Drown

di Arya Destiny98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tasloco ***
Capitolo 2: *** Forks ***



Capitolo 1
*** Tasloco ***


Capitolo uno

Trasloco

Era stata un’altra di quelle giornate. Io e mio fratello Max avevamo litigato, la mamma aveva strillato parecchio e niente si era risolto. Come al solito. Non avevo ancora finito di impacchettare le mie cose, ancora non volevo accettare l’idea del nostro imminente trasloco. Dovrai farci il callo, cara mia, mi disse la mia vocina interiore. Con uno sbuffo la misi a tacere e mi sdraiai sul letto privo di coperte. Totalmente, completamente infelice. Ecco come mi sentivo. Non ricordavo nemmeno cosa fosse la felicità. L’ultimo barlume di allegria lo avevo provato il giorno del mio sedicesimo compleanno, esattamente tre mesi prima. Era passato troppo tempo. “Ehi, musona, ti ho portato qualche scatolone” esordì la mamma, entrando nella mia stanza senza bussare e  reggendo una precaria pila di scatole di cartone. Alzai gli occhi al cielo ma l’aiutai comunque: non volevo scatenare nuovamente la sua furia omicida.  “Ecco, brava. Ricorda, uno per le cose che vuoi tenere e tutto il resto per quelle che vuoi buttare. E bada, devono essere belli pieni al mio ritorno.” Era ancora seccata. Le rivolsi un cenno indistinto che la convinse ad alzare i tacchi senza aggiungere altro. Sbuffai  di nuovo. Di tutti i posti in cui quella donna poteva decidere di trascinarmi… Iniziai a passare in rassegna le mensole con aria afflitta. Un vecchio diario, una cartolina d’auguri, un Nintendo Ds scassato e una ventina di libri andarono ad occupare lo scatolone della roba da tenere. Ficcai senza pensarci due volte le foto che mi ritraevano in una parvenza di euforia, strizzata fra quelle che una volta consideravo le mie migliori amiche, nelle scatole che sarebbero andate buttate. Se proprio dovevo cambiare aria l’avrei fatto come si deve, ricominciando tutto da zero. Una volta terminata l’operazione la mia camera era pulita e ordinata come mai prima d’allora. L’unica cosa fuori posto era il mio orsetto di peluche, Teddy, al quale mancava un occhio e gran parte dell’imbottitura. Lo presi in mano, soppesandolo, e poi lo lanciai nello scatolone dei rifiuti. Mi sentii immediatamente in colpa e andai a ripescarlo in fretta e furia. Forse non ero pronta per un taglio così netto. Il pupazzo parve lanciarmi un’occhiata di rimprovero. “Non guardarmi così, sai bene che non è mia la colpa!” esclamai a voce alta, schiumante di rabbia. Parlare con gli oggetti inanimati non è mai un buon segno. Uscii dalla stanza prima che gli oggetti potessero iniziare a rispondermi. “Hai riempito gli scatoloni?” abbaiò mia madre, con uno sguardo altamente sospettoso. “Sì. Adesso esco, più tardi li porto giù.” Mi chiusi la porta alle spalle, sbattendola, e mi ritrovai immersa in una calda giornata di fine agosto, croccante come una mela. Feci un respiro profondo e mi concentrai sul dolce aroma di frutti che impregnava l’aria. La California mi sarebbe mancata. Camminai senza meta e raggiunsi il vigneto di proprietà dei signor Parker, il mio rifugio preferito in assoluto. Non era la stagione dell’uva, quella sarebbe arrivata a fine ottobre con i suoi chicchi succosi che amavo piluccare illegalmente. In quel periodo le viti se ne stavano contorte, disposte su file lunghe centinaia di metri, così tristi e vuote da causarmi un groppo in gola. Oltrepassai la vigna con gli occhi che andavano riempiendosi di lacrime, sapendo che quella probabilmente sarebbe stata l’ultima volta che la vedevo. 
*
“Siamo arrivati?” chiese Max per la millesima volta. “Se me lo richiedi fermo la macchina e ti faccio scendere” ruggì la mamma, infastidita. Io roteai gli occhi con aria di sufficienza, alzando di una tacca il volume del mio ipod. Ero stufa di viaggiare, stufa marcia di sentire quei due battibeccare. Finalmente, dopo un’altra estenuante ora arrivammo a destinazione. “Era la casa dell’ex marito di una mia cugina di terzo o quarto grado … o qualcosa di simile. Era lo sceriffo qui, circa cinquant’anni fa. Dato che beh lui ci è rimasto non sapevano a chi dare la  casa e nessuno voleva comprare in questa zona. Perciò l’ho avuta praticamente gratis. Se non è fortuna questa…” I borbottii di mia madre mi infastidirono, ma ancor più lo fece quella sua solita espressione ‘ci è rimasto’. Bah. Non poteva semplicemente dire ‘è morto’ come tutte le persone normali?!No, lei era speciale.                                                                      La casa puzzava di persone anziane. Aveva degli inquietanti armadietti di un giallo smunto e delle tendine di pizzo che mi facevano pensare a carta igienica sporca. Nel salotto era parcheggiata una vecchia televisione e la spettrale sagoma di una sedia a rotelle spuntava dall’ombra. Repressi un brivido trascinando i miei bagagli su per la stretta scalinata che portava alle camere. “Ci sono solo due stanze” osservai, con una punta d’ansia. Avrebbe forse osato affibbiare lo scarafaggio a me? “Lo so, non sono mica stupida. L’altra camera è abbastanza grande da contenere un letto per me e uno per Max” spiegò la mamma , sbuffando come un mantice per la fatica di trasportare un bambino di quattro anni piuttosto grassoccio e un voluminoso zaino. Entrai in quella che sarebbe diventata la mia camera e rimasi piacevolmente sorpresa: il letto era coperto da lenzuola di un bel viola intenso e le pareti erano di un lilla chiaro, rilassante e anonimo. C’era una scrivania incassata contro la parete e sopra di essa… una mensola piena di libri! Mi lasciai andare ad un gridolino di gioia e li esaminai con cura. Sotto la polvere riconobbi la più consunta copia di Cime Tempestose che mi fosse mai capitato di vedere  e un’intera collezione di romanzi di Jane Austin. Dall’arredo sobrio dedussi che in passato potesse essere stata la stanza di una ragazza. Un armadio di legno scuro spiccava tra la scrivania e la parete della piccola finestra. Aprendolo  con prudenza mi assicurai che non fosse abitato da qualche creaturina che avrei ritenuto del tutto disgustosa. Quando mi sedetti sul letto alzai un notevole sbuffo di polvere. Sarebbe stato l’inizio di un lungo periodo di noia.
 

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Capitolo 2
*** Forks ***


CAPITOLO DUE
Forks

“Tu devi essere Nina Hale.” Non era una domanda. Alzai gli occhi dal mio libro di inglese, alquanto irritata. Era il primo giorno di scuola e mi aspettavo che in quella schifosa piccola cittadina sarei stata la novità, l’alieno su cui fare speculazioni. Di certo, però, non immaginavo che qualcuno sapesse addirittura il mio nome e cognome. “Corretto” sbuffai. Il ragazzo che mi aveva rivolto la parola era molto strano: aveva i capelli biondo cenere, un faccino tondo da bambino e una carnagione color mattone che faceva a pugni con le sue iridi azzurre. “Mi chiamo Joel Newton” si presentò, cordiale, mostrandomi una chiostra di denti bianchissimi. Gli strinsi la mano e ricambiai il sorriso, contagiata dal suo buonumore. “Piacere.” “Sei della California vero? Mio nonno ha vissuto lì fino a dodici anni prima di trasferirsi qui. Cavoli, è bello lì? Fa caldo?” Parlava a raffica, pareva che non respirasse nemmeno; di conseguenza tutta la simpatia che mi aveva trasmesso scemò. Fortunatamente la campanella suonò e fu costretto a sedersi al suo posto, lontano da me.  Le ore che mi separavano dal pranzo passarono troppo lentamente per i miei gusti e mi ricordai che non sapevo dove sedermi soltanto quando raggiunsi l’affollata mensa. “Ehi, California!” Oh no. “Nina! Vieni, vieni qui!” Joel si sbracciava da dietro un tavolo rotondo, per invitarmi a sedermi con lui e i suoi amici. Beh, da qualche parte dovevo pure cominciare. Presi una fetta di pizza, una mela e una soda e lo raggiunsi stringendo tanto il vassoio da sbiancarmi le nocche. “Ragazzi, lei è Nina” disse Joel, con una punta di malcelato orgoglio, mentre scostava la sedia per aiutarmi a prendere posto. Il tavolo era occupato da due ragazzi e due ragazze: un tizio con lo stesso incarnato di Joel, ma molto, molto più grosso di lui, cingeva le spalle con un braccio muscoloso ad una ragazzina mingherlina dai caldi occhi nocciola, il viso a cuore circondato da una cascata di riccioli color bronzo. Per un attimo osservai la strana coppia, prima di riuscire a concentrarmi sulle altre due figure abbracciate: un ragazzo e una ragazza, belli da mozzare il fiato e pallidi come cadaveri; notai che lui aveva gli stessi capelli della ragazzina stretta al colosso. Forse erano fratelli. “Ciao Nina, io sono Jacob Black. Lei è Renesmee Cullen. E loro due sono suo fratello Edward Cullen e la sua ragazza, Bella.” Il gigante aveva parlato con una voce roca e cavernosa, esattamente come mi aspettavo da tanta enormità. “P-piacere” farfugliai, disorientata dalla sua mole e dalla bellezza accecante degli altri tre. “Jake, su, la stai spaventando a morte. Chiamami Nessie, Nina” trillò la ragazza riccia, con un sorriso smagliante. Mi sentii più rilassata  e cercai di sorridere a mia volta, ottenendo una specie di smorfia. Li feci ridere. “Sei buffa, California” sghignazzò Joel dandomi una pacca sulla spalla. Lui sembrava il più ordinario della congrega, eppure era assolutamente a suo agio. Con il gomito sfiorava quasi il braccio del gorilla di nome Jacob, senza un briciolo del terrore che invece provavo io. D’un tratto mi accorsi che il pallido Edward mi scrutava con una faccia… sbalordita? La sua ragazza mi lanciò un’occhiata fugace e parve sussurrare qualcosa, troppo piano perché potessi udirla. Iniziai a mordicchiare la pizza, provando con tutte le mie forze a non alzare gli occhi per assicurarmi che avessero smesso di parlare di me. “Ehm… allora. Ti piace Forks?” Era stata la ragazza di nome Renesmee a rompere quel silenzio nervoso. Sembrava cercare di coinvolgermi, con molto tatto. “Piove troppo per i miei gusti” borbottai, contrita. La pioggia mi schifava, non l’avevo mai nascosto.  “Il tempo uggioso ha i suoi pregi.” Quasi mi strozzai con la pizza: quel tale, Edward, aveva sfoderato un sorriso abbacinante, degno di un modello di Hollister e mi si era rivolto con un tono vellutato e terribilmente sexy. Deglutii a fatica. “Mmm… e quali sarebbero?” squittii. “Beh, Nina, guarda il lato positivo: almeno non è neve” esordì una nuova voce, allegra. Sembrava che la frase di Edward avesse rilassato l’intero gruppo, perché era stata Bella stavolta a cercare la conversazione. Mi chiesi come facesse a sapere che non sopportavo la neve. “Direi, sì” sospirai, sorridendole mio malgrado. Sentivo ancora un brutto presentimento nei confronti di quei tizi mezzi albini, come se il mio istinto mi gridasse  a squarciagola di filarmela all’istante. “Ehem, sono in ritardo per…” biascicai, alzandomi, sebbene fossi perfettamente in orario. Joel parve deluso. “Oh, okay. Ci vediamo, California” mi salutò, speranzoso.  Jacob mi scoccò un ghigno che mi fece tremare le ossa e gli altri mi rivolsero cenni educati. “Ciao Nina” disse Renesmee. Cercando di non darlo a vedere tagliai la corda più veloce che potei. “Uff” sospirai, il cuore a mille, mentre prendevo posto nell’aula di spagnolo. L’incontro con quei quattro mi aveva scombussolata totalmente. Non mi era mai capitato di provare certe sensazioni nei confronti di sconosciuti: di solito gli estranei mi lasciavano indifferente. Scossi la testa. No. Non mi sarei lasciata coinvolgere, al diavolo le stranezze. Li avrei ignorati, tutti quanti. Punto. E stop. “Guarda chi si rivede.” Oh… cazzo. “C- ciao” pigolai. Edward Cullen, in pratica l’incarnazione di un dio greco, mi sorrideva in un modo che avrebbe dovuto essere dichiarato illegale. “Posso sedermi qui?” No, ti prego, fa che stia scherzando! Spalancai la bocca, incredula e lui inarcò un sopracciglio perfetto. Forse pensava che fossi una ritardata mentale. Vagliai le opzioni possibili: se gli avessi detto di no mi avrebbe considerata una stronzetta snob e avrebbe parlato male di me anche  a Joel ( cosa non del tutto auspicabile, dato che per ora era il mio unico conoscente che non desse i brividi); se invece gli avessi detto sì, probabilmente averlo così vicino mi avrebbe scatenato un attacco di cuore.  Che fare?! Mi ritrovai ad annuire, inerme. “Dio quanto sei patetica!” Con una lentezza esasperante si sedette al mio fianco, senza far rumore. “Allora, come mai ti sei trasferita qui?” domandò quasi sussurrando. La sua voce dolce come il miele mi distrasse dall’invadenza delle sue parole. “Mia madre ha pensato che mi servisse cambiare aria” risposi, senza pensarci. Aggrottò la fronte. Un angelo corrucciato. “Capisco. Beh, se mai avessi bisogno di qualcosa non stentare a chiedere.” Mi fece l’occhiolino e posso giurare di aver perso un battito. Parlava come un libro dell’ottocento. Un libro dell’ottocento molto molto sexy. A quel punto iniziò la lezione e fui completamente assorbita dal tentativo di non farmi sputare in faccia dal prof, il quale pareva decisissimo ad enfatizzare ogni p. Fu con immenso sollievo che al suono della campanella mi diressi verso l’ultima lezione della giornata: biologia. Certa che per quel giorno i miei problemi fossero finiti mi afflosciai sulla sedia. “Ehi Nina!” Ma porca… “Ehi” Sospirai di sollievo quando mi accorsi che si trattava di Joel. “Spero che i miei amici non ti abbiano spaventata. Tendono a fare un certo effetto” sghignazzò. Sembrava ilare ma il suo tono nascondeva qualcosa, forse una vera preoccupazione. Okay, la situazione mi stava sfuggendo di mano. “Ehm… sono davvero… carini” provai a minimizzare . Lui scoppiò in una risata fragorosa che fece voltare verso di noi un gruppo di ragazze chiacchierine. “Ah, carini… beh se la metti così” Continuò a sganasciarsi per almeno un minuto. Avvampai quando mi resi conto che le ragazze ci occhieggiavano in maniera sospettosa. “Ehem, Joel… ci stanno fissando tutti” sibilai, rossa di vergogna. Si calmò di colpo. “Lascia che guardino. Non si ha mai un cazzo da fare in questa città” brontolò in tutt’altro tono. Lanciò un’occhiata omicida alle ragazze e loro decisero che era meglio intavolare una conversazione su un attore figo. “Bah. Oche” commentò Joel. Io sospirai. “Forse è meglio se vai a sederti al tuo posto” suggerii. Lui mi guardò come se non mi avesse mai visto prima. “Uhm, in realtà questo è il mio posto.” L’avevo offeso. Fantastico. “O- okay, scusami.” Sfoderò un’espressione da cane bastonato e allontanò la sua sedia il più lontano possibile dalla mia. Dopo questo avvenimento Joel Newton  non mi rivolse più la parola. 

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