Shipping - Cartucce dal mio fucile

di Andy Black
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** AlexandrianShipping ***
Capitolo 2: *** PerfumeShipping ***
Capitolo 3: *** VoidCubeShipping ***
Capitolo 4: *** TeaShipping ***
Capitolo 5: *** GracefulShipping#1 ***
Capitolo 6: *** GenericHoennShipping ***
Capitolo 7: *** ChessShipping ***
Capitolo 8: *** OldRivalShipping#1 ***
Capitolo 9: *** RedRedShipping ***
Capitolo 10: *** KalosShipping#1 ***
Capitolo 11: *** FranticShipping #1 ***
Capitolo 12: *** PreciousMetalShipping ***
Capitolo 13: *** SadieHawkinsShipping ***
Capitolo 14: *** AkiShipping ***
Capitolo 15: *** FranticShipping #2 ***
Capitolo 16: *** SequelShipping #1 ***
Capitolo 17: *** EpochShipping ***
Capitolo 18: *** BorrowedShipping ***
Capitolo 19: *** DualrivalShipping ***
Capitolo 20: *** OldRivalShipping#2 ***
Capitolo 21: *** HotsummerShipping #1 ***
Capitolo 22: *** OriginShipping ***



Capitolo 1
*** AlexandrianShipping ***


La prima ship che... shippo, è la Alexandrian (JasminexCorrado). Mi piace molto. Che dire, spero apprezziate, fatemi sapere.
 
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Cambia tutto.
La speranza cambia tutto.
Quando ormai credeva di non riuscire più a fare a meno del mare, lei decise di voler smettere.
Chiusa in quel faro da praticamente tutta la sua vita, Jasmine credeva di essere Rapunzel, ed aspettava qualcuno in grado di raggiungerla, di capire il suo dolore.
Quel faro, quel mare di fronte, così immenso, così ingiusto.
Gli aveva portato via quello che un tempo era la sua unica ragione di vita. Ma di tanto in tanto la sua luce illuminava un piccolo puntino di cielo.
Jasmine era davanti a quel vetro, il faro era acceso, illuminando il mare notturno, allertando i pescherecci forzuti e spauriti sul fatto che gli scogli non sentissero ragioni.
Sola, lì sopra, con la sola compagnia di Ampharos, con i suoi ricordi, e con la carica di Capopalestra di Olivinopoli che gravava sulla sua testa come la lama di una ghigliottina.
Le notti d’estate le regalavano una brezza di pietà a liberala dal calore possessivo d’agosto, e mentre tutto s’illuminava all’improvviso, il suo viso si rifletté nella finestrella che aveva di fronte.
Gli occhi enormi, le lacrime ad ornarli come orecchini di perle, che si scioglievano, rigandole le guance con sottili e calde linee d’acqua salata, che bruciava come un marchio a fuoco.
Si sentiva in trappola, lì sopra. Si sciolse i capelli, perché aveva i codini da tutta la giornata, e le faceva male la cute. Si massaggiò la testa, e decise che era arrivato il momento di uscire fuori da lì.
Il corpo esile, magro, sottile e delicato, si mosse leggiadro fino alla porta. Il pomello però pareva essere incandescente, e lei non aveva il coraggio di poggiare le sue piccole mani su quel pezzo d’ottone.
Si girò, piangendo ancora di più, impotente ancora di più.
Non poteva abbandonare il faro.
Non riusciva ad abbandonare quel maledetto faro. Olivinopoli la teneva prigioniera nella testa, e lei aveva bisogno di una chiave per quella cella senza sbarre.
“Ampharos…” pianse lei, girandosi verso il suo Pokémon. Quello allungò le mani, andando a toccarla.
“Perché è andato via?”
La voce di Ampharos cercava di rincuorarla, ma non riusciva a farla sentire nient’altro che colpevole.
Quel ragazzo era andato via, e lei non aveva fatto niente per fermarlo. Era entrato nel suo letto, ed era fuggito via, come un ladro, ed aveva portato con sé la luce del suo sorriso.
Quel faro ora era più buio.
E quando è l’amore a premere, ci si sente male, perché perdere quello che riteniamo essere giusto per noi è un’ingiustizia, una cosa che non ci meritiamo e che forse non ci meriteremo mai.
Le bastava vederlo.
Le bastava toccarlo.
Voleva baciarlo, abbracciarlo, parlargli ancora una volta.
Voleva fare l’amore con lui.
Ancora una volta.
Sinnoh era lontana, e lei lo sapeva. E benché le costasse una grande fetta d’orgoglio, sapeva anche che non era entrato nel suo letto, ma nel suo cuore. E non era fuggito via.
Era stato rapito.
Dagli impegni, dalle responsabilità. Dal lavoro.
 
“Il lavoro…” sospirò quella.
 
Era giunto il momento di terminare quella lunga ed astiosa attesa. Lui sarebbe dovuto essere lì, subito, immediatamente, e lei avrebbe fatto di tutto per portarlo.
E se non fosse uscita lei da quella porta, sarebbe stato lui ad entrarci.
Isterica, si allontanò da Ampharos, e si avvicinò alla finestra, spalancandola. Lunghi riccioli di brezza baciarono la sua pelle candida, smuovendogli i capelli che aveva sul collo e appiattendole la veste su quelle curve ancora incredibilmente acerbe.
“Scusatemi!” urlò, quanto più forte poteva, ancora con le lacrime agli occhi. Ormai era in crisi, e l’unica cosa che sarebbe riuscita a darle la speranza era fare quello che andava fatto.
A fanculo le responsabilità, a fanculo i pescherecci, a fanculo tutti.
Per la prima volta nella vita, lei contava più degli altri. Afferrò la sedia pieghevole di ferro, la chiuse, e cominciò a percuotere il corpo macchina della torre, che risuonò con un tonfo freddo e metallico.
“Spegniti!” urlava ancora, caricando ancora un colpo con la sedia e sbattendola nuovamente.
“Dannazione, spegniti! Spegniti!”
Ampharos urlava, intimorito, impaurito da quei rumori e dall’improvvisa follia razionale della sua Allenatrice.
Ancora tre colpi, e poi con un rumore secco l’enorme riflettore rotante si spense, bloccando il proprio moto. Di colpo in mare si sentì la sirena di una nave risuonare nel buio delle onde.
“Scusatemi…” sussurrò ancora, camminando in quella densa aria scura, fino a perdere coscienza sul letto, dove si addormentò.
 
Il sole fu il primo a darle il buongiorno. Aprì gli occhi, e fu giusto il tempo di rendersi conto di ciò che stava per accadere, che un grande sorriso prese possesso di quel piccolo volto.
“Perché hai rotto il faro?” chiese Corrado, serio, con la sigaretta tra le dita. Jasmine non rispose subito, volle prima bearsi di quella visione, quindi sospirò.
“Non sono stata io…”
Corrado sorrise leggermente, e prese un tiro dalla sigaretta. Jasmine lo scrutava, in ogni minimo particolare, temendo ci fosse un cambiamento in lui.
E invece era sempre uguale. I soliti capelli spettinati, biondi, con quelle basette più lunghe del normale. Gli occhi azzurri, piccoli, stanchi, ridotti a due fessure. Fissavano Ampharos, acciambellato in un angolo, mentre dormiva.
“E chi è stato?”
“Non lo so. Sono andata a dormire, e funzionava ancora”
“Qualcuno dice che ti ha sentita urlare”
“Non è vero” si rattristì lei. “Perché sei qui?” chiese poi, con voce dolce.
Lui doveva resistere all’impulso di baciare quelle belle labbra, che tanto gli mancavano, e sorrise, sapendo quanto male mentisse lei.
“Sai perché sono qui. Devo riparare il faro”
“Già… Devi”
Lui annuì.
“Non andare via troppo presto, però. Andiamo a prendere un gelato”. Il sorriso di Jasmine lo conquistò e lo catturò. Non riuscì più a frenare la voglia, e lentamente poggiò un bacio delicato sulle sue labbra.
“Non andrò via troppo presto”

 

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Capitolo 2
*** PerfumeShipping ***


Questa seconda shipping è stata scritta da Rachel Aori, altra testa forte del progetto Pokémon Courage, con protagoniste Erika e Misty. Commentate e fate sapere =)

                                            
Pioggia.
Era questo il suono che aveva destato la corvina capopalestra dal suo sonno. Un rumore continuo, basso, delicato come il bacio di una vergine.
Erika si spostò la lunga veste, di un verde tanto pallido da sembrare bianco con i bordi frastagliati, come il bocciolo di un fiore, e si alzò dal letto, avvicinandosi alla finestra.
Il profumo della terra bagnata invase la stanza non appena aprì il vetro, portando al suo interno poche, tiepide, gocce d’acqua.
Rimase immobile per qualche secondo, lisciandosi con una mano una ciocca di capelli. Poi si voltò verso il letto. Misty dormiva tranquilla.
Il giorno precedente era venuta da lei per una lezione all’Università di Azzurropoli, dove anche la Capopalestra d’erba insegnava, ed aveva finito per passare la notte da lei. Avevano chiacchierato, avevano riso, si erano persino concesse un goccio d’alcool, ricordando i tempi andati, ed al termine di quell’ipotetico pigiama party erano entrambe crollate.
Di nuovo Erika volse lo sguardo al mondo esterno. L’alba stava arrivando. Sebbene le nubi coprissero il cielo, questo si faceva sempre più chiaro, mostrando una lieve linea azzurra all’orizzonte. Le piante assorbivano quella pioggia, rigenerandosi dal caldo che aveva infuriato per tutta la giornata e la stessa nottata.
Il profumo della pioggia continuava ad entrare, ma era di quello della donna sopita nel suo letto che Erika aveva bisogno.
Gli impegni da Capopalestra le tenevano unite quanto bastasse a fargliela desiderare, ma non abbastanza da permetterle di sperare. Aveva sempre soffocato tutto, temendo la reazione della ragazza.
Ma diventava sempre più difficile. La vedeva, l’aveva vista soffrire, tradita da un amore irrealizzabile tanto quanto quello che la stessa Erika provava, l’aveva confortata, l’aveva aiutata a confidarsi... E quanto aveva sperato che bastasse a placare i suoi sentimenti. Quanto aveva pregato che quella felicità lontana da lei le bastasse.
Eppure rivederla accresceva in lei il desiderio. Ogni incontro non faceva altro che sbatterle in faccia quella voglia che le sembrava tanto impossibile da abbattere.
Si avvicinò al letto, accarezzando il profilo della dormiente con lo sguardo.
Avrebbe dato tutto ciò che aveva per poter avere quel privilegio ogni notte, per poterla guardare svegliarsi tutti i giorni, e poterla guardar ridere, piangere, invecchiare. Non c’era nulla per lei di più prezioso, nulla che non avrebbe scambiato per poterci riuscire.
Ma alla fine era proprio il coraggio che non aveva a lasciarla paralizzata. La paura, il giudizio, il peso di ciò che tutti gli altri, dall’Università alla Lega Pokémon avrebbero potuto dire su di lei. E su Misty.
La pioggia continuava a cadere, e quell’odore penetrante non riusciva comunque ad allontanare dalla stanza quello della Capopalestra di Celestopoli. Aveva il profumo delle ninfee, dolce e intenso e sotto una punta penetrante di cloro, ormai attaccato alla sua pelle dopo le ore passate nella piscina.
Le piaceva e la incantava. Era così diverso dall’odore dei fiori della sua palestra, così diverso da quello del muschio che Erika si portava addosso.
La pioggia cadeva fuori dalla finestra, dentro al suo cuore e sui suoi occhi, in lacrime cristalline che le solcavano le guancie, scendendole sul collo e brillandovi come fili d’argento.
Quant’era bella, la donna che amava, con quel corpo reso forte dal nuoto, quei capelli rossi che nell’acqua si muovevano come fiamme, e quegli occhi, di un azzurro che il mare stesso avrebbe invidiato.
E quel profumo, che ora sapeva anche di pioggia e forse sapeva semplicemente di buono.
Le lacrime cadevano mentre qualche timido raggio di luce sfidava le nubi del temporale, invadendo la quiete della stanza. Le piante si svegliavano, i fiori aprivano le corolle e la belladinotte iniziava il suo riposo dopo la guardia della sera.
Quella pioggia timida però continuava a cadere, imperlando tutto ciò che poteva con le sue gocce, prima di venir asciugata da sole. Pioggia e lacrime, Erika non sapeva più distinguere l’una dalle altre. Sentiva il sale sulle labbra ed il freddo sulla pelle.
Si sedette sul letto, senza far rumore, sentendo solo il suo respiro sempre più frammentato. Ma non si muoveva, timorosa che persino i suoi tremori potessero svegliare l’altra.
Restò così e non seppe dire per quanto. Pian piano il pianto scomparve, permettendole di stendersi di nuovo. Il respiro tranquillo di Misty riempiva sempre più l’aria, man mano che la luce dell’alba invadeva la stanza ed il rumore della pioggia andava scemando.
Ed in quell’insieme Erika trovò nuovamente la pace. Le ansie della notte, le preoccupazioni sull’amore si attutirono di nuovo.
Ora c’era il sole, un sole bianco, come una pagina ancora da scrivere, ma stavolta Erika aveva deciso di impugnare lei stessa, nelle sue mani delicate, la penna che avrebbe scritto la storia.
Il mattino s’impose ufficialmente sulle tenebre, la rugiada evaporò pian piano, e quando Misty si svegliò trovò un sorriso ad accoglierla.
“Buongiorno, oggi ti va di restare qui a farmi compagnia?” le chiese la corvina “Vorrei poterti chiedere una cosa”
Misty la guardò, la luce negli occhi verdi dell’altra emanava calore, e le annuì.
Ad Erika per il momento bastava così, l’eleganza, la calma che sempre l’avevano contraddistinta avrebbero guidato le sue parole, ed in ogni caso, il ricordo di quella notte e di quel profumo non avrebbe mai abbandonato la sua memoria.

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Capitolo 3
*** VoidCubeShipping ***


Salve a tutti, ecco un nuovo capitolo di questa raccolta. Oggi è fuori la VoidCube. Sarà detestatissima, pensando al numero di Ferriswheeler, ma l'ho scritta lo stesso
 

VoidCubeShipping
 
 
Le gocce di sudore imperlavano la sua fronte. Qualcuna tra queste, tra le più irriverenti, andò in avanscoperta, percorrendo l’intera lunghezza del suo naso.
Intera lunghezza... Si faceva per dire, dato che il naso di quella ragazza era microscopico.
Una volta arrivate alla punta del naso, queste goccioline scivolavano sulle sue morbide labbra, finendo catturate dalla sua lingua.
“Che caldo...” fece Mei, detergendosi la fronte con la manica della maglietta. Era a maniche lunghe, e l’estate cominciava a farsi sentire. Forse non era più il caso di indossare quella roba. Forse avrebbe dovuto mettere una bella gonna a balze, fresca e pulita, magari con una camicetta comoda, o una canottiera.
Decise poi di fermarsi non appena vide uno spiazzo ombroso coperto dalle fronde degli alberi.
Stanca, levò la tracolla e gettò la borsa vicino ad un tronco. Poi si sedette, affondando le mani nei fili d’erba verdi e vividi.
Bastò poco, la temperatura si riassestò, e tutto tornò normale in lei. Tutto, tranne un po’ di sete, mitigata poi dall’acqua che teneva nella borraccia.
Era appena poco fuori Libecciopoli, ma i dubbi la attanagliavano.
Perché Ross le aveva consegnato quello Zorua?
Prese la sua sfera dalla cintura e lo fece uscire.
Quel Pokémon era bellissimo, oltre che molto raro. Le zampe sottili sorreggevano il suo esile peso. Alzò lo sguardo lentamente, fino ad incontrare quello di Mei. Sembrava spaesato.
“Piccolo...” sorrise lei, con quell’innato senso di attrazione che metteva nei propri interlocutori. La sua personalità magnetica, forse, o magari la sua bellezza. Stava di fatto che riuscì ad attirare lo Zorua a lei, nonostante quello si muovesse con diffidenza.
“Calmati... Non voglio farti del male. Vieni qui, ti do una bella bacca”
Non appena quella mostrò lui la Baccapesca, lo conquistò. Si acciambellò sulle sue gambe, masticando con difficoltà per via del nocciolo.
I pensieri si fecero largo nella testa della ragazza, mentre una mano accarezzava il pelo nero e fulvo del volpino.
“Chi diamine ti darebbe via?”
Un filo di vento fece volteggiare due foglie nell’aria, che parevano inseguirsi, almeno prima di atterrare sull’erba morbida.
“Già... È un Pokémon bellissimo. Strano che qualcuno lo abbia liberato”
Mei sentì quella voce provenire dal vento, e poi vide le orecchie di Zorua alzarsi. Non l’aveva immaginato allora; quella voce c’era davvero, anche Zorua l’aveva sentita.
“Sono qui” disse ancora, ed un fruscio si espanse. Le sue gambe strusciavano contro l’erba alta che c’era alle spalle dell’albero, fino ad uscire allo scoperto. Mei girò il volto, alzandolo, e lo vide. Lui la fissava, con quegli occhi verdi.
Verdi come la speranza, come gli smeraldi e quell’erba che Mei carezzava compulsivamente.
Colmi di una malinconia che non poteva essere trascinata via.
Indossava una giacca bianca, un pantalone normale e delle scarpe verdi. Verdi, proprio come i suoi capelli, lunghissimi, ghermiti da un codino e tenuti dietro le spalle.
I lineamenti del ragazzo erano femminei e delicati, ed il suo volto pareva vitreo. Nessuna emozione trapassava quel volto, nulla ne usciva.
Zorua guardò brevemente il ragazzo, quindi si alzò in piedi, scodinzolando e avvicinandoglisi. N lo guardò, curvando leggermente la linea delle sue labbra in un sorriso quando il Pokémon prese a strusciarsi contro le sue gambe.
“Gli sei simpatico” sorrise Mei.
Lui annuì semplicemente, rapendola con lo sguardo, scrutando così tanto a fondo in lei che fu costretta ad abbassare il volto, non riuscendo a sostenere quella linea d’attenzione.
“Come ti chiami?” chiese lui, accasciandosi sulle ginocchia, davanti a lei.
“Mei”
“Hai un nome molto bello”
Lei annuì in segno di ringraziamento, quindi arrossì, nascosta dalla visiera che aveva in testa, ma abbassò ancora lo sguardo.
Fu allora che lui prese il suo mento tra le mani, facendo sì che i loro occhi si incrociassero di nuovo. Aprì la porta dei suoi pensieri, ed entrò. Quello si abbeverò di lei, dei suoi pensieri, della sua bontà e anche della paura che in quel momento quello strano e misterioso ragazzo le faceva provare.
Fissò attentamente le sue labbra mentre pronunciò le successive parole.
“Sei pura. Mi ricordi lei”
Le labbra e gli occhi di Mei si spalancarono per lo stupore, quindi lui sorrise. Si avvicinò lentamente al suo volto con la testa, poggiando la fronte sulla sua.
Il vento intanto si alzava, ed il sorriso del ragazzo dai capelli verdi si allargava sempre di più. Mei rimaneva immobile, incapace di reagire, vogliosa di non farlo.
E poi quello mosse la testa, strusciando il naso contro il suo e schiudendo le labbra.
Mei chiuse gli occhi, l’ennesimo soffio di vento l’attraversò, ma quando riaprì gli occhi c’era solo lei, e quello Zorua, seduto immobile, che la guardava.

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Capitolo 4
*** TeaShipping ***


 
Salve a tutti. Questa l'ha scritta Rachel Aori, amante feticista di Bill X) Spero vi piaccia. Risponderà lei alle vostre recensioni. Un bacio.
Ah, la TeaShipping è la coppia BillxMargi.
Lo specifico per sicurezza =)

 
TeaShipping


“Termina così il notiziario delle 21.30. Vi diamo appuntamento alla pross-”. Bltz.
La TV faceva sempre quello strano rumore quando veniva spenta. Ed ogni volta che lo sentiva Bill si riprometteva di controllare cosa avesse, promessa che mai una volta aveva portato a termine. Dopotutto lui era un programmatore, non riparava televisori. Nemmeno nel tempo libero.
Sbuffò, lasciando cadere il telecomando sul divano. Dalla cucina arrivavano i soliti suoni, l’acqua che scorreva e le stoviglie che venivano lavate.
Quel suono lo tranquillizzava enormemente. Si alzò, magari a Margi poteva servire una mano.
Lo ammetteva, non era esattamente il tipo dalla presa solida, e spesso e volentieri, nei giorni in cui magari si sentiva particolarmente stanco, aveva finito col frantumare più piatti di quanti ricordasse di averne. Quindi la sua regola era usare, nei limiti del possibile, quanto più usa e getta potesse. Però per Margi faceva un’eccezione ed a turno si dividevano o i piatti o il rassetto della sala da pranzo.
Era una settimana intera che soggiornava da lui. Lo faceva spesso, quando suo nonno era lontano e c’era Green a badare al laboratorio.
Non poteva esattamente definire la loro come una relazione a distanza, ma per Bill ne aveva il sapore.
“Ti serve una mano, tesoro?” il tono di voce era un po’ impacciato. Quanto lo imbarazzava chiamarla così e, allo stesso tempo, quanto gli piaceva farlo.
La ragazza si girò, i capelli erano di un biondo miele, che alla luce rifletteva varie sfumature bionde e castane.
“Non preoccuparti, ho quasi fatto. Hanno detto qualcosa di interessante al telegiornale?”
“Solite cose, la gestione della Lega è resa difficile dal gran numero di sfidanti, quando fa caldo bisogna evitare di stare troppo esposti al sole e bere molto, e, incredibilmente, bisogna anche vestirsi leggeri. Chi l’avrebbe mai detto, eh?” aveva iniziato a parlare con tono serio, ma effettivamente, raccontare notizie simili senza scendere nell’ironia spicciola era impossibile.
“Il solito servizio estivo. Fammi indovinare, è anche l’estate più calda degli ultimi vent’anni?”
“No, pare che stavolta siano scesi a sedici.”
Si scambiarono quelle battute sorridendosi, mentre la ragazza toglieva i lunghi, antiestetici, guanti di gomma.
Era una scena di vita quotidiana che Bill amava.
Margi che si muoveva a casa sua, che sistemava i propri asciugamani, che semplicemente se ne stava sul divano sorridente a guardare qualche fiction televisiva di pessimo livello, la quale veniva spesso presa in giro da entrambi.
In più lei aveva un futuro promettente anche come ricercatrice. Il suo aiuto nelle ricerche del nonno, al pari di quello del fratello minore, era innegabile. Bill invidiava la perfetta miscela di bellezza e intelligenza, unita ad un’innocenza unica, che quella ragazza esprimeva.
“Vuoi un bicchiere di tè?” gli fece lei.
“Oh, se ne abbiamo volentieri. So per certo che quello che avevo è finito, ma ricordo che avevi portato qualcosa quando sei arrivata”
Quella annuì, prendendo dal frigo due lattine di tè freddo al limone. Margi lo preferiva a tutti gli altri, visto che aveva un sapore decisamente meno dolciastro.
A Bill piaceva il sapore del tè più di quanto fosse legale ammetterlo, tanto che ne consumava scorte valide per un plotone militare, e Margi, per quanto preferisse quello caldo, era un’ottima compagnia per queste bevute serali.
Nella casa sul promontorio di Celestopoli il rumore del mare era il sottofondo di ogni serata, ma per le loro bevute diventava un protagonista.
Senza nemmeno cambiarsi dai vestiti più sciatti che usavano in casa, i due andarono sulla cima, vicino alla vista mozzafiato del precipizio. Si sedettero ad un paio di metri di distanza, abbastanza vicini da poter vedere il mare infuriare ed infrangersi sulla roccia, ma abbastanza lontani da non rischiare di cadervi.
Bevettero in silenzio, lasciando che il vento accarezzasse i loro visi.
“Tornerai a Biancavilla fra due giorni, vero?” spezzò il silenzio.
Quella s’incupì.
“Sì, anche Green avrà da fare in quei giorni, quindi dovrò prendere in mano io le redini del laboratorio e dirigere gli altri assistenti.”
“Capisco”
Bill stringeva i pugni. Non voleva che se ne andasse. Erano entrambi felici quando erano assieme, quindi perché doveva andarsene?
L’abbracciò.
Era sempre, sempre stato impacciato, vittima di alcune prese in giro, i capelli troppo ispidi, mai in ordine, i tratti del viso comuni, infantili.
Eppure in quel momento desiderava solo essere forte. Non più elegante, non più ordinato, non più bello.
Margi lo amava così com’era, e quello che prima lo faceva sentire in imbarazzo, ora lo sfoggiava come suo punto di forza. Perché se a Margi piaceva, allora era felice di essere così.
Si staccò da quell’abbraccio solo per baciarla, solo per poterla stringere di nuovo a sé, con più forza.
Si sarebbero separati di lì ad un giorno, non c’era tempo per non toccarsi, per non sentirsi.
Per non aversi.
In quella tranquillità serale, spezzata solo dal vento e dal rumore del mare, si unirono, non per la prima volta, ma ciò non la rendeva meno preziosa. Ogni secondo, anche se usato per ripetere azioni già compiute, era reso irripetibile dal solo fatto che avrebbe avuto una scadenza. Quella necessità l’uno dell’altra, resa più forte dagli impegni, dalle separazioni che ne seguivano la rafforzavano.
Bill amava Margi con tutto se stesso, le aveva ceduto tutto se stesso, e lo stesso aveva fatto lei.
Non c’era spazio per le debolezze, per le paure. Il semplice volersi rendeva tutto il resto insignificante.
Restarono l’uno attaccato all’altra, sentendo la luna alzarsi sempre di più nel cielo ed i loro respiri a rompere la quiete della musica della natura.
I “ti amo” vennero sussurrati, detti fra le risa ed il pianto. Finché non arrivò il momento di tornare.
Fu in quel momento, vendendola splendere coi raggi di luna intrappolati nei capelli e riflessi sulla pelle, che senza nemmeno rendersene conto, Bill la chiamò.
“Margi, sposami.”
Quella strabuzzò gli occhi, inclinando la testa, ma vedendolo in viso, quel viso così infantile che tanto amava, rosso di determinazione, gli sorrise.
Fu solo una volta che si fu gettata al suo collo, che lei gli disse di sì.
Il più importante della sua vita.

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Capitolo 5
*** GracefulShipping#1 ***


Eilà, ecco una nuova shipping scritta da Andy Black, ovvero io =). Diciamo che ho voluto sperimentare un nuovo stile di narrazione, ditemi cosa ne pensate. A presto!

 
             

                           
GracefulShipping

 
Il piccolo Samuel soleva correre il più in fretta possibile verso la scogliera quando c’era il tramonto. Adorava vedere il sole rosa che lasciava il cielo e si immergeva nel mare.
Vedeva i colori, le varie sfumature, la luce ed il profumo. Mare e cielo, una sola ed unica realtà, divisa da una linea, la casa del sole.
Poi tutto finì, ed andò a casa. Giocò un po', mangiò, e poi si preparò per andare a dormire, quindi chiamò suo padre.
“Papà! È l’ora della favola!”. La voce pura e cristallina del bambino riecheggiò tra le pareti della vecchia casa sul mare, dagli intonachi bianchi ed il tetto rosso.
Samuel sentì un sospiro, quindi la televisione che si spegneva, ed i passi lunghi e pesanti del suo papà, che entrò nella sua piccola stanzetta.
“Samuel”
“Papà... È l’ora della storia”
“Ok” sorrise quello, poi prese un libro da una mensola, afferrò una sedia e l’avvicinò al letto, quindi si sedette.
“C’era un volta...”
 
C’era una volta una sirena. Questa era bellissima, possedeva lunghi capelli color lilla, che si adagiavano delicatamente sul suo corpo, magro e bello.
Essendo una sirena, al posto delle gambe aveva un’enorme pinna dello stesso colore dei capelli.
Le piaceva nuotare, e lei passava le giornate ad esplorare l’oceano, cercando qualcuno che le assomigliasse.
E vagò, vagò ed ancora vagò, fino a che non arrivò alla fine del mare. Un enorme muro si stagliava sul fondale, e saliva in alto.
Lei, curiosa, decise di volerlo seguire, per vedere dove questo andasse.
E fu così che sinuosamente la sua pinna si mosse prima a destra e poi a sinistra. I capelli si appiattirono sul suo corpo, sulle spalle, sui seni scoperti, sulle braccia, fino a quando non si accorse che il muro continuava anche oltre la superficie del mare.
La sua testa fuoriuscì per un attimo dall’acqua, e guardò velocemente il muro. Continuava a salire su, sempre più su, fino al paradiso.
Ma lei era una sirena, e fuori dall’acqua non poteva respirare. Quindi tornò velocemente giù, dove la temperatura era più fresca e dove avrebbe potuto saggiare acqua ricca d’ossigeno.
TNuotava tra i Corsola ed i Luvdisc, rapita dall’immensa voglia di sapere cosa ci fosse oltre quel muro enorme, che si estendeva in larghezza per migliaia e migliaia di chilometri.
Era stranissimo. Il mare era così immenso e a lei non bastava.
Quindi decise di salire di nuovo sopra, cercando di studiare la situazione.
 
Contemporaneamente, un angelo dai capelli azzurri volava a centinaia di chilometri orari, mentre il sole ed il vento baciavano le ali e la pelle.
Lui era un adone. Volava, teneva le mani lungo i fianchi ed i piedi ben uniti, mentre le sue ali bianche si muovevano freneticamente in maniera armoniosa ed elegante. Il suo viso era rilassato, le labbra belle morbide, gli occhi aperti, ed i capelli verdi come l’acqua della distesa che sovrastava e che tanto gli faceva paura.
Volava lungo il cielo infinito, superando stormi di Pidove a gran velocità, quando un enorme muro in lontananza lo costrinse a fermarsi.
Era immenso, altissimo, e probabilmente non avrebbe potuto fare niente per oltrepassarlo, né dall’alto né di lato.
Forse avrebbe potuto farlo da sotto, pensò, ma poi si ricordò del fatto che lui l’acqua non la potesse toccare. Era un peccato, perché al di sotto di quella tela blu non sapeva cosa ci fosse. Lui voleva sapere, la curiosità che lo spingeva a viaggiare e a volare lontano non gli dava pace.
E fu allora che si avvicinò lentamente alla base del muro.
Il mare era cristallino, e rabbioso si scagliava contro quella parete nera, costruita in spessi e duri mattoni. Le sue ali sbattevano, facendo vibrare la superficie del mare.
E fu allora che la vide.
Un paio di occhi color lilla risaltarono luminosi nel mare azzurro.
Abbassò ancora un po’ la quota, quindi si abbassò con la testa, fino ad arrivare a pochi centimetri dai suoi occhi.
“Ciao” fece lui, salutandola con la mano.
Quegli occhi color lilla appartenevano ad una donna. Lei sorrise, e lo salutò con la mano.
“Sei un angelo anche tu?” domandò ingenuo quello.
Lei fece segno di no, fissandolo negli occhi, pietre preziose su un viso diafano.
“Io sono Adriano” fece.
Lei sorrise, e scandì con le labbra la parola “ALICE” molto lentamente.
Lui ne rimase folgorato. Era così diversa da ogni altra cosa avesse mai visto da farlo spingere oltre ogni suo limite. Si avvicinò ancora di più allo scrigno liquido e lo fece anche lei, quindi i due si scambiarono un bacio, e tutto s’illuminò, di una luce così forte che li costrinse a chiudere gli occhi, e a stringerli forte.
Fu solo quando li riaprirono che si accorsero della magia.
 
Adriano era diventato un tritone; all’inizio si spaventò, tutta quell’acqua gli avrebbe appesantito le ali. Ma poi guardò meglio, e vide che le ali non c’erano più. In compenso aveva una grossa pinna al posto delle gambe, che gli consentiva di nuotare più velocemente, verde acqua, proprio come i suoi capelli ed i suoi occhi.
Allora la felicità lo assalì, aveva superato il suo limite, e quella lunga distesa azzurra ora era casa sua.
Tutto grazie a quel bacio, tutto grazie ad Alice. Doveva trovarla. Doveva ringraziarla di avergli regalato la chiave per il suo mondo.
Non sapeva dove si trovasse, era al centro del mare, dove la luce azzurra è più chiara se guardi sopra ed è più scura se guardi sotto.
Fu così che il tritone prese a nuotare, dapprima lentamente, poi più velocemente, fino a gareggiare con i Gyarados. Parlava con tutte le creature del mare, parlava con i Luvdisc ed i Corsola, con gli Sharpedo ed i Seaking, parlò anche con i Tentacruel ed i Crawdaunt, ma a chiunque chiedesse Alice era sparita. Nessuno aveva visto la sirena dai lunghi capelli viola.
Lui imperterrito cercava, e nuotò per i sette mari, finchè non si ritrovò davanti un grande muro, quel grande muro.
Diceva a sé che la cosa non fosse possibile, lui doveva oltrepassare quel muro, lui doveva trovare Alice, doveva dirle quello che provava e ringraziarla.
Ma il muro era sconfinato. Allora provò a salire a galla, ma la temperatura era troppo alta, e la sua pelle cominciò a seccarsi. Inoltre provò ad uscire, ma si rese conto di non riuscire più a respirare come quando le ali uscivano dalla sua schiena. Si rassegnò, e quindi tornò nelle profondità marine, dove si addormentò, sconfortato per aver fallito la ricerca della donna del quale si era innamorato.
 
Alice invece era diventata un angelo. Bella, i capelli viola ora non erano più bagnati, ma lo stesso coprivano i suoi seni. E della pinna non c’era traccia. Ora aveva due gambe, con tanto di piccoli piedi, eleganti ed affusolati.
La cosa che però più le fece specie erano le due ali piumate e bianche che uscivano dalla sua schiena.
Si trovava nel cielo, e riposava su di una nuvola. Si alzò, ed automaticamente aprì le ali. Sorrise, ora poteva volare, aveva abbandonato le oscurità del mare e le sue sfumature di blu. Adesso era in grado di vedere il mondo dall’alto verso il basso. Si lanciò dalla nuvola, ed il vento e lo spostamento d’aria baciarono le sue guance. La temperatura si abbassò rapidamente, non era abituata a quel freddo. I capelli proiettati verso l’alto, a lasciare scoperti i seni e le nudità, ma poco le interessava.
Doveva solo trovare Adriano, l’angelo che l’aveva salvata dal mare, che l’aveva liberata dalla schiavitù delle onde monotone per regalarle il paio d’ali che indossava e l’ebbrezza di volare.
Planò nel cielo, vedendo il mare sotto di lei.
Era strano, ma sapeva che non doveva toccarlo.
Sapeva che avrebbe fatto un danno. Le sue ali non avrebbero retto al peso dell’acqua.
Tuttavia non le interessava il mare. Adriano era un angelo, e quindi si trovava nel cielo.
Volò per giorni, settimane, mesi, cercando Adriano in ogni angolo di cielo, dietro ogni nuvola, protetto da ogni nebbia, ma niente. Neanche i Pidove sapevano dove si trovasse, e fu allora che vide il grande muro davanti a lei.
Doveva superarlo, ma era troppo esteso, non ci sarebbe riuscita.
Pianse, Alice, capendo che non avrebbe mai più rivisto Adriano, quando scorse la sua figura dormiente sul fondale del mare.
“Adriano!” lo chiamava lei, ma quello non si svegliava. Rimase per giorni a chiamarlo, senza mai toccare l’acqua, quando alla fine si rassegnò. Adriano non si sarebbe svegliato, e lei non avrebbe potuto dimostrargli il suo amore.
Era un angelo perduto.
Fu così che Alice cominciò a volare, ininterrottamente, mentre le sue lacrime cadevano come gocce di pioggia nel mare salato, fino a quando non incontrò una creatura meravigliosa.
“Chi sei?” chiese Alice.
La creatura inclinò il capo, quindi emise il suo verso. “Io sono Cresselia, e regalo i sogni. Qual è il tuo sogno?”
“Il mio sogno è poter incontrare Adriano dove né io e né lui staremo mai male”

Il canto di Cresselia era armonioso. Si interruppe poco prima di parlare. “E sia” fece. “Ma prima che il tuo desiderio si avveri, tu dovrai andare a dormire. Solo così il tuo sogno diverrà realtà”
Alice ringraziò e volò su, sempre più su, fino a raggiungere una nuvoletta comoda e confortevole. Vi si adagiò sopra, piegando le ali, ed abbandonandosi al sonno.
 
Il giorno dopo Alice si svegliò. Era sicurissima di esser tornata una sirena, e invece al posto della pinna c’erano ancora le gambe. Voltò la testa, appoggiata su di un morbido guanciale, e vi vide Adriano. Anche lui però non aveva la pinna.
Alice sorrise, Adriano era lì, ed erano entrambi diventati degli angeli. Ma non avevano le ali.
Quindi capirono che Cresselia aveva donato loro il sogno di vivere la vita assieme a costo di rinunciare al mare ed al cielo. Tuttavia nei loro cuori rimase sempre radicata la loro indole, che li spingeva uno sui fondali marini ed una nella parte più alta del cielo, oltre le nuvole. E vissero per sempre felici e contenti
 
Samuel oramai dormiva, il suo papà dubitava che avesse mai ascoltato quella storia fino alla fine.
Poggiò il libro sulla mensola e spense le luci di quella casa dagli intonachi bianchi ed il tetto rosso, augurando la buonanotte a tutti quanti.

 

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Capitolo 6
*** GenericHoennShipping ***


Rachel Aori. Scusate per il ritardo.



 
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“Tu non capisci!” mi urla contro, sovrastando il boato della battaglia e il ringhiare del suo Mightyena. “Ogni anno il livello del mare aumenta, strappando lingue di terra ad umani e Pokémon! Fra meno di cento anni hai idea di cosa resterà di questo mondo? L’incoscienza di voi del Team Idro è assurda!”
Io sospiro e continuo la mia lotta, dando meccanicamente ordini al mio Crawdaunt.
Non è che non lo sappia.
Quando sono entrato nel team, tempo fa, ci credevo tanto quanto lei. I mari erano inquinati, le strutture umane invadevano sempre di più le zone che prima di allora erano dominio assoluto della natura. Non era questa gran bella cosa.
Possiamo dire tranquillamente che fosse, e tutt’ora è, uno schifo.
Ora, non dico che non ci credo più, ma tutto ciò mi sembra inadatto.
Orocea è la prova che il mondo può sopravvivere senza terra (non senza acqua, ma non credo che spiegarlo ad una del Magma sia in qualche modo produttivo), ma che comunque ne necessita i frutti.
Mentre mi difendo dai suoi attacchi la fisso.
I capelli neri sono coperti dal cappuccio rosso, il viso ha una rotondità abbondante, ma piacevole. Anche il suo fisico... Si nota che quella veste serve più a coprire un’abbondanza che lei ritiene eccessiva.
Vorrei dirglielo, che quei vestiti non hanno esattamente quell’effetto, e che probabilmente starebbe meglio se non cercasse di nascondersi. Non è affatto male.
La guardo, mentre il caos regna sovrano e mi accorgo che anche lei mi guarda. Ha lo sguardo dubbioso e probabilmente starà pensando che razza di psicopatico calvo le sia capitato davanti.
E se lo chiedesse dovrei risponderle tipo “Hey, non lo so, okay? So solo che non capisco per cosa sto combattendo e tu mi ricordi tanto il mio primo mese, solo che sei più affascinante del ragazzino rachitico, calvo e con le ossa sporgenti che ero e che sono. E che quei chili in più svaniscono di fronte ad uno sguardo come il tuo. E per sguardo non intendo seno.”
Poi tutto all’improvviso esplode. Da sopra, dove Ivan e il loro capitano combattono proviene un boato. Non so esattamente cosa sia, ma non mi ispira nulla di buono. Il Monte Pira crolla, collassa e scaglia via pezzi che non gli sono più utili, pezzi che ci piovono addosso come grandine di quaranta centimetri di diametro. Una grandine piuttosto dolorosa.
Scatto per scappare, ma la guardo un’ultima volta, mentre capisce che abbiamo tutti perso e che probabilmente lassù i due sono stati sconfitti dall’allenatore, quello piccolo e infame che ci ha intralciati dall’inizio di questa storia. La guardo che scoppia a piangere e che da brava Magma butta via altra acqua dagli occhi. Acqua che reputa inutile.
Tuttavia la cosa che mi spaventa è che non si muove, sta ferma mentre le pietre crollano, mentre il suo Pokémon prova a tirarla via.
Non so perché mi sia venuto in mente di farlo, ma tant’è. Le prendo la mano, inizio a correre con lei che prima protesta e che dopo, pian piano, mi segue.
Dio, quant’è calda la sua mano? Nonostante ci siano persino il mio ed il suo guanto di mezzo ne sento il calore, oppure me lo immagino. Credo sia lo stesso, alla fine è come toccare magma bollente.
Corriamo, me la trascino non so per quanto, ma so che quando mi fermo e mi butto a terra siamo all’orto di bacche del Percorso 123. Troppa strada, ecco perché mi bruciano i polmoni e mi fa male la milza.
Lei è a terra in ginocchio, respira affannosamente.
“Perché?”
Me l’aspettavo già da prima, questa domanda, quindi mi sono preparato.
“Perché non ha più senso. Abbiamo perso, tutti, e questo non ci rende più nemici. Quindi, davanti ad una ragazza in lacrime ed in pericolo il testosterone ha avuto il solo effetto di farmi agire da supereroe e salvarla.”
Mi rendo conto solo dopo averla pronunciata che è una pessima risposta. Per quanto, pensandola, sembrasse la frase da rimorchio più figa del mondo.
Lei si fa una risata, asciugandosi due lacrime.
“Sei veramente pessimo”
“Dovresti apprezzare un uomo che mette subito le cose in chiaro, no?”
Ci facciamo un’altra risata, mentre anche lei si lascia cadere sull’erba.
“Quindi davvero è tutto finito?”
Faccio spallucce.
“Forse non per tutti, ma per me sì, non c’è niente di utile nei nostri piani di conquista, solo profitto per chi sta in alto e sofferenza per il resto del mondo. Me ne tiro fuori”
Mi osserva mentre mi tolgo la bandana e le getto nel vento e dopo un po’ anche lei fa lo stesso con il suo cappuccio e soprabito.
“Che hai intenzione di fare?”
“L’unica cosa per cui servono acqua e terra, ho un po’ di terra vicino casa dei miei, voglio aprirmi il mio orto. Venderò bacche a Porto Selcepoli”
“Sembra interessante”
“Lo sarebbe di più se ci fossi anche tu” gliela butto lì, perché mi hanno detto che la fortuna premia gli audaci e perché con questa ragazza dai capelli neri e dagli occhi di un marrone così scuro da ipnotizzarmi sento di avere il coraggio.
Forse è che siamo imperfetti tutti e due, quindi possiamo sentirci perfetti semplicemente pensando solo a noi. Forse è perché sono sempre stato incline a fare pessime figure.
Spalanca gli occhi, e mi sembra ancora più bella, e ride di nuovo, stavolta sinceramente.
“Potrei essere piuttosto abile a vendere qualcosa, se mi ci mettessi”
Gonfia il petto con orgoglio e quando mi alzo e le tendo la mano accetta. Improvvisamente anche la mia, solo per aver tenuto la sua, sembra più calda.
Ed è strano, perché è la cosa più bella che abbia provato finora.

 

 

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Capitolo 7
*** ChessShipping ***


Salve a tutti. Oggi ho scritto personalmente questa ChessShipping (White x Black). Spero vi piaccia. Quanto per il profilo EFP di White... chi cerca trova...


   




 

ChessShipping


 
White aveva sempre reputato la domenica pomeriggio un’arma a doppio taglio. Sì, si stava a casa, non c’era nulla da fare d’impellente, e poteva rilassarsi.
I pensieri del giorno dopo tuttavia la attanagliavano, tenendo stretta la sua mente in una morsa d’angoscia.
Sbuffò, alzandosi da tavola. “Sparecchio io... dopo” fece, camminando con i piedi scalzi fino al divano di casa sua.
Le tende mal contenevano i raggi del sole, che fuoriuscivano come anguille ed illuminavano il salotto in arte povera che sua madre le aveva gentilmente concesso.
La televisione era accesa, senza volume: succedeva spesso a casa sua, le immagini la facevano sentire meno sola, nonostante sola non fosse.
Prese il portatile e lo staccò dalla carica, lasciando penzolare il cavo nero dal bordo del divano. Sciolse i capelli, mettendo i codini neri al polso, come se fossero bracciali, quindi sorrise. Stesa a pancia sotto, alzò le gambe e prese a farle dondolare mentre aspettava che il computer si accendesse.
La tv trasmetteva l’ennesimo talk show che speculava sulla morte di qualcuno, non aveva alcuna voglia di ascoltare quella roba. Poi guardò il salotto, che era leggermente in disordine, ma si rese conto di aver visto molto di peggio in quel posto.
Del resto era domenica... Ci avrebbe pensato più tardi, in quel momento la sua unica intenzione era quella di aprire EFP.
“Accedi...” disse tra sé e sé. Copiò la password da una nota che aveva sul desktop, anche perché non era in grado di ricordarsi quella serie insensata di numeri e lettere (e dubitava vivamente che qualcuno fosse in grado di farlo), la incollò nello spazio e scrisse il suo nickname: Whitywhite.
Il caricamento fu breve, ma lei si perse nei suoi pensieri, giochicchiando con un ricciolo che le si era creato accanto alla testa.
“Nuove storie...” sussurrò poi, scrollando con il mouse.
Fu in quel momento che i passi del suo lui riecheggiarono dalla cucina. “Ho messo tutto a posto” sorrise Black. Lo sguardo del ragazzo si accese quando vide White stesa sul divano.
Caotica. Lei era caotica, e per fortuna che c’era lui, altrimenti quella casa sarebbe crollata. Si fermò per un minuto a contemplare la bellezza statuaria della sua donna. Partì ad osservarla dai piedi, piccoli ed eleganti, unite alle belle gambe da un paio di caviglie delicate ed affusolate. Le curve della ragazza erano malcelate dai suoi shorts di jeans. La linea ritornò sottile seguendo l’arco della schiena, tenuta scoperta fino alle scapole da un top bianco. Le bretelle del reggiseno risaltavano sul morbido tessuto.
Lei girò la testa, sorprendendolo a fissarla. “Hey...” sorrise dolcemente.
“Ma quanto sei bella?”
“Tanto” fece lei in maniera disinteressata, tornando a leggere dal pc. Black sorrise di nuovo, poi la sovrastò fisicamente, stendendosi su di lei. White sorrise, sentendo il corpo tonico del ragazzo dietro la schiena.
Un brivido percorse l’autostrada della sua colonna vertebrale non appena il ragazzo le baciò il collo.
“Che guardi?” chiese poi, lui.
“EFP... Incredibile...”
“Ancora N?”
“Già... Non capisco per quale motivo tutti mi vedano con lui”
“Te l’avevo detto che forse era meglio evitarlo, quel giro sulla ruota panoramica.”

 



 











 

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Capitolo 8
*** OldRivalShipping#1 ***


Salve a tutti. Oggi pubblico ancora io (e non so ancora per quanto lo farò, dato che Rachel parte e sta via per un paio di settimane). Anyway, fuori una OldRival (Green X Blue), che giustifica il rating arancione della storia. Un po' più spinto delle altre, ma prima o poi doveva accadere che qualcuno "pranzasse". Bon, a presto!
 

 
OldRivalShipping

 
La casa era buia, ed il rumore era causato solo dal ticchettio dell’orologio. La lancetta dei secondi correva smaniosa, mentre quella dei minuti, più pigra, stentava a starle dietro.
Tuttavia, proprio in quel momento si fermarono entrambe. Mezzanotte e tre quarti, e per quell’attimo d’infinito il tempo s’era spento, stanco, svanito, evaso dalle pratiche mentali.
Il silenzio rimaneva monumentale e niente si muoveva. Il buio aveva sporcato tutto di quel nero e grigio, ma poco interessava in quel momento.
Niente si muoveva.
Niente andava avanti né tornava indietro. Erano in quell’attimo particolare in cui Panta Rei non significava praticamente nulla.
E poi la corsa tra le lancette riprese, giusto nel momento in cui le chiavi girarono all’interno della serratura. La porta si spalancò, inondando della luce lunare il salotto.
Green e Blue si baciavano passionalmente, senza vedere dove andavano, senza rendersi conto di cosa facevano. Con un calcio lui sbattè la porta alle sue spalle mentre stringeva la ragazza che aveva davanti con tutto il vigore possibile, per far aderire il suo corpo a quello della bella.
Le mani scandagliavano la schiena di Blue come un cieco che legge una tavola braille.
I capelli della ragazza s’infilavano in quel bacio così intimo da far imbarazzare chiunque lo avesse guardato. Nulla poteva interromperli, difatti lei tirò in alto quei fili castani, mostrando il collo scoperto.
Green ci si gettò velocemente, mordendolo, baciandolo, tormentandolo, provocando forti brividi nel profondo del corpo della ragazza.
La camera da letto era troppo lontana. Serviva qualcosa, serviva in quel preciso istante.
Si gettarono sulla parete che avevano davanti, accanto all’arco d’ingresso per la cucina. Blue vi era poggiata di spalle mentre Green la pressava con il corpo. Le mani cercarono la zip del suo vestito celeste e una volta trovata percorsero l’intera rotaia della cerniera alla massima velocità.
Prima che il vestito cadesse alle caviglie della ragazza, quella sbottonava la camicia grigia del ragazzo. Una volta che anche l’ultimo bottone fu aperto, e che i piedi di Blue affondarono in quelle acque di cotone, le labbra della ragazza passarono lentamente dalle labbra al collo di quello, e poi ancora al petto.
Green respirava profondamente, l’odore dei capelli della sua donna lo inebriava, riempiendolo di desiderio. Le mani del ragazzo incontrarono dapprima la pancia piatta di Blue, poi salirono, in corrispondenza delle coppe del reggiseno bianco che la castana indossava. Carezzò i seni di quella, poi sganciò quell’arnese infernale sul davanti e liberò quelle meraviglie. La fame adesso si sentiva, prima strizzò tra le mani un seno, poi afferrò la donna per i fianchi, sollevandola. Lei si appoggiò con la schiena contro il muro, mentre le labbra di Green si cibavano del suo petto. Baci e leccate leggere le provocavano brividi tormentati, con il solo scopo di aumentare in lei il desiderio di unire il suo corpo a quello del ragazzo.
Green si sfilò la camicia, e sentì le gambe di Blue cingerlo attorno alla vita, mentre le braccia si chiusero ad anello attorno al collo. I loro respiri diventavano più gravosi, pesanti, e si sedimentavano nei loro padiglioni auricolari, acuendo ancora di più adrenalina e desiderio.
“Ti voglio” fece lui, quasi in un sussurro, mentre lei prese a mordergli le labbra. Una mano abile del ragazzo lo liberò dai pantaloni, lasciandolo in boxer. Il suo corpo aderì ancora contro il suo. Amò la sensazione che provò sentendo i capezzoli della ragazza sul suo petto.
“Andiamo... sul letto...” ansimò lei.
“No...”
Gli occhi azzurri della ragazza illuminarono di nuovo la stanza, per poi richiudersi.
Fu questione di un attimo, ancora contro la parete, via quel tanga così sottile e quei boxer così stretti, e poi l’uno dentro l’altra, connettendosi misticamente tra di loro.
Lui diede dapprima una spinta molto delicata, con l’effetto di far sussultare leggermente la ragazza, aggrappata al collo di Green ed appoggiata alla parete.
“Ti amo...” sussurrò lei.
“Pure io...”
Blue si sentì di nuovo riempire dal ragazzo, mentre le endorfine inviavano al cervello messaggi di piacere. Le dita di lei carezzavano la nuca di Green, poi la schiena, con tutti i muscoli definiti. Lo baciò, gli strinse una natica, poi sentì un’altra spinta, stavolta più forte, stavolta più energica.
Più piacevole.
Cominciarono a baciarsi, scambiandosi ossigeno prezioso come se fossero gli unici a possederne un po’, massaggiandosi a vicenda le spalle, i fianchi, il collo, il petto.
I respiri diventavano sempre più affannosi, e più le lancette si inseguivano più i loro corpi erano stanchi e sfiniti, tuttavia continuavano a darsi l’un per l’altra, perché se lo dovevano, perché lei aveva bisogno che lui fosse dentro di lei e viceversa.
Perché dovevano essere una sola cosa, almeno un’altra volta prima di morire.
 
Le lancette continuavano a correre, ma era passato tanto tempo. Green e Blue erano sul letto, a dormire, l’uno accanto all’altra, nudi, stanchi, sfatti.
Il sole li avrebbe svegliati qualche ora dopo, ma fino ad allora avrebbero sognato di fare l’amore, ancora e ancora, fino a quando il verde degli occhi di lui ed il blu di quelli di lei si sarebbero incontrati per dar vita al giorno e alla notte.

 

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Capitolo 9
*** RedRedShipping ***



Buonsalve a tutti.Oggi ho scritto una RedRed (Ruby X Fiammetta). Bah, in ogni caso fatemi sapere. Piccola comunicazione, per le storie di Rachel bisognerà aspettare un po'!




RedRedShipping







“Rossa come il fuoco. Era anche calda come il fuoco, io me la ricordo. Ed era la donna più bella che avessi mai visto, oggettivamente parlando. Non è importante il fatto che io abbia potuto amare altre donne nella mia vita, ma resta il fatto che i suoi occhi ardevano e che io prendevo fuoco grazie alle scintille che provocava quando le sue labbra schioccavano un bacio da lontano.
Ed il suo sorriso, quel sorriso così vivo, così pieno di vita, era in grado di farmi avvampare e sciogliere.”
Ruby rifletteva e pensava ad alta voce a qualcosa che non c’era. Fiammetta, la Capopalestra di Cuordilava, un bellezza più unica che rara.
E poco importava se erano passati più di dieci anni dall’ultima volta che l’aveva vista; la sua ammirazione era stata un crescendo continuo, tanto che spesso aveva pensato di lasciar perdere tutto e presentarsi da lei, con la faccia tosta e la sfacciataggine di chi sa quanto vale, di chi è sicuro di ciò che vuole dalla vita.
Ora era diventato un uomo, e lei una donna. Ed immaginava già il calore della sua pelle, l’odore dei suoi capelli, il colore dei suoi occhi.
Rossi, proprio come i suoi.
Forse avrebbe dovuto perder meno tempo, in dieci anni aveva lavorato su se stesso per riuscire a trovare il coraggio di diventare grande, e prendersi la responsabilità di fare una domanda, di stringere una mano, di provare a dare un bacio.
Ruby era certo che lei lo volesse.
E quindi non c’era più niente da fare, lui sarebbe partito per Cuordilava, avrebbe dapprima gentilmente bussato alla porta della sua Palestra e semmai non l’avessero fatto entrare lui avrebbe usato la forza.
“Al cuor non si comanda” pensava, ed era vero. Tuttavia si comandano i gesti, i movimenti, i pensieri.
Cuordilava era rimasta totalmente identica, intatta, immutata nel cellophan. L'inverno lì era solo un'opinione, in quanto la temperatura costante di quel posto, almeno in quella stagione, era di venti gradi.
Il Monte Camino vegliava severo sulle casette dai tetti neri, ed in piazza tre ragazzini giocavano col pallone davanti alla fontana.
Il sole donava luce bianca, probabilmente le nuvole avrebbero fatto incetta del cielo molto presto.
I passi di Ruby si susseguivano come formiche di una colonia. Adesso però erano passi più sicuri, maturi, consapevoli.
Era diventato un allenatore, suo malgrado; aveva raggiunto gli obiettivi che si era prefissato, aveva dimenticato Sapphire e le delusioni che aveva avuto vivendo con lei, con il pensiero costante a quella bellissima donna dai capelli rossi, legati in alto sulla testa.
Arrivò fuori la palestra. Note dolci di musica e risate fuoriuscivano e la porta era semischiusa.
La aprì il tanto che bastava per guardarvi dentro: tutto era rimasto identico, stesso tetto in legno, stesse mattonelle verdi, stesse nuvole di vapore che si accumulavano in alto, stessa temperatura.
Quella, sorrise Ruby, dipendeva da Fiammetta, e lo sapeva.
Al centro della sala c'era lei. Rideva e ballava. Ballava da sola, si divertiva.
Era chiaro che fosse diventata una donna. I segni del tempo erano stati clementi con lei, sembrava ancora la ragazza appena sopra i vent'anni di dieci anni prima.
Indossava un abito lungo, color crema. I fianchi erano leggermente più larghi, i seni erano rimasti prosperosi. Un paio di ballerine dello stesso colore si muovevano in corrispondenza dei suoi passi.
Il suo sorriso era lo stesso, come anche lo sguardo, rosso e vivo.
I capelli erano sciolti, e lunghe ciocche color magenta scivolavano sulle sue spalle.
Era bellissima.
Il suo cuore si era sintonizzato su quella frequenza. Doveva assolutamente averla per sé, ottenere il diritto di poterla stringere al petto, e baciare quelle labbra esplosive e sorridenti.
"Ti amo..." sussurrò, sorridendo. Lei non lo aveva sentito, e continuava a ballare su quelle note gioiose.
Aprì un altro po' la porta e raccolse il coraggio a due mani, quindi la spalancò, decidendo di fare il suo ingresso lì.
"Permesso" fece, sorridendo. Fiammetta dapprima fermò la sua danza, sorpresa, quindi sorrise.
"Oh. Ruby! Sono anni che non ti vedo"
Il volto di Ruby però rimase contrito.
Accanto a lei c'era un uomo, della sua età, con in braccio una bambina di più o meno tre anni, dagli occhi rossi e dai capelli color magenta.
D'improvviso un rumore sordo gli fece comprendere che il suo cuore si fosse spezzato. L'occasione che aveva avuto era andata via, spezzata. Aveva aspettato troppo tempo, ed un uomo più fortunato le era entrato nel cuore, sloggiando i suoi ricordi come libri vecchi e stracci sporchi.
Si sentiva perso. Atterrito.
L'unica cosa che voleva era sparire. Andare via, lontano, e dimenticare tutto.
"Che ci fai da queste parti?"
"Ero... Ero venuto a fare un saluto. Ma ora vado. Vado subito".

 

 

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Capitolo 10
*** KalosShipping#1 ***


Salve a tutti. Ho voluto aspettare di proposito oggi a far uscire questa Kalos Shipping perchè per me è un giorno molto importante. Questa raccolta tratta d'amore, una tematica che non ho mai sviluppato assai nelle mie storie. Ecco perchè ho creato questa raccolta. Oltre che per la completezza del mio essere autore, anche per esprimere su carta momenti come questo, che con soddisfazione porto avanti. Questo è un POV di Calem, anche se saranno le sensazioni le protagoniste.
Ciò perchè oggi, 13 agosto, compio ben sei anni di fidanzamento con la mia piccolina, che è in tutto e per tutto assomigliante alla tizia qui sotto. Appena ho visto quest'immagine sono rimasto flashato. È davvero incredibile.
In ogni caso ditemi che ne pensate =)

       
 
KalosShipping


Sei anni. Sei anni passati assieme. Passati a vivere gli stessi momenti, gli stessi respiri.
Gli stessi sorrisi.
Sì, con te ho sorriso, per ben sei anni.
Non che non abbia pianto, eh. Anzi. Altrimenti non ti amerei.
E con una come te, non amare non è possibile.
Ti guardai da lontano, ti scelsi tra tante, proprio sei anni fa. Eri una bambina, ed anche io, forse poco più che un bambino.
Fatto sta che mi fulminasti, con quei tuoi modi di fare così liberi, ti muovevi con una leggiadria ed una grazia tale da far sfigurare chiunque, amore.
Tutti, accanto a te, diventavano cenere. E ancora oggi, che non sei più quella ragazzina magra, bionda e timida, sono in grado di capire che quei sentimenti sono rimasti intatti.
Ti ricordi come successe?
Io ti salutai, e tu ti nascondesti tra la timidezza e le risate di scherno delle tue amiche oche, che ancora oggi non sopporto, ma ti venni a prendere a mani nude, e ti tirai fuori da quella conca di sicurezza che ti creasti, pronta per essere di nuovo sottoposta al mio sguardo.
E vincesti tu, bastò soltanto che alzassi gli occhi e mi guardassi, sorridendo.
Il biondo dei tuoi capelli risplendeva dorato alla luce del sole, e quel 13 agosto io lo ricordo ancora, perchè fu il giorno in cui decisi di lasciare la mia vita nelle tue mani.
Poi andammo avanti, tenendoci per mano, lasciando tutto e tutti, creandoci il nostro mondo, forgiandolo con le mille difficoltà che ci hanno caratterizzati.
Andando contro corrente.
Tu mantenevi il ferro ed io lo martellavo, e le scintille che sono finite sulla nostra pelle bruciano ancora, quelle cicatrici rimarranno per sempre.
Ma poi siamo andati avanti.
Tu eri una ragazzina, io un po' più grande di te. Affrontammo assieme le prime sfide che la vita ci sottopose. I primi esami, le prime paure.
E quando quel ciclo non arrivava, santo cielo, mi sono bruciato gli intestini a forza di ingoiare sabbia e sangue.
Non che io non voglia una piccola te per casa, ma non ora, non adesso che non potrei garantirle un futuro da principessa, proprio come voglio che cresca.
Come la mamma, del resto.
Ora sei lontana, io sono qui in città a lavorare e tu sei al mare, a goderti le tue meritate vacanze, il tuo riposo.
E mi manchi. Perchè oggi, dopo sei anni, non ti ho qui.
Mi manca la tua presenza, mi manca il tuo profumo. Mi manca la tua voce che carezza i miei pensieri, e le tue piccole mani, sempre perfette, sempre smaltate.
Mi mancano le tue labbra rosa, grandi, gonfie di parole. Mi manca il tuo corpo bellissimo che aderisce sul mio, mi mancano i tuoi occhi.
Le porte per il tuo mondo, dalle quali solo io riesco ad entrarvi.
La mezzanotte della mia giornata comincia nel momento in cui ti addormenti, chiudendo gli occhi e spegnendo i miei soli, raffreddando il tuo corpo, mostrandoti fragile e tranquilla. Ma quando ti svegli il sole mi riscalda ed il tuo sorriso fa nascere in me grappoli di speranza e d'amore. Fa nascere in me il fiore dell'armonia.
Sei anni fa scelsi te.
Oggi posso dire di aver fatto la scelta giusta, perchè in pochi ti capiscono.
Perchè in pochi la vedono come te.
Perchè in pochi hanno la consapevolezza che, SE IL CIELO È IL LIMITE, NOI SIAMO LA CONTRAEREA.

Ti amo, Stella, Auguri.

 

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Capitolo 11
*** FranticShipping #1 ***


Dopo tempo immemore esco fuori con una nuova shipping, una delle tre Frantic che mi sono ripromesso di scrivere. Spero vi piaccia. Una parte del racconto è preso, compreso i testi, dal capitolo 252 del manga Pokémon Special. Buona lettura.
 


FranticShipping#1


L'odore dell'erba penetrava nelle narici. Ruby correva forte attraverso quei sentieri già segnati dal suo passaggio tra fuscelli, ramoscelli e piante.
Quel giardino era enorme, e lui adorava giocare lì. Adorava la natura, e tutte le avventure che poteva crearvi.
Spesso pensava di essere alla ricerca di qualche tesoro misterioso e di conseguenza scavava buche e si arrampicava sugli alberi.
Per un bambino di sette anni vivace come lui quello era un paradiso: aria aperta, sole, divertimento; in più c'era la compagnia dei suoi Pokémon, che adorava.
Ruru, Nana e Coco, rispettivamente un Ralts, un Poochyena ed uno Skitty, lo seguivano e spesso lo proteggevano dal farsi male, anche se ogni volta che tornava dai suoi genitori aveva puntualmente gomiti e ginocchia sbucciate.
Ci andava spesso lì, con mamma e papà. Quel giorno però con loro venne anche un amico di Norman, suo padre. Si chiamava Birch, ed era un signore piazzato, con i capelli castani, mossi, ed un accenno di barbetta sul mento.
Con lui c'era anche sua figlia. Ruby sorrideva; era vestita come una principessina. La frangetta le copriva la fronte in maniera elegante, mentre  un grande fiocco blu le si adagiava sul capo. I suoi occhi erano dello stesso colore, come anche il pomposo vestitino che indossava, pieno di pieghettature e merletti bianchi.
Ruby aveva subito notato le scarpe. Aveva le scarpe delle ballerine.
"Forse danza..." disse, tra sé e sé.
La guardava affascinato. La piccola era carina, ma anche molto timida, e preferiva nascondersi dietro la gamba del papà per evitare gli sguardi affascinati della mamma di quel bambino dagli occhi rossi.
"Sapphire" disse il suo papà, "Perchè non vai a giocare con Ruby, il figlio di Norman, mentre noi grandi parliamo di cose serie?"
La piccola alzò lo sguardo verso quello del genitore, cercando di celare gli occhioni azzurri dietro la fila dritta di capelli, ma dopo aver attestato che non ci fosse verso di poter rimanere lì con lui desistette, sbuffando e stortando il musino.
Ruby le tese la mano e lei l'afferrò riluttante. Quella del ragazzino era calda. Insieme scesero le scale del patio dove i tre adulti stavano e si ritrovarono nel grande giardino.
"Ciao. Io sono Ruby" fece lui.
"Mi chiamo Sapphire"
La piccola guardò il ragazzo. Aveva due occhi grandi e rossi, e la pelle abbronzata. Un ciuffo di capelli neri fuoriuscivano da uno strano cappello bianco. Indossava una camicina rossa e dei pantaloni neri, sporchi di terreno, come anche le scarpette da ginnastica.
"Che gioco vogliamo fare?" chiese lui.
"Uhm... Non lo so..." rispose, alzando gli occhi e portando le manine piccole e delicate al mento. "Potremmo fare che io sono una principessa e tu sei un cavaliere che mi deve venire a salvare"
"Che bello! Mi piace fare il cavaliere! Devo trovare una spada!". Il ragazzino si voltò e corse come una furia verso la grande quercia, seguito a ruota da Poochyena, che abbaiava felice.
"Uh! Un Pokémon!" sobbalzò lei.
"Sì..." faceva indaffarato l'altro, mentre scavava con le mani nell'erba alta. "Nana è il mio Pokémon. Ho altri Pokémon, sai?"
"Davvero?! Beato te! Io non ne ho nessuno! Eppure papà ne ha così tanti!"
"Potrebbe regalartene uno..."
"A me piacerebbe avere un pulcino. Con il becco piccolino e le piume morbide."
"Io invece mi sto allenando con papà" rispose prontamente lui, alzandosi in piedi con un bastone sporco di terra. Nana saltava verso di esso, cercando di morderlo, ma Ruby lo alzava. "No, Nana, questo non lo devi afferrare. Questo serve a me. Dicevo, io e papà ci alleniamo, e mi ha fatto vedere come fare ad usare le mosse di questi Pokémon"
"Questi?! Io vedo solo Nana."
"Coco e Ruru giocano sempre assieme. Aspetta che li chiamo: Ruru! Coco! Venite!"
Sapphire si guardava attorno, mentre il sole del tramonto baciava la sua pelle diafana. Vide un movimento dell'erba alta alle spalle di Ruby, e quindi un gattino rosa zampettò velocemente verso la sua gamba, cercando le attenzioni del suo piccolo allenatore. Seguì un piccolo Ralts, con il capo abbassato, che cercava inutilmente di mantenere il ritmo di corsa del felino.
"Che carini!" urlò Sapphire, inginocchiandosi verso Skitty ed allungando la mano. Il micio si fece carezzare la testa, quindi permise a Sapphire di prenderlo in braccio.
"È morbidissimo! Mi piace tanto!"
"Oh, Ruru, non ti preoccupare... Anche tu sei bellissima." Lo sguardo di Ruby passò dal Pokémon a Sapphire. "Ha un animo molto dolce e gentile, Ruru. È sensibile, e mi da fastidio che si rintristisca"
"Ha ragione, Ruru. Anche tu sei stupenda"
E mentre Sapphire giocava con i Pokémon, Ruby si guardava attorno.
"Allora!" fece. "La quercia sarà la torre, e tu sarai prigioniera lì! Nana sarà il terribile mostro che difende la torre, e Ruru sarà la tua dama di compagnia"
"E Coco?" chiese la bimba.
"Coco sarà il mio cavallo"
"Ma è piccolo per essere un cavallo! Gli farai del male!"
"Ma un cavaliere deve avere un cavallo!" si crucciò il piccolo. "Non fa niente, dai... Coco sarà il mio scudiero". In tutta risposta, Skitty miagolò.
"Bene. Allora giochiamo"
"Devi salire"
"Cosa?"
"Devi salire sull'albero" rispose veloce Ruby, prendendo di nuovo per mano la ragazzina e portandola verso la quercia. "Tu, Nana, devi aspettare qui, e fare la parte del mostro cattivo. Ma io ti devo battere"
Sapphire pestava l'erba alta con le sue scarpine, che lentamente presero un alone verde e marrone, e quando la piccola arrivò davanti alla corteccia rugosa dell'albero alzò gli occhi.
"Io... Io non so salire..." fece, con voce delicata e dolce.
"Oh, beh... Questo vestito enorme non ti aiuta. Vado al patio a prendere una sedia e..."

E poi accadde.

Dal nulla, proprio dal nulla, un grande Salamence sbucò fuori, prendendo a ruggire minaccioso contro Sapphire. Ruby era qualche passo più indietro, ma vide la ragazza fare velocemente qualche passo indietro e poi inciampare.
Salamence ruggì ancora più forte, e quando Sapphire prese ad urlare impaurita Ruby capì che doveva darsi una mossa.
Il suo volto era contrito, lo sguardo serio. Nonostante fosse un bambino di sette anni il coraggio non gli mancava.
"Devo proteggerla!" urlò, stringendo i pugni e correndo verso il Pokémon. "Devo sconfiggere Salamence!"
La zampa anteriore destra del drago si alzò verso il cielo, facendo ombra al visino della bambina, mentre i suoi occhi si riempirono di lacrime: stava per attaccarla.
Si lanciò violentemente contro il Pokémon, Ruby, e d'improvviso sentì qualcosa fendergli la testa. Il dolore fu lancinante, come un flash doloroso, ma poco importava, in quel momento gli interessava solo che Sapphire stesse bene e fosse in salvo.
La piccola non riuscì a trattenere un urlo, e voltò il viso dall'altra parte per non guardare. Quando si decise a mettere a fuoco il ragazzino, Ruby perdeva sangue dalla fronte.
"Dragartigli, eh?" chiese lui. "Ma non per niente sono figlio di mio padre!". La mano del ragazzino andò a premere la ferita che aveva sulla fronte, quindi girò il volto.
"Ragazzi, attaccate!"
E fu così che Ruru, Nana e Coco si avventarono contro l'aggressore, colpendolo sul lato destro con tre attacchi.
Non furono estremamente forti, ma lo scacciarono, permettendo a Ruby di avvicinarsi a Sapphire. "Ho vinto" disse, sorridendo. "È tutto a posto ora!".
La bambina guardava terrorizzata il volto del piccolo, mentre il sangue scendeva copioso dalla sua testa, colandogli sul viso.
"Ho scacciato il Salamence" aggiunse Ruby.
Ma nella mente della piccola l'unica cosa che esisteva era quella linea di sangue rossa che scendeva sull'occhio color rubino del ragazzino.
Ruby sorrideva, cercava di calmarla, ma non ci riusciva. Le lacrime scendevano copiose sul viso della piccola.


"Lui è stato ferito ed ha combattuto senza armi.
Per me.
Perché io sono debole.
Perché io non so difendermi.
Non permetterò mai più a nessuno di farsi del male per causa mia.

Lo prometto."
 


 

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Capitolo 12
*** PreciousMetalShipping ***


Ciao a tutti. Allora, ci ho lavorato parecchio, anche perché di Yaoi non sapevo praticamente nulla prima di entrare in questo mondo. Siate benevoli e ditemi dove posso migliorare! La storia è dedicata a Capricornus, che involontariamente me l'ha chiesta X)
Buona lettura. Ringrazio anche Keimi per la lettura preventiva e Persej Combe per la disponibilità, oltre che Rachel, ma lei non finirò mai di ringraziarla perché è fantastica.

 

PreciousMetalShipping


L’atmosfera fumosa di quella bettola sul porto di Olivinopoli rendeva tutto parecchio surreale. Quella mano di grigio che aleggiava tutt’attorno lo faceva sentire più stanco che altro.
Voglioso di una bella birra fredda, magari.
Non era tipo da whiskey, o da gin liscio. Forse più avanti, quando i peli sul suo mento avrebbero preso il colore candido della neve, lasciando che solo i suoi occhi dorati fossero di contrasto in quella tavolozza sale e pepe.
Gold sentiva i suoi passi diventare più leggeri, intanto si avvicinava al bancone di legno. Una donna di mezza età dai capelli rossi fumava la sua Cartier impiastricciando il filtro di rossetto fucsia. Le rughe sul suo volto erano profonde, scavate nella pelle macchiata dai nei e dal tempo.
Gold fece per aprire bocca ma poi la chiuse subito.
Non ce n’era bisogno, aveva capito che quella avesse capito. Difatti la cameriera si abbassò, aprì l’anta di un frigorifero e ne tirò fuori una Heineken. La stappò, quindi la poggiò velocemente sul bancone, con un gesto rapido del braccio. I grossi seni danzavano ad ogni suo movimento.
Gold afferrò la birra, sentiva la superficie fredda e scivolosa del vetro, la condensa attorno la sua mano era piacevole. La bottiglia tintinnò a contatto con l’anello che portava.
Regalo di sua madre, tanti anni prima; non lo levava mai.
Portò la birra alle labbra e fece sì che il liquido dorato come i suoi occhi carezzasse delicatamente l’interno della sua bocca.
Il freddo era tanto, ma lui adorava quel sapore sulla lingua. Ingoiò, e si piegò soddisfatto sul bancone, a testa bassa.
I pensieri giravano e rigiravano nella sua testa ma poi si rese conto che qualcuno lo stava chiamando. Girò la testa, ed una bella ragazza bionda gli stava chiedendo qualcosa.
Non sentiva la voce, intuiva semplicemente ciò che voleva dire ma sembrava recepire tutto con estrema chiarezza.
Si focalizzò sul volto di questa. Non sapeva dire con precisione quali fossero le sue fattezze, ma ricordava un neo sul labbro superiore e la frangetta sugli occhi azzurri.
Lui la invitò a sedere, lei accettò sorridente, arrampicandosi su di uno sgabello, gestendo con la massima eleganza il suo paio di tacchi alti.
Fu una caduta di stile, ma Gold non resistette e le guardò il sedere; senza alcuna inibizione allungò la mano e lo toccò, ma la reazione di quella fu fulminea: un urlo tremendo, quasi fosse la sirena di un hangar, lo spaventò.
Non era serata. Forse era davvero meglio stare con la testa sul bancone, aspettando il collasso alcolico per risvegliarsi il giorno dopo in qualche ospedale.
Oppure accanto a qualche cesso madornale dalle forme sconclusionate e dalla faccia ambigua.
Ambigua nel senso che poteva assomigliare sia ad un uomo che ad una donna; certe volte quel limite è così sottile che lo divide solo un pomo d’Adamo.
In ogni caso si trovava dove non voleva trovarsi. Perché quello strano senso di depressione lo stava facendo marcire dentro?
Prese a porsi domande esistenziali, che diventavano sempre più frivole in base alla quantità di alcool che il suo corpo ingeriva ed assimilava.
Dopo un’oretta i suoi occhi ballavano e tutta la stanza girava. La bionda era ancora lì, parlava con la cameriera poi cercava di dirgli qualcosa, ma la sua voce risultava un trombone stonato.
Fu quello il momento in cui lei si alzò e lo condusse sottobraccio nel bagno del locale.
Fece tutto lei.
Dapprima lo baciò, la lingua di lei pareva essere lunghissima; rimestava nella bocca del ragazzo il sapore metallico del sangue e quello forte dell’alcool.
Venne l’attimo in cui decise di spogliarlo. Dapprima gli slacciò i pantaloni, lasciandoli cadere per terra. Lui era già eccitato ed allungò una mano sul petto di quella, rimanendo tuttavia deluso. La vista gli aveva mostrato due seni enormi, morbidi, tenuti fieri e in bella vista in quel balconcino, ma le sue mani si scontrarono contro un petto duro e piatto.
Non si fermò, però, e venne il momento in cui lei levò la maglietta al ragazzo. Gold tuttavia rimase incastrato con la testa nel buco della T-shirt.
“Sei sempre il solito...” sentì la voce androgina di quella, in quel tono che già aveva sentito da qualche parte.
“Asp..tta...” farfugliò Gold, portando le mani sul bordo della maglietta e cominciando a tirare verso l’alto. Non usciva.
Fu allora che mise più forza in quello che cercava di fare finché la testa uscì fuori.
Tuttavia la bionda non c’era più. Quel sedere sporgente neppure.
Gold guardava confuso la figura davanti a sé, mettendo a fuoco la persona.
Era alta più o meno quanto lui, con capelli lunghi e rossi che gli coprivano un occhio. Il corpo, totalmente nudo, era quello di un uomo, la potente erezione a testimoniare quello che credeva.
E poi quell’occhio color argento.
La stanza girava, la sua testa faceva fatica a rimanere dritta i suoi occhi si chiudevano, ma l’eccitazione che provava al contempo lo costringeva a restare sveglio e vigile.
“Silver...” riuscì a sillabare. La bionda era scomparsa, ed al suo posto era comparso il suo amico. Gold gli sorrise, contento di vedere quella faccia conosciuta.
“Sei venuto a prendermi. Grazie.”
Silver annuì, quindi sorrise, spingendo Gold verso il muro. Lui camminava con difficoltà, dato che i pantaloni abbassati alle caviglie avevano l’effetto di una camicia di forza per gambe, limitando i movimenti. Una volta che la sua schiena toccò la parete, Silver lo baciò, spingendo la lingua nella bocca dell’altro.
Gold spalancò gli occhi: nella sua testa un sentimento strano e contrastante. Lui era un eterosessuale convinto, talvolta anche omofobo, ma in quel momento l’unico posto dove voleva stare era lì, tra le braccia di Silver.
Chiuse gli occhi e strinse il ragazzo, saggiando i muscoli ben definiti della schiena di lui, carezzandogli il sedere. Quello spingeva l’erezione in sua direzione, aumentando l’eccitazione di entrambi in maniera vertiginosa.
Gold era stranamente felice. Qualcosa che non aveva mai provato prima si stava manifestando: lui si stava riconoscendo innamorato. Tutte quelle avventure passate assieme, tutti quei momenti, tutti quegli attimi fuggenti, quei sorrisi nascosti, quegli sguardi; tutto quanto, tutto era scaturito in quel momento di perfezione. Sentiva la voglia di averlo lì, in quel momento, di entrare in lui e farlo suo. Ma non riusciva a smettere di baciarlo, di toccare il suo corpo.
“Sei bellissimo” fece.
“Anche tu, Gold”
Silver prese a baciargli il collo; Gold  sentiva un vuoto alla bocca dello stomaco. La testa continuava a girare, tutto diventava più scuro e buio, le porte dei bagni, i lavandini, gli specchi, prese tutto a cadere giù, in un vortice nero, che racchiuse anche i due ragazzi.
“Silver! No!” urlava Gold.
“Non preoccuparti. Sono qui”. Gli tese la mano, sorridendogli e guardandolo negli occhi. Gold sorrise a sua volta, convinto che tra le sue mani lui sarebbe stato sempre al sicuro.
Allungò la mano ed afferrò la sua, tirandolo a sé durante la caduta libera nel vuoto.
 
“Gold... non preoccuparti... Sono qui.” Silver cercava di calmarlo.
Il moro si agitava durante il sonno, mentre batteva i denti costantemente.
“Gold...” la mano del fulvo poggiò sul petto del ragazzo. Era calda, e fece svegliare quello dagli occhi dorati da quel sonno disturbato.
Aprì gli occhi lentamente.
“S-Silver...”
 “Gold, hai fatto un incubo, ti stavi agitando. Come stai?”
“Non... non molto bene, a d-dire il vero...” concluse, battendo i denti.
La stessa mano calda che lo aveva svegliato andò a tastargli la fronte.
“Hai la febbre alta... Scotti tantissimo.”
“A-aiutami...”
“Tranquillo...”
Silver si girò ed aprì un cassetto. Estrasse una compressa e la diede al ragazzo, che la ingoiò rapidamente. “Tra qualche minuto farà effetto. Ora calmati” disse, prendendo un codino e legandosi i capelli in alto sulla testa.
“Ho freddo...” diceva, battendo i denti.
Silver sorrise, carezzandogli la fronte, quindi si stese di nuovo sotto le coperte, tirando il corpo febbricitante del ragazzo a sé. Gli baciò la fronte e gli carezzò la nuca.
“Non preoccuparti. A te ci penso io.”

 

 

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Capitolo 13
*** SadieHawkinsShipping ***


Ho scritto di questa strana coppia, trovata girando per il web. Mi è piaciuta, spero piaccia anche a voi.
 
 
        
SadieHawkinsShipping



Sciroccopoli, di nuovo.
Black mosse gli ennesimi primi passi in quella città, dove puntualmente era costretto a ritornare settimana dopo settimana. Gli alti palazzi si innalzavo, facevano ombra nonostante il sole del tramonto fosse fievole. Il vento caldo passava attraverso i vicoli e gli si gettava sul volto. Sospirò.
"Sono vicino...".
Passeggiava lentamente, godendosi ogni passo come se fosse l'ultimo che avrebbe poggiato sulle mattonelle eleganti di quella metropoli.
Sorrideva sommessamente, le mani in tasca e la testa volta verso un gruppo di giovani che ridevano animatamente. Una ragazzina dai capelli rossi veniva accerchiata da un branco di giovani. Più distante una ragazza asiatica sorrideva silenziosa, braccia conserte e testa bassa.
Black fischiettava Come get to this di Marvin Gaye mentre camminava davanti all'arena sportiva; probabilmente era in atto qualche manifestazione sportiva, qualcosa del genere: si sentiva il vociare della folla, il canto dei tifosi, le grida di scherno tra una fazione e l'altra, i fischi.
La gente era legata allo sport, a lui non interessava per niente.
A lui interessava solo una cosa.
Lui era il sognatore. The Dreamer, come era stato soprannominato, viveva in funzione del suo sogno, quasi non riusciva a pensare ad altro che non fosse diventare il Campione della Lega.
Doveva vincere, doveva andare avanti, nulla poteva distoglierlo dalla sua cavalcata vincente. Tutto doveva filare liscio, l'ansia, la rabbia, la frustrazione, la cattiveria, il desiderio di andare avanti. Lui doveva diventare il Campione. Non poteva uscire dal seminato.
L'acqua delle fontane risplendeva dorata alla luce del sole che si ritirava dietro la foresta di cemento formata dai palazzi. Le finestre scintillavano alla vista del caldo disco aureo, mentre nell’aria il profumo dei peschi in fiore riempiva le narici di tutti.
La primavera si era svegliata da poco, faceva il suo timido ingresso in quei giorni ancora fin troppo freschi e frizzanti per poter levare guanti e sciarpe. Il respiro si condensava, diventava nuvola, scappava via dalla bocca del ragazzo, che voltò a destra lungo il grande canale di deflusso delle acque fluviali. L’acqua era limpida, cristallina, era possibile veder nuotare alcuni pesci che, impauriti dalle urla e dai rumori della città, scappavano, nascondendosi in snodamenti minori e nascosti, e crepe nelle mura create dal tempo.
Il rumore del fiume che attraversava il lato est della città faceva da timido sottofondo al vociare della gente, al rombo dei motori, alle sirene della polizia, alle reclame delle pubblicità, alla musica.
A distanza si sentivano note dolci, lente, pizzicate: la ruota panoramica non era lontana.
Sono vicino...”.
Attraversò il ponticello di legno, che portava nell’area di nuova costruzione della città.
Beh... Nuova non proprio. Era passata una decina d’anni da quando il Luna Park Scintille di vita era stato aperto al pubblico. Inizialmente ci fu un grosso riscontro, la gente veniva in massa, gruppi enormi di persone, anche da altre città, accorrevano per fare un giro sulla mitica ruota panoramica. Col tempo però, e con lo sviluppo tecnologico, andò tutto lentamente a sbiadirsi, almeno fino a quando la modella Camelia non ottenne il permesso dalla Lega di Unima per la costruzione della propria palestra, collocata in quella zona per risollevarne le sorti.
Black ricordò, mentre calpestava le assi di legno del ponte, della prima volta che vide quel posto. La palestra era chiusa, Camelia era momentaneamente lontana. E decise di passare il tempo facendo un giro sulla ruota panoramica.
Proprio lì davanti c’era una ragazza.
 
“Ciao” fece lui.
Lei lo guardò con i suoi occhi marroni, e sorrise. “Ciao”.
“Mi fai passare?”.
“Devi salire?”.
“Già...”.
“Posso venire con te? Vorrei andarci, ma ho paura dell’altezza...”.
“Se... se ti va, andiamo”.

 
Fu così che Black conobbe Maya. Tornava appena poteva, la contattava e si davano appuntamento davanti alla Ferriswheel, alla ruota panoramica. Passò davanti alla palestra, continuando a fischiettare la stessa canzone, quindi le sue labbra si stirarono in quello che riconobbe essere un sorriso spontaneo.
Maya era lì, si carezzava il collo con una mano, l’altra era lunga sul fianco. Aveva la testa puntata verso l’alto, a guardare la cima della ruota, sul viso un sorriso dolce. Gli occhi erano socchiusi, a proteggersi dal sole che rifletteva sul vetro delle cabine e che la illuminavano.
Black si fermò a fissarla. Così piccolina, sotto quel gigante di metallo.
I capelli castani, lunghi, terminavano poco sopra l’orlo della corta gonnellina a balze. Le punte dei capelli avevano un colore decisamente più chiaro rispetto al resto, e terminavano arricciandosi dolcemente. Le gambe lunghe e sottili erano fasciate in un paio di collant neri e terminavano nelle ballerine abbinate alla gonna.
La frangetta era poco più corta del normale, ma lei la teneva sempre spettinata, perché lo stesso le dava fastidio: le copriva lo sguardo, e quegli occhi color nocciola dovevano vedere tutto.
Non poteva essere limitata, Maya, anche la sua bocca doveva parlare sempre. E sorridere.
Perché a lei piaceva sorridere.
I loro occhi s'incrociarono.
"Hey..." fece lui, a pochi passi. Lei girò velocemente il volto, quindi mostrò quel sorriso bianco, incorniciato da due labbra rosee e delicate.
"Black... Mi hai raggiunto".
Lui arrossì. "Non avrei mai potuto lasciarti qui a guardare la ruota panoramica per tutta la giornata..." sorrise, tirandola a sé per la vita. Lei lo baciò sulla guancia, quindi lo prese per mano.
"Saliamo?".
"Certo" sorrise ancora Black.
La vide partire avanti, prendere l'iniziativa. Aprì la porta della cabina e si sedette, Black si accomodò accanto a lei, sistemando lo zaino sul sedile di fronte. Chiuse la porta e diede l'ok al giostraio; lentamente la cabina numero quattro prese a muoversi.
"Ecco... Ci siamo" sorrise lei.
"Già. Come stai?".
"Bene... bene... È stata dura questa settimana, senza vederti...".
"Ma dai, che sarà stato mai?".
Maya sbuffò, quindi alzò di peso il braccio del ragazzo e se lo passò attorno al collo.
"Non puoi capire... Certe volte sento... sento nella bocca dello stomaco un vuoto. Lo stesso vuoto che ho adesso...".
La ruota panoramica era salita a tre metri. Black sentiva la sua voce dolce, melodiosa, quasi poteva vederla uscire dalla bocca di quella. Le sue parole lo facevano sorridere.
"Sarà l'altezza...".
"No! Stupido! È che ti amo!".
Black spalancò gli occhi e la guardò. "Cosa?!".
Lei abbassò lo sguardo, imbarazzata, quindi prese coraggio. "Io... io ti amo...".
Il ragazzo staccò gli occhi e guardò dritto, sospirando. La voce della ragazza era dolcissima, s'era insediata nella testa di Black e cominciò a girare in loop, sempre più velocemente.
Ti amo continuava a sentire.
"Ho sbagliato, vero?" fece.
Black sospirò, riempì i polmoni prima di parlare, ma Maya non gli diede adito di formulare alcuna frase.
"Lo sapevo! Lo sapevo che sbagliavo a dirtelo! Dovevo farmi gli affari miei, rimanere così, mi sarei presa il mio abbraccio, il mio bacio sulla guancia! Invece adesso non vorrai neppure più vedermi e sarò costretta a vivere con questo buco..." puntò con l'indice ben curato e smaltato sullo stomaco "... proprio qui, perché ti penso sempre, e ogni volta che lo faccio provo la stessa sensazione. Tu non mi stai ascoltando, anzi ora stai sorridendo e mi stai prendendo in giro! Ti prendi gioco dei miei sentimenti nel momento in cui io ti apro il mio cuore e..."
"Zitta un po'..." fece quello, carezzandole il volto col palmo della mano.
Maya finì le munizioni. Black sorrise di nuovo, avvicinò il volto a quello della bella e fece per baciarla, fermandosi pochi centimetri prima delle sue labbra.
"Ti amo anche io...".
Maya spalancò gli occhi, pieni di luce e di vita. Non riuscì a trattenere un sorriso.
"Ridillo".
"Ti amo".
"Ancora" sorrideva.
"Non faremo come in quei film melensi e squallidi in cui...".
"Eddai... Ridillo..." si lagnò lei, simpaticamente, suscitando in Black il sorriso.
"Ti amo...".
"Ancora".
"No" attaccò lui, dandole un bacio appassionato, stringendola forte.
Furono attimi immensi d'infinito e passione. L'uno dava all'altra quello che aveva dentro, riceveva in cambio lo stesso, lo restituiva all'altro, secondi, forse minuti, d'apnea assurdi e botte al cuore, e alla testa, e le mani che si stringevano tra loro con quell'impulso irrefrenabile di continuare.
L'amore è la macchina a moto perpetuo, che fa funzionare tutto, per sempre e comunque.
Gli occhi di Maya si aprirono lentamente.
"Alla fine di questo giro andrai via di nuovo?"
"Devo partire... sì"
"Oh... ci vedremo la settimana prossima, allora..."
"No. Tu verrai con me".
"Cosa?!".
"Tu" sorrise Black. "Tu verrai con me. Io e te non ci lasceremo".
"Mai?".
"Mai".
"Per sempre?".
Lo sguardo del ragazzo si perse in quel mare castano che carezzava i colori del sole. Black annuì.
"Per sempre. Con me, per sempre. Il mio sogno ora è stare con te".

 

 

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Capitolo 14
*** AkiShipping ***


Salve. Dopo tanto tempo ritorno con questa Aki Shipping (L.T. Surge x Nurse Joy). Grazie per aver aperto la storia e per le eventuali recensioni, a presto.
 

AkiShipping

 
I passi dell’Infermiera risuonavano come il ticchettio di un orologio in quel corridoio vuoto e freddo d’ospedale. Il pavimento in vinile scricchiolava sotto i suoi passi mentre la porta 13 si avvicinava rapidamente.
Stringeva la cartella clinica del paziente sul petto, mentre boccoli rosa dondolavano placidi all’incedere dei passi. Il viso morbido si volse in direzione della finestra, dove cristalli vitrei di neve scendevano lemmi.
Il ronzio dei neon s’era ormai insediato nella sua testa da tempo: erano ventotto ore che lavorava senza fermarsi era assuefatta da quel rumore fastidioso.
La stanza 13 si avvicinò velocemente e lei varcò la soglia.
Joy ricordava che le prime volte che entrava nelle stanze dei pazienti cresceva nel suo stomaco una strana ansia; la divorava dall’interno, le faceva tremare le ginocchia.
Ormai era abituata.
La stanza del paziente era illuminata dai soliti neon bianchi e la trasmissione di una radio che trasmetteva bollettini di guerra era disturbata.
Il lettino era al centro della stanza, contemplato come una statua enorme al centro di una piazza. L’arredo era scarno, un comodino con su una bottiglia d’acqua minerale ed un bicchiere mezzo pieno, una sedia al muro ed un armadietto con dentro i vestiti del paziente.
Cioè la sua tuta militare.
“Buongiorno...” Joy alzò la cartella del paziente verso il volto e lesse il nome. “...Surge”.
“Luogotenente Surge, prego...” fece il paziente, steso nel letto lungo e rigido. La testa era fasciata, la gamba ed il braccio destro anche. Gli occhi azzurri dell’uomo baluginarono velocemente alla vista della donna, per poi tornare a nascondersi dietro le palpebre, chiuse ed impenetrabili come finestre sporche. Fissavano la figura gracile dell’Infermiera Joy, stretta nel suo camice, con quel cappellino poggiato sui capelli.
“Luogotenente, certo” sorrise Joy. “Come sta, oggi, Luogotenente?"
Surge cercò di sistemarsi meglio sul letto, con estrema difficoltà. Joy sorrise e poggiò la cartellina sul letto. "Aspetti che l'aiuto".
L'infermiera cercò di spingere il corpo grosso e massiccio del militare, senza riuscirci. Tuttavia suscitò il riso nel degente.
"Crede davvero che con due braccine gracili come le sue possa pensare di muovermi?".
Lei sorrise. "In effetti mi sono sopravvalutata".
"Volevo guardarla meglio in viso, ma... Beh, sarà costretta a farsi vedere lei...”.
Joy sorrise ancora, facendo un passo in avanti. Surge sorrise di nuovo.
“Allora? Come sta oggi?” fece, spegnendo la radio.
“Sono stato assai meglio. Ho un forte dolore alla testa ed il braccio mi fa malissimo”.
“È normale... Lei è stato miracolato, lo sa?”.
“Con chi crede di parlare?! Non è mica la prima volta che finisco in infermeria!”.
“Beh, questo è un ospedale, non un’infermeria...”.
“Le infermiere sono tutte le stesse. E poi sembra che vi assomigliate tutte...”.
Joy sorrise. “Forse è vero. Mi tolga una curiosità... Com’è che si è trovato in questa guerra?”.
“Oh beh, dell’avvenimento completo ho ancora qualche stralcio di vuoto, ma riesco a dirle più o meno ciò che è successo”.
“Avanti...”.
“Si accomodi”.
“Non si preoccupi, Luogotenente”.
“Può chiamarmi Surge” sorrise lui. “Ma insisto. Si sieda”.
“Beh... Ma poi non mi vedrebbe in viso”.
Surge storse le labbra, puntò sul letto la grossa mano che affondò nel materasso e quindi si sollevò. Spinse indietro con la gamba e si mise a sedere.
“Eccoci qui. Che bella gonna che ha oggi”.
“Non è neanche sporca, oggi!” sorrise.
“L’ho notato”.
“Cominci, forza, che ho da fare le altre visite”.
“Beh, infermiera... Che le devo dire? Ero appena arrivato a Kanto... sa, io non sono originario di qui, sono americano. L’ormai ventennale guerra tra est ed ovest imperversava, ed allora un prefetto della città di Plumbeopoli inviò una richiesta d’aiuto a Washington. I generali analizzarono la situazione ed i rischi e decisero d’inviare delle truppe sul suolo alleato, per cercare di stabilizzare questa annosa guerra. Ero poco più che ventenne, molto più esaltato di adesso e con la voglia di spaccare il mondo. Non pensavo che la guerra fosse così dura, e in effetti mi ravvidi nel momento in cui i giovani soldati come me persero la vita... Per non parlare di quando il Colonnello Fire mi salvò la vita... Capii subito che fosse una vita dura, e sono stato colpito tantissime volte. Hanno rimosso tante di quelle pallottole dal mio corpo che adesso avrei a disposizione tantissime munizioni...”. Sorrise, poi digrignò i denti per via del forte dolore.
“Che hai?”.
La voce dell’infermiera era piccola e dolce. Il suo viso preoccupato, con le piccole labbra schiuse e le sopracciglia incurvate verso il basso.
“Il braccio mi fa malissimo...”
Fece il giro del letto per trovarsi davanti l’arto interessato. Con delle forbici tagliò le bende, quindi le rimosse, trovando il braccio nudo e gonfio.
Un grosso taglio, non molto profondo, sembrava bruciare sulla pelle del Luogotenente come se fosse un marchio a fuoco. Le rime della ferita erano di un rosso vivo.
“Uhm, si è ripresentata l’infezione, probabilmente non è stato ben disinfettato. Ci vuole poco...”.
“Dovrete operarmi di nuovo?”
“Non è mica stato operato al braccio... Non abbia paura, non è niente” sorrise. Prese ovatta e  l’imbibì con l’alcool. L’odore forte e pungente s’insinuò nelle loro narici con prepotenza.
Joy sospirò e si morse il labbro.
“Brucerà un tantino”.
Tamponò delicatamente la ferita con l’ovatta e volontariamente si girò a scrutare il viso di Surge.
Impassibile.
“In effetti brucia” fece lui.
“Non dura molto, tranquillo”.
“Lo so.".
"E come ti sei ritrovato così ancora non l’ho capito...”.
“Eravamo in trincea, io ed i Soldati Semplici Deporres e Flanaghan, e tutto ad un tratto vola una granata all’interno del fossato. Tutti eravamo basiti, insomma, le granate non si utilizzano più dalla seconda guerra mondiale, ma stavolta non fu così. Tutti e tre ci siamo guardati e siamo saltati in aria”.
“Capisco” disse l’Infermiera, cominciando a fasciare con bende candide il braccio. Passava con attenzione la benda, che si srotolava lentamente attorno quel braccio.
Un minuto ci volle, e tanta minuzia. Tutto fu perfetto però.
“Ecco qua. Adesso vado”.
L’infermiera fece per andarsene, ma si voltò subito, non appena sentì la sua mano trattenuta.
“Hey...” fece lui, che con la grossa mano fasciata manteneva le sue piccole dita. Gli occhi dei due crearono quella strana connessione alchemica che unisce spiriti e trova anime affini.
Lei sorrise imbarazzata.
“Luogotenente...”.
“Chiamami Surge...”.

 
 
 
 

 

 

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Capitolo 15
*** FranticShipping #2 ***


Eccomi di ritorno. Ecco la seconda Frantic di cui parlavo. Sto studiando per cercare di rendere al meglio la prossima shipping. Intanto regalo a Capricornus questa storia, spero le piaccia
http://uploads.socialspirit.com.br/fanfics/capitulos/fanfiction-animes-one-piece-ruby-e-sapphire-848671,120620130139.jpg
FranticShipping #2
 


“Allora buonanotte” fece Sapphire, sospirando e poggiando la testa sul cuscino. Si era premurata di pettinare i capelli, come le aveva insegnato Ruby, prima di andare a dormire, in modo da non dover affrontare un mostro la mattina seguente.
In realtà il ragazzo le aveva detto anche di legarli, magari fare delle trecce, giusto per evitare che si formassero dei nodi.
 
“Non ho alcuna voglia di assomigliare a Pippi Calzelunghe... E non ridere”.
“Non assomiglierai a Pippi Calzelunghe. Avanti”.
“Ti ho detto di non ridere! E poi a te pare facile! Hai quattro peli in testa!”.
“Tu invece hai una criniera!”.
“Ma sono folti! Sono foltissimi!”.
“Meglio”.
 
Meglio. Ripensava a quella discussione e lo rivedeva, mentre sorrideva dolcemente. Lui già dormiva, con quell’espressione di assoluta quiete sul volto, sembrava un bambino. Bellissimo.
Vedeva i capelli ordinati da una parte e quella tremenda vertigine alzata. L’attenzione non poté non poggiarsi sulle cicatrici che aveva sulla fronte, rimasugli di ricordi d’infanzia.
Le palpebre chiuse e le ciglia lunghe trasportarono l’attenzione sul naso dritto e poi su quelle labbra carnose.
E siccome faceva caldo, Sapphire aveva buttato per terra la coperta, creando l’ennesima discussione.
 
“Fa caldo! Dai, non vorrai mica dormire con la coperta addosso?!”.
“Sono abituato a dormire con qualcosa che mi copra. Anche un piccolo lenzuolo, ma devo sempre essere coperto”.
“Ci sono sessanta gradi!”.
“... Sempre la solita esagerata. Ti scaldi troppo, questa è la verità”.
“Ah! Bene! E cosa consiglieresti, sentiamo”.
“Stai calma, ferma e soprattutto zitta”.
 
Lei aveva fatto il broncio quindi si girò dall’altro lato, quando lui la afferrò per il fianco e la girò;  con delicatezza, poi, la tirò a sé.
La baciò, capendo che quello anche sarebbe potuto essere un buon metodo per tenerla quieta ed in silenzio. Poi lei sorrise e lo vide prendere un lenzuolo, piazzandolo solo sulla sua parte di letto, ovvero il bordo esterno ed i conseguenti dieci centimetri annessi, infine gli diede la buonanotte.
Continuava ad osservarlo, scendendo sempre più in basso con lo sguardo, almeno prima che il lenzuolo lo coprisse. Il petto, almeno fino all’inizio del costato, era tonico e glabro, e la curiosità della ragazza di andare a svelare ciò che celava quel telo bianco era troppa.
E poco le importava se si fosse svegliato, lei doveva vedere: lo fece, lo scoprì e, nel farlo, si sentì quasi come in una vecchia soffitta nell’atto di levare un telo polveroso da qualcosa di vecchio.
Ruby non era vecchio.
Scoprì gli addominali del ragazzo, la linea che li divideva e che terminava nell’ombelico, e ancora più giù, seguendo la sottile linea di peluria che si perdeva sotto l’elastico degli slip.
Lussurioso, il suo sguardo blu, accompagnò la mano a carezzare l’addome del ragazzo, saggiandone la consistenza ed il calore. Lui sorrise ed aprì gli occhi rubicondi, guardandola come per porre un interrogativo in maniera ironica.
“Non ho sonno e mi scoccio. Ed ho caldo”.
“Niente più?” chiese lui.
Lei sorrise e lo vide avvicinarsi, stringendola. Il suo corpo era molto più freddo di quello di Ruby nonostante dicesse di aver caldo.
“Sei congelata. Non capisco perché non ti copri”.
“Perché ho caldo”.
“Non è così, altrimenti saresti bollente” fece il ragazzo, con aria saccente.
“Ah no?! E dimmi tu allora perché dovrei volermi congelare volontariamente”.
Ruby la tirò a sé, ancora di più, quindi la rovesciò, facendola girare di fianco, costringendola a dargli la schiena. Lui aderì al corpo della ragazza, coperto dai soli intimi. Lei aderì al suo corpo quasi come due pagine di un libro.
La cinse poi sopra i seni e sotto la pancia.
“Per farti stringere, amore. Come ogni sera...”.
“Con te gioco sempre a carte scoperte” sorrise lei. Ruby le baciò il collo e poi sbuffò, infastidito dai capelli della ragazza.
“Dovevi farti le trecc
e...".
 


 
 
 

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Capitolo 16
*** SequelShipping #1 ***


Questo è il mio regalo di compleanno per Capricornus che, a quanto ho capito, ha visto in Toni e Rina la propria OTP. Dopo lei ed Ottavio, naturalmente. Auguri Ange.
Sequel Shipping



Le nuvole di neve quel pomeriggio si erano addensate, accumulandosi l'una sull'altra come pile di lenzuola grigie, piegate ed impilate.
E tirava vento, quel vento malvagio e triste, che fischia non appena incontra un ostacolo, facendo rabbrividire ulteriormente chiunque lo senta. Oltre al vento, il freddo aumentava per via della neve, quella neve gelida ed infida, fatta di piccoli cristalli, sottili come spilli, quasi incandescenti sulla pelle di quei due ragazzi.
I loro piedi affondavano nella neve, ne uscivano anestetizzati per poi riaffondarci dentro nuovamente.
 
Io lo seguo.
 
Queste era il pensiero principale di Rina, stringendo i pugni sotto i seni acerbi, cercando di raccogliere quel poco di calore corporeo che le rimaneva.
 
Nonostante questo freddo, io lo seguo sempre.
 
La bufera imperversava, i fiocchi di neve la bersagliavano, si poggiavano sulla sua pelle, sulle sue braccia, sulle sue guance. Quei fiocchi di neve aveva trasformato le sue labbra in due petali di viola turgidi e screpolati. Umettò le labbra, lei, poi buttò fuori la sua ansia, trasformata in fumo denso e grigio. I denti battevano tra di loro con ritmo serrato ma non riusciva a sentire nulla che non fosse il soffio del vento.
 
Qualsiasi cosa succeda, io devo seguirlo.
 
La testa era bassa, guardava i piedi affondati nella neve. Alzava il passo, lo affondava ancora, e così via, cercando di poggiare la scarpa all'interno dell'orma più grande lasciata da Toni, lì davanti a lei. Alzò gli occhi, vedendo la schiena del ragazzo: i capelli erano fradici, la spalle larghe oscillavano ad ogni suo passo. Era davanti a lei, così vicino che se avesse allungato la mano lo avrebbe toccato.
 
Non ce la faccio più. Glielo devo dire.
 
Ebbe il coraggio di alzare il volto ancora di più: era quasi sera, le nuvole si stavano scurendo ulteriormente. Rina pensò che, probabilmente, dietro di loro doveva esserci un bel cielo stellato, blu, sereno. Le cime degli alberi disturbavano la sua visuale. Rina e Toni camminavano lungo un percorso che puntava verso est, ed il vento soffiava sui loro volti, diventati ormai cerei per il freddo.
Attorno avevano vasti colonnati d'alberi, iniziati poco dopo la Città Bianca e ancora non terminati. Lei guardò prima a destra, poi a sinistra, e vide altri alberi tutt'attorno.
 
Boschi. Boschi a destra, boschi a sinistra. E davanti la montagna.
 
Decise che fosse arrivato il momento, avanzò il passo con le ultime energie che aveva quindi alzò il braccio destro, a toccare la schiena del ragazzo.
"Toni..." disse lei, con quella voce piccola e compressa. "Toni, ti prego, fermiamoci. Non ce la faccio più".
A quelle parole il ragazzo si bloccò. Rina lo raggiunse, poggiando la fredda fronte contro la schiena, nel tentativo di rubargli un po' di calore.
"Rina..." disse, prendendo fiato; fiato che gli congelò i polmoni. "Noi dobbiamo andare avanti! Boruedopoli è a qualche chilometro da qui e quei balordi sicuramente c'entrano con questa neve! Non manca molto!".
Rina tossì, quindi con entrambe le mani cinse il ragazzo. "No, Toni, io non ce la faccio più... Ho freddo. Ho troppo freddo".
"Hai ragione, fa freddo, ma...".
"Toni... Ti prego...".
Lui si voltò e la guardò: gli enormi occhi blu di quella erano quasi chiusi, pieni di lacrime. Leccò le labbra, per inumidirle un po';  a nulla valse, anche perché con quel freddo, dovette provvedere di nuovo ad umettarle. Le guance della ragazza erano rosee e facevano un contrasto assurdo con il resto della sua pelle, bianca come la neve che c'era tutt'intorno.
Lui era a qualche dozzina di centimetri dal suo volto, la guardava, quasi aveva compassione per lei.
"Non pregarmi... Non lo fare, non devi più dire queste parole. Fermiamoci, per oggi. Domani ci rimetteremo in cammino per arrivare a Boruedopoli".
"Grazie, Toni... Grazie mille".
"Non lo dire più ho detto. Ora abbandoniamo questo percorso e rifugiamoci nel bosco".
Lui la prese per mano ed insieme tagliarono il percorso orizzontalmente, uscendo dagli argini di quel fiume innevato.
 
Vai avanti, io ti seguo.
 
Il sottobosco era coperto da un leggero strato di neve, dal quale fuoriuscivano rametti e stoiche piantine.
"Dove... dove ci fermiamo?" chiese Rina, il cui volto aveva ripreso colorito.
"Cerchiamo di stabilizzarci vicino alla parete rocciosa; magari troveremo una grotta, o un posto al coperto...".
Camminarono a lungo, dribblando tronchi d'albero, taluni spogli, altri carichi di neve, poi Rina sentì Toni sorridere. Lei lo guardò.
 
Perché ride?
 
"Silenzio..." fece lui, tirandola a sé. Le mise le mani ai fianchi, direzionandola verso un grande tronco scuro ed umidiccio.
"Che succede?" chiese lei, sussurrando.
"Guarda lì"fece. Poi si spinse addosso a lei, per nascondersi da qualcosa. Rina sentiva il corpo di Toni poggiarsi contro la sua schiena; la mano destra del ragazzo la cingeva alla vita, quella sinistra, come una cintura di sicurezza, le passava davanti la spalla sinistra, camminava sui seni ed afferrava la spalla destra.
 
Mi stringe.
 
"Ecco lì" disse Toni, sorridendo ancora.
Rina aprì bene gli occhi blu, quindi vide un lieve movimento nella neve.
 
Un muso... Un muso marrone... Qualcosa saltella.
 
"È un Deerling... E sai, dove c'è un Deerling c'è quasi sempre un... Oh, eccolo lì...".
 
Sawsbuck. Che bello.
 
Un grosso esemplare del Pokémon Stagione camminava imperioso nella neve, con le sue corna candide e ramificate. La pelliccia che aveva attorno al collo era morbida ed ampia.
"Meraviglioso..." sorrise lei.
"Vero?".
"Già. E poi...".
Rina si voltò ed alzò lo sguardo. "E poi?" domandò.
Toni abbassò il volto, guardandola. Le sue labbra erano vicine, sempre più vicine, sempre più vicine.
E poi la baciò.
 
Oh...

 

 

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Capitolo 17
*** EpochShipping ***


Fuori dopo un po' di tempo un racconto scritto da Rachel Aori. Le auguro il meglio, ha passato momenti difficili. Questo brano vede come protagonisti Agatha e Yellow.


http://fc07.deviantart.net/fs71/f/2013/032/f/2/prof__oak_and_agatha_by_zenkarou-d5tizsy.jpg
EpochShipping


 
Un tempo si era lanciata verso l’amore ad occhi chiusi, bruciando come una stella cadente.
Fu solo nel mezzo del volo che si accorse di ciò che la circondava. Niente luci, niente stelle, niente era connesso.
 
C’era solo lei. In caduta libera.
 
 
Aprì piano gli occhi, sentendo il sole carezzarle la pelle, ormai scavata dalle rughe che le segnavano il volto.
Per la prima volta dopo tanto tempo sentiva il peso degli anni sulla sua schiena. Sedeva su una roccia, il bastone a sostenerle il busto, mentre con lo sguardo fissava avanti a sé.
Guardava quella ragazza, così giovane, così innocente, con quei lunghi capelli biondi.
Anche i suoi capelli era stati biondi, prima che gli anni glieli colorassero d’argento.
La ragazza si allenava, cercando di combinare gli attacchi dei suoi Pokémon, evolutisi appena un paio di mesi prima, contro Lance.
Avrebbe dovuto odiarla.
Avrebbe dovuto vendicare la caduta dei Super4, ma non appena le posava gli occhi addosso, quel coraggio improvvisamente le mancava.
L’aveva vista parlare con quel ragazzo, Red, che lei stessa con Lorelei aveva progettato di abbattere.
L’aveva vista fingersi uomo pur di mantenere quel’amicizia che sicuramente le stava stretta, e l’aveva vista soffrire per questo.
Era bionda, era innocente ed era vittima di un amore segreto che la divorava da dentro.
Agatha vedeva così tanto se stessa in quella bambina da sentire il proprio respiro spezzarsi.
Agatha aveva amato, aveva amato come solo le comete amano, bruciando, distruggendosi a poco a poco, lanciate nella loro folle corsa nel cosmo.
Ma poi, la bruciante passione che l’aveva travolta si era trasformata nell’odio cocente. In quell’odio, in quell’invidia che l’aveva fatta impazzire man mano che Oak creava una famiglia attorno a sé. Famiglia in cui non c’era spazio per lei.
Ed ora guardava la bambina, piena dell’innocenza che aveva avuto anche lei.
“Non credergli piccola, non affidarti a lui così”
Lo pensava, ma voleva urlarglielo. Erano ormai giorni che la osservava, che vegliava su di lei da lontano, iniziando a provare simpatia per lei, per i suoi attacchi un po’ impacciati, per le strategie ingenue ed il sorriso felice ogni volta che riusciva a portarle a termine.
Agatha aveva vegliato, aveva scacciato alcuni Pokémon che avevano puntato la ragazza, l’aveva aiutata a recuperare il suo cappello quando il vento glielo portava via. Aveva fatto tutto questo di nascosto, senza sapere cosa dire.
Perché, non poteva negarlo a se stessa, Agatha a quella bambina stava iniziando ad affezionarsi.
Forse in fondo temeva solo l’ennesimo rifiuto. Sapeva, aveva accettato, che nessuno è obbligato a ricambiare i sentimenti altrui, ma quanto faceva male quel rifiuto.
Perché per lei quella era un’espiazione per ciò che aveva fatto.
E per ciò che non aveva saputo fare.
Non aveva saputo avvicinarsi di nuovo a lui, guardarlo negli occhi e dirgli, per la prima e unica volta
“Ti amo, ti amo come non potrò mai amare di nuovo, con tutta me stessa e con tutto il mio essere. Voglio stare al tuo fianco, Oak, ora e per sempre. Accettami ti prego.”
Avrebbe fatto l’impossibile per fargli capire quanto doloroso fosse, e sei lui l’avesse rifiutata, rifiutata con la delicatezza che quell’incedibile studioso possedeva, avrebbe fatto meno male dell’odio che l’aveva corrosa per tutti quegli anni.
Se ora avesse saputo aiutare lei, se avesse potuto aiutarla a proteggere la purezza del suo cuore, allora forse il suo errore non sarebbe stato vano, sarebbe stata esperienza da tramandare, situazioni da raccontare e di cui qualcuno avrebbe potuto far tesoro.
 
Il sole stava tramontando, la piccola si ritirava nella sua casa, liberando la via del ritorno anche all’anziana. Il sole le aveva scaldato le ossa, ora la donna camminava con la schiena dritta, mentre Gengar le si muoveva agile al fianco, libero di muoversi ora che la sua parte del giorno era sorta. Sarebbe stata una sosta breve, l’indomani la bambina sarebbe stata di nuovo lì e Agatha avrebbe avuto di nuovo l’occasione di osservarla, conoscere quella fanciulla che di sicuro avrebbe brillato più di lei.



Rachel

 

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Capitolo 18
*** BorrowedShipping ***


Eccomi di ritorno su questa storia. Questo capitolo della raccolta è dedicato a Lino, ed al rapporto col suo Ralts. Questa è un Borrowed Shipping, scritta da me.
BorrowedShipping



"Ecco, Lino" la voce di Norman rimbombò pesantemente in quelle stanze così luminose. "Questo è uno dei miei Pokémon, Zigzagoon".
Lino spalancò gli occhi, con il sorriso largo e la dentatura in vista.
"Grazie, Norman! Grazie davvero!". Era davvero felice per ciò che era successo: finalmente sarebbe diventato un Allenatore. Tossì un paio di volte, cagionevole di salute com'era non avrebbe potuto evitarlo in alcun modo, tuttavia il fatto che il Capopalestra della sua città, Norman, gli avesse donato uno dei suoi Pokémon era fonte di gioia per lui. Avrebbe rivalutato se stesso, lo avrebbero fatto tutti.
Tutti dovevano sapere che fosse in grado di lasciare i suoi medicinali e casa sua; soprattutto quel letto infido ed appiccicoso, che lo intrappolava ogni volta che le sue condizioni di salute peggioravano.
I polmoni, pensò lui, non riuscendo a trattenere un sospiro di sconforto; i miei polmoni non funzionano bene. Io non respiro bene e potrei smettere di farlo se sopraggiungesse una nuova crisi respiratoria, di quelle violente.
Ed era per questo che voleva paritre: fuggire da tutto, da quell'apprensione che lo circondava, da quell'ansia comune dei parenti in visita, dall'orrore che la finestra accanto al letto gli offriva ogni qualvolta dei ragazzini giocavano al calcio lì davanti.
Anche lui voleva giocare al calcio.
Guardò con determinazione la sfera di Zigzagoon e poi annuì a se stesso.
Voltò le spalle al viso severo del padre di Ruby e s'incamminò verso fuori; aprì la porta della palestra, sembrava pesare tonnellate, e non appena la luce del sole inondò il suo viso una sferzata d'aria fresca gli riempì i polmoni.
"È questo che mi fa bene..." sussurrò lui, più a se stesso che a qualcun altro; improbabile comunque, dato che era totalmente da solo, tranne che per lo Zigzagoon che aveva tra le mani.
Lo stesso Zigzagoon con cui volle fare conoscenza. Lo fece uscire dalla sfera e s'inginocchiò, guardandolo per bene. Quella sorta di procione sembrava felice e gli si avvicinò amichevolmente, strusciandoglisi contro la gamba.
Quello poi, non era abituato a simili sensazioni e all'inizio gli fece parecchio strano sentire il pelo frusciare contro il tessuto dei suoi pantaloni.
"Ciao Zigzagoon. Io mi chiamo Lino. Stamattina mi accompagnerai a trovare il mio nuovo amico" fece il ragazzo, con voce incerta e flebile.
ZIgzagoon sembrava aver inteso le parole di Lino e si mostrava euforico. Lui decise di avviarsi verso l'esterno di Petalipoli, attraversando il piccolo paesino molto velocemente. Passò davanti alle palazzine e appena mise piede sull'erba umida sospirò: era finalmente in gioco.
"Dice Norman che i Pokémon selvatici si trovano nell'erba alta..." ripassò lui, sospirando. Guardò nuovamente Zigzagoon, che scodinzolò festante, quindi prese coraggio ed allungò il piede nella grande macchia verde scuro.
Ora era lì, si sentiva nella giungla, con un piccolo spingardino caricato a pallini, con il suo cappellino da esploratore ed il respiro irregolare; temeva il leone dietro il cespuglio, temeva la fiera.
Tuttavia avanzava coraggioso, riempiendo il suo cuore di quelle strane emozioni che aveva provato unicamente quando decideva, quelle rare volte in cui si trovava a casa da solo, di abbandonare la prigione rappresentata della sua stanza ed uscire in salotto, e poi ancora più lontano, fino alla porta di casa. Metteva la mano sul pomello quindi sospirava, sentendo il cuore battere forte come una grancassa.
Tuttavia non aveva mai il coraggio di girarlo, quel pomello. La serratura rimaneva chiusa e lui, codardo che non era altro, deglutiva ricchi ed aridi gropponi di sabbia e si voltava, con le lacrime agli occhi.
Che codardo.
Se l'era detto davvero.
Avanzava lentamente, con le orecchie tese; ZIgzagoon lo seguiva lentamente, continuando a scodinzolare con spensieratezza.
Ripensava, Lino, mentre camminava con quel passo poco convinto come quando aveva deciso di dare la svolta.
 
"Mamma! Non ce la faccio più!".
"Non urlare così forte, gioia, che altrimenti finisci per agitarti...".
"Smettila di volermi proteggere da tutto! Sono abbastanza grande ormai!".
"Ma... Lino...".
"Ma Lino niente! Voglio uscire da queste mura! Voglio uscire da questa casa! Voglio andare all'avventura, sentire il vento tra i capelli!".
"Ma sei impazzito?!".
"No! Voglio partire per il mio viaggio!".
"Viaggio?! Non se ne parla!"
entrò suo padre all'improvviso nella sua stanza.
"Non me lo impedirete! Andrò a parlare con Norman e lui mi darà un Pokémon!".
"Non ti darà nulla! Tu devi stare qui e prendere le tue medicine!".
"Papà...".
"Tesoro, effettivamente Lino non ha tutti i torti... L'aria di Petalipoli è fresca e pulita, e noi non gli abbiamo permesso quasi mai di andare di fuori...".
"Alicia, non dire assurdità! Sai quanto fragile sia il nostro Lino!".
"Ma potrebbe arrivare a Mentania, da mio fratello. E noi lo andremo a prendere. Un piccolo viaggio, con un Pokémon. Se lo merita".
"Sì mamma! Sì!" Lino ormai piangeva di gioia.
"Beh... Se la mettete così... Ma prenderai le tue medicine?" chiedeva il papà.
"Sempre! Sempre sempre sempre sempre!".
 
Ricordava ancora la risata dei genitori dopo quella sequenza di sempre che gli consentirono, dopo qualche giorno, di presentarsi davanti alla porta della palestra di Norman.
E adesso stava per compiersi il suo destino.
Sentiva un fruscio e no, non era quel Zigzagoon fin troppo espansivo.
"Questo è un Pokémon..." sospirò lui. Vide alti fili d'erba dondolare lentamente, disturbati da qualcosa. Si avvicinò all'obiettivo, con quell'ansia magnoloquente che lo manteneva per le spalle.
Lui però doveva essere più forte, voleva essere più forte. L'aria era fresca, fredda, gelida, i suoi polmoni bruciavano e la testa girava.
L'ansia lo stava uccidendo.
Con la mano allargò le fascine d'erba interessate e gettò il cuore oltre la siepe. E lo sguardo, s'intende.
"Un... Un Ralts?" chiese a se stesso.
Rannicchiato nei fili d'erba vi era un piccolo Pokémon dalla pelle grigiastra, con la testa verdognola. Alzò lo sguardo vermiglio e fissò intimidito gli occhi verdi di Lino.
"Tu... Tu sei un Ralts" fece poi.
Quello lo fissò spaventato, sorpreso nel vedere il sorriso di Lino.
"Sei un Pokémon davvero carino. Non essere spaventato, non voglio farti del male. Voglio dirti che ho scelto te, per partire all'avventura, per cominciare un viaggio".
Ralts si alzò lentamente, ruggendo in maniera incerta.
"Non voglio farti del male" ripeté.
Allungò la mano piccola e delicata in prossimità del Pokémon, guardandolo sorridente. Vedeva lo sguardo di quello, timido ed impaurito. Sentiva il suo verso tremolante, così basso che quasi pensò di esserselo immaginato.
"Vuoi venire con me?".
La mano di Lino si mosse lentamente, fino ad accarezzare la sua testa. Quello pianse, impaurito.
"Calmati. Vedi? Non ti faccio nulla. Anzi... Tieni..." disse, prendendo dalla tasca una Pokémella blu. Ralts la guardò incuriosito.
"Non essere spaventato. Prendila, è tua!".
Zigzagoon intanto si era fatto spazio tra le fascine e, sotto le gambe di Lino, vide Ralts. Subito ringhiò, ben abituato da Norman ad abbattere l'avversario.
Ralts spalancò gli occhietti rossi, lamentoso, ed indietreggiò.
"No! Zigzagoon, no! Lui è un amico!" fece, prendendo in braccio il piccolo Pokémon Psico ed allontanandolo dal procione.
"Ti proteggo io..." disse poi a quello. "E non appena riuscirai, tu proteggerai me. Ci spalleggeremo a vicenda, proprio come due fratelli".

 

 

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Capitolo 19
*** DualrivalShipping ***


Rachel ha scritto questa Dualrival (Komor x Belle). Molto densa, a me piace molto.                
DualrivalShipping


 
Mi annoio da morire.
Il laboratorio è vuoto, tu sei lontano, quasi dall’altra parte di Unima, quasi troppo lontano persino perché i miei pensieri ti raggiungano. Troppi giorni impegnati a tenerci ancora più lontani.
Quando il C-Gear squilla e leggo il tuo nome sembra come se il sole avesse iniziato a brillare più forte.
Ti odio. Ti odio. Ti odio.
Perché non ho voluto accettare la dolce bugia e ho cercato una verità più amara.
Parli di stanchezza, di stress. So come andrà a finire, ma devo comunque andare avanti. So che sono tonta, me lo hai sempre detto, e a volte non sono tonta come credi ma fingere di esserlo ti fa sorridere. Fingere di esserlo ha sempre reso tutto più facile. Il tuo spiegarmi quello che succede, il tuo avvicinarti a me, mentre mi indichi meglio ciò che c’è da guardare.
Parli di come in questi giorni tu ti senta strano, di come le cose siano monotone, di come niente riesca a renderti felice, qualunque cosa tu faccia.
Nemmeno parlare con me.
Ti odio. Ti amo. Ti odio.
Perché stai decidendo arbitrariamente tutto ciò. Posso solo guardarti andar via.
Lancio il C-Gear lontano, mentre sento gli occhi riempirsi di lacrime che non riesco a fermare. Odio come mi tagli fuori dal tuo mondo, dicendo che è solo colpa tua, lasciandomi impotente a guardarti, mentre torturi te stesso, ti carichi di stress e di impegni. Odio il fatto che tutto ciò che posso fare sia aspettarti. Nonostante non sappia se tornerai o meno, nonostante se dovessi tornare mi troveresti con gli occhi arrossati, i capelli indomiti per essermi rigirata nel letto senza poter dormire.
Ti amo. Ti odio. Ti odio.
Perché questa solitudine in cui mi hai lasciata sta logorando la mia anima.
Cerco di buttarmi nel lavoro. Mi tengo impegnata, faccio ricerche, catalogo risultati. La mia testa è impegnata, ma ogni momento libero lo passo fissando il C-Gear, in attesa di un tuo cenno. Mi basta una sola lettera, anche inviata per errore. Forse cerco un pretesto, forse cerco soltanto una scusa per sentirti, purché sia tu ad iniziare. Piango ancora la notte, quando nessuno può sentirmi, e stringo il peluche che mi regalasti tempo fa, quasi volessi esorcizzare la paura di non poterti toccare mai più.
Ti odio. Ti odio. Ti amo.
Perché forse l’unica persona che non riesco a perdonare è me stessa.
Faccio tutto meccanicamente, ormai non penso nemmeno più. Stranamente la media dei miei errori è calata. Lo stesso è successo ormai da giorni al mio appetito. Musharna mi guarda triste, quasi lamentandosi di non avere più sogni da sgranocchiare. Vesto solo nelle tinte del grigio, e le occhiaie sembrano essere diventate le mie nuove migliori amiche. Vorrei che mi vedessi. Ma magari da lontano, così non noteresti quanto male io stia.
Ti amo. Ti amo. Ti odio.
Perché nonostante tutto non accetterei che tu non sia felice.
Pian piano il tempo passa. Mi sento sempre vuota ma riesco a guardare il cielo in modo un po’ diverso. Riesco anche a trovare la forza di mandarti un messaggio per sapere come stai. Non so se mi rispondi, non controllo, ma mi fa sentire leggera. La notte sto addirittura recuperando il sonno perso. Per i chili in meno non credo farò problemi. Non mi sento bene ma spero che per te sia diverso, altrimenti il mio star male non avrebbe senso.
Ti odio. Ti amo. Ti amo.
Perché ogni cosa che faccio mi fa notare la tua assenza.
Per la prima volta ci siamo riscritti a lungo. Leggerti è stato strano, come guardare tutto al rallentatore. Guardare la nostra conversazione come se fossi fuori dal mio stesso corpo. Guardo me stessa risponderti, scherzare, fare battute. Scopro adesso che è un qualcosa che mi è mancato. Come mi è mancata la tua presenza. Penso che tutto ciò sia strano. Mi sei sempre mancato, mi manchi tutt’ora, ma adesso mi accorgo che non eri solo tu a mancarmi. Mi manca la sensazione di averti vicino. Mi manca persino come ti arrabbi con me quando sbaglio.
Ti amo. Ti odio. Ti amo.
Perché alla fine sono davvero rimasta ad aspettarti.
Ti scusi, dopo tanto, per quello che è successo. Ti dispiace, ti vedo chinare il capo nella videochiamata, gli occhi arrossati anche tu. Mi sento meno sola, mentre ti scoppio a piangere davanti, mentre dico quello che ho passato, mentre ti lancio anche qualche insulto, che tu accetti con un sorriso. Mi è mancato tanto anche questo. La possibilità di sorriderci a vicenda.
Ti amo. Ti amo. Ti amo.
Perché alla fine sei tornato a riprendermi.

 

 
 
 

 

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Capitolo 20
*** OldRivalShipping#2 ***


Salve a tutti. Fuori un'altra Old Rival (Blue x Green). Questo è un POV di Green, un po' triste. E boh, la prossima sarà l'ultima Frantic.
OldRivalShipping#2

Sei bello, sai?
 
Me lo diceva sempre. E me lo diceva tante di quelle volte che ormai ho cominciato a crederci. Ora non saprei nemmeno più a cosa sia andato incontro, seguendo le sue parole, seguendo il suo passo svelto e quello sguardo che rasentava l'infinito, almeno nel mio cuore.
Almeno prima che il suo essere una stronza prevaricasse tutto... Prima che scoprissi quanto umano fosse quello che reputavo l'angelo che avevo di fianco.
Lei pensa che io non sappia.
Ma io so., perché io so tutto. Perché io vedo, perché io sento.
Perché riesco a capire a pelle quando una cosa non funziona.
Sarò anche bello, donna dagli occhi blu, ma oggi sono morto con la speranza che portavo appresso, in quel fagotto che trascinavo dietro di me con dentro le mie fantasie, le mie illusioni.
Le mie volontà per il futuro.
Tutto il tempo passato a costruire il nostro castello, quello che è il nostro rapporto.
Quello che era il nostro rapporto.
Io lo so. Io so tutto.
Io so che tu ti vedi con lui, con l'altro, che sarà più bello, forse, o magari più loquace.
Magari è questo il problema. Magari il fatto è tutto lì. Magari il problema sta nel fatto che io sia così silenzioso, e tu no. Così poco spontaneo... Tu con la spontaneità sei arrivata sempre dove volevi.
Magari è anche perché torno tardi da lavoro, perché ho da fare in Osservatorio. Delle volte ti trovo mentre stai dormendo e non ti sveglio, perché non voglio darti fastidio, e tu la mattina dopo non ci sei già più, sparisci per i tuoi allenamenti; capita che io ti veda direttamente la sera del giorno dopo, con un po’ di fortuna.
Non è buono il nostro stile di vita.
Non è buono quest'orgoglio
Ora non mi interessa più, ad essere sinceri. Tu ritorni a casa tutte le sere e mi parli, come se a me dovessero interessare tutti i tuoi sproloqui sui tuoi finti allenamenti. Finti, sì, lo so.
Perché ti vedo quando lui ti carezza le guance, quando ti sposta i capelli dietro le orecchie. Io ti vedo quando gli sorridi; ed arrossisci, proprio come arrossivi con me. Proprio come arrossiresti adesso, se ti parlassi,se ti dicessi queste cose.
I tuoi occhi si riempiono di lacrime amare. Di lacrime inutili.
Non capisci, non puoi minimamente capire come sia doloroso portare addosso questo senso di vuoto, questo senso di nulla, caldo e pesante come sabbia del deserto.
Mi sento arido.
E no, non tornerà più nessuno di quei momenti passati assieme, in cui io e te eravamo noi. No, noi non saremo mai più quei due. Io non riderò mai più nel vederti crucciare per cose sciocche, tu non mi prenderai più in giro con le tue parole.
Tu non sentirai mai più le mie mani che ti sfiorano, che cercano di portarti in alto, di sfondare i muri immaginari che t'imponi. Perché le difficoltà le crei tu, da sola.
È finita.
Forse doveva andare così, o forse no. Forse sono io che sto sbagliando. Forse sono io che, nonostante tutto, devo necessariamente ricordare a te e a me stesso che la vita è meglio se vissuta assieme.
Forse è così.
 
Ora alzati e vai via, non asciugarti nemmeno le lacrime; voglio che gli altri capiscano che ti sei ferita da sola. Come se gli altri non sapessero già quello che hai fatto.
Da quanto durava? Giorni? Settimane? Mesi?
E poi perché? Che ho fatto? Che mancanza ho avuto? Che cosa ti ha portato a infrangere il nostro muro di rispetto, la nostra promessa, il nostro patto?
Cosa?
No.
Non me lo dire. Ora voglio vederti andare via. Senza sbattere la porta, per favore, nel totale silenzio. Sarebbe la prima volta che tu, nella mia vita, non faresti alcun rumore.

 

 

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Capitolo 21
*** HotsummerShipping #1 ***


Questa non esisteva, almeno prima che io scrivessi Hoenn's Crysis. Gold X Marina, just for you, scritta fast and furious in quindici dannatissimi minuti. Difatti è una semplicissima paginetta Word, ma almeno non è una drabble. Credo.
 

HotSummerShipping


“Fa caldo... Accendi il ventilatore...”.
Il respiro di Marina collassava caldo non appena esso veniva esalato, e spariva, assalito dall’afa di quel luglio incandescente. La ragazza cercava di farsi aria col cuscino del divano, muovendolo lentamente avanti e indietro, senza però alcun successo.
Tuttavia non osava scollarsi da dosso a Gold che, steso sotto di lei, con le spalle sui morbidi sedili in pelle, guardava la televisione.
“Non posso muovermi, Mari...” rispondeva lui, con i capelli di quella negli occhi ed in bocca, come quasi ogni volta che stavano stesi l’uno accanto all’altra.
Alle parole del ragazzo, la castana lamentò qualche verso sconnesso e batté debolmente il pugno sul torace di quello, proprio accanto a dove lei poggiava la testa.
“Gold... Eddai, devi allungare la mano”.
“Non ci arrivo...”.
“Sei sempre il solito sfaticato...”.
Gold sorrise e le baciò la testa, bollente. I capelli di quella ragazza profumavano di shampoo, di quelli che usava sotto la doccia, all’aroma di gelsomino e lavanda, di quello strano colore viola.
“Tu lo sei più di me...”.
“Non è vero”.
“Ah, no? E perché non ti sei stesa sul divano di fronte?”.
“Che domande, qui ci sei tu, no, zuccone?” chiedeva lei, alzando il capo leggermente per poter adocchiare lo sguardo aureo di quello.
“Ah, già. Mica perché quello è troppo lontano...”.
“No. E poi lì c’è il sole, e mi piace stendermi su di te...”.
Gold sorrise. “A me un po’ meno...”.
“Sei uno stronzo senza precedente. Anzi tu sei LO stronzo! Quello originale, quello che dato il via a tutti gli altri stronzi della storia!”.
“Sono il messia”.
“Già!” rise lei. “Tu sei il messia!”.
E poi lei abbassò nuovamente il capo, poggiando la guancia sui pettorali scolpiti del giovane.
“Ti batte il cuore...” diceva lei.
Lui le baciò nuovamente il capo, cingendola con il braccio destro la vita. Le dita andarono a saggiare la tonica carne dei fianchi, lasciata scoperta dal top nero che la divideva dal petto nudo del ragazzo.
“Che mani calde che hai...” sorrise lei.
“Tu sei più calda, amore...” rispose lui, baciandola e scendendo con la mano più giù, sempre più giù, fino a poggiarsi sulle rotonde natiche. Dapprima Marina aprì soltanto gli occhi, osservando il volto disteso di Gold che la baciava.
Fu quando lui strinse tra le mani il muscolo sodo del gluteo che lei diede un grande ceffone al moro.
“Hey! Ma che sei, impazzito?!”.
“Ma... Ma...”
Lei si alzò immediatamente, con l’espressione più contrariata che avrebbe potuto avere.
“Cioè... Sei matto?!” urlava lei.
“Marina, ma...”.
L’espressione di Gold era costernata. Si alzò immediatamente, cercando di seguirla, ma lei si divincolava.
“Non fare così!” esclamava lui. “Tutto questo per una mano sul sedere!”.
Marina gli si avvicinò minacciosa, agitando il pugno, gli sfilò accanto e si stese sul divano.
Gold la guardò confuso come non mai e sospirò.
“Tranquillo, Goldino... Anzi, dato che sei in piedi, perché non accendi il ventilatore? Grazie”.

 
Da qui in poi siete dentro casa mia.
E
quindi pulitevi i piedi, ho appena passato lo straccio. Anche se potrebbe sembrare così, non ho scritto questo angolo autore soltanto per avere l'occasione di far vedere a chi mi siete che ho cambiato il nome. Tanto sarò ubriaco la maggior parte delle volte anche qui a casa, ma almeno l'unica cosa che romperò saranno vasi e coglioni.
Lasciando perdere quest'inutile (inutilissima, oh quant'è inutile) digressione, volevo giustificare la nascita di questo pezzo, che più che un pezzo è un pezzetto.
Cy, che io continuerò a chiamare Capricornus perché ho già subito troppi abbandoni nella mia vita e lei non può cambiare nome così, all'improvviso, è praticamente innamorata di questa coppia.
Siccome Marina dovrà morire nella storia (ma anche no) (ma anche sì) (muhahaha) che sto scrivendo, Hoenn's Crysis, ho voluto lasciare una traccia di questa coppia che mi sono creato, da solo con le mie manone da installatore di fotovoltaico, e l'ho chiamata HOTSUMMER Shipping, perché boh, Marina in inglese si chiama Summer ed insieme sono una coppia che scoppia.
Ed ovviamente non posso valutare l'IC di Marina, quindi l'ho resa un po' un ditino in culo per Gold, che già da parte sua non è una persona "maneggevole", ecco.
E poi boh, che bello! Ho inventato una Ship!
Ci prenderò gusto.
Olla tutti.



 

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Capitolo 22
*** OriginShipping ***


Dopo parecchio torno su questa raccolta con un'Origin Shipping (Rocco Petri x Adriano). Sono riuscito a renderla etero e la cosa mi ha stupito. Commissionata da Cy. Se eventualmente volete vedere un pairing pubblicato non basta che chiedere; ho così tante coppie da prendere in considerazione che avere delle commissioni mi semplifica il lavoro. BTW, buona lettura e grazie per esser passati =)
 




OriginShipping


Non osava quasi mai mostrarsi in pubblico con bermuda e camicia bianca, Rocco, tantomeno con i suoi comodissimi infradito.
Quel caldo quattordici luglio, però, decise di voler abbandonare ogni formalità e, al costo di sentir urlare il re è in mutande!, si attrezzò, scendendo giù in città.
Le vacanze, le agognate vacanze; aveva stabilito con la Lega Pokémon una settimana di totale relax, che il Campione aveva deciso di trascorrere a Porto Alghepoli, affittando una stanza all’interno dell’albergo giù in paese.
Lui adorava quella città: era decisamente più un tipo da montagna, certo, ma non disdegnava la sensazione della brezza marina che spostava i capelli argentati sulla sua testa, dissipando il calore che trattenevano.
Non sopportava il caldo, Rocco.
Ciabattava lento, con gli occhiali da sole poggiati sul muso ed il giornale sotto il braccio; carezzava lentamente con lo sguardo le belle ragazze che facevano jogging, sullo sfondo azzurro del mare. Prima di quanto credesse era arrivato allo chalet Estrella del mar.
Si sedette al tavolino, allungando le gambe e stiracchiandosi, dopo uno sbadiglio. Faceva caldo, ma sotto quell’ombrellone si stava bene, con quella leggera brezza che gli passava sotto la camicia, rinfrescandogli le carni bollenti.
Alzò gli occhiali sulla testa ed aprì il giornale, sospirando, pronto a rilassarsi.
“Ciao” sentì poi, poco prima di focalizzarsi su di un articolo che svelava i segreti del fatidico Pokérus. Alzò gli occhi, voltando il capo verso sinistra, e vide la cameriera dello chalet che aspettava direttive; era bassina, piccola di corporatura. Aveva dei grandi occhi verdi ed un caschetto nero, che tanto si addiceva allo stile gotico che utilizzava.
“Ciao” rispose Rocco, attendendo che manifestasse il motivo per cui lo avesse interrotto.
“Ordini?” chiese, sfatta e scocciata, masticando un chewing-gum.
“Un succo di frutta”.
“Come?”.
“A piacere tuo...” sospirò, vedendola poi sparire oltre l’uscio.
Sospirò, pensando al fatto che le cameriere a cui era abituate erano più gentili rispetto a quella che lo stava servendo. Spedì il pensiero via, lontano dalla sua mente, quindi abbassò nuovamente gli occhi sul giornale.
“Scusi...” sentì nuovamente. Alzò ancora gli occhi, un bambino dai capelli biondi e gli occhi dorati sorrideva senza un incisivo nella sua direzione.
Rocco chiuse per l’ennesima volta il giornale, dopo un lungo sospiro, e quindi annuì al ragazzo, come dandogli il permesso di parlare.
“Lei è Rocco Petri?” chiese quello, facendo scivolare la lingua sull’incisivo solitario che aveva, provocando un fastidioso sibilo.
Rocco annuì.
“Lei è il Campione?”.
Ancora, lui fece su e giù con la testa, leccandosi le labbra e gettando un occhio dentro il locale, in attesa di poter vedere il suo succo di frutta in arrivo.
“Lei quindi è proprio Rocco Petri, il Campione di Hoenn?!” chiedeva il piccolo, con gli occhi sognanti e la bocca spalancata.
La bocca dell’uomo si rapprese, fece schioccare le labbra e poi le ritirò nuovamente, piegandole verso l’interno e nascondendole alla vista del piccolo. “Sì” fece poi. “Come posso aiutarti?”.
“Può farmi un autografo?! La prego! La prego, la prego, la prego!”.
Rocco sorrise, quei momenti per lui erano tanto surreali quanto frequenti.
“Io sogno un giorno di diventare come lei, e di allenare i Pokémon di tipo Acciaio più forti! E sarò il Campione di Hoenn! E porterò il mantello!”.
“Sono felice di questo. Hai un po’ di carta, così che ti faccia l’autografo?”.
Il bambino abbassò lo sguardo, spaesato e terrorizzato: non aveva carta; aveva però una penna tra le mani, una vecchia Staedler a righe verticali gialle e nere, di quelle con la punta allungata. E la carta c’era.
Era proprio tra le mani di Rocco. Gli occhi del piccolo presero a fissare il giornale ostinatamente, per poi rimbalzare nelle pupille grigiastre dell’idolo che aveva di fronte, per una serie che al piccolo parve infinita.
Dal suo canto, Rocco non capiva. Vedeva il piccolo guardare il giornale, e poi la sua penna, poi lo guardava negli occhi e ricominciava tutto daccapo.
E poi lui capì.
La carta ce l’aveva davanti.
“Vuoi... vuoi che ti dia il mio giornale?” chiese, calmo e speranzoso in un NO perentorio e altisonante. No che naturalmente non arrivò.
Arrivò al suo posto un cenno con la testa, un  sorridente e sdentato. Il piccolo allungò la mano, porgendogli la Staedler, che Rocco afferrò con malavoglia. Strappò la pagina di giornale che stava leggendo con dolore inaudito, come se stesse estraendosi un proiettile dalla gamba e, una volta terminata l’operazione, guardò sudaticcio il bambino.
“A chi lo devo fare l’autografo?” chiese, sconsolato. Spostò una ciocca di capelli dal volto ed aspettò che il piccolo rispondesse.
“Aurelio. Mi chiamo Aurelio”.
“Bene. Ti chiami come una mia amica, lo sai?” fece quello, tracciando una linea dritta sul foglio, attestando che la penna funzionasse e che stava imbrattando l’articolo che probabilmente, molto probabilmente, non avrebbe letto.
“La tua amica si chiama Aurelio?!” si stupì quello.
“No” sorrise Rocco. “Si chiama Aurelia. È una donna, lei. Vive ad Unima”.
“E dov’è?”.
“Lontano. Ad... Aurelio... con... simpatia... Rocco Petri. Ecco, tieni” fece, firmando il pezzo di carta di giornale e dandolo al piccolo. Il biondo sorrise strinse il Campione in un abbraccio, che lo rinfrancò leggermente del trauma, quindi lo salutò e rimase qualche secondo a fissare il mare.
Abbassò gli occhi e vide i segni della pagina stracciata. Insoddisfatto, chiuse il giornale e lo chiuse sul tavolino.
Quasi contemporaneamente, vide avvicinarsi Adriano.
Indossava lunghi pantaloni bianchi ed una camicia verde acqua, dello stesso colore di occhi e capelli, i quali stavano ben pettinati sulla sua testa, eccezion fatta per quel ciuffo ribelle che gli spezzava lo sguardo.
Si sedette, stringendogli la mano.
“Hey” sorrise l’ultimo arrivato. “Ero sicuro di trovarti qui. Ho sentito delle giovani che parlavano di te: ti avevano visto e stavano folleggiando”.
“Oh cielo...” sospirò Rocco, voltandosi dentro, sempre nel tentativo di attirare a sé il succo di frutta con lo sguardo.
“Sono tutte tue, caro mio” sorrideva ancora Adriano, sedendosi accanto a lui, toccandogli la spalla con la sua. Ognuno guardava dritto.
“Bah...”.
“Che c’è che non va? Di solito non commenti a queste cose... Oggi te ne esci con tutte queste sillabe...” sorrise ancora il Capopalestra di Ceneride, ironico.
“È una giornata un po’ così, Adriano”.
“E... allora?”.
“E allora sono venuto qui per rilassarmi e leggere il mio articolo, e invece mi ritrovo con una pagina di giornale stracciata e regalata al probabile nuovo Campione di Hoenn e sto morendo dal caldo”.
Adriano inarcò un sopracciglio e sospirò. “Capisco. Hai tante responsabilità...”.
“Già... È complicato fare il Campione. Ci sono tante cose a cui pensare, le sfide, gli allenamenti, le conferenze. E poi i meeting...”.
“Beh, non sembra sia così brutto dover incontrare Camilla e Diantha”.
“No. Loro no. Ma, per esempio, Nardo. Quello è uno spiantato. Quel tipo è totalmente fuori di testa”.
Adriano sorrise. “Ricordo quando il Campione ero io e lui volle assolutamente leggere la mia energia vitale”.
“Non giudico eh, tu mi conosci. Ma che diamine! Leggere l’energia vitale. Con quella scusa si avvicina e ti mette le mani ovunque...”.
“E con Camilla e Diantha potrebbe anche essere utile”.
“Fattele insegnare allora. Con Alice come va?” domandò disinteressato quello dai capelli chiari.
“Mah. Tutto a posto. Non ci vediamo molto, lei è lontana... solite cose. Sai, ieri ho vinto una gara”.
“Che novità...” sbuffò Rocco.
“Era per fare un po’ di conversazione...”.
“Scusami, Adriano. È che sono rimasto male per l’articolo”.
Quello dai capelli verde acqua si voltò leggermente verso l’altro e lo scrutò con interesse, imprimendo nella sua memoria la forma del viso e quell’espressione stanca dietro i Ray ban a goccia che portava.
“Di che trattava? L’articolo, dico”.
“Pokérus” rispose conciso il Campione.
“Interessante... ti piacciono queste cose, vero?” domandò, falsamente affascinato dalla cosa.
Rocco annuì, piegando il lembo sinistro della bocca.
Ci voleva qualche parola per rinfrancarlo, Adriano lo sapeva. Lo vide voltarsi per l’ennesima volta verso l’interno del locale e quindi sospirare verso il mare.
“Beh, Rocco... che posso dirti per farti stare meglio? La forma delle cose è importante, il modo in cui si mostrano è essenziale e tu, essendo un uomo di fama, sotto i riflettori per quasi tutto l’anno, necessiti di apparire nel migliore dei modi. Non angustiarti per un articolo che potresti leggere su internet. Potresti comprare nuovamente il giornale, o vedere se qualcuno che ce l’ha possa prestartelo. Non è la fine del mondo” diceva quello dagli occhi verdi, gesticolando con ampie arcate e rapendo lo sguardo dell’amico.
La cameriera del locale poggiò un bicchiere sul tavolino mentre quello parlava, proprio in corrispondenza della fine del suo discorso; Adriano, assetato, lo prese velocemente e bevve.
Rocco aveva appena fatto partire la mano per afferrare il bicchiere ma la scaltrezza di Adriano lo aveva stupito e battuto; non poté far altro che vedere inerme il suo succo di frutta finire in poche sorsate.
“Ah. Fresco. Comunque, capisci che intendo?” chiedeva l’altro. “È tutta questione di apparenza”.
Rocco levò gli occhiali, calandoli sulla punta del naso, vedendo il volto di Adriano crucciarsi; di preciso si chiedeva perché lo guardasse.
“Vaffanculo, Adriano” fece il primo, alzandosi ed andando via, lasciando l’altro da solo.
“Cosa?! Che ho fatto?!”.

 

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