Ard

di L_Lizzy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Non era stato semplice mettere insieme la squadra ma avevo bisogno di tutti quanti. Ognuno di loro aveva un ruolo preciso, un compito da rispettare perché mai avrei rinunciato al mio obiettivo e mai prima d’ora mi era sembrato di poter essere tanto vicino alla vittoria di questa battaglia. Ebbene sì, battaglia, poiché la guerra vera avrà inizio nel momento in cui Lui mi fornirà il nome che da ormai anni sto cercando. Confido nelle mie capacità e sono sicuro di non potere sbagliare questa volta. Non ho null’altro da perdere e Lui non può vincere come ha fatto in passato quando ho lasciato che colpisse dove non credevo di poter cedere.
Ora che il lavoro mi ha tolto il sonno e che Lui mi ha tolto quel poco di cuore che ancora avevo sono pronto a restituirgli lo stesso trattamento che lui ha riservato a me.
Non sarà per nulla facile portare a termine quello che sto organizzando ma se per farla pagare a chi mi ha privato di coloro che amavo dovrò mettere in gioco tutto me stesso non esiterò, non avrò tentennamenti o ripensamenti di sorta.
Domani stesso metterò in atto la prima vera e propria fase del mio progetto.
Domani mi sentirò di un passo più vicino a questa piccola vittoria personale.

* * *

Sono nato diverso e in quanto tale i miei genitori mi hanno trattato fino a quando, stanchi dell’alone grigio che aleggiava sulle loro spalle, una mattina fecero le valige e se ne andarono lasciandomi solo. Avevo diciassette anni e non sapevo cosa mi aspettasse al di fuori della mia cameretta poiché per arginare la mia negatività mi vi segregarono. Non mi era permesso uscire poiché avrei fatto appassire le piante di mia madre solo scendendo nel soggiorno mi diceva papà quando picchiavo i pugni sul battente chiedendogli il perché di tutto quello. Ricordo poco e nulla dei primi tempi, e ovviamente intendo dire di quando potevo ancora girare in quei novanta metri quadrati di appartamento. Pochi ricordi mi erano rimasti dei primi anni di vita quando ancora la situazione non era insostenibile, quando la cosa più preoccupante che la mia presenza in una stanza causava erano i litigi tra i miei genitori. Prima mi dissero di non fermarmi più al parco giochi dopo scuola, poi mi vietarono di frequentare le lezioni e infine spaventati da qualcosa che non sapevano come affrontare mi impedirono di praticare qualsiasi attività che prevedesse il contatto con altre persone per via dell’effetto che avevo su di esse. Dovunque mi portassero qualcosa andava storto, per qualche motivo nessuno riusciva a spiegarsi perché i gessetti vorticassero per la classe, perché i vetri delle finestre si rompessero al mio passaggio, perché i neonati piangessero vedendomi o la ragione per la quale attorno a me non vi era mai nessuno di allegro. Avevo come un’aurea negativa che gravava su di me, stare in mia compagnia non dava vita a nulla di buono, mai. Come quella volta in cui credettero fosse stata colpa mia se Charlie, il cane del vicino, avesse attraversato la strada nel momento stesso in cui vi stava passando un’auto solo perché fino a poco prima gli stavo accarezzando il pelo. Oppure come quando ai giardinetti erano sicuri che fossi stato io a convincere Manny, un bimbo che ancora andava all’asilo, a salire sullo scivolo e lasciarsi cadere a terra dal lato della scaletta. Fu dopo una serie di nefasti incidenti che i miei genitori finirono per segregarmi in camera limitandosi a portarmi i pasti, smettendo poi di costringersi a quei due minuti di conversazione durante la quale mi promettevano che presto avrebbero trovato una soluzione.
Fino ai dodici anni provai a fare cambiare loro idea promettendo che mi sarei comportato bene, che non avrei fatto nulla di male, che sarei diventato il bambino perfetto che invidiavano tanto a tutti. Lottavo per uscire, piangevo e mi scagliavo contro la porta. Li imploravo, pregavo per la libertà che mi era stata negata fino a quando la stessa aurea che li rendeva così preoccupati non m’inglobò. Non valeva più la pena lottare per qualcosa che non avrei raggiunto e semplicemente mi arresi all’evidenza, quella sfortuna era vera, reale, ed io non potevo fare nulla per contrastarla. Allora non vi fu più spazio per gli sfoghi, intorno e dentro  me vigeva solo una calma piatta. I miei cinque sensi non generavano più sensazioni, era come vivere in una bolla. Non mi rendevo conto di come i poster fossero caduti dalle pareti e di come esse si stessero scrostando dell’intonaco così come, non sentivo le assi del pavimento in parquet alzarsi e spaccarsi. I giorni passavano senza che io me ne potessi accorgere intervallati dai pasti durante i quali nemmeno mi rendevo conto di stare mangiando proprio come se stessi osservando quell’azione compiuta da qualcun altro. Non esistevano più i sapori, la sensazione dell’acqua che scendeva per la gola o la soddisfazione di affondare i denti in un tozzo di pane. Quando non compivo queste azioni, dettate solo dall’abitudine, sembravo dormire con gli occhi aperti, in attesa di una svolta che non sapevo se e quando sarebbe arrivata.

* * *

Non sono né panettiere né avvocato, il mio non è proprio uno di quei lavori che si possono considerare comuni. Non è un lavoro di ufficio che mi annoia ma piuttosto uno di quei lavori che ti fanno viaggiare per il mondo, che ti danno la possibilità di esplorarlo in lungo ed in largo in cerca di qualcosa.
Per alcuni questo qualcosa sono hotel economici da inserire nelle guide turistiche, per altri ristoranti rinomati da far affondare nelle critiche, per me no. Mi ritengo fortunato, nessuno ha mai fatto il mio lavoro e probabilmente quando la mia vita avrà fine morirà con me. Lo porterò nella mia tomba e non so se questa conclusione possa essere considerata benevola o malevola. Positiva lo è di certo poiché sono convinto che non la pensino come me in tanti, che siano più le persone che, come i miei genitori, si rifiutano di accettare la verità che si trovano sotto gli occhi trecentosettantacinque giorni l'anno. Tante sono le persone che si rifiutano di guardare la verità negli occhi ed ammettere che qualcosa di diverso esiste per davvero, che non è sogno o finzione ma realtà concreta. Il fatto che tutti i miei sforzi un giorno finiranno per essere inutili, buttati nel dimenticatoio, cestinati da una società che non è pronta ad accettarli, mi intristisce e non poco. Sapere di essere l'unico a sperare in un futuro per tutti coloro che non sono come dovrebbero essere non può farmi più male. L'unico a cui stanno a cuore le situazioni di tutti loro, l'unico pronto a proteggerli e rassicurarli invece di allontanarli.
Ad ogni modo, come stavo dicendo poco più su, la mia non è un'attività consueta ma piuttosto un'idea che è nata nella mia mente quando ancora ero piccolo, e che, mano a mano, si è espansa senza che io potessi contrastarla. Senza un come o un perché improvvisamente le sue radici si erano talmente insinuate all'interno della mia testa da non poterne più uscire; da rimanerne intrappolate continuando a variare, ad ampliarsi, ad evolversi. Fin quando dall'idea non è nata una certezza e da essa un compito. La certezza di essere l'unico in grado di poter tenere a cuore le sorti di chi mi era simile. Da un compito è derivato poi un obbligo che mi ha portato a cercare coloro che potevano essermi di aiuto. Ammetto che non è stato per niente facile iniziare un'attività come questa, di queste dimensioni, di questa portata. Molteplici sono stati i battenti che mi si sono chiusi sul naso così come numerosi sono stati i rifiuti di quei collaboratori che cercavo di ottenere senza risultati. Non so per quanto tempo l'unica cosa che raccoglievo dai miei sforzi erano risate ironiche e pacche sulle spalle, bisbigli nemmeno tanto velati che sentivo sussurrare appena le porte degli ascensori si chiudevano dandomi quel minuto di pace che provavo dopo aver concluso un colloquio. La convinzione di aver fatto quello che potevo, di non essermi fatto buttare giù da quei gradassi che mi additavano come pazzo.
Poi tutto di un tratto mi si presentarono una, due, tre possibilità. Per quanto avessi cercato senza sosta le mie fatiche iniziavano a dare i loro frutti. Paradossalmente avevo incentrato la mia ricerca su coloro che ritenevo i così detti ''veterani'' del commercio e rimasi stupito quando gli aiuti che cercavo giunsero da giovani che precedentemente non avevo nemmeno preso in considerazione.
Dal nulla, forti nella nostra collaborazione, lavorammo gli uni con gli altri fino a dare un futuro a quel progetto che ogni giorno sembrava essere più realizzabile. Di nuovo le mie idee si trasformarono a contatto con quelle menti che avevano così tanto da offrirmi.
Così prese forma l'Ard, Associazione Ricerca Dotati, che, per definizione, consisteva in un'organizzazione collettiva per il perseguimento di uno scopo ideale, non economico.
Dare una casa ai Dotati, istruirli, toglierli dalle strade, smettere di farli esibire come fenomeni da baraccone e finalmente dare loro la possibilità di riscattarsi, questo è il nostro obiettivo.

* * *

Non possedevo più alcuna facoltà quando finii soggiogato da quello che era il mio potere. Incapace di pensare ad altro che al nulla il mio corpo nel tempo mutava, cresceva inarrestabile; i capelli si facevano più lunghi, gli occhi più scuri fino a diventare neri poiché non avevo più quella premura di aprire e chiudere le imposte ogni giorno. Il mio fisico cresceva provato perché sempre costretto nella medesima posizione, la mia mente maturava con esso e, senza che me ne potessi rendere conto, anche quella negatività che mi circondava non faceva che espandersi e nel farlo mi privava di quella forza che il mio organismo sembrava tenersi stretta con unghie e denti. Ancora la mente non aveva compreso cosa avesse scaturito quella sete di energia ma, di nuovo, il mio potere l’aveva preceduta.
Al mio risveglio non seppi dire quando tempo avessi passato in quella forma vegetativa e nemmeno come avessi fatto ad uscirne. Ricordo di avere iniziato dal nulla a parlare e mentre una parte di me m’intimava di abbassare la voce per non fare incollerire i miei genitori l’altra rideva, facendosi beffa della situazione. Questa divisione interna vi è tutt’ora, ancora mi capita che il potere abbia la meglio sulla razionalità ma in modo controllato; si limita appunto ad un dialogo che ha dell’inverosimile.
Come dicevo, per via della catarsi non mi resi conto della realtà fin quando l’aurea, o chi per essa, non mi intimò di darmi una svegliata, di aprire finalmente gli occhi.
E intorno a me non trovai le pareti dipinte di arancio della mia cameretta, non vi era più il parquet dai legni di colori diversi che mamma tanto amava. Ero immerso nella devastazione, nel mezzo di un buco nero senza inizio ma con una fine ben netta. Ricordo di essermi guardato intorno ed avere notato l’armadio crollato sul letto con le sue ante aperte come braccia spalancate che arrancavano cercando aiuto, notato la scrivania di cui vi era rimasto solo il cassetto pieno di quella che sembrava essere polvere. Le tende, un tempo bianche e verdi, erano di un tono di grigio smorto e inermi erano cadute chissà quando ai piedi della finestra rigorosamente chiusa. In un modo o nell’altro, penso sempre per via del fatto che anche se la mia mente non è connessa il mio potere registra e immagazzina tutto ciò che mi accade intorno, non mi stupii più di tanto del caos che mi circondava ma della porta che dava sul corridoio, ormai nemmeno più porta. Come fosse un buco nella parete si stagliava in fronte a me coi suoi bordi frastagliati e irregolari invitandomi a uscire da quella prigione.
Allora mi alzai e, un passo dopo l’altro, mi avvicinai.
Potevo davvero uscire?
Presi il coraggio a due mani e, spinto da qualcosa di più grande, avanzai fino a varcarne quella che un tempo doveva esserne stata la soglia.
Non trovai rimproveri o grida come inconsciamente mi sarei aspettato anzi, li aspettai anche, impalato su due piedi per non so quanto tempo. Percorsi con lo sguardo il corridoio notando i quadri storti e l’accumulo di polvere negli angoli chiedendomi se fossi stato io a fare tutto quello. Ricordo di essermi avvicinato titubante alla stanza dei miei genitori, di aver abbassato la maniglia e di averla spinta un poco facendola aprire su di uno scenario che scoprii essere desolatamente vuoto. I profumi di mia madre avevano riempito l’aria rendendola irrespirabile e nauseante, la sveglia di mio padre non era più dove doveva, al suo posto solo altra polvere. Se ancora non mi ero reso realmente conto dello stato della casa, continuando a immaginare giustificazioni e scuse che si ammassavano le une alle altre, mi bastò scendere a pian terreno. La scala che ricordavo non vi era più. I gradini sani, per così dire, erano presenti a gruppi di due o tre, intervallati da alcuni che sembravano essere ceduti sotto d’un passo troppo pesante. Del corrimano ne era rimasto solo le scheletro. Prestando attenzione a dove stessi mettendo i piedi mi stupii del silenzio che sembrava circondare la casa.
Superata la cucina e giunto in salotto seppi per certo che ero solo.
Solo da chissà quanto tempo.
Il televisore era attraversato orizzontalmente da una crepa profonda che dava l’impressione di poter guardare cosa vi fosse dietro a quello schermo da venti pollici. La fodera del divano squarciata nascondeva la testa del telecomando che spuntava tra il bracciolo ed il cuscino sinistro, dallo scrittoio di mio padre dovevano essere caduta una delle sue risme di fogli che allora trovai sparsi per il pavimento.
La finestra che dava sulla strada, proprio accanto alla porta d’ingresso, era aperta. Fuori era notte, il buio inghiottiva persino la luce rada emanata dai lampioni rendendo impossibile distinguere la forma di ciò che si trovava al di fuori, Solo quando ebbi realizzato che non era giorno ricordo di avere iniziato a sentire le braccia intorpidirsi e le gambe tremare. Sforzandomi mi trascinai allo specchio nel quale mia madre era solita riflettersi prima di uscire per essere sicura di essere sempre in ordine.
Per quanto i miei occhi si sforzassero di rendere nitida la mia sagoma, anche solo distinguerla da quello sfondo che mi trovavo alle spalle, non riuscii a specchiarmici.
Che il mio potere mi avesse privato delle apparenze? Del mio aspetto?
Ero davvero stato io?
Troppe erano le domande cui ancora non potevo dare una risposta.
Rivolgendo le spalle al muro mi lasciai scivolare fino al pavimento.
Rannicchiato con la testa fra le ginocchia mi chiedevo perché.
Perché io?
Avevo diciassette anni, mi ero appena risvegliato per cadere in un incubo forse peggiore di quello che già stavo vivendo.







Angolino autrice:
Allora... direi di iniziare col dire che sono ancora viva. 
So di essere sparita ma se stessi qui ad elencarvi tutto quello che è successo in questo anno e mezzo non finirei prima di Natale prossimo. Non so se ancora sono capace di mettere insieme qualcosa di decente ma come al solito l'idea è arrivata, io ho iniziato a parlarne a destra e a manca per dei consigli e ora tutti si aspettano un capolavoro. Insomma dico io, vi ho chiesto solo se preferivate un protagonista moro o biondo! Quindi, tutti profetizzano grandi cose per questa storia e ho come l'impressione che mi uccideranno presto perchè un impegno simile adesso non credo di riuscire a seguirlo in modo coerente. 
E nulla. Volevo testare questo pseudo prologo/capitolo per vedere cosa ne pensate.
Non siate tirchi e lasciate una recensione che oggi c'è bel tempo (?).

L_lizzy

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***



CAPITOLO 2




Quattro giorni all’apertura ufficiale della sede dell’Ard.
Dire che ero elettrizzato non avrebbe reso l’idea. 
L’ubicazione dell’istituto era stata concordata in seguito ad un’accanita lotta tra quelli che erano i membri del consiglio. C’era chi aveva proposto come sede il Polo, per non creare sospetti, chi voleva mettere suddetta sede su di una piattaforma petrolifera nell’oceano, sostenendo che nessuno mai avrebbe cercato in quel posto. C’era stato chi aveva optato per le Piramidi, chi voleva edificarla nei sotterranei di una cattedrale e chi invece in Messico, affermando che l’unico vero problema in quel caso sarebbe stato superare la dogana con quelle teste calde dei Dotati, che si sa, per natura non erano particolarmente inclini a mostrarsi disponibili nel rivelare le proprie identità. Insomma, dovevo aspettarmelo, aver scelto dei soci giovani ogni tanto faceva degenerare il tutto in fantasie poco realizzabili. Dopo circa quattro ore di assemblea però trovammo una soluzione. La scuola, gli appartamenti e gli ambienti comuni si sarebbero trovati in un unico edificio in una cittadella nelle campagne. Esatto, nel centro di Greenpeace, un comune con non moltissimi abitanti. Non prendeteci per sprovveduti. Dove nascondere qualcosa che non dovrebbe esistere facendo in modo che nessuno possa trovarla? Quale nascondiglio migliore che porre questo qualcosa davanti agli occhi di tutti? Proprio in quei posti che si ritengono scontati, parte di una monotonia, dove nessuno cercherebbe un’anormalità. 
Inoltre non volevo segregare i Dotati in quattro mura di cemento armato, negando loro la possibilità di vivere; se l’avessi fatto non sarei stato migliore dei miei genitori. Volevo che vedessero la Sede come la loro nuova casa, la stessa che alcuni non avevano avuto, e che ad altri era stata sottratta. Casa.
So perfettamente dei rischi che potrebbero danneggiarci, ma in una strategia bisogna tenere conto sia dei pro che dei contro. Greenpeace è abbastanza lontana dalla metropoli ma abbastanza abitata da non essere considerata fuori dal mondo. Ai Dotati sarebbe stato permesso di uscire a proprio piacimento e rientrare quando avrebbero desiderato a patto che fossero presenti alle lezioni mattutine. Avrebbero avuto una stanza ad aspettarli ma nessuna costrizione vera e propria che li obbligasse a vivere segregati. Ovviamente per coloro che ancora non avevano superato la maggiore età il discorso non valeva, avrebbero avuto un coprifuoco da rispettare, diverse attività per intrattenerli senza che dovessero uscire dalle strutture della Sede non accompagnati. 
Non si sarebbero accettate trasgressioni. Questo punto mi premunivo sempre di chiarirlo con chi invitavo in sede stabile all’Ard. Se avessero accettato di farne parte avrebbero dovuto assumersi le proprie responsabilità e tenere un atteggiamento consono e rispettoso. Qualsiasi complicazione, sgarro o comportamento ritenuto inappropriato sarebbe stato discusso da me personalmente e al bisogno chi avesse promesso fumo sarebbe stato allontanato o, in casi meno drastici, avvertito di non ritentarci.

“Non dovevate Miss. Queste carinerie tenetele per colui che porterete all’altare” dissi col sorriso sulle labbra accettando di buon voglia la ciambella che la donna mi sventolava a due centimetri dal naso. Seppur non fossi più un bambino mi trovai a sorridere sotto ai baffi di zucchero al sentire la sua risposta.

“Ora come ora non vi sono pretendenti, avete forse intenzione di proporvi come candidato messere?”

Missy era la dolce settantenne che si occupava del panificio della piazzuola; sempre pronta alla battuta non dava mai a nessuno la soddisfazione di chiudere il discorso. Lei doveva aprirlo e lei doveva mettervi la parola fine. Se si trovava in una giornata no non dovevi nemmeno provare a cavarle di bocca qualche parola soprattutto se vi trovavate in negozio: era capace di tirare fuori il matterello e colpire dove più nuoce. Fortunatamente appena arrivai a Greenpeace mi prese in simpatia evitandomi una tale disgrazia, so per certo che queste non sono solo dicerie, anzi si comportava con me come una nonna farebbe con il proprio nipotino, viziandomi con, ogni mattina, un dolcetto differente. All’inizio ero rimasto spaesato davanti a tanta naturalezza e dolcezza soprattutto in una donna che nascondeva forchettoni e palette nel grembiule che non toglieva mai dalla vita. Ora posso dire in tutta sincerità che è una donna capace di mettere a proprio agio chiunque, capace di destreggiarsi in qualsiasi tipo di situazione, bella o brutta che sia. Una donna animata da un fuoco invisibile che mai si spegne. 
Che fossi in riunione con i soci della struttura o in ricognizione nella stessa, ogni giorno doveva consegnarmi la colazione personalmente, a costo di attaccarsi al campanello del portone principale per ore.
Nel comune era ben amata, chiunque la conosceva, se non di vista di fama, essendo proprietaria del forno migliore da qui alla città più prossima. Sempre in prima fila alle manifestazioni di beneficenza e alle assemblee comunali aveva riscosso simpatie anche da quei pomposi che si credevano chissà chi. 
Quando aveva scoperto che una volta a settimana mi rifornivo di pane, panini, gallette, e tutto ciò che poteva sostituire questi carboidrati, al mercato aveva provato a tenermi il broncio per poi puntarmi con occhi di fuoco per quattro giorni fino a quando non si era decisa a parlarmi. Mi aveva comunicato, ebbene sì, non chiesto ma comunicato, che si sarebbe occupata personalmente di rifornire la mensa della struttura. Non era solita sentirsi dare un no come risposta.

Io e i ragazzi ci eravamo anche premurati di mettere in giro la voce che la struttura ospitasse coloro che ivi si recavano per dei corsi di aggiornamento avanzati tenuti da professori che sapevano il fatto proprio. Il fatto che queste lezioni potessero durare più o meno tempo, comportando sistemazioni permanenti, non destava sospetti perché, a chi lo chiese, rispondemmo che ammaliati dal sistema e notati per le loro capacità era stato proposto loro di restare, di venire assunti e retribuiti. Insomma, il progetto finalmente era concreto, sembrava quasi di toccarlo con mano, già mi vedevo il cortile pieno. Non potevo esserne più soddisfatto ed in quel momento non rimaneva altro che andare a parlare ai Dotati.



* * *



L’idea dell’Ard, come detto in precedenza, non venne su dal nulla ma fu invece frutto di ragionamenti logorroici e, spesso, senza capo ne coda. Quando però iniziò a prendere forma ai miei occhi da adolescente ricordo di non avere perso tempo e di essermi messo sotto. Prima di pensare alla parte economica della faccenda dovetti imparare a convivere con l’aura, e non fu facile. Per governarla non bastarono un paio di settimane ma, bensì, mesi e mesi di lavoro. Iniziò a essere facile non farla espandere e tenerla a freno, sembrava fosse l’aura stessa ad aiutarmi a conoscere e comandare il suo potere. Scoprii che non era maligna. Elaborai tutta una personale teoria su di essa; cosa potevo fare per chetare le domande che mi tormentavano? Convincermi delle conclusioni alle quali arrivavo era un modo come un altro per tranquillizzarmi e poi, non so come spiegarlo, ma il potere era in grado di guidare i miei pensieri sulla giusta via o così almeno finii per convincermi. So che può sembrare tutto campato per aria ma non lo è, non per me che tutt’ora vivo questa situazione. 
L’aura che mi circonda era nata con me, pura, linda. Si era sviluppata contemporaneamente alla mia crescita. I fatti che rendevano felice me la facevano risplendere di una luce bianca, accecante, quelli che mi turbavano erano capace di farla tingere di tonalità cupe. Non ero in grado di distinguerne i colori da infante ma con il tempo avuto a disposizione dopo il mio risveglio, e la sua stessa guida, divenni capace di vederla riflessa allo specchio e successivamente di percepirla intorno a me. E senza che abbassassi lo sguardo sulle mani che sembravano catalizzarne l’energia. La vicinanza dei miei genitori, coloro che ritenevano il proprio figlio un pericolo,  aveva fatto precipitare l’equilibrio che era rimasto stabile fin quando attorno a me vi erano altri bambini. La purezza dei loro cuori era assorbita dall’aura che, attraverso essa, cercava di fare scudo ai toni scuri che la tingevano quando ero a contatto con mamma e papà. Non sapendolo erano stati proprio loro, volendosi proteggere confinandomi nella mia stanza, a buttare nel cesso gli sforzi del mio essere facendomi sprofondare nell’oscurità. La stessa oscurità che si era mano a mano diradata all’allontanarsi di quei due liberandomi da quello stato di dormiveglia che mi aveva sottratto gli anni della giovinezza. Spinto dal volere realizzare qualcosa che permettesse a quelli come me di vivere, con la V maiuscola direi. Una volta in pace con il potere scoprii che le sue capacità non si limitavano a distruggere vetri e quanto altro negli scoppi di rabbia ma che invece potevo modellarlo a mio piacimento. Crescevo insieme ad esso, e con il tempo, era diventato l’unica compagnia che potevo vantare. Potevo permettermi di parlargli, di vagliare insieme tutte le scelte che mi portarono dove mi trovo ora. In quegli anni lavorai sodo mettendo da parte ogni soldo che potevo ricavare. Iniziai svuotando il porcellino di porcellana, che, ironicamente, avevo chiamato Porchi, ricavandone qualche bronzino. Quelli furono i primi risparmi a essere messi da parte per la realizzazione dei miei piani. Rivoltai la casa in cerca di banconote tra i materassi e monetine negli svuota tasche. Quando, sicuro di avere razziato tutto mi spinsi fuori dalla porta di casa il mondo era pronto per essere esplorato.



* * *



“Kate, lasciami in ufficio l’indirizzo e torna a casa prima che tuo marito mi denunci per sfruttamento.”

“Già fatto, si trova sulla sua scrivania dall’ora di pranzo e se lei non fosse stato così eccitato avrebbe certamente notato la cartella. Si controlli, per Dio! Sembra non riesca a stare fermo.”

Il fatto che Kate sia la mia assistente personale la rende una privilegiata. A lei e a pochi altri nella struttura permetto di parlarmi in questo modo. Nelle sue parole è sempre celata una sottile, anche non, presa in giro. Una sua frase basta a farmi riprendere il controllo, a rimettere la testa sulle spalle. Anche questa volta non posso darle torto. Mi sento irrequieto, talmente nervoso da aver svuotato cinque bottigliette di acqua nel giro di un’ora, da aver mandato al diavolo chiunque abbia provato a parlarmi e aver dato un calcio ad una delle pareti del mio ufficio. Nemmeno il cerchio alla testa che da due ore mi squassava il cranio mi aveva impedito di fare su e giù per i corridoi scavando fosse che, se fossi andato avanti, mi avrebbero fatto raggiungere l’emisfero opposto.

“Pensa a filare via prima che possa pensare di revocarti le ferie.”

La vedo sbuffare con aria teatrale e ci mette talmente tanto impegno che il ciuffo ramato che si trova sulla sua fronte fa un saltello proprio come lei mentre alle scarpe da lavoro sostituisce un paio di scarpe basse da ginnastica che hanno l’aria di essere cento volte più comode. Non ho mai capito la sua ossessione per questi cambi. Una volta le ho anche chiesto perché lo facesse ma come risposta ricevetti un’espressione sbalordita che sembrava dire “e me lo chiede anche!”. Non capirò mai e lei di certo non mi aiuterà, l’unica cosa che ho ipotizzato e che abbia visto troppe volte quei reportage sugli studi legali in cui le segretarie sembrano fatte di plastica talmente si tirano la pelle del volto per sembrare più giovani. Sempre con ai piedi quelle scarpe da vertigini come se il loro contratto preveda uno stacchetto in passerella, nemmeno dovessero sfilare sul Red Carpet dico io. Fortunatamente le calzature da lavoro di Kate non sono nulla di vertiginoso e appuntito, insomma nulla che ti preoccuperesti di ricevere in testa dopo una sfuriata. Ebbene sì; per quanto lei si ostenti a imitare quelle bamboline il suo atteggiamento è tutt’altro che ben disposto. E del sorriso da copertina di quelle avvocatesse novelle non c’è ombra sul suo viso. È sempre sul piede di guerra, in effetti penso andrebbe più che d’accordo con Missy, anzi, non mi sorprenderei di vederle iniettarsi a vicenda una dose di autoironia l’una e disponibilità l’altra da far impallidire chiunque. L’unica differenza è che la mia dolce settantenne è tanto cara con me mentre Kate non mi risparmia scenate da banshee con tanto di uscita scenica. Davvero, più di una volta mi sono stupito di come tutto fosse coordinato al secondo. Nel momento stesso in cui lei sbatteva la porta del mio ufficio uscendo, un meteorite si schiantava sulla Terra e una stella cometa volava sulla teste di tutti quei Re Magi stipati in presepi troppo affollati. 
Pur essendo più giovane di me possiede quel fascino che ti spiazza, sul serio. Un minuto prima la vedi che si controlla il lucidalabbra allo specchietto e il minuto dopo è saltata alla gola di quel poverino che consegna la corrispondenza negli studi. 
Se mai doveste condividere il marciapiede con lei in uno di quei famosi cinque giorni che stravolgono la vita di tutte le donne vi consiglio di cambiare sponda così da non venire spinti sotto un auto in corsa dalla suddetta. Se mai vi venisse in mente di contraddirla vi conviene cambiare città, paese, stato, perché non vorreste mai partecipare ad una di quelle sue discussioni unilaterali nelle quali si autoproclama imputato, giudice e giuria.

“Ci hai provato grand'uomo ma toglimi un solo giorno e te la vedrai con me e prenditi un sonnifero, dormi un po’, non vorrei facessi scappare il primo Dotato con quelle occhiaie da paura.”

Sono quasi tentato di risponderle con un “Sì, signora!” corredato di saluto militare ma la sua possibile reazione mi spaventa abbastanza da rinunciare al tentativo.

Non sono mai stato così nervoso. 
Aspetto che esca per tornare in ufficio, aggirare la scrivania e sedermi, tra le mani la cartella con l’indirizzo del Dotato. Il primo Dotato che sto per introdurre nel programma. 
Non so quanto sarà difficile domani, e soprattutto se lo sarà, ma l’unica cosa a cui riesco a pensare è che devo risultare abbastanza credibile da convincerlo.

Offrirò una possibilità a chi non l’ha mai avuta.





Angolino Autrice:
Bhe, io vi avevo avvisato che non sarebbe stato un appuntamento ad aggiornamento costante quindi a tutti quelli che mi vogliono mettere alla gogna dico che ho le mani legate dalla scuola che non mi lascia un attimo libera. Maledetta.
Secondo capitolo, non siamo ancora alla lunghezza desiderata ma questo è quanto.
Spero piaccia a qualcuno e spero che questo qualcuno passando lasci una recensione giusto per sapere se la strada è quella giusta… siate l’Hansel per la mia Gretel (?).
A presto,
L_lizzy

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3



E mentre la vita scorre monotona arriva una svolta. Ti si presenta una possibilità tra capo e collo, come una manna dal cielo. Non sai esattamente come, e magari non te ne accorgi nemmeno subito, ma con il passare del tempo ti rendi conto del considerevole passo avanti che hai compiuto.
Per me l’arrivo di Lambert rappresentava quell’evento inaspettato.
Non direi sia stato un arrivo, lo definirei più un incontro fortuito che alla fine ha giovato a entrambi.
Ricordo come fosse ieri il mio impiego al bar Taori; lavoravo lì da un po’ quando mi venne chiesto di protrarre il mio turno fino all’una. Un collega si era sentito male e avrei dovuto sostituirlo. Accettai subito la possibilità di arrotondare quel misero stipendio di un paio di banconote. Chissà, magari i clienti avrebbero sganciato una mancia un po’ più cospicua se avessi corretto loro un paio di drink.
Intorno alle diciotto il locale si era riempito di ventenni in cerca di un aperitivo. La luce del sole bagnava la superfice del bancone in vetro sfaccettato proiettando tutto intorno raggi di luce ed illuminando ciuffi biondi e sopracciglia scure che si incurvavano enfatizzando ciò che questo o quello stavano dicendo. Ricordo di essermi interessato alle conversazioni altrui numerose volte; in mattinata, mosso dall’urgenza di pulire i tavoli per fare spazio agli studenti non avevo il tempo di ficcare il naso in nessun discorso. Sembravano moltiplicarsi appena io voltavo loro le spalle. Al massimo captavo una mezza lamentela per il compito di latino e una sciagura rivolta verso un professore. A pranzo partecipavo ai drammi dell’ufficio legale, drammi di cui le assistenti mi rendevano partecipe a loro insaputa. Poverette, non potevano immaginare che io fossi così smanioso di saperne di più. Loro non facevano altro che comunicarsi frenetiche un pettegolezzo dopo l’altro ed io, da bravo cameriere, mi attardavo accanto a loro nel prendere le ordinazioni e nel consegnare i piatti.
Alle ventuno i trentenni che avevano occupato gli sgabelli al bancone per guardare la partita si disperdevano in strada dando al bar una mezz’ora di respiro prima della ressa. I tifosi erano forse gli unici di cui non m’importava ora che ci penso. Temo ci volesse un vocabolario particolare per riuscire a tradurre grugniti, sibili e fiati mozzati nel momento in cui gli avversari erano troppo vicini alla porta. Dannati tifosi del calcio. Quando poi capitava che mettessero la palla in rete saltavano in piedi creando una confusione assurda. La prima volta che feci turno serale non sapevo di questa loro abitudine e quando scoppiò il caos non ero pronto. Finii per sobbalzare e facendo cadere il vassoio che portavo; inutile dire che andai incontro ad una riduzione di stipendio. Imparata la lezione io e gli altri quattro camerieri lì impiegati, che già avevano sperimentato a loro volta l’esperienza, imparammo a ritirarci dietro al bancone quando tale calciatore riusciva a scartare i difensori e pronto a calciare la palla si preparava a fare goal.
Dalle ventuno e trenta iniziava a farsi più rilassata la situazione: le luci del locale si abbassavano dando alle conversazioni un tono confidenziale. Gli unici clienti che entravano durante la settimana erano interessati a farsi un goccio, staccare per un po’ la spina prima di tornare alla loro vita, erano una ristretta cerchia che presto divenne familiare. Nel week end invece imparai a fare ciao-ciao all’atmosfera rilassata e a dare al benvenuto a quegli adolescenti scriteriati che volevano farsi grandi facendo nottata.
Era emozionante vedere come ognuno reagisse all’effetto dell’alcool.
Scoprii che la parte migliore di quel lavoro veniva durante le notti dei giorni lavorativi, nelle poche ore che precedevano la nascita di un nuovo giorno. Come dicevo prima, vi era una cerchia che assiduamente si presentava alla solita ora, vestiti sempre allo stesso modo. Entravano al Taori con un’espressione e ne uscivano con una differente. All’ingresso giungevano sbarbati, afflitti da problemi che sembravano gravare sulle loro spalle come macigni e all’uscita la barba non fatta passava in secondo piano; l’attenzione era attratta dagli sguardi che si erano fatti vitrei o offuscati. Come coperti da un velo. Nessuno mai sedeva in compagnia pur conoscendosi tutti di vista. Si trattava di tante unità divise, poste ad una distanza di sicurezza le une dalle altre. Durante il servizio c’era chi scoppiava in fragorose risate attirando la curiosità di alcuni. Se mai vi capitasse non siate superficiali, giratevi a osservare quell’uomo. Lo vedrete trasformare il riso in pianto e lo farà talmente in silenzio che se non gli aveste prestato attenzione non sareste divenuti partecipi di questo radicale cambiamento. C’era poi chi restava accartocciato su se stesso per tutta la sera, anche cinque o sei ore fermo nella stessa posizione. Questo individuo siederà al limite del divanetto e dovrete prestargli la dovuta attenzione perché ad un suo, quasi, impercettibile gesto dovrete avanzare. In mano l’ennesimo bicchiere dal fondo pesante pieno di quel liquido ambrato che finirete per credere abbia iniziato a scorrergli nelle vene.
Era una notte di queste che incontrai Lambert, ormai io avevo definitamente cambiato turno facendomi assegnare a questa fascia. Non che non lo avessi mai visto, il suo cappotto color cammello con quel cappuccio sempre calato sul volto attirava la mia curiosità da tempo, ma fu solo quel giorno che scoprii chi fosse.
Chiamatelo caso, destino o colpo di fondoschiena, ma Lambert era proprio quello che mi ci voleva. Non lo seppi nell’immediato, anzi al momento in cui lo incrociai lo maledissi in trenta lingue diverse perché avevo un piede già nel letto. Ma vi spiego meglio.
Ormai mi stavo già proiettando mentalmente in un letto caldo anelando quelle cinque ore di sonno che mi spettavano prima del suono della sveglia quando ci trovammo accanto al semaforo. Il cappotto inconfondibile aveva il cappuccio abbassato e mi sorpresi nel vedere che doveva avere la mia età, forse qualche anno in più. Era la fedelissima foto dell’ubriaco standard, ciondolante non si reggeva in piedi, gli occhi gli si chiudevano ogni due per tre e dovetti prenderlo per le spalle per non farlo crollare per terra. Mi feci dire l’indirizzo e lo portai a casa, ci mancava solo che avessi un omicidio sulla coscienza. Lo so, un omicidio, un po’ drastico direte ma lasciarlo lì fuori in quelle condizioni voleva dire condannarlo a morte certa, troppi gradini, rampe e spigoli vivi sui quali avrebbe potuto schiantarsi.
Questa routine andò avanti per un paio di notti. Seguirono tentativi di conversazioni strozzare, interrotte da un sorso di questo o quell’alcolico. Ci presentammo, lui mi raccontò di avere vissuto con la sorella. Lei un paio di anni fa si era sposata e trasferita dal marito strizzacervelli. Lui non sapeva cosa farci di quella villa ereditata in cui avevano vissuto fino a quel momento così l’aveva affittata e si era ritirato in un appartamento poco distante dal bar.
Sarà stata la confidenza usata nel parlare con me, niente altro che un cameriere ma tutta quella sincerità mi fece sbilanciare un po’. Iniziai a raccontargli del mio progetto, a grandi linee, ovviamente senza nominare ne poteri ne Dotati. Gli spiegai il motivo per il quale mi ammazzavo di lavoro e più ci parlavo più il potere stesso mi dava la sensazione di stare facendo la cosa più giusta.
Insomma, più parlavamo e più, in entrambi, si innescava un meccanismo che ci portava a continuare la stessa conversazione per giorni.
Dopo la prima settimana iniziò a presentarsi alle undici, dalla seconda alle dieci fin quando non iniziò a presentarsi nella fascia delle partite. Sarà stata per la comicità della situazione ma ogni volta che eravamo costretti a parlarci attraverso il bancone, in sottofondo quei gorilla che sibilavano, grugnivano e scimmiottavano, era impossibile non trovarsi a sorridere.
Diventammo amici e ci vollero due anni di conversazioni al bar prima di riuscire a riconoscerlo a noi stessi. Era impressionante come sfogarmi con qualcuno potesse farmi sentire così in pace col potere; non dovevo sforzarmi di trattenerlo mentre discutevamo, non dovevo limitarne i danni quando mi faceva lo sgambetto. Capitolavo a terra con tanto di analcolici e salatini tra le mani e la cosa finiva in una risata e uno spintone.
A metà del terzo anno di conoscenza ai suoi occhi continuava a mancare un tassello del mio puzzle, percepiva la mia ritrosia a raccontargli una considerevole fetta della mia vita, come mi confessò un giorno. Al termine del terzo anno mi tirò una carognata che fu, allo stesso tempo, una sfortuna e una fortuna. Mi fece ubriacare; una volta tanto era lui a riempirmi il bicchiere e a farmi confessare tutto. Ricordo la sensazione perfettamente, era come se dentro la mia testa fosse in corso una battaglia tra il cervello, razionale, e il potere, istintivo, puro. Nonostante questa guerra in atto la bocca non si fece problemi ad aprirsi e a rivelare tutto quello che mi ero ripromesso di non dire mai a nessuno.
Seguirono due giorni nei quali aspettai Lambert al bancone. Ma lui non si presentò. Due giorni nei quali pensavo solo il peggio della sua assenza: che fosse intento a svendere la mia storia ai giornali? Che ne stesse scrivendo un libro? Che ne stesse parlando a sua sorella per telefono e che sua sorella a sua volta stesse chiedendo l’opinione al marito psicologo?
Al terzo giorno si presentò al bar e le prime parole che mi rivolse mi fecero barcollare, tremare e fremere di un’emozione nuova, mai provata.

“Realizziamo questo progetto” tre parole che avevano avuto il potere di paralizzarmi e farmi ricredere sulla sua moralità.

Gioia. Provavo gioia per avere trovato finalmente la svolta che credo tutt’ora di essermi meritato.
Quel giorno ne ebbi la conferma: avevo trovato un amico.
Passai le ore successive alle mie dimissioni a dare spiegazioni a Bert, che, giustamente, aveva captato e compreso solo la metà delle informazioni che era riuscito ad estorcermi.


* * *


Dovevo solo arrivare sano e salvo al 123-E di Elenoire Street. Nonostante gli sforzi per evitare qualsiasi forma di vita che avrebbe potuto ostacolare il mio cammino e rimandare il mio arrivo non riuscii a presentarmi all’indirizzo prima di pranzo. Possibile che la fortuna non fosse mai dalla mia parte?

Sarebbe ora di consigliare alla dea bendata da che parte guardare…

Per accedere alla sede avevo dovuto evitare l’ingresso principale poiché tampinato da Missy. Non avevo le forze necessarie per lanciarmi in una conversazione delle solite. Voleva dire smentire per una mezz’ora abbondante i suoi “Per me non mangi abbastanza figliolo”, stava diventando una routine. Non che non mi facesse piacere ricevere queste premurose attenzioni ma, come già vi dissi, per Missy quella in torto non poteva mai essere lei ma io. Io che non prendevo abbastanza proteine, che mi facevo mancare i nutrienti essenziali e che non badavo abbastanza al mantenere una dieta equilibrata. Insomma, con tutti i pensieri che ho in testa e tutte le faccende di cui mi devo occupare il tempo per mettermi ai fornelli non lo trovo nemmeno se prego in cinese. Che alla fin fine lei non lo sa, ma se mai mi mettessi a cucinare probabilmente riuscirei a fare saltare il piano cottura, la credenza e, perché no, l’intera cucina.
Tornando a noi, mi diressi verso l’ingresso secondario evitando quel confronto verbale che mi avrebbe risucchiato mezza giornata. Arrivato indenne in ufficio e recuperata la cartella sulla scrivania, m’incamminai furtivo verso le macchinette degli snack. Le saccheggiai, in effetti, senza nemmeno rendermi conto dello sguardo di Kate che dal divanetto posto accanto alla seconda entrata di quel “locale rifornimenti” si beffava di me e del mio scarso amor proprio per la linea.

“Non una parola, ho mancato per un soffio Missy e ti prego, ti scongiuro, ti supplico non sostituirla nel ruolo di istruttrice nutrizionale” dissi a metà tra lo sconsolato e l’afflitto.

“Come vuoi. Eppure credevo di averti consigliato un sonnifero ieri sera, hai un aspetto orribile.”

“Per questo sto per abbuffarmi di porcherie, avere un po’ di zuccheri in circolazione mi aiuterà ad affrontare la situazione” dissi mentre scartavo la prima barretta pregustandomi il suo sapore sul palato.

“Non davanti a me!”

Con queste parole oltrepassò la soglia dirigendosi alla propria scrivania reggendosi la testa con entrambe le mani come se solo il pensiero di vedermi compiere una tale scempieria potesse farle venire un capogiro. Ignaro del pericolo che mi aspettava dietro l’angolo presi a mangiare quella dolcezza.
Trois Chocolat: il nome di questa prelibatezza. Una barretta di praline di cereali ricoperte di cioccolato fondente rivestite superiormente da uno strato di cioccolato al lampone su di uno al caramello. Una bomba di calorie che ti faceva acquistare il buon umore e un colorito sano in tre secondi netti.
Felice come una pasqua voltai l’angolo fin quando il braccio con cui tenevo il mio bottino non crollò alla vista di quello che mi si era presentato davanti agli occhi.
Proprio non ce l’avrei fatta a superare quella giornata.
Il Trio-dei-miracoli si stagliava di fronte alla mia espressione da condannato mentre la mano completamente impastata di cioccolata si andava a schiaffare sul mio volto senza che potessi farci niente.

Dannati tre strati di cioccolato!



 
 
Angolini dell’autrice:
Dunque belli de mamma, questo capitoletto svela un’altra parte del passato del nostro protagonista… di cui tra l’altro non vi ho ancora detto il nome, lo so, sono malefica. Forza gente si accettano scommesse su quando effettivamente lo renderò pubblico! Mi piace davvero pensare che leggiate questo angolino perché mi fa sentire un pochino più vicino a voi.
Ad ogni modo torniamo a noi.
Chi coglierà la pseudo-citazione a fine capitolo?
Che dire? Spero vi sia piaciuto e mi spiace interrompermi sul più bello ma questi tre personaggi vorrei introdurli per bene caratterialmente quindi devo ancora pensarci un pochino su.
Fatevi sentire e dite la vostra sulla storia io ci conto sempre!
Ciao cucciolotti :3
L_lizzy



 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4
 
 
 
Stretti nelle loro divise bianche mi osservavano dal fondo del corridoio. Accecanti come raggi di sole impedivano a chiunque di seguire i loro movimenti provocando l’indesiderato effetto del flash-forward. Non so se vi è mai capitato, in caso vi auguro di non subirlo mai. Mi trovavo ancora a terra e gli occhi non facevano altro che strizzarsi nel disperato tentativo di vedere qualcun altro, qualsiasi altro. Bastava non fossero quei tre maniaci. Ogni volta che le palpebre si abbassavano e rialzavano loro era più vicini: quattro metri di distanza. Tre. Due. Capolinea.
Avete presente quando vorreste scomparire dalla faccia del pianeta? Quando iniziate a desiderare che la Terra si apra e vi inghiottisca interi insomma. Quando cominciate a considerare la possibilità di venir fulminati dal cielo piuttosto che trovarvi in quel determinato posto e durante quel preciso momento. A me accadeva ogni volta avessi la (s)fortuna di incontrare il Golden trio.
Jenny, Jeanette e Jean, si tratta della mia troupe di, rispettivamente, parrucco, trucco e stile. Uscire sani da una conversazione con loro non è scientificamente possibile, tuttora. Scendere a fare una visitina nell’Ade sarebbe stata una passeggiata a confronto, giusto per intenderci.
Non potevamo permetterci di mandare a zonzo i Dotati per far spese di abbigliamento, come non potevamo rischiare che una fanciulla dotata si lasciasse andare in chiacchere con la parrucchiera. Andate a spiegarlo voi a quella del salone di bellezza che si stava scherzando.
In due secondi fui alzato per le ascelle e sottoposto ad una revisione.
Mi ronzavano attorno come api operaie, talmente velocemente che i miei occhi riuscivano a malapena a distinguere le tre chiome colorate in mezzo a tutto quel bianco.
 Jenny, malvagia e cospiratrice Jenny. Al tempo ero convinto che sarebbe stata capace di tendermi un’imboscata per i corridoi armata dalle sue inseparabili forbici per domare la zazzera disordinata che avevo sul capo. Il mio incubo ricorrente era di trovarmela in casa mentre faceva la piega applicando gel, spume e quant’altro al mio povere gatto, Mike. Non che abbia un gatto.

In effetti penso sia questo il motivo principale della mia ritrosia a prendere un animale da compagnia…

Il suo caschetto di capelli biondo grano tocca ormai le spalle del completo gessato che porta come consuetudine durante le ore lavorative. Si era distinta proprio per quel suo vestirsi professionale che però a lei donava particolarmente. In seguito riuscì a piegare i due compari, convincendoli a fare lo stesso con la differenza che ognuno lo aveva personalizzato a proprio modo. Così, vestiti di bianco, sembravano un’apparizione divina e nelle belle giornate era quasi più difficile guardare loro negli occhi che il sole. Il viso dalla mascella squadrata è contornato da due ciocche lasciate un po’ più lunghe e da una frangetta che aveva, ha e avrà il vizio di pettinarsi ogni due per tre.
Jeanette: sprizza vitalità come nessun’altro che io conosca. Alta poco più di un metro e sessanta cammina su scarpe le cui zeppe si intravedono tra le gambe a zampa larga dei suoi pantaloni. La giacca ha un unico bottone allacciato poco sopra l’ombelico facendola scendere a campana, sottolineando i fianchi larghi che la rendono oggetto di invidia dalle assistenti “tavoletta.” Non c’è bisogno che vi spieghi che vuol dire, giusto?
Jeanette è la nostra esperta di make-up, realizza qualunque commissione le venga posta. Che sia semplice o complessa non importa lei ti vola accanto stordendoti di domande impugnando pennelli e tavolette di ombretti come niente fosse. Non abbiate paura della sua coda di cavallo castana, per quanto ve la schiaffeggerà sul volto in scatti di gioia e trepidazione non riporterete danni permanenti.
Jean si occupa di moda, stilista, sarto e consulente di donne in piena crisi mestruale. Si destreggia con maestria in tutti e tre i ruoli. Si distingue per il suo atteggiamento velatamente scorbutico e saccente. Porta la giacca, con le maniche a tre quarti, aperta su di una camicia stirata a regola d’arte. I suoi capelli sembrano essere una composizione d’arte moderna per i cento e uno modi in cui riesce a conciarli al mattino. Dategli in mano un tubetto di gel e otterrete il degno successore di Picasso.

“Oh cielo, dammi la forza.  Ma l’hai almeno un pettine in quell’appartamento?”

Uno.

“Quelle occhiaie per Dio nemmeno io saprei mascherarle!”

Due.

“Fammi capire tesoro, ti sei vestito al buio?”

Tre.

Quattro-cinque-sei-sette-otto-nove-dieci.


“Davvero caro dovresti curarti di più” aggiunsero in coro facendomi capitolare con un sospiro di rassegnazione. Contare fino a dieci come al solito non aveva dato i suoi frutti.

Grazie Terra, per avermi lasciato in mano a queste calamità naturali!

Mentre Jeanette mi puliva il viso dal cioccolato, facendomi in sostanza mangiare la sua salvietta profumata, Jean aveva estratto, non chiedetemi da dove, una camicia azzurra facendomela indossare al posto della maglia dei Green day che quel giorno mi ero accinto a mettere con tanta premura. Al contempo Jenny cercava di districare i nodi che avevo in testa costringendomi a urletti di dolore davvero poco virili.
Quando Jean cercò di mettermi al collo una cravatta ricordo di essermi divincolato e con uno sprint degno di un velocista me l’ero svignata.
Percorsi il tragitto fino all’auto strisciando a ridosso dei muri e fin quando non misi in moto continuai a controllare che non mi arrivasse nessuno alle spalle.
Con una mano sul volante ed una sul cambio mi resi davvero conto di quello che stavo per fare.

Che inizino i giochi.

Trovare il 123-E di Elenoire Street non era stato difficile; una volta presa l’autostrada proseguii dritto fino all’uscita di Newtown. Girai un paio di volte l’isolato fin quando non mi convinsi a scendere dalla macchina e a suonare il campanello di quella casa.
Agitato? Solo un poco.

“Salve, il mio nome” ma ancora prima di finire la frase venni interrotto dalla voce di una donna.

“Aiden Crane, so già tutto, venga dentro.”

Qualcosa mi dice di aver trovato Diane Foster.

E così era.
Diane Foster, la prima Dotata sulla mia lista. Il reparto osservazione della Sede si occupava di cercare i Dotati, certificarne i poteri e fornirmi gli indirizzi. A me spettava il compito di presentarmi ed esporre loro la mia proposta. Gli Osservatori l’avevano trovata grazie alla notizia dei suoi poteri, notizia divulgata durante la sua infanzia. Era una telepatica, niente visioni o convulsioni in presenza di spiriti maligni solo una ragazza che poteva dirti vita, morte e miracoli di qualsiasi persona. Qualsiasi. Telepatica o no aveva poco di cui sorridere. Purtroppo questa dote non sempre dava i frutti desiderati, certo ogni tanto capitava che qualcuno la contattasse per una consulenza ma il più delle volte si trattava di giornalisti che avevano letto uno di quei tanti articoli che si erano scritti su di lei durante l’infanzia. “Bambina prodigio”, “veggente a Newtown” erano i titoli dei suddetti, ma a Newtown di nuovo c’era solo il nome. I cittadini sembravano vivere ancorati alle tradizioni del secolo scorso. Anche le credenze erano quelle di anni prima e avere una compaesana con “la palla di vetro” non era proprio visto di buon occhio; se così si può dire.
La casa era nella periferia della città, tinta di un rosa cipria andava annullandosi tra i villini colorati tra cui era stipata. Mi sorpresi nel trovarmi di fronte una ragazza poco più che maggiorenne vestita accuratamente nonostante si trovasse in casa da sola.
Mi guidò fino al salottino dove ci accomodammo. Feci per parlare ma venni interrotto nuovamente.

“Interessante la sua proposta. Non si meravigli, so di per certo che sapeva chi avrebbe trovato suonando a questo campanello.”

“Non che voglia insinuare il contrario. A quanto pare lei è proprio chi cercavo.” Ad un suo assenso andai avanti “Posso presupporre di poter oltrepassare la fase nella quale le spiego chi sono e perché sono qui.”

“Esattamente, ma prima vorrei rispondesse a una domanda. Perché dovrei seguirla?”

“Domanda più che lecita, se permette. Pur non avendo il suo potere posso affermare che tra un paio di anni, guardandosi indietro, sarà soddisfatta di avere accettato la mia proposta” ricordo di avere appoggiato i gomiti sulle ginocchia, eravamo occhi negli occhi “non dovrà più limitarsi. Sarà insieme, se tutto procederà come spero, a persone uguali a lei e allo stesso tempo completamente differenti. Il punto è che lei ora la possibilità di scegliere. Da una parte c’è la sua vita attuale, ne è soddisfatta? Bene allora tolgo le tende. Ma se anche solo una volta ha pensato a quanto potrebbe essere diverso se lei non fosse così allora mi segua. Noi siamo diversi è vero, ma chi ha detto che diverso è male? Le sto dando la possibilità di fare un salto nell’ignoto, sta a lei provare ad aprirsi una strada per un futuro migliore. Non ho statistiche o percentuali di riuscita da sottoporle, ma sono qui, che lei dica sì o no.”

Seguirono degli attimi di silenzio, io ero sbalordito della mia capacità espressiva che una volta tanto non era andata a farsi un giro e lei che soppesava le mie parole.
Finii per attardarmi fino a sera a casa sua. Parlammo dei particolari anche se più che tentare di rispondere non facevo. Era sorprendente, quando avevo suonato al campanello le era bastato guardarmi per leggermi dentro. Mi confessò che era tanta l’ansia che aveva sentito ancor prima che io arrivassi i discorsi di prova che continuavo a ripetermi nella mente mentre aggiravo l’isolato più e più volte. Alcuni dettagli non era riuscita a carpirli e allora mi poneva domande alla velocità della luce ed era davvero impressionante perché come io facevo per parlare lei si auto-rispondeva. Bastava che io pensassi, no, neanche, bastava registrassi la domanda che lei riusciva a trovare la risposta nella mia mente.
In compenso mi riempii la pancia mentre lei praticamente auto-discorreva mettendomi nel piatto ogni ben di Dio che sfornava. Era come se non riuscisse a stare ferma e, in cuor mio, speravo fosse per l’eccitazione. Speravo che internamente avesse già scelto di accettare.


* * *


“Ovvio che non si possa fumare! E no, vedete di stare lontani voi due che già non vi sopporto più!”

Ma cosa?

Ero riuscito a recepire solo le ultime frasi ma quella era decisamente la voce di Diane. Sapevo che si stava occupando dei nuovi arrivati indossando le vesti di cicerone. Erano arrivati tutti e quattro insieme su di un pulmino che avevo fatto mandare a prenderli in aeroporto.
Lei stessa si era offerta di far fare un giro ai ragazzi, erano passate due settimane da quando si era trasferita da noi e immaginavo non vedesse l’ora di conoscere gli altri Dotati. Di quella impaziente curiosità non riuscivo a trovarne traccia nel tono usato prima così mi diressi da lei.

“Diane? Tutto sotto controllo?” Cinque paia di occhi si fissarono nei miei e non potetti fare a meno di indietreggiare prima di risalutare uno ad uno i ragazzi.
Per prima cosa tirai giù il cappuccio di quella piccola peste di Camille ricevendo uno sbuffo e una mezza imprecazione quando le scompigliai i capelli. Strinsi la mano a Sam e feci un segno verso Alaska e Amy che ricambiarono con un’alzata di spalle e un sorriso.

“Beh, direi che forse è meglio lasciarvi sistemare. Tra un’ora nell’auditorium per le presentazioni” non vedendoli molto convinti aggiunsi “obbligatoriamente!”

Lasciai che Diane li accompagnasse nelle loro stanze mentre io componevo un numero sul display del telefono.

“Joe? Sì sono io. Tra un’ora all’auditorium… uh, sì. Vedi di avvertire anche le altre due mi raccomando. A tra poco. Ok, come un problema? Non importa lascia tutto scenderò nel pomeriggio. Grazie.”
 
 









 
 
Angolino Autrice:
Lo so… vi ho lasciato con tipo sei personaggi da definire, ma non siete contenti? Nel prossimo capitolo conoscerete la truppa, quasi tutta in effetti.
E niente, spero vi sia piaciuto e spero di vedere anche una recensione (?) così, per sapere che ne pensate, per sapere se continuare o chiudere baracca e baracchini XD
Baci e anguria per tutti!
L_Lizzy

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