Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli: Capitolo 1: *** Distretto [12]; Famiglia Hawthorne *** Capitolo 2: *** Distretto [1]; Cashmere *** Capitolo 3: *** Distretto [11]; Maya Leaven (OC) *** Capitolo 4: *** Distretto [4]; Serena Lysoon (OC) *** Capitolo 5: *** Distretto [9]; Raika Swift (OC) ***
Capitolo 1 *** Distretto [12]; Famiglia Hawthorne ***
Premessa.
Questa raccolta è stata scritta da alcuni utenti del gruppo Facebook The Capitol. Ogni
capitolo racconterà una favola, una leggenda popolare, una tradizione
proveniente da uno dei 13 Distretti di Panem (ma ci sarà anche una parte
dedicata a Capitol City). In molti dei capitoli faranno comparsa alcuni
personaggi della saga (o alcuni OC) che aiuteranno a raccontare le storie dei
Distretti da cui provengono. Buona lettura!
Storie Perdute –
Le Leggende di Panem
District
12|Mining
La
solitudine del Buio.
Il bambino attese che il padre avesse
terminato la cena, prima di saltellargli incontro e allacciarsi al suo collo
con le braccia.
“Eccolo qua, il mio vincitore[1]” commentò a
quel punto l’uomo con un sorrisetto. “La mamma mi ha detto che questa mattina
eri un po’ abbacchiato.”
Il ragazzino annuì, lasciandosi prendere
in braccio.
“Non so se sono un vincitore, oggi”
mormorò, mettendosi a giocare con una mano callosa del padre. “Mi è di nuovo
venuta la febbre. Non riuscivo nemmeno a giocare con Rory.”
L’uomo gli toccò la fronte, per
controllarne la temperatura.
“Tu sei sempre un vincitore” lo rassicurò
poi, strizzandogli l’occhio. “Febbre o non febbre. Ti chiami Vick, no?”
Il bambino tentennò un po’, prima di
annuire. Appoggiò poi la fronte al petto del genitore, tornando a cedere alla
stanchezza.
“È solo che mi sento un po’ solo, quando
sono malato” confessò, strofinando la guancia contro la casacca da lavoro del
minatore. “Perché Rory e Gale vanno a scuola e la mamma deve lavorare.”
Il signor Hawthorne annuì, prima di
sfregarsi il volto con insistenza. Si guardò poi la mano, sorridendo ironico
alla piccola macchia di polvere nera che si era formata sul suo palmo.
“Sai, ragazzo, mi hai appena ricordato
qualcosa” rivelò, accarezzando rozzamente i capelli del bambino. “Una favola
che i minatori del Giacimento raccontavano ai loro discoletti quanto ero
piccolo io. Potrei raccontartela come premio del giorno” propose, sollevando il
mento del ragazzino con due dita. “O oggi non ti senti abbastanza un vincitore
per ricevere il tuo regalo?”
Vick si affrettò a scuotere la testa.
“Adesso un po’ vincitore mi sento!”
esclamò, alzandosi in ginocchio e fissando speranzoso il padre. “Me la
racconti?”
Il signor Hawthorne sorrise divertito.
“È una storia un po’ triste…” ammise poi,
tirando indietro la schiena per appoggiarsi alla sedia. “… Ma ti piacerà,
vedrai. Parla di qualcuno che si sentiva solo, proprio come te…”
*
«Nonostante ai nostri occhi di
esseri umani il cielo notturno sembri un gigante cupo e minaccioso, anche lui è
stato bambino, in passato. Accadde migliaia di anni fa, quando i nonni dei
nostri nonni non erano altro che i protagonisti di una favola, come quella che
ti sto raccontando io in questo momento. Una fiaba che le stelle adulte
recitavano a quelle bambine e che i mari del Distretto 4, ogni tanto,
prendevano in prestito per far addormentare le onde neonate.
In quel periodo, la notte era
già gigantesca come la conosciamo adesso, nonostante fosse appena nata. Amava
giocare e fare i dispetti, proprio come fanno i ragazzini della tua età. In
molti la chiamavano semplicemente ‘cielo’, anche se quello era il suo cognome, che
condivideva con il gemello Giorno. Qualche tipetto impressionabile la chiamava Oscurità.
I suoi amici, però, la chiamavano semplicemente Buio. All’alba, il Buio veniva
coperto dal gemello e restava solo fino al tramonto, quando Giorno, lentamente,
scivolava via da lui per andare a dormire. A quel punto il fratello più scuro tornava
a mostrarsi alle persone e si divertiva a osservare i lavoratori che
rincasavano dal lavoro o i rapaci notturni che cacciavano nei boschi.
Passarono gli anni –
moltissimi anni – e il Buio, da neonato, divenne bambino. Una sera, però, si
rese conto di una strana tristezza che lo infastidiva di continuo, notte e
giorno. Il giorno in cui vide tre cuccioli di stelle che giocavano ad acchiapparella
fra le nuvole capì che si trattava della solitudine. Si sentiva solo, perché il
suo gemello non poteva tenergli compagnia e nemmeno gli uomini o gli animali, che
erano troppo distanti dal cielo. Per di più, molte persone avevano paura del
Buio – specialmente i bambini – e questo lo rattristava perché avrebbe tanto
voluto giocare con loro. Così, decise di guardarsi attorno per cercare un
amico.
Sorvolò Panem per notti e
notti e chiese a qualche stella di potersi unire ai suoi giochi, ma le lucette
rifiutavano sempre. Siccome il loro passatempo preferito era acchiapparella,
avevano paura di giocare con lui: temevano che, bianche e luminose com’erano,
si sarebbero sporcate di nero se il cielo color notte le avesse prese. Così, il
Buio lasciò perdere e, sconsolato, riprese a cercare. Ci fu una volta, mentre
giocava nel Distretto 6, in cui pensò di aver fatto amicizia con un hovercraft,
ma quello dopo un paio d’ore perse quota e raggiunse la terra ferma,
lasciandolo ancora una volta solo. Il povero Buio aveva ormai perso le speranze.
Si fermò sconsolato poco sopra le nuvole del Distretto 12 e incominciò a
piangere. Grosse gocce nere caddero a terra, sporcando le strade e le case
delle persone. All’improvviso il Buio si sentì chiamare da una sottile vocetta.
Smise di tirare su col naso e si guardò intorno: un gruppo di stelle si era
raggruppato ai suoi piedi. Una di loro, la più piccola, si arrampicò nel cielo
per poterlo guardare negli occhi.
“Perché piangi?” chiese la
stella bambina, brillando un po’ più forte.
Il Buio le raccontò della sua
solitudine e di quanto si sentisse triste per non avere qualcuno con cui
giocare. A quel punto, anche il resto del gruppetto si avvicinò: tutte
ascoltavano con attenzione il racconto, scambiandosi occhiate colpevoli.
“Mi dispiace che le nostre
cugine ti abbiano trattato male” si scusò alla fine una di loro, quella che sembrava
la più grande. “Ma noi… Noi ci comporteremo meglio. Siamo pochine, perché
abitiamo nel cielo del Distretto più piccolo, ma sappiamo divertirci.”
“Sappiamo ballare e andare a
caccia di gocce di pioggia!” intervenne un’altra, annuendo entusiasta.
“E tu potrai giocare con noi” disse
la stella più giovane. “Tutte le volte che vorrai.”
Il buio smise subito di tirare
su col naso. Sorrise talmente tanto, che per un attimo sembrò farsi meno scuro.
Passati pochi secondi, però, tornò a rabbuiarsi.
“Io sono fatto di nero…”
spiegò poi, sfregandosi un occhio. “… E se vi sporcassi? Non brillereste più e
non potreste illuminare il cielo per gli umani del Distretto 12.”
“Non ci sporcherai” promise la
stella più piccola, annuendo tutta decisa. Il suo corpicino si illuminò. “Ehi,
ho un’idea! Perché non giochiamo a Indovina Cosa Sono?”
Le altre stelle brillarono più
forte, entusiaste di quella proposta. Il Buio non ebbe nemmeno il tempo di
spiegare che non conosceva quel gioco, perché le sue nuove amiche si erano già
messe a correre. Si raggrupparono e formarono un cerchio, poi un paio di loro formarono
delle righe che partivano da quel tondo centrale.
“Indovina cosa sono?”
gridarono tutte assieme, rivolte all’unico partecipante rimasto immobile. Il
loro amico ci pensò su per qualche istante.
“Siete il sole!” azzardò
infine, un po’ incerto: lui non aveva mai visto il sole, ma il suo gemello
gliene aveva parlato talmente tanto che era quasi sicuro di avere ragione.
Le stelle ridacchiarono
entusiaste: aveva indovinato. Dopo tre, cinque, dieci turni di gioco, il Buio
incominciò a prenderci gusto. Si divertiva come un matto a cercare di
indovinare che forma avessero costruito le sue amiche. Erano davvero brave a
creare nuove immagini. Ogni tanto qualcuna di loro scivolava, formando sulla
pelle del Buio una scia dorata e luminosa. A quel punto lui le prendeva in
giro, chiamandole Stelle Cadenti.
Verso l’alba, però, le stelle smisero
di giocare. Una a una, a incominciare dalla più piccolina, si misero a
sbadigliare e a stropicciarsi gli occhi. Proprio come fai tu, quando torno
tardi dal lavoro e ti metti a fare il testardone per aspettarmi, anche se stai
morendo di sonno.
“Adesso dobbiamo proprio
andare a dormire” disse la più grande, prendendo per mano le altre. “Altrimenti
nostra madre, Luna, si arrabbierà.”
Per il Buio fu come se, a un
tratto, tutte le lucine che gli brillavano attorno si fossero spente. Tornò a
sentirsi triste e spaventato; cercò di convincere le sue nuove amiche a
restare, ma le stelle furono irremovibili. Brillarono un’ultima volta e
sbiadirono fino a sparire, mentre il cielo si schiariva.
Il Giorno si stiracchiò e,
come una specie di coperta, nascose il gemello Buio agli umani del Distretto
12. Il poverino, rimasto solo, incominciò a piangere. Grosse macchie di polvere
scura tornarono a cadere sulle case, sui sentieri, sui giocattoli dei discoletti,
proprio come è successo con i tuoi soldatini di legno. Smise di piangere solo
al tramonto, quando si accorse di un brillio piccolo piccolo: era la stella più
giovane che, dopo il suo riposino lungo un giorno, stava tornando nel cielo per
tenergli compagnia.
Quella notte, il Buio e le sue
amiche giocarono di nuovo fino alle prime luci dell’alba. Quando le stelle
svanirono una seconda volta, accompagnate da mamma Luna, lui pianse ancora, pieno
di tristezza e solitudine. Continuò a piangere ogni giorno, dalla mattina fino
al crepuscolo, quando le amiche tornavano a trovarlo per farlo sentire meno
solo.
Ecco perché, qui al
Giacimento, le strade sono piene di polvere di carbone. E non solo quelle:
guarda me, guarda come si è conciato quel distrattone del tuo babbo! Sono tutto
sporco di nero. Ma queste macchioline non sono altro che lacrime, in realtà. Le
lacrime di solitudine che il Buio piange all’alba, quando le sue stelle lo
lasciano solo.»
*
Vick spalancò sorpreso gli occhi, nonostante il sonno si stesse
sforzando di chiuderglieli ormai da qualche minuto.
“Sono queste, le lacrime del Buio?” chiese, appoggiando
l’indice alla guancia sporca di carbone del padre.
L’uomo annuì.
“Proprio così, ragazzo” confermò, prendendo il dito del
bambino e posandoglielo sulla punta del naso. Un puntino nero vi si dipinse
sopra e Vick rise, cercando di sfregarselo via. “Anche la polvere che vedi per
strada la mattina, quando vai a scuola, viene dal Buio.”
“Deve essere proprio triste, se piange così tanto…” osservò
il ragazzino, rabbuiandosi. “… Vorrei giocare con lui, così non si sente più
solo.”
“Ma la notte tu devi dormire” gli ricordò il padre,
alzandosi con il figlio in braccio per spostarsi nella stanza a fianco.
“Altrimenti la mattina non ti alzi nemmeno con il solletico del tuo vecchio!”
aggiunse, punzecchiandogli la pancia con le dita. Il bambino si rannicchiò su
se stesso per proteggersi.
“All’attacco!” gridò in quel momento una voce alle spalle
del signor Hawthorne. Rory si aggrappò alla sua schiena, cercando di aiutare il
fratello a fuggire. “Sei spacciato, Quattro Hawthorne[2]! Arrenditi!”
“Fai sul serio?” commentò con un sorrisetto il padre,
afferrandolo per la vita. “Ti ci vorranno ancora un paio d’anni per riuscire a
farla in barba a me, Scacco[3]!”
L’uomo gettò entrambi i figli sul letto e i due
ridacchiarono, tentando poi di aggrapparsi nuovamente a lui.
“E se li aiutassi io?” intervenne qualcun altro,
raggiungendoli in camera da letto. Gale cercò di bloccare le braccia del padre,
aiutato dai fratellini. Il capofamiglia si divincolò dalla presa dei più
piccoli e placcò il maggiore, circondandogli il collo con un braccio.
“Ma sentitelo, vostro fratello!” prese poi in giro Gale,
trattenendolo a fatica mentre il ragazzo si divincolava. “Si sente un uomo
vissuto solo perché ha trovato la fidanzatina.”
“Veramente ne ho due” scherzò il primogenito, sgusciando via
dalla presa del padre. L’uomo lo riacciuffò subito e la coppia riprese a
lottare.
“Io tre!” intervenne Vick, sedendosi a gambe incrociate sul
letto. “Scherzo” aggiunse subito, nascondendosi imbarazzato il volto nella
maglietta.
“Io quattro!” gli fece eco Rory, sorridendo malandrino.
“Proprio quattro!” ricalcò, mostrando soddisfatto il numero al padre con le
dita.
L’uomo lasciò andare Gale e fece l’occhiolino al suo
secondogenito.
“Non avevo dubbi su di te, Scacco.”
“Ehi, maschietti!”
Hazelle raggiunse il resto della famiglia nella camera da
letto.
“Qualcuno, qui dentro, sta cercando di dormire” commentò con
un sorriso, posandosi una mano sul pancione. “E forse sarebbe ora che anche i
suoi fratelli la imitassero.”
Le labbra del signor Hawthorne si incresparono a formare un
sorrisetto divertito.
“Date la buonanotte a vostra sorella” ordinò poi, prendendo
Vick in braccio e posandolo di fronte alla moglie.
“Che ne sai che è femmina?” osservò perplesso Gale, mentre i
piccoli di casa attorniavano il pancione della madre. Il signor Hawthorne gli
diede un colpetto sulla nuca.
“Lo so e basta. Io so tutto” annunciò, sorridendo sghembo
alla moglie. Hazelle scosse la testa, fingendosi rassegnata.
“Buonanotte, Posy” mormorò Vick, baciando il ventre della
donna. “Buonanotte, mamma!” aggiunse, alzandosi sulle punte dei piedi per fare
lo stesso con Hazelle. Rory lo imitò.
“ ‘ Notte, sorellina” esclamò allegro, prima di fiondarsi
sul letto che divideva con il fratello minore.
Vick allacciò le braccia attorno alla vita del padre e
l’uomo lo prese in braccio per posarlo di fianco a Rory. Si rivolse prima al
suo secondogenito, che fingeva di essersi già addormentato, nascondendo il
volto sotto il lenzuolo.
“Buonanotte, mascalzone” esclamò il signor Hawthorne, arruffandogli
i capelli. Raggiunse poi Vick e gli rimboccò le coperte.
Il bambino si rannicchiò su se stesso e chiuse gli occhi, ma
li riaprì quasi subito.
“Papà…” mormorò, per non farsi sentire dal fratello. “ … Tu
non farai mai come le stelle, vero?”
Il padre gli rivolse un’occhiata interrogativa.
“Non te ne andrai mai, vero? Perché sennò poi mi viene da piangere
e io lo so che non si piange” spiegò il ragazzino, indirizzandogli un’occhiata
preoccupata. Lui, in realtà, piangeva molto spesso, ma sapeva che a suo padre
non piaceva vederlo con gli occhi pieni di lacrime: lo faceva sentire troppo
triste.
Il signor Hawthorne scosse la testa.
“Non ti lascerò mai solo, ragazzo” promise, posandosi mano
sul petto con espressione solenne. “Parola di Quattro Hawthorne.”
Il bambino annuì, visibilmente rassicurato.
“Buonanotte, papà” sussurrò infine, serrando le palpebre e
appoggiando un pugno sul cuscino.
Il padre gli baciò la fronte; rimase per qualche minuto a
osservare i suoi due figli più piccoli, prima di uscire dalla stanza.
“Buonanotte, piccolo vincitore.”
Note Finali.
Ecco qui il primo capitolo della nostra raccolta.
Per ogni Distretto verrà narrata una storia scritta da un autore ogni volta
diverso. Per quanto riguarda questo primo capitolo, ho scelto di approfondire
una favola tradizionale del Dodici che avevo già accennato in una vecchia
flash-fiction, “Le
lacrime del Buio”. Di Rory, Vick e il signor Hawthorne non si sa nulla, per
questo ho tentato di dare loro una caratterizzazione mia, sperando che
risultino verosimili. Il signor Hawthorne era sicuramente stravolto per la
giornata trascorsa in miniera, ma l’ho sempre immaginato molto giocherellone e
legato ai suoi figli, per questo ci tenevo a inserire la scena della lotta.
Gale, in quel passaggio, è molto meno musone del solito, un po’ perché era più
piccolo rispetto a come lo conosciamo noi, un po’ perché credo che lui sia un
po’ cambiato sia dopo la morte del padre, che in seguito agli Hunger Games di
Katniss.
[1] Riferimento a “The Winner Loses
it All”: il nome ‘Vick’ significa ‘Campione, Conquistatore, Vincitore.’
[2] Riferimento ad “Almeno uno dei Tre”,
dove il signor Hawthorne spiega come mai suo padre lavesse soprannominato
“Quattro”.
[3] Riferimento a “Checkmate”: Scacco è
il soprannome che il signor Hawthorne ha dato a Rory, per via della passione
del piccolo per il gioco degli scacchi.
Cashmere venne svegliata dal rumore delle molle che
cigolavano. Era una cosa comune in quelle ultime settimane; la sessantaseiesima
edizione finita da poco più di un mese e il Vincitore era lì, nel suo letto, e
accumulava una notte insonne dopo l’altra senza che lei potesse fare nulla per
migliorare la situazione.
<< Ancora Kestrel? >> chiese, scostando le
lenzuola e raggomitolandosi contro di lui. L’abbracciò da dietro, posando la
testa sulla schiena possente.
Rico piantò gli occhi scuri – che in quel momento avevano
smesso di ardere di furia e determinazione per lasciare spazio a un’espressione
spaesata – nei suoi e annuì, stringendo i pugni con rabbia.
<< Ti ho svegliata di nuovo, scusa. >>
Gli baciò una spalla dalla carnagione dorata, stringendolo
maggiormente contro di sé, << Ti ho già detto mille volte che non fa
niente. Era tua amica, è normale che ti manchi, e non avresti comunque potuto
salvarla. >>
A meno da non essere pronto a sacrificarsi per intercettare
quella freccia con il proprio corpo … ma questo non lo disse. I più si
limitavano a considerare la sua forza e il suo aspetto, ritenendolo ormai un
uomo, ma lui era un ragazzo; in quindici anni di vita aveva sperimentato più
dolore di quanto molti non avessero provato nella loro intera esistenza. E odiò
Snow per questo; non per i Giochi né per come teneva in pugno lei e suo
fratello, ma per lui: per averlo spezzato.
<< Credi che finirà mai? Sai, il senso di colpa e
tutto il resto. >>
<< Si attenuerà, un po’ alla volta >>, disse,
<< Ma per il momento hai bisogno solo di dormire. >>
Lo prese per mano, spingendolo gentilmente verso il basso.
Intrufolò le dita sottili tra le ciocche corvine, accarezzandolo con la
delicatezza che avrebbe riservato a un bambino. Avvertì un sospiro lasciare le
sue labbra proprio nell’istante in cui un po’ della tensione lo abbandonava.
<< Dopo i miei Giochi ho dormito con Gloss per
settimane; mi raccontava sempre una storia, una di quelle che nostra madre ci
leggeva quando eravamo piccoli e ci spaventavamo per qualcosa >>, rise,
<< Beh, in effetti quella che si spaventava ero io, lui rimaneva ad
ascoltare per farmi compagnia. >>
<< Mi piacerebbe sentirla >> disse, mentre il
volto dagli zigomi alti assumeva una sfumatura decisamente accaldata.
<< Non dirmi che sei davvero arrossito? Non credevo
neanche che ne fossi capace >> lo provocò, punzecchiandolo su un fianco.
Rico scrollò le spalle, tornando lentamente alla consueta
imperscrutabilità.
<< Dai, eri così tenero. >>
Roteò gli occhi, sbuffando, contrariato dall’ironia nella
voce della ragazza.
<< Già, è tutta la vita che sogno di sentirmi dire che
sono tenero >> ironizzò, per poi aggiungere, << E comunque non lo
sono, era semplice curiosità. >>
Cashmere si ravviò un’onda dorata, sorridendo con l’aria di
chi la sapeva lunga, ma non insistette oltre e cominciò il racconto.
<< Molti secoli fa, quando i Distretti ancora non
esistevano e la Terra era un unico regno, uno straordinario bagliore invase
ogni angolo conosciuto e accompagnò la nascita di una bambina dai capelli d’oro
e gli occhi di pura giada. Crescendo, divenne una giovane intelligente e saggia
che dedicava la sua vita all’aiutare i poveri e i malati; era molto amata dal
suo popolo e, quando suo padre venne a mancare e lei ascese al trono, venne
soprannominata la Principessa della pura felicità. Purtroppo però anche in quei
tempi antichi il male era dietro l’angolo. La regina dell’aria e della notte
aveva assistito per lungo tempo a quegli eventi gioiosi e nutriva nei confronti
della principessa un odio viscerale; dopo anni di lunghi preparativi finalmente
riuscì a consolidare il suo potere e invocò un’orda di demoni che scesero sulla
Terra e infettarono gli abitanti con la loro indole malvagia. Odio e peccati
contagiarono tutti fuorchè la principessa, resa immune dalla sua natura pura.
Ella decise quindi di scendere in campo e affrontare la regina; con la sua
forza e astuzia, riuscì a sopraffarla ma le ferite che riportò furono tanto
tremende che lei stessa varcò il sottile confine tra il mondo mortale e quello
celeste. Prima di morire, tuttavia, mostrò a coloro che la piangevano le gocce
di sangue che imbevevano il terreno e che rapidamente stavano formando delle
piccole giade e disse: “Malgrado abbia ucciso la regina, non posso nulla contro
questi demoni che hanno preso possesso dei vostri corpi; solo voi potete
combatterli e per farlo vi lascio queste mie stille a dimostrare che il
coraggio e la bontà sono in grado di sconfiggere qualsiasi cosa. Chi di voi le
raccoglierà, scaccerà per sempre questo male tremendo che vi ha assaliti.”
Si dice che coloro che nascono con gli occhi verdi, nel
nostro Distretto, sono i discendenti degli abitanti che accettarono il dono
della principessa e vengono chiamati gli eredi della principessa di Giada
>> concluse.
Lanciò un’occhiata verso il ragazzo con la testa sul suo
grembo. Dormiva e, a giudicare dai respiri lenti e profondi, nessun incubo
sarebbe tornato a turbarlo per quella notte.
Capitolo 3 *** Distretto [11]; Maya Leaven (OC) ***
Storie Perdute –
Le Leggende di Panem
Premessa.
I protagonisti di questo capitolo sono OC; Maya Leaven, distretto 11,fuggita
dai 73esimi Hunger Games, ha cresciuto da sola tre cugini: Clay, la più grande,
e i due gemelli Robbie e Amy. Sono molto poveri , e i piccoli guardano a Maya
come esempio, madre, cugina, sorella e amica.
District
11|agriculture
Ed.
«Perchè tutti quegli
spaventapasseri?»
«Come credi che gli
uccelli se ne vanno, se non li spaventano loro?»
«Amy, zitta!»
«Rotto-Robbo-Rotto!»
«Piantatela!» Maya
Leaven, esasperata, prese per mano i due gemelli, di otto anni, trascinandoli
via.
Il campo degli
spaventapasseri era deserto, a quell'ora di sera.
Non a torto era chiamato
così. Era completamente pieno di spaventapasseri. Rotti, caduti, in piedi,
vestiti, di paglia, di legno.
Una distesa di quasi un
chilometro faceva da deposito degli spaventapasseri.
La dolce Clay,
dodicenne, i capelli legati in una coda alta e riccia, amava quel posto. Maya
invece ne era terrorizzata. Da lontano, sembrava una distesa di cadaveri. I
Giochi tornavano prepotenti nella sua memoria, ma bastava pensare all'abbraccio
caldo di Andrew, al sorriso di Julie, a Rufinus, per sentirsi scivolare via il
freddo.
Maya aveva promesso a
Clay che, se avesse vinto i Giochi, l'avrebbe portata lì. Ed eccoli, di fronte
al macello degli spaventapasseri.
Aveva vari ricordi dei
suoi genitori, essendo morti quando lei aveva tredici anni, e tra questi
c'erano loro sepolti proprio in quei campi di spaventapasseri.
Ci andava, prima dei
Giochi, ogni giorno dopo il lavoro e il contrabbando.
Adesso la paura le aveva
portato via anche la possibilità di visitare i suoi genitori senza brividi
nella spina dorsale.
«Ci racconti una favola,
mamma?»
Ecco. L'aveva rifatto.
Erroneamente, Robbie l'aveva chiamata mamma. Sorrise dolcemente,
accarezzandogli i capelli.
«Quale vi devo
raccontare, piccoli?»
Clay e Amy dissero
all'unisono: «I bambini spaventapasseri!»
«Quella storia mi fa
paura» mugugnò Robbie, il ciuffo tagliato male sugli occhi ambra, gli stessi di
Maya.
«Sei fi-fi-fifone!
Fi-fi-fi-fone!» canticchiò Amy, punzecchiando il fratello.
«Non sono un fifone!
Adesso io sento la storia con voi»
Clay lo guardò
intenerita «Non devi farlo. Sai che Amy scherza».
«Non sto scherzando!»
«Invece sì» ribattè
Maya, zittendola.
«Sei sicuro, Robbie?»
«Si, ma-Maya».
“Un tempo, nessuno usava
gli spaventapasseri. I bambini creavano pupazzi a dimensione d'uomo con la
paglia nelle giornate estive e li lasciavano davanti alla casa nei giorni di
festa, di certo non per il raccolto.
Un giorno, secondo la
leggenda, un bambino portò il suo pupazzo al cimitero. Aveva voglia di passare
il Giorno Del Raccolto con la sua famiglia, ma erano tutti morti.
Nessuno sa come si
chiamasse quel bambino, né quanti anni avesse. Alcuni dissero che era un elfo,
l'ultimo elfo. Alcuni dissero che era un angelo, che visitava i morti senza
famiglia. Alcuni lo ignoravano e basta.
Alcuni però, lo
chiamavano Ed.
Erano i boschi a
chiamarlo Ed, il bambino dei spaventapasseri.
Quel giorno, il bambino
portò il suo spaventapasseri al cimitero, come ogni anno.
Si ruppe. Decise di non
portarlo, di lasciarlo per strada.
Di salutare solo i suoi
morti.
Non tornò più.
Alcuni dissero che aveva
trovato una famiglia, lì, nell'aldilà.
Chi lo sa”.
«E da quel giorno,
nessuno va lì di notte senza uno spaventapasseri. Ora sei contenta, Amy?»
«Enormemente» sorrise la
bambina, scuotendo i ricci neri.
Robbie quella sera provò
ad uscire di casa da solo. Non si accorse dell'ombra dagli occhi felini che lo
seguiva finchè non giunse al Cimitero Degli Spaventapasseri.
Faceva sempre caldo,
all'11. Eppure quella sera sembrava più fredda, tanto che il ragazzino dalla
pelle scura si incappucciò nella vecchia, fin troppo, giacca.
Gli occhi dorati lo
seguivano.
Sentiva i brividi
scorrere lungo la sua corta schiena di bambino troppo magro.
«Forse è ora di tornare
a casa, Robb».
Gli occhi felini di Maya
brillarono mentre lo coprì con una sciarpa grigiastra e lui chiuse gli occhi,
godendosi la brezza.
Capitolo 4 *** Distretto [4]; Serena Lysoon (OC) ***
Storie Perdute – Le Leggende di Panem
Premessa: la storia è ambientata circa un mese e mezzo dopo i settantesimi Hunger Games. I protagonisti sono tutti OC. Serena Lysoon – la voce narrante – ha dodici anni e vive al Distretto 4 insieme ai genitori - Marcel e Jillian – e al fratello sedicenne, Lael. In questa storia compare anche il personaggio di Dinesh Hood, il migliore amico di quest’ultimo.
La fiaba qui raccontata è ispirata a "La Sirenetta" di Hans Christian Andersen.
District 4|fishing
La Sirenetta
Un ennesimo tuono fece quasi tremare la casa, mentre il vento, all’esterno, sembrava urlare.
Gli unici sprazzi di luce che penetravano attraverso le persiane serrate provenivano dai lampi, che illuminavano a malapena le due figure rannicchiate in salotto, sul divano.
Serena scoccò un’occhiata nervosa alla porta, temendo che venisse scardinata da un momento all’altro. Accanto a lei, suo fratello maggiore Lael continuava a battere con il piede per terra, innervosendola ancora di più.
Aprì la bocca per dirgli di smetterla, ma quel semplice gesto fu interrotto dai passi affrettati di Jillian, sua madre, che stava entrando in salotto, reggendo un paio di candele in una mano e una scatola di fiammiferi nell’altra.
«Queste dovrebbero bastare» disse, appoggiandole sul tavolino da caffè ingombro di fogli e libri, posto proprio davanti al divano. «Anche se ho paura che i fiammiferi siano pochissimi».
Serena rimase a guardarla, mentre ne tirava fuori uno dalla scatola e lo grattava. Presto, due bagliori cominciarono ad illuminare la stanza, rendendola più confortevole – anche se il vento all’esterno non accennava a voler diminuire.
I capelli biondi scesero a coprire i capelli della donna come una tenda, mentre compiva quei semplici gesti. Jillian li spostò dal volto con una mano; alla fievole luce della candela, Serena poté vedere tutta la tensione espressa dai suoi occhi azzurri.
La dodicenne sospirò, portando le ginocchia al petto. Rivolse una seconda occhiata alla porta, sperando che, da un momento all’altro, si aprisse, rivelando la gocciolante figura di suo padre che entrava in casa.
Contro ogni sua speranza, essa restò serrata.
Serena si girò; doveva calmarsi – del resto, era già successo che suo padre restasse fuori casa con una tempesta; di solito, i pescatori tornavano a riva e lasciavano le barche al porto in fretta e furia, per poi recarsi nel luogo sicuro più vicino, di solito la locanda.
Eppure, il pensiero che lui fosse là fuori, magari disperso, era come una zanzara che continuava a ronzare accanto a lei, minacciando di morderla e non accennando a voler andarsene.
Jillian si sedette accanto alla figlia, portando un braccio dietro le sue spalle. Le sorrise debolmente; era un sorriso che conosceva bene, quello: sua madre, comunque andassero le cose, cercava di mostrarsi ottimista e fiduciosa. Era soprattutto in quei momenti che Serena si chiedeva se avessero qualcosa in comune, loro due.
Lael non era messo molto meglio di lei; non la smetteva di tamburellare con il piede a terra, le sue braccia erano incrociate al petto e gli occhi scuri fissavano il pavimento.
«Lael» lo chiamò la sorella, «puoi smetterla? Mi metti ansia».
Il sedicenne si fermò, sbuffando.
«Grazie mille» replicò la ragazzina, appoggiando il capo contro la spalla di sua madre.
Jillian prese ad accarezzarle il braccio. «Andrà tutto bene» sussurrò, posando un veloce bacio sui capelli spettinati della figlia. «Papà ormai è abituato a cose del genere. Vedrete che tra qualche ora sarà qua, tutto fradicio e mi toccherà pulire i pavimenti» aggiunse, con una risatina.
«Magari Brian¹ starà a dormire qui» Lael parlò per la prima volta da quando la tempesta era cominciata, facendo spallucce.
«Ho i miei dubbi» replicò Jillian. «Ha un figlio adesso, lo sai».
Lael scosse la testa. «Volevo solo cercare di sembrare un po’ ottimista» ribatté con tono atono.
Serena inarcò un sopracciglio. «Tu?»
«È lei che dice sempre che sono troppo pessimista». Con un cenno del capo, il sedicenne indicò la madre.
Jillian alzò gli occhi al cielo. «Parlare con te quando sei nervoso è come mettere la mano in un buco nella spiaggia. Non sai mai cosa potrebbe capitarti».
La loro chiacchierata venne interrotta da un veloce bussare alla porta, forte, come se qualcuno stesse cercando di scardinarla.
«Papà?» Serena saltò in piedi; si sentiva tanto dubbiosa quanto speranzosa – una parte di lei voleva che lì fuori ci fosse Marcel, ma l’altra era conscia che non poteva essere lui. Non sarebbe stato tanto pazzo da avventurarsi fuori con quel tempaccio.
«Non è papà». Lael si alzò a sua volta, passandosi una mano tra i capelli castano chiaro.
Da fuori, tra il rumore della pioggia e del vento, si udì distintamente una voce. «Lysoon! Apri questa maledetta porta, dannazione!»
«Dinesh» dissero all’unisono Serena, Lael e Jillian, tutti con tre toni diversi. Lael sembrava quasi rassegnato, Jillian sorpresa e Serena sentiva il cuore che aumentava il ritmo.
Il sangue le affluì alle guance, ma si sforzò di mantenere un certo contegno, mentre suo fratello apriva velocemente la porta, consentendo ad un ragazzo di introdursi nel loro salotto.
Tra il nero dei suoi vestiti e del cappuccio che gli ombreggiava il volto, Serena scorse un sorriso – il suo sorriso. Si sedette di nuovo accanto alla madre, per evitare di cadere; le sue ginocchia erano diventate burro fuso, e l’unica cosa che voleva era fare una figuraccia davanti a Dinesh.
Il nuovo arrivato si scostò il cappuccio fradicio, rivelando una zazzera di capelli castani umidi e il suo volto ancora da bambino, che faceva a pugni con la sua statura.
«Buongiorno a tutti» esordì il nuovo arrivato, sorridendo in direzione della più piccola di casa. Serena sentì il cuore esibirsi in un triplo carpiato con avvitamento e dovette schiarirsi la voce, prima di salutarlo a sua volta.
«C-ciao» disse, grattandosi la nuca. Il suo volto era in fiamme; si maledisse per quella reazione, e per il suo aspetto così casalingo: indossava una delle sue peggiori felpe e i capelli erano, come sempre, acconciati in una pratica coda di cavallo che non riusciva però a tenere a bada le dispettose ciocche che erano sfuggite al suo elastico. I pantaloni, poi, non erano nemmeno i suoi, ma quelli di Lael. Per fortuna – pensò, stringendosi le braccia attorno alla vita – quella felpa era abbastanza larga da coprire i suoi fianchi larghi.
«Scusate l’intromissione» continuò Dinesh. «Come avrete notato, temo che non sarei mai arrivato a casa tutto intero».
«Hai fatto bene a venire qui». Jillian si era alzata pochi secondi prima; ora era accanto al sedicenne. «Togliti pure questi vestiti bagnati. Lael te ne darà degli altri, tanto dovrebbero andarti bene».
«Grazie mille». Dinesh sorrise, di nuovo. Non arrossire, Serena. Non arrossire.
Fatica sprecata. Ormai la sua faccia doveva assomigliare ad un pomodoro maturo.
«Mi spieghi che ci facevi in giro con questo tempo, Hood?» Lael tirò un pugno sul braccio del suo migliore amico.
Dinesh fece un sorrisetto sghembo. «Ero un po’ lontano e non ho fatto in tempo a tornare».
«Laine² starà morendo di paura, immagino, tra te e Brian che non è ancora tornato…» constatò Jillian, posandosi una mano sulla guancia come se fosse lei, quella coinvolta nella situazione.
«Già. Probabilmente ci starà insultando, abbassando la voce per non farsi sentire dal suo marmocchio, e Meri, Dennis e Aleesha³ dovranno sopportarla». Dinesh scosse la testa. «Mi presti i vestiti, allora?» chiese poi, rivolto a Lael.
Il maggiore dei fratelli Lysoon annuì. «D’accordo. Ma devi offrirmi un cocktail ad indumento».
«Lael!» lo riprese Jillian, mentre Dinesh ridacchiava.
«Quando tutto questo finirà, noi due e Serena andiamo a bere qualcosa, se proprio vuoi» propose, facendo l’occhiolino alla dodicenne.
Serena si limitò a sorridere, anche se lo stava facendo da quando lui era entrato. Ormai doveva avere una paresi facciale, si disse.
Solo quando Lael prese una candela e condusse l’amico in camera, la sua espressione sognante lasciò spazio ad un’altra sgomenta.
Dinesh e suo fratello erano amici da tanti anni, ma ogni volta che lei lo vedeva si comportava esattamente nello stesso modo: sorrideva come un’ebete, rispondeva balbettando e arrossiva. Era peggio di come appariva di solito: perlomeno, quando non stava con lui, era taciturna e sfuggente, ma non sembrava così tanto stupida.
Aspettò con pazienza che suo fratello e l’amico tornassero; di tanto in tanto li sentiva ridacchiare e si chiese di cosa stessero parlando. L’idea che Dinesh gli stesse raccontando di qualche ragazza con cui era stato era insopportabile, tanto che dovette ficcarsi le unghie nei palmi delle mani per non mettersi a prendere a pugni il cuscino accanto a lei.
Certo, lui era più grande, era ovvio che non si sarebbe mai interessato a lei, ma una parte di lei sperava, dalla tenera età di cinque anni, che prima o poi Dinesh avrebbe cambiato idea. Nell’ultimo periodo, poi, era lui stesso a peggiorare le cose, chiedendole sempre – con fare divertito – se lei e il suo amico rosso si fossero fidanzati. In quei momenti, Serena avrebbe voluto urlargli che no, lei e Dave non erano fidanzati: l’unico che voleva era lui.
I due amici ritornarono chiacchierando nel salotto – con sua grande gioia, Serena appurò che stavano solo prendendo in giro l’istruttrice di arrampicata dell’Accademia.
«Ehilà, piccola Lysoon». Passandole accanto, Dinesh le diede un buffetto sulla guancia – il rossore svanito poco prima tornò con prepotenza. Il ragazzo aveva un asciugamano intorno al collo, ma sembrava pulito e asciutto. «Come stai?» Si sedette accanto a lei e Serena sentì un fremito percorrerle la schiena dorsale.
«Bene». Ancora meglio se fossimo soli io e te, pensò con astio, guardando suo fratello che si stava sedendo vicino a lei, dall’altra parte, e sua madre che passeggiava per la stanza. E se mio padre non fosse perso nei meandri del Distretto 4. «E tu?» domandò, cercando di sembrare disinvolta.
«Non c’è male. Ah, mentre scappavo a casa ho visto un gruppo di pescatori che stava entrando da Rob. Mi pare di aver intravisto Marcel e Brian».
Serena si sentì meglio: suo padre e suo cugino erano al sicuro; non c’era quasi nulla di cui preoccuparsi. Anche sui volti di Jillian e Lael comparve una pennellata di felicità e speranza.
«Volevo tornare a casa ad avvertire Laine e Meri, ma non ci sono riuscito. Lei è convinta che tu sia in barca, temo» continuò Dinesh, rivolto a Lael.
«Probabilmente starà sperando che io muoia annegato» borbottò il sedicenne, incupendosi, come ogni volta che si nominava la sua ex ragazza.
I due ricominciarono a discutere; erano chiacchiere di cui ormai Serena non ne poteva più. Da quando Lael e Meri si erano lasciati e lei veniva nominata mentre lui parlava con il suo migliore amico, le dinamiche erano sempre le stesse: Dinesh cercava di convincerlo a rimettersi con lei e Lael si rifiutava, al che partiva una discussione su quanto fossero perfetti l’uno per l’altra – da parte del più giovane dei fratelli Hood, ovviamente, poiché Lael rispondeva a grugniti. Il tutto sotto gli occhi di Jillian, che si intrometteva per dare qualche consiglio tipico da mamma apprensiva – spesso anche su richiesta di Dinesh.
Serena, invece, stava in silenzio e aspettava che si calmassero le acque, godendosi la vicinanza con l’oggetto del suo interesse amoroso.
A discussione terminata, ci fu un attimo di tregua.
«Che facciamo adesso?» esordì Dinesh, appoggiandosi allo schienale. Il suo braccio corse dietro le spalle di Serena e lei dovette trattenersi dal posare il capo contro la sua spalla.
«Aspettiamo» replicò Lael.
«Intendevo per rendere l’attesa meno noiosa, infatti» puntualizzò l’amico. «Tu che proponi, Serena?»
La dodicenne sobbalzò; non si aspettava quella domanda. «No-Non ne ho idea» balbettò. Tentò di ricomporsi, velocemente. «Potremmo raccontarci qualche storia. Lo facciamo spesso con nonno Lael quando viene qui e ci annoiamo».
«Non male». Dinesh sfoderò uno dei suoi bellissimi sorrisi che facevano diventare il cervello della ragazzina gelatina. «Io però non conosco tantissime storie» aggiunse, adombrandosi. «Laine non è esattamente il genere di sorella che passa le serate a cantarmi dolci canzoncine e a raccontarmi storielle della buonanotte».
«Noi un po’ ne sappiamo, però». Jillian si avvicinò al gruppetto. «Vero, ragazzi? Nonno conosce tante leggende».
«Ah, sì, anche il nostro Lael, ma temo si vergogni». Dinesh ridacchiò, guardando l’amico.
«Sì, va bene, che storia raccontiamo?» domandò il maggiore dei Lysoon – era arrossito anche lui, e Serena dovette reprimere una risata sguaiata. Erano poche le cose che facevano arrossire suo fratello, e una di queste era la sua passione per le leggende che circolavano al Distretto 4.
«La Sirenetta» rispose Serena, a colpo sicuro.
«Basta con questa Sirenetta, ti prego». Lael si passò le mani sul volto – Serena non lo biasimava: era la sua storia preferita, quella, e il suo soprannome ufficiale era proprio Sirenetta. Da piccola, poi, non smetteva mai di farsela raccontare dai famigliari.
«Come sei polemico» s’intromise Dinesh. «Io vorrei sentirla».
«Ma la saprai a memoria, di sicuro».
«E invece no». Ci fu un attimo di sbigottito silenzio. «Dico davvero. La so a grandi linee, non me l’hanno mai raccontata!»
«Tutti la conoscono qui» ribatté Lael, fissandolo come un alieno. In effetti, era una storia che si tramandava di generazione in generazione; quelli che non l’avevano mai sentita erano forse quelli morti troppo presto.
«Ripeto: Laine non è il tipo di sorella che ama raccontare storie. Mio padre non aveva tempo di raccontarmela, e, se mia madre me ne ha mai parlato, io ero troppo piccolo per ricordarmene».
«Credo che Serena sarà felicissima di cominciare il gioco, visto che è la sua preferita» disse Jillian, sorridendo alla figlia minore.
Dinesh si voltò verso di lei – era vicino, troppo vicino. Poteva quasi vedere ogni singolo neo sul suo viso.
Le sorrise. «Ti va di raccontarmela?»
Serena annuì. Si schiarì la voce – sentiva una strana sensazione di paura ed eccitazione insieme. Era contenta perché lui le aveva proposto di raccontargliela, ma al contempo agitata perché temeva di fare qualche figuraccia. E poi, era davvero troppo vicino. Erano già stati a distanza ravvicinata, certo – come scordarsi dei momenti in cui l’aveva abbracciata? – però mai per più di un certo tempo.
«Una volta, in fondo al mare, viveva il re Tritone insieme alle figlie» cominciò la ragazzina; si sforzò di mantenere il contatto visivo con il ragazzo. Verde contro marrone. Serena contro la sua vergogna e le sue insicurezze. «Una di queste, in particolare, era una ragazza molto curiosa. Purtroppo, l’oggetto della sua curiosità erano gli umani. Agli abitanti del regno di Tritone erano vietati contatti con gli loro; temevano ripercussioni. Del resto, non dev’essere molto normale, vedere delle persone per metà pesci». Dinesh fece un mezzo sorriso, e lei sentì un’ondata di sicurezza percorrerle il corpo. «Lei, però, adorava osservarli» continuò, con più sicurezza. «Si avvicinava alla costa, spesso e volentieri, stando attenta a non farsi vedere. Un giorno, una nave si fermò proprio vicino a casa sua, e lei, incuriosita, volle spiare un po’. Ciò che vide la lasciò senza fiato: c’era un ragazzo, un bellissimo ragazzo di cui lei si innamorò all’istante. Purtroppo, poco tempo dopo che ebbero gettato l’ancora, una tempesta li sorprese, distruggendo completamente la nave. La Sirenetta, spaventata, accorse in soccorso del suo amato e lo portò fino a riva, salvandogli la vita, ma scappò prima che lui riprendesse coscienza. Passò i giorni successivi a pensare a lui, fino a prendere una decisione drastica: andò dalla cattiva strega del mare. Voleva essere umana, avere le gambe, vivere per sempre con lui.
«La strega, però, voleva qualcosa in cambio. La sua voce e la sua vita, per essere precisi. La Sirenetta aveva una voce bellissima, invidiata da tutti, anche dalla strega, che le tagliò la lingua pur di averla. Inoltre, se il principe non si fosse innamorato di lei, la Sirenetta sarebbe morta, diventando spuma di mare. Come se non bastasse, camminare le avrebbe fatto molto male perché non era nella sua natura.
«Inizialmente, la giovane si spaventò, ma pur di averlo, corse il rischio. Ebbe un paio di gambe e camminare faceva male, come previsto. La sua voce non c’era più; comunicava a gesti, cosa che non le fu molto utile quando conobbe il principe. Lui, infatti, non poteva capirla e proprio a causa di questo non riuscì ad innamorarsi di lei.
«Questo fu quasi la fine. La Sirenetta sperò di convincerlo, ma poi arrivò il verdetto: sarebbe morta. Lui, infatti, riuscì a trovare un’altra moglie, la principessa di un paese vicino che lo aveva aiutato quando era naufragata la nave.
«Il giorno delle nozze arrivò e con esso arrivarono anche le sorelle della giovane, che le porsero un pugnale per ucciderlo. Se avesse fatto così, non sarebbe morta.
«La Sirenetta, però, non ci riuscì per paura di uccidere il suo amore e morì, divenendo spuma di mare».
Alla fine della storia, Dinesh appariva abbastanza basito. «Cavoli… questa è la tua storia preferita, no? Ma non è triste?»
«Un po’» ammise Serena. «Ma non è finita. Tritone – dopo essersi arrabbiato con lei per la sua scelta egoista – decise di rendere omaggio alla giovane. Dopo aver ucciso la strega malvagia e il principe per vendetta, lanciò un incantesimo contro la terra. Le anime buone, coloro che avrebbero condotto una vita giusta, sarebbero diventate spuma di mare. Quel luogo era il Distretto 4. Ecco perché si dice che tutti gli abitanti che sono morti diventano spuma di mare. Ecco perché i nostri riti funebri si svolgono soprattutto quando ci sono le onde, così come i battesimi. È per la benedizione degli antenati».
«È… bellissima». Dinesh scosse la testa. «Triste, ma bellissima. Capisco perché ti piace tanto, Sirenetta».
Serena abbozzò un sorriso. Era felice che lui avesse apprezzato la storia; era felice di aver avuto, anche se per poco, tutta la sua attenzione.
Inoltre, il vento fuori si era calmato. La pioggia non era più tanto forte come prima. Di lì a poco, suo padre sarebbe tornato a casa e avrebbe tirato fuori una battuta delle sue, per sdrammatizzare la situazione.
«Ora tocca a Lael raccontarci qualcosa». Serena infilò un dito tra le costole del fratello, ridacchiando.
Lael rispose con un grugnito, ricambiando il gesto.
Mentre sciorinava una lista di storie che conosceva, per raccontarla, Serena sentì Dinesh che avvicinava le labbra al suo orecchio. Fece per ritrarsi, ma non ci riuscì: sentiva ogni muscolo paralizzarsi; e poi, sotto sotto, bramava quella vicinanza così ravvicinata.
«Grazie» le sussurrò lui.
Serena sentì i polmoni riempirsi di aria pura e fresca, e stette bene, come dopo un lungo periodo in apnea.
Aveva sempre considerato la Sirenetta un po’ stupida, ma in quel momento la capiva benissimo: forse, si disse, per amore anche lei avrebbe compiuto qualche gesto estremo.
¹Brian Lewis (21 anni) è il cugino di Serena e Lael, che lavora sulla stessa barca dello zio.
²Laine Youko Hood (20 anni) è la sorellastra di Dinesh e fidanzata di Brian, con cui ha avuto un figlio da qualche mese.
³Meri (16 anni), Dennis (14 anni) e Aleesha Fields (12 anni): sono i vicini di casa di Dinesh. Meri è la ex-ragazza di Lael e migliore amica di Dinesh; Aleesha è una delle migliori amiche di Serena.
Capitolo 5 *** Distretto [9]; Raika Swift (OC) ***
Premessa di Jiminy.Attenzione, spoiler del
capitolo XVII della long “Torna con lo scudo o su di esso.” Si parla di addirittura
dopo la Rivolta, con annesso il Vincitore dei 69esimi Giochi ed altre cose
random; quindi, se non volete rovinarvi la sorpresa, vi consiglio di non andare
oltre a questo punto. Se invece non sapete nulla di questa storia e volete
continuare a leggere, ben venga. Vi metto un piccolo riassunto sotto ^^
—> SPOILER <—
La storia è narrata da RaikaSwift, Tributo durante i 69esimi Hunger
Games, a sua figlia Axel, chiamata così per il nome
del suo migliore amico. È ambientata dopo più o meno una decina d’anni dalla
Rivolta. Raika ha vinto i Giochi a 16 anni, grazie
alla predilezione che la nipote del Presidente Snow
provava per lui e un attimo di distrazione del Primo Stratega. Questo, però,
gli è valso un caro prezzo: dopo aver finto una storia d’amore con la sua
alleata (cui tuttavia era molto legato), la ragazzina, resasi conto che
lui sarebbe morto pur di farla vincere, lo abbandona e, combattendo con un
altro Tributo, perde la vita. Dalla sua vittoria, Raika
torna silenzioso, schivo. Le uniche persone con cui si apre sono parte della
famiglia che si è costruito dopo la Rivolta. E sua figlia Axel
riesce sempre a trovarsi un posticino nel suo cuore. Buona lettura u___ù
Storie Perdute –
Le Leggende di Panem
District9|Grain
L’Aviaurea.
— Teppista?
La biondina rannicchiata sotto le coperte rispose
appiattendosi ancora di più sul materasso. La tradì solo un respiro, forse
troppo forte, che terminò con uno starnuto.
— So che sei nascosta lì. Esci, su — le consigliò Raika, bonario. Nonostante gli creasse parecchi problemi, adorava
quella marmocchia perché sembrava aver preso da lui tutte le peggiori qualità. Eppure,
con un leggero dispiacere, riconosceva che quelle caratteristiche le avrebbero
dato seccature ben più gravi di una vecchia finestra rotta da una pallonata. Josh, rispettando certi vincoli di amicizia che l’uomo non
era riuscito a comprendere, non gli aveva neppure fatto ripagare il danno, ma
sua figlia non poteva continuare a distruggere tutto ciò che si trovava davanti
con quei suoi amichetti. E di sostituire il suo amato calcio con qualche
bambola di pezza non se ne parlava neanche per sogno.
Dal letto provenne una voce infantile.— Axel non c’è, qui.
— E dov’è, allora? — le rispose suo padre, giocherellando
con l’idea di sedersi su quel fagotto di bambina e coperte per farla uscire
allo scoperto. A volte gli era perfino difficile immaginare di essere stato, in
passato, un marmocchio come lei. Forse “come lei” era un po’ troppo: nella
Panem di un tempo i piccoli non erano tali, anche se correvano tra i campi di
grano con le spighe tra le dita, ma da portare ai sorveglianti.
— Boh, sarà uscita — borbottò la voce, incerta se continuare
la finzione o lasciarsi scoprire. AxelNethSwift[1] mosse
lentamente un piede, scostandolo da destra a sinistra, sperando di non essere
vista. Raika ci mise la mano sopra.
— Potresti trovarmela?
— Uh, sì… Appena riesco a trovarmi, ehm, trovarla le faccio un fischio — ribatté,
con qualcosa di simile ad un gridolino, che culminò in una risata quando suo
padre iniziò a farle il solletico.
— Basta, pà, ti prego! — riuscì
a dire, mentre rotolava per tutto il materasso. Arrivò al margine destro del letto,
coprendosi la pancia – dove gli “attacchi” dell’uomo la raggiungevano impietosi
– con le braccia, e fu solo allora che l’uomo se la caricò sulle gambe,
scompigliandole i capelli corti.
— Te li farai mai crescere?
— Nah… Io voglio farci la
cresta che dice Mickey. — Da quando Axel aveva
iniziato a scorrazzare per il nove a fare casini, il figlio di Christopher era
diventato il suo migliore amico, anche se a volte non lo sopportava perché «era
stupido». Però era capace di metterle in testa qualsiasi tipo di idiozia, e la
cresta era l’ultima. — I calciatori fighi hanno la cresta — gli spiegò la
bambina, con l’aria di chi la sa lunga. Si alzò le ciocche davanti, formando
qualcosa che avrebbe dovuto essere simile ad una cresta, ma sembrava la
pettinatura di uno scienziato pazzo.
— Ma non dicevi che avevano il numero stampato sulla
maglia?
— Anche. La cresta però è più importante. Ce l’hanno pure
le rock-star[2]! — Tra i suoi vecchi dischi, Axel
aveva trovato qualche mese prima una raccolta dei Linkin
Park, con tanto di CD player e libretto con i testi delle canzoni. L’aveva
subito adottata come colonna sonora delle sue giornate. La ascoltava di
mattina, pomeriggio e sera, tanto che aveva memorizzato ogni singola traccia di
quell’album. Ed erano 12, per inciso.
Con il crescere dei pezzi che conosceva, le sue
aspirazioni erano cambiate: da calciatore di fama mondiale, a cantante dal
taglio di capelli discutibile. Di bene in meglio, insomma.
— E le rock-star distruggono le finestre? — le chiese
l’uomo
— No. Scusa, pà. Kevin me l’ha
passata malissimo — sottolineò l’ultima parola con enfasi, — e io… Io dovevo prenderla. Così mi sono lanciata tra
le cassette vuote del fruttivendolo e ho calciato la palla. Peccato che è
finita nella porta sbagliata. — A quella conclusione, abbassò gli occhi per
terra.
— Capisco. E io devo pagare il signore perché hai fatto
un casi-… Una stupidaggine? — si corresse immediatamente. Sua moglie gli aveva
vietato di dire qualsiasi parolaccia davanti ad Axel,
dopo il fallimentare esito che aveva avuto ad educare il suo primogenito. Come
se fosse stata colpa sua se suo figlio si esprimeva alla stregua di uno
scaricatore di porto. In effetti, un minimo di merito lui ce l’aveva, ma il
ragazzo ormai era nella fase parolacce, che sarebbe finita come era ormai
conclusa quella dei «perché?».
La bambina fece un sorrisetto piccolo piccolo,
dondolando il piede contro il ginocchio dell’uomo. — Fanno così, i papà. Se non
volevi pagare per i casotti che faccio, allora non dovevi essere mio papà — gli
spiegò, seria.
— Potrei sempre abbandonarti davanti casa dei vicini.
— Mamma non te lo permetterebbe — ribatté, il piede che
sbatteva ritmicamente sulla sua rotula. — E poi chi mi piglierebbe? Lo dici
sempre!
— Beh, se gli promettessi dei soldi…
— Non funzionerebbe comunque — concluse Axel, lasciandosi cadere sui cuscini del letto. Con il
tempo, stava diventando sempre più brava a chiudere le conversazioni, come se
dopo aver imparato i trucchi del suo vecchio ora ne stesse cercando di nuovi.
L’uomo non ne poteva più.
— Al diavolo. E tua madre diceva che avrei dovuto darti
una sgridata con i fiocchi.
— Appunto: diceva.
Raika dovette trattenersi per non scoppiare a ridere. Non si
sarebbe mai immaginato a lottare con una marmocchia per la supremazia in casa,
dopo aver vinto i Giochi ed essere sopravvissuto alla Rivolta.
Si stese sul letto, proprio accanto alla sua secondogenita,
e le diede un leggero colpetto sul naso con l’indice. — Hai vinto, teppista —
le concesse infine, mentre lei roteava gli occhi borbottando un: — ce ne hai
messo di tempo, per capirlo. — In quel momento, un tuono squarciò la quiete del
cielo notturno, rimbombando tra le nuvole e le gocce di pioggia, che già
iniziavano a cadere copiose sul terreno. Axel si
rannicchiò contro il suo braccio – abbastanza per sentirsi protetta ma non da
sfiorarlo. Raika non sapeva da chi avesse ereditato
quella stupida paura dei fulmini né perché ci tenesse così tanto a non
chiedergli aiuto, eppure la strinse leggermente a sé.
— Non mi piacciono i temporali — si lasciò scappare. Raika vide che aveva serrato i pugni, come per darsi forza.
— Ma non mi fanno paura.
— Secondo me un po’ sì, ma credo sia solo il prezzo di
avere una figlia femmina.
— E invece no. Non ho paura di nulla, io. — A quella
risposta, l’uomo rise. Sapeva che Axel non accettava
che le si desse della fifona, forse perché suo padre aveva partecipato ad una
Rivolta e lei non voleva essere da meno. Anche se sapeva poco di quella
rivoluzione, in qualche modo aveva capito che i suoi genitori avevano rischiato
grosso ed erano stati coraggiosi – parola che le aveva detto per sintetizzare
ed omettere tutte le torture che aveva sopportato alla Capitale.
— Una volta una ragazza mi disse che non avere paura di
niente è da stupidi, sai?
— La zia?
— La zia — ripeté lui. Da quando gliene aveva parlato per
la prima volta, per sua figlia Rebekah era diventata la zia, perdendo quel di più che era stata per lui. Un giorno Axel avrebbe saputo, si era detto allora, ma quel giorno
non era ancora arrivato e Volpe non era tornata ad essere tale.
Un tuono fece sobbalzare la bambina, che si accostò
ancora di più al genitore, nascondendo il viso nella sua giacca. — Un pochino
di paura ce l’ho, a dire la verità — gli confidò con un sospiro.
— Facciamo così: ora distraiamo la paura con una storia e
poi scendiamo a cenare — propose, stringendola a sé con un braccio. — Ti va?
Di tutta risposta, la bambina gli mostrò il pollice
alzato.
*
Gli uccelli del nove non sono sempre stati belli ma
stonati, sai? C’è stato un tempo – quando le loro piume erano di cenere e la
luna un grande pezzo di formaggio – in cui uno di loro decise di andare alla
ricerca dei colori. Certo, ancora non sapeva cosa fossero, ma sentiva che
qualcosa mancava ed era importante. Girò la terra in lungo e in largo, per
scoprirlo, passando su leghe e leghe di mare cristallino e immensi campi fioriti
e verdi foreste pluviali. Tutto perché alle sue piume mancava il tocco vitale
di cui era colorato in manto delle tigri. Con le loro striature nere e
arancioni, gli sembravano bellissime anche se doveva ammirarle da lontano,
temendole e rispettandole. Le giraffe erano meno sensibili di loro, più
tranquille – a volte lasciavano persino che gli uccelli bambini si sedessero
sulla loro testa, proprio tra le orecchie – così il nostro uccellino decise di
andare all’Albero Alto e trovarne una, per domandarle cosa non andava in lui.
Perché la pelliccia delle tigri era così viva da far passare il suo canto in
secondo piano, quando i primi uomini li osservavano dalle loro case di fango.
Quando infine trovò una giraffa, intenta a mangiucchiare una fogliolina da un
alto ramo, le tirò leggermente la coda per attirare la sua attenzione.
— Salve, signora giraffa — cominciò, con un flebile
cinguettio. — Volevo chiederle cosa mi manca per essere bello più di una tigre.
— I volatili non sono famosi per la loro umiltà: sanno di essere affascinanti e
se ne vantano, e lo facevano anche allora, pur essendo grigi e spenti.
La giraffa lo squadrò con occhio critico. — La coda.
Di tutta risposta, l’uccellino le sventolò davanti la sua
penna timoniere. — Quella ce l’ho già — fece, ridendo. — Di’ un po’: è più
bella la mia o quella delle tigri? — chiese con vanità. Da secoli gli animali gareggiano
su chi è il più bello. I cavallucci marini sostengono di esserlo loro; i cervi,
invece, se ne stanno per conto loro, troppo timidi per dirlo a qualcuno; i
pavoni lo sanno e si considerano troppo superiori agli altri per partecipare a
questa gara da quattro soldi. Tutti hanno fama di essere eleganti, speciali più
degli altri.
— La tua.
L’uccellino arruffò il petto, orgoglioso.
— Anche se sarebbe più bella colorata — continuò la
giraffa. — I tuoi fratelli dell’India[3] ce l’hanno blu e verde, ma
a me non piacciono poi tanto. Il colore del sole, è quello più bello.
Fu in quel momento che l’uccellino con l’idea di andare
alla ricerca dei suoi colori decise di avvicinarsi al sole, anche se antiche
leggende lo dissuadevano dal suo proposito. Tra gli abitanti di Città Celeste
si narrava che le ali di un tale Icaro, per avergli volato troppo vicino, si
fossero sciolte e lui fosse precipitato, morendo. Lo dicevano gli anziani.
Eppure, l’uccellino non si diede per vinto: avrebbe volato vicino ai raggi abbastanza
da prenderne i colori, ma non da sfiorarli con le sue penne grigie. Di sera,
affinché la luna lo proteggesse.
Quando infine decise di rischiare, partendo alla volta
del sole con le piume arruffate e un piccolo fagotto nel becco, era quasi
notte: il sole, pallido, stava per tuffarsi nell’acqua di quello che ora
chiamiamo distretto 4. L’uccellino lo guardò, sbattendo le ali. “È vero quello
che diceva la giraffa” pensò, “il suo colore è più bello di quello delle tigri,
perché illumina.” Si sentiva protetto dalla sua luce, un po’ come la coperta
che copre te: lo teneva al caldo, accarezzandogli dolcemente le penne.
— Mi regaleresti qualcuna delle tue piume dorate? —
chiese infine al sole, dopo avergli girato attorno un paio di volte.
I raggi di quest’ultimo parvero splendere con più forza
per qualche secondo, come ad invitarlo a prenderne i colori. Alla luce, le sue
penne splendevano di mille sfumature diverse di giallo – scemavano fino al
bianco – e l’uccellino le guardò più volte, incredulo. — Sono bellissime —
esclamò, — grazie.
La risposta del Corpo Celeste non tardò ad arrivare: un
ultimo luccichio, più flebile, brillò sulla cresta di un’onda, poi più niente.
Era andato a dormire nel suo letto di montagne.
Ritornato nella sua vecchia casa, l’uccellino dalle piume
d’oro fu ammirato da tutti gli altri volatili, che si facevano raccontare la
sua avventura ogni giorno, quando erano troppo stanchi per giocare insieme. Lo
chiamarono “Aviaurea” da un’antica parola in una
lingua che ormai non conosciamo più. Da giovinetto, il nostro protagonista era
diventato grande e quelle penne lo rendevano una preda molto ambita per le
ghiandaie. Gli altri maschi, invece, lo fissavano con desiderio, osservavano il
movimento delle sue ali, chiedendogli dove ne avesse prese di così belle. E con
il tempo – troppo gradualmente perché se ne accorgesse – quel sentimento prese
un nome che a molti fa paura: invidia.
Crebbe nei cuori dei suoi compagni così tanto, che arrivarono a decidere di
rubargli le piume. Ogni notte, con il becco, gliene strapparono una, finché non
furono distribuite equamente tra tutti. All’uccellino ne rimasero solo tre, sulla
sommità del capo, a simboleggiare la sua antica cresta lucente.
E da allora il vento
ulula sulle spighe di grano, un vento fatto di grida dell’Aviaurea
che ancora aspetta di riavere le sue piume dorate.
*
— Quindi è per questo che gli uccelli a volte hanno
qualche piuma strana! — esclamò Axel. Aveva seguito
la storia con molto interesse, talvolta nascondendosi un po’ più sotto le
coperte per una folata di vento troppo forte. Ora era fuori dal letto e
guardava le tapparelle con aria di sfida, quasi a dirgli che non le facevano
più paura. — Una volta ho visto un disegno di un uccello con una freccia nel
becco, tra le carte di mamma — mormorò dopo qualche secondo, disegnandolo per
aria. — Era quello, l’Aviaurea?
Raika chiuse gli occhi, stringendo le dita sulla testiera del
letto in legno. Bombe e acqua e spari gli riecheggiarono nelle orecchie. — No —
rispose, la gola improvvisamente secca. — Quella è una Ghiandaia Imitatrice. A
tua mamma piaceva molto disegnarle, prima che tu nascessi.
E le affiggeva su
tutte le pareti del distretto 4. Ma quello non si
permise di dirlo, come aveva fatto già con i dettagli importanti della Rivolta.
Axel avrebbe saputo tutto: un giorno, la sua famiglia
al completo si sarebbe riunita nel salone e ne avrebbe parlato tranquillamente
– perché non avrebbe mai lasciato che i suoi figli lo sapessero dalla scuola,
invece che da lui. Era una questione di principio.
Axel gli diede un pugnetto sulla spalla, per richiamarlo
all’attenzione. — Mi piace come nome
— affermò, dopo aver ripetuto «Aviaurea» per
l’ennesima volta. — È figo! Ed è figa anche la storia. Sai, pà,
non credo avrò mai più paura del vento: sono solo urla e già ne sento tante.
— Quando tuo fratello entra in casa con le scarpe piene
di fango?
— No — rise la bambina. — Quando centro le finestre degli
altri con la palla. Quelle non le batte nessuno.
[1]Raika
ha deciso di chiamare sua figlia con due nomi che gli stanno particolarmente a
cuore: Axel, quello del suo migliore amico, e Neth, diminutivo di Mahinete, sua
alleata durante i 69esimi Giochi.
[2] Chester Bennington, frontman dei Linkin Park, ha avuto per un certo periodo i capelli con la
cresta fucsia. Axel lo ha unito al fatto che anche
alcuni calciatori – tipo ElShaarawy
– ce l’hanno, e ha deciso che deve farsela pure lei.