Non ingannarmi (come fanno i miei sensi)

di skippingstone
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** - ***
Capitolo 2: *** Profumo di more - olfatto ***
Capitolo 3: *** Con fare dolce e distruttivo - tatto ***
Capitolo 4: *** Siamo noi la musica - udito ***
Capitolo 5: *** Che gusto c'è ad evitarsi? - gusto ***
Capitolo 6: *** Io ti vedo - vista ***
Capitolo 7: *** Un posto per me - realtà ***



Capitolo 1
*** - ***


La prima volta che conobbe la dottoressa Grandi, lui era rimasto solo in camera. Doveva fare degli esami, esami a cui era sottoposto ogni benedetta volta che andava al centro. Si stava chiedendo come poteva un uomo lasciare un cieco solo in una sala perché, sì, lui era cieco e solo in quel momento. Non si lasciano i ciechi da soli. Se un uomo che ha perso il senno entra nella camera e cerca di uccidere tutti? Come può difendersi il cieco?
Perdere la vista era una vera merda.
Tutto era iniziato con un glaucoma. "Vedrai, guarirai. Abbiamo delle medicine all'avanguardia. Siamo uno dei pochi centri che possiede gli strumenti per guarire questo piccolo problema." Il problema non doveva essere così piccolo visto che era diventato un problema irrisolvibile. "Glaucoma giovanile." Quelle erano le parole che ripeteva ogni qualvolta che gli chiedevano cosa avesse. L'uso del collirio, però, fu ciò che portò i suoi occhi al "silenzio visivo". Eppure sul foglietto illustrativo c'era scritto: attenzione agli effetti indesiderati. Ma tutti gli dicevano che il collirio gli avrebbe fatto solo del bene, "uno su un milione può rimanere fregato". La sfortuna volle che proprio lui, Flavio Bianchi, fosse quell'uno.
«Scusi, il dottore?»
Quando la dottoressa Grandi entrò nella stanza 428, rivolse una domanda al paziente calmo e tranquillo.
«È cieca? Non vede che non è qui?»
Lui era il cieco e le persone vedenti gli chiedevano dove fosse una persona? Questo era il lato ironico della vita.
«Le sto semplicemente chiedendo dov'è.»
Si voltò verso la destra, proprio dove era la persona che gli parlava. Dopo dieci anni di cecità, sapeva come sfruttare al meglio tutti gli altri sensi.
«Se avessi visto dove era andato, le avrei detto pure che strada aveva preso. Ma visto che non vedo, faccia due più due...»
Da quando era diventato cieco, tutte le persone che conoscevano il suo "difetto" cercavano di trattarlo con accondiscendenza e gentilezza. Ogni volta che lo vedevano camminare per strada accompagnato da qualcuno, la gente gli chiedeva come stava ma lui, a volte, non ricordava nemmeno il loro nome. Una cosa aveva capito: la gente lo trattava non più come un ragazzo a cui si potevano aprire mille porte ma come un ragazzo che aveva bisogno di qualcuno che gliele aprisse quelle porte. Lui, però, non voleva la compassione di nessuno, poteva tranquillamente aprire le porte da sé.
«Essere cieco non le dà il permesso di essere stronzo. Lo sa questo, vero?»
Inarcò le sopracciglia ascoltando quella risposta inaspettata. 
«Io non sono stronzo. Sono cieco.»
«Cieco e stronzo.»
Lui, dopo tanto tempo, accennò un sorriso.
Lei lo vide quel sorriso e non riuscì a trattenersi, non riuscì a non sorridere.

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Capitolo 2
*** Profumo di more - olfatto ***


1. Profumo di more - olfatto

Lo specchio rifletteva il suo aspetto curato in ogni minimo particolare. Si stava aggiustando una ciocca di capelli per posarla dietro l'orecchio ma, per tutte quelle cure che si stava donando, restava qualcosa che non la soddisfaceva. Forse era il rossetto rosso che aveva messo sulle labbra o forse la matita troppo marcata sugli occhi…no, quella andava bene. I suoi occhi azzurri venivano ben notati con quel tipo di trucco. Anche il rossetto riusciva a rendere le sue labbra carnose ancora più belle. 
Lui era consapevole di non poter ammirare quel corpo femminile, nemmeno il riflesso lontano, nemmeno l'ombra. La vedeva, la immaginava così: vicino a quello specchio con un trucco forte, per niente pallido ed anonimo. Lui conosceva l'aspetto della nuova dottoressa attraverso i racconti degli altri. Gli avevano detto che era davvero bella, una bellezza più unica che rara. Un infermiere gli aveva detto che aveva gli occhi azzurri come l'azzurro del mare, ma lui a malapena ricordava la tonalità di quell'azzurro, a malapena ricordava l'ultima ragazza vista con i suoi occhi. Ormai l'unico colore che riusciva a vedere era il nero. 
L'immaginazione era tutto quel che restava. L'immaginazione, però, non erano occhi. Niente riusciva ad essere pari agli occhi. Poteva solo accontentarsi del profumo di lei che l'aveva ammaliato: un profumo di more. 

«Oggi cosa c'è di nuovo? Una cura sperimentata sui cani o sugli elefanti?»
Lo avevano fatto sedere su un letto alquanto scomodo, ma restava lo stesso su quel materasso: non poteva andare lontano. Ormai la sua vita da cieco la passava lì, nel centro per non vedenti. I dottori avevano detto alla sua famiglia che gli avrebbe fatto bene stare in quel luogo: tutti si sarebbero adoperati per fargli tornare il senso della vista, tutti avrebbero lavorato affinché si trovasse una cura per la cecità. Flavio, da allora, si sentiva una cavia proprio come gli animali.
«No, signor Bianchi, non è una cura fatta sugli animali. Al giorno d'oggi son tutti moralisti: no agli esperimenti sugli animali, ma tutti a comprarsi la pelliccia. Tutti sanno, inoltre, che fanno esperimenti addirittura sugli umani. Perciò di cosa scandalizzarsi? Siamo solo nel 1976. Immagini nel 2076: tutti vegetariani ma tutti con addosso una pelliccia o, addirittura, con giacche di pelle umana. Ipocriti!»
«Il primo moralista ipocrita è lei che dà false speranze ai ciechi... e siamo solo nel 1976. Immagini nel 2076: quanti altri moralisti ci saranno?»
Sorrise e puntò i suoi occhi verso il dottore o, almeno, cercava di puntarli.
«Lei è sempre così pieno di amore e bontà, eh? Non sa cosa sia la gratitudine? Io sto cercando una cura per il suo problemino… sarò ricordato per questo!»
«Forse è lei che è sempre così pieno di sé da credere di riuscire ad essere l'Einstein della vista! Per cosa dovrei esserle grato?»
«Anche Einstein ha fatto i suoi errori.» - una terza voce si intromise nel discorso tra il dottore e il ragazzo. All'inizio non riconobbe la voce ma, respirando a fondo, poté sentire quel profumo, quell'odore di donna che non riusciva a levarsi dalla testa. Con molta gioia respirava profumo di more.
«Ai posteri l'ardua sentenza.» - con quell'ultima battuta il dottore uscì dallo studio e, nella stanza, rimasero Flavio e la donna.
«Signor Bianchi, se non mi ha riconosciuto, sono la dottoressa Grandi.»
«Non la riconosco, non conosco nessuna dottoressa Grandi.»
Bugia, bugia, bugia. Era una grande bugia. Avrebbe riconosciuto quel profumo tra mille.
Il tono di voce della donna era basso e quasi timido, tutto il contrario di quando lo aveva chiamato stronzo.
«Signor Bianchi, dovrei chiederle scusa per quello che è successo qualche giorno fa, per come l'ho chiamata...»
Cercò di non ripetere l'insulto che gli aveva rivolto precedentemente, ma fu costretta a ripeterlo per qualche strana insana voglia del paziente.
«Chiamato come?»
«Ricorda... ieri, in questa stanza. Io..»
«Lei?»
«L'ho chiamata stronzo, signor Bianchi.»
«Non mi chiami signor Bianchi. Ho solo 27 anni, non 76 come fa credere il dottor "so-tutto-io".»
Lei rise e lui sorrise spontaneamente.
«Mi chiami Flavio.»
«Flavio. Mi piace il suo..»
«Tuo...» - subito Flavio la interruppe.
«Tuo…»
Lei tornò a ripetere la parola che gli aveva appena detto quel paziente. Non aveva mai pensato di dover dare del "tu" ad un paziente. Forse perché iniziava, adesso, la sua carriera a soli 29 anni, forse perché aveva sempre visto i pazienti come persone a cui dare del "lei".
«…mi piace il tuo nome. Il mio è Sara.»

«Esiste una sala comune?»
Dieci anni e non conoscere i vari posti di un luogo. Questo stava capitando a Flavio che, solo dopo un decimo di secolo, scopriva l'esistenza di una sala comune. Tutto ciò lo scopriva grazie a Sara, la sua nuova dottoressa.
«Quante cose non sai!» 
«Quante cose non vedo.»
«Non è un motivo per non conoscere. Davvero credi che l'essere cieco possa negarti la conoscenza? Bacon diceva: Knowledge is power!»
«B-chi diceva cosa? E poi io non conosco questi luoghi perché, per me, questo centro di cura è solo la mia stanza o lo stanzino del dottore magico.» 
«Bacon, non B-chi. Lui diceva che la conoscenza è potere.»
Nella sua mente, gli ingranaggi aveva già iniziano a lavorare. Flavio stava pensando a quel che aveva detto prima la dottoressa. L'essere cieco poteva negare la conoscenza? Bella domanda. 
“Molti dicono che il senso più importante sia l'udito, altri dicono sia il gusto, altri la vista. Il senso del tatto, anche senza mani, esiste sempre. Quello che deve sentirsi più inutile deve essere il senso dell'olfatto.”
Seduto, probabilmente su un divano, si chiedeva il perché, perché non aveva perso il senso dell'olfatto? Lampante fu la risposta che scattò nella sua mente: non l'aveva perso perché doveva godersi il profumo di more che Sara aveva sulla pelle.
Ironicamente pensò anche che, se avesse avuto dei poteri, avrebbe creato una pozione per poter vedere di nuovo. 
Questi pensieri lasciò che rimanessero tali: non cercava la compassione di nessuno e, dunque, evitava di urlare a gran voce i suoi inevitabili pensieri che avrebbero potuto strappare un suono di tenerezza dalle persone accanto. Inoltre voleva evitare di fare il depresso della situazione.
«Hai capito a B.»
«Bacon.»
La ragazza stava sorridendo e lui poteva capirlo dal suo tono di voce che era gioioso, ma qualcuno al loro fianco li richiamò. Nella sala comune stavano tutti ascoltando le notizie che passavano alla televisione.
«Che succede che ci zittiscono?» - chiese Flavio infastidito da quel gesto.
Sara si avvicinò di più a lui per farsi capire anche parlando a bassa voce.
«Stanno vedendo tutti la televisione.»
«Tutti a vedere la televisione in un centro per non vedenti? Non voglio proprio commentare.»

«I dottori vogliono distrarsi e si vedono Vita da strega. Sai, vero, che, ora che siamo nel 1976, le televisioni sono a colori o sei rimasto all'età della pietra dove esisteva il bianco e nero?»
Flavio assunse un'espressione sorpresa per prendersi gioco della ragazza che faceva la saggia.
«Siamo nel 1976? Cavolo, credevo di essere nel 1932 dove c'era solo la radio. Preferisco di gran lunga lei che questa cosa che voi del futuro chiamate televisione.»
Sara lo spinse leggermente e cercò di imitare una risata che era, ovviamente, ironica.
Da dietro un'altra voce si intromise nel discorso.
«Noi ciechi odiamo la televisione perché non la possiamo vedere, semplice!»
Piero, immediatamente, venne preso di forza da due uomini e rimesso a sedere al suo posto, nessuno poteva disturbare.
«Scusalo, Piero è così. Ce l'ha con tutti perché odia essere cieco.»
«E tu? Non sei così?»
«Io non mangio nessuno.»
Flavio alzò le mani per dirsi innocente, ma non era vero. Anche lui era arrabbiato con gli altri, anche lui voleva mangiare, aggredire gli altri. Sapeva che le persone non avevano fatto niente ma, comunque, odiava il fatto che loro potessero vedere cose che lui, ora, non poteva vedere più. Anzi, pensandoci meglio, odiava anche la televisione. Si, perché era a colori e lui non poteva vederli.
«Ho ascoltato come parli con il dottore.»
«Ah, quello.»
«Vedi? Ora l'hai mangiato chiamandolo "quello".»
«Fosse così semplice mangiare un dottore in questo modo, sarebbero tutti estinti.»
Un'altra battuta che la faceva ridere.
«Sarei estinta anche io allora.»
«No, dai, alcuni si salvano.»
«Ah si? Allora perché i dinosauri sono tutti morti?»
«Ti svelo un segreto: i dinosauri son morti perché, correndo e volando troppo, il loro piccolo cuore non ce l'ha fatta a tenere una massa così enorme.»
«Wow, sembri Lorenz quando parla delle sue teorie sugli animali.»
Flavio alzò il sopracciglio ascoltando un nuovo nome strano.

«Ma chi è questa gente? B-qualcosa, ora L-qualcosa.»
«Vabbè, dai. Un giorno faremo qualcosa con la tua istruzione. Un po' ignorante, eh? Oh, aspetta!»
L'attenzione di Sara si focalizzò sulla televisione che parlava dei movimenti femministi. Eclatante il caso di una donna che viene, per la prima volta, ammessa all'Accademia Militare di West Point.
«Il mondo sta cambiando.» - sbottò con quella frase Sara. Flavio non capiva se doveva esserne felice o triste. Perché Sara diceva ciò? E, soprattutto, era cosa buona e giusta? I cambiamenti. Anche lui era cambiato in dieci anni. In bene o in male? Lui poteva affermare in male.
«Perché?»
«Le donne. Ricorda: quando cambiano le donne, il mondo cambia...» - spuntò un sorriso fiero sulle labbra della ragazza - «...ho letto, su un giornale, che i movimenti femministi stanno combattendo contro ogni sopruso, violenza, insinuazione. Basta essere il sesso debole, noi non siamo deboli!»
«Non accenderti, però.»
Le parole di Sara si facevano più forti, più convincenti ogni momento che passava. Anche se non poteva vedere, poteva giurare che Sara si stava emozionando, eccitando per quelle notizie.
«Alla radio ho sentito, però, dell'aborto. Combatti anche tu per legalizzare l'aborto?»
«Il mondo sta cambiando e, vuoi o non vuoi, i cambiamenti portano con sé cose negative e cose positive.»
«Perciò accetti tutto questo, anche l'aborto.»
«Non so cosa pensare.»
Quella forza che sentiva crescente nelle parole della ragazza, ora andava scemando. Aveva capito che le aveva fatto una domanda a cui non aveva risposta o a cui aveva paura di rispondere.
«Forse, tra qualche anno, l'America avrà più potere di quello che ha ora. Probabilmente ci sarà un presidente nero, immagini?»
Sara sorrise vedendo che, forse, le sue idee erano condivise da qualcun altro. Cambia il mondo, cambiano le menti.
«Immagina un presidente donna. Farebbe la sua gran bella figura! Anzi no, pensa in grande. Immagina una papessa!»
«Ok, ora stai sognando un po' troppo!»

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Capitolo 3
*** Con fare dolce e distruttivo - tatto ***


2. Con fare dolce e distruttivo - tatto

«Si rivesta signor Bianchi.»
«Grazie, eh!»
Flavio teneva le mani poggiate sul bordo del letto su cui soleva star seduto. Si era, ormai, abituato a quella stanza che era diventata casa. Conosceva, bene o male, l'angolo di mondo in cui stava ogni mattina, anche se quella sala era un luogo sconosciuto ai suoi occhi.
«Si guardi, ultimamente sta migliorando.»
Nella sua mente iniziarono a vagare tanti, tantissimi insulti per quel dottore. Si sorprendeva, ogni giorno di più, per le parole che uscivano da quella insulsa e stupida bocca.
«Non posso guardarmi... o l'ha dimenticato?»
Il dottore alzò lo sguardo dalle cartelle mediche e scrutò il fisico del paziente che rimaneva fermo nella sua posizione.
«Io intendevo dentro di sé.»
«Come non vedo ciò che c'è fuori, non vedo ciò che c'è dentro di me.»
«Beh, allora dovrebbe semplicemente seguire i miei consigli.»
«Per rimanere traumatizzato a vita!»
Non c'era mai stata questa gran chimica tra loro due. Flavio era molto scontroso, soprattutto nei confronti di quest’uomo troppo egocentrico che sicuramente faceva il dottore per sentirsi lodato e non per il bene degli altri. Proprio per questo, Flavio evitava tutte quelle parole dolci e quelle trappole messe davanti ai suoi occhi non vedenti che, nonostante tutto, sarebbero rimasti inutilizzabili. Non esisteva un modo per tornare a vedere, non esistevano occhi nuovi.
«Oh, dottoressa Grandi...» - il dottore, con tono alquanto felice, annunciò l'arrivo della dottoressa - «Dia una mano al signor Bianchi, io ho delle cose importanti da fare.»
Erano passate quasi tre settimane da quando una nuova presenza si aggirava tra i corridoi del centro di cura. Questa nuova presenza si chiamava Sara e Flavio l'aveva accolta a braccia aperte. L’aveva fatto perché, da quando era arrivata lei, si respirava un nuovo profumo nelle stanze e lui sorrideva. Non sorrideva, forse, da quando giocava a pallone nel campo con i suoi amici. Gli amici… Pietro che fine aveva fatto? Matteo ci provava ancora con quella ragazza? Luca ancora si lamentava di quello che la madre gli cucinava?
Flavio si chiedeva spesso queste cose e si rispondeva pensando che non gli fregava un cazzo di Pietro (d’altronde Pietro si chiedeva che fine avesse fatto lui?), che Matteo sicuramente si sarebbe fatta scappare la ragazza (e la ragazza non sbagliava nel farselo scappare) e che Luca poteva evitare di lamentarsi in quanto lui poteva ancora vedere. Ma, con l’arrivo della dottoressa Grandi, smise di porsi queste domande. I suoi pensieri erano annebbiati da tante altre cose strane come l’America, le more e la voce di quella nuova presenza.
Invece le vecchie presenze non riusciva proprio a farsele piacere. Infatti Flavio commentò, come sempre, le azioni del dottorino che credeva andato via.
«Sicuramente andrà a farsi qualche sigaro e poi andrà a chiudersi in un ristorante per soddisfare il suo appetito da porco menefreghista.»
«Signor Bianchi, prima di far commenti si assicuri che il diretto interessato non ascolti! Ora vado, davvero.»
Sara vide il dottore andare via e chiuse la porta cercando di non ridere ma, ovviamente, non riuscì a trattenersi.
«Bella figura, sfigato!»
Flavio si girò lentamente e iniziò a fare dei passi in avanti per avvicinarsi a Sara. Mentre camminava, continuava, con le mani, a toccare ciò che gli stava attorno, cercava di orientarsi.
«Le persone preferiscono dire bugie e non la verità perché hanno paura che gli altri la dicono a loro! La verità, al dottore, non va detta perché, dopo, lui dovrebbe dire che non esiste cura per la cecità!»
Anche se Sara non diede risposta, le parole appena sentite erano rimaste incollate ad un pezzo della sua mente perché quello che Flavio aveva appena detto era, probabilmente, più che vero.
«Ora permetti che io ti vesta.»
«Come sono, Sara?»
Sara aveva appena preso la maglia di Flavio dal lettino per poterlo aiutare a vestirsi ma si fermò quando ascoltò quella domanda curiosa.
«Cosa intendi?»
«Come sono fisicamente. Guardami e dimmi cosa vedi.»
Lasciò la maglia e si avvicinò a lui.
«Hai dei piedi grandi, davvero. Non so come abbiano fatto a trovare un paio di scarpe così grande.»
Flavio rise e lo fece anche lei ma, poi, ritornarono seri. Lei si inginocchiò e, con fare dolce, toccò le caviglie del ragazzo.
«Le gambe sono forti e stabili, anche se i tuoi passi non lo sono affatto.»
Pian piano iniziò ad alzarsi da terra e a salire con le mani come se la sua mano fosse un auto e il corpo di Flavio una strada.
«Hai due nei carini sulla gamba.»
Con l'indice puntò i due nei e poi continuò a salire.
«La zona x lascio a te scoprirla.»
«Stupida!»
Ritornarono a sorridere e questo riuscì a calmare il respiro e il battito di Flavio. Era la prima ragazza che stava toccando, interamente, il corpo di Flavio che era a torso nudo. Questo inaspettato contatto con le dita delicate di lei lo avevano spiazzato e, quasi incredulo, iniziava a sentire la voglia di avere quella donna per sé.
«Ti sei mantenuto allenato perché il tuo corpo è asciutto, non hai un fisico da buttare.»
Le dita di lei continuavano a viaggiare sul corpo di lui che era vittima di dolci brividi. Arrivata al petto, con l'indice, scrisse la parola Flavio.
«Hai delle dita lunghe e delle vene visibili. Ho una strana ossessione per le vene.» - la dottoressa prese con una sua mano la mano del ragazzo e, con l’indice della mano libera, seguiva quelle vene.
Rimasero per qualche secondo in silenzio, poi ripartì il viaggio di Sara sul corpo di Flavio. Percorrendo la salita, Sara si soffermò sul contorno delle labbra.
«Le tue labbra non sono come le mie. Le mie sono molto più carnose. Le tue sono sottili, rosee e, quando sorridi, una fossetta appare al lato destro. Dovresti sorridere di più.»
Mentre continuava a sfiorare le labbra, Sara raccontava le piccole particolarità del viso del ragazzo che continuava a sentire, dentro di sé, qualcosa di nuovo, qualcosa che lo faceva sentire instabile ma, al tempo stesso, felice.
«Non hai, fortunatamente, un naso all'insù, ma uno proporzionato al tuo viso. I capelli sono di un nero fortissimo. E i tuoi occhi...»
Sara accarezzò la palpebra dell’occhio sinistro con le falangi delle dita.
«Non aver paura di me, Flavio. Puoi aprire gli occhi.»
Flavio, quando ascoltò quelle parole inaspettate, tornò a sentire il cuore battergli come un pazzo. Quella non era una richiesta ragionevole, non era una cosa da poter domandare così facilmente.
«Non agitarti, Flavio. Non sono gli unici occhi visti in vita mia.»
«Sì, ma non hai mai visto gli occhi di un cieco.» – così rispose Flavio che spostò il viso provando ad allontanare le dita di Sara con questo unico gesto di distacco.
«Non importa… davvero.» - Sara sorrise e ritornò a sfiorare il volto del ragazzo. - «Gli occhi di chi non si meraviglia, di chi non prova nulla… quelli sono gli occhi più brutti che ci siano, non i tuoi. Perché tu ancora ti meravigli, Flavio, vero?»
Sarà, però, non poteva sapere che lui, proprio in quel momento, stava provando qualcosa, qualcosa che superava la meraviglia, solo grazie a lei.
 
Erano, come sempre, nella stanzetta 428. Parlavano. Non se ne accorgevano ma, tra loro, scorrevano fiumi di parole. Non smettevano mai di dirsi la loro, mai di scambiarsi informazioni o opinioni, mai di parlare di musica.
«Sara, perché non mi racconti un po' di te?»
Da quando era diventato cieco, Flavio aveva preso il vizio di poggiare la schiena su qualsiasi parte solida: pareti, schienali, mobili. Non lo faceva neanche volutamente ma cercava degli appoggi, forse quelli che le persone e la vista gli avevano distrutto.
«Devo iniziare a preoccuparmi, Flavio? Ieri mi hai chiesto di descrivere il tuo fisico, oggi mi chiedi di me… cosa passa nella tua testolina?» – Sara sorrise rallegrata. Questo suo rapporto complice con Flavio le faceva bene, le faceva piacere di più quel posto e il suo lavoro.
«No, son solo curioso di sapere… di più.»
«Sapere qualcosa in più di me? Non c'è molto da dire.»
Sara continuava a fare avanti e indietro nella stanzetta, non riusciva a star calma. Prendeva la cartella clinica, la controllava e poi la posava sulla scrivania. Metteva in ordine sedie, penne, matite, tutto quello che poteva.
«Allora facciamo un gioco: io descrivo te, tu descrivi me... questa volta caratterialmente.»
Sara fece cenno di sì col capo involontariamente, spesso dimenticava che aveva di fronte una persona che non la poteva guardare. Prese posto accanto a lui e cercò di prestare tutta l'attenzione possibile. Amava quando qualcuno la giudicava.
«Flavio, mi raccomando: senza peli sulla lingua. Io non sono come tutte le persone che odiano sentirsi dire la verità.»
«Bene, così dopo sarai anche tu sincera con me.»
«Proprio come la logica che mi hai spiegato ieri.»
Flavio sorrise soddisfatto. Quando ciò che dici resta nella mente di qualcuno, non puoi che esserne fiero.
«Tu... tu hai degli ideali che mandi avanti con coraggio...» - iniziò a dire quel che pensava di lei - «...Sei diversa dalle altre e non so dirti il perché.»
Adesso che doveva parlare di lei, Flavio aveva avuto un tentennamento. Le parole che stava usando non erano giuste, per niente. In testa sapeva bene quello che voleva dire ma, trasformandole in parole, quelle idee sembravano essere stupide e infantili.
«Ti sei sprecato con le parole, eh?»
«Dai, sono un tipo timido io.»
«Si, timido... Quando dormi. Ora tocca a me.»
Sara tirò un sospiro, pensava quale parte omettere del discorso e cosa dire, ma non riuscì a farlo. Lasciò che le parole prendessero il proprio corso senza censurare nulla.
«Sei codardo. Hai paura di ammettere agli altri che hai bisogno di loro. Cerchi di trattare male tutti, li mandi a quel paese e li allontani perché hai paura. Hai una dannata paura di dover, poi, dipendere da loro. Non capisci, però, che devi donare la tua fiducia a qualcuno, lasciare che quel qualcuno ti accompagni e non perché sei cieco, no. Tutte le persone, se sono sole, non ce la fanno. Questo mondo, anche se sta cambiando, sarà sempre duro. Con te, con me, con qualcun altro là fuori. Tante saranno le occasioni in cui dovremmo metterci in gioco e tante saranno le volte in cui perderemo e, quando perderai, con chi potrai sfogarti? Quando vincerai, con chi potrai gioire se sei solo? Non ti metti in gioco perché sei cieco? Il tuo cuore non è cieco. La tua mente non è cieca. Puoi ancora giocare, non sei stato sconfitto. Hai scelto tu di sederti in panchina.»
Seguirono attimi di silenzio dopo quelle parole che si erano rivelate forti, fatali come la forza di uragano che riesce a distruggere tetti e pareti. Ecco, Flavio aveva perso il tetto e le pareti a causa dell'uragano Sara che era arrivato con fare dolce e distruttivo.
«Se lasci entrare qualcuno nel tuo mondo, Flavio, sta' sicuro che sarà difficile abbandonarti.»
Sara accarezzò la guancia di Flavio, lui si lasciò andare a quel piccolo gesto. Prima, però, di lasciarsi andare completamente a quella ragazza che iniziava a comprenderlo davvero, aprì il suo cuore con parole che le chiedevano di non fargli male. Il mondo gliene aveva già procurato abbastanza.
«Sara, non ingannarmi come fanno i miei sensi. Se ti lasciassi entrare, se creassi un posto per te nel mio mondo, resteresti?»
«Cambia il mondo, cambiano i rapporti. Potrei entrare ma potrei anche uscire. Tu inizia a cambiare il modo di interagire con le persone.»
La ragazza si alzò e ritornò a mettere in ordine le varie cose che le sembravano avere un posto sbagliato. Avrebbe voluto ordinare anche la mente di quel ragazzo che le sembrava così spaesato, indifeso ma, al tempo stesso, forte e coraggioso. Infatti, se la sua debolezza era il lasciare fuori tutti, la sua forza era il riuscire a rialzarsi da solo.
«E non ti preoccupare, io già mi sono guadagnata un posto nel tuo mondo.»
 

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Capitolo 4
*** Siamo noi la musica - udito ***


3. Siamo noi la musica - udito

«Non ci credo.»
Sara versava della vodka nei due bicchieri di plastica da caffè. Tutti e due risero.
«Lo prometto.»
Lei usò la sua mano per nascondere le labbra che erano larghe a causa della risata che non riusciva proprio a contenere. La stessa cosa stava facendo Flavio. Lui, ormai, aveva perso il conto di quanti bicchieri avesse bevuto, aveva anche dimenticato il nome dell'alcool che stava bevendo. Se avesse avuto la vista, avrebbe letto l'etichetta ma lo divertiva il fatto che non potesse scoprire cosa stesse bevendo: era qualcosa che rendeva misterioso quell'incontro notturno. Sara e Flavio, infatti, erano rimasti soli al parco. Era tarda notte, lei lo aveva ripetuto più volte ma, per lui, non cambiava niente. Non importava se c'era il sole o se c'era la luna, poteva anche diluviare ma lei era con lui e questo bastava.
Flavio tornò a parlare dell'avventura che li faceva così tanto ridere.
«Non capivo che stavo parlando con un cane al posto di mio zio. Sentivo una strana puzza, ma pensavo fosse l'alito puzzolente.»
Lei assunse un’espressione schifata, stava pensando al cane che respirava affannosamente accanto a Flavio.
«Bleah! Che schifo! Immagina se lo avessi baciato.»
Flavio sputò dalla bocca quel poco di alcool che aveva iniziato a bere qualche attimo prima.
«Che schifo!»
Ormai si erano lasciati andare all'alcool e nessuno più li avrebbe fermati. Flavio alzò il capo e, assorto dalla notte, iniziò a immaginare una luna piena, un cielo stellato.
«Sono le due, lo sai Flavio? Dovrei accompagnarti.»
Quando sentì quelle parole iniziò a sentirsi meno uomo. Non erano le donne che accompagnavano gli uomini, non erano le donne che facevano la prima mossa. Quelle piccole cose le facevano gli uomini. Gli uomini portavano le ragazze a casa, gli uomini si preoccupavano per loro. Lui non poteva ma, quella sera, cercò di essere un Flavio spensierato.
Era da tempo che non restava fuori così tardi: i suoi amici erano scomparsi da quando aveva perso la vista, le ragazze erano diventate dei puntini neri nel suo nero immenso. Nessuno aveva voglia di prendersi cura dell'anima di un cieco. Sara, però, stava aiutando quell'anima.
«Potremmo restare qua quanto vogliamo. Sara, comandiamo noi e voglio ballare, con te.»
«Ma non c'è musica.»
Una qualsiasi persona avrebbe detto che non si poteva ballare perché lui era cieco. Lei no, Sara non poteva ballare perché non c'era musica.
«Siamo noi la musica.» - lentamente si alzò da terra e cercò di porgerle la mano come per invitarla a ballare. - «Cosa c'è? Devo chiedere ad un cane di ballare con me? Sei alle mie spalle, vero? Invece di porgerti la mano, ti sto porgendo il sedere?»
Lei rise e, come per fargli capire che aveva scelto il lato giusto, strinse la sua mano. Fece forza da terra e si alzò. I loro corpi si avvicinarono e Flavio lasciò andarsi a quel profumo che lo catturava ogni volta che erano vicini. Iniziò a fare passi incerti, aveva paura di calpestarle i piedi ma a lei non interessava. Se lui era sorpreso che lei lo trattasse come un uomo, lei era sorpresa dal fatto che lui fosse così pieno di vita.
«Balli bene.»
Gli sussurrò quelle parole per cercare di non distruggere la magia che stava iniziando a crearsi. Anche se non poteva vedere, lei sapeva che lui l'avvertiva quell’atmosfera. Lei si strinse di più a lui e cercò di sincronizzare il respiro al suo: cercava di creare una sola anima con due corpi diversamente instabili.
«Hai voglia di scherzare con me? Non si scherza con i ciechi.»
Lei sorrise. Continuava a seguire i passi da ballerino inesperto del ragazzo ma che lasciava andarsi alla musica.
Le loro guance si sfiorarono, i loro corpi continuavano ad essere vicinissimi e le loro mani strette per non lasciarsi mai andare. Lentamente si avvicinarono anche le labbra senza, però, toccarsi.
«La senti la musica?»
«No...»
Le loro voci appena accennate cercavano di non sovrastare la musica che Flavio sentiva.
«Chiudi gli occhi.»
Sara obbedì ai comandi del ragazzo. Un ragazzo che, dopo tanto tempo, la faceva sentire viva.
«Io e te, siamo soli. Luci soffuse e accanto a noi il mare. Stasera il mare è silenzioso ma l'orchestra suona una canzone per te.»
«Solo per me?»
«Si, te la dedico io.»
«Flavio, la sento. Stanno suonando La vie en rose.»
Questa volta, però, le labbra si stavano toccando per baciarsi. Un bacio intenso, forte, un bacio sentito e nessuno dei due voleva spezzare quel legame: stavano bene così. Ora erano davvero un'anima in due corpi ma Sara divise quel contatto indietreggiando.
«Non posso.»
Lasciò le sue mani e, senza avvertirlo, abbandonò Flavio da solo. Iniziò a camminare per trovare l'uscita del parco. Risultava difficile dover dividere un parco così grande che ormai appariva piccolo per loro due. Nella sua testa iniziava a rimproverarsi.
«Come? Come ho potuto?»
Si strofinava i capelli per cercare di far andar via i pensieri, guardava a destra e a sinistra, camminava da un lato e poi si spostava ad un altro. Non riusciva a trovare pace, così anche i suoi pensieri.
«Baciarlo? Cosa mi è passato per la testa? Lui è un paziente, io una dottoressa. È tutto sbagliato. Non doveva andare così.»
Strinse la mano in un pugno e lo morse. Lo stava maledicendo, era la sua prima esperienza lavorativa e non poteva rovinare il proprio futuro per un ragazzo.
«Cavolo, Flavio!»
Ricordò che non si lascia un uomo non vedente in un parco, solo, alle due di notte.
Tornò allora indietro, lo vide parlare da solo.
«Adesso parli anche da solo?»
«No, parlavo con te...»
«Ah... ok!»
Anche se non aveva sentito le parole precedenti, Sara sapeva che ce ne sarebbero state altre e non poteva ascoltarle, non doveva, non voleva. Quindi lo bloccò velocemente.
«Flavio, fermati. Non parlare, so cosa vuoi dirmi e io non posso ricambiare quello che tu provi. Non è colpa tua, davv…»
«Adesso non parlare tu, per favore. So cosa vuoi dire.»
Il tono di voce di Flavio si fece più basso , sul suo viso apparve un sorriso che non trasmetteva affatto gioia. Non voleva sentirla parlare, sapeva qual era il problema e sentirsi dire determinate parole, da lei, faceva male. Avrebbe superato pure questa delusione, comunque. Una donna che non lo voleva perché era cieco? Solita storia. Eppure sentiva che qualcosa, dentro di sé, si era lacerato.

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Capitolo 5
*** Che gusto c'è ad evitarsi? - gusto ***


4. Che gusto c’è ad evitarsi? - gusto

Solo.
Anche se stavano camminando uno accanto all'altro, lui sentiva di essere solo. Camminava ma c'era un fantasma che lo stava portando a casa. Cosa pensava? Cosa la stava tormentando?
Silenzio.
Non il silenzio visivo che era abituato a "vedere", questa volta il silenzio che aveva era quello delle parole e non lo preferiva affatto. La musica era scomparsa, l'orchestra andata via. Mancava un dialogo, le loro battute, i loro discorsi e lui provava, stranamente, già la mancanza delle sue labbra. Al minimo tocco lui aveva sentito quelle labbra soffici, piene, allettanti.
Senso.
Iniziava a capire, comunque, che quel bacio non aveva senso perché, con quel minimo gesto, aveva distrutto l'unica persona con cui riusciva a sentirsi vivo.
Controsenso.
Era un controsenso che due persone provassero gli stessi sentimenti ma che i loro pensieri fossero tormentati dal loro essere. Lei che pensava di non poter stare con lui perché era un suo paziente. Lui che pensava di non essere amato perché cieco. Restava, dunque, il silenzio: troppo assordante per due anime che facevano finta di non volersi.

Quella mattina era frastornato. Dovevano essere gli effetti della sbronza che si facevano sentire più forti che mai. Era sul lettino e cercava di perdere il tempo tamburellando le dita sulla plastica ma, ovviamente, il fatto di tamburellare con le dita, non aiutava molto, neanche per il suo mal di testa.
«Credo tu debba smetterla di tormentare quel materassino.»
Bloccò all'istante tutti i movimenti e mosse di scatto l'orecchio verso la voce che gli parlava. Sara era lì.
«Non lo tormento più, ormai. È mio amico: il migliore.»
«Pensavo di essere io la migliore.»
Sara si morse la lingua. Era abituata a lanciare frecciatine, a non prendere tutto sul serio, a rendere la vita un gioco e quella sala era, infatti, un perfetto cubo in cui il suo carattere veniva, più volte, scoperto e riscoperto. Dimenticava, perciò, di dover evitare di essere un po' più sé stessa e diventare più dottoressa… soprattutto adesso.
«Davvero? Un po' presuntuosa la ragazza...»
Ovviamente lui cercò di non farle sentire il peso di quel famoso bacio, il bacio che aveva svegliato il cuore dei due ragazzi tormentati dai pensieri.
«Io sono presuntuosa ma tu resti il solito stronzo cieco.»
Flavio abbassò il capo e i suoi pensieri furono mangiati da quell'ultima parola uscita dalla bocca della ragazza che occupava uno spazio particolare nella sua vita. Cieco. Lui era davvero cieco e ritornò a pensare a quel non-noi.
«Preferisco essere più stronzo che cieco.»
«Se non fossi cieco, saresti un semplice stronzo.»
Per un attimo l'aveva dimenticato questo aspetto di lei che l'attirava da pazzi: lei non era la semplice ragazza stereotipata. Dava risposte strane, diverse e quest'ultima era, sicuramente, una delle più contorte che gli aveva mai dato.
«Beh, tutti amano gli stronzi semplici, non quelli difficili da interpretare.»
«Piacere, sono Sara... non tutti. Mi piace interpretare gli stronzi difficili.»
«Allora perché non mi vuoi?»
 
 

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Capitolo 6
*** Io ti vedo - vista ***


5. Io ti vedo - vista


Un nuovo giorno, un nuovo modo per incontrare Sara. Quel profumo di more, però, tardava ad arrivare. Il bacio aveva incasinato tutto, le parole avevano scombussolato tutto e  loro non erano più gli stessi. Si evitavano, si dividevano e Flavio si sentiva più solo che mai. Dopo aver detto quelle parole in modo spontaneo e del tutto involontario, non aveva ricevuto risposta. Lei era andata via e lui continuava ad essere certo di quel che pensava: lei non desiderava un uomo cieco accanto a sé. Insomma, veramente, cosa poteva offrire un uomo cieco in una relazione? Non si sarebbe presentato, da solo, con una rosa in mano il giorno di San Valentino, non avrebbe visto un film romantico, non avrebbe visto nemmeno un film horror per poi abbracciare la propria donna, non avrebbe potuto cucinare per lei, non avrebbe potuto portarle la colazione a letto, non avrebbe potuto scriverle lettere infinite d'amore. Una donna accanto a lui avrebbe dovuto accudirlo come si accudisce un neonato, avrebbe dovuto controllarlo passo dopo passo, avrebbe dovuto accompagnarlo perfino in bagno. Che progetti per il futuro potevano costruirsi? Poteva esistere un futuro per lui? Avrebbe mai potuto essere padre? Un padre cieco! Cosa avrebbe offerto un padre cieco ai propri figli? Sicurezza? Non poteva. Poteva solo assicurare pene.
Iniziava a sentire sempre più forte la perdita di una dignità propria, quella dignità che credeva di aver perso ma a cui Sara aveva dato, di nuovo, valore dopo tanto tempo. La cecità aveva portato via tutto, anche il progetto di un futuro.
Al posto del profumo di more, però, la sala si riempì di uno strano rumore, un rumore snervante. Doveva essere il suono di un telefono ed era fastidioso. Di certo l’aveva scelto il dottore quel suono: solo lui poteva scegliere cose fastidiose da usare come suoneria. Il trillo cessò di esistere fortunatamente ma, dopo neanche qualche secondo, ritornò a farsi incessante. Flavio si chiedeva come mai nessuno rispondesse, ma poco importava. Doveva farlo smettere. Decise, allora, di alzarsi dal materassino e iniziò a camminare perché… al bando le idee patetiche e retrograde di chi crede che un cieco sia anche invalido! Flavio pensava che, così, avrebbe dimostrato, a sé stesso prima di tutto, che lui poteva farcela. Con il dorso di una mano seguiva la parete, con l'altra stava toccando la scrivania ma, improvvisamente, perse l'equilibrio perché qualcosa gli stava bloccando il passaggio. Cadendo trascinò con sé varie cose che stavano sulla scrivania. Il tonfo fu così rumoroso che, in pochi secondi, tutta la stanza si era riempita di persone. Flavio sentiva i rumori, la gente, i passi. Non sapeva che espressione avessero i singoli individui, ma poteva solo immaginare che tutti stavano guardando il povero cieco. Sentendo due mani che lo prendevano per farlo alzare, iniziò ad agitarsi e la sua mano colpì la guancia della persona che stava cercando di aiutarlo. Era cieco, non un coglione che non riusciva ad alzarsi da terra.
«Basta, non c'è nessun spettacolo da vedere qua.»
Si sorprese, però, quando scoprì che la persona a cui aveva dato involontariamente uno schiaffo era Sara. Rimase lì a respirare. Tutti gli altri erano diventati nessuno, lui aveva schiaffeggiato Sara.
«Scusa.»
Flavio seppe dire solo quello.
«Non ti preoccupare. Non volevi farlo, lo so.»
Iniziò a sentire un peso in meno sul petto e, senza l'aiuto di Sara, si alzò da terra.
«Non so perché ho fatto così. Da quando non vedo mi agito se non so chi mi sta toccando.»
«Posso solo immaginare come ti senti, non posso capire quello che provi sfortunatamente.»
Quell'affermazione lo confuse. Era tipico di Sara, confonderlo e affascinarlo con le sue risposte strane ma reali.
«Tu dici di non capire, ma io ho paura che tu abbia capito tutto.»
«Cosa intendi?»
«Sai, se potessi vedere di nuovo, la prima persona che vorrei vedere al mio fianco sei tu.»

Per la prima volta, nella sua vita da paziente, Flavio era seduto su una sedia che stava accanto alla scrivania del dottore e non sul lettino. Questo era un evento che avrebbe fatto appuntare su un'agenda. Non gli era mai capitato una cosa del genere. La prima volta che era stato tanto vicino alla scrivania era quando era caduto e Sara lo aveva aiutato ad alzarsi. Ora, invece, non era caduto e non aveva nemmeno bisogno di qualcuno che lo aiutasse ad alzarsi da terra.
«Perché, per una volta, non è un po' onesto con me, dottore?»
Quella era la prima conversazione importante e seria che Flavio aveva con il dottore. Indubbiamente continuava a non adorare quella persona ma, adesso, iniziava a credere che era l'ora di scoprire le carte in tavola. Aveva o no una cura per il suo problema? Avrebbe potuto spezzare il silenzio visivo o avrebbe continuato a giocare all'allegro chirurgo con lui?
«Esiste davvero una cura?»
Finora aveva partecipato a quella pantomima per non far perdere la speranza ai propri genitori. Ora, però, iniziava a chiedersi se c'era davvero speranza per lui. Avrebbe potuto riacquistare la vista e, soprattutto, avrebbe potuto avere vicino a sé Sara? Perché, se avesse riacquistato la vista, Sara lo avrebbe scelto. Flavio credeva così e nessuno avrebbe potuto fargli cambiare idea: Sara non voleva un cieco.
«Allora? C'è o non c'è?»
«Lei sta facendo dei miglioramenti, signor Bianchi, davvero…»
«Tutte queste medicine non mi stanno aiutando affatto, dottore.»
«Si fidi di me: sta funzionando!»
«Non ne sono molto sicuro.»
«Perché non crede in quel che dico?»
«Perché sono io quello che prende le medicine, io quello che sta giocando con questa cura, io quello che non sta migliorando e la cosa spaventa. Dovrebbe accendere una candela e dire una preghiera magistrale perché ho capito che, a me, serve un miracolo.»
«Sinceramente, signor Bianchi, se devo sentire la sua sfiducia nei confronti della mia cura, non capisco perché lei sia ancora qui.»
«Già, perché sono ancora qui? Insomma, la speranza e la fortuna non mi sono mai state amiche.»
«Perciò, me lo dica senza troppi giri di parole, vuole abbandonare?»
«Non c'è più niente da fare qua. Non esiste cura né lei è in grado di trovarla!»
Non esisteva cura per la sua vista ed era certo che non esisteva cura per il suo cuore spezzato.

«Ho sentito che vai via, abbandoni tutto.»
«Si, ti interessa?»
«Certo che mi interessa.»
Sara aveva il fiatone e quelle parole erano arrivate senza un ciao, un buongiorno o qualche altra parola di cortesia. Erano passati due giorni da quando Flavio aveva firmato le carte per lasciare il centro per ciechi. Per abbandonare la cura, doveva sottoporsi ad altre visite e, poi, sarebbe stato libero. Quello era il suo ultimo giorno. Quasi una settimana, invece, che non sentiva Sara. Era rimasto dei giorni senza sue notizie. Aveva quasi dimenticato la fragranza al gusto di more, le parole forti, le risate.
Flavio inarcò le sopracciglia ascoltando quella risposta. Come poteva dire che le interessava di lui? Come? Con quale coraggio diceva quelle parole? Sentire la sua voce l'aveva fatto stare male ma anche la sua assenza l'aveva fatto.
«Scusate, potete lasciarci un attimo soli?»
Il dottore guardò in modo curioso la dottoressa e i genitori di Flavio non sapevano cosa fare. Alzarsi o restare seduti accanto al figlio? Alla fine i tre decisero di rispettare la scelta del ragazzo. Sara seguì con lo sguardo le tre sagome andare via e chiuse la porta.
«Ascolta, Flav...»
«No, ascoltami tu!»
Il tono autoritario di Flavio sorprese Sara. Cosa era successo? Trovò una sola risposta: aveva rialzato il tetto e le pareti che era riuscita a far crollare precedentemente. Lei era rimasta fuori.
«Dopo che non mi hai prestato un minimo di attenzione, un minimo, arrivi e dici che ti interessa di me? Ti doveva interessare prima. Dove sei stata tutto questo tempo? Avevo lasciato che entrassi nel mio mondo, proprio come tu hai detto, e il mio mondo, in questo preciso istante, è deserto. Sei sparita e credo sia stata una reazione esagerata da parte tua. Capisco che baciare un cieco sarà stato qualcosa di sconvolgente per la tua patetica vita ma scappare, lasciarmi qua solo? Sappi che una volta usciti, non si entra di nuovo nel mio mondo.»
Sara cercava di seguire il filo del discorso di Flavio ma erano state tante le parole, tante le emozioni, tante le incomprensioni.
«Aspetta un attimo. Credi che io non voglia stare con te perché sei cieco?»
«Ora vorrei ferirti con uno sguardo fulmineo, con uno di quegli sguardi infuocati che fanno male ma, visto che non posso, proverò con le parole. Sai, continua a far male. Mi sono fidato di te e capisco che, in realtà, sei proprio uguale agli altri: sei di passaggio. È stato un caso incontrarci, io sono stato il tappabuchi per le tue ore libere. Mi avrai studiato per scrivere una tesi sui miei comportamenti o ti vanterai del fatto che tu abbia baciato un uomo instabile con le tue amiche femministe favorevoli ad aborto, divorzio e altre cazzate.»
Sara iniziò a muovere la testa con fare incredulo, gli occhi spalancati. Le prime parole le meritava, si. Era andata via perché aveva paura di ammettere a sé stessa i propri sentimenti e, perciò, lui aveva ragione. Lei l'aveva lasciato solo e aveva tutte le motivazioni giuste per averla cacciata dal suo mondo, ma le ultime parole non le meritava affatto. Credeva che quelle parole fossero cattive, insensate. In questo momento lei stava vedendo un bambino ferito e non un uomo, l'uomo che le piaceva da impazzire.
«Davvero credi questo? Allora non hai capito un cazzo di me. Io andarmi a vantare di aver baciato un cieco? Io che ti sfrutto? Io ero entrata nel tuo mondo perché mi piace stare con te. Tu, Flavio, vedi?»
«Si, io ti vedo in modo cristallino. Forse vedo anche quello che gli occhi degli altri non vedono davvero.»
«Tu mi vedi in modo cristallino? Io, invece, ti vedo per quello che sei davvero. Continui a buttare via tutti. Alla minima difficoltà ti vedi abbandonato e mi cacci via. Ma sai cosa? Non mi stai cacciando tu. Sono io che sto andando via. Goditi il deserto, io mi sono rotta l'anima di essere la tua oasi se devo essere trattata come fango. Ah, e sappi un altro piccolo particolare che forse non ti è stato chiarito perché vedi la realtà in modo distorto. Io, ripeto, non ti ho usato, non ho giocato con te, non sei stato mai la mia cavia. Ho una calamita per gli stronzi difficili da interpretare e tu sei stato il primo magnete che si è attaccato alla mia calamita. Che calamita di merda che sono! Attiro gli stronzi sfigati! Altra informazione per il tuo ego ferito: il problema non eri tu, ero io che ero la tua dottoressa. Ora, fanculo e goditi la vita, cerca qualcuno che non sia di passaggio. Vado a giocare con le barbie insieme alle mie amiche femministe.»
Aprì con gran violenza la porta e, con passi svelti, uscì da quella struttura. Flavio rimase, invece, bloccato sulla sedia, ancora nella stessa posizione mentre il cuore batteva a mille. Venature nere macchiavano il suo vedere, i suoi pensieri, il suo cuore.
«Sara...»
Stava chiamando, a voce bassa, Sara. Tutto, però, era vano. Capiva, così, che l'impotenza di un cieco poteva essere l'impotenza di un uomo qualsiasi che capisce di aver sbagliato e che non sa trovar rimedio.

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Capitolo 7
*** Un posto per me - realtà ***


6. Un posto per me – realtà

Il rumore dei passi compiuti da quei tacchi neri echeggiava in tutto il corridoio. Erano le nove di sera e, con sorpresa, il corridoio era già vuoto. Non c'erano visitatori, non c'erano infermieri o dottori, non c'erano loro che passavano inosservati tra gli altri. La dottoressa, con passo fiero, continuava a spingere il carrello delle medicine lungo il suo tragitto e, per rompere quel silenzio, aveva iniziato ad intonare la melodia di una delle sue canzoni preferite. Aveva fatto tutto quello che doveva fare e, finalmente, la sua giornata era finita. Era stanca. Da tanto tempo faceva quel mestiere ma, nonostante lo amasse con tutta sé stessa, sperava sempre che la fine della giornata fosse più vicina. Di notte, nel letto, a volte pensava che stava iniziando a stufarsi di quella sua vita. La routine uccideva e aveva bisogno di una nuova sfida per sé.
Estrasse dalla tasca le chiavi del laboratorio e depositò il carrello vuoto. Uscì da lì, richiuse la porta a chiave e tornò a percorrere il corridoio. Smise di cantare e sospirò perché stava ritornando a pensare a lei, alla sua vita, al suo lavoro. Era sfinita, davvero tanto. Anche se avesse progettato qualcosa, era consapevole del fatto che si sarebbe addormentata una volta arrivata a casa. I segni del sonno si facevano già sentire… ma scomparvero quando un improvviso tonfo la spaventò. La sua camminata regolare e lineare si bloccò. Passarono pochi secondi quando sentì un altro rumore.
«Tutto bene lì dentro?»
La dottoressa, con passo lento, si avvicinò alla porta della camera 428, camera da dove provenivano i rumori. Il cuore le batteva a mille, il respiro sembrava non avere più un ritmo. Un altro rumore, questo più lieve, lei fece due passi indietro. Deglutì. Cosa stava succedendo in quella benedetta camera? Cosa stava combinando il paziente?
«Sta bene?»
Anche se stufa di stare in quel posto, la dottoressa rimaneva sempre scossa dagli eventi che caratterizzavano quel centro. Inserì la chiave universale nella serratura della porta di ferro. Contò fino a tre prima di aprire la porta ma, mentre girava la chiave, sentì intonare la canzone che prima stava canticchiando lei: la vie en rose.
Riconoscere il motivo a lei caro iniziò ad agitarla ancora di più. Decise, allora, di correre, cercare un aiuto. Percorse velocemente il corridoio e, senza nemmeno bussare, aprì la porta dell'ufficio del capo reparto.
«Il paziente della 428 credo stia male. Non so cosa succede là dentro, sento rumori.»
«Dottoressa si calmi!»
«Non ci riesco.»
Accanto alla dottoressa, c'era anche il superiore adesso. Era spaventata e non aveva avuto il coraggio di aprire quella maledetta porta in cui succedeva chissà cosa. Più si avvicinavano alla stanza 428 e più si faceva nitida la voce che intonava quella canzone.
«Inizio ad odiarlo ancora di più!»
Il superiore digrignò i denti sentendo crescere dentro di sé odio per quel paziente che non aveva mai sopportato. Uno dei peggiori, così lo definiva. La dottoressa Grandi, invece, continuava ad essere terrorizzata. Dentro di lei c'erano mille sentimenti contrastanti: inquietudine, ansia, paura. Non riusciva a trovare un'armonia tra queste preoccupazioni.
Arrivati, l'uomo aprì la porta che era rimasta chiusa a chiave, uno spiraglio di luce illuminò la figura accovacciata di un uomo.
Seduto a terra, l’ uomo, con la schiena poggiata al letto e con la testa chinata verso il basso, si cullava con un movimento ritmato, avanti e indietro, come se stesse su una sedia a dondolo. Stringeva le ginocchia tra le braccia e, lungo le dita, scendeva sangue. Mentre continuava a cantare, l'uomo accovacciato alzò, di scatto, il capo e le sue narici si allargarono per prendere un lungo respiro. Muovendo a malapena le labbra, emetteva degli strani mugolii.
«More!» - urlò alzandosi da terra velocemente.
La dottoressa indietreggiò, ancora più spaventata di prima, sapeva che quella persona voleva lei, voleva il suo profumo di more.
«More, more, more!»
L’uomo si gettò sulla donna che cadde a terra atterrita e, quando lo vide bene in faccia, si accorse di quel grigio chiaro delle sue pupille dilatate.
«Sara! Sara! Sara!»
Un sorriso gli si stampò sul viso mentre le sue mani stringevano il vestito della dottoressa che iniziava a macchiarsi di rosso. Lui si stava semplicemente inebriando di quel profumo così dolce.
«Sara, sei tornata da me! Scusa, Sara, scusa.»
La dottoressa era immobile, i suoi pensieri si bloccarono, era paralizzata. Dopo qualche attimo, il paziente fu sedato e portato via con forza.
 
«Cosa è successo in quella sala?»
Beveva sorsate d'acqua ma continuava a non capire, a non comprendere a pieno quello che era successo. L'idea di quell'uomo che l'aveva toccata, che le aveva chiesto scusa, che l'aveva chiamata per nome, che l'aveva chiamata Sara non andava via dalla mente.
«Dottoressa Grandi, dovrebbe sapere meglio di me cosa succede qua dentro!»
Le mani le tremavano più del solito. Aveva 60 anni ma non aveva mai tremato così tanto.
«Solo Dio sa cosa, ormai, so. Non ce la faccio più, ora mancava solo un paziente che volesse violentarmi.»
Con fare scettico, il superiore, guardandola, affermò: «Non so cosa dirle. Ormai, a furia di stare con i pazzi, sto impazzendo anch'io. Un manicomio non è il posto adatto per persone sane di mente come noi. Se questo la può tranquillizzare, sappia che abbiamo chiuso il pazzo in una stanza più sicura.» - fece un tiro dal suo sigaro cubano. - «Strana la vita.»
«Cosa intende?»
«Vede? Un ragazzo diventa cieco e, dopo dieci anni, deve essere chiuso in un manicomio perché inizia a perdere il senno a causa della cecità. Confonde la mamma con una donna che vuole ucciderlo, confonde il padre con un uomo che deve consegnare la posta, dice di vedere il silenzio visivo. Silenzio visivo. Che diamine vorrà dire silenzio visivo?»
«Io mi chiedo cosa avrà fatto di così male una persona per meritare una punizione del genere.»
«Oh, per favore. Sarà stato uno scherzo della natura o si sarà cacciato in qualche guaio, ma questa non è una punizione divina. Io, comunque, risolverò il problema: sarò ricordato per aver trovato la cura per tutti questi essere chiusi qua dentro.»
«Lei vorrebbe trovare una cura a tutto, ma temo non ci sia cura per questo malessere: la cecità mentale, la pazzia.»
«Perché no?»
«D'altronde siamo tutti un po' pazzi per continuare a vivere in un mondo che, forse, non ha posto per me, per noi, per loro.»
«Per noi c'è posto, per quell'uomo, Flavio Bianchi, non c'è. C'è solo una camicia di forza ad aspettarlo. Lo ha detto lei stessa : cieco e pazzo, avrà fatto pur qualcosa per meritarsi un castigo del genere. Lei cosa avrà fatto per essere la fantasia di questo malato rincoglionito?»
La dottoressa osservò in maniera curiosa l'uomo che le stava di fronte. Continuava a fumare in maniera ossessiva quel suo sigaro e giocava con le parole a proprio godimento. Subdolo e contorto, questo pensò di lui.
«Io non ho fatto proprio niente a nessuno, né tantomeno a quelli che lei definisce malati rincoglioniti. Non dimentichi che anche loro sono persone!» - Dentro di sé una scintilla, odiava quando qualcuno usava termini di disprezzo verso le persone che, senza neanche desiderarlo, erano diventati gli abitanti di quel luogo malsano. - «Comunque non so perché quel paziente voleva me. Io non l'ho mai visto, non era un paziente sotto la mia supervisione.»
 
La prima volta che si scontrò con Flavio Bianchi, lei stava parlando con una segretaria. Stava consultando degli esami, esami a cui erano sottoposti tutti i pazzi.
«Scusi, posso chiedere un favore?»
La dottoressa Grandi alzò lo sguardo dalle carte per poter guardare la persona che la cercava. Non aveva mai visto quell'individuo ma, da subito, aveva capito che era un paziente del manicomio. Ci aveva passato più di 40 anni in quel posto e sapeva riconoscere subito qualcuno che non stava bene con il proprio essere.
«Mi chieda qualsiasi cosa.»
«La sente questa musica?»
Lo guardò attentamente perché voleva provare ad analizzarlo, a capire di cosa soffrisse.
«No...»
«La provi ad immaginare, allora.»
«Aspetti un attimo...»
Lei si allontanò dalla scrivania e si avviò verso il giradischi. In uno scaffale era possibile trovare tanti vinili e la dottoressa Grandi, riscoprendo il suo passato in quelle canzoni che conosceva bene, ne scelse uno.
«Che canzone è questa?» - chiese il ragazzo appena sentì la musica.
«La Vie En Rose, la mia preferita. Per essere stata una ragazza che si importava poco e niente del romanticismo, ho sempre amato questa canzone. In effetti è vero: da giovane ero un po' pazza ed egocentrica.»
Lei rise e lui accennò un sorriso mentre ascoltava la canzone.
«La dottoressa Sara Grandi?»
«Si...»
«Può venire un attimo?»
La dottoressa Grandi, lasciando le vesti della giovane Sara che la canzone le avevano ridato, ritornò al suo lavoro perché chiamata da una collega.
«Si godi la canzone.»
Così salutò il ragazzo che, senza farlo apposta, si sarebbe innamorato di lei. Anzi, non di lei, ma dell'idea di lei. Flavio, in un mondo tutto suo, in un mondo strano e contorto dove la visione della realtà era distorta, aveva davvero amato una Sara. Con lei, una ragazza di quasi 30 anni, aveva parlato per la prima volta nella stanza 428 di un centro sperimentale di cura per la cecità. Sempre in quel mondo, lui iniziava ad affezionarsi a quella donna per la sua caparbietà, la sua forza, la sua intelligenza, la sua voglia di vivere, poi la sua Sara l'aveva lasciato perché l'amore aveva fatto brutti scherzi.
In realtà non era stato l'amore, era stata la mente di Flavio che aveva fatto brutti scherzi, scherzi che avevano giocato con il suo cuore: non esisteva nessuna Sara di quasi trent'anni, non esisteva nessuna serata nel parco, non esisteva nessun centro di cura sperimentale per la cecità. Esisteva solo una Sara che aveva quel carattere buono, dolce, caparbio ma che non era innamorata di lui. Esisteva un uomo arrogante ed egocentrico convinto di cercare una cura per la pazzia e non per la cecità. Esisteva un manicomio. Esisteva una stanza 428 in cui non c’erano finestre, telefoni e una porta sempre aperta. Esisteva un pazzo che, per sua sfortuna, era anche cieco.

«Sara, davvero, ti chiedo scusa. Io... Forse è vero: non mi vuoi perché sono cieco.»
Buio, sapeva che era buio. Era buio anche nel suo cuore. Nessuno si “ accendeva” in sua presenza, nessuno era presente per lui. Sara sì. Sara era stata presente, davvero, ma aveva rovinato tutto. La sua oasi si era prosciugata. Lui non l'aveva trattata da fango, si era solo sentito rifiutato ma, adesso, sapeva che non era così. Perché, però, Sara continuava a scappare? Perché non lo riconosceva? Perché non voleva restare? Perché non aveva accettato le sue scuse?
«Sara...»
Il tono di voce, improvvisamente, divenne più forte e stridulo. Iniziò a dimenarsi sul pavimento e a mordersi le labbra, la lingua. Urlava e sudava. Non poteva dare pugni a qualcosa o correre perché la camicia di forza gli impediva ogni minimo movimento libero. Poteva solo rotolare, saltare e cercare di restare in equilibrio. L'equilibrio che era già da tempo scomparso. Nella sua mente continuavano a ripetersi i momenti con lei, le sue caratteristiche, il discorso sul continuare a giocare, il suo chiamarlo stronzo. Bramava quel profumo di more, voleva quel tocco che, con fare dolce e distruttivo, gli aveva fatto aprire gli occhi, cercava di capire che gusto c'era ad evitarsi quando loro erano musica.
Per far zittire la sua testa, per dimenticare quelle magie, per poter tornare a preoccuparsi solo ed esclusivamente del suo silenzio visivo, iniziò a battere la testa contro il muro.
«Forse non c'è posto, per me, nel tuo mondo.»

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