Il Mattiniero

di dauntlessrevolution
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Che palle. Odio i lunedì.
Lunedì significa niente più domenica. Niente più domenica significa lavoro.
E io ultimamente odio il mio lavoro. Per carità, adoro fare quello che faccio, ma essere a stretto contatto con persone (tutti uomini, per giunta) che mi guardano dall'alto in basso, diffidenti, solo perché sono l'ultima arrivata è alquanto snervante. Capisco che sono arrivata da poco, ma, andiamo, sembra che a nessuno qui siano state insegnate le buone maniere.
Sono solo dei montati, pieni di sé, palloni gonfiati, teste di cazzo.. si insomma avete capito. Era meglio se me ne rimanevo a Milano. A casa mia. Dove le persone mi apprezzavano per come sono. Questi bifolchi non tentano nemmeno di conoscermi. Eppure sono qui da due mesi. DUE. STRAMALEDETTI. MESI. Stupida io che ho accettato il trasferimento in Veneto, a Treviso. Che cazzo avevo nella testa in quel momento? Segatura? Ah, boh, non lo so. Però me lo domando ogni giorno, ogni volta che entro da quella porta di Via Pablo Neruda*, al numero 27, dopo aver passato i controlli e aver mostrato il tesserino di riconoscimento, e i miei colleghi detective si fermano perché hanno sentito i miei passi, troppo leggeri per essere quelli di un uomo.
Eh si, avete capito bene: DETECTIVE.
Perché è quello che faccio.
Mi chiamo Giovanna Perris. E sono un'investigatrice.
I.

Giovanna
Questa mattina quando mi alzo sento di essere uno zombie. Non sono riuscita a chiudere occhio per la maggior parte della notte: la chiamata di mio padre per avvisarmi del divorzio imminente dalla mamma mi ha devastato. Dopo quasi trent'anni dalla loro unione, dopo quattro stupende (modestia a parte) figlie, hanno deciso che la loro vita assieme stava andando a rotoli e hanno, di conseguenza, di chiudere. Definitivamente. Per sempre. Fine dei giochi.
“Gran bella merda.”, lo dico ad alta voce, voglio che quest'aria si riempa delle mie invettive contro i miei genitori, perché sono degli eterni bambini che, al posto di affrontare i loro problemi come persone adulte e dotate di intelligenza, alzano bandiera bianca e se la danno a gambe.
Oggi sono uno zombie incazzato. Se i miei colleghi si azzardano solo a scassarmi le palle come fanno di solito, giuro che li eviro, usando il tagliacarte in dotazione sulla mia scrivania. Giovanna.. Che c'è? Controllati. Okay, okay.. mi calmo. Fortuna che esiste la mia coscienza, altrimenti avrei già ucciso mezza Treviso a suon di “tagliacartate”. Ora mi sembro io la ragazzina. Con calma mi avvicino al mio armadio a muro e prelevo, con la poca grazia che possiedo, un paio di jeans skinny, un maxi-maglione blu di lana e il mio parka verde militare, immancabile. Sarò pure una detective, ma mi piace essere presentabile. Non voglio che quei coglioni del mio distretto abbiano un motivo in più per farsi beffe di me.
Mi vesto, indosso le mie Converse bordeaux, passo velocemente in cucina, dove afferro una fetta biscottata, la borsa, il telefono e le chiavi e sono pronta ad uscire. Mi trascino l'uscio alle spalle e chiudo a doppia mandata. Alla velocità della luce mi fiondo giù per le scale del condominio e inforco il mio bolide, una meravigliosa Graziella** bianca, mia compagna di avventure da almeno un decennio, lasciato incustodito (tanto è dentro all'edificio) vicino all'entrata, nascosto da una pianta di ficus.  Sfreccio per le strade e arrivo puntualissima davanti all'entrata del distretto. Lego la Graziella alla ringhiera, inspiro profondamente e mi avvio a passo svelto verso il grande portone di legno.
Sono zombie e incazzata, ma sono anche cazzuta e non ce n'è per nessuno. Non oggi.

Alessio
“Alessio?”. Una voce fastidiosa quanto lo stridere del gessetto su una lavagna mi penetra i timpani. È lunedì mattina e il lunedì mattina io voglio svegliarmi tranquillo, non con qualche oca starnazzante, seppur stupenda e con un corpo da urlo, che gironzola tranquilla nel mio appartamento. Ma perché questa me la sono portata a casa la domenica sera? Ah, giusto, Marco ieri mi ha trascinato al nuovo pub che hanno inaugurato dove prima c'era il negozio della Playlife, in Calmaggiore*** e questa qui non mi si staccava di dosso.
“Dimmi, Mara”.
“Mi chiamo Chiara.” Si, okay, per me è uguale. Quanto vorrei pronunciare questa frase, ma mi morsico la lingua.
"Ah, si. Giusto. Stavi dicendo?”
“È stata una delle migliori scopate della mia vita”. E ci risiamo: il solito cliché-del-mattino-dopo. Quanto sono prevedibili le donne. Sposto la sua mano, che si è pericolosamente, ma, mio malgrado, piacevolmente avvicinata al mio inguine e pronuncio le parole dell'apocalisse per ogni essere di sesso femminile quando ha appena avuto 'una delle migliori scopate della sua vita' : “Sono contento. Ora vedi di sloggiare: devo lavorare e penso anche tu abbia altri impegni.”
Mi guarda con gli occhi fuori dalle orbite: “Come prego? Pensavo ti fosse piaciuto..”
Alt. Fermiamola prima che possa dire qualcosa di altamente stupido. Ben detto, mi ci applico subito.
“Infatti mi è piaciuto, ma per me è stata solo una scopata da una notte. Non ho intenzione di rivederti.”, e, mentre lo dico, mi alzo dal letto con solo i boxer addosso e raccolgo la sua roba. Lei segue i miei movimenti con gesti meccanici: sembra sull'orlo delle lacrime. Un classico. Forse sono stato troppo diretto e, perché no?, pure stronzo. Un classico.
“O-okay”, sussurra, “Posso usare il bagno? Poi me ne vado”.
“Certo. Usa pure questo, io vado in quello degli ospiti”, le passo i suoi averi ed, uscendo dalla stanza, prendo i vestiti e le scarpe che mi ero preparato sulla sedia ieri pomeriggio. Faccio una doccia veloce e poi sono pronto. Mara, Marta, Chiara o qualunque sia il suo nome se n'è andata. Molto bene. Farò colazione al distretto, come di tradizione, con Marco e Simone. In ingresso raccolgo la giacca di pelle, lasciata per terra, molto probabilmente, da ieri notte, le chiavi di casa e della macchina, il distintivo ed esco.
Entro in macchina e faccio partire la musica a palla. Alla radio stanno passando Raised by Wolves degli U2. Cresciuto dai lupi. Si, ci sta, per uno come me. Parto da casa sgommando. Oggi mi aspetta una giornata impegnativa al distretto: ho trovato il punto di svolta in un caso molto importante, ma devo verificarne la validità. E il capo vuole parlarmi.
Chissà cosa vuole.

Giovanna
Sono sul procinto di sedermi alla mia postazione quando Simone De Vecchi mi si avvicina, con fare a dir poco sospetto.
Cosa vuole questo buzzurro!?
“Cosa c'è, De Vecchi?”, gli domando, tentando di sembrare il più calma possibile. Nella mia testa vortica una sola parola: autocontrollo.
“Perris, il capo vuole vederti tra un quarto d'ora nel suo ufficio”. Sembra stia trasudando felicità: con ogni probabilità sta pensando ad un mio possibile licenziamento-barra-trasferimento. Non ho intenzione di dargli corda.
“Va bene, grazie De Vecchi”. Vedo, da come apre la bocca, che non si aspettava affatto questa risposta.
“Ma come? Non sei curiosa di sapere quello che vuole dirti il Grande Capo?”
“Non più di tanto, se devo essere sincera. Ora scialacquati, devo finire di compilare un rapporto”. Almeno a lui è rimasto il buonsenso di ascoltare quello che dico, e se ne va, diretto verso la macchinetta del caffè, dove, al 1000%, lo stanno aspettando i suoi due compari: Marco Dall'Agata ed Alessio Mestriner.
I Tre dell'Ave Maria. Il Bello, il Brutto e il Cattivo. Tizio, Caio e Sempronio. Harry, Ron ed Hermione.
Insomma, il Trio, come viene definito qui al distretto.
Per puro caso, o forse è proprio il karma che ce l'ha con me, sono i tre quelli che al distretto mi trattano con aria altezzosa e da superiore, molto più degli altri.
Termino il mio lavoro, metto in stand-by il computer e mi alzo. L'ufficio del Grande Capo è dalla parte opposta rispetto alla mia scrivania, e quindi sono costretta a passare davanti a tutte le postazioni, dieci da un lato, dieci dall'altro.
Arrivo davanti ad una porta dove, su una targhetta, è inciso il nome del mio superiore: Carlo Ambrosini. Busso e attendo che il vocione del capo mi accordi il permesso di entrare.
“Avanti”, e apro la porta.
Quello che mi trovo davanti è assurdo: dall'altro lato rispetto a quello dove sta seduto il comandante Ambrosini c'è Alessio Mestriner. Cazzo.
Almeno una cosa positiva la noto: anche lui sembra molto sorpreso di vedermi lì.
“Siediti pure, Giovanna, c'è una cosa che devo dire, ad entrambi”.
Ma va? Un genio ci vuole per capirlo.
“Questa notte, alle due, ci è arrivata una segnalazione da parte di un uomo, un certo Giorgio Pietrobon. Era sconvolto: non riusciva a pronunciare una frase di senso compiuto. Quando il centralinista è riuscito a calmarlo, ha detto solo due parole: 'È arrivato', poi ha riattaccato. Stamane alle sette e mezzo è stato ritrovato il cadavere di Pietrobon davanti al cancello di casa sua, completamente mutilato. Il medico legale ha appurato che la morte è avvenuta sicuramente tra le due e mezza e le tre di questa mattina. Pensiamo sia stato qualcuno che conosceva ad ucciderlo: nessun segno di lotta”.
“Scusa capo, non riesco a capire cosa tu voglia dirci con tutto ciò”, dice Alessio.
Visto che avevo ragione? Qui sono tutti idioti: ma che razza di intervento è? Non riesce a capire che il capo vuole che prendiamo noi il caso? Deficiente.
“Penso che il capo ci abbia appena affidato un caso, Mestriner”, gli rispondo, guardandolo con occhi di ghiaccio. “Esattamente Giovanna. Siete i miei migliori detective e voglio che lavoriate assieme a questo omicidio. Giovanna, tu sei la migliore quando si tratta di interrogatori; mentre tu, Alessio, hai delle capacità immense per quanto concerne lo scovare indizi nascosti. Sarete un bel team, di questo sono sicuro”. Sono molto orgogliosa di quello che ha appena detto: finalmente qualcuno che riconosce le mie capacità. Sento Mestriner irrigidirsi sulla sedia: “Capo, sei sicuro di quello che stai dicendo? Sei SICURO di volere che lavori con questa qui?”. Ma tu guarda che razza di stronzo.
“Alessio, ho già deciso e non cambierò idea: devi imparare a lavorare anche con altre persone, non solo con Simone e Marco”.
Bene, è ora di levare le tende: ne ho abbastanza. Mi alzo e mi rivolgo ad Ambrosini: “Okay capo. Dove posso trovare la cartella del caso?”
“Condivido il file sui vostri computer seduta stante”.
“Allora io andrei”.
“Certo certo, vai Giovanna”.
Anche Alessio si alza, molto scazzato.

Alessio
La Perris? Stiamo scherzando, spero: non riuscirei mai a lavorare con una come lei. È una DONNA. Un essere di sesso femminile. Nel mio lavoro non c'è posto per le donne, non riescono a non inserire i sentimenti in quello che fanno, e ciò può compromettere l'operazione. Devo mettere subito in chiaro le cose: dopo essere stato congedato dal capo, mi dirigo come un razzo alla scrivania della Perris. La trovo assorta che sta leggendo un documento al computer. Evidentemente ha percepito un movimento con la coda dell'occhio, perché, con ancora lo sguardo fisso sullo schermo, mi dice: “Se sei venuto per dirmi che questo è un lavoro dove i sentimenti non sono ammessi, hai fatto strada per niente. Sai, Alessio, di tipi come te ne conosco a bizzeffe: pieni di se stessi, sbruffoni, altezzosi, maschilisti”, e si volta per guardarmi. I suoi occhi, color zaffiro, sono luminosissimi. E trasmettono una determinazione che non ho mai visto, in nessuno. “Ho lavorato sodo per arrivare dove sono ora. I sentimenti non sono affatto cosa per me, e, se ci fossero, sarei capacissima di tenere sfera emotiva e sfera lavorativa separate in compartimenti stagni. Non ti permettere MAI di sminuire quello che faccio solo perché sono una donna. Donna non sta a significare per forza sentimentale. Sono una persona con i controcoglioni e, se permetti, ho diritto tanto quanto te di trovarmi qui.
Se era solo per questo motivo che, appena il capo ti ha detto di scialacquare, sei venuto veloce come Flash a parlarmi, torna a lavorare. Come ho detto prima, perdi solo tempo. E perdere tempo significa allontanarsi sempre più dalla risoluzione del caso. Quindi, vai alla tua postazione Mestriner, e leggiti l'allegato. Appena hai finito fatti un esamino di coscienza e quando, e se, hai deciso di crescere e diventare finalmente adulto, fammi un fischio. Dobbiamo trovare un assassino”.
Porca puttana. La Perris legge nella mente delle persone.
Giovanna si gira come se non avesse mai pronunciato il discorso e torna a leggere. Io rimango a fissarla come solo un pesce lesso sa fare: a bocca aperta e con gli occhi fuori dalle orbite. Mai una donna mi aveva risposto in questo modo.
Sono talmente sconvolto che l'unica cosa che mi viene da dire è: “Sai chi è Flash?”.

Giovanna
Sono fiera delle mie parole: finalmente sono riuscita a prevalere su quell'essere senza neuroni che mi ritrovo davanti. Lo dimostra anche la domanda che mi ha posto: “Sai chi è Flash?”. Ma quanto si può essere scemi? Cioè, io ho appena terminato uno dei miei sproloqui più belli e questo qui mi rovina l'atmosfera? Così non va.
“Sono una donna, ma questo non vuol dire che io non ami i fumetti. I supereroi Marvel e DC sono la mia passione. In ogni caso, Mestriner, mi stai facendo girare le palle, di cui non sono dotata. Ergo, vai a leggere l'allegato”. Se ne rimane lì impalato come uno stoccafisso, anche dopo quello che gli ho detto. Incredibile. Prendo in mano la situazione: mi alzo dalla sedia e vado verso la stampante wireless, connessa a tutti i PC del distretto e l'accendo. Torno alla mia postazione, dove Alessio è ancora impalato, con la faccia da ebete. Invio i dati dal computer alla stampante, che di buona lena si mette a fare il suo lavoro. Finalmente Alessio sembra essersi svegliato dalla sua catalessi: si gratta il mento con fare assorto, ma mi dice: “Scusami, forse sono stato un po' stronzo”. Tranquillo, sono abituata agli stronzi come te. Giovanna.. Ma è vero! GIOVANNA! Chiedo venia. La smetto. Parola di scout.
“Quindi che ne diresti di ricominciare tutto daccapo?”.
“Sei serio?!”, lo guardo allibita e poco convinta.
Il bastardo ammicca e dice: “Mai stato più serio”. Sembra anche convinto dell'idiozia appena pronunciata.
“Okay, allora senti, Alessio, apprezzo sul serio il tuo tentativo e accetto le tue scuse, ma ormai sono passati due mesi e mezzo da quando sono arrivata al Distretto e a nessuno è mai importato molto di me. Non che ne fossi dispiaciuta, anzi, preferisco di gran lunga starmene per i fatti miei. Quindi tra me e te ci sarà solo un rapporto lavorativo, non voglio altro: niente birra dopo il lavoro, niente chiacchierate durante la pausa. Niente di niente.
Ho capito che da qui tu non ti smuovi, quindi prenditi una sedia: ti riassumo cosa dicono i vari referti. Da qui in poi si fa sul serio”.

Alessio
Giovanna Perris non è una donna normale. Non lo è per niente. Tutto quello che ha detto mi ha fatto capire che ha le palle e che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. I miei colleghi ed io, da quando è arrivata a Treviso, l'abbiamo subito accantonata per una serie di motivi che all'epoca mi sembravano molto validi: è una donna; è arrivata da poco; non deve avere molta esperienza; è una donna. Ah, si, è una donna. Devo ripeterlo ancora? Perché farebbe solo che bene, credetemi. Quando mi ha detto che non voleva aver nessuno tipo di rapporto amichevole con me, ne sono rimasto stupito: solitamente quando si diventa partner in un mestiere come il nostro, aiuta molto avere confidenza anche al di fuori del campo lavorativo.
Però ora ho capito che lei è come noi uomini: è un detective, e, in quanto tale, merita il rispetto dei vari distretti e dei suoi componenti.
“Giorgio Pietrobon, nato il 24 maggio 1967 a Ponzano Veneto, in provincia di Treviso. Madre e padre, entrambi deceduti nel 1999, possedevano un emporio in Via Cesare Battisti, poco vicino al Duomo. Nel 1986 sposa Laura Di Corrado, di due anni più giovane, perché incinta del figlio, Francesco, nato il 26 dicembre dello stesso anno. Nel 1990 consegue la laurea in Storia a Padova, con il massimo dei voti. Riceve subito la cattedra al Liceo “A. Canova” di Treviso, dove ha insegnato fino alla sua morte. La Di Corrado e Pietrobon hanno divorziato nel 2008 per divergenze inconciliabili. Francesco Pietrobon si è laureato l'anno scorso in Traduzione ed Interpretariato a Trieste, ed ora vive a Milano, dove lavora in una casa editrice come traduttore di manoscritti in francese. Da quello che dice il fascicolo, la vittima stanotte stava tornando a casa, nella zona della Pescheria, quando ha telefonato il nostro centralino, alle 2.07. il nostro collega è riuscito a tenerlo al telefono cinque minuti, cioè fino alle 2.12, quando Pietrobon ha pronunciato la frase 'È arrivato'. Poi, il silenzio. Il centralino non è più riuscito a contattarlo: non sono riusciti a rintracciare la sua posizione: cellulare spento. Il corpo è stato ritrovato da una vicina di casa, una studentessa di diciassette anni, che stava uscendo per andare a scuola, alle 7.39, cinque ore e trentadue minuti dopo la telefonata. La ragazzina è ancora troppo sconvolta per parlare e dire quello che è successo. Le faremo qualche domanda quando se la sentirà. Penso sarebbe utile ascoltare e far sentire ad un tecnico la registrazione della telefonata, per trovare eventuali indizi utili al caso. Il medico legale sta eseguendo l'autopsia, quindi dovremo attendere ancora un paio d'ore. Io andrei sul posto, così ti spiego meglio le dinamiche dell'omicidio”. Quando parla gesticola molto, per sottolineare l'enfasi in un qualche punto cruciale. Cazzo se è brava in quello che fa: è riuscita a riassumere venti pagine di allegato in cinque minuti scarsi. Si stiracchia sulla sedia. La parte bassa del maglione si alza, lasciando scoperta una striscia di pelle soda e lattea. Ora che la guardo meglio in faccia, ammetto che non è nemmeno brutta, anzi. È proprio bella, ma di una bellezza non volgare. È eterea: i capelli rossicci le arrivano alle spalle, il viso ovale è ricoperto da minuscole lentiggini, il naso perfetto, ma sono gli occhi il pezzo forte. Blu ed espressivi.
Alex, che cazzo ti prende? È solo la Perris. Solo. La. Perris. Contegno amico, contegno.
Fortunatamente non si è nemmeno accorta del mio sguardo fugace: avrei fatto la figura del maniaco, oltre che quella del fesso.
“Va bene allora. Andiamo. Prendo le chiavi della macchina. So che tu sei in bicicletta, ma non ti lascio andare dall'altra parte della città: vieni in macchina con me. E poi, dobbiamo ascoltare la registrazione”.

Inizio della registrazione.
Centralino: “113, qual è l'urgenza?”.
Giorgio Pietrobon: “Io.. Io.. Porca puttana, io..”
Centralino: “Signore si sente bene?”
Giorgio Pietrobon: “Io si, cioè no, cioè penso..”
Centralino: “Signore, si calmi. Intanto mi dica il suo nome”.
Giorgio Pietrobon: “Cazzo, cazzo, cazzo”.
Centralino: “Signore, mi stia a sentire: faccia dei respiri profondi. Stia tranquillo. Qualunque cosa sia successa sono qui per aiutarla. Mi chiamo Andrea. Può dirmi tutto”.
Giorgio Pietrobon: “..... gio. Mi chiamo Giorgio”.
Centralino: “Okay, Giorgio. Dove ti trovi adesso?”
Giorgio Pietrobon: “No, NO”.
Centralino: “Giorgio?”
Giorgio Pietrobon: “È arrivato”.
Fine della registrazione.




nota dell'autrice:
*Via Palbo Neruda: non è una via esistente in centro a Treviso
**Graziella: è un tipo di bicicletta piccolina e, per quanto mi riguarda, BELLISSIMA
*** Calmaggiore: uno dei viali più importanti in centro a Treviso, dove vi sono i negozi e che collega il Duomo e Piazza dei Signori

Ciao ragazzi e ragazze,
se siete arrivati fino a qui significa che in qualche modo questo inizio deve esservi piaciuto. Ne sono felicissima.
Devo avvisarvi però: non aggiornerò in maniera periodica e con frequenza. Ho la maturità da preparare.
Detto questo, se desiderate lasciare un piccolo commento (anche negativo, perchè penso siano molto costruttivo), è ben accetto.
Grazie mille ancora,
dauntlessrevolution

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


II.

Giovanna
Seduta sul sedile del passeggero della macchina di Alessio, ascolto attentamente l'audio della registrazione, mentre tento di prendere appunti su un block-notes.
“Non so se te ne sei accorto, ma, quando il centralino ha chiesto il nome alla vittima, non si sente bene quello che Pietrobon ha detto. Dev'esserci stata una sorta di interferenza. L'analizzatore audio non ci ha ancora confermato niente, ma gli ho espresso l'importanza di avere in mano il prima possibile le analisi e di inviarmele via mail”.
“Si, in effetti ho notato una specie di fruscio, un movimento in sottofondo, ma che copre totalmente parte delle parole di Giorgio”.
Dopo la lunga spiegazione che gli ho dato riguardo il caso, Mestriner è stato zitto e mi ha condotto alla sua macchina, una stupenda Camaro azzurra. Il silenzio si è protratto fino ad adesso, ma non è stato uno di quei silenzi che tenti di spezzare ad ogni costo, al contrario, sono convinta che entrambi ci troviamo a nostro agio in questa assenza di suono.
Sono ad un centimetro dal premere il pulsante 'rewind' sull'autoradio, quando Alessio dice: “Finché non arriva il referto dello specialista, è totalmente inutile ascoltare allo sfinimento quella registrazione. Poi non hai più la lucidità per fare altro”.
“Scoprirai molto presto che sono una donna caparbia, Alessio”, detto questo, faccio ripartire il nastro. Le voci della vittima e del centralino riempiono nuovamente l'abitacolo. Svuoto la mente e chiudo gli occhi: devo cogliere ogni minimo particolare. Nessun tipo di distrazione è contemplata. La registrazione va avanti, imperterrita. Ad un tratto, fulminea come una pantera, apro gli occhi e metto in pausa l'audio: ho trovato quello che cercavo.

Alessio
Quasi sbando con l'auto quando la Perris scatta in avanti dopo l'ennesimo ascolto della traccia audio.
“Porca vacca, che hai sentito?”, le chiedo.
Dalla sua risposta colgo un lampo di eccitazione: “Un'altra voce”.
Un'altra voce. Nella mia testa vorticano quelle tre paroline. L'Abracadabra che apre le porte a nuovi indizi.
Vado in fibrillazione anch'io: “In quale punto?”
“Poco prima che si senta quel rumore indistinto, quando la vittima dice il suo nome. Non sono sicura, però, di quello che la voce dica, dovremo aspettare la conferma del tecnico”. Mi fermo sul ciglio della strada, incurante dei trevigiani che girano in macchina a quell'ora, e ancora meno attento alle parolacce che mi urlano dai finestrini aperti. La guardo negli occhi, per dei lunghissimi istanti.
“Perché? Cos'hai capito?”
Sei solo il primo”.

Giovanna
Il luogo dove viveva Giorgio Pietrobon non si può propriamente definire casa: è una piccola casetta situata tra due grandi palazzoni di cemento, grigi e spenti. La costruzione è l'unico elemento colorato tra il grigiore di quella via. Le imposte, di un giallo acceso, sono aperte e lasciano sbirciare all'interno del piccolo casolare.
“Prima di passare al luogo del delitto vero e proprio, vorrei dare un'occhiata all'interno”, mi rivolgo convinta al mio collega, che, da quando siamo scesi dall'auto, è rimasto in silenzio. Strano, vero?! Questo qui non fa altro che stare zitto. Forse perché gli fai paura, o perché gli dai fastidio. Taci tu, una buona volta. Non posso mai commentare senza essere interrotta da questa vocina fastidiosa, che alla fine sono io.
Mamma mia, sono complicata.
“Per quale motivo?”, mi guarda, curioso. Come se fossi un fenomeno da baraccone. Ha mai visto il suo riflesso nello specchio, qualche volta? GIOVANNA.
“Ritengo necessario capire il carattere di una vittima attraverso degli oggetti che si trovano esclusivamente nelle loro case. È un metodo di indagine che ho imparato all'Accademia di Polizia”.
“Beh, io di solito mi fiondo dritto dritto al luogo dove è avvenuto il massacro, per così dire”, devo averlo fulminato con lo sguardo, perché lui continua e aggiunge: “Però i nuovi metodi investigativi possono essere interessanti e utili al caso. Quindi facciamo come dici tu, Giovanna”.
Sentire pronunciare il mio nome da lui mi procura dei piacevoli brividi lungo la spina dorsale. Non mi ha mai chiamato con il mio nome di battesimo, prima d'ora: sempre e solo Perris. Delle volte non mi calcolava nemmeno di striscio.
Giovanna Perris, datti un contegno: non sei più una tredicenne con gli ormoni a mille. Mai stata più d'accordo con te, sorella. E stai un po' zitta, una buona volta.
“Ehm, okay, perfetto. Seguimi dentro, allora”, e, a passo spedito, senza aspettare che Alessio mi segua, cammino verso quella casa fatiscente, che ora è circondata da agenti della Scientifica e da Carabinieri.
“Buongiorno, signorina. Posso esserle di aiuto?”, un giovane alto e palestrato mi si avvicina, giubbotto di pelle, camicia a quadri, jeans chiari, Converse nere e i Ray-Ban appoggiati al capo.
“Dipende da chi me lo chiede”, rispondo, atona.
“Sono l'agente Riccardo Mancini”, dice l'uomo, mostrandomi il distintivo della Scientifica.
Io tiro fuori dalla tasca del giubbotto il mio: “Io sono l'agente Giovanna Perris, detective distrettuale. E questo”, mi volto, indicando Alessio, “è il mio collega, Alessio Mestriner”.
“Bene, mi fa piacere che siano arrivati quelli del Distretto a darci una mano. Con i Carabinieri tra i coglioni non riusciamo a fare niente. Stanno mettendo in subbuglio tutta la casa. È un casino”.
Merda. Senza dire assolutamente niente, entro correndo in casa: come Mancini mi aveva detto, quelle teste di cazzo dei Carabinieri stanno lanciando all'aria tutto quanto. L'ingresso è pieno di carte sparse per il pavimento; il soggiorno sembra stato preso d'assalto da un pollaio, data la quantità di piume.
“FERMI. TUTTI QUANTI”, urlo. A squarciagola. Gli uomini che stanno lavorando si fermano e si girano verso di me, allibiti.
“STATE INCASINANDO DELLE POSSIBILI PROVE. IDIOTI”.
Alcuni degli uomini presenti cominciano a chinare il capo e a scusarsi, altri escono mogi dalla casetta. Solo uno ha il coraggio di fermarsi davanti a me e dirmi: “Stiamo solo facendo il nostro lavoro, signorina”, sputando veleno anche dagli occhi.
“Si, ma lo state facendo da culo. ORA FUORI”.

Alessio
“Ma questa da dove sbuca fuori?”, mi domanda Mancini, stupefatto quanto me dalla prontezza di riflessi grazie alla quale la mia collega è entrata nella casa della vittima e ha cominciato ad urlare come un'ossessa contro i Carabinieri.
“STATE INCASINANDO DELLE POSSIBILI PROVE. IDIOTI”.
Mi volto verso l'altro agente e gli rispondo: “Da Milano. È arrivata al Distretto due mesi fa, circa. Ha sempre lavorato a casi minori qui, e sempre come consulente negli interrogatori. Non le abbiamo mai dato abbastanza.. spazio di manovra, per così dire”. Mi costa ammetterlo, e per di più ci faccio anche la figura del coglione. Come faccio fare una figura di merda al Distretto.
“Beh, forse era ora la faceste uscire dal guscio. Sta strigliando per benino i Caramba* lì dentro”, e Riccardo Mancini scoppia a ridere.
“Anziché stare lì fuori a parlare di me, entrate a darmi una mano, per favore?”, ci urla Giovanna dall'interno, mentre una ventina di uomini escono dallo stabile.
“Direi sarebbe una buona idea seguirla”.
“Già”.
Entriamo nell'abitazione e troviamo la Perris in salotto, con le mani sui fianchi, a fissare con gli occhi vacui un punto del soggiorno.
"Allora, allora, allora. Non c'è alcun tipo di effrazione o scasso alla porta, quindi l'opzione è una sola: se l'assassino è entrato, ha atteso l'arrivo della vittima, lo ha ucciso e poi ha usato le chiavi per aprire la porta”.
Mentre lei parla, giro per il salotto, alla ricerca di indizi. Passo davanti al tavolino, situato di fronte ad un divano di pelle consunta, e gli occhi mi cadono su un foglio, nascosto dalle piume fuoriuscite dai cuscini. Indosso i guanti di lattice e lo raccolgo.
“Porca puttana”, la parolaccia mi sfugge dalle labbra, implacabile.
“Che succede, Alessio?”, mi domanda la mia collega, svegliata dalla sua catalessi.
“Quel figlio di puttana aveva scritto una lettera a Pietrobon”.
“È possibile fare un'analisi della calligrafia?”.
“No, è scritta al computer. Forse, però, possiamo risalire al tipo di stampante”.
“Cosa dice?”.
E io comincio a leggere.

Cara Vittima,
mi dispiace avvisarti che tra poco non sarai più a questo mondo.
Non prenderla sul personale: non ti conosco nemmeno.
La tua uccisione fa parte di un piano più grande, che non mi è dato svelarti.
Vivi pienamente l'ultimo periodo che ti rimane.

Silenzio. Un tombale silenzio ci avvolge. Non riesco a credere alle parole che mi sono appena passate sotto gli occhi. Alzo lo sguardo su Giovanna, che mi fissa inorridita.
l suo cellulare squilla e lei lo tira fuori dalla tasca del parka. Controlla il mittente, per poi posare nuovamente lo sguardo su di me.
“Forse abbiamo qualcuno che può far luce su questo casino”, dice, mostrandomi lo schermo del telefono: Mirko Girotto.
L'analizzatore del suono.

Giovanna
“Mirko, dimmi tutto quello che sai”.
'Ciao anche a te, Giovanna, come stai?'.
“Pochi convenevoli, Mirko, non ti è mai fregato un cazzo del mio stato d'animo o di salute e non avrebbe senso iniziare adesso. Perciò, aggiornami. E in fretta”.
'Okay, okay. Ritira gli artigli, Tigre. Comunque, ho scoperto delle cose molto interessanti, analizzando la registrazione che mi hai fatto avere, e ho quindi preferito telefonarti, anziché mandarti i risultati via mail'.
“E cioè?”.
'Ho ascoltato un centinaio di volte tutto il file, poi però ad un tratto mi sono soffermato su un pezzettino, che destava dei sospetti. La parte presa in considerazione è quella in cui Pietrobon dice il suo nome. Ho migliorato la qualità del suono, per poi mandare il tutto al rallentatore e ho sentito distintamente una voce maschile che pronunciava le seguenti parole: Sei solo il primo'.
Il tempo si ferma: ho ragione. Ho. Ragione.
'Spero di esservi stato utile, Perris'.
“Utilissimo. Grazie, Girotto”.
'Prego'.
Spengo la comunicazione. E rimango impalata a fissare il nulla, tanto sono sconvolta.
Giovanna, più tempo perdi a stare in questo stato catatonico, più ti allontani dal caso. Stessa cosa che hai detto ad Alessio questa mattina. Non l'avevo proprio capito, anzi, ti ringrazio per il consiglio!
Penso e ripenso, metabolizzo quello che ho appena saputo e poi un pensiero mi colpisce in pieno alla velocità di un TIR.
“Santo Dio”.

Alessio
Comincio a preoccuparmi seriamente per Giovanna: dopo aver ricevuto la telefonata è rimasta immobile, gli occhi vacui.
“Santo Dio”, sussurra. Scuote la testa, come per svegliarsi dalla trance.
“Perris, che hai?”, domando, sollevato che si sia mossa, ma anche terribilmente in ansia.
“Girotto ha confermato la mia teoria: il rumore che si sente nella registrazione è una voce maschile che dice: 'Sei solo il primo'. Sai cosa significa?”, i suoi occhi determinati sono incollati ai miei.
Azzurro nel marrone.
So per certo cosa significa quello che mi ha detto, quindi esterno il mio pensiero ad alta voce: “Questo non è un caso isolato”.
“Ce ne saranno altri”.
Due parole si formano nella mia testa: serial-killer.

*è un termine che viene spesso usato dai giovani Veneti per definire un Carabiniere, in senso un pochino dispregiativo

Ed eccomi qua, finalmente, dopo un fermo durato una marea di tempo, a pubblicare il secondo capitolo. Devo ammettere che è un po' corto, però dai, si fa quel che si può.
Ringrazio di cuore chi ha letto il capitolo e Steph808 per avermi lasciato una recensione da favola, che mi ha fatto molto piacere.
Un bacio grande, alla prossima
dauntlessrevolution

 

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