E se il cielo scompare

di M4RT1
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue • ***
Capitolo 2: *** Rainy days • ***
Capitolo 3: *** Theseus • ***
Capitolo 4: *** Travelling • ***
Capitolo 5: *** Fear • ***
Capitolo 6: *** Sunset • ***
Capitolo 7: *** Underground • ***
Capitolo 8: *** Death • ***



Capitolo 1
*** Prologue • ***


Avviso ai lettori: i personaggi presenti in questa storia sono stati creati da me e restano di mia proprietà, così come l'Arena. Non mi appartiene invece il contesto generale, di proprietà di Susanne Collins, autrice della saga "Hunger Games". ©

 

E se il cielo scompare


So I bare my skin
And I count my sins
And I close my eyes
And I take it in
 
["Bleeding out" – Imagine Dragons]
 


 
Sto scendendo.

Non è normale, giusto? Dovrei salire. Dovrei osservare Lauren dall'alto, riuscire a scorgere solo un'ultima istantanea dei suoi capelli dorati e del ferro che la circonda e poi sparire - trascorrere qualche secondo al buio, stretto in questo cilindro di vetro, e infine spuntare chissà dove. Nell'Arena.

E invece scendo: della mia stilista riesco a scorgere il seno, poi l'addome, alla fine solo le zeppe borchiate. Mi rendo conto che è sorpresa esattamente come me - e proprio come me non può far nulla se non estraniare il suo sconcerto guardandosi intorno.

Scendo. La luce si restringe sempre di più fino a diventare una strisciolina e poi sparire del tutto, lasciandomi il led rosso della telecamera come unica compagnia.

Passano due, cinque, dieci secondi. L'oscurità è completa e riesco appena a frugarmi in tasca con le dita sudate, alla spasmodica ricerca del ditale di ferro che ho come portafortuna: quando lo trovo, freddo e rassicurante, lo infilo al dito e per un istante è come essere a casa.

Poi la luce ritorna: all'inizio è solo un bagliore rossastro che mi illumina gli scarponi, una luce flebile e cupa che man mano si espande fino a investirmi del tutto. Non ho il coraggio di chiudere gli occhi neppure per un secondo, nemmeno quando la luce si propaga facendoli lacrimare e un forte odore di bruciato e muffa mi investe in pieno. Per un istante tutto è ombra e confusione: vedo strane ombre scure, un cielo marrone e pesante e fumo, fumo ovunque. Poi la vista mi si schiarisce e mi guardo intorno: faccio parte di un cerchio di ventiquattro Tributi, un cerchio che ha al suo centro la Cornucopia.

Eppure, non è su quella che mi concentro, bensì sul cielo: siamo sotto terra.

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Capitolo 2
*** Rainy days • ***


Avviso ai lettori: i personaggi presenti in questa storia sono stati creati da me e restano di mia proprietà, così come l'Arena e il Distretto. Non mi appartiene invece il contesto generale, di proprietà di Susanne Collins, autrice della saga "Hunger Games". ©



 
Rainy days

 
When the sky turns gray 
And everything is screaming 
I will reach inside 
Just to find my heart is beating
 
["Bleeding out" - Imagine Dragons]



Odio il cielo del mio Distretto.

La prima volta che l'ho detto, urlando con foga, Sam mi ha gridato di darmi una calmata e poi siamo tornati nel Capannone, al lavoro. Da quel momento mi limito a pensarlo.

Ci penso spesso, in realtà. Ogni mattina, quando esco da casa e mi dirigo nella Zona Industriale, rivolgo un'unica occhiata alla cappa che ci opprime: sempre grigia, sempre cupa, sembra fatta apposta per farci consumare più energia elettrica di quanta ce ne possiamo permettere. Al Distretto Otto si calcola ci siano centodue giorni di sole a fronte dei duecentosessantatré di nuvole, pioggia e vento - e oggi è proprio uno di questi giorni. 

Mi chiamo Leandro Timothy Tiraz[*], ma preferisco farmi chiamare Tim. Già, lo so, i miei genitori ci si sono messi d'impegno a cercarmi un casino di nomi ricercati - ma è così che si fa nella mia famiglia, fin da quando il nome dei Tiraz era ancora sinonimo di ricchezza e pregio.
Ho diciassette anni, ne compirò diciotto a febbraio. Un mese del cavolo, dice Sam, perché c'è più pioggia che in tutto il resto dell'anno e spesso il Capannone si allaga e torniamo a casa inzuppati fradici.

E' forte, Sam. Ha due anni più di me ma a guardarci sembro io il più grande: lui è mingherlino, basso e sempre pallido. Al contrario di me, ha i capelli chiarissimi e gli occhi di un celeste più trasparente dell'acqua del Fiume. Sembra quasi troppo debole per resistere alle raffiche di vento, eppure è forte. Ha lavorato alla sezione Trasporti finché un'enorme cassa di bottoni e fodera non gli è caduta addosso, spezzandogli la gamba destra in cinque punti diversi. Gliel'hanno tagliata, ma almeno è vivo: ora ne ha una finta, di ferro o qualche tipo di metallo che non si arrugginisce, e sembra star bene, anche se zoppica un po' e si stanca spesso. 

Noi due lavoriamo insieme nel settore Tagli, come mio padre. Montiamo alle sette del mattino, tagliamo stoffa fino alle due, facciamo mezz'ora di pausa e riprendiamo fino alle sette. Qualche volta ci fermiamo anche oltre, quando ce la facciamo - ne abbiamo bisogno, i soldi scarseggiano sempre nel nostro Isolato: i miei genitori lavorano nel mio stesso settore e, insieme, riusciamo a tirare avanti; Sam invece ha solo sua madre, che è una donna veramente energica ma non riesce a sopperire alla mancanza del marito, morto dieci o dodici anni fa in uno scontro. Era un Pacificatore, nato nel Due e trasferitosi qui in cerca di un po' d'esperienza per poter fare carriera. Solo che poi ha incontrato Molly e ha messo su famiglia e una sera, mentre cercava di fermare una rissa, si è preso un colpo in testa dalla sua stessa pistola, impugnata da un uomo ubriaco arrestato sul posto. Sam non ne parla mai, ma credo sia stato abbastanza traumatico per lui.
 
***

Cammino svelto, scostandomi i capelli troppo lunghi dalla faccia. Mi coprono la visuale come tante sbarre di ferro brunito, facendomi lacrimare gli occhi scuri. Sbuffo. Le scarpe sono troppo piccole e mi stringono sulle caviglie, ma sono calde e mi proteggono dal fango che riempie la strada. Il mio Isolato, il Sei, è il più malandato degli otto che compongono il Distretto: una schiera di palazzi a tre piani tutti uguali, tutti di mattoni marrone sporco con una manciata di finestre sparse qui e lì e imposte di legno piene di spifferi e mezze marce. Un posto molto raccomandabile, insomma. 

Sam abita nell'Isolato Quattro, invece. E' giusto un filino meglio del mio, ha l'illuminazione notturna e un paio di negozi a dare colore al posto. Ma i Pacificatori non si fanno vedere nemmeno lì e così, proprio come succede a noi, gli abitanti del luogo pagano qualcuno per farsi proteggere. Il nostro protettore è detto "la Talpa", perché se ne sta sempre chiuso in casa senza mai aprire le finestre. Avrà cinquant'anni, ma se li porta male e beve come una spugna. Qualche mese fa ha rischiato di restarci secco, per quanto si è ubriacato.

"Tim! Ehi, sono qui!"

Sam si sbraccia dal marciapiedi accanto al Capannone della Progettazione, quello in cui sogno di lavorare da quando ho otto anni. Sì, okay, lo ammetto: vorrei diventare stilista. Sembrerebbe una cosa semplice, visto che siamo all'Otto e praticamente tutto (a partire dalle mutande fino a quegli assurdi copricapi della Capitale) è progettato e creato qui - eppure vi assicuro che non è facile, per niente. Diventare stilista è come diventare attore: o sfondi, o sei finito. E non parlo di lavorare a Capitol City, figuriamoci, ma anche per progettare tenute militari, divise e semplici vestiti per donne di un certo rango bisogna essere portati e fortunati. E io fortunato non lo sono mai stato, quindi mi limito a disegnare schizzi quando recupero qua e là qualche foglio di carta. 

"Sam!" lo chiamo a mia volta. "Che fai lì?"

Sam non mi risponde. Continua a farmi cenno di avvicinarsi, intervallando il gesto con occhiate continue verso l'interno del Capannone. Alla fine cedo, mi infilo le mani in tasca e abbasso la testa per evitare che la polvere alzata dai camion mi accechi. Quando gli arrivo accanto, lui è impegnato a consumare con gli occhi la cerchia ristretta di stilisti e quella, più ampia, di aiutanti. 

"Che stai guardando?" gli chiedo. 
Lui prima mi zittisce in maniera fin troppo sgarbata per lui, poi indica qualcosa (o qualcuno). "Lei".

Lei è una ragazza che conosco appena. Si chiama Rym, ha i capelli biondi legati in una spiccia coda di cavallo e regge una scatola di carboncini che le stanno macchiando il grembiule bianco. Sono abbastanza certo che non sia una stilista, quindi dev'essere un'aiutante o un'addetta all'ordine. 
Non posso negare che è bella. Ha bei lineamenti, un fisico invidiabile e grandi occhi castani che fanno a pugni con la pelle di porcellana. Si muove con grazia, quasi stesse ballando, e sono sicuro che sembri più giovane di quanto non sia in realtà.

E' veramente bella e la cosa mi da ai nervi.

"Non è meravigliosa?" mi sussurra Sam, rapito.

Ingoio un boccone amaro e annuisco, sentendo la nuca pizzicare fastidiosamente. Giocherello con il lembo della mia giacca sformata. 

"Sì, è molto carina".
"Ti piace?"

Vorrei dirgli di no. Vorrei dirgli che ci conosciamo da un sacco di tempo e continua a pormi quella domanda ma non si è mai chiesto il perché delle mie risposte. Vorrei davvero che capisse che la mia non è timidezza, ma si tratta di non interesse. Eppure, come per tutte le volte precedenti, faccio una smorfia indecisa.

"Allora, andiamo?"

Odio il cielo del mio Distretto, ma odio ancora di più il mio nome: Leandro. Leandro è il nome di un eroe antico, uno sfigato che non è mai riuscito a raggiungere la sua amata. Proprio come io non riuscirò mai a raggiungere la persona che voglio. 

"Andiamo, andiamo", mi interrompe Sam. Sento la sua mano spingere sulla mia schiena, indirizzandomi verso il Capannone giusto. "Poi dici che sono io quello musone".
 
***

Avevo otto anni la prima volta che mio padre mi ha portato con sé al Capannone. Mia madre era a casa, malata, così ho lavorato un po' al suo posto, tagliando grossi retangoli storti e maneggiando con difficoltà le forbici. E' stato così che mi sono procurato la cicatrice che ho sul sopracciglio sinistro, una spessa striscia pallida che taglia esattamente a metà la mia fronte per poi fermarsi miracolosamente pochi millimetri prima dell'occhio. Eppure, ricordo quel giorno con piacere, perché fu allora che capii cosa avrei voluto essere da grande. Ricordo l'odore di vestiti nuovi e cartone e disinfettante, lo sfregare costante del carbone contro i fogli e il ticchettio regolare delle lame delle forbici che si scontrano. Ricordo il fruscio della stoffa e le risate delle donne che piegano i grandi fogli, attente. 

Ho cominciato a lavorare a tempo pieno solo a quindici anni. Qui nell'Otto è vietato iscriversi ai Capannoni prima di quell'età - e tecnicamente fino a diciotto anni non potrei fare i turni serali, ma non importa a nessuno. Il capo del nostro settore, Phil, è un tipo okay che chiude un occhio purché non causiamo danni e non ci facciamo male.

E' simpatico e non è tosto come il capo del Capannone dei Cucitori, che ha un blocco su cui segna tutti i ritardi per detrarre denaro dallo stipendio, anzi: Phil è il tipo che ti paga anche se manchi un paio di giorni, purché generalmente lavori sodo. Tutte le mattine, per controllare chi si presenta, si siede accanto alla porta a braccia conserte e depenna i nomi dei suoi dipendenti; lo fa sempre con un gran sorriso sul volto, quasi sia fiero del nostro impegno. E' una cosa che mette il buon umore.

E' lì anche oggi, sempre con la solita camicia color panna e gli stivali da pesca. Mi fa un cenno e lascia passare me e Sam, cercando i nostri nominativi nell'elenco.

"Ciao, Tim!" mi saluta qualcuno. Mi volto e vedo Molly, la mia compagna di banco - entrambi frequentiamo poco, visto il lavoro, ma tecnicamente è vietato non essere iscritti e ci tocca presentarci un paio di volte a settimana, per non essere ammoniti.

"Ehi, Molly!" rispondo. E' una delle poche persone con cui mi trovo davvero, insieme a Sam e a mia madre. Indossa spessi occhiali rotondi ed è piena di lentiggini, ma il suo sorriso è meraviglioso.

Mi dirigo al mio posto in silenzio. Sono seduto quattro file dietro di lei, a destra, vicino al finestrone. Accanto a me c'è Kevin, un tipo lunatico e taciturno che adora rubare le mie forbici e lamentarsi di stare troppo stretto. Oggi non è ancora arrivato.
Mi siedo. Fa freddo e la condensa scivola dalle pareti di lamiera e plastica. Il mio tavolo è bianco, un po' consunto, e al centro campeggiano già alcuni dei pezzi di stoffa che devo tagliare. Prendo il primo, lo apro: è velluto, sarà un metro per un metro e cinquanta - un pezzo piccolo per gli standard del lavoro, ma io sono ancora un apprendista. Attaccato a un angolo della stoffa con una puntina, un biglietto recita: "due quadrati da cinquanta per cinquanta. Falli bene". Impugno le forbici e comincio.

Oggi ho il turno lungo. Dopo la pausa pranzo riprendo e lavoro fino alle sette, ma non basta. Sono stato lento, oggi, perché per due volte ho sbagliato e ricominciato - maledetto Sam e maledetta cotta.

Alle otto meno dieci mi mancano ancora almeno cinque rettangoli e ho le mani anchilosate per aver tenuto le forbici. Mi tremano leggermente e sbaglio di nuovo. Alle otto e trenta ho ancora due rettangoli. Sono circondato dai lavoratori del turno notturno. Sam mi ha aspettato fino alle otto, poi se n'è andato.

"E tu?" mi chiede qualcuno. 
Mi volto e vedo una signora tarchiata. 
"Mi scusi, devo terminare e vado via" mormoro. Ho terribilmente sete e ho sonno, mi si chiudono gli occhi. Taglio male il penultimo pezzo e passo all'ultimo, un enorme quadrato di lino verde chiaro. Non ce la faccio davvero più, ma devo terminare. 
Sono le nove quando esco, sbadigliando e resistendo all'impulso di svenire in strada.

Abito al primo piano della terza traversa dell'isolato Sei. Il mio appartamento è il più economico, perché più esposto a eventuali furti - che non ci sono, dato che tutti sanno che i poveri abitano in basso. Ho i crampi alle gambe e a stento riesco a girare le chiavi nella toppa. Lo spazio che mi si apre davanti - un piccolo soggiorno con la cucina in un angolo e un tavolo malandato al centro - si sfoca leggermente davanti ai miei occhi mentre mi chiudo la porta alle spalle. I miei sono appena usciti, probabilmente, quindi mi tocca cucinare. Sbadiglio così forte che credo mi si sia slogata la mascella. Mi succede spesso, di essere così stanco: non è facile conciliare scuola e lavoro, soprattutto con turni così lunghi. Ma quando apro la dispensa e ne tiro fuori una scatola di zuppa di farro e ceci, tutto acquista un senso. Lo faccio per me, per i miei genitori. Lo faccio per avere una vita quasi normale, per quanto la si possa desiderare nel mio Distretto.

Sono quasi le dieci quando sento quel rumore. Dapprima credo di averlo solo immaginato (la stanchezza può giocare brutti scherzi) ma poi, mentre mi dirigo in camera dopo essermi lavato i denti, si fa più netto e forte e capisco che proviene proprio dalla mia stanza. Mi blocco di colpo, cercando di capire cosa sia: sono colpi, prima due, poi altri tre; mi sembra di sentire anche un bisbiglio e sono colto dal panico. Se si trattasse di ladri sarei davvero nei guai: per prima cosa, in mutande e tshirt non potrei scappare scalzo per la strada, non con questo freddo; e inoltre, non trovando nulla, i ladri potrebbero arrabbiarsi e accanirsi su di me, essendo l'unico in casa. Cerco rapidamente qualcosa per difendermi e alla fine afferro un bastone corto e pieno di schegge che mia madre usa per cacciare via i topi dal marciapiedi fuori casa. E' umido e mezzo marcio, ma immagino faccia comunque male.

Mi avvicino alla porta. Un passo, un altro. Al quarto l'asse sotto i miei piedi scricchiola. Trattengo il respiro, terrorizzato.

Impiego quasi cinque minuti a percorrere i due metri di corridoio dell'abitazione, poi finalmente varco la soglia della camera. La finestra è chiusa dalle imposte di legno - verrebbero via facilmente, se al posto di colpirle provassero con una spranga o qualcosa del genere. Per fortuna non devono essere molto intelligenti. Mi avvicino ancora, ingoiando a vuoto. Sbircio da una delle numerose, piccole crepe: c'è un volto, mi sembra solo. Brilla al chiaro della luna, un viso pallido e disteso. Sembra quasi-

"Tim! So che sei lì dietro".

Salto via dalla finestra e finisco contro l'armadio, urtando dolorosamente una spalla. 

"Sam" grido, isterico. "Ho una porta, cazzo! Perché non usi quella?"

Con le dita che mi tremano, spalanco le imposte e mi ritrovo il volto del ragazzo a pochi centimetri dal mio: se ne sta in piedi, affacciato alla finestra come una casalinga che chiacchiera in piazza; i capelli gli incorniciano il volto, quasi brillanti alla luce pallida della notte. Mi fissa, divertito. "Sei bianco come un fantasma, Timmy".

Mi chiama sempre così, quando vuole prendermi in giro.

"E tu sei l'idiota più grande del mondo" sbotto io, voltandomi. Sistemo la lampada che, nella foga, ho fatto cadere. "Che vuoi a quest'ora?"

Sam scavalca con nonchalance il davanzale e si siede sul mio letto a gambe incrociate. Indossa ancora i vestiti da lavoro e ha un baffo di pomodoro sotto il naso, ma sempre terribilmente serio, adesso. 

"Mi serve una mano" dice solo, fissandomi dritto negli occhi. Un formicolio imbarazzante mi scuote mani e piedi e, per un istante, mi sembra di essere tornato al giorno in cui lo conobbi: anche allora eravamo uno di fronte all'altro, seri e rigidi. Quella prima notte, però, eravamo poco più che bambini.

"Pronto, Timmy?"

Rinsavisco allo schiocco delle dita del ragazzo. Mi sta sventolando una mano in faccia, a metà tra il preoccupato e l'infastidito. "Mi hai sentito?" sbotta.
Non rispondo.

"Okay, ricomincio! E vedi di stare attento".

Passo la mezz'ora successiva ad ascoltare quel coglione di Sam farneticare a proposito della sua nuova fiamma, del fatto che sembra che lei lo eviti e che lui l'abbia pedinata fino a casa. Abita nella quinta traversa dell'Isolato Tre, a quanto pare, secondo piano di uno dei palazzi meno brutti del Distretto. 

Secondo questa specie di amico che ho, dovremmo farle le poste sotto casa (si usano ancora espressioni del genere, poi?) finché non si arrende (o ci denuncia per stalking ai Pacificatori).

"Non sono d'accordo".
"Cosa? E perché mai?"

Mi trattengo dall'alzare gli occhi al cielo - Sam dice che ho l'aria da saputello, quando lo faccio - e passo a spiegargli: "Forse perché ti evita di proposito?"

Lui mi guarda per un momento, gli occhi ridotti a fessure e due rughe sulla fronte. Ha la giacca sbottonata e, attaverso l'apertura, riesco a scorgere un vecchio maglione logoro che apparteneva a suo padre.

"Sai" dice poi, rompendo il silenzio. "Hai proprio l'aria da saputello".


 
[*]N.d.A.: Il cognome che ho scelto per Tim, Tiraz, è il nome di un'antica fabbrica siciliana di tessuti pregiati.

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Capitolo 3
*** Theseus • ***


Avviso ai lettori: i personaggi presenti in questa storia sono stati creati da me e restano di mia proprietà, così come l'Arena. Non mi appartiene invece il contesto generale, di proprietà di Susanne Collins, autrice della saga "Hunger Games". ©

 

E se il cielo scompare

 
Where did I go wrong, I lost a friend
Somewhere along in the bitterness
And I would have stayed up with you all night
Had I known how to save a life.

["How to save a life" - The Fray]

 
Sei mesi dopo

Il giorno della Mietitura è piovoso, ovviamente. Nubi dense e grigie si addensano sulle nostre teste, rendendo ancora più lugubre il tragitto dal mio Isolato alla Piazza e riempiendo tutto di una sorta di nebbia umida e biancastra che rende veramente odiosa la camicia bianca che indosso - e che mi si è appiccicata sulla schiena sudata.

E' carina, la piazza, forse il posto migliore di tutto l'Otto: grande, ariosa, sempre silenziosa. Certo, è grigia e piena di calcinacci, ma almeno non si respira quell'odore di cuoio troppo forte e non ci sono tanti Pacificatori. Non succede mai niente, in piazza.
Certo, tranne oggi. Perché oggi è il giorno della Mietitura e uno sciame di adolescenti si sta riversando al suo interno in modo disordinato; un caos di chiacchiere sommesse, un brusio simile al rumore basso dei motori degli hovercraft di giovedì, quando atterrano in periferia per caricare le nuove divise dei Pacificatori. A guardarci dall'alto, probabilmente siamo simili a un fiume che scorre troppo velocemente, schizzando via di tanto in tanto qualche goccia: ecco, io sono una delle goccie. Me ne sto in disparte, in silenzio, a rimuginare su quanto sia ingiusta la faccenda delle Tessere quando una voce attira la mia attenzione.

"Tim!" 

Mi volto in cerca della fonte del suono ma non riconosco nessuno: ci sono dei bambini, un ragazzo che riconosco come il figlio del dottore e forse un paio di miei compagni di scuola. 

"Tim, siamo qui!"

Questa volta la vedo: Rym è all'altro capo della via, accanto a quello che sembra un cassonetto bruciato. Indossa uno splendido vestito celeste un po' largo, con il colletto di pizzo e porta i capelli legati in un grazioso chignon. Tiene la mano a quella che sembra la sua versione a otto anni: una bambina identica, vestita allo stesso modo e con lo stesso sguardo pacato, forse un po' più sereno di quello della più grande.

"Rym" rispondo, avvicinandomi a testa bassa. Nonostante negli ultimi mesi ci siamo avvicinati parecchio (dopotutto ormai è la ragazza di Sam da quasi tre mesi) mi dà ancora un po' di imbarazzo lo stare da solo con lei - in realtà, odio stare da solo con chiunque non sia il mio migliore amico o i miei genitori. "Lei è tua sorella?" le chiedo, accennando alla bimba. La piccola annuisce con vigore e poi afferra la gonna dell'altra, correndo a nascondercisi dietro tutta rossa.

"Si chiama Alice" conferma Rym, ridacchiando. "Ha insistito per accompagnarmi fino in piazza perché dice che deve stare attenta per conto di Sam" aggiunge. Colgo una leggera nota di tristezza nella sua voce, ma d'altronde è sempre così, il giorno della Mietitura: la puoi prendere a ridere quanto ti pare, eppure il pensiero che non tornerai a casa tua o a scuola o al lavoro è sempre lì, pronto ad arpionarti il cervello e non lasciarlo mai più. Non essendo in grado di dar voce a questi pensieri davanti a una bambina di otto anni, mi limito ad annuire.

Proseguiamo. La folla si è diradata, ormai, e quando superiamo il controllo dei Pacificatori i ragazzi sono già quasi tutti in riga, disposti su più file in base all'età. Mentre mi sistemo tra due coetanei, entrambi brufolosi e scuri in volto, lancio un'occhiata alle transenne: dietro, appena schiacchiati tra la folla, i miei genitori mi fanno segno di star tranquillo. Una quindicina di bambini riempie lo spazio di confine tra ospiti e potenziali Tributi: se ne stanno seduti a gambe incrociate e hanno l'aria seriosa, probabilmente consapevoli che qualcosa non va. Tra loro c'è anche la sorellina di Rym, che saluto con un'occhiolino.

E poi comincia. Prima appare Holland, la nostra Accompagnatrice abituale: ha una parrucca fucsia sulla testa, ciglia rosse lunghe tanto da riuscire a vederle dalla mia fila (che, per inciso, è l'ultima, avendo io diciotto anni) e un abito di un colore che non riesco neppure a definire pieno di merletti e pizzi inamidati che puntano verso il cielo scialbo - muta offesa a quella che dovrebbe essere una meraviglia naturale ma che qui ha l'unica funzione di intrappolarci nella piattezza del grigio.

"Salve Distretto Otto!" esordisce, avvicinandosi al microfono. Deve avere delle zeppe spaventosamente alte, perché nonostante io la veda attraverso spalle e teste di almeno cento ragazzi, spicca sul palco come fosse sui trampoli. "Diamo inizio a questa Cinquantaseiesima Edizione degli Hunger Games!"

Tutt'intorno a lei regna il silenzio. Per un istante, come tutti gli anni, si guarda intorno sperando in un applauso scrosciante, o per lo meno in qualche segno di approvazione - e come tutti gli anni resta delusa, finendo per fingere nonchalance e continuare con il solito spettacolo. "Quest'anno" ci informa, e giuro che so a memoria cosa dirà, "Capitol City vi ha mandato un filmato molto interessante, sapete? Chi ha voglia di vederlo?"

Anche qui, stessa storia: i ragazzi la fissano con occhiate truci e visi pallidi, qualcuno sta piangendo prima ancora di conoscere il nome dei Tributi. Io guardo in basso e prendo a spostare dei ciottoli con le scarpe nuove. Cioè, non proprio nuove: diciamo solo le migliori che ho, strette da morire ma lucide e nere. Non mi do nemmeno la pena di guardarlo, il filmato, tanto è sempre lo stesso: morti, feriti, gente bruciata, un paio di bambini che piangono, zoom su un'arma letale e poi panoramica delle bellezze di Panem da cui, evidentemente, il nostro Distretto è stato escluso per oscuri motivi, dato che qui di bello non c'è proprio niente. Quando finisce, Holland si trattiene a stento dall'applaudire lei stessa e presenta sindaco e capo locale dei Pacificatori.

Poi appaiono le bocce e allora sì che l'atmosfera cambia: gli sguardi vacui si fanno intensi, puntano tutti a quei contenitori e ai bigliettini che ci sono dentro.

Leandro Tiraz.

Ripeto il mio nome nella mente e mi domando come suonerebbe pronunciato con l'accento della Capitale. Poi scopro che non ho poi così tanta voglia di saperlo.

Leandro Tiraz.

"Cominciamo dai ragazzi!"

Credo sia un modo per spiccare tra la massa di Accompagnatori, quello di partire dal sesso opposto rispetto agli altri Distretti. Anche se, in un certo senso, è galanteria anche questa: rimandare a una ragazza il momento in cui il suo cuore mancherà un battito e le labbra cominceranno a tremarle.

Leandro Tiraz.

Ogni anno, arrivato a questo punto, mi coglie l'insensata paura che per un assurdo errore l'intera boccia dei ragazzi contenga esclusivamente il mio nome. Magari qualcuno si è divertito a farmi un dispetto, o forse quest'anno i nomi li ha scritti un folle. O forse sono solo troppo paranoico.

"Leandro Tiraz!"

Non me ne accorgo nemmeno, all'inizio. Per un secondo sento l'adrenalina defluire e mi concedo di respirare, come se il mio cervello si rifiutasse di elaborare quell'informazione. Poi, però, i ragazzi alla mia destra si fanno indietro e un corridoio - sgombro, lungo, letale - mi conduce direttamente al palco.

Non mi ero mai accorto fosse fatto di legno.
Holland mi sorride, mi aiuta perfino a salire dall'alto delle sue scarpe. Sono ancora più pacchiane, viste da vicino.

"Ciao, tesoro!" esclama, nonostante sia consapevole di essere microfonata. I tre maxischermi posti tutt'intorno alla piazza mostrano la sua pelle colorata vagamente di arancione e, accanto alla sua faccia, la mia: bianchiccia, un po' confusa, certamente poco fotogenica. I capelli mi ricadono flosci a incorniciarmi il viso, la camicia è uscita dai pantaloni e ho le braccia penzoloni che fatico a tener ferme, ora che scruto tutti dall'alto e mi rendo finalmente conto che sarà l'ultima prospettiva da cui li osserverò.
Mentre constato queste cose e mi avvicino al punto che mi indica un Pacificatore, Holland torna alle bocce: tocca alle ragazze, ora. La sua mano artigliata si muove all'interno dei contenitori trasparenti, gioca in ampi cerchi e poi si tuffa per pescare un nome tra la massa di carta e inchiostro.

"Rym Silk"

Rym. Come la ragazza di Sam. Ma non può essere lei, una sfiga del genere non potrebbe capitare nemmeno a noi. Eppure è proprio la Rym che conosco a farsi strada tra la massa di colpevoli sospiri di sollievo, sicura e coraggiosa come non avrei mai immaginato che fosse: non piange, non trema, non balbetta come un'idiota. Si limita a sussurrare qualcosa all'indirizzo della sorellina, passandole accanto, e farle l'occhiolino. Tutte le telecamere sono puntate su di lei, adesso, su quella diciottenne bionda dal vestito celeste che sale aggraziatamente le scale e mi sfiora la spalla posizionandosi accanto a me.

Holland ci raggiunge, poggiando una mano sulla spalla di ognuno. Il suo capo spunta tra il mio e quello di Rym come un'inquietante terza testa: si volta da una parte e dall'altra, sorridendoci e aspettando una nostra reazione. Quando si rende conto che non diremo niente, fa lei la prima mossa: "Allora, Rym!" cinguetta. "Lei era tua sorella?"

Rym annuisce. "Lo è" ribatte, correggendola. In effetti sua sorella è viva e sta bene e non credo che i suoi genitori la diserederanno, quindi tecnicamente è ancora sua sorella. E poi, semmai, è Rym quella che tra poco non sarà più sorella di nessuno. Holland non sembra accorgersi della gaffe, anzi: la conferma che quella bimba è la sorella di uno dei Tributi sembra mandarla in brodo di giuggiole. Trotta verso un cameramen, parlotta coprendo il microfono con una mano e torna da noi sorridendo.

"Rym" la chiama. "Come hai detto che si chiama tua sorella?"
"Alice"
"Saluta la telecamera, Alice!" esclama allora la donna. Tutti i maxischermi si riempiono della faccia della piccola, sorpresa ma soddisfatta: alza una manina e saluta, sorridendo. Le manca un canino. "Vuoi dire qualcosa alla tua sorellona?" continua Holland. La piccola si ferma un secondo, lo sguardo puntato a terra in segno di riflessione, poi annuisce. 
"Non ti preoccupare, lo tengo d'occhio io Sam" le dice. "Poi quando torni ti dico se si è comportato bene" aggiunge.
Rym annuisce e, per la prima volta, una lacrima le fa capolino dall'occhio destro, minacciando di scenderle. Holland, forse semplicemente per chiudere il servizio con quell'atmosfera commossa, non fa altre domande e ci chiede di darci la mano: la mia è sudaticcia e trema, quella di Rym è gelida ma ferma. Ci stringiamo per un secondo e penso che uno dei due dovrà sopravvivere, perché altrimenti Sam rimarrà solo. Poi due Pacificatori ci spingono all'interno del Municipio. 

 
***

Velluto. E' velluto quello che ricopre la polverosa poltrona rossa. Ne accarezzo la superficie con un dito, su e giù fino a farle cambiare colore.
E penso.

Vado su e penso alla piazza e a Molly e al mio posto al Capannone. Vado giù e penso a Sam e ai miei genitori, che potranno prendere una casa più piccola ma in un Isolato migliore, magari. Vado su, poi giù. L'idea che non vivrò mai più qui è troppo grande per essere davvero concepita. E anche se tornerò non abiterò più in quella casa, ma al Villagio dei Vincitori, semivuoto e perfetto.
Su e giù, giù e su. Non è giusto, penso. Ma poi mi dico che non è giusto a prescindere, che se al mio posto ci fosse stato il figlio del sindaco, Fred, non sarebbe cambiato nulla. Giù e su, su e giù. 

All'improvviso la porta si apre. Per un momento non vedo nessuno dall'altra parte e spero che sia stato solo un colpo di vento - non ho voglia di dire addio a qualcuno, non ora - ma poi due figure varcano la soglia: i miei genitori. Non piangono, ma si vede che l'hanno fatto e lo rifaranno. Mia madre mi si avvicina, svelta, e prende a sistemarmi la camicia e il colletto e i capelli - mi scanso di scatto, allontanandola.
Lei non sembra prendersela, forse non se ne rende nemmeno conto: semplicemente mi guarda come se fossi la cosa più bella del mondo ed è in questo momento, mentre lei e papà mi fissano con l'aria di chi ha appena perso un tesoro, che mi rendo conto che gli Hunger Games non sono una punizione solo per i ragazzi: lo sono per tutto il Distretto. O almeno, per tutti quelli che domani non mi troveranno a scuola o al Capannone e si ricorderanno che sono morto; per i miei, che continueranno a spazzare la stanza e chiudere la finestra anche se non c'è nessuno da proteggere dal freddo; per Sam, che domani si risveglierà solo e non avrà nessuno a cui raccontarlo.

E poi arriva proprio lui: Sam. Il mio migliore amico, quello che conosco da quando avevo i buchi al posto degli incisivi e non sapevo pronunciare la parola "hovercraft". Arriva, si mette di fronte a me e dice: "Dovete vincere" ben consapevole che, al massimo, uno solo dei due lo farà. "Dovete vincere, Tim. Non potete lasciarmi solo."

Vorrei dirgli che non lo farò, ma sarebbe una bugia. Io non lo so se potrò vincere e, sinceramente, non credo di averne possibilità. E poi ho paura che, seppure tornassi qui, lui mi riterrebbe colpevole della morte di Rym. Però non glielo dico, ovviamente. Lascio che si avvicini e mi abbracci; e penso che ho desiderato un contatto per tutto questo tempo e, ora che il suo corpo è attaccato al mio, darei qualsiasi cosa per tornare a ieri. 

Alla fine, Sam dice: "Buona fortuna" ed esce. Vorrei guardarlo un ultima volta, imprimermi nella mente un'immagine bella a cui potrò pensare, ma non ci riesco: posso solo abbassare lo sguardo e scuotere la testa, permettendomi finalmente di cacciare qualche lacrima.

Sono un Tributo. Il pensiero mi colpisce, forte, non appena la porta si chiude e io resto di nuovo solo, con la consapevolezza che non li rivedrò mai più come unica compagnia.
Sono un Tributo. Tributo, già. Come le tasse che ogni tre del mese dobbiamo consegnare ai Pacificatori; come i soldi del pane e quelli delle consegne di grano. Come Teseo, l'eroe della mitologia greca che ho studiato un paio di mesi fa. Ma lui combatté contro il Minotauro, io soccomberò sotto i miei coetanei. Lui uccise un mostro, io non sono riuscito neppure a guardare il mio migliore amico negli occhi.

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Capitolo 4
*** Travelling • ***


Avviso ai lettori: i personaggi presenti in questa storia sono stati creati da me e restano di mia proprietà, così come l'Arena. Non mi appartiene invece il contesto generale, di proprietà di Susanne Collins, autrice della saga "Hunger Games". ©

 

E se il cielo scompare

 
Only you've been high 
When you're feelin' low
Only hate the road 
When you're missin' home

["Let her go" - The Passenger]



 
Una volta, da piccolo, ho chiesto a mia madre perché fosse impossibile viaggiare tra i Distretti. Avevo appena finito di guardare la televisione, avevano trasmesso le interviste dei Tributi e una ragazza del Quattro mi era rimasta impressa: aveva parlato del mare, della sabbia tra le dita dei piedi e del verso dei gabbiani.

"Voglio sentirlo anch'io, quel suono!" avevo piagnucolato allora, puntando il dito contro la televisione spenta.

Ora capisco almeno in parte perché sia impossibile. Il nostro viaggio dura dieci ore. Dieci ore di boschi, lande desolate e tunnel inattraversabili se non con i treni della Capitale - treni che ci verrebbero sicuramente negati per occupazioni non necessarie. E poi c'è il problema dei contatti, chiaramente: questo me l'ha detto William, il capo della sezione Carico e Scarico. "Non vogliono che i Distretti possano collaborare tra loro", ha detto, "Perché potremmo sabotare la Capitale, insieme."

Aveva ragione, in effetti. Noi del Distretto Otto siamo già parecchio piantagrane da soli, figuriamoci se ci unissimo agli altri. 

Sto pensando a questo mentre entro nel vagone dove dormirò, uno spazio enorme tutto fatto di ferro e vetro. Non posso negare che è bello, più spazioso della mia stanza e molto meglio arredato. Preso da un impulso irrefrenabile, mi tuffo sul letto: rimbalzo, il materasso è morbido al punto giusto e il piumone si piega sotto il mio corpo. Mi accorgo di essere tremendamente stanco, dopo la mattinata che ho avuto. E di sicuro le dieci ore di viaggio non posso occuparle a rimuginare sul mio triste destino o cose simili, così mi concedo di chiudere gli occhi per un istante.

Quando li riapro, qualcuno sta bussando alla porta: è Holland. "Leandro, ti aspettiamo per la cena!" mi dice con quell'odiosa voce squillante. Posso quasi immaginarmela, in piedi sulla soglia con lo sguardo educatamente infastidito e i tacchi vertiginosi.

"Arrivo" mormoro, la voce soffocata dal cuscino. 

Di malavoglia mi alzo e mi trascino verso il bagno. Okay, dire "bagno" è riduttivo: quello che mi trovo davanti è largo quanto la stanza da letto, arredato con mattonelle e sanitari color verde pastello e un sacco di bottoni sulla cabina doccia. Titubante, comincio a svestirmi e mi infilo dentro, cercando senza risultato un flacone di shampoo. L'acqua è bollente, ne uso più di quella che normalmente uso in tre giorni - e nel frattempo continuo a cercare il sapone prima di capire, quando ormai la pelle delle dita si è fatta rugosa e bianchiccia, che è a quello che servono i bottoni: scegliere il sapone. Ne pigio qualcuno a caso e una cascata di profumi e colori diversi mi si riversa sulla testa, scivolandomi in faccia e negli occhi.

Alla fine esco, avvolto in un accappatoio bianco e soffice. Sto per recuperare i miei abiti dal pavimento quando, come se mi avessero impiantato un altoparlante nel cranio, una voce terribilmente simile a quella di Holland mi suggerisce di controllare cosa ci sia in quell'enorme guardaroba. Mi ci avvicino, scalzo, e l'ho appena aperto - camicie, giacche, maglioni, magliette e pantaloni di ogni sorta lo riempiono tutto - quando qualcuno bussa nuovamente alla porta.

"Chi è?" sbotto, scocciato. Ho la voce roca.
"Sono sempre io, Leandro!" 
Holland quasi mi urla addosso, questa volta. Si vede che devono avere davvero fame, così le apro in accappatoio e lei mi fissa come inorridita. "Per l'amor del cielo, Leandro!" squittisce. "Metti qualcosa addosso!"
"Non sono nudo" osservo, aggrottando le sopracciglia. "E comunque ho giusto aperto l'armadio" aggiungo in fretta, prima che il suo tono torni a farmi venire il mal di testa. Lei annuisce.
"Beh, metti qualcosa di carino".

 
***

La cena è un disastro. Cioè, intendiamoci: il cibo è buonissimo e, quando entro, la tavola è già apparecchiata e piena di pietanze che hanno tutta l'aria di essere state preparate con ingredienti di prima qualità: carne, pesce, frutti di mare, pane di tutti i tipi e creme mai viste. I bicchieri di cristallo non aspettano altro che di essere riempiti di quelle bevande che troneggiano nelle brocche al centro del tavolo. Perfino le sedie sembrano fatte su misura per il mio sedere.

Il problema sono le persone. A parte Holland, che ha l'aria di divertirsi un mondo (anche se io, con il vestito arancione fluo che indossa, avrei solo l'aria di voler fuggire), gli altri non sono per niente allegri: Rym, accanto a me, sbocconcella una fetta di carne arrosto, bevendo a caso acqua e succo d'arancia. I due Mentori, poi, ci squadrano a turno con instistenza. 

Si chiamano Woof e Kriss. Il primo è vecchio, ha la barba grigia e folta e il viso scarno - ha vinto una delle prime edizioni dei Giochi, è una sorta di istituzione, al Distretto Otto. Kriss, invece, ha trionfato quattro o cinque anni fa - dev'essere stato l'anno in cui, dopo un'agitazione, ci venne staccata la corrente e per giorni rimanemmo all'oscuro delle sue sorti. Ora è molto cambiato da quel giorno, però: ha i capelli rosso brillante sparati in tutte le direzioni, un piercing sul labbro superiore e l'aria un po' spavalda e un po' annoiata. Non sembra affatto il sedicenne spaventato che venne sorteggiato quel giorno.

"E così tu saresti Leandro?" mi domanda all'improvviso, pulendosi la bocca su un tovagliolo di raso.
Io annuisco. "Così dicono" mormoro, abbassando lo sguardo. I suoi occhi mi mettono in soggezione, come se scrutandomi fosse in grado di capire che penso - e dato che non penso niente di buono su di lui, al momento, preferirei che evitasse.
"Interessante" aggiunge solo, prima di tornare a mangiare.

Dopo cena qualcuno propone di accendere il televisore e controllare gli altri Tributi di quest'anno. Io eviterei, lo farei con tutto il cuore, perché credo che verificare in prima persona quanto i Favoriti siano forti e grossi non mi farà sentire assolutamente meglio. Eppure la televisione viene accesa comunque e mi ritrovo su un divano ricoperto di seta, schiacciato tra Kriss e Holland.

"Sai, non mi sembra una buona idea" dico in direzione di Rym, che è appollaiata su un bracciolo del divano con le gambe graziosamente incrociate a coprire ciò che non copre la gonna rossa. "Credo ci verrà solo l'ansia."
Accanto a me, Kriss ghigna. "Vedo che siamo coraggiosi" mi stuzzica, voltandosi un secondo a guardarmi.

E' in quel momento che, per la prima volta, sento l'impulso di sferrargli un pugno dritto su quel naso perfetto e mi giro in sua direzione. Guardandolo da vicino, mi accorgo che ha una lunga cicatrice sottile che gli attraversa il viso dall'occhio al mento, lucida e bianca. Mi chiedo se abbia provato dolore nel procurarsela e mi rispondo che sì, certo che ne ha provato, ha partecipato agli Hunger Games! Eppure, se possibile, la cosa mi da ancor di più ai nervi: in questo momento, con le gambe larghe e gli occhi fissi sullo schermo, non mi sembra diverso da un qualsiasi Capitolino - neppure Holland, con quel rossetto visibile anche al buio, bendati e chiusi in una cassa dieci chilometri lontano, mi da tanto ai nervi in questo momento.

"Eccoli!"

Questa volta è Woof a parlare. Se ne sta in piedi, in disparte, ma si vede che è interessato. Vorrei dirgli qualcosa, chiedergli di sedersi con noi, ma la trasmissione ha inizio e vengo preso dai servizi sulle varie Mietiture: si comincia dall'Uno, ovviamente. E come sempre lo schermo mostra due ragazzi forti, grossi e dall'aria tronfia; salutano la folla, perfino, prima di scomparire inghiottiti da un portone decorato di diamanti. Il Distretto Due, se possibile, mi spaventa ancora di più: si vocifera che i futuri Tributi si allenino illegalmente in un'Accademia speciale e si offrano quando sono pronti. E in effetti credo che loro siano prontissimi, a giudicare dai muscoli delle spalle del ragazzo e dall'espressione fiera della ragazza. Arrivo al Quattro che sto per piangere: anche se il Tributo maschio è piccolo e un po' gracile, la ragazza è sicuramente più alta di me e scommetto che usa il tridente come io uso le forbici. Tutto il resto è un susseguirsi di volti spauriti e adolescenti sempre più gracili, fino ad arrivare al Dodici e ai suoi tredicenni che a stento di reggono in piedi. Quando la trasmissione termina, Rym spegne il televisore e piombiamo nel silenzio.

"Allora?" domanda Holland. La sua voce è particolarmente squillante in questa atmosfera. "Che ne pensate?"

Non mi sono mai reputato un ragazzo scontroso, ma giuro che provo l'irrefrenabile voglia di tirare un pugno. Di nuovo, sì. "Penso che sia uno schifo" rispondo, scattando in piedi. Se la donna si scandalizza, non lo da a vedere. 

"Lo è" risponde Woof, ma lo sento appena. Mi allontano dalla stanza in silenzio, a passo svelto. 


 

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Capitolo 5
*** Fear • ***


Avviso ai lettori: i personaggi presenti in questa storia sono stati creati da me e restano di mia proprietà, così come l'Arena. Non mi appartiene invece il contesto generale, di proprietà di Susanne Collins, autrice della saga "Hunger Games". ©

 

E se il cielo scompare

 
Do you ever feel like breaking down?
Do you ever feel out of place?
Like somehow you just don't belong here
And no one understand you.

["Welcome to my like" - Simple Plan]


La notte è orrenda, sul treno. Per tutto il tempo ho la sensazione di cadere dal letto e, anche se so che è impossibile, mi sembra che tutto si muova e scivoli a causa dei sussulti del mezzo. Alla fine, quando la radiosveglia segna mezzanotte precisa, mi rendo conto che non riuscirò a dormire e mi alzo di scatto, calciando via le coperte e mettendomi seduto. Sento caldo e freddo insieme, ma in definitiva è che ho paura.

Ho paura. Non ho osato dirlo fin'ora, non con questa consapevolezza, ma ne ho un sacco. Ho paura di non uscire vivo dai Giochi ma, forse, ho ancor più paura di farcela e trascorrere il resto della mia vita ridotto come Kriss, inglobato dalla Capitale e dai suoi vizi, o come Woof, tremendamente triste. Per la prima volta, mi rendo conto che l'assenza di finestre non è un modo per proteggerci o per evitare correnti d'aria: serve a tenerci rinchiusi. Serve a non farci scappare.

"Si può?"

Quasi salto dal letto per la sopresa. Balzo in piedi spaventato e, mentre sto per appiattirmi contro il muro come un animale in trappola, la risata di Rym rompe il silenzio teso. La ragazza sembra serena - a differenza mia, che ho i nervi più a pezzi di quanto sia disposto ad ammettere - e se ne sta in piedi sulla soglia: indossa una maglietta lunghissima e dei calzettoni a pois, eppure alla luce pallida sembra tutta vestita di bianco.

"Guarda che i Giochi non sono ancora iniziati" mi informa, avvicinandosi. "Posso?" domanda poi, accennando al letto. Annuisco e mi faccio da parte. Lei si accomoda con grazia, tirando un filo del pigiama con le dita pallide e io, per la prima volta, mi ritrovo a guardarla davvero. Sì perché, nonostante ormai la conosca come le mie tasche grazie alle accurate (fin troppo) descrizioni di Sam, non ho mai avuto il coraggio di guardarla dritta negli occhi. Forse è che sono timido, o forse è che so che mi farebbe male fissarla e constatare che effettivamente è bella e Sam ha avuto ragione a sceglierla. Ora che sto per morire agli Hunger Games, però, niente può farmi più male. Così la osservo: è pallida, ma forse è solo la mancanza di una fonte luminosa diversa dal neon sottile che illumina parte del soffitto; sembra diversa da quando la notai al Distretto, quasi sia più magra e più vecchia.

"Perché mi stai fissando?" mi chiede, sorprendendomi. Distolgo immediatamente lo sguardo e sento le guance pizzicarmi fastidiosamente. 
"Non ti fisso" borbotto. 
"A no?" ribatte lei, maliziosa. Mi colpisce una spalla per scherzo, poi si alza. "Dovrei sentirmi offesa?"
Scuoto la testa con energia. "Non è questo" le dico, ma mi blocco: non ne ho mai parlato con nessuno, nemmeno con i miei genitori. Poi però penso che sto per morire e al diavolo la vergogna e i commenti. "Non sei il mio tipo. Nessuna ragazza lo è."
Lei mi guarda per un secondo, seria. Sta giocherellando con una ciocca di capelli che le sfugge dalla coda, se l'attorciglia attorno a un dito e poi la lascia andare. "Oh, capisco" dice dopo un po'. Mi domando se abbia capito chi fosse il mio tipo o se, semplicemente, ha solo capito che sono gay; o magari pensa che ho gusti complicati, ma non importa. Mi sono tolto un peso, un macigno enorme - all'improvviso mi do dello stupido per averlo detto solo adesso, quattro giorni prima di crepare sotto i colpi di qualcuno a cui il fatto che io sia attratto dai maschi non importa un fico secco. Avrei potuto godermi di più la vita, forse.

Sto ancora riflettendo sulla mia stupidità quando Rym mi sventola una mano davanti agli occhi, distogliendo la mia attenzione dall'ultima valanga di pensieri deprimenti.

"Signor Tiraz?" mi chiama, imitando l'accento di quella spocchiosa della professoressa Nilon. "Mi sta ascoltando?"
Per la prima volta, mi ritrovo a ridere di gusto.

 
***

Arriviamo a Capitol City appena dopo colazione. Rym ha deciso di vestirsi elegante (dice che ha passato quasi un anno alla sezione degli stilisti ma non è mai riuscita a indossare un abito): ha scelto un vestito di toulle rosa confetto (colore aberrante, per i miei gusti) e si è sciolta i capelli. Se ne sta accando alla finestra da quando il tunnel è finito e la capitale ha cominciato a mostrarsi ai nostri occhi.

Io invece, quando il treno si ferma, ho ancora un baffo di cioccolata e i capelli scompigliati, ma vengo attratto dal caos che c'è fuori dal finestrino, così mi affaccio. E quello che vedo mi lascia a bocca aperta: c'è folla. Ma non folla del tipo "oh, guarda, il panettiere ha abbassato i prezzi e ci sono tre persone fuori ad aspettare", no: questa è folla da Mietitura. E' una massa di uomini, donne, bambini, vecchi, giovani, tutti pigiati gli uni sugli altri e tutti vestiti e pettinati come Holland. Soprattutto, tutti interessati a salutarci e gridarci qualcosa con lo strano accento della capitale.

Per scendere dobbiamo aspettare quasi cinque minuti. I Pacificatori preparano il percorso facendo allontanare gli spettatori e guidandoci attraverso uno stretto passaggio tra i corpi di un migliaio di individui che sembra avere come unico scopo nella vita quello di toccarci o mandarci baci. Seguiamo le guardie tenendo lo sguardo basso, seguiti a ruota da Kriss e Woof - alcuni fans sono i loro; solo Holland, che chiude il corteo, pare a proprio agio tra la folla: giurerei che ha mandato un bacio a qualcuno.

"Bene, da questa parte."

Finalmente arriviamo di fronte a un palazzo altissimo, il cui perimetro appare decisamente sgombro da cittadini impazziti: il Centro d'Addestramento. Nonostante non l'abbia mai visto di persona, è come se ci avessi vissuto per tutte le immagini trasmesse in televisione. Provo quasi un brivido di eccitazione al pensiero di trovarmi qui, ma poi ricordo il motivo della mia presenza e il brivido si trasforma in terrore.

Siamo nell'atrio: un enorme spazio gremito di persone che non conosco. Tutt'intorno a noi si aprono porte che conducono chissà dove, spesso aperte da signore su tacchi alti quanto me o uomini con la pelle blu e viola. 

"Sono stilisti" sussurra Rym, ammirata. Già, stilisti: è il momento della Sfilata. Al Distretto è la parte più seguita dei Giochi; so che non dovremmo e che la vita dei Tributi è più importante di tutto il resto, ma io e Sam ci divertiamo un sacco a prendere in giro gli assurdi costumi che i vari responsabili si inventano ogni anno per spiccare sugli altri. E poi, la Sfilata è forse l'unico momento veramente piacevole degli Hunger Games. 

"Leandro!" 
E' la voce di Holland, persa tra la folla. Qui non è facile riconoscerla, dato che sono tutti vestiti come lei: non spicca come all'Otto.
"Leandro, dove sei?" continua, muovendosi freneticamente. Sembra una papera che non sa nuotare. "Oh, eccoti qui!" esclama poi, sollevata. "Devi conoscere la tua stilista!"

La mia stilista si chiama Lauren, ha un paio di ciocche color cipolla rossa sulla chioma dorata e sopracciglia esageratamente lunghe - una così a casa mia sarebbe eccentrica al massimo, ma qui è addirittura sobria. Indossa pantaloni a sigaretta color sedano e una camicia piena di rouches verde bottiglia, ma l'espressione è quella di una donna normale, una ragazza sui trent'anni che mi squadra per capire cosa mi starebbe bene addosso.

"Ciao" si presenta. "Mi chiamo Lauren."

A questo segue un'ora di doccie, spugne, manicure e creme. Mi fanno sdraiare su un lettino simile a quello dei medici, ricoperto da un foglio di carta azzurrina e ben illuminato da due o tre lampade orientabili che mi vanno dritte negli occhi: sto lacrimando; qualcuno mi si avvicina e lo sento commentare negativamente le mie sopracciglia, dopodiché una pinzetta si avvicina al mio campo visivo e me ne strappa qualcuna in maniera dolorosa.

"Non lamentarti, cucciolo" commenta la donna di mezza età che se ne sta occupando. "Stai per partecipare agli Hunger Games, vedrai di peggio."
Vorrei imprecare e scaricarle contro tutti gli insulti che mi passano per la testa sulla sua acconciatura magenta alta cinquanta centimetri, ma non riesco a fare altro che mugugnare qualcosa e sperare che questa tortura finisca in fretta. E infatti termina e mi ritrovo seduto; dietro di me c'è Lauren.

"Okay, è perfetto" dice, osservandomi dallo specchio. Ha gli occhi di un bel celeste carico e sto quasi per complimentarmi con lei, ma poi mi viene in mente che probabilmente sono finti e mi trattengo. "Diamo solo una spuntatina ai capelli."
"Cosa?"
"I capelli, Leandro. Dobbiamo tagliarli."
Odio tagliarmi i capelli. O meglio, amo i capelli così come sono, abbastanza lunghi da potermici nascondere in mezzo o usarli per coprire i tagli che mi provoco quando provo a farmi la barba con il vecchio rasoio spuntato di papà. E non è solo questo: se tagliassi i capelli non sarei più io, sarebbe come dire definitivamente addio alla mia vecchia vita.

Forse, però, è proprio quello che ci vuole. Annuisco.

 
***

Alla fine, ci siamo: io e Rym ci rincontriamo nel cortile, in mezzo alle coppie degli altri Tributi. Per ogni Distretto, una decina di persone si affolla attorno ai ragazzi: due stilisti, sei aiutanti, i Mentori... scorgo una ragazza, forse quella del Cinque, lamentarsi per la pesantezza della parrucca che è costretta a indossare; quelli del Distretto Uno sono così pieni di gioielli che hanno bisogno di aiuto per salire sulla biga. 

"Si direbbe quasi che siamo sobri, noi" commenta Rym, al mio fianco. Ha fatto una strana espressione quando mi ha visto con i capelli così corti, tagliati soprattutto sulla nuca, ma ora è tornata quella di sempre. Ha un bel costume, lei, un vestito dall'aspetto antico cucito utilizzando tutti i tessuti ricchi del Distretto: un tripudio di seta, satin, lana d'angora e toulle, il tutto nei colori allegri dell'arancione e del rosa. Io, al contrario, rappresento la parte povera: sono ricoperto di blu e marrone e i miei abiti sono creati con stoffa grezza o lacerata. Siamo le due facce del Distretto Otto.

"Ragazzi, ci siamo!" esclama Holland, emettendo un gridolino. Sembra decisamente più eccitata di noi, ma d'altronde non è lei che deve salire su una biga trainata da due cavalli e reggersi in equilibrio per tutto il percorso.
"Distretto Otto, pronti a partire!" 

La voce, proveniente da un altoparlante impiantato chissà dove, ci spinge a prepararci. Saliamo sul carro, ci posizioniamo ben saldi per evitare figuracce e guardiamo giù, per un'ultimo consiglio, i nostri Mentori: Woof ci fa l'occhiolino; Kriss ci scocca una rapida occhiata. "Fate i simpatici" dice, proprio mentre i cavalli cominciano a muoversi.

E' una sensazione strana, molto diversa dal fare acrobazie sulla moto scassata di Jonny: la terra ci sfila sotto i piedi, rapida, solo una striscia marroncina che scorre insensibile; anche la folla urlante non è distinguibile alla velocità a cui ci muoviamo: ne sento gli schiamazzi, scorgo ogni tanto un paio di mani e una parrucca, ma per il resto è come se tutto fosse sfocato, coperto dal vento e dall'ansia. Tengo le mani strette sul legno della biga, vacillando.
Poi tutto finisce: all'improvviso siamo fermi al posto assegnato, alla destra del Presidente. Lui ci fissa quando lo raggiungiamo e, per un momento, sorride: un sorriso schifoso, falso, bianco abbagliante come i suoi capelli. E io vorrei urlargli che non si sorride ai morti, ma naturalmente non lo faccio: non posso, non quando potrebbe vendicarsi sulla mia famiglia e sul Distretto.

"Tim, che ne dici di guardare la telecamera?" sussurra Rym, trattenendosi dallo scuotermi un braccio. In effetti, proprio ora un cameramen si è chinato per riprenderci bene in faccia e io devo avere un'espressione stralunata, oltre che scossa. Mi sforzo di guardare l'obiettivo e sorridere, ma quest'ultima parte non mi riesce molto bene, temo. Comunque, il tizio sembra soddisfatto perché si allontana poco dopo diretto al carro del Nove, che si è posizionato accanto a noi: i suoi occupanti sono poco più giovani di me e Rym e hanno la nostra stessa aria.

Passano pochi istanti e anche l'ultimo carro si ferma. La folla esplode in un applauso che sovrasta anche il rullo di tamburi che ha accompagnato la Sfilata e poi, come se qualcuno avesse alzato un cartello, tutti ammutoliscono: Snow si è alzato in piedi e, nel silenzio totale, ha camminato fino alla ringhiera del suo balcone. Ora tiene le braccia aperte come a volerci stringere tutti.

"Tributi" dice, la voce tonante che rimbomba. "Vi diamo il benvenuto. Che i Cinquantaseiesimi Hunger Games abbiano inizio."




 

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Capitolo 6
*** Sunset • ***


Avviso ai lettori: i personaggi presenti in questa storia sono stati creati da me e restano di mia proprietà, così come l'Arena. Non mi appartiene invece il contesto generale, di proprietà di Susanne Collins, autrice della saga "Hunger Games". ©

 

E se il cielo scompare

 
To be hurt, to feel lost
To be left out in the dark
To be kicked when you're down
To feel you've been pushed around
To be on the on the edge of breaking down
And no one's there to save you

["Welcome to my like" - Simple Plan]


Per tre giorni quasi dimentico che morirò. Lascio che l'addestramento mi assorba completamente, mi renda un manichino che obbedisce ai comandi degli istruttori: colpisci, affonda, impara a mimetizzarti, sutura questa ferita; ci sono cose in cui riesco bene - la corsa, ad esempio, e l'arrampicata - altre in cui sono una frana - e ovviamente tra queste c'è il combattere, con la spada o con l'arco o con i pugni è indifferente. 

Il terzo giorno ci esaminano uno per uno. Quando chiamano me, la ragazza del Sette è appena uscita, tremando leggermente. Subito dopo di me entra Rym. Quella sera stessa, scopriamo di aver conseguito entrambi un otto pieno - otto come il nostro distretto e come le ore che mancano all'intervista. 

E dopo l'intervista, allora comincerà tutto sul serio.

E' per questo che nel momento stesso i cui Caesar Flickerman, allegro e frizzante nella sua capigliatura color prugna, saluta il pubblico, il mio cuore comincia a battere all'impazzata. Ci vuole del tempo prima che chiamino me e la cosa non mi tranquillizza affatto, anzi: preferirei essere il primo, sfilare su quel palco al posto del Tributo maschio dell'Uno e del suo elegante vestito verde bottiglia; si chiama Silver, se non sbaglio, ha sedici anni e un'abilità incredibile nel maneggiare la lancia. Quando fa il suo ingresso, gli spettatori applaudono con foga: è bravo anche a parlare - si presenta, racconta qualche divertente aneddoto sulla sua vita al Centro d'Addestramento e poi conclude con un disgustoso occhiolino alla telecamera. A lui segue la ragazza del suo Distretto, una certa Jew - capelli biondi, occhi celesti, vestito stretto e provocante. Nonostante voglia sembrare semplicemente bella, nei suoi occhi leggo intelligenza e cattiveria.

Le interviste continuano: i Tributi del Due compaiono in semplici abiti neri, eleganti e seri; lui mostra i muscoli, l'aria da duro, sfoggia addirittura un paio di mosse di difesa contro Cesar. Lei si mantiene tranquilla. Dopo l'applauso riservato alla ragazza, mi perdo. Non voglio vedere, non voglio ascoltare, non voglio che mi siano sbattute in faccia tutte le qualità che non ho, che non avrà mai, tutti i motivi per cui perderò. Un paio di Tributi, però, mi restano comunque impressi: il ragazzino del Cinque che non ha più di tredici anni, le cui gambe sono così corte che non tocca terra con i piedi; un ragazzo, forse del Tre, dalla voce particolare; la ragazza del Quattro che si liscia nervosamente i capelli rossi. 

Noi veniamo dopo il Sette. Prima salgo io, poi Rym. Nel momento stesso in cui la ragazza del Sette torna dietro le quinte, le mie gambe cominciano a muoversi verso il sipario, in attesa. Un addetto alla sicurezza mi sussurra di aspettare il mio nome prima di entrare e io lo faccio; alla fine, quando sto per vomitare e scappare contemporaneamente, finalmente Flickerman si decide a chiamarmi: la sua voce pronuncia il mio nome, il mio cognome, il mio Distretto - e anche se sono io, se quella è la mia identità e quelli i miei dati, è come se avesse chiamato un estraneo. Come se io fossi un estraneo.

Cammino. Un passo, due, tre. C'è più folla del giorno della Sfilata e tutti applaudono quando faccio la mia comparsa: capelli pettinati all'indietro, camicia bianca, cravatta nera, pantaloni scuri. Sono elegante, molto più di quanto sia mai stato in vita mia e, per la prima volta, le scarpe non mi vanno né strette né larghe. Nonostante muoia dalla voglia di mettermi le mani in tasca e stringerle a pugno, mi sforzo di tenere le braccia molleggiate sui fianchi e di mostrarmi a mio agio. Alla fine arrivo alla poltrona e, finalmente, mi siedo. Cesar mi guarda - è molto più brutto visto da vicino, tirato e grottesco.

"Allora, Leandro" comincia, avvicinando la bocca al microfono. "Come ti trovi qui da noi?"
E' una delle domande che fa a tutti, quindi sono preparato - Holland ha insistito affinché io e Rym preparassimo un prospetto con risposte standard in caso di domande semplici.
"Bene" dico quindi, la voce un po' fioca. "Sono sorpreso da quanto sia bella questa città."
Non è una bugia, questa, non tutta: la città è veramente bellissima, è solo che avrei sostituito sorpreso con schifato, dato che un po' di questa bellezza potrebbero darla anche ai Distretti.
"Bella, vero?" calca il presentatore. "Molto diversa dal tuo Distretto, immagino" osserva poi. "C'è qualcosa che ti manca di casa tua, invece?"
Potrei rispondere con una lista infinita di cose: l'appartamento all'Isolato sei, il Capannone, Sam, le ore di scuola, quelle di lavoro, i pasti attorno al vecchio tavolo con i miei, perfino gli spifferi delle persiane. Ma preferisco che nessuno si intrometta nella mia vita, che quei ricordi siano miei e basta. Così rispondo: "Le stelle."

Il pubblico sospira: forse per loro ho detto qualcosa di romantico. Io, invece, ho semplicemente detto la verità: a Capitol City non ci sono stelle, non quante all'Otto, comunque. Un giorno ho sentito Kriss parlarne con Rym, le ha spiegato che le luci forti della città le offuscano - io, invece, credo sia una vendetta. Come se l'universo si fosse ribellato allo strapotere dei capitolini e abbia deciso di concederci qualcosa che a loro è stato vietato: gli astri.

"Le stelle" sta ripetendo Cesar. Annuisce teatralmente e mi prende la mano - la sua è calda e morbida, liscia delle ore di nullafacenza dei capitolini. "Ti piacerebbe rivederle?" mi chiede.
Non riesco a parlare. Ripenso a quando, sdraiati sulla vecchia tovaglia, mio padre e io le fissavamo per tutta la notte, accampati in periferia. Ripenso alle costellazioni e ai loro nomi. Ripenso a quel giorno d'estate in cui molte di loro cadono e al fatto che io sarò già morto quando succederà - non potrò più esprimere desideri. 
Non riesco a parlare, così annuisco. Sento Flickerman tirarmi in piedi.

"Ti auguro con tutto il cuore di rivederle ancora" mormora e giuro che sembra dispiaciuto sul serio. Poi, però, torna a sfoggiare il suo sorrisone rifatto e mi strattona un braccio all'insù. "Leandro Tiraz, Distretto Otto!" esclama, mentre la folla esplode in un altro applauso.

 
***

Sarei un bugiardo se dicessi di aver seguito l'intervista di Rym, perché la verità è che, una volta sceso dal palco, tutto quello che ho fatto è stato sospirare di sollievo e ascoltare passivamente i complimenti di un'Holland troppo su di giri. So per certo, però, che è andata bene anche a lei: quando è tornata giù, bellissima nel suo abito bianco, sembrava parecchio sollevata. Poi è tutto finito: in un attimo siamo stati accompagnati al nostro piano, l'ottavo, e Holland ci ha spinti in camera per prepararci per la cena.

E' un momento importante: è l'ultima cena che facciamo insieme, quella delle somme e dei consigli finali. E io odio gli addii, li odio davvero.
Eppure, mezz'ora dopo sono a tavola, come sempre. Ci sono tutti, oggi: Rym, naturalmente, i Mentori, Holland e perfino i nostri stilisti. Lauren annuisce con decisione quando mi vede e, per un momento, mi ritrovo a sperare che questa sera duri in eterno - se così fosse avrei cibo, amici e speranza. Invece non ho nulla se non una decina di ore.

"Allora, ragazzi" comincia Woof non appena ho preso posto. Un Senzavoce, a occhio e croce della mia età, ci sta servendo una zuppa calda e dolciastra. "Siete stati bravi" continua. Prende un pezzo di pane e, nella pausa che fa per mandarlo giù, scorgo Kriss che rotea gli occhi - è palesemente in disaccordo. "Domani, nel momento stesso in cui partirete con l'hovercraft, io e il mio collega cominceremo a cercarvi sponsor."

Vuole consolarci, darci altra speranza e mi sorprendo a non esserne infastidito, anzi: ne ho bisogno. E' come se il mio corpo volesse così tanto credere a quello che il vecchio sta dicendo da farmi immaginare lo scenario - noi nell'Arena, magari nascosti al sicuro, e loro che ci inviano tutto ciò che ci serve. E' possibile, in effetti, succede tutti gli anni che alcuni Tributi vengano soccorsi e salvati da quei paracadute lucenti. Li produciamo noi, insieme alle divise dei Pacificatori e a quelle che i Tributi indossano anno dopo anno, nell'Arena - solo che i possibili partecipanti ai Giochi vengono esclusi da quel settore: è una delle poche regole veramente ferree del nostro Distretto; perché se conosci le divise puoi immaginare l'Arena e partire avvantaggiato. E nessuno dei Distretti Remoti può essere avvantaggiato, agli Hunger Games, così ti uccidono.

"Tutte stronzate!"

Non so se sia il termine o Holland che trattiene rumorosamente il fiato, ma qualcosa mi riscuote. Mi rendo conto di essere a tavola e di aver perso metà del discorso di Woof che, in questo momento, fissa Kriss con sguardo truce. Il ragazzo però non sembra particolarmente scosso: se ne sta seduto scompostamente, le gambe divaricate e la forchetta che gratta sul fondo del piatto. "Stronzate" ripete. "Nessuno si salva senza uccidere."

Mentre lo dice, mi rendo conto di non sapere niente di lui. Non ho idea di come abbia vinto, di come si sia procurato quella cicatrice che ha in faccia, di quante altre ne abbia. Non so nemmeno il suo cognome. Ma una cosa è certa: lui sa come si vince, lo sa meglio di chiunque altro. Ed è sincero. Quindi mi volto verso i suoi capelli rossi e gli chiedo: "E allora qual è la verità?"

Per un momento, Kriss sta zitto. Mi guarda solo, come valutando se sia pronto per il suo segreto. Poi, dopo un interminabile minuto durante il quale gli altri hanno ripreso a mangiare, si tira su una manica: la pelle è chiara, pochi peli gli ricoprono il braccio; e al centro, esattamente dove si trova una vena spessa, una cicatrice fa bella mostra di sé: bianca, lucida, frastagliata, doppia e storta.
"Vuoi la verità?" mi chiede. Io annuisco, anche se non sono più così convinto. "Questa cicatrice è stata l'ultima che mi sono fatto. Eravamo rimasti in due: io e la ragazza del Distretto Uno. Entrambi armati, ovviamente. Solo che io l'ho disarmata, le ho dato un calcio proprio qui" racconta, poggiandomi un dito tra il naso e la bocca. "L'ho disarmata, già. Lei aveva una bottiglia in mano - stava bevendo quando l'ho trovata - ormai rotta. L'ha presa e me l'ha conficcata nel braccio, sperando che morissi dissanguato, o forse solo di farmi cadere il coltello. L'ho fatto, ma sai cosa? Lei non era brava, a usarlo. E' sopravvissuta grazie agli sponsor e al fatto che i suoi compagni Favoriti sono stati uccisi da una valanga e lei ha potuto prendere tutte le loro cose. Così, appena si è distratta, le ho ripreso il coltello e gliel'ho infilato in gola."

Nessuno mangia più, adesso. Holland si è portata una mano alla bocca, sicuramente trovando disdicevole quel racconto, mentre Woof tiene gli occhi bassi; Rym, accanto a me, stringe la tovaglia tra le mani. Io me ne sto fermo a fissargli ancora il braccio, la cicatrice, i peli e il sangue ormai sparito.
"La verità è che c'è un solo modo per vincere, Leandro" conclude Kriss. "E non è farsi aiutare dagli sponsor, mi dispiace dirvelo. E' uccidere."

Si alza e sparisce oltre la porta.

 
***

Non ho dormito, ovviamente. Per tutta la notte, le parole di Kriss mi hanno infestato il cervello come acari; ho provato a calmarmi, immaginare cose tipo prati e acqua scrosciante, prendere in giro mentalmente le acconciature di Holland - ma la mia mente tornava sempre a quel fottuto orologio e ai suoi numeri troppo veloci e alle stelle che non si vedono dalla finestra.

Così mi sono alzato alle sei e ora sono qui, sulla pista di decollo dell'hovercraft, abbracciato stretto a Woof. E poi - ma come ci sono arrivato? - sono nell'aereomobile e qualcuno mi cala un'imbracatura di ferro sul petto. Accanto a me c'è Rym, sembra pensierosa; dall'altro lato c'è il ragazzino del Cinque, lo sguardo spento. Ed è allora, mentre un Pacificatore ci inietta un Localizzatore doloroso nel braccio, che capisco che siamo già morti. Siamo morti quando ci hanno chiamati alla Mietitura. O forse anche prima, forse è successo quando abbiamo compiuto dodici anni in un Distretto e non alla Capitale, quando il nostro nome è finito in quella boccia, in quell'assurda lotteria della morte.

"Pronti al decollo."

E poi sto volando verso l'Arena.




 

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Capitolo 7
*** Underground • ***


Avviso ai lettori: i personaggi presenti in questa storia sono stati creati da me e restano di mia proprietà, così come l'Arena. Non mi appartiene invece il contesto generale, di proprietà di Susanne Collins, autrice della saga "Hunger Games". ©

 

E se il cielo scompare

 
Credo negli esseri umani
Credo negli esseri umani
Credo negli esseri umani che hanno coraggio,
Coraggio di essere umani
 
["Esseri umani" - Mengoni]
 


 
Non ricordo di aver indossato la divisa - eppure ce l'ho: maglietta beige chiaro, giacca impermeabile nera, pantaloni resistenti e scarponi; in tasca, il portafortuna del mio Distretto è fresco e rassicurante: un ditale di ferro, semplice e consunto, che è appartenuto a mia nonna. Non ricordavo nemmeno di averlo, fino a poche ore fa, prima che Lauren me lo infilasse nella giacca con un mezzo sorriso.

Prima che tutto finisse e tutto iniziasse - prima che scoprissi di essere stato mandando sotto terra. E ora eccomi qui, immobile in un cerchio di Tributi che si guardano intorno sconvolti e respirano affannosamente: qualcuno probabilmente soffre di claustrofobia e non ha speranze neppure di superare il conto alla rovescia. Siamo a meno trenta, adesso: una caverna enorme ci ospita, scura e pericolosa nella sua penombra; la Cornucopia è proprio al centro, ha il corno puntato in alto e l'apertura pochi metri più a sinistra della mia posizione: potrei addirittura arraffare un'arma, e poi- e poi cosa? 

Rym è dieci posti dopo di me, la prima a destra. Ha il volto pallido, quasi luminoso nella penombra di quella luce fioca che illumina questa Arena del cavolo: sembra fuoco, ma non vedo torce. E comunque meglio così, perché moriremmo bruciati o soffocati se ci fossero.

Meno venti. Mi rendo conto di non averla nemmeno salutata, stamattina: è perché ero ansioso? No, non riesco a mentirmi: è perché ci saremmo ritrovati comunque insieme, qui, solo che adesso non posso fare a meno di pensare che siamo nemici.

Meno quindici. O Alleati? E se lei volesse fare squadra con me? Mi volto di nuovo, cerco il suo sguardo: ha gli occhi fissi nella Cornucopia, tutto il resto sembra essere scomparso. Eppure, attorno a noi si diramano almeno dieci cunicoli- no, non dieci: dodici. Come i Distretti. Il ché vuol dire che non ci sarà modo di scappare da soli, una volta terminato il Bagno di Sangue.

Meno cinque. Osservo bene quello che la Cornucopia mette a disposizione: coltelli, accette, spade, frecce, archi, piccole mine, zaini dal contenuto ignoto. Uno di questi è praticamente ai miei piedi, forse riuscirei a prenderlo anche adesso, mentre...
E poi suona l'inizio. Non ho il tempo di pensare che è la fine di tutto, che i Giochi sono cominciati e, al Distretto, Sam e i miei genitori saranno incollati allo schermo; non ho nemmeno il tempo di rendermi conto che tutti sono già diretti alle armi e io sono ancora sulla pedana, lo sguardo fisso su quello zaino. Semplicemente, lo prendo e corro lontano.

 
***

Raggiungo l'imboccatura di uno dei cunicoli mentre l'aria comincia a riempirsi di grida e lame. Sento il suono appiccicoso di scarpe che calpestano qualcosa di liquido, annuso un odore peggiore della polvere, tocco pareti umide e fredde. All'improvviso, nel buio le mie dita affondano in un'apertura: scava la parete di destra ed è poco profonda, ma credo di potermici nascondere dentro ed è esattamente quello che faccio. Da dove mi trovo, ho una visuale parziale della Cornucopia: vedo un paio di Tributi combattere a spada sguainata, il ragazzino del Cinque correre dalla mia parte - è quasi arrivato alla mia altezza quando il Tributo femmina del Distretto Uno lo raggiunge e gli taglia la gola con un coltello, lasciandolo a terra agonizzante. Poco lontano, una sagoma fugge in un altro dei cunicoli, inseguita da un paio di adolescenti che forse, se si fossero incontrati a scuola, sarebbero diventati suoi amici. E' questa la follia dei Giochi: la gente impazzisce, uccide, non si rende conto di cosa sta facendo. E poi, come se non bastasse, muore.

Il Bagno di Sangue dura quasi un'ora. Più di una volta Tributi in fuga mi sfilano davanti, urlando o piangendo o zoppicando; qualcuno è armato, altri no, ma in ogni caso è troppo buio per ricordare le faccie dei fuggitivi. Per fortuna nessuno si rende conto di me e io non mi muovo, raggomitolato nell'insenatura con lo zainetto stretto tra le mani. Resto lì fermo, dicendomi che dovrei afferrare quella pietra accanto a me e tirarla sulla testa chi passa - sarebbe un ottimo modo di uccidere, se solo avessi il coraggio di farlo. Ma non lo faccio. Alla fine, il cannone rimbomba otto volte: otto Tributi sono già morti, sedici sono ancora in vita. Io sono tra quelli. Io respiro, ho paura, provo sensazioni e vedo quadrati di terra sprofondare portando con sé i corpi dei defunti per poi riemergere, pochi secondi dopo, vuoti e puliti come se nulla fosse successo. Come se quelle persone non fossero mai esistite.

Per un momento mi domando cosa succederebbe a restare qui per sempre, a guardare gli altri farsi la guerra al posto di farla ai nostri aguzzini, a contendersi pane e morte tutti i giorni finché la Capitale non si annoierà, anche quest'anno. Poi mi rispondo che non posso, perché ho la mia famiglia e Sam e no, non posso permettermi di non provarci nemmeno. Devo combattere.

"Posso farcela" sussurro. Mi risponde il buio.

Quando trovo il coraggio di uscire, la Cornucopia è vuota e devastata, la caverna silenziosa; se ne sono andati tutti. Dopo essermi sommariamente guardato intorno, arrischio un paio di passi in avanti: rimbombano forte per la caverna, spaventandomi, ma nessuno accorre. Probabilmente saranno tutti in cerca di un rifugio, adesso. Dovrei cercarne uno anch'io, forse, ma la verità è che mi sembra tutto così assurdo che non sento nemmeno l'urgenza di salvarmi. Per la prima volta mi ritrovo a pensare che no, non può essere, non possono davvero rendere legale un massacro del genere - ora uscirà qualcuno e mi dirà che è tutto finto e che chi morirà in realtà si ritroverà sano e salvo da un'altra parte, magari nella capitale stessa; e forse non potrà vedere più la sua famiglia, ma sarà vivo. E anche se una parte di me sa che non è così che vanno le cose, le mie mani si rifiutano di tremare, i miei piedi non riescono ad andare veloci per salvarsi. Non c'è nessuno, non c'è niente, siamo tutti ragazzini, come possiamo ucciderci? Eppure sta già succedendo.

 
***

Lo zaino non è malaccio: dentro ci sono un paio di bottiglie d'acqua, una confezione di frutta essiccata, qualche pezzo di carne e una corda.

Sono accovacciato nella stessa insenatura di prima, alla penombra dei fuochi invisibili e fisso i miei piccoli tesori con un misto di allegria e
disperazione: mi rendo conto che, a parte quella che custodisco gelosamente nelle bottiglie, non esiste acqua. Non ci sono fiumi, per quanto ho visto, ed essendo sottoterra dubito che ce ne siano dove non ho cercato.

"Trovate un corso d'acqua" aveva detto l'istruttrice.
"L'acqua non ve la faranno mancare" ha detto Kriss.

Eppure, pur spremendomi il cervello come un limone, non ho idea di dove possa recuperare qualcosa da bere. Certo, per ora ho le due bottiglie, ma dopo? Non è possibile sopravvivere senza liquidi, ne sono certo. Quindi l'acqua c'è. Devo trovarla.

La sera cala presto, lo capisco dalle luci che si fanno più flebili: le tinte del marrone, del rosso e dell'ocra spariscono, coperte da un velo di nero e grigio piombo. Le ombre si allungano - al Distretto sarà quasi ora di smontare: immagino che Sam abbia fatto di tutto per cambiare tavolo, prendere quello proprio di fronte al grande schermo che, tutti gli anni, funziona solo durante i Giochi. Per un momento sono lì, al mio posto, le forbici in mano e lo sguardo stanco ma - lo capisco solo ora - felice; perché per quanto la vita dei Distretti faccia schifo, è comunque una vita decente, fatta di sofferenza, privazioni ma anche gioie e risate. Mentre ci penso, mi sporgo piano al di fuori del mio rifugio: il pavimento è pieno di pietrine acuminate che mi pungono dita e ginocchia, ma non ci bado - ci sono ben altri problemi nell'Arena.
La grotta della Cornucopia, pochi metri davanti a me, è silenziosa e tetra. Mi rendo conto che non ho la minima idea di come sia fatto il resto di questo posto e prometto a me stesso che domani ci darò un'occhiata; poi però, prima che possa sdraiarmi con lo zaino a mo' di cuscino, il suono dell'inno nazionale mi fa sobbalzare. Okay, dire sobbalzare è un eufemismo, perché ci manca poco che non mi strozzi per la paura, il cuore che batte forte e le orecchie che rimbombano - solo quando vedo il sigillo sulla volta della grotta mi calmo un po', appoggio la schiena alla roccia e osservo le facce dei Tributi morti oggi: Rym non c'è, per fortuna; invece, compaiono il ragazzino del Cinque, entrambi quelli del Sei, uno del Nove, uno del Dieci e i due del Dodici - otto ragazzi che non hanno nemmeno fatto in tempo a vivere i Giochi. Ma forse è stato meglio così, forse è meglio così e basta.

Mi sdraio. Forse, se mi volto con il viso dalla parte del muro, la giacca a vento si confonderà con le ombre e nessuno mi noterà. Sì, deve essere così. Poggio lo zaino per terra, le bottiglie d'acqua strette tra le braccia, e mi sdraio: è tremendamente scomodo, soprattutto dopo le nottate passate a dormire sui cuscini perfetti della capitale - ma ho sonno e chiudo comunque gli occhi. Immagino la telecamera che inquadra il mio viso - sarò orribile, ma a chi importa? - e i miei genitori che vanno a letto a casa, tra le solite lenzuola consumate e i cuscini bassi; forse anche Sam sarà a casa, ormai. Mi ritrovo a immaginarmelo in camera, la stessa camera che abbiamo condiviso tante volte e che ha udito le nostre fantasie, i nostri giochi, le nostre chiacchiere e le risate, oltre che le risse e le lamentele e i brontolii: in effetti, la vita. Mi addormento immaginando di essere lì con lui.


 
N.d.A: Scusate per il ritardo, ma sono stata vittima di una terribile congiunzione astrale (trasloco - niente internet - esami). A presto! 
Una precisazione: la citazione che ho inserito all'inizio è antitetica, perché naturalmente non c'è nulla di umano nel Bagno di Sangue.
 

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Capitolo 8
*** Death • ***


Avviso ai lettori: i personaggi presenti in questa storia sono stati creati da me e restano di mia proprietà, così come l'Arena. Non mi appartiene invece il contesto generale, di proprietà di Susanne Collins, autrice della saga "Hunger Games". ©

 

E se il cielo scompare

 
But innocence is gone
And what was right is wrong

["Bleeding out" - Imagine Dragons]


Mi svegliano le loro voci. All'improvviso sono seduto al centro della piccola insenatura, le dita graffiate a sangue dalle pietre e il respiro mozzo: ci sono delle persone. A giudicare dalle voci, devono essere tre o quattro e di sicuro ci sono due ragazze. Una sola parola mi rimbomba nelle orecchie: Favoriti.

Ricordo i Favoriti della scorsa edizione. Erano cinque, tutti addestratissimi e superfighi, tipo eroi o cose simili. Sapevano fare qualunque cosa: arrampicarsi, cacciare, combattere, curarsi - ma soprattutto sapevano uccidersi. E cacchio se lo facevano bene. Quindi spero non mi trovino, dato che non so fare nulla di tutto ciò, invece.

Facendo meno rumore possibile, recupero la pietra acuminata con cui mi sono fatto male ieri sera e la stringo tra le dita, provando a darmi coraggio. Nella mia testa immagini truci si susseguono senza sosta: il sangue, le lame, gli occhi vitrei del Tributo ucciso davanti ai miei occhi, al Bagno di Sangue. Ho paura. Trattengo il respiro man mano che sento i passi avvicinarsi a me, sempre più rumorosi e minacciosi.
Mi preparo.

Mi preparo a cosa? Non lo so, forse a morire. Di certo a correre. Non a combattere, non ne sono capace e- e lo farei? Ucciderei un altra persona, se ne avessi l'opportunità? Se servisse per tornare a casa? Probabilmente sì. Non riesco a mentire a me stesso: forse lo farei; non serve a niente dire di no, dire che risparmierei la vita a uno degli ostacoli che mi separa da casa. Eppure, continuo a pensare di essere io il loro ostacolo, io l'insetto piccolo e inutile da schiacciare.

Quando il gruppo arriva a un paio di metri da me, lacrime silenziose cominciano a solcarmi il viso: le sento, calde, che mi scivolano sul naso e sulle labbra, salate e poi fredde, gelate dall'aria umida che tira qui nell'Arena. Stringo ancora la pietra, ma le mani mi tremano così tanto che probabilmente non riuscirei a usarla. 

E' questo morire? Sentire i passi dei tuoi assassini avvicinarsi e non riuscire nemmeno a respirare?

"Forza, Jew! Smettila di lamentarti!"

Stanno ridendo, loro. Mi passo il dorso della mano sulla faccia e cerco di ricompormi: non piangerò davanti a ragazzini ghignanti. Non lo farò, giuro. Morirò a testa alta.

Sto quasi per palesarmi, lo zaino stretto al petto come scudo e la pietra tra le mani, quando mi rendo conto di qualcosa che mi fa levitare il petto fino alla gola: se ne stanno andando. Non mi hanno visto. Mi sono sfilati davanti - Jew, Silver, Ky, Lynn e uno sconosciuto dai capelli nero pece - e sono passati oltre, tronfi, sicuri di essere soli. Se al mio posto ci fose stato qualcun altro, allora probabilmente sarebbero morti. Ma ci sono io. Sono fortunati, i Favoriti.

Prima che me ne renda conto sto già correndo nella direzione opposta alla loro, la mia arma improvvisata in mano e gli occhi spalancati nella penombra.

 
***

Non so come riesco a trovare Rym. Eppure, dopo mezza giornata di cammino e paura, riconosco la sua coda di cavallo saettare in lontananza, dietro un enorme masso. In un momento sono da lei: so che è folle, che potrebbe uccidermi o, peggio, che potrebbe essere un'altra ragazza, ma è più forte di me. Ho bisogno di credere che sia lei e che sia disposta ad accogliermi, ad allearsi con uno come me.

E lei lo fa. Mi racconta di essere stata sola, di aver avuto paura nel sentire i colpi di cannone. Per un istante, mi chiedo se abbia mai sperato di trovarmi - ma poi, perdendomi nel primo viso amico e nella stanchezza di una giornata di marcia, rinuncio a chiederglielo.

"Chi altro è morto?" domando invece, e mi sorprende il mio tono piatto. Lei sembra pensare la stessa cosa, perché per un momento i suoi occhi si incupiscono e una ruga le compare sulla fronte; poi però è come se si rassegnasse alla cosa: fa spalluccie, torna a contare le provviste e risponde: "Il ragazzo del Dieci è stato ucciso stamattina. Ero nascosta in una grotta, l'ho visto" mi dice.

Ricordo di aver sentito un colpo di cannone poco dopo aver cominciato a muovermi, in effetti. Ma ne ricordo anche un secondo, probabilmente verso mezzogiorno. "E poi?" chiedo quindi.

"La ragazza del Quattro" continua Rym. Questa volta posa i pacchi di carne secca per terra e non mi guarda negli occhi. 

"Come fai a saperlo?" sussurro. Non voglio costringerla a rivangare qualche ricordo troppo spiacevole, ma è importante sapere chi l'ha uccisa e come, per proteggerci. Rym però continua a non rispondere: mi guarda per un secondo, gli occhi chiari così diversi dai soliti da farmi quasi paura, e torna a fissare il pavimento. "Allora?" chiedo io, di nuovo. Immagino di suonare un po' insensibile, ma il suo silenzio mi inquieta più di qualsiasi risposta.

E poi si decide a parlarmi ed è a quel punto che capisco che è tutto cambiato. Che il mondo non esiste più, o forse sono io a non essere più come prima; o magari è solo che tutto sta cambiando e io non voglio. O forse è lei che è cambiata, magari sta impazzendo o lo sto facendo io. Ma che, in definitiva, non c'è più nulla di normale in tutto questo. Nulla.

Perché Rym mi guarda con gli occhi umidi e, stringendo tra le mani un coltellino a serramanico, sussurra: "L'ho uccisa io."



N.d.A: mi scuso per il capitolo breve, ma la scelta non è casuale: a mio avviso è un punto della storia fondamentale, quindi ci tenevo a postarlo a parte per evitare che si perdesse nel resto della narrazione U_U
Grazie a tutti!

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