Vittoriosa sconfitta

di chiara_raose
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




Come ci si sente da vincitori? Si dice che il petto si gonfi d'aria e di un respiro che sa di soddisfazione; l'espirare rende leggeri strappandoti la voglia di aprire le braccia e lasciarti cadere in un abbraccio. Ha sempre letto di storie, di racconti e tutti descrivevano il momento della vittoria, del successo in modi relativamente simili, per quanto soggettivi. Possibile che per lui fosse così tanto diverso?

Si sforzava di non voltare il capo, spingeva le proprie gambe in una lenta e dilaniante inerzia. Il respiro non sapeva di dolce, ma di salato; spezzato a metà tra il fondo della gola e la carotide, facendo vibrare tutto l'esofago. Mentre avanzava con la mano calda di un colore che non era il suo poteva percepire il peso di qualcosa di troppo grande, come se il filo che sosteneva la lama sopra la sua nuca si fosse improvvisamente indebolito. Si sentiva schiacciare da una pressa troppo grande per esser fermata. In fondo, neanche lui aveva più la forza di farlo. Che strana ironia la vita; che crudele bambino dispettoso il destino. Sentiva le orecchie invase da quelle urla di gioia ed acclamazioni di ogni sorta, senza riuscire a non pensare quanto fossero fastidiose, irritanti, terribili, dilanianti. Percepiva il proprio petto gonfiarsi e sgonfiarsi rapidamente, vibrante sotto il tessuto della divisa, scommettendo con se stesso che non era batticuore quello che gli comprimeva quel piccolo organo che, invece, percepiva fermo, irrigidito.

Si sforzava di rimanere come sempre era stato, intravedendo oltre le dita maculate di cremisi, quei sorrisi, quei respiri che sapevano di soddisfazione, quella leggerezza dovuta ai sospiri di sollievo e quegli abbracci. Eccola lì, la vittoria. Oltre le lenti appena sistemate a vedere per una volta quel che ha sempre e solo letto, consapevole ora come non mai, di quanto la vita sia davvero differente. Aveva passato una vita con uno scopo che non era davvero il suo; un destino che ora si prendeva beffa di lui. Gli veniva da ridere.
Il destino era così simile a lui, a loro, nel costante ed insistente battibeccare, troppo orgogliosi per lasciare o concedere all'altro la vittoria in una singola battaglia. Troppo stupidi in quel loro continuo giocare a fare i bambini, a compensare quegli svaghi che non si sarebbero mai potuti davvero concedere. Il destino era proprio uguale a lui: sbeffeggiante nei confronti di tutto il mondo e di chi cerca di tenergli testa e non permettergli la scelta di qualcosa di sgradevole; misterioso nei suoi piani, capace di illuderti di aver quasi raggiunto il tuo obbiettivo, prima di schiacciarti e non lasciarti scelta... perché così era stato deciso; perché così aveva deciso. Bambino orgoglioso, egoista e cocciuto.
Inutili le parole, inutili i tentativi, inutili i sospiri e vani i festeggiamenti di chi aveva dinanzi e che, in parte, rappresentava quella che poteva essere una famiglia. Sentiva le urla di una vera famiglia, mentre le loro gole si sforzavano nella disperazione delle lacrime a reclamare quell'inno tutto loro. Ancora il proprio respiro era soffocato, ancora sapeva di salato, ancora opprimeva pesantemente le spalle e la gola. Gli mancava il respiro, gli mancava battere le palpebre terrorizzate dall'idea di rivedere qualcosa che lo avrebbe definitivamente soffocato.

Si sforzava di respirare.
Si sentiva morire.



«Come ci si sente da vincitori, Munakata?»

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***




«Come ci si sente da vincitori, Munakata?»
Gli occhi altrui gli trapassarono la schiena come mille lame ardenti, carezzando la sua carne prima di affondare, alla ricerca di un terreno morbido dove colpire. Nessuno ne era capace come lui. Anche quella volta ci riuscì. Si sentì quasi costretto a voltarsi, sul confine della soglia di quella cella; a metà tra la via d'uscita dalle catene dell'amico di una vita e la gabbia del nemico di un'esistenza. Quel che si suonava dire
“miglior nemico”.
«La risposta a cui sto pensando sarebbe troppo scontata per uno come te»
Il rosso tese un angolo delle labbra in un sogghigno vago, divertito. Un sorriso ed un atteggiamento familiare, mentre prese un sospiro, ad occhi chiusi. «Non sei proprio cambiato» mormorò schiudendo le palpebre ed incatenando nuovamente l'anima a quella cella. A chi voleva darla a bere? Non glielo aveva concesso: c'era semplicemente riuscito. Eppure chiedeva a lui cosa volesse dire esser vittoriosi e come ci si sentisse. Stava accadendo tutto come aveva programmato.
«Sei un infido bastardo, Suoh» ringhiò voltandosi per uscire mentre il rosso si fece sfuggire uno sbuffo divertito, di pura soddisfazione. Quello era l'essere vittoriosi. Mikoto lo sapeva.



Non si accorse della penna che gli era caduta di mano. Il sonno l'aveva colto di sorpresa sui documenti e, quando se ne accorse, sollevandosi di colpo dalla scrivania, non poté non esser sbalordito di se stesso. La mano scivolò sul viso, sfiorando la fronte con le dita prima che affondassero alla radice dei capelli. Il profondo respiro che conseguì al risveglio non gli fu sufficiente per cacciare quella sorta di nervosismo che aleggiava nel suo ufficio. Si costrinse a regolarizzare il respiro, mordendosi le labbra, impallidendole per un momento mentre ringraziava il cielo che nessuno fosse entrato nel momento sbagliato. Non si sarebbe mai perdonato una tale figura dinanzi ad uno dei propri subordinati. Probabilmente fu proprio quel pensiero che lo portò ad allontanare la mano dalla propria nuca, intento a sporgersi d'un lato, oltre il bracciolo della sedia per recuperare la penna. Ebbe il tempo di afferrarla, prima di raddrizzare la schiena; percepiva ancora la compressione sulla costola per quanto fu veloce l'istante in cui le palpebre aiutarono a dilatare lo sguardo.
Rosso.
Lasciò la penna di colpo con il cuore che non comprese neanche se perse un battito o accelerò di colpo. La fitta che lo colpì in quel preciso punto che lui stesso aveva trafitto lo fece sobbalzare; le spalle che si premettero contro lo schienale morbido ma gelido. Si scoprì ad ansimare a labbra schiuse, con le iridi puntate sulle proprie dita tremanti. Di nuovo, la penna abbandonata sulla scrivania rotolò sul foglio fino a cadere e il suo ticchettare sul pavimento decretò il momento in cui la sua mente si staccò dal mondo terreno. Sentì una goccia cadere sulla nuca, scivolare tra i capelli, carezzare quelle ciocche scure fino a rigargli la guancia e macchiare la divisa. Alzò lo sguardo osservando la propria Spada di Democle lì, dinanzi a sé, ad un soffio dal proprio stesso respiro, pronto a colpirlo, dilaniarlo. La osservò in tutto il suo splendore ed impallidì a vederne una crepa, a vedere ancora quel rosso macchiarla e gocciolare sin sul proprio mento. Sentì l'ennesima goccia puntellargli la guancia, scivolare lungo il mento, passando oltre il pomo d'Adamo e raggiungendo la camicia, la clavicola...
«Capitano?» Sobbalzò riportando lo sguardo sulla giovane che aveva dinanzi. Osservò di nuovo le proprie mani, ora limpide, l'ufficio come sempre era stato. Lanciò un'occhiata al calendario e condusse la punta delle dita a coprirsi il volto, sistemare la montatura degli occhiali e tornare a porre attenzione a lei. Lei che come tutti gli altri non parevano esser rimasti particolarmente toccati da quel che era successo quel giorno, troppo impegnati a festeggiare per la vittoria del loro Re. Un Re che si alzava ogni mattina ripetendosi di aver fatto la cosa giusta, di aver evitato un altro Cratere e centinaia di migliaia di morti: aveva semplicemente fatto quel che il suo predecessore non aveva fatto. Non era passato neanche un mese e lui già sognava i loro momenti, ripensando a come sia stato stupido a non averlo capito prima. Come poteva definirsi vincitore, se era Mikoto ad aver vinto sin dall'inizio? Aveva la vittoria tra le mani prima ancora di pensarla e quello acclamato come vittorioso non era stato lui. Più ci pensava, più la cosa lo faceva uscire di testa. Un misto tra l'irritazione e la disperazione: la consapevolezza di essersi sentito preso in giro ed averglielo concesso e la perdita di quello che poteva essere l'unico vero amico di un Re come lui. Un amico che ora non c'era più, un nemico che non poteva più affrontare e che ora lo ossessionava nei sogni.


«Perchè non vuoi darmi retta, Suoh? Preferisci caricarti dell'omicidio di innocenti? Della tua gente? Di me e di te come i nostri predecessori?»
«Parli troppo, Munakata»
«Maledizione, Suoh! Vuoi dar retta a chi ti vuole aiutare una volta tanto?!»
«Mi consideri davvero un amico, Munakata?» aveva risposto lui osservandolo seriamente mentre il tessuto candido della sua maglietta faceva più male sulle dita più della stretta stessa. «o sono la distrazione da te stesso?»



Aveva ragione. Ora che non c'era più, doveva fare i conti con se stesso, da solo. Congedò Awashima come al solito, in quella sfiancante e disarmante routine e tornò a guardare il calendario. Neanche un mese e stava già impazzendo sognando i loro ultimi incontri, nella speranza vana di trovare una via d'uscita per evitare quel che era successo.


«Munakata?»
«Cosa c'è ancora?»
«Non hai ancora risposto»
«A che cosa avrei dovuto rispondere?»
«Come ci si sente da vincitori?»

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***




Seguì lo sguardo della giovane verso il proprio fianco. Notando l'elsa della propria spada, non gli ci volle poi molto per comprendere cosa la Neo-Regina stesse pensando. Trattenne un sospiro, chiudendo gli occhi e staccando il fodero dalla cintura. Le mani parvero quasi sudare nel stringere quella spada, come ogni volta da quel momento che pareva ormai così lontano e, per i propri ricordi, ancora incredibilmente vicino. La sorresse, serrando le dita piuttosto che lasciarle rilassate, lottando contro qualcosa dentro il proprio petto.
«Sì...» confermò lui, leggendo lo stupore negli occhi di lei. «Mikoto Suoh è morto con questa»
Fece uno strano effetto chiamarlo per nome e per cognome; tremendamente strano, dopo tutto quel tempo. Dinanzi al delicato tocco della mano della giovane, il Re Blu non potè che pensare a quanto fosse piccola, a quanto fosse apparentemente gracile dinanzi ad un potere come quello del Terzo Re. Non potè non chiedersi, se davvero era ciò che Mikoto aveva desiderato e sperato.

«Suoh!!»
Lui si voltò e il placido sorriso che gli rivolse, dietro quelle macchie di sangue, lo trafissero come mille lame. Lo pietrificò e disarmò nell'animo, facendo crollare ogni tipo di protezione e minando definitivamente la solida corazza di determinazione che lo aiutava a reggersi in piedi. Le braccia altrui si aprirono, arrendevoli e placide; non ci fu tempo per pensare, per ragionare o per domandarsi se era davvero la cosa giusta da fare. Col senno di poi, si sarebbe iniziato a rendere conto del reale motivo per cui gli Scepter 4 venivano addestrati in un determinato modo piuttosto che unirsi come famiglia; avrebbe capito di esser caduto in quella trappola che, con quell'addestramento, cercava di evitare a tutti gli altri. Ci era cascato in pieno. Anche questa volta, Mikoto aveva vinto.
O lui o tutti loro.
La lama trafisse quel corpo, le dita tremarono e le spalle sobbalzarono a confronto dell'immobilità altrui. Un soffio di vento e le sue ultime parole, quell'ultimo alito di respiro che lo fece deglutire. Percepì le schegge della sua Spada precipitare come piccole meteore, mentre anche colui che aveva conosciuto come la persona più calda al mondo si spegneva, precipitando dal cielo e raggelandosi in una discesa lenta e dolorosa ormai solamente per lui; lui che era rimasto. Il seguirne la caduta verso il suolo, quel tonfo sul terreno dei suoi abiti, fu una tentazione troppo forte per resisterle.
Non seppe quanto tempo passò prima che le gambe tornassero a farsi sentire, presenti, né quanto ci impiegò il proprio cuore a tornare a battere, imbizzarrito nel petto a ricordargli che lui era lì... ed era vivo.


Sorrise ad Anna con tranquillità, forse col modo di fare di chi, semplicemente, sa ben più di quel che vuol dare a vedere. Non potrà perdonarlo, né fargli una colpa. Ha ragione. Così dev'essere e sempre dovrà. Era ciò che Mikoto voleva, quello in cui sperava: qualcuno di tanto forte da esser capace di gestire quel potere per qualcosa che non fosse la distruzione. Forse era questo a cui si riferiva, con l'essere dei vincitori: il riuscire a sopportare il peso di quella pesante lama sul capo. Una domanda, però, a quel punto nasce spontanea nel suo petto: come si può esser vincitori senza aver vinto? Dove sta la vittoria nell'impotenza di esser soli?

«Sai come ci si sente da vincitori, Mikoto?»
mormorò sul corpo dell'amico, osservandolo ancora mentre l'unico rosso che vedeva era troppo doloroso per poter esser definito come colore caldo. Sorrise, sentendo le labbra tremare e la mano ostentò un momento una sicurezza vacillante, dinanzi al nulla, quando cercò di sistemarsi la montatura degli occhiali che non aveva più indosso.
«... è uno schifo.»

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