La Luna in una scatola

di hikachu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1/8/1992 ***
Capitolo 2: *** 2-3/8/1992 ***
Capitolo 3: *** 4/8/1992 ***
Capitolo 4: *** 6-7/8/1992 ***
Capitolo 5: *** Annex I: 3/8/1992 ***
Capitolo 6: *** 7/8/1992 ***



Capitolo 1
*** 1/8/1992 ***


Capitolo I: 1/8/1992



Mi chiamo Usagi Tsukino. All'epoca dei fatti, avevo compiuto diciotto anni da appena due mesi. Erano quelle le mie ultime vacanze da liceale. Le mie amiche ed io trascorrevamo le giornate ingozzandoci di gelati, rotolando in panciolle sul pavimento di casa con l'ultimo numero di Jump tra le mani, accarezzando il sogno lontano di una spiaggia tropicale. Stavamo insomma facendo del nostro meglio per dimenticare i compiti estivi e, soprattutto, le scelte che ci avrebbero atteso da un mese a quella parte. Ad eccezione di Ami che aveva sempre lavorato sodo in vista di un'ambizione che l'aveva accompagnata sin dall'infanzia, l'idea di dover dare una direzione precisa alle nostre vite ci spaventava. Per la prima volta, dovevamo guardare ai nostri sogni con occhi diversi: i se e i forse i certamente che ci avevano sostenute in una vita spensierata si facevano sempre più evanescenti; erano, anzi, fantasmi da rifuggire adesso. Il mondo che ci avrebbe trattate come bambine ancora per qualche anno, ci chiedeva di essere adulte. Era tempo di gettare via quei progetti che erano poco più che sogni ad occhi aperti, scenari che inconsciamente sentivamo non si sarebbero mai tramutati in realtà.

Così, quel primo agosto, avevamo sistemato il ventilatore che di solito presiedeva la cameretta di Rei nel soggiorno in stile giapponese – che pure ne era stato già fornito poco prima della fine della scuola, quando in vista degli ultimi esami ci riunivamo lì per studiare insieme – e fissavamo, mute, il soffitto. Avevamo i capelli appiccicati al viso e i vestiti, abitini di cotone sottili come carta, erano una costrizione. Ricordo che tra il sudore e la consistenza ruvida del tatami, la nuca mi prudeva da matti, ma anche solo sollevare il braccio per grattarla mi pareva un'impresa monumentale.

Il frinire delle cicale sembrava destinato a continuare per sempre: mi aveva dato il buongiorno quando mi ero sollevata a sedere nel mio letto quel mattino, e da allora non mi aveva lasciata per tutto il tragitto verso il tempio della famiglia di Rei, nemmeno per un solo secondo. Mentre incespicavo sulle scale dopo il primo torii, il suono si amplificava nella mia testa, gradino dopo gradino; forse quelle creaturine mi stavano incoraggiando a modo loro, o forse ridevano di gusto di me, delle mie amiche, di quelle sciocche, ingombranti creature in procinto di squagliarsi al sole che non avrebbero mai saputo cantare le lodi dell'estate—che non avrebbero mai saputo amarla instancabilmente come facevano loro. Ma, oh, piccole cicale, di amore noi ne avevamo tanto...

In quel periodo, Tokyo era piena solo a metà. Chi non era costretto a restare dal lavoro era felicemente migrato altrove, magari proprio su quella spiaggia tropicale che noi, squattrinate liceali, non potevamo permetterci al di fuori delle nostre fantasie. Era così che anche il tempio restava privo di visitatori per lunghi intervalli, eccezione fatta per alcune signore anziane che abitavano nei dintorni. Se le ragazze non fossero state con me in quella stanza, avrei creduto di essere stata catapultata in una città fantasma. Non vi era rumore che facesse intuire la presenza di altri esseri umani, se non quello distante del bus che si fermava ogni venti minuti all'incrocio sottostante. Persino il canto delle cicale, forse perché tanto persistente, era come parte del silenzio stesso. E il silenzio ci schiacciava, assordante.

Ripensandoci adesso, credo che quei lunghi silenzi tra di noi fossero uno sforzo, tanto simultaneo quanto inconscio, per prolungare al massimo quei momenti surreali, in cui il tempo sembrava essersi fermato. Istanti rubati al mondo in cui poter essere ancora noi, troppo piccole per pensare davvero al domani; per poter credere che da un momento all'altro ci saremmo messe a ridere come sceme, come sempre, complottando per decidere se trascorrere l'indomani al caffè di Motoki a provare i nuovi videogiochi oppure se fuggire a Ginza, per dare una sbirciata a quel mondo di adulti raffinati così distanti da noi, tra un sospiro e l'altro davanti alle vetrine di Gucci e Bulgari. La verità, naturalmente, era che quel periodo delle nostre vite stava giungendo al tramonto, che quel pomeriggio ci eravamo riunite per discutere, magari decidere. Eravamo lì per potare, tagliare via i boccioli nascenti di quei sogni che non avrebbero mai visto la luce per permettere ad un'unica ambizione di prendere vita.

Persino Ami, che di norma non avrebbe esitato a rimproverarci di prendere più sul serio il nostro futuro, se ne stava quieta, un'espressione vagamente triste stampata in volto: persino a lei, che non aveva dubbi e sarebbe di sicuro entrata nella prima università di sua scelta, restava un demone da affrontare. Quello della separazione. Non potevamo sapere dove queste scelte, una volta fatte, ci avrebbero condotto, e c'era d'altronde la possibilità che, dopo il diploma, Ami stessa dovesse seguire negli Stati Uniti sua madre, impegnata in un importante progetto di ricerca. Di certo, in America non le sarebbero mancate ottime opportunità di studio: i college avrebbero fatto a gara per accaparrarsi una studentessa dotata come lei; le avrebbero offerto borse di studio al cui confronto qualsiasi proposta locale sarebbe impallidita.

Io, la sciocca Usagi, la piagnucolona Usagi, sapevo bene di non avere nessun talento particolare, né potevo dire di avere una qualche attitudine allo studio—non quando anno dopo anno me l'ero sempre cavata per il rotto della cuffia. Le mie amiche, invece, possedevano tutte una qualche inclinazione, una piccola fiammella che bruciava nel loro petto e nutriva un sogno ben diverso dalle mie infantili fantasticherie di futura pop star o principessa. Loro, ne ero sicura, sarebbero riuscite a realizzare quei desideri. Passata la tempesta dell'adolescenza, lavate via le incertezze di quel periodo in cui ci sembrava di camminare al buio, ne sarebbero emerse come farfalle da un bozzolo, ormai tramutate in splendide donne. Avrei voluto trovare le parole per spiegare quel presentimento ogni volta che scorgevo l'incertezza sui loro lineamenti, ma avevo paura di ferirle. Egoisticamente, non volevo pensassero che stessi sottovalutando le loro difficoltà. Non volevo che mi odiassero. Le volevo vicine a me, come sempre, allora più che mai. Avevo paura di restare sola e non sapevo come scacciare quell'ansia che mi faceva pesare il cuore: più osservavo le ragazze e più mi sentivo dieci, venti, cento passi indietro rispetto a loro. Era una voragine che si allargava giorno dopo giorno. Mi stavo rendendo conto di essere viziata, che fino ad allora mi ero nutrita del loro affetto, mi ero rifugiata nei loro abbracci, avevo messo il broncio quando punzecchiandomi cercavano di invitarmi a fare di più, a fare del mio meglio, ed avevo continuato così ad essere la sciocca Usagi, la piagnucolona Usagi, che non fa nulla di buon grado se non mangiare, schiacciare pisolini e giocare.

Avevo avuto la grande fortuna di essere così amata e protetta e sentivo di averla sprecata. Avrei potuto intraprendere qualsiasi cosa con tutto il sostegno che quelle persone meravigliose mi avrebbero dato, e non l'avevo fatto. Se pensavo a Makoto, la dolcissima, fortissima Makoto, che i genitori li aveva persi a sette anni e nonostante tutto si era sempre presa cura di se stessa e di chi le stava intorno, mi sentivo terribilmente in colpa. Mi ero lasciata inebriare dalle gioie momentanee di una torta o il nuovo capitolo del manga che seguivo ossessivamente, ma anche dall'affetto delle mie amiche, della mia famiglia e della persona che più di tutte mi stravolgeva il cuore: Mamoru, il mio principe senza corona. L'incarnazione dei miei sogni di bambina—quel frammento di essi che credevo sarebbe sopravvissuto al momento del diploma e al mondo esterno che ci stava strappando all'infanzia.

Mamoru, che con un sospiro da adulto mi diceva, Usako, dovresti impegnarti di più, e si offriva di aiutarmi con i compiti nei pomeriggi piovosi che ci intrappolavano in casa sua, ma poi mentre cercavamo di afferrare un libro o una penna le nostre mani si sfioravano e l'intreccio delle dita diventava un bacio, poi due, poi tre, ed io non lo lasciavo andare fino a sera, quando la strada era pervasa dal profumo della cena che si consumava nelle abitazioni circostanti ed io dovevo correre per non perdere l'ultimo bus. Mamoru, che avevo baciato per l'ultima volta nel mese di aprile, in cima alle scale mobili dell'aeroporto; la prima separazione portata da quella tempesta che non vedeva l'ora di inghiottirmi. Mamoru, il mio bellissimo Mamo-chan, era intelligente e lavorava sodo e spesso parlava di cose che non capivo, ma era così entusiasta quando mi raccontava dei progressi che lui e i suoi colleghi all'università stavano facendo, che non avrei mai e poi mai potuto fare altro che fingermi interessatissima. L'avevo visto avanzare su per la strada del successo senza davvero accorgermene o comprendere fino in fondo la magnitudine del suo impegno: e così, in un giorno di febbraio, sotto un cielo insolitamente terso che profumava un po' di primavera, noi eravamo al parco, sulla solita panchina, e lui mi aveva stretto entrambe le mani e sorridendo aveva detto, Usako, buone notizie, Usako. Aveva sciorinato poi: risultati nuovi progetti borsa di studio estero due anni, e il suo sorriso si era diluito in un velo di tristezza come se avesse appena realizzato appieno cosa stava per accaderci, ma per me erano ancora tutte parole disconnesse, nient'altro che il preannunciarsi di un bel mal di testa e la sensazione appiccicaticcia delle lacrime sulle mie guance. Perdonami, gli avevo detto quando la prima mi era scivolata tra le labbra, ma sono stupida e mi ci vuole tempo, tu lo sai, gli avevo detto, sebbene lui non potesse sapere del vuoto che in quei momenti avevo in testa. Ma sarebbe stato impossibile per Mamoru esser cieco davanti alla mia tristezza, e così mi aveva presa tra le braccia, stringendomi forte, ed io avevo preso a singhiozzare come se stessi per morire, senza vergogna, mentre le altre coppie e le famiglie che passeggiavano per il parco si voltavano a fissarci. Ci eravamo baciati, poi, e in quel bacio avevo conosciuto per la prima volta il sapore della rassegnazione.

Stretti forte al punto di provare dolore, con le ossa di uno che premevano contro la carne dell'altra, su quella panchina, Mamoru continuò a baciarmi, sperando forse di fermare le mie lacrime. Tuttavia, anche quando ebbi smesso di piangere, quel sapore non mi abbandonò per tutto il giorno, né in quelli successivi, né – naturalmente – al momento della partenza. Quel giorno, al tempio, mi impregnava ancora il fondo della lingua per risollevarsi come un'onda ad ogni pensiero amaro. Era divenuto terribilmente familiare, il sapore della perdita che non avevo mai conosciuto prima di allora. Dopotutto, all'epoca, era impossibile per me discernere qualsiasi distanza tra me e la persona che amavo che non fosse quella fisica: credevo ciecamente che l'amore fosse abbastanza—no, che semplicemente non vi fosse bisogno d'altro, per colmare quelle crepe che per natura esistono tra due solitudini. L'amore era per me la forza assoluta, inequivocabile, imprescindibile: un mito colto tra romanzetti d'amore e manga rosa che, in mancanza d'ostacoli, sovrapponevo sicura alla realtà. Trascorrevo dunque le mie giornate tra la casa di un'amica e la sala giochi, ingannando il tempo prima della telefonata serale di Mamoru. Per me, il ciclo di ventiquattro ore terminava e si resettava lì; ciò che veniva prima o dopo era spesso come un vago sogno, una nebbia da tagliare faticosamente fino al raggiungimento di quei fatidici dieci, quindici minuti, e poi, punto e accapo.

Anche quel giorno, nonostante tutti i pensieri che mi affollavano la mente, o forse proprio a causa di tutte quelle preoccupazioni, decisi finalmente di ignorare il senso di fiacchezza che mi avvolgeva come un sudario per lanciare uno sguardo all'orologio digitale, sistemato sullo scaffale più alto della libreria come veloce rimpiazzo per quello da muro – un vero pezzo di antiquariato prodotto agli albori dell'epoca Showa – rotto per sbaglio dall'apprendista sacerdote durante le pulizie primaverili. Ecco, eccomi che mi tiro a sedere; ecco che la persona che ero si solleva: prima sui gomiti, poi tutta la schiena, si trascina gradualmente fino ad ergersi per bene con le spalle dritte. Rivedo i movimenti uno per uno, come in un libro illustrato o la pellicola di un film. Fase uno, fase due e fase tre che passano veloci in un frangente unico. Eppure, in quei tre passi ho già smesso di essere la persona che ero mentre mi stiracchiavo sul tatami. L'idea che io sia sempre io è una convenzione, necessaria e di comodo, certo, ma pur sempre una certezza inaccurata e senza un fondo concreto di verità. L'Usagi che controlla l'ora e fa un breve conto dei minuti che la separano dalla voce del suo ragazzo non è l'Usagi che sta scrivendo queste pagine.

Ecco dunque l'Usagi che ero, quella che sono stata e non sarò mai più, che si volta: Rei le sta dicendo qualcosa con aria seccata. Credo che il nonno abbia finito l'ultima bottiglia di mugicha e per di più manca il gelato, proclama; è appena tornata dalla cucina e ha le mani sui fianchi, la schiena appena incurvata in un'espressione di resa—una posizione che assume solamente quando è seccata. Minako sgrana gli occhi, passi niente tè, ma il gelato di questi tempi è essenziale, non può credere all'affronto; si tira su a sedere anche lei ed abbraccia il cuscino che dovrebbe usare per sedersi come fosse un orsacchiotto. Io, no, Usagi si unisce alla protesta. Quando si tratta di fare capricci, Minako e Usagi si intendono come se condividessero un legame telepatico. La tensione si è spezzata. Adesso le ragazze sono tutte prese da uno di quelli che sono stati gli unici loro problemi per anni: chi va al conbini? Per qualche ora sarà tutto di nuovo normale. Si aprono i borsellini – colorati, a fiori, decorati con personaggi dei cartoni animati o qualche mascotte della Sanrio – e le monete cadono giù, tra le ragazze inginocchiate in circolo, con un fragoroso tintinnio. Si conta tutto fino all'ultimo spicciolo: basterà, ce la facciamo o no. Poi si stila la lista—la scrive Ami, perché lei e Rei sono le uniche la cui grafia sia veramente leggibile, e a Rei non va di scrivere; sono la padrona di casa, dice convinta come se ci fosse un nesso logico tra le due cose. Ora si individua la vittima: in questo caso il rituale scelto è un match di sasso-carta-forbici, che Usagi perde in maniera spettacolare. Viene messa alla porta con la lista e gli spiccioli di tutte in mano; in uno slancio di generosità che forse comprende un po' di rimorso, Makoto le porge il parasole decorato con le roselline di seta che si è portata dietro. Torna presto, le dicono all'unisono, e poi, slam!, la porta scorrevole si chiude senza pietà. Usagi rabbrividisce: se non avesse ritratto subito la mano, le avrebbe troncato le dita. Che razza di amiche. La mandano fuori con quest'afa e le dicono pure torna subito, nemmeno buona fortuna, o fai attenzione. Più tardi pretenderà un morso dalla merenda di tutte e ruberà quella di Minako, che è passata subito dalla parte del nemico quando si è trattato di decidere chi dovesse addossarsi lo sporco ruolo di fattorino. Ecco, sì, se si concentra sul gelato e le bibite e il ventilatore che l'aspettano, camminare è un po' più facile. Come ogni altra volta. In questo momento, Usagi è di nuovo una ragazzina spensierata.

È durante il viaggio di ritorno che qualcosa cambia. Un elemento estraneo, un fattore imprevisto si frapporrà tra lei e la sua vita normale, ma Usagi, naturalmente, non lo sa ancora. È stanca, sudata, ansima. Cammina senza pensare, tanto il suo corpo conosce il percorso intrinsecamente, le sue gambe imboccano la strada giusta con la stessa naturalezza con cui si respira. Il palmo sinistro le fa leggermente male: il manico del parasole ha una forma particolare, scolpita nelle sembianze di una testa di gatto, e diventa scomoda da tenere dopo un poco. Le dita della mano destra sono rosse e formicolano perché il manico della busta di plastica le sta tagliando la circolazione. Le mattonelle del marciapiede producono rumori secchi quando lei le pesta, rumori che le ricordano biglie di vetro che si scontrano l'una con l'altra oppure ossa—gli ossicini di pollo che s'impilano nei piatti a Natale, e quando sua madre li butta via, fanno plic-plic-tunk mentre cadono nel cestino. La pavimentazione andrebbe controllata e forse rifatta, perché alcune mattonelle si alzano e si abbassano quando lei ci cammina sopra, e forse, se gli addetti municipali se ne fossero già occupati a quel punto, la vita di Usagi sarebbe stata molto diversa, perché quello che accade dopo è che lei si trova ad un bivio. Per una mattonella.

Per cogliere questo momento bisognerebbe scattare tante foto una dopo l'altra, come i fotogrammi di un cartone animato. Clic. La punta della scarpa di Usagi incespica in un dislivello della pavimentazione. Clic. Il corpo di Usagi sobbalza, lei perde la presa sul parasole che vola in strada e la busta le sfugge, si apre e bottigliette e gelati sono sospesi a mezz'aria. Clic. Il tè di Rei e Makoto rotola fino all'altro marciapiede, quello di Ami resta intrappolato nel canale di scolo, il Pocari Sweat di Minako è ancora impigliato nella busta; i gelati sono frittatine sull'asfalto; Usagi è sbalzata in avanti: si rende conto che sta per cadere sulla faccia, pensa: accidentaccio perché sempre a me. Clic. L'elemento estraneo, il fattore imprevisto entra infine in gioco salvandola dalla sorte che è già toccata ai gelati. Clic. Usagi strabuzza gli occhi perché anche una tonta come lei sa distinguere la consistenza del marciapiede da quella di un corpo umano. Clic. Solleva il viso e nota che il fattore imprevisto ha la forma di un uomo appariscente: affascinante, straniero e tutto vestito di bianco; arrossisce perché Usagi è tonta e questo significa che non sa nascondere i propri pensieri, non sa non fidarsi e di conseguenza non sa dire di no. Clic. L'elemento estraneo sorride, proprio come farebbe il protagonista di un film romantico, uno che non ha dubbi su se stesso o il futuro. Ti sei fatta male, chiede. Usagi scuote la testa freneticamente. La tua spesa, fa lui contrito, come se fosse colpa sua. Lei dice: non fa niente, e invece fa, perché le altre la tormenteranno per il resto della settimana per questo incidente, e cerca di ridere e di rimettersi in piedi perché non vuole fare altre brutte figure davanti a questa persona bellissima, ma quando poggia il piede sinistro a terra una scossa elettrica le pervade la gamba e perde l'equilibrio. L'uomo la afferra in tempo per la seconda volta e la informa che così non può andare da nessuna parte. Ti porto al pronto soccorso, annuncia con un tono che non ammette repliche, ma Usagi dice comunque no, non posso, le mie amiche mi aspettano. L'uomo ci pensa un po', pollice sotto il mento e l'indice che gli sfiora la punta del naso. Va bene, dice, va bene, ma permettimi almeno di accompagnarti da loro, se ti lasciassi sola in queste condizioni non me lo perdonerei mai.

Clic.

Ecco, questo è il climax. Il punto in cui si decide tutto. Vorrei gridare disperatamente ad Usagi di rifiutare, di strisciare fino al tempio piuttosto, che lei non sa nulla di quest'uomo e non ha nessun motivo per fidarsi. Sciocca, vorrei dirle. Scema. Lascia perdere. Scappa. Ma il passato non esiste più se non nei ricordi, ed è quindi inalterabile. Non posso far altro che riportare passo dopo passo come ho rovinato la mia vita e quella delle persone che amo. Dunque, Usagi tentenna un po', giusto per non sembrare troppo sfacciata, e poi annuisce: se proprio insiste... L'uomo sorride, se la carica sulle spalle come fosse una bambina, e segue le sue indicazioni come un maggiordomo fedele. Si ferma addirittura presso i distributori automatici per comprare bibite e merendine di sua tasca. So che non sono le stesse, si giustifica mentre le infila nella busta del conbini, dove restano solo il Pocari Sweat e la coppetta di Häagen Dazs che Usagi aveva comperato per sé. Lo dice con un dispiacere sincero, come se la sbadataggine di lei fosse colpa sua. Usagi si vergogna da morire ma è anche lusingata e, resa ancora più sicura – e ancora più sciocca – da questa vanità infantile, si lascia trasportare docile come un agnellino. 

Quel che non sa—Quel che non potrà sapere se non quando sarà già troppo tardi, è che sta praticamente conducendo per mano l'uomo che sarà il suo carnefice nella propria vita.

In questo tiepido giorno d'autunno, mentre scrivo alla luce del sole morente, io ho un solo desiderio: tutti voi che avete vissuto quei trentuno giorni con me... spero intensamente che possiate perdonarmi.







 


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Capitolo 2
*** 2-3/8/1992 ***


Capitolo II



2/8/1992, ore 23:40



Il petto di Petz trema. Ha il cuore che le batte all'impazzata e il respiro come se avesse appena corso una maratona. Ha i capelli in disordine, come non li lascerebbe mai vedere a nessuno. È disfatta, svestita, sbucciata; è se stessa in ogni senso, in ogni sospiro, in ogni gemito, senza nascondere nulla. Petz è innamorata.

Tende la mano con tenerezza, per toccare il viso dell'uomo che la sovrasta perché lo ama e vuole dirglielo in ogni maniera possibile, mentre lui le si spinge dentro con una di delicatezza che, all'inizio della loro storia, Petz aveva scambiato per una sorta di riguardo verso di lei, un sintomo d'amore e forse di uno spirito dolce, ma che poi aveva dovuto riconoscere come una caratteristica intrinseca a ciascuna azione compiuta da quest'uomo: l'esitazione tipica della preda, del perdente, che bluffa, indossando la maschera dell'indifferente o del bravo ragazzo. Saphir è più giovane di lei – un fatto che, a fasi alterne, rende Petz ammaliata, protettiva, poi insicura, forse un po' invidiosa – ma la vita l'ha bistrattato a sufficienza da un'età molto tenera perché si dovesse ingegnare e trovare un modo di farsi resiliente, e così ha preso ad imitare suo fratello, o perlomeno a provarci, cercando di trasformare i suoi occhi (blu, blu, blu come il mare profondo, e Petz si sorprende, a volte, a pensare che vorrebbe sprofondarci) in specchi che non riflettono nulla; cancellando ogni traccia d'emozione dal suo bel viso. Tuttavia—

“Hah,” con un sospiro, Saphir si accartoccia su se stesso, ma è fermo, non trema, è ancora padrone di sé: non si tratta di quella reazione primitiva che scuote un uomo o una donna posseduto dall'orgasmo. È un'azione cosciente e di difesa. Saphir piega la testa così da nascondere i propri occhi. Petz capisce. Lei sa già che questo è un preludio e sa che cosa avverrà dopo. Lo sa per esperienza e, spesso, quell'esperienza la rende nervosa, le fa desiderare di prendere a schiaffi Saphir, quest'uomo-ragazzo che in qualche modo, sciocca, si è trovata ad amare.

“Scusami,” dice lui, iniziando a distaccarsi, e lei deve stringere le mani, aggrapparsi con le unghie al lenzuolo per impedirsi di trattenerlo.

“Capita,” dice invece, come se non accadesse tanto, troppo spesso, tra loro. Petz è sempre stata molto diffidente con gli uomini, non ha avuto tanti amanti quanto le sue sorelle, eppure, i suoi trascorsi sono bastati ad insegnarle l'avidità del maschio, il suo cieco istinto a darsi piacere usando una donna, piuttosto che con lei; quel infantile narcisismo che l'aveva portata in primo luogo a disprezzare gli uomini, ma che aveva sempre ritrovato anche in quelli che aveva amato, in quei momenti in cui convenevoli e self-control si squagliavano: la neve delle apparenze sotto il sole della libido. In quei casi, l'aveva accettato a malincuore, come un male necessario, un sacrificio che l'avrebbe resa più cara a colui che, all'epoca, mentalmente etichettava già l'uomo della sua vita. Ma poi ne aveva avuto abbastanza. Si era odiata per quel compromesso più di quanto avesse odiato gli uomini che l'avevano usata, ed aveva incontrato Saphir, che sembrava diverso, che dava senza chiedere e che, in realtà, non si concedeva mai davvero. Si trattava di un altro suo aspetto che, in un primo momento, aveva suscitato tenerezza in Petz, l'aveva fatta sentire quasi in dovere di trattare Saphir come qualcosa di prezioso, che andasse, oltre che amato, preservato con cura, fino a quando non era stata costretta a realizzare che non c'era timidezza o riserbo in lui quando facevano l'amore; piuttosto, Saphir si era già dato a qualcuno che non era lei.

Saphir sospira di nuovo e si alza senza degnarla di uno sguardo. Petz lo guarda chinarsi a raccogliere i vestiti, indossarli con la nonchalance di un uomo che innocentemente si prepara per andare al lavoro, come se quello che l'ha abbandonata sul letto senza un orgasmo fosse un'altra persona. Dovrei lasciarlo, Petz pensa. Lo pensa almeno una volta al giorno, quasi tutti i giorni, però lasciarlo sarebbe troppo come perdere, dire a chi tiene prigioniero il cuore di Saphir: tieni, te lo rendo, sei troppo forte per me. È una becera questione di orgoglio, o così le piace pensare. Ci sono risvolti, tinte ignote in cui questo sentimento di ripicca va a sfumare; colori misteriosi che ad una seconda occhiata riuscirebbero familiari, su cui Petz proibisce a se stessa di soffermarsi. Non sarò mai più debole. Per lei, l'amore è ormai un gioco di forze, una lotta a chi riesce ad impadronirsi dell'impugnatura del guinzaglio.

Saphir continua a non guardarla mentre abbottona la camicia con cura. È un segno collaudato che non ha intenzione di restare nemmeno per dormire insieme. È l'ennesimo affronto.

La camicia è di seta blu notte, una tonalità che riprende i suoi occhi portandoli su una scala più cupa, come a svelarne al mondo le profondità. Sulle spalle brilla un fine apparato di cristalli neri e perline bianche. È un capo elegante ma appariscente, che stona su una persona come Saphir; non sul suo corpo longilineo o con i suoi lineamenti aristocratici, no, ma se lo si compara alle sue espressioni vuote, ai suoi gesti quasi robotici... lì è tutta un'altra storia. La camicia è stata ideata da una mente attiva e vivace, che vuole gridare al mondo: eccomi, sono qui, mentre Saphir vive, giorno dopo giorno, nascondendosi dietro i suoi stessi occhi vuoti. Dove si svela l'arcano di questo paradosso, dunque? Petz sorride sprezzante. La risposta le sovviene immediatamente, come un cadavere che sale a galla, ugualmente putrida ed indesiderata. Le torna in mente il sorriso impacciato di Saphir la prima volta che le ha detto, guarda, questa è la nuova linea di mio fratello; gli brillavano gli occhi di un orgoglio tale, che chiunque altro avrebbe creduto che stesse parlando di una sua creazione. Petz ne era rimasta accecata all'epoca. Aveva desiderato che Saphir potesse sorridere sempre in quel modo. Poi, aveva capito, e finalmente accettato, che quel sorriso era l'eccezione e che era riservato solamente ad una persona. Poi, a quel punto, le era crollato il mondo addosso, e lei lo aveva maledetto con tutte le sue forze.

Petz si tira a sedere, incrocia le gambe ostentando una sicurezza di sé tale, che a guardarla ci si potrebbe dimenticare che è nuda, sudata e ha il cuore spezzato. Emana l'aura di una donna dura ed esperta, il tipo che veste Chanel da capo a piedi e fredda i suoi subordinati con un battito di ciglia. È questa, d'altronde, la Petz che tutti conoscono. “È una camicia importante, quella,” commenta con le mani che frugano nella borsa alla ricerca di bocchino e sigarette. Scandisce le parole con artefatta noncuranza. La sua armatura è un patetico castello di carte, ma Saphir ha la coscienza sporca, tipica di chi ben sa di essere in torto, e non riesca a sfruttare il vantaggio che ha su di lei. Invece, si irrigidisce.

“Oh,” risponde stupidamente. Momentaneamente ignaro che si tratta di un grossolano errore. “È l'ultimo prodotto di Demando. Mi ha chiesto di provarlo per lui prima del lancio della linea.” C'è una scintilla nelle sue parole, una vivacità sommessa ma inconfondibile che era del tutto assente prima, mentre erano aggrovigliati l'uno all'altra.

Petz sistema la sigaretta – sottile, all'aroma di menta – in cima al bocchino e accende. Inspira una boccata con calma studiata. Cerca di concentrarsi sulla sensazione di vuoto che ha dentro. L'amarezza le ha strappato via ogni traccia d'amore o benevolenza per stasera. “Se ci tieni al suo profitto, allora, faresti meglio a mettere da parte i convenevoli, e dirgli che è pacchiana. Demando vuole osare senza sapere dove fermarsi. Vuole fare il rivoluzionario senza conoscere le basi. Forse, qui a Tokyo apprezzeranno il suo gusto per il kitsch, ma a Milano...? Intende forse tornare a Parigi, di nuovo con la coda tra le gambe?”

Ecco. Il volto di Saphir si fa grigio come cenere. Le ombre sotto i suoi occhi diventano più intense. Sembra in bilico tra il pianto e una fredda rabbia carica di intento malevolo. Ecco. Non c'è modo più efficace di fare del male a Saphir che fare del male a Demando. Petz assapora il veleno delle proprie parole sulla lingua; il sapore del mentolo perduto assieme ad ogni briciolo di razionalità. Nella sua testa, nel suo cuore, rimane solo un mantra di odio e di ossessione: ti voglio per me e voglio che tu soffra e se non posso averti, allora voglio che tu soffra ancora di più. L'amore è un coltello, una corona di spine, la spada di Damocle. Petz fuma, si nutre del suo stesso odio, maledicendo secoli di storie, favole e speranze che hanno dipinto l'amore come una panacea.

Lo sguardo di Saphir è gelido. Non è così che dovrebbe apparire un uomo innamorato. Saphir non riconoscerà i propri errori e non le chiederà scusa, non piangerà per lei, per il dolore che le ha causato e non implorerà perdono né sull'altare del suo corpo né su quello del loro amore. Non la salverà, non l'aiuterà. I principi del mondo reale sono ben diversi dalle loro controparti di carta. In questo istante, Saphir la disprezza. Saphir sorride un sorriso vuoto e crudele. “La ringrazio per il premuroso consiglio, ma queste non sono questioni che concernono gli impiegati del dipartimento pubbliche relazioni.” Tieni bene in mente il tuo posto.

Petz sobbalza. Una simile esternazione di ostilità è rara da parte sua. Forse, la odia davvero. Forse, lei ha dato troppo per scontato, e troppo a lungo, proprio quel carattere passivo che gli recrimina. Forse, ha commesso l'errore di perdere di vista il vero Saphir, quello che le aveva sorriso impacciato un giorno ormai lontano, dietro i veli e le ombre dei silenzi di lui e dei suoi stessi desideri. Delle sue stesse paure.

Saphir varca la soglia della suite senza aggiungere altro, senza lasciarle il tempo di rispondere in una maniera qualsiasi. Ora che Petz è sola, la stanza sembra improvvisamente enorme, pronta ad inghiottire lei, improvvisamente così piccola. Ah. Piccola. La parola le mette voglia di urlare. Piccola. Petz solleva il capo e vede se stessa, riflessa e prigioniera nel prezioso specchio con la cornice di legno scuro intarsiato. È pallida e aveva creduto, una volta, che quel pallore la rendesse graziosa, desiderabile come una bambola di porcellana, ma poi era nata Berthier, si era fatta grande, bellissima, e bianca come la luna, circondata da ammiratori, e Petz aveva capito che il suo pallore era smunto, spento, il risultato della fatica e dell'invidia di chi deve lavorare sodo per farsi notare. Lo sguardo di Petz si sposta sulla sua vita, sulle cosce, e ricorda con vergogna la settimana scorsa, quando ha provato il tailleur che aveva acquistato cinque anni prima, proprio per il colloquio con l'atelier Black Moon: non le era riuscito di tirare giù la gonna per bene ed era scoppiata a piangere. Petz ha il terrore di guardare ancora, di avvicinarsi e notare quei segni che la distanza le nasconde, per il momento. Le passa davanti agli occhi il volto di Koan, piccolo, a forma di cuore, con gli occhi grandi ed i lineamenti delicati: nessuno manca mai di complimentarsi con lei, soprattutto qui in Giappone, ed ogni volta, Petz si sente bruciare, morire.

Vorrebbe rompere qualcosa, sfasciare tutto; potrebbe farlo, se potesse smettere, prima, di badare minimamente alla propria reputazione, ma Petz è debole o ostinata, o tutte e due insieme, perciò continua a fumare, a nutrirsi del suo stesso odio. A consumare se stessa, in silenzio.
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3/8/1992, ore 11:47


Usagi è stesa sul proprio letto. Ha il piede sinistro sollevato su un cuscino a forma di cuore, con i bordi in pizzo, ed una busta di ghiaccio sintetico poggiata delicatamente sulla caviglia: a questo punto non è che una puntigliosità; sua madre che cede alle sue preoccupazioni congenite da mamma chioccia e all'espressione da cucciolo bastonato di Usagi quando le ha detto, beh, direi che sia a posto ora, non credi sia ora che ti alzi, ma ad Usagi, nata in una modesta famiglia che vive di un solo stipendio e con un fratello minore che l'ha presto costretta ad abbandonare i privilegi da figlia unica, capita di rado di poter fare la principessina, dunque ha tutta l'intenzione di approfittarne, finché gliela faranno passare liscia. Gongola e ridacchia, immaginando come, a pranzo, esigerà che Shingo le porti le pietanze – tutte tra i suoi piatti preferiti, perché è convalescente – in camera, su un vassoio, e guai se farà cadere anche solo un goccio d'acqua dal bicchiere preferito di Usagi, un cimelio dei tempi dell'asilo, decorato con coniglietti bianchi. Dopo, chiamerà Ami; mugolerà che si annoia e si sente sola, e suggerirà che la solita riunione pomeridiana si faccia in camera sua, piuttosto che al tempio di Rei; alluderà a quei manga che l'altro giorno aveva adocchiato nella stanza dell'amica, prima che la costringessero ad uscire, e farà tutto con estrema discrezione, parlerà senza parlare, suggerirà senza parole, cosicché Ami si ritrovi a pensare che le idee di Usagi sono in realtà le sue. Si potrebbe dire, in un certo senso, che quando si è estremamente pigri e tonti si ci ritrova costretti a sviluppare un altro tipo di furbizia, invisibile al resto del mondo tranne che a quelli che fanno parte, a loro volta, delle file di una simile feccia, se si vuole andare avanti senza dover cambiare se stessi e fare sforzi reali.

Si trattava, all'epoca, di qualcosa di cui mi compiacevo: per me che non possedevo né talento né carisma né bellezza, portare a termine con successo questi piani infantili era motivo d'orgoglio, anche se non avrei mai potuto vantarmene con nessun altro. I miei genitori non avrebbero mai potuto esclamare con gioia, nel mezzo di una discussione con i vicini, oh, la nostra Usagi è riuscita a farsi aiutare con i compiti dalla studentessa più brava dell'istituto dopo che questa aveva promesso che non l'avrebbe mai più fatto!, eppure, sentivo spesso che avere quel singolo appiglio, per quanto piccolo, per quanto meschino, mi stesse salvando dall'angoscia più totale. Quando l'ansia per il futuro minacciava di sommergermi, potevo illudermi che me la sarei cavata, che potevo farcela anche da sola, che sarei potuta diventare una donna indipendente che Mamoru sarebbe stato fiero di portare all'altare; che un giorno, guardando alla persona che sarei stata allora, mia madre si sarebbe scusata per tutte le accuse di inettitudine che mi aveva rivolto tra infanzia ed adolescenza. Andavo avanti nutrendomi di fantasie, per allontanare fantasmi rovinosi di un avvenire infelice, ma anche per chiudere gli occhi davanti al presente.

Diverse settimane prima, le ragazze mi avevano messo tra le mani alcune brochure informative sulle università che stavano vagamente puntando. Pur condividendo i miei timori ed incertezze, si erano fatte forza, pensando che riuscire a prendere una decisione insieme – quantomeno per non allontanarci più del necessario – fosse più importante. A me erano tremate le mani. Non appena avevo intuito cosa fossero quei fogli patinati, mi era saltato il cuore in gola. Avevo forzato un sorriso e le avevo spinte di forza nella cartella, senza preoccuparmi di evitare che si spiegazzassero. A casa, le avevo nascoste in un cassetto che aprivo di rado, e nei rari momenti in cui mi dicevo, ehi, smettila di fare la stupida, prendi quei cosi e datti una mossa, mi bastava uno sguardo a quel cassetto perché mi salisse il vomito nervoso. Ero un disastro e non sapevo rendermene conto. Ero una bambina. Avevo bisogno di essere onesta, parlare con qualcuno e affrontare il macigno che avevo in petto a testa alta, ma ero una bambina e non sapevo nulla e mi dicevo che dovevo essere forte per essere all'altezza delle persone che amavo; del mio amore, più di ogni altro, che, maturo, adulto, incredibile, indistruttibile, era volato via da me per inseguire un sogno tutto suo.

“Non posso essere da meno,” mormoravo a me stessa. Forse, sarei scoppiata a piangere (accadeva di frequente, quando quel genere di pensieri m'assaliva nella solitudine completa), se mia madre non fosse entrata nella stanza, rumorosa e priva di ogni delicatezza o riguardo, come un ciclone. Hai preso da Ikuko, mi diceva a volte mio padre, sorridendo con un'aria un po' malinconica.

Ikuko urla. “Usagi!” urla. “Ancora a letto?”

Usagi piagnucola. “Ma, mamma, il piede...”

Ikuko non ammette scuse. “È a posto, il piede, ora! Su, alzati e vestiti come si deve: abbiamo ospiti a pranzo!”

“Ospiti?” Usagi sgrana gli occhi: nessuno l'aveva avvertita. Cosa significa tutto questo? Che ne è della sua giornata all'insegna delle coccole e del relax? Non sa nulla e tutto ciò che può fare è osservare sua madre mentre gira intorno al letto e spalanca le ante dell'armadio, pronta a frugare e priva di fiducia nelle scelte stilistiche di sua figlia. Deve trattarsi di una persona importante. “Chi è, mamma?”

Ikuko sospira. Si ferma quasi di colpo, come una marionetta cui hanno tagliato i fili di netto.

“Tuo padre ha ricevuto l'incarico di intervistare uno stilista emergente, venuto in Giappone appositamente per presentare la sua linea ma pare ci sia stato un disguido con l'albergo presso cui avrebbe dovuto soggiornare. È stato un bello shock per gli sponsor, quando proprio lo stilista ha proposto di usare casa nostra come base temporanea, almeno fino a quando non sarà tutto risolto.”

Il cervello di Usagi inizia a friggere: uno stilista, praticamente un divo, nella sua casa, per pranzo, e lei non ha nulla di adeguatamente elegante da mettersi, no, peggio, i suoi capelli hanno bisogno di uno shampoo che però era programmato per il bagno di stasera ché ci mettono una vita ad asciugarsi per bene, e poi, dov'è il lip gloss, quello di marca, che aveva comprato a Shibuya di recente, con i glitter—ah, ce l'ha ancora Minako, quella scroccona!

“Perché non mi hai avvertita prima?” urla mentre con un balzo scende dal letto per dare man forte a sua madre. La busta del ghiaccio volta, fa piroette in aria assieme al cuscino a forma di cuore; dimenticata.

“Tuo padre mi ha chiamata appena un minuto fa.” Ikuko sfoggia un sorriso stanco che rivela, infine, la stanchezza e la preoccupazione celate dal suo solito fare, un po' burbero e un po' irruento. Conoscendo suo padre, Usagi immagina che anche Kenji debba essere preso dall'ansia: sarebbe d'altronde facile, per il caporedattore, prendersela con lui, qualora l'illustre ospite dovesse decidere che la calda ma casareccia accoglienza di casa Tsukino non è di suo gradimento.

“Tesoro, quando hai finito di prepararti, va' al Crown e prendi una torta—oh, forse, però, servire dolci in stile occidentale a qualcuno che proviene dalla Francia sarebbe sciocco—Dici che dovremmo prendere qualcosa di più tradizionale? Però è possibile che non li apprezzerebbe, forse, il divario tra le due culture è troppo—”

La testa impigliata in una camicetta con i bottoni finti e il collo alla Peter Pan, Usagi mugola, nervosa, un “Mamma!” che però viene fuori come un “Mmmmphmph!”. Se Ikuko perde il controllo ora, è certo che colerà tutto a picco con lei. 

“Oh—Oh, giusto, tesoro, hai ragione, non so cosa mi stia prendendo. Ti lascerò i soldi sulla scarpiera nel genkan, mi raccomando, usali tutti per la torta, niente frappè o parfait o videogiochi, intesi? Torna subito!”

La fronte e le sopracciglia di Usagi emergono tra i pizzi del colletto e si piegano in avanti, in un cenno d'assenso. È una buona cosa che Ikuko non possa scorgere l'espressione contrariata di sua figlia.
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Sulla via del ritorno, il rancore di Usagi verso le sfortunate circostanze odierne e il divieto di sua madre brucia ancora. Il sole di mezzogiorno non fa che nutrire quelle fiamme ruggenti e, in un paradosso che nulla ha di metafisico, nemmeno i litri di sudore che sta versando riescono a lenirle. Insomma, appena l'altro ieri, era stata costretta nel ruolo d'inserviente dalle sue amiche, ora da sua madre che, aggiungendo al danno la beffa, la spedisce al Crown senza neppure darle il tempo (o i liquidi) per una partita a Street Fighter od un parfait al cioccolato. Certo, Motoki, che è un angelo ed anche il miglior amico di Mamoru, ha avuto pietà di lei, offrendole una soda con una pallina di gelato, ma, si sa, se non hai tempo per gustarle, le cose deliziose perdono una buona parte del loro appeal.

Alle 12:12 di quel 3 luglio, Usagi procede, dunque, verso casa, un broncio tremendo sul viso rotondo che, a diciotto anni, ancora conserva qualcosa di bambinesco, e la scatola bianca contenente la torta (con panna, fragole e cioccolato, la sua preferita) che dondola, appesa per il manico alle dita della mano destra. Se si volessero quantificare gli eventi che, a quel punto, stanno ormai per prendere piede; se li si volesse ridurre ad una stringa di fredde lettere che descriva l'inevitabilità di quegli accadimenti, lasciando da parte sentimenti ed esperienze personali, si potrebbe descrivere ciò che accade alle 12:13 come 'Regola Y': la seconda condizione, inevitabile e necessaria, affinché si apra il sipario su questa tragedia d'agosto. La Regola X, il principio di ogni cosa, è un evento già accaduto, ma si paleserà ad Usagi, nella sua vera natura, soltanto molto – troppo – tempo dopo.

La strada che Usagi sta percorrendo è piuttosto stretta; pertanto, essa è costeggiata da un solo marciapiede. Vi è un solo bus che si ferma in questa via perlopiù residenziale, una navetta che percorre lo stesso, breve percorso circolare ad intervalli di quindici minuti, come un serpente che si morde la coda. La fermata, trattandosi di un mezzo con utenza ristretta, avrebbe dovuto avere in dotazione il solito cartello ed una pensilina per difendere dalle intemperie le persone in attesa, tuttavia, il comitato di quartiere, visto il gran numero di anziani residenti in zona, aveva fatto richiesta per, ed ottenuto, l'aggiunta di una panchina. È questa panchina che sta per divenire un punto chiave di questa vicenda, perché è su di essa che, passandovi accanto, Usagi scorge un oggetto, un quadrato dagli angoli smussati, scuro, attaccato ad un portachiavi a pallini che scintilla sotto il sole. Usagi, per sua natura curiosa al punto d'essere impicciona, ovviamente devia dal suo percorso e si avvicina.

“È un cercapersone,” mormora a se stessa mentre scruta l'aggeggio tra le proprie mani, raccolte a coppa. Deve trattarsi di uno degli ultimi modelli: la madre di Ami aveva ceduto il proprio alla figlia dopo aver acquistato un costosissimo cellulare, ma persino quel modello, che aveva suscitato l'invidia delle altre compagne di classe, sembra chiaramente inferiore a questo. Per un momento, Usagi prova ad immaginare la persona che ha potuto permettersi, non solo di acquistare, ma anche di perdere un cercapersone d'avanguardia. È possibile che si tratti di qualcuno talmente ricco, da trattare simili oggetti con la massima noncuranza. Una ragazza comune come Usagi ne sarebbe molto gelosa. Così, pensa lei, se me lo portassi a casa, gli starebbe bene. Ridacchia immaginandosi a sfoggiare l'apparecchio davanti alle amiche, Minako che la prega di lasciarglielo tenere in mano e Rei che lo fissa con la coda dell'occhio ed un'espressione di indifferente disdegno, per nascondere il proprio interesse. Poi, un suono acuto interrompe il sogno ad occhi aperti e la fa sobbalzare: lo schermo del cercapersone si illumina di verde mentre il beep-beep continua. “Ah! No, no! Giuro che non l'avrei preso davvero!” Usagi è nel panico; cerca maldestra un tasto che le permetta di mettere fine al rumore, prima che attiri l'attenzione di qualcun altro: si sente come un ladro colto in flagrante e, sciocca com'è, in quel frangente crede sul serio che potrebbe essere arrestata per aver raccolto una cosa non sua.

Il beep-beep cessa da solo. Usagi ha appena il tempo per tirare un sospiro di sollievo quando un altro segnale sonoro la fa urlare. Lo schermo si accende nuovamente, ma, questa volta, una serie di numeri attira l'attenzione di Usagi, distraendola momentaneamente dalle sue prospettive catastrofiche: 105216. Usagi legge a voce alta: “Dove sei?” e subito dopo, 1019: “Adesso arrivo!”. Qualcuno la sta cercando, o forse sa già dov'è, deve trattarsi del proprietario del cercapersone, ma come ha fatto ad indovinare le poco pure intenzioni di Usagi che, colta di nuovo dal panico, dimentica l'idea di rimetterlo sulla panchina e darsela a gambe, e digita un messaggio di risposta, irrazionalmente convinta che un qualsiasi altro corso d'azione le costerebbe caro: 021016, ti aspetto. Usagi preme invio e si lascia cadere, esausta, sulla panchina galeotta; è come se, a un tratto, non avesse più la forza per nulla, nemmeno per preoccuparsi. Dopo circa un minuto, segue un messaggio che, sorprendentemente, è scritto in hiragana: sei alla fermata. Usagi compone una risposta affermativa e torna ad aspettare, ancora più agitata e curiosa di prima: gli apparecchi in grado di utilizzare i kana sono rari e a dir poco dispendiosi. Sembra che il proprietario sia una persona ancora più fuori dal comune di quanto avesse già ipotizzato.

L'orologio da polso di Usagi segna le 12:21, quando una sagoma sbuca dall'angolo della strada e si dirige, correndo a tutta velocità, nella sua direzione. Usagi si trova, così, faccia a faccia con una figura tanto misteriosa quanto surreale, il tipo di persona che esiste solo nel mondo delle riviste patinate o dei manga per ragazze: abiti alla moda che danno nell'occhio, capelli lunghi ed ossigenati; l'espressione aggressiva del delinquente che marina la scuola in linea con tutto il resto, ma il viso è troppo pulito, i lineamenti troppo delicati. Qualcosa qui stona. Questo ragazzo che la guarda in cagnesco con le mani sui fianchi sembra un principe.

“Beh?” sbotta lui: ha una bella voce, ma il tono rompe l'incantesimo. “Ti sei incantata? Il cercapersone dov'è?”

“Senti un po',” comincia indignata Usagi: la rabbia ha soppiantato ogni traccia di timidezza o soggezione in lei. Non sia mai detto che Usagi Tsukino si lascia calpestare dal primo arrivato solo perché ha un bel faccino.

“Yaten!”

A quel richiamo, il principe-delinquente si volta di scatto, come un bimbo colto con le mani nel vasetto della marmellata. Usagi sbatte le palpebre e torna a guardare nella direzione da cui era sbucato poco prima, scorgendo, questa volta, ben due sagome che si avvicinano a passo svelto.

“Yaten, si può sapere cosa diamine stai combinando, ad urlare così in pubblico?” la sagoma più alta, un ragazzo con gli occhi seri e la fronte larga, parla con un tono non molto differente da quello di una madre sfinita dinnanzi all'ultima marachella del figlio. “Hai intenzione di mettere di nuovo la compagnia in difficoltà?”

Yaten stringe i pugni. “Taiki! Questa qui ha rubato il cercapersone di Seiya!”

Quello che, per esclusione, deve essere Seiya, squadra Usagi per un lungo istante da dietro i suoi occhiali scuri – Rayban in stile aviatore – con un'espressione indecifrabile; poi, per qualche motivo, sorride; Usagi si sente vagamente presa in giro e aggrotta le sopracciglia. Seiya circonda con un braccio le spalle di Yaten, gli scompiglia i capelli con un'aria da fratello maggiore. “Ti ringrazio per la premura, fratellino, ma devi aver preso un abbaglio. Dico, l'hai vista? Ti pare che una bimba con gli abiti da bambolina e un paio di odango in testa possa mai rubare niente a nessuno?”

“Seiya!” l'atteggiamento accondiscendente ha reso Yaten ancora più furioso e Usagi, presa da una strana sorta di empatia per il suo ex assalitore, pensa che non le dispiacerebbe dargli una mano nel riempire di pugni la faccia di questo Seiya. “È precisamente perché sei così, che continuiamo ad accumulare stalker!” Usagi sente, con molta chiarezza, una vena particolarmente grossa che le pulsa, sulla fronte, come in procinto di scoppiare. Questi due meritano di essere riempiti di pugni entrambi. Calma, Usagi, calma, si dice, distaccata ed elegante, distaccata ed elegante, dimostra a questi zotici chi sei veramente. Il problema, tuttavia, è che la vera Usagi è appunto una ragazzina – una bimba – che ha sempre fatto fatica ad imparare le buone maniere e a non lasciarsi coinvolgere in discussioni infantili.

“Ehm,” tossicchia artificiale, goffa. “Le vostre liti mi riguardano ben poco,” scandisce, cercando di ricordare il linguaggio di Ami e Mamoru quando sono impegnati in qualche dissertazione o la stanno riprendendo per una delle sue mancanze. “Riprendetevi questo affare e non mi seccate più!” lancia dunque il cercapersone verso i due litiganti e, prima di voltarsi verso la strada, intravede Yaten fare acrobazie per afferrarlo. Usagi cammina a testa alta, svelta e decisa, verso casa. Con l'aria di una signorina ben educata, solleva il polso sinistro per dare un'occhiata all'orologio – quadrante rotondo e delicato con due sottili strisce di cuoio: un oggetto fine; un regalo di Mamoru – che, questa volta, le rivela un ritardo assicurato, se non si mette subito a correre con tutta l'energia che ha in corpo. Usagi ritorna così se stessa, la ragazzina che non ha nemmeno tempo di fare colazione perché si sveglia sempre troppo tardi, e corre, fino al cancello di scuola, con un toast in bocca; l'immagine della tipica protagonista di shoujo manga, pasticciona al punto giusto da essere vicina alle imperfette lettrici ma con una vena comica che trattiene il tutto dal farsi troppo realistico.

Seiya urla, le mani a coppa intorno alla bocca: “Ehi, testolina buffa! Fermati! Ti offro un parfait per farmi perdonare!” ma Usagi è già troppo lontana, troppo presa dall'ansia che l'immagine, sin troppo familiare, di sua madre che dà i numeri le provoca.

Usagi corre, corre, corre. Eppure, il destino l'ha già raggiunta.








 


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Capitolo 3
*** 4/8/1992 ***


Capitolo III: 4/8/1992



Avvolta negli abiti da miko, Rei fissa Usagi con un'espressione indecifrabile. Alle ragazze che la conoscono da anni, però, non sfugge quella sfumatura un po' aspra, un po' preoccupata, che colora i suoi occhi scuri.

Anche oggi, Tokyo cuoce sotto il sole d'agosto. Il cielo è terso; una distesa di un blu tanto vibrante da accecare. Le cicale proseguono imperterrite con il loro canto vivace e malinconico a un tempo. Il gruppo di amiche si è dato appuntamento al tempio della famiglia Hino come di consueto, ritrovandosi al completo per la prima volta nel giro degli ultimi giorni: Usagi, assente sin dal bizzarro incidente del primo, ha finalmente fatto di nuovo la sua comparsa.

“Beh? Cosa ti era accaduto?” Rei non delude le aspettative di nessuno: non si perde in convenevoli e non mostra pietà, precisamente come le si addice.

Usagi si stringe nelle spalle. “Lo sapete, ragazze, quel giorno mi ero fatta male alla caviglia,” mormora con gli occhi bassi. Ci sono ortiche e denti di leone che fanno capolino tra le crepe della rustica pavimentazione di pietra del viale. Una piccola coccinella cerca di arrampicarsi sulle foglie frastagliate delle piante selvatiche, scivolando giù di tanto in tanto. Tuttavia, ogni volta che cade, la coccinella riprende la sua opera come se nulla fosse, senza aspettare un attimo. Nell'osservarla, Usagi avverte un senso di solidarietà mista ad invidia che le sconquassa lo stomaco.

“Questo lo sappiamo. Non sappiamo, però, cosa ti abbia impedito di rispondere ad una sola delle nostre telefonate.” Rei non demorde: non ha idea di come si senta e, probabilmente, non si fermerebbe neppure se lo sapesse. Lei è fatta così. Algida, fiera, severa: ghiaccio e fuoco convivono in quel corpo longilineo. Ossa di giada, pelle di luna. Rei è la perfetta bellezza giapponese. La prima volta che Usagi l'aveva scorta in strada, dopo la scuola, ne era rimasta come abbagliata. Quel giorno, indossava l'austera divisa dell'istituto femminile cui era iscritta, eppure, non era parsa meno eterea o elegante del giorno in cui aveva vestito i panni della principessa Kaguya per una rappresentazione durante l'annuale festival scolastico. Il trucco e i pesanti abiti in stile Heian l'avevano trasformata in un sogno, un miraggio di bellezza effimera e tempi ormai passati, ed Usagi, goffa, sgraziata e grassottella, si era sentita incredibilmente orgogliosa di poter definire quella ragazza una sua amica.

Una volta, in uno dei pomeriggi piovosi che soleva trascorrere nell'appartamento di Mamoru, Usagi, resa più sincera e più aperta dalla piacevole spossatezza che deriva dal fare l'amore, si era rigirata nell'abbraccio di lui, per poterlo guardare meglio, e gli aveva fatto una confessione: sai, aveva sussurrato intorno ad un sorriso, talvolta, prima che ci conoscessimo, pensavo che forse mi sarebbe piaciuto baciare Rei. Mamoru aveva riso dopo un istante in cui il tempo pareva essersi fermato, abbracciandola più forte, e le aveva detto, come ad ammonirla, sono pensieri che vengono, alla tua età. Non c'era malizia o cattiveria in quelle parole, eppure, qualcosa di quella reazione, qualcosa che ancora restava per lei incomprensibile, aveva ferito Usagi, che d'improvviso viene riportata al presente dalla voce di Minako.

“Usagi-chan,” comincia, ridendo, “non è che è tornato Mamoru e non ci hai detto nulla?”

È un modo scherzoso per rompere il ghiaccio e quell'atmosfera tesa prima che possa scoppiare una lite, come non di rado succede tra le due, così amiche e così diverse, ma, in quel preciso momento, il solo nome di Mamoru e l'ipotesi in realtà tanto surreale di poterlo vedere, fanno salire un groppo in gola ad Usagi.

“Ma no, Mina-P, cosa vai pensando,” scandisce a fatica. Le sembra di muoversi a tentoni, cieca, incapace di distinguere persino la sua stessa voce dal frinire delle cicale. Non ha nulla da nascondere e queste sono le sue migliori amiche, eppure c'è qualcosa di strano nell'aria, stamattina; una vaga sensazione di disagio, come se lei fosse ad un tratto un'estranea, in questo gruppo affiatato. Infine, Usagi riesce a farsi abbastanza coraggio da sputare fuori, con una risata: “È solo successo che... beh, per il lavoro di papà, abbiamo un ospite a casa, e mamma, ossessionata com'è dal voler fare una buona impressione, non mi ha lasciata libera un momento. Sono praticamente una cameriera non retribuita.”

Immediatamente, Makoto e Minako si trascinano con le mani sul pavimento di legno lucido per avvicinarsi ad Usagi. Hanno entrambe gli occhi che brillano in modo comico: in un altro periodo, Usagi sarebbe scoppiata a ridere. “Un ospite?” domanda Makoto eccitata. “Non sarà mica una celebrità che tuo padre deve intervistare?”

Ami tira un sospiro esasperato. “Suvvia, Mako-chan, che motivo avrebbe il signor Tsukino di ospitare una celebrità a casa sua? È più logico che si tratti di un collega che ha bisogno di un alloggio temporaneo, no? A volte, tu e Mina-chan vi lasciate trasportare troppo facilmente dalla vostra immaginazione.”

Usagi osserva le due perdere ogni traccia d'entusiasmo con la stessa velocità con cui si erano animate: a vederle sgonfiarsi come palloncini, le scappa finalmente una risatina autentica. “Ecco, veramente, questa volta ci hanno visto giusto, Ami-chan.” A quelle parole, l'effetto è immediato: parte una vera e propria reazione a catena, una serie infinita di domande, gridolini ed esclamazioni di sorpresa da parte delle ragazze che, come Usagi, se ne stanno appollaiate sul ballatoio in legno che dà sul viale. Rei, dal canto suo, smette di spazzare le mattonelle polverose e fissa Usagi senza dire nulla. Con ogni probabilità, ha fiutato in quelle parole la chiave di un mistero. Da brava sacerdotessa, Rei è dotata di un sesto senso fuori dal comune.

“Allora, Usagi-chan,” Minako le afferra il braccio con fare spazientito. “Ci dici di chi si tratta? È un bel ragazzo, almeno?”

Le guance di Usagi assumono una tinta rosata. Lei si gratta la testa, imbarazzata ma orgogliosa, come una bimba che viene lodata dalla maestra davanti al resto della classe. Era da molto che non si sentiva così, al centro dell'attenzione, con qualcuno che pende dalle sue labbra, ed anche se la causa, adesso, non è certo da ricercarsi in un suo merito personale, non può fare a meno di gongolare. Usagi prende un bel respiro per gonfiare il petto e, scuotendo il dito indice con fare saccente, si prepara a fare la sua grande dichiarazione: “Si tratta di uno stilista venuto dritto dritto da Parigi! Certo che puoi scommetterci che sia bellissimo, Mina-P! Anzi, ti dirò, sembra proprio un principe!”

“E tu, da buona amica, ce lo presenterai, vero, Usagi-chan?” Minako domanda con le mani giunte.

“Non saprei, adesso come adesso, lui e papà sono molto impegnati con la stesura di una lunga intervista. Sembra che vadano proprio d'accordo: chissà, forse la prossima estate la trascorreremo sul suo yacht privato!”

“Ti stai vantando così tanto che ti sta crescendo il naso: tra poco sarai un tengu,” punzecchia Rei. Lei e Ami si scambiano uno sguardo eloquente e scuotono la testa: cara, vecchia Usagi con le sue bugie infantili e le manie di grandezza!

Per tutta risposta, Usagi le mostra la lingua, piccata. “Credi quel che ti pare, Rei-chan. Io però stavo pensando di invitarvi all'inaugurazione del nuovo negozio a Ginza. Dopotutto, Demando,” qui la voce calca bene l'assenza di un qualsivoglia suffisso, “ha detto che potevo invitare le mie migliori amiche, ma devo aver commesso un errore di giudizio nel reputarti tale...”

Rei scrolla le spalle. Ami sorride imbarazzata. Minako parte nuovamente all'attacco.

“Hai detto Demando? Demando dell'atelier Black Moon?”

“Proprio così. Tu sì che sei ben informata, Mina-P,” annuisce una tronfia Usagi, lasciando convenientemente da parte il dettaglio che, prima di incontrarlo di persona, non avesse mai nemmeno sentito nominare l'attuale ospite di casa Tsukino. Minako, naturalmente, è estasiata.

“Oh, il suo stile a tratti barocco, oscillante tra il gotico e l'angelico, fa discutere i grandi critici! Inoltre, grazie al suo indiscutibile carisma e al suo passato misterioso, lo stesso Demando è divenuto un'icona! Un vero e proprio sex symbol!”

“Non sapevo t'intendessi di alta moda.” Discreta come sempre, Ami cerca di riportare l'amica con i piedi per terra senza lanciarsi in paternali.

Makoto sghignazza. “Quando si tratta di celebrità e uomini affascinanti, però, nessuno la batte, lo sai, Ami-chan.”

“Ehi, guardate che ho un motivo serissimo, in questo caso!”

Rei poggia la scopa di bambù contro una parete. Scioglie il nastro con cui aveva tirato su le ampie maniche del kimono ma non slega i capelli, raccolti in una morbida coda bassa. Si siede a sua volta sul ballatoio e, incrociando le braccia, sfida Minako: “Sentiamo un po', quale sarebbe questo motivo serissimo?”

L'altra, per tutta risposta, ridacchia contenta, come se non avesse atteso altro che quella domanda, e prende a frugare nella sua borsetta – rossa come il fiocco che porta tra i capelli e a forma di fragola, l'ha comprata ad un negozio di seconda mano, durante un'uscita di gruppo a Shinjuku – e ne estrae uno spiegazzato volantino colmo di scritte colorate a caratteri cubitali. “Ta-dan! È stato indetto un nuovo concorso per idol dalla casa discografica che produce il mio gruppo preferito, e la vincitrice, oltre ad un contratto con loro, riceverà, per il suo debutto, un abito di scena appositamente realizzato dall'atelier Black Moon.”

Incuriosita, Makoto gattona fino a raggiungere la schiena di Minako; si sporge oltre la sua spalla per dare una buona sbirciata al volantino. “Che cosa? I Three Lights saranno giudici d'onore?” urla un momento dopo. Ha gli occhi fuori dalle orbite. Sorprendentemente, Ami la segue a ruota. Persino Rei si lascia andare ad un lieve sussulto. Incoraggiata da quelle reazioni, Minako continua a ghignare come se avesse già la vittoria in tasca. Divenire una idol è il suo sogno da quando era bambina e le ragazze hanno sempre dato per scontato che, prima o poi, l'avrebbe accantonato a favore di un obiettivo più realistico, tuttavia, a quasi diciotto anni, Minako, che ancora non si è pronunciata sulla sua scelta universitaria, si appresta a partecipare al quarto contest per aspiranti idol della sua vita con l'ottimismo di una ragazzina al primo tentativo, come se le sconfitte precedenti le fossero scivolate addosso come acqua corrente. Le sue amiche – con l'eccezione di Usagi, che di quella fede cieca nei sogni e nel destino ha fatto uno dei suoi tratti caratterizzanti – la guardano a metà tra l'esasperato e l'ammirato.

L'altra eccezione di Usagi, in questo caso, è il non conoscere affatto la boy band più popolare del momento. “Perché tutto questo entusiasmo per questi Three Lights? Sono davvero così famosi?” chiede in un tono un leggermente seccato. Si sente spodestata dal centro dell'attenzione che aveva tanto faticato a guadagnare.

Le risponde un collettivo: Usagi, ma dove vivi. Minako le dà una pacca sulla spalla. “Usagi-chan, sei troppo giovane per farti sfuggire ciò che è popolare. Non mi sono forse offerta tante volte di prestarti i miei dischi perché ti facessi una cultura? Di' un po',” e qui, Minako suona meno saccente, meno scherzosa, “dove hai la testa, da un po' di tempo a questa parte?”

“Ma da nessuna parte!” sbotta Usagi, ben conscia che l'amica abbia fatto centro, invece. “Sai che non mi interesso di queste cose. Ascolto solo quello che passano alla radio, qualche volta.”

Makoto decide di cogliere l'occasione per fare una delle sue solite proposte indecenti a sfondo zuccheroso. “Va bene, basta chiacchiere su idol e belloni del momento, per adesso! Che ne dite di una bella fetta di tiramisù per addolcirvi gli animi? L'ho preparato ieri sera, seguendo un'autentica ricetta italiana.” Fissa le altre con un certo orgoglio, sicura di ricevere le solite risposte entusiaste: le sue amiche sono un gruppo di golose senza ritegno, sempre pronte a testare le sue nuove trovate culinarie senza farsi pregare. Quel quattro agosto, però, il solito copione viene stravolto.

“Mi spiace tanto, Mako-chan, ma la futura super idol Mina-chan, per amore di tutti i suoi futuri fan, è a dieta ferrea fino al giorno del concorso!”

“Tu? A dieta?” domanda Rei esterrefatta. Minako è, assieme ad Usagi, la maggiore divoratrice di dolci della compagnia: neppure in occasione dei concorsi passati, si era mai messa a dieta, o aveva rinunciato ad una torta o gelato o dessert qualunque per un qualsiasi motivo. D'altronde, alla nascita, la natura le aveva fatto dono di un metabolismo da paura, notissimo alle amiche e, talvolta, fonte di una bonaria invidia.

“È per i Three Lights?” chiede Ami.

Minako ripiega le gambe e si dondola indietro, i lunghissimi capelli chiari si spargono sul legno lucido come un ampio foulard di seta, prima di guizzare in aria quando, con lo scatto di una molla, si spinge in avanti in un balzo, atterrando perfettamente eretta nel cortile.

“Sì e no,” concede, mentre raccoglie le propria cose nella borsetta a forma di fragola. “Ho riflettuto a lungo sui miei fallimenti passati, e sono giunta alla conclusione che, oltre ad impegnarmi con la coreografia e il canto, sarebbe bene che mi prendessi anche cura del mio corpo: le ragazze che passavano le selezioni erano quasi tutte più magre di me.”

Ami assume un'espressione severa. “Se è così, dovresti chiedere consiglio ad un medico: sai bene che le diete sulle riviste non sono—”

Minako solleva il pollice con fare sicuro. “Non preoccuparti, so bene ciò che faccio! E ora, se volete scusarmi...”

“Ma dove vai?” Rei si tira in piedi sul ballatoio, le mani suoi fianchi. “Potresti perlomeno restare a fare quattro chiacchiere davanti ad una tazza di tè.”

“Purtroppo, oggi cominciano i miei allenamenti speciali: ho cinque chilometri di corsa che mi attendono prima di pranzo, e devo passare da casa per cambiarmi!”

“Cinque chilometri?” gracchia Usagi. Per la sorpresa, si è quasi strozzata con la propria saliva.

Ma Minako non si pronuncia più. Si limita a strizzare l'occhio e, con un ultimo, teatrale gesto della mano, saluta le amiche prima di correre giù per i gradini del tempio.

“Spero che sappia davvero cosa sta facendo,” dice Makoto. Poi, scuote la testa, come ad allontanare pensieri poco graditi. “Vorrà dire che mangeremo anche la sua porzione. Allora, ragazze, siete pronte per il tiramisù?”

Tra le acclamazioni entusiaste di Ami e Usagi, Rei fa cenno a Makoto di andare pure in cucina e di fare come se fosse a casa sua, com'è ormai consuetudine. Alcuni corvi discendono sui rami possenti degli aceri che circondano le costruzioni tradizionali del tempio e di casa Hino. Il loro gracchiare sovrasta il canto delle cicale. Rei sussurra: “Ragazze, non perdiamo d'occhio Minako.”

---


Quando Usagi torna a casa, il cielo ha assunto una tinta tra il grigio e il lilla. Le nuvole sono rosate; portano in sé il riverbero degli ultimi raggi sanguigni del tramonto. Alla fine, tra gossip insignificanti e progetti vacanzieri per i giorni a venire, la riunione al tempio si era protratta fino all'ora di pranzo, generosamente preparato da Makoto. La presenza del nonno di Rei – un omino dall'aspetto fragile e rugoso, ma non per questo privo di spirito – aveva dissipato la strana atmosfera che, come una coltre, era calata pesante sulle ragazze dopo la dipartita di Minako, facendole ridere come matte. Prima che lasciassero il tempio, aveva persino strappato loro la promessa di indossare i panni da miko e di aiutare con le celebrazioni per l'imminente festival estivo. Usagi, che ha sempre sognato di poter vestire i graziosi abiti da sacerdotessa, ridacchia, ripensandoci, mentre si toglie le scarpe nel genkan e pronuncia un vivace, sono tornata, cui Ikuko risponde distrattamente dalla cucina. La casa è silenziosa. Shingo deve essere in camera sua a giocare o a leggere Jump. L'assenza delle scarpe buone di suo padre assieme a quelle del loro ospite, invece, rivela ad Usagi che i due devono essere fuori per una qualche questione professionale.

Decide, così, di prendere un succo di frutta dalla cucina, e, una volta in stanza, chiude la porta a chiave. Si spoglia, lasciando cadere gli abiti a terra, e indossa un vecchio prendisole che, ormai, veste solo in casa. Accende la radio decorata con adesivi scoloriti di coniglietti e stelline colorate. Rovista nel cassetto – quello che di solito non apre mai – alla ricerca di uno spesso quadernetto, guarnito con un lucchetto dorato. La chiave, una volta dorata anch'essa, ora del colore del metallo nudo, è nascosta sul fondo di una tazza rosa, piena zeppa di matite consumate a metà, penne e pennarelli ormai scarichi, ma troppo carini per essere gettati via. Il lucchetto si apre con un clic secco che rimbomba nel silenzio della camera. Quasi un momento dopo, il rumore statico della radio si trasforma in una canzone che Usagi non crede di aver mai ascoltato.

Usagi apre il diario e comincia a descrivere in maniera dettagliata gli avvenimenti e le discussioni della mattinata al tempio, i manicaretti di Makoto, l'ennesimo tentativo di sfondare di Minako, e le reazioni meravigliate delle sue amiche davanti all'illustre nome del suo ospite. C'è qualcosa, però, che non ha detto loro. Qualcosa che ha taciuto e che riguarda quell'uomo tanto bello quanto enigmatico. Né Rei, né Ami, né Makoto, né Minako sanno che lo sconosciuto che ha lasciato Usagi in cima alle scale del tempio dopo quella brutta caduta in strada, appena pochi giorni fa, è proprio Demando. Usagi mordicchia il bottoncino della penna prima di riprendere a scrivere.

La verità, l'innegabile verità, è che non vi è un vero motivo per cui avrebbe dovuto tenere per sé quel dettaglio. Si è trattato, piuttosto, di una sensazione; un sentimento apparentemente infondato, che va comunque oltre il semplice fascino che Demando esercita su di lei: è l'impressione di conoscere e, in una certa misura, di appartenere, a quella persona, come se si trattasse di un fantasma del passato o di una vita precedente. Un'impressione talmente forte da spingere Usagi a tacere. È un misto implacabile di curiosità, timore, e la naturale attrazione che Usagi prova dinnanzi a qualsiasi persona che lei percepisca come fuori dal comune. Se Mamoru fosse con lei, potrebbe parlargliene, chiedere consiglio. O forse no.

Usagi si volta a guardare il cordless poggiato sul ripiano al disopra della testiera del letto. Mancano ancora diverse ore, prima della sua chiamata. Così, lei scrive: vorrei che tu fossi qui.

Intanto, la radio intona: io canterò per te, sino al giorno che non ti ritroverò tra le stelle lassù, principessa del cielo blu, principessa sarai... 

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Capitolo 4
*** 6-7/8/1992 ***


Capitolo IV



6/8/1992, ore 9:07



Un soffitto sconosciuto accoglie Koan al suo risveglio. Ha la testa pesante, imbottita di segatura che le appesantisce i pensieri, diluisce i ricordi, spezza ogni filo logico prima che lei possa cercare di seguirlo. Koan cerca di guardarsi intorno: riesce a piegare appena il collo, la guancia tocca al superficie fresca di un cuscino pulito, ma il corpo non la segue, ne ha perso il controllo come se fosse ubriaca. La tempia sinistra pulsa dolorosamente. Koan arriccia il naso e digrigna i denti. Quando riapre gli occhi, nota il tatami giallino e la porta di carta di riso, chiusa, e ricorda di trovarsi ancora in Giappone; miglia e miglia ed un oceano intero tra questa terra ostile e casa, Parigi. Questa non è la sua stanza d'albergo, qualcuno l'ha raccolta chissà dove per poi stenderla come una bambola inerme su questo barbaro materassino: l'austerità del futon non ha nulla a che vedere con gli alti materassi e ai cuscini di piuma d'oca a cui è abituata; Koan si sente a disagio, scomoda, indispettita, non le riesce, tuttavia, di provare alcuna sensazione d'allarme o pericolo; i suoi pensieri sono ancora troppo rarefatti.

Un alto bicchiere di ceramica, artificiosamente lavorato in modo da apparire grezzo, essenziale e spartano come la tipica mobilia nipponica, è stato posato accanto a lei, ad una distanza sufficiente perché non lo ribaltasse accidentalmente, muovendosi nel sonno o alzandosi di colpo, ma comunque abbastanza vicino da essere raggiungibile senza difficoltà da quella posizione supina. I polpastrelli di Koan ne sfiorano la consistenza liscia, laccata dallo smalto che si pone sul biscotto dopo la colorazione, e la condensa che cola in goccioline minute dalle scanalature del bicchiere produce piacevoli brividi che le attraversano il braccio in una frazione di secondo, prima di propagarsi per tutto il suo sistema nervoso: improvvisamente, Koan si rende conto di avere la gola riarsa e le labbra screpolate per la secchezza. La fresca bevanda contenuta nel bicchiere le sembra la cosa più deliziosa che si possa ingollare, sebbene non sappia neppure di cosa si tratti di preciso. È proprio questo che la trattiene dall'afferrare il bicchiere e mandarne giù i contenuti con avidità: deve essere attenta, molto attenta, a ciò che introduce nel suo corpo.

La porta di carta scivola, sovrapponendosi ad un altro pannello, svelando la figura inginocchiata di una una giovane in abiti rossi e bianchi che Koan non ha mai visto, ma suppone appartenere a qualche tradizione autoctona. Senza proferire parola, la ragazza fa scivolare un vassoio di alluminio sul tatami. I suoi movimenti sono talmente fluidi e precisi che pare, piuttosto, che stia spingendo una barchetta di carta in acqua. Un'abbondante manciata di quelli che sembrano biscotti secchi è stata disposta graziosamente su un largo piatto dipinto a mano, a sua volta posto sul vassoio. Solo a quel punto, la ragazza sposta la sua attenzione su Koan e le offre un sorriso amichevole ma composto. È bella ed elegante senza essere appariscente. Koan ne studia per un attimo i polsi sottili che emergono, a tratti, dalle ampie maniche bianche: divora la sporgenza delle ossa delicate e i guizzi delle vene azzurrine quando questo o quel dito si piega, e prova invidia. È invasa da un fuoco amaro che le risveglia di colpo i sensi.

“Ben svegliata. Come ti senti?” Koan non è fluente in giapponese come sua sorella Berthier, è in grado, tuttavia, di catturare l'inflessione fine e tipicamente femminile del linguaggio dell'altra che, sempre di più, le sembra una musa evanescente, discesa sulla terra, in quel maledetto paese e quella maledetta città al solo scopo di rammentarle le proprie inadeguatezze. “Non spaventarti: ti ho trovata priva di sensi ai piedi delle scale del tempio e ti ho portata qui con l'aiuto di un allievo. Soffri di pressione bassa?”

Prima di annuire, Koan assume un'espressione guardinga e gelida. Pressione bassa, bacino largo e grasso che va a depositarsi immediatamente sulle sue cosce e mille altre cose orribili: il suo corpo è difettoso, inutile, maledetto; per questo, deve lavorare sodo. La consapevolezza di un simile destino la mette costantemente di cattivo umore, la angoscia e le procura ansia, come se si trovasse a penzolare su un baratro immenso che la vuole inghiottire.

La ragazza giapponese si porta una mano sul cuore e sillaba, “Io sono Rei, una sacerdotessa di questo tempio. Prima di tornare a casa, dovresti rifocillarti o crollerai di nuovo: questa stagione è dura per chi soffre di pressione bassa, lo so bene anche io.”

Koan digrigna i denti: no, tu non sai nulla.

“Qual è il tuo nome?”

Per tutta risposta, Koan si volta dall'altra parte con uno sbuffo. Non è qui per stringere amicizia, né tanto meno per volontà propria. Quello che non ha preso in considerazione, o che, comunque, non può sospettare, è che, a scapito del suo aspetto, Rei è ben lontana dall'essere una qualche eterea creatura. Rei è una regina dei ghiacci ed un demone che sputa fuoco a un tempo. Rei è forte e indipendente e per questo non riesce a tollerare l'amaro spettacolo di altre ragazze che si lasciano consumare da una società che le vuole sempre più piccole, sempre più diafane, quasi trasparenti, sempre meno ingombranti, pronte a svanire quando non la loro presenza non aggrada, e a materializzarsi, su richiesta, secondo precisi schemi estetici decisi da uomini che le vogliono divorare. Rei ha notato la maniera in cui le ossa delle ginocchia di Koan sporgono sotto il tessuto dei leggings viola scuro, l'una verso l'altra, creando una specie di X; si è accorta che, oltre al trucco, sono le guance scavate che rendono i suoi zigomi affilati come quelli di una modella su una rivista patinata. Rei non pensa che simili cose siano colpa di questa Koan o di tutte le altre del mondo, non oserebbe mai, tuttavia, è ben cosciente che, in questa realtà, nessuno può salvare un'altra persona, se questa non decide prima di salvare se stessa.

Con un tono fermo e una voce potente, enuncia: “È buona educazione presentarsi, soprattutto quando chi ti sta davanti ti ha già rivelato il suo nome.” Presa alla sprovvista, Koan sobbalza e balbetta, d'istinto, il proprio nome. L'espressione di Rei si ammorbidisce. “Vedi? Non era poi così difficile. Ora, per piacere, bevi il tè e mangia almeno un biscotto.”

Da quel momenti in poi, Koan è smarrita. Fatica a riconoscersi. C'è uno scarto, tra ciò che il suo cervello le dice di fare e quel che il suo corpo fa, che non riesce a colmare. Ha la mente leggera mentre prende finalmente la tazza tra le mani, e sospira di sollievo assaporandone la freschezza, prima con i palmi a contatto con la ceramica, e poi sulla lingua, nella gola e giù nello stomaco. C'è una strana pace, nell'aria, un calore diverso da quello estivo che sa di nostalgia. Le immagini sbiadite dei giochi con le sue sorelle, bambine, le offuscano la vista per un istante, e lei le ricaccia indietro scuotendo la testa.

Rei la osserva che si irrigidisce dopo quella prima sorsata spontanea, intenta a scrutare il resto dei contenuti della tazza con sospetto. “Non è zuccherato,” mente, perché, checché ne pensi, in questo momento, Koan ne ha un forte bisogno, imprescindibile. Indossa abiti all'ultimo grido, del tipo che Minako indica spesso con aria sognante alle amiche, mentre sfoglia riviste dedicate a quel genere di abiti che si indossano in una serata spesa in una qualche live house a seguire la band indie del momento, oppure, nel fine settimana ad Harajuku. A ripensare a Minako, Rei sorride, prova ad immaginarla che incontra Koan e la travolge con il suo spirito espansivo e la sua curiosità senza ritegno; pensa che, in fondo, c'è qualcosa che le accomuna, ma, quasi immediatamente, quest'idea le provoca una fitta al cuore, per un motivo che non riesce ancora a decifrare con chiarezza.

Quando alza lo sguardo, Koan la sta fissando con insistenza. Ha posato in terra il bicchiere di ceramica. Ciò che resta del tè sfavilla sotto la luce del mattino che sta gradualmente inondando la stanza. Un biscotto, riposto nuovamente sul piatto assieme agli altri, è stato fatto a pezzi con le dita; ne manca appena un terzo. In quel momento, Rei capisce che Koan non toccherà altro. I suoi occhi sono tornati diffidenti, la linea della sua bocca piccola e piena è dura e seccata. “Voglio un taxi. Devo andare al lavoro,” proclama con un'impostazione che non ammette repliche e cancella ogni traccia di esitazione nella pronuncia causata dal pesante accento francese. Rei si sente sfiancata e sconfitta, come se, in qualche modo, le decisioni di questa ragazza fossero una sua responsabilità; come se, fallendo con lei, avesse tradito anche l'amicizia di Minako.

“Molto bene,” sospira soltanto, poi si alza per raggiungere l'ingresso, dove è situato l'unico telefono di casa oltre al cordless nella sua stanza.

Rei è una ragazza molto forte e razionale, ma, sempre di più, sente che l'inizio dell'estate ha portato con sé uno strano veleno che sta pian piano cambiando il suo mondo e le persone che ama di più. Sente che sta andando tutto storto e, sempre di più, ha paura di non essere in grado di aiutare nessuno.

 

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Ore 15:30


C'è elettricità nell'aria, un odore di ozono misto ad un vago sentore d'umido: è la promessa che pioverà, la premonizione di una tregua dalla canicola estiva tanto dovuta quanto inaspettata e, per questo, forse non tanto gradita a coloro che hanno tolto da borse e valigette ombrelli pieghevoli ed altre contromisure d'emergenza da un bel po'. Usagi percorre la via di casa a passo svelto. Di tanto in tanto, a denti stretti, alza lo sguardo verso il cielo con un certo timore; poi riprende a camminare con più rapidità. Le riesce facile, dopo anni di marachelle e brutti voti, figurarsi la sfuriata di Ikuko qualora dovesse presentarsi a casa con gli abiti fradici: conosce sua madre e sa che farle presente le lampanti mancanze delle previsioni meteorologiche non la salverà, non davanti allo spauracchio dei pavimenti, tirati a lucido il giorno prima appena, inzaccherati da fanghiglia e acqua piovana.

Le strade che serpeggiano tra le costruzioni del quartiere residenziale sono deserte. Dalle villette disseminate lungo la via, non si sentono provenire né le solite discussioni delle coppie sposate che vi risiedono, né le risate o i pianti dei loro bambini. Ovunque regna un silenzio pesante ed innaturale. Questa è una dimensione parallela, la pellicola di una città fantasma che si è misteriosamente sovrapposta alla realtà familiare di ogni giorno. Usagi rabbrividisce. Conosce queste strade come il palmo della sua mano, eppure, si sente sperduta. Svolta l'angolo, immettendosi nella via che dà sul parco giochi, con le ginocchia rigide: si è accorta che stava velocizzando ulteriormente il passo per la tensione e si è vergognata di se stessa. Sotto il cielo coperto, il giallo vivace dello scivolo a forma di elefante che troneggia incontrastato tra le altre giostrine appare sbiadito, scolorito, vecchio: un relitto inquietante. Usagi mormora, mammina; il cuore le batte forte, lei deve tornare a casa prima che esploda, quel cuore di coniglio – c'aveva visto giusto, Ikuko, quando le aveva assegnato quel nome bizzarro –  allora che corra, corra a perdifiato, lei che nelle prove di educazione fisica arriva sempre ultima, dopotutto, si racconta, la disperazione rende il corpo umano capace di miracoli. Dunque, Usagi stringe i pugni e strizza gli occhi, serra le palpebre così forte che fanno male, incrocia mentalmente le dita augurandosi che in quella cieca corsa non le si pari nessuno – persona o, peggio, fantasma che sia – davanti, e si getta in avanti come un cavallo imbizzarrito, o, forse, sarebbe più preciso dire come un ippopotamo impazzito, se si considera l'assoluta mancanza di grazia che ha sempre caratterizzato ogni movimento di Usagi (impossibile dimenticare i disperati – quanto vani – tentativi di Ikuko di correggere quel difetto, nell'infanzia, tramite il peso delle pile di libri dalle copertine dure, che fanno male, poste in bilico sulla testolina di Usagi mentre le diceva con un sorriso forzato, su, vieni da mamma, ce la puoi fare!) ma poi c'è un rumore.

Il rumore è un lamento, o qualcosa di simile, che le fa rizzare i capelli più corti sulla nuca e le congela il cuore per un lungo istante: quando riprende, batte più forte di prima, così forte che rimbomba in gola, dolorosamente. Il rumore proviene dal parco giochi. Potrebbe essere un gatto, probabilmente un cucciolo separato dalla madre che piange perché non sa come ritrovarla o procurarsi del cibo da solo, una circostanza che Usagi non sarebbe mai in grado di ignorare, nonostante il timore che si tratti della trappola di uno spettro rimanga lì, strascico di ogni altro pensiero o ipotesi: è una fifona per indole e natura ma, soprattutto, è l'aspetto surreale che questo spaccato di mondo, così familiare, ha assunto; in questa dimensione irriconoscibile e parallela, tutto sembra possibile. 

La spessa coltre dei nembi si squarcia e si richiude immediatamente: un lampo rischiara i colori cupi dell'ambiente circostante ed un potente tuono lo segue a ruota. La pioggia prende a cadere senza alcun altro preavviso, fitta e pesante: una secchiata d'acqua gelida sulla nuca e le spalle di Usagi che fa male come uno schiaffo. “Ahi,” si lamenta. Il miagolio riprende. Usagi scuote la testa. Accantona ogni idea di cercare in fretta un qualsiasi riparo di fortuna per incamminarsi, invece, verso il parco giochi. Il rumore proviene da uno dei tunnel di legno in cui, nelle giornate di sole, i bimbi del vicinato si divertono a gattonare. Quando li raggiunge, Usagi ha la punta delle dita intorpidite. Ci siamo, pensa. Fa' che non sia un fantasma, fa' che non sia un fantasma, prega con il cuore che le martella nelle orecchie mentre si china con cautela davanti all'ingresso del tunnel dipinto di rosso ciliegia.

“Chibi.”

Vi è, effettivamente, un gatto, nascosto nel tunnel. Nero, col viso tondo, ed una strana macchia sulla fronte. Tuttavia, intorno al gatto, è raggomitolata una bambina. Una creaturina vera, in carne ed ossa, con tanto di scarpine di vernice lucida e calzini bordati di pizzo, come una bambola d'altri tempi. Non è uno spettro ed ha molta paura: ha gli occhi colmi di lacrime, il volto – affatto familiare – impiastricciato, la bocca spalancata. Squadra Usagi con i suoi occhioni nel tentativo di decidere se fidarsi o meno.

“Piccola, dov'è la tua mamma?”

“Chibi.”

“Non... Non sei di queste parti, vero?”

“Chibi.”

Usagi sbatte le palpebre. I capelli, fradici, si attaccano alla fronte, si intrecciano alle ciglia, facendole pizzicare gli occhi. Forse, la bambina è più piccola di quanto sembri, o forse lo shock per il temporale o per essersi perduta le impedisce di parlare correttamente, ma, quale che sia la verità, non può certo abbandonarla in questo posto. Usagi si accovaccia; cerca di tirare fuori il sorriso più rassicurante di cui è capace, anche se ha freddo e gli abiti sottili non la proteggono dalle sferzate della pioggia.

“Vuoi venire con me? Ti porto in un posto molto bello, dove fanno dei parfait buonissimi, giuro. I miei amici lì ci aiuteranno a trovare la tua mamma. Che ne dici?”

Senza lasciar andare il gatto o proferire parola, la bimba si getta tra le braccia di Usagi, sotto la pioggia.

 

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Ore 15:57


La sala da tè del Crown è semideserta. Il maltempo non fa bene agli affari, specie se le precipitazioni improvvise scoppiano quando la cittadinanza è sparpagliata tra uffici vari per il turno pomeridiano o a casa a smaltire il pranzo in attesa che le ore più calde del giorno passino: non vi è quasi nessuno, in strada, che necessiti di un rifugio, né coloro che si trovano già tra quattro mura avranno un qualsivoglia incentivo ad abbandonarle. Motoki si muove con maestria tra i tavolini rotondi disseminati in sala; trasporta il vassoio d'alluminio con una tale nonchalance che lo si direbbe un'estensione del suo braccio. Con un sorriso cordiale, appoggia due tazze fumanti davanti alle sue uniche ospiti in questo pomeriggio piovoso.

Usagi, avvolta in una delle uniformi di riserva per le cameriere, smette di strofinare con un asciugamano i capelli della bambina, ora decisamente più calma e a sua volta avviluppata in abiti asciutti, ma troppo grandi per lei, per voltarsi verso di lui. “Grazie mille, per la cioccolata ed i vestiti. Oh, e il latte.” A terra, anche il gatto che aveva tenuto compagnia alla trovatella, sta per l'appunto gustandosi un piattino di latte, diluito a dovere.

“Figurati.” L'ennesimo tuono porta lo sguardo di Motoki automaticamente alla vetrata del negozio. “Non mi aspettavo che quest'anno avrei preparato della cioccolata calda in piena estate. È stata una fortuna che foste nelle vicinanze, ma spero comunque che non vi buschiate un raffreddore.”

“Eh già, sarebbe una bella tragedia,” sentenzia Usagi, un secondo prima di starnutire.

“Accidenti. Salute.”

Per tutta risposta, Usagi tira fuori una manciata di tovagliolini dal dispenser e si soffia poderosamente il naso. Motoki, che è un animo buono, non commenta su quell'infrazione dell'etichetta. “Forse, l'idea migliore sarebbe di attendere che spiova per portare la bimba alla sede della polizia più vicina e lasciare loro le ricerche.”

“Forse hai ragione, Motoki-oniichan, ma non vorrei lasciarla sola. Poverina, se l'avessi vista al parco: era così spaventata.”

“Ci credo: trovarsi da sola nel bel mezzo di un temporale, così piccola, dev'essere stato tremendo. Resta però il fatto che la bimba non sembra in grado di dirci nulla e la polizia è l'unica che saprebbe da dove cominciare una ricerca come si deve.” Come al solito, Motoki, che ha la stessa età di Mamoru, si rivela la voce della saggezza e del buonsenso. Cercando un compromesso che le metta il cuore in pace, Usagi si ripromette di accompagnare la bambina alla stazione di polizia e di non muoversi da lì prima che la sua famiglia venga a prenderla. D'altra parte, i suoi genitori saranno senza dubbio molto preoccupati; vorranno delle risposte, delle spiegazioni. Annuendo felice, Usagi solleva la tazza per ingollare il primo sorso di quella cioccolata fuori stagione. La bimba la imita con una certa soddisfazione; forse, ripetere i gesti di Usagi la fa sentire grande. Almeno, Ami direbbe qualcosa di simile.

“Dov'è Chibi-Chibi?”

Una terza voce rompe la quiete pacifica di quel frangente. La segue il rumore della porta d'ingresso che sbatte nel chiudersi. Il campanellino fissato all'arcata si agita con veemenza, producendo una cacofonia che riempie d'ansia Usagi. Motoki si volta all'istante. “Posso aiutarti?” Dal suo tono, Usagi capisce che è irritato, anche se sta cercando di parlare con la solita gentilezza che riserva ai clienti. Non che questo maleducato se la meriti, pensa. Gestire un bar è un lavoro duro che richiede pazienza.

“Sto cercando una bambina. Ho chiesto in giro e alcuni negozianti mi hanno detto di aver visto una ragazza correre qui con—Ehi! Ma tu sei quella del cercapersone!”

Usagi sgrana gli occhi: davanti a lei c'è il tipo irritante dell'altro giorno, il fratello del principe-delinquente con gli occhiali da aviatore e, se possibile, un atteggiamento ancora più riprovevole. Seiya. Ha l'aria allarmata e stringe un ombrello grondante che non si è curato di lasciare all'ingresso, nell'apposito cestino, come se fosse una spada. Usagi ne studia per bene il viso, cerca tracce che rivelino un'età maggiore di quella che aveva indovinato in precedenza, ma, “No, non puoi essere suo padre!” sputa parandosi davanti alla bambina, sospettosa. L'esclamazione coglie tutti di sorpresa, e non ci vuole molto prima che questa si trasformi in risa: persino Motoki è piegato in due, proprio lui che dovrebbe essere dalla sua parte, eppure, la tensione si è spezzata, spazzando via anche l'ansia che aveva pervaso Usagi poco prima. Le sfugge addirittura un sorriso.

Qualche minuto dopo, sono tutti seduti attorno allo stesso tavolino, avvolti dal profumo di caffè e cioccolata appena fatti che esala dalle tazze. La bimba – Chibi-Chibi – ha cominciato a fare le feste a Seiya, non appena compresa l'identità del nuovo arrivato, pretendendo di salirgli in grembo quando si è seduto, e lì si è assopita dopo aver fatto fuori i contenuti della sua tazza che, rifiutando di prendere tra le proprie manine perché improvvisamente troppo calda, Seiya le ha portato alla bocca per ogni sorso. Una dinamica tanto precisa da odorare di tenera abitudine. Usagi, notevolmente ammorbidita dalla scena, avverte una sorta di tenerezza mista ad invidia davanti a quel tipo di rapporto. Prova ad immaginare Mamoru nei panni di Seiya, ed una creatura dal volto ed il sesso sfocati sulle sue gambe, ma, per qualche ragione, quell'immagine dai contorni sfumati le provoca una morsa allo stomaco, simile a quella che l'attanaglia quando ripensa ai dépliant nel cassetto della scrivania. Allora, scuote la testa, cercando di scacciare quel doloroso sogno ad occhi aperti dalla mente. Ritorna al presente, si dice, tu sei qui, al Crown, a Tokyo, e Mamoru è a miglia e miglia di distanza. C'è tempo per il futuro.

“Mi spiace per l'ingresso brusco di prima, ma ero fuori di me per la preoccupazione.” Seiya china il capo verso Motoki in un gesto non troppo formale ma sinceramente contrito. È strano, poiché, in fondo, Usagi non può dire di conoscerlo, eppure la prima cosa che pensa è che quel modo di fare gli si addice: privo di fronzoli ma onesto, e non privo di empatia.

“Figurati, Seiya-kun, posso immaginare. Devi esserti preso un bello spavento.”

“Già, io e la sorella che stava badando ai bambini prima che iniziasse a piovere. È uscita per richiamarli dentro ed ha scoperto che questa monella era riuscita a svignarsela, probabilmente per inseguire quella gatta: è qualche settimana che gironzola nei giardini dell'istituto, e Chibi-Chibi le si è affezionata tantissimo.”

“Oh, così è una micina,” Usagi mormora, carezzando la pelliccia lucida della gatta che subito risponde, compiaciuta, attorcigliandosi alle sue caviglie.

Il sorriso di Seiya si allarga. “Sì. I bambini hanno preso a chiamarla Luna per via di quella macchia che ha sulla fronte. Persino le sorelle, ormai, la conoscono con quel nome. Pare che si sia affezionata molto anche a te, Usagi. Di solito, Luna è parecchio diffidente nei confronti degli estranei. Deve aver capito che sei una brava persona perché hai aiutato Chibi-Chibi.”

“Hai davvero ottimi gusti in fatto di persone, Luna,” Usagi ridacchia. “Ma, Seiya, lavori anche tu per l'istituto? Come mai sei venuto tu a cercare Chibi-Chibi?”

“Oh no, io mi... occupo di altro insieme ai miei fratelli. L'istituto è stato fondato dall'ordine religioso che attualmente lo gestisce in completa autonomia. È solo che, ecco, in passato ne siamo stati ospiti anche noi, così, di tanto in tanto, andiamo a trovare i bambini e a dare una mano alle sorelle.”

Il viso di Motoki si contorce in un'espressione d'imbarazzo. “Seiya-kun, per favore, non sentirti obbligato a rivelare cose troppo personali o dolorose, per te.”

Seiya scuote la testa, sorridendo bonariamente. “Figurati. Non c'è nulla di doloroso: le suore più anziane sono state tutte delle mamme per me, mentre trascorrere del tempo con i bambini mi fa sentire come se avessi tanti altri fratelli minori, a parte Yaten. So che l'assenza di due genitori è generalmente vista come un fatto triste, ma è mia opinione che una famiglia sia qualcosa che può formarsi a prescindere. Non ci siamo mai sentiti soli. E poi, non si tratta di un segreto anche se... vi chiederei, qualora in futuro qualcuno dovesse farvi domande su di me, di non rivelare nulla.”

Usagi e Motoki si scambiano uno sguardo interrogativo: perché mai qualcuno dovrebbe chiedere loro dei trascorsi di quello che, a tutti gli effetti, è un ragazzo come ogni altro? Forse, c'è un motivo serio, una ragione valida e forse un po' oscura che Seiya non può rivelare e che loro non osano chiedere: così, in sincronia, si affrettano a rassicurarlo che niente paura, saranno muti come pesci.

“Grazie, ragazzi. Sarebbe davvero un bel problema, se le mie fan cominciassero a speculare anche su questo.” Usagi s'imbroncia, pensando che, adesso sì, questo Seiya è proprio quello dell'altro giorno. Le mie fan. Che tipo. Tra il modo in cui si concia e il suo modo di fare, è l'immagine sputata di un host pieno di sé. Considerando la sua esitazione poco fa, non sarebbe sorprendente se lui e i suoi fratelli si occupassero proprio di questo: sedurre delle donne fondamentalmente sole con bugie bianche ed adulazioni varie per spillare loro soldi davanti ad un drink, sicuro offerto dalle loro stesse clienti. Forse leggendo l'intenzione di qualche battuta al vetriolo negli occhi di Usagi, Motoki si affretta a deviare il flusso della conversazione verso lidi più innocui.

“Ah, Seiya-kun, sbaglio o 'Chibi-Chibi' è un nomignolo? Questa piccina non fa altro che ripeterlo.”

Qualcosa, nell'espressione di Seiya, cambia: il suo sorriso non cade ma appassisce; c'è un'ombra, ora, che colora i suoi occhi, come un velo leggero che ne oscura la luce. Sarebbe facile non notare questi cambiamenti sottili, in un'atmosfera meno raccolta. Motoki intuisce che, dopotutto, nemmeno questo deve essere un argomento molto facile, ma Seiya apre bocca prima che possa rimangiarsi la domanda.

“In effetti, dici bene. A quanto ne so, è stato suo padre ad averlo coniato. Quando è arrivata in orfanotrofio, era molto piccola, ancora faticava a dire le prime parole, e presto ha cominciato a ripetere solo quel nomignolo. È come se si rifiutasse di dire altro, nonostante gli sforzi delle sorelle e degli specialisti a cui si sono rivolte. Secondo il terapeuta che la segue, è un modo per sentire i genitori ancora vicini a sé.”

“Loro sono...”

“Loro... C'è stato un brutto... incidente, in seguito al quale non possono più prendersi cura di lei.”

In qualche modo, la vaghezza di quelle parole rende Usagi certa che, a scapito della sua tipica curiosità, non può assolutamente permettersi di pretendere chiarificazioni o dettagli. La tristezza nello sguardo di Seiya, che forse rivive la propria esperienza in quella di questa bambina, e Chibi-Chibi stessa che, così piccola, deve portarsi dentro una sofferenza enorme, sono un brusco risveglio dalla realtà ovattata a cui è abituata: restare orfani, subire traumi, parlare con un terapeuta—sono tutte frasi che appartengono a fumetti drammatici e sceneggiati televisivi, indicatori di cose troppo amare e troppo brutte per accadere davvero, a lei, ma anche a persone che fanno in qualche maniera parte della sua vita, eppure, tutto questo sta accadendo davvero; le parole di Seiya sono reali, raccontano la verità personale di un essere in carne ed ossa. 

“Ah, scusate ragazzi: non volevo rattristare nessuno! Oggi è già abbastanza grigio con tutta questa pioggia,” Seiya ride. Si gratta la nuca, impacciato, più una macchietta che se stesso: vuole disperatamente diradare l'atmosfera pesante che si è creata, è chiaro. “Motoki-san, Usagi: vi sono infinitamente grato per esservi presi cura di Chibi-Chibi. Riferirò tutto alla Madre Superiora, e sono certo che vorrà ringraziarvi di persona. Però, se posso essere egoista e chiedervi ancora un favore dopo tutto quello che avete fatto, sarei felice se continuaste ad essere amici di Chibi-Chibi.”

Per la seconda volta quel pomeriggio, Usagi e Motoki si rivolgono un'occhiata interrogativa, ma, questa volta, i dubbi svaniscono in men che non si dica: puoi scommetterci!, esclamano all'unisono.

 

---


7/8/1992, ore 24:02


“—insomma, si dà certe arie, ma credo sia un bravo ragazzo, in fondo in fondo. Gli ho lasciato il mio numero, così potrò rivedere la bimba e—”

“Eh?” c'è una risata, dall'altra parte. “Cos'è questa storia, Usako? Devo ingelosirmi?”

“Spiritoso. Ti ho appena detto che è un bellimbusto, per niente adulto e maturo come te, uffa. E poi, lo sai che per me ci sei solo tu, Mamo-chan!”

“Beh, non è mica roba da tutti i giorni, per una ragazza fidanzata, uscire con un altro uomo ed una bambina piccola. Sembra quasi...”

“Smet-ti-la! Lo so che mi stai prendendo in giro,” Usagi si sforza di suonare petulante, imbronciata ma non troppo come quando lei e Mamoru sono insieme e lei cerca di convincerlo a fare il bis di gelato, oppure a studiare un po' meno e coccolarsi un po' di più, eppure, quelle parole le riportano alla mente l'illusione su cui aveva fantasticato quel pomeriggio, al Crown: non saprebbe spiegarsi perché, ma la voce di Mamoru, adesso, la fa apparire ancora più lontana e dolorosa.

“Scusa, scusa. Perdonami, piccola. Lo sai che mi fido di te, non sono geloso.”

Usagi aggrotta le sopracciglia; rotola sul letto e mostra una smorfia al soffitto, decorato da dozzine di stelle fluorescenti. Sono lì da quando aveva cinque anni. Usagi pensa, ma non dice: forse, vorrei che lo fossi, appena un poco, soprattutto adesso che non posso vederti. Non lo dice, perché non sembra una cosa matura da dire. Usagi si preoccupa spesso di apparire matura agli occhi di Mamoru: vuole essere presa sul serio; teme che lui possa stancarsi dei suoi capricci, delle sue sciocchezze. Vuole essere all'altezza dell'uomo che ama. Così, inghiotte mezze frasi, dubbi e battute che crede dipingerebbero sul volto di Mamoru quell'espressione a metà tra l'imbarazzato e l'accondiscendente che fa capolino nei momenti più infantili di Usagi.

“Ad ogni modo, Usako, il mio relatore mi vuole qui, anche per agosto: c'è un progetto di ricerca che sta portando avanti con un gruppo di studenti e sta pensando di affidarmene la supervisione.”

“Oh, ma è fantastico, Mamo-chan.” Usagi inghiotte: no, non lo è affatto, ma non ho osato aspettarmi altro; non era mio diritto. “Sapevo che questi americani avrebbero riconosciuto il tuo talento.”

“Grazie, tesoro. Grazie per aver sempre creduto in me. Sono felice di questa opportunità, però, sai bene che avrei voluto trascorrere un paio di settimane lì con te, a Tokyo, così la settimana scorsa ti ho preso un regalo. Dovrebbe essere lì a giorni.”

Da brava ragazzina accecata dall'amore quale è, Usagi avverte un tuffo di gioia al suo piccolo cuoricino materialista, e subito si profonde in lodi e grazie mille e non vedo l'ora. Mamoru ride di nuovo e lei cerca di non badare a come la sua voce sembri lontana e diversa, filtrata dallo statico di una chiamata internazionale.

Riattaccano dopo dieci minuti buoni di smancerie, dopo che Mamoru ha promesso: sarà diverso per Natale, vedrai, e poco importa, stanotte, se a Natale mancano quattro mesi, perché il regalo di Mamoru arriverà presto e Usagi è stata così brava, a reggere finora, che può reggere all'infinito, contro qualsiasi nemico od ostacolo, se è per il suo amore. Canticchiando tra sé e sé un motivetto di cui non conosce il nome, balza giù dal letto e tira da parte le tende che nascondono l'ampia finestra; poi, apre le imposte per assaporare l'aria frizzante che la pioggia si è lasciata dietro come una piacevole scia. Le luci della Tokyo notturna sono più brillanti che mai, questa notte. Rifulgono come stelle. Usagi si sente amata, felice; sospira e continua a canticchiare.

“Io canterò per te, sino al giorno che non ti ritroverò tra le stelle lassù, principessa del cielo blu.”

Un'altra voce si unisce alla sua, facendola sobbalzare. Per la seconda volta, quel giorno, Usagi crede di trovarsi di fronte un fantasma, ma le basta guardarsi intorno per scorgere la figura di Demando, affacciato al balcone della stanza degli ospiti, proprio accanto alla finestra della camera di Usagi. Ha il petto nudo e, pallido, brilla come una perla, come una stella e la città, nel buio. Usagi ha un secondo sussulto: gite in quel mondo parallelo dove le soglie del pudore si abbassano come per miracolo, che è la spiaggia, a parte, Mamoru è l'unico uomo che abbia mai visto svestito in qualsiasi misura, ma, più di ogni altra cosa, è la bellezza evanescente di quest'uomo che la coglie impreparata, volta dopo volta, come fosse la prima.

“Oh? Cantavo così male?”

Demando la fissa con occhi di gatto, mezzelune che trattengono una risata un po' benevola, un po' maliziosa. Usagi scuote la testa così energicamente che, quando si ferma, il panorama continua ad ondeggiarle davanti agli occhi per qualche secondo. “No, no, no, no. Demando-san. La, la sua voce è meravigliosa e-e poi, il suo giapponese è—” 

“Usagi. Ti ho detto che solo Demando va bene.”

“Sì, scusa.”

“Sei una fan dei Three Lights?”

“Eh? Oh, no, le mie amiche li adorano, ma, ad essere onesti, non ho la più pallida idea di chi siano.”

“La canzone di prima è loro.”

“Davvero? Non ne ricordavo neppure le parole. Credo di averla sentita alla radio, per caso.”

“Sì, effettivamente è difficile evitarla, in questi giorni. Io stesso ho finito col memorizzarne il testo soltanto perché in ufficio la si sente di continuo.” Demando sposta il proprio peso sui gomiti, appoggiati alla ringhiera, e si spinge in avanti, in modo da poter guardare Usagi negli occhi più facilmente, mantenendo una postura rilassata. “Queste tue amiche sono quelle che inviterai all'inaugurazione?”

Usagi annuisce con una sorta di timidezza che non le è consona. “Sì... Se non è un problema.”

“Certo che no, sono stato io a dirti che potevi invitare i tuoi amici. Tra l'altro, penso che queste ragazze ti saranno grate per gli anni a venire, considerando che la colonna sonora della serata è stata affidata ai Three Lights—non da me, che sono avvezzo ad altri tipi di musica e non so davvero cosa sia in voga tra gli adolescenti di questo paese, ma, per fortuna, lo staff di locali che mi sta aiutando ad aprire la boutique sa il fatto suo.” Demando fa mostra di un sorriso insolitamente aperto, pulito, quasi come quello di un bambino. “Ah, ci incrociamo poco, ma, quando succede, ti sommergo di chiacchiere. Spero di non averti annoiata.”

“Per nulla! Lei, ah, tu, hai sempre cose molto interessanti da dire.”

“Dici sul serio?”

“Certo!”

“Ne sono felice. Sai, spero di non spaventarti dicendo questo, ma parlare con te mi riesce così naturale che mi sembra quasi di conoscerti da tempo, come se tu fossi una figura del mio passato, o come se ci fossimo conosciuti in un'altra vita.”

Eppure, non è timore, quello che riempie la mente di Usagi in quell'istante, ma sorpresa, smarrimento, imbarazzo, una felicità simile a quella che prova addentando il primo boccone del suo dessert preferito. Se vi è alcun tipo di paura, nel realizzare che l'essere umano che hai di fronte può decifrare alcuni dei lati più reconditi del tuo cuore senza bisogno di parole, questa si sublima troppo in fretta in un senso di meraviglia travolgente, per permettere ad Usagi di esitare anche un solo momento.

Con la coda dell'occhio, intravede la schiena di Demando che disegna una curva sinuosa mentre lui si stiracchia. “Credo sia ora di andare a letto, per me: mi aspetta una giornata piena e, perlomeno, sono certo che adesso riuscirò finalmente a prendere sonno.” La frase rimbomba nelle orecchie di Usagi come per spingerla a cogliere un significato, sotteso e nascosto ma non troppo, tra quelle parole. “Grazie per avermi ascoltato, Usagi. E buonanotte.”

Le riesce di mormorare solo un “Buonanotte,” mentre resta inebetita, con i piedi incollati al pavimento, per un tempo incalcolabile, prima di realizzare appieno quanto è successo nell'arco di questa giornata e correre, con un sorriso a trentadue denti, dritta dritta in stanza, saltando, praticamente, sul letto per affogare un gridolino di gioia in uno dei cuscini. Ci sono forse nuovi amici, nuovi legami che ha stretto e che potrebbero diventare preziosi. C'è un adulto, una persona importante, che la prende sul serio, dà peso alle sue parole e la capisce. C'è il regalo di Mamoru, che arriverà presto.

Questa notte, Usagi Tsukino può ancora credersi una ragazza fortunata.








 


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Capitolo 5
*** Annex I: 3/8/1992 ***


Annex I



3/8/1992, ore 24:15



Il trillo del telefono cellulare squarcia il silenzio. Demando sobbalza. Percorre con lo sguardo la stanzetta che la famiglia Tsukino ha messo a sua disposizione, trovando, infine, il borsone da viaggio lì dove l'aveva gettato quel pomeriggio, ai piedi dello scrittoio di truciolato: un articolo economico e prodotto in massa come il resto del mobilio di casa, del resto. Il grosso della spesa – senza dubbio corredato da un prestito decennale – doveva essere andato nell'acquisto della villetta a due piani. C'era stato un tempo in cui Demando aveva vissuto in un luogo simile: non particolarmente grande, e decisamente non di lusso, e aveva considerato quel luogo casa; eppure, adesso, si sente come un adulto intrufolatosi nella rudimentale casupola sull'albero di qualche ignaro bambino, in un goffo tentativo di—fare cosa, di preciso? Rivivere la propria infanzia? Rubarne un frammento dai sogni e dagli spazi che un bimbo ha ritagliato, con fatica, per se stesso, lontano dalla cerchia opprimente dei suoi genitori? No. Scegliere una qualunque di queste risposte sarebbe errato. Demando sa che il passato non si rivive, non ritorna, poiché ha già perso tante, tante cose che non avrebbe mai desiderato perdere, e sa bene di non poterle più riafferrare. Il passato si consuma come una candela: bruciando, sciogliendosi lento; lasciandosi dietro una pozzanghera informe di cera che è meno di un fantasma di quello che è stato. È un'operazione dolorosa, ricostruire volti familiari e ore che sfumano l'una nell'altra partendo da quella poltiglia irriconoscibile. Dolorosa quanto inutile. Chi ero io, e chi erano le persone che allora mi erano intorno? Non è possibile rispondere a simili domande, se non accettando l'idealizzazione di un vago ricordo come realtà. Il nostro passato è amorfo eppure multiforme: la sua faccia muta con il nostro presente; ne è proiezione, una mera interpretazione che si basa su di esso. È così, che convinciamo noi stessi di essere stati sempre, costantemente noi.

A differenza mia, Demando era consapevole di tutto ciò già all'epoca di quei trentuno giorni d'inferno: era un adulto con alle spalle trascorsi che differivano nettamente dai miei; a modo suo, aveva avuto modo di costruirsi una sorta saggezza, di filosofia di vita propria che gli aveva permesso di affrontare il futuro. Possedeva, insomma, quel tipo di coraggio che a me mancava al punto da fossilizzarmi tra le mie insicurezze. Nonostante questo, ciò che in quel periodo animava Demando e ne dettava le azioni era, in un certo senso, proprio il passato.

“Pronto?”

“Demando?” dall'altra parte della linea, la voce di suo fratello minore risuona attutita e scricchiolante. Demando sospira. Si passa una mano tra i capelli e si prepara a quella che potrebbe essere una lunga, irritante conversazione di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

“Saphir.”

“Ma dove sei sparito, tutto il giorno?”

“Sei arrabbiato.”

“Sono preoccupato, perché mio fratello è sparito, senza contattare nessuno, ed ho saputo soltanto adesso dallo staff alla reception, e soltanto perché l'ho chiesto, che ha annullato la prenotazione per la sua stanza. Quindi, io ti chiedo: che diamine stai combinando.”

C'è stato un tempo in cui Saphir era il suo tesoro, in cui bastava uno sguardo per capirsi e ci si arrabbiava, ci si preoccupava e si rideva assieme. C'era stato un tempo in cui Saphir l'avrebbe sostenuto in qualsiasi impresa. Poi, qualcosa si era rotto: il mondo come lo conoscevano era finito, e nel mezzo di quel maremoto, avevano trovato, per la prima volta, appigli diversi. Essere franco ora significherà l'ennesimo litigio, l'ultimo di una lunga costellazione come la scia di briciole che Hansel e Gretel si lasciarono dietro nel bosco—ma se quella era una trovata per tornare a casa insieme, questa è il conteggio dei momenti salienti di un'amara separazione. Stasera, questa è, anche, l'inevitabile conseguenza delle azioni di Demando. Delle sue scelte e dei suoi desideri.

“L'ho trovata.” Il silenzio che fa da seguito a quelle parole è assordante. Persino il respiro di Saphir, prima accentuato dal rumore statico della linea, è impercettibile. Demando lo immagina, impallidito, che trattiene il fiato. Ma non esita. “Sono finalmente riuscito a trovarla, dopo tutti questi anni. Non posso lasciarla andare.”

“Demando,” c'è una nota inusuale, nella voce di Saphir, che sa di panico. “Sono passati dieci anni. Dieci. Cosa pensi che possa significare per lei? Cosa credi che possa ricordare?”

“Ricorderà. È per questo che sono qui. Ricorderà a tempo debito, e quando lo farà, sarà tutto chiaro anche per lei.”

“Stiamo parlando di qualcuno che all'epoca era una bambina, per dio.”

“Una bambina, dici bene. Eppure, quella bambina, così piccola e così ignorante degli affari di questo mondo, mi ha salvato.”

“Sei tu che hai salvato te stesso, fratello, non—”

“Eravamo soli e nessuno avrebbe potuto aiutarmi: non gli adulti che mi volevano fallito, ma neppure tu, che eri tutto quel che mi restava della mia famiglia, e lo sai bene, Saphir. Meglio di chiunque altro. È per questo che non vuoi ammettere che qualcun altro sia potuto riuscire laddove tu avevi troppa paura, anche solo per tentare.”

“Smettila! Lo sai che io farei qualsiasi cosa, per te. Anche allora, io—”

“Allora, tu cercasti di approfittare della mia debolezza. Cercasti di usarmi.”

“Non è vero.”

“Davvero? Ebbene, dimmi, Saphir: dove si trova Petz, in questo momento? Stamane, Rubeus mi ha riferito che avreste cenato insieme. Perché mai due innamorati dovrebbero salutarsi così presto, soprattutto quando alloggiano nello stesso albergo?”

“...”

“Neppure una menzogna da rifilarmi? C'è da dire che, almeno sotto questo aspetto, non sei affatto cambiato da quando eravamo bambini: sei onesto al punto da farmi provare imbarazzo per te. Ascoltami bene. È precisamente perché siamo fratelli, che ti faccio un ultimo avvertimento: non intrometterti in questa faccenda. Il tuo compito è di interessarti esclusivamente agli affari dell'Atelier. Il resto non ti riguarda. Oppure, giuro che non mi vedrai mai più, Saphir.” Demando preme il tasto di gomma su cui è impresso un telefono rosso. Non attende una risposta. Non la desidera, non ve n'è bisogno. Getta il telefono sul borsone aperto: i contenuti ne attutiranno la caduta e ad ogni modo non importa. Che si rompa. Che vada all'inferno con Saphir e tutti gli altri.

Demando si lascia cadere sul letto; le molle e le assi scricchiolano in un coro assordante che gli fa digrignare i denti. Si aspetta, quasi, di vedere Kenji Tsukino o sua moglie comparire sull'uscio come uno spettro, per chiedere con quella cortesia asfissiante che è tipica di queste parti, se va tutto bene. Un secondo dopo, ogni cosa è nuovamente avvolta dal silenzio ovattato della notte. Niente padroni di casa invadenti, niente spettri. Solo Demando, e quel frammento del suo passato che dorme sonni sereni di adolescente a pochi passi da lui, appena dietro una parete sottile. Usagi, Usagi: ne assapora il nome sulla lingua, ora che lo conosce; ne ridisegna il viso di ragazzina-quasi-donna ad occhi chiusi, ora che l'ha visto davvero, e non è più quello sfocato e cangiante delle fantasie oniriche degli ultimi dieci anni.

Demando si abbandona sul materasso, mormorando di nuovo, Usagi, Usagi, senza fiato, senza voce, affamato, ed intesse un nuovo sogno: immagina quelle dita color pesca con le unghie ovali, un po' mangiucchiate, dipinte di un rosa vivace che una donna adulta non userebbe, e che è già crepato agli angoli; le immagina e prova a pensare come sarà, sentirle che scivolano esitanti sulla sua pelle nuda, che sapore avranno nella sua bocca. In quale piega misteriosa si piegherà, la piccola bocca di Usagi, quando la stringerà forte a sé per entrare in lei.

Usagi, Usagi, Demando ripete, unico amore mio.







 


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Capitolo 6
*** 7/8/1992 ***


Capitolo V



7/8/1992


Ore 9:40



Quella mattina, quando Usagi si siede a tavola per la colazione, il suo posto non è l'unico ad essere apparecchiato.

“Buongiorno.”

Demando la saluta con le mani intrecciate ed un sorriso velato di bonaria complicità; le riporta alla mente la conversazione della notte precedente—di appena qualche ora fa, facendola arrossire. Ha una tazza di caffè, dinnanzi a sé, che è ancora intonsa, così come il pane tostato meticolosamente disposto su un piatto di ceramica dipinta, e la tavoletta di burro che si sta lentamente sciogliendo su un apposito vassoietto d'alluminio con tanto di coperchio a campana di vetro; ciascun pezzo è stato preso dal servizio buono: prediligere la colazione all'occidentale è stata consuetudine della famiglia Tsukino dacché Usagi ne abbia memoria, ma, è con l'arrivo di Demando, quest'ospite affascinante venuto da una terra straniera tanto romanticizzata, che Ikuko ha cominciato a preoccuparsi dell'estetica dei pasti, della ricercatezza delle stoviglie usate e delle coreografie culinarie. Inizialmente, Kenji aveva ironizzato, meravigliato ma non sorpreso da quel nuovo chiodo fisso di sua moglie, che, d'altro canto, sembrava in costante necessità di qualcosa – attività, persona, fatto o pettegolezzo che fosse – su cui concentrare in toto le proprie energie, probabilmente per evadere dalla monotonia della sua vita di mamma e casalinga a tempo pieno. Era, quello di Kenji, un gesto privo di malizia, inteso a punzecchiare con l'affetto e la confidenza di chi, si suppone, si ama da due decadi. Senonché, Ikuko non aveva perso tempo a mettere in chiaro che prendeva la questione con la massima serietà, e non ammetteva che altri facessero diversamente. Usagi, dal canto suo, trovava la faccenda imbarazzante: persino ad una ragazza comune e con la testa perennemente tra le nuvole come lei, era chiaro che quei tentativi di raffinatezza sarebbero risultati, nella migliore delle ipotesi, maldestri e goffi agli occhi di chiunque. Figurarsi una persona come Demando, che a Parigi doveva condurre una vita degna delle più sofisticate riviste patinate.

Usagi balbetta, “Non pensavo di trovarti qui.” Sempre l'ultima ad alzarsi, quando finalmente scende in cucina può esser certa che suo padre è al lavoro, sua madre a far la spesa o a pulire casa, Shingo fuori a giocare a calcio con i suoi amici al parco e Demando, certo, ha i suoi impegni. Così, giorno dopo giorno, Usagi finisce per consumare la colazione da sola o, nei giorni di scuola, addenta qualcosa al volo che può essere mangiucchiato per strada senza troppi problemi.

“Ti spiace?” Il sorriso si accentua intorno a quelle parole.

“No, no, affatto!” Usagi scuote la testa con vigore, nel tentativo di scongiurare un umiliante malinteso. “È solo che... ieri sera avevi detto che saresti stato occupato tutto il giorno, così, sono sorpresa. Tutto qui.”

Demando ride. “Un po' speravo che lo fosse, una sorpresa. Gradita, naturalmente.”

“Certo che lo è!”

“Beh, ne sono contento. Ci sono stati dei cambiamenti di programma, stamane, ed ho pensato che sarebbe stato bello poter fare colazione con te.” Usagi annuisce. Si siede rigidamente e versa del succo d'arancia in un bicchiere, ma ha le mani che tremano, e alcune gocce schizzano sulle dita e la superficie del tavolo. “Attenta,” Demando prende uno dei tovagliolini dai colori vivaci impilati l'uno sull'altro nel dispenser e lo piega un paio di volte su se stesso, per assorbire via il succo dal tavolo in maniera efficiente. Poi, afferra la mano sporca di Usagi, tamponandone le nocche con pochi tocchi leggeri. Lei si lamenta tra sé e sé: “Ho ancora la dita appiccicose.” Il sorriso di Demando raggiunge i suoi occhi, trasformandoli in mezzelune come sul balcone, di notte. Occhi di gatto che scrutano Usagi mentre Demando ne solleva la mano e china il capo: vicini, vicini, fino a che Usagi può sentire il respiro umido di lui sui polpastrelli, e poi, forse, potrebbe essere un sogno, un'allucinazione, il tocco umido della sua bocca come se volesse mangiarle le dita e—

“Usagi! Ben svegliata,” Ikuko irrompe in cucina con un cesto di bucato pronto per essere steso ed un'espressione contrariata in volto. Con rapidità e discrezione, Demando le lascia andare la mano, per poi avvolgerla nella sua e posarla, delicatamente, sul tavolo, dietro la brocca di succo d'arancia.

“Non sono neppure le dieci, mamma.” Usagi vorrebbe dirlo con rabbia; lo farebbe, se solo potesse dedicare la sua concentrazione ad altro che non sia cercare a tutti i costi di non esplodere. La mano di Demando è calda. È grande e copre la sua: palmo e dita e il principio del polso, dove l'osso sporge visibilmente.

“E meno male. Poltrire non è educato nei confronti degli ospiti, né della persona che si prende cura della casa, cioé me: se non hai scuola, dovresti pensare a darmi una mano, Usagi. Non sei più una bambina.”

La nuca di Usagi brucia. La punta delle orecchie è in fiamme. “Mamma...”

“Ad ogni modo, quando hai finito, va' a casa degli Osaka. Ho incrociato la madre di Naru-chan al mercato, e mi sembrava molto preoccupata, poveretta. Naru-chan è sempre stata una bambina molto dolce ed obbediente, ma deve essere successo qualcosa. Forse, non va d'accordo con le sue compagne di classe: tu ne sai qualcosa? Quando è stata l'ultima volta che siete uscite insieme, Usagi? Sua madre vorrebbe tanto che tornaste a frequentarvi. Ha detto che la tranquillizzerebbe.”

Naru. Naru Osaka. Snella, col faccino pulito ed i capelli castano naturale, invidia delle ragazze che avrebbero tanto voluto poter schiarire i propri, per i imitare gli idoli della TV e delle riviste di moda, senza incorrere nelle ire dei professori. L'uniforme sempre in ordine e graziosi abiti all'ultimo grido sempre nuovi per i pomeriggi con le amiche. Benestante e di buone maniere. Faceva il suo dovere di studentessa e figlia modello e aveva buoni voti. Mia madre adorava Naru: penso che per lei rappresentasse la figlia ideale, quella che avrebbe voluto che io diventassi. Avevo colto questo suo desiderio – questa sua frustrazione – piuttosto in fretta, e forse, se fossi stata meno sempliciotta e più prona ai sentimenti negativi, avrei potuto odiare Naru per questo; avrei potuto lasciare che la gelosia e l'invidia mettessero le radici nel mio cuore, distruggendo sul nascere la possibilità di un'amicizia tra noi. Invece, Naru ed io diventammo grandi amiche, ed in fretta. Ricordo ancora il giorno in cui fece il suo ingresso nell'asilo che io già frequentavo da qualche mese: teneva stretta la mano di sua madre, bellissima in un tailleur firmato, ed aveva gli occhi pieni di lacrime. Sebbene mi fossi già ambientata in quel nuovo mondo che, soprendentemente, esisteva con tutti i crismi al di fuori di quello racchiuso dalle mura di casa Tsukino, un solo sguardo a quel viso spaurito mi riportò alla mente il terrore e l'ansia che avevo provato quando mio padre aveva lasciato andare la mia mano per la prima volta, voltandomi le spalle mentre si incamminava verso l'uscio dell'edificio. Così, mi ero avvicinata a Naru per farle coraggio, e, da allora, eravamo state inseparabili per tanti, tanti anni. Le differenze che intercorrevano tra noi, che fossero sociali, familiari, di abitudini o di carattere, sembravano fungere da collante, tra noi, piuttosto che essere motivo di disaccordi o litigi.

A sbiadire i tratti di quel legame fino a farli quasi scomparire del tutto, fu, inaspettatamente, una cosa banalissima: era primavera, pochissimi giorni prima dell'inizio del nostro secondo anno di liceo; nel cortile dell'istituto, assieme al resto della popolazione studentesca, Naru ed io saltellavamo, ci alzavamo sulla punta dei piedi e allungavamo il collo nel tentativo di scorgere, oltre la ressa che ci impediva di avvicinarci, i nostri nomi sulla bacheca che riportava le nuove formazioni per le classi di quel anno. Infine, anche grazie ad una buona dose di spintoni, constatammo che eravamo state assegnate a sezioni diverse. Considerando l'abisso tra il rendimento scolastico di Naru ed il mio, non c'era molto di cui sorprendersi; inoltre, era già accaduto quando frequentavamo le medie. La prendemmo a ridere. Mettemmo su il solito teatrino comico in cui tutto il numero si reggeva sulla mia pigrizia ed i miei voti imbarazzanti e pensammo, poco male, pranzeremo insieme ogni giorno, ci vedremo dopo le lezioni. Tuttavia, le cose andarono in maniera molto diversa: Naru ed io ci allontanammo poco a poco, e la colpa fu soltanto mia.

Avevo conosciuto Ami, Makoto e Minako nel corso dell'anno appena trascorso, quasi per caso. Eravamo in classi diverse e, ad una prima occhiata, non avevamo nulla in comune, eppure, eravamo presto diventate un gruppo: se una di noi mancava a scuola, non era raro che un compagno di classe o un professore chiedesse notizie alle altre o affidasse loro compiti, appunti e fotocopie da consegnare alla ragazza assente dopo la scuola. Pochi anni prima, in una fredda giornata d'inverno, avevo conosciuto Rei: avevo cercato rifugio, ed un nascondiglio, nel cortile del tempio, dopo un brutto litigio con i miei genitori, e lei mie aveva trovata, accucciata all'ingresso, che tremavo e tiravo su col naso come una bambina. Ovviamente, mi aveva rimproverata: prima per essere uscita senza neppure indossare un cappotto con quelle temperature, poi, dopo che le ebbi spiegato il motivo di quella fuga repentina, per la mia immaturità. Il resto è storia. Ciò che conta, ora, è che ben presto scoprimmo che Minako conosceva Rei a sua volta: avevano frequentato le elementari presso lo stesso istituto femminile, ma mentre Rei aveva proseguito lì i suoi studi, Minako aveva trascorso gli anni tra fine della sesta e l'inizio delle superiori a Londra, a causa del lavoro di sua madre; dunque, il tempio della famiglia Hino divenne il nostro covo, il nostro punto di riferimento.

Avevo presentato Naru alle ragazze sin da subito, ma se loro, che avevano visto il gruppo espandersi poco dopo avermi conosciuta, erano felici di incontrare l'ennesimo nuovo membro di quella squadra tutta fondata sulla spensieratezza e l'amicizia, per Naru, che mi aveva avuta sempre tutta per sé per una vita intera, le cose erano ben diverse. Anche in questa istanza, mi ero rivelata troppo ingenua, troppo ottimista e, di conseguenza, priva di tatto: più mi avvicinai alle ragazze, e più mi allontanai da Naru, o meglio, non mi accorsi della distanza che lei stava piano piano mettendo tra noi, presa com'ero dalle mie nuove amiche. Da bambina, così come da adolescente, credevo che il non agire con intenzioni malevole fosse sufficiente a non diventare una cattiva persona, così compivo spesso azioni completamente egoistiche senza prendere in considerazione come queste avrebbero potuto ferire chi mi stava intorno: la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni, si dice. Una lezione che io imparai decisamente troppo tardi e ad un prezzo molto caro.

Quel mattino, sentire mia madre che parlava di Naru come se qualcosa di grave la affliggesse, fu una vera e propria scossa elettrica che mi urtò nel profondo. Era come se avessi realizzato solo in quel momento che la mia amica, quella che era stata la mia migliore amica, era divenuta, per me, un'estranea, ed io non avevo fatto nulla per impedirlo; ancora peggio, non avevo mai avvertito la necessità di farlo. E poi, ero sconvolta dall'idea che proprio Naru, che ai miei occhi conduceva una vita assolutamente perfetta e non avrebbe mai potuto avere nulla di cui lamentarsi, potesse star male a tal punto: l'ennesima prova di quanto fossi incapace non solo di capire gli altri, ma anche di riconoscere loro una profondità ed una gamma di esperienze ed emozioni che andasse oltre la facciata che mostravano al mondo—o quello che io sceglievo di vedere. Così, ecco che la Usagi di quel giorno strabuzza gli occhi, scuote la testa e, dimenticandosi del trambusto adolescenziale che le stava scuotendo il cuore, sfugge alla presa di Demando per trangugiare in fretta un bicchiere di succo d'arancia, decisa a raggiungere casa Osaka il prima possibile.

“Vado subito. Sai se Naru-chan è a casa, oggi?” chiede a sua madre con la bocca piena del biscotto che si sta impegnando a masticare in tempo record. La preoccupazione di Ikuko è senza dubbio alle stelle, poiché non rimprovera Usagi per quello sfoggio di pessime maniere. Prese dalle circostanze di Naru, nessuna delle due nota il volto di Demando che, per un istante, si accartoccia in un'espressione di indecifrabile freddezza. Forse, sarebbe bastato che Ikuko o Usagi scorgessero quel particolare, quel giorno, perché non ignorassero il vero significato di certi eventi che si sarebbero verificati di lì a poco. È inutile, patetico ed immensamente doloroso, eppure, non posso fare a meno di chiedermi quante cose orribili si sarebbero potute prevenire.

“Sua madre mi ha detto che ha la mattinata libera e nessun progetto di uscire, ma questo pomeriggio ha una lezione extra di piano, quindi, sì, faresti meglio ad andare ora.” Ikuko è pensierosa. Quando sua figlia era ancora molto piccola, aveva cercato di imporle la presenza, un paio di volte a settimana, di una maestra di pianoforte; le cose, come c'era da aspettarsi, non andarono come avrebbe voluto, e, presto, le lezioni per Usagi finirono. Si trattava di uno degli innumerevoli rimpianti che Ikuko si portava nel cuore per quel che riguardava sua figlia, tuttavia, persino lei, che tanto idolatrava la perfetta Naru, non poteva fare a meno di avvertire una certa apprensione davanti alla quantità mastodontica di impegni che quella ragazzina si trovava a dover affrontare.

C'è lo stridore assordante delle gambe di una sedia che fanno attrito contro il parquet. Usagi balza in piedi. “Bene, allora vado,” procede veloce verso l'ingresso, ma poi torna indietro con altrettanta rapidità.

“Usagi, che fai?”

“Devo prendere una cosa per Naru-chan dalla mia stanza!” urla, già sulle scale.

In camera, afferra uno degli eleganti inviti che Demando le aveva messo tra le mani con una risata, spiegando, così potrai divertirti con le tue amiche, invece di annoiarti ad ascoltare i discorsi di noi vecchi. È sicura che Naru sarà felice di riceverlo ed è, inoltre, un'ottima scusa per ricominciare a frequentarsi. Per poco, Usagi non cade rovinosamente con la faccia contro gli scalini, mentre li percorre in direzione inversa, e sfreccia, goffa, in cucina, dove saluta frettolosamente sia Demando che Ikuko. All'ultimo momento, però, ricorda una cosa molto importante: “Mamma,” chiama mentre si infila le scarpe, seduta sullo shikidai. “Per caso, è arrivata posta per me?”

“Una cartolina!” la voce di Ikuko, dalla cucina, sembra lontanissima.

“Una cartolina?” ripete Usagi in un soffio. Il suono della parola le getta un peso sul cuore. Una cartolina. Solo una cartolina.

“È sul mobile proprio lì nel genkan,” spiega Demando, alle sue spalle. Usagi si volta e lo vede, la schiena poggiata alla parete e le braccia incrociate in una posa rilassata, che le rivolge il solito sorriso, quello che – Usagi ancora non sa – è riservato unicamente a lei. “Mi sono svegliato molto presto e, siccome Ikuko-san era molto occupata, ho pensato di rendermi utile, almeno raccogliendo la posta. È una cartolina davvero bella, hai amici che viaggiano spesso in Europa? Ah, ma, prometto che non l'ho letta!”

Usagi finisce di allacciarsi le scarpe e si avvicina alla scarpiera, dove la cartolina la aspetta, incorniciata da un mazzo di chiavi (quello di sua madre) ed una manciata di monetine. Con la punta delle dita, sfiora i tetti azzurri delle case bianche a ridosso del mare, impresse sulla superficie patinata. A sovrastarle, una scritta a caratteri cubitali che recita: Paros. Sul retro, il messaggio inizia con: Cara gattina, e Usagi sa subito di chi si tratta. Il pensiero le strappa un sorriso, a scapito di tutto il resto. Infila la cartolina nell'ampia tasca frontale della salopette che ha indossato quel mattino, pensando che, più tardi, dovrà mostrarla anche alle altre, al tempio, e, finalmente, apre la porta.

Prima di uscire, rivolge un ultimo sguardo a Demando, un lieve inchino in segno di gratitudine. “Sì, sono delle amiche a me molto care. Se vuoi, ti parlerò di loro, al mio ritorno,” spiega, e poi, corre finalmente verso casa Osaka.


Naru indossa un abito verde acqua che pare essere fatto di un qualche materiale impalpabile, semplice eppure raffinato. Sembra una fata, mentre innaffia i grossi cespugli di ortensie nel cortile di casa. Usagi sorride, orgogliosa della sua amica e colma di nostalgia allo stesso tempo.

Quando la scorge, gli occhi di Naru si spalancano come se le fosse appena comparso dinnanzi un fantasma. Fa male. È davvero così strano che io sia di nuovo qui, pensa Usagi, proibendosi di manifestare apertamente qualsiasi forma di disappunto. Sorridi, si dice. Continua a sorridere. Questa è tutta colpa tua.

“Naru-chan! Come stai?”

“Bene... Sto bene...” Naru abbassa lo sguardo. Non si muove, non invita Usagi ad entrare, non ricambia la domanda, ma Usagi non può perdersi d'animo, non se lo può permettere.

“È da tanto che non ci vediamo, così, sono venuta per consegnarti una cosa.”

Naru passa l'innaffiatoio dalla mano destra alla sinistra, afferrando la busta listata d'oro senza alcun entusiasmo apparente, come un robot. “Ci saranno anche Mizuno-san e le altre?” domanda. Lei ed Ami, entrambe studentesse modello, sono nella stessa classe, naturalmente.

Usagi sbatte le palpebre, lievemente perplessa, prima di rispondere, raggiante, “Certo! Sono sicura che le altre saranno felici di vederti.” È un errore, un errore molto grave, e lei non se ne rende conto, anche se dovrebbe. Oh, se dovrebbe.

“Riprenditi questo invito.”

“Cosa?”

“Ho detto, riprenditi questo invito, Usagi-chan. Mamma ne ha già ricevuto uno per tutta la famiglia la settimana scorsa. La nostra gioielleria è uno dei partner ufficiali dell'evento. Non ne ho bisogno.”

“Oh,” Usagi si sente disorientata. Non riconosce quel tono gelido, non dalle labbra di Naru. “Beh, avrei dovuto pensarci, immagino! Sono sempre la solita sbadata, eh? Ma, tanto meglio, allora ci vedremo di sicuro. Non vedo l'ora di chiacchierare di nuovo con te!”

“Mi spiace, Usagi-chan, ma non posso dire che valga lo stesso per me. Anzi, te ne sarei grata se potessi andartene il prima possibile.”

“Naru-chan... perché? Cosa ti è successo? Adesso capisco di non essermi comportata bene con te, ma voglio rimediare: mi manca la mia amica!”

“Allora, lascia che ti chieda una cosa: come mai sei venuta qui proprio ora, dopo tutto questo tempo?”

C'è silenzio, un lungo lasso di silenzio assordante, in cui Usagi ha l'impressione che stia per scoppiarle la testa. La risposta è lì, tra le labbra e la lingua, ne sente il sapore e pronunciarla dovrebbe essere facile, eppure, per qualche motivo, non è capace. Qualcosa, nella voce dell'altra, l'ha congelata; le ha gelato il sangue nelle vene come un'accusa spietata. Quando Naru alza infine lo sguardo, Usagi deve forzarsi a non distogliere il proprio: è lo sguardo di qualcuno che è sul punto di piangere e vorrebbe non averlo mai visto, non su quel viso. Usagi sente, pur senza capirne a fondo il motivo, che anche questo è colpa sua.

Cerca di illudersi che deve trattarsi di qualche sorta di malinteso, che rispondere candidamente, con sincerità, rimetterà le cose a posto. “Ecco, stamattina, le nostre madri si sono incontrate e...”

“Basta così, per favore, basta così. Va' via, Usagi-chan.” Naru piange. Naru sta piangendo. Naru Osaka con i suoi capelli perfetti, l'abito da fata e la sua vita altrettanto magica e perfetta. La stessa ragazza con cui Usagi ha condiviso le gioie, i segreti ed i timori di una vita, sta piangendo a causa sua. Usagi sta incominciando a capire che non era poi così scontato, che la loro amicizia potesse riprendere come se non si fosse mai interrotta; che, dopotutto, non ha il diritto di pretendere una cosa dal genere. Non lei, che ha dimenticato Naru in maniera così profonda, e così a lungo.

Usagi la osserva, impotente, che corre via per rifugiarsi dentro casa. Si vergogna da morire di se stessa, della persona che è, ma sarebbe ancora più vergognoso, da parte sua, se cercasse di fermarla, a questo punto.

Per terra, tra l'erba curata, l'annaffiatoio che Naru ha lasciato cadere sta lentamente riversando l'acqua al suo interno in una pozzanghera melmosa. La carta pregiata dell'invito assorbe mano a mano quel misto di terra e acqua, accartocciandosi su se stessa, tingendosi di colori che non le sarebbero dovuti appartenere.

Usagi porta una mano sulla tasca che contiene la cartolina come se fosse un amuleto in grado di rasserenarla, ma questa volta non serve a nulla e, schiacciata dalla tristezza, decide di tornare a casa.
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Ore 13:57


“E con questo, per oggi abbiamo concluso.”

La voce dell'istruttore di ballo rimbomba nello studio adibito a palestra. Non si tratta di un ambiente particolarmente vasto, tuttavia, è perlopiù vuoto, e questo dà a voci e suoni una qualità riecheggiante. Seiya si lascia cadere su uno dei materassini che avevano steso sul parquet per gli esercizi di riscaldamento, ad inizio mattinata. È sudato, senza fiato, ed assolutamente affamato. Manca poco all'inaugurazione a cui i Three Lights dovranno partecipare in qualità di ospiti, ma anche di intrattenitori, ed il loro manager ha ben pensato di utilizzare un evento che di certo riceverà una vastissima copertura mediatica per lanciare il loro prossimo singolo: dunque, canzone nuova e coreografia nuova.

“Ah, non ci posso credere,” Seiya preme i palmi contro gli occhi chiusi, fino a quando non vede piccoli fuochi d'artificio bianchi scoppiettare sul retro delle sue palpebre.

“Piantala,” sedutosi accanto a lui, Taiki fa per scostare le mani di Seiya dal suo viso, un po' delicato, un po' burbero, come si fa con i bambini quando gli si raccomanda, questo non lo toccare! “Ti fa male agli occhi.”

Dalla sponda opposta del materassino, Yaten ridacchia. “Solo una vecchia casalinga superstiziosa o un poppante ci crederebbe davvero, Taiki. Certo che, però, un idol con gli occhiali sarebbe parecchio interessante.”

“Smettela voi due,” sbotta Seiya. “Mi state facendo veramente arrabbiare!” e allunga le braccia, attirando a sé i fratelli, che prendono subito a dibattersi come pesci fuor d'acqua.

Yaten sbatte i pugni contro il suo petto, in un tentativo di liberarsi che, a conti fatti, non è molto convincente. “Lasciami andare, Seiya: puzzi di sudore!”

“Sai, Yaten, non prenderla male, ma dopo quasi sei ore di prove, potrei dire lo stesso di te!” sghignazza l'altro. “Non è vero, Taiki?”

Taiki ride a sua volta. “Siamo conciati per le feste tutti e tre, non c'è che dire. Domani il meet&greet sarà una vera impresa, con tutto l'acido lattico che avremo in corpo.” Seiya e Yaten imprecano all'unisono: sono spesso agli antipodi, è vero, e sempre sulla stessa lunghezza d'onda, quando si tratta di lamentarsi per il troppo lavoro. “Ma, Seiya, c'è qualcosa che non va? È tutto il giorno che mi sembri distratto, e prima ti ho sentito borbottare.”

A quelle parole, è come se la vivacità ed il buon umore che avevano permeato l'atmosfera fino ad allora svanissero. Qualcosa di nettamente diverso, di più serio e forse più grave si insinua nel silenzio tra i tre e nella voce di Seiya. “Sono stanco,” mormora. “Voglio dire... Un'esibizione per l'inaugurazione di una boutique per snob, in un'area popolata da snob, coreografie, pubblicità per prodotti che non ci sogneremmo mai di usare, singoli sfornati come se fossero pasticcini, uno dopo l'altro, e in cui di rado ci è concesso mettere mano...”

Non è la prima volta che i Three Lights, idoli del momento a cui, in teoria, non dovrebbe mancare nulla, si trovano a discutere di questo. C'era stato un tempo, dopotutto, prima del tanto agognato contratto con una grossa casa discografica, in cui i Three Lights erano stati un gruppo indie rock che si esibiva nelle live house di Tokyo e dintorni, spostandosi su un malconcio furgoncino di seconda mano, comprato con quei risparmi che non erano serviti a pagare la sala prove e l'incisione del loro primo disco. Erano stati anni di sacrifici, trascorsi dividendosi tra prove, live che offrivano introiti minimi e l'orfanotrofio, dove non avevano mai smesso di dare una mano, eppure, erano stati anche anni felici, in cui sembrava che i sogni covati da quei tre ragazzi si sarebbero realizzati, un giorno, grazie ai loro sforzi. Avevano creduto, all'epoca, che l'amore per la musica sarebbe bastato, che sarebbe andato tutto bene perché avevano quello, dalla loro parte. Le circostanze che li avevano portati a firmare il contratto con la loro casa discografica attuale, però, furono ben lontane da quella visione utopistica. Per i fratelli Kou, l'ingresso ufficiale nello showbiz costituì, con ogni probabilità, il momento in cui persero l'innocente ottimismo che li aveva motivati fino a quel momento, piuttosto che il coronamento di un sogno.

“Seiya,” la voce di Taiki è ferma, una lama tagliente che spezza il silenzio. “Sai bene che non possiamo piantare tutto in asso: dovremmo pagare una penale, e poi ci sono i fondi all'orfanotrofio e il trattamento di Kakyuu che—”

“Lo so, lo so. Abbiamo delle responsabilità, ma è davvero questo l'unico modo? Che senso ha fare musica se non è la nostra musica? Sentite. Ho incontrato una persona, ieri—o meglio, ho incontrato di nuovo una persona.”

Yaten arriccia il naso con aria interrogativa. “La ragazza che ha trovato Chibi-Chibi? Vi conoscevate già?”

“È la stessa ragazza che aveva trovato il mio cercapersone.”

“Quella stramba che voleva rubarti il cercapersone? Sei matto?”

“Ti assicuro che è stato tutto un malinteso: non sa neppure chi siamo—Dico sul serio! E parlarle, ieri, è stato illuminante: è una ragazza così onesta e semplice, non si fa problemi a dire quel che le passa per la testa—”

“Questo l'avevo notato.”

“—e vive in maniera autentica, senza tradire se stessa.”

Le labbra di Taiki sono pallide, strette l'una all'altra in un atteggiamento di tensione, prima che lui dica, “Credo che tu stia idealizzando questa persona. Non dubito che sia una ragazza genuina, ma sbagli se pensi che possa esistere un essere umano senza segreti o zone d'ombra. Non sovrapporre a lei l'immagine della persona che vorresti che fosse: non sarebbe giusto nei suoi confronti, e tu, tu ti ritroveresti ad inseguire un miraggio.”

“So bene di cosa sto parlando, Taiki. Usagi mi ha ricordato perché ho iniziato a fare musica, che devo essere sincero con me stesso: voglio comporre la seconda canzone del singolo che presenteremo alla cerimonia di inaugurazione.”

“Seiya! Il pezzo è già in lavorazione!” Taiki, sbiancato, lo fissa a bocca aperta.

“Lo so, ma dovranno fermarsi. Ho intenzione di parlare al manager oggi stesso. Metto qualcosa sotto i denti e lo vado a cercare. Dovranno ascoltarmi, questa volta, altrimenti...”

“Altrimenti cosa, Seiya?” soffia Yaten. Yaten, che fino ad allora aveva studiato il fratello con aria guardinga, come se sentisse di trovarsi dinnanzi ad una bestia pronta a saltargli addosso. C'è un misto di timore e meraviglia nelle sue parole, adesso; un tocco di riverenza che non appartiene al suo carattere: forse sta cercando a tutti i costi di non infrangere quel equilibrio già incrinato con le proprie parole, o forse, spera esattamente il contrario.

Seiya non risponde. Non nota o, forse, decide di ignorare le preghiere nascoste nelle pause che articolano le parole dei suoi fratelli. Balza in piedi e, voltandosi un'ultima volta verso di loro, scuote la testa. Poi, sparisce nel corridoio semibuio.

“Taiki,” la voce di Yaten è appena percettibile, persino nel silenzio assoluto che è calato sala. A Taiki tornano in mente le notti di pioggia in cui Yaten piangeva e Seiya si obbligava a trattenere le lacrime, e lui lasciava che si accoccolassero nel suo letto, vegliandoli fino a quando non li coglieva il sonno; erano, quelli, i primi tempi dopo la morte dei loro genitori, le prime notti trascorse all'istituto. “Taiki, ascolta. Io... non credo che Seiya abbia torto. Ho deciso che lo seguirò, qualsiasi cosa decida di fare.”

Il cuore di Taiki si stringe. Fuori, ha ricominciato a piovere: un altro acquazzone fuori stagione, chissà. Non gli riesce di parlare; solo, pensa: non è così che dovevano andare le cose.
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Ore 16:34


Shingo Tsukino cammina spedito verso casa, tirandosi dietro le vecchia mountain bike verde che, un tempo, era appartenuta a sua sorella. Il pomeriggio è stato un alternarsi di piogge inaspettate e schiarimenti repentini: avrebbe dovuto ascoltare sua madre, quando, vedendolo uscire, gli aveva detto che non era il momento migliore per un giro in bicicletta, ma Shingo ha già tredici anni, e a dare corda a sua madre, lei potrebbe pensare che sia rimasto il bambino obbediente che le trotterellava dietro come un anatroccolo. La pioggia è ancora lieve ma dura già da un po', e Shingo sente che la stoffa della T-shirt aderisce sempre di più alle sue spalle, come una seconda pelle: spera davvero di non buscarsi un raffreddore, o addio vacanze! Inoltre, Ikuko lo rimprovererebbe per tutta la durata della sua eventuale convalescenza di non averla ascoltata. Shingo vuole bene a sua madre, ciò non toglie, però, che lei sia in grado di riuscire veramente insopportabile, quando si ci mette, in particolar modo quando è Usagi ad attirarne le ire: non lo confesserebbe neppure sotto tortura, ma ci sono volte in cui Shingo prova un'intensa tristezza, davanti a quelle scene. Lui, che da bravo fratello minore, ha fatto del prendere in giro Usagi quasi un passatempo, la reputa vittima di una cattiveria immeritata. Forse, si tratta semplicemente di cose di donne che lui non è in grado di capire, si dice, quando quei pensieri lo assalgono. Shingo ama la sua famiglia, perciò non vuole odiare nessuna di quelle persone tanto preziose.

Un lampo illumina il cielo: la pioggia si fa più fitta. Shingo corre, il cancello di casa è davanti a lui. Ce la può fare. Evita per miracolo di scivolare sul sentiero lastricato del cortile e spinge la bici contro il muro esterno della casa, affinché la tettoia la ripari dalla pioggia. Mentre cerca di aprire la porta, le dita, viscide d'acqua, scivolano più volte intorno al pomello della porta e all'impugnatura della chiave: il processo dura, in realtà, meno di un minuto, ma il rumore crescente della pioggia sembra una bomba ad orologeria che dilata il tempo e lo carica di tensione.

“Sono a casa,” grida al vestibolo vuoto. Come uno spirito richiamato da un'invocazione, Ikuko si materializza all'ingresso quasi all'istante.

“Shingo, santo cielo, guardati. Ti avevo detto che non era il caso di uscire con questo tempo. Va' subito a cambiarti, prima che ti venga qualcosa.”

Shingo infila le pantofole con un sospiro seccato. “Certo che mi cambio, non c'è bisogno che me lo dica tu.”

“Quando hai finito, per favore, di' a tua sorella che mentre era in bagno ha chiamato un certo Seiya,” c'è una sottile esitazione nella pronuncia del nome: non è affatto familiare; Usagi, d'altronde, ha pochissime conoscenze di sesso maschile e, tra queste, l'unico con cui abbia mai mantenuto un contatto costante è il suo ragazzo, Mamoru Chiba.

Shingo si arrampica sulle scale con il sottofondo di Ikuko che borbotta, nessuno mi ascolta mai, in questa casa, nessuno: un giorno come gli altri, insomma. Decide che, per prima cosa, passerà per la stanza di sua sorella. È un processo familiare, una serie di azioni che si è ritrovato a compiere di frequente all'ora di pranzo o cena, perché magari Usagi è troppo presa dal manga che sta leggendo, o sta ascoltando la radio ad alto volume, ed ecco che, allora, Ikuko sbuffa e poi sorride a Shingo: per favore, la chiameresti tu?, tuttavia, questa volta si verifica un imprevisto. C'è qualcosa di insolito che attira l'attenzione di Shingo, distogliendolo dal solito percorso. È il momento in cui Shingo Tsukino, a soli tredici anni, segna per sempre il suo destino e, in parte, quello della sua famiglia. Lo fa inconsapevolmente, proprio come sua sorella, nonostante sia sempre stato quello sveglio tra loro, quello con più sale in zucca di lei.

Tutto accade nel giro di pochi minuti. L'inizio è semplice, ha l'aria di un'azione innocua: ecco, c'è una stanza che precede quella di Usagi; di solito, questa stanza è chiusa a chiave, vuota, perché riservata agli ospiti che talvolta si fermano a casa Tsukino. È trascorso più di un anno tra l'ultima volta che ciò si è verificato e la riapertura della stanza, appena una settimana fa. L'odore stantio di polvere e umidità persiste sotto il velo del deodorante per ambienti. È proprio questo odore che attira l'attenzione di Shingo, mentre attraversa il corridoio. D'istinto, rivolge il capo in direzione della camera degli ospiti e nota, senza alcuna sorpresa, che la porta è aperta: è molto probabile che il loro ospite, colto forse dalla fretta di allontanarsi, non l'abbia chiusa correttamente, poiché non è spalancata, ma sembra, piuttosto, che si sia riaperta poco a poco, rivelando appena uno spicchio dell'interno della stanza a chi si trova di passaggio nel corridoio. Un frammento di intimità che si svela da sé a chiunque voglia coglierlo.

Le uniche volte in cui, da bambino, Shingo ha cercato di impicciarsi degli affari altrui, il suo bersaglio era stato Usagi: per prenderla in giro o ricattarla (se non fai quello che voglio, lo dico a tutti!) e perché lei era sua sorella maggiore; si era trattato di un'eccezione, crudele, e forse il frutto di un'educazione che gli ha inculcato diritti che non gli appartengono davvero, ma comunque un'eccezione in un ragazzino che, di norma, non nutre alcun interesse per le vite private degli altri; che, in qualsiasi altro momento, si sarebbe voltato, per raggiungere la camera accanto senza pensarci due volte. Il punto è proprio questo: se Shingo fosse passato di lì dieci minuti prima o dieci minuti dopo, molte cose sarebbero state diverse. Il fulcro intorno a cui ruota quel che accade dopo è, in fin dei conti, un oggetto banalissimo, qualcosa che, in un contesto differente, per una persona differente, non avrebbe significato nulla: un pacco.

Gli occhi di Shingo sono catturati da quello che non pare essere altro che un pacco postale, identico in tutto e per tutto a quelli che Usagi ha ricevuto nei mesi antecedenti, dal suo ragazzo in America, e che Shingo stesso ha prelevato dalle mani del postino quando sua sorella era fuori o ancora a letto. Riconosce l'imballaggio, i francobolli e può decifrare il nome del destinatario dalla sua posizione ad un passo dall'ingresso. È un oggetto familiare, che si presenta così come Shingo lo ha sempre visto. Quel che è strano, invece, è la sua collocazione. Perché un pacco indirizzato a sua sorella si trova nella stanza degli ospiti, si chiede con un moto di rabbia. Sente, a pelle, che qualcosa non torna, che si sta verificando qualcosa di profondamente sbagliato, e che deve fare qualcosa a riguardo; allora, varca l'uscio senza alcuna esitazione e afferra lo scatolo imballato: è più grande di un libro e, a caratteri più piccoli, riporta il mittente, Mamoru Chiba, Stati Uniti d'America.

“Che cosa ci fai, qui?”

Shingo sbianca. Ho perso troppo tempo, si ammonisce. Demando lo afferra per un braccio e tira con violenza, costringendolo a girarsi verso di lui. Il pacco cade a terra con un tonfo secco. Demando, Shingo pensa, ha una faccia che non ha mai mostrato alla famiglia Tsukino. Il vero Demando è più vicino ad un mostro delle favole, che ad un essere umano. Fa paura, è spaventoso, ma questo significa che, a maggior ragione, non può permettergli di vincere.

“Lasciami andare subito, o mi metto a gridare!”

“No, non lo farai.”

“Dirò a tutti che stai nascondendo qualcosa: non so cosa tu abbia in mente di preciso, ma so bene che quel pacco è per mia sorella, razza di pervertito!”

Demando sospira. La sua postura si ammorbidisce, pare ritirarsi su se stesso come una molla—come una serpe che si prepara all'attacco—e poi una mano scatta in avanti, le dita avvolgono il collo di Shingo. Premono, premono. Senza pietà. Questo non può essere un essere umano, Shingo dice a se stesso. Questa non può essere la realtà. Vorrebbe disperatamente essere in grado di crederlo.

“Ascoltami bene,” la parole di Demando sono pugnali, freddi e crudeli come la sua presa. “È vero, questo pacco è arrivato stamani, dritto dritto dall'America, solo per Usagi, ma non è opportuno che lo riceva. Il perché è qualcosa che non ti riguarda. Hai avuto la sfortuna di vedere qualcosa che non avresti dovuto, Shingo-kun, mi dispiace. Ora non hai altra scelta che tenerla per te e diventare mio complice... Forse non lo sai, ma mi basterebbe molto poco – una lamentela, le parole giuste – per privare Kenji-san del suo lavoro. E se questo accadesse, cosa ne sarebbe di voi? Mi pare che il mutuo per l'acquisto di questa casa non sia ancora estinto, e lui è la vostra unica fonte di sostentamento. Vuoi davvero gettare la tua famiglia in mezzo ad una strada per—che cosa, esattamente? Un pacco? Un regalino insignificante? No, vero?” Demando stringe la presa, continua a stringere finché Shingo non scuote la testa, spaurito ed angosciato. “Bene. Adesso ti lascerò andare. Mi raccomando: non una parola a nessuno, o lo saprò, stanne certo.”

Uno, due, tre. Tre lunghissimi secondi. Poi, Shingo può di nuovo respirare. L'aria gli brucia in gola e nel naso. Lo fa tossire con una veemenza che gli riempie gli occhi di lacrime.

“Faresti meglio ad andartene in fretta, ma ricorda, Shingo-kun: io voglio solo il bene di Usagi, quindi non pensare troppo male di me, okay?”

Shingo lo fissa con gli occhi spalancati dal terrore. Questo non è un essere umano, dicono. Corre via, incespicando, fino alla fine del corridoio, dov'è ubicata camera sua. Demando sente la porta che sbatte, si chiude, con un frastuono assordante. Sorride. Non ci saranno intoppi.

Può finalmente fare la prima mossa.

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