Il trillo del Diavolo

di PeaceS
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Il trillo del Diavolo ***
Capitolo 2: *** I. ***
Capitolo 3: *** II. ***
Capitolo 4: *** III. ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 6: *** V. ***
Capitolo 7: *** VI. ***
Capitolo 8: *** VII. ***
Capitolo 9: *** VIII. ***



Capitolo 1
*** Prologo - Il trillo del Diavolo ***


Il trillo del Diavolo

 

 

« Io non credo in Lucifero. »
Peccato. Perché lui crede in te.

 

C'era una melodia, nell'aria. Una musica così dolce e armoniosa da rapirle il cuore e lo sguardo – ora impegnato a fissare l'uomo al centro del parco innalzato di fronte a lei.
Le sue dita si muovevano leggiadre sul violino di cedro scuro e un sospiro le sfuggì dalle labbra: quello era esattamente il trecentosessantacinquesimo giorno di fila che si ritrovava in quel teatro dalle pareti d'oro massiccio e i tendaggi di un forte rosso porpora.
Trecentosessantacinque giorni in cui le poltrone allineate una dopo l'altra non avevano cambiato forma o erano state occupate da qualcuno che non fosse lei.
Trecentosessantacinque giorni in cui quell'uomo vestito di nero le suonava un'opera diversa ogni volta, ispirandosi a grandi violinisti Babbani.

Le uniche luci che illuminavano la sala provenivano dalle sue spalle – da una fonte che non era mai riuscita ad identificare – e quel volto era sempre rimasto celato nel buio: nascosto ai suoi occhi e lasciandola quasi brancolare nell'oscurità
« Sei mia » e con quelle parole la musica cambiò, diventando cupa e triste.
Lucy Weasley indietreggiò di un passo, intimorita e l'uomo sul palco rise – facendola tremare per quel suono acuto e quasi straziante.
Trecentosessantacinque giorni e come sempre l'opera cambiò e divenne macabra, folle, irosa, terrorizzandola fino a strapparle il respiro.
« Solo mia » e l'uomo aggiunse note a quelle originarie – modificandone la bellezza e rendendola quasi letale.
Trecentosessantacinque giorni e i suoi occhi neri come l'inferno vennero illuminati dal fuoco, mentre la terra tremava sotto i suoi piedi e le sue urla diventavano inudibili.
« Ora. Ora è scaduto il tempo e tu... e tu sarai irrimediabilmente mia.
Eternamente mia » un tono basso, graffiante – umano, ma parallelamente e mortalmente disumano.
Quella voce le accarezzava le membra come il miele la gola, rapendo ogni papilla gustativa per il suo sapore quasi abusivo e facendo accapponare la pelle per il troppo, per l'eccesso di stucchevolezza di cui era famoso.
Come l'eccesso di perfezione che traspariva da ogni singola parola. L'eccesso di assurdo, di mostruosità, che rappresentava anche la più piccola molecola dell'essere che le si poneva davanti.
Non aveva mai in vita sua sentito o visto niente di simile e in quel momento, come negli altri momenti che le era concesso di vederlo, le sembrava di ritrovarsi dinnanzi a qualcosa, qualcuno, di ultraterreno: non poteva addurre un termine diverso da quello o fornire altra spiegazione.
Lui non era né angelico né demoniaco.
In realtà non sapeva nemmeno se lui fosse reale o frutto della propria immaginazione: Lucy sapeva solo che ogni notte lui le suonava qualcosa che parlava di amore. Morte. Dramma. Pazzia.
L'Orlando Furioso terminò in un modo totalmente diverso e Lucy si svegliò di scatto prima di essere inghiottita dalla voragine che si era aperta ai suoi piedi: seduta, al centro del letto, urlò.
La camicia da notte le si era attaccata alla pelle tanto aveva sudato, ma si ritrovò ugualmente a tremare – con la testa tra le mani e i capelli che le coprivano il volto, pallido.
Trecentosessantacinque giorni che sognava, ininterrottamente. Appena chiudeva gli occhi la musica iniziava e quell'uomo cominciava a tormentarla, cercando di strapparle la lucidità.
Mai, mai in vita sua aveva sofferto di insonnia o aveva avuto sogni così molesti: era un anno oramai che non godeva di una dormita ristoratrice e le giornate stavano diventando sempre più pesanti.
« Ennesimo incubo? »
Qualcuno si mosse al suo fianco e il fruscio delle lenzuola la fece sobbalzare appena – con una mano sul cuore galoppante.
Lucy si spostò i capelli madidi di sudore dagli occhi azzurri cerchiati di nero e annuì, esausta. Scalcio le coperte e rabbrividì quando toccò con i piedi nudi il parquet di legno, ora gelido.
« Come se fosse una novità » sbottò acida, alzandosi di scatto e ignorando il sospiro alle sue spalle.
Si diresse verso la finestra spalancata e Jackie girò il capo verso di lei – sbadigliando rumorosamente e scompigliandosi i capelli castani.
« Che ore sono? » borbottò, stropicciandosi gli occhi e cercando di riprendere lucidità.
« Le cinque »
Voglio morire. E anche in modo molto doloroso. E voleva anche dormire.
Ma da quando viveva con Lucy era impossibile anche fare quello.
Voglio morire, ripeté mentalmente – rilasciando un gemito esasperato e cercando di soffocarsi con il cuscino sulla faccia.
« Camomilla? » borbottò, stiracchiandosi e guardandola issarsi sulla panca sotto la finestra e sporgersi con il viso fuori – all'aria fresca. Come se non riuscisse a respirare.
« E cannetta » rispose la rossa, socchiudendo lo sguardo e tenendosi in bilico con le braccia ancorate al marmo.
Jackie sospirò. Il rapporto tra lei e Lucy era pressoché indescrivibile.
Si amavano. Si odiavano. Facevano sesso con la stessa frequenza con cui si lanciavano oggetti e alternavano i baci con le botte. L'alcool con l'erba. La lucidità con le lacrime.
Si amavano. Si odiavano.
« Sei ancora qui? » sbraitò Lucy, trafiggendolo con un occhiata gelida e beccandosi in risposta un « sto andando. Sto andando, cazzo! » con tanto di piedini sbattuti per terra.
Si amavano. Si odiavano. Senza domande e risposte. Con tutto e niente.
Lucy afferrò il pacchetto di sigarette Babbane sul ripiano di marmo della finestra e si sedette sulla panca – accendendosene una.
Erano passati due anni da quando Hogwarts era finita e ognuno di loro aveva preso la propria strada: chi, più o meno, aveva raggiunto i propri obiettivi – o realizzato i suoi sogni – e di Voldemort nessuna traccia.
Due anni e tre attacchi in croce, sentiti appena, come se volesse solo ricordare loro che lui esisteva. Stava nascosto – tranquillo, ma c'era e pesava sulle loro teste come una pesantissima spada di Damocle.
Aspirò dal filtro e ricacciò indietro il fumo, creando una piccola nuvola dinnanzi a sé prima che si dissolvesse.
Mia
Lucy subì un violento capogiro e si aggrappò alla mensola di marmo, rovesciando la pupilla e annaspando pericolosamente.
Tic tac. Lo senti?
È il tempo, sta scorrendo. E mi sta portando da te” respirò quella voce nell'aria – strappandole un singhiozzo.
Era impossibile. Era la stessa voce del sogno, ma lei non stava dormendo, ne era sicura; aveva gli occhi spalancati, il cuore in tumulto e il respiro bloccato in gola – ma non stava dormendo.
« No. No! » strillò, portandosi le mani alla testa esasperatamente.
“Dormi, amor mio” soffiò ancora quella voce infernale – celestiale – mentre lei sentiva la testa vorticare sempre di più.
« No... » gemette la rossa, sentendo qualcosa di bagnato rigarle le guance.
Si toccò lo zigomo e socchiuse gli occhi. Stava piangendo. Ed era sveglia.
E lui le stava parlando.
Dormi” bisbigliò ancora e lei sentì le forze venirle meno sempre di più.
Era terribilmente e nauseamente sveglia. E lui era lì – lo sentiva, lo percepiva.
Urlò ancora e prima che cadesse all'indietro, perdendo i sensi, sentì il suono di cocci infranti e due braccia stringerla, impedendole l'impatto con il suolo.

 

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Capitolo 2
*** I. ***


I.

 

 

 

 

« Non è stato uno svenimento. »
Joanne Smith chiuse con un clic la sua borsa di pelle nera, lasciando il fonendoscopio al collo e sedendosi con un sospiro pesante sullo sgabello posto accanto l'isolotto d'acciaio nella cucina moderna di Lucy.
Era stata buttata giù dal letto alle cinque di mattina, le cinque, e si era preoccupata non poco quando aveva visto il pallore di Lucy e lo stato comatoso in cui era stata riversa per più di un'ora.
La guardò, accigliandosi.
« Ma certo che lo è stato. Ho avuto un capogiro e sono svenuta, tutto qua; sarà un semplice calo di zuccheri. » mormorò la ragazza dai capelli rossi, accettando di buon grado la seconda camomilla che le stava porgendo Jackie. Evitò il suo sguardo, concentrandosi sul liquido ambrato nel tazzone di ceramica tra le sue dita.
« La gente non resta svenuta per più di un'ora, Lucy, tranne se non ha subito danni celebrali. E tu non sei nemmeno caduta! » s'infervorò Joe, fulminandola con gli occhi neri e chiedendosi cosa avesse nel cervello.
Certo che non era svenuta. Lei esercitava la professione di medimaga da quasi due anni e sapeva riconoscere i sintomi di uno svenimento, punto.
« Mi dici perché l'hai chiamata? » sbottò la Weasley verso il fidanzato – trattenendosi dallo bestemmiare in Turco e soffiando sulla bevanda bollente.
Jackie roteò gli occhi, massaggiandosi le tempie con una smorfia sulla bocca; con mani tremanti si accese la sua tanto sospirata canna, tirando così forte dal filtro da soffocarsi quasi con il fumo.
« Perché questo tossico di merda è quasi morto d'infarto quando ti ha vista in quelle condizioni, cherie » cinguettò Dalton, che di stare tra le palle non smetteva mai.
La barba incolta sul viso, gli occhi sempre più chiari – la pelle più scura, il corpo sempre più possente. I lineamenti ora duri, più vicini a quelli di un uomo, fecero attorcigliare le viscere a Joe. Diventava sempre più poco suo e, quasi ironicamente, visceralmente e indissolubilmente suo.
Più lei lo allontanava – impaurita – più lui si avvicinava. Più le donne lo fissavano, lo apprezzavano, lo adoravano, più Joe innalzava un muro tra di loro e lui cercava di scavalcarlo – testardo.
« Almeno lei è un dottore... tu chi cazzo sei? La sua mascotte? » sibilò Lucy, incattivita, strappando un sorrisetto strafottente a Zabini. Questo fece spallucce ridacchiando, angelico.
« Questo coso » e qui indicò Jackie con il pollice, facendo fremere le narici « passa troppo tempo con Joe. Volevo solo controllare che fosse tutto apposto » se ne uscì, come se non avesse appena ammesso di pensare che la propria fidanzata lo tradisse con il suo, di fidanzato.
« Ma va all'inferno, Zabini! » sbottò Lucy – lasciando cadere la questione con uno sventolio di mano.
Va all'inferno, Zabini, aveva detto prima di rovesciare l'iride e annaspare pericolosamente.
Va all'inferno, Zabini, aveva detto prima di cadere nuovamente all'indietro – urlando con le mani portate alla testa. Di nuovo. Ancora.
Jackie l'afferrò prontamente, come un'ora prima, e guardò Joe con gli occhi intrisi di preoccupazione.
« C'è qualcosa che non va. C'è proprio qualcosa che non va e sono sicura al cento percento che lei ne conosce la causa. » bisbigliò Joe, aiutando Jackie a sdraiare Lucy su un fianco e fissandola con la fronte corrugata.
Cosa stava nascondendo con così tanta scrupolosità?
E, cosa più importante... perché lo stava nascondendo?

 

 

✞ ✞ ✞

 

Il Ministero della Magia Inglese era diventato – a detta dei funzionari più anziani e alcuni infiltrati che credevano il Ministro ed Harry Potter due stupidi – un vero e proprio “bordello”.
Tralasciando, anche se secondo il reliquos de populo non c'era proprio nulla da tralasciare, le modifiche all'edificio, il vero e proprio scandalo avveniva per il via vai incredibile delle persone.
Gli Auror reclutati da quasi tutto il mondo erano di un numero impressionante e le sezioni aumentate a vista d'occhio: se prima l'esercito non superava le cento persone, ora si parlava di cinquecento e passa Auror. Il Ministero era stato ingrandito e gli uffici moltiplicati. E il Ministro, del reliquos de populo, se ne strasbatteva le palle – così, detto in modo molto fine ed educato.
Comunque, quella mattina non tirava una buona aria – o almeno per il reliquos de populo – che ancora cercava cogliere falle tra i neuroni del nuovo Ministro.
Per esempio, Jhonatan Atwood era sempre stata una persona relativamente tranquilla e pacata e molto raramente aveva perso il controllo in ventisette anni di vita.
Incassava rifiuti, insulti e altre ridicolezze simili senza batter ciglio e quasi nulla riusciva – di solito – a scalfire la dura maschera di ferro che teneva posata sui lineamenti duri e impassibili del viso.
Di solito, quando capiva l'antifona o quando una missione era troppo difficile persino per una persona suadente come lui, lasciava semplicemente perdere con un'alzata di spalle e ritornava alla sua vita di sempre.
Di solito, non perdeva tempo dietro cose impossibili e ci rinunciava e basta – come se non ci avesse nemmeno provato.
« La mia proposta è più valida di tutte quelle merdate che lei, con tutto rispetto Signor Ministro, ha impilato maniacalmente una sopra l'altra » sibilò duro Jhonatan, mostrando un sorriso da iena e trattenendosi dallo sputare in faccia al caro Signor Ministro e andarsene con aria di trionfo.
Insomma, Atwood raramente perdeva il controllo – la rabbia era per gli sciocchi e lui certamente non lo era.
Ma...ma...
« A me, invece, caro Atwood, con tutto il rispetto, mi sono sembrate più sensate quelle merdate impilate lì che la sua proposta del cazzo » rispose Hermione Granger, versandosi del tè in una tazzina dipinta oro e argento e fissandolo con un sopracciglio scuro alzato oltre l'attaccatura dei capelli.
Ma...ma...
« E, sempre con tutto il rispetto, ora avrei cose più importanti da fare oltre che sentirti lamentare di una proposta rifiutata » continuò – ricambiando il sorriso e centellinando la bevanda con una calma snervante.
Ma Hermione Granger era capace di far perdere la pazienza anche ad un santo.
Ma porca di quella grandissima sozzona di Morgana! Quella maledetta della Granger era una spina nel fianco e se un giorno, il Lord Oscuro, gli avesse commissionato un omicidio nei suoi confronti... Jhonatan non ci avrebbe pensato su due volte: con la bacchetta alla mano si sarebbe catapultato al Ministero e avrebbe lasciato di lei solo un mucchietto di cenere ed ossa. Cenere e ossa che avrebbe portato a casa e conservato come trofeo.
« Mi sta gentilmente mandando a fare in culo, Signor Ministro? » domandò a denti stretti, corrucciando le sopracciglia grosse e nere e arricciando il naso aquilino.
« Oh, che perspicacia » cinguettò Hermione, congiungendo le mani sotto al mento e fissandolo con gli occhi bruni carichi di ironia.
Perché? Perché? Perché diavolo l'Oscuro Signore ci metteva tanto a compiere una strage?
E chi, chi aveva deciso che proprio lui doveva essere il burocratico della comitiva?
Erano o non erano un gruppo di famigerati assassini?
« Perfetto » sbraitò furioso, alzandosi in tutto il suo metro e novanta e cercando di non spezzarsi tutti i denti – uno dopo l'altro – per la rabbia.
Insomma, era una persona relativamente calma quando si trovava almeno a quaranta metri di distanza da Hermione Granger, il nuovo e stronzissimo e odiosissimo Ministro della Magia.
« Arrivederci e a mai più! » urlò, sbattendosi con forza la porta di mogano alle spalle e – fortunatamente, avrebbe detto – senza vedere il sorrisetto divertito che aveva increspato le labbra piene del nuovo e stronzissimo e odiosissimo Ministro della Magia.
Hermione finì di sorseggiare il suo tè alle rose, chiedendosi se davvero Lord Voldemort stesse sondando il terreno tramite quei soggetti idioti: credeva davvero che lei non sapesse del marchio nero impresso sul braccio di Atwood?
Lo sapeva mezza Londra che quell'idiota era passato al lato oscuro appena aveva saputo che le chiappe di Tu-sai-chi avevano assunto forma e vita umana.
« Ancora lui? »
Hermione alzò lo sguardo sull'uomo che aveva appena varcato la soglia, afferrando quelle merdate – come le aveva apostrofate gentilmente Atwood – e aprendosele sotto al naso con gli occhiali che le accarezzavano la punta del naso alla francese.
« Sì. Probabilmente è veramente così stupido da pensare che non mi sia accorta del suo tentativo di leggermi nel pensiero. O mi crede così sciocca da poter accettare le sue proposte di nuovi membri tra il consiglio degli anziani... senza anzianità » mormorò la riccia, scuotendo esasperata il capo e ignorando i riccioli ribelli che sfuggivano ripetutamente dalla crocchia severa che – quella mattina – aveva aggiustato già dieci volte.
« Vuole nuovi membri tra il consiglio degli anziani senza anziani? » borbottò Harry, soffermandosi sull'uscio della porta.
Sicuramente, quello era l'ufficio più inusuale che in passato, al Ministero, si era mai visto: se le pareti erano rimaste immutate, i colori rosso e oro – con i quadri di ragazzi dai capelli rossi, uomini in divisa e un altro con la testa bionda che quasi spiccava a contrasto con il resto – non lo era di certo.
La poltrona rosso carico, le sedie a forma di puff, il cestino pieno di carte...
« Vuole Mangiamorte in grado di prendere decisioni all'interno del Ministero della Magia. Peccato che Atwood abbia dimenticato che io sia sposata con un ottimo legiliments...e che in due anni, oltre a farci sesso, mi abbia anche impartito lezioni – molto utili devo dire » cinguettò Hermione, girando soddisfatta la pagina di uno che chiedeva addirittura l'abolizione della Gazzetta del Profeta.
Beh, non che fosse una cattiva idea...
« Fai sesso con Malfoy? » sbottò Harry James Potter, che a quarantanove anni suonati credeva ancora che la sua migliore amica – sposata oramai da due anni – non facesse sesso con il suo nemico secolare.
« No, giochiamo a scacchi » soffiò la Granger, ignorando il colorito giallognolo che aveva assunto il bambino sopravvissuto.
« Quì c'è gente che addirittura mi chiede la tua testa » ridacchiò frivola, quasi emozionata per l'incarico che era riuscita a guadagnarsi con una sola candidatura.
Sei ancora la strega migliore del secolo, mezzosangue, non ne sei fiera?”
Probabilmente Malfoy non l'aveva mai vista piangere in quel modo dall'emozione e non aveva nemmeno mai sentito così tanto dolore per uno scappellotto sulla nuca.
« Dov'è la novità? » domandò Harry, roteando gli occhi smeraldini e sedendosi sul puff rosso dietro la scrivania di mogano – proprio di fronte alla sua migliore amica, che lo stava ignorando alla bella e meglio.
Si accese la pipa di legno intarsiato che gli aveva regalato sua moglie un Natale prima ed Hermione lo fulminò con lo sguardo quando si accorse dell'odore sgradevole che stava appestando il suo ufficio.
« Aguamenti »
E benvenuta doccia mattutina! Harry Potter si ritrovò fradicio d'acqua dalla testa fino ai piedi: i jeans, la t-shirt bianca e il giubbotto di pelle nera cominciarono a gocciolare sul pavimento e lui fissò impassibile la donna seduta in un semplicissimo e sobrissimo tailleur color panna di fronte a lui.
« Sei impazzita!? » strillò, spettinandola con la forza dell'ugola.
Scrollò i capelli neri – ora striati di bianco ed Hermione rise, scuotendo il capo.
« No. Evita semplicemente di fumare quella roba nel mio ufficio! » ridacchiò, alzando gli occhi bruni al cielo.
Senza trucco, senza nulla che la rendesse diversa dall'undicenne che aveva conosciuto: solo le rughe d'espressione, qualche zampa di gallina ad invecchiarle il volto da eterna adolescente. Bella, con le gambe scoperte e le scarpe alte. Bella, con i riccioli ribelli che le coprivano il volto pallido – ma pur sempre stupendo.
« Albus è ancora in Romania. » lo informò, sospirando nel vederlo indurire la mascella e assottigliare lo sguardo smeraldino.
Si sedette, furioso e si scompigliò i capelli: a quarantanove anni suonati si sentiva un imbranato. Si sentiva poco padre, come quando si è alle prime armi e quel bambino tra le braccia di tua moglie è solo fonte di terrore.
Terrore di non essere abbastanza. Terrore di poterlo ferire. Terrore di non essere il padre che tu hai sempre desiderato per te.
« A fare cosa, maledizione! Vorrei sapere che cazzo fa ogni volta che parte e non si fa vedere o sentire per mesi e mesi! » ed Hermione insonorizzò la stanza prima che le sue urla si sentissero anche oltre oceano.
« È stato visto con ogni essere esistente sulla faccia della terra! Mannari, vampiri, demoni, fottuti alchimisti psicopatici e addirittura alcune Amazzoni! In che cazzo di guaio si è cacciato? » strillò ancora Potter, alzandosi con un tic nervoso e calciando la sedia dietro di sé.
La calciò con così tanta forza da romperla in mille pezzi – affannando e urlando parole senza senso.
Perché non parlava con lui? Perché Albus si era chiuso in quel maledetto guscio, escludendolo dalla sua vita?
« Sta cercando qualcosa, Harry. Le persone con cui ho parlato avevano paura... paura di dire cosa lui stava cercando – ma mi hanno detto che non sta stringendo amicizia con questi esseri così, per perdere tempo » disse la Granger, agitando la bacchetta verso la teiera e versando del té in una seconda tazza.
La spinse verso di lui e incrociò le dita sotto il mento.
« Tuo figlio sa qualcosa, Harry. Qualcosa che non vuole dirci, ma fondamentale » continuò il Ministro, guardandolo con gli occhi bruni determinati. Grandi. Belli. Battaglieri.
La sua leonessa... sempre pronta a combattere. Sempre pronta a sacrificarsi per gli altri.
Harry sospirò, distrutto e la donna – quando lui si accomodò sulla sedia magicamente aggiustata – gli accarezzò con dolcezza una mano, tranquillizzandolo.
« Albus non è uno stupido. Sai bene che è l'unico dei tuoi figli ad essere nato con un po' di sale in zucca e non credo che stia compiendo qualche sciocchezza. » bisbigliò, benevola e l'uomo non poté che concordare con lei.
Al non aveva né il temperamento impulsivo di James né la rabbia esplosiva di Lily: era un ragazzo molto coscienzioso e se stava facendo quello che stava facendo, oltre ad esserci un motivo valido, sicuramente non stava andando allo sbaraglio.
« Giù le mani, coccodé »
E Draco Malfoy fece la sua entrata trionfale, sbattendosi la porta di mogano alle spalle e trascinandosi appresso una cosetta minuscola – che scalciava a tutta forza.
« Oh, buongiorno anche a te, uccello della malora! » sbuffò Harry, allontanando la mano dalla Granger e afferrando di volata la bambina dalle mani del nemico secolare.
« Sciao, sio! » cinguettò quella, poggiando la manina sulla sua guancia e fissandolo con gli occhi grigi spalancati dalla gioia.
La stessa forma della mamma – grandi quasi da mettere paura – ma dello stesso colore del papà. Un grigio che confinava nell'azzurro, lo stesso azzurro che tanto tempo fa aveva impedito persino a Draco di riconoscere suo fratello.
I capelli erano ricci e bruni e le arrivavano sulle spalle piccole e fragili: Narcissa era magra come un chiodo, alta per la sua età – ma abbastanza lenta nel fare le cose. Harry cominciava a credere che avere Malfoy come padre cominciasse a mostrare i suoi frutti: la bambina aveva il gene della madre, certo, ma era stato completamente oscurato dal ruolo paterno di Malfoy.
« Ciao, principessa! Sai che diventi sempre più bella? » rise il Salvatore del Mondo magico, arruffandole la chioma e dandole un bacio veloce sulla guancia. La bambina rise – deliziata.
E certo. Solo gli stivali di quella bambina costavano quanto il suo vecchio stipendio da Auror, per non parlare della gonna di tulle bianca e la camicetta di seta verde. Sembrava proprio che a Malfoy piacesse spendere il suo patrimonio per lei – ed Hermione non metteva bocca, lasciandolo fare come se Narcissa fosse una bambola da acchitare e mettere in mostra e non una bambina di due anni.
« Che ti aspettavi? È pur sempre mia figlia. » e con un sogghigno Draco si passò le mani tra i crini biondi, causandogli un conato di vomito.
« Possibile che tu non riesca a prenderti cura di una bambina per due ore consecutive? » sbuffò Hermione, alzando gli occhi bruni al cielo e strappando un risolino ad Harry.
« Io? » sbraitò indignato Malfoy Senior, storcendo la bocca in una smorfia.
Lui. Pff, proprio a lui. Ma quella maledetta Mezzosangue sapeva quanto fosse faticoso mantenere quella piccola peste?
Non solo aveva per metà sangue Malfoy nelle vene – anche se non era suo, era pur sempre il suo stesso sangue – ma per metà c'era anche quello della Granger... ed era tutto dire!
Quella bambina era dispettosa, saccente, molesta, terribilmente dolce quando voleva e altrettanto fastidiosa se si metteva d'impegno e chissà perché – proprio non riusciva a capirlo – con lui quel caratterino si mostrava in tutta il suo splendore.
« Sì, proprio tu! » sbuffò la Granger, accarezzando il volto della sua bambina con tenerezza.
Insomma... era uscito da quell'ufficio nemmeno due ore prima e ora gliela riportava più schizzata di prima!
« Le ho fatto fare colazione e poi l'ho portata allo zoo... cos'altro dovevo fare quando si è messa ad urlare che voleva la sua mamma?
La gente cominciava a credere che fossi un pedofilo pervertito! » sbottò l'uomo ed Harry si trattenne dal dire che Malfoy, in passato, era stato un pedofilo pervertito. Anche se all'epoca aveva diciassette anni come la sua migliore amica.
« Sei un impedito. » sbottò la donna, firmando uno dei fascicoli aperti davanti al naso e afferrandone un altro.
Narcissa si era già accoccolata tra le braccia di Harry e Malfoy mise uno di quei bronci che, Hermione già sapeva, sarebbe sparito solo con del sesso riappacificatore.
Incrociò le braccia al petto e lo vide fissarla con gli occhi arrabbiati.
« Cosa? Cosa c'è? » urlò la Granger, spazientita ed Harry tossì – a disagio.
Okay, Malfoy era pur sempre il suo nemico secolare e lui godeva nel vedere la sua migliore amica trattarlo alla stregua di un Serpeverde rincoglionito dall'età... ma quando lui si arrabbiava, le loro liti diventavano furiose e a lui proprio non piaceva assistergli.
Tra moglie e marito, diceva sempre Ginny, mai mettere dito.
« C'è che non puoi trattarmi male solo perché tua figlia è insopportabile! »
E lì, Harry, seppe che stava per scoppiare una bomba; afferrò Narcissa di volata e uscì dall'ufficio prima di sentire lo schianto di una sedia che cadeva in mille pezzi contro un muro.
« Mia figlia non è insopportabile... ma a due anni è già più intelligente di te, visto che sa troppo bene come prenderti per il culo. Prima ti sfrutta e poi con due moine si fa portare da me! » sibilò la Granger – con il volto chiazzato di rosso.
Malfoy sogghignò, spaparanzandosi su un puff d'argento e ignorando i cocci di legno sulla sua testolina bionda.
« Calmati, leonessa. Mi serviva solo un modo per togliermi Potter dalle palle. » cinguettò melenso quella serpe, sbattendo civettuolo le ciglia e accendendosi una delle sue sigarette alla menta.
Hermione lo fulminò con lo sguardo.
« Sei un maiale schifoso. E spegni immediatamente quella cosa! » sbraitò il Ministro, portandosi le dita alle tempie e chiedendosi cosa avesse fatto di male nella vita per meritarsi un marito del genere.
Piagnucolò, esasperata.
« Non parlavo di sesso, anche se l'idea di farlo su quella scrivani...» iniziò Malfoy, venendo interrotto da un'occhiata assassina dalla sua dolcissima mogliettina.
« Scordatelo. » lo troncò in netto, strappandogli un sospiro.
Dolcissima un corno! Quella quando voleva era peggio della Mcgranitt.
E con quello aveva detto tutto.
« Comunque – continuò, allargando le narici – ho fatto quella cosa che mi avevi chiesto... » disse vago, guardandosi con nonchalance le unghia curate e suscitando nella moglie un odio profondo. Quasi come quello che li portava alle mani ai tempi di Hogwarts.
Stronzo con manie di grandezza, pensò con stizza, togliendosi gli occhiali dal naso e fissandolo in attesa.
« Non mi chiedi nulla? » domandò Draco, angelico, dopo un minuto di silenzio tombale.
La Granger subì un tic nervoso all'occhio destro.
« Dove vuoi che appenda il tuo pene, tesoro? Nella nostra camera da letto, nel salone o proprio qui, in ufficio? Esposto in una teca di vetro, come monito a tutti coloro che in futuro avranno coraggio di sfidarmi... » mormorò, stucchevole, godendo nel vedere suo marito sbiancare rapidamente.
Ora, Draco, aveva proprio il colorito di un cadavere.
« Ho parlato con Ross e stamattina non era molto felice. Sembra proprio che la Paciock sia entrata nelle grazie dell'Oscuro Signore e questo non va giù a chi si è fatto il culo solo per fare in modo che lui si fidasse. » iniziò, aspirando dal filtro dalla sigaretta nonostante la minaccia precedente.
Accavallò le gambe e annuì allo sguardo preoccupato che sua moglie gli rivolse.
« Dicono che abbia conoscenze sulla magia oscura che travalicano persino quella di alcuni prediletti dell'Oscuro e alcune delle stragi sporadiche che sono avvenute nell'ultimo anno siano proprio opera sua. » continuò l'ex Serpeverde, creando alcuni rivoli di fumo con le labbra sottili.
Hermione si passò una mano sulla faccia: com'era possibile? Come, come poteva qualcuno che aveva vissuto nella loro stessa casa e combattuto al loro fianco tradirli senza alcun rimorso o risentimento?
Come poteva Alice Paciock uccidere innocenti, quando due anni prima aveva ucciso per fare in modo che non accadesse?
« E ci sono novità anche su Potter. »
Hermione alzò gli occhi di scatto e li incatenò a quelli del marito, seri e gelidi. Le sue iridi erano due pozze ghiacciate e lei rabbrividì – come non le capitava da anni in sua presenza.
« Potter Junior è nella merda, Granger. Mi dici cosa cazzo si è cacciato in testa? » sibilò, ora duro.
Nonostante fosse figlio di chi da adolescente gli aveva reso la vita un inferno, Draco aveva stabilito un legame con i più piccoli dei Potter che aveva sorpreso persino lui; se considerava Lily un vero portento e quasi perfetta per suo figlio, Albus per lui era diventato un cucciolo da difendere.
Piccolo e mingherlino com'era, con gli occhioni da cucciolo e la sbadataggine che era tutta di Harry undicenne, aveva risvegliato in lui un lato paterno che – con l'autonomia e l'indipendenza di Scorpius – aveva quasi dimenticato.
« Di cosa stai parlando? » domandò Hermione, che tutto d'un tratto sembrava invecchiata di dieci anni.
Draco sospirò, stanco.
« Sta stringendo amicizia con persone che non sono proprio raccomandabili, Hermione. Una notte si ritrova a dormire con i demoni e il giorno dopo pranza con un druido.
Si trova tra gli esperimenti degli alchimisti e intento a cercare di catturare Marid e Jinn come se ne valesse la sua vita.
Mi hanno persino detto che nelle prime ore del mattino, dalle foreste della Romania sembra che sia passato al Venezuela, per chiedere di incontrare i Coronado – la famiglia di vampiri che detiene il potere in tutto il Sud-America. » mormorò, spegnendo con stizza la sigaretta nella tazza dove minuti prima aveva bevuto Harry.
Stava cercando informazioni, dopo quelle parole Hermione ne aveva la conferma. Le persone con cui era venuto a contatto, non avevano meno di duecento e passa anni ed esperienze e conoscenze secolari alle spalle.
« Non è solo, vero? » domandò la donna, poggiando il mento sulle mani congiunte e cominciando a vedere chiaro.
Draco scosse il capo.
« No, certo che no. Ogni tanto, quando si crede solo e con una rarità impressionante, parla con una donna. Il mio informatore non è mai riuscito a vederla in faccia, dice che è sempre coperta da un mantello nero e spesso – anche se sono nei pressi del deserto e all'ombra ci sono quaranta gradi. » disse Malfoy, suscitandole uno strano vuoto allo stomaco.
Perché le cose si facevano sempre più difficili? E perché nel mezzo ci si trovava proprio Albus, che a malapena aveva partecipato alla battaglia distruttrice di due anni prima?
I misteri s'infittivano e diventava tutto sempre più complicato. La guerra li aveva cambiati così radicalmente e si erano quasi messi gli uni contro gli altri.
Merlino, in che guaio si erano cacciati?
« È a Londra! » e Roxanne Weasley entrò come un tornando, tallonata da Harry e la sua segretaria. Una segretaria non molto efficiente, visto che lì dentro entravano tutti quanti senza alcun permesso.
« Non sono riuscita a fermarla, signor Ministro, mi dispiace! Ho cercato di dirle che stamattina non riceveva visite e che il signor Potter e il signor Malfoy erano un'eccezione, ma non ha voluto ascoltarmi! Mi ha scavalcata ed è entrata... » piagnucolò Jassie, rischiando di far colare il trucco nero dagli occhi.
Eppure ai colloqui sembrava così professionale e addetta al lavoro che voleva offrirle – rivelandosi alla fine troppo debole per respingere, oltre i visitatori molesti, anche l'intera famiglia Weasley.
« Non importa, Jassie, torna alla tua scrivania. » sbuffò Hermione, vedendola annuire e portarsi una ciocca di capelli biondo grano dietro l'orecchio.
« Sì, signora. » mormorò, dileguandosi nella sua camicia bianca e nei suoi pantaloni neri e classici.
Hermione fulminò Roxanne con un occhiata.
« Dammi un buon motivo per cui ti sei catapultata qui, Roxie o giuro che avrai uno di quei richiami che ti scorderai di andare in missione per i prossimi tre mesi. » sibilò, stizzita.
Non voleva comportarsi in quel modo, ma doveva. I ragazzi dovevano capire che sì, lei era pur sempre della famiglia, ma aveva un ruolo e come tale dovevano rispettarlo.
« Lui è a Londra. » annaspò Roxanne, pallida sotto l'incarnato color moka.
Lui è a Londra. Hermione la guardò – sorpresa.
« Ne sei sicura? »
Come poteva non esserlo? Era da quando se n'era andato che cercava informazioni su di lui e dopo mesi che sembrava essere diventato invisibile, aveva cominciato a far parlare di sé per la scia di sangue che si lasciava alle spalle.
Franck. Il suo piccolo e adorabile Franck.
Era lì, a Londra, magari a pochi passi da lei e Roxanne avrebbe mosso mari e monti per ritrovarsi faccia a faccia con lui.
« Rox... Franck non è quello di una volta e io non posso mandarti nella Tana del lupo come nulla fosse e poi c'è una questione molto importante che non credo tu possa dimenticare. » la riprese Hermione, afferrando Narcissa per le braccia e issandosela sulle gambe.
« Quale sarebbe, di grazia? » disse tra i denti, con la divisa d'Auror quasi stropicciata per la furia con cui l'aveva infilata.
Era lunedì ed era il suo giorno libero, ma appena le era arrivata quella telefonata... “lui è quì”, non aveva potuto fare altro che lasciare Aaron dormire nel letto e correre lì, dall'unica persona che poteva fornirle i mezzi necessari per raggiungerlo.
« Aaron. » rispose la Granger e Roxanne sbatté con violenza le mani sulla sua scrivania, facendo sobbalzare Narcissa e arrivando ad un solo metro dal suo viso.
« Me ne strabatto le palle di Aaron, Hermione. Può fare quello che cazzo gli pare, non mi riguarda. Ho solo bisogno di questa maledetta missione. » affannava, spezzettando le frasi e guardandola con gli occhi iniettati di sangue.
Aveva bisogno di ritrovarsi faccia e faccia con lui, quella era la verità. Aveva bisogno di constatare ancora una volta che mostro fosse diventato – come l'amore fosse sparito una volta morta l'anima.
« Non posso, Roxanne. Sei troppo coinvolta e lo sai bene. » Hermione fissò la nipote con sguardo deciso, ma sentiva le mani tremare sui fianchi della sua bambina, tranquillamente rannicchiata sul suo grembo.
« Bene, signor Ministro, allora mi scusi il disturbo! » sogghignò Roxanne, ironica, simulando un mezzo inchino e scuotendo i lunghi capelli bruni.
Uscì a passo di carica, nel silenzio più totale ed Hermione guardò Harry con un moto di comprensione.
« Farà da sola, ne sono sicura. Parla con Aaron e pregalo di starle alle calcagna... quella ragazza ha la testa così dura e si caccerà in un guaio più grosso di lei.
Franck non è più lo stesso e non esiterà a farle del male appena se la ritroverà davanti. » sospirò verso il suo migliore amico, massaggiandosi le tempie e chiedendosi cosa avesse fatto di male nella vita per meritare tutto ciò.
Harry le accarezzò con dolcezza il capo e sorrise, incoraggiante. « Lui le vuole davvero bene, Hermione. Sai che Aaron farebbe di tutto per proteggerla e sono sicuro che le impedirà di fare qualche sciocchezza » bisbigliò, annuendo alle sue stesse parole.
Fortunatamente, Aaron Krueger faceva parte dei cacciatori, l'ultima categoria aggiunta da Hermione. Donne e uomini venivano addestrati unicamente per uccidere, bloccare e combattere vampiri e lupi mannari e naturalmente, Roxanne si era allenata notte e giorno per entrarci.
Lì aveva conosciuto Aaron, ventinove anni e un immensa gioia di vivere. Era stato amore a prima vista da parte di lui... e un ottimo rimpiazzo da parte di lei – che vedeva in lui un passato che non riusciva a dimenticare.
Harry uscì dall'ufficio del Ministro, lasciando moglie e marito da soli e si affrettò ad entrare nell'ascensore che lo avrebbe condotto al quinto piano, dove si trovava la sezione di Aaron.
Era incredibile come quel ragazzo riuscisse ad ignorare i consigli delle persone e badare solamente al bene di Roxanne. Lui la amava in un modo dolce, gentile – che a lei ricordava il piccolo Franck.
« Pà. »
James gli sputò mezza ciambella al cioccolato in faccia quando lo salutò, entrando in ascensore con la divisa perfettamente ordinata e i capelli castani ritti in testa. Come sempre.
« Grazie per avermi lavato la faccia. Tua madre non ti dice sempre di non parlare con la bocca piena?
Non per maleducazione, caro James, ma per fare in modo che il tuo interlocutore non si ritrovi il cibo da te masticato spiaccicato sulla fronte! » sbraitò Harry, passandosi la manica del giubotto sulla faccia e guardandolo con aria schifata.
James sogghignò.
« Sfusa. » borbottò ancora, il cibo metà tra le gengive e l'altra metà ancora sulla faccia di suo padre.
Potter Senior alzò le mani al cielo, chiedendosi tra sé e sé cosa avesse fatto di male per meritarsi un figlio del genere.
« Mi chiedo tu da chi abbia preso. » sbottò, guardandolo di traverso attraverso gli occhiali rotondi.
James lo indicò con il mento, ostentando quel ghigno irrisorio sulla bocca sottile e suscitandogli l'orticaria.
Tse. Altro che lui. James era uguale al suo omonimo ed Harry cominciava a sentirsi come Piton.
« Ma stamattina ti sei pettinato i capelli? Sembra che tu abbia messo le dita nella presa della corrente! »
L'ascensore si aprì e James sorseggiò tranquillamente il suo caffè al caramello, sorridendo pacioso e seguendo il padre lungo il corridoio di marmo.
« Io... ma a quanto sembra nemmeno tu ti sei guardato allo specchio, prima di uscire. » ridacchiò il ragazzo, beandosi dell'acidità che procurava a suo padre di prima mattina.
« Sparisci, mentecatto. » sibilò Harry, spalancando la Sala meeting dei cacciatori e alzando gli occhi al cielo nel ritrovarsi più di duecento occhi puntati addosso.
« E voi così vi allenate? » borbottò, portando le mani ai fianchi e guardando con occhio critico quella banda di scansafatiche.
Chi se ne stava spaparanzato sui divanetti accatastati ad ogni angolo della Sala, chi fumava sul tavolo di cedro lungo parecchi metri, chi si rollava le canne sotto le finestre – dopo lunghe battaglie da parte di Hermione, ora vere – e chi sul palco innalzato proprio al centro della stanza sfogliava distrattamente riviste scandalistiche o porno cinesi.
« Oh, salve signor Potter! » Laurie Sheeley scattò sull'attenti, scuotendo la lunga chioma di capelli neri e guardandolo con gli occhi scintillanti e la mano sulla fronte a mo' di saluto militare.
« Ciao, Laurie... » ricambiò Harry, grattandosi imbarazzato la nuca e cercando di non guardarla in viso.
Laurie Sheeley. Laurie Sheeley era diventata la spina nel fianco di Ginny Weasley quando con la magia si era rinchiusa con suo marito in uno sgabuzzino e aveva cercato di violentarlo.
Oh sì, Laurie era cinquantasette chili di solo culo. Rigorosamente afroamericana, con la bocca carnosa e gli occhi straordinariamente verde foglia, era diventata la donna più odiata dalle donne di casa Potter\Weasley.
« Cercavo Aaron. » mise immediatamente in chiaro Harry, guardando tutto interessato il pavimento.
Laurie assunse un espressione delusa. « Oh. » disse solamente, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi – che fino a poco tempo prima aveva tenuto strette dietro la schiena per accentuare la scollatura profonda.
Harry arrossì ancora.
« Salve, signor Potter! » Aaron Krueger venne illuminato da una luce angelica ed Harry si appuntò mentalmente di ricordarsi di baciarlo sulla fronte appena fossero stati soli.
Salvezza mia!
« Proprio te cercavo, cucciolo! »
Alto un metro e ottanta per settantacinque chili, era stato soprannominato dalla sezione dei cacciatori proprio “cucciolo” per gli occhioni neri che ammansivano anche il più cattivo dei vampiri e la dolcezza che usava con chiunque – anche con il re dei stronzi.
« Ne sono felice. » cinguettò quello, sorridendogli pienamente e strappandogli un sospiro d'angoscia.
Non lo sarebbe stato ancora a lungo. Aaron sapeva di vivere nell'ombra di Franck e non faceva nulla per uscirne.
« Mi dispiace, Aaron. » mormorò a voce bassa, facendo in modo che solamente lui potesse sentirlo.
Krueger sentì il cuore venirgli meno e capì immediatamente cosa intendesse dirgli il signor Potter.
« È tornato... » bisbigliò ed Harry annuì, dispiaciuto.
Era tornato. Lui era tornato.
E il cuore gli si fermò definitivamente nel petto.

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Capitolo 3
*** II. ***


II.

 

 

 

Il Quartier Generale degli Auror, quel quattro ottobre, era come sempre gremito di persone; chi beveva caffè sperando in una botta di vita, chi scriveva qualcosa freneticamente per le ultime relazioni da consegnare al capo – chi ciondolava senza fare un beato cazzo e chi, invece, mangiava tutto pacioso nel suo angolino. E in quell'angolino c'era proprio Aaron Kruger, con la bocca sporca di cioccolato e l'espressione orgasmica di chi si sta godendo la propria colazione.
Munito di caffè bollente al caramello e una ciambella danas, si guardava attorno come se quel gran trambusto non lo scalfisse nemmeno di striscio; sorseggiò dal bicchiere di polistirolo e salutò con un sorrisetto genuino un suo compagno cacciatore.
Ah, pensò beato. Cosa c'era di meglio, dopo una notte di turno, di una bella colazione come quella? Si sentiva nella pace di Dio, nonostante fossero le sette di mattina e lui ancora dovesse chiudere occhio.
Cosa poteva esserci di megl...
« Io lo farò. »
Si strozzò con una scaglia di cioccolato e sputacchiò il caffè che aveva sorseggiato un attimo prima. Con gli occhi rossi e lucidi per lo sforzo e il viso chiazzato, fissò Roxanne Weasley chiedendosi perché diavolo comparisse alle spalle delle persone in quel modo. Dicendo quelle parole, poi!
« E tu sei venuta fin qui solo per dirmi questo? Non potevi aspettare che tornassi a casa? » sibilò Aaron, riprendendosi dallo shock e arricciando le labbra ancora sporche.
Rox alzò gli occhi al cielo.
« Ti sei fatto assegnare tutti i turni destinati agli altri cacciatori – stai persino facendo favori a tizi con cui non hai mai parlato pur di non tornare a casa, tesoro! » sbottò con le mani sui fianchi, scuotendo i suoi bellissimi riccioli bruni e fissandolo sul piede di guerra.
Aaron arrossì.
Era vero. Aveva così paura di affrontare quel discorso che aveva fatto di tutto pur di non tornare a casa – adducendo come scusa il lavoro.
« Cosa vuoi che ti dica, Roxie? Sei troppo testarda perché io ti faccia cambiare idea. Non posso lottare contro il tuo passato... devi farlo tu; mi sento solo messo da parte per un fantasma, perché solo l'ombra è rimasta del Franck che conosci tu e non mi va giù.
Perché prodigarsi tanto per il passato, quando hai il presente e il futuro a portata di mano? » mormorò Aaron, triste – strappandogli uno spasmo al cuore.
Era così uguale a lui. Roxanne a volte si sorprendeva della somiglianza tra i due e forse era proprio quello l'unico motivo che la teneva legata ad Aaron. Non era Franck ad essere un'ombra, ma Aaron. Era la sua ombra. L'ombra di quel passato che continuava a perseguitarla, crudele.
« Non voglio che tu mi ostacoli. » bisbigliò la ragazza, lisciandosi la maglia nera che le accarezzava il seno piccolo e i fianchi stretti.
Lui strinse gli occhi, ferito.
« Sai che non lo farò... »
Si alzò, buttando la ciambella e il caffè nel cestino più vicino. Oramai la fame gli era passata e cominciava ad essere stanco per tutte le ore lavorative che aveva accumulato in quei giorni.
« Non voglio che ti intrometta! » questa volta Roxanne urlò, afferrandolo per un braccio e costringendolo a guardarla negli occhi.
Era più alto di lei e in quel momento la guardò in modo indecifrabile, facendola traballare sulle sue stesse gambe. Mai, mai Aaron l'aveva guardata in quel modo, nemmeno nei loro peggior litigi.
Andiamo, Rox, ti chiedo solo un uscita!”
Lei così chiusa, triste, arrabbiata con la vita. Lei – con la bocca piena di veleno e il sesso facile. Solo sesso...finché non aveva trovato lui.
Non ti chiedo niente, solo un caffè. Forse che ne sai, ti innamori!” aveva detto quel giorno, con la pioggia che gli bagnava i capelli e gli occhi sorridenti.
Non si era innamorata, no.
Lui era così dolce, pacato, sensibile, quasi perfetto. Lui – con gli occhi pieni di speranze che lei non conosceva. Lui, che si era permesso di prenderla per mano quando erano stati insieme la prima volta.
Mi sa che hanno sbagliato a portarci il caffè”
Perché?”
Hanno dato a me quello con il filtro d'amore invece di darlo a te”
Roxanne si staccò di scatto, come se si fosse scottata e lui fissò il punto in cui l'aveva stretto con prepotenza. Non che fosse sorpreso da quell'attacco d'ira: sapeva che lei aveva l'incazzatura facile e che l'unico modo che conosceva per smaltirla era la violenza.
Quello che lo faceva star male era il motivo di quella violenza. Lei era così determinata a voler ritrovare Franck, da essere capace di lasciarlo lì – su due piedi, rischiando il licenziamento, la vita e pure l'anima se quel succhiasangue avesse affondato i denti in quel collo sottile e delicato.
« Vado a dormire a casa dei miei. Ieri sera mi hanno chiamato e rimproverato per la mia totale assenza in questi ultimi mesi...e allora vado a passare un po' di tempo con loro. C'è anche Ania a casa, approfitto per stare con lei.
« Ciao, Rox. » bisbigliò, regalandole un'ultima occhiata delusa e dandole le spalle.
La domenica prima era passato dai suoi genitori e Roxanne sapeva bene che quando c'era Ania con i bambini, non c'era nemmeno posto per mangiare – figurarsi dormire. Lo aveva ferito. Lo aveva ferito così tanto da allontanarlo come non era mai successo in tutto quel tempo che erano stati assieme.
« Povera, povera cherie... » cinguettò una voce alle sue spalle, inducendola ad alzare gli occhi al cielo per l'irritazione cutanea ed istantanea che le portava anche solo quel suono.
Quante volte ti ho detto di stare zitto, Louis? La tua voce mi provoca allergia! » sibilò cattiva, rovesciando il capo verso il suo caro cuginetto francese.
Louise rise, divertito.
Sarà perché aveva vissuto in Francia nei suoi diciassette anni di vita e aveva fatto visita ai suoi cugini poco e niente o sarà che i suoi amici e amiche erano bambolotti dal temperamento poco impulsivo, ma la sua famiglia era un vero e proprio spasso!
Amava osservare le varie reazioni di quei cugini così diversi tra loro... ma così uguali quasi da dargli nausea. Oramai anche sua sorella Dominique era diventata come loro, nonostante il sangue Veela nelle vene; quella cosa – non sapeva nemmeno lui perché – lo faceva imbestialire e non poco.
« Il tuo caro Aaròn ti ha dato bucà? » ridacchiò frivolo, mentre Rox mimava di ficcarsi due dita in gola per quell'accento ridicolo che si portava appresso.
« Sai che non ti chiaverei nemmeno se fossi l'ultimo uomo rimasto sulla faccia della terra? » sussurrò Rox carezzevole, sbattendo civettuola le lunga ciglia nere e facendolo inciampare sui suoi stessi passi.
Stavano oramai camminando tra la folla di persone che si accalcavano nei vari reparti e Louis si trattenne dall'azzannarla alla gola come avrebbe fatto il suo caro ex fidanzatino morto.
« Io una bottarella da dietro te la darei... » sghignazzò il ragazzo, bloccando due cacciatori che andavano al lato opposto.
Roxanne lo guardò con aria schifata – arricciando il naso e fissandolo tra il disgusto e l'ironia.
« Chissà perché la maggior parte dei francesi che conosco sono quasi tutti gay. E incestuosi. » ridacchiò una bella voce, che Roxie avrebbe riconosciuto tra mille.
Molly Weasley si fece largo tra la folla, con i suoi bei capelli biondo rame e il sorriso sereno di chi ha tutto nella vita. O niente.
Rox si chiedeva spesso come facesse ad andare avanti con il pensiero di essere... di essere sulla bocca di tutti. Un medimago senza braccio. Un medimago che più volte non aveva potuto curare i suoi pazienti per il suo handicap.
« Forse perché ci divertiamo più di voi! » esclamò Louis angelico, strappando una risata a Molly.
Aveva cambiato colore dei capelli, modo di vestirsi – quello di porsi verso gli altri. Aveva cambiato quel rossetto che ad Hogwarts metteva appena la Mcgranitt girava gli occhi, quasi innamorata di quel prugna carico; le rughe, nonostante fosse di così piccola età, le solcavano un po' gli occhi e la fronte – per tutte le operazioni che aveva dovuto subire. Per tutte le batoste che aveva dovuto affrontare.
« Hai proprio ragione, tesoro » sospirò Molly, teatrale, mentre Rox alzava gli occhi al cielo e Louis ammiccava nella sua direzione.
« Che ci fai qui, Molly? » domandò la ragazza di colore, in un modo dolce che Louis non aveva visto usare nemmeno con i suoi genitori.
Molly sorrise, mostrando la propria borsa di cuoio con pazienza.
« Sono venuta ad acchiappare Lysander, anche oggi non si è presentato per firmare le carte della seconda operazione alla colonna vertebrale » soffiò Molly, dispiaciuta, mentre Rox arricciava le labbra in modo ironico.
Idiota. Lysander era un vero e propria idiota.
« Quello non lo trovi mai. Se ne sta sempre in giro a fare qualcosa » sibilò incattivita, ignorando il cartello “vietato fumare” proprio dietro le sue spalle e accedendosi una di quelle diavolerie babbane che amava fin da Hogwarts.
Aspirò dal filtro, guardando sua cugina con aria lontana, assente... votata ad una notte dove aveva perso ogni cosa.
« E perché credi che abbiano incaricato me? » sorrise Molly e lì, Louis, riuscì a vedere la tristezza quasi scavalcarla. “Ho un handicap e lo so” sembrava urlare.
Ho un handicap e non posso fare nulla per cambiarlo” e il francese cercò di immedesimarsi in lei. Nascere e non trovarsi mai in una determinata situazione era un conto...ma piombare in una certa situazione, in un modo assolutamente imprevedibile, era tutto un altro paio di maniche.
« Buongiorno, Stewart! » cinguettò Molly improvvisamente, facendo sobbalzare i due cugini e illuminandosi come se avesse appena scoperto di potersi riattaccare il braccio.
Un uomo sulla quarantina si bloccò alle spalle della Weasley, sbadigliando vistosamente e fissandoli con un paio di occhiaie che avrebbero fatto concorrenza a quelle di Dracula in persona.
« Un corno! » sibilò sbattuto, passandosi una mano tra i capelli castani macchiati appena d'argento sulle tempie.
Molly allargò ancora di più il suo sorriso, facendo quasi morire di diabete sua cugina Roxie.
Edivad Stewart era un tipo abbastanza singolare – per questo non si sorprese quando vide sua cugina Molly quasi sciogliersi nello zucchero; sembrava che tra Weasley e Potter a scegliersi la propria metà era un vero e proprio calvario, visto le situazioni in cui poi si ritrovavano tutti quanti.
Edivad oltre ad essere un vecchiaccio della malora, come gentilmente lo apostrofava Lucy ogni qualvolta che si trovava a contatto, era praticamente intrattabile. Impartiva ordini a destra e sinistra, essendo più anziano, e sbraitava dalla mattina alla sera come se avesse un chiodo perennemente ficcato su per il culo.
Era arrogante, burbero, dispotico, insolente e anche abbastanza stronzo, ma a Molly piaceva. E pure tanto – visto la melassa di cui sembrava essersi avvolta appena lo aveva visto.
Bah, pensò Roxanne.
Le donne non le avrebbe mai capite, nonostante facesse parte della categoria.
« Non è una buona giornata per te? » ridacchiò Molly, tirando giù la manica del camice bianco sul braccio mancante. Edivad se ne accorse, ma fece finta di nulla.
« Non sarà mai una buona giornata finché sarò circondato da mocciosi incompetenti e il Ministero in generale! » sbraitò l'uomo, spostando poi gli occhi blu sulla seconda Weasley nel suo raggio visivo.
« E tu, maledetta, non sai leggere i cartelli? » sbottò guadagnandosi solamente un dito medio in piena faccia e un « Me ne vado a casa, arrivederci... ai vecchi e non! » con tanto di uscita di scena sculettante.
« Weasley » ringhiò, assottigliando lo sguardo « la rovina del mondo! » dovendosi rimangiare poi tutto mentalmente per lo sguardo che ricevette dalla rossa che era rimasta al suo fianco.
Molly era così carina da potersela mangiare con gli occhi, questo lo aveva ammesso con se stesso da un anno oramai, ma poteva – e DOVEVA – assolutamente accontentarsi solo di quello. Adorava il suo comportamento mite e allegro, quel suo risvegliare persino i morti, e non voleva rovinarlo con la sua perenne scontrosità. Cosa più importante, poi, era che poteva avere l'età di sua figlia... se ne avesse mai avuta una, almeno.
« Non arrabbiarti, Ed. Io ora devo andare, ma spero che questo possa risollevarti di mortale! » dicendo questo, gli aprì delicatamente il palmo – sorprendendolo per quel contatto improvviso – e gli mise qualcosa in mano.
« Buona giornata! » e volò letteralmente via, lasciando dietro di sé un gradevole odore di sandali ed estate. Edivad guardò con un sorrisetto il cioccolatino a forma di cuore che quella svitata gli aveva lasciato.
Donne...chi le capiva era bravo. Ma chi avrebbe capito le Weasley, era un vero e proprio genio. Erano una girandola di personalità diverse e accostamenti così singolari da far girare la testa e Edivad era sicuro: quelle si capivano solo tra di loro... il resto doveva limitarsi ad accontentarsi delle briciole.

 

Dall'altra parte dell'Inghilterra, invece, qualcuno che con i Weasley ci aveva avuto a che fare per ben sette anni, guardava assorto fuori dalla finestra – con gli occhi spenti e vuoti e l'espressione di chi è morto dentro.
Alice Paciock era avvolta da un magnifico abito rosso sangue e sembrava una regina; seduta sulla mensola che le permetteva di guardare fuori dall'immensa finestra che torreggiava alla sinistra della sua camera, non aveva nulla della ragazzina che tempo prima aveva camminato per i corridoi di Hogwarts – trionfa.
I capelli, ora lunghi, ricadevano in morbide onde sulle spalle nude e fragili, ricadendo nella scollatura a barca che mostrava il seno piccolo e sodo; il corpetto delineava una vita sottilissima, mentre la gonna morbida copriva le gambe scheletriche. Aveva le labbra rosse tese in un'unica linea e i sandali dal tacco alto quasi scintillarono alla luce delle candele che volteggiavano nella stanza.
« Ti ho chiamata. »
Alice non spostò gli occhi verdi dalla distesa di rose nere che si estendevano proprio sotto la sua finestra, quasi persa in un mondo che oramai non le apparteneva più.
« Ho preferito non partecipare al Meeting. Non mi sento molto bene » la sua voce non era più accesa e trillante, ma un sussurro che sembrò perdersi nel vento.
Lord Voldemort fissò gli occhi vermigli su quella bambina, chiedendosi – per la prima volta in vita sua – a cosa stesse pensando. Alice Paciock era un mistero per lui: un guscio vuoto senza emozioni o sentimenti di sorta e la mente quasi serrata da un lucchetto. Il corpo scheletrico e il volto di una Dea misericordiosa.
Alice Paciock aveva l'aspetto che ti aspetti abbia la morte. Labbra scure, incarnato pallido e il volto di una bambola. E il volto inanimato di chi prende anime senza chiedere nemmeno il permesso.
« Il tuo corpo sta bene. » sibilò Lord Voldemort, che sembrava aver perso il suo aspetto serpentesco. Era resuscitato... e la sua anima si era ricostruita daccapo. Aveva un cuore che non gli apparteneva e un sangue che lo rinforzava ogni giorno di più.
La sua pelle era così sottile da mostrare ogni singola venatura e ora aveva i capelli neri come l'ebano – quelli che da giovane gli avevano permesso di ottenere la coppa di Tassorosso da un'anziana signora. Aveva ancora le iridi rosse e oblique come quelle di un serpente, ma un naso che ora gli permetteva di rendere il suo viso quasi umano.
Lord Voldemort sogghignò. Umano, che parola così poco consona per una persona come lui.

« Questa mattina mi sono allenata e sono stremata, mio Signore » bisbigliò Alice, rovesciando il capo verso di lui e lasciando che i capelli ricadessero in una morbida cascata sulla schiena.
Umano, che parola sciocca. Che aggettivo insignificante. Lui non aveva nulla di umano – nemmeno le emozioni – ed era fiero di questo; gli bastava poco per ottenere ciò che voleva... e non era stato certo il suo umanismo ad aiutarla.
« Stai pensando al tuo bel principe Corvonero, Alice? »
Lei serrò lo sguardo, sentendo un sordo dolore al petto che ogni qualvolta al solo sentir nominare Lysander gli bloccava il respiro. Non rispose, chiudendo ancora una volta la sua mente.
Odiava il tono ironico con cui il Lord Oscuro nominava il nome di Lys. Odiava il modo in cui se ne prendesse gioco, come se lei non stesse mettendo a rischio la sua vita per vendicarlo. Per proteggerlo. Per saperlo immune a qualsiasi attacco.
« Pensavo ad Avery. » mentì, questa volta guardandolo scura in volto.
Ah, cos'era diventata.
Chi era diventata per compiacere Tom Riddle. Oramai non riusciva a guardarsi nemmeno allo specchio per il disgusto che le si rovesciava nelle vene quando pensava a cosa si era ridotta per entrare nelle grazie di Lord Voldemort.
Lui, alto – con quel mantello nero che gli accarezzava il corpo pallido, coperto di cicatrici. Lui, con quella voce sottile – simile a quella di un serpente, che non si era fatto incantare dai suoi occhi verdi e la sua abilità nel mentire.
Alice era stata sfacciata, languida, prepotente. Alice era stata tentatrice e dopo parecchie moine credeva di aver vinto; si era fatto toccare da un morto, da un mezzo Dio, da un uomo che d'uomo non aveva nulla. Era diventata una bambola tra le sue mani grifagne e si era lasciata soccombere da quell'aura nera come la peste.
« Hai scoperto qualcosa? » era sempre alle sue spalle e sembrava che dopo quella rinascita avesse imparato.
Tom Riddle aveva imparato a non sottovalutare l'avversario, ad ascoltare chi aveva qualcosa da dire e quel cuore di demone – che non avrebbe mai battuto – sembrava avergli donato un qualcosa che ora non concentrava la sua mente sul potere... ma anche su altro.
« Ogni notte si reca a Londra, in un locale Babbano di bassa lega » soffiò gentilmente, osservando un corvo posarsi proprio sul davanzale fuori la sua finestra.
Nero. Come la sua anima. Sinistro. Come i sentimenti che l'animavano. Solitario. Come lei stessa aveva imparato ad essere. Portatore di sventure. Come avevano soprannominato lei da quando era entrata a far parte di quel gruppo di assassini.
« In...un...locale... Babbano? » la voce di Lord Voldemort incespicò, infuriandosi sull'ultima parola pronunciata.
I suoi occhi vermigli s'infuocarono e Alice tremò internamente – come aveva imparato a fare da quando si trovava al suo cospetto. Il Lord Oscuro... ah, quanto l'affascinava; quasi invidiava il modo in cui non si lasciasse sfiorare dai sentimenti umani, rimanendo granitico e freddo come solo la pietra sapeva essere.
« Nasconde molto bene i suoi spostamenti e ha imparato ad ergere una barriera quando si trova in vostra presenza. » sussurrò con tono ossequioso, quasi divertita.
Tom stava perdendo punti. Mai nessuno aveva osato tradirlo e ora si ritrovava già a quota due. Ultimamente stava facendo cilecca con i suoi poteri da legiliments... cosa che Alice adduceva allo sforzo che aveva dovuto fare per riprendersi dalla rinascita.
« Passa informazioni agli Auror? » la sua voce ora era un sibilo di serpente e Alice non osò alzare lo sguardo su di lui. Sapeva bene quanto il suo Lord odiasse le brutte notizie e il vizio cattivo di prendersele con chi ne era portatore.
« Protegge la sua famiglia Babbana, mio Signore. Inizialmente credevo anch'io ad un tradimento del genere...ma indagando ho scoperto tutt'altro; non sospettava minimamente in una vostra rinascita e – nonostante fosse ed è tutt'ora un vostro grande sostenitore – si è innamorato di una Babbana » la sua voce era flautata e il suo cuore lontano.
Avery era un uomo terribile, di questo ne era a conoscenza anche lei. Aveva inflitto torture orribili a Babbani e
Mezzosangue... ma Alice sapeva che all'amore non era possibile comandare e anche il più spregevole dell'uomo può provare dei sentimenti.

Dalla gola di Lord Voldemort uscì un suono strozzato e la ragazza alzò lo sguardo prima che una lingua infuocata la piegasse in due. Urlò, cadendo dalla mensola con le ginocchia piegate sul pavimento di pietra grezza.
« Amore? AMORE? » strillò furioso, torreggiando su di lei con il mantello quasi aperto a ventaglio alle sue spalle.
Il cielo si oscurò e il Signore Oscuro rise acidamente – fissandola con sprezzo.
« Voi e l'amore...»
Sogghignò e proruppe in una risata cattiva. Alice alzò finalmente lo sguardo vuoto su di lui, impassibile esternamente; i suoi occhi verdi non mostrarono emozioni e la sua bocca rimase in una linea sottile.
« Dov'è? » mormorò, ora fintamente calmo.
« Non lo so » e l'ennesima frusta infuocata le piegò la schiena – strappandole un urletto addolorato.
« Pensaci bene, mia cara.
Dov'è? » e il suo tono, questa volta, non ammetteva repliche.
Un rivolo di sangue le accarezzò le labbra e Alice poggiò i palmi sulla pietra, senza osare alzarsi.
« Dovremmo aspettare che arrivi al Quartiere e coglierlo di sorpresa, ma non so dove abbia nascosto la sua famiglia. » specificò meglio l'ex Tassorosso, tendendo i tendini e chiudendo completamente la mente.
E lì...lì ringraziò la magia oscura e il come alcuni incantesimi l'aiutassero a non lasciare nemmeno uno spiraglio libero nella sua testa.
« Bene. » e con quelle ultime parole si scatenò la sua furia, incontrollabile, inarrestabile... con quell'accenno demoniaco che aveva aumentato solamente i suoi poteri.
E fuori da quella porta, Michael Moyer sentì le urla della Paciock superare i decibel previsti per un essere umano normale; poggiò la testa contro la porta di mogano scuro e un ciuffo di capelli biondi gli coprì gli occhi bluastri.
Un minuto e le grida fecero volare via corvi e avvoltoi, provocando uno spasmo a Michael – che continuava a non muoversi da quella stessa posizione.
Due minuti e quelle stessa grida divennero gemiti, mentre alle sue spalle comparvero alcuni Mangiamorte – pallidi per la furia che sentirono oltre quella porta.
Tre minuti e Michael sperò ardentemente che il Lord Oscuro abbassasse la bacchetta o Alice non sarebbe sopravvissuta.
« Si è finalmente deciso a togliersela dalle palle? » la voce sarcastica di Giselle McAdams ferì le orecchie di Michael, che alzò gli occhi gelidi su di lei – immobilizzandola sul posto.
« Se non cominci a chiudere quella bocca velenosa che ti ritrovi, Giselle, l'unica che ci toglieremo dalle palle sarai proprio tu. E sarò io stesso a togliermi questo sfizio » sibilò – storcendo la bocca ora violacea in un ghigno irrisorio.
Michael aveva trent'anni e la carriera di assassino professionista alle spalle. Figlio di un Mangiamorte, nipote di un Mangiamorte e così via, facendo parte di una famiglia che per avere sangue puro nelle vene aveva commesso incesti e reati terribili.
Michael aveva i capelli biondi del padre, il suo fisico asciutto e snello e l'altezza che incuteva timore anche al più impavido degli uomini. Gli occhi blu e la carnagione mulatta, però, erano di sua madre. La sua bellissima e dolcissima madre.
« Per caso vuoi azzannarmi, Moyer? » lo prese in giro Giselle, anche se senza reale divertimento. Sapeva perfettamente che lui sarebbe stato capace di farlo – e anche senza alcun rimorso.
« E avvelenarmi con il tuo sangue cattivo? No, grazie! »
La sua bellissima e dolcissima madre, la donna lupo col sangue più puro d'Inghilterra. La donna che era stata legata, impossibilitata a trasformarsi e poi costretta ad un rapporto con l'essere spregevole che era suo padre; lei, che avrebbe potuto partorire l'erede perfetto, con un sangue purissimo e capacità straordinarie.
Lei, che poi era stata uccisa appena aveva dato alla luce quel bambino dagli immensi occhi blu. Quel Principe dei Lupi, che non avrebbe mai raggiunto il suo Habitat naturale, ma che avrebbe dovuto piegarsi alla volontà di un psicopatico umano.
« Ha finito... » Jackson McAdams tese l'orecchio, zittendo la sorella con un brusco cenno della mano.
Michael si tese e si staccò appena in tempo, prima che la porta si aprisse con un cigolio e sbattesse – come mossa da un vento furioso. Alzò lo sguardo e si ritrovò a guardare il diavolo in persona.
Se solo avesse potuto...
« La rivoglio in sesto tra mezz'ora. Sarà indetta una riunione speciale. »
Dietro di sé lasciò il silenzio – con un alone di terrore e aspettativa che fece tremare le vene nei polsi dei tre ragazzi.
Jackson bestemmiò e Michael si precipitò nella stanza, ignorando anche i sibili furiosi di Giselle.
« Quest'idiota sarà la nostra rovina! » con un colpo di bacchetta la McAdams si chiuse la porta alle spalle e insonorizzò la stanza, legandosi i capelli bruni e ricci con stizza.
« Oh, ma sta zitta! Non fingere che t'importi! » sbottò Michael, toccando il volto di Alice – un ammasso di sangue e carne tritata.
Se solo avesse potuto... Se solo avesse potuto, Michael avrebbe ucciso il Lord Oscuro, strappandogli arti e membra senza pietà.
« E tu non fingere che la tua cara e amata Paciock non si faccia sbattere da Lord Voldemort! » sbottò Giselle, sogghignando con la sua bella bocca rossa e provocando uno spasmo nelle spalle del ragazzo.
No, su quello non avrebbe mai potuto fingere. Michael sapeva bene dove andava di notte, quando spariva e tornava all'alba – con le occhiaie e lo sguardo vuoto. Sapeva bene perché quando s'infilava sotto la doccia, quasi si consumava la pelle con la spugna.
Quasi tutti sapevano che il Lord Oscuro nutriva una perversa ossessione per la piccola Paciock. E quasi tutti sapevano che la Paciock studiasse la magia oscura come se ne dipendesse la sua stessa vita – nonostante avesse combattuto contro di loro anni prima.
« State zitti, tutti e due! » la voce baritonale di Jackson li fece sobbalzare e Alice ridacchiò, attirando l'attenzione dei tre.
« Collasso per cinque minuti e vi ritrovo a scannarvi... ragazzi, dovreste veramente smetterla o qui non sarò l'unica a rimanerci le penne » disse tra uno sputacchio e un altro, mentre il sangue la imbrattava interamente.
« Idiota! » sbottò Giselle, guardandola con gli occhi azzurri incendiati.
Si piegò su di lei nel suo abito color pervinca e strinse i denti – furiosa; quella maledetta era capace di farsi ammazzare senza pensare alle conseguenze e onestamente, non potevano permetterselo. Lei, Jackson e anche quello stronzo di Michael avevano bisogno di Alice Paciock per riuscire nei loro piani e tutto sarebbe andato in fumo se quella maledetta si fosse fatta venire in mente di suicidarsi.
« Non potete mica pretendere che vivi in eterno. I piani rimangono quelli anche se ci lascio le penne, sapete? » bisbigliò Alice, gemendo appena quando Jackson poggiò le mani sul suo sterno – senza proferir parola.
« Fosse così facile non ci affideremmo a te, stronza di una Paciock! » sibilò la McAdams, mentre, come suo fratello, si metteva all'opera.
Michael non fiatò. Odiava darle ragione, ma Giselle aveva ragione; loro, come lui, avevano quello che Diamond – quando era a capo dei Mangiamorte – aveva chiamato il cip. Loro, con quei poteri così speciali... con quei particolari che avrebbero potuto rovesciare quell'impero creato con tanta fatica, erano stati sottoposti ad un'operazione non dopo di quattro anni prima.
Il cip, che impediva loro di attaccare o fare del male a chi avesse il marchio nero come loro. Il cip, che impediva loro di aprir bocca e spifferare ogni movimento dei Mangiamorte a chiunque non avesse il marchio nero come loro.
Imprigionati. Controllati. Incatenati.
« Tu sei quella che aspettavamo da una vita, Alice... e non puoi farti uccidere. Abbiamo bisogno di te per fuggire, per salvarci » la voce di Jackson era calma e bassa e non la stava aggredendo.
Già. Quei tre avevano bisogno di lei per fuggire da quella vita fatta di omicidi e sofferenze. Di fallimenti, dolore, lacrime.
« Mi dispiace » bisbigliò, lasciando che le mani curative dei due gemelli la guarissero dalle ferite.
Sì, le dispiaceva perché quei tre – nonostante vi ci uccidesse, vi ci odiasse e le tante volte che si erano insultati pesantemente – erano diventati la sua famiglia. La sua unica famiglia. E lei cercava sempre sollievo nella morte, nonostante studiasse ventiquattro ore su ventiquattro per rovesciare Voldemort e vendicare finalmente Lysander e la sua famiglia.
« Cerca di informare gli Auror della moglie e del figlio di Avery... non saranno a sicuro per molto in quella bettola a Londra. » continuò Jackson, senza smettere di passare le mani sul suo corpo.
Nayaṁ, ecco cos'erano. Guaritori, con quelle mani delicate e speciali. Assassini, capaci di assorbire ciò che avevano guarito e indirizzarlo a chiunque avessero voluto.
Diamond aveva fatto bene i suoi conti, in passato. Aveva creato un piccolo esercito inchinato all'Oscuro Signore e niente, niente avrebbe potuto fermarlo quella volta.
Tranne lei. Perché anche lei stava reclutando un piccolo esercito e quella volta il bambino sopravvissuto non era solo.
E non lo sarebbe stato mai più.

 

✞ ✞ ✞

 

 

 

Albus Potter tirò fortemente dal filtro in bilico tra le labbra screpolate, guardando il mare estendersi meravigliosamente sotto i suoi occhi. La luna era alta nel cielo e la pace lo assalì, strappandogli un brivido.
« Preludio di tempesta. »
Al girò lo sguardo smeraldino verso la voce flautata che gli aveva rivolto la parola, buttando fuori il fumo e sorridendo debolmente alla donna che si sedette al suo fianco.
« Ciao, Margarita. » mormorò, spegnendo la sigaretta nella sabbia e affondandoci dentro le mani – per guardare in alto.
Margarita Coronado si riavviò i capelli argentei con un gesto delicato delle mani dalle dita lunghe e pallide, guardando con gli occhi rossi quello strano umano, atterrato da pochi giorni nella sua terra.
« Salve, Albus » sorrise con la bocca violacea e carnosa – inclinando il capo per osservarlo meglio.
Nella sua lunga vita aveva incontrato parecchi uomini, ma lui...lui aveva qualcosa che lo distingueva da tutti gli altri. Lui aveva qualcosa che lo rendeva puro come un bambino e pericoloso come un demone.
« Credo anch'io che questa sia la calma che precede la tempesta, sai? È tutto troppo calmo e piatto per essere reale » mormorò il ragazzo, lasciando che la brezza marina gli scompigliasse i capelli neri come l'ebano.
Una grossa cicatrice gli deturpava la guancia destra, mentre le labbra erano state fatte a pezzi da quelli che sembravano morsi rabbiosi; sembrava nascondere tanto, quell'uomo, con le sue spalle fragili. Sembrava nascondere troppo, con quel corpo sottile – ma agile, in grado di superare monti e tempeste, ostacoli insormontabili, fino ad arrivare lì.
La sua famiglia sapeva bene per dov'era passato Albus Potter prima di arrivare nelle loro terre. Sapeva bene con chi aveva parlato, discusso, con chi aveva stretto amicizia prima di presentarsi lì – con qualche dono per l'accoglienza che gli era stata preservata.
Suo padre aveva detto che era un gioiello prezioso, il piccolo Albus, ed era raro incontrare qualcuno con l'anima così pura – intatta dalle cattiverie umane e Margarita non aveva potuto che concordare con lui.
Lei lo sentiva. Lei riusciva a percepirlo.
« Non è facile sconfiggere un demone, sai? » sussurrò con la sua voce flautata, guardando le onde infrangersi l'una contro l'altra – annullandosi e ricreandosi in un giro infinito.
Albus annuì, consapevole. Erano anni che cercava, cercava... ed erano poche le informazioni che era riuscito a cavare dagli esseri con cui aveva avuto a che fare.
« Ma ultimamente ho ascoltato molto...sai? »
Gli occhi smeraldini di Al si fossilizzarono su di lei, ora attenti e Margarita sorrise – lisciandosi l'abito di seta con dolcezza.
« Sono diventati rumorosi. Parlano tutti assieme, sono così eccitati.
Si stanno muovendo e il loro Padrone assoluto è in assoluta estasi » mormorò Margarita, quasi deliziata da ciò che aveva potuto percepire con i suoi poteri. Con la sua testa, a cui erano arrivati i bisbigli tramite il vento.
« Ciò che tu cerchi, Albus Potter, è a casa tua. Ce l'avete sotto il naso tutti i giorni e per voi è prezioso come non mai... ma dovete sacrificarlo per uccidere il serpente dagli occhi rossi » continuò, misteriosa come pochi.
Le sue unghia laccate di nero penetrarono nella sua spalla e le labbra violacee arrivarono a pochi centimetri dalla sua bocca – velenose.
« E solo allora lui morirà... provocando l'apertura dell'inferno e innalzando la nuova regina. » finì, strappandogli il respiro.
E Albus seppe che erano nella merda quella volta. La questione si stava rivelando più difficile del previsto... e nessuno di loro era pronto a tutto ciò.
La guerra, quella volta, riguardava qualcosa che andava oltre.
Oltre all'umana concezione. 

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Capitolo 4
*** III. ***


III.

 

 

 

La raggiunse di spalle e le accarezzò delicatamente il fianco nudo. I loro occhi s'incatenarono quando lei alzò lo sguardo verso lo specchio – sorpresa e lui sorrise appena, baciandole con dolcezza il collo inclinato.
Portava ancora i segni della sua bocca sulla pelle pallida e Dalton strofinò il naso dove il segno delle sue dita spiccava livido.
"Devi andarci per forza?" si lagnò, attirandola verso di sé e abbracciandola con irruenza da dietro.
Joe passò il rossetto prugna sulla bocca carnosa e annuì, rivolgendo l'attenzione al proprio riflesso; aveva un vestito di cotone aggrovigliato sui fianchi, forse per non macchiarlo con il trucco e l'intimo era di pizzo.
"Non è obbligatorio!" si stizzì Dalton, allontanandosi di scatto e dirigendosi verso il comodino di legno accanto al letto a baldacchino di quella stanza che oramai condividevano da anni.
Lei sbuffò, arricciando le ciglia con il mascara e risvegliando in lui quel mostro verde che ultimamente gli teneva sempre di più compagnia. La gelosia sembrò divorarlo da dentro, causandogli un sussulto appena percepibile ad occhio esterno.
"Non fare il bambino, Zabini. È solo una cena ed io non posso di certo passare la serata a letto con te" sbuffò Joe, alzando il vestito e coprendo i fianchi, un quarto delle braccia e lasciando – con uno scollo a V – il seno appena scoperto.
Dalton si accese una sigaretta con un sorriso triste sulla bocca e si sedette sul davanzale di legno accanto alla finestra spalancata. Tirava aria gelida fuori e un brivido lo scosse mentre tirava con forza dal filtro.
"Perché no?"
Joe si bloccò con una catenina d'oro bianco tra le mani a mezz'aria e spostò lo sguardo per fissarlo – senza capire. Senza voler capire. Era così strano in quel periodo... sembrava ossessionato da qualcosa; Dalton era quasi sempre di cattivo umore e la rimproverava per qualsiasi cosa.
"Mi dici cos'hai?" mormorò, allacciando la catenina al collo e sciogliendo i capelli lungo le spalle.
Così neri, lunghi e lisci da fare invidia. Così morbidi al tatto e profumati, come lo erano stati ad Hogwarts. Dalton strinse i denti attorno il filtro e continuò a tirare con rabbia – cercando di trattenere l'istinto di afferrarla per i capelli e sbatterla al muro. Incatenarla, nasconderla al mondo, marchiarla come sua e sua soltanto.
Lei era sua, perché la guardavano?
Lei era sua, perché si lasciava toccare, guardare, parlare? A Dalton sembrava di impazzire e non gli piaceva. Tutto quello non gli andava giù.
"Nulla. Stasera esco anch'io." mormorò, spegnendo la sigaretta nel posacenere di cristallo sul davanzale e alzandosi pigramente – con solo i boxer addosso.
Joe guardò le sue spalle larghe, i pettorali definiti e le gambe scattanti. Fissò la sua pelle color moka e i capelli neri e gli occhi azzurri, sentendo il cuore accelerare così tanto da farle credere un infarto.
"D...d-ove vai?" balbettò, dando finalmente le spalle allo specchio e guardandolo persa, come ogni qualvolta che si parlava di lui e la possibilità che potesse sfuggire al suo controllo.
Ma Joe lo sapeva. Non poteva tenerlo incatenato per sempre.
"Vado a bere. Chiamo Nott e gli propongo una serata tra uomini" rispose, senza assumere espressioni di sorta.
Joe guardò la bocca carnosa e il naso delicato alla francese e gli zigomi pronunciati, massaggiandosi il petto con insofferenza.
Perché? Perché doveva essere così? Perché Joe doveva sentire la paura uccidergli i sensi ogni volta che lui usciva fuori da quella camera senza di lei?
Era diventata qualcuno che odiava solo per... solo per essere alla sua altezza. E si odiava. Ah, se si odiava.
"Hm." soffiò, abbassandosi per allacciarsi i decolté dal tacco alto.
Dalton s'infilò un paio di jeans scuri, evitando di guardarla afferrare la borsetta dalla catenina dorata e fissarlo – oramai pronta.
"Vado... a dopo, allora" e con questo uscì, chiudendosi la porta alle spalle e ignorando il vaso che s'infranse contro di essa una volta che si fu allontanata.
Strinse i denti e cercò di calmare il tremolio alle mani: sarebbe stato capace di ucciderla un giorno. Soffocarla con le stesse mani con cui l'accarezzava. Con cui l'amava.
Doveva uscire di lì. S'infilò velocemente una maglia a maniche lunghe nera, come il suo umore e si smaterializzò velocemente, bestemmiando in tutte le lingue che conosceva.
Era diventato un incubo. Oramai la sua rabbia era diventata incontrollabile e Dalton credeva davvero di non riuscire a fermarsi, un giorno, quando l'ira sarebbe arrivata alle stelle.
"Quante cazzo di volte ti ho detto di non materializzarti a casa mia senza prima avvisare, Zabini?" le urla di Thomas lo risvegliarono dal suo stato catatonico e Dalton si beccò un cuscino in testa – che lo stordì.
"
Ma che cazzo..." sbottò, cercando di capirci qualcosa e girarsi, visto che stava guardando il muro, quando gli arrivò un secondo cuscino dietro la nuca.
"
Non girarti, cazzone, siamo nudi!"
Oh, oh! Dalton sogghignò sadicamente, pensando a quello che aveva interrotto e nel mentre si beccò dietro l'ennesimo cuscino.
"
Che ho fatto ora?" rise bastardamente, coprendosi la testa con le braccia per impedire alla scarica di cuscini di mandarlo con le gambe all'aria.
"Ci hai disturbato nella fase rem, brutto bastardo!" sibilò Rose Weasley, buttandogli le braccia al collo da dietro e arrampicandosi sulla sua schiena come una scimmia.
"
Sai quanto mi dispiace, donnola!" ridacchiò cattivo, beccandosi uno scappellotto sulla nuca.
Lei lo lasciò e finalmente Dalton potette ammirarla in tutta la sua bellezza. Ah, che donna era diventata Rosaline Weasley. Forte, sicura, bella e orgogliosa come lo era sua madre.
I capelli ricci e rossi, lunghi e sciolti sulle spalle e gli occhi azzurri di suo padre – determinati e decisi. Portava una maglia maschile che le arrivava oltre le ginocchia e Dalton le scompigliò dolcemente i capelli, sorridendole.
Una magiavvocatessa con i fiocchi, su questo non c'era che dire. Mandava dentro chi doveva mandare e si beccava fior di quattrini, su quello non c'era dubbio; Rose aiutava anche chi non poteva permettersi un magiavvocato – per lei contava solamente essere dalla parte della ragione, punto.
“Cosa ci fai qua, Dalton?”
Tra di loro si era instaurato... una specie di rapporto, ecco. Un qualcosa che andava oltre la parola ed era arrivato all'improvviso – legandoli con una sorta di filo rosso, impossibile da spezzare, ma che non era visibile a tutti.
“Joe è uscita” borbottò con una smorfia, trattenendosi dal dire anche gnegne, in barba a chi diceva che non era cresciuto affatto dai tempi di Hogwarts.
“Scommetto anche che ti sei incazzato” sbuffò Tom, raggiungendoli in jeans e maglia bianca. Aveva una sigaretta in bilico tra le labbra e Dalton cadde in ginocchio, abbracciandolo per le gambe.
“Lei è cattiva con me” piagnucolò, mentre Tom cercava di spingerlo via a calci.
“C'ha ragione, porco!” sibilò Thomas, assestandogli un quarantadue di piede dritto in faccia e facendolo crollare all'indietro.
“Oh, andiamo” sbuffò Rose, trucidandolo con un occhiata e aiutando Dalton ad alzarsi – mentre questo ancora piagnucolava disperatamente.
Tom si portò due dita alle tempie: quel bastardo fedifrago stava fingendo palesemente per far pena a Rose e trascinarselo in un bar dove buttare il fegato in alcool. Oramai lo conosceva bene.
“Questa è la mia sera libera, maledizione! Vorrei passarla con la mia futura moglie, mi è permesso o per tutto il resto della mia vita devo fare la balia a te e la Smith?!” sbraitò fuori di sé, ma i gemiti strozzati di Dalton quasi superarono le sue urla – facendogli quasi spuntare corna e coda per la rabbia.
“Ti prego...” piagnucolò, con un bernoccolo sulla fronte e mezzo collassato su Rose, che lo fucilò con i suoi bellissimi occhi azzurri.
E mezz'ora più tardi si ritrovò quel bastardo a braccetto con la sua fidanzata in un pub Babbano, tutto contento e cinguettante e con una birra alta quasi quanto lui tra le mani.
“Ti odio” gli sibilò all'orecchio, dandogli una gomitata nelle costole e facendogli quasi sputare un polmone.
“Oh, andiamo! Avevate appena finito di fare sesso! Non t'ho negato nulla che non avessi già fatto” sibilò Dalton, scuotendogli una mano davanti al viso come per scacciare una mosca molesta.
“Non siamo tutti porci come te, sai?
In una vita di coppia c'è anche altro oltre al sesso” sbottò Tom, scolandosi la sua bionda tutta d'un fiato.
“Che Merlino ti inculi, bastardo! Ho speso mille sterline la settimana scorsa solo per mangiare due gamberetti striminziti su una barca di merda, dove soffro anche mal di mare, e senza nemmeno fare sesso!
Se non è amore questo, allora qual'è?” disse contrariato, mentre Rose sbatteva sorpresa le palpebre.
Ma sì, pensò Tom furioso.
Dille quanto cazzo spendi, pensò ancora. Così magari dopo avrebbe pensato che lui non faceva abbastanza.
“Credo che sia meglio andare via” mormorò Rose, continuando a muovere rapidamente le ciglia – come sorpresa e delusa da qualcosa.
"
Visto, l'hai fatta incazzare!” sbottò Dalton, guardandolo con rimprovero e senza sapere di essere quasi morto per mano del suo migliore amico.
“Io? Ma se sei tu che stai urlando come una checca isterica” sibilò Tom, sul punto di mettergli le mani alla gola.
“Seriamente, ragazzi, andiamo via” ora Rose sembrava agitata e se Dalton, che era veramente stupito, sembrò non averla sentita, Thomas, preoccupato, seguì la traiettoria del suo sguardo e gelò sul posto.
Oh no, pensò.
No, no, no, no!
“Ma dai, Rose... non fare così” borbottò Dalton, assumendo la sua tipica espressione da cucciolo smarrito. Non capiva perché facesse così. In fondo era abituata ai battibecchi tra lui e Tom o tra lui, Tom e Scorpius, era come se oramai avesse infilato nelle orecchie, insieme a Lily, una sorta di tappo che le impedisse di ascoltare tutte le loro idiozie.
“No, ha ragione lei. Andiamo via, mi sto annoiando” balbettò Nott, con gli occhi blu sfuggevoli e lì Dalton non si lasciò ingannare.
“Oh, ma si può sapere cosa santissimo Merlino vi...” e girandosi non riuscì a completare la frase.
Di solito, quando la sua gelosia diventava asfissiante, Dalton trovava sempre la forza di dargli le spalle e non lasciarsi sopraffare. Di solito, Dalton, quando non riusciva a contenersi, si smaterializzava lontano da lei – per impedire di commettere qualcosa di irreparabile.
Per non farle del male. Per non farsi del male.
“Ah”
Rose gli strinse immediatamente la mano, spaventata e Tom si alzò di scatto – come a volergli fare da scudo. Come a volerlo proteggere come a volte succedeva ad Hogwarts, come lo aveva protetto quando era piccolo e lui non sapeva farlo.
“Andiamo via, Dalton” la voce di Rose era supplichevole, ma Zabini sembrava impietrito. Guardava dinnanzi a sé con il vuoto nei bei occhi azzurri e Rose poté avvertire bene lo spasmo che colse la mano stretta tra le sue.
“Dalton, non fare sciocchezze...non ne vale la pena e hai avuto già tre richiami dalla polizia Babbana. Alla prossima ti sbattono dentro e ad un minimo controllo sapranno che tu nemmeno esisti!” sibilò Tom, afferrandolo per il lembo della maglia e tirandolo come fa di solito un bambino con la gonna della madre.
Con la coda dell'occhio mirò alla direzione del suo sguardo e vide Joe sedersi in un angolo e ridere per qualcosa che aveva sicuramente detto il suo accompagnatore; Tom non aveva mai visto quel tizio ronzare attorno a Joe, ma una volta – se la memoria non lo ingannava – lo aveva visto al San Mungo, nello stesso reparto della ragazza.
“Era una cena di lavoro” sussurrò Dalton con voce impastata.
Sembrava quasi perso in un mondo tutto suo e a Tom non piacque quello sguardo. Dalton aveva covato quasi un'ossessione morbosa nei confronti di Joe; da quando, durante la battaglia di Hogwarts, lei aveva ucciso l'assassino di sua madre... sembrava quasi che non riuscisse a staccarvici. Dove c'era lei, automaticamente appariva lui e quando lei non c'era, Dalton sembrava quasi la metà marcia di una mela o un'anima in pena.
“Capisci, Tom? Era una cena di lavoro” disse, guardandolo con occhi vacui.
Tom girò nuovamente la testa e guardò le mani di Joe stringere quelle dell'uomo di fronte a sé. Le labbra prugna erano tese in un sorriso e sembrava quasi brillare – illuminare un'intera sala e attirare sguardi che non s'accorgeva di attirare.
“UNA FOTTUTA CENA DI LAVORO!” urlò Dalton, con gli occhi fuori dalle orbite. Attirò l'attenzione di mezzo pub e il tremore convulso di Joe – che guardò di scatto nella loro direzione.
Aveva gli occhi fuori dalle orbite e le labbra aperte in una perfetta o.
A Tom sembrava di essere ripiombato ad Hogwarts. Alle bugie che lei gli contava per stare con Dalton – lo sguardo fuggevole, il volto sempre stanco e felice, l'aspetto di chi vuole essere bella... ma non per te. Mai per te.
Tom conosceva bene quella sensazione. Il sentirla sempre più sfuggevole, sempre più simile al fumo che scivola via dalle dita – in modo irrimediabile. Tom sapeva cosa si provava al sentirsi messo al secondo posto, come se non si contasse nulla. Come se a malapena esistesse nella sua vita.
“Una cena di lavoro” ripeté Dalton, passandosi una mano tra i capelli – disperato. Aveva la faccia di un pazzo, di una persona che non ha più nulla. La faccia di una persona a cui erano stati distrutti i sogni e le speranze. E Tom lo sapeva... lei s'insinuava dentro e diventava tutto. Per poi portarselo via.
Lei, divisa perennemente tra qualcuno.
Lei, mai di qualcuno.
Lei, il cui corpo aveva sempre un altro profumo.
Lei, i cui segni avevano sempre mani, denti, e labbra diversi.
“Dalton...” Joe ora era vicina ed era ancora più incantevole di come in passato l'aveva vista.
Ora era più donna, più matura, con i lunghi capelli neri sciolti in morbide onde e la bocca carnosa colorata dal rossetto. Ora era più sensuale che sostanzialmente bella, come lo era stata ad Hogwarts nella sua ingenuità.
Il vestito nero le accarezzava sinuoso le forme in un modo quasi perverso quando la si osservava a lungo e a Tom quasi fece male constatare che la storia andava a ripetersi all'infinito.
“Dalton, ascoltami...” bisbigliò frettolosa, alzando una mano verso di lui e cercando di accarezzargli il braccio.
“Non mi toccare” la voce di Dalton fu velenosa e aspra e i suoi occhi sembrarono fulminarla e gelarla nello stesso istante.
Fece un passo all'indietro e rise con incredulità – scuotendo il capo per quello che aveva visto.
“Dalton, ascoltami, è importante!”
“TI HO DETTO CHE NON DEVI TOCCARMI!” urlò a voce più alta, cercando di controllare il tremare alle mani e non colpirla.
Oh, perché avrebbe voluto. Dalton avrebbe tanto voluto colpirla con violenza e farle sentire lo stesso dolore che sentiva lui.
Dalton voleva rovinare quel viso che lo tormentava ogni secondo, sfregiarla, chiuderla in una gabbia dove non sarebbe più potuta uscire.
“Non toccarmi” mormorò, sorpassandola a gran carriera e preoccupandosi bene a non sfiorarla nemmeno.
Uscì di lì con la consapevolezza di non poter andare avanti così.
Dalton uscì da quel pub con la consapevolezza che uno di loro, prima o poi, avrebbe ucciso l'altro. E se lei lo avrebbe fatto per difendersi, lui per la gelosia morbosa che gli accartocciava le membra. Per nasconderla. Per averla con sé per sempre.
Senza via di scampo.

 

✞ ✞ ✞

 

 

Perrie&Co. era uno dei ristoranti più famosi di New Scotland Yard. Con varie sedi in Italia, Spagna e addirittura in Giappone, vantava una cucina internazionale quasi fuori dal comune.
Era una struttura bassa, dalle ampie vetrate e un aspetto tipicamente stile ottocento – con un immenso candelabro di cristallo al centro della Sala e i vari dipinti di angeli, storie passate e demoni sulle mura.
I tendaggi erano pesanti e a quell'ora tarda ricoprivano tutte le finestre – per impedire la veduta del pavimento di lucido marmo e i tavoli ora sparecchiati.
“Ti prego... ti prego”
Una voce rimbombò tra le mura e i ciocchi spenti nei due camini agli estremi della Sala quasi vibrarono nella cenere.
“Amo chi mi prega, questo dovresti saperlo”
Un uomo se ne stava fermo al centro della sala, ricoperto da un lungo mantello nero e un cappuccio che ne celava i lineamenti... tranne gli occhi, rossi come il sole al tramonto.
“E poi amo la vodka” disse allusivo, visto la quantità d'alcool che aveva ingerito la ragazza e che si sarebbe ritrovato tra le labbra appena avesse affondato i denti nel suo bel collo da cigno.
“Non farmi del male...”
Riusciva a vederla riversa sul pavimento, con una gamba rotta e la posizione del corpo quasi innaturale e i ricci scuri aperti a ventaglio sul pavimento roseo – in netto contrasto. Lo guardava disperata, mentre la sua pelle mulatta sembrava volersi confondere con il buio della stanza.
“Ti piacerà quando avrò finito, vedrai...” bisbigliò, precipitandosi su di lei e coprendo le sue nudità.
Era morbida, proprio come lo sarebbe stata la sua piccola cacciatrice.
Frank Paciock arricciò le labbra in un sorriso subdolo. Non aveva di certo dimenticato quando Roxanne aveva impedito agli Auror di ucciderlo dopo la trasformazione né lo sguardo di assoluto smarrimento quando era dovuto scappare. L'aveva attaccata e poi morsa. Per marchiarla. Per urlare al mondo che lei era sua e solo sua.
Lei non avrebbe potuto dimenticarlo e gli altri non avrebbero osato toccarla.
“No. NO!” urlò ancora la donna sotto di sé, prima che lui affondasse i denti nella carne sensibile del collo. E smise di dimenarsi.
Il suo tocco divenne docile e il suo corpo quasi privo di energia; la donna allargò di poco le gambe per permettergli più accesso e Frank si ritrovò a sorridere.
Quanto potevano essere fragili gli umani? Bastava un morso e un pizzico del loro veleno per farli diventare agnellini docili e gentili. Completamente alla loro mercé.
“La ucciderai così”
Frank alzò di scatto il viso verso la voce in fondo alla sala, completamente sorpreso per non aver sentito arrivare l'intruso; nel buio, riuscì a distinguere lo stemma da cacciatore sulla divisa azzurra e gli occhi neri che sembravano volersi confondere con tutto il resto.
“Aspettavo un'altra persona, questa sera” mormorò Frank, lasciando cadere il corpo che teneva tra le braccia e fissando l'uomo immobile.
Aveva lasciato tracce infinite a Londra per essere trovato e invece di una cacciatrice dai capelli ricci, si ritrovava faccia e faccia con qualcuno di totalmente diverso.
“Roxanne era impegnata con altro, questa notte”
Frank spalancò gli occhi rossi, alzando lentamente il viso e guardandolo finalmente in faccia: quel ragazzo aveva il volto impassibile di chi non ha nulla da perdere – avvolto da una pellicola che impediva agli altri di vedere il dolore che lo stava piegando in due per ritrovarsi lì, faccia a faccia con l'uomo che deteneva il cuore dell'unica donna della sua vita.
“Chi sei?” sibilò Frank, ora furioso.
Nessuno, nessuno avrebbe dovuto osare pronunciare quel nome. Rox era sua – incredibilmente sua. Solo sua. E avrebbe ucciso per quello.
“Il suo fidanzato”
Aaron Kruger fece un passo avanti, mostrando i capelli di un biondo cenere e il corpo agile e scattante; portava una fedina d'oro all'anulare sinistro e Frank si chiese, stupidamente, se Rox avesse fatto un passo del genere con qualcuno che non fosse lui.
“A Roxanne piacciono davvero gli sfigati, allora” rise, ricordando il modo dolce con cui lo trattava. Il suo essere protettiva e il suo farsi proteggere quando il mondo era troppo grande persino per lei.
Aaron non assunse espressioni di sorta, continuando a stare fermo e immobile dov'era comparso.
“Se la mettiamo su questo piano, lei era innamorata della tua parte sfigata...non quella omicida” soffiò, sorridendo leggermente nel vederlo irrigidirsi.
Era chiaro come il sole che i suoi sentimenti da umano fossero ancora arpionati in lui, ma resi amplificati e terribili dalla mancanza d'anima – come dicevano le leggende sui demoni come lui.
“Perché sei qui? Sei così sicuro che io non ti uccida?” rise Frank, mostrando i canini con divertimento nello sguardo.
Aaron continuava ad osservarlo impassibile. No, non era così sicuro e forse era stato proprio quello a portarlo lì; non il suo essere un fantastico cacciatore, non la vendetta... ma la speranza di essere freddato lì, in quel ristorante e abbandonare quella vita che probabilmente non gli era mai appartenuta.
“Come se m'interessasse” rispose secco, con le braccia lasciate lungo i fianchi.
Frank lo guardò ancora, come di solito un bambino guarda qualcosa di assolutamente nuovo per lui. Inclinò il capo e ancora cercò di leggergli dentro.
“Viviamo assieme. Lei quando torna da lavoro mi racconta la sua giornata e poi comincia a sbraitare come un'ossessa su tutto ciò che non le è piaciuto; quando è di buon umore mi porta la colazione a letto e mi prepara il pranzo o la cena – dipende dai turni.
Indossa la mia maglia preferita per dormire e a volte parla nel sonno, si agita, sogna. Abbiamo parlato di matrimonio un paio di mesi fa...” mormorò Aaron, senza finire la frase. Si ritrovò in un nano secondo sdraiato sul pavimento con il viso di Frank a pochi centimetri dal suo.
Aveva il fiato corto per il gesto repentino e convulso e ridacchiò quando il vampiro gli strinse le mani alla gola.
“Lei è mia” sibilò, soffiandogli in faccia e mostrandogli le zanne che si ritrovava al posto dei canini.
Oh, quanto aveva ragione. Era vero. Assolutamente vero. Lei era sua e lo sarebbe stata per sempre, in ogni singolo attimo della propria vita e Aaron non voleva assistere. Aaron non voleva assistere alla propria disfatta...al giorno in cui lei, per amore, si sarebbe trasformata nello stesso mostro che ora lo sopraffaceva.
“Sai... quando facciamo l'amore lei mi stringe le mani così forte che quasi le si sbiancano le nocche e si aggrappa alla mia schiena come una naufraga” bisbigliò ancora, con un sorriso blando sulla bocca.
Le unghia del vampiro divennero lunghe parecchi centimetri e gli graffiarono la carotide, come lame affilate pronto a trapassarlo da parte a parte.
Gli occhi neri erano due pozzi bui e Frank strinse ancora più forte la presa, infuriandosi nell'osservare quel sorrisetto irritante sulle labbra sottili del cacciatore.
“E mi prega. Ah, se mi prega.
Ha una voce così bassa che a volte ho la perfida sensazione di essermelo immaginato, ma i suoi occhi non mentono.
Tu, quando ci facevi l'amore, li hai visti i suoi occhi supplicanti socchiudersi e fissarti come se fossi un'ancora? Come se lei stesse annegando e tu fossi il suo unico appiglio...?” sussurrò con voce flebile e Frank lo colpì con un manrovescio sulla guancia, facendolo rantolare dal dolore.
Gli aveva rotto la mandibola.
“Ora vediamo se riesci ancora a parlare!” sogghignò Frank e senza che Aaron muovesse un solo muscolo per difendersi, affondò le dita nella sua gola. E fu dolore.
Aaron sentì solo un dolore atroce e poi il sangue gli macchiò la vista, il viso, le mani dell'uomo sopra di sé.
“Queste non ti servono più” rise e Aaron sentì solo un piccolo tonfo alla sua destra prima di annaspare e affondare una mano nella spalla di Frank nel sentirlo trafficare ancora nella sua bocca.
“E nemmeno questa”
E il dolore quasi gli strappò la consapevolezza di essere ancora in vita. Mai, mai aveva sentito così tanta sofferenza e tremò convulsamente – rovesciando la pupilla verso l'alto, lasciando spazio solo alla sclera bianca.
Una lacrima, poi un'altra e Frank si alzò lentamente, guardandolo agonizzare sul pavimento con il viso imbrattato del suo sangue.
“Arrivederci” sogghignò, sparendo così com'era arrivato, lasciando la solita scia di terrore e angoscia alle sue spalle.
Una scia a cui Roxanne Weasley, appena arrivata, si inginocchiò – straziata. Aveva le mani tremanti quando toccò il volto di Aaron, esanime e pallido come non lo era mai stato. Guardò lo scempio che la circondava e tremò dinnanzi agli occhi accusatori degli altri cacciatori... ed Harry Potter, suo zio.

“Guardalo, Roxanne. Guardalo e continua a ripeterti quanto tu ama Frank e quanto tu voglia diventare come lui, solo per passare l'eternità ad uccidere chi hai sempre difeso. Uccidere chi ha lavorato fianco a fianco con te. Uccidere chi ti ha cresciuto” sussurrò Harry, con gli occhi verdi avvolti da una nebbia fosca – lontana, vicina al giorno in cui avevano messo fine alla vita di Ron per evitare che diventasse tutto ciò che aveva sempre odiato.
“Guardalo e continua a ripeterti quanto tu ama un fantasma che si è trasformato irrimediabilmente in un mostro” finì, dandogli le spalle e lasciando i Medimaghi intervenire velocemente.
Harry sapeva. Ah, se lo sapeva. Aaron aveva cercato Frank apposta per farsi ferire... per far rinsavire Roxanne o farsi uccidere per non dover più subire. Per non dover essere più un ombra.
Ma a che costo?
A che costo?

Si smaterializzò lontano da lì con il cuore più pesante, cercando di dare un senso a quel gesto estremo; era vero, Roxanne doveva darsi una svegliata, ma non a quel costo... non al costo della vita.
Sospirò. Comparve nella cucina di casa sua – a cui era stato fatto un incantesimo e riconosceva solo presenze amiche o autoritarie – e si guardò attorno con aria mogia.
Quanti momenti aveva vissuto lì? Quanta tristezza, gioia, dolore, avevano visto quelle mura?
Il bambino sopravvissuto, ora, poteva dire di avere una casa che non fosse Hogwarts. Una vera casa.
“Prima o poi la mamma ti carbonizza se continui a comparire così in casa” mormorò una voce alle sue spalle, facendolo sobbalzare.
Si girò di scatto e si innamorò ancora e ancora, come gli capitava da anni oramai. Dal giorno della sua nascita. Dal giorno in cui, prendendola in braccio per la prima volta, lei gli aveva rapito cuore, testa e anima – facendolo suo.
“Lily” mormorò, guardandola mangiare dalla tazza delle winx, per cui Albus era sempre andato matto.
“Mangi cereali alle due di mattina?” borbottò, guardando l'orologio magico alla sua destra e chiedendosi se fosse normale.
“Ehi! Le voglie vanno soddisfatte” sbuffò la ragazza, alzando gli occhi al cielo e portandosi il cucchiaio alle labbra.
“Sei incinta del figlio di Malfoy, per caso?” sbottò, assottigliando lo sguardo smeraldino e puntandolo su di lei – furioso.
Passati gli anni ad Hogwarts e assicurandosi che Lily fosse al sicuro ed esclusa da qualsiasi ritorsione maligna della sua stessa trasformazione, Harry aveva cominciato a comportarsi esattamente come avrebbe fatto un padre normale. O un padre geloso compulsivo. O come un padre ossessivo. O come un serial killer. O come uno che odia i Malfoy e basta.
“Scorpius, papà. Mi chiamo Scorpius”
Ed eccolo che compariva SENZA maglia, nella SUA cucina e lo chiamava PAPÁ. A Malfoy era venuto un colpo quando lo aveva sentito rivolgersi a lui in quel modo ed Harry si era pure divertito assai nel vederlo collassare...ma poi basta, cazzo. Basta! Quel nomignolo gli dava l'orticaria, specie se a pronunciarlo era il figlio di quel bastardo.
“Signor Potter, per te” sibilò con vocetta stucchevole quanto velenosa, guadagnandosi un risolino divertito da parte di sua figlia e un sogghigno – spiaccicato Malfoy – da parte di lui.
“Gradisce una tazza di camomilla?” cinguettò il platinato, sbattendo civettuolo le lunga ciglia bionde e avvicinandosi al cucinino.
Harry si trattenne dal mettere mani alla bacchetta.
“Gradisco che tu te ne vada da casa mia” sbraitò viola in volto, mentre Lily mangiava tutta paciosa i suoi cereali. Portava i capelli rossi sciolti morbidamente sulle spalle esili e una maglia così larga che Harry riconobbe come sua. La sua maglia preferita! Quella dei Puddlemere United, la sua squadra di Quidditch del cuore!
“Comunque, perché no? Io e Lily desideriamo così tanto un figlio!” disse Scorpius, distraendolo un attimo dal pensiero della sua maglia e catalizzando tutta l'attenzione su di sé.
Figlio. Malfoy. Lily.
Harry sbatté confuso le palpebre.
“Come scusa?” domandò, sinceramente confuso.
“Oh...ma non l'avevi ancora detto a tuo padre?” mormorò Scorpius, guardando Lily con dispiacere misto a sorpresa.
Figlio. Malfoy. Lily. E... « non l'avevi ancora detto a tuo padre? »
“Di cosa diavolo sta parlando questo scervellato?” sbottò Harry, cominciando a sentire una strana sensazione serpeggiargli a fondo stomaco.
“Scorpius!” lo richiamò Lily, arrabbiata, ma quello la ignorò alla grande, servendosi il latte ancora caldo nel recipiente sul cucinino e voltandosi a guardarlo con un sorriso smagliante sulla bocca piena.
“Io e Lily abbiamo deciso le date delle nozze... che saranno tra due mesi” sganciò la bomba tutto tranquillo, afferrando una manciata di cereali dalla scatola sul bancone della cucina e buttandoli nella sua tazza dei Puddlemere United.
SBAM. Harry svenne, pallido come un lenzuolo con l'espressione esatta di quel quadro Babbano di cui Scorpius dimenticava sempre il nome... una cosa tipo l'urlo di Punch... mah, uguale comunque.
Così uguale che Lily urlò, precipitandosi dal padre e svegliando tutta casa Potter.
Ops. Forse il “Signor Potter” non aveva preso bene la notizia delle imminenti nozze.

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Capitolo 5
*** IV ***


IV

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giselle McAdams era sempre stata bella, su questo non c'erano dubbi; con i suoi riccioli bruni e i grandi occhi azzurri – con la pelle diafana e le labbra rosse e carnose – aveva fatto girare la testa a più di un mago... Oscuro e non. La loro arida madre aveva sempre puntato su Giselle. L'aveva creata, modellata per avere quello che lei non aveva mai potuto avere.
Potere, fama, ricchezza. Clarissa McAdams aveva partorito un mostro – e ne era sempre andata fiera.
Aveva educato Giselle in modo che potesse entrare nelle grazie di chiunque, ma tutti sapevano chi era il suo bersaglio; Clarissa puntava all'Oscuro Signore e con quel corpo dal seno prosperoso, il busto perfettamente a clessidra e le gambe tornite, era quasi sicura di aver dato alla luce la prossima Lady. La prossima regina – colei che avrebbe affiancato Lord Voldemort per l'eternità, ricavandone ogni privilegio.
Ma lei era difettosa. Giselle guardò il suo riflesso nello specchio alto ben tre metri nella sua stanza al Quartiere dei Mangiamorte, passando sulle labbra un generoso rossetto rosso. Velenoso. E sorrise, scuotendo il capo e lasciando che i riccioli le rimbalzassero sulla testa.
Clarissa aveva calcato ogni minimo dettaglio... tranne la nascita di Jackson e un suo possibile disgusto verso Tom Riddle. Quanto, quanto aveva urlato quando le voci che Alice Paciock fosse entrata nel letto di Voldemort erano circolate, arrivando fino a lei.
Inutile parassita. Non era servita a nulla, nemmeno ad irretire un uomo.
Anche se l'Oscuro Signore poteva considerarsi tutto tranne che un uomo, Clarissa aveva strillato fino a perdere la voce. Poi l'aveva aggredita.
Giselle ricordava le sue mani sulla gola, quegli occhi azzurri – i suoi stessi occhi azzurri – spalancati dalla rabbia e il senso d'impotenza. E la vergogna che le corrodeva le vene come acido corrosivo.
Clarissa McAdams aveva creato e modellato Giselle. L'aveva educata al sesso e al piacere, spalancandole le porte dell'inferno... e facendole vedere come mostrare quelle del paradiso. Ma aveva sbagliato i calcoli, anche su di lei, anche sul punto di ucciderla, perché così presa dalla rabbia nemmeno si era resa conto della bacchetta puntata sulla nuca.
Jackson aveva sussurrato quell'Avada Kedavra con tale semplicità da sorprendere persino se stesso. E Clarissa era crollata contro di lei, esanime.
“Mi piace come ti sta il rosso”
Giselle girò appena la testa, incontrando il suo stesso sguardo dall'altro lato della stanza – dove suo fratello l'aspettava con le spalle larghe poggiate contro lo stipite della porta.
Il lampadario di cristallo sulle loro teste illuminò appena i capelli castani di lui e Giselle sorrise, arrossendo appena sulle guance. Indossava un vestito di velluto rosso, lungo e largo fino ai piedi e portava tanti piccoli rubini sullo scollo rigorosamente a cuore. Le scarpe dal tacco alto quasi stridettero sul marmo bianco quando tornò a fissare il suo riflesso, girando su se stessa.
“Dovremmo andare” disse di nuovo Jackson e Giselle annuì, lisciandosi ancora una volta la gonna e ignorando lo spacco che lasciava intravedere tutta la coscia sinistra.
Nonostante sua madre fosse morta da più di un anno, lei continuava ad essere ciò che Clarissa aveva sempre voluto. Una puttana d'alto borgo.
Una lurida prostituta che si basa sul proprio aspetto per andare avanti nella vita. Una... una...
“Oggi la luna è piena”
Jackson la prese sotto braccio e la trascinò fuori dalla stanza spoglia, chiudendo la porta dietro di sé; il letto a baldacchino che torreggiava al centro aveva visto le loro lacrime, insicurezze e i loro primi passi. L'armadio a doppia anta, accanto allo specchio che Giselle tanto adorava quanto odiava, e poi il vuoto. Nulla che potesse rispecchiarli. Niente in cui potessero identificarsi.
Spoglia, come la loro anima. Vuota, come i loro cuori. Impersonale, come tutto ciò che apparteneva a quel mondo – lontano miglia da loro.
“Ed è rossa?” gemette Giselle, guardando il fratello attraverso le lunga ciglia brune e Jackson annuì, grave.
“Scorrerà sangue, questa notte” mormorarono all'unisono, quasi predicendo una profezia inquietante quanto allettante.
Attraversarono il corridoio buio, guardando fuori le arcate che si succedevano una dopo l'altra con un misto di suggestione e ansia. L'immenso collegio che era diventato da anni il Quartier Generale dei Mangiamorte sostava a nord dello Yorkshire, in una campagna sperduta difficile da localizzare persino dagli animali. Erano circondati da una distesa di margherite nere e rose bianche, così in contrasto con loro stesse da creare un panorama unico e la casa aveva più di quattrocento stanze.
Dall'aspetto vittoriano, rimodernato da ampie finestre e archi di marmo, di primo impatto sembrava di trovarsi dinnanzi ad una caserma militare; le stanze erano tutte maledettamente uguali, dagli ampi letti a baldacchino ad un solo armadio a riempire lo spazio. Stanze su stanze, una biblioteca, una cucina e una Sala Riunioni, ecco tutto. L'essenziale che faceva a pugni con l'immensità di quel posto.
Giselle mai aveva vissuto in una casa così tetra. Nonostante le ampie arcate che portavano luce, ad ogni angolo l'ombra sembrava prendere il sopravvento... inghiottendo il resto.
I muri erano lisci e marmorei, ma freddi, abbracciati da un buio che non esisteva... ma che quasi veniva creato dagli stessi abitanti.
Assassini. Animali. Bestie.
“Ancora non si conosce il motivo per cui Nostro Signore ci ha mandato a chiamare?” mormorò Giselle, guardando il profilo di suo fratello con un'ammirazione che pochi potevano vantare di aver visto nel suo sguardo.
Jackson fece spallucce, scuotendo il capo.
Era bello, suo fratello. Con quel profilo imponente, dalle labbra carnose e il naso perfettamente dritto e delineato, aveva l'aria di un cherubino sperduto. L'aria di un angelo sofferente, cacciato senza motivo dal suo paradiso.
Ma in fondo... non era così? Loro erano angeli, con quel potere così speciale che li contraddistingueva dagli altri, ma venivano usati per loschi motivi. Il loro “effetto collaterale” veniva usato per uccidere... e questo li rendeva malvagi, cattivi, assassini. Animali. Bestie.
Come tutti gli altri.
“Ho come la sensazione che Avery sia tornato alla base” mormorò Jackson, passandosi una mano tra i capelli riccioluti e corrucciando le sopracciglia.
Faceva sempre così, quando era triste.
“Non possiamo proteggere tutti, fratello caro” bisbigliò Giselle, stringendosi contro il suo braccio e lasciando intravedere la valle dei seni attraverso la generosa scollatura.
Jackson la guardò appena, arrossendo dalla radice dei capelli fino alla punta dei piedi. Con un colpo di tosse si aggiustò il colletto del mantello nero che indossava, in completo con la camicia e i pantaloni di seta dello stesso colore, strappandole un sorrisetto spavaldo.
“Nemmeno noi stessi, a lungo andare. Ci aspetta l'inferno, amore mio, e non ci andrò solamente per un maledetto cip conficcatomi nella carne” sibilò rabbiosa, lasciando che il ticchettio furioso delle scarpe accompagnasse le sue parole.
No. Non sarebbe bruciata tra le fiamme eterne solo per volere di altri.
Lei era un assassina, un animale, una bestia... e da tale si sarebbe comportata, se quella sarebbe stata l'unica porta disponibile a spalancarsi al suo cospetto.
“Siamo nella merda”
Una volta arrivati all'ala Ovest, dove la Sala Meeting e la stanza dell'Oscuro erano gli unici due stanzoni presenti, entrambi guardarono la voce che aveva esclamato aspramente quelle parole.
Alice si passò una mano tra i capelli biondi e lunghi, avvolta in un delizioso abito di raso nero – che con due spacchi le scopriva le gambe e i sandali dal tacco alto. La scollatura di pizzo lasciava intravedere il solco tra i seni e il tatuaggio che si era fatta fare da Michael un anno prima, ed era sfinita.
Era appena stata nella SUA stanza. Ogni volta che lo faceva, sembrava malata; l'incarnato era più pallido del solito e le occhiaie le appesantivano lo sguardo.
Facendo sesso con Lord Voldemort, Alice sembrava risucchiare la sua oscurità. E sembrava non digerirla bene.
“Che succede?” sbottò Jackson avvicinandosi a grandi falcate e lasciando indietro Giselle, immobile.
Non si erano mai sopportate, tutte e due, dalla prima volta che si erano conosciute. Erano l'opposto: il giorno e la notte, il bene e il male, il coraggio e la vigliaccheria, la vita e la morte, l'amore e malignità.
“Quello stupido... quello stupido di Avery si è fatto scoprire nientepopodimeno che da quello zotico di Cadice!” sussurrò Alice, stringendosi le braccia esili attorno al busto.
Era dimagrita ancora. Ogni giorno che passava, Giselle vedeva la stessa Paciock sopperire al destino che si era scelta con le sue stesse mani, avvizzendo e rassomigliando sempre di più allo scheletro che brillava tetro sul suo braccio sinistro.
Il sole si oscurò e un tuono fece tremare le fondamenta.
“Ha incaricato noi”
Michael apparve alle spalle di Alice e le accarezzò appena il collo, scostandosi di scatto. Lui sentiva quando Voldemort la toccava, quasi come se i pori di lei lo urlassero a squarciagola.
Giselle sorrise, disgustata. Non che quello stupido facesse qualcosa. Michael la lasciava fare e basta – guardando da lontano lo scempio e la morte che Alice, giorno dopo giorno, attirava a sé.
“Merda” sbottò Jackson, sbattendo un piede a terra come un bambino capriccioso e girando di scatto la testa verso di lei, quasi aspettandosi che dicesse qualcosa.
“Non avevo nessun dubbio. Da quando si è innamorato, Avery ha perso completamente il lume della ragione” sbuffò, quasi divertita. E in effetti lo era.
Avery era stato uno dei più terribili assassini, ai tempi della Prima e Seconda guerra Magica. E ora? Ora cos'era?
Un condannato a morte. Un uomo che si era stretto da solo la corda al collo... solo per essersi innamorato di una donna che, per il loro padrone, non avrebbe dovuto nemmeno esistere.
“Dovete coprirmi” sussurrò Alice, guardandoli ad uno ad uno con una luce determinata negli occhi. Giselle sospirò, accarezzandosi il collo quasi stufa di quella solfa.
Attenzione, attenzione! Fate spazio all'eroe del secoli, signori e signore!
Alice Paciock, nientepopodimeno che la scopa amica di Lord Voldemort. Yeah!
“Sembra quasi che tu ne sia gelosa” mormorò Alice, con tono lascivo e anche un po' cattivo, fissandola attraverso le lunga ciglia e bloccando i due ragazzi – che la guardarono senza capire.
Giselle rise, scuotendo il capo.
“No, certo che no, Vostra Altezza” bisbigliò, usando volutamente quel nomignolo e mandandola in bestia.
“A me sembra proprio di sì, Principessina” sibilò l'ex Tassorosso, ora con una strana luce rossastra nello sguardo.
Stava quasi facendo la stessa fine della Granger anni or sono.
“Mi sa che io ora non posso coprirti, ho da fare” cinguettò Giselle, melensa e zuccherosa come solo lei sapeva esserlo – dandole le spalle con una giravolta e facendo roteare il suo bellissimo vestito di velluto.
“Abbiamo una riunione!” strillò Alice, mentre lei, con i morbidi fianchi, si allontanava ancheggiando. La coda del vestito frusciava sul marmo bianco, dando l'impressione di lasciare alle sue spalle una scia immensa di sangue.
Jackson socchiuse gli occhi, addolorato.
“Guarda un po'... ho appena accusato un malore e non posso proprio partecipare” ridacchiò la McAdams, mandandola nel pallone.
Merda. Se la sua assenza era difficile da spiegare all'Oscuro, anche quella di Giselle sarebbe stata impossibile da colmare. E lei doveva avvisare gli Auror dell'attacco imminente a casa Avery.
Merda, merda, merda!

 

✞ ✞ ✞

 

 

Draco Malfoy accarezzò con dedizione i capelli ricci e bruni della sua piccola bambina, seduto su una poltroncina “rosso-oro” come un re spodestato dal proprio trono e fissava le persone che lo circondavano con un'aria scettica e disgustata – quasi come se la presenza di tutti quei plebei lo disturbasse.
“Io non lascio la mia bambina nelle mani di quel Malfoy della malora!” sbraitò Harry, rosso come un pomodoro e in procinto di farsi venire un coccolone.
Draco si bloccò, con una smorfia sulla bocca sottile, per poi ritornare ad accarezzare pigramente i capelli morbidi e profumati di Narcissa, che quel giorno indossava un delizioso vestito bianco, dalle maniche lunghe e la gonna a pieghe, con dei stivaletti rosa pallido imbottiti di pelliccia.
“Io non lo lascio entrare nella mia famiglia e nelle sottane di mia figlia!” urlò ancora, mentre il salone di casa Potter continuava a popolarsi.
Draco salutò distrattamente James, apparso con la solita ciambella tra le gengive e questo ricambiò con la testa tra le nuvole. Come sempre.
Ultimamente il primogenito di Potter sembrava camminare a tre metri da terra, con i capelli sempre scompigliati e le occhiaie che non erano date dal lavoro.
“Nelle sottane di Lily ci è entrato anni fa, paparino” ridacchiò, facendo notare la sua presenza a tutti quanti.
Ginny alzò gli occhi al cielo, preparandosi all'ennesima sfuriata – depositò tutte le tazze sul tavolino basso proprio al centro del salone e se la diede a gambe prima di venire incolpata della condotta immorale di sua figlia. 'Manco Harry avesse aspettato il matrimonio per fare sesso con lei.
George Weasley si accese uno dei suoi sigari al cioccolato, accarezzando la testa del cane meticcio che aveva adottato sei mesi prima. Un bestione di venti e passa chili dal pelo ambrato e gli occhi azzurri belli accesi e vividi: di solito saltava con la lingua a penzoloni su chiunque si materializzasse, ma ora sembrava così preso dalle coccole del suo padrone che si limitò a guaire, soddisfatto.
“Tu, dove diavolo eri finito?” urlò Harry verso suo figlio, con i capelli ritti in testa e gli occhiali storti sul naso.
Draco continuò ad accarezzare i capelli di Narcissa, quasi come se fosse Weston, il cane di George. Questa alzò appena lo sguardo verso di lui, chiedendosi se fosse normale tutto quel accarezzarla nemmeno fosse in punto di morte, per poi ritornare a fissare la sua bambola di pezza.
E quanto cazzo era brutta, quella bambola, poi! Draco l'aveva portata in uno dei migliori negozi di giocattoli, spingendola a scegliere quello più bello – strafregandosene se avrebbe dovuto pagare un occhio della testa – e quella andava a scegliere quella cosetta abbandonata in un angolino. Con quei capelli rossi e gli occhi a bottone azzurri, aveva un qualcosa di inquietante che spingeva Draco a girarla a pancia in giù quando Narcissa insisteva per dormire insieme a lui e Hermione.
Brutta come la morte.
“In giro” rispose James, facendo spallucce come se la sua incazzatura non lo riguardasse.
Harry si scompigliò furiosamente i capelli e puntò i suoi fanali su Draco. Quest'ultimo, che oramai stava scandendo i secondi, ricambiò con noia.
Mica era scemo. Sapeva perfettamente che Potter stava perdendo tempo per prendersela direttamente con lui.
“Lo sappiamo tutti che è colpa tua” sibilò furioso, additandolo nemmeno gli avesse appena ammazzato il figlio. Cosa che, con James, ne avrebbe sofferto solamente quella povera anima pia di Dominique. E nemmeno.
“Certo, Potter, certo” sbadigliò, mentre Narcissa si aggrappava al suo braccio.
Draco la ignorò, come ignorò l'ex Grifonidiota, accarezzando il vuoto – visto che la bambina si era spostata, stanca di quei grattini non chiesti.
Harry lo guardò, stranito, ma lui oramai era completamente perso nei suoi pensieri; Morgana... erano mesi che era sulle tracce di Albus e solo poche ore prima aveva saputo che era tornato a Londra. E ora chi cazzo glielo diceva a quel dispotico di Potter che suo figlio era tornato in patria ma che non li aveva cagati di striscio?
“Sai, quando la settimana scorsa eri troppo preso a coccolare Narcissa, io sono andata nell'ufficio di Hermione e me la sono trombata selvaggemente” cinguettò Harry, sbattendo civettuolo le ciglia nere e attirando l'attenzione di tutta la Sala. Tranne la sua.
Rose, che si era appena smaterializzata con addosso un delizioso maglioncino di lana bianca e dei pantaloni neri e attillati, si fermò al centro della stanza – confusa.
“Ah si?” mugugnò Draco e ora le teste viaggiavano da lui ad Harry, che aveva capito tutto. Non lo stava cagando nemmeno di striscio e solo una cosa – o meglio, una persona – riusciva a risucchiare tutte le energie di Malfoy.
“Certo. E sapessi come urlava...” sibilò, mentre Ginny lo guardava dalla cucina con tanto d'occhi, chiedendosi se prenderlo a sberle o con una bella fattura Orcovolante.
Draco guardò il parquet sotto i suoi piedi e bei parati rosso-oro che circondavano quelle mura sempre calde; il caminetto di mattoni alla sinistra della stanza sfrigolava contento e, alla sua sinistra, un immensa finestra lasciava intravedere il sole coperto da molteplici nuvole.
Parecchi candelabri erano affissi agli angoli della stanza, creando un'atmosfera soffusa, ma abbastanza forte da essere accoglibile. Le poltroncine sparse per la stanza, il tavolino sempre gombro di tazze o giornali e i quadri chiacchieroni, rendevano il salone di casa Potter un vero e proprio rifugio. Casa. Perché Albus non era tornato lì, appena aveva messo piede in Inghilterra?
Perché non si era rifugiato nel calore della sua famiglia, che oramai lo aspettava da tanto, troppo tempo?
“Okay, ora mi dici cos'hai o giuro che una scazzottata non mi basterà”
Draco sobbalzò, ritrovandosi gli occhi di Harry ad un centimetro dai suoi. Aveva poggiato le mani sui braccioli della poltroncina dov'era seduto e lo stava sfidando.
“Mi spiace, la mia non è sessualità repressa come la tua. Io non sono gay, ti odio veramente e basta” cinguettò, facendolo incazzare davvero.
“Non ti scoperei nemmeno col cazzo di un altro, Malfoy” sibilò Harry, faccia a faccia, sfidandolo a replicare.
“Oh, così mi spezzi il cuore”
“Fottiti”
“Sicuramente non con te”
“SMETTETELA, TUTTI E DUE!” sbraitò una terza voce. Entrambi si girarono, pronti a replicare e zittendosi immediatamente nel ritrovarsi un Hermione Granger ancora in tenuta lavorativa e con i capelli così disordinati da far temere al resto dei presenti un attacco diretto.
“Cos'è successo?” sbottò Draco, mandando Potter all'aria e alzandosi di scatto, mentre Narcissa correva dalla sua mamma tutta contenta di poterla vedere di nuovo. Quella bambina sembrava avere un complesso di Edipo non indifferente, comunque.
“Ho avuto un bel faccia a faccia con la nostra spia” disse Hermione, togliendosi stizzita la sciarpa nera dal collo e sbottonandosi la giacca del tallieur perfettamente su misura che indossava.
“E...?” la esortò Harry, già impugnando la bacchetta e pregustando una possibile battaglia.
“E stanno andando a prendere Avery nella sua bella casetta. Penso che se volete salvare qualcuno, compresi i bambini, vi conviene muovere quei culi mosci che vi trovate.
Due Auror sono già sul campo, ma voglio qualcuno di esperto lì; mi pare di aver capito che loro sono in pochi, ma hanno i gioiellini a combattere” mormorò, scuotendo il capo.
I gioiellini, come li avevano soprannominati gli Auror più anziani, erano gli incroci che Diamond aveva creato – e che Lord Voldemort stava continuando a mandare avanti. Quei ragazzi dai poteri speciali, messi al mondo apposta per mandare avanti una guerra che li aveva segnati dalla nascita... insieme a quel maledetto cip che si sarebbero tenuti dentro a vita e che li condannava ad un esistenza senza libero arbitrio.
Harry annuì e insieme a lui si smaterializzarono Draco e Lily, che era sfuggita alla presa del suo ragazzo per afferrare la mano del suo futuro suocero. Scorpius urlò e lei fu risucchiata in un vortice indistinto di suoni e colori – fino a sbattere con il culo per terra.
Quando tutto fu finito aprì gli occhi, tossendo, e si ritrovò dinnanzi ad uno spettacolo raccapricciante; la casa, il piccolo cottage che Avery aveva costruito con le proprie mani, andava a fuoco. Gli alberi, le siepi e le assi – il sostegno dell'intera casa – crepitavano allegramente, come legno nel camino.
“Merda, merda, merda!” sbottò Harry, lanciandosi in avanti.
C'era fumo dappertutto e a Lily sembrò tornare indietro nel tempo; nonostante anche lei fosse un Auror fatto e finito, non aveva ancora messo piede nel campo dopo la piccola battaglia che si era tenuta ad Hogwarts il suo ultimo anno. Lei si era tenuta in disparte, troppo impegnata negli studi.
Troppo impegnata a scoprire qualcosa di reale sugli angeli, imbattendosi in sole leggende. E ora eccola di nuovo lì, con la bacchetta in pugno, a combattere contro un passato che le bruciava le vene, l'orgoglio, il sangue.
Era quello il suo destino. Era quello il destino di ogni singolo Potter che sarebbe venuto al mondo.
La magia, il suono degli incantesimi che si scontravano, erano qualcosa che tutti loro avevano dentro fin dalla nascita.
“Noxa” sussurrò a bassa voce, puntando la bacchetta verso l'uomo che veniva verso di loro e questo urlò – inginocchiandosi ai piedi di Draco, ancora immobile al suo fianco.
Si girò di scatto verso di lei.
“Non cominciare a giocare con qualcosa che non puoi controllare, bambolina” sibilò, ora con gli occhi incendiati e Lily annuì, abbassando il capo.
Quasi si vergognò di quella debolezza. Lei aveva qualcosa che non andava. Lei aveva il male che albergava in una piccola parte di lei e usciva fuori appena il suo senso di protezione s'allertasse.
Iniuria” urlò una voce alla loro destra e Lily si morse le labbra fino a sentire il sapore del sangue in bocca. La bacchetta era stata puntata verso la sua gamba e questa crollò sotto il peso del dolore, facendola traballare.
Sorrise. Sapeva bene chi aveva pronunciato quell'incantesimo: l'unica persona che li conosceva oltre lei.
“Guarda chi si rivede” urlò, con il fuoco che le illuminava i tratti resi quasi folli dal divertimento. Gli occhi bruni accarezzarono quella figura morbida e sinuosa e Alice riuscì, ancora una volta – fino a sentire le ossa congelarsi – a vedere quell'ombra nera inghiottirle l'iride. Fu solo un attimo. Un singolo momento che bastò a farla tremare.
“Chi non muore si rivede” sussurrò Alice, con la veste strappata sulle gambe e un piccolo taglio sulla guancia.
Lily portava i capelli rossi legati sulla nuca e il maglione panna, in cui quasi ci sembrava annegare, quasi la faceva sembrare più piccola di quel che era; alunna e maestra, se così si poteva dire, si ritrovarono faccia e faccia.
“Vedo che ti sei riletta con piacere quel bel libricino” ridacchiò Lily, che si teneva in piedi a stento dopo la botta alla gamba.
Alice scosse il capo e il marchio, quasi offeso da quell'affermazione, sembrò brillare sul suo avambraccio. Vivido. Nero. Tetro.
“Dimenticavo il tuo nuovo maestro” bisbigliò la Potter, senza lasciare che lei aprisse bocca.
E non lo fece. La sua bocca non si aprì quando, con i polsi girati verso l'alto, qualcosa cominciò a squarciarle la pelle, le vene, le ossa. Senza aprir bocca, qualcosa di nero e acuminato stava prendendo forma contro il rosso del sangue che sgorgava copioso dalla ferita.
La luna rossa le illuminò in quello spiazzato dalla terra bruciata e quando finalmente le punte delle frecce scoccarono – ora lontane da quei polsi che sembravano essersi ricuciti un secondo dopo – si fiondarono immediatamente su di lei. Una le colpì la spalla e Lily gemette, l'altra andò alla gamba già ferita, facendola crollare sul terriccio.
“Già, quasi dimenticavi il mio nuovo maestro” bisbigliò Alice, senza nemmeno sobbalzare quando la casa crollò ed Harry urlò il nome di Lily.
“Allora è questo che fai ora... ammazzi gli stessi innocenti che anni fa hai difeso a costo della vita” mormorò una terza voce, quasi disgustata dallo spettacolo raccapricciante che gli si parava dinnanzi agli occhi.
Le due donne si girarono di scatto, sorprese e Lysander scosse il capo ad un solo metro di distanza da Lily. Lì, seduto sulla sua sedia, sembrava un re senza corona. Un re spodestato dal suo incarico... ma non dal trono.
“Lysander” sussurrò Alice, sgranando gli occhi di scatto.
Aveva la veste di raso nera strappata sulle gambe ora completamente nude e il seno scoperto dalla profonda scollatura di pizzo. Oltre il marchio nero, che brillava crudele e trionfo sul suo avambraccio, una rosa faceva bella mostra di sé sulla spalla – quasi ricordandogli che nonostante ora fossero lontani, lei continuava ad essere in fioritura. Lei continuava ad essere bella – tanto da far mancare il fiato – e non avvizziva mai. Nonostante non fossero più insieme e lui fosse morto in quell'esatto momento, lei non avvizziva mai. Appena aveva sentito Hermione parlare con quella spia, subito si era catapultato lì, con il cuore in tumulto. 
“Lily, come hai potuto dimenticare il suo nuovo maestro? Lo sanno tutti che lei è nelle sue grazie da un bel po” ridacchiò Lysander. E con “grazie” entrambe capirono il sottinteso. Per grazie lui intendeva letto.
Alice si trattenne dallo sboccare lì, davanti all'ex amore della sua vita e la sua ex compagna, disgustata da se stessa. Avrebbe voluto tanto vomitare e crollare, piangere fino a sentirsi sfinita. Ma c'erano occhi che la guardavano.
C'erano occhi che la osservavano per bene e lei non poteva permettersi nessuna debolezza. Lysander aveva ragione: lei era nelle grazie dell'Oscuro Signore e ben presto sarebbe stata anche di più. E lui non ammetteva debolezze. Lui non ammetteva amore o pietà per nessuno.
“Va via, Lysander” disse, con quella voce bassa che oramai la contraddistingueva dalla se stessa del passato. Ad Alice quasi mancava la sua voce da soprano, quella che sentiva trillare nonostante fosse sua.
Odiava quel tono basso, appena sussurrato, come un eco di quello che era stata. Era davvero un fantasma? Era diventata tutto ciò che i suoi genitori avevano sempre odiato... che Lysander aveva sempre odiato, che Franck aveva sempre odiato, solo per loro. Loro, che la odiavano. Lei era diventato il loro incubo peggiore per proteggerli.
Che strana era la vita. A Lily Potter era stato perdonato tutto. Quando lei era diventata un demone, tutti le erano stati vicini. Ma ad Alice non era permesso.
Lei era sola. E sola sarebbe stata.
Per sempre.
“Cosa si prova ad essere la puttana dei Mangiamorte, eh, Alice?”
Ora Lysander urlava, con gli occhi azzurri spenti contro le fiamme. Sembrava un guscio vuoto – ora. Senza scopo, senza arte né parte.
Lysander, senza di lei, era l'eco di se stesso. Come lo era lei senza di lui.
Quanto erano uguali...
“La stessa cosa che si prova a starsene seduti su una sedia, impotenti” rispose, spezzandosi insieme a lui. Con lui. Solo per lui. Come sempre.
Quanto erano uguali...
Michael apparve alle sue spalle e l'afferrò per un braccio, ansimante.
“Andiamo via, Alice” sibilò, mentre questa era completamente soggiogata dall'uomo che le stava di fronte.
“Ti scopi anche lui o sei proprietà privata di Lord Voldemort?”
Michael scoprì le zanne lunghe e doppie ancora sporche di sangue e Lysander scoppiò a ridere.
“Ti scopi anche lui. Ricordo bene cosa ti piaceva, a letto” rise, sempre più perfido.
Ora il cuore le faceva così male che le sembrava di impazzire. Niente, nessuna ferita al corpo poteva essere comparabile a quello che le stava facendo lui.
Che fosse maledetto! Lui la guardava e lei si sentiva sprofondare sempre più in giù, in un baratro che nemmeno la vergogna di essere la preferita di Tom Riddle per una ragione la trascinava così in basso.
“Mi scopo il mondo intero, basta che abbia le gambe funzionanti. Sai bene che a me piace stare sotto” e con quello seppe di averlo seppellito.
Con quello seppe di aver fatto a pezzi entrambi. Ed entrambi non si sarebbero mai più ricostruiti. Mai più.
Lysander fu veloce ad afferrare il pugnale dallo stivale di pelle che indossava e altrettanto fulmineo nel lanciarlo verso di lei. Dritto, letale, fendette l'aria senza che lei si spostasse di un millimetro – lasciando che la lama le trapassasse il cuore.
Lo guardò, continuandogli a giurare amore eterno. Continuandogli a giurare che tutti, tutti potevano prendere il suo posto al suo fianco, ma che nessuno avrebbe sopperito la sua assenza e quella presenza nel suo cuore – che le squarciava l'anima ogni singolo giorno.
Fu così che Michael la smaterializzò. Mentre lei lo guardava negli occhi e continuava a giurargli e promettergli che lui era l'unico.
E così sarebbe stato. Per sempre.

 

 

✞ ✞ ✞

 

 

“Certo che tu sei proprio scema. Farti beccare così, con un tipo del genere dopo che gli avevi contato quella balla... è normale che Zabini ora crede di avere due corna da non poter passare sotto i ponti”
Il fatto che Jackie Alaia non avesse peli sulla lingua, proprio lui, che in vita sua non aveva mai fatto nulla di lecito o morale, lei doveva ancora decidere se fosse un bene o un male. Insomma, oramai lei ci conviveva con quel maledetto e il suo sputare sentenze a destra e sinistra risultava sia irritante che veritiero e rivelatore.
Era lui ad aprirle gli occhi e questo non sempre andava giù a Joanne Smith, che si sistemò infastidita il camice bianco – liquidando la faccenda con uno sventolio di mano, come se stesse scacciando una mosca molesta.
“Seriamente. Forse dovresti rivedere le tue priorità” borbottò Jackie, iniettando una sostanza blu nel cadavere steso sul lettino di ferro di fronte a loro.
Joanne sospirò. Non aveva mica tutti i torti. Da quando lei e quel mentecatto si erano messi a giocare con il fuoco, lei era così impegnata in quel progetto e al non farsi scoprire che aveva messo Dalton all'ultimo posto della sua scala delle priorità. E lui ne stava risentendo, e anche molto. Forse troppo.
Ah, stava impazzendo!
“Già essere la sua fidanzata mi costa, Alaia. O forse credi che sia facile esserlo” sbuffò, afferrando il bisturi alla sua sinistra e facendo un piccolo taglio sul petto del cadavere.
La Sala mortuaria dell'ospedale magico St. Smith – chiamato così in onore del padre di Joanne – era uno stanzone così immenso da poter ospitare più di tremila cadaveri; asettica, completamente pitturata di bianco, aveva tante piccole finestre poste quasi sul soffitto, nonostante la stanza fosse sotterranea, e lettini, frigoriferi e armadietti di solo acciaio.
Quando Joanne aveva deciso, con la liquidazione di suo padre, di aprire quell'Ospedale, Dalton non se l'era fatto ripetere due volte: con l'aiuto cospicuo di suo padre e le sue conoscenze, aveva fatto in modo di trovargli uno stabilimento in una campagna che distanziava di poco dal centro di Londra e l'aveva aiutata a rendere quel posto una vera e propria abitazione, più che un ospedale.
Oltre il San Mungo, il suo era l'unico pronto soccorso e ospedale presente in tutta l'Inghilterra e il Ministro aveva stanziato con piacere il progetto; tutto era andato come doveva. Il villone di sette piani ospitava stanze su stanze e tecnologie che solo loro potevano vantare.
E lei, nonostante fosse il capo di quella baracca, doveva nascondersi ben bene per fare quello che stava facendo; se qualcuno li avesse scoperti, sarebbero finiti ad Azkaban senza processo.
“Ancora non riesco a capire cosa ci sia di difficile nell'essere la fidanzata di Zabini. Andiamo, Joe! Nonostante io sia un etero convinto al cento percento, ho ancora gli occhi e il buon senso di ammettere che Dalton, nonostante sia stronzo di natura, è un gran bel ragazzo... e ti ama più della sua stessa vita” disse Jackie, aprendo con le mani guantate di lattice il taglio che lei aveva fatto sul petto di quel povero disgraziato.
A volte Joe si chiedeva se fosse giusto. Quelle povere persone, che per cause naturali e non, schiattavano da sole in quell'Ospedale – senza che nessuno richiedesse indietro il corpo – venivano sottoposte a torture di cui Joe rabbrividiva al solo pensiero... nonostante fossero le sue stesse mani a farlo.
Resuscitare i morti. Che cosa contro natura. Che obbrobrio. Che orrore.
Eppure lo faceva. Eppure lo stava facendo.
“Forse hai dimenticato quello che ho passato ad Hogwarts” mormorò, amara, ricordando il periodo di allontanamento, paura e bullismo che aveva passato per colpa di Dalton.
“Appunto. Zabini ha quasi ucciso quella stronza della sua ex ragazza e di quell'altra sgualdrinella quando ha saputo quello che ti facevano. Quello è pazzo di te sotto ogni punto di vista” sbuffò Jackie, scuotendo la testa per il suo essere dura.
Nonostante non fosse più un adolescente in piena fase ormonale, continuava ad odiarsi. Lei continuava a non accettare il suo corpo, il suo viso, le sue imperfezioni... l'avevano colpita così a fondo, così intensamente, da procurarle ferite che non riuscivano a rimarginarsi.
“Ragazzi, siete ancora chiusi lì dentro?” urlò una voce oltre la porta d'acciaio e Joe sbiancò – afferrando di volata il lenzuolo bianco con cui avevano scoperto il cadavere e coprendolo nuovamente.
“Oh, ciao Sirius!
Aspetta, ora ti apriamo” disse Joe, mentre Jackie afferrava velocemente il corpo e di peso lo trascinava verso uno dei frigoriferi aperti. Lo mise dentro e, annuendo verso la Smith, le diede il consenso di correre ad aprire la porta chiusa a chiave.
“Voi due mi spaventate quando vi chiudete a chiave con tutti questi cadaveri” sbuffò l'uomo, che con il corpo di Diamond era ritornato indietro di vent'anni.
Gli occhi grigi, il taglio sbarazzino e il volto giovale, avevano già conquistato il cuore di Which journal, il più rinomato giornale per streghe.
“Cos'è, hai paura che ci aggrediscano?” rise nervosa, sfuggendo al suo sguardo e ridacchiando in modo frivolo... come aveva imparato a fare in presenza di un uomo.
Gli sguardi non la soddisfacevano, come nemmeno i complimenti. Joe non riusciva a capire cosa gli altri vedevano in lei: perché lei non riusciva a vedere niente di quello ciò?
“Oh, ho imparato che i morti sono più utili di alcune persone vive” mormorò Sirius, guardandola attentamente e seriamente con i suoi occhi grigi.
Gli occhi grigi dei Black. A volte Joe aveva l'impressione che le leggesse nella mente – scavandole a fondo, nell'anima – e le faceva paura. Lui era capace di profanarla, come lei stessa faceva con quei cadaveri.
“Sciocchezze” s'intromise Alaia, infilandosi tra le labbra un leccalecca alla frutta e sorridendo per la fattezza oramai scomparsa.
Già, Jackie aveva bisogno di una spinta per squartare cadaveri e cercare di resuscitarli, ma Joe cominciava a pensare che oramai le canne non gli procurassero più nessun effetto; ne era così dipendente e ne faceva così abuso che si sarebbe sorpresa del contrario.
“Andiamo a cena? Ho una fame” borbottò, mentre Joe afferrava Sirius per un braccio e lo trascinava nei corridoi illuminati del sotterraneo.
Solo gli infermieri con un tesserino speciale potevano entrare lì e Black non era uno di quelli. Ma bazzicando spesso l'ospedale e aiutandoli, Joe non si sorprendeva più dei posti dove poteva ritrovarselo.
“Sono venuto a cercarvi perché penso che dobbiate preparare il pronto soccorso. Harry e gli altri hanno avuto una soffiata e ho la brutta sensazione che qualcuno non tornerà sano da lì” disse Sirius e Joe si mise subito sull'attenti.
“E cosa diavolo stavi aspettando per dirmelo?” sbottò, avanzando il passo e superandoli di gran carriera.
Si sistemò il camice bianco e il cartellino con il suo nome sul petto e ignorò i due alle sue spalle.
Sirius fiutava qualcosa. E lei non poteva permetterselo.
Voleva bene a Black come qualsiasi componente della famiglia Potter, anche se lui riusciva a capirla come nessuno sapeva fare... ma non poteva assolutamente permettere che lui scoprisse il suo segreto.
Resuscitare i morti non era uno scherzo e nemmeno le tragiche conseguenze che farlo portava.

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Capitolo 6
*** V. ***


v.

 

 

 

 

 

“Sta bene” la voce di Joe era serena e calma e Scorpius poté tirare finalmente un sospiro di sollievo, ringraziando tutti i protettori di Hogwarts e i Santi in paradiso. Si alzò dalla sedia d'acciaio nella Sala d'aspetto dov'era stato costretto ad aspettare per ben due ore e guardò l'amica di vecchia data in attesa di risposte.
“Non devi preoccuparti” ora la voce della donna era bassa e concitata e gli occhi neri determinati. Portava i capelli raccolti in una coda, ma le mani leggermente in tremito e le occhiaie indicavano che aveva appena passato le ore più brutte nella Sala Operatoria.
“Sai bene che appena finita Hogwarts i miei studi si sono concentrati su come guarire tutto, anche la magia oscura e sai anche che i miei insegnati sono stati molto, ma molto bravi” cominciò e Scorpius lo sapeva bene.
Se Angelique era sparita nel nulla, lasciando il vuoto dietro sé, Lily aveva stabilito qualche contatto con la cricca di demoni che avevano conosciuto tempo addietro. Ed era stato proprio uno di quei demoni ad insegnare a Joe alcuni dei trucchetti che conosceva ora.
“Gli organi interni non sono stati toccati e nemmeno la sua anima – che adesso è quella che ci preoccupa di più, dato i suoi precedenti” continuò la Smith, aggiustandosi con un sorrisetto il cartellino con il suo nome.
“Allora?” la incalzò Scorpius, asciugandosi il sudore tra le mani sui pantaloni della tuta che si era infilato di fretta e furia quando lei si era aggrappato a Potter Senior per quella spedizione improvvisa.
“Allora congratulazioni, signor Malfoy. Suo figlio ha la stessa vena suicida dei genitori: ce l'ha messa tutto se stesso per proteggere sua madre e ci è riuscito alla grande, direi” rise Joe, con gli occhi che le brillavano di felicità.
Oh. Santissimo. Merlino.
Oh Morgana beata.
Oh Signore Gesù Cristo.
Guardò Joe, sbatté un paio di volte le palpebre, aprì la bocca, la richiuse. Boccheggiò e... proprio come il signor Potter il giorno prima, stramazzò al suolo bianco come un lenzuolo e con un sorriso beota sulle labbra sottili.
“Oh, andiamo!” sbuffò Joe, inginocchiandosi al suo fianco e ridacchiando – anche se visto le condizioni di Scorpius, avrebbe dovuto proprio trattenersi. Ma era troppo divertente vederlo lì, sul pavimento, mezzo svenuto come una femminuccia per la notizia più bella che il suo cervello avesse mai potuto ricevere. “Ehi, paparino... ti riprendi?” disse, schiaffeggiandolo con polso fermo e alzando gli occhi al cielo per tutta quella manfrina. Da lontano sentì un gemito.
“Non sarà mica successo qualcosa a Lily?” Ginevra Molly Weasley, nonostante l'età e qualche filo grigio nei capelli, arrivò a passo di carica dall'ascensore a fine del corridoio, raggiungendoli avvolta da un pullover beige e jeans chiari, mentre il viso era così cereo che per un attimo, Joe, temette potesse svenire anche lei.
“Oh no, certo che no. Ma sembra che il signorino qui non digerisca bene le belle notizie” rise Joe, usando ora l'innerva.
Ginny la guardò in modo interrogativo e solo mentre Scorpius si riprendeva, con ancora quel sorriso sulla bocca, che cominciò a comprendere. E capire. E sul suo volto le rughe, il dolore della vita che aveva dovuto patire e tutto il resto, sembrarono sparire per magia.
“Non ci credo” sussurrò, portandosi una mano al cuore e guardando suo genero commossa dall'emozione. Scorpius aprì definitivamente gli occhi grigi, fissandoli in quelli di Joe. “Allora... vuoi andare o no a festeggiare con la futura madre di tuo figlio?” domandò e questa volta il ragazzo non se lo fece ripetere due volte: si alzò di scatto e si catapultò al lato opposto del corridoio, dove la porta di Lily era ben chiusa.
Dopo un minuto, sentirono un urlo di gioia repressa.
“Santissimo Merlino” sospirò Ginny, sedendosi su una delle sedie d'acciaio e sentendo il cuore batterle nel petto.
Un nipotino. E chi l'avrebbe mai detto, il primo dei suoi figli che l'avrebbe resa nonna era l'ultimo da cui lei se lo sarebbe mai aspettato. Lily. La sua piccola guerriera. Già, non principessa, ma guerriera.
Represse un singhiozzo.
In quegli anni, tra tutte le cose che erano successe, quella era ciò che sarebbe servito per riavvicinarli tutti quanti. Avevano bisogno di un po' di gioia in famiglia, un po' di vita – quella che a tutti loro era stata tolta troppo presto – e chi avrebbe potuto farlo meglio di un bambino in arrivo?
“Harry è svenuto giù, nel parcheggio. Si stava fumando una canna con quel beota di Malfoy, adducendo la scusa tipo a « sono troppo stressato, non attaccarti alle palle come un gatto, Sir! » quando mi è accidentalmente scappato di bocca che Lily sta benissimo grazie al figlio di Malfoy, ma non Scorpius, bensì quello che porta in grembo” cinguettò Sirius, raggiungendole tutto pimpante nemmeno avesse appena vinto alla Lotteria.
Ginny lo guardò, torva e lui gli sorrise malandrino, passandosi una mano tra i capelli neri. Bello come il peccato, non c'era che dire. Ma con quel carattere da bambino pestifero, le donne lo avrebbero evitato come la peste.
Dopo averlo picchiato a sangue, chiaro.
“Avete quarant'anni ciascuno e vi comportate ancora come dei diciassettenni stupidi” sibilò, intenta ad alzarsi e raggiungere suo marito... quando fu lui a raggiungere lei. Con i capelli sparati da tutte le parti, pallido come un lenzuolo, con gli occhi rossi di un tossico e l'espressione omicida in volto – li visualizzò nemmeno fossero brocche d'acqua nel deserto.
“DOV'È?” urlò, sul piede di guerra, mentre Joe sibilava un « Shhh! » tutto incazzoso.
“Un corno! Dov'è quel bastardo di un Malfoy?” strillò ancora Harry, mentre Draco, alle sue spalle, sogghignava a tutto spiano.
“Dietro di te” rispose Sirius. Harry si girò e puntò Malfoy Senior con quei fanali bordeaux. Strinse gli occhi così tanto che a qualcuno sarebbe parso cieco e puntò un dito contro il suo nemico di sempre.
“Tu verrai per ultimo, ma ora provvederò a quel porco infame di tuo figlio” sbraitò, ancora convinto che sua figlia fosse pura e preziosa come l'aveva fatta mamma. O almeno ne era convinto fino a pochi minuti fa, quando Sirius aveva sganciato la bomba.
Si affrettò a passo di carica verso il lato opposto del corridoio, prima, naturalmente, che sua moglie gli si parasse davanti. E tutti, tutti sapevano che con Ginny Weasley non si scherzava – se non volevi beccarti una bella fattura.
“Dove credi di andare?” la sua voce era stucchevole, fastidiosamente stucchevole. Velenosamente stucchevole. E sembrava sul punto di scoppiare.
Harry si ritrasse. “Ad uccidere Malfoy” borbottò e sua moglie lo afferrò per le orecchie, strappandogli un ululato così forte che parecchie teste, nelle varie porte lungo il corridoio, cominciarono ad affacciarsi.
“Ci hanno appena dato la notizia più bella del mondo e tu pensi a rovinare questo momento con le tue sciocchezze?” ora la voce di Ginny era velenosa e basta e i suoi occhi bruni, tanto uguali a quelli della sua bellissima e piccolissima Lily, mandavano lampi e tuoni, pronti ad uccidere.
“Ma...” iniziò, venendo interrotto da quello che sembrava un barrito d'elefante.
“Ancora a discutere?”
Urlo di una Banshee. Gemiti addolorati. L'ennesima strizzata di orecchie ed Harry si calmò, finalmente, mettendo un muso lungo fino ai piedi.
“Tu ora vai nella camera di tua figlia, ti congratuli con lei e il suo futuro marito – no, non voglio sentire ma! - e ritorni qui. Dai gli auguri anche a Draco e poi infine ad Hermione, che ora è sua moglie, e la prossima volta che ti becco a voler fare lo scalpo a Scorpius, giuro che sarà l'ultima che farai” snocciolò lentamente, molto lentamente, scandendo sillaba dopo sillaba, 'manco fosse scemo.
Con un gesto della testa gli indicò la fine del corridoio ed Harry sapeva perfettamente che era in grado di ucciderlo se non avesse fatto quello che gli diceva. O metterlo a stecchetto. O torturarlo... o, peggio ancora, astinenza a vita.
Si avviò con passi strascicati verso la camera di sua figlia, piagnucolando sul suo destino crudele.
Avrebbe accettato sicuramente Lily e il suo bambino... ma lui, il figlio di Malfoy Senior, non ce lo voleva. Come non voleva nemmeno suo padre, cazzo!

 

✞ ✞ ✞

 

 

Albus Potter sorrise, scuotendo il capo e passandosi una mano tra la zazzera scomposta di capelli neri. Crollò seduto sulla poltroncina sgangherata al centro della camera da letto di quello squallido Motel, portandosi la sigaretta a miele tra le labbra e aspirandone il fumo con un sogghigno divertito.
“Sai, io non sarei così divertito se fossi in te”
Angelique sorrise, con gli occhi rossi che brillavano sotto la luce al neon della stanza. Avvolta da un trench bordeaux e un paio di stivali di pelle nera che le arrivavano al ginocchio con tacco centoventi, era ancora la donna più bella che avesse mai conosciuto in vita sua... e Albus ne aveva conosciute di donne, in quegli ultimi anni.
Vampire, umane, donne lupo e anche demoni...ma nessuno, nessuno poteva essere paragonata alla sua bellissima Madonna. Oh sì, Albus la considerava ancora una magnifica Madonna come al loro primo incontro, con quei riccioli bruni e quella pelle diafana. Con quelle labbra rosse e le ciglia lunghe, simili a ventagli di pizzo. Con quel corpo piccolo, perfetto, suo.
“Ah, no?” domandò retoricamente, ciccando le posacenere di cristallo sul bracciolo della poltrona nera dov'era seduto. Lei scosse il capo e divaricò le gambe, mentre lui inghiottiva a vuoto – fissandola.
Alcune volte proprio non riusciva a capacitarsi di possedere qualcosa di così bello. Lei non aveva un singolo difetto e lui s'assoggettava quando la guardava – beandosi di lei, bevendo la sua immagine, rimanendone sempre di più innamorato e ossessionato.
“Non mi è piaciuto proprio per niente come ti guardava Margarita” e il tono di Angeique si abbassò di qualche ottava. Ora il suo volto era scuro e Albus ricordò il volto della vampira con cui – negli ultimi tempi – aveva avuto molto a che fare.
Margarita non era normale nemmeno per la sua specie, per il dono che portava con sé, ed era stato proprio quel suo essere speciale ad averlo ammaliato. “A lei non è permesso avventurarsi fuori da casa sua, Angelica” rispose, pronunciando il suo nome in versione Italiana, dove entrambi avevano vissuto negli ultimi mesi.
Diceva che era un ossimoro. Lei, un demone, dal sangue nero come la pece e poteri così vicini al diavolo... con un nome che richiamava la purezza, gli Angeli, la pace. “A lei non è nemmeno permesso di avvicinarsi a te, Albus” rispose Angelique, sbottonando i bottoni del trench uno dopo l'altro con lentezza, sapendo di avere i suoi occhi su di sé.
Lei lo sapeva, aveva sentito bene la piccola Margarita Coronado. Come quest'ultima aveva sentito bene lei, nascosta nelle vicinanze.
Sapeva perfettamente che Albus era suo e questo sembrava averla incuriosita ancora di più... spingendola a snocciolare ciò che volevano sapere, per potere poi ritrovarsi in prima fila durante lo spettacolo.
“Io, uhm, ecco... devo dirti una cosa”
Angelique si bloccò di scatto, puntando i suoi occhi infernali su di lui e Al inghiottì a vuoto – pronto alla tempesta che stava per scatenare con la sua compagna.
“Cosa?” sibilò lei, mentre le iridi si tingevano lentamente di nero.
Albus spense la sigaretta nel posacenere e prese un profondo sospiro prima di aprire bocca. In modo molto lento e calibrato o quella volta sarebbe finito veramente in cenere.
“Ho aiutato Margarita a scappare... lei era molto abbattuta ed era stanca di stare rinchiusa lì, come se avesse commesso uno dei delitti più infami per qualsiasi essere vivente” bisbigliò, con una vocina piccola e dolce – che però non intenerì la sua metà.
“TU HAI FATTO COSA?” urlò Angelique, quasi superando i decibel consentiti per un normale essere umano. Albus rimpicciolì, rannicchiandosi quasi su se stesso.
“Maledizione, Potter!” strillò ancora, passandosi una mano tra i riccioli, incredula.
Quel... quel... quell'idiota! Aveva fatto la cosa peggiore che potesse fare, immischiandosi in affari che non lo riguardavano nemmeno da lontano!
“Ma dai, non sarai mica davvero gelosa di lei?” gemette, quasi terrorizzato da quell'incazzatura mondiale. Cosa che capitava spesso, ma quella volta sembrava davvero pronta a farsi spuntare corna e coda.
“Coglione, fottuto coglione del cazzo!” strepitò, facendo uso del suo coloratissimo linguaggio. L'Italia le aveva condito la parlantina e il vocabolario, non c'era che dire.
“Sai perché Coronado stava rinchiusa in quel fottuto castello senza poter mettere piede fuori nemmeno per sbaglio?”sbottò Angelique, ora fuori di sé nel vero senso della parola.
Solcava il pavimento con i tacchi e strinse le labbra quando una figura prese forma proprio davanti a lei – eterea, impalpabile, magnifica. Margarita era sempre stata bella, ma in un modo che quasi metteva i brividi per essere un vampiro.
Quella razza era stata creata apposta con due facce, con due volti opposti. Uno per attirare la propria vittima, per fare in modo che questa restasse ammaliata dall'aspetto del suo carnefice. E l'altra, che rivelava la loro natura malvagia, quella che usavano per nutrirsi. Quello che in realtà erano. La loro anima. La loro essenza. Ma lei no. Lei aveva liquefatto entrambe le facce ed ora era tutt'uno con entrambe.
“Perché io sento e vedo tutto” rispose al suo posto, avvolta in un costosissimo abito bianco di seta, che le fasciava il busto sottilissimo e le gambe affusolate.
Ricamato con inserti dorati – che richiamavano i grandi orecchini a cerchio e la collana che ricadeva tra la valle dei seni piccoli e sodi, scoperti appena dallo scollo a V.
“Perché sei maledetta!” la corresse Angelique, con un sorriso sulla bocca carnosa. Margarita scosse il capo, fissandola ora seria.
“Queste sono leggende stupide. Io sono solo nata con un potere superiore rispetto alla mia razza” soffiò, quasi stanca di ripetere quella solfa.
« Marìa Margarita era la regina più buona e bella che i vampiri Spagnoli avessero mai avuto. Con i suoi bellissimi capelli neri e gli occhi sorprendentemente bruni come quelli di un Demone al culmine della rabbia, era riuscita ad incantare chiunque. Anche i ribelli. Anche i più reticenti.
Anche i loro nemici naturali, come i lupi.
E fu proprio in una notte di preludio di luna nuova che Lucifero la scelse. Fu proprio in una notte di cambiamenti che Lucifero decise che voleva discendenti diretti e scelse proprio lei – così bella. Così pura, nonostante la propria natura.
Nove mesi dopo, in una notte di luna rossa, nacque la principessa. Lei, con i suoi capelli argentei. Lei, con i suoi occhi belli e splendenti come rubini... dove Lucifero, per farle un regalo – per marchiare il territorio e far capire di chi fosse figlia – posò le sue mani.
E fu così che Margarita, bianca e perfetta come le margherite che sua madre tanto amava, crebbe. Con le mani del diavolo posati sugli occhi e sulla testa, che gli permettevano di vedere, sentire.
Marìa morì invece tra atroci sofferenze, urlando il nome di chi stava mettendo al mondo... e di chi l'aveva aiutata a farlo » recitò Angelique, che oramai conosceva quella leggenda a memoria.
Tutti la conoscevano. Margarita era un vampiro, ma era in grado di vedere il futuro e il passato, di sentire l'inferno e il paradiso e non era benvoluta tra di loro... Lucifero incuteva timore anche ad esseri mostruosi qual'erano. Anche ad esseri che erano stati creati proprio dalla sua carne. Dal suo sangue.
La ragazza dinnanzi a lei rimase immobile, quasi come una regina. I lisci capelli argentei le ricadevano sulle spalle fragili, mentre gli occhi rossi erano grandi e impassibili.
“Noi abbiamo una missione da portare a termine e tu non puoi immischiarti” sibilò Angie, ora con i nervi a pezzi.
Era vero. Vampiri e demoni non potevano immischiarsi nelle beghe dei maghi, era una legge vecchia come il mondo... ma con Lord Voldemort con sangue demone nelle vene e le fazioni già formate, tutto era stato capovolto. Tutto era stato prestabilito e ormai la stirpe non contava: babbano, mago, demone, vampiro o chicchessia, agli occhi di Lucifero e degli Angeli non avrebbe avuto importanza.
Il Diavolo voleva la sua Signora e l'avrebbe avuta, a costo di distruggere la terra. E il cielo. E chiunque cercasse di ostacolarlo.
“So più cose di quanto tu possa immaginare, mì novia” sussurrò con la sua voce bassa, appena udibile e Albus guardò le due donne che si fronteggiavano, mordendosi le labbra.
“Lei ci serve, Angie” bisbigliò Potter, anche per aiutare la sua nuova amica.
Margarita gli sorrise dolcemente e Angelique lo fulminò con uno sguardo, gelandolo sul posto. E lui sapeva perfettamente cosa significasse: ormai la conosceva così bene da percepire le sue emozioni, sensazioni, parole, anche senza aprir bocca.
“Bene. Perfetto. Se è questo che vuoi, questo avrai.
Buon ritorno a casa, signor Potter” sogghignò infine, dandogli la mazzata finale. Gli mandò un bacio volante e sparì così com'era arrivata – lasciando il suo profumo nell'aria, un vuoto dentro e lui e la sensazione che non fosse mai, mai esistita.
Sospirò. Non riusciva mai a capire perché la strada da lui stesso designata fosse così difficile, intricata e dolorosa. Non riusciva mai a capire perché dovesse sempre cacciarsi in situazioni che poi lo ferivano profondamente.
“Tornerà” mormorò Margarita, guardandolo con una certa malinconia nello sguardo. Albus la osservò attraverso le lunga ciglia nere, arrossendo appena sulle guance.
Così puro. Così poco umano.
“Perdonala. Angelique, nonostante la sua natura, è molto possessiva” si giustificò, temendo che la sua compagna l'avesse – in qualche modo, con quella leggenda – ferita.
Margarita respirò a pieni polmoni, socchiudendo gli occhi rossi come la brace: sentiva qualcosa. Qualcosa...sì, qualcosa si stava muovendo. Qualcuno stava parlando. Qualcuno fremeva nell'ombra.
“Oh!” sussurrò, quasi deliziata. Mai, mai nella sua esistenza aveva sentito così tanti sentimenti saturare l'aria. Gli ultraterreni, come li chiamava suo padre, erano solitamente tipi assai noiosi... e statici. Ma negli ultimi anni erano in così tanta trepidazione, ansia, aspettativa, da riempirla come se quei sentimenti fossero suoi e provenissero dalla sua anima.
“Cosa?” domandò Albus, ora sospetto, chiedendosi se non avesse sentito qualcos'altro d'importante. Margarita si strinse in un abbraccio, con sguardo quasi trasognato.
“Gli ultraterreni sono interessati al bambino di tua sorella, Al” mormorò, continuando ad ascoltare, in estasi.
Eccitazione, rabbia, gelosia, felicità... tutto racchiuso nella sua testa, con un'intensità tale da toglierle quasi il fiato.
“Bambino? Lily è incinta?” annaspò Albus, spalancando la bocca in una perfetta o e aggrappandosi ai braccioli della poltrona dov'era seduto.
Lily. La sua Lily. La sua sorellina, dispotica, tiranna, dolce e amorevole sorellina... aspettava un bambino. Da Malfoy, sicuro come la morte.
Arricciò le labbra.
“Oh, ma no! No, lui non è ancora pronto, perché va così di fretta?” mormorò Margarita, ora con gli occhi vitrei e preoccupati.
Albus la guardò: di cosa stava parlando? Chi non era pronto? E chi, soprattutto, stava andando di fretta?
“Margarita, tutto bene?” domandò, mentre questa ricambiava il suo sguardo.
“Dobbiamo andare da tua sorella. È in un ospedale, dobbiamo portare via lei e il suo angelo biondo o l'equilibrio delle cose verrà stravolto!” disse, frettolosa, afferrandolo per le mani e stringendosele al petto come in preghiera.
Sembrava davvero in pensiero e Al non se lo fece ripetere due volte: fece mente locale e dalle informazioni che aveva avuto da Angelique nei suoi anni d'assenza, calcolò più o meno in quale ospedale poteva essere stata portata Lily.
Dove... dove potevano essere? Dove potevano averla portata? Di chi si fidavano ciecamente?
“Joe. All'ospedale di Joe!” disse, prima di materializzarsi ancora con le mani di Margarita strette a sé. Ignorò il risucchio, la sensazione di sentire lo stomaco sottosopra e le mille luci psichedeliche che gli scoppiarono dinnanzi agli occhi, rimanendo perfettamente ritto quando atterrò ai piedi del St. Smith – un villone di sette piani dalle ampie vetrate e luci che sembravano poter illuminare tutta la campagna circostante.
“Sono al terzo piano” sussurrò Margarita, con una smorfia sulla bella bocca per le molteplici voci che sembravano volerle fracassare il cranio.
Albus – senza nemmeno pensare agli anni di lontananza, all'odio che la sua famiglia poteva provare nei suoi confronti o la reticenza altrui – entrò nell'atrio come una furia, facendosi guardare strani da infermieri e addetti.
“Cerca qualcuno?” una donna dai corti capelli biondi quasi gli sbarrò la strada, con i pantaloni e il camice bianco dell'ospedale, ma Albus la raggirò, senza fermarsi davanti a nessuno.
“Sì. Mia sorella” disse, mentre la donna correva velocemente dall'altro capo del banco e componeva velocemente un numero.
“Più in fretta” lo esortò Margarita, quasi sopraffatta da quella presenza che si avvicinava sempre più. E Albus mise le ali al piede.
Tic Tac. Un passo dopo l'altro. Il tacchettio delle sue scarpe di vernice quasi rimbombavano contro le pareti di marmo chiaro.
“È così vicino...” gemette Margarita, premendosi una mano sulla fronte e barcollando, nonostante lui la tenesse ancora per mano e la stesse trascinando per le scale come un sacco.
Gli ultraterreni le facevano sempre quell'effetto, quasi risucchiandole l'energia dal corpo e dall'anima, impedendole di stare anche solo a pochi metri da loro.
“Albus!” un uomo dai capelli neri li guardò con gli occhi spalancati, quasi senza fiato per quell'improvvisata.
Al si fermò, fissando suo nonno Sirius con una muta preghiera nello sguardo.
Sembrava urlare « Dopo, ti prego. Dopo. » e senza dire una parola, Black annuì – leggendogli dentro.
“Al?!” una voce alla sua destra tremò e Albus sentì la terra mancargli sotto i piedi. Suo padre lo fissava inerme, quasi come se lo avesse appena pugnalato al cuore. Pallido. Bello. Sicuro. Papà.
“Dovete materializzare Lily lontana da quì” disse, spingendo Margarita verso la stanza che suo padre copriva con la schiena, ora ricurva.
“Che succede?” disse una terza voce, che scoprì poi appartenere a Joe.
“Sta per arrivare una persona... che né Lily e né Scorpius devono affrontare. Dovete portarla lontano di qui, ora!” disse con tono più urgente, mentre attorno a loro si affollava quella che sembrava tutta la famiglia.
Ma il più sbrigativo, come sempre – come quasi mai – fu James. “La porto da Dominique” disse, entrando velocemente nella stanza.
“Porta Margarita con te... lei sarà in grado di proteggervi!” urlò per farsi sentire, mentre la sua amica spariva davanti ai suoi occhi, promettendogli di farsi valere.
Con Margarita nei paraggi, per l'ultraterreno sarebbe stato difficile individuare quei due: i loro poteri, solitamente, annullavano quelli dei maghi e Albus non sapeva perché... ma chiunque cercava Lily, il bambino o Scorpius, a detta di Margarita doveva stare lontano da loro. O avrebbero creato una catena di disastri a non finire.

 

✞ ✞ ✞

 

 

La vecchia casa dei Zabini era sempre sfarzosa e magnifica come i tempi in cui entrambi i coniugi vi ci abitavano: le ampie vetrate, il magnifico marmo e i drappi di velluto – con oro in ogni dove – era sempre il maniero di ben tre piani che aveva ospitato attori, cantanti, miliardari e persone che vantavano un certo conto alla Gringott che avrebbe fatto impallidire persino i Malfoy.
Sontuosa, sfarzosa, fine... come quella madre che aveva perso con uno schiocco di dita. Bella, buia, morta. Come la sua Asia. Come la sua bellissima Asia.
Dalton entrò, fissando lo scalone di marmo proprio di fronte a lui: le tende erano tirate e i camini accesi. Suo padre era tornato da uno dei suoi viaggi e a lui non importava un cazzo. Come sempre.
“Padroncino! Oh, padroncino!” cinguettò una vocina verso il basso e Dalton si accorse di avere un elfo domestico attaccato alla gamba.
Due occhioni verdi, un calzino attaccato alle orecchie lunghe e un vestitino rosa che faceva apparire la vecchia Wendy ancora più stramba di quel che era.
“Sono felicissima del Vostro ritorno!” disse ancora, afferrando entusiasta il suo cappotto e quasi facendogli le fusa con la voce. Dalton le dedicò un piccolo sorriso, accarezzandole la testa con dolcezza. E questa volta Wendy fece davvero le fusa.
“Il Padrone è ai piani superiori” lo informò, sparendo dalla sua vista.
Me ne sbatto le palle, rispose mentalmente Zabini, avanzando nel salone e bloccandosi alla vista di qualcuno che – lentamente – come una sirena, scendeva le scale. Scalino dopo scalino. Passo dopo passo.
Dalton sentì il cuore bloccarsi nel petto e quasi cadde in ginocchio dinnanzi a lei, straziato. Furioso. Angosciato. Dilaniato.
I capelli bruni le accarezzavano le spalle regali, ritte, in delicati boccoli – scendendo oltre la schiena nuda. Gli occhi blu erano appena stati truccati da un leggero ombretto champagne, mentre le ciglia erano sempre lunghe, come il pizzo nero del vestito attillato che indossava.
Il seno abbondante appena scoperto da una profonda scollatura, le gambe atletiche, lunghe, completamente nude. E i tacchi alti che la rendevano più simile ad una visione che a qualcuno, qualcosa di concreto.
Lei, come quasi tutte le donne della sua vita, gli aveva spezzato il cuore.
Lei, come quasi tutte le donne della sua vita, lo aveva abbandonato quando aveva più bisogno della sua presenza.
“Chrysanta...” sussurrò, assaporando tra le labbra il suono di quel nome che quasi aveva dimenticato come si pronunciasse.
Lei era diventato il loro tabù. Nessuno doveva nominarla. Nessuno.
Lei era stata il loro tormento. Dov'era stata? Come aveva potuto tradirli? Era stato davvero così facile?
Dalton si massaggiò il petto, dolorante e Chrys finalmente lo raggiunse.
Silenziosa, d'effetto, magnifica.
La maledizione delle Greengrass.
“Come sei cresciuto...” mormorò, accarezzandogli con dolcezza prima una tempia, poi la guancia e fermandosi sul mento – usando quel tono dolce e infantile che Dalton aveva sempre adorato.
Sua madre. Sua sorella. Sua amante. Chrys era stato tutto per lui e lei gli aveva voltato le spalle senza provare il minimo rimorso. Il minimo dolore.
L'aveva spezzato, come sua madre. Lo aveva piegato, come il tradimento di Joe.
“Sei sempre più bello” disse, senza soffocare una risata.
“A tutti si da una seconda possibilità”
La voce baritonale di suo padre lo raggiunse dalla cima delle scale. Si appoggiava al solito bastone, possente come sempre. Magnetico e impossibile da non guardare. Lo fissò, cercando risposte. Magari la forza di perdonare... quando in realtà lo aveva già fatto.
“Tutti facciamo scelte sbagliate nella vita” disse ancora, raggiungendoli pian piano – con le rughe che il tempo e il dolore della perdita di Asia gli avevano portato sul volto sempre bello.
“Per i traditori c'è un girone esatto dell'inferno” disse, socchiudendo gli occhi chiari e cercando di ricacciare indietro i sentimenti che lei gli aveva scatenato dentro.
Chrysanta sorrise, mostrando una schiera di denti perfettamente bianchi.
“Per tutti quelli come noi c'è un girone all'inferno, Dalton” sussurrò, ad un solo metro di distanza dal suo corpo.
Madre. Sorella. Amante.
Traditrice. Ancora. Assassina. Salvezza.
“Dove sei stata?” domandò, riaprendo gli occhi solo per fissarla e cercare tracce di menzogne... come se ne fosse capace. Era stata un intero a mentirgli e non se n'era mai accorto, come pretendeva di poterlo fare in quell'esatto momento?
“In quel girone esatto dell'inferno” disse, sporgendosi contro il suo viso e lasciandogli respirare il suo profumo. Quello che sapeva di casa. Quello che sapeva di famiglia.
La maledizione delle Greengrass.
“Hai abbandonato tuo fratello. E Scorpius. E me” sbottò, digrignando i denti.
Alla parola « fratello » la vide barcollare all'indietro e massaggiarsi lo sterno, come se le procurasse dolore.
“Come penserai di spiegargli il tuo ritorno, hm?” continuò, ora perfido, ora Serpeverde.
E Chrysanta urlò. Urlò così forte da far tappare le orecchie agli antenati raffigurati nei quadri appesi per la stanza, quasi raggomitolandosi su se stessa. 
“E credi che per me sia stato facile? Credi che per me sia facile ora doverlo guardare negli occhi e dirgli che, maledizione, sono stata davvero all'inferno per quello che ho fatto?!
Credi che per me sia facile ora dirgli che nonostante tutto, nonostante tutti, lui mi è davvero mancato?”
Aveva prima urlato e poi sussurrato le ultime parole, guardandolo con una muta disperazione nello sguardo.
“Tom non la prenderà bene” mormorò Dalton, scuotendo il capo e lasciando che alcune ciocche gli coprissero gli occhi lucidi.
“Cosa non prenderò bene?” la voce di Tom li raggiunse da appena dietro la porta d'ingresso e tutti e tre s'immobilizzarono sul posto.
Merda. Merda. Merda.
Si era tolto il cappotto dalla figura atletica e slanciata e ora posò gli occhi blu proprio su di loro, fossilizzandosi sul posto appena visualizzò... sua sorella.
Il tempo si cristallizzò, come il suo cuore e Tom barcollò sulle sue stesse gambe, tremando.
Era tornata. Sua sorella era tornata e l'unica cosa che riusciva a pensare era il modo migliore per ucciderla.

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Capitolo 7
*** VI. ***


VI.

 

 

 

 

Ogni volta che la guardava, Jackie scopriva sempre qualcosa di nuovo su di lei – qualcosa che lo lasciava esterrefatto ogni giorno di più; prima le labbra, rosse come le ciliegie ora tese in un sorriso subdolo. Poi gli occhi, sempre più azzurri, sempre più grandi, ora quasi febbrili.
Lucy continuava ad avere incubi su incubi e la sua pelle era sempre più mortalmente pallida – i suoi capelli più rossi, il corpo più magro. Sembrava che qualcosa la stesse cambiando da dentro, e Jackie cominciava ad avere paura.
Perché c'era quel serpente che gli serpeggiava sotto pelle... quel serpente tentatore, maledetto, sinonimo di terrore, che gli sussurrava all'orecchio che lei era sempre meno sua. Lucy gli apparteneva sempre più poco, come se quegli incubi gliela stessero portando via.
Pezzo dopo pezzo. Lentamente. Letalmente.
“Cos'hai sognato questa notte?” bisbigliò Jackie, accendendosi la solita canna – stravaccato sul letto a baldacchino al centro della loro stanza da letto.
Lucy abbottonò la cerniera del vestito di pizzo nero che stava indossando come una seconda pelle e lui si beò del tessuto che le stringeva i fianchi e la vita stretta, mostrando le gambe attraverso il vertiginoso spacco che le arrivava all'inguine. Inghiottì a vuoto e lei sciolse i lunghi capelli – ora morbidi ricci sulle spalle scoperte.
“Ti interessa?” mormorò Lucy, girandosi completamente verso di lui e mostrandosi in tutta la sua magnificenza. I tacchi dal tacco alto slanciavano la figura esile e del rossetto rosso fuoco le infiammava la bocca – rapendogli il respiro e il senno. Rapendogli il raziocinio e la possibilità di ribellarsi.
Lui era suo, completamente. Era sempre stato così. Ma lei... Lucy era ancora sua? Gli sembrava di non riconoscerla più – di dormire, fare sesso e convivere con un'estranea.
Quegli incubi gliela stavano portando via.
Pezzo dopo pezzo. Lentamente. Letalmente.
“Dove stai andando?” domandò ancora, aspirando dal filtro della canna e lasciando che l'erba, per un solo attimo, gli ottemperasse i pensieri – divorandolo.
“Ti interessa?” ripeté come una nenia la ragazza, avanzando lentamente ai piedi del letto.
Jackie non aveva mai, MAI temuto un suo tradimento, ma ora quel serpente – oltre a mettergli paura – gli stava mostrando anche un mostro in cui lui non si era mai imbattuto. Era verde e si stava nutrendo della sua rabbia, del pensiero che qualcun altro potesse toccarla, baciarla, averla come l'aveva avuta lei.
La fissò e gli sembrò di impazzire. La guardò e gli sembrò di morire.
Diavolo, pensò. E quella parola, quel nome che aveva sempre invocato nei momenti di rabbia o assoluta delizia come quello, lo fece tremare da dentro.
Diavolo...Lucifero. Inferno...fiamme.
« Lei è mia. » Jackie sobbalzò quando una voce s'insinuò nei suoi pensieri, rude, simile al ringhio di un lupo rabbioso. Guardò Lucy, shockato, ma lei ora era a carponi sul letto e si stava avvicinando lentamente.
“Sei stata tu?” domandò, spaventato a morte. Lo ignorò e i suoi occhi quasi sembrarono di brace sotto la luce soffusa dell'abat-jour – con un riflesso rosso come il sangue che gli ghiacciò il sangue nelle vene.
“Lucy, chi ha parlato?” sibilò, senza muovere un singolo muscolo quando lei gli sfilò la canna delle dita per portarsela alle labbra. Aspirò e buttò la testa all'indietro, lasciando che i capelli s'infilassero appena nella fessura della profonda scollatura del vestito, proprio tra la valle dei seni piccoli e sodi.
Diavolo, ripeté mentalmente e di nuovo – proprio come un minuto prima – quella voce riparlò. « Lei è mia. » ed era una minaccia.
Jackie sbiancò, ma ora Lucy era seduta a cavalcioni su di lui e aveva spento la canna oramai consumata. I loro bacini collisero ed entrambi gemettero, ma Jackie sentiva ancora il rimbombo letale dell'eco di quella voce nella testa.
“Cosa sta succedendo?” sussurrò, stringendo un suo fianco tra le dita e strappandole un piccolo ansimo.
Lei lo guardò e i suoi occhi divennero neri come la pece, ma prima che lui potesse anche solo pensare di gridare Lucy lo aveva già baciato – intrufolando la lingua tra le sue labbra. E sapevano di vita, morte, rose e vaniglia, luce e buio... come se lei stessa stesse combattendo una guerra interiore e ancora non conoscesse l'esito. Il vincitore. Quello che avrebbe preso il sopravvento sulla sua anima.
“Lasciati andare. Non ci pensare o impazzirai” mormorò Lucy sulla sua bocca, alzando il vestito fino ai fianchi e alzando appena i fianchi per poterlo sentire meglio contro di sé.
Si mosse delicatamente e lui la guardò dal basso completamente soggiogato.
“Sono tua” disse ancora, con la schiena arcuata e Jackie affondò le dita nella sua schiena – lasciandole una scia rossastra lungo la spina dorsale.
Sì. sì. Lei era sua. O no?
Lucy abbassò le spalline sottili del vestito e lasciò che questo scivolasse via dal seno, che andava a ritmo del suo respiro affannato.
Lei era sua. O no? Chi gliela stava portando via?
Chi... chi?
“Tua” soffiò, sbottonandogli i pantaloni e accarezzandogli lentamente l'erezione attraverso i boxer neri.
Jackie ansimò, affossando la testa contro il cuscino e lei si allontanò con i fianchi abbastanza da arrivare con la bocca contro il suo bacino. Lo fissava dal basso, con gli occhi neri ardenti. Infuocati.
“Lucy...” la chiamò a bassa voce e lei sorrise, abbassando il tessuto e sfiorando con la punta del naso il glande. Gemette, affondando i capelli nei suoi capelli e avvicinandola ancora di più contro di sé.
Ora la sua lingua era contro tutta la sua lunghezza e lo stava avvolgendo piano, continuando a non distogliere lo sguardo dal suo.
Lei era sua. O no? Con chi... con chi faceva quelle cose? Chi la toccava come la toccava lui? E lei... da chi si era fatta rapire? Perché doveva essere per forza qualcosa di distruttivo per travolgerla in quel modo.
Ora era tutto nella sua bocca e a Jackie andò a fuoco, mentre il sangue gli scorreva al contrario nelle vene. La sua mano ora gli stava graffiando lo stomaco e vederla quasi sottomessa, intenta a procurargli piacere, lo mandò in estasi. L'afferrò per le braccia e la portò nuovamente su di sé – facendole allargare le gambe attorno il suo bacino.
Indossava delle sottili mutandine di pizzo e Jackie accarezzò il bordo con le dita tremanti, facendo scivolare lo sguardo sul suo corpo.
Lei era sua. O no?
Le spostò lentamente e la penetrò con due dita, guardandola inarcarsi su di lui.
“Di chi sei?” mormorò e lei sorrise, mostrando una schiera di denti bianchi come perle. Mosse il bacino contro le sue dita e lui penetrò più a fondo, godendo nel sentirla gemere lentamente – come se non volesse mostrargli il piacere che stava provando.
“Rispondi!” sbottò, togliendo le dita e invertendo le posizioni. Ora era su lei e la sovrastava. Ora era su di lei e la copriva completamente con il suo corpo.
Le alzò le gambe quel tanto da poter avere accesso completo e la penetrò lentamente, muovendo i fianchi di poco – mentre lei gemeva frustrata.
“Tua. Sono tua!” disse, affondando le unghia nei suoi fianchi e spingendolo con più forza contro di sé.
Anche se, entrambi, sapevano che era una bugia.
C'era qualcosa – o meglio, qualcuno – che aleggiava su di loro come la spada di Damocle pende sul capo, ma se Jackie aveva paura di perderla... quello da cui era terrorizzata Lucy era molto più pesante, diverso e le avvelenava l'anima.
Lei apparteneva a l'uomo dei suoi incubi... anche se non sapeva chi fosse o cosa volesse, sapeva che era così e se aveva suggerito a Jackie di non ascoltare nessuno – di lasciare fuori quella voce, la stessa che le dava il tormento – lei non ne poteva fare a meno.
Era stata già avvelenata.
Lei apparteneva a l'uomo dei suoi incubi ed era già impazzita.

 

 

La Mayor Manor era un immenso villino di mattoni rossi e grandi vetrate, costruita su un terreno vasto e isolato proprio su un grande fiume – in una landa desolata della Scozia. Di primo acchito, Lily la guardò incantato: attorniata da erba alta e verde e fiori in sboccio, sembrava la tipica casa dei sogni. A due piani, con altalene e piccole giostre da giardino, aveva le tegole del tetto che sembravano tante piccole fiammelle e il sole che illuminava – timido – ogni anfratto delle mura.
“Chi è là?” urlò una voce femminile, apparendo sull'uscio della porta.
Margarita, la donna che aveva smaterializzato lei e Scorpius lontani dall'ospedale, respirò a pieni polmoni; l'aria lì sembrava più pulita, quasi simile a quella di casa sua. “Sono io, Dom” rispose Lily, mentre la cugina si rilassava impercettibilmente.
Per poi allertarsi subito dopo. “Lily? Lily cos'è successo?” domandò, avanzando a tentoni.
Margarita guardò dispiaciuta gli occhi bianchi di quella bellissima donna – più simile ad un angelo che ad una strega; aveva lunghi capelli biondi come l'oro e la pelle di porcellana, con lunghe ciglia che ricoprirono lo sguardo opaco e la bocca carnosa.
“Non è successo nulla” mormorò Margarita, catalizzando l'attenzione su di sé.
“Chi c'è con te?” bisbigliò Dominique, avvolta in un delizioso abitino azzurro dalla gonna a campana. Scorpius si fece avanti e abbracciò la cugina acquisita con tenerezza – come se stesse maneggiando un qualcosa di estremamente fragile.
“Io e un'amica di Albus” le disse, avvolgendole un braccio attorno le spalle e strofinando di poco il palmo lungo il braccio.
Dominique si abbandonò contro di lui e sorrise, illuminando come il sole ciò che la circondava. “James sta bene, vero?” sussurrò, mentre Scorpius la dirottava dentro casa con le altre due donne alle calcagna.
“Sono qua, tesoro” sospirò James, prendendola per mano proprio quando si accomodarono tutti nella cucina. Una penisoletta al centro con dei sgabelli di legno, le pareti di un confortante rosso-oro, i fornelli e un lavabo – il minimo indispensabile per loro due. Il resto ce lo metteva l'amore, la tranquillità e quello che erano riusciti a costruirsi in quegli anni... lontani da tutto e tutti.
“Preparo il thé, tu siediti” le mormorò James tra i capelli, baciandole dolcemente il capo e aiutandola a sedersi accanto a Lily – ancora pallida.
“Allora... ora ce lo dici cosa succede?” disse Scorpius, incrociando le braccia al petto e guardando Margarita senza alcuna espressione in volto.
“Ma allora Albus è tornato?” s'intromise Dominique, con tono sorpreso.
“Oh sì, è piombato letteralmente in ospedale e ha cominciato a sbraitare di portare questi due lontani da lì perché stava per arrivare qualcuno che non potevano vedere” sibilò James, sarcastico, mettendo la caraffa del thé sul fuoco e sogghignando amaro.
“È scomparso all'improvviso, senza dirci un emerito cazzo, e ricompare come niente fosse” continuò, alzando la voce di qualche ottava. Dominique alzò il volto verso di lui e Margarita poté giurare di aver visto la dolcezza passare nei suoi occhi ciechi. La dolcezza e l'amore, quello puro. Quello indistruttibile.
“Avrà avuto le sue ragioni” cercò di placarlo Dom, ritornando poi a fissare il vuoto. “Ma chi...” iniziò, venendo interrotta a metà frase da un pianto.
James scattò sugli attenti. “Vado io, tranquilla” bloccò la donna, prima che potesse alzarsi.
Lily socchiuse gli occhi, quasi addolorata. “Come sta Ben?” domandò con voce piccina, quasi come se avesse paura di chiederglielo.
La donna strinse le spalle sulla difensiva, stringendo le dita al grembo. Dita dove una fede d'oro massiccio faceva bella mostra di sé proprio all'anulare sinistro.
“Sta bene, è in salute se è questo che mi stai domandando!” scattò, alzandosi dallo sgabello e avvicinandosi alla cucina. A tentoni cercò il bollitore per il thé e spense la fiamma una volta che sentì il familiare fischio dell'attrezzo.
“Non rispondermi in questo modo, sai cosa intendevo dire!” sbottò Lily, risentita.
James entrò nella stanza con un bambino dai capelli biondi tra le braccia; questo aveva il visino paffuto poggiato sulla spalla del padre e due delicati occhi azzurri che s'illuminarono non appena visualizzarono le due persone sedute a tavola.
Tia!” cinguettò, scalpicciando per farsi mettere a terra dal padre e correre proprio tra le braccia della rossa – che strinse il bambino di appena un anno con un sorriso tutto per lui.
“Ciao, ometto! Come stai?” disse, regalandogli un piccolo buffetto sulla guancia e lasciando che lui passasse il nasino contro la sua guancia.
“Bene” rispose tutto computo, corrucciando appena la fronte.
“Margarita... questa cosa che hai visto, sì, insomma... potresti tenerla per te?” mormorò James, fissando la vampira dall'altra parte della cucina.
Ma lei aveva già sentito. Guardò il piccolo con dolcezza – tipica del suo volto delicato – e sospirò; il bambino era piccolo, troppo piccolo per capire, ma quando sarebbe cresciuto... cosa gli avrebbero detto?
Perché non aveva mai conosciuto nessuno dei suoi parenti? Perché i suoi genitori lo tenevano così ben nascosto?
Non era nato con nessuna malformazione, ma cosa potevano dire davvero della sua testa? Quanto poteva essere... lucido?
“Io credo che la famiglia sia una gran cosa” bisbigliò Margarita, senza mai distogliere lo sguardo di rubino da quello limpido del bambino.
“E nonostante lui sia nato da sangue dello stesso sangue, è stato concepito con amore. Gli altri capiranno... ora. Non oltre.
E voi avrete bisogno d'aiuto quando sarà abbastanza grande da perdere assolutamente il lume della ragione. Non tutto ciò che luccica è oro” continuò e se James sgranò gli occhi, Dominique si abbracciò – cercando di infondersi calore.
“Di cosa stai parlando?” sussurrò proprio la donna, guardando nel vuoto.
Gli occhi sbiaditi, ma stanchi. E tristi.
“Fate come vi ho detto e basta” rispose Margarita, alzandosi e ignorando gli occhi di Scorpius Malfoy e Lily Potter su di sé. Sapeva cosa diceva. Aveva visto e non era uno bello spettacolo ciò che si era palesato davanti ai suoi occhi.
Quel bambino avrebbe disintegrato tutti loro... senza alcuna distinzione. Senza scegliere padre o madre, fratello o zio, lasciando solo cenere dietro sé.
Margarita si avvicinò alla grande finestra posta sul lavabo, che mostrava le grandi distese che si aprivano tutte attorno la tenuta. Aspirò il profumo di fiori e casa che sembrava imperniato ovunque, lì, e sorrise.
“Ciao Al” mormorò, proprio mentre un pop di materializzazione li avvisava della venuta del ragazzo.
Lo vide scrollare la chioma corvina e spostare gli occhi smeraldini su di lei.
“Ciao” e la sua bocca si tese, facendole battere il cuore.
Quel cuore... quel cuore che lei non sentiva battere da secoli, ora lo faceva molto lentamente. Valicando le leggi della fisica, del terreno e ultraterreno; lei da morta aveva il cuore che si muoveva. E cantava. Solo per lui.
“Allora?” disse Scorpius, guardandolo con gli occhi grigi intrisi d'ansia.
“C'era solo... una persona, che abbiamo visto tempo fa, ad Hogwarts... appena finita la battaglia.
Quel medimago, Lily... quel Marco. Tu te lo ricordi?” disse Albus, affacciandosi alla finestra e portandosi una mano tra i capelli – come se quella mezz'ora in compagnia della sua famiglia lo avesse distrutto.
Lily sgranò gli occhi, incredula e si portò una mano alla bocca.
No, pensò. Non poteva essere vero. Non poteva.
Non era possibile.
“Lily... Lily, stai bene?” la scosse Scorpius, prendendola per mano.
Guardò i suoi capelli biondi e gli occhi grigi, l'incarnato pallido e la bocca sottile – piena di amore, speranze, gioia. Lui le aveva regalato una vita normale, quella che aveva sempre desiderato per sé e tutti gli altri.
Lui le stava regalando un figlio, un matrimonio perfetto...
Si abbassò giusto in tempo e vomitò anche l'anima, nauseata da se stessa.
Nauseata da ciò che aveva fatto.
Il passato era tornato... e stava per rovinare tutto ciò per cui aveva lavorato.
Il passato era tornato... e stava per sotterrare la vita che aveva sempre desiderato.
Senza remore.

 

 

✞ ✞ ✞

 

Giravano a cerchio, studiandosi come se si vedessero la prima volta. I tacchi alti raschiavano sul pavimento in modo macabro e le bacchette erano basse, ma i loro occhi sembravano quasi voler penetrare nella testa dell'altra.
“In posizione” mormorò Lord Voldemort, fermo con le spalle poggiate al muro alla fine della stanza rettangolare.
Le due donne si fermarono una dinnanzi all'altra e improvvisamente la magia partì, senza che nessuno desse il via; Giselle McAdams formò un gigantesco arco con le braccia e un lampo di luce gialla investì completamente Alice Paciock, che si difese egregiamente – rimandando la magia alla proprietaria, che presa di sorpresa volò letteralmente dall'altra parte della sala.
E continuò. Senza pronunciare una sola parola, la sua bacchetta ardeva e lanciava incantesimi – illuminando la stanza a giorno. Luci di ogni colore s'infrangevano contro le mura, facendone crollare le pietre, e la stessa Alice sembrava dirigere un'orchestra – muovendo braccia e bacchetta come una sol cosa.
Il Signore Oscuro la guardò, completamente ammaliato dai suoi occhi spenti e vendicativi. Ammaliato dall'oscurità che era riuscito ad insidiare in lei, tanto da renderla irreparabile. Alice Paciock era un giocattolo irrimediabilmente rotto e nessuno... nemmeno lo stesso Harry Potter, che aveva accolto chiunque tra le sue file, avrebbe voluto che tornasse indietro.
Un passo avanti – un gesto violento delle mani – e Giselle urlò, accartocciata su se stessa.
Due passi – un arco plateale fatto col braccio – e la ragazza dai capelli bruni rantolò, con il sangue alla bocca e la fronte violacea per le continue scosse.
Tre passi – ora Alice aveva uno sguardo misericordioso e fissava il corpo ferito della compagna come di solito si guarda un insetto; alzò nuovamente la bacchetta, come se volesse darle il colpo di grazia, come se volesse ucciderla lì e porre fine alle sue pene. Al fatto che l'avesse abbandonata nel momento del bisogno quando era dovuta scappare dagli Auror... e difendersi sia da questi ultimi che da Lord Voldemort stesso, dal fatto che desiderasse davvero trovarsi al suo posto, quando in realtà lei non voleva fare altro che darsela a gambe e ritornare dall'unico uomo che avesse mai amato nella sua misera vita. Sì, Alice avrebbe voluto darle il colpo di grazia per la sua enorme stupidità, per essere una debole. Per volerlo negarlo... ma esserlo fin dentro le ossa.
“Ora basta. Sei ferita e non voglio che ti affatichi troppo” bisbigliò proprio lui, facendosi avanti e staccandosi dal muro alle sue spalle.
Il soppalco su cui erano state poste le due ragazze era a distanza di parecchi metri da lui, ma ad Alice sembrava di averlo così vicino da sentire il puzzo di decomposizione come se le stesse respirando sul collo.
“Sono molto compiaciuto dai tuoi progressi, mia cara” sussurrò ancora Lord Voldemort, avvicinandosi sempre di più.
Giselle ghignò dall'angolo in cui giaceva scomposta, ridendo di lei. Del fatto che ora l'uomo l'avesse raggiunta a grandi falcate e si fosse posto alle sue spalle, accarezzandole con avidità.
Giselle sapeva bene quanto ribrezzo provasse nell'essere toccata da lui e godeva... godeva nel vederla tremare sotto il suo tocco; Alice aveva fatto il passo più lungo della sua gamba e meritava tutto ciò che le stava succedendo. Tutto il dolore, i colpi e le punizioni che lui le impartiva. Meritava tutto quello e anche di più... molto di più. E Giselle l'avrebbe ammazzata se non fosse stata la sua unica salvezza. Se non fosse stata l'unica che avrebbe portato lei e suo fratello lontani dalle mani di quel pazzo – che ora stava guardando Alice con eloquenza.
Alice s'inchinò ed uscì velocemente dalla stanza dei giochi, come l'aveva soprannominata ironicamente l'Oscuro, lasciandoli soli; l'uomo la guardò dall'alto in basso, accarezzando senza alcun sentimento negli occhi rossi prima i riccioli bruni incrostati di sangue e poi il ghiaccio delle sue iridi. Fissò la scollatura generosa del vestito bianco che indossava e la consistenza liscia della seta che stringeva dolcemente le sue curve prosperose.
Lei... nata e cresciuta per stare al suo fianco, gemeva ai suoi piedi per i capricci di una stupida bambina. “Finalmente riesco a vedere qualcosa, in quella bella testolina che ti ritrovi” sussurrò Lord Voldemort, guardandola ora con un improvviso interesse.
Giselle impallidì e l'uomo storse la bocca pallida e sottile nell'imitazione grottesca di un sorriso. “Crucio” e l'incantesimo la colpì senza che lei se lo aspettasse, senza che potesse fare alcunché per proteggersi... cosa che non avrebbe potuto fare nemmeno se preparata.
La Maledizione senza Perdono le squarciò la pelle e i sensi, travolgendola con un dolore così assurdo che quasi le strappò il respiro. Il senno. Un urlo di totale agonia.
“Questo è per la tua debolezza” mormorò Lord Voldemort, muovendo di poco la bacchetta e lasciando che quelle scintille rossastre le bruciassero la carne.
Crucio” sibilò con ancora più cattiveria, maneggiando l'incantesimo come se non avesse fatto altro nella vita.
E urlò, fino a sgolarsi. Urlò, mentre il suo sistema nervoso andava in tilt e le ossa si liquefacevano per il dolore.
“La prossima volta mi aspetto molto di più da te, McAdams” e con quelle parole finì anche il martirio, perché lui si era già incamminato verso l'uscita.
Le fiammelle sui candelabri tremarono prima di spegnersi definitivamente e Giselle rimase al buio, a fissare le varie teche contenenti gli attrezzi di tortura e gli stendardi verde-argento a dare colore alle mura spoglie della sala rettangolare. Non una finestra, non uno spiraglio che le suggerisse che fosse ancora viva... tranne lo strazio.
Aveva le gambe poste in un modo quasi innaturale e i capelli aperti a ventaglio sul pavimento, mentre le braccia e il volto erano feriti da quelli che sembravano tanti e piccoli tagli. E fu così che la trovò Jackson, dopo un ben quarto d'ora passati a cercarla in lungo e largo per tutto il quartier generale.
“Giselle... Giselle!” urlò, correndo da lei e inginocchiandosi ai suoi piedi, con lo sguardo spalancato dal terrore e le mani tremanti.
La ragazza volse lo sguardo spento verso di lui, che tirò un sospiro di sollievo nel constatare che fosse viva. La sollevò contro il proprio petto – cullandola.
“Giselle, pensavo che... Santissimo Merlino!” annaspò, affondando il viso nei suoi capelli e aspirando a pieni polmoni il suo bellissimo profumo.
“Credevo di averti persa” mormorò ancora, senza che lei emettesse un singolo fiato. Le accarezzò la fronte, le guance tumefatte, lo sterno magro e il seno florido; strinse il busto sottile tra le braccia e singhiozzò appena, riscuotendola dal suo stato catatonico.
“Non piangere” bisbigliò Giselle, facendo fatica persino a parlare.
Era sempre stato lui ad asciugare le sue lacrime, non il contrario; era un peccato quasi mortale far piangere una persona così buona, bella e dolce come Jackson.
“Cosa ti ha fatto?” sussurrò, alzandola dal pavimento e prendendola in braccio come di solito si faceva con le principesse – come quando da bambina si addormentava sul divano e lui la riportava nella sua stanza, mettendola a letto.
“Va tutto bene”
Gli posò una mano sul petto, proprio lì, dove batteva il cuore e lo sentì accelerare piano. Batteva contro il suo palmo come se volesse ribellarsi, come se il suo tocco prima lo stordisse e poi lo rinvigorisse.
“Come ha potuto farti questo?”
Giselle sorrise. Sì... lei non era riuscita ad entrare nelle grazie del Lord Oscuro né di chiunque altro, ma aveva molto, ma molto di più.
Giselle aveva il cuore e l'anima di suo fratello e per lei valeva più di tutto l'oro e il potere del mondo.
Più di qualsiasi altra cosa.

 

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Capitolo 8
*** VII. ***


  • A.A.

Prima di iniziare con il capitolo, mi sono ritagliata questo piccolo “angolo autrice” per scrivervi qualcosa che mi sta molto a cuore.
Sono anni oramai che scrivo e non mi sono mai trovata in una situazione del genere; insomma, non mi sono mai preoccupata dei seguiti o delle recensioni che mi venivano fatte e per me anche solo il fatto di averne era oltre che un piacere quasi un onore.
È con le recensioni che sono cresciuta come “scrittrice” e sono stati i pareri – sia negativi che positivi – ad aiutarmi in tutto e per tutto. Oltre allo slancio e all'entusiasmo, mi smussavano e caratterizzavano nello scrivere – facendomi notare errori e bravure.
Ma ora mi trovo quasi... sola. Io vedo che il "Il Trillo" viene visitata, ma non sento praticamente nessuno (né pubblicamente, né in posta privata qui su EFP e né sul mio contatto personale di Facebook). Nessuno di chi legge si è preoccupato di dirmi cosa andava bene o cosa non andava bene ed è solo questo. Nel senso che io non voglio la recensione in sé, pubblicamente, perché voglio farmi figa o altro, ma vorrei semplicemente qualcuno che dopo aver letto mi dicesse cosa gli è piaciuto o meno o che mi faccia notare solo qualche errore di battitura.
Non smetterò di pubblicare per questo, è certo, ma comunque rallenterò di molto la storia e darò priorità ad altri “progetti” miei, che posso migliorare.
E niente, ora vi lascio al capitolo.
Buona lettura!





VII.

 

 

 

“Guardami”
La voce di Tom era affilata, quasi nevrotica e Chrysanta lo fissò, accendendosi l'ennesima sigaretta di quell'infinito ed esasperante interrogatorio.
Aspirò con forza dal filtro e quasi si divertì nel constatare che i suoi stessi occhi blu le ricambiavano lo sguardo... ma erano molto più arrabbiati, vivi e incapaci di perdonare dei suoi. Lei non era viva da un bel po' di tempo.
“Sto aspettando una risposta” bisbigliò suo fratello – quasi disperato – passandosi una mano tra i capelli scuri e per poco strappandosene una ciocca. Era così ferito da non riuscire nemmeno a piangere, come quando da bambini il loro papà si rinchiudeva nello studio e si rifiutava di vederli e sentirli.
“Non so proprio cosa tu ti aspetta che io ti dica” rispose Chrys, buttando fuori il fumo dalle narici dopo l'ennesimo tiro.
Tom le guardò il volto più maturo, etereo dall'ultima volta che l'aveva visto e bevve la sua immagine. Si beò delle ciglia scure e dei boccoli bruni. Si beò della sua pelle pallida e del suo sorriso birichino. Dei suoi occhi vuoti. Spenti. Bui. Non la riconosceva più.
“La verità. L'unica cosa che voglio è la più fottutissima e sincera verità!” urlò con quanto fiato avesse in gola, colpendo con un pugno il tavolino di legno basso che li divideva. Le tazzine di porcellana caddero sulla moquette e il tè si rovesciò fino ai loro piedi. Così vicini. Così distanti.
Chrysanta sorrise, spegnendo il mozzicone della sigaretta proprio sulle rilegature d'oro del legno fatto a pezzi.
“La verità è che sono scappata via come un cane, perché non avevo il coraggio di affrontarvi – di uccidervi –.” bisbigliò con la gola secca e la voce di chi sta raccontando un fatto lontano, estraneo.
Si passò una mano sul viso e sospirò stancamente, ignorando l'entrata silenziosa di Dalton nella sua stanza a Zabini Manor – dove era stata quasi tenuta prigioniera per una giornata intera quando Tom ce l'aveva sbattuta dentro senza sentire né se e né ma.
“Poi sono stata all'inferno” continuò e Tom sogghignò ironicamente.
“Oh, così mi spezzi il cuore, sorellina” cinguettò sarcastico e Chrysanta scosse il capo, mordendosi la bocca carnosa e già resa rossa dalle precedenti torture inflitte dai denti.
“Non puoi capire” sussurrò, spostando ora gli occhi su Dalton. Era supplichevole e quest'ultimo non capì. Anche a lui aveva detto di essere stata « all'inferno » ma non capiva. Non riusciva a capire cosa intendesse veramente.
“Cosa? Cosa non posso capire? Che hai passato un inferno perché ci hai tradito? E noi cosa dovremmo dire?” sbraitò Tom, incredulo – guardandola e non riconoscendo niente di lei. Nemmeno il suo sguardo, che si rifletteva nel proprio – gemello. Nemmeno i suoi capelli scuri, lunghi come li ricordava e simili in tutto e per tutto a quelli della loro nonna materna.
La maledizione delle Greengrass.
“Tu non capisci. Non capisci” gemette ancora, dondolando su se stessa.
Allora Dalton attraversò la stanza a grandi falcate – inginocchiandosi ai suoi piedi e afferrandola dolcemente per le mani, deciso, intristito, addolorato. “E allora facci capire. Permettici di capire, di perdonare e dimenticare” mormorò, raggiungendo piano le braccia e infine il volto.
Lo accarezzò con i pollici e quasi pianse. Sì, da uomo adulto e maturo quasi pianse al suo cospetto; era seduta su un trono fatto a pezzi come una regina caduta e sembrava una bambola infinitamente bella... e vuota. E distrutta.
“Non posso. Ve lo giuro, non posso” singhiozzò – aggrappandosi alle sue mani.
Chrysanta Nott era seduta su un trono fatto a pezzi come una regina caduta e mai come in quel momento Tom credette nella maledizione. La donna che aveva condannato la stirpe femminile delle Greengrass aveva usato una delle più crudeli pene esistenti al mondo e lui ricordava bene quel monito, quelle parole che avevano deciso il destino di tutta la dinastia.
« E sarà nel pentimento, nel dolore e nel totale disamore che nasceranno e cresceranno le prossime generazioni dell'erba verde.
Rigogliose e splendide come le stesse figlie di Venere e Giove e capaci di stregare – ammaliare, incantare e irretire come solo la grande Trivia è mai stata in grado di fare. E verranno amate. E verranno venerate. E saranno la grande Madre Terra, simili ad un'asse o un'ancora, mentre il resto un qualsiasi mare o sole o singolo granello di polvere che gli sosti o volteggi attorno. E resteranno vuote – morte – insensibili.
Le prossime generazioni dell'erba verde saranno la parte marcia del giardino e per quanto immortali possano essere agli occhi degli altri, il loro cuore arido le ucciderà prima del compimento reale del loro cammino. »
Tom non aveva mai voluto crederci. Mai. Ma poi aveva visto sua madre, che non era riuscita ad amare nemmeno sangue del suo sangue. E poi aveva visto sua sorella... che aveva tradito sangue del suo sangue ed era stato costretto a crederci.
Entrambe erano la reincarnazione di ciò che quella zingara aveva predetto, lettera dopo lettera, aggettivo dopo aggettivo – come se le avesse plasmate lei stessa con le proprie mani. E Tom non aveva mai voluto crederci, ma era stato costretto a crederci.
“Non vuoi o non puoi?” sussurrò proprio lui, alzandosi lentamente dalla poltrona su cui era sprofondato subito dopo la propria sfuriata, ormai sfibrato da tutta quella manfrina. Voleva solo Rose e il suo profumo sulla pelle. Voleva solo ritornare a poche ore prima – quando si era trovato in una moltitudine di colori e seta a letto con lei e la testa completamente e totalmente lontana dalla questione « Chrysanta. »
“Non posso, Tom” rispose allora sua sorella, con le lacrime a adombrarle gli occhi e bagnare il viso. Alzò il mento con fare orgoglioso, nonostante Dalton lo circondasse ancora con le mani grandi e scure e lo fissò con aria di sfida.
Chrysanta. Quella era sua sorella. La sua orgogliosa, stronza e figlia di puttana di sua sorella.
“Cosa hai combinato, allora?” domandò, quasi curioso di sentirsi dire l'ennesima bugia.
“Quando prima ci hai parlato della questione « essere stata all'inferno » subito dopo averci tradito... non dicevi in senso letterario, vero?” sussurrò Dalton, terrorizzato, guardandola con gli occhi spalancati e il fiato ad ostruire il normale funzionamento dei polmoni.
Chrysanta. Con la sua bocca rossa paragonabile al peccato originale.
“Cosa? Sei stata all'inferno?” sbottò Tom, spalancando la bocca di scatto.
Chrysanta. Con la sua pelle diafana – così pura, delicata, marchiabile.
“All'inferno, inferno?” ripeté Nott, come se quella fosse una balla fin troppo sgamabile per essere una vera e propria balla.
Chrysanta. Con il suo corpo da sirena e la promessa di paradiso nelle iridi blu notte.
“Santissimo Merlino...” soffiò Dalton, accasciandosi sulle propria ginocchia. Chrys era stata « all'inferno, inferno » nel senso reale della parola per assumere quel colorito verdastro al solo pronunciarla. Ed era inconcepibile.
“Il mondo fuori di qui, fuori dal « nostro mondo », è così vasto che... voi non potete capire. Ci sono cose là fuori di cui noi non immaginiamo nemmeno l'esistenza e siamo maghi” disse la Nott, abbassando lo sguardo e facendo apparire sul viso l'ombra di quello che un tempo doveva esser stato un bel sorriso.
La maledizione delle Greengrass. Avere tutto e non sentire niente. Avere tutto e non possedere – amare – mai niente.
“Io mi sono fatta divorare, è questa la verità. Prima tutti gli sbagli e gli errori che ho combinato nel corso dei miei anni e poi il picco, la cosa più sbagliata, erronea, stupida che potessi mai fare. Tradirvi. E gioirne.
Tradirvi e stare bene” continuò, affossandoli ancora di più. Li guardò entrambi con la morte nel cuore e scosse il capo – meno ammaliante di quando l'avevano vista la prima volta quella mattina. In quelle condizioni, la maledizione sembrava quasi aver vinto e lei veniva avvolta dal buio.
“E quel picco mi ha trascinato definitivamente giù, in un posto che era un agglomerato delle mie paure e angosce. Dei miei dolori, sbagli ed errori” masticò cauta, scegliendo bene le parole. Sembrava dosare ogni singola frase – formulata con un attenzione meticolosa...quasi come se avesse paura di farsi scappare qualcosina in più.
“Smettila con i giri di parole!” sbottò Tom, afferrando il primo pacchetto di sigarette che gli capitò sotto tiro e accendendosene una con mani tremanti, mentre Chrysanta scuoteva energicamente il capo.
“Non posso. Non posso dirvi le cose come stanno, sono vincolata, ma posso cercare di farvi capire... non so se mi spiego” disse cauta e Dalton prese un grosso sospiro per riordinare le idee.
Bene. Chrysanta era stata all'inferno ed era vincolata da qualcosa – o qualcuno – che le impediva di dire le cose come stavano e spifferare ciò che aveva subito. Doveva esercitare silenzio di tomba, se non voleva finirci dentro per davvero e loro avevano bisogno di qualcuno molto, ma molto intelligente per decifrarla.
“Bene, io vado a cercare Rose!” si alzò Dalton, facendosi guardare strano da entrambi i fratelli Nott.
“Rose? E a cosa ti serve Rose?” borbottò Tom, sbattendo ingenuamente le ciglia scure e guardandolo senza capire. Chrysanta sogghignò, invece, fissandolo ironica.
“Ma stanno ancora insieme?” ridacchiò tutta perfida, ricordando ai ragazzi di quando ad Hogwarts strofinava diabolicamente le mani nel venire a sapere una qualche loro relazione.
“Chiamo Rose perché tra i due è quella con più logica e intelligenza. E anche quella con più sangue Granger nelle vene” soffiò fuori Dalton – incrociando le braccia al petto come se avesse fatto la scoperta del secolo.
“Giusto” acconsentì Tom, sedendosi di nuovo accanto alla sorella e quasi spaparanzandosi. Ma l'espressione che aveva assunto non gli piaceva per niente.
“Cosa hai intenzione di fare? Non ti faccio uccidere tua sorella per poi farti fare sesso con Rose sul suo corpo. Ci serve” e come sempre Dalton fu cacciato fuori da casa sua a calci in culo – oggetti volanti e bestemmioni che anche i giocatori d'azzardo nei peggiori bar dei Caracas si sarebbero messi le mani sulle orecchie per la vergogna.
Si materializzò piagnucolando come un bambino, aggrappandosi alla propria fiaschetta di whisky portatile e chiedendosi cosa avesse fatto male nella propria vita per meritarsi tutto quello; prima veniva cornificato, poi riappariva quella traditrice sangue avvelenata di Chrys e infine veniva picchiato da Tom. Cosa? Cosa aveva fatto? La sua bellezza, intelligenza e fascino erano un offesa così grande per gli Dei, che cercavano sempre di rendergli la vita un inferno? O era Dio – che lo considerava la sua migliore creazione e voleva temprargli lo spirito, per renderlo assolutamente perfetto?
“Dalton? Sei tu?” borbottò una voce femminile, interrompendo il filo dei suoi pensieri.
Dalton alzò gli occhi su quelli di Rose, chiari e limpidi oltre il vetro degli occhiali da vista e sorrise – quasi facendo le fusa.
“Oh, Rosie! Rosina, Rosellina mia!” piagnucolò, quasi lanciandosi ai suoi piedi e ignorando totalmente di essere osservato da altri quattro paia d'occhi.
“Dalton! Ma che succede...?” si allarmò la ragazza, dandogli alcune pacche sulle spalle e cercando di tranquillizzarlo – mentre quel porco le abbracciava le gambe e vi ci strusciava contro.
“Il tuo fidanzato, quel maiale traditore, mi ha cacciato fuori di casa perché io gli ho impedito di fare sesso con te sul cadavere di sua sorella!” si disperò Dalton. Rose sbiancò, avvicinandosi pericolosamente al colore biancastro dei ceri e guardò dritta davanti a sé con un espressione orripilante dipinta sul volto privo di trucco.
“Dalton...” lo richiamò con tono tremulo – quasi come se volesse avvertirlo di qualcosa. Qualcosa che si avvicinava ad un « Chiudi quella fogna di bocca che ti ritrovi » et similia.
“Cosa ho detto di male, hm? Ho solo impedito una cosa macabra e contro natura e poi Chrys ci serve viva” si lamentò ancora, mentre i clienti di Rose la fissavano come se fosse un insetto particolarmente schifoso, ma questa aveva smesso di guardarli quando aveva sentito il nome Chrysanta.
“È tornata?” sussurrò, con una mano sul cuore e l'altra aggrappata saldamente alla scrivania di mogano scuro. Era girata verso di lui ed era speranzosa.
Dalton divenne improvvisamente serio. Rose Weasley – che non aveva condiviso metà della sua esistenza con Chrys – sperava che lei fosse tornata... e lui e sangue del suo sangue non erano riusciti a fare altro che sputarle addosso il proprio rancore. Abbandono. Dolore.
“Sì. È a casa, ma c'è un problema molto, ma molto grande” mormorò, stringendole un ginocchio con dolcezza.
Rose lo guardò dall'alto e lui sospirò – annuendo. “Dobbiamo andare a casa” continuò e senza che se lo facesse ripetere due volte, la ragazza si era già alzata di scatto e infilato il cappottino di volata – scusandosi con i clienti e prendendo il volo.
Già. Rose Weasley, che non aveva condiviso metà della sua esperienza con Chrys, e volava appena si chiedeva aiuto per lei. E lui e sangue del suo sangue non erano riusciti a fare altro che sputarle addosso il proprio rancore. Abbandono. Dolore.
E rabbia per non essere stati abbastanza per lei.

 

✞ ✞ ✞

 

Laurie Sheeley era sicura del proprio corpo. Insomma, aveva due bocce enormi, una forma a clessidra da fare invidia a Marilyn Monroe e due gambe chilometriche che le modelle Babbane di Victoria Secret potevano solo sognarsele – e non si poteva proprio avere di più.
Gli uomini cadevano ai suoi piedi e mai, mai in vita sua era stata rifiutata da qualcuno. Tranne da Harry James Potter. Tranne dal bambino che per sfortuna era sopravvissuto.
“Maledizione! Ma cosa dovrei fare, hn? Quello non molla di un centimetro” sbottò verso Amanda – l'unica amica che era riuscita a farsi lì al corso d'Auror. Tutte le altre avevano troppa paura di lei e del suo piccolo e insignificante vizio di essere attratta dagli uomini sposati.
Ma loro non erano mica sposati, insomma!
“Che cosa credevi? Il signor Potter è sposato con Ginevra Weasley. La grande Ginevra Weasley, mica con una qualunque!” rise Amanda, ciondolando le gambe oltre il lungo tavolo e guardando gli altri svolgere le solite e noiose mansioni.
Si attorcigliò una ciocca di capelli scuri attorno al dito, senza notare lo strano bagliore nello sguardo verde foglia di Laurie – che aveva appena storto il labbro carnoso con superiorità.
“Nulla di che. Il signor Potter potrà essere sposato anche con la Madonna, a me può fregarmene di meno” sibilò indispettita, guardando davanti a sé con una strana determinazione a dare slancio alle sue parole.
“Madoche?” borbottò Amanda, facendole alzare gli occhi al cielo.
“Lascia perdere!” sbottò, dandosi slancio e scendendo dal tavolo con aria scocciata. S'infilò le mani nel retro delle tasche della divisa, mentre la lycra delineava il suo fondoschiena perfetto.
“Quindi cosa hai deciso di fare?” domandò Amanda – prima che Laurie se ne andasse. Quest'ultima le mostrò un sorriso splendente, riavviandosi i capelli scuri con un gesto secco.
“Lo vedrai presto, tesoro” ridacchiò, schioccando le dita e uscendo dalla Sala Meeting con gran stile. Congiunse le mani dietro la schiena e ciondolò per i corridoi – pensando al suo magnifico e geniale piano.
Oltre ad avere un corpo da urlo e non essere mai stata rifiutata da nessuno, Laurie Sheeley era anche intelligente. Sicuramente più intelligente della « grande » Ginevra Weasley. Tse.
Cos'aveva di così straordinario quella donna? Laurie proprio non riusciva a concepirlo! Aveva dei capelli orrendamente arancioni, dei banali occhi marroni e una propensione storica nel rompere le palle. E lei lo sapeva perché la maggior parte delle sue sfuriate erano state proprio lì, al Ministero.
La GRANDE Ginevra Weasley. Puah. Laurie ci sputava sopra la « grande » e stupida matrona di casa Potter.
“Oh cielo, Sheeley! Quelle rughe sul viso ti uccideranno tra un paio d'anni” sogghignò Roxanne Weasley, appoggiata contro una colonna accanto all'immensa finestra presente ogni quattro metri lì al Quartiere.
Al nuovo Ministro piaceva così tanto la luce che aveva reso quel posto una vera e propria scuola – consentendo a molti Auror, funzionari o addetti a violare più volte il cartello « vietato fumare » affisso su qualsiasi superficie libera.
“Oh, Weasley! Bentornata.
Pensavo stessi ancora curando il tuo fidanzatino” soffiò Laurie, sorridendo con aria superiore.
Già. Quando si era inimicata la GRANDE Ginevra Weasley, aveva quasi dimenticato tutto lo strascico che si portava dietro. E che comprendeva la bellezza di una ventina e passa di femmine completamente e assolutamente pazze.
“Meglio curare il mio fidanzatino che avere una vita così misera e insulsa da togliermi le mutande un passo sì e l'altro pure” cinguettò Roxanne, chiudendo la canna che aveva tra le mani con agilità e smontandole l'allegria.
“Almeno l'uomo che amo io non è un brutale assassino” sibilò Laurie e stava dando a Roxanne un ottimo motivo per mollarle un cazzotto sul naso, se prontamente – con una flemma invidiabile – non le interruppe Molly.
“Oh cielo, Laurie, cara! Quelle rughe sul viso ti uccideranno tra un paio d'anni!” esclamò preoccupata, ripetendo le stesse e identiche parole di Rox – che non se la sbaciucchiò in bocca giusto perché conservava un briciolo d'orgoglio.
Sheeley divenne un solo tic nervoso e spalancò la bocca di iena in una smorfia disgustata. “Oh, eccone un'altra. Weasley, ti trovo bene. E il braccio, come va?” cinguettò velenosa e stavolta Roxanne si alzò le maniche – partendo di quarta – se non fosse stata interrotta, di nuovo, da una quarta voce.
“Meglio della tua faccia sicuramente” borbottò Edivad Stewart, la cotta secolare di Molly. Fissò con gli occhi blu intrisi di disgusto la faccia di quella stronza « gallinella », come l'aveva apostrofata la prima volta che se l'era ritrovata al corso Auror.
“Vedrete... vedrete, un giorno!” minacciò Laurie, fissandoli furiosa e andandosene sbattendo i piedi a terra come una bambina capricciosa.
Edivad scosse il capo – chiedendosi cosa avesse fatto di male nella sua lunga e misera esistenza per meritarsi delle reclute così.
“Quella è fuori di testa” sibilò a nessuno in particolare, trattenendosi dall'alzare le braccia al cielo e invocare Dio.
Un Dio che quel giorno lo odiava particolarmente.
“Ciao, Ed” sorrise Molly, con i suoi bellissimi capelli biondo\rossicci raccolti sulla nuca. Quel giorno era quasi più luminosa del solito e lui, con un ringhio a fondo gola, cercò di essere civile e non saltarle letteralmente addosso.
“Weasley. Weasley rompiballe” salutò, soffermandosi con una vena pulsante sulla tempia su Roxanne, che ricambiò il saluto angelica come non mai. “Non sai leggere i cartelli, maledetta d'una Weasley?!” lo scimmiottò – prima che lui potesse effettivamente rimproverarla con quelle esatte parole. Parole che ripeteva da anni oramai e che, nonostante quella rossa della malora ne avesse imparato a memoria ogni singola sillaba, continuava ad ignorare bellamente.
“Il giorno in cui questo Ministero sarà libero dalla vostra razza, sarà sempre troppo tardi” sbottò – pentendosene subito dopo, come sempre, quando incontrò il sorriso gentile e solare di Molly.
“Penso proprio che vi lascerò da soli. Ciao, ciao, piccioncini!” ridacchiò, beccandosi dietro un bestemmione da parte di Ed e un'occhiata imbarazzata da Molly.
“Ed... volevo chiederti una cosa” sussurrò proprio lei, poggiando la mano sul suo braccio con una delicatezza che gli fece attorcigliare con dolore le viscere.
“Dimmi” sospirò, passandosi una mano tra i capelli castani macchiati appena d'argento sulle tempie.
“Io...beh, io...” balbettò Molly, cercando di trovare le parole giuste.
Ad Hogwarts non aveva mai avuto quei tipi di problemi. Sarà stato il carattere tipico dei Weasley o non avere alcun handicap a farla sentire sbagliata – sola, inamabile – ma ora stava sudando freddo.
Se avesse rifiutato, lei lo avrebbe capito. Nessuno voleva al proprio fianco una bambola orrendamente sfigurata. E inutile. Inutilizzabile.
“Tu, cosa?” la spronò Edivad, curioso.
Molly arrossì ancora di più e nascose il viso tra i capelli prima di sganciare la bomba. “Michiedevosetiandavadicenareconmequestasera!” disse tutto d'un fiato – mentre Ed sgranava gli occhi perché non aveva capito un cazzo e lei si tratteneva dallo schiaffeggiarsi violentemente la fronte.
“Eh?”
“Mi chiedevo se ti andava di cenare con me, questa sera” ripeté più lentamente, senza osare ricambiare il suo sguardo.
Molly era così carina da potersela mangiare con gli occhi, ma Ed non voleva – non poteva – rovinarla con la sua infelicità. Con il suo essere tremendamente sbagliato. Lei meritava qualcuno di migliore.
Qualcuno che non era lui.
“Non credo che sia il caso” mormorò – pentendosene subito dopo, come sempre, quando incontrò gli occhi feriti della ragazza... che sfoggiava il suo solito sorriso come nulla fosse.
L'aveva ferita. E si odiava per quello.
“Oh beh... ciao, allora. Ci vediamo presto” disse velocemente, stringendosi al petto le solite cartelle che si portava perennemente dietro.
“Molly!” cercò di chiamarla, ma lei se l'era già data a gambe.
L'aveva ferita. Lui aveva ferito il sole e si odiò profondamente per quello.
Maledizione!
“Cosa le hai fattò?” Louise gli apparve alle spalle e quasi gli causò un infarto – fissandolo con un misto di pena e forse... sì, forse rabbia. Un sentimento che non aveva mai visto sul suo visino angelico.
Louise era l'unico dei cugini Weasley a non sbandierare al mondo il suo legame con il resto della famiglia ed era anche l'unico a strafregarsene grandemente dei problemi che quelle teste calde e rosse condividevano tra loro come se fossero una sola cosa.
“Cosa le hai fattò?” ripeté con quell'accento ridicolo e uno sguardo di fuoco.
“Niente” sussurrò Ed, che con l'età che si ritrovava di fare a botte con un ragazzino non ne aveva proprio voglia.
“Quella è l'unica che potrebbe sopportarti per il poco tempo che ti resta, cherìe” disse il mezzo francese, con un sorriso amaro sulla bocca morbida.
“I cazzi tuoi?” sbraitò in risposta l'uomo, scostandolo in modo rude e imboccando la strada opposta alla sua.
“Pensaci bene, vecchiaccio!” gli urlò dietro Louise, ignorando il dito medio che gli rifilò l'altro.
E non aveva nemmeno tutti i torti. Edivad era insopportabile e Molly era l'unica che aveva sempre avuto il coraggio di parlargli ed essere gentile con lui senza temere di rovinarsi la giornata o sfracellarsi le ovaie dopo l'ennesimo brontolio.
Si avviò con la coda tra le gambe verso l'ufficio del Ministro – infilandosi nel primo ascensore che gli capitò sotto tiro gufando come un pazzo; ignorò saluti, frivolezze e qualsiasi essere umano che volesse anche solo pensare di rivolgergli la parola.
Ah, Dio. Lui sì che era superiore a metterlo in quelle condizioni per il semplice gusto di farlo.
“Dopo mio marito proprio mi mancava qualcuno con quella faccia” lo accolse divertita il Ministro, quel giorno deliziosa nel suo completo pantalone e giacca rosso fuoco.
Aveva i ribelli riccioli raccolti in uno chignon duro e inflessibile, ma il sorriso sulla bella bocca era tutto un piano. Sì, quello di addolcirlo prima di buttare qualche bomba lì per caso. “Cosa è successo questa volta?” borbottò infatti, sedendosi sul puff rosso di fronte la scrivania e accettando di buon grado il caffè che il Ministro gli stava offrendo.
“Potrei farti la stessa domanda, sai?” sogghignò Hermione, divertita, rilassandosi per la prima volta dopo una lunghissima ed estenuante giornata. Era sfinita.
“I tuoi nipoti hanno il potere di tirare fuori il peggio di me” sussurrò Ed, centellinando con una smorfia la bevanda che teneva tra le mani infreddolite.
“Oh, a chi lo dici!” rise la Granger, poggiandosi contro lo schienale della propria poltrona con un sospiro.
Dopo aver litigato pesantemente con Atwood, ancora, preso a badilate il consiglio degli anziani – ancora – e quasi ucciso quel maledetto Malfoy, ancora, voleva solo tornare a casa e farsi un bel bagno caldo con la sua bambina. Già. Narcissa. Il frutto carnale del suo dolore. La prova tangibile dei suoi errori. Del suo passato. Della sua morta interiore.
“Signor Ministro, cosa voleva dirmi?” domandò Ed, ora sinceramente curioso.
Hermione posò la tazza sulla scrivania, scostando appena i fascicoli che popolavano le sue giornate e le sue infinite riunioni, per poggiare i gomiti con gli occhi gravi puntati su di lui.
“Volevo dirti che ci ho pensato bene, Stewart e penso che con il piano « Paciock » abbiamo toppato alla grande” mormorò la Granger, massaggiandosi il viso con stanchezza. Sembrava non dormire da secoli.
“E quindi?”
No, il termine non era giusto. Lei non sembrava non dormire da secoli. Lei si sentiva invecchiata di almeno dieci anni; sentiva il peso di ogni ora della giornata e a volte crollava come un sacco di patate, senza riuscirsi a tenere in piedi.
Non ne aveva parlato con nessuno – non voleva preoccupare gli altri né dare agio di pensare che non fosse adatta al ruolo che ricopriva – ma certe volte aveva paura. Quella mancanza completa di forze, lo sguardo oscurato improvvisamente e il vuoto totale la mandavano in tilt. E aveva paura. Ed era orgogliosa.
“E quindi la persona più adatta a svolgere questo caso è Roxanne” disse Hermione – amara.
Si odiava per quelle parole, ma era la verità. Franck era un vampiro e come tale difficilissimo da acchiappare, quindi stava dando agli Auror vero e proprio filo da torcere; uccideva chiunque trovasse sulla propria strada per dispetto e l'unico a cui lui voleva mostrarsi era anche l'unica che non doveva trovarsi faccia e faccia con Franck.
“È una follia. Vera e propria follia” quasi urlò Edivad, alzandosi di scatto e ignorando il grattare sul legno che produsse il suo movimento brusco.
Già, era una pessima idea. Ma era l'unica che dava speranza ai cacciatori.
“Lo so, lo so, ma Edivad... è l'unica soluzione e lo sai anche tu!” cercò comprensione Hermione e l'uomo seppe che aveva ragione. Fin troppo.
Quel maledetto moccioso era estremamente vendicativo e aveva la forza e sete di sangue di un neonato – che era gli inizi della fase vampiresca negli esseri umani trasformati. Appena nati erano senza controllo e i sentimenti da uomo erano ancora vivi e pulsanti dentro di lui.
E Franck voleva Roxanne. E Franck voleva vendicarsi di tutti coloro che in qualche modo lo avevano ferito.
“Maledizione!”accusò, sbattendo con rabbia i pugni sulla scrivania.
Era una follia. Una vera e propria follia e se Roxanne non sarebbe stata attenta... o si sarebbero ritrovati un Auror morto-vivente sulla coscienza o un Auror morto e basta.

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Capitolo 9
*** VIII. ***


VIII.

 

 

 

 

 

Londra era coperta da grossi nuvoloni neri carichi d'acqua, quel giorno, e l'aria era così bassa e afosa da strappare parecchi sospiri esasperati nei passanti veloci e ignari che passeggiavano per High Street.
Lucy Weasley svoltò in una stradina desolata accanto a Cross Road, accelerando il passo per fermarsi poco dopo – proprio agli inizi di Wood Street – dove uno spiazzato si allargava sistematicamente sotto i suoi occhi, circondando circolarmente un antico edificio, in perfetto stile Vittoriano, con una grande insegna appena sopra il portone di quercia che recitava “City of London Police”.
I suoi sandali dal tacco centoventi produssero un ticchettio inquietante quando salì gli scalini di marmo, osservando impassibile il leggero via-vai di agenti e civili, coprendosi meccanicamente i capelli rossi con il cappuccio nero del giubbettino che indossava.
Il vestito di maglia le aderiva al corpo come una seconda pelle e i suoi occhi si focalizzarono su un punto impreciso davanti a lei: gli sguardi le scivolavano addosso e i fischi a malapena turbavano i suoi pensieri – quel giorno così vorticosi da darle la nausea.
“Ehi, bambola!”
“Va a farti fottere, viscidone” sibilò quando un uomo sulla quarantina ammiccò sulla scollatura a barca coperta a malapena dal giubbettino di pelle. Aveva la bacchetta ben stretta nella tasca alla sua destra e sorrise smielata, pronta a renderlo cibo per cani.
“Ha gli artigli, la gattina...” rise l'altro, camminando all'indietro senza mai staccarle gli occhi dal fondoschiena.
“E anche i denti per staccarti le palle a morsi, dolcezza” soffiò Lucy, con il suo solito linguaggio da scaricatore di porto e girando appena il capo per godersi appieno la sua espressione.
“Touché”
In realtà Lucy non era stata mai, mai, appetibile agli occhi degli uomini. Quando frequentava Hogwarts per la maggiore si limitavano ad un'occhiata superficiale e raramente incontrava qualcuno di insistente. Era sempre stata quella strana, lei.
Finché non erano iniziati quegli incubi. Fin quando quella voce non aveva iniziato a parlarle.
Lucy salì lo scalone sulla destra – ignorando l'androne con alcuni agenti a cui chiedere informazioni – e proseguì imperterrita. Le pareti erano di pietra grezza e il pavimento tra un marmo rosato e piastrelle bianco gesso, mentre c'erano alcuni ritratti di agenti defunti alle pareti attaccati ad alcuni meriti della City.
Già. Lucy non era stata mai, mai, appetibile agli occhi degli uomini. Solitamente, si limitavano a fissarla con sguardo vuoto e accelerare il passo. Era quella strada, lei. Finché non erano iniziati quegli incubi. Fin quando quella voce non aveva iniziato a parlarle... e insieme a quei pensieri bui, cattivi – che popolavano la sua testa ventiquattro ore su ventiquattro – aveva notato di essere perennemente al centro dell'attenzione.
Sembrava che quel lato oscuro eccitasse gli uomini inconsciamente, attirandoli come api con il miele e cadendo in una trappola molto più letale di quello che in realtà pensavano.
“Sapevo che saresti venuta” mormorò una voce, portandola ad alzare gli occhi di scatto. Era appena arrivata al quarto piano e un lungo corridoio dalle infinite porte era appena illuminato da qualche lanterna, senza però impedirle di visualizzare un uomo sulla trentina poggiato mollemente contro lo stipite di una porta sulla sinistra – proprio al centro del lungo serpente dalle piastrelle bianche.
La quinta a sinistra, per la precisione. La più areata e spaziosa della City.
L'uomo sospirò, spostandosi appena per farla passare. “E non sono molto felice di questa cosa, Koroleva” continuò con il suo accento duro, passandosi una mano tra i capelli biondo ossigenati e storcendo la bocca sottile in una smorfia.
Koroleva. Moya Koroleva.
“L'amichetto nei tuoi pantaloni non è dello stesso parere, Smirnov” soffiò Lucy, passandogli affianco per entrare nella stanza e lasciandolo leggermente intontito per alcuni secondi per la scia di profumo che si trascinò dietro.
“Ma io perdono chi mi mente a fin di bene...” ridacchiò, accomodandosi sulla poltroncina rossa alle spalle della scrivania di mogano scuro e accavallando le gambe nude e pallide – togliendo il cappuccio dai capelli rossi e lanciando uno sguardo sfuggevole alle due immense finestre alle spalle di Boris, che si sedette proprio di fronte a lei.
Boris.
Archivio di ferro battuto proprio tra gli infissi, una biblioteca vuota a sinistra e un tappeto persiano sotto i suoi tacchi. Ventilatore acceso, puzza di nicotina imperniata ovunque e... e... e un vecchio sentore di magia. Una magia così debole, impalpabile, da lasciare addosso una sensazione di stordimento – come se fosse uno scherzo stupido dato dai riflessi troppo tesi.
“Non posso farlo, Koroleva! Se solo si viene a sapere che sono ancora in giro... non riesco nemmeno ad immaginare le conseguenze” alitò Boris, poggiando la fronte contro il palmo aperto e allentandosi di poco il colletto della divisa nera e bianca con le mani sudate.
“Ed io che credevo i Russi dei « cuor di leone »” disse Lucy, divertita, togliendo la giacca di pelle e tirandosi su le maniche del vestito corto. Troppo, in effetti.
Jackie avrebbe dato i numeri se l'avesse vista così, come tutte le volte che indossava qualcosa di troppo corto o appariscente e Lucy tirò la bocca in un sorriso sbilenco al solo pensiero; lui cominciava ad avere la paura folle di essere tradito o lasciarlo ed era diventato asfissiante. Dolcemente asfissiante, certo, ma la sostanza non cambiava.
“Certo. Fin quando non si ha a che fare con l'altro mondo” sputò Boris, furioso.
E a Lucy non era mai saltato nemmeno per l'anticamera del cervello di tradire Jackie. Mai. Finché non erano iniziati quegli incubi. Fin quando quella voce non aveva cominciato a parlarle.
“Beh, caro il mio bel Russo ripudiato, a me servono quelle informazioni... quindi cerca di rendere onore al sangue che ti scorre nelle vene e fa l'uomo” cinguettò perfida, sbattendo civettuola le ciglia scure.
Boris aveva divaricato le gambe e lasciato andare il capo all'indietro: alcuni ciuffi ora gli accarezzavano la mascella volitiva – mentre le spalle possenti s'indurivano per la tensione.
“Io non sono un tuo giocattolo, Koroleva e tu sei un pericolo. Un grande pericolo” sibilò, inghiottendo a vuoto quando lei si sporse oltre la scrivania.
Arrivò a soli due metri dal suo volto e la schiena era così inarcata che Boris poteva perfettamente indovinare quali slip indossasse dalla linea sottile che seguiva le natiche.
“Voglio solo sapere perché sono un pericolo, Smirnov” sussurrò sulla sua bocca, rilasciando veleno ad ogni respiro che esalava sulla sua bocca.
“Tu sai bene perché”
“No. Sei tu che sei stato attratto da questa cosa, Boris.
È stata il tuo sangue da ripudiato che ti ha portato da me e lui ora mi porterà a ciò che mi sta succedendo... che tu lo voglia o meno!” sbottò Lucy, decisa come non mai. Con le dita dalle unghia laccate di rosso gli accarezzò la cravatta nera, inclinando il capo e lasciando che alcuni riccioli le sfiorassero la spalla.
Sì. Boris poteva fare il Babbano quanto voleva, ma loro due sapevano bene qual'era la sua vera natura e se Lucy inizialmente era stata abbastanza suscettibile su quel punto, ora non aveva dubbi.
Lui era attratto da ciò che la stava divorando giorno dopo giorno. Era addirittura deliziato da quel buio che oramai aveva messo radici dentro lei... e Lucy era stanca. Voleva – doveva – scoprire cosa fosse – chi fosse – prima di soccombere definitivamente a quella pressione incessante.
“Koroleva...” gemette Boris, quasi sconfitto da quella bocca a pochi centimetri dalla sua. Quasi sopraffatto dalla puzza di zolfo che emanava lei. Dai suoi occhi ora neri. Da quell'aura che ora la circondava come una nuvola – succhiando via la vita. Il raziocinio. La coscienza.
“E tu lo vuoi, Boris. Non è vero?” bisbigliò Lucy, sfiorandogli le labbra con le proprie.
E c'era un motivo per cui Boris la chiamasse « Koroleva » ed era qualcosa che travalicava il senso di appartenenza o il misero sesso. Lucy era una regina, ma non la sua, poteva convincere chiunque a fare qualsiasi cosa d la ragione era molto più oscura di quello che gli altri solitamente immaginavano.
Travalicava la logica e il terreno.
“Sì” rispose, prima che lei lo baciasse con una ferocia tale da strappargli il respiro. Penetrò con la lingua nella sua bocca e il sangue di Boris ribollì.
Oh sì. Era quello il richiamo di cui le aveva parlato all'inizio: lo stesso che mesi prima lo avevano portato dritto da lei – seduta con le gambe oltre il parapetto del Tower bridge, invisibile agli occhi di tutti tranne che ai suoi.
Le macchine sfrecciavano, la canna che lei teneva tra le dita bruciava lenta e la luna era così piena da sembrare immensa da quella posizione.
Lei era così bella e non era normale. Né come Babbana né come strega e nemmeno come essere umano. Lei apparteneva ad un mondo che lui conosceva bene... un mondo da cui era scappato, ma che continuava a perseguitarlo come una condanna.
“Bravo il mio bambino” rise Lucy e Boris sentì perfettamente il cuore accelerare per poi fermarsi di nuovo – come duecento anni a quella parte.
E poche erano le ragioni che potevano scombussolare il suo vero « io », la sua parte infernale. Le stesse ragioni per cui lui la chiamava Koroleva.
Regina. Imperatrice.
“Cazzo”
Lucy si scostò di scatto, come se si fosse scottata e tirò velocemente fuori dalle tasche un cellulare di ultima generazione. Gli diede le spalle, arcuando la schiena e si affrettò a rispondere quasi come se ne dipendesse la sua stessa vita.
« Cosa? Ti avevo detto che non potevo! » la sentì dire subito dopo il solito pronto, spostando il peso del corpo da un piede all'altro.
Emanava nervosismo, ansia e Boris sentì l'aria appesantirsi come se si fosse alzata precipitosamente la temperatura.
Si stava arrabbiando.
« Quella testa di cazzo ha fatto cosa? » urlò Lucy, infuocandosi.
Guardò il termostato e portava ventinove gradi centigradi.
Si stava arrabbiando. Cazzo, se si stava arrabbiando e lì dentro cominciava a squagliarsi.
« Vengo subito » sputò velenosa, staccando velocemente la chiamata e afferrando il giubbettino di volata.
Boris inghiottì a vuoto: ora la stanza era letteralmente un forno e nuovamente quel richiamo che li univa si fece sentire – facendogli tremare le ossa e liquefare la carne.
“Devo andare. Ci vediamo tra una settimana esatta” sibilò Lucy, ora rivolgendosi a lui. Rimise il cappuccio sul capo e lo guardò con gli occhi scuri gelidi e furiosi.
“E mi aspetto qualcosa di meglio” lo avvertì, sporgendosi giusto per sfiorargli le labbra con le proprie. Si allontanò appena – godendo nel vedere la sua bocca tumefarsi – e gli diede le spalle imboccando quella quinta porta a sinistra del lungo corridoio, andandosene spedita com'era arrivata.
Sapeva che Boris le avrebbe portato quello che voleva: quel lato buio, che stava imparando piano a gestire, veniva freneticamente a galla quando lui si trovava a poca distanza da lei e Lucy sapeva, sapeva che c'era un perché.
Il mostro che aveva dentro apprezzava Boris e lo voleva con tutte le sue forze. Lui l'alimentava, dando fuoco alla miccia e dandogli forma, forza, identità. Quello che Lucy non riusciva a fare.
Una volta arrivata nuovamente a High Street si smaterializzò all'entrata di un vicoletto desolato e sperò vivamente che Jackie avesse una buona scusa, quella volta, o niente l'avrebbe bloccata dal fatturarlo pesantemente.
Si era cacciato di nuovo nei guai e oramai lei ne aveva fin sopra le tasche di quel suo atteggiamento suicida; aveva ben altro da fare che rincorrerlo nelle sue stupide e « rocambolesche » avventure da medico improvvisato.
Cosa credeva? Che non si fosse accorta dei stupidi giochi che faceva con quell'incosciente della Smith?
Quando tornava a casa sentiva la puzza di marcio a metri di distanza.
Entrò all'ospedale St.Smith a passo di marcia e nel lungo corridoio antecedente la Sala informazioni – che aveva sorpassato senza degnare di uno sguardo Lara, l'infermiera di turno – incontrò proprio chi sperava in effetti di incontrare.
“Che cosa stracazzo è successo?” sbottò infastidita verso Eric, il tirocinante leccapiedi di Joe. Anzi, il secondo tirocinante leccapiedi di Joe.
Il primo era il suo fidanzato.
“Non lo sappiamo. Lo abbiamo trovato per caso mezzo morto vicino all'ascensore del terzo piano” rispose il ragazzo dai capelli biondi, guardandola serioso attraverso la montatura leggera degli occhiali da vista – scivolate appena sul naso aquilino.
“È uno scherzo?” sibilò Lucy, alzando gli occhi azzurri gelidi e glaciali su di lui. Eric si fermò prima di raggiungere l'ascensore, sbattendo ripetutamente le ciglia chiare.
“Io... no, certo che no! Perché me lo chiedi?” mormorò, inghiottendo a vuoto e cercando di evitare il suo sguardo. Tossì, preoccupato.
“Cosa vuol dire che lo avete trovato per caso mezzo morto? Dov'è Jakie? E soprattutto come diavolo sta?” urlò quasi, bloccando però improvvisamente la sua corsa quando pronunciò le ultime due parole.
Diavolo... diavolo.
Sì, sì. Diavolo, Lucifero, Belzebù, Ahreman. Poteva cambiare nome, ma non la sostanza.
« Sono così vicino » le sussurrò quella solita voce roca nella testa – strappandole uno spasmo al cuore.
Sì, sì. Diavolo, Lucifero, Belzebù, Ahreman. Cambiava nome, ma non il significato profondo di ogni singola sillaba.
“Ehi, Lucy, mi stai ascoltando?”
Sì, sì. Lui aveva ragione: era maledettamente vicino e anche lei lo sentiva. E la chiamava. E cercava di trarla a sé.
« Sì, mia piccola regina, sì. Brilla per me » e Lucy non capì lui cosa intendesse per « brillare » ma la sua anima s'incendiò. Sentiva le ossa e le membra bruciare come vicino al fuoco e le gambe quasi le cedettero.
“Lucy?”
« Continua. Continua » urlò, mentre il tono della sua voce si alzava sempre di più – facendole accelerare il battito cardiaco così tanto da costringerla in ginocchio.
Solitamente lei sveniva quando sentiva quella voce: dopo un minuto secco cadeva a terra come una pera cotta con tabula rasa nel cervello... ma ora stava durando troppo. Era sveglia e sentiva come se dell'acido la stesse corrodendo dall'interno, lasciando solo polvere al proprio passaggio. Quella volta era diverso. Era come se ora riuscisse a supportarlo. Come se fosse cresciuta e riuscisse a contenerlo.
“Mon Dieu!” sussurrò Eric, affiancandola scosso.
“Ti senti bien, Lucì?” continuò – facendo confusione con l'Inglese e il Francese, la sua lingua madre, come tutte le volte che era particolarmente agitato o nervoso.
“Lucì!” sbottò, schiaffeggiandola con forza e costringendola a ricambiare il suo sguardo.
Aveva gli occhi di un intenso color rubino e lo fissavano come se fossero pronti ad ucciderlo. Lucy scoprì i denti e lui, che fino a quel momento era stato piegato sulle ginocchia, cadde all'indietro con un tonfo.
“Mon Dieu!” ripeté, questa volta, però, con tono agghiacciato.
Lucy respirò faticosamente, afferrandosi con disperazione la testa e scuotendola ripetutamente – come se cercasse di ritornare in sé. Come se stesse lottando contro qualcosa. O qualcuno.
“Potevi dirlo che eri francese... almeno avrei messo in conto che sei un gran cazzaro come tutti quelli della tua razza” sussurrò la ragazza con voce arrochita. Eric sobbalzò, indietreggiando.
“Stai bene?” disse, recitando mentalmente il « Padre Nostro. »
Eric non era mai stato particolarmente religioso; i suoi genitori non erano praticanti e automaticamente neanche lui si era ritrovato tutte le domeniche in chiesa, ma credeva in Dio. Sì, Eric si era sempre rivolto a Dio nei suoi momenti più difficili o più felici e credeva in un'entità superiore... come credeva che esistesse qualcuno che lo contrastasse.
Eric credeva nella parte oscura, cattiva di Dio. Colui che aveva creato il male – e che si nutriva, come i Dissennatori, della parte buia delle persone.
Ed era quello che aveva visto negli occhi di Lucì, quando aveva alzato lo sguardo per fissarlo nel suo.
“Sì, sto bene. Soffrivo di epilessia da piccola e ogni tanto si presentano degli attacchi” mentì spudoratamente la ragazza, alzando il volto e mostrando gli occhi ora limpidi e azzurri.
Ma Eric riusciva ancora a vedere quell'ombra vagare, inquieta, palpitando come se volesse riprendere il sopravvento.
“L'epilessia non cambia il colore degli occhi in azzurro a rosso, Weasley” disse serio, cercando ancora di farsi indietro con l'aiuto delle gambe – completamente attaccato al pavimento freddo.
Eric credeva nell'esistenza di un'entità superiore buona, pura, perfetta... come credeva che esistesse qualcuno che la contrastasse. Eric credeva nell'antagonista di Dio quanto Dio stesso: la cattiveria, il corrotto, il buio in cui si identificava. E Lucì, quando aveva alzato lo sguardo per fissarlo nel suo, aveva il Diavolo in corpo.
“Hai le allucinazioni” lo sbeffeggiò la ragazza, alzandosi dal pavimento e spazzolandosi con un colpo di mani il retro della gonna. Doveva andare via da lì.
“Io conosco qualcuno che può aiutarti, Lucì” mormorò il ragazzo.
Lo guardò, impietosita.
“Non ho niente!” ringhiò rabbiosa – riprendendo la corsa interrotta verso Jackie. Non aveva niente. Nada. Rien.
“Un'esorcista. Uno di quelli magici, però” e Lucy non lo lasciò nemmeno finire che con la telecinesi lo alzò da tre metri da terra.
Assottigliò lo sguardo opaco ed Eric quasi temette di vederla con la schiuma alla bocca – come i cani affetti dalla rabbia.
“Non osare, piccolo bastardello francese...” ansimò, mentre attorno cominciò a condensarsi una nube nera e tossica.
Eric tossì, portandosi le mani alla gola.
“Non osare immischiarti in affari che non ti riguardano” continuò, digrignando i denti. E nuovamente nelle sue iridi ricomparve quella patina color rubino – che sembrava offuscarle i sensi e la mente.
Lei. Non. Aveva. Assolutamente. Bisogno. Di. Un. Esorcista.
La testa cominciò a scoppiarle e cominciò a risentire le vertigini; quegli attacchi erano sempre più continui e pesanti, come se ogni giorno lui diventasse più forte.
“Lucy? Lucy, che cazzo fai?”
Harry James Potter afferrò con forza la spalla di sua nipote, sconvolto da quello che aveva visto appena messo piede al St. Smith. Era andato lì per parlare con Joe dell'ultima visitina della famiglia e sperava anche di trovarci quel maledetto di suo figlio – scappato dalle sue grinfie appena quell'uomo aveva messo piede lì.
Che le prendeva? Cosa stava facendo?
Eric cadde a peso morto sul pavimento, con le mani alla gola, e Lucy strattonò la sua presa – liberandosene facilmente ed evitando apposta il suo sguardo, allontanandosi.
“Non riprovarci, francesino. In tutti i sensi” ansimò, minacciandolo un'ultima volta prima di andare via.
Harry lo aiutò ad alzarsi dal pavimento ed Eric si massaggiò la parte lesa, sorridendo mesto.
“Non so proprio cosa le sia preso! Di cosa stava parlando, cos'è successo?” lo bombardò l'uomo, cercando di ripristinare l'equilibrio dell'altro con aria preoccupata.
Il tirocinante guardò verso il corridoio deserto – dove era appena sparita Lucy – con gli occhi leggermente persi nel vuoto; cosa poteva dire? Non era compito suo quello. Ma proprio non voleva lasciare qualcuno nelle condizioni in cui si trovava la ragazza.
Eric non era pazzo, no. Sapeva di aver visto qualcosa, qualcosa che aveva dato di matto quando aveva proposto una soluzione per eliminarla.
“Nulla di importante. Lei sa' quanto le donne Weasley siano sempre un vulcano in eruzione” sussurrò, scuotendosi dallo stato catatonico in cui l'aveva lasciato Lucy e cercando di mostrare il suo sorriso migliore al signor Potter.
Invano, naturalmente.
“Se lo dici tu...”
Non poteva parlarne con lui, ma Eric non avrebbe lasciato Lucy nelle fauci di qualcosa di così maligno e grande. Immensamente grande.
Avrebbe fatto qualcosa e, suo malgrado, nonostante avesse promesso di non averci più nulla a che fare, sapeva anche a chi rivolgersi.
Pregando, nel frattempo, di non essere in ritardo. O sarebbero stati guai per tutti.

 

✞ ✞ ✞

 

 

 

“Sei distrutto”
Dalton sorrise appena, con il volto sprofondato nelle mani e la schiena completamente curvata. Un ciuffo di capelli gli solleticò appena la fronte e sospirò – godendosi il suono di quella voce.
“Dalton... dobbiamo parlare”
Erano passati anni da quando per la prima volta aveva capito che senza di lei non sarebbe andato da nessuna parte, ma invece di stancarsene lui ne era sempre più ossessionato; gli faceva male quando lei non gli rivolgeva la parola e impazziva al pensiero che qualcun altro la sentisse come lui.
Che scandisse il suono di ogni singola sillaba e ne rimanesse rapito – avvolto – bruciato.
“Tra di noi...tra di noi non c'è più dialogo” sussurrò ancora Joe e Dalton chiuse gli occhi, trattenendosi dal strapparsi i bulbi oculari con le dita artigliate.
Erano passati anni da quando per la prima volta aveva capito che senza di lei non sarebbe andato da nessuna parte e Joe aveva ancora il potere di ferirlo – ucciderlo – massacrarlo dentro.
“Dialogo? DIALOGO?” strillò letteralmente, alzandosi di scatto e superandola di parecchi centimetri – mentre lei sobbalzava per quello scatto improvviso.
Come poteva anche solo osare di pensare alla parola « dialogo » dopo quello che gli aveva fatto? Dopo quella continua tortura che era la loro relazione?
La odiava. Si odiava.
E non riusciva a trattenersi in sua presenza.
“Tu mi hai mentito, tradito e vieni a parlarmi di dialogo?” disse a denti stretti, fulminandola con gli occhi chiari e chiedendosi quando, quando fossero arrivati a quel maledetto punto.
Dalton era pronto a morire per lei. Era pronto a distruggersi per lei ed invece era stato trattato come carta straccia. Ed invece continuava a trattarlo come una seconda scelta.
Perché lui era sempre stato quello. Una seconda e schifosissima seconda scelta.
“Io non ti ho tradito!” sbottò Joe, ora rossa in viso.
Come quando facevano l'amore per ore e lei affannava sulla sua spalla – stringendosi ancora di più con le gambe attorno a lui.
“Non ti ho tradito...” ripeté, questa volta a voce più bassa.
Come quando facevano l'amore e lei ripeteva il suo nome tra i gemiti, mordendosi le labbra fino a fargli sentire il sapore ferroso del sangue anche parecchi baci dopo.
“Io non ti tradirei mai, Dalton. Non mi interessano gli altri uomini” bisbigliò, avvicinandosi velocemente e afferrandolo per i lembi della maglia nera a maniche corte che indossava.
Come quando lui la prendeva per le natiche e la baciava prepotentemente, tirandosela contro.
Bugiarda. Joe era una bugiarda. Un'infima bugiarda. E lui un vigliacco infame che le credeva sempre, debole dentro.
Perché lui lo sapeva. Era una seconda scelta, ma l'avrebbe sempre perdonata... perché si odiava, la odiava, ma era sempre pronto a morire per lei. Solo per lei.
“Oh, ma allora state ancora insieme!”
Joe si staccò di scatto e Dalton si sentì perso – come durante quelle mattine si era svegliato da solo nel suo letto a Zabini Manor.
“E lei cosa ci fa qua?” sbottò Joe, nel suo tailleur da dirigente.
Chrysanta sorrise appena, appoggiandosi con i fianchi sottili contro lo stipite della porta dello studio di suo padre. Indossava una delle sue maglie, per lei fin troppo lunghe e larghe, e un paio di tacchi vertiginosi – che si guadagnarono la furia funesta di Joe.
“Sono tornata. Ti dispiace?”
Se le dispiaceva? Chrysanta Nott, con addosso una maglia del suo fidanzato, le stava chiedendo se le dispiaceva che era tornata?
Lei, che se l'era trombato e probabilmente aveva fatto pianta stabile a casa sua?
“Se mi dispiace?
Mi stai chiedendo se mi dispiace?” ripeté incredula ad alta voce, cercando di trovarvi un senso.
Chrys sorrise ancora, passandosi una mano tra i riccioli bruni con un'aria divertita che a Joe piacque ben poco.
“Sì. Ti ho chiesto proprio se ti dispiace” ripeté, come se Joe fosse una ritardata mentale e quest'ultima si cercò di controllare il tic nervoso all'occhio destro.
La uccideva. La. Uccideva.
“No, affatto” mormorò con tono affabile, aggiustandosi con espressione rilassata la giacca blu notte e la gonna dal taglio assolutamente perfetto.
Dalton la guardò e Joe stirò la bocca in un sorriso da iena che gli fece tremare le vene nei polsi.
Bella e cattiva. Bella e maledetta. E la odiava. E si odiava.
“Ma visto che tu ora sei tornato a casa e hai anche una coinquilina, credo proprio che dovrò mettermi a lavoro e cercarmi un coinquilino anche io.
Sai, le spese sono pesanti per una ragazza sola” continuò – mentre a lui quasi cadevano le braccia.
Coincosa?
“Ah e credo che questa proprio vi piacerà: questa sera festa grande a casa dei Potter per il ritorno di Albus. È tornato e la famiglia ringhia come un branco di cani affamati.
Siete tutti invitati per lo show” li informò prima di smaterializzarsi, non prima però di aver sogghignato.
Adorava le uscite di scena in gran stile e se tutto andava come doveva – o come quel lampo di genio le aveva suggerito che dovesse andare – di Chrysanta se ne sarebbe occupato il destino. Un destino chiamato comunemente « Albus Potter » e la fidanzata vampira che si era trascinata dietro.
Si materializzò ai piedi della Tana con ancora quell'espressione diabolica dipinta sul viso e Sirius, seduto proprio sui gradini antecedenti la porta giallo sole, la guardò curioso.
“Progetti l'omicidio del tuo fidanzato?” ridacchiò, tirando il fumo dal filtro di una delle sue sigarette Babbane.
Joe gli sorrise, scuotendo il capo e sedendosi con un sospiro al suo fianco.
“In questo momento non sono sicura nemmeno di essere ancora fidanzata” mugugnò con aria depressa – dato che in quell'ultimo periodo non ci capiva più niente.
Il lavoro andava alla grande, gli affari e il suo « progetto » procedevano alla perfezione, la sua autostima era alle stelle... ma non riusciva più a capire la sua relazione con Dalton.
Non gli aveva parlato di quello che stava combinando nei sotterranei dell'ospedale e aveva preferito fargli credere che quella cena con quell'uomo fosse un malinteso. Tutto per non confessargli che era marcia dentro.
“Cos'è che non va con Zabini?” domandò Sirius, guardandola di sottecchi con gli occhi grigi grandi e tentatori.
“Ultimamente non viaggiamo sulla stessa onda”
Joe poggiò i gomiti contro il gradino alle sue spalle e fissò il cielo arricciando le labbra.
Perché l'amore non bastava più?
“Non è colpa tua” mormorò Sirius, schiacciando il filtro della sigaretta sotto la suola delle scarpe nere.
Con tocco leggero le sfiorò la spalla e Joe lo guardò appena attraverso le ciglia da bambola – quasi scoraggiata.
Perché l'amore non bastava più? E da quando era diventata così?
Si odiava.
Certo che era colpa sua. Lei lo evitava – oh, se lo evitava – e si comportava in modo stupido, quasi come se davvero volesse portarlo all'esasperazione; al suo fianco si sentiva ancora la ragazzina insicura e impaurita di Hogwarts e si odiava. Lo odiava.
“Credo proprio che questa volta lo sia” sospirò Joe, con le ginocchia portate al petto e quell'aria spaurita che la faceva rassomigliare più ad una bambina che alla donna che effettivamente era.
“Devi solo imparare a perdonarti”
Sirius Black era un uomo solitario e triste – vuoto – e questo Joe lo aveva capito solo standoci a stretto contatto; non aveva mai superato la morte del suo migliore amico, il suo averlo mandato al patibolo, e stare dietro il velo non aveva certo aiutato il suo spirito già piegato dagli eventi.
“Anche tu”
Già. Anche lui avrebbe dovuto imparare a perdonarsi e guardare avanti. Oltre.
“Salve” intervenne una terza voce, distraendoli e portandoli ad alzare lo sguardo verso la figura ferma proprio davanti a loro e che, troppo presi dai propri pensieri, non avevano nemmeno sentito arrivare.
“Ciao Lys” sospirò Joe, mentre il ragazzo in carrozzella avanzava con fare placido. Sulla difensiva – come sempre.
“Ho interrotto qualcosa di importante?” domandò angelico il ragazzo, rollando come sempre uno dei suoi soliti spinelli.
“Sì. La tua terapia” sorrise Joe, affabile, beccandosi un'occhiata storta.
“Dov'è Molly?
Ultimamente non mi da la caccia come un cane da tartufo”
Ecco perché era lì. Quando Joe aveva assunto Molly era assolutamente sicura delle sue capacità: da quando aveva perso il braccio, nell'ultima battaglia tenutasi ad Hogwarts, aveva sviluppato un'empatia e una dolcezza verso il prossimo unici. E persino i casi più difficili avevano imparato ad amarla.
Come Lysander.
“Quello stupido di Ed l'ha rifiutata e ha deciso di prendersi una breve vacanza. Qualche settimana e tornerà a prenderti per le orecchie ovunque tu ti trova” cinguettò la donna, alzandosi dagli scalini e guardandolo dall'alto con occhio clinico.
“Stewart ha fatto cosa?” borbottò Lysander, arrivando persino ad ignorare il suo sguardo per la sorpresa.
Già. Quel dispotico figlio di puttana aveva proprio intoppato quella volta e pure alla grande; nemmeno Molly era mai stata uno stinco di santo, ma quell'handicap l'aveva cambiata – affossata – ed era diventata fragile.
Così fragile da dover essere protetta come il più prezioso e delicato dei cristalli.
“Mi ha chiesto due settimane e non ho potuto rifiutare” sospirò Joe, ora affiancata da quel gran Marcantonio di Sirius.
Lysander li guardò con un sogghigno sulla bocca sottile.
“A guardarvi sembra che abbia davvero interrotto qualcosa” ridacchiò malevolo, beccandosi uno scappellotto da parte della donna.
“Va da lei...” mormorò, ora seria come non mai.
Lui era proprio come lei – stesso dolore, stessa mancanza, stessa diversità – e si completavano, amalgamavano, in un modo così perfetto da potersi capire anche senza parole.
“Vado a cercarla. Voi fate i bravi, che non ho voglia di subirmi i piagnistei di Zabini ogni volta che viene a rifornirsi a casa” sbuffò, afferrando le ruote della carrozzella e dando le spalle ad entrambi.
Si smaterializzò.
Non aveva mentito su Zabini; Lysander lo incontrava almeno quattro volte a settimana – per gli affari che avevano entrambi con la Colombia – e quello non faceva altro che piangere e piangere e piangere.
Ed era davvero un paradosso perché Lys non sapeva se Dalton se ne fosse accorto... ma lui era paralizzato dalla vita in giù ed era stato mollato dall'unica ragazza che avesse mai amato proprio quando era stato messo su quella sedia. Stessa ragazza che era passata allegramente al lato oscuro, trombandosi gli stessi uomini che avevano ucciso suo fratello e costretto lui in quelle condizioni.
Le ruote della carrozzina scricchiolarono sul parquet della stanza dov'era appena apparso e Lys socchiuse gli occhi azzurri – con un peso sullo stomaco che gli impediva sempre più frequentemente di respirare.
C'erano giorni in cui Alice gli mancava come l'aria ed era quasi impossibile non pensare a quando l'aveva avuta, a pensare a quando era così sua da non riuscire a capire quando iniziava lei e quando finiva lui.
Sorrise, perché sì – poteva gridarlo, metterci la mano sul fuoco – l'aveva avuta. E a lui poco importava che Tom Riddle, perché qui si parlava dell'uomo e non dell'essere oscuro che aveva piegato l'Inghilterra, se la sbattesse.
Lysander aveva avuto molto, ma molto di più.
“Ti ha mandato Joe, vero?” sussurrò una voce alle sue spalle e lui si girò, guardando il volto smunto di Molly ricambiare.
Erano così uguali. Così rotti da darsi la nausea da soli.
“Non mi davi più il tormento, così sono venuto a controllare di persona se fosse tutto apposto” rispose, facendo spallucce.
Il monolocale di Molly era piccolissimo, ma accogliente – caldo – e odorava sempre di biscotti e casa. La stessa dalla quale era fuggita. La stessa che la riteneva un'inetta.
Perché Molly lo sapeva... lei era un peso per tutti gli altri, proprio come lo era Lysander, che però aveva preferito un villino attorniato da una grande distesa d'erba.
“Mi sono presa una vacanza. Ero stanca” mentì, con i capelli ramati tenuti mollemente da un mollettone.
Erano così uguali. Così rotti da darsi la nausea da soli.
“Bugiarda” bisbigliò, mentre lei con il braccio buono abbassava la veste di raso rosa sulle gambe.
Erano uguali, rotti e inutilizzabili, ma Molly era bella come lo era l'estate dopo un inverno rigido e freddo e Lysander sospirò – bevendo la sua immagine. Beandosi del brivido che gli sciolse le ossa.
“Smettila con questa sceneggiata. Si vede benissimo che sai tutto” sibilò Molly a denti stretti, marciando verso la piccola cucina dipinta di giallo acceso.
Era ferita e Lys riusciva a vederlo dagli occhi gonfi e rossi. Ed era arrabbiata con se stessa – perché era sempre stata consapevole, perché sapeva di non essere all'altezza, ma si era incaponita lo stesso.
“Stewart è un idiota” sentenziò il ragazzo, vedendola affaccendarsi ai fornelli. Stava preparando un caffè all'italiana solo per non guardarlo in faccio e vergognarsi.
Perché provava vergogna per quel rifiuto. Perché lei aveva confermato quelle voci che la davano zitella a vita.
Perché allora era vero: un handicap non poteva essere cancellato con un sorriso.
Lei era difettata e lo sarebbe stata per sempre.
“Io non ce l'ho con lui” sussurrò Molly, poggiandosi contro il cotto sul ripiano della cucina.
Lei era difettata e lo sarebbe stata per sempre.
“Io ce l'ho con me” continuò, stringendo così tanto gli occhi da farsi venire il mal di testa.
“Molly... Molly, guardami
Ora era alle sue spalle e Lysander spostò la sedia di legno accostata al tavolo rotondo che gli impediva di raggiungerla.
Difettata. Rotta. Guasta.
“Guardami!” le ordinò con tono duro e lei si girò di scatto, con le guance rosse bagnate.
“Stewart è un idiota. E non è colpa tua se quello di donne non ci capisce un beato cazzo. In ospedale e al Ministero ti amano tutti, nessuno escluso e non è solo perché gli fai pena.
E il tuo braccio non ti impedisce di essere un medimago fantastico – anche se rompiballe e una donna bellissima” disse e la sua vocina interiore scoppiò in una fragorosa risata.
Ridicolo. Lui davvero credeva in quello che aveva detto, ma in un controsenso bastardo si odiava perché si sentiva ogni momento della propria giornata come si sentiva lei in quel momento.
Difettato. Rotto. Guasto.
“E allora perché ti odi così tanto da non volerti dare la possibilità di tornare a camminare?” gli rinfacciò la ragazza, quasi con aria trionfante.
“Perché penso davvero che tu sia bellissima”
Molly si bloccò nel girarsi verso la caffettiera che fischiava sul fuoco e lo guardò sbigottita. Bella come l'estate dopo un inverno rigido e freddo.
Triste e gelida come la neve che sotterra il verde gioioso della primavera.
“E tu non sei morta dentro come lo sono io. E non voglio, Molly, non voglio che tu diventa così” continuò – con la solita espressione vuota sul faccino d'angelo che ad Hogwarts era sempre perso in un mondo dove mai nessuno era entrato.
Nessuno, tranne Alice.
“Cosa te lo fa pensare? Cosa ti fa pensare che io non sia morta dentro dopo questo?” sibilò incattivita, indicando con il mento il braccio totalmente assente.
Già. Era Ridicolo. Cosa gli faceva credere che lei non si odiasse come si odiava lui? O che non fosse davvero rotta. Disintegrata.
“L'unica differenza tra me e te è che io non voglio essere infelice. Io non mi costringo ad evitare la felicità perché penso di non meritarlo, ma è l'infelicità che cerca me” urlò questa volta, con le lacrime che dal mento le stavano macchiando il pizzo fine della scollatura.
Lysander chiuse gli occhi, ferito, ma consapevole – come sempre.
Era vero. Era tutto maledettamente vero. E lui si odiava anche per quel motivo.
Da quando il suo mondo si era capovolto si era dato la colpa di ogni cosa ed evitava qualsiasi cosa che potesse rialzarlo. Qualsiasi cosa che potesse farlo risentire come quando ad Hogwarts la felicità era di casa.
Perché suo fratello non poteva. Perché si era fatto piegare durante la battaglia ed era diventato un essere totalmente inutile – così tanto da non poter stare nemmeno con la propria donna.
E con quale rimorso avrebbe vissuto sapendo che Alice non fosse stata felice al proprio fianco? Una vita fatta di sesso squallido su una sedia o sdraiato come un morto su uno schifoso materasso.
Una vita dove lui sarebbe stato per sempre un mezzo uomo. Qualcuno che non sarebbe stato in grado di proteggere la propria donna da qualsiasi cosa. Persino da un insetto.
“È differente. Non è la stessa cosa” bisbigliò con un magone alla gola, senza avere il coraggio di aprire gli occhi.
Quei demoni non lo lasciavano mai e certi giorni impazziva. Certi giorni la tentazione di farla finita era così forte da strappargli ansimi impauriti – sicuri della fine. Sicuri della spada di Damocle che gli pendeva sulla testa.
“È lo stesso dolore” disse Molly ed era così vicina che Lysander sentì il suo alito accarezzargli il volto. Sapeva di sandalo e miele. E lui spalancò gli occhi.
“La stessa ansia. Le stesse paure” continuò, ora inginocchiata ai suoi piedi e a pochi centimetri dalla propria bocca.
Aveva il cuore che batteva così velocemente nel petto da fargli temere un infarto, ma non si allontanò. Rimase lì, a contemplare il ghiaccio delle sue iridi e le efelidi che le sporcavano la pelle di porcellana.
Bella come l'estate dopo un inverno rigido e freddo. Triste e gelida come la neve che sotterra il verde gioioso della primavera.
La baciò. Si sporse quel tanto che bastava da appoggiare le proprie labbra sulle sue – abbeverandosi del suo respiro e beandosi del contatto con la lingua quando le chiese senza gentilezza l'accesso.
La sua bocca era morbida e dolce, sottomessa come lei. Insicura come lei.
Lysander affannò, afferrandola per la nuca e tenendola così stretta per i capelli da farle saltare il mollettone; con il pollice le incavò la guancia – consentendosi più accesso e le morse il labbro inferiore fino a sentire il sangue mischiarsi con la saliva.
Molly gemette e Lys quasi morì su quella sedia, senza fiato. Senza testa. Senza cuore.
Il caffè si era raffreddato nella macchinetta spenta più di cinque minuti prima e Molly si staccò da lui solo alzarsi con le ginocchia dal parquet e salire a cavalcioni sulle sue gambe; i piedi toccarono terra e Lysander non sentì alcun peso su di sé.
Non sentì la pelle delle sue gambe strusciare contro di lui e si odiò. E la odiò – baciandola con una tale furia da strapparle un ansimo sorpreso; con le mani le sfiorò il collo nudo e poi il braccio con cui si era aggrappata alle sue spalle, deliziato, arrabbiato. Confuso. Ammaliato.
E sì odiò. E la odiò, ma quando lei rovesciò il capo all'indietro le morse la spalla così forte da strapparle un urlo. Per rabbia. Per libidine. Perché era completamente impazzito per fare una cosa del genere. Perché sembrava una cosa così giusta da risultare fittizia.
Erano anni che non faceva l'amore con una donna, pensò quando Molly gli abbassò i pantaloni e i boxer – stringendo con dita tremanti la sua erezione.
Anni, che una donna non lo toccava così o che lo eccitasse al primo colpo.
“Guardami” lo supplicò Molly con voce tremante, cercando il suo sguardo disperatamente. 
« Guardami », sembrava gridare.
« Sono io, io. Non qualcun altro, ma io. »
“Ti sto guardando” la rassicurò Lysader roco – infilando due dita nelle mutandine di pizzo coordinate con la sottoveste. 
Ed era vero. La stava guardando. La stava osservando così tanto da imprimersela sulla pelle, nelle ossa, sul cuore, eliminando tutto il resto.
Perché la odiava. La voleva. E stava impazzendo.
“Ti sto guardando” ripeté ammaliato – mentre Molly affannava sulla sua bocca e le proprie dita aumentavano il ritmo.
Era lei, mezza nuda, sulle sue gambe, senza un braccio e con gli occhi rovesciati dall'eccitazione.
E la odiava. La voleva. Ed era assolutamente ed irrimediabilmente impazzito.

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