Never let me go.

di samleo11
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa ***
Capitolo 2: *** Marzo ***
Capitolo 3: *** 5:11 PM ***
Capitolo 4: *** Blind ***



Capitolo 1
*** Premessa ***





Never let me go


Premessa

Anni dopo mi appresto a scriverci un racconto. Una novella. Un piccolo libricino, nulla di che. Oh, se mi potesse leggere lei. Si infurierebbe. “Un piccolo libricino? Ci vuole almeno una saga. Di 5 libri.” Comunque tralasciando i ricordi sfocati di un vecchio, mi appresto finalmente a raccontare la mia storia. La nostra storia. Tutto quello che mi rimane ora che lei è andata via, sono i ricordi. E voglio sistemarli per bene.

Non so davvero dove sia iniziata. Ero lì a cercare di completare in maniera chirurgica la mia astuta missione di “salvataggio”. E invece, mi sono ritrovato a vivere la più grande storia della mia vita. Le cose più importanti, arrivano quando smetti di aspettarle, no? Vediamo un po’.. Ecco potremmo iniziare dal 22 aprile. Ma prima occorre una premessa. E con premessa intendo un nome. Arthur.

Arthur era un ragazzotto semplice. Cresciuto a un paio di isolati da casa mia. Alto e snello, capelli biondicci e occhi scuri. Non aveva grande fascino, ma ci sapeva fare. Io e lui ci siamo scambiati macchinine e ragazze sino ai 20 anni. Quando poi incontrò lei, tutto cambiò. Mise la testa a posto, come fanno un po’ tutti. O almeno, così diceva. Sì, perché io sono partito il giorno stesso in cui i loro sguardi si sono incrociati per la prima volta.

Arthur era di ritorno dall’aeroporto. Era una mattina uggiosa, l’umidità nell’aria giocava calma con le prime gemme verdastre sui rami degli alberi. Marzo è un mese strano. Non è primavera, ma non è più inverno. È festa, ma non lo è davvero. Esce il sole, ma non puoi esserne sicuro davvero. Ed è forse per questo che dava un’aria ancora più malinconica alla mia partenza. Arthur mi aveva accompagnato, mi aveva stretto forte in uno di quegli abbracci fraterni ed ora era in cammino verso casa. Lo immagino svoltare, fermarsi agli stop, magari imprecare sottovoce dietro qualche piccolo teppistello che ha attraversato all’improvviso la strada.

Poi, si è fermato. Ad un bar.

Ci avete mai fatto caso? Il destino, o chi per lui, inizia a tessere la trama quando meno ve lo aspettate. Basta mollare la presa un po’. E uno mica se ne accorge. Sei lì, a fare la tua vita e… ZAC! Il destino ti fotte.
E nemmeno Arthur, come tutti quanti noi, era conscio quella mattina. Lo immagino entrare spavaldo con la sua camicia a quadri e ordinare un caffè. Perché fare altri 20 km e prepararlo a casa era troppa fatica. Ma Arthur è fatto così. E il destino, placido tessitore, gli avvicina una donna.

Ha 20 anni anche lei. Gli occhi verdi e i capelli di un rosso che incanta. Sta aspettando degli amici, delle amiche, un caffè o chissà cos’altro. O forse sta aspettando lui. Voi donne siete così. Lo sentite. Avete un sesto senso che vi avvisa. “Stasera, trovo quello giusto”. Chissà se stava davvero pensando a questo. Chissà se sapeva. Se aveva intuito.

Si avvicina calma al bancone, e sorseggia il suo espresso. Non ho bisogno di immaginare la conversazione. Conosco Arthur come le mie tasche, l’ho visto migliaia di volte avvicinare la ragazza più carina (molto spesso anche con il mio zampino). Avrà fatto una battuta o un commento sul bar e avrà attirato la sua attenzione. E poi magari un paio di frasi su luoghi comuni buttati un po’ lì, un bel sorrisino ed il gioco è fatto. Ma questa è diversa. Non si piega. Gira il discorso, sorride, ammicca, ma niente. Proprio niente. Lei sorride appena, più che di piacere, gli sembra di pena. Ma non demorde, Arthur. Lui è fatto così. Continua anche sotto la porta e alla fine, dopo un vero lavoro da maestro, le strappa il nome e il numero.

Torna a casa e lancia il telefono sul letto. Poi esce fuori sul balcone della sua camera e si accende una sigaretta. Ha già dimenticato la bella sconosciuta? Chi lo sa. Per ora i suoi pensieri vagano lì dove non posso arrivare. Arthur è un tipo amichevole. L’amico sbronzo ma sempre simpatico delle feste. Quello con cui sai che ti divertirai. Io ero quello riflessivo. Lui, l’impulsivo. Faceva qualcosa, poi cambiava idea ed eccolo a buttarsi a capofitto su un altro progetto. Prendeva tutto poco sul serio, dava forti pacche sulle spalle, ammiccava alle ragazze per strada e urlava “arbitro cornuto” allo stadio, anche se l’arbitro non aveva fatto nulla. Gli piaceva essere al centro dell’attenzione. Adorava ridere e far ridere. Non l’ho mai visto giù per una ragazza, anche se mai una lo ha davvero rifiutato. Aveva un modo tutto suo di risplendere e la gente, lo vedeva. Lo percepiva da lontano. Dalle sue smorfie, dai suoi sorrisi, dal suo modo di arruffarsi i capelli solo per sembrare più buffo. Ma c’era dei momenti, dieci piccoli minuti a giornata, in cui Arthur si assentava. Si isolava dal mondo e rimaneva in silenzio. A meditare. O forse a lasciare un po’ liberi a spasso i suoi mostri.

Sì, i suoi mostri. Persino lui, aveva i suoi mostri. Ognuno di noi ne ha un paio. Chi più brutti, chi più grandi, chi più numerosi. Ma nessuno ne è libero. Il mostro che conoscevo meglio aveva una data ben precisa. 19 gennaio 1996. La data incisa sulla lapide di sua madre. Forse in quegli istanti, in quei dieci minuti, Arthur la ricordava. I suoi ricordi sono sfocati, ricorda una voce, due occhi, qualche movimento. Ricorda il profumo. Ma nulla di più. Aveva tre anni quando è uscita di casa, senza più tornare. Un pirata della strada, gli dissero. Ma un bimbo di tre anni, un pirata lo immagina con una bandana e un occhio bendato. E magari una gamba di legno. E non guasterebbe un bel vascello. Non ci crede mica che abbia una macchina. E poi, la storia che la mamma non torna più? Massì che torna. Mamma torna sempre, esce per un po’ e poi torna. E porta sempre qualche regalino. Del cioccolato, un budino o una macchinina nuova. Mamma torna, sempre.

E forse quei dieci minuti al giorno, lui la aspettava ancora. E sono sicuro che la perdonerà per il ritardo. Forse la intravede, in qualche solitaria donna che passeggia svelta per strada o ne vede i lineamenti sfocati nella nuvoletta di fumo che sparge la sua sigaretta.

Suonano al citofono. Spegne la sigaretta, rinchiude i suoi mostri e corre a rispondere. Sono i suoi amici. Infila il giubbotto, scende di corsa le scale, acchiappa al volo le chiavi ed esce. Avrà indossato sicuramente il suo sorriso migliore e sarà andato a spasso a divertirsi.


                                                                            ***

Sono le 2 e un quarto, circa. Arthur rientra piano in camera sua, come un ladro, in punta di piedi per non svegliare suo padre e la sua compagna. Si sdraia sul letto. Sente qualcosa di duro sotto la schiena. Si gira. È il cellulare. Lo sblocca. C’è un mio messaggio, lo avviso di essere arrivato sano e salvo a Boston. E poi nota il numero di quella tipa. Mi chiama, facciamo una lunga conversazione sul tempo di merda che ho trovato al mio arrivo e che no, non mi sono scopato nessuna hostess. Lui non mi accenna al suo incontro. Non perché non gli da peso, ma perché lo reputa importante. Me ne parlerà solo quando finalmente riuscirà a conquistarla.

Quel giorno, alle 5 di mattina, mi chiamò trafelato, urlando “Ce l’ho fatta! E vedessi come è bella.”

Capii subito. Lo capii all’istante che era importante.

E i fatti lo dimostrarono. Due anni di fedele amore. Mentre io dall’altro capo del mondo, ricevevo la telecronaca costante dei loro incontri, dei loro scontri e alcune volte (mio malgrado) delle loro scopate.

È importante quindi, che ricordiate. Che ricordiate che Arthur la amava. Che lei amava lui. E che erano una
coppia felice, tutto sommato.
 
 
Note dell’autrice

Salve! Premetto che questa è la prima storia che scrivo in vita mia, e ho paura di aver fatto un po’ una gran ca*ata ma era da molto tempo che mi frullava in testa questa idea e voglio vedere i suoi sviluppi. Spero siate clementi! E spero di avervi incuriosito almeno un po’.
PS: potreste lasciarmi un commento con i vostri consigli sulle eventuali parti sbagliate o sulle eventuali parti giuste? Come ho già detto, è la mia prima storia e vorrei avere un po’ di pareri.
Grazie mille, S.
 

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Capitolo 2
*** Marzo ***






Never let me go

Marzo

Formavano effettivamente una coppia ben bilanciata. Lui spavaldo e divertente, lei… per lei, mi è così difficile trovare aggettivi, sono tutti così riduttivi!

Si chiamava Emily. Viveva nel centro, in una di quelle casette abitate da famigliole numerose che ogni domenica si recano come piccole formiche operose in chiesa. Aveva avuto un’infanzia fiabesca ed ora sembrava essere diventata una di quelle splendide principesse di cui leggeva nei racconti. Ma io, sono di parte. Era comunque, oggettivamente, una ragazza molto bella.

Aveva passato la sua adolescenza come molto ragazzine del centro, bramando pezzi d’indipendenza, tingendosi delle ciocche di capelli di viola e truccandosi gli occhi solo per trasgredire alla madre. Ora i suoi capelli era tornati al loro colore naturale e la sua voglia di trasgredire ogni legge era mutata in un lato del suo carattere che io trovai semplicemente favoloso. Emily era indipendente, acculturata, assolutamente incosciente delle conseguenze, entusiasta della vita come poche.

Una volta mi raccontò che da piccola sognava di cambiare il mondo, di diventare una di quelle donne simbolo.
Aveva anche preparato un discorso per il suo futuro premio Nobel alla Pace. La immagino provare con addosso uno di quei vestitini a fiori che ho sbirciato qualche volta nelle vecchie foto sbiadite della sua fanciullezza.  Issarsi su un sedia, schiarirsi la voce e proferire con grande solennità. Ridendo mi confessò anche che voleva ringraziare prima di tutti il suo gatto Soffietto, e poi la sua famiglia.

Ecco lei era così. Rideva quando non era consentito e la intravedevi tra la folla a fare strane boccacce per trattenere la risata. Oppure faceva assurde scommesse con le amiche e poi rideva fino a tarda sera. Tutto questo di Emily non mi è stato raccontato da Arthur. Mai. Con Arthur, lei era diversa.

Emily aveva uno strano dono. Me lo disse una sera, una di quelle sere da troppo poco vino rimasto in tavola. “Io ho un difetto. Mi plasmo. A seconda della persona che ho davanti, muto per farle sentire a loro agio. Una specie di camaleonte. Ma meno figa di un camaleonte, purtroppo non divento trasparente.” Disse, ridendo attraverso il vetro di un bicchiere ricolmo di vino.

Ed era vero. Emily si era plasmata perfettamente ad Arthur. Lui era diventato quello divertente, lei la fidanzata. Non c’erano altri aggettivi da dare ad Emily mentre era con lui. Solo: la fidanzata. Ed era un peccato che si annientasse così.

Emily era l’estate. La prorompente, dinamica, solare estate. Ma con Arthur era stata ridotta a un ricordo di un’antica primavera. Ecco, come Marzo! Ve lo ricordate? Non è primavera, non è inverno. È un mondo a parte, chiuso nel suo infinito giro di malinconia. Ogni tanto esce il sole, ma la malinconia rimane tema portante. Emily quella malinconia non la meritava. Ma lei non se ne è mai accorta. Si era plasmata e le piaceva. Le piaceva rimanere con lui. Le piaceva ridacchiare alle sue battute. Qualcosa, quella sera di Marzo, l’ha convinta che non poteva meritare di meglio. E Marzo sembrava averle aderito alle ossa.

Ora era una malinconica “Marzo”. 

Oh ma che maleducato! Ho presentato tutti tranne me! Beh tanto vale dire qualcosa.

Mi chiamo James. Ho vissuto una vita piena, non mi è mancato nulla perché avevo tutto in una persona sola. Ho vissuto la mia adolescenza cercando di capire il mio posto nel mondo, non facendo attenzione alle persone che cadevano intorno a me. Alla fine ho capito che non devi cercare un posto, ma qualcuno. E dovunque quel qualcuno sarà, il tuo posto nel mondo sarà esattamente quello. La mia infanzia è stata serena.

Ho avuto alcune perdite, più o meno normali, ma non ho mai perso la spensieratezza caratteristica dei bambini. A 20 anni dopo un anno di vagabondaggio tra un bar e l’altro, mi hanno offerto uno stage a Boston e sono partito. Su due piedi. Di cose repentine ne ho fatte nella mia vita, ma quella fu una delle più pazze. Partii con due giorni di preavviso, con quasi nulla nella piccola valigia concessa dalla compagnia aerea e un mucchio di sogni stipati bene nella mia mente.

Il primo mese fu un inferno. Non ero abituato a vivere da solo, tantomeno nella ristrettezza economica! Ma piano piano, iniziai a farci l’abitudine, divenni sempre più bravo a sopravvivere con poco. Imparai il valore delle cose, il valore di una singola scatola di tonno e mezza busta di spaghetti. Significava avere un intero pranzo ben servito.

Con le donne, mi chiedete? Era Arthur quello affascinante, io ero il solitario amico. E di solito, il solitario amico riceveva sempre in regalo le ragazze che volevano arrivare ad Arthur ma che non potevano. Quindi, ne ho avute un bel po’. Nulla di serio, ovviamente.

A Boston avevo incontrato una tipa. Figlia di un maresciallo della zona. Una sera bussò alla mia porta chiedendo disperatamente un qualche lenitivo per la madre, che aveva una brutta febbre. Naturalmente, la cosa più vicina ad un lenitivo in casa mia erano un paio di mentine rafferme. Per tutta risposta mi precipitai a prendere le chiavi dell’auto e le accompagnai in ospedale. Lei ci teneva molto a me. Siamo rimasti insieme sino a poco prima del mio rientro in patria. Fui io a lasciarla. Le volevo bene, ma l’avevo tradita un paio di volte e volevo andare via con la coscienza apposto.

Il 22 aprile, due anni e un mese esatti dopo la mia partenza, ero pronto a tornare a casa.


                                                                                      ***

Ho terminato la mia valigia. Guardo piano ogni dettaglio di questo angusto monolocale che per due anni è stato la mia casa. Con lo sguardo, accarezzo ogni cosa con quella punta di malinconia che è tipica di qualsiasi addio. Non tornerò mai più in questa casa. Prendo la valigia, tiro la maniglia del trolley e mi incammino verso l’uscita. Appoggio i bagagli sul pianerottolo ed esco dalle tasche le chiavi di casa. Le osservo con calma. Noto i piccoli denti smussati dal tempo e i graffi più o meno profondi. Col pollice passo su un graffio particolarmente profondo e sorrido al ricordo di come glielo procurai, una sera, ubriaco fradicio e senza coscienza di come infilare una chiave nella serratura. Quando questo ricordo sfuma dolcemente, faccio un sonoro sospiro e chiudo. Non si torna più indietro. Prendo le valigie e vado verso la macchina.

Sento dei passi dietro di me. È Kat. Sì, la ragazza dell’ospedale. Abbiamo rotto un paio di settimane fa, ma ci teneva a salutarmi. Dopo un (troppo) caloroso abbraccio, le auguro ogni bene e lei dice che mi scriverà. E lo farà davvero. Ogni mese per un anno. Ma io non le risponderò mai. E dopo un anno, mi scriverà addio.

Entro in macchina e la saluto timidamente dal finestrino. Le regalo uno dei miei sorrisi, tanto per cercare di trattenere la mia coscienza che mi urla dello stronzo.

Il caos in aeroporto è inimmaginabile. Ci sono bambini ovunque. Che corrono soprattutto ovunque. Faccio il check-in con largo anticipo e aspetto con ansia che aprano il gate.

Nell’attesa pregusto le leccornie di mia madre, il suo profumo, il profumo di casa, le mani forti di mio padre che mi danno grandi pacche. Pregusto le serate con Arthur e la mia mente vaga in incognita su Emily. L’ho vista in alcune foto, ma non riuscivo ad immaginarla. O a immaginare il suo carattere. E mentre pensavo a lei, il gate si apre e mi appresto a fare gli ultimi controlli.

Salito a bordo, mi sistemo, conscio delle lunghe ore di viaggio, quando ecco che accanto a me si siede un bambino! Uno dei viaggi più infernali del mondo. Quel bambino teppistello si chiamava Carlos. Ha praticamente imbrattato i miei polsi con i suoi pastelli colorati, mi ha rovesciato addosso ogni tipo di giocattolo e strappato un bottone.

Ma quando finalmente abbiamo toccato terra, al suono degli applausi, sapevo che ero tornato a casa.
 
Note dell’autrice

Eccomi qui. Ringrazio innanzitutto chi ha letto e commentato il primo capitolo. Sono stata molto contenta che vi sia piaciuto e spero di non deludervi. Questo capitolo parte con la scia della premessa che si esaurisce agli asterischi, per poi dare spazio alla vera e propria storia.
Naturalmente vi esorto a recensire in numerosi per farmi presente qualsiasi cosa vada o non vada o per qualsiasi chiarimento.
Grazie mille per la lettura, S.

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Capitolo 3
*** 5:11 PM ***





Never let me go


5:11 PM

Prendo con garbo la mia valigia. Scendo dall'aereo insieme agli altri passeggeri e mi incammino verso il centro dell'aeroporto. Mi investono i suoni festosi della gente che viene accolta a rientro da un lungo viaggio. I suoni, gli odori di casa. Due anni sono un'eternità ma ritrovarsi qui ora, mi fa sentire come se non me ne fossi mai davvero andato via. I luoghi in cui viviamo ce li portiamo dietro con noi, sono parte integrante della nostra anima, del nostro vivere quotidiano. Non me ne sono mai davvero andato via perché la mia casa è venuta con me. E questo l'ho capito appena ci sono tornato.

All'aeroporto mi attendeva la mia famiglia. L'abbraccio caloroso di mia madre, così dolce e fragile come me la ricordavo. E le pacche paterne di mio padre, forte e sempre una spanna sopra di me. Con piacevole sorpresa ho notato che erano cambiati tutti. I miei. Mio padre aveva tolto quegli orribili baffi, mia madre aveva iniziato con le tinte. Anche mia sorella. Ha 13 anni e a quell'età, la piccola ciocca di capelli verdi è un simbolo più che una moda. Tutti fanno bravate a 13 anni. La saluto affettuosamente anche se so che questo clima gioviale tra noi durerà ben poco.

In disparte dalla mia famiglia, ci sono i miei amici. Sì, tutti. Lì ad aspettarmi impazienti. Li abbraccio tutti, mi sono mancate le loro grida, i loro coretti da stadio, il loro ridere di tutto. Saluto Arthur come si saluta un fratello. Ci abbracciamo forte. Sono secoli che noi due non ci vediamo. Mi sembra passata una vita e ho paura che sia cambiato qualcosa. Io e lui non siamo più gli stessi.

Ma alle sue spalle una figura esile attira la mia attenzione. Emily. Splendida ai miei occhi. Di una bellezza che mozza il fiato.

Mi sorride e mi sussurra: "Piacere, Emily. Sono la ragazza di Arthur".

Le stringo la mano. La guardo negli occhi e lei mi sorride timidamente. Non vi so dire cosa generi un colpo di fulmine. Dopo di lei, non ne ho mai più avuti. È amore improvviso. E la parte razionale di te continua a ripeterti che non l’hai mai vista, e che quindi non puoi amarla. Ma hai la strana sensazione che lei è sicuramente quella lei. Quella che metterà ordine in tutto. In ogni parte. Ma non posso soffermarmi su questi pensieri, lei non è mia. E non potrà mai esserlo.
Ci avviamo fuori.

                                                                               ***    

I primi giorni sono stati ricchi di emozioni. Tutti volevano abbracciarmi, raccontarmi, chiedermi qualcosa. Essere così tanto al centro dell’attenzione non mi dispiaceva, ma quando finalmente il mio ritorno non fu più la cosa più eccitante capitata nell’ultimo periodo, ne fui sollevato. Potevo finalmente tornare alla mia vita.

Lo stage che avevo fatto mi aveva permesso di avere un comodo posto di lavoro appena rientrato a casa. Lunedì sarei andato alla sede centrale per il mio primo giorno di lavoro. Ero così entusiasta e con me, i miei amici, che decidono repentini di organizzare un party la vigilia del mio inizio, per festeggiare l’accaduto.

Mi sono vestito velocemente e all’orario prestabilito, Arthur è passato a prendermi con la macchina.

“Hey, campione!”, mi saluta quando entro in macchina.

“Non ho più unidici anni, papà!” dico, ridendo.

È vestito in maniera elegante. Il che è strano per uno come lui. Ma la cosa ancora più strana è che non so di cosa parlare. Due amici che si ritrovano dopo tanto tempo, di cosa parlano? Di tutto, giusto? Ebbene, questo tutto non veniva fuori.

“Emily non viene?”

“Più tardi, ha alcune faccende da sbrigare prima”

“Oh, capito”

“Già”

Insomma, l’imbarazzo totale. Mi giro verso il finestrino. Quanto mi piacerebbe avere la mia macchina, ma come al solito, serviva ai miei. Cosa dire? Cosa inventare? Fortunatamente arriviamo al pub.
Scendo e mi dirigo verso gli altri mentre Arthur parcheggia.

La serata scorre serena, e mi piace essere tornato tra i miei amici. Solo Arthur è quasi in silenzio. Non lo riconosco più. Era il tipo della baldoria, ora ridotto a un ragazzotto elegante che nasconde la faccia dietro la bottiglia di birra.

Emily è arrivata insieme alle sue amiche una mezz’oretta dopo il nostro arrivo. È seduta di fronte a me, quando mi fa segnale con lo sguardo di seguirla. Io e lei non abbiamo quasi parlato. Non capisco cosa mai possa volere da me. La guardo con fare interrogativo ma come risposta, mi fulmina con lo sguardo e si dirige verso il bagno. E io la seguo a ruota.

Siamo nel bagno. Il classico bagno da pub, non troppo.. come dire… vomitevole, per gli standard.

“Allora?” mi dice, sorridendo.

“Allora, cosa?”

“Alice, ti piace? È tutta la sera che ti fissa!”

“Alice, cosa? COSA? Tu mi hai fatto venire qui per parlarmi della tua amichetta che ha una cotta per me?”

“Perché cosa pensavi? Andiamo, ti piace o no, devo darle una risposta. E a me questi giochini da quinta
elementare non piacciono. Lo faccio solo perché è mia amica” e si sistema i capelli, guardandosi allo specchio.

“Emily, posso essere totalmente sincero con te?”

“Certo” sussurra, girandosi e guardandomi dritto negli occhi.

“Non ho la più pallida idea di chi sia Alice”

Mi guarda negli occhi, sembra che mi stia per rimproverare e invece scoppia a ridere. Si mette la mano davanti alla bocca e cerca di soffocare quel fiume in piena che è la sua risata, così argentina e fresca. Rido anche io, in una sorta di psicologico riflesso.

Quando smettiamo di ridere, lei mi indica la ragazza, che è, effettivamente, molto carina. Mi dice di stare attento a non menzionare ex e roba varia, o scoppierà in lacrime. Le dico che non sono in vena di storie serie, e lei mi guarda e sorridendo sussurra che nemmeno lei sta cercando nulla di tutto questo, ne è certa.

Restiamo in silenzio. La guardo, lei mi sorride timidamente ed esce. Mi appoggio sul muro e respiro piano.

Chiudo gli occhi e li riapro. Forse è per Emily, forse sono un idiota. Non devo assolutamente avvicinarmi mai più così tanto a lei. È di Arthur. Non posso. Apro gli occhi e fisso Alice.

È snella, capelli biondi (tinti sicuramente) e occhi scuri. Non esattamente il mio tipo, ma per questa notte può andare bene. Guardo i miei amici seduti e mi appresto a tornare. Il mio sguardo si posa su un segno. Anzi su un paio di parole, sul muro del bagno. Prima non c’erano. Ne sono tutt’ora certo.

James. 7th Ravenground Avenue. 5.11 pm.

E poi accanto a quello che doveva essere l’orario, uno strano simbolo a forma di rombo.

Non ho mai creduto molto alle coincidenze. Quella scritta era lì per un motivo. Lì c’era il mio nome. Ne ero attratto. Sentivo che quel nome, quelle lettere una accanto all’altra erano mie. O meglio, erano per me. Non so spiegare come, ma lo sapevo. Preso da questa sensazione, mi segno l’indirizzo e l’orario. E poi punto verso il mio tavolo.

Alice è una facile preda. Ha bevuto, ed è piuttosto semplice convincerla ad accompagnarla a casa. Quando tutti stanno andando via, Emily mi ferma afferrandomi il braccio.
“Non me la sballottare troppo. Mi serve domani per una presentazione” mi sussurra all’orecchio.
Mi giro a guardarla e le sorrido, lei mi risponde con un occhiolino e scompare nella macchina di Arthur.
Accompagno diligentemente Alice a casa, non facciamo molte chiacchiere. Quando arriviamo a casa, lei mi offre di salire e io, non me lo faccio ripetere due volte. Ci metto poco a farla mia, in fondo, l’ho accompagnata per questo.

                                                                                ***

Sono sveglio. La luce filtra chiara dalle finestre. Ho la testa che rimbomba e uno strano formicolio al braccio. Dovrei farmi visitare da un medico. O forse no, visto che la causa del formicolio sembra proprio dovuto alla ragazza che ha appoggiato la sua testa sul mio braccio. Ci metto un po’ a focalizzarla. Sorrido soddisfatto della preda e poso lo sguardo sul piccolo orologio poggiato sul comodino di lei.

Le 8:45. Sono in ritardo. Il mio primo giorno di lavoro. Mi alzo. Sento che lei si sveglia, ma non me ne preoccupo. Non ho il tempo di passare da casa, dovrò mettermi gli stessi vestiti. La ragazza mi mugugna qualcosa e io le dico che ho bisogno di una doccia.

In tempo record sono pronto e vestito. La guardo, sdraiata sul letto.
“Ci vediamo dopo?” mi dice, sollevando un sopracciglio.
“Chissà. È stato davvero bello, comunque, stanotte, Amanda” farfuglio mentre prendo il cellulare
“Alice” mi ammonisce lei, fa un lungo sospiro e aggiunge “Vedi di sparire dalla mia vista!”
Ai suoi ordini, madame, penso. Le sorrido a mo’ di sfida ed esco correndo giù per le scale. Mentre sono sull’autobus, chiamo disperatamente il mio amico, pregandolo di inviarmi per email tutte le informazioni che io ho lasciato sul mio pc a casa. Come inizio, non è dei migliori.

Arrivo trafelato al mio piano. Trovo la mia postazione. Mi guardo intorno e spero già nella pausa pranzo.

                                                                                ***

Il primo giorno è passato, pensai mentre sedevo in autobus. Non è stato malaccio, ne ho visti di peggiori. Ma la confusione nell’autobus mi soffoca. La gente continua a spintonarmi, finchè sento qualcuno pestarmi malamente il piede. Mi giro, infuriato, verso l’attentatore.

Emily. Mi guarda e scoppia a ridere.

“Scusami” sussurra tra le risate, causate sicuramente dalla mia faccia che è un misto tra rabbia e sorpresa. Cosa ci fa lei su questo autobus? È vestita in maniera sobria, e ha una lunga tracolla appoggiata su una spalla. Odora di carta da stampante, forse lavora qui vicino.

“A proposito, Don Giovanni, oggi Alice non si è presentata a lavoro! Si può sapere cosa hai combinato?”
Mi giro per risponderle e l’autobus si ferma. Guardo il tabellone per vedere quale fermata sia.

7th Ravenground.

Il mio cuore salta un battito. D’impulso prendo la mano di Emily e le dico che dobbiamo scendere. Insieme a noi scendono altre 20 persone circa. Quando finalmente siamo fuori, Emily mi lascia la mano e noto solo ora che è furibonda.

“Sei impazzito? Non è la mia fermata!” mi urla contro. Prova a fermare il bus ma non c’è verso. Torna indietro verso di me e mi dà dell’idiota, ma io le do ascolto. Guardo il mio orologio. 5.11 pm. Non può essere. Non può assolutamente essere una coincidenza. Riprendo contatto con la realtà quanto mi basta per dirle di andare a cercare a che ora passa il prossimo bus. Lei lo fa, stizzita.

“Tu abiti qui?” mi chiede scontrosamente.

“No”

“Cos… e per quale motivo al mondo sei sceso?”

“Niente”

“Tu sei pazzo” conclude

La guardo mentre fissa gli orari. Devo parlarne con qualcuno. Questa cosa è troppo strana, non è una coincidenza. Non può esserlo. Non sono pazzo. Prendo coraggio e le mostro il pezzo di carta su cui ho annotato l’indirizzo ieri sera.

“Lo vedi questo? Era scritto sul muro del bagno del pub accanto al mio nome. Ho visto la fermata e ho pensato di scendere e l’orario era esattamente 5:11 pm. Lo so che sono un idiota ma sentivo di dover scendere. Ero curioso, capisci?”

Prende il pezzo di carta in mano e mi guarda con un espressione di pietà che si riserva per i bambini, quando non capiscono qualcosa.

“James il muro era pulito. Non c’era nulla. Per di più il tuo orologio è messo male. Le 5:11 sono ora” mi dice, indicando il suo orologio.

“Te lo giuro, l’ho visto coi miei occhi” dico, mentre osservo il palazzo di fronte ai nostri occhi. Un tizio incappucciato passa e segna qualcosa sul muro con una bomboletta. Mi alzo in piedi e attraverso la strada. Emily urla il mio nome più volte ma non le do peso. Dopo un po’ la sento accanto a me.

“James è assurdo e anche se foss-“ il resto della frase viene coperto dalle sirene di un’ambulanza che a velocità astronomica passa e si ferma a qualche isolato più in là.

Mi giro verso la provenienza delle sirene, la gente sta correndo verso la nostra direzione. Altre ambulanze accorrono. Fermo un uomo e chiedo cosa stia succedendo, mi dice che c’è stato un violento incidente, tra una macchina e un il bus 32 della linea di città.

Emily dietro di me rabbrividisce. Era il bus su cui stavamo viaggiando. Guardo attonito di fronte a me, sperando di riuscire a scorgere qualcosa, ma il caos non mi permette di vedere l’autobus. Qualche giorno più tardi i telegiornali avrebbero confermato che nello schianto, avvenuto alle 5:11 pm, erano morte 7 persone. Di cui un bambino.

Emily apre con delicatezza il foglio con l’appunto.

“E’ lo stesso simbolo, James” mi dice con un filo di voce, indicando il segno che era stato appena fatto dallo sconosciuto incappucciato.


Note dell’autrice

Chi non muore… sì, c’ho messo un bel po’ per dare alla luce questo capitolo, ma tra impegni, università e altro, il tempo mi è volato via. Stiamo entrando nel corpo della storia, visto e considerato che è d’Avventura come genere. Spero vi sia piaciuto, e come sempre, vi sprono a lasciare commenti sugli aspetti sia negativi che positivi, o per chiedere chiarimenti.
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito i primi due capitoli e che si sono addirittura appassionati alla mia storia *-*.
Grazie mille, S.

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Capitolo 4
*** Blind ***






Never let me go


Blind

Emily sfiora lentamente la superficie del muro. Ricalca con l’indice quello strano segno e poi si volta verso di me.

“Tu lo conosci?” sussurra, indicando il simbolo.

“No, non so cosa sia o cosa significhi”

“Potrebbe essere tutto una strana coincidenza…” dice, forse pensando ad alta voce e continua ad indagare assorta il simbolo.

Io? Io non sapevo cosa pensare. Le sirene e le urla della gente bombardavano i miei pensieri, non riuscivo a mettere a fuoco nulla. Avevo voglia di gridare, urlare, fare qualcosa che non fosse rimanere lì a fissare il nulla, completamente perso.

“Andiamo al pub” dalla tempesta in cui mi trovavo, Emily mi fa riaffiorare “Voglio vedere questo famoso bagno”
Concordo con lei. L’unico modo per sapere che almeno non sono pazzo.

Il pub è a mezz’ora di strada da noi, ed essendo la città in tilt per via dell’incidente, ci dirigiamo a piedi facendo più in fretta possibile.

“Forse non era indirizzata a te. Forse a un altro James e magari quello non è stato un incidente ma un attentato” dice Emily mentre camminiamo, per spezzare forse il silenzio che è calato.

“N-non lo so. Se così fosse avrei potuto salvarli?”

“Sì, credo di sì”

“Perfetto”. La cosa non mi fa stare meglio, se invece di andare a spassarmela avessi riflettuto di più su quel biglietto. E invece no. Ero un egoista, un dannato egoista. Avrei potuto salvarli tutti. Il senso di colpa inizia a sopraffarmi e inizio ad avere il respiro irregolare. Emily forse se ne accorge, si gira verso di me un paio di volte finchè non si ferma. La guardo.

“Che c’è?” le dico.

“Ti senti bene?” domanda lentamente, guardandomi.

“Sì, andiamo” taglio corto io e mi incammino.

“Non è colpa tua, nessuno avrebbe mai dato peso a una cosa del genere…” continua a parlare, ma io non la ascolto. Tutto questo è più di quanto io possa sopportare.

Arriviamo al pub. Entriamo chiedendo urgentemente del bagno e io prendo qualcosa, giusto per pagare una consumazione. Emily è già entrata e io la seguo a ruota. La scritta è lì. Chiara, limpida, esattamente uguale a se stessa.

Emily si volta verso di me.

“Allora? Dov’è?”

“È qui! Non la vedi?” dico, indicando il punto.

“Io non vedo nulla, James”

Mi passo una mano fra i capelli. Mi manca l’aria. Non sono pazzo, lo giuro. L’agitazione e il senso di colpa formano un mix che non sono pronto a reggere, sento di voler piangere.

“Dove la vedi, esattamente?” sussurra Emily, accarezzandomi piano il braccio. Non mi ero accorto di quanto fosse vicina. Le prendo la mano e la porto piano vicino al muro dove la scritta erge lampante.

Sento il suo sguardo sul mio viso. Sembra preoccupata, preoccupata per me. Appoggio le sue dita sulla scritta. La sento trasalire.

“Sento, come dei solchi” passa piano la mano, accarezza la J, poi la A e così via. Segue con le dita le lettere come se riuscisse a sentirle, o forse le sente davvero. “E’ come se fosse scavata nel muro, ma non si vede.
Tu la continui a vedere?” mi chiede. È spaventata. E lo sono anche io, non trovo risposta a nulla. Semmai questa cosa peggiora tutto.

“Chiara come il sole”

Lei sposta piano la mano e mi guarda.

“Hai detto che sentivi di dover scendere dal bus. Ora cosa senti?”

Rido. Una risata vuota, senza felicità, mette i brividi persino a me.

“Ho appena permesso a chissà chi di fare una carneficina, cosa credi che senta”

“Non fare l’idiota, tu non c’entri nulla. Come potevi saperlo?”

“Certo, come potevo sapere che riesco a vedere cose che non esistono?” la prendo dalle spalle e la giro verso la scritta “Una scritta che non puoi vedere! Tu non la vedi, cazzo! Cosa sono? Cosa diavolo sono?”

“I-io non lo so! Ma urlare in un bagno non aiuta di certo! Hai detto tu che sentivi le cose e stavo cercando di aiutarti. Cosa sei? E che diamine ne so, un veggente? Nella tua famiglia ci sono altri casi… o…”

“OH SI’ CERTO! MIA NONNA ADORAVA PREVEDERE I NUMERI DELLA LOTTERIA!” urlo. Sono fuori di me. Non so perché, sono arrabbiato, infuriato. Non capisco cosa stia succedendo, mi sento un idiota.

Ma Emily, non è come le altre. All’improvviso sento le sue dita sopra il mio viso, rapide, veloci. È uno schiaffo secco. Non ha urlato, non ha detto nulla. Mi ha solo tirato uno schiaffo. Alzo lo sguardo e lo poso su di lei. È arrabbiata, mi fissa con uno sguardo di rimprovero.

“Finito?”

Prendo un lungo respiro. “Finito”

“Bene” sbotta “Senti, tanta gente ha tipo dei segni premonitori. Non sei il primo, né l’ultimo. Per quanto riguarda la scritta… beh Arthur mi ha detto che ogni tanto fumi qualche canna se ti va, ultimamente sei per caso passato ad altro?” dice, sussurrando.

Non so se ridere. Alzo un sopracciglio. Non le rispondo nemmeno, questa volta sono io che la rimprovero con lo sguardo.

“Ok, ok. Era solo un’idea… facciamo così. Ora noi due ce ne torniamo a casa. Come se non fosse successo nulla. Magari è tutto una grandissima coincidenza. Potrebbe esserlo, insomma!”

Concordo con lei. Voglio solo stendermi sul letto e non pensare a nulla. Se poi avrò tempo e voglia, analizzerò tutto.

“Ok” sussurro.

Usciamo. Ci dirigiamo verso la metropolitana. Stiamo in silenzio. Nessuno dei due sa cosa dire. La gente non fa altro che parlare dell’incidente e noi due siamo due estranei in piedi, che avrebbero potuto essere su quel bus al momento sbagliato. E invece, no. Qualcosa aveva deciso di no.

Manca poco alla fermata di Emily. La guardo e le sussurro “Grazie”. Non so per cosa in particolare. Forse perché è Emily. Un’altra ragazza non sarebbe rimasta, sarebbe fuggita. Ne ero certo.

Lei abbozza un sorriso e poi mi abbraccia. Di tutte le cose che ho amato di Emily, questa è forse la migliore. La capacità straordinaria di capirmi. Anche nei nostri primi giorni, mi comprese. Comprese che avevo bisogno di un abbraccio. E fu ciò che mi diede.

Sprofondo piano nel suo profumo. Lo assaporo mentre lei, piano si stacca da me. Mi prende il cellulare e mi memorizza il suo numero di casa. Mi dice che è per le emergenze, nel caso dovessi vedere qualcos’altro. E poi scende.

                                                                              ***

Sono a casa. Sono stanco. Non so cosa voglio fare. Siedo sul letto immobile da non so quanto, non guardo nulla in particolare. Veloci corrono le immagini di questa mattina. Mi alzo in piedi. Ho sete. Molta sete. Mi dirigo verso la cucina e sul tavolo noto una piccola scatoletta con un foglio. Apro il frigorifero e mentre riempio il bicchiere, il mio sguardo si posa sulla piccola scatola. Su una superficie vi era inciso quel simbolo.

Trasalisco. Appoggio piano la bottiglia e afferro quell’oggetto. Lo scuoto. Non c’è nessuno in casa. E non so perché e chi ha portato questa cosa sul mio tavolo. Corro nelle stanze, ho paura di trovarci chissà chi, ma la casa è vuota. Sono tutti fuori.

Ruoto tra le mie mani la piccola scatola. Col pollice tiro piano l’apertura per scoprire cosa c’è dentro.

Buio.

                                                                               ***

Una ragazza dai capelli color fuoco sta salendo di corsa le mie scale. La sento distintamente. Forse ha paura. Non avrei dovuto chiamarla così, senza darle spiegazioni, pregandola in lacrime di venire a casa mia.

Bussa alla porta. Mi alzo piano, procedo lentamente a piccoli passi. Accarezzo la porta e poi le apro. Lei entra come un uragano.

“Cosa è successo?” dice, cercando di nascondere il fiatone e l’agitazione

“Sul tavolo. Ho trovato questa scatola.” Dico piano

La sento avvicinarsi al tavolo.

“C’è quel simbolo! Oddio, James. Chi l’ha portata?”

“Non lo so”

“Cosa c’è dentro?”

“Non lo so”

“Come? Non l’hai aperta?” la sento cercare di aprirla. Mi scaravento verso il suono della sua voce.

“NO!” Non so se sono vicino a lei. Provo a cercarla con le mani.

“James cosa…” sento la paura nella sua voce

“Non ci vedo più”

Dopo aver aperto la scatola, è diventato tutto buio. Non vedo nulla. Ho passato ore ad urlare e a farmi prendere dal panico, finchè non mi è venuto in mente il numero. L’ultimo numero che avevo memorizzato sul telefono di casa.

Cerco la scatola con le mani. Spiego ad Emily cosa è successo. Sento le sue mani, le percorro piano sino ad arrivare alla scatola. La aprirò io e lei potrà vedere cosa c’è dentro. Non voglio farle rischiare niente.

La apro. La vista non torna.

“Cosa vedi?”

“E’-è vuota… vuota, James” la toglie dalle mie mani. La sento trafficare, forse la sta girando. Io non ne posso più. Non vedo nulla.  Ho paura. Una lacrima riga il mio volto, ma non riesce a percorrerlo. Emily la ferma.

Sento le sue mani prendermi il volto.

“Stai calmo. Ci sarà una soluzione, vedrai.”

Rimango così. A pezzi fra le sue mani. Sbatto le palpebre senza successo, e cerco di essere più lucido che posso.

“Un biglietto, c’era un biglietto accanto. In cucina.” le dico.

Fa scivolare le mani dalla mia faccia e la sento andare in cucina. Si avvicina a me e la sento aprire la carta.

“C’è scritto seguici, solo seguici” dice con un filo di voce.

So dove andare. Devo seguire solo la pista iniziale. Cerco le sue mani. Le afferro.

“Vieni con me?”

Lei a sua volta stringe le mie mani. “Sì”

                                                                         ***

Siamo all’angolo di Ravenground. Emily mi ha condotto con la sua mano, cautamente in giro per la città. Non la ringrazierò mai abbastanza. Per ciò che ha fatto e per ciò che farà in futuro. Il suo coraggio è stato la mia forza, in tutto. Non ha avuto esitazioni, limpida come l’acqua, ha accettato tutto. Ha una forza che supera di gran lunga la mia.

“C’è una porta vicino al simbolo di questa mattina” sussurra sorpresa.

Bussa. Qualcuno apre.

“Vuole che entriamo” sussurra, stringendomi la mano.

Non rispondo ma lei capisce. Ci siamo dentro ormai. Tanto vale finire l’opera. Varchiamo la soglia.

E io torno a vedere.



Note dell’autrice

Eccomi qui con il quarto capitolo! Allora ho deciso di pubblicarlo relativamente presto perché questa settimana avrò molti impegni e non ero certa di riuscire a finirlo. Questo capitolo ha un ritmo molto più veloce rispetto agli altri, e spero questo non infastidisca la lettura (a me pare di no, ma io son di parte ahah).
Comunque buona lettura e come sempre grazie a coloro che seguono la mia storia e naturalmente commentate per qualsiasi chiarimento o commento positivo/negativo.
Grazie mille, S. 

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