Afire Love

di Sea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Primo giorno - Pt I ***
Capitolo 3: *** Primo giorno - Pt II ***
Capitolo 4: *** Primo giorno - Pt III ***
Capitolo 5: *** Primo giorno - Pt IV ***
Capitolo 6: *** Secondo Giorno - Pt I ***
Capitolo 7: *** Secondo Giorno - Pt II ***
Capitolo 8: *** Secondo Giorno - Pt III ***
Capitolo 9: *** Terzo Giorno - Pt I ***
Capitolo 10: *** Terzo Giorno - Pt II ***
Capitolo 11: *** Quarto Giorno - Pt I ***
Capitolo 12: *** Quarto Giorno - Pt II ***
Capitolo 13: *** Quinto Giorno - Pt I ***
Capitolo 14: *** Quinto Giorno - Pt II ***
Capitolo 15: *** Sesto Giorno - Pt I ***
Capitolo 16: *** Sesto Giorno - Pt II ***
Capitolo 17: *** Settimo Giorno - Pt I ***
Capitolo 18: *** Settimo Giorno - Pt II ***
Capitolo 19: *** Come un sole rosso acceso. ***
Capitolo 20: *** Please, come to me. ***
Capitolo 21: *** You are here. ***
Capitolo 22: *** God, save her. ***
Capitolo 23: *** Lost in a dream. ***
Capitolo 24: *** "The kid is not my son". ***
Capitolo 25: *** Letters to...Juliet? ***
Capitolo 26: *** E' dolce sognar e lasciarsi cullar, nell'incanto della notte. ***
Capitolo 27: *** I'm thinking out loud. ***
Capitolo 28: *** Beyond. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




Prologo


Era appena arrivato all’aeroporto, dopo un volo lungo quanto bastava a tormentarlo. Non appena mise il piede sul primo scalino per scendere da quel trabiccolo, si sentì più tranquillo. Era una bella giornata di sole, tirava un lieve venticello e la temperatura era alta. Il cielo italico gli sembrava un miraggio, nonostante fosse appena sceso da un aereo.
  • Signor Sheeran – lo chiamò l’autista in giacca e cravatta – se vuole possiamo andare.
Forse era rimasto fermo più di quanto pensasse.
- Sì – Fiumicino brulicava di persone pronte a partire per qualche meta esotica, lontano da tutto, lontano da tutti. Lui invece aveva scelto di nascondersi in un luogo ancora indefinito, ma di certo non in una di quelle località affollate di turisti. Non aveva bisogno di una vacanza, ma il suo manager aveva detto che restare a casa come diceva lui, sarebbe stato meno produttivo di quanto credesse.  Così lo aveva mandato alla ricerca di qualcosa.
Entrò nell’auto subito dopo i suoi bagagli e la sua chitarra e sentì il fresco prodotto dal condizionatore gelargli la pelle.
- Potrebbe spegnere il climatizzatore? Può anche togliere la giacca se vuole, non sono il presidente degli Stati Uniti. – sorrise inconsapevolmente dinanzi all’ennesimo povero autista costretto nella cravatta nel mese di Luglio. Quello ricambiò il sorriso attraverso lo specchietto retrovisore e aprì tutti i finestrini.
Uscirono dall’aeroporto per una via secondaria, ma non ci fece davvero caso, voleva soltanto godersi il sole italiano, il vento e quel profumo di gelsomino così insistente.
 
Un’ora dopo, si lasciava cadere su un letto matrimoniale di un hotel del centro, stanza all’ultimo piano, come piaceva a lui. Non aveva mai capito cosa dovesse farsene di tutti quei cuscini. Sfilò le scarpe con le punte dei piedi e lasciandole cadere a terra abbandonava anche quella sensazione che lo assaliva quando si sentiva costretto a fare qualcosa. Non ci voleva venire, in Italia. Voleva starsene nel suo appartamento sulla terza strada e lavorare in santa pace. Ma J aveva già prenotato ogni cosa e glielo aveva comunicato con un messaggio in segreteria. Gli aveva anche detto che non poteva disdire nulla e che se non si fosse presentato, le prenotazioni sarebbero semplicemente slittate. Non era ancora abbastanza ricco da poter pagare un hotel a vita solo perché non voleva andarci.
L’aria lì era diversa da qualunque altro posto avesse visitato. Era dolce? Forse fresca? O magari tiepida? Non trovava una parola adatta, ma gli piaceva.
Certo che – pensò – Roma non è esattamente un posto poco popolato. Forse avrebbe dovuto cambiare città?
Prese il cellulare dal comò e cercò su internet un posto, se non isolato, quantomeno poco noto. Soprattutto ai giornalisti. Se lo avessero beccato per strada sarebbe stata la fine della sua costrizione-vacanza e sarebbe diventato qualcosa di peggio. GoogleMaps gli mostrava la forma dello stivale.
Era stato già a Milano e Roma, ma non al sud. “Napoli” svettava sulle altre città in quanto capoluogo, ma era comunque una grande città, sicuramente caotica e affollata quanto le altre. Forse una città di provincia? Scorse le cittadine che costellavano la costa del golfo e, senza un criterio preciso, scelse quella al centro, proprio alle pendici del Vesuvio.
  • Davvero poco rassicurante – mormorò a se stesso – però…
Ghignò come se stesse facendo uno scherzo a qualcuno. D'altronde non avrebbe avvertito J, non doveva informarlo necessariamente di ogni suo spostamento, non era certo sua madre e anche se lo fosse stato, non lo voleva tra i piedi.
Si alzò dal letto e raggiunse la scrivania. Alzò la cornetta del telefono e chiese di essere agganciato all’agenzia turistica dell’hotel. Dopo un paio di squilli una signorina rispose con non curanza.
- Vorrei prenotare un treno per Torre del Greco.
- Non esistono treni diretti per questa città, signore. Se vuole posso farla scendere a Napoli e da lì prenotarle un biglietto per una linea ferroviaria secondaria che si ferma nel centro città.
- Va bene.
- Quando vuole partire, signore?
- Tra un paio d’ore, se è possibile. – pregava che ci fossero più treni per Napoli di quanto credesse. Voleva uscire da quella stanza e andare via.
- Potrebbe dirmi nome e cognome, cortesemente?
- Edward Christopher Sheeran.
Un attimo di silenzio, non si sentiva più il rumore della tastiera sulla quale la centralinista stava digitando.
  • Quell’Ed Sheeran?
  • Proprio lui – non dovrebbe più sorprendersi, ormai.
  • Sa, mia figlia la ama molto, non fa altro che ascoltare le sue canzoni.
Rise, poiché per un attimo aveva pensato che la persona dall’altra parte del telefono fosse una ragazza di quelle che urlano ai concerti e invece era una madre.
- Allora le prenoto la prima classe, posto finestrino. Il suo treno parte alle 11.00, signor Sheeran. Le farò avere il biglietto in camera.
- Grazie, miss, è stata molto gentile. Buona giornata.




Angolo autrice:
Questa storia è raccontata quasi totalmente dal punto di vista di Ed, il cui pensiero è condotto da un narratore esterno, quale me medesima. :)
Ho cominciato a scriverla da un po' e spero di concluderla, ma ho bisogno di un po' di motivazione. La scrivo per puro diletto, ma mi farebbe piacere condividerla e avere consigli e opinioni!
Spero che il prologo vi abbia incuriosito! :D

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Capitolo 2
*** Primo giorno - Pt I ***


Primo Giorno
 
Ecco fatto. E non avrebbe mai, mai e poi mai chiamato J per avvertirlo. Probabilmente lo avrebbe trovato comunque, ma non dargli conto era più divertente.
Qualche minuto dopo aprì la porta ad un cameriere corredato da vino di benvenuto e biglietto. Era un ragazzo molto giovane, forse aveva la sua età. Aveva quasi vergogna a lamentarsi con sé stesso e ne aveva ancora di più quando decise di lasciare la mancia al ragazzo, ma voleva proprio farlo.
Assaggiò il vino freddo. Era abbastanza corposo da lasciarlo interdetto, poi si ricordò che erano le 9.00 del mattino ed era Luglio. Non esattamente il momento più giusto della giornata per bere vino. Aprì la busta del biglietto e controllò il numero della carrozza e del posto. L’altro biglietto era un affarino blu, forse un biglietto della metropolitana. In effetti non era informato sul posto in cui stava andando.
Fece un paio di ricerche sulla metropolitana e sugli hotel della città, ne prenotò uno on-line.
In fondo sapeva che se la sarebbe cavata. Poteva affrontare un’arena piena di gente, figuriamoci un week end nel sud del bel paese. Ora era abbastanza curioso di vedere Napoli, sicuramente in hotel avrebbero saputo indicargli cosa visitare.
Si alzò dalla sedia e andò sul terrazzino ombreggiato. La ringhierà non esposta al sole era fredda. Osservò a lungo Piazza di Spagna, poi alle 10.00 chiamò un taxi, fece caricare i suoi bagagli e si lasciò trasportare alla stazione per prendere quel treno ad alta velocità.
Il telefono squillò e rispose a J cercando di simulare un tono indifferente. Non era per niente il suo forte.
  • Si, J, sto facendo una passeggiata. Si, l’Hotel è bellissimo, grazie. Certo, non preoccuparti, a presto.
Ripose il cellulare in tasca ed entrò nel vagone. Davanti a lui era seduto un bambino che leggeva un libro, mentre sua madre flirtava col passeggero della fila accanto.
Anche a lui piaceva leggere, da bambino.
  • Ciao – lo salutò, visto che sarebbe stato la sua unica compagnia durante quell’ora di viaggio.
  • Ciao, io mi chiamo Davide.
  • Io mi chiamo Ed – quelle lezioni di italiano erano state molto efficaci su di lui. Certo, sono durate un anno, qualche volta le ha odiate, ma ora stava ringraziando mentalmente il suo insegnate.
  • Vai anche tu a Napoli?
  • Si. Come mai tu ci stai andando?
  • Vado a trovare la nonna. Speriamo che mi abbia preparato il gelato.
  • Deve essere brava, tua nonna, coi gelati.
  • Se vuoi te lo faccio assaggiare, quando me lo da.
Un’ora e dieci minuti dopo stavano parlando di Harry Potter e Ron Weasley che entravano nella Camera dei Segreti.
Non si era accorto che il treno fosse fermo fin quando il bambino fu invitato dalla madre a seguirla. Si alzò anche lui, prese il suo bagaglio e la chitarra e scese dal treno. In quel posto c’era afa, il calore che saliva dai binari era insopportabile, così si allontanò. Salutò il bambino soltanto con un cenno della mano, ormai erano troppo lontani.
Un sospiro gli uscì dal petto prima di cominciare a camminare lungo la banchina. Si sentiva molto osservato ed effettivamente era l’unico con dei capelli così arancioni. Mise gli occhiali da sole e camminò fino al bar più vicino. Comprò una bottiglietta d’acqua e mentre ne beveva qualche sorso, prese il biglietto blu della metro. Al centro informazioni lo indirizzarono al piano sotterraneo della stazione, “Segua le indicazioni per la Circumvesuviana” avevano detto. Seguiva quella scritta cercando di non farsi distrarre da ciò che lo circondava, non voleva perdersi. Alla fine, arrivò davanti a dei tornelli, ma prima di oltrepassarli chiese all’uomo dietro al vetro della biglietteria quale treno dovesse prendere, visto che sul display luminoso ce n’erano diversi.
Scese al binario 3 come aveva detto quell’uomo e attese in un punto indistinto della banchina, fissando la scritta “Sorrento – 12.27 – In partenza” sul monitor che contraddistingueva il binario. La folla si accalcava alle sue spalle mentre un alto parlante recitava “beware the pickpockets”, attenzione ai borseggiatori. Poi vide il treno arrivare e si preparò ad entrare. Non gli sembrava molto grande, ci sarebbe entrata tutta quella gente? Il fato volle che la porta si fermasse davanti a lui, così entrò nel vagone e si infilò nel corridoio del treno afoso. Subito fu circondato da altre persone in cerca dell’aria che sarebbe dovuta entrare dai finestrini. Posò la chitarra sul portabagagli e infilò il borsone tra le gambe. Non appena afferrò una maniglia, il treno partì annunciando la stazione successiva.
 
Per fortuna quando il treno era in movimento passava un po’ d’aria attraverso quei pochi finestrini che non erano rotti. Guardandosi intorno notava che quel treno era davvero mal ridotto, pieno di graffiti fatti male, le luci fulminate, i sediolini scarabocchiati, la carta da parati scollata e la vernice consumata. Stava attraversando la periferia di Napoli e guardava le persone intorno a lui, c’erano ragazzi carichi di libri, uomini con la 24h, donne col le buste della spesa, vecchietti che discutevano in un linguaggio a lui sconosciuto. Il chiacchiericcio era continuo, ma capiva ben poco. Forse era il dialetto quello che stava ascoltando. Ogni tanto sorprendeva qualcuno ad osservarlo, forse era per i suoi capelli o per il braccio pieno di tatuaggi che spiccava tra le braccia pulite degli altri giovani. Cercò di non farci caso, anche se era difficile ignorare tutta quella gente. Il treno era saturo fino all’inverosimile e ad ogni frenata quella massa oscillava rischiando di far male a qualcuno.
Next stop Torre del Greco.
Sentì l’altoparlante forse per caso, infatti si era incantato guardando il panorama che scivolava via dal finestrino, quella che vedeva doveva essere Napoli. Sperava che quello stesso scenario fosse visibile anche da quella città.
Prese la chitarra e con qualche difficoltà arrivò fino all’uscita, scavalcando quelli che dovevano rimanere dentro e quelli che stavano aspettando fuori. Certo, erano molto affollati quei treni.
Seguì la folla salire su un sovrapassaggio, oltrepassò il tornello e si ritrovò fuori dalla stazione.
Erano le 12.50 di un lunedì di Luglio ed era arrivato a Torre del Greco.
 
Prese un sorso d’acqua dalla bottiglia e si avviò verso un taxi. Il tassista stava parlando con un altro uomo, non si era accorto di lui, finché il suo amico lo indicò e il tassista si girò. Vide i suoi occhi correre prima sui tatuaggi e poi sulla chitarra.
  • Hai bisogno del taxi?
  • Si, per favore.
L’uomo sorrise all’amico e lo salutò stringendogli affabilmente la mano, poi prese il suo bagaglio e quasi lo scaraventò nel portabagagli. Per fortuna dentro non c’era niente di delicato. Tolse la chitarra dalle spalle e la fece accomodare accanto a lui sui sedili posteriori di quella Mercedes.
  • Sei straniero?- chiese l’uomo mentre metteva in moto l’auto.
  • Sì – aveva un accento così marcato che persino Davide aveva capito che era “straniero”.
  • Da dove vieni? Sei americano?
  • No, sono inglese.
Gli occhi dell’uomo fecero un piccolo movimento, come se fosse sorpreso. Forse non ci venivano molti turisti a Torre del Greco.
  • E cosa ci fa un inglese qui? Vuoi visitare la città?
  • Ecco, no.
  • Amici?
Ed si era trovato improvvisamente ammutolito. Doveva ammettere a se stesso che non aveva un motivo per essere lì, ma come poteva spiegarlo a quell’uomo? Dunque rispose.
  • Si.
  • Ah, bene! Dove devo portarti?
Gli pose l’indirizzo scritto su un foglietto e l’auto partì. Presero una strada in salita e dopo qualche minuto chiese al tassista se l’hotel fosse ancora lontano. L’uomo gli spiegò che l’alloggio che aveva scelto non era esattamente centrale, visto che si trovava alle pendici del Vesuvio.
  • Allora sa consigliarmi un posto dove noleggiare un’auto o una moto?
  • Certo, vuoi che ti ci porti?
Giunsero all’autonoleggio più vicino e pagò il tassista.
Noleggiò una moto di media cilindrata per una settimana.
  • Vuole uno o due caschi?
Uno o due? Beh, lui era solo, perché mai avrebbe dovuto prenderne due? Stava per rispondere che l’altro non gli serviva ma poi, senza neanche riuscire a fermarsi, rispose che due erano perfetti.
Ora aveva la moto e aveva il casco, doveva solo trovare l’albergo. Impostò il navigatore sul suo telefono, fissò i bagagli sulla parte posteriore della moto e montò in sella. Il rombo del motore fece voltare i passanti, mentre sentiva il manubrio vibrare sotto le mani. Gli piacevano le moto, da sempre, guidarle gli faceva percepire un certo senso di libertà. A volte gli sembrava di volare. Con un movimento della mano diede gas e cercando di guardare il navigatore, si immise nel traffico. Doveva solo concentrarsi per guidare dal lato giusto della strada.
Era proprio una città di provincia, con le strade perlopiù piccole, i palazzi a 5 o 6 piani, i vicoli stretti, l’asfalto trascurato. Dopo un paio di chilometri si ritrovò sulla stessa strada in salita che stava percorrendo il tassista poco tempo prima. In effetti avrebbe dovuto capirlo prima che l’albergo fosse fuori mano, in quella zona c’erano solo pini, abeti e villette.
Alla sua sinistra vide l’entrata dell’hotel, la superò e lasciò la moto in un garage al coperto.
Una grande fontana affiancava l’entrata e la vista di una coppia di mezza età che pranzava all’ombra di un grande gazebo, gli fece capire di avere molta fame.
Fece il check-in molto velocemente, forse lì erano più abituati ad accogliere turisti.
Entrò nella sua camera, sempre all’ultimo piano, e per la seconda volta in quella giornata si lasciò cadere sul letto, sfilandosi le scarpe.
  • E adesso che faccio? – disse al soffitto.
Non sapeva esattamente dove fosse, né perché, ma ormai era lì. Solo. E aveva fame.
Mentre l’acqua fresca della doccia gli scorreva lungo la schiena, cantava cercando di non pensare a niente, anche se non aveva niente a cui pensare. Era lì solo per colpa di J e si sentiva più spaesato di quando era partito alla ricerca di quel qualcosa.
In realtà, ne era sicuro, nemmeno J sapeva cosa lo aveva mandato a cercare. Il testo di una canzone di certo non lo trovi in un aereo o in una città. Quello che il suo manager non capiva era che la sua ispirazione partiva da se stesso, non aveva una musa a cui ispirarsi. Eppure lo aveva spedito lì e ora stava facendo una doccia fredda in un hotel alle pendici del vulcano dormiente più pericoloso del mondo. Per un attimo aveva sperato che esplodesse, ma cambiò subito idea. Gli sarebbe dispiaciuto per Davide.
I capelli sottili si asciugarono in pochi minuti al sole di quella giornata, mentre lui era alla finestra a godere dell’aria pulita.
Ed si rivestì, riprese le chiavi e il casco e tornò alla moto. Cercò sul navigatore il centro della città e rimontò in sella. L’odore di resina dei pini gli sfiorava le narici mentre ripercorreva quella strada in discesa, ma poco dopo lo smog prese il suo posto. Le strade del centro erano più curate, i lampioni verdi erano decorati con dei ciclamini, al posto dell’asfalto c’erano grosse lastre di pietra e gli edifici erano dipinti di colori più accesi.
Lasciò la moto in un parcheggio ad ore e cominciò a camminare sul marciapiede di una certa via Roma, cercando qualcosa da mangiare. Mentre passava davanti a un negozio di scarpe, successe l’inevitabile.
  • Oh mio Dio, ma quello è Ed Sheeran!
Oh, oh. Forse doveva scegliere un posto ancora più isolato.
Fece finta di non sentire, ma la ragazza che aveva parlato si avvicinò e picchiettò sulla sua spalla. Era costretto a girarsi.
  • È proprio lui! Guarda i tatuaggi!
Se anche avesse risposto di no, avrebbero sentito il suo accento. Sicuramente non l’avrebbero preso per un napoletano, quindi rimase in silenzio aspettando qualcosa.
Altre ragazze si fermarono intorno a lui, ormai aveva attirato l’attenzione dei più e in pochi secondi si ritrovò circondato da ragazze e ragazzi che strepitavano per foto e autografi. Così, fece come faceva sempre, assecondò il momento, scattò foto con i fan, firmò qualche pezzo di carta e attese che la pressione calasse. Tuttavia, non aveva fatto bene i suoi conti e ben presto arrivarono altre persone. Maledetto whatsapp. Prima era più difficile senza quell’applicazione.
Pensò che non avesse altra scelta che chiedere scusa e andare via.
  • Sorry, I have to go.
Lo ripeteva ad intervalli regolari mentre con le spalle cercava di farsi spazio tra la gente e un po’ alla volta si creò un varco. Uscito da quel girone infernale, continuò dritto per la sua strada, senza voltarsi e senza guardare nessuno, faceva finta di osservare le vetrine invitanti e lucide, ma l’ostentare normalità lo distrasse e andò a sbattere contro qualcuno. Istintivamente disse Sorry, senza pensare che avrebbe dovuto evitare di parlare inglese. Alzò lo sguardo sulla persona che aveva involontariamente urtato e vide una ragazza. Alta, converse al piede, pantaloncini di jeans e una banale maglietta nera, capelli castani corti e ricci, occhi…aveva gli occhiali da sole.
  • Scusa, non ti avevo visto.
  • Non preoccuparti, è colpa mia – disse lei – non guardavo dove andavo.
Abbassò lo sguardo e vide una schermata con dei messaggi e quando lo rialzò la vide togliersi gli occhiali. Occhi: azzurri. Tolse anche l’altra cuffietta e lo guardò con aria accigliata.
  • Mi ricordi qualcuno.
Le sopracciglia di lui si alzavano in una mancata simulazione di sorpresa, quelle di lei tendevano ad unirsi in un’espressione curiosa. Ed manteneva il silenzio.
Quando lei tirò indietro il collo che aveva allungato per osservarlo meglio, li vide. Quei maledetti tatuaggi. Ed portò gli occhi al suo braccio e istintivamente lo nascose. Si era tradito, accidenti. Doveva rimanere immobile e simulare.
  • Sei Ed Sheeran? Sul serio?
La bocca era secca e se anche avesse voluto dire qualcosa, non uscì dalle sue labbra. Aveva decisamente sbagliato paese.
  • Che ci fai da queste parti?
  • Io…
Cosa le avrebbe detto? Almeno non era una di quelle ragazzine strepitanti, forse poteva rilassarsi. Lei lo guardava, aspettando che terminasse la frase.
  • …sto facendo una passeggiata.
  • Davvero? – alzò un sopracciglio per sottolineare il tono ironico della risposta. – A Torre del Greco?
  • Mi sembrava un posto poco affollato. – sorrise ripensando al modo in cui aveva scelto quella città.
  • Credo tu abbia sbagliato posto, allora.
Rispose ridacchiando lei. Ed apprezzava davvero la sua disinvoltura. Aveva incontrato Ed Sheeran, eppure non gli aveva chiesto né una foto, né un autografo e tantomeno stava attirando l’attenzione su di lui. Lei intanto sorrideva e abbassava lo sguardo. Proprio in quell’attimo di silenzio, il suo stomaco emise un gorgoglio direttamente proporzionale alla sua fame. Lei si portò una mano alla bocca per coprire una risata.
  • Sheeran, non arrossire.
  • Non sono arrossito – e invece le sue guance chiare erano diventate fucsia. – sai indicarmi un fast food o un pub? – dopotutto non c’era nulla di male a chiedere informazioni a una ragazza. Sembrava gentile.
  • Fast food? Qui non ci sono Mc Donald’s, ma se vuoi posso dirti dove mangiare qualcosa.
  • Volentieri.
  • Io sto andando a mangiare un trancio di pizza, se vuoi, seguimi. – disse indicando col dito un luogo indefinito alle sue spalle.
Ci pensò un attimo prima di accettare. Non voleva che la ragazza si attaccasse al suo braccio, come era già successo. Mentre rifletteva su questa possibilità, lei richiamò la sua attenzione prendendo di nuovo la parola.
  • Non preoccuparti, non sono una maniaca. Dopo ti lascerò andare.
Sorrisero spontaneamente.
  • Va bene. Ti seguo.

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Capitolo 3
*** Primo giorno - Pt II ***


Primo Giorno - II
 

Lei gli stava sulla destra e camminava con disinvoltura, o almeno così gli sembrava.
Ma nella sua testa continuava a ripetersi la frase “Sto camminando con Ed Sheeran”, come un disco rotto. Certamente, quando quella mattina si era alzata, non avrebbe mai creduto che avrebbe incontrato Ed Sheeran che faceva una passeggiata. Lei stessa non sapeva come stesse mantenendo la calma. Ok che non era una scalmanata, ma era comunque Ed Sheeran, quel tizio rosso che ascoltava sotto la doccia, mentre mangiava, mentre era in treno, mentre camminava per strada, mentre faceva la spesa, mentre dormiva. Non voleva certo che la prendesse per una ragazzina con gli ormoni in tempesta. Fece un sospiro.
  • Oh mio Dio, sto camminando con Ed Sheeran.
Gli occhi di Ed corsero su di lei, non aspettandosi di sentire la sua voce. Fu colto nel bel mezzo di un momento di distrazione e i suoi muscoli guizzarono per un attimo, scuotendolo. Quando realizzò cosa aveva detto quella ragazza, rise.
  • Scusa. – disse lei guardando dritto davanti a sé.
  • Non preoccuparti, ho visto di peggio.
  • Posso immaginarlo. Vieni, di qua.
Lei gli passò davanti tagliandogli la strada e si inoltrò in un minuscolo vicoletto, oltrepassando un arco bianco. Sentì un delizioso profumino invadere l’aria.
  • Ecco, siamo arrivati.
Alla fine del vicolo si ritrovò nel bel mezzo di una piazzetta perimetrata da vecchie palazzine colorate, esattamente come immaginava un sobborgo napoletano, con i pomodori appesi alle travi, le madonne negli angoli, i fruttivendoli e i pescivendoli che urlavano cose per lui incomprensibili. Il profumo di pizza veniva da un forno affollato, con una classica insegna appesa a due ganci.
Il vociare era costante, ma seguì quella ragazza all’interno, raggiungendo a stento il bancone.
  • Buongiorno, signurì. Cosa posso servirvi?
  • Sheeran cosa preferisci?
  • Ehm, una margherita? È il vostro forte, no?
  • Beh, qui è tutto buono, ma vada per due margherite da asporto. Oh scusa, forse volevi andare in un posto in cui potessi sederti.
  • No, va bene così – alzò la mano per farle capire di non preoccuparsi. Se avesse avuto il coraggio, le avrebbe detto che era più contento che lo avesse portato in un posto alla mano.
  • Va bene – sorrise – Antonio, due margherite da portare via!
  • Arrivano.
Non era la prima volta che vedeva un pizzaiolo lavorare l’impasto, ma non gli era mai capitato così da vicino. Restò appoggiato al bancone ad osservare.
Lei stava riponendo le cuffie nella borsa e lo guardava di sottecchi. Aveva ordinato una pizza con Ed Sheeran. ED SHEERAN. Più guardava i tatuaggi più si convinceva che fosse vero.
Poi il suo cellulare squillò e lui la sorprese a guardarlo. Non potè vedere la sua espressione perché si precipitò a zittire quell’affare che aveva per cellulare. Aveva il display così spaccato che aveva paura di frantumarlo definitivamente solo sfiorandolo. Si allontanò per rispondere alla madre.
Ed smise definitivamente di osservare il pizzaiolo all’opera e si concentrò sulla nuca scoperta della ragazza. Non riusciva a sentire cosa dicesse. I capelli corti si attorcigliavano in boccoli larghi e cercò di immaginarla con i capelli lunghi ma non ci riusciva. Poi Antonio richiamò la sua attenzione e gli consegnò due scatoli bollenti. Lo ringraziò e pagò anche per lei.
Lei lo vide raggiungerlo mentre raccontava a sua madre cosa stesse facendo e con chi e lei non le credeva, così gli chiese qualcosa che non si aspettava.
  • Sheeran, parleresti con mia madre al telefono?
  • Cosa?
Lui spalancò gli occhi, in effetti gli aveva fatto una richiesta insolita, ma per una volta voleva averla vinta su sua madre. D’altronde le sarebbe capitato solo una volta nella vita di incontrarlo, non l’avrebbe rivisto mai più, quindi bando agli scrupoli.
Con la mano tremante gli passò quella sottospecie di cellulare.
  • Pronto – non sapeva che dire.
  • Sei un amico di mia figlia? Chi sei, Francesco? – la voce era sospettosa.
  • No, miss, mi chiamo Ed. – la guardava in cerca di aiuto mentre lei manteneva le mani sui fianchi.
  • Francesco, potresti imitare benissimo anche la regina Elisabetta.
  • Miss, io non sono Francesco. I – I don’t know what to say.
  • Passamela, grazie.
Prese il telefono dalle sue mani e rispose alla madre.
  • Mà, ma quale Francesco, non senti che parla inglese? Ti sei convinta?
La osservò mentre i suoi occhi vagavano nel vuoto senza vedere realmente, mentre ascoltava la voce della madre dall’altra parte del telefono. Sorrise senza capire cosa si stessero dicendo, soltanto per la sua testardaggine. Poi lei chiuse la telefonata.
  • Scusa, ma volevo averla vinta.
  • Non fa niente. – sorrise.
  • Allora…io mangerei.
  • Dove andiamo?
Ed Sheeran le aveva chiesto “Dove andiamo?”. Non era abituata a una cosa del genere, era comprensibile, ma restò molto sorpresa. Forse lui non sapeva proprio dove andare. Di solito andava a mangiare ai bordi della fontana, così senza rispondere a parole, gli indicò il luogo e lui si incamminò anche prima che lei potesse fare il primo passo. Ed si sedette sul gradino più alto e lei lo imitò. Non pensava che una star della musica potesse mangiare sui bordi di una fontana di una città di provincia, ma lui era Ed Sheeran e forse lo stava dando troppo per scontato. Aprì il suo cartone cercando di non sporcarsi e – per una volta – ci riuscì. Aspettò che lui facesse lo stesso, sperando che non notasse quanto in realtà fosse agitata e confusa. Probabilmente glielo si leggeva in viso, ma sperava davvero di non fare figuracce.
Ed, dal canto suo, non sapeva davvero cosa stesse facendo. Ok, aveva deciso lui di venire in quella città, ma ora che stava mangiando in compagnia di una sconosciuta non sapeva come comportarsi. Erano mesi che non aveva contatti con persone normali, che non facessero parte dello sfarzo del mondo della musica. Questa era una ragazza qualunque e lui non sapeva neanche cosa dirle. Ora che ci pensava, non le aveva chiesto nemmeno il suo nome.
  • Scusa, non ti ho chiesto come ti chiami. – disse voltandosi verso di lei.
  • Sara. – rispose nettamente, ricambiando lo sguardo.
  • Sara senza ‘h’?
  • Senza ‘h’. Sei uno dei pochi che me lo abbia mai chiesto.
  • E Sara senza ‘h’ ha anche un surname?
  • Sara De Amicis, al tuo servizio.
Si strinsero la mano in modo ufficiale, per poi ritirarla a staccare il primo pezzo di pizza.
  • Cosa ascoltavi prima, Sara?
Lei si voltò, sorpresa di quella domanda. Le era sembrato un tipo taciturno.
  • Te. Ascoltavo per la precisione “Thinking out loud”.
  • Oh. Non mi aspettavo questa risposta.
  • E io non mi aspettavo la domanda.
La conversazione terminò lì. Ed era troppo preso dalla fame e Sara era troppo presa dal panico. Dopo che ebbero terminato anche l’ultimo trancio, Sara si alzò e prese le scatole per buttarle nel cestino della differenziata.
  • Come mai i cestini sono colorati?
  • Qui facciamo la raccolta differenziata.
  • Cos’è? – aggrottò le sopracciglia cercando una risposta ovvia.
  • Separiamo i rifiuti per riciclarli. Anche se dubito che succeda davvero.
  • Oh. Come mai?
  • Perché la camorra ha otto braccia, proprio come una piovra e una di queste finisce sul riciclaggio dei rifiuti per trasformarlo in riciclaggio di denaro.
Forse stava gesticolando troppo? Forse si. Forse aveva anche parlato troppo.
  • Senti, io ora devo andare a fare delle commissioni. Grazie per aver pagato la pizza!
  • Di niente, Sara. – scosse la testa – Grazie a te per l’aiuto.
  • Figurati. – tese la mano verso di lui per salutarlo. – E’ stato un piacere conoscerti.
Ed istintivamente la afferrò e la strinse. Senza pensarci, sorrise. Per una volta aveva incontrato qualcuno che non strepitasse e non gli saltasse addosso.
  • Piacere mio. Davvero.
Sara tirò la borsa in spalla e lo salutò ancora una volta con la mano, prima di voltarsi e allontanarsi. Non si voltò indietro. Rigò dritta verso la sua meta, sperando di non essere impazzita o di stare ancora dormendo. Ad ogni modo, doveva andare via per forza, altrimenti avrebbe fatto tardi al suo appuntamento. Soltanto quando arrivò a destinazione si voltò, senza trovare nessuno, come si aspettava. Si chiese se l’avrebbe mai più incontrato.
 
Ecco, era di nuovo solo. Punto e a capo. La guardò allontanarsi, finché non sparì voltando l’angolo, poi si girò anche lui e ricominciò a camminare senza meta. Erano le 14.27 di un lunedì di Luglio, in una città sconosciuta e Ed Sheeran guardava le strade svuotarsi. Le persone si ritiravano nel fresco delle loro case per pranzare e lui non sapeva cosa fare. Lungo la strada, di tanto in tanto, si fermava ed entrava in qualche negozio, ma ben presto chiusero anche quelli. Alle 15.00 andò a riprendere la moto al parcheggio a ore, infilò il casco e tornò in hotel.
Pensò che un tuffo in piscina avrebbe potuto aiutarlo a ingannare il tempo, così tirò fuori il costume che J gli aveva fatto infilare in valigia, si coprì di protezione solare – “Altrimenti divento un pomodoro” – e con le infradito al piede raggiunse la piscina. C’erano dei bambini con i genitori, qualche coppia, per fortuna niente ragazzi. Prese possesso di un lettino e vi si stese, avendo cura che ogni parte di sé fosse all’ombra e si mise ad osservare i bambini che giocavano, con la musica a tutto volume.
In quel momento desiderò che Davide fosse con lui, per continuare quel discorso sul diario di Tom Riddle che stavano facendo. Erano interessanti le teorie di quel ragazzino. Avrebbe potuto portarlo in piscina, avrebbero giocato magari.
Quando il pensiero su Davide si fu esaurito e la sua mente fu vuota, si alzò e si accostò alla piscina per fare una nuotata. Nuotando, cercò di svuotare la mente. Era una cosa assurda per lui, perché il problema era proprio l’avere la mente vuota. Erano mesi che non scriveva un verso e J cominciava a preoccuparsi. Cosa avrebbe fatto se non avesse più scritto? Non era certo tipo da cantare canzoni scritte da qualcun altro. Era preoccupato più di quanto desse a vedere e quella preoccupazione gli riempiva la mente, allontanando una possibile ispirazione.
Ciò che stava cercando, non si trovava sul fondo di quella piscina.
Si fermò per riprendere fiato e uscì dalla vasca. Doveva darsi una mossa, fare qualcosa. Ancora una volta avrebbe voluto che Davide fosse con lui.
Poi gli tornò in mente quella ragazza – che clichè. Forse avrebbe potuto fargli compagnia. Sicuramente aveva i suoi impegni, ma…era l’unica persona che conosceva.
Senza pensare di cercarla davvero, chiese alla reception un elenco telefonico. Cercò quel cognome, lo trovò e segnò l’indirizzo su un post-it datogli dalla receptionist.
Tornò sul lettino, all’ombra e con l’amato GoogleMaps cercò l’indirizzo, per vedere quanto fosse distante. Non era esattamente dietro l’angolo, ma aveva una moto.
E due caschi.
 
Alla fine cosa aveva da perdere? Se anche lo avesse preso per un pazzo, non l’avrebbe rivista mai più. Eppure era ancora sotto quel portone senza avere il coraggio di premere il bottone del citofono. Non poteva neanche sbagliare, visto che erano gli unici De Amicis in città. A meno che non gli avesse detto un cognome falso, ma dubitava che fosse così.
Si sentiva tanto Amleto mentre recitava il suo dilemma, bussare o non bussare, è questo il problema. Fifone. Sentiva la voce di J che lo tartassava. Stava passeggiando avanti e indietro forse da più di mezz’ora e ancora doveva decidersi a fare qualcosa, ancora un po’ e avrebbe creato un solco nell’asfalto, come nei cartoons che ogni tanto vedeva in tv.
Si appoggiò al muro e guardò le pietruzze sul suolo, mentre teneva le mani in tasca, poi sentì il tintinnio di un mazzo di chiavi e istintivamente alzò lo sguardo. Indovina un po’? Eccola lì, che prende le chiavi dalla borsa. Si accorse di lui soltanto qualche passo più avanti.
Ma cosa ci faceva lì fuori? Era uno stalker?
Forse la sua espressione sorpresa l’aveva tradita, poiché vide Ed guardare in là, un po’ in imbarazzo.
  • Ciao, Sheeran. Stai facendo una passeggiata? – ironizzò per distoglierlo dall’imbarazzo che gli leggeva in viso.
  • Ciao. No, in realtà. – tornò con lo sguardo su di lei.
  • Hai bisogno di qualcosa? – disse dopo un attimo di silenzio.
Beh, il destino aveva deciso che l’avrebbe incontrata, o almeno è di questo che voleva convincersi, quindi bando alle ciance. Non aveva niente da perdere.
Sperava solo che in futuro non avrebbe letto “Sheeran seduce italiana e poi la delude” su tutti i giornali.
  • Ti stavo cercando. – sfilò una mano dalla tasca – volevo chiederti se…
Lei cercava di dare da sola una conclusione a quella frase, ma non riusciva a trovare un finale che desse senso alla sua presenza sotto casa sua. Voleva che gli indicasse qualche strada?
Il baccano che regnava nella sua mente, fuori non era altro che silenzio.
  • …Se… - un sospiro e via – se ti andrebbe di farmi da guida. Aiutarmi a visitare un po’ il posto.
  • Oh. – un attimo di silenzio, il tempo di analizzare la portata della sua richiesta – E sei venuto a cercarmi fino a casa? Bastava chiederlo subito.
Lei vide il suo sorriso e il tentativo di soffocare una risata, probabilmente rivolta a se stesso. Si era portato una mano al collo, strofinandosi la nuca, le spalle alzate, tese.
  • Vuoi salire? – chiese con naturalezza.
  • Ehm. Ok.
Sapeva che i napoletani erano famosi per la loro ospitalità, ma gli faceva un po’ strano accettare un invito del genere. Sperò che lei non avesse frainteso, ma volle credere che quel doppio senso lo avesse immaginato solo lui. Cercò di mascherare lo stupore nascosto nei suoi occhi, mentre lei incurvava le labbra.
Sara si avvicinò al citofono e pose il dito sul secondo bottone in alto, lo stesso che Ed aveva fissato poco prima. Riconobbe la voce della madre e la sentì dire che stava arrivando in compagnia di Ed Sheeran. La madre rispose con una risata.
Il rumore del portone che strisciava a terra gli fece venire i brividi e l’aspetto dell’ascensore non era per niente rassicurante. Le porte si chiudevano con dei magneti molto rudimentali.
  • Non preoccuparti, non morirai. – rise – Ah, ti avverto, mia madre rimarrà sconvolta, poi ti offrirà un caffè. Farai meglio ad accettare. – il suo modo di gesticolare lo distraeva.
  • Va bene, lo farò. – ricambiò con un sorriso.
Contò i piani, finché non si fermarono al quinto. La madre la aspettava sotto l’uscio della porta ricoperta di mogano. La targhetta recitava “Fam. De Amicis”.
  • Allora, ci credi?
  • Buonasera, miss.
Ed tese la mano, ma dovette attendere più o meno 5 secondi prima che la madre di Sara ricambiasse. Non era molto sorpreso del fatto che non le credesse, in effetti quella che si stava verificando in quella giornata, era un’eventualità altamente improbabile. Alla fine lo salutò e lo invitò in casa. Sara sorrideva sorniona e Ed cercava di trattenere una risata dinanzi a quelle facce buffe.
La signora gli offrì un caffè e lui accettò, come gli era stato ordinato.
Sara lo guidò verso il divano e lo fece accomodare. Ed posò il casco sul tavolino basso. Non sapeva che dire, ma fortunatamente il silenzio fu interrotto dalla voce di un ragazzo.
  • Lui è mio fratello, Davide.
Ma guarda che coincidenza. Davide non lo aveva ancora notato, ma quando si voltò rimase di sasso. Ed alzò timidamente la mano per salutarlo, poi la rimise in tasca, continuando a guardarlo in attesa di un cenno. Quella situazione era alquanto comica.
Sara sapeva che sarebbe successo, sapeva che sarebbe stato il panico. La prima cosa che uscì dalle labbra del fratello fu un “Oh mio Dio”, pronunciato con molto entusiasmo. Sara pensò di essere l’unica idiota che non lo aveva riconosciuto subito o che, perlomeno, dubitasse della sua concreta presenza in quella città. Ed assecondò la situazione: foto, autografo, pacca sulla spalla, per poi tornare sul divano vicino a Sara. Sembrava spaventato come un pulcino, intimidito com’era nelle spalle.
Quando la madre giunse col caffè, Ed ringraziò e prese una delle piccole tazzine. Era quasi inconcepibile per lui bere una così striminzita quantità di caffè.
Fu sorpreso da lei mentre guardava incuriosito quella mini-tazzina.
  • Non è come il caffè americano. Assaggia.
Senza proferire parola, fece un piccolo sorso e quando sentì il sapore corposo del caffè sulla lingua, dalla sua bocca uscì un “WOW”. La madre di Sara rise.
Mentre Ed terminava il suo caffè in quel pesante e imbarazzante silenzio, la signora salutò, annunciando alla figlia che stava andando via. Si salutarono con una stretta di mano e quando la signora se ne fu andata, l’atmosfera si alleggerì.
  • Allora… - cominciò lei – sei fortunato, perché proprio stamattina ho dato l’ultimo esame e sono libera. Cosa vorresti fare?
  • Ah, meno male. Veramente, non lo so. Vorrei vedere dei bei posti, visitare Napoli, Sorrento.
  • Sei dalla persona giusta, io vado solo in posti belli, ma devo informarti che io non ho una macchina.
  • Tu non hai una macchina, ma io ho una moto – disse battendo la mano sul casco.
  • Bene! – non sapeva più nemmeno se sorridere o essere sconvolta.
Lui sorrise, imbarazzato.
  • Senti, Sheeran…
  • Chiamami Ed. – la guardò.
  • Senti, Ed – continuò – io accetto di accompagnarti, ma tu devi promettermi che non sarai sempre così imbarazzato. Guarda che io sono più agitata di te. – terminò, mordendosi il labbro inferiore.
Ed aveva le mani intrecciate, le dita si tormentavano, il piede batteva nervoso a terra, ma quando lei terminò la frase interruppe qualunque attività. In effetti era piombato nella sua vita come se fosse piovuto da cielo. Tirò su le spalle e poggiò le mani sulle gambe.
  • Va bene, Sara. Amici? – disse mostrandole il pugno.
  • Amici. – concluse, battendo il pugno sul suo e sorridendo davanti a quel gesto.
  • Allora, dove mi porti?
  • Ti va di cominciare da qui? Ormai sono le 18, non vale la pena allontanarsi troppo.
  • Sono…come si dice…a tua disposizione. – era un po’ arrugginito.
  • E per cena?
  • Sei tu la mia guida.
La vide portarsi le dita al mento, in un gesto di riflessione. Si chiese cosa stesse pensando, quando riprese a parlare.
  • Va bene. Andiamo.



Angolo autrice:

Mi auguro che i lettori silenziosi siano rimasti incuriositi. La storia non sarà sempre così "placida", questo è solo l'inizio dell'avventura, date tempo al tempo. So di non essere una grande scrittrice (XD), per questo mi piacerebbe tanto conoscere le vostre opinioni - su qualsiasi cosa! Spero di leggere qualche recensione e che il capitolo vi sia piaciuto.
Bye! :D

 

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Capitolo 4
*** Primo giorno - Pt III ***




Primo Giorno - III

 

Scrisse un biglietto e lo lasciò attaccato ad un magnete del frigo, riuscì a distinguere solo poche parole, poi la seguì fuori dalla porta.
 
Non credeva al destino. Il fatto di aver preso due caschi era dovuto solo al fatto che il suo inconscio desiderava non rimanere solo. Quando giunsero alla moto, lui montò in sella e le tenne il casco mentre montava dietro di lui, quando lo ebbe allacciato avviò il motore.
  • Ti avverto che io ho paura delle curve quindi non-
Troppo tardi, era già partito. Quando la sentì urlare e reggersi alle sue spalle, rise di gusto. Non sapeva perché.
  • Scusa!
La voce giungeva ovattata dall’interno del casco, ma era percepibile. Lo guidò lungo le strade fino a giungere nei pressi del porto. Sentiva l’odore della salsedine chiaro e piacevole, era da tempo che non gli capitava. In quella zona illuminata dal luccichio del mare, l’atmosfera era piacevolmente malinconica, le case dipinte di rosso, gli alberi ombrosi, lo stridio delle cicale e quell’aria tiepida sembravano usciti da una fotografia di 50 anni prima, quando forse quel posto vedeva i marinai partire e le mogli in veranda ad attenderli. Le mani di lei comparivano ai lati del suo campo visivo, come una visione. Era tutto così irreale da sembrargli una proiezione del suo inconscio fantasioso. Lungo l’ultimo tratto di strada scorse un vecchio mulino di mattoni rossi, le finestre murate. Si immaginò lì dentro, alla luce del tramonto, ad osservare il mare da un luogo in cui nessuno sapeva che Ed Sheeran esistesse. Quando scesero dalla moto, tornò alla realtà non sentendo più il calore delle sue mani sulle spalle. Sperava che avesse dimenticato la brusca partenza di poco prima, ma Sara non dimenticava nulla, lo avrebbe imparato presto. Infatti gli diede un pugno ben assestato sul braccio mormorando un “Ben ti sta!” che lui non comprese. Col casco a braccetto, lo guidò in un vicolo.
Si assicurava che Ed fosse ancora lì voltandosi di tanto in tanto e quando arrivò alla fine della strada, si fermò ad aspettarlo. Quando la affiancò, Ed si rese conto che erano giunti su una spiaggetta. Per raggiungere la sabbia dovettero camminare su enormi sassi e pietre, rischiando più volte di cadere su alcuni tratti scoscesi. Gli piaceva tutto questo.
Giunti alla sabbia, si calò a prenderne una manciata per osservarla. Era nera come il carbone.
  • È sabbia vulcanica, per questo è nera. Sono tutte pietre laviche rimpicciolite per l’erosione e oggi sono una spiaggia.
  • Non hai paura che il vulcano esploda? – chiese d’istinto, curioso della sua risposta.
  • In realtà non ci penso quasi mai. Ovviamente, se ci rifletto mi viene una fifa blu, ma per la maggior parte del tempo tutti noi lo dimentichiamo.
Continuarono a camminare sulla sabbia, diretti verso un muraglione a cui Ed non sapeva dare una funzione, ma quando giunsero al muro e attraversarono un grande cancello, si ritrovarono nel porto.
  • Così abbiamo risparmiato molta strada. Non ho voluto fartici arrivare con la moto perché spesso le rigano con le chiavi o le buttano a terra.
  • Allora meglio così, è noleggiata!
Sara si diresse ad un chiosco e chiese due birre all’uomo che vi lavorava, con molta confidenza. Insistette per pagare visto che Ed le aveva pagato la pizza. L’uomo le diede gratis un pacchetto di patatine e li salutò con la mano.
Salirono lungo una stretta scalinata fin sulla muraglia. Si trattava di un muro di protezione, un braccio artificiale del porto. C’era molta gente che passeggiava, qualcuno correva, altri erano fermi ad ammirare il panorama. Era la stessa vista che aveva ammirato dal treno, solo che la prospettiva era diversa, più ampia.
Per un po’ camminarono in silenzio, poi Sara cominciò ad indicare col dito tutte le città visibili.
Napoli, Sorrento, Meta, Castellammare di Stabia, Ercolano, Vico Equense. Si poteva ammirare l’intero golfo, da quella città. Capri svettava all’orizzonte col suo profilo elegante.
Al termine della muraglia c’era un’enorme statua di Gesù, con le braccia alzate e un dito puntato al cielo.
  • E adesso?
  • Adesso scavalchiamo – disse lei, alzando una gamba sulla ringhiera.
Alla fine del muraglione c’era una scogliera artificiale, le enormi pietre laviche che la componevano erano incastrare in un mosaico imperfetto.
Ed la seguì, poggiando i piedi sul primo scoglio. Passarono da uno scoglio a un altro secondo un preciso percorso. Evitando i vuoti più pericolosi, giunsero ad uno scoglio particolarmente piatto e vi si sedettero con le gambe penzoloni.
  • Benvenuto sullo scoglio di Sara – disse lei poggiando i palmi delle mani sui margini della pietra.
  • Ci vieni spesso? – disse lui guardandosi intorno.
  • Ogni volta che posso.
Senza distogliere lo sguardo dal panorama, Ed aggiunse – Chi sa quante vittime avrai portato qui – un sorriso sornione gli decorava il viso, i capelli rossi accesi alla luce del sole, gli occhi che si confondevano col cielo.
- Non sai quante – rispose Sara ridendo, osservando i gabbiani che volavano alto. – Cazzo! Oh scusa – aggiunse subito imbarazzata – Mio zio non ha aperto le birre. -
Lui la guardò col volto sereno per la prima volta dall’inizio di quella giornata.- Lascia fare a me – prese le birre ed usò i margini dello scoglio come ancoraggio per poi dare una forte botta alla testa della bottiglia. Dieci secondi dopo stavano brindando.
  • Ora posa la birra, poggiati sulle braccia e tieni la testa indietro, con gli occhi chiusi.
  • Perché?
  • Fidati di me.
Lei lo stava già facendo. La imitò e chiuse gli occhi. Riusciva a sentire sotto i palmi le vibrazioni provocate dalle onde che si infrangevano poco più sotto. Il vento fresco allontanava l’afa e gli scompigliava i capelli. Il profumo del mare si mischiava al sapore della birra. Non sapeva dire per quanto tempo fosse rimasto in quella posizione, ma era così rilassato che per un po’ si perse nello scrosciare delle onde. Non esisteva più niente. Né la musica, né i concerti, né le interviste, né i testi delle canzoni che non riusciva a scrivere.
Quando aprì gli occhi, il sole stava cominciando a tramontare e Sara beveva un sorso di birra. Si raddrizzò e bevve un sorso anche lui. Doveva farlo più spesso.
  • Allora, quanti anni hai?
Lei si voltò per rispondergli
  • Se non vado errata, ho la tua età.
  • Cioè 22 anni? – disse lui.
  • Si.
  • E cosa sei nella vita?
  • Studentessa. Spero di laurearmi entro un anno.
  • Cosa studi?
  • Scienze della Formazione Primaria. Vorrei fare l’insegnante.
  • In un liceo?
  • Cosa? No! Alla scuola dell’infanzia e alla scuola primaria. Non sopporterei mai una banda scalmanata di adolescenti.
Lui rise, immaginandola presa d’assalto dallo stesso gruppo di ragazzi che lo aveva circondato quella mattina. In effetti, a guardarla, non avrebbe detto diversamente, aveva un viso molto dolce.
  • E tu, Ed? Cosa sei nella vita?
  • Vuoi dire oltre ad essere un cantante? – non sapeva esattamente come rispondere a quella domanda. Si voltò a guardare il mare e riprese a parlare. – Non ne sono sicuro. Forse sono solo un tizio coi capelli rossi che suona una chitarra. Non ho mai pensato di essere qualcosa di diverso. Una volta ho pensato che mi sarebbe piaciuto aprirmi un bar, ma il giorno dopo avevo già cambiato idea e sono partito per Londra. L’unica certezza che ho è che non è il numero di album venduti che mi qualifica. Io sono le mie canzoni, è da lì che nasce tutto.
Era sicuro che lei avesse ascoltato attentamente le sue parole, le stava soppesando immobile, con le dita che accarezzavano il fianco della birra. Abbassò lo sguardo, riflettendo sul numero di possibilità concrete che lei lo scaricasse il giorno dopo, doveva essere patetico ai suoi occhi.
Ed stava affrettando ancora il suo giudizio. Sara era una ragazza molto semplice, ma ciò non significava che fosse scontata.
  • Sai, nella mia modesta opinione, nessuno può capirci veramente. Quello che mi hai detto ha un valore che io non posso definire, quindi lo accetto in silenzio. Non ti giudico, se pensi che lo abbia fatto.
Lo aveva pensato. Bevve l’ultimo sorso di birra, desiderandone subito un’altra per rinfrescare ancora un po’ la gola arida. Poggiò la bottiglia di fianco a sé e il rumore del contatto del vetro sullo scoglio ruppe quel silenzio.
  • Ed?
Lo chiamò improvvisamente, distogliendolo dai suoi pensieri.
  • Perché sei qui?
Lo guardava negli occhi mentre poneva la sua domanda, senza lasciar trasparire timidezza, mentre nei suoi, probabilmente, aleggiava il più completo disappunto riguardo alla domanda tanto quanto la risposta. Doveva dirle la verità? Farle una tale confidenza?
  • Se non ti va, non rispondere.
  • No, ecco…non so da dove cominciare, è una storia lunga.
  • Ho tutto il tempo che ti serve.
 
Sara aveva finito la sua birra ormai da un po’, ma quasi non se ne era resa conto, presa com’era ad ascoltare la storia di Ed. Videro il tramonto distrattamente, ma Ed non si trattenne dal fare una foto a quello spettacolo: un rosso vivido e freddo, intenso, tingeva un cielo così terso da rendere nitido ogni particolare. Le nuvole lontane sembravano ergersi a pochi passi da lui. Un panorama in alta definizione.
Il rumore della fotocamera che scattava fu l’unico suono che permise ad Ed di interrompersi, giusto il tempo dello scatto e poi tornò a parlare come se nemmeno si fosse accorto che le lancette del suo orologio segnavano le 20:00. Sara pensò che forse non parlava con qualcuno da molto tempo, quindi meglio non interrompere quel flusso di pensieri.
  • Così ho preso il primo treno per Napoli e sono venuto qui. Il resto lo sai.
  • Sei davvero complicato, Ed Sheeran. Probabilmente al tuo posto sarei combinata anche peggio, devi avere un bel nodo in mezzo ai pensieri. Vedrai che si scioglierà, conosci molto bene te stesso.
  • Lo spero, ma sembra che ci voglia un’eternità.
Continuava a guardarlo mentre il blu rivestiva ogni cosa, compresi i suoi occhi stanchi. Le ciglia chiare brillavano sullo sfondo celeste. A volte pensava che a momenti sarebbe suonata la sveglia, ma doveva essere ancora notte fonda visto che aveva avuto il tempo di ascoltare la storia di quella testa rossa.
La maglietta bianca brillava sotto la camicia scozzese e, alzandosi e abbassandosi, le faceva notare che quel cuore batteva, quel petto respirava. Probabilmente in un sogno non avrebbe notato una cosa del genere. Nonostante fosse consapevole di quanto fosse ridicolo, allungò una mano e con l’indice gli punzecchiò il braccio. Lui si voltò istintivamente.
  • Sto soltanto verificando che tu sia vero. – disse, senza curarsi di rendere la frase in tono ironico.
  • Cosa? – aggrottò le sopracciglia e si fece sfuggire una risatina isterica.
  • Ti prego, fa finta che non abbia fatto niente o dovrò ucciderti!
  • Mi piego alla sua volontà, milady.
  • Ti va di andare a cena? Dobbiamo andare via, si sta facendo buio.
Ed ritirò le gambe e piantò bene i piedi a terra prima di alzarsi in piedi su quella piattaforma, poi le tese una mano per aiutarla. Lei l’afferrò e si tirò su con uno slancio, ma quella mossa affrettata le annebbiò la vista. Strinse più forte la mano di Ed per paura di perdere l’equilibrio.
  • Sara? Tutto bene?
  • Si, scusa, mi sono alzata troppo in fretta. Mi gira la testa.
Teneva gli occhi chiusi e i piedi ben fermi, attendendo che quella sensazione di vuoto passasse, mentre Ed lasciava scivolare il braccio intorno alla sua vita.
  • Tieniti a me.
Le mani lunghe e sottili stringevano le maniche della sua camicia fino a far sbiancare le nocche, ma non era un problema. Sentì il suo respiro regolarizzarsi lentamente finché aprì gli occhi, sbattendo ripetutamente le palpebre.
Lentamente, la stretta si allentò, ma la percezione della sua mano calda tra la schiena e il fianco era tagliente e disorientante come una pugnalata. Reale.
  • Ti senti meglio? Dammi la mano, non si sa mai.
In silenzio, Sara afferrò la mano di Ed, ignorando il tintinnio delle bottiglie vuote che aveva infilato in borsa. La sensazione predominante, in quel momento, era il calore intenso di quelle mani contro le sue. Erano mani spesse, morbide, ma la stringevano in modo rassicurante. Fecero il percorso a ritroso fino alla ringhiera, dove riuscirono entrambi a scavalcare senza problemi. Una volta al sicuro, lei si scusò senza un vero motivo e in quel momento, allo stesso modo, Ed arrossì, pregando che lei non avesse percepito quella piccola scossa che lo aveva percorso muscolo per muscolo. Indeciso sul da farsi, optò per la strada più semplice: lasciò a lei la scelta del lasciare o non lasciare la sua mano, le aveva ceduto il dilemma.
Per un attimo Sara lo guardò negli occhi alla ricerca della decisione giusta, senza trovarla, così decise che se lui lo avesse voluto, le avrebbe lasciato la mano. Una vera-e-propria coppia di idioti.
  • Andiamo? – disse allora. – Conosco un posticino alle pendici del Vesuvio che prepara tutti i piatti tipici.
Quando silenziosamente arrivarono alla moto, ormai era sparito anche l’ultimo raggio di luce e le stelle si dispiegavano sul loro manto di velluto blu. Con le chiavi nella mano destra, Ed si rese conto che per infilarsi il casco necessitava di entrambe le mani, così guardò quelle dita sottili strette nelle sue, per poi incontrare il suo sguardo. Ebbe la sensazione che stessero pensando la stessa cosa.
Simulando naturalezza, Sara sfilò le dite dalle sue, ma subito il fresco della sera rese ancora più evidente il distacco, disperdendo il calore che aveva ricevuto la sua mano. Non si era nemmeno resa conto che Ed fosse già in sella. Infilò il casco sui capelli ricci e si assicurò di averlo allacciato bene, prima di alzare la gamba per montare dietro di lui. Una volta seduta, si ritrovò dinanzi alle sue spalle larghe e, un po’ titubante, vi poggiò le mani. Sentiva sotto i pollici i muscoli palpitanti. Tutto il resto fu annullato dal rombo della moto che partiva.


Angolo autrice:

Salve, lettori! Un po' alla volta cominciamo ad entrare nella vera storia.
Preciso da subito che questa ff non tiene conto di avvenimenti reali, sia spaziali che temporali, è un po' tutto mischiato. Quindi non spaventatevi se non vi ritrovate con le uscite dei singoli e roba del genere. Era essenziale per la storia.
Spero di leggere qualche commento e mi scuso per la brevità dell'aggiornamento.
Bye! :)
 

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Capitolo 5
*** Primo giorno - Pt IV ***





Primo Giorno - IV


Il vento scuoteva il colletto della camicia e penetrava all’interno della t-shirt bianca, facendolo rabbrividire. La differenza di temperatura tra le mani di lei e il resto del suo corpo era netta.
Risalivano la strada costeggiata dai pini e l’aria diveniva percettibilmente più fredda ad ogni metro, infatti la sentiva tremare dietro di sé, ma non proferì parola.
Gli indicò col dito l’hotel dove alloggiava e lei fece un commento che non riuscì a percepire del tutto, la sua voce era troppo nascosta dal casco scuro.
Durante quella lunga salita, veniva spesso distratto dal panorama che compariva un po’ alla volta alla sua sinistra, così decise di accostare al culmine della salita. Il ticchettio della freccia richiamò l’attenzione di lei, facendole inconsapevolmente scattare le dita ancora poggiate sulle sue spalle. La moto rallentò delicatamente fino a fermarsi al limitare del marciapiede pieno d’erbacce.
Attese che lei scendesse e si sfilò il casco, scompigliando ancora di più i suoi capelli rossi. Nel frattempo anche lei si scopriva il viso facendo un sospiro.
  • Come mai ti sei fermato?
Ed soffermò lo sguardo su di lei per qualche secondo. Forse lei era abituata ad un panorama così. Quando spostò di nuovo lo sguardo su Napoli illuminata, lei seguì la sua traiettoria e comprese al volo. Sorrise, quasi lusingata dalla sua meraviglia, ma – si disse – lui non sapeva ancora cosa lo aspettava qualche centinaio di metri più su.
Infilò di nuovo il casco e si accostò alla moto, invitandolo indirettamente a ripartire. Le luci gialle dei lampioni rendevano quel posto irreale.
Quando si convinse a ripartire, infilò il casco distrattamente e riavviò il motore.
Ripartirono lungo una strada buia, tortuosa e l’aria cominciava a farsi gelida, ma poco pensava al freddo quando lei lo stringeva di più lungo quelle curve strette, con la testa bassa per non guardare.
Spesso sentiva qualche raccomandazione provenire dalla donzella che portava, come “stai attento ai cani, si siedono nel bel mezzo della strada”, o “non farmi cadere”. Non sarebbe stato un problema accontentarla se non fosse stato così buio. La strada era del tutto avvolta dalle fronde degli alberi, nemmeno la luce della luna li raggiungeva.
Pochi metri dopo, comparve dinanzi a loro una struttura in legno illuminata, del fumo usciva da un comignolo. Posarono la moto nel parcheggio, quasi congelati. Il panorama svettava dietro una staccionata di legno.
  • Ti piace? – disse lei osservando quella silenziosa reazione.
  • Non è il solito posto a cui sono abituato, questo è certo.
  • Sono le prime parole che dici da quando siamo partiti. Va tutto bene?
  • Si, certo. – rispose con sguardo interrogativo.
  • Se vuoi, possiamo andarcene.
  • No, perché mai dovremmo?
Le tremavano le mani. Per il freddo, certo, ma anche per l’assurdità di quella situazione.
Si limitò a guardare verso gli scalini di legno che fungevano da ingresso a quel posto all’aperto. La vide avanzare il passo verso la finestra che dava sulla cucina ed alzare la mano con confidenza, salutando qualcuno. Una ragazza dai capelli scuri apparve di fronte a lei e la salutò con un bacio. Si fermò qualche passo prima, per non disturbare, ma la voce di Sara lo richiamò e lo invitava a raggiungerla.
  • Ti presento una mia amica. Ed, Maria. Maria, Ed.
Tese le mano in modo ufficioso, intirizzito dall’imbarazzo. Ma quando mai era stato così timido?
  • Piacere, miss.
  • Piacere mio, Ed. – disse lei guardando più l’amica che stava ridendo, che lui.
  • Possiamo sederci dove preferiamo? – disse Sara, puntando un tavolo isolato col pollice. – Vieni, Ed. Rilassati!
Fece volontariamente un sospiro e la seguì. Al termine della pedana di legno, scesero altri scalini e avanzarono su un terrazzamento naturale. I tavoli avevano i piedi immersi nell’erbetta bassa che ricopriva parzialmente il terreno.
  • Qui è perfetto – disse lei  - è il punto che più preferisco.
Da dietro le viti piantate in quello stesso appezzamento, si aprì a lui la vista dell’intero golfo di Napoli, illuminato. Capri risplendeva come un gioiello al collo di una bella donna.
  • Figo, eh?
  • Wow.
Mentre lei si sedeva, Ed rimase in piedi davanti alla staccionata, cercando di distinguere le città che lei gli aveva indicato nel pomeriggio e ammirando i riflessi delle luci sul mare calmo.
Tirò fuori il cellulare dalla tasca e il rumore dello scatto spezzò il silenzio.
Quando si sedette sulla sedia accanto a quella di lei, Maria, con un grembiule nero troppo grande per lei, gli portò i menù.
  • Cosa mi consigli? – disse leggendo la parte del menù in inglese.
  • Il menù tipico dovrebbe fare al caso tuo. – parlava da dietro a quel foglio plastificato, nascondendo il volto.
  • Va bene, se è buono come la pizza di stamattina.
  • Lo è.
Due menù tradizionali e una bottiglia di vino furono ordinati al personale della cucina. Poco dopo, rimasero soli.
Sara non aveva più il menù a nasconderle il volto, quindi si tormentava le mani per non rendere visibile la sua agitazione sul viso.
  • Mi avevi promesso che non saresti stato così timido.
Ed smise di fissare il tavolo di plastica rosso e la guardò, lo sguardo implorante perdono non lo avrebbe aiutato a rompere quel ghiacciaio che il silenzio aveva creato.
  • Scusa, non lo faccio di proposito. È che non so cosa sto facendo.
  • Allora non pensarci più, rilassati. Qui nessuno può disturbare la tua fragile psiche.
Prendere la strada del sarcasmo forse l’avrebbe aiutata a strappargli un sorriso.
  • Ti va di parlare di qualcosa? – disse lui senza evitare il contatto visivo.
  • Tipo?
  • Lascio a te la scelta.
  • Potrei farti domande imbarazzanti, lo sai?
Un ghigno inquietante le decorò le labbra, ma gli sciolse quell’espressione impaurita che aveva assunto da un po’.
 
Ci pensò il vino a sciogliergli i pensieri e a riscaldarlo. Aveva la pancia piena e la testa leggera.
  • Allora, che ti sembra dei piatti che hai mangiato?
Sara si carezzava la pancia, pronta a scoppiare da un momento all’altro. Si era rilassata sulla sedia e aveva poggiato una gamba sul bracciolo, lasciandola penzoloni, mentre con l’altra cercava di non scivolare definitivamente a terra.
  • Potrei mangiare parmigiana anche a colazione, è fantastica!
Persino Ed ora sorrideva in modo confidente, un po’ per il vino un po’ per qualche altra cosa che non comprendeva. In quel momento nulla avrebbe potuto preoccuparlo.
  • Sai cosa ci vorrebbe? – aggiunse – Un’amaca.
  • Mi dispiace, quella non so dove trovartela, dovrai accontentarti della scadente sedia di plastica della Coca Cola, Ed. – rise.
  • Stai insinuando qualcosa, per caso? – disse divertito con uno sguardo indagatore.
  • Assolutamente nulla, signor Sheeran!
Gesticolò vistosamente, agitando le mani in segno di negazione, mentre tentava di non far cadere il vino dal bicchiere di plastica. Lo guardò e per un attimo le sembrò che fosse davvero sereno. Poco prima non avrebbe detto di poter trascorrere una serata così piacevole, ma ora che si stavano lasciando andare, sembravano due vecchi amici.
  • Ma dai, sul serio? Se io sono pretenzioso, tu sei una fifona!
  • Guarda che quella delle curve è una paura legittima, tempo fa sono caduta dal motorino!
  • Sei un po’ eccessiva, non ti pare?
  • Certo che no! – fece la finta offesa, arricciando le labbra come una bambina.
  • Ma se prima mi stavi stritolando i muscoli delle spalle?! Ammettilo, sei proprio una bambina.
Rideva, tenendo le braccia incrociate per avvalorare la sua posizione di uomo senza macchia e senza paura, ma poco dopo tornò a distendersi sullo schienale della sedia, guardando quanto vino fosse rimasto nel suo bicchiere. Non era un amante di quella bevanda, ma quel vino senza etichetta gli piaceva particolarmente.
Prese la bottiglia e se ne versò un altro po’.
  • Ne vuoi ancora? – disse mostrandole la bottiglia.
Lei alzò lo sguardo dalla borsa in cui stava rovistando e rispose – Si, grazie. – prima di tornare a scavarci dentro.
  • Hai perso qualcosa? – riprese, posando la bottiglia al centro del tavolino.
  • No, sto solo cercando…ecco…forse l’ho trovato.
I capelli ricci le incorniciavano perfettamente il viso, mentre infilava metà del suo braccio in quella borsa enorme.
  • Ecco!
  • Cos’hai trovato nella borsa di Mary Poppins? – la guardò divertito.
  • Il mio tabacco. – disse mostrandogli un pacchettino di pelle marrone chiuso con due ciappe.
  • Tu fumi?
  • Capitan Ovvio colpisce ancora, eh?
  • Non l’avrei detto.
Sara prese a maneggiare filtri e cartine aiutandosi col tavolino davanti a lei, mentre Ed la osservava sistemare il tabacco. Per qualche secondo restò in silenzio, poi riprese la parola.
  • Me ne offriresti una?
Lei sgranò gli occhi quando realizzò la sua richiesta e lo guardò dritto negli occhi, incredula, mentre continuava a tenere il filtrino tra le labbra. Per evitare di farlo cadere, distorse la bocca assumendo un’espressione buffa. Se si fosse vista allo specchio, probabilmente si sarebbe infilata il casco per nascondersi.
  • TU fumi?
  • Capitan…com’era? – si portò le dita al mento simulando un momento di concentrazione, poi sorrise sornione.
  • Sul serio? Rovini quella tua stupenda voce col fumo? Io almeno sono stonata come una campana.
  • Dai!
Ed, ormai libero da ogni inibizione, giunse le mani in preghiera e assunse il classico sguardo da cucciolo abbandonato, il labbro inferiore che sporgeva e gli occhi luccicanti.
  • E va bene, ma solo perché hai pagato la cena. – gli tese con falso disprezzo il porta-tabacco, cercando di nascondere la risata che internamente rimbombava.
  • Sei proprio un’attrice tragicomica, devo ammetterlo. – disse prendendo il pacchetto marrone.
Con disinvoltura estrasse un filtro dalla tasca posteriore, poi aprì il pacco e preparò una sigaretta.
  • Comunque non fumo mai. Me ne concedo una ogni tanto quando non devo registrare, non posso permettermi che la voce si abbassi.
  • Certo che non puoi, provocheresti la più grande catena di suicidi mai vista.
Ed accese la sigaretta subito dopo di lei e ne prese una grande boccata. Il calore del fumo gli appesantiva piacevolmente il petto. Buttò fuori il fumo espirando e guardò con complicità quella sua stramba guida che lo osservava di sottecchi, credendo che lui non se ne fosse accorto. Sapeva di essere piombato nella sua vita senza preavviso e chiedendo qualcosa che la impegnava per una settimana intera, ma sperava che non le pesasse. Sperava che le facesse piacere. Forse all’inizio il suo inconscio faceva i capricci, ma in quel momento non sarebbe voluto essere da nessuna parte se non lì.
  • Scusa. – disse senza sapersi controllare. Lei lo guardò senza capire. – Di averti coinvolto nei miei problemi. Mi dispiace.
Il fumo aleggiava intorno a lei, quasi immobile, mentre sbatteva le palpebre per metabolizzare le sue parole.
Quel ragazzo l’avrebbe fatta impazzire, lo sapeva.
  • Non devi preoccuparti di questo, non può che farmi piacere essere in compagnia di Ed Sheeran. Forse non riesci a immaginare quanto un tuo fan possa essere felice di conoscerti così, come sta capitando a me.
  • Forse no. – abbassò lo sguardo. – Ma mi chiedo come fai ad accettare tutto questo così tranquillamente. Ti sono piombato addosso senza ritegno, io al tuo posto potrei sentirmi infastidito. – spiegò, agitando la mano con cui teneva la sigaretta. Dei ghirigori di fumo prendevano forma ad ogni movimento.
  • Non si può essere infastiditi da Ed Sheeran. I comuni mortali che ammirano dei semi-dei, non si sentono mai infastiditi da loro. È difficile da spiegare. – disse sfiorandosi una guancia con le dita.
  • Ma potrei anche essere un maniaco! – cercò di ribattere con qualcosa che lei non potesse contestare.
  • Qualcuno che ha scritto “Thinking Out Loud” non può essere un maniaco. – concluse lei, semplicemente.
Lui rimase in silenzio.
  • Sul serio, Ed. Io sono molto contenta di farti compagnia, non potevo chiedere di meglio. Sei, per così dire, il mio cantante preferito.
Lui sorrise, poco convinto delle sue argomentazioni.
  • Ma se non la smetti di farti problemi, ti pianto in asso senza pietà, è chiaro?
 
Quando le lancette toccarono la mezzanotte, il vino era finito e le sigarette consumate.
Il silenzio era disturbato soltanto da qualche rumore proveniente dalla cucina e dai grilli che cantavano la loro ninna nanna. Era piacevole stare lì seduti a godersi la quiete. Non c’era bisogno di aggiungere parole.
La luna si rifletteva sul Mediterraneo, specchiandosi quasi perfettamente. Sorrento brillava in lontananza.
  • Possiamo andare a Sorrento?
  • Se vuoi, certo.
  • Non mi hai ancora detto dove andremo domani.
  • Stavo pensando di andare a Napoli. Ci vorranno almeno un paio di giorni per vedere tutti i posti più belli e poi devo anche passare dall’università. Ti dispiace farmi compagnia?
  • Spero solo di non essere riconosciuto da nessuno.
  • Già.
Sara abbassò lo sguardo, sorridendo un po’ amaramente. Probabilmente la mattina seguente si sarebbe svegliata delusa, anche se quel freddo era così reale da farle venire la pelle d’oca.
Per riscaldarsi strofinò le mani sulle braccia, ma l’effetto fu davvero breve.
  • Se hai freddo, possiamo andare.
  • Forse è meglio. Domani dobbiamo alzarci presto.
Così Ed si mosse per alzarsi. La camicia aperta ondeggiava a quel movimento.
Passarono davanti alla finestra della cucina e salutarono Maria, lei con un abbraccio, lui con un cenno della mano. Ma gli occhi azzurri di Ed non erano più così freddi, mentre sorrideva.
Durante la breve camminata fino alla moto, la ghiaia scricchiolava sotto i loro passi veloci e Sara teneva le braccia conserte per trattenere un po’ di calore. Aveva dimenticato il freddo di quel posto, si chiedeva come facesse Ed a non tremare e l’unica spiegazione stava nel fatto che avesse bevuto più di mezza bottiglia di vino.
Quando giunsero alla moto, prima di passarle il casco, Ed aprì il porta-oggetti. Sara non riuscì a scorgere cosa stesse facendo, dato che la testa rossa le copriva la visuale, ma quando Ed si girò, comprese. Le stava porgendo un K-way da viaggio.
  • Sono sempre in dotazione nelle moto da noleggio.
  • Oh, grazie!
Lo prese subito dalle sue mani, ma non riusciva ad aprirlo, la chiusura si era incastrata.
  • Aspetta, fammi vedere.
Le loro mani si incontrarono di nuovo nel tentativo di aprire quell’affare. Ed emanava un calore inumano, era ovvio che non avesse freddo, ma lei aveva una temperatura corporea tendente allo 0 ed Ed se ne accorse.
  • You’re freezing! – disse guardandola sconcertato.
Posò una delle sue mani spesse su quella di lei per infonderle calore e, per porre definitivamente una soluzione al problema, la avvicinò a lui e le ordinò di mantenere saldamente due precisi punti della stoffa. Quando ebbe esercitato una forza abbastanza consistente, la chiusura di aprì. Dispiegò la giacca anti-vento e la aiutò ad indossarla.
Quando chiuse la zip, Sara sentì il calore accumularsi, senza traspirare.
  • È un po’ grande, ma meglio di niente.
  • Sembro l’omino Michelin. – disse lei girando su se stessa.
Con i caschi ben allacciati, montarono in sella ed Ed avviò il motore.
  • Tieniti forte, se hai paura.
  • Ma se hai detto che sono una mocciosa!
  • Non fa niente, posso anche accettarlo. – disse ridendo all’interno del casco.
Dopo un ultimo saluto con la mano, Ed imboccò la strada in discesa e alla prima curva sentì Sara fare gridolini isterici, stringendogli le spalle.
  • Non stritolarmi le spalle, non riesco a guidare! – la rimproverò.
  • E a cosa dovrei reggermi?
  • Basta che non mi stritoli i muscoli!
Allora fece qualcosa che voleva evitare ad ogni costo, più per l’imbarazzo che per la poca confidenza: lo abbracciò in vita. Calò subito il silenzio. Si sentiva soltanto il rumore del K-way smosso dall’aria.
Quando il tratto di strada al buio terminò, finirono anche le curve strette e Ed sentì Sara rilassarsi dietro di lui. Non riusciva a smettere di sorridere. Non riusciva a smettere di darsi dell’idiota senza un motivo chiaro. Non riusciva a smettere di cantare nella sua testa “Thinking Out Loud”, senza sosta.
  • When your legs don’t work like they used to before…
Attese.
  • And I can’t sweep you off of your feet. – continuò lei alla fine.
Cantarono Thinking Out Loud come un crescendo e quando cantarono – ‘Cause, honey, your soul can never grow old, it’s evergreen! – urlarono con tutta la voce che avevano.
Sara, senza riuscire a trattenersi, aprì le braccia al cielo e su quella discesa le sembrò di volare.
Alla curva successiva, lo riabbracciò ridendo di gusto, senza pensare più all’imbarazzo o alla paura.
Quando arrivarono sotto casa sua, Ed accostò nel piccolo varco che precedeva un grande cancello marrone, che se ne stava socchiuso, pieno di scritte e scarabocchi. Oltre quello, una piccola discesa portava al cortile dove aveva atteso quel pomeriggio.
Girò le chiavi in senso antiorario, spegnendo il motore, e scese dalla moto subito dopo di lei.
Senza casco si sentì scoperto, come un bambino colto con le mani nella marmellata, infatti quell’allegria che li aveva contagiati poco prima doveva ancora svanire dalle sue iridi chiare, lo sapeva. Tuttavia, pensò che non fosse l’unico a versare in quello stato.
Sara, avvolta dall’enorme k-way, rideva ancora di quella piccola dimostrazione canora, che pregava lui non avesse potuto sentire così bene come sembrava. Era tremendamente stonata, ma amava la musica. Suo padre l’aveva cresciuta con i grandi successi della sua giovinezza, il funk, il pop, il rock, erano le pietanze principali del nutrimento della sua anima. Eppure soltanto dopo la fase adolescenziale aveva cominciato ad apprezzare davvero – DAVVERO – la musica. Se ascoltava un brano, tendeva quasi a studiarlo.
Ed tese la mano e lei gli porse il casco. Si chiese come mai ne avesse due.
Lui li poggiò entrambi sulla sella della moto.
  • Grazie per la compagnia. – disse senza evitare il contatto visivo. Le mani in tasca, sudate per qualche motivo.
  • Grazie a te per l’esibizione dal vivo. – ricambiò lei, sorridendo.
  • Mi avevi messo quella canzone in testa, dovevo sfogarmi in qualche modo!
Ridacchiarono al pensiero del loro quasi imbarazzante duetto e per un attimo ci fu silenzio.
Sara sistemò meglio la borsa in spalla e riprese a parlare, simulando normalità.
  • Allora…
  • Allora, a domani. A che ora passo a prenderti?
  • Ti aspetto per le 7:40, Ed. E non osare fare tardi. – si raccomandò puntandolo con l’indice.
  • No, miss, non si preoccupi, sarò puntuale come un orologio.
  • Va bene. Allora…
Allora? Cosa stava aspettando? Che spuntasse il sole?
  • Allora…
Ed si dondolava sul posto, agitato e felice allo stesso tempo. Non credeva fosse possibile.
  • Buonanotte, Ed.
  • Buonanotte, Sara.
Dopo averlo guardato un’ultima volta negli occhi, si voltò ed oltrepassò il cancello, correndo lungo la piccola discesa per non avere la tentazione di girarsi e guardarlo ancora. Quando ebbe superato l’angolo, si portò una mano alla fronte dandosi della stupida. Doveva essergli sembrata una ragazzina.
  • Sara!
Si voltò di soprassalto urlando mentalmente – Ti prego, fa che non mi abbia visto. –
  • Sì?
  • Potresti darmi il k-way? Comincio a sentire freddo anch’io e non posso ammalarmi per nessuna ragione. J mi ucciderebbe.
  • Ma certo!
Con la borsa tra le gambe, si sfilò il giubbino sottile e glielo porse. Dopo una piccola esitazione, Ed la ringraziò e fece un piccolo passo indietro per congedarsi. Si dissero ciao ed Ed sparì dietro l’angolo.
Sara credette di aver avuto un piccolo infarto e nel tentativo di ignorare la tachicardia che la assaliva, si mise alla ricerca delle chiavi nella grande borsa. Aprì il grande portone facendo tintinnare il mazzo ed entrò nell’androne. Soltanto quando mise piede in casa sua e la madre la salutò con una piccola ramanzina, potè tornare alla realtà.
Ed, intanto, riponeva il secondo casco nella sella. Aveva 6 ore per dormire, ma dubitava che i suoi pensieri avrebbero taciuto, forse non avrebbe chiuso occhio tutta la notte. Non l’avrebbe saputo finchè non si fosse infilato tra le lenzuola, quindi, senza esitare ancora in quel minuscolo spazio tra la strada e il cancello, infilò il casco tenendo la visiera alzata. Prese il k-way e lo indossò con un movimento rapido. Era ancora caldo.
Quando ebbe avviato il motore e si fu assicurato che non ci fosse nessuna auto in arrivo, diede gas e tornò in strada.
Pochi metri più avanti si rimproverò mentalmente per ciò a cui stava pensando: quella giacca era ancora piena dell’odore di lei.



Angolo autrice:

Finalmente il primo giorno è giunto al termine, ma vi assicuro che è soltanto l'inizio.
Spero che la storia vi stia coinvolgendo e se è così, preparatevi.
Si tratta di una narrazione molto lunga, ma sto cercando di curarla meglio che posso.
Spero di leggere qualche recensione e ringrazio i lettori silenziosi!
Bye! :)

 

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Capitolo 6
*** Secondo Giorno - Pt I ***





Secondo Giorno


La sua sveglia suonò alle 6:45, ma non si alzò. Quando riaprì gli occhi, erano le 7:15 e Sara lo aspettava tra meno di mezz’ora. – Mi ammazzerà – fu l’unica conclusione sensata che seppe dare al suo “appuntamento”.
Si gettò letteralmente sotto la doccia, annacquando l’intero pavimento. Rischiò di scivolare una decina di volte, ma uscì incolume dal bagno di piastrelle azzurre e si fiondò nell’armadio.
Non ebbe il tempo di radersi, ma era il minore dei problemi. Il maggiore era quello di non aver fatto colazione. Lasciò la stanza 107 alle 7:37, senza sapere come avrebbe fatto ad arrivare in tempo.
 
Mentre sui monti Ed cercava di fare mente locale sulla strada da percorrere, Sara stava infilando le converse bianche.
  • Sei sicura che questo Ed Sheeran sia un bravo ragazzo?
  • Mamma, basta! Quante volte devo dirtelo?
  • Quanto basta a convincermene. – disse la signora De Amicis con le braccia conserte.
  • Mà, ho 23 anni, se anche fosse un maniaco, non gli darò occasione di dimostrarmelo. Va bene?
Pregò qualche divinità che quel discorso fosse chiuso. Dopo la ramanzina della sera prima, sua madre aveva deciso di fare i capricci, ma sapeva che prima o poi si sarebbe rassegnata alle sue decisioni. Non poteva fare niente per fermarla.
Controllò di nuovo di avere il libretto in borsa e contò i soldi che erano rimasti nel portafoglio.
Quando salutò la madre erano le 7.37 e pregò che entrambe non avessero avuto le allucinazioni. Attese l’arrivo di Ed seduta sugli scalini della vecchia scuola materna che stava al piano terra del suo palazzo, ormai chiusa per l’estate. Sembrava che fosse una giornata calda, per questo si era portata dietro i pantaloncini che non avrebbe potuto indossare davanti al professore. Guardò l’orologio decine di volte, dicendosi di stare tranquilla, che se anche non fosse arrivato sulla sua moto sportiva, doveva aspettarselo. Alle 7:45 si maledisse e maledì lui per renderla così soggetta alla tachicardia. Continuava a sporgersi ad ogni rombo di motore che sentiva, si sentiva ridicola e probabilmente avrebbe perso il treno delle 8:13, ma quando si alzò per andare via, alle 7:55, la moto rossa e nera che aveva cavalcato il giorno prima, frenò bruscamente accanto a lei.
  • I’m so sorry! – disse Ed con l’aria di chi aveva appena smesso di correre.
Non ci fu alcuna risposta.
  • Scusa! – ripetè lui. – Sara.
Scese dalla moto e le prese il casco dalla sella, per poi porgerglielo.
Lei lo afferrò come se fosse fatto di cristallo e lo guardò.
  • Sei venuto.
  • Vuoi provare di nuovo a toccarmi col dito?
  • No. – rise, alla fine.
Montò in sella e si strinse alla sua schiena.
Ed era abbastanza distratto da quel calore da sbagliare strada e guadagnarsi un rimprovero.
Quando giunsero alla stazione, il campanello di avviso suonava, facendo illuminare due lucine rosse sulla scritta “per NAPOLI” che sovrastava i tornelli, gli stessi che aveva varcato il giorno prima all’ora di pranzo. Sara corse alla biglietteria, acquistò lo stesso biglietto blu che Ed aveva utilizzato in precedenza e glielo porse. Ed oltrepassò il varco e si fermò ad aspettarla mentre lei tirava fuori l’abbonamento dal portafogli. Non appena furono sulla banchina, il treno fece il suo ingresso in stazione con due minuti di ritardo. – Seguimi – gli disse lei entrando, poi si infilò nel corridoio, procedendo in direzione degli unici due posti vuoti nel vagone. Si sedettero, trafelati. Ed guardò le due ragazze sedute davanti a lui e, quasi terrorizzato, prese gli occhiali da sole dalla tracolla e li indossò di fretta. Mentre si chiedeva perché mai fosse un tipo così riconoscibile, si voltò verso Sara sentendo il rumore di un tappo che si svitava.
Lei si portava la bottiglietta alla bocca, prendendone due grandi sorsi d’acqua fredda.
  • Ne vuoi un po’? – gli chiese. – Ed?
Quando si risvegliò dall’ipnosi che gli aveva provocato la goccia d’acqua che le era rimasta sull’angolo della bocca, prese la bottiglia dalle sue mani e bevve. Le sue labbra rosa rimasero umide.
  • Come mai hai fatto tardi? – gli chiese mentre posava la bottiglia verde nella borsa.
  • Mi sono riaddormentato dopo aver disattivato la sveglia.
  • Non hai dormito bene?
  • Non riuscivo a dormire. Credo di aver ceduto al sonno verso le 2:00.
Lei non continuò il discorso, preferendo soffermarsi sulla barba rossa che evidentemente quella mattina non aveva avuto il tempo di radersi. Era esattamente dello stesso colore dei capelli spettinati che gli decoravano gli zigomi. Gli donava. Tremendamente.
  • Cosa devi fare all’università?
Ed era abbastanza assonnato da non rendersi conto di averla svegliata da uno stato di trans.
  • Devo soltanto convalidare un esame, non ci vorrà molto.
  • Bene, perché –
In quel momento il suo stomacò brontolò sonoramente e pregò che gli occhiali fossero abbastanza grandi da nascondere anche il rossore che sentiva salirgli alle guance.
  • Ma è possibile che ogni volta che ti incontro tu abbia sempre fame? – rise lei, ripensando al giorno prima.
  • Dai, non peggiorare la situazione, non ho potuto fare colazione! – la rimproverò per la sua crudeltà.
  • Il bar dell’università fa delle ottime brioche, possiamo fermarci lì.
Ed sorrise mostrando i denti, quella notizia lo rendeva particolarmente allegro.
Il viaggio verso Napoli continuò per lo più in silenzio, dato che la stanchezza assaliva ancora entrambi, poiché anche Sara la sera prima aveva avuto difficoltà a dormire. – Per il caldo. – si ripeteva – Per il caldo.
L’aria calda che fluiva dai finestrini le scompigliava i capelli che aveva tanto curato quella mattina, ma dopo la quinta volta che si era portata la mano alla testa per riordinarli, li lasciò perdere. Quando giunsero alla penultima fermata, guardò l’orologio per controllare che fossero in orario, altrimenti avrebbero dovuto correre. Per la fortuna di Ed, sarebbero arrivati in tempo anche con un’andatura normale.
Il treno frenò rumorosamente sui binari e la gente si accalcava già alla porta. Sara si alzò con tutta calma quando la metà dei passeggeri fu uscita e Ed la seguì in silenzio, sperando che fuori dal vagone l’aria fosse più fresca.
Non era così. La lunga fiumana di gente che li precedeva, saliva disordinatamente le strette scale che portavano ai tornelli d’uscita.
Fecero qualche commento sull’ingente quantità di persone che prendeva quei treni ogni giorno e si stupì nel sentire che quella folla che riempiva la banchina fosse soltanto un piccolo esempio di quanta gente potesse contenere un treno come quello.
Mostrarono i biglietti al controllore e proseguirono verso l’uscita, per raggiungere la linea 1 della metropolitana. Ed, osservò Piazza Garibaldi senza riuscire a formulare un giudizio definito sul suo aspetto: era una piazza grande, ma non esattamente un esempio di ordine e cittadinanza. Comprese che non doveva essere esattamente la zona migliore di Napoli.
Nei sotterranei della metro, si fermarono in un punto preciso.
  • Così avremo la porta proprio davanti a noi. – spiegò lei.
  • Sai addirittura dove si fermano le porte?
  • Devi saperlo se vuoi sopravvivere a questa giungla. Ma tu sei fortunato, in questo periodo i mezzi pubblici non sono così affollati.
Sopraggiunse un treno giallo, dal quale scesero due fermate dopo in una stazione blu, decorata con un mosaico dal motivo indefinito che doveva rappresentare le profondità del mare.
  • A me ha sempre ricordato un bagno.
Non potè fare a meno di ridere sentendo una tale considerazione.
  • Manca ancora molto? Siamo partiti 45 minuti fa!
  • Ancora un po’. Dobbiamo prendere la funicolare.
Usciti dalla stazione, percorsero via Toledo, una strada larga e piena di negozi, molto più ordinata della piazza che aveva visto prima. Non c’erano cartacce a terra e la gente camminava sui marciapiedi, senza invadere la pista ciclabile che aveva sostituito la strada centrale. Dopo qualche minuto, vide alla sua destra la stessa galleria a vetrate che aveva visitato a Milano e Sara le disse che ci sarebbero passati più tardi. Svoltarono a destra in direzione della scritta “Funicolare”. Obliterarono ancora una volta il biglietto ed entrarono in quello strano treno. Le porte si chiusero e il mezzo partì. Scesero alla prima fermata.
  • Tieni duro, siamo quasi arrivati. Usciamo da qui.
Si ritrovarono su una strada anonima, niente di eccezionale. Percorsero il marciapiede fino a giungere all’entrata dell’università. Ed alzò lo sguardo e rimase un po’ deluso.
  • Tutto qui? Mi aspettavo una struttura antica, con colonne e leoni di pietra all’ingresso.
  • Questa università è particolare. Il bello non è fuori, ma dentro. Vieni, c’è l’ascensore!
Si imbucarono occupando gli ultimi due posti e trattennero il fiato.
Sara sapeva che sarebbero stati stretti, ma abituata com’era, non pensò che avrebbe avuto problemi a stare attaccata ad Ed Sheeran per 30 secondi. Erano faccia a faccia, schiacciati come il prosciutto in un panino. Non avevano altra scelta che poggiarsi l’uno all’altra, ma la tensione rendeva l’aria elettrica. Ed era di poco più alto di lei, per cui riusciva a guardarlo dritto negli occhi chiari, lasciati scoperti dagli occhiali che aveva tirato sulla testa.
Ed era semplicemente paralizzato. Non osava muovere un muscolo. Le stava così vicino da poter studiare le tonalità di azzurro che aveva negli occhi e solo in quel momento notò che intorno alla pupilla aveva una serie di piccole protuberanze colorate di giallo. Sembrava quasi un girasole. Decise di concentrarsi su quello per cercare di ignorare la sensazione del suo corpo contro quello di lei. Poteva sentirne il petto alzarsi e abbassarsi, senza mai staccarsi dal suo. Il suono delle porte che si aprivano, richiamò la loro attenzione e entrambi distolsero lo sguardo. - È solo il secondo giorno. – pensò Ed – Keep calm. –
 
Lei scivolò fuori dall’ascensore prima che lui potesse fare un altro respiro, ebbe la tentazione di scappare via e far finta di non conoscerlo pur di non dover incontrare di nuovo i suoi occhi. Aveva ancora la pelle d’oca a causa di quel contatto così intimo, ma dovette farsela passare perché poco dopo lo vide affiancarla nuovamente, cercando di tenere il passo e svoltare agilmente agli angoli quanto lei. Non aveva mai desiderato così ardentemente d’entrare in un’aula universitaria. Non per evitare Ed Sheeran.
Quando Ed varcò la soglia, le ragazze – perché non vi erano esseri di sesso maschile, oltre al professore – si voltarono a guardarlo, seguendo la sua figura senza curarsi del fatto che lui potesse essersi accorto di essere fissato da un centinaio di esemplari di sesso femminile. Non sapeva perché le donne avessero il vizio di squadrare le persone. Per un millesimo di secondo credette che lo stessero giudicando, ma non sapeva se in bene o in male. Quella sensazione sparì, fulminea come era arrivata, quando una voce chiamò la sua accompagnatrice.
Sara salutò una ragazza dall’aria gaia, un po’ in carne, ma decisamente piacevole a primo impatto. Le vide abbracciarsi come se non si vedessero da tempo ma, conoscendo almeno un po’ la psiche delle donne, probabilmente si erano viste il giorno prima.
Fortunatamente il professore richiamò il silenzio e dopo aver guardato l’orologio, cominciò a chiamare dei nomi in ordine alfabetico. Sara gli fece un cenno e andarono a sedersi in fondo all’aula, più vicino alla finestra. Il sedile retrattile cigolò.
Non pronunciarono una parola, non si guardarono, non fecero un movimento. Sara attendeva immobile col libretto tra le mani che arrivasse il suo turno, era lì per firmare l’esito di un esame che le era ancora sconosciuto.
Quando si alzò dalla sedia udendo il suo cognome, temeva che il suo corpo fosse visibilmente intirizzito dall’imbarazzo, ma pochi minuti dopo Ed la vide allontanarsi dalla cattedra leggiadra come una ballerina, sorridendo a quelle persone che la conoscevano. Gli fece segno di raggiungerla alla porta, così si alzò e con le mani in tasca la raggiunse.
La osservò da vicino e il suo viso era raggiante.
  • Cosa ti è successo? – chiese senza capire il motivo di un tale sorriso.
  • Come? Ah, l’esame è andato bene.
Le brillavano gli occhi.
  • Quindi festeggiamo. Colazione!
Raggiunse l’uscita verso il terrazzo col pugno alzato in segno di gloria.
Il bar dell’università non era altro che una stanzetta ben organizzata, con tanto di bancone e vetrina dei dolci. Ed scelse la brioche più grande che seppe individuare, dopodiché lei lo guidò fuori, al sole. Non aveva fatto caso al panorama che si godeva da lì, così quando uscì fuori rimase folgorato per l’ennesima volta da quello spettacolo. L’aria era così tersa che gli sembrava di poter toccare il Vesuvio con un dito. Il mare luccicava. Era incantevole.
La seguì fino ai bordi del terrazzo e si sedettero a terra, accanto alla ringhiera.
Napoli si stendeva ai suoi piedi e per un attimo si sentì un re.
  • È una bella sensazione, vero? Sembra di essere sospesi.
  • Già. – addentò la brioche.
  • Dopo andremo a visitare il maschio Angioino, vedi? Quel castello laggiù.
Erano le prime parole che scambiavano dopo 45 minuti di mutismo, ma sembrò che non avessero mai smesso di chiacchierare.
Ed bevve il caffè che Sara gli aveva zuccherato e sorrise soddisfatto del suo pasto, passandosi una mano sullo stomaco.
  • Sapevo che eri di buon appetito.
  • E come, di grazia?
  • Ho visto i tuoi video su YouTube. “Hi, I’m Ed Sheeran and welcome to How many can you fit your mouth” – disse scimmiottando il suo accento.
  • Vorresti dirmi che quei video sono ancora in circolazione? Haha!
  • Ma quanto sei ingrassato da allora? Eri magro come una scopa!
  • Già, ma poi ho scoperto i pub e la birra.
Mentre parlavano di un tale profondo argomento, Ed tirò fuori dalla tasca il cellulare e puntò la fotocamera verso il panorama, scattando più di una foto, ma la sua attenzione fu attirata da lei che lo osservava. La maglietta azzurra che indossava, gli stava improvvisamente stretta al pensiero di essere osservato da lei. Per un secondo la guardò.
  • Vieni, facciamo una foto.
Non le diede il tempo di rispondere che si era già accostato alla sua destra, passandole un braccio dietro la schiena. Sara, presa alla sprovvista, tentò inizialmente di dire qualche parola, poi si arrese alla sua presenza e sorrise alla fotocamera interna. Lo scatto sembrò durare un’eternità.
In quella foto i capelli di Ed risplendevano al sole, più arancioni del solito, in contrasto col mare blu alle loro spalle.
Dieci minuti dopo, Sara aveva indossato i suoi pantaloncini e cominciò a calarsi nel suo ruolo di cicerone. Lo portò nella zona antica dell’università, che era nata da un antico monastero. Infatti, i chiostri erano ancora intatti, decorati con affreschi e statue e, al centro, un meraviglioso giardino, pieno di fiori e piante di ogni specie. C’era persino un canneto.
Gli angoli accoglievano statue della Vergine Maria e mosaici dai colori sgargianti. Molte studentesse coi camici sporchi di pittura passavano accanto a loro di tanto in tanto, i pennelli infilati nei capelli e gli strumenti da restauro alla mano.
Visitarono persino un piccolo museo sugli strumenti musicali interno all’università e al quale ebbero accesso gratuitamente come studenti. Non aveva mai visto una cosa del genere.
Quando uscirono dall’università, Ed seguì Sara a passo di marcia. La ascoltava mentre gli raccontava di Castel Sant’Elmo, Galleria Umberto, del Teatro San Carlo, del Maschio Angioino e le sue leggende di coccodrilli e fantasmi. Quando arrivarono a Piazza del Plebiscito, lei si fermò prima di avanzare oltre.
Era una piazza molto grande, una struttura semicircolare di marmo bianco le faceva da cornice, insieme a delle enormi statue laterali.
  • Allora, questo edificio rosso è il palazzo reale, mentre quella al centro del colonnato bianco è la Basilica di San Francesco di Paola. Quelle due statue equestri, invece, sono Carlo III di Borbone e Ferdinando I. Una leggenda vuole che chi riesce ad attraversare la piazza ad occhi chiusi, passando in mezzo alle due statue, venga baciato dalla fortuna.
  • Non sembra difficile. – disse, leggendo un tono di sfida nella sua voce.
  • La piazza pende a destra e sono 170 metri da qui alle statue.
  • Proviamo? – disse lui con una strana luce negli occhi.
  • Sul serio?
Lui le porgeva la mano, invitandola a cedere al “brivido dell’avventura”, come gli piaceva dire.
Un po’ titubante, allungò la mano verso la sua e lentamente fece scivolare le dita sul suo palmo largo e caldo. Il vento che penetrava nella sua camicetta bianca, la fece rabbrividire.
  • Sei pronta? Chiudi gli occhi.
  • Speriamo di non investire nessuno.
Ed fece il primo passo e la trascinò con sé. Sentivano i san pietrini dislocati sotto la suola delle loro converse e un paio di volte rischiarono di ruzzolare al centro della piazza, ma la presa stretta di Ed le evitò la caduta. Sentiva i muscoli della sua mano contrarsi di tanto in tanto e la cosa la faceva distrarre dal contare il numero di passi che stavano facendo.
  • Pensi che siamo arrivati?
Ancora doveva abituarsi a quel suo accento così marcato. A volte era quasi ridicolo, ma non glielo avrebbe mai detto.
  • Come faccio a saperlo? Sto solo sperando di non andare a sbattere contro Ferdinando I.
Lui rise, col petto leggero, libero dalle preoccupazioni.
  • Ci penso io a non farti sbagliare strada. – disse sorridendo sornione, anche se lei non poteva vederlo.
  • Ecco, adesso ho davvero paura, Sheeran.
  • Chiamami Ed.
Continuavano a camminare, ma con gli occhi chiusi riuscì meglio a percepire l’allegria che accompagnava le sue parole. La sua voce era quasi musicale e adesso parlava molto di più, per non parlare del fatto che stavano camminando ad occhi chiusi nel bel mezzo di Piazza del Plebiscito. Quando lo aveva incontrato il giorno prima, non era così, ora le sembrava un’altra persona e si trovava costretta a ricominciare da capo quell’analisi che stava conducendo per cercare di capire cosa gli passasse per la testa. Forse aveva solo bisogno di svagarsi, di fuggire dai problemi per un po’.
  • Da quant’è che non eri così allegro?
Ci fu un attimo di silenzio e sentì i muscoli delle sue mani contrarsi a quella domanda. Forse aveva parlato troppo.
  • Da quando non riesco più a scrivere.
  • Forse hai solo bisogno di una vacanza.
  • Già, anche J ha detto la stessa cosa.
  • Forse aveva ragione. Magari riusciamo a passare tra le due statue e verrai baciato dalla fortuna.
Il solo pronunciare il verbo ‘baciare’ mentre lo teneva per mano – di nuovo – la rendeva tesa come una delle corde della sua chitarra e se avesse voluto, sarebbe riuscito a manovrarla come preferiva.
Ed si fermò ed entrambi aprirono gli occhi, notando con sorpresa che erano riusciti davvero a passare tra le due statue.
  • Te l’avevo detto che non era difficile.
Ed fece finta di aver dimenticato di cosa stessero parlando, non voleva rovinarsi la giornata, ma quel pensiero si dissolse allo squillo del suo telefono. Fu costretto a lasciarle la mano per rispondere.
  • Hi, J!
Sara lo sentì parlare in inglese ma riuscì a carpire poco del suo discorso, parlava troppo velocemente. Ed prese a camminare avanti e indietro, alternando i silenzi alle parole. Di tanto in tanto i loro occhi si incontravano nella luce bianca di quel martedì di luglio e il riflesso dei suoi occhi – pensò Sara – illuminava l’intera piazza. Aveva anche indossato quella maglietta a mezze maniche celeste che, se avesse potuto, gliel’avrebbe dipinta addosso in modo permanente. I capelli rossi risplendevano al sole.
Quando Ed ebbe riposto il telefono, la raggiunse con le mani in tasca, in attesa di spostarsi verso nuovi luoghi.
  • Ti va di mangiare la pizza più buona del mondo?

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Capitolo 7
*** Secondo Giorno - Pt II ***




Secondo giorno - II


Avevano mangiato da re con soli 8€, nella pizzeria più antica di Napoli e non avevano nemmeno dovuto aspettare troppo. Con la pancia piena, passeggiavano nel centro storico della città, in quei vicoli che Ed aveva visto solo in cartolina. I negozi di artigianato riempivano le strade strette, i palazzi antichi gli portavano alla mente epoche passate, il chiacchiericcio della gente era piacevole quanto un’aria d’opera. Quella, doveva essere la parte più bella della città, quella in cui scopri la Napoli autentica, che molti credono sparita. I musicisti suonavano per le strade i grandi classici napoletani e si soffermò diverse volte ad osservare qualche artista di strada che suonava il mandolino. In quel momento sentiva l’impulso irrefrenabile di prendere la sua chitarra e suonare, ma era al sicuro nella sua stanza d’albergo.
  • Questa è la parte della città che preferisco. È come se vi fosse stato intrappolato un pezzo di passato. – commentò lei.
Lui la guardò mentre ascoltava quella sua considerazione, ma fu irresistibilmente attratto dalla trasparenza della sua camicia a giro maniche. Prima non lo aveva notato, forse era quella particolare luce che rendeva il cotone bianco così trasparente. – Keep calm. –
Si limitò ad annuire, indossando nuovamente gli occhiali e tenendosi occupato a scattare qualche foto. Il fresco che quei vicoli ombreggiati garantivano, lo aiutò ad allontanare certi impulsi. Perché non erano altro che impulsi. Era pur sempre un uomo.
Quel pomeriggio scattarono diverse foto in diverse piazze, in diversi vicoli e davanti all’università coi leoni di pietra che si aspettava di vedere. Sembrava che andasse tutto bene, che ogni cosa fosse al suo posto.
Noleggiarono dei pattini e percorsero la passeggiata di Mergellina col vento tra i capelli, passando davanti a Castel dell’Ovo. Quando le lancette puntarono sulle 17.00, erano stremati, seduti sull’erba fresca della villa comunale adombrata da una folta chioma verde.
  • Non so come sia possibile, ma abbiamo visto le principali attrazioni di Napoli in poche ore.
Sara era stesa sull’erba con le braccia aperte e guardava i raggi del sole che tentavano di penetrare quel manto di foglie.
  • Con me tutto è possibile! – le rispose lui, sfacciato ed egocentrico.
Lei si limitò a lanciargli uno sguardo in cagnesco, senza continuare quel discorso.
  • Cosa vuoi fare, stasera? Vuoi cenare fuori?
  • Offro io. – disse, con le braccia incrociate dietro la testa a fargli da cuscino. La stanchezza cominciava a farsi sentire.
  • Certo che offri tu, sei ricco. Hai qualche preferenza?
  • Uhm…
Sembrò pensarci un attimo e, dato il silenzio, lei si voltò verso di lui. Percorse con gli occhi il suo profilo partendo dal naso lungo e un po’ lentigginoso, passando per le labbra sempre colorite, fino ad arrivare al rigonfiamento del suo torace. Se c’era qualcosa che la attraeva di lui, erano le gambe piene e curvilinee e le spalle. Le spalle larghe e massicce. Le piaceva la curva morbida che avevano quando era rilassato.
  • Magari pesce? – disse alla fine.
  • Va bene. Ristorante?
  • Magari una cosa un po’ easy. Sono stanco morto, non riuscirei a rispettare il bon ton.
  • Allora ci penso io. Se non ti dispiace, prima vorrei passare da casa a fare una doccia.
  • Certo.
Ed sorrideva, compiaciuto che quella sua pazzia si fosse evoluta in una splendida gita. Quando il giorno prima era arrivato, aveva creduto che sarebbe rimasto solo per tutta la settimana, come succedeva sempre quando J lo spediva in qualche posto contro la sua volontà, ma quella volta era diverso. Aveva deciso lui di andarsene. Aveva deciso lui di non restare solo. E ora era lì, a Napoli, steso sull’erba senza scarpe in compagnia di una ragazza.
La guardò con la coda dell’occhio senza farsi notare. Sara non era un esemplare di bellezza, molte delle sue fan avevano certo un aspetto migliore del suo, anche se non stava a lui giudicare certe cose. Aveva le guance piene, una miriade di nei, il ventre non era del tutto piatto, le spalle erano larghe, ma a guardarla così, con le gambe magre aperte come una bambina, non poteva non pensare a quella sua camicetta bianca. Più la guardava più gli sembrava trasparente, ma non era quello il punto. Il punto era che quella ragazza gli andava bene così, anche se aveva il naso un po’ a patata e le labbra piccole. Gli andava bene la sua pelle chiara e la sua diffidenza quando faceva l’egocentrico. Forse era il senso di gratitudine, forse simpatia, forse non voleva saperlo cos’era.
Prese il telefono e le scattò una foto mentre aveva gli occhi chiusi, non gliel’avrebbe mai mostrata.
 
Alle 18.27 erano in treno, diretti verso casa, schiacciati contro una parete del vagone, ma non ci fecero caso data la stanchezza. Lei si appoggiò a lui con naturalezza, niente muscoli tesi e mascelle contratte, soltanto una testa poggiata su una spalla.
  • Ti capita mai di ascoltarti? – disse lei.
  • Intendi se ascolto le canzoni che canto? Mai. Non so perché. Mi capita di canticchiarle, però.
Allora prese le cuffiette nere che aveva in borsa e gliene infilò una nell’orecchio destro, facendo partire “Sing” col volume al massimo. Poco dopo Ed tamburellava le dita sul palo a cui si stava reggendo, i tatuaggi ben in vista, scimmiottando se stesso. Metà dei passeggeri si voltò a guardarlo mentre agitava la testa come un matto e per un po’ Sara credette che lo avessero riconosciuto, ma fortunatamente non era così.
  • La smetti di fare l’idiota? Ci guardano tutti! – sussurrò lei senza riuscire a trattenere qualche risolino.
  • Che c’è? Guarda che è colpa tua! – rispose lui, senza evitare il pugno che lei gli diede sul braccio.
Si passò le mani nei capelli e sospirò, stanco ma sorridente.
“Tenerife sea” li accompagnò per il resto del viaggio.
 
Pagarono il ticket del parcheggio a ore e montarono in sella, diretti verso casa di lei. Ed zigzagava tra le auto bloccate nel traffico. Sara non potè fare a meno di notare i muscoli delle sue braccia scoperte contrarsi nel condurre la moto.
  • Di solito tutta questa strada la fai a piedi?
La voce ovattata le giungeva a stento alle orecchie, dato il chiasso provocato dai clacson di quell’ammasso di auto ferme.
  • Si e risparmio un sacco di tempo!
Senza dire nulla, Ed invertì la rotta praticando un’inversione di marcia nel bel mezzo della strada e si diresse senza indugio nella direzione opposta. Non sentiva le domande di Sara, il rumore del motore era troppo forte, quindi andò spedito oltre l’ingorgo, percorrendo l’unica strada che ricordava: quella per tornate all’hotel.
Frenò e curvò oltre il cancello, riconoscendo l’odore dei pini. Quando si fermò del tutto, Sara scese subito dalla moto.
  • Si può sapere cosa ci facciamo qui?
  • La doccia.
  • La doccia? Io devo andare a casa, se volevi andartene sarei tornata a piedi. – gesticolava vistosamente, indicando se stessa e il cancello a momenti alterni.
  • Troppo tardi. – disse lui facendo spallucce, poi prese le chiavi dalla toppa e si avviò alla reception.
  • ED!
Allargò le braccia in segno di protesta, ma lui la ignorò continuando per la sua strada con le mani in tasca e il casco appeso per il braccio.
La receptionist gli diede le chiavi senza che lui dicesse nulla, poi prese il cellulare e controllò l’orario.
  • Sono le 19.25 e io ho già fame, come pretendi che abbia la pazienza di arrivare fino a casa tua?
Stava già premendo il tasto per chiamare l’ascensore mentre Sara lo raggiungeva percorrendo il pavimento lucido a grandi falcate.
  • Sheeran…
  • Chiamami Ed.
  • …Fai sul serio? Vuoi che faccia la doccia qui?
  • C’è tutto il necessario.
  • Ma non ho un cambio!
  • A quello ci penso io. – il solito ghigno gli decorava il volto. – Dammi il tempo di una doccia veloce e poi uscirò dalla stanza a cercarti qualcosa da mettere.
Sara non sapeva più cosa aggiungere. Era sconvolta dalla piega che stavano prendendo gli eventi, non sapeva come comportarsi. Le tornarono in mente le parole di sua madre e pensò di star dando al maniaco una possibilità di provare il suo valore. Le porte dell’ascensore si aprirono e scattò il conto alla rovescia. Doveva entrare o restare fuori.
Ed, già dentro, roteò gli occhi scocciato e prima che le porte si chiudessero, la afferrò per un braccio e la tirò all’interno.
Salirono fino all’ultimo piano e quando furono davanti alla porta, nella testa di Sara cominciarono a vorticare le parole “Ed Sheeran”, “doccia” e “maniaco”, confondendosi l’una con l’altra.
La serratura scattò.
  • Prego.
Entrò senza fare troppi complimenti e andò dritto ad aprire la finestra. Lei fece il primo passo sulla moquette morbida, senza sapere cosa stesse facendo. Dopo essersi chiusa la porta alle spalle, tolse la borsa dalla spalla e la posò sulla prima sedia che vide, facendo un respiro profondo. La stanza aveva il suo odore.
  • Allora, come dicevo, io vado per primo. Non ti preoccupare, ti lascio l’accappatoio più morbido.
Cominciò a rovistare tra i vestiti che aveva nella borsa e ne estrasse una camicia piuttosto stropicciata. Era assurdo. Poco dopo, Ed aprì il getto della doccia e Sara rimase sola, seduta sul limite del materasso. Si lasciò cadere e, sconfitta dalla realtà dei fatti, si tolse le scarpe. Chiuse gli occhi, ma era ancora tremendamente tesa. Sapeva, in fondo, che non aveva nulla da temere, Ed era un mammone più che un maniaco, ma l’idea di lui in quella doccia la metteva a disagio. Tanto più se dopo ci sarebbe entrata anche lei. Era una cosa innaturale, non andava bene, il suo istinto non le suggeriva niente di buono, ma ormai era troppo tardi anche per andarsene.
  • I’m gonna pick up the pieces and build a lego house. When things go wrong we can knock it down.
Ed stava cantando sotto la doccia, probabilmente con la spugna a fargli da microfono, ma le sembrava di ascoltare il suo mp3. Adesso capiva il vero motivo del suo successo: quel ragazzo stava soltanto cantando sotto la doccia, senza alcuno strumento, ma questo bastava a renderlo degno di incidere un disco. O anche dieci.
  • My three words have two meanings. There’s one thing on my mind: it’all foooor you.
Osservò la sua chitarra con la vernice lucida consumata, poggiata al muro. Era incredibile come riuscisse a maneggiarla.
Intanto lui continuava a cantare e lei si rese conto di stare assistendo ad un concerto privato. Così chiuse gli occhi e si limitò a godersi quel privilegio.
  • I’m out of touch. I’m out of love. I’ll pick you up when you’re getting down…
Per non parlare del fatto che stava finalmente parlando in inglese, senza quel tono ridicolo che l’italiano dava alla sua voce.
  • …and out of all these things I’ve done…
Senza dimenticare l’insignificante dettaglio di lui sotto la doccia.
  • …I will love you better now.
 
L’accappatoio era bianco e morbido e il profumo dello shampoo invadeva il bagno. Le piastrelle umide brillavano alla luce bianca del neon sullo specchio. Ed si tamponava i capelli con l’asciugamano, mentre cantava “Sing” sottovoce. Si guardò allo specchio e si passò una mano sulla barba rossa pensando che forse era il caso di radersi, anche se non rientrava davvero nelle sue abitudini. D’altronde era in vacanza, la barba non era tra le sue priorità. Non si udiva alcun suono provenire dalla stanza in cui sperava che Sara fosse rimasta.
Il rumore del phon annullò qualunque possibilità di udirne un fiato.
Coi capelli arruffati, prese i vestiti dalla mensola accanto al lavandino con l’intenzione di vestirsi, ma si accorse di aver dimenticato una cosa fondamentale: i boxer. Aveva dimenticato di prenderli. Si disse mentalmente una serie di parolacce, rendendosi conto di dover uscire in accappatoio, ma sospirò e si fece coraggio. La serratura scattò ed aprì la porta, uscendo allo scoperto. La prima cosa che vide fu Sara scattare per la sorpresa. Forse si era addormentata. Capì che aveva notato che era in accappatoio quando vide le sue guance colorirsi. Perché mai tutta quella tensione?
  • Scusa, ho dimenticato…
Indicò il borsone aperto sulla scrivania e ci infilò le mani dentro.
Il cuore di Sara recuperò i battiti che aveva perso.
  • Cosa?
  • I boxer. – rispose lui senza guardarla. Quando li ebbe tra le mani, aggiunse – dammi altri 5 minuti.
Rientrò nel bagno chiudendo la porta. Sara fissava l’anta marrone insistentemente, senza che nella sua mente scorresse un pensiero di senso compiuto. Doveva darsi una calmata o lui l’avrebbe presa per pazza o magari avrebbe frainteso il suo atteggiamento. Non voleva che questo accadesse, che quell’equilibrio si incrinasse. Incrociò le gambe sul letto e approfittò di quel silenzio per fare una breve telefonata alla madre, sperando che Ed non ricominciasse a cantare. Quando lo vide uscire di nuovo dal bagno, era vestito ed aveva lo spazzolino da denti in bocca.
  • Fe vuoi, fuoi fominfare a frefararti. – disse lui senza smettere di spazzolare.
  • Va bene. – rispose, cercando di evitare di fissare quella sua espressione buffa.
Si alzò dal letto senza rimettersi le scarpe ed entrò nel bagno evitando qualsiasi tipo di contatto. Individuò l’accappatoio inutilizzato sul gancio e i prodotti sulla mensola della doccia. Non aveva nemmeno un cambio intimo.
Ed entrò nel bagno preceduto dal rumore dello spazzolino, facendola voltare. Si diresse direttamente al lavandino e sciacquò la bocca.
  • Se aspetti ancora, vado al negozio di sotto e ti prendo qualcosa.
Sara non rispose e lui uscì direttamente, senza attendere che lei parlasse.
Quando sentì il rumore della porta che si chiudeva, poggiò le mani sul lavandino e sospirò. Guardandosi allo specchio si rese conto di essere un disastro. Aveva i capelli scompigliati, il trucco colato, le occhiaie scure per la notte insonne ed ora era lì, che stava per fare una doccia nella stanza di Ed Sheeran.
Prese uno spazzolino confezionato dal set di prodotti dell’albergo e lavò i denti col suo dentifricio alla menta.
 
  • Ha visto prima quella ragazza? Ecco, mi servirebbe una maglietta o qualcosa del genere. E anche…
Non credeva che stesse per dirlo davvero.
  • …un paio di mutandine.
La commessa alzò un sopracciglio, senza lasciarsi sfuggire un sorrisino che lasciava intendere qualcosa. Lo stava giudicando o era solo sorpresa che una testa rossa come lui potesse avere una ragazza in stanza?
  • Adesso le mostro qualcosa.
  • Non le mutadine, la prego.
La commessa mosse la testa in segno d’assenso e preparò uno scatolo con le mutandine accanto alla cassa.
Tra le 10 camicette che la commessa gli mostrava, Ed ne scelse una con un motivo a fiorellini, bianca e gialla. Credeva che le sarebbe piaciuta. Pagò con la carta, prese la busta e tornò verso l’ascensore.
 
Si chiese che fine avesse fatto Ed, quando sentì di nuovo il rumore della serratura. Entrò spingendo la porta col piede mentre toglieva le chiavi dalla toppa, poi alzò lo sguardo e la vide appoggiata sotto l’uscio del bagno.
  • Tieni.
Sara prese la busta dalle sue mani e tirò fuori la camicetta, sorridendo per la buona scelta di Ed.
  • Dentro c’è anche… - si bloccò incontrando i suoi occhi. - …una…
Sara prese lo scatolo rimasto nella busta e quando lesse la scritta “Intimo Pompea” sulla confezione, cambiò espressione.
  • Mi hai comprato delle mutande? – disse senza sapere se ridere per l’imbarazzo o per il divertimento.
Ed, col sangue che gli infestava le guance, si portò una mano alla testa, tormentandosi i capelli. Non rispose, non ce la fece. Non aveva mai comprato un paio di mutande a una ragazza.
Si portò verso la finestra e senza guardarla la incitò a sbrigarsi.
Sara si chiuse la porta alle spalle, ringraziandolo. Con la scatola delle mutande tra le mani, sperò che la commessa avesse azzeccato la taglia. Poi, guardando l’orologio, si dette una mossa e cominciò a spogliarsi per fare quella maledettissima doccia.




Angolo autrice:

Un po' di suspance non fa male a nessuno, vero? :P
Spero che un po' alla volta la storia stia prendendo forma, i nostri eroi hanno ancora moooolti capitoli da affrontare!
Quindi restate sintonizzati, io intanto vado a scrivere le ultime pagine. :D
Grazie per le visite e le recensioni, sono sempre graditissime!
See you soon! :)

 

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Capitolo 8
*** Secondo Giorno - Pt III ***




Secondo Giorno - III


Ed era seduto sul davanzale della finestra, con la chitarra in mano, cercando di non pensare. – Shut up fucking mind – si ripeteva. Le note di “Autumn Leaves” risuonavano nella cassa armonica, ma non servirono a tranquillizzarlo del tutto, mentre sentiva il getto dell’acqua battere sul piatto della doccia. Lei era lì dentro e canticchiava qualcosa, ma non riuscì a capire di cosa si trattasse. Continuava a dondolare la gamba sospesa nel vuoto. Per un po’ riuscì a distrarsi, ma quando sentì il phon accendersi, nella sua testa scattò un conto alla rovescia che terminava col momento in cui lei usciva dal bagno. Quando riapparve nella stanza, indossava quella camicia che le aveva comprato, annodata in basso. Aveva le spalle arrossate per il sole di quella mattina.
  • Tutto ok?
  • Si, grazie. La camicia mi piace molto.
Mentre lei scuoteva con le mani i capelli ricci ancora un po’ umidi, lui la osservava con la coda dell’occhio. Era ancora scalza e aveva l’aria stanca.
  • Ho usato le tue infradito, spero non ti dispiaccia. Veramente ho usato un po’ delle tue cose.
  • Non fa niente, se mi avesse dato fastidio, ti avrei riportato a casa.
Continuava a pizzicare le corde in modo quasi automatico. Lui non se ne accorse, ma lei sorrise, compiaciuta del fatto che non esistesse nessun maniaco dietro il volto d’angelo di Ed Sheeran. Lo stomaco di Ed brontolò.
  • La sveglia che hai nello stomaco punta le lancette sull’ora di cena.
Lui scese con un balzo dal davanzale. Posò delicatamente la chitarra al muro e si passò di nuovo le mani nei capelli, lo faceva spesso quando era nervoso.
  • Dove andiamo?
  • In un posto easy. – disse lei, sorridendo.
Ed prese una felpa dal borsone e gliela porse, ricordando la sera precedente.
  • È per me?
  • Non vorrai litigare ancora col k-way, spero. – rispose evitando il suo sguardo.
  • No. – guardò la felpa blu e aggiunse – Grazie.
Quando lui ebbe allacciato la sua felpa sulle spalle, prese le chiavi della moto e il casco e la condusse fino al garage al coperto. Non parlarono lungo il tragitto fino al litorale, se non per comunicarsi dove svoltare quando giungevano a qualche incrocio.
Quando tolse il casco, Ed sentì il rumore del mare infrangersi sulle barriere artificiali. Un venticello fresco agitava le palme che decoravano la passeggiata.
Quella lunga strada larga era affiancata da un lato da alti palazzi usurati dalla salsedine, dall’altro dalle spiagge nere, piene di ombrelloni.
Presero a camminare lungo la ringhiera, ammirando gli ultimi riflessi del tramonto sull’acqua. L’odore della salsedine prevaleva su qualunque altro.
Nei punti in cui la lunga spiaggia era più profonda, strutture in palafitte fungevano da bar e ristoranti. Tramite delle scalinate di pietra ebbero accesso proprio ad uno di quelli. Sull’arco di ingresso troneggiava la scritta “Summer Beach” ed il profumo di pesce fritto gli entrava nelle narici.
  • Questo posto ha aperto da poco, ma l’ultima volta che ci sono venuta mi sono trovata bene.
Un cameriere li accolse guardando prima lei, poi i tatuaggi di Ed lasciati scoperti dalle maniche della camicia arrotolate. In quella zona non dovevano esserci molti tatuati, dato che le sue braccia diventavano l’attrazione principale ovunque andasse.
Il cameriere indicò il presunto luogo in cui avrebbero potuto accomodarsi, ma non vide nulla. Si limitò a seguire Sara. Scesero su una pedana bianca semiricoperta di sabbia nera, attrezzata con una serie di tende bianche, di quelle di tulle semitrasparente. Erano tanti piccoli harem, con tanto di divanetti, cuscini e candele profumate al centro.
  • Mangeremo lì dentro?
  • Sì – disse lei sorridendogli.
  • Cool! –si lasciò sfuggire lui.
Entrarono nella piccola tendina illuminata e si sedettero entrambi con le gambe incrociate. Non era esattamente spaziosa, ma l’ingresso era abbastanza grande da lasciare intatta la visuale del mare e del panorama. Sara amava gli spazi piccoli.
Prese il menù per fare mente locale sulle cibarie che offriva quel posto.
  • Ricordami se esiste qualche genere di cibo che non ti piace. – disse lei ironicamente.
  • Assolutamene nessuno. Potrei mangiare qualsiasi cosa. – rispose lui, tentando di decifrare il menù scritto solo in italiano.
Il cameriere arrivò poco dopo e lasciò che Sara ordinasse per entrambi.
Senza la distrazione del menù, dovevano trovare un argomento di conversazione. Non che non avessero niente di cui chiacchierare, ma c’era sempre una piccola percentuale di imbarazzo che li coglieva nei momenti di silenzio.
Allora Ed prese il cellulare dalla tasca e scattò una foto al panorama che si godeva dall’interno di quella tenda. Guardò il risultato e poi guardò lei.
Aprì la bocca per parlare, ma lei si stava già accostando al suo fianco per scattare la foto che stava per chiederle. Ed la vide vicino a lui, col primo bottone della camicia sbottonato e le gambe accostate l’una sull’altra. Si sentì avvampare come quando aveva 16 anni. Impostò la fotocamera interna e prese bene l’inquadratura. La luce di quella candela le illuminava gli occhi, mentre sorrideva. Scattò un’unica foto. La guardarono senza esprimere giudizi e quando il telefono fu lasciato da parte, i loro volti erano ancora troppo vicini, così si allontanarono abbastanza da non sfiorarsi involontariamente, sorridendo.
Il cameriere arrivò con tutte le portate che avevano chiesto e il volto di Ed si illuminò. Sara rise di gusto nel vedere quella luce che aveva negli occhi ogni volta che aveva un piatto pieno davanti.
  • Il cibo è la cosa più bella della vita.
  • Mi raccomando, attento alle spine. Non fare come i bambini.
  • Sì, mamma. – disse lui con quell’espressione da bambino professionista.
Lo aiutò a distinguere gli antipasti dalle portate, ma quando fu il turno di mangiare i frutti di mare, Sara credette di avere a che fare con un idiota.
  • Ed, non puoi usare la forchetta per mangiare le vongole, né per mangiare le lumache di mare. Usa le mani, esattamente come fai per la pizza!
  • Ma mi sporcherò!
  • Certo che ti sporcherai. – Lei intanto inaugurava il suo soutè mangiando la prima cozza.
  • Devo mangiarli come fai tu? – disse prendendo una vongola in mano. Non ne aveva mai mangiate prima.
  • Si. Se vuoi, mettici il limone, ma ti consiglio di farlo solo con le cozze.
Dopo che ebbe assaggiato la prima, terminò le altre prima che Sara potesse dirgli di andarci piano.
  • Adoro questo posto.
Lei lo guardò, lieta di vedere il suo volto del tutto rilassato. Sperò che non notasse il suo sorriso. Mentre lui si serviva il pesce fritto, lei ordinò del vino bianco, quello che aveva preso l’ultima volta.
  • Questi cerchi sarebbero calamari?
Fu uno spasso guardare Ed mangiare quelle cose, sembrava un bimbo che mangiava gli spaghetti per la prima volta: decisamente comico.
Il livello del vino scese più velocemente del giorno prima e ad ogni occasione, Ed brindava alla loro salute.
 
Avrebbe mangiato tutto quello che avevano in cucina, se avesse potuto, ma Sara gli giurava che si sarebbe sentito male, quindi depose le armi. Il vino gli aveva alleggerito la testa e riscaldato le guance, ma non smise di versarlo nel bicchiere di lei, che aveva l’espressione di una che sapeva cosa lui stesse facendo. Voleva soltanto rilassarsi, che problema c’era?
Ma poi la vedeva ridere e si tranquillizzava. Prese il suo bicchiere invitandola ad alzare i calici e brindò al piatto di frittelle che aveva appena inaugurato. Vide le labbra di lei sorseggiare il vino placidamente, senza inghiottirlo.
  • Ti piace il vino?
  • Non molto, in realtà. Preferisco la birra, ma questo è buono. Mio nonno mi ha insegnato qualcosa a riguardo.
  • È un sommelier?
  • No, ma ha sempre prodotto vino. Vive in campagna, sul Vesuvio. Ieri siamo passati davanti casa sua.
  • Wow. Quanti anni ha tuo nonno?
  • 74.
  • What?!
Rimase sorpreso. Strizzò gli occhi, guardando la sua faccia divertita. Non doveva essere il primo ad avere quella reazione. Gli raccontò della cantina di suo nonno, dei processi di fermentazione del vino, dei suoi ricordi di bambina.
  • Quando ero piccola e il nonno portava le botti fuori, era sempre il periodo delle noci. Così io prendevo i gusci vuoti e li usavo come barchette sullo strato d’acqua che le ricopriva.
  • Mi sarebbe piaciuto vederti, dovevi essere buffa.
  • Ero una splendida bambina! – disse lei con finta saccenza, mentre prendeva un altro sorso dal calice. – Tu sì, che dovevi essere davvero buffo.
  • Ero il bambino più simpatico del quartiere, su questo non ci sono dubbi. Conquistavo tutte le bambine. – ribatté, puntandosi il pollice al petto.
Risero entrambi di quei ricordi e di quelle considerazioni, fino a che la prima bottiglia non fu terminata ed Ed ne ordinò un’altra.
 
  • Stai cercando di farmi ubriacare?
Sara rideva mentre teneva il bicchiere che Ed stava riempiendo. Ed rispose imitando il tono di qualcuno chiaramente ubriaco.
  • Ma cosa dici? Ubriacare?
Sapeva grazie al web che era uno a cui piaceva divertirsi, anche se di certo non era quello il mezzo giusto per carpire delle verità, ma a guardarlo avrebbe detto che fosse così. Con la sigaretta accesa e il bicchiere di vino in mano, sembrava davvero un tipo da locali e feste. Erano quasi a metà della seconda bottiglia di vino e le sue guance erano rosse per il troppo bere e il troppo caldo, ma nonostante non sapesse come sarebbero tornati a casa, Sara gli sorrideva sinceramente, senza troppe preoccupazioni. Se lui riusciva a lasciarsi andare, poteva farlo anche lei, così brindò ancora una volta e bevve il resto del vino che aveva nel bicchiere in un solo sorso.
  • Non sembri una tipa che ama molto bere, ma vedo che ci stai dando dentro!
Lo disse con una punta di malizia nella voce e lo fece volontariamente, non perché fosse brillo. Sara gli sembrava una persona molto tranquilla, non aveva avuto modo di scoprirne altri lati. Per questo, quando la vide finire il bicchiere, intuì che forse dietro quel visetto si celava qualcuno di imprevedibile.
  • Per stasera faccio un’eccezione, ma solo perché non posso lasciare che tu finisca tutta la bottiglia da solo!
  • Ti avverto, da ubriaco sono molesto.
  • E come lo sai?
  • Me lo hanno raccontato, non lo ricordo in realtà.
Risero ancora e ancora. Senza sosta.
  • Prendiamo un’altra bottiglia? – disse Ed guardando le due bottiglie vuote sul tavolo.
  • Ed, ma sei impazzito? Non ci provare! – lo disse ridendo, ma faceva sul serio. – Avanti, andiamo a fare una passeggiata.
Quando si alzarono, barcollarono entrambi, ridendo ad ogni passo verso l’uscita. Rischiarono di cadere lungo gli scalini, ma in qualche modo tornarono sulla parte alta del litorale e cominciarono a camminare.
Ed guardava dalla testa ai piedi la maggior parte delle persone, spesso ridendo di loro. Sara provava a chiedere scusa, ma non sapeva quanto potesse valere, conoscendo il genere di persone che popolava quella città. Quando Ed fischiò – ironicamente - ad una ragazza che passeggiava come su una passerella, Sara gli diede un pugno sul braccio senza riuscire a trattenere le risa.
  • Smettila o provocherai una rissa!
  • Ma sto solo scherzando! – continuò a ridere lui.
  • Diciamo che lo humour inglese da queste parti non ha molto effetto.
  • Lo so che ti stai divertendo. – ribatté lui, calando le palpebre e punzecchiandola con un dito.
  • Sì, ma preferirei che il mio braccio rimanesse intatto!
Il vino continuava a fare il suo effetto lungo la strada e li portò dritti sulla spiaggia, a camminare a piedi scalzi sulla riva, senza risparmiarsi spintoni e schizzi.
Ed sfornava una dietro l’altra una serie di freddure che, chi sa come mai, li facevano piegare in due dal ridere, mentre i passanti si voltavano verso di loro, probabilmente chiedendosi chi fossero quei due pazzi sulla riva.
  • Senti questa: Alessandro Volta, non va dritto!
  • Ma chi te le ha insegnate?
Sara lo spinse ed Ed barcollò. Tentò perfino di afferrarlo, ma cadde rovinosamente a terra senza smettere di ridere. Lei si accovacciò accanto a lui, quasi piangendo dal ridere, per controllare che stesse bene e dalla sua faccia poteva giurare di sì.
  • Ed, stai bene?
Lui, per vendicarsi di quel piccolo scherzo, sfruttò quella sua posizione e la tirò giù accanto a sé. La sabbia nera gli entrava nei capelli e nei vestiti, ma poco importava. Una volta che la ebbe lì, così vicina, prese a farle il solletico, senza permetterle di fuggire. Lei si divincolava come poteva, ma le sue mani la riportavano sempre troppo vicina a lui.
  • Ho scoperto il tuo punto debole! – disse in tono vittorioso.
  • Ti prego.  – doveva riprendere fiato non appena poteva. – Basta!
Soltanto dopo un altro paio di urli isterici la lasciò andare. Lasciò che usasse il suo braccio come cuscino, mentre respiravano entrambi affannosamente.
  • Sappi che mi vendicherò in qualche modo. Te lo giuro.
  • Aspetterò che tu venga a prendermi di notte!
Quando i respiri tornarono regolari, la testa prese a girargli. Ed lentamente spegneva il suo sorriso, vedendo il volto di lei rilassato. Era abbastanza vicino da poter notare di nuovo il primo bottone della camicia non allacciato e le sue iridi chiare che nemmeno il buio nascondeva. La guardò, non seppe per quanto tempo, ma lei – e di questo era certo – non fuggiva dal suo sguardo.
  • I… - cominciò lui.
Lei si limitò a battere le palpebre.
  • …Thank you.
Disse alla fine, lasciando che i suoi occhi sorridessero. Probabilmente il giorno dopo avrebbe ricordato la metà degli eventi della serata, quindi non avrebbe avuto azioni da rimpiangere.
Lei avvicinò la mano al suo volto, carezzando la barba rossa delicatamente. Ed sentiva le sue dita fredde sfiorargli la guancia, così, istintivamente, le coprì con la sua ancora calda a causa del vino. Non l’avrebbe baciata, era ancora abbastanza lucido da non farlo, ma il vino era stato abbastanza da permettergli di fissarla in quel modo. Lei era lì, con le gambe nude e gli occhi brillanti e a lui andava bene così.
Quando mezz’ora dopo le loro mani si allontanarono, si aiutarono a rialzarsi per scrollarsi la sabbia di dosso. Lei gli sistemò affettuosamente il colletto della camicia, poi infilò la felpa blu. È adorabile – pensò lui. Le stava due volte più grande, ma il fatto che quella felpa fosse sua, in qualche modo lo inteneriva. Tirò fuori le mani che aveva infilato in tasca e, sentendosi ormai legato a lei, non si trattenne dal prenderla sotto braccio e passeggiare placidamente fino alla moto.
Quando la lasciò sotto casa, le impedì di togliersi la felpa.
  • Tienila – le disse. – E grazie.
Lei risollevò la zip, in imbarazzo.
  • Grazie a te, Ed Sheeran.
  • Chiamami Ed.
Sorrise ancora, poi tirò la borsa in spalla e oltrepassò il cancello. Attese che lei sparisse dietro l’angolo, prima di distogliere lo sguardo.
Conosceva quella ragazza da due giorni, eppure l’unica cosa a cui riusciva a pensare, steso nel suo letto, era la sua carezza. La sentiva ancora sulla sua guancia.


Angolo autrice:

Ciao belli! Questo secondo giorno cosa vi dice?
Come vi sembra per ora la storia? Lentamente stiamo procedendo, ma sono in arrivo i primi colpi di scena.
Spero di leggere qualche recensione!
Grazie ai lettori silenziosi! :D

 

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Capitolo 9
*** Terzo Giorno - Pt I ***




Terzo Giorno - I

C’era una regola nella sua vita ed era quella di alternare dovere e piacere. Questo valeva anche per le visite turistiche: ad una giornata culturale doveva succederne una di divertimento.
Quindi, dopo aver cercato su internet il parco divertimenti più vicino, prese la moto e si diresse direttamente a casa sua. Quando lei sentì la sua voce nella cornetta del citofono, guardò l’orologio credendo che si fosse fermato ad un’ora prima del loro appuntamento.
  • Oggi comando io, quindi metti la prima cosa che trovi ed esci di casa.
  • Ok, ma dove andiamo?
  • È una sorpresa.
Dopo circa 15 minuti di attesa, sentì le porte dell’ascensore aprirsi e la vide andargli incontro.
La sua maglietta blu si intonava al top azzurro che indossava su quella gonna-pantalone nera.
Aveva un cappello tra le mani, di quelli con la para larga.
  • Allora, Ed, spero che il mio abbigliamento sia adatto al luogo misterioso in cui mi stai portando.
  • Buongiorno anche a te! – disse in modo sarcastico, poi continuò – Stai benissimo così, non preoccuparti. Andiamo, è già tardi!
Lei esitò un attimo a seguirlo, riflettendo sull’espressione divertita che gli aveva visto in volto, poi abbassò gli occhiali e lo seguì fino alla moto.
Ed credette di essere diventato davvero un tipo molesto, poiché quando lei salì sulla moto si soffermò più volte sulle sue gambe ancora chiare strette ai suoi fianchi. E poi, contrariamente alle sue aspettative, ricordava ogni cosa della sera precedente.
Quando sentì le braccia sottili avvolgergli il torace, abbassò la visiera per il sole del casco e diede gas al motore.
Capì subito dai fremiti delle sue gambe che Sara era sorpresa che stessero imboccando l’autostrada, ma le urlò di stare tranquilla. Avrebbe dimenticato tutta la paura quando fossero arrivati all’ingresso del parco.
Nonostante l’aria le graffiasse la pelle, sentiva chiaramente il sole scottarle le gambe. Il vento le faceva alzare la stoffa dei vestiti, ma non osava slacciare le braccia dalla vita di Ed per sistemarsi, ci avrebbe pensato una volta scesa da quel trabiccolo. In realtà le moto le piacevano, quando era bambina suo padre ne aveva una e la portava in giro per la città solo per farle provare la sensazione di essere su un tappeto volante. Peccato che il piccolo incidente dell’anno prima le avesse rovinato tutto il divertimento.
Tuttavia, provava una certa sicurezza quando era Ed a guidare. Si fidava, in qualche modo.
Presero un’uscita che ricordava di aver visto altre volte, ma non seppe dire quando, né dove conducesse. Soltanto quando furono all’ingresso del parco realizzò dove si trovassero.
  • Edenlandia!
Si portò le mani a coprire la bocca spalancata per l’entusiasmo.
  • Dopo un giorno di dovere deve esserci un giorno di piacere.
Sara prese a scuoterlo saltellando sul posto come una bambina, le mani sottili stringevano il suo braccio in modo incontrollato, ma rise di quella felice reazione.
Senza riuscire a contenersi, Sara si avviò alla biglietteria senza aspettarlo, emettendo gridolini ad ogni passo.
Ed la vide avanzare veloce, col suo cappello ampio in testa. Sembrava una donna uscita da un film anni 20, vestita in quel modo. Prese il telefono dalla tasca e le scattò una foto. La ritrasse nell’esatto momento in cui si stava voltando verso di lui, con la mano sul cappello e la gonna in movimento.
  • Non vorrai fotografare solo me, spero!
Scattarono una foto sotto l’arco d’ingresso in ferro battuto, col sole che colpiva in pieno la fotocamera. Ed guardò quelle foto mentre lei faceva la fila al botteghino, trepidante, e intuì in un istante, quando i loro occhi si incontrarono, che quella giornata sarebbe stata indimenticabile.
 
Non era da tutti comportarsi da bambini anche a 22 anni, ma Sara ne era più che capace. Eccolo lì quel lato imprevedibile che attendeva di vedere, che il vino non aveva scatenato del tutto, ma che una montagna russa faceva emergere senza difficoltà.
  • Ho sempre amato i parchi divertimento. Quando ero piccola facevo mille storie per andarci e alla fine dovevano ricattarmi per farmi uscire.
  • Dovevi essere insopportabile. E poi, una fifona come te come può amare le montagne russe?
  • Amo il brivido dell’avventura – disse lei sistemandosi vanitosamente il cappello – non sono fifona come credi.
Avanzarono di qualche passo nella fila della prima attrazione che scelsero e Sara non faceva altro che sporgersi per vedere quanto mancasse al loro turno. Ed la osservava quasi incredulo di quel comportamento, ancora non poteva credere che una come lei potesse agitarsi tanto per un parco giochi. Eppure era lì che sorrideva e lui non poteva fare a meno di imitarla, probabilmente al termine della giornata gli avrebbero fatto male le guance.
Il sole picchiava forte quel giorno, per fortuna aveva gli occhiali a proteggergli gli occhi da quei raggi, ma Sara era stata più previdente di lui portando quel cappello. Mentre il viso di lei godeva di quella leggera ombra, i suoi capelli riflettevano la luce come uno specchio, ma poco importava.
  • Sembri una torcia, Ed.
  • Grazie per il bellissimo complimento!
  • Sul serio, ammiro la tua fierezza nel portare dei capelli così rossi. Persino la tua barba sembra splendere di luce propria.
Quando terminò di dire quelle parole, si sporse verso di lui e gli infilò una mano nei capelli morbidi, scompigliandoli ancora di più, ma a lei sembrava carino lo stesso. Lui rise, ma non rispose. Sara, con la complicità degli occhiali scuri, lo guardava di sottecchi, sperando che lui non facesse lo stesso. Le sue labbra erano incurvate in un sorriso sereno, mettendo in risalto i suoi zigomi lentigginosi. La maglietta che indossava le permetteva di notare ancora meglio quanto fosse dolce la curva delle sue spalle. Non sapeva cosa esattamente avesse per spingerla così spesso a guardarlo, forse erano le labbra rosa, forse era la barba incolta, forse il portamento, ma puntualmente si ritrovava incantata da qualche dettaglio. Eppure non era uno di quei supermodelli da sfilata dietro cui sbavavano le sue amiche, lui era…
  • A cosa stai pensando?
…Ed.
  • OH! – forse lo aveva detto troppo forte  - A niente, scusa.
Quello che aveva scritto “Tenerife Sea”.
  • Prego, venite avanti!
Quello che “Grazie per la compagnia”.
  • Abbassate la barra di sicurezza!
Quello che “Oggi comando io”.
  • Tolga il cappello, signorina.
Quello che le stringeva forte la mano mentre la giostra cominciava la salita.
  • Ci siamo quasi!
Quello che la sera prima le aveva scaldato le mani.
Quello che, boh, non si sapeva cosa avesse, era adorabile, ma lei era l’unica ad avere la possibilità di scoprire perché.
 
Se J lo avesse visto urlare a quel modo lo avrebbe rimproverato come una vecchia zia che non fa sedere nessuno sul divano, ma non poteva evitarlo, soprattutto se l’emozione che provava su quelle montagne russe era intensificata dal fatto di tenerle la mano. Dal fatto che lei ricambiasse.
Non sapeva esattamente perché lo avesse fatto, ma era sicuro di aver seguito il suo istinto.
  • Meno male che ero io la fifona!
  • Guarda che ti stavo solo infondendo un po’ di coraggio, quindi non rigirare la frittata!
Era un continuo punzecchiarsi, prendersi in giro e guardarsi ed era solo il terzo giorno. Cosa stava facendo?
Proseguirono lungo i sentieri del parco e addentrandosi in quel labirinto di stradine, indicavano col dito le più svariate attrazioni che potessero rientrare tra le loro scelte. Ed scartò la giostra di Dumbo a prescindere dall’espressione implorante della bambina di 4 anni che si stava portando dietro, ma Sara lo convinse ad andare su un trenino che, a suo dire, faceva il giro del parco.
Quando Ed, seduto il quel piccolo vagone colorato, consapevole di sembrare ridicolo, si accorse che quel trenino era popolato per lo più di bambini, era troppo tardi. Il convoglio era già partito alla scoperta del magico mondo di Edenlandia.
  • Ma dove diavolo mi hai portato?
  • Ed, ci sono i bambini!
  • Mi hai ingannato!
  • Eddai, che sarà mai un giro su un trenino?
  • Un trenino a misura di bambino decorato di smarties!
Lo vide cercare una posizione più comoda sulla minuscola panca che li accoglieva entrambi. Stretti com’erano, Ed sembrava davvero capitato sulla giostra sbagliata, soprattutto per il suo braccio pieno di tatuaggi che si accostava male alle manine chiare dei bimbi che salutavano i pupazzi meccanici che cantavano lungo il percorso.
  • Tanto non ti conosce nessuno, goditi il giro. – cercò di placarlo.
  • Dì la verità, lo hai fatto apposta?
  • No, ho solo portato questo bel bimbo su una giostra. – rise mentre gli carezzava la testa per aiutarlo ad immedesimarsi nel ruolo, ma poi continuò – Da piccola la prima giostra su cui andavo era questa, mi andava semplicemente di tornarci.
  • Ok, ma la prossima attrazione la sceglie il bel bimbo! – disse puntandosi il pollice al petto.
 Quando ne ebbe abbastanza delle sottili vocine di quei pupazzi, per fortuna il giro stava terminando. Non avrebbe sopportato i girasoli canterini per un secondo di più.
Sara saltellava verso l’uscita, probabilmente immersa in qualche ricordo d’infanzia, ma badò bene a non perdere Ed di vista, non avrebbe saputo come trovarlo. Non aveva il suo numero di telefono.
  • Visto che oggi comando io, ti privo di tutte le tue cariche amministrative e decisionali.
Lei, per tutta risposta, gli fece un pernacchio, ma Ed cominciò ad urlare.
  • Oh my Gosh! Germi! Germi!
Sara rimase interdetta per un secondo, credendo che si sentisse male o qualcosa di simile, per poi capire che la stava solo prendendo in giro. Ed prese a rincorrerla nel bel mezzo del parco, continuando ad urlare e ridere, muovendo le mani in un modo che ricordava il temuto solletico. Come poteva correre veloce se i suoi polmoni usavano tutta l’aria per ridere? Passò pochissimo tempo, infatti, finchè Ed la raggiunse.
  • Ti ho presa! – disse bloccando qualsiasi movimento delle sua braccia, stringendola.
  • Ti prego, abbi pietà!
Ma non la ebbe. Doveva placare la sua sete di vendetta e quella, lo sapeva bene, era la punizione ideale. Quando anche a lui mancò il fiato per ridere, si fermò e si sistemò la maglietta mentre Sara, lasciata nuda dalla sua stretta, gli dava un pugno poco efficace sul braccio.
  • Finirai per farmi un livido.
Proseguirono il giro del parco, ma dovettero pazientare spesso per le lunghe file che incontravano alle attrazioni più allettanti. Tuttavia, non c’era più quell’imbarazzo del giorno prima che spesso bloccava le parole, l’aria non diventava più così elettrica quando la distanza tra loro diminuiva. Si era creato qualcosa tra loro che gli permetteva di non rompere più l’equilibrio, qualcosa che somigliava alla confidenza, ma che era diversa dall’amicizia.
Spesso e volentieri la fotocamera catturava qualche immagine di loro che mangiavano un gelato, che facevano le boccacce, che mostravano i pollici in su, ma quella quiete era soltanto temporanea. Sarebbe stata un’utopia pensare che in una settimana non ci sarebbero stati eventi spiacevoli, non se Sara era coinvolta.
Spesso pensava di avere una predisposizione genetica alla sfortuna, dato che sembrava sempre che i problemi la rincorressero, ma cercava di tirare avanti come poteva. Tuttavia, certe cose possono risultare davvero sgradevoli.
Erano in attesa di entrare nell’ennesima attrazione, un’altra montagna russa, immersi in una folla di persone. Chiacchieravano di Disneyland come se fosse la loro casa, quando Sara si azzittì di punto in bianco.
Ed notò il cambiamento della sua espressione, poco prima sorridente.
  • Ti senti bene?
Non ebbe risposta, mentre lei continuava a guardare in un punto indefinito davanti a sé.
  • Sara? Sara, stai bene?
Il colorito era svanito dalle sue guance, le sopracciglia si aggrottavano e non muoveva un muscolo, sembrava quasi che non respirasse più. La scosse prendendola per un braccio, sperando di riguadagnare la sua attenzione, ma non appena la guardò negli occhi capì che qualcosa non andava.
  • Sara, se non parli non posso aiutarti. – disse allora, serio.
  • Ed… - rispose sottovoce – l’uomo dietro di me…
Ed non si voltò in modo evidente, si limitò a guardarlo con la coda dell’occhio per poi tornare al suo volto.
  • …Sta…
  • Sta?
Un’orribile idea si presentò nella sua mente.
  • Mi sta toccando.
In quel momento il tempo si fermò. Sara quasi non vide gli occhi di Ed spalancarsi nell’udire le sue parole, era rimasta paralizzata da quell’orrenda sensazione.
In una frazione di secondo, Ed spintonò l’uomo in questione con tutta la forza che aveva, senza allentare la presa sul braccio di lei.
  • What the fuck are you doing?
Non credeva che le sue corde vocali potessero produrre un suono così, ma poco gli importava, sentiva soltanto la rabbia montare e il battito accelerare. Prese Sara per le spalle e la portò di forza dietro di sé, mentre altre ragazze le si avvicinavano.
  • Che vuoi?
Fu allora che non ci vide più e gli mollò un cazzotto dritto sul naso. Vide l’uomo cadere mentre sentiva ancora l’adrenalina nel sangue, senza riuscire a ragionare. Si sentiva alto due metri di fronte a quell’essere.
  • Stay away from her!
Le persone intorno a loro si erano allontanate, ma tra esse una donna si chinò a soccorrere l’uomo, col viso sconvolto.
  • Ma cosa vuoi?
  • He was – si rese conto che non avevano capito nulla di ciò che aveva detto fino a quel momento – Stava toccando la mia amica!
Sara, riprendendo conoscenza, si voltò verso di lui e lo prese per un braccio, ignorando le ragazze intorno a lei che le chiedevano cosa fosse successo.
  • Ed.
Il personale di sicurezza si avvicinava al luogo dello scontro, richiamando i presenti alla calma, ma il vociare persisteva.
Presero quell’uomo per le spalle e lo portarono al di là del cordone che segnava il flusso della fila.
  • Questo stronzo l’ha toccata! – urlò ancora, puntandolo col dito.
  • Ed – lo chiamò di nuovo, aggrappandosi al suo braccio – ti prego, non urlare.
Aveva il volto rosso per la rabbia e una mano insanguinata. Doveva avergli rotto il naso, dato il dolore che sentiva alle nocche. Sara lo chiamò ancora, finchè lui non si voltò per controllare se stesse bene.
  • Ed, sto bene. Voglio solo allontanarmi da qui.
Senza aggiungere altro, Ed tese la sua ala protettiva su di lei e la guidò fino al chiosco più vicino. Lui prese dell’acqua e la raggiunse sulla panchina sulla quale si era seduta. Aveva il volto ceruleo e la luce nei suoi occhi era sparita. Aspettò che prendesse qualche sorso e soltanto quando lui stesso si fu tranquillizzato, le rivolse la parola.
  • Dove ti ha toccato quel bastardo?
  • Preferisco non pensarci – disse stringendo la bottiglia con entrambe le mani. – Tu ti sei fatto male?
  • Non preoccuparti per me – la rassicurò notando che i suoi occhi erano fissi sulla sua mano – Mi dispiace.
  • È passato. – lo guardò negli occhi prima di continuare – Grazie.
  • Vieni qui.
Alzò il braccio e lei, istintivamente, si intromise in quella insenatura sicura, lasciandosi circondare. Il sole non era più tanto forte, ma Ed emanava calore come un vulcano. Con l’orecchio poggiato al suo petto, sentiva il battito del suo cuore ancora accelerato.
Non avrebbe mai pensato di vederlo così, con lo sguardo minaccioso e le spalle che sembravano avere vita propria. Non si aspettava di vederlo in una rissa. Voleva ringraziarlo ancora per tutto, ma non riuscì a proferire parola.
 
Sara decise che quell’evento non l’avrebbe fermata dal godere di quella giornata così bella, quindi si alzò e si impose di sorridere come meglio poteva. Lesse sul volto di Ed una certa perplessità, ma riuscì a cancellarla prendendolo per la mano finalmente pulita. Lo trascinò verso l’unica giostra su cui non era mai stata.
  • Questa stabilirà una volta per tutte chi tra noi è più fifone.
Era piuttosto particolare: una poltrona veniva lanciata in aria dalla forza di certi elastici enormi. Le urla delle persone che venivano catapultate verso il cielo si sentivano da metri e metri di distanza.
  • Sei sicura?
Ed la guardò con l’espressione ancora tesa, quasi fosse più turbato lui che lei, ma Sara stava già mettendosi in fila dietro a due ragazze cinguettanti. Il cappello troneggiava sulla sua testa, ma non riusciva a coprire quel velo di insicurezza che ancora cercava di prendere il sopravvento. Voleva davvero far finta di niente? In quel caso, l’avrebbe aiutata a dimenticare. Valeva anche per lui.
La raggiunse e la affiancò, sorridendo in risposta alla curva delle sue labbra.
  • Va bene, ci sto!
Pochi minuti dopo fu il loro turno ed entrambi superarono il tornello, camminando su un enorme materasso gonfiabile fino alla poltrona. Ce n’era una da due e una singola, ma entrambi furono condotti alla doppia. Una volta che l’addetto si fu assicurato di aver allacciato bene i due alla poltrona, scattò un conto alla rovescia. Si guardarono per quei tre secondi rimanenti prima del lancio, le mani strette agli elastici. Quando la molla scattò, urlarono entrambi, Ed strizzò gli occhi mentre Sara guardava dritto dinanzi a sé, vedendo la terra allontanarsi sempre di più dai suoi piedi, ma il bello doveva ancora venire. Rimasero sospesi per mezzo secondo e Sara lo chiamò.
  • Ed!
Lui riaprì gli occhi, guardandola quasi incosciente.
  • Guarda il tramonto!
Ricaddero in basso, urlando ancora e quando la molla li fece tornare su, Ed vide un tramonto rosso acceso che illuminava ogni cosa. I suoi cappelli, già sconvolti dal volo, si accendevano a quella luce. Sara lo osservava, sorprendendosi ancora una volta di essere lì, con Ed Sheeran.
Era quel ragazzo sempre sorridente alle interviste, sempre simpatico alle radio, disponibile con i fan. Era quello del tour mondiale e dei grammy, quello che suonava la chitarra in quel modo. Quello di “Don’t”. Quello che riempiva il suo mp3. Aveva mollato un pugno a quell’uomo. Era lì, accanto a lei, catapultato a decine di metri d’altezza. E sorrideva.



Angolo autrice:

Dato che oggi è festa e io stanotte ho dormito abbastanza, pubblico due capitoli.
Vi avverto, preparatevi ad entrare nel vero spirito di questo racconto.
Fatemi sapere cosa ne pensate, è importante per me, ma soprattutto per la scrittura del finale!
Fa sempre piacere avere l'opinione dei lettori, non si smette mai di imparare. E poi, potreste farmi venire qualche colpo di genio. Chi lo sa.
Grazie a tutti e buon weekend!
Bye! :D

 

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Capitolo 10
*** Terzo Giorno - Pt II ***




Terzo Giorno - II

Chiunque avrebbe pensato che quel ragazzo col braccio interamente tatuato fosse fuori luogo in mezzo a tutti quei bambini, ma Sara non vedeva altro che un bambino in mezzo ad altri. Aveva lo zucchero filato attaccato alla barba rossa e la bambina accanto alla quale era accovacciato lo indicava, chiamandolo Babbo Natale. Lei, con la manina bianca, gli puliva i resti con un fazzoletto, ridendo della faccia di quel signore strano col braccio colorato. Anche la signorina che era con lui era strana, indossava quel grande cappello di paglia anche se non c’era più il sole, poi lei le disse di tornare dalla mamma che la stava chiamando. Si allontanò, salutandoli con la mano.
  • La smetti di sorridere come un beota?
Gli occhi quasi si chiudevano per quel sorriso così largo, ma erano pieni di luce.
  • È più carina di te!
  • Certo, certo. Adesso dammi la mia parte di zucchero filato.
  • Ecco a te, piccola mocciosa.
Le diede lo zucchero filato e in cambio pretese il suo cappello: lo indossò e la imitò spudoratamente, simulando di mantenere gli angoli di una gonna. Lei, dalla panchina, godeva di quello spettacolo irripetibile, ma non si sforzò di trattenere le risate.
Ed portò a termine la sua esibizione con un inchino, per poi togliersi il cappello per passarsi una mano tra i capelli spettinati. I ciuffi arancioni gli sfioravano la fronte.
  • Cosa facciamo stasera?
Lei ci pensò per un attimo, aspettando che lo zucchero si sciogliesse sulla lingua.
  • Non saprei. – disse alla fine.
  • Magari potremmo mangiare qualcosa.
  • Mio Dio, Ed, ma fai sul serio? – affermò ad alta voce, allargando le braccia.
  • Che c’è? Io ho fame! E va bene, allora cosa proponi?
Sara abbassò lo sguardo, ricercando nella sua mente qualcosa che non prevedesse cibo, ma era difficile trovare qualcosa di originale che non avessero già fatto. Poi ebbe un lampo di genio.
  • Ti va un film?
  • Uhm. Che film?
  • Qualunque tu voglia.
Ed ci pensò, storcendo le labbra al variare dei pensieri. In realtà avrebbe preferito andare a cena, ma se a lei non andava non poteva costringerla. Avrebbe fatto in modo di avere qualcosa da sgranocchiare.
  • Va bene. Cerco il cinema più vicino? – Già prendeva il cellulare dalla tasca.
  • No, non ce n’è bisogno. Andiamo a casa mia.
 
  • I tuoi non ci sono?
Era tutto buio in casa, si sentiva soltanto il tintinnio delle chiavi che faceva eco. Entrò di nuovo in casa De Amicis, più rilassato della volta precedente, di certo non avrebbe dovuto accettare il caffè, anche se non gli sarebbe dispiaciuto mettere qualcosa sotto i denti.
  • No, sono ad una festa. Torneranno molto tardi.
Non voleva certo fraintendere le sue parole, ma non potè impedire alla sua mente di riflettere su alcune eventualità. Per fortuna lei interruppe il filo dei suoi pensieri.
  • Fa come a casa tua.
  • Grazie, se non ti dispiace uso il bagno.
Glielo indicò con la mano e sparì dietro la porta.
Ecco, si era data la zappa sui piedi da sola: Ed Sheeran era a casa sua per vedere un film. Sapeva che non sarebbe potuto succedere alcunché, ma che poteva farci se lui le piaceva? Molto presto sarebbe andato via, quindi doveva attuare un’opera preventiva, per il suo bene. Erano soltanto amici. In realtà non lo sapeva, ma a molti poteva sembrare così. Entrò in camera sua e si tolse le scarpe. La luce fioca illuminava le pareti azzurre e le fecero notare quel disegno di lui formato gigantografia che occupava buona parte della parete proprio dinanzi alla porta. Doveva assolutamente toglierlo da lì prima che fosse troppo tardi, ma la sua voce la paralizzò sul posto. Davvero una giornata intensa per il suo cuoricino.
  • Questa è la tua stanza?
Come diavolo aveva fatto a non sentirlo uscire dal bagno? Era proprio di fronte la sua camera!
  • Ehm, sì. Ti piace? – fece spallucce.
  • È molto…azzurra. E piena.
Sua madre l’aveva soprannominata “mercatino delle pulci” e non aveva tutti i torti. Le pareti erano piene di ogni tipo di foto e poster, inviti e cornici, disegni e quadri. Le mensole strabordavano di oggetti e c’erano rose essiccate in ogni angolo. Una bandiera della Grecia spuntava fuori da un cestino.
  • Già, sono un po’ cleptomane. – rispose, fingendo di essere occupata a guardare tra le sue scartoffie.
Lo sapeva che anche lei si sentiva un po’ a disagio, ma non sapeva come migliorare la situazione visto che il primo ad essere in imbarazzo era lui. Rimase in silenzio sotto l’uscio ad osservare le pareti e fu allora che gli saltò all’occhio. Un suo ritratto era attaccato alla parete di fronte a lui. Lo osservò per qualche secondo, riconoscendo i suoi tratti principali in quel disegno digitale, intuì anche a quale foto fosse ispirato e ricordò l’attimo di quello scatto, ancora nitido. Doveva averci messo parecchio a riportare i suoi tatuaggi così fedelmente.
  • L’hai fatto tu?
Sentì che i capelli le si rizzavano in testa a quella domanda, ma tentò con tutta se stessa di nascondere qualsiasi tipo di emozione.
  • Questo? – disse indicando il disegno con l’indice – Si, qualche tempo fa.
  • Davvero bello.
Lei non rispose, anzi, tornò a nascondersi negli oggetti sparsi sulla sua scrivania, pregando che non aggiungesse altro a quel già imbarazzante commento.
  • Allora anche tu hai un talento.
La vide fermarsi, posando l’ignoto oggetto che teneva tra le mani, ma non si voltò subito verso di lui.
  • È l’unica cosa che abbia mai avuto la costanza di portare avanti.
  • Perché non studi arte? Potrebbe essere la tua vera strada.  – disse, con tono serio.
  • Sai, mia madre mi ha impedito di frequentare un istituto artistico quando ero al liceo. Probabilmente, se lo avessi fatto, a quest’ora sarei all’Accademia delle Belle Arti, ma evidentemente non era il mio destino. E poi mi piace quello che faccio. – disse alla fine, voltandosi. – Non rimpiango nulla. Anche se non saprò mai come sarebbe stato.
Lui sorrise, senza mostrare i denti. Le piaceva quel lato di lei, sempre deciso nell’esprimere un’opinione. Non gli erano mai piaciuti i voltabandiera, ma di certo aveva una certa stima per le persone che erano certe di ciò che pensavano. Non si spinse oltre nel discorso, vedendola avanzare verso di lui con un dvd tra le mani.
  • Questo è il mio preferito, ma se vuoi possiamo vedere altro, non farti problemi.
Quando vide la copertina di quella custodia, capì di cosa si trattasse. Un film d’animazione.
  • Non sei un po’ grande per questo genere di film?
  • Scherzi? Io lo adoro! – contestò, agitando le mani in quel modo che lui non sempre comprendeva.
 
Finirono per scegliere quel film, nonostante il padre di Sara fosse un appassionato di cinema e collezionasse dvd. Erano tutti esposti sulle mensole, disposti ordinatamente e classificati per genere. Sara escluse i film horror a prescindere, senza ammettere repliche.
  • Tu non mi hai fatto andare sulla giostra di Dumbo!
Dovette ritirare i soldati ed arrendersi dinanzi alla sua cocciutaggine. Aveva anche provato a spiegarle che era tutta finzione, ma lei si premeva i palmi sulle orecchie, blaterando sillabe a caso per non ascoltarlo. La maggior parte dei restanti dvd, erano film che aveva già visto, quindi si fidò dei suoi gusti e si accomodò in un punto qualsiasi del divano.
  • Ti dispiace se tolgo le scarpe?
  • Fa pure.
Tirò una gamba sul divano, infilando il piede sotto l’altra. Era una posizione che assumeva quasi sempre quando doveva concentrarsi o rilassarsi. Sara prese il telecomando e lo poggiò sul tavolinetto basso posto davanti al divano e si allontanò. La vide dirigersi verso la cucina e la seguì con lo sguardo. Le sue ciabatte facevano rumore quando camminava sul parquet chiaro e quel suono lo fece sentire a casa. Sara tornò indietro con una serie di merendine e snack che aveva trovato nel cassetto e con una bottiglia di Coca Cola. Poggiò tutto davanti a lui, lasciandogli la scelta. Ed le assicurava che non c’era bisogno di tanta cortesia, ma lei per tutta risposta gli disse che sapeva benissimo che aveva fame.
Rise mentalmente per quelle parole. Aveva capito molte cose di lui, anche se non lo dava a vedere. Lei si accomodò alla sua sinistra, col telecomando in mano e schiacciò il tasto play. La mezzaluna della DreamWorks apparve sullo schermo dando inizio alla visione e alla cena di Ed.
 
Doveva ricredersi su quel film, gli stava piacendo. Probabilmente avrebbe desiderato un drago per tutta la sua vita senza poterlo mai avere, ma sapeva che non era l’unico. Sara recitava le battute a memoria.
  • Miss, se non fa silenzio sarò costretto a portarla fuori dalla sala.
Lei rise, senza distogliere gli occhi dallo schermo. Pensò che doveva aver visto quel film centinaia di volte, eppure era lì incollata allo schermo, rapita dalle immagini.
Ogni tanto lo richiamava affinché prestasse attenzione a delle scene in particolare, ma era particolarmente distratto quella sera, forse era solo stanco della lunga giornata, ma si sentiva comunque risollevato dal fatto che lei fosse serena nonostante quel piccolo incidente.
A proposito di quello, gli faceva ancora male la mano. Ogni tanto la muoveva per sciogliere i muscoli, sperava solo che quel dolore passasse presto. Non poteva certo incidere un album con una mano danneggiata, ma non le attribuiva alcuna colpa.
Si voltò a guardarla, illuminata soltanto dalla tv accesa, immersa nel suo mondo di draghi e vichinghi e ripensò al giorno prima, quando gli carezzò la guancia con le sue mani fredde. Gli si formò un nodo alla gola quando realizzò che in quel momento avrebbe voluto ricambiare quel gesto. Non importava come, voleva dimostrarle la sua…gratitudine? Riconoscenza? Chi lo sapeva. Il lunedì successivo sarebbe andato via e quella scadenza lo metteva in guardia da qualsiasi avventatezza, persino il guardarla troppo a lungo gli faceva paura. Non che si stesse innamorando, ma voleva evitare di legarsi. Probabilmente, al suo ritorno a Londra, J lo avrebbe riempito di impegni e lui non avrebbe avuto neanche il tempo di dormire, figuriamoci mantenere un rapporto d’amicizia a distanza. Doveva accontentarsi delle star che incontrava sul suo cammino, ma non era lui a sceglierle, per lo più gli andavano incontro per motivi professionali. Pochi si distinguevano creando un rapporto anche confidenziale con lui. Forse era per questo che quella Sara De Amicis gli andava così a genio: l’aveva scelta e si era rivelata una di quelle persone che non si limitano a tollerarti. Ti accettano.
 
Dovette sforzarsi di non sorridere anche durante le scene più tristi, altrimenti avrebbe potuto lasciar trasparire il suo reale stato d’animo. Un po’ si sentiva in colpa a fingere, ma doveva farlo. Se non per lei, per se stesso.
Sara, intanto, si godeva quella colonna sonora alzando il volume. Adorava quel film, non riusciva ad uscire dal tunnel della dipendenza, ma a chi importava quante volte lo vedesse. Le piaceva.
Ed era tranquillo, seduto comodamente alla sua destra, ogni tanto cambiava posizione strusciando i jeans sulla stoffa del divano. Nonostante gli eventi di quella giornata, non aveva più preoccupazioni: era a casa sua, in ciabatte e in compagnia di qualcuno di buono. Mangiò anche lei una brioche ad una certa ora, mentre Ed mangiava la terza.
Spesso la sua mente deviava l’attenzione alla sua mascella contratta. I suoi zigomi erano ancora più definiti alla luce diretta del televisore. Il film a volte non bastava a distrarla dalla sua presenza fisica su quel divano. Ed, era un oggetto che stava ancora studiando e questo spiegava la sua esigenza di guardarlo, anche se solo di sfuggita. Non stava certo cedendo ad una qualche tentazione che aveva solo lei. Certo, c’era stato tanto imbarazzo tra loro, ma era normale date le circostanze, non doveva entrare nel giro dei film mentali. Le parole e i gesti dovevano assumere il peso giusto, non quello che lei avrebbe voluto. Forse lui nemmeno si rese conto di quello che stava facendo, distratto dal film: alzò il braccio e lo poggiò sullo schienale, proprio dietro la sua testa. Non erano troppo vicini, non c’era tensione, ma all’interno del suo petto il cuore fece una capriola. Maledette fan-fiction: l’avevano plagiata.
Ormai il film era quasi al termine, mancava soltanto l’epilogo e l’ansia di cosa avrebbero detto dopo, la assaliva inspiegabilmente.
Alla fine i titoli di coda apparvero sullo schermo, una canzone di Jonsi li accompagnava e Sara non sapeva più se guardare quelli o guardare Ed. Lui non fece alcun commento, impegnandosi a leggere i nomi dei produttori e degli animatori che scorrevano velocemente, anche se in realtà non gli interessavano. Non in quel momento. Non davvero.
Pensò che stavano entrambi fuggendo da un momento che prima o poi avrebbero affrontato, così (– da uomo – pensò), si girò per primo, senza lasciar trasparire nulla. Sorrise, venendo ricambiato, come sempre, ma cosa dire? Cosa fare?
  • Che ore sono? – chiese lei.
  • Soltanto le 22. – rispose lui guardando il suo orologio.
Un silenzio imbarazzante prese il posto della colonna sonora e dei titoli di coda, lasciandoli nelle mani del loro destino.
  • Fa caldo, eh? – provò lei.
 
Caldo, vero Ed? Sei seduto su questo divano, stanco morto, ma non osi andare via, tantomeno dire qualcosa. Hai anche il braccio intorno alle sue spalle. Cosa vuoi fare?
Niente.
 
Ti prego, non fare niente. Non guardarmi, non ignorarmi e non stare in silenzio. Fa troppo caldo stasera, in questa casa. Forse sarebbe il caso di mettere fine a questa storia, non va affatto bene.
 
Tra una settimana vai via, torni da J e ti rimetti a lavorare e a scrivere. Dimenticherai anche di essere stato qui. Non lo racconterai ai nipoti davanti al fuoco. Probabilmente basterebbe fare una battuta come quelle che hai fatto fin’ora, per rompere il ghiaccio. Allora perché non parli? Probabilmente a guardarla così, sarai diventato rosso quanto i tuoi capelli.
 
Forse non avrò una faccia molto convincente, ma perlomeno non smetto di sorridere. Sembra che lui invece stia per esplodere come una bomba ad orologeria, messa qui accanto a me per farmi saltare in aria una volta per tutte. Togli quel braccio, Ed, non facciamo cose strane. Tra pochi giorni vai via ed io devo partire, quindi togliamoci questi pensieri dalla testa.
 
Starà sicuramente pensando che sono impazzito. Non ho il controllo di niente, ora, mi dispiace, non posso trattenermi dall’allungare il collo. Fermami. Fallo per te.
 
Fermati, Ed. Io non so se riuscirò a farlo. Fermati.
 
Fallo per me!
 
Fermati.
 
E poi –BOOM- squillò il cellulare di Ed, facendo vibrare tutto il tavolino di vetro.
Probabilmente un infarto sarebbe stato meno doloroso per il cuore di Sara, che espirò tutta l’aria che stava inconsciamente trattenendo. Ed si alzò di scatto e si diresse verso il balcone aperto.
Non stava davvero ascoltando cosa gli stesse dicendo J, la sua mente non era in grado di recepire nulla, la sua pressione sanguigna era troppo alta. Probabilmente anche la barba era diventata più rossa. Rispondeva automaticamente al suo manager che si trovava in qualche paese in cui era giorno, in quel momento. Riusciva a pensare soltanto alla sensazione dei suoi occhi che si chiudevano. Non se ne era nemmeno accorto. Che figura aveva fatto? Come sarebbe tornato dentro? Cosa avrebbe detto? Quando J chiuse la telefonata, Ed fissava ancora lo stesso punto indefinito di poco prima, cercando di razionalizzare gli ultimi eventi: doveva entrare dentro e fare finta di niente? Doveva per forza. Tutto quello non era possibile. Non doveva accadere.
Sara quasi dovette chiudersi la bocca con le mani o ci sarebbe entrata una mosca. Rimase immobile, sperando di sprofondare in quel punto del divano senza emergerne mai più. Non era stata una buona idea. Niente film, era chiaro adesso. Ma cosa avrebbe fatto? Non aveva il coraggio di parlare normalmente, figurarsi in una situazione del genere. Pregò intensamente la sua buona stella di tirarsi fuori da quel casino prima possibile.
 
Quando rientrò, col volto teso, chiese direttamente cosa facessero domani.
  • Domani – Sara deglutì prima di continuare – andiamo sulla bocca del Vesuvio, vestiti comodo.
  • Bene, sarà una cosa faticosa. Forse è meglio che vada.
Non le diede il tempo di rispondere che già stava infilando la felpa e afferrando il casco.
  • Vengo a prenderti alle 8:30?
  • Si – rispose con un sospiro.
Lei andò ad aprirgli la porta d’ingresso per aiutarlo a scappare più velocemente, ma dovette trattenersi sotto l’uscio fino a che l’ascensore si fosse liberato. Mancavano pochi secondi al suo arrivo.
  • Allora, a domani. – Ed aveva il respiro pesante, come se avesse appena corso per mezza città. – Sarò puntuale.
Si stava di nuovo sporgendo verso di lei. Avrebbe voluto prendersi a schiaffi, ma era troppo distratto dai suoi occhi a mandorla per riuscire a muoversi. Sentiva le labbra schiudersi senza che avessero ricevuto un comando volontario. Per un attimo sentì il suo respiro. Quando entrò in ascensore, poggiò la fronte sullo specchio che c’era al suo interno e per la prima volta dopo mesi, riuscì a trovare una parola giusta. Niente punti interrogativi. Quella che stava provando, era sete.





Angolo autrice:

Fuori un altro!
Ecco a voi il parco divertimenti in questione:


il trenino con gli smarties:


la locandina del film che hanno visto:


e un esempio di come possa essere Ed che parla in italiano: 
https://www.youtube.com/watch?v=Vte5aNLVdQE&index=1&list=FLs1FCs8ClIJthN39AExJidQ.
Spero che questi piccoli input possano aiutarvi a calarvi nella storia e nella psiche dei personaggi. :)
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Alla prossima! :D

 

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Capitolo 11
*** Quarto Giorno - Pt I ***




Quarto Giorno - I

 

Avrebbe dovuto svegliarsi presto, NON prima dell’alba. Era già molto se era riuscita a dormire, ma avrebbe preferito tenere spenta la mente fin quando poteva e invece no, era seduta a gambe incrociate al centro del suo letto, al buio. Ed sarebbe arrivato più di due ore dopo, che diamine avrebbe fatto fino ad allora, non lo sapeva. Preferiva non pensare assolutamente a cosa la aspettava oltre quella soglia oraria. Se avesse potuto, l’avrebbe chiamato per chiudere vigliaccamente quella storia attraverso il telefono, ma – ancora – non aveva il suo numero. E forse era tanto di guadagnato. Non poteva nemmeno fare finta di niente, aveva anche lei un cuore sotto la scorza e batteva. Di tanto in tanto si ripresentava quell’istinto omicida nei suoi confronti, soprattutto quando ripensava al loro “saluto”. Era solo colpa sua, si era avvicinato troppo. Per due volte!
Tuffò il viso tra le mani, tentando disperatamente di scacciare via i pensieri e convincersi che era stato solo un sogno e si era addormentata a metà film. Non funzionò.
La sua sveglia suonò alle 7:30, ma la spense immediatamente, visto che si trattava di una canzone di Ed. Non avrebbe ascoltato la sua musica per mesi, o magari mai più, quanto bastava a divenire indifferente al suo futuro passato.
Il profumo del caffè riempì la cucina e lei uscì a piedi scalzi sul terrazzo. Due uccellini volarono via dalla ringhiera. Era una bella giornata, non c’era neanche una nuvola, quindi non poteva sperare nemmeno in un acquazzone estivo. Ed Sheeran doveva essere proprio fortunato.
 
Scattò al suono della sveglia, interrompendo probabilmente il suo russare, dato il rivolino di saliva che aveva sulla guancia. Aveva il braccio formicolante a causa della posizione assurda in cui si trovava e lo distese, sperando che quella sensazione lo abbandonasse presto. Si portò una mano agli occhi, chiedendosi perché mai non fosse rimasto a Roma, in quell’hotel di lusso, da solo. Grattandosi la barba si diresse verso il bagno. Quel giorno non aveva voglia di vederla, ma ormai c’era dentro, non poteva non presentarsi. Voleva soltanto scappare anche da questo problema, tornando esattamente sui suoi primi passi.
Più tardi inghiottì una merendina al buffet dell’hotel, ma ne portò un’altra dietro. Sperava che i jeans non gli avrebbero dato fastidio lungo il cammino, ma non aveva altro, quindi, assicuratosi di aver preso le chiavi della moto, si diresse ai garage, affrettando malvolentieri il passo per non fare tardi. Aveva promesso che sarebbe stato puntuale.
 
Si morse troppo il labbro già tormentato facendosi lacrimare gli occhi, quando sentì il rombo ormai riconoscibile della moto. Lui si fermò all’ingresso del parco abitato e scese da quella pantera a due ruote con un movimento sicuro, attento a non tradire la minima emozione. Faceva caldo, ma rabbrividì quando vide le occhiaie che le segnavano gli occhi: non era l’unico ad aver dormito poco. La salutò  - Buongiorno – recitando quella parte che aveva provato per quasi tutta la notte, ottenendo la metà dei risultati che sperava, poiché quella sua recita non prevedeva che ci fossero sentimenti reali. Lei ricambiò il saluto, afferrando al volo il casco che lui le lanciava, evitando così ogni contatto. Quando Sara salì sulla moto, non fece in tempo a reggersi che Ed stava già accelerando, ma alla prima curva si agganciò a lui più terrorizzata del solito. Sentiva il calore della sua pelle attraverso la camicia, ma questo non fece altro che agitarla. Non poteva noleggiare una macchina?
Cominciarono la salita sulla montagna, ripercorrendo la strada che portava a quel posticino dove Ed era venuto a conoscenza dell’esistenza della parmigiana, ma continuarono oltre per diversi chilometri. Il rombo del motore stonava con quell’ambiente così pulito e silenzioso. Le fronde degli alberi si agitavano al loro passaggio e la nebbiolina che si insinuava nella pineta cominciava a diradarsi del tutto, pochi fiori costeggiavano la strada. Uno splendido paesaggio di grotte e pietre laviche che Ed avrebbe voluto godersi meglio, ma Sara gli stava schiacciando il torace a causa di quella strada tutta curve. Le sue dita stringevano la camicia e lui stringeva più forte il manubrio, sperando che non percepisse la tensione dei suoi muscoli. Al termine della strada, un terrazzamento accoglieva una casupola. Posarono la moto accanto ad una fila di auto e pullman, che avevano portato i turisti in sandali fin lassù. Tolsero i caschi e si guardarono negli occhi per la prima volta dalla sera precedente. Fu strano quando i loro sguardi si incontrarono: i volti senza espressione si fissavano, senza riuscire a nascondere la consapevolezza che si leggeva chiaramente in quell’assenza di parole, di movimenti, di sorrisi.
 
Pagarono l’escursione al botteghino del Parco Nazionale del Vesuvio e si aggregarono alla massa di turisti, i cui capelli biondi brillavano al sole. Non quanto quelli di Ed, che temeva potessero attirare l’attenzione degli stranieri. La vide aggiustarsi lo zaino azzurro sulle spalle, intuendo che non aveva intenzione di parlare o di guardarlo ancora. Doveva essere lo zaino che usava al liceo, pieno di scritte e portachiavi, spille e cianfrusaglie varie: le si addiceva.
La guida si pose in testa al gruppo e con un cappellino rosso in testa, cominciò a parlare. Fortunatamente per Ed, la visita sarebbe stata condotta in inglese, forse questo lo avrebbe aiutato a distaccarsi da quel presente che gli stava così stretto.
Cominciarono una lunga camminata, seguendo un sentiero assolato e dissestato, protetto solo da una rete. Il dirupo che vi era subito dopo gli fece venire le vertigini, quindi si costrinse più volte a guardare il panorama. Una Napoli assolata stava placida sul capo del golfo. Dopo un po’ il respiro cominciava a farsi pesante e il rumore che Sara faceva cercando di reggere bene lo zaino attirò la sua attenzione ripetutamente. Solo allora le rivolse la parola.
  • Vuoi che lo porti un po’ io?
Sara si girò quasi di soprassalto, senza smettere di camminare.
  • Solo per un po’. Grazie.
Sfilò lo zaino dalle spalle e glielo porse, mollando la zavorra non appena fu a portata delle sue mani.
Il peso dello zaino gli fece perdere l’equilibrio per un attimo.
  • Ma cosa ci hai messo dentro?
In un attimo aveva riportato la normalità, con quella domanda.
  • Ma dai, non è così pesante. Pappamolla!
  • Mi chiedo come tu sia riuscita a non soccombere sotto il peso di questo coso.
Si tirò lo zaino in spalla sistemando le cinghie, poi la guardò senza trattenersi dal mostrarle un sorriso.
  • Oggi non hai portato il cappello?
  • No, l’ho dimenticato. Ne avrei proprio bisogno.
  • Manca ancora molto?
  • Smettila di lamentarti o ti butto di sotto, Sheeran!
  • Chiamami Ed.
Ormai quell’affermazione ricorreva così spesso che cominciava a darle un peso maggiore di quello che gli aveva dato quel lunedì, tant’è che il suo petto divenne improvvisamente più pesante. Quella volta lo aveva detto con una voce particolarmente morbida e familiare, quasi fosse teneramente stufo di ripeterglielo. Tuttavia, non rispose. Continuarono la salita girando a qualche tornante, arrivando sempre più in alto. Ed sbadigliò sonoramente, portandosi una mano davanti alla bocca per non mostrare le sue tonsille al mondo intero.
Stava per riprendere a parlare, dischiuse le labbra, ma la guida interruppe quello slancio di coraggio annunciando l’imminente arrivo alla bocca del vulcano.
Era sul cratere del vulcano dormiente più pericoloso del mondo, in un giovedì di Luglio. Il mondo si stendeva ai suoi piedi. Si affacciò in quell’enorme voragine, chiusa da metri e metri di lava solidificata e piena di vecchie ceneri. Era impressionante quanto fosse grande e inaspettatamente inquietante. Il sentiero percorreva gli argini di quella circonferenza e i turisti si disposero in fila indiana, ordinatamente. Durante quel particolare giro, Sara non smise per un attimo di fissare il centro della voragine e Ed si chiese ancora una volta cosa provasse. Era dietro di lei che seguiva la fiumana e vista l’impossibilità di parlare, prese il cellulare e scattò una serie di foto. La riprese senza preavviso in un paio di scatti, ma era sola in quelle immagini. Mancava qualcuno. Soltanto quando giunsero nel punto più ampio del sentiero, potette richiamare la sua attenzione.
  • Pensi di sfuggire alla fotocamera interna?
Lo disse anche per sdrammatizzare, poichè sentiva ancora quella sgradevole sensazione di imbarazzo, difatti lei sorrise, rassegnata a quella sua mania dei selfie. Troppo lentamente, si avvicinò a lui e si lasciò cingere le spalle. Si guardavano sullo schermo del telefono ed entrambi lessero nei loro occhi qualcosa di diverso, di paralizzato. Ed scattò e prima di lasciarla andare, le mostrò ancora la foto. Non era delle migliori, ma voleva averla.
La guida prese ad illustrare la varietà di pietre che era possibile rintracciare tra le ceneri e le rocce, senza guadagnare comunque la loro attenzione. Erano troppo presi dall’urgenza di mettere una determinata distanza tra i loro corpi.
 
Quando intrapresero la discesa, Sara riprese lo zaino. Non era lo stesso, così. Quella giornata di dovere da turista non lo stava stimolando, si sentiva abbastanza spaesato da desiderare di tornare sulla moto. Quando guidava non aveva bisogno di scusarsi mentalmente con lei o con se stesso per quell’assurdo silenzio. Era fuori luogo quel loro comportamento, un ossimoro rispetto ai giorni precedenti, ma lei insisteva a mettere quegli shorts e ad avere quegl’occhi, come poteva riuscire a vincere se stesso?
Sara, d’altro canto, non faceva che torturarsi, ricordando continuamente a se stessa che avrebbe tolto la polvere dalle scarpe, avrebbe riposto lo zaino, avrebbe messo via gli shorts e avrebbe dimenticato tutto. Sarebbe andato via e lei sarebbe rimasta lì, ai piedi di quel vulcano, vivendo la sua vita come veniva. Aveva tutto e niente da perdere: da un lato una settimana con Ed, dall’altra la conoscenza di un cantante famoso che l’avrebbe dimenticata non appena avesse messo piede sull’aereo. In realtà non lo riteneva così insensibile, ma doveva credere che lo fosse. Sapeva benissimo cosa sarebbe successo. E poi, parliamoci chiaro, quelli erano tutti pensieri che stava facendo da sola, nessuno le assicurava che lui pensasse lo stesso o che la sua mente avesse anche solo accennato a pensieri del genere. Forse era una Candid Camera e non se ne era ancora accorta.
  • È stato breve. – disse lui riportandola alla realtà.
  • Sì, ma ho preferito venire presto per non stare sotto il sole di mezzogiorno.
Scesero velocemente gli ultimi metri della stradina scoscesa, alzando un po’ di polvere. Si fermarono in un punto ombroso per bere un sorso d’acqua, poi tornarono a camminare in direzione della moto.
  • E adesso che facciamo? – disse lui, chiedendoselo davvero.
  • Adesso andiamo a visitare gli scavi di Ercolano. – glieli indicò con la mano, ben visibili da lassù.
  • Oh, forte! – affermò prendendo la bottiglia d’acqua dalle sue mani per bere ancora.
Le loro dita entrarono in contatto. Il sistema nervoso di Ed era vicino ad un collasso, così bevve avidamente sperando di riguadagnare il controllo di sé. Non voleva passare il resto della settimana in quel modo. Voleva creare altri bei ricordi e scattare altre foto, così si convinse che era ora di far terminare quel teatrino imbarazzante. Sapevano entrambi cosa era successo, inutile fingere, piuttosto dovevano affrontare la cosa e capire, alla fine, quanto c’era da vincere e quanto c’era da perdere. Così, quando Sara salì in sella, dietro di lui, le disse:
  • Se hai paura, stringimi forte.
 
Percorrere quella strada a ritroso con lei a stringergli la vita, in quel modo così concreto, così stretto da non lasciare spazi vuoti, gli faceva provare una sensazione simile a quella che provava sul palco, durante un concerto: migliaia di persone erano davanti a lui, ma non riusciva a vederne i volti, non ne conosceva neanche una, eppure erano lì per lui. Stadi e arene piene, biglietti esauriti, folle acclamanti. Era riuscito da solo a far alzare le mani al cielo a milioni di persone. Si sentiva fuori dal mondo, fuori dagli schemi, fuori da sé.
In quel momento era terrorizzato, ma si sentiva onnipotente.
L’unico scambio comunicativo che ci fu tra loro riguardava le strade da prendere per arrivare agli scavi e si limitavano a gesti. Tornò mentalmente a lunedì, quando lo portò al porto e le sue mani invadevano il suo campo visivo. Allora le sue gambe non gli stringevano i fianchi in quel modo e probabilmente quella sensazione gli mancava già quel giorno. Tra le stradine trafficate di Ercolano, le voci del mercato e dei ragazzini che giocavano per strada gli giungevano alle orecchie di continuo, fino a che non posarono la moto ed oltrepassarono il cancello d’ingresso dello scavo. Una folla di turisti andava e veniva da quel passaggio, entrando e uscendo da quel mondo fermo nel tempo. Qualcuno spesso si girava ad osservarlo, ma gli occhiali da sole lo salvarono più volte da un eventuale riconoscimento.
Sara sentiva quella sua paura nell’aria. Qualche volta aveva provato a mettersi nel suoi panni e a immaginare una sua giornata tipo: finiva sempre per sentirsi stanca e impaurita. Sapeva che aveva una guardia del corpo, altrimenti sarebbe già morto, ma ora non l’aveva con sé. Che avesse intenzione di usare lei come scudo? Avrebbe fatto ciò che poteva. Mostrò la tessera universitaria all’uomo dietro al vetro ed entrò gratis, Ed invece si trattenne alla cassa per pagare il biglietto. Ultimamente non faceva altro che aprire il portafoglio.
Lei lo aspettava in piedi pochi passi più avanti, col sole che le illuminava i capelli. Dei riflessi rossi gli saltarono agli occhi. Non sorrideva, ma il suo viso era più sereno, gli occhi azzurri erano liberi da riflessi troppo scuri per lei, così la raggiunse incoraggiato da quella sua postura poco studiata. Avanzando, rimise il portafoglio in tasca e mostrò il biglietto alla guardia, sistemando poi il casco che portava a braccetto.
  • Eccomi!
  • Bene, andiamo. – disse, incurvando le labbra.
Ed sorrise, senza riuscire a trattenere i suoi muscoli dal contrarsi per mostrare i denti.
Non poteva dire che la tensione fosse del tutto sparita, ricreando quel clima così piacevole del giorno prima, ma andava decisamente meglio. Riusciva a sfiorarla senza perdere la ragione e lei non tremava più quando gli passava la bottiglia d’acqua, riuscivano a parlare dei resti di pietra e marmo senza che la voce si incrinasse.
  • Quelle sono travi bruciate? – disse lui, puntando il dito verso qualcosa di incenerito rinchiuso in una teca di vetro.
  • Si. Impressionante vero? Si sono conservate perfettamente. Questa era una bottega, vedi? Guarda tutte quelle anfore impilate.
  • Quindi, migliaia di anni fa, qui c’era qualcuno che vendeva vasi?
Sara perse quasi la voce per spiegare a Ed ciò che vedevano. I mosaici a sfondo religioso, gli affreschi in stile pompeiano, la struttura delle case, le incisioni sui bassorilievi, la riportavano in un mondo così lontano nel tempo, eppure così vicino nello spazio. Precisamente sotto i suoi piedi, quando camminava tutti i giorni. Lo scatto della fotocamera di Ed si mescolava al vociare continuo degli altri visitatori, che affollavano sentieri e ringhiere.
Quel mondo immobile lo lasciò sorpreso, ma ciò che più lo fece impressionare, fuorono i corpi carbonizzati e intrappolati degli abitanti di quel posto. Le loro forme rannicchiate al suolo, vicine, gli fecero immaginare quelle case vive, col fuoco acceso e i bambini che dormivano, mentre il vulcano li inghiottiva. Gli scheletri lo fissavano quasi a voler immobilizzare anche lui. La ringhiera a cui si appoggiava era bollente ed era l’unica cosa che lo tenesse ancora legato alla realtà, mentre il calore gli dava alla testa. Lei era silenziosa, forse immersa in qualche pensiero. Avrebbe voluto entrare nella sua testa e scoprire a cosa stesse pensando, perché la sua espressione non tradiva alcun sentimento se non una tiepida quiete che sapeva impossibile. Quella ragazza era brava a fingere, più di quanto credesse possibile per una donna dinanzi a lui. E poi, lei, non ostentava le doti della ragazza perfetta, ma al contrario teneva in piedi un muro di indifferenza, una fredda non curanza del fatto che lui fosse Ed Sheeran. Il pensiero che quell’indifferenza non fosse così finta, un po’ lo disturbava, ma non voleva far crescere il suo ego a dismisura senza un valido motivo.
  • Ho fame.
Lei si voltò placidamente a quelle parole, quasi abituata a sentirle risuonare.
  • Il giro è finito, se vuoi possiamo andare a mangiare.
Ed vedeva il suo riflesso nei suoi occhiali da sole e si limitò ad annuire, mentre lei già si scostava dalla ringhiera. Ondeggiava sul sentiero polveroso verso l’uscita, ma lui rimase ancora lì. Il peso di mille domande gli pesava sul capo, mille immagini gli riempivano la mente e probabilmente un enorme punto interrogativo gli era spuntato tra i capelli rossi. Entrambe le sue scarpe erano piene di polvere chiara. Le fissò per un attimo e quando alzò il capo annuì a se stesso, pensando che quelle scarpe impolverate mostrassero di sé più di quanto volesse lasciare intendere. Ed era a causa di Sara.
 
Non sapeva cosa fosse meglio in quel momento, la spontaneità o la finzione. C’era una linea così sottile tra le due cose che non riusciva quasi a distinguerle: quando era con lui stava bene, a prescindere, qualunque cosa accadesse.
Non importava quanto imbarazzo ci fosse, quanto poco avesse dormito, camminare al suo fianco le infondeva una quiete inusuale.
Ancora una volta alzò la gamba per salire sul sellino nero, ma questa volta si sentì più confidente nel farlo, senza preoccuparsi di quella vicinanza. Si aggrappò a lui, le gambe strette intorno al suo bacino e la mano tesa ad indicargli la strada. Il caldo batteva sui loro caschi, incessante e sempre più intenso, mentre la strada creava illusioni ottiche in lontananza. Lo guidò per diversi minuti verso una nuova città, di cui Ed non riconosceva le strade, quindi seguì il suo consiglio di rallentare. Si ballava parecchio su quei basoli vecchi e distorti, quindi dovette rilassare i muscoli o lui non sarebbe riuscito a guidare. Imboccarono un viale alberato e ombroso e si fermarono davanti all’ingresso di un parco.
  • Dove siamo?
  • Siamo a Portici, questo è il bosco che circondava il palazzo reale.
Sara si incamminò verso l’ingresso.
  • Dove vai? Non dobbiamo mangiare? – affermò allargando le braccia.
  • Mangiamo qui! –rispose, senza voltarsi.
Quella mattina aveva preparato il pranzo al sacco visto che aveva molto tempo a disposizione e uno zaino vuoto. Sperava solo che Ed si sarebbe accontentato.
Pochi secondi dopo se lo ritrovò di fianco, con gli occhi rivolti verso l’alto, ad osservare le fronde alte e fitte che riparavano i sentieri dal sole e dal caldo. Il fresco gli sfiorò la pelle, asciugandogli qualche goccia che gli imperlava la fronte.
Che sollievo – pensò. Il vento di scirocco agitava le foglie annullando il silenzio e migliaia di gemme di luce cominciarono a danzare intorno a lui, mentre avanzavano lungo i sentieri del parco. Non c’era nessuno a quell’ora, non un bambino o un anziano, nessuna coppietta, ma tanto meglio, avrebbe potuto rilassarsi definitivamente. La sensazione di quiete lo inondò totalmente quando vide un enorme prato al termine del sentiero. Sembrava l’ingresso del paradiso.
Misero i piedi nell’erba morbida e verde, Sara prese un grande respiro e cominciò ad avanzare più velocemente nell’erba. Ad Ed non sfuggì il suo sorriso radioso e per un attimo credette che quel posto avesse un significato particolare per lei o magari era solo magico. Magari era solo felice. Era tremendamente contagiosa nel suo saltellare tra le margherite bianche.
  • Vieni Ed, andiamo all’ombra!
Lo precedette fino ad un grande salice, i lunghi rami si poggiavano sul terreno in curve dolci, qualcuno galleggiava sullo stagno che lo affiancava e la luce ne faceva brillare la superficie.
Sara si sedette accanto al tronco, poggiandovi la schiena in modo abbastanza naturale da sembrare un’abitudine. Lo stomaco le brontolava mentre apriva la zip dello zaino azzurro, vi infilò la mano dentro e tirò fuori un asciugamano da mare. Lo stese dinanzi a lei, senza badare ad Ed che le si sedeva accanto. Il fruscio delle buste di plastica in cui aveva conservato i contenitori del cibo terminò soltanto quando ebbe tirato fuori il quinto involucro.
  • Hai cucinato tu?
  • Sì! Spero ti basti – disse sorridendo con malizia.
  • Cosa mi hai preparato?
  • Aaaallora…
Prese ad illustrare la serie di manicaretti che quella mattina aveva preparato, tra cui un’insalata di riso, dei panini, della frutta, merendine e una frittata. Forse non era un genio dei fornelli, ma se la cavava, soprattutto con la lasagna.
  • Allora, mangiamo? – disse lui, impaziente di riempirsi lo stomaco.
  • Non aspetto altro! – fece lei, prendendo un piatto di plastica per servirsi del riso.
Al primo cucchiaio tutto sembrava già andare meglio, un guerriero non può combattere a stomaco vuoto. Vedeva Ed finire la sua porzione cucchiaiata dopo cucchiaiata, in silenzio, ma non si sentiva turbata, anzi. Era piacevole pranzare lì con lui.
  • Buono! – disse lui.
  • Meno male.
  • Ti sarai svegliata presto per cucinare tutte queste cose, ma ti ringrazio per averlo fatto. – ironizzò lui, sorridendo sornione.
  • Ma guarda un po’ se devo anche nutrirti!
  • Vuoi dire che ti è dispiaciuto cucinare per me?
Mostrò la sua faccia da cucciolo ferito e lei gli diede il solito cazzotto sul braccio, facendolo spostare in un tentativo di difesa.
  • No, Ed, non mi è dispiaciuto. – disse, addentando un panino.
Ed sbadigliò, mentre allungava le mani verso la frittata, coprendosi la bocca col braccio.
  • Hai dormito poco?
Lo disse senza malizia, senza alcun doppio fine. Una semplice domanda di circostanza, ma vide i suoi zigomi prendere il colore dei suoi capelli.
  • Già. – si servì la frittata nel piatto.
  • Non ti sarai messo a suonare in albergo di notte, spero! – cercò di sdrammatizzare.
  • Ma che dici? – rise lui – Sono strano, ma non sono pazzo.
  • Per quanto ne so, potresti essere entrambe le cose!
  • What!? – scosse la testa, spostando lo sguardo verso di lei – Anche tu sembri stanca, comunque.
Le balenò alla mente l’immagine del soffitto che aveva fissato quella notte, ma non c’era bisogno di parlargli delle motivazioni che l’avevano tenuta sveglia, d’altronde era sicura che lui potesse tranquillamente capire da solo quali fossero. Così, si limitò ad annuire, come se fosse del tutto normale per lei non dare spiegazioni. Diede un altro morso al panino e lo guardò, lui la scrutava con gli occhi ridotti a due fessure, ma non si scompose al suo sguardo.
Doveva essere più forte di lui. O di qualunque cosa la stesse coinvolgendo in quel modo.
Ed si chiedeva se lo facesse di proposito a guardarlo in quel modo così da santarellina. Lo sguardo di Sara gli diceva “Io sono una santa, non so di cosa tu stia parlando”, ma a lui non la dava a bere, non a quel nuovo Ed che aveva deciso di fregarsene di quanto poteva perdere e badare soltanto alla vincita. Non era il giocatore d’azzardo che sperava, ma d’altronde chi non risica non rosica. Giocare sull’espressione non gli costava niente, poteva interpretare il suo sguardo come meglio credeva ed era proprio quello il vantaggio. L’avrebbe fatta impazzire. Non poteva essere l’unica vittima di quella specie di carneficina.
  • Mi raccomando – riprese poi lei, distaccandosi dai suoi occhi luminosi – non far avanzare niente, non si manterrebbe fino a domani e sarebbe un peccato buttare via del cibo.
  • Sta tranquilla – fece lui, di rimando – tu mangia la tua parte, a tutto il resto ci penso io!
Allungò le mani verso un panino col prosciutto e lo scartò. Il fruscio dell’erba e delle fronde accompagnò il loro pranzo, facendo placare gli animi di entrambi. Erano stanchi e spossati dal caldo, non avevano la forza di punzecchiarsi ancora ed Ed fu grato a Sara per quel momentaneo silenzio. Quando addentò l’ultimo cubetto di anguria, dichiarò a pieni polmoni di essere pieno. Allungò le braccia verso l’alto, per stirarsi i muscoli intorpiditi. Strizzò gli occhi e assaporò la sensazione di benessere che ora lo riempiva: il cibo lo aveva rifocillato e il suo cuore decelerava i battiti, portando il suo sistema nervoso in stand-by.
  • Per un attimo ho creduto di non aver preparato abbastanza cibarie. – disse lei, intenta a ripulire.
Ed la guardò placidamente, senza rispondere, il suo sorriso rilassato parlava da sé. Quando Sara si alzò in piedi per scuotere l’asciugamano pieno di briciole, potette osservarla indisturbato per qualche secondo, ma non formulò alcun pensiero. Si limitò ad immaginarla nella sua cucina a preparare il pranzo per quella mattina. Per lui. Doveva essersi alzata presto e si vedeva che aveva dormito male, di fatti la sentì sbadigliare. Erano già tre giorni che gli stava dietro e lui cosa aveva fatto per lei, se non pagare qualche pasto?
Si voltò e lo sorprese ad osservarla, ma Ed non mosse un muscolo. Sara rimase ferma al suo posto e ricambiò il suo sguardo. Si chiese cosa mai stesse pensando, quella ragazza.
  • Va tutto bene? – gli disse alla fine.
  • Benissimo. – sorrise lui.
Senza preavviso, Ed allargò le braccia e si lasciò andare sul terreno, chiudendo gli occhi. Il vento fresco gli permetteva di sentire il profumo di lei fin da lì e si fece ancora più intenso quando Sara si sedette accanto a lui, senza parlare. Aprì un occhio per vedere cosa stesse facendo e la vide lì a guardare il prato. I rami del salice si agitavano oltre il suo profilo, aldilà dei suoi battiti di ciglia. Raggomitolata com’era, aveva l’aspetto di una bambina e in quel momento le sembrò così fragile che si diede dello spietato ripensando al suo piano per farla impazzire. Non voleva farla soffrire, ma…come poteva spiegarlo?
La sua compagnia oramai era necessaria. La sua vicinanza, indispensabile. Aveva voglia di suonare per lei. Aveva sete.
Allungò la mano e la poggiò sulla sua spalla calda, facendola voltare. Continuava a guardarla con un occhio solo e notando che non gli si avvicinava, si aggrappò a lei come a un enorme pupazzo, mugugnando sillabe senza senso. Le braccia strette intorno alla sua vita facevano da corona al suo capo, nascosto nel suo fianco morbido. Sentiva il suo cuore battere ritmicamente, ma non gli sembrava agitata.
Sara non sapeva se ridere, era così tenero che temeva che la sua risata lo avrebbe turbato. Quelle sue braccia così strette attorno alla vita le sembravano un miraggio, ma la sensazione del suo naso premuto nel suo fianco le rendevano reali. Il suo respiro le faceva il solletico. Fissò i suoi capelli rossi spettinati e si disse che Ed era un gran bastardo. La stava mettendo davanti a una scelta: se lo avesse ignorato, avrebbero continuato il giro turistico come guida e turista, se avesse sfiorato una qualsiasi parte del suo corpo, invece, sarebbe stata la fine. E fu allora che Ed sentì quel cuore divenire tachicardico, quando lei, dolcemente, infilò le sue dita sottili nei suoi capelli, carezzandogli la nuca. Sorrise. Sapeva che lei aveva percepito le sue guance riempirsi e la immaginava sorridere altrettanto, probabilmente sperando che lui non la vedesse.
  • Sheeran, fatti in là, vorrei stendermi anch’io. – disse sfilando le mani da quel cespuglio rosso.
Ed slacciò immediatamente il nodo delle sue braccia e tornò alla posizione precedente, lasciandole intendere che il suo braccio disteso – se avesse voluto – poteva essere il suo cuscino. Sara si spostò col bacino più in basso, accomodandosi accanto a lui, le braccia tirate al petto e il capo sul suo bicipite. Si chiese che fine avessero fatto tutte le sue energie, quelle che aveva riservato alla difesa del suo castello: poco prima lo aveva chiamato bastardo ed ora era lì, stesa accanto a lui, esposta come un pezzo di carne dinanzi ai leoni.
Doveva essere davvero masochista a sottoporsi a quegli occhi.
Ed non la guardò negli occhi, ma si perse a seguire le curve dei suoi capelli. Qualche gemma di luce li decorava, illuminandole gli occhi. Non sapeva che espressione avesse, ma non importava, vedeva solo le sue guance rosa. Si avvicinò a lei, stendendosi di fianco e sperò che non le dispiacesse se le metteva un braccio intorno alla vita e affondava il viso nel suo collo. Si rese conto che aveva ridotto parecchio le distanze quando ebbe l’impressione di sentire il suo respiro sulla sua bocca, ma ormai era ben lontano dalle sue labbra, infatti lei voltò il viso per guardare in un punto più distante. L’ultima cosa di cui fu cosciente, fu il suo profumo di mare e di buono.
  • Chiamami Ed.





Angolo autrice:

Ciao lettori! Sono felicissima che la storia abbia tutte queste visite, quindi spero di non deludervi più avanti!
Giusto per farvi immergere ancora di più nella storia, eccovi l'hotel in cui Ed alloggia:


E questi sono il Vesuvio, gli scavi di Ercolano e il Bosco di Portici col suo grande prato:

 

I luoghi di cui racconto esistono davvero ed è possibile visitarli. :)
Ringrazio tantissimo la_marty che puntualmente recensisce la storia e mi regala tanta motivazione!
Un consiglio: non perdetevi il prossimo capitolo!!!
Ciao! :D

 

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Capitolo 12
*** Quarto Giorno - Pt II ***




Quarto Giorno - II

Quando riaprì gli occhi, doveva ancora essere pieno pomeriggio. Una luce accecante gli fece richiudere le palpebre, mentre si chiedeva quanto avesse dormito. Non appena i muscoli delle sue braccia si contrassero, percepì il calore del corpo di lei. I suoi capelli gli solleticavano il naso, ma quasi non aveva il coraggio di alzarsi, stava così bene lì, rifugiato nell’incavo del suo collo. Sorrideva e non riusciva a smettere. Quando il suo corpo ne manifestò il bisogno, cominciò a muoversi, stringendo la presa attorno a lei per stirare i muscoli. Fece un profondo sospiro e poi la sentì muoversi. La vide alzare il capo, guardandosi istintivamente intorno, così sfilò il braccio dalle sue spalle e senza interrompere il contatto tra la sua mano sinistra e quel fianco morbido, si tirò su. Aveva gli occhi ancora pesanti, doveva sembrarle davvero poco virile con quell’aspetto da bambino assonnato. Per fortuna aveva evitato di radersi la barba, altrimenti cosa ne sarebbe stato di quella poca mascolinità che gli restava?
Sara lo imitò, poggiandosi sui gomiti. Si erano addormentati come due bambocci, ma per fortuna l’orologio di Ed, poggiato sulla sua pancia, segnava ancora le 16:25. Non aveva il coraggio di voltarsi a guardarlo, lo sentiva troppo vicino e preferiva mantenere una distanza di sicurezza da quelle labbra rosa. Non sapeva se Ed la stesse osservando, sentiva soltanto i loro corpi ancora troppo vicini, poi lui si mosse.
  • Che bella dormita. – disse appoggiando la tempia alla spalla di lei.
  • Già. – si limitò a rispondere, immobile.
  • Pensi che ce lo meritiamo un caffè?
Sara sorrise ricordando quel lunedì a casa sua, quando Ed bevve il caffè preparato da sua madre. Rise senza mostrare i denti. Sì. Se lo meritavano un caffè.
  • Cos’hai da ridere, mocciosa?
Fu allora che si voltò verso di lui con l’intento di mostrargli il suo sorriso sornione, ma questo subito svanì: aveva appena incontrato i suoi occhi e il suo respiro si era fermato.
Diavolo. Smettila. Non puoi fare sul serio.
Ringraziò mentalmente gli dei quando Ed si issò a sedere, scollandosi definitivamente da lei. L’assenza di quelle braccia la faceva sentire scoperta e infreddolita, ma ormai stava delirando.
Calò un silenzio devastante su di loro, mentre guardavano il prato ondeggiare sotto la carezza del vento. Nella testa di Ed era in atto una rivoluzione, due schiere combattevano per avere il controllo su di lui: c’era la parte battagliera che voleva a tutti i costi mantenere quel contatto con i suoi occhi e la parte codarda, impaurita dalle mille possibilità di fallimento che quella situazione offriva. Doveva essere impazzito, ma non riusciva a non cedere alla tentazione e si dava dello stupido da solo. Avrebbe pagato oro per sapere cosa ci fosse nella testa di lei. E poi, non sapeva nemmeno se Sara gli piacesse davvero, chi voleva prendere in giro? E se fosse stata solo un’attrazione momentanea? E se se ne fosse fregato di tutte quelle supposizioni?
Si passò una mano nei capelli, abbassando lo sguardo.
  • Sara…
Era tutto nelle sue mani.
Lei si voltò verso di lui. I loro sguardi si incontrarono.
  • Sì?
Non aveva la più pallida idea di cosa le avrebbe detto.
  • Sono comodo come cuscino?
Voleva picchiarsi da solo ascoltando la sua stessa voce, ma poi la vide sorridere, trattenendo una risata e non riuscì più a rimproverarsi.
  • Sei comodissimo, Ed. – disse scuotendo il capo.
  • Bene, se fossi stato scomodo non me lo sarei mai perdonato.
Sara allungò il pugno e lo poggiò dolcemente sul suo braccio, forse per dargli dello sciocco.
  • Come mai così delicata? – chiese allora, quasi con un sospiro.
  • Forse mi sono stancata di attribuirti tutte le colpe. – rispose, guardando altrove.
  • La colpa è una cosa relativa, in certe situazioni.
Osservò la sua reazione e lesse un tremito nei suoi movimenti. Lasciati andare – voleva dirle – pensa a ieri, a quanto siamo stati bene – ma non disse niente. Allungò la mano e le carezzò la guancia con un dito, per farla voltare. Forse si trattenne troppo a lungo sulla sua pelle, ma sperò che lei avesse letto nei suoi occhi tutto ciò che desiderava trovarci. Alla fine, dopo un lungo e immobile silenzio, vide le sue labbra incurvarsi in un sorriso.
  • Allora, questo caffè?
 
La fotocamera interna li aveva intrappolati per sempre, di nuovo.
Non si sentiva così rilassato da molto tempo. A parte il fatto che quella situazione fosse assurda, si sentiva bene come non gli succedeva da tempo, sentiva di non avere problemi di cui preoccuparsi. Era seduto a un bar. Oddio, non aveva l’aspetto di un bar, visto che si trovavano su una pedana di legno a ridosso della spiaggia, ma quei divanetti bianchi sotto gli ombrelloni di palma, davano a quel posto un aspetto rilassante. La tazzina del caffè era vuota davanti a lui, i caschi erano posati sul tavolino di vimini e Sara gli era seduta accanto. Era già parecchio che discutevano di argomenti vari, dalla musica al perché il mare fosse salato ed ora lei stava preparando due sigarette, una per lei e una per lui. Poco dopo il fumo volteggiava, assumendo spessore alla luce del sole che si avviava all’orizzonte.
  • Ed, i tuoi tour sono davvero stressanti, credo.
  • Più di quanto la gente possa credere. – rispose, guardandola.
  • Come fai? – disse con lo sguardo aggrottato. – Cioè, fisicamente, come fai a reggere il lavoro?
  • Pensi che mi droghi?! – disse sorpreso, alzando le sopracciglia chiare.
  • Spero di no…
Lo disse mordendosi il labbro inferiore e per un attimo fu distratto da quel movimento.
  • No, non faccio uso di sostanze strane. Tranquilla. – fece allora, dandole una lieve spinta con la spalla. – Me la cavo con le mie forze.
  • Meno male. – il suo viso si distese nell’udire quelle parole. – Non sono mai venuta a un tuo concerto, sai?
  • Davvero? La prossima volta, sarai mia ospite!
Sara volle credere alla genuinità delle sue intenzioni, ma in cuor suo dubitava che Ed si sarebbe ricordato di lei, una volta andato via. Lasciò che il discorso cadesse lì, lasciandogli la possibilità di aprire un nuovo argomento, ma lui rimase in silenzio.
Lo vide guardare distrattamente le foto che avevano scattato in quei giorni, fino ad arrivare alle ultime, scattate pochi minuti prima. Canticchiava un motivetto che non aveva mai sentito, ma era piacevole. Forse non era una sua canzone.
  • Cosa canticchi?
  • Eh? – disse lui, alzando lo sguardo dal cellulare.
  • Stavi canticchiando.
  • Oh. – parve risvegliarsi da un’ipnosi. – Già.
  • Che canzone era? – chiese, allora – Non aveva un motivo familiare.
Quando si accorse della sua espressione, pensò che ci fosse qualcosa che non andava: Ed era lì, con la sigaretta ancora fumante e il volto bianco, quasi avesse visto un fantasma.
Erano mesi. Interminabili giorni di silenzio e mutismo e ora, mentre la guardava negli occhi, una creatura così semplice, aveva trovato le parole.
  • Ed, stai bene? – disse con tono preoccupato.
Aveva trovato la via d’uscita.
  • Dammi la tua agenda. Subito. – disse serio, tendendo già la mano.
Non capì cosa stesse succedendo, ma obbedì senza indugio. Infilò la mano nello zaino, inspiegabilmente tremante e ne estrasse la piccola agendina che portava sempre dietro. Vide le mani di Ed togliere frettolosamente l’elastico, con un’impazienza che mai gli aveva visto addosso. Girò le pagine alla ricerca di un foglio pulito, impugnò la penna che Sara gli porgeva e non appena ebbe incrociato le gambe cominciò a scrivere, terrorizzato dall’idea che ogni cosa potesse sparire dalla sua mente in un attimo. Le prime parole si riversarono sul foglio, la calligrafia quasi incomprensibile per la fretta, ma a chi importava, sentiva quella canzone uscirgli dal petto con una violenza tale da fargli credere che in realtà fosse sempre stata lì, imprigionata in qualche angolo di sé ed ora cercava uno spiraglio di luce, una finestra a cui affacciarsi dopo tutto quel buio.
Incurvato sul foglio, scriveva e modulava le note e più andava avanti, più sentiva la necessità di avere la sua chitarra. Alzò il capo di scatto e col respiro pesante le rivolse la parola, aveva l’aspetto di un pazzo in piena crisi d’astinenza.
  • Accompagnami. – disse soltanto, mentre snodava le gambe e portava i piedi al suolo.
  • Ma dov-
  • Vieni e basta! – quasi urlò, prendendola per un braccio. – Per favore. – concluse, nella sua voce una preghiera.
Non seppe dire come, ma lesse nei suoi occhi qualcosa di davvero intimo, qualcosa che veniva dal profondo di quell’anima e ne rimase definitivamente trafitta. Senza aggiungere altro, annuì e con la mano intrecciata nella sua, si fece portare via.
Sembrava che Ed avesse appena trovato una via d’uscita, mentre lei stava appena entrando nella sua personale gabbia dorata.
 
Si ricordava di quando vedeva le sue foto su internet e cercava di immaginare come fosse quel tizio, in realtà. Nessuna delle sue fan, nessuna di loro, lei compresa, poteva sapere chi fosse davvero Ed Sheeran. Semplicemente non lo conoscevano.
Era lì, seduto al centro del letto, con le gambe incrociate e gli occhiali sulla punta del naso, che guardava il pentagramma semivuoto davanti a lui. Così simile alla persona che aveva visto,  eppure totalmente diverso da come appariva. Chiunque lo guardasse dall’esterno avrebbe detto di avere davanti un ragazzo allegro, disponibile, romantico e quant’altro, il classico cantante in voga che prima non avrebbe considerato nessuno ed ora aveva una distesa di donne ai suoi piedi. Qualcuno forse lo avrebbe definito un musicista, ma tutti gli altri? Quante di quelle persone avevano pensato alle sue preoccupazioni, alle sue debolezze, alle sue paure?
Aveva davanti a lei un uomo impaurito ed era quell’Ed Sheeran, un essere umano proprio come lei.
Finalmente riusciva a vederne l’anima.
L’autenticità di quel momento la disarmava totalmente, mentre stava in silenzio ad osservare quelle parole distorte e le sue mani tremanti. Era inequivocabilmente testimone di un piccolo miracolo: quel ragazzo stava probabilmente scrivendo un altro capolavoro, davanti ai suoi occhi. Quella roba succedeva davvero, ma l’ispirazione era come una bolla di sapone, quindi si cucì la bocca a filo doppio. Avrebbe voluto tempestarlo di domande, ma preferì non interromperlo, quello forse sarebbe stato il suo più alto contributo: non interrompere Ed Sheeran che scrive una canzone.
Ripensava a quella storia del blocco dello scrittore che le aveva raccontato al porto e vederlo così chiaramente emozionato, le faceva quasi male. Doveva essere difficile per lui, stare al passo con se stesso, stare al passo con i tempi, stare al passo con tutto, e mesi di crisi dovevano averlo turbato. Chi sa quante dinamiche c’erano ancora a preoccuparlo, quante scartoffie e persone che lo perseguitavano, eppure eccolo lì. Pronto a ripartire.
  • Na na na na na nanana…
E scriveva ancora sul pentagramma. Regolarmente si portava un dito al viso per rimettere a posto gli occhiali. Gli donavano terribilmente.
Non poteva fare a meno di chiedersi – probabilmente fissandolo come una scema – come mai volesse condividere quel momento così intimo con lei. Era terribilmente nudo, riusciva a leggerne ogni emozione come su un libro aperto. Quelle sue dita tremanti e gli occhi chiusi in un’espressione quasi corrucciata, mentre ripeteva l’arpeggio, la schiena ricurva e i capelli spettinati dalle sue stesse mani, che nervose li percorrevano ripetutamente. Era fragile. E lei si scioglieva al solo pensiero di stare osservando la pura anima di quel ragazzo, che danzava in quella stanza d’albergo all’ultimo piano.
  • Loving can hurt…
Cazzo.
  • Loving can hurt, sometimes…
Pensò per un attimo che non avrebbe resistito alle lacrime, portandosi una mano alle labbra tremanti. Quella sua maledetta voce risuonava come l’eco di un miracolo.
  • But is the only thing that I know. When it gets hard, you know it can get hard sometimes, it is the only thing that makes us feel alive.
Si voltò verso di lei per cercarne lo sguardo, lasciando in sospeso quell’ultima nota vibrante nell’aria. Quando sentì che i loro occhi si erano incatenati, riprese a cantare.
  • We keep this love in a photograph, we made these memories for ourselves.
Quasi stesse parlando proprio a lei, come se le stesse confidando un segreto.
  • Where our eyes are never closing,
our hearts were never broken
 and time's forever frozen, still.
Aveva il respiro bloccato, mentre aspettava che il petto di lui riprendesse a gonfiarsi. Avrebbe voluto togliergli gli occhiali e carezzagli gli occhi. C’era un oceano di sentimenti in quell’azzurro e lei ci si stava perdendo dentro, inesorabilmente.
Il rumore del suo respiro che tornava a riempirgli i polmoni la rese ancora più tesa.
  • So you can keep me
inside the pocket of your ripped jeans.
Holding me close until our eyes meet.
You won't ever be alone…
Le mancavano le parole.
  • Wait for me to come home.
 
Sentiva il sangue scorrere veloce, le pulsazioni battevano il collo, la testa gli girava.
Aveva scritto solo la prima strofa e il ritornello, ma il mondo si era fermato per ore, mentre la guardava negli occhi languidi. Ormai era buio nella stanza, il cielo che si intravedeva tra gli aghi di pino alla finestra era di un celeste spento e lei era lì, nella penombra, distingueva a stento il suo profilo. Era quasi troppo lontano da lui, rispetto a quel pomeriggio: lui al centro del letto e lei a gambe incrociate, accomodata tra le lenzuola bianche stropicciate sull’angolo del materasso. Erano entrambi a piedi scalzi.
Come era stato possibile tutto quello, non lo sapeva. Gli era bastato così poco per tirare fuori quella bozza, soltanto un paio d’occhi. Ovviamente era consapevole che il paio d’occhi in questione non appartenesse a qualcuno di poca importanza. Era lei. Era quel suo maledetto sguardo. E le gambe e i capelli e i fianchi. Era quella corrispondenza biunivoca tra loro due.
La sua vita – si rese conto in quel momento – era davvero un clichè: incontrava una ragazza in un paesino sperduto e perdeva la ragione. Rinunciava volontariamente alle sue facoltà intellettive, lasciandole il timone e in tutta quella storia, lui non aveva fatto niente. Lei si era svegliata presto la mattina, lo aveva accolto in casa sua, gli aveva preparato il pranzo ed era lì da ore ad ascoltare in silenzio sempre lo stesso giro di accordi, senza battere ciglio. E lui cosa aveva fatto? Cosa le aveva donato in cambio?
Offrirle una cena, lo sapeva bene, non aveva lo stesso valore di quel sostegno silenzioso. Forse, l’unica cosa di cui era davvero consapevole, in quel momento, era il fatto che si stava irrimediabilmente, irreversibilmente e pericolosamente arrendendo a lei.
Non sarebbe mai riuscito a farle comprendere l’immensa gratitudine che provava nei suoi confronti, ma ci avrebbe almeno provato. Doveva. Voleva.
  • Perché sei lì? – era quasi un sussurro.
Vide i suoi occhi dilatarsi, come se avesse appena ascoltato la sua condanna. Credeva che gli desse fastidio averla lì?
  • Come? – fece lei, con la voce bloccata in gola, quasi impaurita.
  • Perché sei lì? – questa volta lo disse più piano, quasi a prenderla in giro. La sua mano volteggiò in aria in un gesto d’espressione.
  • Tu mi ci hai voluto. – il suo corpo si ritraeva.
  • Ma cosa hai capito?
Si fece sfuggire una risata, forse ancora troppo isterica. Lei aveva un punto interrogativo stampato in faccia così, con l’adrenalina ancora in circolo, riprese a parlare. Non riusciva a guardarla con quell’espressione turbata.
  • Intendevo dire: cosa ci fai così lontano da me?
Ci fu un attimo di silenzio.
  • Io…non volevo disturbarti. – disse, con l’innocenza dipinta sulle gote.
  • Ahah! – rise, non potè trattenersi. – Ma fai sul serio?
Mollò la chitarra sul lato opposto del letto e in un nanosecondo si fiondò su di lei. La prese per i fianchi, facendola urlare, e la scaraventò lontano da quell’angolo. Scalciava come una bambina sul materasso morbido, ormai aveva perso la lucidità a causa del solletico, così Ed ne approfittò e la spostò ancora, al centro del letto. Con una mano la teneva in trappola e con l’altra le spostava i riccioli che le nascondevano il viso. Si fece contagiare dalla sua stessa risata e lasciò che le corde vocali si rilassassero. Ormai era sopraffatta dalle risa, l’aveva in pugno, così vicina da sentirne il respiro. Sospirò, quando terminò di attaccarla e si poggiò sui gomiti. La sovrastava completamente, le loro gambe si confondevano, intrecciandosi. Quasi le loro figure non si distinguevano, dato che ormai il buio calava definitivamente. Non vedeva quasi nulla, ma era sicuro di esserle più vicino del dovuto poiché le sfiorò involontariamente il naso con il proprio. Un brivido di terrore lo pervase quando i loro respiri si intrecciarono, respirando la stessa aria. Forse era la sua impressione, ma avrebbe giurato che il suo corpo si muovesse da solo. Aveva sete e non potè fare a meno di chiedersi se ne avesse anche lei. Avrebbe potuto scoprirlo, se avesse voluto.
  • Ed.
La sua voce era ferma, ma gli arrivò alle orecchie ovattata, perso com’era in quell’attimo. Com’è che si diceva? Carpe diem?
  • Ed…
Non si sarebbe fermato, non stavolta e lei non opponeva resistenza. I loro nasi si toccarono ancora e la morsa che aveva nel petto si faceva più intensa. Le guance andavano a fuoco. Non respirava più. Non pensava più.
Era pronto.
Era deciso.
Era sicuro.
 
E Driiiiiiiiiiiiiiiiiiin.
Giurò che chiunque fosse al telefono avrebbe subìto la sua malefica e iraconda vendetta.
Rimase pietrificato. Altro che carpe diem, la suoneria del suo cellulare aveva appena rotto una vetrata. Non seppe con quale coraggio riuscì ad alzarsi, rendendo ancora più evidente l’imbarazzante situazione, grazie al movimento della risalita. Il suo petto non la sovrastava più, lasciandola sempre più scoperta e più sola, stesa sul materasso.
Senza guardarla negli occhi, scese dal letto a due piazze e raccolse il cellulare dal comodino.
Il nome di J insisteva luminescente sul display e dato che ormai era lì, rispose.
  • Hi J…
Lei era ancora lì, ancora impossibilitata a muoversi per la vergogna. Perché mai stava succedendo a lei? E perché continuava a desiderare che accadesse?
Forse era davvero una masochista. O forse era Ed ad essere un pazzo maniaco approfittatore. Si alzò a sedere con uno scatto, i capelli ancora sconvolti, e lo vide parlare placidamente al telefono, senza capire una parola.
A guardarlo in viso, le sembrava tranquillissimo, ma come faceva ad essere così bipolare? Prima era timido, poi un amicone, poi un estraneo, poi un latin lover. Con chi aveva a che fare?
Era uno scherzo? Una candid camera di cattivo gusto?
In preda al panico, si guardò intorno alla ricerca di una telecamera, di qualcuno, ma non servì a nulla.
Forse era impazzita anche lei – pensò portandosi una mano alla fronte - forse era solo una forma di autodifesa, visto che il suo cuore cominciava ad incrinarsi già a giorni dalla sua partenza, ma da quel momento aveva deciso che Ed Sheeran non gliela contava giusta. Non poteva essere così debole e sciocca da gettare il suo cuore tra le fiamme di quello che sarebbe stato di certo un inferno. Ed Sheeran o no.
Si sedette sul bordo del letto e cominciò ad allacciarsi le scarpe, individuando con lo sguardo le sue cose.
Già sentiva il suo sguardo pesarle sulla testa, mentre si alzava per andare via. Da sola.
  • Scusa, era J. Dove stai andando? – disse, senza darsi una spiegazione.
  • Via.
  • Oh. – forse voleva stare un po’ sola, doveva aver esagerato. – Aspetta, ti accompagno.
  • No, Ed. Vado da sola.
Lo vide immobile, accanto alla scrivania, assorbito dalle sue parole fredde e nette. Lo avrebbe capito chiunque che non ammetteva repliche. Eppure Ed non comprendeva quel suo sguardo freddo.
  • Non fare quella faccia, Ed. Non guardarmi così. – tratteneva già le lacrime. – Non so se sia uno scherzo o se sia tua abitudine avvicinarti a una ragazza per gioco, ma io non ci sto. Non ho intenzione di essere trattata come uno straccio.
I suoi occhi chiari divenivano sempre più bui ad ogni parola, le sue orecchie fischiavano per la pressione troppo alta. Ormai era in tilt.
  • Ma cosa diavolo dici? Pensi che sia una persona del genere? – disse, accusandola.
  • Io non so chi sei, Ed. Non so cosa stavi pensando prima.  Ci conosciamo da tre giorni, cosa vuoi che creda? Che quando te ne andrai avrai un bellissimo ricordo, ma niente di più? Io non sono qui per questo e devo pensare a me stessa.
Non poteva credere alle sue orecchie.
  • Io non ti userei mai per il mio puro divertimento. – disse, sconfitto dalla delusione.
  • MA IO NON POSSO SAPERLO, ED! NON LO SO COSA NE SARA’ DI ME QUANDO SARAI ANDATO VIA. COME PENSI CHE POSSA RIUSCIRE A LASCIARMI ANDARE SE SO CHE LUNEDì TORNERò A VEDERTI SOLO SU YOUTUBE?
Allora era quello il problema. Non si trattava di essersi avvicinato troppo, non era del corpo che le importava.
  • Non è facile come pensi. – concluse lei.
Si sentì bruciare il petto ad ogni parola che raggiungeva il suo cuore. Una ad una, come spine, lo risvegliarono da quella fantasia in cui era inciampato. Lei aveva ragione. Non aveva il diritto di pretendere qualcosa da lei, che si trattasse di fiducia o di amore. Avrebbe voluto dirle tutto, svuotare del tutto il suo cuore, ma avrebbe soltanto peggiorato lei cose. Non avrebbero avuto rimorsi se non fosse successo niente e così lunedì sarebbe partito e tutto sarebbe tornato alla normalità. Per entrambi.
  • Scusa, hai ragione.
Con le mani in tasca, distolse lo sguardo dal suo.
  • Sarò contenta di accompagnarti in giro fino a quando vorrai, ma…
  • Ho capito.
Silenziosamente, Ed soppesava di nuovo le sue parole, senza capire chi di loro portasse il fardello più pesante.
Guardavano insistentemente in direzioni opposte, ma prima di lasciarla andare, doveva andarle incontro ancora una volta. Non potevano avere lo stesso peso, ma potevano fare in modo che la bilancia fosse in equilibrio.
  • Amici? – disse tendendole la mano.
  • Amici. – rispose lei, ricambiando debolmente la stretta.
Non appena interruppero i contatti tra le loro mani, Sara afferrò la borsa e fece per andarsene, ma Ed aggiunse qualcosa.
  • Mi lasci il tuo numero?
Lo sguardo interrogativo che ebbe in risposta, lo fece avvicinare a lei.
  • Forse domani mattina ho una conferenza via Skype e non so a che ora finisco. Non voglio farti aspettare, quindi se mi dai il tuo numero ti darò mie notizie non appena avrò terminato. – spiegò asetticamente.
Sara prese direttamente il cellulare che aveva il rosso tra le mani, soffermandosi per un millisecondo sui suoi capelli arruffati. Non appena digitò l’ultima cifra, lo salutò senza risparmiarsi uno sguardo.
  • Grazie. – disse lui. – Anche se vorrei accompagnarti a casa.
  • No, per favore. Voglio stare un po’ sola. Me la caverò.
Ed annuì più a se stesso che a lei. Il broncio lungo come quello di un bambino.
Una volta arrivati sotto l’uscio della porta, fu tentato ancora di sfiorarla, ma si trattenne quando lei lo salutò.
  • Buonanotte, Ed.
Camminò per 5 chilometri fino a casa in silenzio, persino le voci nella sua testa si ammutolirono. Quando mise piede in camera sua, si abbandonò sul letto e non vi si allontanò fino al giorno successivo.



Angolo autrice:

Ta-dan!
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Alla prossima! :D


---> La camera d'albergo in cui Ed scrive Photograph!


 

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Capitolo 13
*** Quinto Giorno - Pt I ***




Quinto Giorno - I

Non aveva mai conosciuto qualcuna che invece di attaccarsi al suo braccio, volesse distaccarsene.
Si sentiva quasi offeso da quella sua freddezza, da quegli occhi privi di qualsiasi incertezza.
La sua voce aveva continuato a rimbombargli in testa per tutta la notte, facendo scattare nella sua mente una serie di meccanismi che lo portavano sempre più alla convinzione che lei avesse ragione. Aveva ragione a pensare a se stessa, aveva ragione quando diceva di non conoscerlo, ma forse si trattava soltanto di lui. Era disposto a rischiare più di lei e forse non poteva capirla davvero. D’altronde lui conduceva una vita soddisfacente, aveva ottenuto il successo, viveva di musica, feste, concerti, interviste, soldi. Era un lavoro duro, ma ripagava bene l’impegno profuso, contrariamente a quella che doveva essere la vita di Sara in quella città di provincia. Nessuno, in quel purgatorio, avrebbe scommesso su di loro. Non con quelle premesse. E se poi fosse finita male, lui avrebbe continuato con la sua carriera, piena di impegni e incontri, ma lei? Cosa sarebbe rimasto a lei?
Tuttavia, non sapeva come avrebbe continuato a stare in sua compagnia, dopo quella sfuriata.
L’entusiasmo per quella prima bozza era stato brutalmente spezzato ed ora si trovava con un piede nella favola e l’altro nell’abisso, senza via di scampo né da lei, né da J. Forse avrebbe potuto ignorare il suo manager, ma la sua coscienza non si sentiva di trascurare il suo lavoro e tantomeno avrebbe potuto ignorare lei. Poteva prendere il telefono, chiamarla e dirle che sarebbe partito quel pomeriggio, per poi restare per tre giorni chiuso in quella stanza a rammaricarsi. Ma non voleva farlo. Gli era letteralmente impossibile.
Quando uscì dalla doccia, dopo più di venti minuti, era l’ora della sua conferenza col produttore. Si rese presentabile ed accese il portatile poggiato sulla scrivania, attendendo il messaggio di J che lo avvertiva dell’imminente videochiamata. Un paio di minuti dopo, il necessario a prendere l’agendina fiorata dimenticata da Sara il giorno prima e la chitarra, il suo cellulare vibrò.
Be ready.
Si sedette davanti allo schermo e la chiamata di Skype risuonò per tutta la stanza. Aprì il collegamento, salutando J e il suo produttore. Dovette sorbirsi diversi minuti di chiacchiere sui benefici che quella vacanza romana secondo loro stava producendo, senza sbilanciarsi nel dirgli che non si trovava a Roma, né stava avendo benefici. Pregò che la sua espressione non lasciasse intendere il suo reale umore. Mentre si sforzava di ascoltarli, si chiese - per l’ennesima volta da quando aveva aperto gli occhi - cosa stesse facendo Sara in quel momento, ma dovette subito rimproverarsi: lei aveva preso la sua decisione e lui era – per così dire – d’accordo. Tuttavia, nella sua mente navigava ancora una scialuppa di salvataggio, i cui remi si immergevano in acque dalle onde inarrestabili.
 
Era sola, in casa De Amicis. Sua madre era fuori, suo fratello al mare, suo padre al lavoro e lei ne stava approfittando per fare la ragazza depressa. Immersa nella vasca, ad occhi chiusi, tentava di concentrarsi sulle note di quella canzone emessa dalla radio. Non poteva certo ascoltare la sua musica, sarebbe stata una folle solo ad accendere il suo mp3: non c’era altro se non la voce di Ed. Si stava davvero impegnando, ma più si sforzava di distrarsi, più il pensiero di lui e delle sue spalle larghe la tormentava. Doveva essere lì dentro da almeno un’ora, poiché l’acqua era diventata tiepida e le sue dita erano grinzose, quindi immerse per l’ultima volta la testa e poi uscì dal suo piccolo mondo incantato.
Con l’asciugamano avvolta intorno al corpo, si guardò allo specchio, la luce che entrava dalla finestra era bianca e fredda: quella era la prima mattinata di riposo che aveva più o meno da 10 mesi e non riusciva a trascorrerla serenamente a causa di quei ricordi così insistenti. Desiderò che Will Smith facesse irruzione nel bagno con il suo smoking nero e le cancellasse la memoria con un flash o che magari il professor Piton le desse una pozione altrettanto potente. Peccato che la realtà avrebbe continuato a pesarle sulle spalle.
Aveva consumato una grande dose di coraggio il giorno prima, per parlare chiaro con lui, e ora si sentiva sfinita e davvero molto molto incrinata.
Si conosceva abbastanza da sapere che avrebbe avuto rimorsi e rimpianti a prescindere da qualsiasi avvenimento, perché l’aveva sentito che lui voleva baciarla. E quella sensazione era bastata ad autorizzarla a pesare i gesti, le parole, gli sguardi.
Sapeva che nella sua testa si stava già organizzando il set del prossimo film romantico, ma questa volta non sarebbe arrivata alla fine delle riprese, perché era fottutamente terrorizzata dall’idea di soffrire per lui.
Prese un grande sospiro e si posò le mani fredde sul viso, sperando di svegliarsi da quello stato di trans in cui si sentiva, come se percepisse tutto troppo in ritardo.
Alla radio davano una canzone dei Maroon 5, ma la ascoltava poco dato il rumore del phon. Quando si fu vestita, andò al pc alla ricerca di una storia da leggere, magari avrebbe dirottato i suoi pensieri. Al primo titolo che le piacque, aprì la pagina e cominciò la lettura, ma inconsciamente diede a quei due protagonisti esattamente l’aspetto di qualcuno che conosceva.
Ci sarebbero voluti mesi, per farsela passare, ma confidava che anche lei avrebbe trovato una via d’uscita.
 
  • Ok, Ed, è un buon inizio. Buona la melodia, buone le parole, ma dobbiamo lavorarci parecchio. – il suo produttore aveva appena ascoltato quella strofa e quel ritornello che aveva scritto la sera prima.
  • Ok, ma- - fu interrotto bruscamente.
  • Ti aspetto in studio con la canzone completa, di modo da rivedere il testo.
  • Ma io non voglio rivedere il testo, George.
  • Suvvia, cambieremo solo qualche parolina! – odiava quel tono, si sentiva dato per scontato.
  • No, George. Non voglio cambiare il testo!
Non voleva cambiare neanche una sillaba di quella canzone, era perfetta già così. Non sarebbe stato lo stesso con una virgola spostata.
Dopo un attimo di silenzio, il produttore riprese la parola.
  • Facciamo così, Ed: tu torna qui il prima possibile e vedremo cosa si può fare.
Cosa credeva, di dargli la caramella prima della medicina?
  • No, George. Sono in vacanza, decido io quando tornare.
  • Ma-
  • E decido io cosa cantare. – doveva avere un’espressione davvero dura, perché né lui né J osarono fiatare. – Ci vediamo, buona giornata. – e chiuse il collegamento.
Non aveva mai risposto così male a quei due, ma stavolta non avrebbe ceduto a compromessi: innanzitutto avrebbe cantato la canzone così come l’avrebbe scritta, seconda cosa, non voleva andarsene. Aveva quei tre giorni per stare con lei e non li avrebbe scambiati nemmeno con una canzone già completa.
Riprese la chitarra e si sedette sul davanzale, l’agenda sulle ginocchia e la penna dietro l’orecchio. Il vento fresco lo aiutava a concentrarsi, mentre elaborava il testo della seconda strofa, anche se l’arrabbiatura gli faceva venir voglia di mollare la chitarra e andare a fare una passeggiata. A pause alterne scriveva e guardava gli aghi di pino agitarsi al vento, cercando di placare quel senso di inadeguatezza, di prigionia, che gli teneva il petto in una morsa. Voleva ubriacarsi e dimenticare tutto per un po’, magari quella sera potevano andare a ballare.
Continuava a parlare al plurale.
Alle 13:45 scese dal davanzale e si avviò alla sala da pranzo dell’hotel, per riempirsi la pancia.
Seduto al tavolo da solo, con un piatto di pasta davanti, pensava a cosa avrebbe fatto durante quegli ultimi giorni, con lei. Magari avrebbe potuto smontarle l’itinerario e portarla a divertirsi, magari ad una festa. Voleva andare a Sorrento, ma avrebbe conservato quella carta per sabato, poiché quando vide un’elegante signora passare in sala, ebbe un lampo di genio. Quella tempesta in cui navigavano le sue convinzioni stava per raggiungere il massimo della sua potenza, insieme a un direttamente proporzionale numero di danni.
Terminò il pasto e si diresse alla reception.
  • Mi scusi, vorrei sapere se è possibile prenotare un ristorante a Sorrento, per domani.
  • Certo, Signore. Per due, suppongo. – e lo vide annuire.
  • Voglio il meglio, mi raccomando. Voglio il miglior tavolo del miglior ristorante stellato di Sorrento.
  • Bene, glielo sto prenotando adesso. A nome?
  • Sheeran.
Gli mostrò lo schermo per assicurarsi di aver scritto bene quel cognome straniero.
  • Desidera altro, signor Sheeran?
  • Sì. – già si perdeva nelle sue fantasie. – Può indicarmi l’atelier di abiti da sera più vicino?
Pochi minuti dopo, era in sella alla sua moto diretto in un negozio del centro. Il navigatore lo guidò per le strade fino a via Roma, la strada in cui l’aveva incontrata. C’era poca gente per strada e l’aria cominciava a farsi troppo calda. Accostò la moto al marciapiede ed entrò all’interno dell’atelier, camminando a passo sicuro. Il corridoio d’ingresso era pieno di abiti da esposizione, protetti da una vetrata così lucida da potersi specchiare dentro. Il suo pallido riflesso gli mostrava l’immagine di un se stesso che non aveva mai visto. Quando oltrepassò l’arcata che conduceva al vero e proprio negozio, due signore anziane si voltarono e lo squadrarono dalla testa ai piedi. Ok, forse era strano vedere un tipo come lui, tatuato, barba incolta e casco a braccetto, all’interno di un atelier, doveva ammetterlo, ma le due vecchie avrebbero dovuto abituarsi alla sua presenza.
  • Mi dispiace, signore, siamo in chiusura. – disse una delle due.
  • Lo immaginavo, ma è un’emergenza.
Sentirono l’accento straniero nella sua voce e si chiesero chi fosse. La stessa signora guardò il suo orologio dorato e poi tornò con gli occhi su di lui, pensando che l’emergenza da affrontare fossero le scarpe rosse di quel ragazzo.
  • Se ci concede il tempo di pranzare, saremo subito da lei. – disse infine.
  • Va bene, offro io, ma dovete aiutarmi subito. Avete molto lavoro.
Dieci minuti dopo, il bancone di cristallo sosteneva due vassoi di rustici, messi lì per il nutrimento delle vecchie, che ora lo ascoltavano con le orecchie bene aperte.
  • Allora, giovanotto, cosa le serve di così urgente?
  • Un abito. Il più bello che avete.
  • Se vuole posso mostrarle qualcosa, ma che tipo di abito?
  • È per una cena nel miglior ristorante di Sorrento, ma voglio che sia davvero elegante. È per questa ragazza. – disse, mostrando alla vecchia una foto di Sara, in piedi a Piazza del Plebiscito. – Deve essere elegante, ma semplice. Un abito da regina.
La vecchia lo guardava dritto negli occhi, cercando di immaginare questa ragazza.
  • Mi segua.
Ed le corse dietro nel retro del negozio, attraverso immense file di abiti di ogni tipo.
  • Com’è lei? – disse d’un tratto la vecchia.
  • Lei è alta poco meno di me, magra, slanciata, spalle un po’ larghe. Capelli scuri e corti. Occhi azzurri. Bellissima.
  • Intendevo come persona. – e rise, guardandolo arrossire. – Che abito le vedresti indosso?
  • Un abito blu.
La signora gli mostrò tutti gli abiti blu che aveva in negozio, ma nessuno lo convinse se non l’ultimo. Un abito lungo, blu notte. La prima cosa che gli venne in mente fu il perfetto abbinamento che avrebbe fatto con i suoi occhi. Sperò solo che la taglia fosse quella giusta, ma il ricordo tattile delle sue mani sui fianchi di lei gli suggeriva di si.
Adesso toccava a lui. Non aveva infilato in valigia abiti eleganti, quindi pregò la vecchia di provvedere.
In piedi su uno sgabello, le due vecchie gli prendevano le misure per la sua futura giacca, terrorizzandolo ogni volta che infilavano uno spillo nella stoffa.
  • Signore, se continua a muoversi finirò per pungerla davvero.
Era già la terza volta che veniva rimproverato, ma tenne la bocca chiusa.
Mentre stava fermo lì e canticchiava, una ragazza entrò nel negozio.
  • Ciao nonna!
E poi lo vide. Strabuzzò gli occhi scuri ed urlò il suo nome, facendogli strizzare gli occhi per i troppi decibel. La vecchia sgridò la nipote, rimproverandola di essere impazzita ad urlare in quel modo, ma lei cominciò ad indicarlo col dito cercando di spiegare alla nonna che quel ragazzo era Ed Sheeran, un cantante famoso. La vecchia lo guardò, ma passò sopra la notizia continuando a lavorare. Lo sguardo d’intesa che si scambiarono fu davvero significativo, quella vecchia era una forza. Gli aveva letto dentro come si guarda in un bicchiere d’acqua.
  • Per favore, non dire a nessuno che sono qui.
La ragazza non rispose, elaborando quella presenza nel negozio di sua nonna. Ed pensò che grazie alla vecchia la ragazza non gli avrebbe causato problemi, ma - ovviamente - si sbagliava.
La mente della bionda stava già elaborando un piano, il cui disegno si completò quando vide l’abito blu appeso alla stampella. Ed Sheeran stava portando qualcuno a cena? A un evento? Ovunque fosse andato, avrebbe fatto in modo che il negozio, che un giorno sarebbe stato suo, diventasse famoso. Prese il telefono dalla sua borsa firmata Prada e chiamò un numero in particolare.
  • Pronto. Ho un favore da chiederti.
Mentre la vecchia tornava da una stanza a lui ignota, con la giacca e i pantaloni tra le mani, lui tirava fuori la carta di credito dal portafogli.
  • Dovete spedire gli abiti al Grand Hotel Excelsior di Sorrento, mi servono per domani. – disse digitando il codice. – La ringrazio per tutto, signora.
  • Grazie a lei per averci scelto. E in bocca al lupo.
La fissò per qualche secondo. Aveva un’espressione così benevola e affettuosa che gli ricordò sua nonna. Sorrise al pensiero di aver conosciuto qualcuno così gentile e affettuoso. La baciò sulle guancie, imitandola, poi sorrise e andò via. Ora doveva solo avvertire l’hotel e ogni cosa sarebbe stata al suo posto.
 
L’ultima volta che lo aveva sentito, risaliva alla sera prima, quando lo aveva salutato. Non aveva avuto più sue notizie e lei aveva finito di leggere già tre storie. Si alzò dalla sedia, stirandosi i muscoli. Si guardò allo specchio per constatare le condizioni in cui versava e non era un bello spettacolo. Mentre si sistemava i capelli con le dita, il suo cellulare vibrò.
Un messaggio.
 | Sei Sara o mi hai dato un numero falso? |
Sorrise, non riuscì in alcun modo a trattenersi. Con le dita tremanti, rispose.
| Sono io, Sheeran. |
Già trepidava nell’attesa della sua risposta. Si sedette sulla sedia dell’Ikea, davanti alla scrivania, fissando lo schermo. Non appena vibrò, aguzzò gli occhi per leggere.
| Chiamami Ed. Hai da fare stasera? |
Se aveva da fare? Era già da un paio d’ore che pensava di optare per il nulla più totale, non sapeva se avrebbe avuto tempo per lui.
| No. |
La risposta fu così veloce che pensò che avesse quel messaggio già pronto.
| Allora vengo a prenderti alle 8:30 p. m. . Indossa quello che vuoi. |
Il solo pensiero di rivederlo la fece surriscaldare. Dove l’avrebbe mai portata stavolta, su quella moto? Rise di se stessa quando si scoprì nel panico non sapendo cosa indossare.
Eh vabbè, erano solo le 17.30, aveva tutto il tempo per provare tutto ciò che aveva nell’armadio.
Un’ora e mezza dopo il suo piccolo armadio era vuoto e il suo letto ospitava tutti i vestiti che possedeva. Già sapeva in cuor suo che alla fine non avrebbe scelto niente di particolare, altrimenti si sarebbe sentita a disagio. E poi, con uno come lui si sarebbe sentita fuori luogo indossando qualcosa di elegante. Quindi, tornò sulla sua prima scelta e dopo un’ulteriore e lunga riflessione, indossò un banale abitino nero a giro maniche, con la gonna a ruota.
Mise alle orecchie i suoi orecchini preferiti e al piede delle ballerine rosse. Mbè? Erano comode.
Trafficava per casa alla ricerca non sapeva di cosa, da quando Ed le aveva scritto, il suo cervello era andato in tilt, non riusciva più ad essere razionale. Dopo una giornata di meditazione erano questi i risultati? Bene. Faceva progressi.
Stai calma – si ripeteva – Ti comporti come se fosse il tuo primo appuntamento col principe azzurro. Ed non è il tuo principe azzurro. – ma ottenne scarsi risultati.
Dovette applicare l’eyeliner per ben tre volte, poiché era così agitata e distratta che ogni volta combinava un pasticcio. Infilò le sue cose nella borsa di cuoio, tirò fuori dall’armadio un vecchio giubbino di jeans e guardò l’orologio.
Che stupida. Erano ancora le 20:00 e non aveva altro da fare se non riordinare la sua stanza. Usò saggiamente quel tempo e quell’attività per farsi un lavaggio del cervello, non poteva uscire da quella porta in quello stato di confusione. Avrebbe finito per fare qualcosa di sciocco.
Trascorse la mezz’ora seguente continuando a ripetersi che aveva messo le cose in chiaro con Ed e lui non si sarebbe avvicinato più a lei, perché non andava bene comportarsi così nei suoi confronti, non poteva giocare con i suoi sentimenti, perché poi lui sarebbe andato via e l’avrebbe dimenticata e non voleva essere il suo capriccio, il suo passatempo, non voleva soffrire e non voleva ricordare e non voleva rischiare e…
E quando vide i suoi occhi fuoriuscire dal casco, vi lesse dentro un tale tempesta che dimenticò ogni parola.

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Capitolo 14
*** Quinto Giorno - Pt II ***





Quinto Giorno - II

Era questo che significava avere le farfalle nello stomaco? Era questo che si provava nelle sere d’estate? Sentiva il corpo debole alla sua vista, il sangue gli ribolliva nelle vene, bruciandogli la pelle. Incrociò il suo sguardo traboccante, senza riuscire a capire se fosse freddo o silenziosamente agitato quanto il suo, ma vi si perse dentro senza indugio.
  • Ciao. – parlò per primo.
  • Ciao.
Aveva aperto il sellino della moto in modo così automatico che nemmeno se ne era reso conto ed ora stava aggirando il veicolo, per andare da lei. La mattina del giorno precedente non aveva osato muovere un passo nella sua direzione, invece in quel momento sentiva il bisogno di starle vicino ed il casco era il suo tramite di contatto. Le loro mani non si sfiorarono, ma non faceva niente: quella serata doveva ancora cominciare. Sorrise lievemente prima di nascondere di nuovo il viso nel casco nero, forse per nascondere l’imbarazzo. Non aggiunse una parola, si limitò a montare in sella mettendo in moto, quello era il suo invito a raggiungerlo. Sara, dal canto suo, cercava in tutti i modi di non mostrare debolezze, dovette quindi sforzarsi di muovere un muscolo. Camminava verso la moto come si va al patibolo, dritta verso la sua condanna, senza esclusione di colpi. Montò sul sellino e sistemò la gonna, altrimenti tutto il mondo avrebbe visto la sua biancheria intima, ma esitò anche solo a sfiorarlo.
Non poteva ritrarsi ancora a lungo, doveva comportarsi in modo naturale, altrimenti…
Non appena ebbe allacciato le braccia intorno alla vita di Ed, lui cacciò fuori tutta l’aria che inconsciamente stava trattenendo, rilassando l’addome. Chiuse gli occhi per un secondo, sentendo quel contatto con ogni parte di sé, mentre si rendeva conto di una cosa in particolare: al suo tocco, si sentiva forte come mai gli era capitato. Invincibile.
Diede gas alla moto e partì. Quando varcarono il casello autostradale Sara moriva dalla voglia di chiedergli dove mai fossero diretti, ma non riuscì neanche ad aprire la bocca, tanta era la tensione. L’aria le tagliava le gambe, ma era una debole sensazione rispetto a quella del suo cuore che martellava insistente nel petto. Pregò che lui non lo sentisse sulla schiena.
Alla fine di quel lungo tragitto, presero l’uscita che portava al centro storico di Napoli. Sara si guardava intorno, riconoscendo di tanto in tanto qualche strada, ma non aveva la più pallida idea di quale potesse essere la loro meta. Entrarono in un parcheggio custodito 24h e si fermarono. Le dita sottili gli scorrevano lungo i fianchi, facendolo rabbrividire, mentre lei scioglieva le braccia da quella presa. Entrambi sfilarono i caschi e si sentirono scoperti, ma il silenzio era interrotto dal rumore di auto e chiavi che trafficavano nel parcheggio. Camminarono in silenzio fino all’uscita, lasciando il secondo casco in custodia al guardiano e non appena furono fuori, Sara riconobbe Piazza del Gesù, col suo grande obelisco illuminato. Ragazzi e ragazze brulicavano in piazza e il vociare si concentrava all’ingresso dei locali.
  • Perché siamo qui? – chiese, ormai troppo curiosa.
  • Vedrai. – rispose lui, senza guardarla.
Il suo sguardo era rivolto allo schermo del suo cellulare, che gli mostrava il tragitto da percorrere a piedi fino alla meta. Erano solo 300 metri.
  • Seguimi. – e fece il primo passo, poi riprese a parlare. – Stamattina ho parlato col mio produttore.
  • Com’è andata? – disse lei guardando dritto dinanzi a sé.
  • Gli ho risposto male. Voleva cambiare le parole della canzone, ma io non voglio.
  • E ora non sei nei guai?
  • No. E sai perché?
Lo guardò con sguardo interrogativo.
  • Perché loro hanno bisogno di me, non io di loro.
Rise, poiché nella sua testa era partita quella canzone che sapevano entrambi e lui cominciò a canticchiarla a bassa voce, scimmiottando se stesso in versione rapper.
Era quello l’Ed che voleva guardare, l’autoironico e piacevole Ed.
Camminavano fianco a fianco per via San Biagio dei Librai, nella storia di Napoli, attratti dai profumi delle vetrine e dai musicisti che coinvolgevano i passanti in balli e canzoni. E questo succede davvero, credetemi.
Per un attimo Sara fu tentata di unirsi a un vecchio signore in una tarantella, ma Ed si diresse dal lato opposto della strada, probabilmente alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Si portò una mano al viso ridendo della visione che aveva davanti: Ed stava tornando indietro con un carico di frittelle e panzarotti da fare invidia a ciò che era rimasto nella vetrina della pizzeria.
  • Non ridere di me! Lo sai che ho fame! – disse lui, accusandola scherzosamente di deriderlo.
Lei non si trattenne e gli mostrò tutti i denti che aveva, ma lentamente la risata sfiorì. Passeggiando lungo la strada, il livello delle frittelle calò velocemente, annullando qualsiasi discorso. Spesso i loro sguardi si incrociavano ed uno dei due finiva sempre per far sorridere l’altro.
  • Cos’hai fatto oggi? – disse lui, d’un tratto. Era da quella mattina che voleva saperlo.
  • Io… - “Ho cercato di autoconvincermi che sei uno stronzo” - …mi sono rilassata.
  • Ah, e così senza di me tra i piedi hai potuto riposare. – rispose, canzonandola.
  • Esatto. Ho fatto un lungo bagno, ho letto… - ironizzò lei.
  • Mi dispiace di aver interrotto il tuo idillio. Forse era meglio lasciarti a casa.
  • Ehi!
E gli mollò il solito cazzotto sul braccio, facendolo sbandare. Le sue labbra si incresparono in un broncio infantile, mentre lui continuava a sghignazzare. La conversazione si mantenne attiva fino a che il navigatore impostato da Ed li interruppe, annunciando a entrambi di essere arrivati a destinazione. La voce metallica fu interrotta da un movimento del dito di Ed.
Si trovavano in una delle minuscole traverse del centro storico in cui erano concentrati una serie di minuscoli localini e bar, di solito tremendamente affollati, ma per fortuna era venerdì e non c’era la marmaglia di gente che di solito bloccava il passaggio. D’altronde era ancora periodo d’esami e la maggior parte degli studenti restò a casa in quel venerdì di Luglio.
Sara spostò gli occhi sull’insegna rossa a neon che svettava sulla sua testa, recitando nella sua mente le parole “Swinging Blues”. Una canzone che conosceva proveniva dal suo interno buio ed era un classico degli anni 80. Guardò Ed più confusa di prima quando lo vide tirare fuori dalla tasca dei pantaloni due biglietti gialli.
  • Mi hai portato ad una festa? – Fece lei, senza capire quale fosse l’emozione giusta da provare.
  • Ti ho portato a ballare! – sorrise lui.
  • Spero che non sia musica house, potrei ucciderti.
  • Sta tranquilla. Ti divertirai.
L’omone all’ingresso prese i loro biglietti e li lasciò passare. Ed fece i primi due passi oltre l’arco della porta, ma senza Sara che era rimasta bloccata sul posto, confusa da quella situazione. Quando vide che Ed la guardava con sguardo interrogativo, parlò.
  • Ma a te non piace ballare!
Tornò silenziosamente indietro, con un’espressione indecifrabile sul viso e la prese per mano. Intrecciò le dita nelle sue e la trascinò dentro.
La sala era già gremita di gente, ma pochi ballavano. Forse la festa doveva ancora iniziare.
  • Come hai fatto ad avere i biglietti? – urlò, per sopraffare la musica.
  • Ho i miei mezzi. – disse lui facendole l’occhiolino.
Sorrise della sua presunzione e diede il suo giubbino di jeans al tizio dei cappotti, come lo chiamava lei, prendendo dalle sue mani il numeretto. Si addentrarono nella stanza fino al bancone del bar dove, senza chiederle niente, Ed chiese due birre di cui non capì il nome.
  • Voglio vedere se indovino i tuoi gusti.
Si vide arrivare tra le mani una Corona sale e limone. C’era quasi, il ragazzo, bel colpo.
Brindarono a quel venerdì di litigi e relax per poi guardarsi intorno. Il DJ stava salendo alla sua postazione, con un paio di cuffie enormi intorno al collo.
  • Come hai trovato questo posto? Che festa è?
  • L’ho trovato su internet. È un posto in cui mettono qualsiasi tipo di musica. – disse indicando l’enorme scritta dipinta sul muro.
Music has no gender.
Mentre stava per rispondergli, il dj cominciò a parlare, aprendo le danze. Ed era già in piedi, una mano in tasca e la birra già mezza vuota.
La guardava fisso, con un lieve sorriso sul volto e un sopracciglio alzato. La stava forse invitando a ballare? Sorrise, quando tirò fuori la mano dalla tasca e gliela porse, da vero galantuomo.
  • Shall we dance?
Per una frazione di secondo, la mente di Sara tornò a quel pomeriggio di riflessione, riascoltando la sua voce nella sua testa, ma non capì cosa fosse davvero ad impedirle di prendere la mano di quel ragazzo. Erà lì, davanti a lei, nella sua t-shirt nera con la mano tesa. Poteva mai rinunciare?
Quando i Kool & the Gang cominciarono a cantare, fece scivolare la mano nella sua e lo seguì al centro della pista. Cercò di inserirsi nel ritmo di quella gente che già ballava, lasciandosi andare a quel pezzo con cui suo padre l’aveva cresciuta. Era curiosa di vedere Ed ballare. Si muovevano insieme a debita distanza l’uno dall’altra, ma all’ultimo sorso di birra avevano già dimenticato tutto. Ben presto la musica cambiò, introducendo uno swing che fece impazzire l’intera sala. Si scatenarono, trascinati da quella gente e ben presto Ed la prese per mano per ballare insieme a lei. La gonna di lei le danzava attorno ai fianchi, lasciandogli intravedere le sue gambe.
Mettevano davvero di tutto in quel posto, tant’è che si ritrovarono a ballare Gangnam Style, Stevie Wonder, i Backstreet Boys addirittura. Erano quelle le feste che le piacevano: niente tunz tunz, solo e soltanto musica. Certo, non mancarono di mandare qualche tormentone come Danza Kuduro e i featuring di Pitbull, dei classici estivi su cui non potevi non muoverti.
Ed accorciava le distanze ad ogni cambio di canzone, approfittando di una bachata per attaccarsi a lei definitivamente. Conscio della sua incapacità di ballare, rise con lei delle assurde mosse che la costringeva a fare, facendola roteare sul posto per troppe volte di seguito. Come aveva immaginato, Sara andò a sbattere contro qualcuno, così si girò immediatamente per chiedere scusa al malcapitato, ma si ritrovò davanti qualcuno che conosceva.
Ed smise di sorridere vedendola immobile davanti a quel ragazzo, ma non si mosse mentre la musica continuava a battere sulle pareti. Un ragazzo dai capelli e occhi scuri la guardava, sorridendo in un modo poco rassicurante.
  • Angelo.
Lo conosceva, ma questo non servì a renderlo tranquillo.
  • Sara. Come mai da queste parti? Non eri fidanzata?
Fidanzata?
  • Che c’è, non posso nemmeno venire a ballare?
  • Certo che puoi, mi chiedevo solo dove fosse il tuo ragazzo.
  • Eccolo!
Indicò Ed col dito, pregando che lui non lo riconoscesse. Stava rischiando grosso e si stava mettendo nei guai, ma per fortuna Ed le resse il gioco, avvicinandosi.
Angelo squadrò Ed dalla testa ai piedi e poi lo salutò con un cenno della mano.
  • Pensi di darmela a bere? – disse lui, facendole gelare il sangue.
Lei aggrottò lo sguardo, sfidandolo a continuare quel discorso.
  • Hai cercato di ingannarmi per non essere più cercata? – continuò, allargando le braccia e avvicinandosi a lei.
Sara stava ferma al suo posto, a testa alta, pronta ad affrontarlo.
  • Sara, chi è? – disse poi Ed, richiamando la sua attenzione.
  • È il mio ex. – disse lei, senza riuscire a guardarlo negli occhi.
  • Già, sono il suo ex. E tu cosa sei? – fece quello. – Il suo nuovo giocattolo?
Sara non ci vide più, stava per spingerlo via, ma Ed intervenne al suo posto.
  • Senti, cosa vuoi? Se hai un problema, parlane con me.
Si parò davanti a lei, nascondendola alla sua vista.
Angelo non rispose subito.
  • Non ci credo manco morto che sei il suo ragazzo. Vuole solo avere una scusa affinchè io non la cerchi. – disse, guardando lo sguardo scuro di Sara dietro le spalle di Ed. – So distinguere una coppia di fidanzati da una coppia di amici e voi siete amici.
Ci aveva visto giusto, il ragazzo, ma non la ebbe vinta.
  • Credi pure ciò che vuoi – disse, circondando le spalle di Sara col suo braccio. – Qualche altra domanda?
Angelo alzò una mano in aria, chiudendo il discorso. Li salutò con una specie di avvertimento.
  • Ti tengo d’occhio, piccolina. Come sempre.
Ed guardò quel tipo strano dall’altro dei suoi centimetri in più, incazzato abbastanza da mollargli un pugno, ma rimase immobile. Era meglio evitare.
Quando Angelo si fu allontanato, trascinò Sara verso il bancone, mentre il dj cambiava di nuovo canzone.
Ordinò altre due birre e si sedette sullo sgabello insieme a lei.
  • Mi dispiace. – cominciò lei. – Non volevo coinvolgerti, ma…
  • Quel tipo ti da fastidio?
  • Sì. – fece un sospiro – Mi tormenta da quando l’ho lasciato. Mi cerca con mille scuse, mi segue. A volte è inquietante.
  • Perché non credeva che io fossi il tuo fidanzato?
  • Perché anche lui è di Torre del Greco e se fossi stata impegnata con qualcuno, lo avrebbe saputo. Tutti i ragazzi con cui ho avuto un contatto, dopo qualche giorno sparivano.
Ed la guardò turbato, immaginandola sola alla mercè di quel tipo inquietante.
  • Scusa se ti ho coinvolto. Non volevo crearti problemi.
  • Lo so. Tranquilla. Hai fatto bene a mettermi in mezzo, non ti avrei lasciata sola comunque.
  • Grazie, ma non servirà a molto. Lui scoprirà che non sei il mio ragazzo e tornerà a tormentarmi.
Ed prese un sorso di birra fredda, togliendosi quella secchezza dalla gola.
  • Possiamo sempre ingannarlo.
Sara lo guardò, cercando di leggere le sue intenzioni nelle sue parole, ma il suo sguardo doveva parlare per lei, poiché Ed riprese a parlare.
  • Ha detto che si capisce che siamo solo amici, allora facciamogli credere il contrario!
  • Come?
  • Ti fidi di me?
Per un attimo non seppe cosa rispondere. La sera precedente avrebbe risposto di no, ma la sua risposta era cambiata. Annuì silenziosamente.
  • Mi lascerai fare, senza ribellarti?
Non aveva scelta, annuì di nuovo.
E lui sorrise.
La prima cosa che fece fu prenderla per mano per portarla in pista. Individuò Angelo tra la folla, curandosi di essere a portata del suo sguardo e cominciò a ballare con lei.
I know you want me, Pitbull, estate 2009. Una marea di ricordi le presero la mente mentre la birra le scendeva in gola, ma – ancora una volta – la visione di Ed che si avvicinava a lei annullò ogni cosa. Le sue spalle – sempre quelle spalle – ondeggiavano verso di lei, mentre la mano di Ed scivolava lentamente dal suo palmo alla sua spalla e dalla sua spalla ai suoi fianchi.
Sara sentiva i muscoli intirizzirsi, quasi divenne una tavola a causa di quella improvvisa e seria vicinanza.
  • Ma come? Questa è la tua recitazione? – la istigò – Sembra che tu stia ballando con mio nonno.
Lei non rispose, si limitò a fulminarlo con lo sguardo.
  • Non lo convincerai mai se balli un lento su una canzone da discoteca, mentre sei col tuo “ragazzo”. Se invece vieni qui… - e la tirò a sé, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo, sovrastandola. - …magari qualcuno comincia a crederci.
Non ribellarti – aggiunse a bassa voce. Si sforzò di non essere una tavola, ma era così tesa. Lo sentiva troppo vicino e non era abbastanza brilla da scatenarsi come avrebbe fatto in un’altra situazione. Poi lui, prendendo prima un respiro nel suo profumo, alzò il capo e sorridendo le disse:
  • Sei peggio di una tavola da stiro ed io sarei quello che non sa ballare.
E va bene. E va bene! Non avrebbe fatto la figura dell’idiota con Angelo e tanto meno con lo sbruffone che aveva davanti. Prese un lungo sorso dalla bottiglia e quando il dj alzò ulteriormente il volume sul ritornello, lo guardò e si intesero perfettamente. Ed la avvicinò di nuovo e ballarono. Ballarono davvero.
Faccia a faccia, le loro gambe si incastrarono perfettamente e Sara portò la mano sulla sua nuca, mentre col l’altra reggeva la birra. Le mani di Ed, liberatesi dagli impedimenti, si poggiarono sui suoi fianchi con una forza tale da farla quasi sospirare. Stava ballando il quel modo con Ed, lo stava facendo davvero. I loro bacini si sfioravano mentre seguivano lo stesso ritmo e quando la canzone cambiò, la fece voltare e la circondò con le braccia. La sua bocca sfiorava la curva del suo collo, le sue mani le carezzavano il ventre morbido, le braccia di lei in alto a circondare il suo collo, i loro bacini ormai in contatto.
Per qualche minuto sembrò che ogni cosa andasse al rallentatore, non esisteva più la festa, c’erano soltanto loro e la musica. Ed alzò lo sguardo e cercando di non farsi distrarre troppo da quel corpo e quella scollatura, cercò Angelo con lo sguardo. Lo incrociò immediatamente e gli sorrise con un’espressione talmente soddisfatta che fu sicuro che quella che aveva letto negli occhi di lui fosse rabbia.
Tornò a concentrarsi sui fianchi ondeggianti di lei, ma la musica andò a sfumare lentamente per lasciar cominciare un altro brano. Un brano che conosceva molto bene.
It’s late in evening, glass on the side now. 
I’ve been sat with you for most of the night…
La folla urlò e Sara si girò esterrefatta dalla scelta del dj, lo strattonò quasi saltellando sul posto. In quel momento Ed sorrise sinceramente, come mai prima di allora. Leggere quella sua espressione lo riempì di soddisfazione. E quando lei cominciò a cantare, lui la seguì, prendendola per le mani.
Ignoring everybody here, we wish they would disappear so maybe we could get down, now. I don’t wanna know if you’re getting ahead of the program…
  • I want you to be mine, lady. To hold your body close…
Le sussurrò mentre danzavano scioccamente nella classica posizione da valzer, ma lei – non seppe come – non si tirò indietro nel cantare quella frase insieme a lui, tuttavia rimase ammutolita quando, pochi secondi dopo, lui le cantava all’orecchio:
  • If you love me, come on, get involved. Feel it rushing through you, from your head to toe. Oooooh. – e mentre pronunciava quelle parole lasciava scivolare la mano lungo la sua schiena, facendola rabbrividire.
Se fosse stato per lui, a quell’ora sarebbero già nella sua stanza, sul suo letto. Riusciva a sentire il battito del suo cuore nelle orecchie mentre lei riprendeva a cantare, senza staccarsi da lui. Si capirono al volo, non ci fu bisogno di altre parole. Persino Sara, ormai, non pensava più. Quel momento l’aveva completamente avvolta, non esistevano più perdite o vincite, esisteva solo la mano di Ed sulla sua schiena. Non le importava più di niente.
Ballarono senza sosta e una birra dopo l’altra le loro fronti erano sempre più vicine, i loro respiri più pesanti, le mani più audaci correvano sotto la gonna ed avevano sete.
Le loro labbra si cercarono più volte, con gli occhi chiusi, ma c’era sempre qualcosa che gli impediva di incontrarsi. C’era una certa sofferenza dipinta sui loro volti, nelle pieghe delle loro espressioni. Quel loro addio così imminente era lì che ballava in mezzo a loro, nel poco spazio che era rimasto.
Angelo andò via quando ormai erano le 4, ma loro nemmeno se ne accorsero, troppo accelerati dalla musica. Il dj annunciò la fine della festa un’ora dopo e loro si separarono, data l’assenza di musica. Ansimanti, si diressero verso i bagni e sciolsero senza timidezza le loro mani. Sara sparì nel bagno delle donne per il successivo quarto d’ora e lui l’aspettò pazientemente seduto su una sedia.
Quando riapparve alla sua vista, si alzò, le porse il giubbotto e senza timore la circondò con un braccio. Uscirono dal locale stanchi e sudati, ma l’adrenalina li teneva ancora svegli, anche se per diversi minuti nessuno di loro osò fiatare.
Entrambi stavano metabolizzando gli eventi e le sensazioni di quella serata, ma non erano abbastanza lucidi da poter mettere da parte la frenesia e riflettere seriamente. Erano entrati in un limbo isolato, in cui nulla aveva valore o morale. Passeggiarono a lungo, canzonandosi a vicenda per le figuracce e le battute. Ed non riusciva in alcun modo a lasciarle la mano, come se qualcuno le avesse incollate palmo a palmo, doveva continuare a sentire quelle dita sottili tra le sue o per lui sarebbe stata la fine. Aveva già dimenticato tutti i piani che aveva per quel sabato, riusciva a tenere a mente soltanto la sensazione che il corpo di lei gli aveva lasciato addosso. Non era ancora in grado di guidare, quindi si accomodarono in un bar ed ordinarono due caffè forti, sperando che li aiutassero a smaltire l’alcool. Con le tazzine vuote e un pizzico di lucidità, aprirono il discorso “partenza”. In realtà nessuno dei due voleva parlarne, ma prima o poi avrebbero dovuto.
  • A che ora decolli?
  • Alle 12:00 lascerò il suolo italiano. Mi accompagnerai all’aeroporto? – le chiese, carezzandole il dorso della mano col pollice.
Lei, stretta nel suo giubbotto leggero, annuì sorridendo teneramente.
  • Grazie. – un attimo di silenzio – Cosa farai…quando sarò andato via?
  • Partirò. Andrò in Calabria, nel solito campeggio, dai soliti amici. – il solo pensiero di tornarci la rendeva felice, ma… - Peccato che non potrò parlare di te a nessuno. – disse, abbassando lo sguardo.
  • Lo stesso vale per me – le assicurò, stringendole ulteriormente la mano. – Quegli altri non sapranno mai cosa si perdono.
Sorrisero, entrambi.
  • Pensi che tornerai mai in Italia? – lo chiese placidamente, senza messaggi nascosti tra le righe.
  • Io spero di tornare presto – e la guardò. – Prima dovrò lavorare sul singolo, poi sull’album e poi sul tour, quindi…non so quando tornerò.
  • Già.
Ed le stava dicendo una pungente verità, di cui lui stesso doveva rendersi consapevole. Sarebbe andato via e ne avrebbe pagato il prezzo, ma non poteva tirarsi indietro e non aveva una soluzione.
Sara si ripeteva quelle parole nella mente per auto-indottrinarsi, ma ciò non la distolse dallo stringere la mano di Ed. Sapeva che sarebbe arrivata a quel punto, sapeva che avrebbe ascoltato quelle parole e già adesso temeva per il suo cuore come per quello di lui.
Si piacevano, era evidente, ma quel sentimento appena nato era qualcosa di impossibile.
Quando fu in grado di guidare, Ed la riaccompagnò a casa, pregandola di farsi trovare pronta per le 12, non importava quanto sonno avrebbe avuto.
E lei giurò che il sonno era l’ultima sua preoccupazione. Quando gli passò il casco nero, lui lo ripose nel sellino e poi si avvicinò a lei.
  • Buonanotte. – disse. – A domani.
  • A domani, Ed.
Le sue dita calde le carezzavano la guancia in silenzio, poiché non sapeva assolutamente cosa dirle. Aveva mille promesse in testa, ma ne andava del futuro e della libertà di entrambi. Non erano dei ragazzini. Si fece passare quella voglia di abbracciarla, perché sapeva che distaccarsi sarebbe stato doloroso, così allungò solo il collo verso di lei e la baciò sulla guancia rosa.
Entrambi chiusero gli occhi a quel dolce contatto, assaporando quella stilla di dolore che già riuscivano a sentire.
Sara carezzò con la mano la sua barba, lo guardò ancora e lentamente si allontanò per andare via.
Doveva avere un’espressione terribile, sentiva che stava per piangere, così si voltò ed oltrepassò il cancello.
Ed pensò che il suo cuore stesse per spezzarsi.




Angolo autrice:

Ciao lettori!
Grazie per le numerosissime visite, non sapete quanto mi rendano felice!
Cosa pensate di questi ultimi avvenimenti? Mi auguro che la storia non risulti troppo scontata e nel caso lo fosse, fatemelo sapere. :)
Vi lascio le immagini di Piazza del Gesù e di una strada di Napoli che possa darvi l'idea di via San Biagio dei Librai, in pieno centro storico. Purtroppo non ho trovato una foto soddisfacente, ma è giusto per farvi un'idea. :)

  

Spero di leggere qualche recensione, mi piacerebbe sapere cosa pensate. Consigli, critiche, opinioni sono sempre graditissime.
Alla prossima. :)

 

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Capitolo 15
*** Sesto Giorno - Pt I ***




Sesto Giorno - I
 
  • Ma ti sembra l’ora di tornare a casa?
Sua madre era furiosa. Le avrebbe detto che quella casa non era un albergo e lei non era la sua cameriera, già lo sapeva, così fece finta di ascoltare.
  • Non mi interessa se si tratta di Ed Sheeran o di Gesù, devi tornare a casa ad un orario decente. Vivi sotto il mio tetto e anche sotto le mie regole.
Non aveva idea di cosa le stesse accadendo. Non riusciva a spiegarglielo.
Davanti a quel caffè sperava che chiudesse presto quella bocca, perché se non l’avesse fatto il suo umore sarebbe precipitato e sarebbe scoppiata come una bomba ad orologeria.
  • Mamma! – urlò, facendola ammutolire. – Non sapevo nemmeno dove ero diretta, come facevo a sapere a che ora sarei tornata?
La sua voce si incrinò pesantemente, era sull’orlo del pianto. Le labbra tremule sbiancarono.
  • Non so cosa stai facendo, ma farai meglio ad usare la testa.
Già. Ci aveva provato. Ma lei non lo sapeva. Si alzò dal tavolo con una lacrima in mostra sulla guancia destra, riuscendo finalmente ad ammutolire sua madre. Sapeva che non l’avrebbe capita, a che serviva parlare?
  • Dove stai andando? – disse la donna con le braccia incrociate.
  • Tra 20 minuti esco e non chiedermi dove vado, Ed ha detto che è una sorpresa. Non so a che ora tornerò, probabilmente molto tardi.
  • Abbi almeno la decenza di farmi una telefonata.
Chiuse la porta dietro di sé e la lasciò finalmente sola. Sua madre sapeva che non aveva il controllo della sua vita e questo la rendeva ancora più instabile, ma lei non poteva essere la sua valvola di sfogo. Era sveglia da un’ora e quello era il primo attimo di silenzio che riusciva a godersi. Non che la sua mente fosse tranquilla, ma era una voce in meno.
Aveva scelto lei di non dargli buca, quindi ora doveva viverla come veniva. Parliamoci chiaro, lei voleva stare con lui il più possibile, ma avrebbe preferito non versare lacrime.
Sperò di non piangere più, altrimenti il mascara che aveva appena messo si sarebbe sciolto ancora prima di uscire di casa.
Il suo cellulare vibrò.
| Sono qui fuori, ti aspetto. |
Era in anticipo, ma andava bene così. Doveva scappare da quella casa il prima possibile. Si guardò allo specchio un’ultima volta, desiderando essere più bella ed avere vestiti più belli di quel pantaloncino nero e di quella canotta con su scritto “Adventure”. Afferrò il giubbino di jeans e la borsa e senza salutare nessuno, andò via.
Era una bella giornata, non c’era nemmeno una nuvoletta bianca in cielo.
Ed Sheeran continuava ad essere fortunato.
 
Era in anticipo di 10 minuti, ma ormai aveva rinunciato al sonno.
Appena sveglio, aveva chiamato l’hotel per riconfermare tutto e assicurarsi che gli abiti fossero sotto la loro custodia. Andava tutto bene.
Il sole scottava parecchio, probabilmente sarebbe stata una serata particolarmente calda, ma tanto meglio date le sue intenzioni.
Fissava da lontano il cancello marrone, attendendo che lei comparisse e quando meno se lo aspettava, eccola lì. I capelli arruffati, le guance rosee e gli occhiali da sole.
Camminava in modo disinvolto verso di lui, riponendo le chiavi nella borsa. Quando gli fu davanti non trattenne un sorriso, che vide spuntare anche sul suo volto.
  • So che avresti voluto dormire, ma oggi è un grande giorno. Sei pronta? – disse, sinceramente emozionato per quella giornata insieme.
  • Buongiorno anche a te. – disse di rimando. – Beh, sempre meglio che stare a casa a cercare di far calmare mia madre.
  • Oh. – A volte dimenticava che lei vivesse con i genitori. – Mi dispiace averti causato problemi.
  • Non fa niente. – rispose, guardando altrove.
Con quegli occhiali non riusciva a guardarla negli occhi. Allungò le mani al suo viso e glieli sfilò. Aveva gli occhi arrossati.
  • Oggi ti farò dimenticare tutto, te lo prometto. E guardami! – la rimproverò, così lei riportò l’attenzione ai suoi occhi chiari.
  • Ti guardo, Ed. – Non aveva una bella cera.
  • Dimmi che vuoi stare con me, oggi. – C’era quasi una supplica nel suo tono di voce.
Sentì di nuovo le lacrime salirle agli occhi, ma le scacciò via con tutta la forza di volontà che aveva.
  • Certo. Certo che voglio stare con te, Ed.
  • Bene, perché io ho una voglia matta di farti sorridere.
Gli diede un pugno sul petto, sperando di distrarlo dalla sua espressione troppo felice, ma servì a poco. Ed le rimise gli occhiali e le passò una mano tra i capelli.
  • Andiamo, ci aspetta una grande giornata.
Lo vide sorridere mentre prendeva il suo casco, illuminando quella città di una luce nuova.
Come aveva fatto ormai troppe volte, si strinse a lui e attese che giungessero alla meta.
Ancora una volta, Ed imboccò l’autostrada, ma stavolta nella direzione opposta. Aveva insistito fino alla fine per non rivelarle dove fossero diretti e non vedeva l’ora che lo scoprisse.
Riflettendo su questo, si rese conto che stava diventando davvero contraddittorio: voleva arrivare a Sorrento prima possibile, ma sperava che il viaggio durasse più del dovuto così da averla stretta a lui fino a che gli fosse mancato il respiro.
Quando uscirono dall’autostrada, avevano un bel tratto di costa su cui proseguire. La splendida mattinata favoriva la loro visione del panorama sul golfo di Napoli, luccicante al sole di mezzogiorno. I lidi erano stracolmi di persone, il largo brulicava di barche e il mare azzurro toglieva il respiro. Accostò alla prima piazzola e la fece scendere dalla moto.
  • Ieri non abbiamo fatto nemmeno una foto, ma oggi non rifarò lo stesso errore. – disse sfilando prima il suo casco e poi quello di lei. – Vieni qui.
Sara si accostò a lui e in qualche modo trovò la forza di sorridere alla fotocamera, attendendo che Ed scattasse quella foto.
  • Adesso voglio che tu resti lì e ti faccia fotografare. Voglio conservare una tua foto.
Ed già si portava davanti a lei, studiando l’inquadratura migliore.
  • Ma Ed, non-
  • Zitta! Non fare storie.
E perse le parole davvero. Soltanto quando Ed la incitò per la terza volta a sorridere, si mise in posa per lui, da sola. Si fece scivolare addosso l’imbarazzo che provava e tornò da lui, pregando che il servizio fotografico fosse terminato. Nonostante il cattivo umore, sorrise quando lo vide riguardare quelle foto. Magari avrebbe scritto un’altra strofa della sua canzone.
La strada era piena di curve e di sole, ma riuscivano agilmente a superare il traffico. Un paio di volte, Ed credette che a Sara stesse venendo un infarto, mentre portava la moto tra le auto, senza preoccuparsi di decelerare troppo. Fortunatamente per lei, Sorrento non era lontana e ben presto fecero il loro ingresso a Corso Italia, la strada principale della città.
I turisti infestavano le strade e scattavano foto con le loro super-reflex. Ed pensò che sarebbero passati inosservati, ma non appena mise la freccia per entrare nei confini dell’hotel, chiunque fosse nei dintorni si voltò a guardarli.
Non era da tutti entrare nel miglior hotel di Sorrento, ma lui era Ed Sheeran e poteva permetterselo. Quando Sara sfilò il casco, gli chiese mille spiegazioni.
  • Quanto ho speso e perché, non è una cosa che ti riguarda, ok? Goditi la giornata.
  • Ma…è il miglior hotel di Sorrento! – Ancora non riusciva a concepire che lei fosse lì, all’ingresso di quella struttura.
L’edificio, dal classico stile italico, era ricoperto di fiori e circondato da un giardino. Alle sue spalle si vedeva il mare, che risuonava in fondo allo strapiombo.
  • Allora, vuoi venire con me o no? – la prese per mano e la portò dentro.
Una giovane ragazza era in piedi dietro lo splendido bancone della reception, bella come il sole, mentre lei era…lei.
Non capì cosa chiese, ma vide che quella ragazza gli stava allungando una tessera.
Lo seguì, sempre più spaesata, verso il lussuoso ascensore placcato in oro e non riuscì a spiccicare una parola.
Ed la guardava, cercando di decifrare l’emozione che aveva negli occhi, ma ancora una volta fallì. A volte pensava di essere così attratto da lei proprio per quel suo aspetto: era illeggibile.
Non appena le porte si aprirono, scoprirono che l’ascensore era panoramico ed affacciava sul mare. Ed schiacciò il bottone, mentre lei si perdeva nel blu.
Quando uscirono dalla cabina, Ed si ritrovò in un piccolo corridoio ed avanzò, senza lasciarle la mano, verso la porta bianca che aveva davanti.
  • Una stanza? – fece lei.
Infilò la scheda dorata nel lettore ed aprì la porta: un piccolo appartamento in vetrate era a loro completa disposizione fino al giorno successivo.
Sentì Sara stringergli convulsamente la mano a quella vista e lui rise della sua faccia sconvolta, invitandola ad entrare. Dovette quasi tirarla per un braccio, ma poi riuscì a richiudersi la porta alle spalle, gettando la scheda sull’antico comò alla sua destra.
  • Ti piace? – chiese, urtandola con un gomito.
  • Stai scherzando? Non ho mai visto una stanza del genere! – Gli lasciò la mano ed avanzò nel piccolo appartamento. – È meraviglioso! Ma…
Si voltò verso di lui alla ricerca di una logica spiegazione per quella gita con suite di lusso. Ed sorrise, sentendosi in imbarazzo al solo vederla lì, nella sua stessa stanza, ma cercò di mantenere alta la conversazione.
  • Se vai nella tua stanza, sì, hai una tua stanza, troverai un costume sul tuo letto. Indossalo e torna qui.
Non si soffermò a guardare l’espressione che aveva sul viso, temeva che lei potesse dare di matto, quindi sparì dietro la porta della sua stanza ed attese. Sentì i suoi passi e poi il rumore di una serratura. Si passò una mano tra i capelli, per scaricare la tensione, poi andò verso il suo letto a due piazze per indossare il suo costume da bagno.
Quella stanza era un prodigio, era fornita di qualsiasi cosa: nell’armadio c’erano addirittura dei vestiti della sua taglia. Pensando che lei potesse uscire da un momento all’altro, infilò le infradito ed uscì. Si accomodò su una poltrona del soggiorno e si soffermò a guardare il mare dall’ampia vetrata. Camera all’ultimo piano, come sempre.
La immaginava lì dentro, in preda al panico per la misura del costume e rise al solo pensiero di vedere le sue gote arrossarsi. Già immaginava il resto della giornata. Se fosse stata come la sera precedente – e al ricordo si sentì andare in fiamme – probabilmente non l’avrebbe più dimenticata. Nel momento esatto in cui si stava alzando per distrarsi da quei ricordi, lei aprì la porta e ne uscì lentamente, con indosso un bikini blu.
Aveva visto tante donne in costume, aveva visto tante donne nude, ma mai nessuna lo aveva fatto arrossire come gli stava capitando guardando lei. Gli si formò un groppo alla gola vedendola lì, rossa come un pomodoro e con la pelle d’oca. Parla, Ed – si ripeteva – Non fissarla come un maniaco.
Strinse le mani in due pugni.
  • Allora…andiamo? – si sforzò di simulare indifferenza.
  • Si. Andiamo. – rispose lei, altrettanto falsamente, troppo turbata dall’assenza di abiti sul corpo di lui.
Non era palestrato, non era muscoloso, ma era accogliente. Era un uomo, per la miseria e in lei stava scattando l’istinto primitivo di avvicinarsi a lui. Per non parlare delle sue assolutamente meravigliose spalle.
  • Vieni, di qua.
Aspettò che lei lo affiancasse, ma non osò sfiorarla con un dito. Si abbassò gli occhiali da sole sperando di sparire dietro di essi. La guidò tremante fino ad una parete, sulla quale intravide il segno della porta del suo ascensore privato, con accesso alla spiaggia altrettanto privata. Digitò un codice e le porte si aprirono.
  • Oh, cazzo. – disse lei, sconvolta.
Rise di gusto nel sentire quel commento, un po’ per il divertimento un po’ per la tensione e senza indugio la invitò ad entrare. Quell’ascensore non era panoramico, ma quando si fermò aprì le porte direttamente sulla loro personale spiaggia.
Misero piede in una minuscola caletta di sabbia bianca, un ombrellone e due lettini li attendevano, completi di cocktail e asciugamani. Ed la guardò avanzare, incantata da quel posto. Fece un piccolo apprezzamento sul suo sedere pieno, ma lo tenne per sé, ben nascosto nella sua mente, poi le andò dietro, puntando alla crema solare poggiata su un tavolino di legno. Lei era già con i piedi nell’acqua gelida, ma la richiamò.
  • Sara, potresti mettermi la crema dietro la schiena? – disse, mostrandole il flacone.
  • Certo – rispose, voltandosi.
Sentì le sue dita sfilargli la bottiglietta dalle mani e porsi dietro di lui. Dopo qualche secondo percepì il suo tocco morbido sulle spalle e pregò gli dei di non avere reazioni strane.
Sara cercava di stendere al meglio quella crema così pastosa, ma d’altronde Ed aveva una carnagione così chiara che al sole sembrava fosforescente. L’immagine delle sue spalle – quelle spalle – larghe e lentigginose le si attaccò agli occhi, senza lasciarle via di scampo. Sentiva i suoi muscoli contrarsi sotto le dita e finì per mordersi troppo il labbro inferiore quando lui tirò la testa indietro, in un gesto di…godimento?
Terminò in silenzio e gli restituì la crema, evitando il suo sguardo. Si concentrò sulla sensazione della sabbia sotto i piedi mentre cercava una protezione adatta a lei. Si sentiva terribilmente studiata mentre si stendeva la crema sul corpo, anche se lui non la guardava in modo sconveniente. Si rese conto di non riuscire ad arrivare al centro della schiena per quanto si sforzasse, così lo chiamò e glielo chiese.
  • Ed? – lui si voltò – Ti dispiacerebbe…ricambiare il favore?
Ed non rispose, si limitò ad andarle incontro e a prendere la protezione dalle sue dita. Lei si girò senza che lui le chiedesse nulla. Aveva due graziose fossette sulle spalle, non ne aveva mai viste su nessuno. Gli piacevano.
Cominciò a massaggiarle le spalle, sentendola subito intirizzirsi. Aveva detto “ricambiare il favore”, no? Ecco, lo stava facendo. Fece scorrere intenzionalmente le dita fino all’altezza dei fianchi, senza trascurare le zone coperte dai sottili laccetti del costume. Vide chiaramente la sua pelle venire percorsa dai brividi e desiderò intensamente baciarle il collo. Aveva una piccola voglia sulla parte bassa della schiena, le spalle più larghe rispetto alla media, il collo sottile, il sedere pieno, il ventre soffice.
Era perfetta. E per quel giorno era sua.
  • Ecco fatto.
Si voltò lentamente e lui le sorrise, mentre riponeva la crema sul tavolinetto di legno. La guardò per un attimo attraverso gli occhiali e lentamente le sfilò i suoi, mettendoli via insieme alle sue Rayban. La luce le illuminava gli occhi. Si fece distrarre per un attimo, ma poi tornò alla realtà e mise in atto i suoi pensieri. Scattò come un fulmine e la afferrò, prendendola in braccio. Sara urlò, ma era troppo tardi per ribellarsi, Ed stava già correndo verso la riva, ridendo come un idiota. Si gettò nell’acqua fredda, senza lasciarla andare.
Il freddo cancellò dai loro volti le ore di sonno arretrato, risvegliando i loro corpi intorpiditi dal calore. La lasciò andare soltanto quando entrambi furono del tutto bagnati.
  • Ed! – lo sgridò lei, senza riuscire a chiudere la bocca per la sorpresa, ma alla fine rise.
Lo sentì ridere di gusto, mentre lei tentava invano di schizzarlo, poiché puntualmente lui spariva sott’acqua. Lo vide andare verso di lei in apnea e fu trascinata giù, senza riuscire a fuggire.
Quando riemersero entrambi, presero fiato. Ed pensò che forse era lui quello che stava sognando. Era lui quello che doveva punzecchiarle un braccio per vedere se fosse vera. Tuttavia, poté costatarlo quando lei lo attaccò inaspettatamente, tentando di mandarlo giù.
Gliela diede vinta più di una volta, ma soltanto per sentire le sue braccia intorno al collo e le sue mani sulle spalle. Gli piaceva tenerla per i fianchi quando lei non toccava più, sentiva di aver trovato il suo posto nel mondo.
Fu distratta troppe volte dal riflesso dell’acqua nei suoi occhi azzurri, talvolta dimenticava persino dove fosse. Seduta sul bagnasciuga con lui, vicini abbastanza da sfiorarsi, si chiese di nuovo come mai quell’Ed gli era piombato addosso. Non lo aveva desiderato e tantomeno se lo aspettava, eppure eccola lì, seduta al suo fianco, la mente ancora confusa dall’assurdo turbinio che era diventata la sua vita. Lui era un cantante straniero, lei era ancora all’università. Chi voleva prendere in giro con quella storia di loro due? Favole. Bubbole.
La frutta fresca che ricevettero per pranzo, accompagnata da qualche stuzzichino degno di un re, li portò ben presto ad accomodarsi al riparo dal sole cocente.
In contrasto con l’intera idea di partenza di quella giornata, Ed mise un telo sulla sabbia e la invitò ad accomodarsi vicino a lei. Chiunque li avesse visti litigare per chi dovesse mangiare l’ultimo pezzo di anguria, non li avrebbe mai definiti una coppia.
La piccola radio a loro disposizione, mandava qualche canzone carina e spesso canticchiarono insieme, mettendo da parte i pensieri tristi. Ed mise su un assurdo teatrino, cominciando ad imitare le star che aveva conosciuto, ridendo spesso di quel se stesso che faceva capolino raramente.
Erano già le 15, quella giornata stava volando, sperò ancora che il tempo rallentasse.
  • Ti va di fare un tuffo? – gli chiese lei, col labbro inferiore in mostra.
Il suo sguardo era già un sì. Tese le mani chiedendole indirettamente di aiutarlo ad alzarsi, ma come poteva sapere Sara che Ed Sheeran non concedeva pause?
Quando tentò di tirarlo su, fu trascinata in basso, cadendogli rovinosamente addosso. Lui già rideva, ma quella nota serena nella sua risata la fece sentire a suo agio più lì, stesa su di lui, che quando stava seduta a tavola con i suoi genitori.
Lo abbracciò, stringendogli forte il torace. Loro non si abbracciavano mai e sapeva perché, ma quando lo sentì ricambiare la stretta, si chiese dove fosse stato per tutta la sua vita. Le sue braccia erano un porto sicuro.
Si tuffarono in acqua prendendo la rincorsa.
  • Allora, ti piace? – chiese lui.
  • Avevi dubbi? – rispose. – Era da un anno che non andavo al mare.
  • Non avresti mai pensato di andarci con me.
  • Certo che no! – si lasciò andare, galleggiando sul pelo dell’acqua.
  • Devi sentirti davvero onorata della mia presenza, data la tua accondiscendenza, plebea. – fece la voce grossa, imitando quel re che diceva essere il suo alter ego.
  • Maestà, lasci che le mostri la mia accondiscendenza ad accompagnarla sul fondo del mare!
Non finirono mai di giocare, se avessero potuto avrebbero fatto dei castelli di sabbia.
Quando furono le 17, un maggiordomo si avvicinò a loro.
  • Il signore desidera-
Il poveretto dovette interrompersi per evitare gli schizzi d’acqua prodotti dal loro rincorrersi sulla riva.
  • Desidera restare ancora in spiaggia o posso dare ordine di predisporre la sala?
Ed la afferrò per le braccia per impedirle di investire lui e il povero maggiordomo, e ansimante rispose.
  • Predisponga pure la sala, noi arriviamo subito.
Quello fece un cenno col capo e se ne andò, lasciandoli nuovamente soli.
  • Dove andiamo? – chiese lei, con sguardo interrogativo, chiedendosi cos’altro la aspettasse.
  • A fare un percorso benessere nella SPA dell’hotel. – disse lui, mentre raccoglieva la ciabatta che il mare gli stava portando via.
Ma cosa gli era venuto in mente di portarla a fare un percorso benessere quando lei soffriva il solletico? Ci sarebbero stati sicuramente dei massaggi e lei avrebbe fatto una figuraccia quando avrebbe cominciato a ridere come un’isterica sotto le mani del massaggiatore.
  • Dai, andiamo.
E la prese per mano, mentre l’acqua salata formava mille goccioline sui suoi tatuaggi colorati. Andarono silenziosamente in direzione dell’ascensore e vi entrarono, sciogliendo quell’intreccio di dita. Ancora bagnati, entrarono nell’appartamento luminoso e Sara andò in cucina per prendere un bicchiere d’acqua. Mentre gli chiedeva da lontano se ne volesse anche lui, lo vide spuntare con in mano un accappatoio bianco. Lui lo aveva già indossato e la aiutò ad avvolgersi nel suo, spostandole i capelli bagnati dal viso. Ed aveva le guance arrossate dal sole ed era così bello in quel momento che non riuscì a non sistemargli il collo spesso dell’accappatoio, in cerca di una scusa per toccarlo.
  • Non dovevi organizzare tutto questo, sei sempre eccessivo. – disse allora, quando il suo sorriso la imbarazzò troppo. Si accorse di adorare il suo naso.
  • E tu non devi aggiustarmi il colletto se hai voglia di toccarmi. – e le sfiorò la mano.
Sara sbarrò gli occhi, sentendo le guance andarle a fuoco. Indispettita, o forse troppo presa dalla vergogna, se ne andò lasciandolo lì come un ebete, con la convinzione di aver esagerato.
Ed si voltò, seguendola con lo sguardo. La seguì, cominciando a pronunciare le sue scuse ancora prima di riaverla nel suo campo visivo. Era di spalle e stava per poggiarle una mano sulla spalla, quando qualcuno bussò alla porta.
Una voce li avvertiva che, se i signori erano pronti, potevano recarsi nella Spa quando volevano. Abbassò la mano, mentre rispondeva alla voce nascosta dietro la porta. Non seppe cosa fare vedendola immobile. La chiamò ma lei non si girò, così si portò dinanzi a lei e la trovò col muso lungo e le guance rosso vivo. Aprì la bocca per parlare, ma prima che qualsiasi sillaba uscisse dalla sua bocca, lei gli mollò l’ennesimo cazzotto, stavolta colpendolo sullo sterno. Si portò una mano al petto istintivamente, ma non gli aveva fatto male.
  • Ehi – disse allora – Scusa, ho esagerato.
  • Non è quello. – rispose lei, guardandosi i piedi.
  • Cosa, allora? – cercava una risposta.
  • È quel tuo modo di provocarmi, nonostante tutto. Sembra che tu lo faccia apposta.
Rimase un attimo in silenzio, riflettendo sulle sue parole.
  • Scusa, non so trattenermi. – forse lei non sapeva quanto fosse imbarazzato nel rivelarle quel dettaglio. Per spezzare la tensione, la prese a braccetto. – Andiamo.


Angolo autrice:

Cosa starà tramando quello strano di Ed? Qualche volta io stessa non lo capisco. XD
Grazie per le visite e le recensioni, vi lascio le immagini dei panorami, dell'hotel e del mare di Sorrento!
Alla prossima! :D

    


 

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Capitolo 16
*** Sesto Giorno - Pt II ***




Sesto Giorno - II

Aveva appena finito di strepitare sul lettino accanto a quello di Ed, quando le massaggiatrici andarono via. Erano ancora stesi a pancia in giù e lui la guardava. Tese la mano per sfiorarla con la punta del suo dito, facendole affievolire quel sorriso. Quella era l’ultima tappa del loro silenzioso percorso termale: avevano fatto fanghi, sauna, maschere, cromoterapia, musicoterapia, ma nessuno dei due aveva aperto bocca. Forse era per il relax che si limitarono a guardarsi, ma lui desiderava avere un contatto con lei, qualunque fosse. I loro occhi si erano parlati a lungo in certi momenti, forse anche troppo chiaramente quando lei lo sorprendeva a guardarla in posti diversi dagli occhi. In quello stesso momento, la sensazione della sua pelle sotto le dita era pari ad un’ustione, la più grave che potesse immaginare.
Improvvisamente distolse lo sguardo da lei, distratto da un rumore. Non era riuscito a distinguerne la fonte, ma gli sembrò fastidioso. Ritirò la mano per poggiarsi sui gomiti e si guardò intorno: non c’era nessuno, forse si era soltanto impressionato. La vide guardare nella sua stessa direzione, ma la tranquillizzò dicendole di non preoccuparsi. Già che non era più steso, decise di alzarsi e lei lo prese ad esempio, infilando nuovamente l’accappatoio.
  • Sicuro che vada tutto bene?
  • Sì, tranquilla. Mi sono sbagliato. Come ti senti? – chiese, riferendosi ai massaggi.
  • Come se avessi dormito 24 ore filate. – sorrise lei, serena.
  • Bene, miss. Per te non finisce qui: voglio che tu segua quella signorina laggiù – ed indicò un’altra bella ragazza col tesserino dell’hotel sul petto – e faccia tutto ciò che ti dice.
Ed non sapeva del suo odio segreto nei confronti di coloro che le dicessero cosa fare, soprattutto se si trattava di una donna giovane. La ragazza la salutò e le sorrise, ma non le avrebbe fatto cambiare idea. Smorfiosa.
  • Tu non vieni?
  • No. Ci vediamo tra un po’.
Mise su un broncio irragionevole che gli fece sciogliere il cervello in pappa. Per incoraggiarla ad andare, le diede un lento – lentissimo – bacio sulla gota, carezzandole il collo.
  • Prima vai, prima torni. Non vedo l’ora di vederti. – e la spinse via.
Lei indietreggiò, sentendosi gli occhi lucidi e luccicanti. Si morse un labbro in modo troppo evidente. Soltanto quando la signorina la affiancò, riuscì a voltarsi, lasciandolo con un cenno della mano.
Ed non poteva farci niente. Non riusciva a starle lontano.
 
La fecero accomodare in un enorme salone dorato, una gigantesca sala parrucchieri che in quel momento ospitava soltanto altre due persone oltre a lei. Ancora in accappatoio, la fecero accomodare su una poltrona in velluto rosso, dinanzi a uno specchio con le luci da diva: un classico. Si voltò indietro con la speranza di vederlo, ma era sola. Si sentiva molto a disagio sotto lo sguardo dei dipendenti, probabilmente si stavano chiedendo chi fosse quella svampita. Si vedeva che quello non era il suo mondo, guardava la stanza con troppa sorpresa per essere una celebrità, doveva essere per forza la sua prima volta. La domanda che si facevano tutti era come mai una come lei fosse lì.
Immaginò Ed destreggiarsi con disinvoltura in luoghi del genere, doveva essere abituato a passarvi del tempo, soprattutto con tutte le donne che aveva attorno.
Immaginò la famosa Nina seduta al suo posto, o la misteriosa persona su cui Ed scriveva le sue canzoni, guardarsi allo specchio consapevole di chi fosse e sicura che quello fosse il suo posto.
Lei non era quella persona, no di certo. Ripercorse con la mente alcuni passi delle canzoni che sentiva più spesso e provò una profonda invidia per quella ragazza, chiunque lei fosse.
Probabilmente, Ed le aveva donato il suo cuore da molto tempo. Ebbe voglia di strozzarla, un po’ perché la invidiava, un po’ perché forse Ed ci soffriva e a lei dispiaceva.
Famoso o no, l’amore ci accomuna tutti – si disse.
Un gaio ragazzo spuntò alle sue spalle, interrompendo quella riflessione sulla sua inadeguatezza e sulle sue possibilità di sopravvivenza a quell’avventura. Quello le tese la mano, presentandosi come Giuseppe, il capo-parrucchiere. Era un ragazzo smilzo, magro come uno stecco, ma aveva un bel viso. Curato e pettinato, contrariamente a qualcuno.
Gli strinse la mano di rimando, ricambiando forzatamente il sorriso.
  • Cosa c’è, cara? Hai un visino così triste.
No, non la stava prendendo in giro.
  • Se hai bisogno di parlare – continuò come se fosse la sua migliore amica del cuore per sempre forever – io sono tutt’orecchi, mon chéri.
Si guardò allo specchio per controllare che espressione avesse in viso e per fortuna non aveva una faccia assurda. Cominciò a pettinarle i capelli corti, prima di passare allo shampoo.
Mentre lui le massaggiava il capo, fecero conoscenza.
  • Sapevo che non eri famosa, ti avrei riconosciuto altrimenti. Non vuoi dirmi con chi sei? – era la terza volta che provava a scoprirlo.
  • No, mi dispiace, non posso proprio.
  • Come mai dal parrucchiere così presto? Devi andare in qualche posto particolare?
  • Non saprei, mi hanno detto che è una sorpresa. – intanto lei fantasticava.
  • Ooh, il tuo uomo vuole sorprenderti! – fece quello, agitandosi come una ragazzina.
  • Il mio uomo?!
  • E chi, altrimenti!?
Quasi litigavano. Erano totalmente opposti: diciamo che lei era il maschio e lui la femmina, ma qualunque fossero i ruoli, loro due non erano sulla stessa lunghezza d’onda.
Tornarono alla poltrona, dove li attendeva un calice di champagne. Guardò le bollicine salire, mentre Giuseppe continuava a spettegolare.
  • Sai, si dice che stasera nel ristorante di fronte debba arrivare qualcuno di speciale, ma nessuno sa chi è. So solo che ha organizzato un vero e proprio evento, con tavolo riservato e musica.
  • Oh, davvero… - rispose, distratta.
Giuseppe la guardò nello specchio: era una giovane ragazza nel miglior hotel di Sorrento – con il miglior capo-parrucchiere, cosa aveva da esser triste?
  • Chéri, sei sicura che vada tutto bene?
La sua voce confidenziale le fece alzare lo sguardo.
No. Non andava tutto bene.
  • No, Giuseppe. Non va tutto bene.
  • Perché non provi a goderti il momento?
  • Perché dopo non ci sarà più nulla ed io sono la persona sbagliata nel posto sbagliato. Soprattutto la persona sbagliata. Lunedì mi sveglierò di nuovo nel mio letto di periferia e tornerò alla mia vita, fingendo di aver fatto solo un bel sogno. Come posso godermi il momento? Tutto questo…è solo una farsa.
  • Senti, chéri, io non so cosa ti stia succedendo, ma non è mica detto che debba andare come dici tu. E anche se andasse male, cosa ci avrai guadagnato a startene col muso? Il dolore è una costante nella vita, ma non per questo devi fasciarti la testa prima ancora che si spacchi.
C’era un fondo di verità nelle sue parole, ma…
  • Ma io non voglio che questo momento finisca. – disse, perdendosi di nuovo nelle bollicine, mentre lui le faceva la piega. – Finirei insieme a lui.
  • Hai provato a combattere, per questo?
Si ammutolì, corrugando la fronte nel tentativo di respingere quelle sue parole così taglienti.
  • Io sono stato una cenerentola tutta la vita. Se sei una sognatrice come me – e mi sembra che tu lo sia – allora perché non ci provi? Chi non affronta la gara, ha perso in partenza, chéri. Non dico di poter essere la tua fata madrina, anche se mi piacerebbe, ma…hai tempo fino all’ultimo rintocco. Non dare per scontato che tu non sia la persona giusta, quello spetta solo a te deciderlo.
Si portò una mano a coprirsi gli occhi lucidi e lui sorrise, vedendo in quella ragazza un po’ di sé. Le sistemò i capelli in un’acconciatura anni 20 senza aggiungere una parola, poi la invitò a guardarsi dicendole che ora avrebbe dovuto seguirlo nella stanza affianco, dove il suo team di estetiste l’avrebbe truccata.
Con le mani a mollo e il trucco sul viso, rivolse la parola a Giuseppe.
  • Sembra che mi abbiate truccato per una festa, ma io non ho un abito. Non è che potreste truccarmi di meno?
  • No, tesoro, ordini dai piani alti. Non preoccuparti del vestito, ci penso io.
Venti minuti dopo aveva le dita laccate di un rosso scuro, intenso come quello delle ciliegie. Si alzò e pochi metri dopo sbucarono in un’altra stanza, piena zeppa di abiti. Pensò che potesse sceglierne uno a suo piacimento, ma la mano sottile di Giuseppe la trattenne.
  • Hai già un vestito, non ti affannare. Vuoi vederlo? – Non aspettò che lei annuisse, andò dritto a prendere un telecomandino e schiacciò un tasto. – Sarai splendida.
Due ante di legno si aprivano meccanicamente: dietro quel trucchetto doveva esserci la regina di Genovia, quella del film “The Princess’ Diary”. Doveva essere per forza così.
Un lungo vestito blu notte le riempì gli occhi di luce. Era meraviglioso, probabilmente l’abito dei suoi sogni. Senza spalline, la gonna svolazzante e piena di veli e soprattutto, era un abito semplice. Niente fronzoli. Un leggero luccichio proveniva dalla stoffa.
Cosa aveva in mette quel matto di una testa rossa? Se lei doveva indossare quell’abito, lui si sarebbe presentato in frack?
Giuseppe batteva istericamente le mani, richiamandola per aiutarla ad indossare quel capolavoro ancora attaccato al manichino. Una ragazza le tirò su la zip e fu pronta ad uscire allo scoperto.
Per fortuna i tacchi erano bassi, altrimenti lui sarebbe sembrato uno gnomo. Non la lasciarono guardarsi allo specchio se non dopo averle messo un gioiello nei capelli e fatto indossare dei guanti bianchi che le coprivano le braccia fin oltre il gomito. Sapeva che li avrebbe tolti presto.
Quando finalmente vide il suo riflesso nell’enorme specchio, le piacque la sua immagine, ma si sentì terribilmente spaesata, non si riconobbe, quasi persa in un mondo che non le apparteneva. Aveva sempre voluto sentirsi come una principessa, ma poteva anche essere una nobile in pantaloncini e converse. Cenerentola era una fiaba, quello non era il suo posto e la sua testa si era appena rotta.
Stava per chiedere a Giuseppe di farle la fasciatura.
 
Aveva una fame tremenda ed era già pronto da 15 minuti. La giacca e il gilet gli stavano a pennello, la vecchia aveva fatto un bel lavoro. Chi sa se a Sara era piaciuto il vestito.
Era tremendamente agitato, mentre passeggiava nella hall dell’hotel per ingannare il tempo. Si aggiustava nervosamente i polsini per non passarsi le mani tra i capelli, altrimenti sarebbe arrivato al ristorante come uno spaventapasseri. Il rumore delle sue scarpe eleganti faceva eco nella sala vuota, lasciandogli credere che sarebbe rimasto lì come un idiota forse per tutta la sera.
Lei non poteva dargli buca, non poteva andarsene e quel discorso era ridicolo nella sua testa. Tornò a sedersi sulla poltrona antica, con le gambe a forma di zampa di leone, ma subito si rialzò vedendo la porta dinanzi a lui aprirsi dopo un tempo che gli era sembrato infinito. Lei apparve sull’uscio ed era un incanto ai suoi occhi. Scattò verso di lei, aggiustandosi la giacca, improvvisamente nervoso per il suo aspetto. La vide scambiare due parole con un ragazzo, doveva essere il parrucchiere a giudicare dal porta spazzole che aveva legato in vita. Quello si voltò e quando lo vide gli sembrò molto sorpreso, ma non si preoccupò di un eventuale riconoscimento, aveva già dato disposizioni all’Hotel. Lo gelò con lo sguardo, facendolo allontanare, poi tornò con gli occhi su di lei. Non sorrisero, ma per motivi diversi. Le tese la mano e lei la prese, facendo il primo passo nella sua direzione.
Prima che uscissero dall’ingresso, qualcuno gli augurò una buona serata e l’usciere si alzò il cappello al loro passaggio. Quando misero piede in strada, l’intera popolazione in piazza sembrò girarsi verso di loro. Il rumore dei suoi tacchi lo riportava coi piedi per terra, mentre si perdeva a guardarla avvolta in quella stola brillante e sottile, da sembrare un manto di stelle.
  • Perché siamo vestiti così? – non c’era nulla di allegro nella sua voce.
  • Andiamo…a cena. – Si sentì un attimo in imbarazzo. – Non ti piace il vestito?
  • Certo che mi piace, ma… - ma non terminò il discorso.
Cosa mai la turbava? Era uno splendore con quell’abito, tutta Sorrento si girava ad ammirarla.
Non riuscì a capire quale fosse il problema e se ne dispiacque.
  • Scusa. – disse, allora.
  • Per cosa?
  • Per non riuscire a capirti. Se vuoi, torniamo indietro.
Lei sospirò e poi riprese a guardarlo.
  • Ed, il vestito è bellissimo, ma cosa pensavi di fare conciandomi così?
  • Pensi che avessi delle intenzioni particolari? Volevo solo farti passare una serata diversa, tutto qui.
  • Per farmi assaggiare il miele e poi portarmelo via?
Si ammutolì di colpo e sentì il gilet comprimergli il petto.
  • Pensi che io ti stia facendo vivere una favola per poi toglierti tutto, per il puro sfizio di farlo?
  • Questo non è il mio mondo, Ed. Non è questo vestito a fare di me una persona all’altezza del tuo stile di vita da camera all’ultimo piano.
Si fermò in mezzo a Piazza Tasso, cercando di non attirare troppo l’attenzione, già perlopiù concentrata su di loro.
  • Non ti ho mai chiesto di adeguarti. Non intendevo cambiarti, volevo solo…non lo so, ma non questo!
Allargò le braccia, interrompendo ogni contatto con lei.
  • Lo so che lunedì devo partire, basto io a ricordarmelo, ma non mi importa. Io sono qui, adesso e non ho intenzione di piangermi addosso. Perché interpreti sempre tutto in modo così negativo? Perché pensi che io voglia farti del male?
Sentiva che si stava liberando di un peso che non sapeva neanche di portare. Non era il luogo adatto, ma il momento era perfetto, non aveva intenzione di passare quella serata – QUELLA serata – con qualcuno che non si fidava di lui.
  • Ultimamente non facciamo altro che fraintenderci, quando non c’è nulla di ambiguo. Non voglio cambiarti, non voglio metterti in difficoltà, faccio solo ciò che mi sento di fare. Questo sono io. Se non vuoi nemmeno venire al ristorante con me perché hai troppa paura o ti senti inadeguata, io non posso farci niente. È una tua scelta. Io ho fatto la mia.
Le voltò bruscamente le spalle, rosso in viso, per non vedere la sua espressione rabbuiarsi, stonando con la lucentezza del vestito. Guardò esasperato verso il cielo, col cuore a mille, e vide che quella era una notte di luna piena. Non sapeva cosa gli era preso a parlarle in quel modo. Era la verità, lei sembrava andargli incontro e poi sfuggirgli come una molla impazzita, ma non voleva in nessun modo ferirla. Fece un ultimo sospiro per riprendere il controllo di sé e senza pensarci, si passò una mano tra i capelli.
Calmati – si ripeteva. Lentamente, si voltò verso si lei e la trovò inerme, con lo sguardo perso verso di lui. Ricambiò il suo sguardo per un attimo, poi, sentendo l’arrabbiatura scivolare via, si avvicinò a lei, mantenendo lo sguardo freddo. Le prese la mano libera attendendo che lei prendesse una decisione. Le lacrime che navigavano nei suoi occhi senza cadere, erano fuori luogo dato il sorriso che lentamente le compariva sulle labbra truccate, mentre ricambiava la stretta.
Sorrise di rimando, agitandosi sul posto, per l’improvviso sollievo che provava.
Lasciò che appoggiasse la fronte sulla sua spalla.
Scusa – gli sussurrò impercettibilmente all’orecchio, facendo inumidire anche i suoi occhi. Doveva comprenderla. Infondo anche lui si sentiva il cuore in frantumi.
 
Dovevano ridimensionare ogni cosa, se avessero affrontato le ore che gli restavano con quello spirito, non gli sarebbe rimasto neanche il ricordo. Procedevano a passo lento attraverso la piazza, verso il ristorante illuminato poco più in là. Lui la fece entrare per prima, simulando un inchino che fece ridere l’usciere e quando furono dentro tutti gli occhi furono su di loro.
Era appena arrivato il misterioso signore del tavolo privato, ma era un ragazzo buffo con i capelli arancioni. Il maitre li scortò immediatamente verso i loro posti che, contrariamente a ciò che credeva Sara, non si trovavano nella sala principale.
Cercava di mostrarsi degna del suo vestito mentre camminava, stringendo convulsamente la manica di Ed, ma quando furono lontani dagli occhi della gente potè rilassarsi. Oltrepassarono un arco bianco ricoperto di buganvillea viola e si trovarono su un terrazzino dalle modeste dimensioni, al cui centro c’era un unico tavolo. Il loro.
Ed constatò che ogni cosa fosse al suo posto: luci soffuse, candele, champagne già versato, fiori. La accompagnò galante al suo posto, lasciando che il cameriere la aiutasse ad accomodarsi. Si sedette dinanzi a lei, ammirandola mentre si guardava intorno a bocca aperta. Doveva ammetterlo, forse aveva un po’ esagerato tra il vestito e il terrazzo romantico sul mare, ma infondo cosa gli importava. Lei stava sorridendo.
Le loro figure erano coperte da tende bianche, semitrasparenti, il minimo che potesse concedergli un po’ di intimità. Il maitre si accostò a loro, complimentandosi per la scelta del vino e comunicando che a breve sarebbero arrivate le portate.
  • Non dirglielo, ma quel vino l’ho scelto a caso.
Lei rise, osservandolo nella sua mise elegante. Sembrava appena uscito dal video di Thinking Out Loud e questo la rendeva ancora più entusiasta.
  • Chi era quel ragazzo con cui parlavi?
  • La mia fata madrina. – disse lei, ridendo di se stessa più che di Giuseppe. – Si chiama Giuseppe, mi ha aiutato e giostrarmi tra trucco e parrucco.
  • Sembra simpatico.
  • Lo è.
  • Ma non quanto me. – Concluse lui, provando un pizzico di gelosia.
  • Non quanto me. – disse lei, facendolo ridere.
Ben presto le portate furono servite e brindarono a quel momento, giurando di ricordarlo per sempre. In un certo senso si stavano già dicendo addio.
Quando anche il secondo fu servito e la prima bottiglia di vino finita, Ed la invitò al alzarsi, chiedendo al cameriere di scattargli una foto. Poggiò la mano sul suo fianco, sentendo la stoffa gonfia appassire al suo tocco, pur di riuscire a sfiorarla. Fu troppo breve quel momento.
Quando rimasero soli, in piedi accanto alla ringhiera in granito, non la distolse dalla sua contemplazione del riflesso della luna e le scattò un paio di foto. Il vestito faceva il suo effetto, indubbiamente, ma a catturarlo era il suo sguardo.
  • Ed! – lo sorprese lei. – Niente foto da sola, chiaro?
  • Assolutamente, milady. – rise, nascondendo il cellulare in tasca.
La leggera musica di sottofondo fu un’ottima scusante per avvicinarsi a lei. Senza neanche chiederglielo, le prese le braccia e se le portò intorno al collo, per poi poggiarle le mani in vita. Cominciò a dondolare sul posto, trascinandola su quel lento. Lì per lì, risero della situazione: erano su una terrazza privata in abiti eleganti e ballavano su “You are not alone” di Michael Jackson. Non si accorsero del lento avvicinamento che portò le loro fronti a poggiarsi l’una all’altra, ma in quel momento non importava. Con gli occhi chiusi, non esisteva niente se non loro.
Gli era mancata anche troppo quella vicinanza, durante il pomeriggio. Non servivano baci o carezze, gli bastava respirare il suo profumo e sentirla vicino. Era quello che gli sarebbe mancato. Aveva proprio perso la testa, ma avrebbe affrontato il risveglio da quel sogno col cuore in pace.
Sentiva le sue dita giocare con i suoi capelli, attorcigliando le ciocche rosse intorno agli indici, ma quella piacevole sensazione si interruppe quando, nel silenzio della fine della canzone, sentì di nuovo quel rumore. Si staccò da lei, girandosi verso la direzione da cui proveniva e si diresse a grandi falcate verso la tenda bianca, pronto a fare una sfuriata a chiunque avesse trovato lì dietro, ma quando la spostò con un unico e veloce movimento, non vi trovò nessuno.
Lei sembrava non capire, forse lui era soltanto più abituato ad aspettarsi giornalisti ovunque, così la tranquillizzò, esattamente come quel pomeriggio. Le carezzò la mano, tornando da lei, ma furono interrotti dalle portate finali.
Prima di sedersi, Ed si guardò di nuovo intorno, poco tranquillo.
  • Pare che tutta Sorrento sapesse che stasera ci sarebbe stata una cena particolare. – lui la guardò senza capire. – Me lo ha detto quel ragazzo.
  • Oh. Cavolo, corrono in fretta le voci. – constatò, mangiando un cucchiaino di quella deliziosa mousse al cioccolato.
  • Ma lui non credeva che fossi io, l’invitata. Ovviamente non gli ho detto che ero con te, sembrava molto pettegolo.
Lui scosse la testa, sorridendo di quel suo ritrovato buonumore. Forse era merito della seconda bottiglia di vino.
Sara sentiva la testa leggera e il cuore pesante, soffermandosi sulla sua camicia bianca. Aveva sbottonato il primo punto e aveva tolto la giacca, rimanendo in gilet e quella sua figura le sembrò terribilmente attraente, avvolta in quella stoffa. Pensò che le ragazze di mezzo mondo lo adoravano quando si vestiva così, era affascinante, ma lei ci aveva ballato un lento, alla faccia di tutte loro. Era particolarmente antipatica quando voleva, ma ben presto tornò a concentrarsi su di lui. La barba rossa brillava alla luce delle candele poste in mezzo al tavolino rotondo, più curata del solito. Si era messo d’impegno anche lui. Pregò che il suo cuore reggesse quando lui la guardò altrettanto intensamente.
Non aveva più a che fare con un cantante famoso. Ed in quel momento era solo un ragazzo come tanti, aveva smesso di analizzarlo secondo l’ottica del web già da un po’, ma forse se ne rendeva conto solo adesso. Avevano imparato a conoscersi quanto bastava da considerarsi vicendevolmente degli esseri umani, non una celebrità e una ragazza qualsiasi. Erano Ed e Sara, niente di più.
Le teneva la mano lungo le strade sempre affollate, ma senza intrecciare le loro dita: quel piccolo e tiepido contatto bastava ad entrambi. Ed ammirava la cittadina con la mente leggermente annebbiata e si chiese cosa si provasse a vivere lì, tra quei vicoli e quelle botteghe, sicuramente doveva essere diverso da qualunque altro posto. I balconi erano pieni di fiori, le aiuole curate e le strade pulite, illuminate dai lampioni in ferro battuto. C’era davvero una bella atmosfera.
Spesso si sentiva osservato dai passanti, ma in un certo senso si stava divertendo a dare nell’occhio, soprattutto se nessuno riusciva a riconoscerlo. Anche quando qualche ragazza dilatava gli occhi, lui cambiava direzione, sfuggendo a qualunque ulro o autografo. Aveva alzato le maniche della camicia e portava la giacca sul braccio sinistro, coprendo i tatuaggi.
Respirava regolarmente. Stava bene.
  • È carina, vero? La città…
  • Sì, molto. – rispose alzando gli occhi, guardandosi intorno.
  • A Natale mettono un enorme albero in piazza ed è tutto decorato di luci e addobbi. Dovresti vederla. Poi d’estate si va a mangiare il gelato da Primavera, una gelateria famosa perché ci vanno le celebrità. Se ti vedessero, sono sicura che ti riconoscerebbero all’istante.
  • Un ottimo motivo per non andarci, visto che J non sa che sono qui. È ancora convinto che sia a Roma a gironzolare tra le rovine. Lasciamo che continui a crederlo. Piuttosto, dove mi stai portando?
  • Vedrai.
Varcarono un cancello che dava in un parchetto. Da lontano, vide il panorama aprirsi ai suoi occhi, al di là della ringhiera che affacciava sullo strapiombo.
C’era molta gente e al loro passaggio qualcuno scattava foto a quella strana coppia in abito da gala. Giunsero alla ringhiera e vi appoggiò il braccio. L’intero golfo brillava sull’acqua.
Quella vista mozzafiato lo rese silenzioso, alternando la vista di lei con quella del mare.
Lei emise un sospiro che lo fece voltare, credendo che la sua mente fosse di nuovo turbata da certi pensieri, ma in realtà si trattava di ben altro.
  • Come si fa a non amare questa terra? – disse continuando a guardare il panorama notturno. – Non potrei mai lasciarla senza prima averne conosciuto ogni angolo e ogni scorcio.
Non rispose a quella sua riflessione, stranamente turbato. Nella sua coscienza si era sedimentata un’idea che già sapeva fosse irrealizzabile, ma conoscere la motivazione fu come uno schiaffo in pieno viso. Il pensiero del lunedì, sempre più imminente, lo distrasse per un attimo, ma fu attratto dal suono di una melodia.
La maggioranza dei presenti si voltò insieme a loro verso una piccola orchestra di cinque elementi che cominciava a suonare “Va pensiero” e subito la gente cominciò a cantare “…sull’ali dorate”. Era davvero un momento emozionante.
Sara era meno sorpresa di lui, che invece era entusiasta come un bambino nel vedere i vecchietti che danzavano e i ragazzini che simulavano uno sciocco valzer. La guardò con quelle intenzioni negli occhi e lei subito scosse la testa, ma non oppose resistenza quando lui la prese per mano e la trascinò in mezzo agli altri danzatori, lasciando la giacca sulla ringhiera.
Scattò un piccolo applauso che le fece portare le mani al viso, per l’imbarazzo e l’emozione. Si lasciò andare e si fece portare da lui, sperando di non pestargli un piede.
Con la mano sulla sua vita, la faceva scivolare lungo la piazza secondo quel poco che sapeva sul ballo da sala. La fece volteggiare più e più volte, facendo allargare il suo vestito blu, che si confondeva col cielo stellato di quella notte. Era radiosa mentre tornava vicino a lui, dopo l’ultimo volteggio, abbastanza da abbagliarlo e fargli dimenticare che il tempo scorresse inesorabile.
Il secondo brano, cui non seppe dare un nome, li vide dondolare come su un lento. Le braccia di lei allacciate al suo collo, le mani di lui poggiate sui suoi fianchi. La gente continuava a guardarli, chiacchierando sulle loro possibili identità e motivazioni per la scelta del vestiario, ma si rassegnarono ad ignorare quelle supposizioni appena sussurrate. Non smisero di guardarsi o di sorridersi o di tenersi ed Ed credeva che quello fosse il magico momento in cui le loro labbra potevano incontrarsi, finalmente. Tuttavia, quando allungò il collo verso di lei, socchiudendo gli occhi, Sara parlò.
  • Ed, non osare avvicinarti, c’è gente. – ma non smise di sorridere – Non vorrai finire nei guai.
Tornò lentamente alla posizione precedente, abbassando lo sguardo imbarazzato, mentre lei infilava le sue dita scoperte nei suoi capelli.
Quando la musica si trasformò in un ballo di paese, molti di coloro che non avevano partecipato alle danze si buttarono nella mischia, travolgendoli in quel ritmo sfrenato. La tammurriata nera era un ballo frenetico, ma loro improvvisarono seguendo la scia di coloro che li circondarono. Ridevano accaldati e Sara teneva il vestito con entrambe le mani per non cadere.
  • Questa musica è fantastica! – urlò Ed, cercando di sovrastare il chiasso.
  • Lo so! – rispose lei, alzando la testa al cielo e chiudendo gli occhi.
Non appena i musicisti fecero qualche minuto di pausa, una signora le si avvicinò e la aiutò a sistemare l’abito, fissandolo in un enorme nodo che permetteva alle sue gambe di uscire fuori e muoversi più agilmente. In preda all’euforia, si tolse le scarpe e le posò accanto alla giacca di Ed. Ringraziò la gentile signora.
  • Come mai ti ha aiutato? – fece lui, pensando che la conoscesse.
  • Deve esserci per forza un motivo? – sorrise lei, con le guance arrossate e un sorriso smagliante.
La guardò coi piedi a terra, al centro del largo creato dalla gente e non appena la musica riprese lo trascinò nel ritmo di quella danza. Un grande cerchio di persone che si muovevano con gli stessi passi, simulando una rueda, lo travolse e non smisero di ballare probabilmente per troppi minuti, battendo le mani e facendo volteggiare le dame. La stessa signora di prima li spinse al centro del cerchio, spiazzandolo. Per fortuna c’era lei a ritrascinarlo nel ritmo e battendo le mani quando lei sapeva, si muoveva con le mani sui fianchi in una danza popolare. Il ritmo della canzone calò temporaneamente e lei lo avvicinò e lo prese per il gilet in un modo che lo fece arrossire come un bambino, ma lasciò che lei schiudesse i bottoni, guadagnandosi l’urlo della folla e in uno slancio, la prese in vita e cominciò a girare, sentendo il ritmo risalirgli nelle vene.
Poco più tardi, la lasciò e si diresse a suonare la chitarra al posto del vecchio signore, guardandola mentre lei danzava con una ragazza scatenata quanto lei. I loro sguardi non si sciolsero mai e le persone in piazza lo applaudivano.
Quella notte si era trasformata in un sogno in cui lui era un marinaio perso e lei la sirena che lo riportava a casa.
 
Sudati e ansimanti, applaudirono l’orchestra insieme al resto della piazza. Sara andò a recuperare giacca, stola e scarpe mentre Ed stringeva la mano a diverse persone. Sorrise, vedendolo sudato e sorridente, mentre scambiava qualche parola con un uomo anziano. Era così…vero. Infilò le scarpe e lo raggiunse, lasciando che le avvolgesse le spalle, riprendendosi la giacca. Si incamminarono verso l’hotel, in silenzio, godendosi la sensazione dei muscoli ancora attivi. Quando varcarono la soglia della hall, sfatti e ancora brilli, qualcuno li guardò con disapprovazione, ma non badarono a nessuno.
Quando misero piede nell’appartamento, era l’1 di notte. Prima che se ne dimenticasse, chiese a Ed una cosa che non le era ancora chiara.
  • Dormiamo qui?
  • Sì. Anche se volessimo tornare a casa, non me la sento di guidare.
  • Va bene.
Gli sembrò strano che non avesse dato di matto al pensiero di dormire nella stessa casa, poi la vide armeggiare col cellulare. Forse stava scrivendo a sua madre.
Gettò la giacca sulla poltrona e si sfilò il gilet, pensando che la doccia lo stava aspettando a braccia aperte. Cominciò a sbottonare la camicia bianca, ormai insopportabile.
Sara alzò lo sguardo dal telefono e lo vide armeggiare con i bottoni, il che le fece capire che doveva davvero aver bevuto troppo, poiché in effetti lui non stava facendo nulla di troppo strano, ma i suoi pensieri ebbero il sopravvento. Quando Ed la guardò, Sara abbassò gli occhi e sciolse il vestito dal nodo, per tenersi indaffarata. Silenziosamente, si diressero nelle loro stanze e ne uscirono soltanto mezz’ora dopo.
Trovò Ed seduto sul balcone, che guardava il riflesso della luna rossa sul mare e lo raggiunse, vestita dei pantaloncini sportivi e della canotta che aveva trovato nel suo armadio.
Lui indossava il pantalone di una tuta e una t-shirt bianca. Si voltò, quando percepì la sua presenza e si alzò.
  • Vedo che una cosa in comune ce l’abbiamo. – sorrise – Siamo entrambi scalzi.
Lei si guardò i piedi e rise, agitando le dita.
  • Hai sonno? – chiese lui.
  • Perché?
  • Niente, mi sentivo solo qua fuori. Mi fai compagnia? – disse, senza alcuna malizia nella voce.
Lei annuì e lo seguì fino ad un’enorme amaca, grande abbastanza da accoglierli entrambi. Come d’abitudine, ormai, Ed le prestò il suo braccio come cuscino e guardarono in silenzio le foto che avevano scattato in quei giorni. Scoprì che lui le aveva scattato più foto di quante credesse, quindi lo rimproverò, minacciandolo di punirlo a dovere se lo avesse fatto di nuovo.
Parlarono della loro discutibile fotogenicità e commentarono quei giorni placidamente. Il braccio di Ed di tanto in tanto dava una leggera spinta all’amaca, facendola dondolare, poi tornava al suo posto, sulla pancia di lei che si alzava e abbassava al suo respiro.
Mentre Ed commentava la musica che avevano ballato quella sera, carpendo qualche informazione in più sulla tradizione locale, si bloccò d’un tratto.
  • Ed? Tutto bene?
Si alzò di colpo, sfilando il suo braccio dalle sue spalle e si diresse all’interno, nella sua stanza.
Sara si sporse dall’amaca, cercando di capire cosa stesse facendo, ma lo vide tornare indietro pochi secondi dopo.
  • Quasi dimenticavo. – disse lui, tornando sul balcone.
Aveva una scatolina nella mano destra.
Riaccomodatosi accanto a lei con le gambe incrociate, gliela porse. Ci volle qualche secondo prima che lei la prendesse, titubante.
  • Cos’è? – chiese, prima di aprirla. Era chiaro che fosse di una gioielleria.
  • Soltanto un ricordo. – sorrise, lui.
Alla fine, vide le sue dita fare pressione sulla scatola, aprendola. La guardò in viso, impaziente di scoprire la sua reazione, ma lei fece soltanto un lieve e quasi sconsolato sorriso quando vide quella medaglietta.
Prendendola tra le mani, lesse il suo nome su una faccia e quello di Ed sull’altra, scritto per esteso. Il bordo era decorato con un particolare intarsio.
Ed lesse della malinconia nei suoi occhi. Anche se quel sentimento era giunto troppo in anticipo, riusciva a condividerlo. La vide studiare l’oggetto con le dita, senza ancora indossarlo, così le sfilò la lunga catenina dalle mani e gliela infilò sulla testa, per poi lasciarla andare sul collo.
Non gli importava che lei non avesse detto una parola, quel suo piccolo sorriso gli bastava. Rimise le mani l’una nell’altra, riappoggiando i gomiti sulle gambe incrociare e ricambiò il suo sorriso.
  • Ti sta bene. – disse.
  • Ed…non dovevi. – fece lei, guardando la garanzia dell’oro bianco.
  • Invece sì, volevo che l’avessi.
  • Ma se tu non hai niente, non fa differenza.
  • E chi ti dice che io non abbia niente? – e le mostrò il braccialetto che portava al polso sinistro, che era rimasto nascosto per tutta la serata.
Le indicò col dito i loro nomi e alzò un sopracciglio, come per rimproverarla. Lei lo sfiorò con le dita e senza aggiungere altro, lo abbracciò. Immediatamente, la circondò con le braccia e gli sembrò tanto piccola in quel momento, nascosta nel suo collo. Chiuse gli occhi e si perse in quella sensazione che aveva al petto, sempre più intensa di giorno in giorno, di abbraccio in abbraccio. Non voleva andare via. Non voleva lasciarla lì. Il pensiero che non avrebbero mai saputo come sarebbe stato, lo turbava più dell’addio in sé. Sentì il suo fiato lento sul collo, chiedendosi se sentisse il suo cuore martellare. Le diede un bacio sulla tempia e rimasero così per un po’.
Quando Sara sentì di essersi tranquillizzata, sciolse delicatamente l’abbraccio, senza guardarlo negli occhi. Era accaldata e ancora più confusa. Si chiese cosa fosse l’amore, perché pensava che chiamare quel sentimento in tal modo fosse prematuro. Probabilmente, non avrebbe mai saputo cosa fosse quella sensazione, poiché sarebbe stato troppo tardi quando lui sarebbe andato via. Aveva ancora la sua mano calda sulla schiena.
Non sapeva cosa dire dinanzi alla sue espressione così serena, chiedendosi come facesse ad essere così ottimista e combattivo. Forse il suo cuore aveva già passato questa prova, in passato, ma anche lei non era nuova a quell’esperienza.
  • Qual è il tuo trucco, Ed? Come fai a sorridermi così? – nella sua espressione si leggeva il suo turbamento. – Mi dici che non devo giudicarti, ma ti vedo così sereno che non so se sono pazza io o sei contraddittorio tu.
  • Pazza lo sei sicuro. – disse per sdrammatizzare, ma poi continuò con tono serio. – Mi accontento di ciò che la vita mi offre.
Lei annuì poco convinta, portandolo a dubitare delle sue stesse convinzioni. Quella ragazza lo faceva sentire come su un’altalena: un giorno era un sì, l’altro era un no e un uomo che dubita dei suoi ideali, ha già venduto l’anima a una donna.
L’orologio segnava le 3:00 e quella giornata era finita già da parecchio. Lei gli carezzò la barba guardandolo negli occhi, poi abbassò lo sguardo, augurandogli la buonanotte. Scivolò fuori dall’amaca, lasciando un vuoto accanto a lui. La guardò andare via, ondeggiando in pantaloncini sul parquet dell’appartamento. L’immagine di lei scalza lo faceva sentire a casa.
Quando sentì la porta della sua stanza chiudersi, si portò le mani sulla nuca, concentrandosi per far calmare la tempesta che aveva nella mente. Guardando il mare, pensò che alla fine della giornata lei andava sempre via, ma lui non faceva mai niente per fermarla.




Angolo autrice:

Il capitolo è molto più lungo del solito, perchè non volevo smorzare l'atmosfera. I personaggi vivono questa notte come un momento di passaggio molto importante e non volevo che si perdesse questa senzazione.
Cosa ne pensate? :)
Vi lascio le immagini di abiti e luoghi.
L'abito di Sara (immaginatevelo un po' più svolazzante):


Il terrazzo sul quale hanno cenato e il terrazzino dell'albergo:

 

Aspetto le vostre recensioni!
Bye! :D

 

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Capitolo 17
*** Settimo Giorno - Pt I ***




Settimo Giorno - I
 
  • Ed…?
Doveva stare sognando. La voce di Sara risuonava così soffusa e dolce che doveva essere per forza un sogno.
  • Ed…
Sara, sveglia, era seduta sull’amaca sulla quale Ed si era addormentato. Aveva il viso così sereno e innocente che le dispiaceva svegliarlo. Per quante volte lo avesse chiamato, aveva ricevuto solo qualche mugugno in cambio. Titubante, avvicinò la mano al suo viso e gli carezzò la guancia.
  • Edwaaard… - disse musicalmente.
Un lievissimo sorriso spuntò sul suo viso, mentre il suo pollice continuava a sfiorargli la pelle.
Sembrava davvero un bambino. Poco dopo, Ed aprì gli occhi, ma fu accecato dalla luce del giorno.
  • Finalmente! – fece lei, sussurrando ancora.
Ed le coprì la mano con la sua, prendendo un profondo respiro che divenne poi uno sbadiglio. Quella vista la fece sorridere.
  • Ti sei addormentato qui fuori, per fortuna stanotte faceva caldo.
La guardò ancora intontito, tirandola per un braccio. Voleva l’abbraccio del buongiorno.
Non era seduta nel modo giusto per poterlo abbracciare, infatti cadde su di lui, badando che la lunga maglia/camicia da notte non si alzasse troppo.
Aveva ancora addosso il calore tipico di chi dormiva, ma potè goderne poco poiché gli annunciò che era arrivata la colazione e lui scattò sull’attenti con gli occhi ancora semichiusi, facendola ridere sommessamente. Seduti al tavolino ombreggiato da un ombrellone, bevevano caffè e mangiavano cornetti, mentre il suono lontano delle campane annunciava la messa delle 9.00. Anche quella mattina il mare era uno spettacolo, ma non sarebbero rimasti a Sorrento.
In quella domenica di luglio, Sara gli fece una proposta.
  • Ti va di andare a Paestum?
  • Cos’è? – fece lui, masticando.
  • Una città. Conosco un campeggio carino poco affollato.
  • Se è poco affollato, va bene tutto. È sul mare?
  • Sì. Possiamo passare la giornata al mare e la sera andare a cena.
Lui sorrise, approvando il suo progetto con gli occhi nascosti dietro gli occhiali scuri. Erano seduti l’uno di fronte all’altro, troppo lontani per scattare una foto, così si spostò vicino a lei e prese il telefono. Non riusciva a credere che lui avesse voglia di scattare selfie alle nove del mattino, ma non protestò, era ancora troppo debole. Ed appoggiò la guancia alla sua e scattò la foto mentre lei beveva il succo di frutta da un grande bicchiere con tanto di ombrellino. Aveva una faccia buffa mentre succhiava dalla cannuccia.
Intravide la collanina che le aveva dato in bella mostra sul suo petto. Istintivamente la prese e la guardò, per poi lasciarla ricadere. Lei lo guardò, studiando la sua espressione, ma non capì cosa stesse pensando.
Mezz’ora dopo erano pronti per andare via, in piedi nell’ingresso dell’appartamentino. Mentre Ed apriva la porta, lei si voltò indietro l’ultima volta a guardare il mare, poi lo seguì.
Nella hall Giuseppe la salutò con un cenno e lei ricambiò, pur vedendolo molto sorpreso. Forse aveva riconosciuto Ed? Sperò di no.
Quando ebbe finito con la receptionist, lui la prese per mano e una volta montati in sella, col navigatore impostato, partirono diretti a Paestum.
Dalle 10:30 di quella mattina, da quel preciso momento, avevano cominciato il conto alla rovescia.
 
Chi sa per quale motivo, quella mattina non erano agitati. Non erano stravolti dal fatto che quello fosse il tanto temuto ultimo giorno. Probabilmente si erano solo silenziosamente rassegnati al fatto che prima o poi tutto quello sarebbe dovuto finire. Come una breve vacanza.
Il rombo del motore riempiva il silenzio mentre percorrevano quello stradone circondato da pini e camping. L’aria era calda, ma per fortuna il vento riusciva a superare l’ostacolo dei caschi. Sara diede ad Ed un tocchetto sulla spalla per lasciargli intendere che fossero arrivati, così lui rallentò ed oltrepassò l’ingresso del camping “PinetaMare”. Una serie di piccole casette di legno erano disposte lungo una serie di sentieri che si ramificavano in tutta la pineta, fino al mare. Effettivamente non c’era quasi nessuno, ma non si curò di chiedere il perché. Magari era soltanto un posto più isolato. Sara parlava con la donna dietro la scrivania della direzione e poco dopo lo raggiunse con una chiave in mano.
  • La numero 7, vicino al mare. – disse lei, sorridente.
La seguì, notando che si muoveva con disinvoltura in quel posto.
  • Sei già stata molte volte, qui?
  • Sì, spesso ci venivo con Angelo o con gli amici nelle festività, ma era da parecchio che non ci tornavo.
Rimase interdetto nel sentire il nome del suo ex, ma ci passò sopra.
  • Non mi hai mai parlato dei tuoi amici. In questi giorni non ti hanno cercata?
  • Sono tutti partiti. Hanno finito gli esami prima di me e sono andati via, però sì, qualcuno mi ha cercata. Ovviamente non ho detto nulla.
  • E quell’Angelo?
Stava aspettando quella domanda.
  • Angelo mi ha scritto ieri, dicendomi che sono soltanto una puttanella e che me la farà pagare. Non gli ho risposto.
Ed la ascoltò parlare, senza riuscire ad incontrare il suo sguardo troppo impegnato a leggere i numeri sui bungalow. Intanto gli prudevano le mani.
  • Non hai paura che possa farti del male?
  • Non potrebbe. Sua madre lavora con mia madre, sarebbe troppo rischioso per lui perderne la fiducia. Al massimo si impegnerà a darmi fastidio.
  • Non mi fido di lui. – disse fermandosi.
  • Nemmeno io – disse lei, pochi passi più avanti – ma cosa dovrei fare?
  • Denunciarlo, ad esempio. – disse lui, scocciato, allargando le braccia.
  • L’ho già fatto e non è servito a niente. E ti avverto, mia madre non deve sapere niente altrimenti posso dire addio alla mia vita.
Rimase sconvolto dalle sue parole.
Lei era sola. Quando sarebbe andato via, avrebbe potuto succederle qualsiasi cosa.
  • Ma cosa ti ha detto la polizia?
  • Niente.
  • E i tuoi amici?
  • Ci hanno parlato, ma non è mai servito a niente. Angelo è un tipo testardo.
  • Ma non puoi lasciare che ti tormenti!
  • Ed!
Aveva alzato la voce.
  • Il meglio che posso fare è ignorarlo e prima o poi si stancherà. Io non ho paura di lui. Non preoccupartene, non sono problemi che devi risolvere tu. – e riprese a camminare.
Quelle parole erano taglienti, abbastanza da fargli capire che non erano casuali. Ancora una volta si ricordò che il giorno dopo sarebbe andato via.
Giunsero al bungalow più vicino alla spiaggia, la sabbia cominciava la sua distesa soltanto un paio di metri più avanti. Sara aprì la porta ed arieggiò la minuscola casetta.
  • Vuoi cambiarti per primo? – disse mentre prendeva l’ombrellone in dotazione.
  • Sì.
Entrò nella casupola polverosa con la borsa contenente i costumi e i teli acquistati all’hotel e si cambiò velocemente.
Quando uscì, con ancora la maglietta addosso, la trovò scalza che scriveva al cellulare. Si diedero il cambio ed Ed vide il cellulare di Sara abbandonato sul tavolinetto di plastica. Titubante, lo prese e aprì i messaggi. Aveva detto la verità, l’ultimo sms di Angelo era del giorno prima, senza risposta. Cominciò a leggere vecchi messaggi, tutti con lo stesso format. Troppo spesso comparivano certe parole e certe minacce. Come poteva la polizia non accettare la denuncia? Quello era uno stalker bello e buono. Chiuse la schermata e posò il cellulare quando sentì la maniglia cigolare e lei uscì fuori, in costume.
Lo scirocco di quel giorno era particolarmente fiacco e in spiaggia si friggeva. Esattamente come il giorno prima, si ricoprirono di crema solare, ma stavolta con più disinvoltura. Il primo pensiero di Sara fu quello di fare un bagno, l’acqua piatta era così invitante e limpida che non poteva resistere. Si avviò alla riva, senza aspettarlo, ma lui la seguì dopo pochi passi.
La sabbia era bollente, ma lei ci camminava con disinvoltura, come se fosse del tutto immersa nel suo habitat. Era selvaggia. Prima che la raggiungesse, la vide buttasi in acqua con uno slancio delle braccia, ma non riemerse subito. Soltanto diversi secondi dopo, quando anche lui fu a contatto con l’acqua fredda, la vide tornare in superficie diversi metri più a largo. Si tolse la t-shirt e si butto in acqua anche lui. Era davvero fredda o forse era lui ad essere troppo accaldato.
Quando riemerse, scosse la testa per cacciare via l’acqua dagli occhi e la vide nuotare. Qualche bracciata dopo era accanto a lei, intenta a galleggiare a pancia all’aria con gli occhi chiusi. La imitò e le prese la mano. Probabilmente visti dall’alto sarebbero sembrati due manichini.
Ogni tanto la sentiva prendere lunghi respiri e poi lasciare andare tutta l’aria lentamente.
  • Ed – disse lei, riprendendo a nuotare – torniamo a riva?
  • Va bene.
Andarono a sedersi sul bagnasciuga e lei si stese a prendere il sole. Per fortuna la protezione era la massima, altrimenti sarebbe abbrustolito. Era piacevole la sensazione del mare che andava e veniva dalle loro gambe.
Ed si girò a pancia in giù ed aprì una conversazione, non potendo sopportare il silenzio.
  • Ieri mi sono divertito.
  • Già – sorrise – anch’io.
  • È vero che voi napoletani fate sempre festa.
  • Nah. Forse prima sì, ma ormai certe cose si vedono sempre più raramente. La gente è troppo impegnata per fermarsi a ballare per strada.
  • Però, mi è sembrata una cosa naturale.
  • Fa parte della nostra mentalità, in un certo senso. – rifletteva – Per noi va bene fare queste cose. Cantare, ballare…ci sentiamo sempre a casa.
Ed sorrise, rivedendola al centro della pista che gli sbottonava il gilet.
  • Anche sbottonare i gilet dei ragazzi fa parte della vostra mentalità? – disse, con tono ironico.
Sara spalancò la bocca, mostrandosi indignata per quella sua domanda.
  • Ed Sheeran! - Rise, mollandogli il pugno sul braccio. – Ero brilla!
  • Si, certo. – rispose lui, con l’aria saccente.
  • Sei uno stronzo. – e tornò a prendere il sole, fingendo indifferenza.
  • Ah sì?
Sapeva che era una scusa debole per avvicinarsi a lei, ma cosa gli importava più, oramai. Si alzò e la prese di peso, cercando di bloccarle le gambe scalpitanti. Pochi passi e la gettò in acqua, ma sapeva che non l’avrebbe passata liscia. Infatti, quando tornò su non perse un attimo e prese a tirarlo per le braccia, cercando invano di trascinarlo con sé. Era più forte di lei, ma Sara era più testarda. Provò persino a spingerlo da dietro e ad arrampicarsi sulla sua schiena, ma lui non si smosse se non di un paio di passi. La prendeva in giro per quei tentativi, ma proprio mentre rideva lei lo schizzò e l’acqua gli finì dritta in bocca.
La sentì ridere di gusto mentre lui tossiva.
  • Tu mi sottovaluti! – fece lei.
E aveva ragione in un certo senso.
L’acqua rifletteva la luce su di lei, illuminandole il corpo e gli occhi. Quel bikini gli sembrò troppo piccolo e mentre la malediceva per quello schizzo, lui si sgridava internamente. Non voleva fare figuracce. Di nessun tipo. Doveva distrarsi, in qualche modo. Le disse che sarebbe andato all’ombra, altrimenti si sarebbe scottato e si avviò all’ombrellone.
Lei rimase lì, con le mani sui fianchi, a guardare l’orizzonte e Ed, da lontano, aspettava che tornasse da lui.
 
Sentiva i secondi scorrere via come se facessero rumore. Ringraziò il cielo che lui si fosse allontanato per un po’, aveva bisogno di non nascondere niente almeno a se stessa per qualche minuto. Sentiva le labbra cadenti, mosse in un’espressione vicina a quella del pianto, ma si trattenne dal versare anche una sola lacrima: ne aveva già abbastanza di tempo per piangere e quel giorno non era contemplato. Aveva una tale confusione in testa che il petto sembrava scoppiarle, c’erano felicità e tristezza intrappolati nel suo piccolo cuore, troppo debole per contenerle entrambe. In un certo senso si era rassegnata ed era una cosa davvero triste da ammettere a se stessi. Eppure…eppure non riusciva a godersi le sue mani, i suoi occhi, le sue parole. Come se la freccia l’avesse trafitta prima ancora di essere scoccata.
Una parte di lei voleva andare a sedersi accanto a lui, l’altra invece non voleva neanche guardarlo. Chiuse gli occhi, elaborando quella sensazione e decise che sarebbe rimasta lì, finchè non fosse stato lui a tornare. Probabilmente si sarebbe pentita di quella scelta, ma non riusciva in alcun modo a gettarsi nella bocca del leone. Si sedette e cominciò a lanciare sassolini in acqua. Era una cosa che faceva sempre.
Il rumore del mare riuscì a placare la sua anima, ma quella calma fu subito interrotta dalla voce di Ed che la chiamava.
  • Saraaa! – agitava la mano.
Si voltò per ascoltarlo.
  • Tua madre al telefono!
Cazzo. Si alzò e corse da lui. La spiaggia gli sembrò dieci volte più lunga mentre correva, terrorizzata dall’idea che sua madre avesse fatto una sfuriata contro Ed. Quando arrivò senza fiato, vide il suo volto tranquillo, forse l’aveva scampata.
  • Pronto?
Era sicura che anche Ed potesse sentire le sue urla, ma sperò che almeno non capisse le sue parole.
  • Mamma, non è successo niente! NO! Ma ti dico di no! – cominciava ad innervosirsi. – Ma quali precauzioni?! – urlò, sbiancando all’idea che sua madre non le credesse.
Ed era diventato paonazzo. Cercò in tutti i modi di non guardarlo, ma sentiva il suo sguardo pesante.
  • Abbiamo dormito in stanza separate, ma perché non vuoi credermi?
  • Sara?
Si voltò verso di lui, mentre ascoltava sua madre che continuava ad urlare e lo vide alzarsi in piedi.
  • Passami il telefono. – e glielo prese dalle mani – Pronto? – la voce di sua madre si fece improvvisamente docile.  – Salve signora, sono Ed, si ricorda di me? Volevo assicurarle che non ho sfiorato sua figlia con un dito, non si preoccupi. Non ce n’è bisogno, signora, non abbiamo fatto niente. Mi scuso per averla tenuta fuori, ma sa, avevo prenotato il miglior hotel di Sorrento, sarebbe stato un peccato rinunciare. Già, esatto. Credo che stasera la riavrà a casa, non si preoccupi. Le porgo ancora le mie scuse. Buona giornata a lei.
Attaccò il telefono e guardò per un attimo lo schermo. Il solo fatto che qualcuno avesse accennato al sesso lo faceva ribollire e – per qualche assurdo motivo – l’immagine di lei e Angelo coinvolti in certi momenti, gli fulminò la mente. Voleva prendersi a schiaffi.
Le passò il cellulare, fingendo indifferenza.
  • Scusa – disse lei. – Ti metto sempre in imbarazzo.
  • Non fa niente. Almeno fino a domani potrai stare tranquilla.
Era risollevata a quel pensiero e sorrise. Il cellulare che aveva tra le mani segnava le 13.24.
 
Presero due gelati al bar e si sedettero al tavolino di plastica fuori al bungalow, se così si poteva chiamare. In realtà Sara non aveva molta fame, tant’è che il suo gelato era grande un terzo di quello di Ed e non riusciva nemmeno a gustarselo. Quel giorno l’appetito le mancava.
  • Perché non mangi? – disse lui.
  • Eh? No, è che…non ho appetito.
  • Ma se sei stata tu a proporre di mangiare?!
  • Questo perché sapevo che tu avevi fame.
Sorrise del fatto che lei ormai conoscesse questi dettagli di lui e, conoscendola altrettanto, sapeva a cosa stesse pensando. Fissava quel gelato come se avesse qualcosa di sbagliato e la crema cominciava a colarle sulle dita, ma lei era così distratta che non se ne accorse. Col pollice le pulì una macchia di cioccolato rimasta sull’angolo della bocca e quel gesto di tenerezza la fece agitare.
Ed aveva terminato il suo gelato e cominciò a succhiare il legnetto. Il pizzicore che sentiva sulla lingua a quel movimento, gli ricordava l’estate precedente, quando prese quel gelato con Lei. La famosa ragazza delle canzoni. Era un anno che non le parlava e si dispiaceva nel pensare che non gli mancasse affatto. Senza di lei, aveva cominciato a dare un nuovo senso alle cose, come avrebbe fatto per lo stecchetto del gelato. Dal quel giorno, quella sensazione gli avrebbe ricordato gli occhi azzurri di Sara che fissavano il mare.
  • Ehi. – la chiamò con voce statica. – Se non la smetti, me ne vado.
Vide che voleva rispondere, ma per qualche motivo non lo fece.
  • Perché non andiamo a fare una passeggiata? Magari ti schiarisci le idee.
Sapeva di essere duro, ma non voleva tornare a quel giorno, quando sembravano due completi estranei. E poi voleva tenerla per mano.
  • Va bene.
Con il gelato da finire, si avviarono separatamente alla riva soleggiata. Era un pomeriggio afoso e lei inghiottì il resto del cremino in tre morsi, altrimenti le sarebbe caduto. Lavò la mano sporca nell’acqua salata e cominciò a camminare accanto a lui sulla sabbia umida.
  • Tua madre è un vero uragano. Mi piacerebbe salutarla, anche se pensava che fossi un maniaco.
  • Già. Lo ha sempre pensato, per qualche motivo.
  • In effetti, potevo anche esserlo. Sei stata coraggiosa a fidarti.
  • Guarda che con quella storia della doccia mi hai fatto pensare davvero che fossi un maniaco.
  • Ma anche tu potevi essere una fan maniaca! Sai quante ne ho viste? Tu potevi anche essere schizofrenica: prima normale e poi assatanata.
  • Oh, avanti, non dirai sul serio. Voi uomini famosi siete sempre circondati da belle donne, come potevo sapere che non mi considerassi alla stregua di una ragazza facile?
  • Che tu fossi “facile” non l’ho mai pensato. – e rise, riferendosi chiaramente a tutt’altro.
  • Smettila, Ed! – lo spintonò lei. – E non dimenticare che hai già perso punti un paio di volte.
  • Non ricominciare con questa storia!
Calò il silenzio, mentre la scia delle loro orme si allungava.
  • Non ci starai pensando di nuovo, vero? – la rimproverò.
  • Perché, tu riesci a non pensarci? Non posso farci niente, quando si tratta di certe cose sono cocciuta. E non pensare che mi fidi totalmente di te.
  • Così mi ferisci. – disse lui, facendo il muso. – E tutta quella parte di te che si fida, invece – e le prese la mano – cosa pensa?
Lei ricambiò la stretta e lui ne fu sollevato, anche se valeva poco per il tempo che gli era rimasto.
  • Che forse sarebbe stato meglio non riconoscerti, quel giorno, e filare via.
  • Sei davvero un controsenso. Mi stai dicendo questa cosa mentre mi tieni per mano! Non ti credo neanche un po’. – rise, trascinandola più vicino a sé.
  • Per questo ti odio, Ed. – rispose, realizzando in parole quella sensazione di confusione che sentiva.
Dal modo in cui la guardava negli occhi, non avrebbe mai detto che lui la odiasse altrettanto.
Ed si fermò e la guardò, volendole rivelare che dietro quella sua facciata c’era un fiume in piena, pronto a straripare entro il giorno dopo. Ma ancora una volta, tenne per sé quelle parole, altrimenti il loro saluto sarebbe stato più straziante. Voleva essere forte anche per lei.
  • Cosa c’è? – chiese lei, vedendolo immobile.
  • Niente.
Le circondò le spalle col braccio e ripercorsero le loro orme per tornare indietro.
Quando furono di nuovo all’ombrellone, posarono gli occhiali da sole e tornarono al mare per fare un bagno. L’acqua era quasi immobile. Stavolta niente spintoni, niente scherzi, si tuffarono insieme e cominciarono a galleggiare. Erano già le 16.30 e quella giornata sembrava trascorrere in modo accelerato.
 
Era stesa sul bagnasciuga accanto a lui, con gli occhi chiusi. Non gradiva essere ignorato da lei, voleva giocare, ma lei si era messa lì e non parlava da mezz’ora. Sbuffò, cercando di attirare la sua attenzione, ma fallì miseramente. Si mise seduto e la guardò. Era davvero così turbata?
Beh, non gli interessava. Prese un malloppo di sabbia e senza fare il minino rumore, glielo lanciò addosso, facendola sussultare. Il respiro che prese le sibilò in gola, esprimendo il suo disappunto per quella sensazione di bagnato. Lo guardò, fulminandolo con gli occhi, ma lui la guardò beffardo, come per punirla. Sorrideva come un ebete, ma quando lei si alzò per contrattaccare cominciò a pentirsi delle sue azioni. Sara gli riempì la schiena di quella sabbia sottile e senza concedergli tregua, si mise accovacciata davanti a lui e gli coprì le gambe, come una bambina. La afferrò per le braccia, immobilizzandola, e la fece sedere accanto a lui per scaricarle addosso quella stessa sabbia che lo ricopriva. Infatti, si mise a cavalcioni su di lei, di modo che non potesse muoversi e le gettò addosso tutta la sabbia che riuscì ad afferrare con le mani. Ridevano, dopo quelle ore di musi lunghi.
  • Sembri proprio una sirena, così. – fece lui, ridendo.
  • Vuoi vedere come ti trasformo in una foca? – rispose, ribellandosi alla sua presa.
Lo spinse e lui cadde all’indietro, atterrando sul suo sedere. Sara si alzò e gli si fiondò addosso. Seduta a cavalcioni su di lui, si riempì le mani di sabbia e gliele spiaccicò sulle spalle. Lui le fece il solletico e risero ancora.
Sopra di lui, con le gambe divaricate e le mani sul suo petto, avrebbe voluto fermare il tempo.
La guardava così intensamente con quei suoi occhi chiari, che le sembrò di annegare. Non vedeva nient’altro se non il suo viso.
Ed sentiva il suo peso schiacciargli le gambe e questo non migliorava le cose. Sentiva le sue mani sul petto come due defibrillatori ed era sicuro come della sua esistenza, che lei sentisse il suo cuore battergli all’impazzata nel petto. Aveva le mani sui suoi fianchi e il suo corpo così vicino che gli si bloccò il respiro. Sentì l’impulso irrefrenabile di accarezzarla e lo fece, non importava a quale reazione dovesse resistere, l’aveva in braccio in un modo inequivocabilmente provocatorio. Il suo collo teso era pronto ad ospitarlo.
Ma ciò che desiderava più di ogni altra cosa, era baciarla. Le sue labbra turgide lo chiamavano, con un urlo disperato. Non aveva più un briciolo di razionalità in corpo e ciò gli permise di mettere l’autopilota e lasciarsi guidare dall’istinto.
Le mani le stringevano i fianchi e la sospinsero a poggiarsi sul suo bacino, col ventre incollato al suo busto e le gambe piegate sui suoi fianchi. Il suo seno quasi si poggiava sul suo petto, se non fosse stato per quel suo istinto di tenere le loro labbra lontane. Ormai la circondava totalmente, mentre lei infilava le mani nei suoi capelli, stringendo i ciuffi sopra la nuca. La stringeva tra le dita in modo convulso, avendola ad un centimetro da sé. I loro nasi si toccavano e le loro fronti si sfioravano. Ecco, l’aveva in pugno. L’avrebbe baciata, qualunque fosse il prezzo da pagare. Con le labbra già aperte, sospinse il viso verso quello di lei. Un millimetro. Un altro.
  • Ed… - la sua voce era più leggera del vento.
Un altro.
  • Domani… - avevano gli occhi chiusi.
Un altro.
  • Ed…
Le loro labbra si sfiorarono e…lei si tirò indietro. Ed aprì gli occhi e vide la sua espressione scura, corrugata, le labbra increspate, gli occhi chiusi per non far uscire le lacrime.
Non ebbe il tempo di formulare un pensiero, che lei si alzò e corse via.
La chiamò, le corse dietro, ma lei era già entrata nel bungalow.
  • Non entrare! – gli urlò.
  • Fammi entrate. – urlò di rimando.
Ma lei non rispose. Lo sentiva parlare dall’altro lato della porta mentre apriva il getto d’acqua fredda della doccia. Lasciò che la sabbia e le lacrime si confondessero con l’acqua dolce, mentre il suo corpo rilasciava un calore disumano. Sentiva chiaramente la forma delle sue mani sulla pelle. Si sentiva bruciare.
  • Sara, ti prego! – bussò. – Fammi entrare. Fammi parlare.
No, non poteva guardarlo di nuovo in faccia. Chiuse il getto e prese un telo per asciugarsi. D’un tratto non sentì più alcun rumore. Si sedette sul letto e si lasciò andare al pianto.


Angolo autrice:

Ciao lettori!
La situazione comincia a diventare critica, vero? Cosa ne pensate?
Vi ringrazio per le numerosissime visite. :D
Vi lascio le immagini del posto che, sì, esiste davvero. :)

 

 

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Capitolo 18
*** Settimo Giorno - Pt II ***




Settimo Giorno - II

Lo avrebbe fatto impazzire. Shit, shit, shit.
Si era allontanato da quella porta, altrimenti l’avrebbe buttata giù. Non doveva reagire così, ma lei…lei prima gli si attaccava addosso e poi scappava via. No, non poteva farlo, non a lui. Chi le capiva le donne. Prese un sasso e con rabbia lo lanciò con tutta la forza che aveva, urlando. Ora si era chiusa lì dentro, senza dargli la possibilità di parlare, anche se non sapeva cosa le avrebbe detto, perché l’unica cosa che lo assillava in quel momento era una domanda: perché?
Si erano provocati abbastanza, si erano aspettati abbastanza ed ora che l’aveva sfiorata, lei negava ogni cosa. Non capiva che anche lui aveva il cuore martoriato e che gli veniva da piangere? Non capiva che doveva baciarla o sarebbe impazzito? Non capiva che se non l’avessero fatto, si sarebbero pentiti?
Stavano già soffrendo, non era abbastanza?
Voleva soltanto farle passare quella paura infondata e inesistente di soffrire di un dolore che stava già vivendo. Voleva il ricordo delle sue labbra. Aveva sete.
Camminò velocemente verso la doccia pubblica del lido e si ripulì di quella sabbia peccaminosa. Si avvolse un telo intorno alla vita e raccolse le loro cose dalla spiaggia per poi portarle sul tavolino di plastica. Non udiva alcun rumore provenire dall’interno del bungalow.
Rimase lì fuori a sbollire per la successiva mezz’ora, facendo molleggiare la gamba nel tentativo di scaricare la rabbia, ma servì soltanto a farlo stancare. Quando fu stufo di aspettare un suo cenno, si alzò, ormai del tutto asciutto grazie allo scirocco. Il sole era ancora alto sulla linea dell’orizzonte. Si avvicinò alla porta e bussò tre volte. All’interno Sara sobbalzò, ma non gli rispose. Non era ancora pronta, non riusciva neanche a muoversi dal bordo di quel materasso.
  • Sara…rispondimi. – silenzio – Guarda che apro la porta.
  • No! Non aprire.
  • Allora parlami. Dovrai farlo prima o poi.
  • Cosa vuoi? – intanto lei si alzava dal letto, alla ricerca dei suoi vestiti.
  • Voglio che ne parliamo. Perché sei scappata via?
Ci fu un lungo silenzio durante il quale Ed poggiò la testa sulla porta di legno che li separava.
  • Perché è meglio così. – disse lei, infine.
  • Meglio di cosa? Meglio di baciarci? – disse, esasperato.
  • Meglio di piangere la tua assenza, Ed.
  • Di cosa hai paura?
  • Di non riuscire a dimenticare, ecco di cosa. Se non succede nulla, non dovrò cercare di cancellare il passato. – la sua voce era tremula.
  • Stiamo già soffrendo, non te ne accorgi? Ti sei inflitta una pena senza aver commesso il delitto. Come fai a riuscirci?
  • Domani andrai via e non ci rivedremo mai più, lo sai che è così.
  • E allora perché non mi baci? È l’unica occasione che abbiamo…
Aspettò che lei rispondesse, ma non udì un fiato.
Se davvero non voleva, glielo avrebbe dovuto dire guardandolo dritto negli occhi. Doveva leggerglielo in faccia e forse, allora, si sarebbe rassegnato anche lui. Impaziente, aprì la porta di scatto e fece il primo passo all’interno, col fiato sospeso, ma era il momento sbagliato. Lei si voltò, reggendosi con le braccia il costume che aveva appena slacciato. Urlò il suo nome.
  • Ed! Che diavolo fai?
  • Cazzo! – disse voltandosi. – Non volevo, lo giuro!
Lei si rilegò il costume più velocemente che poteva e riprese a sgridarlo.
  • Ma vuoi bussare prima di fiondarti dentro come un pazzo?
  • Non pensavo che ti stessi cambiando. – disse, voltandosi di nuovo verso di lei.
  • Cosa c’è? – fece lei, arrabbiata.
Allora Ed ricordò con quale intento era entrato nella casetta e procedette dritto verso di lei, facendola indietreggiare di qualche passo.
  • Guardami. – disse, mettendosi dinanzi a lei. – E dimmi che non vuoi baciarmi. Dimmelo in faccia e non mi avvicinerò più a te, non ti sfiorerò nemmeno per caso.
  • Ma cosa-
  • Niente ma, voglio una risposta. – il suo sguardo era duro e determinato. Era per lei che lo stava facendo, era per lei che si stava affannando.
  • Non puoi chiedermi una cosa del genere – disse flebilmente – perché già sai la risposta.
  • Allora non pretendere che io non ti fraintenda quando mi cavalchi, seduto sulla sabbia.
  • Io non…
  • Dimmelo ed io ti lascerò stare.
C’era un calore nei suoi occhi, una rabbia e una determinazione che le facevano paura e la lasciavano interdetta allo stesso tempo. Trattenne le lacrime, arrendendosi a se stessa. Cosa stava facendo? Cosa stava aspettando? Cosa voleva di più dalla vita?
Lui stava combattendo contro di lei, solo per avere un suo bacio e lei lo rifiutava. Ma quella paura la bloccava, non riusciva a superarla. Non riusciva nemmeno a rispondergli, tanta era la frustrazione che sentiva nel ripudiare la realizzazione di quel momento. Era decisamente masochista.
Ed, dopo interminabili attimi di silenzio, cominciò a smontare quella sua espressione. Sara vide la delusione e l’amarezza dipingersi sul suo volto. Quando vide una lacrima presentarsi nei suoi occhi, nell’attimo in cui stava per allontanarsi da lei, capì che era davvero una sciocca. Quella, come aveva detto lui, era la sua unica occasione.
  • Ed. – riottenne la sua attenzione.
La guardò con una grande delusione negli occhi, aveva il cuore ferito e adesso lui stesso lo avrebbe calpestato, ascoltandola. Ma ancora una volta, l’aveva giudicata troppo presto.
  • Baciami.
Il suo cuore perse un battito, fu l’unica cosa che riuscì a sentire. Non importava più dove fossero o perché. C’erano soltanto il suo respiro, i suoi occhi, le sue labbra.
Le posò una mano sulla guancia e, finalmente, dopo averlo desiderato così a lungo, la baciò. Era sicuro che quella fosse la fine del mondo. Sentì esattamente il momento in cui le loro labbra si sfiorarono e si perse completamente nella sensazione di quel contatto. Sentì le sue dita sottili correre sulla sua nuca, le sue mani si infilavano tra i capelli, i loro corpi erano uno solo. I loro volti si muovevano con una sincronia irreale e quando dischiusero le labbra, Ed sentì il cuore fermarsi definitivamente. Qualcosa lo pervase totalmente e la strinse a sé più che poteva, tirandola verso di lui anche quando i loro corpi erano già in contatto. Quel bacio così delicato si trasformava lentamente in un turbinio di mani e sentimenti, i respiri acceleravano, le lingue si cercavano.
Non si sarebbe staccato da lei mai più, lo giurò a se stesso, altrimenti si sarebbe privato del suo stesso ossigeno. Con le labbra attaccate alle sue, era come se vivesse per la prima volta. Era rinato, era completo, si stava dissetando pur continuando a sentirsi assetato.
Più la baciava, più voleva baciarla.
La prese per la vita e la tirò su, tenendola in braccio, senza mai staccarsi da lei. Non seppe come, chiuse la porta e camminò fino al letto. Vi poggiò un ginocchio e poi si lasciò cadere su di lei, sovrastandola. Non seppe se il tempo si fosse fermato o se fossero già passate ore, ma ad ogni bacio, ad ogni morso, ne voleva sempre di più, non importava se fosse giorno o notte. Non seppe frenarsi e le baciò il collo, mentre le mani di lei scorrevano sulla sua schiena già nuda. Prima di cercare di nuovo le sue labbra, la guardò. Aveva le gote rosse e gli occhi luminosi come due stelle. Con la mano che scivolava lungo il suo fianco, studiò la sua espressione e vi trovò dentro la sua stessa eccitazione. Si piegò su di lei e la baciò lentamente, mentre lei lo accoglieva tra le sue gambe. Quando nel vortice di quel bacio le allacciò al suo bacino, Ed credette di impazzire. Si incollò a lei, senza permetterle di respirare se non dalle sue labbra. Le sue mani bollenti correvano lungo il suo corpo, facendole mancare il respiro. La desiderava come un assetato desidera l’acqua. Piano, riportò la mano verso l’alto e tirò il laccetto del costume, sciogliendo il nodo e – ormai senza freni – glielo tirò via.
Il resto dei loro pezzi finì a terra e rimasero nudi. Steso su di lei, la guardò ancora negli occhi, cercando la sua approvazione.
  • Se ti fermi adesso, Ed, ti uccido.
Adorava quel suo romanticismo alternativo.
Non aveva mai desiderato così ardentemente di fare l’amore con una donna. La baciò ancora e si amarono per la prima volta.
 
Non aveva mai urlato durante un orgasmo. E non poteva credere a ciò che avevano appena fatto. Il suo cuore ancora doveva decelerare i battiti, ma infondo come poteva se continuava a ricordare la sensazione della sua bocca, delle sue mani, del suo corpo. Guardava il suo profilo, persa nei suoi pensieri. I suoi capelli rossi spiccavano sul cuscino bianco. Non stava dormendo, lo capiva dal suo respiro. Vederlo aprire gli occhi la fece rabbrividire, aveva uno sguardo così profondo e dolce che la sua gola si strinse in una morsa, quando la avvicinò di nuovo al suo corpo. Il lenzuolo con cui si stava coprendo non la seguì. Aveva appena fatto l’amore con Edward e desiderò subito farlo ancora. Lo guardava con gli occhi del tutto aperti, ancora troppo incredula per riuscire a cambiare espressione. Gli carezzò la guancia, pensando che un bacio, in quel momento, era proprio ciò che ci voleva. Non aveva mai provato nulla del genere per qualcuno, mai. Quelle sensazioni erano del tutto nuove per lei, persino quella voglia di saltargli addosso nonostante avessero appena finito. Voleva sapere cosa pensava, voleva poter interpretare ogni suo movimento, ogni suo sguardo, ma si rese conto che non le sarebbe servito a molto, poiché il bacio che le stava chiedendo con gli occhi parlava da sé.
Le sue spalle si aprirono ad accoglierla, le sue mani si allungarono a cercarla e lentamente Ed fece incontrare le loro labbra di nuovo. Avevano sempre saputo di essere attratti l’uno dall’altra, ma non avrebbero mai pensato che un sentimento del genere potesse annullare tutte le loro priorità. La razionalità era stata del tutto bandita.
  • Oh mio Dio, ho fatto l’amore con Ed Sheeran.
Lui rise, perso tra i ricordi e la realtà. Era vero, Sara doveva ancora entrare nell’ottica che lui fosse quell’uomo con la chitarra. Era così assurdo che non riusciva quasi ad accettarlo. Lui era finito a letto con lei. Quante possibilità c’erano che una cosa del genere accadesse davvero?
Una parte del suo inconscio le ripeteva – Svegliati – come per convincerla che fosse solo un sogno troppo nitido, ma la sua carezza, il suo calore, erano veri abbastanza da farla fremere.
Non era mai rimasta nuda a letto con un uomo, eppure non aveva la minima voglia di vestirsi, forse perché senza abiti riusciva a sentire meglio la sua presenza, mentre Ed annullava qualsiasi spazio vuoto ci fosse tra loro. Sentì la sua mano scivolarle sulla schiena e pensò che fossero delle braci. Emanava un calore disumano, mentre la stringeva, soprattutto quando si guardavano negli occhi. Oh Dio, Ed Sheeran era nudo davanti a lei, per questo il suo cervello stava dando di matto!
D’improvviso cominciò a canticchiare il motivetto di una canzone e si concentrò cercando di indovinare quale fosse. La conosceva, ne era sicura.
  • Darling, hold me in your arms the way you did last night and we’ll lie inside, a little while he wrote. I could look into your eyes until the sun comes up and we’re wrapped in light, in life…
  • In love. – capì, alla fine.
  • Put your open lips to mine and slowly let them shut, - e le diede un bacio – for they’re designed to be together, oh. With your body next to mine our hearts will beat as one and we’re set alight…we’re afire love.
La sua voce le risuonava nel petto e nella stanza e nella vita. Quelle erano le parole di suo nonno e il fatto che le stesse cantando a lei, la sorprese. Dovevano essere importanti per lui. Lo abbracciò, sentendo la sua voce rimbombare nella sua gola. Non sapeva spiegare cosa provasse, col seno schiacciato sul suo petto. Forse era meglio così. Forse era meglio limitarsi a sentire.
 
Quella canzone aveva un significato particolare per lui, gli stava a cuore più di ogni altra. Non l’aveva mai cantata ad una donna, ma mentre la guardava negli occhi, stesi in quel letto, capì cosa intendesse suo nonno con Afire love. Si sentiva bruciare dentro e fuori in modo incontrollabile.
La sentiva addosso e desiderava ogni centimetro di lei, mentre faceva scendere la mano sulle sue natiche. La sentì sussultare e quel suo piccolo movimento lo fece accendere ancora di più.
Ma come sempre, qualcosa li interruppe. Sbuffò apertamente mentre una voce si diffondeva nell’altoparlante.
Si avvisano i signori ospiti che il campeggio chiuderà fra 30 minuti.
Si guardarono, parlandosi con gli occhi. Dovevano alzarsi e rivestirsi.
Lentamente, la strinse un’ultima volta e poi la lasciò andare. Avrebbe voluto dirle qualcosa mentre sentiva il suo profumo, ma gli mancavano le parole. Era ancora totalmente sopraffatto da lei.
Scivolarono fuori dal letto e non smisero di guardarsi. Voleva che l’immagine di lei che si rivestiva gli rimanesse impressa nella mente, poiché era l’unica prova che quella ragazza era stata tua. Era sua.
Con la borsa piena e i vestiti addosso, si guardarono intorno per assicurarsi di non aver dimenticato nulla, poi diedero le mandate alla porta e si incamminarono nella pineta. C’era profumo di resina e di mare. Fece un bel respiro per godersi l’aria pulita e le prese la mano. Quella volta le loro dita si intrecciarono immediatamente e si strinsero forte. Le parole sarebbero state di troppo.
Riconsegnata la chiave, si diressero alla moto. Incastrarono per bene la borsa nel piccolo sellino, con qualche difficoltà, ma riuscirono a chiuderlo. Ed prese il casco di lei e glielo passò, ma le impedì di metterselo poggiando la mano sul suo braccio. Voleva comunicare con lei. Voleva che lo capisse senza parole. Lei aspettava qualcosa, così, senza che gli venisse in mente un’altra soluzione, fece un passo verso di lei, facendo scricchiolare gli aghi di pino sotto le scarpe e la baciò. Sentì la sua nuca ancora umida, mettendole le mani tra i capelli. Lei respirò profondamente, godendosi la sua vicinanza.
Quando le labbra si chiusero e gli occhi si riaprirono, montarono in sella e si diressero in città.
 
Da quando si erano sfiorati, si sentivano stranamente scoperti quando camminavano per strada. Chiunque li guardasse, anche se per caso, li faceva sentire come colti nel sacco, come se quel piccolo incidente nel bungalow fosse un segreto da mantenere. Quasi avevano paura di essere scoperti, di essere additati: “Guardateli, quei due hanno fatto l’amore”.
Le luci al neon dei ristorantini sul mare piano piano si accendevano, le luci del tramonto svanivano, il fresco cominciava a calare e loro non parlavano. Sembrava che il silenzio gli venisse naturale, mentre digerivano gli ultimi eventi, come se stessero semplicemente riposando.
  • Qui ti piace? – le prime parole.
Sara annuì alla vista di quel piccolo ristorante con le panche bianche e le reti al soffitto. Salirono gli scalini d’ingresso e si fermarono sulla pedana di legno. Qualche cliente stava già cenando nella zona all’aperto.
Il proprietario del posto li accolse e li condusse ad un tavolo appartato, accendendogli la candela al centro del tavolo. Ordinarono due pizze.
  • Come stai? – disse lui, quasi impaurito.
  • Beh…bene. – rispose lei, chiedendosi a cosa fosse riferita precisamente la domanda.
  • Non ti ho fatto male, vero? – la vide arrossire.
  • N-no, ma che dici…sei stato… - quasi non riuscì a continuare vedendo tutta quell’aspettativa nel suo sguardo. – …è stato bello.
  • Sì.
Quel luccichio nei suoi occhi azzurri era la sua gratificazione. Gli venne naturale poggiarle una mano su una gamba. Dentro di lui quello era un gesto di demarcazione, di segnalazione e di sentimento, il fatto che lui la toccasse il quel punto in particolare era il segno di un’appartenenza.
  • Volevo assicurarmene… dato che…insomma, ero un po’ trasportato.
  • Sta tranquillo. – rispose lei, stretta nella spalle – E tu come stai?
  • Io?
Forse la domanda giusta era “Dove sei?”, dato che la sua mente sembrava persa in una magnifica oasi, da qualche parte.
  • Sto benissimo, solo che non me l’aspettavo. Non fraintendermi, non vedevo l’ora che succedesse!
Sara pensò che l’imbarazzo sul suo viso fosse leggibile per chiunque, dato che Ed sembrava convinto di aver fatto una figuraccia. Sembrava un bambino mentre si agitava in quel modo, un ragazzino alle prime armi.
  • Ho capito – disse lei, posando la mano sulla sua – Va bene.
Sorrise mentre lui si passava una mano tra i capelli, lusingata da tutto quel trasporto da parte sua. Lui le prese le dita e le strinse nel suo palmo, lasciando che la tensione scivolasse via. Ora che erano lì, seduti a quel tavolo con l’anima quieta, si sentiva felice. Era quella serenità che mancava nella sua vita e l’aveva trovata in lei, nel solo stringerle la mano, nel baciarle la guancia. Gli piaceva il fatto che lei usasse la mano libera per toccargli i capelli chiari e la barba, con una confidenza e una naturalezza disarmanti. Come se le loro anime fossero sedute lì da sempre, nell’attesa che i loro corpi si incontrassero e tornassero a prenderle.
Sara sentiva la barba rossa sotto i polpastrelli e guardava il sorriso nascere sul suo viso. L’interezza della sua figura, la luce dei suoi occhi, le mancavano già. Era una persona così semplice. Così piena. Riusciva a scorgere il suo spirito nei suoi occhi e nei suoi gesti e le piaceva dannatamente quell’eterno ragazzo col quale si ubriacava e giocava. Se avesse potuto esprimere un desiderio in quel momento, avrebbe chiesto un’altra vita, per trascorrerla con lui.
Il rumore dei passi del cameriere li fece allontanare, sempre per quella questione della segretezza, così sciolsero gli sguardi e ringraziarono l’uomo. Ed si strofinò le mani prima di cominciare a mangiare. Non ci volle molto tempo affinché terminassero e Ed, non ancora sazio, ordinò due dessert.
  • Il mio è al cioccolato. – costatò, assaggiandolo. – Il tuo?
  • Il mio è alla crema. Vuoi assaggiare? – chiese, già preparando un cucchiaino stracolmo di dolce.
  • Vediamo. – e si lasciò imboccare da lei. – Uhm. Buono.
  • Non avevo dubbi! – rise lei, tornando a gustarsi la sua porzione.
  • Fidati, nemmeno io.
Per non parlare del fatto che lo adorava quando rideva di se stesso, soprattutto con quel ciuffetto di panna sull’angolo della bocca.
  • Sei sporco di panna.
  • Dove? – chiese, toccandosi nei punti sbagliati.
  • Vieni qui. – e lui sporse il collo, avvicinandosi.
Poteva anche fare a meno del tovagliolo, in effetti. Gli diede un lieve bacio, pulendolo dalla panna e lo vide spiazzato da quel gesto. Sorrise, portandosi una mano alla bocca per l’imbarazzo, aspettando che lui si riprendesse.
  • Non riuscirò mai a capirti, Sara De Amicis. Mai. – e riprese a mangiare.
Il rumore del mare accompagnava la loro ultima giornata anche mentre passeggiavano sul lungomare, osservando i negozietti di souvenir. Aveva Sara sotto il suo braccio sinistro, il suo capo poggiato sulla spalla e la sua mano aggrappata al torace. Quei pochi centimetri di differenza, forse 3 o 4, la rendevano perfettamente incastrabile al suo corpo, come il pezzo di un puzzle. La catenina che le aveva regalato luccicava alla luce dei neon, sulla sua canotta semitrasparente.
Si fermarono su una panchina a guardare il mare scuro illuminato dalla luna. Si voltò a guardarla e con una carezza le fece voltare il viso verso il suo, per baciarla. Scattò una foto di quel bacio, seduti nella penombra del lampione. Senza pensarci, la impostò come sfondo del suo cellulare, mentre lei era distratta da un gatto nero che le faceva le fusa. Bene, anche lei faceva parte della famiglia dei felini. Mentre la guardava, nacque in lui la debole speranza che forse tutta quella storia sarebbe finita bene. Una cosa del genere non poteva non avere il suo lieto fine e sperò che lei sentisse lo stesso.
  • Ti va se torniamo all’hotel? – chiese quando le lancette toccarono le 21.30 – Vorrei farti sentire la seconda strofa.
  • Non sapevo che l’avessi scritta.
  • Infatti non l’ho scritta, si sta formando adesso nella mia mente.
Corsero a comprare un taccuino e una biro. Ed scriveva forsennatamente poggiato ad un muro, senza smettere per un paio di minuti buoni. Quando ebbe finito sorrise soddisfatto e la abbracciò con uno slancio, sollevandola da terra.
Percorsero l’autostrada buia fino a Torre del Greco e alle 22:45 varcarono il cancello dell’hotel. La ragazza alla reception li guardò con sguardo malizioso mentre si allungavano all’ascensore.
Durante la salita, Sara scriveva un sms a sua madre, informandola che era tornata in città e che quindi poteva stare tranquilla. Terminò di scrivere quando Ed aveva già aperto la porta.
Lo seguì all’interno, posando la borsa sulla sedia e il cellulare sulla scrivania e quando alzò lo sguardo, lui era già seduto sul materasso, intento a riaccordare la chitarra.
  • Vieni qui – disse senza guardarla – Non sei autorizzata a stare così lontano da me.
Andò a sedersi vicino a lui, con le gambe accostate al busto. Col taccuino davanti, Ed cominciò a cantare la canzone dall’inizio, facendole scoprire che quel motivetto le era già rimasto impresso. Quasi cantava insieme a lui. Riascoltando quelle parole, capì il senso di quel brano, poiché vi si riconosceva perfettamente.
  • Loving can heal. Loving can mend your soul and it’s the only thing that I know. I swear it will get easier, remeber that with every piece of ya. And it's the only thing to take with us when we die. We keep this love in a photograph…
Il ricordo di quell’ultima foto le fece perdere un battito: quella canzone parlava di loro.
 
Prese il suo cellulare e registrò la performance per intero, per mandarla a J. Doveva farsi vivo, o George sarebbe stato furioso e lui avrebbe cantato male per il nervosismo. Sara aveva poggiato la testa sulla sua spalla, ma ben presto si raddrizzò per stiracchiarsi, facendo un sonoro sbadiglio. Il pantaloncino stretto le segnava le gambe, così si alzò ed affondò le mani nel suo borsone, alla ricerca di quel pigiama di ricambio che non aveva ancora usato.
Glielo lanciò, senza darle spiegazioni. Lei aprì il groviglio di stoffa fantasiosa e capì di cosa si trattasse, ma non cosa dovesse farci.
  • Cambiati pure. – fece lui.
Lui stesso cominciò a spogliarsi per indossare la sua tuta e la sua t-shirt pulita. Quando si sfilò la maglia, il ricordo di quel pomeriggio lo colse di sorpresa, ma simulò la più completa normalità per non metterla in imbarazzo. Quel suo sforzo servì a ben poco, purtroppo. Lei stava lì e lo fissava come se fosse la prima volta che lo vedesse a petto nudo. E poi – si disse – non era una statua di marmo.
  • Vuoi che vada in bagno?
  • Oh! No, scusa… - e distolse lo sguardo – Sono una sciocca.
La vide voltarsi e sfilarsi la maglietta. La sua schiena costellata di nei si presentò di nuovo ai suoi occhi, mentre lei cercava il verso giusto della sua maglia del pigiama. Doveva essere impazzito a pensare di farla spogliare e poi permetterle di rivestirsi.
Lasciò la maglietta sull’apertura del suo borsone e percorse il mezzo metro che li separava. La moquette a terra rese il suo movimento silenzioso, così che quando le sfiorò il ventre con la mano calda, lei sussultò. Sentì il diaframma contrarsi sotto le dita per farle riprendere il respiro.
Con gli occhi chiusi, senza curarsi di una sua possibile reazione, le baciò il collo e poi le spalle, minimizzando qualsiasi distanza ci fosse tra loro. Soltanto quando le sue dita ebbero sbottonato anche i suoi pantaloncini, la fece voltare non riuscendo più a rimandare il contatto con la sua bocca. Sentire le sue mani sul petto, sulle sue spalle, nei capelli, lo mandò in una confusione tale da non riuscire a sbottonarle il reggiseno, ma fu lei stessa ad aiutarlo e a tirarlo sul letto. Sorrise, labbra a labbra con lei, rendendo quel sesso quasi un gioco a chi osava di più nonostante il tremore. Arrivò secondo quando lei, seduta a cavalcioni su di lui, gli prese il viso tra le mani e, carezzandolo con i pollici, lo guardò dritto negli occhi. Fu intenso. Gli venne la pelle d’oca. Gli baciò il naso, gli zigomi, gli occhi e per la prima volta, probabilmente in tutta la sua vita, si sentì sinceramente amato per la persona che era nel privato.
La amò con tutto il fervore che aveva in corpo e prima di dormire, la strinse a sé, pregando che quella notte fosse eterna.



Angolo autrice:

Prima di ogni altra cosa: è uscito il video di Photograph. Cioè, io sto ancora piangendo. DOVETE VEDERLO!
Oltre al fatto che la canzone è bellissima ed è stata di ispirazione per questa storia, ascoltarla guardando il videoclip è stato fantastico. Non perdetevelo.
Detto questo, grazie mille per l'assurdo numero di visite, spero vivamente di non deludervi più avanti.
Cosa pensate di questo capitolo? Non vi nascondo che mi è stato difficile affrontarlo, soprattutto su certi fronti, ma l'ho scritto con sentimento.
Fatemi sapere la vostra opinione!
A presto! :D

 

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Capitolo 19
*** Come un sole rosso acceso. ***




- Come un sole rosso acceso -

 

Era molto semplice: dovevano alzarsi, vestirsi e uscire da quella porta. Una sequenza di azioni che chiunque sarebbe stato in grado di fare. Chiunque non avesse fatto l’amore con Ed Sheeran. Quando aprì gli occhi, lui dormiva ancora e si fermò a guardarlo e a godersi il suo calore ancora un po’. La sveglia sul comò segnava le 8.11 del mattino, un orario che la fece rabbrividire, ma probabilmente quel giorno avrebbe odiato la vista di qualsiasi orologio.
Sentiva le pulsazioni ritmiche e lente del suo cuore sulla guancia che aveva poggiato sul suo petto e cominciò a dover fare i conti con l’idea di distaccarsi da lui. Alzò la testa e gli baciò il collo, cercando di svegliarlo. Soltanto dopo averlo chiamato più volte, Ed aprì gli occhi.
Era confuso da quella luce così forte, poi capì che doveva essere a letto, in hotel, e non nel bungalow in penombra di Paestum. Quando i suoi sensi si risvegliarono, sentì la sua presenza e la sua voce. La guardò.
Nel suo sguardo c’era già una luce cupa che non voleva vedere.
  • Ed, sono le 8.15 – cercò di dire, intrappolata nella sua stretta. – Dobbiamo alzarci.
Mugugnò in modo lamentoso, affondando il viso nei suoi boccoli, ma poi fu costretto a discostarsene quando il suo cellulare squillò. Si passò una mano sul viso, già scocciato da come era cominciata quella giornata. Si alzò, in mutande, e rispose a J. La sua voce che parlava in inglese fu come una bastonata in testa, poiché era quella la realtà che lo aspettava. Lo rassicurò del fatto che stesse preparando la borsa, anche se anche un bambino avrebbe capito che si era appena svegliato. Quando attaccò, si voltò verso il letto, ma lei non c’era, era già scivolata in bagno, così ne approfittò per preparare davvero le sue cose.
Quando anche la chitarra fu nella sua custodia, si sedette sul bordo del materasso ed attese. La lancetta dei secondi faceva un rumore insopportabile, rimbombando nella sua mente non fece altro che rattristarlo. Avevano soltanto 3 ore. Non vedeva l’ora che uscisse da lì dentro per vederla, almeno quel poco tempo che gli restava lo avrebbero passato insieme.
 
Mise i polsi nell’acqua fredda, per aiutarsi a riprendere colorito. L’ansia che l’aveva assalita quando lui aveva risposto al cellulare le aveva fatto venire il voltastomaco.
Non riusciva a distaccarsi da quel lavandino con la sicurezza che non avrebbe pianto. Di solito, quando salutava qualcuno, aveva sempre la certezza che lo avrebbe rivisto e così risparmiava le lacrime per l’ultimo saluto, per poi smettere di versarne. Ma stavolta con era così.
Aveva la chiara sensazione che – per quanto sentimento Ed potesse provare per lei – quella sarebbe stata l’ultima volta che si sarebbero visti. Si sarebbero salutati e avrebbero preso ognuno la propria strada, come se non si fossero mai incrociati.
Lo sentì bussare alla porta e si sbrigò a darsi un tono, prima che lui entrasse e la vedesse in quello stato. Infilò in fretta i suoi vestiti, si passò le mani tra i capelli ed uscì.
  • Ho chiamato un taxi. Arriva tra un’ora. – ed entrò.
Le diede un bacio veloce sulla guancia e poi afferrò il suo spazzolino.
  • Ti va di fare colazione fuori? – aggiunse. – Vorrei stare all’aperto.
Sapeva dove andare.
 
Lasciò disposizioni alla reception per la restituzione della moto e pagò l’hotel. Rimase indaffarato al bancone per diversi minuti e quando finalmente ebbe finito, la raggiunse a passo svelto, col borsone in una mano e la chitarra in spalla. Lei afferrò una manica per aiutarlo e si diressero all’esterno, alla fermata dell’autobus.
Fermi lì sul marciapiede, non riuscivano a parlare. Il sole era così allegro, in contrasto con i loro umori, ma Ed ebbe la forza di prenderla sotto il suo braccio e poggiare le sue labbra sui suoi capelli, mentre guardava altrove.
Ballonzolarono in pullman per il successivo quarto d’ora, per poi scendere nella zona portuale. Ed riconobbe immediatamente il lungo muraglione del porto.
Si trovavano esattamente di fronte ad esso.
Un bar semideserto era aperto e si sedettero sui tavolini disposti sul largo marciapiede, sotto due grossi pini. La strada era alta, sospesa sull’incanalamento che portava al porto. Si godeva una splendida vista e la mattinata tersa permetteva di scrutare le casette lontane una ad una.
Immancabilmente, scattò una foto e prima ancora che lui potesse dire qualcosa, lei parlò.
  • Lo so, lo so. Non posso sfuggire alla fotocamera interna.
Si alzò e si sedette in braccio a lui, poggiò la testa alla sua e si limitò ad incurvare leggermente le labbra. Per fortuna gli occhiali da sole le coprivano lo sguardo.
Una volta scattato, Ed la baciò di sfuggita, prima che lei si alzasse.
Bevvero il caffè e mangiarono il cornetto in silenzio, ascoltando il verso dei gabbiani e beandosi del profumo dell’estate che riempiva l’aria.
Le barche a vela decoravano il largo.
Non passò molto tempo che il taxi arrivò, accostando proprio lì davanti a loro. Era lo stesso uomo che lo aveva accompagnato la prima volta. Lo salutò, riconoscendolo e lui ricambiò la sorpresa nel vedere di nuovo quel ragazzo. Ed, ricordando la sua delicatezza, infilò da sé i bagagli in auto. Alla vista di quel gesto, qualsiasi sentimento positivo svanì dal petto di Sara. Lui stava partendo e lei, no.
Quel viaggio in auto, anzi, quell’intera mattinata, sembrava un calvario. Una lenta e sofferta agonia. Il tassista non badava al loro silenzio, senza fare domande come la prima volta. Probabilmente sentiva anche lui la tensione o qualunque cosa fosse.
L’autostrada soleggiata scorreva velocemente e ben presto – troppo presto – presero l’uscita per l’aeroporto. Ed le pagò la corsa del ritorno, chiedendo all’uomo di aspettarla lì.
Carico dei suoi bagagli, la seguiva all’interno di Capodichino, con gli occhiali da sole come scudo. Non aveva cappucci da indossare, avrebbe dovuto arrangiarsi.
Si fermarono sotto il grande tabellone delle partenze e Sara cercò il volo diretto per Londra delle 12:00, sperando di non trovarlo, ma eccolo lì, in bella vista e col gate già segnalato.
Quando, sorpassando migliaia di persone con cappelli di paglia e vestiti leggeri, giunsero all’ingresso della sua discesa all’inferno, Ed lasciò la valigia e la chitarra e la abbracciò così forte che credette di romperla. Era arrivato quel momento e lui non poteva riavvolgere il nastro.
La sentì scoppiare in lacrime e dovette forzarsi a non lasciarsi andare anche lui. Singhiozzava tra le sue braccia, mentre cercava di controllare il tremore e riusciva a pensare soltanto che no, non era giusto, non poteva lasciarla lì. Non avrebbe più potuto fare niente, per lei.
Strinse gli occhi e pregò che il suo petto non scoppiasse. Le carezzava i capelli, per consolarla o forse per consolare se stesso. Non seppe quanto tempo rimasero così, ma dovette arrivare il momento di distaccarsi. Il suo cuore si era spezzato.
Sara lo guardò con gli occhi e il naso rosso, tenendogli le mani.
  • Ciao. – disse, non potendo in alcun modo pronunciare altre parole.
  • Ciao. – rispose.
Non c’era bisogno che si dicessero grazie, non c’era bisogno che si dicessero niente. Ed poggiò la fronte sulla sua, come per salutarla definitivamente, ma lei si scostò per poterlo guardare negli occhi ancora una volta. Tremante, portò le dita sottili ai suoi occhiali e li sfilò via dal suo viso. Vide i suoi occhi chiari e lucidi spuntare da dietro le lenti nere e lo guardò, dicendogli mentalmente addio.
Non importava più quanti secondi gli fossero rimasti per stare insieme, l’unica cosa che aveva davvero valore era il peso che avevano nel petto, l’unica cosa che desse senso a quella settimana, a quei luoghi, a loro stessi. Certi tesori non si toccano a mani nude e il loro forziere lo avrebbero portato nel cuore, invisibile ai più. L’impronta che avevano lasciato impressa nella loro anima, sarebbe rimasta indelebile: Ed sarebbe stato un Ed che ha conosciuto Sara e Sara sarebbe stata una Sara che aveva conosciuto Ed. Si sarebbero portati dentro. Per sempre.
Si baciarono per la vera ultima volta, cercando di trattenersi con le mani.
Il sole filtrava dalle pareti di vetro, battendo direttamente su di loro e quando Sara si distaccò da lui, con gli occhi appannati dalle lacrime, vide i suoi capelli rossi accendersi alla luce.
Ed riprese i bagagli e lasciò la sua mano definitivamente, costretto ad allontanarsi da lei con un nodo alla gola. La sua pelle scivolo via dai suoi polpastrelli.
Mentre camminava sotto il fascio di luce, continuava a salutarla con la mano, finchè non voltò l’angolo e sparì, mandandole un bacio. Sara abbassò la mano sventolante e se la pose sulle labbra tremanti.
Di quel giorno le sarebbe rimasto un colore, quello dei capelli di Ed illuminati. Probabilmente, perché ad esso associava quel suo enorme, vasto, infinito sentimento.
Come un sole rosso acceso.


Angolo autrice:

E così è finita la settimana di Ed in Italia.
Ho sofferto per scrivere questo breve addio, davvero.
Fatemi sapere cosa ne pensate. :)


Il porto:
 

 

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Capitolo 20
*** Please, come to me. ***




- Please, come to me. -



[Due settimane dopo.]
 
Da quando era tornato a casa, non era accaduto nulla. Perfettamente niente.
Era andato in qualche radio a chiacchierare dei suoi nuovi – e non ancora definiti – progetti e in qualche talk show aveva sfoderato il suo miglior sorriso per non dare a vedere il suo stato d’animo. Era diventato bravo a fingere. Anche con se stesso.
Si comportava come se fosse tutto normale, come se fosse rimasto sempre lì. Niente vacanze romane. Quando era tornato, J lo aspettava all’aeroporto e gli disse che aveva preso il volo da Napoli perché il suo era stato cancellato. Lui ci credette senza problemi.
Da quel giorno, dopo tutte le lacrime che aveva versato seduto accanto all’oblò, si ripromise che si sarebbe impegnato a finire quella canzone e difatti l’aveva finita.
L’agendina che aveva dimenticato di restituirle lo accompagnava tutti i giorni. Si era riempita di bozze, note, appunti. Ogni tanto scorreva le pagine su cui lei aveva disegnato o aveva scritto qualcosa, trovandoci spesso alcuni versi delle sue canzoni e una sua piccola caricatura, in cui lui era seduto nella sua solita posizione ed un gatto gli faceva le fusa.
L’aveva inquadrato proprio bene. Era così leggibile ai suoi occhi?
Aveva pensato di scriverle, di chiamarla, persino di scriverle una lettera, ma ora che sarebbe uscito il nuovo singolo, aveva paura che avrebbero saputo di lei e l’avrebbero braccata. Aveva paura di cosa pensasse, non ricevendo alcun segno da parte sua, ma lei non sapeva di cosa fossero capaci i giornalisti. Quando le acque si sarebbero calmate, magari l’avrebbe chiamata, anche solo per sentire la sua voce.
Sapeva che era partita, ricordava che glielo aveva raccontato, e che quando sarebbe tornata quell’idiota del suo ex non le avrebbe dato più fastidio.
Probabilmente quel ragazzo si era ritrovato i carabinieri fuori la porta con un mandato di perquisizione e una querela in mano. Non appena era arrivato a Londra, chiese ad un suo amico di intercedere per lui e cautelare quella ragazza. A volte tutte quelle conoscenze gli erano utili. Angelo non poteva avvicinarsi più a lei e aveva una restrizione di 200 m. Praticamente non poteva neanche guardarla da lontano. Aveva anche scritto una lettera alla mamma di Sara. Non voleva che sua madre la tormentasse e la mise al corrente della querela.
Aveva fatto ciò che doveva. Per lei. E un po’ anche per se stesso, per saperla al sicuro.
Seduto nella saletta di registrazione, rileggeva le parole dall’agendina, sperando che lei potesse sentire presto la sua canzone. Sorrise a quel pensiero. Se lei l’avesse ascoltata, sarebbero stati vicini.
Si stava crogiolando in quel pensiero, quando la quiete fu turbata da una porta che sbatteva.
  • Ed!
Si voltò di scatto sentendo la voce di J. Sembrava furioso, come mai?
  • ED! MALEDIZIONE!
Si alzò in piedi, senza riuscire a capire il motivo scatenante della sua furia. Avanzò verso di lui, vedendolo entrare, ma J gli lanciò addosso un giornale, colpendolo in pieno petto.
  • CHE DIAVOLO HAI COMBINATO?
Non riusciva a capire. Si abbassò a raccogliere il giornale da terra e ciò che vide gli gelò il sangue.
La foto in copertina non lasciava dubbi o spiegazioni. Tutto il mondo avrebbe visto Ed Sheeran baciare una ragazza all’aeroporto.
 
Era già un’ora che J sbraitava e George gli dava corda.
  • Ma come ti è venuto in mente di fare una cosa del genere? Potevi almeno avvertirmi che saresti andato a Napoli, potevi avvertirmi di lei! Se lo avessi fatto forse a quest’ora non saresti in prima pagina. Ed Sheeran conquista ragazza italiana! Ah, che gioia!
J stava dando di matto, ma lui non lo ascoltava, troppo intento a cercare di ricostruire i suoi ricordi. Quei maledetti rumori erano davvero delle macchine fotografiche e li aveva sentiti ben più di una volta, in quei giorni. Già sapeva che i giornalisti avevano tra le mani molte più foto, probabilmente anche private. Sara. Doveva proteggere Sara.
Si alzò ed uscì nel retro, senza ascoltare nessuno dei presenti che gli chiedeva dove stesse andando. Compose il numero e aspettò che qualcuno rispondesse. Ogni squillo sembrò eterno.
Quando finalmente la ragazza alla reception rispose, le ricordò chi fosse e lei rispose in modo affermativo. Le chiese chiaramente se avessero parlato con dei giornalisti, ma lei rispose di no, più volte.
  • Sa, - la sentì dire – quando hanno pubblicato l’articolo ho capito che era lei, ma non ho risposto ad alcuna domanda. Il direttore si è occupato personalmente dei giornalisti.
Grazie a Dio non avevano rivelato nulla di lei, ma la sua foto continuava ad essere su quel giornale.
Ringraziò la ragazza e cominciò a spremere le meningi per capire da chi fosse trapelata la notizia. Era stato in molti ristoranti, si era fatto vedere in giro, ma…chi?
Lesse l’articolo e ad un certo punto recitava “La ragazza, futura proprietaria del negozio, ha affermato di essere stata lusingata dalla presenza del suo cantante preferito e che un giorno vorrebbe trasformare l’atelier in un luogo esclusivo, dedicato alle maggiori star internazionali. Ed Sheeran – dice - ha scelto il nostro negozio per un motivo: nel nostro campo siamo tra i migliori.”.
Quella maledetta biondina, la nipote della vecchia!
Quella stronza aveva chiamato i giornalisti perché aveva visto l’abito blu.
Col giornale tra le mani, diede un calcio alla porta. Non sapeva cosa fare. Era troppo tardi.
 
  • Come hai potuto farlo? Se non facciamo qualcosa, la tua immagine sarà distrutta. Dobbiamo sfruttare questa storia a nostro favore, magari…ma che cazzo dico, siamo rovinati. Tutti vedranno questa cosa come un abbandono. Merda.
  • Mi dispiace, J. – disse, guardandolo andare avanti e indietro in quello spazio ristretto.
  • Dovevi pensarci prima, Ed! I giornalisti sono già qui fuori e non possiamo dire No Comment, sarebbe peggio.
  • Sfrutta il lato romantico – disse George – Dite che Ed si è fidanzato ed andrà tutto a posto.
  • Ma lei non reggerebbe a tutto questo!
  • Allora non dovevi affatto trascinarcela! Cristo!
Avevano ragione, ma non riusciva a pentirsi di niente.
  • Hai chiamato la ragazza? – disse J.
L’avrebbe chiamata non appena lui fosse stato in silenzio. Sotto i suoi occhi, Ed compose il numero a memoria, imbarazzato dal fatto che lui lo avrebbe notato.
Il telefono cominciò a squillare.
 
 
  • Ed.
La sua risposta era atona. Non sapeva a quale emozione dare la precedenza, tra la felicità e il terrore.
  • Shhh! Parla a bassa voce! Io… - J lo incoraggiò a parlare. - …ho saputo. Dei giornali.
  • Già.
  • Sara…come stai? Ti stanno dando fastidio? – chiese, mettendosi nei suoi panni.
  • Sono due giorni che non posso allontanarmi dalla roulotte della mia amica. Mia madre non sa più che fare.
  • Lei cos’ha detto?
  • Te lo lascio immaginare.
  • Mi dispiace, non so come sia potuto succedere.
  • Usciranno fuori altre foto, Ed.
  • Sì. – parlavano come se si fossero salutati il giorno prima.
  • Cosa devo fare con i giornalisti? Non posso restare qui per sempre.
Stai parlando con Ed?
Sì.
  • Io non lo so ancora. – e guardò J, che non capiva una parola di quello che lui diceva in italiano. – J vuole che io ti tiri in ballo, altrimenti la mia immagine decadrebbe, ma io non voglio che tu sia coinvolta in queste stronzate.
  • Non so cosa dirti, Ed. Non me ne intendo di queste cose, non so cosa sia meglio.
Ed espirò sonoramente, passandosi una mano tra i capelli. Non voleva risentirla per uno scandalo sul giornale.
  • Hai raccontato qualcosa a qualcuno?
  • Soltanto alla mia amica. Mia madre non sa niente, ma ha capito cosa sta succedendo. Scusa, ho dovuto farlo, altrimenti non avrebbe saputo come comportarsi.
  • Va bene, non fa niente. Ringraziala anche da parte mia. Senti…quando uscirai da lì, di ai giornalisti che sarò io a fare le dovute dichiarazioni. Non voglio farti dire cose che non pensi.
  • Va bene. Lo farò. Tu…come stai?
  • J mi odia. George anche. I miei fan saranno molto confusi e forse la metà di loro mi odia altrettanto per averti abbandonato in Italia. Mi sei rimasta solo tu.
Ci fu un lungo momento di silenzio, durante il quale Sara chiese a se stessa se fosse davvero pronta a tutto quel trambusto. Affrontare i giornalisti era l’ultima cosa che avrebbe immaginato di fare nella vita ed ora aveva paura. Ed era il suo unico appiglio, ma non vedeva una via d’uscita che non lo danneggiasse. Sarebbe stata coinvolta, quasi sicuramente in bene, ma…cosa ne sarebbe stato della sua vita, dei suoi sogni?
  • Farò tutto ciò che è necessario. – rispose a quell’affermazione.
  • Non so come chiederti scusa. A proposito, sono convinto che sia stata la nipote della proprietaria di quell’atelier a via Roma.
  • Davvero?
  • Quando avremo il tempo, ti racconterò ogni cosa. Ascolta, adesso devo discutere con J sul da farsi. Ti richiamerò presto, ok?
  • Va bene, aspetto la tu telefonata.
  • Mi manchi. – Le disse, coprendosi il viso con una mano.
  • Anche tu, Ed.
Lui chiuse la telefonata e lei tornò sulla terra. Martina, la sua amica, la guardava in attesa di notizie. Era chiusa con lei lì dentro da ben due giorni e aveva soltanto visto l’edizione del giornale di due giorni prima. Da quando Ed se n’era andato, era caduta in uno stato transitorio che l’aveva privata di qualunque interesse, identità, carattere, vita. Era partita e poi si era ritrovata assalita dalle telecamere e da una serie di domande a cui sapeva di non dover rispondere.
Seduta sul lettino in quella roulotte, si tirò le gambe al petto e pianse. Aveva paura.
Non di una possibile relazione puramente estetica, ma del fatto che avrebbe quasi sicuramente dovuto rinunciare a qualcosa, privacy in primis.
Cosa avrebbe detto alla gente? A sua madre? Ai suoi amici? Non sapeva nemmeno se Ed la volesse davvero nella sua vita e lei non sapeva se sarebbe riuscita a sopportare una tale fatica.
Martina la abbracciò e stette in silenzio. La mattina dopo, Sara uscì dall’oscurità di quella scatoletta e a testa alta, andò a gettarsi al centro dell’arena.

 
Quando Ed e J uscirono dallo studio, i giornalisti si accalcarono su di loro, chiedendo spiegazioni. Aveva l’ordine di non proferire parola, altrimenti lo avrebbe ucciso.
J annunciò che nei giorni seguenti ci sarebbe stata una conferenza stampa durante la quale avrebbero potuto fargli tutte le domande che volevano, così, a poco a poco, quella folla si sparpagliò.
Durante il viaggio in macchina, J continuò la sua ramanzina.
  • Io non ti capisco, Ed. Tu ci tieni al tuo lavoro e lo sai che non devi fare stronzate per fare quello che fai. Sei un personaggio celebre che ha un pubblico quasi totalmente femminile, non puoi andare in Italia e tornare senza la ragazza! Cosa ti è passato per la mente? E si può sapere cosa è successo?
Ed, senza guardarlo negli occhi, gli raccontò quasi tutto, evitando i dovuti particolari.
  • Mi dispiace, ma la ragazza-
  • Si chiama Sara, J. Ha un nome.
  • Se anche si chiamasse Madonna, è troppo tardi per mettere fine a questa storia. Dovrai fare una dichiarazione pubblica e lei dovrà esserci, in qualità di tua fidanzata.
  • Ma J!
  • Niente ma, Ed. Se non lo fai, sarete rovinati entrambi.
  • E se dice di no? E se la madre-
  • È maggiorenne, giusto? E convincila. Anche se sono sicura che non si tirerà indietro, se è innamorata di te.
Questo non lo sapeva.
Come avrebbe fatto a convincerla? Come avrebbe fatto anche solo a chiederglielo? Significava stare lontano da casa, dall’altra parte del mondo, niente università, continui impegni. Non era famosa, non aveva un lavoro. Cosa avrebbe fatto, lei, quando sarebbe andato in tour?
Si sentiva in trappola e tutto per quella stupida biondina.
Il giorno seguente, J convocò la conferenza per tre giorni dopo, nel pieno di Agosto e aveva provveduto personalmente a denunciare la ragazza – non il negozio, per ordine di Ed – per violazione della privacy. Probabilmente in quel momento era chiusa in qualche gattabuia.

 
Quando aprì la porta della roulotte, la luce le sembrò troppo forte, ma era una scusa bella e buona, aveva soltanto una fifa blu. Prese aria per paura di soffocare, quando quella banda di scalmanati le si fiondò addosso, puntandole in faccia i microfoni e sommergendola di così tante domande che non riuscì a distinguere una parola. Ma come pretendevano che rispondesse?
Non sapeva cosa fare, non riusciva a farsi sentire, così lasciò che il sangue le andasse alla testa, lasciando perdere l’autocontrollo. Era già turbata di suo senza bisogno che quell’ammasso di idioti maleducati le impedisse di respirare.
  • Scusate!
Fece un grande sforzo nell’urlare, ma finalmente fecero silenzio. Li guardò, disgustata da quella fame di scoop che leggeva sui loro volti.
  • Il signor Ed Sheeran avrà cura di fare delle dichiarazioni nei prossimi giorni, io non vi dirò nulla. Quindi lasciatemi in pace, avrete comunque le notizie che vi interessano.
Avrebbe anche potuto decantare l’Iliade – Cantami o diva/ del pelide Achille/ l’ira funesta – quelli non l’avrebbero mollata. Così si allontanò, passando in mezzo a loro, fregandosene di quanto male facessero le sue gomitate, dirigendosi direttamente in spiaggia. Fu felice di vedere Martina uscire finalmente dalla roulotte e le fece segno di non preoccuparsi. Lei la guardava ancora incredula, salutandola da lontano.
Continuò a camminare a grandi falcate sulla spiaggia. Il gruppetto sostenuto la seguiva ancora, riprendendola con la telecamera. Fu tentata di lanciargli dei sassi, ce n’erano tanti a sua disposizione, ma pensò ad Ed e al danno che gli avrebbe arrecato, così proseguì verso la scogliera. Quando fu arrivata alla base della montagna, circondata di scogli, cominciò ad arrampicarsi. Lo faceva sempre, non correva pericoli. In costume e a piedi scalzi, si sedette sulla cima più alta dello scoglio maggiore, dove non potessero vederla.
Si portò una mano al petto, agitata come quando era piccola e giocava a nascondino.
Non vedeva sua madre, sue padre e suo fratello da due giorni, i suoi amici si chiedevano cosa avesse combinato, lei stessa non sapeva cosa stava facendo.
Rimase lì, col cellulare tra le mani, aspettando la chiamata di Ed. Il sole scottava.
 

Quella mattina lui e J dovevano stabilire quale fosse la storia da raccontare ai giornalisti. Non aveva mai fatto niente del genere, era sempre stato molto trasparente, infatti la stampa non ci guadagnava molto su di lui, ma ora che avevano trovato uno scoop era logico che succedesse il putiferio. Era nella sala riunioni del grattacielo di George – si, il suo produttore aveva un grattacielo – e cominciarono a parlare del da farsi.
  • Allora, Ed: la tua ragazza deve essere qui domani, quindi appena avremo finito di parlare, la chiamerai e la farai andare all’aeroporto. Alla stampa direte che vi siete conosciuti in un bar, lei non sapeva chi tu fossi e avete fatto conoscenza.
  • J, mi sembra di guardare un film della Disney. – disse, volendo sottolineare il fatto che quella storiella fosse così insipida che nemmeno lui ci avrebbe creduto.
  • Ma più o meno è così che è andata, no? Direte che siete andati a fare un paio di passeggiate, vi siete innamorati e per la distanza vi siete detti addio.
  • J, i giornalisti hanno altre foto, ne sono certo, ma non so di che foto si tratti.
  • Non abbiamo scelta, ragazzo. Nel corso del tempo daremo delle spiegazioni, per ora, per il bene di tutti, dobbiamo limitarci a questo. Lo so che vorresti liberarti dei piragna il prima possibile, ma ti ci sei cacciato da solo in questo guaio e dovrai avere la pazienza di risolverlo. State insieme per qualche mese, poi vi lasciate ed allora sarà tutto finito. Si tornerà alla vita di prima.
Era sempre meno convinto di quello che J stesse facendo. Se Sara fosse stata lì probabilmente si sarebbe rifiutata, ma…restare a casa assediata dai giornalisti non doveva essere piacevole e lui avrebbe potuto proteggerla da quel mondo. Nonostante questo, non aveva il coraggio di chiamarla, non per dirle di prendere il primo aereo per New York.
Fissava lo schermo da troppi minuti, così George lo incoraggiò a premere quel tasto e farla finita una volta per tutte.
  • Ed, grazie a Dio!
  • Cosa c’è? È successo qualcosa?
  • No, è che sono su uno scoglio al sole e non vedo l’ora di scendere.
  • Sei su uno scoglio? Hai parlato con i giornalisti?
  • Sì, ma qualcuno mi segue ancora. Per questo sono quassù, ma fa caldo.
  • Ascoltami. – deglutì pesantemente. – Devi…andare all’aeroporto e prendere il primo volo per New York.
  • COSA?! Stai scherzando, spero!
  • No, non sto scherzando. Devi venire qui. È per il bene di entrambi, fidati di me.
  • Ed Sheeran, come faccio a spiegarlo a mia madre? E a mio padre?
  • Gli parlerò io, gli spiegherò cosa comporterebbe per te restare lì. E comunque, è tutto a spese mie. Ti prego, dobbiamo affrontare questa cosa, altrimenti ti faranno a pezzi.
  • Oh mio Dio…
La sentì abbattuta, avrebbe voluto essere lì per tranquillizzarla e spiegarle ogni cosa come si deve, ma non poteva che pregarla di raggiungerlo. Il pensiero di rivederla gli scaldava il cuore.
  • Potresti rimanere in linea finchè non torno dai miei?
Passarono molti minuti. La sentì scendere dagli scogli e udì le voci dei giornalisti che si confondevano col mare. Per qualche minuto c’era stato un gran vociare di amici che la chiamavano, poi la sentì correre e respirare pesantemente per lo sforzo.
Sua madre la chiamava e lei le spiegò cosa doveva fare. Non la invidiava sentendo le proteste dei genitori, ma infondo lei era maggiorenne e poteva fare ciò che voleva. Pregò che lei combattesse.
  • Pronto? – cazzo, era suo padre.
  • Salve, signor De Amicis – disse, impacciato – piacere.
  • Perché mai mia figlia dovrebbe venire a New York?
  • Signore, se non lo fa i giornalisti la prenderanno di mira e la distruggeranno. Se invece viene qui e diciamo a tutti che lei è la mia fidanzata, la situazione tornerà quella di prima un po’ alla volta. La prego, deve fidarsi di me. Voglio solo proteggerla.
  • Senti Ed, come posso fidarmi?
  • La prego signore, io sto facendo tutto il possibile. Sara mi sta a cuore, non voglio che venga coinvolta in alcuno scandalo. Il viaggio e la permanenza saranno del tutto a mie spese. Solo che…dovrà restare qui per un po’, qualche mese forse.
  • Qualche mese?! – era la madre di Sara a parlare.
  • Salve, signora. – Cavolo, odiava parlare al telefono – Sì, è necessario. La prego, voglio solo aiutare Sara, ma non posso farlo se è lì. È adulta, la prego di lasciarla venire da me.
Ci furono diversi minuti di silenzio. Sentiva soltanto la voce di Sara in lontananza che cercava di prendere in mano la situazione. Desiderava essere lì con lei, anche solo per aiutarla a discutere con i suoi. Si sentiva impotente e frustrato.
Rimase in linea fino a che lei riprese il telefono.
  • A che ora è il prossimo volo?
Il suo cuore fece una capriola nel sentire quelle parole.
  • Tra un’ora e mezza decolli. Copriti il viso.
Attaccarono. Entro 16 ore l’avrebbe rivista, avrebbe incontrato di nuovo i suoi occhi, avrebbe potuto persino abbracciarla. Un gesto divenuto così utopico negli ultimi giorni.
Disse a J che Sara sarebbe partita e lui, per tutta risposta disse:
  • Che Dio ci aiuti.
 
Faceva un caldo assurdo, ma seguì il consiglio di Ed ed indossò una maglietta col cappuccio. Aveva infilato i vestiti alla bell’e meglio nel trolley, sperando di non aver dimenticato niente di importante. Sua padre gli stava ricaricando la carta di credito e sua madre preparava le chiavi della macchina.
Si allontanò e passando tra una roulotte e l’altra, sperando di non dare nell’occhio, riuscì a raggiungere l’anfiteatro, dove sapeva che avrebbe trovato i suoi amici. Prese il cellulare e compose il numero di Martina, le disse di raggiungerla all’interno del bar insieme agli altri. Sentiva il dovere di ringraziarla e salutare l’intero gruppo. Erano una piccola famiglia.
Cercò di spiegare che doveva proprio andare e che Martina gli avrebbe raccontato tutto. Molti la guardarono, senza capire, ma uno alla volta li abbracciò tutti, sentendo la loro mancanza ancora prima di andare via. Quando sciolse l’abbraccio con la sua amica, si voltò alzandosi il cappuccio e prese a correre verso luoghi meno spaziosi.
Cinque minuti dopo era in macchina con i suoi genitori, coperta con occhiali e cappuccio. Quegli scalmanati si accalcavano al cancello, ma suo padre riuscì ad evitarli, senza investire nessuno. Si voltò agitando la mano a chi era rimasto a salutarla, poi calò un imbarazzante silenzio. Non aveva il coraggio di guardare i suoi genitori in faccia, sapendo che Ed, per lei, era più di un amico. Probabilmente avevano capito che avevano passato la soglia del bacio.
Quando furono all’aeroporto, chiamò Ed e lui la guidò al gate per New York.
  • Dì al controllore il codice che ti recito, una cifra alla volta.
Eseguì alla lettera le sue istruzioni con i genitori al seguito e quello la fece passare.
Abbracciò suo padre e sua madre, sperando che un giorno l’avrebbero perdonata.
Senza rimpianti, si voltò e andò via.
Quello era uno dei pochi voli diretti per New York che non partissero da Roma. Si accomodò nella prima classe, come le aveva detto l’hostess, ascoltando il suo codice, e guardò fuori dal finestrino. Tutto quel disastro che stava accadendo doveva essere un incubo, ma non voleva svegliarsi. Voleva rivedere Ed, anche solo nei suoi sogni.



Angolo autrice:

Buone nuove, buone nuove!
Cosa pensate che succederà più avanti?
Dato che i nostri eroi sono in due luoghi diversi, ho differenziato i loro punti di vista: quello di Ed è in stampato normale, quello di Sara è in corsivo.
Grazie mille per le visite e le splendide recensioni, sono troppo felice, ho gli occhi che luccicano! *-*
Ancora una volta, eccovi delle immagini.
Il nostro Ed che registra Photograph in studio e il luogo in cui Sara va in vacanza, Capo Vaticano:
 

A presto! :D

 

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Capitolo 21
*** You are here. ***




- You are here. -


Era ovvio che non fosse riuscito a registrare nemmeno una nota, il pensiero del suo arrivo lo pietrificava. Si era alzato all’alba apposta per registrare. Si tolse le cuffie e le gettò sulla poltrona che aveva accanto. George lo rimproverava. Non riuscivano a capire quanto fosse nervoso e che quei rimproveri non facevano che peggiorare la situazione. Mancavano due ore e lui avrebbe voluto infilarsi in una macchina e andare all’aeroporto. J gli aveva promesso che sarebbe potuto anche scendere dalla macchina per aspettarla, giornalisti permettendo. Era necessario che li vedessero in quel momento, la giovane coppia di innamorati che si riunisce. Era perfetto per gli obiettivi delle macchine fotografiche. Niente baci, gli era stato proibito, ma non sapeva se avrebbe resistito.
  • Concentrati Ed! Dopodomani il pezzo deve essere online!
Si passò le mani tra i capelli, strizzando gli occhi e chiedendo a se stesso un ultimo sforzo.
Riprese le cuffie e chiuse gli occhi, mentre si schiariva la voce.
Mentre cantava, le immagini di quella settimana trascorsa con lei riaffiorarono come margherite al sole. Riuscì per un attimo a sentire la sua pelle sotto le dita. Quella sarebbe stata la volta buona e il singolo sarebbe uscito in tempo.
Più tardi, quando accostarono all’entrata dell’aeroporto, i giornalisti già affollavano l’ingresso, scattando foto della sua auto in arrivo. La sua guardia del corpo scese prima di lui, creando un varco insieme alle autorità aeroportuali. J lo seguì fino all’entrata, oltre la quale la massa di fotografi lo seguì come i topi col pifferaio magico. Ogni passo gli sembrò rimbombare, lento come una moviola, le domande che lo assalivano gli rimbalzavano addosso. Non esisteva più nulla da quando era sceso da quella macchina, la sua mente era focalizzata sul viso di lei che di lì a poco sarebbe apparso al gate.
  • Maledetti giornalisti – disse J, digrignando i denti.
Ed non rispose.
Quando giunsero all’uscita del gate, alzò lo sguardo sul tabellone forse qualche decina di volte per assicurarsi che fosse il posto giusto, infastidito da quella gente che lo fissava. Mancavano 15 minuti all’atterraggio e lui scalpitava, non riusciva a stare fermo. J gli disse più volte che più lui si agitava, più i giornalisti avrebbero infierito, quindi era meglio che lui stesse fermo, ma non ci riusciva, non ci riusciva in alcun modo.
Lentamente, una schiera di fan si accalcava attorno alla già corposa massa di fotografi. Le mani tese verso di lui chiedevano foto e autografi, in altri momenti sarebbe andato lì e avrebbe fatto il suo dovere, ma l’unica cosa che riuscì a fare fu passarsi le mani nei capelli.
Voleva che sparissero tutti, che lo lasciassero solo a soffrire dell’attesa. Voleva sedersi, mettere la testa tra le gambe e contare i secondi. Voleva essere solo quando l’avrebbe vista, quando l’avrebbe abbracciata.
 

Il pilota aveva eseguito un atterraggio perfetto e lei cominciò a sentire la pressione salire, dopo 16 ore di calma piatta. Stava per scendere da quell’aereo e vedere Ed. Si chiese dove la stesse aspettando. La spia delle cinture di sicurezza si spense non appena l’aereo si fu fermato definitivamente e lei si liberò di quella trappola senza indugio. Fu un sollievo stendere le gambe dopo quelle ore insonni, non sapeva nemmeno che ora fosse ed aveva fame.
Afferrò la sua valigia e silenziosamente uscì da quel trabiccolo.
L’aeroporto di New York le sembrò immenso visto dalla pista di atterraggio e lei già si sentiva persa in quel posto, figurarsi quando ne sarebbe uscita. Prese un bel respiro e si accorse che era mattina: cominciava a mettere insieme i pezzi.
Non poteva ancora credere di essere lì, dall’altra parte del mondo, da sola, da Ed. Ed Sheeran.
Scese i gradini facendo attenzione a non cadere e quando fu a terra, seguì la fiumana di gente al pullman che l’avrebbe portata all’uscita. C’era una marea di gente, con enormi valigie e cappelli da turista. La maggior parte erano italiani, riusciva a distinguerne le parole.
Approfittò del tragitto per darsi una sistemata, ma aveva quasi paura di togliersi gli occhiali.
Non si era mai truccata e pettinata così velocemente.
Quando il pullman frenò, l’ansia cominciò ad assalirla. Non sapeva cosa le aspettasse al di là di quella soglia, ma avrebbe dovuto affrontarlo.
Mentre usciva dal pullman, un uomo richiamò la sua attenzione. Era in divisa.
  • Miss! Miss Sara!
Ecco, era nel panico.
  • We have to wait a few minutes while the other passengers go out the gate, then we can go though.
Quel tizio parlava troppo velocemente, ma aveva capito che forse dovevano aspettare qualcosa. La sua attesa si prolungava ancora, qualche dio nell’olimpo doveva davvero avercela con lei. Passarono buoni 5 minuti e l’ultima persona si allontanò verso il gate. Cosa ci sarebbe stato aldilà del lungo corridoio che ora percorreva con quella specie di poliziotto? Lentamente, un vociare la raggiungeva, sempre più forte di passo in passo. Le tremavano le gambe quando intravide la fine di quel tunnel.
Un passo, distingueva le macchine fotografiche. Un altro, distingueva i cartelloni delle fan. Un altro ancora e lo vide lì, immerso in quel mondo che non le apparteneva. La paura le fece seccare la gola, ma il suo sorriso e il passo che fece per andarle incontro, sciolsero il ghiacciaio che la teneva imprigionata da due settimane.
 

Non appena vide un paio di converse bianche spuntare da dietro l’angolo, seppe che era lei e il tempo si fermò, di nuovo. D’un tratto tutto il mondo svanì e il suo corpo galleggiava in aria verso l’unica direzione possibile. Quando lei ricambiò il suo sorriso, si chiese come fosse riuscito a farne a meno fino a quel momento. Afire love. Afire love. Realizzava il significato di quell’espressione come se la sentisse per la prima volta.
Sara lasciò la valigia e corse verso di lui, che aveva già le braccia aperte per accoglierla. Era lì. Stava bene. Non l’avrebbe più lasciata andare.
Sentì quelle dita infilarsi nei suoi capelli rossi, scompigliandoli completamente, ma a chi importava. La strinse così forte a sé da sollevarla dal suolo, quel tanto che bastava a farle credere di levitare. Affondò il viso nei suoi capelli, sentendo il profumo di salsedine che ancora li invadeva, come l’ultima volta. Come se il tempo non fosse mai passato.
Non aveva il coraggio di lasciarla per paura che potesse svanire da un momento all’altro come un’illusione, ma la sentì ridere e il mondo si rimaterializzò intorno a lui.
Per quanto il cuore gli battesse forte nelle orecchie, il rumore degli scatti divenne così insistente da risvegliarlo. Quando J si avvicinò a loro, fu costretto a lasciarla, ma gli lanciò un’occhiataccia. Incontrò i suoi occhi luminosi.
La medaglietta pendeva dal suo collo ed improvvisamente fu certo del fatto che non l’avesse mai tolta. Lo sentiva nelle sue mani, lo leggeva sulla sua bocca: si erano mancati.
Non riuscirono a scambiare una parola tanto era il baccano che li circondava. Vide le sue labbra muoversi, ma non riuscì a comprendere le sue parole, confuso dai flash, così – stanco di quella situazione – la prese per le spalle e la condusse via. Il poliziotto li seguì con la valigia di cui Sara sembrava essersi dimenticata.
Non vedeva l’ora che fossero a casa, da soli, per parlare e dirsi tutto ciò che avevano da dire.
Quegli avvoltoi li seguivano come fossero carne fresca, senza smettere di tentare di avvicinarsi, di fare domande, di scattare foto tutte uguali, creando per un attimo il panico quando dovevano passare dalla porta d’ingresso per tornare alla macchina.
Le autorità dovettero intervenire quando un giornalista gli si parò davanti, lasciando chiaramente intendere che non li avrebbe lasciati passare. Nascondeva Sara sotto la sua ala, cercando di risparmiarle il martirio di tutti quei flash, ma riuscì a provare sollievo soltanto quando sentì il rumore della portiera aprirsi. La spinse dentro e lui e J la seguirono.
Sara era seduta nella sua macchina.
  • Idioti! – imprecò J, non badando davvero alla loro presenza.
Ed si girò e vide l’aeroporto allontanarsi di secondo in secondo. Quando la sua mente ebbe abbandonato quelle preoccupazioni, il suo cuore riprese i battiti, rendendolo tachicardico nel sentire che Sara gli stava prendendo la mano.
  • Ciao. – disse confusa, ma sorridente.
Il più bel ciao che avesse mai sentito.
  • Sei qui.
Fu l’unica cosa che riuscì a dire lungo l’intero tragitto verso casa sua. Non sciolse il loro abbraccio fin quando J non cominciò ad interrogarla. Sapeva che lo avrebbe fatto e sapeva anche che non poteva fermarlo.
  • Allora. – cominciò. – Come ti chiami?
Vide il volto di Sara colorirsi, ma rispose quasi subito alla domanda, probabilmente sperando di aver capito bene la richiesta. La guardava come un babbeo, senza riuscire ad intervenire o ad aiutarla a sentirsi a suo agio e sperò che lei non notasse quanto la sua presenza in realtà lo confondesse. In bene ovviamente.
J lo guardava con quello sguardo che odiava, quello che diceva “Sei un mollaccione”. Non lo era. O, comunque, non sempre.
Lei non allentava la stretta delle loro mani e lui cercò di infonderle un po’ di coraggio avvolgendola col suo braccio. L’accostamento dei suoi tatuaggi alle sue spalle abbronzate non gli era mai sembrato così perfetto.
  • Cosa vuoi da Ed?
Ecco, la fatidica domanda.
  • J! – disse in tono brusco.
La vide arrossire: avrebbe pagato per conoscere i suoi pensieri in quel momento.
  • Lasciala in pace, sono soltanto le 8:30 del mattino e le hai già fatto il terzo grado.
  • Non fa niente. – disse lei, flebilmente, intimidita da quella situazione.
  • Sara De Amicis dice che non ci sono problemi, quindi fatti da parte. Allora, che cosa vuoi?
  • Niente, signore. – rispose decisa.
J la studiò per qualche secondo, mentre lui cercava di convincersi di non aver fatto una figuraccia. Per fortuna l’auto frenò, accostata al marciapiede antistante il suo appartamento.
  • Ed – lo chiamò J – ti aspetto più tardi in studio.
Ed aspettò che Sara scendesse dalla macchina per rispondergli.
  • No, ci vediamo direttamente domani. Non ho intenzione di discuterne.
Chiuse la portiera senza dargli il tempo di ribattere. Sara aveva la valigia tra le mani e l’auto era ripartita. La guardò, ancora in trans, sentendosi come se fosse appena sceso da una giostra. Frenò il suo istinto di abbracciarla, terrorizzato da possibili agguati dei giornalisti, così la guidò fino all’ascensore del grattacielo, ponendo una mano sulla sua schiena.
Aspettava soltanto di essere al sicuro, in casa, allora avrebbero potuto fare e dire ciò che volevano. Lei lo guardava di sottecchi mentre aspettavano l’ascensore e quando furono dentro disse:
  • Scommetto che andiamo all’ultimo piano.
Rise, prendendo le chiavi dalla tasca.
Al 77° piano, una porta in mogano gli si parò davanti. Infilò le chiavi nella toppa, cercando di controllare il tremito delle dita. Per cosa era agitato?
Aprì la porta e il tepore mattutino della casa li accolse.
Il rumore delle ruote sul parquet gli sembrò irreale, tanto quanto la sua stessa figura in piedi nel suo ingresso. Lasciò le chiavi in un portaoggetti e si girò verso di lei.
Era sempre la stessa: pantaloncini, converse, borsa di cuoio, capelli arruffati, solo che stavolta era a New York, in casa sua.
Fremette a quel pensiero. Ai suoi occhi era perfetta e non avrebbe voluto nessuna altra donna in quell’appartamento probabilmente per sempre. Non le lasciò il tempo di guardarsi intorno che le prese il viso e la baciò. L’incantesimo non si spezzò: lei era ancora lì e le sue gote rosse e lentigginose erano tra le sue mani. Il sapore delle sue labbra era lo stesso.
Immediatamente, lei portò le mani ai suoi capelli, facendogli perdere il controllo.
Fece scivolare le mani fino al suo bacino e la tirò su. Era un tizzone acceso.
La desiderava così ardentemente che credette di non arrivare nemmeno al divano.
Le tirò via i vestiti, senza dire una parola. Sentiva le sue unghie graffiargli la schiena, mentre le baciava il collo e la sentiva sotto di sé, stesa sui cuscini rivestiti di pelle bianca.
Mentre lei gli toglieva la maglietta, capì che in quel momento stavano comunicando. Ogni suo gesto, ogni sua espressione, riusciva a raccontargli anche più di quanto volesse lasciare intendere. Era nuda, in tutti i sensi e lui lo era altrettanto.
Non era un altro sogno. Stavano facendo di nuovo l’amore e fu come se l’avesse per la prima volta.
 

I suoi sensi erano attivi come se non avesse dormito soltanto 5 ore nell’arco degli ultimi tre giorni. Quando lui la sfiorava, anche soltanto con un dito, il suo corpo riprendeva a funzionare.
Ansimavano ancora, mentre lui teneva il capo poggiato sul suo petto e il suo corpo – Lei – era inequivocabilmente viva.
Non aveva programmato niente di tutto ciò che stava accadendo, a partire dal fatto di andare a New York.
Se solo fosse riuscita a tirare fuori la voce, gli avrebbe detto che voleva farlo ancora, ma la sua fronte sudata e le sue mani bollenti sui fianchi glielo impedivano. Sentiva quel momento molto intimo e lasciò che si incidesse nella sua anima. Ed e Sara. Sara e Ed. Ancora non riusciva a pronunciare i due nomi insieme e a sentirli in armonia, ma erano lì e lei avrebbe giurato che non poteva esserci nulla di più autentico.
Gli posò una mano sul viso, sentendo il suo respiro sfiorargli il polso e lui le baciò il palmo. Alzò lo sguardo e la raggiunse, cercando le sue labbra. Sentiva quel contatto così intensamente che stava cominciando a convincersi che la sua vita stava per cambiare radicalmente, cominciando dal fatto di dover ammettere di essersi inesorabilmente innamorata di Ed Sheeran.
Al pensiero di averlo ammesso a se stessa, le salivano le lacrime agli occhi. Una, una soltanto lasciò i suoi occhi e lui, invece di chiederle perché piangesse, gliela asciugò con un bacio.
Erano quelli i gesti che glielo facevano amare: il fatto che lui riconoscesse in quella lacrima un sentimento che non avesse bisogno di ulteriori spiegazioni o parole di conforto, faceva di lui un uomo fuori dal comune. Faceva di lui, Ed.
Lasciò che si stendesse accanto a lei, scivolando lentamente via dal suo corpo. Ogni suo movimento era per lei una prova che quella era la realtà.
Per diverso tempo rimasero lì, senza parlare, fino a che Sara non sbadigliò.
  • Vuoi metterti a letto?
Lo guardò, studiando quella premura nei suoi occhi. Doveva dormire, ma non ci sarebbe mai riuscita se prima non avesse fatto una doccia. Le bastò chiedere e lui si alzò, infilandosi di nuovo le mutande e dirigendosi verso la sua camera da letto in cerca di qualcosa di comodo da prestarle. Fu in quel momento, rimanendo sola, che riuscì ad osservare quella casa. In ogni angolo riusciva a vederlo lavorare, mangiare, riposare. Era quello il luogo che lui chiamava casa e lei ci era dentro. L’infinita vetrata che faceva da muro di cinta della casa, dava su una New York assolata e brulicante di vita. Guardando fuori, si sentì a disagio con la sua nudità, così si alzò e infilò la sua t-shirt, andando alla ricerca del bagno. Lo trovò senza sforzi e cercò da sola il necessario per fare quella doccia.
Quella casa era al livello dell’hotel di Sorrento, si facevano una bella concorrenza. Aveva quasi paura di toccare i mobili, aprire i cassetti, tanto le sembravano preziosi e delicati.
Saltò un metro da terra quando lui entrò senza bussare, spuntandole alle spalle.
  • Scusa, ti ho spaventata? – aveva indossato qualcosa di comodo.
  • A morte.
Sorrise alla vista di quel suo sguardo così sereno, così “casa”. Le sembrava che fosse felice di averla lì, a parte il fatto che avevano appena terminato di fare l’amore. Sperava già, in cuor suo, che sarebbe stato sincero come due settimane prima. Aveva fiducia e paura insieme, ma ormai ci aveva fatto l’abitudine. Lasciò che le prendesse il necessario, piegato sulle gambe e curvo, alla ricerca di qualcosa nel cassetto più basso. Quei suoi movimenti, quelle spalle ricurve, le erano così teneramente familiari. Le sembrava di conoscere alla perfezione ogni sua forma e ne era ancora imbarazzata.
Doveva essere diventata rossa, a giudicare dal suo sguardo spaesato.
  • Io, forse…
  • No! – si affrettò a dire – Va tutto bene. – e si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, stretta nella sua t-shirt.
Lesse sollievo sul suo viso. Lo abbracciò, spontaneamente, premendo il viso nel suo collo robusto e sentì la stretta venir ricambiata.
Dopo un lieve bacio, sparì sotto la doccia per i successivi 20 minuti e quando ne uscì, lo trovò intento a lavarsi i denti prima di darle il cambio. Non potè fare a meno di immaginare come sarebbe stata la sua vita con lui: la mattina colazione insieme, doccia a turni, guardarsi in quel modo che sa di buona abitudine, come accadeva in quel momento. Poi c’era il tour e lei rimaneva sola.
Mise un fermo a quei pensieri, rendendosi conto di star correndo come una Ferrari.
Asciutta, si accomodò sul divano ad aspettarlo, ma nel giro di cinque minuti Morfeo prese il sopravvento su di lei.
 

Si rendeva conto che il jetleg era pesante da sopportare, ma desiderava vedere i suoi occhi. Si consolava guardandola dormire placidamente, mentre le carezzava il capo. Profumava del suo bagnoschiuma e ciò implicava automaticamente che lei fosse di sua proprietà.
Sua madre aveva chiamato al cellulare e aveva risposto per lei, lasciandole intendere che sì, erano a casa sua e sarebbe rimasta lì. Tanto non avrebbe potuto fare di più che sbraitare al telefono. Almeno le aveva risparmiato il peso di parlare dell’argomento “vivo-a-casa-di-Ed” con sua madre.
Sentendo il suo respiro leggero, si rese conto che aveva paura della conferenza che li aspettava: lei era così innocente in confronto a quel mondo. Cosa avrebbe provato quando avrebbero dichiarato di essere ufficialmente fidanzati? Il mondo intero li avrebbe visti, ma avrebbero scorso soltanto una finzione e lui non voleva che lo fosse. Desiderava che quel gesto da programmato divenisse spontaneo e naturale. Reale, nel modo in cui queste cose dovrebbero essere sempre. Quel loro binomio non era uno scherzo, non per lui, ma come poteva pensare di privarla del suo futuro? Era per questo che aveva paura: voleva che lei inseguisse i suoi sogni, come stava facendo lui, ma quel piano non poteva prevedere da subito la sua presenza in scena.
Erano già quattro ore che dormiva ed era ora di pranzo. Si alzò, dopo averle dato un’ultima occhiata, ancora speranzoso che lei si svegliasse. Si diresse in cucina e con tutta calma preparò dei pancakes, canticchiando una canzone di Steve Wonder.
Lo sfrigolio del burro nella padella riempiva il silenzio di quella casa. Di tanto in tanto guardava l’uscio della porta, sperando di trovarvela, ma si trovò deluso ogni volta.
Quando l’impasto fu finito, prese la pila di pancakes e la portò sul tavolino di fronte al divano, trovandola ancora lì che dormiva.
Si inginocchiò accanto al suo viso e le sfiorò una guancia. Un piccolo movimento le fece incurvare le labbra e lui sorrise a quella vista. Si calò su di lei e le baciò quello stesso punto, piano, facendole finalmente aprire gli occhi. Aveva le occhiaie.
Vide i suoi occhi azzurri correre su di lui e poi si alzò, facendo cadere i piedi al suolo. Sbadigliò sonoramente e guardò la colazione sul tavolo.
  • Li hai fatti tu? – chiese, con la voce ancora impastata dal sonno. – Scusa se non ti ho aiutato.
  • Non fa niente. – rispose, sedendosi accanto a lei. – Hai dormito bene?
  • Ho dormito, è già molto. – non lo guardava ancora.
Quando avrebbero finito di mangiare, avrebbe dovuto parlarle della conferenza che li attendeva l’indomani, doveva prepararla alle possibili domande personali che le avrebbero fatto.
Posarono i piatti sul tavolino, dei pancakes non era rimasto nulla se non briciole. La luce filtrava dalle vetrate e lui si sentiva scoperto.
  • Sara – ebbe la sua attenzione – dobbiamo parlare della conferenza di domani.
  • Conferenza?  - lo guardò con sguardo interrogativo.
  • Sì. J ne ha indetta una così da cominciare a far indietreggiare i giornali. Dobbiamo dargli le informazioni che vogliono.
  • E devo esserci anch’io? – leggeva disagio nei suoi occhi.
  • Ti prego. Devi venire con me, ti prometto che non ti mollerò per un istante.
La vide far perdere lo sguardo sul pavimento. Le prese la mano, volendole trasmettere il suo stato d’animo.
  • Lo so che non ti va di farlo, ma voglio evitare a qualsiasi costo che i giornalisti ti perseguitino e scrivano di te cose poco piacevoli. Purtroppo questo mondo funziona così.
  • E dovrò farlo spesso?
  • No, dopo questa conferenza non dovrai farlo più. – la rassicurò e sentì la sua stretta farsi più forte, incoraggiata dalla notizia.
Fece intrecciare le loro dita, godendo del calore che emanava il suo palmo e si sedette più vicino a lei, aspettando le sue domande. Le stava chiedendo così tanto, eppure lei era lì ad accettarlo.
  • Cosa devo dire? – chiese, timida.
  • Ecco…io dirò che noi siamo fidanzati.
Lui stesso divenne rosso come un bambino nel sentire le sue stesse parole e abbassò lo sguardo per evitare di vedere i suoi occhi dilatarsi per la sorpresa.
  • Lo so che non lo siamo, ma è questione di pochi mesi, dopodiché…sarai libera di fare quello che vuoi. – fece una pausa. – Potrai tornare a casa.
Lei rimase immobile, senza distogliere gli occhi dal suo viso e Ed si sentì studiato da quella ragazzina che lo sconvolgeva, forse lasciando trasparire quel suo desiderio di averla davvero per sé. Non sapeva che Sara, in quell’occasione, condivideva i suoi pensieri e le sue paure.
  • E io dovrò rispondere alle loro domande?
  • Sì, ti chiederanno come ci siamo conosciuti, quando ci siamo fidanzati.
Le spiegò come funzionava una conferenza di quel genere e lei prese mentalmente appunti sulle risposte da dare.
  • E se mi chiedono qualcosa di cui non so la risposta?
  • Allora interverrò io, sta tranquilla.
La strinse al suo petto e desiderò che la sua presenza lì avesse altre motivazioni, ma doveva proteggerla. A costo di affrontare quell’irrazionale paura di fingere sentimenti reali.
Forse, un giorno, le avrebbe detto cosa pensava davvero.
 

J aveva lasciato un messaggio registrato, intimando Ed di farle comprare un vestito adatto all’occasione. Almeno per quella volta non avrebbe avuto a che fare con estranei che le dicessero cosa fare, perché lei lo odiava. Lo sapevate già, no?
Non sapeva come avrebbero fatto con i giornalisti, ma si fidò di lui e indosso degli occhiali troppo grandi e i vestiti più anonimi che aveva e – ansiosa – lo seguì fuori dalla porta.
Quando mise piede fuori dal grattacielo, si guardò intorno vedendo per la prima volta New York.
Mentre camminavano, stava attenta a non lasciare la sua mano per non andare a sbattere addosso a qualcuno, troppo intenta a guardarsi intorno. Si respirava un’aria del tutto diversa, ma era elettrizzante essere lì. Lo sentiva ridere per quella sua reazione, ma smise presto di farlo grazie ai pugni che gli mollava con la mano libera.
Con suo grande sollievo, entrarono in un negozio qualsiasi, una di quelle grandi catene commerciali nelle quali trovavi di tutto.
  • Cosa dovrei indossare? Non un abito elegante, spero.
Aveva accettato di partecipare, ma di certo non l’avrebbero addobbata per fargli un piacere. Si sarebbe vestita normalmente, senza eccedere in niente. Proprio da lei.
  • Non ce n’è bisogno. Per me, puoi indossare quello che vuoi. Spero solo che J non ci linci quando ti vedrà.
  • Perché mai dovrebbe farlo?
  • Per una pura questione di immagine che a me non interessa, quindi provati quello che vuoi.
Sguazzarono nei tre piani del negozio e arrivarono ai camerini col soltanto pochi capi.
Sara aveva dei gusti difficili, lo avrebbe imparato presto.
Entrò sola, lasciandolo ad aspettare fuori, lontano dalle ragazze che vagavano tra gli scaffali. La camicia gli copriva le braccia tatuate.
Guardandosi nello specchio del camerino, si disse che non sarebbe stata la ragazza che si aspettavano. Lei aveva i capelli corti, i fianchi larghi, troppo alta per lui. Non aveva un modo di vestire del tutto definito e parlava l’inglese solo per dare indicazioni ai turisti. Non era una cantante, un’attrice, una modella. Probabilmente sarebbero rimasti delusi.
Infilò prima un capo, poi l’altro, senza mai decidersi, troppo imperfetta per potersi convincere di essere pronta a quell’evento.
Finì per scegliere qualcosa che avrebbe potuto utilizzare anche in altre occasioni. Uscì dal camerino e gli fece cenno di potersi allontanare.
  • Allora? Aspettavo che uscissi per farti vedere.
  • Non volevo attirare l’attenzione.
Alla cassa, prese il suo portafoglio per pagare, ma Ed la precedette dando alla commessa la sua carta.
  • Questi non sono soldi che devi spendere tu, chiaro?
Non ebbe il tempo di ribattere che lui le circondò le spalle e la portò fuori. Persa nel suo profumo, appoggiò la testa alla sua spalla e passeggiò con lui in silenzio.
Non sapeva dove la stesse portando, ma il suo calore le bastava a farle passare la curiosità. Si diede della stupida da sola, quando si accorse di star fantasticando di nuovo. Quel modo di camminare insieme la rendeva così serena che già si immaginava a considerarla un’abitudine.
Non sapeva se il suo futuro fosse lì, ma per il momento l’idea di essere nello stesso posto con lui le bastava a farci un pensiero. Dovette rimproverarsi, stava di nuovo esagerando.
In un certo senso erano tornati al principio, erano in una nuova fase: non si erano confrontati su niente che li riguardasse come possibile coppia, quindi non sapeva lui cosa pensasse e quella sua inquieta paura non vedeva l’ora di tornare a tormentarla.
  • Ti va un caffè? – la distrasse dai suoi pensieri.
Entrarono in un piccolo Caffè sulla strada principale, uno di quelli in cui la gente si ferma a prendere caffè d’asporto e loro così fecero. Ed ne chiese per lei uno particolare, probabilmente immaginando che il loro caffè non le sarebbe piaciuto.
Lo assaggiò, sentendo la bevanda aromatizzata alla vaniglia.
  • Cosa c’è dentro? – rise.
  • Vaniglia, cacao e caramello.
  • Vuoi farmi salire la glicemia? – ma continuò a bere.
Prima che arrivassero all’ingresso del grattacielo, aveva già terminato la bevanda. Voleva dirgli che avrebbe voluto girare ancora per le strade, ma capì che forse era troppo rischioso, in un certo senso e comunque non le dispiaceva l’idea di stare a casa con lui.
  • Prima ha chiamato tua madre, stavo quasi per dimenticarmene.
  • Cosa?! Che le hai detto? – era già nel panico.
  • La verità. Che stavi dormendo e che saresti rimasta da me.
  • Hai detto a mia madre che resto a casa tua? Cioè, io resto a casa tua?!
Non lo aveva mica capito che avrebbe vissuto lì, in quella casa, ad aspettarlo che tornasse dagli studi. Non aveva capito che avrebbero dormito insieme, perché lo avrebbero fatto, c’era una sola camera da letto. Non aveva capito che voleva tenerla con sé.
  • Non ti lascio in albergo da sola.  – disse, uscendo dall’ascensore. – Non mi va.
Neanche a lei andava. Preferiva sicuramente stare lì e sentirsi a casa. Quando di chiusero la porta alle spalle, espresse la sua preoccupazione maggiore.
  • E mia madre come ha reagito?
  • Ha dato di matto per qualche secondo, poi si è rassegnata al fatto che era più sicuro per te e per la tua privacy. Non so cos’abbia detto a tuo padre.
  • Ma tu…sei sicuro?
Non le permise di aggiungere altro, poiché la abbracciò e Sara perse le parole. Posò le mani sulla sua schiena, analizzando quel suo gesto per dargli una spiegazione sensata.
  • Sono sicuro.
Quelle parole le accelerarono i battiti, ma poi aggiunse:
  • E tu?
E il suo cuore si fermò. C’erano migliaia di significati da poter attribuire a quella domanda, ma Sara sapeva in cuor suo che per lei ce n’era solo uno. Non fu in grado di rispondere a parole, così lo abbracciò più forte, sperando che bastasse a fargli capire quanto fosse assurdamente sconvolta e felice delle sue parole.
D’improvviso, tutte quelle fantasie non le sembrarono così assurde e gli abbracci nell’ingresso di quell’appartamento le sembravano già familiari.
Trascorsero il resto della giornata a scegliere cosa avrebbe dovuto indossare lui, anche se non era difficile decidere, a cercare qualcosa da mangiare per cena, senza trovare nulla, a scegliere un film da guardare insieme. Nonostante l’assurdità che permeava ogni momento di quella giornata, Sara si sentì nel posto giusto ogni volta che Ed le dava un bacio o una carezza.
 

Quella sensazione che sentiva nel petto lo riportò con la mente al momento in cui la incontrò per la prima volta. Si chiedeva chi fosse davvero quella ragazza, voleva scavarle nell’anima alla ricerca di quel tesoro al quale lei stessa lo stava guidando. Ogni giorno era come il primo. Ogni canzone aveva ritrovato senso.
  • Ti va di sentire la tua canzone?
Non l’aveva mai definita in quel modo davanti ad altri, ma sua lo era sempre stata. Voleva che lei fosse la prima ad ascoltarla, prima che venisse diffusa online. Era la sua e doveva esserlo anche in quel senso. La vide strabuzzare gli occhi, come se stesse prendendo coscienza di quel fatto solo in quel momento.
Prese la chitarra dal retro del divano, dove la lasciava sempre ed incrociò le gambe. Cominciò a cantare, guardandola lì, piccola nel suo magliettone, che lo ascoltava. Conosceva già le prime strofe, ma quando cominciò a cantare la seconda parte della canzone, lei cambiò espressione.
 
And if you hurt me, that's okay baby, there'll be worse things.
Inside these pages you just hold me and I won't ever let you go.
Wait for me to come home.
Wait for me to come home. Wait for me to come home.
Wait for me to come home.
You can keep me
inside the necklace you bought when you were sixteen, next to your heartbeat, where I should be.
Keep it deep within your soul.
And if you hurt me, that's okay baby, there'll be worse things. Inside these pages you just hold me
and I won't ever let you go.
When I'm away, I will remember how you kissed me under the lamppost back on Sixth street, hearing you whisper through the phone:
wait for me to come home.
 
Forse anche lei aveva ricordato quegli ultimi giorni, poiché aveva gli occhi pieni di lacrime e sorrideva, cercando di trattenersi dal piangere. La riconobbe per quella che aveva conosciuto in Italia, la ragazza qualunque che ora lo abbracciava, facendolo commuovere.
Dio, se erano sdolcinati. Probabilmente avrebbero fatto aumentare il livello di zuccheri a chiunque.
Più tardi, la aiutò a sistemare le sue cose nei cassetti vuoti e col pigiama che le stava due volte più grande, la strinse a sé coricandosi a letto. L’indomani avevano parecchio da fare, sarebbe stato meglio dormire, ma l’agitazione non lo permetteva ad entrambi. Sussurrarono a lungo al buio, raccontandosi cosa avessero fatto nelle ultime due settimane, poi, quando lei non resistette più alla stanchezza accumulata, si lasciarono andare al sonno.
Quel loro viaggio, pensò Ed stringendola, era appena cominciato.




Angolo autrice:

Allora, bellezze, innanzitutto grazie infinite per il numero di visite. Sono in crisi! Temo che il finale che ho scritto da poco sia deludente rispetto al resto della storia, quindi se rimarrete delusi (tra molti capitoli) saprò di essermelo meritato.
Ma pensiamo al presente: cosa ne pensate? In effetti questo è solo un capitolo di passaggio, di "importante" c'è solo il loro incontro, ma presto arriverà anche il prossimo capitolo.
Aspetto le vostre opinioni! :)
Bye!


L'aeroporto di NY:

L'appartamento di Ed:


L'abito che Sara compra per la conferenza:


E già che ci sono, ecco il link del video di Photograph. Guardatelo, in esso è racchiuso il senso che questa storia vuole dare al personaggio di Ed, l'essere umano con una storia, un passato, una famiglia. Buona visione!

https://www.youtube.com/watch?v=nSDgHBxUbVQ&list=FLs1FCs8ClIJthN39AExJidQ
 

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Capitolo 22
*** God, save her. ***




- God, save her. -


Sara scalpitava per la casa alla ricerca di qualcosa, ma l’unica cosa che aveva bisogno di trovare era la calma. Da quando si era svegliato e non l’aveva trovata nel letto accanto a sé, aveva capito che quella sarebbe stata una lunga mattinata. Avevano fatto colazione con quel poco che c’era in frigo e lei si era rinchiusa nel bagno, lasciandolo lì sul divano senza potersi lavare nemmeno i denti. Capiva che fosse agitata, lo era anche lui al pensiero di dichiarare il falso desiderando che fosse vero. Stava diventando una fangirl in piena regola a furia di immaginarsi insieme a lei nella vita di tutti i giorni, ma quei pensieri sarebbero rimasti confinati nella sua mente.
  • Sara! – la chiamò. – Lasciami almeno lavare i denti!
Dopo un’eternità lei aprì la porta. Aveva fatto una doccia e aveva i capelli ricci ancora gonfi per il getto del phon. Presero entrambi lo spazzolino e si lavarono i denti. Guardavano la loro immagine allo specchio.
Ed vide la mano di Sara avvicinarsi alla sua testa per aggiustargli i capelli e si girò a guardarla, senza smettere di spazzolare. Era carina, ma avrebbe preferito che quella mano lo spettinasse. Dovette darsi un pizzico sulla pancia e accontentarsi di quel gesto, poiché in mezz’ora J sarebbe passato a prenderli.
Quando finalmente uscirono dal bagno, si vestirono seduti sui lati del letto. Dovette fare del suo meglio per non girarsi a guardarla, ma si concesse una veloce occhiata prima che lei si coprisse: lo aveva già notato la mattina precedente, ma non pensava che fosse dimagrita così tanto. Non ne era contento e si sentì in colpa, poi il vestito la coprì. Le stava davvero bene, ma a parte quello, era proprio da lei andare ad una conferenza vestita in quel modo.
Infilò la sua camicia scura e i suoi jeans e si voltò verso di lei.
  • Penso che qualunque cosa io faccia o dica, le tue fan mi odieranno a prescindere.
Lo aveva detto mentre si truccava allo specchio, limitandosi ad un po’ di correttore e mascara.
Come avrebbero potuto odiare qualcuno che non si trucca per andare a dire di essere la sua fidanzata?
  • Non che mi interessi, ma mi dispiacerebbe risultare antipatica. Cioè, sono una donna e conosco le donne. Non sarebbe piacevole.
  • Vedrai che non sarà così.
La raggiunse, sistemandosi i polsini e le baciò una guancia. Lei, vedendolo in difficoltà, gli diede una mano e ricambiò quella gentilezza. Era questo che amava di loro: si consideravano persone normali e si comportavano da tali, perché erano – appunto – persone.
Con gli occhiali da sole alla mano, uscirono di casa ed entrarono in macchina con J. La tensione cominciava davvero a farsi sentire. Seduto accanto a lei, la vedeva muovere le gambe, torturarsi le dita e le labbra, mentre lui si passava le mani tra i capelli.
  • Ed, hai istruito la ragazza? – fece J, a metà strada.
  • Sara, J. È il suo nome. – disse, scocciato di quel suo atteggiamento – E sì, le ho spiegato tutto, sta tranquillo.
Le prese la mano, riflettendo ancora una volta sulla sua presenza in quella macchina. Si chiese come fosse possibile essere felici e impauriti fino a quel punto. Non sapeva a quale delle sensazioni dare la precedenza. Non vedeva l’ora che quel supplizio avesse fine.
L’auto frenò e i flash già li assalivano. Fece un lungo respiro con gli occhi chiusi, ricambiando la stretta impaurita di lei. Sono qui – voleva dirle.
  • Non lasciare la mia mano, ok? – disse, guardandola.
  • Ok. – rispose lei, annuendo troppe volte con la testa.
Le diede un bacio rapido e seguì J fuori.
Non appena furono all’esterno, la confusione annullò qualsiasi cosa. Si fermò come da programma, per permettere ai giornalisti di scattare, poi proseguì con la mano di lei che gli bloccava la circolazione. Le carezzò il dorso col pollice, sperando che servisse a darle coraggio.
Entrarono in una sala anonima e si accomodarono dietro un lungo bancone. Ed si sfilò gli occhiali, invitandola a fare lo stesso. Nemmeno il tempo di dirsi una parola che già cominciarono le prime domande. Era il momento di contrattaccare: si armò del suo coraggio e della sua spontaneità e sorrise alla stampa.
  • Ed, questa ragazza è davvero la tua fidanzata o è stata solo un’avventura?
  • Se lo fosse stata, non sarebbe qui.
  • Dunque, conferma il suo impegno?
  • Lo confermo. Lei è la mia fidanzata.
  • Molti credono che si tratti di una cosa passeggera, è vero?
  • Questo lasciatelo decidere a noi. – e le strinse la mano.
  • Come si chiama la signorina?
Quello era il momento in cui le cedeva la parola. Le face un segno con la mano, liberandola dalla paralisi che la imprigionava. I loro occhi si incontrarono, ancora assaliti dai flash, e le sorrise.
  • Sara.
  • Sara – chiesero immediatamente – cosa fai nella vita? Non sei una star.
  • No, io…studio all’università.
  • Cosa studi? Ti laureerai a breve?
  • Scienze della formazione primaria. Spero di laurearmi l’anno prossimo.
Ed la guardò rispondere, cercando di resistere alla sua morsa mortale, ma non perse mai il controllo della situazione. I fan se ne stavano tranquilli in fondo alla sala, i giornalisti parlavano uno alla volta, le telecamere registravano. Andava tutto bene, tutto nella norma.
  • Ed, le tue ex fidanzate sono state tutte star e sono finite male: pensi che scegliendo una ragazza qualunque possa finire bene?
Che cosa disgustosa.
  • Scegliere? Non sono andato in Italia per scegliermi una fidanzata, innanzitutto, e non fa differenza che sia una star o meno. Non è questo che determina il nostro legame, vorrei che questo fosse chiaro a tutti, anche ai miei fan.
  • Quindi pensa che le voci che si tratti di una montatura scompariranno?
  • Non sono fondate, quindi avranno vita breve.
Fu una cosa lunga e straziante, quasi infinita. Forse perché non avevano mai ficcanasato così a fondo, spingendosi anche oltre i limiti della privacy, ma ovviamente declinò qualsiasi domanda non gli andasse a genio. Spesso sorrideva a Sara, seduta accanto a lui, che sembrava aver capito il meccanismo di quel gioco. Se lui le sorrideva, lei doveva ricambiare e sarebbero stati tutti felici, J compreso. Fino a quel momento, però, non le aveva mostrato un solo finto sorriso. Se la guardava, gli veniva naturale.
  • Vi ringrazio per l’attenzione, ma noi adesso ci congediamo.
La tirò su dalla sedia, per uscire da lì dopo due ore di interrogatorio. I giornalisti strepitavano, ma lui continuò a scendere le scalette che lo portavano giù dalla pedana.
Le fan, come sempre, si avvicinarono alle transenne, ma non avrebbe lasciato la mano di Sara.
Fu un attimo.
Nell’esatto istante in cui si voltava per parlarle, vide quella ragazza correre verso di loro, sfuggita al controllo della sicurezza, un bastone tra le sue mani. La sua espressione arrabbiata si avvicinava pericolosamente e non fece in tempo: la mazza da baseball che reggeva, fu più veloce delle sue mani e colpì Sara in pieno. Sentì la sua presa allentarsi e vide i suoi occhi chiudersi. Non sentì altro che la sua voce chiamare il suo nome. Una sua fan aveva colpito la sua fidanzata in piena testa e lei aveva perso i sensi.
Riuscì a prenderla prima che toccasse il suolo, mentre il bodyguard afferrava la sconosciuta.
La sua mente smise di funzionare quando capì che lei non gli avrebbe risposto.
Il suo sangue macchiava già il pavimento e gli sporcava le mani. Si gettò a terra sulle ginocchia e urlò a gran voce di chiamare il 911.
Istintivamente premette la mano sulla sua ferita, senza smettere di chiamarla. Gli sembrarono trascorse ore quando l’ambulanza arrivò e la portò via, lontano dalle sue mani.
Seguì gli infermieri senza badare a nessuno. J provò a trattenerlo, ma lo colpì con una forza che non sapeva di avere. Si infilò nell’autoambulanza e pregò Dio di non portargliela via, altrimenti per lui sarebbe finita.
 
Lasciò andare il suo viso pallido soltanto quando qualcuno lo costrinse. La sua barella entrò in sala operatoria e non sapeva quando ne sarebbe uscita.
Non poteva essere. Non poteva accadere. Se riavvolgeva il nastro continuava a non capire.
Non era mai successo nulla del genere in passato, perché ora? Perché lei?
Un’infermiera lo portò di forza in una stanza separata e gli fasciò il dito rotto, colpito dalla mazza. Avrebbe preferito rompersi tutta la mano, se fosse servito a proteggerla. Era lì, inerme, che fissava le mani di quella donna mentre faceva il suo lavoro. Non si era mai sentito così inutile in tutta la sua esistenza. Non gli importava del singolo, del successo, di J o della musica. Senza di lei nulla avrebbe avuto senso.
Riusciva soltanto a pensare di non averle ancora detto di amarla.
J si fiondò nella stanza, chiamandolo per nome, ma lui non si curò della sua presenza. Gli scosse la spalla, ma quando vide il suo viso, smise.
Doveva avere davvero una brutta cera se J si stava preoccupando.
  • Ed – cominciò, facendolo alzare – vedrai che andrà tutto bene.
E se non fosse stato così? L’avevano colpita in testa con una mazza.
  • Te lo prometto, ragazzo.
  • Cosa farò? – J lo guardò, senza capire. – Cosa farò se muore?
Fu allora che, per la prima volta, il suo manager lo abbracciò e, per la prima volta, lui si lasciò andare al pianto.
Non voleva scrivere un’altra Afire Love. Avrebbe preferito morire.
 
Gli avevano dato un tranquillante, ma la sua tachicardia non rallentava, la sua ansia non svaniva. Era seduto su quella sedia da ore, senza avere alcuna notizia.
La spia rossa della sala operatoria non accennava a spegnersi.
Desiderò essere al suo posto decine di volte, ma quando riapriva gli occhi si ritrovava ancora lì, a rifiutare qualsiasi possibile avvenimento che contemplasse il non rivederla. J aveva provato invano a convincerlo di tornare a casa, poiché i giornalisti affollavano già l’ospedale, ma lui non si sarebbe mosso di lì, a costo di prendere a pugni qualcuno.
Erano anni che non pregava, ma quella volta affidò tutto se stesso a Dio.
Come se qualcuno avesse ascoltato le sue preghiere, un medico uscì dalla sala e gli andò incontro. Scattò dalla sedia.
  • La ragazza sta bene.
Giurò che non avrebbe mai più dubitato di Dio.
  • Lei è un parente?
  • No, ma sono l’unica persona che conosce, qui. La prego, mi dica.
  • Ha subito un forte trauma. Abbiamo dovuto infiltrarci all’interno per rimuovere l’ematoma e fermare l’emorragia. Per fortuna non ha riportato danni seri, ma…
Eccola, la cattiva notizia.
  • …potrebbe essere in coma.
Coma? Voleva dire che lei non si sarebbe svegliata?
Il medico voltò le spalle, lasciandolo solo con una grande responsabilità: chiamare i signori De Amicis per informarli dell’accaduto.
Rinvigorito dal fatto che lei fosse viva, prese il cellulare dalla tasca e compose il numero salvato in rubrica per le emergenze.
Quando la signora ascoltò le sue parole ebbe la reazione che si aspettava e lui avrebbe voluto scomparire. Fece comprare dei biglietti aerei a J, che prima però gli diede una pacca sulla spalla.
  • Lei sta bene, tutto il resto è superfluo. – disse il suo manager.
Col cuore affaticato, entrò nella stanza dove l’avevano portata. Era stesa tra le lenzuola bianche, intubata e pallida, la testa fasciata, l’occhio livido.
Il bip dei macchinari era musica per le sue orecchie, ma non sentirla ricambiare la stretta della sua mano gli fece male. Si sedette accanto a lei, su uno sgabello e si portò una mano agli occhi, forzandosi di non piangere. Era soltanto colpa sua se era ridotta così, se non l’avesse costretta a raggiungerlo a New York, a quest’ora sarebbe al sicuro, con la sua famiglia.
Non si sarebbe mosso di lì fino a che non avesse riaperto gli occhi. Doveva restare per lei, ma d’altronde non sarebbe riuscito ad allontanarsi comunque.
Da quel momento, la sua stessa vita dipendeva da quel bip.
 
Quando si svegliò la mattina dopo, piegato sul materasso, la flebo era già stata cambiata. Il suo orologio segnava le 9:07.
Era ancora in uno stato confusionario, ancora riluttante nell’accettare la realtà. Aveva una tale rabbia dentro che avrebbe potuto prendersela con chiunque.
Il ricordo nitido di quei momenti, cominciò a tormentarlo, facendogli chiedere perché, perché mai non fosse riuscito a proteggerla.
Il dito fratturato gli pulsava nel gesso, ma cosa importava. Di lì a poco i genitori di Sara sarebbero arrivati e lui non era pronto ad affrontarli. I medici entrarono e uscirono dalla stanza più e più volte, ripetendo sempre le stesse parole: è stazionaria.
Non riusciva a non fissare il suo viso, immaginandola risvegliarsi da quel sonno.
Alle 15:00, la madre di Sara fece il suo ingresso. Quando si voltò a guardarla, la vide immobile sotto la porta, con gli occhi gonfi e una mano a chiudersi le labbra tremanti.
Non lasciò la mano di Sara nemmeno quando la donna si avvicinò a lui, lanciandogli addosso il giornale. Le foto dell’accaduto dovevano essere ovunque, ma non riuscì a guardare quella pagina per più di un secondo.
  • Cosa le hai fatto?
Furono le uniche parole che riuscì a dire tra le lacrime, mentre suo marito nascondeva il suo dolore, voltandosi verso il muro. Volva piangere anche lui.
Tradusse le parole dei medici per loro, immagazzinando quante più informazioni riuscisse a carpire. J, che doveva essere andato a prendere i De Amicis all’aeroporto, non si era ancora fatto vedere. Meglio così.
 
Passarono altri due giorni prima che qualcuno andasse a cercarlo e si trattava di sua madre. Fu sconvolto nel vederla sotto l’uscio. La madre di Sara, che non si era staccata dal letto nemmeno per un istante, non la degnò di uno sguardo, limitandosi a guardarlo male per la milionesima volta. Avrebbe voluto spiegarle che se avesse potuto, avrebbe preso il suo posto senza indugio, ma la donna rifiutava qualsiasi contatto con lui.
Si alzò dallo sgabello, lasciando controvoglia la mano immobile di Sara per raggiungere sua madre.
Si lasciò abbracciare, riversando in quel contatto il suo dolore. La sovrastava di parecchio, ma si sentì protetto e compreso più che con chiunque altro. Sua madre lo strinse, carezzandogli le spalle.
  • Ho letto di lei sui giornali e mi eri sembrato così felice che…quando ho letto dell’aggressione sono corsa qui. Mi dispiace, Ed.
La sua voce lo consolava, come quando era bambino.
  • Mamma, è colpa mia. Non avrei dovuto farla venire qui.
  • Non è colpa tua, figliolo, lo sai. Non potevi prevederlo.
Sua madre chiuse la porta e lo portò alle sedie del corridoio, per stare più tranquilli. Ed raccontò a sua madre la dinamica dell’incidente, attimo per attimo e lei lo ascoltava pazientemente, senza lasciargli le mani.
  • E quella signora?
  • È sua madre. Non sono ancora riuscito a parlarle.
  • È ancora sconvolta, figliolo, devi comprenderla. Guardami, Ed. – E lui lo fece – Tu ami questa ragazza?
  • Sì – rispose, ammettendolo per la prima volta ad alta voce.
  • Allora non è colpa tua, tesoro. Se solo potessi vedere i tuoi occhi come li vedo io, sapresti che chiunque la penserebbe come me.
Non erano bastate le lacrime che aveva già versato, perché abbracciò sua madre e pianse ancora. Poco più tardi, si cambiò con i vestiti più comodi portati dalla mamma e la accompagnò nella stanza. Aveva insistito per vedere la sua fidanzata.
Si accomodò sullo sgabello che lui stesso occupava da giorni e la vide cercare lo sguardo della madre di Sara. Quella, parve capire subito chi fosse e ricambiò lo sguardo, ancora privo di ragionevolezza. Sua madre accarezzava il viso di Sara come fosse stata sua figlia e già le immaginava conoscersi e andare d’accordo.
Quando sua madre uscì dalla stanza, lo lasciò con un abbraccio e con un incoraggiamento: prega per lei. Lo avrebbe fatto.
Prima che si voltasse per rientrare, vide il padre di Sara andargli incontro.
  • Signore! – cominciò – Io…
  • Cosa c’è, ragazzo? – disse gelido.
  • Mi dispiace. Ho cercato di proteggerla. Se potessi, prenderei il suo posto, mi creda.
Inaspettatamente, quello gli mise una mano sulla spalla.
  • Lo so. – e abbassò lo sguardo. – Perdona mia moglie, è così sconvolta…Non puoi capire il dolore che prova, ma credo che anche noi non possiamo capire il tuo.
Riuscì soltanto ad annuire, immobile a quel contatto così significativo.
  • Signore-
  • Chiamami Max.
  • Max. – si sforzò di continuare. – Lo so che è tardi per dirglielo, ma io… - quello lo guardò con aspettativa. - …voglio stare con lei. Con sua figlia. La amo, con tutto me stesso.
Quella pacca sulla spalla si trasformò nell’abbraccio di un padre disperato. Fu così felice che lui lo avesse ascoltato, ma voleva parlare con sua madre. Sciolsero la stretta e Max si passò due dita sugli occhi, cancellando le lacrime, poi proseguì all’interno portandolo con sé.
  • Anna… - chiamò la moglie. - …il ragazzo vuole parlarti.
  • Cosa vuole? – disse brusca.
  • Chiederle scusa, signora – intervenne lui – Se avessi potuto prevedere tutto questo, non l’avrei mai fatta venire fin qui. Mi dispiace, io…vorrei essere al suo posto.
Anna scattò dalla sedia come una furia e lo spintonò, urlandogli contro.
  • Se tu non l’avessi perseguitata a quest’ora starebbe bene, a casa! Si può sapere cosa vuoi da mia figlia? Guardala! Guarda com’è ridotta!
Il suo cuore si incrinò nel sentirla parlare in quel modo, i suoi spintoni erano come pugnalate. Max la fermò, prendendola per le braccia e intimandole di abbassare la voce, altrimenti li avrebbero cacciati tutti.
  • Non avrei mai voluto che accadesse! La prego, deve credermi, non volevo tutto questo. Non potrei mai volerlo, sua figlia è… - Non riuscì a continuare.
  • Cosa? Cosa vuoi ancora? Non avvicinarti mai più a lei, hai capito?
  • No, non lo farò. Io resterò qui, che a lei piaccia o no! – e si avvicinò alla donna, per guardarla negli occhi. – Finchè non l’avrò vista svegliarsi, io non mi alzerò da quella sedia.
Anna, ancora sconvolta, scoppiò in un pianto e Max la abbracciò. Forse aveva esagerato. Sperò che il rapporto con Anna non sarebbe rimasto quello per sempre.
Tornò allo sgabello e riprese la mano di Sara tra le sue. Non l’avrebbe mai lasciata.
 
Nei giorni seguenti, sua madre tornò a fargli visita, facendogli compagnia per le lunghe ore di silenzio in cui aspettava il suo risveglio. Anna, da quando avevano litigato, cominciò ad osservarlo di sottecchi, forse per studiare i suoi sentimenti, forse per capire quel ragazzo sconosciuto e le sue intenzioni, ma lui non si smosse di un millimetro. Prima o poi lei avrebbe capito ogni cosa.
I medici entravano in scena sempre con la stessa cantilena, recitando le parole come su un copione, lasciandogli una mezza speranza e niente da dire.
Qualche amico gli aveva scritto, cercando di dargli coraggio, Taylor era passata in ospedale a salutarlo. Lo apprezzava, ma…
Guardava il suo viso ogni giorno più pallido, le sue braccia ogni giorno più sottili, il suo livido svaniva lentamente. Di flebo in flebo, il tempo scorreva scandito dalle gocce che scendevano del tubo, lento e maledetto.
Quando qualche volta rimanevano soli, in quella stanza asettica, le parlava. Le raccontava come andavano le cose, incoraggiandola a resistere. Torna – le diceva – Torna da me.
Qualche volta le aveva infilato le dita nei suoi capelli rossi, pensando che percepisse quella sensazione. Qualche volte cantava per lei, a bassa voce.
Una mattina J si presentò alla porta, annunciandogli che doveva uscire da lì, altrimenti i suoi contratti sarebbero stati sciolti.
Non voleva andare via, ma se non avesse guadagnato qualcosa, non avrebbe potuto pagare le spese mediche di cui si era preso responsabilità.
Dopo una settimana di veglia, lasciò la sua mano promettendole che sarebbe tornato quella sera. Le lasciò un bacio e andò via, sotto la mano paterna di J.




Angolo autrice:

Seriamente, non mi esprimo. Mi aspetto di tutto, dal crollo delle visite all'autoeliminazione della storia.

 

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Capitolo 23
*** Lost in a dream. ***




- Lost in a dream. -


Cinque settimane dopo
 
Che sogno strano era quello? Voleva svegliarsi da quell’incubo, ma non ci riusciva.
Per un attimo, pensò di aver sentito la voce di Ed, ma non lo vedeva. Quel posto assurdo in cui stava camminando era deserto. Cosa significava?
Provò a parlare, ma non le uscì la voce. Si sentiva pesante e intorpidita. Quel sogno era davvero realistico. Non riusciva a ricordare cosa fosse accaduto o quando fosse andata a dormire. Continuò a camminare in quel sogno, senza meta.
Sembrava che il tempo non scorresse, come se fosse intrappolata in una stanza buia.
Percepiva delle strane sensazioni, delle strane voci, ma non riusciva a capire cosa dicessero. Poi, sentì sua madre piangere. Le si gelò il sangue, mentre la chiamava invano. Lei non poteva sentirla e capì presto perché: era in coma.
L’aveva sentita dire chiaramente quella parola. Doveva essere così, altrimenti non si spiegava.
Per ore, non sentì più nulla, soltanto il costante bip di qualche macchinario.
Era spaventata, l’idea di non potersi muovere, non poter parlare la straziava. Avrebbe voluto dire di essere cosciente, ma il suo corpo non riceveva i suoi segnali. Era imprigionata in se stessa.
 
Non poteva scandire il tempo, non distingueva il sonno dalla coscienza, riusciva soltanto a distinguere qualche parola, ogni tanto. Suo padre doveva essere lì, riconosceva il suo respiro, mentre dormiva.
Cosa era successo? Non riusciva a ricordare. Non sapeva nemmeno se tutto ciò che riusciva a ricordare fosse accaduto realmente o era solo la sua immaginazione, ma poi, come se l’avesse chiamato, sentì la voce di Ed.
Le chiedeva come stava, oggi, se si sentiva meglio. Avrebbe voluto urlare.
  • Il livido sta sparendo, sai? Non si vede quasi più. Oggi sono andato alla radio ed ho cantato qualcosa per te. Vuoi sentire?
Non sapeva cosa stesse facendo, poi sentì una musica diffondersi come per magia. Dovevano essere delle cuffie. Era una canzone che conosceva. Stay with me.
Si chiese se lui da fuori potesse vedere le lacrime che sentiva scorrere dentro. Si sforzò con tutta se stessa di fare qualcosa. Muoviti, corpo, ti prego. Ma niente, continuava a restare rinchiusa lì.
Troppo presto la canzone finì e il silenzio coprì qualsiasi cosa. Si chiese se Ed le stesse tenendo la mano.
 
Non sapeva quanto tempo era passato, ma aveva capito di aver dormito. Non sentiva nulla intorno a sé, soltanto il bip. Chi sa se i dottori avevano scoperto qualcosa, se avevano capito che fosse cosciente. Probabilmente no. Non sapeva neanche se fosse reale.
Spesso sentiva dei passi e qualcuno sedersi accanto a lei, ma non udì mai una parola. Questa persona rimase per molto tempo, lo sapeva perché ne sentiva il respiro e i movimenti. Non riusciva a immaginare chi fosse. Magari qualche sua amica, ma chi lo avrebbe mai saputo. Tuttavia, quella presenza la consolava. Ogni tanto sentiva sua madre canticchiare la ninna nanna che le cantava da bambina. Era così dolce riascoltarla.
Raramente, le tornava in mente qualcosa, come una melodia, un’immagine, delle parole, ma poi svanivano di colpo. In quei momenti si stancava così tanto che si riaddormentava.
 
Riconobbe il profumo di caffè.
Doveva esserci qualcuno. Avrebbe voluto chiedere un sorso, l’orario, il giorno, ma ancora il suo corpo era immobile.
Non sentiva più la voce di Ed da un tempo che le sembrò eterno, ma per quanto ne sapeva potevano essere passati 5 minuti, un giorno, delle settimane.
Qualche volta le capitava di sentirsi meglio, forse per via di qualche medicinale, ma – ancora – non lo sapeva.
Si sentiva terribilmente frustrata nel sentire le voci e non poter rispondere che lei era sveglia, ascoltava. Il bip del macchinario cominciava a darle sui nervi, ma era l’unico indizio che le permetteva di capire se era sveglia.
Riuscì a sentire le voci dei medici, ma non distinse una parola, il suo cervello non era in grado di tradurre.
 
Quando in un determinato momento si svegliò, la prima cosa di cui fu consapevole fu che Ed era lì e stava suonando. La sua voce le riempì la testa, mentre cantava qualcosa che non aveva mai ascoltato. Una canzone nuova?
Lo sentì avvicinarsi trascinando la sedia verso di lei e cominciò a parlare.
  • Senti: Give me love like her, cause lately I’ve been waking up alone. The pain splatter tear drops on my shirt. I told you I’d let them go and that I find my corner and that tonight I’ll call you after my blood turns into alcohol. No, I just want to hold you.
Ti piace?
Sì, gli rispose, ma senza un filo di voce.
  • Vorrei che tu potessi sentirla.
Ascoltare quella voce incrinarsi, la fece soffrire più di qualsiasi altra cosa. Sentire il pianto di sua madre, non aveva lo stesso valore, non le dava quel dolore. Lo sentì fare un profondo respiro e riprendere a suonare. La melodia della chitarra la cullava e lo immaginava con le gambe incrociate e gli occhiali sul naso. Quell’immagine la portò indietro nel tempo e poi si addormentò.
 
La cosa che più la turbava, era il fatto di non sentire il suo corpo. Non aveva percezione di nulla, come se esistesse solo la sua mente.
Cercò di ricordare una qualsiasi sensazione: l’acqua sui piedi, la carezza di Martina, l’abbraccio di sua madre. Ci fu una cosa che l’aiutò a sentire un pizzicore: il ricordo di lei e suo fratello da bambini che si facevano il solletico. Le venne da ridere, sentendo i muscoli dell’addome.
Allora il suo corpo era ancora lì, esisteva.
Tutte le volte che era sveglia, cercava di concentrarsi su un ricordo, sperando di sentirsi viva. Non sempre funzionava, troppo distratta dalle voci e dai sussurri o troppo ansiosa di risentire la voce di Ed, che ogni tanto arrivava e la riprendeva dal fondo del baratro.
Le mancava così tanto.
  • Sai, mamma ha detto che sei tanto carina. Vuole vedere i tuoi occhi, perché le ho detto che sono belli, quindi sbrigati. Se ti sveglierai, non andrò in tour. Non ti lascerò sola, ma ti prego…torna. Torna da me. Ti porterò a Central Park e a prendere il caffè al caramello. Se vuoi, andiamo al luna park. Dove vuoi, ma resta.
Sentì il rumore delle sue labbra schiudersi. Avrebbe voluto sentire quel bacio più di qualsiasi altra cosa al mondo. Ma non poteva.
 
Stava per impazzire. Voleva piangere, urlare, prendere a calci qualcosa.
Il pizzicore non le bastava più, rivoleva la sua vita indietro.
Il ricordo di certi baci e certe carezze la facevano disperare. Ed tornava da lei sempre più spesso o forse era sempre lì e lei non lo ricordava o dormiva.
Stava per arrendersi, ma un giorno sentì chiaramente il calore di qualcuno.
  • Ciao. Oggi sono venuto prima.
Era Ed. Dio. Sentiva le sue mani calde. Non poteva vedere, ma sentì il bip dei macchinari accelerare. Sentì la sua mano muoversi.
  • Sara? Oh, Cristo. Sara?
Il medico doveva essere entrato, aveva imparato a distinguerne l’andatura. Dov’era sua madre?
  • Sara, mi senti?
La sua presa era…stretta. Voleva ricambiare, fargli sapere che era cosciente. Ci mise tutta se stessa, si sforzò a costo di consumare tutte le sue energie. Non sentiva i suoi muscoli muoversi, ma…
  • SARA! Dottore, mi ha stretto la mano!
Ci era riuscita davvero? Si era mossa?
  • Non lasciarla, ragazzo. Sara, se senti qualcosa, stringi ancora. Provaci.
Era stanca, ma si sforzò di nuovo.
  • Sì! Sì! La stringe!
  • È un ottimo segno! Bene, facciamo subito un controllo.
Il bip non accennava a rallentare. Era ancora emozionata.
  • Allora mi senti! – erano rimasti soli. – Metticela tutta. Io sono sempre qui, tutti i giorni. Mi senti? Io sono sempre qui.
Fu l’ultima cosa che sentì, prima di addormentarsi di nuovo.
 
Ogni giorno, la voce di qualcuno dei suoi cari le raccontava qualcosa, tenendole stretta la mano e una volta sentì la voce di suo fratello. Le portava dei biglietti da parte dei suoi amici. Glieli lesse tutti, dal primo all’ultimo.
Un giorno, quando si svegliò, sentì che respirava diversamente. Un lieve dolore le dava fastidio alla gola. Forse le avevano tolto qualche orrendo tubo.
  • Ormai vivo per sentirti stringermi la mano.
Le parole di Ed erano di grande motivazione. Lei voleva uscire, ma si sentiva ancora troppo stanca.
  • Il dottore ha detto che stai riprendendo lentamente tutte le funzioni. Presto potresti svegliarti. Spero di essere qui quando accadrà.
Passava il tempo ed imparò a scandirlo attraverso il bip delle macchine. Si rese contò che passava più lentamente di quanto credesse e che ogni giorno contava più bip della volta precedente.
  • Ti ho portato dei fiori. – era la voce di sua madre. – Senti il profumo? Vorrei che stringessi la mano anche a me.
Voleva renderla contenta e pensò di esserci riuscita, poiché la sentì ricambiare la stretta.
  • Max, Sara ci sente! Il dottore ha ragione, è cosciente. Ti amiamo, tesoro. Ti aspettiamo.
 
Doveva aver dormito parecchio quella volta, perché si sentiva particolarmente confusa.
  • …così ho detto a J che ci avrei pensato la settimana prossima.
Ed era lì?
  • Ieri è uscito il secondo singolo. Quella canzone che ti ho fatto ascoltare.
Cominciò a cantare, ma aveva una strana sensazione. Come se fosse molto più stanca del solito. Sentiva il suo corpo particolarmente sveglio, ma troppo pesante per muoversi.
Non si accorse di cosa stesse facendo: d’un tratto la luce le ferì gli occhi.
Aveva visto! Aveva aperto gli occhi!
Il bip accelerava insieme al suo cuore.
  • Sara!
Era terribilmente confusa.
  • Dottore! Infermiera!
Ci provò ancora e piano, riuscendo a distinguere per qualche secondo i capelli di Ed. Erano sempre rossi come quel sole rosso acceso.
  • La ragazza è sveglia! Chiamate i genitori!
  • Sara, mi vedi? Sono io! Oh mio Dio.
Cominciava a distinguere i suoi occhi, ma girava tutto.
  • Oh mio Dio, vedo i tuoi occhi. Resta sveglia, resta sveglia! Guardami, sono qui.
Dentro di sé sorrideva, ma non sapeva se lui vedesse un sorriso sul suo volto. La sua voce alta era deviata dal suo respiro troppo veloce. Lo vide avvicinarsi e sentì il suo calore avvolgerla. Voleva abbracciarlo a sua volta, ma per il momento si accontentò di fissare il suo viso e sbattere le palpebre. Era felice quanto lui.
 
Si era riaddormentata, ma si era anche svegliata altrettante volte, trovandolo sempre lì, insieme a sua madre e a suo padre. Suo fratello era tornato in Italia.
Non riusciva a distinguere i numeri dell’orologio attaccato alla parete, ogni cosa che guardava le sembrava distorta, ma i medici l’avevano avvertita che sarebbe stato così.
Dopo qualche giorno cominciò a muovere il collo e ad essere più cosciente del fatto che era uscita da un coma di un mese e mezzo. L’aria che le entrava nei polmoni era un dono del cielo.
Quasi sempre, quando riapriva gli occhi, vedeva Ed accoccolato vicino a lei che le stringeva la mano, carezzandola col pollice. Un paio di volte era riuscita a ricambiare e anche a sorridere, ma non riusciva ancora a parlare. Voleva fare mille domande.
Ogni tanto emetteva qualche gemito, per chiedere dell’acqua e sua madre subito scattava per servirla. Non era mai stata così premurosa.
Un pomeriggio, le disse che presto sarebbe dovuta andare via, perché il visto scadeva a breve. Il governo americano non le permetteva di restare. Suo padre non si mosse dai piedi del suo letto per i giorni che rimasero.
 
La mattina della loro partenza, vide J. Era davanti a lei che sorrideva e ricambiò quella sua premura nell’accompagnare i suoi genitori all’aeroporto con il miglior sorriso che riuscisse a fare.
  • Ciao tesoro. Mi dispiace lasciarti da sola.
Piangeva, ma la incoraggiò come poteva. Annuiva alle sue raccomandazioni e sorrideva. Riuscì a baciare suo padre sulla guancia. Sparirono poco dopo dietro la porta.
  • Ho promesso a tua madre che mi sarei preso cura di te. Prima che ti riaddormenti, vorrei farti conoscere qualcuno.
Una signora di mezza età entrò dalla porta. Aveva un che di familiare negli occhi e nel sorriso.
  • Lei è mia madre.
  • Ciao, dolcezza. Ben svegliata.
Non appena si fu seduta accanto ad Ed, fu certa che si trattasse di quella misteriosa persona che sentiva ogni tanto. Riconosceva il suo respiro.
  • C…Ciao.
Erano le prime parole che diceva da più di un mese.
  • Non ti sforzare. Ed aveva ragione, i tuoi occhi sono splendidi.
Sorrise al rosso che le stringeva ininterrottamente la mano.
  • Gli hai proprio fatto perdere la testa, sai? Lo hai fatto così spaventare che ha perso 5 chili! – la donna rise, prendendo in giro il suo ragazzo.
  • Mamma! – e lui era così buffo, quando si imbarazzava.
  • Ma è vero! – e gli pizzicò la guancia. – Trattamelo bene, eh!
Un accenno di risata le riempì il petto. Ascoltò le loro chiacchiere e le trovò piacevolmente interessanti dopo quel silenzio straziante.
 
 
A due mesi e mezzo dall’incidente
 
Aveva cominciato la riabilitazione e aveva ripreso a mangiare. Le sue giornate le sembravano ancora faticose, ma ne era felice. Sua madre chiamava ogni giorno da quando aveva ripreso a dire qualche parola e Ed era così premuroso da darle fastidio certe volte.
I medici e le infermiere la incoraggiavano a fare del suo meglio dicendole che più si impegnava, prima sarebbe uscita. Ovviamente lei seguiva quel consiglio.
Da quando aveva ripreso a fare tutte quelle cose, Ed era sempre lì, in ogni momento: a pranzo, a cena, per la riabilitazione, nell’orario delle visite. Poter vedere il suo viso era la sua medicina giornaliera, la distraeva dalle mille domande alle quali non sapeva dare una risposta. Quella fasciatura che aveva alla testa doveva essere la ferita che le aveva provocato il coma. Più ci pensava, più non riusciva a darsi una spiegazione.
Tempo al tempo – continuavano a dirle.
Mary, la dolce madre di Ed, le teneva compagnia quasi per tutto il giorno, ma ben presto andò via anche lei, a causa della scadenza del visto. Tuttavia, non soffrì la solitudine.
Spesso, approfittava delle ore buca per riposare. Non vedeva l’ora di riacquistare le forse per andare a prendere quel caffè al caramello di cui Ed diceva che avesse bisogno. In effetti, non aveva mangiato per praticamente due mesi e il suo peso era sceso drasticamente. Non era mai stata così magra in vita sua e non desiderava davvero esserlo. Il suo seno era sparito, le gambe avevano perso le curve. Infatti, quasi ogni giorno Ed le portava dei cioccolatini, avendo avuto il permesso dal medico.
Guardò l’orologio, riuscendo a distinguere la posizione delle lancette. Sapeva che Ed doveva essere in radio e che tra poco avrebbe cantato. Gliel’aveva già programmata, così dovette soltanto stendere una mano e l’aggeggio si accese.
Qualcuno parlava troppo velocemente e lei capiva ben poco.
  • Hi! I’m Ed Sheeran and this is my new song “Give me love”. Enjoy!
Gliel’aveva cantata così tante volte che l’aveva imparata a memoria. Ogni parola. E l’amava.
Tra le domande che si poneva, c’era anche: cos’erano loro due, ora?
Amici? No, no di certo. Lo sapevano entrambi.
Amanti? Ma il loro non era un rapporto di solo sesso.
Fidanzati? E chi lo sapeva.
Capiva soltanto che quella canzone aveva un significato che la riguardava da vicino.
“All I want is the taste that your lips allow. My, my, my, my. Give me love.”
 
Arrivò il giorno del suo compleanno. Non avrebbe mai immaginato di trascorrerlo in ospedale, in America. I suoi l’avevano già chiamata e le avevano passato anche la nonna, suo fratello le aveva mandato un sms a mezzanotte.
Alle 10:00, puntuale come sempre, Ed entrò dalla porta, cantandole Happy Birthday con un sorriso stampato in faccia. Rise, quando dietro di lui spuntarono decine di palloncini e un mazzo di fiori, era davvero eccessivo, come sempre. Si sedette sul materasso accanto a lei e la baciò sulla guancia. Niente baci, non deve stressarsi – aveva detto il dottore. Peccato che più non lo baciava, più le veniva il nervoso. Doveva suggerire un cambio di terapia.
Lo guardò in viso e vide che era davvero stanco. Il viso scavato e le occhiaie le fecero venir voglia di alzarsi e cedergli il letto. Si vedeva lontano un miglio che era sfinito, ma non lo avrebbe mai ammesso.
  • Buon compleanno! – le disse, porgendole un pacco.
  • Ed! Lo sai che non ce n’è bisogno. – ma intanto sorrideva come una bambina.
Scartò il pacco con i suoi occhi incollati addosso e quando lo aprì ne tirò fuori…un gatto!
  • Un gatto!
  • Sì, un gatto!
  • Oh mio Dio, è…è…
Era minuscolo e nero e zampettava sul letto alla ricerca di un posto comodo. Finì per sedersi sulla sua pancia.
  • Così, quando tornerai a casa, non sarai sola.
I suoi occhi lo tradivano, ma non tentò di nasconderlo. Gli posò una mano sul viso, sentendo la sua barba troppo lunga rispetto al solito. Si guardarono a lungo negli occhi.
  • Grazie. – riuscì a dire.
  • Grazie a te. Per essere tornata.
Fu a quel punto che i suoi occhi si appannarono. Il solo pensiero di aver rischiato tanto la rendeva grata di poter vivere quel giorno ed altri ancora.
Ed si voltò più volte verso la porta, per controllare che non arrivasse nessuno e le si avvicinò.
Poggiò la fronte sulla sua, permettendole di sentire il suo respiro e con il fiato sospeso, la baciò. La sensazione di quel contatto fu come una scossa elettrica, un fulmine. Lo aveva desiderato anche più di quando erano in Italia: una volta assaggiato il miele, non puoi più smettere di mangiarlo. Fortunatamente non controllavano più il suo battito cardiaco, altrimenti quella macchinetta sarebbe scoppiata. Era una sensazione impagabile. Il regalo più grande.
Ben presto dovettero separarsi, ma le guance di entrambi parlavano chiaro.
La accarezzò ancora, con quella luce negli occhi e poi andò via, per tornare soltanto quella sera.
  • Ed. Ti va di dirmi cosa è successo?
Si indicò la cicatrice sulla fronte, a causa della quale lui aveva preso a chiamarla Harry Potter.
  • Sei sicura che tu te la senta?
  • Prima o poi dovrai dirmelo.
  • Già. Beh…eravamo alla conferenza stampa, ricordi? – lei annuì – Quando siamo scesi dalla pedana, una ragazza ci è corsa incontro e ti ha colpito con una mazza da baseball. Ho provato a fermarla, ma non ho fatto in tempo. Sei svenuta e hai cominciato a perdere sangue e sono venuto con te in ambulanza. – era quasi troppo distratta dalle ombre che aleggiavano nei suoi occhi e dalla luce bianca del neon che si rifletteva sul suo viso stanco e sui suoi capelli scompigliati.
Non ricordava assolutamente nulla di tutto ciò che le stava raccontando.
  • Ti hanno portato in sala operatoria. Non so quante ore ho aspettato, prima che il medico uscisse, forse 4 o 5. Mi ha detto che forse eri in coma e infatti…
  • E tu, ti sei fatto male?
  • Mi sono rotto un dito, ma è già passato. Ad ogni modo, ho dovuto chiamare i tuoi e li ho fatti venire qui.
  • Mia madre ti ha trattato male, vero?
  • Sì, ma…tuo padre, è stato lui ad ascoltarmi. In un certo senso, ci siamo capiti. Temevano tutti per la tua vita. Ma tu – e strinse gli occhi - ricordi quando hai ripreso coscienza?
Sì che lo ricordava.
  • Sì…era come se fossi in un incubo. C’è voluto un po’ per capire cosa mi fosse successo. Ti sentivo, sai? Già prima di riuscire a stringerti la mano.
  • Davvero? – quasi sorrideva all’idea che lei lo avesse ascoltato.
Gli raccontò dei suoi ricordi bui, lasciandosi totalmente alle spalle la questione della mazza e della ferita: il fatto di non avere alcun ricordo la aiutava e l’essere viva, con lui, le bastava.
Vederlo appoggiato al materasso, accanto a lei, con quello sguardo, bastava ad ignorare tutto il suo passato.




Angolo autrice:

Salve dolcezze!
A questo punto della storia, lascio tutto nelle vostre mani. L'ho letta e riletta e non riesco a immaginarla diversamente, quindi spero vi piaccia e non sia troppo piatta rispetto ai primi capitoli. :(
D'altronde, si tratta di ancora pochi capitoli.
Intanto, fatemi sapere cosa ne pensate e grazie mille ai lettori silenziosi, siete tantissimi!
Vi lascio il link della cover di "Stay with me", cantata da Ed: https://www.youtube.com/watch?v=48qwvBkpw1g
Buon ascolto e alla prossima!
Bye. :)

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Capitolo 24
*** "The kid is not my son". ***




- "The kid is not my son" -

 

Da quando si era svegliata, era rinato. Si guardava allo specchio e vedeva un uomo con una ragione per vivere. Alla radio non fingeva più, ballava mentre suonava, dormiva, mangiava, registrava. Il suo mondo aveva ripreso a girare e quel giorno era il grande giorno.
Stava andando a prenderla per portarla a casa. A casa.
I giornalisti erano già accalcati all’ingresso, ma ci stava pensando J.
Quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe attraversato quel corridoio ormai troppo familiare. Nelle radio, mandavano in onda i suoi singoli, insieme agli auguri di pronta guarigione per la sua “fidanzata”.
Quando entrò dalla porta e la vide in piedi, vestita nei suoi abiti ormai troppo grandi, si sentì così sollevato da riuscire ad interrompere per un attimo i suoi pensieri. Si passò una mano tra i capelli e si affiancò a lei, per aiutarla.
  • Ti porto a casa. – disse, sorridendo.
Era in grado di camminare da sola, ma volle lo stesso che si appoggiasse a lui.
Le sue dita erano ancora sottili, ma aveva ripreso un paio di chili. Sentì le gambe tremargli quando fecero il primo passo verso l’uscita.
  • Ed, cos’è questo chiasso?
Le urla e gli schiamazzi si sentivano fin dall’interno.
  • Ci sono i giornalisti, ma stavolta ho fatto raddoppiare gli uomini.
  • Non ce n’era bisogno.
Il suo sorriso radioso gli placò l’anima. Teneva una mano poggiata sulla sua, quando uscirono dalla porta principale. Immediatamente, J gli andò incontro e le diede un bacio sulla guancia.
  • Pensavo di aver perso Ed, ma grazie a Dio stai bene!
Rise spontaneamente, riuscendo a comprendere le sue parole e continuò a seguirlo verso la macchina. Voltando lo sguardo, vide un enorme striscione: GIVE HIM LOVE.
Si portò una mano alla bocca, comprendendone il significato. Lo indicò a Ed e lui sorrise, salutando la folla.
In quel momento si sentiva un po’ il principe d’Inghilterra e lei era la sua Kate. Fece un ultimo cenno prima di entrare in auto. La aiutò a sedersi e filarono via.
  • Per fortuna è andata bene. – le disse.
  • Non avevo dubbi. – rispose lei.
Con la stessa lentezza, arrivarono in casa e finalmente, potevano rilassarsi.
Come di consueto, la abbracciò. Era viva ed era tra le sue braccia. Baciò la cicatrice che aveva sulla fronte e la accompagnò al divano.
  • Stai bene?
  • Sì, sto bene, non cominciare!
  • Domani devo andare agli studi, ma ti prometto che torno per pranzo!
  • Ed, starò bene. C’è anche Ted con me.
  • Ted? Hai chiamato il gatto Ted? –intanto il micetto zampettava sul divano
  • Sì e allora?
Si tolse le scarpe e si accomodò meglio accanto a lei. Il dottore aveva detto niente stress, ma…due secondi dopo la stava già baciando. Il suo sospiro si confondeva con quello di lei, dandogli la sensazione che quel bacio fosse desiderio di entrambi. Non riusciva a non prendere il suo viso tra le mani. Era come se dovesse recuperare tutto il tempo perso, tutti i baci in meno, ma sentiva chiaramente che era ancora debole.
  • Scusa, va bene. – le disse, distaccandosi – Non voglio metterti fretta, riposati quanto vuoi.
  • Ed, ti prego, non fare la mamma. Lo so che ti senti in colpa, ma lo sai che non sei responsabile. – la guardava negli occhi, assorbendo quelle parole. – Ti sei anche rotto un dito.
  • Se fosse stato necessario, mi sarei tagliato una mano. Non sono una mamma, sono solo…
Si interruppe, in imbarazzo, rimanendo a bocca aperta. Non era ancora pronto a fare quel passo e lei non lo incitò a continuare. Un’ora di coccole dopo, la lasciò per andare agli studi. La baciò sotto la porta, raccomandandole di starsene buona. Quella volta, andando via, fu sicuro del fatto che l’avrebbe rivista. Amava la sua figura poggiata all’uscio, come se quello fosse proprio il suo posto.
 
Quando finì di registrare, dovette partecipare ad un’intervista, per volere di J.
Durante quei due mesi, le foto della sua settimana in Italia facevano capolino su tutti i giornali, ma la situazione che stava vivendo gli permise di sfuggire ai mass media per un po’ ed ora era il momento delle spiegazioni. Di nuovo.
Dovette spiegare quelle immagini, anche se parlavano da sole. Non ci voleva un genio per dire che erano stati al mare. Raccontando gli eventi, i particolari delle sue sensazioni gli tornavano alla mente come se li avesse appena vissuti. Qualunque cosa fosse accaduta, non avrebbe mai dimenticato quella settimana. Non avrebbe mai dimenticato lei.
Fremeva all’idea di tornare a casa e trovarla lì, sperò che stesse bene. Quando finalmente rispose all’ultima domanda, si congedò e scappò via, comunicando a J che quel weekend non aveva intenzione di lavorare. Si sentiva già abbastanza in colpa per averla lasciata sola il primo giorno fuori dall’ospedale. Durante il tragitto verso casa, chiamò il suo ristorante cinese di fiducia ed ordinò qualcosa per cena.
L’usciere lo salutò vedendolo rientrare, poi prese l’ascensore e schiacciò il tasto. Gli batteva il cuore.
Aveva le chiavi in mano, ma le ripose. Bussò al campanello e aspetto che lei aprisse. Aveva il fiato sospeso e nemmeno se n’era accorto.
Doveva essere quello che si provava a tornare a casa dopo una lunga giornata.
Quando lei aprì la porta, avvolta in un suo paio di pantaloni, capì cosa fosse la felicità.
  • Bentornato. – gli sorrise.
Non disse nulla ed entrò in casa, baciandola. Avrebbe voluto farlo tutti i giorni.
  • Com’è andata a lavoro?
  • Bene, ma mi sei mancata. – le disse, cercando il suo sguardo, senza smettere di sorridere come un ebete.
  • Anche tu mi sei mancato. Mia madre mi ha già chiamato 12 volte, spero che il numero di chiamate cominci a diminuire presto, altrimenti impazzirò.
  • Cos’hai fatto?
  • Ho riposato, guardando la tv, ma non ci capivo niente.
Rise, pensando alla sua faccia, guardando i programmi americani.
  • Molti programmi parlavano di noi. Dell’aggressione. – fece lei, serenamente.
  • Mi dispiace, non ho potuto farci niente. Vedrai che tra qualche settimana non ne parleranno più.
Quando arrivò la cena, si sedettero a terra accanto alla vetrata, perché lei voleva guardare il panorama illuminato. Lasciò che gli insegnasse a tenere le bacchette, mentre dividevano tutto ciò che aveva ordinato.
Più la guardava, più pensava che quella storia avesse dell’incredibile, eppure era fatta di piccole cose. Piccole persone e piccoli eventi, in un mondo così grande.
Era quella la felicità: dividere la cena con lei, seduti su un tappeto e guardare il panorama notturno.
  • Ed?
  • Sì? – avrebbe risposto a qualsiasi sua domanda.
  • Cosa…cosa siamo noi? Sono giorni che ci penso. – il suo viso era corrugato, ma non sembrava turbata come in altre occasioni.
Rimase sorpreso. Anche lui se l’era chiesto, ma aveva pensato che avrebbero dovuto deciderlo insieme.
  • In realtà speravo che me lo dicessi tu, ma… - e posò le bacchette - …credo che…dovremmo deciderlo insieme.
La vide diventare rossa. Si passò una mano tra i capelli, ancora in imbarazzato dopo tutto quello che c’era stato.
  • Ed, io…prima o poi voglio tornare in Italia. Devo terminare gli studi.
  • E io dovrò andare in tour, prima o poi. Però… - non sapeva come spiegarsi. - …però, non ce la faccio a rinunciare.
  • Io, sai, sono piuttosto confusa. Non voglio ferirti, ma ho paura di farlo in ogni caso. – sembrava che non le importasse di se stessa.
  • Vieni qui. – e la accolse tra le sue braccia. – Non dobbiamo decidere subito, ma sappi che, se fosse per me, saresti davvero la mia fidanzata. – e la strinse, senza sapere esattamente perché. Forse, aveva soltanto paura che lei non riuscisse a percepire quanto fosse importante.
Dopo l’aggressione, si era giurato di dirle tutto quello che pensava.
  • Anche io ho paura, ma…voler stare con te mi viene naturale. – continuò, lui.
  • Possiamo pensarci ancora un po’?
  • Certo che possiamo.
Avevano davanti il tempo necessario per prendere una decisione, ma entrambi erano spaventati dalla separazione, come la prima volta. Ed l’avrebbe lasciata andare, voleva che lei si prendesse il suo tempo per studiare e cominciare a lavorare, ma aveva paura di perderla. E se anche avessero ufficializzato il loro rapporto, chi gli assicurava che la lontananza non lo avrebbe distrutto? Gli era già capitato in passato.
Ancora una volta, dipendeva da quanto erano disposti a rischiare: potevano vivere un sogno e poi vederlo svanire o potevano convivere serenamente e poi lasciare che le loro strade si separassero. Vincere o perdere, dipendeva solo da loro, a prescindere dalla decisione che avrebbero preso.
Andarono a letto presto e nel buio si aprirono.
  • Quando ti ho vista perdere i sensi, ho avuto paura che non ti saresti più svegliata.
  • Mi dispiace. Non volevo far preoccupare nessuno. – quella sua risposta innocente, lo fece tremare.
  • Sara…tu vuoi stare con me? – non la guardava.
  • Sì, ma…
  • Lo so che saremo lontani, ma quando sarai andata via, non vorrò nessun’altra donna in casa mia che non sia tu.
  • Non puoi saperlo. – rispose nettamente.
  • Sì, che lo so. Non voglio nessun’altra. Nessuna. Mi chiedo se per te sia lo stesso. – il buio che li avvolgeva gli dava coraggio.
  • Lo è. – disse, stringendo la stoffa della sua t-shirt – Però, Ed…non so a chi dar retta, se al cuore o alla testa. L’uno mi dice di ascoltarti, l’altro di restare al mio posto.
  • Io la mia testa ho cominciato a ignorarla quando ti ho visto in quel letto. Forse non potrai capire cosa ho provato io, ma sappi che non ho nient’altro da perdere se non te. Voglio viverti, ogni giorno, anche quando sarai via. Non capisci? Ho tutto da vincere, se ci sei tu in questa vita. – forse doveva solo essere sincero, forse doveva solo amarla di più.
  • Ed…
  • Dimmi che tu provi lo stesso. – la stava quasi pregando, ma come aveva detto, non aveva nulla da perdere se non lei. La sentì annuire, mentre affondava il viso nel suo petto. – Allora, ci proviamo?
  • Ho paura – disse, mentre lui cercava i suoi occhi.
  • Anch’io. Io…mi sento così piccolo da solo, ma con te...
  • …Mi sento più forte.
 
Quando la sveglia suonò, alle 9:00, aprì gli occhi e si sentì completo. Sapere che condividevano delle idee e delle paure, lo rendeva più coraggioso. Un conto era amare da soli, un conto era amare in due.
La guardò mentre dormiva, contemplando la sua cicatrice. Quella era la motivazione che lo spingeva a mettere da parte ogni cosa, per lei.
Voleva ogni cosa di loro: i litigi, le risate, la stanchezza, il desiderio. Non riusciva a non credere che insieme avrebbero potuto affrontare ogni cosa, anche la distanza.
Scivolò giù dal letto e preparò la colazione. Magari sarebbero potuti uscire e andare a prendere il caffè fuori.
Il suo the era pronto e andò a vedere se fosse sveglia. La trovò distesa nel letto, con le braccia aperte e lo sguardo perso fuori a guardare il cielo.
La raggiunse, intanto che il the si freddava e la baciò: un altro piccolo pezzo di felicità.
Erano, insieme, inequivocabilmente qualcosa, anche se non se l’erano mai detti.
La aiutò ad alzarsi e mangiarono biscotti al bancone con gli sgabelli, che dava sul salotto.
Era la prima volta che lo faceva con qualcuno, in quella casa. Niente Nina, niente Lei.
Sembrava persa nei suoi pensieri, mentre muoveva la bustina di the nella tazza, ma non la richiamò. Forse stava pensando a quel loro discorso e voleva che lei ci riflettesse.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa per averla accanto, se fosse stato necessario si sarebbe trasferito. Londra non gli dispiaceva.
Come le aveva promesso, la portò a prendere quel caffè al caramello e andarono a passeggiare a Central Park. Dovevano camminare piano, altrimenti lei si sarebbe stancata troppo, ma gli sembrava raggiante sotto le fronde fresche del parco.
  • Molto più grande del bosco di Portici.
  • Già, ma troppo affollato.
I suoi capelli stavano crescendo a dismisura, entrambi necessitavano una sfoltita, ma gli piaceva il modo in cui i riccioli le cadevano sulle spalle. Si sedettero su una panchina ad osservare la gente passare, facendo commenti sulle persone più stravaganti. Istintivamente, Ed alzò un braccio e lo mise dietro alle sue spalle. Quel gesto così naturale, aveva un peso così importante per lui che credeva che nessuno potesse capirlo: era come il fatto di toccarle la gamba al ristorante. Il braccio significava che quella ragazza gli apparteneva. Non che qualcuno la stesse guardando, era soltanto un modo per dirlo al mondo.
Affinchè non si stancasse troppo, rimasero lì per diverso tempo.
 
Era ancora molto debole, forse avevano sbagliato ad uscire, ma l’aria aperta la faceva sentire così bene, dopo due mesi chiusa in una stanza.
Ogni tanto, sorprendeva Ed a guardarla. Com’era strano, essere lì, senza sapere ancora cosa fossero.
Ma forse la vera stranezza stava nel fatto che fossero diventati qualcosa. Insomma, lui era sempre Ed Sheeran: non la turbava il fatto che lui fosse famoso o fosse ricco, la turbava il fatto di averlo sempre guardato e ammirato da dietro uno schermo ed ora era lì, con quei sogni materializzati accanto a sé, su una panchina di Central Park, a New York. Aveva solo 23 anni.
Nel giro di tre mesi la sua vita aveva cambiato rotta in modo così radicale, che quella stessa abitudine di ascoltare le sue canzoni ora le suonava strana. Quasi lontana.
Era intrappolata a metà tra la sua vecchia vita e quella che si apriva ogni giorno dinanzi a lei. Anche per questo era confusa: era un momento di scelte, di decisioni e progetti che avrebbero cambiato per sempre il suo futuro.
C’erano così tante domande che la assillavano e poi c’era lui, che le annullava tutte. Era quel piccolo elemento che faceva perdere l’equilibrio alla bilancia.
Lei sapeva che Ed ne valesse la pena, nel vero senso della parola, ma valeva lo stesso per i suoi sogni. Sarebbero stati in grado di sopportare chi sa quanti anni di separazione?
Per quanto un sentimento potesse perdurare nel tempo, lo stesso non valeva per i legami e questo lo sapeva. Allora perché non sapeva decidersi?
Per stare più comoda, accavallò la gamba destra sulla sua coscia sinistra e continuò a sorseggiare il caffè. Il vento spostava i suoi capelli rossi, così allungò la mano per aggiustarglieli. Le piaceva toccarlo, anche per delle sciocchezze, si creava quell’intimità che non avevano mai saputo nascondere.
  • Su internet non si parla altro che di te e dello striscione che ti hanno lasciato fuori all’ospedale. – fece lui.
  • Davvero? In effetti era molto d’effetto.
  • I miei fan mi vogliono bene. È una bella cosa.
  • Invece no! – fece lei, ironica. – Le tue fan femmine sono tutte innamorate di te!
  • E tu come lo sai?
  • Sono anch’io una tua fan, quindi le so queste cose.
  • Ed eri innamorata di me?
  • Soltanto di quello che credevo che fossi, poi ho scoperto che sei uno scemo.
  • Come osi?!
Un altro piccolo pezzo di felicità.
  • Intanto sei qui, pronta a cedere ai miei baci, quindi non vantarti troppo.
  • Dettagli. – disse, facendo la smorfiosa.
  • E poi, per l’intera umanità sei la mia fidanzata!
  • Ah, davvero?
  • Sì.
Non stavano più scherzando. Il suo volto era più serio che mai e lei non seppe più cosa dire. I suoi capelli che si spostavano al vento non riuscirono a distrarla da quegli occhi, fissi nei suoi.
  • Sara. – e perse un battito. – Sara De Amicis, a prescindere dal numero di canzoni che scriverò per te…
Cosa stava facendo, quella testa calda? Non voleva lasciarla pensare? Cosa avrebbe risposto?
  • …e dai chilometri che ci separeranno...vuoi essere la mia vera fidanzata?
Sì. Sì. Sì. Voleva. Al diavolo ogni cosa, ogni problema. Quell’uomo era capace di cambiarle l’umore, le idee, le decisioni, il battito cardiaco con una sola parola, quindi tanto valeva accettare da subito, perché prima o poi si sarebbe abbandonata a lui. Sentiva in cuor suo che quel sì era spontaneo, più del sorriso che aveva in viso.
Nella sua testa lo urlava così forte che non si accorse che dalla sua bocca non era uscito alcun suono.
  • Ti prego, dì qualcosa. – vide la sua espressione preoccupata.
  • Sì! Sì!
Gli carezzò il viso per rassicurarlo. Era davvero una sciocca: in balia di qualcuno dal primo momento e non se n’era resa conto.
  • Cavolo, mi hai fatto prendere un colpo! – disse, prendendola in un abbraccio.
  • Già, anche a me. – rise di se stessa.
  • Beh, ci ho messo poco a farti cambiare idea. – la provocò, strofinando il naso col suo.
  • Meno male, Sheeran.
  • Non farai sul serio!
  • Sì lo so, ti devo chiamare Ed.
Lo baciò come se fosse la cosa più naturale da fare, non perché fosse il momento adatto o perché fosse giusto, soltanto perché voleva. Sentì il sorriso di Ed allargarsi sulle sue labbra e non seppe trattenersi nemmeno lei.
Da quel giorno, era fidanzata – davvero – con Ed Sheeran.
 
Quando tornarono a casa, non ci misero molto ad arrivare al letto. Ed la prese in braccio e ve la adagiò piano, per paura di farle male. Era così leggera. Persino i vestiti furono facili da sfilare, tanto le andavano larghi. Forse l’amore li avrebbe fatti ingrassare entrambi.
La baciò con una passione del tutto nuova: quella ragazza non era più un punto interrogativo nella sua vita. Stava per fare l’amore con la sua fidanzata e ci mise tutto se stesso. Aggrappato alle lenzuola, non interruppe il contatto con le sue labbra e la fece sua. La sua barba strusciava contro il suo collo, contro il suo seno rinvigorito. Sentiva quelle dita percorrergli la schiena.
Non aveva mai provato nulla del genere, facendo l’amore con una donna. Non aveva mai fatto l’amore con una donna in quel modo, in realtà. Con lei era tutto nuovo, anche il sesso.
Dovette limitarsi, poiché le parole del dottore sulla sua salute, lo tormentavano.
Il suo stesso respiro era pesante, mentre rallentava il ritmo.
  • Ed!
  • Cosa? Ti sei fatta male? – si fermò di colpo.
  • No, no!
  • E cosa, allora?
  • Siamo degli incoscienti, fin’ora non abbiamo usato precauzioni!
Sbiancò, ma non per la notizia, bensì perché aveva temuto di averla ferita.
  • Maledizione, mi hai fatto prendere un colpo! – le disse, sconvolto, abbassando il capo insegno di sollievo.
  • Verrà a me un colpo se mi ingravidi! Per non parlare di mia madre! – fece lei, sbiancando all’idea.
  • Scherzi, vero? Non mi fermerai per questo.
Riprese a muoversi, incurante della sua insistenza.
  • Ah sì? Allora io sarò di pietra. Non credo ti divertirai molto.
  • Non fare la sbruffona. Lo so che non resisterai nemmeno per un minuto.
E fu così. Non seppe resistere.
Sperò solo che l’incubo di essere incinta non la perseguitasse.
  • Questa era l’ultima volta, Ed. Sei stato avvertito.
Convenne con lei che era necessario attrezzarsi. Per quanto volesse un figlio, non era il momento.
 
Da allora, i giorni scorsero veloci tra i controlli all’ospedale, le passeggiate, le registrazioni in studio, le comparse in tv.
Spesso si annoiava e Ed lo sapeva, per questo aveva cominciato a portarla con sé. Restava in studio con lui fino a tardi, in radio era con lui, in tv lo aspettava dietro le quinte, qualche volta andavano a qualche festa.
Si divertiva, con lui, ma lei non aveva niente da fare.
Qualche volta erano tornati a casa ubriachi e avevano fatto l’amore, quindi la mattina dormiva, altre invece la trovava a pulire la casa pur di fare qualcosa.
Oramai era diventata una vera convivenza: lui andava a lavoro e lei si occupava delle faccende e del gatto. Andava perfino a fare la spesa, perché non potevano “mangiare sempre e solo cinese”. Una volta la settimana si cimentava in qualche ricetta stravagante e ogni tanto sfornava una parmigiana, per il puro piacere di vederlo mangiare, ma in un certo senso aveva perso la sua utilità.
Non faceva mai niente, se non pulire, cucinare e aspettarlo in silenzio.
Ed le aveva comprato tele e pennelli e per una settimana non pensò che a dipingere, ma poi la novità diventò obsoleta e lei era punto e a capo. Da ragazza normale quale era, spesso andava a correre o a fare spese e compariva sui giornali. La gente non sapeva cosa facesse mentre Ed girava per l’America e pensò che se l’avesse saputo, si sarebbe vergognata.
Praticamente era una mantenuta.
  • Non c’è bisogno che ti trovi un lavoro, basto io!
  • No, Ed, io mi annoio! Devo fare qualcosa! Il caffè qui sotto cerca una ragazza ed io ho bisogno di contatti umani.
  • Non mi va…non lo so.
  • Cerca di capire, non posso stare tappata in casa fino a Gennaio.
  • Gennaio? Perché Gennaio?
  • Perché ricomincia l’università, ne abbiamo già parlato.
  • Ah, già.
  • Senti, io vado a presentarmi come cameriera, che tu lo voglia o no. Anche i nostri orari coinciderebbero.
Riluttante, diede la sua approvazione e Sara cominciò a lavorare, guadagnandosi qualcosa con le sue mani.
I primi tempi, tornava stanca la sera, ma col tempo prese il ritmo. Era contenta di quell’esperienza. Fred, il suo capo, la trattava bene anche se non sapeva chi fosse e stava imparando meglio l’inglese. Gli raccontava che qualche volta qualche ragazza la riconosceva e strabuzzava gli occhi nel vederla lavorare in un caffè. Aveva anche fatto amicizia con la ragazza che lavorava con lei, Jane.
Quando la sera si mettevano a letto, Ed vedeva una certa serenità nei suoi occhi che prima mancava. Quando facevano l’amore, era più viva, più in forze e scopriva lati di lei e di se stesso che non sapeva esistessero. Nell’intimità della loro casa, stavano diventando una famiglia, ma Gennaio stava arrivando e Central Park si colorava dei colori più tenui e gli alberi erano spogli.
Quella domenica pomeriggio, erano piuttosto silenziosi. Ed, seduto accanto a lei sulla panchina, giocava con la sua medaglietta. Sapevano entrambi che presto si sarebbero salutati, ma davanti a quella prospettiva di vita un anno sembrava abbastanza breve, quindi i loro animi erano sereni. Tutto sarebbe andato bene, se non fosse stato per Lei.
Un giorno, si presentò alla porta proprio Lei. Non poteva credere di avere davanti proprio quella ragazza che aveva ispirato praticamente i ¾ delle canzoni di Ed, il quale sembrava sorpreso quanto lei, poiché quella ragazza aveva un bambino per mano. I suoi capelli rossi e gli occhi chiari erano inconfondibili.
 
Non capiva cosa stesse succedendo. Lei era fuori la sua porta con un bambino e Sara aveva perso colorito.
Non era possibile. Non poteva avere un figlio, doveva essere uno scherzo. Non la vedeva da poco più di un anno e non aveva mai visto prima quel bambino. Aveva ben più di due anni.
  • Cosa vuoi? – disse nettamente.
  • Farti conoscere qualcuno. – rispose lei, altrettanto secca.
  • Non ti sta bene che io sia felice?
Quella non rispose e scavalcando Sara, entrò in casa.
  • Tuo figlio. Si chiama Henry.
  • E saresti venuta dall’Inghilterra per dirmi di essere padre? Non ti credo.
  • Io potrei crederci, invece.
Cogliendolo di sorpresa, Sara aprì la porta e scappò via. Non fece in tempo a fermarla.
  • Si può sapere cosa vuoi? - voleva che dalla sua voce trasparisse il suo risentimento.
  • Che mi aiuti a mantenerlo e che lo riconosci come tuo figlio.
  • Non può essere mio figlio, non ci vediamo da soltanto un anno e mezzo. - non ci stava a farsi prendere in giro. Avrebbe sistemato tutto.
Prese il cellulare e chiamò Sara, facendo squillare il cellulare invano. Era preoccupato, aveva paura che si perdesse.
  • Questo bambino è tuo figlio! - lei urlava, stringendo la mano di quel poverino.
Quelle parole rimbombarono nella sua mente. Pochi secondi dopo, la donna che non avrebbe mai voluto vedere, era di nuovo fuori dalla sua porta. Fuori dalla sua vita.
 
Sara non si era mai mossa dal caffè in cui lavorava. Vi si era rifugiata come cliente e si era seduta nell’angolo più scuro della sala. Soltanto alle 23:00, quando il cellulare squillò per la millesima volta, si alzò e rientrò.
Bussò al campanello, ancora turbata. Il suo fidanzato aveva un figlio dalla ragazza che aveva amato così tanto, un tempo e lei? Cosa avrebbe fatto? La sfascia - famiglie? No.
Quando Ed aprì, aveva l’espressione sconvolta.
Entrò impassibile ai suoi rimproveri, mentre Ed cercava di darle delle spiegazioni.
  • Quel ragazzino non può essere mio figlio, ne sono sicuro!
  • È LA TUA STRAMALEDETTA FOTOCOPIA, ED! NON TE NE RENDI CONTO?
  • Io ne sono sicuro, perché non hai un po’ di fiducia in me?
  • Perché? La tua ex, quella ex, si presenta a casa tua con un bambino uguale a te per mano, cosa pretendi che pensi? Hai un figlio, Ed!
  • Ma se anche fosse, io non lo sapevo! Perché sei così arrabbiata?
  • Perché non sono una sfascia - famiglie e non ho intenzione di diventarlo ora!
  • Mi stai lasciando?
Sì, lo stava lasciando. E stava andando all’aeroporto a prendere il primo volo per l’Italia, pagato con i suoi soldi.
  • Me ne vado, Ed.
La sentì piangere, mentre infilava i suoi vestiti in valigia. Non poteva essere reale. Magari si sarebbe svegliato nel suo letto, sudato, rendendosi conto che si trattava di un incubo.
La raggiunse in camera da letto e la fece voltare verso di lui, afferrandola per un braccio. Tutto vorticava intorno a lui come se avesse bevuto troppo.
  • Tu non te ne vai, non prima di avermi dato il tempo di fare chiarezza.
  • E invece me ne vado, Ed. Non posso restare, non più. Non con un bambino in mezzo.
  • Ragiona! – le disse, mentre lei prendeva lo spazzolino dal bagno e i documenti dal cassetto. – Non puoi andartene così. Non lo faresti davvero. Guardami, per la miseria!
Stava urlando e non se n’era reso conto.
Sara si voltò e lo guardò negli occhi, asciugandosi le lacrime.
  • Tu non la conosci, non sai cosa è stata capace di fare in passato. Per questo sono sicuro che non sia mio figlio.
  • Ed, quel ragazzino è uguale a te e quella era la tua ex. A me basta questo, delle teorie non me ne faccio niente.
Non seppe come ci stesse riuscendo, ma afferrò la valigia e andò via. Non lo aveva nemmeno guardato. Non voleva vedere la sua espressione, mentre lo lasciava, altrimenti sarebbe tornata indietro. Quando entrò in taxi, guardò la città scivolare confusa tra le sue lacrime. Una mano sulla fronte a reggere il dolore.
Ed correva al garage a prendere la sua auto, cercando di convincersi che non era un incubo, che l'aria entrava nei suoi polmoni, che l'avrebbe fermata e sarebbe andato tutto bene, costava quel che costava. Non l’avrebbe persa di nuovo. Sfrecciò sull’autostrada superando tutti i limiti di velocità, probabilmente sarebbe comparso su tutti i giornali, ma non gli importava. La pelle del volante strideva sotto la sua stretta.
Frenò bruscamente all’ingresso, esattamente dove si era fermato mesi prima per andarla a prendere. Scese dalla macchina lasciando le chiavi nella toppa, ma quando raggiunse il gate, trafelato e con lo sguardo confuso, era troppo tardi. L’aereo era appena decollato.
Non sarebbe più riuscito a contattarla.





Angolo autrice:

Oh, beh. Non so che dire. Davvero.
Il capitolo, nella seconda parte, è stato volontariamente poco descrittivo, per preservare lo stato di confusione che avvolge i protagonisti. In ogni caso, niente di tutto quello che scrivo (il titolo, il nome di ogni capitolo, le citazioni, le metafore, le stesse situazioni) è casuale, ogni cosa ha un preciso rimando ad una canzone, a luoghi reali o a quello che so di Ed Sheeran (che è sicuramente poco e infimo rispetto alla realtà).
Vi lascio le immagini del panorama notturno, di Central park e dell'ipotetico figlio di Ed, che poi sarebbe il bambino del video "Everything has changed":
 
 

Non do un volto alla famosa Lei, voglio che mantenga l'alone di mistero che la avvolge nella realtà. :)
Grazie per le numerosissime visite e per le splendide recensioni!
A presto! :D

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Capitolo 25
*** Letters to...Juliet? ***




- Letters to...Juliet? -

 

Un anno dopo
 
Quella era l’ultima tappa del suo tour. L’Australia era un posto fantastico, soprattutto quando la vedeva attraverso una bottiglia. Aveva sempre bevuto troppo, lo sapeva, ma l’alcool era diventato il suo migliore amico.
Aveva provato a chiamarla, a scriverle, a mandarle lettere. Aveva persino chiamato i suoi genitori, suo fratello, al numero di casa, ma non aveva ricevuto mai una risposta e a quel punto non sapeva nemmeno se lei abitasse più in quella casa.
Era sparita dalla sua vita nel giro di una sera e ancora non se ne rassegnava. Il ricordo del suo viso bagnato lo assillava.
Durante i suoi concerti, in giro per il mondo, cantava e se la immaginava lì, tra la folla, ma quell’idea di lieto fine non si realizzava mai.
I giornali lo avevano braccato per mesi e qualche volta aveva visto foto di lei negli intramezzi: quelle erano le uniche notizie che aveva.
Quella sera, durante l’ultimo concerto, avrebbe cantato ancora quelle canzoni che l’avevano resa eterna e lo avrebbe fatto sempre con la stessa grinta. Aveva preso l’abitudine di salutarla alla fine di ogni esibizione. Il suo “Ciao, Sara” era diventato famoso ovunque, ma lei non si era mai fatta viva e lui continuava a cercarla.
J lo rimproverava di continuo, cercando di spronarlo a riprendersi. Lui ci aveva provato, sul serio, si era detto che aveva già vissuto quel trauma, che poteva avere tutte le donne che voleva, che aveva tutto nella vita. Tranne lei.
Lei – sempre Lei – era sparita quello stesso giorno e non l’aveva più rivista. Cominciava a credere che quel bambino fosse davvero suo figlio, ma continuava a non averne certezza.
J, senza il suo consenso, aveva richiamato quella donna e le aveva richiesto un campione di dna, perché se quel ragazzino fosse stato suo figlio e la stampa fosse venuta a saperlo, ci sarebbe stato un altro scandalo oltre a quello delle sue continue sbronze.
Uno di quei giorni avrebbe saputo la verità, ma sarebbe stato troppo tardi per fare qualsiasi cosa. Si sarebbe ritrovato con un figlio dalla donna che lo aveva preso in giro per tutta una vita…e basta.
Sul palco, già mezzo ubriaco, pensò soltanto che anche le sue canzoni non avevano più il loro significato originale: erano state plagiate da quella ragazza con gli occhi azzurri.
Si chiese cosa pensasse la gente, i suoi fan, i suoi amici. Doveva essere patetico, ma era l’unica cosa che riusciva ad essere.
Cantò Photograph, la loro canzone, per chiudere il concerto. Il pubblico australiano stava cercando di ucciderlo, probabilmente: il coro era così forte che quasi non sentiva la sua voce.
Una miriade di luci trasformarono la platea in un cielo stellato.
Con la pelle d’oca, salutò Sara e si ritirò dietro le quinte.
La folla acclamava qualcuno che non esisteva più.
 
Due giorni dopo, era tornato a New York. Accese la tv e il successo del suo tour era su tutti i canali, puntualmente accompagnato da una foto di lui e Sara a quella conferenza stampa.
Gli acidi commenti che accompagnavano quei servizi non gli erano di grande aiuto e spense il televisore.
Si accorse di essere tornato al punto di partenza: doveva lavorare ad una nuova canzone e non aveva neanche una minuscola idea. Soltanto un sentimento lo dominava.
Mentre passeggiava per Central Park, coperto dal cappotto e dal cappello, si chiedeva dove fosse e con chi, se si era trovata un altro uomo o fosse ancora ferita quanto lui.
Basta, Ed. È inutile che ci pensi ancora, lei probabilmente si è rifatta una vita. Forse sei l’unico a pensarci ancora. Concentrati sul lavoro.
Sì, come no. Quale lavoro? Non aveva un motivetto, figuriamoci una canzone.
Spesso riguardava quelle foto, chiedendosi se lei fosse tornata in quei luoghi e avesse pensato a lui. Per quanto lo riguardava, quando metteva piede in casa credeva di vederla ancora ai fornelli, ma tutto ciò che trovava era Ted. Forse il gatto sarebbe stato l’unico a non abbandonarlo, ma non credeva davvero neanche in questo.
Stava delirando, ma dopo qualche bicchierino si ritrovò con carta e penna, seduto nella vasca.
 
 
Era tornata a casa e non sapeva cos’avrebbe fatto, ma di una cosa era certa: non sarebbe tornata indietro. Forse quel bambino era solo una scusa per scappare via, impaurita dalla prospettiva di una così larga distanza, ma probabilmente sarebbe bastato anche meno.
Non aveva raccontato nulla a sua madre, la quale si limitò a riaccoglierla in casa, troppo felice del fatto che la sua “bambina” fosse tornata.
I suoi amici la sommersero di domande alle quali non diede mai una risposta, finchè non si arresero e la lasciarono nel suo silenzio.
Quel giorno, il giorno della sua laurea, decise che il pensiero di lui non l’avrebbe tormentata. I suoi “Ciao, Sara” non le sarebbero rimbombati nella testa e non le avrebbero rovinato la giornata.
Tra i presenti al brindisi, uno dei suoi più vecchi amici la affiancò, guardandola ancora speranzoso. Erano mesi che la corteggiava, ma lei non riusciva nemmeno a pensare di avvicinarsi a lui.
Suo padre la abbracciò, sorridente. Fuori nevicava. Erano 50 anni che non si vedeva neve a Napoli, ma quella mattina il Vesuvio rassomigliava a un pandoro pieno di zucchero ed era strano: aveva una sensazione nel petto che non riusciva a scacciare da giorni, come se la presenza di Ed stesse tornando a tormentarla. Spesso le capitava di cercarlo tra la folla o di scambiare tizi con i capelli rossi per lui, ma aveva cominciato a darci un taglio. Il suo piano di purificazione interiore stava per essere rovinato da quella sensazione.
Ci bevve su, brindando alla sua salute e al suo futuro.
Qualche giorno dopo, con i risparmi che aveva messo da parte, si trasferì. Prese un monolocale con l’affitto più basso in città, ma seppe aggiustarlo alle sue necessità. Non poteva più vivere in casa sua, era diventato straziante.
Aveva trovato lavoro in un nido e la gioia che le davano i bambini le curava l’anima, distraendola per 8 ore dal mondo reale.
Non le dispiaceva la solitudine della sua casetta, quando di sera guardava un film in tv e sorseggiava un the. In realtà la solitudine non le era mai dispiaciuta, ma ogni tanto si ritrovava qualche amica piantata in casa.
Spesso e volentieri la traevano in inganno, cercando di farle conoscere qualche nuovo ragazzo. Per l’amor del cielo, erano carini e simpatici, ma non erano per lei. Era inutile fingere di essere interessata, sapeva che li avrebbe scaricati tutti. E poi, la invitavano a fare cose che non le piacevano e in quei momenti pensava ad Ed. Con lui aveva fatto tutte le sue cose preferite, lo aveva portato nei suoi posti segreti. Ancora non si spiegava come mai si fosse aperta in quel modo con lui, ma non aveva più importanza. Probabilmente suo figlio lo aspettava a casa, giocando con Ted.
In quei lunghi mesi, lo studio era stato il suo rifugio e l’aveva aiutata ad attraversare le sue personalissime fasi del dolore, che prevedevano l’assenza di sonno, poi l’assenza di cibo, poi l’assenza totale.
Era un po’ stufa di se stessa, del fatto che non fosse stata capace di affrontare decentemente gli ultimi due anni della sua vita. Aveva di certo imparato dai suoi errori, ma i rimpianti e i rimorsi la logoravano. Non lo aveva ancora lasciato andare.
Aveva ragione quando aveva pensato che fosse una pazzia stare con Ed Sheeran, doveva dare ascolto al suo codardo istinto e probabilmente a quell’ora sarebbe serena, a casa sua o magari a casa del suo ragazzo. Magari sarebbe all’estero a fare un viaggio romantico.
Come no.
Ce l’avrebbe fatta prima o poi. L’avrebbe superato.
Se c’era una cosa che però la buttava giù ogni santo giorno, era lo sguardo della gente che la seguiva ovunque.
Nella sua piccola cittadina di provincia, era diventata una celebrità e la gente non conosceva il tatto. Le facevano domande scomode, la fissavano per strada con uno sguardo carico di pietà. I suoi amici avevano compassione di lei. E questo la faceva incazzare.
Che ne sapevano loro di tutto quello che era stato? Di quanto avevano sofferto? Di quanto fosse stata dura?
Era la voglia di riscattarsi da quei pregiudizi che la faceva alzare ogni mattina, la voglia di riscattare se stessa. Dimostrare al mondo che lei esisteva anche senza di lui.
 
 
Due ragazzine lo puntavano come una preda, probabilmente erano due emergenti. Era abbastanza ubriaco da farsele piacere entrambe, ma qualcuno lo interruppe mentre esibiva il suo humor.
  • Eddy, sei di nuovo ubriaco.
Quando si voltò, Taylor era lì con le mani sui fianchi e lo sguardo accigliato. Erano mesi che non la vedeva ed era il suo migliore amico. Sì, amico.
Lo prese per il colletto della camicia e lo strattonò, facendolo allontanare dalle due gallinelle, prima che combinasse qualche guaio.
  • Non posso lasciarti solo qualche mese che mi passi dall’essere depresso per l’una all’essere totalmente andato per l’altra.
  • Sono sorprendente, vero? – rise, come se stesse facendo una battuta di spirito.
  • Non sei divertente.
Era un ghiacciolo, certe volte. Lui voleva solo sdrammatizzare, per una volta, ma lei lo fulminò con lo sguardo. Il rumore dei bassi era troppo forte per parlare decentemente, quindi si spostarono all’aperto, nonostante il freddo.
Ed portò la birra con sé e si sedette sul gradino del balcone della villa di non sapeva chi e lei lo affiancò.
  • Si può sapere che è successo? Ho letto sui giornali che lei se n’è andata perché voleva una vita meno impegnativa, ma non ci credo nemmeno se lo vedo.
  • Avanti, indovina. Non ci arriverai mai. – e fece un sorso.
  • Se avessi avuto questa capacità, non sarei qui. Parla, Ed, non farmi perdere tempo.
  • Vai di fretta?
  • Sì, non vedo l’ora di sgridarti.
I suoi capelli biondi cambiavano forma ogni volta che la vedeva, ma come faceva? Tentò di cambiare discorso, ma non servì.
  • La stronza si è presentata una sera fuori dalla mia porta con un bambino, dicendo che era mio figlio. Sara è scappata, poi è tornata e se n’è andata di nuovo. La stronza sparisce ed io non so se sono padre. Morale: Ed è un patetico idiota.
  • Un figlio? E non hai richiesto il test del dna?
  • J lo ha fatto per me. Domani…avrò la risposta.
Una nuvola di vapore accompagno il sospiro che seguì le sue parole. Taylor guardava nel vuoto. Cosa intendeva dire con quel silenzio, forse che lei avrebbe fatto lo stesso?
  • Cosa pensi di fare nel caso in cui lo fosse?
  • Non credo che lo sia. Se lo fosse, mi assumerò le mie responsabilità.
  • Cosa ti fa credere che non lo sia?
  • Il fatto che sia troppo grande per avermelo tenuto nascosto. Quest’anno fa quattro anni, quindi capirai che…
  • …che lei è solo una stronza. – concluse.
Il grande segreto che determinava l’impossibilità che quel bambino fosse suo figlio stava nel fatto che il giorno della sua supposta procreazione, lui era dall’altra parte del mondo.
Già. Per questo non aveva chiesto la prova del dna: era già totalmente sicuro del responso.
  • E lei?
  • È sparita nel nulla. Non riesco in alcun modo a rintracciarla.
Si portò le mani alla testa, come per bloccare i pensieri.
  • Photograph…è lei? – gli chiese, mettendo insieme i pezzi.
  • È sempre stata lei. Vuoi sentire una cosa nuova? Ho bisogno di un consiglio. – Tirò il cellulare fuori dalla tasca. – Se non mi sbrigo, perdo anche il lavoro.
La prima registrazione di One, vibrava nell’aria.
  • L’ho scritta seduto nella vasca da bagno. – disse, ridendo di gusto.
  • È bellissima, Ed, ma sai che ti dico? Se quel bambino non è tuo figlio, alza il culo e valla a cercare. Non hai motivo di aspettare o di restare, quindi…cosa stai aspettando?
  • Che qualcuno mi dia un calcio nel sedere? – disse, senza riuscire a giustificarsi.
  • Al suo servizio.
La mattina dopo, con i postumi della sbornia, andò alla porta ad aprire a J.
Gli porgeva una busta bianca, sigillata.
  • Non l’ho ancora aperta.
La afferrò e andò a sedersi sul divano con lui. Erano già dieci minuti che fissava il timbro dello studio d’analisi di New York e ancora non si decideva ad aprirla, continuando a passarsi le mani nei capelli. La paura deviava la sua mente, terrorizzandolo con l’idea che potesse essere padre da quattro anni senza saperlo. Cosa avrebbe fatto, in quel caso? Gli avrebbe pagato le spese della scuola e degli alimenti? Taylor, maledetta, per questo non voleva parlare con lei, era la fata della speranza.
Prese la busta e la aprì stracciando malamente il bordo. C’era un solo foglio da leggere e J si affacciò, troppo curioso della verità. Doveva essere arrivato all’ultimo rigo anche lui, poiché gli disse:
  • Congratulazioni, ragazzo! – e battè una mano sulla sua spalla.
Quel ragazzino che era la sua fotocopia, non era suo figlio.
 
 
Quel sabato sera era a casa di amici a guardare un film, data la tempesta che infuriava fuori. Non le avevano lasciato scegliere il film perché dicevano che i cartoni animati non erano da 24enni. Non sapevano apprezzare l’arte.
Prima che cominciasse la visione, approfittò del bagno, lasciando il cellulare nella borsa.
Il destino può essere crudele, a volte.
La sua suoneria inondò la stanza, facendo voltare i pochi presenti. Suo cugino, pensando di farle un favore, prese il cellulare dalla tasca e rispose, senza badare minimamente alla scritta sul display.
  • Pronto?
Ed, dall’altra parte del telefono, sbiancò nel sentire quella voce maschile. Il suo sorriso svanì, lasciando il posto al nulla.
  • Pronto?
Non riuscì a rispondere e chiuse la chiamata.
Il cugino di Sara gettò nuovamente il cellulare nella borsa, cancellando totalmente quella chiamata dalla sua memoria e quando Sara uscì dal bagno, non disse nulla.
Non immaginava minimamente cosa stesse accadendo, ma l’avrebbe scoperto presto.
Si godè serenamente il film e il weekend scivolò via tranquillo.
Il giovedì successivo, quando pensò che la settimana stesse scorrendo via meglio del solito, bussarono alla sua porta: era il postino con una raccomandata.
Cos’era? Firmò la ricevuta e richiuse la porta.
Non era la calligrafia di Ed, le cui lettere erano rimaste chiuse e conservate nel fondo di un cassetto. Sembrava la scrittura di una donna. Mittente: Taylor Swift.
Sentì la pressione abbassarsi. Imbambolata, si sedette al suo piccolo tavolino, continuando a leggere mittente e destinatario, credendo di essere impazzita, ma lì c’era scritto proprio il suo nome e il suo indirizzo.
Si spostò i capelli ormai lunghi dietro l’orecchio ed aprì la lettera. Era scritta a mano e in inglese. Merda. Avrebbe dovuto tradurre lì per lì, il che la scocciava, ma non seppe più frenare la curiosità. Taylor Swift le aveva scritto una lettera a mano e riguardava sicuramente Ed. Cominciò a leggere.
 
Cara Sara,
so che non mi hai mai visto prima, ma per qualche motivo sento di potermi prendere una certa confidenza, con te. Sarà colpa di Ed. So di non avere il diritto di intromettermi, ma per il bene del mio amico, devo scriverti.
Ti ho visto, in ospedale e ho visto Ed. Quando mi ha abbracciato in quella stanza, ho capito che dovevi essere una persona davvero speciale. Era così terrorizzato all’idea di perderti, che non riuscivo a lasciarlo lì da solo, a vegliarti, ma anch’io ho i miei doveri.
Quando sono tornata a casa, l’ho raggiunto ad una festa. Non so se sei a conoscenza degli ultimi eventi o delle cose che fa da quando sei partita, ma non credo ti piacerebbero.
Dovevo assolutamente rimproverarlo per il suo comportamento, perché se fosse stato del tutto innocente i giornali non lo avrebbero braccato a quel modo. Credimi, ne ho esperienza e forse un po’ anche tu. Poi mi ha raccontato cosa gli fosse capitato ed eccomi qui.
Non ho intenzione di giustificarlo o di raccontare la verità al suo posto, vorrei solo che tu leggessi questa lettera fino in fondo.
Quando l’ho visto lì, ho creduto che fosse un altro uomo. Non lo riconosco più. L’Ed di un anno fa, quello che conosci, è svanito, spento.
Sara, lui non si è ancora arreso con te, non ha mai abbandonato la speranza di riaverti, ma non c’è bisogno che te lo dica io. Tutto il mondo lo sa.
Dagli un’altra possibilità e dalla anche a te stessa. È dura e lo capisco, ma ne vale la pena e lo sai anche tu se lo conosci bene come dice. Non ascoltare chi lo ha soltanto ferito e fidati di me quando ti dico che non ti lascerà mai andare.
Quando gli ho chiesto se Photograph parlasse di te, sai cosa mi ha risposto? Che sei sempre stata tu. Lo ha detto come se tutte le sue canzoni fossero state scritte per te, come se ti stesse aspettando da sempre.
A proposito, ha scritto una nuova canzone, ti lascio il testo nella busta. Credo che per quando ti arriverà la lettera, l’edit sarà già stato rilasciato online, ma ti consiglio vivamente di leggere quelle parole come se lo avessi davanti a te.
Un’altra cosa: ha detto che un uomo ha risposto al tuo cellulare. Mi auguro che tu non sia fidanzata, perché c’è qualcosa che ho preso senza il suo permesso e che dovresti leggere attentamente.
Ho dovuto pensarci io, dato che non voleva più richiamarti. Non potevo permettere che gettasse al vento la sua ultima possibilità.
Spero che questa lettera non ti abbia infastidito, ma se stai leggendo queste ultime parole, ci sarà un motivo.
Non so cos’altro dirti. Buona fortuna e – come direbbe qualcuno,
“Ciao Sara!”

 
Tremava. Aveva perso il controllo. Cosa significava quella lettera?
Il cuore le batteva come un tamburo in guerra, mentre scorreva nuovamente lo scritto come per accertarsi che la sua traduzione non fosse errata. Cosa diavolo era successo ad Ed?
Non aveva mai cercato sue notizie, perché se lo avesse fatto avrebbe soltanto messo il suo stesso dito nella sua stessa piaga e poi, che lo volesse o no, riusciva sempre a sapere qualcosa di lui. Cosa si era persa di così importante?
Spostò la lettera racchiusa in quell’unica pagina e riprese la busta. C’erano parecchie scartoffie.
Alcuni ritagli di giornale le capitarono tra le mani, mostrandole il viso di Ed, meno sorridente di quanto si aspettasse. Rimase ulteriormente interdetta.
“Ed Sheeran get drunk at party”, “Ed Sheeran turns crazy on the stage”, “Sheeran: code ginger or code alcohol?”. I titoli sarebbero bastati a farla sbiancare, ma quelle foto...
Tornare a guardare una sua immagine la turbava già abbastanza, ma vedere il suo viso sconvolto le fece provare una sensazione sgradevole.
Si sentiva in colpa? Proprio lei? E per cosa?
Come un flash, l’immagine del suo sorriso si sostituì ai suoi occhi vuoti.
Mise da parte i ritagli, cercando di contenere i danni che quella lettera stava già provocando e prese il testo della canzone.
Non c’era bisogno che Taylor Swift le dicesse di immaginarlo parlare, poiché quando lesse il primo verso, la sua voce le invase automaticamente la mente, amplificando i significati, i ricordi, i sentimenti.
 
Tell me that you turned down the man who asked for your hand, ‘cause you’re waiting for me.
And I know you’re gonna be away a while, but I’ve got no plans at all to leave.
And would you take away my hopes and dreams?
Just stay with me.
 
All my senses come to life while I’m stumbling home as drunk as I have ever been and I’ll never leave again, ‘cause you are the only one.
And all my friends have gone to find another place to let their hearts collide.
Just promise me, you’ll always be a friend, ‘cause you are the only one.
 
Take my hand and my heart and soul, I will only have these eyes for you.
And you know, everything changes but we’ll be strangers if we see this through.
You could stay within these walls or leave, but just stay with me.
 
All my senses come to life while I’m stumbling home as drunk as I have ever been and I’ll never leave again, ‘cause you are the only one.
And all my friends have gone to find another place to let their hearts collide.
Just promise me, you’ll always be a friend, ‘cause you are the only one.
 
I’m stumbling out drunk, getting myself lost.
I am so gone, so tell me the way home.
I listen to sad songs, singing about love and where it goes wrong?
 
All my senses come to life while I’m stumbling home as drunk as I have ever been and I’ll never leave again, ‘cause you are the only one.
And all my friends have gone to find another place to let their hearts collide.
Just promise me, you’ll always be a friend, ‘cause you are the only one.
 
Quel foglio sottile cominciava a sgretolarsi, bagnato dalle sue lacrime. Non sarebbe mai riuscita a dimenticarlo, si arrendeva. Posò il foglio sul tavolo e si portò le mani al viso, in un gesto spontaneo. Ormai singhiozzava. La consapevolezza di amarlo ancora così, era un pugno nello stomaco, inaspettato e doloroso ed ora gettava fuori tutte quelle lacrime che si era rifiutata di lasciar andare.
Non sapeva come sarebbe riuscita ad ignorare quella lettera o quella canzone, ma doveva farlo.
Ed Sheeran era ancora il padre di quel bimbo innocente e lei non gli avrebbe rovinato la vita. E comunque, non riusciva ad accettare la remota possibilità di fare da matrigna.
Cosa voleva dirle, Taylor? Non si rendeva conto che se avesse potuto, non lo avrebbe mai lasciato?
Si alzò dal tavolo per prendere un fazzolettino, decisa a terminare quel supplizio. Non avrebbe fatto la bambinetta, quella volta avrebbe affrontato la cosa come avrebbe dovuto fare sin dall’inizio. Andò fino in fondo e prese l’ultimo foglio piegato nella busta. Era stropicciato.
Si asciugò una lacrima e lo aprì.
 
“A partire dai risultati dei test genetici, si evidenzia che la probabilità di paternità è del 12,000007%. Il padre testato, Edward Christopher Sheeran, può essere escluso dalla paternità biologica del testato Samuel Holligan.”
 
Il masso che portava nel petto da un anno, si frantumò in mille pezzi in meno di un secondo.




Angolo autrice:

Il titolo del capitolo è riferito all'intervento di Taylor e all'associazione della sua canzone "Love Story" al film "Letters to Juliet". Mi piaceva l'idea di vederla nei panni di mediatrice anche in questo senso. :)
Questa è la performance di Photograph che ho immaginato alla conclusione del concerto: https://www.youtube.com/watch?v=Pyq4ZZuR_Ec&index=7&list=FLs1FCs8ClIJthN39AExJidQ , quando l'ho vista me ne sono innamorata!
Vi lascio una piccola chicca che non riesco a smettere di guardare e che mi da tanto l'idea della visione fisica che Sara ha avuto di Ed nei loro momenti felici:

  
  

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere cosa ne pensate!
A presto! :D

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Capitolo 26
*** E' dolce sognar e lasciarsi cullar, nell'incanto della notte. ***






È dolce sognar e lasciarsi cullar,

nell'incanto della notte. -



Diversi giorni dopo.

Era entrato nella fase ‘auto-convincimento serio’ da quando aveva sentito quella voce al telefono. La contentezza dovuta al fatto che qualcuno avesse risposto alla chiamata, svanì in un soffio ed ora cercava di guardarsi intorno con occhi nuovi.
Non aveva chiamato quella che diceva di essere la madre di suo figlio, tanto lei già lo sapeva che la sua messa in scena non aveva funzionato. Si chiese perché mai lo avesse fatto, cosa cercasse di ottenere piombando in casa sua con un bambino, sapendo che Sara fosse lì. Cosa aveva da guadagnarci? Fino a prova contraria, quello che era stato ferito era lui, quindi escludeva anche l’ipotesi vendetta.
Smise di pensarci quasi subito.
Aveva registrato One controvoglia, sentendo quella canzone troppo inadatta al suo stato d’animo, ma dovette forzarsi a metterci del sentimento altrimenti George lo avrebbe cacciato fuori dallo studio. La canzone era già in radio, fuori dalla sua mente e dalle sue speranze.
Il fatto di essersi illuso che lei lo stesse aspettando, lo faceva sentire uno sciocco. Lei era una ragazza in gamba, aveva tutto da fare nella vita, di certo non stava ad aspettarlo alla porta.
J gli aveva detto che era meglio così, che poteva voltare pagina e vivere la sua vita come aveva sempre fatto e lui si sforzava di crederlo possibile.
Dovette darsi una calmata con l’alcool e le multe, altrimenti si sarebbe rovinato da solo e tornò a fare foto con i fan e a firmare autografi alle ragazze. Riprese la sua vita di sempre, come prima di incontrarla.
In quegli ultimi giorni era passato in 7 diverse radio ed era apparso in due programmi televisivi, tutto sembrava andare bene e il numero di canzoni vendute continuava a crescere, facendo risalire il suo conto in banca.
Doveva essere felice per forza: stava ricominciando.
Qualche volta i sogni lo tormentavano, riportandolo indietro nel tempo o suggerendogli possibili modi per farla tornare da lui, ma non appena riapriva gli occhi si imponeva di ignorarli. Erano solo sogni.
Con le cuffie sulle orecchie, chiuse gli occhi e si godette il volo che lo stava portando a Miami per un evento di beneficenza al quale lo aveva invitato Taylor.
Quando quella sera indossò il suo completo elegante, si guardò allo specchio e la rivide accanto a lui, nel suo abito blu, che probabilmente non aveva più indossato.
Il ricordo della musica e dei balli gli fecero risentire per un momento il profumo del mare e il profumo di lei, che prendeva la medaglietta d’oro dallo scatolino. Preferì non pensare a dove fosse finita.
Si aggiustò il colletto della camicia per l’ultima volta e prese la maschera che non sapeva avrebbe dovuto indossare. Aveva un senso far mascherare gli ospiti benefattori, ma potevano anche evitare di procurargli quel fastidio.
Il locale che accoglieva l’evento era di quelli sfarzosi in cui non metteva piede da un bel po’ e per un attimo si sentì a disagio pensando alla sfilza di scandali che lo avevano riguardato. La maschera non sarebbe servita a nascondere la sua identità, i suoi capelli rossi e le sue scarpe erano riconoscibili ai più.
Cercando di orientarsi nella disposizione dei tavoli, si diresse verso il palco, alla ricerca del suo posto. Sulla sua testa un enorme lampadario di cristallo brillava alle luci fioche.
Quando finalmente trovò il suo posto, si accomodò, ancora solo. Le celebrità, che non si erano sforzate di non rendersi riconoscibili, passeggiavano propinando saluti e strette di mano, creando un chiacchiericcio di sottofondo che copriva anche la musica.
Nell’attesa, cominciò a girarsi i pollici.
  • Ed!
Alzò lo sguardo e il sorriso di Taylor brillava nel buio. La vide avvicinarsi a passo svelto, così si alzò e la abbracciò per salutarla.
  • Ti trovo bene! – disse lei, come diceva sempre da quando aveva voltato pagina, forse per consolarlo o incoraggiarlo.
  • Anche tu sei orrenda. – rise.
  • Ha-ha. Sei solo? – chiese, non scorgendo nessuno insieme a lui. Di solito si portava un accompagnatore/accompagnatrice a quegli eventi.
  • Sì. La regina d’Inghilterra aveva un impegno che non poteva prorogare, ma ha giurato che la prossima volta non mi darà buca. Tu chi hai portato?
  • Io sono con un’amica. – e indicò qualcuno seduto al suo tavolo, coperto dalla maschera.
  • Chi è? – chiese, aggrottando lo sguardo. – La conosco? – aveva come l’impressione di averla incontrata di recente. Magari una di quelle ragazze conosciute alle feste, con le quali poteva provare a distrarsi.
  • No, ne dubito, è straniera. Più tardi te la presento, ora devo andare.
Lo lasciò nuovamente a se stesso, dandogli una pacca sulla spalla. La figura di quella ragazza in abito da sera fu coperta dagli altri invitati seduti al suo tavolo, così si accomodò con loro, salutando un paio di persone che conosceva.
Il discorso d’apertura fu tenuto da uno dei giornalisti più importanti di New York e per fortuna durò poco. Mangiò d’appetito, chiacchierando delle sue bravate con Pharrell Williams, dopodiché gli ospiti si alzarono per brindare alle donazioni. Incrociò lo sguardo di quella ragazza. Lo stava guardando dai piccoli fori della maschera che indossava e che le copriva quasi tutto il viso, tranne il sorriso. Che carina – pensò e ricambiò lo sguardo, alzando il bicchiere verso di lei.
La vide rivolgere la parola a Taylor, distogliendo l’attenzione da lui. Qualcuno la invitò a ballare e lei, come se non le fosse mai capitato, prese la mano del galantuomo e lo seguì in pista.
  • Allora, ti piace la mia amica? – sobbalzò, sentendo la voce della bionda così vicina.
  • Non saprei, non so chi sia. – disse, vago. – Ti va di ballare?
Lei stessa lo prese per mano e lo trascinò in mezzo agli altri.
Qualche bicchiere dopo, Taylor era diventata quasi ingestibile, sfuggendo spesso al suo controllo già lacunoso. Spesso e volentieri, lo lasciava da solo ai margini della pista a guardarla saltare come un grillo in mezzo alla sala, così si perdeva a guardare gli invitati, troppo timido per invitare qualche donzella. Mandò giù un altro calice di champagne e si pulì la bocca col dorso della mano, incurante del fatto che qualcuno potesse trovare quel gesto disdicevole. C’era un motivo per cui odiava lo champagne ed era che gli provocava le allucinazioni. Per tutta la cena, gli era sembrato che quella ragazza misteriosa lo sorvegliasse. Talvolta gli sembrava di incontrare il suo sguardo: non era sicuro di ciò che aveva visto data la maschera a coprirle il viso, ma fu certo che in quel momento, mentre ballava con un uomo, lei lo stesse seguendo con gli occhi.
Aveva un vestito lungo che le lasciava scoperte le spalle, i capelli raccolti e le labbra pulite. La sua scansione fu interrotta da una barcollante Taylor che lo tirava per la giacca, puntando dritto dritto al centro della pista, perché il dj stava mandando la sua canzone preferita, che per fortuna era una ballata. Niente di troppo frenetico.
La accontentò e ballò con lei, le luci basse, quasi spente. Proprio davanti a lui, c’era l’amica di Taylor – di cui continuava a ignorare il nome – che ballava quel lento con qualcuno che evidentemente non conosceva, poiché gli stava abbastanza distante da poter accogliere una terza persona in mezzo a loro. Fu allora che le vide.
Se c’era un segno particolare che contraddistingueva Sara, erano le fossette che aveva dietro le spalle, esattamente nell’incavo dell’articolazione ed erano lì, posate sulle spalle di quella sconosciuta come due baci.
Alzandosi la maschera per guardare meglio, continuò a dondolare con Taylor, mentre lei continuava a guardarsi intorno, come se cercasse qualcuno e infatti lo scaricò di punto in bianco, urlandogli che doveva correre dal suo ex per riconquistarlo. Non sarebbe riuscito a fermarla, quindi lasciò che gli sfuggisse dalle dita. Peccato che fosse rimasto come un idiota, da solo al centro di quell’ammasso di coppie danzanti. Non seppe cosa fare, rivedendo le spalle della ragazza, ma si decise a spostarsi di lì quando lei stava per voltarsi, dondolando.
Tuttavia, non seppe trattenersi dal guardarla ancora, sentendosi stupido e senza speranza. Più la guardava, più pensava che fosse lei, ma evidentemente aveva bevuto troppo champagne di nuovo. E poi, se fosse stata davvero lei, non avrebbe potuto ignorarlo in quel modo. Non poteva.
Quasi scalpitava dalla voglia di andare lì e toglierle la maschera troppo grande per convincersi di star delirando, ma non poteva permettersi di fare una figuraccia, quindi restò fermo e fece un profondo respiro, cercando di riprendere il controllo.
Non. Era. Lei.
Quando la canzone terminò, l’uomo la lasciò e si allontanò. Lei, quasi spaesata, si diresse verso i margini della pista, fermandosi a guardare chi era rimasto a ballare con le mani nelle mani. Proprio accanto a lui. Lo stava facendo apposta?
La osservò di sottecchi, studiando ogni sua movenza. Il buio gli permetteva di non essere notato, ma nascondeva ancora di più i dettagli che potevano interessargli. Aveva un’aria così familiare, ma era assurda quell’idea. Indeciso sul da farsi, anche se avrebbe potuto comportarsi normalmente, si agitava sul posto, irrequieto.
Senza accorgersene, si passò una mano tra i capelli mentre il cameriere gli porgeva il vassoio stracolmo di bicchieri. Ed ecco il lampo di genio.
Mentre prendeva non una, ma due coppe di bollicine, si diede nuovamente dello stupido.
Con finta galanteria, le diede la seconda coppa e attese una parola che non arrivò mai. Lei si limitò a sorridergli di nuovo e prese un sorso.
Merda, perché non parlava?
  • Di niente! – disse, tentando ancora, ma lei non rispose.
Si chiese seriamente se lo stesse prendendo in giro.
  • Piacere, Edward. – e le tese la mano, sentendo la stretta ricambiata. – Tu sei l’amica di Taylor, giusto?
Nessuna risposta, soltanto un sì accennato con la testa.
  • Hai un nome? – silenzio. – Parli l’inglese?
La vide sorridere, continuando a non emettere un suono, ma era quasi ovvio che stesse ridendo di lui. Rimase interdetto da quel suo comportamento, pensando di star facendo una figuraccia, ma poi la vide annuire.
Doveva essersi accorta che si sentiva in difficoltà, ma non smise di guardarlo, ricambiando lo sguardo dovuto ai suoi tentativi di conversazione.
Teneva una mano in tasca, cercando di mostrarsi disinteressato e sicuro di sé.
  • Ti va di farmi compagnia fuori? – osò.
Non sapeva quale sarebbe stata la sua reazione, ma ancora una volta lei annuì.
Fece il primo passo verso il terrazzo, assicurandosi che lo seguisse. Quella sua andatura gli era familiare, così come il movimento del vestito che svolazzava ad ogni passo.
Eppure non faceva uso di droghe.
Lasciò che uscisse prima di lui, cedendole il passo, per guardare di nuovo le sue spalle: le fossette erano reali, non le aveva immaginate. Si appoggiò accanto a lei alla ringhiera di pietra, cercando il suo sguardo, ma lei voltò il viso dall’altra parte, schiva come poche donne.
  • Allora…da dove vieni? – niente. Non era muta, l’aveva vista parlare con Taylor. – So che parli.
La vide portarsi una mano alla bocca, trattenendo una risata. Approfittò dei lampioni che illuminavano il terrazzo per osservarla di nuovo. A giudicare dal suo aspetto, era molto giovane.
  • Non hai intenzione di parlare, vero? – la guardò. La maschera era troppo piccola per nascondere la sua espressione indefinita e lei scosse la testa. – Sei straniera?
Annuì.
  • Oh, è da parecchio che conosci Taylor?
No.
  • Sei una cantante anche tu?
No.
  • Sai chi sono?
Sì.
La guardò, cercando di capire che problemi avesse o cosa avesse contro di lui, ma da quel poco che riusciva a scorgere attraverso i fori della maschera, gli sembrò tranquillissima.
Si passò una mano tra i capelli.
  • Lo sai, sei inquietante. – disse, col sorriso sul volto.
Lei evitò il suo sguardo, nascondendo il sorriso con la mano e volgendo lo sguardo verso terra. Fece lo stesso, non sapendo più cosa dire. Il silenzio veniva vagamente disturbato dall’eco della musica proveniente dall’interno. Che ragazza strana, si chiedeva di cosa parlassero lei e Taylor o comunque quale fosse il loro legame. Notò che portava il tempo con le dita e la cosa lo fece ridere. Era come se si stesse trattenendo dal fare qualsiasi cosa.
Finì di bere in un sol colpo ciò che era rimasto nel suo bicchiere, mentre lei fissava le bollicine attraverso il vetro.
Che situazione assurda. D’un tratto sentì un sospiro e si voltò verso di lei: si stava passando le mani sulle braccia, tentando di scaldarsi. Senza un motivo valido, si scostò dalla ringhiera e si tolse la giacca per cedergliela. La fece volteggiare intorno alle sue spalle e gliela posò addosso. Lei, come per ringraziarlo, gli sfiorò per un attimo il braccio e poi ritrasse la mano, senza far svanire il suo sorriso. Quel contatto lo fece rabbrividire, mentre lei si tirava meglio la giacca sulle spalle.
Ma cosa diamine gli stava succedendo? Era già ubriaco?
Chi diavolo era quella ragazza?
 
Come se avesse preso la scossa, d’un tratto la vide scattare lontano dal suo posto. Non capì il motivo immediatamente, ma gli sembrò che volesse tornare improvvisamente dentro. La guardò per qualche secondo con l’aria confusa e i capelli rossi spettinati, poi sentì One provenire dall’interno. Lei doveva avergli letto nel pensiero, perché sorrise, facendo un altro passo verso l’ingresso.
  • Ti piace questa canzone? – annuì. – Ti va di ballare?
La forma che assunsero le sue labbra rosa gli sembrò suggerirgli un certo turbamento, ma poi tornò a sorridere come se nulla fosse. Era davvero lunatica, quella tipa.
La invitò ad entrare e cercò di tenere il suo passo, mentre raggiungevano la pista. Vide Taylor seduta al suo tavolo, che parlava con un ragazzo, chi sapeva cosa stesse combinando.
Al limitare della pista, lei trepidava. Ancora confuso, le tese la mano e lasciò che lei vi lasciasse scivolare la sua. Rabbrividì sentendo le sue dita sottili.
La portò in pista e mise le mani sui suoi fianchi. Forse era impazzito, ma gli sembrò di aver sentito i suoi muscoli guizzare al suo tocco.
Cominciarono a dondolare, riducendo la distanza. Non sapeva dove guardare.
  • Se conoscessi il motivo per cui ho scritto questa canzone, non ti piacerebbe così tanto.
Lei abbassò il capo, ridendo.
  • Perché ridi qualunque cosa io dica? Sono così divertente? – lo disse scherzando, ma se lo chiese davvero. – Almeno non sono noioso.
Quel suo silenzio, oltre ad essere quasi frustrante, in un certo senso era rassicurante: lo stava ascoltando e non aveva davvero bisogno di una risposta. Per un po’ si sentì sereno ballando con lei, guancia a guancia. Chiuse gli occhi per un momento per elaborare meglio la sensazione che stava provando in quel momento: quella assurda ragazza muta gli ricordava Sara e ballando in quel modo, avrebbe detto che fosse davvero lei. Le sue dita, le sue fossette, il suo profumo. Si perse nel pensiero di lei, quasi dimenticando la realtà. La guardò negli occhi, sulle ultime note. Se la canzone non fosse finita, probabilmente l’avrebbe baciata. Per qualche motivo era certo che lei non si sarebbe tirata indietro.
L’applauso spezzò il filo dei suoi pensieri e lo riportò alla realtà. Non voleva ferire qualcuno di innocente a causa della sua distrazione, quindi si allontanò di un passo da lei.
Una voce al microfono li invitava a tornare ai loro tavoli, così si diedero un’ultima occhiata e si diressero ai loro posti.
Un’ora dopo, la festa terminava e gli ospiti attendevano di recuperare i cappotti e andarsene.
Cercò Taylor con lo sguardo con l’intenzione di salutarla, dato che probabilmente non si sarebbero rivisti per un po’ e quando la individuò, la vide correre proprio nella sua direzione, insieme al suo ex. In realtà lui non aveva esattamente un’espressione rassicurante.
Lo vide avvicinarsi a grandi falcate, senza la giacca e con i pugni serrati. Istintivamente, protese le mani in segno di resa, ma non servì, poiché quello gli sferrò un cazzotto ancora prima che lui potesse realizzare di averlo di fronte.
L’impatto era stato così forte da farlo barcollare.
  • Smettila! – la voce di Taylor sfiorava il limite dei decibel.
Si portò una mano al viso, alla ricerca del punto in cui lo aveva colpito, ma gli faceva male tutta la faccia. La suola di gomma delle scarpe fischiò facendo attrito col pavimento lucido, aiutandolo a tenersi in piedi. Protese nuovamente una mano in avanti, sperando che quello si fermasse perché già gli si era appannata la vista. Le urla della sua amica non servirono a fermarlo dal dargli un altro pugno, stavolta nello stomaco.
  • No! – era un’altra voce, che conosceva. Doveva averlo colpito davvero forte quel tizio, perché la voce di Sara gli giunse alle orecchie, chiara come una melodia di Mozart.
Piegato in due, credette di essere sul punto di vomitare. Cosa gli era preso a quello?
Cercò di concentrarsi sul dolore invece che sul chiasso che si stava creando nella sala. Gli ospiti accorsero verso il luogo dell’impatto, sentiva i loro passi sovrapporsi e le voci moltiplicarsi. Non vide cosa stesse succedendo, ma qualcuno doveva aver trattenuto quel pazzo. Non riusciva a rialzarsi, il dolore allo stomaco non lo aiutava a far passare quello alla testa. Sentì un rumore di tacchi in corsa avvicinarsi a lui e pochi secondi dopo due mani lo stavano aiutando a rialzarsi. Quando riuscì ad aprire un occhio, vide a terra la maschera di quella ragazza.  Sentiva le sue mani sul petto e sulle spalle che lo sorreggevano.
Il vestito lungo cominciò a materializzarsi davanti ai suoi occhi, ma non era ancora in grado di alzare la testa, così poggiò le mani sulle spalle di lei, sforzandosi ancora di non vomitare. Tossì pesantemente, tenendo la testa bassa.
  • Ed!
Gli mancò il respiro quando risentì quella voce, che veniva chiaramente dalla persona che lo stava aiutando. Non poteva essere. Guardò ancora una volta la maschera a terra.
  • Ed, dì qualcosa. Ed!
Quello non era inglese. Improvvisamente qualsiasi dolore divenne meno importante. Inconsapevolmente, strinse la presa su quelle spalle e trattenendo il respiro, alzò lo sguardo.
La persona che lo stava sorreggendo era lei. Sara era lì, davanti a lui e ogni cosa acquistò improvvisamente senso.
Non riuscì ad emettere un suono, l’aria non arrivava ai polmoni. Sara lo guardava, pallida per lo spavento e con una lacrima che le faceva colare il trucco.
Spalancò occhi e bocca, cercando di convincersi che non si trattava di un altro sogno e in questo il dolore lo aiutava, ma vederla lì gli fece dubitare della sua sanità mentale.
Quando lei parlò ancora, sentì una lacrima pizzicare i suoi occhi. Non sentiva più niente, il suo corpo era del tutto anestetizzato. Come se il tempo scorresse più lentamente, la guardò negli occhi dopo un anno e la prima cosa che riuscì a fare riconoscendo che lei fosse reale, fu tirarla a sé e abbracciarla. Il mondo intorno a lui si era annullato.
 
Piangeva, ma la sua voce rotta era una melodia, alle sue orecchie. Sentiva le sue dita aggrappate ai suoi capelli, il suo petto gonfiarsi, il suo respiro affannare e seppe di essere vivo.
Le mille domande che gli inondavano la mente, non avevano bisogno di alcuna risposta. Quella stretta che sentiva sulle spalle e nel cuore, chiariva ogni cosa.
Probabilmente le persone intorno a loro non capivano cosa stesse accadendo, ma non bastarono pochi minuti a farli distaccare. Continuava ad accarezzarle la schiena, come per essere sicuro di averla ben stretta e non lasciarla più andare.
  • Oh, Ed…
Quel suo sussurro spezzato, stava per rompere gli argini delle sue lacrime. Strizzò gli occhi e si nascose nel suo collo.
Lei, apprensiva, lo invitò a distaccarsi. Portò le sue mani al suo viso.
  • Bisogna medicarti!
  • Sei qui.
Fu l’unica cosa che riuscì a dire, guardandola negli occhi. Non riusciva a staccare le mani da suo corpo. Era completamente imbambolato.
  • Vieni con me.
Lo guardava con quello sguardo preoccupato, troppo presa dal taglio che aveva sul viso. Le passò una mano tra i capelli ormai lunghi.
  • Tu sei qui.
  • Sì, sono qui. – rispose, lasciandosi sfuggire un sorriso.
Forse le cose quella sera non dovevano andare in quel modo, ma gli andava bene anche così. L’importante era che Sara fosse nella sua stessa stanza ed ogni cosa sarebbe andata bene.
  • Ed, vieni con me. Stai perdendo sangue.
 
Lasciò che lo guidasse al taxi e lo riportasse in albergo, dove le fornirono il kit del primo soccorso. Capì che non aveva ancora una camera così, incurante di ciò che dicesse, la fece inserire nella sua matrimoniale. La sua apprensione le permise di ignorare momentaneamente quel dettaglio.
Lo portava quasi in spalla, poiché la testa gli girava come una trottola non appena cercava di raddrizzarsi.
Il tempo che ci misero ad arrivare all’ultimo piano e poi fino al letto, gli sembrò infinito. Non riusciva a stare dritto, così si mise in posizione fetale. Soltanto in quel momento maledisse quell’idiota che l’aveva colpito: era costretto a stare steso in quel modo, quando invece avrebbe voluto alzarsi e baciarla senza aspettare neanche un secondo.
Quando la sentì sedersi sul bordo del letto, riaprì gli occhi ed era ancora lì. Era vera. Le carezzava le mani ogni qual volta si avvicinavano al suo viso, per sentire il suo calore. Com’era possibile che lei fosse lì? Come aveva saputo dove fosse? Taylor, quella pazza, aveva di certo combinato qualcosa. In realtà non gli importava affatto cosa avesse fatto la sua amica, doveva ancora razionalizzare la sua presenza in quella stanza. Era un anno che non incontrava i suoi occhi ed ora la fissava, come se fosse un ologramma o un fantasma. Aveva i capelli sciolti sulle spalle, la pelle bianca e piena di nei, come la ricordava. In un attimo gli tornarono alla mente tanti momenti e i suoi sensi si accesero in un istante. Quel caldo sentimento che aveva tentato di scacciare si faceva avanti più ardente di prima ora che lei gli sorrideva incessantemente. Come aveva fatto a non riconoscerla, non lo sapeva. Aveva sempre creduto che l’avrebbe distinta anche in mezzo a una folla, eppure si trovava steso su quel letto, confuso anche sulla sua identità. Si sbottonò i primi punti della camicia, per riprendersi tutta l’aria che aveva lasciato fuori dai suoi polmoni quando l’aveva vista. Sentiva le sue stesse dita tremare. Il suo profilo lentigginoso era illuminato dalla lampada, mentre continuava a tenere le labbra aperte, come per far uscire i pensieri che gli infestavano la mente, ma non disse una parola per diverso tempo. Doveva sembrarle uno sciocco, ma lei continuava a esistere. Nonostante il bruciore del labbro rotto e del taglio sulla guancia provocati dal pugno, non si allontanò mai di un millimetro dalle sue cure amorevoli. Nei suoi occhi leggeva qualcosa che lo riscaldava dentro, facendogli credere che il cuore stesse per esplodergli.
La fissò a lungo, perso nei suoi dettagli nitidi più che nei ricordi, pensando che c’erano due modi di spiegare quella situazione: o era morto, o qualcuno lassù gli aveva appena salvato la vita.




Angolo autrice:

Wow, ragazzi, così tante visite per l'ultimo capitolo? Non me lo aspettavo, sinceramente. XD
Grazie, comunque. :)
Allora, cosa ve ne pare? Non sono relmente soddisfatta, a dire il vero, ma ribadisco che ho deciso di lasciare le cose in questo modo per rispettare l'idea iniziale.
Vi lascio con l'abito nero che indossa Sara per la serata e col il nostro Ed che non fa altro che passarsi quelle maledette mani tra i capelli.
A presto! :)



   

 

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Capitolo 27
*** I'm thinking out loud. ***






- I'm thinking out loud. -

 


Gli tamponava la ferita col disinfettante, mentre lui continuava a fissarla. Forse credeva che fosse un sogno, perché la toccava ogni volta come per testare la sua solidità.
Le cose non erano andate secondo i piani: quella pazza della sua amica l’aveva fatta arrivare a New York in piena notte di modo che non la vedesse nessuno e l’aveva portata a casa sua. Avrebbe dovuto rivelarsi il giorno seguente, quando Ed sarebbe stato in radio. La festa era soltanto un modo per riabituarsi alla sua vista, per poterlo guardare indisturbata e studiarlo.
Tuttavia, era stata duramente messa alla prova durante diversi momenti della serata e per un attimo aveva creduto che lui l’avesse riconosciuta, ma non era così. Il ricordo del suo viso sconvolto quando la vide in viso, le fece capire che forse qualcosa l’aveva sospettata, ma non ci credeva davvero.
Gli aveva pulito il sangue dal viso, scoprendo che fortunatamente il taglio sul labbro era meno profondo di quanto sembrasse e il naso non era rotto.
Era immobile, steso sul letto e la guardava in un modo indecifrabile. I suoi occhi chiari brillavano alla luce della lampada. Stargli così vicino dopo tutto quel tempo, la rendeva silenziosa.
  • Tu sei qui. – disse lui, nuovamente.
Lei annuì, poiché non le uscivano le parole. Quel lungo viaggio le aveva dato modo di riflettere a lungo su tutta quella storia e si diede ripetutamente della sciocca, quando aprì le sue lettere rimaste sigillate, trovandoci dentro un unico foglio e sempre e solo tre parole: I love you.
Le aveva inviato un centinaio di lettere tutte uguali e lei non le aveva mai aperte. Durante il volo che la stava portando dall’altra parte del mondo, fissò quelle tre parole al centro del foglio e si accorse che lei non gli aveva mai detto di amarlo e per un anno lui aveva aspettato la sua risposta.
  • Come ti senti? – chiese, carezzandolo. La sensazione della sua barba era così familiare.
  • Anche se tu fossi l’ultima cosa che vedo, sarebbe abbastanza per me. – rispose citando se stesso, mentre le prendeva la mano.
Lo aiutò ad alzarsi e mettersi seduto, avvicinandolo di conseguenza a lei. Si abbracciarono spontaneamente.
  • Perché sei qui? Cosa è successo?
  • Taylor mi ha scritto una lettera e mi ha mandato i risultati del test del dna. So che non sei padre. – e trattenne una lacrima.
  • Taylor, lo sapevo. – disse, ricambiando la stretta. Respirò il suo profumo e riprese a parlare. – Ma tu…non eri impegnata? – non riusciva a guardarla negli occhi, quindi approfittò di quell’abbraccio per parlare.
  • No, era quell’idiota di mio cugino. Non mi aveva detto nemmeno che avessi chiamato. Mi dispiace. – Sentì Ed espirare mentre pronunciava quelle parole.
  • Grazie a Dio. Non so cos’avrei fatto. – rifletteva ad alta voce.
  • Ed… - e sciolse l’abbraccio. – Io…sono così dispiaciuta. Ho fatto un terribile errore e mi sono comportata come una sciocca bambina. Potrai mai perdonarmi?
La guardò negli occhi per un istante, udendo quelle parole e analizzando il loro significato. Non leggeva nei suoi occhi la gioia che gli aveva ridato? Non importava più quanto fosse stata via, il tempo si era ridotto ad un secondo e lo spazio ad un millimetro, da quando l’aveva vista. Il passato era passato, gli importava solo del presente. Le prese il viso tra le mani e la baciò, godendosi la sensazione di quella distanza che lentamente si annullava del tutto.
Il sapore delle sue labbra non era cambiato.
 
Quando si svegliarono il mattino seguente, aveva i suoi capelli in bocca. Le erano cresciuti tantissimo e il suo viso era più magro, più adulto. Non aveva la sua roba con sé, rimasta in albergo nella stanza di Taylor, così le aveva ceduto una sua t-shirt. Quando l’aveva vista cambiarsi con naturalezza davanti a lui, il batticuore prese il sopravvento su di lui, ma dovette frenarsi all’ennesimo crampo allo stomaco. Sentiva ancora i baci infiniti di quella notte buia.
Ora che non sentiva più dolore, la guardava più serenamente. La sveglia impostata sul suo cellulare le fece aprire gli occhi. Sobbalzò, per qualche motivo, ma poi lo vide e si portò una mano al viso. Sospirò pesantemente.
  • Credevo di aver sognato. – gli spiegò, con la voce roca, tuffandosi nel suo petto.
Emanava sempre quel calore assurdo. La sensazione del suo corpo accanto al suo, ancora la stupiva.
  • Anch’io l’ho creduto. – le disse. – Tra un’ora e mezza devo essere in radio. Vuoi venire con me?
  • Certo che voglio venire con te. – rispose, sorridendo sul suo petto.
Si alzarono forzatamente e le cedette il turno in bagno, mentre lui chiamava J e lo informava degli ultimi avvenimenti. Per tutta risposta, lui gli disse che già lo sapeva perché i giornali avevano messo la “coppia eterna” in prima pagina. Figurarsi.
Sentì il rumore del getto d’acqua e lei che canticchiava One. Gli vennero i brividi nel sentire quella canzone rimbombare nel bagno. Si alzò e si diresse alla porta, per ascoltarla meglio: la sua voce era allegra e squillante.
  • Would you staaaaaaay with meeee?
Rise e si portò le mani alla testa, preso dall’adrenalina che ancora circolava dalla sera precedente. Si morse il labbro al pensiero che lei fosse lì dentro e lui fosse ancora lì fuori.
Due minuti dopo stava già entrando nella doccia e la stava baciando, l’impulso di averla era irrefrenabile. Era diventata così leggera che riuscì a tenerla in braccio, aiutato dalle mensole della cabina doccia. Sfiorandola di nuovo, come se fossero tornati nel bungalow a Paestum, seppe che non avrebbero più sofferto, non avrebbero più dovuto separarsi. Potevano amarsi.
 
Taylor gli aveva inviato un sms, spiegandogli il motivo per cui il suo ex l’aveva preso a pugni: l’idiota credeva che fossero andati a letto. Ecco perché lo odiava e le diceva che non era il tipo per lei, era stupido.
Sara, leggendo il messaggio insieme a lui, cominciò a parlare in napoletano e non riuscì a capire una sola parola, ma probabilmente stava imprecando contro quel tizio.
La vide sfilarsi l’accappatoio e scavare nella sua valigia alla ricerca di qualcosa che potesse indossare temporaneamente e che potesse nascondere la sua identità.
Per fortuna i giornalisti non avevano scoperto dove alloggiasse, altrimenti sarebbero stati già all’ingresso dell’hotel. Con indosso una sua t-shirt e un suo jeans, si pose il problema delle scarpe, ma fu presto risolto dal negozio dell’hotel, fornito di ogni cosa. Stavolta niente mutandine, ci avrebbero pensato poi.
  • Sei sicuro di stare bene? Non ti fa male?
Continuava a sfiorargli le ferite e si intenerì a tal punto che credette di sciogliersi. Aveva quell’espressione preoccupata che bastava a rispondere a tutte le sue domande.
L’incontro alla radio gli sembrò interminabile sapendo che lei era fuori ad aspettarlo e poi le domande del conduttore avevano come argomento principale il ritorno di Sara nella sua vita. Raccontò la prima cosa che gli venne in mente, senza consultare J e andò via, portandola con sé. Ci volle un’eternità a ritrovare i suoi bagagli, poiché Taylor aveva dovuto barricarsi in un motel in periferia a causa dei giornalisti.
Una volta riavuta la sua valigia, Sara si sentì come sulla soglia di un nuovo e lungo viaggio, che cominciava nel suo cuore e finiva in quello di Ed.
 
Preso il primo aereo per New York, dormirono per quasi tutto il viaggio, lei per il jetleg, lui per recuperare le ore di sonno perdute a causa del mal di testa.
J li attendeva all’aeroporto, sommerso dai giornalisti. Quella volta uscirono dal gate insieme, mano nella mano e col sorriso stampato sul volto. J abbracciò Sara, ignorando la miriade di flash che li sommergeva.
  • Grazie a Dio sei tornata. Questa volta, vedi di restare!
Lei rise, seguendo lui e Ed alla macchina nera che li attendeva fuori.
Quando giunsero alla porta del suo appartamento, Ed aprì e la prese in braccio.
  • Per scaramanzia. – disse.
Non appena i bagagli furono sistemati e la cena cinese ordinata, la prese con sé e la portò sul divano.
  • Si può sapere cos’hai fatto tutto questo tempo lontano da me? – era sereno, mentre le faceva quella domanda.
  • Oh, sai, mi sono laureata, sono andata a vivere da sola, ho trovato un lavoro. – lo guardava dritto negli occhi, con dolcezza. – Qualche volta sono uscita con qualche bel fusto, ma non avevano abbastanza sharm per me.
  • Lo prenderò come un complimento. – rise. – Ti ho cercata.
  • Lo so, ma ero così presa dai miei tentativi di dimenticarti che…
  • Io non ci sono mai riuscito.
  • E tu cos’hai fatto, oltre ubriacarti?  - e lo guardò male, mentre lo diceva.
  • Oh, beh, ho scritto un album, ho fatto un tour, salutavo la mia ex dal palco e poi tornavo a bere.
Sembrò che il tempo non bastasse per raccontarsi ogni cosa.
  • Ogni volta che lo facevi, avrei voluto raggiungerti, ma poi non avrei saputo cosa fare. Però, ti ho pensato. Ogni giorno. E quando ho letto One…
  • L’ho scritta da ubriaco, seduto nella vasca da bagno.
  • Cosa?!
Cenarono accanto alla vetrata. Ed portava ancora quel braccialetto al polso, i loro nomi incisi si vedevano appena nella penombra. Le ordinò di indossare seduta stante la sua medaglietta, altrimenti le avrebbe messo il muso. Pochi secondi dopo l’aveva già al collo.
Sembrava tutto normale mentre erano seduti lì a raccontarsi di quell’anno che ormai sembrava così distante, come se stessero parlando di eventi lontani nel passato. Riusciva a scorgere la sua cicatrice all’attaccatura dei capelli, lucida rispetto alla sua pelle opaca, priva di trucco. Se ripensava a cosa avevano condiviso, gli veniva da pensare che la loro fosse una storia degna di un romanzo, le cui pagine, da quel momento in poi, erano ancora bianche.
Voleva riempirle insieme a lei, fino alla fine.
 
 
Da quando il tempo aveva ripreso a scorrere normalmente, Sara si era trovata un lavoro come insegnante di italiano, nell’attesa di completare i suoi studi di inglese e aspirare ad insegnare in una vera scuola. Intanto, mettevano da parte i soldi per una casa, una macchina, un viaggio, anche se lui insisteva sul fatto che lei non dovesse sforzarsi così tanto, ma perdeva ogni volta contro la sua voglia di vivere la vita.
Era tornato in Italia con lei e avevano passato l’estate a girare la Sardegna in moto, con soltanto una tenda in spalla, invece lei aveva passato il Natale con lui, in Inghilterra. Finalmente aveva conosciuto la sua famiglia, compresi suo padre e suo fratello, col quale andava pericolosamente d’accordo. Lo prendevano in giro per qualsiasi cosa.
Ogni tanto i giornali parlavano di loro, qualche volta l’avevano invitata ad apparire in qualche programma e – sotto minaccia di J – lei ci andò, per il suo bene.
Ogni tanto, la vedeva distante anni luce, persa nei suoi ricordi e nella nostalgia di casa sua. Le mancavano Napoli, gli amici, la famiglia. Una volta gli aveva detto che il suo sogno era quello di insegnare in un certo quartiere della città, per aiutare i bambini a combattere l’ignoranza con la quale venivano cresciuti. A volte si sentiva in colpa a tenerla lì, ma lei ribadiva che era una sua scelta.
Di tanto in tanto, fuggivano da New York e giravano per il continente. Voleva che anche lei si innamorasse di quella terra, come lui aveva amato l’Italia. Non ci volle molto.
Ormai aveva lasciato il piccolo appartamento che aveva preso tempo prima, lasciandoci una parte di sé che non voleva rivedere mai più. Sua madre li invitò a passare la Pasqua a casa sua e lì conobbe la sterminata famiglia De Amicis, con tutti i suoi zii e zie, cugini e cugine e chi più ne ha più ne metta. Per lo più, partecipò ascoltando le traduzioni napoletano-italiano della sua fidanzata, ridendo di gusto a certe battute di spirito sui suoi capelli rossi.
Il padre di Sara gli raccomandò di avere cura della sua principessa e suo fratello lo minacciò di morte nel caso in cui l’avesse fatta soffrire. La madre si limitò a piangere, abbracciandolo. In quel clima così caldo e familiare, si sentì accettato, accolto, a casa. Il fatto di essere entrati nelle rispettive famiglie, gli lasciava sperare che avrebbero potuto godere per sempre di quella serenità, insieme.
Non mancarono i momenti brutti, i litigi, i giorni di pioggia troppo lunghi e spesso gli eventi li segnarono a fondo, qualche volta facendogli credere che stessero di nuovo per spezzarsi. Ma come diceva quella canzone? “Non siamo rotti, soltanto piegati e possiamo imparare ad amare di nuovo”.
Quando la sera, a letto, spegnevano la luce e facevano l’amore, ricominciavano tutto da capo, imparando a conoscersi ogni giorno. Era quello l’amore. Un pezzetto di felicità al giorno.
 
Dopo tanti pezzetti, Ed aveva completato il suo puzzle. Aveva costruito quell’idea fino all’ultimo pezzetto di lego.
Sara era riuscita a trovare un posto nella scuola pubblica a Londra, dove ora lavorava e viveva da sola e lui, una volta appurato il successo del suo nuovo album, aveva cominciato il tour mondiale. Non si vedevano da mesi e le mancava da morire. La immaginava andare a letto da sola ogni sera e svegliarsi ogni mattina, altrettanto sola. Lui faceva lo stesso, ogni giorno in un paese diverso. Skype li aiutava a sentirsi vicini, ma spesso non aveva neanche il tempo di scendere dal palco che stava già salendo su un aereo, diretto in un posto sempre troppo lontano da lei, ma ormai l’attesa era terminata e avevano superato la prova.
La sua ultima tappa era in Irlanda, a pochi chilometri da lei e quella era la sua occasione.
Erano mesi che ci pensava: ormai avevano entrambi 26 anni e lui sapeva già da parecchio che tra altri 70 sarebbero stati ancora insieme, quindi, perché no?
J gli ribadiva di avere ancora tanta strada da fare e tanti giorni da passare lontano da casa, ma questo non lo frenava dal desiderare di passare la sua vita con lei.
Ormai intestarditosi a voler fare qualcosa di assolutamente esagerato e poco intimo, prese la situazione in mano e gestì quel concerto come più gli piaceva.
Modificò la scaletta e prenotò un biglietto aereo per lei, raccomandandole di lasciare qualsiasi sua attività e raggiungerlo.
Sara non sapeva cosa stesse tramando, ma doveva essere importante per farla andare in Irlanda il giorno prima che lui tornasse a casa. In ogni caso, fece i bagagli e lo raggiunse, contenta del fatto che il volo fosse breve.
Un tassista la aspettava al gate con un cartellone con su scritto il suo cognome, la portò direttamente all’entrata secondaria dello stadio in cui si sarebbe tenuto il concerto.
Era una sera d’estate e lei scalpitava all’idea di rivederlo.
Nonostante il concerto non fosse ancora cominciato, non riuscì ad incontrarlo e dovette stare seduta in uno stanzino ad aspettare che l’evento avesse inizio. L’unico modo che aveva per passare il tempo, era giocare con la sua medaglietta.
Dopo un tempo che le sembrò infinito, qualcuno andò a prenderla e la condusse dietro le quinte.
Quando le luci del palco si accesero, lui era già lì. Era incredibile come il solo guardarlo la facesse ancora sentire una ragazzina. I loro occhi si incontrarono e lui le sorrise in un modo che la rese sicura del fatto che quello era un miracolo. Erano più di tre anni che era la sua ragazza e qualche volta stentava ancora a crederci. Però, eccolo lì. Raggiante.
Non ci fu l’occasione di abbracciarlo per le successive tre ore di concerto. La folla lo acclamava come fosse un dio, le ragazze strepitanti urlavano il suo nome, agitando i cartelloni.
Accomodata su una sedia, non potè fare altro che aspettare e godersi lo spettacolo.
  • E ora, vi devo chiedere un grande favore. Dovreste chiamare qui sul palco una persona, ok?
La folla urlò.
  • Ripetete con me: Sara!
E un coro assordante urlò il suo nome a gran voce, ripetendolo come se sapessero che lei, in quel momento, era sconvolta e impietrita dietro le quinte.
Lui la guardò, tendendo la mano verso di lei. Non era mai salita su un palco durante un concerto, soprattutto in veste di fidanzata del cantante. Lui non aveva mai fatto niente del genere. J, alle sue spalle, la incitò ad entrare prima che facessero una figuraccia.
Con le gambe tremanti, fece il primo passo verso di lui. Cavolo – pensò – sono in pantaloncini e t-shirt.
Non appena la luce colpì la sua figura, le urla del pubblico le fecero gelare il sangue, così si concentrò sulla figura di Ed, che la aspettava, mettendo preventivamente la chitarra a terra per abbracciarla.
Non appena i loro corpi si incontrarono, dovette trattenere le lacrime. Ogni volta che si rivedevano dopo tanto tempo, capiva che quel ragazzo era ogni cosa, per lei. Il suo calore le serviva a vivere.
Ben presto, purtroppo, dovettero separarsi. Non capiva ancora perché mai fosse lì.
  • Oggi è un giorno importante per me – disse rivolto al pubblico – Vi starete chiedendo perché – e guardò lei, ancora confusa e impaurita dalla sensazione che le dava il palcoscenico. – Ho conosciuto Sara diversi anni fa e non avrei mai pensato che un giorno sarebbe stata al mio fianco, su questo palco, ma è qui. Photograph, Give me love, One, sono tutte canzoni che non sarebbero mai esistite se non fosse stato per lei. Ha cambiato il senso della mia vita, delle mie parole, della mia musica. Ha cambiato me. Stasera, vorrei dedicarle una canzone che ho scritto tempo fa e che ha acquisito significato soltanto quando lei è entrata nella mia vita.
Senza distogliere lo sguardo da lei, cominciò a pizzicare le corde. Sara restò immobile quando le luci dello stadio si spensero e il pubblico accese i flash dei cellulari. Riconobbe immediatamente le prime note di quella canzone.
Cosa diavolo stava succedendo?
  • When your legs don’t work like they used to before…
Ed cominciò a cantare Thinking out loud senza mai staccare gli occhi dai suoi, cantando per la prima volta con un sentimento del tutto nuovo. La vide impietrita e confusa, ma ormai era troppo tardi per fermarsi. Pensava soltanto alla gioia che avrebbe provato quando gli avrebbe risposto. Il pubblico portava il tempo e cantava con lui.
Ogni parola della canzone, vibrò dritta nel suo cuore, come se la ascoltasse per la prima volta.
Non l’aveva mai visto con quella luce negli occhi e quando terminò la canzone, invece di abbracciarla, si fermò a pochi passi da lei. Posò la chitarra e prese il microfono. Il cuore le batteva all’impazzata.
  • Dal primo momento in cui ti ho vista, ho capito che avresti fatto la differenza nella mia vita – deglutì, nervosamente -  e mi sono innamorato di te ogni giorno, tutti i giorni.
Ed aveva la gola secca. Sentiva le mani tremargli mentre infilava le dita in tasca. Il mondo intero li stava guardando.
  • La mia vita è come un romanzo a metà, il resto delle sue pagine sono ancora bianche.
Senza sapere se avrebbe retto all’emozione, si inginocchiò, uscendo da qualsiasi schema lo riguardasse. Nessuno avrebbe mai pensato che le avrebbe chiesto di sposarlo durante un concerto, non aveva mai avuto la minima intenzione di farlo, chi sa cosa gli era passato per la mente. Tuttavia, si era appena inginocchiato e nonostante fosse stanco morto, con le dita tremanti per lo sforzo, non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte se non lì. Rise, strizzando gli occhi quando la vide portarsi le mani al viso, improvvisamente consapevole di cosa stesse accadendo. Si passò una mano tra i capelli, cercando di trattenersi lì, invece di alzarsi e abbracciarla. Prese fiato, cercando di mantenere il controllo, invano. La voce gli tremava.
  • Vuoi… - e rise ancora, sentendo la platea strepitare. – Vuoi scriverle con me?
Prese lo scatolino che aveva in tasca e lo aprì. La vide piegarsi in due, reagendo istintivamente all’emozione. Era ansioso di ascoltare la sua risposta, nonostante lei stesse già per piangere.
Sara non si aspettava certo quello. Non si aspettava che Ed si inginocchiasse davanti a lei con un anello. Le mancavano il respiro e le parole per rispondere e lui aveva lo sguardo pieno d’attesa. Le formicolavano le gambe, credette di svenire, ma sì, sì, sì. Riuscì soltanto ad annuire e ad allargare le braccia per accoglierlo nel suo abbraccio.
Ed la sollevò da terra, senza controllo, sentendola piangere tra le sue braccia.
Presto Sara sarebbe stata sua moglie e lui non vedeva l’ora di essere suo marito ed amarla e onorarla finchè la morte non li avesse separati.
La foto del loro bacio su quel palco, era sulle prime pagine di mezzo mondo.



Angolo autrice:

Ok, ragazzi, ci siamo. Eccoci al penultimo capitolo.
Lo so, è un po' scontato e prevedibile e forse un po' deludente, ma eccolo.
Ci vediamo prestissimo per l'ultimo capitolo. :)
https://www.youtube.com/watch?v=7PaUCcIPeCM

 

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Capitolo 28
*** Beyond. ***







- Beyond -




Amore non è amore se muta
 quando scopre un mutamento
o tende a svanire quando l'altro si allontana.
Oh, no! Amore è un faro sempre fisso
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;

amore non muta in poche ore o settimane,
ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio;
se questo è errore e mi sarà provato,
io non ho mai scritto,
e nessuno ha mai amato.

 
William Shakespeare
 



Non pensavano di poter provare un’emozione simile, non rientrava nel programma della loro vita. Avevano vinto il primo premio. Erano giunti alla meta. Stavano per scambiarsi la promessa.
Avevano lottato ogni minuto, da quando si erano incontrati e per un solo scopo. Erano giorni che non faceva altro che ripensare alla prima volta che aveva visto i suoi occhi: azzurri. Si chiese se per caso il destino avesse ficcato il naso nella sua vita, perché non era una cosa da tutti i giorni incontrare qualcuno per errore e incastrarselo nella testa come un sogno. La loro storia aveva dell’incredibile e del banale, era assurdo per quel mondo così reale eppure così scontato in quello delle favole. Una banale storia semplice.
L’aria polverosa rifletteva la luce antica che filtrava dalle vetrate e guardò il soffitto. Era in chiesa in abito elegante, per il suo matrimonio e si sentiva come un pesce fuor d’acqua, come se non fosse lui lo sposo, come se il suo alter ego stesse simulando quell’evento, ma ogni tanto il tremito delle sue gambe gli ricordava che non stava dormendo nel suo letto a New York. Era proprio lì, in piedi, i capelli rossi accesi alla luce di quella mattinata, inaspettatamente spettinati come sempre. La musica dell’organo quasi gli provocò un infarto.
Quando la vide percorrere la navata, col suo abito semplice, non riuscì a trattenere il sorriso né le lacrime. Qualcuno aveva detto che quello sarebbe stato il giorno più bello della sua vita, ma non era vero. Nessuno poteva sapere quale sarebbe stato il giorno più bello, con lei, per il momento aveva soltanto un giorno preferito: quello in cui aveva capito che lei gli avrebbe cambiato la vita.
Da quando gli aveva detto sì, ogni cosa si era completamente trasformata, anche la visione che aveva di se stesso, come se avesse preso il suo vecchio io ferito e lo avesse scaricato da qualche parte, per vestirsi di quel nuovo Edward – sì, perché adorava sentire il suo nome uscire dalle sue labbra piccole. Era un uomo – un uomo davvero - e aveva una donna – la sua. Non una qualsiasi, ma la donna che aveva scelto. Erano lì perché si erano scelti e l’avevano voluto insieme. Nonostante tutto, nonostante tutti.
La sua vita era sempre stata un continuo vagabondare, di treno in treno, di città in città, di donna in donna, ma quel viaggio senza soste era parte di lui, lo rappresentava. Non aveva mai avuto un posto fisso in cui stare per sempre, il suo spirito era libero. Ora, anche se avesse continuato a viaggiare, avrebbe avuto un posto al quale il suo cuore poteva sempre tornare ed era lei, il cui sorriso era largo e accogliente proprio come una casa.
I loro parenti e amici erano seduti sulle panche e li guardavano, commossi. Non avrebbero mai potuto comprendere cosa stessero provando loro, cosa stesse provando lui: l’emozione incomparabile di realizzare che tutto ciò che lo circondava fosse reale.
Non sapevano che loro non si erano mai chiesti niente, nessuna promessa, nessun giuramento, prima di allora, non ne avevano bisogno. Come diceva una canzone a cui era particolarmente affezionato, “Those three words are said too much. They’re not enough”.
Contava solo la loro volontà di amarsi e di accompagnarsi ogni giorno, consapevoli dei fatto che la strada non era facile, ma ne valeva la pena.
Aveva imparato che l’unica cosa che conta, nella vita, è l’amore che puoi dare. La felicità stava tutta lì - in quella di lei.
Tutte le chiacchiere sui clichè, sul destino, sul caso, non avevano più alcun significato nel momento in cui le prese mano. La sensazione della sue dita, in quel preciso istante, mentre suo padre la lasciava a lui per sempre, gli diede la stessa emozione che si prova quando si taglia un traguardo: il cuore ti scoppia per la corsa e non vedi l’ora di fermarti, ma non fai in tempo a renderti conto di aver vinto che stai già cercando di contenere tutta la gioia che provi.
Cosa si prova quando ci si sposa? Se l’era chiesto per lunghi e interminabili giorni di lavoro, mentre lei girovagava con sua madre per organizzare la cerimonia. Ora lo sapeva.
Vedere i suoi occhi lucidi e non pensare ad altro, gli faceva capire di aver cominciato la prima pagina del resto della sua vita. Stavano già scrivendo.
Forse qualche volta avrebbero finito l’inchiostro e un giorno il libro sarebbe finito, ma non aveva paura quando lei gli stringeva la mano, perché sapeva che di quella vita avrebbero riempito ogni spazio bianco. In passato, avevano affrontato momenti bui, in cui credeva di essersi perso, ma poi lei gli apriva gli occhi e faceva tornare la luce. Per quella vita, voleva farle lo stesso dono: essere la sua strada, il suo porto, la sua spalla.
Avvolto in quell’abito da sposa, c’era un essere umano nel quale si riconosceva per quello che era, nei suoi occhi chiari era la sua oasi, tra le sue braccia la sua casa, tra le sue dita il suo futuro. Era qualcosa di semplicemente inspiegabile il modo in cui lei lo riconosceva come una persona e basta, qualcuno che ha paura, rabbia, tristezza. Qualcuno che può perdersi per strada come un qualunque turista o che può mangiare una pizza seduto sui gradini di una fontana. Gli stava facendo il più grande dono, nella vita: amare ed essere amati, per ciò che si è.
La gente non lo sapeva, ma lui l’amava per quell’infinito viaggio in se stesso che gli offriva e che avrebbero percorso in due, come una canzone scritta a quattro mani e cantata a due voci.
Insieme. Insieme. Insieme.
  • Giuro di esserti fedele sempre.
Stava guardando all’altra metà di sé.
  • Nella gioia e nel dolore, in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia.
Il petto gli bruciava.
  • E di amarti e onorarti.
L’amava, non sapeva altro.
  • Finché morte non ci separi.
Fissò i suoi occhi, senza mai smettere di tenerle la mano e quando il prete gli diede il permesso, mosse un passo verso di lei, sperando per un attimo che tutti sparissero per non violare quel momento. Chiuse gli occhi e non sentendo la terra sotto i piedi, sentiva di poter levitare.
Quando per la prima volta toccò le sue labbra come suo marito, capì cosa fosse la vita e inspirò d’istinto, come se quell’amore gli togliesse anche l’aria.
Non importava dove, come, quando. Loro avrebbero vissuto.
Erano un amore in fiamme.
Come un sole rosso acceso.
Insieme.
 
Oltre.




 
I need your grace
 to remind me
 to find my own.
(Ho bisogno della tua grazia per ricordarmi di trovare la mia)

Forget what we're told,
 before we get too old. […]
(Dimentica cosa ci hanno detto, prima che invecchiamo troppo)

Show me a garden that's bursting into life.
(Mostrami un giardino che esplode di vita)

All that I am,
 all that I ever was, 
is here in your perfect eyes,
(Tutto ciò che sono, tutto ciò che sono sempre stato, è qui nei tuoi occhi perfetti) 

they're all I can see.
(essi sono tutto ciò che posso vedere)

I don't know where,
 confused about how as well,
(Non so dove, sono confuso anche sul come)

just know that these things will never change for us, at all.
(sappi solo che queste cose non cambieranno mai per noi)

If I lay here, 
If I just lay here,
(Se mi stendessi qui, se semplicemente mi stendessi qui)

would you lie with me and just forget the world?

(ti stenderesti con me e dimenticheresti il mondo?)

[Snow Patrol – Chasing cars]



 
Angolo autrice:

Non sapete quanto mi costa postare l'ultimo capitolo, ma sì, ci siamo. La storia è finita.
Spero di avervi lasciato qualcosa, una minima parte della mia mente e delle mie sensazioni.
E spero anche che questo finale sdolcinato sia più significativo di quanto si possa pensare.
Ringrazio tantissimo le persone che hanno recensito, mi avete dato una bella carica e una grande soddisfazione, quindi grazie, grazie, grazie. :)
Un inchino a chi ha letto la storia in silenzio, facendo salire ogni giorno il numero delle visite ad un livello inaspettato, un abbraccio anche a voi.
La canzone a cui si riferisce Ed dicendo "Those three words are said too much. They're not enough." è proprio la canzone della citazione finale, la quale rientra davvero tra le preferite di Ed Sheeran (a quanto pare) e che, secondo me, lo rende reale più che mai.
Vi lascio il link della sua cover live: https://www.youtube.com/watch?v=zEficHEmxhs
Grazie ancora a tutti. :)
Alla prossima,

S.

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