Till death has closed these eyes

di Macy McKee
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Till death has closed these eyes
 
I'll never pause again, never stand still,
Till either death hath closed these eyes of mine
Or fortune given me measure of revenge. 

Enrico VI, W. Shakespeare
Capitolo I
 
Vivere qui è come essere in una gabbia.
La nebbia ne nasconde quasi sempre le sbarre, ma a tratti uno sbuffo di vento dà una spinta alle volute, e allora le sbarre non sono più così invisibili. 
È meglio che tu non stia guardando, in quel momento, o rischi di ricordarti che sei prigioniero e che rimarrai in questa gabbia per sempre; se nasci qui, muori qui.
Se sei fortunato.
Se non lo sei, nasci qui e muori su uno schermo.
Per me, non lo vorrei di certo; odio questo posto, e odio ancora di più la gente che vive qui, ma le ho viste, le morti nell’Arena, e non sono mai belle.
Mi appoggio alle sbarre della scala di metallo. Altre sbarre. Dannazione, qui tutto è una prigione. È come se mi avessero arrestato davvero quando ci hanno provato, con la differenza che questa cella non è solo mia. Con la differenza che devo condividere la mia prigione con quelli che avrebbero voluto sbattermi dentro sul serio.
Mi sporgo ancora un po’ oltre la ringhiera, guardando giù: non c’è altro che nebbia e qualche macchia che si muove più in basso, a livello delle strade. Le persone sulla strada sembrano pesci che si agitano sotto la superficie dell’acqua fangosa di uno stagno, viste da qui.
«Stai cercando di buttarti?»
La scala antincendio ondeggia e protesta mentre Oden si trascina fuori dalla finestra e atterra sulla piattaforma.
Mi stringo nelle spalle, ritraendomi dalla ringhiera.
«Non che mi importi, eh, ma poi avrei più probabilità di finire ai Giochi» continua lui, raggiungendomi.
«Bell’amico» gli rispondo, dandogli una spinta sul braccio.
Lui mi rivolge uno sguardo ferito e io alzo gli occhi al cielo.
«Allora, vieni a correre?» mi chiede.
«No, oggi no. Scusa, amico, ma non mi va.»
Oden mi fissa a bocca aperta, come se mi fosse cresciuto un altro braccio.
«Chi sei, e cosa hai fatto del mio amico Rayon?»
Sbuffo.
«Non fare tante scene, Od. Non sono dell’umore per correre.»
«Tu sei sempre dell’umore per correre.»
«Non oggi. Non è il giorno adatto.»
Lui mi guarda di nuovo, e faccio finta di non notare la preoccupazione nei suoi occhi. Lo detesto, quando fa così.
Per non vedere il suo sguardo, mi volto verso la facciata del Blocco e do le spalle al cielo.
«Non sceglieranno te» dice lui con voce solenne, appoggiandomi una mano sulla spalla. Non mi piace il tormento che sento nella sua voce quando tocchiamo questo argomento: questa è la mia battaglia, non la sua.
«Non puoi saperlo.»
«Non sceglieranno te, Ray. Non oserebbero.»
Non rispondo.
Vorrei credergli. Potrei smettere di sentirmi come se qualcuno mi avesse infilato una mano nella pancia e stesse stringendo forte le mie interiora, se gli credessi.
«Ho paura che scelgano Shasha» borbotta Oden, e questo è il mio turno di essere sorpreso.
«Shasha? Non lo faranno mai. Mai» gli rispondo, e ne sono certo. «Non hanno motivi per sceglierla.»
Lui scuote la testa.
«Non mi fido di questa gente. Dopo quello che hanno fatto a te… Non mi fido. Shasha è terrorizzata, ma non per lei. Dice che secondo lei vogliono scegliere Reena.»
Il mio cervello ci mette un po’ ad associare il nome ad una faccia.
Mi viene in mente una ragazza alta, con le spalle larghe di chi ha sempre avuto abbastanza da mangiare o quasi .
«Reena Weber?»
Oden annuisce, serio.
Reena Weber. La conosco di vista, e devo averle parlato un paio di volte. Da quello che mi ricordo, credo di non averla mai vista lontana da Shadan per più di cinque minuti.
Mi viene in mente che prima che Oden diventasse mio amico, ero convinto che anche Reena facesse parte della sua famiglia. Ma a parte il fatto che gira sempre con la sorella del mio amico e il suo gruppo, non so altro, di lei.
«Perché lei?»
«È una scelta logica, se ci pensi. Ma non dirlo a Shasha. Voglio dire, è più in forma della maggior parte delle ragazze e ha diciotto anni. È una delle poche che avrebbe davvero una chance, così chi la vota può sentirsi meno in colpa. E i suoi hanno abbastanza soldi da essere conosciuti, ma non così tanti da essere una minaccia. Nessuno ha paura dei Weber. È chiaro, una delle Baasch o la Deering avrebbero molte più probabilità, ma nessuno oserà mettersi contro le loro famiglie.»
«Quest’edizione fa davvero schifo» borbotto.
«Questi Giochi fanno schifo. Questa vita fa schifo» bofonchia Oden, e ha dannatamente ragione.
«Vai a correre» gli dico, dandogli una pacca sulla spalla. «Ci vediamo dopo.»
«Non abbiamo scelta, eh?» commenta lui.
Poi si arrampica sul davanzale e sparisce all’interno.
*
Sento le gambe pesanti come se avessi corso tutta la mattina, mentre mi trascino fino al Palazzo di Giustizia.
Non voglio vedere questa maledetta Mietitura.
Non voglio sentire il mio nome massacrato dalla voce della presentatrice che non vede l’ora di vedere qualche ragazzino morire in diretta.
Il pensiero mi fa contrarre lo stomaco per la rabbia.
Dannazione, quanto detesto questa gente.
Cerco Oden con lo sguardo, ma non lo trovo. Qualcuno si scosta mentre passo, qualcuno borbotta.
Faccio finta di non accorgermene, mentre raggiungo i miei coetanei. Qualcuno mi fa un cenno, qualcuno mi saluta. La maggior parte finge di non vedermi, e per me va bene così.
Scorgo Oden poco lontano e lo raggiungo.
L’espressione preoccupata è ancora nei suoi occhi, e credo proprio che in questo momento il mio sguardo sia il riflesso del suo.
«Come sta Shadan?» gli chiedo.
Si stringe nelle spalle.
«È spaventata. Piange.»
«Tu pensi che abbia ragione. Che sceglieranno Reena.»
Annuisce.
Mi dispiace per Shadan, ma non posso evitare di pensare che sia meglio che scelgano Reena piuttosto che lei.
Reena non significa nulla per me. Shadan, invece, non mi ha abbandonato dopo l’incendio; e questa sembra essere una qualità rara, da queste parti.
«Se mi scelgono…» comincio, e Oden mi interrompe con una gomitata. «Fammi finire. Se mi scelgono, devi scoprire tu cos’è successo alla fabbrica. Per favore.»
Lui apre la bocca, la chiude. Si morde un labbro, e vedo la collera lampeggiare nei suoi occhi. Per un istante ho paura che stia pensando di fare qualcosa di molto stupido, ma lentamente la furia svanisce dal suo sguardo e lui annuisce.
«Certo.»
Non so cosa sto per dire quando faccio per rispondergli, e non lo saprò mai, perché in quel momento qualcuno sale sul palco e afferra il microfono, facendolo squittire.
La riconosco all’istante: Zenobia Holder è una presenza costante alle nostre Mietiture, ormai. Sono quasi abituato a lei e ai fili di metallo che spuntano dai suoi capelli.
«Signori e Signore, benvenuti!» strilla Zenobia, nel suo ridicolo accento. Si agita dietro il microfono, dondolando sui piedi come se non riuscisse a contenere l’emozione.
Mi fa venire voglia di vomitare.
Mi obbligo a non guardarla. Faccio scorrere lo sguardo dietro di lei, da dove una donna sulla trentina osserva la piazza con un’espressione severa. Riconosco anche lei, naturalmente, anche se in questo momento non riesco ad associarla a un nome: è l’unica vincitrice che il Distretto Otto abbia avuto fino ad ora.
«Oh, benvenuti alla prima Edizione della Memoria! Come sapete, questa è un’occasione speciale.» Va avanti a entusiasmarsi per un po’, e la mia testa si rifiuta di seguirla. Ricomincio a prestare attenzione quando la sento dire: «Come sapete, quest’anno, per ricordare che i ribelli hanno scelto di lasciar morire i propri figli tentando di opporsi a Capitol City, i Tributi non saranno estratti a sorte. Tutti coloro che hanno superato l’età della Mietitura dovranno votare per il loro candidato Tributo preferito.»
Preferito.                                                                             
Stringo i pugni così forte che sento le unghie conficcarsi nel palmo.
Zenobia gesticola verso un lungo tavolo, blaterando qualcosa sul fatto di mettersi in file ordinate per andare a votare, prima di urlare: «Diamo il via alle votazioni!»
La folla si muove lentamente attorno a noi. È come vedere una grossa goccia di resina che ondeggia sul legno e non vuole cadere a terra, ma continua a scivolare.
Oden mi lancia un’occhiata inquieta, e io alzo il mento per rassicurarlo.
Non ho paura, gli dico con gli occhi.
Sto mentendo, naturalmente.
Le votazioni durano ore, eppure a me sembra di avere appena il tempo per chiedermi per chi stiano votando i miei genitori e per concludere che tanto non farà la differenza: potrebbero anche votare per me, cosa cambierebbe?
Poi, Zenobia torna barcollando verso il palco, i fili sulla sua testa che sembrano grondare di sangue sotto la luce rossa del tramonto.
«Signori e Signore, avete aspettato questo momento tutto il pomeriggio. Finalmente, abbiamo i nostri vincitori. Oh, sono lieta di annunciarvi che i Tributi di quest’anno per il Distretto Otto sono…»
Strizza gli occhi, avvicinando la faccia al foglietto, e il cuore mi sobbalza nel petto.
Mi obbligo a ignorare la paura che mi attanaglia lo stomaco, ma è difficile quando è quasi un dolore fisico.
«Reena Weber.»
Un altro sobbalzo. Dannazione, leggi quel nome e basta. Così la facciamo finita.
«E… Rayon Howell.»
Sono io.
Ovviamente, sono io.
Il mondo si contorce un po’ davanti ai miei occhi, e la consapevolezza di cosa significhi il mio nome sulle sue labbra cozza contro la mia mente.
Non scoprirò mai chi mi ha incastrato.
Non scoprirò mai chi ha ucciso quelle persone.
 


Note: Buonsalve, persone (?)
Sono secoli che voglio tentare di scrivere una storia con OC protagonisti, e il concorso a cui questa fanfiction partecipa mi ha dato lo spunto perfetto per fare questo esperimento.
Ovviamente, questo è solo un capitolo di presentazione. Sono introdotti un po’ di misteri, che verranno ampliati meglio nel prossimo capitolo, dove scoprirete dettagli sul motivo per cui Rayon è stato scelto.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo II
 
L’ondata di stordimento che sto aspettando non arriva.
Sono perfettamente lucido mentre avanzo verso il palco e nessuno incrocia il mio sguardo.
Sono contenti che sia capitato a me e non a loro.
«Se lo merita!» grida qualcuno fra la folla.
Mi giro di scatto, ma la voce rimbomba fra le facciate dei palazzi che circondano la piazza, ed è come se ogni finestra, ogni asse, ogni scheggia di intonaco mi stesse urlando che lo merito, che non vedono l’ora di liberarsi di me, che morirò e che non un singolo mattone di questo Distretto sentirà la mia mancanza.
Ed è troppo.
Sento le gambe farsi pesanti, e in quel momento la mia mente si chiude. Non penso mentre Zenobia mia afferra un polso e mi trascina su per i gradini, vacillando sulle scarpe alte.
Non penso mentre scorgo una sagoma immobile sul palco, così rigida da sembrare a malapena un essere vivente.
Non penso mentre le dita fredde di Zenobia lanciano in alto il mio braccio.
«Signori e signore, i Tributi del Distretto Otto. Reena Weber e Rayon Howell!»
La nebbia sembra essersi addensata all’improvviso sulla piazza mentre il mio sguardo precipita sulla folla e non riesco a fermarlo.
Vedo tutto, da qui. Vedo gli adulti accalcati ai lati, ancora vicini ai tavoli a cui si sono appoggiati per scrivere i nostri nomi – il mio nome, mio – e decidere chi è di troppo – io, sempre io.
Vedo gli altri ragazzi, immobili nelle loro sezioni, e posso quasi scorgere il sollievo che si addensa in sbuffi d’aria calda davanti a loro.
Ma li vedo come attraverso una patina, come se qualcuno avesse eretto un muro di vetro fra me e loro.
Le persone sotto di me d’un tratto non hanno volti e occhi. Sono macchie di colore divorate dal grigio che mi preme sugli occhi, e per un momento, uno soltanto, credo che sia paura.
Non lo è.
È rabbia.
Sento un’ondata di calore bruciarmi il petto, il cuore, gli occhi.
Mi avete mandato a morire.
Mi avete mandato al massacro, vorrei urlare, ma la rabbia mi stringe le labbra e non le lascia aprire.
E il silenzio che avvolge la piazza è combustile che alimenta le fiamme.
Li odio.
Li detesto come non ho mai detestato nessuno, neanche Capitol City, neanche mio padre, neanche chi ha appiccato quel dannato incendio un anno fa.
Li detesto e vorrei che morissero, tutti quanti. Ora.
Vorrei che ci fossero i loro figli, di ognuno di loro, su questo schifoso palco.
Alzo la testa, e all’improvviso voglio che mi vedano, che mi guardino tutti.
Spingo più in alto la mia mano e sorrido.
Posso vedere la mia immagine che mi osserva dallo schermo vicino al palco e sogghigna verso di me.
E qualcuno comincia ad applaudire.
«Il futuro vincitore del Distretto Otto!» urla qualcuno, e non ho bisogno di vedere le telecamere che corrono verso di lui e proiettano la sua faccia sullo schermo per riconoscere la voce di Oden.
Non mi aspetto che qualcun altro si unisca al suo applauso, ma accade. È un applauso sommesso, che non riempie la piazza e l’aria, ma nasce.
Zenobia esclama un oh entusiasta e mi spinge verso Reena, sempre immobile.
Lei non alza gli occhi mentre ci stringiamo la mano, e non mi guarda nemmeno mentre l’applauso muore sulle mani della folla e la nostra accompagnatrice ci spinge nel Palazzo di Giustizia per i saluti.
Oden è il primo a entrare. Il Pacificatore non ha ancora chiuso la porta alle sue spalle quando lui prorompe in un «che stronzi» indignato. Riesce a strapparmi una risata, ma suona più lugubre di quanto intendessi.
Non rispondo quando lui inveisce contro Capitol City e contro il Distretto Otto, perché so che se comincerò a farmi travolgere dalla rabbia, non riuscirò a fermarmi.
Ho a malapena di tempo di fargli promettere che continuerà a indagare sull’incendio e che si prenderà cura di sua sorella, poi il Pacificatore torna e lo caccia.
«Vinci» mi dice, mentre la porta si chiude.
Sono quasi sorpreso quando si riapre per lasciare entrare mia madre.
«Tuo padre non è potuto venire» dice, fermandosi sulla soglia.
Mi stringo nelle spalle. Che differenza fa che venga a salutarmi o no?
«Mi ha detto di dirti di tornare a casa» prosegue mia madre, e mentre la sua voce si spezza lei sembra così trasparente, così insignificante, che provo l’impulso di avvicinarmi a lei e abbracciarla; non lo faccio.
Annuisco.
Ovvio. Così porto a casa i soldi della vincita, aggiungo mentalmente.
«Mi dispiace» mormora mia madre, così piano che per un momento scambio le sue parole per un singhiozzo.
Scuoto la testa.
«Non è colpa tua.»
Distolgo lo sguardo mentre mi sorride, per non vedere le lacrime che le gonfiano gli occhi.
Mentre torna alla porta ed esce, mi sembra di sentirla sussurrare: «Anch’io voglio che torni.»
Mi sembra che sia appena andata via quando Zenobia si presenta alla porta, ridendo e ondeggiando, e mi annuncia che il treno ci aspetta.
Reena è accanto a lei, e l’unica cosa che riesco a vedere del suo viso sono le guance pallide e la fronte.
Dietro di loro c’è la nostra Mentore. Mentre seguo il gruppo fino al treno, lei mi rivolge un cenno rapido e si presenta come Thanee Baxter.
*
Salire sul treno è surreale: sono circondato da persone, ma è come se ognuno di noi fosse in un universo a cui nessun altro ha accesso.
Zenobia parla e ride da sola, e comincio a credere che si sia accorta che nessuno la sta ascoltando e che non le importi.
Reena non apre bocca quando io sono nei paraggi, e non ho ancora deciso se lei sappia chi sono o no.
L’unica cosa a cui io riesco a pensare è che sto andando agli Hunger Games, a morire, e che non mi farò ammazzare.
Tornerò e troverò chi mi ha incastrato, perché se quello non fosse successo, io ora non sarei qui.
Lo troverò e gliela farò pagare, a qualunque costo.
Il pensiero striscia nella mia mente dal momento in cui salgo sul treno e risucchia tutto il resto. Non mi accorgo di nient’altro, se non dell’ordine che la mia mente mi sbraita: «Sopravvivi.»
E ho tutta l’intenzione di assecondarlo.
Non mi preoccupo nemmeno di andare nella mia stanza. Mi lascio cadere su un divanetto e mi rendo conto di essere esausto.
Zenobia, Thanee e Reena mi raggiungono dopo qualche ora. Zenobia accende la televisione e commenta ogni singolo Tributo che viene mostrato, fino a quando Thanee le sibila di stare zitta.
Da quel momento, decido che la nostra Mentore non è così male.
Faccio caso a pochi di loro, in realtà.
Mi rimane impressa una ragazza che si chiama Feather, dell’Uno, perché il suo nome è davvero stupido.
La femmina del Due è più muscolosa di qualunque ragazza io abbia mai visto all’Otto, e anche della maggior parte dei ragazzi del mio Distretto. Cammina verso il palco come se avesse già vinto, ma la sua espressione è perfettamente a metà fra arroganza e furbizia. Mi annoto mentalmente di tenerla d’occhio.
Il ragazzo del Tre spinge via la mano tesa della sua compagna di Distretto e le lancia un’occhiata crudele. Lei deve avere poco più di tredici anni.
Il ragazzo del Sei è alto, ma ha lo sguardo spento di chi non ha ancora realizzato cosa gli stia succedendo.
I due Tributi del Dodici sembrano furiosi, ma sono così minuti che potrei buttare a terra entrambi con una mano. Decido di non preoccuparmi di loro.
Appena le repliche delle Mietiture finiscono, Zenobia ricomincia a chiacchierare. Thanee si alza di scatto e sparisce oltre la porta, borbottando.
Qualche minuto dopo, la nostra accompagnatrice e Reena la seguono.
Io rimango fermo fino a quando anche pensare diventa troppo faticoso.
Guardo una vecchia replica dei Giochi, a malapena consapevole di quello che accade sullo schermo.
Dopo un po’, sento qualcuno avvicinarsi e vedo un’ombra muoversi sul pavimento.
Potrebbe essere chiunque, ma per qualche motivo so che si tratta di Reena ancora prima di vederla.
Lei si siede sul divanetto, il più lontano possibile da me. Rimane in silenzio così a lungo che decido di andarmene, ma quando sto per alzarmi lei solleva lo sguardo verso di me.
«Sei quello dell’incendio» dice lei, e noto che parla lentamente, come se soppesasse ogni parola.
Non riesco a decidere se sia una domanda oppure no, e non rispondo.
«Sei stato tu?» aggiunge lei, e mi volto di scatto a guardarla.
«No» sbotto, e mi sorprendo di quanto la mia voce suoni simile a un ringhio. «No» ripeto, più calmo.
«Cos’è successo?»
«Non mi va di parlarne.»
Mi alzo, voltandole le spalle. È proprio l’ultima cosa di cui voglio parlare, in questo momento.
«Per favore. Almeno uno di noi non tornerà a casa. Voglio saperlo. C’erano anche i miei genitori, là dentro.»
Mi lascio cadere di nuovo sul divano.
I suoi genitori. Non lo sapevo.
Ma, dopotutto, c’erano i genitori di molte persone, là dentro.
«Non vorrei deluderti, ma non so molto. Anche se nessuno ci crede, quella notte non ero alla fabbrica. Tu cosa sai?»
Abbassa lo sguardo per un lungo momento, e qualcosa si agita nei suoi occhi. Come se il ricordo fosse rimasto incatenato fra i suoi pensieri a lungo, troppo doloroso per rimanere in superficie, e stesse lottando per liberarsi.
«So che qualcuno ha dato fuoco alla fabbrica dove lavoravano i miei genitori. E che tuo padre era il responsabile della fabbrica. E che tutti pensano che tu abbia appiccato l’incendio, perché l’avevi già fatto.»
Alzo le spalle.
«Allora sai quanto me.»
«Non sai nient’altro?» La sua voce sembra quasi una supplica, e per un momento mi dispiace per lei.
«So che non sono stato io. Ma non fa differenza, no? Mi hanno mandato qui perché vogliono liberarsi di chi ha ammazzato quella gente, e guarda un po’, non sono stato io. Ma a loro non importa niente. Gli basta far fuori qualcuno.»
«Qualcuno deve pur pagare» mormora lei.
«Cosa?»
«Vogliono solo giustizia.»
La guardo, pensando per un momento di aver frainteso. Non è così.
«Qualcuno deve pagare perché quelle persone riposino in pace» continua lei.
«E io dovrei morire per le loro fottute anime? Non sono stato io, dannazione.»
«Non importa» sussurra, ma la sento benissimo.
«Non importa, eh?» ruggisco. Quando ho cominciato a urlare?  «Beh, hai ragione: non importa. Perché tanto tornerò a casa, e saranno loro a pagare. Mi dispiace per te.»
Me ne vado quasi correndo. 

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