La noia regna sovrana

di Chandra1620
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In missione ***
Capitolo 2: *** Lattine pressurizzate ***
Capitolo 3: *** Ciò che non doveva accadere ***
Capitolo 4: *** Odio ***
Capitolo 5: *** Soli ***
Capitolo 6: *** Colleghi ***
Capitolo 7: *** Sbarcati ***
Capitolo 8: *** Laboratorio ***



Capitolo 1
*** In missione ***


Spense la radio, era noiosa. Le solite notizie di cronaca: incidenti di ogni genere, attacchi terroristici, ecc...
Lei era obbligata a sentirle tutte per rimanere aggiornata …
Ahhh lo S.H.I.E.L.D. era un’organizzazione così impegnativa e lei teneva il ritmo per miracolo.
Tra l’altro ultimamente c’era stato un po’ di trambusto per via di una cittadina attaccata da “unità aliene” in New Mexico e un sacco di squadre si erano mosse lasciando New York piuttosto sprovvista di agenti.
Avevano chiamato anche lei.
Ma non si doveva preoccupare degli alieni, ma di qualcosa di simile.
Infatti Fury l’aveva personalmente convocata e le aveva illustrato la sua missione : isola in mezzo al nulla, strani detriti, controllare e fare rapporto.
Nulla di particolare o di pericoloso, ma le avrebbe comunque affidato una squadra di ragazzi nuovi nell’organizzazione, tanto per iniziarli alle missioni … un mese nel nulla con una decina di reclute inette dal grilletto facile: cosa mai poteva capitare di peggio ?
 
Sorrise sarcastica mentre si avviava alla macchina: i bagagli li aveva fatti scivolare in malo modo per le scale alle cinque del mattino solo per il gusto di svegliare tutto il condominio, almeno qualcun altro avrebbe avuto una pessima giornata come lei.
L’orientale del secondo piano le aveva inveito addosso in coreano … lei era riuscita solo a capire un paio di epiteti poco carini e quello le era bastato .
Allora aveva tirato fuori un sorriso falso e si era scusata dicendo che le erano caduti per sbaglio .

Il resto del viaggio fino al porto era andato abbastanza tranquillo.
Era arrivata con un quarto d’ora d’anticipo e si era permessa di guardarsi intorno: un posto anonimo scelto per non attirare l’attenzione. In teoria una barchetta li avrebbe caricati e portati in mare aperto dove avrebbero chiesto un passaggio a un sottomarino dell’organizzazione.
Lei non amava i viaggi per mare tantomeno in quelle lattine pressurizzate: la innervosivano. Per fortuna il viaggio non sarebbe durato più che un paio di giorni…
 
Poi arrivarono i militari.
Li aveva sentiti arrivare da chilometri di distanza musica a palla, risate e camioncino poco appariscente .
Questa volta avevano esagerato: affidargli delle simili bestie ah, ma una volta tornata a New York gliene avrebbe cantate a Fury e a Coulson…
-Cretini vi sembra il modo? È una missione importante e non mi sembra il caso di attirare l’attenzione in questo modo!
E poi siete in ritardo di mezz’ora! Ma vedrete in questo mese come vi metterò in riga …- aveva urlato loro appena scesi dal veicolo.
Aveva visto soddisfatta alcuni soldati riconoscerla, zittirsi e abbassare il capo, mentre altri  guardarla allibiti.
 
Uno piuttosto coraggioso, e probabilmente sbronzo, le si era avvicinato con aria strafottente : - Ma non stavamo facendo nulla di male, ci stavamo solo divertendo un po’… e poi con chi ho il  piacere di parlare?-
Allora le si era avvicinato e le aveva avvolto un braccio attorno al collo. A quel punto la rabbia l’aveva accecata: mai nessuno aveva mai osato tanto.
-Carissimo -gli aveva detto allora, soffocando gli istinti omicidi - io sono a capo di questa squadra, sempre che si possa definire tale, e tu hai già un richiamo formale per uso di alcool prima di una missione.
Inoltre ci tengo a informare tutti che odio il contatto fisico: niente strette di mano, quando mi porgete qualcosa state bene attenti a non sfiorarmi o avrete il suo stesso trattamento-
Intanto, confidando nel fatto che l’equilibrio del soldato fosse già pessimo per il suo stato, era scivolata sotto il suo braccio mentre gli afferrava il suo polso e glielo girava dietro la schiena .
Lui intanto perdendo l’equilibrio era scivolato faccia a terra e era rimasto ad ammirare da vicino il suo riflesso in una pozza d’acqua salata.
 
Ma lei, non essendo ancora soddisfatta di averlo umiliato davanti ai suoi compagni (che la guardavano abbastanza spaventati) decise di dargli una lezione che sapeva non avrebbe dimenticato.
Quindi, messo un piede sulla scapola era pronta a rompergli il braccio e aveva alzato il proprio pronta per il colpo.
 –Tu sarai d’esempio… - aveva mormorato.
-Non sono convinto che sia un bene iniziare una missione con un soldato infortunato, non credi anche tu?-  Le aveva detto una voce scherzosa bloccandole il polso.
Lei allora si era fermata, aveva allentato leggermente la presa e si era girata verso quella calda voce familiare.

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Capitolo 2
*** Lattine pressurizzate ***


-Non mi avevano detto che ti saresti unito al circo,  Coulson. – Lo aveva salutato con un mezzo sorriso .
- Sì, in effetti io mi limiterò solo ad accompagnarvi fino all’isola, l'agente Fury aveva un pessimo presentimento su quello che sarebbe potuto accadere a lasciarti da sola con loro. – aveva detto l’agente guardando il soldato che la ragazza non sembrava ancora intenzionata a lasciare andare.- Aveva le sue buone ragioni…-.

Era più che soddisfatta del fatto che avessero tanto riguardo nei suoi confronti e il tizio sbronzo che aveva sotto i piedi le era già tornato indifferente, mentre a turbarla era più che altro il suo polso destro, che Coulson teneva ancora saldamente.
Odio profondo verso ciò che il calore della sua mano gli riportava alla mente così la strappò dalla sua presa, ma ricordi stavano tornando, voleva fermarli, barricarli: doveva concentrarsi su qualcos’altro alla svelta…


“…c’è una mano che ha  bisogno del suo aiuto, la vede e tende la sua .
L’ha presa . Sente il calore che essa manda e si tranquillizza… le era mancato così tanto, ma non la lascerà più andare…”


-Siamo in ritardo sulla tabella di marcia di quaranta minuti, sarà meglio andare, qual è la zattera che useremo di preciso?-
Aveva scavalcato il suo sottoposto, ma senza scordarsi di lasciare una bella impronta numero 36 e mezzo color fango sulla sua maglia bianca.


Lei non si stupì quando scoprì  che il loro mezzo di trasporto fosse davvero qualcosa che si poteva definire “zattera”, ma non fece ulteriori commenti e andò ad accucciarsi sulla prua stringendosi il polso con l’altra mano. Odiava stare a contatto con altre persone.
L’aria e l’acqua sul viso sembrarono averla svegliata da quei brutti pensieri, ma era anche stanca di stare in silenzio così si era messa a urlare sopra il rumore delle onde : - C’è qualcosa che non sai guidare,  Coulson?-
-L’armatura di Stark : sai non me l’ha mai fatta provare …– le aveva risposto allora ridendo l’agente da dietro i comandi del vecchio peschereccio, sforzandosi anche lui per farsi sentire. Oh, ma sarebbe riuscito a controllare anche quella, lei ne era sicura . Aveva una grande stima per quell’uomo che ricordava essere da sempre in quella gabbia di matti.
Decise allora di alzarsi e avvicinarsi  – Si, a proposito, mi hanno detto che avete trovato una tecnologia molto simile alla sua in New Mexico …-
-Vedo che le notizie volano in fretta, comunque all’inizio pensavo anch’io fosse roba sua, ma dopo che un dio lo ha distrutto, sì un dio non guardarmi così,  l’abbiamo portato in laboratorio …-
- E quindi? – era curiosa di sapere il resto … la storia del New Mexico cominciava a intrigarla ora.
- E quindi nulla, stanno ancora cercando di capire cosa sia e come funzioni.-
-Ok ok e la storia del “dio”? Devo capire, cos’è il nome di una nuova arma per caso?-
-No intendo un dio, una divinità : è sceso dal cielo quest’uomo in armatura con qualche suo amico e un martello volante, lo ha distrutto e poi ha promesso l’alleanza di “Asgard” alla Terra se avessimo restituito materiale per ricerche scientifiche che avevamo preso in prestito da una ragazza…-
Lei era convinta che Coulson capisse quanto quel discorso poteva sembrare ridicolo: divinità, Asgard e martelli volanti: queste erano palesemente mitologie norrene.
Sì, lei stava andando su un’isola a studiare meteoriti, aveva di fianco un uomo che aveva messo dei propulsori sotto la propria macchina per farla alzare in volo e viveva in un mondo dove i miliardari si costruivano armature volanti e soldati della seconda guerra mondiale si risvegliavano dopo qualche decennio sotto ghiaccio. Ma parlare di divinità era comunque un’altra storia…


Raggiunsero il sottomarino circa a mezzogiorno e lei vi entrò controvoglia, dato che non aveva molta scelta.
Si fece indicare subito la sua cabina e vi si chiuse sperando che il tempo passasse presto. Non l’avrebbero richiesta fino all’ora di cena, quindi colse l’occasione per sfogliare con più attenzione il fascicolo della missione .
Missione affidata all'agente di livello 5 Reese Allen, 26 anni.
Il rapporto sulla perlustrazione sul campo non le era di molto aiuto: diceva soltanto che da una settimana circa dei corpi solidi provenienti dallo spazio si erano schiantati al suolo distruggendo un villaggio turistico . Materiale e provenienza sconosciuti. Era più che convinta che centrasse qualcosa col New Mexico, o quantomeno lo sperava…


Si era sdraiata a testa in giù sul letto, per quanto lo spazio glielo permettesse, facendo toccare terra ai capelli.
  La missione sarebbe stata impegnativa, ma in fondo si aspettava qualcosa del genere: dopotutto se avevano chiamato lei voleva dire che non sapevano più che pesci prendere.

Decise di guardarsi intorno: la cabina non era molto grande ed era spoglia di mobilio .
Poi notò un paio di valigie e una giacca da uomo avrebbe dovuto dividerla con qualcuno, ahah si chiese chi sarebbe stato il fortunato che avrebbe passato le più belle 48 ore della sua vita tormentato da lei …
Intanto il tempo passava e mentre cercava un soprannome per il suo caro amico alcolizzato il suo sguardo era caduto su un pannello, allora si era alzata ed era andata ad aprirlo: era uno specchio.
Era grande come lei, non che ci volesse molto essendo alta un metro e un tappo, e colse l’occasione per mettersi un po’ a posto.
I lunghi capelli castani che amava erano diventati un groviglio unico di nodi perché si era dimenticata di legarli sulla barca .
Anche il suo viso era ancora stravolto: la sua carnagione di solito molto chiara era rossa per il vento. Il naso spruzzato di lentiggini era completamente congelato e i suoi enormi occhi marroni erano solcati da profonde occhiaie per il poco sonno che negli ultimi mesi si concedeva .
Nel complesso dimostrava 16 anni o giù di lì e la cosa non le avrebbe dato fastidio, ma succedevano spesso incidenti come quello con la recluta ... era snervante.

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Capitolo 3
*** Ciò che non doveva accadere ***


E poi era successo esattamente ciò che non sarebbe dovuto succedere.
Stava facendo un giro per il sottomarino in cerca di Coulson quando li aveva sentiti parlare da lontano, lui e un altro, e si era avvicinata per sentirli meglio.
Erano in una cabina chiusa e lei ringraziò il cielo che la porta fosse di cartapesta e sputo così non dovette neanche sforzarsi per capire la conversazione.
-… insisto, deve essere mandata a casa, non può stare qui, è un pericolo per se stessa e per le persone che le stanno accanto, basta guardare l’agente Evans che per poco non ci rimetteva il braccio …- si lamentava l’uomo a voce alta.
- E io ti ripeto che per quanto instabile e pericolosa sia, non c’è nessuno che sia tanto in gamba da sostituirla in questa missione. Abbiamo un disperato bisogno di lei.- ribatteva altrettanto vivacemente Coulson.
Intanto lei sorrideva mesta e cercava di capire se quello fosse un complimento o meno. Ma in fondo non le importava, in  teoria stava prendendo le sue difese e questo le bastava.
Inoltre stare in piedi era inutile, avrebbe comunque dovuto aspettare che i due avessero finito di discutere e poi avrebbe parlato con Coulson, dopotutto era quello il motivo per cui era uscita dalla sua cabina.
Quindi si mise con la schiena sulla parete di fianco alla porta e si fece scivolare lentamente fino al pavimento. Appoggiò le braccia alle ginocchia e vi affondò il viso dentro, in attesa.
Cosa si aspettava, era sempre stato così, e ormai avrebbe dovuto abituarsi. E invece no. Cosa c’era che non andava in lei?
 
 
Continuarono per un’altra mezz’ora, ma alla fine essendo di livello più alto, Coulson impose la sua decisione, chiudendo la discussione.
L’agente Jones allora aveva buttato a terra la sua tazza a ed era uscito, furioso. Non si poteva abusare in questo modo del proprio rango, pensava. E mentre camminava inciampò in qualcosa: dei piedi.
Così accorse di lei: era accucciata di fianco alla porta, e lui non poté che chiedersi quanto avesse ascoltato del discorso .
Lei intanto lo guardava. Ne con cattiveria, ne odio. Lo guardava, con curiosità forse, nulla più.
Era strano essersi appena battuto così attivamente contro quella stessa ragazza che aveva ora davanti agli occhi.
Eppure, mentre tutti gli agenti in quel sottomarino le andavano contro, lui, in quel momento, non poteva far a meno di pensare che quella ragazza, così minuta e graziosa, forse non meritava tutto questo.
Si pentì di ciò che aveva fatto pochi minuti prima e le tese una mano per aiutarla ad alzarsi, ma lei non sembrava vederla e continuava a guardarlo, senza quasi battere ciglio.
Allora si accorse che c’era qualcosa in quei due occhi marroni: dolore, molto dolore.
E mentre si chinava per afferrarle la mano e tirarla su  Coulson era uscito dalla cabina e lo lo aveva avvisato: -Jones, a meno di non voler fare la stessa fine dell’agente Evans io non le consiglio di toccarla…-
All’ora l’agente si era riscosso dai propri pensieri e senza aggiungere parola si era allontanato, cercando di capire se davvero quella ragazza rappresentasse un pericolo.
 
 
-Desideravi vedermi Re?- le si rivolse non appena l’uomo girò l’angolo.
-Veramente pensavo fossi tu che aveva bisogno di parlarmi: mi avevi detto che, bhe, circa mezz’ora fa avrei dovuto incontrarti per approfondire i dettagli della missione.- la ragazza si chiese se stesse scherzando o lo avesse dimenticato.
Poi lo vide guardare sconcertato l’orologio: se l’era dimenticato. Ma era mai possibile scordarsi di cose del genere?!
-Oh come passa il tempo quando ci si diverte… sì, entra, e aspetta qui ti porto il resto degli scienziati con cui lavorerai per questa missione…- aveva detto con fare sbrigativo, era evidente che era ancora pensieroso per la discussione che aveva avuto poco prima, ma non sarebbe stata sicuramente lei ad aprire l’argomento.
-No aspetta, cosa? Io lavoro da sola. Lo sai ch-…
-Che potresti rischiare di rompere qualche gamba o braccio anche a loro o è solo perché se avrai qualche risultato vuoi che sia solamente merito tuo?-Non aveva urlato, ma era arrabbiato, si vedeva.
Era allibita. Mai avrebbe pensato… proprio da Coulson poi…
Era questo ciò che pensava realmente di lei? Allora era proprio come tutti gli altri...
Quello era un colpo così basso e sentiva la voglia di mettere le mani addosso a quella persona di cui si era così fidata per 8 anni e che ora, davanti a lei, le diceva le stesse parole che avevano detto tutti gli altri.
 
 
Ma anche lui era stupito per ciò che aveva detto e aveva cercato di fermarla e dire che gli dispiaceva, ma lei era già andata, arrabbiata come non l’aveva mai vista, verso la sua cabina e lui per la prima volta temette seriamente per la salute delle persone che quella furia avrebbe incontrato durante il tragitto.
Fermarla o seguirla sarebbe stato da stupidi e avrebbe peggiorato le cose, lui lo sapeva, quindi non gli restò che pregare abbandonato sullo stesso muro dove poco prima stava lei con la testa le mani.

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Capitolo 4
*** Odio ***


Odio.
Odio verso tutti quanti . Travolse senza pietà tutte le persone che incontrò, meditò se fare del male serio a qualcuno per essere rimandata a casa.
E mentre si dirigeva in cabina si ricordò di avere un compagno di stanza, decise che se fosse stato lì lo avrebbe massacrato, non le importava delle conseguenze.
Ormai non aveva più nessuno, anche l’ultima singola speranza di un futuro al fianco di qualcuno era evaporata nel momento stesso in cui aveva guardato gli occhi pieni di rancore di quell’uomo che per otto interminabili anni aveva ritenuto quasi un padre.
Ma si era presa in giro e ora lo sapeva. La odiavano e temevano tutti: nessuno escluso.
Tirò fuori il suo inseparabile pugnale e aprì la porta della sua cabina con un calcio.
Ciò che vide la lasciò basita: il Capitano Steve Rogers era davanti a lei, in mano i vestiti appena tirati fuori dalla valigia aperta sul letto.
Ma lo stupore durò poco: non le importava chi fosse, aveva un dannatissimo bisogno di sfogarsi.
Gli si avventò contro puntando a uccidere: con lui se lo poteva permettere, non sarebbe  comunque riuscita a ferirlo seriamente e lasciò libero tutto ciò che teneva dentro da mesi in quei pochi minuti.
Alzò il pugnale a gli corse incontro. Lui arretrò e si trovò spalle al muro .
Il tavolino che aveva davanti si trasformò in un trampolino di lancio e mentre la valigia cadeva e il contenuto si spargeva sul pavimento il coltello si conficcava nel muro a pochi centimetri dall’orecchio del famoso  Capitan America .
Già, Coulson lo adorava…. Lo avrebbe adorato ancora se quel suo bel visino fosse stato sfregiato? Decise di verificare.
Rabbia. Una rabbia ceca prendeva controllo di lei mentre veniva spinta per terra . Voleva bloccarla, ma lei era più agile e riuscì a rotolare su un fianco prima che le fosse addosso.
Lo spazio però era poco e il capitano essendo grosso era in difficoltà; lei invece vi si trovava benissimo e ringraziando mentalmente la sua corporatura minuta si era portata alle spalle della sua vittima che stava cercando di rialzarsi e gli aveva avvolto il collo con un braccio.
Intanto lui cercava di liberarsi dalla presa, ma lei era forte, troppo.
 E lui giocava solo in difesa. Già perché lui era troppo nobile e puro per attaccarla pensava amaramente mentre insieme sbattevano contro i muri della stanza. Ma una fitta alla spalla destra le aveva fatto allentare la presa: era il manico del coltello ancora piantato nel muro.
 
 
Lui aveva colto l’attimo e si era liberato della ragazza. Allora era corso alla porta dove si era radunata una piccola folla di curiosi. Aveva detto a tutti di tornare ai loro posti e non  preoccuparsi perché era tutto sotto controllo.
In quelle condizioni la ragazza poteva coinvolgere qualcuno, anche solo per sbaglio. Preferì non rischiare e chiuse a chiave la porta.
Sapeva che l’unico modo per risolvere quella situazione era farla stancare. Quindi, diamine, avrebbe combattuto. E intanto lei si stava già rialzando puntellandosi al muro e tenendosi la spalla con la mano.
Che furia, pensò il capitano mentre lei, urlando, staccava il coltello dal muro e ritornava all’attacco.
Ma i vestiti per terra le impedivano un perfetto controllo dei suoi movimenti e continuava a scivolare .
I suoi colpi per questo perdevano di forza e precisione e finalmente, dopo un paio di affondi andati a vuoto, era riuscito a disarmarla torcendole il polso.
Lei dopo aver lasciato la lama cadere aveva ritirato di scatto la mano e lui ovviamente non l’aveva trattenuta. Però aveva messo un piede sul coltello e lo aveva lanciato sotto il letto.
Ormai la ragazza era stanca, ma non aveva intenzione di mollare. Anche senza arma la sua determinazione non era venuta meno ed era tornata alla carica .
Ma proprio quando il suo pugno avrebbe dovuto colpire il viso del capitano era scivolata su una maglia e lui l’aveva presa di peso e bloccata contro la parete.
Non bastò neanche quello: lei gli era scivolata via e lo aveva colpito allo stomaco; poi al volto.
Lui parava e basta. Ma dopo un po’ iniziò ad incalzare, destro, sinistro, destro.
Lei aveva continuato a schivare tutto anche se con una certa difficoltà.
Poi si era spinta contro il muro e con un calcio volante che lui non aveva potuto evitare per mancanza di spazio e lo aveva messo al tappeto.
Ma anche lei atterrandogli di fianco aveva messo un piede male ed era scivolata all’indietro atterrando di schiena sopra il petto del soldato.
Rimasero in quella posizione entrambi a riprendere fiato.
-Sei a posto ora?- le aveva domandato lui tra un colpo di tosse e un gemito di dolore.
-Si-
-Bene-

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Capitolo 5
*** Soli ***


Steve si passò una mano fra i capelli. Quella solfa andava avanti ormai da due ore.
-Quindi lei è sicuro di ciò che sta dicendo?- gli chiedeva un uomo alto con i capelli rossi.
-Sì, sì. Gli ripeto: era un piccolo incontro di allenamento. Le ho chiesto io di combattere.- aveva risposto per la quindicesima volta svogliatamente.
Sapeva che non stava in piedi come scusa. Ma gli unici due coinvolti erano lui e Reese e, a meno che lei non fosse un’idiota, cosa di cui dubitava fortemente, e avesse detto a tutti di averlo attaccato, le accuse non potevano che cadere.
Prima o poi.
Eppure Coulson lo aveva avvertito che anche solo rimanendo vicino a quella ragazzina si sarebbe attirato dietro un sacco di guai.
Ma lui no, aveva dovuto fare il cavaliere, si diceva amaramente, e aveva accettato di dividere la cabina con l’agente Allen. Doveva dimostrare di essere un nobile eroe… perché nessun altro avrebbe accettato.
All’inizio credeva che fosse stata la scelta giusta. Ma ora non tanto.
Si guardò intorno per la milionesima volta.
15 agenti dello SHIELD lo squadravano. Si vedeva che l’unica cosa che volevano era eliminarla, e non interessava molto ciò che stesse dicendo.
Stava odiando quelle persone, accanirsi in questo modo su una loro collega. Ma probabilmente ne avevano fatto una questione personale, si vedeva dalle loro espressioni scontente.
-Molto bene. Come volete, Capitano. È libero di andare. Ma sappia che non le porterà a nulla di buono coprire le azioni di quella ragazza-
Non aspettava altro: si alzò e si avviò alla porta prima che cambiassero idea .
-Sono sopravvissuto alla guerra, lei non sarà certo un problema.-
 
 
Era davanti alla cabina da cinque minuti ormai, ma non aveva la benché minima voglia di entrare. Sapeva che lei era dentro, e l’idea di un nuovo scontro non lo attirava.
Ma non poteva neanche rimanere tutta la notte (per quello che ne rimaneva) lì in piedi.
Così non gli rimase che prendere un bel respiro e aprire la porta.
Sorrise: non c’era nient’altro da fare in quella situazione.
Reese doveva aver cercato di mettere a posto e se ne stava addormentata con una maglia fra le mani e la testa sul tavolino.
Riconobbe che aveva fatto un ottimo lavoro: ogni cosa era tornata al proprio posto e l’unica pecca era il buco fatto dal suo coltello.
Forse aveva voluto scusarsi o più probabilmente non voleva rimanere in debito con lui.
Ma non importava.
La prese tra le braccia e la mise sulla sua branda.
Poi si coricò sulla propria aspettando che il sonno lo avvolgesse.
 
 
Quando si svegliò la mattina dopo la prima cosa che Reese realizzò era che qualcuno l’aveva portata nel letto. Si morse il labbro pensando a quella piccola debolezza che aveva mostrato e si alzò in piedi.
Rogers stava ancora dormendo, e decise di sgattaiolare via prima di poter essere costretta a parlarci. Così si vestì il più silenziosamente possibile e mise una mano sulla maniglia.
-Buongiorno –una voce assonnata la raggiunse prima di poter aprire la porta.
Cazzo.
-Ehm, buongiorno- aveva detto allora lei senza girarsi.
Aprì la porta, forse era ancora in tempo per andarsene. Lo sentì sbuffare divertito per la sua impazienza a levarsi di torno e aggiunse semplicemente: -Se qualcuno te lo chiede era un allenamento-
Poi si girò nella sua branda e lei fu finalmente libera di andare.
Per tutto il sottomarino incrociò sguardi curiosi e indagatori. Ma non se ne stupì.
Dopotutto anche se lui affermava tutt’altra cosa era chiaro come il sole che aveva deliberatamente attaccato il grandioso Capitan America.
Questa volta l’aveva combinata grossa e ne era consapevole, ma dannazione non sarebbe servito a nulla piangersi addosso.
Quindi cercò un modo per sottrarsi a quella tortura, ma non le venne in mente nulla. Allora trovò un corridoio poco trafficato e vi si sedette.
 
 
Due scarpe nere le apparvero davanti al viso dopo una mezzora scarsa di pace: Coulson.
-Non speravo di riuscire a trovarti così facilmente Re.- Il suo tono era scherzoso come al solito, ma era anche fermo e deciso. Stava evidentemente cercando di capire se fosse ancora arrabbiata o meno.
-Io speravo di non trovarti proprio, pensa che coincidenza.- Disse freddamente senza staccare gli occhi dal libro che si era portata dietro.
Però poi si ricordò che probabilmente era venuto a cercarla per lo stesso motivo per cui avevano litigato il giorno prima.
-Giusto, gli scienziati. – chiuse il libro e si alzò .
Non le importava nulla della missione o del lavorare da sola. Non le importava più di niente e di nessuno. Dallo scontro del giorno prima si sentiva svuotata e stanca. Molto stanca.
E poi, una volta tornata da quella missione avrebbe abbandonato l’agenzia e sarebbe sparita dalla circolazione.
Questo pensava mentre Coulson la precedeva per gli stretti corridoi dal sommergibile e la conduceva davanti ad una porta uguale a tutte le altre.



Angolo autrice: scusate se sto facendo più lunga del previsto la sezione sottomarino. Ancora il prossimo e poi si inizia con l'isola, ve lo prometto :D
Cosa ne pensate per ora?

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Capitolo 6
*** Colleghi ***


I suoi “colleghi” erano 3 e non ci mise molto a capire che tipo persone fossero.
Il primo si chiamava Decklan  Locke. Aveva circa quarant’anni e stava sul metro e settanta. Capelli e occhi scuri, ben piazzato e con uno sguardo furbo. A giudicare dalla divisa perfetta in ogni piega e dal portamento  era fissato con le regole.
Sarebbe stato difficile lavorare a modo suo con lui. Quella era stata la prima cosa che le era passata per la mente mentre si presentava.
 
La seconda, Victoria Blain, era alta quanto il primo e aveva sulla cinquantina d’anni .
Una cascata di capelli biondi e occhi verde smeraldo.  Nonostante la sua età era ancora una bellissima donna .
Al contrario del suo collega però, lei preferiva il camice bianco alla divisa nera dello SHIELD.
 
Infine c’era l’ultimo.
Ree non riuscì a trattenere un sbuffo tra il divertito e l’irritato quando un ragazzo suo coetaneo era entrato correndo ed era inciampato nella porta finendole letteralmente sui piedi.
Si era alzato frettolosamente e si era levato la polvere dai pantaloni.
-Piacere Sean Hais- aveva detto facendo un lieve inchino.
Tre spanne più alto di lei, occhi color ambra e capelli ramati, Sean era proprio un bel ragazzo, doveva ammetterlo.
Si fece stringere la mano senza protestare guardandolo a bocca aperta con non poco stupore da parte di Coulson che la osservava divertito.
Ma il diretto interessato, per fortuna, non sembrava accorgersene e lasciata la mano di lei iniziò a farle complimenti sul brillante lavoro che aveva svolto in quegli anni per l’organizzazione.
Dopo aver balbettato un grazie aveva cercato di riprendere il controllo della situazione che le stava sfuggendo di mano, così le venne in aiuto Coulson che congedò tutti dicendo di andare a prepararsi per l’imminente sbarco.
 
 
Mentre tornava alla cabina ripensò al suo nuovo collega, aveva qualcosa di strano.
Ma si era scrollata di dosso quei pensieri e aveva aperto la porta della stanza.
Steve non c’era e lei ne era più che felice. Così si preparò il più in fretta possibile e si avviò verso l’uscita.
Finalmente avrebbe visto il Sole.
O forse no.
 
 
Si trovarono tutti e sedici (i quattro scienziati e i dodici agenti) davanti, o meglio sotto l’uscita.
Uscirono tutti.
Reese chiudeva il corteo e mentre si issava sulla scaletta una mano la trattenne.
-Senti Re. Prima che tu te ne vada volevo dirti che mi dispiace per ciò che ho detto, non lo pensavo davvero, ma ero con la testa altrove e tra la montagna di lavoro che abbiam-…
-Non ho bisogno delle tue scuse davvero- aveva risposto con voce dolce a un Coulson sinceramente dispiaciuto.
E mentre lui la guardava pensieroso, lei pensava a quanto le sarebbe piaciuto credere davvero a ciò che aveva detto.
Tirò fuori il suo miglior sorriso e si girò per salire sulla scala, ma lui la trattenne di nuovo.
Appena si girò scocciata per quell’inutile e prolungato contatto fisico venne avvolta dalle sue braccia e stretta in un forte abbraccio.
Rimase rigida a quel gesto inaspettato, ma poi cercò di abbandonarsi e ricambiare. Ma sentiva che ormai si era rotto qualcosa in lei, qualcosa che ne un abbraccio ne delle scuse avrebbero aggiustato.
Cercò di sopportare il fastidio e di ricacciare indietro i ricordi per non rovinare quel piccolo gesto di tenerezza, ma non durò molto.
 
“una forte scossa, le braccia la tengono più stretta.
Fa freddo.
Poi un bacio sulla fronte e le braccia la lasciano andare promettendole che torneranno presto e di non preoccuparsi…”
 
Si staccò da Coulson con forza e perse l’equilibrio sbattendo contro la scaletta dietro di se col cuore a mille. Erano anni che non riviveva così vivamente quell’attimo.
Lui capiva cosa stava provando e le rivolse un mezzo sorriso di comprensione.
Lei borbottò un ciao e mise per la terza volta (quella buona) una mano su quella dannatissima scaletta e raggiunse gli altri.
 
 
Pioveva. Galantemente Sean condivise il suo ombrello con lei, o meglio usò l’ombrello come scusa per stare accanto a lei e iniziare di nuovo a tartassarla di domande.
Lei rispondeva brevemente senza seguire veramente il discorso finché non sentì il nome “Alexander Allen”.
Allora si girò afferrando il polso del suo compagno e  stringendolo forse con troppa forza:
- Non voglio sentire nominare quell’uomo un’altra volta, ok?-
Il ragazzo dopo un attimo di iniziale di smarrimento si era ripreso ed aveva detto:
-ok, allora dovrai aiutarci a capire come funzionano i SUOI strumenti, quelli della missione 15.4 in Alaska.
Li hanno ripescati da poco in quello che rimaneva del suo laboratorio in mezzo ai ghiacci.-
Quindi la missione di recupero era stata effettuata alla fine.
Un brivido la percorse mentre pensava che di lì a poco avrebbe potuto toccare quegli oggetti o quello che ne rimaneva che conosceva bene.
Perché erano appartenuti a suo padre.
Al suo amatissimo padre.
-REESEEE! Mi fai male. Lasciami il polso!
Mollò la presa e corse sotto la pioggia verso gli altri due scienziati rischiando di scivolare sul metallo bagnato del sottomarino e saltando dentro la barca.
Molti rischiarono di cadere in acqua e la guardarono male, ma lei non se ne curò e chiese ai suoi nuovi colleghi se loro già sapevano di questo piccolo particolare.
Fu Victoria a rispondere:
-Ci avevano detto di mantenere il segreto fino a quando non fossimo arrivati sull’isola.- la sua voce era calda e morbida, come quella di una madre che consola la figlia – non erano sicuri che avresti accettato la missione se lo avessi saputo e tu ci servivi.
Noi non siamo neanche lontanamente in grado di eguagliare le tue competenze in questo campo.
Per questo ti chiediamo di partecipare nonostante il profondo dolore che capiamo tu possa provare nel ritrovarti accanto questi strumenti dopo… bhe … quello che è successo.-
Per l’ennesima volta Reese si sentiva tradita, ma al contempo era eccitata e sebbene fosse spaventata dai ricordi che l’avrebbero sicuramente aggredita, non vedeva l’ora di sbarcare.
Forse non le sarebbe andata così male.

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Capitolo 7
*** Sbarcati ***


L’isola era bellissima.
Le gocce che cadevano davano al posto un’atmosfera magica. Il villaggio turistico distava dieci minuti a piedi, in cui ci si godeva il paesaggio tipico.
Gran parte degli edifici era stata danneggiata da schegge semitrasparenti che sembravano brillare di luce propria.
-Non potremmo stare negli alloggi ancora integri al posto di montare inutili tende?-aveva chiesto un militare scocciato quando erano passati di fianco a delle villette bianche da sogno in perfette condizioni.
-No- era stata la semplice e secca risposta del dott. Locke.
Al che Reese, per risollevare il morale generale si era messa dietro il suo collega e camminando all’indietro si era messa a imitarlo.
Non ci poteva fare niente: in quel momento lei si sentiva troppo felice… come non lo era da anni.
E alla fine era dovuta intervenire Victoria per calmare le risate ormai incontrollate e l’ira di un confuso e offeso scienziato.
 
 
-Agente Allen la pregherei di levarsi dall’entrata, sta rallentando le operazioni.- la raggiunse una voce.
Si perché lei non si sentiva pronta a entrare in quella tenda.
Il motivo era semplice: erano lì. Gli strumenti della missione fallita in Alaska nell’inverno di otto anni prima.
Una mano la prese per un polso e la girò verso di se: -Reese, entriamo insieme?-
-Sean lasciami – era stata la sua calma risposta dopo aver annuito con scarsa convinzione.
 
 
Le casse erano tutte lì ammassate l’una sull’altra. Aprì la prima che si ritrovò sotto mano.
Un lungo braccio meccanico leggermente ammaccato era adagiato insieme a pezzi appartenenti ad altri macchinari. Lo tirò fuori con non poca fatica. Poi disse a Sean di andare fuori dai piedi, per dedicarsi a quella piccola parte della sua infanzia.
L’aveva costruito lei e sapeva a memoria ogni sua parte.
Molti fili erano distrutti e non c’era più neanche un solo collegamento funzionante. Per non parlare poi della base, che non trovò nella scatola.
Allora andò ad aprire una seconda cassa e una terza.
I ricordi confusi la aggredivano mentre apriva la quarta. Iniziò a correre per tutta la tenda scoperchiandole tutte, mentre una strana frenesia prendeva controllo di lei.
E le lacrime che l’accecavano la fecero inciampare più di una volta, ma non poteva permettersi di piangere davanti agli altri.
E quando vide che non sarebbe riuscita a trattenerle si nascose dietro alcune scatole e si raggomitolò lasciandosi andare ad un pianto silenzioso.
 
 
Il Dott. Locke finì di indicare ai militari dove piantare le tende pensando scocciato  che non era compito suo, ma della figlia di Alexander.
Decise che non aveva voglia di continuare a badare a quei dementi e sarebbe andato a ricordare all’Agente Allen qual era il suo ruolo nella missione.
Certo, d’accordo, riusciva a capire che non fosse facile per lei ritornare a contatto  con quegli oggetti, ma la missione sarebbe durata sei mesi, cazzo, e non si sarebbe potuta dedicare solo a quello. Lei aveva responsabilità sull’intera operazione.
Mentre camminava verso il laboratorio, piazzato esattamente 500 metri dall’accampamento, pensava a come avrebbero comunicato quella serie di bugie con cui avevano portato la ragazzina su quell’isola.
Già, Fury aveva pensato che sarebbe stato perfetto metterla in una situazione in cui avrebbe dovuto scegliere se accettare il suo passato e quindi poter essere pienamente l’importantissima risorsa che era per l’organizzazione o avere un crollo psicologico e essere chiusa a vita in una qualche specie di manicomio per non averla più come peso morto quale era stato fino a quel momento.
L’organizzazione era crudele da questo punto di vista, ma d’altra parte se non si era capaci di superare questo genere di situazioni allora era meglio levarsi di mezzo, pensava.
 
 
Era davanti all’entrata. Dentro sembrava esplosa una granata: i coperchi delle casse erano ovunque e molti strumenti erano stati tirati fuori .
Non ci volle molto per trovare anche la persona che aveva causato tutto quello.
Stava abbandonata con la schiena contro una cassa fissando con aria assente un rilevatore di onde gamma coperto di sangue.
Si affrettò allora a toglierglielo dalle mani e metterlo nella prima scatola che trovò. Che stronzi, di certo non le stavano facilitando il compito.
Avrebbero anche potuto controllare.
-lo pulirò io più tardi.- disse tendendole la mano. Lei si girò lentamente e lo guardò negli occhi. Aveva pianto. Molto.
-Il sangue non andrà via, mai.- aveva detto semplicemente alzandosi da sola e avviandosi all’uscita.
Appena la vide fuori riprese di nuovo quello schifo dalla scatola e uno straccio umido cercando di levarlo. Ma non andava via.
Vaffanculo: aveva tutta la notte. Anzi sei mesi.

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Capitolo 8
*** Laboratorio ***


Victoria Blain non amava molte cose.
Una delle tante era mentire alle persone. Quindi quando l’agente Fury l’aveva chiamata annunciando che era il momento per loro di dire la verità alla ragazzina era stata sollevata.
 
Aveva dunque chiamato, insieme agli agenti Hais e Locke, la piccola Reese che li aspettava nella tenda che loro quattro condividevano.
-Ti dobbiamo dire una cosa, cara-  aveva provato a dire.
-Ancora? Cosa avete dimenticato di dirmi?- aveva risposto con tono palesemente sarcastico.
Oh sarebbe stata dura spiegare …
 
 
-Sei mesi?- Era sorpresa, ma era anche abbastanza ovvio. Dopotutto in un mese cosa avrebbe potuto fare?
-Okay –aveva allora risposto semplicemente. Dopotutto non aveva nulla di altro da fare per i seguenti sei mesi pensava sarcastica.
-Okay?- sembravano tutti stupiti della sua tranquilla (troppo) risposta.
Ma se preferivano che li prendesse a calci sarebbe bastato chiedere.
-Okay, sì – iniziava a essere scocciata.
-Ma…?-aveva prontamente chiesto la Dott. Blain. Doveva proprio ammettere che era sveglia la sua bionda collega.
-Ma … avrei delle richieste. –aveva allora sorriso ai suoi stronzi colleghi.
-Che genere di richieste?- aveva allora chiesto dubbioso Decklan .
-Allora… vorrei un laboratorio solo mio e una tenda solo mia. Poi non volevo più occuparmi dei militari.-
La tenda e il laboratorio li avrebbero sicuramente concessi, ma la responsabilità dei militari era stata solo un’esagerazione per assicurarsi le prime due. E difatti la risposta fu:
-Per l’alloggio e il laboratorio si può chiedere, ma la terza richiesta è da scartare. Mi dispiace.-
-Okay – aveva detto fingendosi dispiaciuta e andando a coricarsi nella branda.
 
 
 
5:30
Reese stropicciò gli occhi mentre una canzone che non conosceva risuonava alla radio.
Si alzò in un secondo, spense quell’aggeggio infernale, si vestì e prese la sua arma per quella mattina: una trombetta da stadio.
L’aveva trovata per caso in valigia.
Ma d'altronde c’erano tante di quelle cose che non sapeva di avere portato.
Ahahah si sentiva malvagia.
Si avviò silenziosamente nella tenda dei soldati pronta a dare un risveglio da incubo a quei poveracci.
Si piazzò in mezzo alla tenda in modo molto teatrale, nonostante nessuno la stessa guardando. Poi si inchinò profondamente ad un pubblico immaginario e azionò la sua macchina della morte.
Cinque secondi di quello strazio e tutti erano in piedi, armati, guardandosi intorno smarriti.
-Forza principesse. Vestitevi e ci troviamo fuori. Sono curiosa di vedere cosa siete capaci a fare.- aveva detto dopo essere riuscita a riprendersi alle risate.
 
 
Se la cavavano molto bene doveva proprio ammetterlo.
Mira perfetta.
Capacità di azione e ragionamento sotto stress impeccabili. Erano svegli, certo.
Però in quanto corpo a corpo lasciavano a desiderare.
Li aveva stesi tutti uno dopo l’altro senza sforzarsi minimamente. Non andava bene.
Decise che avrebbe provveduto al più presto e li lasciò ad addestrarsi per conto loro. Aveva dato esercizi diversi ad ogni soldato a seconda dei loro punti deboli.
 
 
Ma aveva fatto tutto quello nel minor tempo possibile per un motivo soltanto, montare il suo futuro tenda/laboratorio.
Chiamò con se un paio di persone per aiutarla, ma ci volle troppo: finirono alle 6.
Sei dannatissime ore perché quella stradannatissima tenda doveva essere piantata in modo da resistere ai tifoni.
Sì, perché a quanto pareva in quella maledettissima isola c’erano dei stramaledettissimi tifoni. Ed erano anche molto frequenti.
Anche se lei dubitava seriamente che una tenda potesse davvero resistere ai tifoni non stette a discutere riguardo alla tecnologia dubbia dello SHIELD.
Così portò nel suo nuovo alloggio i suoi effetti personali, la branda e arrangiò una scrivania con qualche tavola di legno.
Poi incaricò due ragazzi che passavano di là di portarle due o tre casse a caso.
Avrebbe comunque dovuto aprire tutto prima o poi e non aveva priorità.
 

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