Nella luce -Sometimes if you go nowhere often enough, you end up somewhere-

di zorrorosso
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Accendino ***
Capitolo 2: *** Fuori Servizio ***
Capitolo 3: *** Stazione Radio ***
Capitolo 4: *** 2CV ***
Capitolo 5: *** Profeti ***
Capitolo 6: *** Qualcuno Particolare ***
Capitolo 7: *** Pinguina ***



Capitolo 1
*** Accendino ***


Parte 1

Accendino

 

Il motore della Ford aveva un rumore fastidioso e continuo.

Viaggiava senza fermarsi.

L’alba non arrivava mai, era sempre notte, il serbatoio dell’auto era sempre pieno e la lunga coda delle auto della polizia li stava ancora seguendo a debita distanza e velocità regolare.

Inizialmente Elwood rispettò tutti i limiti, seguendo alla perfezione i segnali stradali, nel tentativo di dare a Buster i buon esempio, ma guidare su quella strada buia, cominciò ad essere sempre più difficile e capire quale fosse la reale velocità dell’auto cominciò a diventare impossibile: il tachimetro cominciò a segnare cinquantacinque miglia orarie, ma potevano essere trenta, allo stesso modo di novanta.

Anche Buster continuò a fissare nel vuoto della notte la strada di fronte a se, in un periodo di tempo che sembrò interminabile. Minuti, ore, giorni, mesi, anni... Il tempo sembrava non finire mai.

Entrambi controllarono distrattamente il segnale del serbatoio della Bluesmobile per notare se si stesse svuotando della benzina, se ci fosse una stazione di servizio nelle vicinanze.

Niente.

Il serbatoio era ancora pieno, l’auto guidava ancora nel buio, verso Nord, senza raggiungere nessuna direzione, le luci delle auto al loro seguito sembravano soltanto aumentare.

Elwood scosse la testa, sbuffò ed alzò le spalle. Volse lo sguardo verso il ragazzino, con un sorriso bonario e poi di nuovo verso la strada per alcuni minuti.

Improvvisamente alzò un sopracciglio da sotto gli occhiali da sole, come colto da un’idea geniale. Tolse una mano dal volante e frugò in cerca di qualche cosa nel cruscotto, dopo altro tempo tirò fuori un accendisigari. Non era quello originale dell’auto, ad occhio e croce sembrava quello di una Dodge.

Buster lo osservò con ritrovato interesse.

Elwood inserì l’accendino dove sarebbe andato quello originale e lo accese. Allo stesso tempo schiacciò la leva del gas con tutta la forza possibile.

La luce che illuminò l’accendino non era rossa, ma prese subito un tono violaceo e poi di un blu brillante. L’abitacolo si illuminò lentamente di una luce sempre più bianca ed intensa, come se fosse giorno, poi fino a rendere tutto completamente invisibile nella luce.

 

I raggi luminosi non avevano una provenienza precisa. Ai due sembrò di essere avvolti in un’aura di gas luminoso dalla quale, al centro comparì, confidente, la figura minuta ed agghindata di Queen Mousette. Si fece avanti e si guardò attorno, cercandoli come se non potesse vederli.

La strega alzò le braccia e arricciò le mani in una posizione innaturale, inspirando profondamente con il naso. I suoi occhi verdi fissarono prima Buster e poi si aggrottarono sulla figura scettica di Elwood, che cercò di tirarsi indietro dal volante con uno strano timore.

Gli occhi di Queen Mousette si spalancarono sulle lenti nere dei suoi occhiali da sole, piegò la testa in un movimento strano e, agitando una mano sul suo volto come se fosse uno strano ventaglio disse:

“Buh!”.

La strega scomparve e con lei la luce che li aveva abbagliati.

L’auto rallentò e si fermò senza l’aiuto dei freni, parcheggiata sul ciglio della strada: il serbatoio era vuoto. Elwood notò Buster addormentato ed il suo orologio dorato aveva il vetro rotto: era fermo sulle 3:33.

 

***

 

Scostò i lunghi capelli biondi dalla faccia bianca e sudata, gli occhi dalle iridi blu rotearono all’indietro, arrossati, sballati, come se si fosse fatto di qualche cosa, per poi riaccasciarsi sulla tazza del cesso. Rialzò la testa e tese il mento rotondo, per mostrarle i denti radi, gialli, in un sorriso patetico.

La migliore voce soul che avesse mai avuto l’occasione di ascoltare dal vivo era ora in ginocchio, ubriaco fradicio, con un braccio appoggiato sulla maniglia dello scarico. Aprì di nuovo bocca, ma non ne fuoriuscirono melodie soavi, canzoni ruggenti o parole d’amore.

La sua maglietta era sporca di vomito, birra e qualcos’altro di cui non voleva sapere.

Aveva fatto l’abitudine a quell’odore nauseabondo, il solito: sudore, alcohol e vomito.

Tante volte lo aveva trovato così in precedenza: gli aveva tenuto la fronte, lo aveva lavato e lo aveva portato a letto, curato e baciato come se fosse un bambino, come se avesse fatto la cosa giusta, lo stronzo.

 

Tuttavia quella volta Ira non si avvicinò.

Lo guardò dalla soglia del bagno, uno dei cubicoli del Pub che gestivano insieme, aggiustando di nuovo il manico della borsa sulla spalla e, con la stessa violenza con cui aveva spalancato la porta pocoprima, la richiuse voltando le spalle per poi accasciare la schiena sulla superficie dura. Stanca, emise un lungo sospiro fissando il soffitto illuminato dalla luce fredda e tremante di una lampada al neon.

“Ira... Tesoro”- mugolò l’uomo dall’altra parte, come se fosse sul punto di rigettare altro in quello scarico disgustoso.

“Vaffanculo Andrew.”- disse risollevandosi ed uscendo con passi veloci. I tacchi bassi risuonarono sulle mattonelle in ceramica, fino a che non raggiunsero il legno del salone principale, con un riecheggiare sordo.

 

La sala e il bar del Pub erano altrettanto sudici: il pavimento era coperto da una patina grigia e viscosa, sulla quale era difficile camminare e stare in piedi.

Il volto perfetto di Jeanette la guardò dritta negli occhi. Era come essere fissati da Aretha Franklin nel fiore degli anni e con il migliore dei trucchi. La ragazza arricciò le labbra con soddisfazione. Erano ancora coperte di un rossetto scuro, era il tentativo di abbozzare un sorriso, le diede una leggera pacca sulla spalla.

“Bene! Era ora! Tieni.”- disse porgendole un cappotto lungo. La messa in piega dei suoi capelli castani, allisciati con cura, ma naturalmente crespi, era ancora impeccabile anche dopo quasi otto ore di lavoro ed almeno quattro passate a ballare dimenarsi nel coro della band. Neppure una goccia di sudore sulla fronte ed il trucco non era colato dagli angoli degli occhi, né aveva macchiato le palpebre della riga nera di mascara come capitava sempre a lei.

Ira la guardò con attenzione, alla ricerca di quel piccolo difetto che la rendesse umana, che non la facesse sembrare così naturalmente superiore in tutto, ma non lo trovò.

 

“Cleopatra ha appena chiuso le porte, capo!”- urlò sguaiata una voce dal bar dietro di loro, un uomo abbastanza giovane, dalle spalle larghe e le mani troppo grosse per i bicchieri che stava asciugando, sventolo’ uno strofinaccio e si sollevò sul vecchio bancone di legno del bar, per sedersi comodamente tra la lavastoviglie e diverse spine di birra, mostrandole le spalle. Avrebbe potuto sollevare lo stesso bancone con altrettanta facilità, o mangiarselo, a seconda dell’occasione.

Cleopatra, interpellato, si girò verso di loro ed in silenzio e, ancora a testa bassa, fece un cenno di reverenza con le dita. Il suo vero nome era Kals. Non era proprio il soprannome più adatto ad un uomo, pensò Ira, mentre lui stava diligentemente pulendo i tavoli, curvando su di loro tutta la sua altezza. Per raggiungerli doveva anche piegare leggermente le ginocchia.

Anche se probabilmente i lunghi capelli castani, legati ordinatamente, la frangia che ricadeva sugli occhi dalle folte ciglia erano caratteristiche non del tutto maschili; i lunghi baffi a manubrio e la mosca che accentuava il labbro inferiore non lasciavano altrettanti dubbi ai suoi interlocutori.

 

“Grazie Edou...”- rispose Ira verso l’uomo del bar, facendo finta di non aver visto il suo fondoschiena, scoperto sulla vita dei pantaloni e ancora appoggiato sul bancone, lo stesso dove decine di clienti venivano serviti tutti i giorni.

Allungò un braccio nudo nella fodera di raso fredda, provò un brivido quando raggiunse le spalle e si sentì subito meglio. Si avvicinò al centro della sala e batté sonoramente le mani, riecheggiando nel silenzio.

“È tutto per oggi! Tutti a casa!”- disse infine a voce alta, riaggiustando subito il collo del cappotto.

A quelle parole Edou scese agilmente dal bancone e si tolse il grembiule, gettandolo distrattamente nel lavandino, altrettanto agilmente raggiunse Kals e gli prese il braccio.

“Hai sentito! Abbiamo finito! Andiamo!”- disse all’amico con uno strattone.

Kals continuò il suo lavoro senza neanche notarlo.

“Ma adesso o domattina che differenza fa?”- chiese poco dopo, irritato dalla sua impazienza.

 

Ira li guardò alzando le spalle.

“Sono fuori da questo posto! Ricordatevi di buttare fuori Andrew dal bagno quando uscite e...”- Ira si voltò amareggiata verso la scena chiusa del locale, gli strumenti allineati, i cavi arrotolati e la batteria in ordine. Alta quanto di uno degli amplificatori, e vestita dello stesso colore, una ragazza stava sistemando le ultime cose per lo spettacolo del giorno dopo.

“Ira...”- disse lei alzandosi, con un cenno di saluto.

“Lynn”- rispose voltandole sgarbatamente le spalle, senza ricambiare la cortesia.

 

Jeanette aveva già aperto la porta sul retro e le faceva segno di raggiungerla.

Fuori albeggiava.

Era più tardi del solito. La strada sembrava più lunga del solito.

“Puoi stare da me per stanotte”- disse Jeanette al volante dell’auto.

Ira la guardò ed abbassò la testa.

“Ho già una casa”- sussurrò nel frusciare costante del motore ed il silenzio dell’abitacolo.

“No! Lo sai come andrà a finire se torni indietro”- Jeanette la corresse con severità.

Ira annuì.

“Da quanto va avanti questa storia? Sei mesi? Un anno?”- chiese spazientita, con gli occhi sulla strada.

“Non lo so... Mesi suppongo. Lynn chiude sempre il locale ed Andrew con lei. In fondo voi lavorate insieme nella Band, probabilmente la conosci meglio di me...”- rispose Ira alzando le spalle.

“Lynn...”- ripeté l’amica voltando la testa in corrispondenza di un incrocio.

Jeanette rallentò senza fermarsi e ripartì quasi subito, alzando velocemente il volume della radio. Sam and Dave, “Soul Sister, brown sugar”.

Ira ricordava quella canzone. L’aveva sentita tante volte...

 

“Kals diceva che hanno una stanza in più nel loro appartamento. Cercano un coinquilino. Potrei andare da loro...”- rifletté Ira.

“Chi? Tu Cleopatra e l’altro cinghiale del Pub? Cos’è, non ne hai avuto abbastanza di Andrew?”- chiese Jeanette disgustata dall’idea dell'amica associata a quella dei due strani tizi.

“Edou non è affatto come Andrew! E Kals... Insomma non capisco che male c’è a portare i capelli lunghi. In fondo anche io ho un nome da uomo... Viviamo in un mondo libero!”- ribatté Ira, difendendo incondizionatamente i suoi stretti colleghi.

“Libera opinione, Ira non è un nome. Dovresti cambiarlo”- la bellezza indiscussa di Jeanette contrastava spesso con i suoi pareri, a dir poco discutibili.

 

“È una logica strana...”- rispose Ira senza soffermarsi troppo sulle sue parole -”C’entra il numero nove...”- spiegò distrattamente -”Il nono giorno di qualcosa... Non ricordo. Che ne dici di Opal?”- chiese sbadigliando dal sonno e dalla stanchezza accumulati durante la notte di lavoro. Il fatto che Ira si fosse dimenticata di come fosse stato scelto il suo nome era una menzogna. Jeanette ricordò troppo tardi di come Ira fosse stata adottata da bambina e cercò subito di cambiare discorso.

“Ti piacerà fare il terzo in comodo nel loro nido d’amore?”- commentò con tono di scherno.

“Kals ed Edou? Credi davvero che stiano insieme?”- chiese lei ad occhi chiusi.

Jeanette strinse lo sguardo verso la strada e rise.

“Sono soli e di gran lunga sopra i vent’anni... Non ti sembra strano?”- chiese serenamente .

“Sono musicisti squattrinati. Andrew non li aveva assunti per questo?”- chiese Ira retoricamente.

Jeanette continuò a ridacchiare.

“Li ha assunti per stare con te al bar”- disse volgendole un’occhiata veloce.

Ira non suonava ormai da tempo per gestire il servizio del bar. Lo stesso valeva per loro, anche se erano stati assunti per suonare e cantare, neanche loro avevano mai lasciato il bar: non c’erano state alternative in quei lunghi mesi.

L’unica voce maschile della band era Andrew, Jeanette e Lynn erano le voci femminili.  

 

Andrew era un tipo abbastanza possessivo. Conosceva bene i trucchi del mestiere di un amante traditore. Non avrebbe mai assunto un uomo più attraente di lui come barista, per lo meno nel suo giudizio. Ira alzò le spalle con indifferenza.

“Se stanno insieme sono affari loro...”- ribatté chiudendo la portiera dell’auto e seguendola nel palazzo in cui viveva.

 

Gli ultimi lembi della notte lasciarono spazio ad un sole bianco, sulla città fosca. Ira si sdraio’ sul divano di velluto verde e bruciature di sigaretta. Si addormentò immediatamente.

 

Mattino, per meglio dire, primo pomeriggio.

Ira entrò sotto la doccia ad occhi chiusi.

Uscendo, asciugò con la mano lo specchio appannato e lo osservò per notare, esausta ed affamata, la sua immagine allo specchio.

I capelli bagnati sulle spalle le ricordarono quelli di Andrew. Erano biondi e lunghi allo stesso modo, ma lei amava portarli legati. Aprendo velocemente una delle ante dell’armadietto, prese le forbici dallo scaffale, nell’intenzione di tagliarli, proprio come in quel momento cercava di troncare quella storia assurda: lui, lei, Lynn e il Pub.

Adesso che la condizione tra lei, Andrew e Lynn era stata definitivamente chiarita, mancava quella tra lei ed il Pub in cui aveva lavorato per così tanto tempo e che gestiva con lui.

 

Oh Andrew...

Alcuni le avevano già fatto notare quanto il suo ex le somigliasse: stessi occhi, stessi capelli, stessa altezza. Tra di loro correvano circa dieci anni di differenza, anche se spesso sembrava essere lui quello di dieci anni più giovane.

Non era bello, non era eccessivamente intelligente. Tuttavia era molto corteggiato: aveva una bella voce quando era sobrio e, come cantante della band, non gli mancavano di certo groupies. Erano stati insieme diverso tempo ormai e non ricordava quasi più quale fosse stata la ragione a farli innamorare.

Ricordava come si fossero conosciuti al ballo della scuola, durante il suo ultimo anno, lui era il cantante della band, che suonò una delle migliori versioni di Midnight Hour che avesse mai ascoltato.

Aveva buon orecchio per la sua voce ed aveva cominciato da poco a suonare. Sapeva che avrebbe continuato per quella strada e fece di tutto per non lasciarsi sfuggire nessuna occasione, per lo meno all’inizio.

Pensò che l’idea di gestire un Pub dove avere una gig fissa tutte le sere fosse una buona soluzione ed accettò di buon grado la sua offerta, ma presto si rese conto di come il suo ruolo fosse solo quello di barista e la musica, a poco a poco, andò scomparendo dal suo repertorio serale.

 

Edou guardò dallo spioncino e notò il volto del suo ex-capo fisso sulla porta. Si guardò indietro, cercò invano di aggiustare i suoi capelli ricci, corti, tirandoli indietro con una mano, mentre con l’altra riaggiustò la vita dei pantaloni senza cintura. Aveva la barba lunga e una canottiera bianca, abbastanza pulita, ma non troppo.

“Ah! Ira... A cosa dobbiamo questa visita?”- chiese facendola entrare grattandosi dietro l’orecchio con un sorriso falso. Era apparentemente disturbato da quella visita improvvisa, ma probabilmente le stava portando una sorta di rispetto formale, per quanto Edou non sembrava proprio il genere di persona formale, piuttosto il contrario. Lo dimostrò subito strisciando i piedi nudi sul pavimento e sbadigliando con la stessa grazia di un mammifero marino.

Forse si comportava così nel ricordo di averla avuta come suo capo in quei pochi mesi di lavoro. Edou ed Andrew erano molto differenti. C’era qualche cosa nella voce che li accomunava, ma lui sembrava mancare della stessa sicurezza o, per meglio dire, dell’arrogante confidenza.

L’appartamento dei due aveva solo due stanze, la cucina era un piccolo lavandino alla sua sinistra e, nella stessa stanza, più in fondo, c’era un letto singolo con un comodino che rientrava in un angolo in fondo, senza quasi occupare spazio. Alcune cassette di plastica rossa spuntavano da sotto il letto, fungendo probabilmente da guardaroba.

“Siete in cerca di un coinquilino?”- chiese lei evitando di guardarsi ulteriormente attorno.

"Certo..."- disse lui con indecisione, per poi gettarsi sul divano con un tonfo sordo ed accendere la tv.

"Puoi lasciarmi il suo numero di telefono lí, lo chiamo tra un po’"- continuó in uno sbadiglio, indicando con una mano alcuni pezzetti di carta attaccati allo sportello del frigorifero proprio sotto il lavandino della cucina, mentre con l'altra cambiava incessantemente canale.

Sulla macchina a filtro, proprio di fronte ad Ira, la caraffa si riempí di caffè, svuotando il serbatoio d'acqua in un gorgolìo che fece comparire e scomparire Kals come una specie di fantasma senza volto, in pigiama.

"Caffé?"- chiese Edou senza guardarla e senza servirla. L’odore gradevole invase presto la stanza.

Ira non rispose, ma prese una tazza pulita dallo scolapiatti e la riempí fino all'orlo.

“Non avete un bagno?”- chiese con indifferenza.

“Il bagno è in fondo al corridoio”- rispose lui, voltadosi di scatto verso l’altra stanza.

“Kaaaaals!”- chiamò subito dopo.

Lui arrivò dopo qualche minuto di silenzio, vestito e pettinato, la barba rasata ed i lunghi baffi aggiustati con un pizzico di cera. Si adagiò con timidezza sullo stesso divano, infossando la schiena ed unì le ginocchia con un fare quasi difensivo. Al confronto sembravano due esatti opposti l’uno dell’altro, ma sembravano capirsi in un linguaggio fatto di strani gesti.

Le ricordarono qualcosa, qualcuno.

Sorseggiò il caffè con lentezza cercando di scavare nella memoria un ricordo che non riaffiorò.

“Quale... Sarebbe la stanza in affitto?”- chiese Ira, in tono vagamente pensieroso e con leggero imbarazzo.

I due si guardarono, annuirono tra di loro ed alzarono contemporaneamente le spalle con un cenno indifferente.

“È... Questa”- disse Kals mostrando il soggiorno ed il letto in un angolo.

“Quattrocento dollari al mese, spese escluse”- aggiunse Edou con un ampio sorriso.

“Per un letto?! Vorrete scherzare! Ho appena perso il lavoro!”- commentò lei.

Kals guardò l’amico con perplessità.

“Duecento. Spese incluse”- continuò Edou, battendo una mano sul bracciolo del divano.

“Centocinquanta. Nessuno vi offrirebbe di più per una schifezza simile!”- contrattò lei, appoggiando la tazza sullo stesso tavolino dove lui stava appoggiando le gambe.

Kals incrociò il suo sguardo ed annuì, abbozzando un sorriso benevolo.

“Merda...”- sbottò Edou, mentre annuì con riluttanza all’offerta.

“Grazie!”- esclamò lei oltrepassandoli con soddisfazione ed appoggiando la borsa sul letto.

 

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Capitolo 2
*** Fuori Servizio ***


Pt.2 
Fuori Servizio

 

Ore 3.33.

Non poteva essere certo quell’ora.

Era già giorno fatto ed il sole coperto da nubi. Elwood controllò il vecchio telefono cellulare che teneva sotto il sedile dell’auto, ma la batteria era esausta da diverso tempo.

L’autostrada attraversava la distesa senza incontrare edifici. C'era solo il cartello di una stazione di servizio a poche centinaia di metri. L'orizzonte si abbassava verso un avvallamento che non rendeva visibile neppure l’edificio segnalato..

Dietro di loro, nessuna auto.

La lunga coda delle auto della polizia era sparita.

Controvoglia, Elwood scese e cominciò a spingere la macchina in direzione del segnale stradale, incontrando presto la discesa e subito dopo il tetto, di un rosso sbiadito, dell'area di servizio poco piú in basso. Detestava camminare, così cominciò a correre per prendere la velocità ed appoggiare i piedi sul paraurti con leggerezza, specialmente durante le discese. Sentì le sue gambe agili come lo furono un tempo, prima di quando l'ora d'aria e la pausa pranzo erano gli unici momenti per distenderle, un certo senso, si sentì come ringiovanito.

Il posto sembrava deserto e su tutte le pompe di benzina pendeva un cartello scritto a mano. ”Fuori servizio”.

Ne provò una, sperando che ci fosse dentro ancora della benzina, ma era completamente vuota: il bocchettone risucchiò l’aria con un sospiro roco.

Si avvicinò alle casse per capire quello che stava succedendo e non c’era nessuno. Tuttavia il negozio era pieno di accessori e strumenti per auto, bevande, cibo e qualsiasi altra cosa di cui avessero avuto bisogno, alcune taniche di carburante per piccoli macchinari a motore, giacevano sotto il bancone. Mancavano soltanto persone a cui chiedere informazioni.

Neanche la cassa era aperta.

Non c’era elettricità, ma notando tutto in un ordine sommario e la leggera frescura del condizionatore ancora nell’aria, sembrava che il negozio avesse subito un black-out solo momentaneo.

 

Sul bancone notò una specie di pistola, però non era un’arma, lui lo sapeva. Se ne ricordava. Ovvero, ricordava di aver avuto un arnese simile in precedenza. Osservò lo strano oggetto con un vago sorriso e sparò due colpi in direzione del registro di cassa.

Niente.

Il grilletto non affondava del tutto, come bloccato da qualche cosa.

La puntò verso di lui e controllò accuratamente la canna. Da quell’arnese a molla, sarebbero dovute uscire delle monetine o dei gettoni per il telefono pubblico al posto dei proiettili, ma qualche cosa era incastrato al suo interno:

nella fessura in corrispondenza dell'uscita, c’era un foglietto giallo con una grafia un po’ elementare, tuttavia composta da chiare e grandi lettere.

 

Come and find me.

X

P.S. Don’t get yourself in trouble!

Beware the motorhead! Don't ever talk to the motorhead!

 

Erano anni che non leggeva quel tipo di scrittura.

Sovrapposto su quel biglietto, ricadde piegato un altro foglietto più chiaro.

Diecimila dollari. Diecimila.

Uno e quattro zeri. Non un centesimo di meno.

L’assegno, anche quello già visto in precedenza, era decorato con fini onde azzurre e stampe nere, era stato emesso dalla Clarion Records ed era intestato a lui personalmente, da una banca di cui non aveva mai sentito nominare.

Si guardò attorno e lo mise lentamente in tasca, nessuno era presente.

Sparò un’altra volta un colpo verso la serratura della cassa, che si aprì automaticamente all'urto, piena di banconote. Sicuramente dollari, ma un sorriso nervoso trapassò i suoi denti quasi subito: tirando fuori una banconota da cento, notò il ritratto di un giovanissimo Eddie Floyd al posto di Benjamin Franklin.

"Ed?"- sussurrò tra se, ricordando il loro incontro di qualche tempo prima.

Pensò fosse uno scherzo e che quelle fossero tutte banconote false.

A parte lo strano particolare, il colore e la consistenza sembravano quelli di una banconota normale: volendo sarebbero potute passare come banconote normali, piegate o arrotolate. Ne prese alcune, per poco meno di mille dollari e quasi solo per diletto. Non si aspettava di certo che qualcuno potesse cascare a quello scherzo di cattivo gusto.

Raggiunse di corsa la Ford e guardò all’interno, notando Buster ondeggiare armonicamente la testa al suono di musica della radio.

“Mh...”- disse voltandosi di scatto e notando come Elwood lo stava osservando da fuori, ancora perplesso.

Aprì lo sportello con confidenza e gli fece cenno di entrare.

La radio trasmetteva una canzone di Otis Redding in chiusura. Subito dopo ne partì un’altra, sempre sua, senza nessuno spazio pubblicitario. Buster cambiò canale più e più volte, ma Otis era quasi esclusivamente l’unico cantante di tutti i pezzi, famosi o meno.

“Arrivato nessuno? La Band? Cab e Mac?”- il ragazzino scosse la testa senza rispondere.

Usando le piccole taniche che aveva trovato al bancone, Elwood fece il pieno dell'auto e si sedette in attesa al posto di guida nella speranza che i loro amici lo raggiungessero prima della polizia. La radio perse lentamente il segnale, gracchiando in un suono strano e poco dopo lo riprese.

Ad un jingle pubblicitario seguì una voce familiare con un accento vagamente del Sud:

“Questo programma è presentato dalla vostra casa discografica! Clarion Records! La trovate sempre aperta e al vostro servizio al numero 055-44-863! Ed è tutto dal vostro DJ, Tom Malone!”.

“Figlio di... Non puo essere! Era proprio dietro di noi!”- Elwood censurò brevemente le sue parole e guardò Buster, che alzò le spalle altrettanto spaesato da quella voce".

 

***

 

“Chi è Tom? Chi cazzo è Tom?”- i denti di Andrew spuntavano rabbiosi dalle labbra arricciate come quelli di un cane.

Abbaiò verso Ira, con un tono più aggressivo della sua solita post-sbornia mattutina.

A quel baccano, Edou si voltò dal bancone del Bar, dove aveva appena finito di sistemare gli ultimi bicchieri asciugati.

“Kaaaals”- disse lentamente, facendo cenno all’uomo di avvicinarsi.

Lui stava lavando il pavimento con indifferenza e, insistendo sui suoi richiami, lo guardò con fare interrogativo, poi volse lo sguardo nella stessa direzione.

Ira era tornata per presentare le dimissioni ad Andrew, ma la situazione stava lentamente degenerando sull’irascibilità di Andrew. Non guardò la prima lettera e tirò fuori dalla tasca qualche cosa, come se la giovane donna avesse commesso un crimine molto grave, qualche cosa di indicibile e questo Tom fosse solo un pretesto per confrontarla.

“Chi è Tom? A cosa cazzo si stava riferendo Andrew?”- si chiese Ira con lo stesso tono, osservandolo impazzire e sbraitare ancora più forte.

 

“Thomas Malone, musicista... Musicista?! Che cazzo vuol dire?”- Andrew scandì lentamente le parole scritte su un biglietto da visita che teneva con due dita, alzando il mignolo ed imitando un goffo accento inglese.

“Di cosa stai parlando? Chi ti ha dato quel biglietto?”- chiese Ira, strappandoglielo dalle mani.

 

“Un tizio moro, capelli ricci, occhiali da sole, jeans e un gilet nero, finto accento inglese. Chiedeva di te. Lo conosci?"- aggiunse Jeanette con tono serio. Le sue lunghe ciglia si abbassarono e rialzarono con indifferenza allo stesso modo di quelle di una bambola.

“Bones! Certo che lo conosceva”- pensò Ira tra se mentre prese il biglietto da visita in silenzio e lo osservò con un mezzo sorriso.

"Chi cazzo è Tom?"- ringhió di nuovo Andrew.

"Nessuno. Fatti gli affari tuoi!"- sbottò lei allontanandosi.

Kals ed Edou guardarono tutta la scena incuriositi dal baccano, Andrew si rivolse a loro con un’espressione sprezzante:

“Che cazzo avete da guardare?”- in un primo momento, i due si lanciarono un'occhiata d'intesa e solo ad una seconda occhiata fecero finta di voltarsi e tornare a lavorare.

Ira fissò l’uomo, preparandosi un discorso dalle parole grosse, nell’intenzione di difendere i suoi amici da quell’aggressività gratuita, ma lui la fermò prima che potesse cominciare.

 

“Scordati la liquidazione!”- disse puntandole nervosamente un dito addosso.

“Sei tu l’idiota che si è sempre bevuto e vomitato tutte le serate! Se non hai i soldi per pagarmi non è certo colpa mia!”- ribatté lei, arrabbiata allo stesso modo.

Jeanette si mise tra i due e scostò Ira verso l’entrata, cercando di rimanere calma. Era difensiva, ma questa volta non sembrava disturbata dal comportamento di Andrew come al solito. In quel caso, esattamente, la sua espressione non era affatto facile da interpretare

 

“Ira: sono spariti 10.000$”- disse scandendo ogni singola parola con attenzione. Ira sgranò gli occhi, sorpresa. Al Pub non si vedevano somme simili dai tempi in cui Andrew era sobrio, forse non avevano mai visto tanti soldi tutti insieme da molto prima.

“Diecimila dollari? E da dove?”- chiese improvvisamente.

“La band ha ricevuto un anticipo dalla casa di registrazione. È stato firmato un contratto, si inizia dalla prossima settimana. Pensavo che Andrew te l’avesse detto... Forse è per questo che ha deciso di intestare a me l’assegno...”- disse Jeanette in tono pensieroso, voltando meccanicamente lo sguardo verso lui e Lynn, che discutevano accanitamente tra di loro, indicandole.

 

“Andrew non mi ha detto niente. Mi ha detto di tenere i piedi per terra e di stare al Bar, che non c’era più speranza nella musica... Che la nostra non era roba che andava di moda... Credevo fosse tutto finito, Jeanette!”- disse Ira con delusione.

“Non è una ragione per prendere quell’assegno dalle tasche di Andrew senza essere autorizzata... Sono i soldi di tutti...”- commentò in tono difensivo. Le sue lunghe ciglia sventolarono più volte e riaggiustò il trucco con la punta delle dita, si distrasse per qualche secondo guardandole tremare.

“Jeanette... Devi credermi! Ti ho mai mentito?”- disse Ira, confusa, passandosi una mano sulla fronte.

Non aveva idea di quello che stava succedendo al Pub e, negli ultimi giorni, aveva solo pensato a trasferire le sue cose dall’appartamento di Andrew. Niente assegni, niente contratti, niente soldi... Niente casa. Solo un letto nel soggiorno di un bilocale che conteneva tre giovani adulti cresciuti, troppo vecchi per vivere ancora in famiglia, ma troppo poveri per avere una stanza per conto loro. Kals ed Edou dormivano ancora in un letto a castello come se avessero avuto otto anni.

Diecimila dollari... Oh se li avesse presi lei avrebbe già riscosso l’assegno ed avrebbe affittato un vero appartamento. O almeno uno con il bagno.

Ira guardò il volto contrito di Jeanette

“Posso sapere per quale ragione non me lo avete detto?”- disse cercando di mantenere la calma.

“Andrew non voleva...”- la voce accomodante e meccanica di Jeanette di fermò proprio come se la molla di una bambola parlante avesse smesso di girare.

“La tua musica fa schifo, Ira, ha sempre fatto schifo!”- urlò Andrew dall’altra parte della sala, Lynn cercò di trattenerlo, ma lui strattonò il braccio ed in un lampo la fronte leggermente sudata di lui toccava il suo volto, mentre con gli occhi rotondi e furiosi avrebbe voluto spellarla viva.

“Almeno dimmi che non te la fai con uno di questi due!”- ribatté volgendosi verso il bar. Kals ed Edou alzarono la schiena, sorpresi di essere presi in causa senza ragione.

Ira si tirò subito indietro ed esitò: per lui quello fu un chiaro segnale. Infuriato, sputò sul pavimento a pochi passi dal bancone del Bar.

I due si guardarono un’altravolta, accendedosi lentamente.

“Questo è troppo!”- sbottò Edou nello stupore.

“Signor Sterk, i-io ed il signor Lowbless non siamo d-dei burattini! Ci...”- balbettò nervosamente Kals.

“...Ci licenziamo! Io ed il signor Jeabou siamo fuori di qui e non ne vogliamo sapere più nulla! Adios!”-  Edou completò la frase guardandolo con la stessa espressione furibonda e gli gettò lo straccio addosso.

Kals ondeggiò un gomito e lo oltrepassò con altrettanta indifferenza per abbassarsi all’orecchio di Ira.

“Forse faresti meglio ad uscire con noi, adesso...”- gli sussurrò in un orecchio.

Lei si voltò verso le due figure che si stavano allontanando, lanciò un cenno di saluto a Jeanette e raggiunse i due con una lieve corsa.

Senza soldi e senza lavoro.

 

Edou incrociò le braccia. Le sue spalle prendevano largamente la sedia del café in fondo alla strada, aperte, aveva una posa impettita. Le narici emettevano lentamente aria, ritornando alla normalità.

“Spiegami!”- disse veloce, alzando di i piedi sul tavolo come se fosse nel salotto di casa sua.

“Non c’è nulla da spiegare. Andrew se la fa con Lynn. Ha cominciato a trovare scuse per non farmi suonare e farmi stare sempre al Bar con voi. Cosa devo spiegare?”- disse Ira distrattamente.

“Sai suonare?”- chiese Kals, quasi lamentandosi.

"Ottoni. Voi?”- disse lei freddamente.

"Armonica. Edou cantava. Ci sa fare quasi quanto Andrew. Credevo ci avesse assunto per quello...”- rifletté Kals, normalizzando la voce.

“Quanto Andrew?”- sbottò Edou in disappunto.

“Giusto... Non vi sareste dovuti sposare?”- chiese Kals, quasi conoscendo la risposta.

 

“Come la vedi?”- chiese lei in tono retorico.

Kals scosse la testa.

“Al colloquio...”- cominciò a bisbigliare poco dopo, quasi sommessamente portando un gomito sulle lunghe ginocchia con un sospiro malinconico.

“No, spiegami come cazzo fai a conoscere Malone. Devi farci avere una gig con lui!”- incalzò Edou a voce alta e con impazienza.

“Beh, siamo senza lavoro e ti abbiamo appena parato il culo con Andrew: presentarci Malone è il minimo che possa fare per noi!”- commentò Kals con toni più ragionevoli.

 

Ira abbozzó un sorriso ripensando a Bones, era un tipo gentile, gli occhi grandi e le sopracciglia spesse. Alto, magretto, forse per questo lo chiamavano tutti Bones, ma non se lo era mai chiesto prima di quel momento. Si erano conosciuti in chiusura, come capitava spesso ultimamente, era rimasta troppo tempo senza suonare e si era messa ad allenare le labbra per timore di non ricordare più l’intonazione.

Un ronzio a lui piuttosto familiare, quello per l’intonazione degli ottoni leggeri. Bones l’aveva interrotta, l’aveva corretta, le aveva chiesto di ripetere il ronzio in un’altra intonazione e di presentarsi alla sua casa discografica il mattino dopo.

Le aveva offerto una bella lezione e fatto provare alcuni dei suoi ottoni più pesanti, con vaghezza, le aveva accennato a come potesse aver avuto talento, se avesse trovato il modo di allenarsi e qualcuno che le insegnasse.

Tuttavia lui non si era offerto personalmente di essere il suo insegnante e non le aveva lasciato un numero di telefono. Dopotuttoo lei non l’aveva chiesto. Sapeva dove trovarlo.

In silenzio, Ira prese la birra dal vassoio appoggiato sul tavolino e la bevve con cautela, fissando lo sguardo verso la strada in un vago imbarazzo.

 

Una strana Ford dalla targa illeggibile passò proprio di fronte a loro.

 

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Capitolo 3
*** Stazione Radio ***


Pt.3 Stazione Radio

 

L’auto guidò di fronte a loro con una lentezza esasperante.

Il motore e la marmitta di quell’aggeggio antiquato tremavano come se avessero avuto almeno duecento anni. Ed era brutta. Una delle più brutte auto che avessero mai visto.

Si soffermarono su quella vista, poco illuminata dalla luce dei lampioni, non ricordando quasi quale fosse l’argomento di cui stavano parlando.

“Chiamerò Bones più tardi... Lavora alla stazione radio"- si interruppe con indecisione -"Come pensate vi potrà procurare una serata? Facendovi cantare dal vivo negli studi?”- chiese Ira ai due.

“Perché no?! Ogni scusa è buona! Comunque avremmo bisogno di altri strumenti. Se vuoi puoi unirti a noi...”- rispose Kals, cercando conferme da Edou.

“State scherzando? Non credo ne sarei più capace! Non suono da almeno cinque anni!”- disse lei ridendo, in un tono vagamente nervoso.

“Non dire balle, abbiamo sentito il ronzio”- disse Edou risoluto.

“Cosa?”- chiese sorpresa.

“Quel dannato ronzio... Tutte le sere, in chiusura, intonavi un ronzio diverso. Che fine ha fatto il tuo strumento?”- spiegò Kals, come se stesse dicendo qualche cosa di scontato.

“Mh... Andrew. Ha tenuto la tromba in cambio del suo assegno schifoso”- spiegò lei sommessamente.

“Ma non l’hai rubato tu... Giusto?”- indugiò Kals.

“No”

“E allora perché è così convinto che sia stata tu?”- chiese Edou.

“Perché ero io che facevo il bucato...”- rispose Ira sottovoce, mostrando una sorta di imbarazzo in quella ammissione privata a due ex-colleghi di lavoro.

La risposta ed il suo tono, scatenarono immediatamente le risate degli altri due, ma furono presto interrotte quando lei chiese di nuovamente:

“E tra di voi, chi fa il bucato?”.

I due giovani si guardarono sorpresi da quella domanda apparentemente insensata ed alzarono le spalle con noncuranza.

“Ogniuno si fa il suo... Di bucato.”- disse Edou nella più totale indifferenza, ordinando un’altra birra. L'altro abbassó lo sguardo per un attimo e corrugó le sopracciglia sistemandosi la lunga frangia, riflettendo ancora sulle parole della giovane donna.

“Se ti serve lavatrice, si trova nel seminterrato...”- specificò con sospetto.

"Bucato... Che razza di domande fai?"- chiese Edou con un'espressione disgustata, come se le avesse chiesto qualche cosa di assurdo, imbarazzante ed inutile.

"Bucato..."- ripeté Kals piú lentamente, quasi sussurrando, con fare ingenuo.

Solo successivamente i due arrivarono contemporaneamente alla stessa conclusione.

"Oh! Chi cazzo ti ha messo in testa quest'idea?”- chiese Edou, sgranando gli occhi castani e dilatando di nuovo le narici per prendere altra aria, quasi come fosse un toro rivolto al suo torero durante una corrida.

“Quale idea?”- chiese lei sorpresa da quella reazione.

In un primo momento Kals non disse nulla. Appoggiò la mano sul braccio di Edou per calmarlo e poi, senza perdere la calma o balbettare, puntò gli occhi grigi sui quelli di Ira e disse a chiare lettere:

“Non-Stiamo-In-Sie-Me!”.

Il vociare che quella frase scaturì tra i due fu come se un soffitto di mattoni fosse appena piovuto sulle loro teste.

"Adesso capisco perché tutte le ragazze ci dicevano sempre di no!”- sbottò Edou ancora arrabbiato.

"Non che ci sia nulla da dire contro chi sta insieme davvero..."- spiegò cautamente Kals in contemporanea.

"O perché quando ti chiamavo Cleopatra tutti, proprio tutti, ridevano"- continuò Edou in un intreccio di discorsi che stava diventando incomprensibile.

"E si spiega anche perché...”- lo riprese Kals, ricordando alcuni fatti successi al Pub nei giorni precedenti.

"Non é neanche una battuta cosí divertente..."- pensò Edou a voce alta.

“Sentite, non mi interessa! A me non è mai importato se stavate insieme o meno! Quando siete stati assunti...”- esclamò Ira interrompendoli.

“Vuoi dire che è stato Andrew a spargere questa voce?”- gridarono i due all’unisono giurando segretamente vendetta contro le angherie del loro ex-capo.

 

I tre volsero per un attimo lo sguardo verso il Pub in fondo alla strada, dove avevano lavorato fino a poche ore prima. Era in via di chiusura e non sembrava mancare di clienti, anche se da quella distanza non potevano esserne del tutto certi.

Dopo tutto quel baccano, si azzittirono dal nervoso e continuarono a bere in silenzio.

 

Il loro sguardo cadde un’ultima volta sui fanalini di coda della Ford che rumoreggiava poco distante, quasi ferma sulla stessa strada, ma nella direzione opposta. Ira distolse lo sguardo dalla strana vista solo successivamente, quando Edou si alzò in piedi e, scostando finalmente le gambe dal tavolo, fece tintinnare le bottiglie vuote.

“Potresti evitare di mettere i piedi sul tavolo tutte le volte che ti siedi da qualche parte?”- chiese Kals. Edou abbassò lo sguardo verso di lui, ancora seduto, le ginocchia sui gomiti e i pugni sul mento, i capelli appoggiati ordinatamente sulle spalle come se fossero stati uno scialle, sembrava quasi arrotolato su se stesso.  Era difficile pensare a come, anche dopo aver pronunciato discorsi del genere, non facessero coppia fissa.

Edou scosse la testa con sufficienza e guardò un’ultima volta la vecchissima Ford allontanarsi, come colto da un pensiero sfuggente.

“Adesso che non lavoreremo più sotto casa, ci servirà forse una macchina?”- chiese Edou puntando il suo sguardo nel vuoto.

“Se vi può essere utile, Jeanette sta cercando di cambiare la sua...”- rispose Ira, pensando a voce alta.

 

***

 

La Bluesmobile tracció il segnale radio fino ad un palazzo molto alto, non troppo lontano dal centro della cittá sconosciuta. Le strade di quella zona erano abbastanza strette ed Elwood non trovava affatto piacevole non poter affondare l'acceleratore e far correre la sua Ford. Parcheggió cautamente nell'area dove il segnale sembrava piú forte, controlló con attenzione i nominativi sui campanelli e le cassette postali.

Finalmente, trovó un campanello che sembrava appartenere ad alcuni studi radiofonici e suonó. Nonostante l'ora abbastanza tarda, il portone si aprí ed Elwood e Buster salirono.

 

"Bones! Che ci fai qui?”- irruppe Elwood a braccia aperte verso l’uomo dall’altra parte del vetro.

"Scusi, ci siamo mai incontrati?”- chiese lui aprendo, in buona fede, una porta laterale e facendoli accomodare nello studio senza finestre. Li aveva già visti avvicinarsi dall’esterno ed anche se erano sconosciuti, per qualche strana ragione non sembravano malintenzionati.

“Che razza di posto é questo? É una cittá?”- chiese Buster guardando la prima pagina incorniciata di un giornale locale con la sua faccia e quella di Murph.

Interpellato, Tom rispose con un nome incomprensibile e difficile da ripetere.

In un primo momento i due ignorarono la sua risposta.

"Ti trovo benissimo! Che fine ha fatto il resto della Banda?”- chiese Elwood.

Avvicinandosi, si accorse che portava una specie di trucco da scena, proprio come quando lavorava per i Magic Tones.

"Non eri allergico al fondotinta?”- chiese quasi sorpreso.

"Non lo sono mai stato...”- rispose lui con sospetto.

Elwood sbottó. Si ricordava benissimo di quando Murph lo doveva sostituire per via di quella terribile allergia ai cosmetici. Per lo meno aveva evitato di mettersi quella parrucca orribile nella speranza di passare latino... E poi per cosa? Alla radio non lo vedeva mica nessuno e non faceva più quel lavoro ora che faceva parte della banda... Senza dire nulla, aprí la sua immancabile valigetta e gli passó un fazzoletto, nella speranza che si struccasse prima di soffocare in uno shock anafilattico.

"Dove siamo? Quando si riparte?"- chiese Buster con impazienza.

"Non ho idea di cosa state parlando... Noto con piacere che siete appassionati di Hooker?”- chiese lui, dando l’impressione di non avere affatto idea di chi avesse di fronte. La sua serata era ormai arrivata a conclusione e si sarebbe dovuto struccare comunque, quindi approfittò del gesto dell’uomo per pulirsi e riconsegnargli il fazzoletto sporco.

"Tom!”- lo spronò Elwood un’altra volta, cercando di rievocare memorie del tutto assenti.

"Non l'ho mai vista prima d'ora signore”- rispose lui freddamente.

 

"Senta: ha bisogno di aiuto? Le chiamo un carro attrezzi? Un' ambulanza? Quello é suo figlio?"

Elwood si voltó lentamente verso Buster e poi ritornó meccanicamente su Tom.

"Eravamo in Louisiana, io ho preso la macchina per primo con Buster, voi dovevate andare avanti con la serata e poi ci avreste seguito, ma quando si é fatta l'alba...”

“Louisiana? Cos’è? Uno stato o la Terra Santa?”- scherzò lui, senza aver mai sentito il nome di quello stato prima d’ora.

“Tom? Sono Elwood J. Blues... I Blues Brothers!”- sbottò Elwood alterandosi.

“Mai sentiti. Fate parte di una setta?”- ancora una volta, Tom sembrava non sapere di cosa lui gli stava dicendo.

 

Elwood tiró fuori l'assegno della Clarion Records e glie lo mostró nella speranza che almeno quello lo potesse far reagire.

Tom prese in mano il foglio e lesse faticosamente il nome di Elwood, come se fosse stato scritto con caratteri incomprensibili. Guardó lui e l'assegno piú volte, in un confronto veloce, sembrava non voler credere ai propri occhi.

“Perché mi sta mostrando questo assegno? Ed é sicuro che sia intestato a lei?”

“Non so. Volevo chiedertelo visto che è l’anticipo del contratto che abbiamo stipulato ben diciotto anni fa, ma purtroppo...”

"Quale contratto? Non ho mai stipulato contratti di registrazione con questa casa discografica e tantomeno con voi!"

Elwood tirò fuori la sua patente falsa e la mostrò a Tom, per fargli vedere che non stava mentendo e quello era veramente il suo nome.

Lui la guardò più volte, non dubitò delle sue sincere intenzioni, notando la foto ed il nominativo identici.

"D'accordo: le voglio credere signor... Elwood... Non posso fidarmi del tutto, ma sembra sincero quando dice di conoscermi ed io non mi ricordo affatto di lei. C'é un hotel non troppo lontano da qui, prendete una stanza, dormiteci sopra e presentatevi qui domani alla stessa ora"

I due annuirono meccanicamente e lo salutarono, concludendo la sua lunga giornata con una nota davvero strana.

 

Arrivati all’albergo, Elwood prenotò due camere separate e fece scivolare le banconote ripiegate sulla cassa del bureau, con sicurezza.

“Tenga il resto!”- disse abbozzando un sorriso e defilandosi il più velocemente possibile.

L’uomo l’aprì subito con un sorriso di stupore e fissò la faccia del cliente in occhiali da sole di fronte a lui ed il ragazzino che lo accompagnava.

“Grazie! Molto gentile!”- rispose in tono sincero.

Gli occhi di Elwood si sgranarono al suono di quelle parole: aggrottò le sopracciglia e si voltò di nuovo verso di lui, per notare il volto disteso del commesso, soddisfatto di quel pagamento, fargli una specie di reverenza con il capo.

Buster tafugò una delle banconote restanti dalla tasca della giacca e la mise controluce, notando la filigrana perfetta di una banconota vera.

In corrispondenza dell’apice della Casa Bianca, il motto era scritto diversamente:

In Blues we trust.

Istintivamente, Elwood emise un lieve fischio dallo stupore.

 

“Qualche cosa non va?”- chiese l’uomo al bureau, notando i due comportarsi in modo strano.

Lui mostrò la banconota al cassiere come se quella che gli avesse appena dato fosse stata diversa.

“Oh, non avete mai visto queste banconote? Siete stranieri? Errm... È il motto degli Stati Uniti”- scandì l’uomo con estrema lentezza.

“Cosa?”- chiese Buster, non aveva visto tanti pezzi da cento, ma di sicuro non potevano avere quel motto.

“Vuol-Dire-Che-Ab-Bia-mo-Fede-In-Dio...”- scandì nuovamente l’uomo, poi pensò un po’ a quello che aveva appena detto -”Ovviamente se credete in qualcos’altro, la vostra opinione verrà comunque rispettata... È soltanto un motto!”- si corresse velocemente scuotendo la testa.

“Non capisco, é il motto della band!"- sussurrò Elwood verso il ragazzino.

“Non c’è niente da capire! È soltanto un motto! C’è il Blues, il Soul... Holy Louis, avete presente? Ci sono tanti Santi e tanti Generi a questo mondo... Se proprio avete dei dubbi, fate un salto in Chiesa domani, qualcuno sarà disposto a spiegarvi meglio, non sono un prete... Buona notte!"- l'uomo, stranito da quella conversazione assurda, chiuse subito la cassa e la serranda del bureau come se avesse appena parlato a due fanatici.

 

***

 

Holy Louis sorrise serenamente.

Era anziano, lo era sempre stato. Produsse un suono che lei prima di allora riteneva umanamente irraggiungibile, abbassandolo con la sordina e poi continuó il pezzo improvvisando magnificamente. Improvvisando.

Ira non era mai stata una persona eccessivamente religiosa.

Conosceva le scritture antiche, per qualche ragione, le aveva trovate assurde e interessanti in passato. Il fatto di poter suonare ad orecchio, il fatto di poter ripetere un riff senza che si potesse sentire neppure una giuntura e all'infinito... Non trovava fosse possibile. Eppure l'impossibile scaturiva dalla tromba di Holy Louis come se fosse stato di fronte a lei, allo stesso modo di duecento anni prima. Forse l'anziano signore non stava improvvisando, forse aveva memorizzato tutte quelle note a memoria.

Impossibile.

Almeno prima di allora.

La musica era fatta di brani e di note da leggere e imparare su uno spartito, non di semplici rumori. Certo, il suono era importante, ma il jazz era illogico, come poteva gente credere cosí ciecamente alle scritture? Come potevano anche i musicisti piú allenati semplicemente arrangiare?

Credeva che Holy Louis o Holy Fred del Delta fossero soltanto curiose leggende di un passato ormai remoto e dimenticato. Non credeva nel messia. Non di certo in un messia dalla pelle chiara e che intercedesse per Louis in persona.

L'anziano signore la guardó.

"Non mi piace disturbare le persone nel sonno, non mi piace disturbare la gente in generale, ma questa volta..."- disse ripulendo una delle valvole di condensa del suo strumento.

Ira non credeva alle proprie orecchie.

"Chi siete?"- disse quasi sottovoce.

"Non sono nessuno, in particolare. Tu come mi chiameresti?”

"Holy Louis?”- rispose Ira, ricordando le frequenti immagini che per una ragione o per un’altra avevano tappezzato la sua infanzia.

L'uomo gracchió una risata stanca e gli mostró con confidenza la sua tromba di ottone, cesellata in motivi floreali fin dentro la campana. Era uno dei migliori esemplari che avesse visto di recente.

"Strano sentire il mio nome dalla tua voce. Non ti ho mai sentito pregare...”

"Non credo, Holy... Ehm, Louis”

"Non ti biasimo. Avere fede non é facile. Ci sono persone che credono senza credere, e invece altre... La fede dá speranza. Tuttavia la speranza puó scaturire da qualsiasi cosa, non solo dalla fede... Posso sapere cosa ti porta a non avere fede?”

"Tutti lo sanno. Non si puó improvvisare”- rispose lei immediatamente.

Louis sorrise. I denti bianchi spiccarono di nuovo tra le labbra d'ebano. Le illustrazioni sacre lo volevano la sua pelle dai riflessi bluastri, ma in realtá il suo bruno era quello di qualsiasi uomo, alla sua etá.

"Non importa che tu voglia credere o no. Il Jazz é qui per chi lo vuole ascoltare. Scritture, leggende, voci sono tutti artefatti. La musica c'é sempre stata, non l'ho certo inventata io! Ci sono persone che hanno bisogno di vedere le loro cose scritte nero su bianco, altre che hanno fede e credono che il suono della tromba Jazz sia improvvisato. Tuttavia credi nella musica: é questo quello che conta...”

 

L'anziano signore ripose il prezioso strumento nella sua custodia, distogliendo lo sguardo dalla donna, ma lo rialzó poco dopo, non sembrava affatto deluso dalle sue parole.

"Certo che credo nella musica! Ma non ho mai sentito nessuno improvvisare prima d'ora...  Il Jazz è una cosa antiquata, molti stili di musica si sono differenziati nel corso degli anni, sono diventati stili a se stanti, il Blues, il Soul, il Rhythm and Blues... Alcuni teologi ci metterebbero dentro anche il Rock’n Roll... I generi sono innumerevoli e tutti hanno uno spartito”- stabilì lei razionalmente.

"Secondo te stavo improvvisando, poco fa?”- chiese l’anziano signore.

"Potreste aver memorizzato quello che stavate suonando, signore. Dunque no”.

L'uomo strinse il labbro inferiore, aggrottó le sopracciglia con intensitá ed annuí piú volte.

"Non ti sto chiedendo di credere. La fede risiede in te. Se sei disposta a credere nella musica, il suono della tromba jazz non é nient'altro che altra musica..."- pronunciando quelle parole, scosse la testa come deluso, abbandonó presto l'argomento, mostrando indifferenza alla sua reazione confusa e si avvió da solo verso la porta di quella stanza con un andamento leggermente malandato.

"Quasi dimenticavo perché sono qui! C'é qualcuno che ti vuole parlare. Devi partecipare alla jam-session"- disse con un tono secco.

“Quale jam-session?”- chiese lei, spaesata da quell’ordine. L’uomo non rispose, spinse il bastone in avanti e le puntó addosso la valigetta che custodiva la tromba, fino a farla cadere per terra.

 

Ira si sveglió poco dopo su un pavimento sconosciuto ad una prima occhiata. Si era addormentata sul divano ed era caduta girandosi. Con lentezza, ricordò che si era sommariamente trasferita e si stava trovando nella sua stanza... E contemporaneamente nel soggiorno.

Kals si avvicinò con un solo passo e la osservó rialzarsi in silenzio.

"Tutto bene?"

"Eh... Credo di... Credo di si"- disse in modo sommesso, lo sguardo di Ira era spaesato e la sua schiena indolenzita.

"Oh”- disse Kals - "Hai fatto un brutto sogno?”- continuó curvandosi in avanti e cercando di aiutarla a sedersi, come se stesse parlando con una persona molto più anziana di lui e non una sua coetanea.

 

"Credo mi sia rimasto qualche cosa sullo stomaco da ieri sera... Quella birra faceva schifo!”- disse lei strofinandosi gli occhi ancora intorpiditi dal sonno.

Kals si riallontanò ancora, notando qualche cosa, una valigetta nera, vicino alla porta d’entrata.

"Che cos'é? L'ha portata qualcuno?"- chiese Ira indicando con un cenno del capo l'oggetto della sua attenzione. Kals accorse alla porta, cercó di aprirla, ma Edou l'aveva chiusa prima di uscire. Porse la valigetta ad Ira che l'aprí cautamente. Dentro c'era la stessa tromba del suo sogno.

“È tua?”- chiese Kals sospettoso.

“No”- rispose lei in una smorfia, facendo finta di stirarsi ed avere una vaga idea sulla sua provenienza.

 

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Breve nota disclaimer per questo ed il prossimo capitolo:

Non so se risulta chiaro o meno tra gli avvertimenti, ma la religione praticata da alcuni personaggi in questo universo alternativo è completamente inventata e non vuole essere d’insulto a nessuna delle religioni reali.

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Capitolo 4
*** 2CV ***


Parte 4

2CV

 

Non importa chi fosse stata e dove fosse andata la sera prima.

Jeanette era quella persona disposta ad aprire la porta praticamente a qualsiasi ora ed accogliere i migliori amici nel suo monolocale con una lattina di zuppa ed un toast.

Dal centro della città, Ira raggiunse uno dei primi treni in partenza. La ferrovia che attraversava una specie di corso d’acqua più largo in quell’area per inoltrarsi poi in una zona più arida e collinosa, quasi in periferia, dove i vecchi binari seguivano la parete rocciosa di una bassa montagna. Quello per Ira era il modo più veloce di allontanarsi dal centro della città senza passare per l’autostrada e rimanere intasata nel traffico mattutino degli incroci affollati, imprigionata in qualsiasi altro mezzo pubblico.

Con meno di dieci minuti raggiunse la stazione più vicina rispetto all’abitazione di Jeanette.

 

“Wow...”- disse l’amica poco dopo, porgendole una tazza di zuppa.

“Wow cosa?”- chiese lei, spaesata da quella domanda.

“Tutto questo: Andrew, i ragazzi del bar... Wow”- rispose voltando la testa verso uno dei primi raggi di luce ed accovacciandosi sul suo vecchio divano di velluto verde, memoria di una sbronza triste di qualche giorno prima. La sua pelle rifletteva la luce con delicatezza, mostrando il naso e le guance vagamente incipriate e schiarite, i suoi capelli lucenti mantenevano la piega ordinata del panno che aveva usato per non disfarla. Sembrava non essere mai in disordine, neanche da appena sveglia.

Ira, al contrario, aveva due profonde occhiaie, accentuate ancora di più dal trucco rimasto della sera prima e i capelli, ora corti ed impossibili da legare, sembravano carichi di elettricità statica.

“Non deve essere facile. Da quando ti conosco non ti ho mai visto con nessun altro. Quanto tempo siete stati insieme?”

“Dai tempi della scuola. Da quanto tempo ci conosciamo? Tredici o quindici anni?”

“Quindici, mi sembra”

“Allora undici. Undici anni”.

“Wow...”- disse di nuovo Jeanette, colta dal fatto che questa volta non sarebbe stata soltanto questione di giorni.

“Se non fosse stato per Lynn forse Andrew...”- continuò titubante.

Ira la guardò abbozzare un sorriso malinconico ed ondeggiare le lunghe ciglia mentre cercava di continuare quel discorso arido. Fresca e delicata, sembrava onestamente preoccupata dai problemi che la stavano affliggendo, ma la sua posizione era in un certo senso troppo lontana per comprenderla al di più di una lieve empatia.

“Non sono venuta per parlare di questo. Sono venuta per chiederti se hai ancora intenzione di vendere la tua macchina”- Ira arrivò a punto senza altri raggiri.

“La 2CV? Sei sicura di volerla comprare?”- disse Jeanette stirando le gambe e sendendosi più composta.

“A quanto la metti?”

“Uff... Per te farei un prezzo trattabile...”- pensò Jeanette a voce alta.

“Che ne dici della mia tromba?”- suggerì Ira.

“Quella che Andrew ti ha preso in pegno? Certo, come vuoi, mi sembra un prezzo più che ragionevole...”- pensò lei in tono più accomodante.

“La tromba è solo un anticipo”- giustificò subito Ira.

“D’accordo. Hai qualche idea su come ritrovare quell’assegno o dove possa essere?”- chiese Jeanette, molto più interessata a quell’argomento che alla sua auto.

Ira le lanciò con un’occhiata spazientita. In un primo momento, Jeanette pensò che avrebbe potuto mentire, ma sarebbe davvero riuscita a mentire a persone come lei ed Andrew?

“No”- rispose Ira freddamente. Tuttavia la sua mente ricadde per caso sull’incubo che l’aveva fatta svegliare solo un paio d’ore prima, una Jam Session a cui partecipare. Un premio da vincere. Per un attimo non si accorse di come Jeanette aveva ricominciato a parlare.

 

“La tua tromba... Così hai deciso di smettere di suonare? Credo che Andrew sia stato troppo duro con te. Magari con un po’ di pratica...”- disse a voce più bassa.

“No. Ne ho un’altra. Pensavo di mettermi in contatto con qualcuno, di trovare una Jam Session... Prendo lezioni. Sto migliorando... Almeno credo...”- rispose Ira  schematicamente.

“Partecipare ad una Jam Session? Da sola? Con un ottone? È quasi un suicidio...”- commentò Jeanette quasi stupita, senza pensare al peso delle sue parole sull’umore pessimo dell’amica.

Ira la guardò stringendo le labbra con rammarico.

“Dovrò trovare una soluzione che non comprenda te o Andrew, o la banda che avevamo insieme...”- ribatté poco dopo, con un tono quasi velenoso.

“Mi dispiace davvero che le cose stiano andando così... Ma io devo lavorare e la Band di Andrew ha gig fisse tutte le sere... Ci conosciamo dai tempi della scuola, non credo che un battibecco del genere possa in qualche modo...”- si giustificò pigramente Jeanette, ma fu presto interrotta.

“Smettila di mentire, lo sai anche tu che le cose cambieranno. Non potrebbe essere altrimenti!”- rispose Ira, mostrando più rammarico nelle sue parole.

Jeanette si contrasse di nuovo.

Forse per la prima volta la realtà della vita adulta l’aveva veramente colpita. Lei ed Ira erano sempre state amiche e quella separazione dal Pub poteva veramente significare un cambiamento repentino ed una separazione da tutto quello che era successo in passato. Annuì con riluttanza.

“Mi raccomando, falla correre ogni tanto”- aggiunse cambiando discorso e dandole le chiavi dell’auto.

Le due si abbracciarono con affetto ed Ira si allontanò di qualche passo.

“Dimenticavo!”- esclamò Jeanette in un ultimo atto, nella speranza che quello che le avesse appena detto non potesse mai divenire realtà.

“Se sei ancora interessata alla musica, la Clarion Records cerca altri musicisti fissi, magari potrebbero trovarti loro una banda. Sta pianificando una Jam Session. Vince il riff migliore...”- continuò con un saluto, guardandola partire.

Si soffermò solo alcuni minuti, notando la sua incapacità nell’ingranare la retromarcia, o il fatto che in sole due manovre, il paraurti aveva già incontrato un muretto del viale.

Un po’ le dispiaceva, ma ripensò alla sua auto nuova, coperta con attenzione e parcheggiata ordinatamente in garage ed il fatto che quella, ormai, non le sarebbe servita più.

 

***

 

Elwood accostó la Ford di fronte alla chiesa come aveva sempre fatto, tirando il freno a mano e facendola roteare di traverso in una nuvola di fumo, asfalto e gomma bruciata.

L’edificio ricordava vagamente la struttura di una chiesa cattolica abbastanza grande: non aveva crocefissi davanti al rosone centrale, ma un’insegna laterale, illuminata al neon, chiedeva comunque di avere fede e di leggere le sacre scritture.

La grossa navata centrale si concludeva su una piccola abside dove un’orchestra era pronta per suonare, le finestre decorate da vetri colorati, proiettavano i raggi di sole esterni. Tutto abbastanza normale, ma Elwood notò subito che le icone non sembravano affatto religiose, almeno non per lui.

Da una decorazione della vetrata poteva chiaramente riconoscere un uomo dalla pelle scura, vestito più o meno alla sua stessa maniera, suonare una tromba. Gli ricordava vagamente Curtis.

Buster notò persone ben vestite affluire con lentezza e sedersi comodamente vicino a lui. Lo guardavano e salutavano, annuendo soddisfatte.

“Non dev’essere facile portare le vesti di John Lee Hooker. Vi fanno molto onore e se volete diffondere la Parola del Signore, questo è il posto giusto!”- surrurrò una delle signore più anziane con un sorriso.

Elwood fece un cenno con la testa in risposta a quella strana predica.

 

L’orchestra cominciò a suonare ed un uomo in abito da sera, ma con vestiti sgargianti, si fece avanti sul palco dicendo una frase apparentemente profetica:

“Il nostro è un Dio che suona la tromba: sta improvvisando o ha lo spartito? Chi ha fede dice che sta improvvisando, ma alcuni credono che abbia memorizzato lo spartito. Tuttavia, la musica arriva comunque chiara e perfetta alle orecchie di chi ascolta, che ci sia fede o no”.

I fedeli applaudirono e gridarono animatamente “Amen” come se il sacerdote avesse appena letto un salmo.

 

La cerimonia terminó in un’esplosione di musica, di buona musica. Tuttavia Elwood non capí. Sembrava una specie di setta locale che praticava, oltre al gospel, un certo genere di musica, ovvero il jazz antico, come una religione. Icone dei grandi del Jazz e dei padri del Blues a cavallo del secolo, tappezzavano i muri decorati, come fossero stati santi o profeti.

Qualcuno tra gli ottoni dell'orchestra, un sassofono tenore, improvvisó un breve pezzo. Non era male, ma si poteva capire che era improvvisato e non studiato con più attenzione.

Mente alcuni dei fedeli si alzarono a quella melodia, una ragazza bionda, non piú di trent'anni, urtó la spalla di Elwood nel tentativo di correre il più velocemente possibile verso l'uscita.

"Mi scusi!"- esclamó senza neanche guardarlo.

Camille! Pensó velocemente lui, ma non poteva essere. Avrebbe dovuto avere quasi la sua etá ormai e non ricordava affatto portasse i capelli così corti e poco curati.

 

Dopo quello strano episodio, il resto della la cerimonia fu abbastanza breve e non accadde nulla. Non c’erano raggi di luce a redimere fedeli ed era sicuro che neppure lui avesse in qualche modo avuto una strana rivelazione.

Il resto del pubblico uscì lentamente, mentre il sacerdote parlava alla sua orchestra, Elwood si guardò attorno in cerca di un’icona che, di primo acchito, non aveva ancora visto.

“La parola di Hooker sia sempre con voi!”- esclamò il sacerdote rivolto ad Elwood.

“Non-non vedo Elmore James...”- disse guardandosi attorno.

Il sacerdote sorrise e gli mostrò una finestra della vetrata, in precedenza non del tutto visibile tra le teste dei fedeli, dove era raffigurato anche lui.

Elwood abbozzò un sorriso. Anche se quella religione gli era del tutto sconosciuta, sapeva già che avrebbe potuto essere un fedele molto devoto.

“Non sembrate di queste parti”- disse il sacerdote ai due.

“Ci siamo persi...”- spiegò Buster velocemente.

“Se siete qui non vi siete persi. E se credete davvero di essere persi, probabilmente qualcuno vi starà cercando!”- li corresse l’uomo.

Buster guardò Elwood in cerca di risposte, ma lui rimase in silenzio con lo sguardo ancora fisso sull’icona di Elmore James ed il ricordo che questa gli scaturì: una notte senza luna, nel seminterrato di Curtis. La corda Sol di una vecchia chitarra, la copertina di un vinile per terra e una leggenda ormai diventata antica.

La voce calma del prelato lo distolse da quel lontano di ricordo di quasi quarant’anni prima.

“Le strade di Jazz Musette sono infinite, figlioli, vanno al di sopra della nostra comprensione...”- il sacerdote sembrò voler aprire un discorso molto lungo, ma a quel nome i due si ritrassero per un attimo.

“Non è una persona e non è un Dio, è qualche cosa al di sopra di tutto questo, è un universo che non possiamo comprendere, dove la musica è soltanto un suono e le persone se ne dimenticano con noncuranza”- spiegò il sacerdote alle espressioni turbate dei due, per poi interrompersi.

 

“Non so se quell’universo sia tangibile o chi ne faccia parte. Non so se i due universi si incontreranno mai... Ma alcune persone trattano Jazz Musette come se fosse un’identità fattibile, chiedono cose, chiedono favori e desideri come li potrebbero domandare a me o a qualsiasi persona vivente... Se vi sentite strani, forse avete espresso un particolare desiderio? Avete pregato Jazz Musette in qualche modo particolare al di fuori delle sacre scritture?”- chiese il sacerdote ai due.

Buster ed Elwood si guardarono spaesati senza avere la più pallida idea di quello che l’uomo stava dicendo.

“No”- dissero all’unisono.

“Siete sicuri?”- chiese il reverendo.

Elwood non rispose. Tuttavia ricordò dell’accendino della Dodge e a cosa stava pensando quando lo mise al suo posto.

Jake glie lo aveva dato tanti anni prima, durante il loro ultimo concerto in prigione.

Jailhouse Rock suonava ancora nelle sue orecchie, forte e ritmica come solo lui e Jake insieme sapevano suonarla e cantarla.

Era rimasto tra le sue cose tutto quel tempo, lo aveva tenuto in tasca quasi come se fosse stato un portafortuna, nella speranza di trovare una nuova Bluesmobile.

Con il tempo se n’era dimenticato, tuttavia era sempre e comunque rimasto lì, durante tutto il loro viaggio in Louisiana, andata e parte del ritorno, pronto per essere utilizzato. Se n’era ricordato soltanto allora.

 

Senza aggiungere altre parole alla conversazione, i due salutarono il sacerdote ed abbandonarono quella strana chiesa piú sereni e sollevati.

 

***

 

Ira corse via quasi indignata da quello che le sembrò il tentativo di un assolo poco riuscito. Il rivolgersi a Jeanette o l’idea assurda di andare in Chiesa per chiarire le idee su quello strano sogno era stata pessima.

Di improvvisatori esaltati non ne aveva mai visti così tanti tutti insieme. Non era il suono della tromba Jazz quello che aveva ascoltato la sera prima, era l’incubo di qualcuno che aveva digerito male.

La radio dove lavorava Bones non era troppo distante, pensò di seguire il consiglio di Jeanette e  distendere il motore della 2CV in una breve corsa fino agli studi radiofonici, sarebbe stata l’occasione adatta per abbandonare quelle idee assurde e facce di preti esaltati: vedere finalmente qualcuno di più normale, qualcuno che forse l’avrebbe capita.

 

Tom guardava nervosamente l’orologio e si riaggiustava il collo della camicia in attesa di qualcuno. La radio trasmetteva alcune canzoni di continuo, in modo che la sua collaborazione alla stazione fosse minima.

Aveva tirato fuori uno dei suoi migliori tromboni e l’aveva lucidato, in bella vista, nella speranza che qualcuno lo notasse. Non di certo Elwood, che suonò nuovamente alla porta dello studio esattamente come la sera precedente.

Bones sbuffò.

Sapeva di non aver fatto una buona scelta nel non farsi dare un numero di telefono dalla ragazza del bar, il loro incontro era stato dei più gradevoli, ma sapeva dove trovarla e non voleva sembrare un tipo troppo interessato a lei personalmente, per lo meno non al loro primissimo incontro. Purtroppo, quando era tornato in quel locale in fondo alla strada, in un altro giorno di chiusura, lei non c’era più. Aveva trovato la loro lezione interessante, più di quanto avrebbe voluto ammettere, ma il telefono non aveva più squillato fino a quella mattina, quando aveva brevemente annunciato il suo arrivo.

Tom aprì la porta con riluttanza ai due strani tizi e li fece sedere.

“Allora, spiegatemi qual è il problema”- disse con tono calmo.

“Sembrerebbe che qualcuno ci stia cercando”

“Non io!”- esclamò lui di fretta.

“In accordo con la vostra fede religiosa... Siamo due profeti che portano la parola dei Grandi e vogliono diffondere la musica... Abbiamo una banda...”- cercò di spiegare Elwood in modo molto calmo.

“Banda? Ah”- Tom si guardò attorno per un attimo

“Conosco il tuo destino e posso dimostrartelo!”- continuò lui, fingendo di poter vedere nel futuro.

Bones alzò le sopracciglia e spalancò la bocca con falsa sorpresa.

“Lo so, fai il DJ alla radio, ma se l’istinto non mi inganna sei un esperto di ottoni...”- Bones guardò malinconicamente il suo trombone in bella vista. Evidentemente aveva catturato l’attenzione della persona sbagliata.

Per un attimo il pensiero logico di Elwood espresso a voce alta catturò l’attenzione dell’uomo, ma non durò a lungo, quando il suono di un campanello trapassò l’ala degli uffici e si fece avanti la giovane donna che lo aveva scontrato poco prima.

 

“Oh! Che piacere incontrarti di nuovo!”- esclamò Bones soddisfatto, dimenticandosi immediatamente della presenza Buster ed Elwood.

“Piacere mio! Sono venuta per chiederti due... Ehm”- Ira si fermò, guardandosi attorno, provò un senso di disappunto quando realizzò che la stazione radiofonica che l’uomo gestiva, aveva un retrogusto kitsch e religioso. I due strani santoni che sedevano nel suo ufficio non lo aiutavano di certo.

Aveva appena sognato Holy Louis ed era appena uscita con disappunto da una Chiesa dove un improvvisatore cercava di far passare per buona della musica sacra: non ne voleva sapere niente di religione e notare quelle cose in quel momento.

Bones piegò la testa in un sorriso accattivante, prendendole una spalla, nel tentativo di tenerla in disparte dai due.

“Non ci siamo ancora presentati...”- disse con delicatezza -”Ovvero non mi hai ancora detto il tuo nome. Il tuo vero nome. Quando ho cercato Opal al Pub dove lavori, nessuno sapeva di chi stessi parlando... Solo una ragazza mi ha...”

“Ira”- lo interruppe lei con un tono secco.

“Ira... Non è un nome comune per una ragazza... Qualche ragione dietro il suo significato?”- replicò Bones con un altro sorriso gentile.

“Non ricordo, forse c’entra il numero nove...”- mentì lei con noncuranza, ma la sua voce e quella frase non passò indisturbata alle orecchie di Elwood.

“Non puoi non ricordarti per quale ragione i tuoi genitori hanno scelto il tuo nome!”- si stupì lui, sorpreso da quella risposta.

“Non ne voglio parlare”- disse lei freddamente.

Diede uno sguardo veloce all’uomo e al ragazzino seduti poco distanti, ed anche se non poté notare i loro sguardi sotto gli occhiali scuri, ebbe come l’impressione di essere seguita con fin troppa attenzione e di voler andare via da lì il più in fretta possibile.

 

“Perdonami Tom, credevo fossi libero, ma evidentemente mi sbagliavo! Avrei ancora un paio di cose da chiederti, ma... A presto! Ti chiamo io!”- disse lei stringendogli la mano e congedandosi con rapidità.

“Ma...”- disse Bones completamente spaesato.

“A presto! Buona giornata!”- si affrettò a rispondere lei, lasciando gli studi radiofonici il più in fretta possibile.

Elwood attese immobile qualche attimo, senza dire una parola.

Le frasi che aveva pronunciato quella ragazza sconosciuta avevano scatenato qualche cosa in lui, impercettibile dall’esterno.

Senza congedarsi da Tom o dire qualsiasi cosa, corse immediatamente fuori all’inseguimento della ragazza.

“...Il nono orfano di quella settimana... O di quel mese. La lettera ‘I’ è la nona lettera dell’alfabeto!”- disse a voce alta, richiamando la sua attenzione e raggiungendola di corsa.

Ira guardò l’uomo vestito da John Lee Hocker con un cenno di stupore ed imbarazzo, come se le avesse appena letto nel pensiero ed avesse urlato a voce alta nei suoi ricordi. Non andava orgogliosa di quella parte del suo passato. E non si fidava dei tipi troppo religiosi. Come faceva a conoscere quella storia?

“Scusi? Chi è lei?”- chiese in tono vagamente disturbato, raggiungendo l’ascensore.

Buster li raggiunse poco dopo, con la valigetta ed il resto delle cose che Elwood aveva dimenticato negli studi di Tom. I tre presero l’ascensore in silenzio.

“Elwood J Blues. Questo è Buster”- disse lui mentre le porte si chiusero.

“Siete vestiti come due santoni! Appartenete ad una setta religiosa o state soltanto cercando di diffondere la parola di Hooker?”- disse lei distogliendo lo sguardo dalle due figure e puntando gli occhi su i numeri dell’ascensore che stava scendendo verso il basso.

Elwood scosse la testa spaesato da quei commenti.

“La Pinguina -ehm- Sorella Mary usava quel metodo per dare un nome agli gli orfani trovatelli di St.Helen che arrivavano senza un nominativo preciso. Anche il mio nome è stato scelto seguendo lo stesso sistema... Conosce una certa signora Ztdetelik, molto simile a lei, ma con circa 20 anni in piú?”- disse seguendola verso l’uscita del palazzo.

Lei fermò il passo per un attimo e lo guardò con la stessa espressione con cui avrebbe potuto pronunciare un’oscenità contro un suo parente stretto.

 

“Comunque piacere di conoscerla”- disse Elwood con un mezzo inchino, tendendole la mano.

Ira lo squadrò con indecisione e strinse la mano del ragazzino e poi verso l’uomo, al contatto ebbe una sorta di brivido, un presentimento non sgradevole, ma neppure piacevole.

Si ritrasse immediatamente, colta da un senso di terrore, rivedendo in lui qualcuno di familiare.

“Siamo...”- Elwood si interruppe e guardò Buster in cerca di risposte, che alzò le spalle in segno di indifferenza.

“...Siamo profeti.”- continuò con il tono più serio che potesse inventarsi.

“Profeti di cosa?”- chiese lei in tono più ironico che curioso.

Elwood guardò Buster in cerca di nuove idee, ma il ragazzino alzò ancora le spalle.

“Ho le prove di quello che sto dicendo: ho con me una sacra reliquia del messia. Tieni”- disse dandole il fazzoletto sporco del cerone di Bones.

Lei aprì il fazzoletto per vedere l’immagine incerta di un volto, piegò la testa da un lato e poi dall’altro. Un messia dalla pelle chiara che cercava di nascondersi tra gli altri Dèi... Poteva davvero dire la verità? Poteva essere una vera reliquia e la risposta tangibile alle sacre scritture? No. Era un fazzoletto sporco di fondotinta.

Non disse una sola parola.

Lo richiuse e lo porse ai due con timore, prima di scappare via correndo.

 

Dietro di lei, una folla di curiosi che si era immediatamente avvicinata, li trattenne nelle loro posizioni, incuriosita dalla vista di un uomo ed un ragazzino vestiti come due santoni che possedevano una misteriosa sindone.

 

***

“Ripeti, non ho capito: stai dicendo che sei andata a trovare Tom, per chiedergli se era disposto a mandare un nostro pezzo alla radio e che non l’hai fatto perché un tizio vestito come John Lee Hocker ti ha letto la mano?”- chiese Edou con sospetto in risposta alla descrizione accurata di Ira agli eventi di quella mattinata.

“Non mi ha letto la mano. Era... Comunque sapeva delle cose...”- disse lei incerta.

“Come faceva a saperle?”- chiese Kals, cercando di capire cosa la stava frustrando.

 

“Non lo so!”- Ira si buttò sul suo letto, stanca, confusa ed arrabbiata.

I due si guardarono scettici, alzarono le spalle increduli sul suo comportamento e tornarono, come niente fosse, con gli occhi incollati alla tv.

“Dobbiamo andare alla Clarion Records”- disse poco dopo, con un tono esausto.

“Per quale ragione?”- chiesero i due all’unisono, senza guardarla.

“Una Jam Session. Dobbiamo finire di pagare la macchina e dobbiamo trovare il modo di arrivare a fine mese. Volete altre ragioni?”- ma non aspettò una risposta. Si addormentò sul letto come un sasso, russando leggermente con il naso.


 

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Capitolo 5
*** Profeti ***


Parte 5

 

Profeti


Sto per prendere i voti. Voglio diventare un sacerdote...

Quella scusa assurda, pronunciata tanti anni prima mentre era sul punto di licenziarsi, riaffiorò nelle sue memorie come se fosse stata una previsione accurata di quello che stava accadendo al momento.

Elwood strinse gli occhi sulla folla e poi si voltò rigido verso Buster, che salutava i passanti come se fosse stato il prossimo erede di una dinastia reale.

“Fateci vedere di nuovo il volto del messia!”- esclamò un ragazzo verso i due.

Elwood alzò le spalle, quelle che stava raccontando non erano del tutto balle, anche se non l’aveva mai considerata una religione, lui credeva veramente nella musica al loro stesso modo e sapeva quelle cose soltanto perché in qualche modo le aveva già vissute, non di certo perché era veramente un profeta o poteva leggere il futuro.

Le sue uniche intenzioni erano quelle di convincere la persona che non era stata influenzata dai suoi strani poteri e da quel fazzoletto sporco. Lo sguardo della ragazza che assomigliava così tanto a Camille era quello di qualcuno che sapeva: conosceva l’orfanotrofio di St.Helen, conosceva la Pinguina e doveva in qualche modo ritrovarla.

 

Dopo molte richieste insistenti dei fedeli, tirò fuori il pezzo di stoffa e lo mostrò nuovamente, nell’entusiasmo e applausi della folla di credenti. Non si sentiva a suo agio in quella sorta di menzogna e verità mescolate assieme.

Stufo di essere accerchiato dall’orda di fedeli, si tolse il capello e, prendendo Buster per un braccio, lo trascinò verso la Bluesmobile.

Lo guardó salutare un’ultma volta la folla, entusiasmato dal potere, riflettendo lentamente sul da farsi: avrebbe convinto Bones, conoscendo o ricordando dettagli sugli altri membri della band avrebbe potuto ritrovare tutti gli altri membri della banda, persino la misteriosa persona che lo stava cercando.

Tornare sulla strada di casa sarebbe stato più facile del previsto, ma dietro di loro ora c’era un gruppo di fedeli che pendevano religiosamente dalle sue labbra, avrebbero seguito il loro esempio e le loro gesta a venire.

 

Per un attimo, riprovò il senso svogliato di responsabilità che lo aveva pervaso al suo primo incontro con Buster, quella brutta sensazione che gli prendeva la gamba destra quando provava ad affondare sull’acceleratore con lui al fianco. La sentì amplificarsi sotto le occhiate attente dei fedeli. La responsabilità di essere visto come una guida spirituale e di dover sempre fare la cosa giusta.

Non poteva più rubare le lattine dalla fabbrica senza essere notato, non poteva più guardare Jake e schizzare liberamente verso il ponte che si stava aprendo sul canale, non poteva passare col rosso. Non poteva passare più neanche con il giallo, ora che tutti quei fedeli lo stavano guardando e lo prendevano come esempio.

Sospirò con riluttanza nel realizzare quello che stava succedendo sia fuori che dentro di lui.

A questo punto era quasi meglio tornare indietro, ritrovare la strada verso Chicago e spendere il resto dei suoi anni in prigione piuttosto che vivere in quel modo.

“Dobbiamo fare la cosa giusta”- disse rivolto verso Buster, quasi sotto voce, cercando di rimanere il più distaccato possibile da quei sentimenti.

“Quale sarebbe?”- chiese il ragazzino.

“Dobbiamo riportare l’assegno alla Clarion Records”- rispose lui osservando il pezzo di carta un’ultima volta, con dispiacere, trattandolo come se fosse stata una tra le cose migliori che gli fossero capitate in quel momento.

 

Il ragazzo che aveva parlato loro pocoprima, ruppe la folla e li raggiunse verso l’auto, non era abbastanza alto, ma più alto di Buster e abbastanza magro. Avvicinandosi, Elwood notò che in realtà avrebbe potuto avere pocopiù di trent’anni... E che non era un ragazzo.

I capelli cortissimi ed una tenuta simil-militare, potevano creare qualche dubbio al primo sguardo, ma di certo non al secondo.

“Vi conosco!”- disse diretta verso ad Elwood.

“Tutti conoscono la parola del Sacro Hooker!”- disse lui di risposta, riprendendo di nuovo la parte del sacerdote, puntando i palmi delle mani verso l’alto, in tono profetico.

“È una storia lunga. Mi chiamo Louisa”- rispose lei facendo girare in avanti la fascia che portava a tracolla. Non era una borsa, ma un sax soprano.

I due spalancarono la bocca dallo stupore, smisero subito la farsa e la fecero immediatamente entrare in macchina.

 

***

 

Tra tutti gli angoli di strada in cui poteva fermarsi, come aveva fatto a rimanere bloccata nel traffico proprio in quel punto? Istintivamente, Ira suonò il claxon della macchina nel tentativo di andare avanti e superare l’insegna del Pub di Andrew.

La situazione degenerò quando Andrew stesso spuntò fuori dal locale con una scopa sotto braccio e si diresse con sicurezza verso l’automobile ferma.

“Ehi bella! Quando...”- la voce dell’uomo si interruppe e la sua espressione cambiò repentina. Si sarebbe aspettato di vedere Jeanette, ma nel chinarsi verso il finestrino, vide subito la faccia stanca della sua ex.

“Tu mi devi ancora dei soldi!”- urlò, sbattendo la scopa sullo sportello.

Ira scosse la testa, il traffico non andava ancora avanti, rumori di altra gente spazientita continuavano a risuonare per tutta la strada.

L’uomo brandì la scopa verso il lunotto dell’auto e si preparò a schiantarla con tutte le sue forze, quando un’altra idea, qualche cosa che lui probabilmente sospettava essere geniale, colse i suoi pensieri. Puntò il dito su di lei e si allontanò di nuovo all’interno del Pub.

Due poliziotti raggiunsero la macchina a piedi e presero subito la targa e le chiesero di abbassare il finestrino.

“Traffico terribile eh?”- disse lei, mentre la coda si stava lentamente sciogliendo.

“Sembra che un gruppo di fedeli si sia riunito per parlare di una profezia che si sta avverando... Mah!”- disse uno dei due, guardando verso il fondo della strada.

L’altro fece cenno di accostare e di rimanere dov’era.

Ira scese dalla macchina, con sicurezza e guardò i due uomini in uniforme.

“Qualche problema?”- chiese Ira con un sorriso falso. Non era conosciuta per le sue abilità stradali e più di una volta era stata fermata con il paraurti incastrato in quello della macchina che la precedeva, o di quello che la seguiva. O durante un’inversione particolarmente sfortunata, o non si era fermata affatto di fronte alla colonna del parcheggio, o il recinto di cemento armato della scuola e quell’altra macchina parcheggiata al lato della strada... Innumerevoli altre casualità riaffiorarono. Si ricordò chiaramente come mai Jeanette evitava sempre di farla guidare.

“Il proprietario di questo Pub vuole esporre denuncia verso di lei. Vi conoscevate?”- disse uno dei poliziotti.

“Si, abbiamo vissuto insieme diversi anni...”- rispose lei, in un certo senso sollevata dal fatto che l’auto che stava guidando non fosse la causa dei suoi problemi con le forze dell’ordine.

“Ha idea per quale ragione?”- chiese uno dei due.

“Sospetta che possa avergli rubato del denaro. Un assegno. Ma non so dove possa essere veramente! Sono innocente!”- Ira si fece di nuovo seria.

I due uomini si guardarono sbuffando. Sembrava solo un battibecco tra ex-fidanzati. L’auto che stava guidando non era certo quella di qualcuno che ha appena riscosso un assegno da diecimila dollari.

“Non vorremmo entrare nei vostri affari personali, signorina...”- l’uomo controllò la patente della donna con un’occhiata veloce e la riconsegnò velocemente -”...Newborn. Però se questi soldi sono stati presi e, come sono spariti, cosí devono ritornare”- disse uno dei due poliziotti.

“Settantadue ore?”- disse l’altro poliziotto annotando alcuni appunti in un foglietto, nulla di ufficiale.

“Le diamo settantadue ore per tirare fuori l’assegno e presentarlo al suo ex-fidanzato o chi lo ha emesso per lui, la...”- i discorsi dei due uomini si alternavano con costanza, mostrando le lunghe ore di lavoro ed il tempo speso insieme.

“Clarion Records. Certo... Certo...”- Ira annuì con la testa, concludendo la frase, conosceva quella storia troppo bene, ma non aveva ancora soluzioni.

 

***

 

“Come sospettavo: i soliti cacciaballe. Conosco anche questo tipo qui... I baffi sono inconfondibili!”- esclamò la donna scaraventando il fazzoletto sporco sul cruscotto della Ford.

Louisa era veloce e risoluta, dallo sguardo intelligente, sembrava pronta ad inalberarsi al minimo affronto, allo stesso modo di Lou.

“Sentite, non potete rimanere qui. Dovete ritornare da dove siete venuti! A momenti fregavate anche me. Sapete troppe cose e la gente di qui potrebbe prendervi sul serio...”- disse lei dal retro dell’auto, allungò le mani verso una delle portiere, per accorgersi che, essendo un’auto della polizia, era chiusa dentro senza la possibilità di uscita.

“Ma non sappiamo neanche dove siamo o come abbiamo fatto ad arrivare!”

“Per ogniuno di noi, corrisponde uno di voi. Per questo io so chi siete e voi sapete chi sono io! Ci conosciamo nei...”- Louisa prese fiato, quello che stava per dire non era di facile comprensione e già parecchie volte non era stata presa sul serio.

“...Ci conosciamo nei nostri rispettivi universi...”- dichiarò con fermezza.

 

Non avendo avuto modo di riuscire a leggere quasi nessuno dei segnali stradali che avevano incontrato fino a quel momento e non trovando la strada verso l’Illinois, due annuirono, trovando la sua ipotesi come una rara probabilità e la guardarono con curiosità in attesa di altre risposte.

“Di solito se qualcuno di voi, vuole parlare con uno di noi deve soltanto Chiedere. Avete chiesto qualche cosa a qualcuno in precedenza?”

“No!”- rispose Buster.

“Qualcuno vi ha lasciato un messaggio particolare?”

“No!”- continuò Buster, ma entrambi notarono Elwood più contrito e silenzioso del solito.

“C’è un problema in tutto questo concetto: non potete incontrare voi stessi. Ed il vostro corrispettivo potrebbe essere chiunque, ovunque, non necessariamente con lo stesso nome, le stesse esperienze, lo stesso carattere o le stesse caratteristiche fisiche. Tuttavia se vi ho riconosciuto significa che ci siamo già conosciuti da qualche parte... Un Pub forse?”- spiegò lei, ma i due non sembravano interpretare interamente il discorso.

 

“Come fai a sapere tutte queste cose?”- chiese Buster dopo un lungo silenzio.

“Mi piace leggere le riviste di fantascienza!”- rispose lei con un sorriso agguerrito.

 

***

 

Edou stirò la schiena e distese le braccia in un ampio sbadiglio. In quel movimento la sua maglietta si sollevò, mostrando lo stomaco bianco, ricoperto di peli.

Kals, seduto vicino a lui, alzò le spalle e sorseggiò altro caffè, come se non avesse visto nulla.

Ira volse lo sguardo una sola volta, cercando di dimenticare il suo incontro con la Polizia. Seduta su uno scaffale poco distante, fissava da lontano la valigetta aperta e la tromba d’ottone al suo interno. Stringeva gli occhi sulla luce riflessa dallo strumento antico e curato, mentre accostava la tazza di caffè ancora caldo alla guancia, provando contemporaneamente una sorta di brivido alle gambe.

 

Il campanello squillò con insistenza tre volte, alla quarta Edou chiamò Kals con un filo di voce e allungando il suono della ‘a’ così a lungo da far balzare Ira immediatamente in piedi ed aprire senza che gli altri due glie lo avessero chiesto.

Gli occhi infuriati di Louisa incontrarono i suoi, le prese il collo della maglietta e la trascinò in basso, verso la sua altezza.

“Che cazzo ci fai qui?”- chiese immediatamente.

Ira, forse non ancora del tutto sveglia, si tirò di nuovo verso l’alto e riaggiustò il collo della maglia, facendole lentamente strada all’interno dell’appartamento.

I due coinquilini si voltarono, ancora incerti, verso la loro ospite. Edou sorrise candidamente alla sua vista e si alzò in piedi aggiustando la maglia verso il basso, nel vano tentativo di risultare almeno presentabile.

“Lou-i-sa!”- scandì aprendo le braccia.

Lei arrivò verso di lui, stringendo i pugni ed abbassando le ginocchia, come se fosse pronta ad a confrontarlo in un combattimento di lotta libera.

“Kaaaaaaaals”- disse di nuovo Edou, notando che il suo amico aveva incrociato le gambe e stava orsservando la scena in maniera composta. Piegò il collo prima verso di lui e poi verso Ira, che aveva lentamente chiuso la porta, fissa anche lei sui due.

“Kals, Kals, Kals, spiega a ... Spiega alla nostra carissima amica Louisa che... Eh...”- disse Edou intimorito dalla presenza della ragazza così determinata.

Kals si allontanò di qualche passo dai due, come se avesse perfettamente capito cosa Edou volesse da lui e prese il braccio quasi inanimato di Ira, che sistemo’ sui suoi fianchi, stringendosi a lei e sorridendo, prima verso i due e soltanto dopo chinò la testa più in basso, verso di lei, facendo scivolare i suoi capelli di fronte al loro volto in modo da nasconderli come dietro ad una tenda.

Dalla prospettiva di Edou e Louisa sembrava che i due si stessero scambiando un bacio appassionato, ma da quella di Ira, Kals la fissò spalancando i suoi occhi grigi e le sue guance divamparono dall’imbarazzo.

Ira rispose a quella specie di abbraccio con più incertezza e meno vergogna, affondando la testa nella lunga chioma e appoggiando il mento sulla sua spalla.

Louisa li squadrò un secondo, abbassando lentamente la guardia verso Edou.

“Sei sicuro che stanno insieme?”- chiese lei guardandoli incerta.

“Ah... Si vede proprio che l’amore è cieco!”- esclamò Edou in un lungo sospiro, distendendo le spalle e prendendole il braccio -”Vieni con me, lasciamoli soli!”- continuò accompagnandola verso l’uscita per una breve camminata nel corridoio.

Appena i due chiusero la porta, Ira e Kals si sciolsero da quella stretta per poi sedersi quasi come se non fosse successo nulla. Ira spalancò la bocca e tirò fuori la lingua, nel tentativo di disfarsi dei lunghissimi capelli di Kals che erano rimasti incastrati.

“M-mi d-dispiace n-non s-so cosa gli s-sia v-enuto in m-ment-”- balbettò lui, ancora colto dall’imbarazzo.

“Mi ricordo di lei...”- disse Ira, cercando di non farci caso.

“Abbiamo suonato insieme qualche volta... Lei ed Edou...”- rispose Kals ancora con lo sguardo abbassato.

“Hei smettila! Non ho mica la lebbra!”- disse Ira notando come le sue guance non avessero ancora preso un colore piú chiaro o come cercasse di evitarla.

I loro sguardi si incrociarono di nuovo, Kals serrò le labbra e la osservò, mentre lei cercava di studiare quel comportamento così strano.

“Smettila tu di-di guardarmi in quel modo!”- esclamò lui poco dopo, in modo difensivo, distogliendo lo sguardo ed alzandosi per allontanarsi da lei.

Ira butto’ la testa all’indietro e sbuffò in maniera stanca, Kals riempì di nuovo la tazza di caffè e si accostò lentamente alla finestra, cercando di aprirla.

Fuori, sulla strada, poco distante dall’entrata del loro palazzo notò Edou e Louise parlare animatamente. Lì vicino era parcheggiata un’auto strana e familiare.

“Vieni qui...”- disse Kals ad Ira.

Lei si alzó contro voglia e si avvicinò lentamente.

Il giovane era ricurvo sulla vista della finestra, aveva appoggiato la tazza sul davanzale e disteso le braccia, portando le mani al muro, quasi nel voler cercare di capire quello che i due si stavano dicendo molti piani più in basso. Lei si chinò per guardare meglio, nel tentativo di fare la stessa cosa, portando la sua testa vicino al volto di lui: ancora quella maledetta Ford- pensò per un attimo.

Kals si voltò verso di lei. Trovando il volto di Ira di nuovo così vicino, il suo respiro si fece affannoso e divampò allo stesso modo di come aveva fatto poco prima.

 

***

 

“Ti ricorda qualcuno?”- disse Louisa rivolta ad Elwood, che scese lentamente dalla macchina, con fare incerto.

I due si guardarono confusi.

“Louisa, tesoro, si stava parlando di una Jam Session, si stava parlando della possibilità di suonare assieme e di una casa discografica, si stava parlando di altre cose... Chi sono questi?”- disse Edou rivolto verso la strana Ford che aveva già visto aggirarsi nei paraggi, di cui si ricordava bene e lo strano uomo vestito di nero che stava scendendo.

I due si guardarono.

Louisa aveva ragione, pensò Elwood, quell’uomo assomigliava molto a qualcuno a lui familiare, ma per qualche strana ragione non poté veramente collocarlo nelle sue memorie allo stesso modo di come Louisa aveva fatto con lui.

“Elwood J. Blues”- disse lui tendendogli la mano.

“Edouard Lowbless”- rispose ondeggiando sulla schiena e stringendogli la mano, nel tentativo di raggiungere la sua altezza. Edou notò che quello strano tizio era più basso di Kals, ma non di molto. I due si fissarono per un attimo, per lo meno Edou cercò la sua immagine riflessa sugli occhiali scuri.

“Cosa dovrebbe succedere?”- sussurrò Elwood verso Louisa. Lei alzò le spalle, scosse la testa e guardò Edou.

“È un agente musicale signor... Blues?”- disse lui cercando conferme. Quel nome suonava alle sue orecchie allo stesso modo di una preghiera sacra e la cosa lo faceva un po’ stranire.

“Mh. Vado a chiamare il tuo amico, aspetta qui”- disse Louisa ad Edou.

Dopo pochi minuti, scese trascinando Kals per un braccio.

“Non puoi toglierti gli occhiali?”- chiese poi, rivolta ad Elwood. Lui scosse la testa in segno di rifiuto.

“Non puoi alzarti la frangia?”- chiese rivolta a Kals con lo stesso tono, ma l’altro eseguì l’ordine immediatamente, credendo di aver a che fare con una persona troppo strana per i suoi gusti, per lo meno non disposta ad essere contrastata. I due avevano fattezze abbastanza simili, per quanto si potesse dedurre da un uomo in cappello ed occhiali da sole rispetto ad uno che portava degli spessi baffi a manubrio. Louisa li guardò ed annuì con convinzione.

“Che-che cosa sta succedendo qui?”- chiese Kals ad Edou, ma neppure lui aveva la minima idea delle intenzioni di Louisa e di quell’uomo strano.

“Il signor Blues è un agente musicale”- rispose successivamente.

“Ah! Kalinoux Jeabou! Piacere di conoscerla signore!”- rispose lui più rilassato e con un ampio sorriso -“Louisa è una musicista eccezionale... Probabilmente avrà parlato di quando facevamo parte della stessa banda...”- aggiunse ondeggiando la testa in avanti con gentilezza e stringendogli la mano. I lunghi capelli si scossero lievi con lo stesso ritmo.

“Kali...”- cercò di pronunciare Elwood, ma Edou lo interruppe -”Kals va benissimo!”- disse dando una gomitata all’amico, che drizzò schiena e ginocchia, quasi sull’attenti, più alto di tutti quanti. Si rese conto di come anche i loro nomi erano strani e poco comprensibili, ma per lo meno riusciva a pronunciarli, al contrario di quelli di moltissime altre persone, strade e città.

Louisa ed Elwood si guardarono un’altra volta, come se si aspettassero accadere qualche cosa di soprannaturale e miracoloso da quell’incontro.

Tuttavia non accadde nulla.

Anche in questo caso nessuno dei due aveva una chiara idea di quello che sarebbe dovuto succedere ed anche in questo caso la persona che aveva di fronte gli ricordava qualcuno di familiare, ma non riusciva a collocarlo.

“Mh... Sono un agente musicale per la Clarion Records”- disse Elwood rivolto ai due.

“Allora state reclutando musicisti per la Jam Session?”- chiese Kals rallegrato dalle sue parole.

Elwood guardò Louisa e poi verso la Bluesmobile.

“Jam Session... Certo...”- confermò brevemente.

“Allora deve segnarci assolutamente! Stiamo cercando di sistemare una Banda per la prossima settimana! Per adesso siamo noi, se vuole anche Louisa e...”- Kals guardò indietro, in cerca di Ira. Sapeva che era solo pochi passi dietro di lui, ma non si era mai presentata al di fuori di quel portone.

“Ira...”- disse Edou cercandola.

“Ira?”- chiese Elwood ricordandosi bene il suono di quel nome.

“Ira Newborn la ex-barista del Pub dove lavoravano prima!”- suggerì Louisa con un tono vivamente geloso.

“Comunque per qualsiasi informazione può sempre raggiungerci a questo palazzo o chiamare questo numero... Ci trova sotto il nome di Ed... Ed Miller”- spiegò Edou chiaramente, lasciandogli una specie di biglietto da visita.

“Chi è Ed Miller?”- chiese Louisa con sospetto.

Edou alzò le spalle e scosse la testa, ignaro di chi potesse essere il proprietario originale dell’appartamento.

“Adesso che abbiamo il suo nominativo, signor Blues, ci terremo sicuramente in contatto!”- esclamò Kals congedandosi gentilmente e con un bel sorriso, nel tentativo di accorrere verso l’interno e cercare Ira.

Edou fece lo stesso, per poi dare un breve bacio a Louisa e lasciare immediatamente i due.

 

Ira esitò sul portone d’entrata.

Louisa aveva cercato solo Kals ed Edou, non lei. Quando era scesa al piano di sotto non sembrò del tutto felice di essere stata esclusa da quei discorsi, ma notando di nuovo lo strano signore parlare con i suoi due amici, decise di non avvicinarsi e ritornò al piano di sopra.

 

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Capitolo 6
*** Qualcuno Particolare ***


Parte 6

 

Qualcuno particolare.

 

Mike, il presidente della Clarion Records era stranamente lo stesso uomo che si ricordava aver incontrato dietro le quinte del Palace Hotel, tanti anni prima: la stessa giacca tartan, gli stessi occhiali da sole a goccia, la stessa postura maestosa. Seppure ai tempi non era così giovane, non era neppure invecchiato. Purtroppo anche il suo, come quello di tanti altri, era un nome difficile da ripetere e ricordare.

Non poteva credere che in quel... Qualunque cosa si fosse trovato dentro in quel momento, ci potesse essere così tanta differenza fisica tra persone come Louisa e Lou, o caratteriale, come tra i due Tom.

Oltretutto non riusciva a trovare un vero corrispettivo di Kals ed Edou. Con timore, aveva notato come Edou gli ricordasse vagamente Mac o Jake, o come Kals avesse il naso identico al suo, ma incontrarli non aveva provocato in lui nulla di speciale, al contrario di quello che Louisa aveva lungamente spiegato durante il loro viaggio per le strade di quella città misteriosa.

La ragazza di nome Ira, probabilmente veniva da St.Helen, o qualsiasi cosa si fosse chiamato l'orfanotrofio, ma anche se quelle persone avevano nominato la ragazza e la conoscevano, non era con loro in quel momento. Cercò di ricordare alcuni degli orfani di St.Helen ed un paio ritornarono alla sua memoria, ma erano persone che non vedeva più da almeno vent’anni, non ricordava quasi più nulla di loro e non sapeva nulla del loro destino.

 

Elwood seguì l’uomo camminare avanti e indietro vicino alla scrivania del suo ufficio, senza sedersi, per scrutare lui e quell’assegno da lontano.

“Qualche giorno fa ho ricevuto una telefonata”- disse dopo una lunga occhiata, sbuffando sonoramente.

Elwood annuì, come a convincerlo di proseguire con quel discorso.

“Lo avevo intestato ad una Band che pensavo di portare in sala incisione. Una donna sarebbe stata denunciata proprio oggi, se non l’avreste riconsegnato in tempo!”- continuò l’uomo, sollevando il pezzo di carta e scrutandolo in tutte le direzioni.

“Il vostro è stato un gesto molto gentile nei suoi confronti...”- disse l’uomo rivolto ad Elwood e Buster.

I due annuirono in silenzio.

“Sono sicuro che la persona accusata ingiustamente sarà altrettanto grata della vostra gentilezza”- disse, strappando un nominativo da un blocco note e porgendo ad Elwood il foglio piegato.

“C’è qualcos’altro che posso fare per voi?”- chiese l’uomo senza mai sedersi, portando un braccio dietro la schiena.

“Si, ci sarebbero un paio di cose...”- disse Elwood prendendo una breve pausa nel leggere il foglietto e mettendolo subito dopo in tasca.

“Vorrei raccomandare alcuni partecipanti alla Jam Session di sabato”- continuò cercando di imitare il tono di voce di Mike. L’uomo annuì alla sua offerta quasi senza pensare.

“Certo! Questi sono i moduli di partecipazione, riconsegnateli il prima possibile!”- rispose porgendogli alcuni incartamenti.

“E poi...”- Elwood incrociò lo sguardo soddisfatto di Buster come conferma -”Vorremmo partecipare anche noi”- continuò, caricandosi di determinazione. Pensava, così, di ritrovare altri membri della banda e risolvere il mistero nel quale lui e Buster si erano cacciati una volta per tutte.

L’uomo si tolse gli occhiali li guardò e sospirò preoccupato -“Voi due, una band?”- chiese con sospetto.

“Suoniamo l’armonica, ma posso suonare anche la batteria, se la cosa le può interessare...”- spiegò Elwood con rapidità.

L’uomo lo guardò ed annuì sospettoso -”Avete fatto la cosa giusta riportando questo assegno, vedrò quello che posso fare, ma non garantisco nulla!”- pensò a voce alta.

“Presentatevi sabato alle tre, niente registratori, non vi è permesso di parlare con nessuno dei partecipanti!”- continuò l’uomo lasciandoli andare.

“Proprio nessuno?”- chiese ancora Elwood.

“Se conoscete qualcuno degli altri partecipanti, vi sarà concesso farvi vedere e salutarli solo quando la Jam Session sarà finita. Vi farò un segnale!”- esclamò il corrispettivo di Mike stringendogli vigorosamente la mano.

 

***

 

“Domani sera... No... Non lavoro più in quel posto... Il Café lì vicino va benissimo... Se no agli studi radiofonici? Da te? Mh...”- Ira non arrossì, prese solo una lunga pausa -“Perché no?”- aggiunse qualche momento dopo sul microfono della cornetta del telefono attaccato al muro. Edou incrociò le braccia e piegò la testa guardandola, come se stesse studiando con attenzione le sue parole, Kals si adagiò sullo sportello del frigorifero con un lungo sospiro, i due non persero mai l’attenzione su di lei, per tutto il discorso.

“Certo... Certo... Va bene se...”- solo in quel momento Ira alzò gli occhi verso i due coinquilini, dimostrando un velo d’imbarazzo -“...Se porto un paio di amici del bar?”.

Kals ed Edou incrociarono i loro sguardi con un sorriso soddisfatto ed esultarono sommessamente.

L’espressione di Ira si fece subito più stupita, aprì leggermente la bocca e la richiuse subito.

“Oh... Beh...”- disse appiattendo lo sguardo per poi riabbassarlo sulla cornetta e voltare le spalle ai due, la voce si fece più sussurrata, in modo così sommesso da non poter essere più ascoltata. Edou si stirò e ritornò verso il divano, dando una pacca sulla spalla dell’amico con soddisfazione, ma Kals si rialzò dalla sua posizione rilassata senza muoversi e la sua smorfia soddisfatta cambiò presto in uno sguardo serio, quasi malinconico.

“Smettila di fissare le persone!”- incalzò Edou, notando quella scena vagamente patetica. Kals distolse la sua mente dai suoi pensieri ed annuì, allontanandosi da Ira ed avvicinandosi a lui, però senza sedersi.

“Quel tizio si è perfino offerto di farci da portavoce...”- spiegò di nuovo Edou verso Kals, quasi a dover motivare qualche cosa di non detto.

Tutto stava andando come previsto: avevano le voci, un coro, avevano l’armonica, gli ottoni, forse qualcuno alle tastiere ed un sax soprano che avrebbe potuto suonare decentemente... Almeno quando non fosse stata legata ad una camicia di forza.

Se Edou fosse riuscito a trovare una chitarra elettrica per sabato forse avrebbero potuto farcela, non c’era ragione di inquinare quelle belle notizie con pensieri confusi.

 

Qualcuno bussò alla porta, abbastanza forte da essere sentito da Ira, ma non dagli altri due. Stranamente, non suonò il campanello.

“Devo andare!”- disse Ira alla persona dall’altra parte del telefono.

Aprì la porta senza pensarci e di fronte a lei incontrò il riflesso di se stessa e, dietro gli occhiali scuri, la sagoma indefinita di due occhi fissi sui suoi: ancora quello strano santone.

La richiuse subito e si guardò indietro.

Kals camminò lentamente verso di lei e la sua espressione preoccupata, come se avesse qualche cosa di difficile da dirle.

“Eh... Volevo-Volevo...”- il giovane cominciò a parlare senza notare troppo la sensazione di incombenza del suo volto.

“Quel santone con cui parlavate l’altro giorno. Cosa gli avete detto?”- Ira lo interruppe con il tono di qualcuno perseguitato dalla stessa continua visione.

La porta bussò di nuovo. Kals studiò leggermente il volto di Ira e guardò verso Edou, che lo incoraggiò ad andare avanti con il suo discorso.

“Mi pia-piacerebbe...”- disse Kals, ma si interruppe, notando anche lui il rumore di qualcuno che bussava alla porta. Prese la spalla di Ira e la spostò leggermente, per lasciare entrare Elwood, che avendo sentito gente parlare al suo interno, aspettava ancora con pazienza.

 

“Ah! Signor Blues!”- disse subito Kals, con un sorriso così ampio da stringere gli occhi ed un breve inchino. Edou si alzò immediatamente e cambiò subito postura. Alle reverenze dei due giovani uomini, lui strinse le labbra e rispose chinando leggermente la testa, guardandosi attorno, non era un appartamento molto più grande di quello che aveva lui al Bond Hotel, ma aveva una specie di cucina a lato e un’altra stanza sul retro.

“È l’agente musicale di cui ti abbiamo parlato! Lavora per la Clarion!”- esultò Edou con un sorriso, verso Ira.

La ragazza si bloccò, indietreggiò il più possibile, attaccandosi alla parete oltre la quale non poteva andare.

“Possiamo offrirle qualcosa?”- disse Kals con gentilezza, Elwood dapprima scosse la testa -”del pane bianco?”- chiese quasi subito voltandosi solo brevemente verso di lui. Kals si tuffò nella piccola dispensa di fronte a lui, cercando immediatamente quello che l’uomo aveva chiesto.

“Non so se Louisa ha già avvisato la Clarion, ma ci stamo preparando per sabato... Vuole sentire qualche cosa?”- incalzò Edou faticando a trattenersi dall’entusiasmo. L’uomo vestito di nero annuì, porgendo loro tutte le carte ricevute da Mike. Edou annuì, leggendole velocemente e passandole subito a Kals.

“Possiamo chiedere il motivo della sua visita?”- chiese Kals servendogli le fette di pane e portando l’attenzione su quei documenti, che diventarono per un attimo il punto focale della loro attenzione.

Elwood allungò il foglietto che Mike aveva scritto ad Ira, che lo aprì notando soltanto il suo nome scritto in una pessima grafia.

Le porse un altro foglio di carta con una grafia che non aveva mai visto “Come and find me...”- lesse con lentezza.

“Ho ricevuto questo nominativo dal presidente della Clarion. La tua denuncia è stata ritirata...”- disse Elwood a bocca piena ed aspettandosi di essere ampiamente ringraziato per ció che aveva appena fatto.

"La ringrazio, signore"- sussurrò lei tra i denti, con freddezza, evitando il suo sguardo o i commenti dei suoi coinquilini.

Una ciocca di capelli le coprì gli occhi quando abbassò la testa.

 

Come in uno strano meccanismo, tutti gli ingranaggi incominciarono lentamente a congiungersi per creare l’azione desiderata. Qualcun altro usava ringraziarlo con quello stesso tono, chinando il capo, qualcuno dai capelli biondi e ruffi come i suoi, un ricordo lontano ritornò alla sua mente. Per un attimo Elwood si sentì di nuovo bambino, uno degli altri orfani di St.Helen.

“Grazie, Delaney!”- disse la voce di una bambina.

Le sue ginocchia, annerite dalle lunghe corse insieme, fremevano ancora dall’emozione.

Due occhi blu, vivi, poco più chiari dei suoi, lo fissarono con impazienza, sfregandosi le mani. Ed un nuovissimo numero di Batman scivolò dalle sue dita quasi con la stessa velocità con cui lui stesso lo aveva portato via al giornalaio.

“Aspetta!”- disse ancora quella voce nell’ombra, porgendogli una barretta di gomma da masticare.

“Vuoi rimanere e leggerlo con me?”

Elwood, allora ragazzino, annuì di risposta e si sedette al fianco della bambina nell’ombra masticando la sua gomma con fierezza.

Non aveva ancora otto anni, ma era già una lettrice avida quanto lui.

“Comunque non chiamarmi più Delaney, da oggi mi chiamo Blues! Elwood J.Blues!”- rispose lui con fierezza.

La bambina annuí seriamente e si avvicinó aprendo il fumetto sulla prima pagina. Si appoggió a lui. Il nero del suo abito contrastava vistosamente contro il rosa delle crinoline del grembiule.

 

“Irene!”- riuscì a pronunciare, con la voce ancora strozzata da quelle memorie, ritornando alla realtà, prendendole le spalle e baciandole istintivamente la guancia.

La giovane donna rimase immobile e lo guardò con un’espressione mista tra lo stupore ed il disgusto. Anche se lei sarebbe potuta essere il corrispettivo della piccola Soul Sister non avrebbe mai potuto trattarla allo stesso modo di Irene. Non era la sua Irene, ed anche se lo fosse stata, cosa avrebbe potuto dirle dopo più di venticinque anni di silenzio?

 

“Irene chi?”- chiese Kals, guardando i due con stupore.

Ira alzò le spalle, senza sapere di cosa l’uomo stesse parlando.

Il discorso di Louisa era una teoria molto ambiziosa, aveva ragione ad esitare nel cercare di spiegarlo. Anche Elwood, in quel momento, si sentì un idiota, ma era l’unica possibilità rimasta.

“Quello che sto dicendo potrebbe avere dell’incredibile...”- disse Elwood unendo le mani con fare intellettuale. I tre lo osservarono straniti e si avvicinarono gli uni agli altri, con la stessa espressione negli occhi con cui usavano servire le orde di clienti ubriachi che passavano al bar dopo una certa ora.

“Quindi... Se lei è Irene...”- disse pensando lentamente -”Tu devi essere Jake!”- esclamò verso Edou, stringendogli prima la mano e poi abbracciandolo con un istintivo sorriso.

Un sorriso... Kals ed Ira notarono come quello strano tizio prima di allora non aveva mai sorriso a nessuno, si guardarono per un attimo e scossero la testa.

“No, signor Blues, mi chiamo Edouard... Edouard, ricorda?”

Una grossa lacrima scese da sotto gli occhiali scuri, Elwood l’asciugò con la manica della giacca, continuando a sorridere.

“Certo, Edouard, certo...”- annuì velocemente.

Infine, guardò Kals con soddisfazione. Stringendo lo sguardo poteva vedere ancora meglio, in lui, alcune delle sue stesse caratteristiche, ma non riusciva a capire che cosa sarebbe potuto succedere al loro incontro. Si erano già presentati non troppo tempo prima e non era successo nulla, ma per sicurezza non si avvicinò, ancora ricordandosi il messaggio Beware the Motorhead.

“Sono venuto per chiedervi di portarmi a trovare la Pinguina...”- disse lui guardandoli con un mezzo sorriso.

Kals ed Edou scossero la testa, ancora una volta ignari di quello che l’uomo stava dicendo.

“Scordatelo!”- strillò Ira, istintivamente.

“Irene... Ehm.. Ira... Se non vuoi farlo per te, fallo per me...”- disse Elwood nel tono più convincente possibile.

“Kals, se vuoi puoi guidare tu...”- continuò fiducioso.

“Va bene... Ma non ho idea di chi sia... La Pinguina di cui sta parlando, signor Blues!”- ribadì lui con indecisione -”Ira mi presti la tua auto?”- chiese, senza ricevere subito una risposta. Kals non possedeva una macchina sua e non era cresciuto in orfanotrofio come Ira. Quei pensieri urtarono le orecchie di Elwood con rapidità: come faceva a non possedere un’auto ed essere il suo corrispettivo in quell’universo?

Ira prese il braccio di Kals e gli disse qualche cosa sotto voce.

“Allora? Raccontami! Come te la passi? Cosa fai di bello? Com’è vivere qui?”- disse Elwood veloce, rivolto a Edou.

Edou, di risposta, arricciò il labbro superiore e si grattò quella parte della schiena che riusciva a raggiungere senza doversi stirare troppo.

 

“Di cosa sta parlando quel tizio? Dove devo portarlo?”- chiese Kals ad Ira.

“Sono stata adottata da ragazzina. Veramente, è una sciocchezza...”- sussurrò lei, nel tentativo di minimizzare la situazione, abbassando lo sguardo.

“Sì, ma cosa vuole da te?”- continuò lui, cercando un giubotto appeso sull’attaccapanni.

“Vuole vedere la direttrice dell’orfanotrofio in cui sono cresciuta, era soprannominata in quel modo. Questo tizio sa un sacco di cose sul mio passato, sulla Pinguina, mi chiama con un altro nome e non so il perché!”- disse lei senza fermarsi.

Comprendendo quello che Ira aveva appena detto, gli occhi di Kals si sgranarono dalla meraviglia.

“Vuoi dire che lui potrebbe essere...”- suggerì senza riuscire a pronunciarlo.

“Non lo so. E se fosse per me non lo vorrei sapere! Ormai è troppo tardi, sono cresciuta e non mi importa più niente di quella parte della mia vita. Perché non si è fatto avanti prima?!”- disse lei interrompendo il ragionamento di Kals.

“Ira... Almeno cerca di essere educata! Magari in questi anni ha sofferto davvero tanto, non vedi com’è commosso?”- disse lui, dandole istintivamente una pacca sulla schiena.

Effettivamente Elwood stentava a trattenere le lacrime e rimanere con i piedi fermi, ogni tanto si asciugava le guance e saltava in continuazione, senza mai togliersi gli occhiali.

Il pensiero che quel pazzo scatenato avrebbe potuto avere qualche cosa a che fare con Ira, la faceva rabbrividire. Oltretutto continuava a parlare con Edou, quasi come se loro due non esistessero.

Edou, intanto, annuiva lentamente, aggrottando le sopracciglia e prendendosi il mento con fare intellettuale: non aveva ascoltato una sola parola di tutto quello che l’uomo in occhiali da sole gli stava dicendo, la sua voce nasale continuava a blaterare veloce e balzante nelle sue orecchie...

Paralleli... Corrispondente... Qualcosa. Di risposta lui alzò le spalle e sorrise con innocenza.

 

Convinta da Kals, Ira tirò un lungo sospiro e gli passò le chiavi dell’auto. I due si diedero una gomitata, litigando nel decidere chi avrebbe diffuso per primo la notizia e poi richiamarono l’attenzione di Elwood.

“Va bene, andiamo dalla Pinguina.”- disse Ira, cercando di rimanere calma.

Lui prese il braccio di Edou e lo trascinò fuori con gioia.

“Dove ha lasciato la sua scimmietta?”- chiese Kals ad Elwood, aprendo con gentilezza lo sportello passeggeri per farlo salire.

“Buster è rimasto in albergo, non sapevo come avreste reagito alla notizia...”- rispose lui, esitando ad entrare in quel catorcio.

“Male, abbiamo reagito molto male...”- ribatté Ira tra i denti, salendo con Edou sul sedile posteriore.

 

Quella 2CV non era affatto la macchina di Kals e non era neppure la macchina per Elwood, i sue si accartocciarono contemporaneamente sui sedili anteriori, anche se il primo non sembrava affatto disturbato da quella posizione, per lui del tutto naturale, mentre il secondo trovava vagamente comoda l’altezza dell’abitacolo di un’auto europea al confronto della Bluesmobile, vagamente, visto che le sue ginocchia rimasero immediatamente incastrate nel cruscotto.

Per un attimo Elwood si chiese che fine avesse fatto l’acceleratore dell’auto o se avessero fatto prima ad andare a piedi: Kals guidava con una lentezza esasperante ed osava fischiettare soddisfatto, contento di stare facendo una buona azione per uno sconosciuto ed una cara amica.

Sempre mantenendosi di gran lunga sotto i limiti, si fermò a tutti gli incroci e a tutti gli stop, guardò attentamente a destra e a sinistra e non passò neppure una volta con il giallo. Diede la precedenza ad almeno una decina di auto, facendole passare avanti, che ne avessero il diritto o meno.

Ira lo diresse verso un quartiere periferico, cercando di ricordarsi esattamente le indicazioni e le strade cambiate dal tempo e gli anni passati senza frequentare quel posto.

“Potresti aver preso di più dalla parte della madre...”- bisbigliò Kals, mentre Edou squadrò Elwood dal sedile posteriore, arrivando alla loro stessa conclusione. Pettinò un’altra volta all’indietro la folta massa di capelli ricci, che ritornarono nella stessa identica posizione, rendendo quell’azione così frequente altrettanto inutile.

“Me lo auguro!”- esclamò Ira, facendo lo stesso ed ottenendo lo stesso risultato con i suoi capelli dritti.

Preso in causa, l'uomo vestito di nero si voltò verso i due e ricambiò l’occhiata, soffermandosi un secondo sul volto di Ira, i due fecero finta di non aver detto nulla.

 

Elwood ricordava molte cose di Irene, ma molte le aveva dimenticate, lasciando la strana sensazione dei sentimenti provati un tempo prendere il posto della realtà. Era un pensiero costante e ricorreva ancora, a volte. Il sospetto che forse, una come lei non era poi così diversa da loro, una come lei avrebbe potuto forse sopravvivere ai Blues Brothers.

La memoria di una ragazzina gentile che aveva visto diventare donna. Si ricordò di come lui e Jake, adolescenti, facevano spesso il suo nome in uno strano gioco di parole jamaicane.

Iree Irene! I want you to meet this iree, iree man, and roll me a big spliff please!*

A quel punto, Jake faceva un grosso inchino in direzione del cortile di St.Helen e lei di solito, rannicchiata sul davanzale della finestra in compagnia di un libro così pesante da ricadere spesso sulle sue ginocchia, abbassava lo sguardo verso i ragazzi sulla strada e, identificati velocemente i due Ravens, scuoteva la testa in segno di rifiuto e faceva una smorfia con il naso, segno che l’odore del joint non le era gradito, rituffandosi attenta nelle sue letture.

Potevano andare avanti così per ore. Per quanto lei si rifiutasse tutte le volte di rollare loro qualsiasi cosa, non perdeva mai il segno del libro che stava leggendo, o la calma. Di solito era qualcun altro a cacciarli via o lanciare loro una scarpa per farli smettere.

 

Elwood trovò sempre molto romantico il modo con cui Jake usava ricordare il suo primo amore cantando qualche volta If you see Kay, durante le loro serate, modificando l’introduzione. Arrivó un giorno in cui Jake chiese ad Elwood di fare lo stesso. Lui non rispose mai veramente a quella richiesta, ma Groove me diventò uno dei pezzi fissi del loro repertorio e sostituire iree con Irene senza che neppure la Band se ne accorgesse, era fin troppo facile. Forse Jake sapeva di loro? Non potevano nascondersi nulla: se Elwood aveva fatto "due piú due" nei confronti di Lee, nel momento stesso in cui le baciò la guancia, lo stesso valeva per Jake. Tra di loro quelle cose non venivano mai dette. Si sapevano e basta. E non c'era spazio per i rimpianti, o i rimorsi: tutte le parole che doveva dirgli per farsi capire si trasformavano naturalmente nella melodia blues della sua armonica.

 

Durante l’adolescenza, Elwood fu preso in adozione da diverse famiglie, senza successo, al contrario Irene trovò subito una famiglia e non tornò mai più a St.Helen. Al principio, gli era stato permesso di vederla alcune volte, ma presto lo stigma del riformatorio o le loro fughe costanti furono motivazioni più che sufficienti per la famiglia adottiva della ragazza nell’impedirgli di incontrarsi di nuovo.

Forse, in questo universo, Elwood o chi per lui aveva avuto con lei quelle possibilità che nell’altro erano state negate...

Memore di lontani e vaghi ricordi d’infanzia, ascoltò in silenzio Kals fischiettare ed ondeggiare la lunga frangia.

 

Got my mojo workin’ but... Got my mojo workin’ but just don’t work on you...

Anche la melodia che stava fischiettando era una tra quelle che preferiva lui stesso... E di solito la suonava pensando a lei. Guardò Ira, presa da altri pensieri, discutere accanitamente con Edou, sembrava quasi arrabbiata.

Senza prendere nemmeno in considerazione quello di cui i tre stavano parlando li interruppe rivolgendosi a Kals:

“Devi scriverle!”- disse sicuro.

Lui smise di fischiettare, distolse gli occhi dalla strada per un secondo, anche se sbandando a quella velocità non avrebbe mai potuto danneggiare nulla. Anche il piccione al lato della strada avrebbe avuto tutto il tempo di avanzare di qualche passo prima di alzarsi in volo.

“Non devi fare quello che ho fatto io, devi scriverle una bella lettera, lunga. Devi usare le parole giuste, perchè a lei piacciono... Le parole. Le piace leggere. Le parole, la poesia nella musica... Erano le uniche cose che avevamo in comune...”- spiegò veloce e schioccò due volte le dita di fronte a lui, come a richiamare la sua attenzione.

“Lo so com’é andata eravate molto affezionati. Però hai detto, o fatto, qualche cosa che l’ha profondamente offesa... Magari hai rubato un’auto, andando alla ricerca di tuo fratello e sei finito in riformatorio per sette lunghissimi mesi, non so...”- disse alzando le braccia.

“Signore, non ho mai rubato auto in vita mia!”- rispose Kals, quasi preoccupato da quella conversazione insensata.

“Ma se c’è ancora posto per lei nel tuo cuore, dev’esserci un posto per te nel suo no? No?”- chiese di nuovo Elwood con tono incalzante.

“Mi piacerebbe tenere la mia vita sentimentale al di fuori di questa conversazione...”- rispose Kals fra i denti, cercando lentamente di capire a cosa stava facendo riferimento quell’uomo.

“Non temere! Lei storcerà il naso e si comporterà sempre in modo strano con te! Siete due persone troppo diverse. Peró, se la ascolti senza avere parlato, senza avere detto tutto, è finita! Lei è quel qualcuno particolare! Non devi farti intimorire, non lasciarla andare! Non fare il mio stesso errore! Poco importa cosa dirà: non puoi scappare senza dirle addio!”- spiegò lui chiaramente, come se stesse parlando al ricordo di se stesso, appena diciottenne, salire sulla sua nuova auto e abbandonare l’orfanotrofio per l’ultima volta, saettando per le strade di Chicago, di nuovo in cerca di Jake.

La frangia di capelli castani e lisci ricadde sugli occhi di Kals, che arrossì leggermente, abbozzò un sorriso senza rispondere e riportò l’attenzione sulla strada.

Chissà se quello strano tizio era davvero un profeta, in grado di leggere nel passato o nel futuro.


--nota------------------

*Ovviamente la citazione a “Groove me” non è corretta! È stata trascritta così solo per aderire ai fini della storia! La citazione “corretta”, per quanto si riesca a capire, si trova facilmente su internet.

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Capitolo 7
*** Pinguina ***



Parte 7

 

Pinguina

 

Nel salire la scala che portava all’ufficio della direttrice dell’orfanotrofio di St.Lucille, Lea Standford, Elwood notò subito qualche cosa di strano.

La Pinguina, in questo universo, non si chiamava Mary e soprattutto non era una suora.

Era una donna piuttosto bassa ed originale, più simile a Liza Minnelli, portava la giacca di un frack nero ed un papillon che fermava il colletto inamidato, memorie di un tempo in cui, ancora giovane, usava suonare e ballare in calze a rete, dentro qualche club notturno.

Il suo ufficio era tappezzato di ritagli di giornale che la ritraevano in compagnia di stars sconosciute, immagini di jazzisti di successo, alcuni bluesman, ma decisamente meno di quelli che aveva notato in chiesa.

Ira entrò per prima e la donna le fece subito cenno di sedersi in uno degli sgabelli di fronte alla scrivania, ma non sembrava troppo lieta di vederla, mentre parlava animatamente al telefono con una personalità che sicuramente conosceva molto bene.

Gli altri tre la seguirono, ma Kals ed Edou, non conoscendo l'ambiente, rimasero più scostati verso la porta.

La donna alzò lo sguardo stranita verso Elwood, fece una smorfia con la bocca e salutò la persona dall’altra parte della cornetta calorosamente.

“Ira! A cosa devo questa visita?”- continuò successivamente, con un tono affatto rallegrato.

“Mh!”- mugugnò lei con un tono infantile, presentando Elwood alla donna. Non era certo una figura che incuteva terrore e notando che non usava tenere righelli sulla scrivania, probabilmente non era neppure troppo abituata ad usarli.

L’uomo sorrise e si avvicinò verso di lei per presentarsi, ma lei non fece lo stesso: si buttò sulla sedia dell’ufficio e la fece girare a destra e a sinistra con un profondo sospiro, appoggiando i gomiti sui braccioli ed incrociando le dita delle mani.

“Oh... Ira... Cara... Ancora con questa storia dei genitori biologici?”- chiese ritornando con lo sguardo su di lei.

“Non sono io...”- ribatté lei tra i denti, ma fu interrotta.

“Le informazioni sui nostri allievi sono informazioni del tutto segrete, non possiamo divulgarle a chiunque...”- spiegò la Pinguina lentamente.

“Signora Standford, non sono io. Ho smesso di cercare i miei genitori. Mi ha avvicinato lui, era lui che conosceva l’orfanotrofio di St.Lucille e sapeva l’origine del mio nome...”- spiegò finalmente Ira rivolgendosi verso Elwood.

“Ah!”- rispose lei con lo sguardo attento e la bocca leggermente aperta. Con un balzo veloce si alzò in piedi e si avvicinò ad un archivio, cominciò subito a scartabellare dietro alcuni diari e volumi.

“Sempre in forma ...ma’am...”- sospirò Elwood, spaesato da quella vista strana per i suoi occhi.

Lea aveva mantenuto parte della sua gioventù, scattante, egocentrica e dal passato brillante. Diametralmente l’opposto della Pinguina che lo aveva cresciuto.

“Se le cose stanno così, Ira, devo chiederti di prendere i tuoi due amici ed allontanarti: quello che dirò a questo signore, potrebbe non essere ciò che vorresti sentire, mia cara...”- continuò lei facendole cenno di andarsene.

Ira sbuffò irritata. Non voleva essere lì in primo luogo ed era stata appena cacciata un’ennesima volta dall’ufficio della Pinguina per non aver fatto nulla.

“Su, su”- disse lei con lo stesso tono che avrebbe potuto usare con un gatto randagio.

I tre uscirono dalla porta, senza allontanarsi.

 

“Come ha detto di chiamarsi?”- chiese la Pinguina ad Elwood, una volta rimasti soli, con un tono affascinante, sbattendo le lunghe ciglia e mostrandogli una spalla con fare sinuoso, seppure coperta dalla giacca. Sarebbe potuta essere tra i quindici e i trent’anni più vecchia di lui, che cosa mai le avrebbe potuto fare?

“Elwood... Elwood J. Blues”- rispose lui con un certo incondizionato timore.

“Mh... Mi ricorda qualcuno di familiare, ma non riesco a... Mh...”- disse la Pinguina, portando l’attenzione sui volumi che aveva appena tirato fuori dall’archivio.

“E’ sicuro di essere un parente di Ira? Sa, non ci sono notizie molto chiare sulla sua nascita e sua madre risulta defunta...”- continuò senza farlo rispondere, sfogliando velocemente gli incartamenti che aveva sotto gli occhi.

Ricordare qualche cosa di più di Irene forse sarebbe stato utile, ma nulla di più di un lontano rimpianto riaffiorò alla sua mente. Le informazioni che aveva di lei erano inutili per il catalogo che la Pinguina stava sfogliando. Era passato troppo tempo.

“Quale ragione la porta a credere che sia davvero sua figlia?”- chiese sfilando un paio di occhiali tondi dal naso ed appoggiandoli lentamente sul tavolo, guardandolo attentamente.

Elwood alzò le spalle, sopraffatto da quella domanda. Probabilmente si aspettava che la Pinguina si ricordasse di lui come aveva fatto Louisa, non quelle strane speculazioni su una famiglia perduta che lei ed il gruppo di ragazzi stavano facendo.

In effetti Ira assomigliava molto anche a Camille: poteva essere sua figlia? Un altro pensiero oscurò il suo umore da poco rallegrato, ma cercò di cacciarlo via.

“Sua madre. Ci sapeva fare con le armi da fuoco... Lanciafiamme, bazooka, armi nuove, ma anche roba da collezione, Seconda Guerra Mondiale, non certo cose che si trovano tutti i giorni da un rivenditore qualunque! Un tipo molto... Determinato. Non sarei suo padre, ma suo zio”- spiegò lui con delle pause molto lunghe.

La Pinguina annuì con riluttanza. Era un peccato che la donna non l’avesse riconosciuto. Realizzò lentamente che neanche lei lo stava cercando e non c’era modo di sapere come tornare veramente a casa partendo da quell’orfanotrofio.

 

“Mi dispiace signore, non risulta segnato da nessuna parte. Informazioni più dettagliate? Date di nascita o di morte?”- continuò lei chiudendo il volume dell’archivio. Elwood scosse la testa. Quelli erano sempre stati affari che Jake aveva tenuto per se.

“Allora?”- chiesero Kals ed Edou contemporaneamente a Elwood, non appena richiuse la porta dell’ufficio dietro di se.

“Per la Pinguina non ci sono prove valide...”- disse lui, dispiaciuto.

Per quanto fingesse che la cosa le fosse del tutto indifferente, se non addirittura disturbata dal pensiero che loro due potessero essere parenti, Ira guardò Elwood con lo stesso dispiacere e tirò un lungo sospiro.

“E... Potrebbe ricordarmi chi dovrebbe essere Ira per lei, signore?”- chiese Edou.

“Mia nipote. Sono suo zio...”- mentì lui, continuando ad esserepiù convinto dalle teorie di Louisa che di quelle dei ragazzi.

“Beh adesso si spiegano molte cose!”- disse Edou in direzione di Ira, raggiungendo la macchina.

“Vedi, è come ti dicevo, tutti in famiglia hanno uno zio strano... Proprio tutti!”- confermò Kals alzando le spalle e facendo lo stesso.

Elwood si soffermò sull’immagine dei tre amici risalire lentamente in auto, ritornando con l’attenzione sul ragazzo più alto. Eppure il biglietto parlava chiaro Beware the Motorhead e Kals era tutt’altro che un motorhead. Secondo le teorie di Louisa, sarebbe dovuto succedere qualche cosa all’incontro con il suo doppelganger e secondo l’ipotesi che stava lentamente prendendo piede nella sua mente, ora anche Camille era venuta a mancare. Piuttosto che credere defunta un’altra persona che aveva fatto parte della sua vita, scelse la soluzione più assurda: doveva essere per forza in un universo parallelo.

“Vuole tornare con noi?”- chiese Kals dal finestrino dell’auto. Elwood li raggiunse per fare ritorno verso l’appartamento dei tre con la stessa estenuante lentezza dell’andata.

“Se lei crede di essere mio zio... Che fine hanno fatto i miei genitori allora? Chi erano?”- chiese Ira senza pensare, rompendo il pesante silenzio.

Elwood sospirò.

“Ti sarebbero piaciuti...”- disse con riluttanza.

I quattro si azzittirono di nuovo, Ira strinse le labbra arrivando alla conclusione che, se sia lui che la Pinguina continuavano ad evitare di parlare dei suoi genitori senza fornire nessuna informazione nuova, voleva dire quasi sicuramente una cosa soltanto.

“Non mi interessa. Mi hanno abbandonata, di conseguenza non mi volevano!”- Ira prese una pausa, per cercare di mantenere il controllo - “E cos’ha lei per giustificarsi?”- chiese ancora.

“Nessuno me ne ha mai parlato. Camille era... Eh...”- Elwood emise un altro lungo sospiro. Dopo la rivolta in carcere, lui era stato messo in isolamento per un po’ ed aveva perso i contatti con Jake: non sapeva se o quando quella donna lo era andato a trovare, non sapeva cosa le aveva scritto.

La ragazza emise un rumore nasale, probabilmente cercando di trattenere una lacrima di dolore. Scese dalla macchina prima di tutti e corse via all’appartamento senza salutare.

Kals studiò un lentissimo parcheggio parallelo, tecnicamente perfetto e patetico allo stesso tempo, poi si soffermò a guardare Elwood affatto indifferente alle sue manovre troppo lente ed il comportamento della ragazza.

“Probabilmente non è una notizia difficile da digerire, signor Blues...”- commentò Kals, schioccando la lingua in un suono arido.

“Non è mia nipote, è Irene!”- sbottò lui di rimando -”Che aspetti? Vuoi rimanere da solo per il resto della vita? Ti piace fare il benzinaio per le ex-modelle? Vai immediatamente da lei!”- disse scaraventandolo dall’auto con una spinta.

Edou spinse istintivamente le ginocchia sul sedile, nel tentativo di vendicarsi per l’amico, facendolo sbalzare in avanti, ma Elwood non protestò, anzi, lo guardò con soddisfazione sfregandosi le mani ed annuì orgoglioso dicendo:

“Jake avrebbe fatto lo stesso!”.

Edou lo salutò malamente e lo lasciò andare verso la sua Ford.

Difficile decidere quale fosse l’auto più butta delle due.

 

Kals bussò alla porta della sua camera da letto chiusa, ma Ira non aprì.

“È la mia camera da letto... Ci sono delle cose...”- disse giustificandosi, leggermente pensieroso.

“Non mi interessa, le lascio stare le tue... Urr”- rispose lei dall’altra parte, con un tono di voce più calmo.

“Non badare a quel tizio. Dobbiamo cominciare le prove...”- continuò lui di nuovo, cercando di essere convincente.

Dall’altra parte non arrivò nessuna risposta. Solo lenta, dolorosa e grave, risuonò la sua armonica.

 

Oltrepassando Kals ed i suoi modi premurosi, Edou sfondò la porta con un calcio poco dopo e le offrì di bere direttamente da una bottiglia di burbon.

 

***

 

Sabato non arrivò facilmente per Ira.

Provare con Louisa non era una cosa facile, non che non fosse stata all’altezza, ma il suo umore era già pessimo senza l’aiuto dell’amante gelosa di Edou a darle una mano e creare contunui battibecchi. Bones aveva introdotto un buon musicista alle tastiere, un suo collega della radio, di cui non ricordava affatto il nome. Tom l’aveva invitata ad almeno cinque appuntamenti in quattro giorni, dopo le prove, e lei aveva accettato con indifferenza.

Per quanto risultasse misterioso ed attraente da sconosciuto, una volta realizzato che più della metà delle sue giornate costituivano in lunghissimi monologhi da solo di fronte ad un microfono, interrompendosi solo ogni tanto per mantenere un po’ d’orecchio musicale, abbassò di molto il suo interesse.

Kals ed Edou avevano insieme delle voci ottime ed avevano dimostrato molto più entusiasmo di quanto avessero mai menzionato davanti al bancone del bar. Per qualche strana ragione le ricordarono i vecchi tempi nella Band di Andrew, quando sia lei che Jeanette arrangiavano insieme il coro.

Insieme provarono alcuni pezzi, gli ottoni erano notevoli, le voci ottime. Il tipo alle tastiere vestiva un po’ strano, ma chi era lei per giudicare? Stanca delle lunghe ore passate a provare e riprovare gli stessi pezzi, guardò i membri della Banda prepararsi un’ultima volta e tirò fuori la sua misteriosa tromba decorata, con l’intenzione di provarla per la prima volta quella sera.

 

Un batterista fisso della Clarion avrebbe battuto il tempo per entrambe le bande.

La banda rivale ed il batterista si presentarono sul palco.

Ira non poteva credere ai suoi occhi; ogniuno dei loro membri aveva un rivale corrispondente: Lynn contro Louisa, lei e Bones contro James e Sam, gli ottoni che avevano lavorato diversi anni con lei, Kals contro Jeanette ed Edou contro Andrew. Il suo presunto parente suonava la batteria.

Kals ed Edou presero l’iniziativa cercando di convincerlo a battere i tempi dei pezzi a loro più familiari, ma all’uomo vestito di nero era vietato di parlare con le Bands.

La gara in questione era piuttosto semplice: ogni strumento doveva sopraffare l’altro, nel suo pezzo, in una serie di rounds. Se il round era troppo debole da una delle due parti, i tempi sfasati, lo strumento perdeva campo, lasciando spazio al suo corrispettivo per l’avversario. Era una vera e propria guerra, con singoli attacchi e lavoro di gruppo, cosa di cui la loro Band mancava, ma con il tempo anche quella di Andrew stava perdendo. Anche se Ira e Bones non erano all’altezza di James e Sam, Edou aveva molte speranze sull’irascibilità di Andrew.

Per quanto Kals potesse essere bravo, Jeanette cantava da più di un decennio, quasi tutte le sere. Le speranze di vincere contro una Band che ricordava suonare da sempre erano poche, in più la band aveva già ricevuto un contratto dalla Clarion.

Il direttore guardò le due bande soddisfatto e si rivolse sicuro verso Andrew:

“Bene, ragazzi, vi siete guadagnati il vostro primo contratto regolarmente, vediamo se riuscirete a guadagnarvi il secondo!”- disse Mike, mentre puntò l’attenzione su Elwood, alla batteria.

“Il signor Blues mi ha vivamente raccomandato voi come nuova banda. Ha detto che vi chiamate... Iree Irene? Jeboulowbless? Blues...Qualcosa?”- alle parole dell’uomo con gli occhiali a goccia e la giacca tartan, il gruppo si guardò. In tutto quel tempo passato a provare la musica per la serata non avevano ancora scelto un nome.

“Los Chicos del Barrio!”- gioì il tastierista anonimo, senza essere stato interpellato da nessuno. Kals ed Edou si guardarono e alzarono le spalle: per quella sera un nome valeva un’altro, anche se quello era veramente orrendo e inappropriato per una band che suonava principalmente soul e rhythm and blues.

 

La serata stava ormai per volgere al termine.

Ira aveva dato il meglio di se, la tromba misteriosa che stava suonando era magicamente perfetta. Così perfetta che Sam le lasciò la parte con addio ed un saluto militare, di tutto rispetto. Tuttavia contro le sue previsioni, nessuno vinse quella battaglia: Andrew era riuscito a prevalere su Edou, lei aveva sovrapposto il suo round su Sam, tutto qui.

Sfogliò l’ultima pagina del suo spartito, aveva annotato con cura tutti gli arrangiamenti, e quello era il suo ultimo pezzo prima di chiudere definitivamente la battaglia. Sul retro bianco della copertina, qualcuno le aveva lasciato un messaggio.

 

Scusa.

Mi sembro un idiota.

Dare retta a quel tipo...

Ma ora che ho cominciato a scrivere, ora che stai già leggendo, devo andare avanti.

Dal primo momento che ti ho visto ho capito che eri una ragazza carina, che eri scaltra e ci sapevi fare in molte cose: ho sempre invidiato la tua intelligenza, la tua bravura. Dal primo momento che ti ho visto ho capito che ti avrei voluto bene, che eri una persona indimenticabile. Sapevi vedere il meglio di me e di Edou, per quello ci hai tenuto al Bar, per quello ti piaceva scherzare con noi. Perdonami se ti ho trattato male, perdonami se ho detto cose che ti hanno offeso in passato, non volevo, piuttosto avrei voluto dirti il contario, ma non sapevo come esprimermi, non trovavo le parole.

Non mi sono mai avvicinato, non te l’ho mai detto perché... Non lo so nemmeno io perché, forse non ero ancora pronto. Ma ho imparato a capire che i miei sentimenti per te erano sinceri, e lo sono ancora, anche se non sono mai riuscito ad esprimerli, anche se erano così confusi.

Lo so, non so neppure io quello di cui sto scrivendo e perché... Forse solo perché una volta sei riuscita a farmi sorridere, o perché hai sempre detto di essere mia amica, forse perché anche tu bevi troppo caffè o perché questa sera hai deciso di suonare la tua tromba speciale e di aprire lo spartito, perché non credi che si possa improvvisare.

Ti scrivo per chiederti se ti va di uscire con me una sera, se vuoi parlare di qualche cosa, se non vuoi parlare di niente, magari proprio questa sera, più tardi.

Avrei tante cose da dirti.

Non so se sei tu quel qualcuno particolare o se lo strano tizio ha letto davvero nel passato o nel futuro, ma se c’era un minimo di verità nelle sue parole, non voglio ritrovarmi per sempre da solo, non voglio ritrovarmi fare il benzinaio per le ex-modelle.

 

Dopo una breve pausa sotto il palco, Elwood chiese a Mike il permesso di parlare. Lui annuì soddisfatto. Così, lasciato di nuovo Buster tra il pubblico, Elwood si diresse verso Kals ed Edou ed il resto della banda, nel tentativo di congratularsi per il loro successo, ma mentre risaliva la scaletta del palco, una ragazza affascinante, molto simile ad una giovanissima Aretha Franklin, scese con grazia la stessa scaletta.

Proprio mentre i loro corpi si incrociarono sul percorso, lei perse l’equilibrio dai suoi tacchi altissimi, ritrovandolo subito dopo. D’istinto Elwood la prese per mano nel cercare di aiutarla, lei lo ringraziò e sorrise senza presentarsi.

 

In quel momento, realizzò come Louisa aveva sempre avuto ragione: sarebbe dovuto succedere qualche cosa non appena avrebbe incontrato il suo corrispettivo di quell’universo.

 

E in quel momento accadde qualche cosa.


Epilogo

 

“Nooooo” Jake, we don’t use Valvoline!”


Queen Musette schioccò le dita una sola volta e tutto si fermò, illuminato da quella luce bianca che aveva visto in precedenza.

“Bene. Il tuo desiderio è stato esaudito”- disse fissandolo intensamente.

“Eh?!”- chiese lui con un balzo all’indietro.

“Hai chiesto di rivedere Jake”- disse lei abbassando gli occhi per un attimo e ritornando su di lui con uno sguardo ipnotico.

Elwood si ripiegò in avanti, tra il sospetto e lo stupore.

“BoohDoooh...”- sussurrò Queen Mousette passandogli una mano davanti agli occhi che si potevano intravedere fissarla attentamente attraverso gli occhiali scuri.

“...Universi Paralleli Combacianti la Bluesmobile ha attraversato l’universo dove Jake è morto per raggiungerne un altro dove Jake è ancora vivo ed ho avuto occasione di vederlo e parlargli...”- disse lui parlando meccanicamente, come ipnotizzato.

Queen Mousette incrociò le braccia ed annuì.

“Esattamente. L’unico modo per ritornare nel vostro universo era quello di incontrare uno dei vostri corrispettivi in questo universo.”- spiegò lei.

Si distese subito dopo e passò un’altra mano di fronte al suo sguardo.

“Ma io non voglio ritornare! La gente mi tratta come se fossi un profeta! Potrei vivere qui, non ho neanche la fedina penale sporca! Potrei lavorare onestamente e...”- calcolò Elwood.

“BoohDoooh!”- esclamò nuovamente la strega della Louisiana.

“Purtroppo due Elwood non possono coesistere a lungo nello stesso universo. Per questo Jake scrisse di fare attenzione al Motorhead... Chiedeva di fare attenzione a me stesso!”- continuò con lo stesso tono.

La strega della Louisiana annuì una sola volta ed aggiustò la parrucca altissima, per poi congiungere le mani sulle sue vesti colorate, risvegliandolo da quell’incantesimo.

“Altezza! Aspettate!”- disse Elwood tornando in se per un attimo. La strega si fermò ad ascoltarlo pazientemente.

“Come faccio a sapere di aver incontrato me stesso in questo universo? Come faccio a sapere di aver incontrato veramente Jake?”

“Se non lo avreste incontrato, vi starebbe ancora cercando! Bisogna avere fede...”

“Vorrei salutare Jake un’ultima volta, se è possibile, Altezza.”

“Certo”- disse lei facendogli strada con un ampio inchino.

 

Tra la luce che non lasciava la possibilità di vedere nulla, la 2CV grigia frenò bruscamente, le sospensioni la fecero dondolare faticosamente prima a destra e poi a sinistra, cigolando in un suono vecchio e stanco.

Elwood si avvicinò lentamente ed aspettò che la persona alla guida uscisse dall’auto.

Ira scese dalla macchina come se qualcuno l’avesse appena scaraventata.

La schiena dell’uomo si irrigidì ed il mento si piego’ in un’espressione strana, volgendosi di nuovo, così teso, verso la strega.

“Siete sicura, Altezza?”- sussurrò Elwood incurvando le spalle.

Lei lo guardò con disappunto e schioccò le dita tre volte in direzione della ragazza.

“You know man, you know how it went, they told you... I was there too early man, I was there I swear, I told you... I thought you were getting out of jail the 20th, the twentieth of two months ago... And... Geez... The windy rains and the cold nights, you know how it goes, you know I can’t drive... It was cold, it was cold like Hell, it poured like Hell! Got sick about two weeks after, man. The guards pick me up again. This time they sent me to the hospital, this time, last time. I was boiling, hard fever. I swear I tried to wait for you. I Tried to wait. Couldn’t... She took me. You know who. It was so cold, I felt so cold, man...”- la voce di Ira fuoriuscì altrettanto gutturale, meccanica e dura, dagli occhi brillarono due grosse lacrime, dolorose come cristalli.

Davanti allo sguardo della giovane donna comparve la visione surreale di un universo parallelo, dove lei era in realtà qualcuno che aveva appena visto la morte in faccia. Non ebbe paura, ma provò un senso di vuoto nell’anima, una mancanza incolmabile.

Elwood l’abbracciò come avrebbe potuto fare con Jake, sulle note di She Caught the Katy.

 

Per un attimo ebbe l’impressione di essere di fronte ai cancelli delle prigioni, trafitto da un raggio di sole. Dietro di loro, la Bluesmobile.

 

Era l’alba di un giorno lontano.


*** Fine ***


----NdA-------------

Volevo fare un po' il punto della situazione:

Innanzi tutto spero che questa storia vi abbia divertito almeno quanto ha divertito me ricordarla e riassemblare insieme le varie avventure dei miei personaggi.

Sono sempre stata molto legata alla figura di Ira/Irene ed è una Mary Sue che spero si sia sviluppata un pochino con il tempo e i riadattamenti, che non sia rimasta la Mary Sue perfetta delle mie prime ff.

Curiosità: tra le tante cose, alcune delle sue professioni "temporanee" oltre a barista sono state meccanico (aiutava Elwood con un guasto alla Bluesmobile prima del primo film e si sono conosciuti così), babysitter (-?- perché avevo 14 anni), spogliarellista mancata (era una scenetta che creai prima di vedere BB2k, dove i BB facevano una serata "improvvisata" stile quella di "Bob's", ma si trovavano -per sbaglio- in uno strip-club -per donne-), jazzista in stile Glen Miller, Opal era uno degli altri nomi scelti per lei, aveva una sorella (bianca, che poi ho trasformato in Jacqueline/Jeanette) che doveva lasciare per raggiungere lo zio e diventare la sua segretaria (e poi lo zio la avrebbe messa in una missione-impossibile per tirare fuori i BB dal carcere), avvocato quarantenne frustrata dal lavoro (non sto a spiegarlo, è l’idea per una prossima fic), Agente musicale "traviata" dai BB, figlia illegittima di Jake (più o meno sulle orme di Zee Blues).

In un'altra fic (ambientata dopo il primo film) i BB non potevano mettere insieme la Band subito quindi -da evasi- si ritrovano a scappare in Messico e mettere insieme una Band Latina (tipo Murph)...

In una delle versioni più recenti, i personaggi di Kals ed Edou -ovviamente- avevano i nomi invertiti e si trovavano ad incontrare Buster e mettere insieme una BB Tribute Band "per destino".

Ho scritto davvero un sacco di idee negli anni!

Non so se butterò giù un'altra delle mie tracce, avevo messo da parte un'intera sezione di scritti tutti dedicati ad un tour che prendeva letteralmente tutti gli Stati Uniti e la scena della Jam Session con la Band di Andrew era di solito una delle scene all'inizio della storia,

era lunghissima e spiegava molto più dettagliatamente come Bones e Ira venivano a conoscenza tra di loro (si complimentavano a vicenda per la loro bravura e lei passava direttamente alla BB Band quando trovava Andrew con Lynn, senza troppe spiegazioni).

Probabilmente, come è capitato per questa storia, a fine estate avrò occasione di riprendere di nuovo in mano alcuni dei miei vecchi appunti, questa volta forse avrò modo di avere per le mani anche alcuni quaderni degli anni '90 e trascriverli in maniera più "coerente".

Sfortunatamente questa storia non ha avuto il successo che speravo, specialmente i capitoli 5/6 e l'epilogo sono stati capitoli molto intensi da scrivere e mi hanno preso davvero molto, mi hanno dato tante idee per una nuova fic, ma non ho ricevuto assolutamente nessun riscontro (quando dico nessuno, intendo proprio nessuno) per continuare su questa strada,

quindi preferisco lasciare la storia così com'è, senza estensioni o rifacimenti, e continuare altri progetti che ho già pianificato in precedenza prima di pensare ad un seguito per questo.

(Spero di non metterci altri 20 anni prima di trascrivere qualche cosa su file!).

Grazie infinite per aver letto fino a qui!

A presto :D



 

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