La chiave di Baldr (/viewuser.php?uid=343232)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -1- ***
Capitolo 2: *** -2- ***
Capitolo 3: *** -3- ***
Capitolo 4: *** -4- ***
Capitolo 5: *** -5- ***
Capitolo 6: *** -6- ***
Capitolo 7: *** -7- ***
Capitolo 8: *** -8- ***
Capitolo 9: *** -9- ***
Capitolo 10: *** -10- ***
Capitolo 11: *** -11- ***
Capitolo 12: *** -12- ***
Capitolo 13: *** -13- ***
Capitolo 14: *** -14- ***
Capitolo 1 *** -1- ***
Kamar
-1-
L’autocarro procedeva lentamente a causa della strada
fortemente dissestata, addentrandosi lungo la galleria
illuminata dai fari, che fendevano l’oscurità totale. Il
tunnel, scavato rozzamente nelle rocce porose ricoperte da
polvere rossastra, si interruppe davanti a un enorme muro
d’acciaio che impediva il passaggio. Il camion si fermò,
l’autista controllò i cinque monitor disposti in cabina,
collegati ad altrettante telecamere che permettevano di
avere una visiona completa dell’esterno del veicolo
corazzato. Afferrò il microfono della ricetrasmittente e lo
avvicinò alla bocca. «Inizio pressurizzazione esterna.»
Un clangore metallico, accompagnato da un forte tremore,
accompagnò il moto orizzontale di una seconda paratia alle
spalle del veicolo.
Approfittando di quel fragore, una figura nascosta sotto al
rimorchio agganciò una piastra cilindrica, spessa pochi
centimetri, al fondo del cassone. Il magnete si saldò al
metallo con un rumore secco e l’uomo, con il viso coperto da
una maschera marrone e occhiali di protezione, spostò la
leva sul fianco dell’ordigno: due ganci metallici si
conficcarono nel telaio dell’autocarro.
Realgar accese l’unità, poi sganciò il moschettone
dell’imbragatura che lo teneva appeso al veicolo, e si
lasciò cadere; avvicinò il mento allo sterno, per proteggere
il capo dall’impatto col terreno sassoso, poi si girò
sull’addome e strisciò verso il portellone che si stava
chiudendo. Dalla sacca, che portava a tracolla, estrasse
un’altra placca esplosiva e l’agganciò alla paratia prima
che essa concludesse il suo movimento.
Il rombo tranquillo del motore del camion rimase l’unico
suono all’interno della sala di pietra dalle pareti
frastagliate. Dopo una decina di minuti, il muro anteriore
iniziò a scorrere lateralmente, scomparendo nella roccia,
rivelando man mano una galleria meno rozza; vi erano
lampadari sulla volta del tunnel, ogni cento metri, che
emettevano una debole luce dai toni arancioni, la strada era
sterrata ma curata e le pareti erano più regolari.
Realgar si agganciò alla scaletta posteriore quando il
camion ripartì. Passò un braccio tra i gradini di metallo e
frugò ancora nella bisaccia, tirando fuori uno specchio.
Tese il bracciò verso il fianco destro dell’autocarro,
facendo sporgere la superficie riflettente oltre il cassone,
quel tanto che gli permettesse di vedere la strada che
stavano percorrendo.
Quando notò le luci acquistar forza in fondo al tunnel,
preannunciando la fine dello stesso, calcolò il momento in
cui si sarebbe trovato a mezza via tra due lampadari e saltò
giù dall’autocarro, acquattandosi a terra. Il lungo
spolverino era coperto da polvere rossiccia, tanto che era
difficile da intuire che in realtà fosse blu e, assieme alla
scarsa illuminazione lo aiutò a mimetizzarsi. Quando il
camion scomparve dietro alla curva, si alzò in piedi e lo
seguì, camminando lungo la parete della galleria.
Arrivò così a una vasta caverna artificiale, dal soffitto
alto all’incirca sei metri, nella quale erano racchiusi, a
una sommaria stima, un centinaio di moduli abitativi,
strutture squadrate, una uguale alle altre, talvolta
sovrapposte a formare edifici di due piani.
Tenendosi al riparo delle rocce e dei moduli, raggiunse il
centro abitato. Si accovacciò in un punto dal quale godeva
di una buona visuale, lasciando scorrere lo sguardo sulle
persone che si muovevano per le strade. In lontananza vide
un camion, probabilmente lo stesso grazie al quale era
penetrato nell’avamposto clandestino.
Sollevò gli occhiali protettivi, adagiandoli sul capo. Si
levò le lunghe ciocche di un biondo platino da davanti gli
occhi, poi aprì lo spolverino e, da una tasca interna, prese
il cannocchiale. Estese il tubo telescopico, cercando il
ladro di documenti, ma nessuno dei volti che incrociava
apparteneva al ricercato. Con uno sbuffo di disappunto, si
spostò dal nascondiglio alla ricerca di un punto di
osservazione sopraelevato. Si arrampicò silenziosamente
lungo una scala e si sdraiò con cautela sul tetto,
riprendendo a scrutare l’abitato.
L’obiettivo del cannocchiale indugiò su diversi visi e, alla
fine, si fermò su una finestra oltre alla quale individuò il
proprio bersaglio. Ripose il tubo all’interno della tasca e
tornò a studiare la sua meta, valutando come raggiungerla in
quel dedalo di viuzze strette e irregolari.
Scese dal tetto e si incamminò di soppiatto, le ginocchia
flesse e i sensi all’erta. Più di una volta fu costretto ad
appiattirsi conto a un modulo, a rimanere immobile, per non
farsi individuare da un passante. Raggiunse la meta e si
avvicinò cautamente alla strada, rimanendo al riparo nel
vicolo. Estrasse dalla tasca destra dello spolverino il
radiocomando e inviò il segnale di innesco alla bomba che
aveva piazzato sull’autocarro.
L’esplosione fece tremare le pareti della caverna, rocce di
piccole dimensioni si staccarono dalla volta e caddero sui
moduli, senza causare danni. Tutti gli abitanti iniziarono a
sciamare verso l’autorimessa, per spegnere l’incendio che
stava cominciando a propagarsi. Anche il ricercato uscì
dalla propria tana e corse via, passando davanti a Realgar
che, fermo nella stretta traversa, lo lasciò sfilare senza
intervenire.
Attese qualche istante, poi si sporse a controllare la
strada e, non appena fu libera, si precipitò all’ingresso
del modulo. La porta era stata lasciata aperta ed entrò
senza difficoltà. Si guardò attorno, studiando l’angusto
spazio abitativo, adatto a ospitare una sola persona. I
moduli erano studiati per essere funzionali e le comodità
erano limitate al minimo necessario.
Ispezionò il letto sopraelevato alla sua destra, fissato
alla parete corta; frugò sotto il materasso e, non trovando
ciò che era stato rubato, controllò la scrivania posizionata
sotto alla zona notte. Rinvenne una cassetta di sicurezza di
piccole dimensioni e la appoggiò sul ripiano. Studiò la
tastiera numerica sulla sommità, che permetteva di inserire
il codice di sblocco della serratura e prese dalla sacca gli
arnesi da scasso, iniziando a smontarla. Incise le guaine di
due piccoli cavi elettrici, scoprendo i fili di rame e li
usò per mandare in corto il circuito. La cassetta si aprì,
rivelando il chip, grande quanto un’unghia, in essa
contenuto. Lo sollevò davanti al viso, tenendolo tra indice
e pollice, poi lo inserì nello slot dello scanner che
indossava all’avambraccio sinistro.
Il display si accese, mostrando il documento elettronico
firmato dal responsabile della Fratellanza Nergal, la gilda
dei mercanti che dominava tutte le città cupola. Con quello
era possibile farsi consegnare a vista un carico di mezza
tonnellata di petrosene, la principale fonte di energia su
Marte, senza sottoporsi a ulteriori controlli.
«Trovato» sussurrò soddisfatto, sfilando il chip dal
dispositivo; lo fece cadere dentro a un contenitore
cilindrico che infilò nello scomparto della cintura.
Lasciò il modulo abitativo felice di non essersi tolto il
respiratore, visto che il fumo aveva invaso la caverna.
Abbassò gli occhiali di protezione davanti agli occhi e
proseguì a passo svelto lungo la strada. Da una delle
abitazioni, uscì precipitosamente un uomo armato di
estintore e, involontariamente, lo urtò. Lo sconosciuto non
si curò eccessivamente di lui e corse verso l’incendio. Tirò
un sospiro di sollievo e proseguì. Arrivò sulla strada
principale e, su un lato, vide due quad. Si avvicinò e li
ispezionò: come previsto, non trovò le chiavi di accensione.
Salì in sella al modello blu e scoperchiò il quadro
elettrico, cominciando ad armeggiare con i cavi. In
lontananza sentiva le grida degli abitanti dell’avamposto,
intenti a domare le fiamme che consumavano il prezioso
ossigeno, gelosamente conservato nella caverna.
Il motore del quadriciclo tossì un poco, prima che le
vibrazioni si regolarizzassero.
«Ehi!»
Realgar si voltò alle proprie spalle e vide tre uomini
corrergli incontro; tra essi, c’era anche il ladro di
documenti. Girò immeditamente la manopola del gas e si
diresse verso la galleria. I tre inseguitori lo videro
fuggire, impotenti.
«Merda! Mi ha fregato pure la moto!» sbottò il ladro.
L’amico saltò sul quad rimasto. «Gli vado dietro, andate a
prendere l’auto.» Mise in moto e si lanciò all’inseguimento.
Tossendo a causa del fumo, il ladro diede una pacca alla
spalla del compare, indicandogli una direzione verso la
quale scattarono all’unisono.
Realgar imboccò il tunnel e si voltò per controllare quanto
vantaggio avesse. Il sibilo di un fascio d’energia, gli fece
intuire di averne meno di quanto sperasse. Si piegò sul
serbatoio, spingendo al massimo il veicolo.
Un’esplosione di scintille accompagnò l’impatto del colpo
successivo, che incurvò il parafango posteriore sinistro,
che andò a sfregare sullo pneumatico, privo di camera
d’aria, cominciando a ledere alla gomma di rivestimento.
«Maledizione» ringhiò Realgar, preparandosi all’inevitabile.
Non appena il battistrada cedette, le sezioni della ruota
iniziarono a piegarsi e il quad sbandò. Per non perdere il
controllo, fu costretto a rallentare e a controsterzare.
Sfoderò la propria pistola con la mancina e si voltò,
esplodendo un colpo d’energia verso l’altro quad che
guadagnava terreno. Sparare in quelle condizioni non era
pratico, ma al terzo colpo, riuscì a centrare la ruota
anteriore dell’inseguitore, appiedandolo.
A trecento metri dalla paratia, la ruota cedette del tutto e
l’asse posteriore si ruppe. Realgar abbandonò la moto e
corse verso la porta, mentre alle sue spalle sentì il rombo
di un altro motore. Si girò e vide un rover sopraggiungere a
gran velocità. Impugnò l’arma con la mandritta e sparò un
paio di colpi, per rallentarlo ma, uno dei tre occupanti si
alzò in piedi sul sedile posteriore e rispose al fuoco,
sparando con un fucile.
Realgar si tuffò di lato e fece una capriola, schivando i
globi di energia scarlatta. Alla fine della rotazione, si
mise in ginocchio e sparò nuovamente contro il veicolo
sempre più vicino. Scattò zigzagando verso il rover poi, a
pochi metri dal veicolo, spiccò un poderoso balzo. Grazie
alla lieve gravità marziana, oltrepassò l’auto, sparando con
precisione con l’intento di disarmare gli aggressori. Quando
atterrò alle loro spalle, impugnò il radiocomando e fece
saltare la seconda carica, sfruttando l’esigua copertura
offerta dal veicolo.
La brezza iniziò a spirare verso l’esterno e Realgar scattò
verso la breccia, mentre la sirena d’allarme entrò in
funzione.
«Sta scappando!» urlò l’uomo sul sedile posteriore,
massaggiandosi il braccio stordito dalla scarica.
«La saracinesca si sta chiudendo, dobbiamo rientrare!»
rispose allarmato il pilota.
«No! Dobbiamo recuperare quei documenti!» intervenne il
terzo, a cui Realgar aveva sottratto il bottino.
«Non abbiamo l’attrezzatura per uscire!» ringhiò il pilota,
affondando il piede nell’acceleratore, sterzando
repentinamente, per poi tornare verso l’avamposto, mentre la
seconda porta metallica sigillava l’apertura, preservando
l’atmosfera artificiale della stazione sotterranea.
Realgar raggiunse il rover, nascosto tra le rocce, e rimosse
il telo mimetico col quale lo aveva coperto. Il sole era da
poco tramontato e il cielo splendeva dei colori delle
aurore, che si muovevano come le onde sulla superficie di un
lago. Cinquant’anni prima, i cieli marziani erano
decisamente più monotoni privi di quello spettacolo, poi
l’Uomo era riuscito a realizzare una barriera magnetica
orbitante, per proteggere la superficie dalle violente
tempeste solari. Aveva sacrificato uno dei due satelliti di
Marte, Phobos, ma si era trattato di una perdita necessaria
alla sopravvivenza delle colonie umane.
Saltò alla guida del veicolo biposto, chiuse l’abitacolo e
mise in moto. Le luci esterne si accesero e il sistema di
supporto vitale pressurizzò la cabina, iniziando a
bonificare l’aria. Realgar controllò i sistemi e lasciò
scivolare lo sguardo sui dintorni, sbirciando oltre la
calotta, incastonata nel robusto telaio.
Si avviò tra le creste rocciose che si innalzavano nei
pressi del bordo del cratere, simili a un intricato
labirinto, che lui conosceva come le proprie tasche. Dopo
quasi un’ora di marcia lenta, la pietra aspra e tagliente
lasciò spazio a soffici dune, che si alzavano di diversi
metri. Risalì sulla cima di una di esse e la cupola di
Herschel gli apparve all’orizzonte, rischiarando la notte
con le sue luci artificiali, apparentemente piccola rispetto
all’immenso bacino che la ospitava.
La sua attenzione era però rivolta all’oceano di sabbia,
spazzato da una lieve brezza, che lo separava dalla cupola.
Era il tratto più insidioso del percorso, perché era un mare
mutevole che cambiava geografia in base ai capricci del
vento. Non aveva abbastanza petrosene come combustibile per
seguire il bordo interno del cratere, quindi doveva per
forza sfidare le sabbie in esso contenute, stando ben
attento a non farsi seppellire dagli improvvisi cedimenti.
Disattivò il cambio automatico e spinse a fondo il pedale
dell’acceleratore; il rover sgommò, sollevando un denso
polverone, e si tuffò lungo la scarpata, mentre la duna
collassava alle sue spalle.
Ritorno con una nuova long, dopo il raptus che mi ha portato
a cancellare tutto.
Veniamo
alle note.
Fu
l'astronomo Schiaparelli a stilare la prima mappa marziana,
assegnando i nomi alle formazioni che poteva scorgere dalla
Terra tramite telescopio. L'abitudine è rimasta e i
successivi astronomi, forti anche dello sviluppo della
tecnologia ottica, e alle missioni spaziali, individuarono
miriadi di altri oggetti a cui assegnarono nomi in omaggio
alle menti illustri del passato o a luoghi terrestri
esistenti.
Herschel è uno di
questi crateri, con un diametro di circa 300 chilometri, e
prende il nome dai due Herschel (padre e figlio), noti
astronomi britannici.
Il
cratere Herschel si trova nell'emisfero sud di Marte, nella
regione denominata Mare Tyrrhenum
e, se ci tenete, potete individuarlo grazie a questo link.
Realgar, invece, è il nome di un minerale
dall'acceso color rosso. Mi piaceva l'idea che il
protagonista avesse il nome di un minerale dello stesso
colore di Marte :D
Grazie a tutti i lettori.
Se la storia vi piace, per cortesia, mettetela nei
preferiti/seguiti/ricordati per darle visibilità.
Per chi fosse
interessato, può passare a trovarmi presso il mio gruppo
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Daniela
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Capitolo 2 *** -2- ***
Kamar
-2-
Realgar, seduto su una panchina di metallo arrugginito,
osservava il piccolo parco cittadino, costruito sulla
sommità di uno dei palazzi. Alberi, arbusti, persino l’erba
aveva un insalubre colore giallognolo per colpa
dell’inquinamento.
Lo sguardo indugiava soprattutto sui passanti, ne scrutava i
volti, cercando di intuire le intenzioni di quelle figure
estranee a lui. Era all’erta, voleva evitare che qualcuno
gli facesse saltare l’affare, soprattutto ora che era così
vicino a riscuotere il suo compenso.
Le iridi azzurre si posarono sulla figura di un uomo,
avvolto in un pesante soprabito scuro, che non aveva nemmeno
un granello di polvere, sibolo che non avesse mai messo
piede all’esterno della cupola, o anche nelle zone di
decompressione.
Lockart ricambiò l’occhiata per un solo istante, per poi
incamminarsi verso una delle passerelle sospese, che univa
il parco a uno dei palazzi vicini. La parte superficiale di
Herschel era un fitto intrico di ponti veicolari e pedonali,
per poter estendere la superficie calpestabile.
Realgar si alzò e lo raggiunse a metà del viadotto. Lockhart
era appoggiato alla ringhiera, con lo sguardo perso sulla
ragnatela che si estendeva sotto di loro per venti piani
sotto di loro. «Lo hai con te?» gli domandò. Impossibile
dire se lo stesse fissando, visto che gli occhi erano celati
dietro le lenti scure della maschera, che proteggeva le
mucose dall’aria venefica.
Realgar scostò lo spolverino, portò una mano alla cintura e
recuperò il cilindretto, svitò il coperchio e lasciò cadere
il chip sul palmo della mano che Lockart gli aveva teso.
L’industriale lo afferrò tra le dita e lo inserì nel
dispositivo incorporato nell’orologio da polso, che proiettò
il documento sull’avambraccio. Sospirò di sollievo,
constatando che si trattava proprio del documento che gli
era stato rubato. Spense il display e prese il contenitore
che Realgar gli offrì, infilandovi il chip, facendolo poi
sparir in una tasca interna del cappotto. Sfilò dall’altra
il portafoglio di pelle sintetica, strofinò le mani
intirizzite contro la gomma, simile a quella usate per le
mute da sub, con cui era realizzato il cappotto e si tastò
la sciarpa di pile, che proteggeva la gola. Estrasse
dal portafoglio una carta magnetica e la diede al
mercenario.
Realgar la prese, la passò vicino al polso sinistro e lo
scanner rivelò la quantità di tael in essa contenuti. Alzò i
limpidi e sorridenti occhi azzurri sul proprio cliente e gli
rivolse un cenno del capo. «Grazie e buona giornata.» Non
indugiò oltre, ritornò al parco, che lasciò, dirigendosi al
proprio ufficio.
Il palazzo di ventitré piani era silenzioso e buio: era un
edificio per uffici e a quell’ora erano tutti chiusi.
Realgar era l’unico essere vivente che si muoveva lungo i
corridoi disadorni, dall’aria decadente. Raggiunse il
diciassettesimo livello, costretto a usare le scale, poiché
la corrente elettrica era razionata e gli spazi comuni
rimanevano inoperativi sino all’ora prima della riapertura
degli studi dei professionisti.
Il largo corridoio metallico si restrinse improvvisamente e
l’uomo si ritrovò in un cunicolo largo appena un metro, male
illuminato, con porte disposte in maniera irregolare sui due
lati e a distanze maggiori rispetto al corpo principale
dell’edificio. Il suo ufficio si trovava infatti in uno dei
bozzi,
così la gente comune chiamava le sporgenze metalliche che
gli architetti aggiungevano lungo ai fianchi dei palazzi. La
gravità marziana permetteva diverse licenze e i bozzi erano
una di queste.
Herschel, come molte altre città che si affacciavano sulla
superficie, non conosceva equilibrio e simmetria, si
sviluppava come un cancro, occupando qualsiasi spazio
disponibile all’interno della cupola che, di anno in anno,
si faceva sempre più stretta di fronte alla crescita
demografica.
I locali costruiti nei bozzi erano più grandi degli altri e
costavano meno, perché erano instabili e il metallo, a causa
dell’elevata escursione termica a cui era sottoposto, si
deformava e, così, la sporgenza finiva inesorabilmente per
crollare sui livelli sottostanti, prima o poi.
Realgar arrivò alla porta del proprio ufficio, sbloccò
ciascuna delle serrature che ornavano la porta blindata e
scivolò all’interno, ritrovandosi in una stanza buia; la
parete opposta era composta da un’ampia vetrata che si
affacciava su Herschel e prendeva luce dalla città stessa,
sebbene molti lampioni a quell’ora fossero spenti.
Le città cupole erano energeticamente dipendenti dalla più
estesa colonia di Marte, la Olympus, costruita all’interno
del più imponente vulcano dell’intero sistema solare.
Distribuire l’energia, l’ossigeno, l’acqua e moltissimi
altri beni, era compito della Fratellanza Nergal, l’unica a
possedere ancora la tecnologia per lasciare Marte alla volta
della Terra o che potesse anche solo comunicare con il
pianeta madre. Ogni città cupola pagava pesanti dazi alla
Fratellanza per poter sopravvivere. A Herschel, tutto
sommato, si stava bene, la miseria non si sentiva troppo.
Tirò il chiavistello e si incamminò verso la scrivania posta
a un metro dalla vetrata. Svuotò le tasche dello spolverino,
sfilò il cinturone svuotando ogni vano, sganciò lo scanner
dal polso, finalmente si liberò della maschera e degli
occhiali protettivi. Infine, si denudò, poi raccolse i
vestiti e li infilò nella lavatrice ad anidride carbonica
liquida, avviando il programma di pulitura.
Tornò al tavolo, si sedette sulla poltroncina, aprì un
cassetto e prese una barretta energetica, la scartò e iniziò
a sgranocchiarla svogliatamente. Ruotò la sedia, in modo da
guardare il panorama che la città offriva. Abbassò poi lo
sguardo sulle braccia e quindi sul petto, tastandosi la
pelle. Lo strato di crema protettiva che lo rendeva
apparentemente pallido si era pericolosamente assottigliato
ma, visto che era solo come sempre, non se ne preoccupava.
Finì il suo equilibrato, quanto sintetico pasto, e si alzò
in piedi, stiracchiandosi la schiena e le braccia. Poi
aggrottò la fronte, quando vide il bussolotto nella canalina
della posta pneumatica.
«Ma che diamine» bofonchiò sommessamente, incamminandosi il
tubo. «Le tasse le ho pagate da meno di un mese, la
fornitura energetica scade tra due...» ringhiò, prendendo il
bussolotto e aprendolo. Le dita si strinsero sulla carta e
aggrottò la fronte, incredulo. Si avvicinò al tavolo e
accese la lampada.
Stirò sul ripiano la busta, osservandola ammirato. Era
proprio carta, un materiale così raro e prezioso che veniva
usato solo per importanti comunicazioni.
Girò la lettera e lesse il mittente:
STUDIO
NOTARILE
LI
BAO E CHEN SHU
Senza soffermarsi sull’indirizzo aprì il plico con cura, non
voleva rovinarlo, visto che era la prima volta in vita sua
che riceveva una lettera di carta vera e propria. Conteneva
un solo, candido foglio, che lo invitava a presentarsi
presso lo studio, non appena avesse ricevuto il messaggio.
Controllò gli orari stampati sulla carta e afferrò lo
scanner. Lo assicurò al polso, in modo che la biochimica del
corpo lo alimentasse, e si collegò alla rete informatica di
Herschel per inviare una comunicazione dove avvertiva che la
mattina successiva si sarebbe presentato dai notai.
Appoggiò lo scanner sul tavolo e andò nella stanza attigua
dove c’era una doccia con sistema di ricircolo dell’acqua.
Si lavò e lasciò che il flusso d’aria lo asciugasse,
riportando le particelle del prezioso liquido dentro ai
serbatoi, facendolo passare attraverso gli appositi filtri.
Uscito dalla doccia, abbassò una leva e la parete dove il
box sorgeva, assieme agli altri sanitari, ruotò sull’asse
verticale; la parete mostrò così una nuova faccia, sulla cui
superficie vi erano quattro mensole di metallo. Sopra
ciascuna di esse vi erano carillon di variate fogge e
dimensioni, pezzi di antiquariato provenienti dalla Terra.
Era una piccola collezione di cui andava molto fiero e,
grazie a quello che il lavoro per Lockart aveva fruttato,
avrebbe potuto comprare qualche altro carillon interessante
al prossimo viaggio a Pavonis, la città mercato. Aggrottò la
fronte e tormentò il labbro inferiore con gli incisivi: era
un piano realizzabile a patto che i notai non volessero
spillargli dei soldi.
Afferrò una maniglia sul muro alle sue spalle e abbassò il
pianale del letto. Fece il giro del piccolo ufficio, che
usava anche come abitazione, e spense le luci. Tornò
nell’angusta stanzetta e si sdraiò sul sottile
materassino di gommapiuma, infilandosi sotto le coperte di
pile. Ricordò la morbidezza della coperta di lana che usava
da bambino e la malinconia lo colse. Le persone che lo
avevano cresciuto erano morte da anni e non aveva più legato
con nessuno da allora. Era come se con la scomparsa delle
fibre naturali, anche i suoi sentimenti avessero abbandonata
quel pianeta arido. Osservò il soffitto per lunghi minuti,
poi sbuffò, quasi volesse scacciare i pensieri e si
addormentò.
Non sapevo come rendere l'idea di cosa è Herschel. Mi sono
immaginata una grande città, piena di mezzi con vecchi motori
diesel (il petrosene nella mia testa fa una fumana nera da
paura), messa sotto vetro. E mi sono immaginata che l'aria
non dovesse essere molto salubre. E poi cercare di capire
che le cose organiche sono rarissime e costose, perché
vengono dalla Terra, però non volevo ammorbare il lettore,
ma credo di averlo fatto comunque.
Non mi pare ci sia bisogno di note, ma se qualcuno avesse un
qualsiasi dubbio, chieda pure U.U
Grazie a tutti i lettori.
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interessato, può passare a trovarmi presso il mio gruppo
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Daniela
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Capitolo 3 *** -3- ***
Kamar
-3-
«Buongiorno, signor Stepson, sono Chen Shu. Prego, si
accomodi» disse la donna dai lineamenti orientali, facendo
accomodare Realgar nell’ufficio elegante.
Lui raggiunse la sedia e vi prese posto, senza aspettare che
il notaio facesse altrettanto. Lei lo guardò inespressiva e
si accomodò a sua volta.
«Signor Stepson, lei conosce Pierre Souris?» gli domandò,
tenendo le iridi castane sul suo volto.
Realgar aggrottò la fronte e abbassò il respiratore che gli
copriva la parte inferiore del viso, dato che lo scanner
aveva confermato che l’aria nella stanza era perfettamente
filtrata. «Il biologo? Be’, si è rivolto a me diverse volte
per procurargli alcuni campioni sulla superficie.»
«Già, lei è un esploratore mercenario, mi risulta. Aveva
altri rapporti con il professor Souris, al di fuori
dell’ambito lavorativo?» domandò la cinese.
Lui scavò nei propri ricordi e si strinse nelle spalle. «Una
volta abbiamo bevuto una bibita energetica assieme. Pierre
mi contatta due volte l’anno ma, dalle sue parole, deduco
che ciò non avverrà più: ha usato l’imperfetto.»
La donna si sfilò gli occhiali con le piccole lenti tonde e
lo fissò qualche istante, poi annuì. «Pierre Souris è morto
tre settimane fa. Lei è nominato nel testamento e sono
giorni che tentavamo di contattarla.»
Realgar alzò una mano per zittirla, con un’espressione
perplessa stampata sul viso. «Nel testamento? Non avevo
debiti o crediti con il professore...»
«Infatti, ma il signor Souris l’ha comunque nominata come
erede di mezzo milione di tael» intervenne il notaio.
Le labbra dell’uomo disegnarono una ‘O’ di stupore e lui
sbatté le palpebre un paio di volte, per poi costringersi a
inspirare. «Mezzo… milione? Mi ha lasciato una tale somma?»
boccheggiò incredulo. La sua mente elaborò quelle parole e
finalmente reagì. «Quando posso incassare?» domandò,
sorridendo raggiante.
Chen Shu strinse le labbra, infastidita da quella reazione.
«Dovrebbe mostrare un po’ di rispetto per il defunto, dato
che mi risulta che un esploratore ha un reddito medio di
ventimila tael all’anno.»
«Ah, ma ora che so quanto Souris fosse altruista, lo stimo
ancora di più. Dove devo firmare per prendere i soldi?»
chiese ancora.
La donna appoggiò le lenti sul naso e aprì la cartellina di
plastica che aveva sul tavolo, davanti a sé. Prese il foglio
di carta in essa contenuto e scorse le lettere vergate a
mano sulla superficie. «La sua eredità è soggetta a
riscossione» disse, rialzando le iridi scure su Realgar, che
aggrottò la fronte, sporgendosi con il busto verso di lei.
«Ovvero?»
«Lei riceverà il mezzo milione di tael se, e solo se,
porterà a termine un incarico. Per sua fortuna è di modesto
pericolo, quindi credo che non le risulterà ostico
accettarlo.»
Realgar appoggiò pesantemente la schiena alla sedia e
abbandonò gli avambracci sulle cosce. «C’era la fregatura,
lo sapevo. Ma mezzo milione sono una bella cifra...»
borbottò, per poi alzare lo sguardo sulla cinese. «Qual è
l’incarico?»
«Consegnare un oggetto a Samantha Souris.»
Lui aggrottò la fronte e poi sollevò le sopracciglia. «È
vero! Pierre aveva una bambina! Ricordo di averla vista una
volta; ha quattro anni, no?»
«Veramente ora ne ha quindici» lo corresse Shu.
Realgar fece una smorfia. «Come passa il tempo...» commentò,
passandosi una mano nei capelli. «Quindi devo solo portare
qualcosa a Sam e voi mi darete i soldi?» La donna annuì e
lui sorrise. «Bene! Dov’è la ragazzina?»
«Ad Anseris.»
Quella parola strappò il sorriso dal volto dell’uomo. «Che
reato ha commesso?» domandò grave.
Il notaio sospirò. «Nessuno, ma la ragazza è orfana di
entrambi i genitori, non può provvedere a se stessa ed è
completamente a carico del governo.»
Realgar scosse il capo divertito. «Suo padre ha lasciato
mezzo milione di tael quasi a un perfetto sconosciuto,
presumo che alla figlia abbia lasciato ben di più. Credo che
sia perfettamente in grado di cavarsela!»
L’espressione di Shu si indurì. «Signor Stepson, la legge
impone che sino alla maggiore età i ragazzi siano sotto la
responsabilità dei genitori e, in assenza di questi, essi
vadano assegnati a una struttura di educazione sociale...»
«Utilità sociale, vorrà dire. Cosa c’è di educativo nell’
obbligare i ragazzini a lavorare nelle miniere?»
La donna chiuse con un gesto brusco la cartellina e lo fissò
duramente. «Signor Stepson, siamo qui per l’eredità del
signor Souris. Se vorrà entrare in possesso del denaro,
dovrà effettuare quella consegna ad Anseris. Cosa decide?»
Realgar si massaggiò la fronte e poi raddrizzò le spalle;
sostenne lo sguardo di Shu e annuì. «Dipende anche da cosa
devo consegnare...»
Lei si alzò dalla sedia e si avvicinò alla cassaforte sul
muro, la aprì e ne estrasse un baule che non superava il
mezzo metro di lunghezza. «Non so nemmeno io di cosa si
tratti, ma se all’apertura dovesse rivelarsi qualcosa di
illegale, potrà rifiutarsi e il denaro sarà comunque suo. Se
invece non ci fossero impedimenti di legge, dovrà effettuare
il recapito» spiegò, appoggiando la cassa metallica sulla
scrivania.
Realgar si alzò in piedi, strofinandosi le labbra con le
dita. L’ingombro di quella scatola non era preoccupante e
non gli sembrava che Shu avesse compiuto un grave sforzo per
portarla sino al tavolo. Annuì nuovamente e mise una mano
sulla cassa. «Vediamo cosa contiene.»
Shu recuperò la chiave dall’archivio e sbloccò la serratura,
facendo cigolare la cerniera metallica quando sollevò il
coperchio del baule.
«Una… bambola?» commentò Realgar, sbirciando all’interno.
Shu estrasse il giocattolo con il volto
di porcellana incorniciato da lunghi e morbidi boccoli
biondi. L’elegante vestito era di seta azzurra, impreziosita
da merletti lavorati all’uncinetto, con un grosso fiocco sul
petto, arricchito da un gioiello: una piramide in oro rosso
decorata con incisioni a bulino, incastonata su una
montatura d’oro bianco.
Il notaio controllò l’interno della cassa e poi annuì. «Sì,
c’è solo questa» disse, affidando il bambolotto a Realgar.
Si sedette al tavolo e cominciò a digitare sul computer,
premette invio e, da una fessura sul tavolo, spuntò un chip.
Lo prese tra le punta delle dita e lo porse all’uomo.
«Quando la consegnerà a Samantha Souris, le faccia inserire
il codice di identificazione tramite scanner. In questo modo
sbloccherà l’eredità e potrà riscuoterla direttamente sul
posto.»
Lui prese il componente e lo mise al sicuro in una delle
tasche del cinturone, sorridendo soddisfatto. «Mezzo milione
per consegnare un giocattolo: è il mio giorno fortunato»
commentò, infilando la bambola nella cassa e richiudendola.
La sollevò tra le braccia e si incamminò verso la porta.
La donna si affrettò a raggiungerla e gliel’aprì. «Buona
giornata, signor Stepson.»
«Ottima per davvero, ho appena intascato il biglietto
vincente della lotteria!» esclamò lui, lasciando l’ufficio e
ripercorrendo il corridoio per guadagnare l’uscita.
La donna indurì l’espressione, guardandolo mentre si
allontanava. «Zotico, maleducato» rimbrottò, chiudendosi la
porta alle spalle.
Forse lo avrete notato, non c'è una lunghezza prestabilita
per i capitoli. Dipende dalla scena e da quello che devo
raccontare in essa.
Realgar non è molto educato... insomma è un po'
grezzo.
Grazie a tutti i lettori.
Se la storia vi piace, per cortesia, mettetela nei
preferiti/seguiti/ricordati per darle visibilità.
Per chi fosse
interessato, può passare a trovarmi presso il mio gruppo
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lasciare una recensione: non mordo!
Daniela
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Capitolo 4 *** -4- ***
Kamar
-4-
Il rover procedeva speditamente, all’interno del Tunnel Sud,
affiancato alla magnetovia. Era una galleria imponente, con
una volta alta un centinaio di metri, necessari per far
sfilare i convogli dei rifornimenti che viaggiavano sui
binari magnetici.
Sarebbe stato comodo poterla seguire fino a Kepler e da lì
dirigersi ad Anseris ma, lontano dalle città, diversi gruppi
di briganti prendevano di mira i treni, rendendo la
magnetovia estremamente pericolosa.
Realgar aveva quindi deciso di attraversare l’altipiano
Hesperia, non appena fosse uscito dal cratere, tagliando
quasi in linea d’aria verso la meta. Doveva andare
dall’altra parte del pianeta e, per farlo, aveva dovuto
agganciare il rimorchio con le scorte alimentari ed
energetiche al rover, limitandone la velocità e la
manovrabilità. Aveva anche perso quasi un intero giorno, per
installare le vele, che gli avrebbero consentito di
risparmiare carburante e di sfruttare i venti, se questi
ultimi fossero stati favorevoli.
Il cartello stradale lo informò dell’approssimarsi della
fine del tunnel che attraversava il bordo del cratere per
quasi una ventina di chilometri e Realgar controllò
nuovamente i sistemi di bordo. Dopo tre minuti il computer
confermò che tutto funzionava secondo i parametri, proprio
mentre la luce del pallido sole marziano iniziava a
insinuarsi all’interno della galleria, rendendo superflui i
lampioni disposti sul lato destro della magnetovia.
Appena il rover emerse dal massiccio roccioso che
racchiudeva il cratere, Realgar calcolò la rotta da seguire
e abbandonò i binari, curvando a destra, in direzione
ovest-sud-ovest.
Per i primi due giorni risalì i bruschi pendii che
conducevano all’altipiano, accampandosi per la notte negli
anfratti rivolti a est, in modo che le prime luci dell’alba
ricaricassero parzialmente le batterie. Le notti erano i
periodi più difficili per la maggior parte degli esploratori
perché, per risparmiare l’energia dei veicoli, era
necessario tenere i supporti vitali al minimo. Realgar non
temeva il freddo, il buio o la scarsità di ossigeno. Era
sempre stato uno degli esploratori più temerari; se avesse
accettato di lavorare per il governo, sarebbe stato uno dei
più retribuiti. Invece aveva preferito stare per conto
proprio. Un’effimera libertà in cambio di uno stipendio che
permetteva pochi vizi.
Il sole era quasi giunto allo zenit, il terzo giorno di
viaggio, quando finalmente davanti a lui apparve la vasta
distesa lavica dell’altipiano di Hesperia. Più di duemila
chilometri di roccia porosa, ossidata dal poco ossigeno
presente nell’atmosfera, e sabbia lo aspettavano, senza la
possibilità di godere di alcun rifugio.
Gli altipiani marziani erano perennemente spazzati dal vento
e Realgar era intenzionato a sfruttare quella peculiarità.
Fermò il rover, aprì i pannelli solari e poi spense tutti i
sistemi non necessari. Calzò il respiratore e gli occhiali
di protezione; attivò lo scanner, affinché la rete dermica
si accendesse, proteggendolo con un sottile campo energetico
che manteneva la pressione atmosferica all’interno del corpo
a livelli accettabili. Questo impedì all’acqua di non andare
in ebollizione non appena Realgar uscì dall’abitacolo.
Mentre il rover godeva della luce del sole a quella
latitudine equatoriale, controllò lo stato delle ruote,
recuperò dal rimorchio la cassa con i panetti di petrosene e
la passò nella cabina. Riempì quest’ultima con cibo e acqua
a sufficienza per tre giorni e qualche pezzo di ricambio. Se
avesse subito un agguato da parte di qualche predone,
avrebbe sganciato il rimorchio per distrarre i banditi e
avrebbe avuto qualche giorno di autonomia per sopravvivere.
Iniziò a montare gli alberi delle vele sul solido telaio del
veicolo. Impiegò quasi due ore, quindi tornò al volante e
abbassò la leva, che permise ai raggi di aprirsi. Il vento
gonfiò la stoffa cerata e il rover vibrò con decisione.
Realgar sbloccò le ruote e il veicolo si mosse senza bisogno
della forza motore.
Grazie a quello stratagemma, risparmiò un intero panetto di
petrosene, rispetto a quelli che avrebbe dovuto usare, anche
se impiegò undici ore in più, rispetto al programma, per
attraversare il vasto altipiano puntellato da centrali
eoliche, dove le pale a più di cento metri dal suolo
trasformavano il vento in energia elettrica.
Quando iniziò a scendere verso la piana di Hellas,
all’orizzonte comparve la cima del monte Anseris, che si
levava sopra la pianura sorta nella depressione più profonda
del pianeta Marte. La vetta imbiancata da ghiaccio secco
spiccava sul cielo rosato a occidente e presto il sole
sarebbe scomparso dietro la sagoma rocciosa.
Realgar fermò il rover e si preparò a una nuova passeggiata;
smontò le vele, per affrontare al meglio gli stretti e
tortuosi sentieri che scendevano a valle. Salì di nuovo a
bordo e pressurizzò l’abitacolo, quindi si tolse gli
occhiali e si stropicciò gli occhi stanchi con le dita.
Aveva guidato ininterrottamente per più di trenta ore,
perché sull’altipiano era un bersaglio troppo facile. Era
stanco, ma doveva stringere i denti e affrontare gli ultimi
seicento chilometri, doveva tenere duro per altre dieci ore.
Man mano che si avvicinava al monte, che diventava sempre
più imponente e ricco di dettagli, incontrò i diversi
sistemi di difesa della miniera, dove i controlli si fecero
man mano più attenti e severi. Dovette superare tre cerchie
murarie, costituite da imponenti blocchi di pietra che si
elevavano per una trentina di metri, prima di infilarsi
nella galleria orientale che scendeva nel fianco della
montagna e ne oltrepassò altre due, prima di trovarsi
finalmente in un ambiente pressurizzato.
Era già stato quattro volte ad Anseris
per motivi di lavoro, quindi gli fu facile trovare
immediatamente un’area di rifornimento all’interno
dell’enorme città formicaio. Noleggiò una piazzola con
cella-giaciglio, collegò il rover alla colonna di
rifornimento e prese la cassetta con la bambola. La aprì e
tirò fuori il balocco, appoggiandolo sul sedile del veicolo.
Mise i panetti di petrosene che gli erano rimasti nel baule
e lo richiuse a chiave. Sarebbero stati più al sicuro che
nella loro cassa.
«Buonasera!»
Alzò lo sguardo sul ragazzetto, appena ventenne, che si era
avvicinato, con la divisa dell’area di rifornimento.
«Salve» rispose, caricandosi sottobraccio il cofanetto;
afferrò la bambola nella mano libera e con il gomito spinse
il pulsante esterno che chiuse di scatto l’abitacolo. «Mi
serve la manutenzione degli pneumatici. Mettila in conto
assieme al resto» disse, alzando le braccia per appoggiare
il cofanetto e la bambola all’interno del tunnel esagonale
costruito sopra la colonna di rifornimento. Salì la scaletta
e si sedette sul bordo: il soffitto della cella era alto a
sufficienza da permettergli di star seduto con la schiena
dritta. Guardò il ragazzo e lo puntò con l’indice. «Solo gli
pneumatici, non mettere mano al sistema di supporto vitale,
chiaro?»
Il giovane annuì e Realgar si spinse all’indietro e chiuse
l’ingresso della cella ermeticamente, quindi si sdraiò sul
giaciglio pulito, sospirando stanco. Spense il monitor e le
varie luci e rimase completamente al buio, isolato dai
rumori esterni e, in quell’ambiente in cui si trovava a suo
agio, si addormentò rapidamente.
Si svegliò che verso l’ora di pranzo, aveva dormito poco più
di otto ore. Uscì dal loculo dalle pareti candide e si
sgranchì le membra, prima di andare al bagno. Poi raggiunse
gli uffici dell’area e chiese il conto.
«Sono 1238 tael» rispose la donna di mezz’età, dai
lineamenti pungenti, digitando sulla tastiera.
Lui sgranò gli occhi. «Cosa? Nemmeno quattro ruote nuove
costano così tanto!»
Lei alzò gli occhi chiari su di lui, guardandolo con
sufficienza e gli rispose con tono piatto: «Oltre alla
manutenzione delle gomme, c’è anche il ripristino del
supporto vitale che aveva un problema sul miscelatore.»
Realgar sbatté violentemente il pugno sul bancone che lo
separava dalla segretaria. «Gli avevo detto di non toccarlo!
Dov’è quell’idiota, il bamboccio che ha messo mano al mio
rover?»
«Secondo il nostro tecnico altamente specializzato con
quelle impostazioni l’aria dell’abitacolo era quasi
irrespirabil...»
Lui si sporse verso di lei, quasi ringhiando. «Ho rischiato
di morire per una depressurizzazione accidentale e da allora
la normale miscela indicata dall’Istituto della Sanità è per
me altamente irritante. Ho passato otto anni ha trovare la
giusta composizione chimica per l’aria del mio abitacolo e,
ora, per colpa del vostro coglione qualificato, mi avete
mandato a puttane tutto il sistema?»
«Cosa succede?» chiese un uomo dinoccolato dalla lunga e
curata barba nera.
«Il clien...» la donna provò a parlare, ma Realgar la zittì
nuovamente.
«Succede che mi avete fottuto il sistema di supporto vitale
e ora pretendete anche dei soldi! Avevo detto a quello
sbarbatello di occuparsi solo delle ruote!» disse irato.
Il proprietario dell’area di rifornimento alzò le mani e
sorrise paziente. «Si calmi, venga nel mio ufficio e ne
parliamo.»
Lasciò la stazione, a bordo del suo rover, dopo un paio
d’ore: gli avevano fatto pagare solo il rabbocco dei
serbatoi, mentre il tizio che aveva messo la mano sul suo
adorato Kain, avrebbe dovuto sborsare i tael per la
manutenzione degli pneumatici e del ripristino del supporto
vitale. In futuro ci avrebbe pensato due volte, prima di
gonfiare le fatture per aver più provvigioni.
Come tutte le città sotterranee, Anseris ricordava un
formicaio con uno spropositato numero di tunnel che si
intersecavano senza un apparente ordine, creando un
labirinto di cunicoli in cui era difficile orientarsi. Al
centro di ogni insediamento c’era la Colonna, un’imponente
caverna cilindrica, illuminata a giorno. Lungo le sue pareti
si sviluppavano, con disposizione elicoidale, delle terrazze
parallele tra loro, sulle quali sorgevano attività
commerciali, giardini, orti o altre strutture che
permettessero una sorta di attività all’aperto.
Arrivò all’orfanotrofio e incontrò il direttore. I ragazzi
erano tutti a lavoro per estrarre l’acqua dalle profondità
della crosta marziana, ma il signor Kreuzer lo assicurò che,
non appena Samantha fosse rientrata, le avrebbe assegnato un
permesso sino alle 22, quindi Realgar tornò al rover, fermo
poco fuori dai cancelli dell’edificio.
Durante l’attesa, lavorò per cercare di risistemare il
supporto vitale del veicolo, ma senza gli strumenti
specifici, poteva apportare solo minuscole variazioni.
Quell’attività lo assorbì completamente e perse la nozione
del tempo.
Il bussare sulla carrozzeria lo riportò all’interno
dell’abitacolo e alzò lo sguardo sulla ragazzotta dal volto
celato dietro le grandi lenti degli occhiali. Lei gli
sorrise, inclinando il viso tondo verso la spalla sinistra.
«Ciao» gli disse a disagio.
Lui aggrottò la fronte e la studiò per un istante, prima di
scuotere il capo. «Che vuoi?» rispose secco.
Lei si imbronciò. «Cosa vuole lei, semmai, visto che ha
richiesto un colloquio con me. Il signor Kreuzer mi ha
assegnato a lei sino al coprifuoco.»
Realgar sollevò le sopracciglia, si appoggiò al scocca del
rover e, facendo forza sul braccio, uscì dall’abitacolo. Si
ritrovò in piedi davanti alla ragazzina. «Sei Samantha
Souris? Sei cresciuta così tanto che mi era proprio
impossibile riconoscerti...» disse, abbozzando un sorriso.
«Lei invece non è cambiato per nulla» rispose, aggirando il
muso del veicolo. «È uguale all’ultima volta che l’ho vista
da mio padre» aggiunse, salendo a bordo e sedendo sul sedile
del passeggero.
«Ehi!» esclamò, «che diavolo fai? Scendi immediatamente!»
sibilò morbosamente possessivo.
Sam si sistemò i grandi occhiali sul naso sottile e lo
guardò senza lasciarsi intimorire. «Come le ho detto, il
signor Kreuzer mi ha affidato a lei sino al coprifuoco,
dovrà farmi compagnia sino alle 22. Non vorrà stare in mezzo
alla strada per tutto il tempo, spero.»
Realgar fece una smorfia, poi saltò sul sedile di guida e
accese il quadro. «Dove vorresti andare, piattola?»
Sam tenne lo sguardo sulla cintura di sicurezza mentre la
allacciava. «Non conosco questo posto. Non sono mai uscita
dall’orfanotrofio e non potrò farlo sino alla maggiore età»
rispose in tutta tranquillità.
Lui però schiuse le labbra e portò gli occhi sulla strada, a
disagio. Quella ragazza era prigioniera e probabilmente
sarebbe morta prima di arrivare ai vent’anni.
Ripensò alla propria infanzia e si rese conto di essere
stato molto più fortunato di lei, nonostante non avesse
molti ricordi felici. Lo avevano adottato e non era mai
stato costretto a vivere nemmeno per un’ora in uno dei
centri di accoglienza, che impiegavano i bambini nelle
miniere, per estrarre le rocce dove l’acqua era imprigionata
da milioni di anni.
Spinse l’acceleratore e si avviò lungo la strada.
«Non chiude l’abitacolo?» domandò Sam.
«Un idiota mi ha fatto impazzire la miscelazione del
supporto vitale, quindi preferisco lasciarlo aperto» rispose
lui, dirigendosi verso la Colonna. Scelse una delle
piattaforme immerse nel verde, con un piccolo ristorante e
parcheggiò, pochi istanti prima che l’illuminazione passasse
in modalità notturna.
Le potenti luci principali, lasciarono il posto ai faretti
dalle tonalità violette, che riproducevano una specie di
notte, per assecondare i bisogni metabolici delle piante.
Rispetto a quelle delle città cupola, queste sembravano un
po’ più in salute, merito dei sistemi di aerazione
sotterranei che portavano via gli inquinanti, trattenendoli
nei filtri.
«Hai fame?» chiese Realgar, voltandosi verso il lato
passeggero. Chiuse le labbra, guardando il capo di Samantha,
piegato in avanti. Si era addormentata, nonostante
l’abitacolo fosse rimasto aperto. Doveva essere veramente
esausta.
Scese dal rover e lo chiuse, non ermeticamente,
prima di allontanarsi.
Gli pneumatici o i pneumatici? Tecnicamente viene indicato
il primo, ma in ambito non professionale ho letto che è
accettato anche il secondo. Io mi attengo alla tecnica.
Mi stavo domandando: nessuno ha proprio nulla da dire? Non
c'è un errore, non c'è nulla? Mi vanno bene anche gli
insulti o anche le critiche eh XD
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Daniela
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Capitolo 5 *** -5- ***
Kamar
-5-
Quando Sam riaprì gli occhi, si guardò attorno spaesata per
qualche istante, prima di girarsi verso Realgar al suo
fianco.
Lui le porse un contenitore d’alluminio, di quelli per il
cibo di asporto. «Spero ti piaccia la zuppa… è ancora
calda.»
Lei si sistemò meglio sul sedile e prese il recipiente,
assieme al cucchiaio che l’uomo le porse. Alzò lo sguardo su
di lui, sospettosa. «Dai racconti di mio padre, ho sempre
pensato che lei fosse uno zotico, ignorante e menefreghista.
Quest’impressione mi era stata confermata poco fa, ma questo
suo nuovo atteggiamento mi confonde. Grazie» commentò grata,
prima di iniziare a mangiare.
Realgar alzò le sopracciglia a quelle parole, che gli
suonavano decisamente come offese. Mezzo
milione. Questa mocciosa mi farà avere mezzo milione di tael,
pensò passandosi la lingua sulle labbra, che stese in un
sorriso freddo. «Poco fa? Veramente sono le nove di sera
passate...» fece notare.
Sam sgranò gli occhi, rischiando di strozzarsi con la zuppa.
Deglutì, pulendosi la bocca con le dita. «Cosa?»
«Dormivi così bene che ti ho lasciato stare» commentò lui.
La giovane scosse i corti capelli castani. «Alle 22 io devo
essere nel mio dormitorio o verrò punita!»
Realgar fischiò. «Che fortuna...» commentò, «tienti
stretta.» Accese il quadro del rover e sgommò verso
l’orfanotrofio. Tenendo il volante con la mancina, tese il
braccio destro nel vano posteriore ai sedili; senza staccare
gli occhi dalla strada, riconobbe al tatto la cassa con i
panetti di petrosene, fece una smorfia e proseguì la
ricerca.
«Attento!» squittì Sam, quando per poco non travolsero un
paio di passanti.
Realgar mise entrambi le mani sul volante, imprecando tra i
denti. «Senti, io devo consegnarti un oggetto per tuo padre,
ce l’ho qui dietro. È una bambola. Trovala e poi firmami la
ricevuta.»
Samantha si voltò sul sedile, quel tanto che la cintura di
sicurezza le permetteva. Spostò alcuni oggetti alla rinfusa
e poi, dolorante, tornò a guardare in avanti. «Non trovo
nulla.»
«Sganciati quella cintura e voltati!» ringhiò Realgar.
Sam lo guardò allibita. «Ma è vietato! In caso di incidente
si rischia la vita se non si usano i dispositivi di
sicurezza! Mi passi lo scanner, le firmerò la ricevuta di
consegna e quando arriviamo all’orfanotrofio mi darà la
bambola.»
Realgar la guardò un istante, con disappunto, per poi
tornare a fissare la strada. «Sei stupida o cosa? Non devi
mai firmare la consegna a un esploratore, soprattutto se è
un mercenario, prima di aver ritirato effettivamente
l’oggetto. Potrebbe fregarti!»
«Mio padre si fidava di lei.»
Realgar scosse il capo, poco convinto da quella scelta, ma
alla fine erano affari della mocciosa, quindi le porse
l’avambraccio sinistro.
Samantha posò il pollice sulla superficie del display e una
voce elettronica scaturì dall’apparecchio: «Identificazione
cliente per consegna.»
«Souris, Samantha Lauryn, codice 27729/21-85.»
«Sbrigati, il braccio mi serve» ringhiò Realgar, sterzando
senza cambiare marcia.
Sam lo guardò infastidita e poi avvicinò il viso
all’avambraccio dell’uomo e lo scanner analizzò la sua
retina.
«Identità confermata» informò la piatta voce artificiale.
«Apporre la firma sul dispositivo.»
La ragazza scarabocchiò con la punta dell’indice sul display
e poi lasciò libero il braccio di Realgar.
Appena in tempo, visto che, dopo una nuova curva,
l’esploratore fu costretto a premere il freno e a sterzare
bruscamente per evitare l’impatto con un veicolo ribaltato
sulla strada. Solo la sua esperienza alla guida, evitò che
andasse a sbattere. Si sporse fuori dall’abitacolo per
controllare il retro del rover, fece manovra e si affiancò
alla corsia riservata ai pedoni.
«Come diamine si fa a cappottarsi così?» bofonchiò nervoso.
Guardò Sam e si sganciò la cintura di sicurezza. «Non si
passa» spiegò, affannandosi alla ricerca della bambola che
riuscì a riesumare da dietro i sedili. «Eccoti il regalo di
tuo padre. Dovrai tornare a piedi all’orfanotrofio, ma non
siamo lontani, dovresti farcela in cinque minuti» assicurò.
Lei prese il giocattolo, guardandolo a labbra serrate, poi
scese dall’auto e si volse a Realgar. «Grazie.» Senza
aggiungere altro, si voltò e iniziò a correre.
Lui la guardò allontanarsi, poi si concentrò sullo scanner.
Passò le dita sul display e controllò il proprio conto in
banca. Sorrise, vedendo tutti quegli zeri e sospirò
soddisfatto. Con un paio di manovre, invertì il senso di
marcia e tornò indietro, svoltando di nuovo verso la
Colonna. Avvertì un rumore metallico anomalo all’interno
della cabina e rallentò, tendendo l’orecchio. Sterzò
bruscamente, prima a destra poi a sinistra, e di nuovo
percepì quel rumore.
«Dove sei…?» domandò, accostando. Si sganciò la cintura e si
chinò a guardare tra il proprio sedile e quello del
passeggero. Spinse un pulsante sul bracciale dello scanner,
accendendo una luce che illuminò l’angusto vano, e individuò
un riflesso sul pianale dell’abitacolo. Appoggiò il braccio
sinistro al sedile passeggero e infilò il destro nello
spazio divisorio, andando a tastare il pavimento con le
dita. Dopo una breve ricerca, avvertì sotto ai polpastrelli
una superficie insolita, sporgente e appuntita; la strinse
tra indice, medio e pollice e la sollevò sino a posarsela
sul palmo. Si sedette composto e osservò la piccola piramide
dorata, fregiata da intricate incisioni su tutte le facce.
Aveva un’aria familiare, ma gli sfuggiva dove l’avesse vista
e non capiva come fosse arrivata sul suo rover.
Poi il ricordo del gioiello che decorava il fiocco della
bambola gli apparve davanti agli occhi e Realgar si passò
una mano sul volto. «Ma che diavolo...» Quell’oggetto in oro
rosso era incastonato sul giocattolo e averlo tra le mani
significava aver effettuato una consegna incompleta. Avrebbe
rappresentato una macchia nella sua lunga carriera da
esploratore.
Controllò l’ora, prese il volante e fece una rapida
inversione a U, dirigendosi a tutta velocità verso
l’orfanotrofio.
Fu sorpreso di trovare la via libera, non credeva avrebbero
liberato la carreggiata così rapidamente dall’incidente. Poi
riconobbe l’auto che aveva visto capovolta nel mezzo della
strada, accostata a pochi metri dal varco d’accesso
all’orfanotrofio e, in piedi vicino a essa, c’era un uomo
con il volto coperto da un passamontagna. Istintivamente,
Realgar spense le luci esterne del rover che illuminavano i
codici di identificazione del veicolo e, proprio in quel
momento, vide l’uomo tendere il braccio verso di lui. Sterzò
bruscamente a destra e il fascio d’energia mancò la
carrozzeria per un soffio.
Non aveva visto l’arma, ma ne aveva intuito la presenza ed
era stata la sua salvezza.
Voltò a sinistra per evitare di impattare contro la parete
della galleria, sfoderò la pistola e rispose al fuoco,
costringendo l’aggressore a nascondersi dietro l’auto. Dal
varco dell’orfanotrofio, vide sbucare altri due
incappucciati che trasportavano Samantha, la quale si
dimenava inutilmente. Tirò il freno a mano, costringendo il
rover a un improvviso testa coda, quindi lo lanciò a tutta
velocità verso quello degli incappucciati. La differenza tra
un mezzo da esterno e uno costruito unicamente per l’interno
non era solo visiva, ma soprattutto tecnica. Un rover era
corazzato per resistere anche a una caduta lungo le
insidiose dune marziane e poteva uscirne quasi indenne,
grazie alle barre di rinforzo che lo proteggevano lungo
tutta la scocca.
A meno di dieci metri dall’auto, Realgar bloccò le ruote del
rover; le sospensioni anteriori si abbassarono in
conseguenza all’arresto e il posteriore del mezzo si
sollevò, staccandosi da terra. Il rover si ribaltò e piombò
sul tettuccio dell’automobile. Realgar tese il braccio
armato e, nonostante il moto rotatorio a cui era costretto,
sparò tre colpi ravvicinati. Il rover rimbalzò e rotolò di
nuovo sul manto stradale, atterrando sulle ruote e
l’esploratore si gettò fuori dall’abitacolo, nascondendosi
dietro il veicolo. Tenendosi basso, aggirò l’auto degli
incappucciati, tendendo l’orecchio; udì il pianto di
Samantha e nient’altro, quindi si sporse per controllare la
situazione.
I tre aggressori erano stesi a terra, Sam seduta e in piena
crisi isterica. Si avvicinò all’uomo più vicino e iniziò a
frugargli nelle tasche.
«L-li hai uccisi?» pigolò Sam, sul punto di urlare.
«No, tengo l’intensità della pistola fissa su stordimento»
rispose lui e la giovane parve essere sollevata dalla
notizia.
«Mi hanno aggredito non appena ho oltrepassato il varco»,
spiegò alzandosi, raggiunse la bambola che uno dei tre
rapitori le aveva strappato di mano e la raccolse da terra.
«Dobbiamo chiamare i custodi!»
Realgar fece una smorfia e le mostrò la piastra metallica
appena recuperata dalle tasche del tizio svenuto. «Questi sono
custodi» ringhiò, alzandosi in piedi e avvicinandosi a lei.
«Si può sapere che hai combinato per farti venire a prendere
da ben tre custodi?» sibilò, agitandole la piastra di
riconoscimento con impressi i dati identificativi del
proprietario e le insegne governative.
Lei scosse la testa, confusa. «Non lo so! Non ho fatto
niente!»
Lui strinse il pugno, agitandoglielo davanti al visto. «Non
prendermi in gir...» Si interruppe percependo un rumore
lontano, in un altro tunnel della città. Rimase in ascolto,
poi digrignò i denti. «Custodi, si avvicinano.»
Corse al rover, controllando eventuali danni, prima di
rimettere in moto. Sam si affiancò al veicolo, guardandolo
spaventata, senza proferire parola. Realgar scosse il capo.
Non
mi faccio intenerire dallo sguardo di una piccola criminale,
pensò,
ingranando la marcia e girando il rover. Però per quale
motivo tre custodi se l’erano presa con lei? Che crimine
poteva aver mai commesso rinchiusa in un orfanotrofio? Se
l’avesse compiuto prima della morte di Pierre, le forze
dell’ordine sarebbero piombati immediatamente come avvoltoi
e l’avrebbero imprigionata o uccisa.
Era conscio che quella curiosità l’avrebbe condotto
probabilmente in enormi guai, ma affondò il piede sul freno
e si sporse verso la ragazza. «Muovi il culo e sali!»
Sam sgranò gli occhi, poi attraversò la strada e saltò a
bordo. Si ritrovò schiacciata contro al sedile dalla
repentina accelerazione del mezzo.
Realgar chiuse l’abitacolo e ringhiò alla ragazza: «Stai giù
e non farti vedere.»
Dopo quasi venti minuti, raggiunsero l’area di rifornimento;
Realgar recuperò il rimorchio e prelevò dallo sportello
automatico il limite massimo di tael consentiti dalla legge.
Non degnò di uno sguardo la simpatica segretaria che, ora,
era tutte moine e premure; ritornò al rover, si mise al
volante e si allontanò. Indossò il respiratore, poi sigillò
ermeticamente l’abitacolo, prima di affrontare una dopo
l’altra le cerchie murarie, uscendo dalla porta orientale e
dirigendosi direttamente verso l’altipiano Hesperia.
«Dove stiamo andando?» domandò sottovoce Sam, rabbrividendo.
La temperatura esterna era prossima ai duecento gradi sotto
lo zero e il supporto vitale interno riusciva a stento a
mantenere gli undici gradi all’interno dell’abitacolo.
«Lontano da qui» soffiò Realgar, sterzando di continuo per
seguire i tornanti che si inerpicavano verso l’altipiano.
Nonostante gli scossoni e l’agitazione, il freddo vinse la
resistenza della ragazzina, che finì con l’addormentarsi.
C'è stato un lieve incremento delle letture. Son contenta,
credevo che nessuno si filasse la storia :D
Grazie a tutti i lettori.
Se la storia vi piace, per cortesia, mettetela nei
preferiti/seguiti/ricordati per darle visibilità.
Per chi fosse
interessato, può passare a trovarmi presso il mio gruppo
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lasciare una recensione: non mordo!
Daniela
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Capitolo 6 *** -6- ***
Kamar
-6-
Samantha aprì gli occhi, infastidita dalla luce del sole,
che filtrava dall’ampia vetrata inclinata, parzialmente
ricoperta da sabbia che dava una tinta rossastra alle pareti
spoglie. Aveva il respiratore di Realgar sul viso e lui era
sdraiato al centro della stanza, vestito con solo i
pantaloni. Sembrava profondamente addormentato, cullato
forse dal tepore del sole che gli baciava la pelle.
Si mise a sedere, rendendosi conto che l’uomo aveva usato i
propri abiti per crearle un giaciglio in cui potesse stare
al caldo. Raccolse gli occhiali, appoggiati di fianco a lei
sul pavimento, li inforcò sul naso e lasciò vagare lo
sguardo sulla piccola stanza rettangolare. La parete davanti
a sé era costituita da un’enorme vetrata, entrambe le pareti
laterali avevano una porta a chiusura stagna, mentre il muro
alle sue spalle era completamente vuoto, anche se i segni
sull’intonaco, facevano ipotizzare che un tempo ci fosse
stato uno scaffale.
Si alzò e si avvicinò alla finestra, stringendosi nello
spolverino blu di Realgar. Socchiuse gli occhi, godendosi il
tepore con cui il sole l’accoglieva. La finestra era
composta da sei lastre trasparenti, separate da
intercapedini vuote. Il vetro più esterno era sfondato e la
sabbia si era accumulata nell’intercapedine, coprendo
parzialmente la vista. Davanti a lei si estendeva una piana
brulla, spazzata da una lieve brezza. Aggrottò la fronte,
perché sotto la sabbia portata dal vento sembrava vi fossero
dei piccoli arbusti. Era impossibile, nulla sopravviveva su
Marte. Osservò la parete rocciosa che copriva l’orizzonte in
qualsiasi direzione guardasse. Dovevano essere in un piccolo
cratere.
«Mi fai ombra» borbottò Realgar, spaventandola.
Si spostò, si tolse il cappotto dalle spalle e lo rese al
proprietario. «Scusi, immagino che lei abbia freddo! Grazie
per averlo dato a me!»
Lui aprì gli occhi e la fissò con sguardo limpido e lontano,
perso in chissà quali pensieri; scosse la testa e incrociò
le mani dietro la nuca. «Tienilo pure, non ho freddo.»
Lei aggrottò la fronte e gli si sedette accanto,
stringendosi nell’indumento. «Come fa a non averne? Io son
vestita, ho anche il suo soprabito e tremo, mentre lei è a
torso nudo.»
La fissò infastidito, poi portò l’avambraccio sinistro
davanti al viso e attivò lo scanner. «Dammi del tu»
bofonchiò, avviando l’analisi dell’aria. Annuì soddisfatto
dell’esito e tornò a guardarla. «Puoi toglierti il
respiratore ora.»
Istintivamente, la ragazza guardò il proprio scanner, un
modello meno evoluto rispetto a quello dell’esploratore, ma
comunque in grado di valutare la composizione chimica
dell’aria. Sganciò la maschera e la posò a terra, guardando
Realgar. «Dove siamo?» gli domandò.
Lui aveva intrecciato nuovamente le mani dietro la nuca e
rimase a occhi chiusi. «Una fattoria del secolo venti»
commentò con un sorriso.
Sam sgranò gli occhi. «Cosa? Intendi uno dei primi avamposti
costruiti a inizio colonizzazione?»
Realgar annuì. «Costruita nell’anno 55 del secolo 20 e
rimasta in funzione fino all’anno 22 del secolo 21.»
La giovane sorrise entusiasta e si guardò attorno. «Quindi
settantotto anni fa, qui era pieno di piante… È incredibile
che dopo quasi un secolo di abbandono, questo posto funzioni
ancora.»
Realgar aprì le palpebre e guardò malinconicamente il sole
oltre la vetrata. «Già, ma la scoperta del petrosene, a
vent’anni dall’inizio della colonizzazione, ha portato alla
morte delle fattorie. La popolazione ha lasciato i
pericolosi agglomerati di superficie e i piccoli nuclei
familiari autosufficienti, preferendo invece le grandi città
cupole, sottomesse alla Fratellanza...»
«Ma almeno le città cupola sono sicure. A scuola abbiamo
studiato le stragi perpetrate dai Phobosiani ai danni delle
popolazioni stanziate nelle fattorie. Forse anche questa è
stata assaltata da loro» mormorò, accennando al vetro andato
in frantumi. «Alcuni sostengono che qualche phobosiano sia
scampato ai custodi» disse, rabbrividendo all’idea.
Lui si strinse nelle spalle. «Dicono ce ne siano ancora
nelle Valli Marineres; ci sono passato innumerevoli volte,
ma non ne ho mai visto nemmeno l’ombra. Credo proprio che li
abbiano ammazzati tutti.»
Sam sospirò. «Però è un vero peccato.»
Si voltò a guardarla. «Be’, sono felice di non averli
incontrati, visto la fama che avevano.»
«Non mi riferivo a quello. Intendevo: è un peccato che siano
stati sterminati. Erano le forme di vita più evolute qui su
Marte ed erano adattate a quest’ambiente. Da loro avremmo
potuto imparare tanto...»
Realgar aggrottò la fronte, si tirò a sedere e poi si alzò
in piedi. «Basta chiacchiere. Cerchiamo di capire
perché i custodi ti volevano.»
La ragazza si alzò a sua volta, tenendo lo sguardo sul
pavimento. «Non ne ho idea...»
Realgar si imbronciò. «Senti, probabilmente ora sono
ricercato quanto te. Il mio conto in banca sarà stato
bloccato e la tua faccia sarà all’ingresso di ogni città,
forse affiancata dalla mia. Quindi cerca di pensare: devi
aver fatto qualcosa di criminale per attirar la loro
attenzione.»
Lei divenne paonazza e lo guardò furente. «Non ho fatto un
bel niente! Non sono una fuorilegge e le tue parole sono
solo offensive!» Gli diede le spalle e si allontanò verso
una delle due porte.
«Dove stai andando?» le domandò perplesso.
«A cercare un gabinetto.»
Realgar sbuffò, scompigliandosi la zazzera bionda. «Indossa
la maschera, ho bonificato solo l’aria qui dentro e
pressurizzato il resto della parte abitabile. I bagni però
non funzionano ma uso la terza stanza a destra per quello
scopo.»
Sam strinse le labbra in una linea dura e lo fissò con
disgusto all’idea, poi afferrò il maniglione della porta e
lo tirò con forza. Mentre il meccanismo pneumatico emise
svariati schiocchi, prima che il portellone rientrasse nella
parete di un paio di centimetri, per poi scorrere al suo
interno fino a lasciare libero il passaggio, la ragazza
indossò la maschera. Una ventata d’aria gelida le investì il
volto e lei rabbrividi. Avanzò lungo il corridoio buio, dopo
essersi richiusa la porta alle spalle, tenendo la mano
destra appoggiata alla parete.
Realgar sospirò e andò all’altra porta, la aprì e si infilò
nel corridoio, chiudendo a sua volta la stanza alle proprie
spalle per preservarne la qualità dell’aria. Attivò la
funzione di pressurizzazione cutanea sullo scanner e aprì
altre due porte; raggiunse la serra, dove il rover stava
ricaricando le proprie batterie grazie ai pannelli solare. A
lui, che era abituato al freddo, quella stanza dalle pareti
trasparenti sembrava un forno. Si tamponò la fronte con il
dorso della mano e aprì l’abitacolo. Raccolse la bambola e
la mise in un sacco; dal porta oggetti raccolse il gioiello
che si era staccato dal balocco e lo mise in tasca. Si
spostò al rimorchio, dal quale recuperò due razioni di cibo
e di acqua. Tornò alla stanza, dove trovò Sam ad aspettarlo.
Sorrise irriverente. «Fatta tutta?»
La ragazza arrossì violentemente. «Fatti gli affari tuoi. È…
così umiliante! Mi sento sporca!»
«Hai lavorato in miniera e ti senti sporca qua?»
«All’orfanotrofio ci concedevano una doccia ogni sera.»
Realgar sbuffò divertito. «Ringrazia il conto in banca che
ti ha lasciato il papino, altrimenti l’acqua non la vedevi
nemmeno. A proposito...» si avvicinò e le porse un brick
d’acqua.
Sam deglutì a quelle parole, stringendo le labbra, mentre il
dolore la inumidiva lo sguardo. Prese svogliatamente la
confezione, strappò la pellicola di protezione, stappò la
cannula e iniziò a bere, dando sollievo alla gola riarsa. Si
sforzò di cancellare il ricordo del padre e si concentrò
solo sull’acqua, svuotando il brick in poche sorsate.
Davanti allo sguardo severo di Realgar, aggrottò la fronte.
«Che c’è?» gli domandò, risistemandosi gli occhiali.
«Quella era la tua razione d’acqua di oggi, non ne avrai
altra sino a domani.»
Lei sgranò gli occhi e spalancò e chiuse la bocca un paio di
volte. «Cosa?»
Lui sorrise e le porse l’altro brick. «Sono due al giorno,
ma visto che ho calcolato le razioni solo per me, da domani
dovremo limitarci a una soltanto.»
La ragazza annuì mestamente e prese la confezione,
comprenendo improvvisamente quanto essa fosse preziosa.
«Moriremo, vero?»
Realgar sollevò le sopracciglia e scosse il capo.
«Fantastico!, l’anidride carbonica nell’aria ti deve aver
bruciato il cervello, eppure ero convinto di avertela messa
bene la maschera.» Allargò le braccia in un gesto plateale.
«Non moriremo! Me la so cavare qua fuori, altrimenti non
avrei intrapreso la carriera da esploratore» concluse. La
guardò qualche istante, scorgendole nuovamente quell’ombra
di dolore negli occhi. Recuperò il sacco, che aveva
abbandonato poco dopo l’ingresso ed estrasse la bambola,
porgendogliela.
Lei tirò su col naso, prima di cingerla al petto,
guardandone il viso. Si asciugò una lacrima con la mano e
sbuffò, accennando un sorriso. «Ti sembrerò una bambina
stupida , ma è l’unica cosa che mi rimane di mio padre...»
Realgar annuì e si sedette a terra, dando le spalle alla
vetrata. «Immagino sia dura» disse a disagio.
Sam gli si accomodò accanto, guardando invece il panorama
desolato di Marte, spazzato dolcemente dal vento leggero,
che sollevava la polvere rossiccia, dando il tipico colore
rosato al cielo. Accarezzò i capelli della bambola e si
inumidì un dito per pulirle la gota.
«Mio padre aveva un’ottima stima di te, pensava che se ti
fossi deciso a studiare, avresti avuto ottimi risultati»
raccontò, osservando il giocattolo.
Realgar strinse le labbra e poi le incurvò in un sorriso.
«Non ero uno zotico?»
Sbuffò divertita. «Non lo sei forse? Credo di essermi
sbagliata solo sul menefreghista. Se davvero lo fossi, non
mi avresti salvata.»
«Se avessi saputo che erano custodi, ti assicuro che non mi
sarei immischiato. Sono tornato indietro solo perché mi ero
accorto che la bambola aveva perso questo e avresti potuto
invalidare la consegna in quanto incompleta» spiegò,
recuperando il gioiello piramidale dalla tasca. Lo porse a
Samantha. «Secondo me, rivendendolo al mercato nero,
potremmo farci anche 400 tael» commentò.
Sam si girò e prese la piramide tra le dita, aggrottando la
fronte, poi schiuse le labbra in un’espressione incredula.
«Sei veramente ignorante! Questo è uno ying dié!»
Realgar sgranò gli occhi. «Uno y-ying...» Cercò di
riprendere la piramide, ma Samantha fu più lesta e si alzò
in piedi. Lui la imitò e sorrise. «Avanti, Sam, dammelo.
Quell’affare può valere un paio di milioni di tael, potremo
nasconderci, farci documenti falsi e ricominciare una nuova
vita, rivendendolo.»
Lo fissò severa. «Dubito riusciresti a piazzarlo sul mercato
nero. Su quello regolare il prezzo può variare dal milione,
al miliardo di tael, a seconda della capacità di memoria.
Forse mio padre ha salvato qui dentro tutto il suo lavoro e
questo significa che la sua morte non è stata vana. Pensavo
che il fuoco avesse divorato tutto!»
Sbuffò, ma alle ultime parole di Sam, la guardò spiazzato.
«Fuoco?»
Lei chinò il capo e annuì. «Mio padre è morto nell’incendio
del laboratorio dove lavorava, assieme a tutta la squadra.
Le fiamme hanno devastato tutto, non è rimasto nulla...»
Realgar aveva fatto un paio di consegne al laboratorio di
Pierre Souris. Lì, lo scienziato studiava le primitive forme
di vita marziana, in modo da migliorare la sopravvivenza
umana, imparando da chi su Marte viveva da ben prima che
l’Umanità alzasse gli occhi al cielo. In un ambiente dove le
fiamme non potevano divampare, com’era stato possibile che
si sprigionasse un incendio?
«Ma l’hai visto il laboratorio dopo l’incendio?» le domandò
con tono vago.
Lei scosse il capo. «No, c’era pericolo di contaminazione a
causa dei micro organismi e i custodi hanno sigillato
l’area. L’unica cosa che ho visto è stato il corpo di mio
padre, al momento del riconoscimento. Non c’era molto da riconoscere,
ci son voluti gli esami del DNA per confermarmi che era
lui.»
Realgar si grattò distrattamente l’attaccatura del naso e si
avvicinò alla vetrata, constatando che il sole stava per
scomparire dietro le creste rocciose del cratere. Qualcosa
non tornava in quanto era successo a Pierre. «Credi che tuo
padre possa aver salvato le sue ricerche sullo ying dié?»
Sam si rigirò la piramide tra le dita e sospirò avvilita.
«Per saperlo, bisognerebbe leggerne il contenuto...»
«Usiamo il computer del rover» propose lui.
La ragazza scosse il capo. «Ce ne vuole uno speciale e
l’unico aperto al pubblico si trova nella città cupola di
Holden...»
«Dannazione!» ringhiò. «Non c’è un altro modo per leggerlo?»
domandò, fissando Samantha.
Lei rifletté. «Gli ying dié sono i sistemi di archiviazione
informatica più all’avanguardia nel sistema solare e solo i
computer della Fratellanza possono leggerli. In fondo la
Fratellanza stessa è stata fondata dagli scienziati cinesi
che hanno lavorato al programma spaziale della repubblica
popolare. Il primo ying dié fu usato sulla sonda Tianmu 3,
che fu la prima interamente costruita in Cina ad atterrare
sul pianeta rosso» raccontò paziente. «Non vedo proprio come
potremo leggerlo, senza accedere a uno dei computer della
Fratellanza.» Aggrottò la fronte. Realgar le aveva dato le
spalle e stava controllando alcune mappe, inginocchiato sul
pavimento. «Che stai cercando?»
«Il punto dove è atterrata la Tianmu. Per quel poco che
ricordo, non è stata disassemblata» ribatté lui.
Lei scosse il capo. «È passato più di un secolo e mezzo, non
è più operativa. Anzi è stata una missione molto breve,
visto che la zona scelta si rivelò poco esposta al sole e le
batterie si esaurirono più rapidamente del previsto»
raccontò Sam, accovacciandosi al suo fianco e indicandogli
un punto sulla mappa.
«Le Vallis Marineris?» domandò a disagio..
Sam annuì. «Durante i primi spostamenti, il modulo
esplorativo è caduto in un crepaccio, scivolando lungo le
pareti del canyon e, senza la piena luce solare, le batterie
si sono esaurite nell’arco di un mese.»
Realgar si sfregò le labbra con le dita, osservando la
mappa. Le Vallis Marineris non erano un posto sicuro. Sbuffò
e guardò Sam. «Prima di rimanere a secco era operativa,
quindi il suo computer funziona, no?»
La ragazza sgranò gli occhi, che apparivano ancora più
grandi dietro le lenti degli occhiali. «Vuoi andare ai
canyon? Come pensi di arrivarci? Non credo che la tua
carriola abbia abbastanza autonomia per tenerci in vita sino
a là!»
Lui boccheggiò, ferito nell’orgoglio. «Kain non è una
carriola, bada bene a come parli! Non sarà facile, ma se
vogliamo sapere cosa ti ha lasciato veramente tuo padre,
dobbiamo provarci.»
Un incendio, scoppiato in un luogo dove la
combustione non poteva tecnicamente avvenire, aveva ucciso
Pierre e i custodi avevano cercato di arrestare Samantha e,
forse, avevano coperto le tracce di quello che era avvenuto
realmente nel laboratorio. Forse la soluzione di
quell’enigma era rinchiusa nella piramide.
Scusate il ritardo, ho avuto una scadenza da rispettare in
real ^^'
Grazie a tutti i lettori.
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interessato, può passare a trovarmi presso il mio gruppo
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Capitolo 7 *** -7- ***
Kamar
-7-
Realgar
sporcò le guance di Samantha con un po’ di polvere marziana
e le nascose i ciuffi castani sotto il cappello da cowboy
che le aveva prestato.
«Perché
mi devo conciare così?» protestò lei, abbassandosi la
sciarpa sotto al mento.
«Te
l’ho detto: non ci sono molte donne negli avamposti,
soprattutto in quelli irregolari. Quindi fai finta di essere
un ragazzo.»
«È
stupido!»
«Hai
ragione. Sarebbe meglio venderti, come donna ti pagherebbero
molto bene» rispose lui, sollevandole la sciarpa per
coprirle l’ovale del viso.
«Ma
nelle città cupola...»
«Nelle
città cupola si vive nella bambagia. Secondo te perché sono
pochi gli esploratori che girano liberamente per la
superficie? Ci vuole gente con tanto pelo sullo stomaco,
perché qua fuori tutto è ostile alla vita umana. Se non ti
piace, ti riporto ad Anseris: son certo che i custodi ti
accoglieranno a braccia aperte.»
Lei
si imbronciò e rimase cocciutamente in silenzio per il resto
del viaggio. Basse pale eoliche decoravano il bordo del
piccolo cratere, che si apprestavano a superare. Sembravano
realizzate con materiali di recupero e apparivano come un
metodo improvvisato, quanto temporaneo, per la produzione di
energia elettrica.
Raggiunto
il valico, che avrebbe loro permesso di entrare nel cratere
Piyi, si trovarono di fronte un robot minatore, che puntò
loro contro il laser. Era un automa umanoide, alto quasi
cinque metri.
Realgar
afferrò il microfono e attivò gli altoparlanti esterni.
«Quando il cielo di tinge di blu, è l’ora che preferisco di
più.»
Il
robot abbassò l’arma e le corazzature dell’abitacolo si
alzarono, rivelando il pilota del mezzo. «Realgar, sei
proprio tu? Cosa ci fai da queste parti così presto? Non ti
aspettavamo prima della prossima stagione.»
Lui
sorrise. «Salve, Todd. È che mi hanno convinto e mi sono
fatto l’apprendista. Gli sto facendo vedere le basi del
mestiere.»
Il
pilota si avvicinò al rover, chinandosi su di esso per dare
un’occhiata a Sam. L’uomo alla guida, con una benda nera a
coprire l’occhio destro, aggrottò la fronte e si grattò la
barba nera. «Non mi sembra maggiorenne...» commentò
perplesso.
Realgar
sorrise. «Secondo te, perché l’ho portato a Piyi?»
Todd
scoppiò a ridere. «Evviva la città libera, al diavolo la
Fratellanza!» esclamò, arretrando verso la grossa pietra che
bloccava la strada del passo. Il robot la sollevò senza
difficoltà. «Oggi siamo sintonizzati sugli 86 e 90» li
avvisò Todd. Realgar segnò la frequenza sul computer e
proseguì, oltrepassando il valico e iniziando la discesa.
L’interno
del piccolo cratere era costellato da pannelli solari, che
riflettevano la luce, ferendo la vista con il loro
riverbero. La tortura durò il tempo di arrivare alla
galleria di accesso, mimetizzata in una delle fratture
verticali che abbondavano sulla frastagliata crosta lungo il
perimetro del cratere. Viaggiarono immersi nelle tenebre per
qualche minuto, poi trovarono la paratia di
pressurizzazione.
Realgar
afferrò il microfono e collegò la radio. «Toc, toc, qualcuno
mi apre?»
«Realgar?»
domandò una voce nasale. «Che sei venuto a fare qui,
parassita? Tornatene a Herschel!»
Lui
sollevò le sopracciglia, arricciando le labbra in una
smorfia divertita. «Come vuoi, Abdel, vuol dire che i soldi
che ti devo, te li darò la prossima volta che torno.»
Alle
spalle del rover, con fragore meccanico, iniziò ad alzarsi
la paratia esterna e, come raggiunse la sommità, i perni di
chiusura penetrarono nella roccia e iniziò il processo di
pressurizzazione. Quando l’operazione terminò, fu dato loro
l’accesso al tunnel, che aveva una forte pendenza. Lo
imboccarono e scesero per svariate centinaia di metri, sino
ad arrivare all’avamposto sotterraneo.
Era
un complesso di moduli abitativi e rudimentali costruzioni
di pietra, ricavato all’interno di un’ampia grotta
artificiale, la cui volta era sorretta da colonne di pietra
o di metallo. Lungo le pareti, il soffitto e anche in certi
punti del pavimento, vi erano cavi e tubature, che
rifornivano la piccola comunità anarchica delle risorse per
sopravvivere.
Realgar
raggiunse uno spiazzo e scese dal rover, guardandosi
attorno. Non dovette aspettare molto, che un uomo dalla
carnagione scura si avvicinò guardandolo torvo.
«Finché
non vedo i miei soldi, non crederò a una sola parola che
dirai!» minacciò lo sconosciuto, puntando l’indice contro di
lui.
Sam
deglutì e si fece piccola sul sedile del mezzo, perché
quell’uomo sembrava veramente arrabbiato.
«Abdel!»
esclamò Realgar, allargando le braccia e sorridendo.
Lui
gli arrivò di fronte e gli tirò uno spintone, sbattendolo a
terra. «I miei soldi, Realgar!» ringhiò, agitando il pugno.
L’esploratore
si alzò, si spazzò il cappotto dalla polvere e scoprì
l’avambraccio sinistro. «Accidenti, che modi, amico mio.
Ecco, guarda qui...» disse, mostrando ad Abdel il display
dello scanner, dove era riportato il saldo del proprio conto
corrente.
Lui
gli afferrò il braccio, concentrandosi soprattutto sul
numero di zeri di quella cifra, con espressione incredula.
Realgar
sorrise. «Ovviamente non mi porto dietro tutti quei tael.
Sono venuto solo a saldarti e a comprare alcune cose, che ti
salderò al prossimo viaggio.»
Abdel
lo lasciò libero e gli porse la mano, con il palmo rivolto
verso l’alto. «Intanto dammi quello che mi devi, poi
vedremo.»
Realgar
scosse il capo. «Sei proprio un malfidato.» Si guardò
attorno, prima di riportare l’attenzione su Abdel. «Vuoi
proprio far sapere a tutti i nostri affari?»
Lui
fece una smorfia e annuì. «Ti aspetto al locale.»
Abdel
controllò il contenuto della tessera con il computer, poi
guardò Realgar con sospetto. «Ce ne sono 200 in più...»
Lui
sorrise, tenendo d’occhio Sam che si muoveva svogliatamente
per il bazar dell’uomo di origini magrebine.
Abdel
gestiva l’area di servizio di Piyi e aveva al suo interno il
bazar più rifornito del mercato nero marziano. La ragazza
poté scorgere alcune confezioni di petrosene accatastate
vicino al bancone, con ancora i sigilli della Fratellanza
integri. Era un ottimo indizio per dedurre che provenissero
da un carico rubato da uno dei convogli su rotaia.
«Te
l’ho detto che devo comprare alcune cose» disse Realgar,
riportando l’attenzione su Abdel. «Non giro con troppi soldi
addosso, quindi te li lascio come anticipo per quello che
devo prendere. Ti ho preparato una lista.» Gli porse una
tavoletta di ardesia e l’uomo iniziò a leggerla,
strofinandosi il mento con le dita.
Il
trafficante fece una smorfia. «Questa roba vale almeno
ventimila tael, amico.»
Realgar
annuì. «Conosco i prezzi, ma come ti ho già detto, non giro
con tutti quei soldi addosso. Ti ho dato un piccolo
anticipo, il resto te lo porterò in altre due rate.»
Abdel
scosse il capo, muovendo l’indice in segno di diniego. «No,
bello, tu mi vuoi fregare, me lo sento.»
«Ovvio
che ti voglio fregare. E se i miei soldi non ti vanno bene,
andrò da Haquim a vedere se lui è abbastanza fesso da
accorgersi dell’affare» replicò ironico, tamburellando con
le dita sul bancone che lo separava da Abdel.
Lui
si passò una mano sulle labbra e fece una smorfia, poi gli
puntò un indice in faccia. «D’accordo, te la darò io questa
roba, ma voglio cinquemila tael in più!»
«Sei
pazzo? Te li darei solo se mi consegnassi tutto adesso, ma
presumo che ti ci vogliano almeno due giorni, no?» Abdel
fece una smorfia, ricontrollando la lista e annuì
malvolentieri. Realgar sorrise e appoggiò sul bancone la sua
ultima tessera magnetica. «Facciamo così: per dimostrare la
mia buona fede, ti anticipo anche questi, a patto che tu mi
dia vitto e alloggio a me, e al mio amico Sam, sino a quando
non avrai effettuato la consegna.»
Lui
prese la tessera e la passò sullo scanner, valutando
quell’offerta. Alla fine la infilò dentro la cassa e annuì.
«Mi sta bene» disse, appoggiandosi al bancone. «Volendo
potrei scalarti qualcosa, se mi presti il piccoletto: ha un
bel sederino» disse sottovoce, occhieggiando in direzione di
Sam.
Realgar
scosse il capo. «Mi spiace, Abdel, ma quel culetto non è a
disposizione di nessuno.»
Lui
sbuffò. «Che rottura di scatole che sei. Sei un ingordo,
mica te lo sciupo...»
«Ti
ho detto di no. Anzi, per sicurezza, Sam dormirà con me»
rispose, sorridendogli strafottente.
La
ragazzina afferrò solo le ultime parole di Realgar e sgranò
gli occhi, avvicinandosi a lui e afferrandolo per un
braccio. «Non ci dormo con te!» protestò.
Abdel
sorrise vittorioso. «Visto, Realgar? Il moccioso non ci
vuole stare con te. Dato che non è sicuro per i minorenni
girare per l’avamposto, lo ospiterò io.»
Samantha
deglutì, intuendo solo in quel momento il perché della
scelta dell’esploratore. Si morse il labbro e si strinse al
suo braccio. «Ripensandoci, è meglio se dormiamo assieme,
maestro...» bofonchiò, cercando di camuffare la voce.
Realgar
sorrise e Abdel scosse il capo, assegnandogli una delle celle
della sua area di rifornimento.
Stavolta sono puntuale U.U
I contatori girano, quindi qualcuno segue questa storia,
anche se a volte penso che nessuno lo faccia, visto il
silenzio di tomba. Sono conscia che non c'è sesso (e non ce
ne sarà) la violenza non è descritta nel dettaglio... Però
volevo fare una storia diversa.
Grazie a tutti i lettori.
Se la storia vi piace, per cortesia, mettetela nei
preferiti/seguiti/ricordati per darle visibilità.
Per chi fosse
interessato, può passare a trovarmi presso il mio gruppo
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Daniela
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Capitolo 8 *** -8- ***
Kamar
-8-
«Entra
prima tu» la esortò Realgar, indicandole la scaletta.
Sam
si inerpicò lungo i sei gradini, diede le spalle
all’ingresso e si sedette sul bordo della cella. «Qui dentro
ci dormiamo in due?» chiese allibita.
Lui
annuì. «Sì, è una celletta doppia. Non fare quella faccia,
negli avamposti gli spazi sono stretti persino per chi ci
vive, non sperare che per gli stranieri le cose vadano
meglio.»
Lei
arrossì, abbassò gli occhi e balbettò: «Praticamente dovrò
dormirti addosso...»
«Abbiamo
già dormito assieme, non hai fatto altro che dormire mentre
venivamo qui!»
«Ma
ognuno aveva il proprio seggiolino e tra noi c’eran il freno
a mano!» protestò lei.
Realgar
scosse il capo e salì la scala. «Senti, sono stanco, voglio
dormire, quindi piantala di fare la pudica. Da parte mia, ti
assicuro che terrò le mani a posto, vedi di fare
altrettanto» commentò, guadagnandosi spazio sull’ingresso.
«Per
chi mi hai preso?» borbottò Sam.
Lui
si spinse all’indietro, per poi sdraiarsi sulla sottile
imbottitura. «Quindici anni, vergine?»
Lei
divenne ancora più rossa, poi si imbronciò, lo raggiunse e
si stese al suo fianco. «Non credere di essere speciale,
solo perché hai fatto sesso. Non ho ancora trovato la
persona giusta.»
«Sai
cosa me ne importa?» replicò lui, chiudendo il portello di
accesso. Si ritrovarono rinchiusi nella cella, rischiarata
da alcuni faretti led dalla luce azzurra. «Ma se ti può
interessare, nemmeno io ho ancora trovato la persona
giusta.»
Sam
lo fissò incredula. «Sei v… cioè tu non...» Si morse il
labbro, combattendo inutilmente con la propria curiosità. «E
com’è la tua ragazza ideale?»
Realgar
le prese il cappello e se lo appoggiò sul viso. «Non credo
esista, ma se la dovessi trovare, te lo farò sapere» disse
divertito.
«Eppure
non sei brutto. Se non hai ancora trovato è perché credo che
tu esageri con la crema solare. D’accordo proteggersi, ma ne
usi troppa. Per di più usi quella bianca… sembri un cadavere
e sei appiccicaticcio.»
Lui
sollevò con l’indice una falda del cappello e la guardò con
la coda dell’occhio.
«Me
ne sono accorta al cratere Loon, alla fattoria. I tuoi
vestiti odorano di crema e la tua camicia ne era piena.
Dovresti metterne meno. Anzi, ormai è obsoleta e puoi
modulare lo scanner per proteggerti anche dalle radiazione
solari.»
«Dormi»
ringhiò lui, tornando a coprirsi il volto.
Samantha
sbuffò e cercò di addormentarsi. Era difficile riuscirci,
avendo Realgar così vicino.
La
mattina successiva, Sam fu incaricata di lavare il bucato.
Stava sfregando con il sapone a secco la camicia di Realgar,
borbottando sommessamente, mentre l’esploratore armeggiava
con il motore del rover.
«Te
l’ho detto che usi troppa crema. È ovunque, non riuscirò mai
a pulirtela» protestò lei, allontanando l’indumento.
«Piantala
di lamentarti. Voglio un apprendista, non una donnicciola»
rispose lui, dopo aver dato un’occhiata al gruppo di persone
che li osservava.
In
quei posti gli stranieri erano come bestie rare da rimirare
con curiosità.
Lei
capì l’antifona. Era da quando si erano svegliati che era
costretta a parlare, camuffando la voce. Arricciò le labbra
in una smorfia e poi sorrise. Lasciò perdere il bucato e si
avvicinò a Realgar. «Allora dovresti trattarmi da uomo,
invece che farmi fare lavori da femmina.»
Lui
la guardò in tralice e gli indicò la borsa degli attrezzi.
«Passami la pinza autobloccante...» sospirò, accennando con
il capo alla cassetta di metallo blu, rovinata in più punti
dalla ruggine. «È quella tutta argentata» suggerì.
Sam
la prese e gliela porse senza esitazione, lui l’afferrò e
tornò a concentrarsi sul motore.
«Dici
mai grazie per qualcosa?» gli chiese.
«Solo
se mi porta soldi» bofonchiò Realgar.
«La
maleducazione potrebbe portarti rogne» rispose lei,
stringendosi nelle spalle.
Lui
la guardò con occhio torvo. Prima che potesse dirle
qualcosa, la voce di Abdel lo richiamò.
«Realgar,
non ho la Beijing che hai chiesto, ma ho un modello simile
di un’altra marca. Vieni a vedere se ti va bene uguale.»
Lui
sbuffò e raddrizzò la schiena. Puntò l’indice in mezzo agli
occhi della ragazza. «Fai la guardia: che nessuno tocchi il
mio bambino» ringhiò, riferendosi al suo amato rover.
Lei
annuì e lo guardò allontanarsi.
Realgar
aveva richiesto un nuovo impianto per la lavorazione dei
liquidi e dei gas, più efficiente di quello che aveva
montato sul rover. Il nuovo avrebbe processato al meglio
urina, sudore e respiro, attingendo da essi le molecole
necessarie per fornire loro acqua potabile per tutto il
viaggio. Il modello che Abdel aveva a disposizione offriva
prestazioni lievemente superiori a quello equivalente
prodotto dalla Beijing
«Questo
ti costerebbe 90 tael in più» disse il commerciante.
Realgar
lo guardò scettico. «Se entro la partenza non mi fai avere
quello che ti ho segnato sulla lista, al prezzo di mercato,
puoi anche toglierlo dal conto.»
Abdel
sgranò gli occhi. «Cosa? Oh, avanti, ha prestazioni migliori
e te lo darei a un prezzo più che vantaggioso!»
«Mi
dispiace, conosco la Beijing e non mi va di cambiarla per
una marca che non conosco.»
Abdel
si umettò le labbra. «45 tael, quando ne vale almeno 110 in
più della Beijing che hai chiesto.»
Realgar
scosse la testa. Su questo non saprei dove metterci le mani,
per quello voglio la Beijing. Se non ce l’hai, ne farò a
meno.»
L’altro
strinse i pugni. «Senti, non mi va di perdere 2200 tael per
le tue paranoie… te la do allo stesso prezzo!» ringhiò.
Realgar
fece una smorfia, con un’espressione per nulla convinta
stampata sul volto.
«E
ti regalo un pernotto» aggiunse Abdel, cercando di non far
sfumare la vendita. Preferiva assottigliare il proprio
margine di guadagno, piuttosto che non prendere manco un
tael.
Realgar
sbuffò, poi annuì con sguardo scettico. Lui e Abdel si
strinsero le mani per suggellare il raggiunto accordo.
Realgar
tornò alla propria piazzola decisamente soddisfatto:
conosceva così bene Abdel, da riuscire sempre a strappargli
ottimi prezzi; ogni volta che visitava Piyi, trovava sempre
il modo per raggirarlo un poco. Mentre avanzava, attento a
non inciampare nei cavi che ingombravano il pavimento della
caverna, percepì il rombo di un motore e riconobbe il suono
prodotto dalle particolari valvole che aveva fatto montare
sul proprio rover. Schiuse le labbra atterrito e iniziò a
correre. «Kain!» soffiò preoccupato.
Realgar
trovò Samantha seduta ai comandi. La giovane pestava
l'acceleratore, mandando il motore su di giri.
Lui
le si avvicinò furente, si levò il cappello e lo gettò a
terra. «Credevo fosse sottinteso che non dovevi toccarlo
nemmeno tu. Scendi immediatamente!»
La
ragazza lasciò l'abitacolo, fissandolo torvo, tornò davanti
al cofano e, poi, si piegò in avanti per affondare il
cacciavite nell'impianto.
Realgar
boccheggiò, come se quello spregio fosse stato fatto a lui.
«Allontanati subi...» Si zittì, ascoltando il gorgoglìo
sommesso prodotto dal rover. Aggrottò la fronte e si
affiancò a Samantha, occhieggiando il motore, mentre la
giovane si pulì le mani in uno straccio.
«Come
diamine...» esordì lui, con tono stupito. La sua espressione
si indurì e diede uno spintone alla ragazza. «Stai alla
larga!»
Lei
lo guardò allibita. «Ma te l'ho messo a posto!»
«La
fortuna del principiante. Non ti azzardare mai più a mettere
le tue zampacce sul cuore di Kain» rispose lui seccato.
Samantha
gettò a terra lo straccio con stizza. «Fortuna un corno! Mio
padre mi ha fatto studiare ingegneria meccanica ed
elettronica presso il professor Chan, suo caro amico, sin da
quando ero una bambina. A undici anni, già affiancavo la
squadra tecnica nella progettazione e nella costruzione
delle sonde per gli esperimenti di mio padre!»
Realgar
la guardò stranito. «Quindi, saresti un meccanico?»
Lei
sbuffò. «Mi manca la laurea, ma il professor Chan era certo
che non avrei avuto problemi a conseguirla.»
Realgar
si passò il dorso della mano sotto il mento, si fece da
parte e indicò a Samantha il rover. «Fammi un po' vedere
come te la cavi.»
Lei
sgranò gli occhi, poi sorrise radiosa. Aveva capito quanto
Realgar tenesse alla sua carriola
e
si sentiva onorata a poterci mettere le mani. Iniziò a
spiegare a Realgar come pensava di poter migliorare le
prestazioni del motore, ma si rese conto che il mercenario
era distratto. Lo vedeva spesso guardarsi attorno nervoso.
«Che succede?» gli chiese sottovoce.
«Hai
detto sin da quando ero bambina a voce troppo alta. Temo che
i nostri guardoni abbiano sentito» rispose Realgar con tono
sommesso.
Lei
si irrigidì e si guardò attorno. Il numero di spettatori era
più che raddoppiato e gli sguardi avevano una luce strana.
«Mi è scappato, scusa. Cosa facciamo ora?»
«Sistemiamo
Kain il più in fretta possibile e cerchiamo di andarcene non
appena Abdel mi consegna tutto. Sino ad allora tu non
resterai mai sola, nemmeno al gabinetto.»
Lei
si voltò di scatto verso di lui. «Che?» squittì incredula.
«Se
ti dovessero rapire, risolveresti il problema verginità.
Anche nelle orecchie, probabilmente» disse lui, regalandole
un sorriso sghembo.
Samantha
deglutì a disagio.
Il
soggiorno a Piyi si fece improvvisamente scomodo. Ovunque
Sam andasse, c'erano almeno due persone a tenerla d'occhio.
Per avere ulteriori motivi per non separarsi, Realgar iniziò
a darle lezioni di guida, dicendo che così avrebbe potuto
dargli il cambio ai comandi. Lei pensava scherzasse e che
lui non le avrebbe mai davvero permesso di guidare il rover.
Finalmente
giunse il giorno della partenza e Sam scoprì di essersi
sbagliata.
Sono di nuovo in ritardo. Chi bazzica sul gruppo sa che sono
un poco impegnata con un'altra faccenda, quindi i ritardi
potrebbero verificarsi per tutta l'estate...
Grazie a tutti i lettori.
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Capitolo 9 *** -9- ***
Kamar
-9-
«Attenta
a quei dossi, se li prendi troppo veloce, rischiamo di
perdere il rimorchio» commentò Realgar, per poi tossire
debolmente. Tirò su col naso e guardò le brulle colline,
così simili a un oceano in tempesta.
Samantha
era concentrata sulla guida. Da quando, tre giorni prima,
avevano lasciato l’avamposto di Piyi, Realgar le aveva
spesso lasciato i comandi. Per raggiungere i resti della
sonda Tianmu, avevano deciso di viaggiare in direzione
ovest. Il viaggio era più lungo, ma i controlli della
Fratellanza erano radi lontano dal monte Olympus, quindi era
la tratta più sicura. Dove non arrivava la Fratellanza,
però, il crimine proliferava e, nonostante la superficie
marziana fosse ostile alla vita, i reietti della società
riuscivano a prosperarvi, saccheggiando le carovane e i
treni per procurarsi lo stretto necessario per campare. Una
volta entrati nei territori non sorvegliati, avrebbero
dovuto essere pronti a viaggiare per giorni, senza mai
fermarsi. Sam era stata eletta a secondo pilota e sottoposta
a un rigidissimo quanto rapido addestramento. Questo aveva
permesso al mercenario di non lasciarla sola nemmeno un
istante, evitandole indesiderate attenzioni.
Ormai
Sam si era abituata ad averlo sempre a fianco, tanto che non
provava nemmeno più imbarazzo quando doveva usare il bagno
di bordo, cosa che le prime volte la infastidiva
enormemente.
«Fermati
un attimo» disse d’improvviso Realgar, avvicinando il volto
al parabrezza. Si passò le mani guantate sugli occhi
arrossatti e tossì nuovamente.
Lei
rallentò gradualmente e arrestò il veicolo, controllando la
strumentazione di bordo. «I pannelli solari sono in
funzione, non li ho dimenticati questa volta» commentò,
alzando lo sguardo su di lui. «Forse ti senti male? Non
capisco perché non hai fatto ricalibrare il supporto vitale
per le tue esigenze… Credo che Abdel ce lo avrebbe fatto.»
«Dannazione»
sibilò Realgar, ignorandola. Si sganciò la cintura e coprì
la bocca con il respiratore. «Indossa la maschera e attiva
lo scanner, sta arrivando una tempesta di sabbia. Fammi
venire ai comandi, dovremo correre come se avessimo il
diavolo alle calcagna e sperare di arrivare a quelle rocce
là in fondo prima che sia troppo tardi» spiegò, indicando
alcuni rilievi distanti qualche chilometro.
Samantha
guardò l’orizzonte, perplessa. «Ne sei sicuro? Non vedo
nulla...» Sentì il rumore della leva di apertura del
portellone e si affrettò ad attivare la protezione dermica e
a calzare il respiratore. L’abitacolo si aprì e Sam e
Realgar si scambiarono di posto.
«Prepara
un panetto di petrosene» disse lui, riconfigurando la
posizione di guida per sé. Lei ne estrasse uno da una delle
cassette che avevano stipato dentro la cabina, mentre la
pressurizzazione tornava a livelli ottimali.
«Inseriscilo
nel sistema di alimentazione» ordinò Realgar e lei eseguì.
Non
appena il petrosene raggiunse la camera di scoppio, il
motore ruggì con potenza, un denso fumo rosso cupo uscì
dallo scappamento e tutto il rover iniziò a vibrare.
Realgar
affondò il piede sull’acceleratore e ben presto si
ritrovarono a superare i 90 chilometri orari.
«Perché
corri così? Non c’è nulla in vista!» protestò Sam, tenendosi
al maniglione laterale.
«Sta
arrivando, fidati!» ribadì lui, gettando nervose occhiate
allo specchietto laterale.
Sam
sbuffò esasperata e si voltò a guardare l’orizzonte. «Vedo,
sta arrivando un bel cielo terso, con il sole splend...» Si
zittì quando da dietro la linea che separava cielo e terra,
vide alzarsi una sagoma quasi nera, che avanzava
rapidamente, inghiottendo tutto quello che incontrava. «Oh,
mamma...» pigolò, voltandosi verso Realgar. «Vai, vai, vai!»
urlò spaventata. Sapeva bene come i venti marziani potessero
sfiorare i 200 chilometri orari.
Realgar
cercava di rimanere concentrato sulla guida, anche se
l’istinto gli urlava di guardare quel mostro di sabbia che
si formava dietro di loro ma, a quella velocità, con quella
gravità, un piccolo errore poteva essere fatale.
Le
prime propaggini della tempesta si allungarono ai fianchi
del rover, la visibilità iniziò a calare rapidamente, mentre
alcune spie di accesero sul quadro di controllo.
«I
sensori indicano che le ruote stanno per collassare» urlò
Samantha, passando in rassegna la strumentazione. «Se non
rallenti, inizieranno a sfaldarsi!»
«Reggeranno»
ringhiò lui.
«Ma
i dati dicono di no!» replicò Sam spaventata.
«Reggeranno!
Kain è il mio bambino!» berciò lui, sterzando sensibilmente
a destra.
Sam
si strinse al maniglione, per evitare di ritrovarsi in
braccio a Realgar, nonostante la cintura di sicurezza la
ancorasse al seggiolino. Le sagome davanti a loro facevano
pensare che ci fossero rocce di considerevoli dimensioni, ma
era tutto indistinto dalla marea di sabbia che acquistava
sempre più forza. Persino lei si rese conto che le folate di
vento erano tali da spostare il rover di alcuni metri e che
Realgar eseguiva continue correzioni sul volante, per poter
mantenere la direzione. Anche se si domandava quale fosse la
direzione, visto che oramai non si vedeva quasi più nulla.
Il
cuore le saltò in gola, quando vide un’ombra cupa gravare
davanti a loro, troppo vicina per poterla evitare. Sam si
coprì il volto con le mani, chiuse gli occhi, sentì lo
stridio del metallo contro la roccia e gli scossoni scuotere
violentemente il rover.
Era
morta.
O
forse no, perché sentiva ancora urlare il vento. Poi udì
nuovamente lo scatto che preannunciava l’apertura
dell’abitacolo. Sam spalancò gli occhi e controllò che lo
scanner fosse ancora attivo. Il vento le scompigliò i
capelli e la sabbia le sferzò il viso, ferendole la vista.
Anche se il campo energetico manteneva la pressione
corporea, era così sottile che percepiva e trasmetteva tutte
le sollecitazioni al corpo.
Sam
individuò Realgar uscire dal rover e dirigersi verso il
retro del veicolo. Sganciò la cintura di sicurezza e si
voltò, scorgendo il rimorchio, riverso su un fianco, in
balia dei forti venti. Il rover invece era infilato sotto a
una lastra di pietra che usciva diagonalmente dal terreno,
offrendo una discreta protezione dalla tempesta che pareva
voler inghiottire tutto.
Sam
scese a sua volta e, tenendosi stretta al telaio dell’auto,
raggiunse Realgar, intento a cercare di spostare il
rimorchio al riparo della roccia.
Lui
la guardò e, da dietro la maschera, le urlò, cercando di
farsi sentire al di sopra della furia del vento. «Rimani su
questo lato e tira al mio segnale.» Sbloccò il cavo
assicurato alla cintura e lo agganciò con il moschettone a
una delle maniglie esterne del rover, poi scavalcò il
rimorchio.
L’impetuosa
massa d’aria e sabbia lo travolse in pieno, trascinandolo
via. Il cavo di sicurezza si tese al massimo e Realgar si
rimise in piedi. Proteggendo il volto con un braccio, si
aggrappò alla corda di metallo e pian piano riuscì a tornare
accanto al rimorchio, sfidando la tempesta passo dopo passo,
mentre Sam ne seguiva gli spostamenti con apprensione.
Realgar
si appoggiò alla superficie di metallo, Samantha non poteva
vederlo, ma udì le vibrazioni prodotte dai colpi che lui
sferrò contro il cassone.
La
ragazza iniziò a tirare, mossa soprattutto dal desiderio di
vedere tornare Realgar al suo fianco. Se gli fosse successo
qualcosa, lei sarebbe stata persa.
Sembrò
passare un’eternità, ma alla fine riuscirono a mettere il
rimorchio al riparo della sporgenza rocciosa e ritornarono
entrambi all’abitacolo, respirando affannosamente.
«Come
faremo ora?» domandò Sam, quando si fu ripresa
dall’agitazione.
Realgar
la guardò, togliendosi gli occhiali di protezione e la
maschera. «Dormiremo. Quando perderà forza uscirò a
sistemare i danni, ma adesso è impossibile stare fuori.
Andrà avanti così per qualche ora, ma poi si calmerà. Cerca
di dormire ora.»
Samantha
lo abbracciò e gli appoggiò il capo su una spalla.
Realgar
sorrise e tossì debolmente. «Hai paura di un po’ di vento?»
Lei
tacque, stringendo tra le dita il cappotto di lui, ricoperto
di polvere. Quando la tempesta lo aveva trascinato via, lei
aveva avuto una paura folle. Se il cavo si fosse spezzato,
se lo avesse perso, lei sarebbe rimasta sola. Sarebbe
sicuramente morta in quel caso, ma la morte sarebbe stata
forse una liberazione. Aveva perso suo padre e ora che si
era affezionata a Realgar, temeva di veder svanire
quell’unico appiglio che le dava sollievo all’anima.
Realgar
era rozzo, maleducato, ma aveva un cuore d’oro, Sam lo aveva
capito dalle piccole. Come dal respiro sibilante a causa
dell’atmosfera artificiale dell’abitacolo che gli irritava
le mucose. Lei lo aveva capito che Realgar non aveva fatto
ripristinare le vecchie modifiche a causa sua, perché
altrimenti quel fastidio sarebbe toccato a lei. Realgar
aveva preferito che lei viaggiasse con quante più comodità
possibili.
Samantha
si addormentò, cullata dal respiro affaticato del
mercenario.
Nel
tardo pomeriggio la tempesta si acquietò e assieme
controllarono i danni, poi si rimisero in viaggio,
proseguendo verso occidente, dove il sole tramontava,
tingendo il cielo d’azzurro(*).
(*) Dalle ultime osservazioni di Curiosity, il piccolo rover
che scorrazza sulla superficie marziana, pare proprio che al
tramonto, il cielo rosato di Marte assuma delle tonalità
blu.
Eccomi, con un capitolo brevissimo, scusandomi nuovamente
per l'attesa con chi segue la storia.
Grazie a tutti i lettori.
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Capitolo 10 *** -10- ***
Kamar
-10-
«Sono
quelle?» domandò Samantha, scrutando la strana linea assunta
dall’orizzonte.
Realgar
sollevò la falda del cappello con l’indice e stirò le labbra
in un sorriso. «Le Vallis Marineris: quando arriveremo
all’imbocco dei canyon prenderò io i comandi» commentò,
tornando a coprirsi gli occhi per difendere gli occhi chiari
dalla luce del sole mattutino. Aveva guidato tutta notte ed
era esausto. Negli ultimi giorni non si erano mai fermati,
perché erano in una zona decisamente pericolosa. Si davano
il cambio ai comandi ogni tre ore, eccetto la notte dove si
occupava da solo di condurre il rover per la brulla
superficie marziana.
Realgar
si svegliò di soprassalto, quando un’esplosione energetica
colpì il terreno qualche metro più avanti, sollevando una
colonna di detriti attraverso la quale il rover passò
indenne.
Samantha
aveva il cuore in gola e aveva rischiato di perdere il
controllo del veicolo, che ora sbandava pericolosamente.
Realgar
la aiutò a domare le bizze di Kain, poi sganciò la cintura
di sicurezza e si voltò, assottigliando lo sguardo sulle
nuvole di polvere che si sollevavano in lontananza.
«Banditi» constatò con disappunto.
Sam
sgranò gli occhi. «Cosa? Prendi i comandi, presto!»
Realgar
si sedette e recuperò uno degli ultimi panetti di petrosene
rimasti. «No, lo devi fare tu. Muoviti a zig-zag e pesta
sull’acceleratore. Cerchiamo di arrivare al canyon,
approfittando del vantaggio che ci offre il sole.» Inserì il
petrosene nel sistema di alimentazione e la densa nuvola
rossa che si sprigionò dal tubo di scappamento, li occultò
alla vista degli inseguitori. Indossò la maschera e occhiali
da aviatore, li mise anche a Samantha, visto che lei era
alle prese con i comandi.
«Che
hai intenzione di fare?» domandò lei.
Lui
estrasse dal dietro i sedili un fucile dalla canna
decisamente lunga, tanto che Realgar faticava a maneggiarlo
all’interno della cabina. Il mercenario inserì le cariche
energetiche nelle due culatte, quindi chiuse l’otturatore e
si tolse il cappello, incastrandolo dietro i sedili. «Cerco
di farli desistere.» Aprì il portellone e si alzò in piedi,
appoggiando la lunga canna dell’arma sul tetto del rover,
incurante delle esplosioni che si facevano sempre più
vicine.
«Stanno
migliorando la mira» gridò Sam allarmata.
«Il
sole si sta alzando e iniziamo a essere più visibili»
rispose lui, con una calma glaciale.
«Perché
non spari?» gli urlò la ragazza, esasperata da quella
situazione.
«Non
ancora...» mormorò Realgar, inudibile a Samantha. Il suo
sguardo era fisso sul muro rossastro che si sollevava da
dietro il rover, che veniva dissipato rapidamente dai venti
marziani e dalla velocità alla quale Sam spingeva il
veicolo. I biondi capelli si agitavano senza sosta in quella
fuga disorganizzata, eppure sembrava che nulla potesse
infastidirlo. Lo sguardo seguiva il bersaglio lontano,
l’autocarro con il mortaio con cui i predoni stavano
cercando di metterli fuori combattimento.
Abdel
aveva più volte provato a vendere a Realgar un fucile nuovo
e non quel pezzo da museo che lui si ostinava a usare.
Insomma, quell’affare non aveva nemmeno il sistema di
puntamento elettronico, bisognava fare tutto manualmente. Ma
Realgar ci era affezionato e inoltre nessuno dei fucili
moderni aveva la stessa gittata di quell’arma da museo.
Mancava di precisione, forse, ma arrivava dove nessun altro
fucile marziano poteva arrivare. Ma se si sapevano leggere e
interpretare i venti, i movimenti propri e dei bersagli e si
aveva la giusta lucidità e anche un ottimo istinto…
Realgar
premette il grilletto e automaticamente il proprio corpo si
preparò a gestire il potente rinculo. Il mercenario
riassunse immediatamente la posizione di tiro e stavolta
mantenne la canna fissa sul bersaglio, che venne raggiunto
dal primo colpo. Da quella distanza era impossibile
quantificare il danno, ma a giudicare dal fumo che avvolgeva
l’autocarro doveva aver fatto centro, infatti il rover
cominciava a distanziare gli inseguitori.
Realgar
tornò a sedersi e aprì l’otturatore, inserendo un’altra
carica nella culatta del fucile. «Puoi smettere di zigzagare
per ora» disse a Samantha.
«Li
hai fatti scappare con un solo colpo?» chiese lei sollevata.
«No,
ho solo messo fuori uso il loro mortaio. Ora dovranno
avvicinarsi, ma non dovrebbero metterci molto, perché loro
sono più veloci di noi che abbiamo il rimorchio.»
Samatha
distolse lo sguardo dalla strada e lo fissò. «Quindi siamo
spacciati?»
«Guarda
avanti» le intimò lui, rialzandosi in piedi con il fucile
carico, controllando il posteriore del rover. «Non ci
seguiranno dentro al canyon.»
«Ne
sei sicuro?» chiese, al limite del pianto la ragazza.
«Abbastanza»
rispose Realgar con tono cupo. Puntò l’arma verso uno dei
veicoli in avvicinamento e fece una smorfia. «Hanno le
moto...»
«Che
significa?» chiese Sam.
«Che
saranno dannatamente veloci» ringhiò, seguendo il bersaglio
e sparando. Erano almeno una ventina di banditi, ciascuno
alla guida di mezzo rapido e scattante. Per quanto l’abilità
di Realgar con le armi da fuoco fosse superlativa, gli era
impossibile tenerli tutti a bada.
Decine
di colpi iniziarono ad abbattersi sul rover, alcuni andando
a segno. Una delle esplosioni lesionò la ruota posteriore
destro e i segmenti che componevano lo pneumatico iniziarono
a sfaldarsi, rendendo la guida del mezzo decisamente
difficile.
Realgar,
finite le cariche per il fucile, si era armato con le due
pistole e faceva del suo meglio per tenere i predoni alla
larga, ma l’ingresso del canyon distava ancora più di mezzo
chilometro e, a quella velocità, la ruota sarebbe andata in
pezzi molto prima di arrivarvi. Sbuffò infastidito e scosse
il capo, ricaricando le pistole. «Rallenta» disse a
Samantha.
Lei
lo guardò per un istante, incredula. «Ma così ci
prenderanno!»
«Ci
prenderanno comunque se la ruota ci abbandona. Rallenta,
fidati di me» concluse lui, alzandosi nuovamente in piedi.
Lei gli diede retta e Realgar vide i banditi avvicinarsi
pericolosamente. Sospirò rassegnato e, invece che far fuoco
su di loro, puntò le armi verso il gancio di traino e sparò.
Il rimorchio si staccò dal rover e si fermò sul suolo
rossastro e desolato di Marte. Gli inseguitori si
precipitarono su di esso, ignorando il mezzo, finalmente
libero di raggiungere gli impressionanti canyon delle Vallis
Marineris, le cui pareti raggiungevano anche gli undici
chilometri di altezza.
«Abbiamo
perso il rimorchio!» urlò Samantha, controllando lo
specchietto retrovisore.
«Lo
so» bofonchiò Realgar, lasciandosi cadere sul seggiolino.
Rinfoderò le pistole e controllò i danni subiti dal rover,
tramite il computer di bordo.
Samantha
guidava lentamente lungo il sentiero che si insinuava tra le
imponenti mura di roccia. «Moriremo...» squittì demotivata.
«Piantala
con la tua negatività, sei troppo pessimista. C’è sempre un
lato positivo, impara a trovarlo» borbottò Realgar con una
smorfia, chiudendo l’abitacolo.
«Quale
sarebbe il lato positivo? Siamo senza scorte!» protestò lei.
«Nonostante
i colpi subito, la cabina è ancora a tenuta e il sistema di
pressurizzazione funziona» obiettò lui, stringendosi il
costato con le braccia.
Samantha
sbuffò, tenendo gli occhi incollati sull’accidentato
sentiero. «Accendi il gps, per favore. Sembra di stare in un
labirinto...»
«Non
funziona dentro le gole» rispose divertito Realgar.
Lei
fermò di colpo e si voltò a guardarlo. «Cosa?»
Lui
sorrise. «Il gps dentro alle Vallis Marineris non funziona è
una delle grandi anomalie scientifiche di Marte. È per
questo che i banditi non ci hanno seguito, perché perdersi
qui dentro è facile, non esiste una mappa dettagliata
dell’interno, perché nessuno è mai riuscito ad
attraversarle. I pochi che sono sopravvissuti
all’esplorazione sono riusciti a mappare solo le estremità,
ma sono poi rientrati al campo base a causa delle difficoltà
incontrate.»
Il
bip sonoro del computer li informò che l’abitacolo era
arrivato alla giusta pressurizzazione. Sam si tolse la
maschera e si accasciò sulla consolle di comando. «Allora
moriremo per davvero.» Raddrizzò il busto e tirò uno
schiaffo alla spalla di Realgar. «Lo sapevi fin dall’inizio,
perché diavolo ci hai voluto portare qua?» urlò esasperata.
«Calmati,
abbiamo cibo per almeno due settimane…»
«Certo,
il cibo...» obiettò lei furente, «e l’acqua? Hai pensato
all’acqua? O anche solo all’ossigeno!»
«Qui
entra in gioco la seconda grande anomalia scientifica delle
Vallis. La pressione atmosferica nelle gole è decisamente
superiore a quella ipotizzata grazie alle osservazioni
compiute dalle sonde, così come la temperatura.»
«Mi
stai dicendo che qua sotto troveremo acqua allo stato
liquido in superficie?» domandò incredula Sam.
Lui
annuì, togliendosi a sua volta la maschera e abbandonandola
assieme agli occhiali nel portaoggetti laterale.
«E
come la mettiamo con l’ossigeno?» bofonchiò lei.
«I
serbatoi di Kain sono molto più capienti di quanto tu creda.
Inoltre, se troviamo acqua, potremo estrarre da essa
l’ossigeno necessario» rispose Realgar, appoggiandosi al
vetro. Chiuse gli occhi e sospirò pesantemente.
Sam
lo guardò aggrottando la fronte. «Tutto a posto?»
«Sono
solo stanco» rispose lui.
Lei
lo osservò per qualche istante poi annuì, sorridendo.
«Allora riposa» esclamò, sporgendosi oltre di lui per
prendere la mappa. «Mentre dormi cercherò di capire come
arrivare alla Tianmu» aggiunse, iniziando a scrutare i fogli
e i dati a disposizione.
«Brava
ragazza» sussurrò Realgar, con un sorriso sulle labbra,
prima di addormentarsi.
Il
mercenario si risvegliò quando si rese conto che il motore
del rover era spento. Samantha gli sorrise.
«Ben
svegliato! È quasi il tramonto e la luce non basta più ad
alimentare il motore. Non volevo consumare il poco
combustibile che ci rimane.»
Realgar
si raddrizzò sulla schiena. «Hai fatto bene» disse con un
sospirò. Stava facendo del suo meglio per nascondere la
verità: era stato colpito durante la sparatoria. Aveva
settato lo scanner in modo che il campo di pressurizzazione
comprimesse la ferita, evitandogli di morire dissanguato, ma
le sue condizioni stavano peggiorando.
«Il
computer deve essersi danneggiato» lo informò Samantha. «Il
livello di ossigeno dentro la cabina è a posto, ma secondo
il computer il sistema di aerazione è spento» aggiunse,
picchiettando sul monitor.
Lui
sorrise e scosse il capo. «No, ogni tanto lo fa… Non è
niente di grave.»
«Se
mi avessi avvisato quando eravamo a Piyi, lo avrei
sistemato» replicò lei.
«Non
ci ho pensato» rispose Realgar, guardando oltre i vetri il
paesaggio, dove le ombre si allungavano sempre più. «Dove ci
hai portati?»
Sam
prese la mappa e la stese davanti a lui. «Dovremmo essere
qui» disse, indicando un punto sul foglio. «Per orientarmi
ho usato la posizione del sole, approntando un sestante… Non
è il massimo della precisione, ma non ho saputo fare di
meglio con quello che avevo a bordo. Ho anche segnato le
svolte effettuate, in modo da poter ritrovare la strada per
uscire da qua» concluse sconsolata.
Realgar
si umettò le labbra e prese tra le mani lo strumento che Sam
aveva costruito, osservandolo perplesso. Sorrise. «Non ho
idea di come tu abbia fatto, ma sei un piccolo genio. I tuoi
calcoli dicono che siamo vicino. Domattina cercheremo di
avvicinarci ancora un poco e poi lasceremo il rover e faremo
un po’ di arrampicata. Dubito che Tianmu sia scivolata sino
sul fondo: sarà rimasta incastrata da qualche parte lungo le
pareti.»
«E
se ho sbagliato i calcoli?» chiese Sam con apprensione.
«Ci
faremo una bella passeggiata nell’unico luogo di Marte dove
non è necessario tenere attivo lo scanner. Ora dormiamo.»
«Hai
ancora sonno? Hai dormito tutto il giorno!»
Realgar
sollevò le sopracciglia. «Appunto, io ho dormito e tu hai
sgobbato. Ora è il tuo turno di riposare e io farò la
guardia.»
Sam
gli passò una razione di acqua e una di cibo e lui le guardò
celando il moto di nausea che gli invase le viscere.
Sorrise. «All’acqua non dico di no, ma il cibo conviene
razionarlo. Mangerò domani.»
«Come
vuoi» rispose Samantha, tirando fuori il sacco a pelo,
infilandosi al suo interno. «Buonanotte» augurò a Realgar,
usando la sua spalla come cuscino.
Quando
lui capì che la giovane si era addormentata, fece una
smorfia di dolore e disattivò lo scanner, controllando le
sue condizioni. Riattivò il campo di pressurizzazione,
perché lo sguarcio era più serio del previsto. Chiuse gli
occhi, cercando di dormire a sua volta.
Non sto rileggendo... ormai gli ultimi capitoli ho smesso di
rileggerli, in fondo nessuno dice nulla né in bene né in
male. Mi piacerebbe sapere che ne pensate della trama,
ma non posso mica forzarvi a esprimervi in merito, quindi mi
limito ad andare avanti con la trama e il resto... Beh
magari lo sistemerò più avanti.
Grazie comunque a chi segue nell'ombra.
Grazie a tutti i lettori.
Se la storia vi piace, per cortesia, mettetela nei
preferiti/seguiti/ricordati per darle visibilità.
Per chi fosse
interessato, può passare a trovarmi presso il mio gruppo
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Daniela
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Capitolo 11 *** -11- ***
Kamar
-11-
Realgar
e Samantha avanzavano a piedi lungo la diramazione troppo
stretta per accedervi con il rover.
«Spero
che tu sappia dove stiamo andando» bofonchiò il mercenario,
arrancando sui detriti che ostacolavano l’arrampicata.
«Certo
che lo so, fidati. Per una volta che sono ottimista, tu mi
diventi pessimista?» ironizzò lei, analizzando le pareti
della gola con il binocolo. Le parve di vedere qualcosa e
ingrandì l’immagine, mettendo a fuoco l’oggetto parzialmente
coperto dalle rocce. Le didascalie indicavano la distanza
rispetto al punto di osservazione. Sam abbassò il binocolo e
sorrise. «L’abbiamo trovata!»
Realgar
si fermò, appoggiando la schiena al muro di roccia quasi
verticale alla sua destra. «Sicura?» chiese, ansimando.
Lei
gli si affiancò, gli passò il binocolo e gli indicò dove
guardare.
Lui
alzò lo strumento e individuò la sonda, poi studiò il
percorso. «Tutta salita...» constatò amaramente.
Sam
gli diede una pacca su un braccio. «Oh, avanti, il sentiero
è abbastanza semplice, credo di potercela fare persino io!»
Realgar
la guardò con astio. «Il tuo zaino pesa meno del mio»
rimbrottò, mettendosi in marcia.
Lei
lo guardò e sospirò. Era da quando si erano svegliati che
Realgar era intrattabile. Distribuì meglio il peso sulle
spalle e iniziò a seguirlo. Il tragitto si rivelò più ostico
del previsto, perché senza punti di riferimento precisi, non
era facile stabilire le dimensioni di un oggetto. Quelli che
sembravano gradini scavati dal vento nella roccia, si
rivelarono gradoni e Realgar non l’aiutò minimamente a
superarli. Sam aveva chiesto il suo aiuto un paio di volte,
ma lui non si era nemmeno voltato e aveva continuato a
camminare.
Mentre
Samantha stava strisciando lungo la parete, cercando di non
cadere nel baratro che correva di fianco al sentiero
ghiaioso, le parve di sentire un cicalino elettronico, uno
degli allarmi degli scanner. Controllò il proprio polso e
sospirò di sollievo quando si accorse che era tutto a posto.
Finalmente la strada si allargò e, accelerando il passo,
riuscì a raggiungere Realgar.
«Il
tuo scanner ha suonato? Mi è sembrato di sentire l’allarme
di energia in esaurimento del campo di contenimento...»
spiegò Samantha con il fiato grosso.
«È
tutto a posto» rispose in un ringhio Realgar, iniziando la
scalata del tratto più ripido di tutto il percorso. Il
mercenario studiava con cura dove aggrapparsi e quali punti
usare come appoggio. «Metti i piedi dove li metto io» berciò
rivolto a Samantha, senza guardarla.
A
Sam sembrò di essere tornata alle miniere di Anseris, dove
aveva creduto di morire per la fatica. Era comunque grata a
Realgar, che sembrava scegliere gli appigli tenendo conto
delle sue esigenze. Samantha iniziava a considerarsi un
inutile peso. Mentre avanzava, con le braccia che
formicolavano per lo sforzo, Sam vide qualcosa di insolito.
Era una sostanza vischiosa e biancastra e non capiva se
trasudava dal terreno formando quella piccola macchia, o se
era caduta dal cielo.
«Realgar,
ho trovato qualcosa di strano...» informò Samantha, tastando
cautamente la sostanza. Era calda al tatto e la cosa era
bizzarra considerato che lo scanner la informava che la
temperatura dell’aria era di appena nove gradi.
«Cosa?»
ringhiò il mercenario, qualche passo sopra di lei.
Sam
fece una smorfia e inserì un po’ di quella roba nello
scanner, per farla analizzare. «Non lo so, sembra… sperma.»
Lo
sguardo che le lanciò Realgar la fece raggelare.
«Muoviti
e non perdere tempo» la rimproverò, riprendendo
l’arrampicata.
«Non
sto scherzando! È un liquido denso e biancastro! Sarò
vergine, ma so come è fatto il liquido seminale...» protestò
lei, inseguendolo. Lungo il percorso, Sam individuò altre di
quelle macchie, ma Realgar sembrava avere il diavolo in
corpo e ogni volta che lei rallentava la esortava a darsi
una mossa.
Finalmente
raggiunsero la sporgenza rocciosa dove la Tianmu era caduta.
Il modulo esplorativo era rimasto incastrato sotto alcuni
detriti che gli avevano impedito di sfruttare i pannelli
solari per alimentarsi.
Realgar
appoggiò lo zaino a terra e iniziò a tirare fuori i
componenti per realizzare un generatore esterno, mentre
Samantha studiò la sonda, liberandola dalle pietre.
La
ragazza collegò il cavo di alimentazione e lasciò che
l’energia, dopo più di un secolo, tornasse a scorrere tra i
circuiti della navetta. Aveva paura che dopo tutto quel
tempo non sarebbe bastato ridarle la carica e che tutto quel
viaggio fosse stato inutile. Invece i led indicarono che il
computer della Tianmu si stava avviando.
Sam
sorrise e aprì il pannello dove era inserito lo ying dié per
il salvataggio dei dati raccolti dal modulo operativo.
Collegò il computer a quello della sonda e reindirizzò tutti
i comandi sul proprio dispositivo, mentre Realgar preparò
tutti gli hard disk che si erano portati dietro,
sistemandoli vicino alla ragazza.
Samantha
prese lo ying dié di suo padre e lo sostituì a quello sulla
sonda. Controllò quindi lo spazio disponibile, scoprendo che
il supporto aveva quasi raggiunto il proprio limite di
contenimento. «Ti puoi sedere, credo che ci vorrà un bel
po’...» mormorò incredula, iniziando a ricopiare i dati.
Realgar
sbuffò e si lasciò cadere su un masso, per poi rimanere in
silenzio, alle spalle della ragazza.
Lei
prese le cuffie e iniziò a visionare alcuni video salvati
sullo ying dié, documentari che ritraevano suo padre intento
ad argomentare i suoi studi e le sue scoperte. Sam
interrompeva la loro visione solo quando doveva collegare un
nuovo hard disk per sostituirne uno ormai pieno. Era ormai
il tramonto quando finì di ricopiare tutti i dati, le ci
sarebbero occorsi mesi per riuscire a leggere tutta quella
documentazione, ma quello che aveva potuto capire era
sorprendente.
Sam
scollegò il computer e si rivolse a Realgar. «Dobbiamo
tornare al rover e dirigersi immediatamente alla Volta! Mio
padre aveva trovato il modo di salvare la Terra! Se questo
sistema funziona, il genere umano potrà ritornare a casa!»
Realgar sembrava essersi addormentato e lei sbuffò,
iniziando a riempire da sola gli zaini. «Io sono qui che mi
faccio il mazzo e lui dorme» rimbrottò. « Svegliati,
pelandrone!» Quasi lo urlò, ma il ragazzo non si mosse.
Lei
si alzò e gli si avvicinò, controllando l’ora sullo scanner.
Si accorse così che l’analisi della misteriosa sostanza era
finita da parecchio tempo ormai. Controllò i risultati e
aggrottò la fronte. «Una sorta di emolinfa?» mormorò tra sé
e sé, posando una mano sulla spalla di Realgar, scuotendolo
delicatamente. Poi si gelò, quando vide la pozzanghera di
liquido candido che si era raccolta ai piedi del masso dove
lui era seduto. Sembrava quasi che gocciolasse dal suo
cappotto.
Realgar
aprì gli occhi e la guardò confuso. «Hai finito?» disse,
cercando di alzarsi. Le gambe non lo ressero e lui si
ritrovò in ginocchio. Non aveva più forze, era ormai
spacciato. Abbozzò un sorriso, guardando Samantha. «Mi si è
addormentata una gamba, inizia a scendere da sola...»
«Il
tuo scanner è spento...» rispose lei, guardandolo senza
riuscire a celare la sorpresa sul proprio volto.
Lui
sgranò gli occhi e guardò il masso e la sostanza bianca che
si era raccolta a terra e capì cosa turbava Samantha.
«Non
sei umano...» mormorò la ragazza.
«Sam,
non è il momento di perdere la testa. Ti sei fidata sino a
ora di me, continua a farlo. Devi tornare al rover e
proseguire da sola, qualsiasi cosa tu abbia scoperto. Non
credo che mi rimanga molto...» spiegò lui.
Samantha
aggrottò la fronte e gli si inginocchiò a fianco, aiutandolo
a sdraiarsi a terra.
«Cosa
stai facendo?» chiese lui.
«Cerco
di salvarti!» rispose la giovane con determinazione.
«Non
perdere tempo. Il tuo scanner e la tua maschera non
funzioneranno in eterno. Torna subito al rover!» protestò
Realgar, mentre Sam premeva sulla ferita per arrestare
l’emorragia. «Ho già perso troppo sangue, vattene.»
Lei
scosse il capo, gli occhi si erano fatti lucidi, ma il campo
di forza impediva alle lacrime di cadere. «Nello ying dié di
mio padre, lui racconta che ha avuto modo di studiare un
phobosiano ancora in vita. Eri tu, vero?»
Quante
altre forme di vita avrebbero potuto sopravvivere senza
alcuna protezione su Marte? Era impossibile negare
quell’affermazione, quindi Realgar chiuse gli occhi. «Gli
davo una mano e lui mi aiutava a nascondermi. Lasciavo che
mi studiasse, gli portavo campioni particolari che nessun
essere umano sarebbe stato in grado di portargli… lui
falsificava i miei dati sul computer, per non farmi scoprire
dai custodi» rispose sommessamente.
«Sei
tu la chiave per salvare la Terra, non posso lasciarti
morire. Potresti essere l’ultimo della tua razza...» mormorò
Sam.
«Appunto,
come potrei mai salvare un altro pianeta? Non sono in grado
di salvare neanche me stesso!» Realgar si interruppe,
reprimendo il dolore con una smorfia. L’ondata lo attraversò
completamente e quando passò, lui aveva già perso ii sensi,
gettando Samantha nello sconforto.
Sam
lo scosse agitata. «Realgar! No, non mi lasciare, ti prego!»
Non sapeva cosa fare, era suo padre l’esobiologo. Samantha
prese a pugni il petto dell’esploratore e, non ottenendo
alcuna reazione, si accasciò su di lui, con le spalle scosse
dai singhiozzi. Stravolta dal dolore, non si rese conto del
rumore alle sue spalle. Quando lo percepì chiaramente e alzò
la testa, l’unica cosa che vide fu la superficie rossa,
sulla quale il sole sembrava quasi riflettersi. Il lampo di
dolore la colpì, scaturendo dalla nuca e privandola della
lucidità. L’oblio scese come un sipario pesante, chiudendole
gli occhi senza alcuna pietà.
Zan zan! Colpo di scena. Anche se credo che ormai si fosse
capito che Realgar proprio normale non era :D
Grazie a tutti i lettori.
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Capitolo 12 *** -12- ***
Kamar
-12-
Samantha
riprese i sensi, complice il tremendo mal di testa che le
martellava dietro le tempie. Una luce soffusa giungeva sino
a lei, rimbalzando sulle pareti rocciose, virando il proprio
colore in tonalità rossastre.
Dolorante,
Sam alzò la mano sinistra, per massaggiarsi le tempie, poi
lanciò un’occhiata distratta allo scanner e sgranò gli
occhi, tappandosi la bocca. Era senza maschera e il campo di
pressurizzazione aveva esaurito la sua energia.
Sam
aggrottò la fronte. Era viva, non c’erano dubbi. Sfruttò
quel poco di batteria che rimaneva al dispositivo sul polso
e analizzò la composizione dell’aria. La pressione era
sufficiente a non far andare in ebollizione l’acqua
all’interno del suo corpo e, anche se rarefatto, la
concentrazione di ossigeno era tale da consentirle di
respirare in tutta tranquillità.
Samantha
si mise seduta, stando attenta a non picchiare la testa
contro il basso soffitto di quella nicchia scavata nella
parete di roccia. Cercò di ricordare gli accaduti e i
suoi pensieri corsero a Realgar. Uscì dalla nicchia e si
guardò intorno.
Sam
si trovava in un cunicolo sotterrane. Le pareti sembravano
di origine lavica, lo capiva dalla porosità della roccia, in
certi punti presentavano blocchi di vetro vulcanico, molto
simili all’ossidiana se non per il colore rosso.
Samantha
tese le orecchie e, non percependo nulla, decise di muoversi
in direzione della luce che rimbalzava sulle pietre. Udì un
rumore alle proprie spalle e trasecolò: i blocchi che aveva
scambiato per vetro lavico si muovevano!
Sam,
paralizzata dalla paura, venne raggiunta, afferrata per le
braccia e sollevata da due creature umanoidi, che sembravano
fatti di vetro di un opaco color rosso acceso.
Le
due creature la portarono in un’ampia grotta con una volta
fatta di quarzo trasparente, da cui entrava la luce. Gran
parte della caverna era occupata da un lago dall’acqua
rosata, a causa del colore del fondale. Sulle rive c’erano
altre di quelle strane creature e stavano maneggiando gli
oggetti di…
«Realgar»
squittì Samantha.
Uno
dei carcerieri sgrano gli occhi azzurrissimi e la lasciò
andare, comportandosi in maniera strana. Sembrava quasi
spaventato. Il compagno berciò qualcosa in una lingua
assolutamente incomprensibile, fatta di schiocchi e suoni
gutturali.
Sam
approfittò della situazione, strattonò il braccio
trattenuto e riuscì a liberarsi. Corse a perdifiato
verso il gruppo che aveva gli oggetti di Realgar, ma quando
arrivò da loro, la testa le girava così tanto, che crollò in
ginocchio.
Gli
alieni erano arretrati, abbandonando a terra i vestiti
dell’esploratore e Sam si trascinò verso di essi a fatica.
Nella caverna echeggiavano quelle che potevano essere intese
come grida, da parte di quelle creature così simili a statue
di pietra. I due guardiani giunsero di corsa berciando
parole incomprensibili e brandendo delle aste di pietra.
Sam
ebbe paura e, temendo per la propria incolumità, si
rannicchiò a terra, iniziando a piangere, coprendosi il capo
con le braccia.
I
due guardiani la pungolarono con i bastoni, intimoriti da
quello strano atteggiamento. Sam sentì lo sciabordio delle
acque e poi udì una voce, stavolta comprensibile.
«Non
piangere, se si accorgono che produci
acqua
dagli occhi, non vorrei ti rinchiudano per usarti come
scorta...»
La
ragazza alzò lo sguardo sulla figura che era emersa nel bel
mezzo del lago, la quale stava avanzando verso riva. Era un
altro alieno dal corpo simile a vetro lavico dall’intenso
colore rosso, se si escludeva la macchia di fango che
copriva gran parte del fianco destro dell’essere.
Samantha
si portò le mani davanti alla bocca, per reprimere l’urlo,
poiché lo aveva riconosciuto. I lineamenti scolpiti in
quella pietra lavica erano identici anche se, senza la crema
a coprirli dando un apparente colorito candido alla pelle,
l’associazione non era così immediata. «Re… Realgar?»
Lui
raggiunse la sponda e si sedette a terra, di fronte alla
ragazza e le sorrise. Lei lo squadrò da capo a piedi,
incredula.
«Sei…
proprio tu, sei vivo…» mormorò Sam a fil di labbra, mentre
lui la guardava tranquillo. Lei sollevò una mano e gli
sfiorò una guancia, avvertendo al tatto la consistenza della
sua reale pelle. Era liscia come vetro, eppure sembrava
morbida ed emanava un leggero tepore.
Realgar
si strinse nelle spalle. «Be’, eccomi qui, senza crema
protettiva addosso sembro un gambero...» commentò, per poi
zittirsi, quando Sam lo abbracciò, cominciando a
singhiozzare.
Realgar
le coprì il viso con le braccia, camuffando quel gesto con
l’abbraccio. «Ti ho detto di non piangere. Questi vanno
pazzi per l’acqua, non so come potrebbero reagire se
vedessero delle lacrime...»
Lei
si asciugò il viso e si scostò, guardandosi attorno. I
phobosiani facevano capolino da dietro alcune rocce, eccetto
i due guardiani che erano rimasti vicino a loro e si
rivolsero a Realgar, il quale scambiò qualche parola con
loro, palesando però grandi difficoltà nel farlo. Lo sguardo
di Sam si spostò al fianco del ragazzo, dove il fango ancora
umido copriva la ferita.
«Hai
rischiato di morire...» mormorò desolata.
«Fortuna
che ti sei imbattuta in un paio di loro e che si sono
accorti che ero uno di loro. Mi hanno curato… In maniera
primitiva, ma comunque efficace per la mia fisiologia»
rispose Realgar.
Sam
guardò i guardiani, che si erano seduti in riva al lago,
parlottando tra loro e gettando saltuariamente qualche
occhiata verso di lei. «Come...» esordì, riportando
l’attenzione su Realgar, senza però trovare le parole per
esprimere le molte domande che le affollavano la mente.
«Come
mai sono un phobosiano? Be’, sono nato così, anche se non
ricordo molto di loro. Ero piccolo quando la mia famiglia
venne sterminata dai coloni» raccontò lui, sdraiandosi a
terra, godendosi a occhi chiusi la luce che filtrava dalla
lastra di quarzo sul soffitto della caverna.
Samantha
lo scrutò, affascinata e intimorita dal suo reale aspetto,
soprattutto dal colore e dall’apparente consistenza di quel
corpo che pareva fatto di vetro. «Non è possibile, sono
cent’anni che non si hanno più notizie di scontri tra coloni
e phobosiani...» mormorò pensierosa.
Realgar
sospirò. «Sono stato allevato e cresciuto dai coloni che
vivevano nella fattoria Loon, quella dove ci siamo
fermati... Io ho cinquantaquattro anni marziani, pari a
centodue terrestri.» Aprì un occhio per godersi
l’espressione incredula di Sam. «Tuo padre mi confrontava
spesso con le piante, ipotizzava persino che potessimo
vivere secoli...»
«Ecco
perché mi ricordo che venivi da noi quando ero bambina…»
mormorò lei e poi sgranò gli occhi e si guardò attorno.
«Ecco perché i phobosiani potrebbero salvare la Terra!»
Lui
aggrottò la fronte e si sedetta, stringendosi le ginocchia
contro il petto. Guardò Samantha con curiosità e lasciò che
lei proseguisse.
«Nei
dati che mio padre ha lasciato...» esordì lei, per poi
diventare pallida e alzarsi in piedi di scatto, guardandosi
freneticamente attorno. «Dove sono gli hard disk?» chiese
allarmata, facendo mettere in guardia anche i due guardiani
che ancora la tenevano d’occhio.
Realgar
si alzò e si avvicinò loro. Cercò di chiedere informazioni,
anche se non era facile relazionarsi con una razza della
quale non parlava la lingua molto spesso. Dopo alcuni minuti
si riavvicinò a Samantha. «Sono ancora vicino alla Tianmu»
spiegò. «Il problema è che tu non puoi uscire da qua, non
senza una maschera con i serbatoi carichi...»
Sam
lo afferrò per un braccio. «Devo recuperarli! Senza di essi
non posso dimostrare nulla delle scoperte di mio padre! Lo
hai detto tu stesso, mio padre ti paragonava spesso alle
piante. Tu, e credo tutti gli altri phobosiani, effettuate
una specie di fotosintesi e producete ossigeno. Convertite
le particelle di piombo dello smog e altri inquinanti in
qualcosa a livello epidermico che vi permette di resistere
all’assenza di pressione, e in questo modo riducete anche il
livello di tossicità dell’aria. Siete come filtri, per
questo dico che potreste salvare la Terra.»
Realgar
si allontanò, raggiunse la riva del lago e si inginocchiò su
di essa, raccogliendo un po’ d’acqua con le mani per lavarsi
il viso. Si rivolse a Samantha, continuando a darle le
spalle. «Posso aiutarti a recuperare quei dati, ma non posso
aiutarti ad andare oltre.»
La
ragazza scosse il capo, incredula. «Cosa? Ma non capisci
l’importanza di questa cosa? Potremmo aiutare l’Umanità!”»
«Condannando
i Phobosiani?» chiese lui irato, voltandosi di scatto. Gli
altri alieni si nascosero tra le rocce, mimetizzandosi
grazie al colore della loro pelle. «Gli umani sparano a
quelli come noi, prima ancora di stabilire se abbiamo
intenzioni ostili o meno. All’inizio della colonizzazione,
quando l’Uomo scoprì la nostra esistenza, organizzò dei
safari per sterminarci, per avere l’esclusiva su questo
pianeta. Adesso mi stai chiedendo di aiutarvi? Ma ti rendi
conto che se consegniamo quei dati, tutti cercheranno i
phobosiani sopravvissuti per ridurli in schiavitù?
Guardali!» urlò, indicando i phobosiani, rannicchiati dietro
le rocce. «Sono un popolo primitivo, semplice e pavido. Se
quei dati arrivano alla Fratellanza, li condanneresti a
morte.»
Sam
serrò le labbra, stringendo i pugni lungo i fianchi. «Mio
padre è morto per questo studio...» protestò.
Realgar
sgranò gli occhi e si passò una mano tra i capelli. «Tuo
padre è stato ucciso, i custodi hanno cercato di catturarti,
credo volessero quei dati… La Fratellanza è probabile che
sappia...»
La
ragazza lo guardò incredula. «È assurdo! Perché dovrebbe
tacere questa cosa?»
Realgar
scosse il capo. «Non ne ho idea e non riesco a capire...»
Sono in ritardo. Sono indietro, perdono! Ho avuto un blocco
e c'ho messo un sacco a finire questo capitolo che è pure
breve. Non l'ho nemmeno riletto. Sono imperdonabile.
Grazie a tutti i lettori.
Se la storia vi piace, per cortesia, mettetela nei
preferiti/seguiti/ricordati per darle visibilità.
Se trovate errori, orrori o semplicemente volete farmi
sapere la vostra opinione, mandatemi un pm o potete
lasciare una recensione: non mordo!
Daniela
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Capitolo 13 *** -13- ***
Kamar
-13-
Realgar
era riuscito a far capire agli altri phobosiani le proprie
necessità, ma soprattutto quelle di Samantha. I padroni di
casa, però, non gli avevano permesso di andare a recuperare
le scorte dal rover, per via del suo precario stato di
salute.
L’espoloratore,
costretto a una specie di prigionia, occupò il tempo,
pulendo le proprie pistole. Di tanto in tanto, sollevava gli
occhi su Samantha, diventata ormai una vera attrazione per i
bambini di quella piccola tribù. Osservando i giochi dei
giovani e le attività quotidiane degli adulti, Realgar si
rese conto che il suo talento per le armi da fuoco era
un’abilità ereditata da quella stirpe di cui ricordava molto
poco. I phobosiani avevano una coordinazione motoria
superiore, lui stesso ne ignorava le cause. Pierre, il padre
di Samantha, si era prodigato in spiegazioni dettagliate, ma
lui non era stato molto attento. Scarsa memoria a breve
termine, campo visivo più esteso, conoscenze impresse nei
geni che spiegavano come fosse possibile per un phobosiano,
rimasto solo in tenerissima età, ricordare vagamente la
propria lingua madre, ma che aveva impiegato quasi vent’anni
per imparare la lingua umana.
Realgar
aveva rimuginato parecchio sulla morte dello scienziato e
l’arresto mancato della figlia. Era ormai convinto che la
Fratellanza fosse coinvolta e, se Sam era veramente
intenzionata a inviare i dati recuperati sulla Terra, doveva
per forza andare a Olympus, ovvero nel cuore della
Fratellanza stessa. Non riusciva a vedere via d’uscita per
quella situazione, ma doveva riportare Samantha in una zona
civilizzata, non poteva vivere a lungo senza cibo.
Il
vociare crebbe quando i maschi della tribù ritornarono
dall’escursione, trasportando non senza difficoltà il rover
e tutto ciò che conteneva. I phobosiani avevano recuperato
tutto quello che Realgar e Samantha avevano lasciato nei
pressi della sonda e l’umana fu felice di poter finalmente
placare la propria fame, sgranocchiando una delle razioni.
Realgar le fece compagnia, sbocconcellando una delle
proprie.
«Quindi
le tue barrette di cosa sono fatte?» gli chiese Sam,
guardandolo da dietro le sottili lenti degli occhiali. La
stecca destra si era piegata e la montatura le cadeva
obliquamente sul viso.
Realgar
sollevò lo sguardo su di lei, per poi osservare la propria
tavoletta dall’improbabile colore giallognolo. «Fosfato,
potassio, acqua e sali minerali…» rispose dopo un attimo di
esitazione.
La
ragazzina annuì, rimanendo in silenzio.
Realgar
sospirò. «A che stai pensando?» le chiese atono.
«Che
se voglio sopravvivere devo raggiungere una città o un
avamposto. Le mie scorte si esauriranno...»
Lui
sbuffò. «Già...»
Lei
portò il pollice alle labbra e iniziò a tormentarsi
l’unghia, stringendola tra i denti. Lanciò fugaci occhiate a
Realgar e aprì un paio di volte le labbra per parlare, ma
non le uscì nemmeno una parola.
«Vuoi
inviare i dati sulla Terra...» disse Realgar. Non era una
domanda e non gliela pose con quel tono.
Lei
assunse un’espressione addolorata. «Lo so che non sei
d’accordo, ma le scoperte di mio padre potrebbero salvare il
pianeta! L’Umanità potrebbe tornare a passeggiare tra i
prati verdi e a godersi i tramonti in riva al mare!»
«L’Umanità
non si estinguerà se non potrà fare quelle cose» rispose
duramente lui, spostando lo sguardo sugli altri phobosiani.
Erano un popolo primitivo, ma nei loro cuori non c’era la
cattiveria che aveva visto in quello degli umani. «Ma sul
fatto che tu debba tornare in una città hai ragione. Il
problema è che sei ricercata, se cercherai di entrare in una
cupola i Custodi lo sapranno subito, mentre in un avamposto
irregolare rischieresti di finire a fare la prostituta per
il resto della tua vita...»
Lei
abbassò gli occhi, stringendosi le ginocchia al petto.
«Quindi… mi stai dicendo che sono fregata, che non c’è
niente da fare?»
«No»
rispose lui, tornando a guardarla. «Devi andare tu stessa
sulla Terra, là sarai al sicuro dalla Fratellanza.»
Sam
lo guardò interdetta. «Hai dimenticato che le navi per la
Terra partono dal Mons Olympus, che è la roccaforte della
Fratellanza?»
«Hai
dimenticato che ho più di un secolo di vita?» rispose lui.
«Olympus era ancora in costruzione quando io già bazzicavo
per il pianeta. So come entrare, evitando i controlli. Una
volta all’interno, cercherò di portarti all’ambasciata
terrestre. Una volta al suo interno i custodi non potranno
prenderti e tu potrai chiedere asilo e grazie a quei dati
avrai un bel biglietto di sola andata per la Terra.»
«Ma
se ci scoprono, ci uccideranno! E come faremo ad
attraversare il canyon? Non abbiamo abbastanza scorte per
aggirarlo e l’interno non è mappato» obiettò Samantha.
«Probabile.
Ma prima o poi capita a tutti di morire e non credo che tuo
padre abbia sognato per te una vita da ricercata. Pierre ti
voleva libera e felice, lo so bene. Per quanto riguarda le
Vallis Marineris, troverò una soluzione e riusciremo ad
attraversalo.»
«Ma...»
esordì la ragazza.
«Stai
tranquilla, farò del mio meglio affinché non ti accada
nulla. Prenderai quella navetta e sarai in salvo. Solo…
cerca di fare in modo che quei dati non vengano usati per
farci del male» mormorò Realgar.
«Non
potrai venire con me e difficilmente io potrò tornare su
Marte» rispose mestamente lei, dando per scontato che con
l’aiuto dell’esploratore la sua missione sarebbe stata un
successo.
«Sarai
libera» replicò il phobosiano, sorridendole.
Lei
strinse i pugni, si mise in ginocchio davanti a lui e si
sporse, posandogli un innocente bacio sulle labbra,
chiudendo gli occhi. Aveva sperato che Realgar ricambiasse,
che la cingesse a sé, tramutando quel bacio in qualcosa di
più intenso, ma lui rimase impassibile, non mosse nemmeno un
muscolo.
Sam
si scostò e lo guardò negli occhi. «Non sarei felice...»
disse, sperando di riuscire a smuoverlo.
«Biologicamente
non siamo compatibili e non nutro attrazione sessuale nei
tuoi confronti. Ti sono affezionato, ma come amico. Non
posso essere più di questo» spiegò lui pragmaticamente,
distruggendo qualsiasi speranza della giovane, che chinò il
capo e si ritrasse, cercando di trattenere le lacrime che
quella cocente delusione le avevano fatto salire agli occhi.
Realgar
si alzò in piedi e si allontanò, raggiungendo il rover e
cominciando a studiare le mappe della superficie marziana.
Un
ragazzo gli si avvicinò incuriosito, affascinato dai disegni
sui fogli plastificati. Cominciarono a parlottare tra di
loro. Realgar aveva preso un po’ di dimestichezza con il
loro idioma e spiegò al giovane che doveva raggiungere
Olympus.
«Kuth’è»
rispose il ragazzo, puntando l’indice sul Mons Olympus
segnato sulla mappa. Quella parola riportò molteplici
ricordi nella mente di Realgar, memorie non sue,
indelebilmente scritte nei suoi geni.
«I
tunnel...» mormorò preda di un lieve capogiro, mentre
l’altro lo fissò interrogativo, non comprendendo la lingua
umana. Realgar aveva ricordato che il suo popolo viveva
sottoterra e che si muoveva sotto la superficie sfruttando
gli antichissimi canaloni lasciati delle colate laviche
risalenti a milioni di anni prima. Una mappa impressa
all’interno del suo genoma, una dote che spiegava come mai
gli era così facile orientarsi anche quando la
strumentazione era inutilizzabile.
Realgar
cercò di spiegare all’interlocutore la sua necessità: aveva
bisogno di trovare l’accesso all’intrico di canali
sotterranei, per poter raggiungere la propria meta.
Il
giorno successivo i guardiani li accompagnarono all’ingresso
del dedalo che si estendeva sotto la superficie di Marte in
un’intricata ragnatela in cui nessuno essere umano aveva mai
messo piede. Forse qualche galleria era stata utilizzata, ma
di certo non quelle che correvano nel ventre delle Vallis
Marineris.
L’ossigeno
era così rarefatto che Samantha era costretta a tenere la
maschera.
«Credi
di poter trovare la strada giusta?» domandò la ragazza.
«Non
ne ho idea. È la prima volta che metto piede qua sotto...»
ammise Realgar.
Sam
deglutì. «Se dovessimo sbagliare strada…?»
Lui
si voltò a guardarla, mordendosi un labbro. «Moriremmo. I
viveri sono molto limitati quindi tu non potresti nutrirti,
mentre se non riesco a trovare una via per tornare in
superficie morirò per l’assenza di luce.»
«Se
tentassimo di attraversare i canyon sarebbe la stessa cosa,
solo che tu non moriresti» commentò Samantha, sistemandosi
gli occhiali sul naso.
«Ma
i phobosiani conoscono questa via...» rispose Realgar. «Se
quello che diceva tuo padre è vero, dovrei ricordare la
strada, anche se non l’ho mai percorsa in vita mia.»
«Allora
dobbiamo tentare» sentenziò la giovane.
«Sei
sicura?» le chiese Realgar, con una punta di preoccupazione.
Lei
gli sorrise. «Ho fiducia in te.»
Lui
sorrise ironico. «Che fortuna...»
Non ho scusanti. Esco da un blocco scrittorio che dura dalla
metà di agosto e non posso nemmeno garantire che io ne sia
uscita. Ho deciso di concentrarmi solo su questa storia,
così che quel poco che uscirà dalle mie dita sarà
focalizzato su un obiettivo per volta. Spero che possiate
perdonarmi per la lunga attesa e spero di riuscire a
scrivere ancora, in modo da aggiornare con
regolarità.
Grazie a tutti i lettori.
Se la storia vi piace, per cortesia, mettetela nei
preferiti/seguiti/ricordati per darle visibilità.
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Daniela
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Capitolo 14 *** -14- ***
Kamar
-14-
Samantha
passò il giorno successivo a sistemare il rover, impedendo a
Realgar di aiutarla, per permettergli almeno di riposare,
visto la brutta ferita.
«Quanto
pensi impiegherai a guarire?» domandò la ragazza, passandosi
il dorso della mano sulla fronte, sporcandosela leggermente
con il grasso da motore.
Realgar
abbassò lo sguardo sullo strato di fango secco che ricopriva
la parte lesa e grattò via il terriccio con la punta
dell’unghia.
A
quella gesto, Samantha sgranò gli occhi. «Ma sei scemo?!»
gli chiese, correndogli vicino.
«Guarda
che ormai si è richiusa...» obiettò lui, alzando lo sguardo
sul volto preoccupato della giovane che si accovacciò al suo
fianco, ispezionandogli il fianco stupita.
«Incredibile…»
mormorò incredula. «È bastata un po’ di melma
per
farti guarire?»
«Il
pregio di vivere in simbiosi con un organismo organico
basato sul silicio invece che sul carbonio» ribatté
sorridente Realgar.
Sam
si morse il labbro. «Ho letto qualcosa negli appunti di mio
padre, ma non ho aperto il file...»
«Roba
complicata» rispose lui, «non saprei spiegartela nei
dettagli nemmeno io. Quello che so, è che nutro il mio
ospite grazie alla fotosintesi e lui mi protegge dalla bassa
pressione marziana. Il colore rosso è dovuto appunto allo
scudo epidermico che produce l’ospite. I coloni mi
chiamarono Realgar proprio perché sembravo fatto di quel
minerale...»
La
ragazza lo ascoltò con attenzione, poi si risistemò gli
occhiali sul naso. «Com’erano i coloni che ti adottarono?»
chiese con curiosità.
Lui
arricciò le labbra, sollevando gli occhi sulla lastra di
quarzo che chiudeva la volta del soffitto permettendo alla
luce del sole di entrare nella caverna, mentre lo sguardo si
perdeva nei ricordi di un secolo prima. Per un attimo gli
parve di tornare nel cratere Loon, mentre i coloni gettavano
le fondamenta della fattoria autosufficiente, dopo che i
ripulitori avevano sgomberato l’area dai phobosiani
presenti. Realgar rammentò lo smarrimento e l’angoscia
dell’essersi trovato solo, nascosto alla vista dei
ripulitori dal corpo di uno degli adulti della tribù. Poi
ricordò gli occhi azzurri, così simili a quelli della
propria gente, di quella strana creatura che lo aveva tratto
in salvo, cercando di curarne le ferite. Fu un periodo
dedicato alla reciproca conoscenza e alla pazienza, poiché
gli insuccessi si ripeterono innumerevoli volte, con errori
da parte di entrambi i fronti.
Lui
strinse le labbra ripensando a Madison e tornò a guardare
Samantha. «Erano pieni di speranza e sognavano di poter far
ritorno sul loro pianeta il giorno in cui l’Umanità avrebbe
risolto il problema dell’inquinamento sulla Terra. Ma alla
fine dei conti erano dei disperati, intrusi in un ambiente
non adatto a loro; hanno cercato di piegare ai propri
desideri Marte, come avevano già fatto con la loro patria.»
Il phobosiano sbuffò, passandosi una mano nei capelli e
scosse il capo. «Quelli della mia razza saranno lenti a
imparare, ma voi umani dimenticate troppo in fretta...»
disse, alzandosi indispettito. Si allontanò verso le sponde
del lago, cercando di reprimere il dolore, mentre i ricordi
gli dilaniavano il cuore. Aveva veduto Madison
sfiorire, piegandosi inesorabilmente allo scorrere del
tempo, aveva visto i suoi sogni venire calpestati dalla
cupidigia che la scoperta del petrosene aveva instillato
nell’animo umano. Aveva seppellito lui stesso Madison,
mentre i pochi rimasti alla fattoria di scannavano tra di
loro, costringendo le strade di molti a dividersi. I pochi
che erano rimasti nell’avamposto rinunciarono a quella vita
di stenti dopo pochi anni e a lui non era rimasto altro da
fare che seguire quella che era diventata la sua nuova
famiglia e mimetizzarsi a fatica tra la popolazione delle
città cupola.
Angoscia.
Opprimente,
sfiancante, infinita angoscia.
Il
viaggio era stato un lunghissimo incubo, dove le brevi soste
nei punti dove, da alcune fenditure della volta, la luce del
sole penetrava nei cunicoli erano uno sbiadito miraggio,
fagocitato dalle tenebre più cupe che Samantha avesse mai
veduto.
Il
bacio del sole sulla pelle, anche se attraverso i vetri
dell’abitacolo, ora le sembrava più passionale e intenso
della sua giovane vita, eppure non riusciva e non voleva
tenere gli occhi chiusi. Quando lo faceva, la paura tornava
a ghermirle il cuore, inondandole l’animo di ansia.
Sam
faticava a credere che quell’odissea nell’oscurità fosse
finalmente giunta al termine, nonostante di fronte a lei si
stagliasse l’imponente sagoma dell’Olympus, il vulcano più
alto dell’intero sistema solare. Era così grande, che le sua
pendici si perdevano oltre l’orizzonte Una parte di lei
temeva che quello fosse solo un sogno, un’effimera realtà
frutto della sua mente spezzata dalla follia con cui le
tenebre l’avevano maledetta.
La
giovane spostò lo sguardo su Realgar, che le dormiva
accanto, al posto di guida. Quel tour sotterraneo aveva
sfiancato anche lui, che aveva dovuto gestire gli attacchi
di panico che avevano colpito Samantha, la quale gli doveva
aver dato decisamente troppi grattacapi.
Il
segnale acustico avvisò che le batterie solari avevano
raggiunto la massima carica.
Sam
raddrizzò la schiena e controllò lo stato delle celle
d’ossigeno della propria maschera, poi il brontolio dello
stomaco attirò insistentemente la sua attenzione. La ragazza
prese la cassetta delle razioni, sospirando rassegnata.
Estrasse l’unica confezione rimasta e controllò l’interno
della scatola, nella vana illusione di trovarne altre.
Nonostante lei e Realgar se ne fossero concesse una ogni tre
giorni, quel viaggio era durato più del previsto.
«Mangiala
pure.»
Samantha
sussultò e guardò il mercenario, il quale le sorrise senza
aprire gli occhi. «Tu è cinque giorni che non mangi, mi hai
ceduto la tua all’ultimo pasto» obiettò.
Realgar
aprì le palpebre e puntò gli occhi azzurri sul volto della
ragazzina. «Ma ora c’è il sole; grazie alla luce e a un po’
di terriccio mangerò come uno della Fratellanza» ironizzò,
prima di stiracchiarsi la schiena. Si sporse verso i comandi
e iniziò a digitare al computer. «Avanti, mangiala. Avrai
bisogno di energie.»
Sam
si mordicchiò il labbro inferiore. «Sei sicuro di volerlo
fare?»
«Ti
ho detto che non ho bisogno di mangiare ora!» assicurò lui.
Lei
scosse il capo, risistemandosi gli occhiali sopra il naso.
«Mi riferivo a Kain...»
Realgar
arricciò le labbra in una smorfia incerta, accarezzò il
volante e annuì, senza guardare l’interlocutrice. «Sì, se la
caverà benissimo» rispose risoluto. «Mangia pure e poi
affronteremo l’ultima tappa del viaggio. Per ora» aggiunse,
sollevando lo sguardo sull’imponente cono vulcanico che si
protendeva verso rade nubi di diossido di carbonio e
polvere.
Il
mercenario prese la mappa e la stese davanti a sé.
«L’Olympus Mons è situato in una depressione e, come
lasceremo la copertura delle rocce, le sentinelle ci
individueranno subito e, se ci andrà bene, i Custodi ci
piomberanno addosso.»
«E
se andrà male?» domandò sottovoce Samantha.
Realgar
la guardò e poi le indicò il vulcano. «Li vedi quei punti
dove la luce del sole si riflette?» Quando Sam annuì,
proseuguì: «Sono gli sportelli delle bocche da fuoco. È più
facile che ci sparino direttamente addosso.»
La
ragazza deglutì. «Perché dovrebbero farlo? Anche a Olympus
arriveranno dei viaggiatori, no?»
«L’ingresso
è consentito solo tramite rotaia o via aria» spiegò Realgar.
«I veicoli vengono contattati via radio e invitati a tornare
indietro. La nostra fortuna è che il rover è piccolo e
maneggevole, è difficile da prendere di mira. Con l’ultimo
panetto di petrosene, posso lanciarlo al massimo della
velocità e coprire il tratto più breve per le pendici
dell’Olympus in meno di un minuto. Una volta là, sarà al
riparo dai cannoni e a quel punto i Custodi usciranno per
eliminare gli intrusi.»
«In
un minuto ridurranno Kain a un colabrodo» commentò Samantha,
sgranocchiando nervosamente la galletta. «Hai detto che si
accede tramite treno, no? Quindi questi sarebbero le
rotaie?»
«Sì,
sono giganteschi ponti su cui corrono anche i tubi di
rifornimen...» Realgar aggrottò la fronte senza finire la
frase, mentre la ragazza sorrise.
«Credi
che rischierebbero di colpire uno dei ponti, magari quando
passa un treno?» gli disse.
Lui
la guardò compiaciuto. «Sei un piccolo demonietto. Mi piace
quest’idea, anche perché ci permetterebbe di arrivare dentro
alla montagna molto più velocemente.»
Samantha
guardò la mappa e poi di nuovo Realgar. «Vuoi sfruttare uno
dei treni? Non sappiamo nemmeno quando ne passerà uno!»
«In
quanto phobosiano, sono in grado di percepire le vibrazioni
molto più di un umano. Per questo dormivo in tutta
tranquillità in un bozzo. Sento distintamente i micro
tremori che ne prennunciano crollo e non mi sono mai fatto
sorprendere.»
Sam
lo guardò incredula. «Chi diavolo te ha fatto fare di
dormire in un bozzo? Sono altamente instabili!»
«Ma
costano una sciocchezza...» ribatté lui divertito.
Non dico più nulla. Tanto ho visto che non riesco a essere
costante e me ne dolgo. Sono rammaricata di avervi dato la
tanto sospirata regolarità.
Grazie a tutti i lettori.
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