Demons

di TheAuthor
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L' Autore ***
Capitolo 2: *** La Scelta ***
Capitolo 3: *** La Bambina ***
Capitolo 4: *** Love is weakness ***
Capitolo 5: *** Innocenza Perduta ***



Capitolo 1
*** L' Autore ***


CAPITOLO 1

L’autore

 

C’era una volta una foresta incantata popolata dai personaggi classici che conosciamo, o che pensiamo di conoscere.
La pioggia cadeva fitta sulla finestra del suo vecchio negozio. Il signor Gold osservava silenziosamente Belle e quel Will Scarlet. Non credeva di poter odiare qualcuno più di quanto non odiasse quell’uomo apparso dal nulla. Quell’essere così insignificante gli aveva portato via l’amore della sua vita. Le goccie di pioggia cadevano dalle sue ciglia come fossero lacrime.
No, era stato lui stesso ad allontanarla. L’aveva lasciata andare via, gli era sfuggita dalle dita come sabbia sottile.
“Ti amo Belle” disse appannando il fradicio vetro.
L’odore d’asfalto bagnato addensava l’aria e gli appesantiva la testa. Decise che era arrivato il momento di andare e così si girò e mosse i primi passi verso quella che era diventata la sua casa, quando sentì un rumore di tacchi avvicinarsi alle sue spalle.
Quel suono gli parve familiare. Ma no, non poteva essere Regina. La teneva prigioniera ed era certo che per quanto lei si fosse sforzata non sarebbe mai riuscita a fuggire.
Il dubbio s’impadronì di lui, ma come pietrificato non riuscì a girarsi, eppure il Signore Oscuro non avrebbe dovuto temere nessuno, soprattutto non Regina Mills, egli era l’essere più potente che fosse in vita fatta eccezione per l’autore.
Poi riconobbe l’effetto della magia. Era quella che gli impediva ogni movimento.
Sentiva il cuore battergli in petto e le gocce di pioggia appropriarsi della sua fronte.
I passi erano lenti e ritmici. Suola contro asfalto. Tacco e rumore di acqua infranta. Poi un sussurro.
“Salute Padre” queste parole furono pronunciate da delle labbra di ragazza vicino al suo orecchio sinistro. Con la coda dell’occhio scorse il rossetto accuratamente passato sulle labbra.
Un brivido gli percorse la schiena mentre l’effetto dell’incantesimo svaniva.
Si girò di scatto. Una figura femminile era in piedi davanti a lui.
Alta e bellissima, forse una delle più belle ragazze che avesse mai visto.
“Leila” Provò a dire prima che la voce gli morisse in gola.
“Carino da parte tua ricordarti il mio nome” ironizzò lei. L’acqua sembrava non sfiorarle neanche il giacchetto di pelle nero che indossava.
I capelli castani erano legati in uno chignon e due ciocche ondulate le incorniciavano il volto. Una, il continuo della frangetta che copriva la parte destra della sua fronte, era più lunga dell’altra.
“Pensavo tu fossi..” provò a dire lui prima che Leila lo interrompesse “Morta?” le sfuggì una risata ironica.
“Sono in molti a pensarlo in effetti. Allora? Non mi aspettavo che ti prostrassi ai miei piedi come un paparino devoto e scoppiassi in lacrime, ma almeno un abbraccio alla figlia che pensavi morta?”
La mimica che utilizzò avrebbe quasi potuto rendere la situazione divertente.
Gold non proferì parola. Leila era lì davanti a lui. Pensava che da sola non sarebbe riuscita a cavarsela, quando era uscita dalla sua vita aveva appena dieci anni ed era una bambina cagionevole, che non aveva mai visto il sole ed aveva vissuto fino ad allora nei sotterranei del suo palazzo nella foresta incantata.
“Sono passati quasi quarant’anni” riuscì ad asserire lui, infrangendo l’imbarazzante silenzio creatosi.
“Trentasei. Trentasei anni. Capisco che per rivedere Bae tu abbia aspettato molto più tempo e che io non sono come lui ma se questa è la prima cosa che ti viene da dire dopo trentasei anni che non mi vedi.. be’ forse ho fatto bene ad andarmene” Si sentì una punta di amarezza nella voce della ragazza.
“Trentasei anni e sembri ancora una ragazzina” Continuò lui.
“Diciamo che ho diciotto anni da parecchi anni in effetti” si tolse il cappello a borsalino. Fu allora che Tremotino l’abbracciò. Aveva ancora quel profumo di fiori addosso, come la prima volta che la strinse tra le braccia e la vide sorridere. Il giorno in cui l’aveva strappata dal seno materno.
“Questa era l’emozione che volevo per il primo ciak” scherzò nuovamente lei, ricambiando l’affetto del padre.
“Mi sei mancata” le sussurrò piano. “Ti voglio bene”.
 
Mentre i due camminavano sotto la pioggia battente per le vie di Storybrooke, Gold non poteva pensare ad altro che al perché Leila fosse tornata così improvvisamente nella sua vita.
“Il frutto dell’amore più travagliato sarà colui che ristabilirà equilibrio. Più potente dello stesso Signore Oscuro, dopo un periodo di tempesta, egli riporterà le cose a com’erano all’origine.”
Questa era la profezia e Gold temeva che quel momento stesse per giungere. Temeva che lei sarebbe stata colei che l’avrebbe fatto tornare quello che era inorigine e lo avrebbe ridotto ad essere il vigliacco Tremotino di una volta, quello che non aveva nulla ed aveva rinunciato anche alla sua dignità per paura.. Lo avrebbe privato dei suoi poteri
“So che mi vuoi chiedere perché sono qui, non c’è bisogno che tu lo nasconda. Lo so. Io so tutto. Tutto su mia madre, su di te e su ogni singolo abitante di questa triste città. Sapevo che qualcuno di voi mi stava cercando. Sapevo che sia tu che lei mi stavate cercando e malgrado ci abbia messo un po’ di tempo per adempiere alla vostra richiesta, eccomi qui.” Gold la guardava quasi con timore “Come avrebbe fatto lei a cercarti se pensa che tu sia morta?” “Davvero non ci arrivi Gold? Non cercava propriamente sua figlia” fu questa l’affermazione che gli fece capire la vera identità della persona che aveva di fronte.
“Tu sei l’Autore? Pensavo che fosse quello che era intrappolato nel libro.” Si fermò pensando all’importanza di quel momento e a come avrebbe dovuto agire.
“Quello che hanno liberato era il mio predecessore, non io. Vi ha ingannati per ottenere la libertà. Nel libro non aveva poteri e il mondo aveva bisogno di un nuovo Autore. Ed eccomi qui. La più giovane mai esistita. Lui non lo è più, è stato dimesso dalla carica. Era indisciplinato, insubordinato, non seguiva le regole dello Stregone. I personaggi tradivano la loro stessa natura sotto il suo comando. Fu rinchiuso lì dentro per questo. Qui gli serve la penna che hai per poter scrivere di nuovo. Ma non è più dotato di poteri. Ti è sostanzialmente inutile.”
Tremotino non riprese a camminare come fece lei, ed alcuni metri di distanza li separavano ormai. La mente del Signore Oscuro cercò un modo per poter esercitare il proprio controllo sulla ragazza ma prima che riuscisse a muovere un muscolo si ritrovò ad essere scaraventato contro ad un auto posteggiata sul ciglio della strada. L’allarme assordante partì.
“Mi deludi così, Padre.” Si avvicinò a lui con fare lento. Lo prese per il collo della camicia e lo tirò in piedi.
“Mi ero sforzata così tanto per sviluppare il tuo personaggio ma vedo che durante l’anno in cui non ci sono stata, in mezzo al casino creatosi, tu sei tornato lo stesso vigliacco di un tempo. Mi dispiace per te ma per quanto potere tu possa acquisire io sarò sempre più potente di te. Ed ora sei tu ad essere in mio possesso.”
“Cosa vuoi da me? Perché ti sei mostrata proprio ora?” Chiese Tremotino ansimando.

“Per Regina” Rispose Leila.

 

Hola a todos, questa è la prima fanfiction che scrivo, sono nuova in questo sito. Fino a qualche tempo fa non sapevo neanche come inserire le “note dell’autore” quindi le sto aggiungendo ora.. Chiedo perdono se ci sono alcuni errori di battitura ma anche se rileggessi lo stesso capitolo 100 volte al momento della pubblicazione sono sicura che troverei altri millemila errori. Ci tengo a dirvi che ho pensato a lungo alla storia di questa ff e spero sul serio che vi piaccia. Farò del mio meglio per migliorare nel corso del tempo. Naturalmente mi fa piacere leggere le vostre recensioni. Per me è un buon momento per capire quali sono i punti da migliorare e quali, invece, vanno bene. Comunque sapere che qualcuno apprezza questa storia mi rende davvero felice e voglio ringraziare coloro che hanno già sprecato il proprio tempo per leggere e recensire questa ff.

Questo capitolo in teoria sarebbe un prologo perché è molto breve e mi serviva solo per introdurre il nuovo personaggio, ma sono scema e quindi l’ho pubblicato come primo capitolo lol

Questa nota sta durando più del capitolo stesso.. il bello è che non so come concluderla quindi penso che scriverò “Cià” e basta.. Cià!

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Capitolo 2
*** La Scelta ***


Capitolo 2

La Scelta

Presente

 

Regina tremava, ma la familiare umidità della cripta non era la causa dei brividi che provava.

“Robin o Emma?” quelle parole risuonavano nella stanza come un disco rotto, inarrestabili e violente.

“Robin o Emma?”

Lo sguardo del Signore Oscuro sulla donna si fece intenso, pesante.

“Robin o Emma?”

Per ogni minuto di esitazione ed ogni volta che Regina rispondeva “Emma” Gold premeva un numero sul cellulare.

“Robin o Emma?”

Mancavano solo altri tre tasti per comporre il numero di Zelena. Tre minuti, Tre risposte di Regina e lei avrebbe potuto dire addio per sempre a Robin.

“Robin o Emma?”

Lei lo amava. Lo avrebbe protetto fino alla fine, ma non a quel prezzo. Non tradendo Emma. L’ unica persona che, a parte Henry, aveva creduto in lei quando nessun altro l’aveva fatto.

“Robin o Emma?”

“Emma” Nel pronunciare quelle parole la voce di Regina si spezzò. Non voleva che lei soffrisse a causa sua e non voleva neanche perdere Robin. Un numero. Un minuto. Una risposta.

 “Robin o Emma?” ripeté Gold.

Non poteva salvare entrambi. Non poteva tradire lei. Non poteva lasciare andare lui come aveva fatto con Daniel. Avrebbe rinunciato alla sua stessa vita per salvarli ma sapeva che questo non era ciò che Zelena voleva. Il tempo stava per scadere. Cinque secondi. Avrebbe potuto lasciare che lui morisse? Avrebbe potuto affrontare quel dolore di nuovo? Quattro secondi e lui sarebbe uscito dalla sua vita per sempre. Tre e non l’avrebbe più stretto tra le sue braccia. Due e Roland non avrebbe più avuto un padre. Uno.

“Robin” esordì alla fine, lasciando che una lacrima le rigasse la guancia sinistra.

Regina non avrebbe potuto farselo scivolare via dalle dita così. Non di nuovo. Ma ad Emma voleva bene e forse un’ultima possibilità di salvarla c’era, aveva solo bisogno di più tempo e fu ciò che ottenne grazie a quella risposta.

Gold guardava la donna e ancora non si capacitava di come Leila avesse potuto indovinare ogni singola reazione che Regina avrebbe avuto. Nonostante non avesse scritto nulla di ciò che aveva detto, questo avvenne lo stesso. Non aveva né la penna né l’inchiostro eppure riuscì ad indovinare tutte le mosse di Regina. Era l’Autrice, certo, quello era il suo lavoro. Conosceva i suoi personaggi, ma com’era possibile che li conoscesse fino a quel punto?

Forse si era preoccupata molto più di Regina che di qualunque altro protagonista del libro. Forse l’aveva studiata ed osservata per più tempo e la cosa non gli sembrava poi tanto illogica.

Quando le tolse le manette si accorse che i polsi della donna erano rossi, feriti. Piccoli rivoli di sangue scesero lungo le dita fino a raggiungere le unghie perfettamente curate e smaltate di nero. Aveva cercato di toglierle, oppure aveva provato a mantenere la calma ferendosi premendo la carne contro il ferro per concentrarsi più sul dolore che non  su quello che provava.

 Ricordava ancora la discussione che aveva avuto con l’Autrice qualche ora prima, quando lei gli aveva spiegato il piano e lui le aveva chiesto se quella tortura fosse strettamente necessaria.

“Necessario? Assolutamente sì. Sicuramente non sarà divertente, ma assolutamente necessario. Vedi, facendo il mio lavoro comprendi che una cosa essenziale in ogni storia che si rispetti è la verosimiglianza. Se tu l’avessi liberata di punto in bianco Regina si sarebbe insospettita, avrebbe cercato di capire il perché. Quindi ora dovremo giocare un po’ con le parti per poi farle credere che sarà stata lei a salvare entrambi. Comunque Regina pensa che tutto questo sia vero ed anche Zelena. Vedi, caro paparino, la tizia verde è fuori dalla mia giurisdizione. Anche se avessi l’inchiostro non potrei cambiare il suo destino finché si trova fuori dalla linea di confine. Regina è un’ottima calamita per attirarla qui. Finchè penserà che lei è disposta a fare di tutto pur di salvare Robin e penserà di avere la sua lealtà, miss clorofilla sarà tentata di tornare e quando lo farà capirà qual è il prezzo del tradimento. ”

Una smorfia di disgusto si era disegnata sul viso della ragazza solitamente dominato da un’espressione ironica.

Gold avrebbe voluto sapere cosa volesse dire con -tradimento- ma non aveva il coraggio di chiederglielo, temeva di sapere troppo. Ciò che realmente lo turbava era come lei riuscisse a non mostrare alcun cedimento mentre parlava di come far soffrire Regina. Dopotutto era sicuro che l’amasse più di qualunque altro personaggio. Oppure no?

Forse quel ruolo e la solitudine, negli anni, l’aveva resa incapace di provare qualsiasi tipo di affetto, anche per lei.

La voce profonda di Regina interruppe il filo dei suoi pensieri.

“Cosa vuoi che faccia.” L’odio nei suoi occhi era evidente. La mascella era serrata e le mani chiuse in pugni.

“Ho bisogno che tu faccia lo stesso che hai fatto per loro. Devi spiarli. Voglio che tu ci riveli ogni loro mossa ed ogni loro piano. Oppure la prossima volta non avrai più la possibilità di scegliere.” Nel pronunciare queste parole Tremotino svanì in una nuvola nera lasciando la donna sola con sé stessa.

Il sudore le imperlava la fronte e le lacrime che tratteneva da quando Gold le aveva posto la prima domanda, le facevano bruciare la gola. Non riusciva più a tenere tutto dentro e per questo, non appena l’uomo se ne andò si lasciò andare ad un pianto liberatorio.

Fuori  dalla porta della Cripta, Leila ascoltava quelle grida e quei singhiozzi. Sapeva che alla fine Regina ce l’avrebbe fatta a salvare Robin, lei lo avrebbe scritto in qualche modo, eppure il dolore della donna era così forte e reale che neanche lei riuscì a rimanere impassibile.

“Avrai il tuo finale felice.” Sussurrò piano alla porta a cui era appoggiata. “Te lo prometto.”

Allora staccò le mani dal legno e drizzò la schiena incamminandosi sui suoi tacchi neri verso il sentiero che univa il cimitero e la strada che portava al centro della città.

Tremotino aspettava impazientemente l’arrivo di Leila. Aveva giurato che non avrebbe più cercato di rendere oscuro il cuore di Emma e sarebbe stato difficile svincolare dal patto, l’autrice sembrava aver stipulato un contratto senza alcuna falla.

Seduto comodamente sulla sedia a dondolo, il falso autore osservava calmamente il volto contratto del Signore Oscuro. Sperava di riuscire a sottrargli la penna prima che lui venisse a scoprire che tutto ciò che aveva detto fino a quel momento era una menzogna. L’inchiostro sarebbe stato più difficile da recuperare ma sarebbe riuscito ad ingannare la strega dei mari facendosela dare. Dopotutto era riuscito ad ingannare un’intera città sulla sua identità, una mera sirena non sarebbe stato un problema per lui. L’unico modo in cui poteva sperare di recuperare i suoi poteri era con quella penna. Solo così sarebbe di nuovo riuscito a scrivere.

“Erin” disse Gold, stringendo la penna tra il pollice e l’indice. Aveva visto Leila avvicinarsi dalla finestra.

“Come conosci il mio nome?” Chiese l’uomo, temendo il peggio. Forse Gold aveva scoperto la verità su di lui?

“Saresti sorpreso di quante cose abbia appreso su di te in questi ultimi giorni. Per esempio so che sei nato a Londra nell’epoca vittoriana, eri un povero orfanello e sei stato rapito dall’ombra di Peter Pan a dodici anni. Hai vissuto lì per qualche anno ma il tuo vero obbiettivo era la foresta incantata. Sei riuscito a fuggire dall’isola ed hai raggiunto la foresta. A trent’anni sei venuto a conoscenza del fatto che eri predestinato ed hai ucciso il tuo predecessore affinché la carica passasse a te. Hai acquisito i poteri dell’autore. Gli stessi poteri che hai perso miseramente da quando sei rimasto intrappolato nel libro.” Erin ebbe in quel momento la conferma che Gold sapeva che stava mentendo. Allora cos’aspettava ad ucciderlo?

Si alzò di scatto dalla sedia di legno tentando di fuggire ma fu allora che Gold lo immobilizzò e qualcuno aprì la porta. La ragazza sorrideva mostrando la parte superiore della dentatura.

“Temo che sarebbe poco educato da parte mia non presentarmi all’uomo a cui sto per strappare il cuore” Si avvicinò a lui sempre con fare lento. Erin non riusciva a muovere alcun muscolo, anche respirare gli risultava difficile. “Ma è stato altrettanto ineducato da parte tua ammazzare mio padre prima che lo potessi conoscere e privarmi della possibilità di avere una madre.” Avvicinò una mano al suo petto, lo trapassò, raggiungendo il cuore e lo strappò via con violenza. Lo stupore della ragazza si fece evidente. “Nero. Il  tuo non sanguina anche se sei stato un autore. È semplicemente nero..”. Gold ammirava esterrefatto quello che sembrava essere il suo di cuore. Ma anche del suo, almeno una piccola parte era rimasta intatta. Che tipo di uomo doveva essere stato per averelo ridotto in quel modo?

 Come carbone friabile, il cuore si sbriciolò tra le dita di Leila. “Così miserabile anche nella morte.”  Disse lei quando il volto dell’uomo si spense e Gold lo lasciò andare, facendo cadere il corpo sul pavimento con un tonfo sordo.

 

Trentasei anni prima

 

La bambina giocava con il piccolo cavallo di legno che il padre le aveva regalato per il compleanno. Lo faceva trottare sul pavimento producendo un rumore ritmico. Indossava un vestitino rosso. Lei odiava i vestitini ma suo padre le diceva sempre che così somigliava ad una principessa.

Una principessa. Avrebbe sempre voluto esserlo.

Sicuramente le principesse potevano vedere il sole più frequentemente di quanto potesse lei. Putroppo però era quasi sempre malata e non le era permesso di uscire. L’unico modo per sapere cosa succedeva al di fuori delle mura del castello era appoggiare un orecchio alla parete ed ascoltare i rumori che venivano dall’esterno. Nonostante la roccia che la separava dal mondo fosse spessa, riusciva comunque a percepire alcuni rumori e tra tutti quelli che aveva sentito quello che preferiva in assoluto era il rumore della pioggia che cadeva.

Quando il padre entrò nella stanza la bambina giaceva sul pavimento con le guance rosse. Il cavallo di legno stava ancora sul pavimento vicino alla manina di Leila.

Gold prese di corsa in braccio sua figlia e l’appoggiò sul letto accarezzandole la fronte. Aveva di nuovo la febbre alta. Le posò entrambe le mani sulle tempie e le sussurrò piano “Ora starai meglio”. Una flebile luce dorata scaturì dai suoi palmi e la bambina aprì gli occhi.

 

Presente

Regina era appena arrivata fuori dalla porta della sua abitazione quando Emma la trovò. L’aveva cercata per ore, temeva le fosse successo qualcosa di grave e quando la vide l’abbracciò. Non aveva mai avuto così tanta paura di perderla e la strinse a sé più forte che poté.

“Dove sei stata?” Le chiese, con un tono evidentemente preoccupato. Lasciò la presa e fece scorrere le mani sulle braccia della donna fino ad arrivare ai polsi. Quando li sfiorò Regina fece una leggera smorfia, quasi impercettibile, ma Emma aveva imparato a conoscerla. “Cosa..?” chiese di nuovo. “Niente” rispose Regina distogliendo lo sguardo e provando a liberarsi dalla presa dell’amica, però Emma fu più veloce e le alzò la manica destra della giacca. “Gold” Disse vedendo i segni sul polso. “Cosa ti ha fatto?” Ma Regina non accennava a rispondere. Non le avrebbe mai potuto dire che aveva scelto Robin, anche se quella scelta l’aveva fatta per guadagnare tempo. L’unica cosa a cui riuscisse pensare era  a con quanta leggerezza avesse preso quella decisione.

“Cosa ti ha fatto?” Ripeté nuovamente Emma, questa volta però stava urlando. Allora Regina le poggiò le mani sulle spalle “Devi andare via Emma. Il più lontano possibile da qui. Il più lontano possibile da lui. Non puoi permettere che ti cambi,  che il tuo cuore diventi oscuro solo perché lui vuole salvare il suo”

“Cosa ti ha fatto Regina?” La determinazione negli occhi di Emma si fece più intensa.  “Emma tu devi andare via da Storybrooke.” Disse di nuovo Regina. “Ti ha fatto promettere di aiutarlo, vero?” la voce della donna si fece più dolce. “E tu hai detto sì.”  Fece un passo indietro “Cosa ha detto che ti avrebbe portato via?” chiese nuovamente.

“Sembra che Marian non sia veramente Marian.. Quella che hai portato indietro era Zelena. Ora Roland e Robin sono da soli con lei e Gold ha a che fare con questa storia. Emma non avrei detto mai di sì, avevo solo bisogno di tempo, ti prego...” Ma prima che riuscisse a finire la frase Regina fu interrotta dall’amica “Prepara i bagagli, andiamo a New York.”

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Capitolo 3
*** La Bambina ***


CAPITOLO 3

La bambina

 

Presente

Erano le undici di sera quando Regina Mills ed Emma Swan uscirono dalla villa della prima, lasciando dietro di sé un Henry ignaro di quello che le due madri stessero per fare. Stavano andando incontro ad un pericolo molto più grande di quel che potessero immaginare. Affrontare Zelena senza magia era già un azzardo, ma affrontarla mentre teneva come ostaggi Robin e Roland era ancor più pericoloso perché in ballo c’erano altre due vite oltre le loro. Nonostante tutto, Regina sapeva che Emma sarebbe stata più al sicuro con lei a New York, lontana da Gold, piuttosto che in città.

Gold, era proprio lui il primo problema del quale le due si dovevano occupare. L’uomo aveva lasciato andare Regina, ma lei sapeva che se avesse commesso un passo falso lui gliel’avrebbe fatta pagare e appena scoperto che lei non era più a Storybrooke avrebbe trovato una tortura ben peggiore della precedente. Avrebbe potuto prendersela con Henry e Regina non lo avrebbe sopportato.

Le due donne si avvicinarono al maggiolino giallo della bionda e prestando attenzione a non fare rumore vi entrarono e chiusero gli sportelli.

Avevano solo due sacche con loro ma credevano che la permanenza a New York sarebbe durata molto poco.

Intanto nella casa di legno nella foresta, Leila e Tremotino contemplavano il fuoco bruciare la legna nel caminetto. Lo scoppiettio delle fiamme piaceva molto alla ragazza che sorrideva mentre lasciava che il calore le scaldasse il volto.

Il corpo di Erin giaceva ancora sul pavimento. Freddo come il ghiaccio, immobile. Morto, cibo per vermi.

Nonostante la macabra presenza di un cadavere nella stanza, né Gold né Leila ne sembravano turbati.

Gold aveva visto molte morti nella sua vita e di consequenza molti cadaveri, ma qualcosa aveva catturato la sua attenzione. Una ragazzina di appena diciotto anni aveva ucciso un uomo a sangue freddo ed aveva lasciato il suo corpo abbandonato su di uno squallido pavimento. Ma poi ricordò che lei era l’autore e non aveva solo diciotto anni e forse aveva visto molte più morti di quante lui potesse immaginare.

Aveva fatto riferimento al padre naturale poco prima di strappare il cuore dal petto dell’uomo e Gold, in quel momento, aveva intuito quale potesse essere il vero motivo per il quale lei avesse deciso di mostrarsi.

Non voleva solo dare un finale felice a Regina, ma anche vendetta. Vendetta per tutto quello che avevano patito lei e sua madre. Vendetta per la morte del padre. Vendetta perché era stata strappata via dal seno materno appena nata. Vendetta perché è rimasta sola per 36 lunghi anni. L’unico dubbio rimastogli era il perché si fosse mostrata in quel preciso momento.

“Comincerà a puzzare” disse la ragazza, interrompendo i pensieri di Tremotino.

“Cosa?” chiese lui, quasi come fosse stato appena svegliato e non avesse inteso le sue parole. Ma quelle parole le aveva intese benissimo. “Quel verme comincerà a puzzare.” Ripeté lei. La sua voce era tanto fredda quanto il fuoco era rovente. “Dobbiamo portarlo fuori. La puzza di cadavere rimane impregnata nel legno per sempre e a meno che tu non sia un feticista del delizioso profumo della decomposizione, dubito che tu voglia cambiare casa.” Si alzò dalla sedia a dondolo e si avvicinò a Gold “E comunque non credo che qualcuno in città voglia affittarti un appartamento. Non troveresti posto neanche da Granny. Dunque..” Sollevò il cadavere con uno schiocco delle dita. “Lasci che una povera fanciulla indifesa porti fuori da sola la spazzatura a quest’ora?” Odiava quell’uomo da vivo e se possibile lo odiava ancora di più da morto. Voleva sbarazzarsene una volta per tutte.

I due camminavano tra gli alberi accompagnati dal corpo esanime di Erin sospeso a mezz’aria.

Arrivati al centro della foresta, Leila lo buttò a terra e, con un semplice movimento della mano destra, lo ricoprì di terra e fango.

“Non ti ho portato qui solo per seppellirlo. Regina sta arrivando a casa tua per ricattarti. Ha preso il cuore di Belle oggi pomeriggio e vuole usarlo affinché tu non dica a Zelena che lei è diretta a New York.” Affermò la ragazza, intenta ad osservare la piccola collina di terra formatasi.

“Ma se Regina ha il cuore di Belle io avrò un valido motivo per non spifferare tutto a Zelena e lei crederà di aver salvato Robin e Roland..” disse Gold aggrappandosi al bastone per poter rimanere in equilibrio sulle gambe.

“Forse mi hai frainteso, padre. Ma vedi, io non voglio che Regina vada via da Storybrooke,  voglio che Zelena entri. Se lei uscisse dalla linea della città non potrei salvarla. Oltretutto Zelena ha anche della magia con sé, Regina non avrebbe nulla e di sicuro non il suo finale felice. Forse, se va a New York,  non avrà neanche un finale.” Sospirò lei con una punta di amarezza.

“Ora, l’unico nodo che dobbiamo sciogliere è.. come impediamo a Regina di andarsene e come attiriamo Zelena qui?” In realtà la domanda era rivolta più a sé stessa che a Gold.

La sua ossessione per Regina era quasi compulsiva. Voleva salvarla a tutti i costi. Se avesse potuto l’avrebbe tenuta in una teca di vetro, lontana dal mondo. Da quando aveva saputo la verità aveva assunto un comportamento molto protettivo nei confronti della Regina Cattiva, quasi morboso, ma quello, in fondo, era il suo modo di volerle bene e di starle vicino.

Purtroppo però ogni volta che provava a renderla felice c’era sempre qualcosa che le sfuggiva. E poi c’erano anche gli altri personaggi di cui doveva prendersi cura e molte volte la felicità dei molti non coincideva con la felicità di Regina. Lei, in quanto autore, doveva pensare a tutti ed era ciò che più la faceva stare male.

 

Due anni prima

Nell’umida stalla in cui si trovava, Regina Mills pensava ancora e ancora alla morte di Daniel. A come sua madre gli avesse strappato via il cuore dal petto, davanti ai suoi occhi, e l’avesse ridotto in polvere. Lo sguardo di lui nel vuoto. I suoi meravigliosi occhi azzurri ormai spenti .

Si accasciò sul morbido fieno che ricopriva le tavole di legno del pavimento. Per quanto amasse sua madre non era mai riuscita a capirla sul serio. Perché Cora era così crudele? Perché l’aveva privata dell’amore della sua vita? Cos’era ciò che alimentava il suo odio?

Ma, seduta su quel pavimento, ripensando a lui e a tutto ciò che lei le avesse fatto fino a quel momento, lo capì.

L’odio si alimentava da solo. L’odio può accrescere solo grazie ad altro odio. Ed era proprio quest’ultimo che produceva quell’amara esigenza di vendetta. Una necessità insinuatasi dentro di lei che la rese, da quel momento, finché non sarebbero passati 28 anni a Storybrooke, la Regina Cattiva.

O almeno, così pensavano alcuni che erano a conoscienza della sua storia personale, altri invece pensavano che fosse diventata così subito dopo aver scoperto il tradimento innocente della piccola Biancaneve.

Tuttavia, solo in tre sapevano quale fosse il vero motivo per il quale era diventata anche lei così crudele.

La morte di Daniel sarebbe bastata come spiegazione. Ma Regina era abbastanza forte, seppure la ferita non si sarebbe mai rimarginata del tutto, avrebbe imparato a convivere con il dolore.

Per anni aveva mascherato con la morte di Daniel il perché avesse quel vuoto dentro. Un vuoto destinato a non riempirsi mai, o così credeva.

L’intera foresta incantata, tranne Regina, Cora e Tremotino, era stata vittima di un incantesimo della memoria che cancellò dalla mente dei suoi abitanti sette mesi di vita, che vennero poi sostituiti da ricordi falsi.

 

Presente

Emma premeva il piede sull’accelleratore, voleva sistemare la faccenda di Gold il prima possibile. Voleva solo andare a New York e far soffrire Zelena.

“Emma..” iniziò Regina ma l’amica la interruppe subito.

“Regina, basta. Sono sicura di quel che sto facendo. Voglio venire con te. Questa situazione è colpa mia. Ho riportato io qui tua sorella ed ora lei potrebbe far del male a Robin e a Roland. Ho promesso che ti avrei aiutata a trovare il tuo finale felice, ma fin’ora ho fatto solo disastri.” Aveva lo sguardo fisso sulla strada ed il piede destro premeva sempre più forte sul pedale.

“Emma, ti volevo solo dire grazie.” Affermò Regina. Guardava le proprie dita giocare con un filo di cotone della giaccia nera.

“Grazie?” Chiese Emma, distogliendo lo sguardo dalla strada solo per un istante e notò gli occhi dell’amica andare dal piccolo filo alla strada e poi vide la sua espressione cambiare. Aprì le palpebre e socchiuse le labbra prima di gridare. Un movimento di un istante ed Emma rivolse dinuovo lo sguardo alla strada, ma era troppo tardi. Aveva sterzato senza rendersene conto e provò a svoltare premendo con violenza il freno prima di andare contro il lampione ma il maggiolino sbandò per qualche secondo prima di girarsi. Il palo colpì il fianco destro della macchina, fracassando il vetro e piegando lo sportello. L’impatto non fu così forte ma il maggiolino non era molto solido.

Emma svenne per pochi minuti e quando riaprì gli occhi si girò di scatto per guardare verso Regina ed fece un sospiro di sollievo nel vedere che era ancora sveglia e le sue ferite sembravano essere parziali e superficiali.

“Regina” sussurrò prima che una goccia di sangue le rigasse la fronte.

“Stai sanguinando” disse  Regina.

“Anche tu non hai un bell’aspetto” rispose Emma, notando il taglio sulla guancia dell’amica. Lo sportello era piegato all’indentro , aveva sicuramente colpito il braccio di Regina.

“Niente di rotto?” chiese Emma assumendo un’aria preoccupata. “Sì, la tua macchina.” Rispose l’altra. Entrambe iniziarono a ridere. Era una risata genuina, liberatoria che fu interrotta dalle parole di Emma “Visto che stai bene, direi che dovremmo uscire.” Abbassò il suo finestrino per poter protendere il braccio fuori dalla vettura ed aprirla dall’esterno visto che non riusciva ad aprirlo dalla maniglia interna.

“Tu credi? Io sto abbastanza comoda qui dentro.” Ironizzò nuovamente Regina, ma stavolta il dolore al braccio le impedì di iniziare a ridere nuovamente ed emise un piccolo gemito. Non era rotto, riusciva a muoverlo però era abbastanza sicura che l’impatto le avesse creato qualche danno.

Emma aprì lo sportello e sganciò la cintura all’altra donna. “Ce la fai a scendere?” le chiese porgendole la mano. Regina l’afferrò come per rispondere ed Emma la tirò a sé. Il braccio le faceva davvero male, ma quando uscì dall’auto e vide ciò che l’incidente aveva causato si rese conto che insieme alla macchina si era rotta anche la possibilità di andare a New York. O almeno era sicura che non potessero andare quella notte e lei non sarebbe riuscita ad aspettare ancora.

“Regina..” nonostante la chiamasse, Regina rimase immobile davanti all’auto, cercando di pensare ad un modo per poter andare da Robin. In quel momento si sentiva troppo confusa e spossata per poter trovare una soluzione. Le si formò un groppo in gola e cercò di non piangere, non era da lei, eppure l’idea di dover attendere anche solo un altro giorno la faceva stare male.

 

Due anni prima

La colpa di ciò che successe fu in qualche modo riversata sulle spalle della piccola Biancaneve dalla coscienza di una Regina ormai annebbiata dal dolore.

Se Biancaneve non avesse mai detto a Cora di lei e Daniel, Cora non avrebbe mai scoperto la loro storia d’amore e quella notte sarebbero riusciti a fuggire, probabilmente, senza l’angoscia di vederlo morire davanti a lei e il peso di dover sposare un uomo che non amava, in quel momento invece dei fili di fieno avrebbe accarezzato suo figlio e l’avrebbe accudito insieme all’uomo che amava.

Questo fu ciò che la condusse al disprezzo per quella bambina e questo fu la causa delle innumerevoli morti che Regina causò.

Un mese prima della morte di Daniel e del matrimonio con re Leopold, Regina rimase incinta, non lo scoprì fino a due mesi dopo il concepimento, ma il Signore Oscuro che già meditava su come avrebbe potuto condurre quella ragazza sulla via del male per poter lanciare l’incantesimo e riavere suo figlio. Sapeva da tempo delle sue condizioni e conosceva anche gli straordinari poteri di cui quel bambino era in possesso, e la profezia che aleggiava intorno a lui.

Neppure la morte del ragazzo sembrò poterla piegare verso la via del male, aveva un cuore forte, ma la sua più grande debolezza era sentire le cose con tutta sé stessa e il dolore che la lacerava era più forte di quello di chiunque altro. Per quanto fosse forte quella ferita aveva lasciato un segno e sarebbe bastato poco per spezzarla del tutto.

Quindi, malgrado fosse riuscita a superare un trauma che avrebbe reso altri pazzi, Tremotino sapeva che la sua anima, adesso era più corrompibile.

Decise di raccontare del bambino e della profezia a Cora. Sapeva che lei avrebbe cercato in tutti i modi di impedire che nascesse, perché non poteva permettere che suo nipote fosse figlio di un sudicio stalliere. Dopotutto voleva solo il meglio per sua figlia. Comunque non avrebbe sopportato che ci fosse un altro essere più potente di lei, già malsopportava il potere di Tremotino.

Quest’ultimo era pronto a correre il rischio che quel bambino morisse pur di riabbracciare il suo amato Baelfire.

Per qualche motivo non riusciva a vedere il futuro del nascituro, ma sapeva che sarebbe stato un essere molto più potente del signore oscuro stesso.

Si finse partecipe del piano di Cora per far sì che la morte del bambino sembrasse un incidente agli occhi di Regina, e così lui avrebbe ottenuto ciò che voleva.

La mattina in cui Regina scoprì di aspettare un bambino, non fu molto felice. Lei sapeva che il padre non poteva essere il re, non era successo nulla né prima né dopo il matrimonio e se re Leopold l’avesse scoperto..

Scelse, dunque, di chiedere aiuto a sua madre. Malgrado lei non lo sapesse ella era già passata per una situazione simile e ne pagò il prezzo, non poteva permettere che a Regina succedesse lo stesso che accadde a lei, non dopo tutta la fatica che aveva fatto per portarla al successo.

“Temo che dovrei sforzarti di compiacere il re, mia cara. A questo punto non vorremo rovinare tutto, vero?” disse Cora, con lo sguardo allusivo.

“Ma io non lo amo.” Rispose Regina.

“Oh, suvvia cara, non c’è bisogno di amare una persona per fare quello che va fatto, dopotutto è per il bene del bambino. Tu non vuoi che cresca in mezzo alla plebaglia, non è così?” Lo sguardo disgustato di Cora mentre pronunciava la parola Plebaglia fece infuriare Regina, ma non lo diede a vedere. Si limitò a rispondere con un semplice “No, madre”.

Così terminò la loro breve conversazione.

Quella notte stessa Leopold regalò a Regina il suo alibi e mentre lui russava soddisfatto, lei piangeva silenziosamente sul fianco, accarezzandosi il ventre, provando ad autoconvincersi che l’aveva fatto per il bene di suo figlio. Con le lacrime provava a cacciare via quel senso di disgusto per quello che aveva appena fatto ma la nausea ebbe il sopravvento su di lei.

Passarono poche settimane e il re fu informato che presto il regno avrebbe avuto un nuovo principe. Non successe nulla dopo quella notte, eppure una singola sera sembrò essere sufficiente al re come spiegazione.

Il piano di Cora prendeva forma, o meglio, quello di Tremotino.

In realtà lei voleva fermare la gravidanza fin da subito, fu lui a convincerla a far sì che il bambino nascesse prima di compiere il fatale gesto. Così Regina avrebbe avuto il tempo di innamorarsi di suo figlio in quei mesi e quell’amore si sarebbe trasformato in odio.

Convinsero il re a far passare a Regina i mesi restanti della gravidanza nel palazzo estivo, più tranquillo e silenzioso. Purtroppo Leopold non avrebbe potuto assistere sua moglie per via di una guerra che minacciava il suo regno. Cora e Tremotino, naturalmente, ne erano a conoscenza.

Presente

Il vento soffiava tra i rami. Leila era ancora in piedi davanti al piccolo cumulo di terra, con gli occhi chiusi. Aveva visto l’incidente, l’aveva sentito. “Adesso abbiamo almeno un paio di giorni, forse anche di più, per poter portare qui Zelena” disse aprendo leggermente le palpebre.

“Pensavo che la signorina Swan e la sua amica stessero venendo qui per ricattarmi.” Lo sguardo di Gold mostrava sia curiosità che confusione. Leila aveva detto poco prima che Regina ed Emma stavano andando da lui eppure pochi minuti dopo aveva praticamente affermato che non sarebbero più venute. L’unico problema era per quale motivo, ma Gold fu felice che almeno adesso aveva avuto una risposta.

“Stavano. Stavano venendo. Hanno avuto un incidente ed una delle due non ne è uscita esattamente incolume, anche se per ora non lo sa. Adesso abbiamo un po’ di tempo per poter portare qui la malvagia Strega dell’Ovest.” Nonostante lei fosse visibilmente stanca sia mentalmente che fisicamente, continuava a pensare al modo in cui sarebbe riuscita ad ottenere ciò che voleva. La sua ambizione era così grande e Gold l’ammirava per questo. In qualche modo poteva dirsi fiero di sua figlia.

 

Quarantasei anni prima

Sette mesi passarono in fretta in quell’ambiente pacifico  e presto arrivò il giorno del parto.

Tremotino avrebbe dovuto fare le veci del medico e quando il bambino sarebbe nato avrebbe dovuto ucciderlo silenziosamente e velocemente prima Regina riuscisse anche solo a scorgerlo. Ma a quel punto, mentre stringeva il piccolo corpicino della creatura appena nata, non riuscì a farle male. Non uscì neanche un lamento che subito l’addormentò facendola sembrare morta agli occhi della madre e di Cora.

Quella bambina era bellissima, non avrebbe neanche potuto sfiorarla, non ne sarebbe stato capace, così decise di proteggerla dalla nonna.

“È un maschio.” Disse, fingendo una faccia scura, avvolgendo il piccolo corpo inanimato con un telo bianco. Il sorriso di Regina le illuminava il volto stanco, ma la lacrima d’amore che le rigò la guancia si trasformò presto in  una lacrima di paura e poi dolore. Non sentiva suo figlio piangere, non lo vedeva muoversi e nell’istante in cui lo strinse capì che non respirava.

“Che succede?” un singhiozzo ruppe la sua voce. “Fa qualcosa” lo implorò. Bastò uno sguardo di Tremotino per spezzarla. Per risucchiare quella punta di speranza che c’era ancora in lei. Per creare quel vuoto all’origine di tutto. Il grido straziante di una madre fece eco tra i pini della foresta.

Tremotino decise che si sarebbe preso cura della bambina. L’avrebbe amata e avrebbe curato le sue ferite. Le sarebbe stato accanto quando avrebbe avuto paura. L’avrebbe fatto per lei, per sé stesso e per Regina. Perché sapeva cosa volesse dire perdere un figlio. Giurò che un giorno le avrebbe spiegato tutto e Regina avrebbe abbracciato sua figlia.

La chiamò Leilani, perché il profumo dei fiori fu la prima cosa che sentì quando la vide sorridere la prima volta.

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Capitolo 4
*** Love is weakness ***


Capitolo 4

Love is Weakness

Presente

 

I vetri erano appannati, fuori faceva freddo e la pioggia era diventata neve leggera. Regina guardava attraverso la finestra della sua villa, ripensando alla giornata appena trascorsa. Aveva paura che quel tempo perso l’avesse allontanata ancora di più da Robin. Quelle ore trascorse dall’incidente le sembravano essere durate più di quanto fossero durate le settimane senza lui.

Lo amava? Sì. Assolutamente sì.

La testa le faceva male eppure sembrava essere più leggera del solito. E la nausea, oh quella stramaledetta nausea. Forse si sentiva così per il troppo alcol ingerito in quelle ore per affogare il proprio dolore, eppure non ricordava che alcuna sbronza le avesse mai fatto quell’effetto.

 Emma si avvicinò alla donna che stava seduta a vedere la neve che cadeva piano sull’asfalto. Portava un vassoio con del té e due piccole tazzine perlacee. Lo posò piano sul comodino per non spaventare Regina.

“Regina” disse il suo nome, piano, come fosse un sussurro. La donna non accennò a girarsi.

“Possiamo riprovare stasera.” Le poggiò una mano sulla schiena, accarezzandola delicatamente. Regina sussultò. Non l’aveva vista e non l’aveva neanche sentita arrivare. Forse era troppo impegnata a pensare. Ma pensare a cosa? A Robin? No. Forse. Non ricordava. Era confusa.

Nel vedere lo sguardo perso di Regina, Emma acquisiva sempre più la consapevolezza che qualcosa non andava. La donna che conosceva era forte e non si sarebbe mai lasciata andare così. Quell’apatia non le apparteneva.

Regina sciolse le braccia che teneva strette sullo stomaco e prese la tazzina che Emma le aveva appena porto.

“Cosa?” Farfugliò piano, poco prima di rovesciare il té in terra e correre in bagno.

No, decisamente non poteva essere stato l’alcol.

Emma si appoggiò alla porta, cercando di capire se fosse il caso di entrare per aiutarla.

Però la conosceva fin troppo bene e sapeva che per lei sarebbe stato umiliante. Non avrebbe permesso a nessuno di vederla ridotta a quel modo.

Quando Regina uscì si ritrovò davanti la figura di Emma e si fermò di colpo. I loro nasi si sfiorarono.

“Tutto okay?” Chiese Emma. Che domanda stupida. No, non andava tutto bene.

Il senso di colpa si impossessò nuovamente di lei. Era colpa sua se Regina si trovava in quello stato. Colpa sua se Zelena era tornata. Colpa sua se Robin e Roland erano in pericolo. Colpa sua per l’incidente della notte prima. Dannazione, tutta quella situazione era colpa sua!

Regina la fissò per un lungo istante prima di sorridere e aggiungere: “Oh lei crede, signorina Swan?”. Quel tono e quello sguardo le ricordarono il tempo in cui si odiavano e cercavano di affossarsi a vicenda. Ma si accorse subito che quello era un sorriso ironico e sorrise anche lei.

L’accompagnò nuovamente a letto e la donna appoggiò piano la testa sul cuscino, massaggiandosi le tempie con gli indici.

“Quanto hai bevuto?”  Quelle parole uscirono dalla bocca di Emma quasi come fossero un rimprovero, ma i suoi occhi, quei meravigliosi occhi verdi, erano preoccupati. Regina aveva passato l’intera giornata a letto quasi in uno stato catatonico, il sonno che si alternava alla veglia.

“Non molto. E comunque solo ieri sera. Sono troppo stanca perfino per bere al momento.” Sentenziò Regina socchiudendo gli occhi provando a metterla a fuoco, ma la cosa sembrava più difficile del previsto.

Emma le mise una mano sulla fronte e poi sul collo per sentirne la temperatura. “Non hai la febbre.” Decise, ritraendo la mano e sorridendo appena.

“Regina, ascolta, so che stai male per quello che è successo. So che ora vorresti essere lì da lui. So che vorresti sapere se stanno bene e che ti senti impotente. Però non è questo il modo di reagire. Non è da te. La donna che conosco avrebbe insistito per andare a New York anche a piedi pur di raggiungerlo.” Le sue parole risuonarono nella stanza come fossero un rimprovero, ma c’era dolcezza e comprensione nel suo sguardo. “Ascoltami. Lui sta bene. Gold pensa che tu stia dalla sua parte ora e poi abbiamo il cuore di Belle e sappiamo entrambe che tiene più a lei che a sé stesso e preferirebbe salvare il suo di cuore rispetto a quello che gli batte in petto. Domani andremo a New York te lo prometto. Andremo da lui e sconfiggeremo Zelena. Torneremo qui tutti e quattro e tu avrai di nuovo la tua famiglia. Potrai amarlo per il resto della tua vita. Farci un figlio. Avrai finalmente il tuo finale felice.” Alla parola figlio Regina rabbrividì.

“SMETTILA!” Le urlò contro con tutta la rabbia che aveva in corpo. Un figlio. Scattò in piedi. Quella singola parola era in grado di spezzarla. Le sue mani formicolavano. Sentiva la magia scaturire da ogni fibra del suo corpo. Un figlio. La odiava per averlo detto. La odiava per credere che sarebbe andato tutto bene. Odiava Emma Swan per il suo essere così fastidiosamente ottimista riguardo al suo finale felice. E la odiava per averle riportato alla mente quei ricordi così dolorosi che aveva sepolto da tempo sotto un cumulo di rabbia e desiderio di vendetta.

Emma indietreggiò. Non capiva il perché di quello scatto di nervi. Poco dopo però Regina iniziò a barcollare. La testa iniziò a girarle vorticosamente. Doveva essersi alzata troppo in fretta. E prima di riuscire anche solo a sbattere le palpebre cadde sulla moquette.

 

 

 

 

Trentasei anni prima

 

Regina si avvicinò piano alla tomba di Daniel. Una delicata rosa gialla era riposta sopra la lapide. Il suo fiore preferito. Il fiore che lui le regalò quando le confessò il suo amore la prima volta. Qualcuno l’aveva messa lì. Qualcuno che sapeva di loro due. Regina rabbrividì al pensiero.

D’un tratto sentì dei passi avvicinarsi. Il rumore di foglie infrante. Nessun altro sapeva di quel posto né della tomba di Daniel se non..  “Madre” Disse con disprezzo.

“È passato troppo tempo” rispose Cora con gli angoli della bocca leggermente incrinati verso l’alto.

“Voi vi mostrate il giorno dell’anniversario dell’uccisione dell’uomo che amavo. Per cosa? Per girare il coltello nella piaga?” La voce le si incrinò appena e l’odio nelle sue parole era evidente.

“Per chiedere scusa.” Replicò Cora immediatamente.

“Capisco. Come avete fatto a uscire dallo specchio?” Cercava in tutti i modi di non seguire il suo istinto e rimanere razionale.

“Usando un coniglio.” Il sorriso sulle labbra di sua madre si fece più ampio, quasi maligno. “Il Paese delle Meraviglie è un posto fantastico” Continuò, avvicinandosi sempre di più alla figlia. “E ho imparato molte cose. Ora capisco perché hai voluto mandarmi via. Senza di me, sei diventata una persona indipendente e... e sono molto fiera di te” Il suo sguardo era sincero. Più sincero di quanto Regina si aspettasse. Ma di cosa era fiera? Di tutte le persone che la figlia aveva ucciso e torturato per semplice vendetta personale? Sotto tutta quella comprensione e quelle parole doveva esserci sicuramente qualcosa.

“Cosa volete, madre?”

“Aiutarti. Possiedi bellezza, forza, potere... voglio solo aiutarti a trovare l’ultimo pezzo mancante. L’amore.” La donna che le stava davanti e che aveva detto ciò la inquietava forse ancora di più della donna che in passato aveva ucciso il suo amato Daniel. Quella donna era meno subdola, sempre manipolatrice ed egoista ma meno.

“Avevo quel pezzo. Ma voi lo avete preso e gli avete strappato il cuore” Sentiva la rabbia che le offuscava la mente. Le mani e le braccia le tremavano per quanto erano tesi i muscoli.

“Lo stalliere” Sussurrò Cora, quasi delusa dal fatto che Regina ancora non avesse chiamato in causa il figlio che aveva perso.

“Daniel!”  La corresse con astio. Faticava a controllarsi. Digrignò i denti. “Il suo nome era Daniel.” Provava a tenere a freno tutto ciò che sentiva dentro. Avrebbe voluto stringere le dita intorno al suo collo e vederla mentre soffocava, così almeno avrebbe capito cosa aveva provato lei quel giorno in cui Daniel era morto.

“Sì ho fatto un errore terribile. A me stava bene un matrimonio senza amore , pensavo che sarebbe valso lo stesso per te. Ora ho capito che i tuoi sentimenti sono più profondi dei miei.”  Regina spostò lo sguardo verso il terreno sotto i suoi piedi “No, è vero.” Continuò Cora. “Tu meriti più di quello che io ho avuto.”

“Un po’ tardi, no?” L’ironia nella sua voce mascherava quella confusione che albergava in lei.

“No, sappiamo entrambe che non è così. Ho incontrato una certa fata senz’ali. Che mi ha parlato di un vano tentativo di farti conoscere la tua anima gemella.”

“Avete conosciuto Trilli.” Dedusse Regina, quasi scocciata dal fatto che quell’insulsa fata gliene avesse parlato

“Esatto. Lei mi ha detto, Regina, che là fuori c’è qualcuno per te. Qualcuno con cui sei destinata a stare. E io sono qui per trovarlo.”

“Non ci crederò finché non lo vedrò.”

 

Presente

Emma, Uncino, Henry, Biancaneve e James aspettavano in sala d’attesa qualche notizia di Regina. Emma l’aveva portata in ospedale dopo lo svenimento. Il dottor Whale entrò in quel momento con la cartella di Regina stretta in mano.

“Victor” Emma era terrorizzata, si staccò da Uncino e si avvicinò a lui velocemente lo fissava bianca in volto.

“Cos’ha?” Chiese. Non riuscì a dire altro. Sentiva che se avesse detto qualcos’altro sarebbe scoppiata a piangere e doveva essere forte per Henry. Doveva proteggerlo.

Henry stava seduto sulla sedia. Non accennava ad alzare lo sguardo. I nonni provavano a parlargli ma lui non voleva aprire bocca. Non aveva pianto nè parlato da quando gli era stato detto che una delle sue madri era in ospedale.

“Signorina Swan, lei mi ha detto che ieri sera siete state vittime di un incidente autostradale.”

“Sì” rispose subito Emma. Aveva fretta di sapere cos’avesse avuto Regina.

 Il Dottor Whale alzò il primo foglio della cartellina per leggere qualcosa ed essere sicuro della domanda che stava per fare.

“Ha bevuto alcol poco dopo l’incidente?” Chiese lui. “Io..” Emma si sentì crollare la terra sotto i piedi. “Deve essere sincera con me signorina Swan. La paziente ha ingerito alcol dopo l’incidente?” Chiese di nuovo. “Sì.” Lei tremava. “Lo sospettavo. Deve aver bevuto più di cinque ore fa perché nelle analisi del sangue non c’è traccia di alcol.” Emma continuava a non capire quale fosse il problema e il perché Whale ci stesse mettendo così tanto ad esporre la sua diagnosi.

Il dottore si tolse gli occhiali e guardò Henry preoccupato, poi lei.

“Non c’è traccia di alcol nel sangue ma si intuiscono i suoi effetti. La paziente ha subito un lieve trauma cranico che sarebbe guarito da solo nel giro di qualche giorno. Il problema è che l’alcol è un vasodilatatore. Questo ha comportato una formazione di un ematoma subdurale molto esteso, ovvero una raccolta di sangue tra la dura madre e l’aracnoide dovuta alla rottura di vene a ponte, e deve essere drenato chirurgicamente. Ci serve l’autorizzazione di un parente per poter procedere immediatamente.” Guardò nuovamente Henry che ora aveva alzato gli occhi per fissarlo.

“Il problema è che l’unico parente legale di Regina Mills è minorenne. Legalmente la responsabilità è solo mia ma moralmente mi sento comunque in dovere di chiedere ad Henry quello che lui riterrebbe giusto fare. So che è solo un ragazzo ma è pur sempre il figlio.” Henry però non rispose a quella richiesta. Rimase immobile per qualche minuto.

“La legge mi impone di mettervi al corrente dei rischi.Se la paziente uscirà viva da quella sala operatoria dopo l’intervento l’aspetta una lunga riabilitazione e possono presentarsi anche una serie di complicazioni come: la perdita di memoria, vertigini, cefalea, difficoltà di concentrazione, difficoltà nel parlare e l’ernia del cervello. Comunque le probabilità che ce la faccia non sono molto alte.” Dopo un attimo di pausa aggiunse “Faccio preparare la sala operatoria” Quando varcò la porta Henry lo seguì di corsa.

Il ragazzo lo prese per il camice bianco. “Faccia uscire mia madre viva da lì. La prego.” I suoi occhi erano lucidi e la voce gli tremava. “La prego.” Ripetè. Ormai le lacrime gli avevano rigato le guance.

Te lo prometto Henry.

 

Trentasei anni prima

 

Henry le stava spazzolando i capelli mentre Regina si stava mettendo gli orecchini quando il padre si girò per scoprire chi fosse la causa di quel rumore di tacchi.

“Cora.. pensavo..” Ma prima che lui potesse finire venne interrotto dalla moglie. “Sì, ciao, vattene Henry.”  Concluse lei velocemente avvicinandosi alla figlia.

“Perché sei qui?” Disse Regina riponendo la spazzola sul comodino.

“Ho buone notizie. Ho trovato il tuo uomo” Rispose Cora sempre con quell’odioso sorriso dipinto sulla faccia.

“L’avete trovato?” Le chiese incredula Regina.

“Sta arrivando.” Accompagnò queste parole con una leggera risata soddisfatta. “Sta arrivando?” Non poteva crederci. Sua madre l’aveva aiutata veramente a trovarlo. Forse era cambiata sul serio?

“Madre!” non sapeva cos’altro dire. Era sotto shock. “Vieni. “ La condusse davanti allo specchio e le cambiò l’abito con un veloce movimento della mano. Un meraviglioso vestito argenteo con parti di stoffa bianca e ricamata apparì al posto del nero e lugubre vestito che portava poco prima.

Una collana di perle le cingeva il collo e i capelli legati in una coda regale le ricadevano sulla spalla destra. “Ve ne siete ricordata. Amo questo colore” Disse commossa, ammirando quello che la madre aveva fatto per lei. “Non posso credere che abbiate fatto tutto questo.”

“Te l’avevo detto che ho imparato.” Le prese le mani e le strinse piano nelle sue.

“Grazie per il vestito.” Forse era arrivato il momento di perdonarla.

“Di niente, tesoro” le accarezzò la guancia. “Ora voltati e conoscilo.”

Un uomo di bell’aspetto le si avvicinò, con le braccia allargate. Regina notò subito lo stemma con il leone sul braccio.

“Vostra Maestà” L’uomo pronunciò queste parole con una voce calda e sicura di sé. Prese la sua mano e la baciò con un piccolo inchino.

“Credo che vi lascerò un po’ da soli. Godetevi la serata insieme.” Così dicendo Cora lasciò la stanza e i due si ritrovarono da soli a guardarsi negli occhi.

Andarono in cortile. Regina decise di fargli vedere l’albero delle mele a cui era tanto affezionata.

“Sapete che quest’albero di mele si trovava dove sono cresciuta?” Lo guardava con fierezza e nostalgia.

“Un tempo mi piaceva uno stalliere... e ci incontravamo sempre sotto quest’albero.”

“Uno stalliere?” a quella notizia l’uomo rise di gusto. “Be’, ora frequentate persone di alto rango, non più infimi stallieri, direi.”

“Dite davvero? A me invece sembra di cadere sempre più in basso.” Queste parole erano piene di angoscia e nostalgia per quei tempi che ormai erano andati.

“Avete solo bisogno di braccia vigorose che vi risollevino” L’uomo allargò nuovamente le braccia, andando a cercare con le mani la vita di Regina per cingerla. “Lasciate che sia io quello forte. Così che voi possiate essere debole quando vorrete.”

“Debole” Quella parola la fece rabbrividire.

“Be’... femminile.”

“Braccia vigorose” Disse Regina attirandolo ancora di più a sé in modo da far toccare i bacini di entrambi. “Come queste.” Gli accarezzò gli avambracci e le mani che ormai avevano risalito i fianchi fino ad arrivare ai lati del seno. “Oh ciao” Sussurrò lui guardandole il seno con avidità. Avvicinò la sua bocca a quella di lei ma poco prima che le loro labbra si sfiorassero gli prese la mano e gli girò il polso. Il tatuaggio inizio a brillare. Un dolore accecante lo pervase. “Santo cielo! Cosa state facendo” Ansimava. Da quel tatuaggio uscì un leone dorato.

“Non è un vero tatuaggio. Questa è magia. Chi ce l’ha messo lì?”

“Smettetela” Il polso gli bruciava ed ogni passo del leone sulla sua pelle era accompagnato da un dolore lancinante.

“È stata mia madre?” La rabbia. Ancora quella familiare sensazione di calore e tremore che le riscaldava il petto e le dava più forza. Il leone iniziò a risalire verso la spalla.

“Sì! Mi ha detto di fingere di essere la vostra anima gemella. Così avrei potuto essere Re. Toglietemelo di dosso!” La implorò invano. Lei non sembrava voler cedere alle sue suppliche.

“Cosa ci avrebbe guadagnato?” Domandò Regina con fare minaccioso e violento.

“Fermatelo!” La pregò di nuovo, il dolore era lancinante.

“COSA CI AVREBBE GUADAGNATO?” Urlò ancora più forte dando sfogo alla rabbia che provava.

“Voleva che aveste un bambino.” Fece scomparire il leone che ormai aveva raggiunto il collo.

“Cosa?” A quella parola si spezzò. Un bambino? Dopo tutto quello che era successo voleva che rimanesse incinta? Sapeva che lei ne avrebbe sofferto se avesse scoperto di aspettare di nuovo un bambino e nonostante questo era disposta sacrificare la felicità della figlia per il suo tornaconto personale?

“Ha detto che voleva che aveste un bambino. E non so il perché.” Ma lei lo sapeva. O almeno credeva di saperlo.

 

Presente

 

Gold si avvicinò alla ragazza. Erano ore ormai che stava seduta con il volto pallido osservando il vuoto. Le mise una coperta sulle spalle e le si sedette vicino. Gli aveva detto dell’incidente e che al momento stavano operando Regina.

“Leila, ne uscirà viva e più forte di prima. Come sempre d’altronde.” Cercò di consolarla ma anche lui credeva ben poco alle sue parole.

“Odio  non riuscire a vedere quello che succederà” Disse lei. Le prime parole che aveva pronunciato dopo ore di silenzio.

“Da quando tu sei tornata neanche io riesco a usare quel potere e devo ammettere che è abbastanza fastidioso, hai ragione” Le appoggiò le mani sulle spalle e gliele strinse appena. “Io almeno so perché non riesco a vedere il  futuro.”

“Anche io lo so perché non ci riesco. Ma comunque sia non voglio dirlo a te. Non è ancora arrivato il momento” Si dimenò dalla presa del padre. Tutti quei misteri non erano per lui era abituato a sapere tutto delle persone. Comunque sia voleva distrarla dal pensiero di Regina in sala operatoria.

“Allora come portiamo Zelena qui?” Cambiò argomento sperando di rivedere quella luce di cinismo nei suoi occhi. “Apprezzo il tuo tentativo di distrarmi da quello che sta succedendo, Padre. Ma non ce la faccio a parlare di Zelena al momento. E comunque se mia madre non ce la dovesse fare.. tutto quello che direi su come portarla qui sarebbe inutile. Senza offesa ma se non fosse per la felicità di Regina mi importerebbe ben poco di Robin Hood.” Sentenziò lei. C’era rassegnazione nella sua voce, Gold riusciva ad intuirla.

“Penso che ti farebbe bene pensare ad altro.” Si sedette vicino a lei cercando di essere un buon padre, cosa che non aveva fatto per anni. Era la stessa cosa che aveva provato a fare con Baelfire, ma aveva fallito. Non intendeva fallire di nuovo.

“D’accordo. Entrambi sappiamo che Zelena vuole l’infelicità di Regina.” Guardò Gold come per cercare la sua approvazione. “Ma c’è qualcosa che Zelena vuole ancora di più.” Leila fece una pausa molto lunga.

“Ovvero?” Chiese Gold.

“Me.”

Trentasei anni prima

Regina stava mescolando piano la pozione all’interno del bicchiere.

“Dunque, com’è andata?” Chiese curiosa Cora. “Non è più qui, vero?” Le sue domande da sciocca ragazzina stavano turbando la donna seduta al tavolo.

“Oh invece sì.” Rispose Regina facendo apparire un’immagine sullo specchio accanto. Quest’immagine ritraeva lo sceriffo di Nottingham appeso a testa in giù sopra al fuoco vivo. “Voleva vedere i sotterranei.”

“Oh per l’amor di Dio, stai facendo una scenata.” Schioccò le dita e fece scomparire l’uomo dalle segrete “Ecco, è a casa ora poverino.”

“Perché l’avete lasciato andare? Non volete qualcun altro che soffra per quel che avete fatto come al solito?” Ironica e sprezzante rivolse il suo sguardo prima alla madre e poi di nuovo alla pozione.

“Non capisco. Pensavo andaste d’accordo.”

“Be’ non ho conosciuto molto l’amore nella mia vita. Ma adesso lo so. Questo non è un Anima Gemella.” Guardava la madre dritta negli occhi, come sfidandola silenziosamente.

“La tua così detta Anima Gemella è un poveraccio sposato e moralista. Quello che ho trovato è molto meglio.” Concluse Cora, cercando di mascherare il suo disgusto per Robin Hood.

“Non vi è mai importato della mia felicità.”

“Non sarai mai felice. Non sai come fare. Ma comprendi il potere. E stai per perderlo. Il tuo popolo vuole Biancaneve come regina. E se non inizi a crearti una discendenza si riprenderà il regno e tu perderai tutto.” Stavolta non voleva ingannarla. Non era mai stata più sincera. Voleva davvero che la figlia rimanesse sul trono e voleva che avesse un figlio. Ma ciò che non le disse era che voleva che avesse un figlio perché si sentiva tremendamente in colpa per ciò che aveva fatto. Aveva fatto uccidere un bambino innocente. Suo nipote. Non riusciva più a vivere in pace con sé stessa dal quel giorno e pensava che un bambino potesse mettere a posto le cose.

“E quando morirò di una malattia misteriosa voi sarete il potere che starà dietro al bambino sul trono, giusto?” Regina alzò il calice di vetro “Indovinate un po’ madre. Ho trovato uno stratagemma per evitare tutto questo.”

“Cos’è quello?” Cora era spaventata. Sapeva che la figlia era capace di qualunque cosa pur di fargliela pagare.

“Una pozione. Per elimare la vostra futura pretesa della stirpe regale.” La voce di Regina era piatta e non accennò ad incrinarsi.

“Ma tu non sei incinta.” O almeno sperava che Regina non lo fosse. Di chi avrebbe potuto esserlo?

“E ora non lo sarò mai più. Non sarò una macchina sforna-bambini per voi,  madre.” Con quella frase tentò di rinfacciarle tutto ciò che le aveva fatto penare fino a quel momento

“Non lo faresti mai, è una farsa” rise ma non credeva veramente alle sue parole.

“Davvero? Avete detto chiaramente che nessuno mi amerà mai. Allora perché non rendere la cosa ufficiale? Tutto sommato L’Amore è Debolezza.” Sussurrò queste ultime parole con rabbia e tutta la cattiveria che aveva in corpo.

Cora tentò di salvare la situazione avvicinando piano la mano alla sua per farle mettere via quel calice. “Mi sbagliavo riguardo a questo. Quell’uomo, pensavo sul serio che fosse un buon partito per te. Mi dispiace molto. Ora, sappiamo entrambe che non la berrai, quindi mettila giù e sistemiamo le cose.”

Regina la guardò. Ormai aveva la mente annebbiata da tutte quelle emozioni. Odio. Rancore. Vendetta.“Voi pensate che io non sia forte abbastanza per farlo?” Gli occhi spalancati quasi da maniaco.

“Stupida ragazzina. Pensi che far del male a te stessa ti renda più forte?” No, non era quello il modo per evitare che bevesse. Forse poteva toglierglielo di mano prima che lei potesse avvicinarlo alle labbra.

“Oh sì se fa più male a voi.” Subito dopo Regina bevve. Il movimento fu così rapido che Cora non riuscì ad impedirlo. Un dolore lancinante le attraversò la pancia. Quasi come se fosse stata ferita da un coltello. Un dolore che la faceva respirare a fatica. Aveva già sentito quella sensazione. Somigliavano alle doglie di quando aveva partorito e la fatica nel respirare le ricordò di quando aveva stretto tra le braccia il suo bambino ormai esanime. Ciò non fece altro che incrementare il dolore della donna che fu costretta a sedersi e stringeva le mani intorno all’ombelico nel vano tentativo di farlo smettere.

 “No! No!” Urlo Cora. Ma ormai il danno era fatto. Regina non avrebbe mai più avuto figli. Non avrebbe avuto un bambino sul quale riversare tutto il suo amore. Perché lei lo sapeva. Regina, nonostante non sapesse cosa fosse l’amore era in grado di amare. E amava. Lei amava più intensamente di chiunque altro.

“SPARISCI DALLA MIA VITA.” Rantolò ancora in preda alle fitte.

“Oh Regina. Sono venuta qui davvero con le migliori intenzioni. Ti voglio bene. Volevo che avessi un figlio per il tuo bene.  Tu non nomini mai il bambino che hai perso ma la tua sofferenza è palpabile. Volevo solo che tu trovassi qualcuno da poter amare intensamente. Se avessi voluto rubarti il potere.. Avrei trovato un modo più diretto. Ora accetta un ultimo consiglio materno. Spero che comprenderai cosa mi ci è voluta una vita per capire riguardo me stessa.

L’unica persona che ostacola la tua felicità... sei tu.”

“Tornatevene nel paese delle meraviglie Madre. Io non ho bisogno di voi.”

 

Presente

 

Il sogno che Regina fece era molto vivido, talmente tanto vivido che a lei sembrò reale. Si trovava nella foresta incantata. Indossava di nuovo le vesti della Regina Cattiva. Quell’abito nero attillato le metteva in risalto le curve e i capelli erano legati in un complicatissimo chignon.

“Vostra maestà, vostro marito la attende nella sala dei ricevimenti.” Alle sue spalle si presentò una guardia dall’aspetto molto giovane. Era un ragazzino di appena sedici anni con indosso la divisa da soldato. Sotto braccio portava l’elmetto nero.

“Henry!” Esclamò lei sorridendo e correndo verso il figlio. Il ragazzo però si ritrasse e lei si rimise dritta. “Henry?” abbassò le braccia che aveva teso qualche attimo prima.

“Vi sentite bene vostra altezza?” Chiese preoccupato il ragazzo.

“Henry, sono io!” Perché la stava trattando a quel modo? Perché si rivolgeva a lei così?

“Sì vostra maestà, lo so. Ma perché continuate a chiamarmi come vostro padre? Vuole che dica a suo marito che al momento non si sente molto bene?” Chiese nuovamente.

“Mio marito? Leopold?” Domandò lei, ancora più confusa di prima.

“Sì vostra altezza. Vuole ricevervi per parlare con voi del fatto che vostra sorella e il promesso sposo Robin di Locksley celebreranno il loro matrimonio nelle terre reali tra qualche giorno.” Confermò lui.

“Leopold è ancora vivo” Sussurrò lei. Cercò una sedia per sedersi. “Zelena e Robin hai detto?” Il giovane annuì. Regina aveva il volto cinereo, sembrava sul punto di vomitare. “Capisco la vostra reazione, so che Sir Robin di Locksley non le è mai piaciuto e ogni volta che lo incontrate finisce sempre male. Ma vostra sorella lo ama e aspetta anche un figlio da lui.” Quelle parole le congelarono il sangue. Si sentí mancare l’aria.

“Non può essere reale.” Continuava a ripeterlo a sé stessa. Ma ogni secondo che passava lei assumeva sempre più la consapevolezza che tutto quello lo fosse.

“Soldato Baelfire James Cassidy. Il suo evidente affetto per la Regina è preoccupante.” La voce apparteneva ad un ragazzo e sembrava essere anche abbastanza ironica.

“Daniel!” Esclamò Henry, o almeno quello che Regina ricordava essere Henry. Un sorriso gli si dipinse sul volto. Mentre i due si stringevano la mano il ragazzo di nome Daniel lo corresse “Principe Daniel.” Entrambi riserò. Regina si girò piano per poterlo vedere meglio. Era un ragazzo dal bell’aspetto, portava anche lui una divisa da soldato ma era diversa da quella di Henry. Era una divisa da guardia reale. Ed era sporca, sudicia. Doveva combattere nell’esercito. Aveva i capelli neri come la pece e dei bellissimi occhi azzurri. Occhi che assomigliavano incredibilmente a quelli del suo Daniel. Non avrebbe mai potuto dimenticare occhi così.

“Madre!” Esclamò poco dopo aver stretto la mano di Henry. La abbracciò prima che lei potesse rispondere.

Non capiva nulla. Chi era quel ragazzo? Lo strinse a sé d’istinto. Odorava di sudore e sangue, ma non le importava. Era forse suo figlio?

“Madre, mi siete mancata.” Le sussurrò all’orecchio. “Anche tu..” fece una breve pausa prima di aggiungere “Figlio mio.” Doveva essere suo figlio.

“I Troll sono stati sconfitti. Le terre dell’est ora appartengono di nuovo al regno.” Le disse soddisfatto.

“Deve essere stato bello! Avrei voluto combattere anch’io” esclamò Henry evidentemente insoddisfatto della sua attuale carica di soldato di palazzo.

Daniel allora gli mise un braccio intorno al collo. “Tra un paio d’anni, quando avrai l’età giusta. Vero madre?”

Regina non sapeva come reagire.. Dire che era confusa era ben poco. Aveva davanti a sé suo figlio che non ricordava di essere suo figlio e aveva un altro nome, e dall’ altra aveva un figlio che lei non ricordava avesse superato il minuto di vita. Realizzò solo in quel momento che il bambino che aveva perso anni prima era davanti a lei. Così bello e coraggioso. Suo figlio. I suoi figli. Insieme.

Non riuscì a trattenere le lacrime e Daniel la abbracciò di nuovo. Lasciò andar via tutto quel senso di colpa, quella rabbia, quel rancore, il risentimento e l’angoscia che l’avevano accompagnata per anni.

Non le importava se fosse reale oppure no. Decise di abbandonarsi tra quelle braccia e di essere vulnerabile, debole. Almeno per lui.

 

Note dell’autrice:  Finalmente sono riuscita a finire il capitolo YEEE *balla la conga*. Vi chiedo immensamente scusssa per tutto il tempo che ci ho messo per pubblicarlo ma tra scuola e per il fatto che la puntata “Mother” è uscita poco dopo che avevo finito di scrivere il capitolo 4 (Dove avevo inserito il fatto che Regina era sterile), mi ci è voluto un po' di tempo per riscriverlo. È stata una pura coincidenza che sia nella serie tv che nella fanfiction Regina non potesse più avere figli e così ho deciso di sostituire tutta la parte che avevo inventato io e di metterci quella della serie tv, cancellando così praticamente metà della storia e riscrivendola perché sono tipo malata (?) E vabbuò, spero che questo capitolo vi sia piaciuto, e scusatemi se ad un certo punto sembra tipo Grey’s Anatomy ma ho una fissazione anche per quella serie tv e da poco mi sono messa a rivederla.

Lasciate una recensione se volete. Leggere i vostri pareri mi fa sempre piacere.

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Capitolo 5
*** Innocenza Perduta ***


CAPITOLO 5

Innocenza Perduta.

 

Presente

 

“Tempo fa mi parlasti di tradimento. Ne deduco che tu conoscessi Zelena già da molto tempo. Da prima che lei mi tenesse prigioniero. Lei sa chi sei.” Le parole di Gold risuonarono nella stanza. La ragazza era ancora seduta sulla sedia a dondolo. Osservava ormai la cenere del legno che il fuoco aveva consumato.

“Deduci bene, Padre.” Chiuse gli occhi e tese la testa all’indietro, rilassando i tendini del collo. Le sue narici si allargarono inalando quanta più aria i suoi polmoni riuscissero a contenere. Poco dopo drizzò la testa e gettò fuori un soffio di aria calda. Aprì gli occhi e di quell’azzurro, quasi argento, che li caratterizzava e li rendeva tanto glaciali non vi era nemmeno traccia. Un giallo più intenso di quanto non fosse un dente di leone ne aveva preso il posto, colorando l’iride. La sclera era nera e delle piccole venature rosse si intersecavano nella pupilla. Si girò piano verso l’uomo, senza sbattere le palpebre, e questi, alla vista di quegli occhi cadde in sorta di trance.

“È ora che tu veda” Disse Leila, con una voce scura e roca che non le apparteneva. Gli poggiò una mano sulla testa. Gold sentì un freddo innaturale che partiva dal punto in cui lei l’aveva toccato. Eppure le sue mani erano calde. Era come se gli avessero gettato addosso un secchio d’acqua ghiacciata. Non riusciva a muoversi da quando aveva visto quegli occhi. Il freddo si allargava da quel punto in modo sferico, come un onda, percorrendo il suo cranio fino ad arrivare al collo. Prima che Gold se ne rendesse conto aveva raggiunto anche la punta delle dita dei piedi. Con il freddo un’immagine vivida e chiara gli si allargò nella mente. Il gelo sembrava affievolirsi e una sensazione di tepore gli scaldò il volto. Non aveva il controllo sul suo corpo, se ne rese immediatamente conto. Vedeva solo un caminetto familiare davanti a sé, ma anche se desiderava vedere l’intera stanza per essere sicuro di dove si trovasse non riusciva a muovere i propri occhi distogliendo lo sguardo dallo scoppiettio delle fiamme. Osservava in silenzio. Sembrò andare avanti così per ore. Poi lentamente lo sguardo si abbassò e lui vide due piccole manine da bambina che tenevano un cavalluccio di legno intagliato in modo elegante. Quelle mani non erano sue, però appartenevano al corpo in cui lui stava. Indossava un bel vestitino rosso con dei ricami di pizzo bianchi. Lui lo riconobbe immediatamente. Era il vestitino rosso che aveva dato in dono a sua figlia quando questa compì dieci anni. Quando se ne andò via lo lasciò sul pavimento di pietra della sua stanza e lui lo tenne con sé per decenni. Conservandolo intatto con la magia. Quello stesso vestito rosso lo teneva chiuso nella cassaforte del suo negozio ed ogni sera l’apriva e  ne accarezzava la stoffa, ricordando la figlia che pensava di aver perso.

Fece alcuni passi verso il letto quando vide la stanza vorticargli intorno. Cadde silenziosamente e poi buio.

Quel momento di oscurità gli sembrò durare quanto un leggero battito di ciclia, ma era sicuro che non fosse durato così poco. Ricordava bene quando Leila sveniva per via della febbre troppo alta. Quando perdeva i sensi passavano ore prima che si risvegliasse e lui passava quelle ore sul capezzale del suo letto. E lì si vide. Seduto di fronte a lui c’era la sua stessa immagine. Ma era l’immagine del vecchio Tremotino. La pelle dorata e gli occhi dello stesso colore della pelle. I denti putridi  e i capelli unti. Doveva essere un’immagine inquietante per una bambina. Eppure lei non sembrava averne mai avuto paura. Magari perché vi era stata abituata fin dalla nascita a vedere quel mostro.

“Papà..” La voce che sussurrò quella parola era così dolce ed innocente. Gold ne ebbe nostalgia. In quel momento avrebbe voluto avere indietro la sua bambina.

“Sono qui. Papà è qui. Va tutto bene adesso.” Tremotino le accarezzò la fronte tirandole indietro i capelli.

“Papà oggi dovevamo vedere il sole.” La voce della bambina non era più un sussurro. Ma più chiara e limpida, piena di speranza.

“Piccola mia, non stai bene. Non sarebbe saggio uscire in queste condizioni.” Gold ricordava il momento in cui disse quelle parole. Il momento in cui le rinnegò per l’ennesima volta il sole. L’unica cosa che la bambina avesse mai desiderato. L’unica cosa che lui non le aveva mai dato. Il sole.

“Me l’avevi promesso.” La speranza aveva lasciato il posto alla tristezza e Gold aveva sentito un groppo salirgli in gola e le lacrime rigargli le guance. Sentiva che Leila provava a trattenersi ma non ci riuscì. Le lacrime uscirono copiose.

In quell’istante Gold capì dove lei l’aveva portato.

Era il giorno in cui lei era andata via. Il giorno in cui aveva lasciato il vestito rosso per terra. Il 2 Ottobre di

Trentasei anni prima.

 

Quando Tremotinò uscì dalla stanza, gli oggetti, i loro colori e tutto ciò di cui la bambina era circondata iniziò a confondersi, intersecarsi fino a che tutto intorno non rimase che una patina semi-gelatinosa di varie tonalità che piano piano iniziò a sbiadirsi, finché divenne bianca.

Poi quel bianco iniziò a diventare brillante, lucente, rimpicciolendosi e riducendosi in un piccolo disco circondato dall’azzurro del cielo. I piedi nudi della ragazzina accarezzavano l’erba e il vento fresco le scompigliava i capelli.

Leila era in piedi, nella foresta, lontana solo qualche metro dal castello di Tremotino. Indossava uno straccio bianco come maglietta e dei pantaloni di un marrone scuro. Li aveva fatti lei stessa. Detestava i vestitini ma non aveva il coraggio di dirlo al padre. O almeno Gold intuì che se li fosse cuciti da sola. Non erano di certo suoi, erano troppo piccoli, fatti su misura per lei.

La bambina si sdraiò, annusando il profumo pungente del terriccio e dell’erba, godendosi il calore del sole sul viso.

Passò un ora, poi due. Poi Gold perse il conto, perché per quanto fosse concentrato a capire il perché Leila lo avesse portato così indietro, steso su quell’erba finì per rilassarsi. Forse era quello che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio. Rilassarsi ed osservare. Magari la soluzione era più ovvia di quanto lui non pensasse.

La ragazzina si alzò e si avviò verso il castello, calpestando le foglie secche che si erano posate sul pavimento. Aveva iniziato a fare buio e con la notte arrivava anche il freddo. Ormai non era più estate, anche se faceva insolitamente caldo per quel periodo.

Qualcosa però non tornava. Lei stava andando verso il castello, non stava scappando. Eppure lui ricordava che quel giorno non l’aveva ritrovata nelle sue stanze.

D’un tratto la bambina si fermò. In lontananza si sentivano delle voci. Degli uomini ridevano in modo sguaiato e cantavano ad alta voce. Probabilmente ubriachi.

Leila girava la testa tendendo le orecchie, cercando di capire da dove venissero. Destra? No, no. Era da Sinistra. O forse dietro? Sì, dietro.

Si voltò di scatto e li vide. Quattro uomini. Uno era grasso e tozzo. Un altro era alto, magrolino e con la barba incolta e unticcia, con gli occhi piccoli e il naso adunco. Il terzo al contrario, sembrava una montagna, ma aveva lo sguardo perso, da tonto e si trascinava appresso le braccia che erano spropositatamente lunghe. L’ultimo, forse il più inquietante dei quattro era un ragazzo abbastanza giovane. Era di statura media e aveva il torace villoso che si intravedeva nella camicia sudicia che portava. I pantaloni erano strappati e lasciavano intravedere le ginocchia. Sarebbe stato di bell’aspetto se solo si fosse curato. I capelli erano lunghi e gli coprivano gli occhi e ricadevano sulle spalle. I denti giallognoli, alcuni neri. E il viso era coperto di terra e fango.

“Guarda guarda.” Fece il più basso dei tre. “Sembra che il buon Dio sia dalla nostra parte, vero signori?” A queste parole seguì una risata strozzata.

Leila indietreggiò e scattò all’indietro per fuggire ma appena si girò sbatté contro un altro uomo. Alto. Forse più di quello che somigliava ad una montagna.

Le prese i polsi e la sollevò per le braccia. Gold sentì un dolore acuto sotto le ascelle quando l’uomo strattonò la bambina sollevandola da terra e la gettò ai suoi quattro amici. Il Secco si avvicinò a lei, scoprendo la dentatura aguzza. Molti piccoli solchi gli si formarono sulle guance scarne. La tirò a sé per i piedi.

“Tranquilla ragazzina, non ti faremo niente.” Disse ansimando mentre la trascinava dal Tozzo. Fu lui che le poggiò un piede sul volto per girarglielo e vederne il profilo.

“Cosa ne facciamo di questa graziosa fanciulla, Jon?” Chiese il Tozzo.

“Sì Jon, cosa ne facciamo?” Ripeté a pappagallo il Secco.

Gold sentiva il cuore della bambina battergli all’impazzata in petto. E il fiato era corto. Cercava di dimenarsi ma la Montagna più grossa le schiacciava entrambe le braccia con le ginocchia. Impedendole di muoverle. E quando aveva provato a scalciare le avevano dato un colpo sulla tibia della gamba destra con un ramo.

“Credo che oggi tocchi ad Al il primo assaggio, amici.” Quello che aveva parlato era l’uomo dai lunghi capelli. Lui doveva essere Jon. Volse il capo verso la Montagna più piccola e gli rivolse un sorriso marcio.

“Ma quando toccherà a me Jon? Sono già quattro volte che ne troviamo una questa settimana e io sono sempre stato l’ultimo.” Quando il Tozzo si lamentò Jon gli assestò uno schiaffo sulla guancia, che divenne più rosea di quanto non fosse già per via del vino.

“Cosa cazzo fai Jon? C’hai scartavetrato le palle, lo sai? Ti senti il capo ma tu non sei un cazzo di nessuno in questo gruppo.” A queste parole l’uomo dai capelli lunghi estrasse un coltello e gli piantò l’intera lama nel braccio. Jon girò il coltello e poi lo estrasse, facendo urlare l’uomo. Il sangue schizzò sul volto della bambina. Era veloce. Molto veloce. Forse il più pericoloso dei Cinque.

“Se ti rivolgi di nuovo a me così giuro che te lo taglio Knut. Lo giuro su quanto è vero Iddio. Così non potrai essere più neanche l’ultimo.” Puntò il coltello tra le gambe del Tozzo, toccandogli con la punta insanguinata il cavallo dei pantaloni grigi.

“Ti chiedo scusa Jon.” Il Tozzo tremava. Leila poteva vedergli il doppio mento che sballonzolava e il labbro inferiore era coperto di saliva che cadeva e schizzava da una parte all’altra a seconda del tremolio.

“Qualcun altro ha qualcosa da dire?” Chiese Jon. Tutti tacquero. Gold fremeva di rabbia, ma come Leila non poteva muoversi anche lui era bloccato. Si chiedeva perché lei non stesse neanche urlando ma sentiva la paura. Una paura che l’aveva paralizzata. Non cercava neanche più di muoversi.

“Bene.” Ripose il coltello nella fodera e se lo agganciò di nuovo alla corda che fungeva da cintura.

“Allora oggi tocca prima ad Al, poi vai tu Connor.” Il Secco mostrò di nuovo i denti in segno di contentezza.

“Poi vado io. E per ultimo tocca a Tam.” La montagna più grossa grugnì nell’udire il suo nome. Poi Jon si girò verso il Tozzo. “Credo che Knut debba rimettersi, ha una brutta ferita al braccio. Oggi è meglio che si riposi.” Poi guardò Leila.  “Sei fortunata ragazzina. Non ti piacerebbe avere il suo grasso sudaticcio su di te.” Rise, mentre Al, la montagna più piccola, si abbassò i pantaloni. Fu allora che Leila trovò la forza di gridare e riprese a dimenarsi. Ma Tam le tappò la bocca con la mano. “Di norma vi lasciamo urlare, è più divertente. Ma qui vicino c’è il castello del Signore Oscuro e non vorremmo di certo disturbarlo.” Jon si spiegò velocemente e poi aggiunse: “Tranquilla. Fa solo un male cane.”

D’un tratto i colori iniziarono a vorticare come prima, ma stavolta la patina che circondò Gold non era bianca, bensì nera.

Non riusciva più neanche a pensare. Quei volti lo ossessionavano.

Poi una nuova immagine gli si presentò davanti. Si trovava dentro una piccola cassa di legno. Il ventre le faceva male. Molto male. I pantaloni marroni erano coperti di sangue.

Gold era disgustato, non riusciva a capacitarsi di quello che le era stato fatto. Avrebbe vomitato se fosse stato nel suo corpo.

La bambina stringeva il piccolo cavallo di legno tra le mani. Mentre i quattro uomini trascinavano la sua gabbia. Arrivarono presto in un campo. Vi era una gabbia simile ma molto più grande, al cui interno vi erano dei bambini. Accanto ce n’era un’altra identica, ma dentro si trovavano solo delle ragazze. Tutti avevano il volto spento e gli occhi vitrei.

Quella notte iniziò a fare freddo. Quando arrivarono aprirono la gabbia e Al, la montagna più piccola, la prese in braccio. Leila non riusciva a camminare, le bambe le tremavano, sembravano fuscelli sottili, non riuscivano a sopportare il suo stesso peso.

La portò dentro la gabbia più grande, dagli altri bambini che le rivolsero quasi subito lo sguardo.

La gettò a terra e lei provò a trascinarsi verso una delle sbarre di legno, per poter appoggiare la schiena. Si ritrovò vicino ad un ragazzino dai capelli scuri che stava torturando il bordo della sua tunica. Aveva gli occhi color nocciola e non sembrava voler parlare.

“Tu sei un maschio.” Leila cercò disperatamente di uscire dalla propria pazzia aggrappandosi a qualcuno, e sperava veramente che quel ragazzino le desse retta. Sperava addirittura che le rispondesse male, così almeno non si sarebbe sentita sola. Ma quel bambino scosse leggermente le braccia e continuò a torturare il bordo della tunica.

“Quanti anni hai?” Tentò di nuovo lei. Il bambino, però, fece finta di non aver sentito e seguì facendo ciò che, Leila intuì, stava facendo da ore.

“Non parla.” Un altro ragazzo, un po’ più grande di quello vicino a lei, le aveva parlato. Questo aveva i capelli biondi e indossava una maglia di lana pesante.

“Gli hanno tagliato la lingua poco dopo aver.. be’ lo sai.” Le si sedette accanto. “E non dovresti essere sorpresa che ci siano anche maschi qui. La gente paga di più per degli schiavi maschi. E gli schiavi non vengono usati solo per fare le faccende di casa. Ci sono molti padroni che ne approfittano.”

Leila avrebbe voluto scappare via, tornare dal padre e far finta che tutto quello non fosse mai accaduto. Scavava con le unghie nel legno del piccolo cavalluccio.

“Si chiama Khal.” Indicò il bambino senza  lingua.  “E io sono Abe. Lui era il mio migliore amico. Be’ lo è ancora, solo che adesso non abbiamo molto di che parlare.” Ironizzò sulla faccenda, ma i suoi occhi erano tristi.

“Ci hanno preso insieme. Prima è toccato a lui. Mi hanno costretto a guardare. Urlava così tanto che alla fine quel pazzo di Jon gli ha tagliato la lingua. Poi hanno preso me. Khal piangeva. Non riuscivo a vederlo, ma lo sentivo. Non potevo fare nulla. Non potevo riattacargli la lingua. E non potevo ridargli quello che aveva perso. Dio santo, aveva solo otto anni. Questa è stata la cosa che ha fatto più male di quel giorno. Sentirmi impotente.”

Si fermò un attimo per prendere fiato e la guardò.

“Tu come ti chiami?” Chiese, osservando il piccolo cavallo di legno che la bambina teneva in mano.

“Leila.” Rispose subito lei. In quel momento Khal mosse le mani verso Abe.

“Ha detto che hai un nome molto bello.” Il ragazzino biondo tradusse immediatamente i suoi movimenti. Poi rivolse di nuovo lo sguardo verso il cavallo di legno.

“Chi te l’ha dato?” Chiese il ragazzino, curioso di sapere qualcosa in più della ragazza.

Leila gli porse il cavalluccio e  lui lo prese per vederne la fattura.

“Me l’ha regalato mio padre. Diceva che a mia madre piaceva molto cavalcare.” Gli spiegò lei.

Il ragazzino accarezzò il muso di legno dell’animale.

“È fatto molto bene. Mio padre era un fabbro però intagliava anche il legno.” Disse. Come per coinvolgerla un po’ nella sua vita. Sapeva com’era sentirsi soli e subire quello che aveva subito lei. Voleva solo che si sentisse voluta bene in un posto in cui avrebbe conosciuto solo sofferenza. La bambina fece una smorfia di dolore e si toccò il ventre.

“Fa tanto male, vero?” Chiese con delicatezza. Leila annuì. Aveva gli occhi chiusi e la bocca serrata. Gold sentiva il suo dolore e la sua vergogna.

Non voleva più vedere, non sopportava quelle sensazioni. Non voleva sapere, era troppo, anche per lui.

Cercava di tornare indietro. A Storybrooke. Ci provava. Con tutte le sue forze, ma era inutile.

Non voleva quei ricordi.

 

Presente

 

La Sala d’attesa era silenziosa. Fin troppo silenziosa. Si sentivano i respiri pesanti delle altre persone che attendevano notizie dei propri cari. Si sentivano i loro singhiozzi. Il loro strofinare dei fazzoletti contro il naso. Il loro mangiarsi le unghie. Henry lo trovava insopportabile. Stava masticando una gomma da più di un’ora. Da quando lei era entrata in sala operatoria.

Muoveva la gamba in modo compulsivo e rifiutava qualunque tentativo dei nonni di consolarlo e tranquillizzarlo.

Ci sarebbero volute altre due ore, forse di più. Non sapeva se sarebbe riuscito a resistere altri due minuti li dentro, figuriamoci due ore.

La gente che si grattava. I medici che tornavano e informavano una famiglia della riuscita di un intervento. La gioia di queste persone. E poi i medici che invece ne informavano un’altra dell’esito negativo. Le loro lacrime.

Gli sembrava di impazzire lì dentro. Tra la felicità e i dolori degli altri. Avrebbe voluto sapere come stava andando. Avrebbe voluto stringere la mano di sua madre durante l’intervento.

Nessuno si era presentato da loro. Nessuno gli aveva detto se l’intervento stava procedendo bene o se c’erano state delle complicazioni.

Quel silenzio era assordante.

“Io esco.” Disse, scattando in piedi e andando verso la porta senza neanche rivolgere lo sguardo agli altri che erano lì con lui.

Uscì e si sedette sulla panchina appena fuori dall’ospedale. Respirò profondamente inalando tutta l’aria che poté dal naso. Mentre la gettava fuori iniziò a piangere. I singhiozzi lo  scuotevano violentemente quando sentì due mani calde appoggiarsi sulle sue spalle. Poi qualcuno lo abbracciò da dietro.

Vide dei capelli biondi ricadergli sul volto e capì di chi si trattava. Sì abbandonò completamente tra le braccia della madre e i due si ritrovarono accovacciati a terra.

Lei gli accarezzò piano la schiena e sussurrò: “Lo so Henry, lo so.”

Capiva benissimo ciò che il figlio stava provando. Non c’era neanche stato bisogno che lui dicesse qualcosa. Sapeva che era orgoglioso quanto Regina e che era uscito solo per nascondere ciò che provava. Non sapeva com’era perdere un genitore ma sapeva com’era sentirsi soli.

Henry si girò per guardarla negli occhi e lei gli posò due dita sul mento e avvicinò la sua fronte a quella del ragazzo. Proprio come faceva Regina.

“Ti voglio bene, Henry.” Fu allora che il ragazzo la abbracciò. Non accennava a lasciarla andare via.

“Ti prego, tu rimani. Non andartene mai.” La supplicò.

“Henry, neanche lei se n’è andata. Non ancora. Vedrai che uscirà da lì più forte e insopportabile di prima. Ti torturerà ancora per tanto tempo. Andiamo dentro adesso.” Gli strinse le spalle e lo tenne sotto braccio per evitare che sentisse freddo.

La neve aveva iniziato a cadere.

Intanto nella sala operatoria il dottor Whale stava tentando di rimuovere l’ematoma, mentre Regina, sotto l’effetto degli anestetici, continuava a sognare.

Quel sogno assumeva sempre di più una connotazione strana. Regina scese insieme ad Henry e Daniel nella sala dei ricevimenti dove vi attendeva il re. Leopold, quel grasso ubriacone. Regina lo aveva sempre detestato. O meglio, aveva iniziato a detestarlo quella notte in cui fu costretta a concedersi a lui.

Un brivido le percorse la schiena ripensando a quella notte. Si sedette sul lato opposto del lungo tavolo di mogano. Era determinata a tenere le distanze il più possibile.

“Figlio mio!” Leopold esclamò queste parole andando ad abbracciare Daniel, il quale era rimasto accanto alla madre. Quest’ultimo ricambiò l’abbraccio anche se poco entusiasticamente. Il re non se ne accorse. Forse perché non era mai stato abituato a molte dimostrazioni d’affetto da parte del ragazzo, ma Regina capì immediatamente che tra i due non c’era un buon rapporto. Daniel era per lei un libro aperto. Assumeva le sue stesse espressioni, faceva gli stessi movimenti che faceva lei quando era seccata o non si trovava a suo agio. Erano fin troppo simili. Tranne che per gli occhi. Ogni volta che lo guardava ricordava l’uomo che aveva amato. L’infimo stalliere che le aveva regalato l’anello di una sella come fede. Lo stalliere che lei aveva amato e desiderato più di ogni altra cosa al mondo.

Mentre il ragazzo provava a scrollarsi di dosso il padre le porte della sala si spalancarono. Nella stanza entrò una donna bellissima che indossava un meraviglioso vestito azzurro. Era tanto semplice quanto quello di Regina era complesso. Portava dei guanti bianchi che le arrivavano al gomito. I capelli biondi erano sciolti sulle spalle.

“Emma..” Sussurrò Regina mentre la bellissima donna andava ad abbracciare suo figlio. Neal dietro di lei.

“Vostra maestà.” Disse l’uomo, avvicinandosi alla regina per baciarle il dorso della mano. “Sei ancora vivo?” Pensò lei.

Tutto quello non poteva essere reale. Neal ancora in vita. Suo figlio. Leopold. Non potevano essere reali.

D’un tratto alte grida si levarono fuori dalle mura del castello.

Un’esplosione fece tremare la terra.

Tutti coloro che si trovavano in quella sala faticarono a rimanere in piedi.

Un consigliere del re entrò correndo. Scivolò a terra prima di riuscire a raggiungere il tavolo al centro della stanza.

“Sire, l’armata dell’ovest ha invaso la città. Le truppe stanno avanzando verso il castello!” Disse il giovane, ansimando mentre si rimetteva in piedi.

“Zelena!” Esclamò Leopold. “Perché Zelena dovrebbe attaccarci?” Chiese prontamente Neal.

Daniel sguainò la spada. Lo sguardo fiero fisso sulla finestra. Il fumo della città che bruciava rendeva il cielo nero.

Aveva le narici dilatate e i muscoli tesi.

“Non è Zelena. È Robin Hood.” Dichiarò. Uscendo di buona lena dalla stanza. Regina urlò il suo nome ma il ragazzo non si girò e andò dritto verso le porte del castello.

Henry estrasse una spada dalla fodera che il re teneva legata alla cintura e lo seguì senza ascoltare le suppliche della madre.

Regina ed Emma corsero dietro ai propri figli ma quando giunsero all’ingresso del castello i due si erano confusi in mezzo alla massa di soldati che si era radunata lì per difendere la famiglia reale. L’esercito nemico stava tentando di sfondare la porta e presto questa avrebbe ceduto. Emma prese due spade dalle statue situate vicino alla scalinata principale. Una la diede a Regina, mentre con lo sguardo entrambe cercavano i rispettivi figli. La porta cedette e cadde con un tonfo assordante. Gli uomini dell’ovest posarono immediatamente l’ariete ed estrassero le proprie armi. Archi, balestre, lame. La battaglia ebbe inizio.

D’un tratto Regina lo vide. Robin, splendente nella sua armatura, entrò brandendo una spada e tenendo l’arco a tracolla. Intorno a lui altri dieci soldati lo difendevano dai colpi, mentre egli si avvicinava  a Daniel.

Uno degli uomini dell’ovest attaccò il ragazzo ma questo fu pronto ad ucciderlo squarciando il suo ventre con un colpo secco. Robin gli si parò davanti, con la lama tesa. I due si guardarono per un istante, poi Daniel tentò di finire l’uomo con un fendente veloce, ma questo lo parò fin troppo facilmente.

Il duello tra i due non durò molto. Regina tentò di avvicinarsi il più possibile.

Quando riuscì a farsi strada per giungere davanti a loro, Robin aveva appena trapassato il corpo del ragazzo. La lama della spada fuoriusciva dalla schiena, ricoperta di sangue denso. Questo cadeva ritmicamente dalla punta d’acciaio e formava una macabra pozzanghera rossa sotto i talloni di Daniel che era ancora in piedi.

Robin rivolse lo sguardo verso Regina e poi estrasse la spada. Daniel guardò sua madre sconvolta e impietrita, poi tossì e un grumo rosso scuro gli colò sul mento. Aveva gli occhi spalancati e lasciò cadere la sua arma. “Mamma.” Disse. Pronunciando queste parole cadde a terra con la faccia in avanti. Ebbe un leggero spasmo e poi morì.

Regina non urlò. Non pianse. Non si mosse.

La battaglia infuriava intorno a lei, avrebbero potuto ucciderla ma non le importava.

Sentiva il suo respiro mancare. Guardava l’uomo che aveva appena massacrato suo figlio. Non lo riconobbe. Quello non era Robin. Non era la persona che lei conosceva. Quello che non avrebbe mai fatto del male a nessuno, soprattutto non ad un ragazzo così giovane.

“Prendetela viva. Voglio che veda tutti coloro che ha perso.” Ordinò ad uno dei suoi cavalieri, mentre con una mano puliva dal sangue la lama della propria spada e lo schizzò a terra con un movimento deciso.

Mentre due cavalieri dell’ovest le immobilizzarono le braccia e iniziarono a trascinarla altrove, Regina vide Emma piangere sul corpo di un ragazzino, piegata in due e scossa dai singulti. La donna, malgrado non avesse visto il volto di quella vittima, capì subito che si trattava di Henry. Sentì una fitta trapassarle il cuore ma quel dolore accrebbe quando vide un uomo impalare Emma con una lancia. La donna rimase immobile su corpo del figlio con l’asta di legno perpendicolare alla schiena.

Le tre persone che amava di più al mondo erano lì a terra. Le aveva viste morire.

 

Un’infermiera uscì correndo dalla sala operatoria, entrò in sala d’attesa e chiese alla donna alla Reception di chiamare un medico di nome “Evans” immediatamente.

“Digli di venire nella camera C-18. Abbiamo un codice rosso.” Ansimava mentre lo diceva.

“Il dottor Evans sta operando un altro paziente momento.” L’altra infiermiera le gridò queste parole mentre la donna si era appena girata per tornare in sala operatoria.

“Non me ne frega un cazzo se sta operando. Se l’altro paziente non è grave può pensarci il dottor Lewis. Abbiamo bisogno di lui. Digli di muoversi.”

“C-18” Sussurrò Emma. Teneva ancora il braccio sulla spalla di Henry.

“C-18 è la sua sala.” Guardò il figlio preoccupata, poi si alzò per andare incontro all’infermiera. Questa però non volle fermarsi così fu costretta a gridarle dietro.

“COS’HA REGINA?” Le afferrò una spalla e la costrinse ad ascoltarla, a risponderle.

“La stiamo perdendo.”

Il mondo di Emma crollò. Come avrebbe fatto a tornare indietro e dire ad Henry che sua madre stava morendo? Come avrebbe fatto a dirglielo guardandolo negli occhi?

Non era sicura neanche di riuscire a sopportarlo lei stessa.

L’infermiera era già andata via, mentre Emma rimase lì immobile.

Rivide gli occhi di Regina che si spalancavano. Rivide il palo contro cui finirono. Il maggiolino distrutto.

La rivide accanto a sé in quella macchina.

Non poteva andarsene. Non così.

 

Regina fu trascinata dai cavalieri dell’ovest verso la sala dei ricevimenti. Superarono il corpo di Neal steso a terra in una pozza di sangue con la testa attaccata al collo solo da un sottile lembo di carne.

Leopold era appeso sul muro con un chiodo piantato nei polsi sovrapposti. Le gambe non le aveva più.

Robin entrò nella stanza con un candelabro acceso stretto nella mano.

“Vostra maestà.” La salutò con un cenno della testa prima di gettare il candelabro addosso al re. Quest’ultimo prese fuoco.

“Perché fai questo?” Regina era in lacrime, piegata in ginocchio. Lo guardava dal basso.

“Oh sono tanti i motivi per i quali voglio farlo. Il principale è che mi va.” Le sorrideva malignamente. Non c’era pietà nei suoi occhi. Avrebbe dato tutto per riavere l’uomo che amava. La persona onesta e gentile che conosceva non aveva quello sguardo, né tantomeno quel sorriso.

“Sai  cosa odio più della tua insulsa famigliola? Le persone che prima di ucciderne altre fanno dei lunghi discorsi sui loro piani malvagi e su come siano lieti che per i loro avversari sia arrivato il momento di morire. Queste persone non vincono mai. Sono patetiche.” Si avvicinò a lei con la spada tesa.

“Uccidimi allora. Cosa aspetti?” Chiese lei. Avrebbe preferito morire piuttosto che convivere con tutto quel dolore. Non le importava se tutto quello fosse reale o no. Voleva solo che finisse.

Robin buttò via la propria spada, prese l’arco, incoccò una freccia e tendendo la corda la puntò in mezzo agli occhi della donna.

“Addio.” Disse. Poi la scoccò.

Prima che la punta della freccia toccasse la sua pelle questa sparì. Così come Robin e i suoi cavalieri. Neal e il re. Poi l’intero castello.

Infine tutto intorno a lei.

Regina aprì gli occhi.

Il rumore del cardiofrequenzimetro le dava fastidio. Le faceva male la testa. Aveva un tubo che le fuoriusciva dalla gola. Faticava a mettere a fuoco la stanza.

Un’infermiera le si avvicinò e poi prese il cercapersone.

Avrebbe voluto chiedere cosa fosse successo, così si avvicinò una mano alla bocca per poter togliere il tubo che non le permetteva di parlare ma l’altra donna glielo impedì immediatamente afferrandole la mano con gentilezza.

“Aspettiamo il dottor Whale così lui potrà dirci se è il caso di togliere il tubo. L’operazione è andata bene. C’è stata una complicazione ma il dottor Evans è riuscito a salvarla. È stata fortunata. Se lui non fosse stato in servizio oggi lei non sarebbe qui.” In quel momento Victor Whale entrò. Si avvicinò al letto e le sussurrò: “Ben tornata, Regina.”

 

Mi scuso di nuovo per il ritardo nella pubblicazione, evidentemente non riesco proprio a rispettare i tempi di consegna.. ma almeno ho fatto ritardo solo di un giorno, sto migliorando lol (Dovrei pubblicarlo ogni due settimane il sabato, mas o menos)

Procrastinare è la mia vera arte. Anyway, questo capitolo è leggermente più cruento degli altri, forse lo avrete notato (?)

Sparsi per la fanfiction troverete molti riferimenti ad altre serie tv/film/libri e sì la cosa è voluta. Come nello scorso capitolo c’era un riferimento a Derek Shepherd in questo ne troverete alcuni di Harry Potter e del Trono di Spade. E bho a me sta piacendo un casino scrivere questa storia, spero che a voi piaccia leggerla, nonostante i vari cambiamenti di stile.

Come sempre gradisco leggere le vostre opinioni, che siano critiche o complimenti non importa, ma possono sempre aiutarmi a migliorare, so di non essere granché come scrittrice quindi se avete tempo da perdere per fare una recensione in cui esprimete i vostri pareri a me fa sempre piacere leggerle.

E sì, Gold ha fatto l’Ice Bucket Challenge ma non ha donato i soldi. Lui può, è il Dark one.

Gracias a todos

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