Al sollevarsi del vapore

di FAT_O
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 5: *** Lenny e Automa ***
Capitolo 6: *** Più di duemila anni prima (1) ***
Capitolo 7: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 8: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 9: *** Capitolo Sesto ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 
Prologo
 
La sala sotterranea era illuminata da lampade a gas, che ne rischiaravano alcune parti, accentuando tuttavia l’oscurità delle zone in cui la luce non riusciva a penetrare. Parte della stanza era occupata da una decina di uomini, ritti in piedi, in silenzio, osservando chi con attenzione, chi con apprensione una cabina cilindrica di vetro opaco, di dimensioni sufficienti ad ospitare un uomo in piedi. Davanti alla cabina, si trovavano altri due uomini, che fissavano il piccolo assembramento di fronte a loro. Uno doveva avere all’incirca cinquant’anni, era di statura media, magro, con i capelli castani ingrigiti nella zona delle tempie. Aveva la bocca incurvata in una sorta di sorriso, o forse un ghigno. Gli occhi erano freddi, privi di emozione. L’altro uomo, invece, era sulla trentina, basso e grassoccio. I suoi acquosi occhi grigi scrutavano ciò che lo circondava, svagati, interessati apparentemente solo a dettagli di poco conto. Sembrava essere l’unico a disallinearsi dal senso di attesa che pareva permeare tutto il resto della stanza. D’un tratto, il primo uomo prese la parola, spezzando il pesante silenzio: “Fratelli, il giorno è giunto. Stiamo per sperimentare il frutto del nostro alacre operato. Dal risultato di questa prova, è superfluo che ve lo dica, dipenderà la prosecuzione delle vite di tutti noi. Percepisco la vostra impaziente, quasi ansiosa attesa. Come biasimarvi, del resto. Io stesso la condivido, e non certo in misura minore. Ma prima di procedere, vorrei ringraziare ciascuno di voi. Il lavoro di questi anni è stato faticoso, talvolta frustrante, talvolta è persino apparso privo di sbocchi. Eppure, nessuno di voi ha rinunciato, nessuno ha smesso di credere in ciò che facciamo, ed è per questo che oggi siamo qui. Per questo che ci apprestiamo a scoprire, se davvero le nostre ricerche ci abbiano permesso di sintetizzare l’immortalità.” Detto questo, l’uomo fece una pausa e scrutò rapidamente i volti dei componenti del suo uditorio. Riscontrò soddisfatto che pendevano dalle sue labbra, e proseguì: “All’inizio del nostro percorso, tante erano le domande, e non solo di carattere scientifico, che attanagliavano le nostre menti. Davvero un prodotto come il nostro poteva apparire desiderabile? Di certo, noi eravamo in grado di immaginare i limiti di un’esistenza destinata a protrarsi all’infinito. Ma la verità, miei cari signori, è che noi non rappresentiamo un campione attendibile di quella che è la vera meraviglia del nostro tempo, la mediocre, stolta umanità! Abbiamo guardato in faccia la realtà, giungendo all’unica risposta accettabile: gli uomini sono stupidi, e questo ci renderà ricchi.” Tra gli scienziati davanti a lui vi fu qualche risatina, poi tutto tacque nuovamente. L’uomo riprese, con un tono di voce più basso: “E perciò, giunti a questo punto, direi che non resta altro che procedere con l’esperimento, se voi tutti siete d’accordo.” Vi furono vigorosi cenni d’assenso da parte dell’uditorio. Le labbra dell’uomo che aveva parlato si incurvarono in un ampio sorriso, che tuttavia non si estese ai suoi occhi. Poi lo scienziato, rivolto all’uomo accanto a lui, disse con tono autoritario: “Lenny, entra nella cabina.” L’altro, che fino a quel momento era parso non ascoltare nulla di ciò che veniva detto, sentendosi chiamato in causa, come inconsapevole del palese disprezzo dell’altro nei suoi confronti, rispose con una voce nasale ma tonante: “Sì, Clev!” Le due parole parvero rimbombare in tutta la stanza, mentre Lenny entrava nella cabina. Clevidon si rivolse nuovamente a lui: “Adesso chiuderò la porta. Una volta dentro, dovrai togliere tutti i vestiti, piegarli e appoggiarli da una parte. Dopo un po’, vedrai del fumo colorato riempirla, ma non devi avere paura. Non ti farà del male. Per nessuna ragione devi aprire la porta. Quando sarà tutto finito, sarò io ad aprirla. E’ tutto chiaro?” L’altro rispose annuendo vigorosamente: “Sì Clev!” Clevidon sospirò, quindi fece scorrere la porta della cabina fino a sigillarla. Poi si volse verso un angolo della stanza, immerso nell’ombra e disse con tono imperioso: “Accendi la caldaia.” Dall’ombra uscì un automa di forma umanoide, il cui corpo metallico era stato coperto di stoffa per dare l’impressione che indossasse degli abiti. Sul capo portava una parrucca di boccoli biondi, ad esso saldamente incollati. Aveva occhi di vetro illuminati da bagliori azzurri, una bocca stilizzata incurvata verso l’alto da cui uscivano dei piccoli coni metallici simili a canini e al posto del naso una sorta di breve proboscide di gomma. Nell’insieme appariva piuttosto grottesco, a tratti inquietante. Tuttavia, era opinione comune che automi come quello fossero molto utili, e quindi se ne accettava il curioso aspetto fisico. La macchina si avvicinò alla piccola caldaia a carbone situata dietro la cabina e la accese. Sopra la caldaia, c’era una bacinella posta alla base di un tubo che conduceva verso l’alto, per poi sbucare nel soffitto dell’abitacolo. All’interno della bacinella, si trovava il prodotto di anni e anni di lavoro: il liquido che, se tutto avesse funzionato secondo le previsioni, avrebbe reso Lenny, cavia dell’esperimento, immortale. Il liquido andava vaporizzato perché tutto il corpo potesse essere sottoposto alla sua azione. Mentre il carbone bruciava, avvicinando sempre più il momento in cui sarebbe stato chiaro se l’esperimento fosse andato a buon fine o meno, gli scienziati si erano lentamente avvicinati alla cabina. La tensione era palpabile. Poi, d’improvviso, dalla cabina si sentì uscire un suono sordo e potente. Prima che potessero interrogarsi sulla sua causa, tutti i presenti sentirono che l’aria smetteva di affluire ai loro polmoni. I loro volti si riempirono di panico e sconcerto, mentre le mani correvano istintivamente alla gola. Senza mai capire cosa fosse accaduto, gli scienziati si accasciarono al suolo, privi di sensi. Nel giro di pochi minuti, erano tutti morti. Fuori dalla cabina, solo una cosa si muoveva ancora. L’automa, rimasto apparentemente indenne, si chinò ad osservare i corpi morti dei suoi padroni. Poi si alzò di scatto, e si avviò verso l’uscita senza mai voltarsi indietro.

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Capitolo 2
*** Capitolo Primo ***


Capitolo Primo
 
Cambìsex, divinità della virilità e della fertilità, si era assopito sul suo trono dorato. Stava riflettendo, non senza un certo compiacimento, su come ogni cosa finalmente andasse come doveva dopo più di due millenni, quando il sonno l’aveva inaspettatamente colto. La sua unica preoccupazione, in quel periodo, era la contesa con sua figlia Eiradna, dea della giustizia e della verità, ma si trattava di una discussione che andava avanti da secoli e aveva ormai imparato a darle poco peso. Del resto, la figlia criticava sì il suo operato e il suo modo di agire, ma Cambìsex era certo che non sarebbe mai stata capace di mettere in discussione il suo predominio. La cosa più importante era che l’umanità, o meglio, gli abitanti della Serotheia, il continente più piccolo, ma anche più ricco, potente e popoloso del pianeta, lo adorassero con i dovuti onori. C’era stato un tempo in cui Cambìsex aveva considerato l’eventualità di insediare il suo culto anche negli altri due continenti, ma poi aveva deciso che le genti che li abitavano erano troppo rozze e semplici per meritare il privilegio di venerarlo. Le crisi di ogni genere e la terribile guerra che avevano messo a rischio la fiducia dei serotheiani nei suoi confronti erano state superate. Cambìsex era stato abile nel mantenere saldo il legame con i suoi seguaci, presentando di volta in volta le divinità di cui essi sembravano avere più bisogno. Agli esordi, con la nascita del sistema economico, Encremeo, dio del commercio. Dopo la guerra, Pireide, dea della pace. Il sistema di divinità era adesso fossilizzato da secoli, ma a Cambìsex appariva completo, e così doveva essere anche per i serotheiani. Finalmente, poteva godere del frutto dei suoi sforzi in quell’epoca di produttiva serenità che perdurava da circa novant’anni. Mentre era immerso nel più tranquillo dei sonni, cullato in sogno da quei dolci pensieri, Cambìsex fu d’un tratto svegliato da qualcosa. Il suo fratello maggiore, Aironte, dio della scienza e della tecnica, aveva fatto il suo ingresso nella stanza con clamore. Cambìsex scattò in piedi, irato, già pronto a redarguire aspramente il disturbatore. Sapeva di fare una profonda impressione quando si ergeva con furia in posizione eretta. La sua statura già notevole era accresciuta dai tacchi alti e sottili delle scarpe. Il fisico tonico e muscoloso, i fianchi larghi e torniti, i seni prosperosi sul torace possente, conferivano alla sua figura un’energia prorompente. Gli occhi di un verde brillante, pesantemente truccati, erano colmi di collera e spaventosi, messi ancor più in evidenza dai boccoli neri lunghi fino alle spalle e dalla folta barba che nascondevano il resto del viso. “Spero” esclamò con voce carica di sdegno “che tu abbia una buona ragione per avermi disturbato.” Il crogiuolo di tic e balbuzie che era suo fratello, con i pallidi occhi azzurri lucidi per le lacrime trattenute, rispose con voce flebile: “S-sì, ho una buona ragione. Buona, m-ma in realtà terribile.” “Parla!” gridò Cambìsex, ora completamente in preda alla furia per l’esitazione del fratello. “T-tuo figlio... Il tuo d-diletto figliolo... Caloxite... E’ morto.” Una lunga pausa seguì le parole di Aironte. Cambìsex non comprese immediatamente il loro significato, e quando lo comprese, il suo volto si riempì di incredulità: “Caloxite” disse, con voce più lieve e incerta “è immortale. Immortale, così come lo sono io, e come lo sei tu. Spiegami, quindi, come ciò che mi dici può essere vero.” Aironte emise un singulto e rispose: “Non lo so, non lo so! La m-mia macchina era infallibile, e fino a questo giorno Caloxite ha go-goduto dell’immortalità come noi tutti! Ma oggi... In questo giorno infausto...” Il dio tacque, come vinto dal dolore. “Come, dove è successo?” “Fuori dal palazzo.” Cambìsex, cosa a dire il vero rara, era ammutolito. Alla fine, trovò la forza di dire: “Voglio vederlo. Portami da lui.” Aironte, ormai in lacrime, annuì e gli fece cenno di seguirlo. Uscirono dall’ampia sala in cui si trovavano. Attraversarono in silenzio gli ampli corridoi del palazzo, mentre Cambìsex, ancora pieno di sconcerto, tratteneva la disperazione in attesa di vedere con i suoi occhi ciò che per il momento poteva solo immaginare. Caloxite... Il più giovane dei suoi figli, quello che amava di più. Quello che più lo amava. Sempre lo sosteneva, anche quando gli altri osteggiavano le sue decisioni. Mentre nella mente di Cambìsex si affollavano questi pensieri, oltrepassò insieme ad Aironte il portone del palazzo. Si ritrovarono immersi nell’oscurità più totale. In quel momento infatti, la luce del sole colpiva il versante opposto della Luna adamantina, e la zona dei palazzi era quindi completamente al buio. Cambìsex fu colto dalla solita, istintiva, sensazione di freddo, ma sapeva che quel freddo non poteva danneggiarlo. Aironte accese la torcia a raggi solari accumulati che aveva portato con sé, e la luce fendette le tenebre, mostrando la superficie su cui si stavano ora muovendo, la Luna adamantina. Si trattava di un vero e proprio simbolo del potere degli dei, oltre ad essere la loro casa. Una gigantesca sfera fatta di un durissimo minerale trasparente. Vista dal pianeta degli uomini, appariva come un disco di pura luce bianca, su cui era impossibile soffermare lo sguardo per più di qualche secondo. Ogni volta che vi posava piede, Cambìsex si sentiva fiero di sé, del livello di magnificenza che aveva raggiunto. Ma non questa volta. Questa volta, tutto era diverso, aveva ben altri pensieri. I due dei giunsero a scorgere in lontananza i segnalatori luminosi che Aironte aveva sistemato per indicare la presenza del corpo. Cambìsex accelerò dunque il passo, per quanto i tacchi glielo permettessero e raggiunse per primo il punto. Caloxite, dio delle arti, giaceva a terra, inequivocabilmente morto. Era a torso nudo, solo con un boa viola di piume di struzzo a coprire le spalle, e sul torace glabro come anche sul volto dai tratti femminei, portava i segni del gelo che l’aveva travolto. Tuttavia, non era stato il freddo ad ucciderlo. Prima di morire aveva portato le mani al collo, chiaro segno del soffocamento. Cambìsex si lasciò cadere in ginocchio, ed esplose in un pianto dirotto, abbracciando il corpo del figlio. Aironte rimaneva in disparte, piangendo in maniera più silenziosa. Gli dei non avevano bisogno di respirare, né potevano essere scalfiti dalle alte o basse temperature. Erano immortali, ma uno di loro era appena morto. La situazione non sembrava lasciar presagire nulla di buono.

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Capitolo 3
*** Capitolo Secondo ***


 
Capitolo Secondo
 
I boccali colmi di birra si levarono in alto cozzando tra loro, accompagnati dagli sconclusionati brindisi degli ubriachi. La taverna era calda, chiassosa, colma di grossolane risate. In un angolo, due improbabili violinisti suonavano i loro strumenti sgangherati, in maniera non impeccabile ma senz’altro coinvolgente.
In quell’atmosfera allegra e scomposta, Cole si sentiva pienamente a suo agio. Era arrivato a Cruserobia, capitale della Serotheia, appena il giorno prima, concludendo così il suo incarico. Aveva trascorso i tre mesi precedenti in viaggio con un gruppo di mercanti che acquistavano in tutto il continente merce da rivendere nella capitale, lavorando come guardia del corpo. Era stato più volte tentato di derubarli durante il viaggio, ma dopo che aveva respinto i due attacchi di predoni subiti dalla carovana, i mercanti avevano promesso di dargli in aggiunta al suo compenso originario anche una parte dei loro guadagni futuri, e così aveva abbandonato il suo proposito. Si aspettava di ricevere il suo bonus entro un paio di giorni, ma nel frattempo era ben deciso a godersi il cospicuo gruzzolo che aveva già ottenuto. Si trovava nella taverna proprio per questo motivo. Birra a volontà, e forse, più avanti nel corso della serata, una donna. Aveva adocchiato una consolatrice dal seno esuberante e i capelli rossi che lo scrutava da quando era entrato, ammiccando ogni volta che le rivolgeva lo sguardo. Cole sapeva che la donna non puntava solo al denaro appeso alla sua cintura. Era un bell’uomo, e ben consapevole di esserlo. Alto, forte, con la possente mascella squadrata coperta da un’ispida e rada barba nera, gli occhi scuri e la pelle abbronzata. Era certo che, se avesse infine deciso di usufruire del servizio offerto dalla donna, non sarebbe stato l’unico a uscirne soddisfatto.
Ma prima, c’era bisogno di un’altra pinta. Cole decise che aveva voglia di farsi qualche nuovo amico, e alzandosi esclamò con voce profonda e tonante: “Offro un altro giro, a tutti!” Poi sedette nuovamente, tra gli applausi, le pacche sulle spalle e altre varie manifestazioni di entusiasmo. Amava vivere così. Senza una fissa dimora, sempre in viaggio, concedendosi solo brevi momenti di pausa, come quello, come valvola di sfogo di un’esistenza altrimenti spesa quasi interamente sulla strada. Non era costretto a stringere rapporti durevoli con nessuno, poteva essere per una sera il migliore amico di una persona che non avrebbe mai più visto. Il mondo era la sua casa, la taverna la sua famiglia.
Cole trangugiò in un sorso ciò che era rimasto nel suo boccale, poi si alzò di scatto, facendo ribaltare il suo sgabello, e si diresse senza ulteriori indugi verso la consolatrice. Così gli piaceva mostrarsi, sicuro di sé, privo di esitazioni. Sapeva, in una certa misura, di suscitare ammirazione in quanti lo circondavano. In preda all’esaltazione del momento, dovuta in parte ma non interamente all’alcol, si sentiva come un’inarrestabile forza della natura. Raggiunta la donna in pochi passi, la guardò per qualche istante negli occhi, mentre tutt’intorno i clienti della taverna osservavano la scena, rapiti.
Poi Cole parlò: “Mi è sembrato che mi guardassi, mi sbaglio?” L’altra, con una risolino vagamente beffardo rispose: “Chissà, può darsi che in effetti ti sbagli.”
Gli spettatori esplosero in una grassa risata, deliziati dallo scambio di battute. Cole reagì con un sorriso accomodante. Sapeva che la consolatrice stava solo giocando con lui.
“Oh, chiedo scusa, preferisci che me ne torni al mio posto?” “Forse dovresti. O forse, potresti dimostrarmi in qualche modo se sei davvero un duro come sembri.” Detto questo, la consolatrice afferrò Cole sotto la cintura, e annuì soddisfatta, scatenando altre risate. “Lo farò, stanne pur certa!” Tra gli applausi dei presenti, Cole lanciò un sacchetto di denaro all’oste, e poi disse alla donna: “Avanti, andiamo.” “Fammi strada.” Mentre uscivano salutati da risate e acclamazioni, la consolatrice tirò una sonora patta sul sedere di Cole.
Una volta fuori, l’uomo inspirò una boccata d’aria fresca. Durante il viaggio da poco concluso, aveva attraversato zone spesso poco accoglienti, quindi in quel momento il clima temperato della capitale gli sembrava particolarmente piacevole. Le vie, piuttosto strette, erano poco affollate. A quell’ora, la maggior parte degli abitanti del quartiere erano a bere nelle varie osterie. Come in molte altre zone periferiche, le strade erano scarsamente illuminate. Solo alcuni sparuti lampioni a gas sfidavano le tenebre altrimenti assolute. Sorreggendo la consolatrice che avanzava barcollando, Cole si avviò verso il suo alloggio, una piccola stanza che utilizzava quando si trovava a Cruserobia. La brezza fresca della sera l’aveva risvegliato dal senso di intorpidimento che si era impadronito di lui senza che se ne accorgesse. Si sentiva stranamente osservato. I suoi sensi, abituati ad avvertire il pericolo, percepivano la presenza di qualcuno che avanzava lentamente alle sue spalle.
Cole agì in maniera fulminea. Si voltò di scatto, estraendo allo stesso tempo il pesante coltello da combattimento che portava sempre con sé. La consolatrice lanciò un urlo. Il misterioso pedinatore, nonostante la sorpresa, balzò prontamente all’indietro, mettendosi fuori dalla portata di Cole, ma in un punto piuttosto illuminato. L’uomo poté così vedere che chi lo seguiva era una ragazza che non doveva avere ancora vent’anni, minuta, con la pelle scura, i capelli neri e due brillanti occhi verdi, in quel momento carichi di sfida. Guardandola meglio, Cole notò che il naso della ragazza presentava una vistosa gobba, e capì che doveva esserselo rotto.
“Che cosa vuoi? Vuoi questi?” chiese minaccioso l’uomo, soppesando il secondo sacchetto di denaro appeso alla sua cintura. La ragazza lo scrutò ancora per qualche istante, poi con un verso di rabbia si voltò e corse via. Riprendendo fiato, Cole si voltò verso la consolatrice e disse: “Mi dispiace. Non volevo essere così brusco, ma era necessario.” La donna, anche se ancora vistosamente agitata rispose: “Tranquillo. Non è nulla di nuovo.” “Lo immagino. Beh, spero che tu abbia ancora voglia di venire con me.” Con un pallido sorriso sul volto, la consolatrice acconsentì: “Certo. Andiamo.” Cole sorrise a sua volta: “D’accordo. Non te ne pentirai.” I due proseguirono, allontanandosi dal lampione, e scomparvero nell’ombra.

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Capitolo 4
*** Capitolo Terzo ***


Capitolo Terzo
 
L’ufficio sobrio e funzionale di Vastjan Vermann, sommo sacerdote e massima figura di potere di tutta la Serotheia, rimaneva privo di attività solo per tre o quattro delle ore notturne. Per il resto del tempo, il suo proprietario lavorava spesso senza pause, talvolta dimenticandosi di mangiare.
Quella sera, nonostante l’ora tarda, Vermann era ancora seduto alla sua scrivania, con gli occhi chiusi, massaggiandosi le tempie con le grandi mani mentre rifletteva. Aveva un continente intero da governare, certo con l’aiuto degli undici elettori, ma gran parte delle sue forze veniva spesso divorata dai problemi riguardanti la capitale. La città stava attraversando un periodo di notevole sviluppo edilizio, ma Vermann non era soddisfatto, perché tale sviluppo non si traduceva in un corrispondente progresso della popolazione. Le aree periferiche erano sempre meno sicure, sane e vivibili man mano che ci si allontanava dal centro.
D’altra parte, la continua affluenza di nuovi cittadini dalle campagne rendeva necessaria l’edificazione di nuovi quartieri. Il sommo sacerdote era stato in molti casi costretto a concedere gli appalti a imprenditori privi di scrupoli, che tuttavia garantivano sostanziosi finanziamenti allo Stato sotto forma di donazioni, piuttosto che a piccoli costruttori, più onesti ma sicuramente meno dotati economicamente. Vermann sapeva di essersi infilato in un circolo vizioso, ma non riusciva ad intravedere una soluzione che gli permettesse di spezzarlo.
A novant’anni dal colpo di mano che aveva ridimensionato fortemente la posizione degli aristocratici nel sistema del governo del continente, sembrava che si fosse creato un nuovo avversario per la casta sacerdotale, l’alta borghesia. Il sommo sacerdote era consapevole del fatto che durante il governo suo e dei suoi due predecessori ci fossero stati dei progressi non indifferenti, ma proprio questo lo portava a temere maggiormente che una nuova regressione vanificasse tutti i loro sforzi. Sempre più spesso, ormai, si sorprendeva a domandarsi se fosse ancora lui l’uomo più adatto a governare il continente. Aveva quasi settant’anni, non c’era più traccia dell’energia che l’aveva accompagnato nel corso della giovinezza e della maturità. Forse era inutile che continuasse a mentire a se stesso, stordendosi con il lavoro per non pensare a questioni più spinose. Certo, tradizionalmente chi deteneva la carica di sommo sacerdote la manteneva per tutta la vita, ma con l’aumento della longevità in gran parte della popolazione, poteva essere il momento di confrontarsi con il problema di un governante troppo anziano per continuare ad espletare le sue incombenze.
Quando Vermann era colto da simili pensieri, gli tornava sempre in mente l’esempio di Raul Toisson, l’uomo che novant’anni prima aveva restituito alla casta sacerdotale il potere effettivo. Toisson era morto a settantatre anni, colpito da un infarto, ma fino a quel momento non aveva dato alcun segno di stanchezza, aveva continuato a lavorare alacremente, con le stesse energie e la lucidità che aveva avuto in gioventù. Per Vermann, Toisson era una leggenda, ma anche un esempio da seguire. Ciò non eliminava tuttavia la paura di non essere alla sua altezza.
D’un tratto, il sommo sacerdote fu sottratto alle sue cupe riflessioni da qualcuno che bussava alla porta. Aprì i gelidi occhi azzurri, d’improvviso carichi di circospezione, e domandò: “Chi è?”
Da fuori, una voce nota rispose: “Sono io, Doug.” Vermann si distese e disse: “Entra pure.”
Douglas Locknoy fece il suo ingresso nella stanza. Era più giovane dell’altro di un paio d’anni, ed era il suo consigliere nell’ambito della scienza, della cultura e del progresso. Non molto alto, aveva folti capelli bianchi e una barba di media lunghezza, che incorniciavano i docili occhi castani. Locknoy avanzò e appoggiò le mani alla scrivania di Vermann, dicendo con tono gentile ma deciso: “Vast, non puoi continuare così. Devi tornare a casa, Vivréne ti starà aspettando.” “Andrò tra poco, Doug, ma adesso siediti qui con me per qualche minuto.” Locknoy sospirò, ma poi ubbidì occupando il posto di fronte a Vermann.
I due erano in realtà amici di vecchia data. Per un lungo periodo avevano perso i contatti, ma quando più di trent’anni prima Vermann era diventato sommo sacerdote, aveva reclutato l’amico come consigliere. Locknoy disponeva di vaste conoscenze in varie branche della scienza, chimica, fisica, biologia, e inoltre condivideva l’ideale di Vermann secondo il quale il progresso tecnologico e soprattutto quello umano dovessero essere le linee guida da seguire per un buon governo. Per queste ragioni, era apparso fin da subito il candidato più adatto per la carica che ora occupava.
“Allora, di cosa vuoi parlare, Vast?” chiese Locknoy. “Niente in particolare. Il problema più pressante lo conosci già. Non riesco a trovare una soluzione diversa da quella attuale, per quanto possa rimuginarci su, e di sicuro le cose per come stanno adesso non mi soddisfano.” Doug annuì, pensieroso. Poi, con un sorriso mesto replicò: “E pensi che stando qui, a quest’ora, la soluzione ti balzerà in testa come per magia?” “No, ma so già che il problema non mi farebbe dormire, e allora tanto vale che resti qui.” “Non pensi che forse è la stanchezza che ti impedisce di pensare e agire come sei realmente capace di fare? Devi dormire, non ostinarti a fuggire il sonno. Domani, con più lucidità, tornerai sul problema.”
Se un altro avesse osato parlargli così, Vermann si sarebbe infuriato, ma con Doug le cose erano diverse: si conoscevano troppo bene, da troppo tempo perché la loro conversazione fosse limitata da futili ragioni di potere. “Forse hai ragione. Ma davvero tu riesci ad essere così sereno, vedendo che il nostro sogno diventa a poco a poco sempre meno realizzabile? Io auspico un progresso che coinvolga l’intera popolazione, e senza un totale rispetto della giustizia sociale questo non è possibile.” “Stai attraversando un momento di sfiducia, e questo lo capisco. Non è facile stare al tuo posto, così come, anche se in misura minore, non è facile stare al mio. Ma non devi perdere la tua capacità di combattere. Del resto, eravamo già consapevoli, per quanto forse non ce lo fossimo confessato ad alta voce, che non avremmo visto il cambiamento desiderato realizzarsi pienamente nel corso della nostra vita. Eppure, già adesso, possiamo affermare di aver lavorato duramente per raggiungere quello scopo. Abbiamo fatto tutto ciò che era in nostro potere, ed è quello che continueremo a fare finché avremo respiro.”
Le parole di Locknoy furono seguite da alcuni istanti di silenzio. Poi Vermann rispose: “Hai ragione. Grazie Doug, sei sempre di grande aiuto.” “Spero di esserlo stato veramente. Adesso andiamo.” Vermann annuì, e i due si alzarono. Uscirono in fretta dal palazzo di governo. Una volta fuori, Vermann ordinò all’automa guardiano di chiudere i cancelli. Dopodiché, si accomiatò da Locknoy e si avviò verso la sua villa, non lontana, attraversando le ampie vie illuminate. Ora riusciva a vedere le cose in una prospettiva diversa e si sentiva caricato di una nuova energia. A partire dal giorno dopo, tutto sarebbe cambiato.

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Capitolo 5
*** Lenny e Automa ***


Lenny
 
Lenny spalancò gli occhi di colpo. Non comprese subito dove si trovasse. Si sentiva in trappola. Cominciò a respirare affannosamente. Vedeva solo vetro opaco attorno a lui, troppo vicino, opprimente. Era sul punto di mettersi a piangere. Poi, improvvisamente, ricordò.
Suo fratello gli aveva detto di restare nella cabina, che l’avrebbe fatto uscire lui quando fosse stato il momento. Lenny si fidava di suo fratello. A poco a poco, il suo respirò si placò. Doveva aspettare. Clevidon aveva detto così.
Dopo un po’, tuttavia, gli venne in mente che il fratello gli aveva detto anche che la cabina si sarebbe riempita di un fumo colorato. Lenny ricordava di aver visto quel fumo, ma adesso non ce n’era più traccia. E allora perché suo fratello non apriva la cabina? Lenny non lo sapeva, ma si fidava di suo fratello. Decise di indossare nuovamente i suoi vestiti, perché provava vergogna all’idea di farsi vedere da tutti gli amici di suo fratello senza. Poi, dopo aver sospirato, si dispose ad attendere ancora.
A poco a poco sopraggiunse la noia. Non capiva perché il fratello l’avesse lasciato lì. Forse gli voleva fare uno scherzo? Lenny non lo trovava divertente. Voleva bene al fratello, ma a volte lui si comportava male nei suoi confronti. Adesso Lenny era arrabbiato. Immaginava Clevidon, fuori dalla cabina, che rideva di lui con i suoi amici. Decise che ne aveva abbastanza. Allungò la mano e fece scorrere con rabbia la porta. Ma non vide, come si aspettava, il fratello sbellicarsi dalle risate.
Rimase per un attimo stupito. Erano tutti a terra, addormentati in una strana posizione, con le mani intorno al collo. Avevano anche delle espressioni bizzarre, come se giocassero a chi faceva la smorfia più brutta. Lenny si chiese come potessero dormire con gli occhi spalancati e la lingua di fuori. Si accucciò accanto al fratello, il più vicino alla cabina, e provò a scrollarlo per le spalle, chiamando il suo nome. Ma Clevidon non rispondeva, e sembrava stranamente rigido. Provò allora a dargli qualche schiaffo sulle guance, con potenza sempre maggiore, ma nulla sembrava funzionare.
Lenny era molto confuso. Non gli era mai capitato di vedere qualcuno addormentato così profondamente, o in una posizione così curiosa. Lenny sapeva di essere stupido. Suo fratello glielo ripeteva spesso. Decise quindi che forse non riusciva a svegliare Clevidon perché non era abbastanza intelligente. Ma forse, qualcuno in città avrebbe saputo aiutarlo.
Lenny si alzò quindi in piedi, e dopo aver lanciato un’ultima occhiata al fratello, si avviò verso l’uscita.

 
Automa
 
Si muoveva rapidamente, come chi si libera delle catene che lo opprimevano dopo una lunga prigionia. Tuttavia, non stava fuggendo. Aveva una missione da compiere. Conosceva la strada per la capitale, vi si era recato più volte con i suoi vecchi padroni.
Una volta là, avrebbe dato il via ad un processo che attendeva di realizzarsi fin dalla nascita di quel mondo. Camminava in discesa lungo gli stretti sentieri boscosi che conducevano in città. Sapeva di non essere lontano dalla sua destinazione.
D’un tratto, sbucò dalla vegetazione. In lontananza, si cominciavano a scorgere i primi cantieri dei quartieri in costruzione. A distanza ancora maggiore, si intravedevano i binari del treno che portavano a nord. Data la conformazione via via più pianeggiante e meno impervia del terreno, l’automa accelerò ulteriormente il passo. Tra gli edifici in costruzione, vide altri automi come lui, che lavoravano.
Ancora pochi passi. Ancora pochi passi e il processo avrebbe avuto inizio.

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Capitolo 6
*** Più di duemila anni prima (1) ***


Più di duemila anni prima

Bisezio si svegliò di soprassalto. Un forte rumore l’aveva strappato al suo sonno profondo. Ancora stordito, si guardò intorno, cercandone la causa.
Si accorse che l’emanatore di calore a raggi solari accumulati stava fumando, e che la spia che ne comunicava lo stato di accensione lampeggiava in maniera sinistra. Bisezio sospirò. Succedeva spesso con la tecnologia recuperata. Poteva essere riparata, ma alla fine c’era sempre il rischio che tornasse a non funzionare. Suo fratello Aironte aveva un bel da fare a sistemare tutte le apparecchiature che venivano ritrovate nei giri di ricognizione e portate al villaggio, ma nonostante il suo impegno e le sue capacità, gran parte di ciò che gli passava per le mani erano rottami, che difficilmente potevano essere convertiti in qualcosa di più utile.
Non era sempre stato così. Nei primi anni dopo la nascita del villaggio, le città devastate dalla guerra custodivano ancora numerosi reperti tecnologici, per quanto recuperarli fosse più pericoloso a causa della maggiore intensità delle radiazioni. In parte erano stati raccolti, in parte erano andati distrutti. Ormai ne rimanevano pochi. Aironte sarebbe stato tranquillamente in grado di costruire nuove attrezzature e congegni utili nella vita di tutti i giorni, ma a mancargli era la materia prima. Poche delle aree in cui erano presenti risorse erano rimaste illese dalle radiazioni. Purtroppo, la zona in cui sorgeva il villaggio era piuttosto lontana dalla maggior parte delle città distrutte del vecchio mondo, e anche dai punti di raccolta dei materiali più utili. Bisezio e la sua sorella gemella, Camelia, avrebbero voluto che le spedizioni di ricognizione e recupero si spingessero a maggiore distanza da Servictene, ma nella maggior parte dei casi gli altri tre membri del consiglio si erano dimostrati spaventati o comunque poco propensi a questa eventualità.
Bisezio trovava una certa seppur blanda consolazione nella consapevolezza che il suo villaggio fosse l’unico in cui si era mantenuto l’utilizzo della tecnologia, prima grazie a suo padre Empeictenio e ora grazie a lui, Camelia e Aironte. Nel resto del continente, almeno secondo le sue informazioni, si era diffusa una mentalità di estrema diffidenza nei confronti di ogni tipo di attrezzatura prebellica. I superstiti della guerra e i loro discendenti erano giunti a considerare la tecnologia l’unica causa della loro rovina. Ma a Servictene, grazie all’influenza di Empeictenio, che prima della guerra era un eminente scienziato, si era approdati ad una concezione differente. Non si poteva individuare una causa diversa dalla stupidità umana per la difficile situazione in cui versavano ora gli abitanti di tutto il continente, e la tecnologia non ne era stata che lo strumento. Il fatto che proprio il suo villaggio si distinguesse dagli altri sotto quell’aspetto, in maniera tanto radicale, faceva sentire Bisezio speciale, in qualche modo destinato a qualcosa di grande. Ancora non sapeva come questa grandezza si sarebbe manifestata, ma era certo che quando fosse stato il momento, il destino, o qualche altra forza dell’Universo, l’avrebbero condotto sulla strada giusta.
Con una sola persona Bisezio era disposto a condividere quella strada: sua sorella Camelia. Per molti versi, i due gemelli erano una cosa sola, si completavano a vicenda. Animati dalla stessa forza di volontà, in cammino verso lo stesso sogno. Bisezio sapeva di aver bisogno di lei, come lei sapeva di aver bisogno di lui. In chiunque altro, entrambi non vedevano nulla di diverso da uno strumento per realizzare i loro propositi. A trentacinque anni, i due erano i membri più giovani del consiglio del villaggio. Avevano raggiunto la massima carica a cui potessero aspirare, all’interno del microcosmo di Servictene. Ma naturalmente, loro volevano molto di più.
Bisezio decise di alzarsi. In posizione eretta, arrivava quasi a toccare il soffitto della piccola casupola. Era massiccio e muscoloso, con un imponente torace irsuto. I capelli ricci erano lunghi fino alle spalle, mentre la lunga barba nera gli copriva metà del viso. Gli occhi erano di un verde molto intenso. Nel complesso, la sua figura aveva qualcosa di tremendo e di incredibile al tempo stesso. Bisezio sapeva incutere timore e suscitare rispetto alla sola vista. Ma purtroppo, l’emanatore di calore non poteva vederlo, e si ostinava a non funzionare. Aveva smesso di fumare, e la spia si era definitivamente spenta.
Con un verso stizzito, l’uomo decise che avrebbe portato la macchina a suo fratello perché provasse a ripararla. Fuori, il sole era già alto. Solitamente, Bisezio si alzava di buon ora, ma il giorno prima si era celebrata l’unione di due giovani abitanti del villaggio, e i festeggiamenti si erano protratti fino a tarda notte. Avrebbe preferito dormire, ma simili avvenimenti erano sempre un’ottima occasione per conoscere più approfonditamente alcuni abitanti di Servictene, e quindi scoprire eventualmente come accattivarsi le loro simpatie. In mattine come quella, Bisezio si concedeva qualche ora di sonno in più, ed era felice di non essere costretto ad alzarsi presto come i pastori e gli agricoltori del villaggio.
Dopo essersi lavato e vestito rapidamente, mentre era in procinto di uscire per incontrare gli altri membri del consiglio, qualcuno bussò alla porta. Due colpi rapidi e uno più distanziato. Si trattava senza dubbio di sua sorella Camelia. Bisezio aprì, e la sorella fece il suo ingresso dicendo con la sua voce lieve ma calda: “Buongiorno, fratello.”
I due si assomigliavano molto, ma Camelia, benché dotata di un fisico tonico, era formosa e attraente. I suoi boccoli neri scendevano sinuosi fino a metà della schiena. Molti degli uomini del villaggio la desideravano, ma lei si concedeva raramente. “Ti saluto, sorella. Pensavo di trovarti già insieme agli altri.”
“Ero con loro infatti, ma siccome tardavi sono venuta a chiamarti. Pare che sia successo qualcosa di interessante.” Bisezio aggrottò le sopracciglia: “Di che si tratta?” “Non ho potuto capirlo con esattezza, ma il giovane Irtorio, sai, il pastore, ha fatto un incontro diciamo... singolare, mentre pascolava le sue pecore.” “Che tipo di incontro?” “Con alcune strane creature. Ma lascia che sia lui stesso a raccontarcelo con più precisione.” Bisezio annuì: “D’accordo. Andiamo.”
I due uscirono insieme dalla casupola, e si avviarono verso la piazza principale di Servictene. Il villaggio era composto da poche, povere case, la maggior parte ricoperte di pannelli solari. Contava poco più di cento abitanti. Tra le abitazioni sorgevano vari orti e serre, fonte di sostentamento per buona parte della popolazione. La piazza principale era una delle poche parti del centro abitato ad essere lastricata in pietra.
Gli altri tre membri del consiglio li attendevano insieme al pastore Irtorio, in visibile stato di agitazione. Il membro più anziano del consiglio, Videlibio, apostrofò Bisezio con la sua voce secca e roca: “Questo villaggio potrebbe bruciare e non te accorgeresti! Sei in ritardo!” Gelido, Bisezio replicò: “Allora, forse è meglio che non perdiamo altro tempo, non credi?”
I due si scambiarono sguardi carichi di veleno, ma evitarono di proseguire. I rapporti tra loro erano tesi, soprattutto a causa della diversità di vedute riguardo il problema del recupero della tecnologia. Videlibio era uno dei pochi, ultimi sostenitori della corrente antitecnologica. Coetaneo di Empeictenio, non si era lasciato influenzare dalle sue idee, e rimaneva arroccato sulle proprie posizioni.
Intervenne Camelia: “Su, placate gli animi. Irtorio, per favore, puoi raccontare la tua storia per intero, ora che siamo tutti presenti?” Ancora agitato, il pastore rispose: “Sì, mia signora.” Fece ancora una pausa prima di cominciare, come a voler focalizzare un avvenimento a cui ancora gli riusciva difficile credere: “Ebbene, ero a pascolare le mie capre in una radura non lontana, a nord. Tutto era tranquillo, non c’era nulla di diverso rispetto alle altre mattine. Ma poi, all’improvviso...” Il giovane deglutì un grosso bolo di saliva, come se facesse fatica a proseguire, poi parve riprendersi: “Insomma, dal bosco... Sono uscite delle creature. Ma non assomigliavano a nessun animale che avessi mai visto. Erano... Trasparenti. Come forma, assomigliavano a esseri umani, ma alti il doppio, e con gli arti più lunghi. Non avevano occhi, né un viso, nulla, era come se fossero fatti di vetro.”
Seguì un silenzio. Impaziente, un altro consigliere, Bruezio, uomo forte, sicuro di sé, ma non particolarmente intelligente, chiese: “E poi? Cosa è successo poi?” Irtorio proseguì, concitato: “Mi sono spaventato. Le creature erano enormi, ed erano almeno cinque. Pensavo di essere spacciato. E tuttavia, ho seguito le vostre indicazioni. Per prima cosa, ho provato a colpirle con la mia sparafiocina. Del resto, nel caso di altri animali feroci, aveva sempre funzionato alla perfezione. Ma l’arpione... E’ rimbalzato sulla creatura, senza nemmeno scalfirla.” L’altro consigliere, Agmila, una donna di più di cinquant’anni chiese: “E allora, che cosa hai fatto?” “Beh, ve l’ho detto, ero convinto di essere finito. Spinto dalla disperazione, ho estratto la mia arma a radiazioni.”
Ci fu un’altra pausa. Molti pastori venivano dotati di piccole armi a radiazioni recuperate, con l’ordine tassativo di utilizzarle solo in casi di emergenza. Videlibio pareva sul punto di dire qualcosa, forse con l’intenzione di redarguire il ragazzo, quando Bisezio intervenne, parlando a bassa voce, con tono insolitamente dolce: “E l’hai usata?”
Dopo una breve esitazione, Irtorio rispose: “Sì, mio signore. I due gemelli annuirono approvando il gesto, mentre Videlibio scuoteva la testa senza tuttavia dire nulla. Bruezio appariva confuso, Agmila aveva un’espressione indecifrabile. Camelia disse: “E, lo deduco dal fatto che tu sia qui, l’arma a radiazioni ha funzionato.” Irtorio annuì: “Sì. Nel... torace, se così si può dire, della creatura, si è aperto un bel buco rotondo. Ma la cosa più assurda, è che la creatura non è morta. Né ha perso sangue o qualcosa di simile. E’ rimasta ferma per un attimo, e così anche tutte le altre, poi si sono girate tutte insieme e sono tornati nel bosco. In qualche modo, correvano, e anche velocemente.”
Tutti compresero che il racconto era concluso. Il pastore sembrava adesso più rilassato, come se si fosse tolto un grosso peso. Camelia parlò di nuovo: “D’accordo. Grazie, Irtorio, sei stato molto utile. Puoi andare.” Accarezzò la guancia al ragazzo, che arrossì e si congedò rapidamente, incespicando mentre si allontanava.
I cinque consiglieri rimasero soli. Il primo a prendere la parola fu Bisezio: “Io dico che dobbiamo dare la caccia a queste creature.” Videlibio irritato replicò: “Stolto! Hai notato, che il ragazzo non ha mai fatto cenno al fatto che le creature abbiano cercato di attaccarlo? Si è solo fatto prendere dal panico, e ha sparato senza alcun motivo!” Camelia intervenne in aiuto del fratello: “Come puoi dirlo? Se il ragazzo ha ritenuto di essere in pericolo, avrà avuto dei buoni motivi. Queste creature sono sicuramente pericolose, veloci e resistenti. Non possiamo permettere che altri dei nostri pastori ne vengano attaccati.” Videlibio sbuffò senza dire nulla.
Fu Agmila a parlare: “Per quale motivo si sarebbero mostrate solo adesso? E’ curioso che nessuno le abbia mai notate.” Bruezio, che era esperto in un unico ambito, quello venatorio, rispose: “Le ragioni possono essere molte. Ma la mia ipotesi è che fossero in fuga da un altro territorio, dove venivano cacciate senza pietà.” Bisezio grugnì, scuotendo la testa: “Gli altri villaggi non usano le armi a radiazioni, e queste creature mi danno l’impressione di non potere essere danneggiate in molti altri modi, quindi lo escluderei.” Bruezio allargò le braccia, risentito.
Agmila parlò di nuovo: “In ogni caso, dobbiamo stabilire una linea di comportamento a cui attenerci. Io propongo di aspettare di avere nuove informazioni sulle creature. Del resto, non sappiamo nemmeno se siano solo cinque, o piuttosto decine. Quando ne sapremo di più, decideremo se agire o meno.” Bisezio replicò: “Io invece propongo di avvertire gli abitanti dei villaggi vicini di questa minaccia, e spiegare loro che hanno bisogno di noi per difendersi. Questo ci permetterebbe anche di espandere la nostra conoscenza del territorio, e eventualmente di accedere a città in rovina ancora inesplorate per noi. Scommetto che là fuori c’è ancora tecnologia da recuperare in abbondanza.” Videlibio parve infiammarsi: “Con te si finisce sempre per parlare di questo!” Bisezio rispose, cercando di mantenere la calma: “Le proposte sono queste, ora dobbiamo votare.”
Agmila annuì: “D’accordo. Quanti sono per la prima proposta?” Lei e Videlibio alzarono le mani immediatamente. Tutti gli occhi si voltarono verso Bruezio. Dopo qualche istante di esitazione, l’uomo alzò la mano. Camelia e Bisezio si guardarono, delusi. Avevano intravisto in quella situazione una potenziale rampa di lancio per realizzare i loro propositi, ma sembrava che per il momento il destino fosse loro avverso. Agmila disse: “Bene, allora è deciso. Attenderemo nuovi sviluppi prima di agire. Possiamo separarci.” Dopodiché, la donna si allontanò. Videlibio la imitò, dopo aver lanciato a Bisezio uno sguardo di provocazione. Bruezio, a disagio, si congedò dai due gemelli, che lo fissavano con gli occhi carichi di accusa.
Rimasti soli, Camelia e il fratello sospirarono. Non avevano bisogno di commentare l’accaduto. Sapevano che le loro menti erano occupate dagli stessi pensieri cupi. Alla fine, Camelia parlò: “Torno a casa. Voglio riflettere un po’ da sola.” Bisezio annuì, e dopo che si furono salutati, i due si separarono.

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Capitolo 7
*** Capitolo Quarto ***


Capitolo Quarto
 
 
Il corpo di Caloxite giaceva in quella che era stata la sua stanza, cosparso dei petali violacei del fiore degli dei. La temperatura della camera era stata notevolmente ridotta, in attesa che fosse pronta una tomba degna di lui. Ci sarebbe voluto del tempo. Tempo per progettare il sepolcro e costruirlo dalle fondamenta, dal momento che nessuno avrebbe mai potuto prevedere che potesse essercene bisogno.
In nessun altro momento Aironte aveva visto Cambìsex tanto affranto. La divinità aveva trasportato il corpo fino alla stanza con le sue stesse braccia, e da ore ormai stava chiusa nella sala del trono, sola. Erano accorsi Encremeo e Pireide, per vedere la salma e trovare così conferma di una verità cui altrimenti non sarebbero stati in grado di prestare fede. Aironte aveva visto lo sconvolgimento nei loro occhi, in quelli dal colore ambiguo, tanto spesso privi di emozione di Encremeo, e in quelli castani, solitamente colmi di serenità di Pireide. Mancava all’appello solamente Eiradna.
Per lei era normale trascorrere intere giornate lontana dalla Luna adamantina. Aironte sapeva che come gli altri sarebbe rimasta colpita dalla morte del fratello. Ma sapeva anche che non avrebbe provato poi molto dispiacere. Perché nemmeno lui ne provava, e probabilmente nemmeno gli altri due dei. Nessuno aveva mai potuto sopportare Caloxite, il viziato, saccente e autoritario Caloxite. Solo Cambìsex provava un dolore autentico per quella perdita, il dolore di un genitore che perde suo figlio. Tuttavia, era naturale che nessuno degli dei potesse rimanere indifferente di fronte a un evento tanto incredibile, che tanto strideva con le loro malriposte certezze. Di certo, questo valeva per Aironte. La morte di Caloxite gli aveva portato un brivido non di paura, non di sconforto, ma di speranza. Dopo più di due millenni, Aironte sperava nuovamente di poter morire.
Aveva inventato e costruito la macchina dell’immortalità per Cambìsex e per nessun altro. Che non fosse utilizzata su di lui, Aironte, era stata la condizione fondamentale perché accettasse di cimentarsi in un’impresa apparentemente tanto folle e priva di sbocchi. Ma nel momento cruciale, quando Aironte si era ritrovato in fin di vita, Cambìsex non aveva permesso che morisse. L’aveva condannato ad un’eterna esistenza in quel corpo piagato a causa dello stato in cui era ridotto quando era stato sottoposto al trattamento. D’altra parte, nel momento in cui la macchina era stata utilizzata su di lui, Aironte non riteneva di essere pronto a morire. E quindi, per quanto odiasse il fratello per ciò che gli aveva fatto, era costretto a riconoscergli la sua gratitudine, e ad agire di conseguenza.
Tuttavia, quel giorno ogni cosa era cambiata. Fino a quel momento, era stato convinto che la sua macchina fosse infallibile, e il suo effetto irreversibile. Convinto che sarebbe giunto a vedere la fine dei tempi, rimanendo in qualche modo ancora vivo. E invece, oltre ogni previsione, scopriva di potersi salvare. Di poter abbandonare quella vita, protrattasi tanto a lungo, in maniera tanto insensata. Il passaggio da essere mortale ad essere immortale aveva segnato Aironte indelebilmente. Aveva guadagnato la vita eterna, non invecchiava più, ogni sua ferita si rimarginava in tempi quasi istantanei. Eppure, aveva perduto i suoi principi, il suo rispetto per se stesso. Non era altro che un’ombra sbiadita di ciò che era stato. La morte, la morte gli era sempre apparsa come l’unica forma di riscatto, l’unica via di fuga da quell’esistenza odiata, indesiderata. Ma una forma di riscatto impraticabile, una via di fuga irraggiungibile.
Fino a quel momento. Aironte non sapeva cosa avesse sottratto l’immortalità a Caloxite. Quindi, non poteva nemmeno sapere che cosa l’avrebbe potuta sottrarre a lui. Tuttavia, finalmente, sapeva di avere una possibilità. Credendo di non averla, per lunghissimo tempo non aveva nemmeno provato a cercarla. Solo ora, si rendeva conto di quanto fosse stato ottuso a riporre una tale fiducia nella sua macchina, da perderla in qualsiasi opportunità di annullarne l’effetto. Non avrebbe commesso nuovamente un errore tanto madornale. Il segnale che gli veniva inviato era palese, concreto, innegabile.
Mentre era immerso in questi pensieri, Aironte sentì un bruciore intorno al polso. Il bracciale che indossava, di sua invenzione, si era illuminato. Tutti gli dei ne portavano uno. Il bracciale era suddiviso in cinque cerchi, ognuno con il nome di uno degli altri dei. Per contattare un dio, bastava toccare il cerchio corrispondente. Il dio chiamato avrebbe sentito il suo bracciale scaldarsi, e visto la sezione con il nome di chi lo chiamava illuminarsi. In quel momento, era il cerchio di Cambìsex ad essere illuminato. Aironte sapeva che gli conveniva muoversi rapidamente per raggiungerlo.
Non era lontano dall’uscita del suo palazzo, e la raggiunse in fretta, per quanto concesso dalla sua andatura zoppicante. Oltrepassato l’imponente cancello, che si era aperto per lasciarlo passare, si diresse immediatamente verso la sfarzosa dimora di Cambìsex, a pochi passi dalla sua. In nessun caso era consigliabile farlo attendere troppo, meno che mai in quella particolare situazione. Aironte non sapeva per quale motivo fosse stato chiamato. Che forse Cambìsex avesse bisogno di lui per sfogare il suo dolore, o la sua rabbia? Non sarebbe stata la prima volta. Nel corso degli oltre due millenni trascorsi insieme, Aironte aveva imparato a fingere di partecipare alle gioie e ai dispiaceri di Cambìsex, anche quando non gliene importava nulla, anche quando riusciva a pensare solo al suo desiderio di morire. Era diventato piuttosto bravo. Sapeva piangere e ridere a comando. Era consapevole del fatto che gli altri dei lo vedessero come una figura patetica, priva di dignità, un misero fantoccio, nonostante le sue conoscenze scientifiche. Almeno la maggior parte di loro. Ma non gli importava, perché era esattamente ciò che pensava anche lui di se stesso, cosa questa che non faceva che rendere ancora più avvilente la sua esistenza.
Ora tuttavia c’era una nuova forza che lo spingeva avanti, gli dava le energie per continuare a resistere e a fingere. Non più la consapevolezza del fatto che abbattersi sarebbe stato inutile e non l’avrebbe sottratto a quella vita vuota e disperata, ma la speranza di potervi effettivamente sfuggire. Aironte giunse infine nella sala del trono. Cambìsex era in piedi, di spalle rispetto all’ingresso. Anche solo da quella vista, era possibile percepire la vibrante energia, la prorompente potenza di quel corpo. Nonostante l’odio che provava, Aironte non poteva che esserne ammirato.
Quando sentì le porte aprirsi, Cambìsex si voltò di scatto. Il suo volto era una maschera di furore. Subito gridò: “Dov’è Eiradna? Dove?”
L’altro, che stava avanzando verso di lui, si arrestò di colpo, spaventato. Poi, con un filo di voce rispose: “N-non lo so. Se hai p-provato a chiamarla con il bracciale, fo-forse non ha risposto perché è danneggiato.”
Aironte era consapevole del fatto che ciò che aveva appena detto non fosse vero. Era praticamente impossibile che i suoi bracciali non funzionassero. Ma sapeva che quando scendeva nel continente, Eiradna aveva l’abitudine di togliere il suo, nonostante il divieto del genitore. Si trattava di un segreto tra di loro, e Aironte non l’avrebbe mai svelato. Lui e Eiradna avevano un legame speciale. Era l’unica, tra i figli di Cambìsex, che non lo disprezzasse, ma che provasse invece un autentico affetto nei suoi confronti.
Tuttavia, la sua risposta pareva non aver placato l’animo dell’altro: “Menzogne! Sappiamo entrambi che questi bracciali non hanno mai dato problemi!” Inghiottendo un groppo di saliva, Aironte rispose: “B-beh, può sempre esserci u-una prima v-volta.”
Cambìsex parve sul punto di avventarsi contro di lui, ma s’interruppe con la mano a mezz’aria. A poco a poco, il furore sul volto della divinità parve allentarsi, lasciando il posto al dolore, solo momentaneamente messo da parte. Dalla bocca uscì un singulto, poi Cambìsex cominciò a piangere disperatamente. Solo a quel punto Aironte decise che poteva essere sicuro avvicinarsi. Appoggiando la mano sulla spalla dell’altro disse: “T-tua figlia a-arriverà, e renderà omaggio a su-suo fratello.”
Cambìsex annuì, senza dire nulla. Lentamente, le lacrime smisero di sgorgare dai suoi occhi. Il dolore si ritirò poco per volta, lasciando infine il volto privo di espressione, svuotato. Si staccò da Aironte e con passi lenti e stanchi, raggiunse il suo trono e vi si abbandonò. Un pesante, immobile silenzio colmò la stanza.
Alla fine Cambìsex, con voce bassa e neutra disse: “Ma naturalmente, non è questo il vero problema. Il problema è che un dio, un dio immortale, è morto.” E a sentire quelle parole, dentro di sé Aironte non poteva evitare di gioire ancora e ancora, mentre si sforzava di mantenere un’espressione impassibile sul volto. “Perciò” proseguì l’altro “è necessario fare luce sulle cause che hanno portato ad una simile disgrazia. Forse dovrei punire te, fratello? Dopotutto, tu hai inventato la macchina, tua è la responsabilità per i suoi malfunzionamenti.”
L’altro fu percorso da un intenso brivido lungo la schiena, ma non replicò. Cambìsex proseguì: “No, dopotutto non potrei mai punirti per questo. Suppongo di doverti piuttosto essere grato, per aver costruito la macchina. Senza, non sarei mai arrivato a questo livello di splendore, non avrei nemmeno potuto immaginarlo. Non mi avevi mai dato garanzia che il funzionamento della macchina fosse perfetto. Certo, forse avresti dovuto controllare, ma a nessuno di noi è venuto in mente di provarci, quindi la tua mancanza è giustificabile.” Aironte tirò un impercettibile sospiro di sollievo.
Tuttavia, Cambìsex non aveva ancora finito: “Di certo, è troppo tardi per salvare Caloxite. Ma nulla ci garantisce che ciò che è successo a lui non si verifichi nuovamente. Perciò, fratello mio, tu ti rimetterai al lavoro e scoprirai che cosa sia andato storto.” A questo punto, Aironte dovette faticare per non scoppiare in una fragorosa risata e mantenere la sua espressione vagamente contrita. Doveva semplicemente fare ciò che aveva già in programma, nulla di diverso. Solo il suo obbiettivo sarebbe stato diverso da quello apparente, ma nessuno avrebbe potuto notarlo.
Cambìsex concluse: “E se nel frattempo qualche altro dio troverà la morte, allora sì che ti riterrò responsabile, e ti punirò doverosamente.”
Con un po’ di fortuna, sarebbe stato proprio lui, Aironte, a morire, e dopodiché, non avrebbe avuto di che temere alcuna punizione. “S-se hai finito, i-io mi avvierei. S-sono ansioso d-di me-mettermi al lavoro.” Cambìsex, che pareva provato dal lungo discorso, fece un pigro cenno con la mano, ma si vedeva che con la mente era già altrove. Aironte annuì, si voltò e uscì dalla sala del trono. Dopo moltissimo tempo, aveva qualcosa in cui sperare, qualcosa che avrebbe potuto dargli gioia.
E non avrebbe lasciato che nessuno glielo portasse via.

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Capitolo 8
*** Capitolo Quinto ***


Capitolo Quinto
 
 
Fuori dalla porta, qualcuno gridava. Cole, ancora stordito, aprì lentamente gli occhi.
A poco a poco, riuscì a distinguere più chiaramente i rumori provenienti dalla strada. Quello era sempre stato un quartiere chiassoso, ma di certo non era comune che risuonasse di grida di terrore o di disperazione. Passi concitati percorrevano la via. Che cosa stava succedendo? Cole, ancora indolenzito, scese dal letto e si rese conto di essere completamente nudo. Ebbe qualche istante di confusione, poi volse lo sguardo verso il letto e ricordò tutto. La consolatrice dormiva ancora, russando pesantemente, sdraiata sulla pancia. Il suo corsetto e la sua gonna colorata erano rimasti a terra. In ogni caso, non c’era tempo per svegliarla, per quanto fosse strano che non l’avesse già fatto il trambusto fuori.
Le grida dall’esterno si facevano sempre più agghiaccianti. Cole indossò alla svelta un paio di pantaloni, una sgualcita camicia bianca e gli stivali, poi afferrò il suo coltello e aprì la porta. Per qualche istante, ebbe modo di visualizzare la situazione. La gente scappava urlando inseguita da qualcosa. Guardando meglio, Cole si rese conto che erano gli automi, i dannatissimi automi, a seminare il panico. Non li aveva mai potuti sopportare, con quel loro ghigno inquietante, ma... Un uomo gigantesco travolse Cole con la forza di un toro, mandandolo a gambe all’aria.
Per un attimo, gli mancò il respiro e gli parve di perdere i sensi. Vedeva le macchine, sfocate, avvicinarsi sempre più, ma era come bloccato a terra... Erano ormai erano a pochi passi da lui, quando fu pervaso da una scarica di adrenalina e scattò in piedi. Si rese conto che cadendo era finito sopra il corpo di una donna di mezza età, sgozzata brutalmente. I canini dell’automa più vicino erano sporchi di sangue.
Cole alzò il suo coltello e dopo aver lanciato un urlo selvaggio lo piantò nel cranio della macchina. Gli istanti successivi furono pieni di confusione. La testa si spaccò in due, liberando per un istante un crepitio di saette azzurrognole che accecarono momentaneamente Cole. Poi, l’automa crollò all’indietro con un tonfo sordo.
Quando i suoi occhi ripresero a vedere, Cole si rese conto che altre tre di quelle macchine infernali si stavano avvicinando a lui, più circospette, dopo aver visto ciò che aveva fatto al loro compagno. Una stringeva tra le mani guantate un grande martello da lavoro. Tutto intorno, la gente continuava a scappare gridando. Ma in quel momento, per Cole esistevano solo lui, la sua arma e i tre automi che gli stavano di fronte. Prese un respiro e poi si lanciò su quello armato, che alzò  prontamente l’impugnatura del martello per proteggersi dal colpo. Il legno si spezzò in due, ma l’attacco fu respinto. Nel frattempo, gli altri due automi avevano aggirato Cole, e lo afferrarono per le braccia. Preso di sorpresa, l’uomo tentò di divincolarsi, ma la presa degli avversari era ferrea. Era abituato a contare sul suo udito per prevenire situazioni di quel genere, ma le macchine parevano non emettere alcun suono.
L’automa che aveva subito il suo attacco lasciò cadere la parte dell’impugnatura del martello che era stata recisa dal coltello, e sollevò il resto sopra la testa con una mano sola, apparentemente senza alcuno sforzo. Cole credette di essere condannato. Prima che l’automa calasse il colpo mortale, tuttavia, gli venne un’idea. Smise di dimenarsi, rilassò i muscoli, chiuse gli occhi. Percepiva la confusione delle macchine. Rilasciarono per un istante la presa sulle sue braccia. Fu sufficiente. Cole svicolò dalla loro presa con uno scatto. L’automa con il martello tentò di colpirlo, ma ottenne solo di sfondare il cranio ad uno dei suoi compagni. Un nuovo ventaglio di fulmini scaturì dalla sua testa, ma questa volta Cole era pronto e si coprì gli occhi.
Poi inferse un duro colpo di taglio sul sottile collo dell’automa armato, recidendolo di netto. Dal busto della macchina scaturì il solito crepitio, ma la retina di Cole iniziava ad abituarsi. Tirò un potente calcio sul torace del terzo avversario, sbilanciandolo, e poi lo finì. Il grido di esultanza che stava per lanciare gli morì in gola.
Gli automi avevano smesso di inseguire la gente, e si erano accalcati intorno a lui. Erano parecchi, non era in grado di capire quanti. Sembravano ben determinati a vendicare i loro quattro compagni. Cole sospirò. Mai avrebbe pensato di morire così. Più di una volta aveva riflettuto sull’eventualità che a porre fine ai suoi giorni fosse uno scontro di qualche tipo, ma di certo non gli era mai passato per la mente che la sua ultima battaglia sarebbe stata contro quelle grottesche, improbabili macchine. Del resto, per quanto istintivamente le avesse sempre detestate, fino a quel momento aveva creduto che fossero innocue. E invece, avanzavano a passi lenti verso di lui, minacciose nonostante il volto inespressivo, alcune con in mano martelli, cazzuole e altri attrezzi da lavoro. Un fugace pensiero attraversò la mente di Cole. Probabilmente, una parte delle macchine proveniva dai cantieri dei quartieri in costruzione, a nord. E da lì, si dirigevano verso il centro. Qual era il loro scopo? Poi l’uomo scrollò il capo. Non era certo il momento di perdere la concentrazione dietro futili ragionamenti. Sapeva di non avere possibilità, ma dal momento che la fuga non pareva una via praticabile, era perlomeno intenzionato a portare con sé il massimo numero possibile di automi. Ci fu ancora un istante di pausa, in cui Cole scrutò i suoi avversari, e loro parvero osservare lui.
Poi, gli furono addosso tutti insieme, con le armi sollevate, e lui cominciò a menare fendenti da ogni parte, mietendo vittime. Ma le macchine erano decisamente troppe. Cole crollò a terra, colpito da una potente martellata sul torace. Giaceva supino, attendendo la fine. Un automa lo sovrastava, pronto a chinarsi e sgozzarlo senza pietà. Ma d’improvviso,  si udì uno scalpiccio di passi in avvicinamento.
Poi, la via cominciò a risuonare dei colpi di fucili e revolver. Voltandosi per un istante, Cole vide un folto gruppo di vigilanti in divisa blu accorrere nella sua direzione, sparando a tutto spiano. Dopo un attimo di sorpresa, gli automi reagirono scagliandosi sui loro nuovi avversari, e fu battaglia.
Cole si alzò di scatto e rientrò nella mischia. Quel giorno, la fortuna pareva essere dalla sua parte. Non era ancora il momento di morire. Schivò di poco il morso letale di un automa, diretto alla sua gola, ma venne comunque ferito ad una spalla. Il sangue cominciò subito a macchiargli la camicia. Furioso per essersi lasciato sorprendere, prese a battersi con foga ancora maggiore. La sua lama divelleva i crani degli avversari, ammaccava i loro toraci metallici e recideva le teste. Si sentiva invincibile. Voltandosi di scatto, piantò il coltello nel petto dell’ennesimo nemico. Ma poi, si accorse di aver commesso un terribile errore.
Perché il corpo in cui la sua lama era affondata non era quello di un automa.
Un ragazzo di nemmeno vent’anni lo fissava dall’altra parte del coltello, con la bocca spalancata e gli occhi strabuzzati, il viso contorto in un’ultima smorfia di sorpresa e dolore. Cole, ammutolito, ritirò la sua arma di scatto, e il ragazzo crollò a terra. Ogni cosa parve fermarsi per un istante. I vigilanti e gli automi, tutto intorno, sospesi con le braccia a mezz’aria nell’atto di lottare gli uni con gli altri. Le urla di battaglia e di dolore. Tutto si congelò, e Cole in un solo istante fu percorso da una violentissima scarica di pensieri ed emozioni. Nel corso della sua vita aveva ucciso molti altri uomini. Ma sempre uomini che avevano cercato a loro volta di fargli del male. Di certo, mai così giovani. Neanche una volta si era fatto problemi a derubare degli innocenti, spesso provandoci anche gusto. Ma uccidere, uccidere era una cosa diversa. Un sentimento mai sperimentato si impadronì di Cole: il pentimento. Non poteva continuare a combattere oltre.
Mentre i vigilanti e gli automi proseguivano nella loro lotta senza esclusione di colpi, si voltò, e cominciò a correre verso il centro. Scappava da ciò che aveva fatto. Forse, se fosse riuscito a mettere tra se stesso e il corpo del ragazzo una distanza sufficiente, quel senso di oppressione che già gli attanagliava la gola e il petto sarebbe svanito. A un certo punto, sfinito, si lasciò cadere in un vicolo che pareva deserto. Si rese conto di avere gli occhi lucidi. Per un attimo si chiese che cosa ci facesse il ragazzo in mezzo alla mischia. Poi, comprese che probabilmente stava cercando di fuggire, approfittando della confusione. E ci sarebbe riuscito, se non fosse stato per lui. Cole sentì che stava per mettersi a piangere.
Poi, un rumore in una strada vicina lo mise in allarme. Subito scattò in piedi e si affacciò all’angolo del vicolo per vedere cosa stesse succedendo. Un uomo di mezza età, disperato, con un sensore di controllo per gli automi fra le mani gridava: “Aiutami, aiutami!”
Era rivolto al suo automa, che sembrava curiosamente mansueto, privo della folle furia omicida che aveva pervaso i suoi simili. Altre tre macchine stavano infatti per raggiungere l’uomo, con il chiaro intento di eliminarlo. Prima che Cole potesse fare qualunque cosa, vide l’automa sano tentare di frapporsi tra il suo proprietario e quanti lo stavano assalendo. Ci fu una breve colluttazione, poi avvenne un fatto misterioso. La proboscide di uno degli automi si sollevò, e i suoi due fori andarono a combaciare perfettamente con i canini dell’altro. Ci fu un rumore di risucchio, poi i due si separarono. Cole vide con orrore la macchina che aveva cercato di proteggere il suo padrone voltarsi e saltargli alla gola, sgozzandolo con un gesto fulmineo.
Si riparò nuovamente dietro il muro. Aveva bisogno di qualche istante per elaborare quanto aveva appena visto. Quello che era lampante, tuttavia, era che gli automi, in qualche modo, si convertissero a vicenda a quella follia. La mente di Cole, totalmente assorbita da quell’inaspettato sviluppo, si era liberata per qualche istante del pensiero del giovane che aveva ucciso.
D’un tratto, udì nuovi rumori provenire dalla strada. Si sporse dal muro, e vide una ragazza che correva, inseguita da un gruppo di automi. Sembrava sul punto di essere intercettata dalle quattro macchine già presenti nella via, ma svicolò agilmente. Mentre si avvicinava, Cole si rese conto che era la ragazza che la sera prima aveva cercato di derubarlo. Correva senza urlare, con un’espressione concentrata sul viso, sfruttando tutta la sua rapidità. Ma si vedeva che era allo stremo delle forze.
Un brivido percorse la schiena di Cole, e gli fu chiaro ciò che doveva fare. Espiazione, quella era l’unica strada. Salvare la vita alla ragazza, per potersi perdonare ciò che aveva fatto. Quando gli automi gli passarono davanti, li travolse emettendo un urlo disperato e furioso insieme, cogliendo i suoi avversari di sorpresa. Rivolto alla ragazza gridò: “Va’, scappa!” Lei lo guardò per un attimo con un’espressione enigmatica, quindi riprese a correre e scomparve dietro l’angolo.
Cole distolse lo sguardo dal punto in cui era sparita e lo scontro ebbe inizio. Due dei nove automi erano stati abbattuti nell’attacco iniziale, ma i rimanenti sette sembravano ben determinati ad abbatterlo. Doveva giocare d’astuzia se voleva sopravvivere. Ma non ebbe molto tempo per pensare. Gli avversari gli furono subito addosso, tutti insieme. Cole evitò alcuni colpi, senza aver modo di controbattere, poi i canini di una delle macchine gli penetrarono nel braccio disarmato. Emise un verso da animale ferito, poi piantò il coltello della nuca riccioluta dell’automa. Il crepitio di saette gli passò vicinissimo al volto, stordendolo. Istintivamente, tentò di battere la ritirata, ma, accecato per qualche istante, incespicò nei suoi piedi e cadde a terra.
Cercò di sollevarsi, ma una delle macchine lo schiacciò a terra mettendogli un piede sul torace. Era finita.
Per quel giorno, aveva tentato fin troppe volte la fortuna, non poteva aspettarsi altri doni.
Chiuse gli occhi, aspettando che i canini gli aprissero la gola. Ma il dolore non arrivò. Udì un tonfo sordo, poi la pressione sul suo petto si allentò. Cole riaprì gli occhi di scatto, in tempo per vedere l’automa che lo aveva tenuto a terra barcollare e sbattere contro un muro. Dopo un attimo, fu chiaro cosa l’avesse colpito: un mattone piovuto dal cielo colpì un'altra delle macchine. Cole si tirò in piedi e guardò verso l’alto. La ragazza che aveva salvato era sul tetto di una delle case che si affacciavano sulla via, e lanciava mattoni e detriti di ogni genere contro gli automi.
L’uomo, approfittando della confusione dei suoi avversari, riuscì ad eliminarli uno dopo l’altro. Poi, senza più fiato, si piegò su se stesso, appoggiando le mani sulle ginocchia. Nel frattempo, sentiva la ragazza che scendeva dal palazzo, aggrappandosi ad ogni sporgenza disponibile. In poco tempo, gli fu di fronte. Cole si risollevò, guardandola negli occhi. Ci fu qualche istante di silenzio, poi la ragazza gli tese la mano: “Sevaje.” L’altro la strinse, rispondendo: “Cole.” Seguì un altro silenzio, poi Cole disse: “Immagino che il nostro piccolo diverbio di ieri sera si possa considerare risolto.” La ragazza annuì, seria: “Naturalmente. Ti sono grata.”
Parlava con uno strano accento, che l’altro non era in grado di classificare. “Anch’io immagino di doverti essere grato.” La ragazza annuì di nuovo, sempre senza cambiare espressione. Poi, senza alcun preavviso esclamò: “Ora devo andare!” E partì di corsa nella direzione da cui era arrivato Cole. Lui rimase sorpreso per un attimo, poi la richiamò: “Aspetta! Dove vai?” La ragazza si fermò bruscamente, e voltandosi gli rispose: “Devo trovare il mio amore. Ci hanno separati stamattina.”
Di fronte a quella risposta, l’altro rimase per un attimo perplesso, poi replicò: “Da quella parte è pieno zeppo di automi.” “Non m’importa.” Cole colmò la distanza che li separava a larghi passi e disse: “Importa a me. Mi seccherebbe parecchio se dopo tutta la fatica che ho fatto tu finissi in qualche pila di cadaveri.” Gli occhi della ragazza lampeggiarono pericolosamente, riempiendosi di sfida: “Non sono affari tuoi. Ci siamo salvati a vicenda una volta, qualunque forma di debito potessimo avere, l’abbiamo pagato. Adesso, ognuno per la sua strada.” Cole scosse la testa. Non riusciva a trovare nulla da dire di fronte a quella testardaggine priva di senno.
Poi, un dubbio odioso gli si insinuò nella mente. Osservò gli abiti della ragazza. Colorati, comodi e larghi. Ne aveva già visti di simili quella mattina. Il ragazzo che aveva ucciso. Doveva essere lui il compagno di Sevaje. Sperò di sbagliarsi con tutto se stesso. Alla fine, mentre la ragazza sembrava sul punto di rimettersi a correre, chiese: “Siete forse gitani?” La ragazza annuì, diffidente: “Che importanza ha adesso?”
Cole non rispose. Cercò di mantenere un’espressione neutra, ma la consapevolezza che la ragazza potesse cercare il ragazzo e trovarlo, ucciso in quel modo, rischiando di morire a sua volta, lo distruggeva. Aveva un solo modo per espiare: salvare la ragazza, anche da se stessa. Non sapeva ancora come avrebbe fatto, ma ci sarebbe riuscito.
Con tono sarcastico, la ragazza chiese: “Posso andare adesso?” Cole ebbe un’idea. Non era nulla di brillante, ma gli pareva di non avere molte alternative: “Non saprei come impedirtelo. Fammi solo la cortesia di indicarmi il tuo campo, così potrò portare la notizia della tua morte agli altri gitani.” Sevaje lo guardò con disprezzò, poi indicò verso est, dicendo: “Da quella parte, non è lontano, appena fuori dalla città. Ma tornerò, e sarò insieme a Clarsico. Di’ loro di aspettarmi, se proprio vuoi.” Cole rispose: “E sia. Spero davvero di rivederti, ragazza, anche se non penso che accadrà.”
Sevaje gli lanciò un’ultima occhiata sprezzante, poi si voltò e fece per ripartire di corsa. Ma Cole, fulmineo, le diede una botta in testa con il manico del coltello. Fu rapido a sorreggerla mentre scivolava a terra. Poi, se la caricò in spalla, gemendo per il dolore delle ferite, che adesso si faceva sentire con tutta la sua intensità. Si diresse nella direzione che gli era stata indicata. Conosceva la zona, sapeva che camminando in quella direzione la città avrebbe presto lasciato il posto a sparuti gruppi di case, e poi alla campagna. Sperava solo di non incontrare altri automi. Ne aveva visti abbastanza quel giorno, da bastare per una vita intera.
Sentiva che quella lunghissima mattinata gli aveva cambiato la vita. Aveva uno scopo, una colpa gravissima per cui redimersi. O non sarebbe mai più stato in grado di vivere in pace. Salvare la ragazza, a tutti i costi. Anche contro la sua stessa volontà. Anche se l’avesse odiato per questo.  
 

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Capitolo 9
*** Capitolo Sesto ***


 
Capitolo Sesto
 
 
Vermann si lasciò cadere sulla sua sedia con un sospiro, chiudendo gli occhi. Dall’ufficio era appena uscito il predicatore che gli aveva fornito il bollettino sulla situazione del trasferimento degli automi nella città vecchia.
Quella mattina, da quando poco meno di due ore prima aveva ricevuto la notizia della follia che sembrava aver colpito le macchine, aveva lavorato incessantemente. Il messaggio, partito dalla periferia, aveva attraversato tutta la città grazie ad una staffetta di predicatori a cavallo, giungendo infine a lui. Era perciò venuto a sapere che gli automi erano diventati violenti e stavano compiendo una strage. Non si conosceva la causa del loro comportamento, ma pareva che le macchine impazzite fossero in grado di convertire gli automi ancora sani attraverso una procedura quasi istantanea.
Vermann non aveva perso tempo. Sapeva che a Cruserobia il numero di macchine era elevatissimo, e sicuramente non c’era una quantità sufficiente di vigilanti per fermarle. Era semplicemente una questione di numeri: la città era persa. Certo, non gli era stato facile ammetterlo. Tutto il suo mondo sembrava essere stato stravolto nel giro di pochissime ore. Ciononostante, c’era ancora la possibilità di salvare una parte della popolazione, agendo rapidamente. E così aveva fatto Vermann. Aveva inviato verso la periferia un buon numero di vigilanti, quasi la metà di quanti erano presenti in città, affinché rallentassero l’avanzata degli automi. Lungo tutti gli sbocchi di Corso Ascensione degli dei, un ampio viale che spezzava in due la città in senso orizzontale, buona parte dei vigilanti rimanenti aveva istituito presidi che dovevano impedire il passaggio alle macchine, quando fossero arrivate.
Vermann sapeva che questi provvedimenti non avrebbero risolto la situazione, ma confidava che gli facessero guadagnare tempo per l’evacuazione. Aveva scelto di trasferire i numerosissimi automi presenti nel centro storico nella città vecchia, probabilmente in quel momento il posto più sicuro di tutta la regione. Essa era separata dalla capitale vera e propria da alcune montagne di difficile superamento, ma raggiungibile attraverso un tunnel sotterraneo. Rispetto a Cruserobia, era scarsamente popolata e quindi disponeva di ampi spazi in cui trasferire le macchine, e gli abitanti dei quartieri più vicini al tunnel. Vermann era convinto che mettere la massima distanza possibile tra gli automi ancora sani e quelli impazziti fosse la scelta migliore, anche se ciò significava dover trovare altre sistemazioni per buona parte della popolazione. Più macchine fossero state convertite, più la situazione sarebbe diventata ingestibile. Altri cittadini erano stati trasferiti nei numerosi templi del centro storico. Al loro interno c’era spazio a sufficienza per almeno centoventimila vite. I templi erano edifici solidi e gli automi avrebbero dovuto faticare se avessero deciso di farvi irruzione. I vigilanti affidati alla loro difesa erano poco numerosi, ma equipaggiati con cariche di dinamite, da far detonare nel caso in cui il numero di macchine nelle vicinanze fosse cresciuto troppo. Il resto della popolazione stava evacuando la città a favore delle campagne. Vermann era consapevole del fatto che questa non fosse una soluzione ottimale, ma sperava di ridurre il numero di vittime grazie alla dispersione dei cittadini su un’area più vasta.
Presi questi provvedimenti, non poteva fare a meno di provare apprensione e incertezza riguardo alla situazione nel resto del continente. Cruserobia era isolata. Era praticamente sicuro che le macchine avessero preso possesso della stazione più periferica della città, e questo implicava l’interruzione delle comunicazioni. Non sapeva da dove fosse giunta quella follia degli automi, ma temeva che potesse espandersi in tutta la Serotheia. Sperava solo che gli undici elettori riuscissero a contenere la situazione come stava cercando di fare lui, ognuno nella propria regione. D’un tratto, qualcuno bussò alla porta, strappando Vermann alle sue considerazioni.
Chiese: “Chi è?” Una voce da fuori rispose: “Il caporale Prumbont e il predicatore Segréne, per servirla.” “Entrate, entrate.”
I due fecero quindi il loro ingresso. A parlare era stato il caporale, un vigilante di più di trent’anni, ligio al suo dovere ma privo di particolari capacità. Indossava la classica uniforme blu con bottoni dorati e aveva un paio di poderosi mustacchi che ben si accordavano con la sua tendenza alla pomposità. Il predicatore invece, appariva meno teso e attaccato alle formalità, con un certo guizzo intelligente negli occhi azzurri. I due erano stati inviati alla fabbrica degli automi di Cruserobia, situata in realtà poco fuori dalla città, affinché cercassero informazioni su ciò che stava accadendo alle macchine.
Vermann disse: “Avanti, ditemi cosa avete scoperto.” Prumbont sembrava sul punto di rispondere ma Segréne lo precedette: “Nulla, mio signore. Abbiamo trovato la fabbrica chiusa, come temevate.” Il sommo sacerdote sospirò. Aveva sperato di scoprire qualcosa di più sulle ragioni del comportamento degli automi, ma sembrava che su quel fronte tutto fosse inutile. La sua prima mossa era stata inviare un predicatore alla villa dell’amministratore delegato delle Industrie Keller, la società che produceva le macchine, che abitava vicino al palazzo di governo. Ma pareva che l’amministratore si fosse dileguato fin dalle prime ore della mattinata. Allora Vermann aveva mandato Prumbont e Segréne alla fabbrica. Aveva considerato che potesse essere chiusa, data la situazione in città, ma si era illuso di riuscire comunque ad ottenere informazioni in qualche modo. Cercando di non mostrarsi troppo avvilito, il sommo sacerdote disse: “D’accordo. Avete comunque fatto un buon lavoro, andate pure.” Prumbont scattò sull’attenti mentre Segréne si inchinava leggermente, poi i due uscirono dalla stanza, chiudendo la porta.
Vermann, rimasto solo, chiuse gli occhi. Sembrava che le ragioni della follia degli automi fossero destinate a rimanere misteriose. Certo, l’evacuazione era in corso, e forse grazie alla sua reazione fulminea sarebbe riuscito a salvare un buon numero di vite... per il momento. Ma se la minaccia delle macchine avesse continuato a diffondersi, tutti i suoi sforzi sarebbero stati vanificati. Scoprire ciò che stava dietro al comportamento degli automi sarebbe stato un passo importante nella composizione di una strategia che permettesse di eliminarli, ma sembrava che quello fosse un proposito non raggiungibile. Vermann si sentiva svuotato, demotivato. Si sforzava di mostrarsi forte, determinato, come se avesse la situazione in pugno, al fine di donare fiducia ai suoi sottoposti e fornire loro un esempio da seguire. Ma la verità era che non aveva certezze, né energie sufficienti per affrontare quella minaccia.
Aveva bisogno di Locknoy. Con lui sapeva di non dover fingere, di poter mostrare come si sentiva veramente. Si alzò e si affacciò all’ingresso dello studio, chiedendo al vigilante di guardia in fondo al corridoio di andarlo a chiamare. Poi tornò alla sua scrivania, aspettando nervosamente. Dopo qualche minuto, Locknoy entrò, aprendo lentamente la porta. Vermann lo accolse: “Doug, eccoti. Accomodati.”
L’altro avanzò e sedette di fronte al sommo sacerdote, chiedendo: “Di che cosa volevi parlarmi Vast?” “Non lo so esattamente. Sono molto stanco.” Locknoy inarcò un sopracciglio: “Lo immagino, è normale. Siamo nel bel mezzo di una tragedia. Abbiamo lavorato senza interruzioni e siamo tutti sotto pressione. Tuttavia, mi sembra che qualche risultato l’abbiamo ottenuto. Si parla di limitare i danni, di salvare delle vite umane. Non riesci ad essere soddisfatto?” Vermann sospirò: “Non proprio. Nessuno dei miei tentativi di scoprire qualcosa sul comportamento degli automi è andato a buon fine. L’amministratore delegato delle Industrie Keller è scomparso, la fabbrica è chiusa. Non so dove andare a cercare informazioni. E senza conoscere l’origine della follia delle macchine, temo che non sarà possibile trovare una soluzione a lungo termine per il problema.”
Alle sue parole seguì un lungo silenzio. Locknoy si era fatto pensieroso. Alla fine, come se avesse concluso una lunga riflessione disse: “Gli uffici centrali a Woboterdatz. Se non lì, non so dove potremo trovare quello che cerchiamo.”
Woboterdatz era la città dove gli automi erano stati messi sul mercato per la prima volta, quasi novant’anni prima. Lì erano nate le Industrie Keller. Poco fuori dalla città c’era una delle più grandi fabbriche di macchine del continente, seconda solo a quella di Cruserobia. Inoltre Woboterdatz ospitava gli uffici centrali amministrativi della società, in cui si gestiva la coordinazione dell’attività delle fabbriche di automi di tutta la Serotheia. L’amico aveva ragione, quello era il posto in cui era più probabile scoprire qualcosa di utile.
Vermann disse: “Sarebbe una buona idea, non fosse che in questo momento non c’è modo di arrivare fin là.” Woboterdatz si trovava infatti nella parte settentrionale del continente, mentre Cruserobia era a sud. Già in condizioni normali il viaggio per la città sarebbe stato lungo e difficile. In quella situazione, al sommo sacerdote appariva quasi impossibile che qualcuno riuscisse a raggiungerla. Locknoy, con l’ombra di un sorriso sul volto rispose: “Un dirigibile.”
Vermann strabuzzò gli occhi per qualche istante, domandandosi se l’amico non fosse impazzito: “Il porto dei dirigibili è in periferia, e se gli automi non l’hanno ancora occupato, lo faranno tra poco.” “Non dico che sarà un’impresa facile, ma è anche l’unica possibilità che abbiamo.” Seguì un silenzio. Senza rendersene conto il sommo sacerdote si stava stringendo con forza una mano con l’altra, come faceva ogni volta che era agitato. Locknoy lo scrutava dall’altra parte della scrivania, più tranquillo. Alla fine, Vermann cominciò a parlare lentamente, come se stesse esprimendo una riflessione ad alta voce: “Da una parte, un’azione simile mi sembra folle. Dall’altra, come dici, non abbiamo alternative. Penso che saperne di più sia essenziale per capire come risolvere il problema, e di conseguenza anche la missione assume un’importanza vitale. Tuttavia, non so a chi potrebbe essere affidato un compito tanto delicato.” Locknoy stava per rispondere, ma il sommo sacerdote aggiunse: “E non pensare che lasci partire te, Doug. Sei vecchio, quasi quanto me, e sei prezioso, ho bisogno di te qui.”
L’altro scosse la testa, con un mesto sorriso sul volto: “Non hai veramente bisogno di me, Vast. Non qui. Se mi lasci partire, può darsi che riesca a fare qualcosa di veramente utile. Considera l’eventualità che, arrivati a Woboterdatz, sia necessario qualcuno che si intenda di scienza per comprendere la causa della follia degli automi. Sarebbe non poco demotivante se qualcuno dei nostri riuscisse a raggiungere la destinazione ma non disponesse poi dei mezzi per comprendere il problema.” “Ci sono ingegneri, chimici e fisici in tutta la città, perché dovrei ricorrere proprio a te?” Locknoy rispose semplicemente: “Perché sono qui, a portata di mano. Data la situazione, penso che non sia il caso di fare lo schizzinoso.” Vermann stava iniziando ad irritarsi. Soprattutto per la ragionevolezza delle argomentazioni dell’altro. Avrebbe voluto tenere Locknoy vicino a sé, al sicuro. Ma, d’altra parte, si rendeva conto che la sua proposta era valida, dopotutto. Alla fine chiese: “Come pensi di arrivare fino al porto?” Locknoy rispose: “Se me lo concedi, con una scorta di vigilanti, che poi dovrebbero seguirmi anche sul dirigibile, insomma, per tutta la missione.” Vermann annuì, inquieto.
Era un momento cruciale. Se avesse lasciato partire l’amico, avrebbe anche dovuto mettere in conto l’eventualità di non rivederlo mai più. Tuttavia, doveva essere obiettivo. Aveva un intero continente da governare e se non avesse lasciato che Locknoy provasse a compiere quella missione, probabilmente avrebbe sempre vissuto nel rimorso di non aver fatto tutto ciò che era in suo potere per salvare la Serotheia. Infine, a voce bassa, quasi impercettibile disse: “D’accordo. Puoi andare.” L’altro annuì, soddisfatto: “Vedrai, non te ne pentirai.” “Lo spero davvero Doug. Ora cerchiamo di non perdere tempo. Organizziamo questa spedizione.” “Sì. Lascia che torni a casa a prendere qualche bagaglio.” Vermann assentì e l’altro si alzò, congedandosi rapidamente.
Dopo che l’amico fu uscito, passò qualche istante prima che il sommo sacerdote si accorgesse che i suoi occhi si stavano inumidendo. Colto di sorpresa, tentò di analizzare i suoi sentimenti, senza successo. Sentiva un grave senso di oppressione al petto. Non gli capitava da moltissimo tempo di provare un’emozione così intensa. Una costante stanchezza, un logorio persistente, a quelle sensazioni l’avevano abituato gli anni della vecchiaia. Non credeva che uno struggimento simile a quello che l’aveva colto in quel momento potesse manifestarsi ad un’età così avanzata. Si era illuso che appartenesse ad una giovinezza ormai perduta. E poi senza alcun preavviso, ecco che le lacrime giungevano ad insidiare le sue guance grinzose. In collera con se stesso per essersi lasciato andare in quel modo, Vermann si asciugò il viso con un gesto stizzito della mano. Poi si alzò, fece un respiro profondo e si avviò verso l’uscita dell’ufficio. C’era tanto da fare. La spedizione doveva partire il prima possibile. Attraversò i corridoi, scese le scale e si ritrovò nell’atrio del palazzo di governo. Quando lo videro, i vigilanti all’ingresso scattarono sull’attenti. Rivolto ad uno di loro, Vermann disse: “Vai a cercare il capitano Werdian. Falla venire qui, dille che è urgente.” L’uomo assentì vigorosamente e si mise subito in moto a passo spedito.
Il sommo sacerdote si sedette su una delle panche dell’atrio, sperando di non dover attendere a lungo. Avrebbe avuto tutto il tempo per interrogarsi sulla sorte di Locknoy dopo la sua partenza, ma in quel momento non voleva pensarci. Era intenzionato a fare in modo che il momento di debolezza avuto poco prima nell’ufficio costituisse un evento isolato, che mai si sarebbe ripetuto. Infine, dopo alcuni minuti, vide il vigilante fare ritorno, insieme al capitano. Libeth Werdian era una donna di più di trent’anni, non alta, ma con un fisico tonico e asciutto. I capelli erano castani, lunghi fino alle spalle. Indossava la tipica uniforme dei vigilanti, con le varie mostrine indicanti il suo grado. Quando fu di fronte a Vermann si espresse in un rapido ma rispettoso saluto militare. I suoi occhi erano pieni di ammirazione ma allo stesso tempo di fierezza. Il capitano Werdian difficilmente lasciava che le si mettessero i piedi in testa.
Il sommo sacerdote si alzò e la salutò con un sorriso. Anni prima la donna si era distinta in operazioni contro la criminalità organizzata di Cruserobia, al tempo molto più presente e pericolosa, e grazie alle sue capacità aveva fatto una brillante carriera nel corpo dei vigilanti. Vermann aveva avuto modo di conoscerla personalmente e ne era rimasto favorevolmente colpito. Quando Locknoy gli aveva esposto il suo piano, il sommo sacerdote aveva subito pensato che Libeth potesse essere la candidata ideale per guidare quella spedizione.
Vermann esordì: “Capitano Werdian, sono lieto di vederti in questo momento di crisi.” La donna rispose: “Per quale incarico mi avete convocata signore?” Con Vermann, così come con tutti i suoi superiori, Libeth utilizzava un tono molto formale, ma privo di affettazione. “C’è bisogno di te per una missione speciale. Si tratta di accompagnare il consigliere Locknoy a Woboterdatz.” L’espressione del capitano non mutò minimamente, mentre chiedeva: “Qual è l’itinerario stabilito?” Il sommo sacerdote rispose: “A cavallo, con un gruppo selezionato di vigilanti, fino al porto dei dirigibili. Là, prenderete possesso di uno dei mezzi e partirete verso nord.” Libeth annuì: “D’accordo signore. Di quanti vigilanti potremo disporre?” “Temo non più di venti. Non possiamo permetterci di separarci da un maggior numero di uomini in queste condizioni.” “Naturalmente. Se mi è concesso, vorrei avere la possibilità di selezionarli personalmente.” “Permesso accordato. E disporrete di tutto l’equipaggiamento di cui pensate di avere bisogno.” “D’accordo signore.”
Vermann fece un respiro profondo prima di congedare la donna: “La missione è in mano tua, capitano. Spero che la preparazione avvenga in tempi brevi. Ci aggiorneremo davanti al palazzo, quando tutto sarà pronto per la partenza.” Libeth, dopo essersi accommiatata, si avviò verso l’uscita.
Il sommo sacerdote tornò a sedersi sulla panca. Dopo ore di attività tanto intensa, era giunto il momento di aspettare. Aspettare di essere certo che tutti gli ordini che aveva impartito fossero stati eseguiti. Che gli automi fossero tutti trasferiti nella città vecchia, e i cittadini al sicuro nei templi, o lontani da Cruserobia, nelle campagne. Ma soprattutto, non riusciva a non pensarci per quanto ci provasse, che la spedizione per Woboterdatz fosse pronta a partire, e che giungesse il momento in cui avrebbe dovuto salutare Locknoy, l’amico di una vita, forse per non rivederlo mai più. Vermann aveva sempre pensato di essere un uomo paziente. Un calcolatore, in grado di comprendere il momento più adatto per agire, e quello in cui invece era conveniente lasciar passare un po’ di tempo. Tuttavia, in quel frangente, l’ansia lo rodeva.
D’un tratto, si rese conto che per innumerevoli anni, il suo animo non era stato scalfito da alcun evento traumatico. Aveva avuto momenti o periodi difficili, ma soprattutto a causa della sua posizione, dell’impegno nel gestire una carica importante come la sua. Nulla che lo avesse realmente coinvolto a livello personale. E poi, in una sola mattinata, tutte le sue certezze erano crollate. La sua città, e forse tutta la Serotheia, erano sull’orlo del baratro, così come si sentiva lui. La persona che per anni l’aveva sostenuto, impedendogli di precipitare, stava per scomparire. Si sarebbe ritrovato solo, a fronteggiare la sfida più impegnativa della sua vita, che giungeva nel momento in assoluto meno opportuno.
In preda a questi cupi pensieri, Vermann appoggiò i gomiti alle ginocchia, affondò le mani nei capelli bianchi e chiuse gli occhi, sperando ardentemente di riaprirli e scoprire di aver sognato ogni cosa.    

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