La chiave

di Baldr
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -1- ***
Capitolo 2: *** -2- ***
Capitolo 3: *** -3- ***
Capitolo 4: *** -4- ***
Capitolo 5: *** -5- ***
Capitolo 6: *** -6- ***
Capitolo 7: *** -7- ***
Capitolo 8: *** -8- ***
Capitolo 9: *** -9- ***
Capitolo 10: *** -10- ***
Capitolo 11: *** -11- ***
Capitolo 12: *** -12- ***
Capitolo 13: *** -13- ***
Capitolo 14: *** -14- ***



Capitolo 1
*** -1- ***


Kamar







-1-

 
 

    L’autocarro procedeva lentamente a causa della strada fortemente dissestata, addentrandosi lungo la galleria illuminata dai fari, che fendevano l’oscurità totale. Il tunnel, scavato rozzamente nelle rocce porose ricoperte da polvere rossastra, si interruppe davanti a un enorme muro d’acciaio che impediva il passaggio. Il camion si fermò, l’autista controllò i cinque monitor disposti in cabina, collegati ad altrettante telecamere che permettevano di avere una visiona completa dell’esterno del veicolo corazzato. Afferrò il microfono della ricetrasmittente e lo avvicinò alla bocca. «Inizio pressurizzazione esterna.»

    Un clangore metallico, accompagnato da un forte tremore, accompagnò il moto orizzontale di una seconda paratia alle spalle del veicolo.

    Approfittando di quel fragore, una figura nascosta sotto al rimorchio agganciò una piastra cilindrica, spessa pochi centimetri, al fondo del cassone. Il magnete si saldò al metallo con un rumore secco e l’uomo, con il viso coperto da una maschera marrone e occhiali di protezione, spostò la leva sul fianco dell’ordigno: due ganci metallici si conficcarono nel telaio dell’autocarro.
    Realgar accese l’unità, poi sganciò il moschettone dell’imbragatura che lo teneva appeso al veicolo, e si lasciò cadere; avvicinò il mento allo sterno, per proteggere il capo dall’impatto col terreno sassoso, poi si girò sull’addome e strisciò verso il portellone che si stava chiudendo. Dalla sacca, che portava a tracolla, estrasse un’altra placca esplosiva e l’agganciò alla paratia prima che essa concludesse il suo movimento.

    Il rombo tranquillo del motore del camion rimase l’unico suono all’interno della sala di pietra dalle pareti frastagliate. Dopo una decina di minuti, il muro anteriore iniziò a scorrere lateralmente, scomparendo nella roccia, rivelando man mano una galleria meno rozza; vi erano lampadari sulla volta del tunnel, ogni cento metri, che emettevano una debole luce dai toni arancioni, la strada era sterrata ma curata e le pareti erano più regolari.
    Realgar si agganciò alla scaletta posteriore quando il camion ripartì. Passò un braccio tra i gradini di metallo e frugò ancora nella bisaccia, tirando fuori uno specchio. Tese il bracciò verso il fianco destro dell’autocarro, facendo sporgere la superficie riflettente oltre il cassone, quel tanto che gli permettesse di vedere la strada che stavano percorrendo.
    Quando notò le luci acquistar forza in fondo al tunnel, preannunciando la fine dello stesso, calcolò il momento in cui si sarebbe trovato a mezza via tra due lampadari e saltò giù dall’autocarro, acquattandosi a terra. Il lungo spolverino era coperto da polvere rossiccia, tanto che era difficile da intuire che in realtà fosse blu e, assieme alla scarsa illuminazione lo aiutò a mimetizzarsi. Quando il camion scomparve dietro alla curva, si alzò in piedi e lo seguì, camminando lungo la parete della galleria.

    Arrivò così a una vasta caverna artificiale, dal soffitto alto all’incirca sei metri, nella quale erano racchiusi, a una sommaria stima, un centinaio di moduli abitativi, strutture squadrate, una uguale alle altre, talvolta sovrapposte a formare edifici di due piani.

    Tenendosi al riparo delle rocce e dei moduli, raggiunse il centro abitato. Si accovacciò in un punto dal quale godeva di una buona visuale, lasciando scorrere lo sguardo sulle persone che si muovevano per le strade. In lontananza vide un camion, probabilmente lo stesso grazie al quale era penetrato nell’avamposto clandestino.

    Sollevò gli occhiali protettivi, adagiandoli sul capo. Si levò le lunghe ciocche di un biondo platino da davanti gli occhi, poi aprì lo spolverino e, da una tasca interna, prese il cannocchiale. Estese il tubo telescopico, cercando il ladro di documenti, ma nessuno dei volti che incrociava apparteneva al ricercato. Con uno sbuffo di disappunto, si spostò dal nascondiglio alla ricerca di un punto di osservazione sopraelevato. Si arrampicò silenziosamente lungo una scala e si sdraiò con cautela sul tetto, riprendendo a scrutare l’abitato.

    L’obiettivo del cannocchiale indugiò su diversi visi e, alla fine, si fermò su una finestra oltre alla quale individuò il proprio bersaglio. Ripose il tubo all’interno della tasca e tornò a studiare la sua meta, valutando come raggiungerla in quel dedalo di viuzze strette e irregolari.

    Scese dal tetto e si incamminò di soppiatto, le ginocchia flesse e i sensi all’erta. Più di una volta fu costretto ad appiattirsi conto a un modulo, a rimanere immobile, per non farsi individuare da un passante. Raggiunse la meta e si avvicinò cautamente alla strada, rimanendo al riparo nel vicolo. Estrasse dalla tasca destra dello spolverino il radiocomando e inviò il segnale di innesco alla bomba che aveva piazzato sull’autocarro.

    L’esplosione fece tremare le pareti della caverna, rocce di piccole dimensioni si staccarono dalla volta e caddero sui moduli, senza causare danni. Tutti gli abitanti iniziarono a sciamare verso l’autorimessa, per spegnere l’incendio che stava cominciando a propagarsi. Anche il ricercato uscì dalla propria tana e corse via, passando davanti a Realgar che, fermo nella stretta traversa, lo lasciò sfilare senza intervenire.

    Attese qualche istante, poi si sporse a controllare la strada e, non appena fu libera, si precipitò all’ingresso del modulo. La porta era stata lasciata aperta ed entrò senza difficoltà. Si guardò attorno, studiando l’angusto spazio abitativo, adatto a ospitare una sola persona. I moduli erano studiati per essere funzionali e le comodità erano limitate al minimo necessario.

    Ispezionò il letto sopraelevato alla sua destra, fissato alla parete corta; frugò sotto il materasso e, non trovando ciò che era stato rubato, controllò la scrivania posizionata sotto alla zona notte. Rinvenne una cassetta di sicurezza di piccole dimensioni e la appoggiò sul ripiano. Studiò la tastiera numerica sulla sommità, che permetteva di inserire il codice di sblocco della serratura e prese dalla sacca gli arnesi da scasso, iniziando a smontarla. Incise le guaine di due piccoli cavi elettrici, scoprendo i fili di rame e li usò per mandare in corto il circuito. La cassetta si aprì, rivelando il chip, grande quanto un’unghia, in essa contenuto. Lo sollevò davanti al viso, tenendolo tra indice e pollice, poi lo inserì nello slot dello scanner che indossava all’avambraccio sinistro.
    Il display si accese, mostrando il documento elettronico firmato dal responsabile della Fratellanza Nergal, la gilda dei mercanti che dominava tutte le città cupola. Con quello era possibile farsi consegnare a vista un carico di mezza tonnellata di petrosene, la principale fonte di energia su Marte, senza sottoporsi a ulteriori controlli.

    «Trovato» sussurrò soddisfatto, sfilando il chip dal dispositivo; lo fece cadere dentro a un contenitore cilindrico che infilò nello scomparto della cintura.

    Lasciò il modulo abitativo felice di non essersi tolto il respiratore, visto che il fumo aveva invaso la caverna. Abbassò gli occhiali di protezione davanti agli occhi e proseguì a passo svelto lungo la strada. Da una delle abitazioni, uscì precipitosamente un uomo armato di estintore e, involontariamente, lo urtò. Lo sconosciuto non si curò eccessivamente di lui e corse verso l’incendio. Tirò un sospiro di sollievo e proseguì. Arrivò sulla strada principale e, su un lato, vide due quad. Si avvicinò e li ispezionò: come previsto, non trovò le chiavi di accensione. Salì in sella al modello blu e scoperchiò il quadro elettrico, cominciando ad armeggiare con i cavi. In lontananza sentiva le grida degli abitanti dell’avamposto, intenti a domare le fiamme che consumavano il prezioso ossigeno, gelosamente conservato nella caverna.

    Il motore del quadriciclo tossì un poco, prima che le vibrazioni si regolarizzassero.

    «Ehi!»

    Realgar si voltò alle proprie spalle e vide tre uomini corrergli incontro; tra essi, c’era anche il ladro di documenti. Girò immeditamente la manopola del gas e si diresse verso la galleria. I tre inseguitori lo videro fuggire, impotenti.

    «Merda! Mi ha fregato pure la moto!» sbottò il ladro.

    L’amico saltò sul quad rimasto. «Gli vado dietro, andate a prendere l’auto.» Mise in moto e si lanciò all’inseguimento. Tossendo a causa del fumo, il ladro diede una pacca alla spalla del compare, indicandogli una direzione verso la quale scattarono all’unisono.

    Realgar imboccò il tunnel e si voltò per controllare quanto vantaggio avesse. Il sibilo di un fascio d’energia, gli fece intuire di averne meno di quanto sperasse. Si piegò sul serbatoio, spingendo al massimo il veicolo.

    Un’esplosione di scintille accompagnò l’impatto del colpo successivo, che incurvò il parafango posteriore sinistro, che andò a sfregare sullo pneumatico, privo di camera d’aria, cominciando a ledere alla gomma di rivestimento.

    «Maledizione» ringhiò Realgar, preparandosi all’inevitabile. Non appena il battistrada cedette, le sezioni della ruota iniziarono a piegarsi e il quad sbandò. Per non perdere il controllo, fu costretto a rallentare e a controsterzare. Sfoderò la propria pistola con la mancina e si voltò, esplodendo un colpo d’energia verso l’altro quad che guadagnava terreno. Sparare in quelle condizioni non era pratico, ma al terzo colpo, riuscì a centrare la ruota anteriore dell’inseguitore, appiedandolo.

    A trecento metri dalla paratia, la ruota cedette del tutto e l’asse posteriore si ruppe. Realgar abbandonò la moto e corse verso la porta, mentre alle sue spalle sentì il rombo di un altro motore. Si girò e vide un rover sopraggiungere a gran velocità. Impugnò l’arma con la mandritta e sparò un paio di colpi, per rallentarlo ma, uno dei tre occupanti si alzò in piedi sul sedile posteriore e rispose al fuoco, sparando con un fucile.

    Realgar si tuffò di lato e fece una capriola, schivando i globi di energia scarlatta. Alla fine della rotazione, si mise in ginocchio e sparò nuovamente contro il veicolo sempre più vicino. Scattò zigzagando verso il rover poi, a pochi metri dal veicolo, spiccò un poderoso balzo. Grazie alla lieve gravità marziana, oltrepassò l’auto, sparando con precisione con l’intento di disarmare gli aggressori. Quando atterrò alle loro spalle, impugnò il radiocomando e fece saltare la seconda carica, sfruttando l’esigua copertura offerta dal veicolo.

    La brezza iniziò a spirare verso l’esterno e Realgar scattò verso la breccia, mentre la sirena d’allarme entrò in funzione.

    «Sta scappando!» urlò l’uomo sul sedile posteriore, massaggiandosi il braccio stordito dalla scarica.

    «La saracinesca si sta chiudendo, dobbiamo rientrare!» rispose allarmato il pilota.

    «No! Dobbiamo recuperare quei documenti!» intervenne il terzo, a cui Realgar aveva sottratto il bottino.

    «Non abbiamo l’attrezzatura per uscire!» ringhiò il pilota, affondando il piede nell’acceleratore, sterzando repentinamente, per poi tornare verso l’avamposto, mentre la seconda porta metallica sigillava l’apertura, preservando l’atmosfera artificiale della stazione sotterranea.

    Realgar raggiunse il rover, nascosto tra le rocce, e rimosse il telo mimetico col quale lo aveva coperto. Il sole era da poco tramontato e il cielo splendeva dei colori delle aurore, che si muovevano come le onde sulla superficie di un lago. Cinquant’anni prima, i cieli marziani erano decisamente più monotoni privi di quello spettacolo, poi l’Uomo era riuscito a realizzare una barriera magnetica orbitante, per proteggere la superficie dalle violente tempeste solari. Aveva sacrificato uno dei due satelliti di Marte, Phobos, ma si era trattato di una perdita necessaria alla sopravvivenza delle colonie umane.

    Saltò alla guida del veicolo biposto, chiuse l’abitacolo e mise in moto. Le luci esterne si accesero e il sistema di supporto vitale pressurizzò la cabina, iniziando a bonificare l’aria. Realgar controllò i sistemi e lasciò scivolare lo sguardo sui dintorni, sbirciando oltre la calotta, incastonata nel robusto telaio.

    Si avviò tra le creste rocciose che si innalzavano nei pressi del bordo del cratere, simili a un intricato labirinto, che lui conosceva come le proprie tasche. Dopo quasi un’ora di marcia lenta, la pietra aspra e tagliente lasciò spazio a soffici dune, che si alzavano di diversi metri. Risalì sulla cima di una di esse e la cupola di Herschel gli apparve all’orizzonte, rischiarando la notte con le sue luci artificiali, apparentemente piccola rispetto all’immenso bacino che la ospitava.

    La sua attenzione era però rivolta all’oceano di sabbia, spazzato da una lieve brezza, che lo separava dalla cupola. Era il tratto più insidioso del percorso, perché era un mare mutevole che cambiava geografia in base ai capricci del vento. Non aveva abbastanza petrosene come combustibile per seguire il bordo interno del cratere, quindi doveva per forza sfidare le sabbie in esso contenute, stando ben attento a non farsi seppellire dagli improvvisi cedimenti.

    Disattivò il cambio automatico e spinse a fondo il pedale dell’acceleratore; il rover sgommò, sollevando un denso polverone, e si tuffò lungo la scarpata, mentre la duna collassava alle sue spalle.




 
Ritorno con una nuova long, dopo il raptus che mi ha portato a cancellare tutto.
Veniamo alle note.
Fu l'astronomo Schiaparelli a stilare la prima mappa marziana, assegnando i nomi alle formazioni che poteva scorgere dalla Terra tramite telescopio. L'abitudine è rimasta e i successivi astronomi, forti anche dello sviluppo della tecnologia ottica, e alle missioni spaziali, individuarono miriadi di altri oggetti a cui assegnarono nomi in omaggio alle menti illustri del passato o a luoghi terrestri esistenti.
Herschel è uno di questi crateri, con un diametro di circa 300 chilometri, e prende il nome dai due Herschel (padre e figlio), noti astronomi britannici.
Il cratere Herschel si trova nell'emisfero sud di Marte, nella regione denominata Mare Tyrrhenum e, se ci tenete, potete individuarlo grazie a questo link.
Realgar
, invece, è il nome di un minerale dall'acceso color rosso. Mi piaceva l'idea che il protagonista avesse il nome di un minerale dello stesso colore di Marte :D


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Daniela

 

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Capitolo 2
*** -2- ***


Kamar







-2-

 
 

 

    Realgar, seduto su una panchina di metallo arrugginito, osservava il piccolo parco cittadino, costruito sulla sommità di uno dei palazzi. Alberi, arbusti, persino l’erba aveva un insalubre colore giallognolo per colpa dell’inquinamento.

    Lo sguardo indugiava soprattutto sui passanti, ne scrutava i volti, cercando di intuire le intenzioni di quelle figure estranee a lui. Era all’erta, voleva evitare che qualcuno gli facesse saltare l’affare, soprattutto ora che era così vicino a riscuotere il suo compenso.

    Le iridi azzurre si posarono sulla figura di un uomo, avvolto in un pesante soprabito scuro, che non aveva nemmeno un granello di polvere, sibolo che non avesse mai messo piede all’esterno della cupola, o anche nelle zone di decompressione.
    Lockart ricambiò l’occhiata per un solo istante, per poi incamminarsi verso una delle passerelle sospese, che univa il parco a uno dei palazzi vicini. La parte superficiale di Herschel era un fitto intrico di ponti veicolari e pedonali, per poter estendere la superficie calpestabile.

    Realgar si alzò e lo raggiunse a metà del viadotto. Lockhart era appoggiato alla ringhiera, con lo sguardo perso sulla ragnatela che si estendeva sotto di loro per venti piani sotto di loro. «Lo hai con te?» gli domandò. Impossibile dire se lo stesse fissando, visto che gli occhi erano celati dietro le lenti scure della maschera, che proteggeva le mucose dall’aria venefica.

    Realgar scostò lo spolverino, portò una mano alla cintura e recuperò il cilindretto, svitò il coperchio e lasciò cadere il chip sul palmo della mano che Lockart gli aveva teso.
    L’industriale lo afferrò tra le dita e lo inserì nel dispositivo incorporato nell’orologio da polso, che proiettò il documento sull’avambraccio. Sospirò di sollievo, constatando che si trattava proprio del documento che gli era stato rubato. Spense il display e prese il contenitore che Realgar gli offrì, infilandovi il chip, facendolo poi sparir in una tasca interna del cappotto. Sfilò dall’altra il portafoglio di pelle sintetica, strofinò le mani intirizzite contro la gomma, simile a quella usate per le mute da sub, con cui era realizzato il cappotto e si tastò la sciarpa di pile, che proteggeva la gola. Estrasse  dal portafoglio una carta magnetica e la diede al mercenario.

    Realgar la prese, la passò vicino al polso sinistro e lo scanner rivelò la quantità di tael in essa contenuti. Alzò i limpidi e sorridenti occhi azzurri sul proprio cliente e gli rivolse un cenno del capo. «Grazie e buona giornata.» Non indugiò oltre, ritornò al parco, che lasciò, dirigendosi al proprio ufficio.

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    Il palazzo di ventitré piani era silenzioso e buio: era un edificio per uffici e a quell’ora erano tutti chiusi. Realgar era l’unico essere vivente che si muoveva lungo i corridoi disadorni, dall’aria decadente. Raggiunse il diciassettesimo livello, costretto a usare le scale, poiché la corrente elettrica era razionata e gli spazi comuni rimanevano inoperativi sino all’ora prima della riapertura degli studi dei professionisti.

    Il largo corridoio metallico si restrinse improvvisamente e l’uomo si ritrovò in un cunicolo largo appena un metro, male illuminato, con porte disposte in maniera irregolare sui due lati e a distanze maggiori rispetto al corpo principale dell’edificio. Il suo ufficio si trovava infatti in uno dei bozzi, così la gente comune chiamava le sporgenze metalliche che gli architetti aggiungevano lungo ai fianchi dei palazzi. La gravità marziana permetteva diverse licenze e i bozzi erano una di queste.

    Herschel, come molte altre città che si affacciavano sulla superficie, non conosceva equilibrio e simmetria, si sviluppava come un cancro, occupando qualsiasi spazio disponibile all’interno della cupola che, di anno in anno, si faceva sempre più stretta di fronte alla crescita demografica.

    I locali costruiti nei bozzi erano più grandi degli altri e costavano meno, perché erano instabili e il metallo, a causa dell’elevata escursione termica a cui era sottoposto, si deformava e, così, la sporgenza finiva inesorabilmente per crollare sui livelli sottostanti, prima o poi.

    Realgar arrivò alla porta del proprio ufficio, sbloccò ciascuna delle serrature che ornavano la porta blindata e scivolò all’interno, ritrovandosi in una stanza buia; la parete opposta era composta da un’ampia vetrata che si affacciava su Herschel e prendeva luce dalla città stessa, sebbene molti lampioni a quell’ora fossero spenti.
    Le città cupole erano energeticamente dipendenti dalla più estesa colonia di Marte, la Olympus, costruita all’interno del più imponente vulcano dell’intero sistema solare. Distribuire l’energia, l’ossigeno, l’acqua e moltissimi altri beni, era compito della Fratellanza Nergal, l’unica a possedere ancora la tecnologia per lasciare Marte alla volta della Terra o che potesse anche solo comunicare con il pianeta madre. Ogni città cupola pagava pesanti dazi alla Fratellanza per poter sopravvivere. A Herschel, tutto sommato, si stava bene, la miseria non si sentiva troppo.

    Tirò il chiavistello e si incamminò verso la scrivania posta a un metro dalla vetrata. Svuotò le tasche dello spolverino, sfilò il cinturone svuotando ogni vano, sganciò lo scanner dal polso, finalmente si liberò della maschera e degli occhiali protettivi. Infine, si denudò, poi raccolse i vestiti e li infilò nella lavatrice ad anidride carbonica liquida, avviando il programma di pulitura.

    Tornò al tavolo, si sedette sulla poltroncina, aprì un cassetto e prese una barretta energetica, la scartò e iniziò a sgranocchiarla svogliatamente. Ruotò la sedia, in modo da guardare il panorama che la città offriva. Abbassò poi lo sguardo sulle braccia e quindi sul petto, tastandosi la pelle. Lo strato di crema protettiva che lo rendeva apparentemente pallido si era pericolosamente assottigliato ma, visto che era solo come sempre, non se ne preoccupava.

    Finì il suo equilibrato, quanto sintetico pasto, e si alzò in piedi, stiracchiandosi la schiena e le braccia. Poi aggrottò la fronte, quando vide il bussolotto nella canalina della posta pneumatica.

    «Ma che diamine» bofonchiò sommessamente, incamminandosi il tubo. «Le tasse le ho pagate da meno di un mese, la fornitura energetica scade tra due...» ringhiò, prendendo il bussolotto e aprendolo. Le dita si strinsero sulla carta e aggrottò la fronte, incredulo. Si avvicinò al tavolo e accese la lampada.

    Stirò sul ripiano la busta, osservandola ammirato. Era proprio carta, un materiale così raro e prezioso che veniva usato solo per importanti comunicazioni.

    Girò la lettera e lesse il mittente:

STUDIO NOTARILE

LI BAO E CHEN SHU

    Senza soffermarsi sull’indirizzo aprì il plico con cura, non voleva rovinarlo, visto che era la prima volta in vita sua che riceveva una lettera di carta vera e propria. Conteneva un solo, candido foglio, che lo invitava a presentarsi presso lo studio, non appena avesse ricevuto il messaggio. Controllò gli orari stampati sulla carta e afferrò lo scanner. Lo assicurò al polso, in modo che la biochimica del corpo lo alimentasse, e si collegò alla rete informatica di Herschel per inviare una comunicazione dove avvertiva che la mattina successiva si sarebbe presentato dai notai.

    Appoggiò lo scanner sul tavolo e andò nella stanza attigua dove c’era una doccia con sistema di ricircolo dell’acqua. Si lavò e lasciò che il flusso d’aria lo asciugasse, riportando le particelle del prezioso liquido dentro ai serbatoi, facendolo passare attraverso gli appositi filtri. Uscito dalla doccia, abbassò una leva e la parete dove il box sorgeva, assieme agli altri sanitari, ruotò sull’asse verticale; la parete mostrò così una nuova faccia, sulla cui superficie vi erano quattro mensole di metallo. Sopra ciascuna di esse vi erano carillon di variate fogge e dimensioni, pezzi di antiquariato provenienti dalla Terra. Era una piccola collezione di cui andava molto fiero e, grazie a quello che il lavoro per Lockart aveva fruttato, avrebbe potuto comprare qualche altro carillon interessante al prossimo viaggio a Pavonis, la città mercato. Aggrottò la fronte e tormentò il labbro inferiore con gli incisivi: era un piano realizzabile a patto che i notai non volessero spillargli dei soldi.

    Afferrò una maniglia sul muro alle sue spalle e abbassò il pianale del letto. Fece il giro del piccolo ufficio, che usava anche come abitazione,  e spense le luci. Tornò nell’angusta stanzetta e  si sdraiò sul sottile materassino di gommapiuma, infilandosi sotto le coperte di pile. Ricordò la morbidezza della coperta di lana che usava da bambino e la malinconia lo colse. Le persone che lo avevano cresciuto erano morte da anni e non aveva più legato con nessuno da allora. Era come se con la scomparsa delle fibre naturali, anche i suoi sentimenti avessero abbandonata quel pianeta arido. Osservò il soffitto per lunghi minuti, poi sbuffò, quasi volesse scacciare i pensieri e si addormentò.



 
Non sapevo come rendere l'idea di cosa è Herschel. Mi sono immaginata una grande città, piena di mezzi con vecchi motori diesel (il petrosene nella mia testa fa una fumana nera da paura), messa sotto vetro. E mi sono immaginata che l'aria non dovesse essere molto salubre. E poi cercare di capire che le cose organiche sono rarissime e costose, perché vengono dalla Terra, però non volevo ammorbare il lettore, ma credo di averlo fatto comunque.

Non mi pare ci sia bisogno di note, ma se qualcuno avesse un qualsiasi dubbio, chieda pure U.U


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Daniela

 

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Capitolo 3
*** -3- ***


Kamar







-3-

 
 

 


    «Buongiorno, signor Stepson, sono Chen Shu. Prego, si accomodi» disse la donna dai lineamenti orientali, facendo accomodare Realgar nell’ufficio elegante.

    Lui raggiunse la sedia e vi prese posto, senza aspettare che il notaio facesse altrettanto. Lei lo guardò inespressiva e si accomodò a sua volta.

    «Signor Stepson, lei conosce Pierre Souris?» gli domandò, tenendo le iridi castane sul suo volto.
    Realgar aggrottò la fronte e abbassò il respiratore che gli copriva la parte inferiore del viso, dato che lo scanner aveva confermato che l’aria nella stanza era perfettamente filtrata. «Il biologo? Be’, si è rivolto a me diverse volte per procurargli alcuni campioni sulla superficie.»

    «Già, lei è un esploratore mercenario, mi risulta. Aveva altri rapporti con il professor Souris, al di fuori dell’ambito lavorativo?» domandò la cinese.
    Lui scavò nei propri ricordi e si strinse nelle spalle. «Una volta abbiamo bevuto una bibita energetica assieme. Pierre mi contatta due volte l’anno ma, dalle sue parole, deduco che ciò non avverrà più: ha usato l’imperfetto.»

    La donna si sfilò gli occhiali con le piccole lenti tonde e lo fissò qualche istante, poi annuì. «Pierre Souris è morto tre settimane fa. Lei è nominato nel testamento e sono giorni che tentavamo di contattarla.»

    Realgar alzò una mano per zittirla, con un’espressione perplessa stampata sul viso. «Nel testamento? Non avevo debiti o crediti con il professore...»

    «Infatti, ma il signor Souris l’ha comunque nominata come erede di mezzo milione di tael» intervenne il notaio.

    Le labbra dell’uomo disegnarono una ‘O’ di stupore e lui sbatté le palpebre un paio di volte, per poi costringersi a inspirare. «Mezzo… milione? Mi ha lasciato una tale somma?» boccheggiò incredulo. La sua mente elaborò quelle parole e finalmente reagì. «Quando posso incassare?» domandò, sorridendo raggiante.

    Chen Shu strinse le labbra, infastidita da quella reazione. «Dovrebbe mostrare un po’ di rispetto per il defunto, dato che mi risulta che un esploratore ha un reddito medio di ventimila tael all’anno.»

    «Ah, ma ora che so quanto Souris fosse altruista, lo stimo ancora di più. Dove devo firmare per prendere i soldi?» chiese ancora.

    La donna appoggiò le lenti sul naso e aprì la cartellina di plastica che aveva sul tavolo, davanti a sé. Prese il foglio di carta in essa contenuto e scorse le lettere vergate a mano sulla superficie. «La sua eredità è soggetta a riscossione» disse, rialzando le iridi scure su Realgar, che aggrottò la fronte, sporgendosi con il busto verso di lei.

    «Ovvero?»

   «Lei riceverà il mezzo milione di tael se, e solo se, porterà a termine un incarico. Per sua fortuna è di modesto pericolo, quindi credo che non le risulterà ostico accettarlo.»

    Realgar appoggiò pesantemente la schiena alla sedia e abbandonò gli avambracci sulle cosce. «C’era la fregatura, lo sapevo. Ma mezzo milione sono una bella cifra...» borbottò, per poi alzare lo sguardo sulla cinese. «Qual è l’incarico?»

    «Consegnare un oggetto a Samantha Souris.»

    Lui aggrottò la fronte e poi sollevò le sopracciglia. «È vero! Pierre aveva una bambina! Ricordo di averla vista una volta; ha quattro anni, no?»

    «Veramente ora ne ha quindici» lo corresse Shu.
    Realgar fece una smorfia. «Come passa il tempo...» commentò, passandosi una mano nei capelli. «Quindi devo solo portare qualcosa a Sam e voi mi darete i soldi?» La donna annuì e lui sorrise. «Bene! Dov’è la ragazzina?»

    «Ad Anseris.»

    Quella parola strappò il sorriso dal volto dell’uomo. «Che reato ha commesso?» domandò grave.

    Il notaio sospirò. «Nessuno, ma la ragazza è orfana di entrambi i genitori, non può provvedere a se stessa ed è completamente a carico del governo.»

   Realgar scosse il capo divertito. «Suo padre ha lasciato mezzo milione di tael quasi a un perfetto sconosciuto, presumo che alla figlia abbia lasciato ben di più. Credo che sia perfettamente in grado di cavarsela!»

    L’espressione di Shu si indurì. «Signor Stepson, la legge impone che sino alla maggiore età i ragazzi siano sotto la responsabilità dei genitori e, in assenza di questi, essi vadano assegnati a una struttura di educazione sociale...»

    «Utilità sociale, vorrà dire. Cosa c’è di educativo nell’ obbligare i ragazzini a lavorare nelle miniere?»

    La donna chiuse con un gesto brusco la cartellina e lo fissò duramente. «Signor Stepson, siamo qui per l’eredità del signor Souris. Se vorrà entrare in possesso del denaro, dovrà effettuare quella consegna ad Anseris. Cosa decide?»

    Realgar si massaggiò la fronte e poi raddrizzò le spalle; sostenne lo sguardo di Shu e annuì. «Dipende anche da cosa devo consegnare...»

    Lei si alzò dalla sedia e si avvicinò alla cassaforte sul muro, la aprì e ne estrasse un baule che non superava il mezzo metro di lunghezza. «Non so nemmeno io di cosa si tratti, ma se all’apertura dovesse rivelarsi qualcosa di illegale, potrà rifiutarsi e il denaro sarà comunque suo. Se invece non ci fossero impedimenti di legge, dovrà effettuare il recapito» spiegò, appoggiando la cassa metallica sulla scrivania.

   Realgar si alzò in piedi, strofinandosi le labbra con le dita. L’ingombro di quella scatola non era preoccupante e non gli sembrava che Shu avesse compiuto un grave sforzo per portarla sino al tavolo. Annuì nuovamente e mise una mano sulla cassa. «Vediamo cosa contiene.»

    Shu recuperò la chiave dall’archivio e sbloccò la serratura, facendo cigolare la cerniera metallica quando sollevò il coperchio del baule.

    «Una… bambola?» commentò Realgar, sbirciando all’interno.
    Shu estrasse il giocattolo con il volto di porcellana incorniciato da lunghi e morbidi boccoli biondi. L’elegante vestito era di seta azzurra, impreziosita da merletti lavorati all’uncinetto, con un grosso fiocco sul petto, arricchito da un gioiello: una piramide in oro rosso decorata con incisioni a bulino, incastonata su una montatura d’oro bianco.

    Il notaio controllò l’interno della cassa e poi annuì. «Sì, c’è solo questa» disse, affidando il bambolotto a Realgar. Si sedette al tavolo e cominciò a digitare sul computer, premette invio e, da una fessura sul tavolo, spuntò un chip. Lo prese tra le punta delle dita e lo porse all’uomo. «Quando la consegnerà a Samantha Souris, le faccia inserire il codice di identificazione tramite scanner. In questo modo sbloccherà l’eredità e potrà riscuoterla direttamente sul posto.»
    Lui prese il componente e lo mise al sicuro in una delle tasche del cinturone, sorridendo soddisfatto. «Mezzo milione per consegnare un giocattolo: è il mio giorno fortunato» commentò, infilando la bambola nella cassa e richiudendola. La sollevò tra le braccia e si incamminò verso la porta.

    La donna si affrettò a raggiungerla e gliel’aprì. «Buona giornata, signor Stepson.»

   «Ottima per davvero, ho appena intascato il biglietto vincente della lotteria!» esclamò lui, lasciando l’ufficio e ripercorrendo il corridoio per guadagnare l’uscita.
    La donna indurì l’espressione, guardandolo mentre si allontanava. «Zotico, maleducato» rimbrottò, chiudendosi la porta alle spalle.




 
Forse lo avrete notato, non c'è una lunghezza prestabilita per i capitoli. Dipende dalla scena e da quello che devo raccontare in essa.
Realgar non è molto educato... insomma è un po' grezzo.

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Daniela

 

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Capitolo 4
*** -4- ***


Kamar







-4-

 
 

 


    Il rover procedeva speditamente, all’interno del Tunnel Sud, affiancato alla magnetovia. Era una galleria imponente, con una volta alta un centinaio di metri, necessari per far sfilare i convogli dei rifornimenti che viaggiavano sui binari magnetici.

   Sarebbe stato comodo poterla seguire fino a Kepler e da lì dirigersi ad Anseris ma, lontano dalle città, diversi gruppi di briganti prendevano di mira i treni, rendendo la magnetovia estremamente pericolosa.

   Realgar aveva quindi deciso di attraversare l’altipiano Hesperia, non appena fosse uscito dal cratere, tagliando quasi in linea d’aria verso la meta. Doveva andare dall’altra parte del pianeta e, per farlo, aveva dovuto agganciare il rimorchio con le scorte alimentari ed energetiche al rover, limitandone la velocità e la manovrabilità. Aveva anche perso quasi un intero giorno, per installare le vele, che gli avrebbero consentito di risparmiare carburante e di sfruttare i venti, se questi ultimi fossero stati favorevoli.

    Il cartello stradale lo informò dell’approssimarsi della fine del tunnel che attraversava il bordo del cratere per quasi una ventina di chilometri e Realgar controllò nuovamente i sistemi di bordo. Dopo tre minuti il computer confermò che tutto funzionava secondo i parametri, proprio mentre la luce del pallido sole marziano iniziava a insinuarsi all’interno della galleria, rendendo superflui i lampioni disposti sul lato destro della magnetovia.

    Appena il rover emerse dal massiccio roccioso che racchiudeva il cratere, Realgar calcolò la rotta da seguire e abbandonò i binari, curvando a destra, in direzione ovest-sud-ovest.

    Per i primi due giorni risalì i bruschi pendii che conducevano all’altipiano, accampandosi per la notte negli anfratti rivolti a est, in modo che le prime luci dell’alba ricaricassero parzialmente le batterie. Le notti erano i periodi più difficili per la maggior parte degli esploratori perché, per risparmiare l’energia dei veicoli, era necessario tenere i supporti vitali al minimo. Realgar non temeva il freddo, il buio o la scarsità di ossigeno. Era sempre stato uno degli esploratori più temerari; se avesse accettato di lavorare per il governo, sarebbe stato uno dei più retribuiti. Invece aveva preferito stare per conto proprio. Un’effimera libertà in cambio di uno stipendio che permetteva pochi vizi.

    Il sole era quasi giunto allo zenit, il terzo giorno di viaggio, quando finalmente davanti a lui apparve la vasta distesa lavica dell’altipiano di Hesperia. Più di duemila chilometri di roccia porosa, ossidata dal poco ossigeno presente nell’atmosfera, e sabbia lo aspettavano, senza la possibilità di godere di alcun rifugio.

    Gli altipiani marziani erano perennemente spazzati dal vento e Realgar era intenzionato a sfruttare quella peculiarità. Fermò il rover, aprì i pannelli solari e poi spense tutti i sistemi non necessari. Calzò il respiratore e gli occhiali di protezione; attivò lo scanner, affinché la rete dermica si accendesse, proteggendolo con un sottile campo energetico che manteneva la pressione atmosferica all’interno del corpo a livelli accettabili. Questo impedì all’acqua di non andare in ebollizione non appena Realgar uscì dall’abitacolo.

    Mentre il rover godeva della luce del sole a quella latitudine equatoriale, controllò lo stato delle ruote, recuperò dal rimorchio la cassa con i panetti di petrosene e la passò nella cabina. Riempì quest’ultima con cibo e acqua a sufficienza per tre giorni e qualche pezzo di ricambio. Se avesse subito un agguato da parte di qualche predone, avrebbe sganciato il rimorchio per distrarre i banditi e avrebbe avuto qualche giorno di autonomia per sopravvivere.

    Iniziò a montare gli alberi delle vele sul solido telaio del veicolo. Impiegò quasi due ore, quindi tornò al volante e abbassò la leva, che permise ai raggi di aprirsi. Il vento gonfiò la stoffa cerata e il rover vibrò con decisione. Realgar sbloccò le ruote e il veicolo si mosse senza bisogno della forza motore.


    Grazie a quello stratagemma, risparmiò un intero panetto di petrosene, rispetto a quelli che avrebbe dovuto usare, anche se impiegò undici ore in più, rispetto al programma, per attraversare il vasto altipiano puntellato da centrali eoliche, dove le pale a più di cento metri dal suolo trasformavano il vento in energia elettrica.

    Quando iniziò a scendere verso la piana di Hellas, all’orizzonte comparve la cima del monte Anseris, che si levava sopra la pianura sorta nella depressione più profonda del pianeta Marte. La vetta imbiancata da ghiaccio secco spiccava sul cielo rosato a occidente e presto il sole sarebbe scomparso dietro la sagoma rocciosa.

    Realgar fermò il rover e si preparò a una nuova passeggiata; smontò le vele, per affrontare al meglio gli stretti e tortuosi sentieri che scendevano a valle. Salì di nuovo a bordo e pressurizzò l’abitacolo, quindi si tolse gli occhiali e si stropicciò gli occhi stanchi con le dita. Aveva guidato ininterrottamente per più di trenta ore, perché sull’altipiano era un bersaglio troppo facile. Era stanco, ma doveva stringere i denti e affrontare gli ultimi seicento chilometri, doveva tenere duro per altre dieci ore.

    Man mano che si avvicinava al monte, che diventava sempre più imponente e ricco di dettagli, incontrò i diversi sistemi di difesa della miniera, dove i controlli si fecero man mano più attenti e severi. Dovette superare tre cerchie murarie, costituite da imponenti blocchi di pietra che si elevavano per una trentina di metri, prima di infilarsi nella galleria orientale che scendeva nel fianco della montagna e ne oltrepassò altre due, prima di trovarsi finalmente in un ambiente pressurizzato.
    Era già stato quattro volte ad Anseris per motivi di lavoro, quindi gli fu facile trovare immediatamente un’area di rifornimento all’interno dell’enorme città formicaio. Noleggiò una piazzola con cella-giaciglio, collegò il rover alla colonna di rifornimento e prese la cassetta con la bambola. La aprì e tirò fuori il balocco, appoggiandolo sul sedile del veicolo. Mise i panetti di petrosene che gli erano rimasti nel baule e lo richiuse a chiave. Sarebbero stati più al sicuro che nella loro cassa.

    «Buonasera!»

   Alzò lo sguardo sul ragazzetto, appena ventenne, che si era avvicinato, con la divisa dell’area di rifornimento.

    «Salve» rispose, caricandosi sottobraccio il cofanetto; afferrò la bambola nella mano libera e con il gomito spinse il pulsante esterno che chiuse di scatto l’abitacolo. «Mi serve la manutenzione degli pneumatici. Mettila in conto assieme al resto» disse, alzando le braccia per appoggiare il cofanetto e la bambola all’interno del tunnel esagonale costruito sopra la colonna di rifornimento. Salì la scaletta e si sedette sul bordo: il soffitto della cella era alto a sufficienza da permettergli di star seduto con la schiena dritta. Guardò il ragazzo e lo puntò con l’indice. «Solo gli pneumatici, non mettere mano al sistema di supporto vitale, chiaro?»

    Il giovane annuì e Realgar si spinse all’indietro e chiuse l’ingresso della cella ermeticamente, quindi si sdraiò sul giaciglio pulito, sospirando stanco. Spense il monitor e le varie luci e rimase completamente al buio, isolato dai rumori esterni e, in quell’ambiente in cui si trovava a suo agio, si addormentò rapidamente.


    Si svegliò che verso l’ora di pranzo, aveva dormito poco più di otto ore. Uscì dal loculo dalle pareti candide e si sgranchì le membra, prima di andare al bagno. Poi raggiunse gli uffici dell’area e chiese il conto.

    «Sono 1238 tael» rispose la donna di mezz’età, dai lineamenti pungenti, digitando sulla tastiera.

    Lui sgranò gli occhi. «Cosa? Nemmeno quattro ruote nuove costano così tanto!»

   Lei alzò gli occhi chiari su di lui, guardandolo con sufficienza e gli rispose con tono piatto: «Oltre alla manutenzione delle gomme, c’è anche il ripristino del supporto vitale che aveva un problema sul miscelatore.»
    Realgar sbatté violentemente il pugno sul bancone che lo separava dalla segretaria. «Gli avevo detto di non toccarlo! Dov’è quell’idiota, il bamboccio che ha messo mano al mio rover?»

    «Secondo il nostro tecnico altamente specializzato con quelle impostazioni l’aria dell’abitacolo era quasi irrespirabil...»
    Lui si sporse verso di lei, quasi ringhiando. «Ho rischiato di morire per una depressurizzazione accidentale e da allora la normale miscela indicata dall’Istituto della Sanità è per me altamente irritante. Ho passato otto anni ha trovare la giusta composizione chimica per l’aria del mio abitacolo e, ora, per colpa del vostro coglione qualificato, mi avete mandato a puttane tutto il sistema?»

    «Cosa succede?» chiese un uomo dinoccolato dalla lunga e curata barba nera.

    «Il clien...» la donna provò a parlare, ma Realgar la zittì nuovamente.

    «Succede che mi avete fottuto il sistema di supporto vitale e ora pretendete anche dei soldi! Avevo detto a quello sbarbatello di occuparsi solo delle ruote!» disse irato.

    Il proprietario dell’area di rifornimento alzò le mani e sorrise paziente. «Si calmi, venga nel mio ufficio e ne parliamo.»


    Lasciò la stazione, a bordo del suo rover, dopo un paio d’ore: gli avevano fatto pagare solo il rabbocco dei serbatoi, mentre il tizio che aveva messo la mano sul suo adorato Kain, avrebbe dovuto sborsare i tael per la manutenzione degli pneumatici e del ripristino del supporto vitale. In futuro ci avrebbe pensato due volte, prima di gonfiare le fatture per aver più provvigioni.
    Come tutte le città sotterranee, Anseris ricordava un formicaio con uno spropositato numero di tunnel che si intersecavano senza un apparente ordine, creando un labirinto di cunicoli in cui era difficile orientarsi. Al centro di ogni insediamento c’era la Colonna, un’imponente caverna cilindrica, illuminata a giorno. Lungo le sue pareti si sviluppavano, con disposizione elicoidale, delle terrazze parallele tra loro, sulle quali sorgevano attività commerciali, giardini, orti o altre strutture che permettessero una sorta di attività all’aperto.

    Arrivò all’orfanotrofio e incontrò il direttore. I ragazzi erano tutti a lavoro per estrarre l’acqua dalle profondità della crosta marziana, ma il signor Kreuzer lo assicurò che, non appena Samantha fosse rientrata, le avrebbe assegnato un permesso sino alle 22, quindi Realgar tornò al rover, fermo poco fuori dai cancelli dell’edificio.

    Durante l’attesa, lavorò per cercare di risistemare il supporto vitale del veicolo, ma senza gli strumenti specifici, poteva apportare solo minuscole variazioni. Quell’attività lo assorbì completamente e perse la nozione del tempo.

    Il bussare sulla carrozzeria lo riportò all’interno dell’abitacolo e alzò lo sguardo sulla ragazzotta dal volto celato dietro le grandi lenti degli occhiali. Lei gli sorrise, inclinando il viso tondo verso la spalla sinistra.

    «Ciao» gli disse a disagio.

    Lui aggrottò la fronte e la studiò per un istante, prima di scuotere il capo. «Che vuoi?» rispose secco.

    Lei si imbronciò. «Cosa vuole lei, semmai, visto che ha richiesto un colloquio con me. Il signor Kreuzer mi ha assegnato a lei sino al coprifuoco.»
   Realgar sollevò le sopracciglia, si appoggiò al scocca del rover e, facendo forza sul braccio, uscì dall’abitacolo. Si ritrovò in piedi davanti alla ragazzina. «Sei Samantha Souris? Sei cresciuta così tanto che mi era proprio impossibile riconoscerti...» disse, abbozzando un sorriso.

    «Lei invece non è cambiato per nulla» rispose, aggirando il muso del veicolo. «È uguale all’ultima volta che l’ho vista da mio padre» aggiunse, salendo a bordo e sedendo sul sedile del passeggero.

    «Ehi!» esclamò, «che diavolo fai? Scendi immediatamente!» sibilò morbosamente possessivo.

    Sam si sistemò i grandi occhiali sul naso sottile e lo guardò senza lasciarsi intimorire. «Come le ho detto, il signor Kreuzer mi ha affidato a lei sino al coprifuoco, dovrà farmi compagnia sino alle 22. Non vorrà stare in mezzo alla strada per tutto il tempo, spero.»
    Realgar fece una smorfia, poi saltò sul sedile di guida e accese il quadro. «Dove vorresti andare, piattola?»
    Sam tenne lo sguardo sulla cintura di sicurezza mentre la allacciava. «Non conosco questo posto. Non sono mai uscita dall’orfanotrofio e non potrò farlo sino alla maggiore età» rispose in tutta tranquillità.

   Lui però schiuse le labbra e portò gli occhi sulla strada, a disagio. Quella ragazza era prigioniera e probabilmente sarebbe morta prima di arrivare ai vent’anni.

    Ripensò alla propria infanzia e si rese conto di essere stato molto più fortunato di lei, nonostante non avesse molti ricordi felici. Lo avevano adottato e non era mai stato costretto a vivere nemmeno per un’ora in uno dei centri di accoglienza, che impiegavano i bambini nelle miniere, per estrarre le rocce dove l’acqua era imprigionata da milioni di anni.

    Spinse l’acceleratore e si avviò lungo la strada.

    «Non chiude l’abitacolo?» domandò Sam.

    «Un idiota mi ha fatto impazzire la miscelazione del supporto vitale, quindi preferisco lasciarlo aperto» rispose lui, dirigendosi verso la Colonna. Scelse una delle piattaforme immerse nel verde, con un piccolo ristorante e parcheggiò, pochi istanti prima che l’illuminazione passasse in modalità notturna.

    Le potenti luci principali, lasciarono il posto ai faretti dalle tonalità violette, che riproducevano una specie di notte, per assecondare i bisogni metabolici delle piante. Rispetto a quelle delle città cupola, queste sembravano un po’ più in salute, merito dei sistemi di aerazione sotterranei che portavano via gli inquinanti, trattenendoli nei filtri.

    «Hai fame?» chiese Realgar, voltandosi verso il lato passeggero. Chiuse le labbra, guardando il capo di Samantha, piegato in avanti. Si era addormentata, nonostante l’abitacolo fosse rimasto aperto. Doveva essere veramente esausta.

    Scese dal rover e lo chiuse, non ermeticamente, prima di allontanarsi.

 
Gli pneumatici o i pneumatici? Tecnicamente viene indicato il primo, ma in ambito non professionale ho letto che è accettato anche il secondo. Io mi attengo alla tecnica.
Mi stavo domandando: nessuno ha proprio nulla da dire? Non c'è un errore, non c'è nulla? Mi vanno bene anche gli insulti o anche le critiche eh XD

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Capitolo 5
*** -5- ***


Kamar







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    Quando Sam riaprì gli occhi, si guardò attorno spaesata per qualche istante, prima di girarsi verso Realgar al suo fianco.
    Lui le porse un contenitore d’alluminio, di quelli per il cibo di asporto. «Spero ti piaccia la zuppa… è ancora calda.»
    Lei si sistemò meglio sul sedile e prese il recipiente, assieme al cucchiaio che l’uomo le porse. Alzò lo sguardo su di lui, sospettosa. «Dai racconti di mio padre, ho sempre pensato che lei fosse uno zotico, ignorante e menefreghista. Quest’impressione mi era stata confermata poco fa, ma questo suo nuovo atteggiamento mi confonde. Grazie» commentò grata, prima di iniziare a mangiare.
    Realgar alzò le sopracciglia a quelle parole, che gli suonavano decisamente come offese. Mezzo milione. Questa mocciosa mi farà avere mezzo milione di tael, pensò passandosi la lingua sulle labbra, che stese in un sorriso freddo. «Poco fa? Veramente sono le nove di sera passate...» fece notare.

    Sam sgranò gli occhi, rischiando di strozzarsi con la zuppa. Deglutì, pulendosi la bocca con le dita. «Cosa?»

    «Dormivi così bene che ti ho lasciato stare» commentò lui.

    La giovane scosse i corti capelli castani. «Alle 22 io devo essere nel mio dormitorio o verrò punita!»
    Realgar fischiò. «Che fortuna...» commentò, «tienti stretta.» Accese il quadro del rover e sgommò verso l’orfanotrofio. Tenendo il volante con la mancina, tese il braccio destro nel vano posteriore ai sedili; senza staccare gli occhi dalla strada, riconobbe al tatto la cassa con i panetti di petrosene, fece una smorfia e proseguì la ricerca.

    «Attento!» squittì Sam, quando per poco non travolsero un paio di passanti.
    Realgar mise entrambi le mani sul volante, imprecando tra i denti. «Senti, io devo consegnarti un oggetto per tuo padre, ce l’ho qui dietro. È una bambola. Trovala e poi firmami la ricevuta.»

    Samantha si voltò sul sedile, quel tanto che la cintura di sicurezza le permetteva. Spostò alcuni oggetti alla rinfusa e poi, dolorante, tornò a guardare in avanti. «Non trovo nulla.»

    «Sganciati quella cintura e voltati!» ringhiò Realgar.

    Sam lo guardò allibita. «Ma è vietato! In caso di incidente si rischia la vita se non si usano i dispositivi di sicurezza! Mi passi lo scanner, le firmerò la ricevuta di consegna e quando arriviamo all’orfanotrofio mi darà la bambola.»
    Realgar la guardò un istante, con disappunto, per poi tornare a fissare la strada. «Sei stupida o cosa? Non devi mai firmare la consegna a un esploratore, soprattutto se è un mercenario, prima di aver ritirato effettivamente l’oggetto. Potrebbe fregarti!»

    «Mio padre si fidava di lei.»

    Realgar scosse il capo, poco convinto da quella scelta, ma alla fine erano affari della mocciosa, quindi le porse l’avambraccio sinistro.

    Samantha posò il pollice sulla superficie del display e una voce elettronica scaturì dall’apparecchio: «Identificazione cliente per consegna.»

    «Souris, Samantha Lauryn, codice 27729/21-85.»

    «Sbrigati, il braccio mi serve» ringhiò Realgar, sterzando senza cambiare marcia.

    Sam lo guardò infastidita e poi avvicinò il viso all’avambraccio dell’uomo e lo scanner analizzò la sua retina.

    «Identità confermata» informò la piatta voce artificiale. «Apporre la firma sul dispositivo.»

    La ragazza scarabocchiò con la punta dell’indice sul display e poi lasciò libero il braccio di Realgar.

    Appena in tempo, visto che, dopo una nuova curva, l’esploratore fu costretto a premere il freno e a sterzare bruscamente per evitare l’impatto con un veicolo ribaltato sulla strada. Solo la sua esperienza alla guida, evitò che andasse a sbattere. Si sporse fuori dall’abitacolo per controllare il retro del rover, fece manovra e si affiancò alla corsia riservata ai pedoni.

    «Come diamine si fa a cappottarsi così?» bofonchiò nervoso. Guardò Sam e si sganciò la cintura di sicurezza. «Non si passa» spiegò, affannandosi alla ricerca della bambola che riuscì a riesumare da dietro i sedili. «Eccoti il regalo di tuo padre. Dovrai tornare a piedi all’orfanotrofio, ma non siamo lontani, dovresti farcela in cinque minuti» assicurò.
    Lei prese il giocattolo, guardandolo a labbra serrate, poi scese dall’auto e si volse a Realgar. «Grazie.» Senza aggiungere altro, si voltò e iniziò a correre.
    Lui la guardò allontanarsi, poi si concentrò sullo scanner. Passò le dita sul display e controllò il proprio conto in banca. Sorrise, vedendo tutti quegli zeri e sospirò soddisfatto. Con un paio di manovre, invertì il senso di marcia e tornò indietro, svoltando di nuovo verso la Colonna. Avvertì un rumore metallico anomalo all’interno della cabina e rallentò, tendendo l’orecchio. Sterzò bruscamente, prima a destra poi a sinistra, e di nuovo percepì quel rumore.

    «Dove sei…?» domandò, accostando. Si sganciò la cintura e si chinò a guardare tra il proprio sedile e quello del passeggero. Spinse un pulsante sul bracciale dello scanner, accendendo una luce che illuminò l’angusto vano, e individuò un riflesso sul pianale dell’abitacolo. Appoggiò il braccio sinistro al sedile passeggero e infilò il destro nello spazio divisorio, andando a tastare il pavimento con le dita. Dopo una breve ricerca, avvertì sotto ai polpastrelli una superficie insolita, sporgente e appuntita; la strinse tra indice, medio e pollice e la sollevò sino a posarsela sul palmo. Si sedette composto e osservò la piccola piramide dorata, fregiata da intricate incisioni su tutte le facce. Aveva un’aria familiare, ma gli sfuggiva dove l’avesse vista e non capiva come fosse arrivata sul suo rover.

    Poi il ricordo del gioiello che decorava il fiocco della bambola gli apparve davanti agli occhi e Realgar si passò una mano sul volto. «Ma che diavolo...» Quell’oggetto in oro rosso era incastonato sul giocattolo e averlo tra le mani significava aver effettuato una consegna incompleta. Avrebbe rappresentato una macchia nella sua lunga carriera da esploratore.

    Controllò l’ora, prese il volante e fece una rapida inversione a U, dirigendosi a tutta velocità verso l’orfanotrofio.

    Fu sorpreso di trovare la via libera, non credeva avrebbero liberato la carreggiata così rapidamente dall’incidente. Poi riconobbe l’auto che aveva visto capovolta nel mezzo della strada, accostata a pochi metri dal varco d’accesso all’orfanotrofio e, in piedi vicino a essa, c’era un uomo con il volto coperto da un passamontagna. Istintivamente, Realgar spense le luci esterne del rover che illuminavano i codici di identificazione del veicolo e, proprio in quel momento, vide l’uomo tendere il braccio verso di lui. Sterzò bruscamente a destra e il fascio d’energia mancò la carrozzeria per un soffio.

    Non aveva visto l’arma, ma ne aveva intuito la presenza ed era stata la sua salvezza.

    Voltò a sinistra per evitare di impattare contro la parete della galleria, sfoderò la pistola e rispose al fuoco, costringendo l’aggressore a nascondersi dietro l’auto. Dal varco dell’orfanotrofio, vide sbucare altri due incappucciati che trasportavano Samantha, la quale si dimenava inutilmente. Tirò il freno a mano, costringendo il rover a un improvviso testa coda, quindi lo lanciò a tutta velocità verso quello degli incappucciati. La differenza tra un mezzo da esterno e uno costruito unicamente per l’interno non era solo visiva, ma soprattutto tecnica. Un rover era corazzato per resistere anche a una caduta lungo le insidiose dune marziane e poteva uscirne quasi indenne, grazie alle barre di rinforzo che lo proteggevano lungo tutta la scocca.

    A meno di dieci metri dall’auto, Realgar bloccò le ruote del rover; le sospensioni anteriori si abbassarono in conseguenza all’arresto e il posteriore del mezzo si sollevò, staccandosi da terra. Il rover si ribaltò e piombò sul tettuccio dell’automobile. Realgar tese il braccio armato e, nonostante il moto rotatorio a cui era costretto, sparò tre colpi ravvicinati. Il rover rimbalzò e rotolò di nuovo sul manto stradale, atterrando sulle ruote e l’esploratore si gettò fuori dall’abitacolo, nascondendosi dietro il veicolo. Tenendosi basso, aggirò l’auto degli incappucciati, tendendo l’orecchio; udì il pianto di Samantha e nient’altro, quindi si sporse per controllare la situazione.

    I tre aggressori erano stesi a terra, Sam seduta e in piena crisi isterica. Si avvicinò all’uomo più vicino e iniziò a frugargli nelle tasche.
    «L-li hai uccisi?» pigolò Sam, sul punto di urlare.

    «No, tengo l’intensità della pistola fissa su stordimento» rispose lui e la giovane parve essere sollevata dalla notizia.

    «Mi hanno aggredito non appena ho oltrepassato il varco», spiegò alzandosi, raggiunse la bambola che uno dei tre rapitori le aveva strappato di mano e la raccolse da terra. «Dobbiamo chiamare i custodi!»
    Realgar fece una smorfia e le mostrò la piastra metallica appena recuperata dalle tasche del tizio svenuto. «Questi sono custodi» ringhiò, alzandosi in piedi e avvicinandosi a lei. «Si può sapere che hai combinato per farti venire a prendere da ben tre custodi?» sibilò, agitandole la piastra di riconoscimento con impressi i dati identificativi del proprietario e le insegne governative.

    Lei scosse la testa, confusa. «Non lo so! Non ho fatto niente!»

    Lui strinse il pugno, agitandoglielo davanti al visto. «Non prendermi in gir...» Si interruppe percependo un rumore lontano, in un altro tunnel della città. Rimase in ascolto, poi digrignò i denti. «Custodi, si avvicinano.»

    Corse al rover, controllando eventuali danni, prima di rimettere in moto. Sam si affiancò al veicolo, guardandolo spaventata, senza proferire parola. Realgar scosse il capo. Non mi faccio intenerire dallo sguardo di una piccola criminale, pensò, ingranando la marcia e girando il rover. Però per quale motivo tre custodi se l’erano presa con lei? Che crimine poteva aver mai commesso rinchiusa in un orfanotrofio? Se l’avesse compiuto prima della morte di Pierre, le forze dell’ordine sarebbero piombati immediatamente come avvoltoi e l’avrebbero imprigionata o uccisa.

    Era conscio che quella curiosità l’avrebbe condotto probabilmente in enormi guai, ma affondò il piede sul freno e si sporse verso la ragazza. «Muovi il culo e sali!»

    Sam sgranò gli occhi, poi attraversò la strada e saltò a bordo. Si ritrovò schiacciata contro al sedile dalla repentina accelerazione del mezzo.

    Realgar chiuse l’abitacolo e ringhiò alla ragazza: «Stai giù e non farti vedere.»

    Dopo quasi venti minuti, raggiunsero l’area di rifornimento; Realgar recuperò il rimorchio e prelevò dallo sportello automatico il limite massimo di tael consentiti dalla legge. Non degnò di uno sguardo la simpatica segretaria che, ora, era tutte moine e premure; ritornò al rover, si mise al volante e si allontanò. Indossò il respiratore, poi sigillò ermeticamente l’abitacolo, prima di affrontare una dopo l’altra le cerchie murarie, uscendo dalla porta orientale e dirigendosi direttamente verso l’altipiano Hesperia.

    «Dove stiamo andando?» domandò sottovoce Sam, rabbrividendo. La temperatura esterna era prossima ai duecento gradi sotto lo zero e il supporto vitale interno riusciva a stento a mantenere gli undici gradi all’interno dell’abitacolo.

    «Lontano da qui» soffiò Realgar, sterzando di continuo per seguire i tornanti che si inerpicavano verso l’altipiano.

    Nonostante gli scossoni e l’agitazione, il freddo vinse la resistenza della ragazzina, che finì con l’addormentarsi.



 
C'è stato un lieve incremento delle letture. Son contenta, credevo che nessuno si filasse la storia :D

Grazie a tutti i lettori.
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Daniela

 

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Capitolo 6
*** -6- ***


Kamar







-6-

 
 

 


   Samantha aprì gli occhi, infastidita dalla luce del sole, che filtrava dall’ampia vetrata inclinata, parzialmente ricoperta da sabbia che dava una tinta rossastra alle pareti spoglie. Aveva il respiratore di Realgar sul viso e lui era sdraiato al centro della stanza, vestito con solo i pantaloni. Sembrava profondamente addormentato, cullato forse dal tepore del sole che gli baciava la pelle.

    Si mise a sedere, rendendosi conto che l’uomo aveva usato i propri abiti per crearle un giaciglio in cui potesse stare al caldo. Raccolse gli occhiali, appoggiati di fianco a lei sul pavimento, li inforcò sul naso e lasciò vagare lo sguardo sulla piccola stanza rettangolare. La parete davanti a sé era costituita da un’enorme vetrata, entrambe le pareti laterali avevano una porta a chiusura stagna, mentre il muro alle sue spalle era completamente vuoto, anche se i segni sull’intonaco, facevano ipotizzare che un tempo ci fosse stato uno scaffale.

   Si alzò e si avvicinò alla finestra, stringendosi nello spolverino blu di Realgar. Socchiuse gli occhi, godendosi il tepore con cui il sole l’accoglieva. La finestra era composta da sei lastre trasparenti, separate da intercapedini vuote. Il vetro più esterno era sfondato e la sabbia si era accumulata nell’intercapedine, coprendo parzialmente la vista. Davanti a lei si estendeva una piana brulla, spazzata da una lieve brezza. Aggrottò la fronte, perché sotto la sabbia portata dal vento sembrava vi fossero dei piccoli arbusti. Era impossibile, nulla sopravviveva su Marte. Osservò la parete rocciosa che copriva l’orizzonte in qualsiasi direzione guardasse. Dovevano essere in un piccolo cratere.

    «Mi fai ombra» borbottò Realgar, spaventandola.
    Si spostò, si tolse il cappotto dalle spalle e lo rese al proprietario. «Scusi, immagino che lei abbia freddo! Grazie per averlo dato a me!»
    Lui aprì gli occhi e la fissò con sguardo limpido e lontano, perso in chissà quali pensieri; scosse la testa e incrociò le mani dietro la nuca. «Tienilo pure, non ho freddo.»
    Lei aggrottò la fronte e gli si sedette accanto, stringendosi nell’indumento. «Come fa a non averne? Io son vestita, ho anche il suo soprabito e tremo, mentre lei è a torso nudo.»

    La fissò infastidito, poi portò l’avambraccio sinistro davanti al viso e attivò lo scanner. «Dammi del tu» bofonchiò, avviando l’analisi dell’aria. Annuì soddisfatto dell’esito e tornò a guardarla. «Puoi toglierti il respiratore ora.»

   Istintivamente, la ragazza guardò il proprio scanner, un modello meno evoluto rispetto a quello dell’esploratore, ma comunque in grado di valutare la composizione chimica dell’aria. Sganciò la maschera e la posò a terra, guardando Realgar. «Dove siamo?» gli domandò.

    Lui aveva intrecciato nuovamente le mani dietro la nuca e rimase a occhi chiusi. «Una fattoria del secolo venti» commentò con un sorriso.

    Sam sgranò gli occhi. «Cosa? Intendi uno dei primi avamposti costruiti a inizio colonizzazione?»

    Realgar annuì. «Costruita nell’anno 55 del secolo 20 e rimasta in funzione fino all’anno 22 del secolo 21.»
    La giovane sorrise entusiasta e si guardò attorno. «Quindi settantotto anni fa, qui era pieno di piante… È incredibile che dopo quasi un secolo di abbandono, questo posto funzioni ancora.»

    Realgar aprì le palpebre e guardò malinconicamente il sole oltre la vetrata. «Già, ma la scoperta del petrosene, a vent’anni dall’inizio della colonizzazione, ha portato alla morte delle fattorie. La popolazione ha lasciato i pericolosi agglomerati di superficie e i piccoli nuclei familiari autosufficienti, preferendo invece le grandi città cupole, sottomesse alla Fratellanza...»

    «Ma almeno le città cupola sono sicure. A scuola abbiamo studiato le stragi perpetrate dai Phobosiani ai danni delle popolazioni stanziate nelle fattorie. Forse anche questa è stata assaltata da loro» mormorò, accennando al vetro andato in frantumi. «Alcuni sostengono che qualche phobosiano sia scampato ai custodi» disse, rabbrividendo all’idea.

    Lui si strinse nelle spalle. «Dicono ce ne siano ancora nelle Valli Marineres; ci sono passato innumerevoli volte, ma non ne ho mai visto nemmeno l’ombra. Credo proprio che li abbiano ammazzati tutti.»

    Sam sospirò. «Però è un vero peccato.»
    Si voltò a guardarla. «Be’, sono felice di non averli incontrati, visto la fama che avevano.»

    «Non mi riferivo a quello. Intendevo: è un peccato che siano stati sterminati. Erano le forme di vita più evolute qui su Marte ed erano adattate a quest’ambiente. Da loro avremmo potuto imparare tanto...»

    Realgar aggrottò la fronte, si tirò a sedere e poi si alzò in  piedi. «Basta chiacchiere. Cerchiamo di capire perché i custodi ti volevano.»

    La ragazza si alzò a sua volta, tenendo lo sguardo sul pavimento. «Non ne ho idea...»

    Realgar si imbronciò. «Senti, probabilmente ora sono ricercato quanto te. Il mio conto in banca sarà stato bloccato e la tua faccia sarà all’ingresso di ogni città, forse affiancata dalla mia. Quindi cerca di pensare: devi aver fatto qualcosa di criminale per attirar la loro attenzione.»

    Lei divenne paonazza e lo guardò furente. «Non ho fatto un bel niente! Non sono una fuorilegge e le tue parole sono solo offensive!» Gli diede le spalle e si allontanò verso una delle due porte.

    «Dove stai andando?» le domandò perplesso.

    «A cercare un gabinetto.»

    Realgar sbuffò, scompigliandosi la zazzera bionda. «Indossa la maschera, ho bonificato solo l’aria qui dentro e pressurizzato il resto della parte abitabile. I bagni però non funzionano ma uso la terza stanza a destra per quello scopo.»

    Sam strinse le labbra in una linea dura e lo fissò con disgusto all’idea, poi afferrò il maniglione della porta e lo tirò con forza. Mentre il meccanismo pneumatico emise svariati schiocchi, prima che il portellone rientrasse nella parete di un paio di centimetri, per poi scorrere al suo interno fino a lasciare libero il passaggio, la ragazza indossò la maschera. Una ventata d’aria gelida le investì il volto e lei rabbrividi. Avanzò lungo il corridoio buio, dopo essersi richiusa la porta alle spalle, tenendo la mano destra appoggiata alla parete.


    Realgar sospirò e andò all’altra porta, la aprì e si infilò nel corridoio, chiudendo a sua volta la stanza alle proprie spalle per preservarne la qualità dell’aria. Attivò la funzione di pressurizzazione cutanea sullo scanner e aprì altre due porte; raggiunse la serra, dove il rover stava ricaricando le proprie batterie grazie ai pannelli solare. A lui, che era abituato al freddo, quella stanza dalle pareti trasparenti sembrava un forno. Si tamponò la fronte con il dorso della mano e aprì l’abitacolo. Raccolse la bambola e la mise in un sacco; dal porta oggetti raccolse il gioiello che si era staccato dal balocco e lo mise in tasca. Si spostò al rimorchio, dal quale recuperò due razioni di cibo e di acqua. Tornò alla stanza, dove trovò Sam ad aspettarlo.

    Sorrise irriverente. «Fatta tutta?»

    La ragazza arrossì violentemente. «Fatti gli affari tuoi. È… così umiliante! Mi sento sporca!»

    «Hai lavorato in miniera e ti senti sporca qua?»

    «All’orfanotrofio ci concedevano una doccia ogni sera.»

    Realgar sbuffò divertito. «Ringrazia il conto in banca che ti ha lasciato il papino, altrimenti l’acqua non la vedevi nemmeno. A proposito...» si avvicinò e le porse un brick d’acqua.

   Sam deglutì a quelle parole, stringendo le labbra, mentre il dolore la inumidiva lo sguardo. Prese svogliatamente la confezione, strappò la pellicola di protezione, stappò la cannula e iniziò a bere, dando sollievo alla gola riarsa. Si sforzò di cancellare il ricordo del padre e si concentrò solo sull’acqua, svuotando il brick in poche sorsate. Davanti allo sguardo severo di Realgar, aggrottò la fronte.

    «Che c’è?» gli domandò, risistemandosi gli occhiali.

    «Quella era la tua razione d’acqua di oggi, non ne avrai altra sino a domani.»

    Lei sgranò gli occhi e spalancò e chiuse la bocca un paio di volte. «Cosa?»

    Lui sorrise e le porse l’altro brick. «Sono due al giorno, ma visto che ho calcolato le razioni solo per me, da domani dovremo limitarci a una soltanto.»

    La ragazza annuì mestamente e prese la confezione, comprenendo improvvisamente quanto essa fosse preziosa. «Moriremo, vero?»
    Realgar sollevò le sopracciglia e scosse il capo. «Fantastico!, l’anidride carbonica nell’aria ti deve aver bruciato il cervello, eppure ero convinto di avertela messa bene la maschera.» Allargò le braccia in un gesto plateale. «Non moriremo! Me la so cavare qua fuori, altrimenti non avrei intrapreso la carriera da esploratore» concluse. La guardò qualche istante, scorgendole nuovamente quell’ombra di dolore negli occhi. Recuperò il sacco, che aveva abbandonato poco dopo l’ingresso ed estrasse la bambola, porgendogliela.
    Lei tirò su col naso, prima di cingerla al petto, guardandone il viso. Si asciugò una lacrima con la mano e sbuffò, accennando un sorriso. «Ti sembrerò una bambina stupida , ma è l’unica cosa che mi rimane di mio padre...»
    Realgar annuì e si sedette a terra, dando le spalle alla vetrata. «Immagino sia dura» disse a disagio.
    Sam gli si accomodò accanto, guardando invece il panorama desolato di Marte, spazzato dolcemente dal vento leggero, che sollevava la polvere rossiccia, dando il tipico colore rosato al cielo. Accarezzò i capelli della bambola e si inumidì un dito per pulirle la gota.

    «Mio padre aveva un’ottima stima di te, pensava che se ti fossi deciso a studiare, avresti avuto ottimi risultati» raccontò, osservando il giocattolo.

    Realgar strinse le labbra e poi le incurvò in un sorriso. «Non ero uno zotico?»

    Sbuffò divertita. «Non lo sei forse? Credo di essermi sbagliata solo sul menefreghista. Se davvero lo fossi, non mi avresti salvata.»

    «Se avessi saputo che erano custodi, ti assicuro che non mi sarei immischiato. Sono tornato indietro solo perché mi ero accorto che la bambola aveva perso questo e avresti potuto invalidare la consegna in quanto incompleta» spiegò, recuperando il gioiello piramidale dalla tasca. Lo porse a Samantha. «Secondo me, rivendendolo al mercato nero, potremmo farci anche 400 tael» commentò.

    Sam si girò e prese la piramide tra le dita, aggrottando la fronte, poi schiuse le labbra in un’espressione incredula. «Sei veramente ignorante! Questo è uno ying dié!»

    Realgar sgranò gli occhi. «Uno y-ying...» Cercò di riprendere la piramide, ma Samantha fu più lesta e si alzò in piedi. Lui la imitò e sorrise. «Avanti, Sam, dammelo. Quell’affare può valere un paio di milioni di tael, potremo nasconderci, farci documenti falsi e ricominciare una nuova vita, rivendendolo.»

    Lo fissò severa. «Dubito riusciresti a piazzarlo sul mercato nero. Su quello regolare il prezzo può variare dal milione, al miliardo di tael, a seconda della capacità di memoria. Forse mio padre ha salvato qui dentro tutto il suo lavoro e questo significa che la sua morte non è stata vana. Pensavo che il fuoco avesse divorato tutto!»

    Sbuffò, ma alle ultime parole di Sam, la guardò spiazzato. «Fuoco?»

    Lei chinò il capo e annuì. «Mio padre è morto nell’incendio del laboratorio dove lavorava, assieme a tutta la squadra. Le fiamme hanno devastato tutto, non è rimasto nulla...»

    Realgar aveva fatto un paio di consegne al laboratorio di Pierre Souris. Lì, lo scienziato studiava le primitive forme di vita marziana, in modo da migliorare la sopravvivenza umana, imparando da chi su Marte viveva da ben prima che l’Umanità alzasse gli occhi al cielo. In un ambiente dove le fiamme non potevano divampare, com’era stato possibile che si sprigionasse un incendio?

    «Ma l’hai visto il laboratorio dopo l’incendio?» le domandò con tono vago.

    Lei scosse il capo. «No, c’era pericolo di contaminazione a causa dei micro organismi e i custodi hanno sigillato l’area. L’unica cosa che ho visto è stato il corpo di mio padre, al momento del riconoscimento. Non c’era molto da riconoscere, ci son voluti gli esami del DNA per confermarmi che era lui.»

    Realgar si grattò distrattamente l’attaccatura del naso e si avvicinò alla vetrata, constatando che il sole stava per scomparire dietro le creste rocciose del cratere. Qualcosa non tornava in quanto era successo a Pierre. «Credi che tuo padre possa aver salvato le sue ricerche sullo ying dié?»

    Sam si rigirò la piramide tra le dita e sospirò avvilita. «Per saperlo, bisognerebbe leggerne il contenuto...»

    «Usiamo il computer del rover» propose lui.

    La ragazza scosse il capo. «Ce ne vuole uno speciale e l’unico aperto al pubblico si trova nella città cupola di Holden...»

    «Dannazione!» ringhiò. «Non c’è un altro modo per leggerlo?» domandò, fissando Samantha.

    Lei rifletté. «Gli ying dié sono i sistemi di archiviazione informatica più all’avanguardia nel sistema solare e solo i computer della Fratellanza possono leggerli. In fondo la Fratellanza stessa è stata fondata dagli scienziati cinesi che hanno lavorato al programma spaziale della repubblica popolare. Il primo ying dié fu usato sulla sonda Tianmu 3, che fu la prima interamente costruita in Cina ad atterrare sul pianeta rosso» raccontò paziente. «Non vedo proprio come potremo leggerlo, senza accedere a uno dei computer della Fratellanza.» Aggrottò la fronte. Realgar le aveva dato le spalle e stava controllando alcune mappe, inginocchiato sul pavimento. «Che stai cercando?»

    «Il punto dove è atterrata la Tianmu. Per quel poco che ricordo, non è stata disassemblata» ribatté lui.

    Lei scosse il capo. «È passato più di un secolo e mezzo, non è più operativa. Anzi è stata una missione molto breve, visto che la zona scelta si rivelò poco esposta al sole e le batterie si esaurirono più rapidamente del previsto» raccontò Sam, accovacciandosi al suo fianco e indicandogli un punto sulla mappa.

    «Le Vallis Marineris?» domandò a disagio..

    Sam annuì. «Durante i primi spostamenti, il modulo esplorativo è caduto in un crepaccio, scivolando lungo le pareti del canyon e, senza la piena luce solare, le batterie si sono esaurite nell’arco di un mese.»

    Realgar si sfregò le labbra con le dita, osservando la mappa. Le Vallis Marineris non erano un posto sicuro. Sbuffò e guardò Sam. «Prima di rimanere a secco era operativa, quindi il suo computer funziona, no?»

    La ragazza sgranò gli occhi, che apparivano ancora più grandi dietro le lenti degli occhiali. «Vuoi andare ai canyon? Come pensi di arrivarci? Non credo che la tua carriola abbia abbastanza autonomia per tenerci in vita sino a là!»

    Lui boccheggiò, ferito nell’orgoglio. «Kain non è una carriola, bada bene a come parli! Non sarà facile, ma se vogliamo sapere cosa ti ha lasciato veramente tuo padre, dobbiamo provarci.»

    Un incendio, scoppiato in un luogo dove la combustione non poteva tecnicamente avvenire, aveva ucciso Pierre e i custodi avevano cercato di arrestare Samantha e, forse, avevano coperto le tracce di quello che era avvenuto realmente nel laboratorio. Forse la soluzione di quell’enigma era rinchiusa nella piramide.




 
Scusate il ritardo, ho avuto una scadenza da rispettare in real ^^'

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Daniela

 

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Capitolo 7
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Kamar







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Realgar sporcò le guance di Samantha con un po’ di polvere marziana e le nascose i ciuffi castani sotto il cappello da cowboy che le aveva prestato.

«Perché mi devo conciare così?» protestò lei, abbassandosi la sciarpa sotto al mento.

«Te l’ho detto: non ci sono molte donne negli avamposti, soprattutto in quelli irregolari. Quindi fai finta di essere un ragazzo.»

«È stupido!»

«Hai ragione. Sarebbe meglio venderti, come donna ti pagherebbero molto bene» rispose lui, sollevandole la sciarpa per coprirle l’ovale del viso.

«Ma nelle città cupola...»

«Nelle città cupola si vive nella bambagia. Secondo te perché sono pochi gli esploratori che girano liberamente per la superficie? Ci vuole gente con tanto pelo sullo stomaco, perché qua fuori tutto è ostile alla vita umana. Se non ti piace, ti riporto ad Anseris: son certo che i custodi ti accoglieranno a braccia aperte.»

Lei si imbronciò e rimase cocciutamente in silenzio per il resto del viaggio. Basse pale eoliche decoravano il bordo del piccolo cratere, che si apprestavano a superare. Sembravano realizzate con materiali di recupero e apparivano come un metodo improvvisato, quanto temporaneo, per la produzione di energia elettrica.

Raggiunto il valico, che avrebbe loro permesso di entrare nel cratere Piyi, si trovarono di fronte un robot minatore, che puntò loro contro il laser. Era un automa umanoide, alto quasi cinque metri.

Realgar afferrò il microfono e attivò gli altoparlanti esterni. «Quando il cielo di tinge di blu, è l’ora che preferisco di più.»

Il robot abbassò l’arma e le corazzature dell’abitacolo si alzarono, rivelando il pilota del mezzo. «Realgar, sei proprio tu? Cosa ci fai da queste parti così presto? Non ti aspettavamo prima della prossima stagione.»

Lui sorrise. «Salve, Todd. È che mi hanno convinto e mi sono fatto l’apprendista. Gli sto facendo vedere le basi del mestiere.»

Il pilota si avvicinò al rover, chinandosi su di esso per dare un’occhiata a Sam. L’uomo alla guida, con una benda nera a coprire l’occhio destro, aggrottò la fronte e si grattò la barba nera. «Non mi sembra maggiorenne...» commentò perplesso.

Realgar sorrise. «Secondo te, perché l’ho portato a Piyi?»

Todd scoppiò a ridere. «Evviva la città libera, al diavolo la Fratellanza!» esclamò, arretrando verso la grossa pietra che bloccava la strada del passo. Il robot la sollevò senza difficoltà. «Oggi siamo sintonizzati sugli 86 e 90» li avvisò Todd. Realgar segnò la frequenza sul computer e proseguì, oltrepassando il valico e iniziando la discesa.

L’interno del piccolo cratere era costellato da pannelli solari, che riflettevano la luce, ferendo la vista con il loro riverbero. La tortura durò il tempo di arrivare alla galleria di accesso, mimetizzata in una delle fratture verticali che abbondavano sulla frastagliata crosta lungo il perimetro del cratere. Viaggiarono immersi nelle tenebre per qualche minuto, poi trovarono la paratia di pressurizzazione.

Realgar afferrò il microfono e collegò la radio. «Toc, toc, qualcuno mi apre?»

«Realgar?» domandò una voce nasale. «Che sei venuto a fare qui, parassita? Tornatene a Herschel!»

Lui sollevò le sopracciglia, arricciando le labbra in una smorfia divertita. «Come vuoi, Abdel, vuol dire che i soldi che ti devo, te li darò la prossima volta che torno.»

Alle spalle del rover, con fragore meccanico, iniziò ad alzarsi la paratia esterna e, come raggiunse la sommità, i perni di chiusura penetrarono nella roccia e iniziò il processo di pressurizzazione. Quando l’operazione terminò, fu dato loro l’accesso al tunnel, che aveva una forte pendenza. Lo imboccarono e scesero per svariate centinaia di metri, sino ad arrivare all’avamposto sotterraneo.

Era un complesso di moduli abitativi e rudimentali costruzioni di pietra, ricavato all’interno di un’ampia grotta artificiale, la cui volta era sorretta da colonne di pietra o di metallo. Lungo le pareti, il soffitto e anche in certi punti del pavimento, vi erano cavi e tubature, che rifornivano la piccola comunità anarchica delle risorse per sopravvivere.

Realgar raggiunse uno spiazzo e scese dal rover, guardandosi attorno. Non dovette aspettare molto, che un uomo dalla carnagione scura si avvicinò guardandolo torvo.

«Finché non vedo i miei soldi, non crederò a una sola parola che dirai!» minacciò lo sconosciuto, puntando l’indice contro di lui.

Sam deglutì e si fece piccola sul sedile del mezzo, perché quell’uomo sembrava veramente arrabbiato.

«Abdel!» esclamò Realgar, allargando le braccia e sorridendo.

Lui gli arrivò di fronte e gli tirò uno spintone, sbattendolo a terra. «I miei soldi, Realgar!» ringhiò, agitando il pugno.

L’esploratore si alzò, si spazzò il cappotto dalla polvere e scoprì l’avambraccio sinistro. «Accidenti, che modi, amico mio. Ecco, guarda qui...» disse, mostrando ad Abdel il display dello scanner, dove era riportato il saldo del proprio conto corrente.

Lui gli afferrò il braccio, concentrandosi soprattutto sul numero di zeri di quella cifra, con espressione incredula.
Realgar sorrise. «Ovviamente non mi porto dietro tutti quei tael. Sono venuto solo a saldarti e a comprare alcune cose, che ti salderò al prossimo viaggio.»

Abdel lo lasciò libero e gli porse la mano, con il palmo rivolto verso l’alto. «Intanto dammi quello che mi devi, poi vedremo.»

Realgar scosse il capo. «Sei proprio un malfidato.» Si guardò attorno, prima di riportare l’attenzione su Abdel. «Vuoi proprio far sapere a tutti i nostri affari?»

Lui fece una smorfia e annuì. «Ti aspetto al locale.»

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Abdel controllò il contenuto della tessera con il computer, poi guardò Realgar con sospetto. «Ce ne sono 200 in più...»

Lui sorrise, tenendo d’occhio Sam che si muoveva svogliatamente per il bazar dell’uomo di origini magrebine.

Abdel gestiva l’area di servizio di Piyi e aveva al suo interno il bazar più rifornito del mercato nero marziano. La ragazza poté scorgere alcune confezioni di petrosene accatastate vicino al bancone, con ancora i sigilli della Fratellanza integri. Era un ottimo indizio per dedurre che provenissero da un carico rubato da uno dei convogli su rotaia.

«Te l’ho detto che devo comprare alcune cose» disse Realgar, riportando l’attenzione su Abdel. «Non giro con troppi soldi addosso, quindi te li lascio come anticipo per quello che devo prendere. Ti ho preparato una lista.» Gli porse una tavoletta di ardesia e l’uomo iniziò a leggerla, strofinandosi il mento con le dita.

Il trafficante fece una smorfia. «Questa roba vale almeno ventimila tael, amico.»

Realgar annuì. «Conosco i prezzi, ma come ti ho già detto, non giro con tutti quei soldi addosso. Ti ho dato un piccolo anticipo, il resto te lo porterò in altre due rate.»

Abdel scosse il capo, muovendo l’indice in segno di diniego. «No, bello, tu mi vuoi fregare, me lo sento.»

«Ovvio che ti voglio fregare. E se i miei soldi non ti vanno bene, andrò da Haquim a vedere se lui è abbastanza fesso da accorgersi dell’affare» replicò ironico, tamburellando con le dita sul bancone che lo separava da Abdel.

Lui si passò una mano sulle labbra e fece una smorfia, poi gli puntò un indice in faccia. «D’accordo, te la darò io questa roba, ma voglio cinquemila tael in più!»

«Sei pazzo? Te li darei solo se mi consegnassi tutto adesso, ma presumo che ti ci vogliano almeno due giorni, no?» Abdel fece una smorfia, ricontrollando la lista e annuì malvolentieri. Realgar sorrise e appoggiò sul bancone la sua ultima tessera magnetica. «Facciamo così: per dimostrare la mia buona fede, ti anticipo anche questi, a patto che tu mi dia vitto e alloggio a me, e al mio amico Sam, sino a quando non avrai effettuato la consegna.»

Lui prese la tessera e la passò sullo scanner, valutando quell’offerta. Alla fine la infilò dentro la cassa e annuì. «Mi sta bene» disse, appoggiandosi al bancone. «Volendo potrei scalarti qualcosa, se mi presti il piccoletto: ha un bel sederino» disse sottovoce, occhieggiando in direzione di Sam.

Realgar scosse il capo. «Mi spiace, Abdel, ma quel culetto non è a disposizione di nessuno.»

Lui sbuffò. «Che rottura di scatole che sei. Sei un ingordo, mica te lo sciupo...»

«Ti ho detto di no. Anzi, per sicurezza, Sam dormirà con me» rispose, sorridendogli strafottente.

La ragazzina afferrò solo le ultime parole di Realgar e sgranò gli occhi, avvicinandosi a lui e afferrandolo per un braccio. «Non ci dormo con te!» protestò.

Abdel sorrise vittorioso. «Visto, Realgar? Il moccioso non ci vuole stare con te. Dato che non è sicuro per i minorenni girare per l’avamposto, lo ospiterò io.»

Samantha deglutì, intuendo solo in quel momento il perché della scelta dell’esploratore. Si morse il labbro e si strinse al suo braccio. «Ripensandoci, è meglio se dormiamo assieme, maestro...» bofonchiò, cercando di camuffare la voce.

Realgar sorrise e Abdel scosse il capo, assegnandogli una delle celle della sua area di rifornimento.


 
Stavolta sono puntuale U.U
I contatori girano, quindi qualcuno segue questa storia, anche se a volte penso che nessuno lo faccia, visto il silenzio di tomba. Sono conscia che non c'è sesso (e non ce ne sarà) la violenza non è descritta nel dettaglio... Però volevo fare una storia diversa.

Grazie a tutti i lettori.
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Daniela

 

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Capitolo 8
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Kamar







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«Entra prima tu» la esortò Realgar, indicandole la scaletta.

Sam si inerpicò lungo i sei gradini, diede le spalle all’ingresso e si sedette sul bordo della cella. «Qui dentro ci dormiamo in due?» chiese allibita.

Lui annuì. «Sì, è una celletta doppia. Non fare quella faccia, negli avamposti gli spazi sono stretti persino per chi ci vive, non sperare che per gli stranieri le cose vadano meglio.»

Lei arrossì, abbassò gli occhi e balbettò: «Praticamente dovrò dormirti addosso...»

«Abbiamo già dormito assieme, non hai fatto altro che dormire mentre venivamo qui!»

«Ma ognuno aveva il proprio seggiolino e tra noi c’eran il freno a mano!» protestò lei.

Realgar scosse il capo e salì la scala. «Senti, sono stanco, voglio dormire, quindi piantala di fare la pudica. Da parte mia, ti assicuro che terrò le mani a posto, vedi di fare altrettanto» commentò, guadagnandosi spazio sull’ingresso.

«Per chi mi hai preso?» borbottò Sam.

Lui si spinse all’indietro, per poi sdraiarsi sulla sottile imbottitura. «Quindici anni, vergine?»

Lei divenne ancora più rossa, poi si imbronciò, lo raggiunse e si stese al suo fianco. «Non credere di essere speciale, solo perché hai fatto sesso. Non ho ancora trovato la persona giusta.»

«Sai cosa me ne importa?» replicò lui, chiudendo il portello di accesso. Si ritrovarono rinchiusi nella cella, rischiarata da alcuni faretti led dalla luce azzurra. «Ma se ti può interessare, nemmeno io ho ancora trovato la persona giusta.»

Sam lo fissò incredula. «Sei v… cioè tu non...» Si morse il labbro, combattendo inutilmente con la propria curiosità. «E com’è la tua ragazza ideale?»

Realgar le prese il cappello e se lo appoggiò sul viso. «Non credo esista, ma se la dovessi trovare, te lo farò sapere» disse divertito.

«Eppure non sei brutto. Se non hai ancora trovato è perché credo che tu esageri con la crema solare. D’accordo proteggersi, ma ne usi troppa. Per di più usi quella bianca… sembri un cadavere e sei appiccicaticcio

Lui sollevò con l’indice una falda del cappello e la guardò con la coda dell’occhio.

«Me ne sono accorta al cratere Loon, alla fattoria. I tuoi vestiti odorano di crema e la tua camicia ne era piena. Dovresti metterne meno. Anzi, ormai è obsoleta e puoi modulare lo scanner per proteggerti anche dalle radiazione solari.»

«Dormi» ringhiò lui, tornando a coprirsi il volto.

Samantha sbuffò e cercò di addormentarsi. Era difficile riuscirci, avendo Realgar così vicino.

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La mattina successiva, Sam fu incaricata di lavare il bucato. Stava sfregando con il sapone a secco la camicia di Realgar, borbottando sommessamente, mentre l’esploratore armeggiava con il motore del rover.

«Te l’ho detto che usi troppa crema. È ovunque, non riuscirò mai a pulirtela» protestò lei, allontanando l’indumento.

«Piantala di lamentarti. Voglio un apprendista, non una donnicciola» rispose lui, dopo aver dato un’occhiata al gruppo di persone che li osservava.

In quei posti gli stranieri erano come bestie rare da rimirare con curiosità.

Lei capì l’antifona. Era da quando si erano svegliati che era costretta a parlare, camuffando la voce. Arricciò le labbra in una smorfia e poi sorrise. Lasciò perdere il bucato e si avvicinò a Realgar. «Allora dovresti trattarmi da uomo, invece che farmi fare lavori da femmina.»

Lui la guardò in tralice e gli indicò la borsa degli attrezzi. «Passami la pinza autobloccante...» sospirò, accennando con il capo alla cassetta di metallo blu, rovinata in più punti dalla ruggine. «È quella tutta argentata» suggerì.

Sam la prese e gliela porse senza esitazione, lui l’afferrò e tornò a concentrarsi sul motore.

«Dici mai grazie per qualcosa?» gli chiese.

«Solo se mi porta soldi» bofonchiò Realgar.

«La maleducazione potrebbe portarti rogne» rispose lei, stringendosi nelle spalle.

Lui la guardò con occhio torvo. Prima che potesse dirle qualcosa, la voce di Abdel lo richiamò.

«Realgar, non ho la Beijing che hai chiesto, ma ho un modello simile di un’altra marca. Vieni a vedere se ti va bene uguale.»

Lui sbuffò e raddrizzò la schiena. Puntò l’indice in mezzo agli occhi della ragazza. «Fai la guardia: che nessuno tocchi il mio bambino» ringhiò, riferendosi al suo amato rover.

Lei annuì e lo guardò allontanarsi.

Realgar aveva richiesto un nuovo impianto per la lavorazione dei liquidi e dei gas, più efficiente di quello che aveva montato sul rover. Il nuovo avrebbe processato al meglio urina, sudore e respiro, attingendo da essi le molecole necessarie per fornire loro acqua potabile per tutto il viaggio. Il modello che Abdel aveva a disposizione offriva prestazioni lievemente superiori a quello equivalente prodotto dalla Beijing

«Questo ti costerebbe 90 tael in più» disse il commerciante.

Realgar lo guardò scettico. «Se entro la partenza non mi fai avere quello che ti ho segnato sulla lista, al prezzo di mercato, puoi anche toglierlo dal conto.»

Abdel sgranò gli occhi. «Cosa? Oh, avanti, ha prestazioni migliori e te lo darei a un prezzo più che vantaggioso!»

«Mi dispiace, conosco la Beijing e non mi va di cambiarla per una marca che non conosco.»

Abdel si umettò le labbra. «45 tael, quando ne vale almeno 110 in più della Beijing che hai chiesto.»

Realgar scosse la testa. Su questo non saprei dove metterci le mani, per quello voglio la Beijing. Se non ce l’hai, ne farò a meno.»

L’altro strinse i pugni. «Senti, non mi va di perdere 2200 tael per le tue paranoie… te la do allo stesso prezzo!» ringhiò.

Realgar fece una smorfia, con un’espressione per nulla convinta stampata sul volto.

«E ti regalo un pernotto» aggiunse Abdel, cercando di non far sfumare la vendita. Preferiva assottigliare il proprio margine di guadagno, piuttosto che non prendere manco un tael.

Realgar sbuffò, poi annuì con sguardo scettico. Lui e Abdel si strinsero le mani per suggellare il raggiunto accordo.

Realgar tornò alla propria piazzola decisamente soddisfatto: conosceva così bene Abdel, da riuscire sempre a strappargli ottimi prezzi; ogni volta che visitava Piyi, trovava sempre il modo per raggirarlo un poco. Mentre avanzava, attento a non inciampare nei cavi che ingombravano il pavimento della caverna, percepì il rombo di un motore e riconobbe il suono prodotto dalle particolari valvole che aveva fatto montare sul proprio rover. Schiuse le labbra atterrito e iniziò a correre. «Kain!» soffiò preoccupato.

Realgar trovò Samantha seduta ai comandi. La giovane pestava l'acceleratore, mandando il motore su di giri.

Lui le si avvicinò furente, si levò il cappello e lo gettò a terra. «Credevo fosse sottinteso che non dovevi toccarlo nemmeno tu. Scendi immediatamente!»

La ragazza lasciò l'abitacolo, fissandolo torvo, tornò davanti al cofano e, poi,  si piegò in avanti per affondare il cacciavite nell'impianto.

Realgar boccheggiò, come se quello spregio fosse stato fatto a lui. «Allontanati subi...» Si zittì, ascoltando il gorgoglìo sommesso prodotto dal rover. Aggrottò la fronte e si affiancò a Samantha, occhieggiando il motore, mentre la giovane si pulì le mani in uno straccio.

«Come diamine...» esordì lui, con tono stupito. La sua espressione si indurì e diede uno spintone alla ragazza. «Stai alla larga!»

Lei lo guardò allibita. «Ma te l'ho messo a posto!»

«La fortuna del principiante. Non ti azzardare mai più a mettere le tue zampacce sul cuore di Kain» rispose lui seccato.

Samantha gettò a terra lo straccio con stizza. «Fortuna un corno! Mio padre mi ha fatto studiare ingegneria meccanica ed elettronica presso il professor Chan, suo caro amico, sin da quando ero una bambina. A undici anni, già affiancavo la squadra tecnica nella progettazione e nella costruzione delle sonde per gli esperimenti di mio padre!»

Realgar la guardò stranito. «Quindi, saresti un meccanico?»

Lei sbuffò. «Mi manca la laurea, ma il professor Chan era certo che non avrei avuto problemi a conseguirla.»

Realgar si passò il dorso della mano sotto il mento, si fece da parte e indicò a Samantha il rover. «Fammi un po' vedere come te la cavi.»

Lei sgranò gli occhi, poi sorrise radiosa. Aveva capito quanto Realgar tenesse alla sua carriola e si sentiva onorata a poterci mettere le mani. Iniziò a spiegare a Realgar come pensava di poter migliorare le prestazioni del motore, ma si rese conto che il mercenario era distratto. Lo vedeva spesso guardarsi attorno nervoso. «Che succede?» gli chiese sottovoce.

«Hai detto sin da quando ero bambina a voce troppo alta. Temo che i nostri guardoni abbiano sentito» rispose Realgar con tono sommesso.

Lei si irrigidì e si guardò attorno. Il numero di spettatori era più che raddoppiato e gli sguardi avevano una luce strana. «Mi è scappato, scusa. Cosa facciamo ora?»

«Sistemiamo Kain il più in fretta possibile e cerchiamo di andarcene non appena Abdel mi consegna tutto. Sino ad allora tu non resterai mai sola, nemmeno al gabinetto.»

Lei si voltò di scatto verso di lui. «Che?» squittì incredula.

«Se ti dovessero rapire, risolveresti il problema verginità. Anche nelle orecchie, probabilmente» disse lui, regalandole un sorriso sghembo.

Samantha deglutì a disagio.

Il soggiorno a Piyi si fece improvvisamente scomodo. Ovunque Sam andasse, c'erano almeno due persone a tenerla d'occhio. Per avere ulteriori motivi per non separarsi, Realgar iniziò a darle lezioni di guida, dicendo che così avrebbe potuto dargli il cambio ai comandi. Lei pensava scherzasse e che lui non le avrebbe mai davvero permesso di guidare il rover.

Finalmente giunse il giorno della partenza e Sam scoprì di essersi sbagliata.






 
Sono di nuovo in ritardo. Chi bazzica sul gruppo sa che sono un poco impegnata con un'altra faccenda, quindi i ritardi potrebbero verificarsi per tutta l'estate...

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Daniela

 

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Capitolo 9
*** -9- ***


Kamar







-9-

 
 

 


«Attenta a quei dossi, se li prendi troppo veloce, rischiamo di perdere il rimorchio» commentò Realgar, per poi tossire debolmente. Tirò su col naso e guardò le brulle colline, così simili a un oceano in tempesta.

Samantha era concentrata sulla guida. Da quando, tre giorni prima, avevano lasciato l’avamposto di Piyi, Realgar le aveva spesso lasciato i comandi. Per raggiungere i resti della sonda Tianmu, avevano deciso di viaggiare in direzione ovest. Il viaggio era più lungo, ma i controlli della Fratellanza erano radi lontano dal monte Olympus, quindi era la tratta più sicura. Dove non arrivava la Fratellanza, però, il crimine proliferava e, nonostante la superficie marziana fosse ostile alla vita, i reietti della società riuscivano a prosperarvi, saccheggiando le carovane e i treni per procurarsi lo stretto necessario per campare. Una volta entrati nei territori non sorvegliati, avrebbero dovuto essere pronti a viaggiare per giorni, senza mai fermarsi. Sam era stata eletta a secondo pilota e sottoposta a un rigidissimo quanto rapido addestramento. Questo aveva permesso al mercenario di non lasciarla sola nemmeno un istante, evitandole indesiderate attenzioni.

Ormai Sam si era abituata ad averlo sempre a fianco, tanto che non provava nemmeno più imbarazzo quando doveva usare il bagno di bordo, cosa che le prime volte la infastidiva enormemente.

«Fermati un attimo» disse d’improvviso Realgar, avvicinando il volto al parabrezza. Si passò le mani guantate sugli occhi arrossatti e tossì nuovamente.

Lei rallentò gradualmente e arrestò il veicolo, controllando la strumentazione di bordo. «I pannelli solari sono in funzione, non li ho dimenticati questa volta» commentò, alzando lo sguardo su di lui. «Forse ti senti male? Non capisco perché non hai fatto ricalibrare il supporto vitale per le tue esigenze… Credo che Abdel ce lo avrebbe fatto.»

«Dannazione» sibilò Realgar, ignorandola. Si sganciò la cintura e coprì la bocca con il respiratore. «Indossa la maschera e attiva lo scanner, sta arrivando una tempesta di sabbia. Fammi venire ai comandi, dovremo correre come se avessimo il diavolo alle calcagna e sperare di arrivare a quelle rocce là in fondo prima che sia troppo tardi» spiegò, indicando alcuni rilievi distanti qualche chilometro.

Samantha guardò l’orizzonte, perplessa. «Ne sei sicuro? Non vedo nulla...» Sentì il rumore della leva di apertura del portellone e si affrettò ad attivare la protezione dermica e a calzare il respiratore. L’abitacolo si aprì e Sam e Realgar si scambiarono di posto.

«Prepara un panetto di petrosene» disse lui, riconfigurando la posizione di guida per sé. Lei ne estrasse uno da una delle cassette che avevano stipato dentro la cabina, mentre la pressurizzazione tornava a livelli ottimali.

«Inseriscilo nel sistema di alimentazione» ordinò Realgar e lei eseguì.

Non appena il petrosene raggiunse la camera di scoppio, il motore ruggì con potenza, un denso fumo rosso cupo uscì dallo scappamento e tutto il rover iniziò a vibrare.

Realgar affondò il piede sull’acceleratore e ben presto si ritrovarono a superare i 90 chilometri orari.

«Perché corri così? Non c’è nulla in vista!» protestò Sam, tenendosi al maniglione laterale.

«Sta arrivando, fidati!» ribadì lui, gettando nervose occhiate allo specchietto laterale.

Sam sbuffò esasperata e si voltò a guardare l’orizzonte. «Vedo, sta arrivando un bel cielo terso, con il sole splend...» Si zittì quando da dietro la linea che separava cielo e terra, vide alzarsi una sagoma quasi nera, che avanzava rapidamente, inghiottendo tutto quello che incontrava. «Oh, mamma...» pigolò, voltandosi verso Realgar. «Vai, vai, vai!» urlò spaventata. Sapeva bene come i venti marziani potessero sfiorare i 200 chilometri orari.

Realgar cercava di rimanere concentrato sulla guida, anche se l’istinto gli urlava di guardare quel mostro di sabbia che si formava dietro di loro ma, a quella velocità, con quella gravità, un piccolo errore poteva essere fatale.

Le prime propaggini della tempesta si allungarono ai fianchi del rover, la visibilità iniziò a calare rapidamente, mentre alcune spie di accesero sul quadro di controllo.

«I sensori indicano che le ruote stanno per collassare» urlò Samantha, passando in rassegna la strumentazione. «Se non rallenti, inizieranno a sfaldarsi!»

«Reggeranno» ringhiò lui.

«Ma i dati dicono di no!» replicò Sam spaventata.

«Reggeranno! Kain è il mio bambino!» berciò lui, sterzando sensibilmente a destra.

Sam si strinse al maniglione, per evitare di ritrovarsi in braccio a Realgar, nonostante la cintura di sicurezza la ancorasse al seggiolino. Le sagome davanti a loro facevano pensare che ci fossero rocce di considerevoli dimensioni, ma era tutto indistinto dalla marea di sabbia che acquistava sempre più forza. Persino lei si rese conto che le folate di vento erano tali da spostare il rover di alcuni metri e che Realgar eseguiva continue correzioni sul volante, per poter mantenere la direzione. Anche se si domandava quale fosse la direzione, visto che oramai non si vedeva quasi più nulla.

Il cuore le saltò in gola, quando vide un’ombra cupa gravare davanti a loro, troppo vicina per poterla evitare. Sam si coprì il volto con le mani, chiuse gli occhi, sentì lo stridio del metallo contro la roccia e gli scossoni scuotere violentemente il rover.

Era morta.

O forse no, perché sentiva ancora urlare il vento. Poi udì nuovamente lo scatto che preannunciava l’apertura dell’abitacolo. Sam spalancò gli occhi e controllò che lo scanner fosse ancora attivo. Il vento le scompigliò i capelli e la sabbia le sferzò il viso, ferendole la vista. Anche se il campo energetico manteneva la pressione corporea, era così sottile che percepiva e trasmetteva tutte le sollecitazioni al corpo.

Sam individuò Realgar uscire dal rover e dirigersi verso il retro del veicolo. Sganciò la cintura di sicurezza e si voltò, scorgendo il rimorchio, riverso su un fianco, in balia dei forti venti. Il rover invece era infilato sotto a una lastra di pietra che usciva diagonalmente dal terreno, offrendo una discreta protezione dalla tempesta che pareva voler inghiottire tutto.

Sam scese a sua volta e, tenendosi stretta al telaio dell’auto, raggiunse Realgar, intento a cercare di spostare il rimorchio al riparo della roccia.

Lui la guardò e, da dietro la maschera, le urlò, cercando di farsi sentire al di sopra della furia del vento. «Rimani su questo lato e tira al mio segnale.» Sbloccò il cavo assicurato alla cintura e lo agganciò con il moschettone a una delle maniglie esterne del rover, poi scavalcò il rimorchio.

L’impetuosa massa d’aria e sabbia lo travolse in pieno, trascinandolo via. Il cavo di sicurezza si tese al massimo e Realgar si rimise in piedi. Proteggendo il volto con un braccio, si aggrappò alla corda di metallo e pian piano riuscì a tornare accanto al rimorchio, sfidando la tempesta passo dopo passo, mentre Sam ne seguiva gli spostamenti con apprensione.

Realgar si appoggiò alla superficie di metallo, Samantha non poteva vederlo, ma udì le vibrazioni prodotte dai colpi che lui sferrò contro il cassone.

La ragazza iniziò a tirare, mossa soprattutto dal desiderio di vedere tornare Realgar al suo fianco. Se gli fosse successo qualcosa, lei sarebbe stata persa.

Sembrò passare un’eternità, ma alla fine riuscirono a mettere il rimorchio al riparo della sporgenza rocciosa e ritornarono entrambi all’abitacolo, respirando affannosamente.

«Come faremo ora?» domandò Sam, quando si fu ripresa dall’agitazione.

Realgar la guardò, togliendosi gli occhiali di protezione e la maschera. «Dormiremo. Quando perderà forza uscirò a sistemare i danni, ma adesso è impossibile stare fuori. Andrà avanti così per qualche ora, ma poi si calmerà. Cerca di dormire ora.»

Samantha lo abbracciò e gli appoggiò il capo su una spalla.

Realgar sorrise e tossì debolmente. «Hai paura di un po’ di vento?»
Lei tacque, stringendo tra le dita il cappotto di lui, ricoperto di polvere. Quando la tempesta lo aveva trascinato via, lei aveva avuto una paura folle. Se il cavo si fosse spezzato, se lo avesse perso, lei sarebbe rimasta sola. Sarebbe sicuramente morta in quel caso, ma la morte sarebbe stata forse una liberazione. Aveva perso suo padre e ora che si era affezionata a Realgar, temeva di veder svanire quell’unico appiglio che le dava sollievo all’anima.

Realgar era rozzo, maleducato, ma aveva un cuore d’oro, Sam lo aveva capito dalle piccole. Come dal respiro sibilante a causa dell’atmosfera artificiale dell’abitacolo che gli irritava le mucose. Lei lo aveva capito che Realgar non aveva fatto ripristinare le vecchie modifiche a causa sua, perché altrimenti quel fastidio sarebbe toccato a lei. Realgar aveva preferito che lei viaggiasse con quante più comodità possibili.

Samantha si addormentò, cullata dal respiro affaticato del mercenario.

Nel tardo pomeriggio la tempesta si acquietò e assieme controllarono i danni, poi si rimisero in viaggio, proseguendo verso occidente, dove il sole tramontava, tingendo il cielo d’azzurro(*).





 
(*) Dalle ultime osservazioni di Curiosity, il piccolo rover che scorrazza sulla superficie marziana, pare proprio che al tramonto, il cielo rosato di Marte assuma delle tonalità blu.

Eccomi, con un capitolo brevissimo, scusandomi nuovamente per l'attesa con chi segue la storia.

Grazie a tutti i lettori.
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Daniela

 

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Capitolo 10
*** -10- ***


Kamar







-10-

 
 

 


«Sono quelle?» domandò Samantha, scrutando la strana linea assunta dall’orizzonte.
Realgar sollevò la falda del cappello con l’indice e stirò le labbra in un sorriso. «Le Vallis Marineris: quando arriveremo all’imbocco dei canyon prenderò io i comandi» commentò, tornando a coprirsi gli occhi per difendere gli occhi chiari dalla luce del sole mattutino. Aveva guidato tutta notte ed era esausto. Negli ultimi giorni non si erano mai fermati, perché erano in una zona decisamente pericolosa. Si davano il cambio ai comandi ogni tre ore, eccetto la notte dove si occupava da solo di condurre il rover per la brulla superficie marziana.

Realgar si svegliò di soprassalto, quando un’esplosione energetica colpì il terreno qualche metro più avanti, sollevando una colonna di detriti attraverso la quale il rover passò indenne.

Samantha aveva il cuore in gola e aveva rischiato di perdere il controllo del veicolo, che ora sbandava pericolosamente.

Realgar la aiutò a domare le bizze di Kain, poi sganciò la cintura di sicurezza e si voltò, assottigliando lo sguardo sulle nuvole di polvere che si sollevavano in lontananza. «Banditi» constatò con disappunto.

Sam sgranò gli occhi. «Cosa? Prendi i comandi, presto!»

Realgar si sedette e recuperò uno degli ultimi panetti di petrosene rimasti. «No, lo devi fare tu. Muoviti a zig-zag e pesta sull’acceleratore. Cerchiamo di arrivare al canyon, approfittando del vantaggio che ci offre il sole.» Inserì il petrosene nel sistema di alimentazione e la densa nuvola rossa che si sprigionò dal tubo di scappamento, li occultò alla vista degli inseguitori. Indossò la maschera e occhiali da aviatore, li mise anche a Samantha, visto che lei era alle prese con i comandi.

«Che hai intenzione di fare?» domandò lei.
Lui estrasse dal dietro i sedili un fucile dalla canna decisamente lunga, tanto che Realgar faticava a maneggiarlo all’interno della cabina. Il mercenario inserì le cariche energetiche nelle due culatte, quindi chiuse l’otturatore e si tolse il cappello, incastrandolo dietro i sedili. «Cerco di farli desistere.» Aprì il portellone e si alzò in piedi, appoggiando la lunga canna dell’arma sul tetto del rover, incurante delle esplosioni che si facevano sempre più vicine.
«Stanno migliorando la mira» gridò Sam allarmata.

«Il sole si sta alzando e iniziamo a essere più visibili» rispose lui, con una calma glaciale.

«Perché non spari?» gli urlò la ragazza, esasperata da quella situazione.

«Non ancora...» mormorò Realgar, inudibile a Samantha. Il suo sguardo era fisso sul muro rossastro che si sollevava da dietro il rover, che veniva dissipato rapidamente dai venti marziani e dalla velocità alla quale Sam spingeva il veicolo. I biondi capelli si agitavano senza sosta in quella fuga disorganizzata, eppure sembrava che nulla potesse infastidirlo. Lo sguardo seguiva il bersaglio lontano, l’autocarro con il mortaio con cui i predoni stavano cercando di metterli fuori combattimento.

Abdel aveva più volte provato a vendere a Realgar un fucile nuovo e non quel pezzo da museo che lui si ostinava a usare. Insomma, quell’affare non aveva nemmeno il sistema di puntamento elettronico, bisognava fare tutto manualmente. Ma Realgar ci era affezionato e inoltre nessuno dei fucili moderni aveva la stessa gittata di quell’arma da museo. Mancava di precisione, forse, ma arrivava dove nessun altro fucile marziano poteva arrivare. Ma se si sapevano leggere e interpretare i venti, i movimenti propri e dei bersagli e si aveva la giusta lucidità e anche un ottimo istinto…

Realgar premette il grilletto e automaticamente il proprio corpo si preparò a gestire il potente rinculo. Il mercenario riassunse immediatamente la posizione di tiro e stavolta mantenne la canna fissa sul bersaglio, che venne raggiunto dal primo colpo. Da quella distanza era impossibile quantificare il danno, ma a giudicare dal fumo che avvolgeva l’autocarro doveva aver fatto centro, infatti il rover cominciava a distanziare gli inseguitori.

Realgar tornò a sedersi e aprì l’otturatore, inserendo un’altra carica nella culatta del fucile. «Puoi smettere di zigzagare per ora» disse a Samantha.

«Li hai fatti scappare con un solo colpo?» chiese lei sollevata.

«No, ho solo messo fuori uso il loro mortaio. Ora dovranno avvicinarsi, ma non dovrebbero metterci molto, perché loro sono più veloci di noi che abbiamo il rimorchio.»

Samatha distolse lo sguardo dalla strada e lo fissò. «Quindi siamo spacciati?»

«Guarda avanti» le intimò lui, rialzandosi in piedi con il fucile carico, controllando il posteriore del rover. «Non ci seguiranno dentro al canyon.»

«Ne sei sicuro?» chiese, al limite del pianto la ragazza.

«Abbastanza» rispose Realgar con tono cupo. Puntò l’arma verso uno dei veicoli in avvicinamento e fece una smorfia. «Hanno le moto...»

«Che significa?» chiese Sam.

«Che saranno dannatamente veloci» ringhiò, seguendo il bersaglio e sparando. Erano almeno una ventina di banditi, ciascuno alla guida di mezzo rapido e scattante. Per quanto l’abilità di Realgar con le armi da fuoco fosse superlativa, gli era impossibile tenerli tutti a bada.

Decine di colpi iniziarono ad abbattersi sul rover, alcuni andando a segno. Una delle esplosioni lesionò la ruota posteriore destro e i segmenti che componevano lo pneumatico iniziarono a sfaldarsi, rendendo la guida del mezzo decisamente difficile.

Realgar, finite le cariche per il fucile, si era armato con le due pistole e faceva del suo meglio per tenere i predoni alla larga, ma l’ingresso del canyon distava ancora più di mezzo chilometro e, a quella velocità, la ruota sarebbe andata in pezzi molto prima di arrivarvi. Sbuffò infastidito e scosse il capo, ricaricando le pistole. «Rallenta» disse a Samantha.

Lei lo guardò per un istante, incredula. «Ma così ci prenderanno!»

«Ci prenderanno comunque se la ruota ci abbandona. Rallenta, fidati di me» concluse lui, alzandosi nuovamente in piedi. Lei gli diede retta e Realgar vide i banditi avvicinarsi pericolosamente. Sospirò rassegnato e, invece che far fuoco su di loro, puntò le armi verso il gancio di traino e sparò. Il rimorchio si staccò dal rover e si fermò sul suolo rossastro e desolato di Marte. Gli inseguitori si precipitarono su di esso, ignorando il mezzo, finalmente libero di raggiungere gli impressionanti canyon delle Vallis Marineris, le cui pareti raggiungevano anche gli undici chilometri di altezza.

«Abbiamo perso il rimorchio!» urlò Samantha, controllando lo specchietto retrovisore.

«Lo so» bofonchiò Realgar, lasciandosi cadere sul seggiolino. Rinfoderò le pistole e controllò i danni subiti dal rover, tramite il computer di bordo.

Samantha guidava lentamente lungo il sentiero che si insinuava tra le imponenti mura di roccia. «Moriremo...» squittì demotivata.

«Piantala con la tua negatività, sei troppo pessimista. C’è sempre un lato positivo, impara a trovarlo» borbottò Realgar con una smorfia, chiudendo l’abitacolo.

«Quale sarebbe il lato positivo? Siamo senza scorte!» protestò lei.

«Nonostante i colpi subito, la cabina è ancora a tenuta e il sistema di pressurizzazione funziona» obiettò lui, stringendosi il costato con le braccia.

Samantha sbuffò, tenendo gli occhi incollati sull’accidentato sentiero. «Accendi il gps, per favore. Sembra di stare in un labirinto...»

«Non funziona dentro le gole» rispose divertito Realgar.

Lei fermò di colpo e si voltò a guardarlo. «Cosa?»

Lui sorrise. «Il gps dentro alle Vallis Marineris non funziona è una delle grandi anomalie scientifiche di Marte. È per questo che i banditi non ci hanno seguito, perché perdersi qui dentro è facile, non esiste una mappa dettagliata dell’interno, perché nessuno è mai riuscito ad attraversarle. I pochi che sono sopravvissuti all’esplorazione sono riusciti a mappare solo le estremità, ma sono poi rientrati al campo base a causa delle difficoltà incontrate.»

Il bip sonoro del computer li informò che l’abitacolo era arrivato alla giusta pressurizzazione. Sam si tolse la maschera e si accasciò sulla consolle di comando. «Allora moriremo per davvero.» Raddrizzò il busto e tirò uno schiaffo alla spalla di Realgar. «Lo sapevi fin dall’inizio, perché diavolo ci hai voluto portare qua?» urlò esasperata.

«Calmati, abbiamo cibo per almeno due settimane…»

«Certo, il cibo...» obiettò lei furente, «e l’acqua? Hai pensato all’acqua? O anche solo all’ossigeno!»

«Qui entra in gioco la seconda grande anomalia scientifica delle Vallis. La pressione atmosferica nelle gole è decisamente superiore a quella ipotizzata grazie alle osservazioni compiute dalle sonde, così come la temperatura.»

«Mi stai dicendo che qua sotto troveremo acqua allo stato liquido in superficie?» domandò incredula Sam.

Lui annuì, togliendosi a sua volta la maschera e abbandonandola assieme agli occhiali nel portaoggetti laterale.

«E come la mettiamo con l’ossigeno?» bofonchiò lei.

«I serbatoi di Kain sono molto più capienti di quanto tu creda. Inoltre, se troviamo acqua, potremo estrarre da essa l’ossigeno necessario» rispose Realgar, appoggiandosi al vetro. Chiuse gli occhi e sospirò pesantemente.

Sam lo guardò aggrottando la fronte. «Tutto a posto?»

«Sono solo stanco» rispose lui.

Lei lo osservò per qualche istante poi annuì, sorridendo. «Allora riposa» esclamò, sporgendosi oltre di lui per prendere la mappa. «Mentre dormi cercherò di capire come arrivare alla Tianmu» aggiunse, iniziando a scrutare i fogli e i dati a disposizione.

«Brava ragazza» sussurrò Realgar, con un sorriso sulle labbra, prima di addormentarsi.


Il mercenario si risvegliò quando si rese conto che il motore del rover era spento. Samantha gli sorrise.

«Ben svegliato! È quasi il tramonto e la luce non basta più ad alimentare il motore. Non volevo consumare il poco combustibile che ci rimane.»

Realgar si raddrizzò sulla schiena. «Hai fatto bene» disse con un sospirò. Stava facendo del suo meglio per nascondere la verità: era stato colpito durante la sparatoria. Aveva settato lo scanner in modo che il campo di pressurizzazione comprimesse la ferita, evitandogli di morire dissanguato, ma le sue condizioni stavano peggiorando.

«Il computer deve essersi danneggiato» lo informò Samantha. «Il livello di ossigeno dentro la cabina è a posto, ma secondo il computer il sistema di aerazione è spento» aggiunse, picchiettando sul monitor.

Lui sorrise e scosse il capo. «No, ogni tanto lo fa… Non è niente di grave.»

«Se mi avessi avvisato quando eravamo a Piyi, lo avrei sistemato» replicò lei.

«Non ci ho pensato» rispose Realgar, guardando oltre i vetri il paesaggio, dove le ombre si allungavano sempre più. «Dove ci hai portati?»

Sam prese la mappa e la stese davanti a lui. «Dovremmo essere qui» disse, indicando un punto sul foglio. «Per orientarmi ho usato la posizione del sole, approntando un sestante… Non è il massimo della precisione, ma non ho saputo fare di meglio con quello che avevo a bordo. Ho anche segnato le svolte effettuate, in modo da poter ritrovare la strada per uscire da qua» concluse sconsolata.

Realgar si umettò le labbra e prese tra le mani lo strumento che Sam aveva costruito, osservandolo perplesso. Sorrise. «Non ho idea di come tu abbia fatto, ma sei un piccolo genio. I tuoi calcoli dicono che siamo vicino. Domattina cercheremo di avvicinarci ancora un poco e poi lasceremo il rover e faremo un po’ di arrampicata. Dubito che Tianmu sia scivolata sino sul fondo: sarà rimasta incastrata da qualche parte lungo le pareti.»

«E se ho sbagliato i calcoli?» chiese Sam con apprensione.

«Ci faremo una bella passeggiata nell’unico luogo di Marte dove non è necessario tenere attivo lo scanner. Ora dormiamo.»

«Hai ancora sonno? Hai dormito tutto il giorno!»

Realgar sollevò le sopracciglia. «Appunto, io ho dormito e tu hai sgobbato. Ora è il tuo turno di riposare e io farò la guardia.»

Sam gli passò una razione di acqua e una di cibo e lui le guardò celando il moto di nausea che gli invase le viscere. Sorrise. «All’acqua non dico di no, ma il cibo conviene razionarlo. Mangerò domani.»

«Come vuoi» rispose Samantha, tirando fuori il sacco a pelo, infilandosi al suo interno. «Buonanotte» augurò a Realgar, usando la sua spalla come cuscino.

Quando lui capì che la giovane si era addormentata, fece una smorfia di dolore e disattivò lo scanner, controllando le sue condizioni. Riattivò il campo di pressurizzazione, perché lo sguarcio era più serio del previsto. Chiuse gli occhi, cercando di dormire a sua volta.





 
Non sto rileggendo... ormai gli ultimi capitoli ho smesso di rileggerli, in fondo nessuno dice nulla né in bene né in male.  Mi piacerebbe sapere che ne pensate della trama, ma non posso mica forzarvi a esprimervi in merito, quindi mi limito ad andare avanti con la trama e il resto... Beh magari lo sistemerò più avanti.
Grazie comunque a chi segue nell'ombra.

Grazie a tutti i lettori.
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Daniela

 

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Capitolo 11
*** -11- ***


Kamar







-11-

 
 

 


Realgar e Samantha avanzavano a piedi lungo la diramazione troppo stretta per accedervi con il rover.

«Spero che tu sappia dove stiamo andando» bofonchiò il mercenario, arrancando sui detriti che ostacolavano l’arrampicata.

«Certo che lo so, fidati. Per una volta che sono ottimista, tu mi diventi pessimista?» ironizzò lei, analizzando le pareti della gola con il binocolo. Le parve di vedere qualcosa e ingrandì l’immagine, mettendo a fuoco l’oggetto parzialmente coperto dalle rocce. Le didascalie indicavano la distanza rispetto al punto di osservazione. Sam abbassò il binocolo e sorrise. «L’abbiamo trovata!»

Realgar si fermò, appoggiando la schiena al muro di roccia quasi verticale alla sua destra. «Sicura?» chiese, ansimando.

Lei gli si affiancò, gli passò il binocolo e gli indicò dove guardare.

Lui alzò lo strumento e individuò la sonda, poi studiò il percorso. «Tutta salita...» constatò amaramente.

Sam gli diede una pacca su un braccio. «Oh, avanti, il sentiero è abbastanza semplice, credo di potercela fare persino io!»

Realgar la guardò con astio. «Il tuo zaino pesa meno del mio» rimbrottò, mettendosi in marcia.

Lei lo guardò e sospirò. Era da quando si erano svegliati che Realgar era intrattabile. Distribuì meglio il peso sulle spalle e iniziò a seguirlo. Il tragitto si rivelò più ostico del previsto, perché senza punti di riferimento precisi, non era facile stabilire le dimensioni di un oggetto. Quelli che sembravano gradini scavati dal vento nella roccia, si rivelarono gradoni e Realgar non l’aiutò minimamente a superarli. Sam aveva chiesto il suo aiuto un paio di volte, ma lui non si era nemmeno voltato e aveva continuato a camminare.

Mentre Samantha stava strisciando lungo la parete, cercando di non cadere nel baratro che correva di fianco al sentiero ghiaioso, le parve di sentire un cicalino elettronico, uno degli allarmi degli scanner. Controllò il proprio polso e sospirò di sollievo quando si accorse che era tutto a posto. Finalmente la strada si allargò e, accelerando il passo, riuscì a raggiungere Realgar.

«Il tuo scanner ha suonato? Mi è sembrato di sentire l’allarme di energia in esaurimento del campo di contenimento...» spiegò Samantha con il fiato grosso.

«È tutto a posto» rispose in un ringhio Realgar, iniziando la scalata del tratto più ripido di tutto il percorso. Il mercenario studiava con cura dove aggrapparsi e quali punti usare come appoggio. «Metti i piedi dove li metto io» berciò rivolto a Samantha, senza guardarla.

A Sam sembrò di essere tornata alle miniere di Anseris, dove aveva creduto di morire per la fatica. Era comunque grata a Realgar, che sembrava scegliere gli appigli tenendo conto delle sue esigenze. Samantha iniziava a considerarsi un inutile peso. Mentre avanzava, con le braccia che formicolavano per lo sforzo, Sam vide qualcosa di insolito. Era una sostanza vischiosa e biancastra e non capiva se trasudava dal terreno formando quella piccola macchia, o se era caduta dal cielo.

«Realgar, ho trovato qualcosa di strano...» informò Samantha, tastando cautamente la sostanza. Era calda al tatto e la cosa era bizzarra considerato che lo scanner la informava che la temperatura dell’aria era di appena nove gradi.

«Cosa?» ringhiò il mercenario, qualche passo sopra di lei.

Sam fece una smorfia e inserì un po’ di quella roba nello scanner, per farla analizzare. «Non lo so, sembra… sperma.»

Lo sguardo che le lanciò Realgar la fece raggelare.

«Muoviti e non perdere tempo» la rimproverò, riprendendo l’arrampicata.

«Non sto scherzando! È un liquido denso e biancastro! Sarò vergine, ma so come è fatto il liquido seminale...» protestò lei, inseguendolo. Lungo il percorso, Sam individuò altre di quelle macchie, ma Realgar sembrava avere il diavolo in corpo e ogni volta che lei rallentava la esortava a darsi una mossa.

Finalmente raggiunsero la sporgenza rocciosa dove la Tianmu era caduta. Il modulo esplorativo era rimasto incastrato sotto alcuni detriti che gli avevano impedito di sfruttare i pannelli solari per alimentarsi.

Realgar appoggiò lo zaino a terra e iniziò a tirare fuori i componenti per realizzare un generatore esterno, mentre Samantha studiò la sonda, liberandola dalle pietre.

La ragazza collegò il cavo di alimentazione e lasciò che l’energia, dopo più di un secolo, tornasse a scorrere tra i circuiti della navetta. Aveva paura che dopo tutto quel tempo non sarebbe bastato ridarle la carica e che tutto quel viaggio fosse stato inutile. Invece i led indicarono che il computer della Tianmu si stava avviando.

Sam sorrise e aprì il pannello dove era inserito lo ying dié per il salvataggio dei dati raccolti dal modulo operativo. Collegò il computer a quello della sonda e reindirizzò tutti i comandi sul proprio dispositivo, mentre Realgar preparò tutti gli hard disk che si erano portati dietro, sistemandoli vicino alla ragazza.

Samantha prese lo ying dié di suo padre e lo sostituì a quello sulla sonda. Controllò quindi lo spazio disponibile, scoprendo che il supporto aveva quasi raggiunto il proprio limite di contenimento. «Ti puoi sedere, credo che ci vorrà un bel po’...» mormorò incredula, iniziando a ricopiare i dati.

Realgar sbuffò e si lasciò cadere su un masso, per poi rimanere in silenzio, alle spalle della ragazza.

Lei prese le cuffie e iniziò a visionare alcuni video salvati sullo ying dié, documentari che ritraevano suo padre intento ad argomentare i suoi studi e le sue scoperte. Sam interrompeva la loro visione solo quando doveva collegare un nuovo hard disk per sostituirne uno ormai pieno. Era ormai il tramonto quando finì di ricopiare tutti i dati, le ci sarebbero occorsi mesi per riuscire a leggere tutta quella documentazione, ma quello che aveva potuto capire era sorprendente.

Sam scollegò il computer e si rivolse a Realgar. «Dobbiamo tornare al rover e dirigersi immediatamente alla Volta! Mio padre aveva trovato il modo di salvare la Terra! Se questo sistema funziona, il genere umano potrà ritornare a casa!» Realgar sembrava essersi addormentato e lei sbuffò, iniziando a riempire da sola gli zaini. «Io sono qui che mi faccio il mazzo e lui dorme» rimbrottò. « Svegliati, pelandrone!» Quasi lo urlò, ma il ragazzo non si mosse.
Lei si alzò e gli si avvicinò, controllando l’ora sullo scanner. Si accorse così che l’analisi della misteriosa sostanza era finita da parecchio tempo ormai. Controllò i risultati e aggrottò la fronte. «Una sorta di emolinfa?» mormorò tra sé e sé, posando una mano sulla spalla di Realgar, scuotendolo delicatamente. Poi si gelò, quando vide la pozzanghera di liquido candido che si era raccolta ai piedi del masso dove lui era seduto. Sembrava quasi che gocciolasse dal suo cappotto.

Realgar aprì gli occhi e la guardò confuso. «Hai finito?» disse, cercando di alzarsi. Le gambe non lo ressero e lui si ritrovò in ginocchio. Non aveva più forze, era ormai spacciato. Abbozzò un sorriso, guardando Samantha. «Mi si è addormentata una gamba, inizia a scendere da sola...»

«Il tuo scanner è spento...» rispose lei, guardandolo senza riuscire a celare la sorpresa sul proprio volto.

Lui sgranò gli occhi e guardò il masso e la sostanza bianca che si era raccolta a terra e capì cosa turbava Samantha.

«Non sei umano...» mormorò la ragazza.

«Sam, non è il momento di perdere la testa. Ti sei fidata sino a ora di me, continua a farlo. Devi tornare al rover e proseguire da sola, qualsiasi cosa tu abbia scoperto. Non credo che mi rimanga molto...» spiegò lui.

Samantha aggrottò la fronte e gli si inginocchiò a fianco, aiutandolo a sdraiarsi a terra.

«Cosa stai facendo?» chiese lui.

«Cerco di salvarti!» rispose la giovane con determinazione.

«Non perdere tempo. Il tuo scanner e la tua maschera non funzioneranno in eterno. Torna subito al rover!» protestò Realgar, mentre Sam premeva sulla ferita per arrestare l’emorragia. «Ho già perso troppo sangue, vattene.»

Lei scosse il capo, gli occhi si erano fatti lucidi, ma il campo di forza impediva alle lacrime di cadere. «Nello ying dié di mio padre, lui racconta che ha avuto modo di studiare un phobosiano ancora in vita. Eri tu, vero?»

Quante altre forme di vita avrebbero potuto sopravvivere senza alcuna protezione su Marte? Era impossibile negare quell’affermazione, quindi Realgar chiuse gli occhi. «Gli davo una mano e lui mi aiutava a nascondermi. Lasciavo che mi studiasse, gli portavo campioni particolari che nessun essere umano sarebbe stato in grado di portargli… lui falsificava i miei dati sul computer, per non farmi scoprire dai custodi» rispose sommessamente.

«Sei tu la chiave per salvare la Terra, non posso lasciarti morire. Potresti essere l’ultimo della tua razza...» mormorò Sam.

«Appunto, come potrei mai salvare un altro pianeta? Non sono in grado di salvare neanche me stesso!» Realgar si interruppe, reprimendo il dolore con una smorfia. L’ondata lo attraversò completamente e quando passò, lui aveva già perso ii sensi, gettando Samantha nello sconforto.

Sam lo scosse agitata. «Realgar! No, non mi lasciare, ti prego!» Non sapeva cosa fare, era suo padre l’esobiologo. Samantha prese a pugni il petto dell’esploratore e, non ottenendo alcuna reazione, si accasciò su di lui, con le spalle scosse dai singhiozzi. Stravolta dal dolore, non si rese conto del rumore alle sue spalle. Quando lo percepì chiaramente e alzò la testa, l’unica cosa che vide fu la superficie rossa, sulla quale il sole sembrava quasi riflettersi. Il lampo di dolore la colpì, scaturendo dalla nuca e privandola della lucidità. L’oblio scese come un sipario pesante, chiudendole gli occhi senza alcuna pietà.





 
Zan zan! Colpo di scena. Anche se credo che ormai si fosse capito che Realgar proprio normale non era :D

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Capitolo 12
*** -12- ***


Kamar







-12-

 
 

 


Samantha riprese i sensi, complice il tremendo mal di testa che le martellava dietro le tempie. Una luce soffusa giungeva sino a lei, rimbalzando sulle pareti rocciose, virando il proprio colore in tonalità rossastre.
Dolorante, Sam alzò la mano sinistra, per massaggiarsi le tempie, poi lanciò un’occhiata distratta allo scanner e sgranò gli occhi, tappandosi la bocca. Era senza maschera e il campo di pressurizzazione aveva esaurito la sua energia.

Sam aggrottò la fronte. Era viva, non c’erano dubbi. Sfruttò quel poco di batteria che rimaneva al dispositivo sul polso e analizzò la composizione dell’aria. La pressione era sufficiente a non far andare in ebollizione l’acqua all’interno del suo corpo e, anche se rarefatto, la concentrazione di ossigeno era tale da consentirle di respirare in tutta tranquillità.

Samantha si mise seduta, stando attenta a non picchiare la testa contro il basso soffitto di quella nicchia scavata nella parete di roccia.  Cercò di ricordare gli accaduti e i suoi pensieri corsero a Realgar. Uscì dalla nicchia e si guardò intorno.

Sam si trovava in un cunicolo sotterrane. Le pareti sembravano di origine lavica, lo capiva dalla porosità della roccia, in certi punti presentavano blocchi di vetro vulcanico, molto simili all’ossidiana se non per il colore rosso.

Samantha tese le orecchie e, non percependo nulla, decise di muoversi in direzione della luce che rimbalzava sulle pietre. Udì un rumore alle proprie spalle e trasecolò: i blocchi che aveva scambiato per vetro lavico si muovevano!

Sam, paralizzata dalla paura, venne raggiunta, afferrata per le braccia e sollevata da due creature umanoidi, che sembravano fatti di vetro di un opaco color rosso acceso.

Le due creature la portarono in un’ampia grotta con una volta fatta di quarzo trasparente, da cui entrava la luce. Gran parte della caverna era occupata da un lago dall’acqua rosata, a causa del colore del fondale. Sulle rive c’erano altre di quelle strane creature e stavano maneggiando gli oggetti di…

«Realgar» squittì Samantha.
Uno dei carcerieri sgrano gli occhi azzurrissimi e la lasciò andare, comportandosi in maniera strana. Sembrava quasi spaventato. Il compagno berciò qualcosa in una lingua assolutamente incomprensibile, fatta di schiocchi e suoni gutturali.

Sam approfittò della situazione, strattonò il braccio  trattenuto e riuscì a liberarsi. Corse a perdifiato verso il gruppo che aveva gli oggetti di Realgar, ma quando arrivò da loro, la testa le girava così tanto, che crollò in ginocchio.
Gli alieni erano arretrati, abbandonando a terra i vestiti dell’esploratore e Sam si trascinò verso di essi a fatica. Nella caverna echeggiavano quelle che potevano essere intese come grida, da parte di quelle creature così simili a statue di pietra. I due guardiani giunsero di corsa berciando parole incomprensibili e brandendo delle aste di pietra.
Sam ebbe paura e, temendo per la propria incolumità, si rannicchiò a terra, iniziando a piangere, coprendosi il capo con le braccia.

I due guardiani la pungolarono con i bastoni, intimoriti da quello strano atteggiamento. Sam sentì lo sciabordio delle acque e poi udì una voce, stavolta comprensibile.

«Non piangere, se si accorgono che produci acqua dagli occhi, non vorrei ti rinchiudano per usarti come scorta...»

La ragazza alzò lo sguardo sulla figura che era emersa nel bel mezzo del lago, la quale stava avanzando verso riva. Era un altro alieno dal corpo simile a vetro lavico dall’intenso colore rosso, se si escludeva la macchia di fango che copriva gran parte del fianco destro dell’essere.

Samantha si portò le mani davanti alla bocca, per reprimere l’urlo, poiché lo aveva riconosciuto. I lineamenti scolpiti in quella pietra lavica erano identici anche se, senza la crema a coprirli dando un apparente colorito candido alla pelle, l’associazione non era così immediata. «Re… Realgar?»

Lui raggiunse la sponda e si sedette a terra, di fronte alla ragazza e le sorrise. Lei lo squadrò da capo a piedi, incredula.

«Sei… proprio tu, sei vivo…» mormorò Sam a fil di labbra, mentre lui la guardava tranquillo. Lei sollevò una mano e gli sfiorò una guancia, avvertendo al tatto la consistenza della sua reale pelle. Era liscia come vetro, eppure sembrava morbida ed emanava un leggero tepore.

Realgar si strinse nelle spalle. «Be’, eccomi qui, senza crema protettiva addosso sembro un gambero...» commentò, per poi zittirsi, quando Sam lo abbracciò, cominciando a singhiozzare.

Realgar le coprì il viso con le braccia, camuffando quel gesto con l’abbraccio. «Ti ho detto di non piangere. Questi vanno pazzi per l’acqua, non so come potrebbero reagire se vedessero delle lacrime...»

Lei si asciugò il viso e si scostò, guardandosi attorno. I phobosiani facevano capolino da dietro alcune rocce, eccetto i due guardiani che erano rimasti vicino a loro e si rivolsero a Realgar, il quale scambiò qualche parola con loro, palesando però grandi difficoltà nel farlo. Lo sguardo di Sam si spostò al fianco del ragazzo, dove il fango ancora umido copriva la ferita.

«Hai rischiato di morire...» mormorò desolata.
«Fortuna che ti sei imbattuta in un paio di loro e che si sono accorti che ero uno di loro. Mi hanno curato… In maniera primitiva, ma comunque efficace per la mia fisiologia» rispose Realgar.

Sam guardò i guardiani, che si erano seduti in riva al lago, parlottando tra loro e gettando saltuariamente qualche occhiata verso di lei. «Come...» esordì, riportando l’attenzione su Realgar, senza però trovare le parole per esprimere le molte domande che le affollavano la mente.

«Come mai sono un phobosiano? Be’, sono nato così, anche se non ricordo molto di loro. Ero piccolo quando la mia famiglia venne sterminata dai coloni» raccontò lui, sdraiandosi a terra, godendosi a occhi chiusi la luce che filtrava dalla lastra di quarzo sul soffitto della caverna.

Samantha lo scrutò, affascinata e intimorita dal suo reale aspetto, soprattutto dal colore e dall’apparente consistenza di quel corpo che pareva fatto di vetro. «Non è possibile, sono cent’anni che non si hanno più notizie di scontri tra coloni e phobosiani...» mormorò pensierosa.

Realgar sospirò. «Sono stato allevato e cresciuto dai coloni che vivevano nella fattoria Loon, quella dove ci siamo fermati... Io ho cinquantaquattro anni marziani, pari a centodue terrestri.» Aprì un occhio per godersi l’espressione incredula di Sam. «Tuo padre mi confrontava spesso con le piante, ipotizzava persino che potessimo vivere secoli...»

«Ecco perché mi ricordo che venivi da noi quando ero bambina…» mormorò lei e poi sgranò gli occhi e si guardò attorno. «Ecco perché i phobosiani potrebbero salvare la Terra!»

Lui aggrottò la fronte e si sedetta, stringendosi le ginocchia contro il petto. Guardò Samantha con curiosità e lasciò che lei proseguisse.

«Nei dati che mio padre ha lasciato...» esordì lei, per poi diventare pallida e alzarsi in piedi di scatto, guardandosi freneticamente attorno. «Dove sono gli hard disk?» chiese allarmata, facendo mettere in guardia anche i due guardiani che ancora la tenevano d’occhio.

Realgar si alzò e si avvicinò loro. Cercò di chiedere informazioni, anche se non era facile relazionarsi con una razza della quale non parlava la lingua molto spesso. Dopo alcuni minuti si riavvicinò a Samantha. «Sono ancora vicino alla Tianmu» spiegò. «Il problema è che tu non puoi uscire da qua, non senza una maschera con i serbatoi carichi...»

Sam lo afferrò per un braccio. «Devo recuperarli! Senza di essi non posso dimostrare nulla delle scoperte di mio padre! Lo hai detto tu stesso, mio padre ti paragonava spesso alle piante. Tu, e credo tutti gli altri phobosiani, effettuate una specie di fotosintesi e producete ossigeno. Convertite le particelle di piombo dello smog e altri inquinanti in qualcosa a livello epidermico che vi permette di resistere all’assenza di pressione, e in questo modo riducete anche il livello di tossicità dell’aria. Siete come filtri, per questo dico che potreste salvare la Terra.»

Realgar si allontanò, raggiunse la riva del lago e si inginocchiò su di essa, raccogliendo un po’ d’acqua con le mani per lavarsi il viso. Si rivolse a Samantha, continuando a darle le spalle. «Posso aiutarti a recuperare quei dati, ma non posso aiutarti ad andare oltre.»

La ragazza scosse il capo, incredula. «Cosa? Ma non capisci l’importanza di questa cosa? Potremmo aiutare l’Umanità!”»

«Condannando i Phobosiani?» chiese lui irato, voltandosi di scatto. Gli altri alieni si nascosero tra le rocce, mimetizzandosi grazie al colore della loro pelle. «Gli umani sparano a quelli come noi, prima ancora di stabilire se abbiamo intenzioni ostili o meno. All’inizio della colonizzazione, quando l’Uomo scoprì la nostra esistenza, organizzò dei safari per sterminarci, per avere l’esclusiva su questo pianeta. Adesso mi stai chiedendo di aiutarvi? Ma ti rendi conto che se consegniamo quei dati, tutti cercheranno i phobosiani sopravvissuti per ridurli in schiavitù? Guardali!» urlò, indicando i phobosiani, rannicchiati dietro le rocce. «Sono un popolo primitivo, semplice e pavido. Se quei dati arrivano alla Fratellanza, li condanneresti a morte.»

Sam serrò le labbra, stringendo i pugni lungo i fianchi. «Mio padre è morto per questo studio...» protestò.

Realgar sgranò gli occhi e si passò una mano tra i capelli. «Tuo padre è stato ucciso, i custodi hanno cercato di catturarti, credo volessero quei dati… La Fratellanza è probabile che sappia...»

La ragazza lo guardò incredula. «È assurdo! Perché dovrebbe tacere questa cosa?»

Realgar scosse il capo. «Non ne ho idea e non riesco a capire...»



 
Sono in ritardo. Sono indietro, perdono! Ho avuto un blocco e c'ho messo un sacco a finire questo capitolo che è pure breve. Non l'ho nemmeno riletto. Sono imperdonabile.

Grazie a tutti i lettori.
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Capitolo 13
*** -13- ***


Kamar







-13-

 
 

 


Realgar era riuscito a far capire agli altri phobosiani le proprie necessità, ma soprattutto quelle di Samantha. I padroni di casa, però, non gli avevano permesso di andare a recuperare le scorte dal rover, per via del suo precario stato di salute.

L’espoloratore, costretto a una specie di prigionia, occupò il tempo, pulendo le proprie pistole. Di tanto in tanto, sollevava gli occhi su Samantha, diventata ormai una vera attrazione per i bambini di quella piccola tribù. Osservando i giochi dei giovani e le attività quotidiane degli adulti, Realgar si rese conto che il suo talento per le armi da fuoco era un’abilità ereditata da quella stirpe di cui ricordava molto poco. I phobosiani avevano una coordinazione motoria superiore, lui stesso ne ignorava le cause. Pierre, il padre di Samantha, si era prodigato in spiegazioni dettagliate, ma lui non era stato molto attento. Scarsa memoria a breve termine, campo visivo più esteso, conoscenze impresse nei geni che spiegavano come fosse possibile per un phobosiano, rimasto solo in tenerissima età, ricordare vagamente la propria lingua madre, ma che aveva impiegato quasi vent’anni per imparare la lingua umana.

Realgar aveva rimuginato parecchio sulla morte dello scienziato e l’arresto mancato della figlia. Era ormai convinto che la Fratellanza fosse coinvolta e, se Sam era veramente intenzionata a inviare i dati recuperati sulla Terra, doveva per forza andare a Olympus, ovvero nel cuore della Fratellanza stessa. Non riusciva a vedere via d’uscita per quella situazione, ma doveva riportare Samantha in una zona civilizzata, non poteva vivere a lungo senza cibo.

Il vociare crebbe quando i maschi della tribù ritornarono dall’escursione, trasportando non senza difficoltà il rover e tutto ciò che conteneva. I phobosiani avevano recuperato tutto quello che Realgar e Samantha avevano lasciato nei pressi della sonda e l’umana fu felice di poter finalmente placare la propria fame, sgranocchiando una delle razioni. Realgar le fece compagnia, sbocconcellando una delle proprie.

«Quindi le tue barrette di cosa sono fatte?» gli chiese Sam, guardandolo da dietro le sottili lenti degli occhiali. La stecca destra si era piegata e la montatura le cadeva obliquamente sul viso.

Realgar sollevò lo sguardo su di lei, per poi osservare la propria tavoletta dall’improbabile colore giallognolo. «Fosfato, potassio, acqua e sali minerali…» rispose dopo un attimo di esitazione.

La ragazzina annuì, rimanendo in silenzio.

Realgar sospirò. «A che stai pensando?» le chiese atono.

«Che se voglio sopravvivere devo raggiungere una città o un avamposto. Le mie scorte si esauriranno...»

Lui sbuffò. «Già...»

Lei portò il pollice alle labbra e iniziò a tormentarsi l’unghia, stringendola tra i denti. Lanciò fugaci occhiate a Realgar e aprì un paio di volte le labbra per parlare, ma non le uscì nemmeno una parola.

«Vuoi inviare i dati sulla Terra...» disse Realgar. Non era una domanda e non gliela pose con quel tono.

Lei assunse un’espressione addolorata. «Lo so che non sei d’accordo, ma le scoperte di mio padre potrebbero salvare il pianeta! L’Umanità potrebbe tornare a passeggiare tra i prati verdi e a godersi i tramonti in riva al mare!»

«L’Umanità non si estinguerà se non potrà fare quelle cose» rispose duramente lui, spostando lo sguardo sugli altri phobosiani. Erano un popolo primitivo, ma nei loro cuori non c’era la cattiveria che aveva visto in quello degli umani. «Ma sul fatto che tu debba tornare in una città hai ragione. Il problema è che sei ricercata, se cercherai di entrare in una cupola i Custodi lo sapranno subito, mentre in un avamposto irregolare rischieresti di finire a fare la prostituta per il resto della tua vita...»

Lei abbassò gli occhi, stringendosi le ginocchia al petto. «Quindi… mi stai dicendo che sono fregata, che non c’è niente da fare?»

«No» rispose lui, tornando a guardarla. «Devi andare tu stessa sulla Terra, là sarai al sicuro dalla Fratellanza.»

Sam lo guardò interdetta. «Hai dimenticato che le navi per la Terra partono dal Mons Olympus, che è la roccaforte della Fratellanza?»

«Hai dimenticato che ho più di un secolo di vita?» rispose lui. «Olympus era ancora in costruzione quando io già bazzicavo per il pianeta. So come entrare, evitando i controlli. Una volta all’interno, cercherò di portarti all’ambasciata terrestre. Una volta al suo interno i custodi non potranno prenderti e tu potrai chiedere asilo e grazie a quei dati avrai un bel biglietto di sola andata per la Terra.»

«Ma se ci scoprono, ci uccideranno! E come faremo ad attraversare il canyon? Non abbiamo abbastanza scorte per aggirarlo e l’interno non è mappato» obiettò Samantha.

«Probabile. Ma prima o poi capita a tutti di morire e non credo che tuo padre abbia sognato per te una vita da ricercata. Pierre ti voleva libera e felice, lo so bene. Per quanto riguarda le Vallis Marineris, troverò una soluzione e riusciremo ad attraversalo.»

«Ma...» esordì la ragazza.

«Stai tranquilla, farò del mio meglio affinché non ti accada nulla. Prenderai quella navetta e sarai in salvo. Solo… cerca di fare in modo che quei dati non vengano usati per farci del male» mormorò Realgar.

«Non potrai venire con me e difficilmente io potrò tornare su Marte» rispose mestamente lei, dando per scontato che con l’aiuto dell’esploratore la sua missione sarebbe stata un successo.

«Sarai libera» replicò il phobosiano, sorridendole.

Lei strinse i pugni, si mise in ginocchio davanti a lui e si sporse, posandogli un innocente bacio sulle labbra, chiudendo gli occhi. Aveva sperato che Realgar ricambiasse, che la cingesse a sé, tramutando quel bacio in qualcosa di più intenso, ma lui rimase impassibile, non mosse nemmeno un muscolo.

Sam si scostò e lo guardò negli occhi. «Non sarei felice...» disse, sperando di riuscire a smuoverlo.

«Biologicamente non siamo compatibili e non nutro attrazione sessuale nei tuoi confronti. Ti sono affezionato, ma come amico. Non posso essere più di questo» spiegò lui pragmaticamente, distruggendo qualsiasi speranza della giovane, che chinò il capo e si ritrasse, cercando di trattenere le lacrime che quella cocente delusione le avevano fatto salire agli occhi.

Realgar si alzò in piedi e si allontanò, raggiungendo il rover e cominciando a studiare le mappe della superficie marziana.

Un ragazzo gli si avvicinò incuriosito, affascinato dai disegni sui fogli plastificati. Cominciarono a parlottare tra di loro. Realgar aveva preso un po’ di dimestichezza con il loro idioma e spiegò al giovane che doveva raggiungere Olympus.

«Kuth’è» rispose il ragazzo, puntando l’indice sul Mons Olympus segnato sulla mappa. Quella parola riportò molteplici ricordi nella mente di Realgar, memorie non sue, indelebilmente scritte nei suoi geni.

«I tunnel...» mormorò preda di un lieve capogiro, mentre l’altro lo fissò interrogativo, non comprendendo la lingua umana. Realgar aveva ricordato che il suo popolo viveva sottoterra e che si muoveva sotto la superficie sfruttando gli antichissimi canaloni lasciati delle colate laviche risalenti a milioni di anni prima. Una mappa impressa all’interno del suo genoma, una dote che spiegava come mai gli era così facile orientarsi anche quando la strumentazione era inutilizzabile.

Realgar cercò di spiegare all’interlocutore la sua necessità: aveva bisogno di trovare l’accesso all’intrico di canali sotterranei, per poter raggiungere la propria meta.

Il giorno successivo i guardiani li accompagnarono all’ingresso del dedalo che si estendeva sotto la superficie di Marte in un’intricata ragnatela in cui nessuno essere umano aveva mai messo piede. Forse qualche galleria era stata utilizzata, ma di certo non quelle che correvano nel ventre delle Vallis Marineris.

L’ossigeno era così rarefatto che Samantha era costretta a tenere la maschera.

«Credi di poter trovare la strada giusta?» domandò la ragazza.

«Non ne ho idea. È la prima volta che metto piede qua sotto...» ammise Realgar.

Sam deglutì. «Se dovessimo sbagliare strada…?»

Lui si voltò a guardarla, mordendosi un labbro. «Moriremmo. I viveri sono molto limitati quindi tu non potresti nutrirti, mentre se non riesco a trovare una via per tornare in superficie morirò per l’assenza di luce.»

«Se tentassimo di attraversare i canyon sarebbe la stessa cosa, solo che tu non moriresti» commentò Samantha, sistemandosi gli occhiali sul naso.

«Ma i phobosiani conoscono questa via...» rispose Realgar. «Se quello che diceva tuo padre è vero, dovrei ricordare la strada, anche se non l’ho mai percorsa in vita mia.»

«Allora dobbiamo tentare» sentenziò la giovane.

«Sei sicura?» le chiese Realgar, con una punta di preoccupazione.

Lei gli sorrise. «Ho fiducia in te.»

Lui sorrise ironico. «Che fortuna...»



 
Non ho scusanti. Esco da un blocco scrittorio che dura dalla metà di agosto e non posso nemmeno garantire che io ne sia uscita. Ho deciso di concentrarmi solo su questa storia, così che quel poco che uscirà dalle mie dita sarà focalizzato su un obiettivo per volta. Spero che possiate perdonarmi per la lunga attesa e spero di riuscire a scrivere ancora, in modo da aggiornare con regolarità.

Grazie a tutti i lettori.
Se la storia vi piace, per cortesia, mettetela nei preferiti/seguiti/ricordati per darle visibilità.

Se trovate errori, orrori o semplicemente volete farmi sapere la vostra opinione, mandatemi un pm o potete lasciare una recensione: non mordo!
Daniela

 

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Capitolo 14
*** -14- ***


Kamar







-14-

 
 

 


Samantha passò il giorno successivo a sistemare il rover, impedendo a Realgar di aiutarla, per permettergli almeno di riposare, visto la brutta ferita.

«Quanto pensi impiegherai a guarire?» domandò la ragazza, passandosi il dorso della mano sulla fronte, sporcandosela leggermente con il grasso da motore.

Realgar abbassò lo sguardo sullo strato di fango secco che ricopriva la parte lesa e grattò via il terriccio con la punta dell’unghia.

A quella gesto, Samantha sgranò gli occhi. «Ma sei scemo?!» gli chiese, correndogli vicino.

«Guarda che ormai si è richiusa...» obiettò lui, alzando lo sguardo sul volto preoccupato della giovane che si accovacciò al suo fianco, ispezionandogli il fianco stupita.

«Incredibile…» mormorò incredula. «È bastata un po’ di  melma per farti guarire?»

«Il pregio di vivere in simbiosi con un organismo organico basato sul silicio invece che sul carbonio» ribatté sorridente Realgar.

Sam si morse il labbro. «Ho letto qualcosa negli appunti di mio padre, ma non ho aperto il file...»

«Roba complicata» rispose lui, «non saprei spiegartela nei dettagli nemmeno io. Quello che so, è che nutro il mio ospite grazie alla fotosintesi e lui mi protegge dalla bassa pressione marziana. Il colore rosso è dovuto appunto allo scudo epidermico che produce l’ospite. I coloni mi chiamarono Realgar proprio perché sembravo fatto di quel minerale...»

La ragazza lo ascoltò con attenzione, poi si risistemò gli occhiali sul naso. «Com’erano i coloni che ti adottarono?» chiese con curiosità.

Lui arricciò le labbra, sollevando gli occhi sulla lastra di quarzo che chiudeva la volta del soffitto permettendo alla luce del sole di entrare nella caverna, mentre lo sguardo si perdeva nei ricordi di un secolo prima. Per un attimo gli parve di tornare nel cratere Loon, mentre i coloni gettavano le fondamenta della fattoria autosufficiente, dopo che i ripulitori avevano sgomberato l’area dai phobosiani presenti. Realgar rammentò lo smarrimento e l’angoscia dell’essersi trovato solo, nascosto alla vista dei ripulitori dal corpo di uno degli adulti della tribù. Poi ricordò gli occhi azzurri, così simili a quelli della propria gente, di quella strana creatura che lo aveva tratto in salvo, cercando di curarne le ferite. Fu un periodo dedicato alla reciproca conoscenza e alla pazienza, poiché gli insuccessi si ripeterono innumerevoli volte, con errori da parte di entrambi i fronti.

Lui strinse le labbra ripensando a Madison e tornò a guardare Samantha. «Erano pieni di speranza e sognavano di poter far ritorno sul loro pianeta il giorno in cui l’Umanità avrebbe risolto il problema dell’inquinamento sulla Terra. Ma alla fine dei conti erano dei disperati, intrusi in un ambiente non adatto a loro; hanno cercato di piegare ai propri desideri Marte, come avevano già fatto con la loro patria.» Il phobosiano sbuffò, passandosi una mano nei capelli e scosse il capo. «Quelli della mia razza saranno lenti a imparare, ma voi umani dimenticate troppo in fretta...» disse, alzandosi indispettito. Si allontanò verso le sponde del lago, cercando di reprimere il dolore, mentre i ricordi gli dilaniavano il cuore.  Aveva veduto Madison sfiorire, piegandosi inesorabilmente allo scorrere del tempo, aveva visto i suoi sogni venire calpestati dalla cupidigia che la scoperta del petrosene aveva instillato nell’animo umano. Aveva seppellito lui stesso Madison, mentre i pochi rimasti alla fattoria di scannavano tra di loro, costringendo le strade di molti a dividersi. I pochi che erano rimasti nell’avamposto rinunciarono a quella vita di stenti dopo pochi anni e a lui non era rimasto altro da fare che seguire quella che era diventata la sua nuova famiglia e mimetizzarsi a fatica tra la popolazione delle città cupola.

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Angoscia.
Opprimente, sfiancante, infinita angoscia.
Il viaggio era stato un lunghissimo incubo, dove le brevi soste nei punti dove, da alcune fenditure della volta, la luce del sole penetrava nei cunicoli erano uno sbiadito miraggio, fagocitato dalle tenebre più cupe che Samantha avesse mai veduto.

Il bacio del sole sulla pelle, anche se attraverso i vetri dell’abitacolo, ora le sembrava più passionale e intenso della sua giovane vita, eppure non riusciva e non voleva tenere gli occhi chiusi. Quando lo faceva, la paura tornava a ghermirle il cuore, inondandole l’animo di ansia.

Sam faticava a credere che quell’odissea nell’oscurità fosse finalmente giunta al termine, nonostante di fronte a lei si stagliasse l’imponente sagoma dell’Olympus, il vulcano più alto dell’intero sistema solare. Era così grande, che le sua pendici si perdevano oltre l’orizzonte Una parte di lei temeva che quello fosse solo un sogno, un’effimera realtà frutto della sua mente spezzata dalla follia con cui le tenebre l’avevano maledetta.

La giovane spostò lo sguardo su Realgar, che le dormiva accanto, al posto di guida. Quel tour sotterraneo aveva sfiancato anche lui, che aveva dovuto gestire gli attacchi di panico che avevano colpito Samantha, la quale gli doveva aver dato decisamente troppi grattacapi.

Il segnale acustico avvisò che le batterie solari avevano raggiunto la massima carica.

Sam raddrizzò la schiena e controllò lo stato delle celle d’ossigeno della propria maschera, poi il brontolio dello stomaco attirò insistentemente la sua attenzione. La ragazza prese la cassetta delle razioni, sospirando rassegnata. Estrasse l’unica confezione rimasta e controllò l’interno della scatola, nella vana illusione di trovarne altre. Nonostante lei e Realgar se ne fossero concesse una ogni tre giorni, quel viaggio era durato più del previsto.

«Mangiala pure.»

Samantha sussultò e guardò il mercenario, il quale le sorrise senza aprire gli occhi. «Tu è cinque giorni che non mangi, mi hai ceduto la tua all’ultimo pasto» obiettò.

Realgar aprì le palpebre e puntò gli occhi azzurri sul volto della ragazzina. «Ma ora c’è il sole; grazie alla luce e a un po’ di terriccio mangerò come uno della Fratellanza» ironizzò, prima di stiracchiarsi la schiena. Si sporse verso i comandi e iniziò a digitare al computer. «Avanti, mangiala. Avrai bisogno di energie.»

Sam si mordicchiò il labbro inferiore. «Sei sicuro di volerlo fare?»

«Ti ho detto che non ho bisogno di mangiare ora!» assicurò lui.

Lei scosse il capo, risistemandosi gli occhiali sopra il naso. «Mi riferivo a Kain...»
Realgar arricciò le labbra in una smorfia incerta, accarezzò il volante e annuì, senza guardare l’interlocutrice. «Sì, se la caverà benissimo» rispose risoluto. «Mangia pure e poi affronteremo l’ultima tappa del viaggio. Per ora» aggiunse, sollevando lo sguardo sull’imponente cono vulcanico che si protendeva verso rade nubi di diossido di carbonio e polvere.

Il mercenario prese la mappa e la stese davanti a sé. «L’Olympus Mons è situato in una depressione e, come lasceremo la copertura delle rocce, le sentinelle ci individueranno subito e, se ci andrà bene, i Custodi ci piomberanno addosso.»
«E se andrà male?» domandò sottovoce Samantha.

Realgar la guardò e poi le indicò il vulcano. «Li vedi quei punti dove la luce del sole si riflette?» Quando Sam annuì, proseuguì: «Sono gli sportelli delle bocche da fuoco. È più facile che ci sparino direttamente addosso.»

La ragazza deglutì. «Perché dovrebbero farlo? Anche a Olympus arriveranno dei viaggiatori, no?»

«L’ingresso è consentito solo tramite rotaia o via aria» spiegò Realgar. «I veicoli vengono contattati via radio e invitati a tornare indietro. La nostra fortuna è che il rover è piccolo e maneggevole, è difficile da prendere di mira. Con l’ultimo panetto di petrosene, posso lanciarlo al massimo della velocità e coprire il tratto più breve per le pendici dell’Olympus in meno di un minuto. Una volta là, sarà al riparo dai cannoni e a quel punto i Custodi usciranno per eliminare gli intrusi.»

«In un minuto ridurranno Kain a un colabrodo» commentò Samantha, sgranocchiando nervosamente la galletta. «Hai detto che si accede tramite treno, no? Quindi questi sarebbero le rotaie?»

«Sì, sono giganteschi ponti su cui corrono anche i tubi di rifornimen...» Realgar aggrottò la fronte senza finire la frase, mentre la ragazza sorrise.

«Credi che rischierebbero di colpire uno dei ponti, magari quando passa un treno?» gli disse.

Lui la guardò compiaciuto. «Sei un piccolo demonietto. Mi piace quest’idea, anche perché ci permetterebbe di arrivare dentro alla montagna molto più velocemente.»

Samantha guardò la mappa e poi di nuovo Realgar. «Vuoi sfruttare uno dei treni? Non sappiamo nemmeno quando ne passerà uno!»

«In quanto phobosiano, sono in grado di percepire le vibrazioni molto più di un umano. Per questo dormivo in tutta tranquillità in un bozzo. Sento distintamente i micro tremori che ne prennunciano crollo e non mi sono mai fatto sorprendere.»

Sam lo guardò incredula. «Chi diavolo te ha fatto fare di dormire in un bozzo? Sono altamente instabili!»

«Ma costano una sciocchezza...» ribatté lui divertito.



 
Non dico più nulla. Tanto ho visto che non riesco a essere costante e me ne dolgo. Sono rammaricata di avervi dato la tanto sospirata regolarità.

Grazie a tutti i lettori.
Se la storia vi piace, per cortesia, mettetela nei preferiti/seguiti/ricordati per darle visibilità.

Se trovate errori, orrori o semplicemente volete farmi sapere la vostra opinione, mandatemi un pm o potete lasciare una recensione: non mordo!
Daniela

 

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