Acqua viva

di ellephedre
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Scene - Gennaio ***
Capitolo 6: *** Scene - Febbraio ***
Capitolo 7: *** Scene - Febbraio, San Valentino ***
Capitolo 8: *** Scene - Marzo ***
Capitolo 9: *** Scene - Aprile ***
Capitolo 10: *** Scene - Maggio ***
Capitolo 11: *** Scene - Giugno ***
Capitolo 12: *** Scene - Settembre/1 ***
Capitolo 13: *** Scene - Settembre/2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


acquaviva1
Nota iniziale: terza revisione dell'Aprile 2011.

Acqua viva

Autore: ellephedre

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.

 

La carezza di un dito le sfiorò il viso, destandola dal sonno.

Davanti agli occhi aperti ebbe un volto.

Nelle orecchie una voce infantile, la propria.

"Mamma"

Ami si svegliò, sopra di lei il soffitto che era mondo reale.

«Mamma...» Sussurrò la parola al silenzio quieto della mattina.

Mamma. Era stato il lieve mormorio di un altro tempo.

La madre della sua precedente esistenza - la donna che le aveva donato la sua prima vita - era tornata nei suoi sogni come un ricordo che metteva radici, impossibile da dimenticare.

Ami scostò il piumino e si lasciò colpire dall'aria fredda della stanza. Un brivido la percorse dai piedi nudi fino al collo scoperto. Si alzò, trovando le ciabatte dove le aveva lasciate la sera precedente. Percorse i pochi metri che la separavano dalla porta strofinandosi le braccia, per darsi calore. Sarebbero occorsi solo pochi secondi e un po' d'acqua per risvegliarla nella mente e nel corpo.

Entrò in bagno, il regno di piastrelle bianche e azzurre che le dava sempre serenità. Vi era una fantasia di barche e mare sulla superficie lucida della parete. Viaggi, orizzonti inesplorati, futuro.

Rimboccandosi le maniche, si sistemò di fronte al lavandino. Notò un'immagine davanti a sé, dove non aveva ancora guardato. Sollevò gli occhi.

Allo specchio Ami Mizuno la osservò di rimando.

Quello era stato il viso di un'altra persona. Ella si era fusa in lei e insieme erano diventate Sailor Mercury.

Ami Mizuno aveva capelli tanto scuri e lucenti da aver passato il limite del nero. Erano blu i fili corti che le adornavano la testa, schiariti da un sole che aveva deciso che il colore della notte era troppo cupo per lei. Una spiegazione romantica, a giustificare la differenza con le chiome corvine dei suoi genitori.

Sailor Mercury aveva il colore dei capelli di sua madre. Un poco più scuri, una differenza quasi irrilevante. Il taglio degli occhi era identico: grandi occhi dolci - le avevano detto le sue amiche - con lunghe ciglia e palpebre vispe che non si sarebbero mai azzardate a pesarle sullo sguardo.

La sua bocca. Le era sempre piaciuta. La luce artificiale faceva brillare il rosa scuro delle sue labbra come un frutto maturo e delicato; il sole le donava la tonalità di un bel fiore in boccio. Ancora una volta, era la bocca di Mercury. Della madre di lei.

L'angolo a cui piegò le labbra le fece nascere un primo dubbio. Vi era una piccola differenza nella curva calante. Eppure...

Sorrise allo specchio, a se stessa.

Lo aveva sempre saputo: non somigliava molto ai suoi genitori, all'uomo e alla donna del presente che, incontrandosi, l'avevano fatto rinascere. Non le avevano trasmesso le loro fattezze, ma avevano condiviso con lei esperienze, momenti, ricordi. Desideri simili. L'amore per la medicina di sua madre e l'ammirazione per l'arte di parole, suoni e immagini che la accomunava a suo padre.

«Tesoro!»

Si voltò verso la porta. Nel corridoio risuonarono passi rapidi, concitati.

Andò loro incontro, seguendoli fino all'inizio delle scale.

Al piano di sotto stava sua madre, i piedi che cercavano le scarpe posate sull'ingresso e le mani già infilate nella giacca. Aveva i capelli scompigliati.

Ami si permise un sorriso.

«La colazione è pronta!» Fu un grido pacato, amorevole, pensato per richiamare la sua attenzione.

«Sono qui, mamma.»

«Oh!» La sorpresa si trasformò in allegria: una mattina in cui si vedevano dava seguito ad un giorno in cui era più facile non sentire la reciproca mancanza.

«Oggi ho il turno di giorno.»

Amil lo aveva immaginato.

«E un'operazione importante alle quattro. Te ne avevo parlato, ricordi?»

Sì, il trapianto.

Scese dalle scale.

«Tornerò tardi.» Sua madre tornò indietro e la incontrò a metà strada. Le rubò un piccolo bacio dalla guancia. «Passa una buona giornata, tesoro.»

«Anche tu, mamma.»

In pochi secondi la porta di casa si aprì e si chiuse dietro l'ultimo sorriso benevolo di sua madre.

Il silenzio tornò intero, a farle compagnia dandole il buongiorno.

Stiracchiandosi, Ami sbadigliò. Si diresse in cucina e usò l'acqua del rubinetto per darsi una passata fresca sul viso.

Prese in mano la tazza sul tavolo ancor prima di sedersi. La portò alla bocca e si lasciò corroborare le membra dal tè caldo.

La colazione di Ami Mizuno, preparata dalla madre di Ami Mizuno, nella casa di Ami Mizuno. Non vi era errore o interruzione in quella semplice realtà.

Le cose sarebbero cambiate. Nel giro di qualche anno Sailor Mercury avrebbe dovuto presentarsi al mondo e ai genitori che ancora non la conoscevano. Loro avrebbero visto una figlia che non li rispecchiava? Avrebbero riconosciuto nei tratti dissimili dai propri una differenza troppo importante per essere ignorata? 

Se così fosse stato, a suo padre avrebbe mandato un disegno e a sua madre avrebbe regalato qualche parola semplice, sua. Sarebbe bastato a farla riconoscere come Ami, la figlia di entrambi.

Lei era Ami Mizuno. Ed era Sailor Mercury.

Non erano entità separate, benché avessero avuto inizi diversi che si erano congiunti in una sola vita appena tre anni addietro. Lei poteva indossare l'uniforme scolastica o la divisa da combattimento, ma era sempre se stessa: stessa mente, stesso animo.

Il problema era uno solo: la sua vita passata - bruscamente interrotta in tempi antichi - premeva per diventare la sua vita presente. 

Era passato un anno da quando lo aveva saputo, un anno da quando Mamoru Chiba aveva rivelato ad Usagi Tsukino che Crystal Tokyo e il Regno Argentato sarebbero tornati ad esistere in un periodo approssimativamente compreso tra i successivi cinque e dieci anni. Rei Hino - l'unica che fra le guerriere ad aver sempre avuto poteri di premonizione - aveva percepito anche lei come vera quella rivelazione e, col passare del tempo, era riuscita a stimare con maggior precisione l'arco temporale entro cui sarebbe accaduto tutto quanto. Due anni.

Contro le labbra il tè le sembrò improvvisamente freddo.

L'intero mondo avrebbe saputo che lei era Sailor Mercury in un periodo compreso tra i successivi quattro e sei anni.

Si sentiva pronta per quel ruolo, almeno in parte. Quando meno se lo era aspettata, da oramai molti mesi, i propri sogni le avevano portato immagini, suoni, particolari della sua vita passata. Erano serviti a ricordarle alcuni fatti importanti, non ultimo cosa volesse dire assumere il ruolo di Sailor Mercury - la posizione che aveva ereditato da sua madre, scomparsa da qualche decennio quando il Regno della Luna era caduto.

No, pensò, non temeva di assumere un ruolo caratterizzato da grandi oneri. Sarebbe stata in grado di fare molto per il suo mondo e per le persone che lo abitavano. L'enorme responsabilità la spaventava almeno quanto la entusiasmava e questo era sufficiente. Ciò per cui si sentiva molto meno pronta era tutto il resto.

Aveva combattuto contro alieni, mostri, entità malefiche inimmaginabili, eppure continuava ad andare a scuola, a voler diventare un medico, a desiderare una vita normale. Si sentiva normale, una comune ragazza terrestre. Nella sostanza, perlomeno.

Era quella parte di lei a guardare con timore al tempo che aveva davanti. Decenni. Secoli. Un millennio intero, tanto sarebbe durata la sua vita.

Le sue care amiche le sarebbero rimaste accanto fino alla fine dei suoi giorni. Ma i suoi genitori? Loro sarebbero morti tra circa mezzo secolo, anno più anno meno, come ogni normale essere umano.

Non era normale sopravvivere ai propri genitori per oltre novecento anni. Eppure, era proprio quello il destino di una guerriera Sailor. Una guerriera trascorreva la maggior parte della propria vita senza i propri genitori. Nasceva per prendere il posto del genitore da cui aveva ereditato il proprio potere. Lo aveva ricordato una notte di un paio di settimane addietro.

In lei la sorpresa si era unita alla tristezza, una mestizia malamente attutita da una consolatoria consapevolezza: una guerriera, paradossalmente, trascorreva assieme ai propri genitori un periodo più lungo rispetto ad un qualsiasi essere umano. Si trattava anche di un secolo intero in alcuni casi.

Era stato normale nell'antichità in cui era vissuta.

Aveva acquisito quelle informazioni sognando, ricordando il momento della propria... successione? Non poteva che chiamarla così.

Quel giorno lontano la sensazione che l'aveva pervasa era stata di gioia, di orgoglio. Quell'episodio non aveva rappresentato per lei ciò che significava ora, un passo in più verso la separazione da due delle persone più care al suo cuore.

No, ricordò, allora non aveva minimamente temuto di sopravvivere tanto a lungo alla propria famiglia.

Ma ora? Tra secoli e secoli avrebbe ricordato il bene che aveva voluto a sua madre, a suo padre? Avrebbe ricordato la loro voce, le loro parole, la loro presenza?

Come se non fosse una situazione gravosa già da sola, aveva un altro grande dubbio: avrebbe mai trovato qualcuno assieme a cui trascorrere la propria vita? Non era più la banale domanda che poteva porsi una ragazza comune. Non ricordava nulla di quell'aspetto della sua precedente esistenza.

Poteva solo ipotizzare. Ipotizzare che nell'antichità lunare l'aspettativa di vita media delle persone normali somigliasse a quella di una guerriera Sailor o, quantomeno, andasse ben oltre quella presente. Forse era quella, pensò, la situazione che si sarebbe venuta a creare sulla Terra una volta che il Regno Argentato si fosse consolidato.

Era realista e non le piaceva nutrirsi di false speranze. Sarebbero occorsi alcuni decenni - come minimo - prima che l'umanità si adattasse nella società e nella natura ad un cambiamento tanto radicale quanto epocale. Comunque dubitava che nell'antico regno la vita media degli altri esseri umani fosse arrivata a sfiorare i mille anni.

Unendo questa ipotesi a ciò che già sapeva, ovvero che avrebbe avuto una figlia solo nell'ultimo periodo della sua vita, arrivava a conclusioni che le piacevano poco: avrebbe incontrato il padre di sua figlia, della sua erede, solo col passare dei secoli. Avrebbe trascorso la maggior parte della sua esistenza da sola, perché lui non sarebbe mai riuscito a vivere quanto lei.

Non aveva senso quindi, non poteva essere proprio possibile, che lei lo incontrasse a breve.

Se tutte le sue ipotesi si fossero dimostrate corrette, ciò che l'attendeva negli anni a venire, nei decenni futuri, era... non conoscere l'amore. O conoscerlo e accettare che fosse destinato a finire con la sopravvenuta scomparsa di chi amava. Ancora più semplicemente, con la fine della relazione: non sarebbe stato facile per una coppia rimanere unita se uno dei due fosse rimasto eternamente giovane.

Posò la tazza sul tavolo. Non lasciò il manico.

Stava considerando come più importante il problema sbagliato. Non doveva preoccuparsi di una relazione già in piedi, quando da principio per lei sarebbe stato difficile intrecciare una qualunque relazione amorosa. Una volta che fosse diventata Sailor Mercury, ci sarebbe voluto del tempo perché non venisse vista solo come una creatura sovrannaturale, un essere da temere, per quanto rispettato.

E così... 

Fissò gli occhi sul nulla.

Chissà tra quanto avrebbe conosciuto l'amore.

Sentì l'aria che l'abbandonava in un sospiro di resa.

Non provava un bisogno spasmodico di innamorarsi.

Non ancora, almeno.

Non ancora, per fortuna.

Tuttavia, era triste pensare che per lei la possibilità fosse diventata più remota di un tempo.

Lasciò stare la tazza e iniziò a mangiare le fette di pane tostato abbandonate sul tavolo.

Non era da lei, pensò, essere così negativa. Riflettere troppo non le faceva bene. 

Inoltre aveva dentro di sé una convinzione profonda, più vera di qualunque problema: si sarebbe sistemato tutto quanto. Era come sentire la voce di Usagi nella testa, nel cuore, che glielo assicurava. Forse il suo atteggiamento ottimista l'aveva contagiata, ma da tempo nutriva le stesse speranze.

Un giorno sarebbe andato tutto bene. Come o fra quanto ancora non lo sapeva, ma nel frattempo...

Avrebbe vissuto ogni singolo giorno come aveva sempre fatto, al massimo delle proprie forze.

   


   

Lunedì.

Appena uscita da scuola corse alla biblioteca comunale. Aveva avuto un'idea su una teoria matematica di cui avevano parlato a lezione in mattinata. Il concetto le era già stato ampiamente noto, ma la spiegazione che il professore aveva offerto sull'argomento aveva messo in luce un aspetto particolare della teoria. La sua testa aveva iniziato ad elaborare possibilità ancora prima che lei stessa si fosse resa conto di dove voleva andare a parare.

La sua intuizione era tutt'altro che semplice e probabilmente si stava sbagliando, ma doveva consultare più testi, mettere su carta le idee e anche tentare di modificare qualche formula. Doveva provarci, esplorare l'idea. Quel giorno sarebbe stato un primo passo solamente, ma bastava il pensiero della ricerca a emozionarla.

Trovò una sedia vuota nella grande sala principale della biblioteca e posò sul tavolo la pila di libri che aveva recuperato. Sorrise di se stessa: aveva una mente talmente portata all'elaborazione di ciò che la circondava che probabilmente neanche un millennio sarebbe bastato a soddisfare la sua curiosità.

Si mise alacremente al lavoro.

Passarono i minuti, le ore. Le ombre divennero lunghe, fino a quasi sparire e mimetizzarsi con la luce al neon della sala.

Le sedie del tavolo di fronte a lei strisciarono contro il pavimento, distraendola brevemente. Se ne curò solo per un istante, concentrata sullo studio della funzione che aveva creato.

«Guarda quel tipo.»

Udì con tanta chiarezza il bisbiglio che per un attimo lo pensò rivolto a lei. Scorse con la coda dell'occhio due ragazze che confabulavano tra loro. Tornò a concentrarsi.

«Di chi parli? Oh... wow. È proprio bello.»

«Sì, ma mi riferivo agli occhi, guarda che occhi!»

«Aspetta... Hai ragione, che colore strano! Devono essere lenti a contatto.»

«Non credo. È solo straniero, guardalo bene.»

«Shh... abbassa la voce!»

«Tanto non mi sente. E comunque è straniero, non capisce. Vedi, sta persino leggendo in inglese.»

«Va bene, ma abbassa comunque la voce, siamo in biblioteca.»

Già.

«Che noiosa, non c'è praticamente nessuno.»

Seguì un brusio e il rumore di fondo smise di disturbarla. Il silenzio proseguì ed Ami riuscì a focalizzare l'attenzione sul proprio foglio.

«Sai, credo che andrò a presentarmi.»

Sospirò, rassegnata.

«Non ne avrai il coraggio!»

«Perché no?»

«Sono anni che corri dietro a Saiki e non glielo hai mai fatto sapere.»

«Perché devi ricordarmelo, scusa?»

«Per non farti dire cose che non pensi di fare.»

«Però vorrei farlo davvero questa volta. Dai, tirami fuori una scusa per andare a parlare con lui.»

Ami smise di ascoltare. Le voci delle ragazze si facevano sempre più stridule o era solo una sua impressione?

Trovava normale conversare un poco se si era in biblioteca con un'altra persona, ma a bassissima voce e per pochissimo tempo. Altrimenti fuori c'era il parco, dove si poteva urlare ai quattro venti di ragazzi carini e di scuse per parlarci. Dimostrandole di non essere d'accordo con lei, il parlottio continuò imperterrito.

«Scusate.»

A interrompere la chiacchierata era stata una voce maschile.

Cadde un improvviso e innaturale silenzio. 

Ami alzò gli occhi.

«Parlo perfettamente giapponese» stava dicendo un ragazzo alto, straniero, la mano appoggiata sul tavolo ad agevolarlo nello stare chinato verso le sue ammiratrici. Non le guardava con benevolenza. «Grazie dell'interesse, ma sono qui per studiare. Vorrei farlo in silenzio.»

Nelle bocche aperte delle due ragazze sarebbe potuto passare un treno di mortificazione.

Una delle due annuì e iniziò a raccogliere le proprio cose; l'amica si affrettò ad imitarla.

Finalmente.

Come se l'avessero udita, un paio di occhi chiari si posarono su di lei.

Il momento si protrasse per due soli istanti, ma furono sufficienti a far comprendere ad Ami cosa ci fosse stato da decantare in lui. 

Il ragazzo tornò alla propria sedia e a lei rimase impresso il suo atteggiamento.

Povere ragazze. Se fosse successo a lei, sarebbe sprofondata dalla vergogna. Naturalmente al loro posto lei non avrebbe mai fatto simili commenti ad alta voce, così vicina poi all'oggetto del discorso. In fondo se l'erano quasi cercata. Chissà quanto a lungo avrebbero ricordato quel momento di imbarazzo, di vergogna.

Sorrise. Non era stata un'esperienza piacevole per quelle due, ma quel piccolo errore di immaturità sarebbe stato ricordato con una risata negli anni a venire. Incontrare un ragazzo, sognare di uscirci, giocare con le amiche a parlare di lui...

Lei non doveva preoccuparsene più. Si era tormentata al pensiero di dover superare i suoi imbarazzi nel momento in cui un ragazzo l'avrebbe avvicinata, ma oramai le sembravano preoccupazioni... tenere. Belle persino, legate com'erano a sogni innocenti.

Il risveglio delle due ragazze era stato brusco, ma per loro quella era solo un'occasione andata male in una vita che avrebbe offerto a entrambe molte opportunità di quel tipo.

Un giorno tutte e due avrebbero incontrato qualcuno di importante.

Sarebbe successo persino a quel ragazzo: in futuro i suoi strani occhi verde-azzurro avrebbero guardato una sola persona con amore, trovando dolci comportamenti sciocchi che nel presente gli apparivano irritanti. Non sarebbe stato male se la prescelta fosse riuscita a farlo penare un po' prima di capitolare: a lui avrebbe fatto veramente tanto bene.

Ami Si mangiò le labbra, per non ridere. Anche in lei esisteva un po' di solidarietà femminile.

Ridacchiò in silenzio e tornò a concentrarsi sull'elaborazione della sua funzione.

 

Martedì.

All'uscita da scuola decise di svagarsi un po' e seguire Usagi. Vado a fare una sorpresa a Mamo-chan, le aveva detto lei ed Ami si era accodata volentieri. L'università di Tokyo, la Todai, era la migliore del paese, forse dell'Asia intera. Am aveva sognato di entrarci sin da quando era bambina; al coronamento di quel sogno mancava poco più di un anno, sedici mesi da far passare con trepidazione. Le visite al campus erano un'ottima occasione per mitigare l'attesa.

«Usagi?» Mamoru le scorse in mezzo alla gente.

«Mamo-chan!» Usagi si precipitò verso di lui, quasi saltandogli in braccio. «Visto che sono venuta a trovarti?»

Ami restò indietro di qualche passo.

Usagi era luminosa quando stava con Mamoru. L'intensità del suo sentimento catturava lo sguardo come la luce stessa. Per Mamoru valeva la stessa cosa e, nonostante lo conoscesse da anni, Ami non si era ancora abituata al modo in cui l'espressione di lui cambiava nel vedere Usagi, diventando più mite e al contempo intensa.

Usagi e Mamoru erano una coppia destinata a stare insieme per un millennio, finché morte non li avesse separati. Erano materiale da favola - eppure così reali da non suscitare in lei alcuna invidia per il loro destino. Quello che avevano - amore, felicità - era tutto ciò per cui lei si era ripromessa di combattere. 

«È una bella sorpresa» commentò infine Mamoru, girandosi verso di lei. «Ciao, Ami.»

«Ciao.»

Usagi si era attaccata al braccio di Mamoru. «Allora rimani qui?»

«Sì, do un'occhiata agli edifici.»

Mamoru e Usagi la salutarono, andando via. Ami si appoggiò contro il tronco di un albero.

Era quasi novembre e il cappotto che aveva indossato nascondeva la sua divisa scolastica. Non attirava l'attenzione tra gli studenti universitari e poteva starsene tranquilla in mezzo a loro.

Guardò da lontano il complesso di edifici che ospitava la facoltà di medicina.

A quel sogno non avrebbe rinunciato. La sua vita sarebbe stata totalmente rivoluzionata nel giro di qualche anno, ma voleva studiare medicina, più di tutto. Non sarebbe mai diventata medico - non con il peso del ruolo che avrebbe assunto - ma magari avrebbe potuto fare ricerca quando la situazione si fosse stabilizzata.

Lo aveva detto anche Usagi, no? Non c'era alcun bisogno che lei e le altre rinunciassero alle loro aspirazioni. Non ancora, almeno.

Osservò gli studenti che le passavano accanto.

Poter studiare ad alti livelli, circondati da persone che facevano altrettanto, sarebbe stato molto soddisfacente. Magari, una volta che fosse diventata una matricola, avrebbe potuto tentare di battere qualche record laureandosi molto in fretta, così da avere il tempo di fare un minimo di pratica prima che-

Lo aveva scorto solo con la coda dell'occhio, ma lo riconobbe immediatamente.

Il ragazzo del giorno prima.

Stessa faccia seria, stessi capelli castano chiaro - quasi biondi sotto la luce del sole.

Lui girò la testa verso di lei. Non le prestò più attenzione del giorno precedente e, senza fermarsi, continuò per la propria strada.

Le venne da ridere.

Un detto come 'il mondo è piccolo' assumeva finalmente un senso anche nel suo caso.

Decise di fare il giro dell'università e visitare anche altri spazi.

Mercoledì.

Dopo la scuola corse a comprare un libro.

Era il giorno di uscita del nuovo romanzo di uno dei suoi scrittori preferiti, un autore americano. Era stata fortunata e aveva trovato un negozio in cui il volume era disponibile già nella data di uscita della versione in lingua originale. Lo scovò su uno scaffale in bella vista, la copertina tanto attesa che spiccava tra le altre. Senza perdere tempo lo portò alla cassa. La lunga fila non la scoraggiò: avrebbe avuto tutto il tempo di gustarsi le prime pagine. 

Leggere era meraviglioso. Era come vivere vite diverse, sognare senza limiti. Niente avrebbe mai potuto toglierle quel piacere unico e indispensabile. 

«Il suo resto e lo scontrino.»

«Grazie.»

Bastò una parola per farle riconoscere il timbro della voce.

Dalla cima della fila spuntò il ragazzo del giorno precedente e di quello prima ancora. Lui la notò e - per la prima volta - si fermò a guardarla.

Ami era sicura di essere sbigottita quanto lui, ma non altrettanto divertita.

Il ragazzo sollevò in una mano il libro acquistato, un gesto che le sembrò un saluto. Il motivo le fu chiaro solo quando scorse la copertina: era il suo libro, quello che stava per comprare anche lei.

Lui sparì tra gli scaffali della libreria, diretto verso l'uscita.

Lentamente, Ami venne invasa da una piccola risata. Tornò ad aprire le pagine nel punto in cui aveva tenuto il segno, ma continuò a voler ridere.

In fondo non la divertiva proprio la mancanza di silenzio che aveva in testa? Se le sue amiche fossero state presenti, intorno a lei vi sarebbe stato tutto tranne che quiete.

Era come sentire le loro voci. Oh, se al suo posto ci fosse stata Minako, l'avrebbe già vista in strada, in piena rincorsa. Minako non si sarebbe lasciata sfuggire una preda del genere, non dopo tante succose occasioni. Rei neppure, a pensarci bene; senza essere troppo allusiva, anche lei avrebbe trovato un modo per iniziare una conversazione casuale. Makoto... Makoto avrebbe già detto che quel ragazzo assomigliava al senpai che era stato il suo primo amore. Somigliavano tutti in un modo o nell'altro all'ormai leggendario senpai.

Le sue amiche sarebbero state spontanee nelle loro reazioni e in fondo lo era anche lei. Lei al massimo guardava, tutt'al più considerava brevemente la possibilità di qualcosa per cui non avrebbe certo preso l'iniziativa. Ora aveva anche ottimi motivi per non prenderla mai.

Già, ricordò. Per lei tutte quelle coincidenze non erano che un enorme spreco.

Eccola lì, che continuava ad incontrare l'esemplare di sesso maschile più bello che avesse mai visto dal vivo... Arrossì. Tentò di frenarsi ma peggiorò la situazione.

Si scosse. Insomma, eccola, mentre continuava ad incontrare un ragazzo che frequentava l'università dei suoi sogni, interessato allo studio, che leggeva i suoi stessi libri e... non le serviva più incontrarlo.

Incupendosi, aggrottò la fronte e tornò a leggere.

 

Giovedì.

Di pomeriggio uscì con le ragazze a fare shopping.

Non era la sua attività preferita, ma era sempre divertente girare per negozi assieme a loro. Finiva col provare maglioni dei colori preferiti da Minako, minigonne consigliate da Makoto, camicette scelte da Rei e accessori che Usagi non faceva che metterle in mano. Quel giorno - come sempre quando usciva con loro - terminò l'escursione nel quartiere commerciale con due nuovi acquisti, un maglioncino azzurro e una bella gonna. Aveva smesso di tormentarsi per averli presi nell'esatto momento in cui li aveva pagati. Non aveva bisogno di nuovi vestiti, ma quelli le stavano davvero bene.

Seduta davanti ad una spremuta d'arancia, li rimirò nei sacchetti.

«Ami.»

«Hm?»

Appoggiata coi gomiti sul tavolo del locale in cui si erano fermate, Usagi le indicò l'entrata con un dito. «Là c'è un ragazzo che ti sta guardando.»

Ami si voltò immediatamente.

Era lui, sempre lo stesso ragazzo di quei giorni, in procinto di andare via.

Dietro i suoi occhi Ami intravide una riflessione che si sciolse in un sorriso aperto. Lui la salutò con una mano alta.

Lei ricambiò senza pensarci e lo osservò uscire dal locale.

Quando tornò a girarsi verso il tavolo, scorse di sfuggita l'espressione esterrefatta di Minako. Guardò Rei per capire ma non trovò aiuto, solo una sorpresa ancora più grande. Makoto e Usagi erano nella stessa condizione.

«Cosa c'è?»

Makoto sbatté le palpebre. «Ami... Dove hai conosciuto quel tipo?»

«Non lo conosco. Ci siamo visti per caso qualche volta.»

«Visti?» Il tono di Rei andò oltre la curiosità.

«Non ci ho neanche mai parlato.»

«Però ti ha salutata.» Minako aveva incrociato le braccia.

«Solo per essere gentile.»

Minako riportò in bocca la cannuccia del drink analcolico. «Sai solo tu come fai a rimanere tanto tranquilla.»  

«In che senso?»

Rei roteò gli occhi verso il soffitto. «Eppure sembrava guarita quando c'erano i Three Lights.»

Cosa c'entravano loro ora?

Usagi ridacchiò. «Ami, stanno solo cercando di dire che quel ragazzo era veramente carino. Quasi quanto Mamo-chan.»

Minako torturò la cannuccia. «Per te sono tutti secondi a Mamo-chan

«Ehi, solo io posso chiamarlo così!»

Makoto e Rei si unirono alla risatina di Minako ed Ami ne approfittò per tornare a sorseggiare la sua spremuta.

Non aveva voglia di parlare di ragazzi. Di quello in particolare.

Un colpo al tavolo la fece sussultare: Minako vi aveva sbattuto sopra i pugni.

«Ami, riprenditi! Quando una ragazza si trova davanti uno straniero bello come quello, almeno un po' si sconvolge.»

Scusate.

Il timbro grave della voce di lui le risuonò nella mente. «Parla giapponese.»

Gli occhi di Minako divennero fessure. «Non avevi detto di non averci mai parlato?»

Il tono accusatorio la fece sorridere. «L'ho solo sentito parlare.»

Minako abbandonò la testa contro il tavolo. «Ci rinuncio. Lei non lo cerca neanche e se ne becca uno così, mentre noi che passiamo a setaccio la città non troviamo uno straccio di fidanzato.»

«Non siamo fidanzati.»

«Sappi solo che se dovesse succedere...» Minako le mostrò un dito ammonitore, «dovrei eliminarti, Ami. Sarebbe chiaro che sei concorrenza pericolosa.» 

Le uscì una risata. Minako le faceva quell'effetto. La sua allegria, il suo entusiasmo... lei sognava ancora di trovare l'amore. 

Era bello vedere quel tipo di sogni riflessi negli occhi di qualcuno a cui voleva bene. In sé erano vita, speranza.

Ami non voleva distruggerli. Parlando dei suoi timori con le altre lo avrebbe fatto. Se loro non si erano mai preoccupate del futuro, non aveva senso rovinare la loro felicità.

Volle rassicurare Minako. «Non ti preoccupare.»

 

Venerdì.

Dopo le lezioni scelse di fare un giro per il parco prima di tornare a casa.

Il parco era pace. Lei adorava la pace, la meraviglia della natura che, nella sua infinita complessità, trovava un equilibrio costante, un'armonia, un ordine.

Passando sopra un piccolo ponte, si fermò a contemplare alcune anatre che, tranquille, nuotavano nel laghetto sottostante.

I colori delle loro penne erano simili, anche se con gradazioni e dimensioni delle macchie lievemente differenti. Forse se si fossero potuti intabulare quei dati sarebbero venute fuori le gradazioni di colore più diffuse con relative misurazioni. Era probabile che i dati fossero distribuiti secondo una curva... normale? Riportò alla mente un passaggio di teoria statistica e si rese conto che una distribuzione T di student avrebbe fatto maggiormente al caso suo.

Venne distratta da una figura che correva, che si avvicinava.

Non riuscì a credere ai suoi occhi.

Il ragazzo di quei giorni, in tuta da jogging, stava avanzando verso di lei. Lui la notò e si stampò in faccia un'espressione stupita, l'ennesima.

Ami si attese di nuovo un saluto divertito, ma questa volta lui non passò oltre. Rallentò invece, fino a fermarsi a pochi passi da lei. La osservò con quello strano paio di occhi chiari, un contorno scuro attorno a iridi azzurre che sfociavano nel verde. Mare tropicale, assolate spiagge da cartolina.

«Sai...» Lui accarezzò con un sorriso la parola. «Forse se ci presentiamo smetteremo di incontrarci.»

Le sfuggiva la logica dell'affermazione. E non le piaceva quella vicinanza tra loro, quell'incontro. 

Come se gli avesse chiesto di chiarire, lui continuò. «Sono cinque giorni di seguito che ci incontriamo. Tu non stai seguendo me né io sto seguendo te. Se il caso ha deciso che dobbiamo conoscerci, tanto vale accontentarlo.»

«Il caso è un insieme non ordinato di eventi. Non credo c'entri.» Alle sue stesse orecchie la risposta trasudò acidità.

Stranamente, a lui sembrò interessare.

«Mi chiamo Alexander Foster.»

Che bisogno aveva di presentarsi?

Non le lasciava neppure scelta: non ricambiare col proprio nome sarebbe stato maleducato. «Ami Mizuno.»

Lui annuì e... non disse altro. Nulla.

Lentamente, lo scorrere dei secondi cominciò a farsi pesante.

Sembrava una sfida sottile, un invito a parlare per prima. Per farsi avanti?

Sarebbe rimasto deluso. 

Gli uscì un sorriso consapevole. «Non lo chiedi?»

Hm?

«Perché parlo giapponese.»

«Suppongo che tu sia cresciuto qui, lo parli bene. Comunque è una domanda personale.»

«È vero. Però mi viene posta con una certa requenza da completi estranei.»

Come se a tutti dovesse interessare conoscere la sua vita privata. Ami preferì evitare di commentare e scelse la stessa soluzione che aveva adottato lui: il silenzio.

Affinché cogliesse il messaggio, lasciò vagare lo sguardo, sperando che presto se ne andasse.

Trascorsero lunghi istanti, ma lui persistette a restare fermo su un lato del suo campo visivo, immobile, in un posa che non trasmetteva un grammo di disagio. Iniziò a percepirlo lei: era sotto osservazione, valutata. Una qualunque reazione diversa dall'indifferenza sarebbe parsa una debolezza perciò, per distrarsi e mantenere la calma, focalizzò l'attenzione sulla distesa d'acqua dietro di lui. Era blu scuro, con una soffusa tonalità grigia. Acque invernali, spente. Belle.

La pervase una sensazione di quiete. L'acqua era proprio il suo elemento. 

«You are quite the strangest girl...»

Tornò alla realtà. Che bisogno c'era di parlare in inglese? «Ti capisco bene. Non è gentile.»

Nella sorpresa di lui non vi fu neppure un pizzico di vergogna. «Già, il libro era in lingua originale.» Piegò le labbra in un sorriso da cui era sparito il desiderio di giocare. «Quello che ho detto non voleva avere un'accezione negativa. Pensavo che sei molto strana solo perché non riesco a definirti e normalmente...» fece una pausa, «non mi è difficile. Comunque scusa.»

Lei si limitò ad annuire, cercando di non prestare attenzione alla serietà del suo tono.

Lui studiò la sua espressione per un altro lungo momento. «Allora... è stato un piacere conoscerti, Mizuno-san.»

«Sì» fu l'unica cosa che le uscì dalla bocca.

Lui riprese a correre e in pochi secondi fu lontano.

Lei rimase immobile.

Era come se fosse appena terminata una strana commedia. Avrebbe voluto trovarla divertente, ma non le riuscì.

Non ha senso, pensò. Non aveva alcun senso che continuasse ad incontrare quel ragazzo. Non che la sua irritazione fosse più logica: lui si era solo presentato, non le aveva certo fatto chissà quale avance. Non c'era alcuna ragione per collegare quei loro incontri alla possibilità di ...

Già, ammise a se stessa. L'unica ragione risiedeva nella sua testa: lui le piaceva. Le piaceva a quel livello superficiale che portava le persone a voler conoscere meglio l'oggetto del loro interesse. Non era solo il suo aspetto. C'era qualcosa nel modo in cui si poneva, nel modo in cui parlava, che... che...

Qualunque cosa fosse, non aveva senso esplorarla. Era meglio per tutti che non succedesse mai niente tra loro.

Non aveva senso neppure considerare cosa fosse meglio fare: siccome non esisteva alcun fato, lei non avrebbe mai più incontrato quel tipo.

Lanciò un'ultima occhiata alle anatre e si allontanò dal ponte, con calma.

 

Sabato.

A mezzogiorno andò all'ospedale a pranzare assieme a sua madre.

Durante quella settimana si erano viste poco. Riflettendoci, era una situazione frequente. Era stata lei stessa a proporre quell'incontro, nel tentativo di rimediare a quella mancanza. La proposta aveva strappato un sorriso a sua madre; per via degli impegni di entrambe, non pranzavano quasi mai insieme.

Sì, si disse Ami. Era ora di iniziare a trascorrere più tempo con la sua cara mamma. E avrebbe scritto a suo padre, magari sarebbe andata a trovarlo - per stare qualche giorno anche con lui - durante le vacanze che sarebbero venute.

Era un buon piano.

Uscendo dall'ufficio di sua madre decise di approfittare della bellezza del parco che circondava l'ospedale. Era una piccola oasi ben curata, pensata per il riposo della mente e del corpo. Accanto alla panchina a cui si avvicinò ne trovò un'altra molto più piccola e buffa, a misura di bambino. In preda a un istinto giocoso, vi si sedette sopra. Accucciata, si sentì a suo modo un gigante. La sediolina di legno le impediva di piegare le gambe e le permetteva di toccare il terreno con le mani, eppure... era divertente stare lì, quasi come se avesse la metà dei suoi anni.

Tirò fuori dallo zainetto il libro che si era portata dietro. Aveva terminato in un solo giorno la lettura del romanzo acquistato quello stesso mercoledì, ed era stata costretta a mettere in borsa un evergreen della sua biblioteca, un testo che non si sarebbe mai stancata di leggere.

Sul marciapiede risuonò un rumore di passi.

Ne udì tre - solo tre - ma seppe comunque chi era.

Non lo guardò, ma le gambe di lui si fermarono davanti ai suoi occhi.

«Non è possibile» lo sentì dire.

La risata quasi la offese.

Il suo silenzio doveva aver comunicato il suo disappunto, perché lui tossicchiò, a disagio.

Ami sollevò gli occhi. Lui era uguale al giorno prima - ovvero una specie di tortura costruita su misura per lei, pensata per tormentarla col pensiero di una tentazione irraggiungibile, amara proprio per quella ragione.

Il ragazzo lanciò un'occhiata verso la struttura dell'ospedale. «Non sei fuori dal pronto soccorso perché qualcuno che conosci si è fatto male, vero?»

«No. Mia madre lavora qui, sono venuta a trovarla.» Avrebbe dato meno spiegazioni se lui non le fosse parso preoccupato.

«Io sono qui perché un mio conoscente si è rotto un braccio. Gli stavo tenendo compagnia.»

Il commento più indicato le sembrò un cenno affermativo del capo, noncurante.

Lui inclinò la testa e concentrò lo sguardo su di lei. «Vieni spesso a pranzare in questo posto?»

Che domanda era? «No, mai.»

«Allora oggi ci siamo incontrati in luoghi che non frequentiamo in nessun altro momento. È la sesta volta di seguito... Pare che il caso cominci ad assumere un ordine.»

Il riferimento alle sue parole del giorno prima era palese. «Non c'è nessun ordine.»

Il tono piccato non lo scoraggiò. «Probabilmente no, tuttavia, giusto per coprire ogni possibilità... Sono al primo anno di fisica alla Todai.»

Eh?

«Se ora mi dici anche tu dove studi, potremo eliminare la variabile casuale dai nostri incontri. È un ragionamento privo di basi sensate, ma, se avremo qualche strumento per ritrovarci, non servirà più il caso per farci incontrare. Diventerà una nostra decisione.»

Decidere di incontrarlo nuovamente? Lei voleva tutto il contrario.

Lui la studiò. «Intendevo dire che potremmo anche decidere di non incontrarci mai più.»

«Sono al secondo anno, istituto Azabu.» Per un momento si pentì di aver risposto tanto in fretta, ma la possibilità di porre fine alla conversazione ke era parsa improvvisamente vicina. Lui - Alexander - annuì di nuovo. Rilasciò uno sbuffo, per metà divertito, per metà rassegnato e si chinò un poco.

«Visto che è l'ultima volta che ci vediamo, vorrei saperlo: detesti l'idea di incontrarmi di nuovo, è chiaro. È per qualcosa che ho fatto?»

Ami si vergognò come una ladra. Lui non aveva nessuna colpa dei suoi pensieri: fargli capire che non vedeva l'ora di sbarazzarsi della sua presenza era estremamente sgarbato. Non aveva mai trattato così male una persona. Prima di lui, d'altronde, non le era mai capitato di desiderare - anche solo un poco - una cosa che non avrebbe mai potuto avere. Non prima di qualche secolo, almeno.

«Volevo scusarmi, se era stato così.» Il ragazzo sembrava rassegnato. «Ma se non vuoi rispondere, non ha importanza.»

Ami si decise a riprendere un minimo di controllo. Inspirò aria pulita e un po' di buon senso. «Scusami per averti trattato male. Non dipendeva da te.»

No, lui non aveva proprio colpa se, oramai, l'unica cosa che lei era in grado di mostrare ad un ragazzo che le interessava era quanto le desse fastidio averlo intorno. 

«È un periodo...» Le mancò la forza per terminare. Si dedicò a guardare l'erba e inspirò profondamente, sconsolatamente, nel tentativo di mandare via la sensazione da cui veniva invasa ogni volta che lo vedeva. Rammarico.

Con la coda dell'occhio vide la gamba di lui che si muoveva - non per andare via, ma per avvicinarsi di un passo.

Cercò di raccogliere il coraggio di salutarlo, ma quello che vide nei suoi occhi le provocò una stretta al cuore.

Pietà. Compassione.

Ora era questo che provocava negli altri, solo a guardarla? Se solo lui avesse saputo quanto era gravoso il futuro che l'aspettava, l'avrebbe compatita ancora di più.

Incontrò la verità in quel modo.

Lei... si compativa. Da sola.

Fu un singolo momento di incredibile chiarezza - non voluto, pesante, opprimente. Minacciò di scoppiarle nel petto e tutto quello che lei riuscì a fare fu rimettere il libro nella borsa, agitandosi.

Doveva andare via da lì.

Le arrivò alle orecchie il suono di uno strappo.

Prima che fosse riuscita ad alzarsi, si ritrovò il ragazzo di fronte, inginocchiato a due passi di distanza. Lui le stava offrendo una... margherita?

«Non c'era niente di meglio in giro, ma è sempre un fiore.» Glielo porse, sfiorandole il dorso delle dita coi petali. «Per te.» 

La sua mano si girò da sola. Il fiore le finì sul palmo, bianco e leggero, sottile. Prezioso.

Il vento minacciò di farlo volare via ed Ami lo chiuse nel pugno.

Non era altro che un fiore strappato all'erba, solo una margherita di campo. Eppure... Lo accarezzò coi polpastrelli. Eppure era fonte di un piacevole calore. Era la volontà di una persona di farla stare meglio, di aiutarla.

Che cosa carina.

Prese la margherita tra il pollice e l'indice, facendola roteare su se stessa. 

Il primo fiore che avesse mai ricevuto in dono, regalato da un ragazzo che le piaceva.

Che cosa scioccamente romantica.

Il suo cuore iniziò a battere un po' più forte e fu così... bello. Era talmente bello sapere che poteva succedere anche a lei. Quella sensazione poteva appartenerle già nel presente, non solo in un futuro lontano decenni, o secoli. Per quell'avvenire non era cambiato niente, ma dal nulla, in un giorno qualunque, le era capitato di provare una sensazione tanto dolce ed era meraviglioso. 

In quel momento il fiore le sembrò il miglior regalo che avesse mai ricevuto.

«Grazie.» Riuscì a staccare lo sguardo dalla margherita.

Nel viso di lui incontrò un'espressione strana, molto intensa.

Nel suo stomaco volarono farfalle.

Il ragazzo si tese e si alzò. «È solo un fiore. Ma se è bastato a farti stare meglio, allora hai la forza di superare qualunque problema tu stia avendo.» Lui provò a scrollare le spalle, un movimento che non terminò. «Devo andare. Continua a stare allegra, Ami Mizuno, ti si addice davvero.»

 

Da quel giorno Ami smise di incontrarlo.

Domenica non lo vide.

Lunedì neanche.

Martedì no.

Mercoledì neppure.

Giovedì uscì per quasi tutto il giorno - non per poterlo incontrare, no. Ottenne come unico risultato quello di tornare a casa tardi.

Poi... smise.

Smise di voltare la testa ogni volta che le sembrava di intravedere una capigliatura più chiara.

Incontrare quel ragazzo era stato ciò di cui aveva bisogno.

Fino al giorno in cui avevano parlato non si era accorta di essersi nascosta una verità importante: non aveva mai compreso realmente cosa le facessero provare le conclusioni a cui era arrivata sul proprio futuro. Si era rifiutata di esplorare le sensazioni che avevano iniziato a risiedere dentro di lei. In parte inconsciamente, in parte no.

In fondo non era bello sapere che, se fosse stato il destino di qualcun altro, lei stessa avrebbe provato genuina compassione per quella sorte.

Compassione.

Pietà.

Aveva provato quei sentimenti pensando all'avvenire che l'attendeva.

Aveva sbagliato. Era sbagliato focalizzarsi su cose che potevano non accadere.

Forse sarebbero accadute. Molto probabilmente sì. Ma nel frattempo, in un giorno qualunque, poteva succederle... qualunque cosa. Incontrare quel ragazzo era servito a ricordarle quell'unico ma importante fatto: c'era speranza ogni giorno. La speranza di cose inaspettate.

Rivederlo, tuttavia, non sarebbe stata una di queste. Se ne convinse col passare dei giorni.

Va bene così.

Per il giovedì successivo la sua vita era tornata alla normalità.

Almeno fino a quando non lo rivide di nuovo, in piedi, davanti all'ingresso della sua scuola. 

  


 

CONTINUA ...

 

Nuove note: spero che la storia sia piaciuta a chi la sta leggendo, sia per la prima volta che dopo la revisione.

Questa coppia mi è particolarmente gradita tra quelle che ho inventato, essendo Alexander il primo personaggio originale da me concepito. Ogni parola su di lui e questa fanfiction perciò sono sempre graditissime!

Elle

Note della prima stesura, le lascio soprattutto per ricordo.

- alla faccia della one-shot :) Probabilmente sarà una storia in tre parti. Non ce la facevo davvero a farci stare tutto in un solo capitolo, per quanto lungo. Credo che ciò abbia molto a che fare col nuovo personaggio che ho creato: penso che sia necessario dare un buon background, far capire il carattere di un personaggio perchè i lettori lo capiscano/comprendano davvero. Non volevo farlo in un paragrafo, magari dicendo cose di lui che invece avrei potuto più efficacemente mostrare; ma questo appunto richiede più spazio

- anche questa storia, come già 'L'indole del fuoco', si inserisce nella linea che ho creato con 'Oltre le stellÈ. Ma non è necessario aver letto quella storia per capire, dato che le informazioni necessarie le ripeto qui.

- la trama dietro questa storia dedicata ad Ami rispecchia un po' di più la versione manga della storia di Sailor Moon: nel manga non c'è stata nessuna glaciazione e il regno di cui Usagi è sovrana è durato appunto per molti secoli. Nella versione manga Chibiusa ha in effetti più di novecento anni, quindi non è una bambina normale.

- senpai (significato): compagno di scuola più grande

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Acqua viva
Acqua viva

Autore: ellephedre

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.


Quando udì delle voci femminili che si avvicinavano, Alexander alzò brevemente lo sguardo.
Nelle tre ragazze che uscirono dalla scuola non scorse né capelli né occhi blu, perciò tornò a leggere il suo libro. Pochi secondi dopo, lo raggiunsero i loro mormorii divertiti. Passandogli accanto le ragazze cercarono di moderare il volume delle risatine.
Lui evitò di scuotere la testa.
Almeno avevano tenuto bassa la voce. Nelle due ore passate, non molte altre persone avevano avuto la stessa attenzione.

Ci era abituato, ma non c'era nulla come un istituto superiore che lo riportasse dritto dritto in un universo fatto di giudizi facili e persone da inquadrare ad ogni costo in uno schema. Per gli studenti di quella scuola, ad una prima occhiata, lui era solo un gaijin, uno straniero che non poteva capire una sola parola di giapponese.
 Capelli castano chiaro, occhi azzurri e molto più alto della media locale: quella era la sua natura e, in alcuni casi, la sua dannazione. Da quando aveva smesso di essere uno studente, abbandonando l'uniforme scolastica d'ordinanza, non c'era stato più nulla che non lo facesse passare automaticamente per un turista.
Girò la copertina del libro che teneva in mano. Era persino abituato a leggere in inglese. Non aiutava la propria causa.
Non disdegnava la narrativa giapponese, ma forse in quel campo più che in altri si faceva sentire forte il richiamo delle sue origini anglosassoni.
Squillò il telefono che portava dentro la giacca.
Quell'apparecchio non gli piaceva molto: era ancora troppo costoso per essere un oggetto di uso comune e le uniche persone con cui poteva comunicare erano i suoi genitori. Oltre naturalmente a...
Premette il pulsante di risposta e portò il telefono all'orecchio. «Ciao Nanny Shoko.»
«Ciao Alex. Torni a casa per cena, oggi?»
«Sì.»
«C'è qualcosa che preferiresti mangiare? Tua madre mi ha chiesto di domandartelo.»
Lui ne immaginò il motivo. «È un tentativo di farmi digerire meglio una cena tra amici
Gli amici di lei erano sempre gente nuova e conosciuta da poco.
«... sì.»
Col tono Nanny Shoko si scusava per colpe altrui. Come se potesse farci qualcosa.
Lui fu tentato di dirle che preferiva mangiare fuori, ma - rifletté - lo aveva già fatto per quasi tutto il resto della settimana, tra studio e momenti di svago. Per quanto lo infastidisse dover condividere un momento di tranquillità con persone semisconosciute, sua madre era sempre particolarmente felice quando era presente anche lui alle sue cene. L'ultima volta che l'aveva accontentata era stato... Fece mente locale. Diverso tempo prima. Non ricordava nemmeno quando.
Diavolo. «Vorrei del riso, carne rossa e insalata. Ma se tu hai troppo da fare, posso-»

«Non sono mai troppo occupata per il mio ragazzo.
»
A ragazzo si sarebbe potuto sostituire bambino. Nanny Shoko adorava prendersi cura di lui e non faceva niente per nasconderlo.
«Va bene. Ci vediamo dopo.»
«A stasera.»
Lui chiuse la comunicazione e rimase ad osservare la scritta visualizzata sul display del telefono portatile.
Nanny Shoko.
Forse non poteva aspettarsi che lei lo considerasse un adulto, se continuava a chiamarla in quel modo.
Quell'appellativo però le piaceva, no? Shoko Kaiba si era affezionata al termine inglese sin dalla prima volta che glielo aveva sentito in bocca e ne aveva incoraggiato l'uso. Lui, bambino di sei anni lasciato per la maggior parte del tempo da solo con lei, aveva imparato a chiamarla così. E a volerle bene.
Nanny Shoko era stata una madre per lui quasi più della sua stessa madre. I figli di lei a volte gli erano sembrati i fratelli che non aveva mai avuto.
Gli sarebbe potuta andare molto peggio, lo sapeva. Stranamente, i suoi genitori avevano dimostrato una singolare capacità di giudizio nella scelta della sua prima e unica tata giapponese. Non che non l'avessero, in altri campi: la sua irresponsabile madre sapeva tutto sulla moda e su come organizzare party. Suo padre, invincibile stacanovista, conosceva i suoi consigli di amministrazione ancora meglio delle macchine che amava collezionare. Pur nei loro evidenti difetti, erano entrambi persone a posto, persino affabili e divertenti quando volevano, per quanto la descrizione si adattasse maggiormente a sua madre. Suo padre era divertente solo quando abbassava la guardia; accadeva sempre in momenti rari.
Suo padre e sua madre, in un modo che gli risultava incomprensibile, funzionavano come coppia.

In qualunque modo la si volesse vedere, una cosa era certa: non erano mai state persone destinate a diventare bravi genitori. 
Negli anni lui lo aveva più volte percepito, e riteneva fosse normale provare una certa acrimonia nei loro confronti, un poco di risentimento che usciva soprattutto quando litigava con loro.
Per fortuna, da quando era diventato grande, la relazione coi suoi genitori aveva preso una piega migliore: Michael e Eve Foster non erano mai stati bravi a dialogare con un bambino -  o con un adolescente in fase di ribellione -  ma una persona adulta la potevano capire.

Il legame che lui aveva costruito in quegli anni con loro non sarebbe mai potuto esistere se Nanny Shoko non fosse entrata nelle loro vite. Chi altro avrebbe osato dire a suo padre che doveva interessarsi di più di lui? E se non ci fosse stata Nanny Shoko, sua madre non avrebbe mai imparato a farsi rispettare come genitore. E lui... Lui sarebbe rimasto convinto a vita di non meritare l'attenzione di nessuno, visto che i suoi genitori - sponteneamente - non erano capaci di dargliela. Sua madre lo adorava, ma quando si trattava di parlare tra loro la sua attenzione vagava rapida. I bambini l'avevano messa a disagio, in fondo ancora la annoiavano. Suo padre era più drastico: lo annoiavano le persone, a meno che non dovesse farci affari. Se ascoltava suo figlio a cena - se era presente a cena - era già un successo.
Aveva pensato Nanny Shoko a rimetterli in riga il più possibile, e senza farsi licenziare. Vedere che lei riusciva a rimproverarli - senza farlo davvero, poiché Shoko Kaiba era sottile e furba - aveva insegnato ad Alexander che non era lui ad essere sbagliato, ma i suoi genitori - gli atteggiamenti che tenevano nei suoi confronti, almeno, quando lo ignoravano. Shoko aveva insegnato a tutti ad essere una famiglia, e aveva gestito i loro orari - e i loro incontri - in maniera perfetta per molti anni.
Non era forse per le sue abilità che continuava a lavorare in casa loro? Lui non aveva più bisogno di una tata da tempo. Come governante lei si era dimostrata altrettanto brava e lui era stato felice del nuovo ruolo che aveva permesso a Nanny Shoko di rimanere con loro, in sostituzione della vecchia governante che era andata in pensione. La signora Ichigo poi non gli era mai stata particolarmente simpatica.
Dall'edificio scolastico stava uscendo un altro gruppo di studenti, questa volta tutti maschi.
Alexander non si disturbò nemmeno a guardarli, ma loro guardarono e commentarono lui.
Cosa ci fa uno straniero qui?
Magari è venuto a trovare qualcuno.
Zitto che ti sente.
Tanto non capisce.
Anche uno straniero capisce che parli di lui se lo guardi.
Corretto. Il resto erano affari suoi.
Era in momenti come quello che gli mancavano i vantaggi di un anonimo aspetto giapponese. In passato non aveva mancato di desiderarne uno, di tanto in tanto. Ma, dal momento che la genetica non era un'opinione, da una madre ex-modella americana e da un padre inglese poteva uscire solo qualcosa che in un paese come il Giappone sarebbe stato tutt'altro che anonimo.
Guardò il cielo.
Volendo, avrebbe potuto tentare di stimare il grado della sua mancanza di anonimato. Se prendeva come campione gli studenti della scuola e il numero di persone che, fin dal termine delle lezioni, avevano sentito il bisogno di commentarlo passando dall'uscita, forse sarebbe venuta fuori una misura del potenziale disturbo che poteva trovare in una folla di persone.
Ci pensò su.

No, concluse: oltre al fatto che non aveva certo perso tempo a contare chi lo aveva commentato, i risultati non sarebbero stati significativi. Il campione si limitava agli studenti di un istituto superiore, non rappresentava una generica popolazione. Inoltre, non tutti gli studenti lo avevano visto, passando dall'uscita; la massa di persone lo aveva impedito.
Trattenne un sorriso sarcastico. Ridicolo.
Lanciò un'occhiata all'orologio. Non aveva davvero nulla da fare se iniziava a elaborare idee come quella. Riflettere sulla propria popolarità era... penoso.
Guardò la scuola.
In quel senso le superiori erano state l'ambiente peggiore per lui, il posto in cui aveva dato il peggio di sé.
Il problema però era cominciato prima. Già alle elementari era stato vittima della mania giapponese di ricercare qualcuno che esemplificasse un ideale di perfezione, un esempio a cui guardare. Erano fissati. Fra i suoi compagni di classe quell'ideale era stato lui, un ruolo che non aveva chiesto né cercato - all'inizio. A garantirglielo automaticamente erano bastati un carattere non proprio socievole e una serie di voti senza imperfezioni. Suonava come il cliché di un anime, ma per un po' aveva indossato proprio quell'immagine. Gli era piaciuto sentirsi importante, e aveva scoperto che era molto facile grazie al suo aspetto.
Somigliava a sua madre e sapeva che, da un punto di vista oggettivo, il suo era considerato un aspetto eccezionale. Da un punto di vista soggettivo, a lui la sua faccia piaceva principalmente perché era sua da diciannove anni.
La parte di sé a cui aveva sempre dato maggiore importanza, per fortuna, era quella che era prevalsa fin da quando aveva cominciato a capire il mondo: amava leggere, imparare, pensare e ragionare più di ogni altra cosa. Nessun ragazzino della sua età era stato al passo con quegli interessi.
A lungo, con rare e ben accolte eccezioni come il suo amico Yamato, Alexander aveva segretamente giudicato gli altri inferiori a lui. Nanny Shoko non aveva mancato di rimproverarlo per quella sua superbia, ottenendo un successo a metà. La considerazione che aveva avuto degli altri non era aumentata nel tempo proprio per colpa loro, si era detto, per il modo in cui lo trattavano. Si ponevano da soli in condizioni d'inferiorità, poiché per primi lo giudicavano superiore a loro, idolatrandolo i ragazzi e adorandolo le ragazze.
Dopo anni di quel trattamento, alle superiori aveva smesso di avere troppo riguardo per loro. Coi ragazzi quasi non aveva quasi parlato e si era divertito apertamente ad ignorare i più stupidi. Con le ragazze... per circa un anno si era approfittato continuamente della loro pressante attenzione. Gli erano bastati pochi giorni - al massimo un paio di settimane - per arrivare a pensare di una singola ragazza che era troppo noiosa, o non sufficientemente sveglia. La mollava puntualmente per trovarne un'altra e far ripartire il ciclo daccapo, continuando a sperimentare. Era stato divertente, lo aveva fatto sentire cresciuto.

Non si portava dietro troppi rimorsi di coscienza solo perché era sempre rimasto un gioco con tutte, se n'era assicurato.
La somma dei suoi errori era riuscita a farlo arrivare a una conclusione interessante. Forse, aveva capito, il meno sveglio di tutti era proprio lui nella sua arroganza.
Era ancora arrogante. Ma uscire dalle superiori lo aveva aiutato a diventare una persona nuova. All'università, in un ambiente pieno di studenti stranieri e persone interessate a studiare e crescere, lui aveva trovato il suo posto, il suo mondo.
Non era passato neppure un anno, ma la sua vita era seriamente migliorata. A descriverla, l'avrebbe definita una griglia di partenza su cui continuava ad allenarsi, pronto a correre per sfidare gli altri e se stesso. Si era accorto che c'erano cose che ancora non sapeva della vita - incredibile - e la sua nuova umiltà gli aveva dato immensa soddisfazione. Non aveva senso vivere senza aspirare ad imparare ancora.

Osservò l'edificio davanti a sé.
No, non gli mancavano gli anni delle superiori, per fortuna erano passati e finiti.
Tornò a controllare l'orologio.
Se il libro si fosse rivelato meno ripetitivo, avrebbe potuto passare il tempo a concentrarsi su quello invece che sui propri pensieri. Continuare in quel modo si prospettava noioso, ma da lì non se ne sarebbe andato. Non poteva aver scelto proprio un giorno in cui lei si era assentata da scuola, no?
Ami Mizuno doveva essere ancora impegnata nelle attività di club; lui la immaginava ligia anche a quel tipo di doveri. Per non correre il rischio di mancarla nel caso si fosse sbagliato, era arrivato davanti alla scuola appena prima del termine delle lezioni.
Un'ossessione che durava da più di una settimana - si era detton - meritava di essere esplorata.
Nei giorni successivi al loro ultimo incontro si era aspettato di rivederla di nuovo per caso, come era successo tutte le altre volte. Aveva finito col guardarsi spesso intorno, alla ricerca di quei capelli corti, nero che virava sul blu. Ad un certo punto aveva smesso di proposito di cercarla: in precedenza lei era sempre entrata spontaneamente nel suo campo visivo, quindi la strategia migliore era aspettare.
Aveva atteso inutilmente: il suo ragionamento, a quanto pareva, aveva decifrato la volontà del destino. Un'assurdità, ma era accaduto veramente: avevano smesso di vedersi senza cercarsi, di ritrovarsi negli stessi luoghi senza volerlo.
Per qualche giorno aveva cercato di convincersi che fosse meglio così. Ami Mizuno aveva detestato incontrarlo.
Magari, aveva pensato, lei aveva associato la sua presenza a qualcosa di poco piacevole che le stava capitando; era l'unica spiegazione che era riuscito a darsi. L'espressione dell'ultimo giorno, lo sguardo rassegnato e quasi vuoto, parlava di problemi non indifferenti. Era stato come vedere un uccello che aveva perso le ali, o qualcosa che in natura non sarebbe dovuto esistere.
Lei doveva aver percepito parte dei suoi pensieri dal modo in cui lui l'aveva guardata; non si era curato di nasconderli. In seguito si era reso conto che avrebbe dovuto. Il vuoto che Mizuno gli aveva mostrato si era rapidamente trasformato in disperazione, in una tristezza che lui non ricordava di aver mai visto in faccia a nessuno. Aveva sentito l'impulso di porre fine a quello che aveva causato. Gli era sembrata una buona idea prendere una delle margherite che crescevano lì accanto. Aveva cercato di farlo passare per un gesto divertente, forse persino romantico. Aveva solo desiderato farla stare meglio.
Poi Ami Mizuno aveva sorriso - come lui non aveva mai, mai visto sorridere qualcuno in tutta la sua vita. Era stato il sorriso più... tutto che avesse mai visto.
Pensato per il fiore, rivolto al fiore.
Non era stata per lui quell'espressione, era nata per quello che aveva fatto. Doveva aver significato qualcosa.
Se fosse rimasto con lei quel sabato, forse ora lo avrebbe già scoperto.
Era dovuto andare via per non saltare un incontro, seppur informale, con una persona che avrebbe potuto offrirgli un lavoro estivo per il prossimo anno. Allora non era sembrata una buona idea mancare. Col passare dei giorni, invece, era parso sempre più un grande errore. Se ne era andato convinto di poterla rivedere, era la sua unica attenuante. Si era aspettato di incontrarla di nuovo ogni singolo giorno, da lunedì a domenica, e poi per tutta la settimana che era seguita.
Siccome non era accaduto, era lì per seguire il suo stesso consiglio e utilizzare l'informazione che aveva ricavato da lei per rivederla.
Sbatté le palpebre.
Guardava davanti a sé da interi minuti, ma solo ora era apparso qualcuno nello spiazzo della scuola. Era Ami Mizuno, con la testa china a leggere un libro mentre camminava piano verso l'uscita della scuola.
... come avrebbe potuto iniziare il discorso?
Valutò diverse opzioni, ma nessuna gli sembrò adatta. Aveva tentato di sorriderle il giorno che si erano parlati sul ponte; funzionava sempre, ma non era servito a ottenere da lei neppure un grammo di benevolenza.
Forse doveva semplicemente lasciarla in pace. Non era nemmeno detto che avesse ben interpretato la reazione dell'ultima volta, la scintilla d'interesse finale.
Aggrottò la fronte.
Da quando si poneva dubbi simili? Stare lontano dalle relazioni gli aveva fatto male: Ami Mizuno era solo una ragazza, certo che sarebbe riuscito a convincerla ad uscire con lui.
Bastava insistere un po'.
No?
Parlarci era l'unico modo per saperlo.


«Ciao.»
La voce di lui entrò nelle sue orecchie come una scossa.
Ami alzò lo sguardo.
Ed eccolo lì, a pochi metri da lei, appoggiato con noncuranza contro la barriera di protezione del marciapiede. Aveva un libro in mano, la giacca scamosciata aperta, i capelli mossi dal vento, gli occhi chiari concentrati. Su di lei.
Le mancò il respiro. Quando riuscì a riportarlo dentro il petto, fu l'istinto a scegliere la sua prima espressione.
Sorrise. «... ciao.»
Nello sguardo di lui passò una corrente di... sollievo? Lasciò spazio ad una massiccia dose di sicurezza. «Il caso non c'entra questa volta.»
Oh, era venuto lì apposta. Apposta? «Come facevi a sapere che sarei uscita a quest'ora?»
«Non lo sapevo. Sto aspettando dalla fine delle lezioni.»
Dalla fine delle lezioni? Da più di due ore.
Si disse subito di smetterla. Non doveva arrossire.
Si morse le labbra. «Ho il... club di informatica.»
Lui sorrise un poco, come se la reazione di lei fosse insieme naturale e gradita. «Immaginavo che frequentassi un club, ma non volendo rischiare... La sorte non ci ha più aiutato.»
Era venuto davvero a cercarla. «... no.»
«Come ti avevo detto, credo che toccasse a noi decidere. Vorrei conoscerti meglio, Ami, se sei d'accordo.»
No, non era d'accordo. Non poteva portare a niente di buono. Aprì la bocca. «Sì.»
Inorridì. Cosa stava facendo?
La risposta non lo aveva sorpreso. Con lo sguardo lui la studiava come se sapesse già cosa le passava per la testa. «Non ho bisogno di sapere cosa ti ha messo in faccia l'espressione dell'altra volta. Parlare, conoscersi... non ha mai fatto male a nessuno. Se vuoi, sono disponibile a essere usato anche solo per farti ridere.»
Usato per-? Serrò le labbra, cercando di trattenere una risata sommessa. Inutilmente.
«Visto? Funziono.»
Già.
Che male c'era? Un ragazzo voleva conoscerla. La faceva ridere, la faceva stare bene.
Sentirsi in quel modo era davvero piacevole.
Lasciò parlare quella parte di lei. «Sì... funzioni. Mi piacerebbe conoscerti meglio.»
Che avventatezza. Che coraggio.
Che gioia.

«Vorrei fare il medico.» Ami sorseggiò il caffè che aveva ordinato.
Alexander Foster rimase ad osservarla, come se... come se avesse tutto il tempo del mondo per farlo. «Dottoressa Ami Mizuno... Sì, sei proprio tu.»
Si riferiva al suo aspetto? Lei sapeva bene che i capelli tenuti corti e l'uniforme scolastica le davano un'aria seria, compìta. Ne andava fiera. «E tu?»
«Io mi specializzerò in Astrofisica. Ho intenzione di concludere Fisica qui, e dopo mi sposterò negli Stati Uniti. La nuova frontiera della scienza è nello spazio. Fare di questo tipo di ricerca un lavoro è quello che ho sempre voluto.»
Sogni. Per un futuro felice.
Annuì. «Tu invece non hai l'aspetto di un fisico.» Di solito una persona tanto poco anonima si dedicava a lavori dove l'interazione sociale era imperante.
«Che aspetto dovrebbe avere un fisico?»
Che sciocca a non aspettarsi una domanda simile. Improvvisò. «Nell'immaginario collettivo, intendo. Ad esempio, non riesco a immaginarti con una matita in mano e degli occhiali. Come uno... studioso.» Pessima spiegazione.
Invece di replicare, lui andò ad aprire la cartella di cuoio che si era portato dietro. Ne tirò fuori una matita gialla e nera e... degli occhiali. Li sistemò sul naso dritto con una piccola spinta della gomma posta sull'estremità della matita. «Ho una leggera miopia, a volte li uso.» Inclinò un poco la testa e fissò gli occhi sui suoi. L'azzurro delle sue iridi virò sul verde, una sfumatura ancora più.... «Forse quando sarai dottoressa potrai guarirmi tu, che ne dici?»
Il sussurro finale la fece precipitare in un oceano di imbarazzo.
Quello era flirtare, vero?
Entrò nel panico. Era troppo inesperta, non sapeva come reagire. Cercò di prendere tempo guardando le finestre.
«Ami.»
Perché non usava il san? Perché lei non glielo chiedeva? Perché la sua voce era un brivido che sembrava più una carezza?
Oh, era stata una cattiva idea. Non era in grado di gestire una persona come lui, che doveva avere anni di esperienza con rapporti di quel genere. E lei nemmeno aveva intenzione di andare chissà dove con quel loro- Gli lanciò un'occhiata e il pensiero svanì con la rapidità con cui era arrivato.
L'espressione di lui si era chetata, non conteneva neppure un briciolo della malizia di prima. Era di nuovo qualcuno a cui potersi avvicinare.
«Non lo farò più» le disse.
Flirtare? Ma era una cosa naturale. Il problema era che- «Quella strana sono io.»
«Forse sei quella normale, invece. In fondo è solo una specie di recita, un gioco. Può servire se coinvolge entrambi i partecipanti, ma il suo scopo principale è mettere a proprio agio le persone, e far capire loro se sono compatibili. Ad un livello... non fondamentale, in fin dei conti.»
Il ragionamento la stupì. Erano entrati in un ambito che conosceva molto bene. «Se intendi dire che una compatibilità a livello meramente chimico non conduce sempre ad una relazione fondata su solide basi, ti do ragione. Ma in una relazione stabile non può mancare una buona intesa fisica.»
La sorpresa nel viso di lui fu dapprima lampante e subito dopo quasi... divertita.
Intesa fisica? Gli aveva detto proprio così?!
Volle sprofondare sotto terra. Come aveva fatto a discutere di compatibilità fisica e di relazioni stabili proprio in quel momento?
Che disastro.
Lui terminò di sorridere. «Sono d'accordo con te.» Si appoggiò meglio contro lo schienale imbottito. «Però non credo che non esplorare immediatamente quell'aspetto impedisca ad una relazione di formarsi. Una volta consolidata la conoscenza dell'altro e apprezzate qualità che catturino l'interesse in modo stabile, si può passare con maggiore consapevolezza a conoscere altri aspetti. Ciò dando per scontato che le parti in causa abbiano deciso in modo razionale di rimandare l'esplorazione della compatibilità fisica, avendo fin da principio riconosciuto che essa esiste. È una premessa fondamentale.»
Le sue guance diventarono fornaci. Quello era ancora un discorso in generale, giusto?
Lui sembrava nel suo elemento. «Non pensavo che avrei mai incontrato qualcuno in grado di parlare in maniera così impersonale di rapporti umani. Riguardano le persone in modo tanto diretto che discuterne come abbiamo fatto dà l'impressione di cinismo.»
Oh, . Persino le sue amiche la guardavano stranite quando si lasciava trasportare troppo da quel tipo di analisi.
«Comunque» continuò lui, «prima ho flirtato perché pensavo che ti avrebbe divertita. È un tipo di gioco che mi è sempre riuscito bene.»
Sì, poteva immaginarlo. «Visto che ora non parli in maniera impersonale, ma proprio di te, mi sembra un'affermazione piuttosto presuntuosa.»
Lui prese a ridere. «Hai ragione.»
Ami si rese conto di aver tentato di capire se quel suo commento lo avrebbe irritato. Sentirlo ridere di se stesso la mise definitivamente a proprio agio.
«Sembri soddisfatta.» Lo sguardo di lui fu tranquillo e attento. «Cos'hai concluso?»
«Come?»
«Su di me. Sei arrivata a una conclusione giusto ora, no?»
Certo che era davvero diretto. «Ho concluso che la sicurezza che hai in te stesso non equivale ad arroganza.» E ora aveva la sua piena attenzione. «In precedenza avevo avuto l'impressione che... che fossi fin troppo certo che sarei stata interessata a conoscerti.»
Le sue parole colsero nel segno. L'espressione seria nel volto di lui si rilassò con consapevole lentezza.
Ami seppe di non essersi immaginata il lieve movimento della testa. «Anche tu sei giunto ad una conclusione su di me.» 
«Sì. Mi farai un gran bene.» Nonostante il tono leggero, non era uno scherzo. «Non sbagliavi, la sicurezza che hai visto è anche arroganza a volte. È un mio difetto.»
Così sembrava che fosse partita a giudicare una persona che nemmeno conosceva bene. «Ecco... non era mia intenzione criticare.»
«Mi hai dato una risposta sincera, non mi aspettavo altro.»
Né da lei né da se stesso. Già, era una buona spiegazione per la schiettezza che aveva notato nel suo atteggiamento.
Annuì e... non seppe cos'altro dire. Di cosa potevano parlare ora?
Fu costretta a pensarci per meno di due secondi.
«Cosa studiavi l'altra volta in biblioteca?» le chiese lui. Si era sporto in avanti, le braccia piegate sul tavolo.
«Hm?»
«La prima volta che ci siamo incontrati. Eri circondata da libri.»
Ah, giusto, la teoria che le dava ancora da pensare. Se c'era una soluzione, era quasi sicura che richiedesse l'uso di un computer e di un programma da inventare daccapo. O, più probabilmente, una preparazione universitaria specialistica che lei ancora non possedeva. «Tentavo di elaborare un approccio diverso per un problema di matematica a cui ho sentito accennare in classe.» Non elaborò oltre. Sapeva di annoiare quando entrava troppo nel dettaglio.
«Sul serio? Per che tipo di problema?»
Sembrava genuinamente interessato. O forse era solo un modo per cercare di compiacerla.
Testò quella convinzione con una domanda mirata. «Uno dei problemi di Hilbert.»
Lui la osservò in silenzio.
Appunto.
Il sorriso la sorprese. «Wow. Fammi indovinare... il numero otto, Riemann.»
Lei rimase senza parole. «Ma... ?»
«Come ho fatto a capire a quale dei problemi irrisolti ti stavi riferendo?»
Ami annuì.
«Sei ancora alle superiori. Difficilmente in classe puoi aver sentito parlare di qualcosa che si colleghi ai problemi di Hilbert, a meno che non si tratti di numeri primi. Veramente hai avuto un'idea su come dimostrare l'ipotesi di Riemann?»
Lei lasciò perdere la sorpresa e sorrise apertamente. «Sì.» Poteva parlarne con qualcuno che capiva!
Smise di frenarsi e iniziò a descrivere nei particolari l'intuizione da cui era stata colta, aggiungendo la spiegazione sul punto in cui era arrivata con l'eventuale dimostrazione, ancora tutta da strutturare.
Lui rimase ad ascoltare senza dire nulla per metà spiegazione, poi tirò fuori un foglio e iniziare a mettere per iscritto un paio di formule. Gliele mostrò, dandole una rapida spiegazione sul loro utilizzo.
Ecco! Quei punti di raccordo le erano venuti a mancare durante il ragionamento. «Sono regole di statistica avanzata, vero?»
«Sì.» Lui prese a sorridere con una felicità che, ne era certa, rispecchiava la sua. «Se fossi andata avanti senza conoscerle, credo che avresti finito col rielaborare tu stessa la teoria che ci sta dietro.»
Era un'esagerazione. «Non sono così brava. Avevo intuito che mi mancavano diverse nozioni.» Senza neanche rendersene conto, emise una risatina. «Inoltre, non è molto intelligente tentare di risolvere un grande problema matematico senza avere una preparazione di ottimo livello prima.» Indicò il foglio con un cenno della testa. «Si finisce col fermarsi su punti per cui è già stata trovata una soluzione.»
«Questo sì.» Lui riprese a scrivere. «Ma potremmo tentare di divertirci andando avanti alla cieca, almeno per un po'. Tu continua a spiegare, io provo a completare con quello che so. Se non riesco ad esserti d'aiuto, almeno ti avrò anticipato argomenti che ti interesseranno molto.»
Sentire qualcuno che associava il concetto di dimostrazione matematica al divertimento quasi la commosse. Nel tentativo di non fargli vedere fino a che punto la proposta la entusiasmasse, abbassò lo sguardo.
Lui tornò a mostrarle il foglio, corredato di una nuova formula e di cinque frasi che ne spiegavano brevemente il significato con incredibile chiarezza.
«Ecco, credo che potrebbe essere utile anche questa.» Comprendere quello che aveva scritto era lampante non solo per via della sintesi dei concetti fondamentali, esposti in punti, ma anche per l'ordine della grafia. Era un modo di scrivere molto adulto e... intelligente.
Suo malgrado, Ami sorrise di nuovo. «Io so che per studiare fisica si devono sostenere esami legati alla matematica, ma non pensavo che conoscenze approfondite di statistica fossero necessarie. Per caso tu hai scelto un percorso particolare?»
Gli bastò un movimento della testa per negare. «Forse in qualche università esiste un percorso simile, ma io sono solo al primo anno, ricordi? Mi toccano ancora gli esami obbligatori.» Guardò anche lui il foglio. «No, queste cose le conosco per interesse personale.»
Poteva capirlo. La pura curiosità aveva spinto anche lei ad apprendere più di quanto le fosse stato richiesto. «Va bene, allora proviamo.»
«Certo.» Un dito di lui indicò la sua stessa testa. «Non risparmiarti, spremi da qui tutto quello che puoi.» Piegò gli angoli della bocca verso l'alto, ancora una volta.
In automatico lei ebbe la stessa reazione e, nel giro di pochi minuti,
fu capace di riconoscere la verità: quando Alexander Foster sorrideva, nel suo petto cominciava una piccola aritmia, piacevole.
E lei non si sentiva più in imbarazzo ad ammetterlo.
Piccoli progressi.

«Hm. In assenza di collasso gravitazionale, l'ipotesi più probabile è che intorno alla stella vi siano buchi neri primordiali.»
Esatto! «La loro esistenza potrebbe essere provata se si rilevassero pattern d'interferenza nelle radiazioni gamma, giusto?»
Lui assentì ed Ami smise di avanzare, voltandosi nella sua direzione.
«Ho letto che è allo studio un progetto per mandare in orbita un telescopio che avrà proprio questo obiettivo.»
«È vero.» Si fermò anche lui. «Avere la certezza che questi buchi neri esistano ci darebbe ulteriori informazioni sull'origine dell'universo.» Guardò all'improvviso di lato. «Tornando sulla Terra, penso di aver appena avuto un'informazione più semplice ma altrettanto importante. Questa è casa tua.»
«Sì.» Certo che lui trovava il modo di rendere divertenti anche le cose più semplici. «Grazie per avermi accompagnata. E...» Si decise a fare quell'aggiunta. «Grazie anche per essere venuto a incontrarmi, oggi. Sono contenta di averti conosciuto meglio.» Lo era davvero. Non ricordava nemmeno perché fosse stata tanto nervosa da principio. Erano state tre ore semplicemente fantastiche: non era mai riuscita a parlare con un'unica persona di tante cose che la interessavano. Lui le aveva anche indicato quali argomenti avrebbe potuto studiare per approfondire la dimostrazione che avevano cercato di mettere in piedi. Anche se probabilmente avevano già incontrato l'errore che la rendeva invalida, l'ora passata a discuterla era stata estremamente soddisfacente e istruttiva.
Inoltre, si era ormai convinta che lui avesse smesso di pensare a lei da quel punto di vista, se mai lo aveva fatto. In tre ore non si era più fatta viva neanche l'ombra di un flirt.
Non ne era dispiaciuta: Alexander era talmente intelligente che essergli amica le sarebbe bastato. Anzi, era decisamente il rapporto che preferiva avere con lui.
«Non credo che tu ne sia felice quanto me.»
Le stava sorridendo ancora, e di nuovo nella sua testa lui andò oltre la mera definizione di carino. Era proprio quello a renderlo un po' troppo... beh, semplicemente troppo per lei.
«Senti, vorresti uscire anche questo sabato? A pranzo, se non hai altro da fare.»
Sabato non aveva altri impegni e... perché no? «Sì, sono libera. Dove vuoi incontrarci?»
Accordarsi sul luogo e sull'ora fu facile. Lei non aveva molte idee in merito e lui invece sembrava averne parecchie.
«Ci vediamo dopodomani» le disse infine, preparandosi ad andare.
Lei iniziò ad aprire il cancello di casa sua. «Sì. A dopodomani, Alexander.»
Lui si fermò, rigido.
... cosa gli aveva detto di sbagliato? 
Le bastò incrociare l'ombra del suo sguardo sotto il lampione perché l'idea che la loro potesse rimanere una semplice amicizia volasse fuori dalla finestra.
«Non avevi mai detto il mio nome.»
Il tono di voce basso - il modo in cui la stava osservando - fecero crescere dentro di lei una tensione sconosciuta.
Lui prese a scuotere la testa, come tentando di schiarirla. «Ci vediamo, Ami.»
Si voltò e andò via.
... il proprio nome non le era mai sembrato una parola tanto intima.



Sentendosi osservato, Alexander aprì gli occhi.
Ami era in piedi davanti a lui. Per un momento gli sembrò di scorgere un'espressione di studio negli occhi di lei.
Appoggiò sulle ginocchia le cuffie del minidisc. «Ciao.»
«Ciao.» Il vento le scompigliò i capelli.
Non aveva mai avuto una ragazza con capelli così corti, pensò Alexander. In Ami facevano risaltare la linea del collo, la forma delicata della guance, gli occhi. Il loro colore dava un nuovo significato all'aggettivo 'blu'.
Lei si sedette sulla panchina del parco, di fianco a lui. «Di solito arrivo sempre per prima ad un incontro.»
«Mi piace arrivare in anticipo» sorrise lui.
«Anche a me. Che cosa stavi ascoltando?»
Tirandolo fuori dalla tasca della giacca, le mostrò il lettore musicale. Cliccò sul tasto Rewind e quindi mise in Stop. «Mi piacciono soprattutto altri generi, ma a volte vale la pena di ascoltare musiche come questa.»
Le porse le cuffie e, quando lei le infilò alle orecchie, fece ripartire il brano.
Ami iniziò a sentire qualcosa che... non era musica classica, anche se ad eseguirla era solo un'orchestra, senza alcun accompagnamento vocale. Cominciò a capire che era un brano molto ritmato e allegro, persino divertente. Una sorta di caccia, una corsa.
Vi si immerse.
Fermarsi non era facile, quasi mai. Correre e correre, a volte voler mollare, ma dover sempre continuare. Incalzati.
Lentamente, la musica andò a descrivere emozioni molto più dolci. Gli archi dei violini diedero vita ad un sentimento delicato, ricercato... desiderato, agognato.
Sì, a volte sembra lontana la felicità. Vicina, ma sfuggente.
La musica continuò, accarezzando la cresta di ogni sensazione. Infine, in un crescendo, Ami la udì: speranza.
L'avevano trovata e afferrata, l'avevano vissuta.
La fine - ma già lo sapeva - fu un tripudio di pura pace.
Alexander rimase a guardare Ami mentre era concentrata sull'ascolto.
No, comprese, non era andata via la tristezza che aveva visto in lei durante i loro primi incontri. Ma ora, dentro Ami Mizuno, quella sensazione aveva trovato un senso e un proprio posto. Lei l'aveva affrontata, domata.
Sul finire del brano, il sorriso di Ami si fece sereno.
Alexander conosceva la sensazione, ma era consapevole che per lei non era nata solo dalla musica.
«Cosa c'è?»
Lo sguardo di Ami era una domanda. Il brano era finito e lui non se n'era nemmeno accorto.
Allungò il palmo per ricevere le cuffie in mano. Lei si alzò e a lui non restò che imitarla. «L'altra volta ti avevo detto che l'allegria ti si addiceva molto.»
Lei si rabbuiò, quasi impercettibilmente.
Lui scosse la testa: aveva già capito che non voleva parlarne. «Mi sono sbagliato. Non era allegria, era... armonia. In un certo senso, sei armonia tu stessa.»
Lo sguardo di lei andò con tranquillità all'albero che gettava un'ombra su di loro. Senza rispondergli, si allontanò di qualche passo. Quando tornò a guardarlo, tanto il suo sorriso quanto la sua voce si erano fatti leggeri. «Queste frasi intense le pensi molto, prima?»
Non era stato un tentativo di facile flirt da parte sua, ma fu felice di constatare ancora una volta che tattiche tanto semplici non avrebbero mai funzionato con lei. «No. Credo che il mio sia un talento innato.»
«Non ci farei troppo affidamento.»
Gli uscì una risata.
Ami si unì brevemente a lui prima di guardare verso l'uscita del parco. «Era un brano molto bello. Dove pensavi di andare a mangiare?»

Alexander non le avrebbe fatto altre domande su quello di cui lei non poteva parlargli. Era arrivata a quella prima conclusione in pochi minuti.
Da quando si erano salutati, due giorni prima, lei aveva passato quasi tutto il tempo a domandarsi fino a che punto intendesse portare avanti quella loro relazione.
Non era del tutto certa delle intenzioni di lui, ma poteva conoscere le proprie. Perciò si era interrogata senza nascondersi nulla, l'unico modo corretto per procedere.
Lui le piaceva? Sì.
Più di prima? Sì.
Se avesse voluto uscire ancora insieme, lei avrebbe accettato? Probabilmente sì.
L'idea di... stare insieme, le dispiaceva? No. Al momento, non le dispiaceva per nulla.
Non si trattava che di un secondo appuntamento. Lei non si stava comportando molto intelligentemente facendosi domande tanto serie già a quel punto ma... sentiva il bisogno di conoscere le risposte. Risposte libere dalle costrizioni a cui era ancora sottoposta.
Già, se avesse dovuto rispondere tenendo conto di cosa sarebbe stato meglio pensare o provare, avrebbe dovuto rifiutare un eventuale terzo appuntamento e non desiderare nemmeno lontanamente di poter costruire con lui qualcosa di... più.
O no?
Sarebbe stato davvero un problema per lei lasciare che gli eventi prendessero la loro naturale direzione, qualunque essa fosse? Se anche avesse avuto un ragazzo, il suo futuro non sarebbe cambiato. Non sarebbe accaduto nulla di... cosmico. Avrebbe avuto un ragazzo, tutto qui.
Avrebbe provato quello che era suo diritto provare, quello che milioni di ragazze provavano alla sua età.
Quel periodo della sua vita non sarebbe più tornato, in fondo.
Anche questo si poteva dire di milioni di ragazze, ma per lei era un'affermazione che assumeva un valore di importanza fondamentale. In futuro non ci sarebbe più stata solo Ami Mizuno, una ragazza molto studiosa che non aveva mai avuto alcuna esperienza in campo affettivo, che non aveva mai trovato qualcuno che le interessasse veramente e che fosse a sua volta interessato a lei. Non che avesse la presunzione di ritenere certo il secondo punto, in relazione ad Alexander.
No... Quella ragazza, quella Ami, in futuro non ci sarebbe stata più. Non con la libertà di quei giorni.
Il futuro che la attendeva però doveva ancora arrivare e, nel frattempo, lei poteva guardare avanti.
Andare avanti significava anche vivere esperienze normali, conoscere persone nuove... provare cose nuove.
Si era immaginata tragedie di chissà quali proporzioni, di dover rinunciare alla persona amata nei modi più vari dopo averla trovata, ma la sua non era stata forse un'esagerazione?
Una relazione qualunque non doveva per forza trasformarsi in chissà quale grande amore. Poteva essere semplicemente la relazione di quel momento, qualcosa di prezioso semplicemente perché vissuto appieno.
Era arrivata ad una decisione dopo due giorni di riflessioni: avrebbe conosciuto meglio Alexander e... succeda quel che succeda, si era detta. Si sarebbe permessa di divertirsi, di trovarlo interessante, persino di... innamorarsi, se le fosse capitato.
E magari non sarebbe capitato. Dopo due giorni passati a riflettere su di lui, aveva concluso che forse era riuscita ad idealizzarlo oltre il realistico.
Arrivando al parco e trovandolo seduto sulla panchina, ad occhi chiusi e con il mento appoggiato su una mano, aveva concluso che era la seconda conclusione ad essere errata. Non lo aveva idealizzato per nulla. Lui era davvero bello e davvero... tranquillo.
Sul secondo punto le era venuto il dubbio proprio nel momento in cui Alexander si era accorto di lei.
Tranquillo? 
Apprezzava il tipo di musica che amava lei, a quanto pareva. Era perspicace abbastanza da capire quando una persona non voleva parlare di qualcosa. Era calmo, sì, ma a differenza sua non aveva alcun problema a proporsi direttamente agli altri, né ad esprimere in maniera diretta ciò che pensava, specialmente quando si trattava di fare complimenti. Non conosceva imbarazzo. Non sembrava in alcun modo influenzato dal giudizio altrui e probabilmente non lo era.
«A penny for your thoughts, Ami?»
Gli offrì un sorriso. «Scusa, ero distratta.»
Lui scosse la testa. «Cercavo solo di attirare la tua attenzione. Stavo pensando... Vorresti andare a Yokohama?»
Cosa? «... oggi?»
Lui annuì. «Conosco un buon posto dove mangiare anche lì. E potremmo rimanere in città nel pomeriggio. Se vuoi.»
Per quanto fosse un'idea improvvisa, non la trovò contraria, anche se... «Non ci metteremmo troppo ad andare e tornare?» Lo notò che roteava in mano il casco che si era portato dietro, e cominciò a cercare il veicolo verso cui lui si stava dirigendo. Adocchiò una moto verde pratica e comoda, con vetro alto. Notò di sfuggita il veicolo da competizione nero sgargiante che era sistemato lì accanto.
«L'idea mi è venuta adesso perché avevo lasciato parcheggiata qui questa.» Alexander poggiò la mano... sulla grossa moto nera.
Ami spalancò gli occhi. 
«Ho un altro casco, naturalmente.» Lui si fermò a riflettere. «Sei mai salita su una moto?»
Lei iniziò a ridere. «No, ma mi piacerebbe provare.» Con le mani gli chiese il casco.
Tranquillo?
Per niente.

CONTINUA...




Ultima revisione: Aprile 2011. Reso più fluido lo stile, aggiunto qualche particolare nei pensieri di Alexander sulla sua vita e su Ami, così come nei pensieri di lei nel momento in cui lo incontra.
Aver dato a questa storia un altro po' della bellezza che aveva nella mia testa mi ha reso felice.


Note finali originali:
- penso che alla fine saranno quattro capitoli. Scrivendo di meno mi sembra di non riuscire a dare corpo alla vicenda :)
- sto cercando di adattare un po' gli eventi agli anni in cui si svolgeva Sailor Moon. Per questo parlo di 'primi telefoni cellulari' e 'lettori minidisc' (in Giappone erano antecedenti ai lettori mp3 e abbastanza diffusi).
- Ami e Alexander col minidisc ascoltano 'Far and away' di John Williams.
- 'a penny for your thoughts' è un modo di dire che significa 'un penny per i tuoi pensieri'.
- grazie in anticipo per ogni commento che mi darete. Ringrazio molto chi ha commentato finora (luisina, Himechan, chichilina, dinny ed Ami_Mercury) perchè è sempre un piacere sentire cosa ne pensate, sono feedback importanti.
- revisione del capitolo del Settembre 2009: è stata aggiunta una scena nella conversazione che Ami e Alexander hanno nel locale  - la scena della dimostrazione matematica - e rivista l'esposizione generale, con l'aggiunta di qualche particolare.


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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Acqua viva
Acqua viva

Autore: ellephedre

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.


Ami entrò con un tuffo nell'acqua fresca. Ne riemerse felice, i capelli bagnati che quasi le coprivano gli occhi. La piscina quella sera era fantastica.
Si abbandonò sulla schiena, galleggiando pigramente sulla superficie liquida. Desiderò di più e, piegandosi sullo stomaco, si lasciò affondare. Si trovò in un mondo nuovo, fatto solo di azzurro silenzio e morbida luce. Mosse le braccia spostando il peso dell'acqua prima con le mani, poi con i piedi. Nuotò più veloce, fino a riemergere e iniziare ad avanzare con larghe bracciate.
Quanto le era mancato stare in piscina.
E pensare che erano passate solo tre settimane.
Nuotando, perse la cognizione del tempo.
Quando arrivò ancora una volta a fine corsia, mentre guardava sott'acqua, notò la presenza di una persona vicino al bordo. Completò la vasca e tirò su la testa.
«Sei un pesce» disse lui.
Ami si riempì di un sorriso. «Ciao.»
Completamente immerso nell'acqua, Alexander si teneva con un mano al bordo della vasca. «Ciao. Sei anche arrivata per prima.»
Lei si appoggiò ad una delle file di galleggianti. «Già.»
Una piccola vittoria che le aveva dato una certa soddisfazione, anche se era dovuta uscire di casa con venti minuti di anticipo. Non che loro si fossero mai sfidati apertamente in merito, ma lei aveva tentato vanamente di precedere Alexander durante gli altri sei incontri che avevano avuto. Non poteva essere un caso che lui fosse arrivato sempre per primo.
Alexander strinse gli occhi furbo, come quando decifrava pensieri a cui lei non stava dando voce. «Non arrivavo prima di te apposta.»
Come no.
Gli strappò una breve risata, poi lui infilò la testa sotto'acqua. Riemerse nella stessa corsia, talmente vicino a lei da permetterle quasi di... toccarlo. L'acqua gli bagnava le spalle, le braccia nude, il collo. Per un attimo Ami pensò di non aver mai immaginato che anche lui fosse fatto di pelle sotto i vestiti. Di carne e di muscoli caldi. Si sentì avvampare.
Lui intuì la sua reazione e a
bbassò la voce al volume di una confidenza. «Sai che sceglievo apposta luoghi in cui mi potevo trovare già in precedenza? Era quello il mio segreto.»
Hm? Ah, giusto: arrivare in anticipo, stavano parlando di quello. Per pensare meglio allungò le braccia sul galleggiante, spingendosi un poco all'indietro. «Allora... la prossima volta sceglierò ancora io il posto dove incontrarci.» Fu quasi felice di vederlo restare fermo dov'era.
«Certo, non ho problemi a farmi battere. Ma neanche a vincere.» Non rideva di lei, ma con lei.
«È proprio una gara infantile.»
«È vero.» Lui inclinò la testa, come se volesse guardarla da una nuova angolazione. «Ma ti piace molto.»
Già. E le piaceva molto anche lui, anche se risultava sempre più difficile pensare quando sentiva tutta la sua attenzione su di lei. Non c'entravano solo i suoi occhi chiari, colorati come l'acqua - anche se erano così strani, particolari e intensi che-
Abbassò lo sguardo. «Riprendo a fare le vasche
» disse anche a se stessa. «Volevo farne dieci e me ne mancano ancora... ecco, qualcuna.»
«Sì, faccio qualche vasca di riscaldamento anche io.»
Nuotarono.

Alexander non avrebbe detto di non sapere cosa significava essere impazienti: lui lo era in molti campi, da sempre. Quando gli piaceva una cosa, la voleva subito, era naturale.
Gli piaceva Ami. E la voleva non immediatamente, ma addirittura prima del secondo appena passato. Solo quella - stava arrivando a capire - era vera impazienza e lui non l'aveva mai davvero provata in precedenza.
Affondò con la testa, fino a che il suo stesso corpo non fu sopra di lui, quindi completò il giro e spinse con le gambe contro la parete della piscina, cominciando una nuova vasca.
La sua non era un'impazienza insofferente. Erano più le volte in cui, guardando Ami, si convinceva che sarebbe stato capace di aspettarla anche per anni. Impazienza era piuttosto quella voce dentro di lui che gli chiedeva come fosse riuscito a resistere fino a quel momento senza mai averla neppure sfiorata, neanche su una mano.
La corsa in moto di due settimane prima non lo aiutava. Ami si era appoggiata contro la sua schiena, ma le mani di lui erano state attaccate al manubrio per tutto il tempo.
Cominciò una nuova vasca.
Ami ancora non voleva. Manteneva fra loro una precisa distanza di sicurezza, o la creava, quando lui tentava di avvicinarsi.
Lui non lo prendeva come un segno di rifiuto solo perché ogni volta lei... Ami gli mostrava sempre l'espressione più... più tutto che lui avesse mai visto. La mancanza di una parola adatta per descriverla non avrebbe dovuto avere un senso, ma lo aveva. Sembrava quasi giusto che un'espressione del genere non potesse essere trasmessa a parole, ma solo gustata e percepita tramite la vista, la presenza fisica.
Con gli occhi lei comunicava timidezza e felicità, trepidazione e imbarazzo. Con la bocca gli diceva... tentazione. Col resto del corpo... non ancora.
Gli bastava guardarla, e quella parte di lui che non era più disposta ad aspettare diventava improvvisamente silenziosa.
Una reazione simile sembrava il sintomo di qualcosa per cui lui non poteva ancora essere pronto, non dopo così poco tempo. No, giusto? Non se si era curato troppo di quel pensiero. In quel caso l'unica soluzione stava nel non pensare, almeno di questo era certo.
Cominciò un'altra vasca. Notò solo in quel momento che Ami procedeva ancora accanto a lui, nuotando al suo stesso ritmo senza apparente difficoltà.
Lei si dimostrava inibita da un solo punto di vista, ma per il resto era decisa e persino competitiva.
Con lei trovava una soddisfazione unica una parte di lui che si era sempre sentita incompresa: la sua mente.
Quella di Ami era incredibilmente veloce, lei pensava come non aveva mai visto pensare nessun altro. Poteva parlare di qualunque cosa con lei, discutere di ogni argomento e, anche quando non lo riteneva possibile, capiva di aver imparato qualcosa di nuovo - che fosse una nozione o un nuovo punto di vista. Ami non si tirava mai indietro quando erano le loro menti ad interagire.
Per le altre cose, competeva, anche se non apertamente.
Iniziando l'ennesima vasca, si accorse di non averla più accanto. Si fermò e, girandosi, la trovò appoggiata ad uno dei galleggianti a inizio della corsia.
Lei alzò un poco la voce, per farsi sentire anche da lontano. «Ne ho fatte dieci!» 
Lui tornò indietro. «Sei stata veloce.»
Ami scrollò le spalle, come faceva sempre davanti al minimo apprezzamento. «Vengo spesso ad allenarmi qui. Stare nell'acqua mi piace.»
Sì, la rendeva serena, e lui la contemplò apertamente, senza nascondersi.
«Hm... inizio con un altro stile» disse lei, incerta. Riprese ad avanzare e lui riconobbe le movenze dello stile rana. Le linee dei movimenti erano perfette.
Ami - sorrise - era davvero meticolosa. Forse anche un po' più riservata del solito quel giorno. Doveva essere il luogo a inibirla. Non la piscina, ma quello che erano tenuti a non indossare per solcarne le acque. Lui non vedeva l'ora che arrivasse il momento di uscire, ovvero il momento in cui lei sarebbe emersa dall'acqua. Sapeva che era leggera, e sottile, e aveva un'intuizione precisa sulla presenza di buone proporzioni che non vedeva l'ora di verificare.
Ami smise di avanzare e si voltò, come colpita da un'idea improvvisa. Prima di condividerla, guardò per intero la piscina. «Vorresti fare una gara?» gridò. Cominciò a tornare indietro.
Una gara? «Di nuoto?»
Veloce come creatura marina, lei impiegò pochi attimi per ritornargli accanto. «Sì. Cento metri, stile libero.» Sorrise. «Così magari non ci sfideremo più su chi arriva prima ai nostri incontri.»
«Se non vuoi più farlo, devi solo dirlo.» Guardò anche lui la vasca, cercando di capire come iniziare il discorso.
Ami scosse la testa. «Non ti sto chiedendo di non impegnarti al massimo. So che probabilmente vincerai tu, voglio solo mettermi alla prova. Il fatto è che...» Lo sguardo di lei andò altrove, catturato da un'immagine lontana. «È passato un po' di tempo dalla mia ultima gara di nuoto.»
Anche così... «Io ero il più veloce del mio istituto alle superiori.»
L'informazione la galvanizzò. «Perfetto allora.»
Perfetto? Suonava come se avesse sete di sfida, e di vittoria. Dubitava che lei avrebbe mai gareggiato per qualcosa di diverso, ma era la sfida stessa a piacerle in quel momento.
Ami lo fissò seria. «Niente sconti. Non me la prenderò con te neanche se mi surclasserai.»
«Va bene.» Fu felice di sentirglielo precisare. Lui aveva proprio surclassato tutti quelli che avevano tentato di sfidarlo e non era stata sua intenzione farlo anche con lei. Ma se Ami stessa lo chiedeva con tanta convinzione... «Do il via.»
Lei annuì e si prepararono entrambi, appoggiando una gamba contro la parete.
Tre secondi dopo partirono, nello stesso momento.
Fino ai venticinque metri lui nuotò veloce, con Ami ancora appaiata alle sue bracciate.
Dopo quello che aveva visto prima, se lo era aspettato. Quella riserva di energie era destinata a finire presto, però. Aveva pochi dubbi in merito.
Dirigendosi verso i cinquanta metri, decise di accelerare il ritmo. Per lunghi secondi pensò solo ai propri movimenti e, quando riemerse dall'acqua per iniziare la terza vasca, notò che lei... gli stava davanti!
Non risparmiò più niente e la raggiunse ai settantacinque metri. Girarono insieme, iniziando l'ultima corsia.
A quel punto non solo lui non si risparmiò più, ma andò oltre ciò che poteva dare. Bruciò respiro e muscoli, superandola a metà vasca.
Solo per finire superato a due metri dal traguardo.
Ami riemerse, ansante. Girò di gioia su se stessa, ridendo. «Grazie!»
Lui riprese fiato. «Non... Non ti ho lasciato vincere.» No, era stato proprio battuto. Contemplò quel pensiero per qualche secondo, faticando a crederlo vero.
«Lo so.» Ami si avvicinò al galleggiante che li separava. Vi appoggiò le braccia. «Grazie per avercela messa tutta, era questo che intendevo dire.»
Forse era un buon modo per scoprire che anche lui poteva avere un orgoglio ferito. A guardare lei, il risentimento gli stava già passando. «Non so se avrei accettato di fare la gara se avessi saputo di poter perdere. Dì la verità: hai vinto qualche medaglia.»
Lei negò prontamente con la testa. «No, sono solo... molto brava.» Distese il viso in una risata allegra, completamente rilassata.
Alexander vide le proprie dita finire sul galleggiante. Si era avvicinato senza quasi accorgersene. Ami spalancò gli occhi e... non fece nulla. In lei c'era una voglia a malapena contenuta di allontanarsi. Prima che potesse farlo, lui tirò fuori una mano dall'acqua. Gliela porse. «Congratulazioni. Per la vittoria.»
Lei si riempì di orgoglio e incontrò la sua mano in una stretta leggera che fece sorridere entrambi.
E fu così che, finalmente, Alexander riuscì a toccarla.



«Si chiamano Usagi, Rei, Makoto e Minako, e hanno la mia stessa età. E tu?»
«Ci sono i figli di na-... di Shoko, ti ho parlato di lei. Loro li conosco da quando ero bambino. Poi c'è il mio amico Yamato, che conosco dalle medie; in realtà si chiama Shun, ma per me il suo cognome è diventato una sorta di soprannome. E le tue amiche, da quanto le conosci?»
Ami accennò ad una scrollata di spalle. «Dal... secondo anno delle medie.»
Gli sembrò di udire un'esitazione e per un attimo la sentì distante da lui.
«Siete un gruppo di cinque ragazze. Finora avevo pensato che tu fossi più...» La guardò e capì che non si sarebbe offesa. «Solitaria.»
Ami annuì piano. «Prima di conoscerle lo ero. Anche adesso sono la più tranquilla del gruppo. Loro hanno tutte molto più entusiasmo di me e sono... uniche.» Si appoggiò con la schiena contro le porte del treno. «Usagi, per esempio. Può sembrare un po' ingenua, ma nasconde dentro di sé una forza e una sicurezza senza pari. Rei... lei è testarda e non sempre ha un carattere facile, ma è piena di compassione per chi si trova in difficoltà. Makoto è irruenta, e sempre pronta a difendere tutti. A volte si preoccupa di essere poco femminile perché è alta e un po' brusca, ma nell'animo credo che lo sia più di tutte. Minako è la vivacità fatta persona. Sempre pronta a sognare e a inseguire tutti i desideri che le vengono in mente.»
Dal tono, dallo sguardo, da ogni cosa traspariva l'importanza che quelle ragazze avevano nella vita di lei.
«Un giorno mi piacerebbe conoscerle» le disse.
Ami sembrò come risvegliarsi. Portò rapidamente gli occhi al pavimento, la fronte corrugata. «Ah... cosa stavi per dire prima? Prima del nome della tua governante, Shoko. 'Na'... cosa?»
Aveva sperato che le fosse sfuggito. Completò la parola, non senza imbarazzo. «Nanny.»
Lei scoppiò in una risata di genuino divertimento e a lui non restò che accettare quella lieve presa in giro. Fino a quel momento era riuscito a non farsi mai sfuggire quell'appellativo di fronte ad estranei.
Quello che non gli era sfuggito, invece, era che Ami aveva cambiato discorso quando lui aveva accennato all'idea di conoscere le sue amiche.
Rimase a chiedersi perché.

Ami osservò la pagina liscia del volume, conquistata.
Erano disegni così precisi, meravigliosi in ciò che rappresentavano. La complessità di quella realtà aveva un che di... sovraumano, sorrise. Anche se era proprio umano.
Tracciò con un dito i contorni della figura. Guardò proprio quel dito, divertita.
Girò le pagine fino a trovare il disegno giusto, fino a che la combinazione corretta di muscoli, ossa, nervi, articolazioni e vasi sanguigni, le fu davanti.
C'erano proprio tutte quelle cose dentro la mano che lei muoveva con tanta semplicità.
Fletté le dita e osservò la pelle tendersi. Immaginò i muscoli al lavoro, il sangue che pompava incessante sfidando la forza di gravità, le ossa e le articolazioni che, con un meccanismo frutto di milioni di anni di evoluzione, le permettevano di ripetere quel movimento all'infinito.
Alexander era entrato nel locale. Si sedette di fronte a lei e guardò a sua volta il disegno. «Credo di preferirla quando è ricoperta di pelle.»
Ami sorrise. In parte per il commento, ma soprattutto perché lui era arrivato. «Certo. Senza pelle farebbe molto male. E tutto questo» appoggiò la mano sul foglio, «non avrebbe protezione.»
«È vero, ma la mia considerazione era molto più superficiale. Credo solo che questa» le sfiorò le dita con l'anulare, «sia meglio di questa.» Toccò la figura col pollice della stessa mano.
Ami increspò le labbra, divertita. Dentro di sé assaporò il piccolo brivido che il contatto le aveva provocato. «Sono la stessa cosa.»
«Ed è proprio questo ad attirarti» commentò lui, continuando a guardare il libro aperto sul tavolo del caffetteria.
«Molto.» Lei gli fece vedere la copertina. «L'ho comprato poco fa.»
«Disegni di anatomia umana» lesse lui.
Ami annuì e tornò alla pagina sulla mano. La contemplò. «Ho già visto tutte queste immagini, ma... credo che non mi stancherei mai di studiarle. Non penso che sia solo perché non ho ancora visto dal vivo l'interno di un corpo umano. O almeno, lo spero.»
Lui inclinò la testa, il leggero movimento di quando aveva una nuova idea. «Non credo. E poi, se ci pensi, non potrai mai vederlo veramente.»
Hm?
«È come lo spazio
» spiegò lui. «Lo hai davanti, sei in grado di iniziare ad esplorarlo, ma... ci sono parti di esso che ti rimarranno per sempre ignote. Per poter vedere lo spazio come siamo abituati a pensare di guardare un oggetto - avendo una compresione immediata e approssimativamente completa delle parti che lo compongono - dovremmo essere infinitamente grandi. E per vedere dentro un corpo umano, dentro tutto quello che vive e funziona al nostro interno, dovremmo essere infinitamente piccoli. Possiamo vedere unicamente l'insieme, mai vederlo veramente.» Tornò a concentrarsi su di lei e la sua serietà svanì in un momento. «Non che sia un male. L'insieme da solo ha le sue buone attrazioni.»
Lei piegò la bocca in un sorriso lento. «Mi piacerebbe vedere la differenza tra i processi elettrico-neurali che producono un ragionamento di tipo astratto-filosofico e quelli che, dal nulla, si inventano un flirt. Deve essercene una.»
Lui naturalmente non arrossì - la vergogna gli era quasi del tutto estranea. «Credo che siano uguali, ma nascano in diverse aree cerebrali.» Ci rifletté con più attenzione. «Mi è venuto in mente un collegamento. In senso lato, lo scopo può dirsi comune, se ci pensi bene: portano entrambi avanti la specie. Costruendo ragionamenti astratti si aumenta l'intelligenza, la principale caratteristica che ha assicurato la nostra sopravvivenza. E interagendo col sesso opposto si assicura la riproduzione.» Finì di dirlo e si bloccò. Spalancò gli occhi.
Ami sentì di averli ancora più giganti.
Caddero entrambi in un silenzio tombale.
Lentamente, Alexander si fece incredulo. «L'ho detto davvero.»
Quando notò il cenno di colore sulle sue guance, Ami trattenne a stento la risata. «Hai appena insinuato di aver flirtato con me a scopo riproduttivo, intendi?»
«Posto così...»
Lui non riusciva più nemmeno a guardarla e lei infierì allegramente. «Temo che tu lo abbia posto proprio così.»
Il totale imbarazzo di lui le tolse ogni inibizione. Si sporse in avanti. «Sta' tranquillo, hai appena fallito nell'applicare l'intelligenza a questo importante scopo. Possiamo lasciar perdere l'idea della riproduzione.»
Lui si passò una mano sulla faccia, me il gesto gli ridiede coraggio. «Un vero peccato. Già me li immaginavo tutti con gli occhi blu.»
Tutti con gli occhi-? Ami capì e arrossì fino alla punta dei capelli.
A lui uscì uno strano suono, e senza rendersene conto lei scoppiò a ridere per prima.
Risero entrambi, di gusto, a lungo.
Dopo un po', notarono gli sguardi degli altri clienti su di loro. Si zittirono come due ladri.



Ami attraversò di proposito il parco quel giorno, dirigendosi all'ospedale di sua madre.
Aveva nevicato la sera precedente, la prima neve della stagione. Il bianco continuava a cadere dal cielo, lento e affatto minaccioso.
Lei si tenne al corrimano innevato del piccolo ponte ad arco, ancorando per bene gli stivali al terreno mentre saliva. Il pavimento smise rapidamente di essere scivoloso e curvo, perciò riuscì a camminare senza difficoltà verso il centro del ponte, da dove si godeva della miglior vista sul laghetto del parco.
Tirò fuori la macchina fotografica, e scattò tre fotografie. Una quarta, infine, per essere certa che la foto venisse bene.
Provò un'immensa soddisfazione: il suo quadro era completo ora.
Aveva fotografato quello stesso punto in primavera, in estate e in autunno. Adesso aveva anche l'immagine più classica dell'inverno.
Pensò ai colori delle foto che, da tempo, erano appese al muro della sua stanza. Forse avrebbe dovuto tentare un nuovo scatto, un giorno che avesse nevicato ancora. Nelle altre fotografie era sempre riuscita a catturare una giornata di sole. Beh, se il sole non si fosse presentato in una giornata di scuola, valeva la pena di fare lo sforzo e ricatturare l'immagine. Per quella volta non aveva avuto scelta. Le previsioni avevano annunciato neve per il fine settimana, seguita però da giorni di pioggia che avrebbero rapidamente cancellato ogni traccia di bianco.
Si guardò attorno. Peccato.
Con la coda dell'occhio notò una macchia rosso cangiante non lontano dalla riva del lago. Una sagoma - troppo piccola per essere umana - si muoveva impacciatamente nelle neve. Quasi subito una figura verde brillante, di poco più grande, la superò in corsa. La sagoma rossa lanciò un urlo acuto di infantile protesta.
Oh. Liberando dalla neve il muretto che dava sull'acqua, Ami vi si appoggiò sopra le braccia.
Il bambino in rosso non doveva avere neanche due anni. Corse incontro al fratello, che nel frattempo aveva iniziato a raccogliere piccoli mucchi di neve in un unico punto. Era chiaro che voleva unirsi anche lui agli sforzi. Poco dopo li raggiunse la madre, coperta di un più modesto cappotto marrone. Con due sole grandi bracciate la signora raccolse neve a sufficienza per iniziare a creare il pupazzo a cui i bambini avevano aspirato.
Nevicava ancora e non era il tempo ideale per giocare fuori, ma forse quella donna non aveva altro tempo a disposizione, al di fuori di quel sabato mattina.
Ami rimase ad osservarli.
Neanche sua madre aveva mai avuto molto tempo per giocare con lei, ma... Le venne in mente una fotografia. Lei, non più di cinque anni, che appoggiava con fierezza una sciarpa fatta di giornali su un pupazzo di neve. Il ricordo la riempì di tenerezza; il tempo per le cose importanti, per lei, sua madre lo aveva sempre trovato.
Il pupazzo dei bambini oramai era alto quanto il più piccolo dei due e... perché no?
Si spostò dove sul muretto c'era ancora neve fresca. Con i palmi aperti ammucchiò abbastanza neve da formare un cumulo di media altezza. Ci lavorò con i guanti, dando vita a due sfere dalla forma incerta. Ridacchiò: non era affatto una grande artista. Poteva tentare di dare un tocco di colore però. Raccolse una foglia fradicia e la appoggiò su quella che avrebbe dovuto essere la testa. Poteva essere un cappello?
La foglia si era già appiattita.
No, erano dei capelli. Capelli marroni. Capelli castani. Un po' più chiari e sarebbero stati come quelli di...
Dentro di lei, dove nascevano i sentimenti migliori, si sprigionò calore.
Alexander.
Gli aveva parlato per la prima volta proprio su quel ponte, ormai un mese prima.
Da allora sapeva cosa significa combattere in continuazione col rossore alle guance.
Da allora si perdeva in un azzurro che nessuna nuvola poteva nascondere.
Da quel giorno non vedeva l'ora di rivederlo di nuovo. Sorrise. Beh, forse non proprio da quel momento.
Da quando lo aveva incontrato, ogni giorno acquistava un sapore diverso, migliore. Si svegliava e pensava se lo avrebbe visto, se lo avrebbe sentito. E lui chiamava, o usciva con lei. Le diceva cose immensamente interessanti, o semplicemente belle. Passava il tempo con lei, e tardava di proposito il momento in cui si sarebbero separati.
Lei aveva creduto di sapere cosa stava rimpiangendo ancora prima di averlo vissuto, ma solo ora era in grado di apprezzare la meraviglia di quello che provava, di quello che, nonostante tutto ciò che aveva temuto per il proprio futuro, stava vivendo giorno dopo giorno.
Grazie.
Appoggiò le labbra sul pupazzo. Grazie.
La neve gelida le bagnò le labbra. Ridacchiò, sentendosi molto sciocca e felice.
Si allontanò e tornò indietro, giù per il ponte.

Alexander si sentiva molto stupido.
Si rimise seduto, sbattendo le mani sul terreno. Si alzò in piedi e, con due manate, si ripulì dalla neve.
Era la prima caduta, ma aveva già rischiato di scivolare per ben quattro volte. Era ora di mettersi in testa che fare jogging con la neve era impossibile. Non in quel sentiero, almeno.
Prese a camminare di malavoglia. Aveva voglia di muoversi veloce, mettere una gamba davanti all'altra non bastava..
Accorgendosi del silenzio, si fermò di colpo. Il minidisc aveva smesso di funzionare. Lo cercò nella tasca della tuta nera.
Ci mancava solo questa.
Lo tirò fuori, aprendolo. Risistemò il piccolo disco e cliccò sul tasto di accensione. Funzioni ancora? La musica riprese a suonare nelle sue orecchie, indicandogli il tempo. La spense: quel ritmo non gli serviva a niente se non poteva correre.
Si incamminò lungo la riva del lago. Doveva uscire al più presto da quel parco. Alcuni marciapiedi erano già stati liberati dalla neve, e forse lì sopra lui aveva una speranza.
Udì delle risate. Sulla riva opposta alla sua, una famiglia - una madre e due bambini - stava costruendo un pupazzo di neve.
Aveva creduto che non ci fosse quasi nessuno in giro, con la neve che cadeva ancora. Non era l'unico pazzo, allora, come aveva lasciato intendere Shun. Oltre alla piccola famiglia c'era anche qualcuno sul ponte, che se ne stava persino fermo a guardarsi in giro, ed era...
Ami.
Si riaccese. Ami! Scattò in avanti, diretto verso di lei.
Due passi e si ritrovò di nuovo schiena a terra, gli occhi al cielo.
Ehi, cominciava a far male.
Diavolo! Magari Ami lo aveva pure visto.
Tornò seduto e la cercò. No, per fortuna lei non lo aveva ancora notato. Era impegnata a fissare un... un pupazzo di neve?
La piccola forma bianca smise di interessarlo nel momento in cui si concentrò sul viso di lei.
Dimenticò di rimettersi in piedi.
C'era un sogno dietro al modo in cui Ami guardava davanti a sé, verso un intero mondo di serenità in cui si poteva essere incredibilmente contenti, anche senza motivo. Era un mondo dove si poteva posare un bacio su qualunque cosa regalasse gioia, fosse anche di fatta neve. Era il posto dove si rideva innocenti, felici, puri come lei, pieni di...
Di tutto quello che lui voleva darle.
Tornò a sbattere le palpebre solo quando il freddo lo colpì dritto in faccia.
Non ritrovò con facilità l'equilibrio, non subito.
Una volta in piedi, rimase fermo, a rendersi conto di essere caduto in tutt'altro modo quel giorno.



Ami inspirò. Ed espirò.
Continuava a sentire le guance che ardevano feroci, senza scampo.
Non serviva nemmeno evitare di guardare lui. Sapeva benissimo, infatti, che Alexander la stava deliberatamente fissando.
Ma che gioco era?
Si fermò sul marciapiede e si girò per affrontarlo, senza incertezze. Quasi. «C'è- c'è qualcosa di cui vuoi parlare?»
«Hmm.» Lui fece finta - perchè era far finta - di pensarci. La guardava e sorrideva, sornione, come se sapesse qualcosa di importante. «No, direi che non voglio... parlarne
Lei avvampò in una tonalità di rosso non ancora inventata: e voleva fare cosa invece?
Beh, doveva smetterla. Sentirsi così a disagio non le piaceva. «Mi stai mettendo in imbarazzo.»
Lui tornò serio. «E non voglio farlo. Vorrei guardarti in faccia quanto voglio senza vederti cambiare colore.»
La soluzione era semplice. «Guardarmi di meno, allora.»
Perché ora sembrava rassegnato?
«Credo che sia un problema che dobbiamo risolvere.»
«Sarebbe un problema se non si trattasse di un comportamento normale. Invece lo è.» Non era affatto strano imbarazzarsi quando si veniva osservati tanto a lungo.
Alexander non rispose. La logica di lei funzionava, se si consideravano due persone qualunque. Ma non era quello che lui voleva che fossero e non poteva essere nemmeno quello che voleva lei. A parte dirlo apertamente, stava già cercando di farle capire in ogni altro modo possibile che voleva essere una coppia a tutti gli effetti con lei. Una coppia vera, dove ci si guardava, ci si toccava, e si anelava di farlo ancora.
Ami lo guardava dubbiosa. Fu l'unico momento - forse il primo di tanti - in cui lui non capì il suo atteggiamento. Lei era davvero troppo timida, ma per quale motivo?
Ami ignorò il problema girandosi per camminare, e Alexander scattò in avanti con la mano, afferrandola in tempo per un polso.
A mezzo metro dalla faccia di lei c'era un palo.
«Oh. Grazie.»
«Di niente.» Ma non serviva essere educati, non avrebbe mai lasciato che si facesse male. Teneva immensamente a lei, e voleva accarezzarla in viso, ma non perché si era colpita. Si rese conto di aver messo in pratica quei desideri sul polso di lei. Ami aveva gli occhi sulla mano di lui, che la stringeva.
«Cosa c'è?» gli chiese.
Non capiva? No, non poteva essere vero.
Anche lei teneva a lui. E toccarsi era normale tra persone che si volevano bene. E tra persone che andavano oltre quel legame...
Prese coraggio e scese con le dita, incrociandole con quelle di lei. «Non c'è niente. Andiamo?»
Ami si era immobilizzata.
Puoi essere timida, ma fino a questo punto? Non posso permetterlo. Lui con lei non stava giocando. «Se non vuoi, posso lasciarla andare.»
Ma non gli sarebbe piaciuto e si sentì stupido, ma a lei lo fece capire.
Ami fissava i loro corpi che continuavano come un solo attraverso le loro mani. Mosse le dita contro le sue, attraverso i guanti, e Alexander sentì un brivido che non capì.
Solo per questo, per un piccolo sfregamento?
Cercò di non scoppiare di felicità. Il futuro era roseo, magnifico.
Ami si era decisa a stringergli la mano. Scosse la testa. «Va tutto bene. Andiamo.»



Makoto passò ripetutamente le dita davanti ai suoi occhi.
Ami si scosse. «Scusa. Ero distratta.»
«Lo vedo» sorrise Makoto. «Almeno anche tu sei umana.»
Dall'altra parte del tavolo Minako picchiò due volte la matita sul foglio. «Concentrazione, Ami!» Ridacchiò, tirando fuori la lingua. «Non ne capisco niente di queste equazioni, devi aiutarmi.»
«Vieni qui, provo a darti una mano.»
Anche Makoto si avvicinò per ascoltare la spiegazione.
Minako passò lunghi minuti con la fronte corrucciata. Alla fine della piccola lezione, si illuminò. «Ho capito! Credo.»
Divertita, Ami la consolò con un tocco sulla spalla. «Posso spiegarti di nuovo, se non è chiaro.»
«Uffa.» Minako abbandonò le braccia sul tavolo. «Se ci fosse qui anche Usagi, forse mi sentirai meno sciocca.»
Rei sottolineò un'altra riga del proprio libro. «Non saprei. Ormai studia così tanto con Mamoru che credo che sia uscita dalla fase di ignoranza più acuta.»
«Sai che ripetizioni» sbuffò Minako.
Ami non capì. Cosa intendeva dire? «Mamoru è in grado di insegnarle molte cose.»
Tutte le sue amiche la fissarono con un sorriso segreto.
Eh?
Minako si decise a chiarire. «Sì, Ami... Ma forse lui non le insegna solo matematica.»
Oh, avvampò lei. Che razza di insinuazione! Era proprio da Minako trasformare tutto in se- se- ses- sess...
Minako quasi si bucò la guancia con la matita. «Ehi, non li biasimo! Hanno un'eternità da passare insieme, ma anche io se fossi al loro posto avrei cominciato subito.» Rise.
Makoto alzò gli occhi al cielo e Rei sospirò.
Ami invece smise di respirare.
Eternità.
Un attimo dopo, cercò di non pensarci più

Il giorno seguente camminava lungo il campus dell'università, senza voler riflettere su... Nulla, proprio nulla. Perché non aveva importanza.
Alexander non era... eternità. Lui era solo un meraviglioso ora.
Non contava nient'altro.
Lo scorse da lontano, appoggiato contro un muro ad aspettarla. Da lei uscirono preoccupazioni, persino le idee. Fu solo istinto, pura gioia, e gli corse incontro, saltellando sull'ultimo passo. «Ciao!»
La sorpresa di lui si trasformò in sorriso.
Lo rendeva felice; non le importava di nient'altro.
Diede un'occhiata a quello che lui aveva in mano. Alexander inclinò il depliant per mostrarglielo. «È il programma di scambio coi college americani. Potrò candidarmi solo l'anno prossimo, ma volevo informarmi.»
«Pensi di portarti avanti andando già un anno prima, allora.» Era previdente, una buona cosa. Le aveva parlato del suo progetto di specializzarsi negli Stati Uniti. Nel campo che aveva scelto lui, era l'unica strada percorribile per una carriera di eccellenza.
Iniziarono a camminare.
Alexander diede un'ultima scorsa al depliant prima di chiuderlo. «Non te l'ho mai chiesto: tu hai mai pensato di andare all'estero?»
Ami ricordò la Germania, l'opportunità che si era presentata quattro anni prima. «Una volta.» Capì che lui si attendeva di sentirla continuare, ma disse solo quello che si poteva aspettare da lei. «Prima di avere una possibilità, dovrò essere almeno al secondo anno di università. Per me c'è tempo.»
Lui si fece silenzioso. «Ci sarebbe anche la possibilità di partire fin dal primo anno. Non in scambio, ma iscrivendosi direttamente all'università straniera.»
Eh? Cercò di non allarmarsi, e di non mostrarlo.
Lui proseguì. «In medicina sono all'avanguardia negli Stati Uniti. Tu non avresti problemi ad entrare in una delle migliori università. John Hopkins, Harvard. C'è l'imbarazzo della scelta.»
«È... costoso.» Usò la prima obiezione che le venne in mente.
«Ma ci sono borse di studio che coprono ogni spesa. Pensi davvero che avresti difficoltà a prenderne una? Riusciresti a mantenerla senza nemmeno pensarci, ti conosco.»
Esistevano altre obiezioni plausibili? La verità non era contemplabile come risposta.
Si sentì prendere una mano e dovette guardarlo.
«È solo un'idea per il futuro, Ami. Io starò lì almeno per due o tre anni, quando andrò via.» Si fermò.
Già, sapeva a cosa stava pensando: quella stima non includeva gli anni lavorativi. E lavorare in America era proprio quello che lui stava progettando per il suo futuro.
Ce l'avrebbe fatta, lei non aveva dubbi.
«Pensavo solo che mi piacerebbe saperti nel mio stesso continente, almeno.»
Nello stesso...? In futuro. In un futuro lontano anni.
Ami provò ad annuire. Il gesto risultò dolorosamente meccanico.
Rimase in silenzio, e Alexander non disse più niente.

Che cosa aveva?
Si ritrovavano spesso a non parlare quando camminavano, ma quella volta era... diverso.
Lui era riuscito ad osservarla a lungo, perché da parecchio tempo lei scostava lo sguardo, fissando il cielo o la strada, come se avessero delle risposte.
Le strinse un po' più forte la mano.
Ami si voltò, rivolgendogli un sorrise debole. Tornò a guardare in alto. «Mi piace il cielo a quest'ora, il colore che prende quando appare la prima stella.»
Lui seguì il suo lo sguardo. «Venere, sì.»
Gli sembrò che Ami lo trovasse divertente. «Sì, il pianeta Venere.» Rallentò il passo. «Ho cercato di catturare questo colore in una foto una volta, ma... non è la stessa cosa.»
Smise di avanzare e Alexander la imitò.
«Sai... siccome non riuscivo a catturarlo in una foto, l'ho catturato nella mente. Ho in testa una galleria di immagini che... che mi ricordano bei momenti. La macchina fotografica non è sempre a disposizione, la mente invece sì.» Aveva parlato senza guardarlo, per tutto il tempo.
«E questo lo è?» chiese lui.
Ami si girò, gli occhi sui suoi.
«Un bel momento?» chiarì Alexander.
Malinconia. Vide quella nel viso triste di lei, arrossato dal freddo.
Lo sguardo di Ami iniziò a vagare lentamente, con deliberata contemplazione, sulle loro mani unite e su di lui. Alexander sentì le sue dita che gli accarezzavano il palmo.
Poi la sua voce fu quasi un sussurro. «Sì. Questo è uno dei momenti migliori.»
Era perché quel giorno lui aveva parlato di quando sarebbe andato via? «Potremo costruirne altri.» Enfatizzò di proposito l'implicito noi. «Non ci mancherà il tempo.»
Lei lo guardava, ma stava vedendo altre cose, lontane e spiacevoli.
«Ami, avremo tutto il tempo che vogliamo» insistette lui. Non solo i due anni che mancavano alla sua partenza. Molti di più, se lo volevano entrambi.
«Che vogliamo?» ripeté lei. Inclinò la testa di lato e l'equilibrio del capo le sfuggì, oppresso. «Sì.»
Senza pensarci lui le toccò una guancia, sostenendola. Percepì sul palmo un soffio di allegria spenta.
«Hai le mani fredde» stava mormorando lei. Anche così, strofinò piano la guancia contro le sue dita.
Lo attraversò una scossa. «Scaldiamoci un po', allora.»
Con un passo le fu accanto, e con l'altro ebbe le braccia attorno a lei. Prima di riuscire a fermarsi aumentò la vicinanza tra loro, stringendola più forte.
Ami non si spaventò. Sistemò la testa contro il suo petto e alzò le mani fino a poterle posare sulle sue braccia. Alexander sentì caldo al petto, come non ne aveva mai provato in vita sua. Abbassò la testa, per essere più vicino almeno ai capelli di lei.
Ad Ami tornò la risata triste, appena accennata. «Anche la tua giacca è fredda.» Sollevò lo sguardo. E lo fissò su di lui, completamente immobile. «Non...»
Lui si fermò, pochi centimetri a separarli. «Cosa?»
«Non...» Ami non completò la frase. Non sostenne neanche più il suo sguardo. Scese con con gli occhi, ma non troppo in basso, rimase su di lui. E ad Alexander sembrò che stesse fissando... Ami si inumidì le labbra.
Lui aveva la bocca ad un soffio dalla sua quando sentì delle mani che gli premevano sul petto.
«Aspetta.» Col viso lei non si era realmente allontanata. «Non... non credo sia una buona idea.»
«Perché?»
Ami scosse la testa, piano.
Pensava troppo. Con una mano provò a toccarle una guancia, per farsi guardare. Appena la sfiorò, Ami abbassò le palpebre.
Lui colmò la distanza tra loro e la baciò. Si baciarono anzi, perché lei rispose e, quasi subito, tremò.
Alexander si allontanò: non era stato un brivido di coinvolgimento. Cercò di vedere i suoi occhi, e li trovò distesi, grandi. Sorpresi, e ancora malinconici.
Perché? Dovette baciarla di nuovo, cullarla di nuovo, ad occhi aperti - socchiusi - così da non lasciarla mai sola.
La tristezza di lei si sciolse, sparì con le palpebre che si abbassavano. Ed Ami tremò ancora, ma lo strinse più forte. Baciava piano, incerta sui movimenti, delicata nell'indugiare. Imparò un poco e respirò forte, sorridendo. E sentì - sentirono - solo loro stessi, che si incontravano continuando a cercarsi lenti, trovandosi morbidi e umidi, completi.
Questo, pensò lui, seppe lui.
Tu, capì.
Sei tu.


... era innamorata.
Ami si rigirò nel letto abbracciando il cuscino, sorridendo, vedendo luce al posto del buio nella sua stanza.
Qualcosa si era compiuto in lei, e forse era quello che scoppiava nel suo petto a straparlare, ma non le importava più.
Pensare non aveva più senso, gli ostacoli non avevano senso. Contava essere, e stare con lui.
Sarebbero rimasti insieme fino a che lo avessero voluto entrambi. Non importava di quanto tempo si trattasse. Ogni momento sarebbe stato necessario, indispensabile, perché lei...
Lei lo amava.
Era Ami piena d'amore, ed era così bello.
Era tremendamente bello essere amata, riamarlo.
Esisto - esistevo - per questo.
Colma, dormì.



Era uno stato di grazia continuo.
Alexander si staccò, solo per appoggiarle le labbra sulla guancia. Sapendo già che non sarebbe riuscito a staccarsi di colpo, le affondò la faccia nei capelli corti.
Quella sensazione gli mancava nell'istante in cui smetteva di esserci, perciò si costrinse a parlare con estrema riluttanza.  «Ho gli esami, la prossima settimana.» 
Ami alzò la testa e annuì, il respiro contro il suo viso. «Anche io.»
Lui aveva studiato molto meno del necessario da quando l'aveva conosciuta e, nell'ultima settimana, semplicemente non aveva pensato che a lei. A vederla, quando non era con lui. A toccarla, quando l'aveva accanto. «Forse... »
Ami si allontanò per guardarlo meglio, sorridendo. «Dopo gli esami?»
Ci aveva pensato anche lei, allora. «Sì, dopo oggi... è meglio se ci vediamo solo dopo gli esami.» Rischiava seriamente di fallirne più d'uno. E, con ogni secondo che passava, importava sempre meno. Era... follia.
Rimasero in silenzio.
Improvvisamente, gli venne quasi da ridere. Quasi, perché i giorni che aveva davanti si prospettavano un tormento. «È la prima volta che vorrei non dover studiare.»
Ami tornò ad abbracciarlo; la sua risata era limpida. «Anche io.» Si staccò di nuovo e lo guardò. «Ma dobbiamo studiare entrambi, è importante. E ci distraiamo troppo l'un l'altra.» Gli strinse una mano tra le sue, facendo un passo all'indietro. E un altro ancora, avvicinandosi al cancello di casa sua. «Devo andare.»
Aveva ragione; si stavano salutando da minuti interi, d'altronde.
Ma non gli lasciò la mano. Per un bel po'.
Il sorriso gli crebbe senza tregua. «Non vuoi andare.»
L'espressione di lei si fece seria. «Beh, no. Un attimo, devo solo concentrarmi.»
Quasi dieci giorni senza vedersi erano tanti, troppi. La riportò contro di sé: poteva concentrarsi su altro, almeno per qualche altro minuto ancora.
Fu solo perché lo volle lei che staccarono di nuovo le labbra.
Ma non la lasciò andare. Solo qualche momento in più; non poteva far male.
La sentì sorridere e scuotere la testa. Fu lei ad avvicinarsi di nuovo, a prendergli la faccia tra le mani. A mettere dolcezza e passione in unico bacio.
Troppo sorpreso per fare altro, la lasciò andare quando balzò ad un passo da lui.
«Ci vediamo appena finiti gli esami.» gli disse, ridendo.
Poi entrò in casa.


CONTINUA....




Note: ed ecco il terzo! Confermo che che il prossimo capitolo sarà l'ultimo. La storia di Ami e Alexander continua comunque nell'altra mia fanfic, "Verso l'alba".
- grazie mille davvero a chi ha commentato il precedente capitolo.
luisina: sì, nella parte che hai citato ero davvero ispirata :) Ami è sicuramente molto più razionale di Alexander. Qui la faccio sciogliere parecchio, credo facendo a fette le riserve iniziali (in parte naturali del suo carattere, in parte conseguenza di ciò che la aspetta). Sì, ho voluto rendere emblematico il momento in cui prende in mano il casco. Grazie ancora per aver voluto condividere con me la tua precisa analisi.
Ami_mercury: passaggio graditissimo il tuo, anche quando è rapido :)  I tuoi complimenti mi fanno capire che ti trasmetto grandi emozioni con ciò che scrivo; è quello che amo di più quando leggo io stessa, quindi è il meglio che posso desiderare per un lettore. Mille grazie per volermelo far sapere ogni volta.
Himechan: sono molto felice che tu conosca 'Far and away'. È una melodia che mi piace da molto tempo e in effetti sì, l'ho ascoltata mentre scrivevo. Devo dire che per la maggior parte di questo capitolo ho ascoltato due canzoni di Beyoncé ('Disappear' e 'Broken-hearted Girl'), se può interessare :)  Sentendo la musica e la voce più che le parole. Ma è un'informazione in più, questo capitolo può essere letto in un tranquillo silenzio ovviamente. Questa è la parte clou della storia, quella in cui nasce la loro relazione. Ho scelto di raccontarla in diversi momenti, spero di essere riuscita a trasmettere l'attrazione a pelle e l'affinità che tu hai già colto nel precedente capitolo.
chichilina: anche un commento breve è sempre gradito :) Sono felice che Ami ora ti piaccia ancora di più. Qui spero di averla caratterizzata abbastanza da rendere ancora di più l'idea di 'lei'.

Grazie anche alle altre dieci persone che seguono questa storia. Sperando che vi piaccia, saluto anche voi :)

ellephedre

Note del Settembre 2009: capitolo revisionato nello stile e nella stesura.


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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Acqua viva Note: il capitolo finale!
- ci sono alcune frasi in inglese in questo capitolo; la traduzione in fondo (anche se il loro contenuto è comunque intuibile dal resto della storia).
Note del Settembre 2009: capitolo rivisto nella stesura (specie nei pensieri di Ami, in alcuni casi completamente rivisti) e nello stile.




Acqua viva

Autore: ellephedre

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.


La fine dei suoi esami o di quelli di lei? Ovviamente, l'unica risposta era: di entrambi.
Alexander si alzò e consegnò l'esame completato. Tornò a prendere la giacca e la cartella e si lasciò dietro le porte dell'aula.
Ancora un giorno, allora. Ami avrebbe completato i suoi esami il giorno successivo.
Tuttavia, senza avere più nulla da studiare, le successive ventiquattro ore si profilavano come una lunga attesa.
Sperò di non aver influito in modo negativo sui risultati di lei. Era stata un'altra ragione per non vedersi in quelle due settimane: una studentessa da primo posto come Ami non poteva subire un calo nel proprio rendimento scolastico solo perché aveva iniziato ad avere un ... ragazzo.
Uscì dall'edificio, ma neanche il vento gelido gli cancellò di dosso il sorriso di soddisfazione. Ami era in un qualche modo ... sua. La sua ragazza.
Gli suonò il telefono. Lo tolse dalla cartella e, senza preoccuparsi di controllare il chiamante, lo portò all'orecchio. «Pronto?»
«Ciao.»
Non era sua madre. Né Nanny Shoko. Desiderò ridere. «Ciao.»
«Ehm, per l'esame di domani sono preparata.»
E ora voleva correre: l'attesa era finita. Si accorse di non aver detto nulla.
Ami interpretò male il suo silenzio. «Sono sicura di poter prendere il massimo dei voti. Ho studiato molto. Perciò-»
«Sei a casa?»
Lei ci mise un istante a rispondergli. «Sì, ma posso incontrarti a metà strada. Alla libreria internazionale?»
«Sì. A tra poco.»
La sentì sorridere. «A tra poco.»

C'era qualcosa ... qualcosa di indefinibile, di ... totalizzante in quello che provava quando stava con lui.
Era amore. E oltre.
Ami lo strinse a sé, abbracciandogli completamente la schiena e ridendo. Voleva solo ridere senza fine. E guardarlo.
«Mi sei mancata molto.» Il volto di lui si deformò in una smorfia divertitamente infastidita. «What a sap.» Rise, appoggiandole la bocca sulla fronte, senza più spostarla da lì.
Ami ridacchiò. «Sap?»
«Melenso e sdolcinato.» Glielo mormorò in mezzo agli occhi, tracciando una scia col respiro, verso il basso. «È quello che sono diventato.» Si fermò a guardarla. «Ma non mi importa.»
Appoggiò la bocca sulla sua.
E smise di voler pensare.



«È questo piano e quello di sopra.» le spiegò lui, uscendo dall'ascensore.
Ami lo seguì, ritrovandosi in un corridoio di lucente marmo grigio, con tonalità accennate di rosa. Aveva i piedi appoggiati su un tappetto rosso. Gli angoli delle pareti erano adorni di piante in fiore; non sembravano finte.
«So che impressione può dare» dichiarò all'improvviso Alexander, con espressione rassegnata. Tirò fuori una chiave e si diresse verso l'unica porta presente, una superficie di legno dalle venature ricercate.
Ami scosse piano la testa. «È molto elegante.»
«Pretenzioso è più adatto a descriverlo.» Aprì la porta e l'espressione gli si trasformò. «Sono tornato.» dichiarò ad alta voce.
Ami lo seguì all'interno di un appartamento che da fuori aveva creduto essere molto meno vasto; e lo aveva già immaginato grande, per cominciare. Sentì dei passi risuonare in una qualche stanza lontana, mentre passava la giacca ad Alexander.
«Pensavo saresti tornato più tardi.» Dal corridoio apparve una donna minuta, con una pettinatura corta e vivace. Si bloccò quasi subito, lo sguardo su di lei.
«Nanny Shoko, questa è Ami.»
Ami si era inconsciamente immaginata qualcuno di più anziano di una donna sulla quarantina, nonostante quello che aveva saputo su di lei. Le sorrise, inclinando la testa. «Sono Ami Mizuno. È un piacere conoscerla.»
La donna rise, scuotendo piano la testa e guardando Alexander.
Le venne incontro con passi veloci. «È una sorpresa.» dichiarò con sincerità. «Io sono Shoko Kaiba. Alex mi ha parlato di te.» Le prese le mani tra le sue. «Sarà un piacere conoscerti.» E sapere tutto di te.
Quelle ultime parole non le aveva pronunciate, ma Ami le lesse nel suo sguardo. Annuì, cercando di evitare di sorridere.
Protettiva.
La signora voleva più che bene al ragazzo che aveva cresciuto, questo lo aveva capito fin da subito.
Alexander si intromise, poggiando una mano sulle spalle di quella che era chiaramente una figura materna. «Oggi l'ho solo portata a vedere l'appartamento.» Indicò con un cenno della testa un angolo ed Ami notò solo in quel momento una scala in vetro azzurro. Le era quasi sfuggita, nell'elegante opulenza di quella stanza più simile ad un salone. «Noi andiamo di sopra.»
La signora annuì. «Se volete qualcosa da mangiare, basta che me lo facciate sapere.»
Lui scrollò le spalle. «Non sarà necessario.»
«È un'ospite, Alex. Deve essere trattata con cortesia.»
Ami notò lo sbuffo trattenuto, per quanto benevolo. «Volevo dire che se vorremo qualcosa, la prenderò io.»
«Allora ti ho educato bene.» La signora Kaiba ridacchiò. «Torno alle mie faccende. A dopo.» Con un cenno del capo, salutò entrambi.
Alexander commentò solo sulle scale, a bassa voce. «Le piace pensare di avere ancora qualcosa da insegnarmi.»
Sorrise e poco dopo indicò la stanza in cui erano saliti. «Qui è dove sto io. È quasi una seconda casa, a parte l'assenza di una cucina.» Continuò ad avanzare, uscendo dal secondo salotto in cui si erano ritrovati e dirigendosi verso un ampio corridoio bianco.
Ami non lo seguì, lo sguardo fisso su una parete fatta di sole finestre. Alexander si fermò e, notando dove si era concentrata la sua attenzione, si mosse in quella direzione. «Vieni pure.»
Gli andò vicino e si sciolse nella più completa delle meraviglie: non aveva capito di essere tanto in alto.
Appoggiò le mani ai vetri.
Non aveva mai apprezzato le mille luci di Tokyo come nel momento in cui le vide tutte assieme; davano vita ad un secondo cielo, costellato da luminosi astri e continue, ordinate scie di meteore che ... si fermavano ai semafori. Sorrise.
Alexander guardò fuori anche lui. «Non si apprezza appieno in inverno.»
Ami tenne gli occhi fissi sull'esterno. «Come fai a dire una cosa simile?»
«Perché il sole tramonta presto in questi mesi. E non si può stare con le finestre aperte.» Si voltò. «Anche in camera mia ho una parete come questa.»
Ami si staccò quasi malvolentieri, seguendolo. Ma, entrando nella sua stanza, sorrise apertamente.
«Cosa c'è?» 
«Non mi ero immaginata la casa. La tua stanza invece ... quasi alla perfezione.»
Spazi e linee pulite. Pochi colori essenziali. E alcuni quadri con immagini che rappresentavano un solo tema: lo spazio e la sua conquista. Appoggiò la mano su quello più vicino. «Questi in particolare.»
Alexander inclinò la testa, gli occhi all'improvviso sulle finestre. «In realtà sono quasi di troppo. Guarda.»
Tornò alla porta e cliccò un interruttore sulla parete. Si fece buio.
Ami vide la sagoma di lui uscire dall'ombra e venire lentamente illuminata dalla luce pallida della notte; si fermò davanti alle finestre.
«Vieni. E non guardare sotto questa volta.» Col dito indicò verso l'alto.
Ami si unì a lui e guardò fuori. Verso il cielo notturno.
La luce della città e dei palazzi vicini creava ancora un alone che impediva il buio completo, anche in quella notte senza luna. Ma era comunque una vista che toglieva il fiato. Osservò in silenzio, a lungo. Poi, semplicemente, non resistette all'impulso di chiedere. «Si può aprire?»
Sembrava un doppio vetro; sicuramente rinforzato e isolato termicamente. Ed era sicura che, senza quella barriera, sarebbe stato tutto molto più-
«Sì» le rispose, esitante. «Ma fuori si gela.»
«Solo un attimo.»
Si spostò per lasciarlo armeggiare con una finestra prima e con una seconda apertura poi. Nella stanza iniziò ad entrare una pungente aria fredda, ma non le importò. Si mise proprio davanti a quella corrente, fino a che non le arrivò dritta in faccia. E fu l'idea migliore che le fosse mai venuta.
Di fronte a lei c'era uno scurissimo blu. E numerosi minuscoli diamanti in ogni dove, là in alto.
Si sentì circondare da dietro, una fonte di calore ben accetta. Un braccio le andò sul collo, dove era maggiormente scoperta. «Sei una temeraria.»
Ami sorrise, senza abbassare la testa. «Tu l'avrai fatto tante volte.»
«In inverno?»
Lei si limitò ad annuire, senza distogliere lo sguardo da dove lo aveva ormai fisso.
«Sì.» le confermò lui, ridendo.
C'erano risate che scaldavano più di ogni altra cosa. Appoggiò le mani sulle sue, stringendosi e stringendolo.
Nel nero che vedeva tra le innumerevoli stelle c'erano probabilmente milioni di astri e galassie, troppo lontani per essere visti. Era ... l'infinito. Era come starvi al centro e al contempo lontano, in un posto e in un momento in cui c'erano solo due persone. E una sensazione che rivaleggiava con la meraviglia che provava nei confronti di quanto aveva davanti.
Una folata di vento intenso fece tremare non solo lei, ma anche il corpo che la stringeva. Si spostò all'indietro. «Va bene così.»
Alexander allungò un braccio fuori e chiuse la finestra più esterna, prima di passare all'altra. «Potrai tornare in estate, se vuoi. La tengo aperta quasi senza tregua.»
Gli piaceva parlare del futuro.
E quei momenti erano come piccole punture, dentro di lei. «Ah .. come siete arrivati a vivere qui? Questo non è un palazzo residenziale.»
Alexander annuì, andando vicino a letto e accendendo una lampada dalla tenue luce gialla. «Per via di mio padre. Questo edificio è di proprietà della società di cui amministra la filiale asiatica; la sede regionale si trova qui sotto. Questi due ultimi piani erano inutilizzati e anni fa lui ha chiesto di poterli occupare, rinunciando al bonus che aveva ottenuto.» Si sedette sul letto, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Hanno accettato la sua richiesta: suppongo abbiano pensato fosse un affare poterlo avere sempre a disposizione. E ... era stata proprio quella l'intenzione di mio padre: stare qui per lui era l'occasione per poter lavorare in qualunque momento.» Si fermò e, per un momento, la mente si fermò su un passato lontano. «Credo sia per questo che all'inizio ho odiato questa casa.»
Ami rimase in silenzio. A pensare a genitori assenti che si desiderava avere accanto più di qualunque altra cosa.
Alexander alzò brevemente il braccio davanti a sé, un dito alla parete di vetro. «Solo poi ho iniziato ad apprezzarla. Forse avrei capito comunque cosa volevo fare in futuro, ma ... così ho sempre avuto la risposta davanti agli occhi.» Le rivolse un'espressione divertita. «Ma non permetterò al lavoro di entrare nella mia vita più di così. Voglio dire ...» Si fermò, come indeciso se continuare.
«Cosa?» Ami si sistemò accanto a lui.
«Non ho ambizioni che vadano oltre una vita ... semplice, dal punto di vista personale. Lavorare a quello che mi piace e avere qualcuno con cui condividere un futuro è tutto quello che mi aspetto. I miei genitori hanno insistito per anni sul fatto che avrei potuto essere di ... più, se solo lo avessi voluto.» Alzò gli occhi al soffito, quasi sprezzante. «Più importante, con ruoli di responsabilità; più famoso, persino. Ma non mi è mai interessato gestire altre persone e per quanto riguarda la fama» Nel viso gli lesse un vivo fastidio. «È tutto il contrario di quello che voglio. Meno persone mi conoscono, meglio è.» Gli tornò un po' di allegria. «Naturalmente questo esclude un'eventuale fama derivante dal mio lavoro di ricerca. Mi piacerebbe molto, ma solo perché questo significherebbe che ho raggiunto un traguardo importante.» Si fermò e annuì fra sé. «Questo è quello che voglio per il mio futuro. Tutto il resto ... non fa per me.»
Ami era rimasta immobile.
«E tu?»
Non trovò il coraggio di guardarlo. «Credo ... » distese e osservò le proprie mani, pensando al potere che nasceva da loro. «Vorrei solo essere felice ... Chi lo sa come può accadere, no? Possono esserci strade che nemmeno immagino.» Non le restava che sperare che fosse così.
«Direi di sì.» Sentì un bacio sulla guancia e fu al contempo felice e abbattuta all'idea di non potergli nascondere il proprio stato d'animo.
Lui trovava sempre il modo di capirlo.
Le prese una delle mani che lei ancora stava guardando, tenendola aperta. «Da bambini insegnano quei giochi che fanno gli indovini. Hmm ...» sorrise, iniziando a tracciarle il palmo col pollice. «Non so quale sia la linea della vita, ma penso che la tua sarà molto lunga. E se esiste una linea della felicità, sono certo che sarà lunga anche quella.» Rimase a riflettere. «Destino ... è un concetto che non mi è mai piaciuto. Però ... si può dire che è così che ci siamo incontrati.»
Ami non tentò nemmeno più di nascondere quello che provava.
Quello che avevano era tutto tranne che destino.
E sì, la sua linea della vita era molto lunga; se ne aveva una, doveva sicuramente percorrerle il corpo da capo a piedi, incapace di rimanere contenuta dentro una sola mano.
Alexander le passò una mano sulla vita e la strinse contro il proprio fianco, parlandole su una guancia. «Non farlo.»
Fece finta di non capire. «Cosa?»
«Quella faccia. Se ho trovato il modo di dire qualcosa di sbagliato, dimmelo. O prenditela con me.»
Sbagliato? Tutto quello che faceva era così giusto. Talmente giusto per lei.
Girò la testa, alzandola fino a riuscire ad appoggiargli un bacio sulla bocca.
Ogni cosa era giusta: il modo in cui la faceva sentire, la felicità che provava sapendo di renderlo felice.
Se anche un giorno fosse tutto finito, almeno per quel momento, era ancora tutto vero, reale. Con lei.
Il tocco delle sue labbra venne ricambiato con un cenno di esitazione, all'inizio, ma presto ogni incertezza fu abbandonata.
Si separarono quando una voce chiamò distintamente il nome di lui, dal piano di sotto.
Alexander si girò verso la porta aperta e si alzò. «È mia madre. Vieni, te la faccio conoscere.»
Iniziarono a scendere per le scale e lui parlò non appena intravide il piano di sotto. «Hello, mother.»
«Mom would be nice, for a change. I wanted to ask you-» La voce femminile si interruppe quando anche lei finì di scendere le scale.
Alexander continuò. «I am not trying to be formal, just funny; you should know. Questa è Ami. Capisce l'inglese.»
Ami inchinò rapidamente la testa, cercando quasi subito di non fissare apertamente: la donna che aveva davanti doveva sicuramente aver fatto del proprio aspetto un lavoro, anni addietro. Lo capì non solo dalla bellezza fuori dal comune che ancora possedeva, ma soprattutto dal modo in cui ogni particolare, dai vestiti agli accessori, era pensato per esaltarla. Bastava una fugace impressione per capire che Alexander le somigliava molto. Anche se non del tutto; fra le altre cose, gli occhi verdi di lei erano brillanti, ma mancavano delle tracce di blu che conosceva così bene. Quel viso a sua volta la fissò con genuina sorpresa; infine sorrise, quasi con ... tenerezza?
Sporgendosi verso di lei e un po' abbassandosi, data la sua altezza, la madre di Alexander le porse una mano, in un saluto tipicamente americano. «È un vero piacere, Ami. Alexander non ha ancora capito che dovrebbe presentare entrambe le persone. Sono sua madre, Eve Foster.»
«Piacere.»
Alexander alzò gli occhi al soffitto. «Potevo chiamare 'mother' qualcuno che non fosse mia madre?»
«No. Ma, caro figlio» sorridendo, usò la formalità che lui le aveva appena detto di trovare divertente, «è una questione di cortesia. E sarei rimasta senza nome se fosse stato per te.»
Lui non si arrese. «Magari glielo avevo già fatto sapere.»
«Il magari implica che non l'avevi fatto.» Sospirò benevola, scuotendo la testa. «Sii paziente, ho modo di vincere solo questo tipo di discussioni con te. Ma le vinco.»
Alexander non replicò oltre, scrollando le spalle, e sua madre annuì soddisfatta. Poi si girò verso di lei. «Te lo porto via un attimo. Oh, ecco che arriva Shoko-san con il rinfresco.»
Alexander guardò il vassoio pieno di pasticcini. «Non dovevi.»
Ami aveva già capito che gli dava fastidio l'idea di avere qualcuno che lo servisse.
La signora Shoko appoggiò il vassoio su un tavolino di vetro. «Alex, è questione di-»
«Cortesia.» finì lui. «Ami, avrai l'impressione che io sia un maleducato dai discorsi che hai sentito fare oggi.»
Lei ridacchiò. «No. Va pure, aspetto qui.»
Alexander annuì e seguì sua madre in fondo al corridoio bianco. Dal punto in cui si trovava, Ami non ne vedeva la fine: curvava, ad un certo punto.
Si sedette sul divano e prese in mano il bicchiere d'acqua che era stato appoggiato lì per lei. La governante di Alexander era seduta di fronte a lei. «È la prima volta che Ale-chan porta a casa una ragazza.»
Ami sorrise di fronte al diminutivo. «Beh, noi ... » Cosa? Era stata sul punto di far capire che la loro relazione non era qualcosa da prendere con troppa serietà, ma ... non era così; o forse sì, a seconda dei punti di vista.
Shoko Kaiba le sorrise, invitandola implicitamente a rilassarsi. «Non ti preoccupare. Non sono qui per farti un processo. Solo ... » si appoggiò all'indietro sul divano. «Tengo a lui come fosse uno dei miei figli.» La guardò, come a valutare cosa fosse meglio dire. «Per istinto, mi piaci. Anche solo perché hai scacciato una delle mie più grandi paure. Ho sempre temuto che, con la scelta che avrebbe avuto, Alexander avrebbe finito con l'essere tentato da ragazze con molta bellezza e poco cervello. È sempre un uomo in fondo.» Sorrise soddisfatta, scuotendo la testa. «Invece avrei dovuto fidarmi del mio ragazzo. La prima che ha portato a casa ha bellezza e molto cervello.»
Ami arrossì. «Grazie.»
La signora prese anche lei un bicchiere e, dopo aver bevuto pensierosamente un sorso, continuò. «Non si affeziona facilmente. Potrei dire che non si affeziona quasi mai. Per questo, quando mi ha parlato di te, mi ha sorpresa. A parte i miei figli, per conto suo ha trovato un solo vero amico, da quando era bambino.» Si fermò. Poi la guardò dritta negli occhi. «Alexander non sceglie a caso e so che non ha scelto a caso nemmeno te. Perciò forse sto per dire qualcosa di inutile, ma ... per me è importante. Cerca di capire se provi quello che prova lui, se hai le sue stesse intenzioni, ora e in futuro. Penso che sia un buon consiglio per una qualunque relazione ma .... ci tengo, per lui. Ci tengo a vederlo felice.»
Ami annuì.
Abbassò gravemente le palpebre e annuì di nuovo.




Lo stava usando.
Era quasi un eufemismo: lo stava deliberatamente ingannando, oramai.
Il modo in cui lui tranquillamente accennava al futuro, ad un futuro anche lontano, non lasciava dubbi sull'importanza che stava iniziando a dare alla loro relazione.
Non si affeziona facilmente. Non si affeziona quasi mai. Le parole di chi lo conosceva da molto più di lei.
Era riuscita a intuirlo, ma la sua esperienza le diceva solo che Alexander era una delle persone più affettuose che avesse mai conosciuto.
Dentro di sé sapeva cosa provava lui. Anche se non le era mai stato detto a voce, sapeva che quel richiamo a cui lui rispondeva sempre, in molti modi diversi, poteva nascere da una sola cosa.
L'aveva ... scelta.
Ma di lei sapeva solo che voleva studiare medicina. Non aveva idea di chi fosse veramente.
Non sapeva che sarebbe vissuta per un millennio.
Lui non immaginava minimamente che lei stesse proseguendo la loro relazione cosciente che, un giorno, sarebbe finita.
Mentre Alexander pensava ad un futuro insieme, lei cercava di non pensare al giorno in cui si sarebbero dovuti separare, al giorno in cui avrebbe dovuto dirgli che ...
Non gli stava nascondendo solo la durata della sua vita.
Tra cinque o sette anni, lei avrebbe dovuto assumersi responsabilità immani nei confronti del pianeta intero, che avrebbe guardato non solo ad Usagi e a Mamoru, ma anche a lei e alle sue compagne, come figure di riferimento.
Era quello il suo futuro.
Lui non lo avrebbe mai scelto volontariamente.
Se lo avesse fatto per lei, sarebbe stato un sacrificio enorme, che non avrebbe nemmeno potuto dirsi ricompensato da una vita passata insieme.
Ma ... poteva anche non sceglierlo, no? Perché si sarebbe dovuto scegliere di vivere in una maniera che non si desiderava, quando non c'era nemmeno una possibilità reale o quantomeno probabile che quella scelta portasse a frutto alcuno? Lei non avrebbe potuto promettergli niente, non un futuro insieme, non ... dei figli. Avrebbe potuto dargli solo pochi anni, forse fino a quando la differenza di età non si fosse fatta pesante.
Anni in cui lo avrebbe costretto ad accettare una notorietà che le aveva già detto di detestare e, presumibilmente, anche responsabilità che non desiderava.
Tutto per ...
Nascose la testa contro il cuscino, chiudendo gli occhi e cercando di trattenere il dolore.
Tutto per niente. Quel sacrificio, se mai lui avesse voluto farlo, poteva non avere alcuno scopo.
Se anche l'avesse amata come l'amava lei, con tutta l'anima, scegliere di rimanere con lei per Alexander avrebbe rappresentato un rischio enorme.
Poteva rubargli metà della vita, nel tentativo di essere felice con lui.
Ma poteva anche essere realistica, no? Poteva anche rubargli solo cinque o sette anni, perché non era affatto detto che lui l'avrebbe perdonata, che l'avrebbe amata ancora, il giorno in cui avesse scoperto la verità su di lei e l'importanza di ciò che gli aveva nascosto. In pochi lo avrebbero fatto.
... non c'era futuro.
Deglutì e tentò di non piangere.
Aveva voluto talmente tanto poter dimenticare la realtà da esserci quasi riuscita.
Nessun futuro per i pomeriggi passati a parlare, per gli abbracci che le avevano regalato un calore sconosciuto, per i tocchi, delle mani, delle labbra, che li univano come erano già uniti in ogni altro modo. Per quanto poco fosse stato il tempo di quel legame.
Nessun futuro per loro due insieme, ma ... c'era un futuro per entrambi, separati.
E per lui quel futuro poteva essere pieno di tutto quello che aveva desiderato.
Sarebbe diventato quello che sognava da anni, avrebbe trovato qualcuno con cui condividere tutto quanto, avrebbe costruito per sé e per chi avrebbe amato una vita e una famiglia che lo avrebbero reso ... felice.
Lei non poteva offrirgli niente di simile.
Quello non era un pensiero recente. Era un pensiero dimenticato, del giorno ... del giorno in cui l'aveva baciata per la prima volta.
Egoisticamente, non avrebbe potuto mai rimpiangere quel momento; e chissà per quanto avrebbe ricordato le tre settimane in cui si erano amati.
Solo tre settimane.
Sarebbe stato quello l'unico rimpianto.
Non si sarebbe mai pentita di averlo conosciuto; non avrebbe mai potuto rimpiangere nulla, fino all'ultimo dei momenti in cui erano stati insieme; anche se Alexander, probabilmente, avrebbe finito col rimpiangere tutto quanto molto presto.
Era stata egoista; lo accettava. Per il passato, per quello che non poteva più cambiare, lo accettava.
Ma lo amava.
E desiderava per lui una vita di felicità, quella che non poteva esserci con lei lì accanto.
Doveva ... lasciarlo libero.
Libero.
Pensò al dolore che gli avrebbe evitato, alla gioia di una normalità che lui avrebbe potuto vivere appieno.
Le diede un po' di pace.
Dormì.



Quando Ami riuscì a scorgerlo, lo trovò fermo, appoggiato ad un muro e con un libro in mano.
Per quel giorno avrebbe trovato il modo di fare ricorso a doti di attrice che non possedeva: qualche altra ora era tutto quello che desiderava.
Poi ... avrebbe detto quello che doveva.
Il peso che tornò a crescerle dentro diventò rapidamente opprimente.
Si fermò. Inspirò aria e lo guardò da lì, da lontano.
Il modo in cui lui era concentrato su altro ... ricordò le prime volte che lo aveva visto, prima che le parlasse. Non era stato davvero interessato a lei.
C'era stato un ... destino che l'aveva continuamente messa sulla sua strada.
Se il destino era fatto per cose meravigliose, capiva perché glielo avesse fatto incontrare. Il dolore non avrebbe mai cancellato la gioia, quello che aveva scoperto conoscendolo.
Gli guardò il viso. Gli occhi chiari non li vedeva, ma li avrebbe sognati a lungo. Quelli e tutti i discorsi che le aveva fatto, con la voce che le aveva acceso l'anima.
Le mani con cui teneva il libro. Non le copriva quasi mai con dei guanti, ma, anche quando erano fredde, le avevano dato solo calore.
Voleva sentire ancora quel tepore. E tutto quanto.
Si avvicinò a passi rapidi verso di lui, utilizzando quel momento di coraggio. Andò ad appoggiare una mano su una delle sue. «Ciao.»
E sospirò: l'espressione che aveva quando la guardava.
Gli rispose con tutto l'amore che aveva dentro, in un sorriso senza fine.

«Oggi devi tornare a casa a cenare?»
Ami si affrettò a scuotere la testa. «No, possiamo mangiare fuori.»
Contento, le sorrise. «Perfetto. Cucina tradizionale o europea?»
Non aveva davvero alcuna importanza. «Ehm ... il posto che preferisci?»
Lui la squadrò in modo furbo. «Beh, quello dove ci sei tu.» Rise. «Vada per il cibo europeo.» Si guardò intorno. «Passiamo per il parco. Dall'altra parte c'è un posto dove non ti ho ancora portata.»
Ami annuì, seguendo la mano che la teneva in una stretta salda e al tempo stesso delicata.
Camminarono in silenzio. Quei momenti senza parole che non avevano necessità di essere riempiti.
Alexander si fermò all'improvviso. «È proprio dentro questo parco che ci siamo conosciuti.»
« ... sì.»
«Vengo spesso a correre qui e forse sono state solo coincidenze. Ma ... non credo.» Si voltò a guardarla e indicò dietro di sé con un cenno della testa. «Su quel ponte ti ho parlato per la prima volta.»
Era vero.
«Ed è successa anche un'altra cosa che non sai.»
La curiosità prevalse e pose la domanda con l'espressione.
«Ti ho vista il giorno che ha nevicato, proprio là.»
Per un attimo Ami non capì, poi ricordò.
Oh.
Sperò che non avesse visto-
«Ho capito allora che hai l'abitudine di baciare pupazzi di neve.»
Arrossì.
No, aveva visto. «Non ti ho notato. Perché non sei venuto a parlarmi?»
«Ero appena scivolato sul ghiaccio. E poi ... non sono più riuscito a muovermi.»
In che senso?
Ma non sembrava avere più intenzione di spiegarle. La stava guardando con un nuovo tipo di intensità.
Ami non arrossì più. No, voleva solo vivere appieno ogni cosa. Accarezzò col viso la mano che andò a toccarle una guancia, chiudendo gli occhi.
«Quello che ho capito quel giorno è che ... ti amo, Ami.»
Il corpo e l'anima le si fecero pietra.
Era ... finita.
Scostò il viso quando lui si abbassò a baciarla. Per farsi uscire le successive parole fissò lo sguardo su un punto vuoto del cielo scuro.
«Io ... tu mi piaci.»
Il ma lo percepì distintamente anche lui: gli occhi chiari iniziarono ad allargarsi.
«Ma amore ... è una cosa diversa.»
Ci fu solo immobilità e un illimitato silenzio per un lungo, interminabile istante.
Alexander le strinse le spalle, costringendola a guardarlo; aveva assunto un'espressione talmente ... non avrebbe mai voluto essere lei a provocargliela.
«Cosa stai dicendo?» Ogni traccia della sempre presente sicurezza gli era scomparsa dalla voce.
«Che l'amore ... non fa per me.» E almeno quella era la verità, in parte. Il resto solo orribili bugie; si costrinse a dirle, a guardarlo negli occhi mentre mentiva. «O forse tu non fai per me. So solo che ... non sono innamorata di te. Ci ho provato, ma ... non ci riesco.»
Negli occhi che amava si fece largo il vuoto totale.
Ami si ricordò mille e più volte in un solo momento che, se avesse aspettato ancora, sarebbe stato anche peggio di così. E non lasciò trasparire neanche uno di quei pensieri: indossò una maschera di ghiaccio e durezza, la fece diventare propria; divenne lei stessa inflessibilità.
Non diede altre spiegazioni. Non mostrò un singolo cenno di rimorso.
Le dita che le avevano stretto le braccia si allontanarono da lei.
Chiuse gli occhi, rimpiangendole subito: quella era stata l'ultima volta che l'aveva toccata.
Represse un sussulto. No, ancora no.
La propria espressione iniziò ad entrare nel viso di lui. «Se la pensi così, per me non ha senso continuare.»
Ma non si mosse, non si allontanò da lei. Voleva un'ultima conferma; c'era ancora una speranza.
Ami trovò quell'ultima forza e annuì. «Lo penso anche io.»
Nel momento in cui uccise qualcosa dentro di lui, mandò a morire anche una parte di lei.
Non avrebbe mai dovuto incontrarla.
Ma meglio ora che tra molti anni. Meglio ora.
Alexander non disse nient'altro. Guardò brevemente di lato, quindi le diede la schiena e si allontanò.
Ami rimase incollata al terreno.
Ancora no. Non ancora.
Doveva aspettare fino a quando non l'avesse più visto, fino a quando non fosse stato più in grado di sentirla.
Ma, appena fu abbastanza lontano, non riuscì a resistere oltre. Si buttò in corsa dietro un albero, si nascose al riparo di alcuni folti cespugli.
Sussultò con tale forza da non riuscire a trovare le lacrime.
E, quando arrivarono, lasciò uscire un singolo lamento di agonia.
Poi soffocò tutto, ogni cosa, anche il respiro, tra le ginocchia in cui affondò la testa.



L'espressione di lui in quell'ultimo momento.
Forse non sarebbe mai riuscita a dimenticarla.
Forse non le sarebbero rimasti neanche i ricordi dei momenti felici.
Li avevi traditi tutti, con le sue ultime parole.

... che ti amo, Ami.
Nel sonno viveva il momento in cui quelle parole sarebbero state solo le più belle che avesse mai sentito.
Viveva l'attimo in cui le avrebbe dette a lui.
Viveva in giorni in cui continuava una realtà che aveva smesso di esistere.

Evitava la strada che avevano percorso insieme per andare a casa sua, allungando di proposito il percorso.
A neanche due isolati da lì, l'aveva baciato per la prima volta.
Ed era un ricordo così meraviglioso da essere tormento.
A che serviva continuare a ricordare?
Non poteva più avere nulla ed era tortura continuare a pensarci.
... contro ogni logica, ancora non si era ancora rassegnata.

Tutto sembrava scorrerle intorno.
Doveva dimenticare.
Per un po', l'unica soluzione era dimenticare.
Era esistito un mondo senza Alexander.
Era stato un mondo ... di pace. Di tranquillità. Di cosa ... non lo sapeva più.
Ma ora era quella la sua vita.
E non aveva più la forza di disperarsi in silenzio, mentre parlava con chi non ne doveva sapere nulla.
Od ogni notte, prima di abbandonarsi alla stanchezza del dolore.



Alexander arrivò al parco già in piena corsa.
Un parco diverso.
Una volta lì, accelerò il ritmo.
Corse fino a non avere più fiato, fino ad avere la gola secca.
Non toccò una sola goccia dell'acqua che si era portato dietro.
Quell'arsura era una sensazione su cui concentrarsi, almeno. Assieme ai polmoni che iniziavano a bruciare.
Presto il corpo gli reclamò di prepotenza aria. E riposo.
Le gambe gli cedettero e trovò la forza solamente per lasciarsi cadere sull'erba secca e fredda.
Non voleva pensare.

Ci ho provato ... ma non ci riesco.
Non ci riesco?
Allora era davvero brava a fingere perché ... dannazione se le aveva creduto.
Una risata amara, al posto di tutto quello che voleva uscire.
Strinse i pugni.

Amore ... è una cosa diversa.
Diversa dal volerlo avere vicino ogni volta che poteva?
Era esattamente quello che lei aveva voluto.
Ah, ma forse era stato solo provare.
Rilasciò un sospiro di ... rabbia. E di patimento.

Quella faccia.
L'espressione che lei aveva avuto, a volte. Persa, triste.
Era perché aveva tentato di provare qualcosa che non sentiva?
Eppure aveva sempre cercato un suo contatto, dopo.
Le era piaciuto quando la toccava.
Un'immagine.
Gli occhi chiusi, il viso inclinato, ad assaporare il contatto delle dita con cui le sfiorava la guancia.
Un ricordo.
Ami aveva indugiato su ogni tocco di labbra. Aveva amato ognuno dei baci che le aveva dato.

La gioia completa di quando lo aveva rivisto, dopo i giorni di separazione.
L'impazienza con cui lo aveva cercato. E ogni altra cosa.
Tu non fai per me.
Balle.
Non sono innamorata di te.
La più grande serie di balle che fosse mai stata detta.
L'amore ... non fa per me.
Quella frase ... era lì il problema.
Lo stava allontanando. Credeva che ci fosse in lei qualcosa che non andava.
L'unica cosa che non andava era quella decisione senza senso.
E lui, che ci aveva messo cinque interminabili giorni a capirlo.
Che, idiota immaturo, non aveva neanche provato a contestarla, più interessato al dolore causato dal rifiuto che alla verità che aveva sempre avuto davanti.
Si alzò.
Corse di sotto, indossò rapidamente la giacca, dimenticò la sciarpa e uscì.
Se davvero Ami lo voleva lontano, era meglio che avesse il coraggio di dirgli il vero motivo.
Ma avrebbe potuto dirgli qualunque cosa, restava un fatto: lo amava.
E di allontanarlo se lo poteva scordare.



Usagi la raggiunse sulle scale che portavano fuori dalla scuola. «Ti accompagno a casa, che ne dici Ami?»
«Sì ... perché no?» Ami accennò ad un sorriso.
Nel tragitto, seguì la conversazione di Usagi assentendo e ascoltando.
Vedeva Makoto e Minako solo alla fine delle lezioni, ma Usagi era in classe con lei. Forse aveva capito.
Stando con le sue amiche, si era aggrappata alla normalità che rappresentavano.
Non aveva detto loro nulla; non sapevano neanche di Alexander.
Se l'avessero conosciuto, sarebbero state felici per lei.
E non avrebbero mai compreso perché un giorno avrebbe dovuto troncare quella relazione.
Spiegare loro il motivo sarebbe equivalso a trasmettere paure che ... le aveva solo lei per ora, ed era meglio così.
Quando arrivarono davanti a casa sua, Usagi sfoderò un sorriso da ragazzina impenitente. «Ho una fame da lupi. Mi offri qualcosa?»
«Ma certo.»
Era un'occasione per non stare da sola e l'accolse volentieri. In quei giorni in cui sua madre lavorava fino a notte tarda, passava troppo tempo solo con se stessa.
Una volta in casa, preparò ad entrambe una tazza di tè e tirò fuori i biscotti con cui faceva colazione.
Usagi prese la tazza offerta e sorrise, con quell'aria perennemente allegra che solo lei aveva. «Grazie!»
« ... di niente.» Ami iniziò a girare il cucchiaio nel liquido. Rimase ad osservare il vapore che si allontanava lentamente dal té, in soffici onde bianche.
Un tintinnio e la tazza di Usagi fu appoggiata sul tavolino.
Se la ritrovò vicino, seduta accanto a lei sul divano.
«Sono preoccupata.» Inclinò verso di lei la testa, in un gesto di apertura e comprensione. «Non stai bene. C'è qualcosa che ti rende triste.»
Sì. Ma era così doloroso continuare a pensarci.
E anche solo percepire l'affetto di Usagi la faceva già sentire ... meglio. Era un inizio.
«Sono qui per te. Parlamene, Ami.»
Lei scosse appena la testa. «Scusa se ti ho fatto stare in pensiero.»
«Non mi importa. Voglio che tu stia bene. Forse non sarò in grado di darti una soluzione, ma condividere il dolore ... può servire.»
Sarebbe servito solo a far stare male due persone invece che una.
E non c'era soluzione diversa dal dolore stesso. «È ... è un problema che ho creato io. Non ti preoccupare.»
Si portò il tè alle labbra. Bevve un singolo sorso prima di accorgersi di non voler bere nulla.
Appoggiò la tazza sul ripiano in legno.
E rimase ferma.
Alzò lo sguardo su Usagi solo quando sentì una delle mani di lei appoggiarsi sulle sue mani unite.
«Voglio solo stringerti la mano.» le spiegò, con tranquillità.
La presa si fece appena più decisa, portatrice di conforto e sostegno.
Ami abbandonò piano la testa contro la spalla accanto a lei.
Non sentì domande, né richieste di spiegazioni. Ricevette solo un incondizionato e muto supporto.
Usagi, Rei, Makoto e Minako le avrebbero dato per sempre affetto e supporto. Ma anche così ...
Chiuse gli occhi e concluse quel pensiero, «Non vorrei vivere per mille anni.»
Sentì il respiro mozzato e l'attenzione di Usagi.
«Molti meno basterebbero.» Accanto ad una sola persona, sarebbero stati meglio di secoli interi.
«Perché?» C'era cautela dietro quella domanda.
« ... nessuno potrà vivere quanto noi. È ... triste.»
Percepì il fruscio della coda bionda sulla schiena: Usagi stava scuotendo la testa. «Io credo che ... potranno vivere molto più di quanto vivono ora.»
«È una speranza?» sussurrò.
«No ... so che sarà così. Lo sento. Non vivranno mai quanto noi, ma ... più di ora, sì.»
Più di ora, quanto?
Comunque non poteva sicuramente essere sufficiente per una vita normale con ...
«Sei fortunata ad avere Mamoru.»
Che avrebbe vissuto quanto tutte loro.
Usagi aspettò prima di parlare. «Sì, ma ... prima o poi sarete fortunate anche voi. Dico sul serio.»
«Non potremmo mai trovare qualcuno coi nostri stessi poteri.»
Il volto di Usagi si girò verso il suo. «Ma ... non importa, no?»
«Il potere no. La vita che può dare, sì.»
Usagi sospirò di sorpresa. «Oh, è questo?» Le mise le mani sulle spalle e la allontanò da lei, per poterla guardare in viso. «Ami. Avresti dovuto parlarmene.»
«Perché? Non puoi promettere nulla.» E lei non poteva rischiare la felicità di chi amava.
«È vero. Però» Usagi la guardò senza incertezze. «Ami ... Ho solo le mie sensazioni ora. E la mia volontà. Ma so che farò di tutto perché nessuna di voi debba mai perdere chi sceglierete di amare, perché non trascorriate da sole il lungo periodo che ci aspetta.»
«Ma non puoi promettere che ci riuscirai.» Non lo pretendeva in alcun modo da lei, ma ... era un dato di fatto.
Usagi si fece pensierosa e severa. «Non ho mai potuto nemmeno promettere che avrei battuto ciascuno dei nemici contro cui ci siamo scontrati. Ci ho creduto Ami. Bisogna crederci.»
Crederci? Il sogno più folle che aveva ... la sua intera lunghissima vita trascorsa con Alexander.
Una vita che lui comunque non avrebbe desiderato. I problemi erano sempre tanti, anche se, se solo avesse potuto ... «Mi sono innamorata.»
Usagi spalancò gli occhi.
«Lui mi ha detto che mi amava e io gli ho detto ... » scosse rapidamente la testa, con ancora dentro l'agonia di quegli attimi. «Anche se potesse vivere quanto me, lui non vuole la vita che avrò. Vuole una vita ... semplice. Io so che non potrò dargliela. Gli avrei fatto solo perdere tempo se avessi deciso di rimanere con lui. Lui ... Alexander è ... »
«Tu non sei una perdita di tempo, Ami.» Usagi la guardava con seria tristezza.
Non era quello il punto, non capiva. «Lui vuole una vita semplice: mi ha detto che non vuole la responsabilità di altre persone, che non sopporta la notorietà. E sarà quella la nostra vita, la mia, la tua. Sapendolo, sarei rimasta con lui solo perché ... » La risposta erano mille parole, tutte quelle che servivano a descrivere ciò che provava.
«Perché lo ami.»
Le spalle le crollarono e abbassò lo sguardo. «Voglio solo che sia felice. Che abbia il meglio.»
«È in grado di scegliere da solo cos'è meglio per lui.» 
«Non lo conosci, come ... ?» Non aveva più la forza di completare alcuna frase.
«Come lo so? Lo hai scelto tu.» Le sorrise, fiera. «Deve essere eccezionale.»
Oh, lo era.
«Ami, ti ha detto che ti ama. Tu non devi regalargli una vita semplice o il tuo sacrificio. Devi solo dargli una possibilità.» Vi era certezza assoluta in quell'affermazione.
Ami alzò lo sguardo.
«Ti ama e la merita. E se sapesse tutto di te, sono più che sicura che la vorrebbe quella possibilità.»
Ami continuò a non muoversi.
Usagi proseguì, in volto un sorriso che cresceva. «È questo che significa amore, sai? Voler fare cose prima impensabili pur di stare con chi si ama.»
Ami prese a respirare, a malapena.
Tutte le risposte che si era data non avevano veramente tenuto conto di-
«Ami?»
Incontrò di nuovo lo sguardo di Usagi.
«Avresti preferito vivere pochi anni standogli accanto invece che mille anni senza di lui?»
Riuscì solo ad annuire.
«Allora è vero amore.» Usagi sorrise enormemente, alzandosi. La tirò su per un braccio. «Hai già perso abbastanza tempo a spiegarlo a me. Devi andare da lui.»
Come?
Si fece trascinare verso l'ingresso, dove Usagi le buttò sulle spalle la giacca, spingendola a indossarla. Le frugò nella tasca. «Mettiti le scarpe. Le chiavi dove sono?» Le trovò nell'altra tasca e, soddisfatta, iniziò a indossare lei stessa le proprie scarpe.
Ami infilò un piede nelle ballerine nere.
Davvero lo avrebbe voluto anche lui? Era così semplice?
Usagi le si parò davanti, scuotendo la testa, divertita. «Cosa desideri più di ogni altra cosa?»
La certezza che ... no. Avrebbe fatto di tutto anche solo per- «Una possibilità.»
Usagi annuì. «È là fuori. Se non sei ancora convinta, dimmi che pensi davvero che non la voglia anche lui.»
Alexander?
Nell'istante stesso in cui iniziò a pensarci seppe la risposta. Sgranò gli occhi. «Vado.»
Usagi spalancò la porta. «Sì.»
Ami uscì zoppicando sulla scarpa ancora da infilare e non perse tempo con i bottoni della giacca.
«Aspetta, devi chiudere!»
Tornò indietro con le chiavi, tra le risate di Usagi che si toglieva la sciarpa, mettendogliela rapidamente attorno al collo.
Avrebbe trattenuto le lacrime se non fosse stata così felice. «Grazie.»
«Vai.»
E andò.



Ami scalpitò dentro il treno, ma era il modo più veloce per arrivare.
Non sarebbe stato semplice per via di tutte le menzogne che gli aveva detto. Ma gli avrebbe fatto capire che lo amava più di ogni cosa, che aveva solo avuto paura di ...
Si ritrovò a scuotere piano la testa. Di se stessa.
E non era del tutto una bugia, ora se ne rendeva conto.
Perché, per quanto tutto quello a cui aveva pensato fosse stato logico e sensato, ora capiva che ... non l'avrebbe mai fatto se avesse creduto fin da principio di poter essere amata più di scelte di vita che lui aveva fatto prima di conoscerla. Amata come lo amava lei.
Non avrebbe mai perso tempo a concentrarsi sulle eventualità peggiori, sul fatto che c'era una possibilità che lui non potesse mai vivere quanto lei, se ... se avesse avuto più fiducia.
Aveva ragione Usagi: tutta la loro vita da guerriere era stata caratterizzata da situazioni in cui avevano sconfitto nemici molto più potenti di loro, solo credendoci.
E lei invece aveva tralasciato, in tutti i suoi ragionamenti, il potere che poteva avere quella speranza.
Alexander ci avrebbe creduto anche lui; se ci fosse stata una speranza, lui l'avrebbe voluta afferrare.
Era stata lei quella insicura, debole.
Inspirò con forza l'aria.
Ma non più. Non si era mai sentita più forte, più viva che in quel momento.
Avrebbe fatto di tutto per fargli capire.
Quando le porte del treno si aprirono, uscì di corsa. Doveva prendere un'altra linea, ma faceva prima a correre che a fare l'intero tratto fino alla fermata che la collegava con  il collegamento di cui aveva bisogno. Camminò il più veloce possibile lungo gli affollati marciapiedi di quella zona centrale.
Quando attraversò una strada col semaforo quasi sul rosso fu rimproverata dal suono di un clacson, ma non se ne curò.
Si girò solo quando il rumore si fece continuo.
E si immobilizzò davanti ad Alexander che parcheggiava la moto su un lato della strada.

Alexander smontò dalla moto e mise via il casco: non voleva assolutamente niente tra le mani.
Raggiunse Ami, rimasta ferma a qualche metro da lui.
Lei scosse la testa e iniziò a parlare, ma la interruppe. «Io non ti credo.»
La zittì.
«Hai mentito in tutto, quel giorno. E se credi che l'amore non faccia per te, ti sbagli.»
Vide gli occhi di lei allargarsi e continuò prima che potesse obiettare. «Tu sei fatta per quello che proviamo entrambi esattamente quanto me. Se hai un problema, dovrai parlarmene se vorrai che inizi anche solo a capire la ragione per cui hai mentito. Ma anche così, qualunque cosa sia ... non andrò da nessuna parte.»
Aveva finito, ma si sarebbe fermato comunque.
Nel viso di Ami non c'era alcuna traccia di tristezza; iniziò invece a ridere e a piangere. «Erano bugie. Stavo venendo a dirtelo.»
Sparì il peso che gli aveva costretto in una morsa il respiro, anche quando era stato sicuro che-
«Ti amo anche io.» Le lacrime non furono più solo di gioia. Ami iniziò a singhiozzare. «Mi dispiace per quello che ti ho fatto, per come ho potuto- Credevo di fare la cosa migliore per te, quando invece ero solo io che-»
La strinse con forza, affondando le dita nei suoi capelli, circondandole completamente la schiena.
Sentì le braccia di lei attorno al collo, a tirargli ancora più giù la testa, per strofinare la guancia contro la sua, mentre un altro sussulto la percorreva. «Mi sono nascosta a piangere dietro un albero prima che te ne fossi andato.»
Dio. Fece in modo di avere di nuovo davanti, di nuovo vicino, quegli occhi grandi e blu. «Stupida.»
Un rapido annuire che bloccò catturandole la bocca. Fu la sua a essere imprigionata poco dopo da quella di lei.
Non si diedero il tempo di completare neanche un bacio per diversi secondi. Ami gli afferrò la faccia con entrambe le mani. «Ti spiegherò.»
Alexander annuì senza interesse. «Dopo.»
E tornarono a fare quello che amavano più di ogni altra cosa, a parte loro stessi.

«Cosa c'è, Makoto?»
Makoto, richiamata da Rei, riprese a camminare e raggiunse le altre.
«Niente, mi era solo sembrato ... » scosse la testa e sorrise, serena. «Ma è impossibile.»
«Impossibile? Cosa?» Minako aveva visto qualcosa di particolare nel sorriso di Makoto ed era proprio curiosa di sapere di cosa si trattasse.
Makoto sbattè la mano verso l'altra parte della strada. «Là c'è una ragazza che somiglia ad Ami. Ma mi sono sbagliata.»
«Chi?» Minako guardò nella direzione indicata da Makoto, cercando fra le persone che si muovevano sul marciapiede opposto. C'era una coppia che si stava baciando. La gente che passava loro accanto li osservava apertamente, alcuni ridacchiando, altri scuotendo la testa e passando rapidamente oltre. Minako non riusciva a vedere la ragazza, ma era chiaro che Ami non si sarebbe mai venuta a trovare in una situazione del genere. «Hai ragione.» Mentre si girava, scorse con la coda dell'occhio un particolare colore di capelli. Blu. E poi un viso.
Strabuzzò gli occhi. «Ma è Ami!»
Makoto si voltò con la bocca spalancata. Rei sgranò gli occhi e per poco non ebbe un colpo.
Minako riusciva solo a indicare con il dito, combattuta tra la sorpresa e il divertimento. «T-Traditrice! Ci aveva detto che stava studiando in questo periodo ... ora ho capito cosa studia!»
«N-non può essere.» Rei ancora non riusciva a crederci, nonostante stesse guardando la scena da ormai diversi secondi.
Parecchi secondi. «Ma non possono staccarsi?!»
Makoto non la stava neanche ascoltando. «Una materia come quella sembra davvero interessante.»
La sua testa e quella di Minako si inclinarono lentamente e all'unisono di lato, seguendo il movimento di quel bacio.
«Finitela! Dev'essere successo qualcosa, Ami non può fare una cosa del genere con uno che conosce app-» Rei si interruppe, dopo aver prestato per la prima volta attenzione al ragazzo in questione. Capelli chiari, non neri ... dove li aveva già visti?
L'illuminazione. «Ma quello è il tipo dell'altra volta!»
Minako fu colpita da quell'osservazione. «Ma di chi parl- Ahhh! Nel locale!» Non si era ancora dimenticata dello straniero che aveva fissato Ami da lontano.
In quel momento videro lui ed Ami separarsi.
Assieme alle altre, seguì lo scambio di sguardi e parole, per quel poco che si poteva vedere da lontano.
Minako fu profondamente colpita dall'intimità di quei gesti: la scena a cui stavano assistendo sapeva di ... riappacificazione.
All'improvviso non ritenne fosse giusto guardare oltre. Si girò e mise un braccio sulle spalle delle sue amiche, facendole voltare.
«Ci faremo dire tutto domani e, vedrete, crollerà in due secondi.»
Makoto non cercò di girarsi di nuovo e non lo fece nemmeno Rei.
«Già ... sono felice per lei.» Makoto guardò in alto, in volto un aperto sorriso.
Rei chiuse gli occhi per un attimo e non trattenne una breve risata. «Sì, non me lo sarei mai aspettata da lei, ma sono contenta anche io.»
«Sì, sì, anche io. Ma mi dovrà assolutamente spiegare come ha fatto ad accalappiare uno come quello! Se si rifiuta, giuro che metto in pratica la mia minaccia e la elimino! E ora in marcia!»
Mentre Rei e Makoto erano occupate a ridere della sua battuta, Minako si voltò per una brevissima sbirciata.
Le uscì un sorriso di profonda felicità.



Mano nella mano.
Labbra contro labbra.
O anche solo cuore con cuore.

Ami sapeva di voler poter vivere così ... senza fine.


FINE


Note finali: la storia di questi due personaggi continua in altre storie che ho scritto e che elenco qui, in ordine cronologico.
- Interludio - scena 1 (poco dopo questa fanfic; la spiegazione di Ami e la presentazione di Alexander alle amiche), scena 4 (qualche mese dopo; una vacanza al mare assieme a tutti gli altri)
- Verso l'alba (un anno dopo ... ne faccio succedere di cose a questi due :) )
Traduzione delle frasi in inglese:
- «What a sap.» - è quasi slang e ha una connotazione leggeramente più dispregiativa di «Che sdolcinato». Mi sembrava una frase che un ragazzo potesse usare rendendosi conto di che tipo di romanticherie gli uscivano. :)
- Dialogo tra Alexander e sua madre.
«Ciao madre.»
«Mamma sarebbe carino, per cambiare. Volevo chiederti-»
«Non stavo cercando di essere formale, solo divertente; dovresti saperlo. Questa è Ami. Capisce l'inglese.»



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Capitolo 5
*** Scene - Gennaio ***


Acqua viva
Acqua viva

Autore: ellephedre

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.


Gennaio

Alexander stava per mangiarle l'alfiere.
Naturalmente Ami lo aveva previsto, pertanto non le restava che continuare a rimuginare su quali sarebbero state le prossime mosse di entrambi nelle combinazioni
più probabili.
Poteva usare il cavallo per mangiare il pedone scuro di lui, ma Alexander aveva già in posizione un altro pedone che avrebbe mangiato il suo cavallo bianco se lei avesse tentato una mossa simile. Salvare l'alfiere e perdere il cavallo - facendo perdere a lui solo un pedone - sembrava stupido, ma liberava la strada perché il suo alfiere bianco puntasse a quello di Alexander dall'altra parte della scacchiera, dove lei aveva già posizionato un pedone che fino a quel momento era stato lasciato in pace. Dopo aver mangiato l'alfiere nero di lui, il suo alfiere bianco avrebbe potuto essere mangiato dalla Regina nera di Alexander, ma solo in una mossa suicida, poiché questo avrebbe significato lasciare la Regina alla mercè del pedone bianco ritenuto fino a quel momento inoffensivo.
Il bilancio di quella particolare combinazione di mosse la portava a perdere il cavallo e l'alfiere, mentre Alexander avrebbe perso un pedone, un alfiere e soprattutto la Regina.
Lui non sarebbe mai cascato nel tranello dell'ultimo passaggio, quindi non le rimaneva che puntare sull'alfiere che aveva nelle vicinanze del Re nemico. Esattamente dall'altra parte del sovrano nero, aveva posizionato l'altro cavallo e perciò avrebbe potuto ambire a-
«Potrei farti scacco matto in altre sei mosse. E tu?»
Ami completò il ragionamento. «Sei anche io. Ma tu hai calcolato il numero di mosse pensando al mio comportamento più probabile?»
«Certo. Potrei farlo in quattro, ma tu non lo permetteresti mai.»
«Il numero che ti ho dato io invece è il più piccolo possibile.»
«Mi sembra che siamo ancora in parità.»
Notando l'inflessione blanda della voce di lui, Ami alzò lo sguardo. «Non vuoi più giocare?»
«Per oggi no. Se vuoi posso lasciare la scacchiera com'è adesso. Potremmo riprendere quando tornerai qui.»
Lei rimase a fissare il terreno di gioco. «No, ti concedo la vittoria. Questa era la nostra prima partita, preferisco ricominciare daccapo la prossima volta. Ora che ti conosco meglio come giocatore ho più probabilità di batterti.»
Lui sfoderò un sorriso. «Anche io ora conosco le tue tattiche.»
«Sbagli.» E non era presuntuosa a pensarlo. «Può sembrare che io abbia uno stile, ma
sostanzialmente agisco in maniera analitica. Tu sei bravo, ma hai il difetto di lasciarti tentare troppo dalle grosse prede.» Se lei l'avesse scoperto prima, avrebbe sfruttato quel punto debole fin da principio.
«Perciò... mi hai concesso la vittoria solo perché eri sicura che alla fine avresti vinto tu?»
Ami preferì limitarsi ad una minuscola scrollata di spalle: per quanto fosse la verità, non voleva sembrare troppo arrogante.
«Sai, sbagli quando dici che non hai uno stile.» Alexander aveva poggiato la guancia contro il dorso della mano. «A scacchi sei micidiale e brutale, non conosci pietà.»
Addirittura? Non era così cattiva.
«Quando mi mangi un pezzo hai una luce assassina negli occhi.»
Non era vero. «... Sì?»
La risata dolce di lui le piacque. «Non preoccuparti. Appena smetti di giocare torni quella di sempre.»
Ma mi piaci anche così, fu come sentirglielo dire. Ami ne arrossì. «Anche tu...»
«Che cosa?»
Lei avvampò solo nella propria testa. «Niente.» Guardò Alexander dappertutto tranne che in viso, e finì con lo scorgere l'ora sull'orologio da polso di lui. «Oh, è tardi. Ho ancora un quarto del programma della prossima settimana da ripassare. Devo andare.» Si alzò, senza aspettarsi che lo facesse anche Alexander. Puntualmente, era arrivato quel momento in cui stare da sola con lui in camera sua la faceva sentire in imbarazzo, nervosa e... ansiosa di rimanere. Accadeva quando smettevano di discutere di libri e quando, in generale, cominciavano a guardarsi negli occhi tanto da smettere del tutto di parlare.
«Aspetta.»
Era arrivata sulla porta, ma si girò.
Alexander la raggiunse. «Gli scacchi me l'avevano fatto dimenticare. Non vuoi un bacio anche oggi?»
Lei non riuscì più a nascondergli le guance accaldate. «Sai che parlarne mi fa sentire...»
«Lo so. Preferisci che lo faccia senza chiedere.»
Oltre il culmine dell'imbarazzo per lei c'era solo la rivincita dell'orgoglio. «No. Posso farlo io a te.»
Vide Alexander addolcirsi, sorridere, e si sentì meglio che mai nel capire di essergli pari: lo destabilizzava anche lei, in quel modo quieto e intimo che avevano scoperto tra loro. Abbandonarono la loro piccola sfida e ciascuno dei due baciò l'altro, un unico dono che non vide vincitori.
Il loro bacio era calore morbido e umido, intenso. Dolce, così avvolgente da essere solo piacere. Ami lo assaggiò per riconoscerlo, per riappropriarsene e non venirne travolta. Era una corsa a fasi: quando il bacio di lui cambiava, lei doveva calmarsi daccapo. Voleva farlo in eterno.
Sentì il fruscio della camicia di lui contro la propria maglia, le braccia che la stringevano per la vita. Lo accarezzò sino alle spalle, sentendo l'abbandono che arrivava. Quando gli portava le braccia attorno al collo non c'era più spazio tra loro e quello era il bacio che lei amava maggiormente fra tutti. Ma senza scarpe era scomodo, doveva alzarsi in punta di piedi e-
Tentando di tirarla su, Alexander le sollevò involontariamente la maglia sulla schiena.
Lei ridacchiò. «Aspetta.» Si ricoprì. «Si era impigliata.»
«Hm?»
«La maglia. Non te n'eri reso conto.»
La confusione di lui non svanì, ma la reazione non la sorprese: a volte lei gli faceva quell'effetto e se ne beava. Alexander era capace di farla arrossire dieci volte al giorno, ma a lei per stordirlo bastava un piccolo bacio ben dato. Anche se l'ultimo non era stato tanto piccolo. Non resistette e gli sfiorò la bocca con le labbra un'ultima volta, un contatto che le strappò un sospiro felice. «Meglio che vada o diventa troppo tardi.»
«... ah-ha.»
Lo prese per una mano e si fece accompagnare alla porta del secondo piano dell'appartamento. Alexander lo occupava da solo; lei la trovava una bellissima casa: confortevole, ordinata, piena di oggetti interessanti. Ogni mobile era posizionato in proporzione perfetta rispetto allo spazio che occupava in una stanza; vi era armonia di forme, di linee. Anche nell'ingresso la scarpiera si trovava esattamente a metà tra porta e scalino; lo aveva notato subito.
Si abbassò a infilare gli stivaletti.
«Martedì vengo a prenderti con la moto
» le disse Alexander. «Ci muoveremo più velocemente, così non arriverai in ritardo al doposcuola.»
Anche se avrebbe voluto uscire tutti i giorni con lei, Alex era estremamente comprensivo con le sue necessità di studio. Erano le stesse che aveva lui e si ammiravano a vicenda per la passione che riuscivano a sviluppare per qualunque argomento, ogni sfida d'esame. Si incoraggiavano l'un l'altro. Era... perfetto.
Ami uscì dalla casa di lui e si diresse al pianerottolo con l'entrata dell'ascensore. Alexander la seguì fuori senza mettere le scarpe. Il pavimento era immacolato, conosceva solo il passaggio di lui, della signora Shoko Kaiba, dei suoi genitori e... nessun altro, che lei sapesse.
L'ascensore era fermo al piano inferiore.
Alexander lo notò. «See you then.» La colse di sorpresa abbassandosi e prendendosi un piccolo bacio che la fece sorridere.
«See you.» Volle essere l'ultima a fargli quel regalo, e lo baciò di nuovo. «Alla fine... sono stati tre.» Le porte dietro le sue spalle si aprirono.
«Quattro. Ma dovevamo rifarci.»
Lei entrò in ascensore. «Sono d'accordo. Bye.»
«Bye» la salutò Alex, un'ultima carezza alla mano che si staccava dalla sua.

Alexander chiuse dietro di sé la porta di casa.
La maglia si era impigliata. Non te n'eri reso conto.
... non vi era stato artifizio nel tono di lei.
Non le era nemmeno venuta in mente la possibilità che lui avesse un ulteriore scopo. Se Ami lo avesse lasciato continuare, la sua mossa successiva sarebbe stata quella di accarezzare la pelle scoperta dalla maglia. E poi tirare ancora più su il tessuto, accarezzando e...
Forse avrebbe dovuto essere più chiaro?
Se Ami non ci stava ancora pensando, era importante iniziare a farle prendere in considerazione l'idea. Non voleva metterla a disagio, ma doveva farla abituare. Piano, certo.
... Quanto piano?
La prospettiva dell'attesa gli causò un momento di delusione: voleva fare l'amore con lei il prima possibile. Subito gli sembrava già tardi. Voleva sollevarle la maglia e baciarla sul collo, sentire come Ami sospirava nel ricevere carezze sulle gambe, sullo stomaco, e dove non si era mai sentita toccare. Voleva farle perdere quelle sue inibizioni che lui adorava, ma soprattutto voleva perdere la testa lui stesso nell'esperienza. Con Ami sarebbe stato perfetto all'ennesima potenza: si fidava di lei. Era Ami che amava e finalmente l'esperienza che desiderava da anni con ogni senso fisico diventava giusto con un'altra persona. Non era mai stato così.
"Non sai quanto ti amo."
La dichiarazione di Misani - la prima ragazza con cui aveva quasi fatto sesso - aveva spento i suoi bollori come acqua sul fuoco.
Io nemmeno un po', aveva pensato lui tre anni prima. E gli era sembrato sbagliato continuare a toccarla fingendo un sentimento che non provava. E di che diavolo di amore parli? Neppure mi conosci.
Si erano lasciati il giorno dopo.
Non che lui si fosse arreso: in giro per la scuola - ovunque si trovasse - aveva continuato a conquistare, affascinare, baciare. God, era sempre stato così facile, e con Ami... mai. Con lei non era mai scontato.
Quella serie di passati tentativi aveva raggiunto il suo culmine con Erisa Asami. Invero, una fine ingrata. L'ultima ragazza che aveva avuto prima di Ami non solo gli aveva dimostrato di non avere la minima idea di cosa gli passasse per la testa, ma persino di non essere interessata a saperlo.
Avvinghiati sul letto di lei, a metà tra lo scherzo e il complimento, Asami aveva pronunciato poche parole che gli erano rimaste scolpite in testa.
"Zitto, zitto" aveva ridacchiato lei.
"Perché?" Lui si era messo a ridere. "Non ti interessa sapere quello che penso?"
"Naah. Sei così bello che per quel che mi importa potresti anche essere stupido."
Era stato un momento di chiarezza lampante. La frase lo aveva descritto alla perfezione: era un idiota, tanto sottomesso ai propri bassi istinti da essere pronto a far sesso con una ragazza che aveva cominciato ad annoiarlo quando parlava. Dopo pochi giorni Asami era già diventata un'estranea a cui lui preferiva non rivolgere la parola quando lei era di cattivo umore, giusto per non sopportare un problema in più. Se quella prima volta che non vedeva l'ora di lasciarsi alle spalle fosse stata con Asami, non avrebbe nemmeno voluto che lei lo abbracciasse a rapporto finito. E - si era chiesto - dove stava la differenza con tutte le altre pseudo-relazioni che aveva avuto?
Aveva raggruppato le sue ex in
due grandi categorie: questa non vorrei vederla in faccia il giorno seguente e questa non vorrei vederla in faccia neppure nel mentre.
Quel giorno aveva capito che ad Asami avrebbe applicato entrambe le definizioni. Così l'aveva lasciata.
Il suo amico di tanti anni, Yamato, non aveva mai smesso di prenderlo in giro per la sua stranezza. "Ti passano dei soldi per rimanere vergine?"
"Lo farò quando mi va."
"Aspetti la principessa sul cavallo sul bianco."
"No, voglio sentirmi a posto." Perciò doveva almeno apprezzare la ragazza con cui sarebbe stato. "Devo... volerle stare vicino."
Yamato aveva sollevato un sopracciglio. "Non ti sei mai fatto problemi finora."
Baciarsi era un gioco, un'intimità che si poteva fingere o che andava bene come passatempo. Per spiegarsi, lui gli aveva detto, "Mentre sei a letto con una, non vorresti almeno volerla guardare in faccia invece di girarti dall'altra parte?" Aveva esposto a Yamato i due gruppi in cui, fino a quel momento, era stato costretto a classificare le ragazze che aveva avuto.
Il suo amico aveva espresso concisamente quello che lui stesso, in fondo, aveva pensato di sé.
"Sei un bastardo."
Già. Aveva problemi a relazionarsi con la gente, lo sapeva. Non riusciva a legarsi alle persone: erano troppe quelle che lo infastidivano, quelle che preferiva ignorare e quelle che, semplicemente, non gli dicevano nulla. A volte stava lontano persino dalle persone che lo interessavano. Posso farne a meno. Con Ami quel problema non era mai esistito: lei lo capiva e lui capiva lei. Avevano bisogno di stare insieme e lui sapeva di volerla guardare in viso in qualunque momento. Le avrebbe tenuto le guance tra le mani per vedere le sue palpebre che si abbassavano, che tremavano, la sua bocca che si apriva. Non si sarebbe mai stancato di baciarla.
E da Ami voleva abbracci. Prima, nel mentre, dopo. Dell'amore di lei si fidava, non poteva più farne a meno.
Si fermò davanti alla scacchiera su cui avevano giocato. Mosse i pezzi nelle sei combinazioni che avrebbero permesso ad Ami di fare scacco matto.
Micidiale, brutale, senza pietà. Per come lo stendeva ripetutamente con un semplice sorriso o rossore, lei era proprio così.
Io mi sono arreso.
Surrender to me too, love.

FINE



Traduzioni:
- 'See you then' = 'Ci vediamo allora'
- 'Surrender to me too' = 'Arrenditi anche tu a me'

NdA - Acqua viva finisce tranquillamente col capitolo 4. Queste che sto facendo seguire sono 'scene', un altro dei miei esperimenti: non faccio che scrivere papiri, sto cercando di esercitarmi con qualcosa di più corto. Non preoccupatevi, non mi distoglie dallo scrivere 'Verso l'alba' :) Uno scritto come questo lo elaboro e lo buttò giù in poco tempo, è un piacere e al tempo stesso un esercizio.
Comunque lo scopo di queste scene non dovrebbe essere di descrivere i patimenti del povero Alexander (:D), quanto di rappresentare momenti di vita quotidiana di questa coppia, dando un'ulteriore idea dei caratteri di questi due personaggi.
Dovrebbe essere una cosa per 'mesi', per ora l'ho pensata così.
'Gennaio' è il mese successivo a quello in cui si svolgono le vicende principali di Acqua Viva.

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Capitolo 6
*** Scene - Febbraio ***


Acqua viva
Acqua viva

Autore: ellephedre

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.


Febbraio

Simmetria.
Trasformazione senza variazioni.
Particolare ordine.
Ami osservò l'esempio davanti a lei, quindi l'operazione sul foglio. Creò la simmetrica della matrice quadrata e contemplò il risultato. Era bello.
Alzò gli occhi. Sì, proprio bello.
Per quale ragione la simmetria attirava l'attenzione?
Aveva letto da qualche parte che nemmeno gli animali erano immuni dall'effetto... beh, stava considerando una differenza inesistente: gli esseri umani erano animali.
Che fosse centrale o assiale, la simmetria spingeva l'occhio a concentrarvisi. Forse era per questo che le caratteristiche esterne erano simmetriche più spesso di quelle interne. L'origine della simmetria era da ricercarsi nella necessità degli organismi di darsi una forma semplice e utile alla vita. Forse l'esaltazione delle caratteristiche di simmetria nelle conformazioni esterne era soprattutto una conseguenza di criteri di funzionalità, tuttavia poteva anche trattarsi del frutto di una selezione evolutiva. La simmetria, percepita come buona, era diventata bella, desiderabile.
Ami fissò lo sguardo sull'esempio davanti a lei e, per testare la teoria, iniziò a eliminare i colori.
Prima mandò via il castano chiaro dei capelli che accarezzavano la fronte di Alexander. In un supermercato, passando per caso per il reparto di tinte per capelli, aveva scoperto che per la tonalità di lui non c'era un nome preciso: variava dal biondo scuro al castano chiaro dorato, a seconda delle marche. Si era domandata se lei non vedesse il biondo per via del colore più intenso dei capelli di Usagi e Minako, ma aveva lasciato perdere allora come lasciò perdere in quel momento. Passò ad eliminare il verde-azzurro degli occhi di lui, abbassati sul libro, e proseguì col misto di rosa-giallo-marrone che era semplicemente pelle chiara. Le labbra di Alex erano di una tonalità più scura, ma quelle la distraevano perciò le lasciò stare.
Dunque... simmetria. Sì, alla base c'era quella.
Sul viso di lui era tutto regolare: una linea assiale gli divideva il volto in due, passando dal naso, rispecchiando sia a destra che a sinistra quasi la stessa immagine. Mento normalmente curvo sulla punta, con un'ombra un poco sopra a indicarne la profondità; linea precisa della mascella, che si univa al collo alla stessa altezza sia a destra che a sinistra. Bocca con labbro inferiore e superiore del medesimo spessore tranne che ai lati, dove il primo rientrava creando un angolo appena alto, più vivo che allegro; narici basse, lievemente ampie e quasi senza curve, punta del naso tra il triangolare e il rettangolare che proseguiva in maniera regolare su un fusto di cartilagine che si stringeva di poco nel fermarsi in mezzo agli occhi, ricadendo precipitosamente e morbidamente di lato per tutto il percorso; accanto vi erano zigomi alti ben visibili e, appena più in alto, occhi equidistanti dal naso, infossati al punto giusto sotto sopracciglia spesse all'inizio che si assottigliavano verso l'alto sulla fine, in una linea più dritta che curva, quel tanto che bastava a creare un'ombra interessante.
Hmm.
Non era forse più interessante il fatto che tutta quella simmetria sparisse nel momento stesso in cui Alexander cominciava a parlare? Sia da serio che da allegro, lui aveva sempre qualcosa di sollevato o abbassato, che fosse l'angolo della bocca, la palpebra di un occhio o un sopracciglio.
Ami riportò l'attenzione sul foglio: la matrice era bella, ma per lei era più divertente lavorare su un insieme in cui una sequenza non risultasse immediatamente evidente. Lo stesso era nei visi umani, in un certo senso.
Alzò di nuovo lo sguardo sull'esempio e le fu naturale cominciare a fare un paragone.
Occhi chiari incrociarono i suoi. «... Cosa c'è?» .
«Guardo.» Non spostò l'attenzione da dove la teneva. Forse avrebbe dovuto, perché il viso di lui si deformò in una risata.
«Me?»
Non proprio. «Riflettevo sulla simmetria. Oggettivamente, è attraente.»
Alexander fece una brevissima pausa. «Simmetrico mi piace come complimento.»
«Alla fine però ho concluso che la percezione della bellezza non si basa necessariamente su basi simmetriche.»
Lui rimase perplesso. «No?»
«Ho pensato a Yamato-kun.» L'amico di lunga data di lui, che le era stato presentato circa un mese prima.
Le sopracciglia di Alexander si sollevarono un poco, del tutto simmetricamente.
Lei continuò. «Lui non è così regolare. Alla base sì, ma non nei particolari.» Indicò la propria bocca, il naso e la zona generale degli occhi. «Eppure sono proprio quelli a renderlo notevole.»
L'espressione di Alexander si fece neutra, guardinga.
... gli aveva detto qualcosa di strano?
«Lo hai osservato bene» le disse lui.
«Beh, sì. È tuo amico.» Perciò era stato naturale osservarlo, studiarlo.
«Già.»
Il viso di Alexander era tornato a rilassarsi. Prima era stato... teso.
Ma... «È tuo amico.»
«Sì» si limitò a confermare lui, incerto sull'obiezione.
«Voglio dire che non puoi essere geloso. E poi era solo un'osservazione.»
Alexander si prese un attimo di silenzio. «Lo so. Infatti non ho detto niente.»
Invece le aveva fatto un'annotazione, per quanto generale. «Non dovrebbe proprio darti fastidio, è questo che intendo dire.»
«Penso che sia... naturale. O forse sono solo io, ma per me è naturale.»
Era proprio una cosa sciocca.
Alexander unì le labbra in una piega divertita su un lato e lievemente risentita sull'altro. «Se per te non è lo stesso, almeno potresti tentare di non giudicarmi.»
«È solo poco intelligente.» Non pensava male di lui, ma niente le avrebbe tolto quella convinzione.
Alexander la fissò negli occhi per un lungo momento. Poi anche nel suo sguardo
si accese una luce. «La tua amica Minako... è proprio bella.»
Come?
«L'ho pensato sin dalla prima volta che l'ho vista.»
Sentirlo sottolineare il concetto la irritò.
Lui rimase in silenzio, a guardarla.
Ami spostò gli occhi sulla grande vetrata accanto al tavolo e rimase così.
Passarono due secondi. Tre. Quat-
«Ti ha infastidito quello che ho detto o la vendetta in sé?»
Per lei parlò una rabbia sottile. «Tutte e due.» Si accorse che avrebbe voluto dire 'solo la seconda', per non dargliela vinta.
Udì il suono della sedia che si sollevava da terra, che si avvicinava. Si trovavano in biblioteca.
«Allora mi dispiace per tutte e due.» Alexander aveva appoggiato i gomiti sul tavolo, vicino a lei. «Per la prima cosa e anche per la seconda.»
Ami restò in silenzio, ma solo perché non seppe scegliere tra le cose da dire.
Alexander si era avvicinato ancora. «Penso che Minako sia bella come tu pensi che Yamato sia notevole. Cioè, non me ne importa niente.»
Sbagliato. «Se non ti fosse importato, non ti saresti vendicato.»
«Quella è stata la reazione stupida a te che mi dicevi che ero poco intelligente.»
Lei voltò la testa di scatto. «Non lo penso.»
«Lo so, per questo il mio era un attacco stupido.»
Il ragionamento filava liscio come l'olio. Allora perché erano finiti in quella situazione? Qualunque cosa fosse successa, a lei non era ancora passata.
Si sentì prendere una mano, il tocco delicato. «So sorry. Lo sono, davvero.»
Va bene.
... sì, certo che andava bene.
Alexander aveva inclinato la testa, incrociando lo sguardo che lei aveva fissato sul tavolo. «Sai una cosa? Credo che tu sia più che simmetrica.»
Fu inutile tentare di nascondere il sorriso.
Un dito di lui si appoggiò sul suo naso. «Perché simmetrica lo sei. Da qui» l'indice di Alexander si fermò sulla punta, «a qui.» Il polpastrello cadde sulle sue labbra provocandole un brivido. «E ci sono anche questi» lui appoggiò la fronte contro la sua, fissandola negli occhi, «che sono grandi e totalmente speculari al naso.» Strofinò il proprio naso contro il suo, più sfiorandolo che toccandolo. «Ma alla fine, per me sei solo... freschezza. Ti vedo e penso all'aria o all'acqua. Al fatto che sei pace e la cosa più bella che abbia mai visto.»
Ami si lasciò invadere da una felicità sciocca: aveva proprio avuto bisogno di sentirglielo dire.
Ora era contento anche lui. «È importante: non solo 'ragazza' o persona, proprio cosa. Competi con lo spazio intero e lo batti.»
Lei gli accarezzò la bocca con le labbra. Così iniziò un bacio e finirono i pensieri, per lunghi momenti. Poi lui le appoggiò una mano su un ginocchio, lei sussultò e Alexander si ritrasse di scatto.
Ami avvampò. «Ah... scusa.» Lui si era solo appoggiato per stare più comodo, perché si era innervosita?
«No, è... Niente, va bene.»
Eppure lui le sembrò molto più attento quando, tornando a toccarla, le prese solo le mani. «Sai, lo pensavo anche prima: per oggi basta studiare, andiamo da qualche parte.»
Beh, erano le tre del pomeriggio di sabato ed era una bella giornata. Gli esami erano ancora lontani. «Sì.»
A lui bastò l'assenso per alzarsi e cominciare a rimettere a posto le proprie cose, felice.
Ami si alzò in piedi a sua volta, lasciandosi colpire solo in quel momento da un'idea naturale. Le diede voce non prima di aver scelto le parole giuste, per non essere troppo banale. «Per me... tu sei il migliore.»
Attirò l'attenzione di lui.
«D'aspetto, in tutto quanto.»
Alexander non trattenne il sorriso. «Il 'tutto quanto' l'hai aggiunto dimenticandoti di poco fa. Dev'essere proprio amore.»
Lei fece finta di pensarci. «Anche. Forse.»
Lui ne fu più sereno che divertito. «Allora sarai love.»
Per un momento lei non lo seguì.
«Mine and yours.» Il mio e il tuo. «Love, ti chiamerò così.»
Il sentimento faceva quasi male da quanto era bello.
Sì, era proprio amore.

FINE



NdA - grazie mille per le recensioni al precedente capitolo!
Ecco le risposte.
- Himechan: oh sì, questi due pensano troppo, Ami soprattutto. Non può farne a meno, ma sciogliersi le piace ugualmente :) (ad Alexander poi piace un sacco). Per certi versi sono ancora un pochino ingenui e non del tutto maturi (ho voluto farlo vedere qui per ciascuno di loro due), ma le loro personalità mi piacciono, sono adatte a questa fase della loro vita ;) Un abbraccio a te.
- pingui79 - anche a me fa uno strano effetto tornare indietro nel tempo :D Poi mi metto semplicemente nei panni di questi che il futuro non lo conoscono e la scena viene via che è un piacere :) Sono contenta che tu abbia gradito, grazie per avermelo fatto sapere.
- akane_val - tu Alexander lo hai capito benissimo, stava pensando esattamente quello che hai scritto ;) Qui più che risposte sagaci c'è stata un'annotazione cattivella e poi tanto love. :D Sono veramente tanto felice che il mio personaggio originale ti piaccia tanto, mi commuove *_* Ciao!
- chichilina - sì, mi parlasti della tua intenzione di stampare ciò che scrivo. Lo revisiono talmente tanto volte ('Verso l'alba' in particolare) che ti devo proprio dire che è meglio se aspetti :D Ma soprattutto, ovviamente, che sono onorata. La nota sul fatto che ti pare di conoscere questi due è un grandissimo complimento, specie perché lui l'ho inventato da capo e quando sono partita a delinearlo è stato faticoso. Grazie mille!
- Nicoranus83 - mi inginocchio io a te che leggi tutto quello che scrivi e commenti sempre. Un grazie enorme! Riuscire a non scrivere papiri mi riempie di soddisfazione (:D) e sono contenta di sapere che trasmetto qualcosa anche così. Ciao!
- ggsi - Oh sì, Ami gioca sempre per vincere quando ha davanti una scacchiera. I tre aggettivi che ti sono piaciuti e il successivo ritmo mi venuti un po' dal nulla, ogni tanto ho queste illuminazioni (per tutto il resto la riflessione è lunga e dolorosa... :D:D). Come facevo dire a Minako nell'ultimo capitolo di 'Verso l'alba', Alexander è tanto un bravo ragazzo, gentile e perso di Ami, ma non è che sia immune da qualche piccolo e fastidioso difetto, tipo quella sottile vena vendicativa che non ama critiche alla propria intelligenza. Sono contenta che il precedente pezzo ti sia piaciuto tanto, grazie della sempre precisa opinione :)
- amayuccia - ma sai che mi hai fatto tornare in mente che c'era anche da descrivere questo anniversario loro? :D Cioè, non ci stavo pensando più di tanto (sta succedendo troppa roba in 'Verso l'alba') :D Mi sa che lo farò arrivare un po' come una sorpresa anche per loro.
Hai ragione, Ami conosce cosa sia il sacrificio dei pedoni (anche quando lo è lei stessa), è molto logica in questo.
Ami si innervosisce anche solo quando lui le tocca il ginocchio, Alexander sta imparando a capire che quella parte lupo la deve tener nascosta per un bel po' (ma è una fortuna che in questo momento non sappia per quanto, altrimenti si dispererebbe :D)
Io lo avevo detto che lui era infame (veramente lo diceva lui stesso di sé, in Interludio scena 4) e sì, parlava della questione del capitolo 8 di 'Verso l'alba'. Per quanto riguarda la mentalità delle ragazze giapponesi, so che i giapponesi in genere sono molto meno lanciati degli europei o americani, ma si stanno evolvendo da quando sono entrati in contatto con la cultura occidentale (poveri loro) e non penso che le ragazze siano tutte come negli shoujo-manga ;)
A parte questo volevo rendere il contesto un po' più realistico e moderno da questo punto di vista.
Hiii, alla fine ho deciso di saltare la scena dell'incontro Ami-Yamato, però in compenso credo proprio che scriverò qui quello di Mamoru e Alexander: mi è venuto in mente come strutturarlo e la lunghezza di queste scene dovrebbe adattarsi bene.
La caratterizzazione è ciò che mi impegna di più e provare a immaginare ogni volta cosa provano o pensano anche personaggi che non ho creato (come Ami e Rei) ma che ho amato, mi esalta :)
Ciao e non preoccuparti per la brevità di questi scritti, i mega capitoloni di 'Verso l'alba' sono sempre dietro l'angolo :D
- maryusa - addirittura non riesci più a immaginare la serie senza Alexander (rossore e imbarazzo). Grazie :) E sono contenta che 'Acqua viva' ti sia piaciuta tanto, è stata una storiella con un parto difficile (lui era il mio primo personaggio originale) che non è venuta tanto male :) Grazie tantissime per la recensione!

Alla prossima,
ellephedre

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Capitolo 7
*** Scene - Febbraio, San Valentino ***


Acqua viva - scene
Acqua viva

Autore: ellephedre

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.


Febbraio - San Valentino


«Scommetto che quello è per me.»
Sopprimendo una risata Ami si staccò dal muro.
«Ciao Yamato-kun.» Aveva preventivato di poter incontrare anche lui, in fondo si era fermata davanti all'università. 
Shun Yamato - il miglior amico di Alexander - si fermò a tre passi da lei e continuò a sorridere squadrando il regalo tra le sue mani, con un divertimento che era insieme ilarità e riflessione. «Sai che San Valentino non gli è mai piaciuto?»
Non era difficile per lei immaginarne il motivo.
«No, non perché riceveva montagne di cioccolatini sgraditi. Non ne ha mai ricevuti troppi, faceva capire che non gli sarebbe piaciuto. Però c'erano sempre quelle due o tre ragazze che ci provavano comunque. Per Fox rifiutarle era più difficile che dire no a cento persone diverse.»
«Non voleva fare loro del male.»
Lui studiò il muro. «Sì, ma le considerava stupide comunque.»
L'affermazione non la sorprese: ogni tanto Yamato-kun le descriveva Alexander in termini poco lusinghieri, come se volesse testare se sapere tutta la verità l'avrebbe portata a rinnegare i propri sentimenti. Lei giudicava quei tentativi un'importante fonte di informazioni e poco altro: sapeva bene che si era trovata un ragazzo con dei difetti. Lei ne aveva a sua volta, come tutti. «Ha mai passato San Valentino con una ragazza?»
«No. Stava sempre attento a essere o a diventare single in tempo per il quattordici febbraio. Non sia mai che pensassero che per lui era una cosa seria.»
Questo dimostrava che Alexander era stato piuttosto freddo in passato, ma la cosa le faceva piacere, in un certo senso: quel San Valentino sarebbe stato unico per entrambi.
Il suo silenzio aveva incuriosito Yamato-kun. 
«Tranquilla Ami-san, oggi sembrava allegro e sereno. Complimenti, hai superato il centesimo scoglio con lui.»
Ami sorrise: Yamato aveva intuito che 
il suo buon umore era inattaccabile e aveva lasciato perdere i suoi test. Era quasi sicura che non gli fosse piaciuto troppo metterla alla prova, eppure lo aveva fatto ugualmente: l'amico di Alexander era contorto come persona.
Centesimo scoglio? «Sai che potrei elencarti i primi novantanove?»
«Lascia stare, lo immagino. Ascolta piuttosto un aneddoto divertente su Fox e questo giorno: in terza media una ragazza gli ha chiesto se per caso lui continuava a rifiutare lei e tutte le altre perché... beh, perché preferiva i maschi.»
Per non ridere Ami si morse l'incavo della bocca.
«Io e lui passavamo troppo tempo insieme e nessuno di noi due aveva ancora avuto una ragazza, quindi...»
«Era circolata questa voce che ti ha fatto crepare dalle risate.» Alexander spuntò da dietro l'angolo del muro di cinta. «Solo tu sai come hai fatto a riderne.»
Yamato-kun fece spallucce. «Sapevo la verità. Forse tu ti sei arrabbiato perché eri confuso.»
Alexander sfoderò un sorriso letale. «Go to hell.» Guardò lei e si illuminò. «È tutto il giorno che non vedo l'ora d'incontrarti.»
«Anche io» annuì Yamato con convinzione. «Per poter vedere la faccia di lui in questo momento.»
«Va' al diavolo o a casa.» Col tono Alexander sorrideva.
«Opto per la seconda.» Yamato indietreggiò di un paio di passi. «Buon festeggiamento.»
«Ciao» lo salutò Ami.
Tra Alexander e il suo amico vi fu solo uno sguardo. Si salutavano sempre così.
Lei si ritrovò ad osservare lo scintillio felice negli occhi chiari del, suo ragazzo.
«Sai che oggi mi sono sentito molto... fidanzato?»
Aveva pensato di dargli il regalo come prima cosa, ma cambiò idea: avanzò di un passo e sollevò la testa, verso di lui. Diede e ricevette un bellissimo bacio romantico, proprio da giorno degli innamorati. Fu leggero nel contatto e profondo nelle intenzioni, capace di inumidirle la bocca di calore e il cuore di emozione. Lei era... in love. Totalmente e completamente in love.
Si ritrasse, stringendosi nelle spalle e cercando di non esplodere di gioia al di fuori delle guance. Non era colpa sua se arrossiva, non sapeva come altro reagire quando era molto felice.
Già, il regalo. «Tieni.» Glielo offrì a braccia tese.
Lui lo prese tra le mani, accarezzando il fiocco verde della confezione a forma di cuore.
«Non l'ho comprato, l'ho fatto io» precisò lei.
Alexander annuì. «E ti sei esercitata almeno un'altra volta durante la settimana - due, se la prima non ti era venuta bene.»
Naturalmente. «Ma il primo dolce al cioccolato era già buono.» Si era fatta dare la ricetta da Makoto.
Lui rimase a guardarla per un po', in attesa di... cosa?
Alexander sorrise piano. «Buon San Valentino.»
Oh, giusto. L'augurio. «Anche a te.»
«Dobbiamo nasconderci da qualche parte.»
«Come?»
«Sento un bisogno spasmodico di assalirti mentre ti dichiaro amore eterno.»
Lei ridacchiò. «Teatrale.»
«Se solo sapessi.»
Lui iniziò a guardarsi intorno. «Vieni.» La afferrò per un braccio e la trascinò da dove era venuto lui, dentro il campus universitario. Non fecero molta strada: arrivarono accanto ad un grosso albero e si inginocchiarono dietro un voluminoso cespuglio, in un angolo chiuso.
«Perché ridi?» Alexander interruppe la domanda con un bacio.
Lei si sporse in avanti, verso di lui, ma perse l'equilibrio e cadde su un fianco, portando Alexander con sé. Sentire il fruscio dell'erba sotto i loro cappotti mentre cercavano goffamente di sistemarsi la rese giocosa, felice. «I'm happy» gli sussurrò, le palpebre socchiuse.
Lui la baciò di nuovo e lei premette le labbra contro le sue, forte, cercandone il sapore. Tornò in ginocchio, tentando di abbracciarlo nonostante l'ingombro delle gambe, ma dovette staccarsi per capire come fare.
Alexander l'attirò sopra le proprie ginocchia piegate. «Ma allora sei tu che assali me.»
Per non farsi battere dal rosso alle guance, lei gli coprì la bocca con la propria.
Le mani di lui le accarezzarono la nuca, tutte e due, infilandosi tra i suoi capelli. «Ami.»
Ami quando la chiamava, Ami quando la vedeva, Ami anche quando la abbracciava. Ed Ami mentre studiavano, passeggiavano e parlavano, aprendo ogni pensiero e sogno l'uno all'altra. Lei era Ami più che mai  in ogni momento con lui: era una se stessa senza confini, priva di limiti.
Si ritrasse adagio e lo osservò.
C'era stato un tempo in cui non lo aveva conosciuto, ma non riusciva quasi a ricordarlo. Rammentava le sensazioni di quando si erano incontrati, la sorpresa di quando aveva dato un unico nome alle emozioni che l'avevano lentamente catturata, ma... Gli accarezzò la parte alta della guancia, sfiorando l'arco finale del sopracciglio e una ciocca di capelli. Un piccolo raggio di sole illuminò le sue dita.
Davvero non ti conoscevo?
La luce regalò ai fili che si erano appoggiati sopra le sue unghie il colore del grano maturo. Il sole toccò anche le iridi di lui, rendendole acqua cristallina, del verde e dell'azzurro che insieme creavano le più belle visioni presenti sulla Terra. Le mani di Alexander le scivolarono sulle sue spalle, stringendola piano.
Ami si riempì di un sorriso. «Cosa c'è?»
«Cerco le parole. Sono rimasto senza.»
Lei gli tracciò la linea dello zigomo
con la morbidezza di un polpastrello, mantenendosi dolce, soave. «Non servono.» Scese sulla guancia e di proposito risalì su un unico e piccolo punto, cercando una sensazione di ruvidezza che non le capitava quasi mai di sentire. Giocò a disegnare un amorevole ellisse, nata dalla tranquillità del caso. Sulla curva finale scivolò in basso col dito e ne approfittò per spostarlo di lato, un pochino. Con un brivido toccò le labbra appena umide di lui, asciugate dal freddo, screpolate su un'unica linea orizzontale. Il polpastrello accarezzò la pellicina indebolita in rilievo, finendo intrappolato dentro una bocca viva. Che sorrise.
«Passiamolo sempre così.»
«Hm?»
«San Valentino.» Alexander salutò il suo dito con un bacio prezioso.
«Seduti sull'erba?» sorrise lei.
«No, insieme. Fino alla fine dei nostri tempi.»
Mille anni.
Ci pensò per un istante sfuggente che non fece vincere sulla certezza di loro due; non in quel momento, non in quel giorno. «Magari anche dopo.»
Lui si riempì di gioia. «E prima, sicuramente.» Il suo non fu un bacio, ma una carezza. «I love you deeply, Ami love.»
Forever, please. «And I love you constantly.» Unì il respiro a quello di lui. «To the first of many Valentines to come, my love.»
«To the first.»
Brindarono senza altre parole.

Erano andati prima al planetario e poi a mangiare.
Ad Alexander era parsa una buona idea e si era rivelata proprio tale: Ami aveva adorato lo spettacolo di quel giorno. Per le stelle e i particolari scientifici naturalmente, ma anche per i racconti romantici collegati a ciascuna costellazione ed astro, illustrati nel dettaglio dal presentatore.
Dopo cena avevano fatto una breve passeggiata per Ginza. Il freddo intenso di quella particolare notte di febbraio lo avrebbe spinto a non suggerire l'uscita, nonostante per lui le temperature basse non fossero mai state un problema. Ami però aveva insistito. Lei amava coprirsi con guanti, sciarpe e giacche pesanti; apprezzava tanto il caldo quanto il freddo. Anzi, nel gelo sembrava... ravvivarsi, splendere.
«Ho un'idea» gli mormorò lei all'orecchio, dopo essersi tolta il casco. Smontò dalla moto e gli sfiorò un braccio, quasi un invito. «Che ne dici di venire a casa mia già oggi?»
... quella sera? «Oggi?»
Ami annuì. «Ho concordato con mamma la nostra cena della prossima settimana.» Si voltò, inquadrando il cancello della villetta unifamiliare in cui viveva. «Lei dovrebbe esserci ancora adesso, ma sta per uscire.» Scrollò le spalle. «Vorrà dire che ti presenterò con qualche giorno di anticipo.»
La madre di lei stava uscendo?
«Così...
» esitò Ami, «potrai vedere la mia camera. Io ho visto la tua.»
Il lampione non li illuminava direttamente e la penombra gli impedì di capire se Ami era arrossita, ma, nonostante il tono leggero e scherzoso, il volume della sua voce non era andato oltre un mero e invitante soffio.
Lei gli stava offrendo di andare a casa sua. Dentro la sua camera.
«... non vuoi?»
Oh no, voleva. «Certo. Cioè, salgo. Entro.» Per non balbettare, non disse più nulla.
Lei sorrise. «Perfetto.» Indietreggiò di un passo.
Lui assicurò l'equilibrio della moto e scese sul marciapiede.
Non aveva portato niente!
Ami studiò la sua espressione. «Cosa c'è?»
«Nulla.» Non aveva portato nulla con sé. Ma come avrebbe potuto immaginarsi che già quella sera loro due...? Okay. «Ti seguo.» Okay, non- Forse stava correndo troppo. Ami non era una sprovveduta, se gli stava davvero facendo quel tipo di offerta, allora non era possibile che non avesse pensato alle precauzioni che dovevano prendere. O magari sarebbe potuto uscire lui a prendere il necessario, dopo?. O lo aveva preso lei...? No.
Ami tirò fuori le chiavi di casa dalla tasca della giacca.
Se lei non aveva preso niente, magari... magari quella era un'offerta nata spontaneamente, sul momento.
Era davvero così fortunato?
No, correva troppo. Forse Ami aveva in mente solo qualche... primo passo.
Okay, poteva andare bene anche così. Se lei era disposta a farsi coinvolgere, allora... God, lui avrebbe fatto pianissimo, tutto quello che voleva lei, glielo avrebbe reso così piacevole che- Che era meglio se smetteva di pensarci adesso: erano già di fronte alla porta d'ingresso.
Ami la tenne aperta anche per lui. All'interno la luce era accesa. «Mamma?»
«Ciao!» si udì dal piano superiore.
Lui iniziò a togliersi la giacca. Era importante operare una cancellazione totale dei pensieri dell'ultimo minuto nel giro di cinque, quattro, tre-
«Come ti è andata?»
Due-
Saeko Mizuno apparve sulle scale. E lo vide.
Cancellato tutto, con un secondo di anticipo. «Buonasera» sorrise lui. Sorrise e basta.
Ami gli prese la mano, tirandolo piano senza uscire dall'ingresso. Alexander si rese conto di non essersi ancora tolto le scarpe.
«Mamma, questo è Alexander.»
Lui mosse i piedi velocissimamente, riuscendo nell'impresa idiota di far quasi saltare via l'ultima scarpa.
Ami gli chiese di avanzare ancora. «E lei è mia madre.»
Sì. «È un piacere conoscerla.»
Saeko Mizuno era... una donna dall'aspetto colto, maturo. Aveva una corporatura esile - poche rughe - ma erano soprattutto i vestiti a caratterizzarla: un maglione nero a collo alto e una gonna bordeaux alle ginocchia. Capi eleganti, modesti. Aveva i capelli corti come Ami, ma la sua acconciatura era più essenziale. 
Si era atteso di vedere in lei gli stessi colori a cui si era abituato in Ami, ma i capelli di Saeko Mizuno erano neri e le sue iridi di un blu cobalto che pareva quasi nero.
Quegli occhi continuarono a rimanere fissi sulla sua faccia, in una reazione che gli risultò indecifrabile.
«Sì» disse infine la signora Mizuno. «È un piacere anche per me. Ami mi ha parlato così tanto di te che... pensavo quasi di conoscerti.» Non sorrise, ma fu divertita di se stessa.
Alexander comprese: la madre di Ami se lo era immaginato diverso. Okay, quello era territorio familiare: era stato il suo aspetto a sorprenderla. Come al solito, c'era solo da approfittarsene. «Mi conosce, se è stata Ami a parlarle di me. Lei mi capisce meglio di chiunque altro.»
La signora finì di scendere le scale e lui fece un passo in avanti. «Io avevo avuto un'impressione molto materna sentendo parlare di lei.» Saeko Mizuno lo prese come un gran complimento, ma era ancora niente. «Ma se non si offende, a prima vista lei non sembra una madre, ma solo... un buon medico. Dev'essere il piglio, se lo porta a casa?»
«Oh.» Saeko Mizuno si sciolse in un sorriso di delizia. «Beh, sì, non stacco mai dal lavoro con la testa.» Riuscì a tornare seria. «Io... devo dire che non immaginavo di conoscerti già oggi.» Guardò sua figlia. «Avete cambiato i vostri piani?»
Ami non conobbe neppure un momento di esitazione. «Ho pensato che sono già stata tante volte nel suo appartamento e volevo fargli conoscere anche casa nostra. È stata un'idea improvvisa.» 
Certo che era proprio furba e intelligente, pensò Alexander. Sottolineando che era già stata in visita a casa sua non dava importanza particolare all'occasione in cui si trovavano in quel momento.
Lo pensò anche la madre di lei. «Già.» Gli lanciò un'occhiata perplessa ed evitò un sospiro rassegnato. «Va bene, io sto uscendo. Sono certa che Ami ti farà vedere come ha arredato la sua stanza.»
Cosa?
La signora Saeko lo superò di due passi, senza smettere di guardarlo. «La sua camera la rispecchia. Nei quadri, nell'ordine. Nei tanti libri che vi ha raccolto, tutti suoi personali. Ami è una ragazza molto studiosa.»
... sì.
«Sei molto intelligente e studioso anche tu, a quanto ho sentito. Mi raccomando, aiutala sempre a rimanere concentrata. È quello che vuole.»
Lui annuì con un sorriso consapevole. La madre di Ami era stata sottile, ma al contempo chiara.
Stranamente, i primi dubbi furono proprio di Ami: le sue guance divennero rosa. «Oh.» Sembrò sul punto di scuotere la testa, ma lasciò perdere e sorrise, innocente. «Lo porto a vedere la mia camera allora. Buonanotte, mamma.»
«Buonanotte.»
Lui chinò lievemente il capo. «Buonanotte e buon lavoro, Mizuno-san.»
«Grazie.» La madre di lei accolse benevola il saluto e finì di scendere lo scalino che la portava dentro l'ingresso.
Lui si voltò e seguì Ami su per le scale. Lei aveva appena lasciato intendere che loro due non avrebbero...?
... si era sbagliato? Sul serio?
Veramente?
Davanti alla porta della propria stanza Ami ridacchiò per un motivo ignoto. Si voltò per dirgli qualcosa, poi preferì semplicemente mostrargli la camera.
Lui vi entrò con poco entusiasmo. Lo ritrovò non appena scorse l'ambiente. «Ehi... era come diceva tua madre.»
Quadri di paesaggi. Ami gliene aveva parlato, ma vedere personalmente i soggetti, i colori e la tecnica rafforzò se possibile ancora di più l'impressione che aveva avuto di lei. Calma. Pace.
«La immaginavi ordinata?»
Lui scosse la testa. «Tua.»
Davanti alla finestra c'era una lunga scrivania. Su un lato vi era un computer, sull'altro uno spazio vuoto, pronto ad ospitare almeno tre libri o quaderni senza difficoltà. Il letto era coperto da un piumino azzurro-lillà, perfettamente piegato. I cuscini erano bianchi, la moquette era blu e l'armadio che occupava metà di una parete era in legno chiaro, moderno.
Tra il letto e la scrivania era sistemata una libreria composta da due parti, ciascuna dotata di almeno sei livelli, tutti colmi.
Ami si avvicinò al quadro appeso accanto alla finestra, a lato della scrivania. «Questo è l'ultimo che mi ha mandato mio padre.»
«Esco!» disse la madre di lei dal piano di sotto.
«A dopo!»
«A dopo mamma!» 
Lui si era avvicinato al dipinto ad olio. Era un bosco, con un sentiero in mezzo. Il gioco di luce ricreato dai colori indicava di seguire la fine del cammino, che curvava fino a sparire dietro la folta vegetazione. Più che un sentiero qualunque, pareva la strada verso... quello che si voleva. L'idea d'insieme era semplice e chiara: serenità.
Ami stava guardando il quadro assieme a lui. «Papà non dà mai un titolo ai suoi lavori, ma io ho chiamato questo 'Passaggio'.»
«Passaggio?»
«Sì.» Lei indicò il lato basso del quadro. «Vedi qui sotto? Il sentiero si è ristretto entrando nel bosco. Era diverso prima di questa inquadratura. E lì in fondo» gli segnalò un punto più alto, nel centro, tra i tronchi degli alberi, «c'è una sensazione di azzurro, una spruzzata di colore e di maggior luce, come se dietro vi fosse solo cielo limpido. Quando guardo questo dipinto penso ad un bosco in cima ad una scogliera. Ci si arriva deviando dalla strada principale; questo cammino - creato solo dai passaggi delle persone - porta sul bordo del promontorio. Oltre c'è l'azzurro del cielo. Sotto, il principio dell'oceano.»
Lui guardò di nuovo il quadro e cercò di vedere quel che aveva scorto Ami. Ci riuscì solo ricordando le parole che aveva sentito. «Sei... un'artista.» Lo aveva lontanamente intuito, ma in quel momento ne ebbe la prova definitiva. 
«Un'artista?» fu la risatina di Ami. «No, io... non so creare niente.»
«Ma hai un animo artistico» insistette lui. «Se ti concedessi il tempo, sono sicuro che creeresti qualcosa.» Al contrario di lei, lui era completamente negato, era capace solamente di osservare le meraviglie create da mani e teste altrui. Per questo le meraviglie a cui si sentiva maggiormente affine avevano origine naturale: matematica, fisica. éer lui scoprirne e apprezzarne l'essenza equivaleva a comprenderne l'intimo funzionamento, a intuirne le regole. La considerava un'arte in virtù della passione che quell'analisi gli suscitava, ma era molto diverso da ciò che riuscivano a creare altre persone con la pura immaginazione.
Ami osservò il quadro. «Hm... io non so dipingere come papà. Ci ho provato, ma non ho la tecnica per dare vita alle immagini che mi vengono in mente. Non so creare musica, anche se ho tentato anche in questo caso. Preferisco ascoltarla. Per quanto riguarda lo scrivere non-» Si fermò. 
«Hai scritto qualcosa?»
Lei lo scrutò e prese una decisione. «Sì.» Si allontanò verso la sua scrivania. «Non si tratta di racconti, mi prenderebbero troppo tempo. Però...» Dopo un momento di esitazione aprì un cassetto. «A volte ho buttato giù qualche...» raccolse un quaderno, «poesia.»
Perché tanto imbarazzo? «E poi dici che non sei un'artista?»
«Arte non è solo volersi esprimere, ma anche saperlo fare.» Lei strinse il quaderno tra le braccia, come a cullarlo.
Lui osservò la copertina celeste e le tolse il dubbio. «Ti conosco, Ami, e dove non ti conosco mi sorprendi solo positivamente. Se ti fa stare più tranquilla, io sono una tale frana a capirne di poesia che i tuoi versi mi sembreranno geniali.»
«No, ti sembreranno ingenui.» Lei gli porse il quaderno. «Sorridine pure se vuoi, non preoccuparti. Lo faccio anche io a volte, solo che... queste poesie sono come una finestra dentro di me. Penso che tu abbia già visto un po' di quello c'è dietro.»
Lui prese il quaderno.
Non appena l'ebbe tra le mani, Ami si innervosì. «Ah... vuoi del tè? Dell'acqua?»
«Acqua.»
«Okay. Acqua.» Lei si dileguò fuori dalla stanza.
Alexander aprì il quaderno e cercò una pagina a caso, verso la metà. Si ritrovò davanti un breve componimento.

Consapevolezza di luce, brillante oltre il sole
sotto il manto del giorno, senza forma o colore.
Odora d'eterno, intonando presenza reale
Canta il contatto privo di arti
Tocca.
Sussurra.
Dice.

Dice. Cosa?
La domanda lo stupì. E quella era una poesia ingenua? In poche righe aveva coinvolto lui, che, naturalmente, non aveva capito niente. Provò a rileggerla immaginando il soggetto dei versi.
«Aspetta!» Ami rientrò nella stanza, in mano una bottiglia e un bicchiere. «Non leggere a caso, è meglio se te ne mostro io qualcuna.»
«Troppo tardi.»
Lei arrossì di mortificazione.
«Ami» sorrise lui, «è bella.» Gliela mostrò. «Spiegamela.»
Leii la rilesse e prima ancora di finirla si fermò. «Parlavo del... dell'essenza di ogni persona. Non di semplice animo, ma di un insieme di anima, forza... energia. Credo che esista in qualunque persona e se si riesce a coglierla, può dirti... quello che vuoi. Qualcosa di vero.» Toccò l'ultima riga, l'unica parola lì presente. «Per questo non ho spiegato cosa dice. È da immaginare. Anche per me, quando la rileggo.»
Che incredibili ragionamenti, capaci di creare una logica nuova, affascinante. «Sei un'artista.»
Lei scosse la testa. «Grazie, però te ne faccio vedere un'altra.» Gli chiese il quaderno e Alexander glielo ridiede. Con lo sguardo vagò sulla scrivania e notò un piccolo contenitore aperto. «Cosa sono quelle?» Tessere?
Ami lanciò un'occhiata. «Conservo le tessere che ho avuto. Mi ricordano quello che ho fatto.» Lei continuò a scandagliare le poesie del quaderno, voltando rapidamente le pagine. «Guardale pure.»
Lui non se lo fece ripetere. La prima tessera era della biblioteca rionale, datata... molti anni addietro. Era a nome Ami Mizuno, cointestata a Saeko Mizuno. Ami allora aveva otto anni.
Sorrise: cos'altro poteva aspettarsi da lei?
Tra le tessere notò un preciso ordine cronologico. Hm. Preferiva fare un viaggio a ritroso nel tempo: sarebbe partito dalla fine, dalla Ami che conosceva meglio.
Nel mucchietto trovò diversi abbonamenti annuali del treno - lo verificò con una rapida controllata al colore dei bordi. L'abbonamento dell'anno precedente gli regalò un'immediata visione del passato: solo un anno prima il viso di Ami era stato più... giovane.
E a dodici anni com'era lei? Per avere la risposta si impose un po' di calma. Tra le altre tessere scoprì un abbonamento fedeltà a una videoteca del quartiere, una tessera punti relativa all'ultima campagna indetta dalla libreria internazionale di Shibuya, il cartoncino di un ristorante take-away - mancavano due timbri al raggiungimento dei dieci pasti necessari ad ottenerne uno gratis - e... Riconobbe il nome stampato sul retro della tessera grazie ad un ricordo vago. Sorpreso, girò tra le mani il supporto di plastica, osservandone la parte frontale. Era arancione, con una scritta in rilievo di colore giallo brillante, inconfondibile. Appena sotto, una dicitura chiariva che era la tessera del membro numero...
La cifra era stata inserita a mano.
Venticinque.
Venticinque?
La tessera numero venticinque riservata ai membri del fan club dei Three Lights?

Il silenzio era... anomalo? Ami sollevò gli occhi dalle pagine del suo quaderno e, quando capì cos'aveva in mano Alexander, volle morire. «Ah-»
Lui era incredulo.
«Ah, qu-quello è solo... So-solo una cosa-» Nascose la faccia dietro il quaderno, ma riemerse subito. «Un errore di gioventù! V-voglio dire... mi piacevano! Non dico di no, solo che-»
Serrando con forza le labbra, Alexander le fece quasi sparire dalla faccia.
Lei lasciò cadere il quaderno sul letto e gli piantò una mano sopra la bocca. «Non ridere. Per favore, non ridere!»
Lui scoppiò dietro il suo palmo.
Non si era mai vergognata tanto in vita sua!
«Nonono!» Alexander le appoggiò la mano sulla spalla. «Non fare così, dai è... normal-» Esplose di nuovo.
Lei piantò un piede a terra. «Insomma! Tu non hai mai avuto una passione sciocca?»
«No, cioè, sì!» Alexander cercò di smettere di sussultare. «È solo che... non rido per prenderti in giro, ma... ti immagino mentre vai ai concerti, o ti metti in fila nei negozi per vedere questi tizi, e mi sembri così...» Trattenne a forza una nuova risata. «Buffa. Così poco tu, eppure mentre ti penso sei proprio tu e non me sono mai accorto»
«Proprio io, come?» La stava prendendo in giro.
Lui si calmò. Respirò un paio di volte prima di parlare. «Appassionata. So come sei in grado di appassionarti per l'uscita di un libro che aspetti da tanto, fino al punto da visitare una libreria ogni giorno se c'è un ritardo nella consegna. Non ti immaginavo farlo per dei cantanti, ma... riesco a crederlo. Ti piacevano così tanto?»
«Sì.» Si era innamorata della loro musica, senza sapere che a incantarla era stato il messaggio nascosto dietro ogni parola. Non che fosse stato solo quello il motivo dietro la sua passione per i Three Lights. «Mi piaceva anche che fosse un interesse che condividevo con ragazze normali. Per una volta.»
Lui lanciò un'occhiata alla tessera abbandonata sulla scrivania. «Ma sei stata la numero venticinque, una delle prime. Quelli avevano migliaia di fan.»
Lei arrossì. «Mi era capitato di ascoltarli durante la prima messa in onda alla radio. Il club era nato nella mia scuola, quindi mi sono unita subito. La loro musica mi aveva colpito.» Fu colpita anche da un'intuizione. «Tu l'hai mai sentita?»
Lui esitò. «Sì. Mi capitava anche di riascoltare volentieri qualche canzone, se la passavano alla radio. Ma mi sono rifiutato di comprare il disco, mi sarei sentito troppo una ragazzina urlante.» Ridacchiò. «Tu urlavi?»
Lei si impose calma. «No. Andavo ai concerti, ma... incitavo a voce normale.» Forse. Gli urli di Minako le avevano impedito di avere una chiara percezione del livello di rumore attorno a lei, compresa la propria voce.
Alexander guardò di nuovo la tessera. «Ti sono piaciuti così altri cantanti?»
«No, loro sono gli unici che...» Si accorse dell'errore. «No, dopo mi è passata.»
Lui inclinò la testa. «Erano così speciali per te?»
«... no.» Taiki era stato solo... la sua prima cotta artistica.
Ad Alexander bastò guardarla per capire. «Sì che lo erano.»
Lei preferì il silenzio e lui l'abbracciò per la vita. «Raccontamelo. In cambio io ti racconterò qualcosa di imbarazzante su di me.»
Non sarebbe riuscita a resistere, perciò tanto valeva... «Comincia tu.»
Alexander annuì. «Visto il tema della giornata, posso parlarti del mio primo amore, l'unico che ho avuto oltre a te.»
Eh? No, non voleva sentire. Lui era già stato innamorato di un'altra?
«Si chiamava Yuko-san» sorrise lui.
Yuko. Sapere quel nome non era divertente, non avrebbe mai pensato che fosse così insensibile.
«Era la mia maestra dell'asilo.»
... la maestra-
Alexander scoppiò a ridere e lei ebbe la tentazione di imitarlo, ma ricordò i brevi momenti di dolore e fece una smorfia. «Sotto i sei anni non c'è amore.»
«Dissento. Secondo te mi ricorderei ancora del suo nome, se non fosse stata importante?»
Ami preferì non commentare.
Lui le concesse il dubbio. «Forse mi ricordo di lei perché non capivo quasi niente di quello che mi diceva. La mia era un'ardente passione che superava i confini della lingua.»
Oh, già. A quei tempi, lui era appena arrivato in Giappone.
Alexander le offrì un sorriso più serio. «Era gentile con me. Mi ha aiutato con i primi passi di giapponese.»
Immaginare la scena la intenerì.
Lui ne approfittò. «Allora, adesso racconti tu?»
E va bene, tanto... Sì, tanto era una cosa sciocca. Si era sentita molto sciocca allora, però si era divertita moltissimo e ricordava quel periodo con affetto. Gioventù. Un assaggio di normale gioventù per lei. «Anche per me c'entrava qualcosa di simile all'amore. Avevo una cotta per uno del gruppo, Taiki Kou.»
Si allontanò da Alexander, unendo le mani alle sue e guardandole. «Per via degli occhiali e di quello che diceva nelle interviste, lui sembrava... intelligente.» Sorrise. Intelligente e coraggioso, Taiki Kou, così simile a lei. «Alla fine lo era. L'ho conosciuto perché è venuto a studiare nel nostro istituto con gli altri.»
«Nella tua scuola?»
L'inflessione del tono di lui la portò ad alzare gli occhi. «Sì.»
Alexander non era esattamente infastidito o turbato, eppure... era un po' tutte e due le cose.
«Era solo una cotta» chiarì lei. «La parte più divertente era parlarne con le altre.»
«Della cotta?»
«No, di... loro, dei Three Lights.»
Lui rimase in silenzio.
«Non è una cosa che dovrebbe darti fastidio.»
Lui ci rifletté. «Sì. È anche stupido dopo che ti ho chiesto di raccontarmerlo, ma...» Con un cenno della testa, la invitò a sedersi sul letto. Lo fecero entrambi.
Alexander fissò lo sguardo sulla moquette. «Non so. Come ti ho detto, tu per me sei stata praticamente la prima.» Aggrottò la fronte, come se lui stesso fosse convinto di dire qualcosa di poco sensato. «Avevo questa idea che... anche io potessi essere stato il primo per te.»
Il suo primo amore? Oh no. Lei aveva avuto altre piccole cotte, più o meno intense, dolci proprio per quello. Ma poi perché diceva che lei era stata la prima? «Tu hai avuto altre ragazze.» E a lei il pensiero non piaceva per nulla, ma se n'era fatta una ragione. Era il passato.
«Sì. Ma io non ho mai provato... molto.»
Com'era possibile? «Allora perché stavi insieme a loro?» Si rispose da sola. A disagio, aggrottò la fronte: meglio non andare in quella direzione.
«Non è come pensi.»
Se anche fosse stato così, lui non sarebbe certo venuto a dirlo a lei.
Non voleva nemmeno pensarci. Si voltò di scatto e gli prese il volto tra le mani. «Dimmi solo che... Che questo è il meglio che tu abbia mai sentito.» Premette la bocca sulla sua, e fu così che se ne convinse a sua volta. Conosceva Alexander, conosceva loro due e conosceva i loro baci. Erano il meglio di sempre, per entrambi. Non aveva bisogno di prove.
«Il meglio di sempre» annuì lui.
Ma certo.
«Nemmeno mi ricordo di com'era con altre. Non è una frase fatta, sai? Non mi ricordo. Non voglio, ma non riesco a ricordarmi di sensazioni passate neanche se ci provo.»
Lei gli regalò una smorfia divertita. «Non stare a provarci.»
Alexander le prese il volto tra le mani e lo coprì col proprio. Staccò la bocca da lei solo a malincuore. «Com'è finita la cotta per Taiki da strapazzo?»
La risata la fece sussultare. «Da strapazzo?»
«Giuro che li chiamavo così anche prima di sapere di te e di lui.»
«Non c'era nessun me e lui.» C'erano stati solo loro, guerriere Sailor e gruppo di amiche, con i Three Lights prima e le Starlights poi. «La cotta mi è passata in modo... semplice: l'ho conosciuto.» Il piccolo bocciolo di adorazione entusiasta era sparito molto prima di scoprire che Taiki in realtà era Sailor Star Maker, una ragazza che aveva assunto una forma maschile terrestre. «Lui era un bravo ragazzo, ma... viveva in una situazione difficile. Faticava a sognare, era un po' arido. La pensavamo in modo diverso.»
«Una situazione difficile?»
Non poteva spiegargli di quello, della guerra che Taiki Kou e le sue amiche avevano combattuto sul loro pianeta. «Non me ne ha parlato, ma si capiva.» Lei in seguito aveva compreso molto bene le ragioni dietro i comportamenti di Taiki e non era riuscita a biasimarlo, ma non era stata più capace di percepirlo come un animo affine al proprio. «Per spiegarti com'eravamo diversi ti posso parlare di...» Oh. Già e poteva anche... Portò le gambe sul materasso. «Sdraiati qui con me. Ti racconto di una cometa.»
Lui studiò il letto con una lunga occhiata. «... una cometa?»
Lei si sdraiò su un fianco, dandogli l'esempio. «Sì. L'aveva scoperta il mio professore di scienze, il professor Wataru. L'aveva soprannominata Françoise.» Sorrise. «L'ha avvistata per la prima volta nel 1979. Torna ad essere visibile dalla Terra ogni quindici anni.»
Si sdraiò anche lui, rivolto nella sua direzione. «Me la ricordo.»
Beh, sperava che non ricordasse troppo bene la storia, voleva raccontargliela lei. «Il giorno che doveva tornare visibile, nel '94, ha piovuto moltissimo. Lo avevano previsto» 
Alexander appoggiò la testa sul cuscino. Guardò il soffitto come se, sopra di loro, fosse apparsa la volta del cielo. «Scommetto che lui è rimasto attaccato al telescopio per tutto il tempo, sperando di vederla.»
«Perché passa ogni quindici anni, dici?»
«No, non per questo. L'aveva scoperta, perciò era come... una figlia?» Sorrise. «Le aveva dato un nome. Doveva credere di vederla, anche se le possibilità sembravano nulla. Alcune occasioni sono troppo importanti per rassegnarsi a che non vi sia una circostanza... magica, che sistemi tutto. Come ad esempio.... una nuvola, che si dirada al momento giusto e ti permette di vedere la coda di quella cometa che aspettavi. Non si sa mai.»
Le speranza di lui era stata la sua. «Taiki ne sapeva molto sulle stelle, ma pensava che non ci fosse niente di magico nel cielo. Era convinto che Françoise non fosse speciale. Secondo lui valeva la pena di tentare l'avvistamento solo se era prevista una schiarita.»
Per quanto la riguardava, nel cosmo vi sarebbe sempre stata magia. Forse le stelle erano Sailor, e lei le aveva viste nella loro versione peggiore, intente a distruggersi l'un l'altra, ma si rifiutava di smettere di... credere. Magia era soprattutto crederci, avere fiducia che la propria convinzione potesse dare vita a fenomeni straordinari, chissà come e chissà perché. Da guerriera Sailor, da 'stella', era più che mai consapevole che l'universo funzionava anche secondo logiche magiche, salvifiche. «Taiki alla fine si è ricreduto ed è andato comunque a casa del professor Wataru quella sera. Così ha visto anche lui la cometa. Il cielo si era liberato solo qualche minuto prima.»
Alexander la accarezzò su un fianco. «L'hai vista anche tu, vero?»
«Sì. Io ci ho sempre creduto.» Appoggiò la fronte contro la sua spalla. «Ero sicura che ci avresti creduto anche tu.»
«C'è un po' di arte anche in me. In poche cose, ma buone.»
Arte? «Sogno.»
«Hm?»
«È sogno. Non arte.»
Lui ci pensò su. «Con l'arte dai forma al sogno. L'arte è anche la capacità di trasmettere emozioni. Per me è arte la tua attitudine a percepire livelli di realtà a cui basta l'immaginazione per esistere. La mia arte si esprime tramite il decifrare e lo sperare.»
«In che senso?»
«La fisica decifra l'essenza materiale di ogni cosa nel mondo. Sono schemi tanto sofisticati che abbiamo la ragionevole certezza che non sapremo mai tutto. Qui entra in gioco la speranza. Io la applico ai miei studi, ai miei esercizi - non quelli sul libro.» Rise. «Mi devo impegnare, mi devo torturare di lavoro e fatica, ma se c'è una possibilità infinitesima che io becchi la soluzione, allora so che la troverò. Prima o poi, di sicuro. Arte, no? Decifro e mostro schemi invisibili, apro la mente mia e di altri alla comprensione della realtà che ci circonda. Per alcuni è come 'vedere' per la prima volta. Alla fine, per trasmettere emozioni sfrutto spudoratamente le meraviglie create da entità superiori, ma... so fare solo questo.»
Lei lo abbracciò. «Penso che il tuo sia un bellissimo sogno artistico.» Forse lui non ne era troppo convinto, ma lei avrebbe continuato a ripeterglielo anche in futuro. A prescindere dalle parole, Alexander anelava proprio alla passione della scoperta, quando studiava: per lui era un motore di azione vitale.
Socchiudendo le palpebre, lei inspirò dal tessuto contro cui si sfregava il suo naso. Non sentì alcun profumo particolare, solo l'odore di buono che conosceva bene. E così, pensò, avevano battezzato anche la sua stanza. Erano abbracciati anche lì, pacificamente, nel giorno che glorificava l'amore. Ne sorrise. «Povera mamma.»
«Perché?»
«Non sapeva perché ti avevo invitato qui stasera.» Sentì Alexander respirare, quasi come se stesse per ridere anche lui. «Non ci conosce, ma imparerà a fidarsi di te, vedrai.»
«... già.» Lui la guardò negli occhi. «Ma visto che tu mi conosci, sai che io...» Le accarezzò un braccio. «Io... io adoro baciarti.»
Lei avvampò serena. «Piace anche a me.»
«Tanto?»
Hm? «Sì.»
«E ti senti anche tu come se non potessi... contenerti? Come se non volessi farlo?»
Sì. «Sento che mi scoppia il petto. E poi voglio abbracciarti e non staccarmi mai più da te.»
Lui rimase in silenzio, colpito. Esalò aria calda, quasi un sospiro. «Anche io.» La strinse a sé.
Ami nascose il viso contro il suo petto.
Happy Valentine.
Era stato un bellissimo giorno, dedicato solo a loro due.
Happy Valentine, my love.



Nda: Wow, non aggiornavo questa storia dal 31 Marzo?
Sarà che sto trattando Ami e Alexander in 'Verso l'alba' così tanto, ma non mi sembrava fosse passato tanto tempo :D
Questo capitolo contiene 50 kb di testo, alla faccia delle scenette rapide. Avevo in mente tante piccole cose per questa scena, per questo ho preferito non limitarmi. Una volta deciso cosa dire, sono riuscita a scriverla in fretta. Spero che abbiate gradito :) Se avete un pensiero qualunque, fatemeli pure sapere, mi fa sempre molto piacere :)
Oh, la poesia di Ami l'ho inventata io (infatti non è 'sto granché), non cercate un significato troppo diverso da quello che ha descritto lei nella scena ;)

Alcune traduzioni:
'deeply' = 'profondamente'
'constantly' = 'costantemente'
'To the first of many Valentines to come' = 'Al primo di molti San Valentino a venire' (frase per una sorta di celebrazione, brindisi).



Risposta alle recensioni:
chichilina: sigh, poi non sei riuscita ad approfondire il commento, sono triste :(
Scherzo :D Grazie anche solo per la riga di parole, volevo che la precedente scena suscitasse proprio un sentimento di 'love, love, love' ;)
Poi è stato proprio la tua segnalazione a permettere a questa storia di entrare tra le scelte, perciò ti ringrazio tantissimo. Non so se Alexander sia un personaggio stupendo come dici, di certo è un ragazzo complesso che, poverino, sta subendo una serie di piccole delusioni che Ami non sa nemmeno di dargli :D Tanto sappiamo che si riscatteranno alla grande (nel giro di una decina di mesi, ma meglio non dirlo troppo forte :D)
maryusa: sì, sono carini e zuccherosi :D Sono caratteristiche che descrivono bene questa coppia che ho creato. Ho sempre pensato che Ami avesse bisogno di veder alimentata la vena di dolcezza che era in lei. Mi diverte molto scrivere zucchero su questi due (nonostante tutto, non li trovo smielati, tra loro sono genuini, non costruiti). Grazie del commento!
Nicoranus83: Ciao! È tanto che non ti sento, spero che tu stia bene. Sì, la schermaglia amorosa del precedente capitolo era 'sublime', dolce :) Fino a questo momento (parlo anche di 'Verso l'alba') questi due non hanno mai veramente litigato. Sto meditando da un po' di farlo accadere, potrebbe essere necessario.
Grazie mille della recensione :)
amayuccia: 'Assolutamente Ami e assolutamente sublime' è un complimento bellissimo (°///°). Grazie!
Per questa recensione che avevi fatto ormai trovavi Alexander antipatico :D A me non suscita questa reazione, però l'ho descritto in modo che possa suscitarla, altrimenti era un personaggio troppo piatto :D
Rispondiamo ad alcune domande :9 Sì, la fossettina sul mento Alexander l'ha presa da suo padre. Sua madre ha una faccia che è tutta zigomi alti e belle linee, di cui è orgogliosissima e fiera :D In parte, gliel'ha anche trasmessa.
Come vedi, Alexander soffre per qualcosa e soffrirà da questo Febbraio fino a Dicembre. Ami non ha pietà con lui :D (ma non lo sa nemmeno)
Utilizzare carezze e complimenti insieme è una mossa infigarda? Alexander è infigardo e furbo, lui sfrutta tutte le armi a sua disposizione :) Certo che se avesse preso più coraggio e lo avesse fatto anche con Ami si sarebbe reso felice prima :D:D:D
Non ti preoccupare, un giorno vedrò di far avverare i sogni scientifici di Alexander Foster e Shun Yamato. Ne avranno di occasioni.
Oh, avevo risposto alla tua domanda sulla nascita di Alex in un post del forum, ma lo riporto anche qui:
"L'idea di base me l'ha data la stessa Ami ;) In uno speciale manga, la Takeuchi aveva creato una storia in cui Ami si metteva in testa di battere ai test nazionali uno che si faceva chiamare 'Mercurius'. In quella storia, Ami rispondeva ad una domanda di Minako dicendo, con fare sognante, 'Il mio uomo ideale? Credo sia uno come Einstein, l'uomo che ha scoperto la teoria della relatività' (da qui la battuta che ho inserito in 'Oltre le stelle - scene' ;))
Ami era mezza invaghita di questo Mercurius, un rivale che non aveva mai visto. Alla fine le ragazze scoprivano che questo tipo somigliava un sacco a Umino/Ubaldo e, per non deludere Ami, Minako tirava fuori il poster di un bel cantante, dicendole che Mercurius era un tipo come lui. Il commento di Ami? 'Lo sapevo! Il ritratto di Einstein da giovane.' Minako nella sua testa commentava che per essere un'idealista Ami dava un po' troppa importanza all'aspetto. È una cosa che io ho ricavato anche dall'appartenenza di Ami al fan club dei Three Lights: ad Ami piacevano carini ;) In questo almeno era normale :D:D:D
Sommando tutto ciò, le ho dato tutto quel che voleva nel personaggio di Alexander, con in mente però anche una persona diversa da lei quel tanto che bastava a farla evolvere."
Ecco qui :)
L'anniversario! Ahhh! Devo ancora decidere quand'è di preciso e quindi fare un paio di calcoli :D
La scena dell'incontro con Mamoru? Penso che potrebbe essere la prossima. Sì, ci sarà un pochettino di attrito tra loro (cioè, da parte di Alexander verso Mamoru, Mamoru non troverà alcun motivo per prendersela con lui... diciamo anche che Alexander sarà soprattutto piccato dal fatto che Mamoru chiami Ami, 'Ami-chan' :D).
Ciao!
hotaru: ehi, grazie mille per la recensione! Ho scritto la parte della piscina nel capitolo 3 pensando appositamente alla puntata in cui Ami e Michiru si sfidavano, sono contenta che te l'abbia ricordata :) Oh, sì: ad Ami l'azzurro piace un sacco e occhi colore dell'acqua le piacciono tantissimo. Non l'ha mai nascosto a Alexander, e finora non è che io l'abbia fatto vedere, ma per ottenere qualcosa da lei Alexander in genere punta molto sul farsi guardare negli occhi :D Sfrutta il punto debole, assolutamente.
La parte di 'Acqua viva' in cui Ami era appesa al galleggiante e preferiva non farsi toccare, mentre Alexander stavo proprio cercando di toccarla era un punto che ritenevo molto importante nella fanfic. Sono felice di avertelo fatto 'vedere' :)
Grazie ancora per aver commentato quella parte, specie tanto tempo dopo la fine della storia :)
Naco: Ciao! Non mi aspettavo assolutamente di risentirti con una recensione a questa storia, grazie! Oh sì, nemmeno io sono troppo brava a scacchi, ma ho immaginato che questi due dovessero essere dei geni. La scena che hai recensito doveva proprio veicolare una sensazione di calma che però non cancellava lo spirito battagliero di Ami Mizuno, sempre presente dentro di lei.
Come ti ho anticipato nella risposta privata, Alexander dovrà attendere fino alla fine dell'anno per 'farcela' con Ami. Prima di allora lo attendono tanti e tanti sospiri di rassegnazione :D
Grazie ancora del commento! Ciao!

Alla prossima!
ellephedre

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Capitolo 8
*** Scene - Marzo ***


Acqua viva - scene Note:
Traduzione di 'Out of the world' = 'Fuori dal mondo'.

Acqua viva

Autore: ellephedre

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.

Marzo

Era ora di farla finita.
Lui era un uomo.
Ami era una donna.
Loro due si amavano.
Stavano insieme da quasi tre mesi.
Lui poteva farcela.
Sì.
Poteva darle un bacio sul collo.
Vicino al collo.
Sulla mascella?

«A che cosa pensi tanto intensamente?»
Alexander addentò un pezzo di bistecca. «A niente.» Chiuse la bocca piena e riprese a masticare.
Shun Yamato, sua calamità personale da quasi dieci anni, socchiuse gli occhi e inclinò la testa, attirando la luce del sole tutto attorno alle pupille. Il grigio scuro delle sue iridi diventò grigio metallico e il particolare brillio allertò Alexander del pericolo. 
«C'entra Ami. Me lo sento.»
Alexander non lo degnò di una risposta. Tagliò un altro pezzo di carne.
Yamato divise con noncuranza il proprio pesce. «Sai che mangi più carne quando sei sessualmente frustrato?»
«Cosa?»
Il suo amico annuì. «Non parlo in generale, mi riferisco proprio a te.» Con uno schiocco secco, addentò l'aria. «È come se cercassi di saziare in un altro modo i tuoi bisogni carnali.»
Ma che diavolo-? «Mangio carne quando mi va. E bisogno carnale non c'entra nulla con 'carne'. Non quella da mangiare.»
Yamato curvò un sopracciglio verso l'alto - quello destro, come al solito. «Non hai detto di non essere sessualmente frustrato.»
«Non lo ero in passato, perciò la tua teoria fa pena.»
«Quando parti con gli insulti sei arrabbiato e sei arrabbiato quando sei frustrato. Ho visto Ami ieri e andavate d'accordo, i tuoi non sono in casa quindi non possono alterarti, Shoko-san non ti fa mai perdere la pazienza, per gli esami sei preparato, perciò la frustrazione può essere solo di tipo sessuale. Considerando anche che non mi hai detto nulla di questa prima volta che non arriva mai.»
Adesso lo uccideva. Fine di Shun Yamato.
Lui sospirò. «Non vuoi un consiglio?»
«Voglio che tu stia zitto.»
Yamato scrollò le spalle. «Volevo solo dirti che le piacerà.»
«Che?» A chi e cosa?
«La tua Ami somiglia a Sakura. Anche lei era timida, ma alla fine-»
«Non paragonare Ami alla tua prima ragazza.» Sakura Nakano non era stata neanche lontanamente altrettanto intelligente, altrettanto acuta, altrettanto perspicace, altrettanto-
«Stai compilando una lista delle sue lodi?»
Alexander corrugò la fronte e raddrizzò la schiena, allontanandosi dal piatto. «Non sto con Ami per ottenere qualcosa da lei.»
«Nemmeno io con Sakura.» Yamato assaporò di nuovo il suo pesce.
«Ami non reagisce come le altre ragazze, ne ho avute abbastanza per saperlo. Molte più di te.»
Yamato sorrise in silenzio, masticando piano il suo cibo.
Alexander riuscì a udire la risposta nella propria mente.
Dopo qualche secondo, Yamato la espresse a voce. «È importante la qualità del rapporto. Io vinco tre a zero se consideriamo quello che conta.»
Quello che contava? Sesso? Lui voleva fare sesso disperatamente, ma diavolo se era ben altro a contare. Si trovò il commento sulla punta della lingua, ma se lo mangiò. Non voleva rinfacciare a Yamato di non aver mai avuto quel che aveva lui. Il suo amico lo aveva persino cercato, a differenza sua.
Yamato si sfilò dalle labbra una piccola spina di pesce. «Va bene, non parliamo di Ami. Parliamo di me e Sakura. Sakura non voleva andare oltre all'inizio. Io non l'ho forzata ma noi due ci siamo finiti lo stesso. Come ho fatto?» Si appoggiò coi gomiti sul tavolo. «Passo per passo.»
Passo per passo?
Lui ci stava già provando.
Yamato unì pollice a indice, a indicare una minuscola quantità. «Arriva un momento, se lei è molto timida, in cui devi forzare un po' le cose. Devi capire che non la stai costringendo a fare nulla se lei ha una paura ingiustificata di una cosa che non conosce e soprattutto se, un secondo dopo, quella cosa le piace. E voglio dire proprio un secondo. Due sono già troppi.»
Che ragionamento altamente scientifico. «Per me vale qualcosa di più semplice. No è no. Mi piace essere trattato così e tratto gli altri così, uomini o donne che siano.»
Yamato lo studiò. «Come diavolo hai fatto ad avere tante ragazze?»
Facile. «Nessuna ha mai detto di no.» Più o meno a niente, ma lui non si pentiva di non averne approfittato. Non ne aveva avuto realmente voglia o, più correttamente, aveva avuto voglia di qualcosa che loro non erano state in grado di dargli.
Yamato sospirò e sembrò arrendersi. «Okay, allora... Torniamo indietro. Sakura diceva che si vergognava senza un motivo preciso.» Si toccò la tempia con un dito. «È una cosa da donne, inconscia, non c'è una volontà definita dietro. Come per te: tu vuoi andare oltre perché vuoi andare oltre e basta, te lo senti dentro. Se lo sentono dentro anche loro, però hanno questa barriera mentale che le blocca.»
Perché all'improvviso veniva preso per stupido? «È un meccanismo evolutivo. La femmina dell'essere umano dev'essere selettiva perché ha un solo uovo da offrire nell'accoppiamento ed è consapevole per natura di tutte le conseguenze durature di una fecondazione di successo.»
Yamato appoggiò la fronte contro il dorso della mano. «È con queste argomentazioni che cerchi di convincere Ami?»
«Non sto cercando di convincerla.» Stava solo cercando di capire se le sarebbe piaciuto essere baciata in punti diversi dalla bocca. Le avrebbe dato fastidio? Per logica no, ma ogni volta che lui tentava di prendere una direzione diversa con le labbra lei puntualmente gliele trovava con le sue. All'inizio lui lo aveva trovato intenso e naturale, ma col passare del tempo aveva cominciato a chiedersi se non fosse un modo da parte di Ami per trasmettergli un chiaro messaggio.
«Va bene.» Yamato sollevò le mani. «Cerco di entrare nel tuo modo di ragionare. La ami?»
Quello era il suo modo di pensare? «Sì.»
«Lei ti ama, voi vi amate. Cosa può andare male in una coppia come la vostra?»
Era quello che cercava di dirsi anche lui, ma c'erano una marea di cose che potevano non funzionare. Ami poteva sentirsi assediata se non era pronta, oppure ancora poteva sentirsi semplicemente infastidita e-
«Alexander.»
Ah, ora usava il suo nome? «Shun.»
Yamato non raccolse lo scherzo. «Provaci. Con la tua ragazza. Di tre mesi. Quella a cui pensi di giorno, di notte e pure nel sonno.»
Alexander si ritrovò a sorridere. «Sai una cosa? Io su di te ho già vinto. Quando farò sesso io, sarà talmente out of the world che tutte le tue volte impallidiranno al confronto.
» Ne era sicuro. Fremeva all'idea di accertarsene.
Yamato scrollò le spalle. «Te lo auguro.»
Quando si dimostrava improvvisamente maturo Alexander quasi non lo sopportava.

Continuò a baciarla.
Lei aveva una bocca sempre così incredibilmente morbida, che fosse inverno o caldo come quel giorno, dentro casa sua. E sapeva di un gusto immaginario, un misto di fragola e limone. Non per il sapore in sé, ma per la sensazione. Intimamente dolce, con un retrogusto acuto capace di tempestarlo di brividi lungo la schiena.
Sul collo Ami avrebbe avuto il sapore del calore e di una deliziosa eccitazione.
Lui spostò le labbra sulla sua guancia.
Prendendogli la faccia tre la mani, Ami si allontanò. Il suo lungo sospiro, spezzato sul finale, parlò di una soddisfazione senza pari.
Lei ancora non aveva idea del tipo di appagamento che avrebbero potuto trovare insieme.
Ami gli sorrise come se non lo avesse interrotto proprio in nulla, come se avesse semplicemente dato una fine naturale al loro momento insieme. «È tardi. Devo andare a casa.»
«Posso accompagnarti.»
Lei scosse la testa. «Lo fai già troppe volte. Oggi avrai da studiare.»
«Se ti accompagno con la moto abbiamo più tempo per stare insieme.» Provaci. Già. Le frasi giuste non avrebbero prodotto alcun danno, erano il modo migliore per introdurre la questione. Ed erano la verità. «Così avrò più tempo per baciarti.»
Il rosso le salì alle guance. Le pupille si dilatarono enormemente e nel colore nero a lui parve di vedere una luce di innegabile piacere.
Le piaceva quello che le aveva detto.
Bene. Le prese la testa tra le mani. «Voglio farlo» - per tutta la notte - «sempre. E non smettere più.» Quando le prese di nuovo la bocca con la sua, Ami si incavò con la schiena all'indietro e rabbrividì. Lui insistette per un secondo preciso e lei gli portò le braccia sulle spalle.
Dentro la sua testa partì un coro di giubilo.
Ami aprì la bocca e, per la millesima volta, non gli restò che chiedersi come fosse possibile. Come faceva lei a provare un tale innocente piacere - intenso, ne era sicuro - nell'accarezzargli la lingua con la propria e poi non avere anche voglia di ricadere all'indietro da qualche parte, per avere tutto lo spazio e la comodità per provare sensazioni migliori? Non le pungevano i seni? Non aveva voglia di farsi toccare e di far crescere la sensazione in maniera esasperante, indispensabile, fino a che-
Ami staccò le labbra dalle sue, creando la distanza di un soffio. Riappoggiò la bocca sulla sua adagio, regalandogli il sapore di un sorriso.
Ecco la sua risposta.
Ami assimilava il piacere che prendeva da lui, lo faceva entrare dentro di sé e lo gestiva, calmandolo e trasformandolo in sensazioni puramente romantiche. Piacevoli oltre il possibile - forse - ma asessuali dentro la testa di lei.
Asessuali.
Lui sollevò un braccio e le trovò il collo e la nuca. Accarezzò la punta dei suoi capelli, piano. Con un polpastrello, tracciò la linea che conduceva alla spalla di lei.
Ami si staccò da lui e chinò il capo. Con gli occhi bassi, sorrise. «Fa quasi il solletico.»
Solo quello?
Lei osservò la sua mano. «Aspetta.» Gliele prese nella propria e la riportò sul proprio collo, scoperto dalla maglia leggera.
Alexander lo sfiorò di nuovo con le dita.
Ami unì le labbra e inspirò profondamente. «È veramente bello.»
Sì.
«Piace anche a te?» La domanda non attese risposta. Un dito di lei gli trovò la linea del collo e la tracciò, graffiando pianissimo, involontariamente, con l'unghia ben tagliata.
Alexander strinse un pugno per non irrigidirsi dappertutto. «Sì.» Favolosamente .
Ami lo fissò negli occhi con un briciolo d'incertezza. «Sono contenta che... non ti dispiaccia. Che io sia così timida.»
Lui si sentì entrare in allerta. Non stavano facendo quello che aveva sperato, ma ne stavano improvvisamente parlando.
Annuì.
«Io...
» continuò Ami, «è da un po' che penso di essere troppo lenta nel percepire bene tutte queste sensazioni che mi fai provare.» Gli accarezzò per intero un dito della mano che ancora teneva. «Però quando sono con te... non penso di essere sbagliata.»
Sbagliata?
«Sento che questo mio ritmo è... normale. Mio, e che non c'è niente che non va.»
Lui sentì ogni impulso chetarsi sotto una tortura inconsapevole, devastante nella sua feroce dolcezza. Non poteva nemmeno combatterla. Non voleva.
Non voleva.
Ami si nascose nelle spalle, invasa da un nuovo sorriso. «Non pensavo che un giorno avrei potuto dire queste cose al mio ragazzo. Ma non immaginavo te.» Gli scostò i capelli dalla fronte.
Lui non aveva immaginato lei. E di sentirsi sbagliato per lei.
Ma non lo era. Non lo era, avrebbe solo aspettato, ci sarebbe voluta solo un po' di pazienza.
Ami non era sbagliata per lui. Era-
«- la cosa più giusta che mi sei mai capitata.»
Alexander s'irrigidì. «Cosa?»
Dopo un momento di sorpresa, Ami fu paziente. «È come sei ci incastrassimo. Sei il mio pezzo giusto.»
La prima volta lei aveva completato la sua frase. E non lo aveva neppure sentito iniziarla. «Lo sono.» E lui la desiderava immensamente proprio per quella ragione. Si fece vincere da un sorriso necessario a procedere. «Vuoi un bacio che fa il solletico?»
«Cosa?» rise lei.
Lui abbassò la testa e le appoggiò la bocca sul collo, sotto l'orecchio.
Ami si ritrasse in una risata e a lui rimase sulle labbra il sapore di fresco della delizia.
«Per farti ridere» le disse, mentendo. «Perché anche tu sei il mio pezzo giusto. E non sei mai sbagliata.»
Ami lo guardò brevemente. Eliminò la distanza tra loro e salì sulle sue ginocchia.
«Sai cosa voglio?»
Lui lo percepiva, ma non avrebbe saputo scegliere un unico desiderio. «Che cosa?» Le portò le braccia attorno e per un momento si chiese perché mai avesse mai desiderato qualcosa di più. Poterla stringere contro di sé era già perfezione.
«Stare così tra un anno.»
Ma era scontato, perché non ne era sicura? Fece per separarsi da lei ma Ami non lo permise.
«È una promessa» le disse lui.
«Non promettere. Basta che tu lo voglia adesso. E domani. E fino a che lo vorrai ancora.»
Come scegliersi giorno per giorno? «Va bene.»
I muscoli di lei si sciolsero. Rimase abbracciata a lui, seduta sul suo grembo, sopra il letto.

«Ami, dimmi un po'.»
Ami alzò lo sguardo su Minako. «Sì?»
«Se vuoi potrai castigarmi per la mia domanda, ma tu e Alexander... per caso...» Fece vorticare un paio di dita una attorno all'altra. «Sai...?»
«Che cosa?»
Minako tossicchiò. «Mi chiedevo solo se eri tanto felice negli ultimi tempi perché tu e lui... Insomma, perché vi siete conosciuti totalmente. In quel senso e voglio dire proprio quel senso che è l'unico senso di questo tipo di discorsi.»
Per non far vedere il proprio rossore Ami scostò lo sguardo. «No.» Le venne da ridere. «No, non è per quello, Minako. Quando si sta insieme ad una persona si diventa più felici anche per altre ragioni.»
Minako sembrò delusa e al contempo incuriosita. «Ad esempio?»
«Ad esempio... man mano che passa il tempo mi rendo conto che lo conosco un poco di più e so che cosa pensa. Nelle mie paure peggiori vedo sempre meno la fine di noi due.»
«Ah, è questo.» Minako sospirò piano. «Ma Ami, potevi chiedere a me. Io lo sapevo già da mesi.»
Come? «Che cosa?»
«Che lo hai cotto flambé, per poi intingerlo in una salsa che ti stai gustando lentamente. Il bello è che il cameriere, il cuoco e persino il proprietario del ristorante è sempre lui. Si è servito da solo per te su un piatto d'argento. Gratis.»
Il paragone culinario le strappò una risata.
Minako girò attorno al tavolo, si sedette accanto a lei e abbassò la voce. «Ma allora non avete fatto qualcosa... nel senso di prima? A me puoi dirlo.»
«Ehm.» Ami iniziò a sperare che le altre arrivassero presto. «Lo so, però... è una questione privata.»
«Non lo riferirò a nessuno. Ragazze escluse.»
Quindi lo avrebbero saputo tutte. «Veramente vorrei che lo sapessimo solo... io e lui.»
Minako la scrutò con occhi sottili che allargò all'improvviso. «Oh. Aaaah.»
Ami ebbe timore di chiederle cos'avesse capito.
Minako scrollò le spalle. «Non ti chiederò più nulla. Sappi solo che ti sono solidale.»
«Eh?»
«Massì. Capisco la tua sofferenza. Questa cosa vi rende umani sai? Non poteva essere tutto così perfetto.»
Sofferenza? «Ma io non sto soffrendo. Va tutto bene.» Benissimo.
«No, lo so.» Minako corrugò la fronte come se stesse cercando le parole giuste. «So che a te non dispiace troppo perché lo ami e questo è più importante, però... Bah, se non ti dispiace alla fine non è affatto un problema.»
Ami si imbronciò. «Non abbiamo problemi Minako, ma mi piacerebbe capire di cosa stai parlando.»
«Beh, di come ovviamente lui non ha ancora provato a...» Minako la guardò bene. «Ad andare oltre?»
Oltre. Ah. «Ne abbiamo parlato l'altro giorno.»
«Parlato
«Certo.» Con Alexander poteva parlare di tutto. «Siamo entrambi un po'... lenti.» Ovviamente non erano perfetti. «Siamo felici come stiamo ora.»
Osservare lo sguardo dubbioso di Minako la portò a voler aggiungere un particolare. «Noi... ci baciamo.» Il contatto fisico era importante, una parte della loro relazione che non era fondamentale in sé, quanto tanto preziosa e speciale da essere irrinunciabile.
Minako non ne fu impressionata ed Ami ebbe la distinta impressione che non stesse incolpando lei di quella che riteneva una mancanza.
Si erse in difesa. «Lui bacia molto bene. Mi fa sentire così...»
Minako aveva ridotto la distanza tra loro a meno di un centimetro. «Così?»
Ami avvampò in una nuvola di vapore. «Niente.»
Ridacchiando, Minako le strizzò le guance tra le dita. «Sei troppo tenera, Ami-chan. Beh, se lui ti fa sentire così, allora sto tranquilla. Andrà tutto bene.»
Ami trovò il coraggio di annuire. «Certo. Andrà tutto bene.»
Minako fu ulteriormente d'accordo. «E quando succederà, sono certa che non impiegherò molto a capirlo.»
«Quando succederà che cosa?»
«Nulla, Ami, nulla.» Minako saltò in piedi. «Ah! Ecco le ragazze!»
Ad Ami non restò che sorridere. Lei non aveva alcuna fretta per quel 'nulla', ma quando fosse accaduto - tra molto tempo, considerati i loro ritmi - sarebbe stata contenta.
Era già immensamente felice ora.



NdA: quanto zucchero! :D Per equilibrare la dose di melassa di questo pezzo ho dovuto mettere anche Shun e Minako, che ravvivano sempre l'atmosfera.
Questo capitolo cerca di spiegare un po' meglio la coppia di Ami e Alexander. Nei prossimi capitoli - l'ultimo dovrebbe essere 'Novembre' - conto di focalizzarmi un po' di più sulle relazioni con altri personaggi (Mamoru ad esempio) o su questioni diverse dal sesso. Anche perché di sto passo finivo con l'alzare il rating: il povero Alexander la desidera proprio tanto :D
Credo che proseguendo con le altre scene di 'Acqua viva' sentirò sempre più il bisogno di cambiare qualcuno dei primi capitoli di 'Verso l'alba', nei punti in cui parlo della relazione tra questi due. Sia per una questione di stile (a rileggere certe cose mi viene da piangere ç_ç ) sia per affinare un po' i contenuti o aggiustarli secondo ciò che sto dicendo in queste scene - per quanto stia già cercando di mantenermi fedele a quello che ho detto sulla coppia nell'altra storia.

Grazie di aver letto e se avete apprezzato sapete che io apprezzo sempre un commento :)

Alla prossima!
ellephedre


P.S. - Non riesco a crederci. Ero profondamente convinta di aver usato il forum personale per rispondere alle recensioni del precedente capitolo e invece non trovo queste risposte! Le reinserirò daccapo o le inserirò se prima non c'erano proprio. Scusatemi.

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Capitolo 9
*** Scene - Aprile ***


Acqua viva - scene

 

Acqua viva

   

Autore: ellephedre

   

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.

   

Aprile

  

Ami era impegnata in un cruciverba. Se ne stava seduta sulla panchina di fronte alle vetrate dell'American Bookstore, accarezzandosi a il labbro con la piccola gomma rossa della matita a punta morbida mentre meditava sulla soluzione.

Alexander conosceva molte persone che riflettendo guardavano il cielo, per evitare distrazioni. Ami non distoglieva lo sguardo dal problema se la soluzione le sfuggiva: teneva gli occhi fissi sul foglio, sul libro, sulla persona e non abbassava le palpebre fino a che non aveva iniziato un primo ragionamento. A volte lui la prendeva in giro facendole notare che così si ostruiva i dotti lacrimali.

Lei sorrideva e non gli credeva. I suoi dotti erano puliti e i suoi bulbi oculari resistenti.

Intorno a lei aleggiava sempre un profumo d'acqua. Standole accanto a lui spesso veniva sete.

Era troppo lontano per produrre rumori che potessero disturbarla, ma Ami sussultò come se le avessero solleticato il collo. Alzò lo sguardo e lo individuò. Si lasciò sfuggire un sospiro di rassegnazione.

Lui coprì i dieci metri che li separavano, divertendosi a camminare piano. «Sono senza speranza?» le domandò sedendosi al suo fianco.

Lei scrisse un'ultima parola in una fila vuota di caselle. «Già.» Posò la matita e chiuse la rivista di enigmistica, rimettendola dentro la borsetta in cuoio bianco e azzurro. La chiusura metallica rappresentava una margherita. Lui accarezzò il fiore mentre le dita di lei premevano sulla clip.

Al contatto Ami si lasciò sfuggire una risata leggera, di quelle che gli facevano venire voglia di toglierle la giacca, sollevarle la camicia e accarezzarle lentamente la schiena nuda.

«Scusa» le disse, accontentandosi di strofinarle un polso. «Ti costringo a soffrire le mie vergognose abitudini. Però ti sei detta d'accordo.»

«Quando?»

«All'inizio della nostra relazione. Era una clausola non scritta sul retro di quei 'I love you'.»

Lei lasciò che fosse il suo silenzio a divertirlo. Il sole brillò sui suoi capelli blu scuro mentre appoggiava la testa contro la sua spalla. «Non mi dà fastidio, sai? È solo che non capisco cosa possa esserci di tanto interessante in me.» Esitò, la pausa di quando cercava di esprimere a parole un sentimento. «In effetti anche io ti guardo spesso, quando non te ne accorgi. Non mi stanco mai, perciò forse so cosa provi.»

«Certo che me n'ero accorto.»

«Non ti sei mai girato.» 

Lui sollevò un sopracciglio, generandole un dubbio. «Lo facevo apposta. Immaginavo che mi stessi ammirando. So che non puoi farne a meno dato che sono absolutely handsome

Ridendo in silenzio, lei abbassò le palpebre, riposando contro di lui. «Per fortuna la modestia non è la ragione per cui mi piaci. Ma ti sbagli, sai? Non è per l'aspetto. Ti osservo anche così.»

«A occhi chiusi?»

Lei annuì. «Mi piace il tuo viso, ma lo amo perché lo associo a quello che fai. Per esempio...» Sollevò un dito e trovò a memoria il suo mento. «Quando guardo questo punto mi ricordo di quando ti sei sporcato col gelato. Ti sei vergognato come un bambino.» Salì col polpastrello e gli tastò la bocca. Alexander resistette all'impulso di imprigionare il suo dito tra le labbra.

«Quando guardo questa penso a... lo sai» mormorò Ami. «Ma anche alla sciocchezza che mi hai detto la prima volta che ci siamo visti.»

Lui a stento riusciva a ragionare e lei lo prese come un invito a spiegare.

«Il caso che secondo te voleva farci incontrare. Al massimo può essere stato il destino, il caso-»

«- non ha un ordine. Stavo cercando di non essere teatrale e melenso.»

Col viso rivolto al sole, lei sembrava il soggetto di un antico quadro europeo. Forse nessuno dipingeva una donna dagli occhi chiusi, ma la vista per Ami stava nella mente. Per vedere realmente lei non aveva bisogno d'altro.

«Stai dicendo che non ha importanza che faccia abbia» asserì lui. «È il miglior complimento che abbia mai ricevuto sul mio aspetto.» Solo altre due persone nella sua vita - Nanny Shoko e Yamato - gli avevano fatto capire che non badavano al suo aspetto, ma non lo avevano mai espresso ad alta voce.

Ami riaprì le palpebre. «Ha importanza solo perché ormai questa faccia la conosco. Ma mi saresti piaciuto anche se fossi stato come...» Cercò un esempio nella folla. «Come quel ragazzo là.»

Gli aveva indicato col mento un tipo di media altezza, dall'aspetto decente e con un'aria impegnata. Ignaro, il ragazzo stava percorrendo la via immerso nella lettura di un giornale.

«Vorrà dire che starò attento a quelli come lui.»

Lei ridacchiò. Tornando dritta, stiracchiò le braccia.

Gli sembrò di sentire il suo collo che scricchiolava e provò male per lei. «Ti ho fatta aspettare. Scusa se non ho saputo dirti a che ora sarei arrivato.» 

«Non importa. Che cosa dovevi fare?»

Qualcosa per cui valeva la pena di alzarsi alle sei di mattina e sacrificare una giornata di lezioni. «Ho comprato dei biglietti.» Tirò fuori dalla giacca il suo tesoro cartaceo.

Lei piegò la testa per leggere. «GP di Suzuka?»

«Moto» spiegò fiero lui e la sola parola gli provocò un brivido di piacere. «Sono i biglietti per la tappa giapponese del campionato mondiale. Mi sono svegliato presto e mi sono assicurato due posti d'oro.»

Ami gli sfilò dalle dita i biglietti, con lui che opponeva un'istintiva e minuscola resistenza. Volle quasi chiederle di stare molto attenta a non romperli, ma si zittì in tempo.

Ami li stava osservando con attenzione. «Forse riesco a venire.»

Lui inorridì. «L'altro biglietto è per Yamato, non per... Volevi venire anche tu?» Sarebbe riuscito a prendere un altro ingresso? A quell'ora ormai sarebbero rimasti solo posti defilati e lui avrebbe dovuto comprarne due in quella zona se veniva anche lei. Sarebbero finiti in fondo, in un posto lontano dalle curve migliori.

Ami interruppe il suo sospiro a metà. «No-no, scusa.» Arrossì. «Pensavo che mi stessi invitando. Non ho mai pensato di andare a una di queste corse, anche se...» Scrollò le spalle e nei suoi occhi brillò una luce d'interesse.

La certezza di non dover rinunciare al posto faticosamente conquistato lo rilassò. «Non dirmi che ti interessi anche di motori?»

La sua risata non la divertì. «Be', sì. Una volta ho lavorato in un'officina.»

Lui rimase senza parole.

«La proprietaria teneva molto a riparare un auto d'epoca. L'ho aiutata a rimetterla in strada.»

Alexander boccheggiò.

Ami lo prese come un invito a raccontare. «All'inizio sembrava che fossimo riuscite a far partire la macchina, ma sono bastati pochi metri a far scoppiare tutto. Il cofano era una camera a gas. Aprendolo abbiamo scoperto che erano partiti sia la trasmissione che lo spinterogeno, ma una volta sostituiti con pezzi nuovi l'auto ha funzionato a dovere. Certo, era un veicolo delicato. Per la proprietaria dell'officina era un ricordo del marito, perciò credo che l'abbia voluto conservare in salute tenendolo a riposo nel garage dell'officina.» Sorrise al ricordo, smettendo solo nell'incontrare lo sguardo attonito di lui. «Cosa c'è?»

Alexander emise un soffio di genuina passione. «Sposami.»

«Eh?» Lei scoppiò a ridere e cercò di nascondere il viso dentro la propria giacca.

«Sei perfetta, Ami love. Sai che cos'è uno spinterogeno e ti sei messa a fare il meccanico. I'm yours forever

Lei smise di arrossire. «Non sapevo che ti piacessero così tanto i motori.»

«Non hai visto la mia moto?» Quel gioiello di tecnica italiana?

«Non era un regalo?»

«È l'unica cosa per cui io abbia mai fatto un capriccio.» Gli era bastato lasciar intendere a suo padre di volerla per riceverla poi in regalo per il suo compleanno. Dato che non aveva chiesto più niente a Michael Foster da quando aveva compiuto undici anni, si era sentito particolarmente stupido. La bellezza della moto però aveva vinto sul suo orgoglio.

Ami si stava ancora facendo un paio di sane risate.

Lui le mise un braccio attorno alla vita. «Vieni anche tu a Suzuka, vado a prendere un altro biglietto.» E a cambiare il suo. Nella vita bisognava darsi delle priorità.

Lei ci rifletté su per qualche momento. «Quello è un fine settimana libero per mia madre, me ne sono ricordata solo adesso. Ne ha solo uno al mese e lo passiamo sempre insieme. Inoltre per arrivare in tempo per l'inizio della gara non bisogna pernottare fuori?»

Pernottare? Crap.

Lei si rannicchiò nelle spalle. «Prima mi era sfuggito.»

A lui non era neppure venuto in mente. Idiot. Avrebbe dovuto prendere un biglietto anche per Ami e pregarla in ginocchio di andare con lui. Le sarebbe sembrata una gita e sarebbe stata una scusa perfetta, un'occasione perfetta per fare in una sola notte i passi che erano mancati in quattro mesi.

Ami lo stava studiando, ignara. «Volevi che venissi?»

Cento volte sì, ma non per la gara. Guardò le sue labbra rosa semiaperte, la linea del collo che spariva dentro la camicia e gli occhi, quelli che si erano fatti duri come acciaio quando lei lo aveva lasciato. Quelle stesse iridi erano diventate pozze di disperazione quando lei gli aveva raccontato la bugia a cui l'aveva sottoposto.

Ami non gli aveva mai detto la vera ragione per cui quattro mesi addietro aveva deciso di porre fine alla loro storia, ma era stato lui a farle capire che poteva vivere senza saperlo, se era una cosa di cui lei non voleva parlare.

A volte si pentiva della posizione che aveva preso in quel momento fondamentale, ma non erano che pochi momenti di incertezza. Tornavano alla luce quando una parte inconscia di lui si convinceva che Ami avrebbe potuto trovare un'altra ragione per far finire la loro relazione - una ragione che poteva saltare fuori dal nulla non appena lui avesse fatto qualcosa di sbagliato.

Non funzionava così, vero? Lui non era sbagliato per lei e non poteva compiere errori di una simile portata senza accorgersene. Ami non era un essere irrazionale e aveva sofferto almeno quanto lui quando si erano separati.

Lei si sporse in avanti. Riuscì ad attirare la sua attenzione quando gli sfiorò la manica della camicia. «Se per te è molto importante, verrò.» 

Per entrambi non era forse più importante la fiducia? Lui non voleva ingannarla. «Non ti preoccupare. Se ti andasse di venire con me mi piacerebbe, ma... possiamo fare una prossima volta, giusto?»

Lei si rasserenò. «Sì.»

Già, grandi inganni non andavano bene. Ma inganni piccoli? «Sono stanco» le disse. Non era neanche una bugia, aveva fatto la fila in piedi per ore. «Ti va di venire a casa mia?» 

Ami si alzò dalla panchina. «Se riusciamo a comprare delle arance, ti faccio una spremuta.»

Oh, le spremute di lei gli piacevano anche più di quelle di Nanny Shoko. Forse perché ad Ami poteva pulire le mani con la bocca. Giusto un dito prima che lei iniziasse a ridacchiare e a arrossire, ma era sufficiente.

Il resto, tutto quello che avevano loro due, era già soddisfacente di suo.

Gli piacevano le risate, le conversazioni, le esperienze, le giornate con lei. Persino il modo in cui era cambiato per stare al suo fianco, come se, invece di diventare una persona nuova, avesse semplicemente trovato un equilibrio nascosto dentro di lui.

Era diventato più calmo, meno scontroso, maggiormente paziente, più a proprio agio con tutto quello che gli passava per la mente, che fossero romanticherie da sap senza speranza o semplici pensieri folli, tanto assurdi da essere quasi inconfessabili.

Con Ami ne parlava, li lasciava uscire dalla mente e dalla bocca senza riflettere.

Un giorno le aveva detto "Pensi che sia possibile che i buchi neri siano aspirapolveri?"

Lei si era voltata a guardarlo, incuriosita. "E le galassie stanze in cui fare pulizia?"

Neppure il pensiero più cinico o stupido la spingeva a considerare anche lui come tale.

Ami pensava senza limiti e lui era felice di poterlo fare con lei.

 

 


 
Traduzione di alcuni termini:
- absolutely handsome: assolutamente affascinante (oppure bellissimo)
- crap: 'cavolo' ma in versione più volgare :D
- sap: slang per 'sdolcinato', 'melenso'

NdA. Avevo pensato di inserire l'entrata di Mamoru in questo episodio di Aprile, ma... evviva l'ispirazione :)

Penso che farò 'Aprile 2' per introdurre Mamoru o forse posticiperò la cosa a Maggio.

Oh, avevo lasciato intendere in uno spoiler che avevo lasciato in giro che questo episodio sarebbe stato incentrato sulla parola 'Motegi' e invece alla fine è stato 'Suzuka'. Avevo scelto Motegi perché si svolgeva in Aprile (a meno che non stia commettendo clamorosi errori), anche se c'è da considerare che nel 1996, anno in cui si svolge questa scena, mancava ancora un anno all'inaugurazione di questo circuito. Suzuka era il luogo dove si correva la tappa giapponese del motomondiale in quegli anni. Alla fine sono passata definitivamente a questa scelta perché il circuito di Suzuka è abbastanza lontano da Tokyo da giustificare la storiella del pernottamento di cui ho parlato ;) Unico neo: il GP di Suzuka, sempre se non erro, si svolge in Ottobre. Permettetemi la licenza e perdonatemi anche se ho detto castronerie con riguardo ai motori delle auto. Ami ne sa qualcosa, io no :D Se c'è qualcosa da correggere in merito a questo fatemi pure sapere.

Oh e naturalmente commenti su questo nuovo piccolo episodio sono sempre ultra-graditi *_* Non punite Ami e Alexander per le attese di 'Verso l'alba' ç_ç Ho dovuto fare un pochino di pausa dalla stesura della seconda parte dell'ultimo capitolo, altrimenti non mi viene fuori bene.

Alla prossima!

ellephedre

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Capitolo 10
*** Scene - Maggio ***


Acqua viva - scene

 

Acqua viva

   

Autore: ellephedre

   

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.

   

Maggio

 

«Ciao.»

In quella tardi mattinata di sabato, seduto sulla panchina davanti alla libreria internazionale, Alexander alzò lo sguardo dal suo libro sapendo che non era stata Ami a salutarlo.

Il tono duro, lievemente piccato, apparteneva alla voce di un passato distante due anni. Ritrovandosene davanti l'aspetto, lui pensò che sembrava trascorso molto più tempo. «Ciao.» Sorrise senza voglia ad Erisa Asami, che non era affatto cambiata dai tempi delle superiori.

Stesso sguardo di sfida al mondo, medesimo modo di incrociare le braccia - con le gambe un poco allargate - e l'onnipresente frangia, dritta a mezzo centimetro dalle sopracciglia. Capelli neri lunghi fino alle spalle come l'ultima volta che lui l'aveva vista di sfuggita, alla cerimonia di diploma. Bella come quando erano stati brevemente insieme, una considerazione oggettiva che gli suscitava ancora meno interesse di un tempo; d'altronde nemmeno in passato gli era importato molto dell'avvenenza di lei. Che fosse di buona qualità era stato un semplice plus ai suoi occhi. L'aveva valutata come un prodotto da mettere nel carrello della spesa.

Lei era perplessa. «Questo dovrebbe essere un incontro spiacevole.»

Lui chiuse il libro e si alzò. «Forse. Se fossi stata tu a lasciarmi.»

Le dita di Asami strinsero la camicia sulle braccia incrociate.

Lui evitò di sorridere e scosse piano la testa. «Mi hai salutato di tua volontà. Sono passati due anni, d'istinto ho pensato che questa fosse una sessione di 'how are you doing', giusto perché non siamo estranei e non sei nella mia lista di persone da odiare.» Non che ne avesse una, ma aveva avuto una lista di persone irritanti e da evitare: Asami ci era finita dentro dopo che lui l'aveva lasciata, ma era passato troppo tempo perché lei fosse ancora una persona con il potere di infastidirlo. Inoltre, nessuno lo irritava più: he was an happy man, non si poteva essere più felici e sereni di lui.

Asami lo squadrò da capo a piedi e strinse gli occhi. «Sei diventato più alto.»

Per un attimo lui aveva pensato di farle notare che era lei ad essere diventata più bassa. Ma no, era proprio lui ad essere cresciuto, e in più modi. «Studio fisica alla Todai. E tu?»

«Legge alla Keio. Hai perso il brutto carattere? Se me lo confermi non ti credo.»

Non che a lui importasse qualcosa. «Se non hai altro da dire forse è meglio che sia io ad anticipare il Sayonara con cui si concluderà questo incontro.»

Lei piegò le labbra strette verso l'alto. «Ancora witty e ancora antipatico. Io pure, ma scommetto che non ne sei sorpreso.»

Sbagliato, aveva sperato che il tempo fosse passato anche per lei. Ma un po' d'ironia era la benvenuta. «Non mi interessa.»

Asami diede vita alla stessa espressione risentita che, nei pochi giorni in cui erano stati insieme, lui non era riuscito a sopportare, neppure nelle sfumature più miti e presuntamente dolci. Si era stufato di lei nelle canoniche due settimane in cui, a quel tempo, era svanito il suo interesse in una relazione con qualsiasi ragazza.

Anzi, ricordò, si era annoiato già con qualche giorno di anticipo rispetto al limite medio: come persona Asami gli era andata a genio, ma come fidanzata lo aveva irritato in continuazione. L'aveva mollata dopo un mese e non prima solo perché allora aveva pensato che lei fosse stata perfetta sulla carta: intelligente, simile di carattere a lui, per metà straniera e quindi capace di parlare inglese fluentemente. Se non funzionava con Asami, si era detto, forse avrebbe fatto meglio a lasciar perdere del tutto le relazioni.

All'alba dei suoi diciotto anni non era stato pronto a mollare l'idea di combinare qualcosa che si potesse finalmente chiamare sesso, ma la sua disperazione aveva cominciato a prendere consapevolezza di sé.

Se non riusciva ad avere una sola relazione in cui stesse bene, si era chiesto, perché continuare a sforzarsi? Ne valeva davvero la pena?

Con Asami aveva risposto a quella domanda, ma non per merito di lei. Dopo un anno di tentativi, per lui era semplicemente arrivato il momento di smetterla con esperimenti che avevano continuato a dare sempre lo stesso infruttuoso risultato.

I'm an idiot, aveva concluso in un giorno di pioggia, nel bel mezzo di una lezione di matematica. Il cielo aveva pianto al posto suo per il periodo di astinenza a cui si era condannato con le sue stesse mani, ma lui era stato sicuro dela sua decisione. Se sto bene solamente per conto mio, è meglio stare da solo.

Considerava la sua adolescenza terminata il giorno in cui aveva detto ad Asami, 'È finita.' Quel giorno era finita davvero: da allora aveva pensato solo a studiare e a divertirsi come pareva a lui, senza stare più ad arrovellarsi per accontentare persone di cui, in fondo, non gli era importato molto. Era un bastardo asociale con un solo amico, ma ne era diventato finalmente consapevole e si era sentito in pace.

Da quel momento in poi, nell'incontrare ragazze a cui aveva lanciato una seconda occhiata, aveva sempre dato retta al suo primo istinto: nel notare una sola cosa che non gli era andata bene, aveva lasciato perdere.

Gli occhi di lei si muovevano troppo? Tendeva a distrarsi, non sapeva stare concentrata. Quindi non avrebbe saputo sostenere una conversazione decente.

Teneva le spalle basse? Era troppo timida e lui l'avrebbe solo intimidita maggiormente.

Avvicinava una mano per toccarlo? Sarebbe diventata appiccicosa.

Sembrava fulminata dal suo aspetto? Avrebbe passato il suo tempo a fissarlo.

Lui aveva accumulato sufficiente esperienza - oltre venti pseudo-relazioni - per sapere che aveva ragione quando inquadrava sommariamente una persona nei primi momenti di conoscenza. Era percettivo o, se non altro, aveva imparato a riconoscere i segnali dei tratti di carattere che non poteva soffrire.

Più di cinque mesi addietro, ricordò, non aveva trovato niente che non andasse in una persona a cui ormai pensava tutti i giorni.

Spalle dritte e fiere, risposta arguta e veloce, poco impressionata da lui, occhi blu profondi e grandi. Aveva guardato Ami una seconda volta e una terza, notando anche il tipo di corporatura sotto il cappotto scolastico, ma soprattutto il viso. Un misto tra 'very nice' e 'beautiful in the details' che la serietà di lei non gli aveva permesso di identificare con chiarezza.

Come combinazione gli era parsa allettante sin dall'inizio, ma allora non aveva avuto la minima idea del tipo di espressioni che Ami era in grado di tirare fuori. Ne veniva steso giorno dopo giorno e ne era felice.

Durante il loro primo vero incontro sul ponte del parco se n'era andato ugualmente perché... Perché? Forse perché si era abituato a lasciar perdere o perché si era trovato bene da solo. Forse perché ad Ami lui non era piaciuto e quel tipo di novità non era stata abbastanza curiosa da interessarlo.

Per fortuna aveva avuto una seconda possibilità con lei. Il giorno dopo addirittura; la sua buona stella si era concentrata nella settimana d'oro che gli aveva fatto incontrare Ami tutti i giorni.

«Era questo che odiavo di te, Foster A. Stavi con me e pensavi ad altro, come se starmi vicino non fosse interessante. Ti avrei lasciato io prima o poi.»

'Foster A', un soprannome orribile che lui le aveva chiesto subito di smettere di usare. Non dubitava che Asami lo stesse ripetendo apposta per irritarlo.

«Ora che lo hai detto sei felice?»

Lei non distese l'espressione, eppure - notò lui - aveva voglia di farlo.

Provò a risolvere il problema al posto suo. «Non mi avresti lasciato tu, non per qualche altro mese.» Non era il modo migliore per cominciare a rasserenarla, ma era la verità. «Ero la tua sfida, no? Lo sono anche ora, ti costringi a parlarmi per questo. Ero il meglio che potevi ottenere nella tua testa e non si viene lasciati da una persona così senza tenersela dentro. Non se si è orgogliosi come te.»

Di malavoglia, Asami stava sorridendo. «Questo era quasi un tuo pregio invece: sweet as hell proprio mentre lanci insulti.»

«Ho risparmiato ad entrambi tempo prezioso finendola dopo un mese. Ma avrei preferito che fossi stata tu a rompere: a me non sarebbe importato.» E soprattutto si sarebbe risparmiato le occhiate d'odio che erano seguite nelle settimane successive: non avevano frequentato la stessa classe, ma le loro aule si erano trovate nello stesso corridoio.

«Okay, okay.» Asami sollevò le mani; più che un segno di resa, una richiesta di tregua. «Non sono così bitchy di solito, mi sono evoluta anche io.»

Alexander evitò di ridere apertamente: Asami stava chiedendo tregua a se stessa.

«Voglio farti una domanda e vorrei che non la prendessi per il verso sbagliato» gli disse.

A lui non piacevano le domande che cominciavano in quel modo. «Finché non me la fai, non prometto niente.»

Asami annuì. «È una cosa che mi è rimasta qui.» Si picchiettò la parte alta della tempia con un'unghia insistente. «A parte l'orgoglio, è la ragione per cui ce l'ho ancora con te.»

Well, se poteva aiutarla... «Tenterò di portare pace alla tua anima.»

A lei sfuggì una mezza risata. «Bene, vada per l'insinuazione potenzialmente più offensiva e assurda, anche se io - lo premetto - non giudico. Non sei un'improbabile omosessuale, vero?»

Lui strinse gli occhi. «No.» E aveva capito di cosa stava per parlare lei. «Sono banalmente etero, ma ragiono con una testa che sta sempre sopra le mie spalle.»

«Right. Spiegami cosa ti ha detto la testa allora: per quale motivo incomprensibile un complimento qualunque ti ha impedito di portarmi a letto quando ci eravamo già dentro? Se era una scusa, adesso puoi dirmelo.»

Lui aprì la bocca per replicare e lei lo bloccò con un dito. «Questa volta magari capisco, non sono più arrabbiata. Mi interessa solo... sapere.»

Alexander aveva compreso già allora che la sua ritirata era stata un colpo senza pari per l'autostima di Asami, ma non gli era interessato spiegarsi meglio. Nonostante la sua decisione di lasciarla, si era fatto quasi convincere ad andare a letto con lei: la prospettiva dell'astinenza senza una chiara fine all'orizzonte - pure senza un solo straccio di esperienza completa - non aveva spaventato la sua mente, ma il suo corpo era stato di ben altro avviso.

L'insistenza di Asami aveva premuto involontariamente su quell'incertezza. Lei gli era sembrata cosciente della sua mancanza di coinvolgimento e gli era parsa anche una ragazza da 'no hard feelings': non si sarebbe sentita tradita da un po' di sesso privo di sentimenti, magari neppure le sarebbe importato tanto.

Lui riteneva ancora di avere ragione su quel punto. 'Portarmi a letto': era quello il riassunto facile che faceva Asami. Non poteva immaginare di sentire una cosa simile da Ami; non lo avrebbe neppure voluto.

Tornò a sedersi.

Asami si accomodò accanto a lui, piegata in avanti, un gomito sul proprio ginocchio. «Ti avevo solo detto... Aspetta che mi quoto. "Gosh, sei così bello che potresti anche essere stupido". E tu sei scattato all'indietro come se ti avessi bruciato. Oppure» si mise a ridere «stavo facendo qualcosa di tremendamente sbagliato?»

Gli era piaciuto quel tratto di lei: era diretta. A suo modo lo apprezzava anche ora, soprattutto perché oramai era un'estranea per lui. «Non hai trovato qualcun altro che potesse toglierti il dubbio?»

«I dubbi me li sono tolti» ribatté Asami. «Ma non il dubbio di quel momento e di quella situazione.»

Il dubbio di essere sbagliata, di aver fallito in qualche modo. Asami era una cosa sola col proprio orgoglio.

«Mi hai fatto capire che noi due non c'entravamo niente.» Fu conciso e poi decise di parlare la sua lingua. «E siccome non c'entravamo nulla, non mi sarei divertito neppure in quello che sarebbe seguito.» Non trovò necessario ripetere che era stato comunque sul punto di lasciarla: glielo aveva già detto a tempo debito.

Asami arrivò a una conclusione che trovò soddisfacente. «Non sai goderti un po' di sana chimica. Sei un represso.» Fu solo un mezzo scherzo.

Lui lo trovò divertente per una ragione diversa dalla sua. «Tra noi non c'era chimica.»

«Dici?» Asami si appoggiò contro lo schienale della panchina, i capelli neri sistemati su una sola spalla. «A me non sembrava.»

Non era una dimostrazione di interesse, quanto un flirt casuale. Asami era fatta così. Un po' gli ricordava com'era stato lui.

«La chimica di cui parli è una combinazione di pulsioni e pensieri votati a percepire solo i sensi» le spiegò. «Non c'era niente di tanto nobile nella ragione per cui non mi sono fermato prima quel giorno.»

Asami lo fissò con occhi sottili. «Sei ancora troppo complicato, persino per me. E brutale in cose che non mi piacciono. Hai ragione, non saremmo andati da nessuna parte in coppia.»

Infatti per lui non c'era mai stata una coppia tra loro due. «Trovato la pace?»

Con un sorriso sghembo, lei tornò in piedi. «Tu, piuttosto... Credi davvero che troverai la ragazza che cerchi? Te lo dico per il tuo bene: non esiste.»

Ah, doveva esserle sembrato un idealista. Lui non si era mai sentito tale: aveva saputo con chiarezza quello che non voleva, ma non era stato in grado di descrivere cosa stava cercando finché non lo aveva trovato. «Si chiama Ami.»

Asami rimase interdetta solo per un momento. «Hm, almeno hai ripreso ad uscire con qualcuno. Ti sei dato al celibato per un intero anno scolastico dopo aver rotto con me, era l'unica cosa che mi dava un po' di soddisfazione. Be', non far diventare questa Ami parte di una collezione troppo estesa: ha i suoi pregi imparare ad avere una relazione più lunga di un mesetto scarso.»

«La mia collezione ha un solo pezzo da cinque mesi. È già completa.»

La menzione della durata della sua relazione con Ami sorprese Asami. Sorprese anche lui nel pensare che fosse una reazione legittima: Asami lo aveva conosciuto quando per lui una cosa simile era stata inconcepibile. Solo in apparenza, o almeno così gli piaceva pensare: avrebbe potuto costruire una relazione con Ami anche in quel passato. Lei era quella giusta. Continuava a rimanergli il dubbio che lui non lo fosse stato.

«Allora... La situazione è questa» iniziò Asami. «Una ragazza incontra per caso il suo ex. Si mette a parlare con lui solo per saperlo infelice e mettersi il cuore in pace. Invece si mette il cuore in pace perché lui le spiega meglio quell'episodio che l'ha scocciata per mesi dopo che hanno rotto. Ah, e le dice pure con sguardo sognante che è felicemente fidanzato.» Unì le mani sul petto. «È cambiato perché ha trovato quella persona mitologica che il resto di noi comuni mortali non ha speranza di trovare.»

«L'ultima parte è abbellita per rientrare meglio nella storia?» rise lui.

«Volevo solo chiarire i sentimenti dietro ciò che sto per dire: you are an ass, Alexander Foster. Te lo dico con simpatia, perciò tieniti l'insulto. Fammi questo graditissimo favore.»

«Te lo faccio.»

«Perché sei troppo sereno perché te ne importi qualcosa. You are an ass

«Siamo già arrivati al Sayonara?»

«Sì» annuì Asami e indietreggiò di un passo. «Me ne vado. Sayonara, Foster.»

Lui rimase seduto. «Vedrai che andrà bene anche a te. Sayonara, Asami.»

Lei provò a parlare ma si cucì la bocca. Nel girarsi pronunciò un silenzioso 'ass' che accompagnò ad un sorriso rassegnato e ad una mano alzata.

Alexander l'alzò a sua volta e lei andò via.

Lui riaprì il suo libro e tornò a leggere.

Si interruppe brevemente per pensare allo scorcio di passato che era tornato nella sua vita per pochi attimi, ma quando adocchiò la riga da cui aveva interrotto la lettura, tornò a concentrarsi sul libro.

 

L'ultima volta che Ami si era nascosta dietro un palo della luce si era trovata assieme ad Usagi. Lei l'aveva trascinata dietro un lampione dopo aver scorto una ragazza che parlava con Mamoru. Un'estranea che aveva chiesto un'informazione, aveva poi spiegato lui, e Usagi gli aveva creduto solo perché aveva potuto assistere a tutta la scena di persona, a distanza.

Ami non era riuscita a capacitarsi della poca fiducia di Usagi in Mamoru Chiba: lui era un fidanzato modello, così chiaramente innamorato e fedele.

Nascosta in modo stupido dietro un palo molto più sottile di un lampione, cominciò a capire meglio i motivi di Usagi. Aveva guardato Alexander che parlava con la ragazza ignota per mezzo minuto buono (ma loro avevano cominciato prima). Non si era nascosta subito, l'aveva fatto solo quando lui aveva salutato l'altra ed era parso sul punto di voltare lo sguardo.

Ora, controllò voltando la testa, Alexander stava solo leggendo il suo libro. E lei si stava comportando da sciocca.

Durante la conversazione a cui aveva assistito, Alexander non aveva lanciato segnali equivoci, ma le era parso che li avesse lanciati lei - l'estranea bella e slanciata che lui sembrava conoscere piuttosto bene. Si erano salutati con un sorriso e una mano alta, un saluto di tipo definitivo. Forse. O magari solo un saluto amichevole, come a dire 'ci vediamo un altro giorno?'

Perché avrebbero dovuto vedersi un altro giorno? Magari lei era una sua compagna di università? Per questo si era seduta accanto a lui con tanta naturalezza? Ed era solita farlo in altre occasioni?

Sospirò. Stava facendo ipotesi su fatti non accertati, una cosa completamente inutile. Se era curiosa, poteva chiedere.

Esitò.

Non aveva bisogno di sentire la risposta, la conosceva già. Se avesse notato che era preoccupata, Alexander l'avrebbe rassicurata. Le voleva bene. Amava lei.

Si allontanò con un passo dal palo.

Lui la chiamava love accarezzando la parola con la voce, come se fosse felice di poterlo dire. Dopo che avevano passato ore a parlare, la guardava come se le volesse un po' più bene di prima. A volte la baciava proprio come se cercasse di ripetere quello che aveva detto a San Valentino - voglio rimanere con te per sempre. La fiducia in lui era uno dei regali più belli che Alex le avesse fatto.

Smise di guardarlo da lontano e cominciò ad avvicinarsi alla panchina su cui si era seduto.

Non avrebbe macchiata quella fiducia con domande sciocche. Non ne valeva la pena.

     

«Ciao.»

Il secondo saluto di quella mattina gli fu immensamente gradito. «Ciao.»

Più che chiudere il libro, si dimenticò di averlo in mano. La primavera inoltrata stava cominciando a trasformarsi in estate e lui aveva iniziato a scoprire Ami in camicie sottili e gonne svolazzanti che la riempivano di calma, circondandola d'aria e facendola camminare come su una nuvola. I vestiti azzurri, i suoi preferiti, la rendevano una principessa allegra e libera.

Lei si chinò in avanti. Posò le labbra sulla sua guancia e le tenne lì, fino a che non sollevò le mani ai lati del viso, come se volesse custodirlo.

Quando si staccò, lui produsse un sorriso incredulo. «Così mi abitui bene.» E avrebbe dovuto abituarlo, perché pochi secondi non erano bastati a fargli godere appieno di quella sorpresa: passati i primi tempi, Ami aveva smesso di lasciarsi andare a effusioni in pubblico senza controllare prima che fossero soli; almeno, se si teneva conto dei primissimi momenti in cui lo vedeva. Di solito preferiva lei prendergli la mano, ma lui doveva ammettere di preferire i baci.

Le accarezzò la lunghezza di un braccio.

Glielo avrebbe fatto capire nel modo che più gli piaceva: senza parole. Passo per passo, a gesti. Quando comunicava con lei in quel modo paziente e otteneva la risposta che voleva, si sentiva gratificato in una maniera sconosciuta; era sempre una sensazione nuova.

«Oggi volevo dartene uno.»

«Music for my ears.»

Lei si ritrasse lievemente, stringendogli la mano. «Sei già entrato?» Indicò la libreria alle sue spalle.

«No, ti aspettavo.»

Lei accennò a dire qualcosa, ma si interruppe prima di cominciare. Per un momento, parve incerta. «Andiamo allora.»

         

Sabato era la giornata che passavano insieme da mattina a sera. Avrebbe potuto essere domenica, ma entrambi studiavano con impegno quel giorno, almeno per tutta la mattina e parte del pomeriggio. Poi, verso le quattro o le cinque, si vedevano per salutare il fine settimana.

Sabato invece andavano in giro, a pranzo a scoprire nuovi posti in cui mangiare, poi in nuove librerie o mostre nella seconda parte della giornata. Se c'era un film interessante da vedere andavano al cinema, ma quello che facevano quasi tutte le volte era camminare. Andavano con la moto di lui in parti di Tokyo - o Yokohama - che non conoscevano e passeggiavano enza meta, solo per vedere posti nuovi.

Le sue ballerine dondolavano oltre il muretto che delimitava la spiaggia. Ami si ritrovò a pensare che sarebbe stato meglio indossare dei sandali. Faceva inaspettatamente caldo e le sarebbe piaciuto sentire il contatto dei piedi con la sabbia, battezzandoli nell'estate.

Diede un altro morso al panino. Per quel giorno avevano scelto di mangiare leggeri e farlo all'aperto, a Odaiba, nella baia di Tokyo. Conoscevano già il complesso di isole, ma quel pomeriggio avevano appuntamento in quel luogo con Usagi e Mamoru. Alexander avrebbe conosciuto Mamoru per la prima volta.

«Vuoi mettere i piedi nella sabbia» commentò lui.

Ami sorrise col cibo in bocca e attaccò la gamba al muretto in cemento su cui era seduta. Deglutì il boccone. «Come hai fatto a capirlo?»

«Stai disegnando monti e valli con la punta della scarpa. E poi era un'ipotesi-proiezione: vorrei farlo anche io.»

«Fa caldo, vero?»

«In questo momento vorrei una spiaggia californiana, con acque pulite e tante onde.»

Per i viaggi che aveva fatto, lei lo invidiava. «Se fa ancora caldo, potremmo andare in piscina domani.»

«L'acqua rinfresca, ma senza il sole non è la stessa cosa.»

Alexander aveva finito di mangiare da quasi cinque minuti. Non sapendo dove buttare il fazzoletto con cui aveva tenuto il panino, giocava a rotolarlo tra le dita nella parte pulita.

«Intendevo in una piscina all'aperto» precisò lei.

Lui drizzò le orecchie. «Ci si può già andare?»

«Di solito aprono a metà mese. Oggi quindi, ma domani posso controllare.»

Lui gettò la testa all'indietro e guardò il cielo azzurro. Aveva arrotolato le maniche della camincia scoprendo gli avambracci; aveva fatto lo stesso con i risvolti dei pantaloni, fin sopra le ginocchia. A lei era sembrata un'idea un po' stramba fino a che non aveva visto il look da simil pescatore che in realtà era qualcosa di molto diverso: associato ad abiti normali sembrava un insieme curato, pensato, persino sottilmente elegante.

Lui aveva commentato distrattamente che era un'idea che aveva visto da qualche parte.

Di solito non gli piaceva pensare ai vestiti e non lo faceva attivamente, ma lei era sicura che, se fosse stato una donna, Alexander avrebbe potuto darle decine di dritte. Un paio di volte le era capitato di guardarlo mentre si comprava qualcosa da indossare.

Lei si riteneva una compratrice di vestiti piuttosto veloce, ma Alexander la batteva cinque a zero: entrava solo nei negozi in cui era sicuro di comprare qualcosa e camminava tranquillo guardando a destra e a sinistra. Senza indugio prendeva in mano solo cose che, a guardarle dopo, erano di ottima fattura e con dettagli di pregio. Lui non le provava, le giudicava a occhio tenendole alte e larghe con le mani.

Lei aveva pensato fosse una modalità di selezione poco efficace, ma la prima volta che lo aveva visto comportarsi così la loro relazione aveva avuto meno di un mese e lei aveva giudicato poco saggio offrirgli opinioni non richieste.

Alexander infatti non le aveva chiesto niente: dopo aver scelto cinque cose - due felpe, una camicia, un jeans e un altro paio di pantaloni in tessuto pesante - era andato a pagare senza neppure domandarle 'Cosa ne pensi?'. Per tutto il tempo aveva continuato a parlare con lei di fisica quantistica, come se la scelta del suo vestiario non meritasse una sola parola.

Era stata la prima volta in cui un suo comportamento le aveva causato un leggero dispiacere. Si era sentita esclusa dopo essersi scoperta a desiderare di... be', vestirlo. O di poter immaginare cosa mettergli guardando tra i capi presenti, un po' come faceva per sé.

Nelle settimane successive, nel vederlo di volta in volta coi capi scelti, non le era rimasto che dichiararsi sconfitta senza possibilità di rivincita: Alex non aveva bisogno di lei per scegliere i vestiti, aveva un occhio sopraffino. Ma questo, si era detta poi, avrebbe dovuto già capirlo dal gusto di quello che gli aveva sempre visto indossare. Il suo errore era stato credere che a scegliergli gli abiti fossero Shoko-san o sua madre.

Con lui aveva toccato l'argomento in modo diretto solo una volta, facendo riferimento proprio alla signora Eve.

«Sì» aveva risposto Alexander, «l'unica cosa che non manca di sicuro a mother è il buon gusto nel vestire. Per una che faceva il suo lavoro, sarebbe un colmo da barzelletta.»

Lei aveva pensato che lui sottovalutasse Eve Foster. «Sceglieva lei i tuoi vestiti da bambino?»

«No, ma ricordo che diceva a Nanny Shoko dove comprarli. Finché non ho cominciato a scegliere io, nel mio guardaroba spuntavano dal nulla cose che non avevo visto.»

La risposta l'aveva confusa. «Nessuno ti ha mai aiutato a fare acquisti? Tuo padre?»

Divertito, Alexander aveva aggrottato la fronte. «Lui ha una sua idea di stile tutta inglese, troppo seria. Ora che mi ci fai pensare, tanti anni fa mi ha aiutato a scegliere un completo perché non avevo esperienza, ma per il resto... cosa c'è di difficile? Buoni tessuti, buone finiture, buon taglio.» Alexander aveva scrollato le spalle. «Mia madre mi ha aiutato a distinguere semplicemente osservandola. Cosa ti confonde, la scelta veloce?»

Lei aveva annuito e lui ci aveva riflettuto brevemente. «Quando scelgo ho in mente le pubblicità dei giornali europei; americani per il casual. In Giappone c'è poca roba tra cui scegliere, è facile notarla con un colpo d'occhio; siete piuttosto indietro.»

Il 'siete' le aveva fatto spalancare la bocca in una risata incredula.

Lui si era accorto di quel che aveva detto. «Presenti esclusi, ma pensavo più al vestiario maschile.» Si era messo a ridere e lei lo aveva seguito a ruota. Quel giorno aveva capito la ragione di un commento di Minako.

«Alexander sembra bravo e alla mano quando lo conosci, ma a volte ha un non so che di snob.»

Lo era per esempio nel vestire, nel modo in cui sceglieva con inconsapevole cura la maniera di presentarsi. Eppure lei era convinta che, se gli avesse fatto notare quel difetto, lui sarebbe stato capace di entrare in crisi: per Alex era molto importante pensare di non dare alcuna importanza al suo aspetto.

In fondo la cosa più divertente era la maniera in cui si sentiva strettamente straniero quando si parlava di gusto nel vestire; neppure coi libri era tanto definito. E se quella non era una cosa trasmessa da sua madre, che non indossava un solo accessorio o capo che non fosse importato, Ami avrebbe potuto dire di non capire niente del suo fidanzato di quasi mezzo anno. 

Lui aveva preso a guardare il mare con intento. «Magari possiamo andare in piscina dopo l'appuntamento a quattro.»

Era evidente che non conosceva bene Usagi. Inoltre... «Come potremmo? Non abbiamo niente di quello che ci serve.»

«Costumi, ciabatte, asciugamani.» Smise di guardare l'acqua. «Potremmo comprarli.»

«Ma ho già queste cose a casa e poi-»

«Potrei regalartele» rifletté lui. Qualcosa lo divertì.. «Certo che se ti aiuto a comprare un costume, poi non usciamo più dal negozio.»

«Hm?»

«Te ne farei provare un mucchio, Ami love

Lei arrossì talmente tanto da affondare con la testa, toccando il petto col mento. «Io...»

«Stavo scherzando.» La risata leggera si librò nell'aria calda del giorno.

Ami inspirò per farsi coraggio. «Io preferisco i costumi interi.»

«Come quelli che metti nella piscina al coperto.»

Esatto.

L'idea non sembrava infastidirlo neppure un poco e lei si sentì in colpa. Forse era troppo chiusa su alcune cose. «Magari per questa estate posso prenderne uno in due pezzi.»

Lui la squadrò con un'occhiata rapida. «Ah-ha.» Distratto, tornò a guardare il mare.

L'interesse malcelato la fece decidere per un prossimo acquisto. «Oggi non possiamo andare in piscina. Usagi vorrà fare molte cose, è la prima volta che siamo tutti e quattro insieme.»

L'idea di un doppio appuntamento aveva entusiasmato Usagi sin da quando le era venuta in mente, ma Mamoru non aveva mai avuto abbastanza tempo da dedicare a un'uscita come quella: da quando aveva lasciato medicina, si era impegnato due volte tanto nel suo nuovo corso di laurea, per recuperare il tempo perso.

Ami era curiosa di sapere che opinione avrebbe avuto di Alexander, e viceversa.

«Spero che Mamoru ti piaccia.» Non poteva dirsene sicura solo perché Alexander sapeva ancora sorprenderla nelle reazioni che aveva nei confronti di persone sconosciute. Per esempio non avrebbe mai immaginato che lui potesse trovare simpatica la ragazza di quella mattina.

«Alex?»

«Hm?»

Non era mancanza di fiducia, si disse. Solo curiosità. «Quante...» No, non voleva ridurre la faccenda a una questione di numeri. «Prima di me... hai avuto altre ragazze.» Non ne fece una domanda: era certa della risposta, ne avevano già parlato.

Lui inclinò la testa e la studiò. «Sì.»

Lei non seppe come chiedere. Furono le parole a sceglierla. «Com'era? Com'eri tu?»

«Disinteressato, non te l'avevo detto?»

Sì, ma questa volta voleva saperne di più. Voleva capire come si era comportato lui in passato: da come ne parlava Yamato-kun, e da alcune cose che aveva detto Alexander stesso, le era parso che lui fosse stato diverso. Anche adesso, quando non c'era lei, era diverso con le persone: più cauto, più attento, meno aperto; lo aveva intuito da tanti discorsi delle sue amiche. Ma lei non riusciva a conciliare una simile personalità con quella di un ragazzo che aveva avuto tante relazioni.

Naturalmente Alexander padroneggiava ancora come un maestro l'arte del flirt, ma conoscendolo lei aveva compreso che quello era solo un gioco per lui. Non era la realtà in cui gli piaceva vivere: come lei, era tranquillo e riflessivo. Gli piaceva parlare e parlare.

Immaginare che lo avesse fatto con altre ragazze con la stessa passione dedicata a lei era un pensiero infelice. Ma almeno un poco, ragionò, doveva essere stato così, visto che lui le aveva detto che lo scopo principale delle sue precedenti relazioni non era stato... l'approfondimento fisico. Poteva credere a una versione simile? Doveva essere edulcorata; non per artifizio, ma per tatto.

Lui si era sporto verso di lei. «Me ne sono stato per conto mio praticamente sempre, tranne che in seconda superiore. Mi è servito a capire che non sapevo cosa volevo.»

In che senso?

Alex la guardò in faccia fino a che non concretizzò un'idea. «Sai che oggi ho incontrato una ragazza con cui sono stato? Proprio l'ultima. Stamattina, prima che arrivassi.»

Le scappò il fiato dal corpo. Un'ex-fidanzata. Quella ragazza alta ed elegante con cui Alex si era scambiato più sorrisi aveva avuto una relazione con lui. Era peggio di quello che aveva immaginato.

Lui stava sorridendo. «È venuta a parlarmi lei perché ce l'aveva con me.»

«... ce l'aveva con te?»

«Perché l'avevo lasciata.»

Ami ritrovò tutto il respiro.

«Sono sempre stato io a rompere tutte le mie precedenti relazioni.»

Non avrebbe potuto dirle qualcosa di più bello nemmeno se ci avesse provato.

Lui la stava ancora guardando, tranquillo. «Rivederla oggi mi ha fatto pensare a quanto tempo è passato. Sono cambiate tante cose.»

Lei non riuscì a resistere. «In meglio?»

«Be', sì. A parte l'aaver imparato cosa significa essere mollato.»

«Oh» si mortificò lei. «Quello...» Era stato uno dei più grandi errori che avesse mai commesso.

«Se mi prometti di non farlo più, ti dico un'altra cosa.»

Detestava avergli dato la necessità di fare di quell'argomento uno scherzo. Se il suo più importante segreto avesse coinvolto solo lei, avrebbe già trovato il coraggio di rivelargli tutto, ormai ne era sicura. «Io non ti lascerò mai più.» Era una promessa che poteva fare, anche se questo non voleva dire che sarebbero rimasti insieme per sempre. Quella era solo una magnifica speranza, una decisione a cui lui sarebbe potuto arrivare solo dopo aver saputo tutto di lei.

Di quei problemi Alexander rimase ignaro. «Volevo questo, Ami.» La indicò con un cenno del mento, quindi, seduto con le gambe da una parte e dall'altra nel muretto, allungò quella sopra la sabbia verso di lei. Riuscì a mettere la scarpa sotto la sua, sollevandole un poco il piede. «Volevo stare bene con qualcuno. Era importante che non fosse un maschio perché c'era già Yamato.»

Le scappò un sorriso.

«Prima di conoscerti avevo cominciato a chiedermi se avrei mai trovato una ragazza così. Sapevo che il problema ero io, ma non avevo intenzione di cambiare.»

Ami prestò attenzione alle ultime parole. «Sei cambiato?»

Lui ci pensò su abbastanza da renderla sicura che la risposta sarebbe stata completa.

«Non proprio. Pensavo di avere difetti che nascevano da quella che si è rivelata essere insoddisfazione. In altre cose mi sono solo... stabilizzato.»

Lei inclinò la testa, cercando chiarezza.

Lui sollevò un sopracciglio. «Ho un brutto carattere?»

Ami fermò il 'no' sulla punta della lingua. A lui sarebbe piaciuta un'opinione più articolata e veritiera. «Con me, mai. Ma... non sei facile.» Per tutti gli altri.

«Volevo dire proprio questo» annuì lui. «Sono passato da antipatico a 'poco facile'. Che progresso, hm?»

Lei gli accarezzò una mano e ne approfittò per prendergli il fazzoletto usato per il panino; lo appallottolò insieme al proprio e lo mise in borsa, dentro il piccolo sacchetto di plastica che si portava dietro per ogni evenienza.

«Previdente» commentò lui. «Sono sicuro che lo eri anche tanti anni fa. Did you ever change

Oh sì. Era una persona che si evolveva per amore. Era cambiata quando aveva conosciuto Usagi e le altre, si era aperta. Ed era cambiata quando aveva perso lui. «Mi hai fatto diventare più coraggiosa.»

Non le era mai mancata la forza per combattere per altri - per un bene superiore - ma per natura aveva desistito dal lottare per ciò che voleva lei, se coinvolgeva altre persone. Il rapporto con la gente la intimidiva: temeva il rifiuto. Temeva il giudizio, anche se aveva imparato a non dargli importanza.

Nel caso di Alexander, aveva avuto una paura folle di quello che gli stava offrendo: tutto quanto, senza alcuna garanzia che lui, un giorno, non avrebbe preso la decisione di porre fine alla loro relazione per validissime ragioni.

Non le importava più. Non aveva più timore di un futuro di sofferenza che poteva diventare realtà.

«Ho preso coraggio e ho combattuto per te.» Fosse solo per avere con lui altri sei mesi, un altro anno o tra quattro e sei anni: tanto era il tempo che mancava alla nascita del nuovo regno terrestre.

«Se tu non mi avessi rivoluta indietro credo... che avrei insistito.» Vergognandosi un poco, abbassò lo sguardo. «Se mi avessi voluto ancora un po' bene, non mi sarei arresa. Ti avrei amato fino a farti provare anche solo un poco di quello che tu mi provocavi-»

«Basta.» Fu una risata debole e strozzata quella con cui lui scivolò in avanti. «Mi stai uccidendo.»

L'abbraccio bastò a farle capire il motivo. «Too sweet

«Sì, non resisto più.» Alexander le sollevò la frangia con una mano e non fece altro che guardarla.

Ami comprese il problema, un difetto meraviglioso. «Sei timido come me?» sussurrò.

«Forse, molto in fondo.»

«Senti che ti sale il calore alla faccia ed è una cosa bella ma non sai assolutamente come gestirla, tanto che entri nel panico?»

«Non entro nel panico.»

Solo perché lei non era tremenda come lui. «Mi hai interrotto.» Ridusse la distanza tra loro andando avanti col bacino, facendo in modo che le gambe non le fossero d'impaccio. Con una mano leggera dietro l'orecchio lo tenne fermo, lo sguardo fisso su di lei.

«Avrei combattuto con tutta me stessa per amarti.»

Le pupille di lui si dilatarono.

«Avrei smesso di essere timida e discreta.» Per un momento, nell'intimità dei loro sussurri, smise di esserlo anche nel presente e fu... liberatorio. «Se avessi visto che ti faceva piacere, anche solo un poco, mi sarei fatta trovare nei posti in cui andavi di solito.» Gli accarezzò la tempia. «Sotto casa tua. Avrei fatto di tutto per rivederti come quando ti sei dichiarato la prima volta. Con quelle parole mi avevi passato da parte a parte proprio qui.»

Lui prese colore sulle guance molto prima di avere la mano posata nel centro del suo petto, dove la mise lei stessa.

«'I love you too'. Dovevo dirtelo, era l'unica cosa che avevo in mente da giorni, lo provavo sin da quando ci siamo baciati. Avrei lottato per avere un'altra occasione di darti la risposta giusta.»

Lui espirò contro la sua bocca. Gliela prese con la propria prima che lei potesse far uscire una sola altra parola.

Si staccò velocemente. «Sono morto, devi ridarmi un po' d'aria.» Le tenne la testa con le mani e le catturò di nuovo l'angolo delle labbra, tentando di inspirarla. «God, sii scrupolosa.» La mangiò di nuovo, deliziosamente. «Intensa.»

Ad occhi chiusi Ami faticò ad annuire; il cuore le sarebbe uscito dal petto tanto batteva forte. Non riusciva a respirare e non voleva.

Gli prese il collo con le mani e, ricambiandolo, riuscì a farlo smettere di blaterare. A fare dichiarazioni incoerenti furono le mani di lui, tutti i baci che lei gli diede, che si fece dare e che cominciarono a essere indistinguibili l'uno dall'altro.

«Che svergognati

Il sussurro distinto fu una doccia gelata.

Ami si voltò e trovò lo sguardo accusatore dell'estranea dallo sguardo cupo che aveva commentato proprio lei e Alexander. L'anziana indignata riprese ad allontanarsi, in braccio i sacchetti della spesa.

Aveva dato della svergognata a... lei?

Morì di vergogna: era praticamente seduta in braccio a-!

Si scostò tanto velocemente da cadere di lato. Sentì la sabbia sotto le ginocchia e pensò di costruire una buca molta profonda.

«Calm down

La risata trattenuta di Alexander non la convinse ad alzarsi. Finì anzi con l'attaccarsi al muretto in cemento, a scrutare la strada di nascosto. «Io...»

«Tu...» Alexander si accucciò accanto a lei, «quando fai una cosa la fai per bene.»

«No, non è-» Ma lo era! Non sapendo se ridere o piangere, ridacchiò in modo ridicolo. Nascose la faccia tra le mani e non trovò neppure la forza per opporsi all'abbraccio di lui.

«Non allontanarmi. Ti sei staccata troppo in fretta, soffro proprio come te.»

Nell'imbarazzo lei riuscì a sorridere per sventure non sue. Quando il corpo di lui cominciò a sussultare, la risata che le uscì dal petto fu piena e genuina.

Ricevette un bacio veloce sulla tempia e tornò a guardarlo.

«I felt loved» le disse Alexander. «Thank you

Grazie per averlo fatto sentire amato? Forse, un giorno, sarebbe stata più audace e capace di non vergognarsi di cose che... che potevano essere molto belle. Per lui, ma anche per lei.

Alexander la tirò piano per un braccio. «Penso che sia ora di andare.»

«Hm?»

«Usagi e il suo ragazzo?»

Oh! «Giusto.» Il pensiero di Usagi la portò a fare un bel respiro e a ricomporsi, tornando in piedi. «Sì, dobbiamo andare.»

       

His Amything.

Era un'espressione che Alexander aveva coniato da un minuto. Amything al posto di 'everything', tutto quanto. La sua Amything, provò a sussurrare. Era perfetto, per la sua testa rendeva l'idea.

Cercò di costringere i muscoli delle guance a portare giù gli angoli della bocca, ma quelli non collaborarono. Anche mentre beveva l'acqua dalla bottiglietta continuò ad avere le labbra congelate in una risata silenziosa. Dovette sporgersi in avanti quando il liquido gli colò giù dal mento. Ridendo, tossì.

Stava rasentando il ridicolo.

Non gliene fregava nulla.

Ami era la sua amything. Guardò la bottiglietta d'acqua. Letteralmente amything, ecco un esempio! Da quando usciva con lei, poteva portarsi l'acqua dietro invece che comprarla in giro. Ami la metteva nella sua piccola borsa portatutto e l'acqua andava in giro assieme a loro. Lei sopperiva a ogni suo bisogno, solo che non poteva creare l'acqua dal nulla e quindi lui doveva andare a comprare la prima bottiglietta.

Metà dei suoi neuroni si erano essicati. Who cares! Amava l'estate! Amava la spiaggia, amava parlare di piscine e costumi da bagno e persino di quando lei lo aveva lasciato.

Socchiuse gli occhi in un ansito di sollievo. Ami era cotta come lui, thank god for that.

«Ho capito, Usako.»

Alexander riprese a bere la sua acqua.

«Sì, Usako» ripeté pazientemente la voce maschile dietro di lui. «Dirò ad Ami che ti dispiace per il ritardo e che non è stata colpa tua se hai rotto la lavatrice di casa e stai cercando di rimediare.»

La menzione del nome di Ami lo fece voltare.

«Posso darti un consiglio?» A parlare al telefono era un ragazzo alto dai capelli neri. «Non toccare niente. Se è uscita l'acqua da sotto e si è allagato il bagno, non sarà stata colpa tua.»

Il tipo stava comprando una bottiglia d'acqua proprio dal chiosco da cui l'aveva presa lui. Allungò una banconota al venditore e attese il resto.

«Vedrai che Ami-chan non penserà che tu sia sciocca e irresponsabile.»

Ami-chan?

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, esasperato. «Non conosco questo Alexander, ma non gli permetterò di pensare male di te. Sì. Sì, te lo prometto.»

Il tipo aveva un nome. La Usako del discorso era Usagi Tsukino, pertanto quello che aveva menzionato il nome di Ami e il suo era ovviamente Mamoru Chiba.

«Usako, se hai finito di asciugare il pavimento non toccare nient'altro, dammi retta. Esci e raggiungici qui, tua madre preferirebbe che non muovessi niente.» Vi fu una pausa. «Va bene, ti aspetterò con loro. A dopo.»

Mamoru Chiba infilò in tasca le monete del resto e chiuse la conversazione al telefono. Incrociò il suo sguardo di sfuggita nel voltarsi e, quando notò che lui non lo spostava, fece una cosa che Alexander non aveva mai visto fare a nessuno nei suoi confronti: sollevò un sopracciglio con noncuranza, senza un briciolo di interesse. Sì? domandava quell'espressione.

Non gli piacque. Non gli piacque soprattutto il ricordo di Ami-chan nella voce di lui.

Cos'era tutta quella confidenza? «Penso di conoscerti.»

Mamoru Chiba attese di sentirlo elaborare con la stessa attenzione che avrebbe riservato a una vecchina che incrociava per strada.

«Sono l'Alexander di cui parlavi con Usagi Tsukino.»

«Ah.» Si manifestò solo allora dell'interesse. Fu come se Chiba lo avesse notato per la prima volta. «Ami Mizuno?»

«Ci sono molte Ami attorno ad Usagi?»

Chiba lo prese per uno scherzo. «Una sola» ammise. Aprì la propria bottiglia d'acqua, tranquillo.

Al polso aveva un orologio dal quadrante nero; dall'insieme creato dalla camicia rosa e dai pantaloni beige - che colori erano? - Alexander ebbe un'unica impressione: quel tipo con Usagi? La serietà di lui si combinava con la follia allegra di lei come la marmellata col peperoncino.

Chiba era... più di ciò che si era aspettato di incontrare: dov'era il ragazzo basso e divertente che faceva solo finta di essere abbastanza serio da studiare alla Todai? Alexander aveva creduto che Mamoru Chiba fosse piaciuto ad Ami proprio perché, nel profondo, era simile ad Usagi, che Ami adorava. Non gli era passato lontanamente per la testa l'idea che Chiba potesse piacere ad Ami perché somigliava... a lui.

«Usagi mi ha parlato molto di te. Parla molto di tutti.» Chiba prese un altro sorso d'acqua. «Ma ti avevo immaginato diverso.»

Condividevano un'impressione allora.

«Conosco Ami da molto tempo e quindi avevo creduto...» lo indicò con un cenno del mento e, guardandolo in faccia, sembrò sorridere del proprio pensiero. «Niente.»

«Molto tempo che ti porta a usare il '-chan'?»

«Hm?»

«Al telefono hai detto Ami-chan

Chiba annuì. «La chiamo come fa Usagi. La conosco quanto lei.» Rifletté. «A modo mio, un po' di più.»

Era in errore. «È un chan amichevole?» Poteva sopportare persino di udire 'fraterno'.

«In che senso?»

«Usagi per te usa il 'chan' con un'altra accezione. In questo senso.»

Chiba mandò giù l'acqua con movimenti lenti della gola. Tenendo le labbra strette, sorrise. «Sei un tipo geloso.»

Alexander scelse di non commentare e attese una risposta.

«Ami è la sorella che avrei voluto avere.» Chiba alzò una mano appiattita all'altezza del petto. «La conosco da quando andava in seconda media ed era un poco più bassa di ora.»

Bene. Se chan era solo questo, ben inteso.

«Ami è nel luogo dell'appuntamento?»

Alexander annuì. Ami si trovava una via più in là, poco lontano.

«Visto che sei in vena di domande dirette, permettine una a me. È una cosa seria?»

«A che titolo lo chiedi?»

«A che titolo mi hai chiesto tu ragione di un nome che uso da anni per una persona a cui tengo e che conosco da prima di te?»

Alexander aprì la bocca e scoprì di avere una risposta pronta solo a metà.

«Ho risposto alla tua domanda. Rispondi alla mia.»

Sarebbe stato come obbedire ad un ordine, ma non rispondere sarebbe parso il capriccio di uno stupido. Fu costretto a scegliere il male minore. «È una cosa seria.»

«Bene.» Chiba avvitò il tappo della sua bottiglia, chiudendola. «Ora smettiamola. Devi essere intelligente se Ami ti ha scelto quindi concorderai con me: abbiamo finito di giocare mettendo in chiaro le cose.»

Che?

«Non ho mire su Ami» sorrise Chiba. «È tanto ridicolo che mi fa ridere. A te ha fatto ridere che ti abbia chiesto se era una cosa seria?»

Il cambio di tono lo lasciò interdetto. «... sì.»

«Ridiamoci su e ricominciamo daccapo allora. Dobbiamo, non sai quello che Usagi dice ad Ami e viceversa. Notano tutto, non può esserci tensione tra noi due.»

Alexander trovò qualcosa da dire. Fu cauto nell'esprimersi. «Se sei solo un amico di Ami... non sei mio amico, ma potresti diventarlo.»

Chiba studiò le sue parole. «Solo un amico. E se tu non vuoi farle del male. io non ho motivo di pensare male di te.» Allungò una mano verso di lui. «Daccapo. Mamoru Chiba.»

Alexander volle dirgli di rallentare, per non sentirsi quello che veniva manipolato. Non gli succedeva mai e quando se ne accorse lo trovò quasi... divertente. «Alexander Foster.» Ricambiò la stretta.

Era stato proprio manipolato: poteva essere interessante avere a che fare con un tipo tanto acuto.

«Mamoru!»

La voce di Ami distrasse entrambi. Lei raggiunse l'angolo della strada in cui si trovavano con una rapida corsa. «Ti ho visto dal fondo, ciao! Usagi?»

«Arriverà con un po' di ritardo.»

Perché aveva rotto la lavatrice, pensò Alexander. Ah, e Chiba eroe coraggioso le aveva promesso di non permettere che un certo Alexander pensasse male di lei. Se Chiba manipolava gli altri, Usagi Tsukino manipolava lui. Ne sorrise e si sentì prendere una mano da Ami.

«Stavate parlando, vi sarete già presentati, ma... questo è Alex.» Lo presentò proprio come se lo stesse mettendo davanti ad un fratello maggiore, in cerca di approvazione.

«L'ho conosciuto.» Chiba guardò solo Ami nell'annuire piano. Se aveva delle riserve, le tenne per sé e con un solo cenno della testa fece felice Ami. Alexander capì di poter apprezzare una persona così.

Chiba gli lanciò un'occhiata divertita. «Parlavo al telefono con Usagi e ti ho chiamato Ami-chan. Lui l'ha sentito e non gli è piaciuto.»

Alexander fu costretto a ricredersi.

Pensò di trovare un sottile rimprovero nello sguardo di Ami. Invece lei era sorpresa. La sua incredulità si sciolse in un sorriso felice mentre gli circondava la vita con un braccio, stringendolo. «Gli piaccio.»

La malcelata soddisfazione lo rallegrò. «È un po' poco dire così.» Le massaggiò la spalla e quasi non riuscì a credere che le avesse fatto piacere sapere che lui se l'era presa per il suffisso confidenziale.

Fu distratto dalla sensazione di uno sguardo su di loro.

Chiba li osservava benevolo: guardava soprattutto Ami e Alexander ebbe l'impressione che avesse cercato di fargli un favore più che un torto.

Well, who cares? Finito quell'appuntamento a quattro, avrebbe passato il resto della serata con Ami.

He was an happy man.

Absolutely.


Alcune traduzioni

witty = spiritoso, arguto.

You are an ass! = è un insulto mezzo slang. Secondo questo link la traduzione è 'stupido, ostinato o perverso'. Qui è usato soprattutto nella prima accezione, virando un pochino verso il volgare :)

Who cares? = Chi se ne importa!

   

NdA: da 20 KB che pensavo di scrivere ne ho buttati giù 60 :D Capitolo lungo, ma trovavo necessario ogni pezzo. Spero che lo sia sembrato anche in fase di lettura, l'ispirazione ha fatto i salti mortali per venirsene fuori con qualcosa che legasse bene e in modo interessante tutti i pezzi del capitolo :)

Alla prossima!

ellephedre

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Capitolo 11
*** Scene - Giugno ***


Acqua viva scene - Luglio

Acqua viva

 

Autore: ellephedre

   

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.


Giugno

     

Raramente Alexander aveva visto Ami tanto animata.

«Questa è la stradina giusta! Ormai dovrebbe mancare poco al lago.»

Si trovavano in campagna, partiti quella mattina da Tokyo per incontrare il padre di lei. Ami stringeva tra le mani un disegno abbozzato su un foglio d'agenda, improvvisato alla buona dall’ultimo contadino che avevano incontrato - un uomo che vedeva Koji Mizuno passare da quelle parti durante le mattine di bel tempo. Il contadino non sapeva dove andava il padre di Ami, ma aveva visto a cosa stava lavorando.

Alexander era sorpreso dalla poca organizzazione della gita. La sua ragazza di solito amava pianificare i dettagli. Chiedeva una sicurezza di orari e percorsi da seguire. Quella volta invece procedevano allo sbaraglio, per di più con allegria.

Pareva che Koji Mizuno stesse dipingendo un’ansa del lago. Non possedeva un telefono, perciò per trovarlo dovevano camminare in un raggio di circa un chilometro e stabilire se il bozzetto del dipinto che Ami teneva in mano corrispondeva alla vista che avevano del luogo. Quando immagine e scenario fossero coincisi, avrebbero incontrato Mizuno-san.

Invece di trovarlo frustrante, lei era estasiata all’idea di quel gioco. Normalmente sarebbe stata paziente con una persona che si fosse resa tanto difficile da reperire, ma non avrebbe accumulato scuse per quell’atteggiamento.

«Papà è fatto così.»

«È normale per lui dare indicazioni vaghe, ha sempre la testa in un dipinto. Deve concentrarsi.»

«È vero che non ha assicurato di esserci, ma se la luce cambia deve spostarsi. Noi proviamo a partire in un giorno di sole.»

Ami aveva detto al signor Mizuno che sarebbe andata a trovarlo; da quel che Alexander sapeva, i due non si vedevano da più di otto mesi. Eppure il signor Mizuno non si stava sforzando di farsi trovare in un posto preciso, ad un’ora precisa, nell’unico momento dell’anno in cui poteva incontrare sua figlia. Era come se non gli importasse.

Ami non la pensava in quel modo.

«Vi vedete poco» aveva commentato Alexander.

«Un incontro vale per cento. Ogni volta che ci ritroviamo sento una grande pace dentro di me. Ci capiamo senza parlare.»

Per non rompere quella serenità, lui aveva evitato altre domande. Voleva capire quella connessione. Voleva comprendere come Ami fosse in grado di accettare con tranquillità una tale lontananza.

Io non riuscirei a starti lontano per così tanto tempo.

«Guarda!» Lei alzò la mano verso un punto lontano della costa. «Quello dev’essere lui.»

A qualche centinaio di metri da loro, non lontano dalla riva, si intravedeva la sagoma minuscola di una figura umana.

In Ami era nata una scintilla di ansia mista ad aspettativa. «Spero che papà ti piaccia. Per me è importante.»

Lui non l’aveva mai sentita esprimere una speranza del genere con tanto intento, nemmeno quando si era incontrato con sua madre. Ami in genere stava in silenzio su quello che provava, non chiedeva mai. Ora lo stava pregando di accettare una parte di lei.

Lui aveva delle riserve su Koji Mizuno, per il fatto che fosse un padre assente, ma non poteva sapere tutto su quell’uomo. Forse avrebbe trovato un genitore protettivo che lo avrebbe giudicato come ragazzo di sua figlia. Era pronto ad affrontare l’esame.

Io amo Ami. Non temo nulla.

Involontariamente, era anche il più rispettoso dei fidanzati: Ami e l’intimità fisica erano ancora due concetti separati nella sua testa, non per sua volontà.

Era quasi tentato di parlarne al padre di Ami, se si fosse caduti nell’argomento. Provava una sorta di fierezza nascosta per la lunga attesa che viveva senza eccessive sofferenze.

No, signore, non ho fatto niente di sconveniente con sua figlia. La rispetto.

Avrebbe potuto dirlo ad alta voce, anche se nei suoi pensieri lui ed Ami erano tutt’altro che casti. D’altronde la fantasia era territorio privo di colpe.

«Perché stai sorridendo?»

La domanda lo fece tornare serio. «Niente. Non mi hai descritto tuo padre. Com’è?»

Lei rise piano. «Ma ormai siamo qui. Comunque non mi somiglia molto, se è quello che stai chiedendo. A me piace pensare di avere i suoi occhi profondi. Quando sogno, ho la sua mente.»

Se era davvero così, lui avrebbe trovato qualcosa da apprezzare anche nel signor Mizuno.

«Papà!» Ami accelerò bruscamente il passo.

Da una trentina di metri di distanza, Mizuno-san sollevò lo sguardo e allontanò il pennello dalla tela. Sotto il cappello di paglia, il volto abbronzato si distese in un sorriso pacato mentre attendeva l'arrivo di sua figlia.

Non le stava andando incontro, notò Alexander.

Ami raggiunse suo padre. Si frenò da un abbraccio, limitandosi a stargli di fronte, le mani unite davanti al petto per l’emozione. Amava quell’uomo, ma non era in confidenza con lui.

Alexander si unì a loro con calma. Il signor Mizuno era alto poco più di un metro e settanta, con un viso giovanile che non tradiva preoccupazioni. I capelli erano screziati di bianco, lunghi fin sotto le orecchie - una pettinatura noncurante che gli ricordava quella di Ami.

Sentendolo aarrivare alle loro spalle, Ami si allungò a prendergli una mano. «Papà, lui è Alexander. L’ho portato qui per fartelo conoscere.»

Koji Mizuno gli dedicò un’occhiata semplice, priva di giudizi - quasi senza interesse. «Piacere.» Si concentrò di nuovo su Ami e solo in quel momento, guardandola meglio, comprese. «È una cosa seria.»

Ami arrossì, annuendo.

«Sono contento. Vuol dire che stai crescendo.»

Non era un padre che supervisionava, comprese Alexander, ma un uomo che lasciava che sua figlia esistesse, rallegrandosi delle sue scelte.

D’altronde, pensò, non poteva esserci supervisione senza vicinanza.

Ritrovò gli occhi di Mizuno-san su di sé.

«Tento di riprodurre i colori di queste giornate. Sedetevi qui vicino se volete, o fate un passeggiata. Più tardi pranziamo insieme.»

Ami fu pronta nella risposta. «Ci sediamo là dietro.» Prese Alexander per mano e lo portò lontano, verso la curva di una collina, camminando piano. «Da lì potremo vedere come lavora» bisbigliò.

Più che di una persona, sembrava che parlassero di un quadro, inavvicinabile nella propria arte.

Ami giudicò che fossero abbastanza distanti. «Qui.»

Aspettando di comprendere, Alexander si sedette sul manto erboso in pendenza mentre lei tirava fuori una tovaglia ben piegata dallo zaino. La dispiegò in aria, lasciando che si adagiasse al suolo.

«Ti era preparata.» Come se suo padre l'avesse abituata all'attesa mentre terminava di lavorare. 

«Di solito mi sdraio a guardare il cielo.» Ami gli mostrò le cuffie del minidisc, indicando che di sottofondo aveva la musica. «Di tanto in tanto provo a percepire quello che sta vedendo lui. I quadri di papà sono apprezzati per come coglie l'essenza della natura e la riproduce su tela.»

Aveva fatto attenzione a non alzare la voce. Non voleva disturbare. Nonostante il trattamento riservatole da suo padre, non era nervosa né infelice.

Lui tenne per sé le proprie perplessità. «Riposiamo e ascoltiamo la musica, allora. Sdraiati nel mio braccio, ti faccio da cuscino.»

Accogliendo il suggerimento, lei divise tra loro le cuffie. Al suono di un motivo strumentale, distesa al suo fianco, si godette la vista del padre che lavorava.

   

«Quando hanno divorziato?»

«Avevo meno di un anno.»

Nella stanza di Alexander, qualche settimana prima, lo sguardo di Ami si era posato sulla pagina bianca di un quaderno.

«Non so perché abbiano deciso per un matrimonio. Sono così diversi. Papà è un sognatore, mamma è concreta. Hanno vissuto insieme per meno di due mesi prima di separarsi.»

Lui aveva atteso che Ami scegliesse se continuare a raccontare.

«All’inizio era solo un modo per litigare di meno e vivere la vita che si confaceva meglio a entrambi. È quello che mi ha raccontato mamma. Lei studiava ancora e voleva dedicarsi anima e corpo alla medicina prima che io nascessi. Papà bramava di iniziare un nuovo quadro, anche se allora non ne aveva ancora venduto nessuno. Era inquieto, non poteva stare chiuso dentro quattro mura. La sua famiglia… Non so se lui abbia ancora contatti con loro. Non aveva fratelli, solo dei genitori. Ha abbandonato il loro cognome quando si è sposato con mia madre. Lei non li ha conosciuti.»

La signora Mizuno proveniva da una famiglia comune, aveva pensato Alexander, che non era rinomata o ricca a sufficienza da portare un uomo a cambiare il proprio cognome per il suo. Da parte del padre di Ami una simile scelta suonava come un rifiuto delle proprie origini.

«Presto i miei genitori hanno capito che non volevano tornare a vivere insieme. Sposarsi era stato uno sbaglio. Non ha funzionato, ma mamma non prova risentimento verso di lui. Ancora oggi non lo capisce.» Le era uscito un breve sorriso. «Per me è diverso. Sai, papà è stato il primo a mettermi in mano una matita.» Mimò un disegno sul foglio. «Quando ero piccola veniva a trovarmi più di frequente. Disegnava vicino a me e io imparavo.»

Il suo sguardo era volato al cielo fuori dalla finestra.

«Con lui la mia fantasia acquisiva le ali. Ricordo che all’asilo non disegnavo forme, bensì righe e curve colorate. Nella mia testa erano fiumi, nuvole. Mi piaceva che le tonalità fossero armoniose come le vedevo nella realtà, quando papà mi portava nel parco vicino a casa.»

Ami aveva sospirato, nostalgica.

«Man mano che crescevo le sue visite si sono diradate. Gli facevo tante domande. Stavo diventando più logica e chiara nei miei ragionamenti. Una volta lui mi ha detto che volevo rinchiudere tutto in un quadrato. È l’unica critica che mi abbia mai fatto. Mi ha chiesto subito scusa.»

Da come ne parlava, quell'episodio lontano per lei era un momento di dolcezza.

«Ti manca?» le aveva domandato lui.

Trattenendo la risposta pronta sulla labbra, lei aveva cambiato idea su cosa dire.

«Non lo so. Papà è la parte poetica di me. È sempre con me. Però… A volte mi domando come sarebbe stato averlo in casa e poterlo conoscere di più.» Era diventata triste per la prima volta. «Penso che avrebbe avuto altre critiche per me. Siamo diversi, non è colpa di nessuno.»

Alexander aveva sentito di dover intervenire. «Tu non sei sbagliata.»

«Lo so. Quell’unica volta che lui mi ha chiesto scusa… Gli era dispiaciuto darmi contro. Non voleva farmi del male nemmeno in una maniera piccola, per questo non ha mai più detto nulla di simile.»

Poi si era allontanato, aveva pensato Alexander.

Aveva portato una mano tra i capelli di Ami e l'aveva accarezzata, consolandola.

   

Quando Koji Mizuno terminò il proprio lavoro, intorno alle una del pomeriggio, Alexander aveva fame almeno da mezz’ora, ma Ami non aveva detto una parola sul pranzo e lui aveva aspettato. Vide il momento in cui il padre di Ami fissò lo sguardo sul cielo, sbatté le palpebre come risvegliandosi e si voltò verso di loro.

Ami si alzò prontamente. «Ti è venuta fame?»

Mizuno-san iniziò a sistemare la propria attrezzatura. «Vi ho fatto aspettare.»

«Non volevamo disturbarti.»

Alexander sperò che non si sentisse il suo stomaco che brontolava.

«Ho portato dei panini» offrì Ami, avvicinandosi a Mizuno-san.

Incredulo, Alexander lanciò un'occhiata vorace al suo zaino.

Koji Mizuno controllava la stabilità del cavalletto. «Andiamo invece da Daito-san. Forse ha altro cibo.»

Ami si illuminò. «Grazie.»

Alexander non capì. È come se ti avesse detto che non vuole i panini che gli hai preparato.

Confuso, seguì i due mentre si incamminavano verso Daito-san - probabilmente il contadino con cui avevano parlato quella mattina.

«Che cosa studi?»

Si accorse con qualche secondo di ritardo che la domanda era rivolta a lui. «Ah… Fisica.»

Ebbe l’approvazione di Mizuno-san. «Uguale a sua madre.»

Eh?

Ami si divertì. «Intende dire che io sono uguale a mamma. Perché ho scelto una persona che ama la scienza, come lei e me.»

Mizuno confermò con un cenno del capo. «Caratteri uguali, lunga durata.»

Ami annuì. Seguiva facilmente quel discorso frammentato.

«Stiamo insieme dallo scorso anno» disse a suo padre.

«Niente decisioni avventate?»

«No.»

«Non come me. Bene.»

C’era dell’affetto nella voce di Mizuno-san, ma il suo grado di coinvolgimento nella conversazione era difficile da determinare.

Ami allungò il passo di poco, per guardare in volto suo padre.

«Io e Alex giochiamo a scacchi insieme. Studiamo formule matematiche. Leggiamo.»

Parole che riempirono gli occhi di Koji Mizuno di tranquillità.

«Niente dipinti?»

Ami sorrise, quasi pentita. «Lui non è molto artistico.»

«Per niente» contribuì Alexander.

Per la prima volta Mizuno-san rimase perplesso, ma Ami si affrettò a correggersi. «Alex sogna di andare nello spazio.»

Veramente lui non desiderava esattamente fare l’astronauta, ma...

«Vuole indagare l’impossibile che ci circonda» proseguì lei.

Stava tentando di rendere poetici i suoi propositi.

«Ti capisce?» domandò suo padre.

Alexander sentì di non essere nemmeno presente vicino a loro due, ignorato.

«In tutto» rispose Ami.

Mizuno-san sospirò piano. «La libertà dell’anima è importante.»

«Non la ingabbio mai, papà.»

Non dissero più niente.

     

Giunti a destinazione, pranzarono all'aria aperta, su un tavolo di pietra.

Ami sorrideva. «Di solito con papà mangiamo al sacco, dove capita.»

Mizuno-san annuì. «Ma oggi c'era un'altra persona.»

Alexander finalmente capì perché Ami aveva ringraziato, prima. Il padre di lei aveva fatto dei cambiamenti per metterlo a suo agio.

Il contadino, Daito-san, si fermò accanto a loro con tre piatti di minestra.

«Mizuno-san sa che qui da me si è sempre fortunati!» Rise. «La mia signora cucina in abbondanza!»

Il padre di Ami ringraziò con un cenno del capo. «Mi invitano alla loro tavola.»

«Ogni volta che lo vediamo! Fa pena vederlo da solo, la sera, mentre cammina verso quella capanna che ha affittato.»

«Ho del cibo in scatola.»

«Quella non è una vera cena! Gli dico sempre di non fare complimenti, ma lui ha la testa per aria! Passa di qui e si dimentica di chiamarci!»

Ami sorrise. Quel racconto le piaceva. «Grazie per prendervi cura di lui.»

«Bisogna essere gentili! Scusate se non possiamo offrirvi di più.»

«È già troppo» affermò lei. «Il cibo è ottimo. Ancora grazie infinite.»

Il contadino li lasciò.

Mizuno-san guardava sua figlia con attenzione.

Lei si rannicchiò nelle spalle. «Sono diventata più socievole. La vicinanza di Alexander e delle mie amiche mi fa bene.»

Suo padre prese in mano il cucchiaio. «È giusto stare tra le persone.» Non iniziò a mangiare e si rivolse a lui. «Io mi sono isolato. Non parlo in maniera normale, me ne rendo conto. Tendo a perdermi nella mia testa.»

Non era un discorso che ad Ami piaceva. «Non parlare così di te stesso.»

«Lo hai portato qui per conoscermi. Ciò che sono non si deve riflettere su di te.»

Lei stava per rispondere, ma Alexander intervenì. «Conosco bene Ami.» Non avrebbe cambiato idea su di lei.

Mizuno-san annuì. «Ami è molto più simile a sua madre.» Nella sua bocca era un complimento. «Guarda Saeko per sapere come diventerà.»

Ami era contrariata. «Sono parte di tutti e due. Mangiamo.»

Per non contraddirla, Alexander non continuò quel discorso e così fece suo padre.

Pochi momenti dopo era di nuovo tornata la pace tra lei e Mizuno-san; Alexander lo capì quando i due si trovarono con uno sguardo.

Ami riprese a parlare. Normalmente era la persona che ascoltava in una conversazione, ma durante quel pranzo fu protagonista. Raccontò a suo padre tutto quello che le veniva in mente di sé.

«Mi sto preparando per l'esame di ammissione all'università.»

«L'altro giorno mi è tornata la voglia di scrivere poesie.»

«Nel mini-disc ho questa musica che Alexander mi ha fatto conoscere. È la mia passione di questi giorni.»

«Con Rei ora è più difficile incontrarci: ha trovato un ragazzo da poco. Ricordi l'aiutante del tempio?»

«Usagi mi ha invitato a provare un nuovo gusto di gelato. Io sono sempre abitudinaria. Alexander no, ma lui è quello che mi invita a provare nuovi cibi nei ristoranti.»

«Non sto pensando a un lavoro per quest'anno. La mia amica Makoto ne ha in mente già uno invece, ma solo dopo che finirà la scuola.»

«Questi vestiti li ho scelti con Minako. La prossima settimana usciamo di nuovo e questa volta speriamo di coinvolgere anche Rei.»

Erano discorsi particolari per lei, poiché non citava le sue passioni per la matemica o la medicina, concetti che normalmente affollavano la sua mente. Alexander non aveva l'impressione che lei si stesse censurando. Piuttosto, Ami presentava a suo padre un lato più leggero di sé. Davanti a lui era come una bambina entusiasta.

«Sei più felice dell'ultima volta» disse Mizuno-san d'improvviso, interrompendola.

Lei si chetò. «Sì.»

Il signor Mizuno aveva terminato di mangiare. Andò ad aprire una cartelletta che si era portato dietro. «Mi hai ricordato questo.»

Ami allungò la testa.

«Lo hai disegnato quando avevi quattro anni.» Fece vedere loro un foglio, schizzi di colore. «Usavi tanto giallo e rosa. Il blu per gli alberi, perché dalla tua prospettiva stavano nel cielo.»

Ami era senza parole.

Suo padre guardò di nuovo il disegno. «Poi hai iniziato a riprodurre fedelmente la realtà, ma qui, come allora, stai di nuovo dando alla tua vita i colori che più desideri.»

«... lo hai tenuto.»

Raramente Alexander aveva sentito tanta commozione nelle sue parole.

«Me lo hai dato tu» rispose Mizuno-san, a mo' di spiegazione.

Sotto il tavolo Alexander cercò la mano di lei. Ami gliela strinse forte, aggrappandosi a lui. 

«Sono contenta.»

   

Di sera, mentre tornavano a Tokyo, Ami era silenziosa, come se fosse ancora sdraiata sulla collina alle pendici del lago.

«Ti vuole bene» le disse lui, portandola a chiudere gli occhi contro il finestrino del treno.

«Sì.»

La lasciò riposare.

Alcuni minuti dopo, Ami uscì dal proprio sogno solo per guardarlo. «Non so se è possibile capirlo, ma a me questo basta. Anche se non lo vedo per mesi e non sento mai la sua voce, papà mi porta con sé e io ho il suo animo con me. Ho preso la mia timidezza da lui.» Sorrise. «I miei imbarazzi, le insicurezze. La sensazione di non... appartenere. Quando lo incontro ci troviamo in un mondo nostro. E mi ricordo da dove sono venuta.»

Alexander poteva vederlo e capirlo. Ancora non gli piaceva che Ami ritenesse di poter avere la felicità di quel giorno solo occasionalmente, ma se lei non ne soffriva...

«Eri in pensiero per me» commentò lei.

«Hm?»

«Per oggi che avrei incontrato mio padre. Temevi che fosse una persona fredda.»

Be', il loro non era stato esattamente un incontro caloroso.

La sua ragazza sorrideva. «Non preoccuparti. È stato il padre migliore che poteva essere per me. Va bene così.» Gli chiese la mano e Alexander gliela diede. «Ricevo affetto quotidiano da molte altre parti.»

«Ora si chiama solo affetto?»

Lei  rise. «Vedi? Ti ho incontrato. Ora è tutto a posto per me.»

Lui non ebbe bisogno di sentirle dire altro.

 

Giugno - FINE

 


   

NdA: era da molto tempo che volevo scrivere una storia su Ami e suo padre. Spero di aver reso quello che volevo, ovvero l'impatto silenzioso ma importantissimo che l'assenza/presenza implicita di questa figura ha avuto sulla vita di lei.

Nelle storie che sto scrivendo ora nella raccolta 'Per istinto e pensiero' Ami inizia a dover prendere delle decisioni fondamentali per la sua vita. Questo capitolo, per quanto lontano nel tempo da quegli avvenimenti, potrà aiutare a dare un quadro più completo del suo atteggiamento e della persona che è Ami Mizuno nelle mie storie.

Grazie di aver letto, un vostro commento sarà sempre gradito :)

Elle

Il gruppo Facebook dedicato alle mie storie, dove posto link e anticipazioni è Sailor Moon, Verso l'alba e oltre...

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Capitolo 12
*** Scene - Settembre/1 ***


acqua viva Note:
Non ho saltato i mesi tra Maggio e Settembre, li scriverò dopo :)
Ringrazio Garth Herzog per l'idea di base di questo episodio; me la diede per la raccolta 'Imagining', ma si adattava ad essere inserita in Acqua viva, per cui eccola!
Note sulle traduzioni
sap = slang per 'sdolcinato', 'smielato'
needy = bisognoso, in questo testo con accezione negativo
weak = debole
that's it = 'ecco', oppure, 'tutto qui'
that's good = 'bene'
explain yourself = 'spiegati'

Acqua viva

Autore: ellephedre

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.

Settembre/1



Diciotto anni.
Non sono settembre
Non sono estate
Sono giorni come altri
L'mmaginazione di adesso
Voltarmi e sapere
che mi sto pensando.

Pensieri di una ragazzina impressi su carta.
Ami accarezzò la pagina ruvida. Aveva intitolato il quaderno 'Poesie': sui fogli aveva riportato con cura tutte le parole a cui negli anni aveva dato una forma degna. Erano pensieri sparsi, scampoli di lunghe giornate trascorse a studiare. 
Quattordici anni e riflettere su un futuro distante trecentosessantacinque giorni per quattro.
Sorrise.
A quel tempo si era immaginata di diventare grande, matura... diversa, perché no. Ovviamente diretta senza stop verso un cammino universitario, ma forse circondata da persone nuove. La giovane Ami pre-Usagi, pre-Sailor, pre-Alexander, aveva coltivato fantasie modeste: avere accanto una vera amica - non aveva creduto di essere tipo da gruppo - e, chissà, riuscire a incontrare un ragazzo speciale, che l'avrebbe compresa senza metterla in discussione.
Con Alexander era cascata male.
Lasciò scorrere velocemente le pagine contro il pollice, il leggero solletico un riflesso del tempo trascorso.
La prima poesia del quaderno era datata ottobre 1990. L'aveva scritta a dodici anni.
Rileggersi, pensò, era come ricordarsi e permettere ad altre Ami di rivivere. La Ami del sesto anno delle elementari, per esempio: una bambina convinta di non avere pari in intelligenza. Oppure la Ami della prima media, che si era scoperta sola per scelta altrui. Ami quattordicenne aveva scelto di ribellarsi silenziosamente a logiche sociali che non comprendeva, convincendosi di poter andare avanti senza amici: era bastato l'incontro con due code bionde a farle cambiare idea.
Ami quindicenne era serena, scriveva ascoltando melodie che trasparivano dalle rime dei suoi versi.
Ami sedicenne era spigliata. Protetta dalle sue amiche, si era avventurata con la testa fuori dal proprio mondo fatto di libri, convinta di poter essere vivace e spensierata come qualunque altra ragazza.
Ami diciassettenne era stata inquieta, da principio. Aveva accettato le proprie peculiarità e si era convinta che nulla l'avrebbe divertita come discorrere di un libro, per quanto Minako sostenesse il contrario. Ne era derivato un senso di abbandono indefinito: le sue amiche, che pure amava, non erano state più sufficienti a completarla.
Non aveva avuto il tempo di mettersi alla ricerca di una risposta. Alexander era arrivato senza preavviso e non aveva avuto pietà: l'aveva costretta ad uscire dal suo guscio e a rischiare per lui.
Posò il palmo aperto sulla pagina con gli ultimi versi che aveva scritto.
Erano solo tre parole.

Tu.
Per me.

Un'ode senza tempo. In qualunque momento, lui, per lei. La sua presenza, quello che faceva, come le stava accanto, la sua sola esistenza.
Tu, per me. Non voleva racchiuderlo neppure in un foglio, voleva solo provarlo e dirglielo a brevissimo, quella stessa mattina, nel giorno in cui compiva gli anni. Perché Ami diciottenne era felice, tanto da non desiderare parole.
Anche se, sospirò, era un pochino triste.
Alexander sarebbe partito il giorno successivo, per una vacanza di tre settimane. Il viaggio lo avrebbe portato a fare tappa a Londra - un paio di giorni, il tempo di rivedere nonna Foster - e poi... via, in giro per l'Europa. Forse in Norvegia, le aveva lui detto all'inizio, ma l'aveva vista rimirare le immagini dei fiordi scandinavi e aveva cambiato i propri piani.
Infilò il dito in una pagina a caso del quaderno e si ritrovò tra le mani, sotto gli occhi, le paure di Ami quattordicenne.
Parlava di mostri - le sue poesie più cupe - e di perdita. Qualunque timore avesse avuto a quel tempo, lo aveva riversato su carta, non sulle sue compagne.
Tra le righe, qualche pagina dopo, compariva una nota di speranza.

Tenero,
mi corteggia timido
.

Ryo Urawa, ricordò.
Insieme erano stati spaventati ma coraggiosi, più grandi dei loro anni e piccoli quanto allora non erano stati in grado di capire. In lei le certezze erano state poche: i timori dovevano rimanere sepolti e nessuno doveva morire; il sacrificio a cui era stato intenzionato Urawa, con la sua mite e spavalda arrendevolezza, l'aveva turbata. Si sarebbe comportata nello stesso modo al suo posto, ma a lui aveva dovuto fare forza.
Insieme avevano affrontato le loro paure. Insieme, un concetto chiave per lei: aveva voluto sinceramente bene a Ryo Urawa, che le era stato così simile. Per lo stesso motivo, lo aveva dimenticato con serenità, forse troppo in fretta. Non era rimasta la Ami di quei giorni, timida, esitante, nel profondo insicura. Aveva desiderato... uscire. Cambiare. Piano piano, coi suoi tempi.
Urawa se n'era andato con la Ami che in un giorno d'inverno aveva salutato la vita, partendo con le sue compagne per il Polo Nord.
Quella Ami era morta, in un certo senso.
Non pensando più a quei giorni lei aveva lasciato dietro di sé anche il senso di fallimento e solitudine - orribile - che l'aveva accompagnata nei suoi ultimi momenti di battaglia, prima di spegnersi.
Sacrificandomi faccio la cosa giusta, amo le mie amiche. Sono quella che, tra tutte, ha meno da perdere. In fondo della mia vita non ho fatto quasi niente.
Parole che non aveva scritto, ma il pensiero lo ricordava quasi a memoria. La morte era crudele nella sua sincerità.
Invece, sorrise, lei era stata crudele con Urawa.
Che cosa stava facendo lui ora?
Accarezzò la pagina. Sei cresciuto anche tu? Sei riuscito a vivere la tua vita nel presente, dimenticandoti di futuro e passato?
Un'ombra oscurò il suo quaderno.
Lei capì chi era prima di alzare gli occhi. Fu un presentimento, una sensazione.
Lui parlò. «Sempre china su un libro... Ami-san.»
Con le mani infilate nelle tasche Urawa sollevò le spalle, cercando di affossare insieme affetto e imbarazzo.
Il suo viso si era fatto meno tondo, le sue spalle un po' più larghe. Era cresciuto in altezza, non molto, ma standole davanti si presentò solamente come il ragazzino che era stato un tempo: il giovane possessore di un cristallo dell'arcobaleno, tormentato e solo, che ce l'aveva fatta.
In lei si colmò un vuoto appena creato. «Stavo pensando... a te.» La contentezza le bloccò il respiro. Si alzò in piedi e sentì formicolare le braccia: voleva abbracciarlo per essere ancora lo stesso di un tempo, per quanto stava bene.
«So che mi pensavi» annuì piano Urawa.
«Per questo ti ho trovata qui.»
Man mano che rimaneva visibile davanti a lei sembrava sempre più reale, ma il significato delle sue parole fu sufficiente ad adombrarla. «Usi ancora i tuoi poteri.»
«No, non... Solo adesso. Per rivederti. Sono a Tokyo per... Sono passati tanti anni, ma mi faceva veramente piacere l'idea di rivederti. Vedere come...» Soffocò un sorriso timido. «Non conosco il tuo presente, Ami-san. Non ho mai più guardato nel futuro di nessuno, nemmeno nel mio. Tutto quello che so davvero di te da quattro anni a questa parte è quello che vedo adesso e... sono contento.» Riuscì a trasmettere solo gioia. «Splendi. Con una forza come la tua, non potevi diventare nulla di meno.»
Lei non seppe perché, ma scoppiò a ridere. «Ryo!» Gli avvolse quaderno e braccia attorno alle spalle, ridendo ancora. «Siamo amici, quante cose abbiamo passato noi due.» Niente imbarazzi. Gli diede due pacche sulla schiena. Forza forza, a entrambi. Non era tempo di commuoversi, non potevano essere sciocchi come bambini. «Sono contenta anche io di rivederti.» Lo invitò a sedere accanto a lei, nella panchina della piazza. «Parlami di te.»
Finalmente sciolto, Ryo cominciò a splendere a sua volta.
«Mi sono trasferito prima a...»



Per il compleanno di Ami, Alexander si sentiva al contempo felice e in colpa. Felice, perché era il compleanno di lei. Aveva una scusa per costringerla a festeggiare senza freni.
In colpa... Sarebbe partito il giorno seguente. Per tre settimane, per nessuna ragione che fosse seria. Si trattava di una semplice vacanza. Era stato testardo: aveva scelto consapevolmente di andare in vacanza e di andarci senza Ami. Lei aveva deciso di non venire con lui - non aveva mai accennato all'ipotesi di potersi unire al suo viaggio - e lui... Quando aveva seriamente cominciato a riflettere sull'opportunità di non partire, la sua relazione con Ami lo aveva messo per la prima volta a disagio.
Per quale motivo, si era chiesto, non poteva sentirsi libero di andare via per sole tre settimane? Era incapace di starle lontano? Era convinto che in quelle tre settimane sarebbe successo qualcosa, che al suo ritorno Ami avrebbe improvvisamente... cosa? Cambiato idea su di loro?
Ridicolo.
Aveva diritto di partire nella vacanza che si concedeva tutti gli anni. Ami non stava neppure cercando di impedirglielo, era solo lui a farsi problemi. A lei non sembrava dispiacere troppo l'idea di una sua lontananza. Ami tendeva sempre a non volergli dare pensieri, era privi di egoismi, ma a lui pretese del genere avrebbero fatto piacere. Lo avrebbe reso felice sentirle dire 'Resta!' o vederla chiedere, con convinzione, 'Non andare lontano da me'.
Le avrebbe detto di sì in un istante, avrebbe fatto tutto quello che voleva lei e, a volte - solo a volte - gli sembrava di essere... il solo. L'unico che temeva di staccarsi, l'unico che voleva essere completamente coinvolto.
Nove mesi di relazione.
Capiva sempre meno il bisogno di distanza fisica che per lei era come un dogma: non potevano fare altro che baciarsi perché... sì? Non esisteva una ragione valida ed Ami nemmeno aveva pensato ad una spiegazione - per se stessa, sicuramente, e di conseguenza neppure per lui.
Lui non aveva trovato indispensabile averne una: aveva pensato che lei era fatta così e che con pazienza, piano piano, la situazione si sarebbe evoluta da sé.
Lo credeva ancora. Ci avrebbe sperato sino a quella fine che non voleva nemmeno concepire.
Adesso che stava per andare via, ora che per la prima volta si stavano separando davvero e che sarebbero stati lontani persino dalla possibilità di sentirsi al telefono, per non avere altri dubbi lui avrebbe voluto solo poche parole.
'Mi mancherai'.
Almeno questo. Almeno un segno che... non era il solo.
Strinse nelle mani la scatoletta che conteneva il regalo di lei.
Era andato oltre la benevola definizione di 'sap'. Stava diventando 'needy'. E debole.
Andare via gli avrebbe fatto bene.
Al ritorno, dopo tre settimane di lontananza che non erano una tragedia né tantomeno degne di nota, sarebbe tornato indietro e avrebbe visto che era rimasto tutto come prima. Sia loro due che Ami, che lo avrebbe accolto a braccia aperte.
Ne era sicuro, solo che...
Solo che, sospirò, scuotendo la testa.
Il problema era dentro di lui. Viaggiando si sarebbe fatto sparire quei dubbi e sarebbe tornato indietro più forte di prima. Come Ami. In quella situazione, in fondo, a comportarsi da adulta era proprio lei.
«Alexander!»
Si fermò in mezzo al marciapiede e cercò dietro di sé. Impiegò un momento a capire quale ragazza potesse chiamarlo per nome senza essere Ami: aveva quattro possibilità e fece il collegamento un attimo prima di intravedere una lunga massa di capelli biondi.
Squadrò la mano alta di lei alzando le sopracciglia. «Minako» annuì.
Minako Aino interruppe la propria corsa a due metri da lui. «Hello
«Hello.»
Una risata lo interruppe dal continuare.
Aino aveva un modo singolare di ridere: se il suono non fosse stato tanto musicale, sarebbe stato apertamente fastidioso.
«Ahh, che fortuna essere arrivata in tempo per beccarti! Ami mi ha chiamato per dirmi che arriverà al vostro appuntamento con un'oretta di ritardo.»
In ritardo. Perché?
«Ha avuto una piccola emergenza.»
«Quale emergenza?»
«Non me l'ha detto, forse si tratta di vestiti. Da brava amica disimpicciona, non gliel'ho chiesto.»
Da quando non era impicciona? Scosse la testa ed evitò anche il commento sul vocabolo sbagliato. «Perché non ha chiamato direttamente me? Ho il telefono.»
Minako scrollò le spalle. «Stava per farlo. Sono stata io a chiamarla a casa, per chiederle lumi sul suo regalo di compleanno. Non gliel'ho ancora comprato!» Si mangiò un labbro. «Le stavo parlando di questo problema e lei mi viene a dire che purtroppo è in ritardo e non ha tempo. Voleva chiamarti, ma io mi trovavo già in zona, era inutile. Potevo parlarti di persona, no? Meglio anzi! Posso tenerti compagnia mentre aspetti.»
La ringraziava sentitamente per il proposito, ma no.
«Ami ha pensato subito fosse una buona idea, così ha risparmiato anche sulla chiamata a te.»
Ami era in ritardo - una delle primissime volte, per di più nel giorno del suo compleanno - e non lo aveva chiamato per... risparmiare?
Doveva esserci una spiegazione più sensata. Da Minako non poteva sperare di ottenerne una.
«Okay.» Si trattava solo di un'ora, avrebbero accorciato la visita al nuovo acquario - o magari lui ce l'avrebbe portata al suo ritorno, in ottobre. Nel frattempo... iniziò a guardare dietro le spalle di Minako. Nel luogo d'incontro c'erano delle belle panchine e si era giusto portato dietro il nuovo romanzo di-
«Insisto.» Minako gli afferrò un braccio. «So che stai pensando di andare ad aspettarla lì con un libro, ma a che serve annoiarsi? Facciamo un giro.»
Perché mai?
«In realtà questa è un'occasione d'oro: era da un po' che volevo fare una chiacchierata a quattr'occhi con te.»
«Su cosa?» Si scostò all'indietro. Non smise di seguirla, ma ristabilì la distanza tra loro.
«Su Ami, no?»
Su... Ami. «Quindi... Vorresti chiedermi qualcosa o dirmi qualcosa?» Non era interessato a dare risposte, non le doveva a nessuno.
«Tutte e due.» Minako lo studiò cauta. «Penso di poterti dire qualcosa che ti interesserà molto.»
«Ami può farlo da sola.»
«Certo, ma...» Minako fece sparire ogni traccia di risata.
Non avrebbe dovuto essere capace di diventare tanto seria.
«Avrai intuito che ci sono cose di Ami che non hai compreso, no? Io... posso farti capire.»
La tentazione di andare a leggersi il libro non fu facile da vincere. Meglio della narrativa vera e propria o quella uscita dalla testa di Minako?
Naturamente Minako voleva bene ad Ami, ma tra loro due era lui a capire meglio la sua ragazza. Ne era assolutamente convinto.
«Ehi.» Minako s'imbronciò. «Adesso mi segui o non ti dico niente. Dovrai aspettare Ami e la sua pazienza.»
Alexander ebbe l'impressione che entrambi sapessero molto bene di cosa stavano parlando: le titubanze di Ami stavano iniziando a sembrare leggendarie anche a lui.
Senza dire niente, si limitò ad avanzare oltre Minako.
Lei comprese di aver ottenuto il suo interesse e camminò assieme a lui.



«Non sono mai spariti, allora.»
Ryo scosse lentamente la testa. Era diventato un ragazzo meno nervoso da quando non aveva più visioni incontrollate a turbarlo.
«Ho imparato a convivere con questi poteri. A renderli negativi ero io. Avevo paura di tutto. Gli incubi se ne sono andati dopo la vostra vittoria.»
Intuire il significato delle sue parole la stupì. «Tu... ti sei reso conto di quando abbiamo sconfitto il Regno delle Tenebre? Non hai dimenticato tutto quanto?»
«No. Ma Usagi ha fatto in modo che se ne dimenticassero tutti, non è vero?»
Sì. La memoria della battaglia finale e dei suoi effetti era sparita dalle menti di chiunque. Lei e le sue amiche avevano ricordato solo dopo, ma prima di loro c'erano stati solo Luna e Artemis a conservare memoria di quanto era accaduto. Nemmeno Yuichiro - che pure secondo Rei si rammentava del loro viaggio in montagna di tanti anni addietro - ricordava qualcosa degli eventi che si erano avuti a Tokyo mentre loro erano al Polo Nord. L'intera città era piombata nel buio - era successo in tutto il mondo, a detta di Artemis - e il cielo si era tinto di un nero crudele, pronto a porre fine al pianeta.
Ryo annuì. «Sapevo che stavate combattendo. Ero certo che avreste vinto.»
«Grazie.» Non seppe cos'altro dire in risposta. Lei non era stata certa di uscirne, ma aveva avuto fiducia che almeno Usagi ce l'avrebbe fatta. Era stata Usagi Tsukino - Sailor Moon - a vincere per tutte loro.
Gli occhi scuri di Ryo puntarono il cielo.
Il suo sguardo le faceva tenerezza: lui si era fatto più grande, ma i suoi occhi lo tradivano in continuazione. Forse stare davanti a lei lo metteva ancora in imbarazzo come tanti anni addietro.
«Ami» le disse lui d'improvviso.
Sentirlo omettere il san la sorprese, ma lo trovò un buon passo: i formalismi erano di troppo oramai. «Sì?»
«Ti chiederai perché io sia qui oggi.»
Per rivedere una vecchia amica, no? «Ehm...» Lanciò un'occhiata in tralice all'orologio da polso. Quello che si stava chiedendo lei era il motivo del ritardo di Alexander. Sarebbe dovuto essere lì già da... mezz'ora?
«Sei sempre rimasta in una parte della mia testa. Non al centro perché sono cresciuto-»
Cosa?
«Voglio dire che non mi sono fissato con te. Ho fatto la mia vita.» Esitò. «Capisci?»
«Non devi spiegarmi perché volevi rivedermi, Ryo-kun. È normale ricordare con nostalgia il passato.» Era capitato anche a lei quel giorno.
Lui prese a scuotere la testa. «Cercavo di spiegare che quattro anni fa ero un ragazzino che tu hai salvato. Non mi sentivo alla tua altezza. Oggi...» Arrossì. «Volevo rivederti. Volevo sapere...» Non seppe come andare avanti.
Lei invece iniziò a capire.
«In questo sei stata la mia sfida più grande, Ami-san... Ami. Ho resistito dal guardare nel tuo futuro e nel tuo presente, anche se volevo disperatamente sapere. Però desideravo di più un approccio... normale. Quasi. Volevo rischiare. Rivederti e sapere se...»
Lei cominciò ad aprire bocca, ma Ryo notò il movimento e si irrigidì.
«Non ti sto chiedendo niente, non voglio una risposta di quel tipo. Volevo solo sapere se ti piacerebbe... rivederci. Se potrebbe essere la stessa cosa per te.»
Lei cercò di trovare molti modi per rispondergli, ma alla fine capì che il meno crudele sarebbe stato il più breve e incisivo di tutti.
«No.» Le sfuggì un sorriso triste. «In questi anni sono...»
«Cambiata» terminò per lei Ryo. Deglutì e cominciò ad annuire al nulla, cercando di non guardarla.
Contraddirlo purtroppo sarebbe equivalso a mentire. Sarebbe stato difficile rifiutare la sua proposta se non avesse avuto nessuno, ma anche in quel caso... nella sua testa lui era rimasto solo un amico. Niente era cambiato da quando lei aveva cominciato a crescere, piano piano: Ryo aveva rappresentato ciò era stato, andato.
«Il fatto è che...»
«Eri l'unica parte del mio passato che tornava a cercarmi.»
Non lo interruppe.
«Ho già avuto una ragazza» le confessò lui. «Mi sono trovato bene con lei, ma con te...  So che abbiamo passato qualcosa insieme.»
Era così. «Qualcosa di speciale. Nei giorni in cui ci siamo conosciuti... tu hai imparato a non avere più paura dell'inevitabile, no? Ti sei ribellato. Anche io» sorrise. «Alla mia timidezza. Allora avevo davvero una piccola cotta per te.»
La dichiarazione di quel passato lo sorprese e, forse, gli diede una speranza che lei tenne a non alimentare. «Amo qualcun altro.»
Volle con tutta se stessa non avergli trasmesso tanta tristezza con quelle semplici parole: anche la sua era una battaglia, voleva farglielo capire. «Non credevo che fosse possibile trovare una persona che... Qualcuno di cui avrei voluto fidarmi.»
Ryo si rassegnò. «Lui sa di te. Di voi.»
No. «Ho paura, non voglio ancora dirglielo.»
«Ami...»
Sapeva bene che era importante! «Ho paura tutte le volte che ci penso. L'anno scorso ne ho avuta talmente tanta che sono arrivata a troncare tutto.»
Ryo non disse nulla. Disapprovava.
Non capiva.
«Sto imparando a fidarmi. Può far paura con una persona normale, ma...»
«Come puoi essere sicura che lui ti accetterà quando saprà tutto?»
Era una domanda crudele, ma privi di artifizi.
«È questo ciò che conta davvero: non ne sono sicura, ma non importa. Ho fiducia in quello che lui prova per me e so quello che provo per lui, per questo sono disposta a rischiare. A soffrire, se servirà.»
«Penso che tu abbia già sofferto troppo.»
Le uscì un sorriso. «Ryo... Stai pensando ai combattimenti che sono seguiti ai nostri?»
«Per due anni, da quel che ho visto. Sempre che adesso non stiate ancora combattendo.»
«No, non più. Quelle battaglie... non sono state meno difficili, ma io ero pronta quando le ho affrontate. Non ho sofferto tanto. Ho lottato tanto, piuttosto.»
Lui cominciò a capire. «... non sono state un peso?»
Lei guardò il cielo azzurro, privo di nuvole. «Ci si adatta, come hai fatto tu. I tuoi poteri, le mie battaglie... non potevamo mandarli via. Ma potevamo essere noi a cambiare.»
Ryo aveva aggrottato la fronte. «Mi sento di nuovo come se tu mi stessi insegnando qualcosa.»
«No, scusami.»
«Perché? Pensavo che fossi rimasta... come me.»
«Anche tu sei cresciuto. Quello che riesci a controllare ora... la tua battaglia non è stata meno dura della mia.» 
Lui stava sorridendo, infelice. «Quanti anni hai, Ami?»
«Diciotto. Oggi.» Non essere triste.
«Io li compio il mese prossimo, ma credo che ci dividano almeno dieci anni d'esperienza.»
Ryo si stava sottovalutando enormemente. E sopravvalutava lei. «Minako dice di me che a volte sembro ferma alle medie.»
Lui fu attraversato da un ricordo sereno. «Aino-san?»
«Sì. Dice che sono troppo ingenua, ancora troppo timida... Ha ragione, Ryo-kun.» Rise piano. «Ti sembro matura perché tengo a te e ti ricordo come un amico...» Rimarcare quel concetto le sembrò poco delicato. «Sei stato una persona importante. Non riesco a stare in silenzio mentre ti giudichi male e pensi che io invece sia diventata...» Scosse la testa. «Il mio ragazzo si chiama Alexander.»
Ryo cercò di mascherare il disappunto. «È straniero.»
«Somiglia sia a me che a te, a modo suo. Gli piace molto studiare.»
«A me non piaceva studiare tanto quanto a te» sorrise lui.
«Beh, anche lui è timido e chiuso, sai? Però ha affrontato il suo carattere in una maniera diversa. Si espone. Attacca.» Il che lo rendeva spesso scontroso, sorrise. «Non lascia che il mondo gli accada.»
«Questa è quello che hai fatto anche tu, Ami. Non eri stata tu a chiedermi di uscire insieme?»
Infatti. «Quello era stato il massimo del mio coraggio. Alexander... insieme io e lui siamo migliori. Io mi apro, lui... ha più fiducia.»
Ryo non era soddisfatto. «Un ragazzo diffidente è pericoloso.»
Lei non riuscì a prendersela. «A quale titolo me lo dici?»
«Come persona che tiene a te e basta. Non preoccuparti per il resto, Ami-san. Ho... capito.»
«Puoi continuare a chiamarmi Ami.» Guardò di nuovo l'orologio.
«Stavi aspettando qualcuno?» le chiese Ryo.
«Lui.» Perché non era ancora arrivato? Gli era successo qualcosa?
«Oggi non è il tuo compleanno?»
Infatti. «È in ritardo. Non è mai in ritardo.»
Ryo incrociò le braccia e si appoggiò contro lo schienale della panchina. «Non ne ho alcun diritto, però... posso chiederti una cosa?»
Lei ritornò a scrutare la via gremita di gente. La folla del sabato mattina stava cominciando a crescere in numero.
«Vorrei prendermi cura di te in un solo modo, se me lo permetti. Vorrei poter guardare questo... ragazzo. Capire che tipo è.»
«Alexander?» Le venne da ridere.
«Non dirò niente, non ti darò fastidio. Voglio solo...» Sorrise debolmente. «Secondo me tu pensi che io sia felice.»
In fondo, lo credeva anche lui. «Certo.»
«E questo ti fa contenta. Lascia che succeda lo stesso per me.»
«Non sarai geloso?»
«No, resisterò.»
Ryo era davvero più forte e non se ne rendeva conto. La sua cotta per lei era più un'idea che una realtà, ma sentirsi rifiutato lo aveva comunque ferito. Eppure era ancora lì con lei, non era fuggito.
Le venne voglia di dargli una carezza sulla spalla come incoraggiamento, ma capì che sarebbe stata ingiusta con lui. «Aspettiamo allora. Alexander sarà qui tra poco.» Sicuramente.

Per Minako, Alexander Foster aveva un grosso problema: non era ancora riuscito a conquistare Ami.
Certo, i due tubavano dal minuto in cui si vedevano fino a quello in cui si salutavano. Dicevano di amarsi e si amavano.
Ma i fatti? Ami non gli aveva ancora detto niente di sé, di quella parte di sé che era vera quanto l'altra. Non gli aveva ancora concesso fiducia, nemmeno a livelli più terra terra: dov'era la passione, dov'era quel coinvolgimento assoluto che non ammetteva segreti? Perché Ami aveva invitato anche loro in vacanza al mare a casa di lui, invece di passare quei giorni da sola col suo ragazzo?
Usagi continuava a dire che Ami era timida timida, diversa da loro. Era verissimo, ma Ami era anche innamorata. Perché non si decideva a vincere un poco quella ritrosia? E perché diavolo Alexander Foster - che le era sembrato tanto una casanova la prima volta che l'aveva visto - non riusciva a smettere di comportarsi come un pesce lesso senza sapore? Non si dava da fare!
Lei lo aveva apprezzato tantissimo per come era riuscito a far aprire Ami, ma da mesi le cose erano ferme. Mummificate! E adesso saltava fuori che lui partiva per un viaggio da solo. In Europa! Per tre settimane!
«Non penserai mica di vivere un flirt vacanziero, vero?»
Alexander stava cercando di leggere la copertina di un libro e contemporaneamente di ignorarla. «No. E non ho voglia di subire questo tipo di domande.» Passò ad un altro volume dello scaffale.
Per convincerlo a parlare Minako capì che doveva essere la prima a sbilanciarsi. «Prima non hai capito cosa volevo dire.»
«Non voglio venire a sapere da te di grandi segreti. Supposti, grandi segreti.»
Era giusto. Ma allora perché era ancora lì? «So che Ami vuole avere fiducia in te. Ma tu devi... dimostrarglielo di più.»
«Lo faccio già.»
«No, devi... Andiamo, ci sono cose per cui Ami non prenderà mai l'iniziativa, lo sai? Parlo di... esperienze.» Non per forza quella a cui stava sicuramente pensando lui. «L'amore non è una serie di bla bla bla e bacetti-»
«Grazie della lezione.»
Brontolone! «Se ti ho portato qui è perché io tengo tantissimo ad Ami.»
«Quello che hai detto e fatto finora non ha questo senso.»
Prendersi il suo sguardo divenne una sfida per lei. «Potrebbero esistere persone in grado di capirla più di te.» Come Ryo Urawa.
Alexander finalmente si voltò.
Forse tra lui e il povero Ryo non c'era paragone a livello di aspetto fisico o in quanto a capacità di risolvere inutili equazioni, ma Ryo... Poco fa, in quella piazzetta in cui Minako li aveva visti insieme, Ami aveva abbracciato Ryo Urawa, dopo tanti anni che non lo vedeva. E un simile trasporto, con Alexander... Okay, era capitato, ma...

«Stai parlando di qualcuno in particolare?»
Noo. Se ti dico che ti ho portato via dalla tua ragazza per lasciarle il tempo di stare con la sua vecchia fiamma, penso che mi ammazzi.
A breve però lei avrebbe dovuto affrontare quel pericolo, mentire a lungo termine non era un'opzione. La sua storiella non avrebbe retto.
«Il punto non sono gli altri, ma tu. Non sta a me dirti cos'ha passato Ami, ma anche noi...» No, si stava scoprendo troppo se si includeva nel discorso. «Forse non ha voglia di parlarti di qualcosa che ti porterebbe a giudicarla.»
«Forse?»
«Sì, forse.» Non aveva alcuna intenzione di servirgli su un piatto d'argento quello che lui non era riuscito a guadagnarsi da solo.
«Ami sa bene che non la giudicherei.»
«Nemmeno se, per ipotesi, fosse una cosa che creerebbe domande in qualunque persona, qualcosa di... non positivo?»
Lui aveva smesso di fingere indifferenza. Rimise a posto la rivista che aveva tirato fuori.
Accanto a loro non c'era nessuno.
«Mi stai spaventando.»
Oh, no. «No. Nono. Non nel senso che...» Non voleva farlo preoccupare, loro erano solo guerriere Sailor con superpoteri. «Ad Ami non è successo niente di orribile.» Dipendeva dai punti di vista, ma comunque tutte loro stavano benissimo, avevano superato qualunque trauma da battaglia.
Alexander non si stava divertendo. «Quindi? Tu pensi davvero che lei abbia paura di quello che penserei?»
Lei si mangiò la risposta sulla punta della lingua. «Non lo so.» Era convinta di sapere molte cose, ma non stava assieme ad Alexander e ad Ami quando erano soli. Non li vedeva quando non c'era nessun altro con loro, quando - sicuramente - Ami era più contenta che mai con lui.
Alexander cominciò ad andare via.
Certa di averlo perso, Minako lo seguì solo per confessargli la verità prima che la scoprisse da solo.
Forse si sarebbe risparmiata la decapitazione.
Lui si fermò all'ingresso della libreria, nel reparto riviste internazionali. «Forse pensi che io abbia dei problemi con Ami.»
Esatto, problemi non comuni, ma...
«Tutti hanno problemi, qualunque coppia. I nostri... non sono problemi se non li rendiamo tali.»
Era un ragionamento contorto e ingenuo.
Alexander prese in mano un giornale rosa. Lo strinse forte tra le mani. «A me non interessa se Ami adesso... Se ancora non sono riuscito a tagliare tutti i muri. Ci sono person con cui ci vogliono anni.»
Ma esattamente quanti anni voleva aspettare lui?
«A me non importa. Ho dei difetti anche io, dei problemi. L'importante è che si voglia stare insieme.»
«In generale? O voi?»
«Noi. Vogliamo stare insieme. Lo so, ne sono sicuro. Non... non posso spiegarti cosa vuol dire, Aino. Ad essere sincero, non ne ho nemmeno voglia.»
Ora lui era di cattivo umore. Ebbe l'impressione di non essere stata solo lei a metterlo in quella disposizione d'animo, ma di sicuro aveva contribuito.
Adocchiando il sacchetto di carta che lui portava in mano, Minako cercò di cambiare discorso. «Che cosa le stai regalando?»
Lui fece silenzio per un momento prima di rispondere. «Una collana.»
Uhh, una collana. Bella, sicuramente costosa... e banale. «Non era meglio un regalo più personalizzato?»
«È un regalo personalizzato.»
«Se me lo fai vedere mi tolgo dai piedi.» Ormai aveva dato a Urawa abbastanza tempo, inoltre... Alexander stava cominciando a farle pena. Forse era più innamorato di Ami di quanto lei non lo fosse di lui.
In silenzio e sempre concentrato sui giornali, lui le passò il sacchetto del regalo con un grugno annoiato. Voleva farla evaporare, era evidente.
Lei recuperò la scatolina in velluto nero dal fondo del sacchetto di carta.
Velluto nero? Ahh, se solo avesse avuto un ragazzo ricco anche lei!
La aprì con estrema cura, attenta a non sbilanciarla. Sarebbe potuto cascare fuori di tutto da là dentro. Sussultò. Non un anello, vero?!
La vista della confezione aperta le tolse quella ridicola paura. Dentro c'era proprio una collana. Una collanina brillantissima, costosissima, deliziosa. Da Ami.
Non resistette, dovette toccare le pietruzze blu. «Sarebbe... il segno dell'acqua?» Due onde?
«Dovrebbe essere il segno zodiacale, ma ad Ami non importerà. È solo acqua.»
Alexander si era girato di nuovo verso di lei. Guardava il retro della scatola aperta.
«È solo azzurro. Le starà bene. Spero che le piaccia.»
«Perché hai scelto l'acqua? Lei ti ha detto che le piace?»
«No. La guarda molto. Ma guarda anche al cielo, l'erba, gli alberi...» Gli uscì un sorriso. Accennò al regalo col mento. «Ami è come quelle onde. Scende e sale in armonia. Quando cambia o rimane la stessa, è sempre lei, sempre...» Non gli venne l'aggettivo. Forse non ebbe voglia di dirlo davanti a lei, ma trasmise ugualmente la portata di quello che provava. «Bisogna solo capirla.»
Minako richiuse la confezione. «Devo dirti una cosa.» Rimise il regalo nel sacchetto e glielo passò prima di lasciarsi scappare una sola altra parola. «Puoi uccidermi, se vuoi. Quando torni dal tuo viaggio, voglio dire. Lasciami almeno queste tre settimane.»
Forse Alexander aveva capito bene anche la natura di lei, perché la sua espressione lasciò intuire che aveva un'idea del tipo di guai che poteva avergli combinato.
«Tu cosa faresti se una tua carissima amica potesse essere molto felice?
» tentò lei. «Non le daresti un'opportunità?»
Lui la lasciò parlare, attento.
Stava cominciando a farle paura.
«Se un amore è vero e profondo, non deve temere l'incontro con piccoli ostacoli, no? È questo che ho pensato.»
«Just explain yourself
Ingiusto, era già arrabbiato!
«Ho pensato che le dovevo un momento con una persona che... beh, una persona che conosceva già quel problema di cui lei non vuole parlare al suo attuale ragazzo.» Ahhh, si era sbilanciata troppo!
Alexander era rigido. «Di che stai parlando?»
Meglio buttarsi. «Ami non era in ritardo. Ha incontrato per caso» sicuramente per caso, «un ragazzo che conoscevamo tutte tanti anni fa. Si tratta di Urawa, Rei mi ha detto che ti ha parlato un pochino di lui.»
Alexander perse ogni traccia di rabbia; a riempirlo fu un'altra sensazione, qualcosa di molto diverso dall'ira.
«Li ho visti insieme che parlavano e ho pensato che potevo dar loro qualche minuto insieme. Tanto voi due passerete tutta la giornata da soli.» E i prossimi mesi e i prossimi anni, se Ami era davvero intelligente, perché a sentir parlare di Urawa Alexander non si era ingelosito. Si era spaventato.
«Dove?» le chiese.
«Dove dovevate incontrarvi.»
«E lei pensa che io sia in ritardo nel giorno del suo-» Lui riacquistò un briciolo di rabbia, una fiammella che spense subito. Fu molto furbo nel non perdere altro tempo. Se ne andò e basta.

Cinquanta minuti dopo le dieci e mezza, Ami fu felice di alzarsi in piedi. «Ehi!»
Ryo si alzò con lei, ma non sembrò capire che la persona che stava correndo verso di loro era proprio quella che stava cercando.
Lei non fece nemmeno in tempo a preoccuparsi della fretta di Alexander. Il tempo di formulare il pensiero, e lui era già arrivato.
«È successo qualcosa?» Gli toccò una spalla, cercando di calmarlo.
«No, io-» Lui cercò di riprendere fiato. Inquadrò Ryo con lo sguardo.
«Mentre aspettavo ho incontrato questo mio amico.» Ami glielo presentò. «Si chiama Ryo Urawa, ti ricordi del ragazzo che...» Sorrise e scosse la testa. Se lui non ricordava, era meglio. «Ci siamo incontrati per caso dopo tanto tempo.»
«Sì.» Il respiro di Alexander era ancora erratico. Mandò giù una grossa boccata d'aria. «Sì, ricordo.»
... ed era agitato? «È successo qualcosa?»
«No. Te lo spiego dopo.» Allungò una mano verso Ryo. «Ciao.»
Ami fece fatica a concentrarsi su di lui, ma riuscì a notare che il contatto e il rapido scambio di sguardi era rimasto sereno. O almeno così credette, fino a che la mano di Alexander non continuò a rimanere su quella di Ryo.
«Vivi a Tokyo?» gli chiese.
«... No.»
«Starai qui a lungo?»
«Riparto oggi.»
«That's good.»
Alexander avesse inteso farsi capire o no? Non fu chiaro, ma tutto terminò lì. Annuendo una seconda volta, lui rimise le mani in tasca. Al polso aveva un sacchetto di carta.
Il suo regalo, sorrise lei. «Urawa-kun voleva solo conoscerti.» Si girò verso di lui. «Visto?»
Ryo era perplesso, ma per metà soddisfatto. E divertito. «Sì.» Le offrì un breve inchino del capo. «Ami... è stato bello.»
«Anche per me.»
«Forse...»
No, era brutto parlare di addii. «Un giorno ci capiterà di rivederci, sicuramente.» Sorrise. «Chissà quanti altri anni passeranno.»
«Buona fortuna» annuì lui. Si riempì di un momento di rimpianto prima di lasciarselo dietro.
«Buona fortuna» gli augurò lei a sua volta.
Sorrisero.
Ryo mantenne gli angoli della bocca piegati all'insù anche per Alexander. Ma il sorriso che riservò a lui fu diverso. «Ciao.»
Se ne andò così, senza girarsi di nuovo.

Non vi era alcuna ragione, si ripeté Alexander, alcuna ragione per cui quel tizio potesse sentirsi in diritto di renderlo geloso.
Lui aveva fiducia in Ami. A lei quello non interessava, se n'era reso conto appena li aveva visti insieme. «Perché trovava divertente che mi preoccupassi della sua presenza?»
Non riuscì a pentirsi della domanda: Ami poteva non aver provato niente, ma lui voleva sapere esattamente tutto quello che aveva fatto tale Ryo Urawa nei dannatissimi cinquanta minuti in cui era rimasto da solo con lei. Minako Aino era già morta e sepolta.
Ami si abbandonò a una risatina. «Beh... oggi mi ha detto che gli interessavo ancora.»
Lui aveva creduto di poter ridurre tutto quello che era successo a uno scherzo, a una specie di strano incubo. Invece non era ancora finito.
«Gli ho detto che io...» Ami scrollò le spalle. «Ovviamente. Vederti preoccupato sarà stata la sua rivincita, che sciocco.»
Davvero?
Ami si adombrò. «Saresti sciocco anche tu a preoccuparti sul serio.»
Sì. Forse. «Non sa forse cose di cui io non sono a conoscenza?» Non fu specifico, ma - diavolo - non fu nemmeno necessario: Ami capì tanto bene da impallidire visibilmente, cercando di non mostrare alcuna reazione e fallendo miseramente.
«Cosa vuoi dire?»
«Sono in ritardo per via di Aino. Vi ha visti insieme e voleva darvi un po' di tempo. Mi aveva fatto pensare che saresti arrivata dopo.»
«Minako?» Ami riprese parte del proprio controllo e deglutì. «E che cosa ti ha detto?»
«Che quel ragazzo sa cose che io non so.»
«... solo questo?»
Sì, dannazione. «Non volevo sapere niente da lei. Se c'è qualcosa di cui parlare, voglio sentirlo dire da te.»
Ami prese a scuotere la testa. «Non ho detto niente a Ryo. Lui era semplicemente lì quando...»
Basta, basta con 'quella faccia'.
«Lui era con me quando avevo quattordici anni. Per pochissimo, tutto qui. Cosa può sapere, Alex?»
Se era una bugia, era la menzogna più sincera che lui avesse mai sentito pronunciare ad anima viva.
Detestava sentirsi nella posizione di costringerla a qualunque confessione inutile che lei non volesse fare da sola. Ma detestava sentirsi escluso anche da cose inutili. «C'è qualcosa che... ?» No. «Niente.»
Ami si era fatta seria e triste. «Perché eri agitato quando sei corso qui? Pensavi di dover essere preoccupato?»
«Domani me ne vado per tre settimane.»
Ami non disse nulla.
Non capiva. Aveva ragione.
Lui non resistette più. «Non vuoi venire con me?»
La sorprese. «Cosa?» La costernò. «Io... Non posso
«Lo so. La scuola.» Era già iniziata, era un maledetto problema, la ragione per cui lui non si era nemmeno azzardato a insistere sul serio con quella proposta. «Non ti sto chiedendo se vuoi venire, ma se ti piacerebbe. Se vorresti... Se io dovrei...» Si sentì idiota. Mandò giù un bel respiro. «Facciamo una cosa.» Le prese la mano. «Ignora quello che ho detto adesso. Avevo in mente di portarti in un posto. Forse riusciamo ancora ad arrivarci.»
Voleva andare all'acquario e ritrovare se stesso nella calma di quegli ambienti semibui.
Ami non collaborò nel muoversi. «Io avrei un posto dove voglio andare.»
Sì?
«Casa tua.» Lo sorpassò senza dargli il tempo di rispondere. «Andiamo.»

Ami osservò mesta la mano di Alexander che girava la chiave di casa sua.
Per i suoi diciotto anni, come regalo di compleanno, lei desiderava innanzitutto poter sistemare qualunque cosa stesse andando storta. Non si poteva fare in un parco, per strada, in giro. C'era bisogno di silenzio e di muri che fungessero da barriera di protezione, dove potersi sentire al sicuro.
Entrò in casa. «Io...» Non riuscì ad aspettare oltre. «Certo che mi piacerebbe partire con te domani. È un bel viaggio.»
Alexander si bloccò brevemente, quindi terminò di chiudere la porta con più calma. Sembrava rassegnato. «Non importa.»
«Non devi sentirti in colpa se vuoi andare senza di me.»
«Non è questo. Non importa.»
Non comprenderlo la faceva sentire impotente. «Perché ti preoccupava che fossi con Urawa? Anche se mi ha detto che era interessato a me...» Lui avrebbe dovuto riderne. «Io non potrei mai innamorarmi di qualcun altro.»
Alexander studiò la sua frase. «Hai ragione. Alla fine, that's it.» Chiuse la distanza tra loro e le prese il volto tra le mani. «Curami un poco.»
Ma coi baci lei voleva dargli di più. Gli offrì ugualmente il primo. E il secondo. «Per cosa?»
Lui stava scuotendo piano la testa. «Mi stai già curando.» Continuò a tenere la bocca sulla sua, ad appoggiarla e ad allontanarla di pochissimo. Ad un certo punto la strinse forte e non fece altro.
Che cos'hai?
«Sai che può essere l'occasione per un bel regalo a tutti e due?»
Lei lo guardò negli occhi. Alexander la osservava come se volesse... mangiarla.
«Oggi potresti lasciare che ti baci dappertutto. Senza smettere.»
Lei si sentì evaporare, bollire, morire d'imbarazzo.
Lui iniziò a ridere piano. «Sul viso, Ami love. Stavo scherzando, sei tutta rossa.» La lasciò andare, ma continuò a tenere stretta la sua mano. «Siediti, su. E fai un bel respiro.»
La situazione si era invertita, era lui quello stabile ora.
Lei si rifiutò di lasciarsi battere da uno scherzo. «Non stai pensando di non partire, vero?»
«No.» Lui si sedette sul divano del salotto con lei. «Parto.»
Infatti. Lo aveva programmato da molto tempo. «Dovrai fare molte foto, così potrò vederle. E quando hai tempo non preoccuparti se l'orario è strano: chiamami. Così potrò sentirti.»
Lui accennò ad un sorriso incerto, scherzoso. «Ti mancherò?»
Certo, annuì lei. Ma erano solo tre settimane, sarebbero volate via. Lo sperava, almeno Se iniziava a lamentarsi già ora, come avrebbe fatto a resistere quando lui sarebbe andato in America a studiare? «Penso che quando tornerai...» Si sentì di nuovo arrossire. «Penso che sarò io a non voler smettere di baciarti.»
Lui fece un attimo di silenzio. Deglutì. «That's beautiful.» Iniziò a ridere e si sporse in avanti.
Lei si sentì accerchiata dalle sue braccia, catturata e... strana, avvolta nel silenzio, seduta sulle sue ginocchia a stringerlo. Non voleva rimanere ad abbracciarlo troppo a lungo su quel divano, senza equilibrio, senza controllo. Erano più belli i baci che poteva gustare piano e i sentimenti che poteva provare intensamente - provare davvero - senza farsene vincere.
Era lenta, lo sapeva. Fallace. Anomala, in molti sensi. Ma aveva un ché di meraviglioso abituarsi piano ai brividi sottili che le provocava il respiro di lui sul retro del collo, dove le sembrava di morire per il solletico e le troppe sensazioni dolci, intime.
Un giorno sarebbe arrivata a non morire di rossore di fronte al pensiero di quello che seguiva. Quando avesse smesso di vergognarsi, tra loro avrebbe potuto essere davvero bello. Lo sarebbe stato sicuramente, come lo era tutto il resto.
Ebbe un ripensamento e non lo trattenne. «Mi mancherai moltissimo.»
«Ma devo partire lo stesso?»
«Sì.»
Alexander posò gli occhi sui suoi, il naso sul suo. «Ti stai sacrificando?» Sorrideva.
«No. In viaggio ti divertirai.»
«In queste tre settimane magari diventerai meno altruista.»
«Con te no.»
Gli ripeté la ragione con un sussurro.
«Lo so» ammise lui. «Oggi sono stato così strano da essermi persino dimenticato di dirti una cosa.»
Hm?
«Happy birthday, my love




NdA : devo rileggere questa storia nella sua interezza. L'ho riletta pezzo per pezzo, l'ho sentita mentre la scrivevo, penso sia venuta bene, ma la sensazione che mi lascia è diversa ad ogni pezzo, è... sospesa. Era quello che volevo, credo, ma devo rileggerla.
Se mi dite cosa ne pensate voi, mi date una vera mano.

ellephedre







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Capitolo 13
*** Scene - Settembre/2 ***


Acqua Viva - Scene Settembre/2
Acqua viva

Autore: ellephedre

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.

Settembre/2



E il giorno seguente Alexander non c'era più.
Fu una cosa tranquilla e normale da principio: lui era in vacanza. Per lei era ricominciata la scuola e aveva le lezioni da frequentare; l'estate era terminata.
È finito qualcosa
. Un pensiero sfuggente in quei primi giorni, mentre si accorgeva di avere più tempo da dedicare alle sue amiche, a sua madre. Se aveva voglia di parlare con qualcuno, alzava il telefono e doveva impedire alle dita di comporre in automatico il numero. Si concentrava un momento, e se voleva ridere chiamava Minako, se desiderava un'idea per qualcosa da mangiare consultava Makoto, se voleva sentirsi meno sola ascoltava la voce di Usagi e se aveva bisogno di un consiglio parlava con Rei.
Quando sua madre non era in casa, di tanto in tanto lei osservava le pareti.
Se n'era rimasta davvero seduta tra quelle quattro mura a studiare per tanti anni? Non rimpiangeva di averlo fatto, poiché riconosceva di essere stata serena in compagnia dei soli libri. Però non riusciva più a immaginare di tornare ad uscire solo per andare in biblioteca o alla scuola preparatoria. Era cambiata. Amava pensare alle giornate come ad un presente da vivere, e non più come ad un intermezzo da far passare in attesa che il futuro si realizzi.
Il suo presente non era solo Alexander, ma quello che lui le aveva fatto scoprire. È questo il momento di sperimentare, di essere. Era il motto silenzioso di lui.
Le sue amiche avevano provato a smuoverla in quella direzione; le loro piccole spinte erano servite a non farla vivere in un mondo di esperienze sempre uguali, ma lei non ne era uscita del tutto. Si era sentita un passo indietro rispetto a loro, che erano così audaci e coraggiose, prive di imbarazzi.
Aveva imparato la teoria della vita di un'adolescente in loro compagnia, come quando osservava Minako che abbordava ragazzi o Rei che si destreggiava nel tempio tra decine di sconosciuti, con le parole giuste sempre in bocca. Makoto a scuola parlava con tutti e Usagi era capace di far ridere anche i professori.
Provando ad imitarle Ami non si era sentita a proprio agio. Aveva saputo di essere diversa - semplicemente se stessa - ma in tutto ciò qualcosa... non andava. Lo aveva percepito, lo aveva studiato. Sapeva essere sicura di sé e aveva il rispetto di chi la conosceva per la sua intelligenza, ma sentiva di non esprimersi appieno, per la persona che era realmente, nel profondo.
Le mancava la voglia di farlo? Un poco, e si era perdonata quel minimo di pigrizia.
Ma non era stato solo questo. Le era mancato... qualcuno. Qualcuno che mi capisca. Alexander era arrivato, e ora che non c'era più lei vedeva come non mai l'effetto che lui aveva avuto sulla sua vita.
«Sei silenziosa in questi giorni, Ami.»
A sua madre aveva detto che stava pensando. Aveva ripreso a pensare moltissimo da quando Alexander era andato via, interi discorsi che aveva voglia di condividere con lui appena fosse tornato a casa.
Casa, nei suoi pensieri, era lei. Torna da me, da noi. Si era sentita melodrammatica nella puntura di tristezza che accompagnava quell'invocazione muta che non osava mettere insieme. Era un pensiero che la coglieva all'improvviso, quando sentiva la mancanza di una carezza alla mano o di un bacio. Ma Alex torna tra meno di tre settimane, si diceva. E quando lui aveva chiamato per la prima volta, si era sentita esplodere di gioia. La voce di lui le aveva parlato di esperienze che gli erano mancate: rivedere sua nonna a Londra, lamentarsi di quanto era snob l'accento locale, viaggiare in libertà.
Ti piace muoverti.
Neppure questo aveva detto, era un'idea che le era rimasta impressa in testa. Come la sua mente, Alexander doveva essere in movimento per sentirsi vivo. Era un abitudinario per certi versi, un ragazzo tranquillo - come lei aveva pensato le prime volte che l'aveva visto. Ma quando ingranava col cervello e col corpo lui era felice come non mai.
Potevano fare quasi tutto insieme, ma lei aveva imparato a lasciarlo solo durante le sue corse. Osservandolo mentre si muoveva veloce aveva capito di essere di troppo. In una sola cosa, tutti hanno bisogno di un momento solo per sé. Si era spiegata così l'estraneazione di lui in quei frangenti, quella che Alexander stesso forse non aveva compreso. Le aveva risposto senza fastidi tutte le volte che lei aveva parlato; avevano anche riso insieme, ma alla fine dell'esercizio, mentre riprendevano a camminare, lui per bisogno - a disagio - aveva guardato il cielo, incerto su cosa ci fosse che non andava.
Il problema era stato di duplice natura: in verità - le aveva detto - lui solitamente correva più veloce. Non aveva fatto aggiunte, il bisogno di solitudine era una cosa che lei aveva capito da sola.
Lei amava stare in solitaria mentre studiava, ma era diversa da lui. Lei sì che viveva di abitudini: a lungo era stata capace di passare tutto il suo tempo tra scuola, casa e battaglie Sailor. Erano stati quei combattimenti a rompere la sua routine, facendola uscire dal suo spazio personale.
Alexander invece non aveva avuto bisogno di nemici interplanetari per librarsi: club di nuoto e scienze alle superiori, due volte rappresentante di classe, si era fatto conoscere in tutto il suo istituto - anche per ragioni che lei non amava ricordare. Lui aveva avuto tante relazioni, quindi si era interfacciato con molte persone diverse. Ma soprattutto, Alexander aveva viaggiato. Andava all'estero perché non c'era città giapponese in cui non fosse stato almeno una volta. Le era simile per quella parte di lui che rimaneva distante da tutto, chiusa, ma era una persona che amava le nuove esperienze. Sottilmente, senza accorgersene, Alex cambiava vivendole.
Che cosa è finito con questo viaggio?
Era la domanda che era riuscita a concretizzare in due settimane, dopo che per tre giorni lui non aveva chiamato. Le aveva detto che sarebbe andato in un posto in cui non c'erano telefoni - un campeggio, un viaggio nella natura. Quel periodo di silenzio forzato le era servito ad ascoltare paure che lei aveva sepolto in sua presenza, proprio grazie a lui.
Io, forse, sono solo una tappa per te.
Quando la guardava Alexander le diceva di no, che era per sempre. La faceva sentire una persona con cui valeva la pena di dividere una vita intera, e lei lo era sicuramente, ma.... per lui? Sarebbe stata LA persona per lui?
Si era ritrovata con una sua foto in mano e, per una volta, non aveva visto solo un volto che avrebbe potuto amare per mille anni. Aveva visto un ragazzo, di ventuno anni, con forse tutta una vita - di durata normale - da trascorrere lontano da lei.
«Che cos'hai, love?»
La telefonata successiva l'aveva lasciata con la voglia di abbracciarlo forte. Torna qui, fammi dimenticare tutto questo.
«Niente» gli aveva detto. «Solo che... mi sei mancato.»
Lui era stato così felice di sentirlo.
Lei aveva preso una decisione momentanea ma importante. Finché lo vorrai, ti amerò con tutta me stessa.

«Che cos'hai, Ami?»
Ad Usagi non era stato altrettanto semplice sfuggire. «Niente.» Non aveva accelerato il passo fuori dalla scuola, perché da lei non poteva - non voleva - scappare. Usagi era una voce gentile che soffriva se veniva ignorata e lei non le avrebbe mai fatto questo.
«Mi stai dicendo una bugia, sembri triste.» La sua mano sulla spalla la trattenne delicatamente. «Ti manca Alexander, vero? Coraggio, mancano solo tre giorni al suo ritorno.»
Era confortante sentirlo dire da lei, che aveva vissuto un'esperienza come la sua ma infinitamente peggiore. «Usagi... Che cosa provavi quando Mamoru era lontano?»
«Quando?»
«Quando era negli Stati Uniti e non sapevi che...»
Vide la forza della sua amica nel momento in cui quel ricordo oscuro le strappò solo un sorriso amaro.
«Me lo chiedi perché ti sei sentita sola, Ami-chan?»
Non sapeva come spiegare tutto quello che aveva sentito.
«Vieni, andiamo al parco. Mangiamo qualcosa e parliamo.»
Usagi l'aveva trascinata verso una panchina tenendole le mano, un sostegno in quel momento come la prima volta in cui l'aveva conosciuta. La soggezione che aveva provato nei suoi confronti era sempre stata così confortevole e strana: assieme ad Usagi non aveva paura di nulla, lei affrontava guerre e problemi con uno scudo fatto di semplici sentimenti sinceri e risoluti.
«Quando Mamoru era negli Stati Uniti e non mi chiamava, non mi scriveva... Avrei dovuto essere più devastata, vero?»
«Non intendevo questo.»
«Lo amavo così tanto che non riuscivo ad ascoltare quel dubbio cattivo che mi diceva tutti i giorni che qualcosa non andava. Mamo-chan aveva detto che sarebbe stato occupato e per me la sua parola era... divina.» La risatina di Usagi fu allegra, solo lievemente malinconica. «Dopo due mesi che non mi scriveva non credevo che mi avesse dimenticato, però pensavo a tutte le cose che dovevo dirgli: doveva avermi più a cuore, dirmi che gli mancavo, farsi sentire più spesso anche se era molto occupato. Una sola chiamata alla settimana, un minutino per me. Anche Mamoru mi ha detto che mi accontentavo di troppo poco.»
«Sono felice che ora ti stia dando quello che meriti.»
Usagi la guardò attenta. «Mi hai detto che Alexander ti ha chiamato almeno tre volte alla settimana da quando se n'è andato. Allora perché tu...? Il problema è lui, vero?»
«No.» Sì, nel senso che riguardava lui, e no, nel senso che non era nato da lui. «Tu...» Zittì un pensiero ingiusto.
«Cosa?»
«Niente.»
«Su, Ami. Lo sai che non ho un tatto da offendere, sono di ferro io.»
«Come fai a sapere che...?»
«Che ti sei fermata per me?» Usagi le toccò la fronte. «Ti cresce una piccola linea qui quando ti preoccupi di fare del male ai sentimenti di qualcuno.»
Quanto era prevedibile. Sospirò. «Tu... hai mai pensato che con Mamoru non siate destinati a stare insieme per tutta la vita?»
Usagi sgranò gli occhi. «Ovvio. Continuamente.»
Ami non capì.
«Beh, lui mi ha lasciata quando c'era Chibiusa e poi c'è stata la lontananza per i suoi studi negli Stati Uniti, e io.... io non credo nemmeno ora che noi due dobbiamo stare insieme per forza. Ho fiducia nel fatto che lo amerò per sempre, ma prima mi rifiutavo di concepire che per lui non potesse essere lo stesso. Adesso... Adesso so che Mamoru sceglie di amarmi proprio come faccio io. Per questo non smetterà mai.»
Quella sicurezza la fece sentire infinitamente triste e minuscola. Sull'eternità del proprio amore non aveva dubbi, ma per quanto riguardava quello di Alexander... e non era nemmeno colpa di lui, che non dimostrava alcun dubbio su quello che provava. Del presente era sicura oltre ogni limite, era il futuro che la terrorizzava. Solo perché Alex non era accanto a lei a rassicurarla? Non avrebbe mai immaginato di essere così insicura.
Usagi la stava guardando negli occhi. «È questo allora? Questa piccola vacanza di Alexander ti ha fatto tornare quei dubbi che avevi prima di metterti con lui?»
«No...»
«Tu sei una persona che può essere amata completamente e per sempre, Ami.»
«Lo so. Ma lui cambierà, e anche io...» Mentre lo diceva si rese conto che quel discorso valeva per chiunque, Usagi e Mamoru compresi. «Non gli ho ancora detto che sono una guerriera Sailor, chi sarò e cosa farò in futuro... Mi spaventa l'idea che questo presente cambi. Con questa vacanza Alexander me l'ha fatto ricordare.» Il che rendeva ancora più sciocche le sue paure; si stava lamentando di un futuro che non conosceva, solo perché il fidanzato che le aveva sempre detto e dimostrato di amarla si era preso qualche giorno di ferie. E senza nemmeno volerci andare da solo poi: Alex avrebbe voluto che lei si unisse a lui.
Usagi stava riflettendo. «Senti la mancanza dell'idea di un... destino?»
... sì.
«Ci siamo viziati, sai? Sappiamo cosa diventeremo da grandi, qual è il nostro posto nel mondo... Tutti gli altri vanno avanti senza sapere niente.»
Era vero. «Bisogna avere fiducia.» Doveva aggrapparsi a quella per lei e Alexander. Doveva credere che lui avrebbe scelto di amarla l'anno prossimo, e quello dopo ancora, fino all'esatto istante in cui avrebbe deciso altrimenti. Poteva non accadere mai, o forse... Ma lei non poteva vivere nell'incertezza: per vivere senza ombre, l'amore non ne permetteva.
«In fondo siamo normali, Ami. Quello che cercavo di dirti prima è che tra me e Mamo-chan è arrivato un momento in cui io l'ho... conosciuto, ecco. Quando è tornato da me, dopo Galaxia. Ho capito chi era in ogni angolo del suo cervello, l'ho fatto mio.» Usagi scoppiò a ridere. «Succede così per tutte le coppie. Arriverà un giorno in cui Alexander farà qualcosa, o dirà qualcosa... e tu sarai certa che ti vorrà bene per sempre. Non avrai più nessun dubbio.»
La promessa di una speranza. Fu come un raggio di sole, e commossa lei ne sorrise. Perché non ci arrivava mai da sola?
Per speranza aveva rischiato e aveva accolto Alexander nella sua vita, smettendo di crogiolarsi negli 'e se' infausti che le avrebbero rovinato in partenza ogni felicità.
Deglutì. «Credo di essere così emotiva, perché io non... Io so già cosa proverò per lui tra dieci o cento anni.» Anche se era solo una ragazzina; poteva cambiare in mille modi, ma quel suo amore non si sarebbe mai estinto. «Anche se è normale avere dubbi su quello che prova l'altra persona, l'incertezza mi rende instabile.» Ridacchiò. «Forse è normale anche questo.»
«Ami-chan, non te lo dico perché sono tua amica, davvero. Infatti potrei scommetterci il mio trono tanto ne sono sicura, ma Alexander si sente proprio come te. È lui quello che crede che non lo amerai per sempre.»
Fu l'unico momento in cui lei volle dire ad Usagi che stava sbagliando. «Non può essere.»
«Beh, non vi ho visti tante volte insieme, però... lo dice anche Minako che è esperta, e pure Makoto, e a pensarci bene anche Rei. Lui è più leggibile di te e si vede da chilometri di distanza che è tanto felice quando è con te, ma a volte sembra... in ansia. Vuole farti contenta in ogni istante e fa questa faccia....» Usagi si profuse in un'espressione supplicante. «Ti prego, fa' che ti piaccia, amami anche ora. Tu non la noti perché sei occupata a essere felice della sua sofferenza. Sei sadica.»
«Cosa? No!»
«Non è troppo sbagliato essere contenta se il tuo ragazzo ti adora da star male. Ma se lui si sente così, tu dovresti adorarlo di più.»
«Ma io lo...» Arrossì piano. «Lo adoro anche io. Davvero secondo te si sente così?»
«Secondo tutte quante. Se vuoi un consiglio pratico, sii più espansiva.»
Ecco una cosa che non le riusciva molto bene. Inoltre ad Alexander piaceva il modo in cui lei dimostrava il suo amore, di questo era sicura. Ma forse... «Posso fare qualcosa di più.»
Usagi la prese come una domanda. «Certo. Da esperta ti dico di provare con tanti lunghi baci e poi con...» Una risatina. «Beh, lo sai.»
In verità, non ancora. Ami evitò di arrossire e si congratulò da sola per il successo. Quindi si riduceva tutto a una questione di...?
Usagi annuì saggia. «Ai ragazzi piace sentire l'amore. Hanno ragione, sai? Non è tutta una questione di parole.»
«È anche una questione di gesti e di dimostrazioni.» Come lui che la chiamava appena poteva anche trovandosi all'estero, oppure sempre lui che dimostrava di amare tutte le loro conversazioni o passare del tempo insieme. Erano cose importanti. Non che lei escludesse che un giorno la loro relazione sarebbe andata anche in quella direzione, anzi. Da quando lui era partito, doveva ammettere di aver pensato che forse avrebbero già dovuto incamminarsi o essere per strada, ma Alexander non faceva pressioni vere. Probabilmente la lentezza del loro ritmo gli andava bene.
Usagi era rimasta interdetta, ma solo per un momento. «Sì. Fa' quello che ti senti, Ami. Logica a parte, è tanto tanto bello dimostrare di amarsi; è questo che ti rende sicura dell'amore.»
Doveva darle retta, Usagi era un'esperta. «Grazie di avermi fatto parlare.» Ne rise: se non fosse stata costretta, si sarebbe tenuta tutto dentro.
«A che servono le amiche altrimenti?» Usagi era soddisfatta. Come un falco che si era risvegliato dal letargo, puntò l'angolo della strada. «Ora offrimi un onigiri!»
«Due, se vuoi.» Ami si incamminò con lei.

In quei giorni di solitudine ed incertezze si era persa spesso in un gesto scioccherello e dolce: indossando la collanina che Alexander aveva dato come regalo di compleanno, l'aveva portata alla bocca e aveva baciato piano le piccole pietre. Durante la loro ultima chiamata, lo aveva detto a lui.
«Ami love, preparati» l'aveva avvertita Alexander. «Al mio ritorno, appena ti vedrò, ti darò un bacio da film.»
Tra le risate, lei era arrossita col telefono all'orecchio.
Lo aveva sentito sorridere, e aveva saputo anche come lo stava facendo: con l'espressione serena, concentrata a guardarla - nella sua mente, visto quanto era lontano.
«Ti devo confessare una cosa.»
«Hm?» aveva risposto lei.
«Per riuscire ad andare via da te, tre settimane fa ho messo in atto un'opera di imponente autoconvincimento. Il mio auto-insulto preferito era 'patetico sap', un miserabile Ami-dipendente che non riusciva a staccarsi dalla sua ragazza.»
Lei sentì l'amarezza delle sue parole, ma non riuscì a ribattere.
«In questi giorni ho capito che posso stare senza di te, ma... non voglio più farlo.»
Seduta sul materasso lei si sentì sbilanciata, una caduta profonda che le fece ritrovare l'equilibrio in un istante. Fu un colpo intenso, decisivo.
Strinse il telefono. «La prossima volta... Viaggiamo insieme, anche se ho la scuola. Promesso.»
Lui rise. «Norvegia allora? Così vediamo quei fiordi.»
Potevano andare anche dietro casa, alle terme in un posto qualunque, un viaggio era anche solo un giorno e una notte insieme per... No, la notte non per- Oh sì, anche per-... Avvampò e produsse un tale bollore che dovette tirar via le coperte.
«Ami?»
Lei aveva nascosto la faccia tra le ginocchia. «... miss you. I miss you so much
Il suono dolce e caldo del sorriso di lui la calmò. «Ci rivedremo tra settantotto ore. Tengo io il conto alla rovescia, tu stai tranquilla e aspettami all'aeroporto. Undici e mezza del mattino, va bene?»
«Hm-mh. Cerca di dormire durante il volo, così arrivi riposato.»
«Non dire così. Se arrivo stremato posso sequestrarti e costringerti a farmi da cuscino.»
Lo scherzo toccò un nervo scoperto e lei deglutì. «Love you
«Love you too. A quando potrò dirtelo di persona.»
Sorridendo, lei ripeté il saluto. «Ciao.»
«Ciao.»

Quando infine lo rivide, fu davvero molto semplice.
Un momento prima lei era un fascio di nervi che traboccava amore, preoccupazioni per un futuro lontano seppellite in un angolo della sua testa, pensieri impropri che non riusciva ancora a credere di aver mai avuto e ansia - nemmeno lei sapeva per cosa.
Poi tornò come tutto prima, mentre lo vedeva che usciva dalle porte dei passeggeri in arrivo, una valigia in mano.
C'era lui che sorrideva, lei che lo amava, il presente, il futuro che era presente e nessuna paura. Nessuna ansia, solo il suo cuore che finalmente riposava stremato, felice, e lui, lui.
Gli corse incontro e lo abbracciò.



NdA : con questo episodio sono tornata ad atmosfere molto riflessive, le pippe mentali che tanto mi contraddistinguono come autrice. Ami è l'ideale per tutto questo e come al solito per fortuna c'è Usagi a parlarle. Spero che l'episodio vi sia piaciuto, fatemi sapere.

ellephedre



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