Ganondorf - Il Re delle Dune

di Aiondorf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Tredicesimo Patriarca ***
Capitolo 2: *** Un Abile Discepolo ***
Capitolo 3: *** I Fantasmi del Deserto ***
Capitolo 4: *** Il Principe delle Sabbie ***
Capitolo 5: *** Un Male Antico ***
Capitolo 6: *** Il Nuovo Ordine ***
Capitolo 7: *** Strane Alleanze ***
Capitolo 8: *** Il Seme del Tradimento ***
Capitolo 9: *** Segreti Svelati ***



Capitolo 1
*** Il Tredicesimo Patriarca ***


C'era una leggenda che veniva spesso raccontata alle giovani ancelle apprendiste, quando queste entravano a far parte della cerchia della Regina. Un antico racconto nel quale veniva narrato come, dove ora vi era un deserto arido ed angusto, un tempo giacesse uno sconfinato oceano, pullulante di creature marine e barche di pescatori di un popolo oramai scomparso.
Ovviamente, ogni volta che un'anziana si metteva a raccontare una simile storia, le piccole bambine dalla pelle ambrata nascondevano i propri risolini dietro una mano, ben consapevoli di come quella non fosse altro che una favola per fanciulli e nulla di più.
Anche Nabooru, a suo tempo, aveva ascoltato e riascoltato quella storia svariate volte, talmente tante al punto di riuscire ad impararla a memoria e dettarla così, una volta fattasi grande, forte ed esperta, alle piccole allieve ad ella affidate.
Una storia, nulla di più. Una favola della buonanotte, niente altro. Eppure quella notte, mentre il manto celeste scuro della notte sostava sopra la sua testa e la sabbia si alzava a nuvoloni sotto i colpi di zoccolo potenti delle falcate del suo cavallo, Nabooru non riusciva a pensare ad altro. Un tarlo micragnoso conficcato in profondità dentro la sua mente, come se qualcosa, nell'atmosfera di quei momenti così concitati, non facesse altro che lanciare i suoi ricordi a quella fiaba; come se tutto, in fondo, dipendesse e si originasse esclusivamente da essa.
Osservando la luna sulla via del proprio tramonto poi, scuotendo la testa in una smorfia di vergogna, Nabooru cercò di cacciare via quei pensieri. Aveva ben altro a cui pensare. Un compito al quale non poteva fallire e da cui dipendevano non solamente il suo destino, ma quello del suo intero popolo: le Gerudo.
Di tutto ciò che si poteva dire riguardo Hyrule ed i suoi mondi variopinti, l'unica cosa sui cui non si poteva di certo discutere era il fatto che si trattasse di una distesa tutt'altro che spoglia di popoli e razze. Dovunque infatti un viaggiatore sperduto potesse ritrovarsi, egli non avrebbe potuto fare altro che notare come ogni singola zona di quel mondo colmo di bellezze e misteri si caratterizzasse almeno di un villaggio e di una cultura. Sarà forse stato per questo che gli antichi, nella loro saggezza ed ironia, avevano soprannominato Hyrule stessa come la Terra dalle mille voci, perché mai, dagli alti monti ai deserti dispersi, così come dalle tetre foreste ai cristallini corsi d'acqua, ci si poteva ritrovare in completa solitudine tra le piane di quelle terre.
Eppure, nonostante gli svariati abitanti di Hyrule ne colmassero come meglio potevano ogni singolo spazio, il numero di voci era andata col dimezzarsi nel corso dei secoli e delle ere.
Per quanto lontana ed impalpabile, la Guerra dei Popoli sfrigolava dolorosamente ancora nei cuori di tutti i popoli e di tutte le razze, in quanto ognuno di essi, a causa di ciò, era stato costretto a seppellire i propri morti, nonché a rimpiangere un passato glorioso e pacifico.
Tutti avevano pagato infatti un pesante scotto. Non vi erano stati vincitori, ma solo sconfitti. Chi però aveva subito la più bruciante caduta, qualsiasi storico o annalista non avrebbe avuto dubbi, era di certo il popolo Gerudo o, così com'era conosciuto dai suoi vicini, sempre che così si possano chiamare, il Popolo delle Vedove Guerriere.
Nessuno ad oggi sa esattamente come tale popolo dalle caratteristiche così singolari trovo i propri natali, anche perché già a quel tempo ci si riferiva ad esso come un qualcosa di ancestrale, risalente addirittura alle primissime battute della sanguinosa guerra. Alcuni cantori però, girovagando per la piana, nelle loro tristi e malinconiche nenie decantavano il cosiddetto Esodo delle Vedove. In tale racconto si diceva infatti di come, quando la battaglia cominciava ad imperversare su ogni acro di Hyrule, già numerose erano le vittime; talmente tanto addirittura che non vi fu il tempo di seppellirne i corpi, così come annunciare ai cari della dipartita del proprio famigliare. Fu così che un giorno, dice la leggenda, le innumerevoli vedove di Hyrule, o almeno una parte di loro, abbandonarono le loro case e maledirono la guerra che gli uomini avevano cominciato. Si dice che esse partirono così per una terra lontana, ai confini occidentali del mondo, dove tutte fecero un voto inviolabile: nessuna di loro, neppure le loro discendenti, avrebbero più donato il proprio cuore ad un uomo, facendo solamente lo stretto indispensabile affinché il loro popolo potesse perpetuarsi nel tempo.
Lontano dalla battaglia, esse si fecero forti ed abili. Impararono ad intagliare il legno e a spezzare la pietra; appresero l'arte delle armi ed utilizzarono esse per difendere i propri territori. Il cuore di molte di loro però, dicono le antiche storie, non seppe trattenere l'odio represso che per lungo tempo avevano tenuto dentro di sé, dando così libero sfogo alla propria sete di vendetta, uccidendo uomo dopo uomo. Ciò però offese le Divinità, le quali decisero di punirle e per questo furono maledette. Così, coloro che avevano fatto voto di non servire mai più un uomo, da quel momento sarebbero costrette, ogni cento anni, a sottostare ad un Re maschio, nato dal ventre di una di loro. Così fu detto e così accadde.
Nel corso del tempo, ben dodici Re si erano susseguiti e, per quanto non furono mai amati particolarmente dalle proprie suddite, nessuna delle Gerudo ebbe mai modo di parlarne malamente in quanto tra di essi si annoverarono uomo di saggezza sconfinata, architetti delle opere più maestose e mirabili che andarono ad arricchire la nuova cultura. L'ultimo tra loro in più fu noto per le sue capacità divinatrici, dotato di una vista talmente acuta da essere in grado di esplorare gli eventi sia del lontano passato che del remoto futuro. Fu infatti il Dodicesimo Patriarca, Logar, a prevedere come, un giorno, le cataratte del cielo si sarebbero riaperte, ritrasformando il deserto, casa del popolo Gerudo, in un nuovo oceano, le cui dimensioni e potenza però avrebbero portato all'inabissamento dell'intera Hyrule.
Nabooru era troppo giovane per poter aver conosciuto l'ultimo patriarca, le cui parole però erano state perpetrate nel corso delle generazioni successive come un dogma. Tutto su di lui aveva imparato durante il proprio tirocinio, memorizzandone gesta e sermoni. Cosa ancor più importante però, ella era stata preparata come ogni sua altra compagna ad un destino ancor più importante. Infatti, per quanto ella fosse diverse decadi dopo la morte dell'ultimo patriarca, era stata cresciuta affinché si fosse trovata nelle giuste condizioni per accogliere il prossimo. E la sua nascita era vicina. Nabooru se lo sentiva. Aveva cominciato a percepirlo da diversi pleniluni, al punto tale che dentro di sé si era sentita certa che quel momento sarebbe giunto molto prima che le sue gambe fossero appesantite dalla vecchiaia e dalla fatica.
Più il suo destriero galoppava a grande velocità, più ella lo incitava ad accelerare scalciandolo con i propri calcagni. Quando era partita non era ancora tramontato il sole, ma mentre si trovava sulla via del ritorno la notte aveva già raggiunto il proprio zenit. In più, se da una parte il compito che le era stato affidato personalmente dalla sua regina era stato infine portato a termine, dall'altra era consapevole di come era necessario ch'ella fosse di ritorno alla Città di Arenaria, la capitale del proprio regno. Là, dove la sua amata Regina Newid, di cui era l'ancella personale, si trovava nel pieno del proprio travaglio, l'unico del quale aveva potuto godere in tutta la sua esistenza, cosa rara nella tradizione reale Gerudo, se non totalmente insolita. Prima di Newid infatti vi era stata una dinastia ricolma di Regine il cui ventre era sempre stato particolarmente florido, in grado di mettere al mondo una prole di numerose e forti guerriere.
Il fatto che Newid invece non si fosse mai ritrovata gravida di un'erede, nonostante parecchie volte si fosse sottoposta al Greb, il rito di concepimento, era stato dunque oggetto di particolare polemica all'interno del consiglio e della sua corte, in particolare quando la sua giovinezza era andata sempre più con lo sfiorire, lasciando spazio ad una vecchiaia che, secondo il parere di molti, avrebbe infine portato ad un'ennesima battaglia tra le tribù per accaparrarsi il trono lasciato vuoto.
Incredibilmente, dopo più di un centinaio di cicli lunari, Newid si ritrovò allietata dall'oramai non più attesa novella, cosa che in parte  aveva riportato dunque la pace all'interno del suo regno.
La prima a saperlo era stata ovviamente l'ancora giovane Nabooru, la quale fu inoltre colei che più di ogni altra aveva espresso felicità per il lieto evento. Inoltre, essendo l'ancella personale della Regina, la sua felicità si sarebbe poi cosparsa di una responsabilità d'infinta importanza, dato che nel suo ruolo avrebbe dovuto fare anche da nutrice alla principessa erede.
Quando però la gravidanza della regina aveva cominciato a discendere verso il proprio termine, Newid si era ritrovata scossa da incubi e sogni dal criptico significato, motivo per cui, ai prodromi del travaglio, ella aveva spedito la propria fidata ancella ai confini del proprio regno, alla ricerca di ciò che si pensava da tempo essere oramai consegnato alla fantasia delle leggende.
Nabooru ripensò a tutto ciò e più continuava a rimembrare, più la sua foga si riversava sul proprio cavallo, sperando dentro di sé di avvistare da un momento all'altro i fuochi della Città di Arenaria.
Fu solamente quando la brezza gelida che annuncia anticipatamente il sorgere del sole che essi si fecero palesi in lontananza, rincuorando lo spirito scosso dell'ancella.
Scalciando i fianchi del proprio destriero ordinò ad esso di accelerare ancora una volta. Con un nitrito però esso parve lamentarsi del fatto che più di così non sarebbe riuscito a fare. Nabooru se ne dispiacque e, nonostante i continui scossoni ed il fastidio dovuto ai suoi lunghi capelli ramati che non si decidevano a rimanere legati ai nodi, cercò di consolare il suo fidato amico animale con una carezza sul collo.
Le luci si fecero sempre più vicine. L'odore di carne arrostita e di spezie cominciò a toccare il suo olfatto. Non mancavano che poche leghe al suo arrivo quando il suo cavallo, come spaventato da un predatore notturno o da un ostacolo invisibile, puntò i propri zoccoli anteriori, frenando in maniera a dir poco violenta.
Abituata come ogni altra Gerudo a cavalcare scevra da qualsiasi genere di sella o finimenti, adoperandosi esclusivamente con la propria sensibilità e la criniera del cavallo, Nabooru non riuscì a mantenersi stretta al collo del proprio destriero, ritrovandosi così sbalzata improvvisamente in aria e, pochi secondi, dopo a contatto con la tutt'altro che soffice sabbia del deserto.
Indolenzita e confusa, Nabooru cercò di rialzarsi nella maniera più celere possibile, lanciando un'occhiataccia al proprio cavallo.
- Che ti accade?! - esclamò infuriata, mentre cercava di fermare la sua testa dal suo capogiro.
La sua vista si era offuscata a causa della terribile botta che aveva ricevuto, così come il suo stomaco si trovava nell'indecisa posizione di rigettare completamente la cena della sera prima o esplodere sotto l'azione dei propri crampi.
Portandosi una mano alla fronte, ella cercò di riprendere per un secondo fiato, tentando di rigettare dentro il proprio ventre quella disgustosa sensazione di nausea, nonché di recuperare velocemente la totale funzione delle proprie percezioni.
Finalmente, dopo qualche istante, i suoi occhi si riaprirono fermi sul proprio fuoco.
Avvicinandosi a passo svelto al cavallo, ne afferrò violentemente il muso, ponendolo proprio di fronte al proprio volto, con sguardo severo.
- Ti converrà non riprovarci se non vuoi fare la fine di un Boblin! - gli disse seccamente, strattonandolo poi per la criniera.
Il cavallo però, ancora una volta, non collaborò.
Nabooru socchiuse le palpebre minacciosamente.
- Si può sapere di cosa hai paura? - gli urlò contro dopo aver constatato come non ci fossero minacce palesi di fronte a loro. Quando però i suoi occhi caddero sullo sguardo del destriero ecco che un qualcosa attirò particolarmente la sua attenzione.
Più che spaventato il cavallo appariva triste, addolorato. Osservando le sue pupille, Nabooru non poté fare a meno di essere colpita come da una stretta allo stomaco. Il suo cuore si era acquietato dentro il proprio petto, tralasciando le proprie preoccupazioni per fare spazio invece ad un profondo senso di sgomento.
Nabooru non riusciva a comprendere ciò che stava accadendo. Solo in un altro momento della propria esistenza aveva provato una sensazione simile, ma quel terribile avvenimento apparteneva al passato e di certo non c'era il tempo per arrovellarsi con ricordi dolorosi e posti volontariamente in un oblio forzato.
Quando però ad oriente le prime luci dell'alba illuminarono il suo volto, ella, osservando quella luce rossastra, quasi scarlatta, dentro di sé capì.
Trattenendo a stento le lacrime, appoggiò la propria fronte a quella del cavallo, implorandolo di rimettersi in cammino. Questi allora, come se avesse compreso il suo desiderio, sfidando dolore e paure, se la riprese in groppa e tornò a cavalcare a tutta velocità.
In pochi minuti, le leghe mancanti si assottigliarono e, quando si trovarono a meno di un minuto dai cancelli granitici della città, così com'era usanza, Nabooru accese una torcia di stracci con la propria pietra focaia.
Sui torrioni delle mura, visto il lume dell'ancella le guardie fecero scattare il complesso sistema di contrappesi che, in pochi secondi, aprirono le porte settentrionali della città, pesanti circa una decina di tonnellate ognuna. Com'è già stato detto infatti le Gerudo erano un popolo ingegnoso, dotato di una grande conoscenza architettonica ed ingegneristica, la quale, molto probabilmente, aveva permesso loro di sopravvivere in un luogo angusto e pericoloso come il deserto nel corso dei secoli e delle ere.
Penetrata all'interno delle mura, Nabooru non si fermò di fronte a nulla, rischiando più di una volta d'investire una delle sue compagne già sveglie nonostante l'ora ancora immatura.
Solamente quando la breve scalinata che portava alla Sala di Corte riempì il suo campo visivo, smontò e si mise a correre su per le scale rocciose, le quali portavano appunto alla Sala dove sostava la Regina, costruita all'interno di una rientranza di una montagna non particolarmente alta.
Ogni volta che Nabooru entrava in un simile posto, nonostante fosse oramai abituata a viverci gran parte delle sue giornate, non riusciva mai a non stupirsi di fronte alla bellezza ed alla maestosità delle colonne portanti che avevano il gravoso compito di reggere il peso della montagna per proteggere la Sala di Corte. Osservandole infatti non poteva fare a meno di pensare a quali sforzi le sue antenate, sotto gli ordini del Terzo Patriarca, si erano dovute sottoporre per scavare e decorare quelle titaniche stalattiti alte all'incirca 40 piedi.
Col tempo poi, esse erano state restaurate e ritoccate più volte, nonché in dodici tra le quattordici colonne portanti furono incisi con maestria e profondo senso estetici i nomi dei vari Patriarchi. La cosa l'aveva profondamente colpita fin da bambina tanto che, durante il suo tirocinio, più di una volta si era trovata a domandare alle maestre: - Ma quando le colonne a disposizione saranno finite, dove saranno iscritti i nomi dei successivi patriarchi? -
Domanda alla quale gli fu sempre risposto - Nessuno sa come mai il Terzo Patriarca volle solo quattordici colonne portanti. Avremmo potuto farne almeno una decina in più. Per questo tra noi vive la leggenda che il popolo Gerudo non avrà più di 14 Signori nel corso della sua storia. Quattordici Re dopo i quali nulla in questo mondo sopravvivrà! -
Nabooru rabbrividì al risentire quelle parole dentro di sé, ma ripresasi in fretta si diresse verso la Camera dei Natali, un piccolo incavo scavato su un fianco della Sala di Corte dove era tradizione che la regina partorisse le proprie eredi.
"Arrivo, mia Signora!" pensò dentro di sé. Più si avvicinava alla camera, più le sue orecchie si aguzzavano, cercando, sperando di udire da un momento all'altro, un urlo, un rantolo, un gemito di dolore. Nessuno di questi però ancora era pervenuto ai suoi timpani.
Giunta nei pressi della Camera dei Natali i suoi piedi si fermarono intimoriti. Qualcosa non andava. Quel silenzio surreale non poteva che essere portatore di notizie infauste.
Ad un tratto però, una nenia leggera cominciò a riecheggiare all'interno della Sala, rimbombando da una parete all'altra.
Il cuore di Nabooru sobbalzò, indeciso se esultare o rattristarsi ancor di più. Dentro di sé, sperò di udire da un momento all'altro la voce di Newid, la sua regina, ma più il tempo passava e quei suoni si facevano più potenti, più essa si negò alla sue orecchie.
Poco dopo, delle figure apparvero dietro l'angolo che portava alla Camera dei Natali, camminando lente ed ordinate con passi cadenzati come in una processione.
Le loro vesti scure ed inusuali erano la conferma di ciò a cui l'ancella non avrebbe mai voluto assistere.
Posizionate su due file parallele, le figure intabarrate nelle loro tuniche nere, dotate di un cappuccio vistoso al punto da nasconderne i volti, la superarono ad una ad una sui fianchi come se non si fossero accorte della sua presenza.
Le gambe di Nabooru si fletterono, facendosi molli, inconsistenti. I loro canti, costanti e martellanti, le fecero vibrare le membra fin dentro il suo spirito.
Gli occhi avrebbero voluto rilasciare tutte le lacrime che sarebbero state in grado di liberare, ma il suo dolore era talmente forte che persino la forza di piangere le era stata negata.
Cadde in ginocchio, reprimendo un urlo di disperazione mista a rabbia. Colpì le piastrelle di roccia sotto di sé con violenza. Ripeté quel gesto più e più volte, incurante del dolore e delle ferite che si stava procurando. La sua mano si mise persino a sanguinare tanto era stata la violenza con la quale aveva voluto colpire simbolicamente il destino.
Il tempo non aveva più senso per le sue percezioni. In tutta quella concitazione non si era infatti nemmeno accorta di come la processione delle banshee si fosse allontanata raggiungendo l'uscita dalla Sala di Corte.
In tutto quel tempo si era sforzata, utilizzando ogni sua energia, di non pensare a quelle parole che famelicamente la stavano predando, gironzolando negli anfratti più lontani e dimenticati della sua mente, pronte a planarle addosso non appena le sue difese si fossero abbassate.
Quel momento non giunse molto più tardi, ma fu comunque incentivato da un'ennesima apparizione inattesa.
Abituatasi alla luce solare proveniente dalle numerose brecce scavate nella roccia del soffitto, nonostante il dolore e la disperazione Nabooru riuscì a ritrovare una breve lucidità con la quale insospettirsi quando, come una nuvola coprente il sole, il suo corpo fu adombrato da un qualcosa che i suoi occhi ancora non erano stati in grado di individuare.
Lentamente allora portò il suo sguardo arrossato, ma non ancora del tutto inumidito dalle lacrime, verso l'alto, incontrando prima un paio di scarpe di pelle di cinghiale splendidamente decorate con fili d'argento, seguite da larghe braghe di una seta molto rara color porpora, le quali si collegavano ad una veste decisamente più spessa e tinta dei colori del casato della Tribù di Kales, dal quale erano uscite le ultime sette regine, compresa Newid.
Percorrendo quel corpo fiero e ritto su per i suoi lineamenti scultorei, tipici di una guerriera del deserto, gli occhi di Nabooru infine incontrarono un volto rugoso, segnato da un'ampia cicatrice sulle guancia sinistra che andava però splendidamente ad incorniciarsi nelle grandi orbite oculari, al cui centro splendevano due smeraldi verdi ed intensi irritati lievemente da un pianto forzatamente interrotto da pochi istanti.
Fu solo allora, quando gli occhi di Nabooru incontrarono quelli di Niwesh, la Regina Madre, colei che venti anni prima aveva ceduto il potere alla figlia Niwed, che Nabooru non poté più resistere all'evidenza dei fatti, costretta ad arrendersi ad una realtà terribile quanto la notte più tetra, la tempesta di sabbia più tagliente.
La Regina Niwed era morta e dunque ella, nonostante i propri sforzi, aveva fallito nella propria missione.
Assorbendo tale pensiero dentro di sé, Nabooru riprovò la stretta allo stomaco sentita alle porte della città, ma con un'intensità decisamente più dolorosa ed insopportabile.
Piegò il capo, soffocando i propri gemiti, impossibilitata questa volta nel trattenere le proprie lacrime.
Osservandola, Niwesh le si fece vicina, ma non si disturbò di consolarla o aiutarla.
Semplicemente, con tono regale e severo, si limitò ad ordinarle - Alzati, Ancella! -
Con le sue poche forze, Nabooru accontentò la Regina Madre, non riuscendo però a guardarla dritta in volto, come se la sua reazione possedesse un che di vergognoso.
- Tergi il tuo viso, Gerudo! - le disse allora l'altra, quasi non provasse la benché minima pietà o compassione - Tale comportamento non è ben accetto in questi luoghi, come di certo tu dovresti sapere! -
Nabooru non poté fare altro che annuire, asciugandosi le gote e le palpebre alla buona.
La Regina Madre riprese dunque a parlare - Niwed, Signora delle Tredici Tribù e Regina di Gerudo... è morta! -
Per la prima volta, finalmente, l'ancella riuscì a sentire un filo di dolore in quelle due ultime parole della sua signora, rallegrandosi in parte dentro di sé nel notare come non fosse l'unica in quel momento a provare una sensazione talmente orribile, sebbene non degna di una errante del deserto.
- Ella ci ha lasciato! - riprese ancora una volta l'altra - Ma prima di fare ciò, ha donato al suo popolo l'erede che tutti aspettavano. La risposta necessaria che le nostre genti ci avevano con così tanta forza richiesto, affinché la pace potesse tornare a vivere armoniosamente nei nostri territori! -
Fu così che Nabooru, ritrovando un po' di saliva nel proprio palato, domandò - Nostra signora ha sofferto molto? -
- Immensamente! - rispose seccamente Niwesh.
Il cuore di Nabooru fece un tonfo, sconquassandole le viscere.
- Ma come ci si aspetterebbe da una degna Regina... - tornò a dire - Ella ha portato a termine il proprio compito fieramente, priva di timore o paura! -
L'ancella chiuse gli occhi, trangugiando il boccone sempre più amaro che da diversi minuti stava flagellando il suo spirito.
- Ciò che ora importa non è però quel che Niwed ha compiuto, sebbene per noi rappresenti forse l'avvenimento più importante ed atteso degli ultimi anni. Ciò di cui ora dobbiamo preoccuparci è di portare il peso di una responsabilità la quale, come tu già sai, graverà principalmente sulle tue spalle, Ancella! -
Nabooru comprese immediatamente ciò di cui stava parlando la Regina Madre. Era infatti usanza che la primogenita della Regina venisse affidata alle cure dell'Ancella Reale, la quale non solo doveva dunque occuparsi della crescita e dell'educazione di colei che un giorno sarebbe seduta sul Trono delle Tredici Tribù, ma avrebbe dovuto pronunciare un giuramento solenne, nel quale avrebbe fatto voto di castità fino all'insediamento della nuova regina.
Nessuna di tali oneri erano in grado di spaventarla. Ella era stata preparata in lunghi anni di tirocinio ad una simile responsabilità. Senza contare poi che quello forse sarebbe stato l'unico modo attraverso il quale avrebbe potuto estinguere il proprio debito, ovvero quello di aver fallito di fronte ad un ordine anzi, ad una richiesta precisa da parte della propria signora e regina.
Così, mostrando uno sguardo nuovamente fiero e fermo, Nabooru non dovette dire altro affinché la Regina Madre si convincesse della sua convinzione e della sua forza d'animo.
Qualcuno che aveva amato profondamente, quasi fosse una sorella di sangue, se n'era andata, ma nel contempo era giunta anche colei che ne avrebbe preso il posto.
Come se la sua tristezza si fosse tramutata improvvisamente in una malsana curiosità, Nabooru non dovette nemmeno pronunciare la richiesta che, chiara come il sole, le si leggeva direttamente in volto.
- Vai! - le disse dunque Niwesh - L'erede ti aspetta! A te consegno le chiavi del suo destino, così come quello di tutte noi! -
L'ancella s'inchinò, evitando d'incontrare lo sguardo gelido di Niwesh. Senza proferire più parola poi la superò, lasciandosela alle spalle. Fu solo in quel momento, quando le loro spalle giunsero quasi a sfiorarsi, che sentì un tremito nelle membra della vecchia regnante, comprendendo dunque come, per quanto la sua facciata dura e rigida fosse stata credibile, dentro di lei la Regina Madre aveva pianto le lacrime più amare della sua vita durante il loro colloquio. Sebbene infatti ella era stata sempre conosciuta come una severa, ma amata guida del popolo Gerudo per lunghi anni, in quel momento ella era pur sempre una madre che di lì a poco sarebbe stata costretta a dare un innaturale ultimo saluto ad una delle sue figlie, colei che ne aveva preso il posto amministrandolo con medesima maestria.
L'ancella voltò l'angolo e si lasciò dietro quella tremenda compassione. Tremenda in quanto ella, così come voleva la sua cultura, non avrebbe mai potuto alleviarla in alcuna maniera, dato il fatto che la compassione, di qualsiasi forma o entità, era stata bandita da tempo nella Città di Arenaria, così come da ogni dominio sotto l'egida delle Gerudo.
S'inoltrò dunque all'interno della Camera dei Natali, attraversando le rituali tende grezze imbevute di sangue sacrificale d'agnello e discendendo per i tre scalini che conducevano ad uno spiazzo di pesanti mattonelle di granito, nelle cui fessure divisorie scorreva ancora il sangue della Regina defunta. Il suo corpo già ricoperto da un sudario nero fu la prima cosa che gli occhi di Nabooru furono costretti ad adocchiare.
In segno di rispetto ed onore, l'ancella allora chinò la testa in una breve preghiera, dando il suo ultimo personale addio a colei che aveva servito con tutte le sue energie e, inutile negarlo a sé stessa, con tutto il proprio affetto.
Così facendo, fu come dare il suo addio al passato, liberando il proprio spirito di ogni peso inutile al fine di accogliere la nuova arrivata nella maniera più consona possibile.
Si voltò dunque verso le levatrici, le quali secondo tradizione si componevano di tre figure distinte: una che si occupava del travaglio, la seconda del parto, la terza del puerperio. In assenza di una puerpera dunque, quest'ultima si era predisposta nelle prime cure dell'erede, che proprio in quel momento infatti sostava sereno sulle sue braccia.
Vistala entrare, le tre donne si alzarono in piedi e si avvicinarono a lei con passo cadenzato, rituale. Colei che teneva in braccio l'erede poi si fece più avanti delle altre, allungando le braccia in tutta la loro estensione e chinando il capo.
Compiendo il medesimo gesto, Nabooru afferrò la schiena del fagotto. Una miriade di emozioni esplosero in lei non appena il battito del cuore e la frequenza dei respiri dell'erede divennero percepibili alle sue mani.
Si portò così il fagotto di coperte e veli al petto, stringendolo a sé con estrema dolcezza e commozione. Poi, lentamente, cominciò a dipanare quelle coperture vistose, quasi ingombranti cercando il volto dell'erede con curiosità ed impazienza.
Occhi verdi come quelli della madre. Una capigliatura rossa vermiglio già molto folta e spettinata, nonché il tipico colore ambrato della pelle.
- Una purosangue... - sussurrò commossa. Nelle Gerudo era infatti molto importante che la prole, essendo figlia di un'unione mista, portasse i caratteri ereditari tipici del popolo del deserto. Ciò, secondo la tradizione, stava a significare che la Dea Din, divinità della Triade più adorate nei domini desertici, aveva dato la sua benedizione sulla vita della nuova arrivata. Al contrario, quando invece l'aspetto della neonata si rivolgeva più ai caratteri ereditari del padre, la maggior parte delle volte un predone del deserto o, peggio ancora, un abitante della piana d'Hyrule, essa veniva cresciuta come paria tra le sue consorelle oppure, nei casi più estremi, veniva abbandonata nel deserto, preda facile di Boblin ed altri predatori delle dune.
Nabooru ringraziò per quel dono tanto desiderato. Onorò il nome di Din sette volte ed a lei promise un sacrificio.
Si rivolse così alle levatrici e ad esse chiese - Sta bene? È in salute? -
Come le tre donne si guardarono subito dopo non le piacque per niente.
- Sì! - disse una di loro, mantenendo però un tono titubante, incerto.
Nabooru s'insospettì.
- Se c'è qualcosa che devo sapere riguardo alla sua salute dovete informarmi prontamente! - ordinò severamente, scocciata.
Allora, colei che l'aveva poco prima consegnata alle sue mani si fece ancor più prossima e, con estrema delicatezza, prese a togliere le stoffe in eccedenza che ricoprivano il resto del corpo dell'erede.
Fu allora che, quando gli occhi dell'ancella caddero sul corpo nudo di ciò che teneva in braccio, l'inimmaginabile si fece una realtà.
 
Da tempo immemore la Sala di Corte non aveva visto ospitate tutte e tredici le Baluarde, ovvero le governatrici delle tredici tribù di Gerudo. C'era voluto più di un giorno affinché tutte potessero giungere al cospetto della Maestra d'Armi, Naga, carica più importante del Popolo Gerudo, seconda solamente a quella della Regina.
Una cosa sconcertante era accaduta. Talmente inattesa che nessun'altra questione avrebbe potuto permettere a nessuna delle Baluarde di rifiutare la chiamata.
Dopo un secolo esatto dalla morte del Tredicesimo Patriarca, un nuovo erede maschio era nato dal ventre di una Regina di Gerudo. Un fatto epocale che, se da una parte avrebbe potuto significare una nuova età dell'oro così come era avvenuto in passato, dall'altra avrebbe invece potuto portare ad una spaccatura tra le varie tribù e ad una guerra civile sanguinaria.
Essendo la nutrice del nuovo erede, Nabooru, che mai aveva seduto in consiglio, nemmeno durante le assemblee semplici, annunciate in onore delle festività, si sentiva completamente fuori luogo, imbarazzata nel trovarsi circondata da fiere guerriere e svettanti figure politiche.
Nelle sue braccia sostava il piccolo pargoletto, il quale si era addormentato oramai da più di un'ora.
In piedi in mezzo alla sala vi era invece la Baluarda Thorak, signora dominante della tribù del Ghert, zona definita tra le più inospitali e difficili dei domini Gerudo. Il suo tono di voce, nonché il costante deambulare per la Sala ne aveva denotato fin dall'inizio il suo nervosismo, nonché una mal celata irritazione per l'intera situazione. Già quando Niwed era ancora in vita, Thorak era stata una delle sue più strenue oppositrici, forse perché i loro caratteri e modi di pensare erano completamente diversi, oppure, come invece pensavano praticamente tutte, in quanto le loro tribù erano state rivali per parecchi secoli nella corsa al trono, quando l'anarchia e non l'ordine dominava le dune.
Ella era stata la prima a prendere la parola nel consiglio e già da diversi minuti alcune avevano cominciato nel soffocare degli sbadigli, così come le proprie annoiate espressioni. Sebbene grande guerriera, a Thorak non era stato concesso il dono dell'oratoria, tanto che a volte i propri sproloqui si facevano di difficile comprensione, nonché ricolmi di giri di parole inutili e poco incisivi.
Alla fine del suo discorso, ella infine si rivolse direttamente alla Maestra d'Armi.
- Converrai dunque di come tale situazione imponga una votazione interna al Consiglio delle Tribù! È giusto che tutte noi possiamo esprimere il nostro parere sul futuro del nostro popolo! -
Naga, la quale aveva mantenuto uno sguardo attento, almeno in apparenza, per tutto il discorso della Baluarda del Ghert, tornò ad alzarsi, rimasta seduta sul piccolo giaciglio a fianco del trono sgombro della Regina, sul cui lato opposto sedeva invece la Regina Madre, seriosa ed ingrugnata come al solito.
- Mia cara sorella... - cominciò Naga - Come tu ben sai nessuno di noi ha potere di decisione di fronte ad un così gravoso avvenimento. Ognuna di noi non può infatti fare altro che appellarsi alla nostra antichissima legge. È per questo che domando alla nostra preziosa annalista, Yima, di esplicarci ciò che le nostre antenate decisero e inscrissero nella dura ed eterna pietra! -
Yima era una Gerudo particolarmente giovane, nonostante la sua immensa esperienza e conoscenza profonda della Legge Gerudo.
Ella, essendo nata sfortunata, con una gamba pressoché inutilizzabile fin dai primi anni di vita, aveva sfiorato l'esilio nel deserto come indegna. Il destino però aveva deciso ben altro per lei. Le sue capacità mnemoniche, nonché la minuzia nel riportare ogni singolo fatto storico accaduto all'interno del dominio, aveva portato la regina Niwed, fresca di elezione al trono, a salvarla dal proprio fato, relegandola così per la sua intera vita all'interno della biblioteca, dove la Legge Gerudo era stata archiviata e messa sotto la sua protezione.
- Mia Signora Naga e fiere Baluarde, vi ringrazio di questa possibilità! - principiò dimostrando una maestria oratoria non facile da trovare in una semplice annalista.
- Quando le ancelle mi hanno informato sul tragico fato che ha colpito la nostra amata Regina, nonché sulla nascita di quello che senz'ombra di dubbio diverrà il Tredicesimo Patriarca, mi sono rinchiusa per ore nelle segrete della nostra città, al fine di poter studiare e comprendere al meglio cosa le nostre antenate avevano previsto per simili situazioni! -
Thorak sbuffò vistosamente durante la presentazione dell'annalista, facendo ben comprendere alle presenti di come quei giri di parole non destassero il benché minimo interesse in lei.
- Che cosa hai scoperto? - domandò la Maestra d'Armi soprassedendo al comportamento disdicevole della Baluarda.
Purtroppo Yima non ebbe la medesima forza di Naga, tanto che sul suo volto le gote le si arrossarono di rabbia. Comunque sia, poco dopo rispose al quesito che le era stato posto.
- Purtroppo mia signora non è mai accaduto nella storia un simile avvenimento. In poche parole non abbiamo riscontri su cui basarci! -
- Esattamente quello che dicevo io! - esordì nuovamente Thorak, la quale fu però subito zittita da Naga con un severo e scattante gesto del braccio.
- E per quanto riguarda la legge? - domandò dunque.
Il silenzio calò improvvisamente all'interno della Sala di Corte, zittendo persino i brevi brusii che s'interponevano tra le piccole pause.
L'annalista questa volta non rispose immediatamente alla domanda, portando così molte delle presenti a pensare per il peggio, ovvero seguire il consiglio poco produttivo e pericoloso di Thorak. Ciò però non significa che se ne rimase ferma con le mani in mano. Infatti, rovistando in una bisaccia di pelle spessa, estrasse infine un piccolo rotolo di papiro, sul quale era facile notare degli scarabocchi scritti probabilmente dalla stessa Yima, difficilmente leggibili per molte delle sue vicine e non solamente a causa della sua calligrafia frettolosa. Essendo cresciute per essere delle guerriere, le Gerudo non si può certo dire che amassero utilizzare il proprio tempo libero nello studio della grammatica e della scrittura, cosa che di fatto stonava con il loro ingegno e le loro capacità di ragionamento.
Per Nabooru però il discorso era ben diverso. Ella era stata cresciuta come ancella, consorella della Regina e dunque era impensabile che non fosse in grado almeno di leggere e scrivere.
Comunque sia, l'annalista srotolò il piccolo papiro, si schiarì la voce e riprese a spiegare.
- Per un fortuito caso del fato, care sorelle, proprio stamane mi è capitato d'imbattermi in uno scritto redatto dal nostro Sesto Patriarca, ovvero Lackhna di Dragmire. -
Un vociare fievole tornò a farsi sentire all'interno della Sala, costringendo la Maestra d'Armi ad intervenire prontamente per permettere ad Yima di continuare.
- Come credo voi saprete, Lackhna rimase orfano di madre, l'allora Regina, quand'egli non aveva ancora raggiunto l'età necessaria al suo insediamento. Al fine di evitare dunque uno scontro tra le tribù... - si fermò un secondo, come a rimarcare la sua ultima frase - ... Lackhna decise che la reggenza del trono sarebbe dovuta andare ad una Gerudo totalmente scevra da cariche. Immagino che tale proposta fosse motivata dalla sua ferma volontà di non favorire o offendere alcuna Baluarda all'interno della Corte! -
Il brusio ricominciò, ma stavolta Naga non fece nulla per zittirlo, troppo assorta com'era nelle sue riflessioni.
- Ridicolo! - esclamò Thorak stando ben attenta dal farsi sentire praticamente da ogni presente.
- Chi fu la candidata ad un simile onore? - domandò dunque la Maestra d'Armi, mordendosi nervosamente le unghie.
- La sua nutrice! -
Come colpite tutte da una scossa intensa, ogni singola Gerudo perse improvvisamente la parola. I loro occhi erano scattati all'unisono in una singola direzione, individuando una in particolare tra tutte loro, la quale in quel momento si sentì tutto il peso del mondo addosso.
L'unica in quella sala che ancora pareva dotata di capacità motorie era come prevedibile la solita Thorak, la quale sbalordita più dalle espressioni delle proprie pari che da ciò che era stato appena detto dall'annalista, si portò nuovamente al centro della sala, chiaramente irritata.
- Non starete pensando veramente ad un simile abominio?! - esclamò, ma nessuno parve udirla.
La Maestra d'Armi si alzò nuovamente dal proprio posto, portandosi in un primo momento verso la Baluarda e poi superandola senza troppi onori.
Come quelli di tutte, i suoi occhi erano immobili su Nabooru, la quale cercava dentro di sé di distogliere l'attenzione cullando il pargoletto tra le sue braccia.
- Ancella, alzati! - le ordinò Naga.
Sebbene a malincuore, Nabooru non poté fare altro che obbedire.
Yima le ordinò poi di avvicinarsi con una semplice mossa delle sue dita.
Ancora una volta, l'ancella fece come la Maestra d'Armi le aveva indicato.
Quando furono a pochi passi l'una dall'altra, con Thorak che faceva da sfondo all'intera scena con il suo volto corrucciato, Naga cominciò ad interrogarla.
- Hai udito ciò che ha detto l'annalista? - le chiese.
- Sì... mia signora! -
La voce tremula di Nabooru ne tradiva il nervosismo.
- Comprendi che se una cosa simile dovesse riaccadere qui ed oggi, tu saresti la candidata alla reggenza? Che per molti anni dovresti ricoprire un ruolo molto vicino a quello di una Regina? -
Anche se l'ancella non rispose a tale quesito, era facile comprendere dalla sua faccia sconcertata come la cosa fosse già stata recepita dalla sua mente.
- E tu cosa ne pensi? - Naga cominciò a girarle attorno, quasi a studiarla - Saresti in grado di reggere una simile responsabilità? Lo saresti... più di me? -
Per quanto Nabooru non fosse per nulla esperta in diatribe politiche e giochi di potere, aveva capito fin da subito di come fosse stata appena sottoposta ad una domanda trabocchetto, alla quale rispondere non sarebbe stato solamente arduo, ma anche particolarmente pericoloso.
- Ti vedo titubante, ancella... - la riprese immediatamente la Maestra d'Armi, non permettendole così di riflettere a sufficienza - Forse sei nervosa dal fatto che, in una situazione normale, dovrei essere io a ricoprire il ruolo di reggente! Pensi forse che le mie domande ed i miei pensieri siano mossi da desiderio di potere? -
- No, mia signora! -
- Pensi forse che io non sia in grado di guidare il nostro popolo fino a che il Patriarca che tu tieni nelle mani non abbia esperienza e maturità a sufficienza per farlo da solo? -
- No, mia signora! -
- E che mi dici di te? Si, te lo domando ancora una volta. Saresti in grado di reggere il peso di innumerevoli responsabilità, una pace da mantenere  tra tribù sempre più vicine al piede di guerra, nonché confini da difendere da orde di orridi Boblin e sacrileghi predoni? -
Chissà perché in quella velata violenza contenuta all'interno di quell'ennesimo quesito, Nabooru fu colpita come da un'illuminazione semplice e diretta. Mentire non sarebbe servito a nulla, così come tentare di annebbiare la mente della sua interlocutrice con fallaci discorsi. Dire la verità. Ecco tutto. Rivelare i propri pensieri ed i propri desideri. Tutto ciò che ci si aspettava da un'ancella in fondo.
- Mia signora - disse dunque - Io non conosco nulla di ciò che mi hai appena domandato. Non sono e non potrei mai essere in grado di sostituire una regina! -
- Finalmente... - si fece sentire nuovamente Thorak alle spalle di Naga.
Nabooru continuò facendo finta di nulla - Ciò che però so di poter fare è crescere l'erede di nostra Signora Niwed. Renderlo forte, sano e sveglio, degno di calcare il trono che sua madre occupò prima di lui. So di poterlo proteggere da ogni angheria e pericolo, a costo della mia stessa vita! -
La risposta di Nabooru fu chiara a tutte. Fu forse per questo che molte si scambiarono sguardi perplessi e colmi di dubbio, mentre Naga invece continuava ad osservare fermamente l'ancella e l'erede al trono che stringeva al proprio petto.
Dentro di sé sapeva bene ciò che avrebbe fatto in seguito, anche se una simile decisione la riempiva di un'inquietudine assai insolita e sconosciuta al suo cuore. Infatti, poco dopo, cercò qualche rassicurazione nello sguardo fiero della Regina Madre Niwesh, la quale, fattasi trovare con un sorriso inaspettato sul suo volto, non fece altro che piegare lievemente la testa in segno di approvazione. Per Naga fu più che sufficiente.
Così, tornata sul piccolo rialzo sul quale sostava la propria sedia, richiamando l'attenzione delle proprie sorelle di tutte le tribù, emanò la propria decisione.
 
 
Migliaia di volte Nabooru aveva visto Niwed indossare quelle sfarzose vesti da cerimonia, aiutandola il più delle volte persino ad indossarle. Mai però era riuscita nemmeno lontanamente ad immaginare quanto potessero pesare una volta attaccate al corpo.
La giornata era stata particolarmente lunga e faticosa, nonché il sole, caldo come al solito, aveva portato la povera ancella a sudare da ogni singolo poro del proprio corpo durante l'intero rito d'insediamento.
Finalmente, col giungere del crepuscolo, ella era riuscita a congedarsi dall'immensa folla accorsa per l'evento, desiderosa di rientrare all'interno del palazzo per togliersi quegli ingombranti stracci di dosso. Per tutto il giorno aveva desiderato rimanersene un po' in solitudine con i  suoi pensieri, tanto che aveva cacciato in malo modo le altre ancelle dalla sua stanza. Di una simile cosa però si era immediatamente pentita non appena si era ricordata di come la propria capigliatura così agghindata non poteva essere sciolta in autonomia.
Spogliatasi con veemenza, quasi desiderasse più strapparsi che togliersi di dosso quel groviglio di veli, infine rimase vestita solamente di una leggere sottoveste, con il solo diadema di rubini a farle da peso alla testa.
Sedutasi sfinita e nervosa su di una sedia in pietra, si portò il capo tra le mani. Nessun pensiero però riuscì a formularsi completamente dentro di esso. Nulla, il vuoto. Era come se la sua mente si fosse persa in un profondo e tenebroso burrone, dove non solo lo spazio, ma persino il tempo aveva perso di consistenza.
Ad un tratto però, persa nella sua inquietudine, una gelida folata d'aria la fece rabbrividire sfiorandole la schiena ancora madida di sudore.
I suoi occhi si spalancarono, ricolmi di rabbia.
- Non avete mantenuto fede alla vostra promessa! - disse seccamente.
Dietro di lei però non giunse alcuna risposta. Per un secondo Nabooru si sentì completamente pazza, credendo di essersi fatta trasportare dalla propria immaginazione.
Poi, però, il suono di passi leggeri e cadenzati giunse chiaro, anche se fievole, alle sue orecchie.
- E così hanno scelto te... - emerse una voce roca alle sue spalle.
- Un'ancella che si è fatta Regina... inaudito! - ne apparve un'altra.
- Io non sono una Regina! - esclamò Nabooru infuriatasi.
- Oh, questo è quello che pensi tu... ma non è ciò che pensano molte delle tue sorelle. Comprese alcune capo tribù che si sarebbero viste decisamente meglio sul posto che tu ora occupi! -
Non c'era bisogno che glielo dicessero. Ella lo aveva compreso fin dal primo momento dopo la sua elezione proposta dalla Maestra d'Armi.
Cercò di non pensarci. Alzandosi di scatto, si voltò, osservando negli occhi coloro che erano giunte a farle visita.
- Avete abbandonato la mia Regina. Per questo ella è morta! Perché dovrei ascoltarvi? -
Indescrivibile era il volto di quelle due donne, sebbene si potessero effettivamente identificare in una simile maniera. Di bassa statura, dotate di occhi dalle grandi orbite, quasi sproporzionate rispetto al resto del volto, il quale poi era un groviglio di rughe talmente secche a causa dell'aridità del deserto da somigliare più a fratture nella roccia che a semplice pelle avvizzita, esse possedevano un aspetto quasi inumano.
- Non avremmo potuto fare nulla! Il suo destino era segnato! - si difesero.
- Questo non potete saperlo! Voi non eravate lì! -
- Questo è quello che tu credi, ma come ben presto imparerai siamo molto abili a muoverci nel silenzio e nell'ombra. E se ti dico che per Niwed non c'era più nulla da fare, tu devi crederci! -
Al solo sentire il nome della sua amata regina defunta, Nabooru sentì la sua testa farsi ancora più pesante, talmente tanto che non poté più resistere alla tentazione di tornare a sedersi. Quanto avrebbe voluto ch'ella fosse ancora lì.
- A volte è necessario un profondo sacrificio affinché una simile meraviglia possa venire al mondo! - le dissero ancora - Una meraviglia che però ora corre un grave pericolo dal quale tu la devi proteggere! -
- Il bambino?! - saltò in aria Nabooru - Che cosa c'entra lui? Di che pericolo state parlando? -
- Il medesimo pericolo con il quale tu oggi imparerai a convivere, mia cara! - le rispose la donna alla sua destra, distinguibile dall'altra solo ed esclusivamente per delle decorazioni blu sulle proprie vesti, differenti da quelle di colore rosso appartenenti all'altra.
L'ancella deglutì un gozzo pesante e doloroso. Non fece ulteriori domande. Lasciò semplicemente che le due orribili donne rispondessero inconsciamente ad esse.
- Sei stata scelta perché imparziale! - le spiegarono - Lontana da ogni affare legato a potere, avidità o cupidigia. La candidata perfetta per il ruolo alla reggenza in una simile situazione! -
- Questo è quello che ha pensato anche la Maestra d'Armi! - tagliò corto Nabooru - Dove volete arrivare! -
- Beh... - si avvicinò una delle due - Se per il Capo delle Guardie ora sotto il "tuo" controllo queste tue caratteristiche possono essere state una scelta azzeccata per la pace, per altre potrebbe invece significare un bersaglio facile da colpire per prendere il potere! -
- In poche parole una sommossa... sì, insomma... una guerra civile! -
- Io direi più un semplice assassinio... no, anzi... un duplice assassinio! -
Lo sguardo di Nabooru si soffermo su di lei, socchiudendo le palpebre fino a farle diventare un minima fessura.
- Non crederai che, dopo aver ucciso te, lasceranno in vita il bambino, vero?! - disse una.
- Egli non può sopravvivere. Altrimenti le tribù potrebbero unirsi sotto la sua egida un giorno! Egli è pur sempre un Patriarca, un figlio della profezia! - continuò l'altra - No, mia cara. Anche lui dovrà perire insieme a te, se coloro che desiderano il potere possano prenderlo per davvero! -
L'ancella sospirò. Non era diventata reggente che da un giorno e già la sua vita passata le sembrava solamente un lontanissimo e sereno ricordo, il quale, molto probabilmente, un giorno sarebbe divenuta niente altro che una mera fantasia.
Non rimaneva che una sola soluzione. L'unica plausibile affinché un simile pericolo potesse essere evitato. Non per amore suo, ma per amore di quella piccola creatura, posta in una culla non molto lontana da loro, sulla quale aveva fatto un solenne giuramento a sé stessa ed alle Divinità.
Decise dunque di rivolgersi a coloro che, per scopi che ancora non aveva compreso e che forse non avrebbe mai conosciuto, si erano presentate lì per aiutarla.
- Che devo fare? - 

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Capitolo 2
*** Un Abile Discepolo ***


Una voce risuonò tra le stanze del palazzo.
- Mandrag? -
A parte il rimbombo riecheggiante tra le pareti di arenaria, nessuna risposta.
Il cuore di Nakesh, ancella reale Gerudo, cominciò a battere all'impazzata. Da circa un'ora il suo protetto era completamente sparito dalla circolazione. Un comportamento del tutto solito per il piccolo erede al trono.
-Mandrag?! - ripeté con tono esasperato guardando sotto un tavolo. Di lui nessuna traccia.
Ad un tratto dei passi si fermarono subito dietro di lei.
- Si può sapere cos'è tutto questo baccano? -
La voce era impossibile da non riconoscere.
Prendendo un lungo respiro, Nakesh si voltò alzandosi. Pronta nel spiegare la situazione, ella fu subito fermata dalla Regina, la quale con un gesto severo non le permise di prendere parola per prima.
- Fammi indovinare... - disse un'invecchiata, ma ancora affascinante Nabooru - Il Principe ha fatto perdere le sue tracce ancora una volta! -
Disperata, Nakesh ricadde in ginocchio, in segno di scuse.
- Perdonami mia Regina... - sussurrò - Non sono stata in grado di stargli dietro. Attendo con ansia la tua giusta punizione! -
Dopo sette anni dal momento in cui aveva preso la carica di Reggente, Nabooru era dovuta cambiare particolarmente. Infatti, la solare e dolce ancella reale, aveva dovuto imparare la durezza del proprio ruolo, nonché racimolare un'esperienza politica non indifferente, al fine che le proprie inimicizie e gli astuti tranelli delle avversarie insite nella corte non le procurassero ostacoli insormontabili.
Nonostante ciò, una piccola parte della vecchia ancella ancora non era morta dentro di lei, protetta da un sottile strato di tenebra e segretezza. Quella che la vedeva ancora una donna in grado di provare emozioni e sentimenti umani, attraverso i quali poteva ancora percepire compassione e tenerezza per coloro che, un tempo, avevano condiviso il suo destino. Per coloro che avevano ricoperto il ruolo ora tenuto dalla giovane Nakesh.
Osservandola chinare il volto contrito, ella fece scattare velocemente due dita delle sua mano sinistra, facendole segno di alzarsi. L'ancella obbedì, sebbene le sue angosce non diminuirono in intensità.
- Mia Regina, spero tu possa accettare le mie scuse e... -
Ancora una volta, Nabooru la zittì, questa volta portandosi un dito di fronte alle sue labbra. Poi, fece scattare lo sguardo da destra a sinistra, aguzzando le orecchie fino a riuscir ad identificare persino il fievole suono degli spifferi d'aria che riuscivano ad infiltrarsi all'interno del palazzo attraverso piccole brecce nelle pareti ruvide.
Ripeté il gesto almeno un paio di volto poi, all'improvviso, la sua testa si bloccò improvvisamente, come se un qualcosa di talmente leggero da non essere percepito da orecchio altrui fosse stato riconosciuto dai suoi soli timpani.
Un sorriso beffardo e contenuto si colorò sulla sua bocca. Subito dopo però, facendo finta di nulla, tornò a rivolgersi alla sua ancella.
- Vai ad informare la Prima Guardia e dì alle tue compagne di stare attente se qualcuno esce dal palazzo! -
- Non credo che sia andato molto lontano, mia Signora. Credo invece che... -
- Fa come ti ho detto Nakesh e sbrigati! - s'irrigidì la Regina, portando la propria ancella a sgattaiolare via in maniera imbarazzata.
La regina osservò la propria servitrice allontanarsi di corsa e, non appena fu abbastanza lontana da non poterla più udire, si voltò verso una parete rivestita esclusivamente da un arazzo oramai usurato dal tempo e dalle infiltrazioni di sabbia.
- Credi che sia divertente, ragazzo mio, far venire simili spaventi alla tua ancella! - disse sempre rivolta alla parete, come se essa potesse sentirla e perfino risponderle.
Pochi secondi di silenzio e poi, come se fatto della medesima consistenza e colore della parete, un piccolo esserino con fluenti capelli rossi quanto la fiamma e gli occhi di un intenso colore ambrato, si palesò di fronte a lei.
Sebbene mantenesse il volto chino verso il basso, in chiaro segno di contrizione, Nabooru non poté non notare un velato sorrisino che appariva malcelato sulle sue labbra, come se nelle sue azioni trovasse ancora un certo non so che di ilare.
- Hai sentito ciò che ho detto? - domandò nuovamente la reggente con tono sempre più severo.
Finalmente, il ragazzino alzò il suo viso, questa volta segnato da un'espressione delusa e risentita.
- Sì, madre! -
Nabooru sbuffò, scuotendo il capo.
- Non è questo il modo in cui si comporta un erede al trono! -
- Hai ragione. Perdonami! -
Le sue scuse non fecero altro che irritarla ancora di più.
- Non te le cavi così Mandrag! Non è la prima e nemmeno la decima volta che ti faccio questo discorso. - sbottò - Salti le lezioni, maltratti le tue ancelle e non hai il minimo rispetto di regole o tradizioni! Senza contare che il regno si trova in un momento delicato, con le guardie che non possono perdere il proprio tempo a scorrazzare per il palazzo a cercarti durante le tue bighellonate! -
Il torace di Mandrag cominciò a gonfiarsi e sgonfiarsi sempre più velocemente, chiaramente scocciato ed imbarazzato per l'ennesima ripresa fattagli dalla sua protettrice, nonché madre adottiva per il volere della regina madre stessa.
- Che cosa hai da dire dunque a tua discolpa? -
Mandrag non seppe cosa risponderle. I suoi pugni si erano talmente serrati in una stretta potente che a momenti le sue unghie si conficcarono nella carne, facendola sanguinare.
- Allora?! - rimbrottò ancora una volta Nabooru, sbattendo nervosamente una pianta del piede.
- Non lo farò più.... madre... - bofonchiò il principe - Per... perdonami! -
Nabooru comprese subito che non avrebbe avuto dal piccolo erede.
Annuendo con espressione tutt'altro che soddisfatta, gli fece segno di uscire dalla stanza.
- Va dalla tua ancella e chiedile perdono! - gli disse - Poi, raggiungi le tue insegnati e completa la tua istruzione quotidiana! Chiaro? -
Mandrag non le rispose minimamente, ma come ella gli aveva ordinato, prese la via dell'uscita, correndo sempre più veloce, evitando di voltarsi indietro nemmeno per una singola volta.
Nabooru sospirò nuovamente nel vederlo allontanarsi. Nessuna come lei sarebbe riuscita a provare un sentimento tanto profondo per quel bambino che le ricordava così da vicino la sua amata regina, ma nessuna come lei avrebbe mai provato le medesime fatiche nonché i dubbi che le sorgevano ogni volta che pensava al futuro del trono di Gerudo.
- Rallegrati, reggente! - una voce la sorprese alle spalle all'improvviso.
Voltatasi di scatto, vide la figura bassa e poco rassicurante di Koume avvicinarsi a lei.
- Il tuo figlioccio è un abile discepolo! Penso che a volte dovresti pensarci quando lo rimproveri con così tanto zelo. -
Come ogni volta che si trovava in sua presenza, Nabooru provò un profondo senso di raccapriccio e distacco da quella creatura, così come avveniva con la sorella gemella di quest'ultima, Kotake.
Nonostante fossero passati ben sette anni da quella infausta notte, quella in cui la regina Niwed morì di parto, ella non era ancora riuscita a capacitarsi del motivo per cui, nei prodromi del suo travaglio, la sua signora l'avesse spedita nel deserto alla ricerca di una mera leggenda la quale poi si era tramutata in una realtà difficilmente digeribile che, in seguito, aveva preferito nascondere al suo intero popolo.
- Credevo di avervi detto di come non volessi stregonerie all'interno del palazzo! - sbottò dunque la reggente, quasi la violenza delle sue parole potessero contrastare la forte sensazione di nausea dovuta alla presenza della sua ospite - Né da parte vostra, né da parte sua! Le ancelle cominciano già a parlottare tra loro durante la notte, senza contare che se alcune guardie venissero a scoprire ciò di cui... che lui... -
- Che lui è un sensibile all'antico potere del Deserto? - terminò la frase Koume per lei
- Immagino che le tue ancelle rimarrebbero basite di fronte ad una simile scoperta! -
Nel suo tono vi era una sorta di ironia. Un sarcasmo che ledeva fastidiosamente l'udito della sua interlocutrice. Fu solo allora che quest'ultima si accorse d'improvviso come Koume fosse sola.
- Dov'è tua sorella? - domandò dunque, distaccandosi per un secondo dal loro discorso.
- Si trova da qualche parte a nord dei tuoi domini! Tornerà prima che faccia notte! -
- Non sono i miei domini... - sbottò Nabooru a denti stretti - Io non sono la Regina! -
- Beh, questo è quello che credi tu... il tuo popolo la pensa assai diversamente, in particolare coloro che vorrebbero vedere i loro nobili deretani accasciarsi sul trono dove ora siedono i tuoi! -
Un brivido violento e gelido scosse le membra di Nabooru. I pochi peli cosparsi qua e là sulle sue braccia, così come i suoi capelli nonostante fossero legati stretti al diadema argenteo segno della sua posizione, si rizzarono in uno scatto repentino, divenendo acuminati ed affilati quanto delle lame.
Koume sorrise nel vedere quella reazione, tanto che si preoccupò subito dal tranquillizzare, sempre armata del suo odioso sarcasmo, la sua regina.
- Non ti preoccupare, Nabooru! - rise col suo tono stridulo - Ci siamo noi qui a proteggerti. Com'era nel nostro patto... patto che mi auguro tu non abbia dimenticato! -
La reggente comprese immediatamente dove la sua sgradita ospite voleva andare a parare.
- E' sempre nei miei pensieri! - disse dunque, aggiungendo poi alla fine - Così come nei miei incubi! -
Koume annuì divertita - E' un bene, mia regina! Sai quanto noi teniamo alla tua incolumità, quanto a quella del piccolo che ora ti chiama, con una certa illegittimità, madre! -
Nabooru arcuò le spalle, quasi a voler troneggiare sulla piccola figura che le sostava di fronte.
- Come dissi allora, farò ciò che volete! - esclamò - Ma mai più stregonerie all'interno del palazzo, sono stata chiara? -
Quasi il tono titanico e serio della reggente le avesse donato rinnovata regalità, Nabooru nascose a fatica la sua sorpresa nel notare come il sorrisetto irritante di Koume si fosse ritratto improvvisamente in una smorfia guaente.
- Chiarissima, mia regina! - mimò uno sghembo inchino l'altra.
- Bene. Ora dimmi, strega, perché sei venuta qui? Non certo per rimbrottarmi le punizioni che ogni tanto assegno all'erede?! -
Presa a camminare aiutata dal suo breve bastone ricolmo di tarli e schegge, Koume compì un breve circolo introno a Nabooru, emettendo uno stridio insopportabile che, in una maniera o nell'altra, doveva corrispondere ad una sorta di risata.
- Presto detto, mia Signora. Presto detto! - mugulò tornado di fronte a Nabooru.
- Come da te chiesto, abbiano perlustrato le zone più estreme dei territori al di fuori del dominio. Ciò che tu ci hai chiesto di cercare era una leggenda persino per noi Gemelle Rova, la cui conoscenza dei tempi antichi è molto più vasta di qualsiasi storica o annalista della tua stregua. Sta di fatto che diverse notti orsono, io e Kotake ci siamo imbattuti in un qualcosa di assai inaspettato, quanto incredibile persino per i nostri vecchi e saggi occhi! -
Il respiro della reggente si fermò, come se ogni lembo del suo corpo fosse intento ad ascoltare le parole della strega.
- Il Colosso è stato trovato, mia Signora! Sebbene esso sia infestato da orridi boblin ed altra sorta di creature, esso esiste veramente ed è ancora in ottime condizioni nonostante si trovi in una zona spesso colpita da violente tempeste di sabbia! -
Le palpebre di Nabooru si spalancarono, mostrando i suoi occhi verde smeraldo in tutta la loro bellezza, nonché meraviglia. Per lunghe notti, i suoi sogni erano stati tormentati da una figura femminea di enormi dimensioni scolpita nella nuda pietra del deserto. Un'immagine il cui significato era stato trovato solamente alla fine di estenuanti ricerche negli annali della biblioteca. Una leggenda era apparsa in principio, esattamente come aveva da poco sottolineato Koume. Nulla più. Una storia per bambini.
Il fatto che una simile invenzione si era rivelata essere invece esistente e concreta da qualche parte nel deserto, che cosa stava a significare?
Nabooru se lo domandò un migliaio di volte in quei pochi secondi.
Così, poco più tardi, chiese - E'... è possibile che all'interno vi sia una sorta di struttura... uno spazio abitabile... costruito... -
- Un tempio, forse? - l'aiutò Koume.
Nabooru annuì.
- E' possibile,sì! Questo ovviamente richiederà ricerche più accurate e molto più tempo per poterlo appurare, ma data la nostra scoperta, mia Signora, credo che i tuoi sospetti siano stati ben indirizzati. Forse il Tempio dello Spirito è stato infine ritrovato! -
Molte domande albergavano ancora nella mente della reggente al trono. Quesiti a cui avrebbe voluto dare immediatamente una risposta. Se non fosse stato che un chiaro rumore di passi si fece sempre più prossimo.
- Mia signora! - la voce festante di Nakesh riecheggiò nella stanza.
In uno scatto, lo sguardo preoccupato di Nabooru si rivoltò verso dove sostava Koume. Se Nakesh l'avesse vista sarebbe stato un problema non facile da affrontare. Com'era prevedibile però, della strega non era rimasta alcuna traccia.
- Ho trovato il principe, infine! - esultò l'ancella, finalmente rosea in volto.
- Molto bene, Nakesh! Molto bene. Sapevo che potevo fidarmi di te! - la ringraziò Nabooru cercando di rendere la propria voce più ferma possibile - Riporta dunque la calma nel palazzo, te ne prego! -
Ed ancora una volta si ritrovò nella propria solitudine, ma questa volta con un turbinio di emozioni che non era in grado di tenere a bada nel loro insieme.
Il Tempio dello Spirito. Solamente da bambina aveva sentito parlare di un simile luogo.
Costruito dal Primo Patriarca delle Gerudo in onore della Dea Din. Una complessa architettura adibita a santuario affinché la benedizione della Divinità ricadesse sul popolo del deserto.
Se un simile posto esisteva, perché era stato rivelato in sogno proprio a lei? A che scopo il fato aveva deciso che fosse proprio lei, un'ancella che contro ogni tradizione aveva occupato il trono della Regina seppur per un tempo limitato, a trovarlo?
Impossibilitata in qualsiasi modo nel trovare una risposta degna a simili domande, si cercò un giaciglio comodo e, tirando fuori un serpente ammaestrato da una delle giare della sala, cominciò a giocherellarci con le sue mani, maneggiando quell'essere pericoloso quanto letale con cura e tranquillità. Il suo costante sibilare, nonché la morbidezza delle sue spire avevano da sempre una sorta di potere calmante sui suoi nervi.
Finalmente, dopo tante emozioni difficili e deleterie, riuscì infine a trovare un po' di calma nel proprio cuore e nei propri pensieri. Nella vita di una Regina però, come purtroppo Nabooru aveva dovuto imparare fin dai suoi primi giorni nel ruolo di reggente, la calma e la pace sono situazioni vacue, passeggere, evanescenti. Un onere da portare, piuttosto che un onore da mostrare.
Non si sorprese né si scocciò quando la Maestra d'Armi, colei che aveva permesso di fatto la sua elezione, sfrecciò all'interno della stanza.
Lievemente intristita in volto, Nabooru non ebbe bisogno di sentire alcunché dalla bocca della sua fida servitrice. Sapeva già tutto.
- I predoni... - sussurrò.
La Maestra d'Armi annuì - Si avvicinano ed in gran numero. Entro Stanotte saranno alle porte della città! -
 
Fuori dalla finestra, una brezza gelida penetrava raggiungendo la pelle seminuda del torace di Mandrag.
Per tutta la notte non era riuscito a prendere sonno. I rumori fuori dalle mura lo avevano tenuto sveglio, con il cuore che gli batteva frenetico da percepirsi all'altezza della gola.
Dentro di sé si sentiva diviso. Se da una parte le urla ed il suono metallico delle lame che s'infrangevano sulle armature lo rendevano nervoso, impaurito come solo un bambino poteva esserlo, dall'altra lo spettacolo di luci ed ombre generato dal firmamento notturno visibile attraverso il piccolo pertugio nella parete lo affascinava e, in un certo senso, lo cullava.
Là fuori si stava combattendo una battaglia sanguinosa e molto probabilmente, Mandrag ne era sicuro, molte sue conoscenti e amiche erano perite sotto i colpi dei nemici del suo popolo.
Più di una volta nel corso della notte si era domandato cosa avrebbe fatto nel caso in cui i predoni fossero riusciti a penetrare all'intero delle mura. Dove si sarebbe nascosto? Che ne sarebbe stato della sua matrigna? E delle sue ancelle? Sarebbe riuscito a sopravvivere o sarebbe stato venduto come schiavo ad un avido signore della guerra?
Mandrag però non era un bambino come gli altri. Lo sapevano tutti, Regina ed ancelle in particolare. Ma soprattutto lo sapeva lui stesso. Ne era conscio, seppur in una maniera che nemmeno egli era mai stato in grado di comprendere.
Una fiamma ardente bruciava dentro di lui. Una forza non nota alla stragrande maggioranza delle abitanti del deserto. Un'energia che era in grado di far sentire un titano anche il più minuto tra gli esseri di quel mondo.
Fu forse a causa di quella fiamma interna al suo spirito che, al di là dei timori e delle paure, vi era una parte di quel piccolo fanciullo il cui destino era stato segnato fin dal suo primo giorno di vita in cui un qualcosa di guerriero, d'indomito, avrebbe voluto spingerlo al di fuori della sua stanza, portarlo all'interno dell'armeria, prendere una picca ed uscire per fare la sua parte come tutte le altre.
Avrebbe voluto, ma di certo non avrebbe potuto. Mandrag non era stato lasciato solo quella notte, anche se occhi distratti non avrebbero avuto dubbi nel sostenere il contrario.
- In quante sono morte? - domandò dunque, sbirciando dalla finestra, osservando i fuochi in lontananza.
Una voce gli rispose alle sue spalle - Da quanto tempo sai della nostra presenza? -
I suoi occhi ambrati, per qualche breve istante, si voltarono indietro, diretti verso le due Rova, le due streghe che lo avevano istruito in gran segreto fin dalla sua nascita.
- Da sempre... -
Koume e Kotake si scambiarono uno sguardo stupito e compiaciuto. Il loro discepolo stava crescendo in fretta.
- Quante sono morte? - domandò nuovamente il principe.
- Molte... e molte altre ne moriranno! - gli risposero.
Mandrag trattenne a stento una lacrima - Stiamo perdendo? -
Una breve pausa, la quale non fece altro che aumentare la tensione nella stanza.
- No! - rispose infine Kotake - Non glielo permetteremo! Le mura sono salde e protette! -
- Immagino che voi abbiate fatto la vostra parte! -
- Ovviamente! Noi siamo qui, ma i nostri occhi e le nostre orecchie sorvolano costantemente il campo di battaglia! Di questo non devi temere! -
Mandrag serrò i denti in una morsa. Stare là dentro non faceva altro che aumentare le sue preoccupazioni. Voleva vedere, se proprio non poteva partecipare. Voleva assistere alla battaglia. Notare con i suoi stessi occhi la vittoria del suo popolo.
- Portatemi fuori! - ordinò allora, senza mezzi termini.
- Sai bene che non possiamo! -
- Nessuno baderà a noi! Portatemi fuori! -
- Principe! - ribatté nuovamente Koume - Là fuori non c'è nulla da vedere e.... -
- Va bene! - la interruppe improvvisamente Kotake, sbalordendola - Se questo è ciò che vuoi, ti accontenteremo! -
Per quanto Koume non fosse completamente d'accordo con tale decisione, insieme alla sua anziana gemella si avvicinarono al principe, poggiando entrambe una delle loro mani su una spalla di Mandrag.
Fu questione di un attimo, una frazione di secondo impercettibile.
Come inghiottito da un'oscurità ancor più tetra di quella di una notte senza luna e senza stelle, Mandrag sentì il proprio corpo scivolare in un abisso profondo ed incerto nelle forme e nelle dimensioni. Poi, riaprendo i suoi occhi impauriti, fu accolto da uno spettacolo raccapricciante.
Corpi distesi esanimi a centinaia. Flutti di sangue scuro e maleodorante assorbito in parte dalle sabbie del deserto. Forme scontrarsi l'una contro l'altra in maniera maniacale, senza una logica, senza una vera armonia. E il freddo. Non un freddo naturale, come solo la notte può donare. No. Una sensazione di gelo che Mandrag non aveva mai provato in tutta la sua giovane vita, ma che capì fin da subito appartenere ad una dimensione altra, una forza terribile quanto certa che un pargolo non dovrebbe mai conoscere se non giunto oramai all'età adulta. Il freddo della Morte.
- Dovevi rimanere nella tua stanza, principe! - bofonchiò Koume, la quale lanciò un'occhiataccia alla sorella che invece, orridamente, pareva divertita dallo sconcerto disegnato sul volto del loro protetto.
Mandrag non l'ascoltava però. Era come se le sue orecchie ed i suoi occhi fossero stati completamente conquistati da quello scenario apocalittico. Una figura in particolare aveva catturato la sua attenzione. Una sagoma che, nonostante fosse in tutto e per tutto simile alle altre a causa dell'oscurità e della lontananza, per gli occhi del giovane principe aveva delle fattezze facilmente distinguibili e riconoscibili. In sella al proprio destriero, Nabooru stava combattendo come ogni altra Gerudo, spalleggiata dalla forte ed esperta Maestra d'Armi.
- Osserva, principe! - gli sussurrò all'orecchio Kotake - Tua madre guida le sue truppe con immensa maestria nonostante sia stata una semplice ancella per molti anni! -
Ancora una volta, le orecchie di Mandrag non furono in grado di udire alcunché intorno a lui, troppo concentrato nel seguire i movimenti ed il fato di colei che lo aveva adottato e cresciuto fino a quel momento.
Sebbene fosse difficile da individuare e riconoscere, era parso fin da subito che Nabooru non stesse combattendo con dei predoni a caso, ma con uno in particolare, il quale doveva essere assai abile dato che aveva impegnato fino a quel momento due forti e fiere guerriere, di cui una, la Maestra d'Armi, era riconosciuta come la più esperta dell'intera Città di Arenaria.
Ad un tratto, mentre Mandrag si era fatto un po' più vicino alla scena raggiungendo il punto più alto della duna sulla quale si erano materializzati, Kotake lanciò uno sguardo furbesco alla sua gemella, la quale non comprese immediatamente cosa stesse a significare.
Poi, lentamente, i suoi occhi tornarono a rivolgersi nei confronti della regina, scendendo lentamente verso la sagoma del suo cavallo, fino a discendere ad uno degli zoccoli in particolare.
La sua mano sinistra si aprì completamente, ondeggiando le dita in  una strana danza armonica e sinuosa. Poi, ad un tratto, queste si fermarono e s'irrigidirono, come se stessero tentando di afferrare un qualcosa d'invisibile ed impercettibile nell'aria, facendo infine scattare la mano in un movimento secco e di rottura. Fu allora che Koume comprese e, in parte, s'inorridì per la scelta alquanto incauta della sorella.
Acuendo il proprio sguardo sulla medesima scena sul campo di battaglia, vide così il cavallo di Nabooru emettere un nitrito di estremo dolore, una sofferenza che poi lo portò ad impennare e quindi a disarcionare la propria cavallerizza.
Di fronte agli occhi terrorizzati di Mandrag e Koume, nonché a quello compiaciuto di Kotake, la Reggente al Trono precipitò sul terreno, mentre la sua alleata si trovava troppo lontana per aiutarla ed il suo avversario pericolosamente prossimo. Quest'ultimo, incredulo per ciò che era appena accaduto, non perse allora un singolo secondo ed aizzando il proprio destriero in quella direzione, sguainò la propria picca rivolgendone la punta acuminata verso il ventre della Regina inerme.
Gli attimi si fecero lenti, insopportabili. La distanza che divideva la preda indifesa dal proprio famelico assalitori si dimezzava ad ogni istante. Ancora qualche braccio e la picca si sarebbe conficcata dentro l'addome di Nabooru, squarciandone le viscere e condannandola ad una morte certa. Nessun movimento o gesto inconsulto sarebbe più riuscito a salvarla.
Fu allora che l'impensabile accadde.
Come se uno zoccolo del destriero del predone fosse caduto in fallo, venuto forse a contatto con un fiore igneo che però non era una specie vegetale tipica del deserto, il povero animale ed il suo padrone furono sbalzati in aria seguiti da un boato fragoroso ed un cumulo di sabbia che s'innalzò per metri e metri sopra le loro teste e lo sguardo incredulo di Nabooru.
Il predone crollò rovinosamente al suolo e per sua sfortuna colpendo una roccia emersa dalla sabbia con la propria schiena, cosa che gli fece perdere per qualche secondo i sensi.
Quando i suoi occhi sia riaprirono, una lama affilata gli sfiorava pericolosamente la pelle del collo, pronta da un momento all'altro a penetrare nelle sue carni per mozzare in un sol colpo la sua testa.
Lo sguardo violento di Naga era iniettato di sangue. Per un momento aveva creduto che la sua regina fosse stata spacciata e per questo dentro di sé desiderava mettere fine a quell'essere infame, i cui emblemi non lasciavano spazio ad alcun dubbio. Egli era il capo dei predoni e la sua morte sarebbe significata la fine della battaglia e forse della guerra stessa.
I due si scambiarono un lungo ed intenso sguardo. Si osservarono come solo i guerrieri sono in grado di fare.
Poi, la mezzaluna posta in cima alla lancia di Naga si alzò leggermente, come per prendere slancio nel suo ultimo colpo ferale.
Il predone socchiuse gli occhi ed attese che il suo momento giungesse.
- Ferma! - una voce si librò nell'oscurità della notte. Il timbro inconfondibile di Nabooru riecheggiò per tutto il campo di battaglia.
- Mia signora? - domandò stupita Naga.
Nabooru indicò un punto dietro le spalle della Maestra d'Armi, la quale dunque si voltò immediatamente facendo scattare il proprio cavallo.
I suoi occhi videro allora immense orde di predoni abbandonare all'impazzata il campo di battaglia, superando le dune il più velocemente possibile, senza nemmeno preoccuparsi di nascondere le proprie tracce. Molto probabilmente, il destino parso certo del loro signore aveva portato le loro convinzioni a vacillare al punto da abbandonarlo sul campo e preferire la ritirata ad una gloriosa battaglia.
- Bastardi! - sussurrò questi, maledicendo dentro di sé i suoi compagni.
- Ti hanno abbandonato! - gli fece notare con voce soddisfatta Naga - A quanto pare non sei poi così importante per loro. -
- Tu credi? - sbraitò il predone tutt'altro che impressionato da quella lama che era tornato a minacciargli il collo - Io vedo invece solamente dei sanguinari mercenari che si danno alla fuga perché hanno compreso che senza di me sarebbero perduti! -
- Beh... - riprese la Gerudo - Vediamo se hanno ragione oppure no! -
- Ferma! - urlò nuovamente Nabooru prima che la mezzaluna di Naga compisse il proprio dovere.
- Ma signora è il capo dei Predoni, il nostro acerrimo nemico! -
- Appunto! - esclamò
Naga si fece scura in volta - Pretendo di finirlo, qui ed ora! -
- No! - continuò la reggente - Egli potrebbe essere un prezioso ostaggio. Potremo sapere molte cose dalle sue informazioni! -
Il predone rise sguaiatamente - Credi che sia così facile farmi parlare, donna?! Ho la pelle più dura del metallo e la lingua più muta di una pietra! -
- Credo che dica la verità! - lo spalleggiò la Maestra d'Armi solamente perché non vedeva l'ora di mettere fine alla sua esistenza.
Nabooru sospirò. Oramai abbandonata la battaglia, le loro compagne sopravvissute erano giunte per comprendere cosa di fatto fosse accaduto e già quelle che erano venute a conoscenza della cattura del Signore dei Predoni ne chiedevano, seppur silenziosamente, la morte. Deluderle sarebbe stato molto pericoloso. Quella notte solamente sei delle tribù Gerudo avevano partecipato alla battaglia. Le altre o non avevano fatto in tempo o, più semplicemente, avevano preferito non accorrere in aiuto di colei che occupava il posto della Regina, augurandone magari perfino la morte.
Quanto sarebbe stato saggio andare contro il volere delle poche che gli erano rimaste ancora fedeli?
Se avesse agito secondo coscienza non ci avrebbe pensato due volte a finirlo lei stessa, lei che pochi minuti prima sarebbe potuta morire per sua mano.
Sì, quella sarebbe stata di certo la scelta più logica. Eppure, qualcosa dentro di lei, un dubbio che da quello stesso giorno aveva cominciato a roderla dall'interno, le sussurrava costantemente di lasciare in vita quell'essere spregevole, di utilizzarlo, di cavarne fuori delle risposte.
Che fare allora? Scegliere secondo egoismo, oppure ingraziarsi le fide compagne?
"La verità sta nel mezzo" pensò e così, allora, fece.
- Naga! - si rivolse alla sua seconda in comando con tono regale - Porta questa feccia dentro la peggiore delle nostre celle. Che sia cibato con pane raffermo ed acqua putrida. Portalo allo stremo delle sue forze; conducilo da me affinché io possa interrogarlo! -
Si fermò un istante, osservando gli sguardi delusi di numerose delle presenti, in particolar modo quello furente della Maestra d'Armi.
Continuò dunque - Poi, quando avrò finito con lui... - si soffermò un secondo pensando bene a come terminare - Che sia impiccato ed il suo corpo lasciato a marcire al sole ed alla voracità dei corvi! -
Finalmente, un grido di esultanza si elevò dal suo esercito o, comunque, da ciò che ne era rimasto. Anche Naga parve alquanto soddisfatta di quella decisione tanto che s'impegnò immediatamente a far legare il prigioniero, a caricarlo su di un ronzino per trasportarlo alla Bolgia di Naketh, una depressione afosa e sporca che le Gerudo avevano adibito a prigione.
Per quanto fiero ed indomito guerriero quale era, il predone aveva sentito un gelido terrore salirgli su per la schiena. E, com'era diffuso tra uomini di una simile scocca, vi era un'unica medicina per combattere la paura: l'odio.
Egli si mise dunque a sbraitare, mentre il ronzino sul quale era stato caricato si allontanava sempre più - Io ti maledico, maledetta Gerudo! Credi che sia facile uccidermi?! Io fuggirò ancor prima che le tue lacchè possano solamente toccarmi ed allora ti ucciderò. Ti caverò il cuore dal costato e me lo mangerò! -
Nessuno tenne conto di quelle minacce, dato che poi erano state emanate da uno che era stato appena condannato a morte. Nessuno d'altronde era mia fuggito dalla Bolgia di Naketh e questo significava che la Regina e le sue servitrici avrebbero potuto dormire sonni tranquilli nelle notti a venire. Ciò però non era lo stesso per il giovane principe che, una volta finito lo spettacolo, aveva deciso di tornarsene nella propria stanza e nel proprio letto, prendendo sonno solamente quando l'alba cominciò ad illuminare le montagne ad oriente.
Prima che i sogni potessero cullarlo e gli incubi ghermirlo, un pensiero fugace disturbò la sua veglia.
"Perirai per mia mano e per quella di nessun'altro!"
 
Lontano dalle mura tornate sicure della città, sostava una piccola rientranza in un costone di roccia. Una sorta di grotta o caverna, nella quale in pochi osavano addentrarsi se non per necessità a causa del fatto che un simile luogo poteva essere con ogni probabilità un rifugio per le tante orde di boblin che infestavano il deserto, così come di creature fameliche che circolavano per le dune.
A dirla tutta, era oramai da più di un lustro che nessuno osava mettervi piede, esattamente dal momento in cui, una notte enigmatica e tragica, una giovane Gerudo fu mandata in quel luogo per cercare una fievole speranza di sopravvivenza ad una regina gravida, la quale, al momento dell'inizio del travaglio, già aveva compreso a cosa l'avrebbe portata il suo infausto destino.
Fin dai tempi più antichi, molte voci avevano narrato gli strani avvistamenti e le sparizioni che erano avvenute nel corso dei secoli in quel luogo, il quale pareva essere la sede di due creature dimenticate persino dal tempo, il cui passato era immerso nel mistero. Due esseri da poteri terribili e straordinari, in grado di sentire e plasmare l'aurea divina che, nel momento della Creazione, si era disperso in quel luogo arido ed eterno.
Ovviamente in pochi ancora credevano ad una simile leggenda, tanto che veniva narrata esclusivamente alle bambine quando ancora la fanciullezza e la puerilità dominava i loro corpi ed i loro cuori.
Solo una però era infine riuscita a scoprire la verità. Solo un'inesperta ed impaurita ancella aveva varcato la soglia di quel luogo infestato per fare luce sull'antico enigma. La medesima ancella che ora sedeva sul trono della Regina facendone funzione e che dentro di sé malediva quella notte più di qualsiasi altra. La notte in cui venne a conoscenza di quanto sia sottile il confine tra realtà ed immaginazione. Di come certe cose dovrebbero rimanere sepolte nella loro aurea di mistero per venire infine dimenticate.
Koume e Kotake ricordarono quella notte. La assaporarono.
La notte in cui esse furono liberate dalla loro prigionia per fare ritorno là, da dove un tempo furono cacciate, esiliate.
- Sei stata incauta, oggi! - esordì Koume mentre accendeva un falò con un semplice schiocco delle sue dita rachitiche.
- E tu maldestra! - le rispose Kotake.
- Che intendi dire? -
- Lo sai bene! Io l'ho semplicemente fatta cadere, tu invece hai fatto saltare in aria il predone con il suo destriero. Una cosa alquanto teatrale per non essere facilmente notata da tutti!  Pensi che i predoni si siano messi a scappare semplicemente perché il loro capo era stato infine catturato? -
Gli occhi di Koume si socchiusero, interrogativi.
- Che stai blaterando? Io non ho fatto nulla! Pensavo fossi stata tu... -
- L'avrei salvata, ovviamente! Non avrei di certo condannato la nostra unica certezza alla morte. - sbottò Kotake - Non vorrai farmi credere che non sei stata tu a salvarla dalla lama di quel guerriero?! -
Koume non rispose più, chiusa in una riflessione profonda e segnata da una perplessità crescente.
Osservando il suo volto, la sorella non poté fare altro che comprendere la sua sincerità. E allora comprese.
- No... - sussurrò - Stai forse pensando che... -
- Che sia stato il principe? -
Kotake scosse immediatamente il volto, incredula.
- No, impossibile! Lo abbiamo appena iniziato ai segreti della nostre stregoneria... non è ancora capace di controllare il mana ad una simile distanza e con una tale precisione! -
- E sono lo avesse fatto di proposito? - continuò Koume - Se fosse accaduto per caso, mosso dalle sue emozioni e dalle sue paure? -
- Impossibile! - ribatté ancora una volta l'altra, anche se dentro di lei una simile possibilità conquistava sempre più credito - Se così fosse... allora... -
- Allora cosa? -
Kotake si concentrò sulla fiamma accesa dalla sorella. Con il semplice controllo delle sue mani, la fece innalzare dal suo falò, mantenendola al contempo viva e scoppiettante. La fece salire sempre più in alto, fino a fermarla di fronte ad una parete che solo in quel momento rivelò dei pittogrammi e dei graffiti dipinti sulla pietra e lasciati lì chissà quanto tempo addietro.
Su tali figure erano rappresentate tre sagome umane stilizzate, sui cui capi brillavano dei raggi prominenti. Disposte in cerchio, al centro di esso vi era poi una sorta di simbolo o idolo dalla forma triangolare, diviso in tre parti identiche.
Osservandoli, entrambe giunsero ad un'unica conclusione contemporaneamente.
- Il Prescelto... - 

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Capitolo 3
*** I Fantasmi del Deserto ***


- Un'ultima parola prima dell'esecuzione? - domandò la Maestra d'Armi al condannato.
- Un'unica! - rispose il predone oramai sul punto di penzolare per il capestro - Non passerà tempo che il vostro Regno finirà ed il caos insabbierà tutto del vostro schifoso popolo. -
Naga diede allora uno sguardo interrogativo alla Regina, la quale, seppur con una certa riluttanza, conferì il potere di eseguire la sentenza alla sua seconda ed alle boia.
- Che venga soffocato dalla sua stessa arroganza! - ordinò allora la Mestra d'Armi.
La botola sotto i piedi del predone si aprì lasciandolo cadere con tutto il suo peso fino a quando la sua rovinosa caduta non fu fermata dall'ostacolo rappresentato dalla corda spessa intorno al suo collo.
Ci vollero almeno due minuti, poi gli spasmi delle sue gambe, così come i tremendi rantolii di soffocamento provenienti dalla sua gola, cessarono definitivamente.
Una delle donne che gli era più prossima, una Gerudo in possesso di conoscenze mediche e botaniche, allungò la sua mano verso il collo del condannato, cercando di percepirne il battito cardiaco. Ancora qualche istante ed ella alzò il volto verso la regina annuendo vistosamente.
- Toglietemelo dalla vista! - ordinò Nabooru con espressione schifata. Le guardie eseguirono immediatamente, tagliando di netto la corda e facendo cadere il cadavere del predone nella fanghiglia.
Mandrag, seduto su di un piccolo trono accanto alla Reggente, alla sua Regina, la sua madre adottiva, aveva assistito a tutta la scena e, sebbene provasse una certa soddisfazione nel notare quel corpo esanime abbandonato lì in quella maniera disumana, una parte di sé stesso sentiva una profonda delusione. Non molto tempo prima si era infatti promesso di come quell'uomo, che aveva attentato alla vita di colei che lo aveva adottato dopo la morte della madre naturale, sarebbe caduto vittima esclusivamente della sua lama, della sua ira e della sua giustizia.
- Mandrag! - la voce della madre cercò di riportarlo alla realtà.
Egli si voltò a guardarla.
- Vai dentro ora. Le tue tutrici di aspettano! -
Si alzò, dunque, ma invece che aggirare il trono della reggente e quello sul quale si trovava sua nonna, la Regina Madre, egli invece avanzò, scendendo lentamente gli scalini che portavano al patibolo.
Già alcune guardie si stavano prodigando nel raddrizzare e coprire il corpo del cadavere quando, vedendolo arrivare con la coda dell'occhio, si arrestarono improvvisamente. Al di sopra della linea della sua testa, esse incontrarono poi lo sguardo della Reggente, la quale con un cenno del capo ordinò loro di fermarsi ed attendere. Sebbene non fosse contenta dell'ennesima disobbedienza del figliastro, in un certo senso sentiva una sorta di curiosità. Anch'ella voleva vedere che cosa avrebbe fatto una volta avvicinatosi a quel corpo senza vita.
Nessuna si sarebbe però aspettata le vere intenzioni del piccolo principe. Nient'altro che un bambino.
Egli, dopo aver rubato un coltello affilato, un trinciapollo, nelle cucine del palazzo, era stato assai abile nel riuscire a nasconderlo dentro la cintura di seta cerimoniale della quale era stato costretto a vestirsi.
Fin dal momento in cui era venuto a conoscenza dell'ordine esecutivo emanato dalla Reggente e dalla sua corte, egli aveva fin da subito deciso di prendersi un piccolo premio, una rivincita sul tempo che non gli aveva permesso di crescere in fretta per prendersi la sua sospirata vendetta.
Gli avrebbe strappato gli occhi. Gli avrebbe conservati al fine di ricordarsi quale fine avrebbero dovuto fare tutti coloro che avrebbero attentato alla vita sua ed a quella dei suoi cari.
Egli assottigliò sempre più la distanza che lo divideva dal cadavere. Lo troneggiò. Lo osservò, ne notò il pallore mortifero, le pupille sghembe e vuote, la rigidità che già ne stava lentamente conquistando le membra.
Poi, in uno scatto, estrasse il coltello. Le guardie, colpite da quel gesto, non ebbero il tempo di reagire, di fermarlo. Egli già si era coricato pericolosamente a ridosso del volto del predone.
La sua mano armata si alzò, prendendo bene la mira rivolta alla concavità dell'orbita oculare.
Prese un respiro profondo e poi, socchiudendo leggermente le palpebre, lanciò la lama dritta verso il proprio bersaglio.
All'improvviso, qualcosa fermò in maniera secca il suo gesto. Una presa forte e rigida, ma soprattutto fredda, gelida.
Già infuriatosi per la possibilità che una guardia avesse bloccato il suo unico capriccio in tutta quella faccenda, voltò di scatto il proprio sguardo all'indietro, furente.
- Chi osa fermare la mano di un princi... -
I suoi occhi si spalancarono inorriditi. Le guardie, come dormienti, immobili, si trovavano ancora al loro posto. Sebbene i loro occhi lo osservavano ancora ricolmi di stupore, esse parevano non riuscire a muoversi, impietrite come se il tempo si fosse improvvisamente fermato. Non fu quello però a sconquassare le sue percezioni. No. Fu ben altro.
Come ridestatosi di nuova vitalità, il braccio pallido del cadavere si era attorcigliato, con le sue forti dita callose, intorno alla sua pelle, stringendola talmente forte da provocargli immediatamente delle ecchimosi, lividi dolorosi.
- Non sono così facile da uccidere! -
Una voce roca, quasi sepolcrale, proveniente dall'oltretomba stesso.
Il predone era ancora lì, di fronte a lui, ma questa volta con il capo sollevato dal terreno lercio e maleodorante, gli occhi ancora spenti, ma fissi sui lineamenti del giovane principe, ridente.
Il coltello gli cadde dalle dita, fattesi molli come il burro caldo. Nessun suo muscolo o tendine del suo corpo parve più rispondere ai suoi comandi. E, lentamente, nonostante i suoi inutili sforzi nel tentare di resistergli, si sentì attrarre sempre più vicino a quell'essere ributtante, innaturale.
Cercò di chiedere aiuto, rivolgendo anche un disperato sguardo impaurito verso la Reggente, ma nessuna sembrava essere intenzionato a salvarlo dalle grinfie di quel cadavere vivente.
Cominciò a sentirsi spacciato, prossimo a cadere nel medesimo destino di chi lo aveva subito di fronte al divertimento di una massa festosa e compiacente. Per mano sua tra l'altro.
Stranamente, ad un tratto la stretta del predone si fece meno forte, ammansita. Lo stretto necessario per tenere una delle orecchie di Mandrag vicino alle sue labbra.
- Vienimi a cercare! -
 
Trafelato il principe si alzò dal cuscino, cercando di riprendere fiato. Ogni singolo centimetro del suo corpo era madido di sudore. I suoi lunghi e già pesanti capelli erano divenuti ancor più soffocanti per le vertebre del suo collo talmente rappresi com'erano.
I suoi muscoli erano tesi e doloranti, come se fossero rimasti sotto la pressione di uno sforzo prolungato per ore. Il suo volto poi era ispido, quasi tagliente tanto i peli della barba fatta appena un giorno prima erano stati spinti fuori dai pori sudoripari.
Riprendendo lentamente il controllo dei propri pensieri, si toccò il viso, studiandone i lineamenti. Poi delineò le spalle ed il torace rigonfio.
Sì, il sogno era finito. Non era più un bambino di sette anni, ma un giovane uomo vicino alla maturità dei suoi diciassette  inverni.
Si accorse solo in quel momento di  non aver vissuto un semplice incubo, ma un ricordo ben preciso della sua infanzia, sebbene impreziosito di un finale inatteso e totalmente fittizio.
Erano notti oramai che non riusciva più a farsi un sonno completo. Sogni, incubi e ricordi lo stavano tormentando da troppo tempo.
Forse era un semplice segno, la naturale conseguenza dell'ansia che provava mentre lo Jabbar, il rito di iniziazione direttamente precedente a quello dell'incoronazione, si avvicinava sempre di più.
Si, doveva essere così. O, almeno, così aveva cercato di convincersi per parecchie volte, sperando che le proprie paranoie, prima o poi, svanissero come un pugno di sabbia lanciato al vento.
Si mise seduto sulla sua branda. Non aveva più voglia di dormire.
La testa gli doleva fortemente. Un'emicrania fastidiosa e difficile da debellare. Accadeva sempre dopo ogni incubo, in quel periodo. Prese dunque a camminare avanti e indietro per la sua stanza. Un piccolo gesto che in più occasioni era riuscito a calmare il suo dolore.
Al di là di una delle porte poi vi era un ben altro tipo di passatempo, il cui rimedio contro il mal di capo si era rivelato sempre eccellente.
Sarebbe bastato attraversarla, chiamare una delle sue concubine, ora che di fatto era un uomo adulto e nel pieno delle proprie forze, e lasciare che le sue cure e le sue dolcezze lo cullassero.
Qualcosa dentro di lui però lo frenava. Qualcosa gli fece capire come quella non fosse una notte come le altre. Doveva rimanere nella propria solitudine, pronto a ricevere un qualcosa di inatteso; un'illuminazione, una visita, una risposta.
Tal non so che però non giunse mai nel corso di quella notte. Egli se ne rimase lì allora, fermo e chino sulle proprie braccia, ad attendere infine il sopraggiungere dell'alba e di un nuovo giorno.
Solamente quando il sole attraversò la linea dell'orizzonte ad oriente, egli decise di vestirsi, mangiare un qualcosa dai suoi avanzi della sera prima ed incamminarsi verso lo spiazzo al centro della città, al di sotto della scalinata che conduceva al Palazzo Reale.
Lì però non ci arrivò mai. Era infatti bastata una semplice sbirciata attraverso una delle finestre del corridoio principale per notare come lo spiazzo fosse già gremito di alcune ammiratrici, giovani Gerudo speranzose di aver un incontro con il fascinoso erede al trono cosa che subito gli fece preferire una semplice boccata d'aria da una delle balconate, piuttosto che una passeggiata ostacolata costantemente da fastidiosi ed indesiderati incontri.
Appoggiatosi alla balaustra, cercò di perdere fin da subito i suoi pensieri nello splendido panorama che dava sulle Regioni Estreme, luoghi pericolosi, dove strane voci interne al palazzo sostenevano come la Reggente, da diversi anni, avesse spedito un manipolo di guerriere ed annaliste per cercare e scovare una sorta di antico tempio, o una cosa del genere.
L'aria era arida e afosa. Una tempesta di sabbia passata diversi giorni prima aveva impregnato l'ossigeno del deserto con le sue minuscole particelle terrose, rendendo la respirazione difficoltosa anche nelle ore più fresche, quando il crepuscolo annunciava l'insorgere della notte.
Poco dopo, i suoi occhi caddero su un punto imprecisato in lontananza, non molto lontano dalle porte settentrionali della città, dove alcune ancelle coadiuvavano le guardie nell'ornare degli arazzi e dei festoni nel punto in cui le Gerudo avrebbero iniziato il suo Rito dello Jabbar.
Nonostante la sua riluttanza, la sua mente cercò d'immaginarsi la scena. Un fiero guerriero, unico maschio del Popolo delle Donne Guerriere che camminava vestito esclusivamente di sottili pantaloni e del proprio sudario, diretto verso l'esterno, verso l'angusto ed arido deserto.
Là egli avrebbe dovuto sopravvivere per dei mesi, mangiando esclusivamente dei frutti poveri delle sabbie, delle sue fiere. Avrebbe dovuto resistere al caldo estenuante del giorno, così come al freddo penetrante della notte. In quel periodo sarebbe stato atteso fino al calare dell'ultimo sole estivo, dove, secondo usanza, egli sarebbe stato accettato all'interno della comunità. Solo così egli sarebbe potuto essere riconosciuto come Re, come Tredicesimo Patriarca, mettere fine alla Reggenza della madre putativa ed infine prendersi il trono che gli spettava di diritto.
Non che non si sentisse pronto. Il suo orgoglio era decisamente più forte di tutte le sue paure messe assieme. In più si poteva dire che egli non era un Gerudo sui generis solamente per il motivo di appartenere al genere maschile, ma soprattutto in quanto le sue capacità andavano ben oltre la sua prestanza fisica ed il suo addestramento battagliero. Egli possedeva un qualcosa di più. Un qualcosa che le gemelle Rova gli avevano insegnato a padroneggiare ed a potenziare. E, per questo, sarebbe stato loro grato in eterno.
- Già sveglio, figlio? - la voce inconfondibile della Reggente lo fece sussultare.
Alcune rughe erano apparse sul volto della facente funzione di Regina, ma invece che rovinarlo, esse non avevano fatto altro che conferirgli un fascino più profondo ed attraente. Le ciocche ingrigite che le contornavano il viso poi, le avevano donato una regalità fuori dal comune, facendola assomigliare sempre più a quella regina che in molte avevano dubitato di vedere prima o poi in lei.
- Notte insonne?! - domandò Nabooru accostandosi a lui.
- Strani pensieri! - rispose brevemente Mandrag.
La Reggente si grattò la punta del naso, gesto tipico che si presentava nei suoi momenti di riflessione.
- Anche io ho sempre sofferto di incubi notturni. È normale, hai preso da me! - fece del sarcasmo.
Mandrag le lanciò un'occhiata interrogativa, come se non avesse compreso di come Nabooru stesse scherzando e fosse ben conscia del fatto che loro due non condividessero alcun tipo di parentela da un punto di vista fisico e concreto.
Poi, finalmente, si mise a ridere anche lui. Successivamente, quando il silenzio era nuovamente calato tra loro, rimasero fermi nel contemplare insieme la bellezze del loro dominio.
- Hai paura? - tornò a domandare la Reggente.
Mandrag stette per rispondere di no, quando si ricordò di come si trovasse al cospetto di una delle poche persone per cui aveva provato un sentimento profondo e non di fronte ad una tutrice qualunque.
- Un po'! - disse infine con sincerità - Non per ciò però che incontrerò, ma per ciò che  non conosco! -
- Un timore più che motivato! - annuì sua madre - L'aveva anche tua nonna! -
Il collo del principe schioccò tanto fu violento il movimento della sua testa, giratasi verso lo sguardo di Nabooru.
Ella sorrise con dolcezza, ricordando la madre della regina per cui aveva servito. Mandrag invece provò una tristezza che pensava di aver oramai dimenticato da tempo; da quando la Regina Madre aveva deciso di usufruire dell'Esilio dell'Onore, ovvero abbandonare per sempre la propria patria in quanto divenuta troppo anziana e non più autosufficiente.
- Quella vecchia cariatide, nonostante piegata dal peso dell'età e dalla malattia, ne sono sicura, sarebbe riuscita a sopravvivere facilmente ai predatori ed ai nemici noti interni al deserto. - continuò la Reggente - Prima di andarsene però, quasi quattro inverni fa, mi confido di come, l'unica cosa per cui avrebbe mai provato paura era proprio quello che non conosceva. Ci credi, figlio? Tua nonna in grado di provare paura come tutti noi! Incredibile! -
Sospirò. - Paura di ciò che era sconosciuto a noi in quanto nessuno è mai riuscito a tornare indietro a raccontarlo... -
Il principe si fece allora più intraprendente. Dato che a breve avrebbe dovuto affrontare lui stesso quell'immenso ignoto, decise di pretendere una maggiore chiarezza.
- Come ad esempio il Tempio dello Spirito? -
Nabooru non si dimostrò per nulla sorpresa. Aveva infatti saputo da diverso tempo come il principe, con la complicità di alcune annaliste che, a causa della sua bellezza, erano cadute preda della simpatia per lui, si fosse aggirato all'interno degli archivi e della biblioteca, giungendo in possesso di segreti di Stato irraggiungibili per chiunque. Facile era stato per lui venire a sapere delle ricerche ordinate e perpetrate da lei stessa in quella regione sperduta del deserto.
- Il fatto che non rispondi è solamente una risposta affermativa alla mia domanda, madre! -
- Ed io non avevo alcuna intenzione di negartela, figlio! - sorrise - Anzi. Prima o poi ti avrei di certo messo al corrente di tutta la faccenda! -
- Quando? - chiese Mandrag - Non appena le tue servitrici sarebbero tornato con chissà che genere di manufatti? Quando la missione sarebbe stata definita completata? -
- Non c'è nessuna missione, Mandrag! - tornò seria Nabooru.
- Avevi detto che non mi avresti mentito! - sbottò allora suo figlio adottivo - Ho letto di come tu abbia spedito là venti guerriere e sette annaliste per effettuare delle ricerche! -
- E' vero! -
- Non ti sembra una contraddizione? -
- Assolutamente no, dato che di quella spedizione non abbiamo più notizie da ben tre anni! -
Un silenzio sepolcrale tornò a dominare la scena. Basito, Mandrag si domandò se in quelle parole fosse riuscito a leggere bene il messaggio perpetratogli dalla Reggente.
- Vuoi dire che... -
- Probabilmente sono morte tutte! - lo anticipò Nabooru - L'ordine era preciso. Sostare non più di un anno e poi tornare a fare rapporto! Ma esse non si sono mai più fatte vive! -
- E... e tu non hai mandato nessuno per cercarle? Un esercito che so... -
Ella annuì, con immensa tristezza disegnatale in volto.
- Una piccola cerchia di guerriere scelte. Ma ne... ne tornò solamente una... -
- Chi è? - domandò Mandrag.
- E' morta, figlio! È spirata due giorni dopo il suo ritorno. Il suo corpo era ricoperto di ferite profonde che si erano infettate velocemente. La setticemia non le ha lasciato scampo! -
Senza accorgersene, il respiro del principe si era fatto più veloce ed udibile.
- Chi l'aveva ridotta così? -
Ella attese qualche secondo, tenendo i suoi occhi compassionevoli fissi su di lui.
Poi, infine, gli rispose - L'ignoto, figlio! L'ignoto! -
Mandrag decise che aveva ascoltato abbastanza. Se in quella calda ed afosa mattinata aveva cercato di trovare un po' di tranquillità, di certo poteva ritenere tale tentativo un mero fallimento.
Tornò nella sua stanza e da essa non uscì più nemmeno quando una nuova notte calò il proprio manto sul cielo di Gerudo.
 
Avrebbe dovuto sentirsi stanco, in particolare dopo così tante ore notturne passate insonni. Avrebbe dovuto dormire, al fine di prepararsi al meglio alla prova che sarebbe iniziata l'indomani. Avrebbe dovuto, ma Mandrag non ci riuscì.
Tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno durante il suo lungo errare era lì, racimolato in un piccolo fagotto adagiato in un angolo delle sue stanze.
Era solo, ma non provava ribrezzo per la propria solitudine. No, era il dubbio a ledere i suoi nervi.
Delle domande erano state fatte già da tempo, anche se silenziosamente, dalla sua testa, ma in poche avevano ricevuto delle risposte.
Le gemelle Rova non si presentavano al suo cospetto da più di una settimana. Non che si fosse sentito abbandonato, ma di certo la cosa non gli era piaciuta per niente. In effetti, forse solamente loro erano le uniche che gli avrebbero potuto offrire una sorta di risposta. Perché aveva preferito quel silenzio così strano; quella lontananza insolita?
Era stufo di quella situazione. Di quel nervosismo. Il giorno dopo avrebbe lasciato la sua casa, la sua patria, i suoi sogni, forse per mai più tornare, destinato da una parte ad un futuro glorioso, ma dall'altra ad una anonima morte tra le dune, dove il suo corpo non sarebbe mai stato più ritrovato e non avrebbe mai usufruito di una degna sepoltura.
Si alzò. Afferrò il suo mantello dotato di un largo cappuccio, se lo mise ed infine, aiutato dalle tenebre notturne, lasciò la propria stanza.
Quando si sentiva così, vi era un unico posto in tutto il Dominio delle Gerudo dove i suoi pensieri riuscivano a riallinearsi l'uno con l'altro, dove le sue emozioni più autodistruttive perdevano ogni potere. Ciò accadeva in quanto, quel luogo nel quale lui aveva imparato a rifugiarsi era il più angusto di tutto il territorio, le cui pareti e le pavimentazioni non erano fatte esclusivamente di roccia scolpita o scavata, ma di dolore e raccapriccio, terrore e sofferenza. La Bolgia di Naketh.
Trattandosi di una prigione, essa era stata scavata in una sorta di depressione che, in tempi antichi aveva visto scopi più nobili, come un mercato, un agorà politica addirittura. Col passare dei secoli però, a causa di continui cambiamenti climatici, inaridimenti e quant'altro, quel luogo era diventato troppo angusto per la vita pubblica della Città così, recintata in maniera adeguata, si era deciso di tramutarla in una zona detentiva lasciata all'usura degli eventi ed alle infestazioni di disgustose fiere del deserto.
"Mal comune, mezzo gaudio". Era questo ciò che si diceva sempre il giovane principe di Gerudo. Osservando i volti dei prigionieri di quel luogo terribile, il più delle volte predoni catturati tra le dune, a volte persino Boblin incapaci di parlare la lingua del Popolo del Deserto, sguardi sofferenti, spaventati, rassegnati, egli riusciva a dimenticare i propri problemi ed i propri crucci. Una cosa terribile da un certo punto di vista, forse da tutti, ma comunque una cosa che funzionava e questo a lui bastava.
Per giungervi egli doveva percorrere l'intero perimetro del palazzo, seguendone la linea della muratura, poi discendeva per un piccolo declivio, una strada scavata nella sabbia che era stata poi irrigidita con assi di legno e malta. Infine, al termine di tale sentiero, la Bolgia si apriva di fronte agli occhi dei visitatori, per lo più guardie carcerarie, nella sua forma tondeggiante e depressa. Una concavità che ad un primo sguardo somigliava ad una delle regioni più anguste dell'oltretomba, una di quelle nelle quali finivano gli omicidi e i traditori.
L'aveva appena intravista in lontananza, giusto nel momento in cui aveva imboccato il sentiero di sabbia e legna, quando una strana nenia giunse alle sue orecchie. Una sorta di canto, molto simile ad una ninna nanna per la buonanotte, ma tinta di toni tristi, funerei.
Si chiese immediatamente chi potesse, in luogo simile, emettere dei suoni tanto dolci, seppur addolorati.
Giunto all'entrata della prigione, due guardie chinarono il capo in segno di rispetto. Egli contraccambiò distrattamente, cercando nel contempo di individuare il prigioniero canterino.
La Bolgia in quel periodo era occupata esclusivamente da tre prigionieri, due predoni ed un ladruncolo straccione che, chissà come, era riuscito ad attraversare le difese della Città per rubare del cibo al mercato centrale. Nessuno di loro però sembrava in grado di riuscire a cantare dei suoni tanto intonati, anche perché tutti loro parevano essere vittima di un sonno profondo, l'unica vera via di fuga in un luogo tanto brutale. I loro corpi maleodoravano già di morte; pustole suppurate si erano infettate già da tempo e due di loro, molto probabilmente, avevano perso l'uso di una o entrambe le gambe, vittime della cancrena da setticemia. In breve tempo sarebbero periti, lasciati a marcire nelle loro celle sporche per permettere ai ratti ed ai vermi di divertirsi un po' con loro.
Quella era una delle poche occasioni in cui Mandrag riusciva a provare della compassione, sebbene per dei nemici del regno. Ovviamente non gli avrebbe mai liberati o aiutati a fuggire, ma almeno li avrebbe trattati da guerrieri, finendo le loro sofferenze velocemente e senza indugio.
Quella notte però la sua mente era troppo distratta, attirata da quella nenia fievole, per potersi soffermare su simili sofferenze. Essa provocava in lui un'attrazione irresistibile, che, un  po' come aveva desiderato in precedenza, aveva arrestato ogni suo singolo pensiero e, dunque, di rimpetto anche ogni sua ansia e preoccupazione.
- La senti anche tu vero? -
Sussultando, si voltò in direzione di quel richiamo, notando come un prigioniero, con i capelli lunghi e la barba lercia, lo stava osservando appoggiato alle sbarre della sua cella.
Sbirciando in direzione delle guardie, le quale parevano non essersi accorte di nulla, per di più vicine ad una sorta di sonno sonnambulo, sorrette solamente dalle loro picche, decise di avvicinarsi a quell'uomo.
- Che hai detto, feccia? - gli domandò in un ringhio.
- Non mi fa dormire.... mi tormenta... - sbraitò in un sussurro il prigioniero - All'inizio era dolce... serena.... accomodante... poi, quando ho incominciato a capirne il senso è stato come... è stato come se la morte stessa avesse cominciato a presentarsi a me, ogni notte! -
- Stai delirando! - si scansò leggermente Mandrag.
- Forse... ma anche tu allora! -
Il principe sospirò.
- Te lo leggo negli occhi. Avevo anche io quell'espressione. Vuoi sapere da dove viene, vero? Beh non è qui... - cominciò ad indicare nervosamente il pavimento con un dito - Qui sotto... è qui sotto... fallo zittire ti prego, fallo zittire! -
Mandrag lanciò nuovamente un'occhiata alle guardie. Ancora una volta non si erano accorte di nulla.
- Che... cosa dice quella canzone? - domandò un po' imbarazzato, accorgendosi di essersi messo chiaramente al livello di quel derelitto.
Quest'ultimo si mise a ridere, sebbene non avesse abbastanza saliva o forza polmonare per riuscire ad emettere dei veri e propri suoni.
Egli allora disse un nome. Un epiteto che aveva già sentito, ma solamente in una storia dell'infanzia la quale non veniva mai raccontata nella lingua corrente delle Gerudo, ma in un ancestrale e dimenticato dialetto che solamente alcune delle vegliarde del suo popolo erano ancora in grado di comprendere, sebbene non completamente.
- Ganon... - disse - Ganon! -
E si ritrasse nell'oscurità della propria cella, non proferendo più parola.
Intanto, la nenia si era fatta più forte, ma le guardie non sembravano udirla, nemmeno lontanamente.
Mandrag allora decise di mettere un freno a quella follia. Si sentiva pazzo, ma la cosa non gli interessò.
- Andatevene! - esclamò facendo sobbalzare una guardia e facendo cadere quell'altra, risvegliatasi dal suo sonno.
- Come? - domandò una di esse.
- Non avete sentito?! - sbottò - Andatevene! -
- Principe... - sussurrò l'altra, ancora assonnata - Questo va contro il protocollo e... -
- Io sono il principe e tra meno di un anno, se Din vorrà, il vostro Re! - sibilò avvicinandosi a loro - Volete subito dimostrare una simile insubordinazione? Io ho buona memoria, sapete?! -
Le due donne si scambiarono uno sguardo tremolante poi afferrarono le loro picche ed obbedirono mestamente.
Mandrag attese che le loro figure e le loro ombre si dileguassero completamente. Attese che diversi minuti passassero.
Sicuro di non avere testimoni allora si portò al centro della Bolgia, bofonchiando - E' sotto... è qui sotto! -
Se da una parte pensava di essere caduto vittima di una pazzia malsana, priva di qualsiasi fondamento, dall'altra egli cercava di convincersi di come un fondo di verità sostasse in tutta quella faccenda, sebbene celato e nascosto.
I suoi occhi si chiusero. Il respiro nei suoi polmoni cessò. Il suo braccio si elevò, concentrando tutte le sue energie su un unico punto, al centro del proprio pugno.
Gli insegnamenti delle gemelle Rova non erano mai stati così importanti come in quel momento.
Dopo anni ed anni di addestramento, egli per la prima volta utilizzò il proprio mana, un'energia ancestrale che stranamente e senza alcuna spiegazione scorreva forte in lui, allineandola al suo cuore, al suo respiro, alle sue viscere, fino a giungere alla sua mente.
Assorbì il calore che lo attorniava, facendo cadere la prigione intera in un freddo gelido che fece rabbrividire gli ospiti involontari di quel luogo. Essi si portarono terrorizzati verso quel macabro spettacolo, guaendo come cani bastonati.
I nervi di Mandrag si tesero e le sue vene pulsanti ne piegarono la pelle sulla fronte e sulle tempie. I suoi denti si digrignarono ed una sorta di ringhio innaturale ne fuoriuscì.
Polveri, granelli di sabbia sparsi per tutta la pavimentazione, cominciarono a sollevarsi senza apparente motivo dal terreno, vorticando attorno al corpo chinato di Mandrag.
Ad un tratto, tutto cessò s'immobilizzò. Come se il tempo avesse smesso di scorrere sul suo naturale percorso, ogni cosa si bloccò, compreso lo scoppiettio delle torce.
Infine, il pugno chiuso, serrato del principe si scagliò contrò il terreno, in un gesto talmente spedito da non poterlo vedere.
Un'energia immensa si sprigionò dalla sua mano, intaccando qualsiasi cosa all'interno di quello spazio, facendo persino rizzare i capelli impiastrati dei detenuti.
La pavimentazione saltò in mille pezzi per un'area con almeno un braccio di raggio.
Sfinito, sudato, il Principe notò allora che, al di sotto di quelle pietre grezze, si era aperto una sorta di passaggio che conduceva in uno spazio vuoto, nel quale si lasciò calare immediatamente.
Un odore acre di escrementi, sudore e marciume lo investì immediatamente, ma nonostante quella sensazione fosse difficile da tralasciare, tutta la sua attenzione fu attirata dal fatto che la voce cantante quella nenia misteriosa era aumentata d'intensità, come se si fosse trovato improvvisamente più vicino alla sua fonte.
La tenebra colmava ogni singolo angolo di quel posto. Per Mandrag non ci volle però niente nell'accendere una fonte di luce con il suo potere e porre quest'ultima su di un piedistallo, lasciando che essa si alimentasse con parte degli stracci che lo vestivano.
Lentamente, i suoi occhi si abituarono a quel bagliore improvvisato, giungendo ben presto a sorprendersi a causa di ciò che si trovarono di fronte.
- Finalmente! - una voce potente si erse dall'oscurità violata.
Sbarre. Ancora una volta sbarre, ma questa volta fatte di un metallo mai visto dal giovane principe, decisamente più solide e sicure di quelle fatte di semplice ferro.
Esse erano talmente spesse ed intrecciate tra loro che gli spazi attraverso il quale era possibile vedere all'interno di quell'inaspettata cella erano talmente minuti da non poter riuscire a comprenderne chiaramente forme o dimensioni, nonché chi mai vi fosse stato rinchiuso.
- Capelli rossi... - la voce riapparve - Pelle olivastra... Gerudo, senz'ombra di dubbio. Occhi ambrati e splendenti, fieri! Din è stata benevola con te... oh, ma la cosa più importante: un maschio! -
- Chi sei? - domandò Mandrag appoggiando una mano in un anfratto di quelle sbarre, spiando all'interno.
- Non mi sarei mai aspettato la visita dell'Erede al Trono! - continuò l'ignoto prigioniero non curandosi della domanda che gli era appena stata posta - Che magari ci sia una grazia in vista? -
- Chi sei?! - urlò ancora una volta Mandrag.
- Mi ricordo di te... - disse ad un tratto il prigioniero - Sì, quel giorno... ricordi? Quando mi guardavi con la tua altezzosità, con quella tipica superbia che è nota in voi Gerudo. Hai assaporato quel momento, hai degustato la mia esecuzione come un prelibato desco... -
- La tua esecuzione? -
- Sì, quel giorno di tanti anni fa... quando fui impiccato! -
Mandrag si sentì sbalzare all'indietro dallo sconcerto. Una confusione assordante disperse ogni suo pensiero.
- Non può essere! - si disse - Non è vero... -
- Fammi indovinare... - tornò a parlare l'altro da suo rifugio di ombre - Ti stai domandando se sono veramente io? Se sono veramente quel predone che attentò alla vita dell'usurpatrice che ancora oggi detiene il potere nel tuo Regno, vero? E che, se sono veramente io quel predone, com'è possibile che io sia ancora vivo! -
- Le guaritrici avevano sancito la tua morte. Non c'era più soffio vitale nel tuo corpo! - sbottò il principe - Non puoi essere lui... -
- Non potrei esserlo, se qualcuno non mi avesse drogato con una pozione sonnifera poco prima che la botola scattasse sotto i miei piedi! - spiegò ridente l'altro - Una soluzione potente, contenuta naturalmente in una foglia di una pianta che si trova ai confini meridionali del deserto in grado di far cadere chiunque ne faccia uso in un sonno talmente profondo da somigliare ad uno stato di morte! Pochi battiti del cuore per permettermi di sopravvivere... inudibili persino al più esperto dei medici di Hyrule! -
Il respiro di Mandrag si fece affannoso, furente - Qualcuno? Qualcuno chi? Nessun predone sarebbe mai potuto entrare all'interno della città senza essere visto! Nessuno avrebbe mai potuto fare una cosa simile! -
- Oh... - boccheggiò il prigioniero - Povero principe! Credi che sia stato uno dei miei accoliti a fare una cosa simile? Oh no, vossignoria... no! È stato qualcuno dall'interno. Qualcuno che voleva tenermi in vita per tutto questo tempo, in attesa che tremendi segreti celati dalle dune venissero infine svelati. Segreti a cui forse solo io potrei dare degne spiegazioni... evitando morte certa come invece toccò a coloro che furono scioccamente spedite per sfidare l'ignoto! -
Mandrag chiuse il capo nelle sue mani, scosso dal significato nascosto di quelle parole. Non c'erano voluti infatti che poche frazioni di secondo per comprendere di cosa e chi stesse parlando quell'essere tornato d'improvviso dal mondo dei morti e dell'oblio. E poi, come se non bastasse, quest'ultimo decise di non lasciarlo sfrigolare sulla propria graticola emozionale molto a lungo, specificando egli stesso di chi stesse parlando.
- Nabooru, principe! Colei che ancora oggi chiami madre! Colei che quel giorno avrei ucciso senza alcun indugio e con immenso piacere! -
Le convinzioni del principe caddero e s'infransero in un solo istante. Ella aveva mentito a tutti, lui compreso. Perché lo aveva fatto? Perché aveva tenuto in vita colui che aveva tentato di ucciderla?
Il predone rise sotto i baffi nel vedere l'intera scena. Il figliastro della sua nemica piegato da un semplice dubbio. Un erede al trono sopraffatto dalle proprie emozioni.
Decise di affondare ancora di più il coltello nella piaga.
- E dimmi: le guardie che ha mandato in avanscoperta, hanno trovato le loro compagne al Tempio? -
Mandrag non seppe più cosa rispondere, assordato dalle sue stesse domande com'era.
- Ehhh... - sospirò compiaciuto il prigioniero - Avevo detto alla Reggente di come il Colosso non avrebbe lasciato testimoni. Una maledizione ricade su quelle statue, sai? -
Gli occhi del principe si spalancarono. "Quelle?".
- Come sarebbe a dire? - tornò finalmente in possesso dell'uso della parola.
- Cosa? -
- Lo sai benissimo! Hai detto "quelle statue". Io ero a conoscenza solamente di una! -
- Non secondo quello che dice la leggenda! -
Il mistero s'infittiva sempre di più.
- Quale leggenda? -
- Oh dai, la conosco tutti nel deserto! Non c'è anima viva in questa landa desolata che non sia a conoscenza della Storia dei Guardiani! -
- Ti stai riferendo all'Epopea della Creazione? -
- Esattamente! -
Mandrag cercò allora di fare mente locale.
L'Epopea della Creazione non era considerabile come una vera e propria leggenda, in quanto essa era un racconto contenuto all'interno di uno dei tanti testi sacri del deserto, noto alle Gerudo come Memorie di Lanayru.
Secondo ciò che veniva tramandato da secoli, forse millenni, dove ora non c'era altro che sabbia e una radura arida, molto tempo addietro, quando le Gerudo ancora non esistevano, sostava un immenso oceano, con svariate isolette a largo della terraferma la cui popolazione era protetta dallo Spirito di Lanayru, creato dalla Dea Din stessa al fine di vegliare sui mortali di quel posto.
Un giorno però, a causa di un'immensa catastrofe, l'oceano s'inaridì in una sola notte, innalzando una tempesta di sabbia talmente grande e potente da riuscire a spazzare via ogni forma di vita. Per tenere fede al proprio compito allora Lanayru sacrificò la propria essenza vitale per creare due Colossi d'incredibili dimensioni e forza, i quali avrebbero dovuto proteggere dalla tempesta i pochi sopravvissuti all'olocausto.
Quando le tempesta finì, si raccontava di come i due colossi presero due direzioni diverse, sparendo per sempre alla vista dei mortali, promettendo loro che sarebbero tornati solamente quando l'oceano, infine sarebbe finalmente tornato a fertilizzare il loro territorio.
Mandrag si diede dello stupido dato che, in tutto quel tempo, dopo aver effettuato numerose ricerche ed informazioni, non gli era mai venuto in mente di collegare il ritrovamento del Tempio dello Spirito, il quale guarda caso sostava in una formazione rocciosa troneggiata da un enorme colosso di pietra, con la storia dettata dal testo sacro.
Un'ennesima domanda dunque gli sorse spontanea.
- Dove si trova il secondo colosso? -
- Nessuno lo sa... e forse è meglio così! -
- Perchè? - domandò ancora.
Il prigioniero evitò questa volta di rispondergli, tornando a cantare quella nenia con la quale aveva attirato, volontariamente o inavvertitamente, il principe di Gerudo fino a lì.
Ciò non fece altro che mandare su tutte le furie il suo interlocutore.
- Smettila di stridire e rispondi alla mia domanda, oppure... -
- Oppure cosa? - sbottò il recluso - Mi ucciderai? No che non lo farai, principe di Gerudo, così come non lo ha fatto tua madre in tutto questo tempo. E sai perché? Perché io so cose che tutti voi vorreste sapere. Un tesoro talmente importante per tutti voi che uccidermi non farebbe altro che ledere i vostri stessi interessi! -
Aveva ragione e Mandrag lo sapeva.
Il prigioniero però non aveva ancora finito di parlare.
- E comunque - continuò - In realtà io stavo rispondendo alla tua domanda. La risposta soggiace nella canzone che fin da piccolo mi fu imposto d'imparare a memoria! -
Il fattore di non riuscire a capire quella lingua fece sentire Mandrag ignorante, una  cosa che aveva sempre detestato.
Se avesse fatto come suo solito, avrebbe voltato le spalle facendo finta di niente, lasciando infine il prigioniero nuovamente nella propria desolante solitudine.
La curiosità però non gli permise un simile gesto. Egli doveva sapere, in qualsiasi maniera, a qualsiasi costo, il significato di quelle parole. Il fatto che il motivo di un simile bisogno fosse ignoto non importava.
- Ti prego... - chiese allora con voce mesta - Concedimi la possibilità di capire. -
Egli non poteva vederlo, ma ebbe la netta sensazione che, in attesa di decidere il da farsi, il prigioniero avesse sorriso di fronte a cotanta inattesa umiltà.
L'accettazione alla sua richiesta però tardava sempre più con l'arrivare, tanto che ad un tratto Mandrag si rassegnò all'idea che la sua curiosità sarebbe per sempre rimasta insoddisfatta.
E invece, poco dopo, dalla bocca del prigioniero fuoriuscì una sorta di poesia, bellissima, ma al contempo anche macabra e terribile.
 
Zoccoli che scalpitano, ombre che camminano,
l'errante abbandoni ogni speranza.

Le sue vittime al sole già si seccano,
tutt'attorno marciscono i cadaveri della sua mattanza.

Corri, scappa, fuggi fin dove ti sarà concesso,
il demone antico è tornato per divorare.
Il suo ritorno era già stato promesso,
il deserto è il trono dove tornerà a dimorare.
Non voltarti, Ganon arriva.
Ganon arriva.
 
Al termine di essa, un debole bagliore proveniente dalla breccia dalla quale si era calato attirò lo sguardo di Mandrag. Un nuovo giorno stava nascendo. Il giorno in cui il Rito dello Jabbar avrebbe conosciuto il proprio inizio.
Il tempo delle domande, seppur fossero ancora numerose dentro la sua testa, era finito.
Senza dire nulla si voltò dunque e si diresse verso l'uscita dal soffitto.
Prima che le sue gambe si piegassero però e compissero il balzo necessario ad aggrapparsi al primo appiglio disponibile, egli decise di porre un ultimo, importante quesito al predone.
- Come ti chiami? - chiese rivolgendosi nuovamente verso la cella ancora relativamente illuminata.
Il rumore dei passi del prigioniero si fecero vicini, fino a quando il suo volto, appoggiato alle fredde sbarre, non fu finalmente visibile a Mandrag.
- Mi chiamo Nukar... Agahnim Nukar! -
La luce si spense. Mandrag se ne andò.
Egli si lasciò alle spalle quella notte, rivolgendo ogni suo pensiero alla prova che stava per affrontare. Una prova che lo avrebbe tenuto lontano da casa per molto tempo, dove nulla del suo passato lo avrebbe seguito.
Eppure, in cuor suo, egli seppe fin da quel momento che quel nome, senza alcuna apparente ragione, lo avrebbe perseguitato per tutto il suo esilio.
"Agahnim!".
 
Le titaniche porte settentrionali della Città di Arenaria si aprirono in un boato che portò con sé un nuvolo di sabbia che, per qualche istante, oscurò la luce del sole sopra la testa del Principe.
Quando la visibilità tornò, egli diede una lunga occhiata al panorama desertico che lo attendeva. Infine, compì i primi passi diretti verso il principio del proprio viaggio.
In lontananza, Nabooru osservò la scena con il cuore che le batteva freneticamente dentro il petto. Per tutta la mattinata che aveva preceduto l'inizio dello Jabbar, Mandrag non aveva osato proferire parola insieme a lei, perso nei suoi pensieri ed in una espressione ricolma di dubbio e, forse, di una rabbia enigmatica.
Senza dire alcunché con le proprie labbra, ella dentro di sé lo saluto. Ella gli disse addio.
Una volta fuori, con gli sguardi silenti di tutte le cittadine accorse per l'evento che l'osservavano al di là della muratura, il cancello si richiuse pesantemente dietro di lui.
"Nessun rimpianto. Nessun timore, Mandrag".
Prese a camminare. Compì decine di braccia, poi una lega, poi due, poi molte, moltissime altre.
Solamente quando la città non era altro che un puntino indefinito dietro di sé, Mandrag sentì una strana sensazione crescergli dentro.
In quel momento, egli comprese come ciò che era stato aveva cessato di esistere in quel momento e che se e quando sarebbe infine tornato, egli lo avrebbe fatto non più come il giovane principe che tutte avevano imparato a conoscere, ma come un uomo nuovo. Un Re che avrebbe guidato il proprio popolo alla gloria. 

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Capitolo 4
*** Il Principe delle Sabbie ***


Per quanto fosse cosa nota che i Boblin, disgustose creature che abitavano nelle regioni estreme del deserto, puzzassero come una carogna in decomposizione, nessuno si sarebbe mai potuto immaginare quale olezzo vomitevole emanassero quando venivano lasciati al sole a marcire.
Tenersi un loro cadavere vicino significava come minimo appestare un'intera caverna utilizzata come riparo, ma ciò aveva rappresentato fin dall'inizio un ottimo modo attraverso il quale si potevano tenere alla larga i predatori delle dune per Mandrag.
Non mancavano che una manciata di settimane alla fine del suo Jabbar, tanto che dentro di sé già pregustava il suo lieto ritorno a casa.
Purtroppo, la sua permanenza prolungata al di fuori della civiltà, nonostante fosse ancora vivo e vegeto, non si può dire non avesse avuto degli effetti collaterali sul suo fisico e sulla sua psiche.
Più magro di almeno una trentina di libbre, con le costole che si erano fatte strada tra la muscolatura giungendo con l'essere ben visibili ad occhio nudo, una barba ancora immatura e non completa sulle sue guance, ma allungatasi fino quasi a toccare la base del collo, molte delle sue stesse concittadine avrebbero avuto un certo grado di difficoltà nel riconoscerlo.
Delle vesti con cui aveva iniziato il suo rito di passaggio non erano rimasti che stracci impolverati, utilizzati per lo più come bende per le ferite. Come copertura aveva allora preferito adattare le pelli delle prede catturate nelle lunghe notti di caccia, decisamente più calde durante il freddo notturno, nonché isolanti contro il calore cocente del giorno.
Abituato com'era però ad ornamenti e gioielli regali, egli aveva deciso di mantenere un medesimo decoro anche in quella pericolosissima condizione, sostituendo però gli smeraldi e le ambre con braccialetti e collane di dita e denti di Boblin, così come di altre creature cadute sotto i suoi agguati, tenuti insieme da setole di Bullbo, una sorta di facocero gigantesco del deserto il cui pelame deteneva una consistenza ed una resistenza al di fuori del comune.
Numerose erano le cicatrici che il suo corpo aveva dovuto imparare a portare in tutto quel tempo, ma egli oramai ci aveva fatto l'abitudine anzi, trovava in loro una sorta di valore, come se esse un giorno sarebbero state la prova del suo coraggio e della sua forza necessari per conquistarsi il trono.
Già, il trono. Sebbene da una parte un simile traguardo lo faceva sentire a disagio, in quanto raggiungerlo avrebbe di certo significato la fine del regno dell'amata matrigna, dall'altra egli era ben consapevole di come la sua presa al potere fosse quanto mai necessaria e richiesta.
Nei mesi che era rimasto solo tra le dune sabbiose del deserto di Gerudo infatti, egli non si era fatto solo un'ampia cultura sui movimenti, gli usi ed i costumi di Boblin, predoni e fiere feroci, ma anche delle varie tribù che andavano a comporre il suo popolo, in particolare quelle che si trovavano nelle regioni più aride e difficili dell'interno Dominio.
In quei brevi momenti in cui egli era riuscito ad avvicinarsi ai villaggi di queste ultime, la cosa che lo aveva messo alquanto in allarme era stato l'addestramento delle truppe, decisamente più duro di quello che lui e le sue concittadine avevano dovuto subire nella Città di Arenaria, quasi come se qualcuno, tra le varie Baluarde tribali, si stesse preparando ad un assalto ad una grossa preda. E quale preda era più grossa in una raggio di almeno qualche centinaio di leghe della capitale del Regno di Gerudo?
Un colpo di stato. Sì. Mandrag temeva proprio questo. Nei suoi peggiori incubi aveva visto più volte la sua patria in fiamme, le sue compagne uccise e dissanguate per le vie della città, nonché la visione più terribile: sua madre e le sue ancelle impiccate nella piazza centrale, mentre qualche strampalata signora della guerra esultava sotto i loro corpi lasciati a penzolare.
Non lo avrebbe permesso. Per nessuna ragione avrebbe lasciato che il posto nel quale era cresciuto ed aveva imparato così tanto fosse caduto vittima di una folle sanguinaria assetata di potere. Egli avrebbe preso il trono che gli spettava di diritto e, una volta sedutosi su di esso, non avrebbe commesso i medesimi errori della madre.
Proprio così. Mandrag non era mia stato riluttante al pensiero che un giorno sarebbe divenuto Re di Gerudo. Tutt'altro. Nei suoi studi e nei suoi addestramenti aveva più volte pianificato ciò che avrebbe fatto una volta entrato in carica. Ed in cima alla lista vi era di certo il riunire tutte le tribù sotto un'unica vera bandiera, sedando le ribellioni in ogni loro forma, palesi o segrete che fossero.
A poco a poco, dopo essersi turlupinato in tutti quei pensieri, l'adrenalina cominciò a scemare nel suo sangue. La calma ritornò lentamente, seguita dalla prevedibile stanchezza generatasi in una lunga giornata di caccia.
Accese il fuoco e mise sul braciere un cosciotto di cucciolo di Bullbo ad abbrustolire. Non che avesse molta fame, ma sapeva bene cosa accadeva agli sventurati che non pensavano adeguatamente alla propria alimentazione nel deserto. Come la disidratazione, anche l'inedia era infatti uno dei principali nemici che si nascondevano tra le dune. Se da una parte l'una uccideva lentamente, l'altra poteva essere invece causa di una morte veloce e violenta, probabilmente dovuta al fatto che ogni essere leso dalla fame e dalla stanchezza trova ingenti difficoltà contro un predatore accanito.
Consumato il suo lauto pasto, all'ombra della notte che perentoria era giunta sopra di lui, Mandrag sentì i fumi del sonno conquistargli i sensi, con le sue membra che speditamente perdevano il proprio tono lasciandosi cullare dal torpore del falò.
Prima che la sua mente si lasciasse cadere nell'abisso onirico, al naso di Mandrag giunse uno strano odore, come di spezie lasciate bruciare in un incensiere. Nonostante il tempo ch'era passato dalla sua ultima permanenza in città, riconobbe immediatamente quell'inatteso aroma, tanto che la sua bocca si corrugò in un sorriso beffardo.
- Pensavo che non fosse concesso ricevere visite durante lo Jabbar! - disse rimanendo fermo sdraiato sul terreno, accovacciato in posizione fetale.
- Solo se di tale incontro viene a conoscenza la corte... - gli rispose una voce roca femminile.
Mandrag si alzò. Koume e Kotake ammiccarono un breve inchino di fronte a lui.
- Vediamo che sei ancora vivo ed in ottima forma, principe! - disse Koume entusiasta.
- Un po' ammaccato, ma per il resto mi sento più vivo che mai! Voi invece siete più vecchie di quanto ricordassi, sempre che una simile cosa sia possibile! -
- Sempre sarcastico... il deserto non ha piegato minimamente il tuo spirito! - notò invece in una smorfia Kotake.
Mandrag rise, ma solamente per un istante. Infatti, subito dopo il suo sguardo si fece truce e serioso, come se un dubbio improvviso si fosse infilato tra i suoi pensieri.
- Cos'è successo? - domandò seccamente.
- Che cosa intendi? - gli chiesero di rimpetto.
- Non credo siate venute qui solamente per farmi visita! Non ora poi che mi trovo a pochi giorni dal mio rientro. -
Le due sorelle si scambiarono una fugace occhiata, cosa che fece capire al principe quanto i suoi sospetti fossero fondati.
Kotake si fece allora più vicina.
- Il tuo istinto ti guida bene. Siamo venute infatti ad avvertirti di come da un momento all'altro le tribù di Ghert, Mylock e Guhlam, oramai totalmente riconosciutesi come libere da qualsiasi patto con il trono, potrebbero attaccare la Città di Arenaria, attentando così all'ordine nel Dominio ed alla vita della Reggente! -
La reazione di Mandrag alla notizia stupì le sue due maestre. Invece che scattare in piedi, lasciarsi prendere dall'ira o dalla paranoia, egli semplicemente chinò il capo in mezzo alle ginocchia, sospirando. Un chiaro segno di come ciò che gli avevano appena proferito fosse una cosa con cui, prima o poi, avrebbe dovuto fare i conti.
- Che intende fare la Regina? La corte si è già riunita in consiglio? - chiese allora semplicemente.
- Non ancora! - gli rispose Koume, la quale tra i tre era quella con l'espressione più preoccupata.
- E le altre nove tribù? Hanno confermato la propria fedeltà al trono? -
- Le ambasciatrici con il compito di sincerarsene sono partite la notte scorsa. Ci vorranno almeno altri tre giorni prima di averne una conferma, ma anche se fosse non si riuscirebbe mai a rimettere insieme l'esercito in tempo. Non ora che le dissidenti si sono già messe in marcia! -
- In marcia? - questa volta Mandrag ebbe un sussulto - Vuoi dire che si stanno già portando verso le mura della città? -
Le due sorelle annuirono.
Il principe non ebbe bisogno di sentire nessun'altra parola. Dando immediatamente le spalle alle sue maestre, cominciò a raccattare la propria roba, stringendola in una specie di sacca fatta di pelle e cuoio. Contò le provviste e le otri d'acqua ancora piene, poi con della sabbia spense il falò, stando ben attento a non far espandere troppo fumo per aria, un tipico errore da sprovveduti che gli avrebbe fatto correre il rischio di attirare indesiderate attenzioni.
- Che stai facendo? - gli domandò ad un tratto Kotake.
- Mi preparo a tornare! - rispose sicuro il principe - Se prendo il sentiero più veloce, con un buon passo sarò a casa in meno di sei giorni! -
- Per fare cosa? - domandò ancora l'anziana strega - Tu non sei ancora Re e non sarai riconosciuto come tale prima di un'altra mezza luna! -
Mandrag sbottò - Qui non c'entra più niente lo Jabbar! -
- Invece sì! - fu ancor più perentoria Kotake.
Koume annuì dando ragione alla sorella.
- Se non termini il tuo rito d'iniziazione, non solo le nemiche di tua madre non ti riconosceranno, ma neanche le tue stelle alleate. Per questo hanno deciso di attaccare proprio ora. -
L'espressione del giovane principe divenne ancor più dura e furente. Già aveva inteso dentro di sé cosa aveva appena inteso la sua vecchia maestra, ma nonostante ciò volle sentirselo dire in maniera più diretta.
- Che stai farneticando? -
Koume scostò un secondo la sorella. Conosceva bene il carattere del suo discepolo, sempre pronto ad infiammarsi per ogni minima cosa, così com'era ben conscia che la cosa aveva sempre fatto divertire la sorella. In quel momento dunque preferì prendere lei le redini della situazione, al fine che Mandrag potesse ragionare in maniera più fredda e logica. Una scelta errata avrebbe portato sicuramente alla devastazione, nonché al fallimento dei loro piani.
- Vedi principe, le Baluarde di Ghert, Mylock e Guhlam hanno preso la decisione di attaccare la città proprio ora in quanto vogliono costringerti a tornare in anticipo rispetto i tempi dello Jabbar! Sanno che il tuo attaccamento alla Reggente, nonché alla Città, ti potrebbero portare ad abbandonare il tuo esilio proprio perché esso sta per giungere al termine. Ciò però non farebbe altro che delegittimarti, precludendoti per sempre il trono e non permettendoti dunque di prendere in mano la situazione! -
- Loro ti temono! - sibilò Kotake alle sue spalle digrignando i denti - Loro non vogliono che sia tu a guidare l'esercito delle Gerudo in battaglia. La voce sulle tue capacità si è già sparsa a macchia d'olio, giovane discepolo! -
Una scintilla d'orgoglio si accese dentro Mandrag.
"Sì. Fanno bene a temermi! Le farò appendere per il collo e le lascerò marcire al sole!" pensò con la fame di vendetta che gli montava dentro le vene.
Si fece vicino a loro, troneggiando date le diverse spanne di differenza che c'erano tra la sua e la loro altezza.
Il suo volto si piegò in una smorfia sprezzante. Una vena pulsante apparve su una delle sue tempie, tamburellando la pelle come un bongo da cerimonia.
- Che devo fare? - domandò, pronto a seguire ogni consiglio.
Ancora una volta, gli sguardi delle due streghe s'incontrarono furbescamente, ben consce di come ancora una volta fossero riuscite a rigirare le redini del comando nelle proprie mani.
Kotake concesse alla sorella di proferire il loro piano.
- Per prima cosa - disse costei - Devi attendere la fine del tuo Jabbar. Questo ti innalzerà ad erede legittimo al trono di fronte alla città ed alle tribù ancora alleate ad essa! -
- Va bene! Farò come dite! - mugugnò lui sebbene a malincuore, mentre il pensiero delle traditrici che si avvicinavano sempre più alle mura della sua amata città continuava ad importunarlo.
- Non sarà sufficiente! - esclamò di seguito Kotake - Una guerra è l'ultima cosa che ti serve per poter iniziare al meglio il tuo patriarcato e fare il bene del tuo popolo. Bisogna che il tuo ritorno mandi un chiaro messaggio a coloro che si sono ribellate. Un qualcosa in grado di scatenare in loro un timore che va bel al di là del semplice rispetto per il trono! -
Mandrag sapeva già che cosa avrebbe fatto una volta tornato in città, tanto che subito non fece attendere la sua risposta.
- Non temete! Una volta che mi troverò al posto giusto, farò impiccare le traditrici nella piazza centrale della città. Cosicché tutti sapranno chi è Mandrag di Kales, Tredicesimo Patriarca di Gerudo! -
- E farti passare per un dittatore sanguinario già dal primo giorno?! - lo ammonì Koume, mentre sua sorella diversamente da lei aveva per un secondo sorriso in maniera compiaciuta a quell'affermazione. Koume lo lanciò un'occhiata infuocata. Kotake si scusò con un cenno.
Quest'ultima disse poi - No! Koume ha ragione, Mandrag! Non ci dovranno essere spargimenti di sangue. Saranno le tue gesta a parlare. -
Il principe sbuffò. Nonostante fosse stato uno studente modello in storia e diplomazia del suo popolo, sebbene al quanto scansafatiche durante le lezioni, egli non amava il cosiddetto ballo della politica. Egli era per azioni per così dire dirette, che non lasciavano spazio a dubbi o interpretazioni.
Però, per quanto gli dispiacesse, egli sapeva bene come l'esperienza delle gemelle Rova fosse da trattare come un ricco tesoro, più che come una noia da sbrogliarsi di dosso.
- Vi ascolto! - disse dunque infine.
Nemmeno un'ora più tardi, quando la notte stava per giungere nel pieno del suo corso, l'erede al trono di Gerudo si trovò nuovamente in viaggio, verso una meta inattesa e, il suo cuore già lo sapeva, assai pericolosa.
 
Il sole del crepuscolo stava già per abbandonare la volta celeste. Ad occidente il colore rossastro dell'astro si stava disperdendo velocemente, mentre ad oriente l'oscurità della sera faceva capolino in maniera spedita.
Non appena le prima stelle cominciarono ad essere visibili nel firmamento, il suo volto s'incupì.
Se le indicazione che le gemelle Rova gli avevano dato la sera prima fossero state esatte, egli allora si sarebbe già dovuto trovare nel posto indicato. Invece egli non poté fare altro che constatare, controllando e ricontrollando la posizione degli astri luminosi sopra di lui, che il posto in cui ora si trovava non era differente da altri mille dispersi per il deserto. In poche parole, si era ritrovato ancora una volta nel nulla più totale.
- Maledette vegliarde! - imprecò ad alta voce, lasciando cadere la sua sacca di pelle sulla sabbia.
Lo sconforto aggredì i suoi sensi. Egli non riuscì a non pensare come, a diverse leghe di distanza, un allargato manipolo di guerriere desiderose di mettere a soqquadro l'ordine dell'intero Dominio stava marciando a piede svelto. Lui invece si trovava perso chissà dove, alla ricerca di un qualcosa di cui aveva appena sentito parlare.
Rifletté a lungo. Pensò e ripensò al da farsi prendendo in considerazione diverse possibilità, anche se quella più battuta gli consigliava perentoriamente di fare armi e bagagli per farsene ritorno a casa, dove avrebbe potuto affrontare le traditrici direttamente.
L'unica cosa che però riuscì comunque a frenarlo fu il ricordo delle parole delle Rova.
Se veramente il divieto dello scadere dello Jabbar fosse stato visto come un sacrilegio persino dalle Gerudo più vicine a lui, come avrebbe potuto sbaragliare un esercito all'assalto della sua casa? In che maniera avrebbe riportato l'ordine se il suo ritorno anticipato avesse spaccato dall'interno le forze già esigue delle fila dei suoi plotoni?
Si grattò la testa nervosamente, scrollandosi un po' di sabbia dai capelli divenuti crespi a causa dell'aridità e da troppi mesi passati senza farsi un bagno come si doveva.
Poi, eliminata qualsiasi opzione logica dalle sue scelte, egli riprese a camminare. Stanco ed affamato, i suoi passi erano lenti, pesanti, affondavano di almeno due dita dentro il manto di sabbia che sostava sotto i suoi piedi. Costantemente i suoi occhi cercavano qualche punto di riferimento. Una formazione rocciosa insolita. Una qualche sorta di piastrellatura al di sotto della sabbia. Niente, nulla di tutto ciò. Iniziò a credere di come fosse riuscito a perdersi nonostante avesse seguito ogni indicazione delle sue maestre. Si sentì indegno. Si vergognò di sé stesso... quando un rombo in lontananza azzerò la miriade di voci dentro la sua testa.
Alzato lo sguardo, non riuscì a credere ai propri occhi.
Nonostante fosse un fenomeno insolito durante il calare della notte, davanti a lui stava avanzando una tempesta di sabbia il cui muro di polveri pareva talmente alto, nonostante la distanza, da riuscire ad inghiottire al suo interno il cielo stesso.
Durante il suo Jabbar quella non era la prima volta che incappava in un fenomeno simile, proprio per questo il suo corpo venne scosso da un tremito gelido. Aveva infatti imparato come le tempeste di sabbia in quella zona del deserto, così povera di ripari e rifugi, fossero più pericolose di una mandria di Bullbo lanciati alla carica, così come di un'intera orda di Boblin a mannaie sguainate.
Così, senza pensarci su troppo, prese a correre con tutte le energie che gli erano rimaste dopo un'intera giornata di erranza. La direzione non era importante. Dovunque il suo sguardo cadeva non vi era altro che sabbia e ed ancora sabbia. Non una grotta; non una piccola rientranza; non una duna abbastanza profonda da riuscire a coprirlo dalla forza della tempesta. Intanto questa continuò ad avanzare sempre più velocemente.
Quando le gambe cedettero infine alla stanchezza e l'oscurità dovuta all'incombere di quel famelico muro di sabbia, decisamente più tenebrose della notte stessa, il suo istinto di sopravvivenza lo riportò ad un insegnamento ricevuto quando ancora era un fanciullo sbarbato ed inerme.
- Guarda gli scorpioni! - sentì la voce lontana nel tempo di una delle sue addestratrici - Essi non temono le tempeste perché il deserto stesso è un rifugio per loro. Quando il predatore più pericoloso delle dune incombe, essi non fanno altro che infilarsi sotto la sabbia, tenendo un pertugio largo in maniera appena sufficiente per respirare. Se possono farlo loro, perché non puoi farlo anche tu? -
Impensabile. Probabilmente impossibile. Ma quale altra possibilità gli rimaneva?
Sentendosi un perfetto idiota allora si mise in ginocchio e con tutte le sue forze cercò di scavare una buca abbastanza larga da contenere il suo corpo. Per un momento fu grato del fatto di esser divenuto così esile a causa dello Jabbar, proprio perché in pochi secondi era riuscito a creare un varco sufficiente nel quale infilo dapprima le sue gambe, poi il suo torace ed infine il resto del suo corpo. Poi, avvicinando a sé più sabbia per coprire le parti ancora rimaste in superficie, come ultima cosa prese la sua borsa e, alzando lo sguardo verso il cielo, se la pose sopra la testa a mo di tappo, sperando che questa potesse filtrare l'aria attraverso le sue fibre, lasciando fuori le polveri della tempesta.
Ovattato dalla massa di sabbia che ora lo attorniava totalmente, il rumore del vento fu sostituito dal rombo dei suoi respiri affannosi.
Socchiudendo gli occhi, non poté fare altro che attendere. E, in men che non si dica, una forza indicibile, che a momenti gli strappo via la borsa dalla sua presa, lo investì violentemente, tanto che i moti della duna attorno a lui lo colpirono dolorosamente.
In breve tempo la sua bocca fu completamente ricoperta di terriccio dal sapore salato, ma, fortunatamente, il suo giaciglio improvvisato gli permise di mantenere le narici aperte e pulite da qualsiasi genere di ostruzione, sebbene lo palle spessa della sua borsa non facesse passare poi così tanto ossigeno.
In cuor suo si augurò che la tempesta durasse il minor tempo possibile, cosa che però sarebbe risultata assai insolita dato che generalmente potevano permanere persino per la durata intera di una notte.
Il terrore prese piede.
"Mi sono costruito la mia stessa bara!" pensò disperato. "Sono in trappola!"
Simili pensieri assunsero l'aspetto della certezza quando poi, sentendo la sabbia smuoversi persino sotto i suoi piedi, comprese come l'impeto della tempesta stesse aumentando a dismisura, riuscendo a smuovere l'intera duna dove aveva scavato il proprio improvvisato rifugio.
Le sue braccia si allungarono. Le sue dita persero parte della presa sulla borsa, il suo unico filtro per respirare.
Stava sprofondando. In breve sarebbe stato ricoperto dalla sabbia e travolto dalla forza del vento.
Smanacciando come un ossesso cercò di rimanere aggrappato al suo unico appiglio, ma non ci fu nulla da fare. Il terreno sotto di lui alla fine cedette, facendolo crollare in uno strato terroso friabile.
Le sue vie respiratorie si riempirono di granelli. Cercò il più possibile di trattenere il respiro, sperando che la sabbia non invadesse anche i suoi polmoni, cosa che se fosse accaduta avrebbe sancito per sempre la sua morte.
I diaframmi gli dolevano. Un bruciore enorme lo percosse da dentro il torace. Non aveva più aria.
L'asfissia fece capolino non molti secondi dopo, per quanto interminabili gli potessero apparire. Sebbene ricoperti ed oscurati dalla sabbia sopra di lui, ai suoi occhi balenarono luci illusorie, allucinazioni tipiche che aggredivano ogni vittima da soffocamento poco prima della morte.
Aveva sentito dire che prima dell'ultimo respiro ai morenti era concesso di vedere tutti i momenti meravigliosi passati durante la loro vita. Solo in quel momento riuscì a comprendere come quelle voci fossero menzognere.
Disperso in un oblio di oscurità ed abbandono egli provò invece una sensazione si sbigottimento e paura.
Nessun ricordo era balenato alla sua memoria. Nessuna immagine della sua infanzia o delle poche persone care a cui aveva tenuto.
No, di fronte a sé egli non poté che scorgere una figura titanica farsi sempre più vicina, simile ad una fiera del deserto, ma decisamente più grande, imponente.
Per quanto non riuscisse a riconoscerne le forme con precisione, egli poté invece adocchiare due zanne lunghe ed affilate quanto rasoi, le quali andavano ad incorniciare due fari rossi come il fuoco; due occhi che lo guardavano, lo osservavano nell'oscurità e che, incredibilmente, parevano ridere di lui.
Quella cosa stava correndo a per di fiato verso di lui, pronto a caricarlo in tutta la sua potenza. E, quando oramai gli fu prossimo, essa spalancò delle fauci enormi, le cui tenebre all'interno parvero da subito essere più profonde e mortifere di quelle in cui già si trovava.
Fu questione di un istante.
Il silenzio calò. I suoi polmoni si acquietarono. La sua mente precipitò nell'abisso.
Il nulla lo inghiottì.
 
Le guardie pattugliavano costantemente ogni entrata che conduceva all'interno del palazzo, ma la zona più sorvegliata di tutte era certamente l'accesso alla stanza reale, dove Nabooru si stava riposando, lontana dal pensiero di una possibile guerra civile alle porte. O, così almeno era come credevano tutti.
Intabarrata in un vecchio mantello spesso per la notte risalente ai tempi in cui era una semplice ancella, ella si trovava invece molto più lontano, al di sopra dei bastioni delle mura, in compagnia esclusivamente di un ornamento completamente fatto d'oro, il quale era stato terminato dall'orafa più abile della città. Si trattava di un diadema a fermagli, ovvero di una corona dotata di sottili lamine, alcuni le avrebbero chiamate tentacoli, fatti in modo che s'incastrassero nel cuoio capelluto della nulla di chi lo avrebbe portato. Numerosi smeraldi erano stati incastonati minuziosamente qui e là sulla sua superficie, intervallati ogni tanto da qualche rubino o diamante. Un gioiello meraviglioso, degno di una Regina.
Ci erano volute diverse lune per riuscire ad ultimarlo, utilizzando come materia prima parte del tesoro reale personale una volta appartenuto alla Regina Madre. L'orafa che lo aveva creato ci aveva messo tutta la sua maestria, al fine che la propria indossatrice avesse potuto portarlo con fierezza. Ciò che però quest'ultima non sapeva è che tale oggetto non si sarebbe mai visto sulla testa di Nabooru, Reggente al Trono di Gerudo, no.
In realtà in molti avrebbero capito come le dimensioni ed il raggio di quel diadema non si sposavano per nulla ad una fronte fine ed aggraziata come quella di una donna o, per essere precisi, come quella di Nabooru.
Osservandolo in tutta la sua bellezza, la reggente non riusciva a fare a meno di accarezzarlo, studiarlo in tutta la sua precisione. Chissà se sarebbe piaciuto a Mandrag, si domandò più e più volte. Di sicuro, ne fu certa, lo avrebbe vestito in maniera impeccabile, sui suoi stupendi capelli rossi, la cui tonalità col tempo era passata dal vermiglio al carminio.
"Dove sei, figlio?" pensò con un velo di tristezza.
"Ti rivedrò? Ti guarderò mentre vieni incoronato e guidi il nostro glorioso popolo verso una nuova era? Oppure sarò costretta a darti l'addio nel silenzio ed in un celato dolore?"
Si asciugò una lacrima scivolatale sulla gota destra.
Se la Maestra d'Armi fosse venuta a sapere della sua fuga notturna si sarebbe dovuta sorbire una lunga paternale. Pensò al volto infuriato di colei che oramai era divenuta una vecchia amica. Finalmente qualcosa per cui ridere, anche se solo per un breve istante.
Lanciò il suo sguardo in lontananza, da dove prima o poi avrebbe visto sorgere le luci delle torce di coloro che volevano trascinarla con la forza giù dal trono.
Nulla in vista. Ancora una notte di tranquillità. Ma per quanto ancora sarebbe durato? Quando avrebbe sentito i corni di allarme delle vedette? Quando sarebbe stata scaraventata giù dal suo letto e portata nei sotterranei, mentre fuori imperava la catastrofe?
Ancora pochi giorni e le ambasciatrici sarebbero tornate dalle varie tribù che ancora, se la speranza aveva ancora motivo di esistere, le erano rimaste fedeli. Anche se così fosse stato però ella già sapeva che mai le sue alleate avrebbero fatto in tempo per accorrere in suo aiuto. La Città di Arenaria sarebbe caduta ed una nuova epoca di caos avrebbe preso il sopravvento su una pace che già da tempo aveva preso un aroma fittizio.
Per tre volte, nei giorni successivi alla notizia che tre tribù avevano dichiarato guerra al trono, Naga l'aveva implorata di fuggire, di nascondersi in un luogo sicuro affinché la reggenza non fosse stata messa in pericolo. Ella però aveva rifiutato. Non è da Gerudo fuggire di fronte al pericolo, nemmeno per coloro che erano state cresciute lontano dalle picche e dalle sciabole.
No, Nabooru aveva già preso una decisione, ben prima che la Maestra d'Armi le proponesse una simile codardia. L'indomani infatti ella avrebbe fatto scavare un breve fossato intorno alle mura della città, al cui interno le guardie avrebbero accumulato un gran numero di Fiori Ignei raccolti in diverse zone del Dominio da molte sue ancelle. Una piccola difesa, più un diversivo in un certo senso, ma pur sempre qualcosa per tentare di rallentare le truppe nemiche.
Poi, quando all'orizzonte il suo destino infine si sarebbe annunciato, ella avrebbe indossato l'armatura di Niwesh, la Regina Madre. Avrebbe cavalcato insieme alle sue compagne. Avrebbe sguainato la spada ed avrebbe combattuto.
E, per una volta, si sarebbe sentita finalmente Regina. Per un solo singolo giorno. Quello della sua dipartita.
 
Un cielo violaceo, innaturale, si stagliava di fronte a lui. La sabbia sotto i suoi piedi, sebbene riuscisse a percepirla, era inconsistente e dotata di una colorazione brillante, simile all'oro.
Non vi era più dolore nelle sue membra. Non percepiva stanchezza ed una strana sensazione di pace albergava dominante nel profondo del suo spirito.
Dovunque si trovasse, Mandrag cercò di non pensare a nulla e si godette, almeno per qualche istante, quella sensazione di libertà e di tranquillità.
Dentro di sé aveva già compreso o, comunque, credeva di essere giunto alla conclusione più giusta riguardo alla sua situazione. Stranamente però, sicuro di essere morto, non provò alcun tipo di rammarico. Continuò a camminare senza indugio, anche se di fatto non vi erano più mete da raggiungere o da esplorare.
Per quanto introno a sé non vedeva nessuno, egli si sentiva tutt'altro che sperduto e desolato. Infatti, l'aria, la sabbia, il cielo e tutto ciò che lo attorniava dava a lui come la sensazione di possedere una propria anima che, seppur silenziosamente ed in quella strana evanescenza, lo stava accompagnando, parlandogli persino.
- Mandrag! - una voce continuava a risuonargli nella testa. Un timbro androgino, privo di veri e propri tratti distintivi.
- Chi sei? - domandò senza però aprir bocca, come se quella comunicazione non avvenisse altrove se non nella sua mente.
La voce non rispose, ma continuò - Principe di Gerudo. Tredicesimo Patriarca... il Prescelto! -
Egli socchiuse gli occhi all'udir quelle parole.
- Non più! - disse - Ora non più! -
- Si invece. - gli fu ribattuto - Il figlio di Dragmire. Per questo sei stato scelto! -
D'improvviso, in quel luogo che fino a quel momento era stato dominato da un'accomodante calma piatta, una strana brezza prese a muoversi con moto rotatorio attorno a lui. Anche il cielo poi cominciò a mutare, facendosi sempre più scuro, ma solamente in una determinata regione della propria volta.
- Vieni! - tornò a farsi sentire quello strano richiamo - Osserva! -
Allora, senza bisogno di alcuna indicazione, Mandrag si mise a correre, attirato verso una duna rialzata, ma non particolarmente alta, oltre la quale però il paesaggio si era completamente dileguato, lasciando spazio ad uno strapiombo abissale che faceva da cornice ad uno stupendo panorama verdeggiante e ricolmo di fiumi e scrosci d'acqua.
Affascinato da un simile posto, così diverso dalla sua terra d'origine, Mandrag commosso chiese - Dove mi trovo? -
- Quando... questa è la domanda giusta? -
Egli non comprese - Cosa? -
Poi, in lontananza, nel cielo che si stagliava sopra quel posto meraviglioso, vide qualcosa.
Tre luci. Come tre comete di colori diversi, esse sorvolarono e strinsero nel loro abbraccio lucente quel mondo così vitale, eppur così vuoto, come se nessuno lo abitasse.
La voce tornò a farsi sentire - Din... Nayru... Farore! -
- Le Divinità Antiche... - disse inebetito Mandrag.
Le loro luci infine si unirono, quasi si scontrarono, generando un'esplosione accecante di suoni e colori, da cui infine fuoriuscirono due figure, un uomo ed una donna, che nelle loro mani portavano un dono la cui forma però era impercettibile agli occhi del Gerudo.
- Che cos'è? - domandò.
- Fu nascosto... - fu l'unica risposta che ricevette, la quale però fu subito seguita da un altro susseguirsi di eventi.
Il mondo che in precedenza era stato ammirato da lui nel suo essere spoglio, ora invece brulicava di esseri viventi. Esseri gioiosi, felici, sereni.
Tutto però cambiò in pochi minuti. Questi infatti, sempre più attirati da quell'oggetto imperscrutabile, desiderosi di possederlo nel proprio singolo egoismo, presero a darsi battaglia, ad uccidersi con armi e stregonerie di ogni genere. Due di essi attirarono in particolare la sua attenzione.
Uno di questi aveva l'aspetto di un uomo possente, con capelli infiammati ed occhi sanguinosi, che cavalcava un mostro gigantesco, con due corna affilate e rivoltanti. L'altra invece possedeva un aspetto femmineo e si trovava inginocchiata di fronte al dono, piangente.
Baldanzoso e famelico, l'oscuro cavallerizzo si fece vicino a lei, alzando la sua spada affilata e seghettata verso il suo collo. Prima che però quella lama scura ed arrugginita le mozzasse il collo, ella allungò una mano tremolante verso l'oggetto e non appena la sua pelle si appoggiò ad esso, un potere inimmaginabile si sprigionò investendo qualsiasi cosa.
La luce fu così forte che Mandrag si sentì come cieco per parecchi secondi, ma la cosa in fondo non fu differente nemmeno quando egli riuscì a tornare in possesso completamente della propria vista. Come dileguatosi, il territorio che fino a poco prima aveva ammirato ora era tornato ad essere un deserto desolante, al cui orizzonte però ora vi era un qualcosa di nuovo: due particolari che fino ad allora fu sicuro di non esser mai riuscito a notare.
Due strutture enormi. Due statue umane dall'aspetto femminile costruite ognuna di esse all'interno di un complesso architettonico maestoso.
Intenzionato a raggiungerle, avanzò il primo passo nuovamente al di sopra di quel brillante, quasi elegante, strato sabbioso, ma subito qualcosa attirò la sua attenzione sopra di lui.
Non riuscì a comprendere subito di cosa si trattasse, ma quelle due fiamme disperse in un cielo oscuro e senza stella gli ricordarono immediatamente come due occhi furenti intenti ad osservarlo.
Apparentemente senza motivo, egli si sentì come denudato di ogni sicurezza, di ogni identità. La sensazione di pace si era come assopita, soffocata da una ventata anzi, una tormenta di emozioni macabre, ben più potenti della semplice paura.
E, in quella tormenta, egli tornò a sentire la voce che fino a lì lo aveva guidato, la quale ora proveniva chiaramente da quella figura enigmatica inscritta nella volta celeste.
- Ganondorf... - la parola enigmatica che pronunciò.
 
Un filo di luce gli colpì le palpebre chiuse. La bocca era addormentata e sul palato sentì una sensazione salata e disgustosa. Gli ci volle qualche secondo per cari come la sua lingua ed i suoi denti fossero ancora ricoperti di sabbia. Altrettanti poi servirono infine per accorgersi che il suo intero corpo si trovava ancora completamente sepolto all'interno di una duna.
Così, la prima domanda che gli piovve nella mente, per quanto inutile e fuori luogo in quel momento, riguardo il come fosse riuscito a sopravvivere, a salvarsi.
Mandrag aprì gli occhi, sperando di non sentirli immediatamente investiti dal terriccio che lo circondava. Fu allora che vide nuovamente quella luce che, molto probabilmente, accarezzando le sue palpebre lo aveva ridestato.
Di fronte a sé vide un pertugio stretto e pericolante, ma che comunque conduceva alla superficie.
Cercò di muoversi, ma esausto com'era trovò parecchie difficoltà nel riuscire a liberare solamente una mano. Cercando di prendere più aria possibile, decise di muovere lentamente ogni singolo musco del suo corpo, sperando che così facendo riuscisse a movimentare quanto bastava la sabbia intorno a lui per crearsi più spazio possibile.
Fortunatamente per lui, le sue previsioni non rimasero tali. Strisciando come un serpente s'inerpicò allora sempre più verso la luce fino a che, in un ultimo e sofferto sforzo, fece emergere la sua chioma dalla sabbia.
Liberare il resto del corpo fu questione di qualche minuto, ma i secondi che seguirono durarono più di una vita intera quando, tornando a respirare aria pulita nei suoi polmoni, egli alzò il capo verso una struttura titanica che, come apparsa dal nulla, ora si trovava lì, ai suoi piedi.
Dall'aspetto essa doveva essere molto antica, costruita in un'epoca primitiva, quando le Gerudo non erano ancora giunte ad abitare in quelle valli. Ben diverso però era il discorso riguardante quel volto immenso, con una fluente chioma scolpita nel granito che andava ad incorniciare due seni prorompenti ed un corpo longilineo che terminava in maniera poco curata poco sotto l'ombelico.
- Il colosso... - sussurrò sbalordito. Sbalordito non solamente di fronte ad una simile opera per cui era difficile credere fosse stata costruita da mani umane, ma soprattutto perché egli si era ritrovato, come spinto dal destino stesso, proprio dove gli era stato indicato di giungere; il Tempio dello Spirito.
- Stupendo, vero? -
Koume appoggiò la sua mano rugosa su un fianco del suo discepolo tutt'altro che sorpreso di trovarle lì.
- Macabro! - ribatté lui - Questa è la parola giusta? -
- E perché mai? - lo affiancò anche Kotake.
Nascondendolo furbescamente, egli sussultò. Non aveva mai capito il perché, ma di certo Kotake aveva un non so ché di terribile nel suo aspetto rispetto alla sorella, nonostante quest'ultima fosse in tutto e per tutto anche sua gemella.
Sospirando pesantemente, le rispose - La puzza! -
Il sopracciglio della strega s'inarcò.
- Non la sentite? - fece una smorfia sorridente il principe - Io invece sì. La sento fino a qui. Il fetore di cadavere, di morto antico, di sangue avvizzito e coagulato che nel corso dei secoli qui fu versato! -
Questa volta, fu Kotake a sospirare.
Annuì - Secoli fa, prima che l'antica tribù di Dragmire si sfaldasse divisa dalle eredi del Settimo Patriarca, una Regina coraggiosa, venendo a sapere della leggenda legata a questo posto si mise alla sua ricerca! -
Mandrag cercò nella sua memoria, ma non trovò nulla riguardo a tale figura. Decise allora di non interrompere la sua maestra e la lasciò proseguire.
- Non si sa molto su ciò che accadde - continuò ella - Sta di fatto che ella riuscì a giungere qui, dove tu ti trovi ora, a capo di un esercito di ben trecento fide guerriere, le migliori, scelte appositamente da lei. Così come però fu certo che, contrariamente, solo ella fece ritorno, impazzita per la sete e con gli occhi iniettati di un terrore talmente profondo da averne inghiottito l'anima! -
- Ganon! - esclamò in un sibilo Koume, cogliendo talmente l'attenzione di Mandrag che i suoi occhi si spalancarono a dismisura, quasi portando le sue orbite ad abbandonare la propria posizione.
- Vedo che già conosci un simile anatema! - notò Kotake.
- Come? - gli chiese l'altra sorella.
Mandrag non seppe cosa rispondere, ma decise in un batter d'occhio di mentire.
- L'ho letto... l'ho letto in un annale! -
Kotake sbuffò palesemente incredula.
- Nessun annalista sana di mente scriverebbe un simile scempio su un atto storico ufficiale. Ricorda come il tuo popolo sia particolarmente superstizioso e la parola Ganon è creduta assai portatrice di sventura! -
Ella si fece a lui più vicina, aguzzando le pupille affilate nelle sue.
- Chi te lo ha detto? - gli domandò ancora, mettendogli una pressione tale che questa volta non sarebbe più riuscito a mentirle.
Egli non ci tentò più.
- Un prigioniero... nella Bolgia! -
- Dimmi il suo nome! -
Mandrag abbassò lo sguardo, riflettendo profondamente sulle ripercussioni che sarebbero seguite a ciò che la sua bocca stava per proferire. Poi però ripensò a tutte quelle domande che si era fatto cicli lunari prima quando, quella notte, egli aveva rivisto un uomo tornare dal mondo dei morti delle sue certezze.
Così, disse - Agahnim! -
La bocca di Kotake si spalancò, chiaramente colpita da ciò che i suoi timpani erano appena riusciti ad udire.
- Il... il predone? - bofonchiò - Ma è morto. Penzolò dal capestro anni fa, quando tu eri ancora un giovane ragazzo! -
- No! - scosse il capo Mandrag riprovando quel senso di dolore e frustrazione - Egli fu salvato. Egli è ancora vivo. Fu... fu un inganno! -
- Ad opera di chi? - chiese trafelata Koume.
Mandrag sospirò ancora una volta.
- Io non ne sono sicuro... ma temo che dietro a tutto ciò ci sia la Reggente! Ci sia Nabooru, mia madre. -
- No, impossibile! - sbottò Kotake - Nabooru non l'avrebbe mai fatto. -
- Fu lui a dirmelo! -
- Per depistarti. Crearti un dubbio! Egli ti odia, discepolo, come odia ogni singola cosa legata al tuo prossimo regno. Cerca di pensare alle cose che contano e non alle menzogne di un topo di fogna che non conosce altro che il desiderio di distruggere le Gerudo ed il loro retaggio! -
- Ora entriamo, principe! - continuò Koume sospingendolo verso l'entrata del Tempio; un architrave squadrata formata da un dolmen granitico - Là dentro c'è la chiave per giungere alla corona. -
- ... ed alla pace! - aggiunse Kotake lanciando un'occhiataccia alla sorella.
- E alla pace, già! - precisò allora quest'ultima.
Le due lo presero ognuna sotto braccio e lo accompagnarono. Quell'atteggiamento però insospettì molto l'acume del giovane principe. Come mai, non appena sentita la sua versione, aveva preferito tagliare corto, non andare in fondo alla faccenda, al come mai si fosse addentrato in un luogo non adatto ad un reale di Gerudo?
Così, frenando violentemente le loro inutili spinte, adottando un atteggiamento alquanto indisposto nei loro confronti rispetto a passati e più rispettosi comportamenti, domandò - Chi è Ganon? -
Gli occhi di Koume si chiusero ed un sospiro nervoso uscì dalle sue labbra. Anche Kotake non nascose il proprio disappunto, come se quella domanda avesse preferito non udirla mai dalla bocca del proprio diletto.
Tuttavia, ella si rassegnò a rispondere - Non chi, principe, ma cosa! -
Il volto di Mandrag assunse un'espressione interrogativa.
- Un mostro! - Koume soddisfò la sua curiosità, lasciando poi che la sua gemella continuasse.
- Una belva vomitata dalle fauci della notte dei tempi. Un aborto partorito involontariamente dalla luce divina di Coloro che ci precedettero. Per molti è solo una leggenda, ma noi sappiamo che egli si aggira qui, in queste lande, in corpo di gigantesca fiera, ma con mente e spirito di arguto e spietato stregone! -
- Un aberrazione! - disse tra sé Mandrag.
- Già! - annuirono all'unisono le sorelle - Un'aberrazione talmente antica che voci andate perdute narrano come esso sia la reincarnazione di un demone antico ed eterno... un essere le cui capacità superano di gran lunga quelle del mago più potente, della strega più abile, nonché dell'esercito più numeroso! -
Nella mente di Mandrag si palesò nuovamente la figura zannuta che correva verso di lui mentre sprofondava nelle sabbie.
Cercando di levarsela dalla testa, chiese - Che forma ha? -
Koume tagliò corto - Oh, non avere dubbi, discepolo. Quando lo vedrai, lo riconoscerai! -
Il principe non attese oltre. Tendendo e rilassando in seguito ogni suo muscolo, obbligò la calma a fare ritorno nel suo cuore che gemeva e si scuoteva solamente quando i suoi occhi affondavano nell'antro di fronte a sé, l'entrata del tempio.
Indirizzatosi verso di esso dunque si lasciò dietro le sue due maestre le quali, non molti istanti più tardi, lo videro scomparire nelle ombre profonde di quel luogo, udendo i suoi passi allontanarsi fino a zittirsi.
Sicure di essere nuovamente sole, allora Kotake si rivolse alla sorella, sfoggiando un sorriso comprendente ogni singolo dente, ben pochi ad essere sinceri, che gli fosse rimasto.
- Agahnim, eh? -
Koume ricambiò la medesima espressione - A quanto pare tutto sta andando come previsto, sorella! -
- Vero, sorella! Vero! - fu felicemente d'accordo l'altra - Il maestro ne sarà felice! -
- E noi con lui... quando egli tornerà a camminare tra noi! - 

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Capitolo 5
*** Un Male Antico ***


Addentratosi nel tempio, per il giovane principe non ci erano voluti che pochi minuti, alla luce di una torcia di fortuna, per accorgersi di come l'interno di quel luogo fosse così terribilmente asimmetrico nell'aspetto rispetto all'esterno.
Essenziale e quasi stereotipico nelle forme strutturali che aveva ammirato alla luce del sole, nelle tenebre e nella foschia polverosa interne a quelle mura egli aveva invece ammirato forme complesse e precise, decorazioni ben conservate dal tempo e file sterminate di statue scolpite direttamente nella pietra, raffiguranti tutte serpenti letali immortalati in un inchino umile rivolto verso la parete opposta all'entrata.
Mandrag, alzando la torcia il più in alto possibile affinché la sua luce aumentasse il proprio raggio, s'incamminò dunque verso di essa, al fine di scoprire il motivo di cotanto rispetto scolpito nell'eterna roccia.
Inattese, a poche braccia dalla parete, incontrò delle scale, alte e perfettamente levigate, seppur ricoperte da diverse dita di polveri e resti di ragni e scorpioni morti.
Contati in tutto sette scalini, la cui altezza di ognuno equivaleva almeno a metà di una delle sue gambe, due mani possenti, finemente intagliate all'interno della spessa muratura, furono finalmente toccate dalla luce sfiammante facendo esplodere di stupore il giovane principe di Gerudo.
I suoi occhi ne seguirono dunque le forme ed in confini, fino a quando un'ennesima statua gigantesca si completò ai suoi occhi.
Da quel che poté notare in quell'insufficiente illuminazione, il volto di quella statua, ancora una volta femminile, non portava però i tratti generici del suo popolo. Infatti, al posto di zigomi appuntiti ed occhi dalla tipica forma a mandorla arrotondata, Mandrag ammirò invece dei lineamenti più dolci ed indiretti, con orbite grandi e poco scavate, ma soprattutto una capigliatura morbida e totalmente diversa dai ricci e crespi capelli Gerudo. Osservandola dunque Mandrag comprese come, chiunque avesse creato una simile opera aveva dovuto farlo precedentemente all'arrivo delle donne guerriere tra le sabbie del deserto.
Ciò che però attirò ancor più la curiosità del principe fu in particolare l'atteggiamento del volto e degli occhi di quella costruzione. Rivolti verso il basso essi parevano essere intenti in un'intensa e profonda lettura, il cui centro focale Mandrag ipotizzò trovarsi al centro del salone che aveva poco prima percorso.
Sulla parete sui cui si trovava l'enorme scultura non vi erano pertugi o varchi e così, immaginò, doveva essere per l'intero corso della muratura. In breve, Mandrag si trovava in una sorta di spazio chiuso, il cui unico punto di entrata ed uscita era rappresentato dal varco attraverso il quale era passato e che ora era visibile ai suoi occhi come un rettangolo di luce proveniente dall'esterno.
Possibile che il Tempio dello Spirito fosse tutto lì? E da dove proveniva quel fetore nauseabondo che aveva riempito le sue narici già fuori dal tempio?
Confuso, Mandrag cercò di analizzare al meglio la situazione, di non farsi scappare alcun dettaglio così, tornando ad osservare la statua, la ripercorse con gli occhi in ogni singolo particolare.
Nulla. Niente di niente. A parte la sua perfezione e la sua bellezza non c'erano particolari che facessero pensare ad un qualche meccanismo o trucco necessario a creare un passaggio.
I suoi occhi però che cosa stavano osservando allora con cotanta attenzione? Che cosa stavano leggendo?
- Ad ogni buon lettore serve un degno libro! - ripeté le parole delle proprie ancelle educatrici.
Un libro, già! Ma dove? Dove sarebbe potuto essere se non...
- Nelle sue mani! - esclamò improvvisamente, indirizzando il proprio sguardo verso le dita tese della statua che, guarda caso si poggiavano perfettamente all'imboccatura più alta della scalinata come nel cercare di sostenerla. Solo allora Mandrag si accorse di come i suoi piedi si poggiassero essi stessi sulla tanto cercata lettura che, a quanto pareva, percorreva l'intera pavimentazione del salone.
"Mi trovo su una pagina lunga almeno centro braccia!" pensò sbalordito e stupefatto.
Ma come riuscire a leggerla in maniera celere e semplice in tutta quell'oscurità?
Con l'aiuto della sua piccola torcia ci avrebbe messo ore, forse giorni nel riuscire a sondarla per intero, sempre che poi delle iscrizioni ci fossero per davvero.
Come fare dunque?
Già in parte rassegnato all'idea di dover percorrere ogni braccio e piede di quel salone maleodorante chinato sulle proprie ginocchia, decise per prima cosa di portarsi sull'ultimo scalino, quello più alto, al fine di comprendere l'esatta dimensione di quel posto.
Per quel riuscì a vedere, esso non era più largo né lungo di una delle più piccole sale del suo palazzo nella Città di Arenaria, ma nonostante ciò sentì un nodo allo stomaco raggomitolarsi nell'immaginare la noia e le fatiche che avrebbe provato nelle successive ore di intenso studio.
Cercò di farsi coraggio. Alzò le braccia distendendole in tutta la loro lunghezza, facendo scricchiolare ogni sua articolazione. Fu così che la sua torcia si piegò pericolosamente all'indietro rischiando di sfuggire alla sua presa. Mandrag non lo permise, ma i suoi movimenti non furono abbastanza spediti dall'impedire che un lapillo della fiamma cadesse sul cumulo di ragnatele che erano andate a vestire inelegantemente la superficie liscia della statua.
Lasciando che il tizzone questa volta crollasse sulla scalinata, Mandrag inseguì affannosamente il tratto infuocato che aveva inavvertitamente generato lui stesso, temendo che da un momento all'altro, con la velocità con cui si stava espandendo, avrebbe potuto dare vita ad un incendio in grado di distruggere per intero quel posto.
Purtroppo ogni suo gesto inconsulto fu completamente inutile.
Inutile, ma certamente non banale. Osservando la fiamma percorrere lo strato spesso di ragnatele, egli la vide ad un tratto infilarsi all'interno della breccia rappresentante l'ombelico della statua, notando solo allora come essa non fosse semplicemente una concavità, ma solo il punto di entrata ad un complesso sistema di vasi comunicanti, dove all'interno di essi la fiamma divampò come alimentata da un propellente naturale. La sua luce percorse in una colonna immaginaria verticalmente l'intera statua, giungendone fino agli occhi i quali divamparono all'improvviso di due tizzoni ardenti e potenti.
Per quanto la cosa fu strabiliante, Mandrag comprese ben presto di come la sua meraviglia fosse solamente all'inizio. Infatti, come poté notare lui stesso, il sistema di condutture si dipanava non solamente all'interno di quella titanica scultura, ma anche nelle fondamenta stesse del salone del tempio, fuoriuscendo infine in pile fino allora rimaste ignote ai suoi occhi che subito presero ad infiammarsi ed a rimanere vive indipendentemente. Finalmente, il salone trasudava di una luce surreale, quasi accecante, in grado di raggiungere anche l'angolo più remoto. E fu solo allora che il libro, infine, aprì le proprie pagine anzi, il suo solo ed immenso foglio di pietra davanti ai suoi occhi.
Quello però non fu l'unico spettacolo che si era palesato di fronte a lui.
Osservando attentamente dai suoi piedi in poi egli si ricordò un suono fastidioso, come foglie secche e sterpaglie scrocchianti calpestate, che aveva udito nel suo breve percorso tra l'entrata e la parete opposta ad essa. Ebbene, fino a quel momento non si era domandato minimamente il motivo di un simile stridio, ma sta di fatto che la risposta ad una questione tanto superficiale era giunta impunemente senza preavviso.
Cadaveri. Ossa disperse qua e là. Liquami marciti e seccati che appestavano buona parte della pavimentazione. Ecco che cosa aveva calpestato. La cosa più incredibile fu però che Mandrag, osservando quel infausto ed improvvisato cimitero, non s'inorridì, ma provò piuttosto una sensazione di smarrimento, quasi una neutra compassione. Egli non sapeva nemmeno chi fossero stati quei poveri disgraziati, ma seppe da subito che da un momento all'altro egli sarebbe potuto finire a far loro compagnia.
Com'erano morti, però? La domanda giunse ovvia e solerte.
Preferì tralasciare, almeno per il momento. Le lunghe iscrizioni erano usurate, alcune quasi del tutto cancellate dal tempo o coperte dai resti della decomposizione. Il tempo era troppo prezioso per essere sprecato.
Strinse i denti e chiuse gli occhi, colpito dal pensiero che la sua città potesse essere già sotto attacco.
Percorse allora in lungo e in largo il salone, leggendo, trascrivendo nella sua mente, traducendo ogni simbolo. Il linguaggio era antico, ma non abbastanza per non essere annoverato tra gli idiomi che era stato obbligato ad imparare nei suoi anni di studio.
Ci vollero alcune ore solamente per analizzare circa un terzo dell'intera iscrizione, ma il suo significato rimase ancora criptico al suo comprendonio.
Tra i primi simboli infatti egli non aveva trovato cose di grande utilità. Odi, preghiere alle Divinità ed ammonimenti per i sacrileghi. In breve, nulla di utile per rispondere alle sue domande.
Si sedette, sudato e stanco vicino ad una parete, abbeverandosi da una delle sue otri anzi, dall'unica che gli era rimasta a causa della tempesta di sabbia. Non gli rimaneva molta acqua, così diede solamente poche e brevi sorsate, cercando di razionarla.
Ancora qualche ora e la notte sarebbe calata fuori dal tempio. Dato che però in quel luogo non doveva rispettare alcuna regola, così come la sorveglianza delle sue ancelle, egli decise di prendersi ancora qualche minuti di riposo, per riflettere. In fondo, nessuno gli avrebbe vietato di continuare il proprio lavoro durante il cuore della notte.
Qualcosa di strano colpì il suo occhio.
I cadaveri. Essi erano molti, ma ciò era già stato notato. Non vi era traccia della causa che li aveva portati alla morte. Chissà, forse erano solamente stati vittima della fame e della sete. Non era quello però che aveva notato il suo sguardo, bensì la loro posizione. Tutti quei corpi erano ammassati in un raggio assai breve, come se girassero attorno ad una nicchia vuota in particolare. Perchè?
Mandrag sentì il morso della curiosità crescere dentro di lui. Si fece più vicino. Osservò da un punto più privilegiato quella strana coincidenza. Si mise dunque a leggere i simboli all'interno di quella nicchia. Erano pochi e non ci volle molto a decifrarli, ma il significato che essi contenevano era sproporzionatamente più ricco di tutto il resto messo insieme.
Esso recitava più o meno così.
I nostri sguardi volgono al cielo dal quale tutti discendemmo. Abbandonammo l'oscurità per la luce di Colei che ci conduce e ci protegge nel corso dei secoli e delle ere. Ciò che però fu sopra, ora risorge sotto e solo coloro che di Lei conoscono il nome potranno cercare la via che conduce al Dono Divino.
Coloro che di Lei conoscono il nome...
Din. Nessun altro nome giunse più sicuro nella mente di Mandrag. Nessun'altra Divinità poteva essere più importante della Sorella del Deserto, come la chiamavano le Gerudo, Signora Potente ed Indomita.
Indubbiamente quella filastrocca nascondeva una sorta di trucco in grado di portarlo in un'altra stanza nascosta, Mandrag lo capì subito. Il difficile però era comprendere come farlo scattare.
Scartò immediatamente il semplice pronunciare quel nome. Non vi erano però simboli sconnessi o piastrelle leggermente divelte da poter essere pigiate.
Ancora una volta però, la risposta la trovò in quei miseri resti ora ai suoi piedi.
Si concentrò su di uno in particolare; uno scheletro la cui spina dorsale si era fratturata palesemente per un contraccolpo violento, come una lama talmente appuntita e spinta con cotanta forza da riuscire a trapassargli persino le ossa.
Possibile che...
Lentamente il suo piede spostò quel mucchio d'ossa, scoprendo una piastrella al cui centro vi era una piccola breccia perfettamente a forma di cerchio. Su di essa solamente una lettera.
Il suo piede fece forza su di essa, la quale faticosamente cominciò ad abbassarsi.
Fu grazie ai suoi vispi e veloci riflessi, misti naturalmente ad un po' di fortuna, che la carne della sua pianta non fu trafitta con violenza da uno spuntone metallico arrugginito che, tolto il peso del piede dalla piastrella, tornò a celarsi al di sotto della pietra.
Con il cuore in gola, il principe scosse il capo rivolgendolo ai caduti.
- Poveri... maledetti sacrileghi! - sussurrò - Solo i Figli della Sorella del Deserto hanno diritto a stare qui! -
Detto ciò, si mise a cercare i tre simboli necessari per comporre il nome della sua Dea. Compito non difficile. Così, preso un bel respiro, pigiò il primo di questi.
Chiuse gli occhi. Arrestò la sua respirazione. In cuor suo sperò fermamente di non vedere il suo piede trafitto da un momento all'altro.
La piastrella si fermò qualche dito più in basso, ma nessuno spuntone uscì da essa.
- Sì! - esultò Mandrag. Il suo acume lo aveva guidato bene.
Fece dunque lo stesso con il secondo simbolo ed infine con quello successivo.
Un boato fragoroso si levo dalle sottili fessure che dividevano ogni piastrella dall'altra. Il meccanismo era scattato.
Purtroppo per Mandrag, il risultato delle sue azioni sarebbe stato ben diverso rispetto alle sue previsioni.
Di fronte a lui infatti il portale dal quale era giunto e che lo collegava con l'esterno si chiuse sotto il peso di una paratia di almeno qualche tonnellata. Le torce si spensero in un solo fiato e le tenebre tornarono imperiose su di lui.
Sebbene i suoi occhi non fossero più in grado di individuare alcunché all'interno del salone, subito le sue orecchie cominciarono invece a percepire un brusio in lontananza. Questo si fece sempre più forte, sempre più vicino e quando, grazie alla sua pietra focaia, riuscì ad accendersi nuovamente un lume, comprese come esso proveniva da quattro cunicoli abbastanza larghi posti a gruppi di due sulle pareti ai suoi fianchi.
Mandrag riconobbe con un certo ritardo l'origine di quei suoni, decisamente troppo tardi per riuscire a prepararsi in tempo all'arrivo della più odiata feccia del deserto.
Brulicanti come formiche operose, Boblin del deserto ad orde fuoriuscirono da quei cunicoli, provenienti da chissà dove ed attirati da chissà cosa, ben consapevoli di come un intruso si fosse protratto all'interno di quel salone.
Erano molti ed erano armati. Al contrario invece Mandrag era da solo e completamente disarmato. I suoi pugnali e le sue lance brevi erano infatti andati perduti durante la tempesta di sabbia. Egli però non si sentì per nulla intimorito, sebbene alquanto sorpreso. Quelle fetide creature infatti non sapevano di cosa egli fosse capace. Di cosa le sorelle streghe gli avessero abilmente insegnato. Lo scoprirono ben presto.
Almeno una decina di Boblin si lanciarono verso di lui urlanti, ma questi si sentirono immediatamente sballottati fino al soffitto del salone, colpiti da una forza invisibile e potente che li fece schiantare e ne stritolò le teste fino a farle esplodere. Le loro armi caddero di fronte agli occhi sbigottiti dei loro compagni, ma subito presero vita spontaneamente, agitandosi nell'aria senza che mano e polso le portassero.
Esse trafissero ventri, decapitarono teste e mozzarono arti instancabilmente. Più Boblin fuoriuscivano da quelle tane nascoste, più cadaveri andavano ad aggiungersi sul terreno senza che Mandrag fosse minimamente toccato da qualcuno di loro. Il sangue colava copioso sulle piastrelle, divenendo ben presto un lago che arrossò i piedi stessi del Principe di Gerudo.
Le sue stregonerie erano potenti, ma anche gravose per le sue forze. Cominciò a sentirsi debole, flaccido sulle gambe e sulle braccia. La sua mente non riusciva più a tenere a bada tutti i suoi nemici che, sfruttando l'occasione, si avvicinavano sempre più pericolosamente. A breve sarebbero riusciti persino a colpirlo così Mandrag, prendendo una sofferta decisione, impugnò la prima mannaia Boblin che gli venne a tiro e si mise a combattere nella maniera più tradizionale.
Piccoli  e tozzi, i saprofagi del deserto a malapena riuscivano a sferrare dei colpi sensati che, immancabilmente, si infrangevano sulla sua lama per poi venirne trafitti.
Ogni tanto i suoi occhi si posavano sugli sbocchi dei cunicoli ed increduli essi non potevano che notare come il numero dei Boblin pareva essere infinito.
Per quanto avrebbe resistito ancora?
Un fendente lo sfiorò, provocandogli una ferita superficiale sulla schiena. Sentendo il sangue scorrergli sulla pelle, nella sua furia ritrovò nuove forze attraverso le quali assestò colpi ferali a destra e a manca.
Poi, un suono profondo e prolungato, fece vibrare i suoi timpani.
Sbalordito, osservò i Boblin fermarsi, allontanarsi impauriti da lui di qualche passo.
Tonfi pesanti giunsero subito dopo, emanati da un qualcosa di enorme e decisamente macabro che, a poco a poco, si fece sotto la luce debole della torcia ancora accesa e giacente a terra.
- Un Re dei Boblin! - disse tra sé stupito Mandrag. Mai ne aveva visto uno e di certo le leggende su di loro non riuscivano a dare giustizia a quel mostro informe.
Alto almeno tre volte un semplice Boblin, con denti volutamente affilati e braccia muscolose grandi quanto il principe stesso, egli non spaventava solamente per le sue dimensioni sproporzionate, ma soprattutto per il suo sguardo. Non perso e vuoto come quello dei suoi minuti simili, ma vispo ed intelligente, attento ad ogni dettaglio e ad ogni punto debole del proprio avversario.
Con il torace che si gonfiava e si sgonfiava affannosamente, Mandrag non poté fare altro che mettersi in posizione. Allargò le gambe leggermente piegate sulle ginocchia poi, alzando le braccia, portò la lama della mannaia all'indietro, pronta a colpire.
Infine, prendendo tutto il coraggio che gli era rimasto, urlò - Avanti belva schifosa! Attacca! -
Il Re dei Boblin però non ebbe la minima intenzione di farlo. Ghignante, se ne rimaneva infatti fermo, immobile, come se il disperato ardore della sua preda fosse uno spettacolo divertente ed esilarante.
Poi però da quella bocca nauseabonda egli pronunciò enigmatiche e gutturali parole.
- Tu non mi spetti... e di questo mi dispiaccio! - disse emettendo una tetra risata, per poi concludere - Lui ti brama! -
Così, prima ancora che Mandrag potesse solamente cercare di comprendere il significato di simili parole, i Boblin si ritirarono in fretta e furia da dove se n'erano venuti, sparendo per i cunicoli. Il Re Boblin fu l'ultimo ad andarsene, ritirandosi nelle tenebre e sparendo nel nulla senza apparente spiegazione.
"Lui mi brama..." ripeté nella sua mente Mandrag "Chi?"
Ed ecco perentoria presentarsi la risposta.
"Un principe! Che inaspettata delizia!" disse una voce nella sua testa.
Attizzate da una forza invisibile, tutte le torce nel salone si riaccesero.
Guardingo, Mandrag guardò a destra e a manca, cercandone il responsabile. Nessuno cadde mai nel fuoco del suo sguardo.
"Molti sono giunti. Molti sono morti. Ma nessuno mai che appartenesse al tuo rango... Principe di Gerudo!"
La voce era forte nella sua testa, in grado di annullare ogni suo pensiero.
- Fatti vedere! - urlò indispettito.
"Se così desideri..."
Il sangue e le sabbia inumidita sul terreno presero a ribollire e a sollevarsi spontaneamente. Essi formarono come una sorta di torrentello che scorreva libero nell'aria, il quale vorticò attorno a Mandrag per poi andarsi a raggrumare in un punto preciso del salone, scolpendo nei suoi fluidi lineamenti una forma animale alta quattro volte il principe.
Il colore carminio poi si tramutò in un nero oscuro più della pece, facendo spuntare setole lunghe quanto un braccio e bianche zanne tracotanti in fauci bavose.
Mandrag riconobbe in fratta quella macabra figura. L'aveva già vista nella sua visione, quando disperato aveva creduto di perire tra le sabbie.
- Chi... chi sei? -
L'essere, a metà tra un titanico Bullbo ed un mostro leggendario, trottò facendo schioccare i propri zoccoli a pochi passi da lui.
"Vi fu un tempo in cui tutti mi conoscevano e mi temevano. Un'era nella quale nessun guerriero osava stupidamente avventurarsi nelle mie terre, mentre i miei servitori dominavano i vostri infetti domini, dettando legge." disse senza muovere apparentemente le proprie fauci.
Mandrag rabbrividì nell'udire il suo timbro baritonale rimbombargli dentro.
"Sento che tu hai paura di me!" rise l'orrenda creatura "Un timore ben riposto, credimi! Ma sento anche che tu non sei come tutti gli altri... no. Tu hai un qualcosa di diverso. Un qualcosa che i tuoi simili, qui oramai rimasti a marcire, non avevano. Sììì.... sento la mano delle Tre su di te!"
Mandrag non riuscì più resistere alla vibrazione che quella voce provocava alle sue membra. Si sentiva come una corda di violino tirata e sconquassata con violenza, pronta a spezzarsi da un momento all'altro.
Così urlò ancora una volta - Dimmi il tuo nome! -
La creatura non lo fece attendere oltre.
"Io sono la notte che soffoca la luce del sole. Io sono il flagello che per primo calcò con i suoi piedi questo mondo e lo dominò! Sono colui che è stato e per sempre rimarrà il signore incontrastato di tutte le terre e di tutti i cieli! Io... sono... colui che i profani chiamano... Ganon!"
Mandrag spalancò le sue pupille, perdendosi in quelle del mostro. Improvvisamente, l'abisso che la notte prima aveva tentato di inghiottirlo nel ventre del deserto si fece nuovamente sentire, fagocitando il suo spirito.
"Sono anni che i miei lombi non vengono adeguatamente nutriti, giovane principe... e credo che la tua carne così secca e rachitica non riusciranno a soddisfarli adeguatamente! Però... è sempre meglio di niente!"
Ganon s'impennò sui due zoccoli posteriori ed espirando due ventate calde e maleodoranti che smossero potentemente la lunga chioma di Mandrag si lanciò alla carica.
Agilmente il principe rotolò su di un fianco, evitando il primo tentativo del suo orrido nemico di colpirlo con le proprie zanne. Nonostante però il suo corpo pesante e tozzo, esso lo prese nuovamente e velocemente di mira, scalpitando a tutta velocità verso di lui.
Questa volta, chiuso in un angolo com'era, l'apprendista delle due streghe dovette usare tutto il suo potere per permettere alle sue gambe di superare in un balzo la mole imperiosa di Ganon.
Il mostro sogghignò.
"Vedo come le mie previsioni non ti abbiano per nulla sottovalutato. Il mana scorre forte nelle tue vene e tu lo maneggi con estrema maestria..." le sue zampe s'irrigidirono ancora una volta "... ma non abbastanza".
Scivolando sul fianco della belva, Mandrag emise un gemito di dolore sentendo la punta affilate di una delle due zanne strappargli la carne della sua gota sinistra. Furente, scagliò il fendente della mannaia con tutte le sue forze contro il fianco di Ganon, ma purtroppo per lui la sua pelle era più dura del cuoio, più resistente della pietra, tanto che il metallo della sua arma si spezzò di netto come una canna di grano lasciata in balia della tempesta.
Rassegnato, Mandrag ne lascio cadere l'impugnatura.
Tutt'altro che ferito o dolorante, il mostro tornò alla carica altre tre volte, non riuscendo mai a colpire direttamente la sua preda, ma portandola comunque con lo sprecare gran parte delle energie rimaste.
"Perché continui a fuggire, principe stregone! Ti credi tanto furbo, ma non riusciresti mai ad uscire da un simile trappola. Una trappola nella quale tu stesso ti sei infilato, fallendo il tentativo di risolvere l'enigma del tempio!"
- Che vuoi dire? - non capì tenendosi a distanza.
La belva rise in un rantolo "Io so cosa stai cercando... so perché sei giunto in questo posto. Tu cerchi il lascito... tu cerchi il Medaglione dello Spirito. Beh, purtroppo per te, anche risolvendo l'enigma non saresti mai riuscito a trovarlo perché esso risiede qui dentro" indicò con uno zoccolo il proprio ventre, per poi ringhiare "No. Non permetterò mai più a nessuno di toccare quell'abominio. E, finché il luogo in cui giacciono le tre chiavi sarà ignoto, nessuno potrà giungervi!"
Già esausto, sfortunatamente Mandrag mise un piede in fallo, cadendo goffamente al terreno. Ganon allora non si fece pregare e decise di mettere fine alla sua caccia.
Mandrag lo vide arrivare in tutta la sua furia e la sua sete di sangue, piegando la testa al fine di incornarlo con le proprie lunghe zanne. Cercò di spostarsi, ma i suoi muscoli dolevano dalla fatica, così come il suo mana era divenuto fievole come la luce della luna in una notte nuvolosa.
Come però è tipico per ogni animale ed abitante del deserto in punto di morte, i suoi sensi si acuirono, spinti com'erano dal suo istinto di sopravvivenza. Ciò gli permise di notare un particolare nella modalità di attacco del predatore, ovvero che, ogni volta che egli partiva alla carica preparando il cranio all'impatto, proprio come ogni Bullbo i suoi occhi si chiudevano nell'istante subito precedente al colpo.
Per quanto traballante come strategia, decise di sfruttare tale particolarità, ben consapevole comunque che solamente un tentativo gli sarebbe stato concesso.
Attese dunque che Ganon si facesse a lui più vicino. Quest'ultimo accelerò quando si trovò a poche braccia, cosa che costrinse Mandrag a ricalcolare le proprie stime in meno di un secondo. Poi, quando le zanne del mostro furono sul punto di trafiggerlo, egli poggiò la pianta del suo piede su quella alla sua sinistra sospingendosi quanto sufficiente per afferrare quella alla sua destra. Tenendola saldamente con entrambe le mani, si soppesò con forza su di essa, costringendo l'enorme suino a sterzare violentemente. A causa del suo esagerato slancio allora la belva si trovò involontariamente diretto verso la parete d'entrata al tempio. A poche braccia dalla dura roccia del tempio, impaurito dal poter finire spiaccicato contro di essa, Mandrag trattenne il respiro e, con le ultime forze ed il poco di mana che ancora fu in grado di controllare, compì un balzo con il quale superò di netto l'intero corpo di Ganon.
L'intero salone fu sconquassato come da un terremoto, quando il possente cranio della bestia si scontrò contro la parete. Il colpo fu poi talmente violento che, di fronte agli occhi di un confuso e stordito Mandrag, la paratia che aveva chiuso ermeticamente il salone cominciò a traballare pericolosamente fino a che non cadde all'indietro, facendo finalmente rientrare la luce del sole, oramai al crepuscolo, all'interno del tempio. E fu allora che il principe notò una cosa assai singolare. Illuminato dalla luce diurna, parte del corpo di Ganon divenne come fragile, ricolmo di punti deboli, così come le sue zanne semi trasparenti come il vetro.
Ferito ed intontito, il mostro si lasciò cadere a terra, cercando di riprendere fiato.
"Tu piccolo insolente insignificante..."
Mandrag non lo ascoltò nemmeno. Già messosi a correre voracemente verso la bestia dolorante, lanciò un calcio preciso diretto alla zanna illuminata e, contro ogni sua più rosea aspettativa, essa si spezzò più facilmente di un tronco di legno marcio.
Sobbalzato indietro dal terribile urlo di dolore di Ganon, il principe non staccò però mai il suo sguardo dallo spuntone slanciato in aria, frammento divelto della zanna ferita del suo nemico. Egli la vide rotare nel vuoto, fino a quando, tornando nell'ombra, non cadde pesante e nuovamente solida sul terreno.
Presa in mano osservò e percepì quella strana stregoneria, riflettendo su di essa. Intanto Ganon si mise di nuovo in piedi, pronto più che mai a vendicare il suo nuovo moncone.
"Credi di potermi battere, omuncolo?!" sbottò il mostro "Nessuno ci è mai riuscito. Nemmeno il tempo. Nemmeno le Divinità. Oh giunsero persino i figli di colei per la quale fu costruita quella maestosa statua, ma anch'essi fallirono. Sì. Fallirono perché io non ho nemici. Io non ho avversari valenti. Anche il tempo con me si è arreso. Comunque vada, io oggi e per sempre vincerò!"
I suoi zoccoli scalpitarono. Le sue setole si piegarono sotto il movimento repentino dell'aria. Dalle sue narici sbuffarono ventate incandescenti, mentre dalla sua bocca penzolarono gocce di sangue.
Depredato di ogni energia, il suo avversario si preparò a ricevere il suo attacco armato della punta della sua stessa zanna. Nonostante fosse ferita, nessuno ancora avrebbe osato sperare nella dipartita della belva, nemmeno Mandrag stesso. Questi però, in un misto di sorpresa ed esultanza, un istante più tardi vide un qualcosa che fino a quel momento aveva reputato impossibile.
Per la prima volta dall'inizio del loro duello, nella sua ennesima carica Ganon aveva lasciato scoperto parte del collo, unica zona del suo corpo che il suo avversario aveva compreso essere la più debole e fragile, dato che la sua pelle in essa appariva palesemente più sottile che nel resto del corpo.
Egli non ci pensò una volta di più. Egli, infine, lanciò la sua acuminata arma impropria verso il suo unico bersaglio possibile.
I secondi ed i respiri si fecero lenti. Gli attimi misero di scorrere, mentre la punta spezzata della zanna di Ganon scorreva imperterrita pronta a colpire il suo vecchio possessore.
Mandrag pregò che il colpo andasse a segno.
Gli occhi di Ganon si spalancarono nel vedere quel bolide farsi sempre più vicino. Per un attimo, il principe si compiacque nel vedere quegli occhi enormi e cerulei inorridirsi di fronte al proprio destino, ma tale sensazione d'un tratto mutò. Mandrag non seppe come interpretare ciò che vide. Come un sorriso. Un ghigno furbo e soddisfatto.
Ogni dubbio tacque però quando, infine, la zanna si conficcò nel collo della bestia, finalmente riuscendo a trapassarne la carne e le arterie.
Contro ogni logica, da quella ferita profonda non uscì nemmeno una goccia del suo fluido vitale.
Gli occhi erano socchiusi in un'espressione irosa, ma anche rassegnata. Mandrag si avvicinò con cautela.
Quando si trovò talmente vicino quasi da riuscire a toccarlo, quei due oculi che fino a poco prima erano parsi rilucere di pura fiamma viva, si riaprirono, indeboliti, ma vispi sul loro avversario.
Tutt'altro che impaurito, Mandrag estrasse con violenza lo spuntone dal suo collo, caricando il suo ultimo colpo ferale.
Prima che però egli affondasse il suo fendente, per l'ultima volta la voce di Ganon tornò a parlargli.
"Per millenni ho atteso... e per millenni io continuerò ad esistere! Tu... hai... perso!"
Indubbio sul fatto che quelle fossero parole mosse dall'ira e dallo sconcerto per essere stato sconfitto, infine Mandrag affondò il moncone della zanna nel fianco scoperto ed indebolito del mostro, uccidendolo definitivamente.
Come fumo disperso da un incendio da poco spento, il corpo di quella belva cominciò a dissolversi, tornando ad essere polvere in pochi istanti. Infine, non ne rimase altro che un mucchio di sabbia, al cui centro però qualcosa prese a brillare alle pupille del principe.
Egli si avvicinò e fece per prendere quella strana cosa di forma tondeggiante, con al centro inciso un simbolo molto antico ed andato perduto da tempo.
- Il marchio di Dragmire! - fece notare qualcuno dietro le sue spalle.
Ancora una volta, come apparse dal nulla, Koume e Kotake entrarono nel salone facendosi prossime al loro discepolo.
- Un'epoca dimenticata... il periodo dell'oro del Popolo Gerudo! -
Mandrag annuì, ricordando egli stesso la storia.
- La tribù di Kar, il Settimo Patriarca. - disse in un velato sorriso - La Regina Madre aveva un arazzo nelle sue stanze sui cui gli era stato rappresentato. Più di una volta mi aveva raccontato di come egli avesse portato il nostro popolo a dominare l'intero deserto, anche sebbene io non le avessi mai creduto! -
Sospirò, in ricordo di sua nonna.
- Rimembro di come piangevo quando arrivava al momento della morte del Patriarca e di come le sue nipoti, figlie delle sue sorelle, si combatterono il potere dividendo la tribù in ben cinque parti! Ma... perché il medaglione che porta il simbolo del suo casato si trova qui? -
- Perché le storie di tua nonna non erano mere leggende. Egli conquistò per davvero l'intero deserto, radunando i domini dei due colossi nel proprio regno! - raccontò Koume.
Così, Mandrag le chiese - Dove si trova il secondo? -
- Da qualche parte a ovest! - rispose Kotake al posto della sorella - Forse un giorno lo troverai, ma non è questo il momento. Ciò che ti avevamo detto di trovare si trova lì, ai tuoi piedi. Afferralo principe, portalo a casa. Mostralo al tuo popolo e prendi ciò che ti spetta! -
Baldanzoso, Mandrag non se lo fece ripetere due volte, ma quando la sua mano fu sul punto di afferrare il Medaglione, una sensazione di vuoto e raccapricciò fulminò le sue emozioni.
-  Che cosa stai aspettando? - lo ammonì bruscamente Kotake.
Egli cercò di annullare quella terribile sensazione.
Più però la sua mano si faceva vicina al medaglione, più qualcosa pareva volerla respingere. Un qualcosa dentro di lui, come una voce silente che tentava di metterlo in guardia.
Alla fine però, rimproverando quei suoi apparentemente immotivati timori, egli costrinse le proprie mani ad afferrare il medaglione.
Freddo e liscio, esso apparve da subito alquanto pesante nonostante le sue minute dimensioni.
Per un secondo, Mandrag sorrise nello schernire le proprie paranoie, ma quando una tenebra fitta ed accecante piombò su di lui, esse tornarono forti, non più avvertirlo, ma per piangerlo.
"Finalmente!" disse una voce nell'oscurità.
 
Le truppe dell'intera Città di Arenaria, comprendenti anche le guerriere più giovani, quelle che da poco avevano conosciuto la pubertà, erano state radunate di fronte al portale settentrionale.
Di fronte a loro le due più alte cariche del Regno: la Reggente Regina Nabooru e la sua fidata Maestra d'Armi, Naga.
Pronta a dare l'ordine di aprire il portale, oltre il quale gli eserciti al completo di ben tre tribù si erano fermati in attesa di dare battaglia, Nabooru fu colta da un dolore lancinante che la costrinse a cercare un appoggio.
- Mia signora! - accorse Naga intimorita - Che ti succede? -
Trafelata, la Reggente non le rispose. Le sue viscere si erano come attorcigliate dentro il suo ventre, mentre i suoi pensieri erano stati inghiottito da un abisso nichilizzante. All'interno di esso, una sola immagine giunse chiara.
Ella, con il cuore spezzato per ciò che gli era stato appena rivelato, con voce rotta disse alla sua seconda - Il... il principe... -
- Egli sta per tornare, mia signora! Non temere! - la incoraggiò Naga.
Ma ella ribatté in lacrime - No! Qualcosa è accaduto... io... io temo... -
Un urlo proveniente dai bastioni la interruppe - Frecceeeeee!!!!! -
Le due e le intere fila delle loro truppe non ebbero il tempo di alzare i propri sguardi verso l'alto quando il cielo, già non più dominio del sole oramai tramontato, si fece ancor più nero, oscurato da uno stormo di dardi che in breve avrebbe disseminato innumerevoli vittime all'interno della Città.
- Scudi alzati! - ordinò Naga, lanciandosi poi sulla propria Regina per proteggerla.
Già provata, Nabooru sentì il peso della Maestra d'Armi crollarle addosso. Poi, in un ultimo sguardo, vide le migliaia di lame appuntite crollare voraci verso di loro.
 
- E' ora di andare, Principe! -
La voce di Koume riportò Mandrag alla realtà. Inconscio di ciò che era appena successo, egli si rivolse pallido alle sue maestre, quando una sensazione di bruciore e sfrigolamento gli immobilizzò la mano sinistra.
- Che mi sta succedendo?! - urlò in preda al dolore ed allo sconcerto.
Egli allora vide come una piaga dalla forma triangolare, come una di quelle che si vengono a creare a contatto con la fiamma viva per troppo tempo, che si stava gonfiando sul dorso della sua mano, intirizzendo la sua pelle, la sua carne e persino le ossa.
Le Rova accorsero immediatamente in suo aiuto. Kotake si mise a studiare la ferita attentamente, versandoci sopra un unguento contenuto in un'ampolla sempre attaccata ad una delle sue cinture.
- Questa ti farà calmare il dolore... - gli disse continuando ad analizzare quell'anomala ustione.
- Che cos'è? - chiese ancora gemendo il principe.
La strega risolve velocemente ogni suo dubbio.
- Una stregoneria. Molto potente per giunta. L'ultimo sfregio arrecatoti dal mostro Ganon io temo! La cicatrice non si leverà mai più, ma non perderai l'uso della mano di questo puoi starne certo! -
Come promesso da Kotake, il dolore cominciò ad annichilire sul dorso della sua mano, andando sempre più con lo scomparire. In pochi minuti, la sensazione di bruciore svanì completamente.
Si rialzò. Il mostro era stato sconfitto e di lui non era rimasto che uno spuntone di zanna, il quale andò a decorare la semplice cintura in stoffa grezza delle vesti del suo aguzzino.
La sua Città ora attendeva con ansia il suo ritorno, ma prima d'incamminarsi, Mandrag fu sorpreso da un qualcosa di totalmente inatteso. Infatti, per la prima volta da quando le aveva conosciuto da bambino, Koume e Kotake si erano inginocchiate umili di fronte a lui, dimostrando una reverenza mai vista nei loro comportamenti quasi sempre indisposti.
- Nostro Re! -
Per quanto la cosa fosse incredibile, qualcun'altro, ancor più inaspettato, giunse a rendere il proprio saluto all'incoronazione, seppur solamente ufficiosa a quel momento, del nuovo Signore di Gerudo, il Tredicesimo Patriarca.
Provenienti questa volta dall'esterno del tempio, dove la notte aveva oramai fatto capolino oscurando il cielo, orde di Boblin si diressero a passo lento e cadenzato al cospetto di Mandrag, accompagnati dal loro orrido signore.
Esausto, ma tutt'altro ben disposto dal lasciarsi fermare, il principe si preparò alla battaglia. Il Re dei Boblin però, alzando una delle sue possenti braccia con la mano spalancata, gli fece segno di calmarsi.
Mandrag non capì con esattezza ciò che egli gli aveva appena indicato, ma ogni dubbio fu dissolto quando l'orrendo signore dei Boblin del deserto si prostrò, ordinando poi ai suoi sudditi di fare lo stesso.
Per ben tre volte egli salutò il nuovo signore incontrastato del deserto, dicendo - Salute al nuovo unico Signore delle Dune! Salute al giustiziere della Belva Antica! Salute a Ganondorf! -
E così, udite le parole del loro Re, i Boblin esultarono alzando le proprie mannaie al cielo, urlando festanti il nome di colui che da quel momento avrebbero imparato a temere.
Stranito ed orgoglioso per quelle manifestazioni di giubilo, in particolare perché emesse da coloro che aveva sempre combattuto, Mandrag si ritrovò però dubbioso su un unico punto in particolare. Quel nome, Ganondorf. Lo aveva già sentito, ma già non era più in grado di ricordare dove e quando. Ma soprattutto: perché il Re dei Boblin si era rivolto così a lui? Che cosa voleva dire quel nome?
Già facendo uso dei suoi nuovi diritti, egli allora domandò seccamente - Tu, feccia, perché mi hai chiamato così? -
- Perché esso è il nome legato alla profezia delle dune, un antico lascito andato perduto nel corso delle ere e degli eoni che descriveva l'arrivo di colui che, un giorno, avrebbe sconfitto il Flagello delle Sabbie! Ganondorf, il Padrone dei Demoni! -
- Conosco quella leggenda... - lo interruppe Koume attirandone l'ira - Si dice che colui che avesse prima o poi sconfitto Ganon avrebbe avuto diritto sulle forze invisibili ed oscure del mondo costringendole alla purificazione della luce o... -
- O? - la invitò in una smorfia Mandrag.
- O guidarle nelle tenebre nelle quali nacquero! -
Un Re di Luce o un Usurpatore Oscuro. Giorno e notte. Bagliore e Tenebra. Qual Patriarca prima di lui aveva potuto tenere nelle mani una simile nomea? Quale suo antenato sarebbe stato ricordato più grande di lui ora che, non solo il suo popolo, le Gerudo, ma anche i popoli predatori del deserto avrebbero fatto di tutto per seguirlo, servirlo, compiacerlo?
Sorridendo, Mandrag ricordò il primo giorno in cui lasciò la sua patria. Rimembrò di come, in quel non poi così lontano giorno, seppur remoto nei suoi ricordi, egli aveva avuto da subito la certezza che, una volta tornato, non lo avrebbe fatto come lo stesso giovane ed inesperto principe di Gerudo, ma come un nuovo monarca completamente cambiato, segnato dalle proprie esperienze, nonché conquiste.
Egli non era più Mandrag di Kales. La visione del medaglione ancora stretto nella sua mano ferita non poté fare altro che confermare questa sua certezza.
Un nuovo titolo ed un monile appartenuto ad un antenato glorioso. Quale maniera migliore per glorificare il suo regno non ancora iniziato?
Prese dunque una decisione che da quel momento lo avrebbe per sempre segnato. Un volere che in quel preciso istante chiudeva definitivamente le porte con il suo puerile passato ed apriva quelle del suo futuro ricolmo di onore e gloria.
Annunciò così a quel variopinto e curioso gruppo di nuovi sudditi - Che da questo momento, in ogni dove nel profondo deserto, si elevi la notizia. Un nuovo Re siederà presto sul trono di Gerudo, colui che riporterà l'equilibrio e la pace tra le dune. Il Tredicesimo Patriarca il cui nome dovrà essere ricordato nel corso dei millenni. Il nome davanti al quale i nemici dovranno fuggire o chiedere perdono, perché dove la magnanimità non può giungere, allora vi giungerà la mia spada. -
Fece una breve pausa, assaporando il momento in tutta la sua potenza. Poi, riaprendo gli occhi, esclamò - Mandrag di Kales non esiste più. Io sono Ganondorf.... Ganondorf di Dragmire e sotto questo nome riunirò tutti i popoli del deserto ed allargherò i confini del mio dominio affinché l'ordine regni per sempre nel mondo della Dea Din e delle sue supreme Sorelle! -
Ancora una volta, un grido di esultanza si levò nell'orrida folla, mentre le Rova osservavano quello spettacolo compiaciute, ma da una parte anche sorprese per ciò che il loro nuovo signore aveva appena deciso.
Il Re dei Boblin, il cui nome era Jaker, alzatosi dalla sua posizione prostrata gli portò un Bullbo dotato di finimenti e rivestiture alquanto raffinate per essere state create da dei semplici Boblin.
- Questo Zurr, il più veloce di tutti i Bullbo del deserto. Fino ad ora è stato la mia personale cavalcatura, ma io lo dono a te, affinché tu raggiunga il trono che ti spetta! -
Accettando il regalo di Jaker, l'erede di Gerudo montò con agilità sul suo inusuale destriero che non ebbe il minimo problema nel riconoscere il suo nuovo padrone, grugnendo suoni gradevoli dalle sue fauci.
Tenendo strette le redini alle sue mani, Mandrag, da quel momento conosciuto come Ganondorf, si preparò alla sua corsa verso casa, dove, secondo ciò che il suo cuore percepiva, una battaglia probabilmente si stava già infervorando mietendo innumerevoli vittima tra il suo popolo. Prima di farlo però decise di togliersi uno sfizio o, meglio, di trovare risposta ad una domanda che, dal momento in cui aveva compreso come il Tempio dello Spirito non fosse stato costruito dalle seguaci di Din, lo aveva incuriosito.
Tornò così a rivolgersi per un'ultima volta al Re dei Boblin, chiedendogli - A chi apparteneva questo tempio? Chi lo progettò e lo eresse sulle sabbie del deserto? -
Questi gli rispose - Oh, ma ovviamente gli abitanti della piana a sud del deserto. I figli della Dea, come si facevano chiamare! -
- Quale Dea?! - sbottò Ganondorf - Non la mia immagino. Il mostro mi ha rivelato come io caddi in fallo nel tentativo di svelare il mistero di tale tempio. E poi perché parli al passato? Forse essi sono infine estinti? -
- Voci sostengono come di loro non sia rimasto che una piccolo accozzaglia sparsa per Hyrule! -
- Hyrule?! -
- Sì, mio signore! È così che chiamano la loro terra che, secondo loro, fu creata dalla tre Dee ed affidata infine ad una protettrice. Una sorta di figlia divina, colei che è rappresentata in quella statua. Hylia la chiamano. La Dea Hylia! -
Il volto di Ganondorf s'ingrugnò - Una protettrice dici? A quanto pare non s'interesso di queste terre, lasciandole affumicare sotto il sole cocente ed un'aridità persistente! -
- Mio signore. - s'intromise ancora una volta Koume questa volta indispettendo il suo oramai vecchio discepolo - La guerra incombe. Devi andare! -
Finalmente Re di Gerudo avrebbe desiderato sistemare quella malsana insolenza immediatamente, nonostante con le Rova ci fosse pur sempre una sorta di debito per tutti i loro insegnamenti. Tuttavia la strega aveva ragione ed ogni minuto che passava era un passo di più verso la sconfitta del suo esercito.
Le redini però non schioccarono ancora. Zurr non si diede ad una corsa a per di fiato per il deserto.
Ganondorf aveva un ultimo favore da chiedere al suo nuovo suddito illustre tra i Boblin.
 
Il sole sorse ancora una volta. Nonostante le perdite ingenti che le sue truppe avevano subito nel giorno e le due notti precedenti, la Città di Arenaria ancora non era stata presa d'assalto dagli eserciti un tempo alleati ed ora nemici.
Ancora sofferente per la perdita di Naga, sacrificatasi sotto le punte delle frecce per difenderla, Nabooru aveva cercato durante le poche ore di riposo di rincuorare le sue fidate guerriere. La sconfitta però era alle porte e lo Jabbar del figlio adottivo era finito oramai da due giorni, dato che una nuova alba stava per fare capolino ad oriente.
Disperata dal pensiero che egli non avrebbe mai più fatto ritorno, si preparò ad urlare l'ultima carica contro le fila serrate dove sostavano le Baluarde usurpatrici.
Quando, in lontananza, una luce riflessa dai primi raggi del mattino, attirò l'attenzione di tutte. Lanciato alla carica, brandendo in piena vista il Medaglione dello Spirito, colui che fino a quel momento era stato conosciuto come Mandrag, erede al trono di Gerudo, attraversò il campo di battaglia.
Osservando le loro guerriere inchinarsi umili al suo passaggio, le Baluarde capirono il messaggio che il principe ritornato dal suo esilio aveva appena mandato loro.
La guerra era finita. Le loro vite erano finite.

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Capitolo 6
*** Il Nuovo Ordine ***


Passi pesanti. Clangore di armatura. Strepitio di fiamma. Le guardie della Prigione del Duath lasciarono l'anticamera che conduceva all'unica cella costruita in quella remota, sperduta e sconosciuta ai più, regione del nuovo dominio allargato di Gerudo.
Nei sette anni precedenti, infatti, molte cose erano cambiate all'interno del territorio compreso tra i confini del Regno del Tredicesimo Patriarca, il quale aveva vissuto una perentoria espansione, nonché l'assoggettamento di zone un tempo popolate da orrende creature e popoli feccia da sempre nemici delle Donne Guerriere. Insieme a nuovi spazi vitali però erano giunti anche innumerevoli segreti, dove i pochi che ne erano stati messi a conoscenza avevano fatto un sacro giuramento di silenzio che avrebbe visto la testa dello spergiuro cadere sotto i colpi di un'ascia.
Quel luogo però era il più ignoto tra tutti, il segreto più importante per il quale lo stesso Re aveva scelto le migliori della sua guardia personale al fine che esso rimanesse celato agli occhi dei molti.
Rimasto finalmente solo, Ganondorf di Dragmire, supremo signore di Gerudo e nominato Imperatore delle Dune, fece scattare il complesso meccanismo costruito dalle migliori ingegneri del suo popolo; un sistema di contrappesi, catene e portali in grado di nascondere un largo spazio tondeggiante scavato parecchi piedi sottoterra, dal quale nemmeno il più abile tra gli scassinatori sarebbe riuscito a fuggire.
La stanza intorno a lui cominciò a muoversi. Piastrelle e paresti presero dunque a scorrere, mentre nel contempo i suoi sensi percepivano come il livello del pavimento si stesse abbassando velocemente. Pochi istanti dopo, le pareti attorno si sollevarono, mostrando l'interno della cella e facendogli respirare il puzzo di chiuso che dominava l'atmosfera di quel luogo maledetto.
Giunte alla loro massima estensione, le carrucole si fermarono in un boato. Oscuro ed angusto, quel luogo conobbe immantinente la luce con un semplice battito di mani del Re. Il suo potere ed il suo controllo del Mana erano cresciuti esponenzialmente nel corso di quei sette anni che oramai lo dividevano da quella che era rimasta la sua più grande impresa, già narrata dalle sacerdotesse e dai cantori oltre i confini.
Così, con la luce che ora dominava imperterrita in quella gola, si fecero visibile due lunghe e possenti catene, assicurate ognuna ad una delle pareti lontane diverse braccia, le quali ognuna aveva il compito di tenere retto e sospeso un braccio dell'unico carcerato per cui era stata costruita la Prigione del Duath.
Fattosi anziano, con barba e capelli talmente lunghi da toccare quasi le sue stesse ginocchia, Agahnim alzò il proprio sguardo verso il inatteso visitatore.
- Da quanto tempo, mio Re! - esclamò in un rantolo. Infatti, la prolungata sete e i pasti scarsi avevano probabilmente portato le sue corde vocali ad usurarsi per l'arsura, trasformando in maniera estrema la sua voce.
Ganondorf gli si avvicinò, sorridendo - Dunque sei ancora vivo, vecchio predone da strapazzo! Come ti trattano le mie guardie! -
- Oh, divinamente mio signore... - ironizzò il prigioniero - Non puoi immaginare i loro sguardi disgustati quando sono costrette a discendere quaggiù per imboccarmi. Ah proposito, oramai sono vecchio, non credi che possa... - fece un cenno verso le catene, chiedendo ovviamente la possibilità di esserne finalmente liberato.
- Oh, perché? - lo schernì Ganondorf - Ti donano così tanto! -
Con un gesto secco della mano poi ne tirò una mano, facendo schioccare una delle spalle già lussate del prigioniero che, ovviamente, emise un urlo strozzato di dolore.
- Vedo che i tuoi nervi sono ancora vitali! Straordinario! -
Agahnim gli lanciò uno sguardo ricolmo di odio. Avrebbe voluto insultarlo con epiteti indicibili, offenderlo nella maniera più brutale possibile, ma in cuor suo sapeva quanto il Tredicesimo Patriarca non fosse facile da ferire nello spirito.
Allora, contrariamente, la sua espressione mutò, trasformandosi in un ghigno irritante.
- Ti chiederei il motivo di una simile regale visita, ma qualcosa mi dice che i tuoi piani non stanno andando come avevi previsto! -
- A cosa ti riferisci, in particolare? - gli domandò Ganondorf in uno sbuffo annoiato.
Agahnim emise una breve risata - Al parere della corte riguardo i rapporti con i popoli a sud del tuo regno ovviamente! -
Al sentire ciò, il collo di Ganondorf si voltò in uno scatto talmente violento da emettere uno schiocco secco. La sua espressione ne tradì la sorpresa, cosa che compiacque il suo prigioniero.
- Vedo di averci preso! - sogghignò costui.
Furente, il Re sentì crescere in sé il desiderio di fargli esplodere la testa con la pressione di una sola delle sue mani. Provava disprezzo per lui e da anni si era promesso che, prima o poi, avrebbe messo fine alla sua vita nel modo più brutale possibile. In un certo senso, Agahnim aveva sempre evitato quell'infausto destino solamente perché il suo aguzzino non aveva mai immaginato una tortura abbastanza terribile da utilizzare su di lui.
Ganondorf cercò però di calmarsi. Nella sua testa era ancora forte il motivo per cui si era allontanato dal proprio trono, percorrendo un sentiero difficile e lungo tre giorni e tre notti di cammino.
Medesima motivazione però ne attirava anche il più profondo disprezzo, in quanto essa possedeva le sghembe e repellenti forme della costrizione; non quella dimenata da catene o leggi, ma da timori e frustrazioni.
Il ricordo di ciò che era avvenuto appena qualche giorno prima tornò a tediarlo.
 
- No! -
Il suo urlo rimbombò all'interno della Sala di Corte facendone persino vibrare le colonne di sostegno su cui una delle quali, da diverso tempo, era stato inciso il suo nome.
- Sono stanco di questo ostruzionismo da parte tua e del Consiglio! - sbottò Ganondorf rivolgendosi brutalmente nei confronti della sua matrigna, Nabooru, non più in veste di Reggente Regina, ma Alta Consigliera.
Quello di Alta Consigliera non era un ruolo da poco. Per quanto fosse decisamente meno gravoso di quello di un regnante, esso consisteva comunque nella figura di ufficiale controparte del Re o, meglio, di una delle controparti. Infatti, la cosiddetta Corte, nonostante il comando secondo la legge di Gerudo risiedesse completamente nella mani del o della Monarca, possedeva un'importante funzione che, il più delle volte, veniva scambiato per un vero e proprio potere ombra, ovvero quello di conferma e di appoggio ad ogni decisione del Re.
Composta da un numero fisso di cinque membri decise dal popolo, la Corte poteva ovviamente essere ignorata, ma nelle poche volte nelle quali una simile cosa era successa, colui o colei che in quel momento sedeva sul trono di certo aveva dovuto affrontare un futuro decisamente più difficile e periglioso. Ciò era guarda caso accaduto alla Regina legittima che succedette al Settimo Patriarca, zio di ben cinque nipoti tutte molto importanti durante gli ultimi anni del suo regno. Costei, appena insediatasi, aveva deciso di spedire le quattro cugine agli estremi del Regno, al fine di assicurare il proprio trono. Quando però la Corte aveva rifiutato un simile sfregio, avvertendo la Regina che la propria decisione sarebbe caduta facilmente sotto le spoglie di una mancanza di rispetto, ella decise di proseguire con il proprio orgoglio e la propria testardaggine, sicura di essere dalla parte della ragione. Ebbene, tal volere portò alla fine di un'epoca d'oro per il suo popolo ed all'inizio di una guerra civile che si concluse con la fine dell'epica tribù di Dragmire da cui poi nacquero ben cinque agglomerati tra cui Kales.
Fortunatamente per Ganondorf, in ben sette anni di patriarcato mai una volta la Corte aveva preso la strada opposta alla sua, confermando ogni sua riforma ed aiutandolo nelle imprese di conquista. Fino a quel momento. Fino a quando la sua ultima richiesta era apparsa troppo estrema per essere accettata, troppo contraria alla tradizione austera delle Gerudo.
Quando Ganondorf aveva sconfitto il mostro antico nelle viscere del Tempio dello Spirito, un intero mondo sconosciuto, udito solamente in storie puerili e leggende, gli si era aperto di fronte agli occhi, scatenando un turbinio di curiosità che, nel corso degli anni, aveva pensato bene di soddisfare, passando intere notti insonni a studiare e leggere.
Di Hyrule e della sua monarchia ovviamente aveva sentito parlare più e più volte nelle sue infantili lezioni di storia, ma mai si era interessato ad essi con così tanta foga. Il deserto era sempre stato il suo mondo, amandolo ed odiandolo in maniera così eguale e forte dentro di sé da disinteressarsi completamente da tutto ciò che vi sostava all'esterno.
Di Hylia, la Dea adorata dal popolo di quella terra, invece non aveva mai avuto modo di udirla nei discorsi di ancelle, insegnanti e sacerdotesse. Così come mai aveva letto o sentito parlare del cosiddetto Dono delle Divinità che, come aveva scoperto nei suoi personali studi, era stato proprio affidato a questa divin signora sconosciuta: la Triforza.
Potere inimmaginabile. Pace duratura. Vittoria perenne della luce sull'oscurità. Ciò era venuto a conoscere di questo mitico oggetto e, per questo, aveva deciso di volerne sapere di più, non giungendo però, o almeno ancora, a pensare di volerla trovare, ancora dubbioso sul fatto se esso fosse una realtà o, più semplicemente, una vuota leggenda.
Ovviamente, mai si sarebbe azzardato di presentare un reale esposto sulla semplice base di una diceria popolare, per quanto antica ed interessante. Aveva allora deciso di rettificare una richiesta ai suoi occhi decisamente più concreta e fattibile, ma non a quelli delle sue Consigliere.
- Il grano scarseggia e le fonti di acqua si stanno prosciugando! - aveva tuonato di fronte alla Corte - Se non troviamo una soluzione ben presto il nostro popolo si troverà vittima della fame e della sete, oltre che alle orde di Boblin e Predoni! -
- Cosa consiglia il Re? - gli avevano dunque chiesto.
- Una nuova alleanza! - fu la sua risposta - A sud vi sono terre ricche di cibo e di acqua! Campi verdeggianti dove basta lanciare un seme per vederlo trasformarsi in una pianta mangereccia forte e prolifica. Chiediamo aiuto al popolo di Hyrule, al suo Re! Doniamo a lui in cambio la nostra abilità bellica, ora che il suo esercito non ha più linfa! -
Inutile dire che una simile richiesta fu da subito riconosciuta come una mera pazzia anzi, un vero e proprio sacrilegio nei confronti dell'antico voto del popolo di Gerudo, il quale non aveva più contatti con la gente di Hyrule da millenni.
Essa fu così bocciata e scartata, più di una volta, cosa che aveva portato la Corte ed inveire nei confronti del proprio Re, avvertendolo di non tediare più le loro orecchie con simili insulsaggini.
- Il tuo voto, madre! - per questo Ganondorf era giunto ad infuriarsi con Nabooru - Nemmeno il tuo voto ho avuto all'interno della Corte! -
L'Alta Consigliera non cercò minimamente di scusarsi, nonostante la sua espressione fosse palesemente sofferente e corrucciata per aver creato così tanto sconcerto nell'amato figlio.
- Sai bene come non possa favorirti, non in decisioni come questa, mio Re! - spiegò - Se avessi fatto come tu desideravi, mi avrebbero subito additata come una consigliera parziale e priva di senso logico, troppo legata all'amore per il mio figliastro che per quello del proprio popolo! -
- Ed è questo che pensi della mia decisione, dunque? - sbottò il Re - Una pazzia?! Un capriccio di un monarca non ancora esperto?! -
Nabooru non rispose. Un silenzio assenso che non fece altro che attirarsi ancora di più le ire del Re.
Questi scaraventò un tavolo di acero intagliato contro una parete, frantumandolo. Il cuore di Nabooru si fermò per un istante, terrorizzata.
- Era una pazzia quando ho liberato il Tempio dal controllo dei Boblin?! - urlò avvicinandosi a lei con passo cadenzato - Ero un folle quando ho evacuato per tempo le Tribù di Ghert, Nyoko e Gohulam prima che le orde delle dune le radessero al suolo? Ero un poppante capriccioso quando ho scoperto la sede dell'Arena?! -
Ogni accusa feriva con la stessa freddezza di una lama affilata il cuore e lo spirito della Consigliera.
- No, mio Re! - cercò di scusarsi - Nessuno lo ha mai pensato e tutte ti sono state grate per le tue imprese. Dopo appena sette anni sei divenuto forse uno dei più grandi patriarchi dell'intera storia del nostro popolo! -
Egli oramai gli si era fatto talmente vicino che Nabooru poteva percepire il calore dei suoi respiri, il profumo delle spezie cosparse sui suoi lunghi capelli.
- E allora perché non vengo ascoltato anche questa volta? - le ringhiò in un sussurro.
I suoi occhi la terrorizzarono. Qualcosa era cambiato in lui, tanto che, come in quel momento, si era trovata più volte a pensare "Figlio, che ti è successo?"
Ella però lo aveva cresciuto ed aveva faticato, sacrificato ogni sua energia per far sì che crescesse forte ed intelligente. Nonché ella aveva rischiato la propria vita e permesso a Naga di donare la propria affinché il suo trono resistesse prima del suo ritorno durante lo Jabbar.
Una piccola scintilla di orgoglio le se riaccese dentro. Il suo volto si fece prossimo anch'esso a quello di Ganondorf, fino a quando i loro nasi non si sfiorarono.
- Perché Hyrule non è nostra amica! - disse seccamente - Perché noi siamo Gerudo e non abbiamo bisogno di nessuno, men che meno di una lordura come il Regno corrotto dei Nohansen! E, te lo dico Mandrag, nessuna di noi più sopporterà la visione di un ambasciatore di Hyrule tra le nostre mura! -
Si riferiva ovviamente all'incontro segreto che Ganondorf aveva avuto con un nobile di alto rango del Regno della piana. Aveva da sempre sospettato che qualcuno all'interno della corte lo avesse fatto spiare, ma era sempre rifuggito al pensiero che dietro un simile complotto ci fosse la sua fidata matrigna.
Le vene delle sue tempie si gonfiarono. I denti nella sua bocca stridirono chiusi in una morsa di rabbia.
A fatica trattenne oscuri pensieri di vendetta, ricacciandoli nell'abisso dove si erano originati. Oltrepassò così Nabooru, lasciandosela alle spalle, rivestendo il suo elegante mantello purpureo.
- Dove vai? - gridò ella, proprio com'era solita fare durante i loro litigi d'infanzia di Mandrag.
Egli fece apparire una smorfia furente sulla sua bocca.
- Pensavo che il Re non dovesse dare spiegazioni. Nemmeno ad una comune Alta Consigliera che dovrebbe pensare a mantenere i piedi al proprio posto, invece che ancora troppo vicini al mio trono! -
Un dolore acuto, come una lama invisibile conficcatasi nel suo cuore, colpì, prendendolo alla sprovvista, Nabooru. Mai e poi avrebbe anche solo osato pensare che il suo amato figlio adottivo potesse muoverle una simile ingiuria.
Egli però non aveva ancora terminato.
- E, perché tu te lo possa ricordare in futuro, io sono Ganondorf di Dragmire! Che le mie orecchie non odano più quel nome, nemmeno dalle tue labbra! -
E se ne andò, lasciandola al suo rafforzato sconforto.
Lontano da lei, abbandonata la loro invisibilità mimetica, le Rova lo affiancarono.
- Procediamo, mio signore? - domandò sorridente e soddisfatta Kotake.
- Ovviamente! - fu l'unica parola che concesse loro.
 
Ridestatosi dal fiume dei ricordi, Ganondorf scattò vicino al prigioniero, talmente veloche che quest'ultimo non era riuscito a vederne nemmeno un singolo movimento.
La sua mano afferrò il sacco sudicio che faceva da unica copertura al corpo di Agahnim, strappandolo con violenza e lasciandolo così completamente nudo.
Nonostante in passato fosse stato un fiero e spietato guerriero, egli fu investito da un imbarazzo innaturale per il suo orgoglio, cosa che non fece altro che aumentare il suo disprezzo ed il suo odio.
Ganondorf poi non fece altro che dare ancor più carburante a quell'incendio iroso, esplodendo in una risata fragorosa di scherno.
- Sai, mio caro Agahnim, in tutti questi anni, al di sotto di quel pelame polveroso e di quella ragnatela di cicatrici, avevo sempre sospettato che tu non fossi nativo delle mie terre, ma mai mi sarei immaginato, ora che ti osservo bene, di come addirittura tu potessi appartenere ad una delle stirpi oscene e malsane di Hyrule! -
Il suo dito poi si appoggiò, facendo sempre più pressione, al di sopra di un tatuaggio inciso nella pelle del torace, l'unico ancora riconoscibile al di sotto di tutto quel sudiciume e del sangue rattrappito. Un occhio con tre triangoli a fare da sopracciglia ed una lunga lacrima discendente a mo di elsa o impugnatura.
- Uno Sheikah! - esclamò ghignante il Re - Un antico servitore della famiglia reale d'Hyrule, vero? -
Agahnim non si dimostrò per nulla stupito delle conoscenze del suo nemico. Per quanto infatti odiasse con tutto sé stesso Ganondorf, di certo non lo aveva mai reputato né stupido, né superficiale. Aveva sempre saputo che prima o poi sarebbe riuscito a scoprire le sue origini e, per questo, non fece alcuna resistenza dall'ammetterle.
- Più che un servitore, una guardia rituale! - disse senza alcun indugio.
- Ma gli Sheikah si sono estinti nella Guerra Civile! E tu di certo non puoi avere mille anni. O sbaglio? -
- Solo su una cosa. - rispose il prigioniero - Ovvero sul fatto che gli Sheikah siano estinti! -
Ganondorf si fece tutt'orecchi.
Agahnim sospirò e si mise dunque a raccontare.
- Molto tempo fa, quando la Guerra Civile Hyruleana terminò con la vittoria del Regno contro i Contrabbandieri Oscuri, il Monarca di allora, Alas, primo Re della dinastia Nohansen, punì severamente i suoi nemici, bandendoli per sempre dal suo mondo. Il dolore per le numerose perdite avvenute durante la guerra però aveva indurito il suo cuore, rendendolo paranoico e sospettoso di chiunque. Ben presto infatti egli cominciò a credere che molti tra i suoi fidati servitori si fossero convertiti al credo degli antichi stregoni, pronti così, da un momento all'altro, a detronizzarlo! -
- Che cosa accadde, allora? -
Il volto di Agahnim si fece cupo, come se quella storia, nonostante fosse accaduta decine e decine di generazioni prima delle sua nascita, ancora dolesse, come una ferita perennemente aperta, dentro di lui.
- In breve tutti presero ad accusarsi l'un con l'altro. Nessuno voleva fare la fine dei Contrabbandieri. Così, negli alti ranghi dell'esercito, si decise di puntare il dito contro coloro che più erano vicini al Re, da sempre osannati, ma anche invidiati ed odiati. Gli Sheikah non erano comuni guardie, pretoriani atti alla protezione personale del Re, no. Essi erano anche i protettori di ancestrali enigmi, nonché i guardia di porta del Sacro Reame. Sarà stato forse per questo che le leggende parlano di loro come superbi stregoni ed abili assassini! -
- Vuoi dire che li uccisero tutti? -
Il prigioniero lanciò uno sguardo violento al monarca.
- E' ovvio che lo fecero... - ringhiò - O almeno tentarono. Seppur in pochi, alcuni dei più importanti Sheikah fuggirono, giurando a loro stessi di rimanere per sempre fedeli al trono di Hyrule, ma mai più alla dinastia dei Nohansen! Per questo si ritirarono nel deserto. Là dove nessuno sarebbe tornato a cercarli, fino a quando la memoria di loro non si sarebbe tramutata in leggenda! -
Udito tutto ciò di cui aveva bisogno, Ganondorf si scostò da lui. Il sorriso sul suo volto era raggiante, luminoso quanto il sole d'estate.
Una sola domanda però albergava ancora nella sua testa, desiderosa di ricevere una risposta.
- Dimmi una cosa! -
Agahnim alzò nuovamente il capo, sentendo il suo collo appesantito scrocchiare a causa dell'innaturale posizione a cui da tempo era stato costretto.
- Che cosa volevano quei guerrieri, i Contrabbandieri Oscuri? Che cosa cercavano? -
- Oh, ma essi non erano guerrieri, ma maghi da poteri inimmaginabili, o, almeno, così li descrive la leggenda! -
- Rispondi alla domanda! -
Agahnim ghignò. Ganondorf sapeva già la risposta alla sua domanda, ma il fatto che volesse sentirsela dire chiaramente rese alquanto ilare il suo incatenato interlocutore.
- Ma la Triforza, che altro?! -
Soddisfatto, il Re annuì. Ogni sua ipotesi aveva trovato tutte le conferme che necessitava.
Così, incamminatosi verso il ponte a carrucole con il quale era giunto nella personale cella di Agahnim.
Il prigioniero lo vide allontanarsi, percependo chiaramente la soffocante solitudine ripopolare il suo cuore. I suoi denti si strinsero in un ringhio furente. Non voleva essere ancora un volta abbandonato lì.
Pronto ad inveire nei confronti del Re di Gerudo però, ad un tratto, le sue braccia si afflosciarono e le sue gambe sentirono, dopo moltissimo tempo, nuovamente il peso del corpo gravare su di loro. Oramai atrofizzate dalla lunga prigionia, esse non riuscirono nel loro naturale intento e così Agahnim crollò rovinosamente sul grezzo terreno roccioso della sua prigione, dolorante.
Riuscendo a rimettersi in ginocchio, egli lanciò subito uno sguardo alle proprie catene le quali, sebbene fossero ancora ben legate ai suoi polsi aveva però abbandonato il proprio ancoraggio di base sulle pareti di sostegno.
Stranito, egli non perse però tempo e subito si lanciò, claudicando a causa delle prevedibili atrofie e gravato dal peso delle lunghe catene, verso il suo odiato nemico, ben consapevole comunque di come in quelle condizioni non sarebbe mai potuto ad affrontarlo alla pari.
La sua già barcollante corsa fu fermata quanto prima.
Una risata gretta e rantolante riecheggiò in quello spazio.
- E così Agahnim possiedi ancora un orgoglio in quel corpicino ossuto e malnutrito? -
Si sentì sollevare da terra, come sospinto o attirato da una forza invisibile. Ogni parte del suo corpo era impossibilitata di muoversi o reagire. I suoi occhi allora si rivolsero verso l'origine di quella voce, dove la strega Kotake, con un braccio ritto verso di lui, fonte di quella stregoneria, lo stava osservando gioiosa.
- Guarda sorella - esordì Koume sul lato opposto - Non è carino? Ancora nutre vendetta! -
La bocca di Agahnim si serrò, occlusa da quel medesimo oscuro potere. Una fortuna in un certo senso perché, nonostante la sua chiara posizione di svantaggio, senz'ombra di dubbio egli non si sarebbe tirato indietro dall'insultare quelle due vecchie e rachitiche fattucchiere.
Poi, la voce di Ganondorf tornò a rimbombare nella cella.
- Ora basta! - ordinò alle streghe, che subito obbedirono facendo crollare la loro marionetta.
Egli si rivolse al prigioniero.
- Agahnim! Io so quanto è grande l'odio che alberga nel tuo cuore. Ma se ciò che hai detto è vero, tale malavolenza è decisamente più enorme per quel che riguarda coloro che costrinsero all'esilio i tuoi antenati! -
Il prigioniero si asciugò un rivolo di sangue dal labbro, rottosi a causa dell'ennesimo impatto con il terreno.
- Ogni... ogni Sheikah... - bofonchiò - Ogni Sheikah è tenuto ad un giuramento. Seguire il volere della tribù prima del proprio. Pure io feci quel giuramento... e se dovessi avere anche la minima possibilità di vendicare i miei antenati, allora, Re di Gerudo, sono pronto ad ascoltarti! -
Ganondorf si mise a ridere a denti stretti. Una ghignata secca e fredda, ricolma di soddisfazione.
Disse poi - Lascia allora che ti presenti un tuo prossimo, come dire, collega! -
E con un urlo gutturale, chiamò - Jazer! -
Fuoriuscito dalle tenebre che per tutto il tempo del loro colloquio lo aveva celato ai loro sguardi, il Re dei Boblin si avvicinò minacciosamente al predone, osservandolo dalla sua prominente altezza con disgusto.
Ganondorf riprese - C'è un esercito di Boblin, Moblin e Bulblin nella regione a nord ovest del mio Regno, in una zona soprannominata come Colle dell'Arena! -
Rimessosi faticosamente in piedi, Agahnim ribatté - Una simile regione è pura leggenda. Non credere di prenderti gioco di me così facilmente! -
Ganondorf rise ancora, non facendo minimamente caso alla malafede del suo prigioniero.
- Hai tre giorni per riuscire a trovare i tuoi vecchi alleati, i predoni del deserto, tornare al loro comando e trovare l'esercito di Jazer! Una volta là, mi aspetterai, affinché possa darti nuove istruzioni! -
Il meccanismo di sollevamento del piano tornò a cingolare rumorosamente.
- Abbi fede, amico mio! Se farai ciò che ti dirò, ben presto il tuo popolo potrà essere vendicato dalle tue stesse mani! -
Poco dopo la sua figura sparì, infilandosi nella stretta tromba dell'elevatore.
Massaggiandosi il collo, Agahnim rise tra sé - Giovane stupido! -
Il suo insulto fece allora infuriare Koume che di scatto schioccò il braccio verso di lui, pronta a colpirlo nuovamente con il suo potere.
Di fronte allo stupore di tutti però, inaspettatamente Agahnim compì il medesimo gesto, scaraventando la vecchia strega contro la parete dura di una stalagmite.
Kotake sogghignò - E così la leggenda diceva il vero! Anche gli Sheikah conoscono le Vie del Mana. Bene! -
Koume intanto si era già rimessa in piedi, sebbene percossa ancora da forti dolori dovuti all'impatto.
- Sorella - le disse Kotake - Credo che il nostro nuovo alleato possa imparare qualcosa da noi! -
Stanco di tutti quei discorsi, Jazer grugnì - Andiamo! Sono stufo delle vostre stregonerie! -
- Come vuoi, nostro disgustoso amico! Come vuoi! - gli fecero eco le Rova.
 
Ancora incredulo sul fatto di come fosse riuscito a farsi abbindolare da uno sporco Gerudo, Agahnim cercò il più possibile di pensare ai lauti guadagni, nonché alla promessa che gli era stata fatta, che in quella sua strana e malvoluta alleanza avrebbe potuto accaparrarsi.
Ornato con vesti di seta e cotone di una bellezza che mai il suo corpo aveva indossato in passato, osservò con sguardo violento e arcigno il destriero di Ganondorf avvicinarsi, con il suo padrone fieramente in groppa che ispezionava le varie truppe composte da numerosi appartenenti alle specie Blin, nonché qualche accozzaglia di predoni, quelli che Agahnim era riuscito a convincere nel seguirlo, sparsi qua e là tra le orrende creature del deserto.
Il Re di Gerudo si stava facendo sempre più vicino. Agahnim comprese come, probabilmente, il suo nuovo padrone avesse intenzione di scambiare qualche parola con lui. In fondo lui era il signore dei predoni, ovvero il guerriero con più esperienza e maestria tra tutti quelli presenti. E invece, quando il cavallo del Re trottò di fronte a lui non si fermò, né frenò minimamente, passando oltre, come se egli non fosse uno fra tanti, uno qualunque.
Ricolmo d'ira, Agahnim fu sul punto di lanciare sgradevoli epiteti al suo signore, se non addirittura provocare uno sgambetto con una delle picche dei suoi fedeli al cavallo. Lo sguardo severo di Kotake ed un gesto della sua mano lo riportò immediatamente all'ordine.
Non era passato molto tempo da quando era stato liberato dalla sua prigione, ma nonostante ciò aveva imparato, se non a stimare, almeno a rispettare le due braccia simboliche di Ganondorf. Seppur sbuffando, dunque si rimise in fila, silenzioso e pacifico, ma con gli occhi continuò a seguire il Re Stregone, così come Jazer, il Re dei Boblin e di tutte le razze a loro simili, usava nominarlo.
Giunto in fondo alle fila, Ganondorf smontò dal suo cavallo, accarezzandolo dolcemente sul muso, mentre una donna, l'unica che Agahnim aveva avvistato aggirarsi nell'accampamento durante la sua attesa, gli corse incontro, inginocchiandosi a pochi passi da lui.
- Hai fatto tutto ciò che ti ho detto? - le domandò il Re, osservandola dall'alto in basso.
- Sì, mio Signore! -
- Che notizie dunque? - la invitò ad alzarsi con un gesto della mano.
Tornata eretta allora, la Bocca del Re, così era conosciuta dai guerrieri dell'accampamento, soddisfò la curiosità di Ganondorf.
- Le impalcature sono state rimosse. Nonostante le diverse tonnellate di peso e la morte di alcuni Boblin, infine siamo riusciti a liberare lo scorrimento delle carrucole e... beh, quello che abbiamo trovato  lo devi vedere con i tuoi stessi occhi! -
Il Re annuì e si voltò verso i ranghi del suo strampalato, ma incredibilmente numeroso, esercito.
Gonfiando il proprio petto, urlò - Jazer, Agahnim! -
Sorpreso di sentir pronunciare finalmente il proprio nome, a momenti il signore dei predoni non compì una poco onorevole e rovinosa caduta dovuta ad un inciampo nelle sue lunghe e, in un certo senso, poco funzionali vesti. Fortunatamente, per quanto le sue gambe fossero ancora assai affaticate dal lungo imprigionamento, dotate di muscoli rinsecchiti, il suo senso dell'equilibrio stranamente era ancora vigile nella sua testa.
A passo svelto, si affiancò a Jazer e, in pochi istanti, infine si trovò di fronte a Ganondorf.
L'armatura del Re aveva un non so ché di affascinante. Ricolma di spuntoni, valida minaccia per qualsiasi nemico avesse desiderato affrontarlo, il suo colore nero pece pareva assorbirne la luce attorno, come un buco nero, un abisso nel quale persino le speranze dei più coraggiosi venivano inghiottite per non farne più ritorno.
A loro Ganondorf non disse ancora nulla, riferendosi invece nuovamente alla sua fidata suddita.
- Dà loro un destriero! - le ordinò - Che vengano con me! -
Insieme cavalcarono per almeno un'ora, sotto la pressante canicola del sole di mezzogiorno, nonché un vento secco e tagliente a causa delle sottilissimi polveri che da esso venivano trasportate contro i volti dei tre cavallerizzi.
Infine, di fronte agli occhi stupiti e quasi emozionati del predone, il Colle dell'Arena rivelò il suo fiore all'occhiello: l'Arena del Giudizio.
Somigliante in tutto e per tutto ad un ovale architettonico costruito su tre livelli contenenti ognuno almeno diecimila posti, l'Arena stava a metà tra quello che si potesse definire un tempio sacro, forse perché numerose erano i riferimenti a Din ed alle altre due Divinità sorella, ed ovviamente ad un stadio di giochi rituali.
- Meglio che serri quelle ganasce! - lo irrise il Re d'un tratto - O la sabbia potrebbe riempire i tuoi polmoni in meno di un minuto. Dovresti saperlo, Signore dei Predoni! -
L'unica risposta che Agahnim riuscì a lanciargli, serrando il proprio velo protettivo davanti alla bocca, fu solamente uno sguardo secco e rapace. Ganondorf ricambiò con un sorriso a denti scoperti.
Per accedere all'Arena era necessario risalire un'alta scalinata, all'incirca composta da almeno qualche centinaio di scalini molto stretti ed alti, impossibili per essere praticabili da un qualsiasi equino o suino del deserto.
Allora, scesi dalle proprie selle, i tre guerrieri cominciarono ad incamminarsi, giungendo ben presto, dato il passo svelto e sicuro del Re, all'interno di un complesso sistema di cunicoli e maestose stanze che salivano costantemente di livello, fino a quando, giunti alla base di un'enorme struttura circolare, fatto scattare un meccanismo, Ganondorf ed i suoi alleati si videro salire sempre più. Il meccanismo si bloccò solamente di fronte ad un portale enorme, al quale si poté accedere grazie ad un ponte a scorrimento.
Infine, il campo sabbioso ed antico al centro dell'arena si aprì di fronte ai loro occhi, con la centro la cosa più incredibile che Agahnim ebbe mai visto in tutta la sua vita.
Il Secondo Colosso.
Raffigurante una donna con un lungo serpente che l'attorcigliava dalla testa ai piedi, non nell'atto però di soffocarla, ma di onorarla, il Colosso troneggiava su tutto quell'intero spazio, raggiungendo l'altezza stessa delle impalcature di sostegno dell'arena, ovvero 320 piedi in tutto. Un'opera maestosa, gigantesca, degna di una divinità. Persino Ganondorf, nonostante fosse già stato in quel luogo diverse volte, pareva esserne inebetito.
Ai lati dell'arena sostavano poi sei pali la cui altezza svettava sopra quella dell'arena e del colosso di almeno altri 40 piedi, al cui apice si sorreggeva un simbolo, diverso per ognuno dei pali.
La cosa più incredibile ed enigmatica che attirò infine l'attenzione dei tre spettatori, furono quattro lunghe e possenti catene nere che, agganciate a delle carrucole all'apice dei quattro lati dell'arena, affondavano poi dentro il terreno, forse collegate ad un meccanismo probabilmente celato nella sabbia del campo centrale.
- Lascia senza fiato, vero? - Kotake, accompagnata come al solito dall'inseparabile gemella, si affiancò loro.
- 320 piedi di altezza, tre piani di livello a rappresentare i Tre Draghi o Titani terrestri, sei contrafforti in onore dei Sei Enclavi di Hyrule, i sei mondi del regno di superficie. Ed infine il secondo colosso della leggenda... - sospirò rumorosamente, come presa anch'ella da una forte emozione - Ahhhh, mai mi sarei immaginata di vederla con i miei stessi occhi! -
Agahnim parve però aver già esaurito il proprio stupore, tanto che con tono poco rispettoso, espresse la sua prima domanda.
- Che sono quelle catene? -
- Nessuno lo ha ancora capito - gli rispose Koume - Ma grazie all'aiuto di numerosi servi di Jazer... -
- Compagni, non servi! - tuonò il Re dei Boblin, sempre attento, nonostante il mostruoso e poco fine aspetto, ai termini ed alle tradizioni della sua gente.
- Sì, sì... compagni... - lo accontentò dunque Koume, che continuò - Dicevo, grazie a loro e, purtroppo, alle morti di alcuni di essi, le nostre più abili studiose hanno compreso come vi sia qualcosa qui sotto. Un qualcosa di talmente importante da dover essere nascosto sotto quintali di sabbia al fine che nessuno lo rubasse o, forse.... al fine che nessuno non incombesse in esso! -
Intervenne dunque Ganondorf - La mia fedele servitrice mi ha conferito come i diversi ostacoli siano stati infine divelti! -
- Dice il vero! - annuì Kotake, per poi urlare verso l'apice del colosso - Non è vero, Sharty? -
Una donna si sporse da quel posto soprelevato, gridandole in risposta - Sì, mio signora! -
Ancora una volta Agahnim si sorprese di trovare una donna Gerudo tra loro. Da quel che aveva compreso nei pochi giorni che era rimasto all'interno dell'accampamento, la Corte ed il popolo del Re non erano venuti assolutamente a conoscenza dell'alleanza che questi aveva stretto prima con i predatori della dune e poi, ovviamente, con i predoni. A quanto pareva però Ganondorf aveva scelto alcune fidatissime guerrieri e studiose affinché lo coadiuvassero nei suoi scopi.
Come se il Re fosse stato in grado di udire i suoi pensieri, lo informò - Sappi che per quanto siano poche, le Gerudo che troverai qua attorno sono coloro di cui più mi fido! Non pensare che la mia fiducia si muova così facilmente per la feccia del deserto. Se ti dimostrerai valevole di essa, allora l'avrai... sempre che questo sia il tuo desiderio, signore dei predoni! -
Furente d'odio, Agahnim seguì i suoi passi verso il Colosso, sperando per lo meno che una delle sue caviglie si stortasse. Una piccola vendetta, nulla più. Ma i piedi del Re erano ben saldi e solidi perché una simile cosa potesse avvenire.
- Avanti! - disse poi questi - Fatemi vedere! -
La Gerudo in cima al Colosso sparì così nuovamente ai loro sguardi e, pochi secondi dopo, un tremolio si fece forte, sconquassando il terreno con prorompenza, il che costrinse Agahnim e Jazer a trovare riparo al di sotto delle volte dell'arena, ma non Ganondorf il quale, forse fiero, forse incosciente, se ne rimase fermo sulla sua posizione, mentre le lunghe catene si tendevano allo stremo, spostando l'enorme massa di sabbia che le attanagliava.
Più le catene scorrevano verso l'alto, più il colosso discendeva vertiginosamente verso il terreno, come se questi fossero collegati tra loro in un complesso sistema di contrappesi.
Quando il volto dell'enorme statua fu poi sul punto di insabbiarsi, ecco che dietro di esso sorse un enorme monolite di pietra nera, mai vista in nessun'altra parte del deserto, incatenata per tutto il suo perimetro. Di fronte al colosso invece, esattamente nella posizione in cui sorgevano le gambe del Re, si elevò come un altare, al cui centro sostava un grande oggetto, come uno specchio, su cui non vi era incastonato un vetro riflettente, ma un tondo fatto ad un primo occhio dello stesso materiale del titanico monolite.
Con il termine del sisma, il colosso insabbiatosi completamente sotto il livello del terreno ed il ritorno ad una calma ancora ricolma d'incertezza, con le membra che ancora gli tremolavano sotto la pelle, Jazer si affacciò dal suo riparo, domandando - Che... che cos'è? -
Il volto dubbioso di Kotake si fece vicino, analizzando puntigliosamente ogni pollice di quello strano oggetto, cercando di decifrarne i criptici simboli che vi erano incisi sopra.
Poi, le sue dita ricoperte di calli, ne accarezzarono la superficie, notando come essa fosse completamente liscia e levigata, ma anche spessa e priva di porosità. Intagliarla o spezzarla non sarebbe stato facile.
- Allora? - si spazientì Ganondorf.
Ella si voltò verso di lui.
- In tutta sincerità non ho mai visto nulla di simile. Assomiglia a pietra vulcanica, ma è decisamente più spessa. Solo questo disco peserà almeno due o tre quintali, mentre quel masso enorme ancorato alle catene... credo che non vada sotto le trenta tonnellate! Impressionante.... -
- Cosa? - domandò incuriosito il suo Re.
Kotake s'incupì, tornando a toccare lo specchio, questa volta con il palmo intero della sua mano.
- Sento qualcosa... un potere intenso ed antico! E sofferenza. Molta sofferenza! -
Intervenne Agahnim - Beh, questa secondo la leggenda è l'Arena del Giudizio. Le storie raccontano come qui furono puniti i Contrabbandieri Oscuri. Forse parte del loro mana si trova ancora qui e... -
S'interruppe d'improvviso, notando come Ganondorf lo stesse squadrando sorridente.
- E così un mago! - disse.
Agahnim non ribatté, ma il fatto che le sue doti ora gli fossero note non gli piacque per nulla.
- Comunque sia - li riportò alla realtà Kotake - Credo che il predone abbia ragione. Ma vorrei studiare meglio queste strani ritrovati con più calma. -
- E per quei simboli che mi puoi dire? - tornò a domandare il Re.
La strega alzò il naso al cielo.
- Nulla. A parte che rappresentano le sei regioni ed i sei Enclavi del mondo, come ti ho detto. Alcuni sostengono come ci fossero sei spiriti sacri scelti personalmente dalla Dea di Hyrule al fine di proteggere il mondo ed il lascito divino! -
- E questo posto... - concluse Agahnim con una strana sensazione di ansia nei suoi muscoli.
- Bene! - esclamò infine Ganondorf - Ho perso già troppo tempo. Jazer, Agahnim! Che le truppe si muovano. Vi avverto, non voglio errori o distrazioni! Tutto deve procedere come previsto, sono stato chiaro? -
Jazer rispose sicuro con un - Sì, mio signore! - mentre Agahnim si limitò ad un cenno con il capo.
- Ora, andate! -
 
Quasi due giorni più tardi, con il tramonto all'orizzonte, Nabooru si ritrovò, come molto tempo prima di allora, sui bastioni delle mura settentrionali della Città di Arenaria. Come quella volta, il suo cuore era ricolmo di dolore, paura e sofferenza.
A fianco a lei, la Maestra d'Armi che aveva preso il posto della defunta Naga, Kitrel.
- Le notizie dalle tribù orientali sono confermate? - chiese a lei in un sospiro, già consapevole di quale sarebbe stata la risposta.
- Sì, Alta Consigliera! -
Nabooru cercò d'insalivarsi la bocca, inariditasi per la tensione.
- Quanti... sì, insomma... quanti morti? -
- Incalcolabili! Del Re poi nessuna notizia. Cominciamo a temere che sia caduto preda di... -
- E per quanto riguarda gli acquedotti? - ne bloccò la frase, incapace di poter anche solamente udire che il Tredicesimo Patriarca, suo figlio adottivo fosse morto.  
Anche stavolta la risposta fu devastante - Distrutti. In meno di qualche ora ogni nostra riserva d'acqua sarà esaurita. In preda alla fame ed alla sete, la Città ed i nostri eserciti, già ridotti al minimo, cadranno con facilità ad un attacco delle orde del deserto! -
Non c'era più nulla da fare. Nabooru maledì sé stessa per essere stata così testarda nei confronti delle decisioni dell'unico che forse avrebbe potuto salvare il suo popolo da una simile situazione.
- Convoca il Consiglio di Corte! - esclamò.
- Mi chiederanno il motivo. Che devo dire? -
I loro occhi s'incontrarono. Kitrel percepì lo spirito di colei che un tempo fu Reggente del Regno tremolare per la prima volta.
- Chiediamo aiuto. Non possiamo fare, altro! - 

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Capitolo 7
*** Strane Alleanze ***


Poste in cima alla cittadella, un torrione scavato sull'apice di un colle roccioso particolarmente alto all'interno della Città di Arenaria, le membri dell'Alto Consiglio di Corte osservavano nervosamente lo sviluppo della battaglia che si stava infervorando a circa cento iarde fuori le mura. Tutte erano presenti, tranne Nabooru la quale, contro il volere della Corte stessa, aveva imbracciato per l'ennesima volta le armi per andare a combattere il più grande esercito Blin che i loro occhi avessero mai visto.
Quattro giorni prima, l'ambasciatrice del Regno era stata spedita con una scorta alla Cittadella d'Hyrule, sede della monarchia dei Nohansen che, in quel periodo, era dominata dal vecchio Re Daphnes IV, già pluricentenario e considerato un miracolato dato che, rimasto senza eredi per lungo tempo, sua moglie era riuscita a dare alla luce una figlia una decina di anni prima. Secondo le loro usanze, ad ogni figlia femmina, una vera rarità all'interno della monarchia d'Hyrule anche se non al pari di un erede maschio nel popolo Gerudo, veniva assegnato il nome di Zelda o, almeno così Ganondorf e le sue più esperte studiose avevano compreso nel corso di lunghe notti di lettura e traduzione. Il motivo era ancora un mistero.
Fortunatamente per il popolo del deserto, anche se la cosa non fosse poi così ben voluta ed accettata da tutte, Re Daphnes aveva deciso di inviare in loro aiuto un plotone di circa un migliaio di soldati e qualche decina di Guardie Reali per coadiuvarne le azioni. Per quanto all'inizio un simile sostegno fosse sembrato in grado di sgominare il tentativo d'invasione dei predatori del deserto, con l'andare dei giorni le fila di Gerudo ed Hyrule non avevano fatto che assottigliarsi sempre più, mentre Boblin, Moblin e Bulblin accorrevano da ogni dove per aiutare i loro simili.
Ad ogni loro sguardo, Yuna, Tojra, Kalooru e Freja non poterono che constatare come le loro linee continuassero ad arretrare, mentre l'esercito Blin si faceva sempre più grande e prossimo alle mura.
- Non resisteremo a lungo! - disse Kalooru, la più anziana tra loro, grattandosi nervosamente la fronte.
- Il nostro salvacondotto è pronto? - domandò intimorita Torja.
- Sì! - le rispose Yuna - L'ambasciatrice ci ha assicurato come il Re d'Hyrule sia disposto a darci asilo in caso... in caso di... -
- In caso di disfatta?! - l'aiutò Kalooru. Tutte si zittirono e si ritirarono nella propria apprensione.
- Ci  sono notizie di Nabooru? - riprese poco dopo Freja, domando ad una delle guardie lì vicino.
- Nessuna, mia signora! L'abbiamo avvertita più di due ore fa, ma si è dimostrata restia a ritirarsi! - rispose costei.
Kalooru scosse il capo indispettita - La solita vecchia testa calda. E pensare che vent'anni fa non era che un'ancella indifesa ed incapace d'imbracciare persino una picca! Peggio per lei! - esclamò con spregio - Che se la sbrighi da sola! -
Le quattro si scambiarono dunque un cenno di assenso ed all'unisono si alzarono, dirigendosi a passo svelto verso i destrieri preparati apposta per la loro fuga. Quando una figura nera e svettante, penetrò nella cittadella.
- Dove andate, Consigliere?! -
La voce tonante di Ganondorf sconquassò i loro sensi. Il Re, contro ogni più rosea previsione, era tornato ancora una volta dalla sua morte annunciata, ma questa volta la cosa non fu accolta felicemente dalle membri della Corte.
- Mio Re! - s'inginocchiò Freja titubante - Sei... sei vivo! -
- E pronto alla battaglia. Al contrario vostro, a quanto vedo! -
Le Alte Consigliere cominciarono a tremare sotto le loro pesanti e rituali vesti.
Yuna s'inginocchiò il più umilmente possibile - Mio signore, tu ci giudichi male! Stavamo solamente preparandoci a combattere pure noi! -
Fu allora che il loro Re estrasse un papiro arrotolato dalla sua nera armatura. Non ci volle molto perché tutte compresero cosa di fatto egli stesse tenendo in mano.
- Guarda un po' cosa ho trovato nella sella di un cavallo fuori le mura meridionali! - disse srotolando il papiro e cominciando a leggere.
- Come promesso alla nostra ambasciatrice, noi, Alto Consiglio della Corte di Gerudo, chiediamo ufficialmente asilo al Trono d'Hyrule, affinché il nostro aiuto possa impedire al vostro regno ciò che subì il nostro! Firmato con i vostri nomi col sangue! -
Negare sarebbe stato completamente inutile. Per questo nessuno lo fece, mentre alcune di loro si portarono una mano al volto svergognato, temendo che, in un momento simile, nessuno sarebbe stato in grado di proteggerle dall'ira del loro Patriarca, né la legge, né alcuna delle guardie che già avevano preso ad osservarle con disgusto al fianco del Re.
- Dunque - riprese poi quest'ultimo - Non solo osate rinnegare le mie decisioni, ma vi appellate ad esse solamente per salvarvi la vita, mentre il nostro popolo sopperisce sotto i colpi del nemico! Questo è tradimento, mie non più fidate consigliere! -
Alcune avrebbero voluto ribattere, persino mentire, ma a cosa sarebbe servito? Così, l'unica cosa che venne in mente a tutte loro contemporaneamente, fu prostrarsi a capo chino di fronte alle gambe del loro signore, implorandone il perdono.
Ganondorf rise di gusto a denti stretti ed in tale medesima, orribile, espressione emanò la sua sentenza.
- Perdono... - sussurrò - Lo avrete! -
La Alte Consigliere sospirarono un fiato di sollievo, ma invano. Il loro perdono infatti non sarebbe stato concesso tanto facilmente.
Dietro il loro Re infatti esse sentirono i passi di un altro individuo. Agahnim si presentò al loro cospetto.
- Un uomo in questa terra! - esclamò indignata Kalooru.
Ganondorf non ci fece caso e presentò così il suo alleato - Costui è Agahnim e voi lo avete conosciuto molto tempo fa come il predone che cercò di uccidere l'allora Reggente! -
Stupite, le consigliere sentirono i loro respiri strozzarsi in gola.
- Sopravvissuto, il fato ha voluto che egli offrisse i suoi servigi ed il suo aiuto al nostro popolo! -
- Questo è un affronto! - urlò Yuna balzata nuovamente in piedi. Lo sguardo gelido del suo Re però la rimise immediatamente al proprio posto.
- Se veramente desiderate ricevere il regale perdono, allora fate come vi dico. Se Agahnim e i suoi riusciranno insieme a me sgominare l'avanzata delle truppe nemiche, essi saranno accettati tra il nostro popolo come membri onorari, godranno di ogni nostro diritto ed andranno a comporre la mia nuova guardia personale! -
Tutte avrebbero voluto controbattere, ma Ganondorf fu ancor più veloce di loro, continuando con le sue richieste.
- In secondo luogo, firmeremo un'alleanza ufficiale con il regno d'Hyrule, affinché l'antico patto che c'era un tempo tra i nostri popoli torni ad essere vivo, per una nuova epoca di pace e di prosperità per tutti! Accettate dunque ciò che il vostro Re vi chiede? -
Il silenzio prolungato delle quattro donne fu più che sufficiente per recepirne l'assenso. Ganondorf voltò i tacchi insieme ad Agahnim e se ne andò. Una battaglia li stava attendendo. Una battaglia che avrebbe cambiato tutto e dato finalmente inizio all'avverarsi di un desiderio che il Re di Gerudo aveva oramai cominciato ad inseguire con fervore ed ingordigia.
 
Ancora qualche ora e la notte sarebbe calata perentoria sopra le teste delle svariate centinaia di guerrieri ed amazzoni che da giorni si stavano dando guerra incessantemente, senza permettersi l'un l'altro di riposare, dissetarsi o cibarsi. I morti erano incalcolabili ed il loro sangue si era già rattrappito rendendo la sabbia dura e secca sotto i piedi dei combattenti.
Nabooru era ferita e stanca, l'età si faceva sentire, così come il peso della propria sciabola e dello scudo. Nonostante ciò era ancora lì, fiera e letale, con numerose tacche incise nella carena dello scudo a segnalare le vittime che erano passate sotto i colpi della sua lama.
Il suo ultimo avversario però era ancora in piedi, decisamente più forte rispetto agli altri, nonché famelico e desideroso di recidere il suo delicato collo con un fendente di mannaia.
Jazer ne osservava ogni disperato movimento, anticipandolo e respingendolo per il semplice gusto di far continuare quel loro personale duello il più possibile, assaporarne ogni singolo istante prima della sicura disfatta della sua regale avversaria.
Ancora una volta, l'Alta Consigliera di Gerudo, amata matrigna del Re in persona, si scagliò ancora una volta contro il suo possente avversario da cui, ancora una volta, fu facilmente rimbalzata indietro.
Alla loro insaputa, in lontananza Ganondorf li stava osservando in parte preoccupato, in parte emozionato. Il suo momento era infine giunto.
Voltatosi a guardare i 600 cavallerizzi, servi di Agahnim il predone, urlò loro - Questa è la vostra occasione, uomini! -
Per la prima volta, Agahnim percepì come una nota di rispetto nel timbro di Ganondorf, come se avesse cominciato a non considerare più i suoi simili come mera feccia del deserto. La cosa gli piacque, ma ancora non aveva completamente dissipato l'odio che dentro di lui scorreva per il Tredicesimo Patriarca.
Quest'ultimo, intanto, continuò - Se tra di voi c'è qualcuno che prova timore per la propria vita, che guardi dentro di sé ed abbracci la propria ombra interiore. Che diventi una belva assetata di sangue e che si ricreda! Oggi diventerete parte di un grande Regno, che estenderà i propri confini ai limiti del mondo! -
Insieme ai suoi compagni, Agahnim si trovò ad urlare di fervore, quasi inconsciamente.
All'ordine di Ganondorf, presero a caricare proprio verso il centro della battaglia, esattamente dove Nabooru e Jazer si stavano scannando l'un l'altro. Entrambi voltarono i propri occhi verso quella massa informe ed urlante diretta verso di loro ed entrambi, paradossalmente, sorrisero nel vederla. Ben presto però, l'espressione gioiosa di Jazer si tramutò in una smorfia di sorpresa e raccapriccio, notando come Agahnim e Ganondorf, coloro di cui aveva imparato velocemente a fidarsi, stavano martoriando e ghermendo i suoi simili, i suoi compagni di cui si era caricato la responsabilità sulle proprie spalle.
Colpito nello spirito, senz'accorgersi egli piegò il proprio braccio, lasciando cadere la possente mannaia dalla sua mano. Nabooru, sentendo il clangore dell'arma che impattava sul terreno, non attese momento migliore e, in un balzo felino, abbandonò il suo pesante scudo sguainando la sciabola con tutte le sue forze.
Jazer non ebbe il tempo di gridare, mentre uno schizzo di sangue fuoriuscì dal suo braccio amputato, imbrattando il volto olivastro della sua nemica. Terrorizzato, indietreggiò, tenendosi il moncone dolorante con l'unica mano che gli era rimasta. Nabooru invece continuò a colpirlo con lunghi fendenti, ferendolo sul ventre, sulla schiena e persino sul volto, senza però mai riuscire a colpire un'arteria. Comunque sia, non ci sarebbe voluto un genio di arti belliche per comprendere come Jazer fosse oramai sconfitto, tanto che a riprova di ciò, il Re dei Boblin, quasi dissanguato, si lasciò cadere sulle ginocchia, con i suoi occhi color del sole fissi su colei che, da un momento all'altro, avrebbe mozzato la sua testa.
Prima che la lama di Nabooru si conficcò nel suo collo, egli sorprese la propria avversaria con una risata secca e rassegnata.
- Che hai da ridere? - inveì ella.
- Penso al fatto che sono stato tradito... - le rispose continuando a ghignare.
- Cosa non rara tra gentaglia come te! -
- Oh, non è stato un Blin a tradirmi. È stato un uomo. Colui che, solo ora comprendo,ha tradito anche te! -
Incredula, Nabooru portò il proprio sguardo  verso dove poco prima aveva visto giungere al galoppo Ganondorf, soffermandosi ad osservare il suo impetuoso desiderio di uccidere. Egli, mentre con una mano toglieva la vita ad un nemico, con l'altra ne respingeva altri dieci. Il suo volto grondava un piacere quasi lussurioso nel farlo.
"Figlio!" pensò "Non posso credere a ciò che sei diventato..."
- Le due megere hanno fatto un ottimo lavoro con lui! - tornò a parlare il titanico Boblin - Colui che ha ucciso il mostro, è diventato il mostro stesso! -
Fu un gesto secco e rapido. Il sangue a momenti si cauterizzò a causa delle scintille che la sciabola di Nabooru aveva causato tanto era stata veloce. La testa di Jazer cadde a terra, così come un'unica, ma ricolma di sofferenza, lacrima dell'Alta Consigliera di Gerudo. Ella non aveva creduto al Re dei Boblin, ora un corpo senza testa agonizzante. Non ce n'era stato bisogno. Sì, perché il seme marcio del sospetto già da tempo era serpeggiato in lei, dando frutti disgustosi e veleniferi.
Con i Blin oramai in fuga, inseguiti da predoni, Gerudo e guardia d'Hyrule insieme, Nabooru abbandonò la propria sciabola sul terreno, cadenzando come un non morto verso la propria città. Là avrebbe ricevuto la conferma di ciò che tanto temeva. Là avrebbe scoperto che il suo amato figlio putativo se n'era andato molto tempo fa, in quel giorno in cui aveva lasciato la capitale per il proprio Jabbar, morendo nel deserto e lasciando che qualcos'altro ne prendesse le sembianze. Una forza oscura tanto orribile quanto potente che il mondo si era oramai dimenticato quanto il male possedesse una forma ed una propria volontà.
 
Udito il tonfo sordo sullo splendido marmo biancastro della sala reale, le guardie accorsero a gradi falcate verso il corpo strisciante della loro signora.
- Regina Leda! Nostra Signora! - disse una di queste coadiuvata dalle ancelle nel tentare di rimetterla in piedi.
La Regina non fu in grado di dire nulla. Ancora in possesso dei propri sensi, il suo sguardo però era svanito, assente.
La guardia allora ordinò agli altri - Mettetela sul triclinio! - indicando il comodo giaciglio - Muovetevi! -
Così fecero. Poi, grazie a dei sali portati prontamente dalle ancelle, ella cominciò a riprendere l'uso della parola.
Anziana, segnata dalla fatica e da un parto che dieci anni prima, talmente era stato innaturale per la sua età, l'aveva piegata nelle forze e nello spirito, ella aveva pregato a lungo che Hylia purificasse la sua anima per una nuova vita con la morte, ma i suoi scongiuri erano sempre rimasti inascoltati.
Il regno di suo marito, Re Daphnes IV, era oramai in decadenza, con la stirpe Hyliana, quella dalla quale la famiglia reale era discesa, estinta e le città del regno brulicanti di ladri, bugiardi e truffatori.
A darle speranza solo dei sogni. Immagini oniriche che negli ultimi tempi avevano portato dei messaggi di vittoria e ricostruzione, vomitati però da un'epoca oscura e mortifera.
La sua Prima Ancella afferrò la sua mano, battendola delicatamente per tentare di risvegliarla dal proprio conscio torpore.
- Mia signora, vi prego, parlatemi! - la implorò.
La Regina sospirò, riprendendo fiato, per poi dire - Il Sacro Reame... il Sacro Reame brilla sopra di noi! -
E svenne, questa volta definitivamente.
 
All'interno della Sala di Corte le Alte Consigliere lanciavano ordini su ordini a guardie ed ancelle. Un numero ancora non stimabile di salme attendevano impazienti di essere arse con onore. Il loro compito era dunque quello di fare in modo che la memoria di chi aveva dato la propria vita per il regno non venisse inghiottita dall'oblio.
I loro sforzi furono interrotti però dai passi svelti e irosi di Nabooru che, sbraitando follemente, entrò nel salone.
- Che cosa avete fatto?! - gridò.
Per Kalooru non ci fu bisogno di una sua specificazione. Tanto che, non dandole troppa importanza, rispose - Quello di cui c'era bisogno! -
Ricolma di rabbia, Nabooru si sentì esplodere - Codarde! - le insultò - Da sola, insieme al popolo, ho affrontato quelle belve assassine, mentre voi permettevate alla feccia di penetrare dentro le mura, di godere dei nostri meriti! -
- E cosa avremmo dovuto fare?! - s'intromise Torja, seguita da Freja - Lasciare che il regno cadesse? Permettere ai Blin di prendere possesso delle nostre ricchezze?! -
- Oh, per lasciarle poi ai predoni, vero? -
Le tre si guardarono annoiate, mentre Yuna invece si teneva in disparte, appoggiata al proprio bastone. Il suo sguardo non osava nemmeno incontrare quello della sua pari, un tempo Reggente Regina. Il suo disdegno e la sua vergogna erano palesi.
Kalooru decise di mettere fine a quella discussione - Il Re ha voluto così e noi siamo stati d'accordo con lui! -
Lo stomaco si attorcigliò nel ventre di Nabooru - Il... il Re?! -
Kalooru annuì sorridendo malignamente - Sarà bene che tu confermi la tua fedeltà quando egli farà ritorno qui. Non credo accetterà di buon grado dei nuovi ostruzionismi... nemmeno dalla sua matrigna! -
Arrabbiata ed addolorata, Nabooru fu incapace di controbattere nuovamente. Annaspando, cercò un giaciglio sul quale sedersi, riprendere fiato. Lo trovò su di un piccolo materasso di paglia, sul quale si lasciò affondare pesantemente.
- Ah! - tornò a parlare la sua pari - E vedi di darti una ripulita! Il Re ci ha fatto sapere dalla sua portavoce come voglia fare visita al Monarca d'Hyrule. Vuole l'Alto Consiglio con sé. Si parte domani stesso! -
Le energie tornarono forti dentro la vecchia ancella del regno. Energie donatele da un'ira funesta.
- Io non verrò! - sbottò infine andandosene.
Kalooru sorrise - Meglio così. Finalmente siederà qualcuno di più degno nella Corte, quando il suo collo penzolerà dal capestro! -
Torja e Freja risero di quella battuta, mentre Yuna, al contrario, se ne andò disgustata, claudicando velocemente sperando nella medesima direzione in cui Nabooru se n'era andata, sperando in cuor suo di raggiungerla. Gli sguardi violenti e disgustati delle sue pari la seguirono finché non fu più visibile.
Fortunatamente per le sue mancanze fisiche, Nabooru non si era allontanata di molto, fermandosi su di uno dei balconi che davano sul campo di battaglia.
- Siamo divenute delle sgualdrine! - disse questa ben consapevole di come Yuna fosse alle sue spalle.
- Che intendi fare? - giunse subito al solo l'altra - Vuoi veramente andartene? Sai bene che un simile affronto potresti pagarlo con l'esilio a vita e con la morte nel caso dovessi tornare! -
- Lo so bene! - l'aggredì Nabooru - Non c'è altra possibilità! Questo non è più il mio mondo! -
- Ne sei sicura? - domandò Yuna facendole notare con un cenno verso alcune guardie in lontananza attirate dalle sue urla che, avvistatola, si erano fermate ad osservarla. Esse poi s'inginocchiarono in direzione sua, rimanendo accucciate un po' troppo a lungo per onorare una semplice consigliera.
Nabooru si sentì confusa.
- Tante cose stanno cambiando, vecchia amica mia! - continuò colei che un tempo era stata una fidata e rispettata annalista - La voce si è già sparsa. Su mio ordine ovviamente! E, da quel che ho capito, il Nuovo Ordine non va di traverso soltanto a te! -
Il tono di Yuna si era fatto assai sfrontato. Nabooru non aveva mai amato i sotterfugi, così seccamente le chiese - Che cosa vuoi dirmi, Yuna? Che cosa stai complottando! -
L'Alta Consigliera sospirò, alzando il dito nei confronti delle guardie ancora prostrate - Non io, ma loro! Nessuno ti chiede di andartene. Tutti ti chiedono di guidare invece il popolo di Gerudo verso la giustizia ed il rispetto della tradizione. Di liberarlo da Re Demone che ora lo comanda col pugno di ferro! -
- Non parlare così di Mand... di Ganondorf! - troneggiò Nabooru.
- Vedi - ribatté ancora Yuna - Nemmeno tu riesci più a chiamarlo col suo nome, perché Mandrag non c'è più! Non so cosa gli sia successo nel deserto, ma le sue ancelle hanno udito strani discorsi nella notte, strani piani che albergano nella sua testa! -
- Ridicolo! Veramente ridicolo! -
Di fronte alla determinazione della sua vecchia amica, Yuna comprese dunque come tutto ciò che era possibile per lei era stato fatto. Appoggiandosi così al suo bastone, lentamente se ne andò, ma prima ancora che le sue deboli gambe potessero imboccare il corridoio dal quale era venuta, la voce di Nabooru raggiunse nuovamente il suo orecchio.
- Nell'archivio. - disse con tono incerto - Prima dell'alba. Vieni tu... e coloro che sono affette dalla tua medesima follia! -
Ella non le rispose. Non ce ne fu bisogno. Zoppicando per il palazzo, rimembrò allora come, tempo prima avesse riflettuto su come l'alba di una nuova epoca fosse prossima. In quel momento invece ebbe la netta sensazione di come, in realtà, si stesse trattando di un triste crepuscolo che, a breve, avrebbe catapultato tutto ciò che amava in una profonda ed oscura notte perenne.
Giunta nel salone, con la sua mano tornò a toccare una delle quattordici colonne e, percorrendo ogni centimetro di quelle splendide costruzioni, disse addio al suo mondo, al suo passato. Tutto sotto gli sguardi pensosi delle altre tre consigliere, ai quali volle immediatamente togliersi, quasi come se essi fossero portatori di chissà quale sventura o flagello.
- Dobbiamo avvertire il nostro Re. Trama qualcosa ne sono sicura! - sussurrò Torja all'orecchio di Kalooru.
- Il Re sa già tutto! - esclamò una donna sconosciuta facendo rimbombare la sua voce per diverse stanze.
Mai gli occhi delle tre consigliere si erano posate su di una simile creatura. Stupenda, esile in vita, ma con seni e fianchi ben delineati, quasi prosperosi, nonostante il colore della sua pelle ed i suoi lineamenti fossero in tutto e per tutto quelli di una Gerudo, la sua bellezza sorpassava di gran lunga quella di qualsiasi altra donna fosse nata all'interno delle tredici tribù. Il suo fascino era ammaliante, in grado di stregare cuori e sensi di qualsiasi essere umano, uomo o donna che fosse. I suoi capelli erano raccolti in due ciocche ai lati della testa, legati da splendidi monili fatti uno di rubino e l'altro di un quarzo particolarmente azzurro, molto vicino al colore del ghiaccio.
Fattasi e lei più vicina, Kalooru le chiese - Chi sei tu? -
La donna sorrise - Io sono Rovan, nuova fidata consigliera di Re Ganondorf il Grande! -
Si fece avanti dunque Freja - Noi... noi non ne sapevamo nulla! - disse ancora inebetita dalla bellezza di colei con cui stava parlando.
- Lo so. Sareste state informate questa sera al gran consiglio, ma il Re è venuto a sapere di un grave tradimento e ha voluto anticipare i tempi, affinché tale male non mettesse radici nel popolo e, ovviamente, nel consiglio! -
A quell'ultima parola le tre rabbrividirono. - Che... che cosa vuole il re? - domandò dunque Torja.
Rovan le accontentò prontamente - Il nostro signore vuole che emettiate una sentenza di morte per la vostra pari, Nabooru! Per Yuna ancora non ne è ancora stato deciso il destino, ma sono  sicura che in poco tempo Re Ganondorf ci guiderà verso una giusta riflessione! Dunque, qual è la vostra risposta? -
Mai risposta fu più semplice da trovare per le tre infide consigliere.
- La faremo impiccare prima che il nuovo sole sorga. Non temere! -
 
Il sole era tramonto da poco sulla capitale di Hyrule, ma il Re e la sua consorte si erano già ritirati anzitempo nelle proprie stanze.
- Un'altra visione, adorata moglie? - fu la prima domanda di Daphnes IV dopo infiniti minuti di puro silenzio.
Leda, sdraiata a peso morto sul morbido materasso del letto, sbuffò.
- Sai bene come non ne ami parlarne! -
Il Re non riuscì a trattenersi - Sai bene che cosa sta accadendo, Leda! - sbottò - A breve riceverò una delegazione da Gerudo, dove probabilmente ci sarà il loro Re! Il loro Re capisci?! Non posso credere che i tuoi sogni e le tue visioni siano solamente una mera coincidenza! -
- Io non ricordo, va bene! - urlò l'anziana Regina, scoppiando poi in lacrime - Lo sai bene! Io vedo delle cose, ma poi esse si cancellano dalla mia mente. Non so il perché e, per questo, ti prego di perdonarmi! -
Daphnes decise di non inveire più. Egli sapeva bene come la moglie fosse incapace di mentirgli ed il suo continuo domandare non avrebbe fatto altro che affaticarla e ferirla.
Le condizioni di lei peggioravano di giorno in giorno da quando quelle strane visioni si erano fatte vive. Il timore di perderla si era tramutato in un vero e proprio incubo per lui.
Così, scortosi a darle un tenero bacio sulla fronte, si infilò sotto le lenzuola e le augurò la buonanotte, mentre Leda si era già chiusa in un enigmatico silenzio, rotto in maniera ritmica solamente dai suoi respiri.
Nel cuore della notte, quando fu infine sicura che Daphnes si fosse addormentato, ella si alzò, uscendo dalla stanza ed andando al piano terra del grande castello, dove si apriva il portale per il Tempio Sacro di Hyrule. Il Tempio del Tempo.
Costruito secondo la leggenda da Rauru, il grande architetto disceso dal cielo in epoca remota, il Tempio del Tempo si credeva fosse in grado di mettere in comunicazione il passato, il presente ed il futuro. La parte più importante di quella costruzione però era il Portale di Hylia, oltre il quale era custodito l'accesso al Sacro Reame, prima creazione delle Divinità e luogo di custodia del loro lascito, la Triforza.
Da così tanto tempo, sempre secondo gli antichi scritti, quel portale non veniva aperto che la popolazione aveva cominciato a perdere fiducia nelle proprie credenze, supponendo come la Triforza non fosse null'altro che una favola.
La Regina toccò la nuda pietra del portale, chiudendo gli occhi ed esprimendo una preghiera alle Divinità. Poi, riaprendo le proprie palpebre, una luce intensa la investì ed ella cadde a terra per mai più rialzarsi.
 
La mezzanotte era già passata da un pezzo, ma Yuna e le sue accolite ancora non erano riuscite a convincere Nabooru nel loro intento.
L'Alta Consigliera però ancora non si era ancora minimamente rassegnata.
- Abbiamo prove, Nabooru! - continuava a dirle - Le nostre spie confermano come la distruzione delle prime tribù fu ordita sotto suo personale ordine. Un complotto! Un inganno per destabilizzare la Corte e l'opinione del popolo! -
- No, no e no! - urlò l'altra - Non posso crederlo. Non posso! Potrei avere tutti i sospetti del mondo, ma forse nemmeno l'evidenza riuscirebbe a convincermi. Mi dispiace! -
Un gran vociare si erse di fronte alle ultime dichiarazioni dell'Alta Consigliera. Alcune la imploravano di cambiare idea, altre invece la insultavano ed invitavano le proprie compagne a non curarsi di lei, di agire anche senza il suo aiuto.
Yuna invece aveva nascosto il volto tra le mani in un momento di raccoglimento. Ovviamente l'ostruzionismo di Nabooru era da lei stato ampiamente previsto, così era stata costretta a portare con sé un'arma di riserva, un asso nella manica del quale avrebbe voluto fare volentieri a meno.
Purtroppo gli eventi la costrinsero a fare altrimenti.
- Perdonami amica mia - le sussurrò dunque - Ma ora te lo devo chiedere. -
- Cosa? - sbuffò Nabooru oramai stanca dopo ore di colloquio.
- Chi è il padre di Ganondorf? -
Le gote della consigliera si colorarono di un rosso vivo. Un profondo imbarazzò la conquistò.
- E... e io come faccio a saperlo? - cercò di evadere da quella situazione.
- So che ne conosci il nome. - non si fece ingannare Yuna - Tu conoscevi ogni aspetto della Regina. Sono più che sicura di come ella ti abbia rivelato il nome del padre di suo figlio! -
- E anche se fosse? Io... io non capisco cosa possa servire, io... -
- Nabooru! - la invitò con condiscendenza Yuna, prendendole dolcemente la mano per cercare di calmarla.
Ella allora cedette. Incrociando le braccia sotto il seno, si accomodò sulla sedia, lasciandosi andare ai ricordi.
- Non l'ho mai visto! - fece subito presente - La Regina lo incontrò al confine con le terre del sud. Un esule. Così mi disse. Un uomo cacciato dalla sua stessa gente a causa di ciò che egli era! -
Tutte si fecero più vicine nel timore di perdersi anche una sola parola di quell'avvincente rivelazione.
- Uno Sheikah. Questo era. Uno stregone di Hyrule che portava il nome di Alash'aker. Molte volte la Regina mi aveva confidato il timore di essere stata vittima di un suo incantesimo, dato che ella, fin dal primo momento, se n'era profondamente innamorata! -
Il suo sguardo tornò a posarsi su Yuna - Adesso mi vuoi dire cosa c'entra in questa storia? -
La risposta giunse soave, ma enigmatica.
- Il Tempio dello Spirito! -
- Cosa? -
- Il Tempio dello Spirito - ripeté dunque, Yuna spiegando di seguito - Prima di diventare Alta Consigliera, come sai Ganondorf mi affidò il compito di studiare a fondo quella costruzione. Se vi ricordate fui io a comprenderne la struttura di complesse camere, labirinti, vicoli ciechi, eccetera! Ebbene, cosa che però non sapete, in quanto fui costretta a celarne il segreto sotto giuramento regale, è che in una di queste stanze ho trovato una fitta scrittura incisa sulle pareti narrante una leggenda antica quanto il mondo. Più antica persino della Guerra Civile Hyruleana! -
Yuna allora presentò alle sue compagne le sue scoperte. Narrò di come, all'interno di quelle antiche iscrizioni, ella aveva tradotto una profezia, fatta da ben sei persone in luoghi diversi nello stesso momento, che aveva previsto come sarebbe sorto un uomo potente, nato dal sangue reale mischiato a quello del mana, un essere che avrebbe piegato luce ed oscurità al suo volere, in grado di uccidere la belva eterna, pagando tale impresa però con la propria trasformazione in una belva egli stesso.
Nabooru esplose in una risata - E per aver ucciso un semplice facocero, mastodontico ed orribile questo è vero, il mio figliastro ora Re di Gerudo si sarebbe trasformato in... in... -
- In un demone? - l'aiutò Yuna, attirandosi addosso lo sguardo malevolo della sua pari.
Silente, Nabooru annuì, abbassando lo sguardo.
- Ovviamente no! - continuò Yuna - Penso però che egli abbia perso sé stesso, permettendo a qualcos'altro di possederlo! Un qualcosa di talmente antico e macabro che il mondo ha preferito dimenticarlo. -
- Credo che tu ti sia già documentata e che stia per informarmi prontamente! - la canzonò.
Yuna si fece a lei più vicina, scostando persino da sé il suo fondamentale bastone.
- Ecco, vedi... -
- Mia signora! - la voce di una delle guardie accorse in quella segreta riunione le interruppe.
- Che succede? - si allarmò Nabooru scattando in piedi.
- La nuova guardia reale sta venendo qui! C'è una taglia sulla tua testa e su quella di Yuna! L'ordine viene dal Re stesso! -
Lo sgomento si disperse nell'archivio. Se non fossero fuggite prontamente, molto probabilmente il loro destino sarebbe stato segnato. Nabooru però continuò a rimanere ferma, immobile. Nessuna riuscì a comprendere cosa le stesse accadendo. Nessuna tranne Yuna.
Costei dunque la abbracciò cingendola da dietro le spalle e le sussurrò - E' ora di andare, mia Regina! -
Poi, con un cenno, ordinò alle altre di trascinarla via, di portarla al sicuro così com'era stato prestabilito.
Quando nella sala dell'archivio non rimase altro che lei, l'ultima guardia attardatasi le urlò - Consigliera, andiamo! -
Yuna non obbedì a quell'implorazione anzi, appoggiato il suo bastone al tavolo, si sedette con tutta calma.
- Che fai? Stanno arrivando! - esclamò l'altra trafelata.
- E che vengano! - le fece cenno con la mano di andarsene - Il mio compito è stato assolto. Proteggetela! Riunite più ribelli possibili! Io non ho più nulla da fare qui o altrove! -
La guardia rimase ansimante ferma ad osservarla stranita per alcuni secondi poi, voltandosi indietro solamente per una volta, quando le voci di coloro che stavano giungendo per catturare le traditrici rimbombarono tra le mura, fuggì in lacrime per quello che stava facendo, per chi stava abbandonando.
Yuna poco dopo vide sfondare la porta dell'archivio senza mezzi termini. Sette donne e tre uomini corpulenti penetrarono nella stanza ringhianti.
- Consigliera! - disse una di loro - Ho l'ordine di arrestarti e di portarti al cospetto del nostro Re! -
Domandò poi, guardandosi attorno - Dov'è Nabooru? Dov'è la tua pari? -
Yuna sorrise - La mia pari? Non conosco nessuna Nabooru che sia mia pari, ma solamente una Nabooru nostra regina! -
Senza dire alcunché, essi la presero con la forza, le legarono le mani e la trascinarono, incuranti del fatto che fosse incapace di camminare senza un appoggio, su per lunghe scale.
All'alba, ella spirò con il cappio attorno al suo collo di fronte alla folla riunita della Città, ma non davanti agli occhi del Tredicesimo Patriarca. 

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Capitolo 8
*** Il Seme del Tradimento ***


A dispetto delle difficoltà presenti tra le dune del deserto, il tragitto verso Hyrule, una volta attraversata la Gola di Bersek, un burrone profondo 150 piedi che terminava nel letto di un fiume parzialmente prosciugato, era più simile ad una passeggiata per un abitante delle sabbie. Nonostante ciò, al loro secondo giorno di viaggio, Re Ganondorf, in testa alla sua carovana composta dal suo Consiglio, più una decina di guerriere di scorta, procedeva lento e pensoso, assorto in una riflessione talmente profonda da rendere il suo volto arcigno ed oscuro.
Nessuna delle consigliere aveva osato per l'intera giornata rivolgergli la parola, temendo di incorrere nella sua ira ed impazienza. Solamente Rovan cavalcava, seppur anch'essa silente, sfoggiando un volto sereno, quasi gioioso, soddisfatto.
Purtroppo per loro, non fu lei ad essere convocata per prima.
- Kalooru! - chiamò infatti ad un tratto il Re senza nemmeno voltarsi.
Trangugiando un pesante boccone di saliva, la Consigliera scalciò con il tacco il ventre del suo cavallo, obbligando ad accelerare.
Giunta al suo fianco, il coraggio di guardarlo solamente in volto le mancò fin dal primo istante, ma Ganondorf non ebbe la minima pietà e subito si rivolse a lei con tono duro.
- Dimmi! - principiò - Hai provato piacere nel vedere una tua pari penzolare sulla forca? -
Kalooru trovò immense difficoltà nel trovare la giusta risposta. Che si trattasse di una domanda celante un'insidia?
- Allora! - ringhiò il suo signore.
- Ho pregato per lei... - titubò dunque tremando - L'ho condannata con gioia perché ti aveva tradito, ma con la sua morte le ho conferito il perdono! -
Ganondorf mugugnò allora qualcosa d'incomprensibile, dicendo in seguito - Ottima risposta! Ottima! Avete fatto un buon lavoro! -
La Consigliera si lasciò andare ad un lungo sospiro di sollievo, motivato ancor di più poi dal gesto secco del Re che le indicava di tornare al suo posto dietro di lui.
Giunse così il turno di Rovan, la quale più che avvicinarsi, trotterellò gaiamente al fianco del proprio signore.
Rivolti avanti, i loro sguardi potevano ammirare uno spettacolo mai visto da  quasi ogni Gerudo della loro generazione. Campi verdeggianti, alberi da frutto a perdita d'occhio e rivoli d'acqua che si facevano sempre più grandi, divenendo impetuosi fiumi di acqua dolce e fresca.
- Meraviglioso, vero? - Rovan fu la prima a parlare - Sarebbe bello avere almeno un piccolo appezzamento di una simile ricchezza nel nostro regno! -
- Il mio regno! - sibilò seccamente Ganondorf - Non te lo dimenticare! -
Il sorriso della nuova consigliera fresca di nomina evaporò in un batter d'occhio.
Chinò il capo - Sempre mio signore! -
Fu allora che la voce di Ganondorf si fece violenta ed irata - Davvero?! Non mi è sembrato quando sono venuto a sapere di come una consigliera del reame fosse stata condannata a morte senza il mio consenso! -
- Dovevamo agire in fretta. Evitare una rivolta! - cercò di spiegarsi l'affascinante Rovan.
- Sempre che l'impiccagione non abbia fatto altro che alimentarne una già in atto! -
Ella, compreso come ogni sua parola gli si sarebbe ritorta contro costantemente, decise di starsene zitta.
Dietro di loro, anche se ancora non erano entrate in piena sintonia con la loro nuova pari, temerono per lei.
Dopo una breve pausa però il Re le disse - Che non accada mai più! -
Rovan annuì e s'inchinò brevemente, retrocedendo lentamente, ma prima che ella fosse tornata a fianco delle altre membri della corte, la voce di Ganondorf la ammonì per un'ultima volta. Un avvertimento rigido e privo di dubbio.
- Se solo sospetterò che una sola delle tue dita possa torcerle un capello, sappi che te lo strapperò senza alcun indugio! Lascia stare mia madre! A lei penserò io stesso! -
Tornato nella propria solitudine alzò dunque il suo sguardo verso gli ultimi colli rocciosi che ancora ricordavano la durezza della sua terra. Egli guardò lassù, da dove l'odore di Nabooru era riuscito a raggiungerlo fin lì.
 
Kitrel afferrò una spalla della sua nuova guida.
- Ti vedranno! -
Nabooru scansò violentemente la presa della Maestra d'Armi. Il suo cuore era addolorato. I suoi occhi dovevano vedere. Per quanto l'evidenza di come fosse cambiato quello che un tempo era stato il figlio a lei affidato fosse palese persino ai suoi, ancora ella si rifiutava di credere alle storie e strampalate teorie che ora lo vedevano nelle vesti di un aguzzino spietato, se non addirittura un demone incarnato.
Di ben altra idea erano ovviamente colei che l'avevano seguita anzi, che l'avevano rieletta nuovamente Regina di Gerudo, sebbene in maniera clandestina.
Esse discutevano infatti animatamente, seppur a voce bassa. Alcune aizzavano alla cattura del Re e dell'intera corte. Altre addirittura spingevano al massacro totale.
- Dobbiamo aspettare che la notte cali! - disse una - Quando si fermeranno per riposare, li coglieremo di sorpresa e taglieremo loro la gola! -
Con gli occhi spalancati, Nabooru si voltò in sua direzione costernata.
- Prego che le mie orecchie mi abbiano tirato un brutto scherzo! - esclamò. La guardia che aveva parlato abbassò lo sguardo, mantenendolo comunque duro e convinto sulla sua posizione.
Intervenne allora Kitrel - Devi prendere una decisione, Nabooru! Non possiamo farci scappare questa occasione! -
- Lo so bene! - l'aggredì - Ma non è spargendo sangue che risolveremo le cose. -
- E come, allora? - le domandarono alcune.
Ella si sedette accanto a loro, dando uno sguardo al cielo che lentamente andava con l'imbrunirsi. Rifletté qualche istante.
Poi, disse - Andrò io. Quando si saranno accampati! -
- Il campo sarà sorvegliato. Non sarà facile, non disarmata! - notò Kitrel.
Nabooru estrasse allora un pugnale lama corta.
- E chi dice che sarò disarmata? -
 
Una notte senza luna piovve sull'accampamento prima ancora che i suoi occupanti potessero accorgersene.
Stanche, sconvolte dalla nuova situazione ed impaurite dall'atteggiamento che il loro Re negli ultimi tempi aveva assunto, le Alte Consigliere Torja, Freja e Kalooru si addormentarono velocemente, condividendo la medesima tenda.
Non più appariscente delle altre, al centro del campo sostava la tenda di Ganondorf, sorvegliata da due guardie armate fino ai denti.
Un silenzio tombale dominava il posto. Gli unici rumori che ogni tanto si udivano erano il più delle volte generati dalle voci dei grilli, animaletti notturni quasi totalmente sconosciuti alle abitanti del deserto.
Poca luce e membra stanche. L'occasione ideale per un qualsiasi intruso per infilarsi all'insaputa di tutti all'interno dell'accampamento. Nabooru non se la lasciò scappare.
Seguita dal suo piccolo manipolo di fedelissime, ella aveva infine deciso di proseguire da sola una volta avvicinatasi alle tende. L'aria della notte era fresca, ma non gelida come quella del deserto. Per quanto fosse tesa per la concitazione, per qualche istante godette di quella splendida sensazione sulla sua pelle, concentrandosi soprattutto sul fatto che nell'aria non vi era la benché minima traccia di polveri o sabbie in grado di ferirle i polmoni.
"Un ottimo posto dove invecchiare!" pensò tra sé, non perdendo mai la propria concentrazione ed utilizzando quelle distrazioni per tenere a bada le proprie emozioni.
Accucciata dietro una delle tende, attese che la ronda, stranamente composta da una singola vedetta, attraversasse l'unico corridoio dal quale si poteva giungere al giaciglio reale.
Fortunatamente, assonnata e decisamente poco lucida, la guardia attraversò quello spazio senza notare la sagoma di Nabooru che, oramai di fronte ad una strada sgombra e libera, stranamente tardò a muoversi, facendo spazientire le sue fedeli seguaci che, a distanza di sicurezza, ne stavano osservando ogni movimento.
Notando la sua incertezza, alcune si chiesero se, per caso, la loro Regina fresca di nomina, per quel che riguardava loro, avesse scoperto un ennesimo ostacolo fino a quel momento celato ai loro occhi o se, più semplicemente, se i suoi costanti ripensamenti l'avessero portata per l'ennesima volta sul baratro del dubbio.
Purtroppo per loro, la seconda ipotesi era proprio ciò che si era trovata ad affrontare Nabooru che, potendo vedere con chiarezza nonostante l'oscurità la tenda dove stava dormendo Ganondorf, si pose una domanda che fino a quel momento era rimasta dispersa nel miasma dei suoi pensieri e della sua confusione.
Una volta giunta al cospetto del corpo dormiente di suoi figlio, cosa avrebbe fatto? Fino a quel momento si era più volte mentita , dicendosi come sarebbe riuscita a tramortirlo, bloccarlo, legarlo, renderlo inoffensivo in qualsiasi maniera per permettere alle sue accolite di prendere il controllo del campo senza torcergli un capello. Mai si era soffermata a pensare di come Ganondorf non fosse più il Mandrag fanciullo e rinsecchito che in molti duelli con le maestre di lotta finiva il più delle volte col sedere per terra. Perfino le sue oramai rinomate capacità magiche le erano, chissà per quale strana ragione, sfuggite completamente di testa. Fu solo allora che quindi si ricordò di come il Re di Gerudo, colui che aveva amato e cresciuto come se fosse stato veramente figlio suo, era un uomo possente e pericoloso, in grado di mettere paura alla belva più feroce e di rivalere con almeno cinque guerrieri lanciatisi contro all'unisono. Un uomo che aveva sgominato alla guida di un piccolo manipolo di predoni un immenso ed in apparenza infinito esercito di Blin, predatori delle dune.
Inconsciamente la sua mano calò a stringere l'impugnatura della lama che si era portata con sé. Un pensiero la sfiorò, ma con forza ella lo ricacciò via da sé.
Non poteva farlo. Come agire allora? Ganondorf era giovane e nel pieno della sua maturità, lei invece era in là con gli anni, la giovinezza l'aveva abbandonata da tempo e le forze in parte si erano allontanate da lei. Il Re non si sarebbe mai arreso e, nonostante si sarebbe trovato di fronte la sua madre adottiva, egli avrebbe combattuto, come giusto, per non permettere a nessuno di prenderlo in ostaggio.
Le membra di Nabooru si afflosciarono d'improvviso. Ciò che stava per fare era giusto? Veramente ella aveva perso fiducia e speranza in colui cui molte, un intero regno per essere precisi, avevano affidato la propria? E se si fosse lasciata prendere da timori immotivati, seguendo discorsi folli di puritane ribelli troppo attaccate alle tradizioni?
Contro ogni previsione si trovò sul punto di mollare, di tornare indietro, magari di andarsene persino in esilio senza dire nulla a nessuno. Chissà, magari sarebbe andata ad est, dove le antiche mappe custodite nell'archivio segnalavano cascate impetuose alimentanti cristallini corsi d'acqua dove le leggende narravano di uomini pesci in grado di respirare sott'acqua? Forse sarebbe invecchiata là, in un mondo fertile e totalmente diverso dal suo di origine. Forse avrebbe anche incontrato un qualcuno con cui vivere gli ultimi decenni della sua vita, avere dei figli suoi se natura ancora le avrebbe concesso.
  •  
Poi, il pensiero di Yuna, una vecchia amica che l'aveva più volte difesa quando si trovava ancora sul trono di Reggente, una fidata alleata penzolare appesa per una corda attorno al collo, tramutò ogni sua fantasia in un incubo.
"L'ordine giunge dal Re" quelle parole risuonarono forti nella sua memoria.
"Come hai potuto, Mandrag!" pianse dentro di sé, tornando a palpare l'elsa intarsiata del pugnale "Quante volte sei corso festante da Yuna a chiederle di raccontarti una storia? Quante volte ti sei messo sulle sue deboli ginocchia ascoltandola ammaliato? Come hai potuto ucciderla così, senza nemmeno udirla, sentire le sue ragioni?"
Negli anfratti della sua tristezza cominciò a sorgere una rabbia malsana. Tutto ciò però le avrebbe dato la forza di fare ciò che mai avrebbe desiderato? No, la risposta fu certa.
La spalla, in tutto quel nervosismo, cominciò a dolerle. Una vecchia ferita di guerra che si era rimarginata a fatica. A volte, durante le notti più fredde, dolori lancinanti  la colpivano non permettendole di dormire, costringendola a fare uso di una pianta medicinale sciolta in acqua rattrappita che esalava fumi stordenti, in grado di lenire le sue sofferenze.
Se ne portava sempre una boccetta con sé...
I suoi occhi si spalancarono.
"Ma certo!" pensò all'improvviso "C'è ancora un'alternativa..."
I suoi ricordi erano piombati a diversi anni prima, quando le guaritrici del regno le avevano fatto conoscere quella pianta chiamata Nors. A quando, non ascoltando le indicazioni delle esperte, colta da un dolore troppo forte per riuscire a pensare in maniera lucida, aveva aspirato una dose eccessiva di fumi, piombando in un sonno lungo tre giorni, dal quale rischiò addirittura di non risvegliarsi.
Rilucente di una nuova speranza, sgattaiolò per il corridoio delimitato a destra e a manca dalle tende delle guardie. Senza far alcun rumore, aggirò poi la stoffa di quella del Re, stando ben attenta a non attirare l'attenzione delle due guardie poste davanti all'entrata.
Sperando che nessuno avesse udito i leggeri movimenti del suo corpo ancora esile ed agile, estrasse la boccetta di Nors che sempre si portava con sé legata con uno spago alla fondina del pugnale. Strappatasi un lembo di veste, la imbevette di pozione vuotando completamente la boccetta. I fumi erano talmente forti che i suoi sensi si annebbiarono da subito.
Stando attenta a non assuefarsi, estrasse poi il pugnale conficcandolo nella stoffa della tenda, strappandola delicatamente. Il corpo disteso ed addormentato del Re si fece già visibile ai suoi occhi.
Balzò all'interno, rotolando su sé stessa per attutire la sua caduta sul terreno. Nessuno si mosse. Tutto rimase come prima. Ella non era stata udita.
Carponi si accostò al corpo di Ganondorf, tenendo il fazzoletto impregnato ben stretto nella sua mano. Il suo torace si gonfiava e si sgonfiava ritmicamente.
Osservarlo dormire era surreale. Il suo volto solitamente sempre segnato dalla serietà che si addice ai reali, in quel momento pareva comporsi di una pace perpetua. Nel sonno, ancora qualcosa del suo passato infantile continuava a permanere in lui, come se la parte più luminosa di lui fosse stata conquistata dall'ombra, senza però da questa esserne distrutta.
Nabooru digrignò i denti cercando di dare alla sua mano la forza necessaria per portare a termine il proprio compito, ma così facendo, inavvertitamente, dalla sua gola fuoriuscì come un mugugno.
Le palpebre del Re si aprirono lentamente, mentre le sue pupille, al contrario, s'indirizzarono in uno scatto su di lei.
- Tu... - sussurrò inebetito Ganondorf.
Nabooru lo guardò tristemente.
- Mi dispiace! - e la sua mano cadde pesantemente sulla sua bocca chiudendone anche il naso.
Non ci volle molto. La resistenza fu meno che vana. La dose di pozione assorbita dalla stoffa esalava una dosa talmente ingenti di fumi soporiferi che il Re cadde in un coma profondo dopo nemmeno qualche suo breve respiro.
La pozione aveva agito in fretta. I polmoni rallentarono i loro respiri. Il cuore divenne pressoché impercettibile al tatto.
Indifeso ed immobilizzato, Ganondorf non sarebbe più stato una minaccia almeno per qualche ora, forse perfino qualche giorno. Ciò però non significava che la parte più difficile del piano fosse terminata lì.
Uscita dal pertugio che lei stessa si era creata, portandosi due dita alle labbra fece riecheggiare un perentorio fischio in direzione delle sue alleate. Per Kitrel non ci fu bisogno di alcuna indicazione per decidere. Il suo urlo scatenò le poche, ma furenti guardie che avevano deciso d'intraprendere quella spedizione disperata.
Colta alla sprovvista, la guardia di Ganondorf , stanca per il lungo viaggio e per la mancanza di sonno, non ebbe nemmeno il tempo di prendere posizione che subito le sue assalitrici stesero, alcune perfino uccisero, una dopo l'altra coloro che fino a qualche giorno prima erano stimate compagne di vita e di camerata.
In breve avrebbero preso il controllo della situazione, preso in ostaggio la Corte per riportarla indietro alla Città di Arenaria. Già alcune di loro degustavano il sapore della rivalsa, il ritorno alla tradizione e la fine di un regno nato sotto il segno del sangue e della rivoluzione, seppur silenziosa ed accettata.
Nabooru osservava i loro volti. Concepiva il loro stesso fervore, le loro spinte emozioni.
Alcune di loro avevano già ghermito e legato le quattro Alte Consigliere. A lunghe falcate ella decise di raggiungerle e di esprimere loro ogni singolo aspetto del loro piano.
Quando però ella si fece loro prossima, i suoi occhi videro come i loro corpi, le loro bocche spalancate ed i loro occhi si erano come immobilizzati. Alleate e nemiche, guerriere e politiche, parevano essere caduti in una sorta di sonno vegliardo, uno stato di congelamento che non permetteva loro di muoversi, parlare e forse nemmeno pensare.
Solo poco più tardi Nabooru si accorse di come, non solamente coloro che come lei erano lì presenti, ma anche lo spazio circostante, i piccoli animali e la forza del vento, si erano arrestati, vittima di una stregoneria che, lo comprese immediatamente, non poteva giungere che da un'unica mano; quella di Ganondorf.
- Affinché tu non diventa vittima del tuo stesso regno, devi diventare immune a qualsiasi veleno, droga e pozione che possa annebbiare la tua mente ed uccidere il tuo corpo! -
Puntuale giunse infatti la sua voce. Ella si voltò verso la tenda oramai vuota, sovrastata dal possente Re di Gerudo vestito della sua nera armatura.
- Ricordi? - le domandò - Fu una delle tue prime lezioni. Una delle poche che ascoltai attentamente e che decisi di mettere in pratica fin da bambino! Non c'è ora nessuna sostanza che cresca o venga coltivata nel deserto di cui non sia assuefatto. Nors compreso! -
Togliendosi un bracciale mostrò dunque numerosi morsi di serpente e reazioni a piante urticanti.
Arresasi all'evidenza dei fatti, la sua madre adottiva puntò il dito contro le statue di carne immobilizzate.
- Sei... sei stato tu? -
Ganondorf annuì sorridente.
- Come? Te... te lo hanno insegnato le due streghe? -
- Ci sono cose che nemmeno loro riuscirebbero a fare... che forse nemmeno conoscono! - affermò l'altro orgogliosamente - Esse mi hanno insegnato ad utilizzare le mie capacità per piegare lo spazio al mio volere, ma vi sono altre vie per il Mana. Vie antiche e potenti, in grado di piegare anche il tessuto del tempo! Ogni volta che lo faccio ogni mia energia decade velocemente, costringendomi a riposare per diversi minuti, a volte persino ore. Però ho trovato giusto rischiare ora, anche se solo per farci una chiacchierata dopo tanto, tantissimo tempo! -
- E di cosa vorresti parlare... di Yuna? Dei profani entrati anzi, fatti entrare festanti tra i nostri confini? -
- Tu vedi le cose da un punto di vista sbagliato, madre! - le rispose Ganondorf con un tono troppo accondiscendente per il suo stile - Profani entrati tra le nostre mura? Se non sbaglio è stato grazie al loro aiuto che abbiamo sgominato i Blin! -
Nabooru sentì il sangue ribollirle nelle vene - Un esercito di belve assoldato da tu stesso per distruggere le nostre tribù! -
Il Re scattò azzerando la distanza che li divideva in meno di un istante.
- Chiami ancora nostre tribù mere accozzaglie di traditrici che avrebbero fatto di tutto pur di sventrarti? Quello che ho fatto è stato semplicemente portare l'ordine in un regno oramai allo sfascio, disseminato dalla zizzania e della sete di potere, dalla cupidigia! -
Tutt'altro che impressionata dalla sua stazza svettante, Nabooru allora gli disse ancora - Per questo hai ucciso Yuna! -
Ganondorf fu sul punto di dirle la verità, di affermare la propria estraneità ad una esecuzione che nemmeno aveva pianificato nella propria mente. Si accorse però allora di come egli stesso fosse stato ingenuo. Egli sapeva con esattezza chi aveva fatto passare quell'ordine sotto il suo nome, di come il suo potere fosse stato facilmente scavalcato sotto il suo naso.
Che cosa avrebbe comportato lo scagionarsi, anche se di fronte alla sua stessa madre adottiva? Perdere così la propria credibilità, far comprendere come egli non fosse veramente nel pieno controllo delle proprie azioni, dei fatti avvenuti all'interno dei suoi domini?
Dopo molto tempo, sentì una strana fitta fargli sussultare il cuore. Il dolore sordo dello sconforto.
- Yuna... - sussurrò - Yuna mi ha tradito! Ha tradito tutti noi! -
- Lei ti voleva bene e tu... -
- Lei ha cercato di detronizzarmi, di riportare il regno nel caos! - la fermò in un urlo, in realtà addolorato dalle sue stesse menzogne - Che cosa sarebbe accaduto se il suo piano fosse giunto in porto? Te lo dico io! Ci sarebbe stata una guerra civile. Le tribù si sarebbero rivoltate l'una contro l'altra ancora una volta e chi infine avrebbe vinto si sarebbe ritrovata facile preda dei predatori delle dune! -
Nabooru si scostò da lui in lacrime nel ricordo dell'amica scomparsa, ma soprattutto perché ella era stata sua complice e ciò stava a significare che anch'ella, prima o poi, probabilmente sarebbe finita vittima del figlio divenuto un mostro, un dittatore.
Ganondorf allungò il braccio sperando che Nabooru potesse afferrargli la mano.
- Vieni con me, madre! Sii tu la mia Maestra d'Armi, il mio braccio destro contro questa inutile e stupida sommossa! -
Ella invece sussurrò - Il suo piano... -
I suoi occhi arrossati si elevarono verso quelli del Re - Non era il suo piano! - disse con voce nuovamente ferma - Era il nostro! -
Così come il tempo e lo spazio, anche i respiri di Ganondorf d'improvviso si era fermati. La sua mente si oscurò. Le sue percezioni si allargarono, lasciando emergere un qualcosa che da tempo albergava dentro di lui, permettendogli di spezzare le proprie catene.
Gli eventi tornarono a scorrere imperterriti. Le guerriere erano tornare a scambiarsi colpi su colpi, mentre le alte consigliere si dimenavano urlanti legate alle proprie aguzzine.
Fu questione di un attimo. Con semplici gesti delle braccia lanciati nel vuoto, le alleate di Nabooru furono sballottate con violenza al terreno, sconquassate da fendenti invisibili. Il loro sangue scorse velocemente sul terreno. A mano a mano ognuna finiva vittima della sua stregoneria letale. Anche Kitrel, nonostante un vano tentativo di difendersi, infine si trovò trafitta dalla sua stessa sciabola strappatale di mano.
Nabooru non poté fare altro che ad assistere a quel massacro, il che portò i propri sentimenti ad ottenebrarsi, lasciando per la prima volta dopo molti anni che il suo desiderio di vendetta fluisse copioso tra le sue emozioni.
Completamente dimenticatasi di ogni suo dubbio ed ogni suo attaccamento, ella estrasse il pugnale dalla fondina legata alla cinta, sguainandola in un grido strozzato nei confronti di Ganondorf, di Mandrag suo figlio.
Costui osservò la scena in ogni suo singolo particolare. I suoi occhi avevano perso il loro colore naturale, facendo spazio ad un giallo malaticcio e colmo di rancore. La sua bocca piegata in un ghigno macabro, con i denti digrignati e lasciati in bella mostra. Un volto orribile, irriconoscibile a chiunque.
La sua mano si aprì. Nabooru, accecata dall'ira, non ebbe nemmeno il tempo di accorgersene. Ciò avvenne infatti solamente quando, nonostante ogni suo muscolo e tendine fosse lanciato verso il suo bersaglio vivente, il suo corpo smise di avanzare e cominciò a retrocedere come attirato da una forza sconosciuta. Confusa, ella voltò indietro il proprio sguardo, il quale fu inghiottito da un vortice oscuro, il cui fondo o destinazione le furono ignoti.
Incapace di divincolarsi da quel poter attrattivo invisibile, ella fu divorata da quel varco apparso nel vuoto che poco dopo si richiuse in un lampo di tenebra.
Gli occhi di Ganondorf si rivolsero verso l'alto. Le forze gli mancarono, sentendosi svenire. I suoi sensi però rimasero lucidi o, almeno, in parte. Con le consigliere ancora stordite e tremanti per gli ultimi eventi accaduti, solo Rovan, apparentemente illesa e quasi compiaciuta dallo spettacolo che si parava di fronte, accorse in suo aiuto, senza però mostrar alcuna fretta nelle sue movenze. Solo allora, la sconosciuta Alta Consigliera fresca di nomina rivelò la vera identità. Anzi, le sue identità.
Trasfiguratasi in un groviglio di carni e ossa sparpagliate, dal suo corpo perfetto si rigenerarono le figure di Kotake e Koume, le due streghe maestre d'infanzia del Re.
Costui, poggiato a fatica su una delle sue ginocchia, sussurrò loro - Stavo... stavo per ucciderla! -
Kotake gli appoggiò una mano su di una spalla, cercando di percepirne il Mana.
- Sei molto debole, Patriarca! - esclamò poi - I varchi di passaggio non sono facili da generare! Dove l'hai spedita? -
Trafelato, egli tornò in posizione eretta, rispondendole - Dove nessuno potrà nuocerle e... dove ella non potrà fare altro che pensare ai suoi errori! -
Ripeté poi - Ma stavo per ucciderla... o meglio, quella cosa dentro di me stava per farlo! Sta tornando all'attacco! Sta cercando di prendere il contro del mio corpo... della mia mente! -
I suoi occhi imploranti di aiuto si posarono sulle due streghe.
- Non ti resta molto tempo, mio Signore! - disse Koume - Il Demone che si è impossessato di te è forte, è antico, ancestrale! Sai bene cosa devi fare. La tua unica speranza di salvezza! -
Annuendo lievemente con il capo, la mente indebolita di Ganondorf fu vittima dei propri ricordi.
 
- Ne siete sicure? -
La voce di Ganondorf aveva risuonato nelle intense vibrazioni della paura.
- Non c'è altra spiegazione! - confermò Koume - I nostri oracoli non hanno mai preso un abbaglio! -
Il Re si lasciò cadere sul trono che da più di un anno si era guadagnato con diritto, scosso e terrorizzato.
- Che cos'è con esattezza? -
- Uno spirito errante - si fece avanti Kotake - Nel deserto ce ne sono molti. Alcuni docili ed inermi, altri invece molto pericolosi ed affamati di anime... perché questo fanno: s'impossessano di un corpo per divorarne lo spirito e, come sappiamo, la tua è talmente ricolma di Mana che attirerebbe qualsiasi di queste emanazioni! -
- Probabilmente lo spirito di Ganon, un suo frammento, era rimasto ancorato al Medaglione. Non appena lo hai afferrato, esso è passato dentro di te! -
Per quanto incredibile al solo udire, Ganondorf dentro di sé non poté che confermare una simile pazzia. Erano i suoi sensi ed i suoi sentimenti a dirglielo. Era quello che sentiva dentro, nascosto da qualche parte negli anfratti del suo spirito. Un parassita che strisciava nei suoi lembi, nutrendosi delle sue energie, del suo corpo, in una crescita costante che ogni giorno non faceva che soffocarlo sempre più.
Ben sapendo che la risposta non gli sarebbe piaciuta per niente, si trovò comunque a chiedere - Che cosa posso fare per... -
- Per estirparlo? - lo anticipò Kotake - Nulla. Non esiste niente in questo mondo che possa salvarti. Il potere di questo essere, di questo parassita, va al di là persino del nostro! Non sappiamo chi o cosa sia con esattezza, ma Ganon dentro di sé ospitava un potere decisamente più terrificante persino del suo stesso aspetto. -
Fu come una coltellata al cuore per Ganondorf. Di tutte le possibilità più orride che la sua mente si era trovata ad infliggersi, quella di essere un malato terminale, con un tempo già determinato che ogni giorno si assottigliava sempre di più, decisamente gli era sfuggita o, intelligentemente, l'aveva evitata.
Improvvisamente, nella sua disperazione, Kotake tornò a farsi sentire.
- Se però esistesse un rimedio... come dire... esterno al nostro mondo? -
Spalancando gli occhi, il Re si voltò verso di lei - Che intendi dire? -
- Credo che tu abbia già capito il fine del mio discorso. La Triforza, Ganondorf! Il Lascito Divino! L'oggetto fatto di puro Mana che le Dee donarono al mondo, in grado di dare un infinito potere al suo possessore, in grado di esaudire il suo desiderio più grande! -
- Avevate detto che era solo una leggenda! - sbottò il Re già incredulo.
- Forse... - rispose Koume - Ma se così non fosse? -
Scocciato dal fatto che il suo destino in quel momento fosse appeso ad una mera fantasia, ad un mito, Ganondorf non riuscì a desistere dall'ascoltare.
- Più il tuo Dominio si allarga, più scopriamo manufatti e lasciti ancestrali. Tutti indirizzano verso un'unica cosa: la Triforza! - spiegò Kotake - Se essa esistesse veramente, solo in luogo si potrebbe ritrovare: nel Sacro Reame. Il primo luogo che le Dee crearono e nel quale i primi esseri viventi passarono la loro infanzia, per poi esserne per sempre divisi a causa della loro cupidigia e sete di potere! -
Sbuffando, il re annuì - I Contrabbandieri Oscuri! Ho capito di cosa stai parlando... -
Rivoltosi alla luce del sole crepuscolare che lentamente andava scemando dall'alto e largo finestrone che sostava su una delle pareti della Sala di Corte. Egli si immedesimò in essa. Da poco era divenuto il Re del suo Regno, riportando l'ordine e la giustizia, sebbene a modo suo e con enormi sacrifici. Quanto tempo sarebbe però durato? In quanto tempo la cosa che si era impossessato di lui lo avrebbe completamente conquistato?
Le due streghe lo affiancarono, sibilandogli - Ciò che hai dentro non ti ucciderà! Farà peggio. Estirperà e consumerà il tuo spirito e tu non esisterai più. Per quanto sia un mito, nostro signore, devi tentare perché null'altro sarà in grado di salvarti! -
- E il mio Regno? - chiese lui - Tanti sono i problemi da risolvere e molte le ribellioni da sedare! Ci vorranno anni per riuscire a sistemare i miei domini ed ogni mio singolo minuto speso per tale causa! -
- Non se decidi di inasprire i tuoi metodi, far conoscere la tua durezza. Non sarebbe la prima volta e in molte comprenderebbero! - lo consigliò Kotake.
- E coloro che invece non la farebbero? - domandò Ganondorf innalzando un sopracciglio.
- Beh... - continuò la strega - Vorrà dire che conosceranno cosa significa mettersi contro il Re di Gerudo! -
Il tredicesimo patriarca attese qualche secondo, prendendosi una pausa di riflessione. I suoi occhi seguirono l'ultimo spicchio di sole oscurarsi ad occidente, consegnando il cielo ed il suo regno all'abbraccio della notte.
Infine, prese la sua decisione e domandò - Che cosa mi potete dire del Regno di Hyrule? -
 
Il feretro bianco, intonso di fiori profumati e scritte provenienti da ogni singolo suddito fedele alla Regina, percorse il lungo vialone che dal castello della cittadella conduceva al borgo ed infine alla zona meridionale della città, al di fuori delle mura, dove un'enorme pira funeraria era stata accatastata dai sacerdoti.
Triste in volto, ma privo di lacrime, Re Daphnes accompagnò per un'ultima volta quella che era stata una degna e fedele sposa, amata da tutti in particolare da lui. Al suo fianco, la piccola figlia Zelda, indossante una lunga veste nera ed un diadema di diamanti che incorniciava il suo capo dorato facendone risaltare le orecchie affilate.
Urla di dolore e grida di tristezza riecheggiavano tra le sterminate fila di sudditi, mentre il plotone di ancelle reali cospargeva dietro al feretro petali di Keanos, una rosa blu tipica della Piana di Hyrule, la preferita dalla Regina, intonando una nenia di addio.
L'intero esercito, o quello che ne era rimasto, era stato richiamato da ogni zona del Regno e vestito in divisa cerimoniale, con alabarde e scudi abbassati, nonché con le bandiere della famiglia reale abbassate a mezz'asta.
Nessuno aveva deciso di mancare ad un appuntamento che aveva aperto una grossa breccia nel cuore di tutti. Pochi tra loro però, in particolare all'interno della corte più ristretta del Re, non avevano avuto il tempo di metabolizzare il lutto, dato che erano stati insigniti di un compito assai importante ed epocale. Il più noto ed importante tra di essi era di certo il Lord Ciambellano, Mynard, il quale si era visto assegnare decisamente la parte più gravosa di tale compito: ottenere informazioni su colui che, l'indomani, avrebbe chiesto udienza al Re di Hyrule. Il tredicesimo patriarca di Gerudo, Ganondorf di Dragmire.
Hyrule e Gerudo non avevano più avuto contatti da ben nove secoli, quando un disperato tentativo di riunione era finito in un disastroso fallimento che per poco non aveva fatto esplodere una nuova guerra sui verdi prati della Piana.
La richiesta d'aiuto proveniente del deserto era stata accolta con immensa sorpresa dalla corte e dal loro Regnante, ma quasi inaspettatamente il loro assenso era giunto celere e convinto. In realtà, per quanto nella popolazione, alla notizia che buona parte dell'esercito era stato mandato in aiuto di un popolo lontano e dimenticato lasciando sguarnite numerose regioni, si fosse posta ansiose domande in merito a ciò, all'interno della nobiltà invece nessun dubbio si era presentato, cancellato da una gelida certezza condivisa da tutti. In poco tempo, Hyrule avrebbe perso ogni cosa. L'esercito era in rovina, composto per lo più da anziani ufficiali e soldati poco addestrati. Città e villaggi erano oramai preda di furfanti e ladroni. I campi si erano fatti sempre più improduttivi, uccisi dal gelo durante l'inverno, dilaniati dalle locuste in primavera ed estate. I rapporti commerciali con le altre popolazioni si erano estinti decenni e decenni prima, portando così sempre più il popolo sull'orlo dell'inedia e della disperazione.
Senza un aiuto esterno, come sarebbe potuto sopravvivere il Regno?
Nonostante tutto ciò, questo non stava a significare che il riallacciare dei rapporti diplomatici con le Gerudo andasse giù al Re ed ai suoi fedelissimi. Tutti infatti conoscevano il carattere indomito del popolo delle guerriere del deserto e sapevano bene come da loro avrebbero ottenuto qualcosa solamente elargendo enormi sacrifici.
Per questo Re Daphnes IV aveva messo in allarme le poche rimaste tra le sue spie, nonché il capo del suo governo, il Lord Ciambellano, affinché si potesse conoscere qualcosa di più su i loro nuovi, possibili, alleati.
Voci dal nord avevano portato strani racconti, di come le tribù delle Gerudo, unite, ma in realtà da sempre divise da una rivalità interna, avevano giurato fedeltà al Trono sotto un'unica bandiera ed un'unica voce. Che cosa aveva portato quelle donne talmente amanti dell'indipendenza e della libertà a raggrupparsi con così tanta facilità? Che cosa di terribile era accaduto nelle aride terre al di là della Piana, nella regione più estrema della Provincia di Eldin?
Queste erano state le domande che il Re e la sua Corte si erano posti, affidando il compito di trovarvi una risposta al vecchio Mynard che, nonostante i suoi acciacchi dovuti all'età, giorni prima si era messo in viaggio verso settentrione, alla guida di un piccolo manipolo di soldati e di spie.
Trafelato, quel giorno era giunto nell'esatto momento in cui il Re, abbandonato il corteo, mentre gli ausiliari sacerdotali ponevano il feretro al centro della pira, si era da poco seduto sul proprio regale seggio, rabbuiato e con il volto nascosto in una delle sue mani.
Egli attese che il feretro prendesse fuoco dopo che la pira fu accesa dalle sacerdotesse di Hylia. Aspettò che il cuore del suo Signore desse l'ultimo saluto alla sua sposa. Poi, quando la prima ed unica lacrima scese sulla gota del Re, sancendo quel doloroso momento, infine Mynard gli si fece vicino.
- Che notizie da Eldin? -
La domanda del Re, già conscio del suo arrivo, lo spiazzò. Per quanto si trovasse al funerale della sua amata, già la sua mente si era rivolta fredda agli eventi che sarebbero accorsi di lì a poche ore.
Schiarendosi la voce, il Lord Ciambellano gli rispose - Sconcertanti, mio Re! Sconcertanti! -
Alzato il capo dalla sua mano, il Daphnes porse lui tutte le sue attenzioni in un velato sguardo interrogativo.
Mynard continuò - Come ci aspettavamo, il Regno di Gerudo ha subito numerosi cambiamenti, esattamente come la loro ambasciatrice ci aveva proferito durante la sua visita. Ma ciò che ella non ci ha riferito nel nostro breve incontro è che al comando del suo popolo non c'è una donna, ma un Re! -
- Un uomo? - esclamò il monarca a bassa voce - Ma com'è possibile? Un predone? Un colpo di stato? -
- Non lo sappiamo ancora con certezza, mio Signore, ma l'ho visto con i miei stessi occhi... così come ciò di cui è capace! -
- Che intendi dire? -
Mynard, ripensando a ciò che aveva visto a diverse leghe dalla propria casa, prese un lungo respiro, cercando di tenere a freno un nervosismo che ancora non lo aveva del tutto abbandonato.
- Uno stregone, mio Re! - rispose dunque - Un uomo dotato di poteri inimmaginabili. Un uomo che, a quanto pare, non sta bene alla totalità del suo popolo, tanto che ho assistito ad un attentato alla sua vita, il quale però è stato sgominato dalla sua sola ed unica mano! Una cosa bel al di là dell'incredibile, mio Re! Una cosa spaventosa... -
Uditolo, Re Daphnes sospirò pesantemente, tornando a rivolgersi verso la pira incendiata su cui il corpo della moglie lentamente si stava dissolvendo. Una fitta aggredì il suo spirito.
- Mio Signore! - Mynard cercò di attirare nuovamente la sua attenzione.
- Dimmi... -
- Credo... credo di essermi sbagliato quando le ho detto di accettare senza alcun indugio tale alleanza! Credo... credo che non dobbiamo avere nulla a che fare con questo personaggio! -
Il Lord Ciambellano si morse il labbro, pensando attentamente ciò che le sue stesse labbra avevano appena pronunciato. Il Re però non si smosse minimamente.
- Hai visto i campi a nord della città? - gli domandò poi.
Nonostante non ne capisse il senso, Mynard gli rispose con un cenno.
- Brutto spettacolo, vero? - riprese dunque Daphnes - Pochi frutti della terra. La maggior parte non commestibili, mentre i pochi ancora buoni dilaniati dagli insetti ed i parassiti! -
Domandò poi ancora - Di blin invece? Ne hai visto qualcuno? -
Il Lord Ciambellano chiuse gli occhi, sperando di non ricordare il tremendo incontro che, tre giorni prima, lo aveva visto affrontare, insieme alla sua scorta, una piccola orda di boblin di foresta, la quale era riuscita ad uccidere uno dei loro cavalli per cibarsi delle sue carni. Fortunatamente, i soldati erano riusciti ad atterrarne alcuni ed a metterne in fuga i compagni. Indenne, egli però non avrebbe più scordato un simile incontro, abituato com'era a vivere tra le sicure, sempre che ancora si potessero ancora chiamare così, mura della sua città.
Non ci fu così bisogno di rispondere. La sua espressione aveva già fatto abbastanza.
Il Re allora gli disse - Vedi! Ora sai perché non posso e non voglio rifiutare questa grande opportunità! -
Pose il suo sguardo sul volto ingenuo e dolce della figlia, segnato da lacrime silenziose, eppure urlanti dentro ognuna di loro.
- Stregone o no - continuò - Costui che sto per incontrare è comunque un uomo forte ed è prerogativa degli uomini forti non avere segreti! So bene che un'alleanza potrebbe toglierci parte della nostra secolare indipendenza, ma guarda ciò che hai davanti. Osserva i volti smagriti ed infossati dei miei sudditi. Per quanto ancora essi pazienteranno? Quanto ancora potrò dormire sonni tranquilli prima che un furfante s'introduca nella mia stanza per assassinarmi? Per quanto potrò... -
Gli occhi azzurri di Zelda bloccarono per un istante le sue parole.
Terminò infine - ... potrò immaginare un futuro roseo per il Regno di mia figlia? -
Mentre la pira, oramai ridotta a tizzoni inceneriti e vicini allo spegnersi, aveva già consumato le spoglie della Regina di fronte al silenzio sconcertato e rispettoso della platea, il Re infine si alzò dal proprio posto, trascinandosi dietro il proprio mantello funereo.
- Che sia alleanza! Che ci sia un accordo! - disse nei rimandi del capo del suo governo - Non sarò colui che, per paura della propria ombra, ha dato il colpo di grazia al proprio regno ed al proprio popolo! -
Mynard lo vide dunque ad allontanarsi, chinando il capo in una preghiera.
- Che Hylia vegli su di noi ed i nostri posteri! - 

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Capitolo 9
*** Segreti Svelati ***


Il sapore acro del sangue, il suo umore salato e ferroso, scivolò lentamente sulla lingua di Nabooru, risvegliandola dal suo sonno forzoso e dolorante.
La testa gli girava vorticosamente, mentre un dolore acuto, solamente a tratti sopportabile identificato nel suo braccio, le fece capire come, molto probabilmente, una delle sue ossa si era fratturata. Ma come?
Non aveva alcun ricordo di ciò che era capitato poco prima o, chissà, diverse ore addietro.
Dove si trovava? Che cosa era successo? Che giorno era?
Se lo chiese diverse volte, senza trovarvi mai uno straccio di risposta.
Era al buio. Almeno questo le fu certo. Non era però la naturale oscurità generata dalla notte e dall'assenza della luce solare, ma quella soffocante di uno spazio chiuso e sigillato.
Sotto di lei, ovviamente, il terreno appariva duro e roccioso, ma a differenza dei pavimenti lastricati e levigati dei palazzi della Città di Arenaria, quello era invece grezzo e ruvido come quello di una grotta.
Appoggiandosi sul braccio ancora integro, faticosamente si aiutò ad alzarsi, procedendo poi, zoppicante, a tentoni nelle tenebre. Quel luogo puzzava di chiuso e di morte. L'odore delle carogne avvizzite penetrava nel suo olfatto violentemente, smuovendole nello stomaco un forte senso di nausea e vomito.
"Che posto è questo?" si domandò ancora una volta terrorizzata. "Che cosa è successo?"
Continuò a camminare per diversi minuti in linea retta, stupendosi come quel posto fosse incredibilmente enorme e vasto, dato che, con il braccio rivolto in avanti, ancora nessun ostacolo si era fatto percepibile al suo tatto.
"Che sia diventata cieca?" pensò colta da un'ennesima paura. "No, impossibile". Ogni tanto infatti, nonostante non vi fosse alcuna luce all'interno di quello spazio, i suoi occhi balenavano di riflessi e bagliori brevi, segno che i suoi occhi erano ancora ben funzionanti.
Ad un tratto, uno dei suoi piedi si abbassò di qualche pollice, come se una parte del terreno sotto di sé avesse percepito la differenza di peso.
Abbagliandola, subito una miriade di fuochi e torce si accesero, rivelandole una camera immensa, grande sette volte il palazzo nella quale era stata Regina per diversi anni. Mura alte fino a divenire sfocate alla vista. Colonne sostenenti un soffitto imperioso, nonché strani meccanismi, fatti di piani rialzati e carrucole da cui dipartivano catene larghe quanto il su busto e che avevano il compito, come immaginò, di sollevare uno dei piani fino a collegarlo con un portale che, incredibilmente, sostava in mezzo ad una delle pareti.
In mezzo ai suoi pensieri, infine tornò a farsi forte quell'odore nauseabondo che aveva sentito in precedenza, cosa che la portò a cercarne l'origine.
Tenendosi il braccio fratturato, tornato a sdolorare, cercò di acuire i propri sensi, passeggiando, un po' a destra un po' a manca. Facendo così però ella per poco non cadde in un dirupo profondo chissà quanto dato che il fondo non ne era visibile, posto chissà perché al centro di quel gigantesco salone. Con il cuore scalciante nel suo petto, si abbassò, comprendendo come il puzzo insopportabile provenisse proprio da lì.
Si portò una mano di fronte alla bocca, cercando invano di alleviare la propria nausea.
"Che diavolo c'é laggiù?"
Si sporse ancor di più, sperando magari che da una posizione migliore si riuscisse a notare qualcosa sul fondo, ma niente, il buio più totale.
Ancora una volta, Nabooru fu sul punto di crollare all'interno di quell'insolito pozzo artificiale quando, d'improvviso, un tonfo sordo risuonò nell'intera sala, proveniente dal portale sulla parete.
Era stato come se qualcuno, dall'altra parte, avesse sferrato un colpo poderoso, riuscendo a far vibrare il granito.
- Ma cosa... -
Il tonfo si ripeté, facendo sussultare Nabooru.
Tremolante, si fece più vicina alla parete. Nonostante lo spavento, una sorta di curiosità s'insinuò in lei. Voleva entrarvi, trapassare quel pesante lastrone diviso dal resto della roccia da brevi e finissime fessure. Come sollevarlo però e, soprattutto, come arrivare ad una simile altezza. Magari scalando una delle catene? Impossibile con il braccio così malridotto.
Il piano rialzato. Solo riuscendo ad abbassare quella sottile, ma alla vista, solida pialla di roccia agganciata ai catenacci, sarebbe stato possibile. Dove sostava però l'ingranaggio per far scattare il meccanismo atto alla sua discesa? Nabooru lo cercò con la vista in lungo e in largo, ma nulla di simile apparve mai nel suo raggio visivo.
Poi però, come al solito in maniera totalmente inspiegabile, essa cominciò a scendere spontaneamente, come se il singolo e semplice pensiero della donna fosse riuscito a comandarla.
Stranita ed intontita dal dolore persistente, ella poggiò i suoi piedi sulla pialla, tenendosi ben salda ad uno dei quattro catenacci legati agli angoli. E, ancora una volta, il piano rialzato cominciò a muoversi, portandola verso il portale sulla parete.
Come smuovere quel lastrone di pietra? Ora tale domanda aveva un senso. I suoi occhi notarono subito però uno strano incavo raffinato che, nella sua lavorazione precisa e perfetta, ben si discostava dal resto del monolite grezzo. Esso aveva la forma di una mano a dita serrate tranne il pollice. Non avendo null'altro da fare, ella avvicinò dunque il proprio arto, purtroppo quello fratturato, verso l'incavo, sostenendolo con l'altro. Cercando di controllare il dolore, percepito il contatto con la nuda pietra, spinse leggermente la propria mano all'interno di esso, esercitando una breve pressione che però fu sufficiente a scatenare un'ignota reazione a catena.
L'incavo infatti si ritirò sempre più all'interno della pietra fino a sparire, lasciando un foro dalla forma di un cerchio attraverso il quale però Nabooru non poté notare alcunché dall'altra parte. Poi, sbuffi di polveri e sabbia uscirono perentori dalle fessure, accecando temporaneamente Nabooru che si trovò costretta coprirsi il volto con entrambe le mani, persino quella dolorante per la frattura.
In un boato il portale scorse indietro, rivelando uno spazio già illuminato dall'interno e decisamente più piccolo rispetto all'immenso salone sottostante.
Lentamente, Nabooru avanzò all'interno della stanza, tenendo gli occhi fissi sull'unica cosa che era presente all'interno. Un sarcofago largo e granitico.
Esattamente come il pesante portale poco prima, il sarcofago, sopra cui era posto un coperchio dall'aspetto altrettanto gravoso, cominciò a schiudersi, come ravvivato dalla sola presenza della donna.
Con il cuore in gola, Nabooru rimase inebetita di fronte a quell'evento incredibile.
Infine, una figura lucente, dai lineamenti evanescenti, ne fuoriuscì. Il suo sorriso smagliante l'unica cosa visibile.
La bocca di Nabooru si spalancò, non appena un bagliore di una dimenticata somiglianza si fece palese sul volto di quella strana creatura.
- Tu... -
 
Re Daphnes non seppe come interpretare i propri sentimenti, le proprie emozioni. Chi era l'uomo appena entrato nel grande e maestoso salone del suo palazzo? Chi era quel ghignante titano vestito di una nera armatura? Un grande monarca? Uno stregone? Uno spietato dittatore?
Troppe voci erano giunte al suo orecchio negli ultimi giorni, con il risultato che la sua mente ed i suoi pensieri erano piombati in uno stato di confusione assoluta.
Il fido Mynard gli era come sempre al fianco, ma il suo sguardo truce, prevalentemente rivolto alla pavimentazione in marmo, segnava come il suo verdetto fosse stato già emanato. Non si fidava di quell'uomo. Qualcosa lo aveva sconcertato durante la sua missione in avanscoperta. Possibile che anche questa volta egli ci avesse visto giusto?
Daphnes se lo domandò più e più volte, pensando in un primo momento come il suo Lord Ciambellano non fosse uno sprovveduto e che il suo parere era stato sempre assai accurato ed importante per le sue decisioni, mentre in un secondo non poteva fare altre che ricordare in quale condizione penosa vertesse il proprio regno ed il proprio popolo.
Che fare?
Ganondorf intanto continuava ad avvicinarsi, facendosi sempre più prossimo al suo trono. L'etichetta prevedeva che il primo a parlare fosse il Re di Hyrule, ma per qualche strano motivo Daphnes avrebbe tanto voluto cedere tale onore al suo ospite, come se alcune semplici parole avessero potuto svelargli qualcosa di più.
Infine, il Banditore di corte annunciò - Maestà, il Re di Gerudo, Ganondorf di Dragmire! -
Accompagnato da quattro figure femminili, tre delle quali avevano già superato la metà della loro vita, Ganondorf chinò leggermente il capo in segno di rispetto e onore e così fecero le sue seguaci. Gli occhi di Daphnes contraccambiò tale gesto, mentre i suoi occhi si fissavano su una in particolare delle quattro Consigliere, quella più giovane. Anche lui era stato attratto ed ammagliato dalla bellezza di Rovan, ma subito se ne vergognò, pensando come non fosse adeguato, in particolare per un reale, concentrare le proprie attenzioni su di una donna ad appena qualche giorno dalla fine del funerale della moglie.
Arrossì e tornò a concentrarsi sul suo regale ospite.
- Benvenuto! - fu l'unica parola che gli venne in mente, continuando - Che siate benvenuto nel mio Regno, Re Ganondorf! -
L'altro sorrise - Grazie mio Signore! È un onore essere qui al vostro cospetto e permettetemi di presentare ogni mio ringraziamento per l'aiuto che ci avete conferito di recente! -
- Ah! - espirò Daphnes - Avete trovato i miei soldati degni? -
- Senza alcun dubbio. Guerrieri abili e pronti a tutti. Sono stati molto preziosi per la mia vittoria! -
I volti di tutti i presenti a corte rotearono i propri volti straniti verso il trono, dato che una strana risata soffocata a fatica si era elevata proprio dal regale seggio del loro Re. Mynard ebbe anche la tentazione di toccarlo con il gomito, al fine di ricordargli come non fosse educato comportarsi così di fronte ad un ospite tale levatura.
Nessuno però osò fare niente, un po' rincuorati dal fatto che Ganondorf non pareva per nulla offeso da quella reazione anzi, da una parte mostrava una sorta di divertimento anch'egli.
Il Re infine tornò a parlare.
- Siete dotato di un grande umorismo, mio carissimo pari! - disse mettendo fine alla propria ilarità - La vostra gentilezza è massima, ma non mi sarei offeso se mi aveste detto ciò che è chiaro a tutti qui. Che i miei soldati non valgono la metà di una delle vostre guerriere Gerudo. Che sono uomini coraggiosi, è vero, ma oramai vecchi e inabili a battaglie sanguinose! -
- Per un Gerudo è il coraggio, non l'abilità, a fare grande un guerriero, mio Re! Per questo non v'è stata menzogna nelle mie parole, ma solamente una grande verità! -
L'espressione di Daphnes cambiò perentoriamente. Solo in quel momento si era accorto come aveva dato del bugiardo, anche se in maniera bonaria e poco offensiva, al suo ospite. Da quando aveva perso le sue capacità retoriche ed oratorie al punto di commettere un simile errore?
Cercò dunque di recuperare, sperando che non fosse già troppo tardi.
- Noi... noi non siamo in grado di esprimere totalmente la nostra gioia nel vedervi qui! - claudicò - Tutti noi pensiamo come questo sia un momento epocale che potrebbe portare all'inizio di una era... -
Mynard si schiarì la voce bruscamente, irritando il Re che si era visto fermare in una maniera così poco gentile e decisamente non rispettosa delle gerarchie.
- Sei impazzito? - gli domandò in un sussurrò.
- Col vostro permesso vorrei fare una domanda! -
Tutt'altro che desideroso di permetterglielo, il Re lo fulminò con i suoi occhi, ma il Lord Ciambellano non ne fu alquanto sfiorato. Fu proprio per questo che allora Daphnes decise di concedergli la parola, facendogli però ben presente come non avrebbe più permesso simili intromissioni.
Tutte le attenzioni si posarono sul Lord Ciambellano il quale, privo di portamento totalmente rispettoso per colui che ora sostava a pochi piedi da loro, domandò - Re Ganondorf, io sono Mynard, Lord Ciambellano del Regno di Hyrule, carica che mi mette al comando del governo del mio Re e del suo esercito! -
Ganondorf non disse e non fece nulla. In un certo senso, i suoi occhi vuoti denotavano come il Lord Ciambellano non avesse avuto grande importanza per lui fin dal primo momento.
- In quanto tale desidero fermamente domandarvi il motivo dell'udienza che avete richiesto. Insomma, perché siete venuto fin qui? -
- Pensavo che il vostro aiuto dovesse ricevere un giusto ringraziamento! - rispose semplicemente il Re di Gerudo.
- Mmm - mugugnò annuendo il Lord - Il ritorno della vostra ambasciatrice sarebbe bastato! -
Un cicaleccio di sdegno si sollevò delicatamente tra i presenti, mentre le Consigliere Gerudo lanciarono occhiate infiammate nelle sua direzione.
- Ti farò tagliare quella lingua, maledetto idiota! - lo insultò sottovoce Daphnes, ora ancor più intimorito per la situazione. Se prima la sua offesa involontaria era passata senza conseguenze, cosa sarebbe accaduto con un affronto deliberato da parte della più alta carica del suo governo?
Gli occhi di tutti si posarono allora su quelli di Ganondorf e, contro ogni previsione, essi non avevano cambiato minimamente la loro espressione neutra.
- Devo dire... - riprese mentre i presenti trattennero il fiato per la tensione - Devo dire Re Daphnes che siete attorniato da personalità abili ed intelligenti. A quanto pare non ho più bisogno di attendere altra miglior occasione per porre a Voi una questione assai importante per entrambi. -
Le sopracciglia di Daphnes si corrugarono in un'espressione incuriosita, ma anche preoccupata.
Ganondorf si fece più vicino, con le guardie reali che, tenendo a freno le proprie emozioni, sentirono stranamente un guardingo riflesso scorrere sulle loro schiene.
- Poco tempo ho chiesto al vostro glorioso regno un aiuto. Un aiuto non solo per difendere i miei domini da un invasore vile e mostruoso, ma per difendere i vostri! -
Un'ondata di sconcerto investì la corte. Ganondorf accolse tale reazione con velato compiacimento.
- La mia vittoria è stata solamente un breve intermezzo, una battaglia minima che prelude ad una grande guerra nella quale, se non ci uniremo, tutti noi saremo alla fine dalla parte degli sconfitti! -
Scostando bruscamente Mynard, Re Daphnes IV si alzò perentoriamente.
- Che cosa state dicendo? - esclamò in preda al terrore.
Ganondorf gli rispose prontamente - Tra qualche mese, le mie spie sono sicure, un massiccio esercito di Blin prenderà d'assalto prima il mio regno, Gerudo, surclassandolo. Lì però non si fermerà, in quanto siamo certi di come i predatori del deserto e delle piane abbiano messo gli occhi su questa verde terra, pronti ad invaderla e conquistarla! -
Alcune urla partirono nella piccola folla ai lati del salone. Delle donne svennero dalla tensione, mentre i consiglieri stretti del Re di Hyrule si chiusero in un fitto dialogo sussurrato, chiedendosi se una cosa simile fosse possibile.
Perso quanto i suoi sudditi, Daphnes ciancicò - Ne... ne siete sicuro? -
- Senza alcun dubbio! -
Mynard ribatté - I Blin sono esseri inferiori, incapaci di vere e proprie strategie belliche! Sono millenni che essi depredano il nostro mondo, senza però formare delle schermaglie degne... -
- Le cose sono cambiate! - lo bloccò furente Ganondorf - Nuovi signori della guerra li animano ora. Più grossi, più potenti, più intelligenti! Se così non fosse il mio esercito non avrebbe avuto problemi a respingerli... mio signore Daphnes dovete ascoltarmi! -
Mynard dimenticò allora chi si trovava davanti e, irrispettosamente, gli diede le spalle per cercare di confidarsi con il proprio monarca.
- Mio signore,  non possiamo fidarci della parola di uno straniero senza avere certezze. Mandiamo una squadra in avanscoperta. Cerchiamo di comprendere se... -
La mano di Daphnes si alzò fermandosi vicina alla bocca del Lord Ciambellano, indicando a costui di fare silenzio.
Scostatolo, avanzò di un passo e, mantenendo lo sguardo vitreo perso nel vuoto, a bassa voce ordinò - Lasciateci da soli! Uscite. Devo parlare con il nostro regale ospite in privato! -
Il brusio nella sala cessò, ma in molti furono restii a muoversi, increduli ancora sul fatto che le loro orecchie avessero percepito simili scempi futuri.
Daphnes s'infuriò dunque - Uscite! - urlò.
A passo svelto, come risvegliatasi, l'intera corte allora lo accontentò e così fu costretto a fare lo stesso Mynard scortato dal resto delle guardie, lanciando però un'occhiata infingarda a Ganondorf ed alle sue consigliere che, come lui, lentamente si stavano allontanando.
Le porte si rinchiusero in diversi tonfi altisonanti. Il silenzio prese il dominio del salone.
Daphnes, tornato a sedersi in tutta la sua anziana pesantezza, e Ganondorf si trovarono finalmente soli. O così almeno crederono, dato che Mynard, furbescamente, aveva lasciato uno spiraglio sufficiente affinché gli echi delle loro voci fossero ancora udibili al suo orecchio.
Mordendosi il labbro ed inumidendosi il palato, il Re cercò le parole giuste per cominciare il loro primo dialogo privato, un momento storico velato però dalla coltre di una fitta e soffocante preoccupazione.
Ganondorf attese invece silente e rispettoso, ben consapevole comunque come orecchi indiscreti fossero in agguato.
- Avete visto i nostri campi? - riprese il Re, scuro in volto.
- Scusatemi? - non capì immediatamente Ganondorf.
- I nostri raccolti! - precisò dunque Daphnes - Ce ne sono per svariati acri nella zona settentrionale che immette nei domini di Hyrule! -
- Oh, ovviamente, mio signore! -
- E ne siete stato colpito? Siete stato soddisfatto della nostra capacità di raccolta viveri? -
Il Re di Gerudo inclinò leggermente la testa, serrando la mascella e le labbra.
- Lo immaginavo... - annuì il suo pari.
Ganondorf cercò di dargli un secondo di tregua.
- Per una qualsiasi delle mie suddite le vostre capacità apparirebbero impressionanti, credetemi mio signore. Ma io mi sono documentato molto su di voi. So che il vostro regno conta decine di migliaia di sudditi e, sinceramente, se i miei occhi non mi hanno tradito, i vostri raccolti non sono in grado di sfamarne nemmeno un quinto! -
- I vostri occhi vi hanno indicato bene! - esclamò Daphnes tutt'altro che offeso - Ed ogni anno che passa è sempre peggio. Durante l'inverno il gelo soffoca la nostra terra, mentre durante le estati sciami infiniti di locuste ci tolgono gran parte di quel poco che riusciamo a coltivare! I miei sudditi la chiamano la Piaga di Nayru a causa delle predicazioni dei sacerdoti delle Antiche, i quali pensano che l'abbandono dei culti ancestrali abbia fatto infuriare le Divinità! -
Ganondorf sbuffò scuotendo la testa, per poi chiedere - E voi, cosa pensate invece? -
- Non lo so. Sinceramente, io non so più nulla di nulla di ciò che accade nel mio Regno! Solo di una cosa sono sicuro: peggiorerà. La situazione continuerà a crollare sempre più verso il peggio, fino a quando non rimarrà più nulla di Hyrule, esattamente come accadde alla mitica razza degli Hylian, i figli della Dea! -
Alla mente di Ganondorf tornò l'immagine dell'immensa statua che sette anni prima aveva trovato all'interno del Tempio dello Spirito, che, secondo le sue esperte e le sue storiche, non era stata costruita dal suo popolo, ma da un agglomerato umano nota come Hylian, un'antica razza che nelle leggende era nata dal medesimo sangue della Divinità più adorata ad Hyrule.
La voce del Re lo fece tornare però immediatamente alla realtà.
- Carestia... malattie... violenze inconsulte nei miei villaggi da parte di luridi furfanti e ladruncoli... - bofonchiò tristemente - Già simili problematiche sono state in grado di mettere in ginocchio l'ordine del mio Regno e la sua prosperità. Non oso pensare dunque se il pericolo da voi profetizzato possa essere veramente una realtà! Chi ci salverebbe, cosa potremmo fare? Saremmo spacciati... persino se le nostre due antiche, ma oramai decadute nazioni si unissero in una grande alleanza! -
- Che mi dite allora degli altri? - domandò il Re di Gerudo facendosi sempre più vicino al trono, cosa che destò una certa irrequietezza nel Monarca di Hyrule.
- Gli altri?! - rilanciò il quesito al mittente con sguardo stranito.
- Non mi ricordo esattamente quando e dove, ma sono sicuro di aver letto di come Hyrule, un tempo, facesse parte di una sorta di alleanza... un... un triumvirato! -
Daphnes IV si riaccomodò lentamente sullo schienale rigido del proprio trono, scostando nervosamente il pelame del suo girocollo ornamentale.
- Ah sì! - ricordò con malcelato distacco - State parlando degli Zora, nonché dei Goron ovviamente! -
L'espressione del Gerudo si fece curiosa. Intanto poco distante da loro Mynard continuava ad origliare famelicamente le loro parole, affiancato poi da qualche istante da un paio di guardie reali incuriositesi anch'esse.
- Non ne ho mai sentito parlare sinceramente! - fece notare Ganondorf, gesticolando con un braccio.
- E' normale! - affermò Daphnes - Zora e Goron non sono di certo due popoli estroversi anzi, tengono molto ai loro segreti ed alla loro storia! -
Il capo leggermente chino del suo interlocutore e gli occhi spalancati lo implorarono di far luce ai suoi quesiti. Il Re di Hyrule lo accontentò.
- Gli Zora sono un popolo assai particolare. Alcuni dicono che nacquero dalle lacrime di Hylia stessa, mentre altri invece pensano di come si trattava di alcuni Hylian che, trasferitisi in zone lacustri o marine, si trasformarono in esseri in grado di vivere e respirare sott'acqua! Abili guerrieri e spie militano nel loro esercito, ma da tempo non se ne avvistano ai confini del regno. Temo che anche loro non se la passino molto bene! -
- Che mi dice invece di questi... Goron, giusto? -
Daphnes annuì.
- Loro sono molto meno aggraziati e decisamente meno belligeranti degli Zora, nonostante siano noti per le loro capacità fisiche e di combattimento. Si tratta di esseri nati dalla terra e dalla pietra. Nessuno sa quale divinità adorino e se effettivamente lo facciano. Sono in grado di mimetizzarsi a causa del carapace sulle loro schiene che li fa assomigliare a delle pietre - si fermò - Ma perché me lo chiedete? -
Ganondorf alzò leggermente le spalle - Pensavo si potesse chiedere aiuto anche a loro! -
Daphnes esplose in una risata tutt'altro che divertita anzi, ricolma di vecchi rancori.
- Temo proprio che non sia possibile. - negò tale possibilità - Vedete, Zora, Goron ed Hyruleani non hanno più rapporti di alcun tipo da almeno un secolo e mezzo, quando i rispettivi monarchi o capi scissero il triumvirato a causa di interessi personali e decisamente più legati alla cupidigia che all'interesse comune! -
Com'era noto a tutti i suoi fedelissimi, Ganondorf non amava per nulla i discorsi criptici o poco chiari, tanto che, senza alcun indugio, domandò subito all'ultimo Re della stirpe dei Nohansen di essere più chiaro e preciso. Perché Hyrule aveva rotto i loro patti con gli antichi alleati?
Daphnes si grattò nervosamente parte della capigliatura lasciata scoperta dalla corona in oro e gioielli, dimostrando una sorta d'imbarazzo nelle proprie movenze.
- Beh, vedete Re Ganondorf, il mio vecchio bisnonno, il Monarca di allora, Re Atreias III, aveva apportato degli importanti cambiamenti nel regno, allargando i confini e portando la popolazione ad aumentare a dismisura! - spiegò, alzandosi nuovamente dal seggio - Al tempo, grazie ai patti del Triumvirato della Piana, così si chiamava la nostra alleanza che durava da quasi tre secoli, Zora e Goron riconoscevano ad Hyrule, in cambio di protezione ed amicizia, un certo numero di primizie, viveri, nonché rarità. A causa dell'aumento dei sudditi però, a poco a poco essi cominciarono a lamentarsi dato che gran parte delle loro popolazioni vide appropinquarsi fame e povertà a causa dei patti. Quando il Signore degli Zora ed il Consiglio degli Anziani Goron chiesero al mio avo di scindere tali patti, egli s'infuriò rifiutandosi. Di tutta risposta, i suoi alleati se ne andarono, mettendo così fine al triumvirato. -
Sia lui che Ganondorf si lasciarono andare ad un sospiro contrito e desolato. Se però da una parte uno dei due era totalmente sincero nel suo comportamento, l'altro invece nascondeva una malsana furbizia, oscuri tornaconti che ben presto si sarebbero rivelati ai molti, ma troppo tardi.
Fu forse per un puro caso, o magari per il volere dello stesso destino, che Re Daphnes IV, ultimo monarca Nohansen, tornò a dire - Se solo le antiche leggende fossero vere... -
Stupito per una simile affermazione, capitata così, nel momento più giusto possibile, Ganondorf colse al volo la sua occasione.
- A cosa vi riferite? -
Daphnes puntò il dito in alto, verso un esteso e consunto stendardo sulla parete alle sue spalle. Si trattava dello stemma del suo casato, la famiglia Nohansen, la quale si insediò in Hyrule subito dopo la fine della Grande Guerra Civile. Esso si stagliava in un grande essere alato stilizzato, con le piume delle sue ali appuntite come lame, nonché, al posto del capo, tre triangoli uniti in modo di formare insieme un quarto.
- Tempi addietro, la mia famiglia non era stata solamente riconosciuta come la detentrice del trono di Hyrule, ma come protettrice del sacro portale, quello che, sempre secondo la leggenda, dividerebbe il nostro mondo dal Sacro Reame. Là, dove la Triforza, il dono delle Divinità, risiede! -
Facendo ancora lo gnorri, l'altro allora gli chiese - La Triforza? -
Daphnes si meravigliò di quell'inattesa ignoranza, in particolare perché detenuta da un reale, una persona istruita insomma. Evitando di far notare il suo stupore, ritornò dunque a spiegare - A tutti gli abitanti di Hyrule viene insegnato fin dalla nascita la storia di Hylia e del Lascito Divino. Un dono, Ganondorf, un oggetto nel quale fu riversato il potere residuo delle Tre Divinità Ancestrali Farore, Nayru e Din. Un artificio potente, in grado di rendere il suo detentore imbattibile, nonché possessore di enormi poteri, tra cui quello di realizzare il desiderio più grande del proprio cuore! -
- Una mera leggenda... - sbuffò Ganondorf fingendosi disinteressato.
- Già! - annuì l'altro - Nemmeno io credo ad una simile favola.... -
Poi, dopo una breve pausa, aggiunse - Ma se così non fosse... -
- Se così non fosse i nostri problemi verrebbero spazzati via in meno di un istante. Una cosa incredibile nel vero senso della parola! - scosse il capo il Re di Gerudo - D'altronde, se una simile cosa fosse vera, immagino che avreste fatto di tutto per trovarla! -
A qualche metro da loro, il cuore scalpitante di Mynard ebbe un breve secondo di tregua, ringraziando Hylia del fatto che quell'uomo spaventoso solo alla vista non trovasse palesi interessi nel potere ancestrale, enigmatico e devastante della Triforza. Il suo signore però, per chissà quale strana ragione, aveva deciso di non abbandonare completamente il discorso, continuando a delineare dettagli su dettagli al suo pari straniero.
- Anche se volessi, mio caro amico - ricominciò - Troverei numerosi ostacoli sul mio cammino. Primo fra tutti il portale che si trova proprio qui, nel mio regno, nel tempio collegato al palazzo! -
- In che senso? - domandò allora Ganondorf, sempre più rallegrato dal fatto che Daphnes possedesse una lingua alquanto lunga per la sua posizione.
Costui per risposta gli lanciò un quesito - Avete mai sentito parlare dei Contrabbandieri Oscuri? -
Ovvio che ne aveva sentito parlare anzi, aveva speso ore, giorni, perfino anni nel tentare di raggruppare un gran numero di dicerie e leggende sul loro conto. Intelligentemente però non fece parola delle proprie ricerche, rimanendo nascosto sotto il velo di una falsa ignoranza.
- Maghi potenti ed assetati di poteri. Esseri in grado di piegare gli eventi al proprio volere. Questo sappiamo di loro o, comunque, questo è ciò che la storia ci ha tramandato. Essi desideravano impossessarsi della Triforza, ma furono sconfitti dalla luce dei Guardiani e puniti per la loro cupidigia. Il Sacro Reame però non era più al sicuro così, Rauru, ultimo discendente dei Gaepora, famiglia che la leggenda descrive come la casa reale dei primi Hyliani, discesi dal cielo millenni e millenni fa, costruì un immenso tempio che divise per sempre il Sacro Reame dal resto di Hyrule. Un tempio in funzione di barriera, la quale non può essere aperta se le sue tre chiavi non vengono recuperate e riallineate sul Grande Altare! -
Ecco. Le chiavi. Ganondorf aveva trovato solo pochi frammenti riguardanti tale aspetto della leggenda. Finalmente nuove rivelazioni andarono a comporre l'intricato puzzle che aveva cominciato ad assemblare diversi anni prima.
- Immagino però che tali chiavi non esistano. - affermò con estrema furbizia - O mi sbaglio? -
Il silenzio che ne seguì fu più chiaro di qualsiasi altra palese risposta.
"Esistono veramente"
La conferma giunse infatti poco dopo.
- E' qui che la leggenda collima con la realtà, superbo pari! - sospirò Daphnes - Le chiavi sono l'unica cosa certa di tutta questa storia. Esse infatti furono portate via da qui più di cento anni fa, quando la fine del Triumvirato giunse imperterrita. Una rimase come pegno agli Zora, un'altra fu consegnata come deterrente ai Goron e la terza.... ah, quanto vorrei che il mio avo non avesse mai fatto una simile scelta! -
Ganondorf gli chiese ancora una volta di essere più chiaro.
- Per evitare che fosse perduta o trafugata da qualcuno, egli l'affidò ad un plotone delle sue guardie migliori le quali ebbero il compito di portarla in una terra a sud ovest, una foresta sacra dove nessun uomo che vi sia addentrato ha mai fatto ritorno... comprese le guardie... -
Il Re di Gerudo si mise allora a passeggiare lentamente, avanti e indietro, di fronte al suo anfitrione, con il mento sostenuto da una delle sue mani con fare riflessivo. I suoi passi risuonavano nello schiocco dei tacchi dei suoi stivali foderati nel cuoio e ricoperti da nero metallo, scandendo i secondi ed i respiri inquieti di Daphnes come un metronomo.
- Tre chiavi... - mugugnò - ... un artificio magico e potente... una storia ridicola! Ridicola però sarà anche ogni nostra tentazione di voler fermare quell'immensa orda di mostri e belve. Sì... forse, per quanto balzana, potrebbe essere una possibilità! -
Daphnes si spazientì immediatamente, sentitosi tenuto all'oscuro dei ragionamenti del suo ospite.
- Posso sapere cosa vi passa per la testa, mio caro e benvenuto amico?! - ringhiò cercando di essere il più gentile possibile.
Ganondorf lo accontentò in men che non si dica.
- Re Daphnes, ditemi: siete veramente sicuro che tali chiavi esistano? -
Sorpreso da un simile quesito, l'altro balbettò - S-sì... gli Zora addirittura adorano la loro come una reliquia! - nel suo tono era stato percepibile un velo di offesa, la quale molto probabilmente si era dovuta alla persistente malfidenza dell'interlocutore.
- Allora concedetemi una mappa, un manipolo dei vostri migliori uomini e viveri a sufficienza per circa sei mesi! - esclamò Ganondorf.
- Che cosa intendete fare? -
- Io non credo a tutta questa storia. - sbottò ben sapendo di mentire - Ma se in essa vi è solo anche un briciolo di verità, allora io farò in modo che i nostri popoli possano usufruirne perché, credetemi mio Re, solo un miracolo potrebbe salvarci dal nostro destino! -
I due si congedarono poco dopo. Per quanto turbato dal tema del loro lungo colloquio, Daphnes aveva sentito in sé, almeno per qualche istante, riaffiorare la speranza. E nemmeno lo sguardo truce ed ammonitore di Mynard, tornato al fianco del suo Signore, riuscì a fargli cambiare idea sul Re di Gerudo, nuovo alleato di Hyrule.
Tornato in compagnia delle proprie consigliere, scortato insieme ad esse verso le proprie stanze per la loro breve permanenza, si appartò alcuni minuti con Rovan, in un momento ed in un luogo dove nessuno sarebbe stato in grado di udirli.
Ella domandò prontamente - Devo mandare dunque una comunicazione ad Agahnim? -
Ganondorf annuì sorridente. Il suo nuovo luogotenente, uno degli ultimi discendenti degli Sheikah, si trovava a non molte leghe dalla capitale di Hyrule, al comando di un numeroso manipolo di Blin assoggettati al timore nei suoi confronti, nonché al suo potere, divenuto particolarmente forte e raffinato negli ultimi sette anni grazie al tirocinato offertogli dalle due streghe madrine del Re.
Il piano era assai semplice. Ben consapevole del suo odio per il Regno dei Nohansen, Ganondorf gli aveva chiesto di uccidere tutti i Re Blin a nord della Città di Arenaria, al fine di far decadere i predatori del deserto sotto il suo controllo. Con essi, egli avrebbe attaccato buona parte dei villaggi di Hyrule, al fine di assicurarsi la fedeltà di Daphnes.
Ovviamente, la capitale non sarebbe mai stata toccata e, nonostante Agahnim si era più volte ingolosito al pensiero di dare assedio al trono, Ganondorf era riuscito sempre a tenere a freno i suoi istinti promettendogli la testa del Re una volta che la sua funzione non fosse più stata utile a nessuno.
Così, quando la notte si fece profonda come il sonno di tutti all'interno della città, una Gerudo della scorta del Re si allontanò silenziosa ed invisibile al di fuori delle mura, diretta verso il guerriero stregone.
 
L'aria del deserto era secca e pungente come sempre quella notte. Eppure, con gli occhi rivolti verso alle stelle, Nabooru sentiva una strana freschezza dentro ed all'infuori di sé. Di molte cose era giunta a conoscenza quella notte. Segreti antichi ed oscuri, dimenticati dagli annali e persino dalle leggende.
Per anni aveva la sua vita era andata sempre più col perdere di significato, dilaniata dalle nefandezze e dai dispotismi del figliastro. Restia a combatterlo per tutto quel tempo, ora il suo spirito era pronto per una missione assai gravosa, dalla quale però sarebbe dipeso il destino stesso del mondo intero.
Stringendo i pugni, con le dita talmente serrate da ferirsi i palmi con le unghie, ella disse a sé stessa - Ora sei uno dei Saggi! Comportati come tale! - 

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