Oltre la cortina di pioggia

di Elrais
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intersezioni ***
Capitolo 2: *** Parallelismi ***
Capitolo 3: *** Divergenze ***



Capitolo 1
*** Intersezioni ***



Tutti i personaggi appartengono a Yana Toboso, che ne detiene i diritti.

Prologo
:

** Gli equilibri stanno lentamente cambiando. Chi vive da molto tempo, come le creature di questa Terra, se ne accorge facilmente: la linea netta tra luce e ombra si sta dissipando, i contorni sono sempre più indefiniti. Nei tempi antichi era facile distinguere il Bene dal Male, il Guardiano dal Profanatore. Gli Elfi camminavano ancora su questa Terra, personificazioni di una Madre che protegge i propri figli.
Ma ormai gli Elfi non sono più. Sono partiti, con lunghe navi veloci che solcano acque immortali, acque che da secoli riflettono la luce del sole e che per secoli ancora la rifletteranno. Ora è il tempo degli Uomini, ad essi è affidata questa Terra che si trasmuta, che cambia, che volge ad un altro giorno, uguale ai precedenti eppure radicalmente opposto.
Eppure non tutti sono partiti, alcune creature sono rimaste. Coloro che hanno nell’animo il cambiamento, coloro che sanno voltare il proprio essere per seguire il mutamento sono ancora qui. Non tutti gli Elfi sono partiti: alcuni sono rimasti per servire e proteggere.**

 
Capitolo 1: Intersezioni
 
I

Nella Quindicesima divisione del reame di Menior l’alba non sorgeva mai inosservata: la contemplavano i soldati sulla cinta muraria di difesa, grati che il loro turno di notte fosse finito; la contemplavano i contadini, già in marcia verso i campi fuori la città, intirizziti nelle loro vesti umide di notte; la contemplava Elanor dalla finestra della sua stanza, la fronte appoggiata al vetro freddo, in un rituale antico che ancora non si era spezzato. Ogni mattina di ogni nuovo giorno, il sole veniva salutato in una venerazione silenziosa.

“El, abbiamo un problema.”

Elanor sussultò, sorpresa: suo fratello Uriel aveva spalancato la porta della sua camera da letto senza bussare, e ora le stava a pochi passi di distanza, porgendole una lettera. Sulla ceralacca, il sigillo di Anior: il sigillo del loro Re.
Mentre la ragazza scorreva velocemente con gli occhi la missiva, suo fratello rimase appoggiato al muro, le braccia incrociate sul petto, lo sguardo cupo e imbronciato di un bambino scontento del mondo e una lunga cicatrice sulla parte destra del viso.
“Ho già avvertito gli Dei della Morte della giurisdizione competente” annunciò quando sua sorella richiuse la lettera, “se il varco si apre tra i nostri due mondi, è probabile che ci sarà qualche scambio di anime. Faremo il possibile per evitarlo, ma non possiamo essere sicuri che nessuno passi per sbaglio da una parte all’altra.”
Il ragazzo si portò la mano alla cicatrice, massaggiandola distrattamente. “Fortunatamente sembra che l’unico varco instabile sia quello che ci è stato segnalato, non dovrebbero aprirsene altri; un varco solo è facile da controllare, una volta che ci siano persone competenti da ambo i lati… ma non mi sono mai fidato molto degli Dei della Morte, sono troppo simili agli uomini nel carattere: è facile farli perdere.”
Elanor sorrise, guardando il volto preoccupato del fratello: “L’ho costruito io quel varco, sotto il comando di nostro nonno: così come l’ho chiuso una volta, lo richiuderò di nuovo. Su, non agitarti inutilmente, Uriel! Piuttosto, tu hai già mangiato?”
“Veramente, ancora no. Aspettavo di farti leggere la lettera.”
Elanor si ravviò i capelli color miele con un gesto sbrigativo e prese sottobraccio il fratello: “I problemi sembrano più grandi, quando si è a stomaco vuoto.”
 
I due fratelli sedevano l’uno di fronte all’altra su una panca di legno scuro: di fronte a loro, ciotole di latte e pane. Erano vestiti semplicemente, quasi come garzoni: passando di sfuggita non avresti riconosciuto in Uriel il Governatore della Quindicesima divisione e in Elanor sua sorella.
Ma soprattutto, guardandoli nei loro miseri panni, non avresti riconosciuto in loro dei Miendul, stirpe reale elfica. Avresti potuto sicuramente notare il modo in cui i capelli color miele di Elanor mandavano riflessi quando toccati dal sole; avresti notato il colore dei suoi occhi, oro fuso; avresti veduto lo strano candore della pelle di entrambi, e i bagliori che di tanto in tanto illuminavano l’unico occhio che Uriel poteva ancora usare. Ma questo forse non sarebbe stato abbastanza, per riconoscere in loro il sangue della Terra.

Elanor si stiracchiò sulla panca, allungando le braccia affusolate: “Sappiamo esattamente dove finisce questo varco? Se non ricordo male, all’epoca li avevo tutti catalogati con ordine…”
“Sì, ho recuperato le scartoffie che avevi scritto.”
 Uriel tirò fuori dalla tasca interna della giacca delle pergamene ingiallite, friabili. “ Londra, Inghilterra. O meglio, un po’ fuori dalla città, sembrerebbe aperta campagna. Ma queste cartine non sono aggiornate: i varchi sono stati chiusi 450 anni fa, a quest’ora la città potrebbe essersi allargata. Probabilmente ora ci sono delle costruzioni in quel punto.”
“E gli Dei della Morte che dicono?”
“Mah, cosa vuoi che dicano.” Uriel si strinse nelle spalle. “Lo sai come sono fatti…il loro pensiero maggiore è evitare di fare straordinari non pagati. Sono preoccupati per le ramanzine che potrebbero ricevere dai piani alti, ma del fatto che alcune anime potrebbero perdersi sembra non gli importi. Mi sembra assurdo, considerando che è proprio il loro compito falciare gli spiriti degli uomini in punto di morte e accompagnarli all’Oltretomba a cui appartengono.”
Il ragazzo continuava a mescolare il suo latte con gesto svogliato. “Davvero, non riesco a capirli… eppure sono creature di Luce. Dovremmo stare dalla stessa parte.”
Elanor scoppiò in una delle sue risate argentine: “Ma quale parte? Gli equilibri stanno cambiando. Non ci sono più Elfi o Demoni che tengano… non mi stupirebbe se i primi a tradirci fossero proprio questi Dei della Morte che tanto decantiamo.”
La sua risata scemò in un sorriso nostalgico. “Te l’immagini la faccia del nonno? Fortuna che è partito assieme agli altri della nostra stirpe: non era proprio fatto per questo nuovo mondo…”

Un ragazzino dalle spalle esili, avvolto in una giacca più grande di lui, si avvicinò rispettosamente ai due Elfi.
“Perdonate l’intrusione, miei signori. È arrivata questa per il Governatore.”
“Grazie, Ren, puoi andare.”

Uriel aprì una pergamena gialla: Elanor, incuriosita, sbirciò un sigillo che non riconosceva.
Il fratello digrignò i denti: “Oggi non è giornata. Questa lettera viene dagli Dei della Morte della sezione inglese: ci stanno fornendo la topografia aggiornata della zona in cui il varco sfocia. Pare che ci sia solo una casa, una magione signorile.”
“Oh, ottimo! Perché dovrebbe essere una cattiva notizia?” esclamò Elanor, alzando lo sguardo dal sigillo, “io avevo paura che fosse stata invasa dalla periferia della città, con tutta la gente ammassata nelle case. Alla fine una sola villa è facile da controllare, no?”
“Sarebbe così, se fosse abitata soltanto da esseri umani… ma qui c’è scritto che il proprietario della villa è un bambino, un certo Ciel Phantomhive, e che il suo servitore è un demone delle Alte Schiere. Non scrivono quale sia il nome del demone, ma poco importa. Sta di fatto che i due hanno un regolare contratto.”
Uriel tacque per un istante, continuando a massaggiarsi la cicatrice. Poi mormorò: “Francamente, anche se al momento è soltanto un cane al guinzaglio, preferirei che quel demone stesse lontano dalla nostra Divisione.”

Elanor non rispose. La sua attenzione era stata attratta dalla pergamena allegata alla busta: una cartina topografica e una breve descrizione del padrone della magione.
 “Ciel Phantomhive, 13 anni” lesse a voce alta, “orfano di padre e di madre. Dirige un’azienda di giocattoli e dolciumi e si occupa di risolvere i problemi e gli affari sporchi della Regina d’Inghilterra.”
La ragazza rimase qualche secondo in silenzio, fissando la lettera.
Il fratello scosse la testa: “A tredici anni dovresti leggere, studiare e obbedire ai tuoi genitori. I tuoi problemi maggiori dovrebbero essere ricordare i nomi dei Re e tradurre le lingue antiche, non occuparti degli affari di Stato e dirigere società.”
Le mani bianche di Elanor richiusero la lettera, piegandola distrattamente: “Hai ragione, fratello. Ma soprattutto, a tredici anni dovesti avere ancora il pieno possesso della tua anima.”
 

II

Una imponente magione, poco fuori la città di Londra, circondata da boschi ed ettari di terreno, isolava i suoi abitanti dalla vita frivola e pulsante della Capitale.

“Posso sapere cosa sta succedendo qui?”
“Sono mortificato, padrone. Non ho potuto impedirgli di entrare.”

Un ragazzino minuto era sulla sommità della scalinata d’ingresso della dimora: dimostrava meno della sua età, con quei tratti delicati e la pelle liscia. Aveva un’espressione di feroce disappunto sul viso, come quella di un bambino nel momento in cui scopre che il gioco tanto atteso non funziona come pensava.
Nell’atrio dell’enorme villa in stile vittoriano, il suo maggiordomo stava sbarrando il passaggio ad un uomo dagli occhiali spessi.
Entrambi erano vestiti con cura: il servitore nel suo frac nero, la giacca a coda di rondine, l’Albert che risplendeva d’argento; l’ospite indesiderato era in giacca e cravatta, la camicia inamidata. Un uomo comune, se non fosse stato per il sinistro luccichio degli occhi dietro le lenti degli occhiali.
Occhi verdi e insieme gialli.
Gli occhi di un Dio della Morte, uno Shinigami. Questi parlò: “Credimi, ragazzino, siete gli ultimi con cui vorrei avere a che fare. Ma purtroppo è una questione di mia competenza, e vi riguarda: prima mi fate spiegare cosa sta succedendo, prima la sbrighiamo.”
I due uomini si fronteggiavano senza arretrare, entrambi in attesa di una risposta.
Il bambino sospirò: “E va bene, Shinigami. Sarà meglio per te che sia una cosa davvero importante. Andiamo in salotto. Sebastian, servici del thè.”

Il ragazzino aveva fatto strada all’ospite lungo una serie di corridoi tortuosi, ma bene illuminati, finché non ebbero raggiunto una porta elegantemente intagliata. Il padrone di casa si era seduto svogliatamente su una poltrona, facendo cenno al Dio della Morte di accomodarsi su un divano damascato, proprio di fronte a lui. Su questo divano sedeva ora lo Shinigami, palesemente a disagio.

La villa vittoriana era curata nei minimi dettagli. Non un alone di polvere sul tavolo del salotto, non una sbeccatura sul servizio da thè.
“In parole povere, stanotte si aprirà un varco che potrebbe risucchiarci e condurci verso un’altra Terra.”
Ciel posò delicatamente una tazzina sul piattino di ceramica abbinato. “Voi avete il dovere di presidiare la mia casa affinché nessuno di noi passi attraverso questo passaggio, e lo stesso faranno altre persone incaricate dall’altra parte, in modo che nessuno si ritrovi qui per sbaglio. Dico bene?”
Il ragazzino scrutò incuriosito il volto del Dio della Morte che sedeva di fronte a lui: questi aveva rifiutato sdegnosamente i dolci e il thè che gli erano stati offerti ed era seduto sull’estremità del divano, come se qualunque cosa all’interno della villa fosse sporca e temesse di essere contaminato da un momento all’altro.
Parlava sputando sdegnosamente le parole dalla bocca.
“Esattamente. Le persone dall’altra parte, al contrario di noi, sono in grado di ristabilire l’equilibrio del varco e chiuderlo definitivamente. Quindi di fatto noi ci occuperemo solo di evitare che voi veniate risucchiati. Se non ci sono intoppi, tutto verrà concluso stanotte stessa.”

 “Posso sapere chi sono queste persone in grado di giocare con dei varchi? È un’abilità piuttosto rara. Noi Demoni non sappiamo farlo.” Il servitore in frac sorrise. “E neppure voi Shinigami, per quel che ne so.”

Il maggiordomo non si era allontanato un attimo dalla sedia del padrone. Ogni suo movimento era destinato a lui. Ogni sua parola era detta perché il suo padrone la sentisse.
Il Dio della Morte avvertiva quel legame, e ne provava ribrezzo.
“Non sono informazioni che posso darti, e comunque non ti riguarda. Tornerò con altri, questa sera. Domani mattina sarà tutto finito.” Il Dio della Morte si alzò dal divano ed uscì, senza salutare.


Padrone e servo rimasero in silenzio per qualche istante. Quindi Ciel sospirò, riprendendo in mano la tazzina da thè. “Sebastian, vai a chiamare il resto della servitù e fa’ venire tutti qui. Ordinerò loro di trascorrere la notte nella mia casa di Londra, con la scusa di un qualche incarico da parte della Regina. Meno gente c’è nella magione, minore è il rischio che qualcuno venga risucchiato nel varco. Domani mattina li faremo tornare.”
Ma il maggiordomo non si mosse.
“Padroncino, devo avvisarvi.”
 La sua voce era preoccupata: il ragazzo lo guardò stupito. Era raro, per lui, vedere il suo servitore preoccupato per alcunché.
“Il problema non è tanto essere risucchiati, quanto il fatto che nella Terra d’Alda, dove mi pare di capire che sfoci questo varco, i miei poteri sono molto limitati. È una terra strana, ostile a noi demoni: ci sono forze antiche che non posso superare.”
Ciel fissava il suo maggiordomo con la tazzina rimasta a metà strada tra il tavolo e la sua bocca. Sebastian parlava tenendosi il mento con la mano, le sopracciglia corrucciate:
“Inoltre, le creature che dall’altra parte si occuperanno di ristabilire l’equilibrio potrebbero essere Elfi. Non mi viene in mente nessun’altra specie in grado di usufruire di capacità così elevate: contro di loro, persino qui, i miei poteri non valgono. Non vi farebbero del male, ma preferirei evitare di mettermi nella situazione di avere le mani legate.”
“Quindi voi demoni non siete poi così speciali” lo stuzzicò il ragazzo. “C’è qualcuno a cui persino tu devi sottometterti! Forse ho sbagliato a cedere la mia anima proprio a te…”
Un bagliore rosso di collera passò veloce negli occhi del maggiordomo: ma era già scomparso sotto un sorriso mellifluo. “Mi spiace non essere abbastanza per voi, padroncino. Ma ormai la scelta è fatta: avete stipulato un contratto con me e non potete cambiare.”
Il ragazzo si limitò ad uno sbuffo, che poteva essere una risata o un singhiozzo. “Lo so, Sebastian. Lo so.”
 

III

Per l'ora di cena di quella stessa sera, il salotto della magione signorile, ovvero il punto in cui secondo i calcoli degli Shinigami doveva aprirsi il varco, era completamente irriconoscibile: il tavolo da pranzo era stato spostato di lato, in modo da creare uno spazio vuoto al centro per rendere più agevoli i movimenti; le credenze piene di porcellane pregiate erano state riposte in altri ambienti della casa.
Shinigami in giacca e cravatta passeggiavano nervosamente nella stanza svuotata.
“Sarebbe meglio se anche tu andassi da qualche altra parte, sai? È pericoloso qui.”
Lo stesso Shinigami che la mattina aveva portato la notizia dell’apertura del varco ora stava osservando Ciel con sguardo sprezzante. Palesemente, quel lavoro non gli piaceva affatto.
Il ragazzino gli rispose con un sorriso serafico: “È casa mia, vorrei controllare che non buttiate tutto all’aria. E poi mi piace l’idea che siate costretti a proteggere della feccia come me e il mio maggiordomo. Non credo che mi ricapiterà spesso l’ occasione di vedervi così in difficoltà.”
Per un attimo, Ciel fu certo che lo Shinigami stesse per impugnare la sua falce. Ma fu solo un istante.

Mentre il Dio della Morte si allontanava, Ciel sentì il suo servitore ridacchiare alle sue spalle: “Siete davvero un ragazzino indisciplinato, padroncino. Ad ogni modo, avete ragione: sarà divertente vederli faticare per proteggerci. Anche se, ovviamente, per contratto la vostra salvezza è la mia priorità.”
Il demone si avvicinò al bambino, chinandosi su di lui: “Finché non avrete compiuto la vostra vendetta e il contratto tra di noi sarà valido, farò in modo che nulla e nessuno possa sfiorarvi.”
Ciel lo guardò dritto negli occhi. “È quello che devi fare, se vuoi guadagnarti la cena. Non ho certo venduto la mia anima per ottenere in cambio un servizio scadente.”
Il ragazzino si lasciò andare sullo schienale della poltrona, accavallando le gambe magre. “Comunque, controlla che non mi mettano a soqquadro la casa. E preparami qualcosa di dolce, sarà una nottata lunga.”
 

**Forse voi non avete mai visto cosa succede quando due mondi si mettono in contatto, e me ne dispiaccio, perché è uno spettacolo da non perdere. Dovete pensare a due estranei che si tendono la mano e si mescolano: l’uno dà all’altro ciò che possiede, e quando lo scambio termina nulla è più come prima. Può essere uno scambio turbolento e impetuoso, oppure dolce come il vento d’estate: questo dipende dai caratteri delle persone che popolano i due mondi, così come un dialogo dipende dalla personalità degli individui che lo portano avanti. **

 
Ciel, che si era aspettato in quel varco una dichiarazione di guerra e di disordine, si trovava di fronte alla delicatezza più assoluta: osservava, così come Sebastian e gli Dei della Morte accanto a lui, un cancello dagli infissi dorati, con incise parole che non sapeva leggere.
Non riusciva a vedere cosa ci fosse al di là: le immagini attraverso il cancello gli giungevano sfocate, come attraverso una cortina di pioggia.
Però la voce che arrivò era limpida: “Mi chiamo Elanor, e accanto a me c’è mio fratello Uriel. Siamo della stirpe dei Miendul, Re quando gli Elfi regnavano su queste terre. Ci occuperemo di risanare il varco che si è aperto.”
“Sì, mia Signora. Noi Dei della Morte abbiamo circondato la magione e faremo in modo che possiate lavorare indisturbati.”

Sebastian, ritto accanto al padrone, lo osservava di sottecchi: l’anima del ragazzino era sempre più corrotta, sempre più colma di disperazione…ma ogni tanto, quando meno se lo aspettava, emergeva qualche spiraglio di luce. Qualche momento di verità in tutte quelle bugie. Il demone osservava il padrone, che era rimasto incantato dal riflesso dorato, e sentiva la preoccupazione nascergli dentro: il richiamo della luce aveva ancora presa sull’anima del suo pasto.
“Forse, padroncino, lo Shinigami ha ragione nel dire che sarebbe meglio che voi vi allontanaste. Vi preparerò del latte col miele e ve lo porterò in camera.”
Ciel ebbe un moto di fastidio: “Sono io che decido quando ritirarmi. Voglio restare a vedere come si conclude questa storia… piuttosto, Sebastian, avvicinati anche tu al varco con gli Shinigami, credo che abbiano bisogno di aiuto.”
Con cautela, infatti, gli Dei della Morte si erano avvicinati al cancello dorato e ne tenevano le inferriate, quasi temendo che potesse spalancarsi del tutto.
Il demone eseguì l’ordine senza ribattere, dimostrando la preoccupazione nel serrarsi della mascella.
Ciel osservava la scena a distanza, chiedendosi cosa stessero facendo dall’altra parte del varco: seduto su una poltrona, si lasciò cullare dal riflesso dorato, fino ad addormentarsi.
 
Delle braccia forti lo presero alla vita, con delicatezza. Il ragazzino si raggomitolò contro il petto del suo servitore. “È tutto finito, Sebastian? Avete chiuso il varco?” mormorò senza aprire gli occhi.
“Avevate detto di voler guardare e poi vi siete addormentato. Non si fa così, Conte. Meno male che ci sono io qui, a soddisfare la vostra curiosità.”
Il cuore di Ciel perse un battito: spalancò gli occhi, e invece delle iridi castane del suo demone, si trovò a fissare quelle giallastre dello Shinigami disertore, i capelli argentati che gli ricadevano sul viso. Con la coda dell’occhio percepì Sebastian allontanarsi dal cancello dorato e buttarsi verso di loro, seguito da quattro Dei della Morte che evidentemente consideravano la situazione troppo rischiosa per lasciar stare.
 
Ma gli shinigami disertori hanno molte doti, tramite le quali riescono a sfuggire al giusto castigo dei loro superiori per secoli e secoli: non sarebbe stato facile prenderlo.

Temendo che potesse fuggire dalla magione, gli Dei della Morte si posizionarono all’altezza delle finestre e della porta del salotto, mentre Sebastian puntava dritto verso la coppia, le iridi rosso fuoco.
Il disertore sghignazzò: “Ci tieni proprio alla tua cena, eh?”, quindi virò, cercando una via di fuga di lato. Uno degli dei della Morte che era di vedetta accanto alla porta gli si buttò contro.
 “Sta cercando di scappare con il ragazzino in braccio” urlò uno Shinigami che era rimasto attaccato al cancello. “È il disertore che sta facendo esperimenti sui cadaveri! Due di noi rimangano qui di guardia, gli altri cerchino di bloccarlo.”
 Nel giro di una frazione di secondo, la coppia shinigami e bambino fu circondata: Sebastian si parò di fronte ai due.
Il disertore gli sorrise. E, inspiegabilmente, cominciò a correre a sua volta verso di lui.
Un attacco frontale? Portando il padroncino in braccio? pensò il demone, confuso. Ma dove vuole arrivare?

Cinquanta metri. Venticinque. Dieci. Due. Mezzo metro. Le due trottole impazzite continuavano a correre l’una verso l’altra, una delle due portando il suo fagottino in braccio. Si sarebbero scontrate e il ragazzino sarebbe rimasto schiacciato in mezzo.
Gli Dei della Morte cominciarono a chiudere il cerchio, ma la falce del disertore non poteva essere scalfita dalle loro: si fece spazio facilmente.
Sebastian sterzò, per evitare di urtare il suo padrone e contemporaneamente colpire lo Shinigami di taglio. Il disertore respinse il colpo e fece per dirigersi verso una delle finestre rimaste scoperte.

“Di qui non passi!”

 Gli Dei della Morte che erano di guardia al cancello si pararono tra il disertore e la via di fuga. Sebastian gli era dietro: il colpo vibrato con l’argenteria andò a scontrarsi contro la falce dello Shinigami.
“Che senso ha questa farsa? Pensi davvero di riuscire a scappare? Tutte le uscite sono controllate”.

Fu una frazione di secondo. Il tempo che occorse allo Shinigami per spingere il demone da una parte con la sua falce e lanciare con forza il ragazzino all’interno del cancello dorato, nel frattempo rimasto senza guardie.

“Ti mando un regalo, dama Elanor, abbine cura. E ricordati: i varchi non si aprono mai per caso.”

Sebastian vide con sgomento le porte del cancello chiudersi con violenza e poi svanire. Rimase immobile a fissare il punto in cui il suo padrone era scomparso: solo la carta da parati del salone, intonsa. 

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Capitolo 2
*** Parallelismi ***


Capitolo II: Parallelismi

I
Un vecchio gobbo, la faccia rugosa, le iridi chiare. Di fronte a lui, Uriel, il mento alzato in un’espressione di cipiglio fiero.
“Io credo che voi due non abbiate ben chiara la gravità della situazione”.
“Ne siamo perfettamente consapevoli, grazie.”
“Ah sì? E allora mi spieghi come mai hai questa espressione serena stampata in faccia, Uriel? Degli Dei della Morte ci tradiscono, ci lanciano un ragazzino mentre tu e tua sorella lavorate alla chiusura di un varco, e tu cosa fai? Niente! Assolutamente niente!”
“Non sono stati gli shinigami di ruolo a lanciarlo nel varco… si tratta di un Dio disertore che sta creando parecchi problemi anche alla loro sezione. Non c’è nulla di premeditato.”
“Sei un ingenuo! Tale e quale a tuo nonno! Voi, con questa aria da salvatori misericordiosi… beh, ricordati, ragazzo, che hai una Divisione sulle spalle: la gente che devi proteggere è dentro queste mura! E proprio all’interno di queste mura hai appena fatto entrare il padrone di un demone delle Alte Schiere!”
Uriel abbe un moto di stizza.
“Finché il demone in questione non arriva qui, questo bambino è assolutamente innocuo. Ha solo tredici anni, non ha poteri particolari. Davvero pensi che un ragazzino potrebbe essere un problema per noi, vecchio?”
“Penso che il problema sia la corruzione che è in lui. La corruzione è contagiosa, ricordatelo! Questo essere ha solo tredici anni e ha già venduto la sua anima… non c’è nulla di buono in lui. Se tu fossi un padre, faresti giocare i tuoi figli con un ragazzino come questo? Devi pensare anche alle anime della tua gente, oltre che alla loro vita.”
“Non è per forza così, vecchio. Gli equilibri stanno cambiando… anche esseri come lui…”
“Cosa? Gli equilibri staranno pure cambiando, ma ciò che è sporco resta sporco!”
“Adesso fate silenzio tutti e due! Si sta svegliando. Andate a discutere da qualche altra parte.”
Il vecchio sputò a terra. “Ai vostri ordini, mia Signora. Spero che di questi ordini non dobbiate mai pentirvi.”
Uscì, accompagnato dal rumore secco di una porta sbattuta.
Elanor e suo fratello si scambiarono un’occhiata: Uriel aveva ostentato sicurezza, ma la preoccupazione gli si leggeva scritta in viso. La stanza della ragazza, in cui si trovavano, era avvolta dalla penombra; il bambino si mosse sotto le coperte. Elanor si chinò piano su di lui, scostandogli un ciuffo di capelli dal viso col dorso della mano. “D’accordo, piccolino. Vediamo un po’ cosa hai da dirci”.

II
La prima cosa che Ciel vide aprendo gli occhi fu oro. Una lucente ombra indefinita. Ci mise un po’ a mettere a fuoco i contorni, e allora l’oro prese forma. La forma di un viso, occhi e capelli. Oro che si riversava sulle spalle di una ragazza, oro che lo fissava, caldo e rassicurante. L’oro sorrise.
“Ciao. Benarrivato, anche se non dovresti essere qui”.
Ciel si mise a sedere di scatto. Si guardò intorno, confuso: una stanza semplice, con un grande armadio di legno e una scrivania intonata; l’unica luce della stanza proveniva da una candela appoggiata in un angolo. Un ragazzo alto, con il bel viso sfigurato da una lunga cicatrice, era in piedi accanto al letto. Lo fissava in silenzio e non sembrava avere intenzione di iniziare a parlare.
Ciel guardò la ragazza seduta accanto a lui, che precedette la sua domanda: “Io mi chiamo Elanor e questo è mio fratello Uriel. C’è stato un imprevisto: a quanto pare, uno shinigami ha deciso che sarebbe stato istruttivo per te fare una visita alla nostra Terra”. Di nuovo un sorriso. “Purtroppo, però,  non sei un ragazzino come gli altri: il fatto che tu controlli un demone ci crea qualche problema, come immaginerai. Dobbiamo essere sicuri che tu non rappresenti un pericolo per la nostra gente.”
Ciel lanciò un’altra rapida occhiata intorno. Non c’era nessun altro nella stanza, a parte loro tre. Sebastian non c’era. Non era riuscito a seguirlo? O forse lo avevano imprigionato da qualche parte? Ripensò alle parole del demone: “Contro di loro i miei poteri non sono valgono”. Sentì un brivido freddo alla base della schiena mentre l’immagine di Sebastian trafitto e sanguinante gli balenava nella mente, e automaticamente si portò una mano all’occhio su cui era inciso il segno del contratto.
Il ragazzo in piedi accanto al letto aggrottò le sopracciglia: “Il tuo demone non è riuscito a seguirti e se non si aprono altri varchi non potrà farlo. Quindi, al momento, puoi affidarti solo a noi. Lascia perdere le scappatoie, perché non ce ne sono.”
“Non essere così duro, Uriel.” La ragazza continuava a fissare Ciel intensamente, quasi senza sbattere le palpebre. “È soltanto spaventato. È la prima volta che ti trovi da solo senza il tuo servitore?”.
Ciel fece per rispondere, mentre la sua espressione da bambino indifeso e spaurito gli si dipingeva meccanicamente sul viso. Sapeva mentire bene ormai, non aveva neanche bisogno di pensarci. Ma qualcosa gli diceva che non sarebbe servito, e  la domanda continuò a rimbombargli nella testa: da quanto tempo non si trovava così irrimediabilmente solo?

Da quella notte, da quando aveva perso tutto, sapeva di poter far affidamento almeno su Sebastian; sapeva che, ovunque si fosse trovato, il demone sarebbe corso a salvarlo. C’erano state situazioni pericolose, certo: il suo lavoro come Cane da Guardia della Regina lo aveva portato a rischiare la vita più volte, ma erano pericoli finti. In realtà Ciel sapeva già quale sarebbe stata la storia della sua vita: salvarsi sempre, per poi perdersi definitivamente. Sebastian era la sua salvezza costante e sarebbe stata la sua fine, una volta per tutte. Lo sapeva, e gli andava bene così.
Ora, per la prima volta, il suo servo fedele non poteva raggiungerlo. Era solo, con gente sconosciuta, in un posto sconosciuto. Indifeso, debole, fragile.
Lui, che per il potere aveva rinunciato a tutto.

I due ragazzi continuavano a fissarlo in silenzio; Ciel intuì che non avrebbero parlato, ora stava a lui. Alzò la testa arrogantemente: “Se sapete che sono il padrone di un demone, vuol dire che già avete avuto informazioni su di me. Non ha molto senso che io mi presenti. Ad ogni modo, non sono stato io ad aprire il varco e non l’ho attraversato volontariamente: francamente, se avessi voluto crearvi dei problemi avrei portato anche il mio demone, invece di arrivare qui da solo.”
 Elanor ridacchiò piano: “Beh, almeno riconosci i tuoi limiti. Mi pare un buon inizio.”
“Sì, li riconosco. Ed è per superare i miei limiti che ho invocato Sebastian: per vincere la mia pochezza e la mia impotenza. Avevo bisogno di un’arma, tutto qui. E l’ho ottenuta. La mia famiglia è stata trucidata sotto i miei occhi; io stesso sono stato catturato e torturato per un mese, finché una notte riuscii a salvarmi invocando Sebastian. Il nostro contratto gli impone di starmi accanto finché la mia vendetta non sarò compiuta, e a questo io mi attengo. Niente di più, non mi interessa uccidere nessun altro, né far del male alla vostra gente.”
La sua voce era calma e altezzosa, ma Elanor poteva vedere le dita del ragazzino torcere convulsamente il lembo della coperta.
Lo fissò per un istante, sembrava indecisa. Poi parlò: “Sai, conosco bene i sacrifici demoniaci, dato che la mia famiglia si è occupata per secoli di uccidere demoni e creature simili. Un demone non è solo attratto dall’anima che c’è in gioco, ma dal dolore. Spesso, erroneamente, si compiono riti di evocazione prendendo gente sconosciuta e uccidendola: il demone non si presenterà mai in quel caso, perché i sacrificati non contano nulla per il sacrificatore. Non c’è coinvolgimento emotivo. Perché il sacrificio sia valido, qualcuno deve dare la sua vita, ma anche il sacrificatore deve perdere qualcosa: il demone sente il dolore di chi è ancora vivo e quel dolore è parte del prezzo da pagare. E tu cosa hai sacrificato?”


Ho sacrificato una mano calda che stringeva la mia. Ho sacrificato due occhi più coraggiosi dei miei. Ho sacrificato i pomeriggi passati a parlare in un linguaggio che conoscevamo solo noi, e le partite a scacchi che lasciavo vincesse per farlo felice. Ho sacrificato gli scherzi al maggiordomo, e i guai combinati in cucina. Ho sacrificato le ramanzine di nostro padre, che sospettava che la porzione di pasticche al miele che era per uno solo venisse divisa fra due. Ho sacrificato la mia risata, perché iniziava sempre dopo la sua: ora che lui non ride più, la mia risata da sola non riesce ad uscire.

Tutto questo Ciel non lo disse, ma Elanor lo lesse ugualmente nella sua gola che si serrava, e nel respiro mozzato. Di nuovo, qualche momento di verità fra tante bugie.
“Va bene così.”
Era stato Uriel a parlare. La sua voce si era ammorbidita. “El, vai a prendergli qualcosa da mangiare, è quasi l’alba. Io vedo di concludere questa storia.”
La ragazza si alzò. “Torno tra qualche minuto, ma temo che da noi la cucina non sia poi così fornita. Ti andrebbe bene del latte per colazione?”
Ciel annuì. “E anche un po’ di miele.”
Elanor rise, gli occhi che mandavano lampi chiari: “Va bene, va bene. Vedrò che posso fare.”
Il ragazzino li guardò uscire dalla stanza. C’era una luce strana, un chiarore diffuso: Uriel aveva ragione, stava albeggiando. Col cuore in gola, Ciel sussurrò piano: “Sebastian, vieni qui”. Ma del suo servitore nessuna traccia.
 
III
“Allora, adesso lo sfamiamo pure, eh?”
“Sul serio, vecchio, sei peggiorato. Sei pur sempre uno dei Guardiani, origliare non è da te!”
Il vecchio era appoggiato allo stipite della porta che Elanor aveva appena chiuso dietro di sé, e non sembrava intenzionato ad andarsene.
La ragazza lo fronteggiò, le braccia incrociate sul petto, il mento alzato: “ La sua anima non appartiene alla nostra Terra, lo sai. Dobbiamo accertarci che torni sano e salvo a casa sua. È la legge stessa a comandarlo. E se non hai delle obiezioni più sensate, la nostra discussione termina qui.”
Elanor si avviò a passo deciso verso le scale; il fratello rimase solo con il Guardiano, il quale ripartì immediatamente all’attacco: “Non capisco, Uriel! Cos’è tutta questa morbidezza da parte tua? Hai sentito, no? Voleva il potere! Lo traveste sotto forma di vendetta, ma la sua è solo ingordigia”
 “Smettila.”
 “Ti dà fastidio, eh? Ti dà fastidio sentirti dire la verità? È la stessa cosa che hai fatto tu! È per questo che sei così gentile con lui?”
“Adesso basta!”
Due ragazze che portavano delle lenzuola pulite nel corridoio si bloccarono, spaventate. Il vecchio si zittì e sputò in un angolo. Calò il silenzio, interrotto solo dal cigolio di una porta che si apriva: Ciel, attirato dalle urla, fece capolino dalla stanza di Elanor. Uriel non lo guardò in faccia mentre parlava:
“Hai ragione, vecchio. Lo sai perfettamente, io non sono sempre stato un Elfo… La mia vita è iniziata da comune mortale. Quello che non sai è come questo sia successo.
Beh, la verità è che questo ragazzino potevo essere io. Quando il mio villaggio fu dato alle fiamme, e le donne e i bambini furono segregati come schiavi, io avevo solo otto anni. Mio padre fu ucciso subito durante gli scontri, mentre io, mia madre e mia sorella fummo incatenati e portati via.
Il nostro era un villaggio di confine, i predoni ci stavano portando verso la città per poi venderci. Miglia e miglia di distanza, con un pezzo di pane al giorno, a piedi, con le mani legate ad una corda, uno dietro l’altro. Mia madre morì dopo tre giorni, mia sorella resse per otto. Ricordo che i cadaveri e i moribondi venivano buttati al lato della fila e dati in pasto ai cani da caccia dei predoni. Quando i cani dilaniarono mia madre non riuscii a guardare, ma quando fu il turno di mia sorella non riuscivo a staccare gli occhi dalla scena. Marsia aveva sedici anni, ed era bella, la più ambita del nostro villaggio. Ricordo il muso del cane che affondava nel suo grembo e pensai che non sarebbero mai usciti dei bambini, da lì. Marsia li voleva, dei bambini.
Ormai era quasi il mio turno, non avrei retto ancora per molto. Caddi a terra e sentii qualcuno che veniva a slegarmi per dare anche me in pasto ai cani. In quel momento avrei accettato un aiuto da chiunque, da qualsiasi creatura. Qualsiasi.”


Fa freddo. Ho paura. È buio. Padre, madre… Qualcuno ci aiuti. Qualcuno, qualcosa. Dio non esiste. Vi ucciderò tutti, vi ucciderò tutti…

“Quando riaprii gli occhi, i predoni non c’erano più: attorno a me era sorto un accampamento, con tende, cavalli e creature che si aggiravano aggraziate. Coloro che erano ancora vivi erano stati sciolti dalle catene e mangiavano, o ridevano, o piangevano, o pregavano.
Gli Elfi, chiamati dal nostro Reggente, erano accorsi in nostro aiuto; dama Erwan, la loro principessa, si occupava personalmente dei feriti. Ricordo che, quando la vidi per la prima volta, non riuscivo a capacitarmi che esistesse una donna così bella. Io ormai ero rimasto solo, senza casa e senza famiglia, e così mi offrii di diventare un servitore dei Miendul. Fui adottato da loro senza che lo chiedessi… a me bastava poter servire con la mia vita coloro che me l’avevano restituita: ma Elanor fece scorrere il suo sangue nelle mie vene, diventando mia sorella per scelta e ponendo fine alla mia vita da umano. E ancora oggi servo questa Terra.”
Uriel si voltò a guardare il bambino che era rimasto impietrito sulla porta, la mano sulla maniglia:
“Potevo essere io. Semplicemente, lui è stato salvato dalla creatura sbagliata.”
I due si fissarono per un lungo istante, ognuno per l’altro concretizzazione della seconda possibilità, della seconda via; poi Uriel voltò le spalle e percorse il corridoio a lunghe falcate. Il vecchio gli lanciò un’occhiata sprezzante, quindi si allontanò zoppicando nella direzione opposta.
Ciel si rese conto che la maniglia si era conficcata nella carne della mano, le dita fredde, a cui non arrivava più il sangue. Non si accorse che Elanor era dietro di lui finché questa non gli posò delicatamente una mano sulla spalla: “Vieni via, bimbo. Ho portato il latte con il miele, ma ho cambiato idea… non mangiamo qui, scendiamo dabbasso. Questo posto è diventato opprimente.”

Era una fresca mattina di inizio primavera: il cielo era completamente terso e i raggi di sole illuminavano i tavoli di legno della grande cucina comune della casa, la stessa cucina in cui il giorno prima i due fratelli leggevano le missive inviate dagli Dei della Morte. Il posto di Uriel era occupato da Ciel, che sorseggiava il suo latte, pensieroso. Elanor lo osservava, il viso appoggiato con noncuranza al dorso della mano, la manica del vestito che, riversa sul tavolo, lasciava scoperto il braccio candido.
Stavolta fu Ciel a interrompere il silenzio:
“Tuo fratello si sbaglia.”
Lapidario, perentorio. Elanor alzò le sopracciglia, incuriosita.
“Tuo fratello si sbaglia. Io non sono stato salvato dalla creatura sbagliata. Quella creatura era l’unica che potesse aiutarmi in quel momento e anche in seguito. Sebastian…” si interruppe un attimo, per cercare le parole. Elanor non mosse un muscolo; Ciel continuava ad osservare la sua tazza di latte, come se potesse pescarci dentro ciò che voleva dire.
Quando riprese la sua voce era più calma, decisa: “La mia famiglia è nata con lo scopo di risolvere i problemi della Regina d’Inghilterra. I Phantomhive nascono sporchi di sangue: è una macchia che non si lava. Voi parlate di scelta, ma la mia vita era già segnata; anche se i miei genitori non fossero stati uccisi, anche se io non avessi venduto l’anima ad un demone, dovrei comunque continuare a sporcarmi le mani… solo che lo farei con più difficoltà, mentre ora ho un aiuto soprannaturale… ma, qualunque arma si usi, la macchia di sangue rimane la stessa. Ora capisci perché quel demone era l’unica creatura che poteva aiutarmi?”
Alzò la testa e sorrise, con quel sorriso dolce e velenoso: “Io non potevo essere salvato dagli Elfi, o dagli Angeli, o da qualunque altra creatura che voi considerate benevola. Io sono marcio dentro, come lo era mio padre, come lo era mio nonno. Solo un demone mi si sarebbe avvicinato…anzi, ha ragione quel vecchio quando vi dice di starmi lontani.”
Elanor rimase in silenzio per qualche secondo, le palpebre leggermente abbassate: Ciel riusciva ad intravvedere tra le ciglia il bagliore dorato dato dal riflesso della luce del sole.
Poi alzò di scatto la testa, sul viso perfetto una divertita espressione di sfida: “E va bene, ragazzino dannato. Allora facciamo così: visto che non hai avuto la possibilità di scegliere nel tuo mondo, ti do la possibilità di scegliere nel mio. Pensaci: al momento, qui, non sei nessuno. Ciel Phantomhive non esiste, sei solo un ragazzo di tredici anni senza un passato. Persino il tuo contratto con il demone non è più valido, perché qui lui non può raggiungerti. Oggi ti darò la possibilità di vivere una vita diversa, una vita qualunque, non da nobile, certo, ma sicuramente più serena. Vediamo se sei marcio come dici. Vuoi provare?”
Ciel la guardò, interdetto. Era arrivato a quel punto ricordandosi, giorno dopo giorno, chi fosse e cosa dovesse raggiungere. Aveva alimentato il fuoco dell’odio, senza permettere che si tramutasse in semplici braci. Aveva represso la pietà, impelagandosi nel fango, godendo nello sporcarsi: questo era l’unico modo di vivere che lui riuscisse a concepire.
Elanor lo guardava con i suoi occhi d’oro fuso e il richiamo della Luce in lui non si era ancora spento. Non le rispose, ma non ce n’era bisogno.
La sorella del Governatore si alzò: “Allora, ragazzino, oggi starai con me. Ogni mattina mi occupo di fare il giro del villaggio per prestare cure mediche a coloro che non possono allontanarsi di casa: mi farai da aiutante.”
 
IV
Il piccolo villaggio di Raes era il punto di riferimento della Quindicesima divisione del reame di Menior: era una regione di confine, un punto strategico da tenere sotto controllo. Uriel era fedele al re, che discendeva anch’esso dalla stirpe elfica, e questa fedeltà lo aveva reso ideale per il Governatorato di quella regione. Quando il reame di Menior si era formato, le zone di confine erano devastate dalla guerra recente: re Anior si occupò di risanare le terre, inviare fondi per nuove costruzioni e assicurarsi che anche in quei luoghi martoriati arrivasse la giustizia del re, di cui Uriel era officiante.
Il villaggio che Ciel aveva ora sotto gli occhi era un borgo costruito in solida pietra, le strade piene di odori e di suoni: l’odore acre delle concerie, del fieno per i cavalli; ovunque le urla dei garzoni, le risate dei ragazzini sfuggiti alle rispettive madri.
Ciel portava in mano una valigetta in cuoio, che Elanor gli aveva affidato:
“Ce la fai a portarla, vero? Anche se sei così magrolino sei pur sempre un uomo!”
Il ragazzo era arrossito, e aveva afferrato la borsa sbuffando. E continuava ad avere l’aria accigliata anche ora che camminavano fianco a fianco: “Fammi capire, tu non sei la sorella del Governatore di questa regione? Per quale motivo ti abbassi ad entrare dentro le case di gente di così basso rango? Da noi, i servi non possono azzardarsi a toccare un nobile.”
Elanor si voltò a guardarlo, divertita: “Pensi al fatto che io sia la sorella del Governatore, ma ti dimentichi il racconto che ha fatto Uriel: io provengo dalla stirpe reale elfica. Che ne pensi?”
“Penso che sei completamente pazza.”
Elanor rise. Due ragazzine con in mano dei cesti di vimini si voltarono a guardarla e le sorrisero, per poi scappare via.
 “Beh, da noi le cose funzionano in maniera diversa. In particolare, lo scopo della mia famiglia è servire e proteggere. Noi viviamo per essere al servizio delle creature che camminano su questa Terra”
“Tutte le creature?” Sul viso del ragazzino comparve un sorrisetto denigratorio. “Mi pare un lavoro ingrato.”
“Tutte, indistintamente. Anche i ragazzini dannati come te.” Lei gli lanciò uno sguardo divertito. “È vero, può essere un lavoro ingrato. Ma a volte riserva delle sorprese interessanti.”

Si erano fermati davanti ad una casa bassa, anch’essa costruita nella pietra, quasi affossata nella terra. Le imposte di legno erano socchiuse per schermare l’interno dalla luce del sole. Elanor si avvicinò alla porta, bussò delicatamente due volte ed entrò; Ciel la seguì riluttante.
La porta dava direttamente su una cucina mantenuta in ombra; sul camino acceso bolliva una minestra dentro un paiolo, l’odore caldo riempiva il piccolo ambiente. Accovacciata su una sedia, una anziana signora sprofondava tra scialli e coperte. “Siete voi, mia dama?” disse piano, sibilando le parole nella bocca senza denti. “Vi riconosco dal modo di bussare.”
“Sono io, vecchia nonna” rispose Elanor avvicinandosi a lei “Oggi però non sono sola. Ho portato un aiutante, verrà con me dalla bimba.”
La nonna rispose con un mugolio, che poteva essere un cenno di assenso o una richiesta di pietà, e gli occhi velati si rabbuiarono ulteriormente. Sprofondò negli scialli, diventando sempre più piccola.
Elanor salì la scala di legno che conduceva alla camera superiore, seguita da Ciel: il bambino continuava a guardarsi intorno, tra il disgustato e l’incuriosito. Si rese conto all’ultimo che Elanor stava aprendo una porta: gli fece cenno di entrare. Una stanza piccola, spoglia, ma pulita; una cassapanca con sopra delle bambole di pezza, che sembravano essere il tesoro più grande della loro padrona; un armadio con un’anta aperta, semi vuoto.
La bambina che giaceva sul letto era cerea, di quel pallore innaturale che assume la pelle quando le forze se ne vanno, interrotto sul viso solo da grandi borse nere sotto gli occhi; le labbra erano secche e screpolate, dischiuse a cercare aria. Elanor si chinò piano su di lei, le posò una mano sulla guancia fredda. La ragazzina aprì gli occhi, incapaci ormai di distinguere alcuna luce. La bimba faceva fatica a respirare: rantoli leggeri riecheggiavano nel silenzio della stanza.
Ciel pensò che quell’immagine era simile a un’altra di cui era stato protagonista tante volte da bambino: lui disteso sul suo letto, delirante e privo di coscienza; il freddo portato dalla febbre; la tosse che squarciava il petto; la zia Anne seduta accanto a lui, lo sguardo preoccupato. La zia Anne…

la zia Anne seduta nel giardino della villa dei Phantonhive, mentre legge per lui e Lizzie; la zia Anne che lo rincorre, sporcandosi di terra il vestito rosso; la zia Anne che lo abbraccia piangendo dopo il suo ritorno a casa; la zia Anne che lo guarda da sopra una scacchiera, che gli consiglia di cambiare vita, di guardare oltre, di uscire dallo sporco in cui la famiglia Phantomhive è impelagata;

la zia Anne distesa di fronte a lui, mentre il rosso del sangue si mescola al tessuto scarlatto del vestito.

-Non posso ucciderlo…non posso, lui è…- -Mi deludi, sei uguale alle altre donne.-

“Ciel! La borsa!”
Elanor era a pochi passi da lui, la mano tesa.
“Ah, sì.” Fissò la valigetta che aveva in mano senza riconoscerla e gliela passò. “ Io esco, questo posto è soffocante. Non capisco proprio perché tu mi abbia fatto entrare. Ti aspetto fuori”.
Ciel percorse la scala che portava in cucina. La vecchia raggomitolata alzò la testa dal suo rifugio di scialli: “Come sta?”
 Il ragazzo la guardò, una smorfia di ribrezzo sul viso. Aprì la porta e uscì senza rispondere.

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Capitolo 3
*** Divergenze ***



Capitolo III: Divergenze.


I

Sebastian osservava la pergamena che gli Dei della Morte gli avevano posto davanti: veniva da Raes, da parte di Uriel Miendul. Lo informava che Ciel Phantomhive stava bene e che avrebbero aperto un varco transitorio per permettergli di tornare a casa non appena le condizioni lo avessero permesso, probabilmente quella sera stessa.
Nonostante ciò, l’antico Demone non era tranquillo. Conosceva bene i poteri delle creature di Luce.
Le Leggi Universali imponevano agli Elfi di non intromettersi all’interno dei contratti demoniaci regolarmente stipulati: se un uomo aveva deciso in maniera conscia di vendere la propria anima, nessuna creatura, per quanto potente, si sarebbe potuta opporre.
Però, al momento, il padroncino era lontano da lui. Fisicamente non avrebbe potuto raggiungerlo e, non essendo in grado di aprire varchi, non poteva comunicare con il ragazzo in nessun modo.
Certo, Uriel ed Elanor non avrebbero potuto rompere il contratto tra lui e il suo padrone, ma avrebbero potuto rendere impossibile il loro ricongiungimento.
Sebastian sapeva perfettamente che, se gli Elfi avessero convinto il padroncino a restare nel Reame di Menior, probabilmente non avrebbe potuto far nulla per costringerlo a tornare indietro.
Non poteva andare a riprenderselo.
Per fare ciò, i due fratelli avrebbero dovuto infrangere svariate Leggi Universali, tra cui quella secondo la quale ogni anima deve essere indirizzata all’Oltretomba della Terra a cui appartiene. Questa legge era motivo per il quale si erano presi tanti provvedimenti affinché non ci fosse una migrazione di persone durante l’apertura del varco; tuttavia, pensava l’antico Demone, forse il Tribunale Universale non avrebbe condannato i due Elfi, se avessero giustificato questa infrazione con il salvataggio di un’anima altrimenti dannata.

Più si arrovellava, più si rodeva, più la sua rabbia e la sua fame aumentavano.
Questa era la prova del nove.
In quei tre anni aveva lavorato la sua preda come un artigiano modella la creta. Da una forma che ben prometteva, sebbene rozza, stava pian piano sagomandosi quella che poteva essere considerata un’opera d’arte nel suo genere.
Sfortunatamente, non era ancora del tutto pronta: sì, c’erano istanti in cui la sua creazione lo sorprendeva, rivelandosi migliore delle sue aspettative; ma c’erano anche attimi di cedimento, di debolezza, di ritorno alla forma originaria.
Si ricordava bene l’espressione di dolore sul viso del ragazzino, quando sua zia Anne gli aveva urlato che non sarebbe mai dovuto essere nato; la sua esitazione nello spararle; il funerale pagato alla prostituta che, nel suo lavoro da “Cane da Guardia della Regina”, non era riuscito a salvare.
E, da ultimo, la decisione di andare a trovare l’orfanotrofio gestito da quel barone, quel Kelvin, dopo aver dato fuoco alla residenza di questi e ai bambini che si trovavano all’interno: esattamente il giorno dopo avergli dato l’ordine di appiccare l’incendio, il suo padrone gli chiese di prenotare due biglietti del treno per la cittadina di provincia in cui i bambini erano cresciuti, per garantire una sussistenza economica all’orfanotrofio rimasto senza benefattore.

Attimi di gentilezza, ovvero attimi di imperfezione: quegli attimi lo facevano tremare.

In questo frangente si sarebbe visto quanto lui, Sebastian, fosse stato in grado in quegli anni di trasmettere al ragazzino l’attaccamento al suo servo, alla sua vendetta, al suo odio.

Ora poteva solo sperare che il suo padrone decidesse spontaneamente di tornare da lui.
 

II

Il sole del mezzogiorno illuminava prepotentemente le case in pietra del villaggio di Raes, costringendo Ciel ed Elanor, che camminavano fianco a fianco, a schermarsi gli occhi con le mani.
Il ragazzo si era rifiutato di entrare in tutte le case successive a quella della bimba malata. Si limitava ad aspettare Elanor fuori dall’uscio, osservando il viavai della gente: donne giovani, con i bimbi più piccoli in braccio e quelli più grandi che trotterellavano a terra, tenendosi alle gonne delle madri; uomini che si salutavano, si scambiavano una frase scherzosa prima di tornare al lavoro; anziani sulla porta di casa, che godevano della luce del sole come piante su un balcone, d’estate.
Terminata la visita, Elanor usciva e trovava il ragazzino perso nella contemplazione del villaggio che lo circondava. Senza parlare, gli faceva cenno di seguirla e lui riprendeva a camminarle accanto.

L’Elfo ruppe il silenzio.
“Mi pare di capire che la carriera del guaritore non faccia per te.”
“Ovvio che non fa per me. Ancora non mi capacito di come tu possa sopportarlo.”
Elanor si strinse nelle spalle. “E’ il mio compito” rispose con semplicità, “e lo porto a termine come meglio posso. Ad esempio, quella bambina non supererà la giornata e probabilmente la nonna la seguirà nella tomba per il dolore. Se non posso salvarle con le mie capacità di guaritrice, devo almeno provare ad alleviare la loro sofferenza.”
Ciel fece una smorfia sarcastica. “Non mi interessa alleviare il dolore degli altri, e penso comunque che non sia possibile farlo. Se non si ha la forza per uscirne da soli, un aiuto esterno non serve. Ho visto dei bambini… ”

Si interruppe, mentre le immagini si formavano nella sua mente.

Una villa in fiamme. Una bimba poco più grande di lui, coperta di vestiti rozzi, con un occhio rovinato da un fuoco di tanti anni prima, lo guardava piangendo.
Tradita, amareggiata, confusa.
Infuriata.

-Non ti perdonerò mai, Ciel! Non ti perdonerò mai!-

Ciel respirò a fondo, schiarendosi la voce. Le immagini sbiadirono.
“Ho visto dei bambini fare una fine peggiore, rispetto a quella ragazzina… lontani da casa, torturati. La morte per loro è stata una benedizione.”
“E chi gliel’ha data la morte? Tu?”
C’era una sfumatura di accusa nella voce dell’Elfo: Ciel si irrigidì.
Si voltò a guardarla, lo sguardo carico di sfida: “Sì, precisamente. Un pazzo, un nobile che in società si dava arie da filantropo, in realtà raccoglieva ragazzini dalla strada e poi li faceva sparire. Li drogava e li faceva lavorare in un circo senza addestramento. I bambini morivano durante le esibizioni, e quelli che non morivano venivano utilizzati come materia prima per gli esperimenti di un professore. In seguito, scoprimmo che anche l'orfanotrofio da lui sovvenzionato serviva a questo.”
Aveva parlato senza quasi respirare. La voce gli tremava, ma non riusciva a controllarla.
“Quel tizio era invischiato nella setta che rapì anche… anche me. Conosceva mio padre, voleva avermi tra i suoi agnelli sacrificali. Così ci chiamava, agnelli sacrificali. A distanza di anni, aveva addirittura ricreato nella sua villa la sala del sacrificio in cui noi venimmo tenuti e seviziati. Ma il fuoco ha ripulito tutto...”
Gli occhi dilatati, il respiro affannato, il viso pallido.
Elanor strinse le labbra. “Ti sei fatto prendere dal panico.”
“NO! Quei bambini non sarebbero mai tornati come prima… ”
“Ti sei fatto prendere dal panico! Pretendi di controllare un demone delle Alte Schiere, ma non riesci a controllare te stesso!”
“Come osi parlarmi così?”

Un capannello di persone li osservava, sguardi preoccupati e incuriositi. Elanor prese Ciel per un braccio e lo trascinò lungo una stradina secondaria; lo spinse contro un muro, mentre una gallina che razzolava lì intorno zampettava via, infastidita.
“Lasciami! Ti ordino di lasciarmi!”
“Tu non riesci a controllarti. Non riesci a distinguere il presente dal passato. Soffri di attacchi di panico?”
“… questo non ti riguarda.”

Elanor lo lasciò, allontanandosi da lui di qualche passo. La gallina era tornata ad avvicinarsi, ed ora beccava tranquillamente accanto ai piedi di Ciel.
La ragazza sembrava scossa. Si strinse le braccia al petto, come se avesse freddo, in un gesto istintivo di protezione.
Nella voce e negli occhi, la stessa accusa.
“Il mio compito è di prendermi cura di tutte le creature. Tutte, Ciel. Anche quelle che tu schiacci sotto i piedi, anche i ragazzini che pensi siano persi per sempre.”
“Io ragiono in base a ciò che ho visto.”
Stavolta la voce di Ciel era ferma, atona, piatta.  “E quel che ho visto è che, quando un bambino viene tenuto per mesi, anni, in quelle condizioni, con la paura di essere il prossimo a salire su quell’altare… vedendo gli altri morire prima di lui, sperando che altri ancora muoiano per avere un po’ di tempo in più… quella è la fine. Non c’è assoluzione, non c’è altra via di salvezza.”
“Ne sei convinto?”
“Questo è tutto quello che so.”

La voce degli abitanti del villaggio nella strada adiacente; il rumore leggero del becco della gallina che picchiettava sull’acciottolato; il cigolio di una finestra che si apriva, qualche piano più su.

“Ragazzino, perché mi hai seguita quando ti ho offerto una vita diversa?”

Ciel rimase un istante in silenzio, come se a quella domanda non sapesse bene cosa rispondere. In effetti, non aveva scelto razionalmente: Elanor aveva letto il suo modo di reagire, aveva interpretato le sue espressioni, indovinando il suo desiderio inespresso. Il ragazzino non sapeva con certezza come articolare quei pensieri a parole.
O forse lo sapeva, ma sapeva anche che, una volta pronunciata a voce alta, quella risposta sarebbe stata definitiva.

“Perché per un istante ho pensato… ho pensato che avrei voluto passare un colpo di spugna su tutto.
Ma non posso. Io sono io.”
Le parole, incagliate nella gola fino a quel momento, presero ad uscire senza fatica.
“Non è vero che non ho potuto scegliere… io ho scelto coscientemente. Sapevo cosa stavo facendo quando Sebastian è venuto da me. Sapevo perfettamente cosa ho perso, sapevo perfettamente a cosa ho rinunciato.
A chi ho rinunciato.
Solo, ho deciso di venire con te perché, a volte, la mia scelta mi appare davanti agli occhi in tutta la sua enormità, e mi pare di  non riuscire a reggerla.”

-Una volta arrivato qui, non puoi tornare indietro. Il prezzo che pagherai non ti verrà più restituito-

Elanor osservava gli occhi azzurri del ragazzino riverberare nel buio del vicolo, pieni di amarezza.
La voce di Ciel era un sussurro fievole, quasi si perdeva nel vociare della strada vicina.
“Sarebbe bello poter far finta che tutto quello che mi ha portato qui non sia mai successo, ma in verità tutti i morti, tutto il dolore, tutta la rabbia… io li ho scelti. Li ho custoditi, li ho cullati la notte.
Sto giocando una partita a scacchi col mondo, e alcune delle pedine le ho già perse. Quelle pedine sono state sacrificate perché io arrivi al Re, e faccia scaccomatto.”
Gli occhi del bambino e quelli dell’Elfo si incrociarono.
“Quelle pedine mi guardano, dal lato della scacchiera. Osservano le mie mosse, sperando che il loro sacrificio non sia stato vano. Devo continuare a giocare, per loro, ma soprattutto per me stesso. Per dimostrare a tutti che posso superare la mia pochezza di essere umano.”
Un ultimo respiro.
“Io sono colui che ho scelto di essere, ed ora porterò avanti la mia decisione. Anche se restassi qui, non potrei cambiare ciò che sono.”

Ciel tacque, senza abbassare lo sguardo, aspettandosi di veder comparire sul viso della ragazza rabbia, o disgusto. Invece Elanor lo guardava con una tristezza antica, che sembrava aver già provato in passato.
Ogni volta che falliva nel suo compito, un poco della sua Luce si spegneva.
Si avvicinò a lui e lo abbracciò delicatamente. Quando si staccò, Ciel seppe che quello sarebbe stato l’ultimo contatto con la Luce che la sua anima avrebbe avuto da quel momento in poi.
In silenzio, l’Elfo prese il bimbo per una mano e lo condusse di nuovo al sole, nella strada piena di vita.
Di nuovo fianco a fianco, le due figure tornarono verso la dimora del Governatore di Raes.



La casa comune in cui Uriel ed Elanor abitavano era molto più grande rispetto a quelle del villaggio, ma non per questo più ricca. Si riconosceva a colpo d’occhio per la posizione strategica, leggermente rialzata, come una fortezza senza mura. Aveva una struttura solida, rassicurante; torreggiava sul resto del borgo, senza dimostrare alcuno sfarzo.
Ciel notò distrattamente il movimento causato dalle persone che entravano ed uscivano dal portone principale e da quello secondario: mercanti, artigiani, ma anche solo abitanti del villaggio che cercavano consiglio e udienza dal Governatore.
La casa dei due Elfi era un faro conficcato nella terra.

Elanor e Ciel avevano imboccato la strada di casa. Dall’esterno nulla era cambiato, a parte il fatto che l’Elfo aveva trattenuto per tutto il tempo la mano del bambino nella sua, e quest’ultimo non l’aveva ritratta.
Avevano percorso la strada in silenzio, entrambi immersi nei loro pensieri. Mancavano pochi passi all’entrata della casa, quando Elanor si fermò.
“Ti do un consiglio, bimbo. Da adesso, lo sai, non puoi più tornare indietro. Stasera apriremo un varco e ti faremo tornare alla tua vita, non avrai altre possibilità.  Però, anche se la tua strada porta in una sola direzione, ci sono vari modi in cui puoi percorrerla… modi che potrebbero cancellare quello sguardo pieno di disgusto che hai, quando parli di te stesso. Pensaci, la prossima volta che darai un ordine al tuo demone.”

Ciel non rispose subito.
Pensava a lui e Sebastian, ritti di fronte alle macerie di un orfanotrofio che non c’era più. Un orfanotrofio che era un inganno, per la società e per i bambini che ci vivevano.
Avrebbe voluto porre riparo, ma non c’era più nessuno con cui scusarsi.

-Io sono uguale. Sono ripieno della loro stessa bruttezza. Questo è l’essere umano… questo è l’essere umano, Sebastian!

“Disgusto, eh...?”
Impercettibilmente, la stretta del ragazzo attorno alla mano dell’Elfo aumentò.
Elanor sorrise.
 

III

L’erba era secca e fragrante mentre veniva calpestata silenziosamente. Le tre figure incappucciate si diressero verso il limitare del bosco che si estendeva oltre i confini della Quindicesima divisione: fruscii nell’ombra, di foglie e di abiti.
Uriel avanzava con il suo passo lungo e veloce; Elanor e Ciel lo seguivano a distanza, camminando lentamente.
I tre si fermarono di fronte ad una quercia che sembrava essere stata piantata lì all’inizio del mondo: il tronco enorme affondava nel terreno con radici grandi quanto travi di case, e le sue fronde erano così fitte da non far passare la luce delle stelle.

Elanor si chinò. “Per passare da un mondo all’altro c’è bisogno che gli estremi siano solidi. Per questo chiedo il tuo aiuto, Signora che abiti di qui da tempo immemore: le tue radici sono salde e non traggono in inganno.”
Ciel osservava la figura scura dell’albero e quella di Elanor, inginocchiata alla base del tronco: avvertiva un dialogo che non riusciva a comprendere, percepiva passare nell’aria qualcosa che non riusciva ad afferrare. Trattenne il respiro.

L’Elfo toccò delicatamente il tronco ruvido della quercia. E questa si lacerò.

Prima un semplice spiraglio, poi questo si allargò fino a diventare abbastanza vasto da essere attraversato da un uomo adulto. Ciel, che si era aspettato il cancello dorato che aveva visto nella sua villa, rimase stupito, ma non ebbe tempo di fare domande: Uriel ed Elanor si erano voltati verso di lui.

Elanor gli posò le dita sulla guancia, in una carezza lieve. “Direi che il nostro incontro termina qui, ragazzino dannato. Hai fatto la tua scelta definitiva, ma te lo ripeto: ogni giorno compirai mille piccole scelte, nello svolgimento del tuo lavoro, nel perseguimento della tua vendetta. Valutale e agisci di conseguenza. Non ti restituiranno la tua anima, ma forse riuscirai a dormire meglio la notte.”
“Sei una creatura di Luce fino in fondo, non è vero?” Ciel le prese la mano, scostandola dalla sua guancia, ma trattenendola nella sua. “Beh, il mio mondo non è fatto di luce, dovresti averlo capito. Però... suppongo che controllare i propri scatti d’ira, le proprie debolezze o le proprie paure sia il dovere di un nobile. Credo di poterti concedere almeno questo, come Conte Phatomhive.”
“Suppongo sia il massimo che si possa ottenere da te" commentò Uriel, inarcando un sopracciglio. "Sei davvero testardo, sai?”
Ciel rise piano. “Sono un bambino, e sono un Conte. Certo, sono testardo.”

Rivolse ad Elanor un ultimo sguardo, ma quando si voltò verso il varco nel suo cuore non c’erano indecisioni.
Il bambino mise un piede all’interno del passaggio, poi l’altro, poi fu completamente inghiottito.
I due Elfi rimasero in silenzio ad osservare il cammino di un’anima che tornava alla dannazione.
 

Epilogo:

Erano passati due giorni da quando Ciel Phantomhive aveva attraversato il varco transitorio, ritornando alla sua vita.

Elanor osservava il bosco dalle mura di cinta. Le piaceva passeggiare lì in alto, e i soldati si erano abituati da tempo alla sua presenza.
Era quasi il tramonto: poteva ammirare le ombre lunghe delle mura estendersi verso est e unirsi alla sua, oltre il parapetto.

Un’altra ombra si fuse con esse.

“Ti avevo mandato un dono, dama Elanor. Ti avevo chiesto di prendertene cura e tu me l’hai rimandato indietro. L’ho trovato molto scortese da parte tua.”
Elanor sospirò piano. “Non posso salvare chi non vuole essere salvato, Dio della Morte. Ho provato, ma ha fatto la sua scelta.” Gli lanciò un’occhiata veloce. “Ad ogni modo, gradirei che tu evitassi di aprire dei varchi senza autorizzazione. Perché l’hai aperto tu il passaggio che ha portato qui quel bambino, no?”
“Noi Shinigami non possiamo usufruire di certi poteri, mia Signora.”
“Raccontalo a qualcun altro. So benissimo ciò che sei in grado di fare. Quello che non riuscivo a capire era il perché tu lo facessi.”
Lo Shinigami sghignazzò. “Perché parlate al passato? Avete scoperto qualcosa su di me?”
“Ho fatto delle ricerche.”
“Quale onore.”
 Elanor non si voltò. Entrambi rimasero a fissare le loro ombre che si allungavano verso il bosco, sempre di più.

“Ho chiesto ai tuoi colleghi della sezione inglese di passarmi delle informazioni sui Phantomhive. Non potevano negarmi questo favore, dopo il caos che è successo. Credo che tu sia perfettamente consapevole del fatto che quel bambino è un non riconosciuto.”
Lo Shinigami digrignò i denti. “Che brutta definizione, mia Signora. Dà proprio l’idea che quella povera anima non valga nulla.”
“E' vero. Le famiglie non riconosciute sono famiglie dannate.” Elanor si appoggiò al parapetto, come se pronunciare quelle parole le costasse fatica. “Il loro unico scopo nell’ Economia Universale è quello di sfamare i demoni, affinché questi non si estinguano e l’equilibrio tra creature di Ombra e creature di Luce venga rispettato. Per un motivo o per un altro, i membri di tali famiglie vengono portati a stipulare dei contratti demoniaci, vendendo la propria anima.”
“Un’esistenza ben misera, concorderete con me.”
“Concordo, ma non capivo il tuo interessamento a questo caso. Poi mi sono ricordata di un fatto accaduto circa cinquant’anni fa.”

Elanor avvertì, accanto a lei, il Dio della Morte trattenere il respiro. Seppe di essere sulla strada giusta.

“Mi ricordo che voi Dei della Morte veniste a casa di mio nonno, per stilare un contratto tra Guardiani delle varie Terre. C’eri anche tu, fu in quell’occasione che ti conobbi.
Portavi al collo il ritratto di una fanciulla. Capelli corvini, pelle candida, e un contratto demoniaco inciso sull’occhio. Una ragazza dannata, anche lei.”
“… avete buona memoria, mia Signora.”

L’Elfo si voltò, allungando una mano verso il collo del Dio. Lui non si mosse.
Delicatamente, Elanor fece scivolare le dita sotto il colletto del vestito, tirandone fuori una catena lucida, con un medaglione attaccato. Il ritratto di una ragazza nel pieno della giovinezza. Ma, oltre al ritratto, il medaglione conteneva dei capelli che cinquant’anni prima non c’erano.
Una sola scritta: Claudia.

“Sai, c’era anche l’albero genealogico di Ciel, tra i documenti che mi hanno inviato i tuoi colleghi. Tu non mi hai mai detto il cognome di questa ragazza, ecco perché il nome Phantomhive non mi suonava familiare.”

L’Elfo alzò lo sguardo dal medaglione. C’era una domanda nei suoi occhi e nella sua mente.
Ma non si formulano domande di cui si conosce la risposta.
Il Dio della Morte chiuse la mano attorno al medaglione, riponendolo con cura sotto i vestiti.
“Riproverò, mia Signora. Con lui, con i suoi figli, con i suoi nipoti. Riproverò. Ho tanto tempo per riprovare… ”
Lo Shinigami si allontanò, passeggiando sulle mura di cinta, i capelli argentati che risplendevano alla luce del sole morente; due soldati, che lo avevano visto parlare con la loro Signora, lo osservavano perplessi, indecisi sul da farsi.
Elanor lo vide sparire dietro una torretta di guardia.
 

 

** Gli equilibri stanno lentamente cambiando. Chi vive da molto tempo, come le creature di questa Terra, se ne accorge facilmente. E così, capita che Luce e Ombra si sfiorino per la frazione milionesima di un istante, come vortici e mulinelli sul letto di un lago: la superficie rimane piatta, ma in profondità le acque si sono irrimediabilmente mescolate.**



Nota dell'autrice.
Siamo giunti al termine della mia prima storia. Vi ringrazio per essere arrivati fin qui, per avermi seguita in questo piccolo esperimento, e mi farebbe piacere ricevere il vostro parere.
Ho deciso di pubblicare questa Fanfiction proprio per migliorare il mio stile, quindi ben vengano le critiche costruttive! Ho già cercato di mettere in pratica alcuni dei consigli che mi sono stati dati... non sono sicura di esserci riuscita, ma ci ho provato. :)
Vi ringrazio ancora per il tempo che mi avete dedicato, leggendo questo scritto.

 

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