Cosa ho detto di tanto strano? Non è forse per paura che Jace possa portargli via tutti i suoi affetti che reagisce così? Dopotutto, da quel che mi è parso di capire, anche Benton deve aver messo un muro tra di loro e se anche lui si dovesse allontanare, Seth rimarrebbe solo con quella sottospecie di fidanzata che si ritrova - non è bravo a far amicizia, men che meno gli interessa. Oltre a ciò, se non fosse questa la motivazione della sua impellente voglia di ammaliarmi, non avrei idea di come spiegare il suo improvviso interesse nei miei confronti.

«Abbastanza nitidamente, sì» rispondo di getto, sentendomi in qualche modo attaccata. Sono praticamente priva di difese: come penso di contrastare la sua presenza? Come penso di poter resistere dal diventare sua prigioniera?

Il cinismo, di solito, è la mia arma migliore - ma lui è molto più capace di me nelle offensive.

Scuote la testa, sospira.
Si porta una mano ingioiellata al viso, mentre la manica del maglione che ha indosso si tira leggermente, lasciando intravedere le prime linee del tatuaggio che vi sta sotto: «Mi spieghi qual è il tuo problema? Mi piaci Jay, okay? Non c'è un secondo fine, uno stratagemma... non c'è nulla. Tuo fratello mi ammazzerebbe se sapesse che te l'ho detto, quindi che pro avrei nel confessartelo ancora e ancora?» domanda, rassegnato.

Il cuore prende ad andar veloce, mi vibra nel petto con sempre maggiore intensità.

Gli piaccio.
Gli piaccio davvero.

Ma posso realmente fidarmi? E se poi finisse male? Per non parlare di Sharon... lei sicuramente non mollerebbe il suo adorato Seth così facilmente, soprattutto a una come me.
Jace invece come potrebbe reagire se fossi io a dirgli che sto uscendo con il suo migliore amico? Si incazzerebbe allo stesso modo? Ovvio, darebbe la colpa a lui, lo odierebbe - perché io sono la sua sorellina, il suo bijoux più prezioso.
Strappandomi da quei pensieri, Morgenstern si allunga un po' di più verso di me. I miei occhi tornano sulla realtà, trovando i suoi. Sono intensi, decisi. Sono impavidi come li ho visti essere solo nei momenti più goliardici: quando ha detto a sua madre che non sarebbe andato via da Londra, quando ha mandato a quel paese suo padre il giorno in cui gli ha presentato la nuova famiglia, ogni sera che è finita in rissa.
Mi arriva vicino, sento il suo respiro sul viso.
I brividi corrono veloci e piacevoli su tutto il corpo e, come ho detto, la mia forza di volontà cede, diventando un ammasso malleabile simile al cadavere di una medusa.

Ora mi bacia, ne sono certa.

Lo farà e io andrò in brodo di giuggiole, dimenticando qualsiasi buon proposito o cavolata pensata per giustificare la rinuncia a questo mio amore dagli occhi verdi e le dita che sanno di tabacco.
Ci divide un soffio, ma è abbastanza per sentire le sue labbra muoversi nei pressi delle mie: «Non mi arrendo, corvetto. Rifiutami quanto vuoi, ma ti resto appiccicato» ed ecco la frase d'effetto, quella da film. Ecco che il mio cuore si schiaccia contro il torace e il respiro mi manca, le gambe si fanno molli e ogni cosa perde consistenza.
Possibile che io sia prevedibile come qualsiasi eroina da Romance di bassa lega?

Seth molla la presa, tornando a sedersi sul suo sgabello e lasciandomi sospesa come un ebete tra gli scenari troppo smielati, quelli eccessivamente spinti e l'incredulità di un bacio che alla fine non mi ha dato.
Mi guarda e io lo faccio di rimando, in evidente stato di confusione. Lui però è assorto in qualche pensiero, infatti tace, non prende l'occasione per schernirmi - e mi domando a cosa stia pensando. Poi d'un tratto lancia un'occhiata alle sue spalle, lì dove il terribile orologio di mamma, a tema fauna, segna le quattro e mezza del pomeriggio.
Il ragazzo di fronte a me sbuffa: «Ringrazia Catherine, il tè era buonissimo» dice alzandosi e infilando la giacca. La tazza però è ancora lì sul pianale, intatta e fumante esattamente come la mia.

«Non lo hai bevuto Seth».
«Fa nulla, so che lo è» non mi guarda più, troppo occupato a far altro.

Mi alzo anche io, circumnavigando l'isola e frapponendomi tra lui e l'uscita: «Seth» lo chiamo, costringendolo a darmi attenzione: «Che hai?» chiedo poi, osando persino afferrarlo per un braccio. La pelle sotto le dita è lisa, tipica di un capo usato fino allo sfinimento e le spille che ci ha attaccato davanti riflettono la luce, costringendomi a fissarle, piuttosto che guardare negli occhi il loro proprietario.
Con un movimento lesto e sfruttando la mia presa su di lui mi tira a sé, avvolgendomi in un abbraccio inaspettato.
Poggia le sue labbra sulla mia testa, mentre il rumore accelerato del suo cuore prende a riempirmi le orecchie, facendomi capire che, forse, un fondo di verità nelle sue parole c'è.
Resta in silenzio qualche istante, premendo con dolcezza il bacio in mezzo ai capelli: «Ero passato giusto per due chiacchiere, ora ho da fare però» sussurra, mollandomi subito dopo. Si concede ancora qualche secondo: «Mi interessa solo che ricordi quello che ti ho detto, okay?»

«Sì, ma...»
«Niente ma, Jay. Stavolta non hai scuse, sono stato chiaro e nessuno si è messo in mezzo. Ora però devo davvero andare. Ci sentiamo appena ne ho modo» sussurra, abbozzando per la prima volta un sorriso.

Meraviglioso come sempre, eppure lontano.

A cosa starai pensando?


aggiornamento del 27.09.19

 

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Capitolo 15
*** Chapter 15: Just a Step (part one) ***




Chapter 15
§ Just a Step§
Part One

 

"Gonna rise up
Find my direction magnetically
Gonna rise up
Throw down my ace in the hole"

Rise - Eddie Vedder 

Muovendomi distratta per i corridoi della Saint Jeremy, con gli auricolari ben agganciati nelle orecchie e i Pearl Jam a farmi compagnia, mando l'ennesimo messaggio a Charlie, sperando che non mi risponda come sta facendo da due giorni a questa parte.
Il lunedì è iniziato pigramente e con il piede sbagliato, così, mentre fuori dalle finestre della scuola cade qualche fiocco di neve, io mi domando il motivo di questa sua freddezza nei miei confronti.

Forse ha parlato con Jace.
Si saranno confrontati sulla questione, avranno concordato che il mio "aver visto" Seth sia stato una sorta di colpo basso alla nostra amicizia, considerando la situazione.


Riflettendoci bene, ora, credo che questa sia l'unica spiegazione che io sappia darmi.
Per quale ragione, poi? Ho sempre incontrato l'uno o l'altro, smettere tutto d'un colpo sarebbe ridicolo.
Sbuffo, lasciandomi cadere su una delle panche abbandonate nel corridoio - troppo affollato e impegnato ad ascoltare le futili chiacchiere di decine di studentesse occupate a raccontare del loro fantasmagorico weekend, passato probabilmente tra le braccia dell'ennesimo modello o aspirante manager, per interessarsi al mio malumore.
Alzo la testa verso il soffitto a volta, lasciando che gli occhi seguano il profilo dei giunti che si uniscono formando una timida x. Possibile che in meno di un paio di mesi la mia vita sociale si sia rivoluzionata fino a questo punto? Da un lato ho quel gran pezzo di figliolo di Seth che, stranamente - e non si sa ancora con che fini -, mi ha messo gli occhi addosso per grazia di una qualche divinità che ho pregato negli ultimi... beh, da sempre a dire il vero, dall'altro ho mio fratello e il mio migliore amico che non sembrano affatto favorevoli a vedermi tra le braccia di un tipo come lui. Come biasimarli, però?

Ed io mi trovo nel mezzo, combattuta come la peggior protagonista di una love story, al pari di Bella per le prime cento pagine di New Moon. L'unica differenza è che Catherine mi perseguiterebbe giorno e notte se osassi saltare anche solo mezza giornata di scuola o mi mettessi in sella a una moto - anche perchè senza patente non andrei poi molto lontano.

Un nuovo sbuffo mi si riversa fuori dalle labbra.

Non potevo nascere apatica? Mi sarei risparmiata buona parte di tutti questi sproloqui mentali, nonché una quantità incalcolabile di pensieri e parole. Mi sarei data a ben altri passatemi che sbavare dietro a Morgenstern o logorarmi su quanto sia pessima, come sorella.
Poi, mentre la mia ascesa verso l'autocommiserazione inizia a farsi concreta, qualcosa mi distrae, allontanandomi dalla questione. Con la coda dell'occhio scorgo un'ombra appollaiarsi accanto a me sulla panca e un ronzio prende a infastidire la voce di Eddy Vedder.
Ma chi mai vorrebbe mettersi accanto alla stralunata dell'ultimo anno? Chi mai sfiderebbe il veto di Misha di starmi quanto più lontano possibile?

Mi volto appena e, inaspettatamente, trovo un caschetto biondo e amaranto intento ad agitarsi mentre la bocca si muove - in alcuni momenti per masticare un sandwich, in altri per blaterare qualcosa.

Caroline?

Premendo il tasto stop sugli auricolari metto in pausa Off he Goes, cercando di capire se stia realmente parlando con me o se, semplicemente, sia pazza - cosa probabile, vista questa sua volontà di fare amicizia con me. Il discorso che sta facendo, che d'un tratto arriva nitido ai miei timpani, ha un senso logico ed è innegabile che si stia rivolgendo alla sottoscritta.

«...davvero, non capisco! Ma cosa mangiano a colazione? Latte e acido?» sbotta infine, trangugiando l'ultimo pezzo di pane.

No, in effetti nemmeno io riesco a comprendere, visto che quasi tutta la prima parte del suo monologo mi è oscuro.
Corrugo la fronte, sempre più confusa.
Caro si gira, ora sorridente - forse soffre di bipolarismo, un po' come Seth: «A te invece come va?» mi domanda prima di deglutire il boccone.
La sensazione di spaesamento si fa forte, diventa ogni secondo più fastidioso e, tutto, a causa del fatto che quando qualcuno ha l'urgenza di parlare non si accorge nemmeno della momentanea condizione di sordità dell'interlocutore - nel mio caso dovuta a due cuffiette che, nel loro bianco cangiante, risaltano con evidenza sull'uniforme blu.
Sbatto più e più volte le palpebre, deglutendo.

«Vuoi davvero far conversazione con me?» chiedo infine, lanciando qualche sguardo dubbioso nei dintorni. E se fosse uno scherzo? Se dietro alla sua voglia di parlarmi ci fosse qualche assurdo piano malefico ideato da Misha? La cosa non mi stupirebbe. Sono ormai anni che cerca vendetta e ogni scusa è buona, ogni pretesto valido.

La ragazza accanto a me annuisce, anche se è visibile la confusione che la sta assalendo: «Beh, se i muri sapessero parlare proverei a far due chiacchiere con loro, ma dubito ne siano in grado... nonostante questo, sono certa sarebbero più simpatici di certe tizie iscritte qui!» le sue sopracciglia si alzano, sparendo per qualche istante sotto alla frangetta. Gli occhi scuri ruotano nelle orbite, tornando infine su di me.
Come darle torto?
Così sospiro, concedendomi il lusso di sfogare qualche pensiero con quella che sembra essere la persona più umana in queste quattro mura.

«Uno schifo, vale come risposta?» tiro un angolo della bocca, provando ad abbozzare un sorriso.

Lei fa altrettanto, sfilando dalla tasca della gonna plissettata una merendina: «Se è per questo posto del cavolo, no».

Stavolta mi sfugge una mezza risata, più di circostanza che per reale divertimento: «Ho smesso di deprimermi per ciò che accade in questa scuola anni fa!» Tutto ciò che la Saint Jeremy mi ha portato, nel lasso di tempo in cui l'ho frequentata, è stato noia. Lezioni, attività, compagne: ogni cosa qui dentro mi ha privata della gioia di vivere questi ultimi mesi prima del diploma - l'unica cosa che mi tiene ancorata alla sedia del mio banco, oltre al volere di Catherine, è il corso d'arte, dove le fotografie che mi ritrovo a scattare assumono una qualche sorta di valore.

«C'entra qualcuno che ti sta a cuore?»

Bingo.

«Tre aitanti ragazzi che si comportano come bambini!» confesso socchiudendo gli occhi. Sono stanca, è questa la verità. Stanca di tutti questi pensieri e paranoie, di dover misurare ogni passo che compio in una o nell'altra direzione. Vorrei concedermi la facoltà di non dover dare spiegazioni né a uno, né all'altro, ma mi rendo conto sia impossibile.

Se Seth e Jace non avessero litigato, Charlie non si sarebbe messo in mezzo e, forse, ora non sarei qui ad arrovellarmi i pensieri a questo modo, ma piuttosto a programmare un primo appuntamento con il ragazzaccio dei miei sogni.

Caro sbatte le sue lunghe ciglia da bambola: «Oh cavolo, addirittura tre?» il suo tono fa bene intendere che sta pensando il peggio de me, dettaglio che al momento vorrei evitare, soprattutto in vista del fatto che potrebbe davvero diventare la cosa più simile a un'amica che io abbia mai avuto; così mi affretto a spiegare.
Armata di telefono tra le dita, le sventolo davanti agli occhi lo schermo scuro: «Il mio migliore amico mi risponde a monosillabi, anche se non ne conosco il motivo,» abbasso l'arnese elettronico: «mentre mio fratello e il suo migliore amico, nonché il ragazzo per cui ho una cotta, non si rivolgono la parola» ammetto infine con uno sbuffo. E' strano dire queste cose ad alta voce, confessare cosa mi affligge a qualcuno che non sia il mio riflesso nello specchio quando mi alzo la mattina, o nonna Josephine, o... a dire il vero non c'è nessun altro d'aggiungere a questa lista. 

D'altro canto però, è liberatorio, mi sento la testa meno compressa dai pensieri.

La ragazza accanto a me gongola, fa un sorrisetto malizioso che non ho idea di cosa stia a significare: «Questi ragazzacci, sanno sempre come rovinarci il buonumore! Ma sai come si combattono i problemi di cuore?» mi domanda, agitando la merendina al cioccolato come se fosse una bacchetta magica.
Io in risposta - come se già non fossi abbastanza stranita - corrugo le sopracciglia, dandole così modo di proseguire.

«Facendosi carine, uscendo con un'amica e soffocando i problemi tra musica e alcol» sentenzia, azzannando la barretta.

«E' il peggior consiglio che io abbia mai sentito» rido, immaginando che la sua filosofia sia nata dopo la visione di un qualsiasi episodio di Sex and the City: «Ma amo la musica live, mi piace bere e non ho nulla da fare giovedì sera» confesso infine, allungando una mano nella sua direzione.

Caroline l'afferra, mentre il sorriso sul suo viso si fa grande: «Che coincidenza, siamo in due!» stringe la presa: «Giovedì sera, è deciso. Tu pensa al posto, io al resto» e, nell'esatto momento in cui si alza dalla panca, il trillo della campanella ci ricorda di avere ancora troppe ore di supplizio a cui far fronte tra le aule della Saint Jeremy.
La guardo saltellare via, mentre il suo caschetto ondeggia qualche centimetro sopra alle spalle. Una strana sensazione mi riempie le viscere, a metà tra il calore e la soddisfazione.
Ho appena acconsentito a prendere parte a un'uscita tra... amiche, ed è la cosa più inusuale che abbia mai fatto.

***

Giovedì sera: un giorno così anonimo per darsi alle bevute e ai balli sfrenati, ai cori in sottofondo delle cover band e ai tacchi alti, eppure per la prima volta mi pare non essere poi tanto sbagliato anticipare di ventiquattrore quello che solitamente mi ritrovo a fare nei weekend.
Caroline si sistema la camicetta scollata, a mio avviso troppo leggera per il freddo di Gennaio, poi mi lancia un sorriso, entusiasta di essere finalmente arrivata a destinazione.
Ho scelto un pub che, da quando sono entrata a far parte della cricca di mio fratello - e lui ha raggiunto la maggiore età - è diventato punto di ritrovo per le serate di scouting e vita mondana. Benton l'ha eletto a miglior locale per godersi dell'indie-rock di qualità, in abbinato con birre provenienti dagli angoli più disparati d'Europa e, dopo qualche tempo, non ho potuto che dargli ragione.
The elder and the moon, un nome che pare tanto essere uscito da qualche novella di Tolkien, ma che in realtà è frutto della passione sfrenata del suo proprietario per i giochi di ruolo a tema fantasy, è un locale che profuma di legno e luppolo a sera, e caffè caldo la mattina - già, perchè le poche volte in cui ho deciso di non prendere parte alle attività scolastiche mi sono rifugiata qui, accoccolandomi al fianco di Charlie.

La ragazza accanto a me si fissa la punta delle scarpe, poi mi lancia un'occhiata dubbiosa: «Dici che ho esagerato?» domanda, forse rendendosi conto che uno stiletto non è poi la scarpa più indicata per la location designata.
Le sorrido mestamente, annuendo. E' inutile cercare di dirle una bugia, le ultime volte che ci ho provato non hanno portato a buoni risultati e se ho la possibilità di farmi un'amica gradirei non sprecarla.
Restiamo sospese qualche istante tra dentro e fuori, aspettando che il piccolo ingorgo formatosi all'ingresso sparisca, poi entriamo e, nel farlo, mi è inevitabile trattenere il respiro - se non cambia idea ora potrò decretare quest'uscita come ufficiale.

Così, nel preciso istante in cui le suole delle mie scarpe toccano il parquet smangiato del The Elder and the Moon, un'improvvisa soddisfazione mi assale, insieme all'aria pregna di luppolo, fritto e profumi vari - tra cui pure quello di sudore dei camerieri che volteggiano tra un tavolo e quello successivo.

Involontariamente mi ritrovo a stringere la mano di Caroline, occupata però a osservare con stupore l'ambiente intorno a lei; il suo sguardo studia ogni trave e ogni foto incorniciata appesa alle pareti, valuta la quantità di gente presente e la disposizione del locale, poi, dopo qualche minuto di totale isolamento, si volta nella mia direzione, sorridendo. 
Il suo viso, illuminato dai denti perfettamente bianchi, pare dire a lettere cubitali che il posto le piace, che per la nostra prima serata tra donne è il luogo perfetto - e la cosa mi rincuora. Avevo previsto il peggio durante il viaggio in metro che ci ha condotte fin qui, creando decadenti castelli di sabbia in cui far vivere le mie aspettative più rosee, sapendo che presto o tardi la marea avrebbe dato loro il colpo di grazia, ma a quanto pare non è andata così.
Tra un risolino e l'altro, un commento sciocco e la battuta successiva, ci avviciniamo a grandi falcate verso il bancone, dove un uomo dai lunghi ricci rossi e il pizzetto da fauno si destreggia tra un'ordinazione e una chiacchiera con i clienti. I tatuaggi tribali guizzano sulle sue braccia pallide, mostrando il continuo movimento dei suoi muscoli. Se l'alcol avesse già avuto la meglio su di me, potrei quasi dire che, alle volte, tutti gli animali sulla sua pelle prendano vita, trasformando il loro possessore in una creatura astratta.
D'un tratto l'uomo si volta verso l'entrata, forse per scrutare quanta gente si stia adunando nel suo locale per assistere allo show e, nell'esatto momento in cui lo fa, il suo sguardo cade su di me.
Ci impiega qualche istante a mettermi a fuoco, ma poi la sua espressione si apre in un sorriso gioioso: «E' la signorina Raven quella all'orizzonte?» asciugandosi in fretta le mani sul grembiule si allunga sul pianale in legno che ha di fronte. Mi prende per le mani, trascinandomi vicino e poi, con lo stesso calore di un vecchio amico, mi bacia una guancia.
Per quanto le sue passioni da nerd lo rendano un soggetto alquanto improbabile, Adrian è stato compagno di classe di Jace per molto tempo e, questo, li ha resi amici - poi il liceo si è messo nel mezzo e le loro strade hanno preso direzioni differenti.

«Mi sembra passato un secolo dall'ultima volta che sei passata!»
E come dargli torto? Con tutto il trambusto provocato dal battibecco dei due ragazzi più importanti del mio microcosmo, uscire è stato l'ultimo dei miei pensieri.
Gli sorrido mestamente, provando a evitare il motivo reale della mia assenza. So che se dovessi soffermarmi troppo sulla questione finirei con il deprimermi e rovinare la serata non solo a me, ma anche a Caro.
«Che vuoi che ti dica?» alzo le spalle in un gesto teatrale, fingendo di non dare importanza a nulla: «Quest'ultimo anno di scuola mi sta imprigionando tra casa e le classi!»

Lui sbuffa: «Guarda, non ti invidio per nulla! Però manca poco, stringi i denti ancora qualche mese» si guarda attorno con fare circospetto, poi si spinge ancora più vicino: «Io intanto tengo la bottiglia di champagne in fresco!» E il suo occhiolino complice strappa anche alla ragazza accanto a me una risata.
Adrian a questo punto torna con il busto oltre il bancone, lasciandoci sedere proprio di fronte alla sua postazione, poi, armeggiando con apribottiglie e boccali, ci serve senza alcuna comanda due bionde dall'aria fin troppo invitante.

«Il primo giro ve lo offro io» ci sussurra, in modo che nessuno dei clienti possa cogliere il suo favoritismo nei nostri confronti. E' evidente che vorrebbe fermarsi a scherzare, ma il lavoro lo chiama e, così come quando siamo entrate, si rimette a riempire calici, bicchieri e boccali, dando direttive di ogni tipo allo staff di sala.

Caroline alza la sua birra, mi fissa: «Brindiamo?» mi domanda facendo ondeggiare il caschetto bicolor ai lati del viso.

«A cosa?»
«A questa uscita direi» mi fa notare con un'espressione che fa capire quanto la risposta dovesse essere ovvia - e allora alzo a mia volta la bionda, facendo cozzare il vetro dei due boccali.

Sì, credo che il destino abbia proprio voluto farmi un regalo, visto il casino in cui mi ha cacciata!

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Capitolo 16
*** Chapter 15: Just a Step (part Two) ***




Chapter 15
§ Just a Step §
Part Two

 

I gotta tell you what I'm feelin' inside,
I could lie to myself, but it's true
There's no denying when I look in your eyes,
Girl I'm out of my head over you
And I lived so long believin' all love is blind
But everything about you is tellin' me this time
It's forever, this time I know and there's no doubt in my mind
Forever, until my life is through, girl I'll be lovin' you forever

Forever - Kiss

 

Sotto al palco, se così si può definire il gradino di trenta centimetri che ci separa dalla cover band, gridiamo a squarciagola i brani che vengono proposti, sentendo le corde vocali bruciare nello sforzo di prendere note un po' troppo alte.

Dalla birra alla vodka il passo è stato breve, anche se dubito che domani mattina, con la medesima facilità, riuscirò ad alzarmi dal letto e trascinarmi tra le aule della Saint Jeremy - però ci siamo fatte prendere dall'idea di annebbiare, anche se in piccola parte, la mente e non abbiamo saputo come dire di no all'alcol.
Ci ritroviamo così a cantare senza sosta, ignorando il fatto che poi dovremmo subire le conseguenze di uno sforzo tanto prolungato da parte della gola. Passiamo dalle ballad alle tracce più movimentate senza alcun problema, ballucchiando in modo completamente scoordinato sulle assi del parquet che cercano di mettere in difficoltà Caro che, visti i suoi tacchi alti, grazie al cielo, non è ancora ruzzolata a terra.
Ride e si dimena con la mia stessa incapacità motoria, dovuta più alla voglia di divertirsi che altro - stasera nessuna delle due vuole apparire affascinante o sensuale, semplicemente ha bisogno di lasciarsi andare. Io ho la necessità di tenere i problemi con gli esponenti del sesso opposto lontani, lei... non ne ho idea e, per adesso, mi sta bene così.

O almeno è ciò che avevo pensato fino a questo momento.

La mia "amica" si ferma, ansima per lo sforzo e agita una mano accanto al viso per farsi aria. Il suo sguardo vaga un po' nei dintorni, ma poi grida: «Ti dispiace se vado a dare il mio numero a una persona?» mi chiede, indicando un punto indefinito tra la folla alle sue spalle, forse cercando di farmi più o meno intuire qualcosa - ma vista l'ancora minima conoscenza l'una dell'altra, mi è difficile capire di chi o cosa si tratti.
Ad ogni modo, tornando al punto focale della questione, se dovessi essere totalmente sincera un po' sì, mi dispiace. Non amo restare sola in mezzo a così tanti sconosciuti ammucchiati in un luogo "angusto", ma allo stesso tempo non posso negarle di fare ciò che desidera - potrei giocarmi la serata e l'amica. Allora annuisco, facendole un sorriso d'approvazione che tanto vero non è; ma dubito possa capirlo, dopotutto non siamo ancora così intime da riconoscere un'insulsa piega d'espressione.
Se lei va a rimorchiare, comunque, a me toccherà abbandonare la pista da ballo e chiedere conforto ad Adrian che, magari, sarà tanto magnanimo da farmi compagnia e regalarmi un altro boccale ricolmo di birra. In fin dei conti, ai suoi occhi sono ancora il cucciolo di Jace e ciò dovrebbe generare in lui la giusta dose di pietà nei miei confronti. Cinque anni di differenza sono tanti, possono farmi apparire ancora come una bambina.
Lascio quindi andare le dita di Caroline che tengo strette tra le mie, osservando giusto per qualche istante la sua sagoma sparire tra il marasma del The Elder and the Moon, ora molto più affollato di quando siamo arrivate. Mentre fisso il suo caschetto biondo e amaranto sobbalzare ad ogni passo che fa, mi sento improvvisamente sopraffare da una sensazione amara.

Che faccio, ora?

Rimettersi a cantare e agitarsi in solitudine ha un ché di sbagliato, triste, ma restare immobili in attesa del suo ritorno mi dà l'impressione di esserlo ancora di più, così, dopo alcuni istanti di contemplazione e dubbi esistenziali di bassa lega, mi ritrova a sospirare e mestamente girare i tacchi.
Senza Caro e il suo buonumore a scacciare i pensieri tristi, quelli per cui abbiamo deciso di uscire nel bel mezzo della settimana, l'unico che può venirmi incontro è Adrian, soprattutto se munito di una qualche bevanda ad alto tasso alcolemico.
Così, tra una spallata e quella successiva, mi faccio strada verso il bancone, la meta ultima per chi non vuole ancora tornarsene a casa - anche se i piedi fanno male, la gola brucia e la mente prende ad affollarsi. Ritaglio il mio angolo in mezzo a due sconosciuti che si danno le spalle, intenti a parlare l'uno di calcio e l'altro di qualche lezione universitaria un po' troppo ostica e, qui, alzo la mano nel disperato tentativo di catturare le attenzioni del barista; dopotutto, prima afferro un bicchiere, prima posso sgattaiolare via. I tizi mi schiacciano, non si preoccupano della mia presenza tra di loro esattamente come non lo fa il proprietario del locale, troppo impegnato a far roteare bottiglie colorate sopra alla testa e riempire calici che darà a tutti tranne che me. Allora provo a sporgermi un po' di più, a issarmi sul pianale in legno per diventare un faro tra gli scogli di persone nettamente più alte di me. Ma nulla, il risultato non cambia.
E allora sbuffo, rinunciando all'impresa - da un lato il destino mi grazia, dall'altro mi sevizia.

A questo punto mi ritrovo a infilare le dita nella borsa, cercando con insistenza l'unica fonte di salvezza e possibile occupazione di quella che si è trasformata in solitaria attesa: le Lucky Strike rosse. Piccole stecche di pura intossicazione polmonare in pacchetto, minute bacchette velenose che mi coccolano nei momenti migliori e peggiori. Otto sterline e mezzo date alle mani sapienti di tabacchini consci del danno che stanno arrecando ai miei bronchi, ma troppo affamati e umani per poter cedere al buon senso e dirmi "ti stai corrodendo da sola!" - e come dargli torto? Dopotutto con i vizi di decine di centinaia di persone loro riescono a campare, perché sfortunatamente il mondo è tiranno e indottrina l'egoismo.
I polpastrelli sfiorano la rotella dell'accendino, poi due filtri che, seppur pochi, mi auguro che siano sufficienti a riempire il tempo che Caro dedicherà al suo flirt serale.

Faccio per girarmi, senza prestare reale attenzione a ciò che mi circonda - infatti lancio ancora qualche occhiata speranzosa in direzione di Adrian che, però, nemmeno con la vista a raggi x riuscirebbe a notarmi - e, prima che possa realmente rendermi conto della situazione, sbatto contro qualcuno, uno sconosciuto che mi afferra per le spalle senza esitazione.
Resto con il naso schiacciato al suo petto qualche istante, conscia che se mi dovessi allontanare ora scorgerebbe il terribile rossore sulle mie gote e, qui, aspetto.

Cosa è un po' un mistero, visto che persino lui pare non voler mollare la presa su di me. E allora provo a fare un respiro profondo, in modo da darmi la forza necessaria per fare il primo passo e divincolarmi, eppure, quando il suo profumo mi riempie le narici, qualcosa scatta e il desiderio di sgattaiolare via si dissipa.
Conosco sia questo bagnoschiuma, sia il detersivo con cui è stata lavata la maglia dei Kiss e, inesorabilmente, alzando gli occhi, ciò che scorgo è la mia condanna.

Seth.

Per quale ragione è qui? E perché mai il suo sguardo sembra più infastidito che amichevole?

Deglutisco con fin troppa fatica prima di pronunciare un timido saluto: «Ehi», ma non sembra ottenere alcun risultato sperato.
Le sue pupille mi perforano la fronte, quasi stessero cercando di aprirmi il cranio e farmi capire che è infuriato con me - anche se, il motivo, proprio non riesco a immaginarlo.

Stringendomi con più forza, e senza ricambiare il saluto, decide che l'interno dell'Elder and the Moon non è il luogo adatto per una conversazione, così mi trascina fuori quasi di peso - non mi dà nemmeno il tempo di capire, per questo i piedi sembrano poco convinti nel voler avanzare.
Una sua falcata dopo l'altra però, ciò che ci accoglie è il vicolo ora deserto in cui si trova il locale. L'aria gelida vi passa in mezzo accarezzandomi le caviglie leggermente scoperte, lì dove i jeggins dei miei quindici anni provano a dirmi che in fin dei conti qualche centimetro in più l'ho acquisito. Non posso impedirmi di stringere le braccia al petto nel tentativo di raccattare un po' di calore, visto che la giacca è a penzoloni sulle spalle e non aiuta quanto dovrebbe, ma oltre a questo, in un lamento, mi rivolgo al ragazzo che mi ha trascinata fuori: «Ma che ti prende?!» La voce sale fino a raggiungere una nota stridula, ma lui non sembra accorgersene, troppo preso a fissarmi con fare indagatore da sopra la propria spalla.

«Potrei farti la stessa domanda... da quanto ti fai così carina?»

Piego la testa da un lato, provando a capire: «Non credo ci sia una legge scritta che mi vieti di truccarmi bene e indossare qualcosa di più... grazioso quando esco con le amiche» con una mano provo a indicare la maglia che indosso, un filato nero con inserti dorati il cui scollo fa intravedere quello che dovrebbe essere un décolleté, ma che la mia seconda, rigorosamente coppa b, fa invece risultare una sorta di inutile tentativo di raggiungere una sensualità non concessami.
Lui scuote il capo, ridacchiando nervosamente. Non sembra prendere sul serio le mie parole, anzi, pare quasi che abbia fatto una pessima battuta.

«Sai,» esordisce appena riesce a placare l'ilarità: «dopo che qualcuno ti confessa di avere dell'interesse nei tuoi confronti, l'ultima cosa che fai, se ancora non gli hai dato una vera e propria risposta, è metterti carina e uscire da sola in un covo di uomini dagli ormoni che tirano tra i pantaloni!» Sbotta infine, infilando le mani in tasca.
La confusione si fa ancora più destabilizzante. E' forse gelosia la sua? Morgestern sa provare un sentimento del genere per un esemplare del sesso opposto?

«Che male c'è? E poi, siamo sinceri, tu sei l'ultimo a potermi rimproverare, Seth» il mio tentativo di giustificare la situazione pare aizzare il suo già instabile umore, così, forse mosso da un istinto che io ancora non riesco a capire, mi afferra per un polso, portandomi a un soffio dal suo corpo - e i brividi che sento ora, dubito siano causati dal freddo.

Una scossa piacevole parte dal contatto tra le nostre pelli, amplificato di decine di volte.
Se fino a una qualche settimana fa il tocco di Morgentern mi stimolava il batticuore, dopo il nostro primo e fugace bacio ha iniziato a far formicolare ogni parte di me, spingendomi a desiderare di stringermi a lui e nutrirmi del suo calore, del profumo della sua pelle.

E' questo che significa innamorarsi ed essere ricambiati? O forse sono troppo succube di lui per gestire in modo logico le sensazioni?

«E' questo il problema?» mi chiede in un sibilo, mentre il suo sguardo si addolcisce nel mio: «E' perché temi che possa comportarmi da pezzo di merda che mi eviti?»

Anche.
Soprattutto.

Temo che le paure di Jace possano diventare reali, che Seth si prenda il mio cuore e lo spezzi come pane secco, dandolo in pasto ai pesci di qualche stagno maleodorante. Temo di dovermi ritrovare tra le braccia di mio fratello a piangere per via della stupidità con cui ho creduto allo splendido viso che mi sta davanti.
Temo di rinunciare alla sua voce nelle orecchie, al suo sorriso, alle battute che fa sulla mia inesperienza nei confronti della vita. Ho paura di non avere più i sabati sera a casa sua, i suoi messaggi, i dolci che porta via dal lavoro a fine giornata, quelli con cui mi strafogo da anni.

Da tutti questi timori mi separa un passo. Uno solo.
Compiendolo potrei posare le labbra su quelle del Diavolo in persona, suggellando così un accordo in cui, certamente, sarò io a rimetterci, un accordo che darebbe vita ad ognuna delle cose appena elencate.

Ma sono pronta? Non ne ho idea.
Lo desidero? Abbastanza da non riuscire a pensare ad altro che a lui.
Vale i rischi a cui sto andando incontro? Nei miei sogni, sì. Nell'immaginario che ho costruito intorno alla sua figura, amare ed essere amati da Seth vuol dire avere un piccolo falò nel petto, perennemente acceso e pronto a divampare.

«Non dovrei?» mi ritrovo a dire infine, sentendo le lacrime salire agli occhi. Forse però avrei dovuto porre altre domande, come ad esempio: perché? 

Perché io?
Perché ora?

Lui allenta la presa, più deluso di quanto mi sarei aspettata. Per un attimo ho il terrore di udire la sua risposta, di sapere che se volessi, potrei sfuggire dalle sue dita e tornare la solita e semplice Jane Jaqueline Raven di sempre - perché una tra tante, una tacca non necessaria sulla sua cintura da donnaiolo.

«Non potrei mai prendermi gioco di te, Jay. Mi sei sempre stata accanto, il vuoto che lasceresti non è così irrilevante come credi... e sei la metà mancante di Jace, ogni suo pregio è tuo. Se perdessi te  realmente ogni cosa», ma nonostante ciò che dice, fidarsi non è così semplice, non quando si parla del primo amore e nemmeno quando si ha a che fare con il ragazzaccio della situazione.

Dopotutto non siamo i protagonisti di un romanzo d'amore, il lieto fine è più unico che raro in storie come la nostra: la realtà colpisce forte, senza guardare in faccia nessuno. Spezza ossa, denti e cuori con una facilità quasi annichilante e, io, non voglio immaginare il dolore che mi aspetta.
Però, alla fine, quel passo lo faccio: gli vado incontro.
Mi lascio andare all'illusione, mi faccio piegare dal suo sguardo così convinto delle parole che, forse, domani mattina non saranno più così veritiere.

Premo le labbra sulle sue e lascio che il sapore di tabacco e sale rimastogli impigliato tra le grinze della carne mi riempia la bocca. Perché anche se ho paura l'adrenalina è una droga e  deludere Jace vuol dire poter toccare con mano la consistenza di un sogno. Perché come ci insegnano alcuni tra i più grandi filosofi della storia, siamo tutti inclini al masochismo: subire, farci male, soffrire e lamentarci ci fa sentire un po' più vivi.

E io lo sono, ora.
Sento che ogni centimetro di me reagisce a lui - ed è travolgente.

 

 

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Capitolo 17
*** Chapter 16: Trust me ***




§Trust me§
 

It's six A.M., I'm so far away from you
I don't wanna let you down, what am I supposed to do?
It's been three weeks at least, now, since I've been gone

Honest - The Chainsmokers

 

Seppur l'abbia sognato notti intere, per settimane che sono diventate mesi, ancora fatico a credere di avere le labbra incollate a quelle di Seth, mentre le mie mani sfiorano il suo viso caldo e le sue dita si annidano tra i miei capelli, impedendomi di scappare.
Vorrei credere, come nelle scene più romantiche di qualsiasi storia, che si stia aggrappando a me per paura che da un momento all'altro possa scappare via da lui, allontanarmi e infrangere il suo cuore, ma Morgesten è meno succube di me all'amore e la realtà è più carnale, tutti quei bei momenti li lascia alla fantasia di scrittori in parte frustrati e in parte alla ricerca di una favola che sanno non prenderà mai vita. 
Ad ogni modo, credo che per il ragazzo schiacciato a me sia solo una questione d'istinto, di esperienze pregresse e di desiderio di possessione.

Forse è per questo che più restiamo incollati, più lui sembra farsi avaro.

Però, a prescindere dal mio voler restare ancorata a Seth con tutte le forze, l'aria inizia un po' a mancarmi, avrei bisogno di fermarmi e riempire i polmoni di ossigeno per riuscire a stare al suo ritmo. La mia paura comunque, in questo preciso istante, è quella di spezzare la magia che ci avvolge, anche se è umida come la saliva e bollente come fuoco.
Eppure Morgenstern pare non aver bisogno di respirare, sembra riempirsi i bronchi con il calore dei corpi, il tocco delle pelli - e lo invidio, mentre afferro il suo labbro inferiore tra i denti provo per lui un'invidia terribile; vorrei avere la sua stessa conoscenza di questa materia, saper sostenere un confronto con lui.
Spiegarlo ai miei polmoni è però qualcosa di più complicato e così, seppur cercando di resistere fino all'ultimo, troppo ingorda di questa situazione irreale per poter dare importanza all'apnea volontaria, mi ritrovo a fare i conti con un colpo di tosse improvviso.
Per volontà altrui sono costretta a staccarmi dalle sue labbra e concedermi qualche istante di recupero, una pausa che son certa impedirà alla malia di ricrearsi con la stessa naturalezza e intensità.
Tossisco più e più volte, quasi mi sia andato di traverso qualcosa e, nel farlo, con una mano mi copro la bocca, scoprendola terribilmente calda e gonfia, quasi sia stata morsa. Forse mi sono lasciata coinvolgere troppo? Ho lasciato che la fame di lui avesse la meglio su di me?
Di sottecchi lancio un'occhiata al ragazzo che mi sta accanto, in particolare alla sua bocca. E' di un color ciliegia che non gli vedevo avere da mesi, forse a causa del freddo costante, ora interrotto dai trentaquattro gradi della mia persona. Ciò che più di tutto mi sconvolge però, è il ghigno soddisfatto con cui mi fissa dai suoi quindici centimetri in più.

E il cuore mi balza in gola.

Perchè mi osserva a quel modo? Perché temo di dover restar qui e scoprirlo?

«A quanto pare non ti dispiaccio così tanto» sussurra maligno, avvicinandosi piano e mettendomi letteralmente spalle al muro, lì dove le casse all'interno del locale fanno vibrare appena la superficie a cui sono schiacciata.
Ci osserviamo, anche se in due modi ben diversi: io imbarazzata, con il batticuore che pare volermi uccidere, lui conscio del suo potere, tronfio dello charme che lo rende così desiderabile.
Deglutendo a fatica provo a difendermi, a impedirgli di giocare con me - come fa da sempre, del resto: «Oppure è all'alcol che piaci tanto». Dalla bocca si leva una pallida nuvola di vapore. Ho il fiato ancora bollente, il corpo in visibilio.
Lui piega la testa da un lato, mi osserva con scetticismo: «Vorresti dirmi che se non fosse per qualche birra nel tuo pancino» con un indice mi sfiora l'addome, ma i suoi occhi non paiono voler discostarsi dai miei: «non mi baceresti alla stessa maniera?» il suo dito trova uno spiraglio, svicola sotto alla maglia, alzandone il bordo. Il contatto è scottante, ma non ho idea del motivo per cui lo sia; forse è un'impressione, forse una delle tante conseguenze di ciò che mi scatena. Sorride sempre più, avvicinando pericolosamente il viso al mio: «Jay, guarda che sono stato innamorato anche io, riconosco il brivido che ti assale ogni volta che son troppo vicino» sussurra infine, mentre l'epidermide mi si riempie di pelle d'oca.

Vuol dire che lo ha sempre saputo? Sta cercando di dirmi che da otto anni è a conoscenza della mia eterna cotta nei suoi confronti?

Vorrei saperlo, ma ciò che mi sfugge è ben altro: «Quindi Sharon ti fa quest'effetto?» Le mie pupille si abbassano sulla sua mano, immobile. Il polpastrello resta premuto sulla pancia, ma non sfiora più la carne con delicatezza, pare piuttosto puntarmi come la canna di una pistola. Chissà se può ferirmi. Chissà se con così poco può perforarmi lo stomaco e farmi stramazzare a terra.

«Non paragonarti a lei, Jane» il tono di Seth mi fa sobbalzare, così freddo, infastidito. La sua voce non è più suadente come qualche istante fa e anche il suo sorriso, ora che lo fisso in viso, non se ne sta più appollaiato sulle labbra ancora arrossate.

Come al solito, quello che doveva essere il momento più indimenticabile dei miei ultimi diciotto anni, pare volersi tramutare nel peggiore - e tutto a causa della mia linguaccia, incapace di star ferma. Così la mordo piano, ma con sempre più intensità, punendola per aver agito senza il consenso della mente. Sento ogni frastagliatura dei denti lasciare il proprio segno tra le papille gustative e maggiore è il dolore, maggiore la velocità con cui distolgo lo sguardo dal ragazzo che ho di fronte: già, come posso paragonarmi alla sua fidanzata, quella vera? Come posso paragonarmi a quella sorta di Venere ambrata che conquista uomini e successi alla medesima maniera?
Lei è stata al suo fianco per anni, vivendo la quotidianità in maniera nettamente diversa da come Morgestern abbia mai fatto con la sottoscritta, che più che un esemplare del sesso femminile, doveva rappresentare una sorta di cucciolo di yeti per lui. Lei, che nonostante i reciproci tradimenti non è mai uscita di scena. Lei, che nelle uscite di gruppo mi ha sempre fatta sentire un'incomoda. Lei, che gli ornava la pelle di segni facendomi così logorare al pensiero che non avrei mai potuto avere Seth.
Con che presunzione mi ci affianco?

D'un tratto, l'indice che aveva minacciato la mia pancia trasformandosi in un'arma di falangi e carne si unisce al pollice per afferrarmi il mento. Lo pizzicano un poco, costringendomi a tornare con gli occhi sul mio interlocutore: «Sharon è ed è sempre stata un passatempo, chiaro? Mi faceva compagnia, non pretendeva promesse o pianificazioni per un futuro insieme e non recriminava alcuna spiegazione. Tuo fratello e Charlie possono confermarlo se non mi credi» fa una pausa, cercando nel mio sguardo qualcosa che non saprei definire. Forse vuole una conferma, oppure sta provando a scorgere in me della titubanza. Passa alcuni istanti in silenzio, poi appoggia la fronte sulla mia, schiacciandosi con il corpo al mio: «Non ha alcun valore se confrontata a te» decreta infine, facendomi saltare il cuore in gola. Quest'ultima frase, che può sembrare la più scontata di qualsiasi scena da libro trash, sconvolge completamente le idee che mi ero fatta fino ad ora, lasciandomi galleggiare nella confusione.

Non capisco, qualcosa non torna: «E... e allora chi...»

Seth ride piano, lascia che le sue labbra si tendano e mostrino i denti perfetti - lascito di anni passati con l'apparecchio: «Avevo sedici anni, okay? Era la mia prima fidanzatina, una relazione seria durata ben nove mesi... e quando mi ha lasciato ha avuto anche la premura di spezzarmi il cuore» nei suoi occhi si intravede la vaga nostalgia di un ricordo lontano, sulle sue guance il lieve rossore dell'imbarazzo. Non mi era mai capitato di sentirgli confessare una simile cosa, avevo sempre creduto che nessuna potesse trovare il coraggio di lasciarlo, ma a quanto pare ho sempre sbagliato. 

Il suo sorriso si allenta un poco: «Non sono così insensibile come credete tutti» dice piano, sfiorandomi il naso con la punta del suo.

«Ora, che programmi hai per la serata?»

 

***

Ho avvertito Caro giusto in tempo, ma soprattutto al momento perfetto. L'ho trovata arroccata sul bancone, intenta a cercarmi a destra e manca per chiedermi se, se non avevo nulla in contrario, potessimo rimandare il "pigiama party" che avevamo in programma - unico motivo per cui Catherine mi aveva dato il permesso per uscire, era infatti il fatto che l'indomani sarei andata a scuola accompagnata da un'altra studentessa, ma nessuno avrebbe mai sospettato che il programma cambiasse tanto drasticamente.
Così la mia amica è fuggita via con lo spasimante conosciuto al locale, un soggetto di cui nemmeno sono riuscita a intravedere la faccia, mentre io mi sono lasciata rapire da Seth.

Tra fermate di autobus e qualche minuto di camminata passata sotto al suo braccio, abbiamo concluso la serata nell'appartamento che solo qualche settimana prima mi aveva vista in mutande. Casa Morgestern ci ha accolti nel torpore del riscaldamento acceso, nel profumo di incenso al gelsomino e nella luce soffusa dell'abart-jour sempre accesa per non lasciar Chucky al buio.
Le pareti ci hanno ascoltati, mentre timidamente gli chiedevo di raccontarmi del suo primo amore, di come era stato, per il donnaiolo che è, accettare di venir lasciato a quel modo - e lui non si è fatto pregare, ha descritto con ironia e dolcezza quel ricordo in cui, alle volte, mi sono quasi rispecchiata.
Poi i suoi soprammobili ci hanno guardati. Hanno assistito a un nuovo e tenero bacio che è diventato quello della buona notte - perchè a differenza mia, forse lui non è riuscito a contrastare la stanchezza di una giornata passata a servire clienti e preparare colazioni, merende, vassoi d'asporto e quant'altro, o forse perchè a un tratto ha avuto i medesimi pensieri che ore dopo hanno raggiunto me.

Nel suo letto, che mi ha ospitata sotto alle lenzuola profumate cercando di farmi compagnia per le prime ore insonni e cullandomi poi in un sonno non proprio piacevole, ho avuto modo di fare nuovamente i conti con la realtà, una di quelle che avrei preferito evitare. Per il tempo passato sveglia e in solitudine, ho osservato tutto ciò che di Seth c'era nella stanza, muovendomi dai libri ai cd, dai vestiti piegati qua e là sui mobili alle fotografie - ed è stato in quel momento che ho incrociato il viso di Jace. E' lì che guarda dritto in camera, mentre la luce tenue che entra da oltre le tende manda strani riflessi sulla carta lucida.
Nonostante l'espressione sorridente che ha nello scatto incorniciato sopra a una delle mensole, mi sono sentita giudicare dal suo sguardo fisso: l'ho deluso, anche se ancora non lo sa. Ho messo Morgenstern prima di lui, lasciando che il mio egoismo prevalesse su ciò che era giusto fare.
Mi sono lasciata andare, ignorando volontariamente le conseguenze delle scelte fatte, ma so da me che dovrò dirglielo, prima o poi.

Ed è stato questo pensiero a tormentarmi, facendomi girare più e più volte tra le coperte, cercando di minare la già di per sé labile magia della serata. Così ho fatto i conti con i sensi di colpa, le remore, i dubbi, tutti travestiti da improbabili sogni - fino a che il vibrare lieve del mio cellulare, all'alba delle sette, non ha deciso di mettervi fine.

Con la bocca impastata e la voglia di vivere di un bradipo, ho allungato una mano fin sopra la testiera del letto, urtando prima contro una lampada, poi al posacenere ornamentale e infine acciuffando il marchingegno del demonio.

La luce del display, nettamente più intensa di quella che permea nella stanza, mi ferisce gli occhi, costringendomi a stringere le palpebre e mugolare un po' prima di trovare la forza per sorreggere la sua luminosità. Alla fine, quando finalmente riesco a mettere a fuoco le icone e le lettere sullo schermo, mi ritrovo a fare i conti con una notifica inaspettata, un mittente che mi fa stringere lo stomaco in una morsa tutt'altro che piacevole.

Che tutte le paturnie a cui ho cercato di far fronte lo abbiano richiamato? Possibile che mio fratello abbia sentito i pensieri che gli ho rivolto?

Avvertendo un nodo in gola e il cuore palpitare abbasso la tendina, in modo da scorgere una buona anteprima del messaggio - ma è più breve del previsto e la cosa mi preoccupa ancor di più. 
 

Chiamami, dobbiamo parlare.

E forse provo più ansia ora che di fronte alle confessioni di Seth, alle interrogazioni impreviste o nelle attese che precedono le sfuriate di mia madre.
Cosa dobbiamo dirci di tanto urgente? Per quale ragione ha dovuto scrivermi questo messaggio all'alba?
Mi tiro dritta, senza però staccare gli occhi dalle letterine scure che troneggiano sullo sfondo chiaro.

Che faccio, chiamo?

Un'occhiata si alza e vola verso la porta che divide la camera da letto dal salotto. E' socchiusa, permettendomi di restare in costante ascolto di ciò che accade in queste quattro mura che sono l'appartamento di Morgenstern, ma dall'altra stanza non giunge alcun rumore. Forse a differenza mia sta ancora dormendo; chissà che orario lo aspetta domani, quali commissioni riporta la sua agenda. Rischierei di disturbarlo? Udirebbe la mia preoccupazione? 
Potrei aspettare di andar via, di essere in un luogo più intimo e appartato, ma l'urgenza di sentire cosa Jace ha da dirmi si fa impellente.

I miei piedi scivolano fuori dalle coperte, raggelano prima di toccare il tappeto e, appena sono stabili sul pavimento, si muovono leggeri in direzione dell'anta.

Sbircio attraverso lo spazio vuoto creato tra la porta e lo stipite, mentre lo stomaco si torce giusto quel tanto da farmi sentire agitata. Aguzzo la vista nella penombra, sperando di non scoprire nulla di spiacevole, ma poi, appena gli occhi si abituano alla mancanza di luce, mi rincuoro.
Lui è lì. 
Seth se ne sta sdraiato sul divano che ci ha scoperti complici per la prima volta, che è stato testimone dei baci e delle carezze. E' rannicchiato sotto un plaid dalla fantasia tribale e, accanto a lui, Chucky ronfa con altrettanta serenità.

Ora che mi sono accertata del suo stato letargico posso osare la telefonata.

Così chiudo in definitiva l'unica cosa che ci tiene uniti nella mattina che sta sorgendo e, sentendo le budella ribaltarsi con maggiore intensità, torno a fissare lo schermo del cellulare.

La chat di mio fratello è lì che mi scruta, così come lo fa l'icona pallida di una cornetta telefonica. Mi chiama e mi ripudia al contempo finchè, staccando il palmo dal legno che ho di fronte, mi decido a premerla, facendo comparire in grande la nostra foto insieme.

Esito nell'avvicinare lo smartphone all'orecchio, concedendomi qualche istante per osservarci meglio. Abbiamo due sorrisi così simili, i medesimi occhi screziati e pieni di vita - ma soprattutto ci stringiamo forte per riuscire a stare entrambi nello stesso selfie. Dopo ciò che ho fatto però, dubito che lui possa abbracciarmi ancora così, o quantomeno nell'immediato.

«Jay?» la voce di Jace mi riporta alla realtà, distraendomi dai ricordi e facendomi sbattere più volte le palpebre. Stava aspettando la mia chiamata? E' davvero una questione tanto vitale? 

«Ehi...» sussurro timidamente, allontanandomi dall'anta per far sì che la conversazione non venga udita dal padrone di casa - qualsiasi cosa ci sia in ballo preferirei che l'uno non sapesse della presenza dell'altro.

Muovo qualche passo lento verso la finestra, appoggiandomi al bordo della parete per osservare la vita che inizia a riempire le strade, ma prima che possa anche solo realizzare un pensiero, mio fratello irrompe dal timpano dell'orecchio su cui ho appoggiato il telefono: «Sei con Seth?» 
La sua domanda mi spiazza, il cuore mi balza in gola e improvvisamente mi sento venir meno. Lui come fa a saperlo?
Tra Londra e Parigi ci sono più di quattrocentocinquanta chilometri, nemmeno con i poteri di Superman riuscirebbe a scrutare le mie mosse.

Mi mordo il labbro inferiore, arrivando persino a torturarlo: «Perché mai dovrei essere da lui?» gli domandò con un'ingenuità che riesco a capir da sola essere finta. Le bugie, come ho già specificato, non so dirle.

Mentire è una dote, chi la possiede può avere in pugno chiunque, ma purtroppo per me tra le mie mani non riesco a stringere nulla.

«Perchè eravate nello stesso locale, a quanto pare... quindi rispondimi» lo ringhia a bassa voce, certo di sapere la verità - e in effetti è così.

E non so se a infastidirmi di più sia il fatto che lui sappia, in chissà quale modo, o il fatto che non abbia idea di come potrebbe reagire: «Mi stai facendo pedinare?» domando di botto, portandomi subito dopo una mano alla bocca con il timore di aver alzato un po' troppo il tono.
Tendo l'orecchio verso la porta, ma ancora nessun rumore. Forse non mi ha sentita.

«Mi assicuro che non ti succeda nulla, Jay, che credo sia ben diverso. Adrian mi ha detto di averti vista andar via con lui, quindi faccio male a supporre che tu sia con lui?» c'è astio nelle sue parole, ma anche preoccupazione. Si sente la lotta interiore che sta affrontando, quella tra l'amico arrabbiato e il fratello premuroso e, forse sconfitta da questo suo affetto che traspare con tanta chiarezza, mi ritrovo a scuotere il capo.

«No» sibilo, colpevole.

Sono certa che lui l'abbia sentito, che sia riuscito a carpire ciò che mi sta assalendo - infatti tace, abbandonandomi in un silenzio sempre più opprimente.

Mio fratello non proferisce parola, lasciando che il peso delle azioni che ho compiuto mi cada addosso come un macigno, schiacciandomi il petto. Non mi era mai capitato di avvertire così nitidamente la sua delusione, ma soprattutto non avevo mai sperimentato la sensazione di essere io la causa di una simile reazione.

Gli incisivi provano a perforare la carne del labbro, troppo incattiviti per darmi pietà: «Jace...» provo a chiamarlo, forse nel tentativo di saperlo ancora qui, oltre la cornetta, ma soprattutto con me. Ora, questa chiamata, è l'unica cosa che ci tiene legati e se dovesse mettere giù mi sentirei la persona peggiore al mondo - e non vorrei mai farmi trovare in lacrime nella camera del ragazzo di cui sono innamorata.

Un rumore mi fa sussultare, agitandomi maggiormente. Qualcosa a cui non so dare un nome si deve essere schiantato a terra, andando in mille pezzi: un vaso? Un piatto? Un bicchiere? - è difficile saperlo, ma certamente Jace ha perso le staffe.

«Che cazzo ti salta in mente?!» mi chiede, furibondo: «Quello ti ha tirato un pugno, te lo ricordi?» nemmeno lo chiama per nome, facendomi capire quanto il loro battibecco sia grave. Ormai è trascorso un mese, eppure la sua rabbia non pare essersi smorzata: non basta chiedersi scusa? Fare un passo indietro?

Il bruciore agli occhi mi fa capire di essere sul punto di piangere, di aver superato la soglia di sopportazione di tutta la tensione accumulata fino ad adesso - ma non posso piangere, non devo!

Jace riprende, ora con un tono esasperato, quasi stia spiegando per l'ennesima volta una cosa ovvia - e forse lo è: «Jane, lui è Seth Morgenstern, okay? Qualsiasi cosa ti abbia detto è dubbia, lo capisci? E poi con che scusa ti sei fatta trascinare a casa sua, eh?»

La prima lacrima cade, scivola lungo la mia guancia e pare corrodere la carne - crea un solco che temo chiunque potrà vedere. Come glielo dico? Come gli dico che mi ha baciata, che mi ha detto di provare qualcosa per me? E posso provare a trovare una scusa? No, non posso. Niente di ciò che mi potrebbe venire in mente sarebbe abbastanza credibile.

«L-lui... i-io...» balbetto, incapace di formulare una frase. Eppure la sua domanda ha bisogno di una risposta, anche se io preferirei stare zitta.

La sua domanda arriva imprevista, mi prende in contropiede: «Ti ha portata a letto?» la sua voce è un misto di incredulità, ira e preoccupazione - e sapendo quale possa essere la sua mossa successiva mi affretto a intervenire. Non sono pronta a finire in commissariato per aggressione.

«No!» ancora una volta mi tappo la bocca, poi la libero e, per evitare in qualsiasi modo che le orecchie di Seth possano carpire anche solo mezza sillaba della nostra conversazione, passo al francese: «Non... comment peux-tu penser ça?»

«Perchè lo conosco, Jay. Perchè so come si comporta con le ragazze» sì, so anche io come è solito comportarsi, dopotutto le paranoie che mi hanno assillata comprendevano anche questo.

«Il ne se comporterait jamais comme ça... avec moi» dico, forse cercando di convincere più me che lui - perchè se è mio fratello a dire ad alta voce certe cose, mi paiono più reali e minacciose, infondo Jace conosce Seth meglio di me e se teme che possa comportarsi come uno stronzo anche con la sua sorellina, allora dovrei realmente tornare a sognarlo e basta, senza mai toccarlo.

«Es-tu sûr? Qu'est-ce qu'il t'a dit?» torna a chiedermi, forse provando a capire come farmi ragionare sulla questione.

No, non ne sono sicura, eppure nei suoi occhi ho visto emozioni reali: gelosia, interesse, tenerezza. Non me le sono sognate e di questo ne sono certa - ma tra il vedere qualcosa e il sapere cosa gli passa per la mente c'è una differenza enorme: «Peut-être» soffio infine, quasi sospirando: «Je fais confiance à Seth».

Lui sbuffa, quasi non avesse idea di come farmi cambiare idea: «Io no, invece, per questo ho bisogno di sapere che non ti farai fregare dal suo aspetto e dalle belle parole. Seth si è comportato da egoista, da stronzo e soprattutto ha tradito un'amicizia decennale, okay? Solo questo dovrebbe farti capire quanto poco tu ti possa fidare di lui» confessa infine, mentre me lo immagino passarsi una mano sul viso.

Quindi il battibecco ha avuto inizio per causa sua?
«Che ha fatto?» colgo l'occasione e il momento di apparente calma per chiederglielo, per capire, per avere abbastanza informazioni per poter pianificare una possibile pace. Jace però è lungimirante e sicuramente più accorto di me.

«Nulla che ti debba interessare» sbotta, tagliando subito il discorso, anche se io vorrei saperne di più. Fa una pausa breve, poi riprende: «Ad ogni modo, ti voglio lontana da lui fino a quando non parleremo della questione di persona, mi hai sentito?»

«Et si je ne voulais pas rester loin de lui?» uno stuolo di brividi mi riempie il corpo mentre oso fare quella domanda, mentre sfido il suo volere.

«Come, scusa?»
«Tu as entendu. Je ne pense pas que je veux rester loin de lui... en bref, tout à coup, j'ai la chance d'être avec le gars que j'aime et je ne pense pas que je veux abandonner cette opportunité» confesso tutto d'un fiato, sentendo il cuore accelerare e le guance farsi bollenti alla sola idea di averlo finalmente detto ad alta voce.

Ma mio fratello pare cogliere solo ciò che desidera: «Ti ha toccata?»

«Che? No! No, te l'ho già detto. Jace, io... okay, voi avete litigato, ma ciò non toglie che io voglia bene a entrambi, okay? Tu sei mio fratello, ma...» mi fermo qualche istante, alzando lo sguardo verso la porta chiusa e cercando di farmi forza e decidere una volta per tutte come gestire questa situazione. Seppur all'inizio mi abbia preoccupata la sua gelosia al The Elder and the Moon, non posso negare di essermene compiaciuta, così come non posso mentire di fronte al fatto che i suoi baci mi siano piaciuti dal primo all'ultimo; hanno la capacità di farmi sentire un tripudio di sensazioni che riempiono il cuore quasi fino a farlo scoppiare. E Seth mi fa tremare in quel modo estraneo e giusto, in quel modo che per ora è solo suo - e non voglio rinunciarvi: «Je suis amoureuse de lui depuis des années» sentenzio con più decisione di quello che mi sarei aspettata.

«Ma lui non ti ama» sbotta ancora, forte di una convinzione che io non capisco.
«Come fai a dirlo?»

«Appunto perché non ho una singola certezza a confutare la cosa, lo dico» il suo tono sale ancora, mi ferisce il timpano: «Quindi finchè non ne parliamo di persona, se lui ti sfiora gliene farò pentire» e a seguire, solo il suono della chiamata terminata.

Perchè non vuole accettare la cosa? Perché non vuole dargli fiducia? Perchè è così difficile credere che io possa valer più di un soldo di cacio?

 

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Capitolo 18
*** Chapert 17: I'll fight for you ***




§ I'll fight for you §
 

Cos years have passed and things have changed
I move anyway I wanna go
And I'll never forget the feeling I got
When I heard that you'd got home

An' I'll never forget the smile on my face
Cos I knew where you would be
An' if you're in The Crown tonight have a drink on me
But go easy, step lightly, stay free

The Clash - Stay Free

 

Svegliarmi qui, nel profumo avvolgente di Seth, è qualcosa a cui mi piacerebbe abituarmi. Respirare la sua presenza, seppur momentaneamente assente, è molto più piacevole di come me lo ero sempre immaginata e, coccolata dal suono lontano delle corde di una chitarra acustica, potrei decidere di non andar mai via.
Sarebbe bello poter restare sospesa in questo momento per sempre.
Vorrei che tutto il mondo fuori da questo appartamento si dimenticasse di noi, lasciandoci godere questa prima sera passata nello stesso spazio, consci di un sentimento che non avrei mai creduto possibile.

Con un mugolio mi strofino gli occhi, cercando di abituarmi alla luce nettamente più intensa di quando mi sono rimessa a letto; credo fosse passata poco più di una mezz'ora dalla chiamata di Jace, ma dopo ciò che ci siamo detti ho avuto tutto tranne che la forza di sopportare i pensieri in solitudine. Ho preferito tornare sotto le coperte, stringermi al cuscino e soffocare le paure finché, alla fine, la stanchezza non ha avuto la meglio su di me.
Scivolo fuori dalle coperte con un sospiro pesante, colmo di una frustrazione che devo assolutamente strapparmi di dosso e, poi, mi volto in direzione della porta. La melodia che entra dagli spifferi è dolce, lenta e confortante, tanto da strapparmi un sorriso.

Seth deve essersi svegliato di buon umore, a differenza mia. Non suona quasi mai, anche se lui e Charlie hanno seguito lo stesso corso di musica, da ragazzini, ottenendo ottimi risultati che però non hanno condotto da nessuna parte. C'era stato un periodo, quando io ero ancora alle prese con il primo anno di medie, in cui avevano deciso di formare una band rock - il progetto era fallito un anno e mezzo dopo, quando il vocalist che avevano trovato dopo settimane di ricerche se ne era andato a causa di una proposta migliore. Da quel giorno avevo visto Morgenstern suonare sempre meno, se non in sporadiche occasioni in cui Benton era riuscito a persuaderlo o, ancor meno, quando scendeva dal letto con il piede giusto - e inesorabilmente abbasso lo sguardo sui miei, a penzoloni oltre il materasso. Quale sarà quello giusto? Vorrei tanto poter far sì che questa giornata diventi migliore, visto il modo in cui è iniziata.

L'ennesimo sospiro mi si riversa fuori dalle labbra e, d'un tratto, anche i suoni che hanno accompagnato il mio risveglio si dissipano, facendomi corrugare le sopracciglia. Che si sia stufato?

Ignorando le scaramanzie mi lascio trasportare dalle gambe fino alla porta e, qui, apro piano l'anta che ha preservato la riservatezza della conversazione avuta con Jace, provando a sbirciare - non vorrei mai disturbare la sua routine quotidiana.
Così lo cerco con lo sguardo, spingendo il viso contro il profilo dello stipite. In qualche angolo recondito di me vorrei spiarlo, assaporare il suo vivere solitario, ma allo stesso modo vorrei diventarne parte, essere un elemento fondamentale dei suoi giorni. E' stato per così tanto tempo un miraggio nel deserto della mia vita sentimentale e ora che si è fatto meno effimero, temo di scoprirmi invece con sabbia tra le mani.

Trattengo il respiro, facendo scivolare l'attenzione dalla porta d'ingresso all'attaccapanni, poi lungo lo spazio che porta al bagno, finendo infine nell'area dedicata al salotto, dove lo scopro appollaiato sulla poltrona in pelle. La sigaretta gli penzola dalle labbra, minacciando di far cadere la cenere a terra da un momento all'altro, combinando così un pasticcio. Seth però non se ne accorge, troppo occupato a fare altro per degnarsi di scampare un simile pericolo. Tiene la chitarra stretta tra le mani mentre prova ad accordare una chiave che deve essersi allentata. Ogni tanto pizzica dolcemente la corda, cercando di capire se il suono sia perfetto o abbia ancora bisogno di qualche aggiustatina e, nel farlo, corruga ogni volta le sopracciglia.
Dietro alla cassa armonica, il suo petto nudo mostra i lasciti di un tatuatore a cui da anni ha affidato il proprio corpo. C'è una scritta che inizia da una spalla e finisce sull'altra, una citazione tratta da una delle sue canzoni preferite, Stay Free dei The Clash, e poco sotto ad essa, una piovra va dal costato all'anca, anche se nella posizione in cui sono ora riesco a scorgerla solo in parte - ma la conosco, quindi immaginare come sia piegata su se stessa è un'azione involontaria.
Ogni giornata in piscina, al lago o al mare, ogni pomeriggio estivo troppo caldo mi hanno permesso di scoprirla un po' di più, di imprimermi nella memoria quelle linee d'inchiostro scuro che ora mi sono nascoste. E forse, volerle scorgere mi spinge ad aprire ancora un po' l'anta, permettendo a Seth di accorgersi della mia presenza. 

I suoi occhi saettano verso la camera da letto, incontrandomi. Resta fermo in una strana forma di contemplazione per alcuni istanti, quasi cercando di capire se sia vera o frutto della sua immaginazione. Probabilmente si starà chiedendo cosa ci faccia (ancora) qui, magari ieri sera non ero la sola ad aver concesso all'alcol di annebbiare un poco la mente, ma prima che l'ansia generata da questi pensieri possa prendermi per la gola, lui posa la chitarra accanto alla poltrona, invitandomi a raggiungerlo con un sorriso.
Muovo qualche passo incerto, riempiendo il silenzio che ci ha avvolti con un buongiorno roco, ancora assonnato. Mi faccio spazio sul divano accanto a Morgenstern, tirandomi sulle gambe il plaid abbandonato sopra al poggiabraccio - anche se mi ha prestato qualcosa per la notte, i miei stinchi non sembrano essere sufficientemente coperti.

«Hai dormito bene?»

Annuisco, evitando così di dover mentire - anche se solo in parte.
Il mio riposo sarebbe stato perfetto se né le ansie, né la chiamata di Jace lo avessero turbato, ma a Seth non posso certamente dirlo, non apertamente, quantomeno.

Mi mordo il labbro, spostando lo sguardo sulla coda pelosa di Chucky, spuntanto da chissà quale angolo della casa: «Tu invece? Il divano è comodo quanto il tuo letto?» chiedo poi, cercando di intraprendere una normalissima conversazione; dopotutto non ho idea di cosa dire o fare, vista la situazione. Avrei dovuto salutarlo con un bacio? Oppure mi sarei dovuta offrire di preparare il caffè?

Seth tende maliziosamente un angolo della bocca, forse preparando una delle sue battute imbarazzanti.
«Non proprio, ma dubito che avresti apprezzato se mi fossi infilato sotto le lenzuola accanto a te, Santa Jane» mi punzecchia, lasciandosi poi andare sullo schienale.
E adesso, vorrei tanto che il torpore del sonno m'impedisse di arrossire, ma purtroppo per me non succede e, in un battito di ciglia, mi ritrovo a sentir le guance farsi bollenti. Mi piacerebbe dire che tanto sgomento sia per via dell'allusione alla castità per cui mi prende in giro da anni, ma la realtà dei fatti è che l'imbarazzo è dovuto al fatto che, inconsciamente, ha sfiorato un desiderio che avrei davvero voluto diventasse realtà.
Addormentarmi e svegliarmi accanto a lui è qualcosa che ho sperato più volte potesse accadere, soprattutto nei primi tempi, quando la mia mente non era ancora stata assuefatta dagli ormoni. M'immaginavo il nostro primo bacio contornato da rose e luccichii improbabili, come spesso accade nei cartoni animati e, poi, il passo successivo è stato il sognare di svegliarci nel medesimo letto.

Mi copro il viso con le mani, cercando di nascondere la reazione del corpo alle sue parole: «Scemo!» biascico, non avendo altra idea di come difendermi. Già una volta il mio tentativo di fuga dal suo appartamento è stato malamente sventato dalla vicina, ora vorrei evitarmi un'altra figuraccia, soprattutto visti i progressi ottenuti.
Sbircio tra le dita, cercando di capire se abbia intuito qualcosa, ma quando i nostri sguardi s'incrociano, scorgo nel suo meno brio di quanto mi sarei immaginata. Seth ama prendermi in giro, eppure al momento sembra occupato a pensare ad altro. Forse sta davvero cambiando idea su ciò che ci siamo detti.

«Ti ho sentita parlare, verso le sette» afferma tutto d'un tratto, spiazzandomi.

Oh.

«Suppongo con Jace, visti i commenti in francese» aggiunge dopo qualche secondo, facendomi saltare il cuore in gola.
Ero certa stesse dormendo, sicura di aver tutto sotto controllo, ma invece come al solito ho fatto l'ennesima gaffe con cui dovrò fare i conti - e per ora non riesco nemmeno a immaginare quali potrebbero essere.

Schiudo le labbra, cercando di trovare qualcosa da dire, ma a parte un "sì" sussurrato non trovo altre parole.

Morgenstern si morde il labbro, poi con una mano si ravviva la chioma: «Ascolta, non ho idea di cosa vi siate detti, ma credo che l'intento fosse quello, vista la premura nell'usare un'altra lingua, però voglio dirti una cosa, Jay. Non farò mai nulla per ferirti, chiaro? E non mi azzarderò a costringerti a fare ciò che non vuoi, anche se tuo fratello può credere il contrario» ora si sporge verso di me, inchiodando i suoi occhi nei miei. Resta immobile per qualche istante, forse aspettando una qualche reazione e, quando vede che non ve ne è nessuna in arrivo, mi afferra una mano: «Non c'è alcun secondo fine e, se serve, glielo dirò anche a Jace faccia a faccia».

Perchè, quando mi guarda così, mi viene impossibile credere che possa essere capace di mentire?



 

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Capitolo 19
*** Chapter 18: Please, be careful ***




§ Please, be careful §
 

Happiness hit her like a bullet in the back
Struck from a great height

By someone who should know better than that

Dog days are over, Florence+The Machine

 

Con la testa di Caro appoggiata alla spalla, in una posizione tutt'altro che comoda, mi ritrovo a girare l'ennesima pagina di un libro preso a casaccio sullo scaffale dei nuovi arrivi. Sto leggendo nel tono più basso che sia possibile tenere in biblioteca, anche se oltre a noi c'è solo la vecchia receptionist che, ad occhio, pare essersi allontanata per un'altra tazza di tè, forse dimenticandosi della nostra presenza.

La mia amica, perchè ormai si può ufficialmente definire tale, passa le sue lunghe unghie color canarino sull'avambraccio con cui sorreggo il tomo, accarezzandomi e al contempo facendomi capire di essere ancora sveglia. Ascolta in silenzio, passando gli occhi sulle parole che la mia voce pronuncia, rapita più di quanto mi aspettassi dalla narrazione. Ogni tanto, il moto ondulatorio della sua mano si interrompe, facendomi rallentare quando resta indietro, poi riprende quando nuovamente ci ritroviamo allo stesso punto - ed è piacevole. Più che il fatto di venir coccolata, la sua presenza qui, accanto a me. In un momento di tale tumulto come è questo primo periodo di uscite con Seth, silenzio con Jace e assenteismo di Charlie, lei è una sorta di roccaforte in cui trovare conforto dalle intemperie.
Ci sono occasioni, come questa, in cui mi piacerebbe confessarglielo. Vorrei girarmi e dirle grazie per il sostegno che mi sta dando, anche se è ancora ignara di gran parte delle questioni che mi ruotano attorno.

D'improvviso le sue dita si allontanano dalla mia pelle e con la coda dell'occhio vedo la mano levarsi pigramente verso l'alto. Quando fermo la lettura per guardarla meglio e capire cosa la stia distraendo, noto i suoi occhi persi sul display del telefono che ha di fronte. Esamina con minuzia un messaggio che fatico a scorgere, quasi vi siano sopra le istruzioni per conquistare il mondo e, prima che possa riuscire a identificare anche solo mezza frase, lei chiude la chat e si rimette composta.

«Non abbiamo programmi per dopo, vero?» Nella sua espressione posso chiaramente scorgere una sorta di ansiosa eccitazione, una fretta che fino a questo momento ci aveva lasciate annegare nella pigrizia di un post-lezione assai tranquillo, fatto di moquette blu, profumo di carta stampata e parole sussurrate piano alle orecchie del vicino. Sembra quasi essersi improvvisamente risvegliata da un lieve dormiveglia e, sinceramente, la cosa mi preoccupa.

«Non ufficialmente, no» confusa, le do conferma di essere libera da qualsiasi ipotetico piano con la sottoscritta, cosa che le fa sorgere sulle labbra un enorme sorriso. I suoi occhi si fanno luminosi, le sue guance rosee e, d'un tratto, mi afferra una mano tra le sue, comprimendola tra carne e vari componenti tecnologici.

«Quindi è un problema se vado via?»

Oh! Questa domanda mi prende in contropiede, aizzando uno strano senso di smarrimento. Seppur non avessimo organizzato nulla per oggi, mi sarei aspettata di passare il pomeriggio insieme. Avrei letto ancora qualche paragrafo, proposto una merenda in qualche caffè nei dintorni e poi una passeggiata verso mete sconosciute fino all'ora di cena - un programma semplice, nulla di troppo impegnativo. Mi avrebbe fatto piacere restare con lei ancora qualche ora, soprattutto perché Seth è impegnato, Jace arrabbiato e Charlie... beh, lui ha risposto a spizzichi e bocconi a qualsiasi messaggio gli abbia inviato fino a stamattina. Non pare incattivito da qualcosa, solo assente, come se all'infuori di me ci fossero decine di cose e persone più interessanti; insomma, Caroline è stata la mia unica salvezza dalla noia in questi giorni, nonché un'ottima compagnia - farla andare via mi lascerebbe in balìa di una solitudine che quasi mi fa paura.

Però non posso obbligarla a restare, in particolare vista la smania nei suoi occhi.

«No, assolutamente» abbozzo un sorriso, fingendo di non essere rattristata dalla sua richiesta, anche se in realtà vorrei fingere che non me l'avesse mai chiesto. Persino dopo poche settimane sto sviluppando per lei qualcosa di simile alla gelosia che provo per Benton e, il fatto di saperli entrambi lontani, mi stringe il cuore.

Possibile che non riesca a fare i conti con me stessa e la solitudine?

«Davvero?» il sorriso che le spunta in viso è immenso: «Jay, saresti l'amica migliore del mondo!» Afferma stringendosi al mio collo con eccessivo impeto. Si strizza e strofina la guancia contro la mia, ripetendo "grazie" all'infinito - e nell'insieme, questa sua reazione spazza via ogni dubbio sortomi, confondendomi ancora di più. Credo che sia dalle elementari che un'altra ragazza non mi abbracciava con tanto entusiasmo, ma se in quell'occasione c'era di mezzo un giocattolino acquistato per un penny, ora si tratta solo di spontanea contentezza.

Ridacchio, improvvisamente meno tesa all'idea di vederla andar via: «Ma almeno mi dici di che si tratta?»
«Di chi vuoi che si tratti?» sbuffa ironicamente, iniziando a raccattare tutte le sue cose. Alle volte Caro sembra proprio una bambina: fa le smorfie, poi si lascia travolgere dalle emozioni. Si circonda di dolciumi da mangiare in sordina tra una lezione e quella successiva, nasconde le sigarette tra le tette che non ha per non far scoprire a sua madre il vizio che ha da anni e, quando vuole qualcosa, sbatte le sue lunghe ciglia sfoderando gli occhioni da cerbiatta. E' allegra, una ventata d'aria fresca in queste giornate ancora grigie. «Della persona di giovedì!» Il suo tono fa vibrare l'aria, mentre le guance le si fanno ancora più rosse. Mi strizza l'occhio con complicità, infilandosi subito dopo lo zaino in spalla.

«Allora vi state vedendo?»
«Ovvio, è la terza uscita».

Riluttante all'idea di abbandonare la moquette tiepida, inizio a rassettare a mia volta, abbandonando il libro sul tavolo accanto: «E quanto pensavi di dirmelo?» domando aggrottando la fronte, ignara di quando la mia amica abbia trovato il tempo per vedere questa persona. Tra scuola, studio, le sue lezioni di nuoto, il volontariato e le nostre uscite fatico a credere che riesca a ritagliarsi del tempo anche per conoscere un'altra persona, eppure ecco che mi svela di averlo fatto..
«Non sarà mica un vecchio?» la punzecchio, quasi provando a sottolineare quanto abbia tenuto segreta la questione e quanto ciò la renda sospetta.

«In effetti i brizzolati hanno il loro fascino...»
«Il preside Williams deve essere nel tuo Pantheon, allora!»

Caroline sgrana gli occhi, mentre la sua espressione si tramuta in una maschera di ribrezzo: «Owh! Non farmici pensare! Quell'uomo è la cosa peggiore che mi sia capitata davanti da quando sono qui» afferma scuotendo la testa, forse nel vago tentativo di scrollarsi di dosso l'immagine di una persona che, purtroppo, è diventato un incubo condiviso. E più lei prova a liberarsi la mente da colui che ho citato, più fatico a trattenere le risate.

***

Dopo aver accompagnato Caro alla fermata della metro più vicina mi sono ritrovata sola con il vento gelido di Febbraio a sfiorarmi ovunque. Così la pelle d'oca ha fatto capolino sotto le collant spesse, portando il freddo ad appiccicarsi a qualsiasi osso del mio corpo, raggelando persino il sangue.
Nonostante sia quasi il diciottesimo inverno londinese che affronto, non posso impedirmi d'iniziare a tremare, stringendomi nelle spalle nel tentativo di racimolare un po' di latente calore. L'umidità pare attaccarsi con veemenza ad ogni indumento che indosso, per non parlare del modo in cui fastidiosamente prova a minacciarmi con l'ombra di un'imminente influenza - e inesorabilmente mi ritrovo a chiedermi cosa sia meglio fare per evitare sia questa eventualità, sia la compagnia di Catherine che evito con cura da giorni, visto il suo rinnovato interesse per la visita di Seth a casa nostra.

Non che sia una novità, certo, dopotutto lo ha visto lì già decine di altre volte, ma ciò che l'ha insospettita è stata l'assenza di Charlie al suo fianco; non è mai capitato che venisse a trovarmi in solitaria, ma certamente non posso, né voglio, dirle la verità - sono già sufficienti i commentini indiscreti e riprovevoli di Josephine a condire la mia routine.

Ed è proprio ricordando questa situazione che, d'un tratto, mi viene in mente un modo per sottrarmi al freddo e obbligare Benton a darmi segni di vita: passare in negozio. Già, perché dal punto in cui mi trovo ora, poco più in là dei cancelli della scuola, ci vorranno si e no una ventina di minuti a piedi, una distanza abbastanza ragionevole da essere percorsa - soprattutto per lui. Trovandomi di fronte al bancone della cassa non potrà certo evitarmi o fingere indifferenza, no? Sarà obbligato a prestarmi attenzione e spiegare il motivo di questo suo atteggiamento!

Così, armandomi di convinzione e rinnovata lena, giro i tacchi sul marciapiede ghiacciato iniziando a compiere le prime falcate verso l'Hard Disk Shop, quel luogo mistico in cui la passione di un capellone per la musica hard rock anni '80 ha dato vita a un negozio di vinili, cd e gadget vari a tema in cui Charlie si è accaparrato il ruolo di commesso a suon di confronti e acquisti di nicchia. Già il giorno dopo aver concluso il liceo si è ritrovato lì a smistare ordinazioni e consultare cataloghi, dimostrando al suo datore di lavoro quanto ci tenesse a collaborare a un progetto del genere.

Avanzo veloce, curando però con attenzione in che punto dell'asfalto mettere il passo successivo, in modo da evitarmi rovinose cadute. Attraverso strade e attendo semafori, nascondendo quanto più possibile il viso nella sciarpa colorata.

Tra le strade del Brent il via vai è quello di sempre; i passanti non temono il freddo, camminando nell'aria gelida come se nulla fosse e, più li guardo, vestiti con qualche strato di stoffa in meno della sottoscritta, più la pelle d'oca si fa intensa - così accelero, sperando di arrivare il prima possibile nel tepore del negozio e scrollarmi di dosso questa terribile sensazione.

Il cielo grigio minaccia altra pioggia, forse persino neve, ed io non ho con me né un indumento con il cappuccio nè un ombrello sotto cui ripararmi - non che sia una novità, anzi. Questa è l'ennesima testimonianza contro il mio istinto di autoconservazione e, se davvero voglio evitarmi un qualche malanno, ho bisogno di affrettare ancora di più l'andamento.
Così, quelli che sarebbero dovuti essere venti minuti di tragitto, diventano inesorabilmente quindici e, poco prima dello scoccare delle quattro del pomeriggio, mi ritrovo di fronte alle piccole vetrine dagli infissi di legno, luci calde e una variegata esposizione di vinili dalle copertine colorate. Quelli vintage si mischiano a biografie dei loro compositori o toppe da attaccare a giacche, zaini o indumenti vari, mentre quelli più recenti a poster e t-shirt freschi di stampa.

Un lieve alone di condensa contorna i bordi del vetro, preannunciando un calore fin troppo allettante al momento, ma prima di entrare mi avvicino con circospezione e, in punta di piedi, sbircio all'interno.

Catherine non mi ha fatto il dono dell'altezza, anzi, dubito mi abbia graziata con qualsiasi cosa - probabilmente perché le scorte di pregi erano finite con la venuta al mondo di Jace -, eppure cerco di fare del mio metro e settanta eccessivamente scarso un buon uso.

Con il cuore stretto in una morsa lieve schiaccio il naso contro la vetrina, pregando che non abbia cambiato turno e fattomi così fare strada inutile.

Dentro, a parte per un ragazzo immerso nell'ascolto di qualche album appena arrivato, scorgo Benton seduto dietro al bancone. Ha la schiena curva e rivolta nella mia direzione, quasi fosse incupito e, dal modo in cui il suo corpo se ne sta fermo, deduco non stia nemmeno prestando attenzione alla rivista che ha sulle ginocchia.
Strano. Terribilmente inusuale per lui.
Charlie è fatto di sorrisi e battute sciocche, di calore che ha il sapore delle giornate estive; si lascia andare alle emozioni con allegria e anche quando è arrabbiato conserva sempre quella sua innata propensione all'attirare a sé le persone - ma adesso non pare molto simile al ricordo che ho di lui, è mogio e, per questo, d'istinto le mie gambe si muovono verso l'ingresso. Mi dà fastidio vederlo così. Ho la necessità di entrare e strappargli un sorriso.

Così sulla soglia non esito nemmeno per un istante, certa di star facendo la cosa migliore per entrambi. 
Ricorrendo a muscoli inesistenti spingo l'enorme porta che fa tintinnare la campanellina appesa all'architrave, attirando in questo modo le attenzioni dell'unico commesso presente: il mio migliore amico.
Le sue sopracciglia si corrugano, mentre negli occhi gli passa una scintilla di confusione e inaspettata sorpresa, un mix che, per un solo istante, mi fa titubare.


«Jay...?»

Sembra quasi abbia visto un'apparizione, una sorta di fantasma - e in effetti, se non fosse stato per la mia visita a casa sua, la nostra amicizia nelle ultime settimane si sarebbe limitata a qualche messaggino e tag sui social.

Scopro il viso dall'enorme sciarpa a righe,sorrido e mi avvicino a lui quasi gongolando, ma la cosa pare non cambiare la situazione.
«Stai cercando Seth? E' appena andato via...» voltandosi appena, mi indica con il pollice la strada, quasi a volermi mostrare la direzione in cui è andato: ma perché Morgenstern era qui? E soprattutto, perché Charlie dovrebbe credere che sono venuta sino all'Hard Disk per qualcuno che non è lui? Venirlo a trovare in negozio è una sorta di consuetudine, da quando ha iniziato a lavorar qui è successo decine e decine di volte - perché mai dovrei cercare qualcun altro?


I miei piedi si fermano in prossimità della cassa: «In realtà no...» confesso: «sono qui per vedere se eri ancora vivo» nuovamente abbozzo un sorriso e la cosa pare sorprenderlo.

«Oh!» gli sfugge dalle labbra, mentre d'un tratto la sua espressione si rasserena, tranquillizzandomi. Finalmente l'ombra della tristezza in cui si stava crogiolando fino a qualche minuto fa pare iniziare a dissiparsi. 
«Cioè... cavolo, scusa, io pensavo...»
Rido di fronte al suo imbarazzo, al modo in cui cerca di mettere insieme una frase di senso compiuto, una giustificazione: «Pensavi che? Guarda che siete entrambi miei amici!»

Nuovamente si stupisce di qualcosa: «Amici?»
«Sì... perché? Non lo siamo?»

Ora quella confusa sono io. Cosa ho detto di strano? Mi sono forse persa qualcosa?

Lui mi fissa, sta chiaramente indagando ogni connotato del mio viso alla ricerca di qualcosa e, più tempo passa, più l'ansia mi stringe lo stomaco.

«Tu ed io per certo, ma se lo è anche lui credo che dobbiate parlare» afferma d'improvviso tirando un sorriso nervoso.
«Che vuoi dire?»
«Dai, Jay. Non sono fare la finta tonta».

Ma qui non sto mentendo, fatico veramente a capire la situazione - o forse ho paura di farlo.

«Non lo faccio».

Benton si alza, gira attorno al bancone per poi appoggiarcisi con il sedere. Adesso è vicino, tanto quanto mi piace che sia; a separarci non c'è nulla più che qualche centimetro di vuoto e la sua presenza mi dà una lieve parvenza di calma. Chi è intimorito, arrabbiato o deluso non si avvicina, resta lontano, fa sentire l'assenza di qualcosa - ma se lui è qui non ho nulla da temere. 
Mi guarda ancora, poi scuote la testa facendo una mezza risata: «Quindi non sai che Seth è passato di qui per dirmi della vostra... relazione

E la gola, d'improvviso, si secca.

Cosa ha fatto?

Se una parte di me inizia a gioire per il fatto che "abbiamo una relazione", l'altra, la più grande, improvvisamente si sente sopraffare dagli eventi e le loro conseguenze. Già, perchè Morgenstern doveva prima chiedermelo, aspettare, confrontarsi sul come e a chi dirlo - Charlie è sì, amico di entrambi, ma nella faida creatasi sta dalla parte di mio fratello e ciò comporta più danni di quelli che vorrei. E al momento preferirei evitare ulteriori drammi o visi lividi.

Un tremore mi scuote, ma quasi a prevederlo Benton mi prende la mani e mi tira a sé in un abbraccio caldo, accomodante. Il suo profumo mi inebria, cercando di scacciare le paure.

Sento il suo corpo premersi contro il mio, cerca di sostenerlo. Con una mano mi tiene la nuca e, incurante dell'unico cliente, si lascia andare all'affetto: «So che sei preoccupata per Jace» sibila, dimostrando quanto bene mi conosca.

«Secondo te mi ammazza?» Strofino il viso sul suo petto, rischiando di rovinargli la camicia di flanella con il mascara - così, se scampo a mio fratello, sarà Molly colei che dovrò temere.

Charlie fa passare le dita tra i miei capelli, accarezzandomi dolcemente: «E' più probabile che ammazzi Seth» mi rincuora poi, o quantomeno ci prova. In effetti, Jace ha già dimostrato di essere pronto allo scontro quando si tratta di lui, non dubito possa nuovamente cercare di spaccargli il naso.

«L'importante è che tu sia felice, Jay. E che lui ti tratti bene. Non sentirti costretta a fare nulla» le sue parole suonano come quelle di un fratello e in effetti, se non fosse per pochi dettagli, potrei quasi definirlo tale, ma nel suo tono, anche se nolente, riesco a percepire la nota stonata della disapprovazione. Dopotutto, seppur non lo abbia detto espressamente, è d'accordo con Jace sul fatto che Seth sia un ottimo amico ma un pessimo spasimante - ed io, la loro mascotte, dovrei evitare di mettermi in simili guai, in fin dei conti dubito che il suo cuore possa rompersi a causa mia.

Ma viceversa, sì.


 

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Capitolo 20
*** Chapter 19: Broken Hopes Sounds like Bass Drum (part one) ***




§ Broken Hopes Sounds like Bass Drum - Part One §
 

Oh lovely and beautiful
Precious and priceless
You're so much more than you know
Heart of the purest gold
Pure clean and white snow

Set apart this dream - Flyleaf

 

Alle pareti ci sono delle foto. Incorniciate con minuziosa attenzione e appese tutt'intorno al caminetto ci sono alcune delle mie opere migliori e peggiori, scatti rubati durante allenamenti, gare, concerti, gite e pomeriggi di placida nullafacenza. Sono tutti lì - o quantomeno ce ne sono parecchi - mischiati a ritratti di famiglia e d'infanzia. Molly Benton ha decorato ogni centimetro del salottino con immagini di ciò che la rende felice: e Charlie, con i suoi pro e contro, è sicuramente la cosa che più ama.

Se un lato di me è lusingato nel vedere tanto apprezzamento per fotografie che non avrei mai creduto valide, un altro è tremendamente in imbarazzo. Solo ora, guardando la composizione d'insieme, mi rendo conto di quanti momenti ho immortalato e di quanti sorrisi ho rubato al mio migliore amico. Ci sono inquadrature di ogni tipo e altrettante, se non di più, sono nascoste nella memoria del mio hard-disk. Avrò usato per lui decine di sim card, mentre a Seth ho sempre e solo concesso qualche fugace click per paura che sentisse su di sé l'intensità del mio sguardo. Temevo che avvertisse il bruciante desiderio che ho di lui, che ne fosse infastidito o schifato. Ad ogni modo, nel tempo sono riuscita a collezionare anche per lui una discreta galleria, ma la maggior parte sono foto di gruppo e se confrontate con quelle in cui c'è Charlie non vi è alcun paragone.

«Scusa il disordine, cara. Oggi non ho proprio avuto tempo di rassettare» Molly entra nella stanza portando con sé un vassoio a fiori su cui svettano due tazze di cioccolata calda dal profumo fin troppo allettante. Il sorriso le gonfia le guance, rendendo gli occhi poco più di due fessure - è il ritratto della salute e dell'abbondanza da quando ha compiuto quarantotto anni e la menopausa ha preso prematuramente a minacciarla.


Prima che possa aprir bocca per negare la presenza di questo famigerato "disordine", la donna corruga le sopracciglia guardandosi attorno: «Non è ancora sceso?» mi domanda poi, accorgendosi dell'assenza del figlio.
Scuoto la testa e abbozzo un sorriso: «No» le confermo poi, ormai rassegnata all'idea che la doccia di Benton non sia descrivibile con aggettivi quali "breve" o "veloce". Si gode ogni istante e, per questo, la maggior parte delle volte i suoi amici si ritrovano ad attenderlo per interminabili minuti; solo il lavoro, o un concerto che ha atteso con impazienza, riescono a mettergli fretta.

«Santi numi! Quanto ci vuole a lavarsi due braccia e due chiappe?» Bofonchia appoggiando il vassoio: «Avesse un po' di ciccia almeno! Nemmeno quella! E' tutto muscoletti e pelle». 
Già, purtroppo lo è, mi ritrovo a pensare con una certa riluttanza. Alle volte vorrei negare l'evidente condizione fisica in cui mio fratello e i suoi amici si trovano, in modo da non sentirmi inferiore, ma tra corse mattutine di gruppo, qualche ora in palestra o allenandosi allo skate-park, tutti e tre possono vantare figure asciutte e longilinee come quelle dei veri bellocci. Solo alle elementari e nei primi anni di medie posso dire di averli visti con qualche chilo in più.
Così, mordendomi la lingua prima di aprir bocca, cerco di spezzare una lancia a favore della questione: «Vedila in positivo, Molly. Alle ragazze piacciono i tipi secchi come Charlie, soprattutto se profumati!»
Lei trattiene a fatica una smorfia divertita, poi agita la chioma: «Ah, si? E allora come mai non me ne porta mai a casa una? Sarebbe anche ora!»

«Perché sono un bocconcino per palati sopraffini, mammina cara» ed ecco che, con la zazzera biondiccia ancora bagnata, il malcapitato fa la sua apparizione strizzando l'occhio alla donna che lo ha messo al mondo.
«Bocconcino?» gli domanda lei con evidente scetticismo: «Ma se qui non c'è nemmeno un po' di carne!» e prendendolo alla sprovvista gli tira un pizzicotto tanto forte che, guardandolo, mi ritrovo a soffrire anche io. Avverto la pelle stritolarsi, così inesorabilmente strizzo i denti e prego che non ve ne sia un secondo: non sopporterei tanta sofferenza.

Charlie caccia un guaito, si lascia andare con teatralità sul divano dove sono seduta e schiacciandomi inizia recitare un qualche copione inventato al momento, ignorando completamente la macchia d'acqua che si sta creando sui miei jeans.

«Madre! Madre! Come potete far questo al vostro unico figlio? Come potete infliggergli un simile dolore sia nell'orgoglio che nel fisico? Non vi sentite un mostro a percuoterlo con cotanta violenza?» Ma lei nemmeno lo degna di uno sguardo; a passo lento si fa strada verso la cucina, lì dove l'attende l'ennesima deliziosa ricetta a cui mi auguro di non dover rinunciare. Le mie papille gustative necessitano clemenza dai piatti immondi di Catherine!

Entrambi ridiamo, ci lasciamo cogliere dall'armonia e naturalezza con cui il tempo insieme si riempie e, senza nemmeno rifletterci, gli scosto una ciocca umida dalla fronte, liberandogli gli occhi. E' un gesto innocente, del tutto privo di malizia, eppure mi rendo conto non essere realmente adatto al momento - solo ieri abbiamo "fatto pace" e sempre in quella circostanza gli ho confermato la mia relazione con Seth; forse, viste tutte queste dinamiche, dovrei contenermi dal trattarlo con tanta amorevolezza, eppure più me lo ripeto, più mi vien difficile credere di poterlo fare.
D'improvviso l'azzurro delle sue iridi si fissa sul mio viso e l'imbarazzo non tarda ad arrivare, dandomi prova che, almeno per lui, le circostanze non sono ancora delineate a tal punto da permettermi simili comportamenti - in fin dei conti, anche se non lo ha ancora ammesso, so benissimo che non apprezza questa situazione e che, se non mi volesse bene, mi esorterebbe a rinunciare a Morgenstern prima di commettere una qualche sciocchezza.

Si bagna le labbra, poi lancia uno sguardo fugace verso il corridoio, probabilmente assicurandosi che non vi siano le orecchie indiscrete di Molly a udire qualsiasi parola esca dalle nostre bocche, e infine torna a fissarmi: «A lui va bene che tu sia qui?»
Corrugo le sopracciglia: «Perchè non dovrebbe?» Le mie dita sono ancora appoggiate sulla sua pelle calda, eccessivamente scottante a causa della doccia appena finita, solo che dalla tempia si sono spostate in prossimità del collo, qui dove avverto appena appena il suo battito farsi svelto.
«Perché state insieme, Jay. Sei la sua ragazza ora, no?»

Cosa sono per Seth è ancora qualcosa d'indefinito, soprattutto visto che non ne abbiamo parlato apertamente e non ho idea di che fine abbia fatto Sharon, quella che, per quanto ne so, è l'ultima a essersi potuta definire tale. 
Già, e chissà come l'avrà fatta infuriare questa notizia - sempre se le è stata comunicata; dopotutto mi ha vista intorno al suo uomo da sempre e per tutto il tempo in cui sono stati insieme io sono parsa tutto, tranne che una minaccia alla sua idilliaca quanto fittizia storia d'amore, fatta di tradimenti e belle apparenze.

«Non capisco quale sia il problema» confesso, iniziando però ad allontanare la mente dal presente. La conversazione d'un tratto mi appare meno importante, c'è altro a richiamare a sé la mia attenzione, qualcuno che mi rendo conto essere sparito dalla circolazione con fin troppa facilità - un dettaglio assai stridente con il suo carattere possessivo. Sharon infatti diventa un cane rabbioso quando le si tocca ciò che decreta proprio e io, con questa sorta di tresca con il suo "ex", non sto facendo altro che aizzare la sua territorialità - però lei non reagisce, forse ignara di qualsiasi cosa stia accadendo tra me e lui. Ma qualcosa non mi torna. Possibile che sia davvero così? Oppure, è possibile che si siano nuovamente lasciati e ora finga indifferenza per non mostrare il suo orgoglio ferito? Qualsiasi sia la motivazione, io non la conosco, e più questa consapevolezza si delinea tra i pensieri, più mi rendo conto di dover capire.

«Io, Jay. Questo» mi risponde d'un tratto Charlie, prima indicando il proprio petto e poi ciò che ci circonda: «Non penso gli faccia piacere sapere che sei qui al posto che con lui, men che meno se di mezzo c'è la discussione con Jace». Le sue parole cercano di tenermi ancorata al presente, ma nonostante l'argomento faccio fin troppa fatica a preoccuparmi della questione; inoltre, Benton è un amico, il migliore che sia Morgenstern che io potessimo mai volere: perché passare del tempo sola con lui, come ho fatto negli ultimi dieci anni, dovrebbe essere un problema?

Lo guardo con maggior confusione, azzardando un sorriso: «Dubito che possa credere mi stia coalizzando con mio fratello contro di lui, visti gli ultimi avvenimenti...» e mentre lo faccio presente, avverto il telefono accanto alla coscia vibrare. Una, due, tre volte e, credendo che si tratti di una telefonata, allontano le dita dal collo del ragazzo distesomi sopra e lo afferro, portandomelo di fronte al viso. So che potrebbe risultare irrispettoso, eppure non riesco a fermarmi, soprattutto valutando la possibilità che possa essere una questione urgente - o l'ennesima strigliata di Catherine per qualche ragione a me oscura.
Quando il display si illumina su una foto mia e di Jace, scopro che non vi è alcuna chiamata a reclamare la sottoscritta, solo decine di messaggi da parte di Caro, esasperata per qualcosa che dall'anteprima non riesco a vedere. Così, ignorando le parole che Charlie continua a rivolgermi sull'argomento, sblocco la schermata.
Mentre cerco di seguire il fiume di caratteri inviatomi, qualche suono mi giunge alle orecchie, vago e confuso. Si sta parlando ancora delle possibili paranoie di Seth, del fatto che comunque Benton non si sia realmente schierato con l'uno o con l'altro, anche se trova più ragionevoli le motivazioni di JJ. Credo che ora si stia lamentando di qualcosa e, più il tempo passa, più mi rendo conto che forse dovrei interrompere almeno uno dei due flussi di informazioni. Dovrei dar priorità a solo una delle questioni in cui mi trovo in mezzo, ma non ci riesco - e allora annuisco senza nemmeno capire dove stia volgendo la discussione.

Nei messaggi di Caroline ci sono decine di notizie, ma quella che più di tutte attira la mia attenzione è rivolta alla persona con cui si sta frequentando adesso, a suo avviso "un soggetto eternamente indeciso" a cui non sa se dar fiducia o meno. Ed è proprio la questione della fiducia ad accendere una lampadina tra le mie idee: potrei fare un po' di stalking sui profili social di Sharon, in modo da capire la questione per vie indirette - dopotutto per cosa li hanno inventati a fare, instagram e facebook, se non per intromettersi negli affaracci altrui?
Un paio di colpi allo schermo e in pochi istanti passo dalla chat della mia amica alla schermata iniziale del profilo della mia nemesi, dove decine di selfie e foto degne delle migliori influencer mi riempiono gli occhi con una certa invidia.

«Mi stai ascoltando?» 
Quasi facendomi sussultare, il ragazzo sulle mie gambe mi tira un buffetto, si imbroncia ed io, colta alla sprovvista, ridacchio per coprire l'imbarazzo d'essere quasi stata scoperta. Dubito di saper giustificare ciò che sto facendo.
«Certo! Solo che non penso di dovermi scusare con nessuno se frequento lui e continuo a vedere anche te. Siamo amici, no? Migliori, per quel che ricordo!»

Charlie tira un angolo della bocca, forse facendo un mezzo sorriso. Sicuramente non deve trovarsi completamente d'accordo con me: «Già, perché la tua è una memoria di ferro, vero?» e appena sento il sarcasmo uscirgli di bocca, insieme a una risatina, torno allo spionaggio da cui sono stata distratta: a quanto pare non si è accorto di nulla e questo mi dà la possibilità di concludere la mia personale missione prima di abbandonarla per sempre e tornare a questo pomeriggio di relax.
Mi basta guardare qualche post, niente più, poi potrò mettermi il cuore in pace e godermi la cioccolata insieme a lui. Non ho bisogno di molto, solo delle cose caricate nell'ultimo mese - peccato che lei aggiorni ogni giorno.
E mentre avanzo tra una foto e quella successiva, studiando i tag e le descrizioni, mi dimentico che Benton non ama i silenzi, a lui vanno stretti - così imperterrito riprende a parlare, stavolta cambiando argomento: «Con l'avanzare dell'età però, dubito resti così attiva».
«Sì, in effetti...» rispondo distrattamente, aprendo con estrema attenzione uno dei post risalenti ai giorni in cui Seth si è presentato da me. Nel quadratino c'è l'immagine di due mani che si stringono, quella di lui e quella di lei che mostra con orgoglio un bracciale per cui tutti noi, correndo in aiuto del povero fidanzato smemorato - o forse sarebbe meglio dire "disinteressato" -, avevamo speso ore a girovagare per Londra. E' un ricordo vecchio, risalente almeno a un anno fa, eppure se ne sta tra gli ultimi, accompagnato da una dicitura che mi pare tutto tranne che confortevole. 

"No matter what" - Non importa cosa.
Involontariamente il cuore mi si stringe tanto che temo d'iniziare a star male, di piangere senza alcun apparente motivo. Sento quella frase riecheggiarmi dentro al pari di una minaccia, si trasforma in puntale che infierisce sugli organi indifesi.
Che vorrà dire?, mi chiedo temendo già il peggio.
E quando penso di star perdendo il controllo su me stessa, dal nulla riemerge la voce di Charlie, strappandomi con veemenza da quei pensieri: «... allora, ti va? So che non è chissà che, ma... insomma, ci terrei».

Non ho idea di cosa mi stia chiedendo.
Mentre mi fissa con trepidazione mi rendo conto di non avergli dato alcuna attenzione, troppo occupata a farmi male, eppure lui deve aver finto di non aver notato la mia distrazione - e come minimo per farmi perdonare, visto che è qualcosa a cui tiene, devo dirgli sì.
Quale sia la sua richiesta però, resta un mistero.

«Ovvio! Potrei mai dirti di no?» 

 

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Capitolo 21
*** Chapter 19: Broken hopes sounds like bass drum (part two) ***




 Chapter twenty-first- Part Two:
§ Broken Hopes Sounds like Bass Drum
§

 

"Right now I feel like copping out
Will You hold me up If I just say that I will stay?
I will hold on to this hope that I have
You gave me a promise, You gave me a promise
I'll push through this moment, I'll never give up
You gave me a promise, You gave me a promise
I'm so tired that I can't stand
But I know that time will heal this heart, heal this heart
With every door that's slamming shut
A new one's there to lead me where You are, where You are"

You gave me a promise - Fireflight

 

 

Come ogni anno, anche questa volta Febbraio giunge al termine e, nel farlo, si sofferma su un giorno leggermente più speciale degli altri: il mio diciottesimo compleanno, nonchè il momento in cui, finalmente, anche per lo Stato avrò pieno potere sulla mia vita. Non che nei piani ci sia qualcosa di speciale ad attendermi, certo, ma almeno potrò bere alcolici e fumare sigarette senza che Catherine possa tirare in mezzo il "fattore età".
Ho aspettato questo giorno con fin troppa impazienza e ora, visto che ad aspettarmi non è solo questo nuovo potere decisionale sull'esistenza che mi attende, sono ancora più agitata.

Nonna Josephine, dal basso del mio materasso, mi guarda con circospezione. Osserva ogni dettaglio della sua nipotina preferita quasi fosse un medico che studia la propria sutura e, ogni tanto, giusto per farmi capire d'essere ancora presente, allunga le dita per sistemarmi l'orlo della gonna che pare non voler stare al proprio posto, arricciandosi un poco verso l'interno delle cosce - sarà per questo che nell'armadio ne ho pochissime.
«Hai un sedere strano» bofonchia dopo l'ennesimo tentativo di lisciare la stoffa.
Scrutandola dallo specchio provo a farle notare quanto poco gradito sia quel commento e lei, incurante, continua: «Non riesco a capire se sia un problema di grandezza delle natiche, di forma, o di larghezza dei fianchi...» stavolta prova a tirare, cercando di abbassare la vita e mettere più stoffa tra l'arricciatura e la curva delle mie chiappe.
«Davvero?» Le domando in balìa dello sconvolgimento. Tra tutti i componenti della famiglia lei dovrebbe essere quella più comprensiva e amorevole, invece a conti fatti è solo la più schietta - e con la scusa dell'età avanzata e della possibile incombenza della demenza senile si permette commenti del tutto fuori luogo: «Josephine, ti rendi conto che le nonne dovrebbero sostenere, invece che demoralizzare?» Un commento così demoralizzante me lo sarei aspettato da tutte le donne della famiglia Raven eccetto lei, eppure è l'unica a farne.

Nonna alza il mento e abbassa gli occhiali rossi fin sulla punta del naso, poi, evidentemente confusa cerca di decifrare la mia espressione: «Cosa ho detto di male? Ad alcuni ragazzi il sederone piace. A lui no?»
E l'imbarazzo che mi coglie a questa domanda fa pendant con la sua montatura.

«Non l'hai chiesto veramente...»
«Suvvia, Jaqueline! Conosco Seth da quando aveva appena tolto il pannolino, non sarà quest'informazione a cambiare la mia opinione su di lui!»

Ma appena pronuncia il suo nome mi precipito a tapparle la bocca. Nessuno deve udirlo, soprattutto Liz o mamma: una per via del risentimento sviluppato nei suoi confronti, l'altra per la propensione al pettegolezzo che le farebbe dire tutto a Jace - e per ora è meglio che non sappia che mi vedo con il suo amico-nemico. Josephine, come Charlie, è invece stata messa al corrente di tutto, ma solo a una condizione: nessun accenno della questione con chiunque possa svelarlo a mio fratello.
La esorto a tacere e lei, portando le mani al cielo, bofonchia qualcosa che fatico a comprendere.
«Non dire quel nome» incito mollando la presa e girandomi nuovamente verso lo specchio. Il riflesso che vedo, dopo il commento della nonna, mi convince ancor meno, eppure non ho idea di cosa mettere in sostituzione all'abbinamento scelto - soprattutto perché ora temo che qualsiasi indumento possa evidenziarmi il "sederone".
«Je ne comprends pas quel est le problème» stavolta non la fisso, troppo occupata a scrutare il modo in cui casca la stoffa.
«Paresse, grand-mère. Si je faisais du sport, je n'aurais pas ce gros cul».
Ma non è di quello che parla; così, abbandonando il mio letto, nonna si fa vicina e mi afferra le spalle. A dividerci ci sono i pochi centimetri di un tacco più alto di quello dell'altra, così si china un poco e, con il viso accanto al mio, sorride: «Je parlais de lui, chèrie. E' un bel ragazzo, quello per cui hai una cotta da quando ne ho memoria. Che male c'è se diventi la sua fidanzata? Se avessi trent'anni di meno gli farei la corte anche io!»

Mi mordo il labbro.

A Josephine ho parlato di Seth perchè è l'unica, in questa casa, che ero certa mi avrebbe sostenuta, eppure, se da un lato mi sono sentita sicura nel confessarle quello che stava succedendo tra me e lui, ancora non mi sento pronta a dirle il motivo per cui deve rimanere un segreto - non credo che le farebbe piacere saperlo.
Se io sono la sua nipotina preferita, Jace è stato quasi come un figlio e la certezza che tra i due preferisca me non è qualcosa per cui metterei la mano sul fuoco.

Il campanello d'ingresso trilla e d'improvviso il cuore mi balza in gola all'idea che sia già arrivato il momento di scendere. Sì, mi sono fatta bella, ho acconciato i capelli e indossato alcuni tra gli indumenti più femminili che il mio armadio potesse vantare, eppure non sono certa di essere pronta a incontrare Seth.
Per questa occasione, per l'ufficializzazione della mia entrata nel mondo degli adulti, Morgenstern ha voluto organizzare un vero e proprio appuntamento, come quelli che si vedono nei film - ma io non credo di essere all'altezza di nessuna delle protagoniste che passano in tv e nemmeno di chiunque altro abbia potuto vantare un'uscita di questo tipo con lui. Ho le gambe molli, la gola secca e l'ansia che si noti ognuno dei difetti che Josephine ha elencato durante la preparazione, eppure da questa situazione non vi è alcuna via di fuga.

Lui è qui - ed io devo scendere.

Nonna mi fa la linguaccia, poi mi pizzica il sedere: «Se non ti sbrighi ci esco io» e subito sgattaiola verso l'ingresso.
Ma è seria?
Resto immobile qualche istante a fissare la sua schiena che svolta verso le scale e, quando mi rendo conto che sta seriamente andando lei ad aprire al posto mio, scatto in avanti cercando di placcarla.
Nulla deve andare storto, nemmeno una stupidata come questa. Così, picchiando con violenza i piedi sui gradini, le scivolo sotto al braccio con cui si tiene al corrimano, compio un mezzo salto e quasi mi vado a schiantare contro la porta. Solo questo tentativo di corsa ha rovinato la mia acconciatura e mi minaccia con un attacco cardiaco.
Josephine ride dietro di me, mima qualche frase ambigua che io la esorto a non continuare per evitare ulteriore imbarazzo e, cercando di contrastare la tensione e assumere un'espressione meno trafelata, al nuovo trillo del campanello mi decido ad aprire.

Il sorriso che faccio però muore in fretta, schiacciato con violenza dalla sorpresa. Chi ho di fronte è ben lontano dall'essere Seth, anche se la sua presenza sarebbe stata altrettanto gradita in un momento differente.

Charlie mi guarda con una certa perplessità, studiando ciò che ha di fronte come se lo vedesse per la prima volta, poi abbozza un sorriso: «Da quando ti fai così carina per un film? Lo sai che al cinema le luci sono spente, vero?» domanda, visibilmente a disagio, incapace di spiegarsi la mia mise tanto curata - un dettaglio che al momento nemmeno io saprei come giustificare. E l'ansia mi assale. Più lo guardo, raggiante come il sole in questa fredda serata invernale, più la consapevolezza di aver dimenticato qualcosa di fondamentale si fa concreta. Ci vuole qualche istante prima che la mente, fino ad ora troppo ottenebrata dalle immagini idilliache dell'imminente appuntamento con Morgenstern, si svuoti, riportando a galla qualche vago ricordo dei giorni precedenti.
Mi sistemo una ciocca chiara dietro l'orecchio, poi mi chiudo nelle spalle al pari di un riccio che tenta di difendersi da ciò che sta arrivando, anche se ancora non è certo cosa sia. Una parte sempre più senziente di me sa di aver fatto l'ennesima cazzata, di essersi ancora una volta comportata come la peggiore tra le amiche, eppure non ho idea di come impedire il peggio che sento avanzare. Dovrei cercare parole, soluzioni, gesti con cui tamponare il danno sempre più vicino e ancora poco definito, anche se la coscienza mi suggerisce che forse, il pomeriggio in cui sono stata da lui, ciò che mi ha chiesto mentre se ne stava sdraiato su di me non era nulla di quello a cui avevo pensato. Con grande probabilità Charlie deve avermi chiesto se quest'anno, nonostante tutto, avremmo festeggiato insieme, esattamente come i compleanni passati.

Ed io gli ho detto sì, quando in realtà dovevo rispondere di no.

«Aspetta...» d'un tratto si acciglia. I suoi occhi color cielo si rabbuiano un po'. Nuvoloni carichi di pioggia stanno coprendo la sua sorpresa, la gioia del ritagliarci qualche ora insieme, come ai vecchi tempi.
Non è stupido, lo so fin troppo bene. A prescindere dal fatto che appaia sempre come quello un po' naive, perso nel suo mondo di sorrisi e spartiti, Benton è sveglio - ed io credo abbia capito. Il cuore mi si stringe in una morsa tanto rigida da impedirgli di battere con regolarità, così come la gola si secca, diventando terreno arido per parole che non sanno come sopravvivere al di fuori della mia mente. «Fammi indovinare, non mi stavi ascoltando, lunedì...» la sua non è una domanda, piuttosto una constatazione che io non so negare - forse perché non posso, visto che ha ragione. Persa a scoprire che fine avesse fatto Sharon, l'unica a poter davvero minacciare la mia neo-relazione con Seth, non ho prestato alcuna attenzione a ciò che avevo intorno e che avrei dovuto trattare con maggior riguardo, visto quanto significa per me - ed è forse stata la sicurezza della sua presenza, la certezza di aver chiarito ogni malinteso creatosi tra noi a fregarmi.
Allungo una mano nel tentativo di afferrare la sua, in modo trattenerlo a me e non sentirlo scivolare via insieme alla corrente di delusione, ma lui infossa i palmi in tasca e tiene lo sguardo lontano dai miei occhi, seppur da qualche parte sul viso. Un'atmosfera tutt'altro che piacevole riempie il portico e nuovamente sento crescere il vuoto tra noi, quasi il tentativo fallimentare di avvicinarlo lo avesse invece spinto via.

Sono una persona orribile.

«Charlie, io...»

Lui fa un passo indietro, poi tira un sorriso. Finto. Così falso che posso chiaramente vedere lo sforzo che sta compiendo per non mostrarmi l'amarezza contro cui sta combattendo; ma so che c'è, la sento graffiarmi. Per lui gli amici valgono quanto fratelli, soprattutto se si tratta di noi - e tutti, in un modo o nell'altro, lo abbiamo escluso. Jace è lontano, in quella Parigi caotica che lo ha inglobato senza chiedere il permesso a nessuno, mentre Seth ed io ci siamo avvicinati tanto da non poter più coinvolgerlo come prima. Un po' è come tornare indietro di un paio di mesi, quando ero stata io quella a venir eclissata, eppure so che stavolta è diverso, è più galvanizzante.
«Hai altri programmi, tranquilla, lo capisco» mi sussurra, lanciando un'occhiata al fondo del vialetto, lì dove le ombre lasciano spazio solo ai riflessi dei lampioni sulle carrozzerie cromate. Mentre prova a consolarmi non posso far altro che pensare che ciò, però, non cambia la situazione. Può capire, certo, eppure la cosa non fa di me un criminale meno colpevole: un amico non si comporterebbe a questo modo. Jace non lo avrebbe mai fatto e da me ci si sarebbe aspettato altrettanto... ma io non sono lui e in queste ultime settimane ne ho ampiamente dato e avuto la prova, scoprendomi succube di desideri egoistici a cui non so negarmi. 
«Immagino starai con Seth» continua bagnandosi le labbra e abbassando il capo sulle proprie Vans logore che paiono fremere, quasi a indicare il desiderio contrastante d'andare via ma anche restare.


Annuisco.

«Ti porta in qualche posto carino?» Il suo mento si muove, indicando il modo in cui mi sono agghindata per la serata - un evento più unico che raro, visto il trucco curato e la gonna corta che nessuno si sarebbe mai immaginato di vedermi indossare.
Apro bocca per rispondere, per dirgli qualcosa di vago che nemmeno io so definire, ma la voce che arriva non è la mia: «Beh, a questo punto dovrò per forza!» Ecco che Seth, come richiamato dalle ansie e i sensi di colpa che mi stanno soggiogando, compare dal fondo del vialetto, avanzando lento mentre si stringe nel cappotto scuro. Sul suo viso c'è un sorriso così radioso che fatico a credere sia rivolto a me, eppure è innegabile che lo sia, visto che i suoi occhi non paiono intenzionati ad allontanarsi da ciò che ha di fronte.

Quando ci raggiunge, incurante della tensione, concede a Charlie una pacca fraterna e due chiacchiere di circostanza. Pare non essersi reso conto di nulla, eppure dubito fortemente che ai suoi occhi siano sfuggite le nostre espressioni mogie.
«Sei passato a farle gli auguri? Cavolo, che gentiluomo!» L'espressione di Morgenstern si fa più curiosa, lasciando spazio al commento peggiore che potesse fare in una circostanza come questa.

Sì, è passato a farmi gli auguri e a portarmi via per una serata al cinema che non vedrà né inizio né fine - ed io l'ho scordato, perché quando ci sei di mezzo tu perdo cognizione di ogni cosa.

Benton alza le spalle, fa finta di non dar peso al fatto di essere stato messo da parte. Ancora. Per lui. Io però vedo il modo in cui cerca di evitare il suo sguardo, di come la mascella gli si contrae appena per non tradire la frustrazione che sente crescere dentro, come quando a una gara di skate sbaglia il trick per cui si è allenato giorni interi. Lo conosco abbastanza da riconoscere anche quei piccoli segnali, ma a parte starmene arroccata sullo stipite della porta a mordermi la lingua e sentirmi una traditrice non so che fare.
E se mandassi all'aria i piani di Seth per stare insieme, tutti e tre come l'anno scorso e quello prima? Sarebbe sicuramente un modo per non deludere Charlie, ma quello che si suppone essere il mio ragazzo come la prenderebbe? Forse se fosse lui a proporlo le cose andrebbero a posto da sé, no?

Morgenstern però non avanza alcuna proposta, resta fermo ad ascoltare.

«Ecco, questo dillo pure a mia madre. Almeno se glielo fai notare tu ci crede» ride, anche se solo con le labbra.
«La più affidabile direi che è Jay, tra noi. Poi ora che ha diciotto anni chi la sottovaluta più?»

Charlie mi lancia un'occhiata dolce, poi torna a Seth alzando le sopracciglia: «Beh, dolcezze mie, credo sia arrivato il momento di lasciarvi da soli! Godetevi la serata e...» fa una pausa, bagnandosi ancora le labbra. Stavolta la frase è indirizzata solo a uno di noi e nel tono con cui la pronuncia, per un istante, mi pare di udire Jace: «sai già».

Un'altra pacca, un istante di esitazione.

«Auguri, corvetto» lo dice senza guardarmi, quasi fosse sovrappensiero. Stavolta l'ho combinata grossa, troppo. Devo rimediare, fargli capire che è stato solo un malinteso; così muovo un passo fuori dalla soglia, mimando un mezzo inseguimento: «Ci vediamo domani, vero?».
La sua mano si leva in cielo a mo di saluto, però non mi dà conferma e, prima che possa insistere o placcarlo in una qualsiasi maniera, Morgenstern mi tira a sé per rubarmi un bacio e un sorriso.

«Quell'idiota mi ha rubato la battuta, Raven».




 

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Capitolo 22
*** Chapter 19: Broken Hopes Sounds like Bass Drum (part three) ***



Chapter nineteen:
§ Broken hopes sounds like bass drum §
part three

 

And do you think of me at night
I still wish we could've made it right

You can't say that I never tried
I guess everything seems more clear
Here on the other side

Here on the other side

And there are so many things I wanted to say
That I want so much
And you moved away

And I think of all the times that you were right
I wish I could explain

'Cause every time I ran
I ran to you

 

Tonight Alive, The Other Side


 

I baci di Seth hanno offuscato la mente. Il suo trasporto è stato tale da farmi perdere coscienza di ciò che mi stava attorno. E dentro. La preoccupazione scaturita nei confronti di Charlie si è fatta inconsistente come lo zucchero filato dopo che lo si mette in bocca e mentre Morgenstern si premeva a me, io dimenticavo la sua dolcezza, la morbidezza della sua pelle, il profumo dei vestiti che indossa. Esattamente come quando si finisce di mangiare quella nuvola colorata, mi sentivo al pari di non averla mai iniziata: so che c'era stata, ma che l'avessi trangugiata o meno poco importava - non c'era nulla a ricordarmelo.

Così, ammaliata dalla contentezza di aver avuto premute addosso le labbra del ragazzo a cui anelavo da una vita, ho lasciato che l'egoista nascosta in me avesse la meglio, facendomi correre verso l'attaccapanni appena le nostre bocche si erano separate e ignorando il fatto di aver deluso una tra le persone più importanti della mia vita.
Scivolando lungo il vialetto di casa mi ero sentita leggera quanto un palloncino pieno d'elio e, nonostante mi era difficile capire cosa mi stava trattenendo a terra, ignoravo la minaccia avanzando per le strade di Londra mano nella mano con Seth. Le sue dita intrecciate alle mie per un po' mi erano apparse come le vere ancore che mi impedivano di librarmi in cielo: salde come mai gli era capitato d'essere prima - anche per via del fatto che solo da bambini si era ripetuto un avvenimento simile. Per qualche ora mi avevano illusa di essere ciò che mi tratteneva a terra, ma era bastato che Seth si alzasse dal tavolo per andare in bagno, lasciandomi sola dopo la cena, che quella convinzione si era frantumata di fronte al mio medesimo riflesso.

Ora il sorriso si spegne e il vetro accanto a me ne è testimone.

Sono stata una stronza.

E per questo devo rimediare.
In un moto del tutto naturale batto le dita sul display del cellulare, illuminando una schermata piena di notifiche provenienti dalla moltitudine di social che come campanelli d'allarme hanno avvertito chiunque, dalla zia in Paraguay alle compagne di scuola a cui non ho mai rivolto la parola, che oggi è il mio diciottesimo compleanno.
Le fisso giusto qualche istante, poi inizio a nasconderle nei meandri delle applicazioni che le hanno generate e, infine, vado alle chat private.

Sotto agli ultimi auguri, quelli di parenti vari che non vedo da secoli, trovo Caroline, Jace e poi Charlie. Accanto alle loro foto c'è un'icona verde, ennesima e inconfutabile prova del fatto che Seth catalizza e si appropria di ogni mia attenzione, facendomi scordare ogni cosa.
Lascio in sospeso il video di mio fratello e il poema della mia amica per aprire l'unica chat che m'interessa veramente, lì dove un "10 minuti e arrivo, parto ora" troneggia minaccioso, ricordandomi l'errore commesso.

Dannazione.

Me lo aveva persino scritto, ma io sono stata troppo occupata a farmi carina in previsione di questo appuntamento per preoccuparmi di guardare uno stupido cellulare. Sarebbe bastato così poco, giusto uno sguardo, invece non sono nemmeno stata in grado di fare un gesto tanto naturale.
Gioco con questo affare e lo fisso per interminabili minuti quando meno è necessario e poi, nei momenti in cui serve, semplicemente, lo dimentico come un bambino con il suo "tanto amato" giocattolo. E forse un po' bambina lo sono, se ho scordato di dare importanza al mio migliore amico.

"Ehi..." digito per cancellare subito dopo, conscia che sia il peggior modo per approcciare qualcuno che probabilmente ora nemmeno vuole sentir citare il mio nome.
Così, per quelli che mi paiono essere interminabili minuti, resto immobile a fissare lo schermo colorato, pensando. Chissà come Benton ha deciso di occupare quella che sarebbe dovuta essere la nostra serata: forse al cinema c'è andato da solo, oppure si è rifugiato in qualche locale ad ascoltare band emergenti. Può darsi persino che sia andato allo skatepark nonostante l'orario e il freddo marzolino, o nel peggiore dei casi sarà tornato nella propria stanza e si sarà messo a suonare.

Me lo immagino da solo a cercare un modo per colmare del tempo che doveva essere condiviso, che nei suoi piani non sarebbe stato sprecato - e più lo faccio più mi sento in colpa, perchè dimostra quanto il mio bisogno di attenzioni ottenebri il fatto che per avere sia necessario dare, che i rapporti umani, quelli veri, si costruiscono su un continuo scambio di emozioni e sensazioni, di cure verso l'altro.

Ed io non l'ho fatto. Non con lui, quantomeno.

Allora le mie dita riprendono a pigiare sul display e in meno di qualche battito di ciglia il testo è composto.
"Scusa, sono stata una cretina. Domani però ci vediamo, vero? Devo farmi perdonare" e appena lo invio lo stomaco prende ad attorcigliarsi.
Mi domando quando lo vedrà, se mi darà risposta o invece deciderà di sostenere un silenzio che mi farà pentire di ogni singolo errore fatto negli ultimi dieci anni di conoscenza. Mi chiedo se basterà così poco a rattoppare il buco che ho fatto, oppure se ci vorrà molto di più, perchè in fin dei conti nessuna delle mie gaffes era mai stata tanto umiliante. Forse dovrei presentarmi da lui con una fetta di torta, un dvd a noleggio e un paio di birre sottobraccio, o magari dovrei solo pregarlo in ginocchio di capire la mente di una povera idiota innamorata... chissà.

Seth torna e cogliendomi alla sprovvista mi ritrovo a bloccare lo schermo in un disperato gesto d'imbarazzo. Paio quasi un criminale che viene colto in flagranza di reato, ma lui non pare sorprendersi né infastidirsi.

«Charlie?» Con il mento indica il telefono che tengo sotto al palmo, premuto tra la pelle e il tavolo. Annuisco.
«C'è qualcosa che dovrei sapere?»
«C'è qualcosa che vorresti sapere?»

Morgenstern mi sorride: «No, ora no».
Però io in realtà vorrei parlargli, avrei bisogno di qualcuno con cui sfogare tutte le frustrazioni che mi premono sul petto - e in fin dei conti che male ci sarebbe a farlo? In questo preciso momento lui è l'unica persona che può darmi dei consigli sensati, che può svelarmi la soluzione all'arcano mistero del "come farmi perdonare". Seth conosce me esattamente quanto Benton, anzi, con lui il rapporto è persino più radicato e, inoltre, sono entrambi maschi. Chi potrebbe spiegarmi come agire, se non lui?

«Ho dimenticato di avergli fatto una promessa» sibilo, leggermente imbarazzata. 
Detta così sembra quasi una sciocchezza da marmocchi, un bisticcio tra due amichetti al parco giochi, eppure per me la questione è molto più grave, è un errore che a quest'età non dovrebbe capitare. Mi sono dimenticata di Charlie in fin troppe occasioni ultimamente: dapprima a causa della scaramuccia tra mio fratello e il suo migliore amico, poi per via della comparsa di Caroline all'interno della mia routine - e quello che è successo poco fa non è altro che l'ennesimo, e spero non ultimo, disastro rivolto nei suoi confronti.

Il mio ragazzo corruga le sopracciglia: «Riguardava stasera?» mi domanda mentre inizia a picchiettare il filtro della sigaretta sul bordo del tavolo, forse preparandosi ad abbandonare il locale per prendere un po' d'aria e proseguire il nostro appuntamento altrove. 
Annuisco ancora, stavolta iniziando a mordicchiarmi il labbro. Sono certa che ad attendermi ci sarà qualche battuta infelice, oppure una paternale su quanto superficiale io sia - da lui me lo aspetto -, eppure dalla sua reazione capisco che non andrà affatto come ho previsto. Seth sbuffa dal naso in una sorta di risata strana, poi mugugna: «Proprio non capisce...». Mette la sigaretta tra le labbra, infila qualche banconota nel fermacarte con il conto e infine sospira, facendo bene intendere che non si sarebbe aspettato questa risposta.

«Cosa?»

Lui torna al presente, mi sorride con malizia. I suoi occhi azzurri si fissano sul mio viso e per un attimo sento lo stomaco contorcersi e il battito aumentare: «Che voglia un po' di intimità con te, Jay. Non è questo che fanno le coppie? Hanno appuntamenti romantici, escono insieme, se ne stanno appartati e se hanno voglia d'infilarsi la lingua in bocca o farsi una sco-»
«Seth!» Lo rimprovero prima che la sua lista di cose che dovremmo fare arrivi dove non sono certa di voler sentire e d'improvviso lui scoppia a ridere.

E il dubbio che possa aver fatto apposta quel commento scocciato si insinua nella mia mente paranoica - dopotutto non ha mai perso occasione per beffarsi della pudicizia in cui sono cresciuta,nonostante un fratello maggiore e loro due al seguito, quindi perché escludere questa possibilità?

D'un tratto mi rendo conto che sul suo viso non vi è più nemmeno una traccia di stizza, solo ilarità - e più lo guardo, più divento rossa pomodoro. Morgenstern però continua imperterrito a godersi il mio disagio, conscio di quanto sia sensibile alla questione; e lo sono in particolar modo se a parlarne è lui o uno del gruppo. Sì, perché il fatto che mio fratello o i suoi migliori amici discutano di sesso e amoreggiamenti vari come se nulla fosse è, per le mie orecchie di verginella, già di per sé imbarazzante, figuriamoci quanto mi possa sentire in imbarazzo quando i loro discorsi e le battute vertono nella mia direzione. L'idea che Jace possa conoscere determinati lati di me è più umiliante di quello che potrebbe sembrare, inoltre vorrei evitare che sapesse con chi-faccio-cosa.

E ora che Seth è il mio ragazzo dovrebbe stare attento a ciò che dice, viste le premesse.

Afferro il tovagliolo, unica arma rimasta sul tavolo oltre ai bicchieri, poi glielo tiro con violenza: «Sei un idiota!» Incrocio le braccia davanti al petto in un gesto di evidente chiusura. Davvero non si rende conto di quanto mi dia fastidio il suo atteggiamento? Non capisce che così facendo aizza in me una sorta di invalicabile timidezza?
«Eddai! Che c'è di male?» subisce il colpo, ma non per questo smette di sorridere: «Permetti che dovrebbe essere abbastanza palese che, il giorno del tuo compleanno, io ti voglia tutta pe me? Che se ti voglio baciare non mi devo preoccupare di chi ho attorno?»

«Ne hai avuti diciotto, di compleanni, per star solo con me!» Bofonchio sovrappensiero senza nemmeno ascoltare i suoi commenti, inconsapevole inoltre di cosa gli abbia appena confessato, di quale segreto mi sia sfuggito di bocca.

Lui però è un segugio, lo è sempre stato, per questo motivo recepisce subito e forse fin troppo bene. 
La sua testa si piega di lato, l'espressione si fa curiosa. Avvicinandosi minacciosamente verso il centro del tavolo e assottigliando gli occhi mi domanda: «E' da tutta la tua vita che mi brami?»

Ed io non so da che parte nascondermi.

Anche se vorrei evitarlo, in modo da potermi salvare da qualsiasi azione sconsiderata gli stia stuzzicando la coscienza, non posso fare a meno di notare la luce ammaliante che gli illumina le pupille, un interesse che improvvisamente mi dà l'idea di essere simile a fuoco vivo. Seth ora è pericoloso, esattamente come mi era stato detto e come avevo provato a immaginare ogni volta che negli anni si era allontanato da noi per flirtare con una sconosciuta. E' cacciatore che studia la sua preda, che ne beve la paura e si crogiola all'idea di averla in pugno - è così ovvio! Persino un orbo riuscirebbe a notarlo.
E in questo istante, mentre scruta ogni sfaccettatura della mia espressione, affascinato come mai prima da ciò che sono, mi ritrovo a pensare a quanto sia bello e temibile; a come la luce, colpendolo di bieco, lo renda ancora più ammiccante e irraggiungibile. 
Il tono con cui mi si rivolge ha una nota peccaminosa, sensuale, e per un momento mi pare d'essere Tantalo di fronte all'ambrosia: ne desidero un assaggio, ancora uno, ma non sono certa di poterlo avere.

Forse è questa la soggiogante malia dei primi amori, quelli desiderati fino al logorio. Forse è per colpa di ciò che ho segretamente provato per lui che ora mi pare diavolo e angelo messi insieme, racchiusi come animali in una gabbia che è questo suo affascinante corpo umano.

Ciò che dovrei tenere a mente però, è il fatto che ho svelato a Seth il segreto che per anni ho custodito con tanta gelosia, intimorita all'idea che qualcuno lo potesse usare contro di me o che lui potesse deridermi, allontanarmi nel modo più brusco - perché in fondo io non sono mai stata altro che la sorellina del suo migliore amico, quella simpatica, innocente e che certo non spiccava in bellezza. Eppure, nonostante quello che ho detto, lui invece che scoppiare nell'ennesima, fragorosa risata, sembra essere lusingato.

«N-n-non...» 
E anche se la sua reazione è ben lontana da ciò che mi sarei aspettata, le parole fanno comunque fatica sia a formarsi nella mente, sia a uscire dalla gola. 
Cosa dovrei dirgli, sì? Non credo sia il caso, dopotutto non voglio mostrargli per quanto tempo ho patito l'assenza delle sue attenzioni - ho un orgoglio, da qualche parte.

Allora provo a tirarmi indietro, a fuggire da questa situazione che inizia a essermi un po' scomoda, ma lui mi ferma. Afferra la mia mano, se la porta alla bocca e ne bacia il dorso, poi il palmo e con il labbro inferiore sfiora il polso, generando un brivido che dalle guance scende lungo la nuca e il collo, arrivando alla base della schiena. E' una sensazione nuova, estranea a quelle che ho provato fino ad adesso con qualsiasi ragazzo io sia mai uscita, eppure mi piace, me ne sento assuefatta. Seth è come una scatola di cioccolatini: ne prendo uno, un'altro, poi voglio assaggiare quello con le noccioline e alla fine li desidero tutti, ritrovandomi con lo stomaco pieno e la scatola vuota.

«Andiamo?» Domanda mentre intreccia le nostre dita. La sua è una mano grande, magra, segnata qua e là dai tatuaggi un po' sbiaditi che ancora mi affascinano, nonostante ormai li conosca a menadito. Sul fianco dell'indice, in una calligrafia tutt'altro che definita, ha scritto holy shit, mentre sul medio del medesimo lato c'è un osso stilizzato. Se ne stanno lì a indicare un po' la sua scorrettezza, quell'adolescenza che ha vissuto alla mercé dell'alcol e dei concerti punk-rock. Poi sull'altra ci sono un'ancòra e il simbolo dei pirati, entrambi prolungamenti di un intero braccio dedicato a quel mare che tanto ama ma a cui dice che non farebbe mai ritorno. E' per suo nonno, un marinaio della Cornovaglia che ogni estate, da bambino, lo portava con sé in barca.
Con queste mani, le stesse che ora mi toccano come ho sognato per anni, ho visto Morgenstern fare mille cose: suonare, sfogliare riviste e spostarsi i ciuffi ribelli, coccolare Chucky, accarezzare persone, ma anche dare pacche agli amici. Gli ho visto stringere bottiglie, salutare, poi chiudersi a pugno e colpire - nonostante questo però, con me hanno la delicatezza della schiuma di mare che si arena sulla spiaggia.

Annuisco, persa nella contemplazione di ciò che finalmente è mio. L'ho anelato così a lungo che ancora mi pare un sogno, un'illusione da cui prego non allontanarmi più.
E così lui salta in piedi, mi fa strada fuori dal ristorante, mentre ci infiliamo i cappotti alla bene e meglio, proteggendoci dal freddo e dalla pioggerellina che lieve ha preso a cadere su Londra, e camminiamo abbracciati lungo le strade che portano a Camden, forse per raggiungere qualche locale che ha appositamente scelto per l'occasione. 
Con le sue braccia Seth cerca di farmi scudo, prova a salvaguardare il duro lavoro che Josephine ha fatto per rendermi presentabile, peccato che più avanziamo, impavidi sotto alle gocce d'acqua, più queste si facciano intense e, alla fine, quasi rassegnandosi, il mio ragazzo svolta in una traversa che ci riporta verso il cuore del Brent.

La palazzina dove abita diventa il nostro faro sicuro in mezzo alla tempesta che imperversa.

Ci muoviamo svelti sul marciapiede sempre più bagnato, infradiciandoci a ogni metro che togliamo dalla distanza tra noi e l'ingresso, eppure non ci fermiamo mai, nemmeno quando qualche tettoia prova a darci rifugio. Potremmo nasconderci sotto ai porticati o i tendoni dei negozi aspettando un momento di tregua, certo, ma l'idea di restar qui fuori e patire il freddo credo non piaccia a nessuno dei due - per questo, aggrappandomi al suo braccio per evitare cadute rovinose, rinuncio al dopocena promesso.

A una manciata di passi dalla porta sento Morgenstern bofonchiare qualche imprecazione. Con la mano libera cerca qualcosa nelle tasche del cappotto, forse il mazzo di chiavi che ci condurrà alla salvezza e, quando finalmente lo trova, grida un "Eureka!" del tutto inaspettato. E' piacevole vederlo così, sicuramente più di quando tiene il broncio, eppure non è poi evento raro, solo strano.

Senza esitazione si porta verso il portoncino, litiga con ciò che ha in mano e infine, con un sospiro, spalanca l'ingresso aprendoci i cancelli di quello che ora appare proprio come il paradiso - e come se non bastasse, a rincarare questa visione biblica, sotto alla luce dorata dell'androne i capelli di Seth scintillano, creando una sorta di aureola intorno alla sua testa scompigliata. 
Il mio angelo sospira ancora, poi sbuffa, scuote la testa e appoggiandosi al muro mi dice: «Scusa».
Ma scusa di che?

Stringo le dita intorno al manico della borsa e glielo chiedo: «Per cosa, esattamente?»

Lui corruga le sopracciglia, pare persino più confuso della sottoscritta: «Per questo...» dapprima indica noi, i nostri vestiti inzuppati e subito dopo la sua attenzione si sposta verso l'esterno della palazzina, dove ormai la pioggia scende a catinelle.
Ed io rido.
Si sta realmente lamentando del tempo? Non è una di quelle abitudini tipiche dei vecchi o dei megalomani?

Che Londra sia uggiosa è un dato di fatto, non qualcosa d'inaspettato o che può essere cambiato secondo il proprio volere.

«Volevo portarti in un posto carino, darti il regalo e...»
Inizio a salire le scale, interrompendo le sue inutili lamentele: «Siamo in un posto carino» faccio presente. Il suo appartamento oserei dire che è uno dei luoghi che più preferisco, forse perché sa di casa, oppure perché ci associo solo ricordi belli; inoltre lo ha arredato in modo completamente diverso da come ci saremmo aspettati da lui. Le pareti color pastello hanno appese sopra fotografie di luoghi lontani, paesaggi mozzafiato di un itinerario che i ragazzi hanno stipulato da bambini. I tappeti chiari e i divani lisi, vintage, danno un senso di calore che saprebbe mettere a proprio agio anche la persona più scorbutica - poi ci sono le librerie piene di vinili, dvd e videogiochi, dove ogni tanto spunta qualche libro che gli ha regalato Jace o che si è scordato di riportare in biblioteca. Insomma, il bilocale di Seth ha il suo fascino, è intriso di una pace che persino nelle serate più allegre non svanisce mai - per questo mi piace.

Saltello sull'ultimo gradino: «E il regalo, visto che c'è e non si rifiuta mai, puoi tranquillamente darmelo insieme a una tazza di tè caldo» concludo atterrando sul pianerottolo del primo piano, voltandomi e strizzandogli l'occhio con complicità.

Certo che a vedermi compiere queste scenette, comunque, devo sembrare ridicola, un po' come le protagoniste stereotipate che vivono all'interno di quelle sceneggiature di serie B.

Lui mi guarda dal fondo della rampa di scale, lo fa con uno stupore che addosso gli sta bene, poi sorride e butta indietro la testa: «Dove ti ha trovata, Jace? In una soap opera coreana?»

Mi fermo.

Che intende dire?

Prima che possa chiederglielo però, Seth si stacca dalla parete e compiendo un paio di falcate, facendo i gradini a due a due, ritorna al mio fianco: «Alle volte ti comporti proprio in modo strano!» Lo dice spostandomi una ciocca bagnata dal viso, poi torna alle chiavi e l'ennesima serratura.

E' sereno, ora, ma appena mettiamo piede in casa il suo lato dittatoriale riemerge, esattamente come qualche tempo fa nella macchina di Charlie.
Senza giri di parole mi ordina di andare in bagno, togliermi le collant bagnate, il cappotto fradicio e qualsiasi cosa possa essersi inumidita nel tragitto dal ristorante a qui - e ubbidire diventa naturale, un gesto che compio subito dopo aver provato a muovere qualche flebile opposizione.

Entro in bagno seguita da qualche suo avvertimento, annotazioni che da oltre la porta non riesco più a sentire e, una volta sola, sospiro.

E' tutto vero.

Sono qui, ancora a casa Morgenstern, sola con colui che è stato protagonista di qualsiasi mia fantasia romantica e più spesso inappropriata, ma nonostante sia ormai la seconda volta, terza se includiamo la notte della sbronza, non riesco a credere sia vero. Potrei pizzicarmi, certo, peccato che temo di scoprire che sia tutto un sogno. Quanto deludente sarebbe? Quanto soffrirei all'idea di non aver mai realmente conosciuto i suoi baci o catturato il suo interesse? Non credo di volerlo sapere, così mi limito a sfilare il soprabito e rivolgermi verso lo specchio.

Lasciamo che questo tutto ciò resti reale, almeno per me.

 

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Capitolo 23
*** Chapter 19: Broken Hopes Sounds Like Bass Drum (part four) ***






Chapter nineteen
§ Broken hopes sounds like bass drum §
part four

 

"We are far from perfect
But perfect as we are
We are bruised, we are broken
But we are goddamn works of art
Works of art"

Rise Against - Far from perfect



 

 

Quando esco dal bagno, pochi minuti dopo esserci entrata, ho addosso quello che credo essere il pigiama di Seth. 

Le collant erano talmente bagnate che ho dovuto strizzarle più e più volte, mentre i capelli, ora legati nella peggior coda che potessi fare, hanno inzuppato tutta la parte alta del maglioncino, costringedomi a levarlo per non rischiare un qualche malanno e, a quel punto, tutto ciò che ho trovato per coprire le nudità sono stati una maglia dei Rammstein eccessivamente rovinata e un paio di pantaloni felpati. Così ho ceduto al taccheggio, insieme al desiderio di sentire il suo profumo ancorato alla pelle.

Con il cellulare stretto in mano, dove ho più volte controllato se Charlie mi avesse risposto, avanzo per il breve corridoio che mi collega al salotto e, una volta al centro della stanza, prendo a guardarmi intorno in un moto di totale confusione.

La radio è accesa, passa un brano dei Rise Against a cui fatico a dare un titolo, ma di cui ricordo con vaghezza qualche strofa, eppure del padrone di casa sembra non esserci altra traccia. Il suo cappotto è malamente appoggiato sul ripiano che divide, in minima parte, lo spazio in cui sono dalla cucina e un'abat-jour illumina alla bene e meglio la stanza, creando atmosfera. C'è una calma placida, una fermezza che mi fa sentire fuori posto. E' tutto immobile qui, ma se mi sforzassi di fare qualche passo potrei vedere meglio la pioggia che batte sulle finestre, oppure le macchine che al di là dei vetri si spostano per la città. La mia è solo un'impressione, la sensazione alienante di una persona che non si è mai realmente soffermata a osservare le cose, eppure ora mi fa domandare: quanto è giusto che io sia qua? Queste pareti sono state per anni lo scenario segreto di decine di sogni a cui non ho mai dato voce, ma che piuttosto ho conservato gelosamente e rivissuto nei momenti di solitudine, mentre adesso sono diventate custodi delle mie palpitazioni e di quei primi baci umidi, appassionati, sconosciuti - ma non sono la prima e probabilmente nemmeno l'ultima, di cui conserveranno un ricordo.

Mi mordo il labbro, abbassando lo sguardo sui piedi scalzi.
Forse certe cose non dovrei rivangarle, mi fanno sentire una povera stupida, oppure sarebbe meglio se le tenessi costantemente a mente, in modo da non soffrire troppo quando il mio cuore sarà fatto a pezzi.

Perché Morgenstern si renderà conto di aver fatto un passo falso, ne sono certa.

E come richiamato da quei pensieri bui, discordanti con il buonumore che ho conservato per tutta la sera, lui riemerge da oltre la porta della sua stanza, armato di un nuovo look molto più casereccio. Credo di aver già detto quanto i lineamenti e il fascino di Seth siano un connubio micidiale per gran parte delle esponenti del sesso femminile, eppure mi ritrovo ancora a stupirmene. Ci sono gesti, frasi, sguardi o espressioni che ne esaltano maggiormente la bellezza, trasformandolo veramente in qualche belloccio da romanzo improbabile; alle volte però mi ritrovo anche a pensate che siano i miei occhi a vederlo così etereo e irraggiungibile. I capelli, prima ingellati con tanta minuzia, sono ora una zazzera scura e corta che gli incornicia il viso, mentre i bei vestiti che aveva indosso sono stati sostituiti da un pantalone della tuta e una maglia color notte.

Mi fissa stranito e di rimando gli sorrido.

«Quello è il mio pigiama» mi fa presente, dandomi prova di aver indovinato l'uso degli indumenti che indosso. «Perché te lo sei messo?» domanda dopo qualche istante, corrugando le sopracciglia e abbozzando un sorriso, quasi sia divertito da ciò che vede - e dubito possa essere altrimenti. Non essendo alta quanto Morgenstern, o qualsiasi uomo della mia vita, i pantaloni mi si arricciano più e più volte intorno alle caviglie, così come la maglia minaccia di trasformarsi in una vestaglia. Sicuramente ai suoi occhi sembrerò un bambino che ha rubato i vestiti a mamma e papà per gioco, non una ragazza grande e vaccinata.

«Dovrò pur coprirmi con qualcosa, no?» lo chiedo mentre goffamente mi lascio cadere e sprofondare sul divano, ignorando completamente il fatto che debba quantomeno domandare se la cosa gli dia fastidio o meno; in fin dei conti non mi ha mai detto di poter usare le sue cose.
Sul tavolino di fronte a me se ne sta un pacchetto semi-vuoto di Marlboro rosse, mi fissa con insistenza e dopo qualche istante di silenzio, frammentato dalla musica e dalla porta del frigo che Seth apre per prendere qualcosa da bere, cedo al suo richiamo, abbandonando il telefono per un filtro.
Come in passato, nelle serate spese in compagnia dei miei migliori amici tra le mura di questo appartamento, mi approprio di ciò che non è mio, ma che i ragazzi, un po' per via della loro maggiore autonomia economica, un po' per pietà, mi hanno sempre concesso di prendere.
Morgenstern si siede sulla poltrona accanto, quasi a lasciarmi tutto lo spazio necessario a stendermi, sorride ancora, divertito da qualcosa che al momento non comprendo. Appoggia le bottiglie di birra sul tavolino e mi passa l'accendino subito dopo aver fatto saltare i tappi, ormai rassegnato all'idea che io non ne abbia uno - anche perché di norma sono proprio lui e Charlie a rubarmeli!

«Ti preferivo senza».
Sussulto: «Cosa?»

Lui si sporge un poco, mi passa la bottiglia e ancora una volta la sua smorfia si fa mefistofelica: «Ti-preferivo-senza» ripete, scandendo le parole quasi stesse parlando con una persona incapace d'intendere. 
I suoi occhi corrono sulle pieghe morbide della maglia che indosso, indicano ciò che non gli va a genio - e mentre lo fa si allunga un po' di più. Si sta facendo così vicino che inizio ad avvertire il suo respiro caldo sulla pelle. Arriva leggero, tiepido, però non potrei mai confondere i brividi che mi procura la sua presenza, so per certo che si tratta del suo fiato, di quell'aria che ad ogni bacio cerco di rubargli per respirarlo, sentirlo mio per davvero.

Vorrei parlare, dirgli qualcosa per difendermi, però l'imbarazzo è tale che la lingua pare incollarsi al palato - e lo fa sempre nelle situazioni peggiori. 
Avrei quindi dovuto evitare di legarmi i capelli in previsione di un simile momento, in modo da poterli usare come scudo tra i suoi occhi e le mie gote arrossate, peccato che non lo abbia fatto e ora non ho alcuna idea di come sfuggire a questi suoi commenti. 
Ogni volta che sento la sua voce pronunciare simili affermazioni, oppure domande, in me si scatena un mix di emozioni che faccio fatica a gestire, ritrovandomi il più delle volte a tacere e cercare una via di fuga. E' tutto così irreale, ambiguo. Fatico a credere che non vi sia qualche altro fine dietro a tutto quello che stiamo facendo e... ho paura, se devo essere onesta.

Strano da dirsi, lo so, però è proprio così.

Anche se ho desiderato le sue attenzioni, le sue voglie e le sue mani premute addosso, insieme a quelle meravigliose labbra di cui finalmente conosco il sapore e la morbidezza, mi rendo conto di non essere preparata a nulla di tutto ciò. A lui, più che altro. Perchè a prescindere dalla differenza esperienziale che ci divide, Seth è ciò che è sempre stato irraggiungibile: e credo che nessuno sia mai realmente preparato a qualcosa che pensava non potesse davvero stringere tra le dita, ma che alla fine si ritrova lì, a un passo da sè. 

Mi mordo le labbra e sento lo stomaco stringersi tanto da farmi passare la voglia di bere, così rimetto la birra sul tavolino, faccio qualche tiro e mi lascio nuovamente sprofondare tra i cuscini, evitando il suo sguardo con estrema insistenza - ma lui mi sta fissando, avverto le sue pupille scivolare lungo la pelle nuda.

«Perché ti ritrai?» ora la sua domanda è meno maliziosa, seppur resti un sussurro vellutato che mi attira a lui come feltro e, quando mi volto, resto faccia a faccia con Seth. Ciò che ci separa è poco più di una spanna, però i suoi occhi verde acqua mi catturano totalmente, restringendo il cono ottico solo ed esclusivamente su di lui.
E se la situazione non fosse così imbarazzante, mi perderei volentieri in quell'oceano.

Deglutendo, provo a fingere di non capire dove il suo quesito voglia andare a parare, eppure mi è impossibile. Seppur siamo qui, insieme e dichiaratamente interessati l'uno all'altra, sente che qualcosa mi frena dal cedergli totalmente: prima a causa delle mie ansie, poi per via di Jace e Liz, ora Charlie e il modo in cui l'ho trattato per colpa sua. Ognuno di loro mi ha fatta vacillare, così ogni volta che Seth ha provato a spingersi un poco più in là, involontariamente, l'ho fermato - gli unici momenti in cui riesco a non sentirmi fuori posto sono quelli in cui le sensazioni prendono la meglio. Sono frangenti brevi, istanti che si riassumono nei primi baci, poi tremo e mi fermo, perché la paura che qualcosa possa andare storto è una costante, se ne sta in agguato come un giaguaro che aspetta la sua gazzella - e io temo il momento in cui le si fionderà sopra.

Scrollo la testa: «Non lo faccio» mi fingo ignorante. Non ho voglia di affrontare questa discussione ora, non mi va di rovinare una serata così piacevole.

«E' per Jace?» Mi chiede sempre più serio, forse iniziando a perdere il buonumore che più volte è stato minacciato durante queste ore.
In parte, vorrei dirgli, perché non posso negare che l'approvazione di mio fratello sia per me vitale, ma non del tutto, aggiungerei poi. C'è altro che mi frena, qualcosa che all'apice della felicità mi ricorda quanto male mi sono fatta a vedere i miei sogni venir maltrattati.

Sì, maltrattati.

Perchè quando al suo fianco c'era una qualsiasi ragazza che non fosse la sottoscritta, anche se prima di questo noi, era come mettersi a saltellare e cadere. Eravamo lì, insieme fino ad un attimo prima, eppure quando compariva la bella donzella di turno lui diventava assente, distante. Il cuore in quei momenti mi bruciava al pari delle ginocchia sbucciate - ed io, dopo tutto quello che sta succedendo tra noi, ho paura di quanto male possa fare, ora, cadere e picchiare le ginocchia. Forse non si limiterebbe più a una sbucciatura, ma diventerebbe un dolore più simile a quello di una frattura.

«N-no... non è pe-»
Ma Seth non pare intenzionato ad ascoltarmi, qualcosa in lui scatta prima che io possa trovare una giustificazione, una qualsiasi risposta ai suoi dubbi.

In uno slancio mi è addosso, le sue labbra si premono forte sulle mie. Si schiudono e afferrano, si prendono ogni parola che non sono riuscita a dire in questi secondi di attesa. Mi bacia come se avesse aspettato questo momento per ore, giorni o mesi, eppure ci siamo concessi tante piccole tenerezze durante la cena. E' famelico, irrefrenabile mentre mi ruba i respiri e si prende dello spazio accanto a me.
Una delle sue mani mi afferra la schiena, mi stringe a lui, mentre con l'altra mi sfila la sigaretta dalle dita e, senza nemmeno guardare, consapevole di dove sia il posacenere e armato di braccia certamente più lunghe delle mie, la spegne.
Mi pare di venir investita da uno tsunami, mi travolge, e quando i suoi polpastrelli s'infilano sotto la maglia nemmeno riesco a realizzare ciò che sta facendo - sono ottenebrata da lui, dalla sua bocca, da ogni cosa che lo compone finché, come un fulmine a ciel sereno, non sussurra: «E allora non c'è nulla che possa portarti via da me».

Dannazione, sembra davvero il personaggio di cui tutte s'innamorerebbero.
E anche io cedo, ogni bacio un po' di più.

 


 

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Capitolo 24
*** Chapter 20: You wake up from every dream (part one) ***





Chapter Twenty
§ You wake up from every dream §
part one

 

"Caught like a fly
In a web of your lies
It's truth be told now

Or it's meet your demise
So how did it feel?
When you held the knife
That you stuck right in my back
A thousand times"

- Falling in Reverse, Caught like a fly



 

A trascinarmi fuori dal torpore del sonno non è l’amorevole cinguettio degli usignoli, come si potrebbe malamente pensare, bensì qualche clacson e imprecazione che dalla strada sale fino alla finestra del salotto. Ci metto qualche istante a focalizzare i contorni della stanza, eppure pian piano ogni cosa si fa nitida, insieme a una sensazione a cui non credo di essere più abituata.
Un braccio mi cinge, arriva da oltre le mie spalle, e la mano che vi è attaccata s’infila sotto alla maglia accarezzando immobile la pelle del ventre. Il respiro bollente di Seth lo sento svicolare dalla nuca su una parte della spina dorsale e, involontariamente, un brivido inizia a percorrerla per tutta la sua lunghezza, arrivando sino ai lombi. Mentre passa da una vertebra a quella successiva, la mia memoria porta a galla i primi ricordi di ciò che è successo solo qualche ora prima: la sua bocca che morde e insegue la mia, le sue dita oltre l’orlo della t-shirt e sotto al reggiseno, il palpitare accelerato del suo cuore quando con le labbra gli ho sfiorato la giugulare e… un vuoto mi assale, lo stomaco sembra trasformarsi in un buco nero al pensiero di cosa è seguito - o avrebbe potuto, visto che comunque ha voluto fermarsi per rispetto nei confronti di qualcuno o qualcosa che ancora fatico a immaginare.

Una parte di me, ricordando le parole che ha pronunciato allontanandomi dai suoi boxer, non può negare di sentirsi ferita, un’altra, invece, quasi ne è sollevata. Come ho detto, non credo di essere del tutto pronta a questo - inoltre, anche se a lui ho preferito non confessarlo, mi è parso che la paura e i rimorsi se ne stessero nascosti tra le mensole e l’arredo, osservando ogni tocco e ascoltando ogni respiro un po’ più affannato, spiando quell’intimità che per la prima volta ha osato superare qualche limite.

Tra una cosa e l’altra, la sera precedente, al divano si è sostituito il tappeto e a cullarci nel sonno si è aggiunta una coperta in cui, ora, mi ritrovo completamente avvolta. La stoffa si adagia sulle gambe nude, le protegge dal freddo e mi fa capire che nulla, di ciò che è successo, appartiene a un sogno. Stavolta la mia fantasia non ha creato improbabili scenari, quello che c’è stato tra noi è così vero che mordendomi le labbra mi rendo conto di essere ancora in fibrillazione.

Forse un principe azzurro c’è anche per le principesse più improbabili. 

Una vibrazione, poco più in là della mia testa, mi distrae dai pensieri catturandomi completamente. Riconosco la sequenza, è il mio cellulare.
D’istinto allungo il braccio alla sua ricerca, preoccupata che il rumore possa svegliare Seth o che si tratti di una chiamata importante da parte di mia madre, Jace, Liz o magari di Charlie che, finalmente, ha deciso di perdonarmi. Con le dita tasto il tavolino che mi affianca e, vagando senza logica sulla superficie legnosa, finisco con il trovarlo pochi istanti dopo. 
Lo afferro giust’in tempo, mettendo fine al baccano.

Morgenstern mugola, poi affonda il viso nel cuscino improvvisato che sono i pantaloni che avevamo addosso prima di fare ciò che abbiamo fatto. La sua mano si preme su ciò che resta dei miei addominali, un ammasso di carne soffice che tradisce la mia passione per i dolciumi, mi spinge a lui - e voltando appena lo sguardo, mi perdo a osservarlo.

Mentirei se dicessi che è la prima volta che lo spio, così come direi una bugia se negassi di non aver mai sperato di svegliarmi in questo modo: stretta a lui.

Quante sere, passate a casa dei Benton, sono state mie complici. Quante volte nella stanza del mio migliore amico, svegliandomi nel cuore della notte per cambiare posizione, andare in bagno o spostare le braccia di Jace, ho allungato il collo e osservato questo viso di nascosto. Troppe, eppure non l’ho mai fatto così beatamente. Ora nessuno può scoprirmi, nessuno può deridermi o scandalizzarsi per questi miei desideri.

Ma come in altre occasioni, finisco con il distogliere lo sguardo.
Catherine reclama la mia attenzione con messaggi audio dalla durata estenuante, esattamente come mio fratello o nonna Josephine.

L’unico a mancare dalla lista però, è colui di cui avrei più voluto leggere il nome.
 

***

Miss Olimpia Sorrento, lo stereotipo dell’insegnante di chimica che sembra aver inalato troppi fumi nocivi e perso qualche neurone a seguito di ciò, mi fissa dalla cattedra aspettandosi che possa rispondere alla sua domanda, ma io fatico a trovare la soluzione che cerca.

Ho passato il weekend a festeggiare il mio diciottesimo compleanno con chiunque avesse un ruolo importante nella mia attuale esistenza, crogiolandomi continuamente nei ricordi di ciò che ho fatto con Seth - per questo, ogni volta che ho cercato di leggere gli appunti riguardanti le leggi di Boyle, ho finito con il perdermi in estatici secondi di completa nullafacenza. Però non posso permettermi l’ennesima insufficienza, non quando a rischio ci sono la mia vita sentimentale e sociale.
Se al mio curriculum scolastico si dovesse aggiungere un altro votaccio darei a Catherine un deterrente perfetto per esiliarmi nelle quattro mura domestiche che compongono l’abitazione dei Raven - quindi, seppur io non abbia idea di ciò che sia corretto dire, mi ritrovo a scavare tra i ricordi delle lezioni precedenti. 

«Si tratta di una legge… una legge riguardo ai gas».
«Quali gas?».

Panico.
«I… nobili?»

Miss Sorrento sospira. Suppongo sia la risposta giusta, anche se è difficile capirlo da quell’espressione stralunata che ha.
«E cosa comporta?»
Il desiderio di voltarmi verso qualche compagna si fa forte, ma desisto dal farlo - sarebbe un inutile spreco di energie, visto che nessuna di loro è abbastanza magnanima, altruista o amichevole dal venirmi incontro in questo momento di bisogno.
«La relazione tra… temperatura e pressione» provo a dire avvalendomi del fatto che tutte le ultime lezioni hanno riguardato la tematica dell’abbassamento o innalzamento delle temperature nei confronti degli elementi.

Un tempo, o più precisamente il semestre scorso, ero stata brava a mantenere la media costante, ora invece a ogni nuova domanda mi ritrovo sempre meno sicura delle mie capacità-

«Solo?» La professoressa annota qualcosa sul proprio taccuino e l’ansia si fa più minacciosa.
«No! No. Certo che no» abbozzo un sorriso, ma temo che appaia più come un ghigno disperato.
«Quindi?»
«La relazione tra temperatura, pressione e… v-volume

Finalmente annuisce e un peso mi si leva dal petto.
Grazie al cielo arrancare è una tecnica che mi riesce bene, sennò a questo punto sarei morta per mano della donna che mi ha messo al mondo e che, oltre a me, ha altri due figli fin troppo diligenti.

«Perfetto, allora mi scriva la formula, Miss Raven».

Di male in peggio, insomma.

Mi volto verso la lavagna con lo stomaco contorto su se stesso per l’agitazione, cercando un gesso con cui scrivere qualcosa che al momento mi è ignoto - già, perché conoscere i fattori non vuol dire saperli assemblare.
Cerco di perdere quanto più tempo possibile, ma alla fine mi è inevitabile scampare all’umiliazione pubblica a cui andrò incontro dimostrando la mia ignoranza.

Stringo le dita intorno al cilindretto bianco, ne appoggio la punta sulla lastra scura e deglutisco a fatica. Davvero pensavo che il karma mi avrebbe graziata dandomi Seth e lasciando invariato tutto il resto? La mia stupidità è davvero così sconfinata?

Scrivo la prima sigla, aggiungo un uguale e, quasi come un miracolo, la campanella suona giusto nell’istante in cui comprendo di non saper proseguire. Di eventi così mistici, fino ad oggi, avevo solo saputo l’esistenza nei telefilm.

Svelta mollo la presa sul gesso: «Santo cielo, che peccato!» dico strofinando le mani per togliermi la sensazione di sporco dalle dita: «L’ora è già finita? Avrei davvero voluto concludere, Miss Sorrento, però devo proprio scappare. Sa, ho impegni inderogabili che mi stanno aspettando».
«Jane, l’avverto che non abbiamo finito qui. Per ora mi segno una sufficienza scarsa, ma la prossima volta continuiamo, ha capito?»

Faccio sì con la testa, anche se sto già ficcando libri e matite dentro lo zaino e delle sue intenzioni future non mi interessa nulla: Caroline mi sta aspettando e io non voglio correre il rischio di restare invischiata in una situazione tanto compromettente da rovinarmi il pomeriggio.

Nel marasma di studentesse che si alzano concedendosi commenti e battutine sulla giornata scolastica appena trascorsa - e probabilmente anche sulla mia performance durante questa inaspettata interrogazione - svicolo tra i loro corpi temprati da anni di palestra, danza classica o pallavolo, cercando quanto prima una via di fuga dalla prigione che è la Saint Jeremy.
Mancano solo pochi mesi, mi ripeto mentre avanzo, poi finalmente potrò dire addio a questo luogo e a tutte le figlie di papà che lo rendono tanto angosciante; già, perché se non fosse per loro e l’evidente noia dei docenti nello svolgere il loro lavoro, questa scuola potrebbe persino essere accettabile, ai miei occhi.
Varco la soglia dell’aula a grandi passi, mettendo piede nel corridoio quasi fossi entrata nel giardino dell’Eden - peccato che, a differenza di un posto così idilliaco, qui viga un vociferare tanto intenso da ricordare piuttosto un purgatorio stracolmo.

E la testa, che già durante la lezione aveva preso a dolore, sembra pulsare ancor di più.


In balìa del mal di testa, e troppo esausta per combatterlo, lascio che la fiumana di alunne mi conduca verso le scale, poi oltre il portone di ingresso e, una volta raggiunto il marciapiede, mi concedo il lusso di un sospiro. 

E’ finita, e anche oggi sono sopravvissuta.

Alzo gli occhi al cielo, piegando il collo all’indietro e concedendomi un nuovo, liberatorio sospiro. Quando spalanco le palpebre scopro le nuvole sopra di me muoversi lente, sono sospinte dalla stessa brezza leggera che mi solletica la pelle oltre le collant. Le guardo vagare nell’azzurro come pecorelle smarrite, portando con sé il profumo della primavera.
E’ un peccato doversi negare a una giornata di tale bellezza, rinchiudersi per la maggior parte delle ore diurne dentro quattro mura opprimenti e ascoltare senza sosta gli sproloqui dei docenti dovrebbe essere un crimine verso tutto il corpo studentesco - eppure pare quasi che nessuno se ne renda conto.

«Jay!» la voce di Caroline mi distrae dal panorama, facendomi nuovamente abbassare lo sguardo verso terra. La vedo avvicinarsi sgomitando tra la gente, le labbra arricciate in una smorfia infastidita. Nonostante sia più alta di me, il suo essere tanto esile la fa passare quasi inosservata in mezzo alla folla e, alle volte, osservarla ha un chè di comico.

Mi volto completamente nella sua direzione, aspettandola senza muovere un passo e, quando finalmente sfugge al casino creato dalle nostre compagne, mi si getta al collo sorridendo.
«Mi sembra di non vederti da una vita! Mi hai ignorata per tutto il weekend!» bofonchia a ridosso del mio orecchio. Si stringe a me con entusiasmo, forse nascondendo dietro alla gioia anche una sottile vendetta - e come biasimarla? Ho trascorso questi giorni con tutti tranne che con lei.
E Charlie, ovvio. Però, a differenza di Benton, Caro ha risposto a tutti i miei messaggi, mi ha tartassata nonostante la distanza e gli impegni: lui invece è sparito.

Rido, pizzicandole il fianco: «Da quando sei diventata la mia fidanzata?»
«Ahi!» Mugola subito prima di schiaffeggiarmi le dita: «Io sono la tua anima gemella, non una fidanzata qualsiasi!»
Incrociando le braccia al petto volta il capo, strappandomi con fin troppa semplicità l’ennesimo sorriso. Comportandosi a metà tra una bambina e una commediante finisce sempre con il farmi ringraziare il karma di averla condotta a me - perchè con la sua spontaneità riesce a rallegrare anche le giornate più tese. Caroline è, in sintesi, quell’amica che ho desiderato per tanti anni durante la crescita, la figura che bramavo di avere accanto ogni volta che le cose, nel mistico mondo da femminuccia in cui mi ritrovavo, andavano male.
E’ una persona che ride alle mie terribili battute, alle volte controbattendo con commenti persino peggiori e, nonostante le poche stranezze mi contraddistinguono, non si allontana mai. 

Ed è forse è giunto il momento di introdurla del tutto alla mia realtà, magari partendo proprio da colui che, per la maggior parte del tempo, mi sottrae alle uscite con lei.

«Ah, sì? Allora dovremmo informare Seth della cosa, non pensi?» 

La ragazza davanti a me sgrana gli occhi, la sua sorpresa è tale che pare essere arrivata la notte di Natale: «Intendi…? Oddio, davvero? Sto per conoscere l’inumiditore delle tue mutandi-» le tappo la bocca prima che qualcuno possa sentirci. Preferirei evitare che una qualsiasi delle signorine della Saint Jeremy si ritrovi a udire simili commenti, dopotutto potrebbero usare queste informazioni contro di me in modi pressoché inimmaginabili e, al momento, gradirei non incorrere in tali evenienze.


«Se ti azzardi a continuare la frase, no!» Il rossore sul mio viso ad ogni modo potrebbe tradire qualsiasi tentativo di nascondere l’imbarazzo, così strattono Caroline, oltrepassando il primo angolo disponibile e pregando qualunque divinità di non peggiorare la già di per sé frustrante situazione.

«Ti prego,» esorto la mia amica: «non dire certe cose ad alta voce, né qui né di fronte a lui».
«Quindi me lo presenti?»
Il suo entusiasmo nel ripetere la domanda mi fa sospettare che non abbia dato alcuna importanza al tono o al significato delle mie parole, però il sorriso che ha in viso è sufficiente a farmi tirare un sospiro e rinunciare. Sembra tenerci veramente a questo incontro, ma non riesco a capirne il motivo. Curiosità? Neuroni latenti? O forse è un’altra di quelle cose, a me sconosciute, tipiche dell’amicizia tra ragazze? Vorrei saperlo, peccato che in quest’ambito io abbia la stessa inesperienza delle relazioni amorose.

«Promettimelo però» dal basso del mio metro e settanta parecchio scarso le lanciò un’occhiata bieca. Dubito fortemente che dalle sue labbra possano uscire commenti innocenti, dopotutto ho appurato varie cose in queste settimane: Caro è loquace, alle volte non presta nemmeno attenzione a ciò che dice, apparendo così infinitamente sincera; è spumeggiante, un po’ come Jim Carrey in “The Mask”, però è anche terribilmente buona e affettuosa. La sua spontaneità in alcune occasioni mi è parsa difficile da gestire, eppure è una delle cose che più ho apprezzato di lei.

Annuisce, allargando il sorriso: «Ci provo, però non ti assicuro nulla» mi avverte, forse conscia come me del suo carattere tanto particolare e, prima che possa aggiungere altro, mi afferra per la mano, incamminandosi verso un punto del tutto casuale.
Dovrei dirle che la fermata del nostro autobus è dall’altra parte?


 

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Capitolo 25
*** Chapter 20: You wake up from every dream (part two) ***




Chapter Twenty

§ You wake up from every dream §
part two

 

"Wake me up, from this dream that never ends.
Haunting me, Haunting me till my bitter end.
Wake me up, from this nightmare that I live.
Something inside of me keeps on giving in.
"

Crown the Empire, Wake me up

 

Mentre giravamo intorno all'isolato, cercando di raggiungere la fantomatica fermata dell'autobus che ci avrebbe condotte a Camden, le mie papille gustative hanno preso a immaginare l'appagante sapore dell'Earl Grey che fin da stamattina ho bramato con eccessiva intensità e che, finalmente, avrei potuto gustare.

Durante il viaggio poi, ho provato ancora a esortare Caroline dal dire qualche sciocchezza o associare le mie voglie alimentari a qualcosa di meno appropriato, soprattutto di fronte a Seth, in modo da distrarmi dai suoni poco aggraziati emessi dallo stomaco - e lei, ridacchiando e facendo smorfie, mi ha agitata più di quel che avrei voluto. Per questo, ora, mentre i passi si mischiano ai pensieri, aggrovigliandosi a ogni metro in meno che ci separa dalla caffetteria, il mio corpo si fa più rigido. 
Le mani frugano nelle tasche della giacca, tirando fili e allargando buchi che ancora non mi sono decisa a chiudere.

L'ansia aumenta a ogni falcata e d'improvviso mi rendo conto di cosa sta per accadere: renderò reali due desideri che hanno avuto vita solo nella mia fantasia. Sì, perché mai avrei pensato di ottenere una migliore amica e un fidanzato nello stesso lasso di tempo e, ancor meno, avrei pensato che uno dei due potesse essere il ragazzo per cui, negli anni, ho imbevuto il cuscino di saliva.

Alzo gli occhi dalla punta delle scarpe al viso sorridente di Caro e, guardandola, mi sento sul punto di cambiare idea, così involontariamente rallento.
Lei si sente strattonare lievemente, allora volta il viso verso di me - è confusa, tanto quanto lo sono io. Non c'è nulla di cui aver paura, eppure mi sento le gambe molli. Non stiamo facendo niente di illegale e proibito, ma nonostante ciò avverto la sensazione che qualcosa possa andare male.
«Che hai?»
Mi mordo il labbro, finendo con il fissare la porta che, a qualche metro da noi, ci separa da Seth. Oltre a quell'anta in vetro e legno, su cui una meravigliosa scritta dipinta a mano invita a entrare, c'è la pasticceria, nonché sala da tè dove il mio ragazzo lavora da quasi quattro anni. Con Jace e Charlie ci sono venuta più volte durante il corso del tempo, eppure non mi sono mai sentita così fuoriluogo. 
Con loro era diverso, più... semplice, sì. Quando venivo in questo locale affiancata dalle loro presenze non c'era la mia plateale dichiarazione di essere qui solo ed esclusivamente per lui, così come sta per succedere; era una forma di innocenza che adesso mi sembra svanita. C'è l'ovvietà della sua mancanza, il mio bisogno di vederlo - in particolar modo dopo che sabato sera ci ha fermati, allontanandomi un poco. Anche se non l'ho ammesso, la parte delusa era sicuramente più grande di quella sollevata e non sono riuscita a impedirmi, durante i momenti in cui ho rivangato ogni singolo istante di quella notte, di sentire una stretta intorno al cuore.

Perché, proprio lui che di ragazze ne ha avute a volontà, ha frenato me?

«No, è che stavo pensando... magari lo disturbiamo, non credi?»

Lei corruga le sopracciglia, fermando del tutto la nostra avanzata: «Siamo clienti, non andiamo certo lì per far comunella con lui!» Si batte il palmo libero sulla pancia: «Guarda che è da stamattina, quando abbiamo parlato di far merenda insieme, che il mio stomaco reclama cibo!»
«Okay, ma f-» cerco di resistere, ma Caroline potrebbe rinunciare a tutto tranne che agli zuccheri.
«Bla-bla-bla! Non mi interessa, Jay. Io ho fame, quindi entro e mi presento, tu che fai?»

Resto un attimo in dubbio, spostando lo sguardo dalla porta a lei, poi nuovamente sull'ingresso.
Perchè mi preoccupo tanto? Cosa c'è di sbagliato? Che io sia o meno la sua ragazza, sono qui per altri motivi, non certo per distrarlo dal lavoro - mi basterà fingere indifferenza, concentrarmi sulle chiacchiere con Caro e tutto andrà bene, no?

Scuoto la testa: «Sì, è solo un po' di ansia... sei la prima a cui lo presento».
«Ecco, brava!» Mi dice tornando a sorridere e prendendomi a braccetto come una vecchia amica: «Ora muoviamoci che qui lo stomaco reclama cibo» e non solo il suo, anche se al momento fatico a capire dove finisca la fame e inizi l'agitazione.

Riprendiamo il cammino, così come il battito del mio cuore accelera di colpo.

Una volta varcata la soglia sarà tutto ufficiale, ci sarà un terzo testimone a conoscere di lui, di noi - dovrò quindi trovare il coraggio di dirlo anche a Liz e... Jace. Già, perché ho evitato di parlargli per tutto questo tempo e lui, forse ancora arrabbiato dopo la nostra ultima telefonata, non ha fatto chissà quale sforzo per farsi vivo; giusto qualche messaggio, ma nulla più. Se prima la nostra era una gara a chi chiamava per primo, ora è una sfida a chi cede per ultimo - peccato che la cocciutaggine dei Raven sia dote risaputa.
Oltrepassiamo la soglia accompagnate dal tintinnio di una campanella e, prima che me ne possa rendere conto, veniamo sopraffatte dal profumo di dolci appena sfornati, caffè e lievi aromi fruttati.
Il giallo e il verde pastello riempiono i nostri occhi, mentre linee retrò si mettono a giocare con gli arredi e gli ornamenti, illudendoci di essere tornare indietro nel tempo.
Guardando questo posto, tutto si potrebbe dire tranne che vi lavora un tipo come Seth, eppure lui è uno dei camerieri e baristi di punta, nonché il caposala in assenza dei proprietari - due pasticceri ormai in pensione, ma ancora estremamente pimpanti e giovanili.

Caroline mi trascina dietro di sé, ammaliata da qualcosa che assume forma solo quando ci soffermiamo sull'enorme vetrina piena di torte colorate e pasticceria di ogni tipo. Biscotti e leccornie varie ci fissano, dando sfogo alla sinfonia dei nostri stomaci vuoti. Emettono brontolii profondi, poi acuti; alcuni sono prolungati, altri durano solo qualche istante e, grazie al cielo, a condividere questa imbarazzantissima performance musicale con me c'è lei.
«Hai visto che meraviglia?» mi domanda, negli occhi una scintilla eccessivamente luminosa che mi preoccupa: «Per quale ragione mi hai nascosto questo paradiso?» Con le dita Caroline si aggrappa alla mia giacca, mimando un mancamento. Il suo caschetto biondo e amaranto mi sfiora il viso, solletica la pelle ampliando la risata che segue la sua pantomima. 
E' una gioia averla accanto in momenti di tale agitazione, la sua leggerezza rende le mie ansie meno pesanti.
«Ti prego, sediamoci! Ho bisogno di ordinare» sussultando si raddrizza, riprendendo a camminare alla ricerca di un tavolo libero e un po' appartato per poterci concedere qualche chiacchiera complice - e mentre avanza lungo la prima sala, io mi ritrovo a cercare Morgenster in ogni angolo del locale.

Fisso i visi dello staff, alle volte le loro schiene. Sono pochi e faccio in fretta a identificarli, così come ad altrettanta velocità capisco che tra loro non c'è alcuna traccia di Seth - eppure sono certa mi avesse detto che oggi era di turno.
Che ci sia stato un cambio di programma? Oppure...?
Sposto gli occhi sulla punta delle scarpe in vernice: e se fosse una bugia?

D'un tratto Caro si ferma ed io, troppo occupata ad arrovellarmi sulla terribile ipotesi che la mente ha formulato, finisco con l'andare a sbatterle contro. L'impatto con la sua schiena è più delicato del previsto, forse perché a dividerci c'era davvero poco spazio, però è sufficiente a farmi strizzare le palpebre e bofonchiare: «Ehi!»
Lei non reagisce, piuttosto stringe la presa sulle mie dita.

Schiudo le ciglia.

«E' lui, giusto?»

Quando lo sguardo torna a fissare la sala di fronte a noi, quella laterale e più appartata, mi ritrovo a sentir le gambe bloccarsi al pari di bastoncini di legno - nella loro rigidità però, li sento fragili, troppo sottili per sorreggere il peso della mia sorpresa.
Davanti a noi, con il busto rivolto verso la direzione da cui siamo venute e il profilo tagliente a osservare negli occhi un cliente, c'è proprio colui che stavamo cercando, il ragazzo per cui abbiamo fatto tanta strada e che ho temuto d'incontrare, dubbiosa che questa incursione potesse fargli piacere. 
Sul viso ha l'espressione seria che tanto gli sta bene, quella che ultimamente mi è capitato di vedere spesso, mentre addosso porta il grembiule color caramello del locale che, con le sue forme squadrate, copre una camicia nera le cui maniche sono arrotolate fino ai gomiti, lasciando scorgere buona parte dei suoi tatuaggi. Una delle braccia si allunga verso il tavolo che sta servendo, lì dove, mi accorgo ora, due mani lo tengono stretto - sono rovi dalle unghie rosse che s'inerpicano avaramente sulla carne.

Sì, quello è Seth. E quella seduta di fronte a lui è l'ultima persona che avrei voluto vedere.

Mi sento strana, quasi stessi perdendo coscienza del corpo.

Perché Sharon è qui?

La presa sulla mano di Caroline si fa dolorosa, ne sono certa perché avverto le sue falangi pungere sotto alla pelle, ma lei tace e mi sfiora il dorso in un gesto di comprensione e sostegno.

Restiamo bloccate sulla soglia delle due sale, fissando impietrite e confuse la scena.

Sharon ha la fronte aggrottata, la bocca color ciliegia leggermente aperta in un'espressione di dubbio. Pare non capire qualcosa - e lo guarda dritto negli occhi, provando e probabilmente riuscendo ad ammaliarlo con la sua innegabile bellezza. D'un tratto la vedo muovere le labbra, dire qualcosa che non riesco a udire e men che meno interpretare. Parla a Seth in quel modo tutto suo, complice - ed io vorrei non notarlo. Vorrei chiudere gli occhi e negare a me stessa ciò che sto vedendo, magari accorgendomi che si tratta solo di un brutto sogno - ma non riesco a farlo.
Caroline si rende conto della situazione senza che io debba proferire parola, ha sviluppato una sorta di empatia che in questo momento non posso far altro che ringraziare, così sibila: «Dai, andiamo altrove» e si volta, pronta a sgattaiolare via e darmi modo di esplodere - perché so di star trattenendo qualcosa di catastrofico, lo sento agitarsi dentro. Non ho idea di cosa sia, se delusione, amarezza, disperazione o rabbia, so solo che è lì e aspetta il momento giusto per mandare in frantumi le fantasie create in questi ultimi giorni.

E' ovvio che ci sia qualcosa in sospeso, che Sharon sia qui per riprendersi ciò che è suo. E come biasimarla? Non posso, dato che l'ho desiderato anche io. Peccato che lei sia sicuramente meglio di me sotto un gran numero di punti di vista, quindi la sua vittoria nei miei confronti è quasi scontata - quando si alzerà da quel tavolo, Seth avrà già deciso di spezzarmi il cuore.

La ragazza accanto a me si volta, mi sposta e, nel cercare di trascinarmi via, non si accorge di urtare qualcosa. Qualcosa che fa rumore. Qualcosa che tintinna e cattura l'attenzione dei due che abbiamo osservato in silenzio fino ad ora.

Sharon è la prima ad accorgersi della presenza, evidentemente sbagliata, della sottoscritta in questo posto. Mi identifica ancor prima che io possa rendermi conto dei suoi occhi su di me, sul viso evidentemente arrossato che cerca di contenere il pianto. 
Questa volta, quando le sue labbra si muovono, mi è fin troppo facile leggere le parole che pronuncia: "Oh, guarda, Jane!" e inevitabilmente allontano lo sguardo per scorgere Seth. Chissà se si sarebbe mai aspettato di vedermi qui; se nei suoi piani c'era la mia apparizione. Chissà se aveva creduto che questo posto diventasse abbastanza sicuro per ospitare il suo incontro con lei; se aveva pensato che avrei agito come una qualsiasi persona normale, avvertendolo della mia visita.

Scorgo la sua bocca, il "merda" che sputa. Lo vedo scrollarsi di dosso la presa della sua... ex? O è ancora la sua ragazza? Ed io cosa sono, quindi?
A grandi passi prova ad avvicinarsi a noi, nella sua espressione è evidente l'ansia, il dispiacere - mi pare quasi di tornare indietro al giorno del nostro primo bacio, della litigata con Jace e del pugno sul mio viso, ma a differenza di allora, adesso, sono troppo sconvolta per permettergli di raggiungermi. Caroline mi strattona con più forza e mentre lui cerca di venirci incontro, noi ci allontaniamo svelte.

Ti prego, non lasciare che ci raggiunga, prego la mia amica, senza però dirle nulla. In questo istante la gola è troppo secca per permettere alla voce di uscire, sono in totale balìa dello shock per rendermi conto di dover deglutire. Così mi aggrappo a lei, ma se noi siamo frenate dall'educazione per metterci a correre, Seth ha la confidenza di chi conosce questo luogo e le sue regole, per questo può permettersi di osare - e ci raggiunge, mi sfiora la spalla bloccandoci sulla soglia dell'ingresso.

Come ha detto lui, merda!
 

 

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Capitolo 26
*** Chapter 21: Keeping my promises ***





Chapter Twenty One:

§ Keeping my Promises §

 

"So one day he found her crying

Coiled up on the dirty ground
Her prince finally came to save her
And the rest she can figure out
But it was a trick
And the clock struck twelve
Well make sure to build your home brick by boring brick
Or the wolf's gonna blow it down
Keep your feet on the ground
When your head's in the clouds"

 

- Paramore, Brik by boring brick


 

 

Una parte di me lo aveva sperato. In un angolo recondito avevo supplicato che la fermezza di Caroline mi evitasse questo momento, eppure Seth è stato più imperioso di qualsiasi tempesta abbia mai visto scagliarsi su Londra in questi ultimi anni. Ha scosso fronde con i suoi respiri grossi, ha allagato le strade con le sue obiezioni e, infine, ha fatto tremare le fondamenta con il suo sguardo.

So che ha cercato di restare calmo, di mantenere un certo contegno; ho visto lo sforzo che ha compiuto attraverso la mascella contratta, ma a ogni attacco della mia amica la sua pazienza ha ceduto sempre più, fin quando non è riuscito più a tenere a freno la lingua. Una lama passata a filo. Un dolore lieve e costante che l'ha convinta ad allontanarsi per non farsi troppo male - ed io avrei voluto andar via con lei, raggiungere l'altro lato della strada e poi camminare via, correre veloci verso un qualsiasi posto che potesse farmi capire cosa fosse successo dentro alla pasticceria, darmi modo di rompermi
Perché ho il cuore di porcellana, ora. 
Se Morgenstern allungasse una mano e con l'indice mi sfiorasse il petto farebbe vacillare i cocci racchiusi nella ragnatela di crepe. I pezzi cadrebbero a terra tintinnando e io mi renderei conto che alla fine ci si sveglia da qualsiasi sogno, anche da quello più bello.

Guardo la punta delle scarpe e vedo il cielo riflettersi sulla verniciatura - i nuvoloni bianchi che mi hanno accolta fuori dalla Saint Jeremy sono ora grosse chiazze scure, minacciano la città esattamente come Seth ha minacciato Caroline; e come sta facendo con me.

Il peso del suo sguardo mi grava addosso con eccessiva intensità ed io vorrei poter mettere fine a questa situazione, dimenticare, togliermi dalla testa le dita di Sharon su di lui, il modo in cui lo guardava, come si sporgeva in avanti per sfoggiare il suo décolleté o le labbra carnose. Chissà quante altre volte l'ha fatto, in passato - sia vicino che lontano dai miei occhi. Vorrei strapparmi di dosso la gioia, l'estasi di queste settimane per riuscire a non soffrire, eppure nulla si dissolve, nemmeno le unghie che infilo nella carne dei palmi per non cedere all'isteria.

«Avrei dovuto avvertirti» sibilo d'un tratto, la voce più ferma di quanto mi sarei mai aspettata. Visto il turbinio di emozioni sfiancanti che mi si agitano dentro non avrei mai immaginato che dalla bocca mi potesse uscire un tono tanto neutro, distaccato. E non so nemmeno se questa frase voglia giustificare qualcosa, però avanza dalla gola oltre le labbra e per adesso basta; mi serve solo fermare il silenzio, in modo da distrarre la mente dai pensieri scomodi.

Da quelle mani.
Da quelle dita che si inerpicano su di lui, che ne accarezzano la pelle ripercorrendo le linee d'inchiostro, che con grandissima probabilità Seth non avrà mai e poi mai allontanato da sé come ha fatto l'altra sera con me!

Premo di più e il dolore mi fa temere il peggio. Forse mi sono tagliata. Forse le unghie hanno inciso mezzelune di sangue nella carne.

Lui fa un passo in avanti, avverto la suola delle sue scarpe strisciare contro l'asfalto, distrarmi dal male con un lieve sussulto, poi la sua presenza diventa incombente. «Smettila» sussurra, quasi costringendomi ad alzare lo sguardo. Chissà che espressione ha, se è teso come prima oppure è più tranquillo adesso che Caro non c'è. Chissà se incrociando i suoi occhi potrò leggervi dentro qualcosa, oppure se sarà lui a vedere le mie debolezze.

Scuoto la testa, tirando un sorriso che mi costa molta più fatica di qualsiasi altro gesto, poi mi concedo il lusso di alzare il viso fino al suo mento.

Cosa dovrei smettere, esattamente?

«Ascolta, Jay...» si morde il labbro, portandosi poi le mani dietro la testa. E mentre lui sposta lo sguardo per soffermarsi altrove, io trovo il coraggio di portare il mio un po' più su. Perché persino in questo momento, mentre sono certa che il ragazzo che ho amato stia per farmi a brandelli, riesce ad ammaliarmi? Perché vorrei aggrapparmi in qualsiasi modo a una speranza quando, sin dal principio, sapevo che avrebbero potuto non essercene mai?
«Sharon è qui perché mi voleva parlare. Vorrebbe riprovarci».

Il cuore mi si stringe, con grande probabilità ha persino perso qualche battito, andando così in confusione.

Come darle torto?, mi domando, ricominciando a premere sui palmi.
E come biasimare te se, ora, dovessi dirmi che sei d'accordo con lei?
Se confrontate siamo come lo spaventapasseri e Dorothy - ed ovviamente non sono io quella a indossare le scarpette rosse. Nessuna persona si lascerebbe attrarre dalla paglia, da un fantoccio assemblato malamente.
Adesso mi mordo la lingua. La strizzo forte. Sanguina.
«Sì, beh... avrei dovuto aspettarmelo» allontano lo sguardo perché mi rendo conto che in questo preciso momento guardarlo in viso è sempre più faticoso, mi stanca tanto che mi piacerebbe chiudere gli occhi e non riaprirli per un po', tempo che passi la tempesta.

Alzo le spalle. Più che per dimostrare indifferenza, per potermici chiudere dentro, difendendomi da qualsiasi frase uscirà tra poco dalle sue labbra.

«Cosa, Jay? Cosa avresti dovuto aspettarti?» Avverto del fastidio e ora è tanto vicino da impedirmi fisicamente di andar via. E temo questa costrizione, temo il fatto che alla fine, come mi sarei dovuta aspettare, Jace avesse ragione - e dovrò ammetterlo davanti a lui. Dovrò farlo quando in lacrime cercherò il suo sostegno.

Seth cerca di afferrarmi una mano, ma io mi sottraggo: «Questo» sbottò prima di digrignare i denti: «Tu e lei nuovamente insieme». Non voglio essere sfiorata, non voglio crollare di fronte ai suoi occhi. Cosa potrebbe pensare vedendomi tanto succube del sentimento che provo per lui? Quali stupidi appellativi assocerebbe alla piccola Jane? Forse che è una sciocca, una bambinetta immatura. Forse che dovrebbe rendersi conto che il mondo reale non ha nulla a che fare con quello dei libri che leggo o dei film che guardo. Forse...
 

«Ma sei scema?»

La mia sorpresa è tale da far sembrare la sua una pallida imitazione.
Morgenstern corruga le sopracciglia, osservandomi con una confusione tutt'altro che comprensibile e poi, di slancio e senza darmi modo di evitare ancora il contratto, mi afferra i polsi, costringendomi a guardarlo fisso negli occhi a mo' di sfida - ciò che mi ritrovo davanti però sono due oceani che non so se vogliano cullarmi o affogarmi.

Lo fisso, sempre più confusa: «Come, scusa?»

Seth scuote la testa, ma i capelli sono così ben fissati che non si muovono di una virgola - è affascinante come l'altra sera, ma nettamente più letale.
«Forse ti sei persa qualche passaggio, in queste ultime settimane» la sua scocciatura trapela da ogni sillaba, ma non riesco a capire quale sia il motivo di tanto fastidio - cosa dovrei essermi persa? Per quale ragione ora la questione si sta concentrando su di me?
«Ti ho fatto una promessa, Jay» le sue mani passano dai polsi al viso, lo cingono con una saldezza che mi preoccupa e d'un tratto siamo a un soffio l'uno dall'altra. Sento il suo corpo premersi contro di me e, nonostante le mani che ora frappongo tra di noi, siamo calore contro calore, respiro su respiro.
Il cuore di Morgenstern palpita a ridosso del mio palmo, la schiena gli s'incurva per arrivare alla mia altezza - siamo vicini perché è ovvio che lui voglia farmi sentire qualcosa, probabilmente la concretezza di ciò che sta per dire.
«Non ti spezzerò il cuore, te lo ricordi? Così come mi impegnerò a tenerti stretta» soffia, sfiorandomi la punta del naso con la propria; ed io non so dove guardare, se osservare le incantevoli labbra che mi ripetono ancora una volta questa formula magica, soggiogandomi, oppure gli abissi che ha al posto delle pupille.
«Non tornerò con Sharon. Non ti farei mai una bastardata del genere. E non importa quante volte mi scriverà o si apposterà qui» sorride appena, ma quell'appena sufficiente a farmi agitare: «Non cedo e men che meno retrocedo, corvetto» mentre lo dice però, mi vengono in mente le parole di Jace, i suoi avvertimenti - e la paura monta nuovamente. Nonostante voglia credergli, perché il mio desiderio di aggrapparmi a lui è forte, mi ritrovo a sospingerlo. Lo allontano di qualche centimetro e i nostri nasi ora non si sfiorano più.

Quante bugie potrebbe dirmi? Quanto grande e diramata potrebbe essere la sua rete di sotterfugi? Perché se in amicizia non avrei dubbi nell'affidarmi completamente a lui, in amore è un'altra storia.

«I-io... come faccio a crederti? Le premesse...»

Mi interrompe, staccandosi definitivamente. Tra noi torna a esserci lo spazio di una spanna, una voragine che non aiuta affatto la mia già latente sicurezza. Il cuore mi batte ancora a un ritmo del tutto scoordinato, eppure non conosco la procedura da seguire per farlo calmare.
Vedo il ragazzo di fronte a me frugare sotto al grembiule. Cerca qualcosa e, dopo qualche istante, sfila le mani, porgendomi il proprio cellulare: «Guarda tutto ciò che vuoi. Social, messaggi, chiamate. E' tuo finché sarà necessario».

Lo fisso incredula. Mi sta realmente lasciando il suo telefono?
Sta davvero mettendo tra le dita di un'impicciona l'oggetto nel quale si nascondono più segreti?


Afferro il suo pegno.
A quanto pare, sì.
E non ha idea di quale passo falso abbia fatto - perché scoprendo ciò che si sono detti lui e Sharon nelle ultime settimane, potrò indagare anche la ragione del litigio con mio fratello.

«Non mento, stavolta puoi fidarti» fa un passo indietro, abbandonando nelle mie grinfie il suo smartphone: «Quando avete finito» fa un cenno vago in direzione di Caroline che, ancora, ci fissa dall'altra parte della strada: «me lo ridai. Io stacco alle sei».

Sposto lo sguardo da Seth a ciò che ho in mano, fisso lo schermo. Perché inizio a sentirmi in colpa?

 

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Capitolo 27
*** Chapter 22: No response ***




Chapter Twenty Two:

§ No Response §

 

"She's a little lost girl in her own little world
She looks so happy but she seems so sad

Ah ah oh yeah oh oh oh yeah"

- The Ramones, She talks to Rainbows


 

 

Caroline mi raggiunge prima che possa capire per quale ragione io senta questa insolita sensazione, quasi avessi commesso un'azione riprovevole che però non ho idea di quale sia. So di aver sbagliato da qualche parte, ma comprenderne il dove e il come diventa quasi un'impresa titanica, Sicuramente non si tratta del fatto che andrò a leggere le conversazioni tra Seth e Sharon: avendo avuto il permesso di lui non c'è alcuna conseguenza che io possa temere, o almeno questo è ciò che mi ripeto. Oltre a questo però, se Morgenstern ha ceduto il suo telefono con così tanta sicurezza le ragioni possono solo essere due: ha detto la verità sin dall'inizio, oppure crede che mi fiderò ciecamente di lui - e se mi conosce sa che non sono in grado di frenare la curiosità.

Così mi arrovello sul motivo di tanto disagio, sul perché mi senta a questa maniera. Forse è per l'aver dubitato delle sue promesse? Per aver credo che per lui potessi davvero essere una tra le tante? No, forse ciò che mi preoccupa di più è il fatto che andrò a cercare ciò che, è ovvio, mio fratello e i suoi amici mi stanno tenendo segreto. Senza che loro lo sappiano li tradirò tutti e tre - perché seppur mi abbiano più volte esortata a lasciar perdere la questione, servendomi mezze verità, io non riesco a far finta di nulla.

«Allora?» la voce di Caro mi riporta alla realtà e battendo le ciglia più e più volte mi ritrovo a fissarla. Negli occhi ha la scintilla febbrile dell'ansia, dal naso le escono grossi respiri e stringe le dita intorno al mio braccio per essere certa che non cadrò a terra da un momento all'altro. Teme che le cose siano andate male, ma non sono certa di poter definire la questione in questi termini.

Titubante le indico il telefono: «Mi ha lasciato questo» sussurro, stordita a causa della moltitudine di emozioni provate e dai sensi di colpa che sento gravarmi addosso, «Ha detto che posso controllare io stessa se tra loro c'è qualcosa». Mi mordo il labbro, indecisa sul come agire. Dovrei aggiungere altro? Fare qualcosa? Non ne sono sicura, ma lei è certamente molto più reattiva di me, così afferra lo smartphone, corrugando le sopracciglia: «Ti ha dato il suo telefono?»
Annuisco.
«Quindi hai accesso a ogni singola cosa presente qui dentro?» con l'unghia cozza contro lo schermo, mentre i sensori rivelano il suo indice, illuminando la schermata. C'è una foto di Morgenstern, Benton e Jace messa in verticale, nel senso opposto a come dovrebbe essere. Sono uno accanto all'altro, i capelli acconciati nei modi più disparati: mio fratello ha una cresta che gli lascia ciocche sparse intorno al viso, Seth li ha scompigliati, lunghi davanti e sempre più corti dietro, mentre Charlie ha una moltitudine di spike che gli stanno malissimo. C'è chi beve una birra, chi ha la sigaretta a penzoloni tra le labbra e chi fa la linguaccia, però paiono tutti e tre incredibilmente sereni. Deve essere uno scatto di qualche anno fa, penso. Probabilmente si tratta di un pre concerto dai risvolti punk e, più lo guardo, più mi domando perché non si possa tornare a momenti del genere. Mi manca vederli insieme, saperli tranquilli. Mi manca invidiare la loro complicità - ma soprattutto mi manca farne parte.

Nuovamente asserisco.

«Come minimo ha cancellato tutto!» Afferma Caroline bofonchiando, scettica di fronte a ciò che ci attende. Se non fosse successo tutto così velocemente e inaspettatamente lo sarei anche io, però la sequenza di eventi è dalla parte di Morgenstern in questo momento.
«Dubito... non ha avuto tempo per far sparire le prove» ancora una volta affondo i denti nella carne del labbro inferiore, provando in qualche modo a scaricare la tensione.
«Vuol dire che gli credi?»
«Vuol dire che ora scopriamo la verità e...» deglutendo mi ritrovo a valutare per l'ennesima volta se sia corretto, da parte mia, ficcare il naso nelle conversazioni avute con i suoi migliori amici. Dubito fortemente che questo rientri nei permessi concessimi.
«E...?» Nuovamente la ragazza accanto a me mi riporta alla realtà.
«E potrei scoprire qualcosa in più sul litigio con Jace» dico veloce, in modo che le parole si mangino l'un l'altra e sia impossibile capire nitidamente il piano che vorrei seguire - peccato che lei parli così tanto, e così velocemente alle volte, che riesce a comprendere tutto senza grosse difficoltà, stupendomi.
«Ma guarda un po'» con il gomito mi picchietta sul fianco, ammiccando: «abbiamo una piccola curiosona qui!»
Alzo gli occhi su di lei, nettamente meno propensa al buonumore. La fisso qualche istante, sentendo la pressione sul petto aumentare. «Sto per fare una cazzata?» Nel mio tono si nasconde una supplica velata, il bisogno quasi asfissiante di saper di stare agendo nel giusto - perché se mi sono sentita tradire dall'atteggiamento di Seth, non vorrei mai che, scoprendo di aver sbagliato a giudicarlo così frettolosamente, lui possa provare altrettanto in conseguenza a queste azioni.

Caroline mi prende una mano, intrecciando le dita con le mie: «Probabile».

Ah, ottimo... questo è esattamente ciò che volevo sentirmi dire.

«Però se credi che sia l'unico modo per avere una risposta... beh, sarò tua complice. Certi segreti pesano meno, quando sono condivisi» aggiunge dopo qualche istante, rinvigorendo la presa. Il suo sorriso è dolce, rilassato e, in qualche modo, mi fa sentire mento criminale, così resto qualche istante immobile a fissarla, persa come un naufrago nella sua comprensione. 
In parte sono grata di averla qui, di saperla al mio fianco mentre avanzo nell'ignoto di un cellulare che non mi appartiene e potrebbe rivelarmi cose terribili, ma allo stesso modo sono timorosa di scoprire che potrei essere sul punto di commettere un irreparabile errore - e non sono certa che il suo sostegno sia sufficiente a tenermi a galla. Però, valutando ogni aspetto di quest'insolita situazione, mi rendo conto che i dubbi sono macigni altrettanto pesanti per il mio animo afflitto e, presto o tardi, se non la scomoda verità, saranno loro a portarmi sul fondo e annegarmi.
Ecco allora che a mia volta stringo la presa sulle dita della ragazza che ho accanto, conscia che più tempo aspetto meno le cose si fanno semplici. Mi convinco che non vi sia alcuna azione priva di conseguenze, ma che se voglio mettere a tacere almeno una delle voci che mi ronzano in testa devo essere pronta ad affrontarle e, con il cuore in gola, finisco con l'inserire un codice che ho visto ripetere decine di volte.

Il display si sblocca con un lieve click, catapultandomi di fronte a decine di app che alle volte riconosco e altre mi sembrano ignote, ma solo quando scorgo quella dei messaggi mi ritrovo a domandarmi "da chi parto?". Già, perché nel mio piano non ho messo in conto che il tempo è essenziale, che usandone troppo potrei insospettire colui che, sono certa, mentre serve un caffè o una tisana calda lancia occhiate furtive oltre le vetrine del locale, studiandomi. Devo decidere a cosa, ma soprattutto a chi, dare priorità: se alla mia "relazione" con Seth o alla nostra cricca di amici - e non è scelta facile, perché entrambe le questioni sembrano pesare in egual misura sui piatti della bilancia.

Deglutisco.

Tic, tac.
Tic, tac.
Tic.
Tac.

Partiamo dal problema più recente. Appena avrò messo a tacere i dubbi sulla lealtà di Seth potrò capire se tra le sue mezze verità sulla questione "Jace" ci può anche essere stata qualche bugia, oppure se potrò cavargli di bocca qualche informazione in più.
Così inizio a frugare tra le chat. Parto dai social, dove mi ritrovo a scorrere il dito su una conversazione in cui compaiono decine di tag, qualche commentino di lei, dei "ci vediamo?" o "cazzo, mi rispondi?" seguiti da frasi concise, fredde. 
"No", "Non è difficile, Sharon: abbiamo chiuso" e "Ti prego, smettila. Stai diventando pesante" sono le risposte più frequenti, peccato che risalgano almeno a quattro mesi fa - poi Seth pare abbia solamente smesso di darle corda. Passo ai messaggi, pregando di aver tempo per scoprire anche qualcosa in più su ciò che riguarda mio fratello, ma qui la sequenza di botta e risposta tra Morgenstern e la sua ex si fa più intenso, alle volte pare persino prendere i toni di una litigata.

Torno indietro fino alla data del nostro primo bacio e di quel pugno involontario, forse qualche giorno prima. Sharon gli chiede di parlare, di spiegarle meglio la situazione, ma lui si rifiuta, dice che è stanco di continuare così e che al momento ha altre questioni per la testa, ma lei non capisce, cocciuta come è sempre stata continua a insistere. La discussione si protrae, c'è qualche tentativo di chiamata e video-chiamata, ma lui li rifiuta tutti e lei si infuria, le scappa qualche minaccia.

Avanzo tra le conversazioni, ritrovando una Sharon sempre più insistente e un Seth schivo, annoiato, alle volte persino arrabbiato - finché, in un ennesimo tentativo da parte di lei, lui sbotta con un "Ti è chiaro o no, che c'è un'altra persona adesso?" e a quel punto, i tentativi della sua ex di attirare nuovamente le attenzioni di lui rasentano quasi lo squallore.

Esco dalla chat.

Ho il respiro grosso e il cuore che batte all'impazzata, agitato. Lo sguardo corre dal display a una delle vetrine fumè della pasticceria - e lì intravedo la sua sagoma, china su un tavolo che dà sul marciapiede. Sorride a due anziane, si lascia rubare da qualche chiacchiera di circostanza, ma scorgo i suoi occhi tentare di arrivare a me.

C'è un'altra persona, adesso - e a quanto pare sono io.

Caroline bofonchia, facendomi allontanare da Seth: «Non ha detto bugie».
«No, a quanto pare non l'ha fatto», però da lui me lo sarei aspettato - da uno del genere ce lo si aspetta sempre. Non è forse così? E' il ragazzaccio di turno che compie il passo falso, calpestando con il suo peso il fragile cuore della protagonista che, improvvisamente, pare essere un'arancia matura. Così, appena il piede di lui si preme su quel frutto succoso, inconsapevole di quale disastro stia per prendere luogo, questi esplode in modo orribile, spappolandosi ovunque.
Non che sia importante, a dire il vero, tanto finché non macchia i vestiti o rovina le scarpe non c'è nulla di cui temere - è solo un frutto, il mondo ne è pieno. Ed io mi sarei aspettata proprio questo da Seth, invece lui si è accorto del mio cuore, lo ha spostato in modo che, avanzando, non possa finirgli sotto le suole, anche se l'ho temuto per tutto il tempo. Dal giorno in cui Jace è partito non ho fatto altro che immaginare e temere quel momento, arrivando a sfiorarlo più volte con le dita e i pensieri grazie all'eccessiva paranoia.

«Jay?»
Osservo Caro, confusa.
«Tutto bene?»
Annuisco, sforzandomi di sorridere: «Sì, ho solo bisogno di qualche ora per calmarmi» e non mento. Sicuramente dopo questo pomeriggio così stressante avrò bisogno di chiudermi in camera e mettere a tacere ogni cosa, magari concedendomi anche qualche lacrima, chissà. Non era mai capitato che mi sentissi così travolta dalle emozioni, specialmente negative, vedendo Morgenstern accanto a qualche ragazza - e se in passato mi ero limitata a tenere il broncio, fumare qualche sigaretta in più o rubare l'ennesimo tiro da una canna sconosciuta, stavolta mi ci vorrà altro, uno sfogo vero e proprio.

«Vuoi andare a casa?» le dita di Caroline abbandonano la mano per sfiorarmi il polso, cercano di lenire qualcosa che nessuna delle due comprende, ma che entrambe sappiamo esserci.
La fisso cercando di carpire qualcosa che forse a me sfugge e a lei no, ma non trovando alcuna risposta riporto gli occhi sulla schermata delle conversazioni.
«Finisco qui, okay?»
Lei asserisce, appoggiando una tempia sui miei capelli e usando il braccio libero per cingermi, passandolo tra la giacca e lo zaino. A questa distanza mi è impossibile ignorare il suo profumo, sa di ciliegio e vaniglia. Mi inebria dolcemente mentre, come me, anche lei si rimette a guardare il display. Così prendo a scorrere tra i nomi e le date, ripercorro avanti e indietro la lista, ma qualcosa non torna.

Più avanzo e torno indietro, sino ad arrivare alla nostra conversazione di ieri sera e quella del suo capo stamane, più mi domando se la vista non mi stia giocando qualche brutto scherzo: perché tra i destinatari non c'è Jace? 

«N-non... non lo vedo» mi sfugge, mentre la confusione ha la meglio su qualsiasi altra emozione provata nelle ultime ore. Che stia diventando cieca? No, sicuramente il suo nome mi sta solo sfuggendo a causa dell'ansia - e allora corrugo le sopracciglia tanto da sentir male, eppure, nonostante lo sforzo, continuo a non vederlo.
«Nemmeno io...» sento echeggiare accanto all'orecchio dopo qualche istante.

Ma non è possibile, no? Due migliori amici dovrebbero scriversi, soprattutto se divisi da decine di centinaia di chilometri. Non dico che la loro corrispondenza debba essere quotidiana, ma quantomeno dovrebbe esserci. Allora perché qui non c'è nulla? Perché se torno indietro, tanto da arrivare a tre mesi fa, di Jace non vi è nemmeno l'ombra?

Come un fulmine a ciel sereno però, mentre ripercorro la lista alla ricerca di mio fratello per l'ennesima volta, il nome di Charlie cattura la mia attenzione.

Fermo le dita.

Magari se guardassi qui dentro...

Mordo il labbro, indecisa. 
Sono consapevole di non aver previsto l'eventualità di ficcare il naso anche qui, eppure al momento sembra essere l'unica fonte d'informazione a me disponibile. Di Jace non c'è traccia, così come non ho visto chissà quante conversazioni di gruppo - e nelle poche che ho scoperto, il nome di mio fratello non compare. Quindi che alternative ho? Praticamente nessuna: così pigio sul nick di Benton, aprendo la discussione.

Se fossi onesta ammetterei di sentirmi una traditrice nello spiare le loro chiacchiere, però per adesso vorrei evitarlo, in modo da trattenere ancora per un po' i sensi di colpa. Compiendo questo gesto non sto tradendo solo la fiducia di Seth e Jace, ma anche quella di Charlie, colui che dal giorno del mio compleanno ha mantenuto un silenzio tale da farmi dubitare della sua esistenza, e la cosa non fa altro che rendermi ancora più ridicola e infantile, oltre che inabissarmi in una fossa in cui potrei rimanere sepolta; eppure non retrocedo. Basterebbe un tasto e potrei fingere che non sia mai successo, evitando così ulteriori casini, ma non riesco a premerlo, ritrovandomi invece a leggere.

Ciò che trovo però, è sicuramente ben diverso da quello che mi sarei aspettata e di primo acchito mi pare persino non avere alcun senso. Ci sono le solite chiacchiere amichevoli, le battute più disparate e link vari collegati a chissà quali pagine web, poi, quasi dal nulla, un messaggio inviato da Morgenstern e a cui Benton non ha mai dato risposta.
"Possiamo parlarne?"
E alzando ancora una volta lo sguardo sulla vetrina, più confusa di quanto non fossi all'inizio di questa ricerca, mi domando di cosa dovessero parlare - cos'hai combinato, Seth?

 



 


 

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Capitolo 28
*** Chapter 23: True friends stab you in the front (part one) ***




Chapter Twenty Three

§ True friends stab you in the front §
part one

 

"It's funny how
Things work out
Such a bitter irony
Like a kick right to the teeth
It fell apart
Right from the start
But I couldn't even see
The forest for the trees
(I'm afraid you asked for this)
You got a lot of nerve
But not a lot of spine
"

Bring me the Horizon, True friends

 

Seth ed io abbiamo parlato. Poco, ma comunque lo abbiamo fatto. 
Nel restituirgli il telefono ho cercato di mantenere un contegno che addosso sentivo estraneo, uno scialle fastidioso che non sapevo come farmi andar bene - e quasi certamente lui deve averlo notato. Mi ha fissata per lunghissimi minuti, soppesando le mie parole al pari di un mercante con l'oro e, alla fine, mi ha baciato la fronte con talmente tanto trasporto che ho temuto non mi lasciasse più andare; ma avevo bisogno di allontanarmi dalle sue braccia. Dentro di me sentivo urgere sempre più la necessità di piangere, di liberare la tensione accumulata, però non volevo in alcun modo che lui lo vedesse.

Anche se forse l'ha capito.

Quella sera non mi ha chiamata, probabilmente conscio del mio bisogno di metabolizzare un evento tanto destabilizzante, piuttosto si è concesso un messaggio che, ad oggi, esattamente trentotto ore dopo, continuo a rileggere come un mantra.

"Te l'ho promesso".

Ma ciò non toglie che a dividerci ci sia un abisso chiamato "esperienza", uno spazio tanto ampio da terrorizzarmi - e se io non posso dargli quello che vuole, o a lui non interessa che io lo faccia, la sua promessa potrebbe essere infranta? Potrebbe, alla fine, decidere di spezzarmi il cuore?

Non lo so e a dire il vero vorrei non chiedermelo. Temo la risposta, così come temo di aver issato tra noi un muro invalicabile.

E se avessi rovinato tutto? Potrei aver accidentalmente mandato a puttane la mia unica possibilità con lui?

Sbuffo, spostando lo sguardo dalla finestra al centro della stanza, lì dove altre quindici ragazze discutono senza sosta da quasi un'ora: di cosa, però, mi è oscuro. Già, perché se le mie giornate non fossero già di per sé frustranti, a peggiorare la situazione sono arrivate anche le riunioni pomeridiane delle alunne dell'ultimo anno della Saint Jeremy - ore di totale segregazione accerchiata da donne con il periodo mestruale allineato a tal punto da agitare persino il più temerario tra gli eroi. E me, ovviamente. Ma se da un lato mi sento morire al pensiero di passare i prossimi due pomeriggi rinchiusa qui dentro ad ascoltare il loro vociare civettuolo e confuso, dall'altro provo anche un certo sollievo. Restando all'interno dell'edificio scolastico non ho modo d'incontrare Seth e dovergli spiegare il mio momentaneo allontanamento, anche se la ragione pare ovvia: l'imbarazzo è una brutta bestia.

Fingendo d'interessarmi alle questioni che riguardano il corpo studentesco giro uno dei fogli abbandonati sul mio banco, provando a capire a che punto della discussione ci troviamo - ma a distogliere il mio già latente interesse ci pensa una ragazza della prima fila: «Ma Misha che fine ha fatto?»

Le altre paiono riscuotersi, forse rendendosi finalmente conto di quanto tempo sia trascorso dall'uscita della loro beniamina - un dettaglio che io, invece, nemmeno avevo realizzato. Così, mentre loro iniziano a blatera su dove possa essere la tanto incredibile signorina MacCoy, io balzo giù dal bordo del tavolo urlando: «Ci penso io, ve la trovo in un baleno!» Il sorriso che forzo pare voler bucare le guance.

«Tu, Raven?» mi domanda allibita qualcuna delle compagne. Di certo sarei l'ultima delle loro scelte, vista la poca simpatia che scorre tra noi, ma allo stesso modo, con la scusa giusta, tutto appare accettabile, meno... insolito.
«Beh, devo andare in bagno, quindi uniamo l'utile al dilettevole, no?»
Le megere intorno a me si scambiano sguardi confusi, commenti sussurrati, ma alla fine cedono di fronte a una simile offerta - i loro meravigliosi deretani potrebbero rovinarsi nel compiere movimenti inutili, inoltre non c'è alcun belloccio che possa osservare la loro rotondità quasi perfetta; tanto vale lasciar andare l'indesiderata del gruppo.

«Dille che abbiamo bisogno di lei, ci serve il suo parere».

E anche se la lingua freme all'idea di poter rispondere con qualche seccante battutina, mi trattengo per non perdere l'occasione di sfuggire alle loro voci stridenti. Invece di concedermi l'ennesima cattiveria allargo il sorriso, poi, compiendo poche falcate, mi precipito fuori, liberandomi finalmente di loro.

Un sollievo sempre più intenso si fa largo in me, così, mentre svicolo per i corridoi deserti dell'istituto, stringo tra le dita il pacchetto di sigarette che nascondo nella tasca e, piuttosto che andare alla ricerca di Misha, decido di mettere nuovamente a repentaglio la mia condotta scolastica dirigendomi verso i bagni delle classi inferiori, gli unici che sono certa essere vuoti.

Passo dopo passo avanzo, sorpassando le aule dove altre studentesse si stanno confrontando sui loro programmi e porte chiuse, al cui interno non vi è più nessuno. Sto attenta a non farmi intercettare da nessuno dei docenti ancora presenti nell'edificio e, una volta arrivata nei pressi della mia meta, mi concedo un sospiro.

Poteva andarmi peggio, penso, appoggiandomi con la schiena all'anta azzurro cielo e afferrando la maniglia gelida. Ciò che mi consola, comunque, è il fatto che appena questo supplizio sarà finito potrò supplicare Caroline di fermarsi a far merenda con me - che sia in qualche locale qui vicino, oppure a casa di una delle due poco importa: se c'è la sua compagnia il dove diventa irrilevante. Ho bisogno di lei, delle chiacchiere fugaci e di quelle un po' più complesse; mi serve un consiglio tra pari, non l'ennesima perla di saggezza che potrebbe riservarmi Josephine. Necessito di qualcuno che possa capirmi, non di una donna il cui ultimo corteggiamento risale al Medioevo - per quanto sono certa sia stato favolosamente fiabesco.

Osservo un'ultima volta la desolazione intorno a me, mi crogiolo qualche istante all'idea di potermi concedere della solitaria pace e, infine, abbasso l'asta di metallo, lasciandomi varcare la soglia come un gamberetto che raggiunge Atlantide - anche se a differenza di un luogo tanto mistico questo sa di disinfettante e candeggina.

Mi richiudo la porta davanti al naso, trattenendo il respiro, e lo faccio con una premura che si riserva solo ai momenti di estrema delicatezza. Attendo lo scattare della serratura poi, una volta certa di essere finalmente in salvo, mi lasciando andare all'ennesimo sospiro, socchiudendo gli occhi.

Nicotina, finalmente.

Peccato che, mentre l'estasi di poter concedermi qualche boccata dal filtro giallo prende forma, un gridolino assai ambiguo sopraggiunge alle mie orecchie, paralizzandomi tra l'imbarazzo e la sorpresa.
C'è qualcuno, oltre a me. E quel qualcuno, a quanto pare, si sta ampiamente divertendo, infrangendo molte delle regole presenti all'interno del manuale di buona condotta dell'istituto - una raccolta di atteggiamenti che persino io, più volte, mi sono ritrovata a ignorare.

Ma a questo punto, trovandomi in una situazione tanto singolare, cosa dovrei fare? Non posso certo sgattaiolare via come un ladro, il rischio di essere scoperta diventerebbe terribilmente alto, ma d'altro canto nascondermi in una delle latrine accanto all'altro avventore di questi bagni potrebbe farmi passare per una maniaca: e allora come procedo? Resto qui e aspetto?
No, direi proprio di no. Piuttosto fuggo, almeno avrei il deterrente di aver lasciato la giusta privacy a chiunque si trovi qui con me.

Così faccio per abbassare nuovamente la maniglia e scappare via, ma i gridolini vengono presto coperti da una voce fin troppo familiare, un tono che conosco bene e che, improvvisamente, non mi fa più desiderare di fuggire. In me si fa largo l'annichilante consapevolezza di avere tra le mani l'arma perfetta per mettere a tacere una linguaccia biforcuta, una in più, e ciò mi convince a restare.

«Mi sei mancata, ultimamente».
Misha.
L'irreprensibile signorina Misha MacCoy, colei che avrei dovuto scovare nel dedalo di corridoi della Saint Jeremy, è il qualcuno nascosto come la sottoscritta in questi bagni. Ed è in compagnia. Due piccioni con una fava, se dovessi scoprire che con lei, a dar sfogo alle proprie voglie, c'è qualcun'altra delle sue amichette.

Lentamente mi volto, pregustando già il retrogusto di una rivalsa. 
Aspetto questo momento da anni, dal giorno in cui ho scoperto il suo "segreto", in parte distruggendolo, e lei ha deciso di punirmi.
Sono stata zitta in vece di un rispetto che lei, a me, non ha mai dato, riempiendo le orecchie delle nostre compagne con pettegolezzi sempre più vili nei miei confronti, aizzando con sempre maggior entusiasmo la loro riluttanza nel conoscermi - e adesso potrò avere la mia parziale rivincita.

Sento oltre l'anta della latrina alcuni movimenti, qualcuno che sbatte, che si riveste in fretta e nel mentre ridacchia piano, forse preoccupato di poter essere udito.

«Sei sempre impegnata con quella» sbuffa la rossa, usando il tono che di norma riserva a me, alle rispostacce che mi lancia dal suo banco a metà aula - così muovo un passo, mi avvicino per avere una visuale più appagante. Voglio vedere l'espressione di sorpresa e ansia che la coglierà nel momento in cui si renderà conto di ciò che so e posso usare contro di lei.

La porta del gabinetto si apre pigramente, quasi non volesse realmente mettere fine all'incontro proibito che si è tenuto al suo interno e, insieme a Misha, esce anche un'altra voce: «Quella ha un nome».
Uno sbuffo.
Aspetta...
«E si dà il caso che sia...»

Caroline.

Il cuore perde un colpo, forse un paio.
Mi sento mancare, sopraffatta da un'incredulità che mi nausea e mi fa perdere pian piano coscienza dello spazio intorno a me. 
No, non può essere vero.
Non posso credere a ciò che sta succedendo, sto certamente sognando, eppure... alle spalle della mia compagna intravedo il suo caschetto biondo dalle punte amaranto: è arruffato. Scorgo le sue guance paonazze, prove inconfutabili di ciò che fino ad ora ho supposto stesse accadendo - ma anche le labbra gonfie e arrossate vogliono confutare ogni pensiero profano che ha preso forma nella mia testa.

Finalmente Misha mi nota, i suoi occhi si fanno grandi di paura e stupore. Dalla gola le esce un sussurro, il mio nome. La sua sorpresa riecheggia nella stanza come una baraonda, rimbalza sulle pareti, gli specchi, i sanitari, ma lascia me intoccata e, appena le lettere prendo consistenza, Caro alza il viso su ciò che ha di fronte: la sua migliore amica. O quella che dovrebbe essere tale.
I nostri sguardi s'incontrano, restano sconvolti l'uno in quello dell'altra finché, d'un tratto, l'urgenza di vomitare mi impone di mettere distanza tra noi, di correre via.

Afferro la maniglia spalancando la porta e quasi mi colpisco la spalla nella frenesia della fuga. Mi lancio fuori dal bagno incurante di qualsiasi conseguenza: potrei andare a sbattere contro qualcuno, scivolare, essere rimproverata da qualche professore - ma nulla mi interessa, se non andare il più lontano possibile da qui. 
Ciò che ho visto voglio cancellarlo, ciò che ho sentito dimenticarlo, eppure non riesco e più ci penso, più mi sento male.
Arranco sui miei stessi passi, quelli che a ritroso mi portano in classe, mentre lo stomaco si gira e rigira nella pancia e nelle orecchie sento ancora i loro gridolini, il suono di un tradimento che ha quasi la stessa brutalità di una pugnalata piazzata tra le scapole. Avverto la lama di menzogne sprofondare nella carne, spezzarmi la spina dorsale per menomare la fiducia e le aspettative che avevo ricamato intorno alla nostra amicizia, ciò che ho atteso e bramato così a lungo da credere potesse solo essere una chimera nelle mie fantasie.

Mi precipito in aula e trafelata provo a raccogliere alla bene e meglio le mie cose - non posso restare, non ho la forza per affrontare la questione visti gli avvenimenti di questi ultimi giorni. Ho bisogno di tempo, di mettere in pausa ogni cosa intorno a me.

Così, mentre le altre mi fanno domande, io muovo spasmodicamente le mani e cerco di non scoppiare a piangere, ignorandole completamente. Possono chiedermi qualsiasi cosa, non riceveranno alcuna risposta: ho ben altro d'affrontare al momento.

Carico lo zaino in spalla, avanzando a grandi falcate verso l'uscita, ma appena arrivo sulla soglia dell'aula Caroline mi si para davanti, bloccandomi: «Aspetta, parliamone». Dal modo in cui il suo petto si alza e abbassa capisco che mi è corsa dietro, così come il fatto che la sua divisa sia completamente sottosopra mi fa ben intendere che non si è preoccupata di nascondere le tracce di ciò che è accaduto con Misha. Non ha finito di rivestirsi, più preoccupata per me che per se stessa.

«Levati» ringhio, provando a non dar spettacolo agli occhi famelici delle ragazze alle mie spalle.
«No, ti prego!» Le dita di Caro, quelle che solo qualche giorno fa mi hanno dato sostegno e conforto, ora mi repellono, ma non per ciò che mi ha tenuto nascosto su di sé, che comunque è grave visto il nostro rapporto, quanto più perché hanno toccato e desiderato l'unica persona che negli anni ho imparato a odiare.

La scanso malamente: «Levati di mezzo e basta!» Quasi le urlo. E lei si paralizza. I suoi occhioni da gatta si fanno rossi come il viso, mentre il labbro inferiore prende a tremare.
«Jay, p-per favore... i-io...»
So che sta per scoppiare in lacrime, la sua espressione è loquace, ma ora non riesco proprio a guardarla in faccia e vedere l'amica a cui mi sono affezionata - per me è solo una traditrice.
Alzo le mani, in modo che lei non possa raggiungerle: «Stammi lontana, Caro» e i piedi riprendono a muoversi, allontanandomi da qui.

 

 

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Capitolo 29
*** Chapter 23: True friends stab you in the front (part two) ***





Chapter Twentythree
§ True friends stab you in the front §
part two

 

"I know the game, I've been there
Come back and claim that you care
You say it's always been you
We both know that's far from the truth
I know it's cold and lonely
But I'm not your one and only
"

-Tonight Alive, Dont' wish

 

Gli occhi bruciano, mentre le gambe tremano. Le guance sono segnate dalle lacrime e la coscienza mi chiede: perché sei venuta qui? Non lo so. Non dovrei esserci infatti, però ci sono e devo decidermi sul da farsi. Entro o me ne vado? Ma se scappo, dove potrò cercare conforto?

Allungo la mano, l'appoggio sulla maniglia, poi la ritraggo e faccio un passo indietro. Non è forse ipocrita, da parte mia, presentarmi qui dopo tutto ciò che è successo? E non è forse un atto vile e riprovevole cercare sostegno in una persona che ho ferito?

Sì, ma senza Jace mi sento persa.

Senza mio fratello a dirmi quale mossa sia meglio fare mi ritrovo in balìa degli eventi: non so come tornare da Seth e men che meno come affrontare Caroline - per questo alla fine ho cercato Charlie. Le sue braccia sono il mio rifugio, lo sono da anni, eppure dubito di poter nuovamente buttarmici dentro.

Mordo il labbro. Premo con forza i denti nella carne e questa si spezza appena, riempiendomi la bocca con il sapore del sangue. Era una giornata iniziata male sin dal principio, non potevo aspettarmi che migliorasse con lo scorrere delle ore, eppure l'ho fatto - ed ora eccomi qui. 
Bagnandomi la ferita allontano lo sguardo, provo a sbirciare oltre la vetrina per trovare un appiglio. Aguzzando la vista tra i vinili e l'oggettistica appesa cerco la figura di Benton, la sua schiena, la stoffa di qualsiasi indumento stia indossando oggi in modo d'aggrapparmici e costringerlo a notarmi, venirmi incontro, fare pace.
Sono passati giorni dal mio compleanno, dal fraintendimento, ma lui ai messaggi non ha mai risposto, anche se l'ho sperato ogni volta che con lo sguardo cadevo sul cellulare, lo stesso che ora vibra senza sosta, alternando chiamate ed sms come se fossi la persona più importante del mondo.
So che a tartassarmi è Caro, per questo motivo ignoro ogni notifica - non voglio vederla, ora. Non voglio nemmeno parlarle vista la situazione. Udire la sua voce riporterebbe a galla le risatine complici, i sospiri di piacere, le parole dolci che certamente avrà condiviso con Misha - e la semplice idea mi dà ancora la nausea.

E chissà se anche Charlie, dopo che l'ho messo da parte per Morgenstern, si è sentito così. Chissà se mi ha considerata l'amica peggiore che potesse avere, se si è sentito nauseato dal mio atteggiamento. Chissà su quale spalla ha appoggiato la testa stanca, piena e strapiena di pensieri tutt'altro che allegri, visto che io ero altrove.

Socchiudo gli occhi, sospirando. 
Potrei chiederglielo, ma comunque la mia presenza qui non apparirebbe diversa da quella che è: un atto egoista, un bisogno personale di lui e... 
«Jay?»

Sussulto.
Il cuore prendere a battere svelto, mi agita senza però impedirmi di voltare il capo e incontrare lui, i suoi occhi color mare, il suo ciuffo scuro che si sottomette ai colpi di vento che sferzano di tanto in tanto intorno a noi. 
Tra tutte le persone che avrei preferito non vedere, in un momento di tale delicatezza, Seth era certamente tra i primi della lista. Peccato che ora sia di fronte a me e, nell'esserlo, mi rendo conto che ho sofferto questa assenza. 
La sua presenza mi ha perseguitata tra i pensieri per tutto il tempo che siamo stati lontani, illudendomi di non esserne succube, ma alle mani che fremono, desiderose di stringersi a lui e accaparrarsi avidamente la sua pelle e il suo calore, è mancata. Necessitavo la concretezza del suo corpo perchè, adesso che l'ho assaggiato, che ho scoperto com'è la sua compagnia, come sono i suoi baci e le carezze, comprendo di aver peggiorato un'assuefazione già di per sé grave.
Un tepore lieve mi invade le viscere mentre lo guardo, beandomi della sua bellezza un po' più sfatta del solito - e sono felice di saperlo a pochi passi da me, visto che le gambe provano a tradirmi.
«Che ci fai...?» la sua domanda si blocca, lo stupore tramuta in preoccupazione: «Stai piangendo?» E nel pormi quella domanda fa esplodere nuovamente la frustrazione, piegandomi sotto alla pressione dei singhiozzi.

Lo sento corrermi incontro, poi avverto il viso premersi su un petto bollente. Le sue braccia mi cingono, eppure i singulti non si attenuano, piuttosto si fanno più frequenti.
La mia dignità ormai è completamente persa, sono una bambina che affoga nei propri piagnistei - e lui mi sorregge mentre sprofondo, sussurrandomi di stare tranquilla.

Muove la testa, con il mento mi sfiora la nuca. Passa le dita tra i miei capelli, accarezzando con dolcezza la cute sotto di essi - i suoi polpastrelli sono fuoco puro, scottano tanto che, con gli occhi rossi e gonfi e il trucco colato, alzo il viso in direzione del suo e, a questa distanza ridotta, quello che prima ho definito un aspetto trasandato si fa più definito. Riesco a riconoscere lo sguardo languido e le gote arrossate, la pelle d'oca nonostante il bollore della pelle e gli strati di vestiti, così mi allontano lievemente dal suo petto, corrugando le sopracciglia: «Hai la febbre?»
La voce è impastata, rotta, però udibile senza poi chissà quanta fatica - così Morgenstern abbozza un sorriso, forse per provare a calmarmi: «Credo» dice leggero, quasi fosse una sciocchezza in confronto al resto.
«Credi?» ripeto. La frustrazione provocata dagli eventi a cui ho assistito alla Saint Jeremy si trasforma presto in un'apprensione maggiore e allora allungo una mano, poggiandogliela sulla fronte: è calda.

«Non ho un termometro, nemmeno al lavoro».

La confusione aumenta: «Okay, ma... perché sei qui allora?»
Lui strizza gli occhi, pare faccia fatica a comprendere il senso delle mie parole - per raggiungere casa sua bisogna spostarsi due traverse più in là, prendere l'autobus e percorrere qualche chilometro in direzione Westminster, lo so perché è il tragitto che facevamo insieme quando venivamo via dal negozio: quindi per quale ragione il suo rientro è stato allungato in questa maniera? Perché è finito proprio di fronte a questa vetrina?

«Mi devo essere confuso a qualche incrocio» nuovamente abbozza un sorriso: «Sono un po' frastornato» stavolta dalle labbra gli esce una sorta di risata e si picchietta la testa a indicare le conseguenze della febbre.

Ma se invece...
"Possiamo parlarne?"

D'un tratto il ricordo di quel messaggio mi assale, la conversazione con Benton compare di fronte ai miei occhi e, inesorabilmente, mi domando se non fosse venuto sin qui per lui, esattamente come me; anche se mossi da motivazioni differenti.
Possibile che, avendo concluso il turno prima del previsto, abbia deciso di venire a parlare con il suo migliore amico? Potrebbe realmente essersi spinto sin qui per mettere fine alla diatriba che va avanti da settimane?
Vorrei voltarmi per cercare Charlie, per arpionarlo con lo sguardo e cercare di capire meglio la situazione, eppure, prima che possa farlo, la voce dell'interessato ci coglie alla sprovvista, richiamato dall'eccessivo accanimento dei miei pensieri nei suoi confronti.

«Ehi...» dice trafelato. E il cuore, nell'udire la sua voce, mi balza in gola - peccato che non sia la sola a venir sopraffatta dalla sorpresa. Seth infatti mi afferra la mano, intreccia le dita con le mie e mi muove fin quando con una mezza piroetta il suo braccio non arriva a cingermi le spalle, stringendomi al suo fianco con una certa avidità.

Ora sono faccia a faccia con Benton. 
Lo vedo. 
E' proprio a qualche metro da me e sta bene.

Dal berretto di lana spuntano i suoi meravigliosi capelli leggermente ramati, lisci come spilli che tentano di coprire gli occhi che ci scrutano con sospetto e preoccupazione. Il septum manda piccoli riflessi di luce che provano a catalizzare la mia attenzione sul suo viso e dalle maniche arricciate della camicia a quadri le braccia penzolano stanche, segnate qua e là da qualche crosta o cerotto - lasciti di allenamenti recenti.

Vorrei corrergli incontro, saltargli al collo e ripetere un milione di volte quanto mi dispiaccia di averlo messo da parte, però al momento muovermi mi viene faticoso.

Poco più in alto della mia testa sento Morgenstern rispondere con un altro "Ehi", solo che il suo è più flebile, spossato. Per lui restare in giro deve essere faticoso.

Charlie dapprima guarda lui, lo studia, poi i suoi occhi calano su di me e, a quel punto, muove un passo avanti: «Tutto okay, Jay?»
Sento la trepidazione agitarmi le viscere, scuoterle tutte come vento tra le fronde, eppure aprendo la bocca mi scopro afona. Vorrei rispondergli, parlargli, dirgli un'infinità di cose, eppure taccio. Perchè?

«E' successo qualcosa?» continua, sempre più preoccupato.

E se stesse pensando che il colpevole delle mie lacrime è Seth? E' per questa ragione che avanza verso di noi con sempre maggior serietà? Ma a lui quell'espressione sta male, non deve indossarla! Benton è gioia e risate, abbracci caldi e spensieratezza - così mi affretto ad asciugare gli occhi e le guance con il dorso della mano libera, provando a riacquistare un minimo di compostezza: «No, no...» biascico, ma Morgenstern mi precede.
«Probabile, ma era già così quando l'ho incontrata qui fuori».

Charlie sussulta. Corrugando le sopracciglia fa nuovamente passare lo sguardo dall'amico a me e viceversa, forse cercando di trovare una spiegazione all'insieme di eventi e situazioni - ma non voglio che sappia che sono venuta qui solo per trovare conforto, quando per prima cosa avrei dovuto presentarmi con l'intento di chiedergli scusa.
«No, no... va tutto bene, davvero» tendo un sorriso, anche se lo faccio a fatica: «è per la scuola, lo giuro». Chino la testa da un lato, poi tiro su con il naso dando larga dimostrazione della mia femminilità latente. «O-ora però andiamo, okay? Ci spiace non poterci fermare, ma Seth ha la febbre e...» con le dita preme sulla mano che stringe, mi frena. Sicuramente non vuole far vedere che è in difficoltà - il suo orgoglio non gliel'ha mai permesso, nemmeno con Jace e figurarsi con noi. Neppure essere la sua ragazza mi esula da questi suoi comportamenti; le difese di Morgenstern non si abbassano mai, anche se nei momenti di solitudine, quando mi bacia o mi stringe a sé, mi illudo che accada.

«Anche i diavoli si ammalano?» la domanda di Benton è condita d'ironia e mentre incrocia le braccia al petto, sul viso appare una smorfia meno contrita; si addolcisce improvvisamente, tornando il ragazzo di sempre.

Un angolo della bocca di Seth si alza in una smorfia di maliziosa sfida. Fissa l'amico dritto negli occhi e soffia: «L'aria del Paradiso è un po' troppo fresca per me».
Ma l'altro non controbatte. Potrebbe, eppure non lo fa. Socchiudendo le palpebre pare incassare quel colpo immaginario, poi alza le spalle, arrendendosi.

Un atteggiamento insolito, visto il loro costante battibeccare fraterno.

«Stai molto male?»
Il ragazzo accanto a me soppesa la domanda, si prende qualche secondo per valutare le proprie condizioni: «Credo di poter sopravvivere ancora qualche ora».
«Lo volete un passaggio?»

E a sentire una simile domanda il cuore mi scoppia.

***

Il citofono suona, esattamente come previsto, ed io mi infilo la prima giacca che trovo sul bordo del divano, pigiando un pulsante e urlando: «Vado a prendere le cose!» in direzione della camera in cui Seth si è finalmente deciso a mettere piede per riposare.

Lo sento bofonchiare qualcosa, ma prima che possa aver modo di alzarsi e venirmi dietro scivolo fuori dall'uscio, socchiudendo la porta alle mie spalle.

Scalza inizio a scendere i gradini verso l'ingresso della palazzina, andando incontro a Charlie di ritorno dalla farmacia - mentre ci accompagnava qui ha affermato di avere poco tempo, ma che comunque avrebbe sfruttato quello a disposizione per recuperare un mini-kit di sopravvivenza per l'influenza del suo amico e, nonostante le lamentele e i rifiuti di Morgenstern, io ho accettato per lui. 
In casa sua è pressoché impossibile trovare dei medicinali ancora buoni, così ho preferito sfruttare l'offerta. Inoltre, ciò mi avrebbe permesso di scambiare ancora qualche parola con Benton, il meraviglioso ragazzo che ora mi fissa dal fondo dell'androne.

Mossa dal desiderio quasi incontenibile di raggiungerlo, stargli accanto, parlargli o addirittura sfiorarlo, supero gli ultimi due scalini con un balzo, rischiando la vita in un gesto del tutto innaturale per me, eppure approdo più o meno in sicurezza a qualche passo da lui, titubando una volta messo piede sul marmo freddo. 
Repentinamente, Charlie si sposta sulla mia traiettoria, in modo da impedirmi, in caso di sbilanciamenti, di ruzzolare troppo in là - ma fortunatamente per una volta l'equilibrio mi è amico. Benton, constatando a sua volta questo dettaglio, abbozza un sorriso. Il primo che mi rivolge direttamente, eppure ancor ben distante ai soliti a cui sono abituata; ma è un inizio, soprattutto visto il silenzio che ci ha divisi. 
Allungando la mano verso di me, mi porge la bustina stracolma: «C'è un blister di vitamina C, una confezione di paracetamolo, un flacone di sciroppo e... non sapevo se lo avesse, quindi ho preso anche un termometro».
Fisso dapprima ciò che mi sta dando, poi il suo viso. Non mi sta realmente guardando, piuttosto i suoi occhi restano impigliati da qualche parte tra noi, forse sulle pieghe della plastica. 
Perché è così faticoso osservarmi? 
Ti ho deluso fino a questo punto?

«Grazie» soffio, afferrando il pegno. Il cuore mi si stringe e la voglia di mordermi il labbro pare aumentare con lo scorrere dei secondi. Mi pare vi sia un oceano a dividerci, quasi fossimo su due pezzi di terra che possono guardarsi, ma non toccarsi.
Ti ho davvero ferito fino a questo punto?

«Sì, beh...» fa spallucce: «è pur sempre mio amico. Aiutarlo mi sembrava il minimo, non credi?» ancora quel sorriso a labbra strette, quello sguardo vago. Gli pesa parlare con me, fingere che non sia rimasto deluso dalla mia negligenza nei confronti dei suoi sentimenti. D'un tratto ruota il busto, si volta e sembra sul punto di andarsene, abbandonandomi qui senza alcun saluto, poi però si ferma, dalla sua espressione, che scorgo solo a metà, deduco che si sia ricordato qualcosa. Con le sopracciglia corrugate torna a fronteggiarmi: «Perchè piangevi, prima?»
Mi conosce così bene da sapere che persino il voto peggiore non arriverebbe a urtarmi a tal punto, che per la Saint Jeremy non sprecherei nemmeno una lacrima - e quindi domanda, sollevandomi da almeno un peso.

«E' per Caroline».
«La tua nuova amica?»
«Se così posso ancora definirla...»

Charlie si fa più curioso, ora sento realmente il suo sguardo su di me, finalmente. E' una sensazione piacevole, una carezza calda che scivola dal capo alla nuca, solleticando la pelle.
«Perché non dovresti?»
Stringo la busta della farmacia al petto, i lati delle scatole premono sulla carne infastidendola, però non allento la presa. Seppur ne stia per parlare con lui, il ragazzo da cui sono corsa appena le cose sono andate in frantumi, mi risulta ancora difficile pronunciare la verità ad alta voce.

«Mi ha tenuto segrete delle cose» mi mordo la lingua, la stringo tanto da temere di staccarla: «in particolare che va a letto con Misha» confesso poi, sbloccando la mandibola.

Benton mi fissa un attimo, la sua curiosità si dissipa. Infila le mani in tasca lasciandosi andare a un sospiro: «Capisco».

Solo?
Ha semplicemente questo da dirmi?
Non dovrebbe comprendere la mia frustrazione e abbracciarmi, cercare di consolarmi in qualche modo o darmi dei consigli da fratello maggiore? Perché ora tace? Perché si volta ancora?

«Io no, sinceramente. Lo trovo un gesto spregevole» mi sfugge involontariamente, infastidita dal fatto che le mie aspettative si siano nuovamente rivelate vane. Cosa credevo? Che mi avrebbe perdonata così facilmente? 
Sì.
Mi aspettavo che riprendesse a stringermi a sé per lenire le delusioni? 
.
Avrei voluto sentirgli dire qualcosa, qualsiasi, pur di saperlo dalla mia parte?
Ovviamente. Però non è successo nulla di tutto ciò.

 

Lui sembra trattenere una risata, una di quelle scocciate e io mi ritrovo a sentire la fermezza delle gambe venir meno.
«Davvero? E con quale presunzione, Jay?» Il cuore perde un colpo. Il suo tono è poco più di un sussurro, eppure pare rimbombare ovunque. E' colmo di riluttanza, di stanchezza, di un'esasperazione che preferirei non sentire, ma c'è e mi graffia i timpani. «Non vorrei essere io a ricordartelo, ma tu sei la prima a tenere nascoste le cose, a dimenticarti degli altri». 
Ha ragione, eppure non voglio sentirglielo dire.
Non mi piace il modo in cui la verità esce dalla sua bocca, sa di rancido e scende lungo la trachea fino a diventare veleno per le interiora. Da lui non vorrei mai udire simili parole, mi fa male, un dolore che ora, mentre tutti mi si stanno allontanando, è ingiusto - anche se ho sbagliato.
«E se "gli altri" non possono giudicare di fronte a chi scegli di aprire le gambe, allora perché ti avvali di poterlo fare tu con loro?»

Cosa vorrebbe dire?

«I-io non...» mi interrompe, evidentemente riluttante all'idea di ascoltarmi. 
«Fammi un favore, Jay» ormai è alla porta ed io nemmeno mi sono accorta avesse ripreso a camminare: «Se le vuoi bene, e davvero ci tieni a lei, accetta le sue decisioni a prescindere da quanto ti possano urtare» ora afferra la maniglia, spalanca l'uscio: «Salutami Seth» sibila - e nonostante provi a fermarlo, chiamandolo, lui sgattaiola via sotto ai raggi pallidi di un sole malato.

Perchè vai via?


 

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Capitolo 30
*** Chapter 24: Come to terms with the enemy ***




Chapter Twentyfour
§ Come to terms with the enemy §

 

"So save your predictions
And burn your assumptions
Love is friction
Ripe for comfort
Endless equations
And tugging persuasions
Doors open up
To interpretation
Expecting perfection
Leaves a lot to ignore
When the past is the present
And the future's no more
When every tomorrow
Is the same as before
The looser things get
The tighter you become
The looser things get
Tighter
Not one man can be greater than the sun
"

- Pearl Jam, Dance Of The Clairvoyants


 

 

Seth mi fissa, pare pensieroso. I suoi occhi mi hanno seguita per tutto il tempo, dal momento in cui sono rientrata, con la busta dei medicinali ancora stretta al petto, ad ora, mentre appoggio la tazza con il tè caldo sul suo comodino e rileggo per la centesima volta il dosaggio del paracetamolo.

Cerco di non incrociare il suo sguardo, in modo da impedirgli di leggermi in faccia la tristezza provocata dalle parole di Charlie, però sono conscia del fatto che presto o tardi i nostri visi finiranno per essere uno di fronte all'altro - e a quel punto, mentire mi servirà a poco.

«Se n'è andato?»

Mi mordo il labbro, fingendo di leggere una riga che in realtà non riesco a comprendere, troppo occupata a tenere la mente lontana dall'immagine ancora vivida dell'espressione di Benton, quella fatica fin troppo ovvia nel restare davanti a me e scambiare qualche parola.

«Sì, aveva da fare, non ricordi?»
Morgenstern annuisce, anche se la cosa non pare rincuorarlo in alcun modo, quasi ci fosse qualcosa rimasta in sospeso. Forse voleva ancora parlare con lui, discutere di ciò che è rimasto taciuto dopo quel messaggio; però non ne ha avuto modo, probabilmente a causa mia.

Afferro il blister: due pasticche da 500 mg.

«Avete parlato?» Il cuore inizia a battermi forte, sento l'agitazione stringermi le viscere. Che l'abbia notato? Che si sia accorto della mia distrazione? Vorrei saperlo. Mi piacerebbe così tanto poter entrare nella mente delle persone che amo, scavare tra i loro pensieri e scoprire cosa stanno per dire o si aspettano di sentire. Avere un super-potere al pari della telepatia mi aiuterebbe a evitare moltissimi guai, i fraintendimenti, gli allontanamenti. Eppure non sono l'eroina aliena di qualche fumetto, non c'è alcuna dote speciale a rendermi le cose meno complicate.

Tiro un sorriso, l'ennesimo in questa lunghissima giornata di cose andate male: «Giusto qualche minuto» confesso, appoggiando le pillole accanto al tè, «Te l'ho detto, era di fretta».

Seth mi fissa ancora, con la coda dell'occhio vedo il suo viso rivolto verso di me, solo che ora non ho più nulla che possa tenere il mio lontano, perso in qualche faccenda da infermierina preoccupata.
«Cosa ti ha detto?»
Corrugo le sopracciglia. Nel suo tono c'è una serietà insolita, ma non saprei dire se per via dell'argomento trattato o della stanchezza data dalla febbre.
«Nulla» mento, anche se solo a metà. Non posso certo raccontargli della ramanzina, o di quello squallido commento sulla nostra inesistente vita sessuale: conosco Morgenstern, il suo caratteraccio lo farebbe balzare in piedi e cercare vendetta. «Mi ha semplicemente chiesto perché stavo piangendo, prima» rimetto via il foglietto illustrativo, sedendomi subito dopo sul bordo del letto. La trapunta pare aver placato i tremori, anche se il suo sguardo e le sue guance continuano a testimoniare la presenza della febbre.

«Davvero?»
Annuisco.
«E tu che gli hai risposto?»

Mi bagno le labbra, soppesando le parole da usare. E se anche lui usasse le stesse parole di Benton? Potrebbe, il mio ragazzo, dirmi in faccia che non sono altro che un'ipocrita egoista? E come reagirei di fronte a un suo attacco?

«Che Caroline ed io abbiamo litigato» soffio, sentendo la testa pesante. Sto pensando troppo, forse. E' da ore, se non giorni, che rimugino e mi arrovello su tutto ciò che è successo, un flusso non-stop di dubbi, paranoie e scenari tutt'altro che piacevoli; il confronto di poco fa con Charlie non ha certo aiutato a calmare la situazione al di là del mio cranio.

Lui storce le labbra: «Parli della tipa bionda che avrebbe voluto spaccarmi una sedia in fronte?» domanda, rivangando il loro primo, e alquanto tragico, incontro.
Sorrido di fronte a tale descrizione, trovandola perfettamente in linea con il carattere spumeggiante di lei: «Vedo che te la ricordi bene».
«Difficile dimenticare qualcuno che ti vorrebbe picchiare a sangue, soprattutto in una situazione del genere» stavolta sono i lati della sua bocca ad alzarsi, formando una mezzaluna perfettamente bianca. Nonostante le sigarette e il caffè, il suo dentista fa sempre un ottimo lavoro.
«Già...»
«E perché avete litigato?»
Ora mi volto verso di lui, scruto il suo volto con eccessiva intensità. Mi riterrebbe infantile se gli confessassi la verità? Conoscendolo, so che ne sarebbe capace; la sua lingua è tanto calda quanto tagliente, saprebbe sgozzarmi semplicemente passando a filo sulla pelle del collo - ed è forse per questo che ogni volta che mi bacia temo di morire tra felicità e paura. Eppure, ora, pare non avere le forze per compiere una simile malignità - così cedo: «Non abbiamo propriamente litigato...» Con un movimento sgraziato mi porto le ginocchia al petto: «Ho solo scoperto che si vede con Misha».
Lui ingoia le pillole di paracetamolo, beve un sorso di tè ancora bollente per riuscire a mandarle giù con più facilità e poi, corrugando le sopracciglia, mi domanda: «Che problema c'è se ha altre amiche? Finché non vi costringe a stare insieme...»
«Non in quel senso, Seth. Si vedono nel modo in cui ci vediamo tu ed io» puntualizzo.

«Ora capisco» sogghigna, appoggiando la tazza nuovamente sul comodino. 
«Cosa?»
La confusione ha la meglio su di me, così mi sporgo appena, cercando di leggergli nello sguardo una risposta che già so di non poter immaginare - perché lui è imprevedibile, sfugge dalle dita come la sabbia asciutta e, per questo, si continua a bramare la sua consistenza. Tutto ciò che non ci è assicurato, che in parte resta inafferrabile, è fonte di desiderio.
A sua volta si tira verso di me, staccando la schiena dalla testata del letto e arrivando a una spanna dal mio viso: «Che vuoi l'esclusiva».
Rido, nervosa: «Ma che stai dicendo?»
«Eppure...» una sua mano si allunga verso di me, mi cinge l'avambraccio più vicino e, d'improvviso, cogliendomi del tutto impreparata, mi tira a sé per un bacio.
Dolce, poi avaro.
Le sue labbra si schiudono con sempre maggior frenesia, mentre le dita che non mi stringono prendono a infilarsi tra i capelli, impedendo alla testa di allontanarsi - però io non sono lui, ho bisogno d'aria. Non può chiedermi un'apnea tanto prolungata, non sopravvivrò alla forza delle sue onde, l'ho già constatato più e più volte nel corso di queste settimane.

Ma ecco che, proprio come mi ha sorpresa, avvinghiandomi alla sua bocca, si ferma sorridendomi malignamente.

Apre le palpebre, dandomi completa visione del verde acquoso delle sue iridi: «Pensavo di bastarti».

Ho il cuore in gola, il fiato corto; e non riesco a non chiedermi se il rossore delle sue gote sia dato da questo slancio, con annessa l'ennesima frase d'effetto capace di inumidire gli slip delle giovani e caste fanciulle, o se sia per colpa della febbre che sta salendo.

Deglutisco, provando a mandar giù il cuore e rimetterlo al proprio posto, ma ritrovandomi invece a fallire miseramente.

«Sbaglio?»
No
Però se evitassi di farmi titubare così spesso e mi svelassi ciò che mi tieni segreto potrei cedere con più semplicità. 
Peccato che non possa dirglielo. Non ora e nemmeno così, quindi d'un tratto alzo il palmo, mettendoglielo sulla fronte.

«Ma dici sempre tutte queste scemenze, quando hai la febbre?»

***

Dal tavolo della cucina, dove con Liz fingo di studiare per qualche imminente esame, odo il campanello d'ingresso suonare un paio di volte, poi scorgo la sagoma di Josephine passare oltre l'arco che collega la stanza con l'androne, in direzione della porta.
«Aspetti qualcuno?» domando a mia sorella, tutta occupata a completare un esercizio di matematica che io nemmeno saprei da che parte iniziare. Lei nemmeno alza lo sguardo, resta fissa sulla sua calligrafia perfetta. Nonostante il rappacificamento, alle volte fatica ancora a considerarmi come un membro effettivo della famiglia, o un essere vivente dotato del verbo.
«No».

Così torno a fissare con curiosità lo spicchio di spazio che mette in comunicazione i due ambienti, avvertendo lo stomaco stringersi un poco.

E se fosse Charlie? Magari è venuto sin qui per accettare le mie scuse, per chiarirci una volta per tutte, visto che continua a ignorare i miei messaggi... Oppure è Seth? La febbre dovrebbe essergli scesa, quindi potrebbe benissimo aver deciso di venire a farmi visita; sarebbe un mefistofelico invito a rinunciare allo studio ed io, da santa quale non sono, cederei con fin troppa semplicità alla sua tentazione.

Peccato che quando nostra nonna compare, infrangendo i miei sogni, al suo seguito non c'è nessuno dei due, bensì la ragazza che meno di tutte mi sarei aspettata di vedere qui, tra le mura di casa Raven. A dire il vero, nemmeno sapevo che conoscesse il mio indirizzo: mi avrà forse fatta pedinare?

Resto interdetta a fissarla, così come sembra far lei, poi dal nulla Elizabeth si riscuote dal torpore dei suoi infiniti calcoli, infrangendo la cappa di silenzioso astio che si è andata a creare nel momento in cui l'ospite, seppur indesiderato, ha messo piede in cucina: «Oh, cazzo! Misha?» E il suo stupore è quasi paragonabile al mio, se non ci fosse di mezzo anche una nauseante dose di ribrezzo.

«Ciao» lo sforzo che compie nel sorriderci non potrebbe essere nascosto da nessuna dote teatrale - e la cosa è reciproca, o almeno per la sottoscritta, visto che mia sorella prova per la signorina MacCoy la stessa ammirazione di molte nostre compagne. Ovviamente ignare del suo segreto.
Liz salta in piedi, incurante dei pantaloni con gli orsacchiotti che indossa: «Santi numi, che ci fai qui? No, no! Scusa! Accomodati pure. Posso offrirti qualcosa? Una coca, acqua, caffé... o forse preferisci del tè?» E' così agitata da sputare una domanda dietro l'altra, trasformandosi in una mitragliatrice umana di quesiti del tutto inutili. Inoltre, dovrebbe sapere che non bisogna mai offrire qualcosa al nemico, nemmeno un tè alle cinque del pomeriggio.

Misha scuote la testa: «No, grazie mille. Sono qui per tua sorella a dire il vero».
«Che?» domando io, all'unisono con la mia consanguinea - non so nemmeno dire chi, tra le due, sia più sconvolta da una simile confessione.
«Sì, dobbiamo parlare».
«Tu ed io?» è difficile trattenere l'ilarità di fronte a situazioni tanto assurde, così mi sfugge una mezza risata che, di conseguenza, mi fa guadagnare un'occhiataccia ben più severa del solito. A quanto pare sono l'unica a trovare ridicola una possibile conversazione tra me e lei.

«A meno che non abbiate una terza sorella...»
«No! No, abbiamo solo un fratello maggiore» Liz cerca nuovamente d'apparire carina, ma sfortunatamente per lei, con la sua incomprensione dell'ironia della nostra ospite, dà reale dimostrazione di essere imparentata con me. Un punto a suo sfavore, se voleva ingraziarsi una tra le ragazze più popolari della scuola.
«Sono a conoscenza dell'esistenza di... Jace, giusto? Ma grazie lo stesso per la precisazione» ancora una volta le sue labbra sforzano un'espressione amichevole, peccato che non sia abbastanza brava: «Ora, di grazia, puoi vestirti e venire con me, Jane?»

La fisso, soppesando la sua richiesta. Perché dovrei seguirla? Per quale ragione dovrei sprecare il mio tempo uscendo con lei? Non ha forse rovinato la mia vita a sufficienza? Non è forse per colpa sua se la mia adolescenza è stata costellata da momenti di totale inadeguatezza all'interno delle mura scolastiche?

«Di cosa dovremmo parlare, noi due?»
«Lo sai».

Ah, giusto... della sua ormai-non-più-segreta tresca con la mia migliore amica.
Ma voglio farlo? Non dovrebbe forse essere Caroline a presentarsi qui in lacrime e chiedermi di poter parlare e chiarire la situazione?
Mentre me lo chiedo però, un flashback mi riporta a ieri, a quelle scale i cui gradini, sotto ai calzi, mi sono apparsi gelidi come lo sguardo di Charlie. La sua voce inizia a riecheggiare nelle orecchie e improvvisamente mi sento schiacciare dalla consapevolezza di non poter comportarmi così di fronte alla questione - quindi annuisco, alzandomi.

«Fammi mettere una felpa e le scarpe» e così dicendo, nemmeno dieci minuti dopo, mi ritrovo al fianco della mia nemesi a percorrere un marciapiede pressoché vuoto.
Camminiamo una accanto all'altra con le mani in tasca e lo sguardo perso un po' ovunque; l'importante è non guardarci a vicenda, perché renderebbe la situazione ancor più strana di quel che già è.

Avanziamo in silenzio per qualche centinaio di metri, allontanandoci il più possibile da orecchie indiscrete di qualsiasi persona presente nel quartiere, come se oltre a Liz ci possa essere qualcuno che vuole impicciarsi dei nostri affari. 
Io fumo pigramente, lasciando che sia il vento, più che i miei polmoni, a respirare la nicotina della sigaretta, mentre lei di tanto in tanto soffia via dal viso le ciocche sfuggite dalla coda. Il rosso dei suoi capelli, alla luce del sole, pare essere fuoco.
«Sai, Jay» d'un tratto, forse convincendosi di essere arrivata abbastanza lontana da poter intavolare la conversazione per cui è venuta fino a casa mia, la sua voce irrompe tra noi sotto forma di sussurro: «a me Caroline piace».
«Davvero?» fingo stupore. 
Lei mi lancia un'occhiata bieca, rallenta il passo e alla fine si ferma, costringendomi a farlo a mia volta. Per poterla vedere devo girarmi e alla fine finiamo faccia a faccia.

«Hai finito di fare la stronza?»
Alzo le spalle, dubbiosa. Non che mi vada molto, ma a quanto pare le alternative sono meno di quelle che avrei sperato e visto che non riesco a scrollarmi di dosso il disprezzo con cui Charlie mi ha colpita finisco col sospirare, arrendendomi.
«Non sarei mai venuta da te, se non fossi seria» si morde il labbro, un po' come faccio anche io: «dopo quello che mi hai fatto...»
«Che ti ho fatto? E cosa ti avrei fatto esattamente, Misha? No, perché da quel che so sei tu che mi stai rovinando la vita da ben tre anni, per non dimenticare che ti scopi la mia migliore amica!»
La ragazza davanti a me contorce la smorfia, un mix di rabbia e confusione a cui non riesco dare una reale spiegazione, poi muove un paio di passi in avanti, accorciando la distanza tra noi in modo evidente.

«Tu hai idea di quanto sia stata dura, per me, stare ogni giorno nella stessa classe della persona che mi ha spezzato il cuore? E' ovvio che mi dovessi sfogare in qualche modo!» La sua voce prende toni acuti, mi pizzica i timpani in modo fastidioso - e sinceramente trovo le motivazioni del suo odio per me infinitamente assurde. Dopotutto non ho scelto volontariamente di rinnegare il suo amore, è stata una conseguenza ovvia ai sentimenti che già provavo per Seth. Non ho deciso di rifiutarla per puro sadismo, semplicemente non trovavo alcuna attrattiva in lei. Per quanto bella, Misha MacCoy non potrebbe mai farmi innamorare di sé; non al pari di Morgenstern, quantomeno - e questa è una cosa incontrollabile.
Mi afferra per i lacci della felpa, tirandomi più vicina: «Jay, ho fatto fatica a ignorarti. Tu eri sempre lì, davanti a me, sia in classe, fisicamente, sia in altri momenti semplicemente tra i miei pensieri, e non sapevo più come lasciare andare la presa sui sentimenti che nutrivo per te, eppure li combattevo ogni giorno. E poi è arrivata lei. Caroline mi ha fatto dimenticare te» ha gli occhi fissi nei miei, un'espressione tanto seria che per la prima volta mi asciuga la gola. Cosa dovrei risponderle? Come potrei difendermi di fronte a questa sua confessione?

«E sai una cosa? Non sono disposta né a mettere a repentaglio quello che c'è tra noi, né a vederla triste ogni giorno per colpa tua! Sant'Iddio! Non dovresti essere la sua migliore amica? O l'unica, per quel che ne so...»

Mi mordo la lingua.
Anche Charlie ha detto una cosa simile, ma lui nel farlo è stato sicuramente più tagliente.

Sono la sua migliore amica, così come lei lo è per me, quindi non dovrei volerle abbastanza bene d'andare oltre a una cosa di questo tipo? Non è forse ciò che chiedo ogni giorno, a un'entità sconosciuta, quando penso a Jace e Seth e tutto ciò che vi sta nel mezzo?

Pigio forte, lasciando che i denti creino la propria impronta sulla carne della lingua e cercando di mettere da parte l'orgoglio. Sì, si tratterà pur sempre di Misha, ma le risate, le chiacchiere e i momenti di tranquillità con Caroline valgono più del mio disprezzo per lei, soprattutto ora che sento il legame con Benton allentarsi. Pare quasi che i fili che negli anni ci hanno tenuti stretti l'un l'altra si stiano slegando e presto arriverà il momento in cui cadranno a terra, inermi come me.

Non voglio rinunciare anche a Caro, non ora.

«Ho solo bisogno di metabolizzare la cosa, MacCoy».
«Due giorni non ti bastano? Oppure sei davvero tarda come credo, Raven?»

La fisso. Sicuramente, per essere una che è venuta sin qui per sotterrare l'ascia di guerra e chiedermi un favore, non ha idea di quali siano le tecniche migliori per imbonirmi.

«Non è questo il punto, Misha» butto il mozzicone ancora fumante, poi scaccio le sue mani dai lacci della mia felpa, in modo da non aver alcun contatto indesiderato con lei. Rimetto tra noi una distanza "di sicurezza", così da poterla guardare meglio: «Se una persona a cui vuoi bene ti tenesse segreto che si vede con qualcuno che non sopporti, ti starebbe bene? Riusciresti a passarci sopra con assoluta accondiscendenza? Conoscendoti, no. E lo sai benissimo anche tu». Con un gesto di stizza affondo i pugni nelle tasche. 
Per quanto diverse, io e lei abbiamo sicuramente una cosa in comune: entrambe siamo orgogliose. Nessuna di noi potrebbe accettare con facilità un colpo tanto basso, quindi dovrebbe capire la mia riluttanza a tornare da Caroline dopo un tempo così breve. Però voglio farlo, lo giuro, solo a modo mio e secondo le tempistiche biologiche di un corpo e una mente che ora vogliono solo un momento di pace - anche se avrei davvero bisogno di un confronto con lei.

La rossa di fronte a me allontana lo sguardo, evidentemente colta in flagrante, poi prende a picchiettare la punta della scarpa sull'asfalto scuro. Pare riflettere, però difficilmente saprei comprendere il significato dei suoi atteggiamenti.

«Come vuoi. L'importante è che la perdoni».

Mi passo una mano sul viso: «Sì, non preoccuparti. Non la farò scegliere tra noi due».

E rincuorata dalla mia velata promessa, Misha annuisce. Non sembra del tutto certa di ritornare sui propri passi, così, dopo qualche falcata, si gira ancora verso di me: «Tu sarai stata la mia prima cotta andata male, Jay, ma spero che lei sia il mio primo amore... quindi vedi di non fottere tutto».

Alzo una mano, la saluto e al contempo asserisco alla sua ultima precisazione, anche se è un rischio, visto che ultimamente ho dato prova di rovinare qualsiasi rapporto che credevo solido.
 

 

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Capitolo 31
*** Note to the Readers ***



Note to the Readers



Buongiorno a tutti voi, vecchi e nuovi lettori.
Oggi mi intrometto tra le vostre notifiche giusto per darvi una breve spiegazione di ciò che sta succedendo all'interno dei capitoli di questa storia. So che potrebbe non fregarvene nulla, ma
vorrei puntualizzare il fatto che la revisione sta procedendo e che la trama, anche se in piccola percentuale, ha subito delle modifiche a livello sia di stile narrativo, sia di eventi. Come qualcuno di voi avrà potuto notare, molti aggiornamenti sono stati allungati di molto, altri hanno finalmente trovato dei punti di congiunzione tra quello precedente e quello successivo, altri ancora sono stati totalmente eliminati dalla narrazione - e tutto per via del fatto che vorrei offrirvi una lettura che, seppur a tratti infantile e piena di cliché, non vi risulti come una totale perdita di tempo.

"I diari di Jay" è ormai una storia che conta dieci anni di vita, infatti la scrissi prima ancora di scoprire EFP. Negli anni ha affrontato due revisioni, ma nessuna si era mai posta le problematiche che invece ha dovuto combattere ora. Questo ha fatto sì che riceveste notifiche di nuovi aggiornamenti del tutto casuali a livello di numerazione.
Può esservi infatti capitato di vedere il sedicesimo capitolo a successione del nono, così come è capitato con quelli più recenti; ciò accade perché molte volte, al posto di aggiungere, semplicemente modifico una parte già pubblicata, sostituendola con la versione più recente. Ebbene, non  credo che questo lavoro vi venga segnalato dal sito, quindi vorrei farlo io.
Se state leggendo quest'opera, quindi, che sia la prima o la centesima volta, vi invito a seguire la numerazione dei capitoli. Nel momento in cui vedrete che da un capitolo all'altro c'è un divario, sappiate che tutte le parti nel mezzo sono state correttamente sostituite con la loro revisione.
Se vedrete che tra un aggiornamento e quello successivo la numerazione è uguale o molto diversa, affidatevi al titolo e allo stile grafico - molto probabilmente siete passati dalla nuova versione a quella vecchia e vi pregherei di non andare oltre.
Ma perchè? Semplice, perchè come ho già detto, alcune parti sono state tolte o modificate in maniera consistente e questo potrebbe far sì che tutto il testo che ne segue non corrisponda più alla sua versione finale.
Potrei aggiungere o togliere nuovamente delle parti, oppure modificare il corso degli eventi per raggiungere un finale pressoché simile, ma comunque diverso da quello pensato nel lontano 2010.

Detto questo, vi informo che l'ultimo aggiornamento della storia è, ad oggi (20.03.20), "Chapter 24: Come to terms with the enemy".
Mi auguro quindi che questa annotazione sia per voi utile e che continuiate a leggere e, si spera, apprezzare la storia. Sarei davvero grata di sentire le vostre opinioni riguardo a questa mia primissima opera e in caso vogliate saperne di più, vi invito a seguirmi sui vari social e siti di scrittura :)

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Capitolo 32
*** Chapter 25: Things get better, things get stranger (Part One) ***




Chapter Twentyfive
§ Things get better, things get stranger §
Part One

 

"And tell me how could I let go
Since I caught a glimpse of your immense soul
You were dancing to northern soul
Just one glance, and well you know...
"

- Babyshamble, There she goes


 

Apro la porta di casa pronta ad affrontare l'ennesima ed estenuante giornata scolastica. Dopo l'incontro con Misha non ho fatto altro che riflettere sulla questione per cui è giunta sin qui, abbandonando definitivamente anche il vago tentativo di prepararmi per l'interrogazione di oggi. Ho passato le restanti ore del pomeriggio a chiedermi se fosse giusto colpevolizzare Caroline per una scelta non del tutto logica, così come ho trascorso le ore notturne a tormentarmi su quella specie di mezzo confronto con Charlie che, alle mie due chiamate prima di coricarmi, ha nuovamente risposto con del silenzio. Un'estenuante silenzio, aggiungerei.
E stamane ne ho pagato le conseguenze. Lo specchio non ha mentito, nemmeno per un istante. Ha rivelato senza pietà delle occhiaie tanto marcate che nemmeno il fondotinta avrebbe potuto nasconderle - quindi ho semplicemente accettato la stanchezza della mia mente e preparato un'ottima bugia per giustificarne la presenza.

Ma dubito possa servire. Nessuno crederebbe che dopo anni di totale nullafacenza io abbia deciso di prepararmi seriamente agli esami che ci stanno attendendo, gli ultimi. Potrei provarci in tutti i modi, ma basterebbe una domanda su qualche argomento a me vago per far crollare il muro di bugie studiate durante la prolungata seduta sulla tavoletta del water.

Così sbuffo, incamminandomi con Liz verso le aule della Saint Jeremy. Lei mi parla, stranamente, mi racconta gli ultimi pettegolezzi che sono sopraggiunti alle orecchie delle alunne del secondo anno - ma io fatico a star dietro alle sue chiacchiere, sento la testa troppo piena per poter aggiungere qualche nuova informazione, così annuisco di tanto in tanto, ponendo domande del tutto innocue e incapaci di tradirmi. Almeno con lei dovrei riuscire a intavolare la giusta farsa.

Avanziamo svelte verso la fermata della metro, mosse da una ormai consueta preoccupazione nel varcare il portone scolastico dopo il trillo della prima campanella. Percorriamo i metri di asfalto fianco a fianco, un po' come ho fatto con Misha solo ieri, e alla fine ci mettiamo a saltellare per gli scalini che portano ai binari. Lei continua imperterrita a parlarmi di qualcuno o qualcosa di cui non ho voluto comprendere l'identità e, nel mentre, estraggo per la centesima volta il cellulare dalla tasca della giacca in jeans, cercando con inutile assiduità di vedere una risposta che si ostina a non arrivare.

Tocco lo schermo, illuminandolo. Ciò che trovo, seppur non sia un messaggio di Charlie, è comunque abbastanza piacevole da farmi spuntare in viso un sorriso tanto grande da catturare l'attenzione di mia sorella.
«Chi ti ha scritto?» mi domanda curiosa, allungando il collo nella mia direzione abbastanza da provare a sbirciare il nome del mittente. Peccato però che lei non debba vedere quel nome, non può sapere che Seth ed io ci sentiamo, né cosa ci scriviamo, e soprattutto che tra di noi l'amicizia è andata ben al di là della semplice platonicità - beh, a dire il vero non molto... - così mi porto il cellulare al petto, nascondendolo ai suoi occhi indagatori. Se Liz dovesse entrare in possesso di una simile informazione sono certa che la userebbe contro di me o, peggio, rivelerebbe tutto a Jace. E non posso assolutamente permettere che la cosa accada, temo troppo le conseguenze di una simile rivelazione.
Certo, il nostro rapporto è comunque stato compromesso da Gennaio, quando ha scoperto che per l'ennesima volta sono rimasta a dormire dal suo migliore amico, ma per ora ho la certezza che si tratta solo di un'arrabbiatura; gli passerà. Il problema, invece, è che se dovesse scoprire che oltre al pisolino ci sono state carezze, baci, pomiciate varie e una sorta di mezzo orgasmo, potrei davvero spaccare a metà ciò che negli anni ci ha resi così uniti - e già mi basta aver messo a repentaglio il rapporto con Benton; perdere la mia unica e vera ancora in questo mare di esperienze e novità che non conosco e non comprendo sarebbe la fine.

«Nessuno che ti debba interessare».
«Eppure m'interessa. E molto, sorellona». Elizabeth gongola accanto alla mia spalla, si fa sempre più vicina. Ha un'espressione maliziosa che fa ben intuire quali siano i suoi sospetti, ma devo tener duro, in modo da non incasinare la situazione; dubito che dopo la litigata con Jace e il pugno che mi sono presa in uno stupido atto di difesa, mia sorella possa ancora accettare Seth come prima - e già in passato gli era sempre stata lontana, dicendo di sentirsi un po' troppo in soggezione intorno a lui. Quindi le scelte logiche si riducono a una: tacere e negare, in extremis ovviare la questione.

«Da quando t'importa della mia esistenza?» Con un movimento lesto blocco nuovamente la scherma, portando l'aggeggio elettronico nuovamente nella tasca della giacca. Rido, confusa e imbarazzata, così lei rimette una distanza accettabile tra noi. 
Socchiudendo gli occhi, Liz scuote la testa: «Beh, sei pur sempre sangue del mio sangue, prima o poi dovrò accettare la cosa, ma visto che Misha MacCoy è venuta da noi, per te, direi che farlo velocemente sia la decisione migliore per incrementare il mio status sociale all'interno della Saint Jeremy».

E ti pareva! La sua fama di popolarità è talmente grande che sfruttarmi diventa quasi accettabile, ora. Si vede che siamo sorelle: a quanto pare l'egoismo e l'ipocrisia sono due doti condivise.

«Quindi?» domanda ancora, anche se l'arrivo della metro copre quasi completamente la sua voce.
«Te l'ho detto, non ti deve importare» avanzo, pronta a varcare la soglia del vagone e chiudere il discorso al di là di questo cubo di lamiera e cavi elettrici - ma lei non molla, cocciuta.
«Sicuramente non è Caroline, non sorrideresti come un ebete. La tua è un'espressione da cotta».
Mi volto, confusa: «E tu che ne sai?»
«Ho molte più amiche di te, Jay, la mia è un'esperienza acquisita sul campo» con un ché saccente si mette a sedere accanto a una vecchietta, lasciandomi sola e aggrappata a una maniglia che a fatica raggiungo. Come ho già detto, tra le due, quella che è stata graziata con l'altezza non sono certo io. «Per questo so per certo che si tratta di un ragazzo» mi sorride: «Chi è?»
«Fatti gli affaracci tuoi, Elizabeth Raven».
«Qualcuno che conosco?»
Taccio, principalmente perchè già con questa prima domanda ha colto nel segno.
«Chi tace acconsente, quindi direi di sì».
Lo stomaco mi si ribalta. Ma è davvero intenzionata a portare avanti questa discussione?

«E visto che tutti i ragazzi che conosciamo entrambe sono amici di Jace direi... oddio!» I suoi occhi si spalancano, quasi avesse avuto una visione. Alza il viso nella mia direzione, sorpresa. Il cuore prende a battermi forte, mentre lo stomaco gira e rigira su se stesso. «E' il tizio dell'Elder and the Moon? Quello che è sempre gentile e ti dava da bere anche se non avevi diciotto anni?»

Il sollievo pare quasi privarmi delle forze. Grazie al cielo è rintronata quanto me.

«Adrian non c'entra nulla, Liz. Chiude un occhio sul mio alcolismo solo perchè adora Jace. Se ci andassi anche tu ti tratterebbe nella stessa maniera».
«Non si sa mai, dopotutto è un ragazzo discretamente carino, se non fosse un nerd...» fa spallucce, allontanando lo sguardo.
Fortunatamente non ha ben chiaro quale siano i miei gusti in fatto di uomini.

Eppure, nonostante il fallimento non molla, così dopo qualche secondo, mentre le porte automatiche si aprono, la sua voce ritorna a riempirmi le orecchie: «Aspetta...» la fisso, ancora una volta sopraffatta dall'ansia. Lei ha le sopracciglia corrugate, sembra riflettere seriamente sulla questione. Mi aspetto che da un momento all'altro se ne esca con un nuovo nome, però, a dispetto di ciò che sto pensando, mia sorella tace.

Che mi abbia scoperta?

Vorrei saperlo, dopotutto ne va della mia reputazione tra le mura domestiche, eppure non chiedo, in modo da non peggiorare la situazione già di per sé ambigua. Così semplicemente allontano gli occhi dal suo viso, muovo qualche passo verso l'uscita e mi preparo a scendere: la prossima è la nostra.

Il resto del tragitto lo passiamo in un silenzio intervallato, di tanto in tanto, da qualche chiacchiera di circostanza. Mi domanda delle lezioni che avrò oggi e io faccio altrettanto con lei. Mi informa che nel pomeriggio non tornerà con me, che ha un pigiama party a casa di una delle sue amiche ed io annuisco con un sorriso finto, distante - ciò che m'importa è che smetta di pensare alla persona con cui mi frequento.

Più avanziamo, immerse nei nostri dubbi esistenziali privati, più la facciata della scuola si fa grande, torreggiando sopra alle nostre teste al di là delle fronde di alcuni ciliegi. Ci aspetta da oltre le sbarre di ferro battuto, quelle a cui, mi accorgo solo ora, Caroline è appoggiata. Con le braccia conserte e lo zaino accanto ai piedi, deve star aspettando la sua bella Misha, fingendo davanti a tutte le studentesse di questo postaccio di esserle semplicemente amica - e per giorni deve averlo fatto anche con me, quindi non posso negarle di essere un'ottima attrice.

Sospiro, rallentando il passo. Potrei aspettare che entri, in modo da non incrociarla, oppure potrei chiedere a Liz e il suo metro e settanta abbondante di coprirmi - sicuramente una delle due tecniche dovrebbe funzionare, peccato che i miei piedi continuino a procedere, seppur lentamente. Così come mia sorella non si rende conto di ciò che ci aspetta.

Il problema più grande però, è che il mio desiderio di voler rimandare questo momento almeno fino a dopo il weekend pare non essere condiviso dal corpo. E alla fine, ormai troppo vicina per poter fuggire o indietreggiare, lei mi nota. Si accorge di me quasi con sorpresa, mentre sul suo viso compare una sorta di speranzoso fremito.

«Ehi...»
Sorrido a labbra strette, incerta su quale sia la cosa più giusta da fare: «Ciao».

Ci fissiamo in silenzio per qualche minuto, aspettando che Elizabeth si allontani abbastanza da poter avere la giusta privacy e, appena lei sparisce nel cortile, uno strano disagio s'impossessa di me. Come ci si comporta in momenti come questo? Si finge indifferenza? Oppure ci si inizia a gridar contro? Non essendomi mai capitato, non ne ho idea. Dovrei fare io la prima mossa? Oppure è compito suo affrontare l'argomento e chiedermi scusa?

Nessuna delle due riesce a trovare una soluzione, finendo entrambe con il torturarci le labbra o le dita. Con le unghie color pastello Caroline si pizzica i polpastrelli della mano opposta, alle volte si strappa qualche pellicina. Lo fa per sfogare l'ansia, per catalizzare lo stress altrove.

Ed ecco che sospiro ancora, questa volta prendendo coraggio: «E' okay, Caro. Mi va bene se esci con lei».
«Io... non sapevo come dirtelo, Jay... nè di Misha né... di come sono» ora le sue mani si stringono a pugno, pare combattuta: «E' sempre stato un problema, avevo paura che non ti potesse star bene e...» la sua voce non è altro che un sussurro, di tanto in tanto trema, agitandomi, così allungo le dita verso di lei, afferro le sue e me le porto al petto, stringendole. 
«Fidati, la prossima volta, okay?»
Caroline sorride, lo fa dolcemente. Pare che il peso che sento dissiparsi dal petto si stia levando anche dal suo e, seppur vederla o saperla con la mia miglior nemica potrà urtarmi ancora per qualche tempo, vedrò di far buon viso a cattivo gioco - oppure mi limiterò solo a voltare lo sguardo e pensare a cose gioiose

 
 

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Capitolo 33
*** Chapter 25: Things get better, things get stranger (Part Two) ***




Chapter Twentyfive
§ Things get better, things get stranger §
Part Two

 

"All the nights I've prayed
Must this all be untrue?
(I am not prepared to be strong)
I just can't believe I am losing you
(Unprepared to carry on)
(I can't see you walk away)"

- Dead by April, Losing you

 

Già, convincermi che voltare il capo potesse essere sufficiente a ignorare il loro strusciare e flirtare così provocatorio è stata per tutta la mattinata, e il pomeriggio, una meravigliosa illusione, peccato che dopo aver visto un simile accanimento sul corpo l'una dell'altra, mi si sono impresse nella mente scene che avrei preferito mi restassero sconosciute. Non importa quanto io provi a pensare a cose gioiose, loro due restano lì, ben impigliate tra i miei pensieri - e sarebbe fantastico se improvvisamente Seth spuntasse dal marasma, bello e dannato come suo solito, distraendomi veramente da ciò che accade solo qualche metro più in là. Ma lui è in ritardo, ancora, e Adrian è troppo occupato a coordinare i camerieri e gestire le ordinazioni per concedermi qualche minuto del suo tempo - così sbuffo, allungando una mano verso il bancone e afferrando la birra ancora a metà. Magari bere mi aiuterà a rendere meno nitide le immagini che mi vorticano in testa...

Portando il bicchiere alle labbra, sposto lo sguardo nel tentativo di raggiungere il palco dove i membri della band che andrà a suonare stasera stanno ancora montando le proprie cose, peccato che nel compiere un simile movimento del capo, lo spiraglio che si apre tra le persone presenti mi fa scorgere qualcos'altro. Davanti a me si dipana una scena che mi pare irreale, quasi come se stessi guardando qualche telefilm gentilmente offerto da Netflix: lo guardo, dubbiosa, sperando che non sia tratto da una storia vera.
La gola mi si secca e lo stupore si fa tale che per un attimo resto interdetta a fissare come una pazza il tavolo a cui non sono invitata, ma dove Charles Benton se ne sta seduto allegramente, mentre una ragazza dai capelli fuxia e le braccia completamente tatuate gli si stringe contro con fin troppa confidenza.
Ridono alle battute di alcuni ragazzi che ricordo di aver visto allo skatepark dove lui si allena, poi la sconosciuta si mette a strusciare il proprio viso sul suo collo in un gesto tutt'altro che amichevole - direi piuttosto disinibito.

Chi è? Perché non l'ho mai vista e non so nulla della sua esistenza? Da dove diavolo è spuntata?
Non ricordo un solo momento in cui, dalle labbra del mio migliore amico, sia uscito il nome di qualche ragazza oppure un commento ambiguo. Persino alle battute di Molly è sempre stato elusivo, quasi non vi fosse nulla da dire a riguardo - eppure ora è qui, con un braccio stretto intorno alle spalle di lei. E inaspettatamente, proprio quella sconosciuta a cui mi verrebbe voglia di tirare i capelli, d'un tratto alza il viso verso quello di Charlie, rubandogli un bacio; e la mia confusione si fa ancora più grande, mentre una sorta di rabbia prende a inacidirmi la bocca.

Sul serio, chi cazzo è?

Ma non sono la sola a chiedermelo. Dal fianco cieco infatti, una presenza mi si fa vicina: «A furia di fissarli si accorgeranno di te e delle tue tendenze perverse. Sai che i guardoni sono considerati maniaci?»
La voce di Misha mi pizzica le orecchie, mentre la sua spalla s'incastra tra le mie scapole, bloccandomi in una posizione abbastanza compromettente. Come ha detto lei, se si dovessero voltare adesso, mi beccherebbero in flagrante. 
«Sbaglio o quello è l'amico di tuo fratello?» Il suo mento si appoggia sul mio trapezio, si puntella dolorosamente nel muscolo - ed è difficile negare che un brivido non mi sia corso lungo la spina dorsale. Fino ad oggi i nostri contatti si erano limitati a frecciatine scagliate da un capo all'altro delle aule scolastiche, un gesto tanto plateale è qualcosa di insolito, fuori luogo.

«No, non sbagli» bofonchio, provando ad allontanare un poco il viso dai suoi capelli color carota. Nonostante il tentativo fatto in buona fede, il nostro rapporto non è ancora pronto a simili atti di confidenza o confessioni amichevoli; preferirei di gran lunga che, appollaiata sulla mia spalla, ci fosse la testa di Caroline, ma lei non c'è, esattamente come Seth.

«E quella specie di pixie con i capelli fuxia chi è?»
«Se lo sapessi non li fisserei così» taglio corto, sempre meno propensa all'idea di far comunella con colei che fino a ieri era la persona che meno avrei voluto intorno.

«Sbaglio o sento una sorta d'irritazione nelle tue risposte?» Con la coda dell'occhio scorgo sul suo viso un sorrisetto malizioso, un punzecchiare che improvvisamente mi fa passare sia la voglia di bere, sia quella di provare a essere gentile con lei, così mi scrollo di dosso il suo mento.
«Smettila».
«Quindi ho ragione!» Stavolta, al posto di restarmi dietro, mi si sposta di fronte, incrociando le braccia e trasformandosi in una sorta di scudo umano: «Allora la nostra Jay non è santa come Caroline dice».

La fulmino. Che vorrebbe insinuare?
«Ti sbagli, MacCoy, semplicemente non capisco perché tutti i miei amici debbano nascondermi le loro relazioni...»
«Beh, se ogni volta reagisci come hai fatto con noi la risposta mi sembra pressoché ovvia».

Non credo abbia tutti i torti, ma con Charlie sarebbe certamente stato diverso, anche se più lo guardo, più l'amarezza si fa forte. Ciò che vedo non mi piace, seppur vorrei essere felice per lui.
Quella tizia, quella cosa rosa evidenziatore, si sta prendendo i miei spazi, gli abbracci che prima dedicava solo a me e a pochissime altre persone. Ride alle battute a cui dovrei ridere io e chissà se si siede al tavolo della cucina di casa Benton, al mio posto, assaggiando le leccornie di Molly con il mio medesimo piacere.

Mordo il labbro, pigio forte con gli incisivi.

Non riesco proprio a gioire della sua presenza accanto al mio migliore amico. E se lo stesse semplicemente prendendo in giro? Non dovrebbe essere mio compito proteggerlo da un simile dispiacere? Lui dopotutto è un'anima buona, non si merita persone del genere attorno.

Tra i pensieri, d'un tratto, la voce di Misha torna a reclamare la mia attenzione: «Oh guarda, c'è Seth» la sento dire, ma ci metto comunque qualche istante a comprendere realmente l'informazione. Quando mi giro, infatti, è ormai troppo tardi.

Le sue mani si stringono alla mia vita e il profumo della sua pelle m'inebria le narici con dolcezza, dissipando per qualche momento il retrogusto amaro dei pensieri che mi hanno coinvolta fino ad ora. Il suo respiro mi accarezza il lato del collo, sale in alto fino all'orecchio e poi, sfiorando l'elice con le labbra, mi sussurra una tenerezza: «E' la prima volta che sento la mancanza di qualcuno dopo soli tre giorni» ed io potrei dire altrettanto riguardo a questo suo atteggiamento: alle volte fatico ancora a credere che in lui possa esistere un lato così romantico - però lo apprezzo, forse fin troppo. In qualche modo mi fa sentire speciale, anche se la paura di non esserlo è un tarlo fisso all'interno del mio cranio.
«E ancora non avete fatto sess-» con un pizzico violento metto a tacere Misha e la sua linguaccia, pentendomi di aver detto così tante cose della mia relazione a Caroline e volontariamente ignorando il fatto che lei avrebbe potuto condividerle con la sua metà - che ovviamente le avrebbe usate per umiliarmi. L'abitudine è una brutta bestia, si sa.

Rimettendosi dritto, Morgenstern tira un sorriso, uno di quelli che fanno ben capire quanto i suoi nervi si stiano tendendo. Sono certa che da un momento all'altro dalla sua bocca uscirà un commento assai arcigno, uno di quelli che solo nelle giornate peggiori gli ho sentito dire, però, a dispetto delle mie previsioni, non le risponde. Sembra improvvisamente aver perso la lingua, eppure sono sicura che certi dettagli della sua vita privata non voglia vengano divulgati. Ciò che invece succede, è che le sue dita si irrigidiscono sulla mia pancia, premono con un po' più di forza e infine, curioso, domanda: «Quello è Charlie? E sbaglio o è in dolce compagnia?» Il suo sorriso ora si allarga, si fa diabolico e il cuore mi schizza in gola, lo sento bloccare la trachea. L'ansia mi attanaglia senza alcuna spiegazione, quasi temessi ciò che ancora non è accaduto, ma che potrebbe rovinare la serata: dopotutto Benton ed io non ci siamo ancora chiariti e se Seth venisse a sapere cosa ci siamo detti l'ultima volta dubito se ne starebbe buono. Nonostante ultimamente il suo cattivo umore sia stato latente, non si può ignorare il fatto che da un momento all'altro possa esplodere e mandare in frantumi la poca pace ritrovata; come ho detto, è molto geloso di ciò che lo riguarda e crede appartenergli.

«Se la tua amica simpaticona ce lo permette, direi di andare a salutare».
Misha alza le mani in segno di resa, anche se per una volta, forse l'unica, avrei preferito che non lo facesse. Dove è finito il suo spirito combattivo, la sua voglia di opporsi sempre e comunque? Dove diamine è finita la ragazza che mi ha ostacolata per tutti questi anni di liceo?
«Fate pure, io ho una fidanzata da salvare alla fila per il bagno!»

Dannazione, possibile che non collabori mai, nemmeno ora che abbiamo deciso di instaurare una sottospecie di tregua? Ed è proprio grazie a questa sua accondiscendenza, purtroppo, che sento il corpo di Morgenstern premersi al mio, sospingendomi dolcemente verso un tavolo a cui, sinceramente, avrei preferito restare lontana. Non ho idea di come comportarmi, né di cosa dire, seppur ci siano decine di cose lasciate in sospeso.
Così avanziamo lenti tra la gente e la mia speranza, in questo muoverci, resta sempre la stessa: che loro se ne vadano prima del nostro arrivo, cosa pressoché improbabile visto che la band non ha ancora iniziato a suonare, o che qualcuno ci intralci durante il cammino.
Peccato che nessun mio desiderio si sia mai realizzato nel breve termine e alla fine, ci ritroviamo di fronte a Charlie e la sua nuova cricca, un gruppo di sconosciuti che ci fissa in malo modo, soprattutto lei.

Mi auguro che per tutto questo tempo abbia sentito il mio sguardo bruciare sulla sua testolina colorata al pari di una decolorazione andata male, perché adesso che le sono vicina la trovo ancor più insopportabile. Non riesco a vederci alcuna attrattiva, né la bellezza che il mio migliore amico meriterebbe al suo fianco.

Benton allontana le labbra dal boccale che ha davanti, quelle che fino a qualche minuto fa erano incollate alla faccia della sconosciuta, e sorridendo in modo circostanziale, quasi la nostra presenza gli fosse pressoché indifferente, si rivolge a Seth.

A lui, non a me. I suoi occhi nemmeno mi sfiorano, nonostante sia piazzata di fronte al corpo di Morgenstern e lui mi sovrasti di solo una spanna.
Sono quindi diventata un fantasma?

«Chi non muore si rivede, allora» ha gli occhi rossi di chi ha fumato, ma anche languidi a causa della birra. Le guance sono rosse, ma non saprei dire se per il calore oppure per gli ormoni in agitazione - una possibilità assai plausibile, visto che non vedo Charlie avvinghiato a una ragazza dai tempi in cui frequentava il secondo anno del liceo.

Seth allunga una mano, batte il pugno contro quello dell'amico: «Liberarsi di me è più complicato di quel che sembra».
«Sì, dopo quindici anni credo di averlo capito» ride, anche se penso sia per colpa di tutto ciò che ha fumato prima di mettere piede qui dentro, che per reale divertimento; poi si volta verso le persone sedute con lui, quelli che ho supposto essere avventori dello skatepark solo qualche minuto prima. «Ragazzi, vi presento Seth, il mio... migliore amico, giusto?» Ancora una volta il suo sguardo cala oltre me, su un viso che sento al di là delle spalle, quasi a cercare una conferma che non comprendo. Da quando esita? L'ho sentito chiamare Morgenstern "fratello" così tante volte, e con così tanta naturalezza, che mi pare strano fatichi a definirlo semplicemente a questo modo.

«Lei invece è la sua donna, Jane».
Le mie sopracciglia s'inarcano, tradendo la sorpresa che mi assale. Oh, sono solo questo? Sono solo la ragazza di Seth? E la nostra amicizia, gli anni trascorsi l'uno al fianco dell'altra, i giorni passati insieme a ridere e scherzare, il nostro legame: queste cose dove sono finite? Ha deciso di cancellare la mia esistenza a causa di una dimenticanza? Ha deciso di ridurmi a un ruolo marginale all'interno della sua vita? Non mi va di crederci, una simile rivelazione mi ferirebbe troppo - perché lui, per me, è un tassello fondamentale.

Il gruppo alza le mani in segno di saluto, bofonchiano degli "ehi" che nel marasma paiono solo movimenti di labbra. Ed io vorrei non ricambiare, ma la buona educazione, unita all'abitudine, mi impone di farlo - anche se questa gente non mi piace, stona accanto a lui. Dovremmo esserci noi, come nei mesi scorsi.

Anche Seth risponde al saluto, ma prontamente si rivolge alla signorina che Charlie tiene sottobraccio, il fulcro dell'interesse che lo ha spinto sin qui: «Abbiamo notato che sei in amorevole compagnia, non ci presenti...»
«Oh, sì!» Benton annuisce, spostandosi i capelli dal viso: «Lei è Cèline, la mia ragazza».

Ah. Quindi è una cosa seria? Da quanto la conosce?

«Davvero? Beh, sono contento per te! Molly sarà entusiasta di sapere che suo figlio ha deciso di riprendere a frequentare delle ragazze vere».
Nessuno di noi capisce, a parte loro. E' un discorso velato, privato, qualcosa che ai mortali non è concesso - e lo comprendo dal modo in cui lo sguardo del ragazzo seduto davanti a noi s'inasprisce.
«La clausura fa male, sai?» 
Nonostante sia poco più di un sussurro, riesco a sentire della malizia nel tono di Seth. La sua bocca è così vicina al mio orecchio che persino con il caos riesco a comprendere che questi due commenti non sono altro che frecciatine, spilli sottili infilati nella pelle, esattamente come quelli che Misha ed io ci siamo premute nella carne l'una dell'altra.

Ecco il Morgenstern spavaldo, quello che parla per ferire. Ma perchè? Che motivo ha per comportarsi così?

«A te la libertà ha dato alla testa, invece».
«Può darsi, ma almeno non ho rimpianti».

Charlie ride, nervoso. Il suo sguardo si allontana, torna alla birra, e nel mentre le prime note di una canzone prendono a vibrare nello spazio intorno a noi. Le casse sono regolate male, troppo alte per il luogo in cui ci troviamo, così il torace mi trema, insieme alle mani.
Perchè non riesco a seguire i loro discorsi? Cosa mi stanno tenendo nascosto? E' forse un conto in sospeso? Riguarda la litigata con Jace?

Dopo qualche istante di silenzio e un sorso capace di finire tutto il restante contenuto del boccale, vedo Benton invitare la ragazza-evidenziatore ad alzarsi, seguendola subito oltre il tavolo e, frapponendomi involontariamente tra sé e Morgenstern, dice: «Sì, lo abbiamo notato».

Gli tira una pacca alla spalla, un gesto che in altre circostanze avrei decretato scherzoso, amichevole e nel farlo il suo braccio passa a filo del mio viso. L'aria freme, il calore della sua pelle sfiora la mia, il profumo del suo bagnoschiuma sovrasta quello di Seth - e per un istante, uno solo, ricordo il nostro ultimo abbraccio a casa sua, in una camera da letto che mi ha vista crescere insieme a lui, mio fratello e il ragazzo di cui sono innamorata. Perché sento di aver bisogno di tornare indietro a quel giorno? Perché ho la necessità di sentirlo ancora vicino? Perché il mio migliore amico mi odia a tal punto da ignorare la mia esistenza?

Tra loro non vi è altra parola e Charlie allontana dolorosamente la propria figura da noi, sgattaiola via insieme alla sua bella senza nemmeno godersi la performance della band - un evento più unico che raro - e ciò mi fa temere il peggio.

Cosa volevano dirsi con quello scambio sulle libertà e i rimorsi? Cosa li ha divisi, realmente?

Così, appena sono certa che nessun orecchio indiscreto possa udirmi, mi volto verso Seth, girando all'interno delle sue mani: «Perchè lo hai voluto istigare?»
Lui corruga le sopracciglia, non pare capire il mio disappunto: «Stavamo scherzando, Jay...»
«No, non è vero. O quantomeno lui non lo stava facendo».
Mi fissa. Con gli occhi scruta la severità della mia espressione cercando di capire cosa mi stia prendendo, eppure per lui dovrebbe essere facile leggermi, dovrei essere come un libro aperto dopo tutti questi anni.

La presa sui miei fianchi si allenta, ma comunque non si allontana. Mi tiene, forse preoccupato che possa staccarmi dal suo corpo in quello che pare essere il principio di un litigio.

«Cosa gli hai fatto?» domando, certa che vi sia qualcosa nel mezzo - e visto che Charlie è troppo pacifico per iniziare una battaglia senza motivo, la colpa può essere solo del ragazzo davanti a me, che nel tempo ha più volte dimostrato di amare il dramma, immischiandosi in risse e storie complicate, mandando in frantumi i piani altrui e giocando con il proprio fascino.
Il suo sguardo s'indurisce: «Perchè credi che gli abbia fatto qualcosa?»
«Perché tu fai sempre qualcosa! Seth, sei sinonimo di casini» gesticolo, sopraffatta dalla rabbia data dall'ignoranza del momento. Bramo la conoscenza, odiando l'assenza d'informazioni e il fatto che nessuno, tra i tre ragazzi più importanti della mia vita, voglia fornirmi delle risposte.

«E' questo che pensi?» Ora le sue dita abbandonano completamente il mio corpo, sembra che provino ribrezzo. Sul suo viso c'è una maschera d'incredulità, una sorpresa che non comprendo.
«E' questo ciò che so! Tu... tu complichi sempre tutto... e non perché lo vuoi, ma perché è ciò che sei».
«Quindi ho complicato le cose anche a te, giusto?»

D'un tratto, quasi cadendo dalle nuvole, mi rendo conto di quello che ho detto. Forse avrei dovuto tenermelo per me, non era né il momento né il luogo giusto in cui affermare simili cattiverie; seppur vere.

«Ammettilo, Jane. Dimmi in faccia che ti stai pentendo di aver ceduto ai miei baci» si avvicina pericolosamente, si preme a me con una sensualità che improvvisamente mi fa paura. La sua bocca torna accanto al mio orecchio ed io mi irrigidisco: «Le mie carezze, i gemiti che ti ho fatto uscire di bocca. Ammetti che il tuo fratellone si vergognerebbe di te sapendo ciò che hai fatto e ancora no, che temi che Charlie non ti guardi più nello stesso modo... Dillo che ho reso la tua vita un casino e ora vorresti tornare indietro».

No, non è vero. Non è così che stanno le cose. Semplicemente vorrei essere partecipe, in modo da provare a disfare il gomitolo di fraintendimenti e incazzature che hanno annodato con sempre più impegno.
«Seth...» 
«Dillo, Jay».

«No!» Lo spingo via, ma lui non si muove. Scuoto la testa sull'orlo delle lacrime: «Ho solo paura di perdervi tutti, okay?»

Nuovamente mi lascia libera. Molla la presa al pari di un predatore che si accorge di avere tra le zampe un corpo già morto - perde interesse nel lottare, nel divorare. Il suo desiderio svanisce e ora mi guarda con una dolorosa sufficienza.

«Forse hai ragione, sai? Forse gli ho veramente fatto qualcosa».
Già, esattamente come ora ho fatto io con te



Yaga:
Due aggiornamenti in un'unica sera - e tutto per riuscire a mettermi nuovamente in pari.
Spero che l'andamento della storia sia di vostro gradimento e che le migliorie si notino abbastanza da rendere quest'opera degna del tempo che gli concedete.

A presto.

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Capitolo 34
*** Chapter 26: Be a man, not a jerk ***




Chapter Twentysix
§ Be a man, not a jerk §

 

"And she turned around and took me by the hand and said,
I've lost control again.
And how I'll never know just why or understand,
She said I've lost control again.
"

- She's lost control, Joy Division

 

Sabato mi ha ignorata. Domenica anche. Non ha risposto ai messaggi e nemmeno alle telefonate, esattamente come Charlie e quando ho citofonato a casa sua il silenzio è stata l'unica risposta a essermi data. Totale nulla.
Ignara di dove fosse e con chi, ho aspettato per ore accanto all'ingresso del suo appartamento giocando con il telefono, scrivendo a Jace e fumando sigarette che ben presto sono finite, costringendomi ad alzarmi da terra e andare via. Davanti al tabacchino poi, ho riflettuto su quanto fosse utile restare ancora lì in attesa di Seth e, alla fine, ho semplicemente sbuffato e ripreso il cammino in direzione della mia stanza, il luogo dove ho passato quasi tutto il weekend fino all'arrivo del lunedì.

La routine scolastica ha ripreso con il solito ritmo pigro, annunciando settimane di test a sorpresa e preparazione agli esami sempre più imminenti. I mesi che ci separano dal diploma si possono contare sulle dita di una mano, forse meno e ciò rende ognuna delle studentesse della Saint Jeremy vittima dello stress - e a Caroline, quest'agitazione, ha generato una febbre tutt'altro che utile visto il mio bisogno di lei. E Misha non si è rivelata una degna sostituta, in particolare vista la sua fuga repentina al trillare dell'ultima campanella. Degnandomi solamente di un cenno, è sgattaiolata via tra i corridoi con la stessa fretta di un topo che scappa dal gatto, precipiandosi in soccorso della sua amata.

Così, mettendo piede fuori dal cancello in ferro battuto, mi ritrovo a sospirare per l'ennesima volta, sconsolata esattamente come il giorno prima.

Il dramma pare essere diventato la mia dipendenza.

Muovo qualche passo in direzione della metropolitana, decisa a tornare sotto alle lenzuola e crogiolarmi nell'autocommiserazione quotidiana, ma appena alzo lo sguardo dalle scarpe in vernice, mi ritrovo a fare i conti con un paio di pantaloni a palazzo di un rosso eccessivamente sgargiante. L'intensità del colore è tale da urtarmi gli occhi, riportando alla mente il ricordo della prima volta in cui nonna Josephine ha attentato alla mia vista con quei cosi.

«Era ora, Jane! Ma si può sapere che fine avevi fatto?»
La fisso, confusa. 
Non ricordo di aver programmato alcun incontro con la donna che ora ho di fronte, men che meno credo vi sia qualcosa d'importante da fare; quindi perché è qui? Ma soprattutto, perché mi stava aspettando?

Nonna mi si avvicina e allungando una mano prende a sistemarmi amorevolmente una ciocca sfuggita dalla crocchia: «Santo cielo... ma si può sapere che problema hai con il fondotinta e l'eyeliner?»

Mi rimangio tutto: di dolce questa donna non ha nulla.

«E' sempre un piacere vederti, Josephine».
«Oh, tesoro... lo so!» Tirando un sorriso, la vecchia allontana le dita dal mio viso, riportandosi il braccio vicino al busto: «E sai cos'altro è terribilmente piacevole?»
Scuoto il capo, anche se con grande probabilità sarebbe d'accordo su qualsiasi mia affermazione, da quella più casta a quella meno pudica.
«Illuminami».
«Il tuo uomo, in divisa, che ci porta un té caldo e dei bignè».

Sento le guance infiammarsi prima ancora che la mente possa realizzare il senso delle sue parole e, quando accade, il cuore mi balza in gola. Seppur del suo stesso parere, non sono certa di voler approfondire la questione.
«Non se ne parla» sbotto, del tutto contraria a presentarmi da Seth in queste condizioni, con lei, e in particolare dopo averci discusso. Il suo distaccamento da me ha fatto ben capire che non mi vuole attorno per adesso - e a prescindere da quanto io invece voglia vederlo, non posso certamente fargli un'altra indesiderata sorpresa: ci ricordiamo tutti come è andata a finire quella precedente.

«Jane...»
«No!»
Svelta riprendo a camminare in direzione della metro, in modo da mettere più distanza possibile tra me e la nonna, ma lei non demorde, cocciuta esattamente come i nipoti.
«Oh, fai come credi! Io ci vado lo stesso».
Se per un breve istante ho creduto di poter chiudere la questione senza creare ulteriori danni, ho sicuramente preso un abbaglio. A nessun membro della famiglia Raven piace rendermi la vita semplice e Josephine non poteva rivelarsi da meno.
Mi volto: «Dimmi che stai scherzando...»
«Lo sai che non so fare battute, non essere sciocca» con un'eleganza degna d'altri tempi si avvicina, abbassando gli enormi occhiali da sole a tema Lolita: «Noi tre abbiamo un discorsetto da fare».
Vorrei negare che il rossore sulle mie gote possa farsi ancora più intenso, ma purtroppo non è così. Ciò che ha pronunciato è la frase che nessuna ragazza, di qualsiasi età, vorrebbe sentir uscire dalle labbra di un parente, specialmente un genitore o qualcuno di ancora più anziano. 
Con sole sette parole la donna che ho di fronte riesce a farmi diventare del colore dei suoi pantaloni.

«Ti prego, illudimi che non si tratta di quel che penso» la supplico con lo sguardo, ma so già che non otterrò alcun risultato.
Lei allarga ancora di più il sorriso, maligna, poi alza le spalle quasi a dire "chissà" e prima che possa oppormi in una qualsiasi altra maniera si avvia lungo il marciapiede; conoscendola avrà già chiesto quale autobus debba prendere per arrivare a Camden, nei pressi della pasticceria, battendomi sul tempo e dimostrando la sua reale fermezza nel portare a termine una simile missione.

Alle volte mi chiedo se anche con Jace si comportasse così, oppure se prossimamente ha intenzione di farlo con Liz, ma per la maggior parte delle occasioni mi ritrovo a pensare di essere l'unica dei tre per cui fa simili cose - dopotutto, per mia sfortuna, sono la prima nipote femmina.

***

Mi mordo il labbro, cercando di non alzare lo sguardo sull'espressione confusa e per nulla felice di Seth. Lo conosco abbastanza da sapere che nel suo immaginario non si sarebbe mai aspettato niente di tutto ciò, o quantomeno non aveva messo in conto che potessi presentarmi qui con Josephine - e non lo biasimo, affatto. Dopo ciò che gli ho detto avrei dovuto lasciargli i suoi spazi e i suoi tempi, avrei fatto meglio a scusarmi privatamente e spiegare le mie ragioni, ma allo stesso tempo non potevo permettere alla nonna di incontrarlo da sola: dalla sua bocca sarebbero potuti uscire commenti capaci di rovinare irreparabilmente il mio rapporto con lui e quel poco di dignità che mi è rimasta. 
Potrebbe non sembrare, ma in realtà la sua lingua, munita di determinati pensieri, è un'arma assai pericolosa.
Più volte, negli anni, la donna che ho accanto ha dimostrato di non conservare alcun tipo di pudore e, avvalendosi della scusa dell'età avanzata, si è sempre permessa le considerazioni più avventate.

Non posso dimenticare tutte le occasioni in cui ha rinfacciato a Jace di doversi "concedere a quante più donne possibili", perché era un peccato "negar loro cotanto ben di Dio". E non posso scordare quando ha spudoratamente chiesto al ragazzo che abbiamo di fronte di togliersi la maglia per vedere quel "meraviglioso animale che aveva addosso" - e mi imbarazza ancora ammetterlo, ma non si riferiva certo al tatuaggio. Nemmeno a Charlie, sempre così schivo, ha risparmiato qualche frecciatina. In borsa credo abbia ancora una sua foto post allenamenti da mostrare alle amiche per fargli invidia.

Insomma, da Josephine mi potrei aspettare di tutto, quindi vorrei evitare, se possibile, il peggio.

«Buongiorno Madame» Seth la saluta tirando un sorriso, indossando la maschera da cordiale cameriere come se nulla fosse: «E' un insolito piacere vederla da queste parti».
Nonna mi lancia un'occhiata complice, o forse è semplicemente succube della malizia e io cieca di fronte all'ovvietà della cosa: «Sarei lieta di dire altrettanto, peccato che mi sia volontariamente voluta concedere questo piacere».

Lui ride. E' evidentemente divertito dalla sincerità del commento - perché ormai, come mio fratello e Charlie, è abituato a simili exploit - però non si scompone e con una certa professionalità ci accompagna a un tavolo appartato nella saletta laterale, quella dove solo qualche settimana fa l'ho scorto con Sharon.
Avanza affiancato da mia nonna, scambiando con lei qualche chiacchiera di circostanza che non riesco a udire; sono troppo occupata a scacciare i pensieri più preoccupanti per prestar loro reale attenzione, ma soprattutto sento l'ansia attanagliarmi la bocca dello stomaco.

Non mi ha salutata, men che meno mi ha concesso un sorriso o un gesto d'affetto, quindi la sua arrabbiatura non è scemata. Eppure cosa ho detto di tanto terribile?

Josephine si siede e, d'improvviso, mi ritrovo catapultata nel presente - un frangente in cui Seth ed io siamo ora faccia a faccia, dritti l'uno di fronte all'altra.
Il cuore martella forte nel petto, lo sento spingere sulla gabbia toracica, mentre la gola è tanto arida da non produrre alcun suono. Dovrei dire qualcosa, no? Peccato che le corde vocali paiano pronte a sgretolarsi come sabbia.

Lo fisso inerme. Non so come comportarmi, se avanzare e fingere indifferenza come lui, oppure compiere qualche gesto plateale che dubito fortemente lui possa apprezzare sul suo posto di lavoro - così stringo forte i pugni nelle tasche, attorcigliando le dita intorno all'accendino e le chiavi di casa in attesa di una sua mossa. Quando arriva però, mi coglie comunque impreparata.
Morgenstern si avvicina silenzioso, in parte furtivo, e con un braccio mi cinge la vita. Il mio battito accelera e appena mi posa le labbra sulla fronte allento la tensione che inconsapevolmente ha teso tutti i muscoli.
La morbidezza della sua bocca mi conforta, i secondi d'esitazione che si concede diventano una muta dichiarazione di pace - e quanto darei per essere sola con lui, per poter spingere sulle punte e ricambiare questo bacio. Lo desidero più di tutto il resto.

«Tra poco ho finito, mi aspettate per il tè?»

Annuisco, dandogli modo di tornare al lavoro. Il suo corpo si stacca dal mio lasciandosi dietro una sorta di vuoto, come un piede che si alza dal fango su cui resta l'impronta. Da sopra la spalla lo guardo soffermarsi ad altri tavoli, raccogliere le ordinazioni, sparecchiare. Sorride a molti e con altrettanti si ferma a scambiare qualche battuta. Ci sono clienti che ignare della mia presenza se lo mangiano con gli occhi, poi si voltano verso le amiche e sghignazzano complici. Mentre abbandono lui per osservare loro, mi rendo conto di avvertire crescere in me una certa gelosia, simile per intensità solo a quella provata l'altra sera nei confronti di Charlie.

Sono miei.
Il mio ragazzo e il mio amico. 

E non sopporto l'idea di poterli perdere.

***

L'attesa dura poco, giusto un quarto d'ora. Seth arriva accompagnato da un vassoio su cui troneggiano tre teiere di ceramica e una manciata di bignè che fanno rilucere gli occhi di Josephine.
Addosso non ha più il grembiule del locale, ma sulle spalle porta il chiodo in pelle nera con cui probabilmente si è presentato stamane. Ci serve con la stessa premura di qualsiasi altro cliente, forse meglio, poi si siede al mio fianco, in modo da fronteggiare la nonna - pare quasi sapere che ad attenderlo ci sia una conversazione seria.

«Scusate l'attesa, spero di non aver rovinato i vostri piani per il pomeriggio» il suo sorriso è dolce e non passa inosservato né ai miei occhi, né a quelli delle stesse donne che lo avevano scrutato in precedenza - ora però, al posto dei ghigni, c'è tra loro un confabulare concitato. Si staranno chiedendo cosa ci faccia accanto a me, se sia davvero la sua fidanzata oppure una semplice amica. Incredule si diranno che non è possibile che tra di noi ci sia una storia d'amore, in extremis faranno allusioni sulle mie capacità in determinati momenti della nostra intimità, concordando all'unisono che solo quello possa essere il motivo di una relazione tra noi. 
Conosco le femmine, sanno essere meschine quando vogliono. Nel tempo molte delle nostre lingue si sono fatte biforcute, trasformandoci in serpi che si attaccano l'un l'altra - peccato che non ci sia alcun fondamento nelle loro supposizioni.

Josephine, sopraffatta dal desiderio di assaggiare le leccornie portate da Morgenstern, si serve senza complimenti, ignara di ciò che sta accadendo oltre alle sue spalle: «Seth caro, sei tu il nostro piano per questo pomeriggio!»

Ecco che ci risiamo... Ora aspetto solo il momento in cui gli chiederà di mostragli un po' di carne. Non dovrebbe vederlo come un nipote, essendo cresciuto insieme a Jace? A quanto pare no, mia nonna non conosce i limiti del lecito.

L'interessato corruga le sopracciglia. La confusione inizia a farsi strada sul suo viso, ma non osa chiedere: penso che tema come me la risposta ai dubbi che ha.

«Vedi, noi dovremmo parlare» senza staccare gli occhi dalla teiera, la vecchia immerge nell'acqua bollente una tra le miscele selezionate per allietare i nostri palati e ogni volta che la sua mano si alza e si abbassa, velocizzando il processo d'infusione, la stretta che avverto allo stomaco si fa un po' più impietosa.

Seth annuisce, improvvisamente iniziando a dare un senso alla nostra visita - ma ancora non ha idea di cosa possa uscire dalle labbra di questa donna, esattamente come la sottoscritta.

Lei si versa da bere: «Ormai tu e Jane siete ufficialmente una coppia, questo mi pare ovvio, anche se non comprendo le ragioni per cui teniate la cosa... privata» sogghigna, divertita da qualsiasi cosa le stia frullando nella mente: «Ciò non toglie che ci siano alcune situazioni da chiarire». Fa una pausa, lanciando un'occhiata indecifrabile nella nostra direzione - e ancora una volta lui annuisce, dandole una muta conferma e restando in ascolto. Non riesco a capire cosa stia provando, se il mio medesimo imbarazzo, la stessa ansia, noia oppure fastidio. E' un enigma che non so risolvere, seppur vorrei.

«Mia nipote ti piace sul serio?»

Silenzio.
I due si guardano, soppesandosi a vicenda come strateghi che cercano di scoprire il gioco dell'altro: e più tempo passa, più mi sento soffocare - finché la mano di lui non scivola nella mia, intrecciando le dita sotto al tavolo. Stringe con dolcezza, accompagnandomi sulla sua coscia. 
Questo discorso vuole realmente vergere su una serietà che non mi sarei aspettata né dalla vecchia strampalata che ho di fronte, né dall'affascinante ragazzo che ho accanto, eppure eccoli affrontarlo. Non è forse un gesto avventato, da parte di lei, intromettersi così nella vita privata della nipote e di un giovane che dovrebbe considerare tale? Non teme di poterlo impaurire e allontanare da me? Oppure è proprio questo il suo piano?
Possibile che Josephine stia cercando di capire, attraverso questo atteggiamento, le reali intenzioni di Seth?
Non credo la biasimerei se fosse così. Forse nessuno potrebbe farlo. Morgenstern non si è mai ritratto al cospetto di una bella ragazza, non ha mai tenuto a bada il desiderio momentaneo di un corpo estraneo premuto contro il suo; per citare proprio la signora all'altro capo del tavolo, "non ha negato tanto ben di Dio alle povere bisognose", anche quando c'era Sharon. Capisco le paure della nonna, però sono conscia del fatto che se lo desidera, colui che ho accanto può dimostrarsi abbastanza maturo da non fare cazzate.

«Non sarei qui ad affrontare il discorso se fosse altrimenti» la presa della sua mano sulla mia si fa più intensa, per un istante mi sembra che voglia dirmi quanto, nonostante tutto, sia intenzionato a prendere la questione con serietà. Forse mi ha realmente perdonata per ciò che ho detto l'altra sera - e forse, in un angolo di sé, prova davvero qualcosa per me.

«Quindi sai a cosa vai incontro?»
«La furia di Jace?» Sorride mestamente, sicuro di aver colto nel segno e di poter essere vittima di una qualche paternale; peccato che al cospetto di questa risposta nonna sgrani gli occhi. La sua incredulità non fa altro che aumentare le mie ansie e dar adito a un dubbio: se non è di questo che si tratta, cosa mi aspetta?

«Oh, santi numi, no! Jace dovrà accettare la cosa, Jane non è la sua ombra» si affretta a dire, rincuorandomi sul fatto che almeno una persona, nella famiglia, non pensa questa stupidaggine di me. Afferrando un altro bigné, l'eccentrica signora finge una certa spensieratezza - un dettaglio assai discordante con ciò che alla fine dice: «intendevo che sei il primo».

Non so come, né perché, ma riesco a farmi andare di traverso la saliva. 
L'ha detto veramente. 
Lo ha confessato senza alcuna vergogna in un luogo pubblico.
Lo ha ribadito ancora una volta persino davanti a lui e, seppur già sappia la cosa, non posso far a meno di sentirmi soffocare. Tossisco più volte, sopraffatta da un imbarazzo che non so contenere, mentre Seth si lascia andare a una risata.

Sapevo che qualcosa sarebbe andato storto, però mi auguravo che i suoi neuroni potessero ancora dar qualche segno di vita.

«Guarda che non scherzo, tesoro. Per una ragazza il primo ha un ruolo fondamentale, se lo ricorderà per sempre!» Ingurgita il dolcetto e per un istante, uno solo, il desiderio che le vada di traverso si fa intenso; almeno in questo modo dalla sua gola smetterebbero di uscire simili, denigranti, verità. «Inoltre, anche se è ovvio che la tua esperienza sia superiore a quella della mia cara Jane e confido nel tuo buon senso, vorrei rammentarti che sono ancora giovane per diventare bisnonna».

A conclusione di questo suo annuncio, eccomi soccombere a un nuovo tracollo della dignità. Un altro colpo di tosse mi coglie impreparata, facendomi andare di traverso il té e rischiando un soffocamento.
Mollo veloce la presa sul manico della tazza e coprendomi la bocca con il palmo cerco di evitare che qualcosa vi fuoriesca involontariamente. Sobbalzo qualche volta, piegandomi su me stessa nel vano tentativo di sfuggire a qualsiasi altra sciocchezza ci sia in serbo, ma nulla m'impedisce di maledire il momento in cui le ho confessato di questa storia, del nostro frequentarci in modo meno platonico.

Oltremodo, quando all'uscita dalla Saint Jeremy ho incrociato i suoi pantaloni rossi, avrei dovuto seriamente oppormi a questa visita. Se avessi impuntato i piedi e battuto i pugni come una bambina capricciosa, forse avrebbe ceduto al mio diniego, ma invece mi sono fatta fregare dalla sua minacciosa cocciutaggine, arrivando quasi ad auto-sabotare la mia relazione. E visti i precedenti, questo potrebbe essere davvero il colpo di grazia a un rapporto che già di per sé ha voluto evolversi nelle circostanze peggiori.
La biologia ce lo insegna, basta guardarsi attorno: le specie animali ci impiegano anni e generazioni per riuscire ad adattarsi ai cambiamenti che le circondano, ma quando il contesto è sfavorevole, la dipartita è scontata - e noi due abbiamo voluto compiere una follia in cui ci barcameniamo un po' a fatica. 
Ciò che però mi crea ancor più agitazione, oltre a questa consapevolezza, sono le reazioni di Seth alla sfacciataggine di mia nonna. Sono l'unica a trovarla fuori luogo? Possibile che solo ai miei occhi e alle mie orecchie tutta questa situazione appaia inverosimilmente tragica? A quanto pare sì, visto che lui sorride, si prende il viso tra le mani e poi porta indietro la testa, sghignazzando come se stesse guardando la sua sitcom preferita.

«Josephine, non si preoccupi!» Si bagna le labbra in punta di lingua, ma la sua espressione non cambia. E' divertito, più che preoccupato o imbarazzato, ed io vorrei tanto poter prendere tutta questa faccenda con la medesima leggerezza. «Come le ho già detto in passato, eviterò che i suoi nipoti si mettano nei guai, sia che si tratti di Jace, sia che si parli di Jay» e quando pronuncia il mio nome, facendomi desiderare di poter sparire nel nulla, scopro che non vi è alcuna via di fuga: i suoi occhi mi hanno già trovata.

 
 

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Capitolo 35
*** Chapter 27: Breaking feelings like bones (part one) ***





Chapter Twentyseven
§ Breaking feelings like bones §
part one

 

"Burn with me
One last time
I will leave our ashes, ambers in the fire
Burn with me
Smoke will rise
Let the flames burn higher, walk into the fire
"

- Juliet Simms, Burn with me

 

Mano nella mano, stretti in un silenzio ancora ininterrotto, Seth mi porta con sé. Avanziamo muti per gli ultimi metri che ci separano da casa sua, l'appartamento che dall'incontro con Charlie non ho più rivisto - un po' a causa degli impegni, un po' per colpa della mia linguaccia.

Con qualche secondo di ritardo sulle falcate di lui, ben più lunghe delle mie, scorgo appena il suo profilo tagliente: lo sguardo perso all'orizzonte, il cipiglio imbronciato e il filtro giallo che di tanto in tanto abbandona le labbra per lasciar uscire folate bianche, nuvolette che in pochi secondi si dissolvono oltre le nostre spalle ancora troppo tese. Sembra quasi che vi sia qualcosa d'irrisolto tra di noi, eppure sono certa che non molti minuti fa, davanti a Josephine e nascosti dal bordo del tavolo, Morgenstern mi abbia perdonata. Nel modo in cui le sue dita mi hanno cercata, in quell'ultima e forse unica occhiata, lui mi ha fatto capire di non avere nulla da temere - ma non riesco a tranquillizzarmi, nemmeno ora che mi ha voluta al suo fianco.

Perché?

Sinceramente dubito che la sua sia stata una farsa, un tentativo d'imbonire la nonna con qualche scenetta da coppia innamorata: non avrebbe avuto senso compiere un simile gesto lontano dai suoi occhi. Inoltre, lei lo adora. E tutto ciò che gli ha detto, nonché la necessità di parlargli, non era altro che un modo per capire le sue vere intenzioni con me, per comprendere se fosse conscio delle mie speranze e di quanto questa relazione sia importante. Forse lo avrà fatto in modo stravagante, esattamente nel suo stile, ma di certo Josephine è riuscita a trovare le risposte che cercava, visto che mi ha lasciata libera di seguirlo - non lo avrebbe fatto, altrimenti.

Seth butta il mozzicone, poi con la medesima mano spalanca l'ingresso della palazzina, aperto per un motivo che mi è sconosciuto. Saliamo le scale e, quando la porta del suo appartamento ci si palesa davanti, l'urgenza di mettere fine a questo silenzio mi fa fremere la lingua; non riesco a sopportare l'idea di passare le prossime ore in uno stato di completo disagio all'interno di quattro mura. So che le troverei soffocanti quanto l'ansia al locale.
«Mi spiace... per Josephine, voglio dire» subito mi mordo la lingua. Non credo sia il modo migliore per iniziare una conversazione, soprattutto viste le tematiche trattate da quella vecchiaccia.

Lui volta il capo, mi fissa da sopra la spalla: «Poteva andare peggio». Ancora una volta, una risata flebile scappa dalle sue meravigliose labbra e, mentre infila le chiavi nella serratura, torna a fissare davanti a sé.

«Ne dubito...» 
L'anta si spalanca e il miagolio di Chucky ci accoglie.
«Se ci fossi stata, il giorno in cui ci ha fatto "il discorsetto", stai certa che non saresti arrivata fin qui» confessa, sempre più allegro: «Fidati, se non fosse stato per gli ormoni da quindicenni, quella volta avrebbe realmente potuto minare la nostra futura vita sentimentale e sessuale. Tuo fratello non aveva idea di come cancellare quella conversazione dalla mente!» Molla la presa sulla mia mano e con il micio intento a strusciarsi contro i suoi jeans scuri avanza nella casa. Osservo il suo trapezio allontanarsi da me fin troppo velocemente, riportando alla mente tutte le volte in cui, negli anni, avrei voluto aggrapparmici e restare lì, ferma a respirare il suo profumo pungente e sentire il calore del suo corpo - carne che ho bramato ardentemente e che ora, alle volte, mi pare persino più inarrivabile. Seth mi attrae e mi respinge come una sfera che si scontra con un'altra all'interno di uno spazio chiuso. Ci rimbalziamo addosso desiderando di trovare un equilibrio: lo penso io così come, spero, lo faccia anche lui. 
Scrollando le spalle Morgenstern si sfila la giacca e mi riporta alla realtà. Lascia cadere l'indumento sullo schienale del divano, rivelando così le braccia inchiostrate che escono dalle maniche arricciate, catturando la mia attenzione. La maglia che indossa è abbastanza aderente da far intuire tutte le linee del suo corpo e per un istante, brevissimo, mi sento avvampare all'idea di essergli così vicina. Forse stavolta, schiantandomi contro di lui, non verrò respinta. La mia speranza ora è che le leggi della fisica non si adattino ad arti, carne, muscoli e ossa o qualsiasi cosa ci componga.

«Ottimo, allora non sono la sola che mette in imbarazzo...» chiudo la porta, appoggiandomici con la schiena. Dal punto in cui sono fisso il modo in cui accarezza il gatto, poi si alza e va verso la cucina.

Quanto vorrei fossimo calamite invece che sfere. Poli uguali che si attraggono con forza, impedendo all'urto di allontanarci.

«Non ha detto nulla che già non sapessi, Jay».
«E questo dovrebbe consolarmi?» Mi stacco dal legno, iniziando a togliermi di dosso sia lo zaino che il giubbotto. I tacchetti delle scarpe picchiettano sul parquet, segnalano tutti i miei movimenti, così finisco con il lasciarmi andare sul bracciolo del divano, in modo da mettere a tacere il rumore. La finta pelle è fredda, sulla carne delle cosce mi crea un fastidioso senso di disagio, però non mi alzo, impaurita all'idea che i brividi possano avere la meglio e incapace di trovare un altro posto.

Vorrei essere tra le sue braccia, ma ancora non mi sembra essere arrivata la pace giusta per avanzare una simile richiesta.

Seth riemerge dalla stanza accanto. In mano ha un bicchiere a metà, lo fissa prendendo un sorso, poi lo appoggia sul braccio di cartongesso che divide cucina e salotto.

«E' il perché la cosa ti dia fastidio, che non capisco» ora i suoi occhi sono nuovamente su di me, puntano dritti nei miei quasi fossero frecce pronte a scoccare e penetrarmi la mente, arpionando i pensieri.
Mi mordo il labbro.
Non è forse ovvia la risposta? Non riesce a comprendere quanto mi senta impreparata di fronte a lui e impaurita dalla delusione che potrei essere? Non si rende conto del desiderio che ho di lui, di restargli accanto?

Sposto lo sguardo, lasciandolo cadere sulle ginocchia. Piccoli lividi si alternano al pallore della pelle, testimoniando una goffaggine che so essere parte costante di me e possibile minaccia. Quanto ho voluto, negli anni passati, essere sbarazzina come molte delle mie compagne di scuola, quelle che bastava qualche moina, un po' di alcol, un "ti amo" vuoto e alzavano la gonna regalando la propria prima volta a sconosciuti o vicini di casa un poco più grandi. Quanto mi sarebbe piaciuto riuscire ad andare oltre a qualche bacio e pomiciata, in modo da arrivare oggi, a lui, senza timori o vergogne.

Apro bocca: «Perché...» la richiudo subito.
Non posso dirgli simili cose, si prenderebbe gioco di me.

«Jay...»
«Cambiamo discorso, okay? Josephine ha già fatto abbastanza danni» con un colpo di reni mi rimetto dritta, avviandomi svelta verso lo stereo. La musica coprirà le domande, ma soprattutto eviterà che possano esserci delle risposte - o almeno questo è ciò che spero. Eppure, prima che l'indice possa sfiorare il tasto d'accensione, le mani di Seth mi cingono la vita. Una si posa sul ventre, l'altra sale e afferra la spalla. Mi tiene stretta mentre il suo braccio mi schiaccia il seno e il suo respiro mi sfiora il capo, infilandosi caldo tra i capelli.

«So benissimo a cosa andavo incontro il giorno in cui ti ho detto che mi piacevi» sibila così vicino da farmi rabbrividire. E' amaro piacere quello che provo, innegabile mortificazione; così mi aggrappo al suo braccio nella speranza di trovare pace, lasciandomi andare contro il petto dentro cui batte forte il suo cuore.
«Ma?»
«Voglio amarti bene, Jay. Devo avere la certezza che non te ne pentirai» il mio battito accelera, sono certa che lui possa sentirlo bene quanto me, dopotutto c'è solo una mera camicetta in cotone a dividere le nostre pelli. «Tua nonna non ha tutti i torti, sai? Le prime volte, quelle importanti, qualsiasi esse siano, ci si imprimono nella memoria come cicatrici e la consapevolezza che la nostra possa essere per te dolorosa è qualcosa che mi preoccupa». Da quando Seth Morgenstern è così dolce e premuroso? E perché, nonostante sia un aspetto di lui che in passato ho solo sfiorato, grazie alla nostra amicizia, lo trovo confortante, facendolo rilucere più di quanto già non faccia nei miei sogni?

Per quanto mi è possibile, porto indietro la testa, finendo con l'osservalo dal basso. Anche lui si piega un po' e le sue labbra si poggiano dolci sulla mia fronte, lasciando i nostri occhi a tu per tu.
C'è fermezza nel modo in cui sostiene il mio sguardo e quindi, mi rincuora dirlo, non mente. E' la stessa decisione che gli ho sentito uscire di bocca quel pomeriggio a casa mia, quando mi ha sorpresa di ritorno da scuola.

Allora ci tiene davvero a me... soffio tra i pensieri, incapace di contenere l'emozione. Un nodo di lacrime di gioia mi si blocca in gola e mi piacerebbe, anche solo per un istante, che lui potesse sentire queste mie sensazioni, in modo da capire quanto in alto stia ergendo il mio castello di speranze nei suoi confronti, quanto ciò che provo per lui mi stia portando a sfiorare il cielo.

Con le dita scivolo lungo il suo avambraccio, sfioro il polso e gli cingo la mano, allentando la stretta. Mi ritaglio un po' di spazio, giusto quel che serve per voltarmi con tutto il corpo e, mossa da un'intraprendenza che solo qualche mese fa avrei creduto impossibile, afferro il suo viso, premendo le nostre labbra.

Come può farmi male? In quale perverso mondo, il mio amore per lui e il suo assecondarlo, potrebbero diventare una cicatrice dolorosa, un ricordo maligno da scacciare con forza? Non ho forse bramato tutto ciò ogni giorno per anni? Non gli ho forse detto di desiderare questo da sempre?

Mi schiaccio a lui con sempre maggior trasporto, lasciano che le bocche trovino da sole il ritmo perfetto per soddisfare il mio bisogno della sua presenza, del suo amore, se così lo si può definire. E Seth non pare tirarsi indietro. Ricambia, stringendo con sempre più intensità i polpastrelli su di me. Le sue mani sfiorano le scapole, scendono lungo la curva della schiena facendomi vibrare al pari di una corda di violino e, quando nel loro avanzare trovano uno spiraglio, superano la camicetta senza alcuna esitazione, andando a prendersi la carne.
Sento i lembi della stoffa perdere l'appiglio con il bordo della gonna, significato inconfondibile di ciò che potrebbe aspettarmi, ma non mi fermo e nemmeno permetto a lui di farlo. 
Stavolta saremo calamite.
Stavolta non gli permetterò di cozzare via.
Sono pronta, lo sono per certo e chissenefrega dei commenti di Josephine, della vergogna o di qualsiasi altra cosa: voglio il suo segno nella mia memoria, profondo, indelebile.

Così, seppur nettamente più rigida di lui o più impacciata di qualsiasi ragazza si sia mai trovata al mio posto, mi convinco a fare altrettanto, portando i palmi lungo il suo petto. Il cuore gli batte forte, molto più di quanto abbia mai fatto. Lo sento palpitare a ogni istante di esitazione che mi concedo lungo la strada - e lo fa per me, solo ed esclusivamente. Potrei provare una gioia più intensa? Potrei trovare una motivazione più valida per continuare?
Ma lui si accorge della mia goffaggine, intuisce senza gran fatica sia cosa voglio, sia quanto mi venga difficoltoso farlo - e come dargli torto dopo tutte le volte in cui oggi abbiamo ricordato la mia inesperienza? 
«Non devi, Jay...» mentre lo dice ha il fiato corto, l'affanno di qualcuno sopraffatto dalla tachicardia. Il compiacimento è quindi una reazione naturale, nasconderlo, invece, un gesto difficoltoso. Eppure, nonostante Morgenstern provi a farmi rinsavire un'ultima volta, la sua maglia cade accanto ai nostri piedi, rivelando i segni lasciati dall'inchiostro e la tensione dei muscoli che guizzano sotto la pelle a ogni movimento, anche il più piccolo. Paiono fiammelle che scoppiano e quando torniamo a premerci l'un l'altra sono certa che il suo corpo sia fatto di fuoco.
Quello che mi si prospetta davanti ha la forma di un incendio che divampa, diventando sempre più pericoloso e letale - eppure non mi allontano, gli resto avvinghiata mentre la carne si libera dei vestiti e si prepara a bruciare.

Farà male?

Seth, mi farai male?

Ma il dolore, a un tratto, diventa l'ultimo dei miei problemi.

Una sequenza ritmica di colpi prende a richiamarci, a spezzare la magia in cui siamo coinvolti. Entrambi facciamo del nostro meglio per ignorare la questione, ormai troppo presi a slacciare vestiti e appropriarci dell'altro per poterci concedere distrazioni, ma il rumore non cessa. I pugni sulla porta si fanno sempre più intensi, provano a buttarla giù, e insieme alle percosse, d'improvviso, una voce fa la sua comparsa, bloccandomi.

Perché quella persona è qui? 


 

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Capitolo 36
*** Chapter 27: Breaking feelings like bones (part two) ***




Chapter Twentyseven
§ Breaking feelings like bones §
part two

(la prima parte è stata pubblicata il 03 Aprile 2020)

 

"Cut me open and tell me what's inside
Diagnose me 'cause I can't keep wondering why
And no it's not a phase 'cause it happens all the time
Start over, check again, now tell me what you find
'Cause I'm going out, I'll fake what's real
Can anyone respond?
"

 

- Bring me the Horizon, Avalanche

 

Con occhi grandi di confusione osservo Seth, il suo cipiglio infastidito. Provo ad allontanarmi da lui, ma la sua presa sulla mia schiena nuda non si allenta.
«Merda...» sibila a denti stretti, appoggiando il viso nell'incavo del mio collo e prendendo grossi respiri nel tentativo di recuperare una calma che gli sta evidentemente scivolando via di dosso. Si prende qualche istante che mi pare lunghissimo, poi sbuffa.

«Che ci fa qui?» domando, fissando con astio l'anta in legno che ci osserva dall'altra parte della stanza, minacciosa come mai l'ho trovata prima. C'è solo lei a separarci, eppure pare non essere sufficientemente robusta - o forse, a essere flebile, è la mia convinzione che le cose possano risolversi con semplicità.

«Apri! Dannazione, Seth! Aprimi!» L'ostinazione di Sharon non si affievolisce, anzi, in qualche modo pare persino aumentare con ogni colpo, così alla fine lui cede. Le sue dita abbandonano il mio corpo, si allungano verso il pavimento e raccolgono la maglia che si era levato per me.
«Vestiti, per favore».
La sua scocciatura è evidente, una maschera che potrei addirittura toccare se provassi a sfiorargli il viso, ma mi auguro vivamente che la mia sia più spessa, in modo da fargli capire quanto questa situazione sia al di là dell'accettabile.

Afferro l'indumento, però non demordo: voglio una risposta.
«Perché è qui?»

Seth si prende il viso, tira indietro i capelli e si morde il labbro: «Secondo te lo so?»
«È la tua ex, non la mia...» sbuffo, iniziando a rivestirmi - anche se preferirei fosse lui a farlo, visto che l'idea degli occhi di quella smorfiosa sul suo corpo mi irrita a tal punto da istigarmi a colpirla con qualsiasi oggetto contundente. Lei sicuramente ha visto più di quanto ho fatto io in questi tre mesi e mezzo, non ha bisogno di altri minuti di contemplazione.

«Appunto, è la mia ex, per questo non dovrebbe essere qui» a grosse falcate si dirige verso la porta. Giusto prima di aprire si premura di tirar su la zip dei jeans e poi, con un altro sospiro nervoso, afferra la maniglia.
I muscoli della sua schiena sono un fascio rigido, una rete tanto fitta da farmi capire che nemmeno lui ha apprezzato questa sorpresa. Li fisso con intensità e delusione, rendendomi conto che forse è il destino a non volerci insieme - se fosse altrimenti non mi avrebbe nuovamente interrotta, lasciandomi amareggiata in questo limbo di dubbi e paure che tornano a ghermirmi.

La serratura scatta e Morgenstern apre: «Che vuoi?» ringhia, ottenendo da Sharon solo un sussulto. La sua espressione è meno sorpresa di quanto mi sarei aspetta, sembra quasi che sapesse di starlo interrompendo durante qualcosa di importante, come se avesse atteso con pazienza questo momento. 
Ci vogliono pochi secondi prima che sul suo viso da bambola compaia un mezzo sorriso di soddisfazione a darmi conferma di simili sospetti.

«Parlarti, tesoro» allunga una mano, ma lui si ritrae.
«Non abbiamo più nulla da dirci».
Stavolta Sharon pare contrariata. Forse non si aspettava un rifiuto tanto netto, dopotutto l'ultima volta che li ho visti insieme Seth non aveva schifato a quel modo il suo tocco - probabilmente per evitare scenate sul posto di lavoro, oppure perché non aveva un reale motivo per reagire con tanto nervosismo - ma ora la situazione sembra essere nettamente cambiata, o invece è solo perché ci sono qui io.

Involontariamente mi ritrovo a stringere le braccia al petto, sentendomi quella fuori posto nonostante sappia di non esserlo; dopotutto io qui sono stata invitata, lei che scusa ha? Però, senza saperne il perché, mi ritrovo a muovere un passo indietro. Il mio corpo si vuole allontanare, cerca una via di fuga mentre lo stomaco si attorciglia e, senza rendermene conto, finisco con l'urtare l'angolo della poltrona da cui, senza preavviso, Chucky lancia un miagolio d'avvertimento che mi fa sussultare. Il suo verso, oltre ad attirare le mie attenzioni su di lui, fa sì che quelle dell'ospite indesiderata cadano sulle mie guance arrossate e capelli arruffati, evidenti prove di ciò che stava succedendo qui, in caso la maglietta di Morgenstern su di me non bastasse.

Le sopracciglia di lei si alzano, formando un arco perfetto: «Oh!» esclama prima di tendere le labbra in uno strano sorriso, «Guarda un po' chi c'è... la mocciosa».
Seth prova a frapporsi tra noi, in modo da impedirle di guardarmi troppo, come se i suoi occhi potessero in qualche modo consumarmi - ma a Sharon la cosa sembra importare poco: «Chi l'avrebbe mai detto che il tuo commento fosse serio! Lei, santo cielo! Non ti senti un po' uno stronzo a farti la sorellina di Jace?»
«Vai via, Sharon». Un nuovo ringhio, un'altra contrazione dei muscoli.

«Perché? Non sto dicendo nulla che non si sappia».
«Non costringermi a cacciarti...»

Lei china la testa da un lato, vedo i suoi ricci cascare al di là di una delle spalle del mio ragazzo - e se ben ricordo, quel gesto precede sempre un'espressione ammiccante che, a prescindere dalle mie inclinazioni pacifiste, ora vorrei strapparle via dalla faccia.

«O temi che mi siano giunte alle orecchie notizie che non vuoi vengano divulgate?»

Che? Cosa sta dicendo?
Inconsciamente aumento la stretta intorno al busto, quasi il mio corpo sapesse di doversi proteggere da qualcosa - eppure, la minaccia che mi attende non ha un'identità, per adesso.

«Vattene, ciò che faccio non è più affar tuo» Seth fa per chiudere la porta, peccato nella lentezza del suo movimento la voce di Sharon riesce a raggiungere le mie orecchie ancora una volta.
«Ma a lei potrebbe interessare il motivo per cui Jace ti od-» l'anta si serra, ma il significato di quella frase mi è tanto chiaro che persino annebbiata dalla situazione non farei fatica a capire.

Lei sa del loro litigio. 
Lei ne conosce l'origine.
Io, invece, no.

Muovo un passo, il cuore in gola: «Che stava per dire?»
Il ragazzo davanti a me resta ancora qualche istante appoggiato allo stipite: una mano sulla maniglia e l'altra al centro della porta. I suoi muscoli non smettono di guizzare sotto alla pelle, tesi come corde che se toccate rischiano di spezzarsi - ed io lo sto per fare, sto per tirarle tutte.
«Seth, cosa stava per dire, Sharon?» Con un altro passo mi porto più vicina, cerco di chiuderlo in trappola, conscia però di non essere affatto un predatore, quanto più il coniglio che dovrebbe essere mangiato. È lui quello che è solito ghermirmi. Lui quello che mi mette in scacco. Io soccombo, sempre, ma stavolta la necessità di resistere è tanto forte da farmi invertire i ruoli.

«Nulla» soffia mentre si rimette dritto.
«Non dirmi cazzate».

Molla la presa e si gira un poco, riprendendosi il viso tra le mani: «Nulla, Jay». Ma è una bugia, ne sono certa, altrimenti mi guarderebbe in faccia e sosterrebbe il mio sguardo senza alcuna difficoltà, come ha fatto ogni volta in cui ha detto di voler stare con me.
«Davvero?»

Finalmente si volta. Negli occhi gli passa una scintilla cupa e la mascella si contrae in un evidente gesto di nervosismo. Tace, così io avanzo ancora.
«E allora perché ti stai arrabbiando?»
Mi viene incontro: «Perché ti interessa tanto la questione?» A dividerci, ora, c'è poco più di una spanna, eppure mi pare si sentire il suo respiro bollente colpirmi le guance con astio, quasi fossi improvvisamente diventata l'ennesimo nemico di una battaglia elitaria.

«Rispondimi».
«Sono affari nostri, non tuoi».

Sharon però sembrava essere di tutt'altra opinione, visto che si è premurata a sottolineare la cosa. Quindi, mossa da un altro atto di inspiegabile coraggio, scarto di lato e mi lancio verso la porta: se lui non vuole darmi alcuna spiegazione, sono certa che lei lo farà con grande piacere - dubito si lascerebbe scappare l'opportunità di mettere zizzania tra di noi.

Abbasso la maniglia mentre la voce di Seth prova a fermarmi, ma non esito nemmeno per un istante. Nemmeno quando avverto le sue dita provare ad acciuffare la mia gonna mi arresto e, saltando gli scalini due a due, corro fuori dall'edificio, dove una pioggerellina lieve ha preso a cadere tra le strade trafficate.
Aguzzo la vista in mezzo alle persone e, quando finalmente scorgo la sua chioma muoversi a qualche metro di distanza, la chiamo con forza, riuscendo a fermare la sua fuga.

Non so cosa mi faccia più paura mentre la raggiungo, se la verità che mi aspetta o la consapevolezza di stare, ancora una volta, per rovinare tutto, ma a prescindere dalle gambe tremanti e il cuore in gola non mi arrendo: questa potrebbe essere l'unica occasione per saziare la mia fame di curiosità, per capire realmente cosa diamine sia successo tra mio fratello, Seth e Charlie, dandomi modo di riempire la crepa creatasi tra loro. E se quei tre sono troppo orgogliosi per chiedersi scusa, ci proverò io, perché l'idea di rinunciare ai nostri pomeriggi insieme, alle risate, alle bevute e ai concerti mi logora lentamente, seppur con costanza, ogni giorno.

Sharon si volta, la confusione sul suo viso si dissipa appena mi riconosce e le labbra le si tendono con estrema soddisfazione - non nego che abbia ottenuto il risultato sperato facendomi scappare via dalle braccia di Morgenstern, però una parte di me vorrebbe non notarlo così spudoratamente.
«Oh, Ja-»
«Che è successo tra loro?» La interrompo subito. I convenevoli non mi interessano e trovo persino inutile stare ad ascoltare la sua voce per più tempo del dovuto: c'è solo una cosa che voglio e in un modo o nell'altro l'avrò - anche se corro il rischio d'imbattermi in un'enorme bugia. Sharon non è certo famosa per i profondi valori morali, per quel che ne so.

Lei strabuzza gli occhi: «Oh, è di quello che vuoi parlare?» la finta ingenuità con cui mi si rivolge prova a scalfire la mia pazienza e nonostante i tentativi di restare salda sento la volontà iniziare a cedere. È una questione talmente importante, per me, che sono già conscia di non potermi controllare come invece vorrei. Potrebbe seriamente vincere, questa volta.
«Sai, pensavo piuttosto che volessi discutere del fatto che ti sei infilata nelle lenzuola del mio ragazzo...» la sua lingua schiocca sul palato, minacciosa, e mentre intreccia le braccia al petto capisco che forse, dietro alla sua retata a casa di Seth, c'è in realtà qualcosa di ben più serio di una semplice chiacchierata - ma non posso farmi vedere dubbiosa, devo riuscire a tenerle testa dopo ciò che è successo durante il nostro ultimo incontro. Se sapesse in quale stato emotivo io stia vergendo ora lo userebbe contro di me - e sono fragile, lo so, spezzarmi non è un'impresa da Titani: basta un mortale armato delle giuste parole. E lei in questo momento lo potrebbe essere.
«È il tuo ex...» cerco malamente di difendermi rivangando un concetto già usato ampiamente, oggi, però da questa frase non mi pare affatto d'ottenere grandi risultati. Non sono brava quando si tratta di sopravvivenza, ne ho già dato prova.

«Appunto...» sussurra lei chinandosi lentamente verso di me. È sempre più compiaciuta e non so dare un senso al suo fare complice, quasi ci stessimo scambiando un piacevole segreto - eppure noi due non abbiamo nulla da confessarci, il nostro rapporto è ben lontano da essere definito amichevole. «È mio. E sai perché, piccola Jane?»
Il nodo che ho in gola, lì dove il cuore mi si è bloccato pochi minuti fa, sembra diventare più soffocante; non riesco a tirar fuori alcuna risposta, così mi limito a stringere i pugni per evitare di mettermi a tremare. È ovvio che un certo timore stia iniziando ad avere la meglio su di me, che la volontà si stia lentamente crepando sotto alla pressione dell'agitazione.

No, non lo so - e la cosa non mi piace per niente.

Il suo busto si avvicina ancora e le nostre facce sembrano sul punto di sfiorarsi.
«Perché lui ed io ci assomigliamo. Tutto ciò che vogliamo ce lo prendiamo, e non c'interessa nulla dei sentimenti altrui. Siamo fatti per stare insieme, siamo due pezzi di una medesima mela marcia».
«C-che vuoi dire?» Ecco che il battito accelera, le gambe si fanno molli e i palmi iniziano a sudare. I primi pezzi della mia armatura di compostezza prendono a cadere a terra, frantumandosi come cocci di vetro.
Nei secondi che lei impiega a darmi una risposta vorrei poter essere in grado di bloccare i pensieri, ma loro corrono e si inseguono senza alcun ritegno, animali voraci pronti a sbranarmi la psiche e farmi impazzire. Con i denti minacciano i brandelli della mia corazza, puntano alla sostanza morbida delle membra che vi si nasconde sotto. Perché credo di conoscere già le parole che sta per pronunciare? Perché temo che il lato peggiore di Seth, quello che lo rendeva così simile a Sharon, sia sul punto di riemergere e farmi male?

Il sorriso le diventa enorme, il piacere che prova è talmente intenso da schiacciarmi il cuore. Non ho idea di cosa temere maggiormente, se lei o i miei stessi pensieri.

Si bagna le labbra carnose, inumidendole per bene, in modo che le parole escano fuori senza alcuna ostruzione: «Che Seth si è pre-» ma la frase si ferma comunque a metà. Lo sguardo di lei salta dal mio viso oltre le spalle e dal modo in cui la sua espressione muta, capisco che non siamo più sole - quando mi volto infatti, Morgenstern svetta iracondo a pochi passi da noi. Nei suoi occhi una scintilla preoccupante mi fa torcere le budella, mentre la gola si secca. È così fuori di sé che capisco, improvvisamente, che dalla bocca della sua ex ragazza stava davvero per uscire la verità che tanto ho cercato; non sarebbe così furioso se sapesse di poter combattere le bugie con la cruda realtà dei fatti - lo ha già dimostrato.

«Taci» incita: «se osi dire un'altra parola giuro che te ne faccio pentire, Sharon». La sua voce diventa una lama tagliente che passa troppo vicino ai timpani, non solo i miei, e l'interessata si ritrova quindi a ubbidire per salvaguardare la propria incolumità, ritraendosi - ma io ho ancora bisogno di sentire ciò che ha da dire. Voglio udire ogni singola parola di quello che mi è stato tenuto segreto per settimane! 
Non posso rinunciare a questa occasione, non ne avrò altre. 
Allora, del tutto ottenebrata dalla necessità di mettere fine a questo limbo d'ignoranza, le afferro il braccio: «No, dimmelo». La supplico, consapevole di quanto miserabile possa apparire ai suoi occhi. 
Ma ho bisogno di sapere. 
Lei si scrolla di dosso le mie dita: «Fattelo dire da lui, se ha le palle di ammettere quanto squallido è. Dopotutto la nostra storia andava così bene, finché -»
«Ho detto di tacere!» Il passo che Seth fa verso di noi risuona come un boato, avverto l'asfalto sotto ai piedi tremare - e anche stavolta non sono la sola.

Sharon alza le mani in segno di resa, si allontana di un'altra spalla: «Come vuoi» sputa, ma al mio ennesimo tentativo di trattenerla, sono io quella a venir bloccata con prepotenza. Morgenstern mi tira a sé impedendomi di avanzare oltre, di insistere in una battaglia che a suo avviso non dovrei né combattere né, men che meno, conoscere.
«Mollami, Seth!» Mi oppongo senza ottenere risultati, quasi non avessi alcuna forza se messa a confronto suo, inerme al pari di un fantoccio. E lei va via, passo dopo passo, mentre il ragazzo che mi stringe, impassibile persino di fronte alla mia voce spezzata, mi trascina lontano dalla strada e su per le scale del suo condominio. Non importa quanto mi dimeni, come le mani cerchino di allontanare dal corpo le sue braccia, non mi lascia andare nemmeno per un istante, arrivando persino a sollevarmi di peso pur d'impedire ai piedi di piantonarsi a terra.

Nessuno prova a bloccarlo e così, in una manciata di minuti, mi ritrovo scaraventata sul divano di casa Morgenstern e alla totale mercé dei suoi occhi.

La rabbia in lui non è scemata, ma posso chiaramente leggere nella sua espressione un velo di frustrazione a cui non riesco a trovare un senso.

«Perché?» grido, cercando quantomeno di mettermi seduta: «Perché l'hai cacciata?»
«Perché questi non sono affari suoi, Jay! E nemmeno tuoi!» Anche lui urla, il suo tono è violento come uno schiaffo, prova a colpirmi e, nonostante l'abbia già sentito tante volte, persino il giorno in cui per la prima volta mi ha baciata, non mi è mai sembrato così cattivo, amaro.

Stringo i pugni, lo faccio forte. Le nocche sbiancano e le unghie si infilano nella carne dei palmi senza alcuna pietà - ma non credo di riuscire a quantificare con lucidità il dolore, sono troppo occupata a fare i conti con tutto il resto.
«Invece sì! Jace è mio fratello, tu il ragazzo che amo e Charlie è la persona più importante che ho!» Sento gli occhi bruciare, so che le lacrime sono sul punto di emergere e colarmi sulle guance prive di alcun ritegno, eppure non mi fermo, non ora.
«Non sono intenzionata a perdervi, chiaro? Quindi che cazzo hai fatto, Seth?! Che puttanata hai combinato?!» Perché dalle poche parole che Sharon è riuscita a pronunciare è chiaro che sia stato lui il primo ad addentare la mela della discordia e, anche se vorrei non ammetterlo, alla fine me lo sarei dovuta aspettare.

Seth Morgenstern è sinonimo di casini, non sono forse stata io a dirlo?

«Non-»
«Ammetti ciò che hai fatto!» Se potessi averne la certezza, direi di essermi graffiata la gola con questo ultimo urlo, ma tutto ciò che so è di non poter più restare all'oscuro di quello che è successo tra loro.

«Vuoi davvero saperlo? Eh, Jane? Vuoi davvero mandare tutto a quel paese?» Mi si avvicina, in poche falcate lo ritrovo a torreggiare sopra di me; e tremo, incapace di contenere la paura. Impietoso Seth mi afferra un polso, lo strattona malamente costringendomi verso il suo viso sempre più adirato e, quando siamo a un soffio l'uno dall'altra, mi domanda: «Vuoi davvero sentirmi dire che mi sono fatto la ragazza che voleva Charlie?»

I miei occhi si allargano, boccheggio mentre le lacrime prendono a colare. Se non sentissi il suo respiro bollente sul viso potrei dire che il tempo si è fermato, insieme a quel che resta del mio cuore. Il rumore che fa è pari a quello di due lembi di stoffa che vengono tirati, strappati. Mi sento mancare, ma non riesco realmente a perdere coscienza di ciò che ho intorno.
E così mi pare si appassire lentamente, di morire mentre comprendo l'inimmaginabile.

È andato a letto con la ragazza di Benton.
Lo ha tradito.
Ha distrutto un legame che credevo fosse invincibile - e ora mi pento di averlo chiesto.

«F-fammi andare... fammi andare via».

La presa su di me allenta, il suo sguardo si fa sofferente e in questo momento di debolezza riesco a divincolarmi.
«Jay...»

Raccatto tutte le mie cose alla bene e meglio, ci penserò dopo a sistemarmi, e quando varco la soglia nemmeno mi giro a guardarlo - non riesco.

Perché lui ed io ci assomigliamo. Tutto ciò che vogliamo ce lo prendiamo, e non c'interessa nulla dei sentimenti altrui, ma mai avrei pensato che le parole di Sharon potessero significare questo. La mia stupida mente, così innocente e ingenua, non avrebbe potuto concepire nulla di tutto ciò, non avrebbe accettato una simile verità - non quando di mezzo ci sono Charlie e Jace.

Ed ora ogni tassello che in questi mesi avevo creduto mancante prende a incastrarsi al posto giusto, dando forma al puzzle più brutto che potessi ritrovarmi a fare.

Perché, però, mi sento io quella più ferita da questa storia?

 

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Capitolo 37
*** Chapter 28: Where is he? ***




Chapter Twenty-eight
§ Where is he? §

 

"But dear I'm gone
And that's the lousy truth
For the past three years
I swear I've been a better man
Then who I become
I know I know I know I left you down
But I've been gone
For to damn long
"

 

NeverShoutNever, Lousy Truth

 

Osservo mia madre. Vedo le labbra di Catherine muoversi, la sua espressione mutare tra e dopo ogni frase. Sta raccontando qualcosa, ma io non sento nulla, ho le orecchie tappate da batuffoli di cotone che provano a tener prigioniere le parole di Seth, quell'ultima domanda che riecheggia violentemente tra le pareti del cranio.

Vuoi davvero sentirmi dire che mi sono fatto la ragazza che voleva Charlie?

No. In realtà volevo sentirti dire tutt'altro. Avrei preferito che dalla tua bocca uscisse una verità meno scomoda, una motivazione più infantile, sciocca, risolvibile - ma tu fai le cose in grande, vero Seth? Se devi far male lo fai senza pietà, colpisci dritto dove il sangue viene pompato e fai un macello. Ora davanti a me vedo solo sangue: quello di Charlie, Jace e anche il mio. Hai tradito i tuoi migliori amici trattandoli come se non avessero alcun valore, così mi è stato impossibile chiedermi: quante ore sono passate prima che le tue labbra, da lei, si posassero su di me? Con quanta facilità ti sei chinato tra le sue cosce, prima di metterti in testa di prenderti il mio cuore? Perché se far loro del male è stato tanto semplice, farlo a me dovrebbe esserti risultato una bazzecola.

Gli occhi iniziano a bruciare e la consapevolezza di essere nuovamente a un passo dallo scoppiare in lacrime si fa preoccupante; non saprei nemmeno come giustificarmi di fronte a tutta la famiglia Raven. Cosa potrebbero pensare? Forse che sono impazzita; un esaurimento nervoso prima degli esami di maturità - chissà.

Sposto un asparago con la punta della forchetta, poi lo rimetto al suo posto. Non ho fame stasera e penso che non l'avrò per un po', quindi mi limito a giocare con il cibo illudendo i miei genitori di star mangiando, anche se, se si dovessero soffermare su di me, noterebbero l'inganno. E qualcuno di loro, d'un tratto, forse lo fa.
Liz mi tira una gomitata leggera, attira la mia attenzione. Per un istante mi pare venir risvegliata da un terribile e implacabile sonno, ma quando mi volto verso di lei strabuzzando gli occhi, vedo che con il mento indica il cellulare che ho appoggiato accanto al bicchiere. Lo schermo è rigorosamente rivolto verso il basso, come mamma comanda, ma si possono chiaramente vedere i bordi che, a intermittenza, si illuminano senza sosta, mentre la vibrazione lo fa cozzare ritmicamente contro il vetro della stoviglia. Lo fisso con un misto di timore e ribrezzo, senza però agire, finchè il vocione di mio padre non mi riporta definitivamente alla realtà, facendomi sussultare.

«Forse è urgente, tesoro».
Corrugo le sopracciglia.
«E' da quando ti sei seduta a tavola che continua a squillare».

Torno a fissare l'aggeggio.
Sì, lo so. Seth ha fatto passare giusto un paio di ore, probabilmente nella speranza che mi calmassi e tornassi da lui, ma io non ho ceduto e quando si deve essere reso conto che stavolta non ci sarà alcuna resa da parte mia, nessun nauseante desiderio di correre tra le sue braccia, ha iniziato a scrivermi e chiamarmi.
Ma come posso perdonarlo? Come posso lasciarmi avvolgere dal suo profumo, dal suo corpo e baciare dalle sue labbra sapendo chi è stato lì prima di me?


«Ha-hai ragione, papà. Scusatemi, non è nulla» allungo le dita e premo il tasto di spegnimento, mettendo fine al trillare - almeno questo affare può essere silenziato, mentre per le mie ansie è tutt'altra storia.

Ora capisco i timori di Jace, così come la diffidenza e l'allontanamento di Charlie. Dopo essere stato pugnalato da Seth deve aver pensato che anche io non gli dessi più alcuna importanza: avevo, anzi, ho ottenuto ciò che bramavo da anni e per questo, dei suoi sentimenti, ho smesso di preoccuparmene, diventando esattamente come Sharon e... Morgenstern, anche se mi fa male associare il suo nome a un concetto tanto ripugnante. Per Benton non sono diventata altro che la donna del fratello che l'ha ferito e, se lui è un traditore, io non potevo essere da meno.

Mi passo una mano sul viso, provando a tirar via le frustrazioni. Loro però sembrano incollate alla pelle del mento, delle guance, sulle palpebre e in mezzo ai capelli. Non c'è modo di staccarle senza strappare anche un po' di carne.

«Va tutto bene, Jane? Hai un aspetto... sbattuto» la mano di mio padre si appoggia con dolcezza sul polso che sorregge la forchetta, mi chiama, eppure mi sento nuovamente trascinare via dal presente: la mente non ne vuole proprio sapere di stare attenta.
Abbozzo un sorriso, ma sono certa di non rincuorare nessuno dei presenti; i loro sguardi restano dubbiosi e su di me, quasi avessi confessato qualcosa di terribilmente spiacevole - e forse sarebbe giusto sfogarmi con loro, dopotutto sono la mia famiglia. Forse dovrei dirgli che al momento ho il cuore a pezzi e mi sento la persona più orripilante della Terra, peccato che quando apro bocca dalle labbra mi esca tutt'altro.

«I-io... sì, sto bene. Sarà il ciclo. Posso andare a riposare?»

Vedo un lieve rossore riempire le guance di papà, tradendo la sua solita compostezza. Lui, che vive con tre donne da ormai più di venticinque anni, ancora non si è abituato a sentir parlare di simili cose e questo dettaglio pare essere la mia arma vincente. Annuisce senza porre ulteriori domande, non indaga per pietà del suo povero cuore: «Oh, sì, sì... certo».
«Vuoi una tisana calda? Qualche pastiglia per il dolore?» Catherine è subito in piedi, con le pantofole vaga per la cucina alla ricerca della propria borsa - perché nonostante l'imminente arrivo della menopausa ha ancora una scorta assai consistente di medicinali che conserva per poterci riempire i figli. Per ogni sintomo ha una diagnosi e, di conseguenza, qualcosa da farci ingerire.

«Forse dopo, mamma. Non ti preoccupare».

Vedo le sue spalle raddrizzarsi un po', testimoni mute dello stupore che deve averla colta nel sentire un tono tanto pacato e un "mamma" che raramente mi scappa di bocca, però non le do tempo di voltarsi per scoprire se ciò che ha udito è reale o un sogno. Mi alzo in fretta, afferro il cellulare ormai spento e sgattaiolo via - magari un po' di riposo riuscirà a farmi star meglio, a placare il caos di pensieri e sensazioni che mi attanaglia senza pietà.

***

Il giorno dopo, con lo zaino in spalla, la stanchezza post scuola e il timore di incrociare Seth a ogni cambio di direzione, mi ritrovo davanti a casa Benton. Le tende colorate si muovono nella brezza del pomeriggio, mentre una volta varcato il perimetro in mattonelle rosse le camelie di Molly mi accolgono in quello che è un minuscolo vialetto. Il profumo familiare di questo posto mi sfiora dolcemente, pizzica le narici con la scia della torta di mele che sicuramente sta cuocendo in forno, anche se il cuore resta incastrato nella gola bloccando l'acquolina.

Sono qui, ignara di ciò che devo dire, eppure alla disperata ricerca del perdono che Charlie ancora non mi ha dato, ma che mi auguro mi conceda ora. Così arrivo di fronte alla porta, prendo un grosso respiro e mi domando: sono pronta? Credo di sì, ma ogni volta che ho avuto una certezza il destino si è affrettato a farmi cambiare idea, quindi preferisco non dare nulla per scontato - forse nemmeno oggi riuscirò a sistemare le cose.

Butto fuori l'aria inspirata sperando che anche tutta l'agitazione esca con lei e poi, quando mi convinco di essere pronta, nonostante i tremori alle gambe, suono.
Il dlin-dlon del campanello riecheggia al di là dell'uscio, sento il rumore correre dall'ingresso verso la cucina, lì dove la finestra è aperta e il profumo prova ad ammaliare i passanti, me compresa.
Sento un'esclamazione, qualcosa che viene spostato e poi, nel giro di esattamente nove secondi, Molly Benton spalanca la porta, sussultando nel trovarmi in attesa - dopo tutti i giorni passati lontano da qui dubito si aspettasse di vedermi apparire praticamente dal nulla, soprattutto visto che non ho avvertito nessuno, nemmeno suo figlio.

«Oh, santo cielo, Jane! Cara che ci fai qua?» svelta prende a pulirsi le mani nel grembiule che ha indosso, il sorriso le si fa grande di gioia ora che mi ha riconosciuta, poi si sposta un poco in un muto invito a entrare - ed io non me lo faccio ripetere; un po' perchè così Charlie non avrà alcuna scusa per cacciarmi, un po' perchè l'idea di far merenda a casa Benton è ancora una delle cose che più preferisco. Le migliori leccornie le ho mangiate qui, seduta sul pavimento del salotto oppure della camera del mio amico.

Avanzo con una titubanza inusuale, addentrandomi nell'edificio conscia di non essere completamente voluta, ma prima di voltarmi verso la cucina mi fermo davanti alle scale. Alzo lo sguardo verso il piano superiore, quasi cercando qualcosa, eppure non vi è alcun movimento, men che meno suono.
«Sono qui per Charlie» ammetto imbarazzata, stringendomi nelle spalle consapevole della mia colpevolezza; non solo l'ho ferito, mi sono anche presentata qui senza alcun preavviso - e se ci fosse quella tizia fuxia con lui? Se stessero...? Fermo i pensieri prima che si facciano troppo fastidiosi, tornando poi a fissare la signora paffuta alle mie spalle.

Molly piega la testa da un lato, confusa: «Charlie?»
Annuisco, ritrovandomi a corrugare le sopracciglia: «Sì...»

Spostandosi una ciocca rossiccia, la donna s'incammina verso la cucina per controllare la torta: «Scusa, ma non vi siete sentiti di recente?»
«Ci siamo visti l'altra sera, all'Elder and the Moon».
«E non ti ha detto niente?» Si china, spiando dal vetro del forno. Pare così concentrata da non poter udire nulla all'infuori del ticchettio del timer, eppure quando nego non ha bisogno che io ripeta. La sua bocca si storce e lei torna a fissarmi: «Strano... di solito sei la prima che avvisa» con un po' di fatica si rimette dritta e nuovamente prova ad allontanare dal viso i capelli sfuggiti dal mollettone: «E' partito stamattina per Bristol, va da mia sorella per qualche giorno. Sai, Dana si sposa e aveva bisogno d'aiuto per il trasloco».

Oh.

No, non mi aveva detto nulla, nemmeno che sua cugina si era fidanzata.

Tiro un sorriso, stavolta mi sforzo sul serio. Non so perché ma faccio fatica a contrastare la gravità con i lati della bocca, pare quasi che non vi sia altra posizione, per loro, se non quella che tende verso il basso.
«Davvero? Non mi ha detto nulla del matrimonio... e quando è?»
Miss Benton sorride con dolcezza, forse è più perspicace di quel che credo e, persino se non lo dice, ha capito la mia delusione. Lo intuisco perché si volta e versa in una tazza del caffè, poi me lo porge: «Ne riparliamo a fine anno, stanno ancora organizzando. Sai come siamo noi donne, soprattutto quando si parla di eventi simili» vorrei dire di sì, ma in realtà non ne ho idea. La mia organizzazione massima si riassume nel preparare lo zaino per il giorno seguente, il mio massimo risultato in fatto di perfezionismo è l'amalgamento dei cereali all'interno dello yogurt.
Così per evitare una risposta falsa o che mi potrebbe mettere in difficoltà, accetto il suo pegno e ne trangugio subito una parte. Lascio che l'amaro del caffè scivoli giù per la gola insieme alle mie aspettative infrante, certa che entrambi abbiano lo stesso saporaccio, al momento.

«E... l-lui quando torna? Esattamente, intendo».
Perché torna, vero?

Sua madre si muove lenta verso una delle pareti, afferra l'angolo di una pagina del calendario che vi è appeso sopra e si mette a fare i conti, arrivando persino a spiare tra i numeri del mese successivo, lì dove a metà pagina, in pennarello, è segnato l'inizio dei miei esami di maturità. La calligrafia di Charlie è talmente unica che la riconosco senza fatica e, accanto alle parole di tenero scherno, dove un "L'ultima sfida di Jay ha inizio" mi strappa un sorriso, ci sono stelline piccole e grandi, di colori diversi e disegnate come se fossero opera di un bambino delle elementari.
Lui le cose importanti se le ricorda, non è certo come me.

«Sai che la puntualità non è il suo forte... però dovrebbe tornare a inizio del prossimo mese».

Tra due settimane, quindi. Mi mordo il labbro, soppesando la mia pazienza: riuscirei a stargli lontana, e con la consapevolezza di ciò che è realmente successo, per tutto questo tempo? Saprei impedire alla mia testa di riempirsi con pensieri inutili fino al suo ritorno? E senza di lui, sarei in grado di mantenere le giuste distanze da Seth? Perché temo che sia facile farmi cedere e se dovessi farlo, ne sono certa, perderei l'occasione di riavere Benton con me.

«E con il lavoro?» Domando svelta, cercando di appigliarmi a qualsiasi cosa pur di riuscire a farlo tornare prima, quasi fosse in mio potere.
Lei lascia andare la presa: «Aveva delle ferie arretrate, per quel che ne so» alza le spalle, socchiudendo appena gli occhi: «Ma vedrai che sarà qui prima di quanto immagini, tesoro». Lo dubito, però non lo dico. 
Il tentativo di Molly di rincuorarmi è un sasso che cade nel vuoto, non ottiene alcun risultato. Quattordici giorni sono tanti, più delle dita di entrambe le mani e, per me, pensare a domani diventa già difficoltoso, figurarsi arrivare sin là. Ciò che mi limito a fare, quindi, è abbozzare un nuovo e fintissimo sorriso. Mi infastidisce il pensiero che lui non sia qui, che non possa raggiungerlo. Mi fa arrabbiare la sola consapevolezza di non essere stata informata di questa inusuale partenza - io! Io che dovrei essere la sua migliore amica, o comunque un tassello fondamentale del suo quotidiano...

Lenta appoggio la tazza sul lavello, nel mentre ringrazio per l'ospitalità e, seppur non vorrei, sentendo l'urgenza di andare via. Non dovrei essere qui se lui non c'è, non ho alcun motivo di restare ferma in una casa in cui non sono stata invitata. 
Stringo forte le mani sulle spalline dello zaino, che adesso mi pare pesare un po' di più; stringo e mi domando quanti passi indietro debba fare per riuscire a sistemare le cose, se c'è una sequenza corretta di movimenti da compiere per ottenere nuovamente la vita di qualche mese fa, quando nulla era ancora andato in pezzi.
Fingendo un impegno saluto, ma una pressione sulla bocca dello stomaco mi fa venir voglia di sedermi a terra, rannicchiarmi e non alzarmi finché lui non sarà rincasato - eppure non posso, è ovvio, così vado via trascinando i piedi, stanca di sentirmi inutile di fronte a ciò che accade, inerme al cospetto delle conseguenze di stupidissime scelte altrui. Già, perché quelle di Morgenstern non si possono definire in altro modo, anche se lui ha sempre dato l'impressione di essere abbastanza intelligente e furbo da risparmiarci simili guai.


Malvolentieri mi ritrovo a camminare ancora una volta lungo il vialetto, poi sul marciapiede e infine a susseguire falcate in direzione di casa, nonostante al momento sia il posto peggiore in cui vorrei essere.

 

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Capitolo 38
*** Chapter 29: Don't let me go (part one) ***




Chapter Twenty-nine
§ Don't let me go §
part one

 

"You gave us some place to go
I never said thank you for that
I thought I might get one more chance
What would you think of me now
So lucky, So strong, So proud?
I never said thank you for that
Now I'll never have a chance
."

- Jimmy Eat World, Hear you me

 

Come ho detto, casa mia era il posto peggiore in cui tornare, per questo una volta arrivata alla fermata dell'autobus, al posto di restare ferma in attesa, ho attraversato la strada e preso la corsa verso la direzione opposta. Appoggiata alla spalliera in metallo ho fissato il susseguirsi di edifici pensando a tutto ciò che ho scoperto in sole quarantotto ore: Charlie innamorato, probabilmente di una ragazza che conosco ma a cui non ho mai rivolto uno sguardo, e Seth che se la scopa. Il perchè però mi è sconosciuto. Era ubriaco? Non sapeva dell'interesse del suo migliore amico per lei? Lo ha fatto volontariamente, conscio del casino che avrebbe creato? Oppure c'è altro? E come biasimare Jace, ora che so tutto, per avermi messa in guardia, per aver cercato ancora una volta di proteggermi, come qualsiasi fratello maggiore con due dita di cervello? Sono stata così cieca da non vedere l'ovvio, da non riconoscere il pericolo pur sapendo di aver di fronte un lupo - che a quanto pare ha perso il pelo, ma non sembra intenzionato a fare altrettanto con il vizio.

Lei e poi io.
Quale è il nesso? Perché lo ha fatto?

Non capisco.

Dopo tre fermate e una moltitudine di nauseanti domande ho abbandonato l'autobus, camminando fino alla porta di Josephine che, aprendomi, ha temuto il peggio - e adesso sono qui, seduta sul suo piccolo balconcino a far penzolare i piedi oltre la ringhiera, mentre una tazza di tè caldo mi fuma tra le mani e il libro di storia se ne sta aperto e intoccato al mio fianco.
Nonna mi fissa dalla sediolina sul lato opposto di questi tre metri quadri, pensierosa. Non ha ancora domandato nulla, ma so che non aspetta altro che chiedermi il motivo di questa visita. I suoi occhi sono fermi sulla mia nuca da fin troppo tempo, li avverto scrutarmi mentre fingo di leggere la stessa pagina da quasi dieci minuti.

Casa sua mi è sembrato l'unico posto tranquillo in cui rifugiarmi: con lei non ho bisogno d'indossare maschere, men che meno di evitare la questione "cuore infranto".

«Guarda che puoi parlarmi» la pizzico, lanciandole uno sguardo furtivo da sopra la spalla e lasciando perdere l'idea di finire il capitolo - un'abitudine ormai.
«Non sembri una che vuole parlare, chérie».
Mi bagno il labbro, girandomi completamente verso di lei. Il busto si torce, sento i muscoli della schiena tirare un poco, ma non rinuncio a tenere le gambe al di là del limitare del balcone.
«Avrei voluto, invece, ma Charlie è partito per Bristol».
«Quindi sono il ripiego?» Il suo tono è offeso, eppure il modo in cui l'espressione le sia addolcisce in viso mi fa capire che sta cercando di strapparmi un sorriso.
E' difficile resisterle, ma è ancora più faticoso dimostrare reale divertimento.

«So perché Jace ha litigato con Seth» affermo d'improvviso, appoggiando la tazza accanto al libro per evitare di rovesciarmi addosso il contenuto - mi conosco, una reazione un po' più impetuosa del solito e finirei con il combinare un disastro.
Josephine si china in avanti, resta in ascolto senza farmi alcuna pressione e, nonostante le lenti scure dei suoi inseparabili occhiali da sole, so che con lo sguardo sta scrutando con attenzione ogni sfaccettatura del mio volto. Indaga silenziosa, in modo da prevedere l'esito di questa conversazione. «Sono quasi certa che abbia preso le difese di Charlie» aggiungo dopo qualche secondo, iniziando a cercare il pacchetto di sigarette nascosto nella tasca della gonna.
«Mi sembra un'ottima supposizione, bambina mia. E' un atteggiamento abbastanza comune da parte di Jace».
«Già...» finalmente riesco ad afferrare un filtro: «E sai perché?»

Nonna resta ferma, aspetta.

«A quanto pare Seth si è scopato la ragazza di cui è innamorato Charlie, o comunque ha avuto una tresca con lei».
Con la coda dell'occhio la vedo sussultare, sono certa che le sue palpebre si siano allargate quasi allo stremo.
«E' successo prima che si mettesse con me, tranquilla» puntualizzo subito, immaginando quali pensieri possano aver sfiorato la sua mente dopo questa rivelazione.
Un dettaglio che però dimentico sempre, quando si tratta di nonna, è la sua perspicacia, l'attenzione che a differenza mia pone sempre anche alle piccolezze.
«Beh, non vorrei essere io a fartelo notare, ma voi due avete iniziato a fare cose pochi giorni dopo la litigata, da quello che mi hai detto...»

La guardo per qualche minuto, ignorando completamente la sua solita allusione alla mia inesistente vita sessuale, poi mi rimetto a fissare l'edificio dall'altro lato della strada, infilandomi la sigaretta tra le labbra e accendendola in uno stato d'indefinibile frustrazione. Per cosa mi sto crogiolando? Per il fatto che lo abbia notato anche lei, e quindi le mie angosce siano più reali? Vorrei tanto saperlo. Vorrei capire se sono realmente un ripiego oppure no, ma soprattutto, se mentre stava con questa sconosciuta, in un angolo recondito della sua mente, c'era già il mio pensiero.

Prendo qualche boccata, soppeso ciò che Josephine è riuscita a dire mentre io ho solo valutato nella segretezza della mia mente, ma non riesco a concludere nulla.
 

«Cheriè, sai che sono la prima sostenitrice dello zero waste, soprattutto se fisico e con bocconcini come tuo fratello e i suoi amici, però se Seth... beh...» la vedo faticare nel trovare le parole, ma nonostante questo non la interrompo. Sicuramente ci sarà qualcosa di serio e profondo al di là della demenza senile che prende possesso della sua lingua.
«Se lui non ti fa sentire sicura forse è giusto che tu faccia un passo indietro. La ruggine a lungo andare spezza anche il ferro».

Mi mordo il labbro, lasciando che nuvole rarefatte escano dalle narici: «E' solo che...» a dire il vero nemmeno io so cosa ci sia nel mezzo, quale strana forma di autolesionismo m'impedisca di allontanarmi realmente da lui, anche se richiamata a gran voce da Charlie, dalla solitudine in cui si è ritrovato e che non si merita. Non lui, che è sole dopo la bufera.

«Ne avete parlato?»

Sussulto.

«Perché se ti conosco bene, non sei razionale come Jace quando ti trovi a disagio».
Schivo i suoi occhi, che ora fanno capolino da oltre la montatura, studiandomi con una curiosità tutt'altro che piacevole. A quanto pare, sono un libro aperto per lei.
E il mio tacere conferma le sue supposizioni.
«A me è sembrato convincente l'altro giorno» bofonchia d'improvviso, tornando ad appoggiare la schiena alla sedia: «il se soucie de toi».
Prendo un'altra boccata: «Le pensez-vous vraiment?»
«Secondo me dovreste parlarne con calma, capire meglio le dinamiche. Il dialogo è importante, soprattutto in un momento come questo. E ad ogni modo, per rispondere alla tua domanda, non l'ho mai visto così serio, Jane, e lo conosco da quasi quindici anni».

Forse, mi dico, dovrei realmente prendere in considerazione i suggerimenti della nonna e parlarne con lui, mettendo fine ai miei dubbi. Se Charlie non mi risponde e nemmeno mi vuole vedere, e ancora non mi sento pronta a fare mea culpa di fronte a Jace, Morgenstern è l'unica persona da cui potrei ottenere delle informazioni - in particolar modo ora che la questione più scabrosa è stata rivelata.

«Hai ragione, gli parlerò» butto il mozzicone al di là della ringhiera, conscia di non avere altre soluzioni se non quella appena fornitami, ma prima di tornare allo studio mi concedo una piccola annotazione: «però, ti prego, smettila di parlare di tuo nipote e dei suoi amici come se fossero un gruppo di spogliarellisti da consigliare alle amiche!»

***

Sulla soglia, Josephine mi trattiene ancora per un'ultima chiacchiera, come se non ne avessimo spese abbastanza durante il pomeriggio. Mi chiede più volte se sono certa di non volermi fermare a cena, se me la sento di tornare a casa da sola o se deve chiamarmi - e quindi anche pagarmi - un taxi, ma ad ogni sua proposta rifiuto con un sorriso.

«Hai il cellulare carico, vero? Sai, in caso avessi bisogno di chiamarmi...»
Nuovamente la rassicuro, agitandole davanti al viso lo schermo illuminato.
«Okay, cheriè. Mi raccomando, dammi notizie».
Annuisco e prima che possa trovare un'altra scusa per ritardare la mia partenza sgattaiolo lungo i gradini, creando un'eco tetro nella tromba delle scale. Veloce mi dirigo verso l'uscita, quasi stessi scappando, e quando finalmente metto piede sul marciapiede avverto una sorta di sollievo. Dopo la conversazione del pomeriggio, e lo studio pressoché intensivo, avvertire la brezza della prima serata è un toccasana, pare quasi possa rinfrescarmi la mente. I pensieri che bollenti vi sono stati all'interno per tutte queste ore si rilassano, dandomi la parvenza di una tregua - ma una domanda resta e devo decidermi sul da farsi.

Gli parlo?

Ancora una volta estraggo dalla tasca il cellulare. Ne fisso lo screensaver per qualche istante. Ci sono ancora le notifiche dei suoi messaggi senza risposta, le chiamate rifiutate. C'è l'assiduità con cui lui, a differenza mia, sin dall'inizio ha voluto chiarire la questione, mentre io fuggivo e mi rifugiavo nella rabbia, nella frustrazione e in un inutile isolamento che avrei tanto voluto fosse Charlie a interrompere.

E' quasi ora di cena, se m'incamminassi adesso potrei arrivare da lui giust'in tempo per condividere un pasto, sederci a tavola, oppure a terra, e parlare di ciò che è successo, e di che conosco a metà.

Dovrei?

Mi bagno le labbra, valutando l'opzione.
Sono pronta ad affrontare la questione con lui? Sono consapevole dei rischi a cui vado incontro? No, assolutamente, però mi rendo conto che più tempo passa, più la crepa che mi separa da lui, Benton e Jace si fa profonda, rischiando d'impedirmi di costruire qualsiasi ponte con loro e riuscire a riempire nuovamente i vuoti. Così alla fine sospiro, avviandomi in direzione del suo appartamento. Se i mezzi sono in orario sarò lì in poco più di mezz'ora, quindi ho esattamente trenta minuti per soppesare le conseguenze delle mie azioni, scegliere le parole con cui presentarmi a lui e decidere con quale pegno farmi trovare fuori dalla sua porta: pizza, cibo cinese, sushi, oppure qualsiasi altra cosa sia commestibile - sperando che sia a casa e non altrove. E che sia pronto a parlare con me di ciò che è accaduto.

Un passo dopo l'altro mi dirigo verso la fermata della metro più vicina, cerco per qualche istante di orientarmi in una stazione che per la prima volta trovo confusionale e, quando infine arriva il lombrico di metallo, mi lascio cadere sul primo sedile che trovo libero, concedendomi uno sbuffo.

Tra la partenza e la fermata successiva mi ritrovo a cercare con insistenza un ristorante che possa consegnare in breve tempo a casa di Seth, magari direttamente nelle mani della sottoscritta prima che metta piede sul suo pianerottolo; a metà tra questa e la seconda chiudo l'app per aprire quella di messaggistica, dove ancora una volta finisco con il pigiare sul nome di Charlie.

Che faccio, gli scrivo ancora? Gli dico che sono passata a trovarlo, ma lui non c'era? Lo metto al corrente del fatto che ora so cosa è successo tra loro?

Distolgo lo sguardo, passandolo da un passeggero all'altro. Ci sono pochi anziani, giusto un paio di mamme con i passeggini e poi, in fondo al vagone, ci sono due ragazzi dai vestiti scuri, strappati in più punti. Ai polsi portano bracciali borchiati, sui visi il trucco è pesante per entrambi e le creste colorate spiccano con estrema evidenza sui loro corpi bicromatici, rosa e neri - ma ciò che più di tutto mi colpisce è il modo in cui sono avvinghiati l'un l'altra. Si baciano con un'intensità tale che mi sento una criminale nel fissarli, eppure non riesco a distogliere lo sguardo, ammaliata finché i pensieri più pessimistici non tornano a farmi visita.

Chissà se anche Seth si è premuto così contro le labbra di quella sconosciuta e se Charlie li ha visti. Chissà cosa ha pensato mentre il suo migliore amico lo pugnalava dritto al cuore.


Ed io? Io come avrei reagito se fossi stata lì? Alla fine avrei ceduto comunque ai baci di Morgenstern? Avrei messo in ogni caso, al primo posto, la realizzazione del mio desiderio più duraturo?

Alla fine, prima che possa realmente tornare al messaggio, le porte automatiche si aprono e il mio flusso di domande s'interrompe. Osservo l'insegna della fermata per qualche breve minuto, confusa, poi l'altoparlante annuncia l'imminente partenza e a quel punto, tornando in me, mi rendo conto di dover scendere. Balzo in piedi, corro fuori e per un solo istante temo di non farcela. Con le palpebre strette per paura di restare incastrata tra gli sportelli, attendo un qualche strattone, un dolore, ma nulla arriva. Il rumore del treno che riprende la sua corsa mi assorda, poi se ne va diventando sempre più lieve - e finalmente spalanco gli occhi sulla banchina, scoprendomi salva.

Dovrei smetterla di fantasticare quando sono su un qualsiasi mezzo pubblico.

 

 

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Capitolo 39
*** Chapter 29: Don't let me go (part two) ***





Chapter Twentynine
§ Don't let me go §
part two

 

"I wanted him to kiss me how
With open mouth and open mouth
We keep our distance now
I wanna feel his hands go down
I try not to think about
What happened last night outside his house
Too far to go back now
Just wanna feel his hands go down
"

- Hayley Williams, Sudden Desire

 

Con il cartone di pizza tra le mani, e una possibile ustione alle dita, mi destreggio davanti alla porta di casa di Morgenstern nell'inutile tentativo di suonare il campanello. Se la mia fortuna è stata quasi perfetta, facendomi arrivare qui prima del ragazzo delle consegne e scoprendo che la serratura dell'ingresso non è ancora stata aggiustata, a questo punto non si può dire altrettanto. Il cartone della familiare è così grosso da intralciare tutti i miei movimenti e se provassi ad appoggiarlo su un ginocchio, trasformandomi in un momentaneo equilibrista, sono certa che la pelle della gamba non me lo perdonerebbe, lasciando che la temperatura eccessivamente elevata dell'ordine crei una chiazza estremamente rossa e dolorosa. Così, all'ennesimo tentativo di raggiungere il pulsante, un angolo della confezione cozza ancora contro la porta, attirando definitivamente l'attenzione di chi vi sta al di là.

Seth spalanca l'anta già sul piede di guerra, pronto a inveire contro chiunque si sia azzardato a disturbarlo, ma appena i suoi occhi mi riconoscono, il broncio si tramuta in sorpresa.

Per un attimo resta esterrefatto a fissarmi, quasi fossi un fantasma, poi corruga la fronte ignorando completamente il pegno di pace, seppur non definitiva, che si frappone tra noi.
«C-che ci fai qui?»
Tiro un sorriso, incerta, e alzo il cartone in modo da metterlo ben in mostra: «Folletto della pizza, in caso non avessi già cenato» dico, evidentemente sopraffatta dall'imbarazzo. E' ovvio che a entrambi la mia presenza su questo pianerottolo risulti strana, così come è palese il fatto che non abbia idea di come affrontare la pessima decisione che mi ha condotta sin qui, però provo comunque a resistere all'istinto di mettergli tra le mani il cartone della pizza e correre via con le lacrime agli occhi - perché un po' mi fa male vederlo, sento una specie di escavatrice provare a penetrarmi la carne del petto. Inoltre, guardandolo nella sua esitazione, mi rendo conto che neanche lui deve essersi vissuto bene questi due giorni di totale silenzio.

Morgenstern si passa una mano sul viso, quasi stesse provando a strofinarsi via di dosso la stanchezza che lo stava assalendo e che, mi accorgo, ha scurito la pelle sotto agli occhi, rendendo il suo verde-acqua ancora più acceso.

Con un sospiro si sposta, mi lascia entrare nella sua piccola alcova arrendendosi al pari di un principe sconfitto. Tiene la testa bassa, conscio della propria colpevolezza, ma per ora non sono intenzionata ad accennare alla questione - non sono pronta, però sa che sono qui per questo, si rende conto della gravità delle sue azioni, o forse lo è sempre stato, per questo ha taciuto. 
Appena varco la soglia mi rendo conto che la musica è spenta, la tv anche, ma nell'aria c'è l'odore acre del tabacco, nicotina che dà forma a una leggera cortina di fumo. Ovunque il mio sguardo si posi, sul divano con la coperta aggrovigliata, sul tavolino dove il posacenere è ricolmo di mozziconi, sul pavimento dove qualche bottiglia di birra se ne sta addossata ad altre vuote, posso vedere con chiarezza che nervosismo, o la frustrazione, ha avuto la meglio su di lui. E non posso negare di sentire in bocca un sapore amaro, conscia di poter essere in parte causa di questo suo comportamento.

«Alla fine gli alieni ci hanno ridato il vero Seth?» domando, appoggiando la pizza sul tavolino: «No, perché quello che sapeva fare le faccende domestiche era un po' sospetto...» mi sfilo lo zaino insieme alla giacca e subito inizio a raccogliere i rifiuti. Il vetro cozza mentre afferro tra le dita i colli delle bottiglie e Chucky mi fa notare il suo disappunto dalla poltrona.

Stupido gatto, mi lascio sfuggire tra un pensiero e l'altro.

Un passo dopo l'altro, incurante di ciò che mi circonda, avanzo verso la cucina e sapientemente ripongo ogni cosa al suo posto; con tutte le serate passate a guardare film e mangiare take away ho finito con l'imparare a menadito la disposizione di tutto ciò che si trova in questa stanza e, alle volte, con grande sorpresa di Morgenstern, mi ricordavo meglio di lui dove si trovassero determinati oggetti.

«Sei sparita per due giorni» lo sento dire in un sussurro. La sua voce però, seppur lieve, mi appare terribilmente nitida e, persino senza voltarmi, so che ormai mi è alle spalle, che se allungasse una mano potrebbe sfiorarmi i capelli, accarezzarmi la schiena. E rabbrividisco piacevolmente al pensiero della nostra pelle a contatto, anche se è ovvio che non dovrei avere simili reazioni, vista la situazione.
Fingo indifferenza, strappando dal rotolo di scottex alcuni fogli che prendo a piegare senza alcuna logica.
«Ti ho scritto, Jay» le sue parole continuano a riempirmi le orecchie, ma come ho già dichiarato non sono pronta ad affrontare subito la questione del nostro litigio: «E ti ho chiamata decine di volte».
Mi chino: «La roba nella lavastoviglie è-»
«Smettila di far finta di nulla!»

Il cuore mi balza in gola. Ci metto qualche istante prima di risollevarmi e decidere di fronteggiarlo - non sono brava in queste cose.

In un gesto istintivo mi bagno le labbra, preparandole a muoversi, però alla fine non dico nulla, piuttosto resto in attesa, esattamente come una preda buttata nella gabbia della belva. Forse restando ferma non verrò assalita.

«Perché hai portato la pizza? E per quale fottuta ragione sei qui, se è da due giorni che mi eviti?»
«Non ero pronta a parlare con te».
«Ed ora sì? Non potevi scrivermi, dirmi anche solo mezza frase per evitare che...» non conclude; si prende la fronte con entrambe le mani, tirando indietro i capelli, sbuffa nervoso, però non aggiunge altro. Così mi rimetto a cercare dei bicchieri puliti.
«Ora sei l'unica persona che può rispondere alle mie domande» soffio una volta terminata la perlustrazione e recuperato gli oggetti del mio interesse. Sento una pressione fin troppo soffocante sulla bocca dello stomaco, minacciando la fame che mi ha spinta a ordinare una pizza tanto grande da sfamarci entrambi fino a domani. 
Le cose non sono mai semplici, quando c'è di mezzo Seth. Avrei dovuto saperlo fin dall'inizio, peccato che in nessuna delle mie fantasie vi fosse il mondo al di fuori di noi due, di quei baci che anelavo segretamente o delle sue carezze.
Quando mi volto, pronta a incamminarmi verso il salotto, lo sguardo che incontro è triste, sconfitto, e il corpo è piegato in una posa di resa e delusione che mi fanno stringere nelle spalle, rammaricata da ciò che ho innanzi. Non è mai uno spettacolo piacevole vedere qualcuno come lui, quasi intoccabile, cadere con le ginocchia a terra, schiacciato dal peso di ciò che non si conosce.

«L'unica persona?» mi fa eco, abbozzando un sorriso infastidito: «Fammi indovinare, sei andata da lui?»

Taccio, muovendo il primo passo. Nel silenzio asserisco. Gli passo accanto, pronta a superarlo e fingere di non averlo sentito, ma Seth mi blocca. Le sue dita si stringono attorno al mio braccio nudo e per la seconda volta, da quando abbiamo iniziato a sfiorarci con il chiaro intento d'impadronirci della pelle l'uno dell'altra, rabbrividisco. I suoi polpastrelli sono freddi, esattamente come la voce: «Sei andata da Charlie prima che venire da me?»
Cerco di liberarmi, ma è inutile. Seppur non mi stia facendo male, la sua presa è così salda d'apparire impossibile da sciogliere - e un po' ne ho paura, forse perché non voglio ferirlo, come invece sono sicura che accadrà.

Morgenstern mi costringe a voltarmi. Con il fondoschiena mi schiaccio contro al mobile al centro dell'angusta cucina e lui, d'un tratto, mi è nuovamente davanti. Ci fronteggiamo privi di spazi di sicurezza per una possibile fuga. Il suo corpo torreggia di fronte ai miei occhi, quelli che al momento non vogliono guardarlo in viso, così si aggrappano alla maglia sgualcita che ha indosso; se alzassi la faccia e sostenessi il suo sguardo vedrebbe la colpa che mi colora le guance e non credo proprio di voler iniziare la serata così - men che meno finirla.

«Seth...» la voce è un sussurro talmente lieve che persino io fatico a sentirlo, ma so che dovrei aggiungere altro, spiegare, fargli capire - ma cosa c'è da dire? Sì, sono andata da Charlie prima di venire da te. Sono andata da lui perché lo sto perdendo, perché vorrei strattonarlo a me e dirgli che mi dispiace per il male che gli hai fatto, per confessargli che non ne sapevo nulla e ho ceduto a te per via del fatto che... beh, perché lo desideravo da tempo.
Però resto zitta, conscia che gli farebbe male sentire tutto ciò - in fondo sono sicura che si aspettasse che tornassi da lui, che salvaguardassi prima noi due, poi tutto il resto.

Il vuoto fisico tra i nostri corpi si assottiglia e con la mano libera mi afferra il mento, obbligandomi ad alzare su di lui almeno il viso, anche se lo sguardo ancora fatica a posarsi e restar fermo nel suo. «Cosa gli hai chiesto?» Mi domanda, mentre con il respiro bollente e dal retrogusto dolce, di malto, mi accarezza l'epidermide.

Cosa avrei voluto chiedergli?
Tanto. Tutto.

Cosa gli ho chiesto?
Nulla, ho solo pregato qualche divinità in cui non credo di farlo tornare. A Londra. Qui. Da me.

«Cosa hai voluto sapere, da lui, che io non potevo dirti?»

Frappongo le mani, con i bicchieri, tra noi, cercando in qualche modo d'impedire al suo petto di schiacciarmi a sé e dare il via a una sequenza di reazioni che temo: le lacrime senza freni, i mugolii soffocati, i baci amari, le crepe nel nostro amore. 
Mi mordo il labbro in punta di denti, cerco una forza che mi manca, che lui Charlie mi fanno mancare con una facilità tale da spaventarmi. Strappo pellicine che dovrei lasciar stare, per evitare il sangue, ma alla fine tiro quella sbagliata e il calore di una goccia che si forma sulla curva delle pelle che brucia mi fa tremare. Vibro nella sua presa. Seth lo sente, lo percepisce, capisce - e mi si preme addosso per leccarmi via di bocca il dolore.
Si schiaccia a me nonostante il cozzare del vetro, la resistenza degli arti. Mi pulisce dalla colpa che ha provato a macchiarmi la carne, rossa come ciò che ci lega, scarlatta come la ferita che lui stesso deve aver aperto nel torace del suo più caro amico.

«Cosa ti ha detto?» domanda appena le nostre bocche si separano, con il respiro mozzato e gli occhi languidi, troppo perforanti per riuscire a contrastarli.
«Nulla...» confesso, lasciando che la prima lacrima scappi: «Nulla, perché se ne è andato a Bristol» e stavolta, fuggire, mi viene più semplice del previsto. Con uno strattone laterale mi divincolo dalla sua presa, cammino svelta verso il tavolino su cui il cartone della pizza è rimasto intoccato da quando ve l'ho appoggiato sopra e mi piego per sistemare tutto il resto.

«Che vuoi dire?»
«Quello che ho detto. Charlie ha preso e se ne è andato da sua zia».

I passi di Seth mi rincorrono, insieme alle sue parole. Uno dopo l'altro mi si mettono alle calcagna, agitandomi.

«Jay...» ancora una volta le dita di lui trovano la mia carne, l'afferrano, se ne impossessano e paiono non volerla abbandonare più. Forse un giorno finiranno con il lasciare il segno, un marchio indelebile di questa relazione sbagliata sin dal principio, eppure assuefante. «Magari ha bisogno di tempo per sé, non pensi?»
«Penso che avreste dovuto dirmi tutto sin dall'inizio, a dire il vero!» Sbotto continuando a dargli le spalle, consapevole di poter scoppiare a piangere senza alcun ritegno, se dovessi nuovamente incrociare il suo sguardo. Come d'abitudine mi ritrovo a mordere il labbro, avvertendo una piccola stilettata, un bruciore lieve che mi fa contorcere la smorfia: «Penso... penso che sei stato uno stronzo, Seth! Perché lo hai fatto? Perché diamine gli hai fatto una cosa del genere?» Il male si fa sempre più forte, la rabbia aumenta e alla fine, del tutto in balìa del dolore causatomi da questa situazione, mi volto e con un pugno colpisco il suo petto. Batto forte, mentre le lacrime scivolano sulle guance: «Che cazzo ti è saltato in mente?! E perché lo hai allontanato anche da me?»

Ogni volta che una percossa va a segno, sento la rigidità del suo corpo opporsi. E' immobile, una statua che si erge dinnanzi a me, imperturbabile. Non reagisce nemmeno per un istante, subisce in silenzio, privo di giustifiche con cui placarmi. Chissà cosa sta pensando mentre lo colpisco: forse che sono una pazza isterica, oppure nella possibilità più romantica e meno realistica che è terribile aver fatto un torto del genere a due delle persone più importanti della sua vita. Eppure, nonostante il mio sfogo, dalle sue labbra non esce suono.
Vado avanti senza ritegno, sempre più pietosa in questa sceneggiata da film tragico. Batto il lato della mano sul pettorale di Seth, lo faccio perché non so cos'altro possa fare per mettere a tacere l'annichilante mix di sensazioni che mi logora dal giorno in cui ho scoperto l'origine del loro distacco, ma la forza va diminuendo, finché alla fine sono io ad arrendermi a lui, aggrappandomi alla stoffa della sua maglia, strofinando il viso per sentire calore.

Piango e cerco sostegno. Anelo risposte mentre mi lascio trovare impreparata, ancora, al cospetto di tutto questo - forse se Jace non avesse mai deciso di andare via le cose non avrebbero preso a sfaldarsi in questa maniera; è lui il collante e in sua assenza noi cadiamo a pezzi, l'uno lontano dall'altro, fino a farci male.

Morgenstern aspetta, non mi stringe subito, ma quando lo fa pare quasi che stia abbracciando una scultura di vetro: troppo fragile per essere toccata, eppure così bella da non potersi fermare.«Sono uno stronzo, un egoista, un vigliacco... ci sono mille modi per definirmi, ora, ma quel giorno, quando ho confessato, non sono riuscito a fermarmi. Non potevo restare in disparte, non più. E alla fine ho dovuto scegliere se venir ferito o ferire, così ho agito nell'unico modo in cui so fare». China il capo, appoggiando il mento sulla mia testa. Resta fermo, ancora. Sembra che ogni movimento gli costi fatica e il battito così accelerato del suo cuore, che sento pompare al di là della gabbia toracica, mi fa temere qualsiasi suo gesto: e se scoppiasse? Se d'improvviso, a furia di palpitare, si strappasse?«E seppur faccia male, Jay, non credo di pentirmene del tutto» trattengo il respiro, in attesa di una confessione che non sono certa di voler sentire: «Non avrei avuto te, capisci? Se non mi fossi comportato così meschinamente, se non avessi distrutto tutto, non sarei arrivato al punto di baciarti quel giorno, d'ignorare il fatto che sei la metà di Jace, il nostro piccolo corvetto...» Le lacrime non si fermano, seppur i singulti siano ora muti. «Sono uno stronzo, sì. Forse ora che ti dico questo lo sono ancora di più, ma fidati, non volevo ferirti, non volevo toglierti nulla... e se conosco Charlie, nemmeno lui desidera vederti triste o saperti così disperata per la sua assenza. Ci tiene a te, a dispetto di me... quindi ti prego, smettila di darti colpe che non hai» - peccato che sia più facile a dirsi che a farsi, amore mio.

 

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Capitolo 40
*** Chapter 29: Don't let me go (part three) ***





Chapter Thirty-one
§ Don't let me go §
part three

"A little twist of the knife, yeah
A little salt in the cut, yeah
A little thorne in the side and it stings like hell

Feels so...
Cruel, 
The way you treat me like a stranger
Cruel, 
When you're looking like that, oh oh"

- The Veronicas, Cruel

 

Dopo le lacrime, Seth mi ha tenuta stretta a sé finché il cuore non ha smesso di far male. Passando le dita tra i miei capelli ha cercato di calmarmi parlando di tutto ciò che gli passava per la mente: qualche ultima parola sulla questione, il fatto che per la prima volta abbia realmente sentito la mia assenza e, infine, ha preso a scherzare sulla pizza che, abbiamo constatato poco dopo, aver drasticamente perso calore.
Tra un boccone e l'altro abbiamo cercato di mettere da parte i dissapori che so essere nascosti dietro a ogni mobile, pronti a saltarci addosso e far esplodere l'ennesima guerra. Cerchiamo di non approfondire, anche se vorrei più risposte, però tacciamo entrambi, consci che potrebbe davvero farci troppo male.
Di tanto in tanto, mentre mangiamo, Morgenstern si distrae per concedere a Chucky una carezza, oppure un pezzo di prosciutto tolto dalla fetta che sta addentando e, nell'osservarlo, noto il sorriso tenero che gli compare il viso - un incantevole mezzaluna bianca che mi scioglie il cuore, quella sorta di sassolino che da giorni ha preso a rotolare nel petto alla ricerca di un solco in cui incastrarsi, magari per tornare morbido.

Sposto lo sguardo, riportandolo sulla crosta che sorreggo e valutando la possibilità di abbandonarla o finirla, un po' come questa situazione. Potrei osare, incrinare ancora di più l'apparente calma sperando che non si spezzi definitivamente, oppure potrei aspettare, dandoci qualche momento di pace. Così resto immobile per qualche istante, finché, alla fine, non cedo e rimetto l'avanzo nel cartone. Non sono pronta, anche se vorrei.

«Finirò per tornare a casa rotolando» sbuffo, strofinando le mani per togliermi di dosso i resti della farina. Nonostante il tovagliolo serva per pulirsi, sporcarlo mi fa sentire colpevole, quindi cerco di liberarmi di quanti più residui alimentari possibili in modo alternativo - oggi qualsiasi gesto potrebbe diventare metafora della fastidiosa situazione in cui mi trovo, così provo a non pensare a nulla.
Mentre passo lo scottex agli angoli della bocca, Seth torna a fissarmi. Il suo sorriso non si attenua, ma le sopracciglia si corrugano: «Sei seria?»
«Beh, oddio... rotolare per le strade di Londra fa un po' schifo, però...»
«No, intendevo il "tornare a casa"».
Mi volto verso di lui, confusa. Come ho detto, cerco di limitare i pensieri.
«Sì, certo... domani ho lezione, tra poco iniziano gli esami e...»
«E sono quasi le undici e mezza» mi fa notare, indicando con il mento l'orologio che s'intravede in cucina. Fisso le lancette, sempre più in balia dei dubbi. La mia mente ci mette qualche minuto prima di realizzare la serietà della sua affermazione e, quando finalmente mi rendo conto dell'orario reale, sobbalzo.

E' la volta buona che Catherine mi scuoia.

«Merda! Ma perchè non me l'hai detto prima?» In pochi istanti sono in piedi, curva sulla giacca al cui interno non riesco a trovare il cellulare, nonostante sia qui - ne sono certa. «Mamma mi uccide! Dannazione!» E, più che rivolgermi a lui, sto semplicemente ricordando a me stessa la minaccia che mi attende.
Così frugo con sempre più frenesia, mi lascio sfuggire qualche grugnito ogni volta che ripasso per le medesime tasche senza trovare nulla. Mi piego accanto allo zaino, mettendo in dubbio la memoria e, quando finalmente trovo il mio Santo Graal "made in Corea", scopro i vari messaggi di Josephine, preoccupata per il mio silenzio, e le innumerevoli chiamate perse della donna che mi ha messa al mondo. Mentre passo tra le parole scritte in nero e mi domando come evitare l'apocalisse, mi rendo conto di non poter nemmeno rassicurarla con la verità: come le spiego il motivo per cui mi trovo da Seth, sola con lui, in un giorno infrasettimanale durante le ultime settimane di liceo prima del diploma? Svelarle la verità, così come cercare una scusa, scatenerebbe in lei un flusso di supposizioni pericolose per la mia libertà - qualsiasi sciocchezza le dovesse passare per la mente, equivarrebbe a farmi guadagnare un soggiorno in qualche monastero di clausura; dopotutto non è lei a credere che sui miei slip, da qualche anno, ci sia scritto "entrata libera"?

Mi mordo il labbro, cercando di trovare una soluzione. Potrei dirle che sono da Caroline, no? No, poi pretenderebbe indirizzo e numero di telefono di casa sua, vorrà conoscere sua mamma, chiederle come è andata questa serata e alla fine si scoprirebbe che ho detto una bugia. E' troppo impicciona per credere così facilmente solo alle mie parole; ma allora che scusa uso? Possibile che a diciotto anni mi ritrovi ancora a dover fare i conti con situazioni tanto stupide? No, perché da quel che ricordo a Jace non è mai servito accaparrare alibi per giustificare i suoi ritardi o i suoi "non rientri" - anche se c'è da dire che, a differenza mia, a livello scolastico non ha mai dato problemi.

Un nuovo messaggio di Josephine compare sulla schermata, facendomi tornare con la mente sul presente e rivelandomi il grande disegno divino: nonna è il mio alibi!
Lei conosce la situazione, sa che mi frequento con Seth e non mi negherebbe in alcun caso un favore del genere. La sua indole da hippie, o meglio da infoiata cronica, non permetterebbe mai che la mia possibilità di assaggiare realmente un simile "bocconcino" possa andare in fumo, quindi sarebbe persino disposta a coprirmi in una circostanza del genere, ne sono certa.

Di punto in bianco scatto in piedi, facendo sussultare il gatto e forse persino il suo padrone. Con il naso quasi incollato al display mi metto a scorrere nelle ultime chiamate alla ricerca del nome di Josephine ma, quando finalmente premo sull'icona della cornetta verde, la schermata si scurisce e l'inoltro di chiamata non parte. Nè dopo un secondo, né dopo cinque, e nemmeno dopo dieci.

Qualcosa dentro di me, forse ciò che le persone chiamano coscienza, inizia a borbottare. I suoi lamenti si fanno sempre più acuti, più violenti, e alla fine mi rendo conto di star insultando a gran voce la mia incapacità di gestire qualsiasi aggeggio telefonico e la sua alimentazione.

E dire che ero certa avesse batteria a sufficienza.

Ne ero convintissima, sia prima di uscire da casa di nonna, sia estraendo il cellulare dallo zaino solo pochi istanti fa - eppure, come mio solito, non ho messo in conto l'uso che ne avrei fatto da un appartamento all'altro. Sì, quel trenta per cento sarebbe bastato fino a conclusione di questa serata, se non mi fossi messa a cercare pizzerie d'asporto, non avessi messo un po' di musica per farmi compagnia e non avessi cercato ancora una volta di contattare inutilmente Charlie.

Batto i piedi e mi porto i pugni al viso. Stringo forte le dita intorno allo smartphone e, in qualche modo, vorrei poterlo pressare così tanto d'accartocciarlo, in maniera da sfogare la frustrazione.

Digrigno i denti: «Merda!»

Seth si alza, abbandonando la propria fetta di pizza a metà. Lentamente si fa vicino, ignorando la possibilità che possa sfogare su di lui la mia momentanea rabbia e, quando infine giunge al mio fianco, mi tira a sé appoggiandomi una mano sulla nuca, forse nel vago tentativo di calmarmi - un'evenienza che al momento non mi pare plausibile, ma che nonostante il mio scetticismo Morgenstern riesce a rendere reale. 
«Puoi usare il mio telefono» sibila, convincendomi a liberare gli occhi dalle mani e alzare lo sguardo su di lui. Lo fisso incredula, con le labbra schiuse in un gesto di evidente sorpresa che lo fa sorridere.
«Davvero?»
Annuisce: «Se questo può impedirti di fuggire via, sì, metto a tua totale disposizione sia il credito residuo, sia il cellulare». Le sue labbra si tendono sempre più, diventano una mezzaluna rosea che so di voler baciare, ma a cui devo resistere - almeno finché non avrò messo in chiaro ogni cosa -, il problema però insorge quando i nostri sguardi s'incontrano, allacciandosi con intensità. E' così bello che ogni volta mi sento estraniare dal mondo; vengo inghiottita nel vortice che è la sua persona e uscire dal turbinio di sensazioni appare come la più titanica delle imprese.

Deglutisco, dubitando della forza di volontà a cui mi sarei dovuta aggrappare solo pochi istanti fa. Sento i nostri corpi stringersi, cercarsi in quel vuoto che si era creato tra noi. Provano a placare una fame che abbiamo tenuto sedata per mesi - dal primo bacio, ma anche dalla prima serata insieme, da soli, quando addormentati l'uno accanto all'altra pensavo di poter sfiorare la consistenza della vera felicità. La sentivo sotto le dita, fugace e delicata come una ragnatela, bellissima, eppure capace persino di nascondere il pericolo.

Un pericolo che ha il sapore delle cose non dette.
Che ha l'aspetto delle assenze.
Che ha la foga di una scopata fatta solo per ferire.

Ma chi? Charlie o me?

Rinsavisco, allontanando un poco il busto dal suo. Non deve sentire il mio cuore raggrinzirsi al solo pensiero del dolore che mi può provocare. Non deve comprendere quanto potere le sue azioni abbiano su di me.

«G-grazie... vado subito a chiamare Josephine».

La sua espressione si fa meno dolce, ora è amara come la delusione che sta provando. Forse ha creduto davvero che lo avrei baciato, perdonato, amato ancora senza alcun freno. Forse ciò che è successo tra lui e Benton è davvero solo un malinteso di cui ora deve pagare più conseguenze di quelle messe in conto. Eppure, quando mi divincolo, Morgenstern non prova a trattenermi, piuttosto allontana lo sguardo, spostandolo sul davanzale dove un filo collega la presa elettrica al suo cellulare - perché lui a quanto pare è più lungimirante di me, nonostante al momento non ne abbia bisogno. 
«Sì, vai pure in camera se ti serve un po' di silenzio».
Annuisco flebilmente, imbarazzata. Vorrei avere tra le mani un manuale su come comportarsi in certe situazioni, ma in sua assenza mi ritrovo a sgattaiolare veloce verso la finestra, afferrare il telefono e scivolare lungo il pavimento fino alla soglia della stanza di Seth. Nonostante non ci sia nulla di compromettente da dire, preferisco allontanarmi per evitare che qualche domanda indiscreta di nonna, o qualche mia affermazione, possa rovinare l'umore già altalenante della serata. Mi piacerebbe solo un po' di pace, ora - soprattutto in vece del fatto che resterò qui con lui. E ci siamo dati contro abbastanza per il momento. Non ho né la voglia né la capacità fisica di versare altre lacrime.

In punta di dita, senza voltarmi per concedergli un ultimo sguardo, socchiudo la porta. Lascio tra noi uno spiraglio sottile, una fessura che ci colleghi, però che possa anche dividerci.

In silenzio prendo posto sul bordo del materasso, mi concedo un grosso respiro e, infine, inizio a digitare il numero di Josephine - uno dei primi che ho imparato, nonché tra i pochi che ricordo. Mi porto l'aggeggio all'orecchio, attendendo con impazienza che nonna risponda. 
Ci mette qualche squillo, ma alla fine la sua voce mi arriva forte e chiara, seppur evidentemente confusa: «Pronto?» Sicuramente non si immagina che ci sia io dall'altra parte della cornetta, quindi vedere il numero di Seth non può fare altro che aizzare in lei i sospetti e le preoccupazioni peggiori.

«Grand-mère, c'est moi» sussurro mentre un sorriso bonario mi tende le labbra.
«Oh, Jane! Santi numi, mi hai fatto prendere un colpo».
«Sì, scusa...» scuoto la testa, anche se sono conscia non possa vedermi.
«Si può sapere che fine hai fatto? No, beh... se mi stai chiamando dal telefono di Seth è ovvio, ma perché diamine non ti sei fatta sentire prima?»
«I-io... sì, ecco... mi sono persa via, tutto qui».
«Persa via?» La sua curiosità trapela da ogni sillaba, «Pour faire quoi?» e subito si tramuta in ovvia malizia. Già me la immagino sistemarsi sul divano, mettersi il bocchino tra le labbra e iniziare a fumare pregustandosi uno scenario che, per ora, ha forma solo nella sua testa.
«A mangiare, Josephine. Solo mangiare».
«Beh, chi non si perderebbe via a mangiare un dolcetto come Seth?»

Taccio per qualche istante, valutando seriamente se implodere per l'imbarazzo o fingere che non abbia detto nulla di ciò che ho sentito e, alla fine, opto per la resistenza, così mi affretto a cambiare discorso - dopotutto le cose importanti sono altre al momento.

«Senti, nonna, mi servirebbe un favore».
«E' qualcosa di grave?»
«No, no, macchè!» Mi mordo il labbro, lanciando uno sguardo in direzione della porta. Oltre lo spiraglio non vedo nulla, solo uno scorcio del salotto: «Ho il telefono scarico e mamma ha cercato di chiamarmi più volte. Ormai è tardi e-»
«Vuoi restare da Seth?»
Annuisco: «Ti scoccia dirle che in realtà sono da te?»
Lei resta in silenzio, forse soppesando la mia richiesta con la stessa serietà con cui un mercante valuta il valore della merce che ha di fronte, poi sbuffa.
«Ma avresti scuola domani, giusto?»
«Sì».
Ancora silenzio.

«Sei lì per chiarire o per altro?»
Ora sono nuovamente io quella che si ammutolisce. Provo a pormi la stessa domanda, trovando come risposta molteplici motivazioni - ognuna equamente valida. Vorrei che fosse tutto più semplice, alle volte. Sono qui per la situazione con Charlie, certo, ma anche perché non so dove trovare pace e perché, in fondo, il desiderio di Morgenstern non riesce mai a placarsi del tutto, nemmeno quando sono infuriata. La mia mente torna sempre su di lui, così come basta un incrocio dei nostri sguardi per farmi vacillare.
«Je suis ici pour clarifier, mais aussi pour être avec lui».

Josephine sospira. Probabilmente ora si sta levando gli occhiali per massaggiarsi il setto, in maniera d'aiutare i pensieri a organizzarsi nel miglior modo.

«Ringrazia il fatto che tua madre mi ritenga ancora un adulto responsabile, ma chérie, perché sennò saresti rovinata!»
«E' un sì?» glielo chiedo sorridendo, trepidante a dispetto dell'atmosfera tesa che ha regnato in questa casa sino ad adesso. Una parte di me sta gioendo come se con Seth non vi fosse alcuno screzio e, a quanto pare, al momento prevale su qualsiasi altra emozione.

«Oui, c'est un oui. Mais quoi qu'il arrive, prenez les précautions nécessaires. Je l'ai déjà dit, je ne veux pas avoir d'arrière-petits-enfants pour le moment!»
«Évident! Oh, merci beaucoup grand-mère! Tu es le meilleur» mi affretto a dire, inconsapevolmente elettrizzata all'idea di dare anche a Seth la buona notizia; così chiudo la chiamata, stringendomi al petto il suo telefono e lasciandomi andare a un lungo e necessario sospiro di sollievo.

Ce l'ho fatta, mi dico, anche stavolta eviterò la clausura o qualsiasi punizione Catherine possa immaginare.

Nuovamente volgo lo sguardo in direzione della porta, pronta ad alzarmi e andarle incontro. La fisso qualche secondo giusto per realizzare la situazione, poi faccio leva sulle gambe per rimettermi dritta. Ad ogni falcata il cuore battere più forte, scalpita sotto allo sterno come se volesse scappar via ma, quando arrivo a solo un passo dalla maniglia, un brusio cattura tutta la mia attenzione.
Il cellulare di Morgenstern si concede qualche vibrazione a ridosso del mio corpo e, involontariamente, mi ritrovo a scostare lo schermo per poter guardare. Il mio è un gesto incontrollato, frutto di un'abitudine di cui sono ormai succube e di neuroni a cui piace l'assenteismo, ma non per questo mi pento di averlo compiuto.

Sulla schermata appare la notifica di un messaggio e, nel leggere il nome del mittente, mi pare di venir schiaffeggiata con incredibile inaspettatezza.
Il battito che prima mi dava l'impressione di essere fin troppo accelerato ora rallenta di colpo, facendomi mancare l'aria.

Charlie Boy.


Sgrano gli occhi. Perché c'è un suo messaggio? Per quale ragione ha scritto a Morgenstern?
Adesso alzo lo sguardo in direzione dell'anta ancora socchiusa. Sbatto le ciglia nel tentativo di rinsavire, ma più lo faccio, meno mi sembra di comprendere il senso di ciò che sta accadendo. 
Per quale motivo evita me, ma scrive all'amico che lo ha ferito?

Muovo un passo indietro, conscia di star per compiere la peggiore delle azioni, eppure sono irremovibile dal farlo.
Cosa gli ha scritto? Cosa si devono dire? Ho bisogno di saperlo. Non importa a quali conseguenze andrò incontro, la mia mente ha la nauseante necessità di leggere ciò che si nasconde dietro a quella notifica per trovare un po' di pace, delle risposte, un perché al suo allontanamento da me - e così pigio sull'icona, aprendo la chat.

"Ehi, ho sentito mia madre. Dice che Jay è passata a casa e sembrava giù di morale. E' successo qualcosa? Dimmi che non hai fatto cazzate, Seth..."

Deglutisco. Di che cazzate sta parlando? Cosa dovrebbe essere successo?


 

 


 

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Capitolo 41
*** Chapter 29: Don't let me go (part four) ***




Chapter Thirty-one
§ Don't let me go §
part four

 

"It was you and I forever
But now you make me shiver in the light
And I'm dying here
And I'm crying for the you that I remember
But now you make me shiver you're so...

Am I meant to sit here and just take this

When you promised me
I would be the one that
You would never leave"

- The Veronicas, Cold

 

Resto immobile, mentre gli occhi si fanno sempre più brucianti. Fisso il bianco lattiginoso del display facendomi male, ma non riesco a reagire in alcun modo. Vorrei sfruttare questo momento per parlare con Benton, oppure per rispondergli sotto le mentite spoglie di Seth e capire meglio, ma dubito di avere le capacità e le conoscenze per farlo - ci sono troppe lacune a rendermi una pessima impostora. Così mi aggrappo alle sue parole come se fossero le uniche cose rimastemi di lui, ma ne soffro; ogni volta che rileggo ciò che ha scritto mi sento venir meno - per questo quando la porta si apre, rivelando il viso di Seth, non me ne accorgo. A strapparmi dal limbo in cui mi sono persa arriva la sua voce e, quando realizzo che si trova di fronte a me, sussulto.

«Allora, risol-» la serenità della sua espressione viene presto sostituita da un cipiglio confuso. Mi fissa provando a capire, ma appena si rende conto di non poter dare risposta ai dubbi che ha mi chiede: «Che è successo?» E a quanto pare al momento è la domanda più gettonata.

Mi mordo la lingua, incapace di trovare una risposta, poi faccio un passo indietro alla ricerca di un sostegno migliore, ma anche di spazio per poter respirare e impedire alle sue mani di portarmi via l'unica traccia di Charlie.
«Jay, che hai? Cosa ti ha detto Josephine?»
Scuoto mestamente la testa, ritornando a stringere il telefono - ed è forse questo gesto a tradirmi. I suoi occhi corrono al mio petto, fissano con ancor più incomprensione l'oggetto che premo a me. Passa un secondo, poi un altro, poi ancora uno e alla fine sembra capire - perché è facile leggere i connotati di una pessima bugiarda.
«Dammelo».
Nuovamente gli nego una risposta, mi faccio gelosa di ciò che non mi appartiene allontanandomi di un altro passo, quasi come Gollum che difende il suo tesoro.

«Jane! Dammi quel cazzo di telefono» il suo sguardo s'indurisce, il sorriso diventa una linea sottile che inesorabilmente mi ricorda i giorni peggiori, quelli in cui aveva da ridire su tutto, in cui si arrabbiava per un nonnulla, in cui era impossibile opporglisi; un po' come l'ultima volta che insieme a Benton ci siamo ritrovati qui a fumare marijuana e bere birra tra una partita alla Play e quella successiva.

La stretta sul cellulare si fa ancora più forte e m'impongo di non cedere alla sua richiesta - ma Seth è una furia, un diavolo, un animale che iracondo si scaglia contro la preda che ha davanti, indifesa contro la possanza della sua persona. Sento le dita di lui agganciarsi alle mie, tirare mentre involontariamente mi ritrovo schiacciata tra il muro e il suo corpo, ora priva di vie di fuga, alla totale mercé del suo volere - e allora mollo, conscia di essere a un passo dal venire sbranata. Mi soggioga, basta un gesto per far sì che la mia volontà si pieghi ai lui; per questo non deve far altro che leggere per farmi tremare. Mentre il suo sguardo passa sullo schermo, passando sul messaggio con un'espressione all'inizio indecifrabile, poi sempre più chiara, le mie gambe si fanno molli e, alla fine, quando si allontana dalla conversazione con un cipiglio frustrato mi sento davvero venir meno; devo far pressione contro la parete per non crollare a terra sotto il peso della gravità.

Più cerco sul suo viso risposte, meno mi sembra di capire cosa possa passargli nella mente - così mi umetto le labbra per poter dire qualcosa, ma la gola mi risulta terribilmente secca. Vorrei chiedergli il motivo di quel messaggio e della sua reazione; mi piacerebbe comprendere la ragione per il quale, nonostante sia stato lui a ferirlo, sia io quella a venir respinta, eppure non emetto suono, ritrovandomi sempre più tremante. Il cuore batte lentamente, ma lo fa con una forza tale da farmi domandare se le ossa dello sterno ne possano contrastare la violenza, e allora vi premo sopra le mani, cercando di contenere il possibile disastro - perchè non riesco ad avere altra reazione se non questa? Perché sono sopraffatta dallo sgomento, ma anche dalla paura di non saper come comportarmi?

«Hai letto altro?»
Sussulto, sgranando gli occhi. Perché, c'era qualcosa di più?
«I-io... no, no...»
«Jane! Sono serio, hai letto altro?!» Tuona come il peggiore dei temporali, ed io in risposta non posso far altro che gridare a mia volta, in modo da sovrastare il suo rumore.
«No!» confesso, sfidando l'insonorizzazione dell'appartamento e graffiandomi la gola. Con che lucidità avrei potuto farlo? Non riesce a rendersi conto che il semplice scoprire che tra di loro ci sia ancora un legame, mentre con me no, mi sconvolge? Non comprende che il tempo che ho avuto è stato troppo breve?

Seth si prende il viso tra le mani. Sotto alla sua pelle chiara vedo i tendini muoversi, tesi come corde di violino. Il modo in cui guizzano al di là dell'epidermide è più loquace di mille parole e vorrei davvero non notarlo, vorrei non vedere quanto questa situazione lo stia sdrenando - ma perché? Cos'è che non va? Non dovrei essere io quella arrabbiata, furibonda e alla mercé della frustrazione? Non è forse la piccola Jay, il loro corvetto, quella a essere stata messa in disparte?

«P-perché t-ti scrive?» La mia voce si riversa fuori dalle labbra sottoforma di sussurro, ora. Le corde vocali sono talmente doloranti che fatico a far uscire qualsiasi suono - cosa che a lui, invece, viene fin troppo semplice.
«Non ti sembra ovvio?» Il suo sguardo balugina su di me, mi colpisce con violenza mozzandomi il fiato. È severo, freddo. È l'opposto di tutto ciò che vorrei vedere mentre il suo viso è rivolto nella mia direzione - eppure mi scruta senza alcuna sosta, forse domandandosi se sia stupida, ingenua o semplicemente una finta tonta. A quanto pare sono l'unica a non capire, anche se il motivo della mia ignoranza è il loro diniego nel parlarmi senza mezzi termini di ciò che è successo.

Un passo dopo l'altro, Seth torna a torreggiare su di me.

«Vuole farsi da parte perché non sopporta l'idea che il suo migliore amico l'abbia tradito, ma allo stesso tempo tiene a te a tal punto da preoccuparsi continuamente... ed è palese che se tu soffri, è solo per colpa dello stronzo che ti ha abbindolato!» Sputa le parole con rabbia, una rabbia che mi lacera e mi fa bruciare con sempre maggior intensità gli occhi. Il suo sguardo è puntato nel mio, trasuda avvilimento e nervosismo: non devo sforzarmi per notarlo - e improvvisamente avverto il bisogno di placare la sua ira, di mettere a tacere tutti i pensieri che gli frullano nella testa, però non riesco a muovere un muscolo, anzi, forse il mio corpo si sta ribellando perché, a differenza del cuore, sa che è sbagliato. Non dovrei dargliela vinta, non dovrei rinunciare alla battaglia così facilmente, eppure vederlo in questo stato ha la stessa brutalità del non ricevere alcuna risposta da Charlie o sentire mio fratello opporsi ad ogni costo alle mie scelte.

E di fronte a Seth, senza alcuna cognizione di me stessa, finisco con il versare la prima lacrima. La sento scendere calda lungo la guancia, velocizzando l'andamento una volta superata la curva dello zigomo e, poi, mi pare di avvertirla fermarsi poco prima della mascella, attirando su di sé le pupille di Morgenstern. La studia con attenzione, valutandone il senso quasi fosse un geroglifico. Lascia passare istanti lunghissimi, un tempo che viene scandito dal palpitare del mio cuore e dalle sue labbra sempre più schiuse.

Restiamo fermi l'uno di fronte all'altra, persi nell'espressione di chi ci sta davanti.

Dove sono i sorrisi che hanno riempito i nostri primi incontri segreti? Che fine ha fatto la tiepida magia che ci ha avvolti? Me lo domando mentre scorgo tra le pagliuzze chiare delle sue iridi un'amarezza che mi pare di poter a mia volta sentire sulla lingua, quasi stessi ingoiando un boccone indesiderato.
Sa che in parte è colpa sua. Si rende conto di avere quel genere di potere su di me - così si fa vicino appoggiando la fronte sulla mia. Si concede un grosso sospiro. «Scusa» sibila poi. Le sue palpebre si abbassano, restano sigillate per un po'; da questa distanza posso vedere il lieve tremolio delle ciglia, la staticità degli occhi che vi sono nascosti dietro. Con una mano, dolcemente, si accosta al mio viso portandosi via la lacrima che ha fatto cadere: «Scusami, Jane... tu non hai alcuna colpa. Siamo Charlie ed io a essere il problema». Con la lingua si bagna le labbra, quelle meravigliose linee rosa che ho bramato con ogni fibra di me, pur trovandole eccessivamente volubili dopo la confessione dell'altro giorno. Per qualche secondo non aggiunge altro, nonostante una parte di me desideri che si sporga un po' di più per strapparmi un bacio. Uno solo. Una sorta di supplica che mi faccia saggiare il suo dispiacere, che mi dia conferme. Le sue palpebre a questo punto però si spalancano e la fronte si allontana - l'ultima parte di lui a separarsi da me sono le dita.
«Gli dico di farsi vivo... ne avete entrambi bisogno».
Ma qualcosa, ne sono certa, lo infastidisce più di quanto voglia dare a vedere - di che hai paura, Seth? Non mi hai forse già svelato ogni tua colpa?

Allungo una mano, ma la sua schiena è troppo lontana. Vorrei fermarlo, dirgli di non andar via nonostante tutto, eppure non riesco a raggiungerlo - non adesso. C'è una strana sensazione che mi frena, anche se non ne conosco la natura; e ciò che faccio, quindi, è aggrapparmi al pensiero che finalmente sentirò la voce di Benton, che silenziosamente Morgenstern stia mettendo da parte il proprio orgoglio per darmi una flebile gioia.

Così, mentre il trapezio delle sue spalle oltrepassa la soglia della stanza, io non riesco a negargli un "grazie" afono; perché so che al momento è tutto ciò che non vuole sentire.
 


 

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Capitolo 42
*** Chapter 30: All the unspoken things (part one) ***




Chapter Thirty Two
§ All the unspoken things §
part one

 

"It's like an angel
Kissing the devil
And it's toxic but it works
Beautiful when it hurts 
We're so good at
Bad love
The way you give me
Mad love
The way you work your magic
Addicted, gotta have it
We can never get enough
It's in our blood
We're so good at
Bad love
"


- Juliet Simms, Bad Love

 

Il tempo che passa sembra infinito. Resto raggomitolata a terra per dieci, venti, forse cinquanta minuti - poi, dal nulla, il cigolio della porta mi fa sussultare e i piedi scalzi di Seth entrano nel mio campo visivo. La flebile luce che oltrepassa le tende glieli sfiora con dolcezza, ma più si avvicina, più lei sembra impaurirsi e scappare via, proprio come un gatto diffidente. Quando arriva a me, non c’è più traccia dei lampioni al di là della finestra.
Sento le sue ginocchia far rumore mentre si piega per mettersi alla mia altezza e, nel momento in cui i nostri occhi tornano a fissarsi, mi sento nuovamente sopraffare dalla preoccupazione.

E se ciò che è successo fosse l’ultima goccia? Potrei sopportare il traboccare dell’acqua al di fuori dei miei margini? Saprei tenermi a galla?

Le labbra di Morgenstern si schiudono, quasi dovesse dire qualcosa, ma poi tornano a toccarsi e il silenzio ricomincia a farmi sentire schiacciata da tutto ciò che sta succedendo.

Non voglio perderlo.
Ma non posso nemmeno sacrificare Charlie.

E il problema forse sono proprio io a questo punto, a dispetto di ciò che mi ha detto prima: desidero poter avere tutto, conscia del fatto che non sia possibile, non ora quantomeno.

Seth allontana lo sguardo e, se non fossi troppo orgogliosa, lo pregherei di riportarlo su di me a prescindere dall’imbarazzo - perché se mi guarda ho una chance di leggere tra i suoi pensieri, se mi guarda so cosa aspettarmi. Eppure lui si lascia cadere con il sedere sul pavimento, poi porta le braccia in avanti e si circonda le gambe. Non mi tocca, ma lo vorrei. Non mi fissa, ma lo desidero. Adesso che mi ha dato l’occasione di sentire la voce di Benton, di chiarirci, parlarci, vorrei solo tornare a premermi a lui, inebriandomi del suo profumo, assuefacendomi del suo calore. Peccato che tenga le distanze, spazi che seppur minimi mi danno l’idea di essere abissi.

«Venerdì» sussurra d’un tratto, facendo perdere al cuore il proprio ritmo.
Venerdì? Mi domando accigliata, incapace di dare un senso a questa parola. 
«Ha detto che prima non può, ma venerdì vedrà di ritagliarsi del tempo per te».

Il labbro mi trema. Il solo pensiero di ciò che questa frase vuole dire mi mette addosso una piacevole agitazione. Sento una sorta di calore riempirmi le viscere, il petto e poi le mani, che vorrei premere sul viso di Morgenstern per tirarlo a me, baciarlo e ringraziarlo ancora, nonostante ogni singola cosa successa - ma non lo faccio, non mentre i suoi occhi sono altrove e chissà per quale motivo.
Così lascio che la mente si soffermi su un unico particolare, il migliore in questa serata ormai a brandelli.

Dopodomani Charlie mi chiamerà, mi dico rigirando la frase tra i pensieri come una caramella gustosa. Avverto il sorriso farsi strada sulle labbra e, subito, mi costringo a trattenerlo. Ho la sensazione di non dovermi far vedere, di dover tenere la contentezza solo per me - perché sicuramente Seth non ne sarebbe felice, in lui c’è quel costante pizzico di gelosia che piace, anche se in alcuni momenti diventa un po’ superflua.

«Jay...» La mia attenzione torna sul suo viso, più precisamente sulla bocca. Il cuore riprende a battere forte, aumenta il ritmo con l’aumentare dello spazio tra le sue labbra, e non so se sia per paura o altro: «a prescindere da tutto, ciò che provo per te è vero e…»

Sento un lieve tremore, ma cerco di mantenere il contegno necessario per non darlo a vedere; non voglio che si interrompa, desidero le sue parole perché al momento mi paiono essere l’unica cosa che ci può unire - o separare, anche se è un’evenienza che non mi piace considerare - così resto in attesa come una bambina davanti a un film eccessivamente coinvolgente e spero, ma cosa, non lo so.

«E...» la voce di lui fatica a uscire, sembra restia al mettere a tacere la mia curiosità, eppure alla fine trova un modo per pizzicarmi i timpani: «e vorrei che lo tenessi a mente».

Oh.
Il sapore della delusione si fa strada tra le papille gustative, mi riempie bocca e gola facendomi desiderare di poterlo sputare - ma anche in questo caso mi devo trattenere.

«Ora vai a letto, okay? E’ tardi e sembri stanca» nel dirlo, un lieve sorriso prova a manifestarsi sul suo viso, peccato che lo sforzo sia evidente e i suoi occhi trasmettano tutto tranne che serenità - è lui quello più esausto, tra noi. Nonostante i minuti passati in stanze diverse, lontani, è ovvio che l’umore di Morgenstern sia ancora rovinato, che nella sua mente si stiano ammassando pensieri sempre meno piacevoli, così mi sporgo un po’, cercando di sfiorarlo e trasmettergli un po’ di tranquillità, anche se sono la prima a cui manca. 
Le mie dita si allungano, gli sfiorano il polso, ma non sembrano ottenere alcun risultato. Seth infatti fa leva sulle gambe, si alza sfuggendo al mio tocco: «Vuoi qualcosa per dormire? Una maglia, dei pantaloni o...»
«Tu non resti?»
La sua espressione s’indurisce. Lo sguardo si sposta nuovamente lontano da me e la gioia che provo nel sapere che parlerò con Charlie si attenua a tal punto da diventare solo un’eco lontana - ora il ragazzo di fronte a me tutto il mio interesse.

«Non credo sia il caso di dormire insieme, stanotte».
Un nuovo scossone mi fa rabbrividire: «P-perché lo pensi?»

I suoi piedi tornano a muoversi, li sento ritmicamente toccare il pavimento componendo una melodia tutt’altro che piacevole, una sorta di marcia che parla di resa. Il trapezio di carne a cui ho sempre desiderato aggrapparmi si allontana, diventa un muro tra me e lui, un ostacolo che non so se sia giusto superare, ma che, comunque, mi piacerebbe abbattere per poter nuovamente bearmi dei suoi abbracci.

Lentamente si avvicina alla cassettiera, ne apre un ripiano e mestamente si mette a cercare qualcosa: una maglia, dei pantaloni, o…
Sospira: «Perché non è giusto, Jay. Non dopo ciò che ti ho tenuto nascosto e quello che ancora ci allontana».
«E se...» ma non trovo le parole per finire, così lui ha modo di porgermi la maglia che ha scelto per me, di chinarsi un poco e posarmi un bacio sulla fronte - ma è frettoloso, freddo, assente.
«Sono di là, non preoccuparti».

***

«Come stai?»
«Se non mi sentissi i muscoli dolere, direi bene, ma credo sia il prezzo da pagare durante un trasloco» ride, ma il suono della sua risata non è caldo e accogliente come lo ricordo, sembra più una reazione di circostanza, un gesto automatico. La mia mente non può evitarsi di compararla al giorno in cui, a casa sua, su quel letto che in passato ho riempito di briciole e capelli, abbiamo fatto la lotta e siamo finiti con l’abbracciarci, ebbri di un buonumore che ormai mi pare una chimera, oppure all’ultima merenda insieme, sul divano da cui lasciavamo che gli amorevoli rimproveri di Molly ci solleticassero le orecchie.

Davvero ci siamo allontanati tanto?

Mi mordo il labbro, provando a non dargli peso, anche se ne ha - e tanto: «O a causa della tua scarsa prestanza fisica...»
«Parlò la Schwarzenegger del Brent!»
A ridere, stavolta, sono io, però a differenza sua non devo sforzarmi, il sorriso mi appare naturalmente sul viso, tirando fastidiosamente le labbra secche.

«Tu, invece?»

Lascio passare qualche secondo, valutando quale risposta sia meglio dare. Potrei mentire, dire che le cose vanno bene e che sono in ansia per gl’imminenti esami scolastici, magari condendo il racconto con qualche aneddoto casalingo, oppure potrei confessare la verità: che mi manca terribilmente, che dopo aver scoperto la ragione del suo litigio con Seth persino io fatico a far funzionare le cose con lui, nonostante veda gli sforzi e sappia che, sotto sotto, ci tiene davvero a me.
Potrei scoppiare a piangere negli squallidi bagni della Saint Jeremy, pregandolo in tutti i modi di volermi ancora bene, di non lasciarmi, di sostenermi mentre affronto l’amore per la prima volta, ma alla fine sussurro solo: «Quando torni?»

Lui si ammutolisce, sento solo il suo respiro che fa gracchiare la conversazione quando colpisce il microfono - e un po’ mi agita.

La sua esitazione non mi piace, sento la pressione nello sterno aumentare sempre più, quasi ci sia qualcosa da sputare prima che possa soffocarmi.

«Tra qualche tempo, Jay… zia e Dana hanno bisogno di me e-»
«E qui c’è Seth» lo precedo d’un tratto, decidendo infine di liberarmi dall’asfissia. E’ un commento che mi esce di bocca senza che mi renda conto del suo reale significato, eppure voglio che lui capisca, che sappia.

«Anche, ma non solo. Le cose sono più complicate di quel che credi, corvetto».
« In che senso “non solo”? E’ per via di lei?»

Un nuovo istante di silenzio va a interrompere il nostro scambio. La domanda resta in sospeso per un tempo brevissimo, poi lo stupore di Benton fa capolino dall’altra parte della linea: «Lei
«Sì, lei. La ragazza di cui sei innamorato».
«Di che stai parlando, Jay? C-cosa ti ha… cosa ti ha detto Seth?»

Ora sono io quella confusa.

«Mi ha detto la verità, sul motivo del vostro litigio, intendo».
«Okay, ma… cosa ti ha detto esattamente?»
Corrugo le sopracciglia, mentre con le ginocchia al petto provo a rannicchiarmi maggiormente sul coperchio della tazza del water. Una sensazione di disagio prende a solleticarmi la pelle, così cerco l’illusione di un abbraccio che so non arriverà.
«C-che… beh» le parole fanno fatica a uscire di bocca, non so quanto e cosa possa dire senza ferirlo oppure aizzare nuovamente la sua rabbia, men che meno se sia autorizzata o meno a svelare ciò che Morgenstern, tra una mia lacrima e un suo ringhio, mi ha confessato.
Con gli incisivi premo sulla carne del labbro, poi la umetto. Mi guardo attorno spaesata, timorosa, eppure conscia che non ci sia nessuno ad ascoltare. Dopotutto per rispondere a questa telefonata ho finto un mal di stomaco che in infermeria non hanno saputo spiegarsi. «… mi ha detto che avete litigato perché si è scopato la tipa di cui sei innamorato. E che Jace ha preso le tue parti, giustamente» pronuncio queste frasi svelta, sperando di non aggravare una situazione già di per sé traballante.

«E’ così, quindi…» un verso infastidito gli sfugge dalle labbra: «ti ha anche detto chi è, questa lei?»
Deglutisco: «No, non lo ha fatto...» - non che io mi sia premurata di chiederglielo o di domandargli un resoconto più accurato della questione, a dire il vero. La semplice idea di sentirgli dire ciò che ha fatto, con questa sconosciuta, o di udire il modo in cui ha silenziosamente premuto la punta del suo tradimento nel petto di Charlie, mi nausea. Non voglio immaginare né il suo corpo addossato a quello di una ragazza diversa da me, bramoso di pelle, accaldato nello sforzo del momento e certamente soddisfatto, nè l’atrocità con cui ha pugnalato il suo migliore amico. Provo una sorta di disgusto al pensiero di tutto ciò.

«Beh, almeno su una cosa si è dimostrato un amico...»
Sussulto, riemergendo dalle considerazioni in cui mi ero lasciata annegare: «Che vuoi dire?» Non capisco il senso di questa sua frase, il motivo per cui debba dire una cosa del genere.

«Nulla, Jane… Non ti preoccupare. Ora scusami, però mi stanno chiamando». 
«No, aspet-» 
«Fai la brava, corvetto!»

E appena lo dice, il rumore della conversazione interrotta prende a rimbombarmi nell’orecchio. Una, due, tre volte e poi silenzio, un silenzio che mi lascia intontita e confusa, come se mi fossi brutalmente risvegliata da un sogno tanto reale da confondersi con la vita vera.
Lentamente allontano il telefono dall’orecchio, ne fisso il display adesso vuoto e mi rendo conto che la sua foto non riempie più i pixel disponibili, che mi ha realmente riattaccato la cornetta in faccia.

Fanculo! penso mentre mi concedo un sospiro sconsolato. Nonostante questi minuti non ho ottenuto nulla. Non mi ha dato una data effettiva del suo ritorno e, men che meno, abbiamo chiarito - forse, e mi duole dirlo, non ho fatto altro che peggiorare nuovamente la situazione.


 

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Capitolo 43
*** Chapter 30: All the unspoken things (part two) ***




Chapter Thirty
§ All the unspoken things §
part two

 

"I'm in serious shit, I feel totally lost
If I'm asking for help it's only because
Being with you has opened my eyes
Could I ever believe such a perfect surprise?"

- All the things she said, T.A.T.U



 

Caroline ha le dita calde. Mentre passa con dolcezza i polpastrelli sulla mia fronte, inconsapevole di ciò che mi frulla per la mente, mi sento quietare. Il suo tocco lieve e regolare, che gira in tondo creando piccole spirali, fa sembrare la frustrazione meno fastidiosa - ma questo non toglie che, in un angolo recondito, il desiderio di aprire le palpebre e trovare qualcun altro al suo posto sia forte.

La sento muovere una pagina, passando probabilmente al capitolo successivo: «Sei pronta per gli esami? Ormai manca un mese, dobbiamo prendere seriamente la questione...»
Mugugno, evitando di dare una risposta reale. Per aprirli, i libri, li apro ogni singolo giorno - il problema subentra quando è il momento di studiare realmente. Ci passo i minuti, le ore, però i miei pensieri sono perennemente altrove; tra le pareti del cranio sussistono dinamiche che vorrei mi abbandonassero almeno per qualche settimana, lasciando spazio alle nozioni scolastiche utili per farmi prendere quel dannato diploma, ma non succede. Non in questo periodo. Non con Seth e Charlie a tormentarmi al pari di terribili zanzare.
«Misha dice che se spendo il mio tempo con te finisce che ci bocciano entrambe. Non sei famosa per l'amore che nutri per lo studio...»
Tiro i lati della bocca. E' divertente vedere come, dopo tutto il tempo passato a odiarci, ora si stia indirettamente preoccupando per me - e ovviamente per la sua fidanzata!

«Perché, tu sì?» apro un occhio, vedendola sorridere a sua volta.
«No, in effetti no...» Le sue dita si spostano un poco più su, scivolando tra i capelli passandovi in mezzo come un pettine di carne e ossa. Caro districa i nodi con una facilità invidiabile, lisciando ancor di più le ciocche caramello. «Per questo ho una proposta assai più allettante!».

Catalizzare la mia attenzione, per lei, è qualcosa di naturale. Il tono che usa, le parole che sceglie, quell'aura di ammiccante mistero che aleggia intorno alle sue frasi; non so cosa sia, ma mi cattura - così spalanco entrambi gli occhi e la scruto con interesse.
«Credo sia semplice trovare qualcosa di più allettante di una bocciatura».
«Oh, sciocchina!» Mi tira una ciocca, senza però smettere di sorridere: «Sottrarci allo studio è impossibile se non vogliamo finire agli arresti domiciliari, però...» esita in quel modo stereotipato, utile per fomentare la curiosità - e con me ci vuole poco, lo sa.
«Però?»
Caroline si bagna le labbra, pregustandosi il sapore della sua succulenta proposta: «Però se ad attenderci ci fosse una serata di buona musica e alcol, ne sono certa, sprecare qualche ora del nostro tempo non sarà così doloroso».

Già, non lo sarebbe, ma purtroppo per lei, la mia migliore amica ignora gran parte delle problematiche che mi frullano per la mente al momento - non mi godrei né le ore di studio insieme, né la serata che ci attende.

«Non credo Catherine mi dia la libera uscita, visto il periodo...»
«Da quando le dai retta?» a quanto pare, le mie giustificazioni non hanno alcun fondo di verità su cui sorreggersi: «Jay, tu e tua madre litigate quasi ogni giorno per la tua mancanza di rispetto nei confronti della sua autorità, vuoi dirmi che d'un tratto non è più così? Non ci credo! Quindi dimmi la vera ragione del tuo tentato rifiuto».

La fisso. Il mio sguardo s'incastra nel suo e mi domando se non sia la cosa migliore, confessarmi con lei. E' un'amica preziosa, una persona in cui confido nonostante sia innamorata di quella che è stata la mia miglior nemica per anni, quindi cosa mi trattiene? Forse la paura di sentirmi dire qualcosa che sono certa non mi farebbe piacere; Seth non è nelle sue grazie, mentre Charlie lo ha conosciuto solo attraverso i miei racconti - che idea potrebbe farsi?
Gli incisivi affondano nel labbro: «Ho solo qualche pensiero per la testa».
«Sì, beh... credo sia una cosa relativamente normale per le creature senzienti».
«No, io... intendo che ho la mente occupata da cose serie. E tristi, credo».

I suoi occhi si allontanano dai miei, porta una mano alla tasca della giacca in jeans ed estrae un pacchetto di Chesterfield. S'infila una sigaretta in bocca: «Bene, parliamone».
«Non voglio annoiarti con i miei patemi di cuore, Caro».
La fiamma dell'accendino attizza la punta bianca, la carta sfrigola mentre inspira: «Tu ascolti ogni giorno e ad ogni ora i miei patemi amorosi, non vedo dove sia il problema se per una volta sono io a comportarmi da psicologa».

Torniamo a guardarci.
Il nocciola delle sue iridi è caldo, rassicurante, e alla fine mi persuade - anche se dubito la cosa le abbia richiesto troppo impegno.

«Si tratta di Seth».
«Si tratta sempre di lui».
«E di Charlie».

Butta fuori dalle narici una nuvola bianca, assapora il gusto amaro della nicotina: «Sembra un'accoppiata terribile».
Sorriso, anche se mestamente: «Oh, lo è» e allungo le dita verso il pacchetto che lei ha abbandonato accanto alle ginocchia, «soprattutto ora». Vedendomi in difficoltà, Caroline corre in mio aiuto, passandomi la confezione delle sigarette.
«Hanno litigato, seriamente, intendo. Seth... beh, lui si è fottuto la ragazza di Charlie. E sai come vanno certe cose... da schifo, di norma. La cosa peggiore sai qual è, però?»
Lei scuote la testa.
«E' che io sono nel mezzo, un po' come il pezzo di ferro che si trova tra l'incudine e il martello. Così continuo a dubitare e litigare con uno, mentre l'altro semplicemente mi evita, anche se non ne comprendo veramente il motivo» sbuffo, portandomi le mani al viso. La sigaretta pende fra indice e medio, sfiorando la tempia. La solletica a ogni respiro, m'infastidisce, eppure i palmi sembrano incollati alle palpebre.
«Suona un po' come familiare, questa situazione» Caroline sogghigna, la riesco a vedere nella fessura che si crea tra le dita.
«Peccato che Misha non si sia portata a letto Seth ed io non sia sparita».
«Ma ci hai provato».
«E come al solito ho fallito. Charlie, no».

Vedo la mia amica scrollare le spalle, aspirare un altro po' di nicotina. Il suo viso si sposta nel circondario, ma il suo sguardo non si sofferma per più di qualche secondo su ciò lo compone. Sembra soppesare le mie parole, valutare bene la battuta seguente.
«Tu sei tornata, Jay. Sei qui nonostante io stia con qualcuno che odi -»
«Non è che la odio! E' che i nostri caratteri non sono compatibili!»
Lei sorride, torna a guardarmi con dolcezza - alle volte sembra così diversa dalla ragazza che mesi fa mi si è seduta accanto fuori dall'ufficio del preside, o che ha iniziato a raccontarmi chissà quale aneddoto con la bocca piena di una merendina al cioccolato. E mi fa strano ammetterlo, ma potrei quasi capire il motivo per cui Misha se ne è innamorata.
«E' il brutto di essere simili, sai? Però non ho finito il discorso, non tediarmi!» Sgomita, costringendomi ad allontanare le mani dal viso: «Dicevo... tu sei tornata a prescindere dal problema. E stai facendo funzionare le cose, in qualche modo... ma come te, sono certa che anche Charlie abbia bisogno del suo tempo per metabolizzare la cosa».

Mi mordo l'interno guancia: «Ma non so quanto sia, capisci?»
«Nemmeno io lo sapevo, ma la pazienza è una virtù assai utile in questi casi».

Sì, ma non tutti la posseggono, ed io, forse, rientro nel gruppo di quelli a cui è stata negata - perché mi manca. Mi manca ogni cosa di lui; e il passare del tempo non aiuta, piuttosto logora e infetta come ruggine tutto ciò che ho intorno: il mio rendimento scolastico, l'umore, la relazione con Seth.

«Per quanto riguarda i problemi con il tuo uomo, invece» sussulto, sorprendendomi che al solo pensarlo lei lo abbia citato; stiamo forse sviluppando una sorta di telepatia? «Una serata di svago non ti può certo far male, no? Anzi, a mio avviso ti aiuterebbe».

Soppeso le sue parole, valutandole bene. Affogare i problemi nell'alcol e zittire i pensieri con musica a tutto volume non è la soluzione che cerco, non mi eviterà di svegliarmi il giorno seguente con una testa dolorante e gonfia di dubbi, però può sicuramente darmi una tregua. Se non posso avere ciò che voglio, tanto vale dimenticarlo per qualche ora.

«E serata tra donne sia!»

***

Dagli strappi nei jeans, di tanto in tanto, fa capolino una brezza che, gelida, mi accarezza la pelle, facendomi stringere nelle spalle.
Londra è fredda. Lo è sempre. Non importa che sia Aprile inoltrato o inizio Ottobre, lei ti ricorderà in qualunque modo la lontananza dall'equatore - eppure, ci sono momenti in cui il tepore estivo si palesa anche qui, ma sono giorni fin troppo rari, di cui la mente fatica a ricordare l'esistenza. Molti di noi, soprattutto se autoctoni, finiscono con l'abituarsi alle temperature della città, mentre altri continuano a venir colti di sorpresa ogni qualvolta il loro vestiario manca di qualche strato, esattamente come sta succedendo a me. Anfibi colorati, buchi nelle brache, una canotta di cotone nascosta sotto a un chiodo di mediocre ecopelle sono le uniche difese contro il venticello che scorrazza liberamente tra le vie della capitale, eppure, nonostante la loro scarsa offensiva contro il clima attuale, sembro eccessivamente coperta se confrontata con le mie accompagnatrici.

Misha e Caroline paiono vere e proprie modelle e se una traballa su tacco in stile anni 80', l'altra fa sfoggio di un vestitino dallo spacco vertiginoso, facendomi apparire come l'evidente ruota di scorta.

Nonostante l'Elder and the Moon non sia un posto elegante,e con le discoteche più in voga non abbia nulla a che fare, tra i suoi avventori è possibile trovare tutti i tipi di cliente, dalla ragazza che sembra passare di lì solo per il pre-serata, al punk che si concede una birra con gli amici - dipende tutto da quale band ha deciso di esibirsi sulla sottospecie di palco che occupa un quarto del locale; e stasera ce n'è una indie rock dalle sonorità un po' più hard che è riuscita ad attirare un pubblico più ricco del solito. 
Nell'avanzare per la via, con un certo disappunto, non possiamo ignorare il capannello di persone che se ne sta addossato all'ingresso, fumando e bevendo. Il chiacchiericcio ci pizzica le orecchie e, inesorabilmente, Misha domanda: «Non dobbiamo fare la fila, vero?» Il disgusto che le contorce la smorfia mi fa alzare gli occhi al cielo, ricordandomi uno dei tanti motivi per cui il nostro rapporto non è mai stato roseo. La sua natura borghese trapela, la distingue più di quanto vorrei dal resto della massa - forse lei è realmente l'eccezione che conferma la regola.

«Perchè, i tuoi piedi non sopporterebbero di star in bilico sui trampoli per tutto quel tempo?»
«Ah-ah! Spiritosa, Jay. La prossima volta che cerchi di essere simpatica però ricordati di tenere a bada l'invidia, ti renderebbe più credibile» mi fa la linguaccia, senza però smettere di lanciare occhiate torve in direzione della clientela riunita davanti all'entrata. Deve temere realmente la possibilità di restare in attesa e, mi piace pensarlo, forse per il freddo che sta tormentando anche me.

Nell'avvicinarci, ad ogni modo, mi rendo conto che le persone in coda sono davvero poche e, prima che dalle labbra della signorina McCoy possa uscire un altro lamentoso sospiro, oltrepassiamo la soglia del locale, ritrovandoci immerse in un luogo ben diverso dallo scenario esterno. Il calore generato dai corpi ammassati mi investe, insieme agli odori di decine di pelli e profumi diversi. I dubbi si dissolvono in fretta, mentre la baraonda di voci e musica di sottofondo prende a tormentare i timpani - ma in questo caos, involontariamente, sorrido. C'è qualcosa di rassicurante nel tornare qui, una sorta di pacifico sollievo, quasi le preoccupazioni del pomeriggio siano in realtà vampiri incapaci di seguirmi perché non invitati - e sono grata a Caroline per avermi convinta ad abbandonare il mio letto.

«Cosa bevete?» domando, sentendomi inebriata dall'alcol che ancora non ho ingerito ma conosco, inconsapevole del fatto che questo potrebbe essere l'inizio del declino - già, perché subito dopo i primi due shots, il tutto si è trasformato in "un altro giro?" che ci ha portate a ballare tra la folla in totale balìa di una coscienza latente. Schiena a petto con la mia migliore amica, seguo una musica tutta nostra, ondeggiando senza logica e ripetendo le uniche parole di canzoni a me sconosciute: quelle del ritornello. Sembriamo vere e proprie groupie, nonostante non abbiamo alcuna idea di chi siano i musicisti.

Misha ci osserva dal bancone, consapevole più della sottoscritta di quanto ridicole siano le sue mosse in simili circostanze. Sorseggia l'ennesimo drink e, ogni tanto, ci lancia sorrisetti di totale approvazione, anche se dubito siano in relazione alle nostre abilità motorie del momento - ma noi, del tutto incapaci di mettere insieme due pensieri logici, ne veniamo stimolate e, così, continuiamo imperterrite nel nostro rito. Agitiamo i fianchi a destra e sinistra, lasciamo cadere le teste all'indietro; ciclicamente portiamo le braccia al cielo cercando di sfiorare un soffitto sempre troppo lontano, convinte di poterlo raggiungere.

Da un paio d'ore non c'è nulla in grado di scalfire il nostro umore, nemmeno le dita che adesso si stringono intorno al mio polso e mi trascinano via dal corpo di Caroline, premendomi contro un altro petto bollente e che conosco, ma vorrei scoprire di più. Ogni cosa che ci circonda sembra vaga, impalpabile, innocua - anche Seth. Soprattutto Seth. Per questo lascio che mi schiacci a sé, che mi fissi con sorpresa mentre le nostre pelli tornano a reclamarsi.

Scorgo la sua bocca schiudersi un poco, forse in procinto di domandarmi qualcosa, ma sono talmente confusa che non gli do modo di pronunciare nemmeno una sillaba. In punta di piedi mi spingo verso di lui, gli afferro il viso e, ottenebrata da ciò che ho ingerito, lo bacio.
Dovrei ancora essere arrabbiata, dovrei voler mettere un freno al mio sogno nel cassetto, eppure gli mordo il labbro mentre un sorriso si fa strada. Dovrei odiarlo per il fatto che non sappia controllarsi o che non voglia farlo, ma invece punto lo sguardo nel suo, pronta a saggiare il rischio di ciò che tutto questo comporta.

E lui ricambia, con foga. Ad ogni bacio un po' di più.

Non c'è Charlie tra i miei pensieri, stasera.
Non c'è il pensiero di Morgenstern tra cosce altrui.
Non ci sono i nostri dissapori, le cose lasciate a metà - solo la mia mente inconsistente, il suo profumo, il nostro bisogno della carne dell'altro. E ciò che so è che lo desidero, ora come decine di momenti passati, lontani, intimi. Istanti in cui ho scoperto da sola l'amarezza dell'irraggiugibile, la mera soddisfazione di un piacere privato.
Mi lascio andare a una passione che altrimenti mi sarebbe estranea e so, che se fossimo altrove, lontani dalla folla, nascosti nelle mura di casa sua, oggi, nessuno ci fermerebbe da oltrepassare quel limite che ho sempre temuto.

Dio, quanto vorrei potermi rendere conto di ciò che sto realmente facendo.


 

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Capitolo 44
*** Chapter 31: The truce of the birthday (part one) ***



Chapter Thirty One
§ The truce of the birthday §
part one

 

"I believe, I believe, I believe, I believe
That we're meant to be
But jealousy, jealousy, jealousy, jealousy
Get the best of me
Look, I don't mean to frustrate, but I
Always make the same mistakes, yeah I
Always make the same mistakes 'causeI'm bad at love (ooh-ooh)
But you can't blame me for trying"

 

- Bad at Love, Halsey


 

 

Risvegliarsi è traumatico per diversi motivi, stamattina. La testa vortica senza tregua, pare che all'interno vi sia un mulinello, ma ciò che più di tutto mi fa mugolare, mentre provo a rigirarmi di qualche centimetro in un letto che al momento non riesco a identificare, è il gonfiore alle labbra, il bruciore alla gola e una certa rigidità nella parte lombare del corpo - così provo a nascondermi sotto le coperte, rannicchiandomi il più possibile nella speranza di lenire i fastidi.

Fatico a mettere insieme i pensieri, a spiegarmi l'origine di ogni male, eppure so che tutto ha avuto inizio con una mia proposta - quella che al momento mi sembrava la migliore e che, ora, mi rendo conto essere stata la peggiore. Sono confusa, questo è certo, troppo annebbiata da ciò che ho bevuto la sera precedente e che ancora non ho smaltito per rendermi conto di cosa sia realmente successo; ricordo gli shots, i drink, le risate e i balli scoordinati appoggiata contro il corpo di Caroline. Ogni tanto ho qualche flash di Misha, seduta vicino al bancone mentre sorseggia qualcosa su cui non voglio soffermarmi, per non vomitare - ma poi? Cosa è successo? Non lo ricordo bene, o forse non desidero farlo.
Mugolo ancora, contrariata dalla consapevolezza di aver fatto qualcosa che forse mi sarei dovuta risparmiare; così mi giro un'ultima volta, cercando di mettermi faccia al muro per sentirmi un po' più al sicuro dai rimorsi, per avere uno scudo o qualcosa contro cui sbattere la testa, ma al posto di trovare il freddo dell'intonaco, ciò su cui poggio la fronte sembra essere vivo. Il suo calore è piacevole e la lieve morbidezza che precede il duro delle ossa ha un profumo familiare.

Oh... mi sorprendo, avvertendo un respiro regolare accarezzarmi la testa.
Merda, aggiungo qualche istante dopo, portando a galla tutti i frammenti mancanti della serata precedente. L'incontro, i baci, le lingue che si sfiorano, gli sguardi, il ritorno a casa. Casa Raven, sfortunatamente. E quello su cui mi sto premendo, quindi, è un corpo fin troppo conosciuto: appartiene a Seth Morgenstern. Il solo ed unico. Il mio sogno a luci rosa, rosse e qualsiasi tonalità possa rientrare nel range cromatico che dall'amore platonico passa al desiderio carnale.

Il suo viso addormentato, ora che alzo lo sguardo, poggia su un cuscino la cui fodera vorrei non riconoscere come mia, ma che purtroppo non posso impedirmi di associare all'arredo che compone la stanza in cui sono cresciuta. E in cui l'ho sognato. Più e più volte con sempre meno decenza.

Avverto le guance infiammarsi, il battito accelerare ancora e il respiro farsi corto.

Non posso averlo realmente fatto restare qui. Non posso aver messo così in pericolo la mia già instabile convivenza con mamma, papà e Liz - e persino Jace, seppur si trovi altrove.
Mi prendo il viso tra le mani, lo nascondo quanto più possibile e, nel torpore del risveglio, ora più simile a un sudore freddo, mi domando in quali guai mi sia cacciata. Ci avrà visti o sentiti qualcuno? Abbiamo fatto qualcosa che in questo edificio sarebbe stato meglio evitare? E... mi mordo il labbro, con forza.
Merda, spero di no. Vorrei potermela ricordare, la prima volta, soprattutto se con lui. E vorrei che fosse romantica, dolce... non condita con i contrasti che hanno segnato queste ultime settimane.

Mi allontano, fissandolo tra le fessure delle dita. Dorme beatamente, così stanco da non sentire nulla. Il suo viso è rilassato, serafico come non lo vedevo da giorni - e mi si stringe il cuore, dolcemente. 
Seth è mio. E' qui. E non si allontana mai, nemmeno quando lo scanso o gli sbraito contro. Resta, a prescindere da tutto; per questo, forse, dovrei smetterla di allontanarlo, anche se è l'origine dei miei mali - e ancora non ho idea di cosa mi aspetti una volta scesa al piano di sotto.

Vorrei sbuffare, ma temo di poterlo svegliare, così silenziosa provo a sgusciare fuori dalle coperte e, nello smuoverle, noto che indosso ha ancora i boxer, esattamente come la sottoscritta il suo intimo spaiato - perché in programma non c'era alcuna condivisione di letto nè svestizione pubblica.

La sua maglia è raggomitolata a terra, insieme alla mia. I jeans sono malamente poggiati sulle scarpe di entrambi e le giacche sono stranamente appoggiate sulla scrivania, quasi a indicare un momento di lucidità nel caos della notte precedente. Osservo il disordine, lo studio, ma nella mente non mi si forma alcun pensiero se non una preghiera: "ti prego, fa che non sappiano di lui". Perché nonostante sia ben lontana dal vergognarmi di stare con un ragazzo tanto aitante, ciò che mi preoccupa sono due cose: la reazione dei miei fratelli in relazione a chi stia frequentando, e quella dei miei genitori nel sapere che abbiamo dormito, ubriachi - o quantomeno io -, nello stesso letto. Più volte, aggiungerei, anche se in situazioni differenti.
Nuovamente mi ritrovo a mordere il labbro inferiore, soppesando con cautela le opzioni a mia disposizione. Mi segrego con Morgenstern tra le quattro mura della mia stanza? Provo a convincerlo a calarsi giù dalla finestra? Scendo con nonchalance, fingendo totale innocenza, oppure mi decido a confessare la nostra relazione?

Con uno sbuffo, opto per una perlustrazione.

Stando attenta a non fare rumore, afferro dalla cassettiera il pantalone di un pigiama e una maglia lisa, probabilmente di Jace; mi vesto barcollando, aggrappandomi alla bene e meglio a qualsiasi superficie a portata di mano e, dopo essermi data una controllata veloce allo specchio, mi dirigo verso la porta, scoprendola chiusa dall'interno - grazie al cielo, nella scarsa coscienza della notte appena passata, ho avuto la decenza di proteggerci da interessi indesiderati.

Il sollievo si riversa fuori dalle labbra sotto forma di sospiro e, a quel punto, mi decido ad agire. Esco in punta di piedi, richiudendomi l'anta alle spalle con una premura usata solo durante le poche fughe non permesse dall'autorità materna, ma prima di scendere al piano inferiore per subire il terzo grado, mi concedo una perlustrazione.
La camera di Elizabeth è vuota, così come lo sono quella di mio fratello, dei miei genitori e il bagno - Seth non rischia di essere scoperto, non ora, quantomeno.
A questo punto, in parte rincuorata e in parte sempre più sulle spine, mi avvio lungo la rampa di scale che collega il sopra con il sotto, facendo susseguire i passi con una velocità sinonimo di abitudine. Ci vogliono quindi pochi secondi prima che, con il cuore in gola, mi ritrovi a varcare la soglia della cucina, lì dove tutta la famiglia Raven è riunita per quello che non capisco se essere una colazione o un brunch casereccio - e la mia confusione, a quanto pare, è condivisa anche da loro.

Mamma mi fissa, mentre Liz smette di bere e papà si concede un momento di distrazione dal giornale, quasi la mia entrata in scena non fosse prevista.

«Sei... sveglia
Deglutisco, voltandomi verso Catherine. Mia madre si rimette a controllare il caffè nella moka, cercando di capire se stia salendo o meno.
«N-non dovrei?» Le chiedo, rendendomi conto di quanto sia roca la mia voce. A quanto pare la gola non pare intenzionata a perdonarmi per le grida di ieri.
«Beh...» inizia una, alzando le spalle.
«Diciamo che sei tornata... tardi» aggiunge l'altra rimettendo il bicchiere sul tavolo e sistemandosi una ciocca dietro l'orecchio, sottolineando la stranezza della situazione.
«E sembravi abbastanza... allegra, visti i risolini e i sussurri» conclude infine papà, rimettendosi a leggere quasi volesse nascondere il proprio imbarazzo nel sapere di avere una figlia incline all'ubriacatezza - e forse colpevole.

Sento lo stomaco stringersi. E' stata una scena così ridicola? Oppure stanno solo girando intorno alla questione?

Mi avvicino al tavolo, afferrando una sedia e lasciandomici cadere sopra.
«E... cosa c'è di strano, esattamente?»
Li vedo scambiarsi qualche occhiata complice, ma non in senso buono, poi il capo famiglia decide di chiudere il giornale e sfilarsi gli occhiali dal viso, strofinandosi il setto. L'agitazione aumenta con ogni istante d'esitazione.
«Devi dirci qualcosa, tesoro?»
Il cuore pare perdere un colpo, sento il sangue defluire dal viso.
Lo sanno. E' ovvio che sono a conoscenza di chi si nasconda in camera mia, sennò non si comporterebbero così. 
Sono nei pasticci.

Mi mordo la lingua, cercando di capire cosa mi aspetta: «T-tipo?»
A questo punto, Catherine mi arriva alle spalle, bloccandomi in caso di tentativo di fuga. Sento la sua presenza farsi minacciosa e, persino senza guardarla, so che mi sta esaminando da cima a fondo alla ricerca di qualche indizio - il problema è che con questo gesto, mamma mi conferma di dover temere un imminente terzo grado.
«Perché non hai fatto dormire Seth in camera di Jace?»

Cazzo.

La stretta allo stomaco aumenta a tal punto da farmi sopraffare dalla nausea e, per l'ennesima volta, mi pento di non aver sviluppato il fantomatico istinto di sopravvivenza: sarei dovuta fuggire dalla finestra insieme a Morgenstern, appena si fosse svegliato.

Con lo sguardo cerco Liz, provo a trovare sul suo viso una qualche risposta, a capire vagamente le dinamiche che mi hanno condotta a questo punto, ma lei elude i miei occhi, mettendo in chiaro il fatto che, stavolta, sia ancor più riluttante dall'aiutarmi. E vorrei non biasimarla, peccato che mi sia impossibile. Da quando ha assistito al litigio tra nostro fratello e il suo migliore amico, nonché al pugno che mi sono beccata, la sua diffidenza nei confronti di Seth si è fatta pressoché totale - e di certo non mi eviterà la strigliata che mi attende; anzi, potrebbe persino essere capace di utilizzare qualsiasi mia confessione contro di me, riferendo tutto a Jace e aizzando la sua rabbia.

Infilzo gli incisivi nella carne del labbro, prendendo un grosso respiro, ma quando mi decido a parlare, la voce che fa capolino nella stanza è ben più profonda e mascolina.

«Colpa mia, signori Raven» sussulto, sentendo il cuore schizzare in gola: «eravamo talmente ubriachi che il primo letto che ho visto mi ha fatto crollare!»

Vedo i miei cambiare espressione, forse imbarazzarsi per essere stati scoperti nel bel mezzo di un interrogatorio, ma subito sono pronti a mostrare il lato di loro più cordiale e amorevole - dopotutto lo conoscono abbastanza da considerarlo una sorta di nipote mancato.
Papà tira un sorriso, mentre mamma si allontana da me per invitarlo a sedersi con noi.
«Beh, mi auguro che non ti presenti così ai genitori delle tue fidanzate» ride Catherine, tornando al caffè e regalandogli una pacca sulla spalla.
Seth prende posto al mio fianco, lo fa con una naturalezza che al momento gli invidio: «Con voi credo di aver già superato questo step».

Silenzio.

Gli occhi di Elizabeth corrono nella mia direzione. Per un attimo temo che possa aver capito, che la sua lingua biforcuta sia pronta a mettere zizzania, ma stranamente tace - non so se per pietà o dubbio, però lo fa e a me va bene così.

«Ad ogni modo, mi scuso ancora per l'intrusione e vi sono grato per l'ospitalità».
Catherine gli serve il caffè appena versato: «Oh suvvia, caro! Era il minimo visto che hai accompagnato questa irresponsabile a casa» poi allunga una mano e mi pizzica con malizia una guancia, facendomi mugugnare. «In quelle condizioni le sarebbe potuto succedere di tutto, se non fosse stato per te. Jane non ha alcuna cognizione delle conseguenze delle sue azioni!»

Mi porto una mano al viso, strofinando sulla parte offesa: «Guarda che sono qui» le faccio presente.
«Appunto! Magari questa volta impari l'antifona».

Seth ride, poi si sporge per afferrare la tazzina: «Stia tranquilla, Catherine, con me sua figlia è al sicuro» e quando sposto lo sguardo su di lui, quasi a ringraziarlo, lo scopro fissarmi di rimando - e nei suoi occhi, stamattina, c'è qualcosa di diverso dai giorni scorsi, o almeno è così fino a quando Liz non decide che è giunto il momento di rovinare tutto.

«Uhm... prima o dopo che le hai sfilato le mutande?»

Il panico mi assale, esattamente come la sorpresa fa con lui e i miei genitori. Vedo gli sguardi di tutti rimbalzare tra me e l'ospite, interrogarsi e interrogarci, riempirsi di dubbi e confusione mentre lei, dalla sua sedia, si crogiola nel successo di quella rovinosa domanda.


 

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Capitolo 45
*** Chapter 31: The truce of the birthday (part two) ***




Chapter Thirty-One
§ The truce of the birthday §
part two

Seth fuma. Lo fa lentamente e soppesando pensieri a me sconosciuti, il tutto senza proferire alcuna parola.

I coniugi Raven hanno taciuto per un po', ma poi la loro curiosità ha straripato oltre gli argini della buona educazione - e hanno chiesto, mentre gli sguardi si riempivano di diffidenza; perché seppur vogliano bene al ragazzo qui con me, come molti non possono negare che sia, forse, la scelta meno indicata per la loro figlioletta, al momento.
"Voi due vi frequentate?"
"Da quanto?"
"Avete intenzioni serie?"
"A Jace la cosa sta bene? Oh, ma lo sa, vero?"
"E' successo qualcosa stanotte? Perché vedi, Seth, Jane sarà anche maggiorenne, ma vive ancora sotto il nostro tetto".

Sta di fatto che, a un certo punto, forse sopraffatto dalla sua mancanza d'abitudine a simili interrogatori, Morgenstern si è alzato e, scusandosi, ha deciso di uscire nel porticato per prendersi una pausa. Peccato che i minuti passino, le sigarette si sommino e lui non abbia ancora deciso se rientrare o meno.

Mi mordo l'interno guancia. Dovrei essere io a spezzare il silenzio? Dovrei fare la prima mossa e mettere fine al suo mutismo? Oppure è meglio se aspetto, evitando così lo scoppio di una guerra, l'ennesima?

«Non me l'ero immaginato così» sbuffa, lanciando il mozzicone lontano dalle sue dita, seppur troppo vicino ai fiori di mamma, che mi auguro non ci stia spiando da alcuna finestra.
Passo una mano tra i capelli, districando i nodi a cui ancora non ho prestato il giusto riguardo. Nemmeno io, a dire il vero. Anzi, se fossi totalmente sincera direi che non avevo neanche preso in considerazione l'ipotesi di dire ai miei genitori di noi con lui presente. Quelle poche volte in cui ho valutato la questione si trattava sempre di fantasie solitarie, invece la realtà è stata ben diversa.

«Liz... lei è ancora arrabbiata per la questione di Jace. Credo che abbia voluto... metterti nei guai come tu hai fatto con-»
«In primo luogo, io non ho messo vostro fratello nei guai. Lui è stato coinvolto in una questione tra me e Charlie» la sua voce è fredda, monotona, si prende pause che mi fanno stringere le budella, ma non si interrompe mai del tutto: «Inoltre, avrei preferito non apparire come il classico playboy».

Un sorriso nervoso mi tende le labbra e, allungando un piede nella sua direzione, lo stuzzico con piccole spinte: «Davvero? Ma non è quello che sei?»
Lui si volta, fulminandomi. Non sembra apprezzare il mio tentativo di sdrammatizzare la situazione, ma non cedo - con la minaccia dei miei genitori oltre la porta preferirei vederlo sereno, ma soprattutto pronto ad affrontare nuovamente la questione; in particolar modo perché ci è impossibile tornare indietro, a questo punto.

Riportando la gamba a terra, e abbandonando la panchina Ikea che scricchiola ad ogni mio movimento, mi avvicino al suo corpo, rigido nonostante la torsione che compie per fronteggiarmi. Mi fissa dall'alto, impassibile, eppure non mi faccio intimidire. Armata di occhi languidi e un sorriso tutt'altro che rassicurante, gli circondo la vita con le braccia, puntando lo sguardo nel suo: «Perché sai, io lo trovo davvero eccitante».

Uno.
Due.
Noto un lieve cambiamento nella sua smorfia. Forse sto riuscendo nella mia impresa.
Tre.
Quattro.

La risata che esplode dopo pochi istanti mi fa sussultare. Il busto di Seth viene percorso da scossoni che rimbombano nella gabbia toracica di entrambi. Si porta le mani al viso, lasciando cadere la testa all'indietro in un moto d'incontenibile ilarità che non comprendo. Doveva essere una maliziosa provocazione, non una battuta da pessimo cabarettista.

«L'hai detto veramente?» Mi domanda, senza smettere di ridere. La mia autostima, il coraggio che mi ha spinta a dire una simile sciocchezza crolla a precipizio, facendomi desiderare di rimangiare ogni singola sillaba pronunciata.
Ci sono alcune ragazze affascinanti, altre belle, e altre ancora che sembrano uscite da qualche filmino hard: loro possono permettersi questo genere di frasi - tutte le altre, quelle normali, un po' sfigatelle come me invece, dovrebbero evitarle, giusto per non ottenere questa reazione da belloccio di turno.

Provo a divincolarmi, sentendo la vergogna montare, ma lui mi ferma: «Questo vale qualsiasi domanda i tuoi genitori possano farmi!»
Cerco di pizzicarlo, tento malamente di difendere il mio orgoglio ferito, eppure ogni tentativo fallisce.
«Sei uno stronzo, Seth!»
Vorrei potermi nascondere, tornare sotto le coperte del letto in cui ero solo un'ora fa, ma non c'è modo di fuggire dalla sua presa, nemmeno quando una mano abbandona la mia schiena e s'impossessa del mento, costringendomi a guardarlo dritto negli occhi: «Non lo nego» mi sussurra piano, in un soffio che accarezza la pelle e facendo sfoggio di come dovrebbe essere, realmente, un sorriso malizioso.

Ecco, lui rientra alla perfezione nel gruppo di persone che si possono permettere quel tipo di commenti.

«Ma apprezzerei se simili slanci li tenessi per occasioni più... intime» ammicca, facendo agitare il mio basso ventre: «Il mio ventiquattresimo compleanno potrebbe essere l'occasione perfetta, non pensi?»

Quella a irrigidirsi, ora, sono io.
Il suo compleanno sta arrivando, è vero, ma quando è? Faccio mente locale il più velocemente possibile, provando a ricordare dapprima che giorno sia oggi e poi quando sia la fatidica data e, alla fine, mi rendo conto avere meno di una settimana a disposizione.

***

Mi rigiro il telefono tra le mani, conscia di non aver combinato nulla di buono per ben cinque giorni, arrivando così al fatidico momento senza nulla di programmato. E mi sento una perfetta idiota. Tra la scuola, le nostre rare uscite insieme, Caroline e Misha e il fantasma di Benton, il tempo mi è scivolato tra le dita al pari d'acqua e non ho alcuna idea di come rimediare.

Non ho un regalo, men che meno una prenotazione in qualche ristorante che non posso permettermi. Non so se ci sia qualcosa che voglia particolarmente fare una volta uscito dal lavoro e, allora, mi ritrovo a sbattere più volte la testa contro il lato del letto, alla disperata ricerca di un'idea.

Che faccio, mi do malata? No, penso che comportandomi così non farei altro che peggiorare la situazione, rovinando quella fragile tranquillità in cui siamo riusciti a entrare dopo la serata di ubriachezza all'Elder and the Moon. Così mi mordo il labbro, ricordandomi ancora una volta quanto sia stupida. Forse dovrei semplicemente affrontare la questione, dirgli chiaro e tondo che la mia mente è solo un open space privo di qualsiasi mobilio; dopotutto non si suol dire che la sincerità sia alla base di ogni relazione? Ebbene, appena sblocco la schermata della homepage, pronta a mandare un messaggio in cui gli domando se una semplice pizza possa andar bene, nonna Josephine fa il suo ingresso nella mia camera gridando a pieni polmoni: «E' qui la festa?» e, dallo spavento, perdo la presa sul cellulare, che mi casca dritto sul naso.

«Che diavolo hai fumato, vecchia pazza?» Le domando appena riesco a ritrovare il contegno necessario per fermare le lacrime e ritrovare la voce - perché il dolore è forte, soprattutto quando la botta è proprio sulla gobba ossea.

Lei però ride, sogghigna come una megera pronta a rivelare un segreto. La vedo avanzare con decisione subito dopo aver richiuso la porta e, ad ogni falcata che compie, qualcosa oltre le sue spalle, lì dove tiene nascosta una delle mani, oscilla minacciosamente catturando il mio interesse.
Non si tratta di qualcosa di grande, dopotutto se non fosse per il penzolamento regolare non mi sarei nemmeno resa conto della sua presenza, eppure ora che ne ho scoperto l'esistenza non riesco a staccargli gli occhi di dosso.
«Che hai lì?» Poggiandomi sul fianco e puntellando un gomito, mi sporgo verso di lei al pari di un gatto curioso. Fiuto l'aria aguzzando la vista, ma l'enorme vestito della nonna non mi permette di scorgere nulla, nemmeno le reali dimensioni di qualsiasi cosa mi stia nascondendo - aspettare, quindi, diventa l'unica opzione.

«Come siamo curiose, signorinella!» Con la mano libera mi fa segno di spostare le gambe, in modo da lasciarle un po' di spazio, poi compiendo una mezza piroetta si fa cadere sull'angolo di materasso che le concedo, portando l'oggetto del mistero, quello che ora riconosco come un sacchetto colorato, sulle ginocchia. Un moto di confusione si fa strada in me, diventando sempre più intenso ad ogni secondo di silenzio che passa. Il bordeaux della carta è arricchito da manici in raso più chiaro e del tulle della medesima tonalità che ne esce dalla parte alta, ma ciò che più di tutto mi fa corrugare le sopracciglia è la scritta dorata che vi sta davanti, riportando un nominativo tutt'altro che rassicurante: Secrets of the Miss, che può indicare sia qualcosa inerente al mondo del fetish, sia qualcosa di terribilmente innocente come un buon profumo o qualsiasi altro tipo di cosmetico - ma con lei, purtroppo, non posso mai abbassare la guardia.

Notando la mia più completa incapacità nel dare un senso a ciò che ha portato, Josephine allarga il sorriso: «E' un regalo» dichiara dopo qualche secondo.
«E a cosa lo devo?»
«Non ho mica detto che è per te» mi fa notare scuotendo la testa con una certa veemenza, suscitando ancora più confusione. Per quale motivo lo ha portato qui se non è per la sottoscritta? E per quale ragione me lo sventola davanti con tanta soddisfazione se non devo aprirlo?
«Non capisco».
«Oh tesoro... Se non ti ricordi del compleanno di Seth allora sei tu quella ad aver fumato qualcosa di strano!»

Sussulto, nonostante non sappia se imbarazzarmi o reagire in malo modo. Da un lato ho l'ansia di sapere cosa vi sia lì dentro, vista la premessa del nome del brand, dall'altro mi vergogno nel sapere che persino mia nonna sia riuscita a recuperargli qualcosa, mentre io sono ancora a mani vuote.
«Gli hai preso un regalo?»

Lei sbatte le ciglia rade e impiastricciate con il mascara, ammiccando.
«Ovviamente».
Ah. Buono a sapersi.
«Da... Secrets of the Miss? E cos'è esattamente, un sexy shop?»
Nonna gongola, sempre più ebbra di un compiacimento che non comprendo e che dubito potrò mai condividere, poi sospinge il pacchetto nella mia direzione: «Aprilo!»

Mi sta prendendo in giro? Corrugo maggiormente le sopracciglia, portandomi il sacchetto sotto al naso. Non ha appena detto che è il regalo per Morgenstern? Allora perché vuole che lo apra io?

«Ma è per Seth» faccio inutilmente notare, indagando con lo sguardo tra il tulle alla ricerca di qualche indizio.
«Infatti».
Continuo a vagare in un limbo di ignoranza, però pian piano mi decido a slacciare il fiocco centrale, permettendo così alla mano d'infilarsi dentro senza rovinare il packaging. Faccio avanzare le dita con timore, ogni tanto le ritraggo appena per paura di trovare qualche stramberia da feticisti, ma poi la morbidezza della stoffa si mischia alla lavorazione del pizzo e nella mente un'idea si fa strada.

Alzo lo sguardo su Josephine e la trovo in trepidante attesa, così estraggo il contenuto del sacchetto, rivelando un completino intimo assai succinto e provocante. Nuovamente il raso diventa un elemento distintivo, accompagnato però da un gioco di trasparenze dato dai merletti scuri. E' raffinato, nonostante sono certa abbia lo scopo di infiammare le zone lombari di chiunque lo veda indossato.
«Dubito gli piaccia mettere dell'intimo femminile. Senza offesa ma... non a tutti gli uomini piacciono i giochi di ruolo».
Nonna me lo sfila di mano. Sembra un po' offesa, ma non per questo mi rifiuta una spiegazione: «Mi chiedo come tu possa essere mia nipote. La preferita, soprattutto! Non è palese che sia per te? Anche perché volendo, Seth non ha un culo così grosso e dei pettorali così scarsi!»
Incredula, cerco di capire se il suo sia solo una frecciatina o un commento con fondamenta reali. Davvero Catherine mi ha fatta tanto male?

«Mon dieu, Jane! Ti ho preso qualcosa di sexy per la serata, così lui avrà la doppia sorpresa: una nottata di passione, e finalmente la sua ragazza in una mise più adeguata per l'occasione. Si chiama sedurre, bambina mia, ed è un'arte che dovresti imparare in fretta se vuoi tenertelo stretta!»

Arrossisco. Il mio viso sembra sul punto di prendere fuoco, ma taccio, conscia di quali pericoli potrebbero palesarmisi di fronte se osassi controbattere in qualche modo. Con lo sguardo vago ovunque, fuorché su lei e ciò che regge tra le mani e, inesorabilmente, mi domando cosa penserebbe papà se sapesse che la donna che lo ha messo al mondo sta cercando in tutti i modi di farmi perdere la verginità. Con Seth Morgenstern, soprattutto, il migliore amico di suo figlio. Anche con lui si comportava così? Entrava in camera sua, armata di qualche sacchettino contenente oggettistica hard, e gli parlava di come le api impollinano i fiori?

Mi lascio cadere sul cuscino, sperando di sprofondarci in mezzo - peccato che non ci sia salvezza.

«Che fai? Alzati, suvvia! Devi provarlo, così se non ti entra posso cambiarlo».
Scuoto la testa, rassegnata. Con Josephine non ho scampo, ma quantomeno posso fingere di aver avuto un'idea per il regalo - sperando che possa apprezzarlo.


 

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Capitolo 46
*** Chapter 31: The truce of the birthday (part three) ***





Chapter Thirty One
§ The Truce of the Birthday §
part three

 

"When I breathe and I breathe into you and I feel it right to the bone
And I give what you give and we go even higher than we are strong
And the cracks and the walls covered up by the sheets we live underneath
All the sex, all the nights we stay up yeah we're stuck but we're more than free
Got the world in our hand like a land
Good enough to make the ocean look like it's a pond
Good enough to turn the valleys into mountain tops
And we live like legends now, know that would never die
Oh, we got love, we got love"

 

Tove Lo, Got Love

 

Mentre avanzo verso l'Elder and the Moon, vestita di un imbarazzo che non so levarmi di dosso, non posso fare a meno di storcere la smorfia sentendo la mutandina brasiliana muoversi sotto ai jeans, sfidando la mia pazienza. Ad ogni falcata si infilano un po' più in mezzo alle natiche e, se non fosse per il timore di essere vista, mi metterei a tirarle in lungo e in largo per sistemarle - peccato che al momento la via sia troppo affollata ed io in ritardo per potermi concedere un simile sollievo.

Mi mordo il labbro cercando di distrarmi, eppure i pensieri convergono sempre lì, dove il pizzo minaccia la pelle, arrossandola.
Josephine avrà anche azzeccato le taglie, però non ha pensato né alla comodità nè alla mia scarsa, se non addirittura assente, esperienza con l'intimo femminile di un certo stampo.
Più avanzo, più le maledizioni che le lancio si fanno astiose. Non avrei dovuto lasciarmi convincere da lei. Mi sarei dovuta impuntare e dire che no, non mi sarei messa nulla di ciò che ha comprato - però non avevo scelta: il completino di nonna e me stessa come peccaminoso intrattenimento per la serata erano tutto ciò che potevo utilizzare come regalo. Quindi ho ceduto. Al pari di una stolta ho detto di sì, indossando la lingerie porpora e nera, truccandomi con cura, profumandomi e nascondendo il tutto sotto un'insospettabile mise. Poi sono uscita di casa, annunciando una lunga nottata di festeggiamenti in compagnia di amici e amiche che in realtà hanno un unico volto e corpo: quelli di Seth.

In fondo allo stomaco avverto una centrifuga di sensazioni contrastanti, un turbinio di sensi di colpa, eccitazione, ansia e gioia a cui non voglio dar spiegazione. Rischierei di cambiare idea, tornare sui miei passi, recuperare un pacchetto di Marlboro lungo la strada, insieme a un accendino carino, e consegnargli quello - ma non posso, devo trattenermi dal farlo. Lui, per me, ha fatto qualcosa di nettamente più romantico e non posso essere da meno; non totalmente, almeno. Così respiro profondamente, inalo con lentezza l'aria viziata di Londra e mi ripeto, come un mantra, che stasera le cose si metteranno a posto, che risolveremo ogni cosa - ed io troverò il coraggio di lasciarmi totalmente andare alle sue carezze.

Apro le palpebre, le sbatto un paio di volte e, infine, mi decido a oltrepassare la soglia del pub. Già da qui, a un passo tra il dentro e il fuori, sento la musica rimbombarmi nella gabbia toracica, potente. I bassi vibrano, coinvolgono tutto e, per un istante, sembra che sia il mio cuore, con il suo battito, a generare tutto questo casino.

Sospingo la porta con una decisione fasulla, blanda, eppure quando l'odore di corpi accalcati e luppolo mi arriva alle narici mi sembra di riacquistare un po' di sicurezza. Attorno a me le persone si sorridono, fanno smorfie, parlano ad alta voce per riuscire a sovrastare il casino generato dalle casse, ed io faccio scorrere lo sguardo su ognuno di loro, cercando solo Seth, il suo viso.
Avanzo lenta tra schiene e petti sconosciuti, rannicchiandomi per evitare che una qualche spallata possa farmi perdere l'equilibrio. Metto un piede davanti all'altro sperando d'incontrare presto il bancone, porto sicuro in questo oceano di persone, e nel mentre non smetto di scrutarmi intorno - ma la sua figura mi sfugge, nonostante sia certa essere qui: me lo ha scritto meno di mezz'ora fa, "ti aspetto dentro con gli altri". E quegli "altri" sono amici che conosco poco, se non per nulla, che fatico a riconoscere nel caos attuale. Non sono né mio fratello Jace né Charles Benton. Sono estranei in un mucchio di sconosciuti - ed io sono persa, non li riesco a identificare.

Mi stringo la borsa al petto, mordendomi il labbro.
Quanto vorrei non essere sola. Avrei dovuto chiedere a Caroline un po' della sua compagnia, il sostegno morale necessario per affrontare questo inizio serata - e persino Misha, in questo marasma, sembra diventare un'opzione allettante, peccato che nessuna delle due sia qui.

Compio un'ultima falcata e, quando credo di essere finalmente arrivata a destinazione, una voce si leva tra la folla, chiamandomi allegra. Sussulto e volto la testa, incontrando finalmente il braccio levato di Seth, avvolto in una manica in jeans stracciata e rattoppata in più punti. La birra che regge fa ben intendere che la festa è iniziata prima del mio arrivo e, per questo, devo recuperare. Sorrido e faccio un segno vago, un gesto che vuole dire "arrivo subito", poi mi porto a ridosso del bancone e, intercettando Adrian, lo afferro per un lembo della maglia, facendolo stranire. Mi fissa qualche istante, cerca di mettere a fuoco la mia faccia e immaginare la richiesta che potrebbe uscirmi di bocca, ma prima che possa aprirla, lui è già chino su uno dei minifrigo. Sceglie per me, lo fa con sapienza e conoscenza dei miei gusti, così quando torniamo a incrociare gli sguardi, tra di noi si frappone una birra belga. 
«Quanto ti devo?» grido, nonostante siamo a un paio di spanne di distanza. La musica è tanto alta da farmi dubitare possa sentirmi, eppure ci riesce senza fatica - ne è prova il sorriso che mi rivolge.
«Nulla, sei ospite di Seth stasera» picchia una mano sul legno del bancone, si dà la spinta e torna a servire la moltitudine di clienti a cui l'ho sottratto.

Ed è così che inizia il declino.

Raggiungo Morgenstern ebbra di una sicurezza appena riacquistata, reggendomi al vetro della bottiglia come se fosse un bastone durante una scalata verso la cima di un'invalicabile montantagna, ma quando lo raggiungo non ho più alcun bisogno d'aggrapparmici. Lui mi afferra, mi tira vicina, mi bacia di fronte a tutti i presenti e poi, in un sussurro a ridosso dell'orecchio, mi dice: «Non vedevo l'ora che arrivassi, corvetto» ed il brivido che provo mi intontisce. Il soffio lieve della sua voce, la carezza appena accennata delle sue labbra nei pressi del mio lobo, le sue dita che afferrano la curva del fianco e premono, quasi a volercisi infilare dentro. Non so da dove provenga, ma Seth ha ancora il potere di piegarmi al suo fascino quando la mente non si sofferma sui graffi di questa relazione. Mi ammalia come la prima volta, mi soggioga esattamente come gli anni che ho trascorso in silenzio, custodendo il mio amore per lui - basta non permettere agli screzi con Benton e mio fratello di fare capolino.

I suoi occhi si fissano nei miei, mi scrutano con gioia. Lo vedo sereno, realmente contento della mia presenza qui, accanto a lui, quasi a confermargli qualcosa che non saprei definire: il sentimento che mi lega a lui? Il fatto che l'ho scelto, nonostante tutto? Vorrei saperlo. Mi piacerebbe entrare nella sua testa in punta di piedi e scoprire tutti i suoi pensieri.
Pigio i denti nel labbro, mordicchio la carne e poi, in un sussulto, mi accorgo del cozzare delle nostre bottiglie, del vetro che picchia e del suo sorriso che si allarga mentre volta il capo e urla: «A questi fottuti ventiquattro!»

Lui beve, gli "altri" pure, ed io non posso astenermi. Così una birra si somma all'altra in una frenetica sequenza di sorsi. Ad ogni giro un nuovo brindisi, elencando glorie e gaffes del festeggiato.
Il tempo a tratti sembra scorrere svelto, poi un po' più lento; alle volte pare persino fermarsi, forse nei momenti in cui mi sento esclusa o estranea agli aneddoti che raccontano, però resisto, mentre la reale coscienza di quello che mi circonda si fa liquida, sfuggevole. Quando gli altri ridono, rido anche io. Quando loro ordinano l'ennesima bottiglia, mi aggrego, pur rendendomi conto di star raggiungendo il limite - e sappiamo già cosa potrebbe accadere una volta oltrepassato. Eppure non mi fermo, in qualche modo sento di dover provare ai presenti il mio valore, il diritto di stare al fianco del loro amico.

Bevo. Ingollo birra senza pormi alcuna domanda, ma alla fine, a strapparmi dall'euforia, arriva nuovamente la voce di Seth, vellutata.
«Andiamo?» Mi chiede languidamente, lasciando che il verde dei suoi occhi si fonda con i miei.
Sorrido, nonostante faccia fatica a capire: «Dove?» mi sento domandare con un tono pigro, impastato, simile a quello del risveglio.
«A casa».
Corrugo le sopracciglia, sempre più confusa. E' già ora di andar via? Non ci aspetta un altro giro di bevute, oppure una qualche discoteca fuorimano?

«Io non voglio tornare a casa» biascico in un lamento da bambina, nel capriccio di una persona che ovviamente ignora i dettagli. E lui ridacchia, si crogiola nella tenerezza che devo suscitargli in queste condizioni - perché certamente è meno brillo di me e la sua coscienza riesce ancora a elaborare la situazione.

«Casa mia, corvetto. Non vorrai lasciarmi solo proprio stasera?»

Non riesco a rispondergli subito, sono troppo frastornata, eppure dopo qualche secondo, sentendo il pizzo degli slip pizzicarmi l'interno chiappa, un barlume di lucidità sembra risvegliarmi dal torpore del luppolo - e finisco con il sorridere a mia volta.

No, stasera non posso proprio lasciarlo solo, c'è un regalo da consegnare e un traguardo da tagliare - è l'occasione tanto attesa, non mi è concesso sprecarla. Così, dopo i saluti di circostanza a persone che l'indomani avrò già dimenticato, mi lascio condurre fuori dall'Elder and the Moon. Camminiamo stretti l'un l'altro in direzione di una strada più trafficata, mentre il venticello leggero porta alle narici il profumo di pioggia. Sento l'umidità appiccicarsi alla pelle, creare una sorta di patina fastidiosa, ma non ho la forza per strofinarmi il viso - piuttosto, lo appoggio al pettorale di lui, lasciando che il calore del suo corpo crei una strana sensazione di unione, quasi ci stessimo fondendo.

Seth non si accorge di nulla, continua ad avanzare fischiettando un motivetto che mi pare familiare, ma che non riesco a identificare con chiarezza. Dove l'ho sentito? E perché dalle sue labbra prende quasi la connotazione di ninnananna? Mi piacerebbe chiederglielo, peccato che le labbra sembrino incollate tra loro - quindi resto in ascolto, lasciandomi cullare dai passi e dalla melodia. Mi faccio trasportare altrove, in un posto che sa di lui, morbido come il suo letto, ma che ancora non è racchiuso tra le mura di un edificio. E' uno spazio irreale, eppure così affascinante.
Socchiudo gli occhi per gustarmelo al meglio, per immergermici completamente, e quando li riapro m'accorgo di non essereci ancora arrivata: è qui, a un soffio da noi, ma allo stesso modo irraggiungibile.

Poi, d'un tratto, senza alcun preavviso, una luce mi acceca. Il cellulare di lui è a pochi centimetri dal mio viso e sulla schermata, noto con fatica, è aperta un'applicazione che riconosco dopo poco: Uber. A quanto pare, il mio cavaliere ha già pensato a tutto. Non ci sono ansie per saltare sull'ultimo vagone delle corse notturne e nemmeno infinite attese nella speranza che un autobus compaia in questo angolo di mondo. Non ci saranno sguardi indagatori, ricerche per dei sedili puliti - e ancor meno mi dovrò preoccupare degli altri, dell'intimità pressoché assente. Saremo solo noi. E l'autista, che mi auguro non sia in vena di chiacchiere.

«Ti sei divertita?»
Alzo il mento, cercando il suo volto. Sul suo viso c'è dolcezza, ma nello sguardo, con un po' più di attenzione, mi sembra nascondersi altro.
Annuisco, ignorando la cosa. Qualsiasi cosa gli stia passando per la mente, al momento, poco m'interessa, sono troppo assuefatta da ciò che ho bevuto per riuscire a concentrarmi sui dettagli e dargli una spiegazione.
«Tu invece?»
«Abbastanza» mi bacia la fronte: «E' stato... strano, soprattutto ora».

Corrugo le sopracciglia, non riuscendo a comprendere il suo commento. Che vorrebbe dire? Cosa c'è di strano? E' per via del fatto che mancano i suoi migliori amici? O perché a tornare a casa con lui, stavolta, ci sono solo io? 
«Se preferisci io-»
«No!» rinsalda la presa: «Tu sei l'unica cosa giusta di questa sera».

Stringo gli occhi, sforzandomi di approfondire la questione. C'è qualcosa che mi sfugge, come sempre, e la birra ingerita rallenta ancor di più il mio acume. Cosa si cela dietro a ciò che dice? Quale verità vorrebbe dire, davvero?

La Toyota accosta di fronte a noi e i nostri sguardi si slegano, lasciandomi nel dubbio. Con una mano Morgenstern mi sospinge verso la vettura, spalancandomi la portiera come un vero gentleman; fa il giro e mi si siede accanto, indicando all'autista la destinazione. Si scambiano qualche parola, un paio di battute, poi il Brent prende a scorrere fuori dal finestrino, lasciando che le case si susseguano senza sosta. Le fisso per qualche minuto, poi torno a guardare le ginocchia del ragazzo con me, in modo da evitare di sentirmi male. Da un lato i jeans sono stracciati, lasciano intravedere la pelle, dall'altro si confondono con le ombre della notte, quasi sparendo. Allungo una mano, gli accarezzo la carne in punta di dita, incapace di formulare una frase di senso compiuto. La testa mi pare piena di pensieri, invece è vuota, riesco solo a ripetermi una cosa: ho le palpebre pesanti, ma non posso addormentarmi, non ora.

Il problema però è lo stesso, sempre quello - la mia volontà non è abbastanza forte. Non lo è da lucida, figurarsi in queste condizioni. E cedo a Morfeo senza rendermene conto: l'attimo prima accarezzo la pelle di Seth, quello dopo sono nell'incoscienza più totale.

Eppure avevo un piano. Un regalo. Un obiettivo da portare a termine; perché è lui che voglio, no?

***

Mi accorgo di essere in movimento. Avverto appena appena l'aria sfiorarmi le dita, un respiro scivolarmi sul viso. Sento dei rumori lontani, forse una serratura che scatta, un saluto sussurrato che mi pizzica l'orecchio. Quella che credo essere una porta si richiude, ma io non mi fermo. Avanzo in uno spazio che non ha forma, solo profumo: caffè, tabacco e un'essenza pungente. Ci passo in mezzo senza esitazioni, seppur con una certa lentezza cadenzata. Non ci sono ostacoli, vengo cullata da un passo che non mi appartiene finché, sotto alla schiena, si palesa della morbidezza, il freddo che si sostituisce al tepore. Mugolo, mi lamento, cerco ancora il calore che mi ha protetta fino adesso, ma non lo trovo; più mi agito, meno raggiungo ciò a cui anelo.

Qualcuno parla, si rivolge a me.
Seth
Che mi sta dicendo? Non lo so, però gli rispondo.
Okay, dico, ma a cosa?

Sento qualcosa cadere a terra, i piedi farsi più leggeri. Li avvicino al corpo, però due mani mi afferrano le caviglie, raddrizzando nuovamente le gambe. 
Una pressione lieve fa la sua comparsa sull'ombelico, poi la liberazione del bottone e l'abbassamento della cerniera mi portano ulteriore sollievo. I pantaloni vengono tirati.

«Devi aiutarmi, Jay. Solleva un po' il sedere».
Okay, anche se non riesco a capire se il corpo stia ubbidendo o meno.

«E queste?»
Mugolo ancora, girandomi su un fianco. Il freddo si sta attenuando ed io sento la coscienza cercare di annullarsi un'altra volta.
«Ehi, resisti ancora un attimo, corvetto». Le sue dita si stringono ora sulle braccia, mi tirano a sedere per un motivo che non comprendo, così provo a schiudere le palpebre. Intravedo Morgenstern. La luce dei lampioni, quella che filtra oltre le tende, gli colpisce con timore una parte del viso, esaltando la sua bellezza da cattivo ragazzo, proprio come i direttori della fotografia fanno nei film, quando le scene sembrano voler trasmettere mistero, sensualità.

Forse gli sorrido.

«Dai, ora togliamo la giacca e la maglia, okay? Almeno non li stropicci».
Annuisco, sentendomi una bambina ubbidiente.

La giacca scivola via, sento la pressione delle maniche allentarsi, poi la stoffa della maglia accarezza la pelle, la solletica - e in pochi secondi, una nuova ondata di brividi mi assale. Il freddo che mi ha accolto torna a farsi presente, mi sfida, ma sono troppo stanca per combatterlo.

Sento il respiro di Seth rallentare, vedo i suoi occhi spostarsi dal mio viso ad altro, ma non capisco cosa. C'è dello stupore nell'espressione che ha, una sorta di inaspettata sorpresa, ma presto muta in malizia, in una lussuria che vorrebbe trattenere, eppure non riesce - infine, il tutto si spegne in una sorta di tristezza. O forse me lo sto solo immaginando.

Sospira.
«Sei una stupida, sai? Però è questo che mi piace» mi bacia una coscia, proprio sopra al ginocchio, nel punto che sono certa avergli accarezzato nel viaggio verso questa casa. Le sue ora mi toccano una spalla, il collo - io rido e lui si allontana.
«Ora dormi, corvetto».

Okay.

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Capitolo 47
*** Chapter 32: Things left undone (part one) ***





Chapter Thirty-four
§ Things left Undone §
part one

 

"Be careful making wishes in the dark
Can't be sure when they've hit their mark
And besides in the meantime 
I'm just dreaming of tearing you apart
I'm in the details with the devil
So now the world can never get me on my level
I just got to get you out of the cage
I'm a young lovers rage
Gonna need a spark to ignite
"

- Fall Out Boy, My songs know what you did in the dark


 

Mi sveglio con il sole a scaldarmi il viso. Lo sento pizzicare la pelle con i suoi raggi tiepidi, così alzo un braccio nel tentativo di proteggere gli occhi e sottrarmi ai suoi dispetti, anche se ormai è un po' inutile. Mugolo piano, muovendomi sotto a delle coperte che finalmente riconosco come quelle di Seth. La confusione delle prime volte si è finalmente attenuata, dandomi semplicemente modo di apprezzare il loro profumo, la morbidezza, le fantasie delle lenzuola.
Sorrido con soddisfazione, sentendomi piacevolmente coccolata - peccato che nel girare il capo, mi accorgo essere già sola. Il suo angolo di letto è sfatto, ma lui non c'è: perché?
Puntellando i gomiti nel materasso mi tiro dritta, cercando d'indagare i dintorni - e solo a questo punto, con estremo stupore, mi rendo conto indossare solo il completino malefico che mi ha comprato nonna.

Sussulto, avvertendo le guance infiammarsi.

Per quale motivo non indosso altro? Cosa è accaduto? Possibile che io... noi...?

L'imbarazzo si fa totale, mi sento venir meno e, in un gesto del tutto privo di logica, tiro il lenzuolo fin sotto al mento cercando di coprire quanto più possibile delle mie misere grazie - peccato che quel che c'era da vedere, probabilmente, Morgenstern lo ha già ampiamente scoperto.

Al solo pensiero l'imbarazzo si fa più soffocante, avverto il cuore palpitare come il motore di una locomotiva a vapore, scandisce il tempo e lo fa con una forza tremenda, ma oltre a lui, un'altra fastidiosa sensazione si fa strada in me: la delusione.
Già, proprio lei. Densa e melmosa, si deposita sul petto, aumentando la terribile sensazione di non riuscire a respirare a dovere. Mi riempi i polmoni, li colma e, improvvisamente, mi rendo conto di star mordendo le labbra con veemenza, trattenendo le lacrime.

Non volevo andasse così, mi ripeto come un mantra mentre il tremolio prova a tradire la compostezza che vorrei mantenere ancora per un po' - solo un altro po' -, o almeno finché mi trovo qui, a un passo da lui.
Nel mio immaginario, forse troppo infantile, la mia prima volta con Seth aveva un retrogusto dolce, seppur intenso. Mi avrebbe scaldato fin dentro le ossa, scossa come un terremoto che sfida lo scheletro. Ne sarei rimasta travolta, assuefatta e... e invece mi ritrovo in un letto vuoto a chiedermi se ne avrò mai ricordo, se qualche fugace momento riemergerà dalle aree oscure di una mente assuefatta dall'alcol.

Merda!

Premo i palmi contro gli occhi, sento il tessuto delle lenzuola strofinare le palpebre - e tento di bloccare un pianto che sento minacciarmi. Pigio forte, ma il petto si gonfia comunque.
Come ho potuto rovinare un simile momento? Come ho fatto a sabotarmi in modo così stupido?

I denti premono un po' di più, e nella bocca ancora impastata dal sonno avverto farsi strada il sapore ferroso del sangue.

Dannazione.

«Post sbornia devastante?» La domanda di Seth mi fa sussultare, ma l'allegria nella sua voce pare colpirmi al pari di un pugno allo stomaco. Lo sento nausearmi, ma non perché provo ribrezzo per lui, che non si è fermato di fronte al mio stato di ottenebrazione alcolica, quanto più perché era cosciente: Morgenstern si ricorda cosa è successo, lui l'ha vissuto veramente. Io no.
Così involontariamente mi stringo nelle spalle, mi accovaccio su me stessa provando a nascondermi da ciò che è successo, pur sapendo di non avere chance.

«Ti ho portato dell'acqua. E un'aspirina, se la vuoi» il peso del suo corpo rende i passi ben distinguibili; si sta avvicinando a me, ignaro di quello che mi sta passando per la testa. Mi chiedo come sarebbe stato ricordare quella medesima pelle, la sua carne, premuta sulla mia. Chissà se mi ha fatto male, oppure se è stato come nelle favole più romanzate. Vorrei sapere anche solo una di queste piccole cose, invece c'è solo il nulla - insieme al mal di testa.

Sento una pressione, poi il lenzuolo viene tirato, e in un attimo sono priva di difese.
«Ehi...?» Seth mi fissa. Ha le labbra tese in un mezzo sorriso, ma i suoi occhi sono pieni di preoccupazione, di una confusione che teme la peggiore delle circostanze.
Ci guardiamo per qualche istante, tempo scandito dal battito sempre più veloce del mio cuore. Ho paura di confessargli ciò che sto pensando. Ho il timore che mi consideri una povera sciocca, una bambina. Temo mi allontani.

Mi sposta una ciocca dietro all'orecchio, continuando a fissarmi: «Che c'è?»

Tanto.
Troppo.
Ho la testa così piena di domande e ansie che la sento sul punto di scoppiare, eppure non ho idea di come liberarla - perché aprendo la bocca farei scoppiare l'ennesima guerra, quella che sto evitando da giorni.
Involontariamente mi porto le ginocchia al petto e, a quel punto, il suo sguardo ricade sulla pelle nuda, scivolando lungo le spalline di un reggiseno che cerco di nascondere in ogni modo.

Forse capisce.
Anzi, lo fa per certo.

Nuovamente alza un angolo della bocca, poi punta l'indice nella mia direzione: «Era il mio regalo?»
Annuisco, intimorita. Non si era capito?
«N-non hai fatto in tempo a... notarlo, ieri?»
Lui si umetta le labbra, si immagina qualcosa che mi è segreto. Si gode un pensiero succulento, ma non riesco a capirne il motivo.
«L'ho notato, eccome» afferma, provando ad allontanare ancora un po' il lenzuolo: «Ma me lo sono goduto per poco. Ero troppo impegnato a metterti a letto».
Sogghigno: «A portarmi, vorrai dire» e la stretta allo stomaco diventa insopportabile.

Seth corruga le sopracciglia: «In effetti ho dovuto trasportarti dal taxi a qui...»
«Non intendevo quello» anche se vorrei restare all'oscuro di ciò che è successo e non riesco a ricordare, fermare la lingua diventa impossibile; si muove contro la mia volontà, dando fiato a parole che preferirei restassero mute.
I nostri occhi si ritrovano e, quasi sicuramente, legge nei miei la traduzione della frase appena pronunciata.

Si avvicina, pericolosamente. Il suo respiro bollente mi sfiora la pelle, cavalca la mia epidermide inebriandomi: sa già di caffè. 
«Fidati, lo avrei voluto» lo sussurra piano, voluttuoso. La sua voce è una malia che riesce a fermare il tempo, mozzarmi il fiato e bloccare il cuore nel bel mezzo di un battito. Ha le labbra sempre più vicine alle mie, minacciose, e d'improvviso non so cosa guardare: lui o quelle carnose arcate rosa, umide, ammalianti, assuefacenti. «Sarebbe bastato un bacio, Jay. Se nel torpore del sonno, o dell'alcol mi avessi baciato, giuro, avrei perso il controllo».

Un nodo mi si va a formare in gola, impedendo alla sorpresa di uscire in un'esclamazione di qualsiasi tipo. Sono troppo incantata, sopraffatta, per poter realmente dare un senso alle sue confessioni.

Un bacio è quello a cui anelo adesso
E se le nostre bocche s'incontrassero anche per un istante, forse, sarei io a perdere il controllo, ad annullarmi in un trasporto che fino ad ora ho trattenuto - per codardia, per inesperienza, per paura di un rifiuto.

D'un tratto Seth si ritrae, allargando il sorriso: «Ma purtroppo per me, eri talmente incapace d'intendere che appena ti ho tolto i vestiti ti sei accovacciata e hai iniziato a russare!» e senza preavviso mi pizzica il naso, facendomi tornare alla realtà - una caduta che m'imbarazza più di quanto non fossi prima.

«Io... io non russo!»
«Oh, sì che lo fai!» Ride, allontanandosi in previsione di una cuscinata: «E anche parecchio. Poi ogni tanto sbavi pure».

La vergogna ha la meglio - perché seppur voglia negarlo, così come ogni donzella, purtroppo non posso mentire: capita! Di solito proprio quando sogno Morgenstern.

Cerco di colpirlo alla bene e meglio, ma lui è più abile e sveglio e, quando finalmente riesce a bloccarmi, premendomi contro alla testiera del letto, aggiunge: «La prossima volta vedrò di essere più bravo» da allegro, il suo sorriso si fa malizioso, «magari riuscirò a tenerti sveglia, corvetto».

E, seppur involontariamente, mi ritrovo a pensare: sì, per favore - anche se dalle labbra non esce nulla, improvvisamente troppo occupate a ricambiare il suo primo bacio della giornata.
 


 

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Capitolo 48
*** Chapter 32: Things left undone (part two) ***



Chapter Thirty-two
§ Things left undone §
part two

 

"You say that I'm messing with your head
All 'cause I was making out with your friend
Love hurts whether it's right or wrong
I can't stop 'cause I'm having too much fun
You're on your knees
Begging, Please
Stay with me"

- What the Hell, Avril Lavigne

 

Conto i giorni che mancano agli esami sulle dita d'una mano, esattamente come i messaggi che sono riuscita a scambiare con Charlie nelle ultime ventiquattro ore.
Rientrando a casa dopo il weekend passato pigramente tra l'appartamento di Seth e l'incontro con Caroline, una notifica ha fatto la sua comparsa sul display, sovrastando il viso di quello che al momento è il mio ragazzo. All'inizio non gli ho dato alcuna importanza, mi sono levata le scarpe, ho appeso giacca e borsa all'attaccapanni all'ingresso, ho mugolato qualche saluto e ho oltrepassato la soglia della cucina. Mi sono diretta al frigorifero, aprendone lo sportello senza un reale motivo, perdendoci innanzi lunghissimi istanti; è stato lì che, tra un quesito e quello successivo, ho estratto dalla tasca posteriore dei jeans il telefonino, scoprendo la sorpresa.

Il suo nick svettava con incredibile prepotenza sul riquadro bianco e, sotto, in una font più piccina, "Sento la tua ansia da prestazione riempire anche l'aria di Bristol. Agitata, signorina Raven?".

Non so cosa sia stato più emozionante: se vedere il suo nome, oppure leggere quelle meravigliose frasi e rendermi conto che, a differenza mia, lui non ha smesso di pensarmi nemmeno per un momento, ricordandosi persino l'avvicinarsi degli esami - la data che con minuzia aveva persino appuntato sul calendario di casa propria.
Il cuore, nel leggere, mi è schizzato in gola. Con il suo palpitare tanto concitato ha minacciato di farmi sopraffare da una prima forma di Parkinson, tanto che per rispondere a Benton mi sono serviti diversi tentativi. Le dita non pigiavano mai sulla lettera giusta, così cancellavo veloce, finendo con l'eliminare parole intere e dover ricominciare da capo.

"Almeno ho trovato un modo per farti uscire allo scoperto, caro mio, o sbaglio?"
Ho visto la scritta "CharlieBoy sta scrivendo..." apparire e sparire per una manciata di volte, ritrovandomi involontariamente su delle montagne russe d'emozioni capaci di farmi dapprima contorcere lo stomaco e poi mozzarmi il fiato, ma alla fine l'ho visto rinunciare.
Una parte di me, nei secondi che hanno seguito il suo silenzio, si è sentita letteralmente soffocare. Guardavo la chat, lo schermo nel suo complesso, e la staticità con cui ricambiava le mie attenzioni pareva volermi ricordare quanto fossi ingenua, una stupida mocciosa che non ne voleva sapere di staccarsi dai brandelli di speranza a cui si era ostinatamente aggrappata nelle settimane.

Catherine poco dopo, del tutto inconsapevolmente, facendo il suo ingresso in cucina e afferrando la teiera ha cercato di lenire il dolore di quel nulla con una tisana e qualche chiacchiera, una conversazione che deve esserle apparsa incredibilmente pacata e piacevole a causa della mia totale incapacità di reagire - perché l'improvvisa scomparsa di Charlie mi aveva nuovamente privata di forze, sderenata. E mentre lei mi poneva domande a cui io rispondevo con poco interesse, il tempo è passato, lasciando che le lancette si rincorressero sulla plancia dell'orologio; ci sono volute due ore prima che un'altra notifica mi ridestasse dal torpore.

"Le tue abilità da stratega si stanno affinando allora... o non hai il coraggio di ammettere che sei nel panico e avresti bisogno d'aiuto?"
Impedire a un sorriso di tendermi le labbra è stato impossibile, ma celata dietro al un telefono ho provato a non dargliela vinta, un po' come ai vecchi tempi.
"In effetti se ci fosse Jace sarebbe tutto più semplice :P"

La conversazione è finita poco dopo, prima di cena. Con un'uscita fin troppo neutrale ha evitato che potessi chiedergli troppo, oppure che potessi dirgli qualcosa di sconveniente - magari citando Seth.

"Sì, hai ragione, è lui il genio della famiglia Raven. Quindi mi sa che ti toccherà studiare - e io non mi metterò tra te e i tuoi amati libri di scuola! Buon proseguimento, Jay".

All'inizio ho provato a comporre una controbattuta, un insieme di frasi o domande capace di trattenerlo a me ancora per un po', ma all'ennesimo fallimento ho lasciato cadere il cellulare accanto al sedere, sul divano, facendomi sfuggire di labbra un sonoro sospiro.
Papà mi ha fissata. Allontanando gli occhi dallo schermo del televisore, lì dove ha provato a seguire la strategia di gioco del Manchester United, si è soffermato su di me. Ho sentito il suo sguardo posarmisi in viso, indagare senza però proferir parola e, alla fine, rinunciare alla partita.

«Tutto okay?» ha chiesto, spostando il busto giusto di qualche grado.
Mi sono morsa la lingua. La consapevolezza che non sia il caso di parlare di simili argomenti con lui è molta, ma la voglia di sorreggermi sulle spalle di qualcuno più esperto e allenato è innegabile. Forse lui potrebbe spiegarmi quello che non so, o che semplicemente non comprendo. Potrebbe giudicarmi, certo, ammorbarmi con la solita paternale, ma ciò non toglie che nel suo soliloquio potrei trovare qualche spiegazione - così mi porto le mani al viso, coprendolo.
«No, però vorrei».
«Uhm...» mio padre abbassa il volume, quel tanto che basta per non ostacolare il suo udito, ma non a sufficienza per permettere a qualche altro membro della famiglia d'impicciarsi. Per qualche istante pare persino soppesare i propri pensieri, ma poi si riscuote e domanda: «E si tratta di scuola?»
Scuoto la testa.
«Le tue amiche?»
«Non proprio».
Forse sorride, forse semplicemente si è concesso una smorfia di dissenso. Con le dita ad oscurarmi la visuale mi vien difficile tradurre il suo grugnito, ma nonostante ciò mi costringo a non sbirciare - un po' temo la sua espressione.

«Quale dei tuoi uomini ha combinato casini, allora?»

Passo la lingua sulle labbra, trattenendo un sorriso. Papà arriva sempre al dunque, non come mamma.

«E se non fosse uno solo?»
«Beh, la cosa certo non mi aggrada, ma prima di giudicare sentiamo la tua versione dei fatti».

Lascio cadere le braccia lungo i fianchi, rassegnata all'idea di essermi nuovamente incastrata tra una situazione complicata e una scelta ancor più discutibile.
«La sola che puoi sentire, oltre la mia, è quella di Jace».
«E' per questo che vi parlate poco? Penso di non avervi visto così distanti dai tempi dell'asilo».

Beh, in quel periodo le uniche parole che uscivano dalla mia bocca erano: pappa, mamma, cacca. Dubito potessimo intrattenere conversazioni di chissà quale livello contenutistico - è stato l'avvento delle scuole primarie ad aiutarmi a conquistare il cuore di Jace.

In uno sbuffo annuisco: «In parte».
«Lo sai che a fine settimana sarà qui, vero?»
Storco le labbra, spostando lo sguardo altrove. Vorrei dire di no, cadere dalle nuvole scoprendomi sorpresa, ma non posso. Forse non l'avrò citato a sufficienza, oppure avrò fatto finta di non percepire lo scorrere del tempo, ma so benissimo che mio fratello si era organizzato per liberarsi di tutti gli esami prima dell'estate, in modo da tornare qui a Londra, a casa, da me; l'ho segnato su uno dei post-it attaccati all'armadio.

«Sì, lo so» brontolo con poca convinzione, quasi nascondendomi. Non so se sono pronta a rivederlo, ad affrontarlo a viso aperto. Non credo di poter contrastare la sua persona, le motivazioni che lo spingono ad allontanarmi da Seth - però arriverà a prescindere dai miei dubbi e dovrò prepararmi allo scontro.
Papà si sposta una ciocca brizzolata dalla fronte, fa un mezzo sorriso: «Magari stare insieme vi farà bene». 
«Finiremo con lo scannarci a vicenda» controbatto subito, ritrovandomi poi a mordere la lingua. Forse non era la cosa giusta da dire.
«Posso immaginare il motivo» fa una piccola pausa, lanciando un'occhiata vaga in direzione della tv: «però conosco entrambi e so che non potreste mai farvi del male. Quindi, se frequentare Seth è davvero qualcosa che ti rende felice, Jace lo capirà».

Ne è davvero così sicuro? Pensa davvero che tra quei due tornerà la pace? Io non ne sarei certa, anzi, non lo sono. Temo invece che le cose possano peggiorare, che la scissione tra di loro diventi così netta da non poter più essere sanata - e sarà per mano mia che la ferita diventerà mortale.

***

Quando la porta d'ingresso si è spalancata, rivelando il viso di mio fratello, il cuore mi è parso sul punto di un tracollo. Lo sentivo battere con così tanta foga da far male, eppure sono rimasta immobile a metà scala, stringendo il corrimano quasi volendolo frantumare. Per un attimo mi è parso di essere spettatrice di un film fin troppo coinvolgente, dove mi era possibile avvertire tutto come mio pur essendo altrove. Ho scrutato i movimenti di Jace, il modo in cui Liz gli si è stretta al collo e lui le ha lasciato una carezza sulla testa, salutandola con una dolcezza che sento corrodermi dentro. Ho aumentato la pressione sul corrimano nel vederlo depositare un bacio su quella fronte immensa, così simile alla mia e alla sua. Mi sono rivista nei panni di mia sorella, esattamente come avrebbe fatto una fan con l'attrice protagonista del lungometraggio e, a quel punto, la voce di mio fratello ha riempito l'androne, rimbalzando sui muri fino ad arrivarmi ai timpani - e lì mi ha schiaffeggiata, facendomi rinsavire.
Sussultando mi sono resa conto di far parte della scena che stava avendo luogo innanzi a me, così mi sono costretta a prendere parte al piano-sequenza e adempiere ai miei doveri sorridendo, anche se la gravità cerca in tutti i modi di piegarmi le labbra verso il basso e costringermi a mandare in fumo le riprese.

Dovrei muovere un passo e raggiungerli, così dice il copione, eppure non riesco né ad avanzare né a retrocedere. Sono una sorta di oggetto di scena che, se spostato, potrebbe rompersi malamente - così resto ferma, anche se dubito sia la scelta migliore.

Mamma gli va incontro, lo abbraccia stretto riempiendolo di domande a cui lui non riesce a stare dietro. Negli occhi di Catherine brilla la scintilla d'orgoglio che vedo sempre spegnersi quando si rivolge a me, ma non riesco a non biasimarla: lui è davvero la luce di questa casa - e quando finalmente i nostri sguardi s'incontrano mi pare essere investita dalla scia di un riflettore. Sono abbagliata e il panico da palcoscenico diventa inevitabile. Le mie gambe tremano, le sue sicuramente no. A differenza mia Jace sa sempre come comportarsi, come tenere a bada le ansie e le paure. Non ha bisogno del supporto, di spalle su cui sorreggersi: se vuole può affrontare qualsiasi sfida.

Faccia a faccia, seppur distanti, ci studiamo per qualche istante. Non ho idea di che fare né con quale battuta iniziare la mia parte, quindi resto in attesa di un qualche suggerimento esterno che pare non arrivare. Non ci sono aiuti, spifferi che da dietro le quinte o dalla crew si levano per incitarmi all'azione; sono sola con me stessa, i vuoti e il terrore.

Finché lui non improvvisa.

Mio fratello si divincola dalla presa di mamma, si fa strada tra i parenti e a due a due sale i gradini che ci separano, oscurando la mia visuale sulla famiglia, catturando tutta la mia attenzione e, infine, abbracciandomi tanto da volermi quasi inglobare nel suo petto - che ha il profumo di casa, delle notti trascorse nello stesso letto dopo un incubo; delle risate piene e calde, dei baci dolci sulla testa e delle promesse sempre mantenute.
Il mio corpo agisce da solo, gli si abbandona come una conchiglia nella corrente. Facendogli passare le braccia attorno alla vita mi ritrovo a cingerlo, a cedere all'affetto che provo per lui. Mi è mancato tanto, anche se ho cercato di convincermi fino all'ultimo che non fosse così. Ho voluto sprofondare nel disappunto, nella frustrazione data dal suo rifiuto nel sapermi con Seth, eppure tutto ciò non mi ha impedito di coltivare la nostalgia nei suoi confronti.

Gli occhi prendono a pizzicare mentre la gola si secca: i primi incapaci di trattenere le emozioni, la seconda troppo timida per ammetterle.

Jace sembra ondeggiare, cullarmi come se fossi ancora una bambina, poi si curva un po', affiancando la bocca al mio orecchio: «Mi sei mancata».

Ed io annuisco a ridosso del suo torace, incapace di rispondere.

Anche tu, JJ.

Restiamo stretti l'un l'altra come due innamorati separati per troppo tempo, poi Liz prende a gracchiare dalla base delle scale, mandando in frantumi ogni cosa: «Guarda che Jay è fidanzata!»

Puff!

Le luci si spengono, le telecamere interrompono la ripresa, il regista grida "stop" e improvvisamente veniamo nuovamente catapultati nella realtà.
Jace s'irrigidisce. Lo fanno dapprima le sue dita sulla mia spalla, i tricipiti, la mascella accanto al mio viso e infine il petto a cui sono schiacciata. Il calore che ho sentito si fa meno avvolgente e mi ritrovo persa, incapace di agire secondo una qualsivoglia azione logica. Resto ferma, lo sguardo grande di preoccupazione e le labbra schiuse, mentre le braccia si fanno meno convinte intorno al suo corpo.

Quando risponde, la sua espressione tradisce il tono con cui si rivolge a nostra sorella; ma lei non può vederlo. Non s'immagina con quanta durezza il suo sguardo verde bottiglia si preme sul mio viso, ferendomi al pari di schegge di vetro. Il fastidio è concreto, lo posso sentire addosso anche se non vorrei. Non ora, quantomeno.

«Sì, lo so. Ma dubito che Seth possa avere qualcosa da ridire».

Forse Morgenstern no, ma tu, Jace, hai sicuramente un motivo per farlo con lui.

 

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Capitolo 49
*** Chapter 32: Things left undone (part three) ***




Chapter thirty-two
§ Things left undone §
part three

 

If I was dying on my knees
You would be the one to rescue me
And if you were drowned at sea
I'd give you my lungs so you could breathe

I've got you brother-er-er-er "

- Brother, Kodaline

 

A tavola taccio, non oso proferir parola e nemmeno alzo lo sguardo. Jace mi è accanto, ma è come se per lui, ora, io non fossi altro che un fantasma. Con la coda dell'occhio lo vedo interagire con tutti: mamma, papà, nonna e Liz - l'unica che evita sono io. E non so come comportarmi. Le attenzioni generali sono su di lui, nessuno parla d'altro o con altri e in parte gliene sono grata, quasi temessi che parlando con me qualcuno possa erroneamente dar fuoco alla miccia di una bomba che prego non scoppi mai. La voce di mio fratello riempie la stanza, coinvolge tutti permettendomi di non incasinare maggiormente la situazione - e io gli lascio raccontare ogni aneddoto della sua permanenza a Parigi ascoltando in silenzio, continuando a scongiurare l'esplosione. Assimilo le informazioni, le metto in ordine nella mente per potergli poi rivolgere le domande che gli altri non gli faranno - ma solo quando finalmente tra di noi sarà tornata la calma; anche se una data precisa non c'è; come in qualsiasi guerra, gli armistizi arrivano placidamente, dopo estenuanti giorni o settimane in bilico tra collasso e tracollo.

Socchiudo gli occhi lasciandomi trasportare dal chiacchiericcio di casa, ingollando di tanto in tanto qualche boccone di sformato di patate finché tutti non sembrano aver finito. Catherine e Josephine si alzano, impilano i piatti e spostano bicchieri, rassettano alla bene e meglio per poi offrire del tè caldo o del caffè e, nel mentre, papà si confronta con JJ sull'andamento del Manchester United. Ritmicamente Liz prova a dire la propria, ma sappiamo entrambe che la sua conoscenza del calcio è pari, se non addirittura inferiore, alla mia di matematica. 
Non nego che i suoi sforzi siano onorevoli, che il tentativo di avvicinarsi un po' di più a nostro fratello sia logico, però non posso far a meno che trovarlo fastidioso - perché io non riesco nemmeno a rivolgergli la parola, mentre lei arranca quasi pietosamente tra una previsione calcistica e l'altra.

Mi mordo l'interno guancia, sentendo l'irritazione farsi strada in me. Forse non è saggio, da parte mia, restare qui ad ascoltare e fingere un'indifferenza che in realtà non mi appartiene. Non so fingere, lo sappiamo tutti arrivati a questo punto, così tendo un sorriso visibilmente forzato, alzandomi: «Io vado a studiare». Ho la voce un po' roca, la bocca impastata, però esce abbastanza potente da farmi sentire da tutti - e confonderli.

Mia sorella è la prima a corrugare le sopracciglia di fronte alla strana dichiarazione: «Sei seria?» Mi chiede con un'espressione di scherno e incredulità che non le biasimo: dopotutto il mio amore per i libri scolastici è tutt'altro che risaputo.

Annuisco, ormai decisa: «Cosa rara, lo so, ma capita».
Vedo Catherine sul punto di fermarmi, probabilmente intenzionata a sottolineare il fatto che è la prima sera di Jace a casa dopo mesi e sarebbe bello passarla insieme, ma la precedo: «Giovedì ho il primo esame, non posso perdere tempo». La sua espressione muta, non capisco se sia più delusa o sorpresa, eppure non prova a controbattere - nessuno lo fa e quindi scivolo via come l'ombra che sono diventata stasera, lontana da ognuno di loro, ma soprattutto da quel fratello che amo così tanto da venir ferita e martoriata dalla sua indifferenza.
Quando alle mie spalle la porta della stanza si chiude, senza riaprirsi più per il resto delle ore di veglia della famiglia, capisco che stavolta la frattura tra Jace e me è più profonda di quel che avevo creduto. Eppure non capisco, non ci riesco proprio.

***

Il primo giorno di esami, il fatidico giovedì di quasi fine Aprile, giusto poco prima di entrare in aula, due messaggi illuminano il display del mio telefono facendomi soffermare qualche istante di troppo sul cancello che divide la scuola dalla strada: sono di Seth e Charlie, ma non in quest'ordine. I loro auguri si susseguono a pochi minuti di distanza e si differenziano per alcune parole in più o in meno, ma l'affetto che ne trapela è pressoché identico e sufficiente a fermare per qualche istante il tremolio alle gambe. Entrambi provano a rassicurarmi, a farmi sentire il loro sostegno persino a distanza - e manca solo Jace, il mio fratellone, il ragazzo la cui camera è posta proprio di fronte alla mia e che non ha mai bussato, non una volta, per rendere tutto perfetto. Eppure lui resta distante, ferito o deluso da qualcosa che non comprendo fino in fondo. Il suo silenzio persiste, si fa assordante, ma io devo concentrarmi su altro, devo anteporre questi ultimi test a qualsiasi cosa stia accadendo nella mia vita al di fuori della Saint Jeremy. Ma è faticoso, non lo nego.

Così il primo giorno pare diventare il più tedioso degli ostacoli, mi distraggo ad ogni nuova domanda che riempie il foglio, quasi non avesse alcun valore - ma invece è importantissima, esattamente come quelle che la precedono e la seguono. Mi costringo a non pensare a Jace e la sua disapprovazione, a Seth e il freno che c'è tra noi, a Charlie e il suo distacco sempre più lacerante, riuscendo in qualche maniera ad arrivare alla fine, seppur stremata.

Caroline e Misha mi aspettano fuori dall'aula. Le loro espressioni non sono rassicuranti, lasciano trapelare la mia medesima stanchezza e ansia, mettendomi in soggezione - se loro si preoccupano, io dovrei sentirmi spacciata. 
Tra di noi non sfugge alcun saluto, sin da subito ci confrontiamo, i nostri sguardi si mettono a indagare i visi altrui provando a capire come è andata a loro - e l'agitazione non cala, anzi, aumenta sempre più fino al giorno successivo, quando con un trillo di campanella e una sorta di sollievo generale si conclude questa terribile sfida.

Dalle labbra faccio sfuggire un sospiro pesante, poi lascio che la testa vada all'indietro, penzolando leggermente. Tutte le forze sembrano improvvisamente venirmi strappate di dosso: è una sfiancante liberazione, ma anche una fastidiosa consapevolezza.

Il professor Plum, docente di matematica, chiama a coppie le studentesse che con diligenza si alzano, consegnano il fascicolo pieno di risposte e argomentazioni, ed escono zaino in spalla, pronte a dare inizio alla loro lunghissima estate.
Nessuna prova a rubare qualche secondo, a completare una frase lasciata a metà o modificare ciò che anche adesso non la convince, rimangono tutte immobili, in trepidante attesa - io invece mi domando solo come sarà, il prossimo settembre, non varcare più le porte di queste aule, battibeccare con Misha, addormentarmi tra una lezione di filosofia e di chimica. Siamo arrivate alla fine - se non della mia totale avventura scolastica, quantomeno di questa.
Intorno a me sento i passi delle compagne, i ticchettii delle loro scarpe, i fruscii delle gonne. I loro profumi, mischiati al sudore dovuto all'ansia e al calore, pizzicano il naso attenuandosi dopo pochi secondi, abbandonandomi sola con le incertezze.

Piano piano la stanza si inizia a svuotare. Restiamo sempre meno, finché arriva il mio momento. Un evento quasi solenne, estraneo.

«Raven e Robinson».

Riporto l'attenzione verso la cattedra. Plum vaga con lo sguardo alla ricerca delle studentesse chiamate, quelle in fondo all'elenco, non le ultime, ma quasi.

Betty Robinson si alza, il sorriso che le riempie il viso mi innervosisce. Pare soddisfatta di se stessa, sicura di aver fatto un ottimo lavoro - fortunata lei. Così, mentre avanza con passo cadenzato, io mi piego di lato, afferro la borsa e sbuffo ancora. Per qualche strana ragione ora mi sento ancor più spossata, stanca, dubbiosa; eppure non è andata così male - o almeno è quel che credo.

Provo ad alzarmi anche io, a procedere, a mettere fine a questa epopea durata fin troppi anni, ma il legno della sedia, unito alle mie cosce sudate, pare volermi impedire di andare via. 
Mi sforzo. 
Il distacco mi procura un fastidio simile allo strappo di un cerotto e, in quel preciso istante, capisco che una volta uscita da qui avrei bisogno di una spalla su cui sfogare le ansie e lo stress - Charlie però è a Bristol, Seth al lavoro e Jace... beh, lui non è propriamente incline a starmi vicino ora.

Mordo il labbro, lo faccio forte, poi deglutisco e mi avvicino al docente compiendo lunghe falcate. I suoi occhi mi scrutano, li sento sul volto, sulle mani che reggono i fogli, tremando appena.

Sicuramente non deve avere molte aspettative.
Non le ho nemmeno io. A dire il vero sto silenziosamente pregando di aver raggiunto almeno il punteggio minimo.

Allungo il braccio, gli consegno quest'ultima prova.
«Stia serena, Raven. Se si è preparata andrà tutto bene». 

Facile a dirsi, un po' meno a farsi, vorrei rispondergli con uno dei miei soliti sorrisi distratti - invece resto in silenzio, annuendo appena.

Costringendomi a non fissare la punta delle scarpe, in modo da non apparire avvilita, esco dalla stanza aggrappandomi alla spallina dello zaino, quello che mi ha accompagnata qui ogni mattina e seguita a casa nei pomeriggi di questi lunghissimi cinque anni.

Il cuore mi martella nel petto e la mente, finalmente, realizza che "è fatta", adesso non si torna più indietro: se sarò promossa la mia vita da adulta inizierà a prendere forma, se dovessi essere bocciata, invece, potrò dire addio a qualsiasi libertà.

Falcata dopo falcata, lentamente, nel mormorio delle alunne aggregate nei corridoi in attesa delle amiche, mi trascino lungo gli ambienti della Saint Jeremy sperando d'incontrare anche io qualcuno di familiare, una persona con cui distrarmi dalla consapevolezza di aver decretato, in parte, il mio futuro - ma Caroline e Misha sembrano essere sparite. Non le vedo in nessun angolo, nemmeno su sedie e panchine sparse qua e là. 

Forse sono in cortile, mi dico, ma passando accanto a uno dei bagni mi ritrovo a considerare un'altra eventualità. Il cartellino con sopra scritto "fuori uso", lo stesso che si può trovare quasi ovunque in questi giorni - un palliativo per le studentesse che cercano di barare - mi riporta alla mente il ricordo di quando ho scoperto della loro relazione. Rallento. L'azzurrino con cui è verniciato il legno della porta pare volermi parlare, invitare e respingere come un soggetto affetto da bipolarismo.

Forse sono nascoste proprio lì dietro, festeggiando e salutando questa scuola a modo loro, nonché infrangendo pressoché metà delle regole che vigono qui. E non nego che mi piacerebbe sapere se sia davvero così, per dare un senso alla loro assenza, però mi trattengo. Non sono psicologicamente pronta ad affrontare nuovamente una situazione simile - così scuoto la testa e riprendo a camminare.

Muovendomi tra un corridoio e l'altro saluto di sfuggita le poche ragazze che si ricordano di me. Scendo le poche scale che separano i due piani dell'edificio cercando di non farmi intralciare e, infine, metto piede nel cortile quasi deserto, concedendomi un nuovo, profondissimo respiro. 

Fuori.Libera.L'aria malsana di Londra scende lungo le narici, riempie i polmoni e nonostante io stia provando a trarne sollievo, a placare qualsiasi emozione negativa che mi si agita dentro, non posso negare di sentirmi a disagio - ma inaspettatamente, un suono giunge alle orecchie, facendomi sobbalzare e sputare fuori l'ossigeno inalato.

«Prega che sia andata bene, perché se mamma ti caccia io a Parigi non ti ospito».
La sigaretta svolazza via. Abbandona le dita di Jace per rimbalzare sul cemento e spegnersi da sola, abbandonata al suo destino - prima che lo faccia però, io mi getto al collo di mio fratello, stringendomi a lui come se lo vedessi oggi per la prima volta.

E' qui
Mi ha perdonata.

«Tanto l'appartamento è di nonna» mugolo con il tono di una bambina in procinto di piangere, persa in balìa della gioia - ed ora, di come siano andati gli esami, davvero non mi importa più nulla.


 

Ania:

Okay, nonostante sia una parte scritta completamente da zero, come parzialmente anche quella precedente, devo ammettere che non ne sono convinta.
Mi pare un po' forzata, ma forse è per via del fatto che sono stanca (scrivere e aggiornare di notte non è certo la cosa migliore, ma vabbé, ognuno ha i suoi mali) - ora vediamo come verrà il seguito. Mi aspetta l'aggiunta di qualche altra parte ai capitoli mancanti, un paio di modifichine e poi... chissà! Quindi, cari lettori, fatemi gli auguri >.<

 

 

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Capitolo 50
*** Chapter 33: Can you hear the ice cracking? (part one) ***




Chapter Thirty-three
§ Can you hear the ice cracking? §
(part one)

 

"I don't even know myself at all
I thought I would be happy but now
The more I try to push it I realize gonna let go of control
Gonna let it happen, gonna let it happen,
Gonna let it happen, just let it happen
It's just a spark but it's enough to keep me going
And when it's dark out and no one's around it keeps glowing
Every night I try my best to dream tomorrow makes it better
And wake up to the cold reality and not a thing is changed
But it would be happen, gonna let it happen
Gonna let it happen, gonna let it happen"

 

- Last Hope, Paramore


 

Esattamente nove mesi fa, pensando a questo giorno, ciò che immaginavo era ben diverso da come è. Nelle mie fantasie c'erano Jace e Seth, certo, ma anche Charlie - e saremmo stati tutti e quattro insieme, seduti a un medesimo tavolo a bere birra, strillare, programmare il viaggio, quello che chiunque si meriterebbe alla dignitosa conclusione di cinque anni di tortura. Avremmo riso, scherzato, ci saremmo imbucati a qualche concerto sconosciuto e avremmo aspettato l'alba in un angolo verde di Londra, sdraiati su panchine, erba umida di rugiada o una coperta di fortuna. Mi sarei accoccolata a mio fratello come un gatto ruffiano, stringendomi a lui senza dovermi preoccupare di quale reazione Morgenstern avrebbe potuto avere; peccato che nulla di tutto questo sia possibile oggi.
Mentre sul portico di casa osservo il punteggio ottenuto, ben superiore a quello che mi sarei aspettata, una stretta allo stomaco mi coglie di sorpresa. Al pensiero di dover festeggiare la libertà faticosamente guadagnata mi sento sopperire. Le lacrime bruciano gli occhi, minacciano la gioia che sarebbe corretto provare e che mi ha invasa all'inizio, quando ho aperto la busta della Saint Jeremy e vi ho letto di sfuggita un "Congratulazioni, Signorina Jane Jaqueline Raven, lei è stata promossa con il punteggio di..." - bene, ora però c'è solo ansia.

Stringo la lettera e mi chiedo che fare, perché non voglio rinunciare a nessuno stasera, anche se amaramente, terribilmente contro il mio potere, non posso avere Charlie al mio fianco.

Mi bagno le labbra, poi le mordo. Infilo gli incisivi nella carne e mi arrovello su come comportarmi ora, come gestire questa situazione di astio tra il mio ragazzo e quello che dovrebbe essere il suo migliore amico, o più precisamente mio fratello. Sono quasi certa che nel momento in cui proporrò ai due un incontro, entrambi inizieranno a grugnire, lamentarsi, ringhiare e darsi contro. Si rinfacceranno le cose peggiori - tra cui l'incapacità di Seth di tenerselo nei pantaloni e quella di Jace di restare fuori dalle questioni che non lo riguardano direttamente. E poi, ovviamente, il mio coinvolgimento in tutto questo, il modo in cui subdolamente Morgenstern si sia approfittato di me, della cotta che ho per lui, dell'ingenuità che mi caratterizza e degli ormoni che a diciotto anni scoppiettano nelle aree lombari del corpo. Finirebbe male, anzi, alla fine non ci arriveremmo nemmeno - con grande probabilità il disastro prenderebbe forma direttamente all'inizio.

«Allora?»
Come richiamato dalle ansie che mi si stanno ammassando nella testa, Jace si palesa dietro di me, arrivando ad appoggiare il proprio petto sulla mia schiena e posandomi il mento tra i capelli, in modo da sbirciare ciò che tengo tra le mani.
Le sue braccia mi cingono, provano a darmi affetto - peccato che il cuore mi si sia bloccato in gola e non riesca a dire nulla, nemmeno mezza sillaba.

Sento il suo corpo allungarsi, il pomo d'adamo sfiorarmi la nuca per qualche secondo in un chiaro tentativo di vedere meglio, poi tutto finisce. Mio fratello si stacca, mi afferra per le spalle costringendomi a girarmi e scoprire così l'enorme sorriso che gli riempie il viso: una mezzaluna d'avorio che riesce a riempirgli di stelle e luci persino lo sguardo.
«E' fatta!» Grida: «Porca miseria, Jay! Ci sei riuscita!» E a sentirlo, il mio stato di ansia si attenua un poco per lasciar spazio alla sorpresa: anche lui dubitava della mia promozione? Davvero?

Forse tentando di soffocarmi, Jace mi stringe in un abbraccio, continuando però a esultare per l'inaspettato successo della sua sorellina - e tra un commento gioioso e l'altro finisce con l'attirare l'attenzione di mamma, al telefono con il marito, e Liz.

Catherine attraversa la soglia di casa con gli occhi grandi di stupore, la bocca socchiusa - pare star assistendo a un miracolo -, mentre mia sorella balza su di me inneggiando una sorta di coro da stadio; forse i suoi tentativi di imparare l'argomento per poterne conversare con papà e Jace le sono un po' sfuggiti di mano...

Tutta la famiglia inizia a saltellare, ridere, ringraziare fato e divinità di ogni tipo per avermi benedetta durante questa mia ultima sfida scolastica e, per un po', riescono persino a farmi scordare i problemi che mi hanno assillata fino a poco fa - una pace che, sfortunatamente però, solo qualche ora dopo sono io stessa a infrangere.

Seduti al tavolo della cucina, con Liz occupata ad ascoltare qualche podcast sconosciuto e mamma presa a riordinare il salotto, Jace ed io cerchiamo di concludere una partita a scacchi iniziata solo per alleggerire la mia tensione. I nostri sguardi si incrociano esclusivamente quando uno termina il turno e l'altro lo inizia, ma per il resto ci stringiamo in un rigoroso silenzio, inframmezzato di tanto in tanto da qualche commento di nostra sorella o imprecazione di Catherine.
I festeggiamenti hanno velocemente lasciato il posto alla solita routine e, con il ritorno alla normalità, anche la mia agitazione ha deciso di fare ancora una volta la sua comparsa, facendomi muovere l'Alfiere nel modo sbagliato.

«Ahia! Mossa suicida» gongola mio fratello afferrando il Cavallo e saltellando per i tre quadrati che lo separano dalla mia pedina. La butta giù: «Di questo passo ti batterò in quattro turni».

Non lo nego, dopotutto la mia mente è ovunque fuorché sulla scacchiera.

«Ed escludendo l'umiliarmi, che altri programmi hai?» Mi mordo la lingua, poi afferro la testa di un pedone per poter distogliere lo sguardo dal viso divertito di lui.
«Beh, questa è un'attività assai coinvolgente, non so se ho tempo per fare altro... perché?»
Lo stomaco mi si torce, lo sento far le capriole nella pancia. Per un attimo avverto il retrogusto acido del vomito pizzicarmi la lingua, ma non riesco a capire se sia un'allucinazione o la realtà.

«Perché io... beh, insomma... vorrei festeggiare la promozione, stasera».

Silenzio.
Deglutisco un po' a fatica, continuando però a fingermi concentrata sulla strategia di gioco.

«Uhm...»
Involontariamente la mano viene scossa da un tremore leggero, una scossa che per poco non mi fa perdere la presa. E spero che lui non l'abbia notato.
«Qualcosa di semplice, niente di che...»
«Ma immagino non saremmo soli» appunta monotono, facendo accelerare il battito del mio cuore - a differenza sua, io mi faccio soggiogare dall'agitazione.
Ancora una volta mi ritrovo a mordermi la lingua, a punirla prima ancora che possa dire quel che più di tutto mi preoccupa: «No, infatti» muovo il pedone, avvicinandolo pericolosamente alla Regina: «ci saranno Caroline e Misha, le mie amiche di cui ti ho parlato e -» 
Mi precede.
«Seth».

Già.

Imbarazzata alzo lo sguardo, incrociando il suo.
Nuovamente il silenzio cala fra di noi - solo, fra di noi, visto che Elizabeth si fa sfuggire un entusiastico "Finalmente una buona notizia!" che peggiora il mio attuale stato d'ansia.

Per qualche istante Jace ed io ci fissiamo senza dire nulla, entrambi seri mentre le mie interiora si mettono a giocare a Twist a livelli agonistici, poi mi decido a parlare, anche se a fatica. Ed è un po' come quando ci si deve togliere la striscia depilatoria: sappiamo che farà male, che sarà impossibile non auto-insultarci per aver scelto di compiere un atto tanto masochista, eppure siamo disposte a sacrificarci per il vellutato risultato.
Quindi ecco che mi assumo la responsabilità delle mie decisioni.

«Sì, anche lui».

Mio fratello tace, mi scruta. I suoi occhi indagano i miei, scorgono la tensione nell'espressione, capiscono la difficoltà di cui sono succube. Lo vedo soppesare la contrazione della mia mascella, il tremore delle labbra. Nelle sue pupille scorgo una nuvola cupa, un pensiero che non comprendo - e portandomi le mani tra le cosce inizio a torturarmi le dita.

Cosa c'è nella sua testa? 
Vorrei saperlo.
Cosa starà pensando?
Mi auguro non un modo per attaccare briga con Morgenstern.

L'agitazione si fa nauseante, la sfogo con sempre maggior intensità sulle labbra e le mani, eppure non mi basta, non riesco a calmarmi - così apro bocca.

«I-io so che tra di voi... beh, so che la questione di Charlie... sì, ecco... non è ancora risolta».

Jace sembra sussultare, mi pare faccia un balzo lieve sulla sedia, ma non riesco a dirlo con certezza e la sua smorfia non conferma né smentisce la mia supposizione. Lo vedo raddrizzarsi, scrutarmi con ancor più attenzione - quasi stesse cercando qualcosa - poi però si riscuote. Si passa una mano tra i capelli, li tira indietro negandomi in parte la visuale sul suo viso; infine sbuffa.

«Le cose tra noi non sono tornate alla normalità».
Annuisco mestamente: «Ne sono consapevole».
«Però ci vuoi insieme, seduti allo stesso tavolo, a fingere che tutto vada bene» finalmente sposta il braccio, ma ancora non mi guarda: i suoi occhi sono fissi sulla scacchiera.
«Mi piacerebbe, sì» sento un'unghia infilarsi nella carne sopra alla falange del medio: «dopotutto siete due delle persone più importanti che ho».

Intreccia le braccia al petto: «Avresti chiesto anche a Charlie di venire?»
Il battito del mio cuore aumenta ancora, è così veloce che si va a incastrare in gola. La sua domanda mi pare così sciocca, eppure, nel soffermarmi qualche istante prima di rispondergli, mi rendo conto non esserlo. Avrei supplicato anche lui di presenziare? Sarei stata così egoista da ignorare i suoi sentimenti e costringerlo a sedersi accanto o di fronte al ragazzo che gli ha fatto un torto? Mi sarei permessa di chiedergli d'ignorare per qualche ora il fatto che Seth si sia portato a letto la ragazza che gli piaceva?

A quanto pare sì. Non gli avrei permesso di sgattaiolare via come la sera del mio compleanno, l'avrei pregato - aiutando Morgenstern a spingere sull'elsa del pugnale che gli ha conficcato nel fianco.

«Non è meno importante di te o Seth» affermo poi, conscia di quanto sia fastidiosa questa mia dichiarazione. 
Perché negare l'ovvietà? Perché dovrei fingere di non essere l'egoista che mi sono rivelata in questo ultimo anno?

La pelle del dito inizia a bruciare, forse mi sono tagliata.

Jace si bagna il labbro inferiore, lo afferra con gli incisivi e lo trattiene appena, come capita fare anche a me. Soppesa le mie parole e i suoi pensieri, li poggia sui due piatti della bilancia e ne confronta il divario. Chissà quale pesa di più. Chissà quanto valore gli darà.

Cerca nella propria mente la controproposta, la formula migliore con cui rivolgersi all'interlocutore - peccato che alla fine ci rinunci, alzandosi con un colpo di reni: «Non so» dice.
Non sa, ripeto io mestamente tra una lacrima cacciata giù per la gola e un'imprecazione bloccata dietro i denti.

Vuol dire no, giusto? I miei occhi lo cercano, si impigliano tra le pieghe della sua espressione, eppure non vi trovano nulla - invece lui, se dovesse guardarmi in viso, vedrebbe qualsiasi cosa: delusione, amarezza, rabbia.


 

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Capitolo 51
*** Chapter 33: Can you hear the ice cracking? (part two) ***





Chapter Thirty-Three
§ Can you hear the ice craking? §
part two

 

"If I was dying on my knees
You would be the one to rescue me
And if you were drowned at sea
I'd give you my lungs so you could breathe
"

- Brother, Kodaline

 

Infilo il piede lungo la pianta del sandalo, intreccio il cinturino intorno alla caviglia e poi, con un sospiro, lo allaccio. Appena la fibbia si chiude mi concedo qualche minuto di totale stasi, resto immobile osservando le unghie smaltate e il pavimento al di là della scarpa - perché l'umore, da quando mi sono confrontata con Jace, non ne ha voluto sapere di tornare allegro. Mi perdo tra i miei pensieri in continuazione, domandandomi se avessi potuto gestire differentemente la conversazione.

Peccato che non sia brava con le parole, troppo spesso mi restano incastrate in gola e attendono con ansia che la mente le scelga - ma lei va troppo lenta, o forse troppo veloce, per riuscire a notare la loro presenza. 
Ed è così che combino disastri. Uno dietro l'altro come i passi di un ballo scoordinato e senza fine.

Sbuffo.

Ho un istinto naturale per rovinare tutto.

Poco convinta mi alzo dal bordo del letto, traballando qualche istante su questi tacchi troppo alti e poco familiari, presi per una qualche occasione che mi resta ancora sconosciuta: forse un compleanno, oppure una qualche cena galante in cui mamma ci ha obbligati a seguire un dress code
Insicura avanzo sui miei trampoli, fermandomi poi di fronte a uno specchio che riflette tutta la mia silhouette ed evidenzia il disappunto che mi maschera il viso. Sto bene fuori, un po' meno dentro.
I jeans sdrammatizzano l'eleganza del sandalo, mentre la semplicità della maglia monocromatica delinea il busto, facendomi apparire un po' più grande di quello che sono in realtà e dando l'illusione che sia davvero sicura di me e di ciò che sto facendo - eppure non lo sono affatto. Mi pongo troppi quesiti, quando in realtà dovrei semplicemente svuotare la mente e preparare lo stomaco a ingerire pinte di birra o drink dai profumi tropicali.

Mordo il labbro mentre faccio qualche mezza giravolta, in modo da controllare meglio che sia tutto a posto e, quando infine decreto di essere pronta, allungo un braccio in direzione della scrivania, lì dove una vecchia giacca in denim, un tempo appartenuta a mio padre e poi di Jace, mi aspetta per uscire.
Sopra vi sono toppe, spille e sfilacciature che vogliono parlare di un passato un po' allo sbando, sempre in giro a vivere avventure, eppure, ciò che più amo di questo capo è altro. Quando m'infilo nelle maniche e sistemo il colletto logoro, nella stoffa in eccesso mi pare di venir avvolta in un abbraccio caldo e rassicurante - e come adesso, mi sembra di sentire il profumo del mio fratellone.

Mi concedo ancora qualche minuto di contemplazione, certa di non aver fatto del mio meglio per apparire carina ma conscia di non essere dell'umore per fare di più, poi sposto lo sguardo verso la sveglia e solo a questo punto mi rendo conto di dover uscire. Caro e Misha saranno qui a momenti e il timer del tassista non ammette ritardi, così come i nostri portafogli.

Un piede davanti all'altro quindi, scendo le scale e mi avvicino all'ingresso, ma quando sto per togliere la borsa dall'attaccapanni una voce mi interrompe, facendomi sussultare.

«Sbaglio o quella è mia?»

Jace si fissa dal pianerottolo. Con le mani si regge al parapetto, il busto proteso in avanti quasi si stesse preparando a saltar giù. Ha un cipiglio strano, indefinibile per la mia mente spossata, eppure non riesco a smettere di scrutarlo di rimando, quasi sfidando il predatore che da lontano mi ha puntato. Siamo due animali che si studiano, preparandosi all'attacco - peccato che io non abbia alcuna intenzione di farmi ulteriore male.

«Era» soffio infine, stanca alla sola idea di dover discutere nuovamente con lui e spostando gli occhi altrove, lontano dal suo viso. 
Rinuncio alla sfida prima ancora di iniziarla.
Non voglio rovinare maggiormente una serata già vacillante, un umore che oscilla tra l'insoddisfazione, la frustrazione e momenti di momentanea gioia in cui mi ricordo di essermi finalmente liberata di un fardello come la Saint Jeremy. Non ne ho bisogno, la mia vita è abbastanza incasinata anche senza questi extra.

Appoggio la catenella di ferro alla spalla, con le dita afferro la borsa. Giro i piedi verso la porta, intenzionata a uscire seppur frenata da qualcosa, una sensazione che non mi piace e vorrei togliermi di dosso.

«Uhm...»

Lancio un'occhiata veloce al di sopra della spalla, tornando a Jace. 
Sembra stia riflettendo.

Vedo le sue braccia flettersi lievemente, a mo' di molla, e la sua bocca torcersi in una strana smorfia. Ora non mi fissa più, sta piuttosto guardando le proprie mani.
Starà pensando a quanto sia deludente. A come, in questo anno di lontananza, intervallato da messaggi, video-chiamate e visite sempre troppo brevi, la sua amata sorellina sia cambiata, sfuggendo al suo controllo e al buon senso.

A labbra strette mi sfugge un sospiro, o un soffio dal naso, non saprei ben dire, e alla fine mi convinco che sia giunto il momento di andare - dopotutto ho già rovinato la situazione a sufficienza, non mi serve esitare. Così torno a fissare la porta, ma prima che le mie dita possano stringersi intorno al pomello il suono dei suoi passi riempie l'ingresso. Il fruscio di una giacca che viene afferrata e indossata mi accarezza le orecchie, scatenando un brivido che non riesco a spiegarmi, e subito dopo sento il corpo di mio fratello sfiorarmi la spalla. Il suo torace si appoggia per pochi istanti a me, mi scalda, poi la sua mano precede la mia: «Non ricordo di avertelo regalato, ma anche se fosse non mi piace l'idea che tu lo possa rovinare. Quindi mi spiace, ma mi toccherà supervisionare».

Sussulto.

Ho capito bene?

Con occhi grandi di stupore mi volto verso di lui. Fatica a sorridere, le sue labbra sono piegate in una curva tanto lieve che potrebbe quasi apparire come un'allucinazione - però nei suoi occhi posso scorgere sia lo sforzo nell'accettare il mio invito, sia l'affetto che gli impedisce di restare a casa tutta la sera.

E taccio. Non una parola riesce a uscirmi di bocca. Non un suono, un grazie, un grugnito... nulla, solo riverenza. Una muta accettazione, una gioia afona che mi fa mollare la presa sulla borsa per andare a prendere la sua mano - calda, bollente, ma che non afferra con la medesima convinzione la mia.

Eppure va bene così. Il semplice fatto che abbia scelto di venire con me è sufficiente a colmare ogni crepa creatasi oggi tra noi.

***

 

Stretta al braccio di Jace, e con accanto Caroline e Misha, ho varcato l'entrata del The Elder and the Moon senza riuscire a nascondere il sorriso di gioia che mi ha teso le labbra nel momento in cui sia io sia mio fratello ci siamo seduti nell'abitacolo del taxi. Solo poggiando il deretano sul sedile morbido della vettura ho realizzato la situazione nel suo insieme e, soprattutto, la svolta che la serata ha inaspettatamente preso. Come nei miei sogni più rosei sono circondata dalle persone a me più care, tutte riunite per festeggiare un avvenimento al limite del miracolo - ciò che manca, per rendere il tutto perfetto, è solo la presenza di Charlie.

Non nego di avergli scritto - e ancor meno fingo di non aver fissato il display della nostra chat per interminabili minuti, magari anche ore, nella speranza di una chiamata -, ma la sua risposta è arrivata sotto forma di messaggio apparendomi terribilmente incompleta, come se mancasse qualcosa. Forse si tratta della gioia che tanto lo contraddistingue, la spumeggiante nota che prende la sua voce quando è felice; oppure qualche frase, parola, emoji... non so. Ciò che è certo è che, in primis, manca lui.

Eppure, nonostante il vuoto che sento pizzicarmi la pancia, mi è impossibile essere triste: almeno Jace è qui, così come Seth che, vedendoci entrare, si stacca dal bancone per venirci incontro. 
Il suo sorriso color latte mi accoglie e richiama a sé al pari delle sirene con Ulisse, peccato che a ogni passo verso di noi si attenui un po' di più, finché arrivato al mio cospetto - o meglio quello di mio fratello - ciò che resta sul suo viso è una smorfia non troppo convinta. La tensione tra di loro è palpabile, seppur mi sia augurata fino all'ultimo di non trovarmi in una situazione tanto fastidiosa. Avverto i muscoli di mio fratello tendersi, così come vedo la mascella del ragazzo davanti a noi contrarsi, quasi uno sia pronto a colpire e l'altro a ringhiare. Eccoli qui, due esemplari che ferocemente si studiano, marcano il territorio e gonfiano i petti - peccato che non sia la serata giusta per certe sceneggiate.

Così si fissano per lunghissimi, interminabili secondi, poi d'un tratto, forse comprendendo il mio disagio e volendo scongiurare il peggio, Caroline si mette in mezzo e con una pacca sulle braccia di entrambi urla: «Tutto questo testosterone inizia a nausearmi, quindi, che ne pensate di prenderci una buona birra e raggiungerci al tavolo?» Fa dapprima cadere lo sguardo su Morgenstern, che tutto sommato conosce meglio, poi cerca l'attenzione del maggiore dei Raven che, a dire il vero, annuisce senza ricambiare l'occhiata.
Il braccio di Jace scivola via dalla mia presa, i suoi piedi si muovono senza essere inseguiti dai miei. Con la spalla passa a filo di quella di Seth, dandomi l'idea che per un momento, uno soltanto, abbia pensato di andarci a sbattere contro e aizzare la sua furia, come gasolio sui tizzoni ancora ardenti e che non vedono l'ora di riprendere a bruciare tra le fiamme - qualcosa però, proprio all'ultimo, deve averlo fatto rinsavire e l'impatto si è trasformato in una mera scintilla.

Scorgo gli occhi del mio ragazzo rincorrere quel gesto, aspettarlo, forse bramarlo. Riesco a vedere i suoi denti stringersi con forza per prepararsi all'attacco, ma alla fine nulla accade. O quantomeno per ora.

Misha mi poggia le mani sulle spalle, la sua testa spunta accanto alla mia come quella di un rapace e, sforzandosi - perché la conosco abbastanza bene da riconoscere toni, espressioni e atteggiamenti -, la sento aggiungere: «Mi raccomando, bionde. Ho un debole per loro» e involontariamente un brivido mi corre lungo la schiena.

Lo ha fatto apposta. E' stata una frecciatina generale per sottolineare la tensione, per metterla di fronte agli occhi di tutti e sguazzare nelle conseguenze delle sue parole su di me - perché a lei piace giocare con il fuoco quando io corro verso il pozzo.

Seth le lancia un'occhiata di tralice, il suo sguardo saetta dietro di me e, se fossi al posto della signorina McCoy, probabilmente raggelerei.

Non so perché, ma temo fortemente che questa serata possa andare come previsto mesi fa o semplicemente come sui sedili del taxi mentre raggiungevamo questo angolo di mondo. Avverto sullo stomaco un peso fastidioso, una consapevolezza che si sta trasformando in boccone amaro - forse avrei dovuto disdire tutto; forse avrei dovuto accettare il fatto che non sarò io il collante che rimetterà insieme i cocci del loro rapporto.

Charlie, certamente, avrebbe saputo aiutarmi.
Lui sarebbe stato in grado di mettere fine a questa faida, avrebbe trovato un accordo, un sorriso capace di rasserenare gli animi e una battuta in grado di riportare il buon umore. Ma non c'è. E' sparito e io mi sento persa come il giorno in cui Jace è partito per Parigi, forse peggio - perché la sua mancanza non ha ancora smesso di logorarmi e, si sa, la ruggine pian piano è in grado di ossidare altre cose; ad esempio il mio rapporto con Morgenstern.

Con uno strattone Caroline mi riporta al presente. I suoi enormi occhi scuri da cerbiatta si posizionano davanti ai miei e, con una smorfia buffa, prova a infondermi serenità. Vorrei affermare che ne sia in grado, che basti questo per distrarmi da tutti i pensieri e le preoccupazioni, peccato che non ci riesca - o quantomeno non del tutto.
Tiro un sorriso, in modo da confortarla, e subito lei mi prende una mano, intreccia le dita con le mie e mi trascina con sé verso il primo tavolo libero che riesce a trovare.
Misha ci segue come un'ombra, resta un po' distante, ma non abbastanza da poterci perdere nella confusione di clienti. Cerco di guardarla, di capire il motivo del suo distacco, eppure non ci riesco. Che stia tramando qualcosa? Che abbia deciso di mettere fine alla nostra tregua? Che la rabbia per il mio rifiuto sia tornato a galla vedendo Seth e ora abbia deciso di vendicarsi? Non capisco, ma sembro l'unica ad accorgersi del suo comportamento.

Caro mi fa sedere accanto a lei, mi invita battendo più volte la manina sull'imbottitura della panca - da un lato c'è la finestra sabbiata, dall'altro ci sono io, con il vuoto lasciato da un'altra persona - e la sua bella si sposta sul lato opposto per poterci guardare meglio.

«Vedo che le cose non si sono ancora appianate tra quei due...»
Mi mordo l'interno guancia: «Già. Eppure non ne capisco il motivo».
Lei allunga un braccio, prende ad accarezzare il dorso della mano di Caroline come si farebbe con un gatto: «Beh, i motivi possono essere tanti, magari si è immedesimato nei panni di... quell'altro tuo amico, il ragazzo con lo skate... come si chiama?»

«Charlie.»
«Sì, lui.» La vedo spostarsi il ciuffo, deglutire: «Dicevo... magari l'ha vissuta così male per quel motivo. Oppure perché conoscendo Seth non vuole che ti tratti come una delle sue tante conquiste» il suo tono, sul finire della frase, cambia appena - una nota quasi impercettibile che mi mette ancor più in agitazione.

«Tesoro, lasciala stare» stavolta è la mia migliore amica a parlare, il suo caschetto si piega da un lato, sottolineando il disappunto: «siamo qui per festeggiare la nostra liberazione dal liceo, non voglio che Jay si rovini la serata per due polli che non riescono a condividere l'aia».

Che?

Mi volto verso di lei, confusa quanto la sua fidanzata.

«Che c'è?! Ho solo descritto la situazione in modo... alternativo. Non mi sembra di aver detto cavolate!» Afferma, in parte esasperata e in parte divertita, così apro bocca nel vano tentativo di risponderle, ma una risata stanca mi si riversa fuori dalle labbra e prima che possa ritrovare il respiro necessario per parlare, il suono di un boccale che si poggia sul legno mi distrae.

Quasi sussulto nel notare che Seth e Jace sono nuovamente con noi, uno al fianco dell'altro e con le mani che rilucono scoordinatamente a causa della birra straripata dai margini. Le loro espressioni provano a camuffare la tensione ancora visibile negli sguardi, eppure io non riesco a trovare pace nonostante sappia che lo stanno facendo proprio per me, per rendere questa uscita speciale come dovrebbe essere. Più li osservo però, meno mi convinco che le speranze nutrite nelle ultime ore possano trovare modo di realizzarsi - ma taccio, rimettendomi a pregare di essere in torto.

«Signorine, ecco a voi ciò che avete chiesto» annuncia mio fratello allungando un boccale verso Misha. Questa prima di afferrarlo lo fissa qualche istante, arriccia le labbra e poi, facendo un calcolo veloce, afferma: «Ne manca una.»

E, in effetti, non ha torto.

«Jay ed io facciamo a metà» Seth sorride con più naturalezza, lasciandosi cadere nello spazio accanto a me e ignorando completamente il fatto che Jace possa non apprezzare questo suo gesto. Ma si sa, non è tipo da tenere eccessivamente in considerazione gli altri.
Con il braccio mi cinge la schiena e, tirandomi un poco a sé, mi deposita un bacio sulla fronte, spiazzandomi. Non so se a sorprendermi sia l'inaspettata dolcezza a cui si concede o l'innegabile sprezzo del pericolo a cui si sta esponendo, però non posso negare di sentire il cuore accelerare il ritmo.

«Mi duole ricordartelo, amico, ma Jane non si è mai tirata indietro di fronte a una pinta» Jace alza il suo boccale, fa una sorta di brindisi con l'orgoglio che prova per la sua sorellina che potrebbe essere tranquillamente scambiata per un'alcolizzata alle volte, ma c'è anche dell'altro, forse l'ennesima sfida.

E che vi sia o meno, Morgenstern la coglie.

«Di questo ne sono consapevole, ma metterla a letto dopo che se l'è scolata non è impresa semplice.»

Seppur senza vederlo, riesco a sentire i denti di mio fratello mordere la carne della lingua - affondano con forza e provano a trattenere un commento volgare. Ma fatica, lo so.

«Metterla o portarla? Perché c'è una differenza, sai? Un po' come tra essere attratti e amare

Che vorrebbe dire?

Le dita di Seth si premono involontariamente sul mio fianco, mi tirano a lui con maggior impeto, rivendicandomi al pari di un cavaliere di fronte al drago che minaccia la sua donzella. Ma perché? Cosa teme?
Con lo sguardo cerco il suo viso, provo a predire la prossima mossa attraverso le sue reazioni, ma ciò che trovo è ancor meno piacevole di ciò che sto udendo; ha gli occhi ridotti a due fessure, le labbra strette in una linea dura e la mascella contratta, tutti sintomi della rabbia che sta trattenendo - peccato che non sia bravo quanto Jace a gestire simili situazioni, anche se al momento nemmeno lui si sta dimostrando tanto maturo.

«Non metterti in mezzo, Raven, te l'ho già detto.»
«Oppure? E' di mia sorella che stiamo parlando» bofonchia uno, sporgendosi in avanti con il busto, avvicinando il viso e offrendo chiaramente una guancia, in modo da tentare le nocche di Morgenstern - nocche che so desiderare carne.
«E lei ora è qui, JJ, volontariamente. Ma soprattutto è qui con me» risponde l'altro, visibilmente combattuto tra il colpire e il trattenersi dal farlo.

Il disagio che provo si fa sempre più intenso; avverto lo stomaco stringersi, il cuore accelerare e le gambe ambire la porta d'uscita del locale, ma era la mia serata, anzi, la nostra, e l'idea di abbandonarla mi fa sentire una persona terribile.

Eppure, al commento successivo, non riesco a frenarmi.

«Solo perché non hai il minimo rispetto per gli alt-»
«Smettetela!» Quella che ringhia come un animale furioso, adesso, sono io. Io che fino all'ultimo ho sperato avessero un minimo di autocontrollo e buonsenso. Io che nel disappunto ho cercato di cogliere la gioia. Io che ho creduto di poter accomunare due migliori amici, armati fino ai denti, posizionati sui fronti opposti di un medesimo campo da guerra. Io che vorrei piangere per la troppa frustrazione, per la sensazione soffocante che provo, per tutto ciò che sfugge al mio controllo e rintanarmi in un posto sicuro - quel, posto sicuro.

Devo allontanarmi.

Mi divincolo dalla presa di Seth, sopraffatta da una foga che non mi sarei mai aspettata in un simile momento. «Fammi passare» gli ordino poi, avvertendo gli occhi di tutti appiccicarmisi addosso. Ci sono quelli di Misha, colmi di compassione, quelli di Caroline, preoccupati. C'è Jace con il suo sguardo confuso e persino Morgenstern con la sua totale confusione - eppure nessuno di loro mi fa trovare un appiglio, una ragione per restare nonostante dovesse essere una serata gioiosa, una celebrazione amichevole.
Il ragazzo accanto a me cerca di fare resistenza, di placarmi, ma non c'è modo. Devo andare via. Devo scrollarmi dalle spalle questa sensazione disorientante, questo desiderio di piangere e urlare e chiedere una tregua a tutti - solo pace.

«Jay, per favore...»
«Ho detto "fammi passare", Seth. La capisci la mia lingua?»

Non si muove, quindi lo scavalco mettendomi pericolosamente in piedi sull'imbottitura della panca, dove il tacco prova a farmi perdere più volte l'equilibrio.
Ora nessuno osa fermarmi, forse minacciati da una possibile e rovinosa caduta - ed io colgo l'occasione. 
A guardarmi, adesso, c'è altra gente.

«Jay, ti prego, aspetta» sento le dita di lui cercare il mio polso, sfiorarlo senza riuscire a prenderlo.

Mi volto un'ultima volta verso il tavolo.
«No!» Sibilo: «Non ho idea di quali siano i vostri problemi, ma avrei gradito, almeno per stasera, che aveste avuto un minimo di decenza. Sono venuta qui per festeggiare con le mie amiche la nostra promozione, invece il mio ragazzo e mio fratello non sanno fare le persone civili! Possibile? Da amici del cuore siete passati a comportarvi come cani rabbiosi e a me questa situazione non sta bene!» Mi mordo le labbra, avvertendo la gola secca, bruciante: «Anche io sono arrabbiata con Seth per ciò che ha fatto a Charlie, Jace, credimi. Ho il pensiero di quello che è successo bloccato nel petto, ma è affare loro, non capisco per quale ragione tu ti debba mettere in mezzo a tal punto da ferire anche me! Noi siamo estranei, non dovremmo prendere alcuna posizione perché vogliamo bene a entrambi, eppure non è così, non ci riesci, e mi fai sentire una persona terribile!»

Mio fratello abbassa lo sguardo, lo porta sul bordo del boccale - e capisco con chiarezza che si sta trattenendo dal dire qualcosa, esattamente come Morgenstern.

«Io me ne vado. Grazie per la serata.»

Pochi passi decisi. Qualche spallata a degli sconosciuti che forse mi insultano di rimando, poi sono fuori. Sola. Triste. Senza un rifugio a cui far ritorno.

Merda!



 

Ania:

Don't hate me cause it's long, love me cause it's done <3

Ciò dicendo, eccoci qui a quello che era il terzultimo capitolo, ma che non so se lo resterà ancora. Quindi, fatemi sapere cosa ne pensate e cosa vi aspettate prossimamente!

Ciao, ciao :D


 

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Capitolo 52
*** Chapter 34: I'm begging you ***




Chapter Thirty Four
§ I'm begging you §

 

I don't need drugs
I'm already six feet low
Wasted on you
Waiting for a miracle
I can't move on
Feels like we're frozen in time
I'm wasted on you
Just pass me the bitter truth

- Evanescence, Wasted on you

 

Londra è fredda stasera, lo è più delle altre volte. Mentre cammino svelta su dei sandali che mi pento di aver indossato, stringo le braccia al petto e cerco di ripararmi dalla brezza gelida che cerca di pizzicarmi la pelle.

Ma il problema a dire il vero non è il meteo, sono io.
Ribollo di rabbia e frustrazione, di un'esasperazione che mi porta sempre più lontana da casa e dal The Elder and the Moon. Ho bisogno di una pace che manca da tempo, forse dal giorno in cui mio fratello ha dichiarato il proprio trasferimento - credo sia stato in quel momento che il mondo idilliaco in cui vivevo ha preso a creparsi. Con l'andare del tempo poi, le fratture si sono fatte sempre più numerose, ragnatele da cui i cocci hanno iniziato a staccarsi, portando Seth a fottere la sconosciuta sbagliata e Charlie a dover affrontare un doppio dolore.

E poi ci sono io. Nel mezzo di questa pioggia di detriti mi sono ritrovata priva di ombrello, finendo inzuppata esattamente quanto loro.

Ma ho bisogno di un riparo e un focolare dove ripararmi, perché non sono in grado di sopravvivere ad alcuna tempesta.

Nuovamente una buca prova a minacciare la caviglia sinistra e, barcollando, mi ritrovo a cercare sostegno su una macchina. Gli poggio sopra le dita per evitare la caduta, però lo faccio con talmente tanta violenza che, per qualche assurdo scherzo del destino, questa inizia a suonare e lampeggiare, terrorizzandomi.
Scatto di lato soffocando un urlo, ma lo spavento è tale che il cuore mi schizza in gola.

Merda!
Merda, merda, merda!

Accelero il passo, provo ad allontanarmi il più possibile, poi finalmente trovo un vicolo in cui rintanarmi - ma anche a questo punto non riesco a fermare le gambe. Il mio corpo mi vuole condurre sempre più lontana, vuole inseguire la speranza di un rifugio che so non esserci, eppure non posso che assecondarlo in questa stupida ricerca.
Passo dopo passo, ora aggrappata alla catena della borsa, avanzo quindi fino alla traversa successiva, scoprendomi in un luogo un po' più familiare e iniziando a orientarmi.

Due fermate di bus, mi ricorda la mente, peccato che non voglia assolutamente stare in mezzo alla gente. Non voglio dover salutare l'autista, timbrare il biglietto, sedermi in un angolo e poi scoprire qualche estraneo intento a osservarmi. Non voglio rivolgere a nessuno alcuna chiacchiera di circostanza o rispondere all'ennesimo turista disperso. Desidero solo affondare la faccia in un petto familiare, ascoltare il battito del cuore che scandisce il tempo e inebriarmi del profumo di pulito - e più ci penso, più il bruciore agli occhi si fa fastidioso.

Mi guardo i piedi. Li osservo bene. I tendini guizzano sotto la pelle, la punta delle dita è arrossata e, devo ammetterlo, credo che il cinturino sia sul punto di lacerarmi la carne. Non so se mi supporteranno per tutto il tragitto; a dire il vero, lo dubito fortemente. Così esito, muovendo un passo incerto verso la pensilina e poi tornando indietro. Mi giro verso l'altra direzione, osservo i fasci luminosi dei lampioni che a intermittenza spezzano le ombre. Torno a fissare per terra.

L'unica certezza che ho è quella di non poter star ferma, perché standolo potrei essere scoperta da qualcuno che preferirei evitare e, soprattutto, mi negherei per certo la possibilità di raggiungere un po' di tranquillità, lo spazio e il tempo che mi servono per calmarmi e decidere il da farsi.

Mi mordo il labbro, lanciando ancora qualche occhiata dubbiosa verso la fermata del bus e poi la direzione che dovrei seguire. Resto ferma in attesa di un'illuminazione, ma alla fine, un po' rassegnata, capisco che non ci sarà nessuno a venire in mio soccorso - non adesso, quantomeno; così mi armo di una sigaretta, una delle poche rimaste nel pacchetto sgangherato, l'accendo e prendendo un lungo respiro dal filtro, facendomi coraggio. 
Ora vado, mi dico, adesso mi incammino.

E i piedi in effetti riprendono a muoversi uno dopo l'altro, fin quando senza rendermene conto mi ritrovo già troppo lontana per tornare indietro. Nella brezza gelida avanzo al pari di un pesce controcorrente. Mi sforzo di avanzare, di combattere il moto che vorrebbe vedermi arresa, sconfitta di fronte al caos che è la mia vita - eppure non succede. Non ancora, per lo meno. E se devo essere del tutto sincera, mi auguro che non accada proprio stasera: perché ho bisogno di conforto, non dell'ennesimo scontro.
Così proseguo tra le prime, pungenti fitte di dolore, tra un tock del tacco sull'asfalto e quello successivo. Mi ripeto che non c'è altra soluzione, che sarà una passeggiata degna dello sforzo, che ne ho bisogno, ma quando infine arrivo a destinazione, con le vesciche ormai gonfie in più punti, le luci spente e il parcheggio vuoto mi tirano uno schiaffo ancor più violento e lo sento, mi avverto vacillare. Perché il corpo forse è forte, ma il cuore è sempre più sensibile, ferito, debole - e perisce sotto questa nuova ed evitabile delusione.

Lo sconforto mi attanaglia la gola, mentre il vuoto inizia a risalire dallo stomaco al petto e, più mi spingo verso alla soglia di una casa inanimata, più lo avverto spalancare le fauci come una bestia e prepararsi a inghiottire ciò che vi è custodito all'interno - preda inerme delle conseguenze delle mie azioni.
Quindi, quando le nocche incontrano per tre volte il legno della porta, ricevendo in cambio solo assordante silenzio, le lacrime prendono a rigarmi il viso. Calde, le sento scorrere sulla pelle gelida delle guance. Scivolano giù lentamente, accarezzando la carne nel vano tentativo di darmi conforto.

Non è qui.
Nessuno lo è.
Eppure sul calendario in cucina c'era segnata una stupida data, un giorno speciale - lo sapevi, cristiddio!

Lo sapevi...

Le ginocchia cedono e involontariamente mi ritrovo accucciata su me stessa, a un passo dal tracollo. 
I tacchi fanno da palafitte, restano ancorati sul vialetto mentre la costruzione di ossa, legamenti, organi, muscoli e carne prova a crollare.

Mi copro il viso con le mani. Pigio forte i palmi sugli occhi, ma di smettere di piangere, questi, proprio non ne voglio sapere. Un singulto dopo l'altro mi faccio sopraffare da un turbinio di nauseanti emozioni - perché non gli chiedevo altro che esserci, eppure lui non è ancora tornato; ed io ho bisogno della sua presenza. L'ho avuto sin dal principio, ma mi sono ostinata a credere di poter affrontare la favola con Seth senza un compagno di viaggio che sapesse aiutarmi nei momenti di buio.

E questo è uno.
Quindi perché cazzo non sei quiPerché hai scritto quella data se alla fine non l'hai resa speciale?

Rantolo il suo nome, come un'invocazione, ma nuovamente non ricevo risposta. Così stacco una mano dal volto, la porto alla tasca e ne tiro fuori il cellulare. Digito svelta ciò che ricordo, poi l'inoltro di chiamata si attiva.

Tuh
Uno.
Tuh
Due.
Tuh
Tre. 
Perchè non mi rispondi?
Tuh
Quattro.

Segreteria telefonica. Il cliente da lei desiderato non è al momento raggiungibile. La preghiamo di riprovare più tardi o attendere in linea per lasciare un messaggio. 
Passano giusto pochi istanti, ma a me paiono un'eternità. I singulti non diminuiscono e avverto in bocca il sapore salato delle lacrime.
Dopo il segnale acustico, registri il suo messaggio.

Beep!

«Charlie?» ho la voce rotta dal pianto, roca. Ogni lettera graffia le corde vocali ed esce di bocca al pari di un lamento: «Charlie, ho bisogno di te» singhiozzo. Mi sento una bambina che supplica, un fedele che chiede la misericordia.
Tirò su con il naso: «Sono una stupida, lo so. Sono una persona orribile, la peggiore che potessi incontrare, ma ti prego... Charlie, ti prego... torna.» Un nuovo rantolo spezza le mie parole, lacera la gola. Piango senza alcun ritegno, conscia di star compiendo qualcosa di sbagliato, di spregevole. Sto pregando Benton di venire da me, di sostenermi e cullarmi con la stessa arroganza con cui l'ho messo in disparte nel momento in cui le labbra di Seth hanno sfiorato le mie - perché era facile farsi ammaliare, sciogliersi al passare delle sue dita sulla pelle o tremare nel momento in cui i suoi sussurri accarezzavano i timpani. Offuscata dal mio personale piacere, dalla sfacciata fantasia di essere la metà di Morgenstern, ho scacciato il sole che era Charlie, ritrovandomi al buio - peccato che nelle ombre così peste io non sappia orientarmi.

«Char-»

Per riascoltare il messaggio, premere uno.
Per registrare un nuovo messaggio, premere due
Per eliminare, premere tre.

Con l'altra mano mi tappo la bocca, cerco di tenere per me la nuova ondata di lamenti.
Merda.

E non sento dolore, mentre piango - o almeno non in questo momento. Ciò che avverto è solo nostalgia, amarezza, frustrazione; e desiderio di lui, dei suoi abbracci.

Interrompo la telefonata. O qualsiasi cosa questo sfogo sia stato.
Resto accovacciata sulle mie stesse ginocchia, stringendo con sempre maggior rabbia le dita sulla faccia.
Vorrei alzarmi, afferrare il pomello della porta e scoprirla aperta, ora. Mi piacerebbe varcare la soglia nel silenzio dell'assenza, salire le scale, girare a sinistra e incontrare il volto sbiadito di Syd Vicious che annoiato mi saluta da un poster - come sempre. Bramo il cigolio dei cardini, l'odore di sapone di Marsiglia mischiato con quello della carta e la traccia lieve di tabacco nella stanza. Ambisco al suo letto, quello sempre sfatto, quello dove l'ultima volta l'ho trovato sdraiato e dove si è lasciato ammirare, per poi aprire gli occhi e tirarmi a sé, nel calore della spensieratezza e dell'affetto, quelli veri, puri.

Vorrei tornare a quel giorno.

Mi spingo in avanti sulle punte dei sandali, abbandonando per qualche istante la sicurezza dell'equilibrio. La testa cozza contro il legno, ma l'anta non si spalanca.

Non c'è nessuno ed io sono sola, è questa la verità. Potrei sbraitare e picchiare i pugni, ma nulla cambierebbe - forse dovrei quindi tornarmene a casa, guardare Jace in faccia e dirgli semplicemente... non lo so. A dire il vero non ho la più pallida idea di cosa dire, di che scelta fare; mi pare che tutto sia così sbagliato, fragile. Sto camminando sul ghiaccio e ogni passo che compio lo fa crepare e scricchiolare sotto di me. Sento il suono minaccioso della frattura, avverto il pericolo, mi preparo alla caduta - ma quando avverrà?

Già una volta sono scivolata, sbucciandomi le ginocchia. Il bruciore mi ha ferita, mi ha messa in guardia, mi ha detto "Jay, non giocare a fare l'equilibrista", ed io per lo spavento ancora non sono riuscita a rialzarmi, per questo sono qui, anche se il desiderio di toccare il cielo è forte, mi formicola dentro. E mentre io vagheggio su cosa sia meglio fare, per queste membra stanche, gli altri mi impongono di riprendere a camminare, di trovare la strada giusta su questa lastra di ghiaccio sottile. C'è chi mi vuole tirare da un lato e chi dall'altro, ma la paura mi attanaglia insieme alla curiosità, mi fanno muovere e poi ritrarre in un movimento perpetuo e pericoloso - sento che mi è rimasto poco tempo, che se non avanzo finirò di sotto, eppure cosa devo aspettarmi da questo nuovo capitombolo? Alla prossima caduta il dolore sarà uguale?

Me lo domando più volte, alzando infine gli occhi sulla facciata di casa Benton.

Basteresti tu, Charlie, a farmi sentire un po' più sicura. 
Ma ancora non ci sei... e chissà se tornerai mai.

I minuti intanto passano lenti, eppure vanno avanti senza mai fermarsi, ma ciò non cambia il fatto che nulla stia accadendo e nulla accadrà attendendo. Le luci stasera resteranno spente fino al ritorno di Molly e suo marito, forse fuori per una cena o qualche evento di cui non riesco a immaginare la natura. Si accenderanno per poco, poi nuovamente lasceranno posto al buio e con esso anche il sonno - ed io non posso farmi trovare qui, anche se vorrei. Sarebbe comunque meglio che tornare a casa mia, ma temo quali conseguenze questa scelta potrebbe avere.

Così mordo la lingua. Mi faccio coraggio.

Non posso restare qui in attesa di un miracolo, di un angelo o un Santo pronti a consolare le mie pene, a lenire i miei mali.

Mi aggrappo al pomello, poi piano mi tiro su.

Vado, lo giuro. Adesso mi giro e mi allontano.

Muovo il primo passo all'indietro, gli occhi puntati sull'anta bianco latte che sembra essersi macchiata del trucco che mi è colato insieme alle lacrime. Ne muovo un altro, faticando però a girarmi e riprendere senza esitazione il cammino verso casa.

E' inutile che mi ostini, non siamo in un film.

A ritroso ripercorro la strada fatta solo una decina di minuti fa. Mi faccio largo tra i pensieri che s'intervallano a suoni a tratti inaspettati, fastidiosi. Sono le risate di chi stasera si andrà a divertire, i motori delle macchine che si dirigono velocemente nei posti più disparati; sono i miagolii dei gatti randagi e i lamenti dei cani costretti dietro a qualche cancello. Ci sono i suoni che escono dai locali, le radio che passano i brani più in voga del momento e i miei tacchi che picchiano sempre più forti sull'asfalto. C'è Londra intorno a me, piena della sua vita, però io vorrei solo allontanarmici e dimenticare quali segreti o tragedie nasconde dentro ai suoi edifici, tra le sue strade.

Mi stringo nelle spalle portandomi come un automa verso le scale della metropolitana, una qualsiasi, perché tanto non ho una meta prestabilita. Mi fermo giustappunto di fronte al cartello con le varie fermate, ponendomi solo a questo punto il problema di dove andare.
Misha e Caroline saranno occupate, forse staranno ancora bevendo al tavolo dell'Elder and the Moon, parlando dei piani futuri, dei progetti che le attendono quest'estate - o forse semplicemente questa notte. Seth potrebbe essere tornato al proprio appartamento, un luogo che al momento mi repelle; in alternativa potrebbe essersi messo sulle mie tracce - oppure, nel peggiore dei casi, potrebbe essere rimasto con Jace a parlare, confrontarsi, farsi ancora qualche livido e rivendicare il mio cuore. 
Casa Raven è, seppure il posto a me più familiare, quello più ovvio in cui cercarmi, per questo non voglio tornarci - forse, a questo punto, l'ultima e unica opzione che mi rimane è quella di andare da Josephine, in modo da poter dar pace al cuore e soprattutto alla mente. 


Scendo i gradini con pigrizia, digrignando i denti ogni volta che la scarpa fa pressione su qualche vescica: almeno ho questo dolore a distrarmi, sennò finirei con il rimettermi a piangere in qualche angolo sperduto del Brent.

Barcollo quindi tra la gente senza staccare gli occhi da terra e, quando finalmente salgo sul vagone, mi concedo il lusso di specchiarmi nel vetro sporco.
Ho la faccia tanto pallida da far sembrare gli occhi due buchi neri. Linee scure mi solcano le guance fino a sparire nei pressi della mascella, ma non possono evitarsi di raccontare la disperazione del pianto che le ha create, il bisogno mai placato di un corpo che da troppo tempo rifugge le mie mani, il mio sguardo, la mia voce. 
Percorro l'immagine che ho davanti pensando che sembro pazza, stravolta, ferita, eppure nonostante questo nessuno si accorge di me - grazie al cielo, aggiungerei contrariamente a ogni aspettativa. Come ho detto non voglio dover parlare con nessuno, men che meno sfogarmi con un estraneo. Io volevo Charlie, ma lui non si è fatto trovare.

Il metrò si ferma ed io abbandono la figura, in parte sbiadita, di me stessa.


 

Yaga:

Okay, forse non è il migliore dei capitoli proposti fino ad ora, ma fate il calcolo che l'ho riscritto da zero, viste varie problematiche nel mezzo. Quindi quelle che erano 800 parole sono diventate 2580 - un bel cambiamento, no?
Ad ogni modo, preparate i pop-corn! Ciò che vi aspetta sarà ben lontano dalle gioie che ci si potrebbe aspettare. Come si comporterà la nostra Jay di fronte alla sua totale incapacità di azione, schiacciata dal peso degli eventi? Jace e Seth si spaccheranno le mascelle a suon di cazzotti o troveranno un compromesso? Ma soprattutto, Charlie tornerà?
Al prossimo aggiornamento - che doveva essere l'ultimo secondo la versione originale, ma non lo sarà per vostro disappunto personale <3

 

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Capitolo 53
*** Chapter 35: The end will come, but it won't be the end (part one) ***




Chapter Thirty-five
§ The end will come, but it won't be the end §
part one

 

"It gets harder every time I gotta say goodbye
Tears are falling, that's why I can't say it eye-to-eye
Every time that I go, can't find a reason why
Maybe someday you'll know just how I feel inside

I can't hold on, won't let go, going down the same old road
Have it all, take my soul, praying that I'll make it home
And even if I pretend it'll be alright
I know I'll see you again in my other life"

 

- Coming Home, Hollywood Undead

 

Con i piedi nudi accavallati sul parapetto di ferro, mi concedo l'ennesimo tiro da un filtro troppo inumidito. Osservo le luci della città da un balconcino che a fatica può contenere due ospiti e le piante aromatiche con cui Josephine condisce le sue pietanze.
Aspiro nicotina, trattenendola dentro al petto esattamente come tutte le frustrazioni che mi hanno spinta qui e che, ancora, mi pizzicano il cuore.
Nonna ha provato a chiedermi spiegazioni, a farsi confessare il motivo degli occhi gonfi e delle linee di mascara colato sulle guance, ed io, slacciandomi il cinturino dei sandali, ho risposto: "E' solo un'altra serata di merda". 
Lei mi ha fissata. Ha seguito la mia schiena fino al momento in cui non l'ho appoggiata sulla sedia di legno dove ancora sono appollaiata, negandola alla sua vista. Così ha dovuto ripiegare sull'espressione del viso stanco, dove le occhiaie probabilmente descrivevano meglio delle parole la delusione provata - e alla fine mi ha proposto un tè, perché "il bergamotto aiuta a combattere la depressione, sai?"

Ho annuito, non convinta.
La mia non è depressione, è una sensazione più simile all'amarezza, alla nostalgia. Si è insinuata piano nel cuore, restando in attesa. Come un bambino che gioca a nascondino ha aspettato il momento che la tana si liberasse, poi gli è corso incontro e ha urlato "salvo!" - anche se di salvo, qui, non mi è rimasto nulla.

Mentre Josephine si rintanava in cucina a preparare il suo intruglio benefico, io mi sono fatta ammaliare dal pacchetto che ancora tenevo in tasca, riprendendo a fumare. La prima sigaretta si è sostituita con la seconda e, all'arrivo delle tazze bollenti, sono ancora a metà.

La nonna mi si siede davanti, appoggiando il tè accanto al mio cellulare sulla mensolina di legno che ingegnosamente ha attaccato al parapetto, in modo da creare una sorta di tavolino e ottimizzare lo spazio. Dopo lunghissimi minuti ha finalmente smesso di vibrare come un ossesso, mostrando a intermittenza i nomi di Jace, Seth e Caroline. Solo Misha si è limitata a mandarmi un messaggio, qualcosa simile a un insulto, ma che mi ha fatta sentire un po' meno strana - perché non credo di essermi comportata come una persona matura stasera.
Ad ogni modo, la vecchia che ho di fronte soffia un paio di volte sul vapore che emerge dalla ceramica, poi allunga una mano e mi sfiora le dita dei piedi, ancora arrossate dopo la fuga dall'Elder and the Moon.
«Mon Dieu, Jacqueline... tu ne gèle pas?»
Scuoto la testa, ma lei non pare capire.
«Veux-tu tomber malade?»

Mi premo i palmi sugli occhi: «Je ne sais pas» sbuffo, sempre più esausta. 
In questo momento il mio corpo combatte contro la mente: lui vorrebbe accovacciarsi sul divano, addormentarsi, lasciar perdere tutto nel torpore delle coperte, mentre lei preferirebbe restar sveglia al freddo e arrovellarsi su ogni stupido sbaglio compiuto finora.
Il problema è che il cuore vorrebbe mettere in pausa ogni cosa, in modo da potersi calmare.

Mi rimetto seduta in modo composto, aspetto qualche secondo e, infine, afferro la tazza colorata, portandomela alla bocca - magari questo bergamotto saprà davvero aiutarmi, oppure, mal che vada, si limiterà a scaldarmi le membra.

Prendo il primo sorso, mi scotto la lingua e con una smorfia allontano il bordo dalle labbra, imprecando.

Nonna non dice nulla. Non mi rimprovera e men che meno si concede il lusso di arricciare il naso per il fastidio, piuttosto resta in attesa, quasi debba confessarle qualcosa - ma non c'è niente che serva essere svelato, dopotutto al momento le parole hanno gran poco valore. Sicuramente si deve star arrovellando sul motivo per cui tutti mi cerchino così assiduamente - ed io mi rifiuti di rispondergli.

Nuovamente provo a bere, ma appena il calore del tè mi sfiora la pelle ritraggo il viso.
Sbuffo, forse delusa dall'ennesima cosa andata male, poi poggio la tazza sulla mensolina, attendendo qualche istante prima di mollare il manico. Non nego che il tepore della ceramica stia ammaliando la mia carne infreddolita; e un cuore che ancora fa male e abbia bisogno di conforto, seppur mi stia costringendo a non prestargli attenzione. Ma proprio in quell'esitazione, nel mio restare immobile per qualche momento, una luce irrompe nelle tenebre della sera, spezzando il silenzio sceso tra Josephine e me con una lieve vibrazione.
La figura atletica che riempie lo schermo porta sottobraccio uno skateboard rovinato sul cui grip vi è sbiadito un "Holy Shit!" scritto a mano - e nel riconoscerlo sussulto.

Charlie.

Afferro il telefono, scatto in piedi e in un lampo sono lontana dal balcone, gelosa in modo quasi morboso di qualsiasi cosa succederà dal momento in cui la sua voce riempirà le mie orecchie - perché è un momento solo nostro, una telefonata che ho bisogno mi dia speranza.
Scivolo svelta tra le stanze della casa, arrivando infine a chiudermi in bagno Giro due volte la chiave e con il fiato corto per la corsa soffio: «Pronto?!» Il cuore mi batte così forte da colpire dolorosamente le ossa del torace. Potrei avere un infarto ora, ma non avrebbe alcuna importanza.
Dall'altra parte della cornetta, concitata, arriva una voce che temo possa essere solo un sogno: «Dove sei?»
Le lacrime iniziano a scendermi lungo il viso prima ancora che io possa rendermene conto, costringendomi a fermare sul nascere un singulto che, però, a lui non sfugge.

«Jay, dimmi dove sei.»
«I-io... sono d-da Josephine» biascico, la bocca già impastata dal pianto.
In sottofondo sento il rumore molesto del motore di una macchina, probabilmente il suo maggiolone azzurro: «Okay... okay. Stai bene, vero? Cioè...» fa una pausa, tituba su cosa sia giusto dire. Le parole d'improvviso gli muoiono in gola e il desiderio di averlo qui, davanti a me, si fa intollerabile - così lo anticipo, supplicandolo.
«Ho solo... ho bisogno che torni.» Persino un sordo udirebbe il tremore nelle mie parole, la lentezza con cui roche mi escono di gola, oltrepassano il microfono e si aggrappano a lui, alla sua maglia, il suo petto, al collo bollente intorno a cui vorrei intrecciare le braccia e restare appesa.
«Sì. Sì, io... sono per strada, va bene? Però promettimi che resti lì.»
Lenta mi faccio scivolare lungo la porta, mordendo con forza il labbro inferiore.

Sta arrivando.
Sta tornando da me.

Annuisco, ignorando il fatto che non possa vedermi.

Il mio Charlie sta venendo qui per aiutarmi a rimettere insieme ciò che è andato distrutto. Giusto? Sta tornando per levarmi di dosso una parte del peso delle decisioni sbagliate che ho preso e riempire i vuoti che si sono andati a creare dopo di esse, trasformandomi in una struttura cava incapace di sorreggere le conseguenze di simili scelte - come sempre del resto. Non è forse per questa ragione che con lui mi sento a casa? 

«Jay?» D'un tratto mi chiama, mi ridesta dal pianto silenzioso e dai pensieri dolci da cui mi sono lasciata sopraffare. «Non c'entra Seth, vero?»
Lo stesso cuore che tenta di uscirmi dal petto improvvisamente rallenta il suo battito, si affievolisce, arriva quasi a fermarsi. Una sorta di timore mi lambisce gli organi e la confusione si fa totale. Non capisco. 
«C-che intendi?»
Nella sua voce c'è qualcosa di strano, un tono a cui non riesco ad associare alcuna emozione - si avvicina alla stanchezza, ma sono certa essere altro. 
Lo sento prendere un grosso respiro. Lo immagino bagnarsi le labbra e soppesare pensieri e parole come in quei rari casi in cui fa il serio, poi alla fine sospira, quasi rinunciando a ciò che vorrebbe dire veramente: «E' per colpa sua che stai piangendo? E' successo qualcosa che non volevi o... dimmi che non ti ha fatto nulla.»
«P-perché... perché me lo chiedi?» Sento la stretta della paura farsi sempre più intensa, mi nausea tanto da riportare a galla l'unico sorso di tè che ho bevuto; e anche se non vorrei inizio a immaginare la risposta che potrebbe darmi, insieme alle motivazioni con cui argomenterebbe la sua tesi. Credo di averlo già detto più volte: da Seth ci si aspetta il peggio persino quando non fa nulla - e non posso biasimare Charlie dall'essere il più diffidente di tutti visto ciò che gli ha fatto.
«Rispondimi e basta.»
E' così lapidario che mi sento tremare.

«Beh... no» sibilo un po' disorientata. 
La colpa non è sua, o almeno non del tutto. Per una volta potrei dichiarare Morgenstern innocente, anche se solo in parte, perché il motivo del mio malessere a dire il vero non si può riassumere con un'unica persona, piuttosto è l'insieme di eventi che ne ha spinte varie a farsi la guerra - e ci siamo dentro tutti, volenti o nolenti.
«Seth è solo...» mi fermo. Trattengo quello che sto per dire, peccato che Benton voglia sapere, che non sia disposto, per ora, a lasciar in sospeso qualsiasi mia frase - quasi bramasse una scusa, una giustificazione, un motivo per premere il piede sull'acceleratore e tornare qui.
«Cosa? "Seth è solo" cosa?»
Picchio la nuca sulla porta. La sbatto piano per punirmi, pur non volendomi far male.
Porto la mano libera alla fronte e con gli occhi spalancati sul soffitto cerco nella mente un escamotage, una parola che possa far capire la mia repulsione nel volerlo accanto in questo momento, ma che non lo renda il capro espiatorio del mio stato d'animo, risultato ultimo delle liti tra lui, Jace e... sì, anche Charlie.

E lo faccio perché sono egoista.
Perché voglio che il mio migliore amico corra da me.
Apro la bocca e pronuncio delle parole solo per il semplice fatto che voglio Benton, che desidero accoccolarmi a lui più di ogni altra cosa al mondo, ora. Bramo la sua comprensione, la sua dolcezza, il calore che emana.

«Non è te.»

Silenzio.
Lui tace e il mio cuore si ferma.

Il suo respiro si fa così lieve da essere impercettibile e così le lacrime, per poco, smettono di scendermi lungo il viso.

Mi ha sentita?

«Tra un'ora e mezza sono lì» sussurra d'improvviso, con una decisione tale che pare arrivarmi addosso come una scossa di teaser. Il battito riprende con forza ed io con altrettanto vigore premo i denti nel labbro inferiore, ringraziando un'entità astratta.
«Noi... dobbiamo parlare, Jane. Quindi ti prego, non andare via da casa di tua nonna.»
Ancora una volta annuisco in risposta alla sua richiesta, peccato che non ci sia modo che possa vederlo.
«Vengo a pre-» tuh-tuh-tuh.
«C-Charlie?» Lo chiamo, ma lui non risponde. «Charlie?» riprovo, ma non ottengo risultati nemmeno stavolta. Allora svelta allontano il cellulare, me lo porto davanti agli occhi: la telefonata si è interrotta. I minuti che abbiamo passato insieme lampeggiano rossi su uno schermo bianco dove ora la sua foto è sparita ed io vado in panico.

Che diamine è successo?

Vado alla schermata del registro chiamate, premo sul suo nome e provo a contattarlo ancora.
La segreteria ci mette poco ad avvertirmi che il telefono potrebbe essere spento o l'utente non raggiungibile, così inizio a pensare agli scenari più disparati, concludendo infine che debba essere entrato in qualche area priva di rete, o debba aver consumato tutta la batteria - perché alle volte è esattamente come me: sbadato.

Mi ritrovo quindi sconsolata ed esausta al contempo, come se la nostra fosse stata una terribile telefonata d'amore. Con gli incisivi tiro il labbro, lo maltratto e, infine, mi ripiego sulle ginocchia, provando ad asciugare il viso e nascondermi da ogni emozione.
Non voglio più pensare a nulla, solo a lui, a quando e come arriverà qui ed io gli getterò le braccia al collo lasciandomi inglobare. Staremo stretti l'un l'altro come mi sembra non capiti più da tantissimo tempo e poi, forse, parleremo di come sistemare le cose. Perché dobbiamo farlo, l'ha detto anche lui, no?
Dovremmo anche disinfettare e mettere con cura un cerotto sulla ferita che gli ha lasciato Seth, trovare un modo per farli convivere entrambi all'interno della mia routine senza che si colpiscano nuovamente a morte - perché da principessa viziata quale sono ho bisogno di entrambi i miei cavalieri a difesa del regno. Dovremmo delineare con minuzia ogni prossima azione, stare attenti a seguire la strategia scelta, ritrovarci.

Sembra così facile a parole...
Il problema però è che non tutto ciò che luccica in realtà ha valore, quindi dovrei star bene attenta a cosa mi circonda - perché potrei ritrovarmi in mano solo un mucchio di inutili sassolini.

 

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Capitolo 54
*** Chapter 35: The end will come, but it won't be the end (part two) END ***




Chapter Thirty-five
§ The end will come, but it won't be the end §
part two

 

"How can I say this without breaking?
How can I say this without taking over?
How can I put it down into words?
When it's almost too much for my soul alone

I loved, and I loved and I lost you

I loved, and I loved and I lost you
I loved, and I loved and I lost you

And it hurts like hell

Yeah, it hurts like hell"
 

- Fleurie, Hurts like hell

 

Un'ora e mezza. Questo è il tempo che Charlie mi ha detto avrebbe impiegato per arrivare sino a casa di Josephine. Novanta minuti che presto sono diventati sessanta, poi quarantacinque. Il suono del tempo che ci separa e che pian piano diminuisce sulla plancia dell'orologio ha un ché di dolce, diventa sempre più ammaliante. Il ticchettio delle lancette è una ninnananna per il mio cuore martoriato in cerca di riposo - ma resto sveglia, appollaiata su un divano in pelle che fa rumore ogni volta che mi muovo.
I miei occhi bruciano, sono ancora un po' secchi dopo il pianto fatto in bagno, eppure non ne vogliono sapere di chiudersi; perché lui sta arrivando, tra poco sarà qui.
E mentre nonna ha deciso di abbandonarsi per le braccia di Morfeo qualche stanza più in là, io passo lo sguardo dallo schermo del televisore al pendolo che gli sta dietro. Mi soffermo, faccio il conto alla rovescia per l'ennesima volta e poi torno a fissare senza grande interesse il viso di James May.
Lui parla e la sua voce rimbalza piano sulle pareti del salotto. Ogni tanto il fruscio della combustione della mia sigaretta ne copre le frasi facendomi perdere il filo del discorso - come se lo stessi seguendo! - poi torna ad accarezzarmi i timpani.
Fumo e provo a distrarmi, conscia del fatto che se mi dovessi soffermare a pensare mi ritroverei a piangere un'altra volta - perché sono riuscita a far incazzare tutti: Seth, Jace e persino Caroline, che in questa storia c'entra poco o nulla. Mi sono inimicata tutti coloro a cui voglio bene, eppure al momento non voglio assolutamente pensarci, così continuo imperterrita ad aspettare, ignorando tutto ciò che non è questa attesa.

Mentre immagino l'arrivo di Benton lo stomaco si stringe e il cuore sembra venir pizzicato. Mi umetto le labbra tirando via con la lingua il sapore del tabacco, poi le mordo e ricomincio da capo, entrando in un circolo vizioso che pare non aver mai avuto inizio e non poter trovare una fine.

Provo a supporre quale sarà la sua espressione, le prime parole che mi dirà dopo tanto tempo lontani. Cerco di ricordare i suoi vestiti, di indovinare cosa avrà indosso e quanto mi sentirò sollevata nello schiacciare il viso contro al suo petto. Sarà cambiato in queste settimane? Oppure è rimasto lo stesso di quell'ultima volta in cui ci siamo incontrati a casa di Seth? Sul suo viso si andrà a disegnare il solito sorriso sghembo, un po' imbarazzato che tanto mi piace, o a salutarmi ci sarà ancora una linea dura, severa e ben lontana dal farmi sentire tranquilla? Più ci penso, più mi agito, così alla fine butto il mozzicone e mi prendo il viso tra le mani, domandandomi per la centesima volta quanto manchi al suo arrivo.

Temo l'istante in cui saremo l'uno di fronte all'altro, impacciati a causa di tutto ciò che si è frapposto tra noi, però al contempo bramo il momento in cui i nostri corpi si sfioreranno di nuovo, trovandosi a metà strada - un po' come quel giorno in camera sua, in quel letto che ho scongiurato, solo qualche ora fa, mi accogliesse tra le sue lenzuola per placare la frustrazione.

Libero il viso, mi volto verso la finestra e dopo qualche interminabile secondo di esitazione, in cui mi domando se sia logico alzarmi adesso, decido di non poter più restare immobile ad aspettare. Il rumore lieve delle mie gambe sulla pelle del divano accompagna i movimenti che compio finché, con un sospiro, mi sollevo dai cuscini lisi. In punta di piedi, camminando lungo un pavimento terribilmente freddo, mi dirigo verso il balcone e, avvolta nel plaid colorato, mi spingo a ridosso del vetro senza però oltrepassarlo. Il respiro crea aloni lattiginosi che più volte provano a dissiparsi, ma ritmicamente vengono ricreati dalle narici, incapaci di dargli tregua - sono parte del mio conto alla rovescia, mi regalano un vago senso di pace.
Dapprima il mio sguardo va lontano, verso l'orizzonte puntellato di lampioni, insegne e lampadari privati, poi si fa sempre più vicino, arrivando all'imbocco della via da dove sono certa il maggiolone di Charlie farà la sua comparsa.

Premo le dita sulla lastra che mi separa dall'esterno, le schiaccio tanto da essere certa star lasciando il segno dei polpastrelli sudati. E aspetto.
Aspetto.
Resto immobile, premuta sul vetro, come da bambina la notte di Natale, quando piena di speranza scrutavo il cielo alla ricerca della slitta di Santa Klaus. Esattamente come allora confondo ogni luce con l'oggetto del mio interesse e, così, al passaggio di qualsiasi auto sussulto credendo che sia la sua - ma ogni volta mi ritrovo a deglutire un boccone amaro.
Il cuore accelera, poi si frena; perde il ritmo più e più volte, arrivando persino a fare male.

Dove sei?, domando a un fantasma che non può darmi risposta, seppur vorrei.
Mi giro verso l'orologio, forse sperando di trovare qualcosa di rassicurante - ma sono passati solo dieci minuti dall'ultima volta che l'ho controllato.
Charlie sarà appena entrato nel territorio londinese, si troverà da qualche parte nei pressi dell'Aeroporto di Heathrow - anche se non posso dirlo con certezza, visto che non ho idea di quale tragitto abbia deciso di fare per venire sin qui.

Ancora una volta osservo la strada, spero di vederlo comparire prima di quanto stimato, ma dopo l'ennesima manciata di minuti sprecati a fissare il nulla mi ritraggo dalla finestra, rendendomi conto che nemmeno lui può piegare lo spazio e il tempo a proprio piacimento.

Faccio un passo indietro, seppur le dita non vogliano realmente staccarsi dalla finestra, quasi avessero una propria coscienza e desiderassero restare aggrappate alla flebile speranza che una vettura tanto vecchia possa correre sull'asfalto al pari di una Ferrari - e raggiungerci prima che volti le spalle - così le assecondo ancora un po', forse gelosa della loro tenacia, ma alla fine mi decido ad allontanarle dal vetro, in modo da sgusciare in cucina e preparami qualcosa di caldo.
Con la coda dell'occhio, mentre mi faccio strada verso la stanza accanto, noto l'alone pallido rimasto a delineare i contorni della mia presenza, il fantasma di quella mano che ha cercato di trattenermi e che non avrebbe ceduto. Ci penso e mi mordo la lingua, mi punisco ancora, ma ormai sono sulla soglia del corridoio, svolto e in un attimo sono nuovamente altrove.

Accendo la luce della cappa, cerco la teiera di metallo e la riempio d'acqua quel tanto che basta per una persona, poi l'appoggio su un fornello che fatico ad accendere, come sempre.

La fiamma bluastra che compare pare già essere sufficiente a scaldarmi, eppure mi stringo comunque nelle spalle mentre, un po' disorientata, cerco di ricordarmi dove nonna tenga le sue centinaia di varietà di tè.

Al primo tentativo sbaglio, ormai disabituata a trascorrere tanto tempo qui in una quasi totale solitudine, ma al secondo trovo tutto il necessario.

Prendo una bustina senza nemmeno guardare cosa vi sia scritto sopra, troppo frastornata per pensare davvero a una simile sciocchezza, la spacchetto con un'eccessiva delicatezza e poi la metto nella tazza dove un paio d'ore fa Josephine ha versato il suo intruglio al bergamotto, sperando stavolta di riuscire a godermi in totale tranquillità la bevuta.

Con il fianco mi appoggio al lavello in attesa del bollitore e intanto mi perdo a seguire un percorso immaginario tra gli arredi e le cianfrusaglie della nonna, come se le vedessi per la prima volta. Qualche foto di Jace, Liz e me spicca sul frigorifero insieme a varie calamite che le sono state regalate, mentre alle pareti piastrelle con le maioliche creano giochi di immagini floreali e psichedeliche che mi fanno totalmente perdere coscienza dello spazio che mi circonda, annullando tutti i pensieri - è il fischio lieve della teiera a farmi sobbalzare e riportare alla realtà.

Quanto tempo è passato?

Svelta spengo la fiamma, attenuo il flusso di vapore e, appena il silenzio torna a riempire la cucina, mi concedo il lusso di cercare un orologio che già so non esserci - ma certamente non saranno passati che un paio di minuti da quando ho abbandonato la finestra, non ho nulla di cui preoccuparmi per adesso. Quando si aspetta il tempo si dilata: quella che ti sembra un'eternità non è altro che un secondo. Fai decine di centinaia di cose credendo di aver ridotto l'attesa, poi invece ti ritrovi punto e a capo. 
E anche per me, in questa circostanza, non sarà diverso, quindi sbuffo e torno al tè che fumante mi chiama a sé, sirena tentatrice per il nervosismo che sento aumentare con l'accrescersi della consapevolezza che Benton ormai avrà varcato le porte di Londra e sarà sempre più vicino.
Con la tazza tra le mani mi volto verso il tavolo, mi ci siedo accanto facendo scricchiolare la sedia. 
Quanti chilometri gli mancheranno?
Intingo un paio di volte la bustina, provando a fingermi esperta della topografia della città e di tutte le strade che l'attraversano, ma riesco a perdermi già dopo tre incroci - se fossi stata io quella a dover correre da lui, probabilmente sarei arrivata il giorno seguente, oppure lo avrei supplicato di venirmi incontro.

Soffio sulla tazza, lo faccio un paio di volte prima di accorgermi di star sorridendo, felice. Mi piace il pensiero di rivedere Charlie: è elettrizzante e al contempo appagante, pare una soddisfazione inaspettata, una gratificazione che non avrei mai creduto di meritare - eppure arriva dopo tutta la fatica, la tensione, l'apprensione.

Sovrappensiero mi porto il bordo della ceramica alle labbra, le schiudo e bevo.
Mi ustiono.

Ancora.

Con un sobbalzo allontano la tazza dal viso, rigirandomi la lingua in bocca per farla pulsare di meno, ma non ottenendo risultato - dannazione. La mia sbadataggine non ne vuole sapere di darmi tregua, mi perseguita persino in situazioni del genere, quando il cuore è bloccato in gola e la speranza lo tiene fermo, quasi preparandolo a schizzare fuori al momento opportuno; così mi ritrovo a imprecare a fil di voce.
Mi maledico e maledico anche la decisione di bere un'altra tazza di tè pur consapevole che la giornata fosse iniziata male - e in questo susseguirsi di sibili confusi, un suono familiare cattura il mio interesse, facendomi zittire e poi voltare in direzione della soglia. Nella penombra riesco a distinguere con facilità cosa c'è nel corridoio: uno specchio a muro e un attaccapanni pieno di cappelli e sciarpe colorati, qualche piccolo quadretto appeso qua e là e poi l'ingresso, nulla più. Niente di ciò che è presente pare poter emettere suoni, men che meno vi è qualcosa che sembri essere vivo - finché un lampo chiaro mi fa ricordare della tv lasciata accesa. E James May che probabilmente avrà continuato a elogiare la sfilza di vetture provate prima della puntata di oggi a un pubblico che, in questa casa, è pressoché inesistente.

Così afferro la tazza, mi alzo in piedi e con uno sbadiglio mi trascino verso il divano che mi ha tenuto compagnia dal momento in cui sono ricomparsa dal bagno.
Stando attenta a non fare altri disastri mi faccio cadere sui cuscini, poi con la mano libera provo a sistemare la coperta e recuperare il telecomando, disperso chissà dove.

Mi pare quasi di vederlo, ma d'improvviso il suono familiare che ho sentito in cucina torna a farsi presente e, in una frazione di secondo, questa volta, riconosco la vibrazione del cellulare.

***

La porta sbatte forte, ma io non la sento. Avverto appena la vibrazione dell'aria alle mie spalle, ma attorno a me c'è solo silenzio - o almeno così mi pare al di là del fischio che inarrestabile sovrasta ogni cosa, anche i pensieri. Li mangia uno a uno, triturandoli tra i denti e inghiottendoli con foga, quasi sia troppo affamato per poter prestar loro la giusta attenzione.

Corro svelta per le scale di un palazzo addormentato, saltando di rampa in rampa così tanti gradini che se dovessi atterrare nel modo sbagliato potrei fottermi una caviglia, eppure non rallento nemmeno per un istante.

Non posso.
Non ora.

Le scarpe della nonna sono allacciate male, sento il tallone scivolare fuori ogni tre passi, ma non ha alcuna importanza, se dovesse servire correrei anche scalza.

Qualsiasi cosa per lui.

Senza rendermene conto vado a sbattere contro il portoncino d'ingresso, picchio forte il petto e per puro miracolo evito il viso, ma anche in questo caso dubito potrei sentire qualcosa più del contraccolpo. Più volte tento di tirare la maniglia nella speranza che la serratura si apra da sola, ma lei non lo fa mai, così in preda all'agitazione mi metto a picchiare il palmo su ogni tasto che trovo in giro.
Si accendono le luci dei corridoi, quelle delle scale, forse suono anche un campanello, però alla fine riesco a sbloccare questa dannatissima porta e buttarmi in strada.

Il marciapiede è deserto, oltre a me ci sono solo un signore anziano con il proprio cagnolino e le ombre non troppo fitte della sera londinese - e credo che tutti e tre si siano soffermati a fissarmi, a chiedersi da cosa stia scappano o cosa stia inseguendo.

Per un solo istante ricambio l'occhiata, conscia seppur in modo poco nitido di apparire nel peggiore dei modi al momento, poi mi riscuoto e pigiando con forza i denti nella carne del labbro mi rimetto a correre.

Devo andare.
Devo fare in fretta.
Devo arrivare prima che...

Svolto l'angolo e mi ritrovo a colpire qualcuno. L'impatto è tale che con la spalla finisco a picchiare contro il perimetro dell'edificio da cui sono appena uscita, lasciandomi sfuggire un grugnito.
L'estraneo a cui sono andata addosso sbraita, mi insulta, però non posso concedermi il lusso di ascoltarlo o di restar qui a difendermi in una qualche maniera. Ho da fare. Ciò che sto rincorrendo è più importante di qualsiasi altra cosa.

Così riprendo a muovere le gambe, forse urlandogli "scusa", o forse mandandolo a quel paese - non mi è chiaro nulla al momento, solo che ho i minuti contati, il cuore sul punto di scoppiare e un luogo in cui arrivare.

Il prima possibile.

Davanti a me ci sono due miglia di strada e persino correndo a perdifiato potrei non farcela - ma non posso assolutamente permettermi di restare ferma, di tornare a casa di nonna e fingere che la tragedia non sia alle porte.

No.
No.
No.

Con il fiato già corto inizio a guardarmi attorno sperando in una sorta di miracolo, una persona in sosta, una faccia amica, qualsiasi cosa. Ad ogni passo che compio, senza ottenere risultati, mi sento sul punto di bruciare - è come se gli organi stessero andando a fuoco, come se volessero soccombere prima di conoscere l'esito di questa notte. Però non possono, giusto? 
Non hanno alcun diritto di tradirmi ora, vero? 
Vero?!
Avanzo rapida tra i negozi chiusi e i passanti intenti a ridersela tra di loro, eppure nessuno pare potermi aiutare. Sono tutti a piedi, ben vestiti, sistemati per il weekend di baldoria e spesso hanno tra le mani una bottiglia di birra - non mi aiuterebbero in alcun modo, basta guardarli per capire che di una povera mocciosa come me non gliene può fregar nulla. Che io abbia bisogno di un aiuto, che sia sul punto di vomitare l'anima e impazzire a loro non interessa - sono sola con me stessa e la consapevolezza di ciò che sta accadendo.

Con i primi dolori alla milza e i polpacci che provano a sfiancarmi continuo a correre, in modo da non perdere tempo. Mi muovo come un'ossessa sull'asfalto umido di una pioggia che nemmeno mi sono accorta essere iniziata a cadere finché, quasi in risposta alle mie preghiere, scorgo una ragazza intenta a scendere da un taxi - e mi ci precipito.
Infilo un braccio nello spazio vuoto tra la portiera e la vettura, lascio che mi venga schiacciata un poco e poi, con gli occhi sgranati, probabilmente simili a quelli di un pazzo, dico: «Mi serve.»

Lei è sconvolta, quasi si spaventa nel vedermi comparire al suo fianco, però non osa pronunciare nemmeno mezza sillaba, come se nel profondo riuscisse a comprendere qualcosa, a intravedere il fantasma della paura che mi lambisce le interiora dandole alle fiamme.

Salgo.

«Queen Charlotte's and Chelsea.»

Il taxista mi guarda dallo specchietto retrovisore. Esita.

«Ho detto Queen Charlotte's!» Ringhio, i denti digrignati al pari di un animale rabbioso.
Parlo forse ostrogoto?
Non vede in che condizioni sono?
Non comprende la gravità della situazione?

Fa un movimento con la mascella, probabilmente sta masticando un chewing-gum: «Hai i soldi, ragazzina?»

Corrugo la fronte, sempre più allibita.
I soldi?
Sì, io...
I soldi, certo.
Con foga inizio a toccarmi i fianchi, dove mi accorgo non esserci alcuna tasca e men che meno una giacca - figurarsi se mi sono ricordata di prendere la borsa! -, poi nel contorcermi inizio a premere i polpastrelli sulle cosce e qualcosa, lì, scricchiola: dieci sterline.

Me le alzo di fronte al viso. Tronfia di una futile speranza le osservo insieme all'uomo sui sedili anteriori, che ancora mi studia dai suoi dieci centimetri di specchio, poi comprendo il loro reale valore - e mi maledico: non servono a nulla, penso. Con questa cifra al massimo posso arrivare alla prossima via, ma non certo farmi scarrozzare per due miglia. Il nodo che ho in gola si fa più spesso e di conseguenza gli occhi iniziano a bruciare. Con la bocca già impastata di un pianto che non riesco a fare supplico il signore di mezza età che ho di fronte: «La prego.» Il labbro trema appena, ma mai quanto la voce: «Io... io so che non bastano e... beh, mi accontento anche di qualche chilometro ma... davvero, la sto pregando.» Persino le viscere sembrano venir scosse. Per un istante il loro contorcersi si arresta e in un sollievo inesistente permette loro di soccombere a uno spasmo, facendole mugolare: «E'...» 
Non riesco a dirlo. 
Forse non mi va di farlo. 
«La scongiuro.»

Lui mi fissa ancora qualche istante, poi afferra la banconota.
«Queen Charlotte's and Chelsea, hai detto?»
Annuisco, sorpresa da questo atto di misericordia che non mi sarei mai aspettata da uno sconosciuto intento a lavorare, che rinuncia alle sue cinquanta sterline o a rientrare a casa prima per aiutare me.
Il taxi parte e mentre mi metto composta accanto al finestrino, continuando però a torturarmi mani e labbro, sento l'uomo farmi un'altra domanda, un quesito che mi spiazza. La sua curiosità mi schiaffeggia con una brutalità tale d'improvviso mi rendo conto di quanto questa situazione sia reale, concreta e spaventosa.

«E' qualcuno di caro?»
E' ben oltre questo.
Premo i denti con un po' più di forza e il labbro si rompe, il sangue mi pizzica la lingua, scende in gola, mi nausea.
Non è semplicemente qualcuno a cui tengo, è qualcuno senza cui dubito potrei continuare a vivere normalmente.
Annuisco.
«Lui è...» però mi fermo. Lascio la frase a metà, piena di tutto e al contempo di niente.
Ho paura di quello che potrei dire ora.
Sono conscia del fatto che adesso, a questo estraneo, potrei confessare qualcosa di terribile e pentirmene per sempre, in caso le cose dovessero andare male.

Il taxista nuovamente mastica il chewing-gum: «Capisco» afferma dopo qualche secondo di silenzio - e il motore, d'improvviso, romba un po' di più.
Chissà se è vero. Chissà se realmente può capire ciò che sto provando adesso, se in questa merda c'è passato a sua volta. Chissà se invece lo ha detto giusto per provare ad alleviare il mio male, per creare un'empatia inesistente o anche lui, in una notte fredda e già claudicante, ha ricevuto una coltellata come questa, sentendosi lacerare le carni.

Chissà se c'è stato anche per lui un Jace che con voce spezzata e il fiato corto l'ha supplicato di correre al Queen Charlotte's and Chelsea Hospital, perché "c'è stato un incidente. Charlie..."
Premo le unghie così forte nei palmi delle mani che la pelle cede, mi taglio.

Charlie ha avuto un incidente.
Charlie si è schiantato.

La mia mente sembra non poter più concepire altro, solo "ed è colpa tua".
Perché è così.
Stava tornando da me.
Lui stava correndo lungo l'asfalto, sfidando il tempo, per raggiungere me.

E ha perso il controllo del maggiolone.

Per i venti minuti che ci separano dall'ospedale l'autista tace - solo la mia coscienza grida e mi graffia le orecchie; piange le lacrime che io non riesco a versare e rende questo abitacolo un amplificatore per il mio dolore. C'è solo lei a tenermi compagnia - ma vorrei che stesse zitta. Vorrei che ogni cosa tacesse, che le lancette dell'orologio tornassero indietro e che durante quella fottuta chiamata, prima che la linea ci tradisse, io mi fossi soffermata a dire: "fai con calma, ti aspetto. Mi raccomando stai attento". Invece non l'ho fatto.

E forse non ne avrò più modo.

 

THE END

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