Sotto mille ciliegi

di Bloody_Schutzengel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


• Capitolo 1 •
Kintou

 



Il mattino del quindici agosto dell’anno ****, un gruppo di uomini con degli strani vestiti, spalancano le porte del palazzo dell’Imperatore. La gente si riversa nelle strade: chi non sa è incuriosito, chi non sa ha il terrore in corpo. Dal grande portone, escono uomini vestiti con colori cupi, spenti e tristi, tutti uguali, in fila per venti, come un esercito, una macchina da guerra. Davanti a tutto, nel luttuoso silenzio generale, gioiosamente il loro shogun solleva il corpo dell’Imperatore privo della testa: quella giace tra le mani dei soldati fidati del generale, che la scherniscono e la deridono.
Il gallo ha cantato: l’imperatore è rovesciato.
Passano dieci primavere, tristi, silenziose, indifferenti: uno stato senza Imperatore, un popolo senza guida e delle anime senza sostegno.
Il palazzo dell’imperatore diventa grigio, verdastro. L’amaranto macchia  le strade e le mani dei ribelli, sguazzano del cremisi. ‘Rivolta’ sembra la parola chiave di tale periodo: i vestiti colorati e decorati con fiori di ciliegio sono motivo di scherno, così come le giacche grigie e i colletti neri sono marchio di potere e simbolo del giusto.
Gli alberi stanno morendo, petali rosa si tingono di grigio e galleggiano negli acquitrini neri come il cielo intossicato. Odore di polvere, di fuoco, di morte e di fumo impregnano ogni cosa: i bambini hanno dimenticato come piangere per la tristezza, perché ora piangono a comando. Mille e più morti viventi, senza cuore e senza anima, camminano con alcuna meta per le strade di ciottoli rettangolari ed ordinati: le scarpe non fanno rumore come i tacchi di legno.
Il rosso è solo sangue, non più colore di ponti, di vesti, non è più colore sacro e fortunato. Il rosa non è più colore di pelle, né colore di alcun albero: è tutto cenere, tutto polvere, tutto fumo. Non si riesce a respirare.
La mano dei lavoratori si muove sempre allo stesso modo, dietro un fiume di gomma che scorre sempre con la stessa velocità. Su questo galleggia del ferro arrugginito, degli oggetti strani: il lavoratore li salda insieme, senza sapere più il proprio nome.
Strani sassi quadrati messi uno sopra all’altro hanno creato quelle che quelli chiamano case, ma dentro sono spoglie, uguali, senz’anima e senza l’amore tipico di casa propria.
Le cappelle, i templi e i cimiteri sono ridotti a cenere. Questa galleggia sul lago di lacrime dei credenti che piangono i loro antenati andati in fumo per la pazzia dei rivoluzionari.
La Vita, se così si può chiamare, scorre piano, lenta, piatta, sotto il cielo sporco.
Lo shogun e le sue truppe programmano, scrivono, salgono e  scendono le scale pelose del palazzo del governo e pattugliano ogni vicolo in cerca di coloro che non vogliono piegarsi al regime. Questi vengono repressi nel sangue davanti a volti di donne, uomini, bambini, anziani. Il loro collo si poggia sulla macchina di morte, una corda viene lasciata e la testa rotola giù per le scale del supplizio.
Bandiere di soli raggianti rossi sventolano su ogni strada: sono arrivati i Rivoluzionari.
La terra ad ovest non è stata ancora raggiunta: lì vivono creature pure, magiche e benevole, ragion per cui è stata chiamata Terra Pura. Ci sono boschi, montagne laghi e fiumi pacifici e colorati. Il colore rosso è ancora colore sacro. Ci sono poche persone, ma si nascondono per non essere viste dagli occhi volanti del regime che vuole tagliare loro la testa. Oltre i ponti che sorvolano le cascate, oltre i santuari che fungono da vedette lungo tutta la montagna verticale, nell’abisso della foresta silenziosa, v’ è nascosto un Tempio. Qui giace la sacerdotessa ****, che protegge la sua terra dal fumo di morte del regime di Kintou Est.
Lo shogun non è soddisfatto, ha sete di conquista, ha sete di morte, non si fermerà fino a che **** non sarà sepolta sotto le macerie del suo tempio e le sue creature non si confondano con le nubi cupe del cielo di Kintou Shuto.  
 
Frammento dal Tempio della Storia della Terra Pura.
 
 
Il brusio delle chiacchiere della gente di Kintou Shuto man mano si zittiva ad ogni passo che il generale faceva seguito dalle sue truppe. Era una delle tre marcie giornaliere per la strada principale di Kintou Shuto, un viale lastricato con grandi ciottoli che attraversava la città dalla porta principale fino al palazzo del governo, dividendola a metà per un piccolo tratto. Era stata spianata distruggendo ogni cosa ci fosse davanti al generale dei Rivoluzionari, come ricordo di quel quindici agosto in cui avevano preso il potere con il colpo di stato in cui decapitarono l’Imperatore.
L’ultima marcia della giornata, quella delle otto, prima del coprifuoco che calava appena calava la notte. La prima era alle sei del mattino, la seconda alle due del pomeriggio. C’erano persino bambini che venivano istruiti dai genitori Rivoluzionari alle regole dell’omonimo regime fin dalla nascita. Questi, poi, sarebbero diventati soldati senza cervello che avrebbero combattuto al fianco del generale di Kintou Shuto per sradicare l’ultimo filo d’erba dalla Terra Pura.
Il cielo sembrava meno grigio del solito, era di un grigiastro che si avvicinava molto al bianco e gli abitanti di Kintou Shuto mormoravano che fosse il miglior cielo che avessero mai visto da quando avvenne il colpo di stato. Da quel quindici agosto in poi, le fabbriche avevano oscurato con i loro fumi di scarto delle ciminiere ogni angolo azzurro di cielo, rendendolo nero anche di giorno. Sembrava come se il sole non avesse avuto più un motivo per sorgere, ma gli abitanti sapevano che era solo coperto dalle nubi di polvere. O nero, o grigio, o rossastro, o marrone, ma non azzurro: erano queste le sfumature del cielo di Kintou Shuto. Quelle delle case erano simili: erano fatte di mattoni grigi, travi nere, tetti marroni: sembrava le avessero adattate per farle intonare con l’atmosfera cupa e pesante. Anche i vestiti cambiarono. Furono banditi i colori sgargianti, specialmente il rosso. Qualche pigmento acceso poteva solo sopravvivere sulle uniformi dell’esercito, tra medaglie, cordoni dorati e decorazioni di zaffiro, rubino o smeraldo. Capelli rigorosamente neri. Chi nasceva con dei pigmenti più chiari veniva fatto immergere obbligatoriamente nella pozza pubblica di catrame allo scoccare dei cinque anni. Non c’era alcun problema per gli occhi, perché la poca luminosità faceva apparire come nero anche un castano nocciola, risparmiando al malcapitato l’estirpazione del bulbo, che poi veniva sostituito con uno artificiale di vetro con l’iride nera. Alcuni abitanti paragonavano il regime ad una fabbrica di soldatini giocattolo, dato che voleva che i suoi cittadini fossero tutti simili, se non perfettamente uguali. Kintou: “uguaglianza”. Qualcuno doveva aver travisato il significato del nome del paese e della sua capitale Kintou Shuto…
Man mano che ci si allontanava dal groviglio di gente che assisteva alla marcia e ci si inoltrava nelle strade più limitrofe della città, non c’era quasi nessuno, se non pochi Fantocci che giravano spacciandosi per Rivoluzionari. I Fantocci erano una fazione di resistenza al regime: falsi pupazzi che si mascheravano da soldati per passare inosservati e per poter girare liberamente anche durante raduni obbligatori come le esecuzioni in piazza o le proclamazioni delle nuove leggi e così via. Due Fantocci avevano cresciuto Yoko, che stava pedalando sulla sua bici per la città con lo sguardo basso per tornare presto a casa senza essere scoperta dalle pattuglie che si nascondevano in ogni angolo della città. La ringhiera alla sua destra che proteggeva le persone dal cadere nel canale della città, scorreva veloce dietro di lei, che però guardava fisso i pedali della strano mezzo di trasporto. La bici, infatti, aveva delle ruote più grandi del normale, ed era sottilissima, con un cestino sul davanti con dei fiori viola ed una pinza sul retro per metterci il giornale. Non un giornale, ma il giornale, perché il regime pubblicava un unico quotidiano di cinquecento pagine che raccontava le vicende delle terre d’Oltremare, ad occidente, delle notizie del giorno prima che costavano le mani di molti poveri uomini che si massacravano ogni notte per completare il lavoro se non volevano essere distrutti dalle pattuglie.
Le pattuglie erano come dei cani da guardia addestrati a scovare chi non era conforme al regime di ferro, a sbranarlo e tornare a sorvegliare che tutto scorresse monotono. Erano piazzate dietro ogni angolo, fuori ogni casa, all’interno della folla e sembravano avere occhi anche dietro la testa. Controllavano non solo la vita nelle strade, ma anche quella privata all’interno di ogni appartamento, di ogni palazzo, di ogni scuola, di ogni famiglia, di ogni fabbrica. La gente li chiamava “gli occhi del generale”, perché sapevano che agivano come egli avrebbe agito.
Yoko lasciò che la bicicletta frenasse da sola, smettendo di pedalare una decina di metri prima di imboccare il vicolo dov’era casa sua. Scese al volo dalla bici, prese il panno che era per terra e glielo mise sopra, come per nascondere il suo piccolo veicolo. Prima di andare, lo alzò per controllare che non avesse maltrattato i fiori, poi entrò nel palazzo.
Ogni palazzo aveva massimo quattro piani e capitava raramente di vede una fila di palazzi di piani diversi. Dentro ognuno di loro, un piccolo ingresso dietro il grande portone di legno, poi una stretta e angusta rampa di scale che si fermava su ogni pianerottolo per concedere a chi ci abitava di entrare in uno dei quattro appartamenti su ogni piano. La rampa saliva a zig zag, nera e scomoda, senza uno spazio nel mezzo. Era stata progettata più per incutere terrore a chi volesse scappare a casa dopo il coprifuoco consapevole dei cani da guardia che l’avrebbero inseguito sull’angusta scala, che per agevolare le pattuglie che salivano e scendevano di palazzo in palazzo per controlli spesso inutili.
Yoko abitava al primo piano, cosa positiva se si considerava il breve tratto di scala che doveva percorrere lei e negativa se si considerava che era lo stesso tratto che permetteva alle pattuglie di arrivare a casa sua. La prima porta a destra. Yoko infilò la chiave nella toppa, aprì e lasciò la porta sbattere dietro di lei. Si tolse il cappotto grigio e lo appese all’attaccapanni dell’ingresso, si pulì le suole delle scarpe nere sul tappeto ed entrò dopo aver buttato il cappello sul mobiletto all’entrata. Il corridoio era piccolo e angusto, ma si apriva dopo un paio di metri su un largo salotto color nocciola e cioccolato. Così piaceva a Yoko ricordare i colori tristi del soggiorno, abbinandoli a dei pensieri dolci, in modo che le sarebbe costata meno fatica a pensarci e a vederlo. C’era una cosa che fece fatica a notare dal primo secondo: il silenzio. La sua casa di solito era sì silenziosa, ma una volta chiusa la porta, c’era sempre qualcuno che la salutava cordialmente, che le diceva “bentornata a casa!” come il padre, la madre o il cugino che veniva ogni tanto a trovarli dalla Terra Rossa. Da un’espressione indifferente, passò ad una più inquieta, assottigliava gli occhi e sperava che non stesse succedendo niente di indesiderato: non era una novità che i soldati irrompessero nelle case per creare scompiglio a loro piacimento, a violentare le donne o ad uccidere qualcuno a caso buttandolo giù dai balconi per motivi inventati e che non avrebbero mai retto per una persona sana di mente. Yoko camminava cauta, timorosa, aveva paura di avanzare, come se avesse camminato in un labirinto cosparso di mine con la paure che un passo avrebbe potuto costarle la vita. Ci mise un po’ ad attraversare il soggiorno, fermandosi ogni tanto tremante ma con un volto abbastanza serio che appariva ancora più serio per la treccia che soleva farsi coi capelli, appoggiata morbidamente su una spalla. Man mano cominciò a sentire dei respiri affannati, sembravano respiri di paura, che sembravano voler ispirare calma a chi li emetteva, come quando ci si sente alle strette e si respira ampiamente per mantenere la concentrazione. Yoko spuntò fuori dallo stipite della cucina, con gli occhi marroni che si allargavano sempre di più e il labbro inferiore che si abbandonava a far aprire la bocca. Man mano sbucava dallo stipite la figura di una mano guantata nera che poi scoprì reggeva una spada, il viso della madre, costretta contro il muro col collo scoperto e minacciato da una katana che premeva contro di esso, poi la figura di un soldato di pattuglia immobile e dagli occhi che fissavano in cagnesco la madre, che Yoko scoprì essere con i piedi immersi in una pozza di sangue che stava solo sotto di lei. Gli occhi della donna si voltarono distrattamente dallo sguardo del soldato alla figlia, più terrorizzati che mai, la bocca semiaperta che voleva urlarle qualcosa, mentre le iridi nocciola di Yoko si spalancarono come il soldato si girò di scatto verso la ragazza tagliando distrattamente la gola alla madre che cadde a terra nel proprio sangue. Yoko non ebbe tempo di urlare, perché il suo primo istinto fu quello di scappare il più veloce possibile da quel mostro che aveva tutta l’aria di voler divertirsi a ricorrerla con quel ghigno che aveva stampato in faccia.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


• Capitolo 2 •
Guardami negli occhi

 


La porta si spalancò violentemente, producendo un rumore simile a quello di una bomba una volta ch’era urtata contro il muro. Yoko quasi stava cadendo, uscita dall’appartamento spingendo via il portone, poggiando repentinamente i piedi uno davanti all’altro e viceversa per quello scarso metro quadro di spazio prima di imboccare di nuovo le scale, stavolta in discesa. Non parlava, il cuore le batteva a mille, si sentiva rigida, con un branco di cani che le ringhiavano dietro. Non urlava, tanto non sarebbe servito a nulla: una delle regole principali del regime era di restare indifferenti a situazioni del genere e di lasciar che le pattuglie operassero per portare giustizia. Un palmo appoggiato all’ appoggiamano ferroso e nero delle scale, l’altro chiuso e rigido. Gli occhi nocciola erano spalancati, aveva dimenticato di portarsi via il cappello, l’avrebbero resa ceca per quei suoi occhi troppo chiari e non conformi alle volontà del generale. La bocca cercava fiato nel correre giù per i gradini che sembravano non finire mai, seppur fossero solo due rampe di scale dal primo piano al piano terra. Il soldato aveva gli occhi iniettati di sangue, un cappello militare che sembrava incollato alla sua testa e che non accennava a volar via per la corsa, lo sguardo fisso su Yoko come un radar e le mani che volavano a destra e sinistra, nel tentativo di acchiappare un lembo della camicia verde grigiastro della giovane o un ciuffo dei suoi capelli tinti di catrame che in origine erano di uno strano colore misto tra il castano e il cenere.
Yoko tentò di spingere la porta dietro di sé mentre usciva dal palazzo, per rallentare quella belva, ma servì solo a farle perdere preziosi millisecondi. Montò sulla bici e cercò di pedalare il più possibile, ma il soldato era veloce, riusciva a stare più o meno ad un paio di metri dietro di lei. Queste bestie erano addestrate a non fermarsi mai, ad inseguire la preda per giorni in nome della giustizia, per portarla davanti alla coorte del giudizio e magari anche alla ghigliottina pubblica. La treccia di Yoko si era rivolta dietro di lei, come non era mai successo: la velocità le avrebbe fatto volare via il cappello se l’avesse portato, pensò. Pensò anche che quello che stava facendo non sarebbe servito a nulla, perché difficilmente si sarebbe stancata dopo il soldato che era allenato a correre per ore a quella velocità. Le gambe erano già doloranti quando entrò per un vicolo stretto ed impervio nella speranza di rallentare quel demone, ma anche questo servì a poco e si ritorse contro di lei. La bici iniziò a sbandare sul terreno melmoso per via dei tubi di scarico e delle cisterne maleodoranti che rigettavano tutto nei sotterranei e che creavano muffa in superfice. Yoko cercava di mantenere il controllo del manubrio, rallentando, ma faceva solo guadagnare terreno a quegli occhi rossi e neri. Riprese a pedalare con più foga, ma la bici incontrò un’asse di legno probabilmente appartenente ad una cassa, sbandò e Yoko cadde a terra, col soldato ormai a meno di un metro e mezzo da lei.
Non guardò indietro che per un secondo scarso, per rialzarsi e cominciare a correre, inciampando nei propri passi per via delle cosce doloranti. La melma che le aveva sporcato le gambe, le faceva venire i brividi, fredda e maleodorante, si confondeva sul colore nero delle calze e delle scarpe. Le braccia ondeggiavano a destra e sinistra, piegate, coi pugni chiusi, mentre a volte andavano avanti e indietro come dovrebbero.  Erano passati almeno dieci minuti, ma a Yoko parevano un’ora o anche di più, col cuore in gola, senz’aria a sperare che il soldato venisse colpito da qualcosa e morisse, ma doveva metterla a tacere, non si sarebbe mai potuto fermare, anche con un braccio squarciato o con una gamba mozzata da una bomba. Gli occhi di Yoko cambiarono espressione e da spaventati ma decisi diventarono insicuri e quasi privi di conoscenza.
All’orizzonte, poteva vedere la gente che stava tornando a casa dalla marcia, mentre l’esercito era ancora lì. Avrebbe voluto girare, ma pensò solo a continuare a correre per salvarsi la vita. Se avesse girato, sarebbe sicuramente sbandata, si sarebbe slogata una gamba e sarebbe finita sulla ghigliottina per aver interferito con la giustizia.
Ormai non vedeva più, le gambe si muovevano da sole, non badavano a dove stessero andando e cedettero proprio su uno degli scalini che portavano al palazzo del governo, ma chissà perché il soldato non aveva iniziato a prenderla a pugni, calci, a sbatterle la testa contro la scalinata e a gridarle insulti macabri contro. La testa le faceva male per la botta e le girava, non svenne. Dopo pochi secondi, le orecchie di Yoko iniziarono a sentire dei tacchi sulla pietra della scalinata, poi i suoi occhi videro degli stivali davanti a lei sullo scalino superiore. Cercò di alzarsi e correre via, ma inciampò tra le risate degli altri soldati, trovandosi di nuovo a terra con dietro una schiera di militari e davanti il loro generale, che immobile, la fissava da sotto la visiera del cappello. Lo fissava: aveva dei capelli lunghi fin oltre la vita, neri dai riflessi verdastri come la melma, spazzolati all’indietro con pochi lunghi ciuffi che rimanevano davanti. La divisa era nera, con un colletto alto e nero, i bordi ed i bottoni dorati. Il cappello era grande, scuro e dalla visiera bassa e lucida, che copriva gli occhi per chi l’avesse guardato frontalmente, mentre non erano nascosti a Yoko. Per qual poco che riuscisse a vedere, erano due bagliori neri, due abissi accesi, assottigliati ed enormi. La fissavano con la stessa violenza con cui si guarda a qualcosa di imprevisto. I lineamenti erano esili, ma non scarni, eleganti con la morte che viene lenta di notte, la grandezza delle cosce traspariva dai pantaloni non troppo larghi e dai lunghi stivali neri. Aveva una spada legata alla cintura della giacca che terminava più lunga come quelle degli altri soldati e che avrebbe potuto sembrare una gonna. Sebbene sembrasse delicato come un fiore nero, nessuno aveva mai pensato che non potesse essere altro che un uomo.
Yoko aveva la faccia sporca di polvere, un livido sullo zigomo ed un’abrasione sulla tempia sinistra e lo sguardo di qualcuno che si trovava con le spalle al muro con un rullo di cemento che lo stava per schiacciare senza speranze. Respirava normalmente, il battito del cuore si era calmato, forse perché non stava succedendo ancora nulla in quel silenzio tombale.
Dopo lunghi minuti di silenzio e immobilità, il generale si incamminò verso Yoko, con passo ritmato e lento che faceva salire il terrore all’interno della ragazza, che rimaneva immobile a fissarlo. Quando fu di fronte a lei, di accovacciò, mentre Yoko cercò di indietreggiare invano, bloccata dalle gambe dei soldati dietri di lei, che era in ginocchio a terra. Il generale cercò di guardarla negli occhi, ma lei distoglieva lo sguardo ovunque lo cercasse, facendo irritare chi aveva di fronte, che prese a sussurrarle di guardarlo. Era una voce vellutata, bassa ma non troppo, avrebbe potuto appartenere sia ad un uomo che a una donna. Le due teste ondeggiavano: il generale che cercava lo sguardo di Yoko e questa che lo volgeva dalla parte opposta per guardare i piedi degli altri soldati. Questo andò avanti per pochi secondi, al che il generale alzò il tono di voce prima, poi prese tra le sue mani guantate il mento di Yoko e si fece guardare negli occhi.
“Guardami, ti ho detto! Devi guardare negli occhi il tuo generale quando ti parla, scellerata!” Le ringhiò avendo perso la pazienza.
Yoko rimase zitta, stingendo gli occhi e i denti.
“Che ci fai qui fuori dopo il coprifuoco? Huh? E con gli occhi così chiari…” le sussurrò malignamente.
“Stavo tornando a casa.”
“Non dirmi stronzate.” Sentenziò rigidamente alzando il tono di voce. “Riformulo la domanda…Perché cazzo sei qui?” Le sibilò di nuovo con un ghigno perverso.
Yoko non rispose.
“Rispondimi, indisciplinata!” la schiaffeggiò. “Non ti hanno insegnato a rispondere a comando quegli inetti dei tuoi genitori?!” ringhiò.
Yoko non rispose di nuovo, non sapendo che dire, quando intervenne il soldato che l’aveva inseguita che riferì il tutto, ma il generale sembrava fissare più gli occhi di Yoko che prestare attenzione alle parole del suo subordinato.
“La porto alla ghigliottina, mio signore?” chiese i soldato.
“Sta zitto, chi ti ha dato il permesso di parlare?” lo guardò in cagnesco il generale. “Ce la porto io sulla ghigliottina questa stronzetta, non ti disturbare.” Fece per poi alzarsi e buttare con la punta dello stivale della polvere in faccia a Yoko. Camminò indietro per un metro, poi si fermò.
“No…” si girò con un ghigno fissando la ragazza. “Per aver sfidato il capo del regime ci vuole punizione più grande che il sollievo della morte. Dopo la morte non c’è un cazzo, invece… il dolore della tortura rimane impresso fino alla morte.” Il ghigno si espanse, poi sparì.
 
Ci sarà da divertirsi…
 
“Complimenti. Sei la prima donna a far parte dell’esercito di Kintou Shuto. Sei contenta, stronzetta?” La guardò piegandosi in avanti, con gli occhi fissi su di lei e le mani dietro la schiena.
“Mi chiamo Yoko…” sussurrò quella, con un filo di voce e lo sguardo perso.
“Non mi interessa, per me sei e sarai solo ‘soldato’, ‘idiota’, ‘stupido’ e anche di peggio, non voglio iniziare da adesso… Di nuovo, complimenti, ti sei meritata la tortura più orribile del mondo.” Camminò verso il palazzo del governo ridendo divertito, mentre Yoko veniva trascinata di peso su per gli scalini.
 
Ci sarà da divertirsi…
 
“Signor generale, mio signore, siete sicuro di quello che fate?”
“Signor generale! Una donna nell’esercito? E’ un affronto, con tutto il rispetto…”
“Signor generale!”
“Generale”
Il generale camminava per il corridoio del suo palazzo, di legno di ciliegio e pavimenti di mattonelle scure, con tappeti e vessilli rossi dappertutto. Non si curava altezzosamente e indifferente dell’orda di soldati a suo seguito che gli facevano tutte quelle stupide domande, come avrebbe detto lui.
“Non sono impazzito, stolti, so quello che faccio. Vi preoccupate di una donnicciola nell’esercito? E io che credevo di ricevere dei ringraziamenti cordiali da voi coglioni per avervi portato carne fresca su un piatto d’argento.” Ringhiò. “O siete tutti froci o avete voglia di mancarmi di rispetto reagendo così ai miei provvedimenti… mi fate incazzare. Sparite! Fuori di qui!” Continuò a camminare, mentre i suoi soldato tornarono ognuno alla propria camera finché in pochi secondi non rimasero solo lui e Yoko. Lui si fermò per guardarla, tenendo la postura di un militare: petto in fuori, rigido e testa alta. Questa volta gli si poteva vedere bene il viso, dato che si era tolto il cappello.
“Ebbene… hai visto troppo. Devi imparare a pensare solo a te qui dentro, lo sai? Rispondimi e non farmi perdere la pazienza.” Yoko fece cenno di sì, poi quello iniziò a camminare di nuovo, salendo l’imponente scalinata di legno scuro adornata da un tappeto rosso coi bordi dorati.
“Che fai lì, imbecille? Seguimi!” Le disse duramente e Yoko scattò camminando a passi veloci verso di lui, ma tenne una certa distanza e continuò a guardare per terra.
“Numero uno, se non mi guardi in faccia di riempio la testa di piombo, ho una pistola e non ho paura di usarla, specialmente su una femmina. Secondo, fai bene a starmi lontana, ma non credere di poter fare di testa tua quando vuoi, capito? Se ti chiedessi di venire qui e pulirmi le scarpe coi capelli devi farlo, perché io sono il tuo generale. Intesi?”
Yoko annuì e guardò per terra, ricevendo uno schiaffo.
“Allora sei dura di comprendorio. Andiamo.” Ringhiò.
Salirono le grandi scale sontuose, entrarono in un altro enorme salone, che dava su numerose porte. Il generale ne aprì una e Yoko scoprì che dava su un lungo e bui corridoio, rimanendo atterrita.
“Che c’è? Hai paura di un corridoio?” Sussurrò quasi dolcemente per schernirla. “Hai paura che al mattino quando dovrai attraversarlo qualcuno ti divori o che di notte io possa starti alle calcagna ringhiando e ridendo come un pazzo? Hai paura che possa essere la tua ombra, che io possa controllare ogni tuo respiro, pensiero o movimento? Fai bene, perché io posso fare quello che voglio di te, posso distruggerti, posso salvarti. Sei diventata il mio giochino per avermi sfidato non guardandomi negli occhi e fidati, non sei stata intelligente, stronzetta. La tua stanza è la settima sulla sinistra. Dentro ci sono due divise ed una veste da notte. I tuoi vestiti li prenderò io. Chissà… forse nella notte?” Continuava a sussurrarle tutto quello all’orecchio tenendole le mani bloccate dietro la schiena, mentre Yoko abbassava la testa per evitare il respiro del generale sul collo mentre ridacchiava divertito. “Adesso sparisci.”
Yoko indugiò ad avanzare, ma il generale le fece mettere paura urlando all’improvviso e lei cacciò un piccolo grido, per poi muoversi con quelle risate perverse dietro di lei. Iniziò a camminare sempre più velocemente al sentire i passi del generale dietro di lei che la seguivano, che correvano, che la stavano cacciando. Trovò la porta ed entrò chiudendola dietro di lei.
“Io ti osservo, soldato! Ti starò addosso come la spada del soldato sul collo della tua stupida madre!”
Detto ciò si dileguò e Yoko scivolò con la schiena per terra, sedendosi con le ginocchia al petto. Si abbracciò le gambe e delle lacrime di terrore solcarono le sue guance sporche di polvere.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


• Capitolo 3 •
Tohma
 


Non era la lama della katana premuta sul collo della madre che aveva creato quella pozza di sangue lì per terra, sotto i suoi piedi. I rivoli amaranto rigavano l’interno delle gambe della povera donna, e solo lì al buio, nella sua stanza, Yoko capì cos’era realmente successo. Il soldato aveva abusato della madre, e se Yoko a sedici anni la conosceva come credeva di farlo, sapeva che immediatamente dopo la violenza avrebbe tentato di fuggire e di chiamare suo padre. Poteva immaginare perché il suo vecchio non arrivò: forse era stato messo a tacere prima che accadesse tutto il resto. La mamma di Yoko le aveva passato molte delle sue caratteristiche: i capelli stranamente chiari, grigiastri, forse ereditati da un lontano parente con problemi di albinismo. Gli occhi nocciola e il viso di porcellana.
Yoko piangeva man mano che i ricordi affioravano tutti in una volta, come se lei fosse diventata l’anima di Kintou Shuto, invasa dall’occidentalizzazione1 dei Rivoluzionari, travolta da ideologie che non le appartenevano: Romanticismo, Illuminismo, Nazionalismo, Socialismo… Tutto quello che era maturato nelle Terre d’Oltremare in più di mezzo secolo, aveva stravolto Kintou in meno di un mese. Chi le raccontava tutti i fatti storici era Tori, suo cugino balzano, a cui un giorno balenò l’idea di diventare un mercante viaggiatore e che partì prima per la Terra Rossa2, poi per le Grandi Montagne3 ed ancora per le Terre d’Oltremare. Ogni volta che la veniva a trovare le portava dei vestiti sgargianti rossi, blu, gialli, smeraldini dai vari suoi viaggi, poi questa li prendeva e li nascondeva in una cassapanca, nascondendoli con cura sotto pile di libroni grigi per evitare che le pattuglie potessero strapparglieli via. Aveva solo cinque anni ma era già molto intelligente e capiva al volo quando la mamma o il padre le dicevano cosa doveva fare e non fare per sopravvivere agli uomini cattivi.
Yoko era nata pochi mesi prima del colpo di stato dei Rivoluzionari, e anche se non poteva ricordarlo, quando fu proclamata la legge che sanciva l’obbligo di tingere i capelli chiari con la pece, la madre pregava i tenjin4 che avevano sempre protetto la sua famiglia perché non guastassero la naturalezza di sua figlia. Purtroppo, gli spiriti ancestrali non furono d’aiuto e la madre considerò anche di convertirsi alla religione del Kami5 importato dalle Terre d’Oltremare.
Quando si ha paura o non si ha la piena concezione di quello che sta accadendo, è difficile pensare tra mille rumori, mille idee, mille paure. Quello che si desidera è un silenzio tombale in modo che i pensieri possano riaffiorare, ma non è ciò che desidererebbe qualcuno nella situazione di Yoko.
Dopo parecchio tempo, la ragazza si asciugò le silenziose lacrime con la sua treccia sgualcita e maleodorante di catrame, nonostante si lavasse i capelli con quello che aveva di più profumato per mascherarne la puzza. Guardò davanti a sé senza alzarsi e senza smettere di abbracciare le sue ginocchia sporche di melma, poi si guardò attorno.
I muri della stanza erano di legno di ciliegio, scure e molto eleganti, ma Yoko non potette mai andare  pensare che quella prigione fosse elegante, non ne ricavò nessun pensiero positivo. Gli assi del legno erano quasi sprovvisti di nodi tipici del legno puro, erano lisce, levigate e lucide, ma non conferivano luminosità all’ambiente. La sola fonte di luce era un lampadario appeso al soffitto, senza particolari decorazioni, giallastro come la luce fioca che illuminava la camera. A sinistra, davanti a sé, un letto che riconobbe essere matrimoniale solo quando si alzò, con le coperte rosse e marroni e di legno sempre di ciliegio. Il disboscamento di intere radure e boschi di ciliegi aveva costituito una grande risorsa di legno per decorare gli interni. Alla destra, sul muro di fronte il lettone, un quadro che ritraeva il generale seduto su una lussuosa poltrona, con le gambe accavallate, gli stivali neri e lucidi e lo sguardo penetrante e fisso su chi gli dormiva davanti. Era inquietante, pensò Yoko, ma ci avrebbe fatto l’abitudine, o almeno così sperava. Il pavimento era una moquette rossiccia, bordeaux, stranamente pulita e senza alcuna macchia, il che era strano, perché la politica dei Rivoluzionari era totalmente contraria alla fede Shintoista, che considerava la pulizia come manifestazione di purezza e del divino. Ma quella era, dopotutto, una falsa pulizia, perché dentro i Rivoluzionari non c’è alcun cuore, pensò Yoko con lo sguardo sconsolato.
Davanti a sé, sulla destra, infondo, un piccolo corridoio con una porta di legno: doveva essere il bagno, pensò. Attraversò la spaziosa camera, non notando l’uniforme piegata sul letto, o l’armadio di ciliegio, così come lo scrittoio ed entrò. Non ci fu da sorprendersi: le piastrelle erano grigiastre, scure, le pareti sempre di legno. Era spartano: una vasca con piedi di leone in quello che un tempo doveva essere ottone non arrugginito, un lavabo con sopra uno specchio, un gabinetto ed un armadietto con gli asciugamani.
Non era strano che la veste da notte non fosse un kimono di seta leggera e spartana, ma una veste lunga di lino importato con pochi ricami alle estremità che si chiudeva sul petto con dei lacci, ma era strano che ci fosse anche un kimono. Il regime aveva spazzato via tutte le tradizioni di Kintou a Kintou Shuto e dintorni, compresi culti, templi e vestiario. Perché allora c’era un kimono? Yoko controllò origliando dalla porta se stesse arrivando qualcuno ed una volta sicura di essere sola, fece per chiudersi a chiave, per poi notare che non c’era nessuna toppa… Era questo quello che intendeva il generale per “sarò la tua ombra?” si chiese…
Andò timorosa nel bagno, si levò i vestiti e riempì la vasca lentamente per non far rumore. Voleva essere simile ad un fantasma e cercare di entrare nelle grazie del generale, sempre che fosse possibile. Prima un piede, poi l’altro, poi si sedette nell’acqua calda e fumante, mugolando per le ferite che pizzicavano a contatto con essa. Si sedette come s’era seduta prima, abbracciandosi le ginocchia: non si sentiva al sicuro, come chi ha timore che dopo la prima scossa di terremoto potrebbe arrivarne un’altra, aspettandola sospeso sotto l’architrave di una porta.
Si sciolse i capelli e abbassò la testa di lato per bagnarli un po’, ma non del tutto poiché non aveva il tempo e la forza di asciugarli.
Come si stava per rilassare nel silenzio generale, sentì del passi che provenivano da fuori la porta, che passavano vicino la sua camera, poteva contarli. Erano più di due persone, parlavano, ridevano, ma non si fermarono. Yoko tremò per quei pochi secondi stringendosi ancora di più, raggomitolandosi appoggiata al bordo gelido della vasca che le fece venir la pelle d’oca in contrasto all’acqua bollente.
Dopo essersi asciugata non si dimenticò delle buone maniere che aveva in casa: stese gli asciugamani in modo che si asciugassero, mettendoli a penzoloni sull’armadietto, poi uscì. Notò solo allora che non c’era nessun comodino vicino al letto, tantomeno una lampada da notte: sarebbe stato contraddittorio fornire le camere di una luce rassicurante vicina al posto in cui una volta chiusi gli occhi, si è protagonisti di visioni terribili e di incubi. Doveva aspettarselo, Yoko, che avrebbe dovuto affrontare la fobia del buio. In realtà, notò che non c’era nemmeno un filo per spegnere la luce: essa si spegneva da sola quando il generale decideva che doveva spegnersi e poteva essere riaccesa a suo piacimento anche nel bel mezzo della notte, pensò quindi la ragazza. Stava iniziando a diventare consapevole di a che cosa i suoi errori l’avevano portata: forse morire tentando di salvare la madre, invece di scappare, le avrebbero fatto guadagnare uno dei tanti paradisi6.
Tolse le due uniformi dal letto e le poggiò sullo scrittoio deserto, senza penne ne fogli, poi prese il kimono per posarlo e si fermò. Lo aprì curiosa, per vedere com’era fatto: non aveva mai avuto la possibilità di indossarne uno, quelli che Tori le portava dai suoi viaggi da Kintou Ovest o i vestiti che le regalava, quelli tipici della Terra Rossa, li aveva tutti sottochiave, nuovi di zecca, mai provati. Ma Tori capiva e non l’aveva mai rimproverata per questo.
Il colore di base era il nero, prevedibile, poi aveva delle decorazioni floreali tradizionali che erano tra il rosso scuro e il rosato, con delle punte di bianco e di giallo qua e là. A prima vista le sembrò grande, così decise di provarselo. Infilata una manica, poi l’altra, imparò subito come annodare la fascia rossa e lucente sotto il seno, stretta, come i quadri di cui Tori le parlava, che ritraevano donne bellissime tutte insieme che si truccavano a vicenda e che si abbracciavano sotto gli alberi di ciliegio. Si sentiva scoperta, nonostante fosse molto lungo: la scollatura era molto ampia, si poteva vedere la fossetta dei seni, che Yoko cercava di coprire accostando il lembo di tessuto sul petto, ma la seta era troppo liscia per resistere e non tornare al suo posto scivolando. Cercò uno specchio e lo trovò aprendo l’armadio: era lungo quando l’anta, era fissato su di essa e le permetteva di vedersi da capo a piedi. Si continuava a coprire il petto, perché le avevano insegnato a essere sempre discreta e riservata. Il sottile busto era evidenziato dalla stretta fascia, col fiocco sul retro, mentre le spalle e il petto erano scoperte del tutto e nonostante Yoko tentasse di rialzarsi i lembi sulle spalle, questi ricadevano lentamente accarezzandole la pelle. Chiunque l’avesse vista avrebbe notato la sua straordinaria ed innocente bellezza, che non era mai uscita fuori sotto la solita camicia e la solita gonna che indossava giorno dopo giorno. Sembrava una vera donna, ma non voleva saperne di indossare quell’abito che la faceva sembrare, secondo lei, tanto volgare e scomposta. Se lo tolse allontanandosi dallo specchio, per non vedersi riflessa, chiuse l’armadio e si infilò l’abito da notte che cadeva morbido sul suo corpo quasi trasparente.
Non pensò più di tanto e si addormentò su un fianco del gelido lettone, nonostante la quantità di spazio che aveva a disposizione, chiuse gli occhi e capì che le luci si spensero.
 
“Tu. Svegliati. Prima che ti svegli io.” Tuonò il soldato spalancando la porta con un calcio per poi uscire lasciando Yoko nel letto terrorizzata e colta alla sprovvista che si rannicchiò istintivamente nelle coperte per coprirsi. Vide fuori dalla porta altri soldati che camminavano, poi il generale che con passo tranquillo e ritmato la guardò dall’alto in basso con un sorriso apparentemente calmo ma che nascondeva sicuramente qualcosa.
“Come hai dormito, soldato?” Le domandò senza scomporsi, fermo in mezzo alla stanza, con le mani dietro la schiena.
“Bene.” Yoko stava imparando.
“Senti, ogni risposta che esce da quella tua bocca del cazzo deve essere seguita da ‘mio signore’ o ‘ mio generale’ o ‘mio generale’, intesi? Ripeti. Come hai dormito soldato?” chiese di nuono sporgendosi in aventi con una mano all’orecchio come per sentire meglio, mentre guardava in alto vagamente con la bocca semiaperta.
“Bene…signor generale…” Disse Yoko tentando di apparire composta.
“Non ho sentito idiota, ripeti. Bene…?”
“Mio signor generale.” Disse infine abbassando la testa e tirandosi le coperte sul petto.
“Brava. Ti estirperò quegli occhi pur di insegnarti a guardarmi con un minimo di decenza. Hai tutto il tempo che vuoi per imparare, però…” si rivolse verso il suo quadro. “Sono sempre qui nella tua stanza anche se sotto forma di dipinto.” Fece per uscire, poi rientrò appoggiandosi allo stipite della porta, guadagnandosi l’attenzione di Yoko. “A proposito, è inutile che ti alzi le coperte come una prima donna sul petto, posso piombare qui anche quando potresti essere nella vasca da bagno.” Ghignò ed uscì urlando qualcosa. “Preparati e scendi di sotto per il rito del mattino, soldato!”
L’uniforme le andava quasi piccola, era giusta, né troppo grande né troppo piccola e con lo sviluppo le sarebbe andata fin troppo stretta. Non era abituata ad indossare cose di taglie così attillate, la soffocava, ma notava che anche gli altri soldati indossavano uniformi molto strette, chissà, forse per l’agilità dei movimenti? Per non inciampare nei lembi di tessuto in eccesso? Si sistemò gli stivali e si portò il cappello, simile a quello del generale, ma con una visiera meno sporgente e più dritta che faceva intravedere bene il viso, sebbene con un’ombreggiatura inquietante.
La mensa era enorme ma era vuota nella sua enormità: uno stanzone scuro del medesimo legno di ciliegio, così come i lunghi tavoli e le sedie. Erano tre, solcavano lo stanzone da una parte all’altra e sembrava veramente una mensa, come quelle degli orfanotrofi o dei poveri. Le tovaglie bianche non riuscivano a splendere con quei colori dominanti scuri e penetranti. Sul muro di fronte, vessilli contornavano a destra e sinistra, vermigli, un altro quadro del generale, enorme ed imponente, un busto a tre quarti, dallo sguardo serio, con la solita divisa. Ai lati della camera, bandiere bianche e rosse che ritraevano il sol levante7, la bandiera nuova di Kintou Est, quando l’altra era semplicemente bianca, simbolo di purezza, con un fiore di ciliegio nell’angolo in alto a sinistra, vicino l’asta. Yoko si sedette all’unico posto libero del tavolo di sinistra, né troppo alla fine del tavolo, né perfettamente al centro, tra altri sue soldati che la fissavano maliziosi ed imponenti: erano abbastanza alti, capelli arruffati ed occhi scuri, niente cappello e canini appuntiti quasi da sembrare vampiri. Il generale sedeva nel tavolo al centro, a capotavola, davanti il suo quadro, in modo da essere visto bene in faccia dai suoi subordinati, ed era affiancato da due soldati, di cui quello a destra era un po’ diverso. Indossava una divisa nera, sempre coi tipici bottoni e bordini in oro, ma aveva sulle spalle delle decorazione anch’esse che sembravano d’ottone alle quali s’attaccava un mantello scuro che, anche se Yoko non poteva vederlo, aveva una decorazione argentea che rappresentava il raggiante sol levante. Cordoni, medaglie, distintivi dorati, capelli corti fino al mento davanti, corti corti dietro, con pochi ciuffi sulla fronte. Gli occhi neri senz’anima, la bocca sottile e chiusa, il viso tondeggiante che sembrava fratello di quello del generale.
“Quello è il vice generale, tonta.” Gli fece il soldato dietro di lei, notando che fissava in modo strano l’uomo. “E’ l’uomo in cui il generale pone più fiducia al mondo e viceversa. Se provi a fare qualsiasi cosa, a scappare a ribellarti e lui ti vede, sei nella merda fino al collo.” Le diede una sonora pacca sulla schiena ridacchiando.
“Tohma, lascia stare il nostro piccolo fiorellino.” S’alzò il generale parlando con la sua voce vellutata e tranquilla, ma allo stesso tempo perversa. Il soldato si mise a posto e si scusò solennemente col suo sovraordinato.
“Ebbene, questa colazione, miei cani, è speciale, perché abbiamo tra noi un nuovo membro. Per chi non sapesse, Yoko è la nostra nuova recluta. Ha molto da imparare, come per esempio non evitare il mio sguardo, ubbidire come un cagnolino fedele ed essere sempre a disposizione di tutti. Giusto?” Sorrise allargando le braccia e tutti sorrisero, ma a Yoko non piacevano. “Siamo sempre pronti ad aiutare il prossimo, vero?” Continuò il generale, con l’assenso degli altri soldati. “E aiuteremo anche Yoko a capire come funzionano le cose qui, giusto?” La fulminò con lo sguardo da lontano. “Bene.” Si sedette e iniziò a parlare col vice generale, nel brusio generale. Lei stava zitta, perché non voleva parlare con nessuno, guardò fisso la tovaglia nell’attesa che arrivassero le portate della colazione.
In pochi minuti su quella tavola ci fu di tutto: Biscotti, dolci, riso, sushi, carne. Era un vero e proprio banchetto. E pensare che la sua famiglia per una scodella di riso doveva lavorare in fabbrica dalle sette del mattino alle sette di sera, per dodici ore continue, senza alcuna pausa e protezione. Si ricordava di suo padre che ogni tanto tornava a casa con le mani graffiate, delle ferite alle gambe e diceva che in fabbrica o era caduto qualche pezzo del capanno ferroso, o qualche scheggia arrugginita gl’era entrata nella carne o persino che le pattuglie l’avevano bastonato perché era troppo lento per il dolore alle mani.
Alla vista di tutto quel cibo, Yoko provò un triste disgusto e si limitò a saziare il suo stomaco brontolante con solo dei biscotti e del riso con latte, come mangiava ogni mattina.
“Ti conviene mangiare o non resisterai dopo l’allenamento fino alla cena.” La informò rimproverandola lo stesso Tohma che prima le  aveva rivolto la parola. Forse voleva aiutarla?
“La cena?” rimase allibita.
“Solo due pasti: cena e colazione. Poi il cibo, se proprio vuoi mangiare, puoi andare a rubarlo nelle dispense del palazzo, ma attenzione a non farti beccare o sono guai.” Ghignò.
Yoko decise di rivolgere la parola a quel soldato che sembrava davvero voler parlare con lei sinceramente, forse sarebbe stata considerata un ingenua, ma ci provò. Aveva bisogno di un amico.
“Hai rubato mai qualcosa dalla dispensa?” chiese.
“Certamente. Quando ero una recluta nuova come te morivo di fame. La mia famiglia era poverissima, mangiavamo solo una scodella di riso due volte al giorno, quello era il nostro pasto. Avevo sempre così fame che vomitavo spesso i succhi gastrici che lo stomaco non riusciva ad utilizzare, rimettevo acidi. Nonostante quanto mi gonfiassi a colazione e cena i primi tempi qui al palazzo, avevo sempre bisogno di mangiare, ero insaziabile, così mi intrufolai nella dispensa.”
“Ti hanno mai preso?” Yoko si incuriosì, sebbene fosse ancora timida e la sua sottile vocina non la aiutava a farla sembrare autorevole e forte.
“Mi scoprì il vice generale. Stavo risalendo le scale per tornare nella mia camera, quando passando si fianco alle altre porte, la porta proibita si spalancò e ne uscì lui.” Fece sconfortato.
“E che successe?” lo guardò in faccia, anche se era girato. Assomigliava molto a suo cugino Tori, ma non aveva la stessa voce, aveva i capelli più corti e spettinati e non sorrideva mai, a differenza sua.
“Preferisco che tu non lo sappia.” Concluse, mentre Yoko guardava il vuoto immaginando cosa possa essere accaduto a Tohma. Tortura? Reclusione? Cibo negato? Avrebbe preferito saperlo, o forse no.
Guardava ancora il generale, doveva abituarsi a guardarlo, a capirlo per non urtarlo e per non rischiare la pelle. Eccolo lì che parlava e rideva sguaiatamente con il suo vice, mangiando a sbafo e scambiando apparentemente battute con altri sette o otto commensali lì vicino. Quelli dovevano essere tutti suoi fidati, se aveva ben capito che i posti erano fissi, a mensa, per alcuni di loro.
Uscirono tutti lentamente, facendo passare prima il generale e il vice, Yoko si trovava vicino Tohma e parlavano, parlavano e parlavano. Tutto quello che aveva da dire, lo disse a lui, forse ingenuamente, sì, ma almeno la sua lingua si stava sfogando.
“Cos’è la porta proibita?” chiese ad un certo punto Yoko.
“Io non lo so, ma c’è qualcuno che sa molto bene cos’è.” Gli rispose questo guardando avanti mentre camminava, a differenza di Yoko che continuava a guardarlo in faccia andando contro le regole della marcia.
“Non capisco…” disse fiduciosa di risposte.
“Se è chiamata proibita ci sarà un motivo, no? Non tutti possono entrare e chi ci entra deve essere nelle grazie di entrambi generale e vice. Sono loro che decidono con chi andare a spassarsela. Chi entra lo fa sempre a notte fonda ed esce prima dell’alba quando è ancora buio. Avevo un amico, che nessuno sa che fine ha fatto, che quando tornava odorava di tabacco, alcol ed era tutto intontito. Non vorrei mai sapere in prima persona cosa si nasconda lì dentro.” A quelle parole, Yoko guardò dritto per terra e camminò zitta, riflettendo. Non era sicura di voler farsi un idea di quella stanza, di cosa ci facesse il generale.
“A volte entrano anche degli ospiti importanti della parte della Terra Rossa che è stata corrotta ma non conquistata da Kintou Shuto. Sono autorità, altri generali. Anche uomini dalle Terre d’Oltremare che vengono qui per fare affari e discutere di accordi, ci dice il generale quando è in vena di parlare con noi senza chiamarci ‘cani’ o ‘sacchi di merda’.” Sorrise sconsolato, poi ritornò serio e tutti si fermarono.
“Ha inizio l’addestramento del mattino, soldati. Alt! Disponetevi secondo le posizioni prestabilite nel campo sul retro, sacchi di letame schifosi, muoversi!” Abbaiò il generale, e quelli continuarono a marciare uscendo verso un campo aperto circondato da mura.
“Ricorda Yoko” fece Tohma e lei lo guardò “Guarda sempre avanti, non girarti mai indietro e sopporta anche se non ce la farai più a reggerti sulle tue gambe. Sopporta il dolore, fattelo piacere, fatti piacere le estorsioni, la perversione e la cattiveria di questo posto e non stupirti se coloro in cui prima hai riposto fiducia ti morderanno la mano. Ricordalo Yoko.”




 
• Note dell'autrice •
 
 
Innanzitutto salve e grazie di aver letto questi tre capitoli! Avrete notato che ho messo dei numeretti lungo il testo su alcune parole, degli apici. Erano delle note che adesso scriverò qui sotto, per spiegare bene alcune cose e aspetti della storia. Prima delle note, però, volevo dire alcune cose.
Questa storia mi è venuta in mente ascoltando una celebre canzone di KurousaP, un tale che scrive canzoni per i Vocaloid, ovvero Senbonzakura. Per chi non l'avesse mai ascoltata, la ascolti che è magnifica. Il testo parla della violenta occidentalizzazione del Giappone (così come anche quello di 1925, anche questa stupenda) avvenuta nei primi anni del Novecento, in cui il Giappone aprì le porte al mondo esterno dopo la politica di isolamento che l'aveva governato per molti anni (chi ha visto Hetalia?). A questo punto tutte le ideologie dell'occidente penetrarono nel Giappone in pochi anni tutte assieme travolgendo la società: movimenti poetici ed artistici, ideologie come il Romanticismo, l'Illuminismo piombarono tra i giapponesi stravolgendoli. La storia, ci tengo a chiarirlo, NON E' un romanzo storico, ma una storia ISPIRATA a tali avvenimenti storici, quindi la scarsa accuratezza è data proprio da questo motivo. Adesso, passiamo alle note.

1) Come ho spiegato prima, mi riferivo all'occidentalizzazione violenta del Giappone, visto nella storia come Kintou.

2) Le Terre d'Oltremare sono tutte le terre occidentali che hanno influenzato il movimento dei Rivoluzionari (ho preso come ispirazione un movimento altamente nazionalista, come il fascismo, anche se so che questo non è fascismo ma un movimento totalmente più brutale e violento che non ha nulla a che fare con questo). La Terra Rossa rappresenta la Cina, l'ho chiamata così perché, per chi non lo sapesse, il rosso è lì un colore che porta fortuna.

3) Un territorio più o meno identificabile col Medio Oriente e i confini meridionali della Russia. 

4) Ho fatto delle ricerche per scirvere alcuni aspetti della storia. Questi sono spiriti ancestrali della fede Shintoista (realmente esistenete e nativa del Giappone) che possono essere segno di feritlità, di benevolenza o anche, appunto, possono proteggere le famiglie.

5) Sarebbe il Dio dei cristiani, tradotto in giapponese con 'Kami' che vuol dire 'divinità', 'spirito'.

6) Secondo la fede shintoista, l'aldilà possiede tanti paradisi, simili al mondo terreno. Dopo la morte, quindi, si passa ad un livello di vita superiore, dato che lo spirito umano è considerato infinito.

7) L'antica bandiera del giappone, col cerchio rosso un po' più di lato e i raggi rossi che simboleggia il sole che sorge ad Est. La seconda bandiera descritta, invece, è d'invenzione: non esiste alcuna bandiera bianca con il sakura ad angolo.


Detto questo, tanti baci! Aspetto le vostre recensioni e un numeretto in più per quelli che indicano chi segue la storia e chi la aggiunge tra i preferiti. 
Al prossimo capitolo! 

- Bloody Schutzengel


 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


• Capitolo 4 •
Pugnalata

 
 


Yoko si sentiva piccola e inadatta in mezzo a tutti quei ragazzi alti e muscolosi, ben allenati ed imponenti. Lei era alta solo un metro e sessanta, loro più di uno e settantacinque o ottanta. Li guardava tutti dal basso verso l’alto oltre che per il proprio grado di matricola, anche per la statura. Anche Tohma era alto, uno dei più slanciati, che Yoko pensò potesse essere perfino di un metro e ottantacinque, anche se sapeva che dalla sua prospettiva anche un palazzo di cinque piani poteva sembrare un grattacielo di venti.
Erano riuniti in fila indiana, uno di fianco all’altro, sul fianco maggiore del campo rettangolare. Non era di certo un esercito da guerra mondiale costituito da migliaia di uomini, ma solo un paio di centinaia, che bastavano ed avanzavano per abbattere ciliegi ad ovest di Kintou. Le pattuglie, gli spiegò Tohma, non erano parte del palazzo del governo, ma erano addestrate separatamente a vivere per strada, di giorno e di notte, a procacciarsi da vivere e pattugliare ogni angolo di Kintou Shuto, rubando nelle case se necessario al loro sostentamento. Loro, invece, erano l’esercito che veniva addestrato per le campagne militari, che veniva fatto abituare al freddo gelido degli accampamenti invernali sulle montagne e dell’umido appiccicoso delle paludi. Loro venivano addestrati per sottomettere ogni creatura magica di Kintou Est, anche se il generale non aveva mai spiegato loro il motivo di questa feroce volontà di sottomissione della Terra Pura. A volte diceva che Dio gli era venuto in sogno e gli aveva comandato di sterminare ogni cosa, altre volte, sempre con fare annoiato e disinteressato, diceva loro che era per difesa o altre motivazioni ancora più improbabili.
“Perché nessuno si è mai domandato perché facciano questo?” Gli aveva chiesto Yoko, ma Tohma non rispondeva. “Mica tu ci credi davvero? Intendo… negli ideali del regime.”
“E’ un mio dovere, Yoko.” Fece quello, guardando sempre dritto davanti a sé.
Appena il generale lo comandò, cominciarono a correre per tutto il perimetro del campo: dovevano compiere almeno cinquanta giri e chi si stancava, le aveva spiegato Tohma, non faceva una bella fine.
Il cugino Tori era stato sempre l’unica fonte di sapere di Yoko. La sua famiglia non aveva mai potuto darle il privilegio di frequentare una scuola, sia perché non potevano permetterselo, sia perché il regime faceva il lavaggio del cervello alle piccole teste che entravano ed uscivano da quegli edifici. Tori, nato molto prima del colpo di stato, quando Kintou era tutta coperta di verde, di ciliegi di Templi e di giardini, non aveva mai frequentato una scuola, perché era sempre stato un bambino capriccioso, ma provava grande interesse e curiosità per il Tempio della Letteratura e della Storia a Kintou Est, vicino al confine con l’attuale Kintou Shuto. Un Tempio Shinto fatto tutto di pietra dagli antenati migliaia di anni prima che Yoko nascesse, le raccontava, sulle cui pietre l’erba e l’edera avevano cominciato a prendere il sopravvento così come il muschio. Tori scappava spesso di casa, dicendo di andare a scuola, solo per leggere un libro al giorno da quella biblioteca sacra di pietra. Un giorno leggeva di storia, un altro di geografia, un altro ancora di mitologia. Imparava tutto quasi a memoria, perché si riprometteva di raccontare tutte quelle cose a Yoko, che era ancora nel pancione della sorella di sua madre, quando Tori aveva ormai quindici anni.
Yoko non si accorse nemmeno di essere inciampata e caduta con la testa sul terreno arido e sabbioso del campo d’addestramento, ma quando maturò questa consapevolezza, risvegliatasi dai suoi ricordi su Tori, tentò subito di rialzarsi in piedi, invano. Invano perché gli altri continuavano a correre e la sballottavano sempre a terra, dato che non riusciva a tenere il ritmo della corsa. Vide che il generale si stava avvicinando a lei con un frustino in mano, quando finalmente si rialzò e corse più veloce che poteva per tenere il ritmo e non essere frustata.
“L’hai scampata bella…” le sussurrò Tohma una volta che questa lo raggiunse.
“Smettetela di fare le checche pettegole voi due!” li richiamò il generale fissandoli “Tohma mi stai deludendo parecchio, sapevo che non potevo fidarmi di te, imbecille!” gli urlò sputandogli quelle parole in faccia.
A Yoko balenò un dubbio. Perché l’aveva chiamato per nome? Non soleva chiamarli con insulti o semplicemente con l’appellativo di soldati? Forse, era molto grave. La faccia di Tohma apparì atterrita e sconfortata.
“Riposo!” Urlò il generale dopo il ventesimo giro. “Vedo che qualcuno di voi non riesce a reggere il ritmo della corsa collettiva, dico bene, soldato?” Fulminò Yoko con gli occhi. “Se non sei nemmeno capace di fare una corsetta, come faccio a portarti sulle montagne gelide dove per arrampicarti devi usare ogni briciolo della tua maledetta forza da donnicciola inutile quale sei? Dove le mani congelano e la pelle viene via con lembi di carne dilaniata dal gelo? Mi rispondi soldato?!” Alzò la voce, avvicinandosi sempre di più al suo viso, guardandola negli occhi con quell’espressione da cane rabbioso. Poi passò a Tohma. Si avvicinò a lui e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio, qualcosa che Yoko non poté sentire, ma poté ascoltare il resto.
“Bene, dato che voi due incapaci e pettegole nullità preferite chiacchierare, perché siete già abbastanza allenate abbastanza per una campagna militare invernale, non vi dispiacerà se vi ordinassi di fare qualche esercizio extra per ripagarvi della vostra bravura, vero?” Tohma sembrava imperterrito, calmo, mentre Yoko era spaventata e poteva capire cosa la stesse aspettando, oltre arti doloranti e lividi.
“A terra, duecento flessioni. Non mi interessa se morite di sete o di fame o vi escono le budella dalla bocca, finché non ne avrete fatte duecento, rimarrete qui fuori, dovesse costarvi giorni. Forza!” Abbaiò, per poi comandare agli altri di procedere con i restanti trenta giri di corsa.
Yoko non aveva mai fatto delle flessioni. Sapeva cosa fossero, ma non le aveva mai fatte e poteva immaginare fossero esaustive e facessero male, da quello che ricordava dell’espressione di Tori che si allenava ogni tanto per mantenersi in forma. “Quando sei un viaggiatore, devi tenerti sempre in forma!” le diceva sorridente, nonostante si potesse notare la sofferenza dovuta allo sforzo sul suo volto “Devi camminare molto, se vuoi scoprire le terre più impervie e i prodotti da vendere più esotici e rari. Devi andare nel cuore di deserti, foreste e raggiungere gli abissi e non puoi usare alcuna bicicletta o automobile.”
Dopo le prime cinque, già cominciò a cedere, mentre Tohma sembrava del tutto a suo agio. Non poteva parlarle, giacché gli stivali del generale erano ad un palmo dalle loro teste abbassate, pronti a colpirle se si fossero fermati troppo.
Yoko ricevette il primo calcio sulla fronte e istintivamente si portò la mano sul punto dolorante, ma venne colpita di nuovo: non voleva che traesse alcun sollievo. Doveva soffrire per essersi fermata, intuì.
“Forza, te ne mancano Hyaku kyūjūgo1!” e Yoko si rimise a sollevarsi e ad abbassarsi con le proprie mani. Ogni tanto guardava il compagno affianco a lei, ma non era ricambiata dallo sguardo che sembrava diventare sempre più corrucciato, arrabbiato con qualcuno, ma allo stesso tempo spaventato.
Passarono ore ed ore di addestramento e Yoko, essendo senza orologio, non poteva sapere l’orario preciso. Sapeva solo che era sera e che era passata anche la marcia del coprifuoco. Era ora di cena, ma che ora era? Tohma sembrava sempre più indifferente, era cambiato del tutto, come se gli avessero iniettato del veleno. Era perché il generale l’aveva chiamato per nome? Era per colpa sua? O per colpa di Yoko? Lei non lo sapeva e aveva paura a domandarglielo, perché sembrava diventato come tutti gli altri cani del generale, freddo e risoluto, quasi malvagio. Non le parlava da quando avevano iniziato le flessioni. Che il generale fosse stato uno spirito maligno? Che fosse stato posseduto da qualche demone che gli aveva dato i poteri di controllare la mente di Tohma? Chissà. Fatto stava che Yoko aveva paura, seppur non sapendo di cosa precisamente, ma aveva il presentimento che le parole dell’amico si stessero per ritorcere contro di lei.
 
“Non stupirti se coloro in cui prima hai riposto fiducia ti morderanno la mano.”
 
“Tohma, scusami, che ore sono?” ripetette per la seconda volta, credendo che l'amico non l’avesse sentita, ma dopo la seconda volta capì che la stava ignorando. “Tohma, c’è qualcosa che non va?” Gli mise con calma una mano sul braccio, tentando di farlo girare mentre mangiava la sua porzione di riso.
Il generale stava chiacchierando e ridendo come a colazione col suo vice, quando sentì il rumore di qualche piatto che si era spaccato per terra e di qualcuno che era caduto, così si alzò serio e lo vide: Yoko era a terra, raggomitolata con le mani sulla testa come per proteggersi, mentre guardava dal basso verso l’alto Tohma che l’aveva strattonata giù dalla sedia e che la guardava con una rabbia mite.
“Che succede? Perché sei stata buttata a terra, soldato? Hai infastidito Tohma?” E’ sorprendente, pensò Yoko, come il generale alludeva al fatto che per lui fosse colpa sua, che si fosse meritata di essere buttata giù dalla sedia. “Rispondi! Mi annoi quando opponi resistenza come una bambina cocciuta.” Le fece toccandole la schiena con la punta dello stivale. Gli altri soldati mangiavano indifferenti, ognuno pensava a sé: Tohma gliel’aveva detto.
Yoko s’alzò e stette per sedersi quando domandò sottovoce all’amico il perché di tutto ciò.
“Perché l’hai fatto?” sussurrò sconsolata con un filo di voce, massaggiandosi la testa. Tohma in tutta risposta le diede uno schiaffo, mentre il generale ghignava alle spalle di Yoko. Lei stette per cadere di nuovo ma si tenne al bordo del tavolo, poi rialzò la sedia lentamente e si mise a mangiare, stavolta, in silenzio.
“Brava, torna al tuo posto.” Fece il generale freddo, tornando dal vice e dagli altri suoi fidati.
Ancora Yoko non capiva perché quel ragazzo che credeva potesse essere suo amico l’avesse ringraziata in quel modo. Ringraziata? E per cosa? Che aveva fatto lei per meritarsi un arigatou2?
Niente.
Quella sera corse come la sera precedente verso la sua camera, con i brividi di freddo addosso, le spalle strette e la treccia sciolta, perché da quando s’era disfatta per l’allenamento non aveva avuto il tempo di rifarla, con le mani doloranti.
La porta non si apriva e già temeva che qualcuno la stesse seguendo per saltarle alle spalle, magari Tohma. Fissava il pomello tondo e d’ottone che non voleva saperne di girarsi, nonostante non ci fosse alcuna possibilità di chiuderla a chiave.
Era bloccata da qualcuno all’interno…
La porta di aprì e con grande sorpresa ne uscì il generale con fare annoiato e sbruffone, che ondeggiava i suoi capelli dai riflessi melma a destra e sinistra, quasi vantandosene. Yoko ancora non capiva perché non li aveva mai tagliati. Teneva in mano la biancheria e i vestiti della ragazza, quelli che aveva lasciato nel bagno dopo essersi lavata nella vasca la notte prima. Sorrideva perversamente con la testa inclinata all’indietro, mentre osservava Yoko da sotto il cappello con fare altezzoso. “Cosa c’è, piccola pecorella smarrita? Vuoi tornare in camera tua?” Yoko lo guardò per la prima volta negli occhi luccicanti e oscuri, facendogli cenno di sì con la testa bassa e le mani strette sul petto. “Oh, scusami, allora la faccio passare, signorina.” Si inchinò come per prenderla in giro, poi le tirò i capelli da dietro e se la portò di nuovo fuori, lasciando la porta aperta. “Aspetta, non ti ho detto mica che potevi entrare.” Ridacchiò “Cosa ho qui? Sono tuoi questi?” Le mostrò da dietro la camicia, la gonna, le calze e le scarpe con cui aveva sempre vissuto fino ad allora. “Mi dispiace, adesso li ho presi io. Non puoi riaverli. Mi dispiace, pecorella smarrita.” Fece con sarcastico dispiacere, per poi spingerla in camera e chiudere la porta.
Yoko questa volta non si lasciò scivolare contro la porta e non pianse, nonostante fosse smarrita come la pecorella di cui parlava il generale. Si spogliò e ripiegò la divisa con estrema precisione, sebbene non ci tenesse come tenesse a tutti gli altri pochi vestiti che possedeva a casa sua. Si fece di nuovo un bagno nella vasca, sempre allerta e con l’orecchio vigile nel caso fosse entrato qualcuno a sbirciare. Si asciugò con gli asciugamani dell’altra sera, ancora umidi. Si infilò la camicia da notte, che si attaccò al suo corpo ancora umido lasciando intravedere quasi tutto, e andò a dormire. Le luci si spensero poco prima che potesse rimboccarsi le coperte.
La prima parte della notte passò tra il sonno e la veglia, perché appena chiusi gli occhi le balenava in testa l’immagina del ghigno del generale, solo il ghigno, illuminato da luce fioca in una stanza nera, che le diceva cose che non voleva sentire, insulti, inviti… Yoko si svegliava col sudore addosso, che rendeva il suo corpo ancora più umido e faceva attaccare ancora di più la veste alla pelle, come una pellicola trasparente. Sentiva continuamente passi che erano troppo vicini alla sua porta, risate maligne. Non riusciva a chiudere occhio.
Si alzò, prese la sedia dello scrittoio e silenziosamente la piazzò sotto il pomello, sperando che non si fosse aperta la porta.
Andò a dormire.
Un rumore. Un altro rumore… Yoko spalancò gli occhi e vide la porta che tremava, come se qualcuno stesse cercando di aprirla, di forzarla. Poteva sentire i grugniti scocciati di chi stava dall’altra parte ma non avrebbe saputo dire chi fosse. Si alzò, senza fare rumore, col battito del cuore a mille, il sudore, l’ansia, un fiato immaginario sul collo. Ogni passo che faceva, ogni secondo, ogni piede a terra, il pomello girava sempre più spesso, aumentando il ritmo. Yoko si guardò attorno, vide l’armadio spoglio e vi si chiuse, perché aveva un chiavistello almeno, a differenza delle porte d’entrata e del bagno. Vide dallo spiraglio che qualcuno stava spingendo la porta, probabilmente con le spalle.
La sedia cedette e Yoko non volle più guardare. Indietreggiò strisciando da seduta sul legno dell’armadio. Le mancava l’aria, era in apnea. Si abbracciò le gambe pregando che quei passi lenti fossero di qualche spirito venuto a salvarla.
Il chiavistello fece rumore, poi la porta dell’armadio s’aprì dolcemente.
Vide un volto, conosceva quel viso, aveva già visto quegli occhi.
 
“Non stupirti se coloro in cui prima hai riposto fiducia ti morderanno la mano.”
 
 
“Non riesci a dormire, amica?”

 
 
• Note dell’autrice 
 
 

1) In giapponese, significa 195.
2) Per chi non lo sapesse (molto improbabile) significa ‘grazie’ in giapponese.
 
Grazie per aver letto anche quest’altro capitolo! La storia sta emozionando parecchio anche me. Ve lo dico sinceramente, quando Yoko trema e ha paura, soffro assieme a lei. Ma di brutto! Voglio dire, scrivere l'ultima parte non é stato bello ahahahaha! Giuro che sto sudando. Comunque, il prossimo capitolo non sarà altro che molto peggio della fine di questo. Niente spoiler!
Spero recensiate!
Ho bisogno di un bicchiere d’acqua, ora…
 
- Bloody Schutzengel

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


• Note dell’autrice •

 
 
E siamo già al quarto capitolo! Volevo spiegare delle cose prima si lasciarvi a Yoko e all’uomo misterioso che le è piombato in camera. Innanzitutto, so che ho messo come tipo di coppia solamente “Yuri”, poi capirete perché, ma non c’è nessun errore di selezione. Inizialmente dovevo mettere più di tre avvertimenti, ma alla fine ho deciso di rimpiazzare “Tematiche delicate” con “Contenuti forti”, perché quello che mi gira in testa era più propenso ad essere etichettato con la frase “Non aprite quel capitolo!”, come una rivisitazione de “Non aprite quella porta”. Bene, ciò detto, premo il tasto “Play” del telecomando e vi lascio a dove eravate arrivati!
Potrebbe essere un po’ forte…
Buona lettura!
 
- Bloody Schutzengel
 
 
• Capitolo 5 
Sconfitta
 
 
 
 
“Non stupirti se coloro in cui prima hai riposto fiducia ti morderanno la mano.”
 
 
“Non riesci a dormire, amica?”
 
A quelle parole Yoko non fece che rimanere impietrita, con gli occhi sgranati e le pupille dilatate come fosse diventata un gatto con le orecchie abbassate. Sembrava una bambina sperduta, una semplice e piccola bambina indifesa, una pecorella smarrita di fronte al lupo. Tremava di freddo per la veste umida che aveva lasciato si asciugasse sul suo corpo. Forse a quell’ora si sarebbe potuta ammalare seriamente, oltre che per l’estenuante allenamento.
“Vieni fuori.” Le disse Tohma da dietro lo spiraglio, con il volto con cui l’aveva conosciuto. Non gli voleva dar retta, non si mosse. “Non ti mangio mica.” Ridacchiò senza alcun ghigno. Yoko non mosse un muscolo. “Esci.”
Che fare?
Se fosse uscita, era sicura che le sarebbe successo qualcosa di terribile, per utilizzare un eufemismo. Avrebbe forse fatto la fine della madre? Se non fosse uscita e avesse opposto resistenza a qualsiasi avance di Tohma, magari, l’avrebbe tirata fuori di peso. E poi? Come avrebbe fatto a difendersi? Avrebbe potuto scappare, com’era scappata dal soldato in casa sua. Ma non era vero che questo l’aveva comunque acciuffata e fatta finire in quella prigione di soldati? E poi le pattuglie erano in ogni angolo e sempre con orecchio vigile come cani da guardia, a maggior ragione se dopo il coprifuoco. Che ora era? Forse le due? Le tre? E se fosse stato già mattino? Yoko non aveva visto l’esterno da quella mattina, nemmeno da una finestra.
“ESCI.” Le ripeteva il soldato. Non era Tohma, non più, era un semplice soldato, come gli altri.
Aveva optato per la prima opzione: magari se l’avesse fatto infuriare di meno, le avrebbe dato più tempo per pensare. Pensare ad un piano per potersi liberare.
Che fare?
Se fosse uscita dalla stanza e si fosse rifugiata da qualche parte? Impossibile. E dopo? Se avesse incontrato il fantasma del generale o proprio lui in persona? Peggio che andar di notte… O il vice? Non sarebbe cambiata molto la situazione. Che fare?! Come un urlo straziato e disperato, pieno di timore verso qualcosa di spaventosamente sconosciuto. Paura di un vicino futuro. Terrore di cosa le sarebbe successo dopo. Dopo. Dopo, ma quando?
Sua madre era ai fornelli che preparava la zuppa e il riso della sera, quando le raccontava dei bombardamenti di quando aveva solo tre o quattro anni. Il viso caloroso della mamma di Yoko le si riproponeva in quello scomodo momento, quando avrebbe preferito averlo di fronte in ben altra occasione, magari durante una preghiera davanti alla sua foto. I primi missili che vennero autorizzati da Kintou alle Terre d’Oltremare, caddero molto vicini il quartiere di Yoko, uccidendo persone innocenti. Ma lei era solo una bambina che non doveva provare così tanto dolore di già, nel sapere cosa succedeva lì fuori. Preferivano non raccontarle che i piccoli terremoti erano dovuti a giganti ammassi di metallo, che esplodevano una volta a terra, uccidendo i suoi piccoli amici di quartiere. Le dicevano di restare seduta abbracciandosi le ginocchia nell’armadio o nella cassapanca, come quando arrivavano le pattuglie che erano a lei note come “gli uomini cattivi”. Yoko seppe cosa fosse la guerra solo grazie a Tori e alle prime esperienze, alle prime uscite da casa per andare ad aiutare la madre con la spesa sulla sua amata bici. Quella era un regalo di Tori e del proprio padre per il suo undicesimo compleanno. Avrebbe voluto averla per scappare via, magari verso la Terra Rossa, da suo cugino.
Yoko uscì lentamente e con lo sguardo basso dall’armadio, pensando a nient’altro che alla veste da notte bagnata e sgualcita. Si era ripromessa che avrebbe fatto di tutto per non farsi vedere da nessuno in quello stato. Si sentiva in colpa.
“Hai fatto il bagno con i vestiti addosso? Avevi paura che qualcuno entrasse mentre eri nella vasca?” Quel soldato si puntò coi piedi per terra, con le braccia incrociate sul petto, leggermente piegato all’indietro. Dai modi sembrava di star parlando quasi col generale in persona. Eppure si ricordava che gli occhi di quel soldati non nascondevano così tanto odio, nemmeno quando la buttò a terra dalla sedia a cena. C’era qualcosa di strano, lo sentiva.
Le mani di Yoko si stringevano a vicenda, delle dita abbracciavano il palmo dell’altra mano e viceversa. Il soldato avanzò.
“Oh, hai davvero paura di me, Yoko?”
“C… Come…” faceva a sapere il suo nome?
“Ma non ti ricordi di me? Io sono Tohma, il tuo amichetto, quello che si è spezzato la schiena per le duecento flessioni. Per colpa tua, per di giunta.” La guardava serio, mentre si avvicinava piano piano. Come un polo positivo respinge un polo della stessa carica, ad ogni passo del soldato, Yoko ne faceva uno all’indietro, finché non si ritrovò contro il muro. Tentò di scivolare sulla parete a destra o a sinistra per avere dello spazio dietro la schiena, ma quello le sbarrava lentamente la strada ogni volta. Visto dall’esterno, sembrava una tenera scena di un gatto che gioca col suo topolino terrorizzato, senza preoccuparsi di come si senta. Con le spalle al muro, il soldato si avvicinò al collo di Yoko e le sussurrò qualcosa.
“Te la spezzo io la schiena, bastarda. Me ni wa me o, ha ni wa ha o1.” Sibilò, con un ghigno che Yoko vide con la coda dell’occhio.
In quel momento, sentì una mano che si faceva strada tra il muro e la sua schiena, quindi la bloccò coraggiosamente, senza pensare. Afferrò quel braccio con entrambe le mani e sferrò un calcio al soldato sulla schiena, come aveva visto fare Tori nei suoi allenamenti di arti marziali. Stupita da quel suo innato ed inaspettato coraggio, corse sempre a testa bassa sistemandosi per qualche secondo in un area spaziosa della stanza, rivolta di faccia verso il letto, in modo da non avere alcun muro alle spalle. Era leggermente piegata in avanti, le braccia larghe pronte ad agire, le gambe morbide pronte a scappare. Il soldato stava ancora elaborando com’era stato possibile che una donna avesse provato a sfidare un uomo in tal modo, a ribellarsi nel suo territorio. Lei che non era nemmeno un vero soldato, perché un soldato donna sarebbe stato un affronto. Come osava? Si voltò lentamente e altrettanto con calma prese ad avanzare contro di lei spaventosamente, al che Yoko indietreggiò guardandosi indietro velocemente, per vedere se poteva afferrare qualcosa. Qualcosa per difendersi, ma che non facesse rumore, o avrebbe svegliato un intero esercito di soldati. Si girò di scatto per afferrare qualcosa dallo scrittoio, quando il soldato non le diede nemmeno il tempo di pensare che già l’aveva schiacciata con la faccia al muro e la teneva bloccata col suo peso. Cominciò a passarle una mano sulla pancia, poi l’altra, strofinando il tessuto bagnato sulla pelle liscia, per poi salire sempre più su. Yoko, scalza e ancora stremata e dolorante per l’addestramento, si sentì in gabbia, perduta, ma il suo guardare a terra le tornò utile. Si fece forza ed alzò la gamba dolorante per riabbassarla violentemente, il più che poteva, sul piede del soldato, senza alcun effetto.
“Fai la furba eh?” Ridacchiava questo, continuando a vagare con le mani dappertutto, facendo inibire Yoko ancora di più di quanto non lo fosse già. Questa non riusciva a pensare, si sentiva sporca e stupida, incapace di difendersi. Incapace di sfruttare gli insegnamenti di Tori.
Un’idea.
La gamba dolorante di Yoko s’alzò ancora una volta, ma stavolta, si sforzò di muovere anche un braccio, piegato, in modo che si conficcassero una nello stinco del soldato e l’altro nel suo stomaco. Non gli fece molto male, ma abbastanza per lasciar andare la sua presa per poter scappare. Per fortuna, questo emise solo una sottospecie di grugnito, niente urla. Yoko si sentiva più sicura, più seria, il suo sguardo era cambiato, capì che poteva e doveva combattere. Doveva imparare a farlo. Doveva diventare un soldato per potersi guadagnare la libertà.
Non le diede nemmeno un secondo per muovere un altro passo, che il soldato la bloccò per un braccio. Lei strattonò violentemente via la presa procurandosi una slogatura del gomito. Cadde a terra e venne raggiunta dall’uomo, che si ergeva sopra di lei, coi piedi che le bloccavano la parte molla del busto, stringendola forte. Yoko non riusciva a liberarsi, contorcendosi dal dolore e piangendo pur di non urlare e non procurarsi altri guai. Il dolore lancinante ad ogni posizione del braccio, la morsa che le stringeva fegato, milza e pancreas, li comprimeva facendole salire il vomito.
“Cosa vuoi da me?” Tossì violentemente mangiandosi le parole.
“Hai il coraggio di rivolgermi la parola, essere inutile? Qui non è il tuo posto. Questo è un posto per uomini, non per le ragazzine.” Ome se poi, fosse stata sua la volontà e il desiderio di ficcarsi in quell’affare, di entrare nell’esercito. “Che c’è? Vuoi  sedurre il generale? E’ per questo che lo guardavi con quegli occhi da bestia indifesa quando ti ha vista strisciare sulle inviolabili scale del nostro governo?”
“Chi sei tu?” Disse asciugandosi la bocca col braccio mentre tossiva liquidi e cercando di immettere quanto più ossigeno nei suoi polmoni impazziti.
“Io sono Tohma.”
“Non è vero…” Continuò Yoko, fuori di sé per aver tentato di tener testa ad un tale uomo senza cuore e senza ragione di esistere. Quello non poteva essere Tohma. Era un demone? Un oni2? Tohma assomigliava a Tori, quello assomigliava al generale, vagamente ad un diavolo e quasi quasi ad uno youkai3. Questo le tirò un calcio nello stomaco, facendole iniziare a sputare sangue, mentre era lì a terra che si contorceva e strizzava gli occhi rossi e lacrimanti, pur di non urlare.
“Non…” Un altro calcio “…Rivolgerti…” ancora un altro “…A me…” ed un altro “…In questo modo.” Il colpo finale fece ritrovare Yoko con gli occhi privi di vita. Sembrava che stesse per morire, lì, da sola, inerme, con la guancia immersa nel sangue che aveva sputato. Solo respirare le faceva male allo stomaco. Le gambe erano stremate. Le braccia livide, lo sguardo assente, la bocca semiaperta, i capelli intrisi di sudore e cremisi.
“Sei stata una sciocca a desiderare di venire qui piuttosto che l’esecuzione. Te ne pentirai.” Furono queste le ultime parole che Yoko sentì, imprecise, cupe e quasi sussurrate, lontane, prima che vedesse doppio, poi sfocato e poi nero.
 
 
I tacchi che camminavano repentini ma calmi sul ciliegi coperto dal tappeto rosso, creavano un ritmo che incuteva a chi timore e a chi tranquillità. Il generale era in divisa da evento, simile alla solita, ma priva di medaglie e distintivi, con la giacca più corta, pantaloni più attillati e senza stivali. Il cappello era diverso, meno imponente, più piatto e dalla visiera meno accentuata, ma sempre nero ed elegante per certi versi. Così era conciato anche il suo vice generale, senza mantello e con un abito molto simile, con bottoni che si confondevano con lo sfondo scuro.  Questi teneva il capello sotto il braccio, scoprendo l’ordinata chioma e gli occhi fissi. Sorridevano entrambi, rilassati, mentre raggiungevano la scalinata dell’atrio d’ingresso.
“Che serata tranquilla, ne, Heizo?” Cominciò il generale.
“Avete proprio ragione signor generale, signore.” Si limitò a rispondere il vice.
“Nessun lamento, nessuna mosca fastidiosa e, soprattutto, niente verginelle che urlano.” Chiuse gli occhi per abbandonarsi a quel senso di relax che dall’esterno lo faceva sembrare tanto innocuo.
“Vi state riferendo alla ragazza, signor generale?”
“Sei il miglior amico più buono a nulla di questo porco mondo, lo sai Heizo?” Cominciò seccato. “Io parlo di relax e tu mi parli di quella incapace che mi guasta una sessione di massacrante allenamento per i miei soldati. Complimenti, mi hai fatto passare la voglia di divertirmi.” Si fermarono di fronte alle scale: il generale appoggiato su un fianco e con le braccia incrociate che guardava con la coda dell’occhio Heizo, seccato. Il vice sempre imparziale e risoluto, quasi un automa, che aspettava di ricevere ordini.
“Signor generale, ho sentito che questa sera sarà uno spettacolo inusuale e degno della vostra presenza.”
“Dici sempre così quando sai che sono incazzato con te e avrei voglia di bastonarti quella sottile schiena da checca.” Sbuffò arrendevole. “Mi annoi, Heizo. Sei un migliore amico del cazzo.”
“Mio signore, mi creda, dicono che verranno anche delle ospiti dalla Terra Rossa e dalle Terre d’Oltremare, quelle più a nord, verso i Grandi Ghiacciai4.” Disse impassibile agli insulti il vice, come uno zerbino che veniva calpestato senza dire una parola. Il generale stette in silenzio, rispose dopo un po’ sorridendo e girando lo sguardo verso l’amico.
“Ci sarà un motivo per cui non ti abbia ancora bastonato, no?” Gli diede una pacca sulla spalla che lo fece scomporre. “Sei il mio stronzo preferito.” Nonostante quegli insulti, Heizo rimase composto e calmo, come un cane che dopo una bastonata del padrone ritorna sempre da lui come se gli avesse dato da mangiare.
“Vogliamo avviarci signor generale?” propose con un inchino.
“Per di qua, imbecille.” Lo ricambiò il sovraordinato, dandogli un’altra pacca sulla spalla che lo fece quasi cadere il vice, essendo inchinato.
Si avviarono per una porta nascosta sotto le scale, dalla quale proveniva un brusio di voci maschili e di musica da camera, che aveva tanto l’aria di calmare i bollenti spiriti di qualcuno che era assetato di qualche cosa…
 
Ci sarà da divertirsi
 
 
• Note dell’autrice 
 
 



1) Occhio per occhio, dente per dente.
2) Mostro della mitologia giapponese, un demone malvagio.
3) Letteralmente “Apparizione maligna”, sono fantasmi della cultura giapponese Shintoista. Sono anime dei morti che creano problemi e/o cercano vendetta.
4) Teoricamente, dovrebbe corrispondere al Nord Europa, quindi Russia, Scandinavia, Islanda…
 
Grazie di essere arrivati fin qui! Eh, già, sono d’accordo col generale, stavolta: ci sarà da divertirsi… e mica poco! Cosa sarà mai quella stanza? Vi ricorda qualcosa? Ma più importante… Mi sono fatta del male fisico per scrivere di Yoko in quel modo… mi dispiace: più tardi mi flagellerò…
Recensite! E... Al prossimo capitolo!
 
- Bloody Schutzengel

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


• Capitolo 6 •
Quarantasette cicatrici

 



Il rumore dello schiaffo rimbombò per tutta la camera, poi arrivò la voce di Tohma. Era legato su una sedia, con le braccia dietro lo schienale, in mezzo ad una stanza buia, illuminata solo da una candela dalla luce fioca che era in mano al generale.
“Sei un piccolo bastardo traditore.” Arrivò un altro schiaffo, con i denti stretti. “Ti avevo detto forse di aiutarla, bastardo?” La mano toccò violentemente la guancia del ragazzo ancora una volta. Questo non riusciva quasi più, all’ennesimo schiaffo, a girare la testa verso il suo torturatore.
“Cosa avrei dovuto fare…” Arrivò un calcio dritto allo stomaco, col tacco conficcato nella parte molle. Un muggito di dolore e Tohma strizzò gli occhi.
“Generale, coglione. Non stai parlando con la tua amichetta buona a nulla.” Si avvicinò nella penombra al viso del giovane. “E’ tutta colpa sua se tu sei qui adesso, se io ti sto per spaccare le ossa una ad una e se non sei riuscito a fare altro che buttarla giù dalla sedia. Sei veramente un incapace, viscido, idiota.” Gli sibilò. Tohma ascoltava disgustato dentro ma composto al di fuori.
Dopo alcuni minuti di silenzio, una frustata a vuoto risuonò nel buio silenzio e il ragazzo tremò.
“Sei sempre stato così incapace. Non sei mai stato in grado di adempire agli ordini più semplici! Vogliamo contarle? Le cicatrici sulla tua schiena, vogliamo contarle? Tutti quegli stronzetti dei tuoi compagni che hai cercato di aiutare ora sono puliti, hanno delle schiene intatte e morbide. E la tua? Per aver aiutato i tuoi amici? Ne è valsa la pena, Tohma?” Fece il generale mentre girava attorno alla sedia dove quello era legato, con passo lento e solenne, con le mani dietro la schiena che reggevano il frustino.
“Ne vale sempre la pena per qualcuno a cui tie-AH!” un urlo fu lanciato appena il manico appuntito del frustino si conficcò nella mano di Tohma da dietro la sedia. Il generale era seccato.
“Impara a rispondere ai tuoi superiori come si deve. Da quanti anni sei qui? Sei? Sette? Ancora non sai come rivolgerti a me?” In quei minuti di silenzio si poteva sentire solo il respiro affannoso di Tohma, da cui traspariva anche dolore, ma non solo fisico.
“Facciamo un accordo, caro Tohma… ti va?” Si puntò il generale davanti a lui con le mani sui fianchi, sporgendosi in avanti. “Io ti lascio stare se tu vai li di sopra e insegni le buone maniere alla tua amichetta…” Sibilò.
“Buone manie- AH!” Uno schiaffo.
“Non osare interrompermi!” Urlò quello. “Sei un indisciplinato del cazzo!” Ancora una sberla. “O le insegni il suo ruolo qui come pezzo di carne su un piatto d’argento, o ti riapro tutte e quarantasette le cicatrici sulla schiena. Sore wa anata shidaidesu1.” Gli lasciò poco tempo per decidere, mentre gli occhi di Tohma erano appannati, privi di vitalità, pieni di rabbia e di angoscia. Quarantasette ferite… Yoko. Yoko non l’avrebbe tradito come gli altri soldati, per i quali era diventato solo un ragazzo comune, una persona qualunque tra tanti cloni. Dopo essersi fatto torturare per coprire i loro sbagli, i loro bisogni. Era sempre stato uno dei più forti in questo senso. La sopportazione è stata la parola chiave di tutta la sua permanenza fino ad allora nell’esercito. Tuttavia… ne valeva la pena davvero? Una ragazzina così inesperta l’avrebbe fatto squartare vivo dal generale, fino a farlo implorare che le sue quarantasette cicatrici venissero riaperte con la katana e riempite d’olio bollente.
“Ho deciso.”
 
Le luci del piccolo locale nascosto sotto le scale sembravano ancora più fioche di quanto non fossero per l’aria densa di oppio importato dalla Terra Rossa e di tabacco delle Terre d’Oltremare. Appena entrati, ci si ritrovava in uno spazio scuro ed angusto di appena un paio di metri quadri per due. Una fioca luce attirava verso destra e allora seguendo il percorso per il breve corridoio s’arrivava a delle lunghe scale che portavano sotto terra per almeno dieci metri. La musica lenta e tranquilla si faceva sempre più forte, sebbene risultasse inquietante brancolando nel buio. Una porticina di ciliegio, ovviamente, poi il generale sorrise maliziosamente ad Heizo, per poi entrare.
Era una sala simile ad un teatro, dal soffitto ampio. Era spaziosa in larghezza e lunghezza: un lungo tappeto di tavoli tondi con tovaglie bianche e candele. Sedie lussuose, di legno pinto d’ottone e cuscini rossi. Due o tre sedie per ogni tavolo, un corridoio centrale solcato da un tappeto amaranto ed un alto palcoscenico di ciliegio, dalle tende scure dello stesso colore del tappeto. Sulla parte finale del drappo cremisi, decorazioni dorate e luminose. Pochi lampadari di cristalli pendenti illuminavano la sala, quanto bastava per non inciampare tra un tavolo e l’altro e per conferire un’atmosfera cupamente rilassante e angosciosamente eccitante.
Il generale stringeva le mani a vari degli uomini che affollavano lo stanzone, con fare disinvolto e malizioso, tutt’altro che composto. Diversamente, Heizo si dimostrava un soldatino giocattolo, serio, senza espressività se non qualche ghigno di risposta alle battutacce di quello che lo considerava il proprio miglior amico.
“Vieni, siediti, Heizo.” Una pacca sulla spalla che lo fece inciampare nella sedia. “Un po’ di relax ci voleva.” Si stese sulla sedia, con le braccia lungo i braccioli e gli stivali spudoratamente sulla linda tovaglia. Le gambe accavallate erano sottili, ben proporzionate: in quella posizione, l’esilità della sua figura spiccava ancor di più, facendolo apparire bello, strano, enigmatico, cattivo. “Che problemi hai tu? Rilassati. Non vedi come sto io?” Indicò gli stivali sul tavolo, ma il vice non si scompose. “Fa come vuoi. Anzi, fa qualcosa di utile e prendi del vino. Forte, mi raccomando: uscito da qui non dobbiamo riuscire a camminare senza sbattere contro tutte le porte!” Ordinò, e il vice eseguì in silenzio. Il generale guardava davanti a sé a metà tra la noia e l’ozio. Si tolse il cappello, lo posò sul tavolo lanciandolo senza togliere gli stivali da sopra la tovaglia. Tutti gli uomini attorno a lui fumavano, si drogavano, ridevano in preda agli effetti dell’alcol e dell’oppio. Era strano che nessuno ci avesse mai lasciato la pelle lì tra tutti quei vizi.
 
Wain, kitsuen to sekkusu: Watashi wa kono tengoku de shina sete...2
 
Due calici di vino rosso sangue, grandi e pieni fino all’orlo senza eleganza. Qualche goccia era perfino straripata. “Oh! Vedi che sei buono a fare qualcosa quando ti applichi?” prese il calice che gli porse Heizo, senza scomodarsi. “Questo è il mio sangue, offerto in sacrificio per voi!” Sentenziò il generale muovendo a destra e sinistra quel bicchiere, tenendolo per la coppa, come se il gambo gli avesse trafitto la mano. Goccioline rosse non potevano essere notate sulla sua divisa nera. “Sempre sia lodato.” Finì e bevve.
“Leggete la Bibbia, signor generale, signore?” chiese Heizo curioso.
“Ah, ma allora parli tu! Non so di cosa tu stia parlando, che cazzo è questa Bibbia?”
“E’ il libro sacro della religione che sembrate professare.”
“Nah, i libri mi annoiano. Mi basta una croce ed un rosario e morirò in questo paradiso3.” Inspirò profondamente, permettendo a tutti quei gas nocivi di impossessarsi dei suoi polmoni. Espirò.
Dei rivoli di vino rigarono il mento del generale, mentre si strafogava a buttarlo giù tutto d’un pezzo pur di sentirsi quasi per svenire. Quando finì di bere, il sipario si scoprì e le luci si spensero. Il generale iniziò a ridere e a spingere Heizo da una parte all’altra, non per effetto dell’alcol, ma perché non ci voleva nulla a farlo esaltare quando ne aveva voglia. Sembrava ci mettesse impegno addirittura.
“Heizo! Prepara un piano d’invasione per la Terra Rossa!” cominciò a dire una volta scoperte le signorine dietro il sipario rosso: ragazze simili a quelle di Kintou, dai capelli ed occhi neri che però non erano frutto del catrame. Corpi sottili, agili, pelle chiara quasi di porcellana, occhi sottili ed eleganti. Peccato che la loro bellezza fosse resa volgare dagli abiti che erano costrette ad indossare: erano un tipo dei tanti tipici vestiti della Terra Rossa. Attillati, rossi sgargianti, con il collo alto e senza maniche, con uno spacco molto pronunciato sulla gonna. Le scarpe avevano tacchi alti e le facevano sembrare ancora più slanciate. Erano tutte giovanissime, forse appena due anni in più dei sedici di Yoko, pensò il generale.
“Perché penso a quella bambina, quando ci sono così tante belle ragazze lì sopra! E bevi, tu!” Prese il vino di Heizo e glielo fece bere tutto d’un fiato, pur sapendo che l’amico non lo reggeva bene e si sarebbe ubriacato prima che avesse ingoiato l’ultimo sorso. Forse l’aveva fatto apposta? Sì, decisamente.
“Come ti senti, Heizo?” Tentò di trattenere le risate vedendo il vice barcollante che iniziava a sorridere una volta tanto. Era un evento talmente raro da far morire il generale e da fargli approfittare dello stordimento dell’amico.
“Generale, non possiamo andare in guerra con solo i soldati della nostra città, o capiterà che queste ragazze ci distruggeranno al posto dei soldati!” Rise di botto, contagiando anche l’altro, che più che ridere con lui, rideva di lui.
“Sapevo che sotto quella testolina tonda e stupida si era sempre nascosto un pervertito, Heizo.” Ridacchiava il generale, tenendo un gomito sul ginocchio della gamba che teneva piegata tra il tavolo e la sedia. “Probabilmente già hai scelto la tua compagna di giochi…” rise “Pazzo!” scoppiarono entrambi, iniziando a fischiare alle ragazze che avevano già da un po’ iniziato una coreografia tipica della loro terra, per intrattenere quell’orda di uomini. Una volta finito il numero, le giovani non si inchinarono davanti il pubblico, ma rimasero nella posizione finale del ballo, aspettando applausi e fischi, che arrivarono numerosi.
“Hey tu, lì a destra! Vieni un po’ qua che voglio dirti una cosa…” cominciò il generale in preda all’ebrezza. Quasi non riuscì a trattenersi prima di completare la frase. “…sei davvero sexy, piccola…” e lì scoppiarono di nuovo entrambi.
Il secondo numero che inscenarono prevedeva, oltre al ballo, una canzone dal vivo. La ragazza che era stata nominata dal generale, per pura coincidenza, fu quella che iniziò a cantare. Aveva una voce sottilissima, celestiale, quasi da bambina. Era abbastanza acuta e non sembrava stridula.
“Oh, generale, sta cantando, oh, kami!”
“Ah, queste vocine piccole mi ricordano i vecchi tempi quando questi eventi accadevano più spesso! Maledetti bombardamenti!” Rise aggrappandosi all’amico per non cadere. “Oh, yasashiku te kudasai, yasashiku te, daarin!4” si mise ad imitare la voce della ragazza, con una caricatura stridula e stupida.
Finito lo spettacolo, si ritrovarono in una stanza nei meandri dei sotterranei, delle ragazze, il generale e il vice. Da quella stanza provenivano rumori, guaiti, parole impronunciabili. Il generale era del tutto vestito, con la divisa addosso seduto su una sedia con una ragazza a cavalcioni sulle gambe, che non indossava altro che un kimono del tutto aperto. Heizo, almeno dalla serratura, non poteva essere visto, ma poteva essere sentito, così come le altre tre o quattro ragazze che si stavano dando ad una danza sacra, così la chiamava il generale.
 
Una stanza normale. Ciliegio. Era camera sua? Le coperte erano sottili, forse qualcuno le aveva tolto il piumone di dosso? Quando era entrato qualcuno? Quando aveva tolto la sedia dalla porta? Era andata a dormire? Yoko era confusa, tanto da non aver capito che non si trovava in camera sua. Si girò piano piano nel suo lettone morbido, a scatti, guaendo per il dolore che aveva ancora allo stomaco e ai fianchi. Non si ricordava quasi nulla di quello che doveva essere Tohma, dell’irruzione. Voltatasi dall’altro lato, riconobbe dopo parecchio tempo una figura inizialmente sfocata. Assottigliò gli occhi per vedere meglio e lo riconobbe. Tremò, strisciò indietro nel momento in cui quello s’era accorto che era sveglia e si era velocemente avvicinato al letto. Yoko cadde sbattendo la testa sul comodino e la schiena per terra. Sentiva di nuovo il sangue spargersi all’interno del suo corpo. Si sentiva intontita, ma aveva paura.
“Stai lontano da me!!” gridò disperata come non mai tirandosi quelle poche coperte sul petto e cercando un punto d’appoggio con la mano.
“Yoko, tranquilla!” fece il ragazzo, mettendo le mani avanti e assumendo un’espressione visibilmente preoccupata. Aveva paura di lui? “Yoko sono Tohma, tranquilla non voglio farti del male.” Le disse timoroso, come se avesse paura di terrorizzarla, alto com’era. In quel momento, Yoko rivide tutta la scena della violenza passarle davanti la mente in un secondo e il terrore crebbe a dismisura.
“Va via, mostro!” Era con le spalle al muro, aveva paura di dover subire di nuovo tutto da capo, forse anche peggio. Lo sapeva: era lui che l’aveva quasi uccisa. Era lui.
“Yoko, scusami se ti ho spinto giù dalla tavola, io… perdonami, non capisci, io…” cercava di scusarsi, di trovare qualcosa per rassicurarla, ma quella iniziò a piangere dallo spavento, ad occhi sgranati.
“Non puoi capire! Una ruota di una macchina mi ha schiacciato lo stomaco! Mi sono sentita così! Mi sento così! Non mi toccare. Non farmi del male, ti prego!” Sembrava voler attaccare e difendersi allo stesso tempo, con le parole, ma Tohma era solo spaventato quanto lei. Temeva che avesse potuto davvero credere che lui l’avesse tradita e picchiata. Ma lui non ricordava. Eppure… lei era così convinta che fosse lui, che fosse Tohma. Che fosse pazzo?
“Yoko… io… non so cosa ti hanno fatto… ma non sono stato io, te lo giuro. Aiutami a capire! Sono qui per aiutarti!” Le prese i polsi per farla stare calma e lei smise di dimenarsi, ma il suo cuore poteva essere sentito anche senza poggiare la testa sul suo petto. Muoveva la testa, come per dire di no a qualcosa.
“No, non farmi del male, no, no, no…” Era impazzita, era traumatizzata.
“Yoko ascoltami.” E tutto tacque per qualche secondo. “Il generale, dopo cena, mi ha preso e portato di peso in una stanza bendato. So dirti dov’è perché non è la prima volta che ci capito. Mi ha legato ad una sedia e mi ha torturato per tutto il tempo. Diceva che io ti stavo aiutando nella tua permanenza qui, ed aveva ragione. Tu non sei la prima, ho aiutato dei ragazzi a fuggire di qui, altri invece sono ancora nell’esercito e mi considerano spazzatura. Per ogni cosa che ho fatto per loro, per ogni loro danno di cui mi sono assunto la colpa e le frustate sulla schiena, loro mi hanno ringraziato così. Ho quarantasette ferite in tutto. E’ un groviglio di tagli lineari. La prima volta ha usato la katana, poi il frustino… poi ancora una frusta, un laccio, dei tacchi delle ragazze con cui si diverte di notte.” Yoko riusciva a seguire il discorso, sorprendentemente. Tohma si tolse la camicia che gli copriva petto e schiena e le mostrò delle ferite. “Contale.”
“…quarantotto.”
“L’ultima l’ho voluta ricevere per non farti del male. Se avessi rifiutato avrei dovuto insegnarti le buone maniere, come dice il generale. Dice che per noi sei carne fresca su un piatto d’argento, crede che sia giusto che ogni notte dovremmo approfittarci di te. Io non ho voluto. Non lo farò mai. Sei mia amica e non avrei mai potuto schiacciarti lo stomaco, Yoko. Quindi, credimi. Qui sei in infermeria, ti ci ho portato io, nessuno lo sa, sei al sicuro e non sono stato io a ridurti così. Ti prego credimi…” finì con un tono disperato e triste, quasi implorante, mentre abbassava la testa di lato e socchiudeva gli occhi.
“Ti credo.” Yoko si fece abbracciare da Tohma, mentre gli stringeva la schiena dilaniata, ma lui non sentì dolore. Era un sollievo.
“Grazie, Yoko…” una lacrima gli scese sulla guancia.
“Sì, ma se non sei stato tu allora chi è stato?” Tohma stette per rispondere, quando iniziarono sentire degli strani rumori provenire da sotto. Da molto sotto…
“Andiamo a vedere.”
 
 
• Note dell’autrice •

 
 



1) Sta a te.
2) Vino, fumo, sesso: lasciatemi morire in questo paradiso.
3) Il generale si atteggia a cristiano occidentalizzato, ma in realtà la sua ignoranza nei confronti della religione cattolica è enorme.
4) “Oh, sii gentile per favore, sii gentile, caro!” credo abbiate capito.
 
Eccomi con il quinto capitolo! Ha stupito anche me! Forse dovrei alzare il rating? Forse dovrei considerarla una storia di detective? Della serie “chi ha picchiato Yoko?”???? Forse. Non so…
Recensite amori miei! Al prossimo capitolo!
 
-Bloody Schutzengel

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


• Note dell’autrice •
 


Ave, lettori! Sono tornata tempestivamente col nuovo capitolo… Non notate nulla di nuovo? Già, il rating è cambiato. In realtà ho voluto alzarlo per sicurezza, nel caso in cui il procedere della storia potrebbe ispirarmi dei capitoli a rating rosso. Ovviamente non eccederò in violenza, volgarità e altro previsto dal beneamato e sconosciuto regolamento di EFP, quindi… Happiness! VI ringrazio sempre di seguire la storia, per averla messa tra le preferite e ringrazio The Overlooker per le sue recensioni: mi sembra il minimo. P.S. Il capitolo potrebbe virare al rosso, non lo so. Non ho mai scritto una lime.
Sloggio: vi lascio alla lettura.
 
-Bloody Schutzengel
 
• Capitolo 7 •
Qualcosa di utile...
 



Mite mimashou1
“Non riesco a muovermi, Tohma… non posso andare da nessuna parte.” Fece Yoko sconfortata, tenendosi una mano sul ventre. “Sono solo degli applausi, cosa c’è di male?” Lo guardò.
“Può essere, ma non ho un bel presentimento su quello che succede lì sotto.” Il ragazzo guardò a terra, con le mani sui fianchi, in disappunto. Dopo pochi secondi non ci fece più caso e guardò sorridente l’amica. “Vuoi che ti aiuti ad alzarti?” Le porse una mano. Yoko allungò la sua, ma una fitta lancinante la colse d’improvviso e ritirò la mano. Tohma capì di dover lasciar perdere. “Sei pallidissima…” le disse inginocchiandosi e guardandola negli occhi con lo sguardo di chi fissa un povero mendicante per strada con una gamba amputata che chiede umilmente pochi spiccioli di denaro per mangiare, senza parlare.
“Non ho mangiato molto a cena…” Ruotò gli occhi, ma non sbuffò ne sembrò arrabbiata. Era solo triste che avesse dubitato dell’amico.
“Ah… Dev’essere stata colpa mia… Mi dispiace.” Si fermò per pochi secondi, per poi diventare più energico. “Posso farmi perdonare. Ora vado giù in dispensa e ti prendo qualcosa da mangiare. Dimmi quello che vuoi e te lo porterò.” Yoko non stava ascoltando… Ricordava placidamente quando Tori era a casa e la trattava da principessa. Quando rimaneva a Kintou Shuto per più di un paio di notti, si offriva di fare tutti i lavori di casa: sia quelli della madre che quelli del padre. Sapeva che le dodici ore di lavoro erano estenuanti e non adatte ad un essere umano, quindi quando poteva, preparava delle ottime pietanze con dei cibi esotici che portava dai suoi viaggi. Erano tutti sicuramente più buoni del solito povero riso e delle verdure bollite. A Yoko andavano i piatti presentati meglio: Tori era sempre stato un tuttofare, amante di ogni lavoro manuale, dalla cucina all’ingegneria. Le scodelle e i piatti di legno o i pochi in creta, discreti, senza decorazioni e poveri, si trasformavano in opere d’arte.
“Yoko, sveglia!” La chiamò Tohma.
“Uh… No, Tohma, non fare sciocchezze, non ce n’è bisogno.” Barcollò lei, nonostante fosse seduta e la sua voce quasi non voleva più uscire.
“Se non mangi qualcosa potresti svenire di nuovo. Non fare l’incosciente.” La richiamò lui con voce seria.
“Voglio venire con te.” Tossì, subendo il dolore delle fitte allo stomaco. Tohma non disse nulla. “Se ti succedesse qualcosa per colpa mia mi sentirei ancora più inutile di quanto non mi senta già…” Si riprese, sollevata.
“Io-“
“Anche tu sei stato male vedendomi ridotta in questo modo per una colpa che era apparentemente tua.” Lo guardò profondamente negli occhi, per convincerlo, ma sembrava irremovibile.  Tohma non disse niente, prese il suo cappello, si infilò la giacca ed uscì e Yoko non potette nulla per fermarlo. Rimase con una mano tesa, come per volerlo acchiappare, ma intanto il braccio che sorreggeva il suo peso scostato in avanti si faceva sempre più debole. Vide di nuovo nero.
 
 
Sembrava un’uscita tra due coppie di fidanzati, più che un percorso verso la perversione. Il tortuoso corridoio che pareva un labirinto era troppo stretto per tutti: il generale teneva un braccio attorno al fianco di una delle ragazze della Terra Rossa, mentre Heizo camminava normalmente continuando a riempire altre due di complimenti. Nella loro compagnia erano previste solo tre ragazze, le altre si stavano dirigendo chissà dove, barcollando sui tacchi alti e coi volti tristi in quell’oscuro labirinto. Sorrisi e ghigni lampeggiavano sui volti del generale e del suo vice che si era finalmente disinibito grazie ad un piccolo aiuto da parte del vino.
Dietro l’angolo, una porta trasandata, non come gli altri ciliegi levigati e curati. Questa era ruvida, come se un pezzo di legno fosse stato messo lì giusto per riempire un vuoto.
Girarono il pomello d’ottone ed entrarono in uno stanzone freddo e vuoto, sebbene ci fosse la stessa moquette rossa delle camere e lo stesso letto matrimoniale delle stanze dei soldati. Ma c’era un’aria di vuoto, un’aria di insoddisfazione, un’aria di ebrezza temporanea che avrebbe fatto raggelare il sangue nelle vene del generale se non fosse stato sotto l’effetto di alcol e in compagnia delle ragazze.
La porta si chiuse senza che ci si preoccupasse di non far rumore. C’era un bagno nella stanza ed era abbastanza spazioso, dato che rispetto a quello delle camere da letto superiori aveva più di tre metri quadri di spazio per muoversi. Le ragazze presero dei kimoni autonomamente dall’armadio spoglio: erano rossi, decorati con del nero e dell’oro. In pratica, erano uguali a quello che Yoko aveva visto piegato sul proprio letto. Le tre giovani si avviarono verso la porta del bagno, coi visi impassibili, né felici né contenti, ma con un mezzo sorriso che era lì giusto per non far dispiacere chi le guardava. Heizo cominciò a togliersi la giacca e la camicia di dosso e le scarpe, rimanendo in canottiera e pantaloni, nell’attesa che le ragazze arrivassero e finissero il lavoro. Camminava barcollando e ondeggiando verso il letto, con un sorrisetto maligno: sembrava che stesse manifestando una sua seconda personalità nascosta, molto simile a quella del generale. Questo non accennò a spogliarsi. Non si tolse né stivali, né giacca né cappello. Prese una grande e lussuosa sedia da un angolo della camera e la spostò più verso il centro, sedendosi. Accavallò le gambe e aspettò con fare annoiato, con le braccia lungo i braccioli della sedia. Con una mano giocherellava coi lunghi capelli verdastri. Li guardava con noia, stanchezza, schifo. Non gli piacevano. Avrebbe potuto tagliarli ma non ci pensò mai e nessuno seppe mai il perché, come Heizo non aveva mai capito il perché del suo costante coprirsi, del non spogliarsi in occasioni del genere, preferendo che fossero le ragazze a mostrarsi. Era un mistero.
Uscite le loro amiche dal bagno, con indosso i larghi kimoni che scoprivano loro gran parte del petto. A differenza di Yoko, però, queste erano abituate, o almeno così sembrava, a scoprirsi in quel modo, perché non tentavano di riporre i lembi di tessuto sulle spalle come la povera ragazza.
Una di loro avanzò verso il generale che non si scomodò dalla sua posizione se non per togliere le gambe accavallate. Egli lanciò un’occhiata d’intesa alla ragazza, che lentamente fece scivolare via lungo la schiena il suo kimono, fino a farlo diventare solo una sottospecie di gonna. La pelle di porcellana era così pulita da essere incapace di raccontare le sue precedenti tristi avventure. Con un mezzo sorriso, avanzò ondeggiando lentamente verso il generale, sporgendosi con la schiena all’indietro assumendo una postura elegante. Allargò le gambe e si sedette su quelle ricoperte di stoffa del generale. Questo poggiò le mani sui suoi fianchi, poi ne fece risalire una per tutta la schiena fino ad arrivare al collo. Iniziò a baciarlo, a baciarle il petto, ad accarezzarle i lunghi capelli neri e morbidi. Ne sentiva il profumo di pulito, di puro. Una purezza destinata ad essere intaccata anche dalla sola vicinanza al generale che di puro aveva solo l’odio e il rancore nascosti nel suo cuore. Più che dolore era sofferenza, era angoscia. Angoscia che sfogava in quel modo, facendo scorrere le sue mani sottili lungo la pancia della ragazza e ancora più giù, continuando a respirare tutto il profumo dei capelli di lei. A tratti era dolce, a tratti deciso, a tratti ancora, quasi brutale, altre volte più delicato della seta dei kimoni. Il tocco del generale non faceva tremare la ragazza, risoluta e tranquilla. Il calore si impossessava man mano del suo corpo, sotto la divisa, sul volto, facendolo cominciare a sudare e ad ansimare. Tutta quell’estasi che non poteva essere liberata gli procurava solo un senso più acuto di sofferenza, di costrizione e di soffocamento. Era frustrante. Era frustante tutto quello. Il dover essere costretto a frustare i suoi soldati per un sì o per un no, il dover progettare piani di battaglia, il dover tenere a bada Yoko. Diavolo, Yoko. Yoko, Yoko, sempre Yoko. La odiava quasi. La disprezzava. Così esile, così morbida alla vista, così bella, così contenta e forte dal primo momento che l’aveva vista. Maledetta Yoko… Maledizione.
I sui capelli neri catrame, i grandi occhi nocciola che si assottigliavano alla sua presenza, il petto bianco e sottile che spiccava dal kimono rosso… Oh, Yoko…
Un rumore.
Heizo si rialzò dal letto, spostando le due ragazze che erano sopra di lui. Il genera si scostò dal bacio appassionato che stava rubando a quella che era sulle sue gambe, proprio quando il climax stava iniziando a farsi sentire.
“Qualcuno non è al proprio posto a quest’ora.” Sussurrò tra sé e sé, a metà tra la noia e la malizia. Appena Heizo stette per scendere giù dal letto, il generale lo fermò con un gesto. “Ci penso io.” Sussurrò ancora a sé stesso, fissando con gli occhi assottigliati la ruvida porta di ciliegio.
In poco tempo il legno sbatté violentemente contro il muro, spinto dall’impetuoso generale che avanzava a grossi passi scocciati e pieni di rabbia immotivata. Era tutta una scena? Il camminare solennemente, l’umiliare il più possibile perfino il suo migliore amico, l’apparire forte, virile e assetato di violenza. Sebbene era generale da soli quattro anni, nei tre precedenti, dai diciotto ai ventun anni, capì come le passioni umane potessero condurre le persone ad una morte triste. Capì come i sentimenti potessero divorare le persone dall’interno, come fossero una evidente piaga che Dio aveva fatto abbattere sugli uomini come insetti carnivori che si cibano delle interiora degli umani fino ad uscire fuori dalle loro viscere.
Non c’era dubbio che fosse Yoko a creare problemi. Avendo dormito tranquillamente senza Tohma ad educarla, avrà escogitato un piano di fuga, quella bastarda, pensò il generale.
Quell’ingrata che non apprezzava il suo cibo e che faceva rumore nella dispensa. Era lei, ne era sicuro. O sperava che fosse lei? Sperava che fosse lei per vedere i suoi occhi bagnarsi di terrore alla sua presenza? Temeva che potesse scappare? E perché? Le pattuglie non l’avrebbero lasciata andare comunque. Allora perché preoccuparsi di una mocciosa? Era uno stupido incoerente del cazzo, pensò. Uno stupido verme senza spina dorsale, senza attributi e senza coraggio di provare indifferenza verso quell’essere che gli stava creando tanti problemi.
La porta si spalancò fredda, rimbombando nella dispensa di ciliegio. Tohma era nascosto dietro un mobile in fondo allo stanzone che sembrava una biblioteca più che una riserva di cibo. Aveva in mano del riso, una bottiglia di latte e del dolce, per far riprendere Yoko. Stava per prendere anche della carne cotta avanzata dalla cena e che non si era fatto in tempo a buttare sebbene ancora buona. Al tuonare della porta, Tohma restò calmo, a sangue freddo e tentò di respirare senza fare rumore. Si stese con la schiena sulla scaffalatura scura, ascoltando con cura i passi scanditi del generale che avanzavano ad ogni battito del suo cuore.
“Stupida bambina viziata, vieni fuori!” Ringhiò. “Ti facevo più intelligente. Sei fortunata che il tuo amichetto abbia lasciato a me il piacere di divertirmi con te. Molte ragazze pagherebbero diamanti per restare una notte con il tuo generale.” Cominciò con tono beffardo. Tohma si sentiva tranquillo: almeno non aveva capito che era lui. Ma se credeva che Yoko fosse ancora viva… allora non l’aveva mandato mica lui il soldato a maltrattarla come pensava! Gli occhi del ragazzo si spalancarono. Allora chi era stato?
La distrazione fece un brutto scherzo al ragazzo che fece cadere un barattolo e facendolo andare in frantumi a terra, rumorosamente.
“Ho capito dove sei.”
I passi acceleravano sempre di più, i battiti del cuore di Tohma acceleravano: tutto accelerava. Cercò di muoversi ascoltando la direzione della marcia del generale, tentando di sfuggire a quel suo momento di ira isterica.  Svoltò dietro lo scaffale ed aspettò come sentì che i passi si fermarono.
Un secondo.
Due secondi.
Un minuto…
Dov’era finito?
“Tu non sei Yoko.”
 
 
Yoko ci mise ben mezz’ora per riuscire ad alzarsi senza ricadere a terra come gli  altri tentativi. Lentamente, mise un piede davanti all’altro ed attraversò l’infermeria guardando se all’interno delle vetrine dei mobili ci potesse essere qualche cosa di utile.
Era vero. Aveva fame. Molta fame… Ma il suo istinto d’amicizia era più intenso della fame. Il mal di pancia era chiaramente per la paura che potesse succedere qualcosa a lei o a Tohma. E se il generale l’avesse trovato? O il vice?
Yoko non trovò nulla dopo aver rovistato da ogni parte. Passavano le ore e sapeva che l’alba sarebbe arrivata tra non molto. Aveva bisogno di dormire… Ah se Tohma gliel’avesse concesso rimanendo a farle la guardia! Se le avesse lasciato chiudere occhio, anche se fosse stato per sempre.
Per sempre… Era quello che aveva pensato guardando una boccetta di vetro con su scritto “pillole”.
Aveva trovato qualcosa di utile.
 
 
• Note dell’autrice •
 
 



1) Andiamo a vedere.
 
Questo capitolo è corto e fa schifo. Che palle. Perdonatemi… *piange*. E’ che tra il preparare il cosplay per il Comicon, tra lo studio e tra le altre cose non riesco a tenere sotto controllo tutto…
Chiedo venia, ma anche una recensione da parte vostra. Un bacio e ci vediamo al prossimo capitolo!

-Bloody Schutzengel

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


• Capitolo 8 •
Ghigliottina
 


“Tu non sei Yoko.”
C’era un leggero tono di spiacevole sorpresa nella voce del generale, appena scovò Tohma dal suo nascondiglio. Non disse nulla. Stringeva al petto le poche cose che aveva preso per la ragazza, guardando con timorosa rabbia gli scuri abissi del generale: non era accigliato, non era annoiato. Era strano. Non c’era rabbia, almeno all’apparenza. Non l’aveva mai visto così risoluto, tranquillo ed imparziale. Sembrava il ritratto di Heizo, pensò. Ma Tohma sapeva che non doveva pensare quando si trattava di quell’uomo: era troppo pericoloso farsi ingannare: pericoloso quanto facile. Ora era tranquillo ora era furibondo. Ora ti strappava con bontà il cuore a mani nude dal petto, ora come un ciclone sorrideva e riempiva di complimenti i soldati che erano riusciti a sopravvivere a discapito di altri nell’addestramento. Non abbassò la guardia, ma volle vedere fin dove volesse arrivare.
“Bene, Tohma.” Si allontanò pian piano per qualche passo con le mani dietro la sottile schiena. Si fermò e girandosi puntò col frustino ciò che aveva in mano il ragazzo. “Cos’è? A che ti serve? Hai fame? Non ti basta quello che ti faccio mangiare ogni sera?” Non c’era segno di rabbia nella sua voce. Era fin troppo calmo. Come chi sa per certo quale potrà essere la conclusione di un’intricata situazione, seppur spiacevole, il generale fissava Tohma come chi fissa qualcun di cui conosce già il destino. Lui l’aveva capito, se la doveva aspettare quella triste fine. Ebbe improvvisamente l’anima in pace e i suoi istinti poterono prendere il sopravvento.
“Sì sono per me.” Il generale ascoltava impassibile, guardandolo dall’alto verso il basso. Tohma si drizzò sulla schiena, petto in fuori, spalle larghe e testa alta, come gli avevano insegnato il primo giorno d’addestramento cinque anni prima.
“Vedo che finalmente ti comporti da uomo.” Disse con calma il generale, senza scomporsi.
“Sono per me questo riso, questo latte e queste verdure. Sono per me perché non mi basta il cibo che ricevo dalle mani sporche del generale. Le mani sporche di sangue del generale che vive nella lussuria a spese mi mille e più innocenti là fuori che hanno la schiena a pezzi per le dodici ore di lavoro che devono portare a termine.” Era un confronto tra calmi, come quando si espone un argomento a chi ti ha interrogato.
“La tua non è messa tanto meglio.”
“La mia schiena è il mio orgoglio. Sono orgoglioso di tutte le quarantotto turpi cicatrici che l’hanno fatta diventare brutta e ruvida. Sono orgoglioso del dolore che provo quando mi sdraio sul letto della mia camera per le croste che si conficcano nella carne. Sono fottutamente fiero di come mi sono guadagnato questi sfregi.” Disse, come un bambino contento della sua faccia piena di polvere dopo aver catturato una lucertola in un buio tunnel di terreno. “Sa che me li ricordo tutti uno ad uno perfettamente? Quelli che mi sputano addosso e che mi parlano alle spalle dopo che hanno lasciato il segno sulla mia pelle usando le sue mani, generale? Me li ricordo. Uno ad uno. Posso ricordare Kota che mi chiese di aiutarlo a rubare del cibo da questa stessa dispensa per fargli superare le prime notti in cui si ritrovò con chili e chili di meno che quasi stava per morire. Mi ricordo di Hinata che appena cadde malato e fu costretto a letto con la meningite, fu aiutato da me che ho alle spalle delle conoscenze di primo soccorso per quando in casa qualcuno si facesse male, dato che non potevamo permetterci il lurido ospedale del vostro regime. E posso ricordarmene altri, me li ricorderò per sempre. Ricorderò Yoko, perché lei è speciale, ha gli occhi che trasudano una tale vitalità che non riuscirete mai a distruggere. Non riuscirete mai a strappare via la voglia di vivere da quella ragazza.” Tohma a questo punto iniziò a diventare sempre meno risoluto, sempre più emotivo ed impulsivo. Era leggermente inclinato in avanti, con la fronte solcata da rughe d’espressione, di decisione e di rabbia. Il generale sembrava una statua.
“Staremo a vedere.” Si limitò a rispondere.
“Provate a toccarla e…” Strinse i denti, quasi ringhiando.
“Sai come andrà a finire, no? Non posso fare altrimenti: continui a creare problemi e non posso darti più chances, lo sai? Per me sei già un fantasma. Cosa vorresti fare? Il taiyou ga nobo ru1 sarà qui in meno di un paio d’ore. Cosa vuoi fare? Vuoi salutare la tua amica? Perché tieni tanto a lei? C’è qualcosa di più sotto? E che fine hanno fatto tutti quegli altri amici con cui ti divertivi un tempo? Sbaglio o non hai nominato tutti quelli da cui l’hai preso dietro mentre io ti sentivo dalla stanza proibita? Oh, poverini… non puoi salutarli adesso: non puoi parlare con quei fantasmi che ti hanno fatto procurare tante altre delle quarantasette cicatrici. Ma non ti preoccupare: li rivedrai presto.” Lo ferì nel cuore con tali parole, fredde a tal punto di sembrare picconi di ghiaccio che si conficcavano nel morbido e molle cuore di Tohma. Questi guardò in basso. Sorrideva quasi. Forse stava ripensando a quei suoi amici… “Sei una femminuccia.” Lo riprese con calma il generale.
Tohma cedette.
“A volte le donne hanno il coraggio di fare ciò che gli uomini non fanno: sopportare. Mia madre è stata vittima di abusi per tanti anni da parte delle pattuglie e sia mio padre sia io non potemmo nulla contro i vostri cani. Ma mia mamma tornava sorridente e col cuore a pezzi, senza dignità, sporca. Però continuava a sorridere, perché riusciva a sopportare. Io non sono una donna, ma ho sopportato per cinque lunghi anni questo palazzo di torture. Ho sopportato te per cinque lunghi anni. Sono contento che sia tutto finito! Sono contento di morire da eroe, che la mia testa cada giù le scale dell’esecuzione con gloria per aver protetto delle persone innocenti, per aver potuto amare qualcuno anche solo per poco. Per essermi preso cura di Yoko. Tu non riuscirai a scalfirla, mi hai capito?! Mi senti, brutto bastardo?! Lei continuerà a sopportare a lungo le tue perversioni. Lei riuscirà a sconfiggerti, riuscirà a vendicare tutti quelli che hanno sofferto per questo malato regime. Verrà un giorno in cui tutti ritorneremo alla cenere, in cui tutti saremo sotto metri e metri di terra. Tutti! Anche tu! E se tu, generale, credi che così il tuo dio ti riserverà un posto in paradiso per il sangue che si è sparso e che si spargerà, sappi, sappilo da ora: la tua lapide non sarà più pianta della nostra né più grande, ma sarà abbandonata tra tutte le altre asciutta e schifata.”
“Se pensi che sia così giusto allora uccidimi! Qui! Adesso! Mettimi le mani al collo e spezzami la trachea, avanti! Ma tu non hai le palle di fare una cosa del genere. Sei una femminuccia, non sei un uomo. Non sei mai stato un vero uomo. Tu non sai cosa vuol dire soffrire, stronzo! E adesso prova ad ammazzarmi, avanti!” Gridò il generale con le braccia tese verso l’esterno, come aspettasse con aria di sfida che il toro conficcasse le proprie corna nel suo ventre.
Tohma non ci vide.
Il riso, il latte, le verdure: tutto per terra. La bottiglia di vetro si ruppe in mille pezzi lasciando che il liquido bianco scorresse veloce sul ciliegio. Le verdure rotolavano rumorosamente mentre la ciotola si ruppe ed il riso fu sparso a terra senza dignità. Tohma si avventò sul generale sferrandogli un pugno sulla mascella contenente il rancore di cinque lunghi anni. Quello non si spostò, assorbì il colpo e rimase immobile con la visiera del capello calata sugli occhi.  Le braccia lungo i fianchi, la mascella non troppo dolorante ed un rivolo di sangue che gli colò dal labbro. Tohma si fermò.
“Non spetta a me liberare Kintou da questo parassita.” Si disse sussurrando e in quel momento quello che era davanti a lui si pulì il mento con le mani. Guardava le sue dita macchiate di rosso profondo, quasi nero. Il suo sangue era nero. Era riflesso della sua anima? Allora gli antichi avevano sempre avuto ragione sul fatto che fosse il contenitore dell’anima.
Tohma si voltò e si fermò per qualche secondo, poi cambiò direzione ed uscì con passo celere.
Aru ku no mukuro2.
 
 
Erano bianche, ovali e lucide. L’etichetta recitava “chintsuu zai3”. Se qualcosa potesse davvero farle provare meno dolore, però, non sarebbe stata diversa dalla morte.
Yoko fissò a lungo la boccetta di vetro. Aveva trovato qualcosa di molto utile, aveva pensato all’inizio, ma aveva iniziato a dubitarne. Aveva promesso alla madre, tre sé e sé, di non arrendersi mai e di vedere un nuovo sole sorgere su una nuova Kintou Shuto,, come lo aveva promesso a Tori, sognando. Gli antenati, i nonni, non sarebbero stati contenti del suo voler lasciarsi andare. Le avevano sempre insegnato che se gli déi erano giusti com’erano, il dolore veniva sempre ripagato alla fine. Allora perché faceva così male? Faceva male. Faceva male il cuore in subbuglio nel sapere che Tohma non era ancora tornato. Facevano male tutti i pensieri che le si imponevano in testa del suo amico morto, a terra, squarciato dalla lama della katana4 del generale. Faceva male il solo pensare di perdere un amico. Voleva davvero far soffrire Tohma in quel modo, se fosse stato ancora vivo? Ma sicuramente era ancora vivo! Le aveva promesso di tornare subito anche se non gliel’aveva detto. Ma lo sapeva. Lo sperava. Voleva che gliel’avesse dato per certo.
Tutto quel dolore continuava a dilaniarle lo stomaco, potente e laceratore.
Forse gli antenati le avrebbero perdonato un po’ di dolore in meno per una più piccola ricompensa, fosse anche stata la morte.
Una.
Due.
Tre.
Dieci.
Yoko le ingoiò.
 
 
“Oh, déi, Yoko!” Tohma spalancò la porta dell’infermeria proprio nel momento in cui l’amica cominciò ad accasciarsi per terra. Si stese dolcemente a terra, ma il respiro non l’aveva ancora abbandonata.
Il ragazzo si buttò subito su di lei, pieno di sudore, col cuore a mille, senza fiato  e senza voce. Si sforzava anche di sussurrare quel poco che pensava potesse far risvegliare la sua amica. La prese tra le braccia, pesante e dormiente.
La scuoteva.
“Forza, Yoko, svegliati… svegliati…” Non accennava ad aprire gli occhi e diventava sempre più un cadavere quando Tohma notò la boccetta di antidolorifici per terra.
Le mise un braccio sullo stomaco e la fece ruotare su di esso, facendola ritrovare in ginocchio piegata e con il volto parallelo al pavimento. Si mise dietro di lei e spinse con il pugno sulla sua pancia, tentando di farla vomitare. Le aprì la bocca e le mise due dita tra i denti che non potevano stringere, tentando di trovare l’ugola e stimolarla a rigettare quelle pillole del demonio.
“Andiamo, cazzo! Yoko, non farmi questo, svegliati!” Urlava Tohma, senza importarsi delle possibili irruzioni di altri soldati. Ma ormai questi conoscevano bene la sua voce, come gli aveva ricordato il generale.
“Yoko…” Una lacrima di dolore bagnò il volto caldo di Tohma che rabbrividì a contatto col rivolo tiepido. La ragazza non voleva svegliarsi.
“TI PREGO!” Urlò con tutta la voce che poteva, come non aveva mai fatto, come per chiamare in aiuto degli déi pagani di Kintou Est, dell’antica Kintou, in modo che potessero soccorrere la povera innocente. All’improvviso sotto le mani di Tohma ci fu una vibrazione. Un gorgoglio si fece strada dallo stomaco e poi per il petto di Yoko, finché questa non si risvegliò di scatto e rigettò via sangue, acido e le maledette pillole. Il suo amico le resse la testa per evitare che i suoi capelli si sporcarono nel guaio che aveva combinato sulla moquette. Non ci fu tempo di prendere un secchio.
Yoko si appoggiò al braccio di Tohma sul proprio stomaco, respirando profondamente e velocemente, con gli occhi sgranati. Aveva paura, era stordita e l’aria che puzzava di vomito la stimolava a rigettare ancora altro, ma il suo stomaco era ormai vuoto, senza né più acidi né sangue.
Yoko pianse. Fu un pianto liberatorio. Un pianto che si potrebbe definire da bambino se visto al di fuori del contesto in cui si trovava la ragazza. Tohma si fece abbracciare, senza curarsi della divisa che si stava sporcando di saliva e di lacrime. Sentiva il cuore di Yoko battere fortissimo contro il suo stomaco e lei sentiva quello dell’amico rimbalzarle contro la fronte. Lo strinse forte, lì entrambi in ginocchio ed inermi.
“Va tutto bene, Yoko. Sei viva. Sei salva.” Pianse anche lui, con fare più risoluto e quasi con un sorriso indugiante, dubbioso, con le sopracciglia tutt’altro che rilassate. Le accarezzava i capelli cercando di calmarla, ma il drago nel cuore della ragazza doveva urlare tramite quel pianto che il suo fuoco non era ancora stato spento.
Yoko staccò la testa dal petto di Tohma, rosso e pieno di lacrime. Quegli occhi sembrarono ancora più enormi.
“Mi dispiace, Tohma, perdonami, non volevo farti soffrire…” Singhiozzò ricominciando a piangere a tratti.
“No, non importa, io sto bene.” La guardò compassionevole.
“No, io… stavo per farti provare il dolore di perdere un amico… scusami… io non volevo.” Continuò a piangere tenendo le mani sugli occhi gonfi, piena di vergogna e senza dignità.
“Yoko, non piangere, perché sono io quello che deve scusarsi per lo stesso motivo.” Chiuse gli occhi arrendevole.
“Che vuoi dire?” Fece agitata guardandolo.
“Io veglierò sempre su di te, Yoko, quindi…”
“Che stai dicendo? Spiegami!”
“Yoko, ti giuro che io non ti abbandonerò mai.. io…”
La porta si spalancò: era il generale con una medicazione sulla mascella e la visiera che ombrava i suoi occhi. Guardò Tohma, gli fece un cenno e senza dire nulla, venne ricambiato con tristezza.
“Devo andare.” Yoko si alzò mormorando un no ripetutamente, gli occhi spalancati e il cuore che le ostruiva la trachea.
“No, non capisco, cosa succede? Tohma? Che succede? Dove vai? Dove lo portate?” guardò il generale  che non le rispose e si accinse ad ammanettare il ragazzo con delle pesanti manette di legno di ciliegio.
Quello ed il suo amico uscirono dalla porta, mentre Tohma si girava sempre verso Yoko, seppur venisse strattonato dal suo superiore per incitarlo a proseguire.
“Non preoccuparti per me, solamente… Perdonami…”
“Tohma, non andare, ti prego! Lasciatelo!” Gridava Yoko, ma il volto del generale non la degnò di uno sguardo, piegato in avanti che tirava dritto come un mulo.
In poco tempo giunsero al portone del palazzo e ancor più repentinamente si fecero strada tra la gente che fissava loro e il seguito di soldati con volti sconfortati e tristi.
Yoko capì.
Arrivarono alle scale dell’esecuzione, tra le preghiere di Yoko e le risposte attenuanti di Tohma che le promise sempre di vegliare su di lei. Ma quella non voleva ascoltare.
Ci vollero tre soldati per tenere ferma Yoko che non smise per nessun momento di gridare nel silenzio generale. Gridava di doverla lasciare, di lasciarla andare ad abbracciare il suo amico. Il suo unico amico in quell’inferno.
Tohma la guardava mentre veniva condotto su per le scale, anche se il generale lo costringeva a voltarsi prendendogli il mento tra le mani e forzandolo. Il ragazzo non piangeva, anzi, sorrideva sommessamente all’amica mentre sempre meno gradini lo separavano dalla morte. Una morte gloriosa, già, come diceva lui, come aveva urlato in faccia al generale. Una morte per chi aveva aiutato, per rendere giustizia alle sue quarantotto cicatrici. Una morte per i suoi amanti, per Yoko, la sua unica vera amica. Una morte da eroe l’aveva sempre sognata.
La morte, se vista come una sfida, un qualcosa da affrontare, una pistola puntata in testa, un nemico con la katana sguainata contro di te, sembra non essere tanto importante perché da essa ci si può salvare. La morte nemica si può sconfiggere. Quella morte gli andava incontro lenta ma non ne era spaventato, bensì la desiderava se avesse reso giustizia all’eroe che era in lui.
Yoko non poteva capirlo… Continuava a vedere solamente un ragazzo che stava per morire, un amico una persona cara: stava per rivivere una scena ancor più tragica quanto lenta di quella della madre.
Tohma poggiò il collo sul piano della ghigliottina, nella fossetta semicircolare, sotto l’asse di ciliegio da cui compariva la lama obliqua. Il generale era lì che guardava vigile, impassibile e senza emozioni. Le mani dietro la schiena mentre respirava regolarmente e guardava negli occhi il boia che reggeva quella macchina di morte e Tohma allo stesso tempo.
Improvvisamente furono tutti come dentro una bolla: le urla di Yoko diventarono sorde, il silenzio sommerse tutto.
Non ci fu una cerimonia.
Non ci fu discorso.
Gli occhi di Tohma luccicarono verso quelli di Yoko un’ultima volta, pietosi, come per chiedere scusa, e la lama della ghigliottina cadde giù pesante e repentina. Smorzata. Silenziosa.
Yoko si cominciò a dimenare sempre di più, tanto da riuscire a liberarsi dai soldati che però la riacciuffarono.
La testa di Tohma rotolò giù per gli scalini come una palla legata ad un nastro cremisi.
Urla.
Pianti.
Una lama perforò il cuore di Yoko dotto gli occhi insofferenti del generale che guardava dall’alto.

 
 
 
• Note dell’autrice 
 
 


1) Il Sol levante
2) non so se effettivamente è giusto, ma ho tradotto col poco giapponese che so e dovrebbe significare “Cadavere che cammina”.
3)”Antidolorifici”.
4)C’era anche in altri capitoli questa parola, ma ho dimenticato di mettere la nota. E’ una spada giapponese, quella tipica curva col manico decorato e cilindrico. Tecnicamente in giapponese “katana” significa proprio “spada”.
 
Quando scrivo questa storia è come se la leggessi da EFP per la prima volta come uno spettatore. Mi stupisco, piango mentre scrivo, mi sale l’ansia. Sono davvero sconvolta da me stessa. Appena ho finito di scrivere questo tristissimo capitolo, mi sono detta: “Wow, questo capitolo è stato davvero forte… stupendo.” Non badando alla forma o ad altro… Mi sento tanto lettrice e alla scoperta di questa storia quanto voi che la seguite e assieme a voi spero che continui con tutto il mio cuore, perché da lettrice voglio sapere come andrà a finire.
I miei ringraziamenti vanno sempre a The Overlooker che mi ha recensito fin ora e agli altri che seguono “Sotto mille ciliegi”, ma stavolta anche alle canzoni che mi ispirano ogni giorno a scrivere sempre più capitoli di questa storia. Vi amo, vocaloid e utaite.
“Senbonzakura” di Hatsune Miku;
“1925” di Hatsune Miku;
 “Jougen no Tsuki” di KAITO;
“Pomp and circumstances (If you do do)” di 96neko e Hashiyan;
 “Leave in the summer, ‘till you’re still in my fluff thoughts” di Hatsune Miku.
Fin ora queste mi hanno ispirato fino al settimo capitolo e anche per un’altra parte di storia che arriverà. Vi consiglio di ascoltarle, magari con i sottotitoli in italiano, perché sono bellissime e creano atmosfera.
Vi ringrazio di cuore, tantissimi baci!
 
-Bloody Schutzengel

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


• Capitolo 9 •
Sopportare
 


Una morte da eroe: Yoko non poteva capire.
Lì, nella sua camera, nella sua vasca come la prima notte, che si abbracciava le ginocchia. Non aveva più lacrime da piangere. Aveva uno sguardo perso, rassegnato, privo di vita.
Nella sua mente lampeggiavano violente le immagini di lei che urlava, della folla, dell’enorme montagna di gradini di marmo che venivano calpestati dai piedi di Tohma.
Non era il momento.
Era troppo presto per morire da eroe, pensò Yoko. Aveva ancora una vita davanti, lunga e piena di speranza. Lei non sapeva nemmeno quanti anni avesse, quale fosse il suo colore preferito,  il piatto che adorasse mangiare più di tutto al mondo… eppure! Eppure era diventato così presto suo amico. Allora basta così poco per essere amico di una persona? Tohma era stato il suo unico amico da sempre. Non ne aveva mai avuti altri al di fuori di Tori. Di nuovo Tori… Adesso che Tohma non c’era più sperava che Tori si fosse materializzato all’interno del palazzo e l’avesse salvata come un principe fa con la sua principessa. Non era egoista? Prima c’era Tohma e il suo adorato cugino era quasi svanito, ora il desiderio di averlo vicino era più vivo che mai.
 
Zutto riko-teki watashi wa1
 
Hatori Kurai.  Sembrava strano chiamarlo col suo nome intero e col cognome. Ormai per lei era solo Tori, non Hatori. Lo stava forse trascurando e mancando di rispetto così? Forse a quell’ora sarebbe stato arrabbiato con lei se l’avesse sentita. Ma perché tutti questi pensieri solo adesso? Stava diventando pazza.
D’un tratto sentì bussare, poi sentì la porta che si aprì normalmente. Non era abbastanza lucida da alzarsi, coprirsi e far sì di non farsi trovare in quel modo in quella vasca. Aspettò che chi avesse invaso la sua camera, aprisse la porta del bagno. Lei era troppo occupata a pensare ad Hatori o a farsi stupidi problemi. Non si girò nemmeno per guardare chi fosse entrato, poiché al momento non le importava davvero.
Doveva abituarsi a sopportare quel tipo di sistema.
Sopportare. Come aveva detto Tohma prima che venisse condannato a morte.
“Non sei venuto a colazione, soldato, qual è il tuo problema?” Era la voce del generale, ma Yoko non era più Yoko e non ci fece caso, né si voltò o rispose. Rimase silenziosamente sorpresa dal fatto che non le urlò di ascoltarlo, di guardarlo negli occhi come quando l’aveva conosciuta per la prima volta. Era calmo. Troppo calmo.
Se solo avesse saputo che anche Tohma avesse visto così calmo il generale, sarebbe subito corsa con la mente a qualche ipotesi, qualche motivo, qualche ragione per la sua estrema compostezza.
“Se non mangi non reggerai l’addestramento.” Si limitò a dirle. Lei non rispose, continuando a guardare fisso davanti a lei, mostrando la schiena nuda non coperta dai capelli che erano stati tirati davanti, tra il braccio e il ginocchio.
Il generale non ebbe fretta di andarsene: continuava a fissarla in modo strano, quasi con lo stesso sguardo con cui Yoko guardava nel vuoto pensando a nulla. Quella schiena così bianca, così liscia, così sottile. Quei capelli neri e morbidi, il profumo dolce che aveva sempre avuto addosso e che i fumi di Kintou Shuto non erano riusciti a strapparle via.
Yoko…
“Fa come vuoi allora, ma bada che tra poche settimane si parte per la Terra Pura. Sta a te decidere se voler morire da pezzente in guerra o da eroe come il tuo amico.”
La porta sbatté chiudendosi e Yoko non si accorse di star incominciando a piangere.
 
 
Erano tutti in fila al campo di addestramento. La terra sempre arida e color sabbia, il vento sempre lieve e silenzioso e il generale sempre lì a dettar regole e sessioni d’allenamento. Camminava avanti e indietro con fare autorevole, mentre Heizo stava dietro di lui, fermo e simile ad una statua tanto da non battere le palpebre. L’unica cosa che si muovesse lì era il suo mantello.
“Come sapete tutti, soldati, stamattina è morto un vostro compagno. Per quanto fosse inutile e decisamente di peso, era pur sempre un vostro compagno, quindi ora che siamo con un numero in meno, dovrete necessariamente allenarvi il doppio.” Nessuno osò obiettare l’insulsa affermazione del generale. “Abbiamo perso un fantoccio di difesa, un qualcuno che potesse coprire un altro soldato per non farlo uccidere. Se adesso foste in battaglia contro un esercito di creature demoniache, uno di voi morirà al posto del vostro compagno. Volete che accada così?” Alzò la voce sull’ultima parte e tutti gli risposero con un “No, signor generale!”.
“Bene, vuol dire che adesso rimarrete qui fino a cena a correre, fare flessioni, allenarvi a combattere e molto altro. Che nessuno osi cadere a terra tramortito, che nessuno osi piagnucolare sostenendo di non farcela e che nessun aiuti nessuno perché dovete imparare che nella vita reale non ci sarà mai nessuno che vi alzerà da terra se non le vostre fottute braccia. Intesi?!”
“Signor sì, signor generale!”.
Yoko era lì, ferma e dallo sguardo serio, composta ma non abbastanza come solerebbe un soldato. Guardava davanti a lei con l’ombra della visiera sugli occhi, lo sguardo fisso e penetrante figlio del generale che intanto si avvicinava a lei mentre gli altri già cominciavano a correre avanti e indietro per l’addestramento. Quello si accostò al suo collo, con fare serio ed occhi chiusi. Si abbassò mentre la ragazza rimaneva immobile e lo guardava solo con la coda dell’occhio.
“Diventa un soldato o finisci sulla ghigliottina. Non mi servono persone inutili.” Sibilò solamente, poi se ne andò e Yoko sentì come una musica di tamburi da guerra dentro il suo cuore. Non notò che nella voce del generale ci fosse un tono di rabbiosa tristezza, ma, del resto, chi potrebbe mai pensare che un cuore marcio ricoperto di rovi possa provare tristezza?
Yoko si mise a correre una volta che quello le diede il segnale che le diceva di poter muoversi. Era come una staffetta: si correva da una parte all’altra dell’accampamento, per il tratto più breve, e si tornava indietro, poi si faceva tutto daccapo. Iniziò a capire come funzionasse quel piccolo mondo senza solidarietà, senza pietà e senza amicizia. Stava iniziando a comprendere come fosse fatto il cuore di un soldato. Inizialmente, si sentì carica, determinata, convinta. Le sue gambe si muovevano a passo celere e i suoi stivali si cominciavano a macchiare di terreno come i pantaloni risentirono della polvere che vi si stava appiccicando sopra. Dopo i primi cinque o sei tratti, le stesse gambe energiche cominciavano ad essere doloranti, a pulsare; i muscoli diventavano duri e fastidiosamente infiammati. Ma lei non si fermava, non accennava a finire di correre, perché non voleva più morire: doveva vivere per Tohma e per sua madre. Per Tori, perché sapeva che l’avrebbe rincontrato in futuro, quando sarebbe uscita dall’esercito.
I piedi bruciavano, seppur fossero già in autunno, inizio ottobre. Ma Yoko non l’avrebbe mai potuto dire perché a Kintou Shuto non c’erano più alberi che non fossero stati utilizzati per costruire quel buio palazzo di ciliegio.
Venne la volta del percorso ad ostacoli: dei pali da evitare, delle travi sotto cui dover passare, degli ostacoli da saltare ed altri da distruggere come nemici. Capriole, balzi e arrampicamenti. Tutti erano ammassati sul fondo del campo di addestramento, attendendo che il generale desse il segnale di partenza.
In quel momento, ad intervalli di tre secondi, partivano tre o quattro elementi alla volta, a seconda della stazza di coloro che dovevano cominciare il percorso. Yoko non aveva mai compiuto un percorso ad ostacoli, ma non le sembrò così difficile all’apparenza. A differenza degli altri soldati, lei incespicava, inciampava nei propri passi ma si rialzava prontamente in modo che non ci si potesse accorgere nemmeno delle sue cadute.
Prima gli slalom, poi i salti e le capriole che confusero non poco la ragazza. Era intimidita parecchio da quelli che evitavano davanti a lei gli ostacoli di legno modellato come un nemico distruggendoli con un pugno. Lei si limitò a buttarvisi contro con una spallata, per buttarli giù, perché non ebbe ancora il coraggio di colpire un innocente pezzo di legno di ciliegio come fosse stato un nemico. Rotolava a terra nel fango, nella sabbia, poi saltava i tronchi di legno mobili messi lì per farla cadere. S’arrampicò sulla rete e saltò giù procurandosi un dolore immenso alle caviglie, ma non si fermò mai. La sua faccia era ormai polverosa sporca ed i capelli guizzavano scompigliati dalla treccia che s’era fatta. Il cappello ogni tanto volava via e se lo rimetteva puntualmente in testa, perché aveva capito che per un soldato viene prima l’uniforme del suo aspetto fisico. Guardava dritto avanti, con lo sguardo accigliato e convinto, poiché sapeva ormai che il coraggio di andare avanti era più importante dei rimpianti e del dolore che si potesse provare, per un soldato. Per un soldato, era importante essere un uomo, un vero uomo, cosa che lei non era, ma che avrebbe dovuto imparato ad essere.
Sarebbe diventata come il generale. Forte, impassibile, decisa e spietata all’esterno, mentre avrebbe riservato pianti, frivolezze e dolore all’interno del suo cuore. Avrebbe lasciato che le sue lacrime le rigassero le guance quando nessuno l’avrebbe vista. Avrebbe lasciato che la poca vanità femminile fosse solo un vizio da riservare al bagno, davanti allo specchio quando si lavava al mattino. Sarebbe diventata un vero soldato, ma non sarebbe diventata un uomo, perché le donne sono sempre state in grado di sopportare meglio degli uomini.
Finirono il percorso ad ostacoli e si misero sull’attenti in fila, davanti il generale che cominciò a parlare.
“Bene, vedo che vi siete impegnati, soldati. Complimenti.” Fissò penetrate gli occhi di Yoko che tentava di tenergli testa e di respirare il meno affannatamente possibile. “Adesso è l’ora dei combattimenti. A coppie, cominciate quando ve lo dirò io. Non ci sono regole: chi è a terra e alle strette, come negli scacchi, ha perso.”
 
“Tori! Cosa stai facendo?” La piccola Yoko aveva appena scoperto il cugino fare la lotta con un cagnolino cui dava da mangiare ogni tanto, fuori casa sua. Aveva solo nove anni, ma capiva già molte cose.
“Yoko! Sto giocando col cane!” Le sorrise lui, senza alzarsi con la schiena da terra e senza lasciar andare il piccolo cucciolo che scodinzolava sulla sua pancia.
“A cosa giocate?”
“A fare la lotta.” Continuò questo a sorridere.
“Smettila! La mamma dice che fare la lotta è sbagliato!” Yoko era seria, imbronciata e con i pugni stretti lungo i fianchi. I capelli neri raccolti in treccine sul petto.
“Sei solo gelosa che io sappia fare la lotta e tu no.” La prese scherzosamente in giro il ragazzo, mentre si alzava. Andò vicino la cuginetta imbronciata e la buttò per terra con dolcezza, mettendosi a carponi su di lei e guardandola minaccioso.
“Lasciami stare, Tori!” Sorrideva con lo sguardo imbronciato.
“No, prigioniera, non ti lascerò mai andare!” Fece quello con tono scherzoso e profondo.
“Perché no?”
“Perché devo fare… questo!” Cominciò a farle del solletico ai lati della pancia, osservando la piccola ragazzina contorcersi dalle risate, divertito. “Ah? Cosa dici? Smetterla? Ma abbiamo appena cominciato!”
“Non mi piace questo gioco!” Disse lei tra le risate.
“Allora giochiamo alla lotta.”
“Ma è sbagliato fare la lotta, Tori!” Gonfiò le guance guardandolo con tutta la sua rabbia.
“Non sembri minacciosa!” Cominciò a spingerla piano piano una volta che s’era tolto da sopra di lei e una volta che quella s’era messa in ginocchio seduta. La piccola Yoko ricambiò ridacchiando la spinta e il cugino non fece diversamente. Si ritrovarono lui per terra e lei sopra di lui che cercava di colpire la sua faccia con degli schiaffi. Le mani grandi di Tori bloccavano delicatamente i colpi, mentre la guardava con occhi luccicanti di meraviglia e dolcezza. Dopo un po’, questo bloccò le mosse della piccola. “Ho vinto!”
“Ah, uffa! Sei troppo forte!” Fece lei sconfortata.
“Allora, ti è piaciuto fare la lotta?” disse lui sorridendole e facendola sedere sulle sue gambe, una volta che si rialzò.
“…sì.”
“Vedi, Yoko, lo so che la mamma ha detto che fare la lotta e la guerra non sono delle cose belle, ma a volte imparare a difendersi torna utile, perché purtroppo non incontrerai mai tutte persone a cui piace giocare a fare la lotta, ma a cui piace fare la vera guerra.”
 
Yoko venne svegliata dal suo flashback una volta che ricevette il primo calcio dal suo avversario, mentre guardava dietro di questo, il generale. Vedeva che la fissava, che la scrutava. I suoi occhi volevano chiaramente scoprire come se la fosse cavata.
Yoko si alzò in piedi,  con le ginocchia piegate e dandosi una spinta, saltò in alto tanto quanto bastasse per arrivare alla faccia dell’avversario e sferrò un pugno. In risposta, questo la spinse semplicemente a terra, facendola cadere all’indietro  tra il riso generale degli altri soldati.
“Avanti! Perché devo combattere contro una donna?” Si lamentò questo con un ghigno.
Yoko si rialzò e prendendo una rincorsa si scagliò sull’avversario, che le bloccò un braccio spostandosi e la ributtò a terra ancor più lontano, ridendo. Il volto di Yoko era accigliato, si sentiva schernita, presa in giro, mancata di rispetto. L’acqua del vaso stava per traboccare.
Si diede uno slancio e provò con un calcio, che venne bloccato dal soldato che le afferrò la gamba e la fece scivolare con la schiena per terra, ma Yoko non si diede per vinta e con un altro slancio si scaraventò sulle gambe dell’avversario che cadde. Lo stinco era il punto più doloroso della gamba in cui essere colpiti, le aveva spiegato una volta Tori. Lei si spostò velocemente per non rimanere bloccata sotto il peso dell’uomo e si piazzò coi piedi per terra in posizione di difesa nell’attesa di un colpo di risposta. Guardava il generale che la fissava stupito, quasi a bocca aperta: le aveva messo contro un nemico molto forte e quella era riuscita a difendersi in un primo momento. Era incredibile…
Il soldato si scagliò contro di lei di nuovo e lei spostandosi gli diede un calcio sulla schiena con lo stinco e lo fece ruzzolare a terra.
“Ti fai battere da una ragazzina, stupido?”
“E’ un combattimento tra donne!” Si gridava tra i soldati spettatori.
L’avversario di Yoko si rialzò e approfittò della sua rabbia e della compagna distratta per sferrarle un pugno allo stomaco. Yoko cadde a terra, tossendo e accasciandosi. Rimase così per un po’, finché alla vista di un nuovo colpo che stava per essere sferrato, rotolò via e bloccò il pugno. Ne arrivò prontamente un altro che la colpì in faccia facendola cadere.
Il generale quasi godeva nel vedere quella scena, ma non perché Yoko stesse soffrendo, bensì perché seppur soffrendo si era alzata ancora una volta.
La ragazza tentò di schivare l’ultimo colpo invano e cadde inerme a terra nel momento in cui il generale annunciò la fine del combattimento senza cerimonie e senza complimenti tantomeno insulti.
Si avvicinò a Yoko e le sussurrò qualcosa all’orecchio inginocchiandosi su di lei. “Lezione numero uno: un soldato non sopporta, un soldato affronta. Se un soldato si rialza è meglio che sia pronto a colpire, per la sua dignità. Rialzarsi e cadere come una donnicciola quale sei non ti aiuterà.” Si fermò per un po’. Yoko sentiva il suo respiro sul collo, il suo profumo di fumo e di fiori di loto. Era stranamente delicato per un generale, in parte. La nicotina devastava la fragranza di fiori. “Stanotte avrò qualcosa da dirti.”

 
 
• Note dell’autrice 

 
 


1) Come sono egoista…
 
Eccoci qui col nuovo capitolo. Tohma è morto e Yoko ha deciso che non può continuare a piangere sul latte versato, per così dire. Da qui, inizia la vera storia di Yoko, del generale, di Heizo e del mondo di Kintou, ragazzi! Spero che questo grande prologo fin qui non vi abbia annoiato e che continuerete a seguire assiduamente la storia come i continuerò ad aggiornare costantemente. Avviso! Non so se domani potrò regalarvi un nuovo capitolo, però ce la metterò tutta per ricavare un po’ di tempo per voi. Vi voglio bene!
Recensite!!
Al prossimo capitolo, baci!
 
-Bloody Schutzengel

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


• Capitolo 10 •
Luna crescente

 


L’ora dell’ultima marcia dal palazzo fino alle porte della città era passata già da un pezzo quando si sentì l’ultima porta sbattere e il silenzio piombò nero nella reggia del generale. Lui non era ancora andato via, in camera, da Yoko, ma era rimasto nello stanzone della mensa aspettando che tutti se ne andassero. Dopo aver licenziato anche Heizo, rimase perdutamente solo nella penombra.
La stanza era illuminata solamente da un grande lampadario che era al centro della stanza che in quel momento rendeva una luce fioca e spenta che creava un senso di forte malinconia. Le pareti in ciliegio sembravano voler accostarsi l’una all’altra, come se volessero unirsi e schiacciare chi c’era di mezzo. I tavoli sembravano minacciosi e cupi, come ogni porta della stanza che minacciava di aprirsi e far uscire un qualche Oni.
Il generale era fermo davanti il suo dipinto che troneggiava nella stanza, sempre nella solita posizione con le mani dietro la schiena. Aveva un viso che trasudava depressione e malinconia miste a rabbia e insoddisfazione. Un viso cupo, truce, abbandonato, che fissava il generale stesso ritratto in tutta la sua potenza, su un trono, con un mantello e tante medaglie gloriose. Alla vista di tale particolare, questo portò gli occhi alle sue medaglie, che al buio non risplendevano più, o meglio lo facevano, ma non allora. Non voleva forse vederle risplendere? Cos’era quel tormento che iniziava a salirgli nelle vene e che lo faceva sentire tanto colpevole? Anzi, non colpevole, meglio dire, inquieto. Era inquietudine. E c’era anche rabbia: come chi non sa perché ci si stia comportando in un certo modo e si infuria al pensiero di non riuscire a capirlo. Rabbia stampata sugli occhi fissi e assottigliati che ormai sembravano più piccoli del normale. Un tempo quegli occhi erano molto più grandi, ma a furia di nasconderli così tanto a chi li guardasse, s’erano ridotti a due terzi di com’erano precedentemente. Prima erano quasi grandi come quelli di Yoko, pensava quando si guardava ultimamente disgustato allo specchio, non volendo guardare altro che il suo volto. Odiava spogliarsi, mettersi la veste da notte e andare a coricarsi, perché era costretto a vedere altro oltre la solita divisa che lo faceva sentire e apparire forte e potente. Dentro c’era una frattura inamovibile, nell’animo, nel cuore, nel profondo. Quella frattura non è mai stata rimarginata, solo riempita con tanto odio che egli credeva potesse colmare il vuoto. Ormai la ferita era più che evidente, si faceva sentire: putrida, intaccata, avvelenata da tutto quell’odio che le era stato scagliato contro dal generale, che nessuno avrebbe mai detto non si fosse amato almeno un po’.
Ebbene quello si fissava in quel rettangolo decorato a dovere, in ottone, sfarzoso e pesante. Aveva un’aria regale, dato che dopotutto era sempre il capo assoluto di Kintou Est e a maggior ragione di Kintou Shuto. Man mano un ghigno cresceva sulla sua faccia, un’espressione di dispiacere, di nausea, che gli fece voltare la testa verso il basso pur di non esser più costretto a guardare quel quadro. Quel quadro era lui ed era la cosa che più di ogni altra avrebbe potuto provocargli la nausea.
Tossì. Tossì piegandosi e mettendosi la mano guantata davanti la bocca mentre l’altra reggeva il frustino dietro la schiena. Gli occhi erano dapprima spalancati, poi si chiusero pian piano, diventando ancor più neri di quanto non fossero.
La porta si aprì lentamente e con permesso, mostrando metà della figura solida e ritta in piedi di Heizo che stava sulla soglia, aspettando che il generale gli rivolgesse la parola.
“Che vuoi?” Gli rispose solamente.
“Generale, mio signore, c’è uno sp-“
“Non ne ho voglia, sparisci, Heizo.” Lo licenziò, ma quello ancora era lì. “Ho detto fuori.”
“Posso aiutarla in qualche modo, signor generale?” Chiese formalmente quella sottospecie di servo.
“L’unica cosa che mi farebbe piacere in questo momento e starmene per i cazzi miei senza che tu o un altro di quegli imbranati venga a rompermi le scatole. Adesso sparisci, Heizo…” Ordinò con voce accasciata e impotente, con un pizzico di tristezza e rassegnazione. Heizo se n’era accorto che c’era qualcosa che non andasse nel generale… ma si limitò ad ubbidire e a sloggiare il prima possibile, lasciando che quell’altro si accasciasse al muro e con i denti digrignati cominciasse a sentire un forse bruciore agli occhi coperti dal braccio.
 
 
Yoko era nella sua stanza che si stava appena finendo di asciugare con un accappatoio che le era stato gentilmente regalato dopo la morte di Tohma. Dopo l’esecuzione, Yoko aveva preso dalla sua camera molti dei suoi effetti personali o altro per tenere vivo il suo ricordo vicino a lei. L’accappatoio le andava molto grande, si piegava a terra ripetutamente, ma lei riusciva a non inciampare. La stoffa era sottile e morbida e pensò che fino ad ora non le era stato mai concesso un tale comfort proprio perché era una stupida ragazzina. Nella camera di Tohma c’erano una lampada da comodino, ad esempio, ma non c’era comunque la maniglia interna della porta. Lui era stato un soldato, un uomo, mentre lei era una donna e certi pensieri, certi desideri di comfort poteva lasciarli al mondo dei sogni e dell’egoismo. Si sentiva egoista a desiderare qualche piccola cosa inutile in più invece di altro. Non desiderava che il padre fosse venuto a cercarla, forse perché sapeva che quel soldato l’aveva già ucciso al suo arrivo a casa. Tori non avrebbe saputo dove cercarla: di sicuro non avrebbe mai pensato che fosse stata rinchiusa lì tra i membri dell’esercito della morte… era il destino che voleva che fosse egoista, allora?
Mentre pensava a ciò e con le dita sottili si accarezzava i capelli asciutti e guardava per terra, la porta si aprì pian piano. Le sembrò strano che non venne spinta contro il muro in modo da terrorizzarla. Ebbe finalmente il tempo di realizzare che quel legno di ciliegio si stesse muovendo e che stesse per rivelare una qualche figura. Ebbe per la prima volta il tempo di volgere lo sguardo dalla moquette alla porta. Forse era davvero venuto qualcuno a salvarla? Era qualcuno che si preoccupava di non spaventarla, pensò subito. Il suo lato dolce ed ingenuo stava risalendo a galla dopo quello aspro e combattivo dell’addestramento di quella mattina.
Vide prima una mano sottile e ben stretta al pomello esterno, poi un polsino di una divisa ed infine la figura del generale che coi suoi lunghi ed eleganti capelli coperti dal cappello faceva capolino dietro il ciliegio. In quel momento tutte le speranza di Yoko si infransero e prima che potesse ritornare abbattuta a guardare verso il basso, da dietro il letto, guardò negli occhi il generale, come sapeva che volesse che facesse. Voleva cercare di tenergli testa, di ubbidire ma anche di farsi rispettare almeno un po’ come venivano rispettati i suoi compagni uomini.
“Vedo che finalmente hai imparato a guardarmi negli occhi.” La voce suonò calma, senza rabbia ma con un po’ d’angoscia che non si potette del tutto percepire.
“Imparo in fretta, generale.” Rispose per la prima volta Yoko, che adesso sembrava quasi un vero soldato. Questo fece quasi sorridere il generale, che si avvicinò con calma guardandosi attorno. Una volta che il suo sguardo, però, incontrò il suo quadro, lo voltò disgustato verso il basso ancora una volta. Yoko l’aveva notato, e capì che lo dovesse tenere bene in mente per cercare di decifrare quell’enigmatico codice del cervello di lui.
Si fermò davanti a lei guardandola da capo a piedi e posando lo sguardo infine sul petto senza che Yoko se ne accorgesse. Fissava l’accappatoio, che ricordava non le avesse donato.
“È di Tohma?”
“Sì, generale.” Si limitò a rispondere così a quello sguardo deluso.
Ci fu del silenzio per qualche minuto, un silenzio che fece salire l’ansia alla ragazza, mentre l’altro camminava in giro per la stanza ed intorno a lei, quando si fermò alle parole di Yoko.
“Voleva dirmi qualcosa, generale.” Quello la guardò distratto che tentava di ricordare di cosa stesse parlando. Stranamente le diede il beneficio di una risposta pensata e non buttata violentemente lì. Perché, poteva già meritarsi delle risposte non buttate a caso? Era questo che Yoko pensò quando egli le rispose.
“Lascia perdere, piuttosto…” Si avvicinò a lei pericolosamente, con lo stesso sguardo triste e frustrato allo stesso tempo. Prese una ciocca dei suoi capelli tra le mani e se la portò vicino al naso. Lei lo osservava mentre nel suo cuore sentiva un’ansia che cresceva sempre di più fino a farle mancare il respiro, ma cercò di non darlo a vedere.
“Sei profumata.” Si limitò a dire, anche se avrebbe voluto chiederle che cosa avesse usato contro l’odore del catrame ormai fissato sui capello. Avrebbe voluto chiederle se trovava che anche lui fosse profumato, nonostante l’odore degli olii al loto venisse coperto dall’odore del fumo e della passione. Si faceva schifo.
“Grazie.” Il generale alzò per un attimo lo sguardo verso di lei, per l’inaspettato ringraziamento, poi, realizzata la cosa, lo riabbassò verso la ciocca di capelli e poi li lasciò cadere morbidi sull’accappatoio. Guardò Yoko nelle pupille nocciola: gli stava tenendo teste, vero? Pensò. Stai cercando di decifrarmi, piccola ragazzina? Pensò ancora. E poi ancora tanti, tanti pensieri che non trovarono risposta.
Si avvicinò ancora di più, abbassandosi su di lei che si spostò all’indietro per evitare di essere sovrastata. Quello scappare dietro e più indietro a piccoli passi divertiva il generale, ma non così tanto quanto l’avrebbe divertito, un tempo, terrorizzarla. La trovava piacevolmente divertente, come un bambino che gioca con uno scoiattolino, che lo accarezza, che gli tira la coda e che gli fa male, ma che in fondo è consapevole del fascino dell’animaletto
Yoko finì spalle al muro.
Di nuovo.
Nigenaide1 Non voglio farti del male.” Fece come un lamento atono, appoggiando una mano al muro, mentre Yoko indietreggiava con la testa e poi con i piedi, cercando di trovare scampo senza sembrare impaurita. Ma perché scappare se non si è impauriti? Lo guardava fisso, con uno sguardo senza emozioni, tentando di sembrare forte. Il generale si fece più avanti e mise una guancia su quella della ragazza, muovendo la testa.
“Le tue guance sono morbide…” Alzò le braccia e posò le mani sul sottile collo di Yoko che era lì immobile e poi scese fermandosi sul petto. Il respiro della ragazza faceva muovere su e giù le mani del generale ed appariva rumoroso nel silenzio generale. Quello sembrava morto: non inspirava né espirava. Era statico. Yoko tentò di fermarlo mettendo, restando immobile, una mano sul polso del generale cercando di spostarla via dal suo petto, ma quello con uno sguardo disperato la prese e gliela ripose lungo i fianchi. La stessa mano andò ad accarezzare con le nocche il viso morbido di Yoko che cominciava a muoversi a destra e sinistra lentamente per tentare di liberarsi senza opporre troppa violenta resistenza. Le sue ciglia si incurvarono all’insù, preoccupate, mentre la bocca semischiusa aveva perso quasi il fiato. Lui invece era calmo, sebbene anche lui aveva un’espressione inquieta, preoccupata, scomposta, come se stesse cercando la salvezza di qualcosa negli occhi della ragazza. Una salvezza malata.
La mano del generale si mosse velocemente lungo il fianco di Yoko che tentò di fermarlo bloccandogli saldamente il polso ed emettendo un mugolio. Egli non si fermò e con forza tentò di slacciare la cintura dell’accappatoio, ma trovò che le mani di Yoko ancora interferivano.
“Dai, lascia che ti accarezzi…” Strusciò la guancia contro quella della ragazza mentre emise quella frase dal tono disperato, quasi un mugolio. Respirò profondamente. Yoko teneva duro e non permise alle mani del generale di intrufolarsi in un primo momento.
“Non fare la testarda…” Sempre quel tono languido, quasi pietoso… Yoko era confusa, quasi voleva cercare di capire perché in quel momento la stesse intenerendo così tanto l’immagine di quel generale inerme e senza potere. Abbassò la guardia e le mani del generale slacciarono l’accappatoio che scoprì parte della pelle bianca di porcellana di Yoko. Questa tentò inutilmente di coprirsi mentre egli accarezzava le sue gambe con una malata dolcezza non tipica del suo animo. Era strano… Perché? C’era voglia di sfogo, c’era dolore nella sua voce, c’era rimpianto, rabbia, agonia, ricerca di speranza, ma cosa voleva veramente da lei? Non era quello il momento per scoprirlo.
Yoko si protesse con un braccio piegato orizzontalmente davanti al petto che, facendo forza, riuscì a spostare senza troppa fatica il generale che rimase fermo a quel metro di distanza, inerme. La guardava mentre innocentemente si riallacciava l’accappatoio e lo guardava distrutta, con gli occhi gonfi e rossi. Si rinchiuse nel bagno mettendo lo sgabello davanti e sedendosi sopra quello per non far entrare il generale, che però non oppose resistenza ed uscì velocemente fuori la porta, questa volta sbattendola.
Nel frattempo la ragazza era nel bagno, che piangeva silenziosamente. Pensava di poter resistere, di poter sopportare come una donna avrebbe dovuto fare, secondo come le diceva la madre, ma non c’era riuscita. Era debole, ancora troppo per diventare un soldato e l’esame finale era a distanza di settimane: la battaglia. E lì, in tenda, tra i boschi, dove nessuno l’avrebbe sentita ancor più che in quella gabbia di legno di ciliegio, cosa avrebbe fatto?
Sul tetto dell’edificio, Yoko, guardava la luna crescente nel cielo notturno e coperto di nuvole di Kintou Shuto. Non le importava di essere trovata, ma la luna era stata una dei suoi punti di riferimento da sempre. Era quasi piena, era bellissima, enorme e sovrastava i cieli aprendo uno squarcio morbido tra le nubi nere, da cui traspariva del blu. Il bianco della luna crescente ispirava fiducia forza e speranza nella povera Yoko. Lei si limitava a fissarla, con indosso solo un cappotto della divisa e senza cappello. Aveva i brividi ma l’urgenza di parlare alla luna era stata troppa per poterle permettere di mettersi la divisa. Tremava, la fissava, pensava. Pensava soprattutto a Tohma: rivedeva il suo ritratto dai lineamenti grigi, come un disegno senza colore, dipinto sulla luna, di spalle, col volto rivolto verso lei che le sorrideva come nell’ultimo addio.
Poggiò un braccio infreddolito sui mattoni del balcone più in alto sul tetto, poi l’altro e poi poggiò la testa sulle sue braccia, inclinandola e spostando il suo peso su un’anca.
 
Koko ni anata ga ireba īnoni, Tohma2
 
Il generale, nel frattempo, correva fuori il campo d’addestramento, saliva su una scala a pioli che portava sul sottile strato di tetto della recinzione in muratura e vi si sedette. Era nel bel mezzo di un vortice di emozioni negative e cupe.
“Perché no? Non sono abbastanza bello? Non sono adatto a passare una notte con te? Perché Tutti mi odiano? Perché sono un mostro del genere!?” Urlò tra sé e sé il generale, mentre le lacrime calde gli riscaldavano il volto: la luna crescente sembrava così uguale a Yoko…

 
 
• Note dell’autrice 
 
 
 


1) Non scappare
2) Vorrei che fossi qui, Tohma
 
Oh, Dio… Questo capitolo… forse perché sono appena reduce da Ano Hana, ma… ho voglia di farmi ancora più male scrivendo cose del genere così tristi. Il capitolo in sé è triste dato che mi aspettavo qualcosa di più, ma se non fosse stato così non avrebbe reso l’idea… Jougen no Tsuki di Kaito, grazie dell’ispirazione! Vi voglio bene, lettori, un bacio e alla prossima! Se la storia vi piace cliccate per seguirla o lasciate una recensione, mi farebbe molto piacere… *cuoricino*.
 
-Bloody Schutzengel

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


• Capitolo 11 •
Porta verso la libertà

 


“Yoko?” In casa non c’era nessuno. Il piccolo ingresso spoglio e semplice non dava segni di vita: di solito aveva almeno un pizzico d’allegria familiare, ma allora, niente. Hatori fece qualche passo in avanti, non molto preoccupato inizialmente. Procedette con cautela ed iniziò a farsi delle domande nel momento in cui nessuno lo era venuto ad accogliere nemmeno dopo aver sentito i suoi passi. La sua fronte diventava sempre più piena di rughe d’espressione: inquietudine, brutti presentimenti, brutte sensazioni.
“Signora Kurai?” Chiamò di nuovo il ragazzo entrando in salone, ma non sentì nulla a parte una puzza di sangue e di morte. Si sbrigò e si affacciò alla porta della cucina: la madre di Yoko era a terra, in una pozza di sangue che proveniva sia dalla gola tagliata e sia dalle gambe. La gonna era sporca di rosso e gli occhi erano spalancati ed infossati all’interno della faccia scheletrica e già in decomposizione. Hatori non si fece turbare dall’odore terribile, ma dal cadavere: era stata come una madre per lui. Haha wa1.  Non rimase lì impalato ma non si permise di abbracciare tra le calde lacrime il corpo della madre della cugina, ma corse via nelle altre stanze cercando Yoko. A giudicare dal cadavere, lo stadio di decomposizione era iniziato una o due settimane prima, quindi era al sicuro da eventuali intrusi in casa che magari stavano finendo il lavoro. Quello era già completo.
“Yoko!” Continuava ad urlare il ragazzo, spalancando ogni porta, ogni cassetto, ogni armadio, senza pensare che avrebbe potuto spaventarla se si fosse trovata lì. Spalancò la porta della sua cameretta: spartana, semplice e pulita come appena rifatta: non era stata lì. Tornò nel corridoio e spalancò la porta della camera da letto dei suoi genitori: il padre era a terra, accasciato e anche lui già magro e scheletrico, ma non troppo. Aveva un taglio al collo sulla parte posteriore che contrastava cremisi contro la pelle pallida e giallastra del morto. Non aveva il coraggio di vedere la sua faccia, di girarla: la rabbia accecava troppo Hatori in quel momento per permettergli di vedere qualcosa oltre la scena dell’assassino di colui che era stato come un padre per lui. I denti erano digrignati, stretti, gli occhi socchiusi con rabbia e lacrimanti. Nessun gemito, nessun rumore: solo respiri pesanti ed affannati dalle narici che parevano sputare fumo. Hatori si asciugò gli occhi con la manica del cappotto, senza badare alle ciocche di capelli castani che gli erano cresciute e che si erano bagnate.
Doveva trovare Yoko.
C’era ancora un posto in cui non aveva guardato ed era la cassapanca del soggiorno. La aprì e fu triste di non trovarla, ma anche felice di non averla trovata morta. C’erano solo dei tessuti splendenti, familiari, di mille e mille colori: erano i vestiti che le aveva portato dai suoi viaggi. Non li aveva mai messi, notò. Erano ancora piegati come quando glieli aveva portati, puliti e luccicanti. Non era triste che fossero ancora lì, anzi: sapendo che il regime proibiva tenere certe cose in casa, era contentissimo e quasi commosso che nessuno li avesse intaccati con la propria impurità e che nessuno li avesse portati via per bruciarli in piazza. Ne prese uno tra le mani e lo portò al viso: odorava di spezie, di terra, di loto e di altri fiori. Era il vestito che le aveva portato dalla sua amata Terra Rossa.
Hatori se ne era innamorato di quel popolo e delle sue tradizioni, che nulla toglievano a quelle dell’antica e pacifica Kintou. Il rosso, l’oro, l’ottone pregiato: la semplicità e la potenza dei draghi disegnati con l’inchiostro e il fascino degli ideogrammi che i Rossi avevano prestato agli abitanti dell’isola di Kintou. Hatori, dopo il suo ultimo viaggio, aveva deciso di prendersi una pausa dall’essere un mercante itinerante e diventare un commerciante di stoffa e spezie nelle campagne della Terra Rossa. Si era fatto crescere i capelli color cioccolato: ora avevano un lungo ciuffo disordinato sul davanti e ai lati del viso, mentre si rialzavano curvi sulla nuca, per via dei colletti alti dei vestiti dei contadini della campagna. Avrebbe voluto prendere Yoko con sé e portarla nella sua nuova Terra amata, Rossa e fortunata al di là del breve tratto di oceano: ma Yoko non era lì. Avrebbe voluto andare a vivere con lei a Kintou Ovest, nella terra pura, ma ormai la sacerdotessa Nami non si fidava più di nessun essere che non fosse uno youkai o una creatura magica. Era impossibile passare la barriera che aveva eretto per la pace della sua Terra Pura.
Non era impossibile, invece, trovare Yoko: l’avrebbe trovata, l’avrebbe salvata, l’avrebbe portata via da quel mondo di morte e di fumo, di grigio e di cupo. Hatori uscì da quella casa che ormai era solo un brutto ricordo: sapeva già dove andare.
 
 
Ormai dopo quello che era accaduto, Yoko faceva fatica a tenere fede alla sua parola: non riusciva a guardare negli occhi colui che aveva provato a violarla e a farla sentire sporca come s’era sentita sua madre prima che lei arrivasse. Temeva che solo guardandolo negli occhi come egli voleva, avrebbe potuto scatenare in quel demone desideri ancora peggiori. Ma Yoko non aveva notato che il generale era il primo che non voleva fissarla nelle pupilla nocciola, guardandola di soppiatto quando era girata e non poteva accorgersene. Era pentimento? No, solo inquietudine, si ripeteva lui, continuando a sbrigare faccende importanti dedite allo studio di mappe e di strategie per irrompere nella Terra Pura superando la barriera e per distruggere il Tempio di Nami. Un tempo l’avrebbe riempito d’eccitazione, l’avrebbe fatto ridere sguaiatamente l’idea di ridurre in brandelli quell’inutile donna che ostacolava i suoi piani, ma ora gli procurava solo una leggera felicità che non era paragonabile al giubilo che avrebbe sentito nel suo corpo in passato. Era solo un momento, sarebbe passato. Così diceva tra sé e sé, continuando a scrutare impegnato le cartine della Terra Pura nel suo salone privato.
La porta bussò.
“Avanti.” Disse, facendo un cenno con la mano senza girarsi, nonostante nessuno l’avesse potuto vedere da dietro la porta. Il ciliegio si mosse ed Heizo entrò calmo e risoluto. Chiuse la porta e solo allora il generale lo degnò d’uno sguardo annoiato ed inquieto.
“Sei tu. Che vuoi?” gli rispose mentre ritornava a guardare le carte gialle e le mappe per la battaglia.
“Mio generale, c’è qualcuno che insiste davanti al portone d’ingresso.” Il generale non si mosse minimamente, né si fermò di fare quanto stava facendo. “Dice che vuole vederla urgentemente.”
“Mandalo via e se necessario, fagli male. Non voglio rotture di scatole in questo momento.” Heizo lo fissava mentre i capelli melmosi rimanevano immobili e sparsi sulla schiena mentre le mani del superiore si muovevano sulle carte. Nel momento in cui il subordinato stette per rispondere che gli ordini erano stati acquisiti, l’altro cominciò a parlare. “E che vuole da me, questo?”
“Non dice che vuole.” Si limitò ad informarlo così, Heizo.
“Mandalo via.” Comandò definitivamente ed il vice uscì, senza opporre alcuna resistenza.
 
A destra c’erano disegnate, schematizzate, le terre di Kintou Est, con degli ideogrammi che stavano ad indicare città, montagne e fiumi. Così era per Kintou Ovest, ma c’era indicato il tempio di Nami in più e nessuna città2. Il generale le fissava con attenzione, disegnando con una matita schemi di invasione e di ritirata, accampamenti e quanto altro, quando Heizo entrò di nuovo, bussando.
“Che vuoi ora?” Stavolta il generale si girò stizza.
“Signor generale, signore, questo tale non vuole andarsene, vuole assolutamente parlare con lei. Ho provato a riferirgli che-“
“Non servi a un cazzo Heizo. Sia come migliore amico sia come vice generale. Sparisci, me ne occupo io, dato che non sai nemmeno prendere a bastonate uno stupido che si azzarda a voler parlare con me.” Detto ciò, quello si avviò impetuoso contro il portone, spalancandolo con stizza, ancora, per poi scendere velocemente le scale con il petto in fuori e portamento composto. Heizo lo fissò senza dire nulla.
In fretta e furia, giunse al portone d’ingresso, aprendolo con forza e quando si trovò davanti un ragazzo abbastanza alto, dai capelli lunghi (almeno per un uomo a parte egli stesso) e dagli occhi nocciola, rimase fermo e composto, scrutandolo. Il generale, seppur si fosse assicurato la fedeltà da cani dei suoi soldati con la sua violenza, scrutava sempre chi vedeva di nuovo e che pensava potesse nuocergli. Quando aveva visto Yoko, l’aveva fissata a lungo: sapeva che quella ragazza gli avrebbe dato del filo da torcere.
“Chi sei?” Tuonò il generale. Il ragazzo stette lì fermo con una postura da soldato, imponente e risoluto.
“Sono un umile abitante di Kintou Shuto, mio generale.” Educato, il ragazzo… pensò quello. Era allettante come carattere.
“Che ci fai qui davanti le scale del mio palazzo del mio governo?”
“Sono qui per chiedere di dare una degna sepoltura a due miei cari che sono stati uccisi nella loro casa. Sono ancora lì, dimenticati da Dio.” Il generale ci pensò su, prima di proferir parola.
“Non sono problemi miei se si sono guadagnati la morte: se l’hanno cercata, Dio ha fatto loro solo un regalo generoso. Adesso sparisci.” Fece per andarsene, quando Hatori insistette nel voler parlare ancora con quello.
“Mi ascolti, signor generale, la prego, degni loro di una sepoltura.” Rimase composto nella stessa posizione da soldato che ha tenuto fin dall’inizio. Il generale sembrava scrutarlo sempre di più: era curioso quel ragazzotto, quell’alto, forte e deciso ragazzo che insisteva così tanto per delle morti che non erano nuove a Kintou Shuto. Ogni giorno ci si poteva trovare dei morti in casa ed in ogni momento ci si sarebbe potuti dimenticare di loro. Ma quel ragazzo… Gli occhi nocciola… era curioso. Era familiare.
Un piccolo sospiro di vento fece ondeggiare i capelli del generale e fece invece alzare il ciuffo di Hatori facendolo finire sulla sua faccia. Per scoprirsi il volto, il ragazzo si mise una mano nei capelli e in un preciso secondo, gli occhi del terribile capo, riconobbero quella figura tanto studiata nel momento in cui la mano aveva portato dietro tutti i ciuffi come se quello avesse avuto i capelli molto più corti. Lo conosceva. Non era una bella vista.
“Sparisci, non sei il benvenuto.” Il generale si mise sulla difensiva.
“Mi faccia entrare nel suo esercito per servire i suoi ordini e il suo regime.”
“Non raccontarmi palle, ragazzino! Io so chi sei! Non sei il benvenuto qui, ne ora né mai e se non ti decidi a girarti e a tornare da dove sei venuto, ti ci sbatto io con la forza. O forse vuoi la ghigliottina pubblica? Scegli quello che preferisci!” Gli ringhiò contro: pensò che fosse stata una fortuna aver conservato e studiato più volte la foto del cugino di Yoko che aveva trovato nel taschino della sua giacca la prima notte in cui l’aveva ritirata. Sapeva che tenere una foto di un familiare sempre con sé era segno di grande affetto e di un forte legame. Sapeva che prima o poi questo momento sarebbe arrivato, per cui doveva conoscere il volto del possibile salvatore di Yoko.
Hatori non disse nulla, solamente, stette zitto e tentò di muovere un passo avanti su uno scalino, ma il generale prontamente chiamò delle guardie e lo fece acciuffare prima che potesse finire di sgattaiolare dentro il palazzo. Era stato poco furbo…
“Soldati, portatelo alle rive nord di Kintou Est, da dove, remando dritto, si arriva alla Terra Rossa. Portatelo lì oltre il mare e assicuratevi che ci rimanga e che non venga più a dare fastidio a Kintou Shuto.” Quattro, cinque, sei guardie presero il forte Hatori e lo portarono via, ma egli non poté non dimenarsi ed urlare di lasciarlo andare. “Sei stato poco furbo, ragazzo.” Sibilò il generale.
“Non sarà l’ultima volta che mi avrete rivisto, generale, glielo giuro!” Ringhiò in risposta Hatori, senza opporre troppa resistenza e senza procurarsi altri guai: avrebbe trovato un modo per tornare anche dalla sua amata Terra Rossa. Pensava già ad un piano di fuga quando il genale lo stava fissando dritto negli occhi, come se volesse bruciarli col solo contatto visivo. Nessuno poteva portare via Yoko dal suo funesto destino di soldato a servizio del generale: nessuno. Nessuno poteva strappare quel giocattolo dalla mano di quel malvagio bambino. Era una sua proprietà. E intanto Hatori si allontanava e si allontanava, ora più calmo, ora di meno, sempre più lontano da Yoko.
 
 
I pochi alberi di Kintou Shuto cominciarono a perdere tutte le foglie gelide ed umide, che formavano spogli e deboli tappeti arancioni sul lastricato grigio della città. Donavano giusto un po’ di colore quanto bastava per non far impiccare ogni abitante della capitale. Yoko questo non poteva saperlo, quando per il tardo pomeriggio tornava dall’addestramento, finito leggermente prima del solito, alla sua camera, per farsi un bagno e per andare a cena. La domenica era stranamente, una giornata molto molto calma. Era perché il generale voleva spacciarsi per un buon cristiano, dicendo che la domenica era il giorno del suo Dio e che doveva essere onorata rilassandosi un po’ di più rispetto al normale.
Quella notte, saranno state le due, Yoko non riuscì di nuovo a chiudere occhio, pensando a cosa potesse fare per resistere a quella tortura senza scampo ancora per un po’, quando la porta della sua camera si aprì come un dejà vu, di nuovo: era, di nuovo, il generale.
“Mettiti quel kimono che ti ho lasciato sul letto la prima notte che sei venuta qui ed aspettami davanti alla scalinata del salone.” Chiuse la porta e se ne andò, non prima di aver squadrato la ragazza da capo a piedi lentamente con sguardo indagatore ed inquieto.
Yoko non capì ma non pretese di farlo. Si alzò lentamente, barcollando per il sonno che non riusciva a colmare, e si diresse sbandando verso l’armadio, infreddolita per la differenza di temperatura da fuori e dentro le coperte. La sua pelle era tutta ruvida: aveva la pelle d’oca e quasi tremava dai brividi di freddo, ancor di più quando, in pieno autunno, dovette farsi bastare quello scollato e volgare kimono che la lasciava scoperta. Si guardò ancora una volta allo specchio per un po’, cercando di abituarsi a quell’immagine di lei così impura e sporca.  Uscì dalla camera ed attraversò tremando il corridoio nero pesto, per uscire sul corridoio del secondo piano. Scese le scale elegantemente e velocemente ed aspettò il generale dove le aveva detto, solo più ad angolo, vicino il poggia mano. Lui non tardò ad arrivare: fu lì in pochi minuti ed era vestito com’era vestito quando andava a divertirsi con l’amico Heizo.
Il generale guardava Yoko ancora più indagatore di prima, scrutandola nei minimi dettagli mentre quella cercava di coprirsi ad ogni sguardo che sentiva su di sé. Lui le prese una mano che stava tirando su un lembo di stoffa e gliela ripose lungo il fianco, come per dirle di finirla di tentare di coprire ciò che lui provava piacere nel vedere.
Yoko non l’aveva mai notata la porta di fianco alle scale, nascosta, sulla cui trave era inciso “Kindan no tobira3”. Tohma gliene aveva parlato, se la ricordava, quella porta. La porta proibita da cui le raccontava provenissero rumori strani, urla, gemiti, applausi. Gli stessi applausi che sentì quel giorno prima che Tohma venisse ucciso? Quella notte? Forse. Stava per scoprirlo.
Entrarono.
L’odore di fumo e di tabacco pervasero Yoko già prima di entrare nel teatro. Fu colta di sorpresa dal grande palco e dalle luci soffuse, quanto dai tanti uomini che lì la guardavano come si guarda un’animale raro allo zoo. Si sentiva mangiata con gli occhi e si sentiva sporca, male, brutta, terribilmente brutta. Brutta perché impura. La purezza era essenziale per gli dei… La pulizia, la purezza, la limpidezza.
Yoko non si lasciò scoraggiare dalla stanchezza, tantomeno dall’atmosfera e cercò di ricordarsi le parole di Tohma sulla stanza proibita. Si ricordava che le aveva detto di una porta che portava ad un lungo corridoio e poi ad un’altra porta verso l’esterno: come aveva fatto a non pensarci prima? Avrebbe potuto scappare da tutto quello! Scappare via! Le pattuglie non l’avrebbero trovata nel passaggio sotterraneo che portava alla landa desolata a confine con la città. Tohma gliene aveva parlato, ma il pensiero della sua morte non gliene aveva fatto assolutamente ricordare. Era speranzosa, la coraggiosa Yoko, era sicura che quella volta ce l’avrebbe fatta.
Durante tutto lo spettacolo, la ragazza non fece che fissare con pietà le povere ballerine costrette a danzare in abiti che le mettevano così a nudo… sentiva dolore al cuore per loro, poiché lei si sentiva per prima in quel modo: impura. Passò lo spettacolo osservando più il generale che lo spettacolo stesso: lui beveva del vino, ma solo qualche goccia, senza finire nemmeno un bicchiere come era solito fare con Heizo. Quella sera il vice non era lì, però. Che strano…
Il generale guardava solo lo spettacolo, ma ogni tanto cercava di accarezzare Yoko che furbamente si spostava ed allungava la testa per tentare di trovare quella maledetta porta verso la libertà. Fu tutto vano.
Finito lo spettacolo, il generale prese Yoko per un fianco e la trascinò con se in una stanza che conosceva solo lui, di cui nemmeno Heizo sapeva l’esistenza. Dovettero attraversare sempre lunghi corridoi ed intricati labirinti bui e sotterranei per potervi arrivare, però riuscirono nell’impresa. Davanti a loro un quadro di un qualche generale, forse anche l’attuale, rovinato, incrostato, sporco e sbiadito tanto da non poter far riconoscere la figura che vi era ritratta. Il generale spostò il quadro polveroso con fatica, dato che era grande quanto una porta e scoprì una tavola di ciliegio con un pomello. Girò il pomello d’ottone ed entrarono. Yoko cominciava a perdere il controllo dei suoi battiti del cuore dettati dal crescere dell’ansia.
Avrebbe trovato quella porta, in qualunque modo.

 
 
• Note dell’autrice 
 
 
 
1) Una madre.
2) Giusto perché mi divertiva metterli:
均等しゅと significa ‘Kintou Shuto’;
yama, significa ‘montagna’;
kawa, significa ‘fiume’;
波の寺 Nami no tera, significa ‘Tempio di Nami’.
Sono gli ideogrammi della cartina di cui parlavo. Forse la disegnerò? Forse.
3) 禁断の扉: porta proibita, ovviamente. Quelli sono gli ideogrammi incisi dulla trave.
 
Salve a tutti con questo magnifico capitolo che è il più lungo (per estensione) della storia fin ora! (gli altri sono 5 pagine word, questo 5 e mezzo…). Volevo dirvi che vi amo da morire perché seguite la mia storia e mi fate diventare così emotiva ⇒(non c'era la freccetta dall'altro lato... me triste). Ma… okay! Dopotutto, un po’ di emotività ci sta. (Ma che sto dicendo…)
Alla prossima! Recensite!
Vi voglio bene.
 
- Bloody Schutzengel (che oggi è troppo emotiva)

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


• Capitolo 12 •
Bruciore
 
 
 
La porta si chiuse normalmente, senza fare troppo rumore. Venne chiusa molto bene, in modo da non poter essere aperta da soldati curiosi: del resto era situata nei meandri di quel palazzo. Il generale sembrava, per certi versi, qualcuno a cui della privacy non fregava poi così tanto, e invece… a volte pareva che si guardasse attentamente anche dallo stesso Heizo o da Yoko, come avesse qualcosa da nascondere. Aveva forse lui paura di essere attaccato alle spalle? Poteva essere. Lo stava facendo anche in quel momento: stava attento ad ogni puro, innocente movimento di Yoko, come se temesse che potesse aver rubato un qualche coltello dal tavolo dov’erano seduti prima. Ma non era lui quello che doveva incutere timore? Sì. Era lui, infatti Yoko ancora stava attenta ai suoi di movimenti, nel caso che avesse fatto qualche movimento brusco che le avrebbe dato il permesso di scappare a nascondersi.
Il generale fissava Yoko con i soliti occhi indagatori, specialmente il suo petto, il suo viso, il suo tutto. La fissava. Al contrario, lei fissava un po’ per terra e trovava di tanto in tanto il coraggio di guardare il generale fino alla cintura della divisa. Non aveva più il coraggio di guardarlo negli occhi vestita in quel modo. Mentre lei si fece pervadere dalla vergogna, quello si avvicinò con calma, ondeggiando quasi sui fianchi, poi, una volta che fu abbastanza vicino a Yoko, la prese per le spalle non troppo delicatamente. La strinse più di quanto non stesse già facendo lei da sola. Tentò di abbassarsi con lo sguardo per incontrare quello della ragazza, che cedette e non si spostò che con le sole pupille. Si guardarono: la paura degli occhi nocciola di Yoko che nascondevano coraggio; il coraggio e la sfrontatezza degli occhi bui del generale che nascondevano la paura.
Strisciò le mani sul tessuto morbido del kimono di Yoko, mentre quella non si muoveva e tremava quasi. Cercava di sfilare quei lembi di seta rossa e nera dalle braccia lisce e minute della ragazza. Pian piano, sempre di più, un nuovo pezzo di carne rosa e chiara veniva scoperto, un nuovo tratto di pelle d’oca veniva rivelato e un brutto presentimento si faceva sempre più impossibile da cancellare dalla mente della vittima. D’improvviso, lei mise una mano su quella del generale che la stava lentamente spogliando, come se volesse fermarlo e lo guardò: non era più sicura di quello che voleva fare, di quello che era pronta a sopportare. Era stanca, voleva dormire sebbene non ci riuscisse, cercava riparo nonostante sapesse di non poterlo trovare.
Il generale continuò imperterrito a togliere di dosso quella veste dal corpo della ragazza, stavolta più velocemente, turbato dalla mano di Yoko che cercava di fermarlo: non voleva che accadesse. Il laccio sul ventre, la doppia fascia sotto il seno, non era slacciato, per cui fu come se si fosse ritrovata con indosso solo una strana gonna di seta. Istintivamente, Yoko alzò lo sguardo repentinamente, poi lo riabbassò, tutta rossa e tremante e si portò le braccia sul petto, per coprire ciò che era stato scoperto. Sembrava una bambina: non aveva già il corpo di una donna, aveva dei lineamenti troppo dolci e poco definiti per sembrare, in quello stato, già una ragazza di sedici anni. Quanti anni aveva il generale? Nessuno lo sapeva, ma in altrettanti non gli avrebbero dato più di una ventina d’anni: era esile, slanciato ed elegante, dal viso pulito comune solo ai giovani, ai giovanissimi. Era molto difficile per alcuni credere che potesse essere già un generale a quell’età. Era sconosciuto a tutti il suo percorso per poter essere arrivato fin lì, il suo passato, la sua famiglia, nessuno sapeva se avesse avuto fratelli o sorelle o se i suoi parenti fossero morti. Nessuno si chiese mai perché non aveva ancora preso moglie e nessuno obiettava quando egli rispondeva a tali domande col dire che l’impegno della guerra era troppo grande per permettergli di sposarsi.
Prese Yoko ed incrociando i propri piedi coi suoi, le proprie gambe con quelle della ragazza, camminarono fino ad arrivare ad una parete vicina ad un letto spartano e pulito come se fosse stato tenuto a posta così lindo fino a quel momento. Il generale afferrò i polsi di Yoko e li tenne fermi con una sola mano sul muro, sopra la testa della ragazza, senza essere violento. Era da tempo che non era così sanguinario, non che non lo fosse ancora nell’animo, ma c’era qualcosa che gli imponeva di calmarsi e di non essere così impetuoso. Cosa fosse, egli non lo sapeva, figuriamoci gli altri soldati o Yoko. La mano liscia e delicata per un essere tanto violento, teneva quelle pure e innocenti della ragazza ferme con inaspettata dolcezza. L’altra mano scivolava sul collo della giovane da una parte e dall’altra il generale piazzava dei baci pieni di rimorso, di rabbia verso sé stesso, di rimpianto e di inquietudine. Yoko lo percepiva, percepiva la poca sicurezza con cui la stava trattando, la sua inaspettata dolcezza. Non capiva come fosse lei l’unica mezza nuda lì, quando l’altro era costretto a sudare nella propria uniforme. Chiuse gli occhi strizzandoli, cercando di non guardare cosa stava accadendo su di lei: il generale scese con la mano, fino ad accarezzarle il morbido petto. Era abbastanza veloce nei movimenti, ora. Strano anche quello: come mai avesse quegli scatti di insicurezza e sicurezza non lo capiva. Aveva gli occhi serrati, respirava pesantemente e l’odore di fiori di loto arrivava piacevole alle narici di Yoko, che venne in parte rilassata da quella fragranza dolce. Ma gli occhi chiusi…
 
Me ga tojite iru minai yō ni1
 
Yoko aprì, non seppe perché, quegli occhi nocciola grandi e pieni di vita ed istintivamente il generale alzò lo sguardo per incontrare quello della ragazza e si allontanò subito dopo da lei che si mise un lembo di stoffa sul petto.
“Non guardarmi!” Le ringhiò quello anche se non si poté sentire bene.
 
Watashi no me o mite2
 
Il generale avanzò verso di lei velocemente e, prendendole un polso, la gettò strattonandola sul letto, facendola rimbalzare scomodamente. Yoko sentiva uno strano dolore al collo, come se un nervo le si fosse spostato così tanto violentemente da averle rotto qualcosa. Sentiva una sensazione di caldo sulla nuca, dall’interno. Era stordita dalla scossa. Sentì il generale che si accingeva a sovrastarla, mentre lei cercava di rigirarsi e volgere lo sguardo al suo carnefice. Una volta che si girò, quello si sedette sulle sue gambe con violenza, come il demone che l’aveva sempre posseduto fosse ritornato. La teneva ferma sotto il suo peso, mentre le prese di nuovo i polsi, stavolta più forte e li tenne forte tanto da far sbiancare le mani pallide di Yoko. Bloccò le mani di colei che era sotto di lui alla testiera del letto, mentre slacciava irrazionalmente con immotivata forza il laccio della fascia che legava il kimono di Yoko. Lei non poteva fare a meno di guardare, perché voleva almeno avere un poco del controllo di ciò che stava succedendo al suo corpo inerme. Quasi venne strappata la stoffa dei lacci e della fasciatura, venne scoperta la pancia di Yoko, mentre le parti più intime erano coperte alla bene e meglio da un lembo distrattamente appoggiato lì del kimono rosso. Le gambe della ragazza cercarono di stingersi, ma il peso che impose il generale su di esse era fin troppo da permettere a Yoko di liberarsi. Istintivamente le mani che bloccavano quelle della ragazza, o meglio, la singola mano, corse alla pelle di porcellana scoperta di lei, che mise le braccia libere tra sé e la divisa nera del suo nemico.
“Smettila!” Le ringhiava sussurrando quello, con un accenno di disperazione nella propria voce. Yoko non si arrendeva: doveva combattere per non farsi prendere dal generale. Quello, intanto, cercava di togliere quelle braccia da sotto il proprio petto, con gemiti di dolore. Dolore? Facevano male quelle braccia conficcate tra la pancia e il collo, facevano molto male, come se la stoffa fosse stata lì per entrare nella sua carne. Bruciava, bruciava tanto. Il generale non pianse, ma aveva il petto in fiamme, dolorante al massimo, tanto da fargli sfuggire dei mugolii e dei guaiti di dolore ma soprattutto di sopportazione.
 
Chotto matte… Jikyū-ryoku wa…3
 
Yoko spinse il più forte che poteva contro il petto del generale, che sfinito dal bruciore la lasciò andare e si lasciò cadere pieno di rabbia sull’altro lato del letto. Yoko si alzò velocemente, si ricoprì ma non scappò: non capiva perché il generale la stesse fissando con gli occhi rossi e pieni di lacrime di rabbia. Sputava quasi fumo dalle narici, aveva i denti ben visibili e digrignati, quasi appuntiti come un demone. Yoko percepì uno tsunami che si stava per abbattere su di lei, guardando quel soggetto tanto forte all’apparenza.
Il generale si scagliò ringhiando contro di lei che rimase impietrita, come in fondo lo saremmo tutti se ci puntassero contro un fucile dritto alla testa. Allo stesso modo, Yoko venne travolta dallo tsunami, spinta contro il muro. Sbatté la testa e si accasciò ancora cosciente per terra. Il generale si reggeva su di lei con una mano appoggiata alla parete di ciliegio, mentre la guardava furibondo e pieno di odio.
“Che cazzo ti prende? Eh?!” Gli urlava contro, mentre quella si copriva il volto come se quelle parole fossero state dei macigni scagliati contro di lei dall’alto. Nel frattempo, lo fissava, fissava le pupille contornate di rosso. “Qui sono io che comando, hai capito?!” Continuava ad alzare la voce, mentre lei si copriva e si abbassava sempre di più per sfuggire a quelle pugnalate. Non si rese conto che una spalla s’era scoperta per la seta scivolata via. “Hai paura di me?! Non voglio farti del male, cazzo!” Non smise di ringhiare, mentre l’altra era profondamente confusa… Le stava facendo del male, eccome! Era piena di lividi, tremava, sembrava un topo in trappola e lui pareva il gatto. Faceva male, faceva male sapere di dover essere un oggetto di sfogo.
 
Hai paura che possa essere la tua ombra, che io possa controllare ogni tuo respiro, pensiero o movimento? Fai bene, perché io posso fare quello che voglio di te, posso distruggerti, posso salvarti. Sei diventata il mio giochino per avermi sfidato non guardandomi negli occhi e fidati, non sei stata intelligente, stronzetta.
 
Quelle parole rimbombavano come dei dolori ricordi all’interno della sua testa. Yoko non riusciva a sopportare il contrasto di queste parole con quelle che ora le stava riproponendo il generale. Non poteva fidarsi, non era vero che non le stava facendo del male.
Era pazzo.
I pazzi non sanno quello che fanno, lui probabilmente sì. Allora perché sembrare malato? Perché essere tanto malvagio senza motivo? Forse un motivo c’era… Perché non spiegarlo?
Arrivò uno schiaffo.
“Se proprio devi guardarmi guardami come si guarda il proprio capo, non come si guarda un mostro! Io non sono un mostro! …Io non sono un mostro!” Le ringhiò e lei non capì più quanta rabbia e quanti rimpianti nascondesse tale frase, tale urlo, tali lacrime. Quell’acqua bollente di rancore che sgorgava dagli occhi impazziti del generale cadeva sulle guance di Yoko: bruciava, bruciava tanto. Bruciava il petto del generale, bruciavano le guance di Yoko. Bruciava quella situazione, bruciava ciò che non si riusciva a dire. Bruciava l’essere incapaci di parlar chiaro.
“Basta…” Sussurrò Yoko, guardando sottecchi il generale sopra di lei che prima spalancò gli occhi ritornati neri e calmi, poi, dopo nemmeno un secondo, con le pupille più infiammate di prima la spinse per terra e le diede un altro schiaffo.
Basta cosa? Basta cosa?! Non capisci! Non capisci! Io non sono un mostro, ingrata deficiente! Se avessi voluto farti del male ti avrei già ucciso, hai capito?!” E intanto gli schiaffi arrivavano, le vesti venivano strappate e nuovi lividi comparivano sul corpo di Yoko: tatuaggi del dolore del generale che non avrebbe mai più potuto lavar via. Quello faceva male: la stava picchiando, le stava facendo diventare la pelle livida, la stava facendo piangere e gemere di dolore, la stava facendo pregare di fermarsi. Allora cosa intendeva per non farle male? Se quello non era dolore, allora cosa poteva essere il dolore?
“Fa male, basta!” Le unghie del generale graffiavano la pelle di Yoko sulle braccia e sui fianchi. Le nocche erano bianche dalla forza impressa per darle un pugno che esitò ad arrivare.
“Fa male? Fa male? Tu non sai quello che fa davvero male!” Le urlò quella frase tanto forte da farsi sentire ai confini di Kintou Shuto. Le vomitò quella frase addosso. Allora tutte quelle ferite, lo stomaco a pezzi, i calci, i pugni della notte dell’uomo misterioso che l’aveva fatta finire in infermeria non erano dolore? Sua madre uccisa e violentata non era dolore? Vedere il suo unico amico morire davanti a lei, inerme, non era dolore? Cos’era il dolore? Yoko se lo domandava, ed intanto, mentre lei restava con gli occhi spalancati e guardava inerme il suo carnefice, il pugno arrivò forte e senza motivo, spinto da una forza che non fu la volontà del generale. Egli, infatti, era rimasto scosso dopo che le nocche toccarono il volto di Yoko, che quasi urlò, si sporse di lato tenendosi la guancia dolorante ma ancora morbida e pura. Jundo wa…4 Il generale la guardò impietrito, col braccio fermo nella posizione in cui era rimasto dopo che ebbe sferrato il colpo. Cosa aveva fatto? Perché le aveva dato quel pugno? Gli occhi tornarono sottili, indagatori e ricchi di tristezza e rancore: i soliti occhi del generale che si alzò e si mise un pugno sulla bocca, come per asciugarsi del sangue dopo un calco nello stomaco. Se si sa cosa è davvero il dolore, è davvero così giusto farlo provare ad altri? Ma quella non era che la minima parte del dolore che aveva provato lui
Mentre il generale era in piedi, con lo sguardo rivolto verso il vuoto, Yoko era stata posseduta dal solito demone che dimorava negli occhi di quello che aveva di fronte: Le sopracciglia aggrottate, gli occhi che si intravedevano appena, quasi chiusi, la mandibola salda e i denti stretti. Si alzò, carica come non mai, tirò un braccio indietro e poi lo rilasciò sferrando un pugno al volto del generale che, distratto, barcollò senza cadere a terra. Ancora una volta, quegli occhi dapprima lampeggiarono di pietà, poi vennero offuscati dalla rabbia rosse del medesimo demone che bloccò il polso dolorante della rabbiosa e coraggiosa Yoko. Lei si dimenò tanto da liberarsi e da essere in grado di conficcare un gomito nel fianco del generale e di colpirlo al petto con l’altro avanbraccio.
Arrivò un urlo di dolore che non fu tanto forte come quello con cui aveva sputato addosso certe parole a Yoko, ma fu forte, disperato e allo stesso tempo debole. Sembrava voler cercare lo sguardo infuriato di Yoko, che adesso si serviva del poco dolore che aveva accumulato per difendersi. Il generale si riprese immediatamente e la ragazza intuì che stava per inseguirla, quindi coraggiosamente, buttò giù la porta che la separava dal corridoio esterno e si ritrovò ad affrontare l’incubo della prima notte…
 
Che c’è? Hai paura di un corridoio? Hai paura che al mattino quando dovrai attraversarlo qualcuno ti divori o che di notte io possa starti alle calcagna ringhiando e ridendo come un pazzo?
 
Gli occhi del generale lampeggiavano nell’intricato e buio corridoio, mentre quelli di Yoko passarono da rabbiosi a pieni di paura. Un brivido le percorse la schiena appena il suo corpo vagamente coperto lasciò la stanza in cui si era voluta cacciare inconsciamente. Fuori l’aria era leggermente fredda, c’era una specie di soffio, un vento, o forse era l’aria che sferzava il corpo barcollante di Yoko che correva? Quasi inciampava nel ricordare il percorso intricato di quello scuro labirinto. Le risate del generale che ora si facevano sentire, malate e vicine, non la aiutavano di certo a riconoscere quale dei multipli corridoi imboccare per la salvezza. Yoko correva solamente, cercando di non cadere e di non finire preda della belva che aveva alle calcagna. “Non voglio farti del male!” Rideva il generale, fuori di sé, mentre i suoi piedi bruciavano per le suole degli stivali che facevano attrito col terreno coperto da moquette dura e ruvida. C’era una sottile nube di fumo che aleggiava per tutti corridoi, come delle voci di ragazze che n quelle stanze non erano riuscite a fuggire al destino a cui era scampata poco prima la coraggiosa Yoko. Lei respirava, inalava tutto quel fumo, quella nube tossica di oppio e di sigari che le fece dimenticare il piacevole profumo di loto del generale che l’aveva quasi ammaliata del tutto. I piedi nudi della ragazza correvano doloranti, sbattevano dolorosamente contro il duro e impervio pavimento, ma non la fecero mollare. Davanti a lei, Yoko vedeva una porta: la aprì, non sapendo dove portasse. Il generale era ormai lontano parecchi metri: l’aveva riuscito a distanziare.
Si ritrovò nella sala del teatro allora sgombra, vuota e silenziosa. I tavoli erano stati portati via, le sedie erano state impilate una sull’altra e spostate lungo le pareti: lo spazio era vuoto e spoglio, con lo stesso terreno ruvido e duro. Yoko realizzò di trovarsi in quella stanza appena vi si era catapultata. Era silenziosa, si sentivano solo i suoi respiri e la nube di fumo e oppio era scomparsa finalmente. Era buia, ma era come se una qualche finestra magica l’avesse illuminata col baglio re della luna, facendola apparire ancor più tenebrosa: fa più paura non vedere nulla o vedere la sagoma di un mostro che ti insegue dagli occhi rossi sullo sfondo bluastro delle pareti scure, ora lontano, ora vicino a te? Yoko si rese conto che la seconda opzione era quella vera quando, mentre si voltò per controllare se il generale fosse arrivato, sentì un rumore da dietro la sua schiena e di scatto, girandosi, vide la sagoma nera e i bianchi denti del generale sorridere malignamente nello spazio bluastro, rossastro, nero. Questa sagoma cominciò a correre verso di lei e mentre Yoko scappava, una volta voltatasi indietro non la vide più lì ma davanti a sé, come si fosse sdoppiata.
“A che gioco giochi, Yoko?” Le sussurrava il generale, con l’inconfondibile voce triste, mentre la ragazza scappò dalla parte opposta. Il cuore in gola che batteva forte, che scoppiava. Sentiva il sangue spargersi per tutto l’interno del proprio corpo, lo sentiva riscaldare ogni angolo di sé come se ogni vena fosse scoppiata in un secondo. Le bruciava la gola, aveva gli occhi infiammate e vedeva ombrato, come se avesse la vista offuscata da qualche cosa. Era in preda al panico. Si guardava attorno cercando una via di fuga, una porta, quella porta.
Trovata.
C’era inciso sopra “Yokogiranai5”, era di ciliegio, bella, lucida ma anche polverosa: era lei la porta per la libertà di cui le parlava Tohma, se lo sentiva. Yoko senza pensare corse verso quell’incisione, il più veloce che potesse e appena fu ad un passo dalla libertà, il generale le avverrò un polso. Si girò e vide quella figura terrificante vicina nel buio che rideva come una belva famelica, soltanto che piangeva, piangeva lacrime calde che nessuno poteva sapere a chi fossero dirette. Anche Yoko non pensò fossero rivolte a lei. Infatti non era per Yoko che il generale piangeva…  ma allora perché sprecare qualcosa di così prezioso quanto il sangue?
Yoko colpì il generale con un pungo carico delle sue ultime forze e spalancò la porta rumorosamente, come un botto, buttandovici sopra con tutto il proprio peso. Il generale non la seguì, non sentiva i suoi passi, ma poteva sentire le sue risate impastate di pianto.
Il corridoio era ancora oscuro: brancolava velocemente nel buio. Per  terra non c’erano più moquette ed assi di legno, ma ciottoli grandi, dolorosi per i piedi esausti di Yoko, che non tenevano più il passo con la sua voglia di fuga. Continuava a poggiare i propri passi su piccoli ciuffi d’erbacce che crescevano tra ciottolo e ciottolo.
Inciampò: aveva preso una storta al ginocchio. Gemette di dolore e lanciò un grido: era indifesa e non poteva nemmeno più muoversi. Tentò di avanzare zoppicando, ma il peso era troppo per la gamba ferita che crollava sotto la scarsa mole di Yoko. Lei aveva freddo, coperta solo da quel drappo di seta morbida e leggera. Si strinse all’interno del largo abito, se lo mise come un mantello sulle spalle, riuscendo a coprire anche le gambe per la lunghezza della veste, poi continuò ad avanzare, con gli occhi appannati che non vedevano più nulla che un lungo corridoio nero di ciottoli. Sembrava un tunnel di una ferrovia, senza binari e senza treni. Tirava un vento fastidioso, leggero, che penetrava nella seta e la faceva tremare. Cadde di nuovo, proprio quando si rese conto che qualcuno, dalla parte opposta, stava camminando contro di lei, verso di lei.  
Le pattuglie.
Come poteva essersene dimenticata?
Tentò di tornare indietro, inutilmente, dato che ad ogni movimento le lacrime scendevano sempre più copiose per il dolore al ginocchio slogato. Tentò di strisciare, da seduta, come se stesse remando sui ciottoli. Le braccia erano troppo deboli per reggere un tale sforzo, per portare a compimento tale richiesta. I passi del soldato erano sempre più veloci, sempre più vicini.
Era la fine.
 
 
• Note dell’autrice 
 
 
 
 
1) Gli occhi vengono chiusi per non guardare.
2) Guardami negli occhi.
3) Aspetta un momento… La sopportazione è…
4) La purezza…
5) “Non attraversare”.
 
Capitolo più lungo della storia fin ora! Perdonate se ieri non ho aggiornato, ma un matrimonio ha portato via tutto il mio tempo per scrivere… Adesso come li smaltisco tutti gli antipasti, i primi, i secondi e la torta nuziale per il cosplay del Comicon? Ah… non pensiamoci. Scrivere questo capitolo è stato molto rilassante, al contrario di ciò che si potrebbe pensare. Non so perché: sarò sadica? Può essere… ma no! Io adoro Yoko, perché voglio farla soffrire così tanto? Beh, almeno l’ho fatta quasi fuggire… Ah ma la storia finisce qui? Una bad ending? Oh, mio... può essere? Finirà così "Sotto mille ciliegi"? Aspettate il prossimo capitolo per scoprirlo.
Recensite, miei pargoli e… al prossimo capitolo (non sarà mai l'ultimo *cuore*)!
 
- Bloody Schutzengel XOXO

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


• Capitolo 13 •
Palcoscenico

 

 
Il generale era rimasto lì dove Yoko l’aveva scacciato, tramortito ma non senza forze. Era a terra, guancia sul pavimento, sguardo perso e gola che bruciava tanto quanto gli occhi. I pugni si strinsero dopo non molto, cominciando ad affondare le unghie resistenti e non tagliate nella carne dei palmi. Le labbra si premevano tra loro sempre di più come se una avesse voluto aprire un varco nell’altra. I respiri si fecero imponenti, soffocati, strozzati e pesanti, poi, arrivarono delle lacrime che nemmeno il generale stesso si accorse stessero scendendo lungo le sue guance. Aprì leggermente la bocca, dischiuse quelle labbra sofferenti e si spostò i lunghi ciuffi di capelli dal viso, per non farli inumidire. Respirò a bocca aperta ed i suoni malinconici che ne uscirono valsero molto più di tante altre parole che avrebbe potuto. Singhiozzi inermi e soffocati riempirono quella stanza silenziosa dove c’era solamente lui che non si era mai sentito tanto solo.
Si rialzò, tentando di non pensare a quanto potesse far pena essere visto in quel modo. Si asciugò le lacrime calde con rabbia, graffiandosi il volto con la ruvida stoffa della divisa. Respirò ancora, profondamente, tirò su col naso pateticamente come fosse diventato uno stupido moccioso incapace di trattenersi inutili pianti. Si voltò e prese a camminare dritto verso la porta che conduceva all’ingresso principale per poter uscire da quel teatro di perversione. Gli pareva che i fantasmi di coloro che erano ancora vivi, stessero ancora lì coi loro tavoli, con i loro sigari e il loro oppio intenti a godersi sguaiatamente quello spettacolo di ragazze innocenti portate lì con la forza o costrette da una inadatta situazione economica. Non provò emozioni alla vista di quei fantasmi, alla vista di quelle allucinazioni, ma gli apparve davanti, sul palco, un’immagine di Yoko, col kimono che indossò quella sera, che ballava lentamente da sola, con lo sguardo triste e sofferente. Era solo tristezza, non stava soffrendo davvero. Lo sapeva perché solo lui sapeva cosa fosse il vero dolore. Solo lui poteva capire se qualcosa poteva far soffrire qualcuno o no, di certo non Yoko.
Una volta in prossimità della porta, questa si aprì dall’esterno, svelando la figura esile e servile del vice generale. L’altro fece in fretta ad assumere un portamento degno di un dittatore, di un capo di stato e fece scomparire i segni delle lacrime sul volto.
“Heizo, che ci fai qui?” disse con calma, mentre l’altro si accingeva a chiudere la porta dietro di lui.
“Ho sentito degli strani rumori mentre vegliavo sulla vostra stanza, ma non provenivano da lì, quindi mi sono accorto che non eravate a letto. Sono sceso qui per vedere cosa vi stesse accadendo, signor generale.”
“Che cazzo dici, Heizo…” Sbuffò lui. “Non ti ho mai ordinato di farmi da bambinaia, e poi…” Guardò meglio l’amico che si nascondeva sotto la visiera del cappello. “Cos’è quel ghigno malefico? Di solito sono l’unico dei due che ghigna in quel modo. Sei strano Heizo e stai anche sorridendo. Che ti prende?” Lo guardò titubante.
“Non mi succede nulla, signor generale, è solo che mi è mancata una serata in vostra compagnia piena di divertimenti, non credete?”
“No, non mi importa di cosa ti manca, Heizo. Sei strano, torna al tuo posto e lasciami in pace. Stando qui non fai altro che inquietarmi, sembri posseduto. Hai bevuto, cretino?”
“No, signor generale, mio signore, sono sempre io, il vostro umile servitore Heizo. Non ho bevuto, sono solo più disinvolto del solito.” Continuava a dire il giovane, con una leggera aura viola che gli copriva gli occhi e con un bagliore rosso nelle pupille: sembrava davvero posseduto da qualcosa.
“È proprio questo che mi inquieta: il fatto che tu sia disinvolto. Sei un pezzo di legno di solito, non sei così… così… hai la faccia di un pervertito che ha voglia di fare qualcosa di strano. Fare qualcosa di strano a me. Sparisci.” Il generale se lo levò di torno, spostandolo bruscamente da parte con un braccio. Lo stesso braccio venne preso dallo stesso vice, che bloccò l’altro che era in procinto di andarsene. Questo guardò l’amico preoccupato ma ciò non trasparì dai suoi occhi neri, mentre Heizo si faceva sempre più inquietante.
 
Intanto Yoko stava ancora nel lungo e buio condotto ciottoloso ed umido che si nascondeva dietro la porta per la libertà. Di fronte a lei c’era ancora la sagoma nera e minacciosa di un soldato, molto probabilmente un soldato delle pattuglie. Egli si avvicinava con passo svelto a Yoko che aveva ancora il ginocchio slogato e dolorante oltre ogni immaginazione. Ormai le sue speranze erano morte, tutte in una volta, tutte insieme erano diventate carta straccia da gettare nel camino. Cercò di indietreggiare ancora, strisciando miserabilmente, ma quando gli stivali del soldato arrivarono all’altezza del suo fianco, non poté fare altro che urlare disperatamente. Non sentì nulla a parte il suo sfogo e la sua paura, ma le arrivò alle orecchie, sottile sottile, un suono simile ad un sibilo. Yoko aprì gli occhi perché conosceva questa voce, conosceva colui che possedeva tale voce e non ne aveva paura. Tuttavia, rimase sull’attenti…
“Sei Yoko?” Non vedeva bene al buio, anzi, non vedeva per niente la ragazza che stava urlando, ma sperava fosse lei. “Yoko! Sei tu?” Provò a sussurrare più forte. Era strano come lui non vedesse altro che nero, mentre lei riusciva almeno a distinguere le sagome nel buio come illuminate dal chiarore di luna. Il soldato si abbassò su di lei, tentando di non calpestarla accidentalmente e, alla cieca, poggiando grossolanamente ma anche con delicatezza le mani davanti a lui riuscì a toccare i morbidi capelli di Yoko. Ne prese una ciocca tra i respiri affannati della ragazza, se la portò al naso e ne riconobbe il profumo: non c’era dubbio che fosse lei.
“Yoko! Finalmente ti ho trovato…” La abbracciò mentre gli sussurrava con tanta dolcezza quelle parole. “Sono io, sono Tori! Sono venuto a salvarti.” continuava a sussurrarle mentre la tirava su abbracciandola. Yoko rise di commozione: non poteva essere: era proprio Tori? Hatori Kurai suo cugino, cugino di Yoko Kurai? Era lui. Non poteva crederci. No, era uno spirito, un qualche strano spirito che si era trasformato in Tori… Non poteva essere vero.
“Come mi hai trovato?” Sussurrò piena di una speranza che non aveva mai perso e pervasa da un’energia riacquistata tutta insieme improvvisamente.
“Stamattina sono tornato a Kintou Shuto per salutare te, la mamma e tuo padre come ogni mese. Sono tornato a casa tua e ho visto che non c’era nessuno, poi ho visto la mamma per terra, in una pozza di sangue che puzzava di morto. E’ stato bruttissimo Yoko… spero che tu non abbia dovuto assistere a nulla di tutto ciò… poi tuo padre. Era morto anche lui. E’ come se la mia famiglia fosse morta, Yoko, non solo la tua. Tu sei tutto quello che mi resta della mia famiglia, capisci? Finalmente ti ho trovato…” Continuava a stringerla inerme contro il proprio petto. Yoko poteva sentire i battiti del cugino. Sentiva le lacrime d’amore che le bagnavano la schiena semi scoperta e infreddolita e poteva sentire un senso di calore. Era come se fosse tornata a casa sua per un momento, come se fosse stata per qualche secondo lì, tra le coperte del suo caldo letto. “Copriti, prenderai freddo…” Le diede immediatamente la sua giacca della divisa e gliela mise come un mantello attorno alla schiena, poi la abbracciò ancora per riscaldarla.
“Sei diventato un soldato? Anche tu? Come…” Come aveva potuto, lui…
“No, Yoko, non sono un soldato. Non ho finito di raccontarti, ma ti spiegherò più tardi, adesso andiamo via prima che qualcuno ci scopra.” Le accarezzò sorridente il viso, poi si alzò e fece per andarsene. Yoko, ancora titubante riguardo l’identità che si celava sotto quella divisa del regime, provò ad alzarsi, ma sprofondò sotto il proprio peso senza accorgersene. Tori corse subito da lei e tentò di rialzarla. “Cos’hai che non va? Non riesci a camminare?” La sua voce faceva trasparire un’enorme preoccupazione ed ansia. Già, assomigliava proprio ad Hatori… Lo stesso Hatori che, come in quel momento, avrebbe preso a controllare le sue gambe per vedere se avesse qualcosa di rotto. Lo stesso Hatori che le stava palpando il ginocchio e che aveva constatato si fosse slogato, a giudicare dalle urla di dolore che Yoko emise. “E’ slogato, dannazione. Dai, vieni, ti porto in braccio.” Spalancò le braccia forti e muscolose per accogliere la ragazzina, che sempre timorosa ed indecisa si aggrappò alla stoffa di colui che doveva essere il cugino e si fece prendere come un neonato in fasce. Hatori la strinse forte al proprio petto, in modo da riscaldarla ancora di più ed avanzò il più velocemente che potesse verso la libertà. A quanto pareva, pensò Yoko, era entrato da dove lei stava cercando di uscire, quindi Tohma aveva sempre avuto ragione… Non avrebbe mai smesso di ringraziarlo e di pregare di nascosto per lui. Una volta a casa, si riprometteva, una volta nella nuova casa, lontano da Kintou Shuto, avrebbe pregato per il suo amico fedele ogni giorno ed ogni sera, per mostrargli la gratitudine più infinita.
Hatori riprese presto a raccontare a Yoko come fosse arrivato lì, mentre cercava di farla addormentare tra le sue calde braccia: si vedeva quanto fosse sfinita dai lividi, dalle ferite, dall’insonnia e da chissà cos’altro avesse passato.
“Dopo che ho capito che i nostri genitori erano stati uccisi, ho cominciato a cercarti dappertutto. Ho provato in camera tua, dietro i mobili, nella cassapanca, negli armadi, ma tu non spuntavi fuori. Solo allora ho realizzato che qualche soldato ti avesse preso e ti avesse ucciso. Però poi… mi è apparso uno strano spirito mentre stavo andando alle fosse comuni. Era come una nube, uno spirito, uno yurei. Era un ragazzo, assomigliava a me quando portavo ancora i capelli cortissimi. Sembrava contento ed energico per essere uno yurei1. Mi sono fermato ed ha iniziato a parlarmi. Sussurrava qualcosa, anche se so che in realtà cercava proprio di urlarmi in faccia energicamente parole e parole. In fondo gli yurei sono degli aliti di spirito a metà tra la vita e la morte, spiriti che non sono ancora passati nell’aldilà e che vogliono ancora avere voce in capitolo nel mondo dei vivi o che sono costretti a dover dire qualche altra cosa. Tuttavia, possono solo sussurrare.” Yoko ascoltava curiosa, come se fosse tornata la piccola bambina che si sedeva sulle ginocchia del cugino per ascoltare le sue lezioni di storia, religione, geografia, scienze e racconti di tutti i tipi. Le brillavano gli occhi come allora e solo in quel momento riconobbe che quello doveva per forza essere l’Hatori che ha sempre avuto a cuore. Prese un lembo di stoffa dalla divisa del ragazzo e lo accarezzò: era bello poter sentire il suo cuore battere in quel modo. Hatori la guardava incantato, come un padre guarda una figlia o come un fratello guarda la sorellina minore. Come si guarda qualcosa che è stato prima perso, poi desiderato perdutamente e poi finalmente ritrovato. “Lo spirito era uno spirito gentile, non servava rancore nel suo cuore di yurei: mi ha sussurrato lui che eri qui.” In quel momento gli occhi di Yoko si spalancarono, come se fossero stati sul punto di realizzare qualcosa. “Mi ha sussurrato all’orecchio, come un sospiro di vento, che eri stata costretta ad entrare in questo palazzo dal generale in persona, che sei stata coraggiosissima e che sei stata una vera amica. Mi ha sussurrato che vi siete fatti coraggio a vicenda e che ti ha guidata fin dove ha potuto e che poi è morto per salvarti.” Non c’era dubbio…
“Ti ha sussurrato il suo nome?” disse con un filo di voce Yoko.
“Credo di aver capito che si chiamasse Tohma. Si chiamava Tohma questo tuo amico, Yoko?” Le domandò con occhi languidi di commozione, godendosi il cenno di assenso della ragazza che sorrise come non capitava ormai da molto tempo. Yoko chiuse gli occhi e si raccolse in preghiera come gli permise la situazione, sussurrò qualcosa al vento, sperando che Tohma l’avesse potuta sentire.
 
Arigatou, Tohma… Honto arigatou…2
 
“Dannazione.” Erano giunti finalmente alla fine del corridoio di ciottoli, quando Tori provò ad aprire la porta di legno malridotta e messa lì alla bene e meglio. Il pomello non voleva girare e la porta non si aprì. Il ragazzo mise per terra Yoko, adagiandola sulla sua camicia per non farla finire a contatto con i ciottoli freddi. Rimasto a torso nudo e rischiando quanti più malanni possibili, Hatori si raccolse con le braccia sul petto e spinse di lato con tutta la forza che aveva, finendo con la carne sulla porta scheggiata. Questa non accennò ad aprirsi minimamente al primo colpo. Hatori continuò a lungo a sbattere con tutto il suo peso contro quella maledetta porta, ma nemmeno un cenno d’apertura. Yoko d’improvviso tentò di alzarsi per fermarlo, vedendo il braccio tutto scorticato, graffiato e dolorante, pieno di schegge.
“Tori… basta…” Tentò di dirgli, ma lui non ascoltava e guardava con espressione di dolore il proprio braccio e si toccò i graffi sul volto.
“Non si apre, dannazione. Eppure sono entrato da solo… Dannazione, ancora, dannazione!” Tirò un calcio al portone malandato, mentre Yoko tentava di porgergli la sua camicia, in modo da farlo coprire. Lui rifiutò con un cenno, poi la prese di nuovo in braccio e camminarono dalla parte opposta.
“Dove stiamo andando?” chiese timorosa Yoko.
“Non c’è un’altra soluzione, dobbiamo trovare un’altra strada, o moriremo qui dentro.” Era proprio quello che temeva: doveva ritornare nella sua prigione.
“No, Tori… ti prego… ho fatto tanto per arrivare qui… dentro c’è l’inferno…” Diceva disperata a metà tra il sonno e la veglia, come fosse diventata pazza. Tori cercava di consolarla, di accarezzarle i capelli per tranquillizzarla, solo perché egli non aveva vissuto in prima persona di cosa erano capaci coloro che abitavano quel palazzo.
“Tori… per favore…” Lui non la ascoltò.
 
“Lasciami, idiota, che cazzo ti prende.” Si strattonò il generale, liberandosi dalla molle presa di Heizo.
“Dov’è la ragazza?” chiese il vice.
“Ma cosa… da quando ti interessa quella… stupida… ragazzina?” quegli insulti faticarono per uscire dalla bocca dell’inquieto generale che trovava il suo compagno sempre più strano.
“Da quando è morto quel ragazzo vi comportate in modo strano.”
“E allora? Che cazzo c’entra questo con quella ragazza? Cosa vuoi da me, buono a nulla, lasciami in pace! Sparisci!” Gli urlò il generale e il subordinato ubbidì, non prima di sussurrargli un’ultima cosa guardandolo con occhi inquietanti.
“Il macellaio non dovrebbe affezionarsi ai suoi agnelli.” La porta si chiuse senza far rumore, mentre un’altra aperta con un leggero cigolio dalla parte opposta fece risvegliare il generale da tutti i suoi strani pensieri sul comportamento di Heizo. Si voltò e vide un ragazzo in uniforme per metà, a torso nudo con Yoko in braccio. Rimase stupito dal fatto che aveva riconosciuto subito la ragazza. I suoi occhi tornarono sottili e minacciosi come sempre, per cercare di intimidire il soldato che non aveva mai visto.
“Chi sei, soldato?” fece con tono solenne ad alta voce. Il ragazzo alzò lo sguardo ed in quel momento il generale avanzò a grandi passi verso di lui. Hatori mise per terra Yoko, da parte, in modo da non coinvolgerla in ciò che stava per accadere. “Ancora tu, bastardo! Pensavo ti avessi rispedito da traditore di Kintou Shuto quale sei alla tua terra del cazzo!” A quel punto il generale, con movimenti tanto fluidi ed eleganti quanto feroci, impugnò l’elsa della sua katana con una mano e con l’altra il fodero, facendo scivolare fuori dall’involucro la lama lucente ed affilata. Una lama curva ed elegante, raffinata, quasi d’argento che risplendeva agli occhi di Yoko come fosse fatta di diamanti. Chissà quanto sangue era stato versato a causa di quella spada. Velocemente, il generale corse verso Hatori e continuando il movimento che aveva compiuto per tirar fuori la katana, tentò di tagliargli il petto in modo da non farlo muovere più di tanto, ma il ragazzo si parò il punto preso di mira con le braccia. Queste vennero lacerate profondamente dalla lama della spada, come fossero state fatte di carne molle e non di muscoli sudati. Tori lanciò un gemito di dolore e tremò leggermente per la ferita. A Yoko mancava l’aria, gli occhi erano sgranati e il grido di paura che voleva far uscire non arrivò mai, ma giunse solo un gemito strozzato.
 
Il generale stava per colpire di nuovo Hatori una volta che questo sembrava indebolito. Il ragazzo se ne accorse e rotolò per terra di lato, cercando di scappare dal momento che era disarmato.
“Fai l’uomo e combatti per quello che ti interessa! Non scappare come un miserabile!” Gli ringhiava dietro, mentre preparava un altro colpo.
“Tori attento!” Riuscì a gridare finalmente Yoko, distraendo il generale e dando il tempo al cugino di girarsi e realizzare che quello stava per tagliargli la testa con la katana. Hatori sfruttò quel che sapeva delle arti marziali che aveva studiato da bambino e mirò dritto allo stomaco del generale, colpendolo con un calcio e facendolo accasciare. Adesso era in piedi ed aveva il pieno controllo della situazione. Sapeva che alla sua azione ne sarebbe corrisposta una più forte e contraria, quindi si preparava a difendersi, mentre Yoko guardava rannicchiata in un angolo tra il palco e la porta da cui erano entrati. Il generale prese la rincorsa con la sua katana caricata dietro si sé e si scagliò contro Tori che saltò sul palcoscenico per evitare il terribile fendente. La katana si conficcò nel legno di ciliegio del palco, mentre gli occhi del ragazzo erano attenti e timorosi e i suoi capelli sudati. Il generale ringhiava senza parlare, perché ogni parola sarebbe stata superflua. Con eleganza saltò anche lui sul palco e tentò di nuovo di colpire Hatori che si spostò, continuando a scappare.
“Mi fai incazzare a morte, ragazzo! Cosa scappi a fare? Hai paura di me? Combatti!” Continuava ad abbaiare il generale, mentre l’altro era ormai in ginocchio, con una mano poggiata a terra ed una dietro la schiena. Stava per arrivare un altro potente colpo di spada dritto alla sua faccia quando il ragazzo scappò per l’ennesima volta dal suo destino e finì dietro una tenda del palcoscenico che nascondeva una specie di quinta. Era polverosa, puzzolente e piena di ragnatele in ogni angolo. C’erano sedie, scenografie, scale a pioli e travi di legno. Hatori cercò disperatamente di guadagnare tempo affinché la sua scarsa vista potesse riconoscere nel buio qualche arma che avesse potuto usare contro il generale. C’era silenzio, un silenzio terrificante, riempito solo dai respiri affannati di Tori che cercava di guardare in giro, nonostante vedesse solo nero. Arrivò un rumore assordante, un rumore di un pezzo di legno che si rompeva: il generale aveva distrutto una sedia con la sua katana e adesso rincorreva Hatori mentre continuava a tentare di finirlo.
“Sei un traditore del regime!” Un’altra sedia si ruppe e Tori inciampò tra alcune travi. “Sei la vergogna di Kintou Shuto!” Ringhiò e il ragazzo venne colto di sorpresa da una ragnatela polverosa che gli abbracciò il volto e i capelli. Era sconvolto dal fatto che nessun soldato fosse venuto a vedere cosa stesse succedendo, ma non sapeva che si trovavano sotto terra e che ad ogni modo ogni cadetto di quel palazzo era stato istruito a badare a sé stesso e a rispettare qualsiasi ordine del generale. Se gli ordini erano di dormire e di non alzarsi, nemmeno un urlo di un loro parente che veniva sgozzato nella notte avrebbe potuto svegliarli.
“Eccoti!” la katana del generale viaggiò a tutta velocità verso il collo di Hatori, ma venne bloccata da un lungo bastone di legno, levigato e liscio che era impugnato dal ragazzo che aveva trovato qualcosa con cui difendersi. Adesso il cugino di Yoko guardava con occhi convinti ed aggressivi il volto ghignante del generale. Ognuno imprimeva una forza uguale e contraria sulla propria arma contro il nemico, finché il ragazzo non venne buttato a terra da una mossa sleale del generale che con eleganza gli sferrò un calcio al fianco. Sbucarono di nuovo sul palco, suscitando nel cuore di Yoko una sensazione d’ansia che crebbe sempre di più. La ragazza corse davanti il palco, inerme e impotente, arrabbiata con sé stessa perché sentiva di non poter aiutare il suo amato cugino che l’aveva quasi salvata da quell’inferno.
Hatori si rialzò presto da terra facendo conficcare la katana tra le travi di legno del palco e si mise sull’attenti. Un piede era davanti all’altro, il bastone laterale, pronto per sferrare qualsiasi colpo. Il generale caricò un ennesimo fendente e il ragazzo portò in aria il bastone orizzontale per scagliarlo contro il nemico, ma sentì un lancinante dolore all’addome. La katana del generale aveva cambiato sinuosamente traiettoria e si era mossa contro il torso nudo di Hatori, lacerandogli l’addome scoperto. Dalla riga rossa sgorgarono piccoli rivoli di sangue cremisi mentre Yoko urlava il nome del cugino disperatamente. Tori riusciva a stare in piedi a malapena, ma la sua forza di volontà lo fece resistere ancor meglio al combattimento che continuò secondo lo stesso schema per alcuni minuti. Yoko fissava i movimenti del legno e del ferro che si intrecciavano, che colpivano e che si conficcavano nella carne di uno dei due. Nelle pupille nocciola della ragazza era dipinto il più sincero sentimento di rancore verso lei stessa, mentre su quegli specchi danzavano riflesse le immagini del cugino e del generale che erano sospesi su un filo che li separava dalla morte.
Hatori cadde per l’ennesima volta a terra, dopo essersi difeso abilmente per molto tempo. Era sfiancato, inerme e incapace di continuare a combattere con la stessa intensità dell’inizio, anche per colpa dell’enorme ferita all’addome e alle braccia. Non era un eroe, non era un dio: era un essere umano e quel sangue suo che sgorgava copioso sul suo addome tingendolo di rosso e che macchiava a piccole gocce il palco di ciliegio, faceva male. Era sull’orlo del palcoscenico, con la sagoma oscura del generale che sopra di lui avanzava minacciosa con la katana riposta lungo il fianco. Tori saltò giù il palco, facendo spostare in fretta Yoko che lì vicino cominciò a piangere vedendo il nemico del suo alleato avvicinarsi pericolosamente all’orlo del palcoscenico. Era sopra Hatori: lo sovrastava  mentre lui era a terra dolorante e ormai sconfitto. La katana si alzò alta verso il soffitto di ciliegio, brillò e le gambe del generale si piegarono come se volesse spiccare il volo che avrebbe decretato la morte di Hatori. Questo non poté fare altro che tentare di alzarsi e proteggersi mettendo innanzi a sé il bastone.
“Hai finito di scappare, ragazzo.” Lo guardò insensibile il generale.
Tori chiuse gli occhi, ma il colpo non arrivò. Sentì un tonfo, come se qualcuno fosse caduto a terra, come se fosse stato gettato via. Aprì gli occhi e si alzò a fatica in piedi e vide Yoko sul palco che respirava affannata, con indosso solo la giacca del cugino che le andava lunga come un vestito e che la faceva sicuramente sentire più a suo agio che quell’orribile kimono. Le maniche cadevano lunghe e le coprivano le mani, i capelli erano sfatti, spettinati e alcuni ciuffi coprivano il volto di porcellana della ragazza.
“Yoko, cosa…” Lei si voltò verso il cugino, per vedere se stesse bene, ma quello non sembrava accennare a sorridere. Era sempre più timoroso da come si evinceva dal viso e guardava sempre più a destra indietreggiando. “Yoko attenta!” Indicò dove stava guardando: il generale ormai era troppo vicino a Yoko per permetterle di difendersi. Non la uccise ma la buttò per terra, facendole battere la testa forte contro il pavimento del palco. Ci fu un gemito di dolore.
“Una bella faccia tosta a buttarmi per terra tu! Mi hai stancato, ingrata ragazzina.” Nel volto del generale c’era un’aria di malinconia, come la malinconia degli addii, ma c’era anche impassibilità, un volto che non poteva essere scalfito, elegante e freddo. La spada venne portata dietro la spalla, in alto ma il colpo a cui Yoko era ormai preparata da tempo, non arrivò. Si sentì un suono si un taglio, di uno squarcio, di qualcosa che veniva trafitto. Yoko si girò, aprì gli occhi e mentre il generale rimase tristemente stupito dalla situazione che aveva davanti, la ragazza lanciò un urlo dai meandri più profondi del suo cuore: Hatori era stato ucciso.
 

 
• Note dell’autrice •
 
 


1) Come avevo già scritto in una nota nei primi capitoli, gli yurei sono dei fantasmi della cultura shintoista. Hatori, dicendo che era uno yurei felice per essere tale, allude al fatto che di solito queste entità sono tristi, piene di rancore e vendicative. Sono, in pratica, dei fantasmi scontenti della loro morte che vogliono uccidere o seminare caos sul mondo dei vivi per vendetta. Infatti Tori trova strano che Tohma sia ancora uno yurei, essendo così felice, e che non abbia ancora attraversato la luce. Che conti avrà ancora da chiarire Tohma sulla terra affinché vada in paradiso?
2) Grazie Tohma… Grazie davvero…
 
Eccoci qui al tredicesimo capitolo! La storia ha ancora molto da dare, vi ho trollato quando ho detto che sarebbe stato l’ultimo capitolo. Scusate! Ad ogni modo, sper che vi sia piaciuto questo capitolo che VINCE IL TITOLO DI CAPITOLO PIU’ LUNGO FIN ORA per l’ennesima volta. Ci sarà un limite alle mie stupidaggini? Scopritelo nel prossimo capitolo! Recensite, commentate, iscrivetevi al can… Oops, sbagliato sito. Quello era Youtube. Già…
-sei scema, testa bacata.
Fred! Che ci fai qui? Tornatene in Puzzles!
Perdonatela.
Adieu!!
 
-Bloody Schutzengel XOXO
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


• Capitolo 14 •
Il coraggio di uccidere
 
 

 
“Tori!” L’urlo durò un paio di lunghi secondi che parvero ore alle orecchie del generale. Yoko vide il suo amato cugino per terra, mentre del caldo sangue creava una pozza cremisi sotto il suo collo e il suo petto. Era saltato sul palco con le poche forze che aveva per far da scudo alla cugina che stava per venir uccisa dal generale. Questi guardava attonito la scena e il pianto straziato della ragazza si tramutò in una seria di lame affilate che gli trafiggevano simultaneamente le orecchie. Quasi credeva di sanguinare da queste per colpa di quello che aveva fatto. Non si sentiva in colpa: era solo una vaga sensazione scomoda ed irritante di aver fatto qualcosa che non voleva fare fin dall’inizio. I suoi occhi rimasero spalancati per un po’, dato che Yoko non poteva guardarlo in faccia. Si abbassò e velocemente tentò di controllare il più in fretta possibile le condizioni di Hatori. Mormorò a Yoko di spostarsi e di lasciargli controllare che non fosse come temeva, ma lei con un altro straziante urlo disperato lo buttò via: il braccio della ragazza trovò la forza di respingere quello che vedeva come un mostro, dal suo cugino in fin di vita. Il generale rimase piuttosto di sasso, attonito e quasi colpito nell’orgoglio: non era quello che sperava di ricevere.
“Ti ho detto di spostarti, fammi controllare come sta! Togliti!” Alzò leggermente la voce preoccupata mentre ordinava a Yoko tali cose, ma lei, testarda, non fece altro che continuare a piangere, quando ad un tratto si girò di scatto e con il volto riflesso di rabbia urlò qualcosa al carnefice di Hatori.
“Come credete che stia?! L’avete ucciso! E’ in una pozza di sangue! Mi avete ucciso! Siete un essere spregevole senza cuore! Cosa volete di più da me?!” La voce di Yoko si assottigliava sempre di più man mano che il suo tono s’alzava, trasformandosi in una manciata di spilli dritti al petto del generale e alle sue orecchie. Questo strizzò gli occhi nell’udire tanto dolore, ma stavolta non obiettò su quanto il proprio di dolore potesse essere stato maggiormente duro da sopportare. Per un momento, quelle parole lo ferirono nel profondo, mentre fissava lo sguardo arrabbiato e pieno di rancore di Yoko che con la fronte corrucciata, i denti digrignati e gli occhi rossi di pianto lo fissava con tutto l’odio che aveva in corpo. Fu solo un momento, poi si riprese e si avvicinò a lei velocemente e con determinazione.
“Spostati ho detto.” Con un braccio la spinse via da Hatori, ma quella ritornò ad urlare e si mise a picchiare la schiena del generale, cercando di mandarlo via affinché potesse continuare ad abbracciare Tori sporcandosi del suo sangue innocente. Il generale non cedette e continuò a fare quello che aveva intenzione di portare a termine. Si abbassò sul petto di Hatori, girandolo a pancia sopra, ma non sentì nulla. Si alzò col viso da dov’era prima per toccare il collo del ragazzo con due dita in modo da poter sentire se ci fosse ancora battito cardiaco. Sarebbe stato un vero miracolo se fosse sopravvissuto nonostante una tale perdita di sangue, pensò il generale. Yoko non accennava a fermarsi e picchiava sempre più forte il generale, fino a dargli un sonoro schiaffo mentre stava per toccare il collo di Tori. Lui digrignò di denti e prese un polso di Yoko, cercando di fermarla. La guardò negli occhi e la trattò da subordinata.
“Se la finisci di comportarti da stupida bambina quale sei magari posso salvare il tuo amico, altrimenti lo lascio morire qui se non è già crepato. Ora sta zitta e smettila di interferire.” Le lasciò andare violentemente il polso buttandole il braccio da parte. La presa era talmente forte che Yoko dovette massaggiarsi il punto in cui era stata afferrata. Il generale si calò di nuovo con determinazione su Hatori, mentre con una mano gli premeva le vene del polso e con l’altra quelle del collo. Sussurrò a Yoko di fargli silenzio e ascoltò se ci fossero ancora battiti per qualche secondo. Non si sentì nulla a parte i respiri di lui, perché quello di Yoko s’era fermato, sospeso dall’ansia di scoprire se Hatori fosse ancora vivo. Il genale mormorò qualcosa, forse un’imprecazione e si alzò di fretta.
“Che c’è? Hatori è vivo?” Chiese con voce ansiosa Yoko, ma quello non rispose, s’alzò e rinfoderò la katana prendendola da dove l’aveva buttata precedentemente. Guardò male la ragazza:
“Che c’è? Adesso che hai bisogno di me e di quello che so mi rivolgi la parola con gentilezza, ragazzina?” Le sussurrò dietro, mentre lei piangeva su suo cugino. Il generale la spostò di nuovo e tentò di prendere il cugino velocemente per le braccia.
“Cosa succede?” Chiese ancora Yoko, decisa.
“E’ ancora vivo, aiutami a portarlo in infermeria oppure morirà qui dissanguato. Forza! Muoviti!” Le ringhiò e lei non poté fare a meno di eseguire tali ordini pur di salvare la vita di chi le era lontano. Era una corsa contro il tempo: non si sentiva il respiro del ragazzo e aveva già versato abbastanza sangue. Il generale scese dal palco tenendo in braccio Tori con lo sforzo più estremo che ebbe mai compiuto fino ad allora: il ragazzo pesava molto di più di lui per via della muscolatura e dell’altezza che superava di un paio di decimetri quella del generale. Yoko tentò di aiutare chi le avesse chiesto di farlo, ma questi rifiutò immotivatamente l’offerta della ragazza, dicendo che era stata troppo lenta ad eseguire gli ordini. Il sudore scorreva veloce sulla fronte del generale, il cui cappello era volato via ed era stato raccolto da Yoko. Questa lo seguiva repentinamente, tentando di guardare colui che il generale teneva in braccio. Le gambe di uno e dell’altra si mossero veloci nel buio del corridoio, mentre gli ordini del generale rimbombavano decisi nell’oscurità.
“Tu aprimi le porte, aiutami a portare questo qui in infermeria, muoversi, soldato, muoversi!” Gli sembrava di stare sul campo di battaglia, come se un suo uomo fosse stato colpito e steso a terra da qualche proiettile e lo stesse scortando tra i feriti per farlo curare. Ma lui non era un suo uomo, non lo conosceva che di viso per via della foto che aveva di lui, ma non ne sapeva nulla. Poteva intuire che Yoko tenesse a quel ragazzo, ma non poteva sapere quanto. Del resto, aveva mai tenuto a qualcuno lui? Yoko si gettò sulla prima porta che ostacolava la loro corsa contro il tempo e la aprì il più velocemente che potesse, poi uscì fuori per dar lo spazio al generale di correre via verso l’infermeria.
Dall’alto delle scale, senza farsi vedere, Heizo osservava la scena con uno sguardo apparentemente indifferente. I suoi occhi erano leggermente più sottili del solito, aveva uno sguardo di disappunto nei confronti di ciò che stava facendo il generale. Quella ragazza aveva una cattiva influenza su di lui. Heizo cominciò a dubitare di nuovo che il generale gli stesse tenendo molte cose nascoste come non faceva da un tempo molto lontano, che ritornava a quando si conobbero per la prima volta alla scuola d’addestramento militare…
Yoko tentò di strappare un lembo del kimono che aveva portato per avvolgere la ferita di Tori che in quel momento era coperta dalla mano pressante del generale. Nel correre, si avvicinò a lui, tentando si posare quello straccio sul suo collo. Il generale, a fatica, le diede uno schiaffo sulla mano e la sgridò, facendola allontanare indignata.
“Dobbiamo fermare l’emorragia!” Gridava Yoko, come se ci fosse stato un caos che avesse potuto coprire le sue parole, quando in realtà era il silenzio più totale.
“Questo non è un ginocchio sbucciato, incapace! E’ una gola tagliata! Se provi a metterci sopra quello straccio sporco d’infetterà tutta la ferita, lo capisci?!” Le ringhiò il generale addosso. Yoko lo guardò stupefatta e timorosa allo stesso tempo: il ragionamento non faceva una piega… eppure… perché mai avrebbe dovuto voler salvare ciò che le era più caro? Perché correva con quello sguardo inflessibile diretto davanti a sé come se avesse una missione importante da portare a termine? Quei ciuffi sudati che ondeggiavano davanti alle sue tempie sembravano i lunghi baffi di uno di quei draghi maestosi che gli aveva mostrato Hatori quando le aveva portato un quadro dalla Terra Rossa1. Gli donavano solennità e forza, nonostante i capelli lunghi fossero simbolo di grazia e femminilità, ma su di lui avevano tutt’un altro significato.
Salirono veloci le scale, Yoko aprì una porta asciugandosi subito dopo le gocce di sudore dalla fronte e si girò per controllare che il suo adorato cugino stesse in buone mani: non si fidava del generale e non l’avrebbe mai fatto ad occhio completamente chiusi. Corsero lungo un piccolo corridoio, relativamente piccolo poiché meno lungo degli altri che per di più erano più oscuri, fin ad arrivare alla porta dell’infermeria. Sulla trave c’erano incisi gli ideogrammi di “Shinryōsho2”, la porta era del medesimo legno di cui era fatto ogni palazzo. Il generale spinse via Yoko ed aprì la porta con un calcio, rompendone quasi il pomello, la serratura e la toppa. Velocemente, stese Hatori su un lettino senza coperte, simile ad una barella. Yoko poté solo allora rendersi conto dell’aspetto dell’infermeria, cosa che non fece quando vi ci capitò per colpa dell’uomo misterioso che l’aveva maltrattata. Era una sala abbastanza spaziosa, con dei letti da ospedale, barelle e mobiletti. La prima parte era più angusta, poi arrivava subito dopo, tramite un corridoio, una sala più ampia piena di lettini ordinati e puliti con i rispettivi comodini per le medicine e le tende per la privacy: era la prima concessione di privacy che Yoko avesse mai visto in quell’oscura prigione. Avrebbe voluto capire perché, ma non era la giusta situazione per chiedere di certe cose al generale. Questo aveva appena rimosso Tori dal lettino d’ospedale della sala angusta e si spostò verso quella più larga, per avere, forse, più spazio disposizione per muoversi.
Yoko si fiondò subito sul cugino disteso mentre il generale si levava di dosso la giacca della divisa militare per rimanere in camicia. S’alzò le maniche fino ai gomiti scoprendo le esili ma possenti braccia dotate di muscoli invisibili3; di diresse verso un armadietto prendendo delle fasce pulite, dell’acqua disinfettante, bende e altro. Si girò verso Yoko guardandola irritato.
“Renditi utile e bloccagli l’emorragia con le mani!” Fece, mentre stava ritornando verso il lettino per medicare finalmente il ragazzo. La giovane tentò di dare una mano al salvatore (ma allo stesso tempo carnefice) di suo cugino, prendendo delle bende. Tutto quello che ricevette fu uno schiaffo. “Ti ho per caso ordinato di farlo? Lasciami lavorare o rischiamo che questo qui muoia.” Disse il generale imperterrito nel bendare il collo di Hatori non prima di averlo disinfettato con dell’acqua. Il ragazzo era privo di conoscenza, quindi non si preoccupò di prendere dei sedativi o qualcosa per poterlo anestetizzare. Il sangue era tanto ed era gocciolato per tutto il loro percorso, ma alle pulizie avrebbero pensato molto più tardi: bisognava salvare Tori.
“Lui non è ‘questo’, è mio cugino, si chiama Hatori Kurai!” Cercò di farsi rispettare Yoko, ricevendo uno sguardo distratto ma assassino dal generale che preferì non sprecare fiato e forze per sgridarla o rimetterla in riga con una sberla. Il collo di Tori era ormai fasciato, ma il rosso del sangue continuava ad inzuppare le bende, facendo perdere tempo a chi lo stava medicando.
“Dannazione…” sussurrò tra sé e sé il generale mentre non riusciva a fermare l’emorragia. Guardò Yoko di scatto per un paio di volte, poi le fece cenno di avvicinarsi e di aiutarlo a tamponare la lacerazione. La ragazza, con forza d’animo e con coraggio premette forte sulla ferita ed il sangue cominciò a sgorgare sempre di meno, facendo mettere l’anima in pace ai due. Lei, però, si sentiva quasi in colpa: chissà se, dato che era ancora vivo, stesse sentendo dolore…
“Sentirebbe un dolore fisico atroce se solo fosse cosciente. Non preoccuparti, non è il più grande che potrà mai provare.” Disse distrattamente il generale intento a fasciare il petto lacerato di Hatori con altre bende. Guardava di sfuggita la ragazza che era rimasta meravigliata dalle sue parole: le aveva letto nel pensiero? Purtroppo sì… Ormai anche i suoi pensieri non erano più al sicuro con lui, pensò. Ancora non riusciva a capire tutti questi discorsi sul dolore che tirava fuori a caso ogni qual volta lei ci pensava o ne parlava… Forse, aveva davvero provato così tanto dolore da essere diventato tanto insensibile? Se sì, cosa o chi era stato? Non che volesse mettergli l’anima in pace, anzi… Ma le avrebbe fatto piacere sapere come mai s’era ridotto in tale stato.
Ima mewosamasu4.” Il generale si accostò al volto di Hatori, sussurrandogli la medesima frase e scuotendolo leggermente, guardandolo con i soliti occhi senza emozioni, sottili e pieni di rancore.
Mewosamasu!5” Lo scosse più forte, tentando ancora di fargli aprire gli occhi. Cominciò a digrignare i denti, arrabbiato come lo sarebbe stato con qualcuno che avesse disobbedito ai suoi ordini.
Mewosamaze!6” Ringhiò più forte, prendendogli il viso tra le mani con rabbia e stringendolo immotivatamente. Yoko s’avvicinò e tentò di fermarlo.
“Gli fa male! Lascialo stare!” Venne subito spinta via con rabbia dal generale che s’alzò di scatto dal letto d’ospedale di Hatori e fissò la ragazza con occhi assassini.
“Non rivolgerti al tuo generale con quel tono, ragazzina! So quello che faccio!” Strinse i pugni.
“Lo ucciderete così!” Urlò lei.
“Credi che io sia davvero così stupido da volerlo uccidere dopo quello che ho fatto per farlo sopravvivere?!” s’inclinò per penetrare i suoi occhi col proprio sguardo iracondo. “Avrei potuto ucciderlo dal primo momento in cui l’ho visto questa mattina invece di ordinare che venisse rispedito nella Terra Rossa! Avrei potuto trapassargli il petto con la mia katana se avessi voluto! Avrei potuto squartarlo, spargere il suo sangue per tutta la stanza, ma non l’ho fatto! Non ho intenzione di lasciarlo morire adesso.” Mentre parlava, il generale s’avvicinava di nuovo ad Hatori, con la testa quasi aderente al suo petto. Non disse nulla, ma continuò a guardare male la ragazza che aveva gli occhi pieni di timore. La sua guancia si poggiò con la delicatezza di un vero medico sui pettorali del ragazzo e il silenzio più totale contribuì a far sentire meglio il suo battito cardiaco. Il generale gli afferrò il polso, lo premette e sentì che i battiti stavano diventando sempre più fiochi, fino a sparire quasi completamente. “Cazzo.” Di scatto si rialzò, mise le mani in posizione sul petto del ragazzo per operare un massaggio cardiaco. Guardando con occhi decisi e infuocati il volto del moribondo, premette sul suo cuore, premette forte tanto da far quasi scomodare di nuovo Yoko che avrebbe voluto impedire al cugino tutta quella sofferenza. Dopo tutto quel sangue perso era normale che sarebbe morto così facilmente, ma il generale non si dette per vinto e continuò a premere, a spingere, a stimolare il muscolo cardiaco di Hatori. Perché lo stesse facendo, Yoko non poteva saperlo.
“Non puoi morire così, ragazzino, dannazione.” Ringhiò a sé stesso, avvicinandosi con la bocca a quella del ragazzo per tentare di rianimarlo con una respirazione bocca a bocca. Yoko si teneva le mani strette a pugno sopra la bocca, gli occhi erano rossi e la pelle ruvida. Stava tremando ancora di freddo, ma non si sentì di svenire come invece temeva di sentirsi nella stanza del teatro proibito. Era inerme e non poteva fare altro che guardare l’eroico, forse egoista, generale che salvava la vita di Tori. L’ultimo tentativo di immettere ossigeno all’interno del corpo del ragazzo fu più lungo degli altri, tanto da far credere a Yoko che in realtà il generale lo stesse baciando. Questo si staccò lentamente, guardandolo impassibile ma, segretamente, col cuore ansioso e a mille. Tutto ciò non poteva trasparire dal suo volto. Yoko stava già per cominciare a piangere quando vide che Hatori non accennava ad aprire gli occhi: iniziò a mugolare, a lamentarsi come se le lacrime stessero per bagnare rumorosamente le sue guance, ma venne zittita da un gesto di stizza del generale che prima guardò rapidamente lei, poi l’altro. Passarono secondi, passò un minuto. Se ci fosse stata una macchina per visualizzare l’elettrocardiogramma del cuore di Tori, la linea sulla schermata sarebbe sicuramente stata piatta e il suono sarebbe stato un suono di morte. Il generale non si mosse, continuando a guardare il ragazzo come se avesse voluto infondergli vita attraverso quel contatto visivo.
Una lacrima bagnò la guancia di Yoko appena questa vide che il petto statico di Tori si fece un po’ più in alto, poi più in basso: i suoi polmoni si stavano riempiendo e svuotando d’aria. La bocca si schiuse leggermente, gli occhi non si aprirono, ma Yoko cominciò già a piangere di gioia: avevano salvato Hatori. Più che altro, lo sguardo di Yoko si rivolse al generale che assisteva sempre impassibile a lei che abbracciava il cugino. Lei non gli sorrise, lo guardò solamente con un’espressione indecisa ed inquieta che sembrava volerlo ringraziare. Quando lei si voltò dalla parte opposta verso Hatori, un impercettibile sorriso comparve sulla bocca del generale. Yoko accarezzava lentamente il volto del cugino, sorridendogli ed ascoltando il suo respiro. Sussurrava qualcosa simile ad un “grazie”, ma non si poteva sapere se in realtà fossero state altre parole. Gli occhi erano chiusi, come chi abbassa le palpebre, sfinito, per godersi del sonno meritato dopo un lungo travaglio. La bocca della ragazza si chiuse e respirò profondamente col naso, per poi smettere di piangere. Si rialzò dando un’ultima carezza al viso di Hatori, poi guardò il generale dritto negli occhi e dischiuse la bocca fissandolo a lungo senza dire nulla. Lui non cambiò espressione, aspettando che le parole che voleva dire uscissero, ma non arrivò nessun suono a parte quello delle travi di legno che cigolarono sotto il peso di Yoko che si riaccovacciò accanto a Tori. Il generale stette zitto, non si aspettò nulla di più di un sincero “grazie”, ma del resto, chi avrebbe mai ringraziato un tale mostro? Non poté fare altro che uscire pacatamente dalla stanza e lasciar stare la ragazza. Strada facendo si fermò e si voltò verso lei che non guardava, con occhi tristi e malinconici abbassò lo sguardo, si rimise il cappello ed uscì poggiando la porta delicatamente mentre continuava a fissare la esile mano di Yoko che accarezzava Hatori. Abbassò gli occhi a terra: nessuno l’aveva mai ringraziato e nessuno l’avrebbe fatto mai.
Una volta accostata la porta dell’infermeria ed una volta chiusa anche quella che lo separava dalla sottospecie di balcone interno del palazzo, saltò dalla paura notando che lì c’era qualcuno. Heizo era ad un palmo dal suo naso, con lo stesso sguardo inquietante che aveva avuto tutto il giorno. Il generale ebbe un violento sussulto prima che potesse pensare a cosa ringhiare in faccia a quell’insolente vice.
“Sei impazzito, imbecille? Che ci fai qua, mi stai alle calcagna da oggi! Che vuoi, Heizo?” Disse scocciato, mentre quello non si mosse.
“Spero che abbiate ucciso quell’intruso lì, in infermeria, anche se da come ho potuto osservare proprio da questo balcone, avevate tutt’altra espressione che quella di qualcuno con sete di sangue.”
“Che cazzo vuoi dire con questo Heizo?! Sei strano! Sei fottutamente strano!” Si abbassò sul subordinato, cercando di intimorirlo, ma si ritirò immediatamente notando che non ebbe alcun effetto.
“Dov’è la ragazza?”
“E che ne posso sapere io?” Aveva mentito.
“So bene che vi ha seguito secondo la vostra volontà in infermeria. Lo so bene, vi ho osservato.”
“E allora?” Volle continuare la frase, ma qualcosa glielo impedì. Qualcosa dal profondo del suo animo.
“Ve l’ho detto: non sta bene che un macellaio tratti con tanta dolcezza le bestie che dovrà mandare al macello. Perché siete tanto addosso a quella ragazza, generale?” Quello rimase un po’ titubante, non sapendo che rispondere prontamente.
“Mi sembra ovvio: devo rendere la sua vita un inferno perché ha osato sfidarmi davanti le scale del mio palazzo e…” Si bloccò. “Non le sto alle calcagna per interessi personali, hai capito Heizo? E chiamami generale più spesso: non siamo amici come un tempo.” Il vice si ombrò del tutto appena il generale si decise ad abbandonarlo lì sul balcone, scendendo le scale e avviandosi verso la propria camera ch’era da tutt’altra parte del palazzo. Un’aura di odio e da assassino sembrò apparire attorno ad Heizo e parve che lo stesse circondando.
 
Erano le sei del mattino quando il generale si decise a dare un’occhiata in camera di Yoko per controllare se fosse andata a dormire quella notte. Anche solo per poche ore, avrebbe meritato del riposo. Non gli interessava di certo sapere se stesse bene! Voleva solamente assicurarsi che fosse pronta per una sessione di combattimento per quella mattina.
Aprì la porta: non ci trovò nessuno. Si preoccupò senza darlo a vedere in giro. Velocemente passò tra i soldati che si dirigevano a mensa per la colazione e che lo salutavano onorevolmente. Non prestò attenzione a nessuno di loro, dirigendosi in fretta in infermeria e sperando che Heizo non avesse combinato qualcosa di inaspettato. Aprì la porta senza essere violento, composto e con lo sguardo impassibile che terrorizzava tutti. Si rinfrancò quando vide Yoko ancora lì che dormiva accasciata a terra con nulla addosso, dato che la giacca di Hatori l’aveva messa sul torace scoperto del cugino. S’avvicinò e toccandole un braccio, sfiorandolo con le nocche, senza svegliarla, notò che era ghiacciato. Si guardò intorno e l’unica cosa che vide fu la propria giacca che aveva lasciato sbadatamente appoggiata ai piedi del letto d’ospedale di Tori. La prese, s’avvicinò a Yoko e dopo averci pensato a lungo, gliela poggiò addossò assicurandosi che la coprisse quasi interamente. Si sedette accanto a lei, con una gamba piegata in modo che potesse appoggiarci un gomito sopra e l’altra a terra. L’altra mano era sul ventre e il cappello sul pavimento di assi di ciliegio. Guardava Yoko senza mostrare alcun’emozione, ma la sua bocca si dischiuse e cominciò a sussurrare.
“Avrei potuto uccidere tuo cugino dal primo momento in cui l’ho visto quella mattina, te l’ho spiegato, soldato. Avrei potuto farlo a pezzi avrei potuto mandarlo alla ghigliottina. Sai perché non l’ho fatto?” rivolse lo sguardo dal proprio ventre alla ragazza che dormiva. “So che questo tipo di dolore non è abbastanza forte come quello che io ho passato, ma so che fa male. Fa male perdere in quel modo una persona cara, fa più male del bruciore delle ferite di tuo cugino, quelle che gli ho procurato. Fa più male del tuo corpo pieno di lividi. Io lo so, per questo non l’ho ucciso.” Ci fu un minuto di silenzio.
“Purtroppo, non ho il coraggio di ucciderti così dall’interno, soldato. Non sei mio nemico, non sei mio amico. Non ti voglio bene, non ti voglio male, ma la mia katana difficilmente riuscirebbe a trapassarti il cuore se dovessi guardarti negli occhi. Se i miei occhi neri dovessero fissare i tuoi nocciola, perderei il coraggio di uccidere.”
 
 
• Note dell’autrice 
 

 


1) Mi riferivo al dragone cinese che ha dei “baffi” sottili e lunghi che, a parer mio, sono elegantissimi e mi piaceva paragonare i capelli del generale al dettaglio di questa creatura.
2) Infermeria. (診療所)
3)Le braccia del generale non sono muscolose. Per muscoli invisibili, intendo, la straordinaria forza che gli riesce a far sollevare Tori (che pesa molto più di lui) pur non avendo una muscolatura pronunciata.
4) “Adesso svegliati.”
5) “Svegliati!”
6) Uguale al punto precedente, ma è un modo più informale per imporre un comando. Ovviamente, quando uno perde la pazienza, tende a dimenticare le “buone maniere”.
 
Volevo inserire un’altra parte della storia in questo capitolo, ma ho deciso che ve la lascio per il quindicesimo. Tendo a mettere un avvenimento importante o una serie di questi in un solo capitolo, in modo da distribuire meglio tutta la storia. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, perché mi sono divertita molto a scriverlo, anche se è stato malinconico. Spero di aggiornare presto e spero di cuore che mi recensiate, perché c’ho messo il cuore e ce lo metterò sempre per questa storia, per voi. *Cuore*.
 
-Bloody Schutzengel

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


• Capitolo 15 •
Sfida

 


Quando Yoko aprì gli occhi pian piano, vide solo il pavimento di ciliegio ch’era sotto di lei, si sentì le mani sotto  la guancia e capì che s’era addormentata lì rannicchiata. Ora ricordava: ricordava la scorsa notte quando il generale aveva eroicamente salvato colui che stava per uccidere e poteva ricordare le sue lacrime di gioia appena vide Hatori respirare. Tuttavia, il suo viso non cambiò d’espressione: era interdetta, appena sveglia e stordita dal trambusto di quella notte. Notò subito che c’era qualcosa nell’aria che non andava: era sola nella stanza, sola con Tori ch’era ancora sul lettino, immaginava. Non si alzò, ma si guardò intorno rimanendo rannicchiata a terra: c’era un odore familiare. Erano fiori di loto? Olii? Fumo? Si voltò di scatto, ma il generale non era lì come pensava. Solo dopo riconobbe che la giacca che aveva addosso non era quella del cugino ma quella del generale: s’era dimenticata che quella di Tori gliel’aveva rimessa addosso per non fargli sentire freddo la notte dopo esser stato ferito in tal modo. Si ricordava che s’era assopita senza nulla, solo con gli indumenti intimi, dato che preferiva farsi vedere così, purtroppo, anziché veder suo cugino morire di freddo. Non ricordava che il generale le avesse porto quell’indumento ruvido e caldo per non vederla tremare, assolutamente no. Sapeva che se n’era andato per lasciarla lì sola a riflettere, tutto qui.
Yoko si alzò lentamente, ancora assonnata e dolorante per i vari acciacchi che aveva lungo il corpo. Rimase interdetta: il letto da ospedale era sfocato, bianco, non c’erano tracce di sfumature del castano dei capelli di Tori oppure della sua pelle chiara. Era tutto bianco e rosso per la grossa macchia di sangue che aveva bagnato le coperte e il materasso. Si strofinò velocemente gli occhi, impaziente di accertarsi che ciò che pensava non fosse vero. Il letto era adesso più nitido, come il cremisi che lo tingeva in parte, ma Yoko non era ancora certa che suo cugino si fosse mosso. Come poteva muoversi in quello stato? Sarebbe crollato sotto il proprio peso appena avesse messo un piede a terra. Era impossibile che se ne fosse andato. La ragazza tirò via le coperte dalla barella, ma sotto non c’era nessuno: erano solo un cumulo di lenzuola che imbottivano il tutto. Non pensò che si fosse trattato di un modo per ingannarla, poiché prima o poi lo sarebbe venuta a sapere, ma… Dov’era Hatori? Si girò e si rigirò cercando di trovare qualche indizio, divorata da un’ansia che cresceva repentina.
“Tori? Dove sei?” Disse ad alta voce, tremando quasi dalla paura che fosse scomparso. Nessuno le rispose, ma sentì un rumore improvviso. Era un rumore metallico, come se un piccolo oggetto ferroso fosse caduto su un altro del medesimo materiale, provocando uno stridio fastidioso ed acuto, come se una forchetta di metallo fosse caduta dentro un piatto d’argento. Il rumore proveniva dal fondo della sala, dove c’erano le barelle provviste di tendine per la privacy. Yoko avanzò cautamente e nell’aria sentiva che il tempo era passato più velocemente di quanto si aspettasse. Ormai aveva imparato a riconoscere, al chiuso, quando era sera e quando era giorno e sapeva che se fosse andata di nuovo sul tetto del palazzo avrebbe potuto vedere il tramonto. Aveva davvero dormito tutto questo tempo?
Un altro stridio metallico giunse alle orecchie di Yoko dal fondo dell’infermeria, più dolce e quasi piacevole, poi s’udì una voce strozzata, come un’imprecazione soffocata. Si udirono anche delle gocce d’acqua tuffarsi in una pozza, come se stessero ricadendo in un secchio, in una bacinella. La ragazza si fece dubbiosa più che timorosa ed avanzò leggermente più spedita. Vide qualcosa sporgere dalla tendina grigiastra per via del cambio di prospettiva man mano che s’avvicinava al lettino da dove provenivano quei suoni metallici. Era come un braccio coperto da un tessuto bianco rialzato fino al gomito, questo poteva intuirlo dai numerosi ripiegamenti della stoffa. C’era anche una schiena, una gamba foderata di nero e di stivali di pelle. Yoko avanzò veloce, a passo normale e spedito verso il suo obiettivo e scovò con gioia una situazione tutt’altro che drammatica.
Il generale era chinato su Hatori: il ragazzo aveva il torso nudo e bagnato, mentre l’altro stringeva in mano un panno ora umido ora zuppo d’acqua e lo passava sulle ferite del giovane che non si lamentava. Il panno veniva poi stritolato, strizzato in un secchio d’acqua torbida e imbevuto in una bacinella di ciliegio d’acqua pulita e tiepida. Il generale era in piedi, nonostante lì vicino ci fosse uno sgabello; Hatori aveva gli occhi chiusi e probabilmente stava dormendo per mezzo di anestetizzanti. Yoko s’avvicinò con cautela, mettendosi di fianco al generale che non la guardò nemmeno tanto ch’era assorto nel proprio lavoro. Sul volto della ragazza voleva comparire un sorriso, ma non comparve e nemmeno lei seppe perché.
“Sei sveglia. Hai dormito un’intera giornata, lo sai?” Continuò a disinfettare le lacerazioni del ragazzo. Vicino la barella, c’erano un secchio della spazzatura pieno di tamponi di carta sporchi di sangue e, sul comodino, delle garze pulite.
“Ho saltato l’addestramento…?” Fece lei, timorosa di poter ricevere un richiamo, un severo rimprovero, d’esser fissata con quegli occhi assassini. Nulla di tutto ciò accadde.
“Non ti ho svegliata, ho chiuso l’infermeria a chiave a posta. Hai parecchie ore di sonno arretrate ancora. Se ti avessi forzato all’allenamento saresti potuta morire d’infarto…” si voltò con calma, squadrandola lentamente con un’espressione d’indifferenza, per poi tornare sul torno di Tori. “...so koware yasuidesu anata wa1.
“Io non…!”
“Sta’ zitta. Sei debole e hai bisogno di riposarti. Credi che voglia che tu muoia sul campo di battaglia?” Si voltò appena appena, senza prestare particolarmente attenzione alla ragazza. Era distratto solamente dalla sua figura, ma era concentrato su Tori. Yoko non disse nulla e si avvicinò al volto del cugino, scavalcando i tinelli d’acqua per terra. Lo guardò con occhi tristi e malinconici accarezzandogli la guancia.
“Come sta…?” Chiese solamente. Il generale non la guardò per risponderle.
“Sta bene. Quando questa mattina sono venuto a controllare come stesse, aveva tutte le ferite cicatrizzate in parte, sporche e le bende erano giallastre. Prima che facessero infezione, gli ho cambiato le bende come sto facendo ora.”
“Perché si preoccupa così tanto di Hatori se ha provato ad ucciderlo?” Disse con calma Yoko, sentendosi cadere in una voragine senza ritorno dopo aver pronunciato tali parole che di sicuro avrebbero urtato il generale. Lui non disse nulla per alcuni minuti, continuando a far quello che stava facendo, poi si fermò. Rimase a guardare il vuoto verso il pavimento, con un’espressione indifferente. Alzò gli occhi verso Yoko e poi alzò anche il volto.
“Non ti basta sapere che non l’ho ucciso, invece di cercare un perché? Non ti accontenti del fatto che sia ancora vivo?” Si trattenne. Yoko non sapeva cosa rispondere. Perché voleva sapere il motivo per cui l’aveva salvato? Cosa le importava? Non rispose.
Il silenzio invase quella camera mentre fuori il sole tramontava. Yoko si spostò dalla barella di Hatori e camminò lontano dal generale, per esplorare quello stanzone che doveva essere stato teatro di feriti, morti, moribondi e mutilati. Lei ne poteva vedere i fantasmi lamentarsi e dimenarsi dal dolore, poteva immaginare i loro youkai vagare senza meta in cerca di nessuno. Avanzò lentamente in mezzo alle due file di barelle, per arrivare alla fine della stanza, dove vide dei raggi di luce provenire dall’esterno: una finestra. Era una finestra bella grande che dava su Kintou Shuto, sulla grigia e malinconica Kintou Shuto. Oltre quello scheletro vetrato con le venature legnose e chiare che disegnavano una griglia elegante, si distinguevano palazzi e fabbriche, viottoli e stradicciole, soldati, povera gente, operai, tutti illuminati dalla luce del tramonto che dipingeva d’arancione tutto quel grigio. I capelli di Yoko, agli occhi del generale che si era distratto dal suo lavoro, s’illuminavano di colori caldi e prendevano sfumature di tramonto qua e là, risaltando gli occhi nocciola della giovane. Sebbene fosse stata lontana, poteva immaginare lo splendore delle sue pupille e se le dipingeva in testa, senza far trasparire la sua ammirazione. La sua giacca la aveva ancora indosso e la faceva sembrare ancora più debole: un indumento con una storia tanto importante alle spalle, indossato da una povera sventurata sembrava sconfiggerla al solo tocco tra la stoffa e la pelle di porcellana.  Un solo raggio di sole, dopo alcuni minuti, riuscì ad illuminare repentinamente per pochi istanti lo sguardo del generale, non appena Yoko s’era voltata con gli occhi rivolti al pavimento. Le pupille nere del generale sembravano meno tetre e le sfumature melmose dei capelli neri si fecero vividissime solo per pochi secondi, come fossero state illuminate da un faro. Un faro che aveva fatto brillare quegli occhi pieni d’odio e di rancore, in modo da trasformarli in occhi che, invece, chiedevano solo un po’ di compassione. Compassione? Perché il generale dovrebbe pretendere o desiderate comprensione e compassione? Misericordia, felicità… non erano parole che si addicevano a quella giacca nera che tante volte si era bagnata di sangue innocente.
L’ultimo passo di Yoko si fermò a mezzo metro di distanza dallo sgabello del generale, che intanto stava rimettendo in ordine le fasciature, le garze e i tinelli nell’armadietto di fianco a Tori. I piedi nudi di Yoko non fecero altro che far scricchiolare il pavimento di ciliegio senza però richiamare l’attenzione di chi voleva che si voltasse.
“Non siete andato all’ultima marcia della giornata, oggi?” Chiese pacatamente.
“Non dovrebbe importarti.” Rispose quello senza distrarsi dal mettere in ordine. Yoko guardò verso la finestra in fondo all’infermeria.
“E’ autunno, la guerra si avvicina…” Sussurrò abbastanza forte da farsi sentire.
“Tra due settimane avremo un evento qui al palazzo per festeggiare la nostra partenza per la guerra contro la Terra Pura.” Disse solamente e Yoko non capì cosa volesse dirle con quell’informazione.
“Che genere di evento?”
“Un ricevimento, un ballo, chiamalo come vuoi. Saranno invitati personaggi politici della Terra Rossa e delle Terre d’Oltremare di alto livello e le loro signore. Per i nostri soldati saranno invitate altrettante donne per far loro compagnia.” Finì di riporre l’ultimo attrezzo nell’armadietto e si avvicinò a Yoko portandosi un ciuffo di capelli dietro la spalla: questo, leggero come una piuma, lentamente ricadde nella sua posizione precedente. Yoko ingoiò. “E’ tradizione che il generale e la sua dama si concedano un ballo al centro degli invitati, nelle Terre d’Oltremare. Ho letto delle loro favole, una volta: proprio come i loro principi fanno ai loro ridicoli balli.” Guardò sprezzante il pavimento, poi alzò gli occhi verso la ragazza: non disse nulla per un po’. “Tu rimarrai in camera tua senza disturbare fino a nuovo ordine: non posso procurarti né una dama né un cavaliere perché a voi soldati non è concesso di ballare tra di voi.”
“Ai vostri ordini.” All’udir tali parole, il generale rimase visibilmente stupefatto: gli aveva parlato come un vero soldato ubbidiente. Cosa aveva nella testa quella ragazza? Prima gli dà dello spregevole essere e poi si mostra tanto composta nei suoi confronti? Era una mina vagante, pensò.  Rimase in silenzio fissandola inquieto, poi si voltò e si diresse verso la finestra mentre l’altra lo seguiva con lo sguardo.
“Va’ a dormire, sei ancora troppo debole per un addestramento. Domani non te lo risparmierò.” Non la guardò in faccia mentre sentì i suoi passi allontanarsi sempre di più. Era di fronte alla grande finestra: era da tanto che non vedeva un tramonto tanto bello: avrebbe desiderato vederne uno ancora più magnifico senza tutti quei palazzi grigi davanti al sole arancione. Dai tetti partivano raggi di luce calda e rilassante, che illuminarono d’oro la figura del generale che poteva vedere il proprio riflesso nel vetro dove trasparivano i palazzi scuri. Era riluttante verso la propria immagine come al solito, ma, questa volta, si fece distrarre dai raggi arancioni che gli ricordavano qualcuno.
Intanto, Yoko si stava avviando verso la propria camera. I passi soffici dei suoi piedi nudi non producevano alcun rumore sulla moquette rossa. Aprì la porta del suo corridoio che si trovava affianco a quello dell’infermeria e non si accorse che lì dietro c’era il vice generale che la osservava compunto. Lei si stringeva sempre di più nella giacca del generale che aveva dimenticato appartenesse a quello, mentre Heizo la seguiva coi suoi occhi neri e investigativi che non stavano facendo trasparire alcuno stato d’animo nemmeno più davanti al generale stesso. Riconosceva quel pezzo di divisa che copriva alla bene e meglio la ragazzina e sapeva che apparteneva a colui che lo chiamava migliore amico nonostante lo trattasse come uno schiavetto. Aveva deciso che era troppo presto per poterle strappare di dosso tale indumento per restituirlo al proprietario per intavolare un’ardente discussione. Era quasi tempo di guerra, ma il segnale di battaglia non era ancora stato dato. Stava solo avvisando che egli stesso avrebbe dato inizio ad una battaglia sottile e affilata come delle lame. Contro chi, nessuno poteva saperlo.
La porta si chiuse lentamente, facendo poco rumore alle spalle di Yoko. La sua camera non era cambiata per tutto quel tempo: nessuno c’era entrato per curiosare perversamente tra le sue cose. Lo considerò un miracolo. Andò nel bagno, aprì l’acqua calda in attesa che la vasca si riempisse e andò nell’altra stanza per togliersi quella giacca di dosso. Tolta una manica, Yoko si fermò, la tolse del tutto e la prese tra le mani per portarla al viso: aveva un buonissimo odore. Un odore dolciastro che aveva visto atrocità e violenza eppure era rimasto dolce in ogni momento. Posò l’indumento sul letto, abbottonandolo e stendendolo come si stende un nuovo capo comperato per un’occasione speciale. Si sedette sul morbido materasso e guardò quella giacca, immobile: chissà cosa aveva toccato quel tessuto, quale sangue innocente l’aveva intriso e da quale sangue nemico era stato lavato. Si stese di nuovo sul capo, annusandolo a livello del petto: c’era odore di sangue.
Passarono due settimane: Yoko ogni mattina andava a controllare Hatori in infermeria, che non aveva la forza di parlare ma che le sorrideva e annuiva o dissentiva e mentre parlava gli faceva delle domande. Lei si sedeva lì per una mezz’ora, per tre quarti d’ora ogni mattina e ogni sera al tramonto per stargli vicino e assistere il generale mentre gli cambiava le bende. Questo le spiegò che aveva spostato Tori così lontano da dov’era prima perché nessuno scoprisse che stava curando un intruso o avrebbe rischiato una rivolta, nonostante il suo esercito fosse costituito da fedeli cagnolini.
Arrivò il giorno dell’evento per la partenza per la guerra.
 
Yoko si alzò dal letto, svegliata bruscamente da un soldato che le spalancò la porta urlandole di aprire gli occhi e di recarsi in mensa. La ragazza si buttò giù dal letto e si mise l’uniforme in fretta e in furia, ma non si dimenticò di sistemarsi i capelli nella solita treccia ordinata. Scese le scale velocemente, quando si sentì urtare da dei soldati e la sua attenzione venne catturata da una situazione che non le piacque affatto.
Il generale stava parlando a dei suoi soldati, in divisa: forse aveva una giacca di riserva? Scandiva poche parole nelle loro orecchie e faceva dei gesti di comando. I suoi seguaci erano in tanti ed ammassati attorno ad un obiettivo comune, nascosto dalle loro figure. Yoko non riusciva a capire cosa stesse succedendo quando scese nel salone principale e si avvicinò cauta, vedendo che i soldati si dileguavano e cercavano di trascinare qualcuno con loro. Quel qualcuno era al centro di quella massa gremita di uomini e si stava dimenando a giudicare dalla loro espressione scocciata, come quando non si riesce a fare qualcosa direttamente e speditamente ma si incontrano parecchi ostacoli. Forse era un semplice soldato che veniva portato via per aver fatto qualcosa di sbagliato, proprio come Tohma. Forse stava per andare alla ghigliottina…
Yoko non ci pensò e prima di dirigersi a mensa, ritornò nel corridoio dell’infermeria per controllare che suo cugino Hatori avesse dormito bene. Aprì la porta ansiosa di sentire la sua voce che ancora le mancava parecchio, perché non ne aveva avuto abbastanza quella notte in cui le aveva raccontato come l’avesse trovata. Sul suo volto c’era un leggero sorriso appena chiuse dietro di sé la porta. Camminò con calma, sicura di trovare il suo caro a letto, riposato e che ricambiava il suo sorriso dolcemente.
“Tori?” Disse, avanzando verso la barella in cui l’aveva visto l’ultima volta.
Non c’era. Forse era in un’altra barella, nessun problema. Cercò di rimanere calma e di cercarlo il più possibile. Non lo trovò da nessuna parte, in nessun letto. Quello della notte precedente era sfatto e sporco di sangue, ma solo per piccole macchie qua e là. Yoko trovò una porta in fondo alla stanza, una che non aveva mai notato: vi entrò. Dentro c’era una piccola stanza, occupata specialmente da un letto enorme e morbido, da mobili pieni di ogni rimedio medico e con una finestra. Una grande finestra che dava sulla parte di Kintou Shuto che era alle spalle del palazzo in cui si trovavano.  La luce del mattino entrava fioca, ma illuminò la mentre di Yoko che capì che quella doveva essere la stanza del generale in persona: poteva mai un personaggio tanto importante essere trattato alla pari dei suoi soldati? Era ovvio che dovesse avere il proprio letto ospedaliero, nel caso si fosse ferito. La ragazza non si soffermò per molto, perché il suo obiettivo principale non era lì. Appena uscì dalla stanza, un terribile pensiero le balenò in mente: uscì velocemente dall’infermeria facendo rumore con i passi che correvano verso il corridoio. Attraversò il passaggio buio e si riversò giù le scale come un’onda anomala per raggiungere il groviglio di soldati che aveva visto poco prima. Erano andati via. Nel salone c’era solo il generale che aspettava che tornassero indietro e Yoko credette di aver capito tutto.
“Dov’è mio cugino?” Chiese affannata al generale, con l’ansia che le si bloccava in gola.
“E’ vivo, non ti preoccupare.” Rispose quello guardandola dall’alto in basso.
“Voglio sapere dov’è!” continuò Yoko alzando il volume della voce, mentre quello la fulminava con gli occhi perché gli aveva mancato ancora una volta di rispetto.
“Ti sto dicendo che è vivo! Non ti basta? Non ti basta sapere che potrai rivederlo?!” Le urlò in faccia tentando di calmarla, ma produsse l’effetto contrario.
“Non ho chiesto se Hatori fosse vivo o morto, vi ho chiesto dove fosse!” Yoko iniziò ad agitarsi sempre di più, quasi finendo addosso al generale violentemente. Lui la respinse.
“Impara a tenermi le distanze, soldato.” La guardò riluttante, ma era una riluttanza indotta, che non veniva dal suo animo. Lui non voleva buttarla via così, proprio no.
“Dov’è?!”
“Nella Terra Rossa. Ho detto che l’avrei curato, non che l’avrei arruolato per farti scappare via. Adesso sparisci!” Le ordinò, ma Yoko in tutta risposta caricò una mano dietro la schiena e colpì il generale in faccia con uno schiaffo potente, senza curarsi delle ripercussioni che poi non arrivarono. Il generale non fece altro che guardare la ragazza dritta negli occhi. Quando questa si girò per andarsene, le penetrò la schiena con lo sguardo, immobile, pianificando vendetta.
L’ora dell’addestramento fece presto ad arrivare, purtroppo per Yoko. Fu strano che il generale non ordinò di eseguire degli esercizi di riscaldamento prima di iniziare.
Era calmo. Spaventosamente calmo. Si mise al centro del campo mentre con occhi fissi guardava ogni suo seguace e poi anche colei che continuava a sfidarlo.
Sfoderò la katana.
Heizo, da dietro, guardava quasi sorridente, con occhi tenebrosi.
“Oggi ci alleneremo nel combattimento faccia a faccia. Formerò io le coppie di combattenti, a cominciare da me e… te.” Ringhiò, guardando le iridi color nocciola di Yoko che tremava dalla paura ma che venne pervasa da un’ondata di coraggio.
 
 
• Note dell’autrice 
 
 

1) Così debole…
 
Scusatemi di cuore se vi ho lasciato a secco per un bel po’, ma ultimamente il Comicon richiede la mia presenza come cosplayer!
  • Ma non fare la persona ridicola!
Zitta tu!! Comunque, spero che il capitolo non faccia schifo, sono esausta da queste giornate intere a camminare per la fiera! Chiedo venia *piange*

-Bloody Schutzengel

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


• Capitolo 16 •
Dama

 


Una volta dato il segnale alle altre coppie formate di poteri iniziare a combattere, il generale cambiò la sua katana con un lungo bastone che gli venne porto da Heizo, mentre venne invece lanciato a Yoko che ancora non si rendeva conto della situazione. Si trovarono isolati in mezzo ad un mucchio di soldati che sferravano colpi e si gettavano uno contro l’altro. Nessuno sembrava curarsi del combattimento che stava per iniziare…
 
Hajimemashou1!
 
Gli occhi sgranati della ragazza a quel segnale di battaglia non riuscirono ad individuare il fulmineo movimento del suo avversario: il generale era scattato contro di lei caricando il bastone dietro la schiena per poi portarlo avanti. Yoko si difese alla sprovvista come potette, indotta dall’istinto: mise il proprio bastone davanti a sé e bloccò quello dell’avversario. L’altro, non premette ancora contro la ragazza per cercare di sfinirla: doveva avere una lunga e lenta vendetta, doveva farle capire a cosa si andasse in contro mancandogli di rispetto in tal modo.
Il campo di addestramento, visto dalla prospettiva di una formica, era tutto un groviglio di passi, piedi, stivali e bastoni coperti da una polvere sabbiosa che s’alzava dal terreno stesso, arido e giallognolo.
Il generale ghignò da sotto la visiera del cappello come faceva le prime volte in cui ebbe a che fare con Yoko, che intanto tentava di essere preparata ai colpi successivi.
“Non ti basterà difenderti così in battaglia!” fece lui e ripartì con il colpo successivo, ma stavolta Yoko si spostò di lato evitandolo e tenendo sempre il bastone con entrambe le mani davanti a sé. Camminava retrocedendo a piccoli passi, quasi inciampava. Aveva una faccia terrorizzata ma allo stesso tempo determinata a vincere quello scontro, perché forse le avrebbe fatto meritare un po’ di rispetto. Leggeva negli abissi neri del generale una convinzione, una vacuità e un istinto violento dettato da qualcosa di esterno. In breve, poteva capire che non lo faceva perché volesse farlo, ma per qualche fattore che non proveniva dal suo animo.
L’avversario tentò di colpire Yoko alla testa, ma questa si abbassò e di scatto, senza sapere cosa stesse realmente facendo, lo colpì alla schiena facendolo quasi cadere. Questo non si diede per vinto e si rialzò più imbestialito di prima, iniziando a scagliare colpi a raffica alla povera ragazza. I passi piccoli ed insicuri di lei ancora stavano per inciampare nel terreno polveroso, nella speranza di evitare ogni bastonata dritta alla faccia, quando d’improvviso, spontaneamente, una gamba si posizionò più indietro dell’altra, facendo da sostegno a Yoko che immediatamente ne approfittò per respingere il generale impugnando orizzontalmente il bastone e conficcandoglielo nello stomaco. Ovviamente, non lo trapassò anche se una piccola parte di lei avrebbe desiderato fosse una katana bella affilata. L’avversario gemette di dolore e si fermò per qualche secondo, ma subito dopo, con un giro repentino del busto, colpì di nuovo Yoko e quella volta andò a segno. Il bastone andò a toccare il punto ancora sensibile dello stomaco della ragazza, o meglio, del fianco molle e ora dolorante di nuovo. Il bruciore saliva e Yoko poteva capire che le ferite all’interno del suo ventre si stavano riaprendo. Poteva sentire il caldo sangue scorrerle in corpo fuori dalle vene mentre il suo bastone rotolava via.
Il generale si mise sopra di lei, in piedi, intento a colpirla di nuovo impugnando la propria arma dietro la schiena e puntata perso il basso. Appena il colpo scattò in procinto di conficcarsi nella povera vittima, Yoko rotolò cercando di raggiungere il bastone. Cercò di strisciare mettendo una davanti all’altra le mani nel terreno polveroso, con la nube di sabbia in faccia e negli occhi alzata dai movimenti degli stivali degli altri. Appena la sua mano si allungò per toccare il proprio bastone, quello del generale le si conficcò tra le dita e il polso, facendola istintivamente urlare di dolore. Il pezzo di legno era fermo che premeva contro la mano della ragazza che non riusciva a fare altro che cercare di liberarsi da quella morsa dolorosa continuando a gemere di dolore. Il generale si abbassò in ginocchio sopra Yoko, sulla sua schiena, sovrastandola mentre i suoi capelli lunghi sembravano un sipario che nascondeva il volto di colei che era sotto di lui. Il suo viso le si avvicinò all’orecchio con un ghigno malefico.
“Credevi davvero che ti lasciassi vincere così facilmente, soldato?” Le sussurrò, mentre Yoko digrignò i denti, stringendoli, mordendosi le due arcate fino a sentir dolore alle gengive. Dischiuse le labbra, mostrando la dentatura come fa un cane che ringhia, aggrottò lo sguardo e i suoi occhi bruciarono d’energia. Tirò di lato la testa quanto più poteva e si mosse contro il viso del generale, colpendolo alla mascella con il capo. Sapeva che era stato un colpo molto forte, infatti il suo avversario aveva mollato la presa del bastone sulla sua mano, senza però lasciarlo cadere. Yoko scattò in avanti e recuperò la sua arma, la impugnò saldamente e in modo orizzontale, la portò dietro la schiena e colpì ai fianchi il generale che non fece in tempo a difendersi. Lei non urlò, non sbraitò ma ruggì semplicemente, mossa da una voglia di sopravvivenza che le era dettata dal più profondo del cuore. Una voglia che le diceva di sconfiggere quel mostro per averla fatta soffrire così tanto e per averle portato via suo cugino Hatori. Proprio lui, proprio Tori… Era esattamente il fatto che l’avesse portato via da lei che aveva acceso la miccia di quella dinamite che era nascosta dentro Yoko e che ora stava scoppiando più e più volte, roteando, colpendo, cercando di trapassare le difese del generale e di parare i suoi attacchi per quanto inesperta la ragazza potesse essere.
“Come vuoi sperare di sconfiggermi non avendo alcuna esperienza di combattimento?!” Le ringhiò il suo avversario, mentre quella iniziò a dar sfogo alla propria rabbia gridando ed esprimendo il proprio dolore.
“Cosa credi di poteri risolvere urlando?!” Le gridò ancora il generale che si faceva sempre più impetuoso coi suoi colpi nei confronti della giovane che reagiva altrettanto prontamente. Era inaspettata tanta audacia da parte di quella ragazzina, ma quello poteva immaginarlo, dato che sapeva di cosa potesse essere capace. L’aveva già sfidato altre volte, quella non sarebbe stata l’ultima. Yoko colpì roteando velocissimamente, ancora una volta, il busto del generale che quasi inciampò di nuovo.
“Ora mi hai stancato, ragazzina…!” Sibilò tra sé e sé, partendo alla carica ringhiando come una belva famelica contro l’avversaria che venne atterrita da tanta impetuosità: il generale aveva gli occhi che parevano in fiamme, sembrava che il cuore gli stesse bruciando dal petto e che gli stesse uscendo dal corpo, che gli stessero spuntando zanne ed artigli assieme ad un’aura malefica e potente. Yoko si fece indietro, cercando di non apparire atterrita e si preparò al colpo che stette per ricevere, cercando persino di controbattere. Fece leva con una gamba da dietro e partì anche lei alla carica, ma quando il colpo arrivò, la scaraventò indietro senza troppa fatica. Le zanne del generale erano visibili: quei canini non sembravano più umani, sembravano appartenere ad un lupo mannaro. Sembrava che avesse le pupille di un gatto esposto ai raggi del sole, delle fessure inquietanti e piene di rancore. Arrivò un altro colpo, stavolta allo stomaco della ragazza, poi più su verso la faccia, ma questo non la sfregiò perché riuscì a rotolare via e a pararsi col proprio bastone. L’arma del generale tentò di conficcarsi nelle braccia della giovane che puntualmente riuscì a dimenarsi e a evitare che venisse quasi perforata dal legno. Yoko non seppe cosa fare quando il generale la prese per il colletto della divisa e la fece rialzare per poi colpirla ancora, ancora e ancora, come se non ne avesse avuto abbastanza, come se la sua vendetta non fosse potuta finire Demo, nan fukushuu?2
Non era forse lei quella a doversi vendicare? Che voleva saperne lui di cosa vuol dire avere desiderio di una vendetta giusta, condotta per una giusta causa? Che c’entrava la giustizia col nome di quel mostro? Aveva mai saputo cosa fosse davvero la giustizia? Vendicarsi di cosa?!
Il bastone del generale faceva pressione contro quello di Yoko: formavano una specie di croce, una cui parte veniva spinta verso l’alto dalla ragazza e l’altra verso il basso dal suo avversario. Era uno scontro di fiamme, di passioni diverse, di rabbie diverse, di differenti tipi di rancore. Yoko sapeva qual era il suo rancore, perché lo serbava, sapeva perché era decisa a sconfiggere il generale, ma lui? Egli era a conoscenza del motivo scatenante della rabbia di Yoko, ma sapeva quale fosse il proprio? Lei non lo sapeva e dubitava che anche l’avversario potesse conoscerlo…
Il bastone si abbassò sulla gola di Yoko, vincendo la forza delle deboli braccia della ragazza, andandole a bloccare il respiro. Ora, senza il fracasso del suo inspirare ed espirare affannato ed assetato di vendetta, lei poteva sentire il cuore batterle all’impazzata. Non sapeva perché.
Non aveva paura.
Allora perché? Perché non aveva più paura di quegli occhi neri e maligni, di quello sguardo penetrante che si avvicinava sempre di più a lei, di quel petto in fiamme che stava premendo contro i sue legni per soffocarla. Era forse pronta a morire? No, l’aveva promesso a Tohma e anche ad Hatori ed ancor prima alla madre. Aveva promesso di non morire in questo modo, quindi non poteva mai essere pronta a prendere parte ad uno dei tanti paradisi. Allora perché sembrava che il sangue le stesse sgorgando dal cuore senza farla morire? Perché quel nemico, col suo atteggiamento e col suo fiato di furia e di vendetta le stavano dando il coraggio di non avere paura? Yoko non lo sapeva e non seppe nemmeno perché davanti ai propri occhi sgranati e la bocca spalancata, non morì vedendo il generale alzarsi pian piano. Le stava risparmiando la vita? Cos’era? Le aveva fatto capire la lezione come una stupida bambina che viene minacciata di essere picchiata nel caso dovesse disubbidire sebbene non vedrà mai una mano alzarsi contro di lei? La stava prendendo in giro, forse? Perché, se la odiava così tanto da cercare di ucciderla l’aveva risparmiata? I suoi occhi dicevano chiaramente di odiarla allo stremo, sottili ed avvelenati, eppure… il naso del generale, al che fu ad un palmo da quello di Yoko, si allontanò lasciandola respirare.
Forse quegli occhi pieni di rancore, non ce l’avevano con lei o forse non era rancore quello che si nascondeva dietro di loro.
“Non permetterti mai più di sfidarmi in quel modo.” La penetrò con lo sguardo, fulminandole gli occhi spalancati color nocciola, poi si girò dall’altra parte, evitando il contatto visivo per terminare la frase. “O dovrò ucciderti sul serio.”
Yoko si alzò lentamente, guardò il generale andarsene lentamente verso il palazzo, mentre la sua figura veniva coperta e scoperta dagli altri soldati che combattevano. Sembrò che i suoi occhi fossero più grandi del solito, mentre la sua bocca era dischiusa come un piccolo cerchietto dipinto di rosa sul suo volto.
 
Il bel mezzo della marcia: era bello potersi “rilassare” uscendo dal palazzo e vedendo i propri sudditi inchinarsi davanti al regime. Il generale assaporava la brezza sporca di Kintou Shuto ad ogni marcia che compieva, senza mai stancarsi o annoiarsi nel percorrere gli stessi passi tre volte al giorno tutti i giorni, solo per dimostrare ai suoi cittadini che lui c’era e non aveva intenzione di far crollare le proprie ideologie. Era dinanzi a tutto il corteo, avendo davanti solo un paio di soldati che erano disposti ai lati di lui ed Heizo, in modo da proteggerli da eventuali pericoli. Era tipico fornirsi di una sottospecie di servitù per queste piccolezze, pensava il generale.
“Signor generale.” Lo chiamò il vice, che era accanto a lui, ma nessuno distolse lo sguardo dal terreno di marcia dinanzi a loro.
“Che vuoi, Heizo?”
“Sembrate turbato ed annoiato. È forse colpa di quella ragazzina con cui avete deciso di combattere?” Sì. Era colpa sua. Era lei la causa di tutti i suoi problemi e lo sapeva bene che sarebbe stato meglio liberarsene piuttosto che continuarsi a farsi del male.
“Non dire stronzate, perché dovrei essere scocciato? Sono solo stanco, è stato un difficile allenamento oggi.”
“È stato tanto complicato sconfiggere una mocciosa così debole ed inerme?” Il generale cercò di non stringere i denti.
“Sai bene che non mi riferisco a quello, strana copia di Heizo che mi inquieta parecchio. Sei sicuro che invece, tu stia bene? Te lo ripeto, sei strano.” Continuò a camminare risoluto sperando di aver cambiato efficacemente discorso.
“Perché cercate di cambiare discorso? Non volete sentirvi dire che vi state visibilmente attaccando a quella ragazza? Se volete il mio parere, dovrebbe andarsene. Non è stata una scelta saggia portarla nell’esercito e permettere che ne rovini la figura. La guerra è un affare da uomini, mio generale, non da donnicciole.”
“Che vuoi dire?” Irruppe immediatamente e irritatamente il generale nel discorso, ma quello continuò a parlare.
“Una donna sta rovinando la reputazione del regime: perché non mandarla alla ghigliottina in questo istante e andare a radere al suolo Kintou Ovest?!” sbraitò a bassa voce Heizo.
“Sono io che comando questo Paese, Heizo. Non sei in posizione di darmi ordini, sei un vice generale, il vero comandante sono io. Taci una volta per tutte e non provare a sfidarmi. Mi state mancando di rispetto in troppi. Siete degli indisciplinati. Potrei farti ammazzare.”
“Io finirei alla ghigliottina invece di una donna?! Vi siete fatto il lavaggio del cervello, generale?!”
“Che cazzo dici, cretino? Smettila di inveire contro le mie decisioni! Taci!” ringhiò. Seguì un minuto di silenzio, poi l’esercitò si voltò davanti le porte della città e il generale passò in mezzo ai propri uomini col proprio vice per essere di nuovo a capo del corteo e ritornare al palazzo. Appena la marcia cominciò, sembrava che la situazione fosse più mite.
“Stasera avremo come ospiti molte persone importanti della Terra Rossa. Meglio farseli amici che nemici prima di incominciare una guerra, generale.”
“Sono io che decido Heizo, piantala! Siamo già in buoni rapporti con quella parte delle Terre d’Oltremare, non sospetterebbero mai di un attacco sta’ in pace coi pensieri. Intesi?” rispose irritato.
“E’ solo che continuo a pensare che… forse… mostrare la vostra piccola prigioniera potrebbe portare una cattiva reputazione alla potenza del regime. Non credete?”
“Le ho detto di non fari vedere durante la cerimonia. Non rompere. Contento?”
“Decisamente.”
La marcia finì, le porte del palazzo furono spalancate e il generale si ritirò nella propria camera che godeva di una piccola finestra sul mondo esterno, una delle poche di cui era munito quel carcere. Si sedette sul letto e si tolse il cappello prima, la giacca dopo. Rimase in camicia, si stese quasi sul materasso in modo che il tessuto bianco che gli ricopriva il petto esile potesse delinearne la forma piatta e sorprendentemente delicata per appartenere ad un uomo di tale potenza. Guardò fuori la finestra, mentre i raggi dorati riscaldavano il suo corpo e i suoi occhi stanchi e pensierosi.
“Stasera c’è il ballo. Che palle…” si curvò da seduto mettendo i gomiti sulle cosce e guardando nel vuoto coprendosi la bocca con le mani a pugno. “… Odio vede tutti quei politici disgustosamente felici che danzano con le proprie dame altrettanto disgustosamente felici nel mio palazzo. Ma devo farlo… Dannazione a me che m’impongo tutto questo…” sussurrò volgendo lo sguardo alla finestra. “In questi giorni sembra che il sole sia più caldo, anche se siamo in pieno autunno… E’ una mia impressione o Kintou Shuto è meno grigia? Di solito l’autunno la fa ingrigire ancora di più. Che cazzo di stregoneria è questa?” Pensava, osservando gli invisibili raggi che disegnavano linee dorate nella propria stanza. Cercò di toccarne annoiatamente uno, senza successo. “Una dama eh…? L’avevo dimenticato del tutto. Cazzo… A saperlo avrei potuto invitare qualche ragazza della Terra Rossa. Già… per poi muovere guerra contro il loro paese. Cosa mi passa per la testa? Voglio davvero un’accusa di oltraggio?” Si alzò stizzito, sbottonandosi la camicia per poi fermarsi a metà. Alzò lo sguardo per non guardare il proprio petto e se la levò del tutto. La sua schiena era liscia come di porcellana, sottile e delicata, coperta da ciuffi di capelli lunghi e scuri. Camminò infondo la propria camera per raggiungere il lussuoso armadio di cui disponeva. Lo aprì: dentro vi erano vestiti per ogni cerimonia, occasione e ricorrenza. Era un lusso di divise e completi eleganti e non: dopotutto, era il generale. Li guardò annoiato, fissò senza interesse ogni suo abito che pendeva dalle grucce, scartandoli uno dopo l’altro, finché non trovò un completo nero, classico: una giacca, una camicia, dei pantaloni ed una cravatta: era tutto nero, con delle decorazioni alle spalle uguali a quelle della divisa militare di Heizo. Era pieno di distintivi e lacci d’oro, taschini e dettagli, ma pensò che potesse andare per quella sera. Del resto, era sempre il medesimo abito che aveva indossato ad ogni ricorrenza simile. Prese la gruccia e poggiò senza troppa cura il completo sul letto e lo fissò annoiato. “Kifujin… ka?3
 
Erano quasi le otto di sera e Yoko poteva chiaramente sentire il brusio delle persone che man mano entravano al palazzo per celebrare la partenza per la battaglia del generale. Anche se non poteva vederli, Dal portone entravano spettabili signori da ogni parte di Kintou Est, delle Terre d’Oltremare alleate con questa e della Terra Rossa. Alcuni politici stavano già discutendo a tavolino di affari di stato con rappresentanti del paese di Yoko, altri si godevano le proprie dame e alcuni confabulavano qualcosa negli angoli della sala. L’ingresso fu pieno in poco tempo, al ché un servitore del palazzo li condusse in una sala ampia e spaziosa, adatta a tale evento: era uno spazio dispersivo, solenne, illuminato da lampadari lussuosi di cristallo e quadri del generale che sembravano tutti uguali. Ve ne erano uno ogni due metri di spazio sulla parete e non avevano didascalie sotto, perché era dato per scontato che si sapesse chi vi fosse ritratto. I vestiti erano eleganti, rossi, neri, verdi, grigi… Tutti abiti lunghi e sinuosi per le signore e simili per i loro accompagnatori. Nella sala risplendevano gioielli di perle, diamanti e brillanti che luccicavano assieme ai lampadari: il palazzo non aveva mai avuto così tanta luce come in questi eventi.
Yoko s’era ormai decisa ad uscire dalla vasca e a mettersi la camicia da notte per poter dormire nell’attesa che di sotto avessero finito, dato che non vi poteva mettere piede. Si mise sul letto, s’infilò nelle coperte sperando di riuscire a prendere sonno ,dato che le sue palpebre non accennavano ad abbassarsi. Di solito, in queste situazioni, Hatori le leggeva un libro o, più recentemente, ne leggeva da sola, libri di favole e di fiabe, di avventure e di scienza che Hatori prelevava dal Tempio della Letteratura e che poi lei custodiva avidamente nella cassapanca per non farli portar via dalle pattuglie del regime.
Non appena il soffitto non sembrò più tale per quanto a lungo lo stesse fissando, Yoko sentì la porta aprirsi senza troppa violenza. Si voltò e vide il generale entrare. Era vestito con un abito elegante, tutto nero, dai decori in oro, come sempre. Non aveva il cappello ed i capelli li aveva legati in un elegante codino basso che teneva morbido davanti al petto, appoggiato sulla spalla destra. Gli altri capelli erano tirati indietro, senza che la frangia potesse andargli davanti gli occhi. Stranamente, notò, non aveva un fare malizioso, quindi sperò che non volesse approfittare di lei ancora una volta prima della sua adorata celebrazione. La guardò negli occhi senza dire nulla, fece qualche passo avanti e chiuse la porta dietro di sé. C’era qualcosa che reggeva in mano, come della stoffa, ma era così ben nascosta dal suo sguardo che Yoko non poté capire cosa ci volesse fare.
Però, sapeva che non aveva paura e che inspiegabilmente i battiti aumentavano ad ogni passo che il generale faceva verso di lei. Non era per paura: il cuore di Yoko ormai batteva anche ad un ronzio di una mosca inaspettato.
“Fatti un bagno e preparati.” Le disse. “Scendi giù con me, soldato.”
“Scusate, ma non avevate detto che sarei dovuta restare… qui…” Le ultime parole di Yoko a stento uscirono dalla sua bocca, non appena la stoffa che aveva visto dietro la schiena del generale non fu portata avanti e si mostrò in tutta la sua bellezza: era un vestito. Un vestito chiaro, bianco e rossiccio, semplice ma ricco allo stesso tempo. Era a maniche lunghe, strette e sottili, scollato ma non in modo volgare, dato che mostrava solo le spalle. Era progettato per vestire una donna senza farla sembrare coperta da un vero e proprio abito pomposo: la stoffa sarebbe ricaduta sulle forme di questa donna mettendole in evidenza in modo delicato e puro, con il suo tessuto candido adornato qua e là da fiori cremisi. Sembravano gli stessi fiori di un kimono, ma erano solo di un colore, quanto alla stoffa, si poteva facilmente dedurre fosse seta da come scivolava dalle mani del generale che la guardava quasi ammirandola.
“E’ bello vero?” Yoko restò di stucco dal sorrisetto che il generale riservò a quel delicato indumento come fosse stato qualcosa di personale o a cui tenesse tantissimo. Rimase incantata, quindi ci mise un po’ a rispondere, ma non venne sgridata.
“…Oh! Sì… è molto bello. E’ della vostra dama per caso?” Domandò Yoko, ricordandosi che quella sera lui e la sua amata signora avrebbero dovuto danzare in mezzo a politici e uomini d’alto rango come da tradizione, come principe e principessa.
“Sì.” Rispose solamente guardandola negli occhi senza rimproverarla.
“Oh… Beh… è molto bello, signor generale. Perché l’avete mostrato a me?” Chiese educatamente lei.
“Purtroppo non ho una dama. Mi servi come sostituta. Mettitelo e scendi.” Le stava chiedendo di essere la sua dama per quella sera solo perché non si era organizzato con qualche altra sgualdrina della stanza proibita? Stava scherzando. Non poteva essere vero. Perché venirlo a chiedere a lei, dato che qualche ora prima era stato sul punto di ammazzarla? Cosa girava nella sua testa?
“Non posso accettare, io-“
“Tra un ora voglio trovarti fuori questa camera, intesi?” Uscì, chiudendo la porta alle sue spalle e lasciando Yoko spaesata e senza possibilità di scegliere. Lei si voltò e vide il vestito poggiato sul letto: era davvero bellissimo, lo ammetteva, ma… Perché? No, era impossibile, era ingiusto essere trattata come una schiavetta che deve ubbidire a bacchetta senza ribattere. Lei non… Non doveva
metterselo. Ma le conveniva davvero mettersi subito di nuovo contro quell’uomo?
Continuando a farsi tali domande, la ragazza si tolse la camicia da notte, quasi stizzita. La buttò sul letto dolcemente e prese quel vestito. Ne aprì la cerniera per poterlo infilare, lo mise a terra e lo fece risalire sulle gambe, notando che le calzava a pennello. Era morbido, leggero e le stava davvero bene: la faceva apparire ancora più delicata di quanto già non fosse, contrastando coi capelli neri e abbinandosi squisitamente con gli occhioni nocciola. Le ciglia sottili e castane, la pelle vellutata e le guance rosa chiaro come le sue labbra. Si guardò allo specchio, non consapevole che chiunque l’avesse vista l’avrebbe scambiata per un angelo. Si accarezzò timidamente i capelli morbidi, portandoli davanti al petto delicatamente e scoprendo un orecchio dall’altra parte. Notò, girandosi verso il letto, che sotto il vestito il generale aveva depositato dei trucchi e dei gioielli: una collana, un bracciale e un paio di orecchini. Non erano sfarzosi, ma erano semplici e potevano dare allo stesso tempo valore al vestito. Questo è quello che avrebbe detto qualcuno interessato di moda, ma Yoko non era quel genere di persona e non sapeva capire se un abito stesse bene con certi accessori o meno o se i colori fossero ben abbinati. Cosa potrebbe capirne lei che ha sempre vestito di verde scuro, nero, grigio e cenere? Del resto, era stata costretta dal regime a fare così. Si mise gli orecchini, lentamente, osservando il suo volto che cambiava con l’aggiunta di un così semplice elemento decorativo. Sembrava più grande, più bella, più… donna. Lo steso valeva per la stretta collana di perline rosse che le adornava il collo scoperto dall’ampia scollatura dell’abito che scopriva le spalle. Una volta finito, si guardò un’ultima volta, poi andò a prendere la cipria e gli altri cosmetici…
 
Il generale, intanto era giù nell’ingresso, ancora molto affollato, a parlare con i suoi amici politici affiancato, come sempre, da Heizo. Sembrava quasi che fosse lui la sua dama tanto che gli stava alle costole. Parlavano d’affari, di conquiste, di tecniche di battaglia e di contratti di alleanza. Il generale stringeva elegantemente un calice di vino tra le mani, senza berlo, mentre dava risposte tranquille e composte a coloro che si sentivano tanto onorati dal poter rivolgergli la paura. Era una figura temibile anche fuori dal palazzo, per cui anche i suoi subordinati che governavano altre città di Kintou Est in suo nome gli ubbidivano come cagnolini.
“Dov’è la vostra dama, signor generale? La tiene nascosta?” A queste domande, se il generale cercava di cavarsela con un sorrisetto e risposte che non rispondevano a nulla, Heizo assumeva un’espressione sempre più inquietante, fissando di soppiatto il suo compare che aveva affianco. Sapeva che non s’era accordato con alcuna ragazza che lo potesse affiancare nel ballo dell’evento, eppure, sembrava così calmo da poter parere innocuo. C’era qualcosa sotto e sperava che i suoi presentimenti fossero stupidi incubi ad occhi aperti.
Il generale tirò fuori l’orologio da taschino che aveva nella giacca e constatò che era passata ormai quasi un’ora da quando aveva abbandonato Yoko nella sua camera con quel vestito bianco e rosso.
“Scusate, signori miei, vado a prendere la mia dama. Sapete come sono le donne, con la testa all’aria che non ascoltano mai quello che chiedi loro di fare. Sarà solo in ritardo…” A quella frase del generale, Heizo realizzò infuriato che i suoi incubi erano diventati realtà e appena stette per inveire contro il suo compare, lo vide fare dietro front per ritornare alla camera di Yoko, evidentemente. Cercò di acchiapparlo, ma uno strano silenzio li fece pietrificare entrambi: uno s’era tranquillamente fermato e seguiva lo sguardo di coloro che stavano lentamente volgendo gli occhi alla scalinata di fronte il portone d’ingresso, mentre l’altro si fermò in una posizione scomoda, come se fosse stato lì per acchiappare il braccio del generale. Un brusio di stupore si levò lentamente nella sala, Heizo spalancò infuriato gli occhi e il generale rimase attonito e stupefatto, ma stavolta, sembrava ammirare ciò che aveva davanti…
Yoko era bellissima, oggettivamente stupenda e aveva un’eleganza inaspettata da una goffa e maldestra ragazzina insicura. Era una vera donna, forse per la prima volta in vita sua si sentì davvero bella, a giudicare dagli sguardi meravigliati ed estasiati di coloro che l’attendevano giù le scale. Reggeva timidamente il vestito con le punte delle dita, per alzarlo leggermente da terra in modo da non inciamparci scendendo i gradini. Ad ogni passo che faceva, il generale si sentiva sempre più in estasi: lo stava abbagliando troppo e questo Heizo l’aveva capito. Questo si avvicinò al generale, lo prese finalmente per il braccio e tentò di sussurrargli qualcosa all’orecchio con la faccia aggrottata, ma l’altro si liberò della sua presa senza nemmeno guardarlo e si avvicinò verso la sua dama che fece aprire un varco tra gli invitati e che fu lasciata passare per giungere fino al generale. Una volta lì, mentre Heizo li guardava con tutto l’odio che potesse esserci in lui, non si sfiorarono minimamente, cosa che sorprese i presenti: non dovevano essere dama e generale? Egli lo capì e senza pensarci, mise una mano sul fianco di Yoko e si girò presentandola con un gesto solenne in silenzio, sfoggiando un semi sorrisetto sinceramente calmo. Lei, intanto, si sentiva senza senso, oggetto di sguardi, fissata, osservata, sebbene sapesse che tutti la fissassero perché stava bene e non perché fosse brutta. Non le piaceva questa sensazione… oppure sì? Non sapeva spiegarsi e non sapeva nemmeno dire perché si sentisse così agitata: era solo una sostituta della dama inesistente del generale, no? Allora perché stare sul punto di sudare, perché sentirsi così a disagio, perché aver tanta paura di sbagliare in quel momento? Per fortuna la cipria impediva di mostrare il rossore d’imbarazzo sulle sue guance e per fortuna il brusio cancellava il battito del suo cuore che non poteva essere ascoltato dagli altri ospiti. Era proprio una fortuna che non la sentissero respirare imbarazzata e goffa quando il generale e lei entrarono nella sala del ballo, mentre le cingeva un fianco con la mano. Sebbene indossasse delle scarpe basse, Yoko era quasi della stessa altezza del generale: sarà stato alto circa dieci centimetri in più di lei? Non l’aveva mai notato, aveva sempre pensato fosse almeno un metro e ottanta. Forse, la sua potenza precedeva il suo aspetto fisico reale? E forse il sangue di cui s’era macchiato lo precedeva a tal punto da aver sempre fatto sembrare inverosimile quell’odore delicato di loro che emanavano i suoi capelli ed il suo abito? Yoko si stava facendo troppe domande, lo capì quando si rese conto di star guardando troppo per terra. Fu il generale a farglielo notare, strattonandola delicatamente: doveva dar l’impressione di essere impegnato con la propria dama, non poteva mica malmenarla? Egli lasciò per qualche minuto il fianco di Yoko, le sussurrò qualcosa che lei non capì, presa dalla situazione nuova e salì su un piccolo gradino in fondo alla sala, iniziando a tenere un discorso d’inizio evento. Le parole scorrevano lente e solenni, al contrario dei battiti del cuore di Yoko che andavano a farsi sempre più svelti mentre fissava, sotto di lei, il pavimento di ciliegio della sala.
Aveva un cattivo presentimento: qualcuno la stava osservando…
 
 
• Note dell’autrice 
 

 


1) Iniziamo!
2)Ma… quale vendetta?
3)Una dama…eh?
 
Salve a tutti! Questo è il capitolo più lungo!!! 9 pagine di Word! Mi sento abbastanza soddisfatta. Avrei voluto continuarlo descrivendo anche gli eventi successivi, ma visto che sto man mano rendendo i capitoli sempre più corposi, per quello che succederà nel prossimo ho preferito troncare il ballo a questo punto e poi continuarlo nel prossimo! Spero che mi perdoniate per questi ritardi, ma… sapete com’è maggio! Impegni, corse, di qua, di là… Comicon! Abbiate pietà della vostra scrittrice preferita!
-Ah, ma perché tu sei una scrittrice?
Chiudi il becco Fred! Torna in coma, brutta-… Okay, sono calma. Al prossimo capitolo! E recensite!!!!!
 
-Bloody Schutzengel

 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


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Bella addormentata

 
 


“Kanpai!” 1
 
Un brindisi. Un brindisi alla fine del discorso del generale. Tutti i calici di vino o spumante erano in alto come segno di festeggiamento dell’inizio della campagna militare a Kintou Ovest. Yoko aveva alzato il proprio calice, lentamente e timidamente, senza che la situazione potesse strapparle un sorriso. Le persone continuavano a guardarla affascinate, soprattutto i signori, tanto da farla quasi arrossire. Lei non si trovava un granché bella, si sentiva diversa, sì, ma non tanto meravigliosa da meritare tanti sguardi indiscreti. Specialmente quello di Heizo. Quello, però, non era uno sguardo d’ammirazione: tutt’altro. Le pupille sottili e nere del vice generale fissavano tra la folla la povera ragazza, meditando su come potersene liberare al più presto. Nella sua mente c’erano immagini di sangue, della sua katana sporca del cremisi che scorreva nelle vene di Yoko che nelle sue fantasia era a terra in un bagno scarlatto con il generale alle spalle che sorrideva al lavoro appena compiuto. Stava seriamente pensando di sbarazzarsi in quel modo tanto cruento di quella macchia nel loro esercito, ma quando la lama della sua katana brillò fuori dalla federa per qualche centimetro, Heizo ci ripensò e subito la rimise via.
Guardò nel vuoto, fissando quella federa decorata, nera, piena di ghirigori e scritte nella lingua di Kintou, quella lingua tanto odiata dal generale, era stranamente dappertutto: incisioni, scritte, indicazioni erano scritte in kanji2 ed hiragana3, perché purtroppo il regime non era abbastanza radicato da imporre pure a sé stesso di imparare una lingua delle terre d’oltremare. Era, dopotutto, una contraddizione, come il permettere di indossare i kimoni alle ragazze con cui i soldati si divertivano o l’uso delle katana. Sarebbe stato più facile e coerente utilizzare vesti da notte trasparenti e pistole, al posto di quelli, ma senza che se ne spiegasse il motivo, il generale preferiva mantenere tali oggetti nel suo palazzo. Non che non disponessero di un’armeria piena di armi a polvere da sparo e altri tipi di spade, ma le katana non mancavano mai in qualunque momento.
Il generale si intrufolò tra la folla, come un dio che si confonde tra i comuni mortali, avanzando a fatica urtando le persone per raggiungere Yoko. La sua dama lo stava aspettando come da copione, ferma, immobile e visibilmente contenta della sua presenza accanto a lei, nonostante non sapesse di essere una così brava attrice. Dovevano sembrare davvero una coppia tranquilla, anzi, non una coppia, solo un generale e la sua dama per una serata. Non dovevano solamente ed assolutamente trasparire la voglia di scappare di Yoko che si sentiva sempre più a disagio e l’istinto del generale che l’avrebbe potuto spingere ad approfittarsi della ragazza da un momento all’altro. Sarebbe stato difficile, stando vicino a lei tutto quel tempo, pensò Yoko, ma poi si corresse. Non era forse vero che durante tutta la degenza di Hatori era rimasto buono e docile come un cagnolino senza sfiorarla? Ma non era anche vero che non sapeva se l’avesse pensato di approfittarsene? Proprio per questa sua impossibilità di capire ciò, Yoko si sentì man mano sempre più sbagliata in quella situazione, mentre il desiderio di sparire e di non voler provocare alcuna ritorsione si facevano sempre più forti e sembravano volerle far esplodere il cuore. Mentre pensava a questo, guardando per terra, della dita morbide e profumate, lunghe e curate, le toccarono il mento, alzandolo e facendola risvegliare. Davanti a sé vide il generale con uno sguardo da assassino che in quel momento poteva permettersi dato che erano in un angolo della stanza. Sembrava volerle dire di ubbidire e di recitare la sua parte senza far troppi commenti, ed effettivamente, era proprio quello che stava pensando. Le cinse i fianchi con un braccio sussurrandole qualcosa, poi la fece voltare verso la gente, sorridendo.
Waratte4…” le sibilò. “Signore e signori, cari colleghi e comandanti di Kintou Shuto, della Terra Rossa e dalle Terre d’Oltremare, do ufficialmente il via al ballo vero e proprio. Prendete con voi la vostra dama!2 Sentenziò il generale, mostrando un fare molto diverso dal solito: le sue labbra erano curve all’insù, gli occhi apparentemente allegri ma risoluti e sembrava calmo. Si sentiva davvero così a suo agio in tutto quel trambusto che a sua propria detta gli dava fastidio. Si poteva sapere cosa avesse nella testa? Il braccio sul fianco della ragazza la spinse leggermente in avanti costringendola ad avanzare verso la sala. Il generale camminava solennemente, composto e con un’aria che dava chiaro esempio della sua autorità. Yoko lo scrutava, lo osservava bene: quegli occhi spiccavano ancora più neri e densi senza il cappello a coprirli, non l’aveva mai notato fino ad allora, poiché non l’aveva mai tenuto tanto vicino. Il collo era sottile, bianco, profumato. O forse era il vestito a profumare? Le decorazioni rigide da militare che c’erano sulle spalle lo facevano apparire più imponente, dalle spalle larghe ed autorevoli. Il codino gli dava un pizzico di delicatezza ed eleganza, tipico della sua persona, anche se non si direbbe. Yoko non l’avrebbe mai ammesso, ma per quanto androgino potesse sembrare, alle volte, era proprio un bell’essere umano. Esteriormente, s’intende, dato che era ancora dubbiosa se quel contenitore finemente curato e rifinito custodisse un’anima. Anche un’anima nera, ma un’anima. Questi pensieri la fecero quasi abbattere e rivolgere lo sguardo a terra, ma sapeva che poteva continuare a recitare la sua parte in modo impeccabile, quindi guardò dritto avanti e sorrise.
La dama di Heizo era una ragazza delle Terre d’Oltremare: una giovane sui vent’anni (più o meno l’età del vice stesso, anche se un po’ più piccola) dai capelli castani e mossi e gli occhi verdi. Mentre volteggiavano a suon di musica elegante, gli aveva detto di essere originaria di una terra dove il sole splendeva sempre sul Paese e sul suo comandante. Una terra fertile rigogliosa e ricca da cui famosi scienziati, pittori, artisti e medici erano nati portando prestigio al Paese che veniva comunemente chiamato Terra del Sole5. Heizo tutto quello non l’aveva minimamente ascoltato, facendo solo cenni distratti d’aver capito, mentre era occupato a pensare a come trasformare Yoko in uno youkai infelice e tormentato con residenza all’inferno. Avrebbe potuto scavalcare la folla, sfoderare la katana e tagliare la testa sia a lei che a dei presenti innocenti con un balzo, roteando la lama in cielo. Avrebbe potuto avvicinarvisi di soppiatto e sgozzarla o attirarla in disparte per soffocarla, farla a pezzi e nasconderne il corpo nella stanza proibita sotto delle travi di legno rialzate. Un ghigno malefico di manifestò sul suo volto.
“Cos’avete, vice generale?” gli sorrise la dama, roteando sotto il braccio dell’uomo. Questo si scosse e ritornò alla realtà, cingendole i fianchi e continuando a danzare.
“Non è niente…” La spostò in modo da vedere bene Yoko e il generale cosa stessero facendo. “Non è niente…”
 
“Cerca di sembrare sorridente, cazzo.” Sibilò il generale ancora una volta alla ragazza, senza farsi sentire da nessuno. Lei ci provava, tentava di incurvare le proprie labbra all’insù, ma per tutto quello che era successo e di cui i presenti non sapevano, le era molto difficile sorridere, quindi provò ad intavolare un discorso.
“Avete fatto mettere alla ghigliottina Hatori?” Sussurrò, con un lieve sorriso.
“Ti sembra il momento di parlare di questo, incosciente?” Le strinse i fianchi con le dita in una morsa, per farla stare zitta.
“Giacché avete parlato, ora rispondetemi.”  Questo le costò un’occhiataccia delle più crudeli da parte del proprio accompagnatore e non significava niente di buono per quella notte.
“Come osi darmi ordini, ragazzina?” La penetrò con lo sguardo, volteggiando tra la folla il più rapidamente possibile per non far rendere conto ai presenti del discorso. Giunti lontani e dall’altra parte della sala, sempre in mezzo agli altri signori, il generale prese la mano di Yoko e la fece volteggiare sotto il suo braccio, tentando di sembrare appagato dalla presenza della sua dama, cosa che però l’altra non riusciva molto bene a dimostrare, seppur per finta. La riprese per i fianchi delicatamente, come si tocca un cristallo o una tazza di porcellana della Terra rossa, sovrastandola col suo sguardo. Pochi lunghi capelli si staccavano dal lungo codino per ondeggiare nell’aria per poi tornare al loro posto, facendo sembrare il generale un essere magico, alle volte. “Tuo cugino non è morto, non l’ho ucciso. Dopo tanta fatica per tenerlo in vita sarebbe stata una cosa insulsa metterlo alla ghigliottina…” E lì si bloccò, perché davanti ai presenti che sapeva stavano sentendo, non sapeva come chiamare Yoko. Soldato? Avrebbero scoperto l’inganno e che non era la sua dama. Dama? Troppo formale, magari… Chiamarla per nome? Non voleva dimostrarle confidenza, lui era pur sempre il suo capo, l’innegabile dio del suo universo. Chiamarla col suo nome di battesimo avrebbe colmato per un lungo tratto questa discrepanza, questa differenza tra i due e il generale non si sarebbe mai permesso che ciò accadesse. Per non sbagliare, stette zitto e tentò di non sembrare a disagio da questo piccolo incidente, ma Yoko l’aveva già capito e sorridere le sembrò più facile, vedendo il suo nemico in difficoltà. Era una cosa meschina, ridere di chi, sul momento, non ha il coltello dalla parte del manico, ma nessuno lo sarebbe venuto a sapere, pensò.
“Allora…” Il generale alzò lo sguardo da terra al viso di colei che aveva di fronte, come fosse stato chiamato all’allerta. Yoko percepì anche questo. “…L’avete fatto ritornare alla Terra Rossa?”
“Perspicace, ragazzina, ma anche stupida.” Sibilò tra sé e sé senza farsi sentire. “Facendo due calcoli avresti potuto arrivarci prima, baka6 .” L’ultima parola, la sibilò ancora a sé stesso. 
La musica, solo allora Yoko se ne accorse, era rilassante ed elegante. Quelli che suonavano erano in un angolo della stanza, era un’orchestra: pianoforte, violini, direttore, violoncelli, viole… erano tutti suoni molto delicati e che portavano la ragazza, anche se solo con la mente, alla Terra Pura, sebbene non fosse musica tradizionale di Kintou. Le faceva immaginare quella terra che avrebbe a breve visto, proprio come gliene raccontava Hatori: piena di alberi di ciliegio, fiori rosa, prati verdi, templi rossi grandi che sovrastavano le foreste e piccoli nascosti nel sottobosco, tra cascate, ruscelli dominati da piccole lucciole di notte e da farfalle di giorno. Gli spiriti che apparivano e di dissolvevano felici tra le foglie degli alberi, le kitsune, i koppa, gli Oni, la Yuki Onna e gli youkai7… E poi, la leggendaria Nami che proteggeva quel piccolo paradiso ancora non intaccato dal regime. Ancora non sapeva come fare per sfuggire a quella guerra che sarebbe stata costretta a fare. Forse avrebbe preso in considerazione l’idea di morire per la salvezza di quella terra, da eroina, schierandosi con gli spiriti e con la loro sacerdotessa. Morire da eroina era diverso dal morire da vigliacca pur di non affrontare le difficoltà: sua madre e Tohma gliene avrebbero reso conto, una volta in uno dei nove paradisi…
Arigatou…” disse d’improvviso Yoko, prima che la musica finisse e che tutti si fermassero. Il generale la guardava stupito, non capendo cosa volesse dire ringraziandolo con un viso così triste e perso nei propri pensieri che guardava in basso. Essendo tutti immobili, Heizo aveva la possibilità di guardare, attraverso gli altri presenti, il suo bersaglio. Non resistette, con una scusa si allontanò dalla sua dama ed uscì dalla sala senza dare nell’occhio. A quanto pare, nessuno sembrava vederlo, come se non fosse esistito. Aprì il portone e si diresse su, per le scale dell’entrata nel silenzio più tetro. Parve quasi scomparire nell’ombra…
Gli invitati cominciarono a muoversi verso le pareti della stanza, lasciando spazio al centro per quello che doveva accadere. Pian piano il generale e Yoko rimasero quasi come fossero stati da soli nella stanza. Quello le indicò di indietreggiare come stava facendo lui, in modo da distanziarsi e trovarsi di fronte a quello che doveva essere suo nemico… doveva. Iniziarono i violini, con una melodia non troppo lenta ed elegante, intrigante quasi. Che fosse una bella canzone Yoko lo potette capire. Erano ancora fermi, ma il generale, con un movimento composto e studiato, portò una mano dietro la schiena, un piede dietro l’altro e con l’altra mano designò un arco in avanti come a voler invitare formalmente la sua dama a ballare. Lei non seppe che fare quando, una volta aggiuntosi anche il pianoforte, colui che le era dinanzi avanzò lentamente e al passo con le note, fermandosi nel centro. Yoko lo raggiunse tentando di imitarlo, si congiunsero le loro mani e i loro petti divennero spaventosamente vicini. Il generale sembrava sovrastarla, nonostante non fosse molta la differenza di altezza, ma la sua grandezza d’animo, nel modo più negativo si voglia, precedeva il suo aspetto fisico delicato. Una sua mano era sul fianco della ragazza che lo seguì egregiamente nei movimenti dei piedi. Non era un valzer, non era un lento… era una danza strana, ma piacevole, che prendeva corpo e mente, che le faceva battere il cuore con quei violini veloci ed appassionati. La mano si distaccò dal suo fianco e vi sopraggiunse l’altra: si trovarono uno di fianco all’altra, poi, ancora, faccia a faccia che volteggiavano velocemente ripetendo lo stesso movimento molte volte. Yoko si sentiva come una principessa che veniva corteggiata da un pretendente, una preda scrutata dagli occhi assassini del predatore. Non avrebbe saputo meglio descrivere lo sguardo del generale in quel momento. Questo, staccatosi completamente da lei, la invogliò a camminare in tondo tenendola incollata al proprio sguardo. Il loro contatto visivo faceva da diametro a quella circonferenza che stavano descrivendo i loro passi in senso opposto e man mano che la musica andava avanti, si faceva più piccolo, più angusto fino a farli ritrovare ancora faccia a faccia. Se non fosse stato per la cipria, le guance di Yoko sarebbero state perfettamente in grado di abbinarsi al rosso del suo vestito. Era una cosa che la faceva arrabbiare. Era una stupida reazione fisiologica dettata da tutta la situazione presa nel suo complesso. Era l’atmosfera, erano gli invitati, ma non poteva mai essere il generale. Non avrebbe mai potuto arrossire per un tale mostro, per quanto potesse ora persuaderla e ora torturarla. Non sarebbe mai ceduta: se l’era ripromesso chissà quante volte. La musica andò avanti, creando uno stacco ancora più coinvolgente dell’intero componimento: il generale si staccò, la guardò negli occhi per assicurarsi che restasse ferma e continuò a ballare da solo. Iniziò a volteggiare, a saltare, a fare repentine pose regali e composte come se fosse stato un umile vassallo che si pone al suo signore onnipotente. Era un atteggiamento piuttosto servile, a giudicare dai vari inchini, a volte preceduti da salti, ma era allo stesso tempo un atteggiamento da dominatore, da padrone e da soverchiatore. Yoko era in balia di quell’esibizione e rimase imbambolata finché la musica non riprese il ritornello e li fece riunire faccia a faccia per altri pochi secondi, poi, al terminar della musica, il generale cinse saldamente la ragazza per i fianchi e la fece abbassare all’indietro tenendole la schiena e la sovrastò piagandosi altrettanto. All’ultimo vibrar di corda dell’ultimo violino, sembrava come se il naso del generale fosse troppo vicino a quello di Yoko. Troppo, decisamente troppo. Mica si stava avvicinando di più? Era l’unica cosa che lei riusciva a domandarsi, mentre effettivamente il naso del generale sfiorava e premeva pian piano quello della ragazza.
Troppo vicino… Troppo
Il generale si staccò immediatamente da Yoko, facendola rialzare lentamente. Mentre tutti applaudivano, Yoko fissava la folla davanti a lei che sembrava visibilmente soddisfatta dall’evento, mentre si sentiva osservata solo dai due unici occhi che non la stavano guardando, al suo fianco.
 
Gli ospiti tornarono ognuno da dov’era partito, a notte quasi fonda, sfidando i pericoli dell’oscurità. Macchine, antiche carrozze, chi preferiva avviarsi a piedi pur essendo nobile. Il generale, anche se Yoko pensò il contrario, era stato l’ultimo a ritirarsi. Quando lei tornò verso la sua camera, stanca, stordita, confusa per tutto il ballo e il resto, non fece che pensare a quegli occhi che non la guardarono quando se l’era più aspettato. Era veramente confusa, la sua mente era un gomitolo di lana srotolato ed ammucchiato, di cui non si potevano trovare gli estremi. Sorpassato l’ultimo scalino, imboccò la porta che scopriva la stanza dalla quale si accedeva al lungo e buio corridoio. Lo attraversò senza troppa paura, perché era focalizzata su ben altro che il corridoio stesso… proprio altro.
“Soldato.” Quella voce la fece sobbalzare.
“G-Generale, signore…” Non si voltò perché nel buio non l’avrebbe visto lo stesso.
“Dritto a letto, domani mattina partiremo per la spedizione. Buonanotte.” Disse solamente, poi un sospiro strozzato, fece fermare ancora la ragazza che intuì avesse ancora qualcosa da dire.
“Mh…?”
“Hai recitato bene, soldato. Ottimo lavoro, ragazzina.” Concluse e lasciò il corridoio facendo rumore con i tacchi degli stivali sul ciliegio ch’era sotto la moquette.
Una volta chiusa la porta, Yoko rimase per un po’ ferma, cercando di pensare a dormire al più presto, altrimenti non avrebbe retto una marcia lunga un’intera giornata, il mattino seguente. Saranno state le undici? O mezzanotte… Non poteva saperlo, ma poteva intuirlo.
C’era qualcosa nella stanza che non andava. L’aveva percepito da quando ebbe chiuso la porta. Stordita com’era, ci mise un po’ a capirlo e per farlo dovette scrutare timorosamente ogni angolo della camera. Per prima cosa si diresse allo scrittoio, ne aprì ogni cassetto temendo potessero uscirne ragni e insetti. Andò poi verso l’armadio, perché si sentiva osservata di soppiatto, quindi aveva paura che qualcuno pronto ad ucciderla nel sonno fosse stato lì dentro… Lo aprì: non c’era nulla di strano. L’odore era sempre lo stesso… ma allora cos’era? Entrò nel bagno: la vasca era vuota, gli asciugamani a posto come li aveva lasciati e il lavandino in ordine. C’era qualcosa che non andava… Si diresse verso il letto e, dandosi della stupida, lo vide: un comodino. Per di più, c’erano delle vivande in un vassoio sopra di esso. Da quando le era stato concesso il lusso di avere un comodino? Chi ce l’aveva messo se tutti i servi erano impegnati tra le vivande del ricevimento ed il servizio? Il generale… forse… ma perché farle un dono tanto… dolce?
Sul vassoio c’erano dei biscotti decorati finemente, una bevanda apparentemente zuccherosa ed un bigliettino scritto a mano.
Shougun kara, Yoko ni8.”
Allora aveva ragione. Ma… Perché l’aveva chiamata per nome? C’era qualcosa che non andava, se lo sentiva. Ma… forse che il generale s’era raddolcito? Non poteva essere. Yoko prese in mano un biscotto: era di cacao friabile e profumato. Lo annusò: sapeva di loto, come il generale. Forse doveva iniziare a distruggere tutti quei dubbi che le si riproponevano e riproponevano… Mangiò il biscotto: era davvero buono, croccante… Era proprio una delizia, una dolce delizia. Che avesse dovuto significare qualcosa? Come quella frase, del resto. Le aveva detto che aveva recitato bene, ma il tono sembrava il tono di qualcuno che si tratteneva dal voler dire cose che probabilmente non avrebbe dovuto. Che forse…? Prese la piccola ampolla della bevanda e la buttò giù delicatamente tutta d’un fiato, senza rigarsi il mento con il liquido. Assaporò: aveva ragione, era dolce e zuccherina. Era biancastra, come il latte… Forse era colpa del troppo zucchero? Era davvero la cosa più dolce che avesse mai bevuto, come quei biscotti… Yoko li finì tutti, lentamente e man mano si sentì sempre più assonnata. Forse era proprio il caso di andare a dormire… Quasi non si reggeva più in piedi. E dire che prima aveva intenzione di farsi un bagno. Ma le sue gambe protestavano, si facevano sempre più molli tanto da non farle nemmeno aprire l’armadio per infilarsi la camicia da notte. Si stese sul letto, col vestito e col trucco ancora addosso e prima di addormentarsi le parve di vedere qualcosa.
Quando realizzò di chi fossero quegli occhi rossi quel sorriso maligno, fu troppo tardi.
 
Gli sembrò d’aver sentito qualcosa. Un soffio di vento, una presenza, uno spirito. Il generale non aveva tempo per quelle cose, o almeno così pensò per distrarsi dal brivido che gli aveva provocato quella visione repentina. Pochi secondi prima, gli sembrò come se una figura nera gli fosse corsa davanti. Se non errava, era la figura di un soldato, con un cappello ed una katana, dai capelli corti. Sembrava non avere massa, sembrava un fantasma, uno youkai disperato, nero e dagli occhi in fiamme. Continuò a camminare lungo un altro corridoio cercando di raggiungere la propria grande camera, quando sentì una sferzata. Un suono simile a quello di un lembo di tessuto usato come una frusta e poi di nuovo quel vento che sembrava il fiato di uno spirito.
“Non posso aver paura di queste cose. Cazzate.” Proseguì dritto per la sua via, quando sentì improvvisamente una voce, una risata cupa ma non maligna, quasi simile ad un mugolio. Si volò indietro e non vide nessuno.  “Mi stanno prendendo per il culo? Domani mattina voglio vedere come faranno a sopravvivere se sequestro loro le borracce d’acqua e li costringo a bere p-“ Mentre si girava, col volto annoiato e disgustato, ebbe un sussulto che non gli fece terminare la frase: il corridoio leggermente illuminato mostrava Heizo ad un palmo dal suo naso, immobile, con lo sguardo abbassato e coperto dal cappello. Il generale lo spinse via, ma quello s’allontanò di poco, rimanendo nella stessa posizione, come se fosse stata una pedina da scacchi appena mossa. Il generale non mostrò di star rabbrividendo.
“Che cazzo vuoi ancora? Ti pare il caso di saltare così? Che sei un moccioso che si diverte a fare queste stronzate?” Ringhiò, ma in pochi secondi si rese conto di star parlando da solo. Strano. Eppure l’aveva visto… Lui… “Lasciamo stare…” Pensò solamente mentre veniva attraversato da una leggera folata di vento che non si sa da dove provenisse. Seppe soltanto che un impulso crescente dentro di lui gli diceva di andar nella stanza di Yoko e di possederla dolcemente, come il diavolo avvicina con calma le proprie vittime succhiando loro poi l’anima. Non che volesse ascoltarlo o meno, ma il generale fece dietro front e si diresse speditamente verso la camera di Yoko.
Una volta spalancata la porta senza far rumore, ritornò in sé, non più spinto da quello strano impulso e si mise ad osservare il volto dormiente della ragazza. Era davvero una bambola di porcellana, alle volte. Chissà come era con il suo colore naturale di capelli… No. Il nero era simbolo del regime, non poteva pensare certe cose. Che gli prendeva? Il fatto è che era così delicata ed indifesa da quasi volerlo invitare a posare un ginocchio, poi l’altro, sul materasso. Dopo questo, il generale seguì quell’invito e gattonando, sovrastò l’esile figura della giovane con la propria, sciogliendosi il codino e lasciando i lunghi capelli poggiarsi sul letto. Era così indifesa… Si avvicinò dolcemente al suo petto, vi poggiò le testa e sentì il suo cuore battere piano piano, rilassatamente. Era la volta buona? Una mano s’infilò tra le vesti accarezzando quello che vi era sotto, ma quando il generale stette per poggiare le sue labbra su quelle di Yoko, il cuore della ragazza cessò di battere.

 

 

• Note dell’autrice •
 
 
Hello everyone! Lo so, è corto, troppo corto per tutto ‘sto tempo che non ho aggiornato, ma… ho avuto dei contrattempi. L’ho scritto un po’ ogni giorno perché gli impegni non mi permettevano un’accidente… spero non vi abbia delusi… Vi ho lasciato con un po’ di suspance, spero non vi dispiaccia! Spero che per giovedì sera possiate scoprire cosa è successo ( ancora ) a Yoko! Ma: hey! La storia si tinge di giallo?! No, non è un racconto misterioso… ù.ù adesso… i milemila numeretti che vi ho sparpagliato per la storia!
 
  1. Sarebbe il nostro “cin cin!” quindi… Brindiamo!
  2. Il giapponese ha tre alfabeti: l’hiragana il katakana e i kanji. I kanji sono gli ideogrammi presi in prestito dai cinesi, quelli “difficili” in parole *toppo* povere.
  3. L’hiragana è caratterizzato da segni curvi e rotondi e si usa per scrivere le parole in giapponese in alternativa ai kanji o per particelle, suffissi e prefissi, preposizioni…  Il katakana è più spigoloso e si usa per trascrivere parole straniere. I suoni sono gli stessi, ma scritti in modo diverso J Sono organizzati in sillabe! Date un’occhiata alle tabelle di katakana e hiragana su internet! ^^
  4. Sorridi.
  5. Non so se si era intuito, ma era proprio l’Italia: AHAHAH!
  6. Una delle prime parole che gli otaku imparano quando iniziano a guardare gli anime… significa “Stupido.”
  7. La kitsune, i koppa, gli Oni, la Yuki Onna e gli youkai sono tutte creature della mitologia giapponese.
Le kitsune (lett. Volpe.) sono delle creature muta forma che di solito assumono l’aspetto di donne attraenti o persone indifese come anziani per attirare a sé le loro vittime. Possono avere più di una coda: chi conosce la volpe a nove code di Naruto?
I koppa sono delle tartarughe della mitologia giapponese.
Gli oni sono dei mostri, tipo dei troll (se non sbaglio).
La Yuki Onna è una creatura mitologica che appare come una donna dai capelli lunghi e neri e la pelle chiarissima. Letteralmente vuol dire “ Donna delle Nevi” se non erro.
Gli Youkai, li abbiamo incontrati parecchie volte, vero? Tutte queste creature popolano la Terra Pura, essendo scappate dalla parte Est di Kintou.

9)   Dal generale, per Yoko. 

Spero di aggiornare il prima possibile, ma fino ad allora, non smettete di seguire la storia e lasciate una piccola recensione, voi nove seguaci che la seguite! È.E non fate i cattivi, dai, non vi costa nulla! ^^ Alla prossima!
 
-Bloody Schutzengel. 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


• Capitolo 18 •
Luci di mistero


 
 



“Non è possibile…” Il generale rimase impietrito davanti a quella situazione: sotto le sue mani non sentiva nemmeno più un singolo battito. Si scostò più che immediatamente dal corpo della ragazza, alzandosi e scendendo giù dal letto. Non l’avrebbe mai ammesso, ma era preoccupato, e anche molto. Si avvicinò al volto della ragazza e le prese le guance tra le mani, sussurrandole parole che gli tremavano sulla punta della lingua. “Che ti prende? Che ti prende? Cristo santo…” Stette per farsi prendere dal panico, ma ricordando che non erano soli in quell’enorme palazzo gremito di soldati, si rialzò in piedi e cercò di mantenere la calma. Si guardò attorno imprecando nervosamente, colto alla sprovvista dalla situazione, quando vide sul comodino il piatto con le briciole di biscotti e il bicchiere vuoto della bevanda. Vide anche il bigliettino, cosa che lo insospettì: s’avvicinò assottigliando gli occhi e lo prese tra l’indice e il medio, come una sigaretta, poi lo lesse.
I suoi occhi si spalancarono: che stava succedendo?
“Chi cazzo ha scritto questa merda?” Imprecò, ringhiando e buttandosi sulla ragazza in fretta e furia. A denti stretti, la prese in braccio facendola scendere dal letto, poi la abbracciò da dietro posizionando un pugno su suo stomaco sotto la cassa toracica e spinse in su. Spinse forte, con tutta la forza di volontà che aveva in corpo, anche se chi l’avesse visto non l’avrebbe detto.
“Andiamo, cazzo… Sputa quei maledetti biscotti, maledizione!” Ringhiava tra sé e sé tentando invano di aumentare l’intensità dei suoi movimenti.
Dopo un po’, Yoko finalmente rigettò quello che aveva ingoiato, ma non accennava a respirare. Nella mente della ragazza, se fosse stata sveglia, si sarebbe delineato il terribile dejà vu di quando Tohma provò a salvarla la prima volta dalle pillole che aveva ingerito per suicidarsi. Già: un terribile dejà vu.
Il generale rimase ancora più pietrificato: Yoko non respirava ancora e il suo cuore non accennava a riprendere a battere.
“Merda… Merda!” La prese in braccio senza pensare e si avvicinò al suo volto. La distese per terra e la guardò per pochi secondi, ma non c’era un minuto da perdere. Uscì dalla stanza e silenzioso come la morte si diresse in infermeria. Imboccò il corridoio che conduceva alla stanza, aprì la porta, la attraversò e s’infilò nella propria camera d’ospedale privata, perché quello che gli serviva era solo lì. Aprì un armadietto, uno dei tanti, prese una boccetta di vetro e la guardò: non era quella. Ne prese un’altra: nemmeno. Dov’era, diamine?! Buttò via tante altre boccette per scoprire che ciò che gli serviva era in fondo all’armadietto: adrenalina. Prese una siringa, del disinfettante e dell’ovatta e scomparve dall’infermeria il più veloce possibile, come fumo nero. Correndo silenziosamente verso la stanza di Yoko, il generale pensava e si ricopriva di domande.
“Chi è stato questo bastardo? C’è qualcosa che non va qui dentro… Dannazione! Devo… No. Non posso annunciare pubblicamente tutto ciò, sarebbe troppo sospetto. Perché dovrei voler rendere giustizia a quella ragazzina? Se devo davvero scoprire chi è stato, devo saperlo solo io. Dannazione!” Rimuginava tra sé e sé quando aprì la stanza della ragazza, trovandola perfettamente uguale a come l’aveva lasciata: era a terra, bianca, dormiente e simile ad una bambola di porcellana. Sembrava il volto di una foto dell’Ottocento delle Terre d’Oltremare, dove su un’isola particolare1 s’usava fotografare i cari morti in modo da preservarne la bellezza. Questo accadeva soprattutto coi bambini, se non andava errato.
Si buttò sulla ragazza, abbassandosi, tentò di scoprirle il collo già nudo, non pensando a ciò che stava facendo e passò l’ovatta sulla morbida carne, Prese la siringa, controllò che non vi ci fosse aria all’interno e la infilzò nel collo di Yoko, sperando che fosse servita a qualcosa. Buttò via l’arnese, si asciugò il sudore con un braccio e il suo volto s’avvicinò a quello di lei pericolosamente. La sovrastò ancora con la sua figura, sporgendosi su di lei carponi e le poggiò le mani sul petto, una sull’altra. Spinse simulando il ritmo dei battiti cardiaci e la guardò respirando affannosamente.
“Andiamo, cazzo… soldato!” Sussurrava tra sé e sé stringendo sempre di più i denti.
Smise di fare quell’inutile massaggio cardiaco alla ragazza e senza pensarci due volte (o altrimenti non l’avrebbe più fatto), prese un respiro profondo e unì le proprie labbra a quelle di Yoko, rilasciando il suo respiro. Si staccò dopo qualche secondo, prese un secondo respiro profondo e lo donò nuovamente alla ragazza, continuando a spingere le proprie mani sul suo petto ad intervalli scanditi, sempre più forti. Quando le sue labbra stettero per toccare per la quinta volta quelle di Yoko, lei balzò mettendosi a sedere. Il generale si spaventò quasi, temendo avesse potuto vederlo così debole e poco temibile e sul procinto di “baciarla”. Ma non la stava baciando, le stava solamente donando il proprio respiro per evitare che morisse, o almeno così si sussurrò lui per incutersi coraggio.
Mentre pensava a tutto ciò, sentiva la ragazza respirare pesantemente, come se fosse stata in apnea per ora, aprendo la bocca il più possibile per rubare all’atmosfera tutto l’ossigeno di cui aveva bisogno. Guardava nel vuoto, con gli occhi nocciola sgranati e intrisi di paura: non aveva realizzato di chi fosse il volto del suo salvatore.
“Stai bene?” Domandò atono il generale, ma la reazione di Yoko fu inaspettata più che improvvisa: lo spinse via, con le labbra dischiusa ed un’espressione che sembrava voler urlare e vomitare l’anima, ma quell’urlo non arrivò. Indietreggiò in ginocchio indicando senza senso il volto del generale con un dito, mentre con l’altra mano si copriva la bocca. Gli occhi erano lucidi di pianto ma fino ad allora nessuna lacrima aveva ancora solcato le sue guance. Lui s’avvicinò con calma, senza sembrare mollemente preoccupato, cerando di mostrarsi forte e disinteressato, ma tranquillo, sebbene dentro avesse tante di quelle domande da farlo impazzire. Che stava succedendo? Credeva mica che fosse stato davvero lui? Dannazione.
“Sta’ calma non sono stato io ad avvelenarti.” Cercò di tranquillizzarla, ma quella cominciò a mugolare terrorizzata qualcosa ed ad indietreggiare sempre di più.
“No… No… No…” Mugolava tra sé e sé senza ragionare e lanciando piccoli gridolini. Il generale si avvicinò a lei di scatto tentando di farla stare zitta: se li avessero scoperti sarebbe stato troppo sospetto. Le mise una mano sulla bocca facendola solamente mugolare ancora di più.
“Sta’ zitta!” Ringhiò quasi disperatamente. “Non ti ho avvelenato io, quel biglietto non l’ho scritto io, non ho preparato quella merda che hai mangiato, quindi, sta’ zitta.” E a quel punto, Yoko si calmò un po’, comprendendo le parole del suo salvatore che la guardava negli occhi tanto penetrante da ipnotizzarla. “Bene… Ora calmati.” La ragazza si mise a sedere, una volta che lui le tolse la mano davanti la bocca con cautela nella speranza che non ricominciasse a sclerare. Si mise anche lui a sedere, di fronte a lei, dimenticando per un momento che la posizione di un generale era solo in piedi, al di sopra dei suoi subordinati.
“Cosa mi è successo…” Sussurrò la ragazza tra sé e sé nel buio, fissando il vuoto.
“Qualcuno vuole ucciderti.” Disse schiettamente l’altro, non preoccupandosi della sensibilità di Yoko.
“Cosa… Chi è stato?” Domandò lei guardandolo persa nei suoi occhi, in cerca di un qualcosa a cui aggrapparsi dopo essere scivolata in un baratro. Proprio come chi sopravvive ad una disgrazia e rimane senza parole davanti ad una notizia capace di distruggerlo dall’interno.
“Che cosa vuoi che ne sappia? Non ho la palla di vetro, io.” Sbraitò scocciato il generale e anche se lei percepì che ce l’avesse con la sua persona, quello pensava al bastardo che aveva osato ucciderla. Non si doveva sapere. Ma se davvero Yoko avesse potuto leggergli nella mente, perché condannare tanto duramente qualcuno che aveva solo tentato di spedirla all’altro mondo? Non era forse la morte il sollievo più grande, secondo il generale? Chi avrebbe ferito tale perdita? Mentre si formulavano così tante domande, passarono secondi di freddo e cupo silenzio in cui i due sguardi non si incontrarono.
“P…Perché?” Tentò di riprendere il discorso la ragazza.
“Perché sei una femmina. O almeno credo che sia questo il motivo. Avere una donna nell’esercito è un sacrilegio, anche se ti ho fatto venire qui per punirti con qualcosa di peggio che la morte.” Nel pronunciare quelle parole, la voce del generale servava un pizzico di malinconia, di nostalgia dolorosa, come se qualche mostro dentro di lui stesse per venire a gala dopo tanto, troppo tempo.
“Avete ancora intenzione di… punirmi?” Fece Yoko, innocuamente. Il generale non rispose. Passò un lungo minuto senza che si proferisse parola.
“Non deve interessarti quello che penso, stupida.” Si alzò e guardò in alto, nel vuoto. “Domani…” Pensò tra sé e sé… “Domani si vedrà.”
“Adesso alzati e va a dormire, domani all’alba non farò eccezioni: chi non si regge in piedi resta indie-“
“Ho visto un uomo…” interruppe Yoko, credendo di guadagnarsi un’occhiataccia, che non arrivò. Il generale si voltò interessato a ciò che aveva da dire, ma non lo diede troppo a vedere, facendole cenno di continuare. “In realtà, sembrava un essere volatile… Come se fosse fatto di fumo, come fosse… uno youkai.”
Il silenzio calò nella stanza un’altra volta, poi il generale s’alzò e se ne andò, sussurrandosi che avrebbe preso dei provvedimenti.
Intanto, Yoko si cambiò e si stese sul suo letto, rimandando la miriade di domande nella sua testa al giorno dopo.
 
 
Borse sbattute per terra, catene di soldati che caricavano provviste su carri e mezzi di trasporto. Braccia che si muovono, bocche che urlano comandi, permessi, divieti, mani che impugnano borsoni, bagagli, provviste. Soldati che stanno in piedi impugnando trombe in attesa della partenza per la campagna militare. In tutto questo trambusto, il generale si aggiustava il colletto dell’uniforme, l’alto colletto nero dal bordo dorato che copriva metà del suo collo in modo lineare. Si mise il cappello, guardandosi ancora allo specchio, non troppo vanitosamente perché non aveva nulla di cui vantarsi se non dell’enorme potere che deteneva. Rimase in silenzio davanti la sua immagine riflessa con le mani sul primo bottone della divisa, pensando tanto a tutto quanto a niente.
Uscendo dalla stanza, velocemente e composto, incontrò vari dei suoi subordinati che lo salutavano inchinandosi e chiamandolo con gli appellativi che lui preferiva. Egli non se ne curò più di tanto, intento a pensare ad un modo per trovare l’uomo che aveva tentato di uccidere Yoko. Non era mica stupido: i fantasmi non esistevano, tantomeno fu contento di sentire la parola “youkai” che gli ricordava quel noioso culto antico di Kintou Ovest. Capì subito da quell’affermazione della ragazza che doveva essere stata cresciuta da fantocci… In un certo senso era un bene che fossero stati uccisi, allora? Forse quel soldato delle pattuglie aveva solo smascherato l’inganno di sua madre e suo padre, ma restava ancora un punto interrogativo: come mai risolvere da soli tale faccenda se era obbligatoria l’esecuzione sulla ghigliottina pubblica? Bisognava risolvere questo mistero il più in fretta possibile.
Tornando indietro dal lungo il corridoio dov’era la stanza di Yoko, incrociò lo sguardo dell’indesiderato vice generale. Decise di affrontarlo come una violenta folata di vento.
“Che ci fai qui? Sparisci.” Lo avvertì da lontano, già guardandolo male.
“Stavo controllando solamente se tutti i soldati fossero presenti all’appello…” Fece lui con un’aura viola e misteriosa, senza far trasparire alcun sentimento.
“Non mi interessa, non è compito tuo. Vai a raccontare queste stronzate a qualcun altro. Come quel…” No, non poteva dirgli del bigliettino, lui non avrebbe dovuto intromettersi… “Sparisci e basta.”
“Io vedo tutto, mio generale, non c’è bisogno di preoccuparsi di nascondere i propri pensieri.” Sussurrò quello tra sé e sé abbastanza vicino al suo superiore da farsi sentire e da far salire l’inquietudine nel suo corpo. Peccato che fosse un elemento fin troppo importante e pericoloso per lasciarlo solo al comando del palazzo. A questo c’avrebbe pensato l’altro vice, che sembrava essere l’opposto di Heizo: originario della Terra Rossa, piegatosi al regime di sua spontanea volontà, era il più fidato tra i soldati del generale, tanto da superare Heizo.
Yoko era scesa per tempo dalla sua camera, all’alba, come da programma. Volò giù le scale e seguì gli altri soldati per capire dove fosse il punto d’incontro. Uscì dal portone d’ingresso del palazzo e si allineò in fila agli altri commilitoni, nell’attesa che il generale uscisse e diede il segnale di partenza.
Adesso era il momento di rispondere a tutte quelle fastidiose domande che le stavano spuntando in mente ogni secondo dalla sera prima. Prima di tutto, era solo una sua impressione o lo youkai che aveva visto era davvero uno youkai? Per lei non c’era da stupirsi che esistessero tali creature, ma perché avrebbero voluto ucciderla? Ma ancora… Quello youkai assomigliava spaventosamente a quell’uomo che la seconda notte aveva tentato di violentarla e ucciderla. No, non ci assomigliava: era perfettamente identico a quell’uomo, che tra l’altro era uguale a Tohma. Ma Tohma non l’aveva picchiata, non era stato lui e nell’esercito non c’era alcun soldato, ebbe modo di notare, che fosse simile a colui che le aveva fatto sputare tanto sangue. Che strano mistero… Quell’individuo era fatto di materia, la seconda notte, mentre era sicura che si trattasse di uno spirito nella scorsa. E se fosse stato davvero Tohma per tutto quel tempo? I fili di ricollegavano: prima che Tohma morisse l’uomo era fatto di materia, mentre dopo l’esecuzione del suo amico, era apparso prima a suo cugino Hatori e poi ancora a lei. Ma allora, se era dalla parte del generale che voleva tanto torturarla, perché era stato ucciso? O forse il generale era dalla sua parte? Non era possibile, non poteva volerla salvare, sarebbe stato incoerente. Le aveva sputato in faccia insulti, l’aveva torturata, le aveva quasi uccido colui a cui teneva di più al mondo. Sarebbe mai riuscita a risolvere questo enigma? Dall’altra parte del portone, il generale si domandava lo stesso.
Le trombe iniziarono a suonare appena il capo del regime uscì dal proprio palazzo, marciando in mezzo alle due file di militari schierati ordinatamente. Dietro di lui, il vice generale e man mano, gli altri subordinati che si univano in fila per sei o sette, al seguito del loro punto di riferimento. Si fermarono e il generale fece cenno ai carri che trasportavano le provviste di partire. La gente guardava estasiata quello spettacolo, mentre quel fiume di divise veniva abbagliato dalla luce che trapelò violenta dalle porte della città: la luce di un nuovo inizio, forse, anche per Yoko.
Lei era tra le prime file e poteva vedere, i capelli del generale ondeggiare ad ogni passo, ad ogni soffio di vento che sembrava trasportarne l’odore fino a lei. Yoko inspirava profondamente dalle narici, per assaporare quel dolce profumo di fiori, cercando di non rovinarsi quel momento pensando a chi appartenesse.
Dopo qualche miglia da Kintou Shuto, si iniziava a sentire la differenza del paesaggio, meno influenzato dal regime della città, che però aveva il suo peso anche sulle terre limitrofe: c’erano piccoli villaggi grigi con qualche piccolo santuario per gli antenati in casa, nascosto, dato che le pattuglie non c’erano sempre e passavano ogni tanto a controllare la situazione dando per scontato che fosse tutto regolare. La gente era povera, senza lavoro e senza soldi. Erano tutti ridotti alla fame, sì, ma passando nel piccolo villaggio, alcuni abitanti avevano la forza di sorridere alla piccola Yoko che ricambiava quando poteva. Loro percepivano la buona volontà della ragazzina che invece diventava sempre più triste man mano che le persone aumentavano.
Usciti dai primi villaggi limitrofi, si intravidero le prime pianure verdi, non troppo rigogliose ma che conservavano un bagliore di vita. Il cielo si era schiarito ed i primi raggi di sole penetravano tra i lunghi capelli del generale, per quello che Yoko riuscisse a vedere. L’erba era stopposa, secca in alcuni punti, ma ancora verde ed le era rimasto un po’ del suo profumo tipico di rugiada. In lontananza, quando i carri delle provviste non passavano davanti a Yoko che era la prima della sua fila, si riuscivano a vedere delle piccole figure nere: erano i lavoratori delle risaie, che sotto l’umido cielo tentavano di guadagnarsi la ciotola di riso giornaliera con tanta, forse troppa fatica. Yoko sorrise: nonostante tutto, era bello poter vedere qualche segno di quella che si poteva chiamare vita anche solo in parte. Non avrebbe mai pensato che quelle lunghe ore di marcia fossero state tanto rincuoranti.
Oltrepassate le pianure e le prima colline fangose ed aride, l’esercito si fermò per qualche minuto sulla cima di un altopiano per osservare l’orizzonte e verificare che la loro meta fosse lì dove se l’aspettavano. Yoko rimase senza fiato: da quel burrone verde, poteva vedere il netto confine tra Kintou Est e la Terra Pura: una fitta foresta di alberi giganti, sempreverdi che difendevano la loro terra. Un tappeto verde scuro sotto il cielo cosparso di dolci nuvole che lo facevano sembrare ancora più bello: finalmente, dopo tanto tempo, Yoko poté vedere la vera luce del giorno che le era stata negata da quando era nata, sotto quelle nubi grigie e sanguinose. Chissà se dietro quella foresta avrebbe trovato la libertà, anche solo per qualche secondo. Chissà se l’avrebbero accolta facendola sfuggire da quell’esercito… Chissà…
Continuarono ad avanzare, scendendo dal burrone per una ripa erbosa scoscesa, mentre le bandiere del regime bianche e rosse sventolavano impure a causa di quell’alito di vita. Sotto la luce del giorno, i riflessi verdastri e melmosi dei capelli del generale non erano più solo riflessi, ma il colore vero di tutta la chioma che ondeggiava nel vento. Che strano pigmento: come facevano ad essere così… verdastri? In effetti, adesso solamente a Yoko veniva da pensare a tutti i misteri che il generale celava. Per cominciare, quei lunghi capelli che non aveva mai tagliato, o almeno così credeva. Perché tenerli tanto lunghi e liberi e per di giunta perché non aver soffocato quei riflessi verdastri nella pece? Era l’eccezione che doveva confermare la regola? E poi, ancora: com’era possibile che al suo arrivo avessero pronti un kimono da donna ed una camicia da notte da donna? In effetti, il kimono forse apparteneva ad una di quelle ragazze della stanza proibita. Solo a pensarci, Yoko rabbrividì all’immagine di quella stoffa macchiata di perversione che aveva dovuto indossare. Ma rimaneva la camicia da notte: era della sua taglia, femminile e delicata. Come se l’erano procurata se non erano accettate le donne nell’esercito così fermamente tanto da far desiderare la morte di Yoko? Il vestito bianco! Come aveva potuto non pensarci? Il vestito da lei indossato per il ballo donatole dal generale. Quello da dove l’avevano preso? Perché avere anche dei gioielli? Di chi erano quei preziosi oggetti che quel mostro le aveva donato? Forse, aveva avuto una moglie segreta? Eppure era così giovane per avere una moglie: Yoko non gli avrebbe dato più di una ventina d’anni, all’apparenza. C’erano troppi misteri ancora da risolvere.
Arrivarono alle porte della foresta e si inoltrarono tra gli alti alberi scuri: erano sottili ma imponenti, dalle foglie che sembravano aghi ed erano alti fino a dieci metri o anche di più. Yoko si sentiva persa in quel paesaggio naturale e puro che l’abbracciò presto da ogni lato. A destra, a sinistra, davanti e dietro: i raggi di sole penetravano sottili e luminosi tra le foglie di quegli alti pini, illuminando i capelli del generale e i suoi cordoni dorati, creando uno spettacolo di colori meraviglioso che faceva apparire innocue tutte quelle divise nere. Il sottobosco scricchiolava sotto le ruote dei carri e sotto i piedi dei soldati in marcia, creando con il canto della natura un’orchestra meraviglioso.
Dopo essere penetrati più a fondo nella fitta foresta, in lontananza si intravide una specie di radura dl terreno macchiato d’erba solo qua e là e con qualche albero nel mezzo: un luogo perfetto per l’accampamento. Yoko si sentiva libera: chiuse gli occhi e si lasciò andare al suono del vento, finché un suono di un tonfo non la fece risvegliare: un soldato in prima fila era caduto a terra.
Tutti gli altri compagni di guerra della ragazza si erano fermati per ordine del generale che soccorse il suo subordinato rimanendo freddo e impassibile. Si accovacciò su di lui e notò che da sotto il colletto della divisa, spuntava del rosso. Gli aprì la giacca, scoprendogli il petto e si mostrò a lui una gigantesca bruciatura rossastra sulla pelle del soldato. Essa dipingeva sulla sua carne una specie di disegno che pareva quasi un drago. A giudicare dal gemito di dolore del malcapitato, doveva trattarsi di una specie di scossa elettrica.
“E’ qui…” Sussurrò il generale a sé stesso. “Portatemi il cordone!” Ordinò, ed una decina di soldati ubbidirono, correndo verso uno dei carri delle provviste, da cui tirarono fuori un’enorme cordone dallo spessore di almeno un decimetro, biancastro e resistente. Sotto segno del loro capo, si fermarono. Yoko, per il trambusto, era finita nella prima fila del seguito, proprio di fianco al generale. “Disponetevi in modo da afferrare saldamente un pezzo di corda, soldati, forza! Muoversi!” I suoi subordinati ubbidirono immediatamente, afferrando un pezzo di quel cordone pesante e sporco di polvere che la ragazza, invece, indugiò a toccare.
“Cosa… cosa succede?” Sussurrò a sé stessa, nella speranza che qualcuno le rispondesse.
“E’ la barriera della Terra Pura, solo i puri possono passare, altrimenti nel migliore dei casi si finisce come quel soldato.” Guardò il ragazzo per terra, ferito e paralizzato. “Una scossa elettrica, un’abrasione a forma di drago e la paralisi. Entro qualche ora, si muore. Quella stronza di Nami l’ha progettata davvero bene questa cosa, eh?” Continuò sibilando tra sé e sé. “Tu.” Si rivolse a Yoko. “Mettiti davanti a tutto e afferra un pezzo di corda. Al mio segnale, stendi un braccio davanti al corpo e apri bene la mano verso la barriera. Appena senti che si riscalda, comincia a camminare.” Le ordinò il generale, ma Yoko, confusa, ci mise un po’ ad elaborare le parole che glie erano appena uscite da bocca. “Muoversi!”
“Io… non…” Rimuginava nella propria testa la ragazza, ma lo sguardo del generale si faceva sempre meno intransigente.
“Ubbidisci, soldato!” Ordinò. “E speriamo che tu non ci lasci le penne…”

 

 
 
• Note dell’autrice 
 
 
 
Ebbene! Un capitolo senza parole in giapponese? Mi dispiace, già… Ma spero vi sia piaciuto lo stesso e che non vi abbia deluso! Ho fatto i salti mortali per aggiornare questo capitolo, perché fino a martedì non potrò aggiornare, poiché sarò a Roma per gli internazionali di Tennis e poi sarò sommersa da altri impegni. Quindi, spero che non abbandonerete la storia e che recensiate anche questo capitolo! Alla prossima, vi voglio bene <3
 
-Bloody Schutzengel

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


• Capitolo 19 •
Orologio

 


Gli occhi gli si aprirono pian piano, mentre la testa pulsava ancora di dolore.
D… Dove mi trovo?” Pensò.
Non riuscì a vedere molto, tra i suoi gemiti di stanchezza che lo distraevano: assi di legno chiaro, umidi e freddi illuminati da un solo spiraglio di luce. Sbatté le palpebre un paio di volte per poi realizzare che sopra di lui non c’era molto spazio. Provò ad alzarsi, ma uno movimento improvviso, come uno strattone, lo fece cadere. Le sue narici acquisirono di nuovo sensibilità solo dopo un po’: acqua di mare. Era su una barca? Adesso che ci rifletteva, il luogo dove si trovava era umido, freddo e si sentivano rumori d’acqua che s’infrangevano contro il legno. Sì, era su una barca. Diretta dove?
“Calma, Hatori, pensa…”
Provò ad alzarsi di nuovo ma notò solo allora che aveva le mani legate dietro la schiena con una corda sottile ma molto resistente. D’improvviso, si ricordò che era stato in una specie di infermeria per tutto quel tempo.
“Perché ero in infermeria…?”
Il generale, quello strano uomo dai capelli lunghi e dal fisico esile: era stato lui a ferirlo tanto gravemente da passare giorni e giorni di degenza. Ma… aspetta… l’aveva anche curato?
“Questa faccenda non torna…”
In effetti, le ferite non facevano più male e ora che si muoveva poteva avvertire le bende stringergli ancora il petto. Perché? E poi… Yoko! Come si era potuto dimenticare di lei? L’aveva quasi tirata fuori da quel posto infernale, l’aveva salvate per poco dalle grinfie di quel generale assassino. Forse, a quell’ora…
“E se Yoko fosse morta, ora?” Le lacrime non uscirono, abituate a restare al proprio posto anche davanti a scene strazianti e a pensieri altrettanto terrificanti… Gli occhi di Hatori fissarono il vuoto.
“Cosa dici! Non può essere morta!”
“Ah? Chi ha parlato?” Il ragazzo ebbe un sussulto. Non era stato abbandonato su una barca in balia delle onde e della morte certa? C’era qualcuno? Provò ad alzarsi facendo affidamento sugli addominali appena guariti e riuscì a mettersi a sedere. Adesso la sua testa era a qualche centimetro dal tessuto bianco che copriva quella che doveva essere una specie di stiva: in fondo c’erano delle casse, potevano essere viste ad intermittenza ogni volta che i raggi del sole penetravano quella tela attraverso dei buchi ch’erano stati fatti per non far morire Hatori. Il ragazzo si concentrò, cercando di trovare un’uscita, ma appena si voltò dall’altro lato, ebbe un altro sussulto.
“Yoko non è morta. Lo so.” Quella voce aveva parlato di nuovo e proveniva dal fondo dell’imbarcazione. Man mano, Hatori vide un essere volatile, luminoso e fatto d’aria, come un fantasma o uno spirito: Tohma.
“Ah, sei tu! Perché sei qui?” Gli domandò piuttosto contento di vederlo, tranquillizzandosi immediatamente.
“Ho visto dall’alto che venivi portato via dal palazzo, verso le porte della città, così ho decido si seguirti. Ti stanno portando nella Terra Rossa. Sono dei soldati del generale…” Gli spiegò il fantasma. Hatori, sempre più tranquillo, sospirò profondamente e stette in silenzio per un po’. Era bello poter avere qualcuno con cui parlare, in quella situazione. Alzò lo sguardo verso Tohma: lo stava fissando, quindi si voltò subito a guardare davanti a sé, evitando gli occhi del vivo. Era affascinante: non era del tutto trasparente, ma era biancastro, bluastro… era luminoso e fatto di gas, di aura e di spirito… Era davvero affascinante. Gli occhi erano anch’essi bianchi, ma non gli facevano impressione, semplicemente, li trovò unici.
“Come fai a dire che Yoko sia ancora viva? Per quanto sia agguerrita è pur sempre una ragazzina… Non è difficile da battere…” guardò nel vuoto, mentre Tohma si voltò verso di lui repentinamente e con uno sguardo più che contrariato.
“Ma cosa dici? In quei pochi giorni che ho passato con lei, se c’è qualcosa che ho capito, è che Yoko è una guerriera! Il generale sarà stato sconfitto ogni volta che avrà cercato di approfittarsene. Lo so perché sono sicuro che sia già accaduto. E’ stata aggredita da un soldato, lo sapevi?” disse lo yurei, sconfortato, mentre l’altro restò di sasso.
“Come è possibile… non mi ha detto niente…” Il silenzio calò nella stanza, tombale e freddo come il ghiaccio lancinante. Hatori quasi tremava. I suoi denti si strinsero sempre di più e gli occhi gli si assottigliarono. “Dannato generale… dannato regime… dannata Kintou!” Ringhiò tra sé e sé, mentre la rabbia cresceva dentro il suo cuore fino a farlo bruciare con una sola scintilla, accesa da ciò che gli aveva confessato lo spirito.
“Vorrei aiutarti a scappare, ma non posso toccarti…” La sua voce era davvero un soffio di vento puro. Produceva un eco angelico e vellutato, tanto innocente quanto affascinante, tanto da far calmare Hatori almeno un po’.
“Devi aiutarla.”
“Cosa?” si voltò Tohma verso il ragazzo che si ostinava a fissare il vuoto, con la testa bassa e le gambe scomposte. “Come faccio se non posso nemmeno toccarla? Sono semplice aria, sono inutile. Sono una dannata anima che non troverà mai la luce. Sarò costretto a vagare così per l’eternità finché non impazzirò e non comincerò a tormentare i vivi con incubi da libro dell’orrore…” Hatori tentò di afferrarlo per le spalle, ma si era dimenticato di essere legato. Cercò quindi di toccarlo con la spalla, ma ottenne solo una dolosa caduta sul legno dell’imbarcazione che la fece traballare non poco. Aveva trapassato Tohma che era lì seduto, quasi fluttuante, che si spostò in preda al panico. “Che stai facendo?! Se  lo rifai il legno potrebbe cedere e moriresti affogato!” Urlò lo yurei, preoccupato.
“Eri stato di grande aiuto a Yoko quando eri ancora vivo, giusto?” Lo spirito annuì guardando il ragazzo per terra. “Lei si fida di te, giusto?” Annuì ancora. “Allora sparisci da qui e trovala, falle coraggio e aiutala a salvarsi. Anche solo parlarle potrebbe salvarle la vita. Hai capito?”
“Parli come un generale…” Hatori non rispose, lusingato, in parte, da quel commento. “…Sì, ho capito.” Tohma gli sorrise, guardandolo negli occhi.
“Ora vai!”
“Grazie.” Lo yurei scomparve, lasciando di nuovo solo il ragazzo, che non ebbe di nuovo con chi parlare e che rimase in silenzio finché la voce non decise di fargli pronunciare delle ultime parole prima che si riaddormentasse.
“A te…”
 
 
Trasparente… anzi, invisibile. Invisibile, ma anche molto, molto potente. Era così che nella sua testa Yoko descriveva quella barriera che aveva ucciso ormai uno degli uomini del generale. Il silenzio era calato sulla situazione.
“Disponetevi in modo da afferrare saldamente un pezzo di corda, soldati, forza! Muoversi!” il capo dell’esercito continuava a ripetere gli stessi ordini finché tutti i suoi uomini non toccarono con le loro mani un pezzo di quel lungo e polveroso cordone. Come un bravo soldato, Yoko era davanti a tutto, in posizione, con la mano davanti al suo corpo e l’altra che teneva stretta sotto il braccio un pezzo di corda.
Mentre quella situazione statica continuava a protrarsi a lungo, Heizo osservava da dietro il generale la giovane, con l’espressione più calma ed indecifrabile che avesse potuto assumere. Nel suo cuore, invece, campeggiavano lampi di odio e istinti più che omicidi, alternati ad immagini macabre che venivano fuori quasi come delle interferenze inquietanti.
Dopo alcuni minuti, senza che il generale dovesse ringhiarle qualcosa, Yoko prese un bel respiro e dopo essersi calmata, fece il primo passo. Si spaventò da sola, senza darlo a vedere. Si fermò, terrorizzata dentro come una bambina che sussulta al primo scricchiolare inaspettato di legnetti. In effetti, da quando il generale aveva provato ad approfittarsi di lei così come quel soldato misterioso, non si sentiva più pura. Temeva di morire. E che morte poi! Solo a causa degli istinti da bestia di persone con cui non avrebbe mai voluto aver a che fare. Solo per questo sarebbe dovuta morire? Se non fosse stata troppo occupata a concentrarsi per avvertire il calore della barriera sulla sua mano, si sarebbe iniziata ad arrabbiare al solo pensiero di dover lasciare quel mondo tanto miseramente.
Fece il secondo passo, mentre il cuore le batteva sempre più forte e mentre gli occhi di Heizo premevano sempre di più, distanti, sulla sua persona. Si sentiva malamente osservata da quello strano individuo… I legnetti del sottobosco scricchiolarono ancora una volta, poi un’altra, mentre il quarto passo fece muovere tutti gli altri soldati. Una musica celestiale, una manifestazione della natura: quel suono croccante e rilassante, infondeva fiducia nella ragazza, che chiuse gli occhi per immergersi in quella foresta e diventare più sensibile ad ogni percezione. Poteva avvertire i caldi raggi di sole che le illuminavano il viso ogni tanto, mentre trapassavano ora sì ora no dalle fitte foglie degli alberi. Il canto degli uccelli era distante metri e metri, tutti in cima agli enormi alberi dalle cime irraggiungibili e il vento freddo ma delicato d’inizio inverno contrastava sulla pelle di Yoko con il sole che la accarezzava. Caldo e freddo, silenzio, canti e scricchiolii, fruscii delle foglie. Ma ancora, le dita della sua mano non sentirono nulla…
“Hugh!” sussultò improvvisamente.
“Rapporto, soldato.” Fece diligentemente il generale, che dentro sentiva una strana sensazione, un tremolio, un sussulto nel profondo. E se fosse stata per morire…
“Sento… Sento un formicolio alla mano. E’ caldo… è…”
“Generale, piccola incompetente. Con chi credi di avere a che fare?!” Interruppe Heizo improvvisamente, guadagnandosi un’occhiata prima sorpresa, poi assassina da parte del suo capo. Yoko si sentì sporca ancora una volta, abituata a non ricevere richiami, o almeno non più una volta che il generale s’era “addolcito”.
“Con te faccio i conti dopo.” Gli ringhiò con un filo di voce quello e l’altro, senza cambiare espressione, non disse niente, più calmo del solito.
Yoko continuò ad avanzare, sentendo che il calore sulla sua mano aumentava ed aumentava, prendendo poi il braccio, poi il collo, i piedi, le gambe, la testa, il viso, il torace e per ultimo, il cuore. Era un calore forte che la rincuorò dal vento freddo d’inverno che era soffiato attraverso i suoi capelli durante tutta la marcia. Gli occhi erano ancora chiusi, mentre lei si godeva quella sensazione di calore, di amore, come se quella terra in cui era appena entrata l’avesse amata tanto da infonderle vita pura e calda nelle vene. D’altra parte, i soldati non sentivano altro che un formicolio fastidioso, come se la barriera avesse avvertito che fossero intrusi, mentre il generale non sentì nulla, come quando si varca la soglia di una casa in cui si è già stati più volte e non si sentono più gli occhi dei suoi padroni addosso, ma ci si sente semplicemente, a proprio agio. Tuttavia, egli non si sentiva a proprio agio, era preoccupato da quella sensazione. Perché non avvertiva nulla? Come se la barriera non avesse captato una minaccia? Eppure… Forse…
Dopo qualche minuto il calore scomparve gradualmente dal corpo di Yoko, facendole anche aprire gli occhi e realizzare che la radura per l’accampamento sembrasse molto più vicina. Gli altri soldati abbandonavano a terra il cordone una volta attraversata la barriera e in poco tempo, il grande pezzo di corda venne abbracciato dalla folta erba che cresceva più avanti nel sottobosco. L’aspetto della radura la faceva sembrare magica addirittura: l’erba era molto alta in alcuni punti, mentre in altri si scoprivano chiazze di terreno spoglio ma umido e cosparso di pietre legnetti e foglie trascinate dal vento. Gli altissimi alberi donavano solennità a quel paesaggio, che paradossalmente venne accentuata una volta che il generale passò davanti alla ragazza per controllare se il posto fosse stato idoneo all’accampamento. L’eleganza di quell’essere mista alla solennità di quel luogo, conferivano alla situazione un aspetto, appunto, magico.
Subarashii…1” sussurrò tra sé e sé Yoko, quando quel placido terreno venne calpestato violentemente dai soldati e dalle ruote dei carri delle provviste che già venivano aperti e svuotati di tende, pali, legno, vesti, mappe, cibo, tavoli…
“Non stare lì impalato, soldato!” La richiamò il generale, facendole cenno di andare a contribuire al montaggio della sua tenda personale. La ragazza subito scattò in piedi, guadagnandosi un’occhiataccia di Heizo: e così, le sue parole non avevano effetto ma quelle del generale sì…? Bene.
Furono conficcati quattro paletti, furono legate delle corde e il terreno fu infilzato con i sostegni della maestosa tenda dal generale. Era molto più grande delle altre e possedeva una struttura simile alle palafitte: una pedana di legno di ciliegio che avrebbe impedito ad animali ed indetti striscianti di avventarvisi. Il tessuto della tenda stessa era beige, con fuori un vessillo rosso sangue con la scritta in ideogrammi del suo titolo: “将軍2”. All’interno vennero trasferiti sacchi dalla forma di cilindri, fagotti e provviste, dei cuscini, una coperta e delle mappe e perfino una sottospecie di tavolo. Era davvero la tenda di un generale.
Quanto alla propria, Yoko dovette cavarsela da sola. Straordinariamente, il sostegno della sua piccola abitazione non crollò al primo colpo come da copione e quel drappeggio beige non le piombò addosso. I picchetti furono piazzati diligentemente e così anche le provviste e gli effetti personali della ragazza. Effetti personali, poi… un’altra divisa da guerra, una katana ed altre cianfrusaglie da guerra. Per il resto, non c’era nulla: solo una coperta ed un cuscino ed un piccolo sgabello di legno nel caso le fosse venuto in mente di scrivere qualcosa. Ma se non aveva né inchiostro, né penna e né calamaio?
Uscendo dalla propria tenda, Yoko notò che attorno all’albero che sorgeva al centro dell’accampamento, fu lasciato un’enorme spazio, con dei tavoli allestiti alla bene e meglio per il pranzo e la cena. Le provviste erano ancora sui carri, tenute al sicuro dal calore e messe sotto sale. Se si fossero esaurite, sarebbero ricorsi alla caccia, tanto, quella terra sarebbe stata deturpata di tutti i suoi frutti, fino all’ultima radice o germoglio. Pur sapendo che non avrebbe dovuto, Yoko si inoltrò tra le altre tende, per andare a rovistare nei carri di provviste. La verità era che stava morendo di fame. Stava rischiando grosso, lo sapeva, ma era da quella mattina che non mangiava qualcosa e l’aver vomitato la notte scorsa le aveva fatto svuotare ancor di più lo stomaco. Decise di tentare. L’interno del carro era gremito di cibo e soprattutto di proteine, anziché riso, il che era strano, dato che l’alimento più economico era proprio quello. Perché investire i propri soldi in qualcosa di lussuoso a danno dell’attrezzatura militare che era proprio ciò che serviva in quel momento? Yoko guardò più all’interno: c’erano anche verdure, sistemate in delle casse sul fondo, alla sua destra. Non fece ancora niente: aprì bene le orecchie e si assicurò di poter sentire solo soldati che si davano ordini a vicenda per l’allestimento dell’accampamento e non passi inquietanti del generale o del vice. Una volta sicura, ma non troppo, alzò un piede da terra, urtando contro lo scalino legnoso che doveva salire. Ci riprovò una seconda volta e allora riuscì a poggiare la suola dello stivale sulla piccola asse di ciliegio, purtroppo però, non sarebbe mai potuta passare inosservata.
All’improvviso sentì qualcosa che le afferrò il colletto della divisa e senza che chi l’aveva beccata potesse vederla, spalancò gli occhi. Venne tirata via dal carro e buttata a terra dalla medesima mano, batté la testa e mugolò per la botta. Gli occhi faticarono ad aprirsi col rimbombo della caduta che era ancora nella sua testa, mentre la mano destra corse al retro del collo per massaggiarselo, dopo quella strana sensazione di calore che si ha quando ci si fa un movimento brusco e vi si sposta un nervo.
Nani wo shite ita?3” Yoko aprì gli occhi: era il generale, stranamente. Stranamente perché era da un po’ che non la trattava così bruscamente. Ma non c’era da sorprendersi: le regole erano pur sempre regole, ne era consapevole. Non poté guardarlo dritto negli occhi, dimenticandosi il loro primo incontro in cui avrebbe giurato di estirparglieli pur di insegnarle a farlo.  Lui la prese per il colletto e con lo sguardo calmo la guardò fisso nelle pupille nocciola, senza far trasparire alcuna emozione ed aspettando che rispondesse.
Nani mo4…” Rispose lei confusa e a fatica, soffocata quasi dalla presa del generale.
“E allora che cazzo ci facevi vicino il carro delle provviste?” Le ringhiò sussurrando. Sembrava come se la stesse rimproverando per qualcosa che avrebbe potuto metterla in pericolo, ma questo trasparì ben poco e se Yoko non avesse avuto l’abilità che possedeva a leggere nel cuore delle persone, non ci sarebbe mai arrivata. Gli occhi sottili del generale la guardavano come una mamma guarda spaventata il figlio dopo avergli dato il resto una volta ch’è scampato ad un grande pericolo. Lo stesso sguardo intriso di paura che appare come rabbia: ecco di cosa erano intrise quelle pupille nere. Lei non rispose, guardò solamente a terra, comprendendo la situazione. Quello la lasciò andare, delicatamente e accorto che nessuno potesse aver notato quella scena, soprattutto ed ovviamente Heizo. Era l’ultima persona con cui avrebbe voluto a che fare in quel periodo. Sul serio: era troppo strano, cambiato. Prima sembrava rimasto bloccato a quando lui e il generale avevano solo dodici anni o poco più, quando quest’ultimo lo trattava ancora come una persona sua pari mentre l’altro si dimostrava sempre timido e taciturno, quasi sottomesso. Ma non fu questo uno dei motivi per cui il generale aveva incominciato a trattarlo quasi alla pari di un servo, da opportunista. Dopotutto, però, non erano in cattivi rapporti. Conoscendo il vice da molti anni, sapeva che c’era sotto qualcosa di molto losco per averlo fatto cambiare così velocemente e in modo strano. Allora, emanava un’aura malvagia ovunque andasse… Che mistero.
Una volta che il generale sentì delle urla provenire dal centro dell’accampamento, dove in lontananza poteva vedere dei soldati litigare come dei bambini, si risvegliò dai suoi pensieri sul vice. Fece per correre subito dai suoi indisciplinati subordinati, poi si fermò, distratto dai mugolii di sforzo che Yoko emise mentre si alzò a fatica da terra, pulendosi con le mani l’uniforme. La guardò per qualche secondo e senza che lei se ne accorgesse le si avvicinò velocemente.
“Va’ a farti un giro, qui non sei al sicuro adesso. Devo sistemare alcune cose…” Yoko ascoltava confusa e con gli occhi sgranati le sue parole, che sembravano uscire da un’alter ego gentile e cortese e non da quella boccaccia volgare buona solo a sparare ordini ed insulti. Mentre parlava, non la guardò mai negli occhi, ma guardò nel vuoto, fissando l’erba che cresceva robusta sotto le suole dei loro stivali. La ragazza portò le mani al petto, una sopra l’altra come se stesse tenendo una collana o qualcosa di simile, mentre lo fissava curiosa. Il generale stette di nuovo per andarsene, dopo qualche minuto di silenzio, ma si fermò una seconda volta, attirando di nuovo l’attenzione della ragazza che stava ubbidendo agli ordini.
“Stanotte, a mezza notte, vieni nella mia tenda.” Stavolta ci fu un profondo contatto visivo: le pupille scure del generale, impassibili e fisse, guardavano quelle di Yoko che diventarono intrise di terrore ed esitazione di fronte a tali parole che facevano risvegliare i ricordi più brutti che aveva della prigione in cui era stata chiusa fino a poche ore prima. Sussultò. “Devo parlarti di una cosa che credo ti interessi, se ci tieni a non crepare ancora in questo mondo. Prendi questo…” Le sue dita affusolate e delicate si poggiarono sul tessuto nero della divisa, cercando alla ceca una tasca che fu trovata dopo alcuni secondi. Quando i polpastrelli toccarono qualcosa di duro, freddo e ferroso, la mano uscì da questa tasca, facendo scivolare tra le dita la catena dell’oggetto che era stato estratto: un orologio da taschino. Lo porse a Yoko, che lo prese non senza esitare e lo aprì pigiando la rotellina dorata a lato. Il coperchio si alzò, mostrò il quadrante bianco con le lancette finemente lavorate e decorate. Erano nere e sembravano fatte di pizzo, sia quella delle ore che quelle dei minuti e dei secondi. I numeri erano in caratteri che Yoko non conosceva, che sembravano lettere di un alfabeto che non conosceva, ma di cui aveva sentito parlare5. Il generale intuì che non conoscesse i numeri delle antica civiltà che controllò a lungo gran parte delle Terre d’Oltremare, quindi le si avvicinò velocemente, sempre in procinto di andare a bastonare quegli impertinenti dei suoi soldati che urlavano sempre di più. “Quando la lancetta delle ore è su questa ‘x’ con due stanghette dopo, allora sarà mezzanotte e mezzogiorno. Con gli altri numeri cavatela da sola. Ora va’ a farti un giro e non farti vedere da nessuno.” La licenziò velocemente, quasi arronzandola e lasciandola ancora imbambolata davanti a quel piccolo oggetto. In effetti, era affascinante come orologio: il coperchio aveva un buco centrale di metallo intagliato con ghirigori eleganti che lasciava intravedere il bianco del quadrante sottostante. Era un metallo simile all’oro, ma meno pregiato e dal colore più “sporco”, ma unico proprio per questo. Sembrava un pezzo raro e di grande importanza per il generale, o almeno così pensò la ragazza che si domandò il perché di affidare cosa tanto cara a lei che avrebbe potuto perderla e di cui non gli importava niente.  Non capiva neanche ancora perché le avesse detto, in breve, di sparire per un po’ e ritornare per tempo, in modo che nessuno avesse notato la sua “scomparsa”. No, decisamente non capiva, ma si limitò ad approfittare del fatto che dovesse ubbidire per esplorare quella terra tanto magica e amata, di cui le aveva sempre parlato Hatori. Strinse l’orologio al suo petto, guardò oltre il confine dell’accampamento: la foresta si faceva tanto fitta da colorare l’atmosfera di un verde smeraldo affascinante, come anche l’erba. Sentiva che la stava chiamando, sentiva che doveva andare. Mise l’orologio nel taschino, si sistemò il cappello e una volta controllato che nessuno stesse facendo caso a lei, corse via, immergendosi nel verde. Purtroppo, però, ci sarebbe sempre stato qualcuno con gli occhi fissi su di lei…
 
Quando il generale arrivò sul posto, le urla si erano placate e tra i tre soldati che stavano litigando, apparve Heizo, che si fece strada tra loro e andò incontro al suo capo col solito sguardo spento e misterioso. Il generale non era convinto.
“Che è successo qui?” si limitò a domandare.
“Stavano litigando per motivi banali, mio signor generale. Mi sono permesso di rimetterli in riga: si sono dimenticati come essere dei soldati rispettabili e hanno cominciato ad urlare tra loro come delle donnicciole, signore.” Rinfoderò la katana, che fu seguita dallo sguardo dell’altro.
“Che ci facevi con la katana sfoderata?” Domandò sospettoso fissando l’arma messa via tenendo una mano su un fianco.
“A volte servono le maniere forti.” Disse solamente quello, scomparendo tra la folla di soldati che andavano avanti e indietro come formiche nell’accampamento. L’altro fissò la figura del vice allontanarsi man mano, fino a che non venisse interamente sommersa dalle divise degli altri soldati. Bofonchiò qualcosa e socchiudendo gli occhi di voltò verso quelli che fino ad allora avevano litigato, secondo Heizo, per motivi banali. Non si fidava più del suo vice: doveva approfondire. Appena aprì gli occhi ed alzò lo sguardo verso i colpevoli, ebbe un sussulto: i loro occhi erano strani. Sembravano vuoti, che fissavano solo e solamente il vuoto, persi, senza emozioni. Come nei romanzi dell’orrore, quando si viene posseduti da un demone e le pupille vanno a finire dall’altra parte del bulbo che ruota. Soltanto che quei due ragazzi, le pupille le avevano ancora davanti, non avevano gli occhi totalmente bianchi con vene di sangue ben evidenziate. Guardavano solamente il vuoto e sembravano vagare come fantasmi.
 

 
“Ho visto un uomo… In realtà, sembrava un essere volatile… Come se fosse fatto di fumo, come fosse… uno youkai.”
 

Il generale prese per il polso uno dei tre e lo scosse, una volta che quei pensieri gli rimbombarono in testa. Sapeva di non credere ai fantasmi e sapeva che non esistevano gli youkai… o almeno così dava sempre a vedere. Che fosse stato forse lui ad avvelenare Yoko? E come? Perché avrebbe dovuto? Non era nemmeno un fantasma: poteva toccarlo e non era scomparso al suo tocco come uno youkai avrebbe fatto. Era un soldato veterano, un ragazzo di ventotto anni, sano diligente e composto. Senza dubbio uno dei suoi uomini migliori in quanto a condotta. Il generale non lo conosceva molto bene, ma poteva dire tranquillamente, che vederlo coinvolto in un litigio era molto inusuale. Anzi, era l’unica volta che lo scovò in quelle circostanze. C’era qualcosa che puzzava dietro tutto ciò… E intanto, il generale fissava inorridito quegli occhi morti.

 
 
 
• Note dell’autrice 
 
 
 
  1. Meraviglioso
  2. “Shogun” (generale) scritto in kanji. Ho voluto metterlo per dare più autenticità al tutto, spero non dispiaccia!
  3. Cosa stavi facendo?
  4. Nulla
  5. Parliamo ovviamente di quelli che dovrebbero essere gli Antichi Romani, quindi anche di numeri romani sull’orologio.
 
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! Davvero, ho sempre paura che prima o poi possa deludervi, non ho mai scritto una long completa… ma davvero spero di non abbandonarla mai! La storia è programmata e spero di potercela fare e non deludervi mai! Grazie sempre a tutti quelli che hanno messo la storia tra i preferiti, tra le storie seguite o ricordate o che hanno recensito, Grazie davvero del sostegno! Se vi piace la storia, non esitate a scrivere cosa ne pensate e lasciare quindi una piccola recensione, mi farebbe contenta. ^^ Detto ciò, al prossimo capitolo! Vi voglio bene!
“Anche io!”
E’ ritornata…
 
-Fred Schubert & Bloody Schutzengel
 

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


• Capitolo 20 •
Foresta di libri
 
 

 

La penna scorreva morbida e tranquilla su quel delicato foglio di carta, tracciando eleganti tratti d’inchiostro che costituivano la sua firma, il suo nome: Liang Tian. Due ideogrammi tracciati in corsivo, ma perfettamente leggibili, scritti alla fine di uno dei tanti documenti che aspettavano quella penna lì sulla scrivania, in pila, in attesa di essere firmati. Erano richieste dei cittadini, modifiche alle leggi, approvazioni e disapprovazioni di meccanismi che a lui sembravano così distanti ed insensati. I lunghi capelli castani, cadevano morbidi sulla divisa che era obbligato ad indossare, una volta prese le veci del generale, che era partito col suo altro vice in battaglia. I vice erano due, stranamente, e lui era quello ufficiale, sin da sempre, al contrario di Heizo.
Bussarono alla porta educatamente, senza fare fracasso. Lo scricchiolio dell’alto portone della stanza che si apriva, non distrasse Liang Tian dal suo lavoro.
“Avanti.” Si limitò a dire, dolce e pacato, con la sua naturale compostezza e la sua voce morbida come una leggera brezza primaverile.
“Vice generale Liang Tian, signore.” Il soldato si inchinò con rispetto, aspettando che l’altro si fosse alzato e rivolto verso di lui per ritornare in posizione eretta. L’uomo lasciò il suo lavoro per qualche secondo, girandosi verso il subordinato con fare calmo ma serio al tempo stesso.
“Non c’è bisogno.” rispose a quell’inchino rispettoso e profondo, facendo sì che il soldato lo guardasse in faccia per parlare, a qualche metro di distanza da lui.
“Le pattuglie hanno trovato una famiglia che praticava culti proibiti dal regime nella propria dimora, signore. C’è bisogno della sua presenza alla cerimonia della ghigliottina, signore.” Riferì il soldato, mentre sul viso dell’altro non comparvero né rughe d’espressione né segni di fastidio. Sembrava totalmente asettico, troppo flemmatico. “Aspetto i vostri ordini, signore.”
Quello ancora non rispose, inespressivo all’interno, ma con un caos di pensieri all’interno.
Liang Tian non era mai stato un tipo violento, intriso di rancore e apatico. Era nato in un piccolo paesino della Terra Rossa, vicino al mare ma anche alla campagna. Vicino, per così dire: delle ore di viaggio ci volevano sempre per arrivare alla costa, ma relativamente all’immenso territorio di quel paese ricco e che stava crescendo pian piano, era un tratto che si percorreva in un batter d’occhio. Nel suo piccolo paesino, o villaggio addirittura, per mantenere buoni rapporti tra i pochi abitanti che ci vivevano, si cercava sempre di agire con la massima gentilezza, di predicare non-violenza ovunque si andasse e di evitare tensioni. Era cresciuto in un tal clima, quello che ora sostituiva il terribile generale e capo di Kintou Shuto, da non concepire neanche per scherzo l’idea della ghigliottina pubblica. Ma era ancora troppo presto: lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
“Signor Liang Tian, signore?” Richiamò la sua attenzione il soldato, al che lui alzò lo sguardo serio e rilassato.
“Eseguite quanto dovete senza il mio ausilio: gli impegni dello stato sono fin troppi per essere trascurati proprio ora. Ora vai.” Con un gesto elegante ed apparentemente tranquillo, il suo braccio licenziò il soldato, come un’ala che veniva spiegata solennemente. Una volta che il subordinato uscì, lui si sedette di nuovo alla sua scrivania e tentò di non pensare a quella povera famiglia che aveva appena condannato a morte. E cosa fare, allora? Non era quello il luogo né il momento giusto per predicare non-violenza. Le mani corsero stizzite al volto, stringendolo con rabbia, lasciando segni rossi su tutta quella pelle delicata come ceramica, mai intaccata da una ruga. Come un attacco di follia, le dita del vice generale, ancora una volta, dopo tanto tempo, ricominciarono a graffiarsi le tempie con le unghie robuste e lunghe, permettendo alle lacrime nere di rancore di riscaldargli le guance. Grugniti e singhiozzi riempirono il silenzio della stanza: il sottofondo perfetto per l’infantile scena di un coccodrillo che prima mangia i propri figli e poi piange. Però, al contrario del coccodrillo, Liang Tian non poteva scegliere: se voleva davvero portare al termine il compito che si era prefissato fin dal principio, non poteva morire. Non allora.
Si alzò dalla scrivania e si diresse verso una delle poche e grandi finestre del palazzo, che affacciava per un tratto sulla ghigliottina pubblica: aveva appena mandato a morte una donna, un uomo, due bambini ed una neonata… Quanto ancora queste barbarie sarebbero continuate in quel modo? Appena la lama della macchina di morte si lasciò cadere sul collo morbido di una delle vittime, la donna stavolta, il vice generale chiuse gli occhi, lasciando che le lacrime di rimpianto cadessero sulla moquette rossa della sua stanza.
Appena l’esecuzione finì, era ancora in quella stanza, seduto alla scrivania a firmare passivamente documenti, segnato da ciò che aveva visto persino con gli occhi chiusi. I suoi occhi non vedevano più parole, ma lettere messe lì a caso, senza senso, senza un significato. L’inchiostro? Cos’era l’inchiostro? Quella cosa nera che colorava la sua firma una volta che la penna toccava il foglio: cos’era? Non l’avrebbe sopportato a lungo. La sua prima condanna a morte per qualcun altro aveva rischiato di essere la sua. Una morte lenta ed agonizzante per non aver sopportato la vista di qualcuno di innocente che veniva ucciso in quel modo, davanti a tutti, tra i volti impassibili ed a volte anche divertiti dei soldati delle pattuglie. Era insopportabile.
Prima che il fastidioso fischio di follia si facesse più forte pensando a quanto accaduto, Liang Tian decise di prendersi un momento di riflessione, di pensare ad altro e di uscire, respirare la torbida aria di Kintou Shuto che l’avrebbe distratto, anche solo per poco. S’alzò d dove era seduto e guardando a terra, la sua mente divenne lo scenario di lunghi ricordi.
 
 
Le ruote delle carrozze che scorrazzavano per i viali poco affollati di Kintou Shuto facevano da sottofondo al suo arrivo nella città, assieme al debole brusio dei cittadini che potevano permettersi di vagare lì in giro. I lunghi capelli bruni vennero subito intaccati dall’aria malata e tossica di quel centro di odio ed insana rivoluzione. Camminò con passo svelto e composto verso la strada che gli indicarono essere quella diretta al palazzo del governo, che quel giorno sarebbe stato lo scenario sanguinolento di un colpo di stato. Man mano che i mezzi di trasporto e i cittadini erranti per quelle strade ciottolose diminuirono, Liang Tian si confuse tra quelli che stavano sotto la dimora dell’imperatore aspettando che gli incaricati del suo omicidio uscissero. Si tolse il cappello che aveva, raccolse i suoi capelli in un batuffolo castano e li nascose sotto il copricapo, facendo attenzione che ciuffi chiari uscissero sul suo volto. Con questo stratagemma avrebbe evitato di essere immerso nel catrame e di perdere quel raro segno distintivo: nella sua regione, era pieno di persone dai capelli neri, il suo pigmento color legno scuro era una delle cose che, a quanto si diceva nel villaggio, lo rendevano speciale, oltre che per le sue qualità pacifiche e simili agli altri abitanti.
Un conato di vomito raggiunse Liang Tian una volta che vide il corpo dell’Imperatore senza testa essere sollevato davanti alla folla. Fu molto faticoso trattenere le lacrime, soprattutto sapendo che l’avrebbero fatto risultare molto sospetto da chi, invece, stava applaudendo a quell’atto macabro ed insensato. Dopo i soldati che uscirono da quel palazzo imperiale macchiato di sangue, si intravidero due figure: una dai capelli lunghi e neri, dai riflessi verdastri come le foglie scure del sottobosco, mentre l’altro dai capelli corti, l’atteggiamento succube ma sollevato allo stesso tempo.
“Oggi, tra di voi, sceglierò il mio vice generale, in nome del regime!” Annunciò il tale coi capelli verdastri, causando applausi e grida di malata gioia tra la folla, in cui Liang Tian si sentiva spiccare fin troppo. Gli occhi di quel demonio esile e delicato come una falce di uno shinigami1 vagavano tra quel groviglio di mani in festa e sorrisi insensati, mentre il ragazzo lo cercava con tutto sé stesso, allo stesso modo in cui aveva cercato di portare al termine il progetto per la distruzione di tutto quel tumore maligno che stava affliggendo Kintou. Quando, al posto degli occhi, il ragazzo vide due bagliori neri, due abissi che brillarono in un istante, al contatto col suo sguardo, capì che era stato fortunato. “Tu! Sarai il mio vice generale ufficiale. Scelto tra coloro che applaudono a questa nuova vita, a questo nuovo inizio per Kintou Shuto, tu sarai colui di cui avrò più fiducia e colui nelle cui mai riporrò il mio potere in mia assenza.” Lo invitò a salire sulle scale del palazzo, mentre la folla gli apriva un varco quasi solenne per potergli far raggiungere quelle scale intaccate dall’odio e dalla follia. A  Testa alta, col cuore trafitto da mille e più frecce, piegò le deboli ginocchia davanti al generale: “Scelto dal destino, non secondo i vizi di qualcuno, così come vuole il cielo, ti nomino mio vice generale a vita.”
“Liang Tian, a suo servizio, mio generale.”
 
 
Uno strano odore riportò l’uomo al mondo reale, mentre stava scendendo la possente scalinata cremisi del salone. Un odore aspro, ferroso, non ben definito. Era putrido, disgustoso e faceva quasi vomitare. Un odore forte e macabro che sembrava provenisse da qualcosa andato a male, in via di decomposizione. Sangue. Era forse un cadavere? Liang Tian ebbe un sussulto al cuore al solo pensiero di trovare un altro morto davanti ai suoi occhi, subito dopo aver assistito quasi ad un omicidio vero e proprio. La cosa strana era che non c’era nessun cadavere nei paraggi.
Che la carne nella dispensa fosse stata per andare a male? Impossibile: c’era abbastanza sale da mantenere il poco cibo che l’esercito non aveva portato in battaglia con sé. Per sicurezza, scese rapidamente le scale e si diresse verso le dispense del palazzo. Non fu, però una brezza di vento venuta da qualche finestra spalancata (d’altronde inesistente) a far rabbrividire il vice generale ufficiale, bensì, qualcuno.
 
“Speriamo che sia qui. Yoko, mi senti? Riesci a sentirmi?”
 
Tohma volò in fretta e furia come vento di tempesta attraverso Liang Tian, passandogli attraverso facendolo rabbrividire, per poi salire per la scalinata ed oltrepassare ogni porta che lo divideva dalla stanza di Yoko. Il palazzo era strano: c’erano pochissimi elementi e poi non c’era l’ombra né del generale e ne di Heizo, ma solo del vice Liang Tian. Come mai? Che fosse successo qualcosa di importante mentre si trasformava in un fantasma? I capelli neri di Tohma, della stessa consistenza del fumo, ritornarono al proprio posto dopo la corsa fatta per raggiungere la stanza dell’amica: non c’era nessuno. Com’era possibile? I suoi occhi sgranati, convinti di aver dimenticato qualcosa di importante, fissarono per qualche secondo il vuoto, per poi dirigersi oltre la porta del bagno. Una volta attraversata anche quella, Tohma si fece sempre più sconfortato: che Hatori avesse avuto ragione? Che Yoko fosse morta? In effetti la sua stanza era spoglia, come nuova. Dove poteva essere? Sparì immediatamente da quella stanza come il fumo di un sigaro che si disperde nell’aria. Vagò per le altre stanze per far in fretta e cercare indizi. Notò che ogni dimora era vuota, come una camera d’hotel pronta ad essere abitata. Distratto, si ritrovò in un salone enorme con una scrivania e delle pile di documenti firmati e non che volarono via come lui trapassò la porta. Fermandosi, lembi della sua persona spettrale continuavano ad ondeggiare nell’aria, come gas. Si avvicinò lento ai fogli volanti, in modo da non farli disperdere per tutta la stanza, non potendo afferrarli. Si affacciò ad uno di loro, tentando di prenderlo tra le dita inutilmente, dato che trapassarono la carta e lesse: il generale aveva dato il suo potere politico a Liang Tian per il periodo di battaglia. Come aveva potuto dimenticarlo… Alle porte dell’inverno sarebbero partiti per una spedizione nella Terra Pura. Anche lui aveva sopportato anni di addestramento per quella spedizione… Sapeva dove andare. Una volta ritornato nei pressi delle scale del salone del palazzo, un odore aspro e disgustoso penetrò le sue narici…
 
 
Il sottobosco scricchiolava dolcemente sotto gli stivali di Yoko, mentre esplorava quello che poteva della Terra Pura. Quegli alberi le davano sempre di più la sensazione di essere vicina ad uno dei nove paradisi e, stavolta, non ne ebbe paura. Si sentì leggera, libera, guidata quasi dal canto della foresta, mentre il paesaggio iniziò a variare dopo il primo miglio: il sentiero d’erba diventava più impervio e ciottoloso, più misto e colorato di grigio per via delle piccole pietre, mentre la luce riusciva a filtrare sempre di meno tra la fitta boscaglia. Si aprivano vari viottoli a destra e sinistra e non sembrò più un vero e proprio sentiero una volta che gli alberi incominciarono ad intralciare il cammino rettilineo di Yoko. Ora per la ragazza era difficile orientarsi: non vedeva più molto chiaramente l’orizzonte tra i lunghi tronchi e la foresta aveva smesso di cantare, una volta che penetrò più nel suo profondo. Si sentì un coltello che stava violando una parte intaccata e ancor più pura della terra stessa di quell’angolo di paradiso.
Dopo qualche miglio, il terreno si fece più duro e scivoloso e Yoko notò che sotto i suoi piedi c’era della roccia grigia, fredda e ricoperta di muschio. Iniziava a sentire piuttosto freddo, senza nemmeno un raggio di sole. Il ticchettio delle lancette dell’orologio da taschino che le aveva donato il generale era l’unica cosa che le stesse tenendo compagnia, mentre faceva attenzione a non scivolare sul terreno roccioso. Perché delle rocce nel sottobosco? Rocce che sembravano massi, come fosse stata una costruzione  sommersa dalla natura. Camminando a testa bassa per vedere dove mettesse i piedi, Yoko notò, dopo qualche centinaia di metri e alla distanza di cinque da lei, una specie di base di un pilastro. Alzò gli occhi al cielo, guardando in alto, sperando che ciò che pensasse fosse vero: un Torii2.
 Era fatto di pietra, alto come un Torii che si rispetti, ricoperto di muschio e con il gakuzuka3 con la tipica iscrizione.


“Shoseki no Mori4
 
 
Alla vista di quell’incisione sulla pietra, Yoko ebbe un sussulto dalla curiosità, sorrise istantaneamente e cercò di avanzare il più in fretta possibile senza scivolare.  Dopo una decina di metri, la ragazza intravide una scalinata di pietre rudimentali e grigie che salivano su una specie di collinetta e che culminavano un altro Torii. Vi si incamminò a passo svelto, premendo bene i piedi a terra e mantenendo l’equilibrio sul piano scivoloso. Scalino dopo scalino, poteva vedere che, alla sua destra o sinistra, c’erano solo tronchi d’alberi, degli stessi alberi che con le loro larghe chiome sempreverdi quasi innaturali coprivano il sole e non permettevano ai suoi raggi di riscaldarla. I suoi stivali non facevano rumore sulla pietra e sentiva ancora solamente le lancette dell’orologio. Lo prese tra le mani, premette il piccolo cilindro metallico a lato  lo aprì: se i suoi calcoli erano giusti a partire dalla ‘x’ con due stanghette dopo, dovevano essere le quattro del pomeriggio: una ‘v’ con una stanghetta prima. Quando era passato tutto quel tempo? Eppure, sembrava che solo un paio d’ore fossero trascorse… Quel posto aveva qualcosa di magico, pensò Yoko. Mentre certi pensieri si facevano vividi nella sua mente, si rese conto di aver raggiunto il secondo Torii, in pietra ricoperta di muschio come il primo e con la stessa iscrizione. All’orizzonte nessun tempio, nessuna scalinata, solo gli alti tronchi degli alberi che continuavano a dominare il paesaggio. Guardando a Terra, Yoko notò una scalinata che andava verso il basso, molto ripida, quasi verticale e dai gradini grossi ma con poco spazio su cui poggiare i piedi. Per quanto fosse curiosa, ebbe timore di scivolare con un passo falso e sbattere la testa in modo letale. Appoggiandosi al pilastro del Torii, la ragazza tentò di allungare il primo piede verso il primo ripido gradino, ma le venne solamente un tuffo al cuore appena quello scivolò in un batter d’occhio sul muschio. In effetti, quel tratto ne era del tutto coperto, pensò: decise di spostarsi dal lato dell’altro pilastro. Ancora, vi si aggrappò, notando che la pietra era più spoglia, se non totalmente deserta di muschio; fece il primo passo e, stavolta, il piede rimase fermo lì sul gradino senza volare in aria facendole prendere un colpo. Ora, però, doveva staccarsi dal pilastro del Torii. Pian piano le sue mani si allontanarono dalla struttura sacra, per galleggiare nell’aria, mentre Yoko aveva il fiato sospeso: anche con la paura di cadere e ruzzolare giù, non si era mai sentita così vicina alla natura, ad uno spettacolo mozzafiato. La scala era quasi interminabile, come un lato di una montagna, scavato all’interno del sottobosco. Era una specie di ripa scoscesa ricoperta di vegetazione e di fili d’erba color della speranza, mentre le chiome degli alberi si facevano sempre più lontane man mano che Yoko scendeva. Cercava di poggiare i piedi sui lati meno muschiosi di ogni gradino, spostandosi anche per un metro più in là per evitare di rischiare di cadere giù. Con calma e molta cautela, si mise anche a contare gli scalini, curiosa di quale numero sarebbe uscito fuori da quel passatempo che s’era trovata, tormentata dal ticchettio delle lancette dell’orologio. Ad ogni passo, la ragazza scorgeva un nuovo ultimo gradino all’orizzonte, sempre più ricoperto di muschio: chissà come avrebbe fatto quando non avrebbe più avuto pietra sotto gli stivali. Fermandosi ogni tanto, osservava davanti a sé quella discesa verso l’ignoto, ma non ne aveva paura: era curiosa di sapere cosa ci fosse di bello alla fine di quel piccolo viaggio, perché sapeva che nella Terra Pura non c’era spazio per immagini orribili e sanguinarie, al contrario di Kintou Shuto. Giunta in prossimità degli ultimi dieci gradoni, Yoko non vide altro che una costruzione in pietra, un muro con dei resti di ciò che un tempo avrebbe dovuto forse essere un tetto di legno. Eppure, le avevano detto che quella terra non era mai stata intaccata. Perché quello che doveva essere un tempio5 era in quello stato? Non sembrava neanche tale da come era ridotto. Da quando era scesa a terra, finalmente, i suoi stivali si immersero nella folta erba non troppo alta, mentre i suoi occhi si alzavano verso quello che era un massiccio e squadrato portone di pietra. Forse… non era un tempio? Quello non poteva essere un portone di un tempio, ma i Torii che c’erano dovevano chiaramente condurre ad un tempio e solamente a quello. Che senso aveva tutto ciò?
“Che strano…” Sussurrò tra sé e sé, per poi avanzare e poggiare la sua mano delicata sul gigante masso squadrato, tentando di spingere con tutto il suo peso l’inusuale portone affinché si fosse aperto. Qualche filo di ragnatela venne spezzato appena quello si mosse di qualche millimetro. Yoko era totalmente rossa in faccia dallo sforzo sovrumano che aveva fatto per smuovere quel quintale di pietra che, essendo già parzialmente aperto, poteva permettere alla ragazza di farsi aprire totalmente, magari facendo leva con qualche bastone robusto. Fu la prima cosa che Yoko pensò, lasciando perdere lo spingere con le proprie mani: si voltò e scavando con le mani tra l’erba alta, senza aver paura di insetti o ragni o persino vermi, sperava che qualcosa di duro e legnoso avesse toccato le sue dita delicate. Dopo qualche minuto, visti i risultati nulli, decise di trovare un’altra soluzione. Si girò verso le scale, risalendo un po’ di gradoni, per arrivare abbastanza vicina alle chiome degli alberi che la sovrastavano. Ricordava che poco dopo l’inizio della discesa, c’era un grande ramo che quasi sorvolava la scalinata, facilmente raggiungibile alzandosi sulle punte. Arrivata nel punto, Yoko si avvicinò al pezzo di legno, facendo attenzione a non scivolare giù e guardandosi spesso i piedi, insicura. Allungò una mano dietro la schiena, l’altra davanti a sé, nella speranza di afferrare quella ragnatela provvista anche di abitante, che era stata allestita da quest’ultimo tra un piccolo ramoscello e il ramo portante. La mano, chiudendosi forte e serrandosi totalmente, schiacciò il povero animale che fino a poco prima stava fissando la mano di Yoko spaventato dall’entità sconosciuta. Lei non ci fece caso più di tanto e tentò di tirare giù il lungo ramo: nulla. Provò ancora, facendo pressione col suo peso riposto nel braccio, ma ancora quel legno non veniva giù. I suoi piedi si mossero un po’ più avanti per permetterle di afferrare meglio ciò che voleva staccare. Fece di nuovo pressione: sentì un “crack”, poi un altro e prima che si rendesse conto che non ne avrebbe voluti sentire più, altri suoni croccanti e staccati seguirono il primo, sempre più forti ed in una frazione di secondo, Yoko cedette sotto il proprio peso, il suo piede scivolò e rotolò per un paio di gradini, prima che con una gamba frenasse la caduta mortale. Col cuore in gola ed il respiro affannato, si rialzò in piedi anche con l’aiuto del bastone, scese giù e si avvicinò al massiccio portone. Il bastone andò dritto tra lo stipite di pietra e il masso squadrato e, poggiando un piede sul muro coperto di muschio e rampicanti, con tutta la sua forza, il portone venne spostato, lasciando spazio ad uno spettacolo inaspettato…
L’interno era buio, senz’altro uno dei luoghi più oscuri che Yoko avesse mai visto, ma questa oscurità era interrotta ogni tanto da raggi di sole che penetravano dal soffitto depredato delle assi di legno. Si potevano vedere, ad intermittenza, delle specie di liane, fili vegetali verdi che pendevano dai pochi assi che erano rimasti, facendo apparire quell’ambiente mistico e intriso di storia.
“Foresta di libri”, diceva l’iscrizione del Torii, eh?
Entrando più nel profondo, avendo paura di profanare un luogo dall’atmosfera quasi sacra, Yoko teneva le spalle strette,  gli occhi erano vigili e i passi meditati, affinché qualche spirito non venisse svegliato. Non sapeva perché, ma si sentiva osservata da qualche anima benevola, da qualche youkai, qualche fantasma gentile o addirittura da qualcuno. C’erano davvero persone, in quella terra tanto meravigliosa? La ragazza alzò lo sguardo, appena un raggio di sole la abbagliò improvvisamente, facendole scoprire l’incredibile spettacolo del tetto distrutto. Un tale sfregio per un tempio, era così inaspettatamente bello da osservare: lo squarcio apriva un buco tra le assi di legno che a loro volta, davano sulle chiome alte, distanti e infinite degli alberi le cui foglie non erano così intricate come quelle degli altri. Spicchi luminosi di luce del tramonto abbagliavano ancora, sì e no, la ragazza che camminava con lo sguardo all’aria, ammirando quella visione celestiale. Era allibita: non aveva mai visto nulla di più unico. Un intreccio di colori, un gioco di luce e buio, bianco, verde, nero… tanti colori, tanta, troppa vita che cominciava, dopo tanto tempo a scorrerle nelle vene.

Tic Tac

Era come un catenaccio che teneva legato un uccello al suolo impedendogli di volare. Lei era vincolata da quell’orologio: doveva tornare all’orario prestabilito dal generale. Doveva. Era una palla da carcerato attaccata alla nuda caviglia del suo piede, dalla quale poteva benissimo liberarsi, perché l’unica chiave che ne avrebbe aperta la serratura era nelle sue mani: la sua propria volontà. Yoko però, non accennò a volersi liberare di quella sottospecie di regalo, se così poteva chiamarlo. Lo prese in mano, fissandolo: non poteva buttarlo via, le era impedito da qualcosa che non sapeva nemmeno lei cosa fosse. Sapeva solo che era forte, più forte di lei e che non l’avrebbe fatta riuscire a liberarsi facilmente di quello che era sempre stato suo nemico.
Un rumore.
Più che altro era stato un fruscio, come del vento che s’era infiltrato tra quelle mura di pietra. Yoko cominciò a sentire freddo. Si incamminò ancora verso l’interno del “Tempio”, verso sinistra, camminando alla ceca tra i raggi di sole che pian piano cominciarono ad illuminare dei mobili di legno: erano scaffali, pieni di libri e pergamene. Avvicinandosi con calma, Yoko notò che alcuni d essi erano malandati, un po’ strappati e malridotti, ma altri erano in ottime condizioni. Tutta quella carta era molto ingiallita: chissà da quanto tempo era lì, pensò, affascinata. Provò a toccarne uno, ma ebbe un leggero sussulto quando un insetto ne attraversò le pagina prima che le sue dita potessero entrare a contatto con la carta polverosa. Continuò ad avanzare con la mano, quando sentì una sferzata di vento, non troppo violenta. Si girò: non c’era nessuno. Non aveva troppa paura, sicura che gli youkai l’avrebbero protetta, così si decise a prendere un libro tra le mani. La copertina era sbiadita, verde scura, di pelle. Era piena di polvere, che venne soffiata via dal leggero fiato di Yoko, che fece lo stesso appena aprì la prima pagina del volume. La scritta in ideogrammi era poco leggibile, tanto da non farle capire cosa stesse scritto. Voltò pagina: lo stesso. Girò allora tanti fogli di carta, uno dopo l’altro, nella speranza di trovare un tratto leggibile di quel librone che la incuriosiva tanto, finché, non trovò un piccolo brano quasi al centro del libro, perfettamente intatto, ma incompleto, dato che la pagina era mezza strappata.
Lesse:
 
Il mattino del quindici agosto dell’anno ****, un gruppo di uomini con degli strani vestiti, spalancano le porte del palazzo dell’Imperatore. La gente si riversa nelle strade: chi non sa è incuriosito, chi non sa ha il terrore in corpo. Dal grande portone, escono uomini vestiti con colori cupi, spenti e tristi, tutti uguali, in fila per venti, come un esercito, una macchina da guerra. Davanti a tutto, nel luttuoso silenzio generale, gioiosamente il loro shogun solleva il corpo dell’Imperatore privo della testa: quella giace tra le mani dei soldati fidati del generale, che la scherniscono e la deridono. 
Il gallo ha cantato: l’imperatore è rovesciato. 
Passano dieci primavere, tristi, silenziose, indifferenti: uno stato senza Imperatore, un popolo senza guida e delle anime senza sostegno. 
Il palazzo dell’imperatore diventa grigio, verdastro. L’amaranto macchia  le strade e le mani dei ribelli, sguazzano del cremisi. ‘Rivolta’ sembra la parola chiave di tale periodo: i vestiti colorati e decorati con fiori di ciliegio sono motivo di scherno, così come le giacche grigie e i colletti neri sono marchio di potere e simbolo del giusto. 
Gli alberi stanno morendo, petali rosa si tingono di grigio e galleggiano negli acquitrini neri come il cielo intossicato. Odore di polvere, di fuoco, di morte e di fumo impregnano ogni cosa: i bambini hanno dimenticato come piangere per la tristezza, perché ora piangono a comando. Mille e più morti viventi, senza cuore e senza anima, camminano con alcuna meta per le strade di ciottoli rettangolari ed ordinati: le scarpe non fanno rumore come i tacchi di legno.
Il rosso è solo sangue, non più colore di ponti, di vesti, non è più colore sacro e fortunato. Il rosa non è più colore di pelle, né colore di alcun albero: è tutto cenere, tutto polvere, tutto fumo. Non si riesce a respirare.
La mano dei lavoratori si muove sempre allo stesso modo, dietro un fiume di gomma che scorre sempre con la stessa velocità. Su questo galleggia del ferro arrugginito, degli oggetti strani: il lavoratore li salda insieme, senza sapere più il proprio nome.
Strani sassi quadrati messi uno sopra all’altro hanno creato quelle che quelli chiamano case, ma dentro sono spoglie, uguali, senz’anima e senza l’amore tipico di casa propria. 
Le cappelle, i templi e i cimiteri sono ridotti a cenere. Questa galleggia sul lago di lacrime dei credenti che piangono i loro antenati andati in fumo per la pazzia dei rivoluzionari.
La Vita, se così si può chiamare, scorre piano, lenta, piatta, sotto il cielo sporco.
Lo shogun e le sue truppe programmano, scrivono, salgono e  scendono le scale pelose del palazzo del governo e pattugliano ogni vicolo in cerca di coloro che non vogliono piegarsi al regime. Questi vengono repressi nel sangue davanti a volti di donne, uomini, bambini, anziani. Il loro collo si poggia sulla macchina di morte, una corda viene lasciata e la testa rotola giù per le scale del supplizio.
Bandiere di soli raggianti rossi sventolano su ogni strada: sono arrivati i Rivoluzionari.
La terra ad ovest non è stata ancora raggiunta: lì vivono creature pure, magiche e benevole, ragion per cui è stata chiamata Terra Pura. Ci sono boschi, montagne laghi e fiumi pacifici e colorati. Il colore rosso è ancora colore sacro. Ci sono poche persone, ma si nascondono per non essere viste dagli occhi volanti del regime che vuole tagliare loro la testa. Oltre i ponti che sorvolano le cascate, oltre i santuari che fungono da vedette lungo tutta la montagna verticale, nell’abisso della foresta silenziosa, v’ è nascosto un Tempio. Qui giace la sacerdotessa ****, che protegge la sua terra dal fumo di morte del regime di Kintou Est. 
Lo shogun non è soddisfatto, ha sete di conquista, ha sete di morte, non si fermerà fino a che **** non sarà sepolta sotto le macerie del suo tempio e le sue creature non si confondano con le nubi cupe del cielo di Kintou Shuto.
 
Peccato fosse solo un frammento, un frammento sopravvissuto ad una strage, da quanto era scritto.
Gli occhi di Yoko rimasero persi nel vuoto, quasi senza vita, incantati da quel brano letto che le aveva portato alla mente immagini di morte, di stragi, di guerra e di volti segnati da urla straziate. Quelle urla, penetranti e simili a stridii, le facevano male alle orecchie, la facevano sentire in una bolla riempita di quei fastidiosi rumori che la costringevano a strizzare forte gli occhi. Pian piano, come se fosse stata nel centro di una morsa dentata, Yoko chiuse ili libro, cercò di metterlo a posto, di non pensarci, ma una volta riposto sul suo scaffale polveroso, uno stridio dall’interno le pugnalò le orecchie. Sembrava così reale, come provocato da due pezzi di metallo che venivano sfregati con potenza. Le mani corsero alle orecchie, gli occhi si serrarono sempre più ermeticamente, finché non potette sentire altro che urla, grida, pianti e suppliche, rumori di bombe, del ringhiare dei soldati e dell’abbaiare degli ordini impartiti. Una lacrima di dolore si fece strada, lentamente, sulla sua guancia. Venne sommersa da quell’abisso di sofferenza.
“Yoko!”
 
Una voce?
 
Improvvisamente gli stridii finirono, cessarono come scacciati da una folata di vento decisa e pura. In effetti, poteva sentire dell’aria in movimento che le abbracciava tutto il corpo, come se avesse qualcosa sulle spalle, una coperta morbida e leggera, confortante. Una voce: sì, l’aveva sentita appena allora. Una voce familiare, conosciuta, forse fin troppo, tanto da farla illudere che chi avesse parlato fosse lì. In effetti…
Gli occhi di Yoko si aprirono pian piano, riconoscendo che ciò che riusciva a vedere non era più nero, ma grigio, come se un lenzuolo sottile anche mezzo millimetro, trasparente quasi e bianco, avesse coperto i suoi occhi. Stava guardando attraverso qualcosa, attraverso un vetro un po’ troppo opaco, polveroso, ma quel vetro, non poteva toccarlo: se ne rese conto appena portò la sua mano davanti a sé e tutto ciò con cui entrò in contatto fu l’aria.
“Yoko! Che ci fai qui?!” La ragazza, stavolta, ebbe un sussulto a quell’eco, pensando di star diventando pazza. Subito i suoi piedi si mossero automaticamente all’indietro, compiendo due o tre passi veloci, mentre alzava a poco a poco lo sguardo e, finalmente, vedendolo, la sua bocca si aprì da sola.
“Non è possibile…”
“Yoko, sono io, Tohma!”
Avrebbe voluto abbracciarlo, per verificare che non fosse vero. In effetti, era totalmente bianco, trasparente, fatto di vapore, forse. L’unica cosa colorata erano i suoi capelli, sempre neri, illuminati d’azzurro dalle fiammelle che lo circondavano: tipico degli yurei. Lui, però, stranamente, non aveva quella benda triangolare sulla fronte, ma indossava comunque uno yukata6 bianco senza decorazioni. Al contrario di quanto avrebbe voluto il ragazzo, Yoko cominciò a piangere, lasciando che le lacrime tanto trattenute per sembrare più forte potessero dimostrare all’amico che, sì: le era mancato, forse troppo.
La ragazza corse verso la figura che vedeva davanti a sé, stendendo le braccia aperte per un enorme abbraccio, ma, quando arrivò vicino all’amico, in lacrime, strinse nient’altro che aria. Dall’esterno si poteva vedere solamente una ragazza che si stringeva da sola ed una figura spettrale, biancastra che le passava attraverso. Anche se aveva letteralmente il viso nel suo petto, Yoko non riusciva a sentire alcun battito.
“Tohma!” singhiozzava, cercando di non piangere tanto rumorosamente da sembrare una bambina immatura, anche se sapeva che davanti al suo migliore amico, poteva farlo.
“Non piangere, ti supplico…” Iniziò a fare il ragazzo, quasi in panico, come se fosse stato per succedere qualcosa di terribile. La reazione quasi da bambino di Tohma, fece ridere Yoko, che iniziò ad asciugarsi le lacrime per lasciar più spazio alle risate, vedendo l’amico in difficoltà, con le braccia protese davanti al corpo e gli occhi spalancati.
“Ho finito…” Si sforzò per sorridere, pur di non far dispiacere ancor di più l’altro, che ricambiò quel sorriso tanto dolce. Inutilmente, quello tentò di accarezzarle la guancia, ma tutto ciò che lei sentì fu un soffio sulla pelle. “Non puoi immaginare quanto io sia contenta di vederti.” Chiuse gli occhi e iniziò a sorridere sempre di più, senza rendersene conto, con la voce impastata da pianto. “Io… Mi sei mancato tantissimo… Tori me l’aveva detto che ti avrei rivisto. Come yurei, ma ti avrei rivisto… eccoti qui, io non ci credo…” Le mancava qualcosa. Le mancava la carne, i vestiti, il calore di un abbraccio che l’avrebbe fatta calmare improvvisamente. Le mancava troppo il contatto fisico, quella dimostrazione d’affetto che non poteva essere espressa in altro modo se non con un abbraccio, ma tentò di non pensarci.
“Ah, tuo cugino… eh?” Le sorrise dolcemente. “Lo stanno portando in una barca verso la Terra Rossa: è vivo, non preoccuparti. Piuttosto, mi dici che ci fai qui? Non dovresti essere qui.” Le fece, serio e preoccupato allo stesso tempo. La ragazza rimase sorpresa.
“Come… io stavo solo andando in giro…”
“Stai scappando, per caso? Dov’è il generale? L’accampamento?” Incominciò a domandarle a raffica.
“Io non…” Non riusciva a rispondere: troppe cose, troppi pensieri tutti insieme. E poi… l’orologio… Il generale! Doveva ritornare al più presto: si guardò intorno, agitandosi.
“Yoko: calmati.” Tentò di afferrarla per le spalle, inutilmente. “Che ci fai qui, prima di tutto?”
“Perché non dovrei essere qui? E’ solo un vecchio tempio di pietra abbandonato e pieno di libri…” rispose agitata.
“Questo non è un vecchio tempio di pietra, Yoko. Questo è il Tempio della Letteratura della Terra Pura.”
 

 

 
 
• Note dell’autrice 
 
 
 
Lo so che forse vi aspettavate di più dal capitolo, ma volevo dedicarmi più con calma a Tohma e Yoko in una buona parte del prossimo, in cui vedremo anche il generale che ci è tanto mancato in questo capitolo, vero? Parlando per me, mi è mancato :c
Spero che non vi abbia deluso facendovi aspettare così tanto ma da oggi vado in vacanza così avrò più tempo per voi e per la storia e-
  • E PER ME! Of course.
Ma anche no, Fred. Ma anche no.
 
  1. Quanti di voi guardano gli anime o leggono manga?? Perché se è così avrete già incontrato questo termine (andiamo: Bleach!): significa “Dio della morte”, sarebbe la versione nipponica del cupo mietitore, detto molto approssimativamente.
  2. Formato da “Tori” che in giapponese vuol dire “uccello” e da “i”, esistere, questo è il portale che si costruisce all’inizio delle vie per i templi e delle cappelle shintoiste. Probabilmente, dati i significati delle due parole che compongono il suo nome, si dice sia nato per aver a che fare con questi animali volanti. Proprio per la funzione di questo “portale”, Yoko trova strano che quello che ci sia dopo non appaia come un tempio.
  3. E’ una parte del Torii: esso è formato da due travi che sono unite da un elemento (il gakuzuka, appunto) su cui campeggiano delle iscrizioni che possono apparire anche sui pilastri del Torii (detti “hashira”).
  4. Come il nome del capitolo, “Foresta di Libri.”
  5. Proprio per la funzione di questo “portale” (Torii), Yoko trova strano che quello che ci sia dopo non appaia come un tempio.
  6. Un tipo di kimono più informale e più leggero. Questo indumento estivo, simile in tutto e per tutto ad un generico kimono, viene indossato soprattutto alle feste bon e agli spettacoli pirotecnici e festival con fuochi d’artificio.
 
Cosa vi posso dire? Spero che mi recensiate e che non mi ucciderete per il ritardo, vi voglio bene, lo sapete! ^^” Al prossimo capitolo!
-Bloody Schutzengel

 
  

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


• Capitolo 21 •
Nel Tempio della Letteratura

 


“Questo non è un vecchio tempio di pietra, Yoko. Questo è il Tempio della Letteratura della Terra Pura.”
La ragazza rimase allibita: aveva appena messo piede col corpo e con l’anima in uno degli scenari delle storie che suo cugino le raccontava, dipingendo attorno ogni paesaggio un alone di magica che in quel momento, Yoko poteva sentire più che bene. Si sentiva parte di una leggenda, parte di una storia importante, di un intrigo, di un mistero. Come un attore che viene illuminato, sul palco, da una luce fin troppo luminosa, da farlo sentire a tre passi dal paradiso. Non poteva crederci: aveva toccato con mano e aveva letto uno dei sacri volumi del tempio.
“Stai scappando? Perché sei qui?” Yoko non rispondeva. “Tutto bene?” Tohma si avvicinò a lei, un po’ preoccupato dal momento che l’amica sembrava in stato di trans. Lei si riprese e sorrise, invasa da tanta emozione quanta non ne aveva mai provata.
“Sì, sto bene… è che… come ti sentiresti se stessi toccando davvero le mura di quello che per te è stato sempre dipinto come un paradiso? Come se stessi vedendo… non te lo so spiegare…” E intanto lei girava su sé stessa, ammirando ripetutamente lo squarcio nel tetto che aveva già visto e i vari scaffali bui che adesso le sembravano tanto luminosi da accecarla. Quel buio tempio distrutto, adesso per lei era diventato uno dei suoi sogni più grandi. Tohma, d’altra parte, s’era perso nei giri di parole che gli avevano appena attraversato le orecchie. Cercava di comprendere quello che gli era stato detto, ma, gira e rigira, tornava sempre alla conclusione che lui non avrebbe mai capito quelle parole. “Vorrei tanto capire quello che hai detto…” Si fece scappare una risata sconsolata, “Ma l’importante non è che io capisca, basta che tu stia bene. A proposito, volevo…” Si fermò, ancor prima di iniziare quella frase: Yoko sembrava triste, anzi, non triste, ma malinconica. Un’espressione di nostalgia e di compassione, verso quelle quattro mura sacre che continuavano ad essere fissate da lei. “…Cos’hai?”
“Come ha fatto ad essere ridotto in questo modo…?” sussurrò tra sé e sé, accarezzando il polveroso scaffale di libri e guardando per terra, nel vuoto: le assi di legno ogni tanto apparivano rotte e distrutte, lasciando che pezzi di terreno potessero essere intravisti e che l’erba potesse crescere indisturbata.
“Che cosa-“
“Chi ha distrutto questo Tempio?!” continuava a guardare, stavolta verso l’alto, nel vuoto, aspettando che qualcosa o qualcuno le rispondesse. “Non credo abbia fatto niente di male… Questa Terra non ha fatto niente di male… perché volerla distruggere?” In quel momento, nella sua mente apparvero immagini terrificanti, le stesse, pressappoco, di quando Tohma non si era ancora mostrato a lei. Soldati, in fila, vestiti di nero su uno sfondo oscuro, coi volti tutti uguali e con gli occhi oscurati dalla visiera dei cappelli. Si muovevano all’unisono, gridavano di adempire agli ordini. Ordini di chi, poi?
Il generale.
Non si sentì in grado di poter dire più nulla.
“L’ha distrutto il generale.” Yoko ebbe un sussulto al cuore e non seppe neanche perché.
“Non è possibile.”
“Perché? La gente come lui, la gente come quel mostro ha distrutto questo posto. La sua gente vuole distruggere la Terra Pura, l’hai dimenticato, Yoko?!” Tohma alzò leggermente il volume della voce, ma non volle rimproverare l’amica, soltanto farle rendere conto di cosa stesse dicendo: quella non era Yoko.
“Queste mura saranno state abbattute anni e anni fa! Come avrebbe potuto un bambino fare tutto questo?!” Si voltò disperata verso Tohma, con gli occhi pieni di rabbia, una rabbia immotivata che nascondeva la voglia di essere capita, di ottenere una risposta a tutto quello che stava succedendo.
“Stai delirando, Yoko. Che cosa ti succede?!” Le si avvicinò di scatto, facendo volare lo yukata invisibile dietro la sua schiena. Le fiammelle blu illuminavano il volto dell’amica. “Quelle persone non hanno un’anima, lo capisci, vero?” Il tono della sua voce si fece preoccupato.
“Hai ragione, ma…” Tohma era impietrito: stava esitando. Per cosa, poi? Cosa stava cercando di dirgli con quel tono ch’era tutt’altro che sicuro di ciò che voleva dire? Non stava mica per diventare come… come loro?
“Yoko, ti prego, ascoltami…” Il ragazzo si fece sempre più serio, ma veniva costantemente interrotto da quella piccola ragazza che stava perdendo il senno.
“No, io… io ho visto una piccola luce nei suoi occhi, io lo so che c’è qualcosa di buono in fondo a quell’abisso… io-“ Yoko continuava a chiudere ed aprire gli occhi, a portarti le mani alla testa, a guardarsi intorno, in cerca di un aiuto. Peccato che le mani volatili dell’amico avessero potuto fare ben poco, passandole attraverso le spalle.
“Di chi stai parlando?”
“Io…” Non rispose, cominciando a calmarsi e a chiudersi a riccio dentro sé stessa. Prese un respiro profondo, mentre il silenzio divorò quella stanza e gli occhi di Tohma si arrendevano passo per passo a quella situazione di impotenza di fronte a tanta confusione. “Io vorrei tanto capire… Ci sono tante cose che non riesco a capire. Mi sento inutile. L’uomo che ha cercato di uccidermi quella notte: chi era? Perché sono stata avvelenata? Perché-“
“Sei stata avvelenata?!” Gli occhi di Tohma si accesero di una nuova luce, una luce di rabbia e di vendetta.
“Io… così diceva il generale. Mi ha salvato.”
“Non riesco a capire.” Quelle pupille nere si fecero vuote, impassibili e confuse. La serietà coprì il volto calmo di Tohma.
“Te lo giuro, quando mi sono svegliata, ho avuto paura che fosse lui ad avermi fatto del male, ma poi mi sono ricordata che era stato lo stesso uomo che ha cercato di violentarmi la prima notte. Ne sono sicura: io l’ho visto!” Yoko cominciò ad allarmarsi sempre di più, vedendo che il volto dell’amico non accennava a dare segni di calma e comprensione. Non stava capendo le sue parole, non ci stava neanche provando: perché nessuno mai crederebbe che il lupo cattivo possa essere anche l’eroe della piccola Cappuccetto Rosso?
“Stai delirando.”
“No, Tohma, credimi, non è come credi! Mi ha salvato la vita: se non mi avesse fatto sputare quei biscotti avvelenati io non sarei qui a parlare con te! Credimi, è la verità!” Il tono della voce si faceva sempre più alto, nella speranza che quelle parole, urlate con tutto il dolore che celavano ,avessero potuto colpire il cuore di Tohma.
“Come posso crederti? Capisci che mi stai chiedendo di credere che colui che mi ha ucciso ti ha salvato la vita?! Lo capisci?!” Adesso in quella c’era rabbia, rancore, ferocia. C’era lo stesso alone di rimpianto e di angoscia di chi parla come se lo avessero abbandonato. Tohma di sentiva abbandonato: Yoko l’aveva capito.
“Io non volevo dire questo, io…”
“Ti rendi conto che stai credendo più alle sue parole che alle mie che ti ho salvato la vita e non ti ho costretto ad essere torturata o altro?!” Con tutta la forza che ci mise nell’urlare quelle cose, Tohma si ricordò, però, che in fondo, se in quel momento avesse ucciso il generale, da vero eroe, adesso non sarebbero stati lì a pugnalarsi a vicenda con parole amare ed affilate.
“Ti chiedo solo di provare a guardare alla situazione da un lato diverso…”
“E da quale? Dal suo? Dal lato di chi ha ucciso migliaia di persone? Da lato di chi sta facendo patire la fame a tutta Kintou Shuto? Dal lato di chi ti ha costretto a vivere questa tortura e che ti ha salvato la vita? O da che altro lato? Stai difendendo un mostro senza rendertene conto! Ti userà ancora di più se continui a farti abbindolare con questi suoi giochetti perversi! Cosa ha fatto di buono per te questo mostro? Cosa?!” Continuava a inveire lui, in tono di sfida, quasi.
“Non ho detto che non sia un mostro!” un urlo. Era un urlo che proveniva dal più profondo luogo della sua anima. Un urlo nero, un grido disperato in cerca di ascolto. In cerca di un briciolo di attenzione. Appena notò lo sgomento di Tohma per quel grido, non ci pensò due volte ad investirlo con le sue parole. “Non ho detto che non mi ha fatto passare l’inferno! Non ho detto che le sue mani non siano sporche del sangue innocente di mille e mille persone e non ho neanche detto che non mi abbia fatto del male! Ha cercato di approfittarsi di me, lo sai? Ed è normale, perché io non ho detto che non sia una bestia assetata di sangue! Lo è! E’ una delle persone più terribili e disgustose di questo mondo: questo lo so! Ti sto solo dicendo di provare a guardarlo con i miei occhi, perché nonostante io stia passando un inferno per colpa sua e per colpa di questo dannato regime, posso capire, voglio poterlo fare. Io ho visto una luce dentro quegli occhi. E’ un’anima disperata: cerca qualcuno che sia disposto ad attraversare rovi dalle spine lunghe centimetri, burroni, fiamme, sangue e meandri bui della sua mente per poterlo capire. E’ difficile raccogliere un fiore dalle mani di un famigerato assassino coi vestiti e le mani sporche di sangue, ma se anche l’assassino ha avuto il permesso di toccare una cosa così delicata senza essere punito, vuol dire che, in fondo, possiede un cuore: deve solo essere liberato dai rovi.” Respiri affannati e delicati riempirono la stanza, mentre gli occhi della ragazza guardarono prima a terra, poi si alzarono e si rivolsero a quelli di Tohma. La sua voce si calmò e smise di urlare, ritornando a parlare come si parla ad un caro amico. “Alla cerimonia per inaugurare la partenza per questa spedizione, mi aveva ordinato di non farmi vedere perché sarei stata un motivo di scherno per l’esercito, perché sono una donna. Poi, però, è entrato in camera mia e mi ha porto un vestito bellissimo, bianco e rosso, con dei gioielli e mi ha detto di scendere giù alla cerimonia. Non ho capito cosa volesse dire o da dove avesse preso quel vestito, ma… nella sua voce non c’era odio e non c’era la violenza con cui tutti, me compresa, l’abbiamo sempre ritratto. Mi ha detto di fare finta di essere la sua dama per quel ballo. So che l’aveva detto perché non ne aveva una, so che ero un semplice rimpiazzo, ma il modo in cui sentivo che si comportava in quel momento… era del tutto diverso da come si comporterebbe un mostro. Forse era una maschera, forse era una semplice luce nera che mi ha abbagliato e mi ha fatto diventare pazza tanto da dirti queste cose, ma, credimi: qualcosa è cambiato in quel lupo, e sta ancora cambiando.” Il silenzio pervase di nuovo il Tempio, mentre tutti e due erano in apnea: Tohma, da una parte, stava sospeso, aspettando il momento giusto per poter parlare, una volta sedato quel fuoco ch’era nato dentro la sua amica. Dall’altro lato, Yoko sperava che l’amico avesse capito quello che aveva appena detto: non era pazza.

O forse… sì?

Il ragazzo fantasma si voltò, dirigendosi in silenzio verso uno degli enormi mobili, guardando velocemente le iscrizioni sul dorso di ogni libro. Scaffale dopo scaffale, passò all’altro mobile, insoddisfatto della propria ricerca, e così fece per tutto il tempio, tanto veloce che Yoko, per poter stare al suo passo, dovette cominciare a rincorrerlo. I suoi piedi si muovevano, senza fare domande, incespicando nelle travi di legno rotte. Gli occhi della ragazza si serravano ogni tanto, colpiti dai fiochi raggi di luce lunare che ora illuminavano il cielo: era ormai sera. Avrebbe fatto bene a tornare all’accampamento… Mentre pensava a questo, fece un passo falso ed inciampò, cadendo sulle ruvide travi di legno miste a chiazze di terreno, una volta passata attraverso lo yurei. Il suo volto era sporco di polvere e di terra e le sue mani non riuscirono a pulirlo del tutto, una volta rialzatasi. Si voltò verso l’amico, che, fermo aspettava che lo facesse. Una volta che i loro occhi si incontrarono, il fantasma si voltò verso gli scaffali.
“Prendi un libro, leggilo e poi vienimi a raccontare le stesse cose che mi hai detto prima. Uno qualsiasi di questi andrà bene: quelli di questo mobile raccontano della strage che la Terra Pura subì durante la prima invasione da parte di Kintou Shuto. Leggine uno, leggi del sangue e del dolore di questa gente e poi abbi il coraggio di dirmi che quella gente ha un’anima. Fallo, Yoko.” Yoko si alzò e, seguendo il dito dello yurei che indicava svariati volumi, ne prese uno  tra le sue mani: non era molto grande, né troppo vecchio e malridotto, anzi: il titolo sulla copertina bianca, un po’ polverosa ma non troppo, era ben leggibile, adornato con disegni di fiori di ciliegio fatti a mano, evidentemente con un pennello ed inchiostro: “Sotto Mille Ciliegi”. Decise che sarebbe andato bene, nonostante fosse diverso dagli altri, sporchi e polverosi. Quello era pulito e puro: che avesse sbagliato a scegliere libro? Eppure, si trovava sullo stesso scaffale…
Il tempo di girarsi verso l’amico per chiedere consigli e spiegazioni e lui era già svanito nel nulla, abbandonando con rancore Yoko con un altro punto interrogativo tra le mani.
Tic Tac.
Il ticchettio dell’orologio da taschino le fece ricordare ancora una volta che doveva tornare all’accampamento, così, dopo averlo fissato malinconica per qualche secondo, alzò il suo sguardo e vide una luce: una porta. Nel buio, inciampando e trascinando a fatica i piedi, ancora avvolta dalla tristezza per aver litigato con Tohma, Yoko si trovò davanti al vero ingresso del Tempio: un portico di pietra di apriva davanti a lei, dove, più avanti, spuntava imponente un Torii con dei fili decorativi con sopra attaccati dei bigliettini ingialliti. Sembravano liane della giungla. Purtroppo, non potette godersi quel paesaggio, avvolta dalla malinconia e dai sensi di colpa per aver volutamente preferito un mostro al suo migliore amico fino ad allora. Si sentiva terribilmente in colpa, però, dentro di lei, sapeva di aver ragione, sapeva di essere nel giusto, anche solo un po’.
Tutto il tragitto fu muto, triste e dedicato a fissare la terra che veniva calpestata dai piedi delicati della ragazza. Il libricino gracile (rispetto agli altri che c’erano nel Tempio) era avvolto tra le sue braccia, in una stretta nostalgica che richiedeva solamente un corpo da abbracciare. Yoko voleva un abbraccio, voleva essere compresa. Non essere capita da nessuno in quel momento era doloroso, era una spinosa sensazione di sofferenza come se il suo cuore e il suo stomaco fossero precipitati in un pozzo pieno di rovi e stessero scivolando pian piano tra quelli, lasciando che le spine appuntite li falciano e li feriscano. Quel tipo di dolore: un dolore lancinante per cui non poteva farci niente. Non poteva cercare Tohma e non poteva chiedergli scusa: sapeva che avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa. Nessuno le avrebbe creduto: forse era per questo che il generale le aveva fatto capire di non parlare dell’accaduto dei biscotti con nessuno. La sua fama macchiata di sangue, Yoko ne era sicura, precedeva, purtroppo, quello che realmente pensava quello che tutti chiamavano “mostro”. Allora, si domandava, perché dare corda a questi individui? Perché non riscattarsi per farsi conoscere come una persona migliore? Forse Tohma aveva ragione: forse lui era davvero una bestia senz’anima che la stava ingannando. Come fare a scoprirlo, però? Forse, quella notte, a mezzanotte, l’avrebbe capito. Intanto, aveva timore di aprire quel libro, perché sapeva che le avrebbe mostrato cose che non avrebbe voluto vedere. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore: non è forse così? Tanto valeva continuare a stringerlo al petto, senza sfogliarne le pagine insanguinate. Ma, dopotutto: erano davvero insanguinate le pagine di quel piccolo volume che risplendeva di bianco tra gli altri neri e scuri che riempivano quel mobile?
Yoko si fermò: non era il momento. Si voltò e velocemente, ripercorse tutta la strada che aveva fatto fino a ritornare sul sentiero di partenza, per ritornare al Tempio e posare quel maledetto libro che non meritava ancora di leggere: non meritava di sapere la verità. Una volta riposto tra gli altri, nel buco da cui era stato prelevato, uscì finalmente da quel Tempio e corse dritta all’accampamento.
Sto arrivando.
 
 
I meandri di quella sala da teatro odoravano di passione malata. Chissà cosa fosse successo tra quei tavolini e su quel palco… Tian Liang vagava in quella sala vuota con aria disgustata e sospettosa…
Lo ricordava benissimo: era notte, non aveva sonno…
 
Era uscito dalla sua camera per farsi un giro, dato che non sopportava troppo quell’atmosfera di morte e di violenza. Era in camicia da notte, ma si rimise addosso l’uniforme per lasciare momentaneamente il palazzo. Una volta uscito dalla propria camera ed una volta superate le scale del salone non prima di interminabili corridoi, li vide: il generale ed Heizo erano ancora svegli e stavano entrando in una stanza nascosta, sotto le scale del salone. Al loro seguito, c’erano altri signori importanti o soldati, che come loro ridevano e avanzavano verso quella porta che gli era sempre stata ignota fino ad allora. Sapeva che l’avevano visto, quindi si avvicinò con calma, guardandoli negli occhi e cercando di farsi notare.
“Signor generale, dove state andando?” Li fermò prima che potessero sparire ignorandolo.
“Tian Liang, non dovresti riposare a quest’ora?” Il generale lo “salutò”, dicendo con un gesto agli altri di proseguire, finché non si ritrovarono soli nel salone d’entrata.
“E’ la stessa cosa che chiederei a voi, mio signore.”
“Cerca di non fare l’impertinente. Ricorda che sei sempre un vice e io sono il tuo capo.” Gli ringhiò sibilando. “E comunque ti è proibito varcare quella porta. Pensa solo a provarci e sei morto.” Prima che potesse dire qualche altra cosa, il generale scomparve dietro quella porta proibita e Tian Liang pensò che sarebbe stato meglio non mettersi nei guai.
 
La faccenda era proseguita in quel modo per quel paio d’anni, fino a che finalmente non ebbe la possibilità di vedere cosa ci fosse dentro quella stanza da cui era stato tenuto lontano così ferocemente.
Fino ad allora, nulla di strano, a parte quella sensazione di lussuria e di perversione che lo pervasero appena ci mise piede. A parte quello, tutto normale: solo un’enorme teatro deserto pieno di polvere. Guardandosi attorno, non vedeva nulla di sospetto, anche se sentiva che ci doveva essere qualcosa che non andava: doveva.
Improvvisamente quell’odore acre e orripilante gli pervenne di nuovo alle narici, costringendolo ad una smorfia di disgusto. Era più ferroso e definito stavolta e Liang Tian non potette pensare che fosse qualcosa di diverso da sangue. Era sangue vecchio, c’era odore di cadavere, ma del morto neanche l’ombra. Era del tutto vuoto, quel teatro: dove avrebbe potuto trovarsi un corpo? A prima vista, non c’erano nemmeno porte. Come un segugio, Liang Tian decise di seguire quell’odore ferroso, per vedere dove l’avesse portato. Immediatamente i suoi piedi si mossero sempre più velocemente, gli occhi sottili si chiusero e l’uomo si concentrò per scoprire il mistero di quella stanza. Andò avanti e indietro, salì sul palco e guardò dietro le quinte, ma macchie di sangue sparse per terra impregnavano tutta l’aria e non l’avrebbero mai portato ad una conclusione. Digrignò i denti, innervosito dalla situazione e facendo uno strappo alla sua regola di comportamento che prevedeva l’essere sempre calmi e pacifici anche in quelle situazioni.
Doveva concentrarsi: c’era un cadavere da trovare e probabilmente, dietro di esso, un’intera faccenda tanto intricata da poterlo far perdere. Aveva deciso di rischiare: o allora o mai più. Del resto, era lui che voleva porre fine a tutto quello spargimento inutile di sangue, no?
Scese dal palcoscenico, inciampando tra i chiodi ch’erano per terra che si incastravano tra le fessure delle suole degli stivali. Odiava vestiti tanto stretti: non lo facevano respirare quasi. Gli mancavano così tanto quegli abiti larghi e colorati della sua terra, quei pantaloni a sbuffo e quelle casacche comode da contadino, con quelle scarpe morbide e semplici.
Appena alzò lo sguardo, intravide un qualcosa di interessante: di fianco al palcoscenico, in un angolo ben nascosto, c’era una porta. Avvicinandovisi, l’odore del sangue aumentava sempre di più: era sulla strada giusta.
Varcata la soglia di quello che sembrava un nascondiglio, davanti a lui si spianò un lungo corridoio buio, freddo dall’aria strana. Era angusto e scomodo e man mano che andava avanti, Tian Liang poteva vedere che diventava più tortuoso. A destra, a sinistra? Dove andare? Sinuosamente, l’uomo imboccò le vie che più gli andavano bene, ad ogni bivio che gli si presentava. Furono quattro o cinque: ormai non li contava più. Quel sotterraneo era stato appositamente costruito per far confondere la gente, vero? Dopo un percorso indefinito e vago, Tian Liang arrivò a quello che sembrava l’ultimo bivio: da una parte, un gigante quadro che sembrava potesse essere rimosso per scorgere un passaggio segreto, dall’altro lato un corridoio stretto e totalmente nero. Era piuttosto inquietante, a dir la verità. Era come trovarsi in un libro dell’orrore: mentre si vuole andare verso il quadro, questo prende vita e si fa spuntare centinaia di lunghi per divorarti. Se vai dall’altra parte, ti perdi in un corridoio infinito senza via di ritorno, finché non comincerai a crederti pazzo. Ma, nonostante questi pensieri, l’uomo decise di farsi avanti e di dirigersi verso quel corridoio buio, sperando l’avesse portato da qualche parte.
Intanto, l’odore di sangue si faceva sempre più forte…
Sempre più forte come se il suo cervello fosse stato lì per scoppiare. Stava per rinunciarci, l’odore di morte era troppo imponente, troppo forte per essere sopportato ancora per molto. Gli penetrava le narici, lo stava facendo impazzire come se fosse stato per trasformarsi in un mostro. Era davvero questo quello che provano gli assassini ad assaporare il loro operato?
Se così fosse, pensò lui, non ci sarebbe stato alcun dubbio sul fatto che non sarebbe mai stato un pazzo omicida.
Nel perdersi nei propri pensieri, Tian Liang urtò nel buio contro una porta di legno. Al contatto doloroso con la fronte, per via delle schegge, notò che non era affatto curata. Era una semplice tavola di legno marcio e grezzo messa lì con un paio di elementi di ferro per farla fungere da porta. Sarebbe potuta venir giù a momenti, rivelando ciò che nessuno avrebbe voluto vedere, tantomeno quell’uomo tanto sensibile. Si fece coraggio, la mano si poggiò sulla porta e spinse. Un lungo ed inquietate squittio, un cigolio da libro dell’orrore, poi quella tavola marcia si spostò: un conato di vomito ed un urlo straziato non fecero tardi ad arrivare…
 

 
 

• Note dell’autrice •
 

Sto limitando al minimo l’uso delle note in giapponese! @.@” Erano fastidiose da leggere, lo riconosco. Sto facendo di tutto per aggiornare il più presto possibile e dedicare più tempo a voi lettori che mi rendete troppo felice apprezzando questa storia. Il fatto che sia nata come un lampo di genio ascoltando una semplice canzone, mi fa davvero… non saprei dire… mi rende davvero sorpresa davanti ai risultati che mi sta via via portando quanto scrivo. Davvero, vi ringrazio sempre di seguire “Sotto Mille Ciliegi”! E poi-
 
-Smettila, sei noiosa. Sembri una lagna, e sciogliti!-
 
Ti ho interpellato per caso?!
 
-No, ma so che i tuoi lettori sentono la mia mancanza. La mancanza della meraviglios—
 
Taci! *Le tappa la bocca*. Ci vediamo al prossimo capitolo, ragazzi! Lasciate una recensione e fatemi sapere cosa ne pensate! Se la storia vi piace inseritela tra le seguite o tra le preferite, se vi va. Non so che dirvi: siete meravigliosi.
 
-Bloody Schutzengel
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


• Capitolo 22 •
Spettro nero
 
 

 
…Credimi: qualcosa è cambiato in quel lupo, e sta ancora cambiando…!
 
Più pensava a quelle parole, più si sentiva trafitto al cuore con mille e mille aghi appuntiti.
Tohma fluttuava via, dalla parte opposta all’entrata del Tempio, verso l’ignoto bosco. In quel punto, gli alti tronchi d’albero nascevano tutti vicini, tanto da poter impedire ad un essere umano in carne ed ossa di passare loro attraverso. Per lui non c’era problema, essendo uno yurei. Il suo corpo fatto di gas biancastro e trasparente si disperdeva ogni volta che un lungo fusto lo attraversava interamente, per poi ritornare a formare l’immagine del ragazzo. In effetti, era solo un’immagine: non aveva carne, né più un cuore né più un cervello. Gli era rimasta solo la propria anima che si era materializzata in quel vapore morbido e dolce.
Le fiammelle che lo accompagnavano sempre le lasciò accese, per far sì di non essere inghiottito dall’oscurità della notte. Da sotto quelle foltissime chiome verdi scuro, la luna non si poteva vedere: neanche lei poteva fargli da punto di riferimento.
Furioso o frustrato? Non poteva dirlo con certezza. Il solo sapere che Yoko aveva esplicitamente detto di aver fiducia in quel mostro del generale gli faceva credere di avere di nuovo un cuore umano, perché sentiva dolore, cosa che di solito i fantasmi non possono sentire fisicamente. Gli mancava quasi il lancinante fastidio che le sue quarantotto cicatrici gli avevano inflitto fino ad allora. Le aveva portate con tanta fierezza che adesso si sentiva nudo, privo di quel suo marchio distintivo da eroe. Ma, in fin dei conti, più che un eroe, si sarebbe potuto considerare un dabbene, un allocco, una persona troppo buona per reagire davanti a coloro in cui aveva riposto più che la sua fiducia. Li aveva amati, forse, dal primo all’ultimo e di certo amava Yoko come una sorellina minore: non poteva permettere che anche lei si schierasse dalla parte di quelli che l’avevano volutamente abbandonato. Certo: si sentiva totalmente abbandonato, incapace di intendere e di volere. Si sentiva malato, stupido, un buono a nulla. Se Yoko non era pazza, allora perché non riusciva a capire il motivo delle sue buone parole nei confronti di quell’assassino? Quanta frustrazione che gli facevano provare quei pensieri… Quanta frustrazione, guardando a terra…
Improvvisamente, mentre avanzava disperdendo la propria anima tra quegli alberi, Tohma ebbe una sensazione inaspettata: una fitta al petto. Com’era possibile se lui non era altro che un’aura di vapore? Cercò di mantenere la calma e di non andare nel panico, cercando di pensare a ben  altro per distrarsi da quel dolore.
A pensarci bene, perché era uno yurei? Di solito sono anime nere di persone morte contro la propria volontà di morte violenta, assassinate o prima del tempo. Lui aveva chiaramente espresso la sua volontà di morire, una volta capito che non ci sarebbe stata altra soluzione. Quindi che rimpianto aveva ancora per dover continuare a essere nel mondo dei vivi? Forse, il fatto di non aver ucciso il generale una volta che ne ebbe l’occasione, comportandosi da vero stupido, pensò. Se solo gli avesse stretto le mani al collo e fermato quel respiro infernale… Forse, allora, non sarebbe stato lì. Però, non c’era più nulla che potesse fare per poter vedere la luce. Se solo avesse potuto vedere il generale morto, sarebbe andato in paradiso, ma essendo fatto di vapore, non aveva le mani umane per strangolarlo come non aveva fatto. Chiedere l’aiuto di Yoko, ormai, era del tutto inutile: l’aveva trasformata in uno dei suoi cagnolini. Cercò di mordersi la lingua che non aveva, cercando di sentire la sensazione piacevole del dolore che ci si autoinfligge quando si è stanchi di qualcosa, quando la rabbia prende il sopravvento… ma nulla: non poteva più farsi del male. Doveva uccidere il generale, prima che la sua presenza avesse ucciso lui.
Tohma ebbe un nuovo sussulto: qualcosa di nero gli era passato affianco, velocemente, quasi in modo impercettibile, come una folata di vento intossicato.
“Ah!” Sentì subito un dolore inaspettato, una fitta alla testa, seguita da un fischio tanto acuto quanto fastidioso. Dei chiodi gli stavano trapassando il cranio, o almeno quella era la sensazione che provava in quel momento. Cosa significava? Lui non poteva sentire dolore. Gemiti di sofferenza si facevano sempre più forti, sparivano, riapparivano più dolorosi dell’ondata precedente. Sforzandosi di riaprire gli occhi, vide davanti a sé, poco lontano, una figura nera e sfocata: era sicuro che fosse la stessa che l’aveva spaventato poco prima. Era faticoso riuscire a distinguere qualcosa su quella sagoma oscura: riuscì solo a capire che era un fantasma, ma al suo contrario, era un vero e proprio yurei… Man mano che si avvicinava, le fitte aumentavano di intensità e Tohma non poteva fare nulla per alleviarle o scacciarle, perché anche se fossero provenute dalla vicinanza di quell’entità, non aveva la forza di farla sparire. I fischi diventavano sempre più irregolari, ora lievi, ora irrimediabilmente acuti, man mano che Tohma riusciva a distinguere altre forme su quel fantasma. Era un’uniforme da soldato, nera, dai bottoni dorati, proprio come quella che era stato solito indossare. Aveva un cappello altrettanto scuro, come il loro e del suo vecchio esercito era anche uguale la serie di stemmi e distintivi della divisa.
Com’era possibile? Un fantasma di un soldato di Kintou Shuto?
Improvvisamente Tohma cedette e, come fosse stato ancora umano, cadde a terra senza fluttuare. Gli venne istintivo di stringersi i capelli tra le mani fino a volerli strappare, mentre gemiti di un dolore ancora più forte di quello della tortura delle cicatrice si facevano sentire a chilometri di distanza. Lì, tra la fitta boscaglia, un piccolo pezzo di terreno senz’alberi fu il letto di sofferenza del ragazzo raggomitolato in presa a convulsioni, grugniti e lacrime quasi umane. Aprendo gli occhi, vide davanti al suo volto lo stivale fantasma del soldato, poi, alzando lo sguardo, ne vide il volto. Per ciò che poteva riconoscere da quella prospettiva, vide degli occhi neri, dalle pupille rosse, un volto bianco, dei capelli corti che sembravano i suoi e a giudicare dalla sua altezza, sembrava proprio una sua copia…
 
“Non puoi capire! Una ruota di una macchina mi ha schiacciato lo stomaco! Mi sono sentita così! Mi sento così! Non mi toccare. Non farmi del male, ti prego!”
[…]
“L’ultima l’ho voluta ricevere per non farti del male. Se avessi rifiutato avrei dovuto insegnarti le buone maniere, come dice il generale. Dice che per noi sei carne fresca su un piatto d’argento, crede che sia giusto che ogni notte dovremmo approfittarci di te. Io non ho voluto. Non lo farò mai. Sei mia amica e non avrei mai potuto schiacciarti lo stomaco, Yoko. Quindi, credimi. Qui sei in infermeria, ti ci ho portato io, nessuno lo sa, sei al sicuro e non sono stato io a ridurti così. Ti prego credimi…”
[…]
“Sì, ma se non sei stato tu allora chi è stato?”
 
Nello stesso momento in cui l’immagine di quella notte, di quella Yoko spaventata che aveva il terrore di lui e che indietreggiava, Tohma  vide, voltandosi, che oltre a quel fantasma, tanti altri uguali stavano avvicinandosi a lui. Tanti, troppi, dieci, dodici, venti. Tante fotocopie nere che sembravano volerlo inghiottire, mentre urlava inutilmente.
“No!” Impossibile rialzarsi: era bloccato a terra, confinato in quella gabbia claustrofobica di alberi. Le sue fiammelle illuminavano i volti di quegli yurei.
Prima che potesse finire di realizzare cosa stesse accadendo, quelle urla vennero soffocate dai fantasmi.
 
 
“Sull’attenti! Alt!” Il comando del generale, imposto a gran voce, era un richiamo a cui i soldato sapevano di dover ubbidire all’istante. Immediatamente si posizionarono in fila, uno di fianco all’altro, uscendo anche dalle tende se necessario: era ora di cena e Yoko non s’era ancora vista.
Un’espressione di sgomento e sconforto apparve sul volto del generale, per poi subito scomparire pur di non dare troppo nell’occhio: ci era abituato a mostrarsi sempre impassibile e asettico, quando non doveva sembrare infuriato e malefico. Con le mani dietro la schiena e i capelli lunghi che svolazzavano davanti al suo copro per via del venticello notturno, guardava i suoi sottoposti disporsi come aveva comandato, per vedere se ci fossero tutti. Sperava che Yoko fosse tra loro, perdendosi con lo sguardo tra le foglie degli alti alberi, illuminate dalle alte lanterne dell’accampamento.
“Cosa state guardando, signor generale?” Heizo apparve improvvisamente dietro le spalle dell’altro, con il solito sguardo senza emozioni, cupo e misterioso.
“La smetti di annusarmi il collo? Che hai?!” Gli ringhiò di tutta risposta il generale, infastidito dall’interruzione del suo momento di riflessione.
“Non dovreste procedere col verificare che tutti i soldati siano qui, generale?” Fece quello, con un tono quasi di sfida che però l’altro non colse.
“Che domanda è questa? E poi si chiama appello, non quello che hai detto tu.” Un ghigno quasi di disgusto comparve sulle sue labbra, congedando il sottoposto per voltarsi verso i propri soldati.  Avanzò verso il primo della fila, per iniziare l’appello. Era un processo noioso, nel quale il generale doveva guardare uno ad uno sottoposti di cui spesso non ricordava neanche il volto. Li ricordava complessivamente, ne ricordava il numero, ma non era capace di farsi venire in mente un volto associato ad un nome. Tohma era sempre stato un eccezione, com’era sempre stata un eccezione chiamarlo per nome e non per cognome. Non si era mai riferito a lui come Shindou, mostrando volutamente una mancanza di rispetto nei suoi confronti. Era sempre stato un debole, un buono, un molle, e per questo, non si meritava il rispetto che invece, almeno un minimo, aveva verso gli altri soldati.
Si sentiva strano, sentiva una presenza oscura, una vibrazione maligna. La sentiva dietro di lui, davanti al proprio corpo, di lato verso i soldati o l’accampamento. Era ovunque. Quel posto era disseminato da quella strana vibrazione negativa… forse che…?
No. Gli youkai non esistono, tantomeno gli yurei e i fantasmi più svariati. Non dovevano esistere, non potevano: non esistevano. Stava divagando. Riaprendo gli occhi di fronte al suo da farsi, il generale notò che era già giunto a metà. Strano: era appena cominciato l’appello… Forse era stato più rapido del solito. Quanti ne aveva contati fino ad allora? Centocinquanta? Era proprio a metà.
Molto strano.
Si mise la mano nella tasca e cercò l’orologio da taschino, dimenticandosi di averlo donato momentaneamente a Yoko, di cui ancora non c’era alcuna traccia. Se non fosse stato proprio il generale, avrebbe iniziato a sudare freddo.
Continuò il controllo, senza lasciare che si dimenticasse di quella sospettosa velocità con cui aveva ispezionato metà del suo esercito. Nel frattempo, Heizo gli stava sempre alle calcagna, quasi azzeccato, col fiato sul suo collo, come per non permettergli di dimenticare che fosse proprio dietro di lui. Ogni tanto gli arrivava una gomitata, un’occhiataccia, un ringhio, ma nessuna di queste infantili manovre lo fecero distanziare di un millimetro. Il generale era sempre più infastidito da quell’atteggiamento misterioso e cupo, come se avesse venduto l’anima al diavolo per qualche ragione. Avrebbe voluto girarsi e spingerlo via con tutte le sue forze, ma la compostezza di un generale non deve essere compromessa, soprattutto davanti ai propri uomini. Quando ebbe finito, gli sembrò che mancassero almeno una ventina di uomini. No, non gli sembrava: venti uomini, Yoko esclusa, mancavano all’appello. Forse non li aveva contati bene? Che ne avesse saltato qualcuno facendosi distrarre da pensieri molli ed inutili? Si guardò indietro, facendo spostare Heizo con un violento strattone, ma tutto ciò che vide, furono gli stessi volti che aveva già contato. Eppure, gliene sembravano di più, quando s’era posizionato vicino il primo della fila. Heizo non sembrava per nulla scomposto.
Cosa diavolo stava succedendo?
Dove sono finiti quei soldati?
Cercò di non mostrarsi infastidito dall’insolita situazione, sapendo che non si trattasse di un evento normale. C’era lo zampino di qualcuno… o qualcosa.
“Ora di cena. Muoversi!” ordinò loro, senza alzare troppo il volume della voce. Non si accorse di dare troppo nell’occhio, agendo in quel modo. Il vice gli si avvicinò velocemente ma anche con fare calmo e vago, il che non fece che irritare ulteriormente il suo superiore.
“Mi è sembrato che mancasse qualcuno, dico bene, signor generale, signore?”
“Cosa…” Non era proprio lui quello che era il più calmo di tutti? Non ci sarebbe cascato. “Se ti riferisci a quella ragazzina, le ho ordinato di andare in ricognizione nella foresta. Ora, sparisci.” Si voltò dall’altro lato, pur di non incrociare lo sguardo del sottoposto, ma una volta riaperti gli occhi per guardare per terra, si ritrovò le pupille nere e cupe di Heizo che fissavano le sue. Ebbe un sussulto.
“Come mai non è ancora tornata, signor generale?” Fece lui, vago, come per prenderlo in giro. L’altro assottigliò gli occhi.
“Non sono affari che ti-“
“E come mai avete permesso che andasse da sola? Non è poco prudente aggirarsi da soli nella foresta?” Lo interruppe.
“Proprio perché è un luogo pericoloso ce l’ho mandata da sola. Sei idiota o non hai capito che voglio che passi il peggio, Heizo?!” Gli ringhiò in tutta risposta, scostandolo via con rabbia.
“Ne siete proprio sicuro?” Quelle parole gli penetrarono il petto, mentre sgranò gli occhi, consapevole, purtroppo, che Heizo, forse, aveva già capito tutto.
Forse i soldati erano andati ad acciuffare la ragazza per ucciderla e disperderne i resti nella foresta? Avrebbe tanto voluto sembrare impassibili, lasciando che tutto accadesse come avrebbe dovuto, lasciandola morire senza far nulla. Ne avrebbe voluto avere il coraggio, ma purtroppo, com’egli stesso aveva detto tempo prima, con Yoko, perdeva il coraggio di uccidere. Ma gliel’avrebbe fatta pagare per averlo fatto preoccupare e per essersi quasi chiamata contro una squadra di soldati assetati del suo sangue.
Aspetta… Cosa stava pensando? Era preoccupato per quella ragazzina? Ma chi gliel’aveva fatto venire in mente? Cosa poteva importargli di quell’inutile sedicenne, diciassettenne, quanti anni aveva…
Mentre continuava a scacciare questi pensieri strani, uno dopo l’altro, man mano che gli si ripresentavano, aprì gli occhi e da lontano riconobbe una sagoma che si dirigeva verso l’accampamento. Digrignò i denti e, non importandosene di dar troppo nell’occhio, vi corse contro.
Le suole degli stivali calpestavano velocemente il secco sottobosco, facendo scricchiolare rametti e foglie secche. L’erba morbida emette il solito rumore sordo di quando la si schiaccia, una volta sotto i passi del generale, i cui capelli volano all’indietro, facendosi trasportare dal vento dovuto alla corse. Il fiato è poco, comincia a respirare pesantemente col naso, per non sembrare un cane, fino a fermarsi di botto davanti alla ragazza. Lei lo guarda con occhi sconvolti, chiedendosi come mai avesse un’aria così agitata, ma ebbe come risposta nient’altro che un sonoro e violento schiaffo che la fece cadere a terra. Non urlò, ma emise semplicemente un gemito, sotto gli occhi furiosi del generale. Dalla sua tasca cadde l’orologio da taschino che le era stato donato, aprendosi e mostrando l’ora sul quadrante lindo dai numeri strani. Con un movimento repentino e di stizza, l’altro si piegò sulle proprie gambe, lo raccolse e tornò in piedi senza perdere l’equilibrio. Nel prelevare il piccolo oggetto da terra, un po’ di polvere era volata sul volto di Yoko, trasportata dalla lunga catenella d’oro. Una volta riuscita ad alzarsi, la ragazza vide davanti a sé, ad un palmo del suo naso, quell’orologio, ma prima che potesse capire perché quello glielo stesse facendo osservare da tanto vicino, all’oggettino si sostituì il volto iracondo del generale. Gli occhi erano assottigliati, le ciglia curve e l’espressione aggrottata, in tutta la sua rabbia.
“Sai che ore sono?! Lo sai?!” Le ringhiò in faccia. Di certo quel comportamento non era a favore della tesi di Yoko che voleva dimostrare “l’innocenza” di quell’individuo.
“Io-“ Prima che potesse rispondere, le arrivò un altro schiaffo, dalla parte opposta, ma stavolta non cadde a terra. “Ma voi avete-“
“Quanto tempo avevi intenzione di andare a zonzo nel bosco? Eh?! Se vuoi suicidarti, almeno avvertimi, incosciente!” Yoko era confusa…
Un momento. Che gliene importava del fatto che sarebbe potuta morire o meno? Questo pensiero fece di colpo aprire gli occhi alla ragazza, che affrontò quella situazione in modo diverso.
“Di cosa avevate paura, signor generale…?” Sussurrò innocentemente. Quello la guardò con la medesima espressione, senza cambiare di una virgola. Appena spalancò la bocca per urlarle ancora qualcosa, una strana sensazione di consapevolezza lo trattenne dall’investila con ulteriori parole affilate come lame. Intanto, Yoko aveva le braccia davanti al visto, pronta ad un altro schiaffo che non arrivò.
“L’appuntamento di stasera alla stessa ora è ancora valido. Ti spiegherò ciò che devi sapere e nulla di più.” Il generale le prese un polso, non importandosene se l’avesse fatta male o meno e la trascinò all’accampamento a passi grandi e veloci.
Yoko sorrise: intanto, non le aveva risposto.
 
 
Riaprì gli occhi con la stessa calma di chi si sveglia sapendo di ritrovarsi a casa sua, nel proprio letto. Nulla era cambiato: il legno della stiva della barca era sempre lo stesso, le scatole delle provviste sempre uguali e ancora nessuna traccia di Tohma. Hatori cominciò a pensare che non sarebbe tornato mai più da lui. Non che gli desse fastidio o gli mettesse troppa malinconia nel cuore, ma a volte aver qualcuno con cui parlare fa davvero miracoli, specialmente quando si è soli su una barca comandata da due uomini che vorrebbero potersi liberare di te al più presto. Perché non era ancora stato ucciso? Se l’era già chiesto, forse… Stava diventando matto. Non aveva quasi più la cognizione del tempo. Si svegliava, si addormentava, pensava a Yoko e Tohma e guardava davanti a sé. Quella situazione durava da ben cinque notti. Poteva capire se fosse giorno o se ci fosse la luna dagli spiragli di luce che entravano o meno dalle piccole fessure sul telone della stiva. Avrebbe potuto perforarlo, uccidere i due conducenti e poi… poi fare cosa? Era legato, innanzitutto, e poi non avrebbe avuto un briciolo di idea sulla rotta che stavano tenendo quei due.
Era snervante sapere che la propria vita dipendeva dal proprio nemico. Se solo avesse potuto trovare qualcosa nelle provviste…  Ormai era talmente esausto ed annoiato da quella situazione statica che non aveva più la forza di mangiare. Non metteva qualcosa sotto i denti da almeno un giorno e non gli era mai venuto in mente fino ad allora di rovistare per qualche coltellino o qualche cosa per tagliare via le corde.
Preso da un improvviso brivido d’adrenalina ed avventura, il ragazzo tentò di muoversi verso le provviste, dal lato opposto della barca. Si spingeva in avanti muovendosi col torace e tirando il proprio peso in avanti con la forza delle gambe e dei piedi. Sembrava uno di quei vermiciattoli che s’insinuano nel morbido terreno delle coltivazioni o che si trovano nei frutti.
Intanto, i due conducenti della barca, non badarono al movimento che avvertivano provenire da sotto il telone bianco, perché non potevano uccidere il loro prigioniero andando contro gli ordini del generale.
Ma la fame era tanta, troppa. Delle semplici casse di cibo erano troppo poche per tutti e tre, decisamente. Pur non essendo abituati a mangiare porzioni enormi di cibo, è pur vero che l’occasione ha sempre fatto l’uomo ladro e di conseguenza assassino. Perché limitarsi a quel poco che potevano ricavare dividendo le provviste per tre, se potevano sbarazzarsi di quel ragazzo delle cui condizioni il generale non aveva modo di avere notizie? Sarebbe bastato strangolare il prigioniero, fare dietro front e ritornare a Kintou Shuto, parlare col generale e riferirgli che il ragazzo stesse bene. Peccato che non ci avessero pensato prima: non erano abituati a pensare, ma ad agire secondo il pensiero degli altri, tanto da non capire che, pur ammazzando quell’ostaggio, si sarebbero complicati la vita, compiendo un’ulteriore viaggio di ritorno senza motivo.
Ma la fame era tanta…
Hatori sapeva per esperienza personale che la Terra Rossa distava cinque notti di navigazione da Kintou, ragion per cui sarebbero arrivati tra non più di un paio d’ore, sebbene in lontananza non si intravedeva alcuna scogliera. Ragionando, quella era la stessa rotta che aveva sempre percorso dalla sua città fino a dove era diretto e sapeva come continuare quel breve tratto di viaggio. Arrivato in prossimità delle casse delle provviste, pensò ad un modo per farsi strada attraverso quei due o tre contenitori di legno. Cercò di infilare in piede tra una scatola e l’altra, per fare leva e scostarle almeno di qualche centimetro. Lo sforzo fu enorme, dovendo contare solo sui muscoli delle gambe e della caviglia, dato che non poteva aiutarsi con le mani. A poco a poco, il legno delle casse strisciò su quello del fondo della barca, creando quel piacevole suono di salvezza che lo fece sorridere: un sorriso convinto, d’incoraggiamento, forte e deciso. Una volta aperto un varco abbastanza grande tra le scatole, decise di infilarvisi con le gambe, per osservare tutto ciò che c’era: dietro quelle casse poteva vedere ben poco, a causa dello spazio poco illuminato. Guardando sopra di lui, allungò una mano sul soffitto, capendo che riusciva ancora a toccare il telone che ora era un po’ più distante, ma non troppo per impedirgli di bucarlo. Portò indietro la mano chiusa a pugno e lasciò che perforasse il telone malandato e scucito. Sfortunatamente, nessun raggio di luce pervenne dalla fessura: avrebbe dovuto capirlo prima… Sopra di lui, dedusse, doveva esserci la cabina del timone, dov’erano i suoi due imminenti carnefici, anche se lui era ancora ignaro che fossero tali. Si arrangiò a cercare alla cieca qualcosa coi piedi, senza ver paura di tagliarsi o ferirsi, sebbene fossero indispensabili per un lungo viaggio. Tastava assi di legno, polvere, granuli di segatura, mentre andando più avanti, ma ancora nulla di affilato si presentò. Cercò per degli altri minuti, fino a giungere alla conclusione che lì non ci fosse nulla di utile. Lo sconforto non riuscì ad abbattere Hatori che trovò subito un altro modo per tagliare le corde. Strisciò all’indietro fino ad arrivare vicino lo spigolo di una cassa chiusa. Coi denti afferrò il coperchio e lo spinse via, mostrando l’appuntito spigolo della scatola. Senza perdere l’equilibrio, si mise in ginocchio, si girò ed alzandosi con le gambe, fece sì che le corde toccassero proprio lo spigolo di legno poco levigato, per poi andare su e giù con le braccia. Sentiva che man mano la stopposa stoffa di ciò che gli legava i polsi sgretolarsi ed erodersi a contatto con il bordo della cassa. Sentiva la stretta meno forte, che si allentava man  mano finché non avvertì che un laccio venne completamente tagliato. Questo diede maggior convinzione ad Hatori, che continuò a liberarsi di quelle corde il più velocemente possibile, finché non si ruppero tutte. Come ogni persona avrebbe fatto, il ragazzo aprì e chiuse le mani davanti a sé per far circolare meglio il sangue dei polsi tenuto bloccato, fece muovere le articolazioni e, stavolta toccando le assi di legno coi polpastrelli, tentò di alzarsi un po’.
Ora gli serviva un’arma.
Purtroppo non aveva trovato nulla per terra, quindi decise di rovistare tra le provviste approfittandosene anche per mangiare qualcosa, essendo stato a stomaco vuoto per un bel po’. Afferrò della carne essiccata e la portò alla bocca divorandola nel modo meno educato possibile, mentre con la mano libera rovistava ancora e ancora nella speranza di trovare almeno un coltellino. Toccando ancora e ancora, tastando sempre di più, la sua mano venne a contatto con qualcosa di umido e freddo. Sembrava ferro, ma non riusciva a vedere. Ferro bagnato di qualcosa di freddo e viscoso. Scoprì essere una katana corta, come un pugnale, una volta tirata fuori dalla cassa, ma scoprì anche che era sporca di sangue rappreso e secco. Il bagnato derivava dal ghiaccio e dai liquidi del grasso che colavano dagli alimenti non conservati bene.
Perché un pugnale insanguinato avrebbe dovuto trovarsi lì?
Era lungo poco più che due volte la sua mano aperta, sottile, di metallo chiaro quasi bianco e dall’impugnatura nera e rossa. Un’arma elegante per un omicidio importante, pensò. Non si fece distrarre più di tanto dalla stupenda scoperta, ingurgitando altra carne secca. Immediatamente si diresse dove aveva parlato con Tohma tempo prima e, prendendo un lungo respiro di preparazione, squarciò col pugnale il telone della barca.
I soldati capirono subito che Hatori era evaso, sentendo il rumore della stoffa cerata che si squarciava. Si voltarono entrambi, ma solo uno scese i due gradini di legno della cabina del timone per affrontare il ragazzo. Questo non venne colto alla sprovvista: subito, con un movimento rapido e ben pensato, lo prese ai fianchi saldamente mentre stava per sfoderare la katana e lo buttò in acqua, per impedirgli di completare il movimento. Venne ferito leggermente al braccio dalla lama della spada, ma la ferita non fu a tal punto grave da impedirgli di avanzare. Balzò sulla piattaforma di legno prima della cabina, notando il soldato in difficoltà al timone. Per fortuna il mare era calmo, così da permettere ad Hatori di uccidere il conducente. Il piccolo pugnale roteò leggermente nella mano del ragazzo che poi, impugnandolo forte, trafisse al cuore il soldato che non ebbe il tempo di difendersi. Per sicurezza, Hatori lo pugnalò altre due volte, al collo e al fegato: i punti da cui sarebbe sgorgato più sangue. Il tempo di voltarsi e l’altro soldato stava già avvicinandosi a lui, bagnato fradicio. Il ragazzo sperò che scivolasse sulla cerca, ma ciò stranamente non accadde e dovette affrontare una katana solo con un pugnale. Senza perdersi d’animo, si gettò sul nemico, evitando il primo fendente abbassandosi, ma il suo peso fece cedere il vecchio telone, facendo sprofondare Hatori nella stiva, assieme al soldato. Quest’ultimo si sistemò il cappello e si pulì col dorso della mano del sangue derivato dal taglio che s’era fatto con la katana, cadendo. La barca s’era mossa parecchio, sbandando a destra e sinistra tanto da far ricadere a terra sia l’uno che l’altro. Prima che il suo nemico potesse rialzarsi, Hatori gattonò fino a lui e con un movimento repentino gli tagliò i polpacci, non permettendogli più di alzarsi. Mentre l’urlo di dolore del soldato non fece tardi ad arrivare, le sue braccia volarono dietro la sua testa, stringendo tra le mani la katana sopra il capo di Tori. Il ragazzo attese che la spada cominciò a venir giù, perché farla tornare indietro sarebbe costata una grande fatica al soldato, quindi rotolò verso destra, lasciando che l’arma colpisse proprio il suo stinco, peggiorando la sua situazione. Un altro grido di rabbia misto a sofferenza solcò le acque di quel mare calmo, mentre Hatori non si fece pregare due volte prima di piantare il pugnale nel collo del nemico, poi al suo fegato, poi al suo cuore, facendo tingere tutta la barca di cremisi, elegante cremisi simbolo di buon auspicio della Terra Rossa. Dopo aver rimosso la piccola katana dal corpo del soldato, gli sequestrò l’arma, le mise entrambe da parte e, prendendo in braccio l’uomo ormai quasi morto, lo buttò in mare, in modo che nessuno l’avesse più trovato. Lo stesso fece con l’altro, prendendo anche la sua spada, dopodiché si mise al timone e lasciò che le poche onde lo conducessero alla grande scogliera che già vedeva in lontananza, mezza coperta dalla nebbia ed imponente: quella Terra gli era proprio mancata.
Improvvisamente, alzando gli occhi al cielo per guardare in che condizioni fosse, un foglio di giornale interruppe quella visione bianca e monotona di quel malinconico paesaggio, atterrando sulla barca di Hatori. Il poco vento era abbastanza forte da farlo muovere ancora e farlo cadere in acqua, ma il ragazzo subito lasciò il timone per tentare di salvarlo. Aveva sempre avuto un debole per giornali, libri e qualunque cosa potesse contribuire ad informarlo, a fargli leggere qualcosa di nuovo o vecchio. O prese tra le mani e vide che era in buono stato: sorrise dolcemente davanti a quel pezzo di carta stampata che nemmeno Yoko avrebbe capito come potesse fare per renderlo tanto felice. Si pulì gli occhi con la mano, dopo essersela sciacquata nell’acqua di mare e lesse. Improvvisamente la sua espressione passò dalla più beata alla più inquieta ed allarmata: quel giornale, non portava una buona novella. Era il giornale di Kintou Shuto, giunto fino alle coste della Terra Rossa e, stavolta, non raccontava di una semplice condanna alla ghigliottina qualunque.
 
Mistero e sangue a Kintou Shuto: nel palazzo del governo, cadaveri e sangue.
 
Continuò a leggere il sottotitolo.
 
Nei meandri della dimora del temuto generale, una montagna di cadaveri squarciati e dilaniati di soldati. Il vice generale Liang Tian: “Solo un demone può averlo fatto.”
 

 


 
• Note dell’autrice 
 
 
Eccomi con il nuovo capitolo! La storia procede a gonfie vele! Sono fiera di me stessa, devo dire, anche se il capitolo mi ha lasciato un po’ troppo a bocca asciutta per quanto riguarda il generale all’accampamento… Rimedierò col prossimo! Non mi stancherò mai di ripetermi dicendovi “grazie” per seguire la mia storia! A proposito, ho aggiunto nell’introduzione la nota:
[Fa parte della serie: Sotto mille ciliegi] come spero avrete notato.
In effetti, la storia è già programmata per un bel pezzo e penso di dividerla in più di un capitolo. Spero non vi dispiaccia e che continuerete a leggere “ Sotto mille ciliegi”! Al prossimo capitolo!
 
-Bloody Schutzengel
 
 

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


• Capitolo 23 •
Chiarore di mezzanotte


 



 
Era tardo pomeriggio, forse, quando ieri, il vice generale Liang Tian ha fatto la sua orrida scoperta nelle viscere del palazzo del governo di Kintou Shuto. Era in una stanza segreta, racconta, in stato di shock, davanti ai giornalisti del quotidiano della capitale; una stanza che gli era sempre stata nascosta, non dice da chi o da cosa e neppure da quanto tempo. Della tragedia non si conoscono né colpevole, né quando e neanche il perché, ma ne si può solo raccontare il macabro esito finale. “Erano una ventina di corpi” continua il vice generale, sembrando anche piuttosto sospetto se si considerano i trascorsi violenti tipici della capitale dell’isola, “Erano tutti ammassati l’uno sopra l’altro, buttati come carne da macello, mutilati, inzuppati di sangue e senza divise. Non so il motivo per cui li abbiano spogliati, ma non è quello di cui ci si deve preoccupare al momento. E’ tutto troppo strano…” E’ vero: è tutto avvolto in un macabro mistero, come l’allarme che ha lanciato Liang Tian alla stampa una volta scoperti i cadaveri. Una mossa davvero inusuale ed atipica per la dittatura di Kintou Shuto, a quanto dicono i rappresentanti della Terra Rossa. Fatto sta che ogni dettaglio dell’assurda vicenda è coperto da una cortina oscura, ogni particolare è stato volutamente soffocato da quell’orrida immagine di morte. Adesso, le domande sono parecchie, a cominciare da chi abbia commesso tale crimine. Le ipotesi non sono molte, se non assolutamente nulle e…
 
Qui il  foglio di giornale era troppo inzuppato d’acqua per permettere ad Hatori di continuare a leggere l’articolo. I suoi occhi erano sgranati, persi davanti ad un tale racconto dell’orrore e cercavano di negare che fosse veramente accaduto. Sulla pagina non vi era alcuna foto, nemmeno quella del vice generale. Per i lettori, sarebbe stato solo peggio vedere immagini della tragedia oppure delle sue ripercussioni sull’uomo. Hatori decise di non buttare quel pezzo di cronaca nera, ma, semplicemente, lo piegò e se lo infilò nella tasca dei pantaloni, notando che, ormai, era ai piedi della grande scogliera della Terra Rossa.
Era come una montagna grigia di pietra, tagliata a metà per creare uno strapiombo enorme. Le onde s’infrangevano piuttosto miti contro i grandi scogli appuntiti che si stagliavano davanti al precipizio enorme, anch’essi di pietra scura. La nebbia avvolgeva quel paesaggio, lasciandone intravedere solo alcuni pezzi, poi man mano altri ed altri ancora, mentre la barca s’avvicinava lenta, cullata dal mare e senza l’ausilio del timone. Il ragazzo era con le mani poggiate sulla finestra della cabina, sporgendosi in avanti per ammirare quel paesaggio che gli era mancato fin troppo. Prese un lungo respiro, lasciando che l’aria fredda di mare gli penetrasse nelle narici e che gli facesse venire un brivido d’adrenalina. Scese dalla cabina, mettendo i piedi sul fondo della barca imbrattato di sangue, per prendere le corde che gli sarebbero servite per ancorare la barca al pontile che si faceva via via più nitido davanti agli occhi del ragazzo. Purtroppo, Hatori si era dimenticato che quand’era ancora sotto il telone ormai squarciato, non aveva trovato alcun pezzo di corda. Come fermare l’imbarcazione? Sebbene le onde fossero poche, anche ad una simile velocità, la barca avrebbe subito dei danni e sarebbe stato faticoso riutilizzarla per tornare, poi, a Kintou Shuto. I suoi sforzi per uccidere i due conducenti sarebbero stati del tutto vani, se non ci avesse nemmeno guadagnato una barca. Non sapendo che quell’assassinio gli aveva salvato la vita, pensò di averlo commesso inutilmente. Ormai il pontile era a solo due metri e mezzo dall’imbarcazione, ed Hatori, tentò disperatamente l’impossibile: si diresse a prua, proprio sulla punta della barca, si diede uno slancio e saltò. Un salto eroico, come quelli che vengono ricordati con tanto sfarzo nei libri d’avventura di cui aveva sempre voluto essere il protagonista. Atterrò senza problemi sul pontile, con i piedi ben saldi a terra, poi prese a correre per raggiungere il groviglio di funi che vedeva più in là. Ne prese una bella pesante e, dopo essersi assicurato che fosse priva di tratti mangiati dai topi, la portò con sé, correndo indietro verso la barca che aveva conquistato. La buttò davanti a sé per poi saltare sull’imbarcazione e legarne una parte salda con la corda. Fece più di un nodo, stringendolo tanto forte da tener tesi i propri muscoli inverosimilmente, mentre una goccia di sudore gli rigò la fronte. Saltò di nuovo giù sul pontile e, fermando la barca con le mani protese davanti al petto, si assicurò che fosse ben ferma per poterla ormeggiare lì, ad uno dei paletti. Il pugnale, delle provviste ed una giacca per proteggersi dalle intemperie: quello era tutto l’equipaggiamento di Hatori per affrontare quella che era la scorciatoia dei mercanti. Era una strada scavata della roccia dello strapiombo della scogliera, tortuosa e labirintica, pensata dai ladri in fuga per far perdere le loro tracce. Successivamente, man mano che i mercanti vennero visti come gente povera, disonesta e paragonabile a pirati o peggio, questi dovettero usufruire dei passaggi segreti dei ladri, che da allora furono chiamati “vie dei mercanti” o “scorciatoie dei mercanti”. Erano mal visti dalla gente a causa di alcuni individui che, per ottenere più denaro di quanto ne ricaverebbe un venditore onesto, rubavano monete con dei trucchetti, commettevano truffe e spesso facevano apparire merce di pessima qualità come fosse oro colato. Per tutte queste ragioni, i nuovi imprenditori e venditori di imprese che nascevano man mano, erano visti come gli angeli del commercio, mentre ai mercanti restò il titolo di demoni. Ai tempi in cui Hatori decise di voler intraprendere tale carriera, poteva ancora essere considerato un angelo, ma ormai, anche lui era sceso giù all’inferno per tutti coloro che lo osservavano in quanto mercante, ed era costretto anche lui ad uccidere per primo pur di non morire attaccato dai predoni delle scorciatoie.
Alla fine del pontile, si stagliava una corta lingua di sabbia nerastra, che costeggiava la scogliera, compiendo un percorso impervio che entrava nella pietra e ne riusciva, permettendo ai predoni di nascondersi dietro insenature e promontori. Dietro un pilastro di pietra nera naturale, proprio come ricordava il ragazzo, si apriva l’ingresso della scorciatoia più impervia e più lunga, se non anche più pericolosa. Purtroppo, era l’unica che avesse mai conosciuto e tutte le volte che l’aveva imboccata, erano risalenti al periodo d’oro dei mercanti: non sapeva cosa l’avrebbe aspettato, ma non aveva affatto paura. In fondo, arrivare in città, preparare un piano, prendere soldi e qualche uomo, era l’obiettivo ch’aveva da raggiungere per aiutare Yoko ad andarsene da Kintou Shuto. Sempreché fosse ancora viva…
 
 
Non aveva mangiato molto e per di più, non aveva guardato altro che il suo piatto. Cosa avrebbe dovuto fare altrimenti? Yoko sapeva che il generale s’era in qualche modo preoccupato per lei, ma le aveva sempre stampato un segno rosso della sua mano in faccia con quello schiaffo violento. Si sentiva come una bambina appena sgridata dal padre o da un fratello maggiore cattivo. In ognuna di queste due immagini, chissà perché, dopo tutto quello che aveva detto a Tohma, non aveva dipinto quell’individuo in modo positivo. Allora perché sentiva il bisogno di guardare cosa stesse facendo, cosa stesse dicendo ad Heizo, cosa stesse mangiando… Sapendo che non sarebbe stata una buona idea distogliere gli occhi dalla ciotola di riso illuminata dalle torce dell’accampamento di arancione e di bianco, prese qualche boccone ed aspettò la mezzanotte in tenda per parlare col generale.
Le fiamme ondeggiavano morbide fuori dal suo piccolo spazio privato, dove si sentiva forse più al sicuro che nel palazzo del governo. La tenda era illuminata sia dall’esterno che dall’interno, grazie alla piccola lampada ad olio che Yoko teneva al centro della piccola stanza. Non si spogliò ancora, né mise via le cose che bisognava riporre ancora in ordine: si stese sul futon1 morbido, che non aveva nulla da invidiare al letto del palazzo, e aspettò la mezzanotte, cullandosi col tic tac dell’orologio. Stranamente, infine, il generale non se l’era ripreso: che gliel’avesse regalato? Infondo, lo sperava: era davvero un bell’oggetto, ne era quasi affascinata. Era incantata dal metallo di quel piccolo pezzo di ferro tondeggiante che veniva illuminato di arancione dalla luce della lampada. Che la stesse per ipnotizzare? La lancetta ormai, segnava le dieci: aveva finalmente imparato a leggere quei numeri e, se non andava errata, aveva due ore per riposare e poi svegliarsi. Per come sapeva di essere fatta, probabilmente non si sarebbe più rialzata una volta chiusi gli occhi, quindi decise di intrattenersi in qualche modo ed aspettare che le due ore passassero… L’unica cosa che le venne in mente fu il libro che aveva trovato nel Tempio, ma purtroppo l’aveva rimesso al suo posto, si ricordò. L’unica cosa da fare, era lasciarsi ipnotizzare dalla lampada…
 
 
Le lancette segnavano quasi mezzanotte, sul quadrante dell’orologio appeso nella grande tenda del generale. Quello stava in piedi, leggermente curvo per non sbattere contro il telone, in procinto di sedersi e riporre la katana vicino il futon, nel caso che qualcuno l’avesse attaccato nel sonno. Date le strane circostanze, poteva accadergli di tutto: stava perdendo il controllo del suo stesso esercito: mancavano venti uomini all’appello, venti uomini che fino a qualche ora prima erano perfettamente presenti nella folla generale. E come se non fosse bastato, Heizo gli stava sempre più col fiato sul collo, ma, nonostante tutto, non avrebbe mai avuto coraggio di mandare alla ghigliottina il suo miglior amico d’infanzia… A proposito di Heizo, doveva avere dei chiarimenti.
Uscì con calma dalla propria tenda, indossando ancora l’uniforme e sapendo che il suo sottoposto non stava ancora dormendo. Guardava fisso il suo cammino, con determinazione, perché avrebbe scoperto la verità dietro quei giochetti una volta e per sempre. La katana non l’aveva di certo lasciata nella propria tenda: la impugnava saldamente, come se fosse stato lì per uccidere un intruso, uno sconosciuto. Arrivò in meno di un minuto a destinazione, essendo la tenda del vice generale a pochi passi dalla propria, ma allo stesso tempo distanziata. Era a metà tra la sua e quella dei semplici soldati, era di altezza media e senza rialzo di legno come la propria. Fuori, come una bandiera, era appeso il mantello nero con simbolo del sol levante grigio: vessillo di Heizo. Il generale scostò con delicatezza ed impassibilità la cortina che costituiva la porta di quella semplice dimora, trovando nient’altro che un tappeto, un mobiletto con penna, calamaio e carta, equipaggiamento da guerra e altre cianfrusaglie. Nessuna traccia di Heizo.
Appena cominciò ad allarmarsi, gli occhi gli si spalancarono improvvisamente e con un sussulto si voltò indietro, dove i suoi occhi incontrarono quelli di colui che stava cercando.
“Buonasera, generale.” Disse solamente, mentre l’altro assumeva un’espressione sempre più calma ma sospettosa ed irritata.
“Che ci facevi a mezzanotte fuori dalla tenda?” rispose, freddo ed autorevole.
“Io credevo fosse una buona usanza delle Terre d’Oltremare ricambiare i saluti che si ricevono…” Continuò il vice, vago, mentre s’addentrava nella propria tenda, seguito dall’altro titubante.
“Sta’ zitto e rispondimi. Che stavi facendo?” La katana venne impugnata ancora più forte.
“Se sto zitto, come faccio a rispondervi?” Un sorrisetto beffardo comparve sul suo volto, coperto da un’aura viola e misteriosa, che, come pensò il generale, non prometteva nulla di buono.
“Ne ho piene le scatole dei tuoi giochetti del cazzo, lo sai?” Ringhiò a bassa voce, avvicinandosi a lui con prudenza, senza sedersi accanto a quello sul futon.
“Stavo facendo una passeggiata, ma questi forse non sono affari che vi riguardano, generale, o sbaglio? Da quando vi importa di quello che faccio o di dove sono? E poi, non è neanche mezzanotte: mancano ancora ventidue minuti.” Continuò a parlare, riempiendo quel silenzio pieno di mistero e molto fastidioso, senza guardare mai in faccia chi gli si trovava di fronte.
“Che vuoi dire?”
“Quante cose sapete di me, signor generale?” L’altro rimase perplesso davanti a quella frase, davanti ad una tale domanda. Le sue sopracciglia si avvicinarono, gli occhi si assottigliarono, curiosi di sapere il perché di tale quesito. Vedendo che non rispondeva, Heizo continuò. “Sapete la mia storia, mi conoscete sin da bambino, conoscete alcuni dei miei punti deboli, non tutti, ovviamente, e sapete anche tante e tante altre cose… E tutto questo, perché ne ho sempre avuto il personale piacere di raccontarle a voi, quando sono stato ricambiato con totale assenza, non credete?”
“Che stai dicendo?”
“Io non so nulla di voi, neanche il vostro nome. A chi lo avete detto, per caso, a quella sgualdrina che vi prodigate a proteggere ad ogni costo? E’ patetico.” Sussurrò, seccato.
“Io non proteggo quella ragazza, stupido. Che cazzo vai a pensare…” Egli voltò lo sguardo altrove, per evitare che i propri occhi permettessero all’altro di leggerne i veri pensieri.
“Penso che voi nascondiate qualcosa, signor generale.” Il silenzio tuonò nella tenda appena quello si voltò verso Heizo. Il generale digrignò i denti, senza ringhiare, sentendosi quasi preso in giro da ci che gli stava dicendo l’altro. Era come se volesse domandargli cose che invece sarebbe stato bene chiedere proprio a lui… Ma, in quella domanda, il generale sapeva di trovare un ampio fondo di verità. Decise di non farsi prendere dalla situazione.
“Non sono io, in questa tenda, quello che nasconde qualcosa, Heizo. Lo sai bene.” Cercò di farlo parlare, ma l’altro non ne volle sapere.
“Mi dica, allora, cos’avrei da nascondere, generale.” Quello si alzò e si avvicinò a lui, ad un palmo dal suo naso, fissandolo con mento in alto come per guardare qualcosa oltre l’orizzonte, come se avesse voluto intravedere un segreto nascosto negli occhi neri e profondi dell’altro. Lo guardava dall’alto verso il basso, come se avesse avuto in mano tutta la situazione, ed in effetti, era proprio così. Il generale, si mostrò impassibile e cupo, impenetrabile rispetto a quegli occhi misteriosi che celavano qualcosa di malvagio, sebbene, il cuore gli battesse troppo forte, per la paura che venisse scoperta tutte le verità che lui stesso aveva fin allora nascosto… improvvisamente, digrignò i denti e spinse via Heizo di qualche passo, irritato, per poi guardarlo con un’aria quasi di disprezzo.
“Sei molto diverso da quello che mi ha salvato la vita anni e anni fa, lo sai, vero?” Gli sibilò.
“Non so che dirvi, generale. Del resto, siete voi che avete sempre voluto comandare ed impartire ordini, essere al di sopra di tutto, dico bene?” Cominciò a girargli attorno, mentre l’altro non fece nulla di più che guardare il vuoto per terra. “Voi siete il capo di Kintou Shuto, voi avete messo su il regime ed io sono quello che vi ha sempre seguito e che adesso non può neanche darvi del tu.” Una nota ironicamente malinconica sopraggiunse nella voce di Heizo appena finì sia la frase sia il suo passeggiare in tondo. “Ma, del resto, come potrei darvi del tu, se conosco così poco di voi? Mi siete talmente sconosciuto, nonostante tutto il tempo passato insieme, da essere come un estraneo per me, signor generale.” E la malinconia avvolse il rigido cuore malato del capo del regime, facendolo sprofondare nei suoi stessi pensieri e nelle sue stesse fobie.
“Io non ti conosco più.” Sussurrò infine: le uniche sue parole in propria difesa.
“Io non ho mai conosciuto voi, signor generale, signore.” E detto ciò, rimase a guardare quei lunghi capelli che varcavano la soglia della sua tenda, cercando di dimenticare quella dolorosa conversazione: mancava solo un minuto alla mezzanotte.
Come da programma, prima che entrasse in quella tenda maledetta, il generale posò la katana vicino il letto, si sedette ed aspettò Yoko, sperando che non fosse in ritardo. Guardò fisso l’orologio, mentre la lancetta dei secondi si avvicinava man mano alla sessantesima lineetta del quadrante, mentre col suo ticchettio riempiva la stanza. Appena fu sulla cinquantanovesima, la mano della ragazza varcò la cortina della tenda, ed appena scattò la mezzanotte, mise piede lì dentro.
Sembrava preoccupata per qualche motivo. La luce della luna rischiarava l’interno della piccola dimora, una volta aperta la cortina. Un raggio bianco celestiale illuminò in parte il generale, i cui occhi risplendettero sotto quel bagliore, facendo rimanere Yoko  senza parole. Erano due perle nere spalancate, sorprese, rincuorate, che campeggiavano su un viso la cui bocca era leggermente schiusa, quasi innocente. Una leggera brezza notturna attraversò la cortina e, sebbene fosse una notte d’inverno, i due non sentirono freddo, ma respirarono solo una boccata i quell’aria pulita e pura.
“Siediti.” Non le diede nemmeno il tempo di dargli un saluto degno di un grande generale, ma non le importò più di tanto. Si cercò di pulire bene le scarpe della terra dell’accampamento prima di sedersi, ma con un gesto, l’altro le fece capire che non ce n’era bisogno. Ci fu uno scambio repentino di sguardi avvolti nel silenzio, sguardi che nono sapevano da dove cominciare, che non sapevano cosa dire, come due ragazzini che iniziano a conoscersi proprio in quel momento, timidi ed insicuri. Appena Yoko dischiuse le sue labbra per dire qualcosa, la voce del generale sopraggiunse, vellutata e non troppo bassa, come sempre, che in quel silenzio non cupo ma celestiale, suonava rilassante come la vista di mille e mille stelle. Il cuore le batteva forte, quanto quello dell’altro, ma a differenza di questo, il suo poteva essere udito senza toccarle il petto.
“Non c’è bisogno di essere tanto agitati.” Se n’era accorto. “Volevo parlarti del fantasma che credi di aver visto nella tua camera. Quello che secondo te ti ha avvelenato.” Continuò, calmo.
“Ah…” Cominciò l’altra, alzando lo sguardo verso chi aveva di fronte, illuminato dalla luna. “…In realtà, somigliava molto ad un soldato che la prima… o la seconda notte… non ricordo…” Si sentiva confusa, si mise una mano sulla fronte, credendo di sembrare stupida.
“A chi somigliava?” La invogliò a parlare l’altro, con un temperamento tanto innocuo da non essere adatto a quel corpo riconosciuto per i suoi atti malati.
“Somigliava ad un soldato che ha cercato di uccidermi… Entrò una notte nella mia stanza e provò a… farmi del male… a…” Era troppo da dire esplicitamente per la sua persona tanto minuta quanto timida.
“Ti ha violentato?”
“No… ma ci ha provato, poi ho cercato di difendermi e mi ha preso a calci mentre ero a terra. Tohma mi portò in infermeria. Il mio stomaco era immerso nel sangue, me lo sentivo… Non riuscivo a respirare…” Ma c’era una cosa che le sfuggiva… “Come mai... vi comportate così, signor generale?”
“Cosa vuoi dire?” Iniziò a perdere un po’ di quella calma che gli era penetrata in corpo come per magia.
“Vi state preoccupando per me… vero?” Con che coraggio gliel’aveva chiesto? Sarebbe andata a finire male…
“Qualcuno sta cercando di ucciderti, e contrariamente a quanto stai pensando, non sono io.”
“Ma… voi…”
“Lo so che ti ho portato io in questo inferno, so che sono io quello che ha voluto torturarti. Lo so, non c’è bisogno che tu me lo ripeta.” Fece, irritato. Yoko stette zitta, sperando che non perdesse la pazienza. “Lascia perdere tutto questo per un po’ e ascoltami. Ascoltami bene perché non lo ripeterò più.” La guardò negli occhi. “Qui dentro stanno succedendo cose strane, cose non spiegabili se non usando cose inesistenti come fantasmi e via dicendo, capisci? Qualcuno sta cercando di distruggere qualcun altro, probabilmente te o addirittura me e tu sei l’unico soldato a cui non ho fatto il lavaggio del cervello e che può darmi una mano. Per essere una stupida ragazzina irresponsabile, ragioni e capisci tutto con la tua testa ed è questo che mi serve. Purtroppo, mi sto rivolgendo al mio stesso nemico, perché tu odi quello che sto facendo, vero? Tu mi odi, mi disprezzi, ti faccio talmente schifo che vorresti uccidermi, vero?” La fece apparire tanto come una domanda retorica, tanto che Yoko non rispose perché non sentì di doverlo fare. “C’è qualcuno che ti odia allo stesso modo. Io sono un mostro, tu una stupida ed inutile ragazzina.” Cosa centrasse questo sussurrare cose a caso col discorso del fantasma, Yoko non lo sapeva, ma voleva capire, voleva capire quella mente tanto contorta e quel cuore dilaniato, secondo lei, da mille e mille ferite, pugnalate e sofferenze.
“Cosa sta succedendo…?” Cercò di ricambiare il favore, aiutandolo a parlare.
“Prima che tu arrivassi, facendo l’appello, notavo che mancavano venti soldati che il mattino della partenza c’erano e che, recentemente, ho notato che appena te ne sei andata, avevano dei volti morti, come se fossero dei fantasmi. Sai bene che io odio queste stronzate, queste cose paranormali che nemmeno esistono… Ma non posso fare a meno di dire che sono degli spiriti, perché li ho visti con i miei occhi… Cazzo… Sto diventando uno di loro…” L’ultima parte, sussurrata, impercettibile, fece cambiare espressione al generale: allora sembrò come se l’avessero pugnalato con dei brutti ricordi venuti a galla, con dell’astio antico che allora stava spiacevolmente riemergendo…
“Quindi, vi state preoccupando per la mia vita…?” con lo sguardo basso, Yoko, si sentiva soddisfatta: non era il mostro che tutti, Tohma compreso, dicevano che fosse.
“No. Non farti strane idee.” Le ripose, freddo. “Stupida ragazzina… non sono mica impazzito? Non ho combinato questo gran casino facendoti venire a vivere nell’esercito per salvarti la vita. Se davvero avessi voluto farlo ti avrei lasciato andare. E’…” Titubante, lasciò che l’ultima frase non uscisse mai dalle sue labbra, perché sarebbe stata un vera sconfitta. “Capito? Ora sparisci. Domani, puoi andare ad esplorare ancora il bosco. Ripeto: qui non è sicuro per te.”
“Agli ordini…” Sussurrò la ragazza, facendo sorprendere il generale.
“Cosa hai detto?” Sgranò gli occhi.
“Agli ordini, signor generale.” Si alzò, si inchinò e permise alla luna i illuminare ancora quel volto contornato di capelli nero-verdastri. Sorrise impercettibilmente. “Oyasuminasai2…” sussurrò, chinandosi di nuovo, per poi uscire, delicata, avvolta dalla brezza notturna. Sorrise, perché aveva capito: magari, non era per salvarle la vita, ma perché era lui a voler essere salvato…
“Oyasumi.” Sentì arrivare quella voce dalla tenda come un sussurro di uno spirito e, ad occhi chiusi, non inciampò per la strada verso la sua tenda.


 


 

• Note dell’autrice •
 
 
  1. Il futon è il letto giapponese costituito da un “materasso” bassissimo e delle coperte, tipo sacco a pelo…
  2. Buona notte. Yoko dice “oyasuminasai”, in cui il –nasai è un suffisso usato quando si parla con un registro più formale rivolto a chi è più anziano o, come il generale, più “importante” di te. Il generale dice solo “oyasumi”, usando la versione informale che simboleggia una mancanza di rispetto verso Yoko, in un certo senso.
 
ARGH! E’ stato un parto! Non sapevo cosa scrivere, come iniziare, come finire, ARGH! E’ venuto uno schifo, chiedo venia. No, anzi, chiedo il perdono dei peccati a Papa Francesco… TT___TT Spero non mi lapidiate! Il prossimo sarà decisamente meglio, ve lo prometto… A proposito, ho abbassato il rating perché, calcolando tutte le fasi della storia, non è necessario un rating troppo rosso.
Al prossimo capitolo!
 


-Bloody Schutzengel













 

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***





• Note dell’autrice •
(Importante)
 

 



Ehilà!


ATTENZIONE! IMPORTANTE! Ragazzi, purtroppo la mia estate è pienissima di impegni. Vado di quà vado di là, Expo, Fiordi, e poi fa anche caldissimo e mettermi al pc concentrandomi è davvero difficile. Detto ciò, non so quando aggiornerò, magari tra due settimane, qualche giorno, oggi, domani o a settembre. Non ne ho idea. Perciò perdonatemi in anticipo per tutto questo e prometto che non lascerò mai la storia in sospeso. Davvero. Grazie! Al prossimo capitolo...

Lo so che sarei da lapidare per lo strabiliante ritardo di pubblicazione, ma prima di darmi una bandierina bianca o rossa solo per questo… ascoltate un po’ qui!
E’ stata una vera e propria epopea, un’Odissea, un viaggio al centro della Terra! E non solo per il caldo che non mi faceva scrivere al pc non più di due righe, per cui staccavo continuamente la storia, ma anche per il capitolo in sé! Questo è un capitolo molto particolare che mi ha creato problemi, essendo composto da due parti molto importanti per la storia e ciò mi ha creato un casino perché non sapevo come sfumare da una parte all’altra, come descrivere le cose, le azioni! C’è stato anche un nuovo punto d’osservazione, un nuovo POV in una parte della storia e quindi tante complicazioni! In compenso, con il sudore alle mani e ai piedi, sono riuscita a mettere in piedi queste undici pagine di Word, per regalarvele e farmi perdonare per il ritardo. Che poi, scusate, si è rotta anche un’unghia in tutto questo! *piange* Non riuscivo a scrivere *sob*. Bando alle ciance, spero che il capitolo vi piaccia, perché lo aspettavo da tanto tempo *cuoricino* Non so quando aggiornerò: fa davvero troppo caldo per stare al pc L
Buona Lettura!
P.S. L’unica nota la metto qui, alla fine del capitolo che sarà troppo… niente spoiler:
 
1) Grazie Mille: il ‘gozaimasu’ si mette quando si parla in modo formale, in alcune formule di cortesia.
 
ADDIO. E recensite, chiedo ancora venia!
 
-Bloody Schutzengel
 



 


 
 
• Capitolo 24
Il giglio sanguinario sulla vetta
 

 



Pochi e lievi rumori, mormorii di voci e delicate melodie metalliche delle lame delle spade svegliarono poco a poco Yoko, che quella notte dormì piuttosto meglio rispetto alle altre passate al palazzo. Sentiva il calore della sua pelle, della sua mano sulla propria guancia, la morbidezza delle rustiche coperte e l’odore sempre più scandito del cibo della prima colazione. Si stropicciò gli occhi con delicatezza, quasi come una bambina, poggiò una mano a terra e fece leva per alzarsi, sbandando un po’: era ancora tra la veglia e il sonno. Sbadigliò tenendosi una mano sulla bocca, per poi decidere di velocizzarsi e cambiarsi. Si alzò e prese la sua divisa, infilandosela in pochi secondi non prima di togliersi la camicia da notte. Si sistemò i capelli come meglio poteva, con la solita lunga treccia nera ed uscì dalla tenda: stavolta, prima di scostare quella cortina, s’era preoccupata di controllare in un piccolo specchietto se si piacesse.
L’aria fredda d’inverno senza neve la colse alla sprovvista: la lampada ad olio che aveva tenuto vicino il futon per tutta la notte l’aveva a tal punto riscaldata da farle dimenticare in che stagione fossero. Un brivido di freddo le fece tremare le gambe, poi il torso ed anche il viso. Nonostante la “sorpresa” della temperatura, a Yoko piaceva quell’atmosfera: dovevano essere le sei del mattino, secondo l’orologio e il sole era appena sorto, facendo apparire il paesaggio tenuamente illuminato, delicato e morbido. Non sembrava di essere in guerra…
In effetti, non era mai stata etichettata come guerra: Yoko sapeva che quello non era altro che un capriccio del generale che, secondo lei, per qualche motivo, un giorno, s’era svegliato con l’intento di rendere un inferno la vita della gente. Eppure, quella sera, le era parso tutt’altro che un essere dagli istinti pluriomicidi… Anche a guardarlo adesso, la ragazza non fece caso a nient’altro che al suo aspetto: l’ì, all’alba, le piaceva ancora di più e, forse, stava dimenticando di trovarsi davanti ad un assassino.
Non essendo in vena di rimanersene lì imbambolata, camminò verso il centro dell’accampamento, attraverso i vari soldati che giravano tra le varie tende. Arrivò alla grande dispensa, da dove, la mattina, distribuivano le porzioni di cibo per la colazione, poiché non c’era bisogno di allestire la tavola, per qualche motivo. La fila era logicamente molto lunga, ma la ragazza non si scoraggiò: prima o poi sarebbe terminata ed il suo turno sarebbe arrivato… Chissà perché questa frase, le dava un senso di malinconia, di tristezza, come se nella sua vita qualcosa fosse stato per finire, se non proprio i suoi giorni… Questi macabri pensieri le rimbombarono nel cuore, mentre guardava fisso a terra, come una campana di morte, quelle che di solito suonavano per decretare il decesso di qualcuno.
“Buongiorno soldato, dormito bene?” Le fece il generale, passandole affianco e fermandosi, con un tono altezzoso che non le piacque troppo. Forse, doveva comportarsi diversamente, in presenza di altri soldati.
“Sì, signor generale.”
“Non sembra dalla tua ridicola faccia, sembra che ti abbiano appena condannato a morte. Hai fatto qualcosa di sbagliato?” Le sibilò, avvicinandosi al suo orecchio, ma quando la ragazza fu sul punto di fraintendere tutto se non di più del tono che le stava rivolgendo, l’altro iniziò a sussurrarle tutt’altro.
“Ecco, io…”
“Shhh… Devi avere pazienza: non ci sei solo tu qui in questo casino, ci sono anche io, intesi? Dopo la colazione vattene nel bosco. E non morire.” Quando ebbe finito di parlare, le diede uno spintone, per fare scena, ma la fece quasi cadere a terra. Le povere e sottili gambe della ragazza stettero per cedere, quando trovarono all’ultimo momento l’equilibrio giusto. Doveva avere pazienza: quelle risate sguaiate e infantili erano uno dei marchi con cui gli altri suoi uomini lo conoscevano e l’avevano sempre conosciuto. Cambiare così repentinamente, neanche di soppiatto, per un motivo o per un altro, sempre più avvolti nel mistero, avrebbe destato non poco sospetto in occhi indiscreti. Nel volto del generale, Yoko poteva leggere un espressione di altezzose scuse.
Dall’altro lato, invece, c’era Heizo.
Tohma gliene aveva parlato come uno dei più fidati del generale, come il suo miglior cane da guardia, che ha sempre occhi su di te anche quando dormi. Il suo nome, sapeva, non era temuto tanto quanto quello del suo superiore, ma riusciva pur sempre a metterle i brividi. Purtroppo, non conosceva i tempi in cui si era dimostrato servile al pari di uno zerbino con colui che lo comandava a bacchetta, ma solamente gli ultimi giorni in cui sembrava essere ossessionato da lei. Ogni angolo, da ogni lato che si girasse: era sempre lì, a fissarla, come un fantasma, a scrutarla con occhi maligni ed indagatori, tanto da metterle i brividi più di quanto il freddo non facesse di per sé. Sembrava come se fosse sempre stato lì per mangiarla, divorarla, distruggerla, saltandole addosso facendola a brandelli come un cane rabbioso mascherato da perfetto schiavo. Forse era solo una sua impressione: gli altri uomini non sembravano turbati da lui, ma anzi, ultimamente Yoko notò che gli si dimostravano più fedeli. Alcuni forse erano diventati come suoi cagnolini personali, invece che del generale. Di sicuro, c’era qualcosa che non andava.
“Basta così, arigatou gozaimasu1” Col volto basso, prese la sua ciotola di riso e carne, voltò le spalle e lasciò che il calore dei chicchi bianchi cremosi le riscaldasse la gola, mentre dalle sue narici, aria calda si trasformava in piccole nuvole nel cielo azzurro.
 
 
 
Giorno XX
Mese XX
Anno XXXX
 
Caro diario, cos’è quella cosa che gli esseri umani chiamano amore?
E’ per caso quello strano sentimento che si prova verso una madre o un padre? Quello che io ho provato verso mia madre, nonostante non l’abbia mai vista? Quello che provavo per mio padre e che ancora provo, anche se non ho mai potuto abbracciarlo?
Nessuno mi può dare una degna risposta: come posso fare?
Il Tempio della Letteratura, qui, è pieno di storie che parlano d’amore, di quel fuoco passionale che ti avvolge fino a farti dolcemente soffocare fino a desiderare di morire. Uomini e donne che, come è scritto in quei libri, si amano, si proteggono a vicenda, si baciano, si fondono l’uno con l’altra e si giurano questo “amore” per l’eternità.
Cos’è giurarsi amore per l’eternità?
Mi sento una bambina impacciata ed ingenua, diario, eppure, desidero così tanto sapere cosa si prova ad amare qualcuno. E’ forse lo stesso sentimento che rivolgo al mio popolo? Quello che rivolgerei ad un amico, pur non avendone o quello che donerei volentieri ad un fratello o una sorella?
Una cosa, però, l’ho capita: questo amore di cui parlano tutti, è riservato ad una persona speciale, con la quale ti fondi in tutto e per tutto. Devi poterti fidare di lei, devi poterci litigare, devi graffiarne la carne e farti graffiare, per poi curarle le ferite e fartele fasciare. E’ un insieme di reazioni a catena, reciproche, ad ognuna delle quali corrispondono una e più reazioni.
E’ così complicato l’amore diario! Da come è descritto sembra tanto difficile da far credere che imparare ad amare sia tanto complicato da dover meritare una scuola. Una scuola d’amore, per insegnare questa che sembra tanto simile ad un’arte antica e raffinata.
Eppure ho letto tante e tante di quelle storie anonime delle Terre d’oltremare in cui l’amore è potente, impavido, semplice a tal punto da essere dato per scontato. Però allo stesso tempo è tanto forte da sconfiggere la morte, la guerra, il sangue e il male.
Sarebbe così vantaggioso possedere tutto l’amore del mondo! Purtroppo, però, è una cosa che non si crea e non si elimina, non si respira, non si tocca, non si vende e non si compra. Non puoi vederlo, non puoi sentirlo con le orecchie e assaporarlo con la lingua. Allora, come si fa a capire dov’è l’amore, diario? E’ forse nascosto nelle persone? E’ come quella storia delle Terre d’Oltremare del filo rosso del destino? E’ stata una delle mie storia preferite di sempre, caro diario! Come sarebbe bello trovare un lungo filo di cotone, lana o lino o seta che sia e seguirlo, fino in capo al mondo, per trovare l’amore. Ma allora, dire amore è come dire “persona”? Perché se l’amore corrisponde ad una persona… Sono confusa diario.
Se le persone sono amore, allora perché a Kintou Shuto, mi dicono, stanno progettando un disegno tanto maligno da togliere la vita a tante persone innocenti, privandole delle loro tradizioni, delle mie tradizioni e di tutto il resto? Perché le persone sono cattive? L’amore non è cattivo… Eppure!
Forse l’amore è tanto malvagio tanto benevolo, come una katana. Una katana la puoi usare per tagliare i frutti che cadono dagli alberi o per proteggere un paese, ma anche per tagliare la testa di un povero bambino che non ha nulla a che fare con il nemico che combatti.
Sono spaventata, diario. L’amore è una cosa tanto bella quanto spaventosa, ormai, ai miei occhi. L’altro giorno, ora ricordo, mia madre mi è apparsa in sogno e mi indicò dove trovare delle pergamene che lei stessa aveva scritto per informarmi di come lei e papà fossero morti. Anzi, molto di più: era la loro storia d’amore, breve, passionale ma anche macabra e malvagia, se guardata unilateralmente. Secondo me, le storia d’amore sono una delle cose che più difficilmente si possono comprendere, perché per poterne capire a fondo il significato bisogna entrare nelle teste dei due protagonisti, cosa che neanche i fantasmi riescono a fare. I fantasmi possiedono i loro malcapitati, possiedono il loro corpo e rinchiudono la loro anima da parte, la addormentano, diventando la loro nuova aura provvisoria e maligna. Se il loro malcapitato sarà una persona abbastanza forte da liberare la propria anima, scaccerà presto l’aura buia, al contrario, rimarrebbe prigioniero del demone all’infinito e, anche se si riuscisse a liberare dopo anni, vivrebbe in una realtà distorta che lo porterebbe al delirio e alla morte.
L’amore cosa c’entra con questo, ti chiederai, diario.
Me lo chiedo anche io…
In effetti, non è che abbia molto a che fare con questo argomento, ma se un tale potere passionale ha la forza di far spuntare questi pensieri nella mia mente, allora, è davvero molto potente.
Ho letto le pergamene della storia di mia madre e mio padre, caro diario, ma non voglio parlarne qui.
Mio padre Gesshin era un semplice uomo della Terra Pura, una specie di Samurai. Era in giro nel bosco per rinfrescarsi nel fiume: era lì che incontrò mia madre.
Mi sono sempre chiesta da dove venissero queste strane orecchie da volpe e questa lunga e morbida coda che posseggo. La risposta mi è pervenuta solo l’altro giorno: mia madre era una kitsune.
Purtroppo, essendo uno youkai, sapeva che quella passione e quell’amore a prima vista sarebbero andati a finire nel sangue. Le kitsune, come ben saprai, sono delle creature, degli spiriti che assumono l’aspetto di giovani donne prosperose e dalla bellezza irresistibile o anziane, per attirare l’attenzione di giovani uomini. Il loro aspetto naturale, in realtà, è quello di una volpe, che può avere una o più code, fino ad un totale di nove, a seconda dell’età. Esse, si cibano di esseri umani.
Mia madre era una kitsune in tutto e per tutto, e così mio padre era un mero essere umano. Io sono una mezza kitsune, un ibrido, un essere incompleto, a metà, che non è ne acqua né terra, né fuoco né vento, né kitsune né donna.
Mio padre ha incontrato mia madre con l’aspetto di una donna bellissima dai capelli castani e gli occhi rossi, diversi dalla sua corta chioma nera ed occhi castani. Erano uno l’opposto dell’altra. Il filo rosso del destino ha voluto che mio padre venisse irrimediabilmente attratto da mia madre, così, giorno dopo giorno, si diedero incontro al fiume per vedersi e parlarsi, come quegli innamorati proibiti dei libri romantici. Mia madre Nagisa, così era il suo nome, cercò di seppellire il suo istinto animale pur di non far del male a mio padre, dicendogli idi rifiutarsi di unirsi a lui, perché gli sarebbe costato la vita. Per un primo momento, raccontano le pergamene, andò tutto bene, sia per mio padre che per mia madre. Sfortunatamente, sebbene decisero di volersi sposare, sebbene si conoscessero da appena qualche mese, come due adolescenti ignari ed ingenui, non potettero: uno youkai non può sposare un umano, è impossibile.
La realizzazione di ciò portò mia madre, come per un naturale processo biologico, ad impazzire in preda a quell’istinto che la portava sempre di più a rifugiarsi nei piccoli templi delle danze sacre, per potersi sfamare. Lì, racconta lei, era un tripudio di lussuria, dove spesso le kitsune meno forti e meno “malvage” si rintanavano di nascosto pur di non morire di fame. Lì attiravano uomini impazziti, ubriachi, fuori di senno a tal punto da non poter essere recuperati. Non che la loro vita valesse di meno di quella di chiunque altro, ma per il campare di uno serve il sonno eterno di un altro.
Mio padre Gesshin decise che quella situazione non gli piaceva più, perché non riusciva a sopportare il pensiero di quella che aveva deciso dovesse essere sua “moglie” che si univa ad altri uomini meno che a lui. Dopo lunghi litigi, decise che era disposto a sopportare la morte, pur di amare mia madre e, così, racconta Nagisa, io fui concepita in una torrida ed umida notte estiva, nella quale venne sparso un lago di sangue.
Dopo quel sudore, quella passione e quel desiderio durante i quali mio padre Gesshin le giurò eterno amore, mia madre, purtroppo, non ci vide più. Quell’istinto di fame la corrodeva sempre di più, ancora ed ancora fino a renderla una bestia, un mostro, un’assassina. Pian piano, le mani di mio padre, secondo la sua volontà, si staccarono dai fianchi dolci di mia madre Nagisa, per cadere molli lungo i propri, per terra. Una lacrima gli percorse la guancia e, racconta lei, non urlò quando iniziò a divorarlo.
Pochi mesi dopo, scoprì di essere incinta e sapeva che il figlio era di Gesshin, così, non lo uccise a differenza di come le altre kitsune usavano fare per continuare a mangiare. Mia madre, come mio padre, decise di sacrificarsi per amore della piccola creatura che stava crescendo dentro di lei, che la faceva sentire male ogni giorno, che la faceva indebolire, fino a non permetterle più di camminare, costringendola in un diroccato Tempio: quello dove, una volta nata, lei morì in una pozza di sangue, perché mi amava.
Ho ucciso mia madre.
Il nostro amore l’ha assassinata.
L’amore è sangue, caro diario.
 
 
- Sotto Mille ciliegi
 
 
 
 
Le pagine del libro vennero chiuse pian piano dalle deboli mani di Yoko che, lì inerme e sconvolta, non poteva fare a meno di sentire un leggero brivido per via di ciò che aveva appena letto. Era quasi sera e doveva già tornare all’accampamento. Era arrivata al Tempio tardi perché la via si era stranamente quadruplicata, facendole credere che qualcuno l’avesse fatto apposta per non farla giungere lì. Nonostante la strana circostanza, la ragazza non s’era persa d’animo e aveva camminato per ore ed ore, per alberi e alberi, non riuscendo a vedere un singolo spiraglio di grigio pietra.
E poi quello.
Quel libro… Le prime pagine erano coperte da quella storia sanguinosa e misteriosa tanto quanto l’autrice del diario. Che fosse un’autobiografia?
Nonostante la sensazione di orrore che improvvisamente pervase il corpo di Yoko, la curiosità vinse e prese il sopravvento facendo decidere alla ragazza di scoprire a tutti i costi chi avesse scritto quel libro. Sapeva che sicuramente, avendo nominato Kintou Shuto, questa donna misteriosa, questa mezza youkai sapeva di ciò che stava accadendo lì, in quel momento. A giudicare già dalle prime pagine, gli ordinati ideogrammi tracciati con inchiostro e pennello, erano recenti, non consumati terribilmente come quelli dei frammenti che aveva trovato precedentemente.
La determinazione era la parola stampata nelle pupille castane di Yoko, che, pur sapendo di dover al più presto tornare, prima che il sole tramontasse del tutto, sarebbe tornata a notte fonda per scoprire di più su “Sotto Mille Ciliegi”.
 
 
 
Quella volta, appena ritornata all’accampamento in orario, il generale non le venne incontro correndo per darle una sberla, ma neanche per sgridarla come da copione.
Non lo vide affatto.
Tra i vari soldati che andavano avanti e indietro tra le fiamme delle torce notturne e i progetti sulle mappe mal disegnate, nessuna traccia dei suoi lunghi capelli verdastri. Quei riflessi color della speranza non brillavano tra le fiamme passando loro dietro, tantomeno gli occhi neri si fecero vivi. Dov’era finito? Era una nuova sensazione: paura? No… Piuttosto insicurezza e curiosità fuse assieme, in un misto di ombre che andavano e venivano come spettri tra le tende.
Finalmente, ne riconobbe l’ombra da fuori la tenda del vice. Lì, c’era anche l’altro: sembrava stessero avendo un’animata discussione, soprattutto a giudicare dai movimenti del generale. Heizo era fermo, ogni tanto un’ombra nera che stava per il suo braccio si muoveva in alto come per spiegare qualcosa, ma nulla di più.
Improvvisamente, il subordinato si alzò in piedi velocemente, seguito dal movimento più flemmatico del generale che, anche solo dall’ombra, Yoko riconobbe essere confuso: molto confuso. Forse era delusione, perdita, sconfitta. Non ne sapeva nulla, eppure, poteva percepire le vibrazioni di qualcosa di malvagio provenire da lì dentro. Una forma quadrata, un’oggetto a Yoko tanto sconosciuto quanto noto, era nelle mani del generale: era una radio.
Dopo pochi secondi, Heizo uscì dalla tenda in silenzio, lanciando un’occhiata assassina e impassibile a Yoko, nonostante lei non l’avesse vista, essendo nascosta ad origliare dietro un cespuglio.
Tentò di convincersi a non entrare in quella situazione, a starne fuori e semplicemente vegliare sul generale senza farsi vedere, ma la sua immagine che stava fissa e ferma lì, pensierosa, non la fece calmare affatto. Yoko si alzò di soppiatto, sapendo che in un modo o in un altro Heizo avrebbe tenuto g occhi su di lei, ma nonostante ciò, le sue mani delicate si poggiarono sulla cortina beige della tenda e la scostarono, poi, i suoi piedi toccarono il morbido terreno coperto da un telo, vedendo colui che stava cercando inginocchiato vicino la radio, sconfortato e quasi impaurito.
“E’ permesso… io…”
“Sta’ zitta.” Non se l’aspettava una risposta così flemmatica, molle e piena di rancore. Le bruciò il cuore con quelle poche lettere graffianti e scomode, come un suolo ruvido su cui si è costretti a stare la notte. Intanto, in quella sensazione di morbido, mista allo spiacevole contatto con dei sassi aguzzi, quella sensazione di piacere e dolore, Yoko cercò di ascoltare ciò che poteva.
La prima radio che aveva mai visto gliel’aveva fatta vedere Tori, in una foto, ma non ebbe mai il privilegio di poterla usare, poiché lui le aveva sempre detto che le notizie che correvano tra quegli aggeggi erano troppo violente per lei che era ancora una bambina. Una piccola, grande, forte bambina. Sapeva però come funzionavano, ragion per cui, senza che il generale se ne accorgesse, si avvicinò ed ascoltò le parole che aveva capito avevano fatto star male il capo del regime.
 
 
Passiamo alla tragica notizia che ha fatto capolino anche tra le Terre d’Oltremare, la tragica rivelazione del palazzo del governo di Kintou Shuto… Ecco ciò che era stato scritto sul giornale della Capitale.
Era tardo pomeriggio, forse, quando il vice generale Liang Tian ha fatto la sua orrida scoperta nelle viscere del palazzo del governo di Kintou Shuto. Era in una stanza segreta, racconta, in stato di shock, davanti ai giornalisti del quotidiano della capitale; una stanza che gli era sempre stata nascosta, non dice da chi o da cosa e neppure da quanto tempo. Della tragedia non si conoscono né colpevole, né quando e neanche il perché, ma ne si può solo raccontare il macabro esito finale. “Erano una ventina di corpi” continua il vice generale, sembrando anche piuttosto sospetto se si considerano i trascorsi violenti tipici della capitale dell’isola, “Erano tutti ammassati l’uno sopra l’altro, buttati come carne da macello, mutilati, inzuppati di sangue e senza divise. Non so il motivo per cui li abbiano spogliati, ma non è quello di cui ci si deve preoccupare al momento. E’ tutto troppo strano…” E’ vero: è tutto avvolto in un macabro mistero, come l’allarme che ha lanciato Liang Tian alla stampa una volta scoperti i cadaveri. Una mossa davvero inusuale ed atipica per la dittatura di Kintou Shuto, a quanto dicono i rappresentanti della Terra Rossa. Fatto sta che ogni dettaglio dell’assurda vicenda è coperto da una cortina oscura, ogni particolare è stato volutamente soffocato da quell’orrida immagine di morte. Adesso, le domande sono parecchie, a cominciare da chi abbia commesso tale crimine. Le ipotesi non sono molte, se non assolutamente nulle e al momento non si sa neanche quale sia l’arma del delitto. Si pensa ad una katana o forse ad un pugnale, ma qualunque ipotesi non può essere accertata per via dei pochi indizi sul caso. Il palazzo di Kintou Shuto è scenario di un andirivieni di poliziotti ed investigatori che anche nella città più violenta del secolo, hanno avuto il permesso di poter indagare su tale crimine.
Questo è ciò che dice il giornale della Capitale, radio spettatori. Se solo il generale non fosse partito questo forse non sarebbe successo, ci dice Liang Tian, che ha dichiarato di non voler rivelare i suoi sospetti al pubblico per un motivo di sicurezza. Non si sa se egli conosca l’assassino, o meglio il mostro che ha architettato tutto questo, ma una cosa è certa: la pericolosità dell’individuo porterà a misure di cautela rigide e più che severe più di quanto non lo siano già le altre, a Kintou Shuto, per proteggere innanzitutto il palazzo del governo, scenario del terribile massacro. Le immagini non possono essere trasmesse, purtroppo, come avrete già sentito, ma vi avvertiamo di stare attenti cittadini: una bestia si aggira tra di voi.
E ora passiamo...
 
La voce dell’uomo che parlava nella radio venne interrotta da un segnale di interferenza, seguito dal suono sordo del dispositivo che veniva spento. Gli occhi del generale, da persi nel vuoto, diventarono rabbiosi ed intrattabili, impenetrabili. Quando la ragazza se ne accorse, era già troppo tardi.
“Che cazzo ci fai qui?! Esci fuori! Chi ti ha dato il permesso di entrare in questa tenda, pezzente? Sparisci!” Le ringhiò il generale, con una punta di nervoso nella voce che, forse, secondo lei, nascondeva un velo di malinconia. Eppure, come fa un cuore assassino a provare compassione per un massacro? O forse non era per quello che era ridotto così male…
Fatto stava che la ragazza era stata presa alla sprovvista da una risposta così cruda e priva di tatto, ma doveva aspettarselo, dato che comunque non stava parlando con un suo amico ma con il temibile generale di Kintou Shuto.
Uscendo abbattuta dalla tenda, le campò in aria la decisione di saltare la cena per dormire per poi infiltrarsi nel bosco, alla ricerca del tempio descritto nel diario che aveva letto.
Non le serviva molto come equipaggiamento: solamente un’arma, di cui poteva disporre prendendola dall’armeria in ogni momento, essendo un soldato, l’orologio ed alcuni oggetti d’utilità pratica come una lampada ad olio, una scatola di fiammiferi, una cosa simile ad un piccone e una corda. Tutto questo, l’avrebbe sistemato in un sacco ricavato usando la sua camicia da notte che non serviva a molto: era tanto leggera che anche se avesse dormito nuda, sarebbe stata calda sotto le coperte di lana della tenda.
Yoko aspettò che passasse mezzanotte e che tutte le luci delle tende si spegnessero prima di uscire. Stette attenta per sentire che nessuno parlasse più, pur sapendo che i soldati avevano sempre avuto l’abitudine di avere un orecchio attivo per ascoltare il minimo fruscio di foglie in caso di pericolo. Ma ciò non le importava: avrebbe rischiato.
Scostò delicatamente la cortina e si fece strada tra il labirinto di tende per inoltrarsi nel folto bosco dalla via più buia pur di non essere scoperta. Guardava a destra e sinistra ogni pochi passi, come agli incroci delle strade per non essere investita. Era quasi come se stesse gattonando: era attenta ad ogni minimo spostamento e nel suo cuore poteva sentirsi fiera di aver imparato qualcosa durante gli estenuanti allenamenti al palazzo del governo.
A proposito di quello, non aveva avuto il tempo di pensare alla strage di cui aveva sentito alla radio poco prima, essendo stata distratta dal generale perso nel vuoto. Ora che le veniva in mente, il solo pensiero dei corpi dilaniati tutti ammassati dei soldati, le faceva venire il vomito, così decise di pensare ad altro e ad immaginarsi un bel tempio rosso e bianco nella foresta, pur non smettendo di elaborare quei dati acquisiti via radio. In quei giorni era ricorso parecchio il numero venti: venti soldati morti, venti altrettanto improvvisamente scomparsi dall’accampamento ed altri venti prima erano perfettamente presenti, sebbene la tragedia s’era consumata prima della partenza del generale. Allora come potevano essere spiegate quelle venti persone che ora c’erano e ora non c’erano nell’esercito? Troppi punti interrogativi al momento sbagliato.
La luna era bellissima, un quarto di luna, come nei disegni dei bambini. Bianca, splendente che rischiarava le alte foglie della boscaglia di un bianco bluastro quasi uscito fuori da un libro di fantascienza di cui le aveva parlato Hatori. La incantava a tal punto da farla rallentare e dimenticare di stare attenta se qualcuno la stesse seguendo. In effetti, non s’era neanche curata di nascondere le sue orme nel morbido ed umido terreno notturno. Le piccole gocce bianche negli occhi nocciola di Yoko, ora bluastri per il riflesso della luce notturna del cielo e del satellite terrestre, brillavano sì e no in quella semi oscurità rilassante e silenziosa in cui potevano essere sentiti solo i suoi passi scricchiolanti. Il percorso era leggermente impraticabile a tratti, caratterizzato da tronchi d’albero che spuntavano improvvisamente davanti alla ragazza che per poco non vi ci inciampava contro.
Innanzitutto, doveva trovare un punto abbastanza alto per poter osservare il territorio. Un grande albero sarebbe andato bene, ma i sottili tronchi sicuramente non avrebbero retto il suo peso e già si immaginava lei stessa cadere da un ramo flebile, spezzato, con la schiena a terra, da decine di metri. Piuttosto che rischiare, sperava di trovare un tronco possente o, nel migliore dei casi una magica collina spuntata dal nulla per aiutarla nel suo intento. Purtroppo, non poteva sperare cose impossibili.
Il freddo le penetrava sempre di più nella divisa, sebbene si sentisse a suo agio. In fin dei conti, era un tessuto studiato per le esigenze dei soldati in quel territorio, quindi non c’era da preoccuparsi. Camminando, dinanzi a sé, tra una manciata di tronchi che sembravano strisce di zebra, come quelle delle borse delle ricche signore delle terre d’Oltremare, Yoko scoprì una cosa fantastica: acqua. Non era un fiume, nemmeno un lago, perché poteva vedere degli alberi affondare le loro radici nel liquido azzurro luminescente, sempre a causa della luna. Delle lucciole cominciarono a farsi vive, rendendo l’atmosfera ancora più magica. Il passo della ragazza aumentò di velocità fino a correre a piccoli saltelli. Una volta arrivata in prossimità della fonte d’acqua gelida, rimase a bocca aperta: era una distesa enorme azzurra e limpida, nella cui acqua si potevano distinguere sassi tondi, terreno, piantine e piccoli pesciolini che vivevano chissà come, in solo pochi centimetri d’acqua gelida. Era proprio un velo azzurro, né un lago né una pozza, né una fonte: un velo. Yoko immerse il suo anfibio nel gelido liquido limpido per assaporarne il paesaggio circostante: una radura d’acqua. Ecco come l’avrebbe denominata. Tutt’intorno, si levavano alberi enormi, come gli altri del resto, e, alla destra di Yoko, si stagliavano tre rocce enormi come pilastri che arrivavano all’altezza delle chiome del bosco. Gli occhi le brillarono: da lì, avrebbe visto tutto ciò che avrebbe dovuto vedere. In più, sembrava che la natura le avesse permesso di andare a vanti, costruendole una scala di pietra: una delle tre rocce era alta un terzo della più alta, mentre la seconda due terzi. Erano disposte non in fila, ma come se fossero state le foglie di un trifoglio, ravvicinate ma non abbastanza da non far intravedere gli alberi che completavano il cerchio della radura.
Appena cominciò a correre verso la prima roccia, appena arrivò a metà percorso, sentì qualcosa immergersi nell’acqua.
Sembravano piedi e il rumore proveniva proprio da dietro di lei, ma appena si voltò si rese conto che era troppo lontana dal confine alberato per poter distinguere qualcosa o qualcuno. E se fosse stato un animale feroce? Ingoiando le preoccupazioni, Yoko procedette, sentendo sempre pian piano i suoni dei piedi nell’acqua aumentare di velocità, come se qualcuno la stesse rincorrendo e, girandosi un’altra volta, potette dapprima riconoscere una figura umana con in mano quella che doveva essere una katana, ed un mantello, ma una volta che le si avvicinò un po’ di più lo riconobbe: il mantello non era tale, bensì erano i capelli del generale, che con tutta la sua forza e velocità stava raggiungendo Yoko. Una volta arrivato, le tagliò la strada scivolando sull’acqua, elegantemente, stregando la ragazza con quegli occhi sottili e decisamente arrabbiati.
“Dove credi di andare?”
Yoko sapeva di non dovergli neanche una risposta dall’ultima che le era stata data, brusca e violenta, così, senza pensarci due volte, prese alla sprovvista l’altro e corse verso la prima roccia e vi saltò sopra, aggrappandosi alle insenature con tutta la forza che aveva in corpo. Dei tamburi, flauti di bambù e suoni di travi scricchiolanti marciavano nel suo cuore, dando un ritmo a quell’incontro notturno segnato da un destino. I due abissi neri la fissavano con aria di rimprovero, di rancore, fermi e penetranti.
Yoko sapeva che alla sommità delle rocce, era come se fossero state tagliate, due trasversalmente e una orizzontalmente, creando tre patii di cui due scoscesi. La ragazza, arrampicandosi in cima alla prima roccia, non prima di aver buttato in cima il fagotto svuotato del piccone e della corda, ideò velocemente un modo per poter costruire un rampino, per agganciarlo all’estremità della roccia più alta ed arrampicarvisi. Improvvisamente il generale la prese per il colletto dell’uniforme e la scaraventò giù per tre metri, in acqua, saltando giù. La sua katana era sfoderata e cominciò a brandirla fermamente per colpire con dei fendenti la ragazza che però riuscì ad evitarli. Era molto concentrata, anche se il suo aspetto esteriore da sangue freddo non rispecchiava il caos di domande che aveva all’interno della sua testa. Stava sudando, anche se non se ne accorse e forse fu un bene: il calore rendeva i suoi movimenti più fluidi e pronti e non arrugginiti come se fosse congelata. Gli occhi del generale sembrarono non conoscere pietà, ma non le venne in mente di spiegargli che non stava scappando. Riuscendo a sviarlo con delle mosse repentine e fluide, la ragazza balzò ancora più in alto, raggiungendo arrampicandosi la cima della prima roccia, a sette metri d’altezza dal suolo acquoso. Immediatamente, corse verso la punta della grande pietra dalla base più o meno ovale, per arrivare il più vicino possibile a quella più alta delle tre. La distanza da saltare era inferiore ai tre metri da quel punto e sapeva di potercela fare. In fretta e furia, vedendo che il suo nemico si stava avvicinando, legò il piccone alla corda lunghissima, sperando si fosse agganciato ad una rientranza. Una volta constatato che la corda potesse reggere il suo peso, Yoko la assicurò alla roccia sulla quale si trovava, ad un picco appuntito con vari nodi, legò il fagotto alla schiena e poi saltò.
Con le mani si resse sul cordone, arrampicandosi e facendosi strada mettendo una mano davanti all’altra, reggendo il proprio peso quasi a fatica. Purtroppo, i passi veloci del generale avevano raggiunto la punta della roccia e la sua katana, alzata nel cielo, cadde sul peso di corda, costringendo la ragazza a mantenersi forte per quella caduta. In realtà, non volò giù per sette metri, bensì, come attaccata ad una liana, cercò di virare la traiettoria mortale. Cercò di spingersi verso l’esterno per evitare l’impatto con la roccia e a pochi secondi dalla catastrofe, il suo naso sfiorò miracolosamente un rivolo di polvere argentea ch’era sulla pietra. Un brivido d’adrenalina percorse la schiena della ragazza, che continuando a manovrare quella liana, toccò leggiadramente con la punta dell’anfibio il velo d’acqua, creando due ali trasparenti ed azzurrine con il liquido. Il generale, dalla sommità della pietra, non riuscì a scendere per andare a prenderla, incantato dalla sua abilità dimostrata nell’ardua situazione.
D’altra parte, Yoko cercò di arrampicarsi sulla grande roccia, avendo il vantaggio di avere la corda molto tesa e resistente tra le mani. Sorridendo soddisfatta, mentre le sopracciglia le si incurvarono con determinazione, mosse un passo dopo l’altro i suoi piedi in verticale e verso la sua sinistra, come per descrivere una spirale e raggiungere il rampino, approdato in un’abbondante rientranza. Nel frattempo, il generale, tentò di arrampicarsi sulla roccia dalla media altezza, a mani nude, come poteva, incastrando anche la katana tra l’irregolare disposizione della pietra. Una volta raggiunto il rampino, Yoko lo prese e lo lanciò con tutta la sua forza in cima alla roccia, fallendo un paio di volte. Dopo aver trovato un appiglio sicuro, continuò la sua scalata verso la bassa vetta, quei ventuno metri o forse di più che bramava con una forza di volontà mai vista. Le sue mani, i suoi polpastrelli e palmi le bruciavano, ma questo bruciore contribuiva solo a riscaldarla, mentre i suoi caldi respiri di disperdevano come piccole nubi nell’aria invernale.
In qualche minuto, guardando la luna splendente, giunse sulla tanto agognata cima della roccia. Asciugandosi il sudore sulla fronte col dorso del braccio e poi della mano, sorrise per la vittoria: finalmente, aveva dimostrato che se qualcosa la voleva, poteva averla, anche se fosse stato impossibile all’apparenza.
Improvvisamente, mentre Yoko stava scrutando il paesaggio, dei rumori di sassi trascinati via le fecero ricordare di non essere sola. Quando si girò, la chioma verdastra del generale si fece viva dietro l’orlo della roccia e fu lì che la ragazza ebbe un sussulto.
“I salti sono sempre stati una delle mie specialità.” Un ghigno apparve sul suo viso quando velocemente si tirò sulla superfice della roccia e a quel punto Yoko, senza pensarci due volte, prese la katana, la sfoderò e si mise in posizione di difesa, preparandosi ad affrontare quel fendente in corsa che arrivava veloce verso di lei, accompagnato dai soliti tamburi che andavano tanto veloci quanto impetuosi nel suo cuore. I flauti di bambù davano un’atmosfera magica alla situazione nella sua testa, ma non era nulla di più che una danza mortale di spade.
Illuminati dalla luna, fendenti parati formavano croci ed ‘x’ attraverso le quali due occhi pieni di fiamme diverse ardevano e s’incontravano, combattendo una guerra di sguardi, uno più potente dell’altro e viceversa. Con la sua forza, Yoko spinse via il generale, ma non si limitò a parare i colpi, passando al contrattacco: quella sarebbe stata la sua rivincita per la lotta col bastone, per la risposta brusca e per l’addio a Tohma e tanto altro. Quella violenza  che forse nascondeva qualcosa del tutto diverso, quei colpi che brillavano, le schivate, le scivolate sotto la luna che guardate da lontano sarebbero sembrate piccole lucciole bianche che luccicavano ogni tanto nell’oscurità azzurra.
I piedi di Yoko corsero per un ultimo colpo, mentre lei, sudando dalla fronte, non vide il volto serio del generale che si spostava di lato dando spazio ad un panorama di morte: il precipizio. Tentò di frenare, ma il peso, l’inerzia della corsa, l’adrenalina, non potevano salvarla. Purtroppo, sarebbe caduta.
Sarebbe caduta, se una mano calda non l’avesse fermata sull’orlo dello strapiombo, tenendola per una manica, poi, buttando via la katana, per l’addome. Quella stessa persona la girò, s’abbassò su di lei per fissarla seriamente negli occhi. Nero contro nocciola. Rabbia contro adrenalina e paura, ma anche ingenuità. Freddo contro caldo. Assassino contro angelo. Fiato contro fiato. Nero contro nocciola.
Violentemente, labbra contro labbra.
I tamburi sfumarono come in una danza sacra.








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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


• Capitolo 25 •
Convalescenza


 

 

1) Modo di dire “grazie” in giapponese che, aggiungendo il “gozaimasu”, diventa formale.
 
 
 
 
Labbra contro labbra.
Entrambe non si schiusero per lasciar spazio ad una bacio più appassionato o violento. Erano solo lì, fermi, aspettando che uno di loro aprisse gli occhi e si staccasse, magari buttando a terra l’altro o opponendo resistenza.
Nulla di tutto ciò accadde.
Yoko poteva avvertire il confortevole calore del corpo del generale contro il suo, nella notte gelida, sebbene non fosse attaccato al suo. Quella situazione le infieriva calma ma insicurezza allo stesso tempo. Era certa di essere confusa, brevemente, ma almeno una piccola certezza campeggiava dentro di lei. Una certezza che nascondeva tanti punti interrogativi che si andarono a mescolare con i tanti altri che già le affollavano i pensieri, facendoli bruciare i brama di sapere.
Ma non in quel momento.
In quel momento Yoko non pensò a nulla, la sua mente si svuotò completamente, e con gli occhi chiusi, lei vedeva bianco, poi nero, vedeva prima luce e subito dopo eccola immersa nell’oscurità e nel caos. L’immagine di lei, che tanto cercava di fare, senza successo, per stare alla larga da quello, che all’improvviso si ritrovava le proprie labbra unite a quelle altre, senza una motivazione, tra l’altro.
Non se lo chiese subito, ma per quale motivo avrebbe dovuto farlo? Lui che l’aveva sempre bramata con gli occhi della lussuria e della violenza: perché un tale individuo avrebbe dovuto concedersi un gesto tanto timido, ma allo stesso tempo forte e gentile? Era atipicamente dolce.
Il corpo di Yoko non stava ad ascoltare i suoi pensieri, che ora le dicevano di sottrarsi a tale pazzia e ora le sussurravano di non muoversi per prima. No, le sue gambe si muovevano da sole, con la poca forza che rimaneva loro, per distaccarsi dal generale, come se quella carne avesse saputo che era tutto uno sbaglio. Uno sbaglio enorme che ora era stato commesso e che non doveva ripetersi mai più.
“Hm…” Mugolò Yoko, tentando di allontanarsi e, ancora una volta, il generale la sorprese, poiché la lasciò andare, senza fare resistenza, sebbene continuasse a guardarla come pieno d’ira e rancore che, probabilmente, non serbava per lei in particolare.
Le sue mani esili non fecero quindi fatica a toccare il petto del generale delicatamente, per poi allontanarsene.
I suoi occhi, si facevano stranamente sempre più pesanti, e la divisa dell’altro le sembrava bollente, non seppe per quale motivo. Tutte le preoccupazioni non le si presentarono in mente, si lasciò solamente andare, facendo lentamente crollare le sue gambe sotto il proprio peso e cadendo a terra senza far rumore. Una volta col viso a contatto con la gelida pietra sottostante, non riuscì ad avvertirne la temperatura, come fosse stata la stessa del suo corpo. Doveva essere preoccupata, ma invece, continuò a tenere gli occhi socchiusi per cercare la presenza del generale che era già scomparso tra i boschi sulla via di casa.
Quando le palpebre le si serrarono, non avvertì che qualcun altro era giunto per salvarla.
Passarono minuti e minuti apparentemente interminabili, poi, improvvisamente, iniziò a riacquistare i sensi.
Pur non vedendo nulla, poteva sentire un corpo caldo, morbido come una pelliccia, avvolgerla e portarla via. Sentiva il vento freddo della notte sui pochi punti che non le erano stati coperti, permettendo al gelo di infiltrarsi nell’umida divisa. Sentiva i passi veloci, quasi silenziosi di quella presenza che la stava salvando, ne sentiva il profumo e ne avvertiva la dolcezza e la determinazione. Si disse che doveva essere senza dubbio una donna, che forse l’aveva avvolta in qualche calda pelliccia per tenerla al caldo.
Sentì improvvisamente di essere immersa in dell’acqua tiepida, che al contatto sembrò bollente. Si lasciò andare, ancora svenuta, in quel liquido confortevole, che la avvolse interamente, fino all’ultimo capello, dopodiché, non ricordò più nulla.
 
 
Si sentiva ancora intorpidita, incapace di percepire completamente ciò che era attorno a lei. Come se fosse stata in una bolla, sentiva un suono impastato, confuso, lieve e disordinato, ma capì lo stesso che si trattava di una voce: la voce della foresta.
Sentiva il suono della natura, più nitidamente: sentiva gli uccelli, il vento che faceva suonare le foglie e quel dolce silenzio pacifico.
Pian piano, cominciò ad aprire gli occhi, vedendo annebbiato, poi i particolari cominciarono a farsi vedere un po’ di secondi più tardi, quando le iridi nocciola potevano riconoscere che non si trovava in un luogo familiare: era mattino.
Si sentiva quasi nuda: indossava solamente un kimono che, dovutamente al suo recente passato, le sembrava ormai uno dei vestiti più osceni che avesse potuto mai indossare. Era verde, di seta, senza decorazioni, ma la teneva a caldo.
La prima cosa che vide fu un raggio di luce, che spostandosi leggermente per via dei movimenti terrestri, spariva e ricompariva tra le stecche di legno che costituivano un balconcino più in là. Era per terra, avvolta tra una pelliccia ed una coperta imbottita di seta, su un pavimento di legno più chiaro di quello del palazzo, coperto qua e là da tappeti color dei fiori di ciliegio. Si girò, per mettersi a pancia all’aria e guardare il soffitto, pur mettendoci un po’, poiché essendo reduce da una sottospecie di congelamento, si sentiva ancora stordita e non ricordava bene cosa fosse successo.
Anzi, non ricordava nulla della notte precedente.
Il soffitto era fatto di quella che doveva essere paglia, mista a travi di legno, spiovente e rustico: doveva essere una piccola abitazione di qualche abitante del villaggio, pensò subito. Per qualche motivo, aveva dovuto soccorrerla e portarla in salvo in quel semplice luogo accogliente.
Tuttavia, non riusciva a ricordare il perché.
Improvvisamente, sentì il lieve rumore di quelli che dovevano essere passi. Passi calmi ma decisi, che non le incutevano timore, al contrario del suono terrificante dei tacchi degli stivali del generale che ora rimbombavano nella sua testa, con l’immagine di sfondo buia del corridoio del palazzo dov’era stata rinchiusa. Sentendo che si facevano più vicini, tentò di rimettersi le coperte addosso, per non infastidire il padrone di casa.
I passi si fermarono.
“So che sei sveglia.”
Una voce dolce, una voce di una donna, dolce e composta. Non era per  nulla familiare, ovviamente. Si scoprì la testa pian piano, mettendosi a sedere per avere una chiara visuale di colei che le era davanti: era abbastanza alta, tanto quanto il generale e doveva avere sui vent’anni. Indossava un kimono elaborato, bianco e decorato con fiori rosa e gialli, con una fascia del medesimo colore ed un cordone rosso sopra di essa. I lunghi capelli le coprivano la schiena, ricadendo davanti, folti, lisci, separati con una riga laterale e color castano ramato: un colore davvero inusuale per un abitante di Kintou, come il suo d’altronde. Le mani delicate si misero dei ciuffi dietro l’orecchio, per non permettere loro di coprirle il volto, mentre con l’altra reggeva un grande piatto con sopra quella che doveva essere una caraffa di tè e dei bicchieri con piattini. Aveva gli occhi grandi come i suoi, castani quasi color dell’oro, che brillavano sotto i raggi di luce che filtravano tra le assi di legno del soffitto. Sembrava quasi un angelo venuto in suo soccorso.
“Ecco, io…”
“Vuoi del tè?” Yoko non seppe cosa rispondere, essendo comunque in casa di un’estranea che non conosceva neppure. Non sapendo che fare, annuì, confusa.
La donna le si sedette accanto, in ginocchio, poggiando il piatto col tè per terra e versandone un po’ in entrambe le tazze, nel silenzio generale, in cui la curiosità di Yoko non faceva che fissarla di scatto ogni tanto. Lei sembrava averlo notato, ma non per questo ebbe una reazione brusca: sorrise e continuò ciò che stava facendo.
Arigatou gozaimasu1
Dopo pochi minuti di silenzio, in cui la ragazza bevve qualche sorso, mentre Yoko mostrava sempre più curiosità nei suoi confronti, l’altra cominciò a parlare.
“Ti trovi qui perché un ragazzo fantasma che ho salvato da alcuni spetti maligni, mi ha chiesto di aiutarti implorandomi. Ho sentito la tua anima e ti o trovata semi svenuta a terra, su un picco di roccia della Laguna di Cristallo. Ti ho portato qui perché riposassi e riprendessi le forze.” La guardò dolcemente, mentre nella mente di Yoko balenò, appena aver sentito la sua descrizione, l’immagine di Tohma che veniva aggredito dagli spettri e la sua espressione si fece molto preoccupata…
“Io… Ecco… il ragazzo sta bene?” Chiese impaziente.
“Tranquilla: gli yurei non possono lasciare di nuovo il mondo dei vivi se non trovando la luce.” Le scappò un pacato sorriso. “Tu come ti senti?”
“Ora mi sento meglio… posso chiedere se…”
“Prego!” La incoraggiò gentilmente la donna, mentre Yoko la guardò di scatto, sentendosi sempre più piccola e a disagio.
“Perché… ero su quella roccia? Non riescoa ricordare… potreste dirmi tutto quello che mi è successo, che voi sappiate… Ve ne sarei grata…”
“Oh, non c’è bisogno di tutta questa formalità, cara! Come ti chiami?” Yoko guardava basso, tanto che l’altra dovette abbassarsi un po’ senza scomporsi, per incontrare i suoi occhi. Mortificata, alzò lo sguardo.
“I-io sono Kurai Yoko…”
“Yoko, io non so come tu sia arrivata su quella collina, io ti ho trovato che eri congelata, eri bianca e rigida. Ho dovuto trasportarti qui, o avresti potuto non farcela. Ti ho fatto fare un bagno d’acqua tiepida in modo che il corpo ritornasse alla temperatura normale… eri andata in ipotermia. Dopo, ti ho messo a letto con questa pelliccia e questa coperta per non farti prendere freddo… c’è mancato poco, ma ora stai bene, no?” La sua voce sembrava una melodia dolce, di quelle che le cantava la mamma prima di andare a letto, quando era ancora una bambina. Ciò rassicurava Yoko, che cercò di sembrare meno rigida, ma che allo stesso tempo, stava lentamente cominciando a ricordare cos’era successo su quella roccia.
Il generale…
“Vi ringrazio… davvero, io… devo tornare all’acc-“
No, non poteva rivelarle di essere un soldato. Anche se questo, forse l’aveva già intuito dai suoi vestiti… “… Devo tornare a casa, grazie, ma…”
“Puoi darmi del tu e guardarmi negli occhi, non preoccuparti: non ti mangio mica. Non puoi tornare a casa adesso, Yoko. Ti sei appena alzata dopo essere stata faccia a faccia con una morte per ipotermia… Tra qualche giorno ti lascerò andare, ma ora non puoi.”
Yoko annuì sconfortata, guardando poi fuori dal balconcino, godendosi da lontano la vista degli alti alberi sempreverdi della foresta che con il loro smeraldo davano vita al paesaggio invernale. Voleva vedere il generale. Voleva ricordare in ogni minimo dettaglio quel momento di distrazione, quel calore, quell’affetto inaspettato. Voleva capire. Voleva delle risposte alle sue mille domande… Doveva andarsene al più presto. “Ad ogni modo, dobbiamo spostarci, questo è un rifugio momentaneo. Ti porto a casa mia.” Le sorrise, alzandosi e sparecchiando le tazze da tè, con spirito e forza di volontà che le si leggevano negli occhi.
Passarono alcuni minuti di silenzio, durante i quali Yoko cercò i suoi abiti per spogliarsi del kimono verde, senza chiedere a quella donna di cui non sapeva nemmeno il nome. Tuttavia, non sarebbe mai stata abbastanza sicura da chiederglielo… dopotutto era una persona più grande di lei con la quale non sentiva di poter parlare come con un’amica. Trovò la divisa: era stata piegata, con tutto ciò che s’era portata con sé quella notte avvolto tra gli indumenti sistemati con cura. Yoko non credette che quella ragazza dovesse essere tanto stupida da non conoscere tale divisa. Sapeva che lei era a conoscenza del simbolo di Kintou Shuto, non poteva essere diversamente. Eppure, non le aveva fatto domande a riguardo, le sorrideva come si fa con un semplice ospite bisognoso d’aiuto, ignorando il suo passato o i suoi scopi. In poche parole, pensò che l’aveva accudita incondizionatamente. E questo solo perché gliel’aveva chiesto Tohma…?
“Ahm… Scusa...!” non seppe come rivolgersi nel migliore dei modi a quella ragazza, che però non se ne importò minimamente e venne da lei composta come sempre.
“Come posso aiutarti, Yoko?”
“Ehm… ecco… posso chiederti qual è il tuo nome…?” E dallo sguardo basso, s’alzarono solo le iridi, in uno sguardo al massimo dell’innocenza.
“Forse è meglio che questo tu non lo sappia…” Le sorrise, mettendole una mano sulla testa e guardandola negli occhi.
Che sapesse qualcosa che doveva rimanere all’oscuro di Yoko…?
 
 
Sullo sfondo notturno blu, oscuro eppure tanto affascinante, si stagliavano quelle silhouette nere degli alberi che tendevano sempre più verso l’alto, verso l’infinito. Un infinito terrificante, cosparso di nebbia e voci maligne.
Le urla di intensificavano sempre di più, come se fossero potute arrivare fino alle stelle, eppure nessuno sembrava sentirle.
Tohma pensò per un momento di poter essere ancora vivo, perché nonostante allora fosse un fantasma errante nei boschi, quei soldati d’ombra gli incutevano timore: il timore di morire. Eppure uno spettro non dovrebbe aver ragione di avere la pelle d’oca di fronte a tale situazione, essendo già passato all’altro mondo. Chissà perché, però, per lui non fu così facile.
Quelle ombre in divisa nera di Kintou Shuto lo divoravano dall’interno, come se lo stessero mangiando interamente a partire dall’anima.
Non era neanche capace di combatterli, dato che, a differenza loro, sembrava sempre non poter interagire con alcun essere fatto di carne ed ossa ma, a quel punto, neanche d’ombra. Sembrava come se fosse diventato un’inerme spettatore agli orrori del mondo, che non poteva toccare ma poteva essere trafitto, che non poteva ferite, benché potesse essere ferito, che poteva urlare, senza essere sentito.
Delle lacrime cominciarono a colare giù  dalle sue guance, tra grugniti d’agonia e dolore, frutto della resistenza a quei demoni che sembravano volessero impossessarsi di lui, o di ciò che di lui era rimasto: un’anima eterea.
Improvvisamente, tra la nebbia nera e quegli occhi rossi minacciosi, Tohma riuscì a vedere una sagoma diversa dalle altre, sfocata tra quegli individui che sebbene gli fossero familiari, non riusciva a dire chi potessero essere per via della confusione e del terrore.
Lasciatelo stare.” Una voce autoritaria, femminile, mai sentita prima, squarciò quella nebbia oscura, che si dileguò nella fredda aria notturna, lasciando una brezza di vento gelido che persino Tohma avvertì. Sebbene non avesse la vista offuscata da nulla, non poteva ancora distinguere chiaramente i lineamenti di quella donna che doveva essere davanti a sé, percependone solo il dolce profumo. Sentiva l’erba scricchiolare sotto i piedi di lei, che ora era proprio dinanzi a Tohma e che lo guardava con curiosità ma allo stesso tempo con distacco e preoccupazione. Il ragazzo provò a rialzarsi in piedi ed in poco tempo, si ritrovò di nuovo fluttuante ma coi piedi per terra.
“T-Tu chi sei? S-Sei colei che penso che tu sia…?”
“Sì, caro. Ti sei perso?” La voce dolce e rassicurante della donna inondarono di improvvisa speranza il cuore di Tohma.
“Ti prego… Aiutala… Trovala… Una mi amica è in questa foresta. E’ vittima di uno spietato generale che la tiene prigioniera nel suo esercito. Aiutala a scappare… ma ti prego, non fare il mio nome, non dirle nulla…”
“Perché non dovrei… sei suo amico no?”
“Tu non puoi capire…”
“Invece capisco benissimo. Farò come mi hai detto… Ora va e sta’ attento agli spiriti neri. Ho un brutto presentimento…”
Una volta scomparso Tohma, il kimono rosa decorato da fiori continuò a svolazzare nel vento notturno, mentre i suoi occhi fissavano il cielo stellato.
“Non è possibile…”
 
 
Il tragitto attraverso la foresta fu parecchio tortuoso, soprattutto pieno di salite su colline, rocce e passaggi tra alberi stretti. Era praticamente una scalata tra le montagne, che tolse ore ed ore di viaggio alle due, di cui una non sembrava minimamente avvertire la stanchezza. Era un paesaggio sempre boschivo, tuttavia, presentava molto più terreno roccioso e ripido, che attraversarono attraverso gole e scale di pietra, inoltrandosi nel cuore della foresta. Il verde si mescolava col grigio, col blu e il nero delle rocce, poi ancora con l’azzurro degli spicchi di cielo ed ancora con il verde acqua di quello che doveva essere un piccolo ruscello o fiumiciattolo che sinuoso attraversava le rocce riflettendo quell’arcobaleno naturale. Stranamente, il kimono di quella donna non si smosse neanche di un po’, non si sporcò né stracciò come un normale indumento di quel genere avrebbe fatto…
“Ci siamo, manca poco…” disse lei, avventurandosi con le sue mani di porcellana tra gli irti rami della foresta che offrivano passaggi ardui da attraversare per chiunque avesse persino avuto una katana con sé. Tuttavia, dalla voce non traspariva il minimo senso di affaticamento, come se avesse avuto una forza immane, d’animo e fisica. Come se non fosse stata del tutto umana.
“Eccoci!”
Yoko venne colpita da un ramo spostato, senza emettere fiato, ma una volta riaperti gli occhi, si ritrovò davanti ad uno spettacolo senza precedenti…
Davanti a lei si stagliava un’enorme valle, costellata di rocce aguzze ed alte che si stagliavano sempre più in alto, come barriere naturali, collegate da residui di liane e piante che pendevano da ponti di corda costruiti tra una roccia e l’altra. Era tutto contornato da alberi di ciliegio: non ne vedeva uno da anni, Yoko, e l’emozione che provò in quel momento sembrava voler dire al suo cuore di lasciarsi andare, di lasciar perdere tutto e piangere, sfogarsi, sentendo che forse aveva raggiunto la libertà, solo guardando quel piccolo angolo di paradiso. C’era un piccolo sentiero in pietra, ricavato dalla stessa natura, dal quale si poteva ammirare, camminando, un lago che avvolgeva una roccia massiccia rispetto alle altre e più bassa, sulla quale si ergeva quello che doveva essere un tempio, con tanto di Torii e lampade sacre. Nell’acqua si alternavano piccoli pezzi di terra verde, più alti e più bassi, in modo che il dislivello suggerito dalla natura potesse formare piccole cascate che producevano un suono celestiale, assieme a quello degli uccelli bianchi che svolazzavano in gruppo a pelo d’acqua ber prenderne un po’. Prima del ponte che collegava il sentiero di roccia al santuario, c’era una grossa pietra, su cui c’erano incisi ideogrammi troppo antichi perché Yoko potesse comprenderne il significato: forse avevano a che fare con la sacralità del luogo, o forse…
Ma, se quella era la sua casa, ed era un Tempio, quella donna era una divinità?
“Ahm! Ecco…!” Yoko seguì l’altra, che la precedette avviandosi sul ponte di roccia. Ella si girò, sempre col suo fare pacato, con un’espressione che stava ad indicare il permesso di poterle parlare.
“V…Voi… questa è la vostra casa, quindi… voi…”
La donna si girò del tutto, fermandosi, lasciando che Yoko potesse aggrapparsi alla pietra dell’incisione, intimorita dalla sua gentilezza per qualche motivo. Un vento dall’aria divina soffiò, facendo ondeggiare i suoi capelli e il suo kimono maestoso. Sfoggiando un sorriso fiero ma allo stesso tempo pacata, si mise una dolce mano sul petto, poi aggiunse l’altra, raggomitolandosi leggermente su sé stessa, in una posizione poco solenne, quasi di vergogna, ma dalla quale non traspariva altro che semplicità ed umiltà.
“Io sono la sacerdotessa Nami, protettrice della Terra Pura.”
 
 
L’atmosfera al campo base era pressappoco sempre la stessa, con gli esploratori che andavano e tornavano da missioni di ricognizione per scrutare ogni angolo della foresta nel raggio di qualche centinaio di metri per volta. L’esercito era ormai pronto al suo dovere ed ogni soldato aveva ormai il brutto presentimento di ciò che stava per accadere.
Tra la folla che andava e veniva, il cibo, le provviste e le armi, gli oggetti necessari a completare una base militare degna di tale nome: era tutto pronto, mancavano solo gli ordini.
Heizo si faceva strada tra i soldati, con un’aria diversa: sembrava più tranquillo, sicuro di sé, meno aggressivo, come se sapesse che nessuno avrebbe potuto fermarlo, come se avesse avuto la certezza di essere invincibile, per qualche ragione. Forse era l’assenza del generale che gli procurava questa calma, che si trasformava in attrito in presenza dell’altro. Gli stivali pestavano la terra scandendo i passi ben marcati, sebbene non potessero essere uditi per via del trambusto dell’accampamento.
Improvvisamente, si accorse di alcune voci che venivano dal lato del campo volto verso il percorso per la foresta e vi si avvicinò, notando con dispiacere ciò che temeva.
“Signor generale!”
Un ghigno irritato comparve sul suo viso, nascosto dal cappello, mentre la mano corse al manico della katana, ma non la sfoderò, poiché non era ancora il caso, pensò.
Intanto, l’altro, con il suo solito fare violento ed autorevole, si tolse di dosso i soldati che continuavano a tempestarlo di domande, come per esempio, cosa fosse andato a fare nella foresta per ritornare a quell’ora del mattino.
Eppure, pensava di aver pianificato tutto per il meglio…
Heizo si recò di nascosto in una tenda più scura, lontana e nascosta, coperta da un albero cresciuto male che pendeva verso destra, formando una rilassante ombra per coloro che vi abitavano. Entrò.
“Signor Heizo, signore…” I volti dei soldati, cupi, biancastri e tetri, sembrarono leggermente turbati alla vista di quell’espressione minacciosa che avevano davanti.
“Avete svolto l’incarico?” Chiese, aspettandosi un silenzio tombale e poche parole balbettate, come al solito. “Come mi aspettavo.” Sfoderò la katana con un movimento repentino e terrificante, minacciando il collo di uno dei soldati. “Perché. Parla prima che io ti sgozzi. Poso ucciderti tutte le volte che voglio, io, sai?” Sibilò nel suo orecchio, guardando intanto gli altri.
“Non l’abbiamo trovato, mio signore…” Ancora nulla. “… Ma, abbiamo trovato qualcun altro…”Heizo sorrise malignamente. Il ragazzo tremante fu lasciato andare, mentre il vice si mise a sedere.
Raccontami, allora…chi?”
 
“Toglietevi dalle scatole, voialtri.” Disse a bassa voce il generale ai pochi rimasti, per poi procedere a grandi passi, oltrepassando il vice, che non degnò nemmeno di uno sguardo, per raggiungere il carro delle provviste, salendo sugli scalini di legno. Tutti i soldati si radunarono attorno a lui, che, con lo sguardo più convinto che mai, aveva l’aria di dover fare un discorso importante. Dentro di sé, sentiva una sensazione orribile, odiandosi ancora di più di quanto non facesse già, reputandosi un mostro, un essere infimo e crudele, non degno di una vita, una vita che s’era costruito con forza e viltà, aggrappandosi agli specchi, per raggiungere il potere. Una scalata verso un’inutile vittoria senza un fine particolare, se non egoistico, puramente sconosciuto. In poche parole, perché lo stava facendo? Perché stava facendo tutto quello? Per chi?
La notte, quella notte, il significato di quel gesto e di quella fuga. Dovendo ascoltare i suoi meandri più oscuri dell’anima, avrebbe voluto ripeterlo, ancora ed ancora, ma era un mostro.
Ed i mostri non possono amare né essere amati da nessuno. Era così che aveva vissuto fino ad allora, con quella convinzione, e difficilmente avrebbe cambiato idea. Se l’unica scelta di salvezza che hai, tra un filo di ragnatela, o cadere nell’abisso, pensò, non sarebbe mai stato così debole da aggrapparsi a qualcosa di tanto precario.
“Ascoltatemi bene, tutti voi.” Ruggì con tutto il fiato che aveva in corpo, sentendosi stranamente debole. Cercò di non darlo a vedere. “Siamo venuti qui, invadendo questo luogo per uno scopo preciso, non è così?!”
“Sì, signor generale!”
“In quanto vostro capo, generale, punto di riferimento e signore, vi comunico che da ora, possiamo procedere con i nostri piani. I soldati che sono andati in ricognizione, hanno scoperto un villaggio non molto distante da qui, ma ben nascosto tra gli alberi. Quello sarà il primo obiettivo!”
Un urlo di assenso si levò tra la folla di militari.
“Poi passeremo ai Templi!” L’unico che non urlò, tra la folla, fu Heizo, che, pur essendo chiaramente visibile agli occhi del generale, se ne andò, infiltrandosi tra le tende e poi tra gli alberi.
“Poi ci prenderemo tutta Kintou!” Ancora grida d’accordo, volarono fin sopra le nuvole.
Il capo non disse nulla, avvertendo una leggera fitta all’addome. Una volta rilasciata quella sottospecie di assemblea, scese a fatica dal carro, guardando per terra ed iniziandosi a preoccupare. Sperava che non fosse come temeva…
“Generale, si sente bene?” Un soldato lo notò e vedendolo in difficoltà, da matricola, cercò di aiutarlo.
“Ti pare che io stia male, nullità? Sparisci e non rompere, ho da fare.” Il ragazzino, lo sguardò spaventato: aveva gli occhi di un cane rabbioso che gli stava ringhiando contro. “Via!” Ringhiò, per poi avvertire un’altra fitta, poi un’altra ed ancora altri dolori, simili a crampi e a pugnalate. Sentiva il suo corpo venir meno, la vista offuscarsi, finché, una volta all’entrata della sua tenda, non svenne.
Il tonfo attirò i suoi seguaci, che, preoccupati, cercarono si soccorrerlo, trascinandolo dentro. Ci volle poco affinché il suo ardente spirito testardo non decise che non era quello il momento di svenire. Aprì gli occhi sforzandosi come non mai, accusando dolori indescrivibili ed iniziò a sudare.
“È stato avvelenato?!”
“Chi è il cane che l’ha fatto?!”
“Uscite fuori.” Tentò di dire invece lui, guardando male i tre uomini che erano nella sua tenda.
“Signor generale, è malato, dobbiamo spogliarla e-“
“NON VI AZZARDATE A TOCCARMI!!” Un urlo disumano, mancava solo che gli occhi diventassero rossi per la rabbia. Una rabbia provocata visibilmente da un terrore per qualche cosa di misterioso, che gli altri non potevano sapere.
“Ma…”
“VIA HO DETTO!!” Fu il suo ultimo ordine, prima di sprofondare nella convalescenza.
 

 


 
• Note dell’autrice 
 
 
 
Bentornati a tutti da queste luuuunghe vacanze! Come ve la siete passata?
Dai, un po’ me le meritavo anche io, no?
E si riprende con la storia che, con l’entrata del nuovo personaggio (anche se non si direbbe) comincerà a dare un po’ di risposte ai mille nostri punti interrogativi! Preparatevi al peggio, mi raccomando!
Inoltre: novità!
Ho creato una pagina
Facebook, perché se ho da dirvi qualcosa riguardo il proseguo o gli aggiornamenti della storia, non potendolo fare qui pubblicandoli capitolo avviso (non si può), lo farò lì sopra! Vi do il link! https://www.facebook.com/Bloody-Schutzengel-1500391153615704/timeline/

- Maniaca esibizionista. -
E’ tornata anche Fred, come vedete…


-Bloody Schutzengel

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