Liberté, Égalité, Fraternité.

di ___Ace
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un. ***
Capitolo 2: *** Deux. ***
Capitolo 3: *** Trois. ***
Capitolo 4: *** Quatre. ***
Capitolo 5: *** Cinq. ***
Capitolo 6: *** Six. ***
Capitolo 7: *** Sept. ***
Capitolo 8: *** Huit. ***
Capitolo 9: *** Neuf. ***
Capitolo 10: *** Dix. ***
Capitolo 11: *** Onze. ***
Capitolo 12: *** Douze. ***
Capitolo 13: *** Treize. ***
Capitolo 14: *** Quatorze. ***
Capitolo 15: *** Quinze. ***
Capitolo 16: *** Seize. ***



Capitolo 1
*** Un. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Un.
 
Nella Francia del XVIII secolo, più precisamente durante il corso del 1789, ogni tipo di potere immaginabile era riposto unicamente nelle mani della Monarchia assoluta, a detta dei nobili e del sovrano, per diritto divino. Tutta la società era divisa in tre determinati ceti, o classi sociali, quali: Nobiltà, ovvero coloro che più di ogni altro spadroneggiavano senza limite e giustizia; Clero, quindi le anime sante che avevano intrapreso la via del sacrificio, della fede, della devozione e, in teoria, ma non in pratica, della povertà; infine, proprio nel gradino più basso della scala sociale, e anche della catena alimentare, in poche parole il degrado, si trovava il Terzo Stato, comprendente i poveracci che non sapevano mai se avrebbero visto o no il giorno a venire.
Quella classe sociale costituiva la maggioranza degli abitanti presenti a Parigi, la bellezza del novant’otto per cento della popolazione, ed era, inoltre, la classe maggiormente tassata, in quanto l’antica e ingiusta tradizione monarchica francese prevedeva dei consistenti ed infiniti privilegi per i primi due ceti.
I cittadini avevano sopportato tanto per molto tempo, senza mai lamentarsi e continuando a seppellire vittime di quelle ingiustizie, fino a quando una serie di problemi economici non risolti, causa le enormi spese fatte dalla Corona e i fondi inviati per la Guerra d’America, avevano provocato un malcontento generale e disordini nella popolazione. Dopo la caduta dei prezzi e della produzione industriale, una violenta siccità aveva pure provocato la morte del bestiame. Infine, un pessimo raccolto aveva decretato un’ulteriore grande crisi, quella del pane, così il suo prezzo era aumentato a dismisura e continuamente, mandando i lavoratori nella miseria per potersi guadagnare da mangiare.
Per risolvere la gravissima crisi in cui la Francia era precipitata e aumentare le entrate fiscali, la monarchia aveva imposto tasse ad ogni ceto sociale, ma nobiltà e clero ne erano state interessate solo in minima parte. Le nuove imposte avevano, invece, continuato a pesare solamente sul Terzo Stato e non furono quindi in grado di contrastare la perdita del Paese, facendo aumentare all’inverosimile il debito pubblico.
L'avversione dei sudditi francesi, quindi, non aveva fatto altro che crescere e inasprirsi di giorno in giorno e ad ogni fallimento.
Fu in quel periodo che si sviluppò una nuova cultura chiamata Illuminismo, la cui filosofia si diffuse fino ai ceti più alti della società. La monarchia assoluta francese venne contrapposta a quella inglese, limitata da un parlamento e da vari organi politici interni. Da ciò si diffuse a macchia d’olio l’idea che il potere risiedeva non in un’unica persona, ma nell’intera Nazione.
A conferma di quella corrente rivoluzionaria e a sfavore delle più alte classi sociali, quello che era accaduto qualche anno prima al di là dell’oceano, ovvero nelle Americhe, aveva contribuito ad accendere la scintilla negli animi dei cittadini francesi, arrabbiati e stanchi della miseria, facendo crescere in loro il desiderio sempre più grande di cambiare le cose una volta per tutte.
 
*
 
Paris, 1789.
 
-Sabo!-
-Portatelo via.-
-Lasciatemi! Sabo!-
-Maledetti! Vi ucciderò tutti!-
-Legate anche l’altro, poi portateli in prigione e rinchiudeteli.-
Era una fredda e nebbiosa mattinata di inizio primavera; l’inverno stava lentamente abbandonando quelle terre, ma il gelo persisteva e il sole non ne voleva sapere di sbucare nel cielo per riscaldare le giornate che, lentamente, si allungavano.
Era l’alba e le guardie stavano compiendo il loro dovere, eliminando un seguace dei Rivoluzionari, un gruppo di ribelli che, da qualche tempo, stavano mettendo a dura prova l’ordine pubblico, incitando la folla alla ribalta contro la Corona e contro il Re di Francia. Ciò, per lo Stato, era inammissibile, per quel motivo ogni fuggiasco o complice di quei farabutti veniva catturato e giustiziato dopo essere stato sottoposto ad un giusto, o quasi, processo.
Quella volta la sfortuna era capitata ad un giovane ragazzo, troppo spavaldo e coraggioso, nonché convinto di essere dalla parte della ragione. Si accompagnava ad un paio di altri ragazzini, straccioni per la precisione, orfani senza una casa, e gli ufficiali si sarebbero limitati a metterli tutti al fresco per un po’, se solo lui non avesse opposto resistenza, uccidendo un soldato con un colpo di rivoltella. E tutto per difendere i due mocciosi che erano con lui.
Ah, se solo non avessero scelto la fazione sbagliata per la quale combattere, pensò il comandante della spedizione, dando le spalle alla Senna, il fiume dalle acque scure e profonde che attraversava la bella Parigi, accendendosi un sigaro tra le labbra e ignorando le urla isteriche dei due prigionieri che non avrebbero smesso tanto presto di piangere la morte del loro compagno ormai annegato.
Il Capitano Smoker era stato svelto e previdente nell’agire. Aveva intuito che il ragazzo non si sarebbe arreso tanto facilmente e, non appena uno dei suoi era caduto, aveva provveduto ad intervenire, sparando al nemico e facendogli perdere i sensi per il dolore. Era stato semplice poi legargli i polsi e le gambe, assicurandogli ai piedi un masso e gettandolo nel canale alle porte della città dove nessuno sarebbe mai andato a cercarlo. Era stato costretto a farlo. Era quello il suo lavoro, anche se spesso faceva schifo.
Esatto, proprio quella parola aveva formulato nella sua mente: schifo. Quello non era il motivo per il quale si era arruolato anni prima; non era l’ideale di giustizia che aveva e per il quale combatteva; non si avvicinava minimamente ai suoi principi patriottici. Era solo morte e dolore, nulla di più. Quel giovane non era diverso dagli altri che aveva visto perdere la vita, ma, dannazione!, era solo un ragazzo! Perché aveva dovuto agire in quel modo? Se non avesse dato di matto forse avrebbe avuto una possibilità, forse lo avrebbero rilasciato dopo avergli fatto scontare qualche notte in cella.
Forse. Forse. Forse.
A chi voleva darla a bere, le cose non sarebbero cambiate e donne, bambini, vecchi, giovani, nessuno sarebbe stato risparmiato in quella guerra.
Un brusio dietro di lui lo riscosse dai suoi pensieri.
-Capitano Smoker, il più grande ha ferito due dei nostri!-
L’uomo sospirò esasperato, continuando però ad avanzare verso la strada in ghiaia, ordinando svogliatamente ai suoi sottoposti di togliere di mezzo anche quel piantagrane con i capelli scuri e di trattenere solo un prigioniero. Lacrime e urla di un marmocchio poteva sopportarle, ma pugni e ribellioni no, ce n’erano già troppe in giro per la regione, meglio quindi estirpare l’erbaccia alla radice.
Ad ogni modo, fece comunque di tutto per ignorare la sgradevole sensazione di stare facendo la cosa sbagliata che lo colse non appena decretò la morte di un’altra persona.
Era obbligato a farlo, era costretto.
-No, fermi! Vi prego! Ace! Ace, no! Lasciatelo! Lasciatelo, è mio fratello!- sbraitò il ragazzino più piccolo non appena capì la svolta che aveva preso la situazione, avvolto in una camicia rossa e logora, tremante e stremato, ma abbastanza forte, o cocciuto, da reggersi ancora in piedi, mentre due guardie si allontanavano dal resto del gruppo di militari trascinando con forza un altro giovanotto più robusto, ma ugualmente malconcio dopo le botte che aveva subito.
Scomparirono dietro l’angolo delle mura, addentrandosi nel sentiero che portava alle fosse comuni. In quel punto nessuno li avrebbe disturbati dal compiere il loro dovere di giustizia.
-Ace! Ace!- urlava intanto il piccolo, dimenandosi e tirando le braccia legate dalle catene fino a far lacerare la pelle nel tentativo di liberarsi e correre dal suo amato fratello. Aveva perso un amico da nemmeno dieci minuti, non voleva rimanere da solo. Non poteva andare tutto così male.
Smoker lo osservò impassibile, avvolto dal fumo del sigaro che stringeva tra i denti tanto forte da poterlo spezzare. Avrebbe davvero voluto fare diversamente e risparmiarli, ma non poteva. Aveva anche lui le mani legate.
Stava cercando di convincersi che le sue azioni erano per il bene comune, quando il prigioniero si voltò verso di lui con gli occhi inondati di lacrime e l’aria di chi era appeso alla vita con un filo. Il Capitano gli rivolse uno sguardo ammorbidito, quasi di scuse senza nemmeno rendersene conto. Non si curò di apparire debole, quella situazione lo aveva fatto riflettere profondamente sull’idea di bene e male.
L’occhiata carica di odio che ricevette in cambio, però, fu un vero e proprio colpo di grazia per le sue convinzioni. Fu quasi come se quel piccoletto avesse fatto crollare il suo credo con uno sguardo.
Gli aveva portato via la sua famiglia, e chissà quante altre volte sarebbe successo. Le guardie stavano mettendo a ferro e fuoco Parigi su ordine dei capricci del Re e tanta gente moriva inutilmente. Voleva davvero continuare ad essere trattato come un burattino? La parte con la quale si era schierato era davvero quella dei buoni?
Due spari riecheggiarono in lontananza alle loro spalle, mandando in frantumi i ragionamenti di Smoker e spezzando il cuore del ragazzino. Calò un silenzio che fece gelare il sangue persino ai soldati. Era la calma prima della tempesta, se lo sentivano.
Poi un urlo squarciò l’aria.
-Ace!- strillò il moccioso con tutte le sue forze, tanto che sentì quasi i polmoni scoppiare nella cassa toracica, crollando in ginocchio quando non ottenne risposta. –Ace!- fece ancora, battendo selvaggiamente i pugni sul terreno e piangendo lacrime amare, mordendosi freneticamente le labbra fino a farle sanguinare, non sentendo il dolore.
Aveva perso tutto e tutti, non aveva più nulla e nessuno, era solo. Totalmente, completamente e irreparabilmente solo.
E ne suo fratello, ne il suo migliore amico sarebbero ritornati dalla Terra dei Morti.
Volse il capo al cielo grigio e nuvoloso, denso di pioggia, e prese l’ultimo respiro puro prima che i soldati lo trasportassero di peso verso l’oblio.
-Ace!-
Poi il buio.
 
*
 
Osservava la scena nascosta nel folto della vegetazione, silenziosa e attenta, pronta a scattare al minimo segnale di pericolo, con le gambe immerse nel pantano e il freddo pungente che le trapassava la pelle. Doveva rimanere immobile se voleva evitare di essere vista.
Fino a circa un quarto d’ora prima aveva guardato con divertimento quelli che dovevano essere tre fratelli rotolarsi nel fango della palude, lottando tra loro, ridendo e schiamazzando, allegri e spensierati. Le erano sembrati così simpatici che si era chiesta più volte perché non si decidesse ad uscire allo scoperto e presentarsi. Era rimasta malissimo, poi, quando la guardia della cittadina li aveva accerchiati, interrogandoli e scoprendoli dalla parte dei Rivoluzionari. Se soltanto fossero stati furbi e avessero tenuto chiusa la bocca!
Stavano combattendo già da un po’, e lei sarebbe corsa a dare loro man forte ma, quando era stata sul punto di farlo, uno sparo le aveva mozzato il respiro, lasciandola con il fiato sospeso. Si era coperta la bocca con una mano per celare un lamento non appena aveva visto un ragazzo cadere a terra privo di sensi e aveva dovuto lottare contro se stessa per non intervenire, rischiando di rivelare così la sua posizione e mettere a rischio la copertura del resto della sua compagnia.
-Ecco dove ti eri cacciata!- disse una voce dietro di lei, facendola sussultare per lo spavento. Fortunatamente aveva dei nervi d’acciaio e si riprese subito, dando un ceffone al suo compagno e zittendo le sue lamentele con un’espressione che non ammetteva repliche, indicandogli un punto oltre la boscaglia e mostrandogli quello che stava accadendo a pochi metri di distanza.
Il ragazzo, massaggiandosi la parte lesa e scompigliando così i suoi capelli castani, si abbassò accanto a lei per guardare cosa diavolo aveva catturato l’attenzione della mocciosa, rimanendo sconvolto quando le guardie francesi legarono un tizio svenuto, gettandolo poi nel fiume con le urla degli altri due prigionieri in sottofondo che fecero accapponare la pelle a entrambi.
-Per Dio!- sussurrò con orrore.
Fu così che, non appena gli ufficiali si allontanarono dalla zona paludosa con i due prigionieri, la ragazza saltò fuori dal suo nascondiglio, ignorando gli avvertimenti di Thatch, raggiungendo la riva e tuffandosi nelle acque gelide l’istante dopo, agendo d’istinto e con il cuore in gola.
L’acqua era ghiacciata, ma se l’era aspettato e, anche tenendo gli occhi aperti, faticava a vedere per colpa della luce del giorno totalmente assente. Si sforzò comunque di darsi la spinta verso il fondale con le gambe, usando invece le mani e le braccia per cercare a vuoto il corpo del ragazzo che avevano appena spedito a dormire con i pesci. Era certa che, a causa del masso, l’avrebbe trovato sul fondo, perciò continuò a scendere in profondità e sperando di venire graziata per quella volta.
Quando riemerse con un corpo privo di sensi tra le braccia, annaspò fino a farsi notare dall’amico, il quale fissava il fiume con aria preoccupata, andando avanti e indietro sulla riva, indeciso se chiamare i rinforzi o farsi un bagno non previsto pure lui.
-Grazie al Cielo!- sospirò sollevato, andandole incontro non appena la intercettò e aiutandola a trasportare il corpo del ragazzo mezzo morto sull’erba in un punto riparato da alcune folte piante, lontano da occhi e orecchie indiscrete.
-Che cazzo ha combinato?- domandò nervoso, dando sfogo all’ansia accumulata gli attimi prima, strappandogli senza troppe cerimonie la camicia e cercando la ferita per bloccare l’emorragia, mentre la sua amica si affrettava a controllare il battito cardiaco del polso e del collo per fare una stima dei danni e assicurarsi che il poveretto fosse ancora in vita.
-Thatch, devi fare qualcosa!- lo pregò con voce preoccupata, iniziando un lento, ma efficace, massaggio cardiaco.
-E cosa?- sbottò lui, alzando con fare esasperato le mani al cielo per poi strapparsi un abbondante lembo di stoffa dalla giacca e premendolo con cura sulla ferita, arrestando momentaneamente il flusso del sangue. –Qui ci vogliono dei punti! E io non sono un dottore! E, oh, maledizione!- stava decisamente perdendo la calma.
Non ebbero il tempo di consultarsi oltre perché alcune voci li misero in allerta. Il ragazzo scostò le foglie per controllare i dintorni, stupendosi quando avvistò due secondini ritornare sui loro passi con un ragazzo che si dimenava come un cane rabbioso.
Deglutì sonoramente, pensando che se le guardie si fossero accorte anche di loro, non avrebbero fatto una bella fine. E tutto per salvare il culo a due francesi mangia baguette!
Strinse i denti e si voltò a guardare a che punto era la sua collega, lanciandole un’occhiata severa quando quella si accorse della sua attenzione. Lei sembrò leggergli nel pensiero perché sospirò stancamente, andando avanti con la sua opera di salvataggio. Sapeva benissimo che la compagnia non voleva immischiarsi nelle cause del paese, non erano cose che li riguardavano, ed era consapevole che i francesi dovevano arrangiarsi. Avevano ragione nel dire che non era la loro guerra, ma non riusciva a capire perché mai doveva lasciar soffrire i più deboli quando aveva la capacità di salvarli e aiutarli.
-Volevano ucciderlo.- spiegò allora, -Non potevo lasciarlo morire in quel modo.-
-Non sono affari nostri, lo sai.- le ricordò, tenendo d’occhio la situazione che si stava svolgendo ad una decina di metri dal loro nascondiglio.
-Dovrebbero!- ribatté con furore, continuando il suo lavoro, sussurrando preghiere sconnesse e supplicando il moribondo di non morire. Gli slacciò il cravattino blu che teneva legato malamente al collo e gli prese il viso tra le mani, forzandogli le labbra per posarvi poi le proprie e donargli la sua aria con l’intenzione di liberargli i polmoni. Doveva essere veloce e precisa, così, passando poi a premere sul petto con i palmi, si sentì meno in ansia quando vide che la procedura diede l’effetto sperato e il ragazzo rigettò tutta l’acqua che aveva ingerito nel fiume.
Gli sollevò il busto, tenendogli il capo inclinato verso di sé quando quello iniziò a tossire, mentre Thatch tentava di tenere fermo il corpo scosso dagli spasmi.
Ebbe paura solo per un attimo, ovvero quando si sentì afferrare saldamente il polso, ritrovandosi due occhi spaesati, ma fiammeggianti, incastrati nei suoi.
-C-chi se-ei?- si sentì domandare in francese.
Con calma e gentilezza si liberò dalla presa salda, accarezzando i riccioli biondi del giovane appiccicati alla fronte per tranquillizzarlo, riuscendoci un pochino.
-Sono Koala.- gli rispose, sperando di farsi capire, vedendolo sempre più confuso. Conosceva la lingua, ma non la parlava ancora in modo perfetto. -Non preoccuparti, penso io a te.-
Sabo annuì, non sicuro di aver capito bene quello che stava accadendo attorno a lui, ma il dolore che provava era allucinante e la stanchezza accumulata nei giorni precedenti gli si riversò addosso tutta in quel momento, perciò si lasciò andare, chiudendo gli occhi e cadendo in un sonno profondo.
-Abbiamo fatto una cazzata, ma almeno non l’abbiamo fatta per niente.- ironizzò il giovane uomo dai capelli castani scompigliati e i vestiti, in altre occasioni sempre in ordine, disastrati, ma venne interrotto dalle parole delle guardie, le quali stavano in piedi davanti ad un giovanotto traballante e dall’equilibrio incerto, ma con lo sguardo fiero, intoccabile e carico di sfida.
-Inginocchiati.- gli ordinarono, ma quello scosse il capo seccamente, sputando a terra.
-Merda, lo ammazzeranno di sicuro.- borbottò Thatch, guardandosi attorno alla ricerca di qualcosa che potesse aiutare quel disgraziato. Non gli piaceva disubbidire agli ordini, ma a quanto pareva la nuova arrivata non sembrava capire il concetto di ‘non immischiarsi negli affari altrui’, e a lui, personalmente, non piaceva veder morire la gente innocente. Quindi, a conti fatti, entrambi avevano trasgredito alle regole.
-Non mi piegherò mai a nessuno!- affermò nel frattempo il ragazzino, fissando una guardia che gli puntava contro una pistola.
Thatch imprecò e Koala trattenne il fiato quando il primo sparo sovrastò il resto dei rumori attorno a loro.
 
*
 
Ad Ace non era mai importato di vivere.
Era cresciuto in una bettola situata nella periferia di Parigi, nella Rive Droite, poco lontano da Montmartre, il quartiere più malfamato, dove svettava fiera l’icona della perdizione e del peccato.
Ad ogni modo, tutte quelle balle le raccontavano le madri amorevoli ai figli viziati, nella speranza di tenerli lontani dal pericolo e da una vita senza un futuro, ma Ace era sempre stato convinto che non tutto era bianco o nero. Certo, anche lui, all’inizio, aveva creduto che non valesse la pena vivere a lungo perché al mondo non c’era nulla di bello o di interessante. Non c’era da stupirsi di quel suo pessimismo, tutti gli orfani parigini di quell’epoca crescevano con la consapevolezza di dover morire abbastanza presto, non avendo famiglia, lavoro o qualcuno a cui fare riferimento. Se poi eri pure il figlio di un criminale, allora le prospettive non erano rose e fiori. Fortunatamente per lui, però, la vita era stata magnanima e, anche se aveva patito un’infanzia non felice, durante la sua adolescenza era stato così fortunato, anche se lui continuava a considerare quell’incontro una sfortuna, da conoscere delle persone che gli avevano cambiato l’esistenza in meglio.
Colui che occupava buona parte del suo cuore era Rufy, un ragazzino di tre anni più piccolo e con un temperamento degno di un combattente. Era stata la sua spina nel fianco per mesi, lo aveva seguito e pedinato ovunque, lo aveva stressato fino all’esasperazione con la sua voce, la sua presenza e quelle assurde frasi come ‘ehi, diventiamo amici!’ che Ace non voleva ascoltare. Alla fine, però, il piccoletto era riuscito nel suo intento, e il ragazzo più grande aveva dovuto arrendersi, accettando l’idea di aver acquisito un fratello a cui badare.
Poi era arrivato anche Sabo, il quale, con la sua calma e pazienza, aveva conquistato la simpatia di Ace, più restio a fare amicizia con chiunque, e i tre erano diventati inevitabilmente inseparabili.
Erano dei terremoti, conosciuti da tutti nella città bassa e nei quartieri più poveri. Gironzolavano indisturbati per le vie, guadagnandosi il pane facendo qualche lavoretto e vivendo sotto lo stesso tetto in un’adorabile catapecchia al limitare delle mura, dalla quale si godeva la meravigliosa vista della città e dell’agglomerato urbano assieme a tutti i suoi monumenti. Stavano bene, erano felici e al sicuro.
Crescendo e maturando, inevitabilmente, avevano abbracciato il pensiero della Rivoluzione con patriottismo ed erano entrati a far parte della compagnia dei Rivoluzionari quasi subito. Si poteva dire che l’idea fosse partita da loro, più precisamente da un gruppo di giovani randagi che contava un alto numero di persone, ma quell’informazione era difficile da stabilire, perciò la gente mormorava ipotesi e basta. Erano in tanti, tutti amici, tutti fratelli, tutti una grande famiglia e Ace non si era mai sentito così contento di essere venuto al mondo. Aveva riscoperto la gioia di vivere e aveva anche trovato un valido motivo per cui lottare.
Da quando aveva incontrato quei ragazzi, aveva appreso che vi erano un’infinita serie di sfumature differenti tra i vari colori, lo sapeva, glielo aveva spiegato Kanjuro, un artista di strada piuttosto in gamba, e lui si collocava in mezzo a tutte quelle differenze. Un giorno la sua vita era azzurra come un cielo estivo tranquillo, altre era verde, quindi fresca come una foresta, altre ancora era gialla, ovvero divertente come il sole. Capitavano anche giornate grigie e tristi, addirittura nere quando era arrabbiato, ma cambiavano sempre, senza che lui si annoiasse.
Per quel motivo, quando la guardia cittadina gli puntò contro la canna del fucile, sentì una punta di delusione accendersi nel petto. Se fosse capitato negli anni addietro non gli avrebbe fatto ne caldo ne freddo, ma quei tempi erano finiti. Aveva delle persone per cui vivere, doveva lavorare per portare a casa il pane e doveva dare tutto se stesso per garantire un futuro alla sua famiglia e a tutta Parigi. Se lui se ne andava, chi avrebbe badato a Rufy e agli altri orfanelli? E chi si sarebbe scontrato con i parigini che stavano dalla parte della Corona nelle piazze della città? E come poteva lasciare tutto nelle mani dei suoi compagni Rivoluzionari? Era così ingiusto!
-Inginocchiati.- gli ordinò la guardia, incitando a compiere quel gesto con un movimento secco del braccio che reggeva l’arma.
Ace lo guardò con scetticismo. Davvero credeva che avrebbe fatto come gli era stato detto? Sul serio gli avevano appena chiesto di abbassare la testa, di arrendersi alla Corona prima di morire?
Mai!, pensò.
Fece una smorfia schifata, accompagnando l’espressione con parole dure e cariche di libertà. –Non mi piegherò mai a nessuno!- sbottò furente.
E fanculo anche la Morte, aggiunse nella sua testa.
Non ebbe nemmeno il tempo di rendersene conto e di dire addio al mondo perché uno sparo riecheggiò nell’aria l’istante successivo e Ace si ritrovò a serrare gli occhi. Si stupì quando ne sentì un altro l’attimo successivo, volevano ridurlo a un colabrodo forse? Rimase ancora più sconcertato, però, quando si accorse di reggersi ancora in piedi e di stare impercettibilmente tremando come un fesso, mentre attorno a lui le due guardie erano stramazzate a terra.
Morte.
Aprì prima un occhio curioso e poi l’altro, rilassandosi e sbattendo le palpebre confuso, alzando infine il capo per guardarsi attorno alla ricerca del suo salvatore. Perché, andiamo, mica potevano essersi fatte fuori a vicenda. Forse Rufy si era liberato, o magari i loro compagni li avevano raggiunti dalla periferia, oppure Sabo non era morto, e magari…
Trattenne il fiato quando vide uscire una figura estranea dalla vegetazione alla sua sinistra.
Non si sentì affatto tranquillo dato che non sapeva di chi si trattasse; non l’aveva mai visto prima quell’uomo dall’aria inquietante. Indossava degli abiti semplici, ma non per questo potevano essere considerati poveri; un lungo cappotto pesante gli ricopriva buona parte del corpo, una sciarpa azzurra penzolava disordinata attorno al collo e sulle spalle e una pistola era stretta nella sua mano coperta da un paio guanti.
Lo sguardo fermo e l’espressione fredda e distaccata misero Ace sull’attenti e, se non fosse stato per l’assurdità di quei capelli, improbabili ciuffi biondi che sembravano avere vita propria tanto erano disordinati, avrebbe incassato la testa nelle spalle come un cane. E lui non era tipo che si spaventava facilmente.
L’uomo si avvicinò a lui così tanto da superare le distanze di sicurezza, arrivandogli ad un palmo dal viso e sovrastandolo con la sua stazza. Quando poi estrasse un pugnale, Ace ebbe la tentazione di scappare, ma era bloccato. Non poteva proprio muoversi, dato che il tizio gli afferrò malamente un braccio, girandolo di spalle. Temette di venire colpito alla schiena per poi essere gettato nella Senna, o peggio, invece non accadde e la lama passò tra le corde che lo imprigionavano, liberandolo e togliendogli un ulteriore peso dal petto.
Si ritrovò così libero e, senza rendersene conto, prese una profonda boccata d’aria, sentendosi subito meglio, dopodiché si massaggiò i polsi, sorpreso e allibito, trovando infine il coraggio, e la sfrontatezza avrebbe detto qualcun altro, di voltarsi e guardare in faccia quello strano individuo, venendo ricambiato con un’occhiata di sufficienza, come se lui fosse stato un peso. E ciò, per la precisione, gli diede parecchio fastidio. Non sopportava di dover alzare la testa per guardare le persone e nemmeno essere salvato lo faceva sentire bene. Insomma, era in grado di arrangiarsi, lo aveva sempre fatto. E se per quell’uomo era stato una scocciatura, beh, avrebbe potuto risparmiarsela.
Così gonfiò il petto e lo guardò con superiorità, anche se era parecchio più basso, ma quello era un dettaglio che poteva passare in secondo piano. –Avrei potuto cavarmela da solo.- dichiarò, notando un sopracciglio biondo e scettico sollevarsi sul viso dell’altro. Cos’era, non gli credeva forse?
-Non sei un po’ basso per fare l’impertinente?- ghignò il nuovo arrivato con un forte accento inglese, scoccando la battuta finale e lasciando Ace a fissarlo con occhi sgranati e a rodersi il fegato.
E questo chi si crede di essere?
 
*
 
Le fosse comuni erano grandi e maleodoranti buche scavate alla meno peggio nei campi, ormai diventati paludi, fuori dalle mura della città, poco lontano dalla Senna. Abbastanza vicine, ma non troppo, giusto quello che bastava per non dover faticare per seppellire qualcuno e per non beccare malattie infettive come la peste, la lebbra o altro.
Quella mattina le fosse non videro uno, ma la bellezza di due cadaveri freschi, ancora caldi, rotolare con un tonfo sordo all’interno di esse, già colme di altri uomini a cui era stata strappata la vita.
Allo spettacolo parteciparono, però, anche un gruppo di imbucati, gente straniera, mai vista prima e che sperava di poter continuare a mantenere l’anonimato, ovvero essere scambiata per un gruppo di teatranti, o addirittura per un circo, fino a che sostava nei dintorni della capitale.
-Abbiamo rischiato parecchio.- constatò un tizio dall’aria tranquilla, nonostante il significato pericoloso della frase, incrociando le braccia dietro la testa e stiracchiandosi, mentre un altro accanto a lui osservava apatico le fosse, giocherellando con una pistola nera tra le dita.
-Mai quanto loro.- rispose semplicemente, indicando con il capo le due figure che erano scampate per un soffio alla morte, lasciate alle cure del resto della loro combriccola.
-Quel Sabo è stato estremamente fortunato.- affermò Thatch, sentendosi in dovere di sorridere. –Non sei d’accordo, Marco?-
Il diretto interessato annuì, dando le spalle a quelle tombe all’aria aperta e dirigendosi verso quei due poveri sventurati per informarsi delle loro provenienza e, se fosse stato necessario, minacciarli per evitare che svelassero la loro presenza a chi non doveva sapere nulla.
-Se la caverà?- stava chiedendo il ragazzino moro che avevano salvato qualche attimo prima, inginocchiato accanto al corpo bagnato fradicio del suo amico quasi morto per annegamento.
-Lo spero tanto.- sussurrò la ragazza minuta vicino a lui, impegnata a fasciare la ferita al fianco della vittima svenuta per il troppo sangue perso. –I polmoni sono liberi, ma è molto debole. Vediamo come si comporta nelle prossime ore.- spiegò con professionalità, non curandosi del freddo pungente e dei suoi abiti inzuppati d’acqua che le si erano appiccicati alla pelle come anche i capelli castani. Era il prezzo da pagare per essersi tuffata nel fiume per evitare un altro omicidio di un innocente, riuscendo a recidere la corda legata al masso e a riportare in superficie il Rivoluzionario appena in tempo.
-Ti prego, tu lo devi salvare.- disse ad un tratto Ace, dopo essersi mordicchiato le labbra con incertezza, afferrandole saldamente un polso e supplicandola con gli occhi. Dopotutto non sapeva nulla su quella femmina, ma era anche vero che aveva rischiato grosso per aiutare Sabo, quindi il minimo che poteva fare era fidarsi di lei.
A Koala quasi si spezzò il cuore.
-Farò tutto quello che posso, te lo prometto.- affermò.
-Grazie.- mormorò a quel punto Ace un po’ sollevato, permettendosi solo allora di riprendere a respirare, guardandosi attorno spaesato.
Era ancora scosso per gli avvenimenti di quella mattina e per aver visto letteralmente la Morte in faccia, così gli ci volle qualche attimo per mettere a fuoco la zona e riconoscere il luogo. Si trovava al limitare delle paludi venutesi a creare con le piogge torrenziali del periodo invernale e con l’ormai nulla pulizia della città da parte degli addetti. Erano numerosi e maleodoranti stagni, circondati da una non indifferente boscaglia fatta di erbacce, cespugli e alberelli scheletrici ed inquietanti. Nessuno si azzardava ad avvicinarsi, becchini a parte, ovviamente.
La Senna attraversava quel degrado, ed era proprio sulla riva di essa che si trovava Ace, stremato, psicologicamente turbato e incredulo. L’ansia accumulata gli avevano lasciato addosso un senso di stanchezza pesante, mentre la preoccupazione per la sorte incerta di Sabo lo stava logorando.
Guardò il viso contorto dal dolore dell’amico e provò un senso di profonda angoscia. Non poteva rimanere fuori al freddo in quelle condizioni, altrimenti oltre alla ferita d’arma da fuoco si sarebbe persino beccato il colera, o peggio, visto e considerato che si trovavano vicino alle fosse comuni.
Stava pensando a cosa fare per trasportarlo senza rischi a casa, quando due uomini gli si avvicinarono chiacchierando.
-Te l’ho detto, mi sono voltato e non l’ho più vista, così sono andato a cercarla e l’ho trovata qui dietro. Poi mi sono accorto delle guardie e mi sono nascosto pure io, ma lei dopo si è tuffata nel fiume perché le era venuta voglia di andare a pesca ed è riemersa con quello! Cosa dovevo fare? Era mezzo morto, accidenti!-
Un ragazzo che doveva essere sulla trentina finì la sua contorta spiegazione con un gesticolare continuo di mani e guardò il suo compagno che gli stava accanto con un’espressione carica di aspettativa, volendo praticamente sentirsi dire che aveva agito bene.
L’altro, però, non sembrava essere dello stesso parere e glielo comunicò senza tanti giri inutili di parole. –Dovevi prendere Koala e trascinarla via prima che combinasse sciocchezze. Sei più grande, avresti dovuto farti rispettare.-
-Che cosa?- sbottò il castano. Poi si rivolse alla ragazza alla ricerca di un qualche sostenimento. -Ehi, ma l’hai sentito?-
-Marco,- disse allora lei con fare sconsolato e senza staccare gli occhi dal ferito, -Per favore, non adesso.-
Per Thatch fu chiaro fin da subito che non avrebbero risolto nulla se avessero deciso di caricarsi in spalla Koala e riportarla all’accampamento, quindi andò a piazzarsi vicino a lei in modo da rendere chiaro anche al fratello da che parte aveva deciso di stare. Il biondo, infatti, non tardò a rivolgergli un’occhiataccia, ma sapevano entrambi che alla bontà della giovane non resisteva nessuno.
Ace guardò come il ragazzo che rispondeva al nome di Marco sospirasse stancamente, passandosi una mano tra i capelli mentre ragionava sul da farsi. –E va bene.- dichiarò sconfitto, -Ma lo spiegate voi al babbo.-
Quando poi vide i tre sconosciuti armeggiare per sollevare il ferito, si fece prendere dal panico e un forte senso di protezione si impossessò di lui.
–Cosa credete di fare?- sibilò, scattando in avanti e coprendo con il busto il corpo inerme di Sabo, impedendo così agli altri di spostarlo. Non avrebbe permesso a nessuno di loro di portarglielo via. Chi erano poi quelle persone? Da dove erano spuntate fuori? Erano chiaramente degli stranieri dato l’accento e la poca conoscenza, quasi nulla per quanto riguardava il castano, del francese, per cui, per quanto ne sapeva, potevano essere contrabbandieri, zingari, rapitori o spie in incognito. Forse volevano catturare entrambi per venderli o consegnarli alla polizia locale. No, non poteva rischiare di mettersi ulteriormente nei pasticci. Sabo era in fin di vita, lui era piuttosto acciaccato e dalle paludi alla Rive Gauche, ovvero dall’altra parte della città, c’era parecchia distanza. Doveva conservare le forze e liberarsi di quegli impiastri.
La ragazza cercò di calmarlo, parlando con un tono dolce, ma allo stesso tempo deciso. –Il tuo amico ha perso molto sangue e se non curiamo la ferita la sua condizione peggiorerà sicuramente. Vogliamo solo portarlo al caldo e all’asciutto per aiutarlo.-
Ace la fissò per qualche istante, decidendo se crederle o meno.
-Lo porterò a casa sua e lo curerò allora.- dichiarò secco, vedendola scuotere il capo sconsolata.
-Non resisterà così a lungo.- gli fece notare a quel punto Thatch, il quale lo osservava dall’alto con le braccia incrociate al petto e un’espressione enigmatica sul volto, chiaro segno della sua indecisione. Stava infatti pensando al modo migliore per liberarsi del moro e aiutare Koala a trasportare il poveraccio all’accampamento a un paio di kilometri da lì.
-Ho detto che lo porterò io al sicuro dove è giusto che stia!-
Ace non ammetteva repliche e, da come mostrava i canini, quasi come un animale selvatico, Marco ebbe la conferma che non avrebbero risolto niente continuando a parlare con le buone. Prese la sua decisione, ovviamente senza consultare Thatch, il quale glielo fece notare durante il cammino verso casa, così, sospirando quasi con fare annoiato, estrasse la pistola che teneva nascosta dietro la schiena e, senza alcun preavviso, colpì violentemente alla testa Ace che cadde a terra svenuto ed innocuo.
-Adesso non morde più.- fece con nonchalance, rimettendo a posto l’arma sotto gli sguardi attoniti dei due compagni, i quali lo fissarono a bocca aperta, senza parole.
Fu Thatch a riprendersi per primo. –Ma sei impazzito? Non serviva arrivare a tanto!-
Marco gli rivolse un’occhiata in tralice. –Datti una mossa e aiuta Koala, a lui ci penso io. Faremo i conti a casa.-
Detto ciò, o meglio, dopo quella minaccia velata che prometteva future torture e strigliate di capo sia per Thatch che per Koala, il più grande si caricò senza sforzo Ace in spalla e si inoltrò nella palude, diretto verso la base.
L’unico suo pensiero era rivolto a cercare il modo migliore per spiegare al resto della famiglia che la loro copertura rischiava di saltare.
 
*
 
-Brucia, bellezza. Brucia!-
La sommossa non era iniziata nemmeno da mezz’ora e già le strade basse pullulavano di civili incazzati che scorrazzavano senza ordine e allo sbaraglio, scontrandosi contro qualsiasi ufficiale che si parava di fronte al loro cammino con l’intento di sopprimere la momentaneamente piccola rivolta che era scoppiata.
Un gruppo di uomini ci era andato giù pesante, al cantiere. Certo, anche lui non era stato da meno e quando quel soldato gli si era avvicinato con l’intento di perquisirlo, puntandogli il fucile contro, non ci aveva più visto e si era lasciato prendere un po’ la mano, dandogli una bella lezione. I suoi compagni di lavoro non erano stati da meno e si erano subito lanciati addosso al resto della truppa che era passata dalle parti del cantiere per le solite ronde. Da lì era cominciato l’ennesimo scontro tra popolo e classi elevate.
Proprio quello di cui lui aveva bisogno per divertirsi.
Con la torcia che reggeva in mano diede fuoco ad un pagliericcio situato in un punto strategico, causalmente vicino ad uno dei patiboli costruiti in ogni piazza e utilizzati per le esecuzioni pubbliche. Meglio distruggere quella merda e ridurne il numero il prima possibile ed evitare di vedere conoscenti penzolare con il cappio al collo.
L’incendio divampò quasi subito e in breve, dopo che una scia di polvere da sparo e combustibile venne magicamente sparsa a terra fino alla forca, ci fu il botto. Un’esplosione di legno, cenere e brandelli di qualche ufficiale che si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato investì i presenti in strada, richiamando ulteriori rinforzi da entrambe le parti.
-Bel lavoro Kidd!- si complimentò un giovane francese del sud con l’artefice di quello scompiglio, affiancandolo e piazzandogli in mano una rivoltella carica, sorridendogli complice e incoraggiante.
Il diretto interessato ghignò trionfante, gongolando per quelle attenzioni. Era conscio di essere un fenomeno, ma quando la gente glielo faceva notare si sentiva sempre un passo sopra agli altri. E la sensazione di potere gli piaceva immensamente, anche se ciò lo rendeva un autentico bastardo.
Le urla rabbiose della folla coprivano a malapena il rumore degli spari e delle lame incrociate che i più spavaldi avevano il coraggio di utilizzare, scontrandosi direttamente con alcune guardie della cittadina, mentre altri si limitavano a fare atti vandalici, casino e bloccare le strade per dimostrare il malcontento che aveva messo radici in ogni casa nei quartieri di Parigi.
In mezzo alla bolgia, solo pochi erano entusiasti di tutto quel delirio, ovvero un gruppetto di uomini e giovanotti troppo boriosi e poco intelligenti, gente abituata ad usare le mani prima del cervello. Erano considerati i carpentieri più in gamba del vicinato; almeno, fino a qualche anno prima il pensiero comune era quello. Con l’arrivo della crisi e lo schieramento nelle varie fazioni, quei lavoratori si erano trovati a scegliere un partito per cui patteggiare e, alla fine, com’era stato ovvio, avevano scelto il popolo, la loro famiglia. In quel modo, considerando gli elementi che componevano quella sgangherata compagnia, era stato inevitabile che le forze dell’ordine mettessero fine ai loro affari, obbligando il proprietario a vendere tutto e a campare diversamente.
Fortuna volle che Franky fosse un uomo dalle mille risorse.
Era riuscito a cavarsela aprendo un piccolo baretto e con quello tirava avanti, a stento, ma ce la faceva. Aveva ricavato dal cantiere un grande locale che usava per due scopi principali: il primo era vendere illegalmente alcolici a chiunque glieli chiedesse; il secondo era affittare l’intero edificio ai Rivoluzionari per le riunioni importanti.
Quel giorno si era ripromesso che avrebbe tenuto chiuso e si sarebbe preso una pausa, ma le guardie erano capitate a mettergli i bastoni tra le ruote e lo avevano fatto incazzare, perciò non aveva aspettato l’invito e gli ordini di nessuno e aveva dato inizio ad una rissa, creando una baraonda incontrollata. Pazienza se poi i capi si sarebbero incazzati per la sua intraprendenza, stare con le mani in mano a subire ingiustizie non gli era mai piaciuto.
Fu per difendere il suo onore che Kidd aveva sferrato il primo colpo all’ufficiale troppo curioso ed invadente, il quale si era pure permesso di offendere il miglior carpentiere della città. I suoi intenti erano stati nobili, ma i modi avevano lasciato del tutto a desiderare. Di certo, non ci si poteva aspettare altro da un ragazzo cresciuto per le strade e abituato a sopravvivere e a fare di tutto, anche l’assassino su commissione.
Proprio allora, schivando abilmente un affondo ben assestato da parte di un soldato, raggiunse il centro della piazza, seguito a ruota dalla sua ombra: un tizio dai lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle e un pessimo gusto in fatto di abbigliamento, ma Kidd non era nessuno per poter criticare i gusti degli altri perché lui per primo era un elemento alquanto particolare e unico.
Era un ragazzo che si notava ovunque andasse. Forse per i capelli rosso sangue, forse per lo sguardo sempre corrucciato e diffidente, forse per la costante aria intimidatoria o per la sensazione di disagio che incuteva nelle persone, ad ogni modo, attirava l’attenzione, sempre.
Kidd si appiattì contro il muretto di una delle tre fontane presenti, prendendo fiato e caricando l’arma con altre pallottole. Le aveva finite tutte e tutte avevano centrato il bersaglio. Stava migliorando, non c’era dubbio.
-Quanti sono?- chiese al suo migliore amico, il quale stava calcolando velocemente gli ufficiali più vicini alla loro portata, concentrato sulla piazza e sulle figure che la riempivano.
-Quattro alla mia sinistra. Sei dalla tua parte. Due sono vicini, direi circa cinque metri.- disse preciso per poi voltarsi verso il compagno e sogghignare in un modo enigmatico che solo Kidd avrebbe compreso. -E ti danno le spalle.-
Bastarono quelle parole per far scattare il rosso allo scoperto. Uscì dal suo nascondiglio, mentre il biondo pensava agli altri quattro, e corse veloce e invisibile verso i suoi bersagli, sfilando due pugnali dalla cintola dei pantaloni e piantandoli con decisione e forza nelle schiene delle guardie che, ignare del suo arrivo, avevano prestato attenzione ad altro.
Il colpo fu di tale brutalità che i due uomini finirono sbalzati a terra con la faccia sconvolta, ma priva di vita.
Era in quel modo che colpiva Kidd, era quello che aveva imparato a fare vivendo per evitare di morire. Il più forte sopravviveva e lui, negli anni, era diventato molto forte. Era un bravo combattente, era veloce, era silenzioso e letale. Era un assassino, ma almeno tornava a casa la sera con addosso la sua pellaccia.
-Ehi, Kidd!- lo salutò qualcuno, sbucando dalla ressa.
-Chi si rivede! Anche tu a sgranchirti le gambe, Zoro?-
Un giovane dall’aria divertita, gli abiti a brandelli e un paio di spade affilate strette nelle mani gli si avvicinò, controllando che non fossero in arrivo altri inetti leccapiedi della Corona, salutandolo con un cenno del capo.
-E’ opera tua il botto di poco fa?- gli chiese col fiatone, segno che si era dato un bel da fare fino a qualche istante prima. La prova di tale affermazione erano alcuni cadaveri in divisa sdraiati nella polvere a qualche metro da loro.
Kidd gonfiò il petto come un pavone, pronto a vantarsi. –Esattamente! Visto che roba?-
Zoro scosse il capo, ridacchiando tra sé e indispettendo l’altro povero illuso. –Me lo immaginavo.- ammise, quasi dispiaciuto, sfoggiando poi un sorrisetto malefico.
-Che vuoi dire?- sibilò allora Kidd, stringendo i pugni. Non gli piaceva venire criticato, proprio per niente. Tutto quello che faceva era perfetto, non sbagliava mai un colpo, mai.
-Semplice,- spiegò Zoro, impugnando con più decisione le spade e guardando davanti a loro dove, in fondo alla strada, proprio al limitare della piazza, si intravvedevano altri ufficiali diretti verso la mischia di scalmanati che si stavano scannando lì attorno. –Se fosse stato Ace non sarebbe risultato tutto così banale.-
Detto ciò partì all’attacco, lasciando il rosso interdetto a riflettere su quelle parole. Alla fine si riscosse e, digrignando i denti, trattenendo a stento un ringhio, afferrò la rivoltella e prese a sfogare la sua frustrazione giocando a tiro al bersaglio con ogni soldato che adocchiava. Doveva tenersi impegnato e concentrato sul nemico se voleva evitare di uccidere un compagno d’armi.
Quello stronzo, pensò, sperando che qualcuno desse una lezione a Zoro, ‘fanculo lui e la sua combriccola di deficienti! Sono mille volte meglio di Ace!
Improvvisamente, si rese conto di un particolare che avrebbe dovuto notare già da molto, ovvero la mancanza della presenza di qualcuno.
A proposito, che fine ha fatto quel moccioso?
 
*
 
Era calata la sera già da un pezzo sulla bella Parigi. Dopo un pomeriggio passato a creare rivolte per le piazze, tutte soppresse con successo dagli ufficiali dell’esercito, gli abitanti, quelli scampati alla morte, erano tutti rientrati in casa e si preparavano per la notte, mentre per le vie nessun rumore disturbava la quiete pubblica.
In un vicolo poco illuminato, ma non per questo meno abitato, del tanto frequentato e rivoluzionario Quartier Latin, le luci tremolanti delle lampade a olio poste fuori dalla porta delle modeste casette a schiera erano l’unico segno della presenza di vita da quelle parti.
In una di queste, in particolare, l’ultima della via, costruita esattamente a ridosso delle mura di cinta, e per quel motivo utilizzata dai rivoltosi come punto di ritrovo per la possibilità di entrare e uscire dalla città senza essere visti, si trovavano un buon numero di feriti, uomini reduci dalla rivolta del pomeriggio. Chi con una gamba rotta, chi con delle ferite d’arma da fuoco o da taglio, gente che addirittura si trovava in fin di vita, tutti attendevano con calma il loro turno in un’ampia stanza, affidati alle cure di gente ormai abituata a vederne di tutti i colori. Quelli messi peggio avevano la priorità sugli altri, ma nessuno si lamentava. Non ne avevano il coraggio dato il dottore che si ritrovavano ad avere.
Il diretto interessato uscì dalla stanza in cui operava con un’espressione soddisfatta stampata sul viso magro e giovane con uno straccio tra le mani, intento ad asciugarle e pulirle dal sangue rappreso. C’era un che di inquietante nella strana luce dei suoi occhi chiari, nelle macchioline scarlatte che lampeggiavano come insegne sul colletto bianco della camicia, nelle occhiaie scure e nella voce decisa, ma i presenti ci avevano fatto l’abitudine e avevano smesso di fare domande o sussurrare tra loro.
Il giorno in cui il dottore aveva fatto la sua prima apparizione, quando il malcontento generale dei cittadini si era acceso come una piccola candela, divampando sempre più e causando le prime vittime, tutti gli abitanti dei bassifondi avevano dato voce al loro parere, decretando che non avevano di certo bisogno di un borghese doppia faccia tra loro. A primo avviso, il ragazzo non aveva nessun problema, se non fosse stato per la sua appartenenza alla classe sociale benestante, ovvero quella che, per logica e interessi, era più vicina alla Corona francese.
Ogni volta che lo vedevano aggirarsi da quelle parti lo evitavano come la peste o lo insultavano, fremendo quando lui non rispondeva o li ignorava bellamente senza curarsi di loro, o della loro stupidità che dir si voglia, ma avevano tutti dovuto ricredersi quando il signorino si era preso la sua rivincita, salvando le vite degli uomini più in vista del ceto popolare. Prima una malattia incurabile, poi un polmone perforato ed infine un’intossicazione per avvelenamento. Era riuscito a curarli tutti e da quel giorno nessuno aveva più osato fiatare o aprire bocca sul suo conto. Non che prima lo facessero apertamente, non un’anima era stata tanto stolta da provocare volutamente e apertamente colui che era stato nominato Il Chirurgo della Morte.
C’era chi diceva, quando lui non era nei paraggi, che fosse il figlio del Diavolo; altri sostenevano di averlo visto praticare magia nera e altri ancora lo paragonavano ad una piaga, ma erano tutte dicerie, storie dell’orrore che si raccontavano tra ragazzini per spaventarsi a vicenda. Nessuno ci credeva più ormai, ma il soprannome era rimasto e, a detta di molti, calzava a pennello con la personalità del dottore.
-Il prossimo.- disse semplicemente il giovane medico, mentre alle sue spalle usciva un adulto, sostenuto da un compagno, con un braccio fasciato e una benda sull’occhio.
Un ragazzo con un buffo berretto a visiera e dei ciuffetti ramati e ribelli che gli spuntavano da sotto la stoffa gli si avvicinò affannato, gesticolando e parlando velocemente, cambiando continuamente discorso e senso logico delle frasi.
Il chirurgo non perse nemmeno tempo a starlo a sentire e lo superò, sapendo che quello gli sarebbe stato alle calcagna continuando a blaterare, e raggiunse un altro ragazzo, più grande e meno stupido, anche lui vestito con cappello e camice professionale, il quale stava annotando alcuni dati su un registro che stringeva tra le mani. Davanti a lui, sdraiato su una barella improvvisata, giaceva un energumeno dall’aria malconcia, sanguinante e privo di sensi.
Quello, per il dottore, era oro puro.
-Penguin, diagnosi.- chiese sbrigativo, ottenendo una risposta altrettanto veloce e precisa mentre si avvicinava all’individuo mezzo morto e iniziava a studiarlo, fissandolo con interesse che gli illuminava lo sguardo.
-Maschio, circa ventitré anni, francese. Ferita d’arma da taglio al braccio sinistro con parziale lacerazione dei tendini e sfregi sulla parte sinistra del viso. L’occhio non è stato danneggiato, ma sembra aver subito molti attacchi violenti in tutto il corpo. Oh, e un’altra cosa,- aggiunse infine, sorridendo complice al suo superiore e ricordandosi di un particolare non indifferente che aveva promesso di riferire, -Ha detto che avrebbe preso a calci in culo il dottore se gli fosse stato amputato il braccio.- concluse.
I pazienti presenti che si erano interessati alla scena rabbrividirono e tornarono a pensare agli affari propri quando videro il ghigno sadico del chirurgo prendere posto sulle sue labbra.
-Ottimo. Portatelo dentro.- ordinò, indicando la sala alle sue spalle. Poi si voltò alla ricerca di qualcuno non troppo idiota e abbastanza sveglio da essere in grado di portare un messaggio. La scelta ricadde su un moccioso appollaiato per terra sul tappeto accanto ad un anziano signore, forse il nonno.
-Tu, piccoletto,- lo chiamò, avvicinandosi e accucciandosi per essere alla sua altezza. I brividi sulle sue braccia finse di non vederli. –Corri dal Dottor Chopper e digli di venire qui a sostituirmi. Io avrò da fare per un po’.-
Detto ciò si alzò e raggiunse i suoi colleghi, pronto per ricominciare da capo con bisturi, ago e filo.
-Vediamo chi prenderai a calci nel culo quando avrò finito.- sogghignò, prima di iniziare ad operare quel tizio dall’aria così, ecco, qual’era la parola adatta?
Particolare, pensò il dottore, armeggiando con abilità e sicurezza con gli strumenti mentre cercava di rimettere in sesto l’arto del ferito nel tentativo di non dover essere costretto a buttare via un pezzo del suo corpo. Va bene, forse non lo avrebbe gettato per strada e lo avrebbe segretamente custodito per fare delle ricerche o per studiare più accuratamente i legamenti e i fasci muscolari, ma quelli erano dettagli che non era tenuto a spiegare al resto del mondo. Ad ogni modo, aveva preso la frase del moribondo come una sorta di sfida, una questione personale in poche parole. Non avrebbe di certo dato a quello spericolato con i capelli assurdamente rossi la soddisfazione di poter criticare il suo perfetto operato. Mica era un novellino arrivato ieri, lui.
In ogni caso, ne era incuriosito, soprattutto per l’aspetto fisico. Era troppo altro e sviluppato per poter essere un parigino; di quei tempi se si aveva il pane in tavola si era fortunati, figuriamoci se tutti erano ben nutriti e grossi quanto degli armadi con il cibo che scarseggiava in ogni abitazione. Deve per forza venire da fuori della regione, ragionò per conto suo. Insomma, con quei capelli era difficile non essersi accorti prima della presenza di un rosso per le vie di Parigi. Decise di chiedere informazioni, ovviamente per puri scopi medici.
-Ehi Penguin, raccontami la storia di questo disperato.- fece con tono casuale, apparendo annoiato come sempre e non destando alcun sospetto.
Sentendosi chiamare, il diretto interessato drizzò le orecchie e si schiarì la voce, contento di poter spettegolare un poco. Lui, con la scusa di dover raccogliere dati sui pazienti, sapeva tutto di tutti. E poi, quello che stava sotto ai ferri in quel momento se lo ricordava particolarmente bene visto che per poco non gli aveva staccato la testa dal collo per un moto di rabbia cieca.
-Viene dal Sud, dalla Côte d’Azur.- iniziò di buona lena, -E’ arrivato in città da circa un mese per offrirsi come volontario nella causa dei Rivoluzionari. Praticamente è venuto qui per combattere. Di sua spontanea volontà.- calcò bene le ultime parole per evidenziare quanto quell’dea fosse stata assurda e insensata.
Infatti il dottore scosse il capo. –Per quale motivo ha lasciato il caldo, pacifico e accogliente Sud per venire all’Inferno?-
-Bella domanda. Potremo chiederglielo quando si sveglierà.- propose Shachi, il ragazzino dai capelli ramati che non sapeva mettere assieme due frasi senza fare confusione. Forse era un pochino dislessico, ciò lo avevano capito tutti, ma portavano pazienza perché era un nuovo arrivato e anche perché aveva superato l’esame, ovvero era riuscito a non vomitare o svenire durante le operazioni del Chirurgo della Morte, conquistandone la stima, oltre che a un posto di lavoro come assistente infermiere. Praticamente era stato nominato l’ombra di Penguin, poco entusiasta di avere il fratello minore alle calcagna anche a lavoro.
-Non sono certo che sarà cordiale, ma sei libero di provare.- affermò il capo, chiudendo la discussione e riprendendo a concentrarsi sulla sua opera di sutura. Qualche punto e il braccio sarebbe tornato quasi del tutto come nuovo. Certo, avrebbe continuato ad usarlo come sempre e non si sarebbe ritrovato con un moncherino, cosa che sarebbe di certo accaduta se a operarlo fosse stato un altro medico e non il migliore. Chissà se quel pezzente aveva almeno qualche soldo per pagarlo.
-Qui abbiamo finito.- dichiarò una volta che la ferita fu ricucita e disinfettata. –Penguin, come siamo messi con la faccia?-
-Abbiamo pulito i tagli e applicato alcune bende. Non rimarranno segni profondi e tornerà come nuovo.- affermò con orgoglio, ma poi una smorfia un po’ amara gli increspò le labbra sottili. –Anche se devo dire che ha un naso davvero brutto.-
Il medico sogghignò beffardo. –Conseguenze di una frattura non sistemata in precedenza.- spiegò ironico, lavandosi accuratamente le mani e iniziando a riporre gli strumenti, aiutato dai due compagni che, nel frattempo, continuavano a parlottare tra loro come due vecchie signore pettegole.
-Se avete finito di sfottermi, io vorrei alzarmi.- grugnì ad un certo punto una voce roca e per niente divertita alle loro spalle, facendoli sobbalzare. Almeno, Shachi e Penguin si sentirono cogliere in fallo, mentre il pioniere della medicina si concesse un sorriso deliziato per la piega che stava prendendo la situazione. Era incredibile come la professione del medico gli desse così tante occasioni per dare aria alla sua lingua biforcuta e velenosa.
Si girò verso il paziente, asciugandosi distrattamente le mani e avanzando di qualche passo per avvicinarsi alla brandina dove lo avevano operato.
-Già sveglio dopo un’operazione? Sorprendente.- disse con sorpresa, o almeno, questo voleva far credere al rosso che lo stava fissando in modo decisamente truce, il quale si stava domandando se quella sottospecie di mucchio d’ossa con le occhiaie si stava prendendo gioco di lui o meno. –E come dobbiamo chiamare questo uomo così forte e coraggioso?- continuò con un ghigno il dottore.
Si, mi sta proprio prendendo per il culo, pensò la vittima prima di rispondere rudemente. –Eustass Kidd. Lei chi è?-
-Quello che non le ha amputato il braccio.-
-E posso sapere come si chiama il coglione che ho di fronte?- sputò Kidd, sollevando il capo sprezzante e ponendo lui stesso una domanda, dando così prova della sua poca grazia, cosa che i tre medici avevano già dedotto in precedenza.
Il ragazzo davanti a lui fece una risata bassa, ma abbastanza sinistra da far accapponare la pelle, soprattutto per l’espressione contorta che assunse successivamente, quasi simile ad un sorriso demoniaco che ad altro, almeno, quello fu il pensiero del rosso. Non che lui avesse avuto paura, semplicemente sentiva che quell’individuo non era uno di cui potersi fidare. Non gli piaceva, ecco.
-Mi chiamano Il Chirurgo della Morte,- spiegò quello, beccandosi un’occhiata curiosa da parte di Kidd che sembrava non credere ad una parola di quello che gli era appena stato detto.
Questo è un pazzo esaltato, si disse, pronto a prendere la sua roba e andarsene, ma poi il pazzo gli fu accanto in un attimo e si ritrovò a chiedersi se con quella faccia macabra non avesse sul serio meritato quel nomignolo. Ripensandoci, gli calzava a pennello.
-Sono Trafalgar Law.- si presentò ghignando, -Lo tenga a mente, Monsieur Eustass-ya.-
-E’ Eustass.- si premurò di chiarire Kidd, dopo qualche attimo di esitazione davanti a quel viso da schiaffi che aveva infranto le distanze di sicurezza che avrebbero dovuto esistere tra una persona normale e una malata di mente. Perché, andiamo, quello doveva essere proprio suonato per apparire tanto inquietante. I capelli neri spettinati; la barbetta lunga di qualche giorno; i vestiti sgualciti e macchiati di sangue e, che schifo, di chissà cos’altro; due occhi di ghiaccio e un sorriso da psicopatico. Davvero macabro da vedere, ancora peggio se lo si aveva a pochi centimetri di lontananza.
-Può andare. Stia a riposo per qualche giorno, ma domani torni qui per una visita di controllo.- lo avvisò il moro con uno sguardo di sufficienza, girandogli le spalle e non degnandolo più di altre attenzioni. Con lui aveva finito, era arrivato il turno di altri pazienti.
Kidd colse al volo l’occasione per defilarsi da quel luogo. Le gambe funzionavano ancora bene e probabilmente il suo amico Killer lo stava aspettando fuori per sapere delle sue condizioni. Se era fortunato avrebbe potuto tornare a casa con lui e dimenticare quella lunga ed estenuante giornata. Prima la rivolta in piazza, poi l’operazione e per concludere quel dottore saccente. Decisamente doveva buttarsi a letto e dormire.
Si alzò con un po’ di fatica ma, una volta testata la resistenza delle gambe, raccolse le sue cose, ovvero una camicia logora e una giacca autunnale, e si avviò verso l’uscita con i braccio fasciato legato al busto da una benda.
-Ehi.- si sentì chiamare prima di varcare la soglia, al che si voltò di lato giusto per vedere quel Trafalgar Law appoggiato al bordo del tavolo che lo fissava a braccia incrociate con un sorrisetto sfacciato.
Sul viso di Kidd apparve automaticamente una smorfia mentre si sforzava di essere educato. –Che vuole?-
-Faccia attenzione a non perdere il braccio per strada.-
-Vas te faire foutre.-
E sbatté la porta.
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Buonasera a tutti e Buone Feste!
Grazie al Cielo è arrivato Natale e con esso anche la mia connessione a internet si è miracolosamente ristabilita dopo avermi abbandonata per più di un mese. Non bastava il pessimo periodaccio di novembre-metà dicembre, pure lei si doveva mettere a rovinarmi la vita.
Anyway, colgo l’occasione per fare a tutti gli Auguri di Buone Feste, Buon Natale e Buon Anno e mi scuso anche per essere scomparsa, cause personali, ma eccomi di nuovo, come sempre, con qualcosa che era rimasto in cantiere, ma che sta procedendo, al momento, a gonfie vele.
Da notare che sembro avere un feeling particolare con il sabato, ma se devo essere sincera sono solo in ritardo con la pubblicazione dato che era tutto pronto per la Vigilia, LOL.
Yep, è una nuova long, è un’impresa complicata, ma mi ci sono affezionata, forse per il bisogno di evadere, forse per la disperazione di sognare sempre di più, insomma, volevo condividerla nella speranza di portarvi tanti sorrisi e diabete.
Non spenderò molte parole, la trama parla da sé e si svolge tutto durante la Rivoluzione Francese, uno dei miei argomenti preferiti in storia, perciò spero di renderla bene come lo è nella mia testa.
Temo di incappare in qualche imprecisione, perciò se ne trovate fatemi sapere. Non prometto di essere costante nelle risposte, ma spero al limite di riuscire a inserirle tutte nelle note alla fine dei prossimi capitoli.
Oh, e per le frasi in francese non so bene come organizzarmi. Insomma, se volete inserisco le traduzioni alla fine, oppure vi lascio interpretare, ditemi voi, sono a disposizione.
E, dato che prendo spunto da molte immagini che mi capitano sotto al naso, quelle ci saranno come sempre:
https://scontent-b-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfp1/v/t1.0-9/10393550_1579696172249219_6201799347061129791_n.jpg?oh=399bfb94ae74b6c4718ca0c07344e066&oe=55020FF0 Sabo lasciato affogare nella Senna;
 
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfa1/v/t1.0-9/10806412_1579696182249218_4562459023543876321_n.jpg?oh=82f6886aed4ff376432ab200a2614143&oe=5537A35D Questa mi piaceva perché riassumeva un po’ di personaggi in generale e volevo metterla come copertina, ma so che ne troverò altre, quindi diciamo che è la prima prova, ecco;
 
https://fbcdn-sphotos-a-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xap1/v/t1.0-9/10625082_1579696268915876_7646465115711332191_n.jpg?oh=fa2d56b471a9e6ada13a182164d7bfec&oe=5540D7A0&__gda__=1425916057_3e8a0b62cc4420851898d4ff0cf12a4d Come dicevo, questa è la seconda prova.
 
Dunque, è una storia, è assurda, e la dedico a tutti quelli che, come me, passano la maggior parte del tempo a formulare pensieri, scenari, ipotesi e film mentali con la speranza, un giorno, di fare qualcosa di grande e di epico.
La dedico ai sognatori; a quelli che sorridono anche se stanno male; a quelli persi e a quelli che non hanno problemi; a coloro che non sanno dove sbattere la testa e alle persone che hanno appena trovato una nuova speranza; a quelli che sono tristi e che piangono e a quelli che sorridono in ogni occasione; alla gente che ride, che urla quando parla, o che parla poco per timidezza; a quelli impacciati e a quelli estroversi; a quelli che non hanno paura di niente e a coloro che temono il giudizio degli altri; ai coraggiosi e agli impulsivi; agli innamorati e agli eterni single; a quelli che pensano solo ad una botta e via e a quelli che sognano l’amore; a chi ha fatto tutto per la prima volta e a chi deve ancora scoprire cosa vuol dire essere grandi; alle persone sole e a quelle che amano la compagnia; a chi preferisce un libro a un film e viceversa; a chi adora l’horror e a chi preferisce il romanticismo; a chi ha gli occhi di un colore impossibile; a chi non si piace e che in realtà è speciale; a chi deve solo alzarsi e prendersi ciò che gli spetta; a chi deve lottare per sopravvivere; a chi soffre e a chi si salva; a chi piace il cioccolato e a quelli che preferiscono il salato; a chi crede nella fortuna e a chi fa fatica ad andare avanti; a quelli che sono usciti da un periodo difficile e a coloro che sanno sempre come cavarsela; a quelli che hanno bisogno di sentirsi sostenere e a chi fa tutto da solo; a chi è pazzo e a chi è normale; a chi tiene agli amici; a chi tradisce; a chi desidera una seconda occasione; a chi gioca col fuoco; a chi vuole raggiungere la cima; a quelli che sono disposti a tutto e a quelli che prendono scorciatoie; a chi subisce ingiustizie; a chi si comporta bene; a quelli che non si accontentano; alle persone che non smettono di cercare quello che vogliono; a chi non si arrende; a chi prega e a chi non crede in nulla; a chi ha gettato la spugna; a chi si sente morire dentro; a  coloro che non hanno idea di cosa fare; a quelli che hanno paura dell’ignoto e a chi non teme nemmeno la morte; a chi osa; a chi vive fino in fondo; a chi se ne frega di tutto; a chi ama i genitori; a chi litiga col mondo; a quelli che vengono fraintesi; alla gente che si sente sola e abbandonata; a chi è voluto bene da tutti; a quelli che non vanno d’accordo con nessuno; a chi ha bisogno di un abbraccio; a chi sogna la gloria; a chi racconta balle; a chi sa essere sincero; a quelli che darebbero la vita per i loro cari; a chi ama; a chi cresce e a chi è già troppo grande; a chi ha l’anima in fiamme; a chi ama e a chi odia; a chi ha tutta una vita davanti.
Non fermatevi, mai.
 
Buon Natale a Auguri a tutti ^^
Con affetto e simpatia,
 
See ya,
Ace.

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Capitolo 2
*** Deux. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Deux.

 

Ace dormì della grossa fino al mattino seguente, quando si svegliò di soprassalto in un letto che realizzò non essere il suo e in una stanza che non apparteneva ad un’ala precisa della sua abitazione in città. Ad essere sinceri, non aveva nemmeno le pareti. Al loro posto c’era della stoffa spessa e il ragazzo intuì che doveva trattarsi di una specie di tenda improvvisata. All’interno pochi oggetti occupavano lo spazio, non vi erano armi e la brandina sulla quale si trovava scricchiolava in modo precario. Non che quell’aspetto lo avesse disturbato la notte, lui se doveva dormire lo faceva tranquillamente ovunque, anche con la testa nel piatto.
In ogni caso, decise che non aveva affatto tempo da perdere nel capire dove si trovava e, memore dei tragici avvenimenti del giorno precedente, scattò in piedi, venendo però colto da un violento capogiro che lo costrinse con un lamento a rimettersi seduto e a stringersi il capo con le mani per fermare il forte senso di nausea.
La testa gli faceva dannatamente male e dietro la nuca sentiva chiaramente la presenza di un bernoccolo. Provò a ricordare quello che gli era successo, ma tutto si faceva buio non appena tentava di riportare alla memoria quella ferita.
-Si sarà svegliato?- sentì una voce fuori dalla tenda, mentre due ombre si piazzavano al di fuori di essa.
-Ne dubito, Marco l’ha colpito forte.-
Ace inarcò un sopracciglio pensieroso, ma non ebbe modo di riflettere oltre perché le due figure entrarono in quello spiazzo continuando a chiacchierare e zittendosi stupiti quando lo videro seduto sul letto con la testa tra le mani, pallido come un lenzuolo, intento a fissarli spaesato.
-Oh…- fece quello che doveva chiamarsi Thatch, preso alla sprovvista. –Beh, mi correggo: è sveglio.-
L’uomo accanto a lui, uno strano ragazzo con dei lunghi capelli neri legati in una coda e smilzo, annuì automaticamente, osservando con curiosità il nuovo arrivato di cui tutti avevano parlato per l’intera notte.
-Mi sembra messo meglio dell’altro.- notò.
-Puoi dirlo forte.- rispose il castano.
Ace, a quelle parole, capì che si stavano per forza riferendo a Sabo, così i suoi occhi saettarono su di loro, inchiodandoli sul posto. –Lui dov’è? Come sta?- domandò categorico, pretendendo una spiegazione che, però, non arrivò.
Thatch si divertì molto, muovendosi per andare a tirare su di peso Ace, il quale non mancò di opporre resistenza. -Ma dai, non fare il difficile.- scherzò, acchiappando il moccioso con uno slancio e caricandoselo in spalla. –Non abbiamo tempo, il babbo ti vuole vedere.-
-Mettimi subito giù! Dov’è Sabo? Devo andare da lui!- sbraitò il ragazzo, dimenandosi per poter sfuggire a quella presa che si fece ferrea attorno alla sua schiena, incastrandolo e obbligandolo a lasciarsi trasportare per quello che doveva sicuramente essere un accampamento sotto gli occhi sgranati di un numeroso gruppo di persone che non aveva mai visto prima. E quelli da dove sbucavano fuori?
-Ci andrai una volta che il capo avrà finito con te.- gli rese noto Thatch, sorridendo entusiasta all’idea di presentare quel tipetto al vecchio. Di sicuro gli sarebbe piaciuto dato il modo di fare poco accondiscendente.
L’accampamento si rivelò più grande di quello che Ace si era immaginato. Era ben nascosto, situato in un particolare punto verdeggiante e coperto da alti alberi e fitte sterpaglie. Le stoffe delle tende, inoltre, erano tutte tinte di varie tonalità di verde, in modo da non destare sospetti a distanza. Alcune, addirittura, erano state piazzate in cima agli alberi e molti stranieri ci si arrampicavano senza sforzo o saltavano a terra con acrobazie di vario genere.
Ace non sapeva davvero cosa pensare. Gli veniva quasi da scambiarli per barbari o nomadi, ma ormai vivevano in un mondo civilizzato, non nel medioevo!
Non si accorse che la passeggiata in mezzo al bosco era finita fino a quando non venne scaraventato a terra con poca grazia, battendo il sedere e imprecando sonoramente contro Thatch, il quale si fece una bella risata battendogli una mano sulla spalla con fare amichevole.
Ace si rialzò velocemente, fulminandolo furente e pronto ad insultarlo. –Tu sei veramente…-
Una risata cavernosa gli fece morire le parole in bocca e si ritrovò costretto a voltarsi per vedere chi aveva la faccia tosta da ridere di lui, oltre che al resto di quella compagnia davanti alla quale era stato ridicolizzato abbastanza.
Il suo malumore scemò non appena si ritrovò di fronte un uomo tanto alto quanto largo, nonché imponente. Se non fosse stato per i capelli bianchi e per i baffi, Ace non avrebbe mai detto che quell’uomo fosse vecchio. Era vestito di tutto punto, con una lunga giacca in pelle marrone, una bandana nera che scendeva sulla fronte, degli stivali enormi che avrebbero potuto schiacciare un essere umano, guanti pesanti e rivoltella alla cintola. Sembrava uno dei pirati delle storie che gli avevano spesso raccontato quando era piccolo e viveva sotto la custodia di Madame Dadan.
-Che ragazzetto impertinente.- vociò l’omone, facendo gelare il sangue nelle vene di Ace che, però, non lo diede a vedere e si riscosse abbastanza in fretta da non fare la figura della femminuccia terrorizzata. Così si schiarì la voce e si preparò a fronteggiare quell’individuo a testa alta, sfrontato come sempre. –E tu chi saresti, vecchio?-
Attorno a lui cadde il silenzio ed ebbe come la sensazione di aver osato troppo, ma ormai ci era dentro fino al collo in quel pasticcio, per cui tanto valeva fingere di essere sicuro di sé e andare avanti. Le gambe, poi, non gli tremavano affatto.
Dopo qualche attimo durante il quale nessuno osò fiatare, il gigante di fronte a lui scoppiò nuovamente in una fragorosa risata, seguito a ruota nello stesso istante da Thatch, il quale non perse tempo ad affiancare Ace, passandogli un braccio attorno alle spalle e stringendolo a sé con confidenza.
-Sei una costante sorpresa, lo sai, ragazzino?- gli rese noto, scompigliandogli i capelli e non obbiettando quando Ace si tolse di dosso le sue mani con stizza, risultando ancora più buffo.
-Adorabile.- disse invece il ragazzo con i capelli lunghi dietro di loro in compagnia di altre persone che si erano avvicinate per guardare meglio la scena.
Da quando quel moccioso era arrivato all’accampamento il mezzogiorno precedente, tutti non avevano fatto altro che curiosare e fare domande sul suo conto, oltre che sulle condizioni dell’altro ferito che era stato affidato alle cure di Koala e di altri due aspiranti medici.
Ace non ci stava capendo nulla. Il vecchio rideva, l’idiota col parrucchino rideva, il resto dei presenti rideva, insomma, lui non sapeva cosa doveva fare per farli stare zitti e farsi portare da Sabo.
Già era nervoso per quella situazione, ma il suo stato d’animo non migliorò quando, mentre si guardava attorno con l’aria di chi crede di trovarsi in mezzo a dei pazzi, si accorse per caso della presenza di quel tale, Marco, con cui aveva avuto a che fare la mattina precedente. Lo stava guardando con una faccia niente affatto amichevole, ma ad Ace importò poco e non associò la sua immagine al suo salvatore, per niente, perché nella sua testa il biondo era stato nominato come la causa del suo malessere. Che fosse in debito con lui per essere ancora vivo, poi, era un dettaglio che poteva passare in secondo piano.
-Tu.- sussurrò, puntandogli un dito contro e attirando l’attenzione di Thatch e del vecchio. –Bâtard!-
Un coro di ‘Oooh’ si alzò alle sue spalle, ma lo ignorò bellamente, avanzando di un passo verso la sua preda con fare minaccioso.
-Sai, Izou, credo che lo abbia chiamato bastardo.-
Non si curò nemmeno della gomitata che il castano diede alle costole del suo amico, sussurrandogli poi che avrebbero assistito ad una rissa con i fiocchi.
Marco non sembrò per niente colpito e uscì dalla penombra, piazzandosi affianco del vecchio per rivolgergli uno sguardo di sufficienza. –Che vuoi?- domandò annoiato.
-Non avresti dovuto colpirmi!- sbottò il ragazzo, desideroso di prendere a pugni quella faccia da schiaffi. La cosa che detestava di più al mondo era venire ignorato e quel tizio lo stava trattando come se non valesse un soldo bucato!
Marco fece spallucce. –Se non avessi smesso di frignare a quest’ora il tuo amico non sarebbe vivo.- spiegò pacato, zittendo Ace e lasciandolo senza parole e senza alcun argomento con cui ribattere. Proprio come il giorno prima lo aveva freddato con una frase, esattamente come un moccioso ignorante.
Strinse i pugni. Gli avrebbe volentieri dato una lezione, ma aveva appena realizzato che Sabo era sopravvissuto. Doveva concentrarsi su di lui, quindi, il resto non era importante.
-Posso vederlo ora?- chiese mestamente, abbassando il capo e guardando altrove, fremendo per la risposta.
Fu il vecchio ad acconsentire a quella sua richiesta, intenerito dalla preoccupazione crescente che si leggeva sul volto del giovane e spaesato figliolo, ordinando a Thatch di accompagnarlo alla tenda dove riposava il suo amico, con la promessa che in seguito avrebbero parlato di affari.
Ace lo ascoltò, ma non lo ringraziò e non promise di tornare. Come aveva precisato: nulla aveva importanza in quel frangente e Sabo aveva la priorità assoluta.
 
*
 
A differenza di quello che stava pensando Ace, Sabo se la stava passando benissimo.
Aveva avuto gli incubi per tutta la notte e si era svegliato più volte grondante di sudore e bollente come un camino acceso in preda agli spasmi, ricadendo continuamente in uno stato di incoscienza fino all’alba, quando aveva aperto gli occhi con calma e senza movimenti bruschi. Si era riscoperto pieno di bende e sotterrato da cumuli di coperte. Stranamente, non si sentiva del tutto al caldo, ma doveva essere una conseguenza della febbre. Sicuramente si era beccato una bronchite visto che la tosse lo aveva tartassato anche nel sonno.
A parte la stanchezza, la sonnolenza, il freddo, l’influenza e il dolore lancinante al fianco, stava alla grande.
O almeno, era quello che voleva far credere a tutti i costi.
-Avanti, devo disinfettare la ferita.-
Insomma, mica poteva farsi vedere debole davanti ad una ragazza così gentile e, si, tutto sommato anche carina, ecco. Non bella, lui non aveva tempo per pensare certe cose e la sua vicinanza non gli faceva assolutamente nessuno tipo di effetto, ma doveva per forza ammettere che non era nemmeno così brutta. E comunque, quei capelli ramati e quegli occhi azzurri e pieni di bontà non lo avevano affatto colpito, figuriamoci.
Non voleva sembrare un moribondo e da un pezzo stava cercando di convincerla che si sentiva benissimo e che avrebbe anche potuto alzarsi per dimostrarglielo, ma lei non ci cascava. Lo ascoltava, lo guardava con un misto di divertimento ed esasperazione e, infine, sorrideva e ritornava all’attacco con bende e vasetti di poltiglie maleodoranti, chiedendogli gentilmente di scostare le coperte per medicarlo.
-Ti ripeto che non serve. Guardami,- colpo di tosse, -Sono in splendida forma!-
La ragazza sospirò, poggiando sul tavolino accanto al letto garze e medicine per poi tornare ad osservare il ragazzo che da quella mattina stava facendo i capricci. Non riusciva a capire se era in imbarazzo o se semplicemente avesse paura dei dottori.
-Ascolta,- iniziò per la millesima volta con pazienza, -Sei vivo per miracolo. Lascia almeno che controlli se i punti sono puliti.- lo pregò, allungando un braccio verso il suo busto, ma non arrivò mai a destinazione, venendo bloccata dalla mano del ragazzo che la afferrò per un polso, alzando un poco la schiena per avvicinarsi al suo viso.
-Non è necessario.- le disse ammiccando, sperando di riuscire a farla desistere usando come carta vincente quel po’ di quel fascino che credeva di avere, e che, oltretutto, aveva davvero, peccato che davanti a lui non ci fosse una di quelle ragazze qualunque del locale di Dadan che svenivano ogni volta che lui passava e che lo veneravano solo perché era un Rivoluzionario.
Infatti lei rimase impassibile, scoppiando a ridere e lasciandolo di stucco quando gli poggiò una mano sulla fronte per rispedirlo sdraiato sul letto con un movimento deciso. –Con me non funziona, Sabo.- lo informò sorridente.
-Oh, andiamo Koala, non mi servono cure!- si lamentò quello, dando sfogo alle sue lamentele. Le aveva permesso di imbottirlo di sostanze schifose e brodaglie per l’intera notte, a tutto c’era un limite però!
-Smettila e fatti curare.- lo riprese bonariamente, evitando una manata in viso e ignorando la serie di lamenti, scongiure e isterismi, riuscendo a strappargli via le coperte di lana e lasciandolo allo scoperto con addosso solo i pantaloni e i bendaggi.
-Fa freddo!- strillò allora il ragazzo, cercando di coprirsi.
Koala alzò gli occhi al cielo, chiedendosi se aveva a che fare con un adulto o con un bambino, e, afferrate le bende e il disinfettante, un estratto di erbe, si sedette sul bordo del letto con l’intento di controllare la ferita.
-Forza, mettiti seduto e appoggia la schiena sui cuscini.- gli disse, sospirando sollevata quando lui obbedì imbronciandosi. Finalmente era riuscita a spuntarla dopo ore di tentativi andati in fumo.
Sciolse i bendaggi attorno al costato con precisione, concentrata sul suo lavoro, o meglio, lo sarebbe stata se Sabo non l’avesse fissata in quel modo così insistente.
-Lo faccio per il tuo bene.- si sentì in obbligo di spiegare, sperando che spostasse l’attenzione altrove. Ovunque, tranne che addosso a lei. Non le piaceva quando la gente la studiava in quel modo, la metteva in soggezione e la faceva sentire insicura e, a volte, inadeguata.
Sabo sbatté le palpebre e si riscosse dai suoi pensieri, scrollando il capo. –Lo so, l’ho capito.- chiarì.
Pensavo ad altro, realizzò nella sua mente, ma non lo disse alla ragazza. Non ce n’era bisogno di rivelarle che il colore dei suoi capelli gli piaceva perché era solo un ragionamento senza senso.
Rimasero in silenzio e Koala poté medicare i punti e cambiare le bende, evitando così infezioni che avrebbero peggiorato le condizioni del ragazzo. Doveva solo attendere che gli passasse anche la bronchite che aveva preso per colpa dell’acqua gelida e sarebbe tornato come nuovo nel giro di qualche settimana, se tutto andava bene.
Gli stava applicando la stoffa sterilizzata e pulita attorno al fianco, bisticciando con lui per farlo stare fermo, quando entrò qualcuno nella tenda senza preavviso.
-E io che credevo che te la stessi passando male.- constatò una voce leggermente canzonatoria, ma sollevata.
Koala arrossì per il significato della frase e si allontanò come scottata, esattamente come fece Sabo, sbattendo la testa nella testiera del letto per la velocità del movimento.
-Cazzo, che botta!- sussurrò, massaggiandosi la nuca e sentendosi stringere in una morsa l’attimo dopo. Strinse i denti per non gemere di dolore. Era ancora un po’ acciaccato, ma non avrebbe mai rinunciato all’abbraccio fraterno di Ace che, fino a poche ore prima, aveva creduto di averlo perso per sempre.
-Mi hai fatto prendere un colpo, brutto idiota.- lo riprese il corvino, non accennando a volersi staccare da lui.
-Beh, qualcuno doveva pur levarti dai guai.- ironizzò Sabo, tossendo quasi soffocato e facendo si che Ace si rendesse conto di stare stringendo troppo la presa delle braccia attorno al suo collo.
-Lo sai che mi posso difendere da solo.- gli ricordò, lasciandolo libero di respirare e sedendosi a gambe incrociate accanto a lui, felice di saperlo fuori pericolo. Perché, insomma, se stava seduto e chiacchierava voleva dire che non stava per morire.
Una risatina sarcastica fece si che Ace scoccasse un’occhiataccia verso Thatch, il quale non era del tutto convinto che il mocciosetto fosse così forte, ma stette ben attento a non fare commenti, alzando le mani in segno di pace.
-Allora, come ti senti?-
-Magnificamente!- mentì Sabo, cogliendo al volo l’occasione per poter mettere fine a quella tortura. Non era fatto per stare fermo e voleva ottenere il permesso di potersi alzare il prima possibile. Peccato che non tutti erano d’accordo con lui.
Koala, infatti, ad un’occhiata interrogativa di Thatch scosse il capo, rispondendo per le rime allo sguardo contrariato del biondo con una smorfia per chiudere la questione.
-Come sta davvero?- domandò allora Ace, dopo aver assistito a quello scambio di occhiate contrastanti. Anche se non la conosceva, la ragazza sembrava quella di cui ci si potesse fidare di più in quell’accampamento. E poi Sabo era vivo, doveva pur contare qualcosa quell’aspetto.
Lei fu sincera, ignorando lo sguardo supplichevole del biondo che la pregava di mentire per lui, inutilmente. –Ha superato la notte e la ferita è stata richiusa, ma ha preso la bronchite e avrà bisogno di tempo per riprendersi. Se la tosse peggiora e si trasforma in colera non so quante possibilità avrà.-
Le dispiaceva doverlo dire, ma era la verità e non voleva di certo che quel ragazzo morisse, non dopo che aveva faticato tanto per salvarlo e ricucirlo. Sarebbe stato tutto inutile, allora.
Ace scoccò un’occhiataccia a Sabo, il quale sfoggiò un’espressione angelica ed innocente, cosa che gli riusciva perfettamente di solito, solo che quella volta non incantò nessuno.
Che diavolo, cosa è preso a tutti oggi? Non mi ascoltano più, pensò irritato, mentre suo fratello iniziava a fargli la paternale.
-Appena torniamo a casa non uscirai per un mese!- stava dicendo Ace.
-Te lo puoi scordare! C’è in ballo una Rivoluzione, l’hai dimenticato?-
-Non se ne andrà da qui fino a che non sarà guarito del tutto.- decretò Koala alle loro spalle, interrompendo il battibecco e fissandoli seria in volto.
-Scusami?- chiese a quel punto Sabo, anche lui senza traccia di scherzo nella voce. Koala era stata gentilissima, fantastica fin da subito. Gli aveva tenuto compagnia e si era presa cura di lui tutta la notte, sopportando le sue chiacchiere per l’intera mattinata e dandogli anche qualcosa di caldo da mangiare. Gli era simpatica, ci andava stranamente d’accordo e avevano anche fatto amicizia; insomma, non era male, ma lui era un Rivoluzionario e aveva una città da difendere. Non poteva perdere tempo a rimettersi in forze ed era pronto a dimenticare la sua gentilezza se fosse stato necessario a ritornare a casa.
Koala sembrò capirlo, ma non era una stupida e il suo lavoro lo faceva con professionalità. Se avesse permesso a Sabo di andarsene, sapeva che non avrebbe resistito a lungo. La sua condizione era ancora troppo instabile e poteva esserci una ricaduta.
Così prese un respiro profondo e, spalleggiata da Thatch accanto a lei, ripeté la sua diagnosi. –Non hai il permesso di uscire di qui, non finché non ti sarai rimesso.-
Sabo la fissò in silenzio per qualche istante, i muscoli delle braccia tesi e l’espressione impenetrabile. Non sembrava affatto il ragazzo solare che era stato fino a qualche minuto prima, ma Koala avrebbe dovuto immaginarlo. Dopotutto, era un combattente.
-Ace,- disse ad un tratto, -Aiutami ad alzarmi. Ce ne andiamo. Ora.- scandì con precisione.
La sorpresa più grande venne proprio dal suo amico, il quale aveva miracolosamente capito la gravità della situazione. Così, dopo avergli rivolto uno sguardo di scuse, gli mise una mano sul petto per fermare la sua avanzata. –Sabo, credo che dovresti ascoltarla.- affermò pacato, mentre l’altro strabuzzava gli occhi e gli domandava se era per caso diventato matto.
-Gli altri ci staranno aspettando!- ringhiò arrabbiato, -Non sanno dove siamo! E Rufy? A lui non pensi?-
In quel momento, Ace strinse i denti e si trattenne dal prendere a pugni l’amico, irrigidendo la postura e facendo capire a Sabo di aver esagerato. Ovvio che pensava a Rufy, non aveva mai smesso di farlo da quando si era svegliato e aveva già deciso che sarebbe andato a liberarlo il prima possibile e con tutto l’aiuto di cui disponeva. Ma non poteva farlo in quelle condizioni, con Sabo allo stremo e sperduti in mezzo alle paludi in compagnia di gente sconosciuta. Doveva prima capire come allontanarsi da lì, con lui in salute e fuori pericolo, si intendeva.
-Ace,- riprovò il biondo con più calma, -Sto bene.-
Il moro sospirò, prendendosi la testa fra le mani e pensando ad una soluzione soddisfacente. Un lampo di genio lo colse inaspettatamente per sua fortuna.
-Andrò a chiamare Trafalgar.- decretò sorridente, -Lo farò venire a visitarti e sentiremo anche il suo parere, così potrai…-
-Non credo che te lo lasceremo fare, ragazzino.- lo informò una voce allegra alle sue spalle. I due si voltarono a fulminare Thatch con gli occhi, il quale sfoggiò un sorriso per niente intimorito e si spiegò meglio. –Già è un problema che sappiate del nostro nascondiglio, figuriamoci se vi permetteremo di andarlo a sbandierare in giro. Anzi,- aggiunse poi, assumendo un’aria che voleva essere pericolosa e minacciosa, -Potremo anche decidere di uccidervi.-
Koala roteò gli occhi al cielo, scuotendo il capo e ripetendosi che quel ragazzo era senza speranza, mentre Sabo ed Ace si guardarono scettici. Non ci era voluto molto per capire che non rischiavano affatto la vita; dopotutto, anche se erano degli intrusi, quelle persone si erano comunque adoperate per salvare la vita ad entrambi.
Fu Ace a spezzare quel silenzio imbarazzante. –Bene, allora io vado.- dichiarò tranquillo, rivolgendosi poi solo a Sabo. –Tornerò prima di sera con Law, va bene? Tu cerca di fare quello che ti dice la ragazza.-
Sabo mise il broncio e borbottò qualcosa infastidito, ma alla fine acconsentì e lo lasciò andare, affondando sotto le coperte una volta che tutti furono usciti, deciso ad addormentarsi, o a fare finta di dormire, per ignorare Koala.
Voleva farla sentire in colpa, ma aveva sbagliato i suoi calcoli. Per lei, coloro che si comportavano in quel modo, non erano altro che dei bambini, perciò, nonostante tutta la sua bontà, lo lasciò a cuocere nel suo brodo e uscì dalla tenda. Si sarebbe data una ripulita e avrebbe fatto due passi per rilassarsi.
Certo che i francesi erano proprio testardi.
 
*
 
-Frena, ragazzino, dove pensi di scappare?- fece Thatch, afferrando Ace per la collottola e facendogli cambiare direzione, spingendolo verso l’interno dell’accampamento per riportarlo dal babbo.
-Oh, e lasciami! Lo so che non mi ucciderai.- si lamentò quello, dimenandosi per togliersi di dosso quel piantagrane. Peccato che il castano, oltre ad essere più grande, fosse anche il doppio di lui, così ogni suo tentativo di liberarsi fu vano.
-Potrei cambiare idea.- scherzò Thatch, ammiccando nella sua direzione. Quel mocciosetto lo divertiva parecchio: era simpatico e sveglio, forse un po’ pestifero e svampito, con l’aria di un disperato, e anche un po’ poveraccio, ma erano tutti dettagli! Sembrava in gamba e aveva un caratterino davvero interessante, inoltre aveva dato del bastardo a suo fratello Marco, quindi aveva per forza la sua simpatia e quella di metà della famiglia. Era a buon punto, di certo non sarebbe morto stecchito in quel campo.
Arrivarono dal babbo con un sottofondo di imprecazioni, bestemmie e minacce fatte a vuoto e solo quando gli furono di fronte Thatch si permise di spintonarlo in avanti, finendo per far cadere il più piccolo a terra per la seconda volta in quel giorno. Forse stava esagerando, doveva darsi una controllata.
Ace non mancò di incendiarlo con lo sguardo prima che il vecchio, trattenendo una risata, si decidesse ad attirare l’attenzione di tutti su di lui.
-Allora, qual è il tuo nome?- lo interrogò.
-Non sono affari tuoi.- gli venne risposto.
-Si chiama Ace.-
-Spione.-
-Piantatela di fare i bambini voi due.- li sgridò Marco, il quale stava raggiungendo il limite della pazienza. Non bastava Thatch che si comportava da deficiente ogni santo giorno, doveva pure capitargli uno che gli tenesse testa e che lo incitasse a dare il peggio di sé.
Il vecchio rise sommessamente, riprendendo poi da dove aveva interrotto e tirando in ballo un argomento piuttosto delicato. –Dimmi, Ace, tu da che parte stai?-
A quella domanda, il ragazzo drizzò le orecchie e si mise sull’attenti. Aveva capito che l’uomo si stava riferendo alle due fazioni che dividevano Parigi in quel periodo e che si facevano la guerra per le strade, perciò decise di essere serio per quella volta.
-Sto con i Rivoluzionari.- rispose fiero, drizzando le spalle e alzando il mento. Non era un atteggiamento di sfida il suo, solo era orgoglioso di quello che era e ogni occasione era buona per dimostrare che credeva negli ideali della Rivoluzione.
-Quindi vuoi far capitolare la Corona?-
-Farò di tutto affinché accada.- dichiarò sicuro.
-E adesso vorresti che io ti lasciassi libero, giusto?-
Ace nemmeno immaginava di essere un prigioniero. –Si,- rispose comunque, -Ho un fratello da liberare, dei compagni da cui tornare e una nuova rivolta da organizzare.- rivelò senza esitazione. Era un tipo impegnato, lui.
Tutti si fecero stranamente silenziosi per i minuti successivi, tanto che Ace si preoccupò di essere finito in mezzo a degli ufficiali in incognito. Dopotutto, non era da escludere quella ipotesi visto che non si fidavano ancora a lasciarlo andare. Poteva essersi messo nel sacco con le sue stesse mani, ma decise che non gli importava. Sarebbe morto per difendere quello in cui credeva.
Alla fine, una mano si abbatté sulla sua spalla e si ritrovò accanto un ghignante Thatch, intento a fissare in modo complice il vecchio davanti a loro, il quale non mancò di rispondere al sorriso.
-Molto bene allora.- annunciò, alzandosi dalla sedia per andargli incontro, -Sappi che potrai contare anche sul nostro aiuto.-
-Cosa?- domandò Ace isterico, indietreggiando per non essere raggiunto, azione del tutto inutile dato che l’uomo allungò un braccio e lo afferrò prima che potesse allontanarsi troppo, stringendolo in una specie di abbraccio che sembrava più un tentativo di omicidio per soffocamento che altro.
Non ci stava capendo niente e quando anche Thatch gli saltò addosso, tutto contento e felice come una Pasqua, credette di aver preso un abbaglio. Che diavolo era successo?
-Non fare quella faccia, non dirmi che non hai mai sentito parlare di Barbabianca!- gli urlò il castano nelle orecchie, lasciandolo intontito.
Barbabianca. Barbabianca? Dove ho già sentito questo nome?
-E’ solo il vecchio più rivoltoso di tutta l’Inghilterra.- gi spiegò subito dopo il castano, vedendolo perplesso.
Ace si illuminò come una lampada a olio. Oh, quel Barbabianca!
Quando era ancora un bambino e lavorava come sguattero a Montmartre gli era giunta voce di un Lord inglese trasferitosi nel Nuovo Mondo, un certo Edward Newgate, detto Barbabianca, ricco quasi quanto il Re d’Inghilterra, ma poco disposto ad accettare la supremazia della Famiglia Reale e la condizione di dover cedere metà delle sue terre oltre a dover obbligare i suoi figli ad arruolarsi nella milizia per servire al meglio la Patria. Quando, inevitabilmente, era scoppiata una guerra di interessi tra l’America e il Regno Unito, dal quale aveva dipeso per anni, i giornali non avevano parlato d’altro per mesi, raccontando del suo contributo alla causa, della fuga dalla città portuale dopo l’arrivo dei marines inglesi, del casino al porto, con tanto di rivolta popolare e incendio, del furto di una nave della Marina e della successiva scomparsa. Lo avevano creduto morto a causa di una tempesta improvvisa scoppiata in mare aperto mentre era diretto chissà dove ma, a quanto pareva, sia lui che la sua famiglia stavano bene e se la godevano alla grande.
-Non ci posso credere.- sussurrò incredulo, faticando a chiudere la bocca, aperta per lo stupore. Quell’inglese aveva fatto perdere le sue tracce, scampando alla pena capitale e mettendo in salvo tutti i suoi cari. Era una leggenda dalle sue parti e ricordava che, più di dieci anni prima, tutti i mocciosi, lui compreso, che scorrazzavano per strada avevano stressato gli animi degli abitanti, dando fuoco a qualsiasi cosa nelle vie dei sobborghi, per un pezzo dopo che la notizia aveva raggiunto quelle terre.
-Quante storie, sono solo un povero vecchio.- si giustificò Barbabianca con modestia.
-Ti abbiamo lasciato di stucco, eh?- ridacchiò Thatch.
-Sorpreso, piccoletto?- lo prese in giro Marco, passandogli accanto e superandolo con una spallata provocatoria che lo riscosse.
Il moro ci rifletté per un istante, mentre un’idea e un piano malefico e contorto gli balenavano nella mente. Se era vero che il vecchio Newgate era disposto a prendere parte alla Rivoluzione, allora era più che benvenuto.
Ace si schiarì la voce e fronteggiò il vecchio, ignorando la sgradevole sensazione di essere più basso e gonfiando il petto per apparire più grosso e meno mingherlino.
-Barbabianca, voglio parlarti!-
Avevano un sacco di cose su cui discutere.
 
*
 
Freddo. Freddo e buio. Erano quelle le uniche cose che lo circondavano da quel fatidico mattino, quando il mondo aveva deciso di rivoltarsi contro di lui e iniziare a fargli patire le pene dell’Inferno. Perché era di quello che si stava parlando, dato che i suoi nemici erano nientemeno che diavoli, e per giunta della peggior specie.
Avevano rinchiuso il ragazzino a in una cella angustia e sporca, con le assi del pavimento marce e dure, mangiate dai tarli e corrose dall’umidità; a terra, in un angolo, c’era un mucchietto di paglia bagnata e puzzolente che solo a starci vicino faceva venire la nausea, mentre tutt’attorno c’erano sbarre di ferro irremovibili e senza nemmeno una via d’uscita. E c’era silenzio, troppo, rotto solamente dal rumore di passi delle guardie lungo i corridoi e dai lamenti, alle volte strazianti, del resto dei carcerati. Ad ogni modo, Rufy si sentiva solo.
Ah giusto, c’è Orazio con me, pensò sarcastico, rivolgendo un’occhiata disgustata ad un ammasso di stracci e carne in decomposizione gettato in una posa inquietante nella cella accanto alla sua. Probabilmente quello che rimaneva dell’ultimo prigioniero dimenticato da tutti. Appena l’aveva notato si ero sentito cedere le gambe e rivoltare lo stomaco, tanto che era stato costretto a tapparsi con forza la bocca per non urlare o vomitare. La scena era stata raccapricciante e la paura di finire in quel modo si era insinuata con forza dentro di lui, nonostante avesse cercato di scacciarla.
A conti fatti, però, cosa gli importava di morire? Non gli era rimasto più nessuno in quella vita e il dolore per la perdita dei suoi cari bruciava più di mille ferite. Non era giusto che un ragazzo di soli diciassette anni dovesse patire tutte quelle sofferenze. Quando avrebbe avuto fine quella tortura?
Affiancato al pensiero della Morte, però, ce n’era anche un altro, ovvero quante speranze poteva avere di riuscire a fuggire. Aveva già provato a forzare la serratura o a trovare una crepa nelle pareti per riuscire in qualche modo ad uscire, ma era stato tutto inutile e vano. Sembrava che quello fosse il suo destino: bloccato in una cella a piangere tutte le sue lacrime e ad aspettare il momento del trapasso.
Stava appunto vagliando la possibilità di lasciarsi morire di fame, quando, ad un tratto, qualcosa attirò la sua attenzione e lo fece scattare in allerta con il cuore in gola. Uno scricchiolio sinistro in un angolo lontano delle segrete che si ripeté per un altro paio di volte, come dei passi che si facevano sempre più vicini.
Smise persino di respirare e osservò attento i contorni scuri della prigione nel tentativo di scorgere qualcosa nonostante la poca luce presente che gli permetteva solamente di riuscire a vedere le celle di fronte e di fianco alle sue.
-Avete capito male! E’ tutto un grosso equivoco!- sbraitò all’improvviso la voce di un detenuto in lontananza, la quale si faceva sempre più forte e acuta mano a mano che si avvicinava.
Rufy sospirò e si adagiò a ridosso della parete fredda. Da quando era stato rinchiuso ne aveva viste circa cinque di scene come quella. Le guardie non si stancavano mai di catturare le persone?
-Sta zitto, non hai il diritto di parlare.- sancì un secondino con tono duro.
-Ascoltatemi!- insisteva il poveraccio, disperato. –Io non ho fatto niente, sono innocente vi dico!-
Nessuno lo ascoltò, ovviamente, e il nuovo arrivato venne scaraventato senza grazia dentro alla stessa cella di Rufy, il quale si scansò appena in tempo per evitare di venire investito dal corpo del suo nuovo compagno, fresco di arresto. Chissà cosa aveva combinato.
Le sbarre furono richiuse a chiave con un suono metallico e gli ufficiali se ne andarono velocemente, ignorando gli isterismi di quello strano individuo e lasciandolo a strillare da solo.
L’uomo tirò un calcio alla prigione, stizzito e arrabbiato. –Bastardi.- sputò.
Rufy, che se ne era rimasto buono fino a quel momento, si rannicchiò a terra, osservando meglio il tizio dall’aria famigliare, il quale continuò ad imprecare per la successiva mezz’ora senza accorgersi di essere in compagnia.
-Dannazione, come faccio ad uscire di qui adesso?- si lamentò, grattandosi il capo e guardandosi attorno con fare dubbioso. Nell’osservare la cella si accorse della presenza di uno scheletro e la sua faccia impallidì per il disgusto.
Rufy, invece, si illuminò in quell’istante. –Scusa,- disse educato, ma spaventando ugualmente a morte l’altro prigioniero, il quale credette per un istante che il deceduto avesse parlato. -Anche tu vuoi andartene?-
-Mon Dieu, un morto che parla! Guardie! Guardie, vi prego, aiutatemi!-
Una mano si appoggiò sulla sua spalla e la paura fu così tanta che il poveretto crollò svenuto nel giro di pochi secondi.
Quando rinvenne con la sensazione di essere preso a schiaffi, si ritrovò faccia a faccia con un ragazzino dall’aria distrutta che non aveva visto prima. Forse era arrivato da poco mentre lui aveva perso i sensi. Poi il ricordo dello scheletro parlante gli invase la mente e gli venne la pelle d’oca.
Abbracciò il più piccolo e lo trascinò dall’altro lato della cella, tremante.
-Ascolta, amico, non avvicinarti a quell’ammasso di ossa. E’ posseduto!-
Rufy inclinò il capo, leggermente in imbarazzo. –Uh? Ma no, cosa dici, prima ero io che parlavo. Tu non mi hai semplicemente visto.- gli spiegò mortificato, sorridendo colpevole quando l’uomo iniziò ad inveire contro di lui non appena scoprì la verità.
-Pazzo! Ti rendi conto della paura che ho preso?- sbraitò inferocito. Aveva fatto una pessima figura e sarebbe stato un disastro se si fosse venuto a sapere in giro. Lui, la Leggenda Vivente di tutta Parigi, spaventato da un moccioso burlone. Totalmente assurdo.
Si voltò per vederlo bene in faccia per ricordarne i tratti con lo scopo di ucciderlo il prima possibile, quando, guardandolo meglio, un brivido gli corse lungo la schiena.
-Ehi, aspetta un momento,- farfugliò indietreggiando, -Io ti conosco! Tu sei Rufy, il fratello di Ace!-
-Conoscevi mio fratello?- chiese il ragazzino, sentendo qualcosa incrinarsi nel suo petto e gli occhi farsi lucidi. Non era una novità, Ace era conosciuto e benvoluto da tutti in periferia.
-Certo che si! Siamo grandi amici!- affermò l’uomo, annuendo convinto e raccontandogli di quella volta in cui il ragazzo in questione era capitato nella taverna dove stava festeggiando e si era messo a mangiare e a bere con lui e i suoi compagni di contrabbando senza essere stato invitato. Un paio di spiegazioni e una scazzottata avevano sistemato tutto e i due erano andati subito d’amore e d’accordo.
-Non mi sembra che mi abbia mai raccontato di te.- confessò Rufy, pensieroso.
-Come è possibile? Io sono Bagy, Bagy il Clown! Sono famosissimo in città!-
-Bagy?- quel nome gli diceva qualcosa, in effetti.
-In persona! Impossibile che tu non sappia di me!-
-Mhm, sei quello che è stato sfrattato da palazzo e dalla compagnia teatrale?- azzardò Rufy, ricordando lo scandalo di cui avevano parlato per giorni i giornali. A quanto pareva un teatrante di corte, ricercato per aver messo le mani nelle casse reali, aveva tentato di truffare i cittadini fingendosi un pagliaccio del circo di nomadi che, puntualmente, faceva la sua apparizione a Parigi una volta ogni due mesi. Doveva per forza trattarsi di lui perché quei capelli inspiegabilmente azzurri, probabilmente una parrucca, e quel naso rosso, senza dubbio finto, potevano appartenere solamente ad un clown.
-Tutte chiacchiere senza fondamenta.- ribatté quello piccato. Possibile che la gente non avesse un minimo di rispetto per la sua persona? Maledetta quella volta in cui aveva smesso di fare il ladro professionista per iscriversi a recitazione.
Rufy ridacchiò, sinceramente divertito da quello strano tipo. Aveva sentito anche altre storie sul suo conto, per esempio che fosse un ladro e un assassino, ma non era affatto intimorito. Anzi, gli stava parecchio simpatico. Chissà da che parte stava.
Decise che glielo avrebbe chiesto prima o poi, ma aveva altre questioni da risolvere, per esempio escogitare un modo per uscire da quella misera prigione.
-Senti,- proruppe, interrompendo lo sproloquio di Bagy senza scusarsi, -Tu hai qualche idea su come si possa evadere da qui?-
Bagy lo guardò come se fosse impazzito. Quel moccioso aveva sul serio chiesto se esisteva un modo per andarsene? Va bene che non aveva la faccia di uno sveglio, ma non immaginava che potesse essere così ingenuo.
-Ragazzino, ma hai una vaga idea di dove siamo?- domandò, fissandolo interrogativo.
Rufy fece spallucce. –No.- rispose, quasi con ovvietà.
E’ stupido, pensò Bagy, scuotendo il capo. Sospirò sconsolato, allargando le braccia come a voler abbracciare l’intero edificio. –Siamo rinchiusi nella Bastiglia, la Fortezza inespugnabile, il Santuario delle Forze dell’Ordine, l’Inferno dei carcerati, il Punto di non ritorno!- terminò macabro.
-E allora?- gli venne chiesto con indifferenza, ma a quel punto la sua pazienza si era esaurita.
Afferrò il moccioso e lo scrollò a destra e a sinistra senza curarsi di fargli male. Probabilmente dovevano averlo torturato prima di rinchiuderlo, altrimenti non si sarebbe spiegato quella sua ingenuità.
-Sei sordo? Ho detto la Bastille!-
Rufy si grattò la testa, pensieroso. Certo, aveva capito che stavano parlando del penitenziario peggiore della città, quello enorme e brutto, senza colori, ma perché Bagy continuava ad agitarsi? Era una prigione come un’altra, potevano benissimo evadere.
Si guardò attorno per farsi una migliore idea dell’angusto spazietto a loro riservato, fermandosi ad osservare la piccola finestrella che lasciava passare un filo di luce e aria pulita. Avrebbero usato quell’apertura per mandare un messaggio o per segnalare la loro posizione ai compagni, di certo se ne sarebbero accorti quando avrebbero fatto le ronde in incognito.
-Prendimi in braccio.- ordinò al suo nuovo amico, saltandogli addosso e arrampicandosi sulle sue spalle senza attendere nemmeno il permesso.
-Ehi, ma che fai? Levati di dosso, moccioso!-
-Fermo, vai più a sinistra! No, non da quella parte, à gauche!-
Rischiando di cadere e di perdere l’equilibrio più volte, in un sottofondo di borbotti, insulti e maledizioni che destarono anche il resto dei prigionieri nelle celle affianco, i quali allungarono il collo oltre le sbarre per curiosare e scoprire chi aveva tante energie da sprecare facendo baccano, Rufy riuscì ad aggrapparsi al ripiano della piccola finestra e a sporgersi verso l’esterno, guardando in basso.
Non immaginava che fossero così in alto, ma non sarebbe stato un problema.
Si tolse la camicia rossa che stava indossando e la legò alle sbarre, assicurandosi che sventolasse fuori in modo da essere visibile ai passanti. Era certo che a qualcosa di buono sarebbe servito.
-E adesso che si fa?- gli domandò Bagy una volta che il ragazzino tornò con i piedi per terra, sedendosi accanto a lui con un sospiro stanco e dalla nota rassegnata.
Rufy tirò su col naso, stringendosi nelle spalle. –Aspettiamo.- disse semplicemente, starnutendo l’istante dopo. –Ohi, prestami la tua giacca, ho freddo.-
-Te lo puoi scordare, brutto impiastro!-
All’imbrunire, Rufy aveva guadagnato un nuovo cappotto e Bagy si malediceva per aver indossato una camicia troppo leggera quando era uscito di casa quella mattina.
 
 
 
 
 
Angolo Autrice:
Buongiorno ^^
Sono un po’ di fretta, se ci sono errori li correggerò presto perché, anche se il capitolo era già pronto, mi sono presa all’ultimo per rivederlo e or il lavoro mi aspetta, stasera ci sarà un bel diciottesimo da festeggiare, la notte sarà giovane e io domani sarò uno straccio. YEEEE.
Dunque, per chi non ci stesse capendo un accidente avviso che dal prossimo capitolo si capiranno molte più cose, questa è ancora un’infarinatura generale.
Qualcuno si è chiesto cosa ci facesse Koala con la ciurma di Barbabianca. Beh, diciamo che mi serviva una scusa per far prendere a Sabo una bella cotta per lei ^^ Non sarà tutto canon, alcune cose le ho cambiate per comodità, ma più o meno non distruggerò tutte le basi di OP.
 
Bene, capitolo revisionato e corretto, con aggiunta di immagini che ieri non sono riuscita a mettere ^^
https://scontent-b-cdg.xx.fbcdn.net/hphotos-xap1/v/t1.0-9/s526x296/1902824_1583276841891152_4008948130538364570_n.png?oh=2d9177ccd03f648613715792206d7e18&oe=552C29E0 Bagy.
 
https://fbcdn-sphotos-b-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xpa1/v/t1.0-9/10885591_1583276805224489_745714689518258276_n.png?oh=7672c3c7cfa0c78f62ecdfb3592d3145&oe=5534E665&__gda__=1429690845_555714e3aa00b78261d12e920fd8953a Marco.
 
https://scontent-b-cdg.xx.fbcdn.net/hphotos-xap1/v/t1.0-9/10849894_1583276771891159_5150425834204807030_n.jpg?oh=60bf3ed7d2608275a60f3eb0ca15d395&oe=55305DBD Thatch.
 
Ringrazio tutti per le recensioni al capitolo scorso, mi fa davvero piacere che abbiate apprezzato l’idea ^^ e grazie anche ai vecchi e ai nuovi lettori.
 
Alla prossima settimana!
See ya,
 
Ace.

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Capitolo 3
*** Trois. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Trois.

 

Marco era molto scettico riguardo la decisione presa da Barbabianca. Era passato già molto tempo da quando avevano lasciato l’America in fretta e furia, braccati da quelli che una volta avevano chiamato amici, confratelli, famiglia. Li ricordava ancora bene, quei momenti, quando il panico aveva preso possesso di lui e dei suoi due fratelli, ma il babbo li aveva tranquillizzati e aveva promesso loro che nessuno si sarebbe fatto male. Alla fine, era andato tutto per il meglio e loro erano riusciti a lasciarsi alle spalle quella terra traditrice e malvagia. Certo, gli anni passati in mare, girovagando allo sbaraglio, erano stati duri e faticosi, ma avevano dato modo al loro piccolo nucleo famigliare di allargarsi acquisendo nuovi fratelli, tanto da non poterci più stare tutti su una sola nave. La compagnia di navigatori che avevano formato di conseguenza era stata un’ottima trovata e, in quell’ultimo periodo, le tre navi che continuavano a perlustrare il mondo per conto del grande Capitano Newgate avevano avvisato che erano riusciti a trovare un posto tranquillo nel Nuovo Mondo, dove nessuno di loro era ricercato e dove avrebbero potuto stabilirsi in maniera permanente. Finalmente avrebbero potuto lasciare la Francia, ci erano rimasti anche troppo a lungo e ormai la conoscevano alla perfezione. Si erano momentaneamente stabiliti da quelle parti perché la salute di Barbabianca aveva iniziato a far preoccupare un po’ tutti, così avevano deciso di fargli fare una pausa, tenendolo a riposo e non lasciandogli più manovrare una nave. Le cose stavano andando bene, mancava davvero poco alla loro partenza, giusto qualche mese, tempo che due delle loro navi attraversassero l’oceano, quindi, perché imbarcarsi in quella causa che con loro non aveva proprio nulla a che fare?
Tuttavia sapeva che, anche se l’uomo era ormai vecchio e un po’ svampito, non era un incosciente e aveva anche la certezza che non avrebbe mai messo in pericolo la vita dei suoi figli invano.
Così sospirò, tentando di rilassarsi e di prestare attenzione a quella sottospecie di trattativa improvvisata che stava avvenendo sotto al suo naso all’interno della tenda adibita per le riunioni importanti. Ancora non riusciva a credere che quel mocciosetto stesse tentando di guadagnare un alleato in battaglia, per giunta del calibro di Edward Newgate.
-E abbiamo anche un sacco di armi ben nascoste!- stava dicendo entusiasta, come se un paio di misere pistole e qualche spada potessero essere sufficienti a sbaragliare l’esercito francese che proteggeva la Corona. Quasi gli venne da ridere. Loro, a confronto, erano superiori e la mezza dozzina di cannoni che tenevano al sicuro nel folto delle paludi ne era la prova.
Barbabianca ascoltava la spiegazione del ragazzino con interesse misto a divertimento. Da tempo non gli capitava di imbattersi in un moccioso così irriverente e irrispettoso, ma a suo favore poteva dire che il carattere e la determinazione non gli mancavano affatto. Avrebbe potuto dargli una possibilità, giusto per non vivere con il rimpianto e, anche se quei Rivoluzionari erano male organizzati e privi di una buona preparazione militare, ci sarebbero sempre stati i suoi figli da poter assumere come maestri temporanei. E poi, ad essere sincero, vedere capitombolare il Re della Francia sarebbe stato per lui il miglior regalo di sempre.
-Molto bene, ragazzo,- proruppe soddisfatto ad un certo punto, battendo il palmo di una mano sul tavolo e facendolo vibrare, -Mi hai convinto.-
-What?- domandarono Marco e Thatch all’unisono, uno scattando in piedi dalla sedia e l’altro sputando il vino che stava sorseggiando, non preoccupandosi nemmeno di parlare in francese, ma utilizzando direttamente la loro lingua madre.
-What the hell are you doing? We don’t know anything about this shitty brat!- si animò Marco. Aveva detto che si fidava di suo padre, ma non aveva di certo immaginato che avrebbe scelto così velocemente il da farsi. Cosa credeva, che tutti sarebbero stati d’accordo e che avrebbero fatto i salti di gioia per l’inizio di una guerra che, per giunta, non li riguardava?
-Don’t worry, guys.- li zittì Barbabianca, chiudendo il discorso con un gesto secco della mano, rivolgendosi poi a Ace che aveva seguito lo scambio di battute con una faccia confusa. –Dimmi, chi sta a capo della Rivoluzione?-
-Uh? Beh, il popolo.- rispose Ace con ovvietà. Era tra le persone povere che correva il malcontento generale.
-Non c’è nessuno che dirige le vostre rivolte o le operazioni di sabotaggio?- chiese allora in modo più specifico il vecchio.
Ace ci pensò su per qualche istante prima di decidere se parlare o meno. A dire la verità alcune persone, una in particolare, c’erano, ma non era sicuro che fare i loro nomi fosse una buona idea. Optò per il vago. –Forse c’è qualcuno.-
Barbabianca sorrise. –Allora ti sarei grato se riuscissi a mettermi in contatto con questa persona. Non per offenderti, ma non mi sembra il caso di affidare incarichi troppo importanti ad un ragazzino come te.-
A quelle parole, Marco si rilassò visibilmente, mentre Ace digrignò i denti. Era offeso eccome!
-Sono benissimo in grado di fare qualsiasi cosa!- affermò spavaldo.
-Certo, farti catturare dalle guardie ti riesce benissimo a quanto pare.-
Thatch si preparò ad assistere ad una carneficina nell’esatto istante in cui il suo troppo esaltato fratello prese in giro il mocciosetto, il quale non perse tempo prima di rivolgergli un’occhiataccia torva. Quando poi lo vide avanzare di un passo verso il biondo sorrise, felice che finalmente qualcuno osasse sfidare Marco in modo diretto.
-Ripetilo se hai il coraggio.- soffiò Ace, piuttosto incazzato.
-Altrimenti?- ovviamente, Marco non gli avrebbe lasciato carta bianca, assolutamente. Quel piccoletto gli aveva dato fastidio dal primo momento in cui l’aveva visto e se era una lezione quella che voleva, allora non si sarebbe fatto pregare troppo: l’avrebbe rivoltato per bene e a dovere.
Fu Barbabianca a mettere fine al battibecco, liberando Marco da quella scocciatura e incaricando Thatch di accompagnare Ace in città a cercare il loro fantomatico stratega Rivoluzionario e il dottore per il suo amico moribondo.
-Veramente, ecco…- iniziò a dire Thatch a disagio. Non aveva tanta voglia di andare a Parigi, aveva promesso ad Haruta che avrebbe seguito i suoi allenamenti. –Io, insomma, avrei da fare e…-
-Io non ci vado.- scandì Marco, negando con il capo quando il fratello provò a supplicarlo di prendere il suo posto con gli occhi.
Ace attese con impazienza malcelata che decidessero cosa fare. Avrebbe voluto insistere per andare da solo, però aveva capito bene che non si fidavano ancora ciecamente di lui, ma non se la prese. Se doveva dire la sua, nemmeno lui era certo di quello che stava facendo, ma se tutto ciò fosse servito a vincere la causa del popolo, allora avrebbe fatto qualche sacrificio di sopportazione.
Alla fine, Thatch fu costretto ad accettare il compito.
Poco male, si disse, almeno non mi annoierò a morte e andrò a farmi una passeggiata in centro. Con questa storia dell’anonimato non si può mai andare in giro!
Uscendo dalla tenda, prima che si separassero, Marco lo affiancò per parlargli con tono complice. –Non ti preoccupare, avviso io Haruta.- gli assicurò ammiccando.
-Non so di cosa parli.- ribadì il castano, mantenendo un portamento serio e disinteressato. Non era nulla di che e non gli dispiaceva poi così tanto. Sua sorella avrebbe potuto benissimo arrangiarsi da sola come al solito senza alcun problema.
Oh, ma dannazione, e lui come lo sa? si domandò in ogni caso, procedendo lungo il sentiero verso le mura con Ace al suo fianco, tutto allegro mentre trotterellava facendogli strada. Non vedeva l’ora di mettere piede a Parigi per liberarsi di quell’impiastro che gli avevano appioppato alle calcagna. Avrebbe fatto perdere le sue tracce e poi sarebbe corso alla base per recuperare Law e ideare qualcosa per ritrovare Rufy. Non gli andava che uno di quegli svitati che vivevano nelle paludi vedesse il Quartier Generale dei Rivoluzionari, quindi sarebbe tornato lui da loro una volta sistemate alcune faccende personali.
Con i tempi che correvano non ci si poteva fidare di nessuno.
 
*
 
Law sistemò gli strumenti da lavoro in una borsa abbastanza ampia da poterli contenere tutti per poi uscire dalla sua stanza e scendere le scale fino all’ingresso dove si fermò per indossare un lungo cappotto nero. Nel vestirsi gettò un’occhiata fuori dalla finestra, notando il cielo grigio e con le nuvole gonfie di pioggia.
Che tempo di merda, pensò svogliato, apprestandosi ad aprire la porta per uscire.
-Law, tu vais où?- gli chiese una voce che sbucò all’improvviso alle sue spalle, facendolo bloccare sull’uscio appena aperto.
Il ragazzo sospirò, assumendo poi un espressione piatta e neutrale, voltandosi appena per rispondere al suo mentore. –Ho delle visite da fare. Starò fuori tutto il giorno.-
Non stava mentendo, non ne aveva bisogno dato che aveva sul serio dei pazienti da visitare, operare e ricucire, solo che più della metà di loro non erano esattamente gente delle alte sfere, ma miseri poveracci che credevano di poter portare la pace nel mondo con una rivoluzione improvvisata.
L’uomo alle sue spalle annuì pensieroso, salutandolo e ricordandogli di non rientrare troppo tardi la sera. –Gira brutta gente per le strade.- lo ammonì.
Law annuì e uscì in strada, chiudendosi il portone dietro di sé e alzando gli occhi al cielo, scocciato. Come se non sapesse quello che stava succedendo a Parigi in quel periodo, anzi, se doveva essere sincero aveva esattamente ben presente che razza di gentaglia brulicava la notte per le vie della città, ma non si preoccupava affatto di correre dei pericoli. Insomma, era o non era il medico di fiducia dei Rivoluzionari?
Ghignando divertito, si incamminò lungo la rue, ripassando mentalmente alcune nozioni che aveva studiato la sera precedente e facendo mente locale di tutti gli appuntamenti che aveva quel giorno. Nella sua lista rientrava anche qualche nobile, visto che doveva pur dire al suo tutore da quali persone illustri andava, così, nel giro di un paio d’ore, completò le visite a domicilio nei quartieri più ricchi, facendo buon viso a cattivo gioco e immaginando tutti quei luridi figli di puttana bruciare nelle fiamme della rivolta. Ovviamente, si comportò in modo impeccabile.
Una volta libero da quelle seccature si concesse una pausa in un café nel Quartiere Latino, imboccando poi una stradina laterale e scomparendo nei vicoli della periferia senza che nessuno prestasse attenzione ad un anonimo passante incappucciato e solo.
Solamente quando iniziò a riconoscere il quartiere si rilassò, conscio che presto sarebbe stato circondato da gente con degli ideali e del carattere forte, a differenza di quelli che, solo perché avevano i soldi, non facevano altro che oziare e perdere tempo. Li considerava insulsi e inutili, quindi se quei maleducati cittadini dei bassifondi li toglievano di mezzo a lui andava più che bene.
Un paio di uomini lo riconobbero e lo salutarono con un cenno rispettoso, mentre Law poté ben notare le armi sotto i loro vestiti. Difficilmente qualche intruso sarebbe riuscito ad andarsene vivo dalla periferia.
-Signor Trafalgar!- strillò con fare infantile un mocciosetto che conosceva fin troppo bene, correndogli incontro e fermandosi davanti a lui con occhi adoranti. –Come sta? Ha dormito bene? Vuole che le porti la borsa?-
-No Shachi, voglio solo che tu stia zitto.- rispose lui, guardandosi attorno alla ricerca di Penguin, più professionale e meno espansivo. Perché quella sanguisuga che baciava la terra dove camminava non aveva preso dal fratello?
-Bonjour.- salutò a quel punto l’altro infermiere, apparendo sulla soglia di un’apparente edificio abbandonato e decadente, facendogli cenno di entrare.
Se all’esterno la costruzione sembrava cadere a pezzi, l’interno era tutt’altra cosa. Era accogliente, caldo e colorato. Law avrebbe usato anche l’aggettivo vivo per descriverlo perché le persone che vi si aggiravano erano sempre molte. C’era un clima amichevole, confidenziale, quasi famigliare. Tutti si conoscevano e si sostenevano a vicenda, nessuno veniva lasciato da solo e ogni povera anima che arrancava fino alle porte della casa in cerca di aiuto era sempre ben accetta. Era diverso dalle sale fredde, spente e solitarie che c’erano nelle abitazioni dei nobili. Law lo sapeva bene, dopotutto, lui ci viveva in un ambiente come quello e si sentiva orribilmente solo. Era stato quello uno dei motivi che lo avevano spinto ad abbracciare l’idea della Rivoluzione: i ricchi credevano di avere tutto, ma la verità era che non avevano proprio nulla. Preferiva di gran lunga stare in compagnia di grezzi contadini e lavoratori, piuttosto di conversare con gente raffinata e ignorante.
Finse di non apprezzare i saluti che gli venivano rivolti, mantenendosi distaccato e disinteressato, salendo al primo piano ed entrando nella sala che avevano riservato alle cure dei feriti e dei bisognosi. Si sentiva bene in quel luogo ed era ogni giorno più vicino a definirlo quasi come una casa. Lì poteva essere se stesso, poteva osservare senza dire nulla, poteva studiare, sperimentare, provare, poteva seguire la sua passione, poteva fare tutto. Era libero.
-Aspetti, non può entrare! Si metta in fila!- disse una voce all’esterno, seguita da un baccano e da un colpo secco addosso alla porta della stanza in cui si trovava con Penguin e Shachi, intenti  ad organizzare il tutto per cominciare le visite.
-Levati di mezzo, microbo!-
L’istante successivo, un energumeno isterico fece il suo ingresso con al seguito un tizio con dei lunghi capelli biondi che cercava di calmarlo, pregandolo di comportarsi bene.
Il medico, di fronte a quella scena, si concesse un ghigno beffardo, mentre osservava i due con curiosità.
A volte, facendo il suo lavoro si divertiva pure.
-Bene, bene, bene.- disse, sbottonandosi lentamente i polsini della camicia ed iniziando a ripiegare le maniche fin sopra i gomiti, -Ha seguito i miei consigli, Monsieur Eustass. E’ tornato per la visita di controllo?-
Il diretto interessato, nel frattempo, si era fermato al centro della stanza e soffiava aria dal naso come un toro irritato, proprio come quelli che aizzavano gli spagnoli durante le Corride. Il suo amico, invece, pareva indeciso se mettersi in mezzo o lasciarlo fare.
-Senta un po’, Dottor Trafalgar,- sbottò il rosso, levandosi con un gesto secco la giacca che aveva indossato prima di uscire da quella bettola che chiamava casa, -Il suo lavoro é sicuro di saperlo fare bene?- lo sfotté, mostrando la camicia macchiata di sangue, segno che la ferita curata la notte precedente si era riaperta.
A quella vista Penguin impallidì, mentre Shachi decise che era meglio uscire dalla sala prima che qualcun altro si fosse ritrovato con arti sanguinanti oltre che a quell’idiota di un Rivoluzionario.
-Siediti sul tavolo.- ordinò con tono freddo Trafalgar, lasciando perdere le forme di cortesia e ignorando tutti, voltandosi per afferrare ciò che gli serviva per curare quel braccio.
Eustass Kidd avrebbe voluto ribattere che lui non si faceva comandare da nessuno, ma capì da solo che sarebbe stato meglio se fosse rimasto zitto, almeno per quella volta, così obbedì suo malgrado e si sedette sul bordo del tavolino in legno utilizzato come tavolo operatorio.
-Ehi, Killer, non azzardarti ad uscire di qui.- disse sottovoce al ragazzo accanto a lui, il quale annuì con un cenno deciso del capo. Non lo avrebbe detto, ma era contento di aver trovato qualcuno in grado di calmare gli isterismi di Kidd e, anche se quel dottore gli metteva una certa inquietudine, gli era grato per non averli fatti sbattere fuori a calci dopo che erano entrati senza educazione e rispetto per quelli che stavano attendendo prima di loro.
A Kidd, invece, non fregava proprio un cazzo di non aver rispettato la fila e fremeva per potersene andare di lì alla svelta. Prima, però, doveva farsi sistemare il braccio. Accidenti a lui e a quando aveva deciso di fare a cazzotti con un suo compagno. Non era stata tutta colpa sua, però, era stato l’altro a irritarlo e a fare battute sui suoi capelli. Quel particolare dello scontro, però, non lo avrebbe confessato a quel dottorino, preferiva farlo sentire un incompetente buono a nulla. E poi era ancora incazzato per il fatto che, mentre lo stavano operando, si fossero permessi di prendersi gioco di lui.
Law gli si avvicinò e si collocò davanti, fissando la macchia che aveva inzuppato la camicia bianca.
-Spogliati.- disse con voce apatica, come se ormai conoscesse la procedura a memoria e stesse ripetendo un’azione che aveva fatto, e visto fare, migliaia di volte.
Kidd, però, non era tipo da rimanersene buono e zitto troppo a lungo, così non perse tempo e, iniziando a sbottonarsi la veste, decise che una chiacchierata non avrebbe fatto male a nessuno.
-Ma dai, è la seconda volta che ci vediamo e già mi chiedi di spogliarmi?- lo beccò, sorridendo malizioso e sfilandosi una manica, lasciando scoperta una parte del torace asciutto e allenato e della spalla sinistra, ampia e forte, sfregiata in quel momento da una brutta ferita sanguinante.
Law sembrò non sentire nemmeno le battutine di quello che considerava solo uno stupido paziente e afferrò saldamente il suo avambraccio, ruotandolo verso di sé ed iniziando a controllare con attenzione e concentrazione i punti, curioso di constatare se aveva fatto lui un pessimo lavoro o se quel coglione di un francese del sud lo stava prendendo per il culo.
-Ma dai,- rispose in ogni caso, imitando il tono sorpreso usato prima dall’altro, -Tieni il conto dei nostri incontri?-
Sentì Penguin sghignazzare sommessamente alle sue spalle e non gli sfuggì nemmeno il sorriso trattenuto a stento del tizio biondo e grosso quanto un armadio che osservava la scena dall’alto, vicino al suo amico, rosso di capelli e di imbarazzo, il quale lo fissava in modo stupito e offeso.
Prima che Kidd potesse ribattere, Law posò le dita sulla ferita e godette nel sentirlo sussultare. Almeno se ne sarebbe rimasto in silenzio e non avrebbe aperto la bocca per dire cazzate durante un controllo medico.
Alla fine, senza dire una parola, prese il disinfettante e pulì la zona interessata, rimettendo poi i punti dove serviva e fasciando il braccio con bende pulite e nuove.
Solo quando ebbe finito e rifatto la medicazione si concesse di riprendere il discorso da dove lo avevano interrotto, incrociando le braccia al petto e guardando spudoratamente dritto in faccia l’uomo che gli stava di fronte, fissandolo torvo a sua volta.
-Sentiamo,- esordì il moro con sarcasmo, -Quale scusa hai da inventarti per spiegare questo?- domandò, indicando con il capo l’arto leso del rosso.
-Assolutamente nessuna!- si infervorò Kidd, deciso a farlo sentire un inetto, -Hai semplicemente sbagliato a curarmi ieri.-
Trafalgar scoppiò in una risata che non aveva niente di divertente, anzi, sembrava solamente di scherno. E lo era davvero.
-Senti,- fece poi con aria glaciale, guardandolo come se fosse stato un rifiuto. -So meglio io come operare e salvare una persona in fin di vita che quei coglioni pieni di soldi che si credono dottori solo perché lavorano a Corte, perciò non pensare nemmeno di potermi fregare. La ferita si è riaperta perché tu non sei stato fermo. Mi sbaglio, Eustass-ya?-
Kidd lo guardò senza parole e senza sapere cosa ribattere. Quel moccioso dall’aria rachitica e smilza poteva schiacciarlo quando voleva, ma doveva ammettere che aveva le palle per rispondere a tono. Nessuno lo aveva mai affrontato in quel modo. Uno grosso e minaccioso come lui, poi! Gli avrebbe stretto la mano se non fosse stato tanto fastidioso e saccente, ma di certo non poteva ammettere che non era stato ai patti e che aveva forzato il braccio solo per passare il tempo.
Per sua fortuna, o sfortuna, dipendeva dai punti di vista, fu il suo amico Killer a spiegare la faccenda, desideroso di mettere fine a quel battibecco che, lo sapeva e ne era certo, sarebbe finito in una zuffa. E, considerando che il dottore aveva dalla sua parte oggetti appuntiti e conosceva benissimo i punti vitali del corpo umano, era meglio filarsela e non rischiare oltre.
-Si è battuto e la ferita si è riaperta.- confessò mestamente, mentre un sorriso di vittoria stirava le labbra di Law e un ringhio basso fuoriusciva da quelle di Kidd.
Stava per iniziare a bestemmiare, quando la porta si aprì all’improvviso come aveva fatto in precedenza, lasciando entrare un ragazzo dai capelli corvini scompigliati e con gli abiti sgualciti, ansante e frettoloso in compagnia di un uomo sconosciuto e con un buffo ciuffo di capelli castani ben pettinati, tutto sorridente e incuriosito dal luogo.
-Oh, Law, finalmente ti ho trovato!- disse Ace tutto d’un fiato, avanzando nella stanza e ritrovandosi due paia di occhi puntati addosso. –Uh? Ciao Kidd. Anche tu qui?-
-Conosci questo sbandato?-
-Conosci questo stronzo?-
I due ragazzi parlarono all’unisono, scoccandosi poi un’occhiataccia poco amichevole e sbuffando subito dopo, ognuno riprendendo ad ignorarsi: Trafalgar impegnato a ordinare gli strumenti da medico sparsi sul tavolo vicino a Kidd, mentre quello guardava altrove sussurrando improperi.
-Cosa ti serve, Ace?-
Trafalgar fu il primo a parlare, rompendo quel silenzio e dando le spalle ai nuovi arrivati e al suo paziente che, nonostante l’etica medica lo obbligasse a curare chiunque, avrebbe volentieri lasciato morire.
Il ragazzo parve ricordarsi solo in quel momento del motivo per il quale aveva corso a rotta di collo per le vie di Parigi con quella piaga di inglese alle calcagna, il quale non gli aveva dato un attimo di respiro e lo aveva persino legato a sé con un paio di manette rubate chissà dove che, grazie al Cielo, aveva tolto non appena arrivati alla base. A quanto pareva, avevano previsto una sua fuga e si erano organizzati a dovere.
-Devi venire con me alle paludi, mi serve il tuo aiuto. Vedi, Sabo é…- iniziò a raccontare.
-A proposito, che fine avevate fatto? Ieri contavamo su di voi, invece non vi siete fatti vivi e la rivolta è andata a puttane!- si intromise a quel punto Kidd, balzando giù dal tavolino e avvicinandosi al ragazzo per avere spiegazioni.
Ace lo guardò stranito, non capendo di cosa stesse parlando.
-Una rivolta? Voi del cantiere ne avete organizzata un’altra?- domandò, spalancando gli occhi e iniziando a innervosirsi. –Vi avevamo detto espressamente di aspettare!-
-Lo sai com’è fatto Franky. Gli si sono girate le palle e ha deciso di aizzare gli animi.- si giustificò il rosso, non del tutto dispiaciuto. Lui, ogni volta che poteva, prendeva parte a qualsiasi battaglia. Era nel suo sangue.
-Idioti, non avreste dovuto farlo!-
-E questo chi l’ha deciso, tu? Non sei a capo dei Rivoluzionari, moccioso.-
-Bada a come parli, Kidd.-
-Problemi di coppia?- ironizzò Thatch, osservando i due giovani fissarsi in modo truce e ricordandosi con piacere delle zuffe che avvenivano spesso tra lui e i suoi fratelli. Tutto affetto, quello.
-E tu chi cazzo sei?- gli venne chiesto dal tizio dall’aria minacciosa e poco amichevole.
Si schiarì la voce e fece un passo avanti, sorridendo ampiamente e porgendogli la mano che, come aveva immaginato, non venne nemmeno degnata di attenzione. –Il mio nome è Thatch. Sono un amico di Ace, diciamo.-
-Cazzate.- lo liquidò il diretto interessato, chiudendo il discorso. –Kidd, ora vado di fretta, ma sappi che presto faremo un discorsetto, tu ed io, chiaro?-
Il rosso sbuffò seccato, alzando gli occhi al cielo e voltandosi verso l’uscita per andarsene assieme al suo compagno che, nel frattempo, se ne era rimasto in silenzio ad osservare annoiato la scena.
-Ti mando la parcella a casa, Eustass-ya.- si fece sentire allora la voce del chirurgo, piuttosto divertita e sarcastica, cosa che urtò parecchio i nervi già tesi di Kidd, obbligandolo a salutare tutti con un gestaccio della mano prima che la porta si chiudesse sbattendo.
-E’ un tipetto particolare.- commentò Thatch.
-E’ una testa di cazzo.- fu la sincera risposta di Ace. –Senti, Law, so che sei impegnato e non te lo chiederei se non fosse un’emergenza, ma devi venire con me alle paludi.-
-Non ti aiuterò a riesumare cadaveri solo per usarli come manichini per spaventare le guardie di nuovo.- lo avvisò quello, inarcando un sopracciglio scettico e osservando di sottecchi come il nuovo amico di Ace rabbrividisse a quell’idea.
Il più piccolo scosse energicamente il capo. –No, no, no!- lo rassicurò, -Devi venire a visitare Sabo. Le guardie ci hanno teso un’imboscata ieri e lui è rimasto ferito. Non può muoversi.- gli spiegò di fretta, iniziando a trascinarlo per la manica della camicia. –Avanti, vieni, ti prego!-
Trafalgar sospirò sconfitto, prendendo subito una decisione positiva e acconsentendo ad accompagnare quell’impiastro del suo amico. Sapeva che, se avesse detto di no, non avrebbe avuto un attimo di pace. E poi c’era Sabo da mettere in conto. Quel ragazzo era essenziale nei loro ranghi, per cui bisognava andare a recuperarlo il prima possibile.
-Penguin, te la senti di pensarci tu fino al mio ritorno?- chiese, rivolgendo un’occhiata speranzosa verso il suo infermiere di fiducia.
-Assolutamente!- gli assicurò, entusiasta per l’incarico affidato.
-Bien.- disse, recuperando il cappotto poggiato sullo schienale di una sedia e guardando i due nuovi arrivati. –On y va?-
 
*
 
-Hai intenzione di tenermi il muso ancora per molto?-
Sabo, se possibile, si imbronciò ulteriormente e si tirò le coperte fin sopra la testa, nascondendosi interamente alla vista della ragazza che, stanca di quel comportamento che durava ormai da troppo, posò malamente il piatto con la minestra che gli aveva portato sopra al tavolino improvvisato accanto al letto.
-Well, you know what? Do the fuck you want, little princess.- disse scocciata, alzandosi e dirigendosi a passo deciso verso l’uscita, scostando la tenda ruvida e finendo quasi per sbattere addosso a suo fratello Thatch, il quale la salutò sorridendo e agitando la mano nella sua direzione.
-Allora, come sta il nostro ospite?- le chiese allegro, mentre veniva raggiunto da Ace e da un ragazzo che lei non aveva mai visto ed era certa di non conoscere. Li avrebbe salutati e si sarebbe presentata al nuovo arrivato, ma era davvero troppo infastidita da quei modi di fare altezzosi e spocchiosi che avevano la maggior parte dei francesi, compreso quell’idiota che stava vegetando a letto in quel momento, così li ignorò, superandoli e allontanandosi con un sottofondo di improperi.
-That silly brat. Fuck him!-
Thatch la fissò sbattendo le palpebre, non sapendo bene cosa dire, ma decidendo infine di scoprirlo da solo e di lasciarla sbollire la rabbia. Non voleva di certo incappare nelle sue ire e rischiare che il malumore della ragazza si riversasse su di lui. Era meglio se andava a sbraitare con Marco, o Izou, ancora meglio.
Così scosse il capo, liquidando la faccenda e facendo segno agli altri due di seguirlo nella tenda, trovando un Sabo silenzioso e pensieroso che guardava il vuoto di fronte a sé come se fosse stato in trance. Che Koala lo avesse preso a schiaffoni? Probabile, ma il volto non era arrossato. Forse, per quella volta, l’aveva scampata.
Il biondino, in realtà, si stava semplicemente chiedendo cosa aveva detto la ragazza prima di uscire. Lui, con l’inglese, non era molto bravo, e gli era rimasta la curiosità di conoscere il significato di alcune parole. Per esempio, little princess.
Ad ogni modo, tutto fu accantonato non appena scorse Ace entrare nella stanza, tutto affannato, con i capelli disastrati e, lo notava sempre, troppo lunghi, la giacca sgualcita e l’aria esausta, ma anche sollevata. E poi sorrideva e, quando lo faceva, voleva dire che tutto andava bene.
-Mon frère!- disse il corvino, raggiungendo il giaciglio dove era sdraiato e saltandoci praticamente sopra. –Comment ça va?-
-Très bien!- gli assicurò il biondo, assumendo un’espressione convincente. Non se la stava passando male, non del tutto, eccetto qualche fitta al fianco che gli continuava a dare un certo fastidio di tanto in tanto, ma era normale, si diceva.
-Ho trovato Law.- gli rese noto allora Ace e, proprio in quel momento, la figura del diretto interessato entrò nel campo visivo di Sabo con un’aria inquietante e vagamente curiosa.
-Hai fatto l’eroe vedo.- commentò, ma nel suo tono non c’era traccia di divertimento o sarcasmo. Era semplicemente piatto e disinteressato, come al solito d’altronde. Sabo, però, non si fece impressionare; conosceva Trafalgar da tempo e aveva imparato, un po’ come tutti gli altri, a come comportarsi con lui. Bastava ignorare quella sua aria intoccabile da uomo superiore perennemente scocciato ed essere se stessi. Il che, per la precisione, non era sempre facile perché il dottore aveva l’inconsueto potere di far sentire anche il più intelligente uno stupido.
-Solo un poco.- ammise, grattandosi la nuca con fare imbarazzato e lasciando che si avvicinasse per visitarlo. Ne avrebbe avuto per un po’ lo sapeva, Law era sempre molto attento e impeccabile nel suo lavoro e se doveva scegliere qualcuno a cui affidare la sua vita, beh, avrebbe fatto il suo nome senza esitazione.
Law esaminò con calma e attenzione la ferita che era stata ricucita e, a parte il fatto che erano stati applicati più punti del necessario, si ritrovò a constatare che, almeno, non era stato condotto un lavoro pessimo e le condizioni di Sabo non erano state messe a rischio, ma migliorate. Un problema in meno, restava solo da vedere come avrebbe superato la cosa. Doveva stare a riposo, disinfettare costantemente il fianco e cambiare le bende in modo da evitare infezioni. Era meglio essere previdenti, dato che era stato a contatto con i batteri presenti nella Senna e ritrovarsi con un virus in corpo di certo non era da prendere alla leggera come possibilità, anche se Law era quasi certo che il peggio fosse passato.
Alla fine della visita sospirò e finì di sistemare le bende nuove sotto lo sguardo impaziente di Sabo e quello preoccupato di Ace. Thatch, invece, se ne stava tranquillo e sorridente appoggiato all’ingresso, certo che la sua collega avesse fatto un ottimo lavoro.
-Sei stato fortunato,- disse appunto Trafalgar in quel momento, -Ti hanno operato bene. Ringrazia il dottore.- gli consigliò, battendogli con poca delicatezza una pacca sulla spalla e lasciandolo boccheggiante per il dolore che ancora sentiva, ovvero un continuo indolenzimento a tutti gli arti. Ma era normale, continuava a ripetersi, tutto normale.
Era normale sentirsi affaticati, stanchi e senza un polmone, dato che, per colpa dell’acqua ingerita e del freddo, sentiva gli organi bruciare ad ogni respiro; era normale avere i muscoli a pezzi e le palpebre pesanti; era anche normale sentirsi ignoranti e cretini quando non si capiva la lingua altrui; infine, ma non meno importante, era normale sentirsi in colpa per aver trattato male qualcuno che non lo aveva affatto meritato.
Ad esempio, il dottore in questione che gli aveva salvato la vita.
Sabo era stato così preso da se stesso e dai suoi problemi che si era lasciato prendere la mano, comportandosi in maniera scortese con chi gli aveva offerto aiuto, cibo e un posto dove dormire e non morire congelato. Cosa avrebbero pensato di lui i suoi fratelli? Cosa avrebbe detto Rufy, il quale lo vedeva come un esempio e lo lodava sempre davanti a tutti per il suo buon cuore e per l’altruismo che lo caratterizzava? Era stato proprio un moccioso, doveva ammetterlo per forza.
Mentre era ancora intento a riflettere, Law aveva raccolto le sue cose e si era preparato per tornare in città a svolgere il suo lavoro e a ricucire poveri esagitati francesi che credevano di poter entrare a palazzo senza un preciso piano d’azione.
-Io me ne vado. Vedi di non strafare.- ammonì Sabo, il annuì con un cenno del capo distratto. Poi si rivolse a Ace, sperando di venire ascoltato con più interesse. –Tienilo d’occhio.-
Detto ciò, fece per uscire, trovando il cammino sbarrato da quell’inglese sempliciotto che lo guardava con quell’incancellabile sorrisetto che gli conferiva un’aria da babbeo. Ciò Law glielo avrebbe detto con gusto, ma non voleva sprecare fiato con gli ignoranti.
-Dovrei passare.- dichiarò con una calma agghiacciante.
-Non crederai che ti lasci andare tanto facilmente. Devo prima bendarti per non farti riconoscere la strada e…-
-Senti, chiunque tu sia, ci troviamo nel bel mezzo delle paludi e all’andata non mi hai coperto gli occhi. Inoltre dovrò tornare per controllare le sue condizioni e preferisco farlo quando mi pare senza un invito scritto. A differenza di voi perditempo, io lavoro.- spiegò freddamente, lasciando il castano senza un valido argomento con cui ribattere e con la sensazione di essere appena stato fottuto alla grande. Ma cosa avevano tutti in quel periodo? Lui voleva solo giocare e scherzare, mentre gli altri erano scorbutici e schizzati. Forse era l’aria di guerra che si respirava in città ma, accidenti, un pochino potevano anche rilassarsi.
Si arrese comunque all’evidenza e alzò le mani in segno di resa, spostandosi per lasciar passare quel tizio dall’aria inquietante. –Fa come se fossi a casa tua.- ironizzò.
-Bene. Ci vediamo Ace.-
-Aspetta, vengo con te.- lo informò il giovane, affrettandosi per raggiungerlo.
-Cosa? Mi lasci qui?-
Solo allora Sabo si riscosse, concentrandosi sulle persone davanti a lui.
-Devo organizzare un giro di ricognizione per trovare Rufy, lo sai.- gli ricordò tetro; l’ansia ben visibile sul suo volto. Poi gli rivolse uno sguardo di scuse. –Tornerò presto con buone notizie.- gli promise, avvicinandosi al letto e porgendogli il pugno.
Sabo sospirò, conscio che il fratello aveva un compito importante da svolgere, perciò non insisté oltre e accettò la cosa, facendo cozzare la mano contro quella dell’altro in un segno di consenso.
-Trovalo e riportalo a casa.- disse, guardando Ace negli occhi e sorridendo nel trovarli determinati e fermi, brucianti di coraggio e iniziativa.
-Ci puoi scommettere!-
 
*
 
Tashiji stava osservando il baracchino del fornaio situato sulla via principale brulicante di persone da un buon quarto d’ora ormai, deglutendo ogni volta che qualcuno comperava una pagnotta o mezza baguette, perché a quei tempi la tassa sul pane era salita a dismisura, e ascoltando il sonoro concerto che stava facendo il suo stomaco vuoto e affamato. Non mangiava qualcosa da quasi due giorni e le forze la stavano abbandonando, se lo sentiva, perciò voleva essere certa che nessuno potesse riconoscerla quando si sarebbe azzardata a rubare. Si, perché le persone si erano ridotte a dover ricorrere a inutili sotterfugi per sopravvivere.
Non le piaceva comportarsi male, da sempre era stata abituata a seguire le regole e ad essere onesta, ma i tempi erano duri ed era stata quindi costretta a scendere a patti con lati di se stessa che non credeva di avere. Lei, la ragazza che avrebbe dato la vita per un mondo giusto ed equo stava per sputare in faccia alle sue convinzioni.
Strinse i pugni e scosse il capo per evitare dei ripensamenti. Aveva fame e doveva mangiare qualcosa per forza, o non sarebbe arrivata alla fine della settimana.
Così, calcandosi bene il cappuccio in testa e lanciando occhiate a destra e a sinistra, uscì dal vicolo e si confuse tra la folla presente quel giorno di mercato, avvicinandosi sempre di più alla bancarella con il pane caldo e profumato che le faceva gorgogliare lo stomaco. Silenziosamente raggiunse il banco e finse di guardare altro fino a che il fornaio non si impegnò in una trattativa che comprendeva un cesto di pane in cambio di due polli. Fu allora che agì, facendo uscire lesta una mano dalla mantella e afferrando una pagnotta appena sfornata, facendola poi scomparire velocemente sotto all’abito, allontanandosi a passo svelto.
Il cuore le batteva all’impazzata e aveva rubato solo un misero pezzo di pane! Anche se pensava che c’era gente che per disperazione si infiltrava nelle case altrui non si sentiva meno colpevole, ma decise che si sarebbe crogiolata nella vergogna più tardi, quando avrebbe pranzato.
Si allontanò solo di qualche passo, però, prima di rallentare fino a fermarsi in mezzo alla strada, mentre la gente continuava a passarle accanto, urtandola di tanto in tanto.
Ma cosa sto facendo?, si chiese, sospirando amareggiata e schifata dalle sue stesse azioni. Non erano quelli i comportamenti che le aveva insegnato la sua famiglia, non erano quelli i gesti altruisti e rispettosi che sognava di fare, non era quello un giusto ideale di lealtà e giustizia e, di sicuro, non era la via migliore per essere un giorno una persona corretta e ammirata.
Si strinse nel mantello e si voltò per tornare sui suoi passi, disposta a rinunciare al primo pezzo di cibo che vedeva da giorni. Dopotutto, non era così affamata e lo stomaco le si era chiuso dopo quello che aveva fatto. Raggiunse allora la bancarella e, invisibile come quando lo aveva rubato, ripose il pane al suo posto.
Tornò nel suo vicolo e ci si infilò dentro, schivando dei bancali di legno e raggiungendo il suo angolino buio e poco illuminato dove si era trasferita da qualche settimana, costretta a nascondersi per non venire identificata e catturata. Dopo il casino che aveva combinato suo padre nelle forze dell’ordine era meglio non farsi vedere in giro.
Si permise di sospirare sollevata, stanca, ma felice di non aver ceduto a quello che sarebbe potuta diventare, ovvero una ladruncola di strada, quando qualcuno si schiarì la voce, facendola sussultare, tanto che si schiacciò contro la parete in ombra per non farsi vedere.
Una figura si staccò da uno dei fasci di legno che rendevano il vicolo una via impraticabile e si avvicinò per mostrarsi a lei, facendole rivoltare le budella e salire l’angoscia e la disperazione. Sentì l’aria mancarle quando si rese conto che si trattava di un ufficiale.
Merde!
-Lo sai che rubare è un reato?- le chiese l’uomo, portandosi con due dita un sigaro alla bocca per prenderne una lunga boccata e soffiarla poi verso di lei, facendole bruciare le narici per via dell’odore acre e pesante.
Tashiji deglutì a fatica, ma non si azzardò a rispondere, impegnata com’era a controllare i tremiti che le percorrevano violentemente il corpo. Si era fatta beccare come una stupida, avrebbe dovuto saperlo che durante il mercato le guardie giravano anonime per la città con il fine di evitare o placare rivolte sul nascere visti gli avvenimenti degli ultimi giorni. E lei si era fidata di se stessa e si era azzardata a rubare senza assicurarsi di non dover poi finire nei guai.
Ormai era tardi per colpevolizzarsi, così decise che, prima di infastidire ulteriormente la guardia continuando a sperare di diventare un tutt’uno con la parete e scomparire, era meglio dimostrarsi collaborativi e pronti a subire il meritato castigo. Sperava solo che non le avrebbe amputato il braccio.
Così si fece avanti mestamente a capo chino, torturandosi le mani e infossando la testa nelle spalle, nascondendo parte del viso nel mantello rosa antico e logoro, ma ancora abbastanza pesante da tenerle un po’ di caldo durante la notte.
Tirò su col naso, aveva un po’ di raffreddore, e prese coraggio per non parlare con voce tremante o balbettante. –Mi assumo le mie responsabilità, Signore.- sussurrò.
Avrebbe potuto fare di meglio, ma era soddisfatta, almeno non era risultata impaurita o scontrosa. Sperò solo che l’uomo apprezzasse il suo temperamento.
-Potresti finire in prigione per una cosa del genere.- continuò il diretto interessato, incrociando le braccia al petto e fronteggiandola con tutta la sua stazza. Le aveva tolto ogni via di fuga in quel modo, ma più la guardava e più si rendeva conto che la ragazza non avrebbe fatto assolutamente niente per non perdere la sua libertà, a differenza dei tanti topi di fogna con cui si trovava ad avere a che fare tutti gli stramaledetti giorni della sua vita.
La vide annuire con il capo facendosi, se possibile, ancora più piccola.
Chiuse gli occhi stancamente e prese il sigaro tra le dita, passandosi una mano sul volto e premendo alla base del naso per riordinare i pensieri. Era veramente stufo di quella situazione, praticamente esasperato. La Rivoluzione era in corso e le cose non stavano andando per niente bene. Ancora non avevano scovato chi stava dietro a quella massa di ignoranti, animati solo dal desiderio di un futuro migliore ed equo; il Re di certo non faceva del suo meglio per farsi amare e le leggi ingiuste che continuavano ad essere emanate non aiutavano a calmare gli animi. Per non parlare dei coprifuochi, delle tasse, delle prigioni e di tutto il corpo di guardia corrotto. In che merda di mondo stava vivendo?
Guardò di nuovo quella ragazzina, troppo indifesa e forse troppo piccola per poter sopportare di venire rinchiusa in una cella dove, sicuramente, avrebbe subito i peggiori trattamenti immaginabili e si chiese se valesse veramente la pena applicare la legge anche in quel frangente. Dopotutto, lei non aveva esattamente rubato. Certo, si era impossessata di una pagnotta, piccola ed insignificante, tanto che nessuno se ne era accorto, ma l’aveva anche rimessa al suo posto. Non sapeva per quale diavolo di motivo, ma era certo che, anche se non conosceva la ragione, la ragazza non fosse un pericolo. Anzi, forse era lei stessa a dover temere quello che la circondava. Per esempio, vivere in quelle condizioni non era ne salutare, ne sicuro, anche se sembrava non avere nient’altro con sé. Forse era una dei vagabondi che spopolavano per i vari quartieri, o semplicemente era finita sul lastrico a causa delle ingenti somme di denaro che i cittadini erano costretti a versare alla Corte, ad ogni modo, a Smoker non interessava la sua storia e non voleva neppure sapere come avrebbe fatto a tirare avanti. L’unica cosa che contava per lui era che si era comportata correttamente e, per quel motivo, non meritava di essere punita. Non c’era bisogno di fare giustizia.
Riprese il sigaro tra le labbra, affondando le mani nelle tasche e cercando qualche spicciolo da lasciarle.
-Tieni.-le disse, porgendole tre monete con una mano guantata, ritrovandosi in quel modo un paio di occhi sgranati su di sé.
Tashiji sbatté le palpebre più volte prima di rendersi conto di quello che stava effettivamente succedendo. Un ufficiale le stava offrendo del denaro dopo che l’aveva colta in flagrante. Tutto ciò era assurdo e aveva dell’incredibile per lei. Perché non la arrestava o non la ammoniva? Perché non la guardava con ribrezzo o con minaccia, ma mostrava pietà e compiva un gesto magnanimo nei suoi confronti? Non riusciva a trovare una risposta adatta alle sue domande, anche se una vaga idea poteva avercela. Che si fosse comportato in quel modo solo perché era una donna e si sentiva impietosito per la sua condizione?
Subito, il disagio che aveva provato per la paura di un arresto venne sostituito da un senso bruciante di fastidio e orgoglio ferito. Lei non aveva bisogno dell’aiuto di nessuno e tantomeno voleva essere trattata con favoritismi solo perché non era considerata alla pari di un fottuto uomo.
-Non so perché lo stiate facendo,- mormorò freddamente, scandendo bene le parole, -Ma non accetterò il vostro denaro.-
Stronzo, avrebbe voluto aggiungere, ma si trattenne dal farlo.
-Il mio era un ordine.- le rese noto allora l’ufficiale con una smorfia poco amichevole, ma, vedendo che lei non accennava a muoversi per obbedire, continuando invece a fissarlo apertamente in viso con una determinazione disarmante e che aveva visto solo in poche persone, decise che non avrebbe perso altro tempo.
Aprì il pugno e lasciò che le monete cadessero a terra, dedicandole un ultimo sguardo ambiguo prima di darle le spalle e andarsene come era venuto.
-Con chi devo ritenermi in debito, Signore?- sbottò allora Tashiji, stringendo i denti e i pugni, ferita nell’orgoglio e umiliata fin dentro nell’animo onesto che si ritrovava.
Senza fermarsi, l’uomo continuò ad avanzare seguito da una leggera nuvoletta di fumo grigio e denso. –Capitano Smoker.- rispose atono e disinteressato, come se non credesse più nel valore del suo nome e del suo grado. –E non sei in debito con nessuno.-
 
 
 
 
 
Angolo Autrice:
Buongiorno a tutti! Mi stavo completamente dimenticando che oggi è sabato, LOL, ma alla fine ho fatto mente locale, per cui eccomi qua ^^
Questo capitolo mi è sembrato infinito, anzi no, aspettate di vedere il prossimo D: la verità è che mi sono data una specie di limite, ovvero circa dodici pagine alla volta… Si, sono troppe, ma la prima volta che ho iniziato questa storia mi sentivo come un fiume in piena e non riuscivo a smettere, per cui portate pazienza, sarà che a me i capitoli infiniti piacciono.
Allora, oggi vediamo un po’ la panoramica riguardante le vicende della ciurma di Barbabianca e dei vari stati d’animo, per esempio Marco, diffidente come sempre, Thatch, allegro e spavaldo, Newgate che si esalta con poco, eccetera. Nella mia testa Marco ha come fratelli di sangue Thatch (perché, andiamo, con quei capelli stanno benissimo nella stessa famiglia) e Vista, perché mi sta simpatico. Gli altri sono stati raccattati nel tempo, ecco. Anche Koala è stata adottata, quindi svelato il mistero del perché sta con loro, ma più avanti vedrò di dare un’inquadrata anche alla sua storia.
Poi, beh, tra Law e Kidd le cose sembrano andare di male in peggio. Molto bene direi ^^ a differenza di Sabo e Ace che credo di amare.
Yep, ho aggiunto anche Tashiji e Smoker. Si, insomma, mi piacciono assieme. Certo, lei non rientra per niente nelle mie preferenze femminili, ma assieme al modernissimo Smokah-san mi piace.
Che altro dire, ringrazio tutti, vecchi e nuovi lettori, e anche in particolar modo coloro che mi lasciano da leggere le recensioni. Sono contenta che vi piaccia, spero di fare un buon lavoro!
 
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xpa1/t31.0-8/s960x960/10896275_1585400701678766_6613732209104661888_o.jpg Smoker da Tashiji
 
https://fbcdn-sphotos-f-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xap1/v/t1.0-9/10915207_1585400611678775_1807253556388648865_n.jpg?oh=aee04a7e549a15c87de5be5268789196&oe=55381806&__gda__=1429260095_f37dce58b2416db24227f610a07319d8 Lo sguardo d’amor… ehm, volevo dire odio tra i due
 
Anche per oggi è tutto ^^ alla prossima settimana con il quarto capitolo che, sinceramente, spero vi strappi qualche risata ^^
 
See ya,
Ace.

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Capitolo 4
*** Quatre. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Quatre.
 
-Buonanotte Signorina, riposi bene.-
La porta si chiuse silenziosamente dietro le spalle della domestica e, nello stesso istante, l’espressione altezzosa che svettava sul viso dalla ragazza dalla mattina alla sera sparì e lasciò posto ad un sorriso birichino e spavaldo mentre, con poca eleganza che non si addiceva affatto ad una principessa, scalciava via le odiose scarpette a punta e col tacco che tanto detestava. Contemporaneamente lottava con i lacci del lungo ed ampio vestito per toglierselo di dosso il più velocemente possibile per poi, una volta libera da quel tendone da circo, strapparsi letteralmente via il corsetto che spesso le aveva fatto girare la testa per i mancamenti che le provocava. Gettato tutto sul pavimento in modo disordinato e chiusa a chiave la porta della camera, andò ad aprire le ante dell’enorme armadio in legno che troneggiava in mezzo alla stanza, cercando in uno degli scomparti segreti degli abiti che era riuscita a rubare ai servitori addetti al bucato. Li nascondeva perché erano vestiti maschili e, se qualcuno li avesse trovati nelle sue stanze, sarebbe scoppiato il finimondo.
Indossò la camicia ampia con un sospiro di sollievo, arrotolando le maniche sui gomiti e passando poi ad un paio di calzoni bordeaux che le fasciavano le gambe lunghe e snelle, per poi completare il tutto con degli stivali alti fino al ginocchio. Legò i lacci ben stretti per non perderli dato che non erano esattamente della sua misura e poi afferrò un lungo mantello con il cappuccio che si piazzò sulle spalle.
Era quasi pronta, doveva solo finire di sistemare i cuscini sotto alle coperte per evitare di lasciare intravvedere una stanza vuota e poi poteva anche uscire. Non era ancora il tramonto, dato che con la nuova stagione le giornate si stavano lentamente allungando, ma aveva cenato prima e da sola, dato che i suoi genitori erano stati impegnati tutto il giorno con una riunione importante e della massima urgenza che a lei poco interessava. Infatti, non aveva messo piede fuori dal secondo piano per tutto il tempo, facendo avanti e indietro per i corridoi e leggendo qualche noioso libro fino a che non era arrivata l’ora di coricarsi. O meglio, svignarsela.
Afferrò una borsa a tracolla rattoppata in più punti e, passando davanti allo specchio, si ricordò di un piccolo particolare: il trucco.
Velocemente, prese un panno e lavò il viso, approfittando anche per sciogliere la complicata acconciatura che aveva in testa, lasciando che i capelli le ricadessero su una spalla in una treccia leggera e poco impegnativa. Un’ultima occhiata e si disse pronta.
Si affacciò dal balcone e, con agilità, prese a scendere la parete fino a raggiungere il terreno sottostante, utilizzando i vari appigli presenti sul muro. Non era difficile per lei, abituata fin da piccola ad arrampicarsi ovunque e a spingersi sempre più in alto, rischiando spesso l’osso del collo, ma incapace di smettere.
La sua stanza dava su una porzione di giardino poco frequentata e lasciata un po’ in disuso, infatti gli alberi erano verdi e rigogliosi e le siepi crescevano alte, offrendole un’ottima e perfetta copertura che, altrimenti, non avrebbe avuto.
Scivolò silenziosa per i sentieri in ghiaia fino al limitare della reggia dove si trovava la sua via di fuga, ovvero una falla sulla recinzione che delimitava i confini della tenuta. Lo aveva scoperto lei, ma non aveva dato l’allarme. Non le interessava se qualcuno lo avesse usato per infiltrarsi all’interno e compiere un colpo di stato, l’importante era che non venisse chiuso, dato che rappresentava la sua unica opportunità di sentirsi libera per qualche ora.
Così ci passò attraverso, quasi come un fantasma, e si ritrovò fuori, all’aperto, in mezzo alla strada e non lontana dall’animato e vivo centro di Parigi che tanto amava, ma che le era proibito visitare se non in carrozza.
Si tirò su il cappuccio e si avviò lungo la via, guardandosi attorno e ritrovandosi a sorridere quando iniziò ad incontrare le prime persone indaffarate che giravano per le strade.
Amava la sua città, amava la vitalità e l’aria di continua espansione che si respirava; adorava i monumenti ed era incantata da ogni minimo particolare. Era curiosa ed ogni cosa era degna di attenzione. I pittori di strada, i viandanti, i commercianti, le piazze, i prodotti in vendita, gli zingari e i loro amuleti, gli intellettuali e le loro ipotesi e i giornali. Oh, cosa avrebbe dato per poterne leggere uno in santa pace!
Ma a lei non era permesso. Non poteva andare in giro da sola, non poteva vestire come preferiva, non poteva esprimere il proprio giudizio e non poteva decidere per se stessa. Ad una principessa non era permesso vivere.
Si perse ad osservare un musicista in riva alla Senna, intento a deliziare gli ascoltatori con una melodia dolcissima prodotta da un violino dall’aria antiquata, quasi quanto il suo suonatore, ovvero un uomo dalla corporatura un po’ scheletrica, degli strambi e non comuni capelli folti, scuri e ricci e degli occhiali tondi sul naso, simili a quelli di un becchino. Era strano nel complesso, ma era per quello che le piaceva. Così rimase in ascolto, incantata, lasciando che la musica la accompagnasse nella sua passeggiata e non si accorse di ciò che aveva davanti fino a che non finì addosso a qualcosa, più precisamente, a qualcuno.
Quando se ne rese conto, si affrettò a schiarirsi la voce per fingere un’intonazione maschile come faceva sempre quando usciva in strada, scusandosi con il diretto interessato con cui si era scontrata.
-Pardon, Monsieur.- gracchiò, tenendo basso lo sguardo e fissando un paio di stivali scuri e il bordo di un mantello nero che, a giudicare dal tipo di tessuto e dai ricami viola scuro, doveva essere molto pregiato. L’elsa di una grossa spada entrò nel suo campo visivo solo qualche secondo più tardi.
Quegli abiti non erano tipici del posto, ne era certa, i pantaloni erano troppo ampi e la camicia seguiva una linea differente da quelle in voga nei pressi di Parigi, inoltre quell’arma era veramente fuori dal comune, troppo diversa da quelle che vedeva di solito utilizzare dalle guardie che proteggevano il palazzo reale. Fu in quel modo che la curiosità ebbe la meglio su di lei, obbligandola ad alzare un poco il capo per spiare chi aveva di fronte.
Il cuore prese a batterle leggermente più veloce, ma assolutamente non per paura, quando incrociò lo sguardo serio e poco gentile di uno strano individuo. Era abituata a vedere di tutto stando a Corte, ma degli occhi inquietanti e particolari come quelli non li aveva mai visti se non nei gufi impagliati e affissi ai muri di una delle infinite stanze della reggia. Se voleva essere sincera, quelli che aveva di fronte la mettevano ancora più a disagio perché erano vivi e la stavano fissando intensamente, come se volessero trafiggerla.
Si sentì a disagio e temette che quello sguardo insistente nascondesse un motivo che non voleva conoscere, così fece un cenno di saluto e aggirò l’uomo, passando svelta oltre, diretta il più lontano possibile da quella piazzetta.
Capì di avere corso solo quando si fermò sotto gli alberi di un giardino nei pressi di una chiesetta modesta, intenta a calmarsi e a porre fine al fiatone che la obbligava a riempire i polmoni più in fretta del solito. Si era presa un bello spavento per colpa di quell’individuo losco e dall’aria straniera. Era certa di non averlo mai visto prima, nonostante l’abbigliamento elegante, ma in qualche modo alternativo, sinonimo di agiatezza economica.
Una volta riacquisito il controllo, si permise di sospirare profondamente, appoggiandosi al tronco di un albero e rilassandosi. Quando riaprì gli occhi notò, però, che tutt’attorno era calata la luce del sole, lasciando posto all’imminente arrivo della sera e con essa il coprifuoco stabilito dalla Corona.
-Maledizione!- sbottò fra sé e sé, dando un pugnetto alla corteccia. Se non fosse stato per quell’idiota con la piuma sul cappello non avrebbe fatto così tardi e sarebbe riuscita a rientrare con la luce degli ultimi raggi ad accompagnarla. Non rimaneva mai fuori oltre per paura di eventuali intoppi, ma c’era sempre una prima volta. Peccato che lei non ci tenesse affatto a viverla.
In ogni caso, ormai non poteva farci niente, se non riprendere a correre a rotta di collo verso la direzione da cui era venuta.
Si staccò dall’albero e si sistemò la mantella, pronta a ripartire e decisa a non farsi notare. Nel farlo, lanciò qualche occhiata agli edifici lì vicino, valutando se fosse il caso di prendere la via sui tetti o arrischiarsi lungo la strada. Passando dall’alto ci avrebbe messo di più, ma almeno avrebbe evitato brutti incontri.
-Non è tardi per uscire a queste ore?- domandò una voce alle sue spalle che la fece voltare di scatto con i pugni alzati, pronta a difendersi. Fu sorpresa e un poco agitata di trovarsi nuovamente faccia a faccia con quello sconosciuto, ma non era poi tanto preoccupata. Se fosse stata in pericolo sarebbe ricorsa alla sua posizione sociale per sistemare le cose, a costo di venire scoperta e punita da suo padre. Insomma, mica voleva rimetterci le penne, che diavolo.
-La cosa non vi riguarda.- rispose spavalda, modificando come poteva la sua voce, altrimenti squillante e decisa. Non si trattenne, inoltre, dal provocarlo. –E anche per voi sarebbe tardi, comunque.-
Non si poteva di certo dire che fosse stata una mossa intelligente la sua, ma lei non era mai stata il tipo che si lasciava mettere i piedi in testa. Era cresciuta in un luogo dove le sue richieste e la sua parola erano legge e, col tempo, aveva assunto un po’ un atteggiamento altezzoso e superiore.
L’uomo non si scompose, a differenza di quello che si era aspettata la giovane, e si limitò a fare un mezzo sorrisetto sprezzante, ma che di divertito non aveva nulla, dandole una veloce occhiata dall’alto in basso. –Potete anche smettere di impegnarvi, si vede lontano un miglio che siete una donna.-
La principessa si sentì gelare il sangue per un momento. Se ne era accorto, accidenti a lui, ma come aveva fatto? Non gli aveva rivelato il suo volto ed era stata attenta a non lasciar intravvedere nemmeno una ciocca dei suoi capelli, altrimenti l’avrebbero riconosciuta tranquillamente ovunque. Certo, perché tutti avevano ben presente l’aspetto della bellissima, e viziatissima, principessa dai capelli insolitamente rosati.
Menti, si disse, menti fino alla morte. Lui non sa un bel niente!
-Non so di cosa stiate parlando, Monsieur.- dichiarò, indietreggiando senza rendersene davvero conto. Un riflesso ben giustificato, dato che l’altro aveva appena fatto il primo passo verso di lei, guardandola come se fosse stata un animale da sgozzare.
E intanto il sole tramontava.
-Oh, io credo proprio di si, Mademoiselle.- rispose l’uomo appena arrivato in città.
Ne avrebbe volentieri fatto a meno, ma la proposta era stata interessante e, inoltre, era ben pagato per il lavoro che sarebbe andato a fare, perciò aveva abbandonato la sua regione natia e aveva viaggiato ininterrottamente fino a Parigi a vedere cosa c’era di così divertente, dato che da un pezzo non si parlava d’altro che di rivolte e guerre nell’entroterra.
Coprì le distanze con poche falcate, approfittando dell’attimo di sbigottimento della ragazza inesperta e poco furba che aveva di fronte e che lo fissava con occhi sbarrati pieni di sorpresa, ma non di paura. Infatti, appena si permise di afferrarle un braccio con l’intento di toglierle il cappuccio per smascherarla, sulle sue pupille passò un lampo di risolutezza prima che si divincolasse agilmente, prendendo le distanze. Non senza avergli rubato il pugnale che nascondeva nella cintura, notò dopo con divertimento.
-Non avvicinatevi!- lo ammonì, puntandogli contro l’arma nel tentativo di spaventarlo, anche se si rese conto pure lei che era tutto inutile.
-Altrimenti?- la provocò apertamente, inarcando un sopracciglio scuro e rivolgendole un sorrisetto beffardo e di sfida.
A quel punto, la ragazza perse le staffe. Chi si credeva di essere quel rifiuto di strada per parlarle in quel modo?
In un attimo di rabbia, si tolse il cappuccio con un gesto secco della mano e rivelò così la sua identità, fissandolo truce. –Sono la principessa Perona.- lo informò, alzando il mento con fare imperioso, -Badate, quindi, a come vi rivolgete a me.-
-La principessa, eh? Ma pensa, a quanto pare sono venuto qui per fare da balia ad una mocciosa.- disse quello, dandole l’impressione di parlare a vanvera, dato che non riuscì ad interpretare al meglio le sue parole. Non dovette, però, pensarci su troppo a lungo perché il giovane, togliendosi il cappello piumato, la deliziò di un elegante e rispettoso inchino, o lo sarebbe stato se non avesse riconosciuto nei gesti e nell’espressione del suo volto una certa presa in giro e derisione per il suo rango, come se non gli importasse proprio niente di chi lei fosse.
-Vogliate perdonarmi, Vostra Grazia, se sono stato irrispettoso.- la schernì, sempre con quel sorriso da schiaffi in faccia, -Ma non vi avevo riconosciuta così abbigliata. Permettetemi di riaccompagnarvi a palazzo.-
-Cosa?- sbottò Perona in maniera poco signorile, ricomponendosi subito dopo. –Voglio dire, no, non è necessario. Vi congedo.-
-Devo insistere.-
-E io vi ripeto che non è necessaria la vostra presenza. Grazie!-
Perché non le ubbidiva e se ne andava? Gli aveva imposto di lasciarla sola e non doveva avere altra scelta, invece continuava a rimanerle troppo vicino, con quegli occhi insolitamente ocra, troppo grandi e troppo intimidatori per metterla a suo agio e farla sentire tranquilla. Chi era quello? E perché la voleva portare a palazzo dove avrebbe dovuto essere in realtà?
Smise di pensare quando lui le porse la mano, invitandola a seguirlo. –Venite, vi accompagno.-
Ma quel sorriso non le piaceva per niente.
A quel punto strinse il pugnale che aveva in mano e lo alzò a livello del suo viso, marcando bene la frase. –No, grazie.-
Allora lo vide sospirare, ma non lo lasciò parlare quando si rese conto che avrebbe aperto ancora la sua boccaccia. –Vi consiglio di ascoltarmi, altrimenti dirò al Re cose poco carine sul vostro conto.-
Se con le buone non lo capiva, allora glielo avrebbe reso chiaro con le cattive. Peccato solo che Perona non sapesse che aveva a che fare con qualcuno molto più subdolo e crudele di lei.
Il sorrisetto, per l’appunto, non scomparve nemmeno in quell’occasione, anzi, si allargò ulteriormente.
-Sono curioso di vedere a chi crederà vostro padre: a sua figlia, o al nuovo membro della Flotta dei Sette. Voi che dite?- e con ciò, scoccò la battuta finale, godendosi lo sguardo perso e finalmente spaventato della principessa che, troppo sconvolta e conscia di essere nei guai, lasciò cadere a terra il pugnale, mentre lui le imponeva la sua presenza, trascinandola lungo la via e dritto verso la Corte Reale.
 
*
 
-Un, deux, trois, quatre. Un, deux, trois, quatre. Un, deux, trois, quatre.-
-Se non la smette giuro che gli amputo entrambe le gambe.-
-Mi sta scoppiando la testa. Non capisco come abbia fatto quel piccoletto ad addormentarsi.-
-Già, non dirlo a me.-
-Un, deux, trois, quatre.-
-Piantala!-
Era calata la sera, l’ennesima per chi era rinchiuso all’interno della Bastiglia, dove notte e giorno si alternavano senza sosta, lasciando immutato il destino dei prigionieri ormai condannati. Le ore si susseguivano lente ed infinite, scandite solo dal suono delle campane di una qualche chiesa poco distante. Tutto rimaneva invariato, come se le celle fossero isolate dal resto del mondo che andava avanti e subiva svariati mutamenti nel giro di pochi minuti, costantemente.
Era un inferno per coloro che si ritrovavano ad attendere l’inizio della loro fine, ma lo era ancora di più per chi aveva avuto la sfortuna di venire rinchiuso nel terzo piano, dove, da qualche ora, era stato inserito un nuovo fuorilegge. Che fosse o no un furfante non aveva importanza, era stato dichiarato colpevole di Dio solo sapeva cosa e ciò bastava per farlo scomparire dalla circolazione. A nessuno importava se fosse innocente o meno, ma il diretto interessato pareva non prestare attenzione a quelle formalità, preferendo esercitarsi in passi di danza, tirando al limite i nervi dei suoi compagni di cella, ovvero un clown del circo, un fabbricante di candele e un moccioso Rivoluzionario.
Proprio un bel gruppetto.
-Lo sto facendo per voi, per aiutarvi a dimenticare le vostre sofferenze con un po’ di arte!- rispose l’ultimo arrivato, fermandosi nel bel mezzo di una piroetta e trattenendo le braccia inarcate verso l’alto al centro della cella.
Davanti a lui, seduti a terra e addossati alla parete, i suoi nuovi amici lo fissavano truci, uno con un’aria omicida e lo sguardo tagliente che si intravvedeva sotto ai suoi ciuffi azzurri, mentre l’altro aveva solo la faccia di chi era rassegnato a dover sopportare una tortura, con la testa appoggiata al palmo di una mano e le gambe incrociate sul pavimento.
-Grazie, stiamo bene lo stesso, amico.- rispose sarcastico Bagy, sperando di essere riuscito a mettere fine a quello spettacolo pietoso.
-Forse una pausa potrei prendermela.- rifletté il ballerino, ponderando l’idea.
-Oh, si!- sorrise speranzoso Mister Three, grattandosi via dalla mano i residui di cera che gli erano rimasti addosso la sera prima, quanto gli ufficiali avevano fatto irruzione in casa sua e nel suo negozio. –Riposati pure Von Clay, sarai stanco.-
Bagy si scambiò con lui un’occhiata complice, sperando di riuscire ad ottenere un po’ di silenzio e tranquillità.
Stavano quasi per convincerlo, quando, accanto a loro, coperto da una serie di giacche pesanti appartenute in precedenza ai tre uomini presenti nella cella, emerse il faccino assonnato e spaesato del più piccolo del gruppo, Rufy, il quale si era appisolato durante una performance del suo nuovo amico.
-Uh? Hai già finito?- mormorò, fissando Von Clay e facendo scorrere un brivido di terrore lungo le schiene degli altri due. –Peccato, era divertente.-
-Mon Dieu.- mormorò Bagy rassegnato, passandosi una mano sul volto, mentre l’idiota danzante che aveva di fronte iniziava a dare di matto, prodigandosi in ringraziamenti e assicurando al moccioso una seconda esibizione istantanea, dimenticandosi della pausa che avrebbe dovuto fare.
Non ne poteva più di quei suoi compagni di cella e, anche se sapeva che quella era la sua condanna, sperò intensamente che gli venisse concesso dal Cielo un miracolo. Chissà, magari poteva venire la peste o il colera a qualcuno di loro, almeno ci sarebbe stata una seccatura in meno da sopportare.
Si alzò, ignorando Rufy che batteva le mani a tempo e le lamentele di Mister Three che si tappava le orecchie, e si avviò verso la piccola finestrella per prendere una boccata d’aria e guardare di sotto.
Poggiò le mani sulle sbarre e, scostando la camicia rossa che il ragazzino aveva legato ai ferri, fece scorrere lo sguardo sul profilo della bella Parigi illuminata dalla luna, silenziosa e calma come avrebbe dovuto essere sempre, e non rumorosa e sanguinosa a causa delle rivolte.
Rimase a fissare il vuoto per qualche minuto, non prestando attenzione a ciò che lo circondava, anche se gli schiamazzi dei suoi compagni folgorati disturbavano la quiete. Forse fu per quei rumori che non si accorse subito di un particolare abbastanza interessante che si trovava parecchi metri più in basso, precisamente lungo la strada, ai piedi della prigione.
Quando si accorse di un’ombra umana che agitava spasmodicamente le braccia per farsi notare, sbatté le palpebre e corrugò la fronte curioso. Che diavolo stava facendo quell’uomo a quell’ora di notte davanti alla Bastiglia?
-Ehi, ragazzi,- disse, continuando a guardare giù, sporgendosi dalla finestra, -C’è un tizio giù che sta facendo dei segnali.-
Rufy smise di battere le mani, mentre Mister Three intimava Von Clay di stare zitto almeno per un minuto. –Forse è ubriaco.- ipotizzò poi, alzandosi e raggiungendo Bagy per guardare anche lui la scena, imitato anche dai due restanti prigionieri.
-Chiudete il becco, sta dicendo qualcosa.- si rese conto il clown, drizzando le orecchie e mettendosi in punta di piedi.
-Ehi!- udirono dopo qualche secondo, sbalorditi.
-Ma chi diavolo è?- chiese Von Clay.
-Rufy!-
I tre uomini si voltarono verso l’unico ragazzo che rispondeva a quel nome, il quale fissava la finestra con occhi sbarrati e pieni di sorpresa, mentre le labbra tremavano come il resto del corpo.
-Credo che vogliano te.- ironizzò Bagy, facendogli posto e lasciando che si avvicinasse, caricandoselo poi in spalla per farlo arrivare all’altezza della finestrella.
-Rufy! Mi senti?- continuava a gridare la voce, sempre più forte.
Rufy strinse le sbarre, fremendo di impazienza e rispondendo al richiamo, faticando a mantenere la calma. Perché aveva riconosciuto quella voce, solo non voleva crederci per paura di risvegliarsi e scoprire che era tutta un’illusione, che si stava sbagliando e che quello da basso non era veramente il suo fratellone che era venuto a cercarlo come aveva sempre fatto, anche quando erano piccoli.
-Rufy!- urlò ancora il ragazzo in strada, iniziando a sorridere sollevato quando intravide una mano agitarsi dalla finestrella da cui pendeva la camicia rossa del suo fratellino.
-Ace!- si sentì in risposta dopo qualche istante, tanto forte e tanto chiaramente che il diretto interessato scoppiò a ridere felice, seguito dal gruppetto di Rivoluzionari che lo avevano accompagnato nella ricerca, tutti sollevati dall’aver finalmente scoperto dove era stato rinchiuso uno dei membri più intraprendenti e coraggiosi del gruppo rivoltoso di Parigi.
-Ehi, smettila di agitarti!- lo sgridò Bagy, tentando di tenere fermo il corpo del moccioso che si divincolava in tutti i modi, quasi come se volesse schiacciarsi verso la finestrella e per uscire fuori e gettarsi giù.
-Ace!- ripeteva intanto il piccolo, con gli occhi inondati di lacrime e un sorriso tremolante, ma ampio, che gli incorniciava il viso, mentre i polmoni gli scoppiavano nel petto dato che continuava ad urlare il nome del fratello ritrovato, infischiandosene altamente di poter allertare in quel modo i secondini. Era vivo, lo aveva sempre saputo dentro di sé. Suo fratello era troppo forte per soccombere. Era un vero guerriero e sarebbe sempre tornato indietro per lui. Sempre.
-Ace! Sei vivo!-
-Certo che si, che credevi?- gli venne risposto e quelle parole lo riempirono di gioia. Non gli importava più della prigione, della Rivoluzione, dei nemici, non gli interessava nulla. Ace era vivo, quello era l’importante.
-Che succede qui?-
-Arrivano le guardie.- lo avvisò Mister Three, il quale era corso all’ingresso della cella per guardare lungo il corridoio dal quale provenivano le voci degli ufficiali, disturbati da quel fracasso.
-Ace!- ripeté allora Rufy, aggrappandosi alle sbarre per evitare che Bagy riuscisse ad allontanarlo prima che lasciasse il suo messaggio ai suoi compagni. –Vieni a prendermi!- gridò tra i singhiozzi. Non che avesse paura, non che fosse debole, ma solamente perché non voleva altro che abbracciare la sua famiglia ancora una volta.
In strada, Ace udì chiaro e tondo quella preghiera e, annuendo con determinazione e stringendo i pugni lungo i fianchi con lo sguardo fiammeggiante di amore fraterno e rabbia verso la legge, tolse ogni preoccupazione al minore.
-Ti salverò, Rufy!-
 
*
 
Il Quartier Generale dei Rivoluzionari esisteva e non esisteva. Era ambiguo, ma era così. I rivoltosi non avevano un punto preciso in cui incontrarsi, almeno, quello era ciò che facevano credere alla guardia cittadina che aveva setacciato più della metà dei posti sospetti presenti in città. Non era sicuro, infatti, utilizzare edifici abbandonati o poco frequentati appunto perché erano quelli che più attiravano l’attenzione dei curiosi.
Per cui, per la Corona, non esisteva nessuna mente dietro ai cittadini arrabbiati e nessun luogo segreto.
Quello che ignoravano, però, era l’effettiva esistenza di un posto in cui venivano messe a tavolino tutte le strategie, passate e future, che adoperavano i Rivoluzionari e in cui venivano fatte discussioni, spesso con al finale una bella rissa, riguardanti le ultime novità in fatto di politica. Insomma, una vera e propria sala dei dibattiti situata nel luogo più impensabile e inquietante presente in città: le cimetière de Père Lachaise.
Situato nella periferia di Parigi, il cimitero poco frequentato e lasciato in decadenza, con tombe e lapidi sbiadite dal tempo e dalle intemperie, rappresentava il miglior punto d’incontro per i fuorilegge che brulicavano anonimi per le vie. All’interno di esso, più precisamente nella tomba monumentale di un ignoto francese morto per chissà quali motivi, si trovava una spessa botola di pietra che, se spostata, rivelava l’entrata del covo della Rivoluzione, conosciuto anche tra la popolazione con il nome di Corte dei Miracoli.
La leggenda di un sito simile esisteva già da molto tempo e i più furbi avevano approfittato di quella credenza per coprire le proprie impronte e lasciare tutto nell’ombra.
Era in quel buco sotto terra, illuminato da torce e riscaldato da tre grandi caminetti che si ritrovavano quella sera una quarantina di persone, intente a litigare, più che discutere, tra loro. Chi pretendeva di avere più controllo, chi azzardava proposte assurde per la nomina di nuovi capi, chi faceva minacce e chi dormiva, tutti seduti ad un enorme tavolo in legno massiccio e scheggiato in più punti da lame di coltelli o asce da boscaioli.
In quel momento, Shanks sedeva a capotavola con un boccale di vino rosso in una mano e l’altra stretta tra i ciuffi vermigli che gli ricadevano disordinati sulla fronte, mentre si reggeva la testa che minacciava di esplodere da un momento all’altro.
Chi glielo aveva fatto fare di presenziare a quella inutile riunione invece di rintanarsi a casa, a letto e tra le cosce di Makino. Cosce che, ad essere sinceri, non poteva avere. Al solo pensiero, prese un profondo respiro per calmare il suo animo e riprendere a pregare Dio che quella tortura finisse presto.
-L’altro giorno avete combinato un disastro!- stava urlando qualcuno, rivolgendosi chiaramente alla rivolta fallita iniziata dagli ex carpentieri, amici suoi per l’appunto, gente che stimava. Ne avevano vinte tante e perse altrettante, una in più non faceva la differenza, perciò non capiva quel continuo accanimento verso Franky da parte di quell’obesa di Charlotte Linlin, detta appunto Big Mom, una donna massiccia, brutta e rivoltante come poche.
-Signora, si dia una calmata o le verrà un colpo.- sibilò in risposta l’uomo preso in causa, calandosi degli occhiali scuri dalla montatura tagliente sugli occhi e incrociando le braccia sul petto ampio, senza più degnarla di attenzione.
-Dovete smetterla con le cazzate, stiamo rischiando grosso, soprattutto ora che la guardia del corpo reale è stata riorganizzata.- disse una voce cupa e dal timbro intimidatorio. Apparteneva ad uno dei pezzi grossi del gruppo. L’uomo si chiamava Kaido e non era ben chiaro il suo posto nell’alta società. Di lui si sapeva solo che era pieno di soldi, che poteva avere tutto quello che desiderava e che detestava a morte il Re. Tutto sommato era un buon alleato, fedele alla loro causa e disposto a giocarsi il tutto per tutto. Solo una cosa non piaceva a Shanks, ovvero che fosse un borghese. Era più forte di lui, ma i borghesi proprio non li sopportava. Gli stavano sulle palle e basta.
-Ne sei certo?- si obbligò a domandare, borbottando a mezza voce e faticando a tenere gli occhi aperti. Forse aveva bevuto troppo.
Kaido gli rivolse un’occhiata truce, disgustato da quella feccia che aveva davanti, ma si sforzò comunque di rispondere. –Uno dei miei uomini mi ha riferito che quel coglione di un Re ha convocato dei mercenari. Immagino abbiate sentito parlare tutti della Flotta dei Sette.-
Un mormorio di assenso percorse tutta la sala, ma quando alcuni dei presenti negarono, venne fatto un chiarimento su tutta la faccenda.
-Anni fa i monarchi usavano avere delle guardie del corpo al loro servizio. I primi furono dei marines della flotta francese e da lì presero il nome di Flotta; il numero ve lo lascio immaginare, ovviamente intende i membri che ne fanno parte.-
-Solo che il gruppo venne sciolto dopo alcuni disagi sorti tra la Corona e le guardie.- aggiunse Shanks sovrappensiero.
-Già, ma stranamente ora è stato riassortito e, da quel che ho potuto sentire, i prescelti vengono tutti da fuori della regione.-
-C’è un modo per saperne di più sul loro conto?- chiese Big Mom.
Shanks guardò Kaido, il quale si strinse nelle spalle. –Vedrò cosa riesco a fare.- dichiarò, ignorando il sorrisetto del rosso poco lontano da lui.
Non correva buon sangue tra loro, era vero, ma si portavano reciproco rispetto, eccezion fatta per quando si comportavano in modo sconsiderato, cosa che capitava spessissimo quando si parlava di Shanks il Rosso, colui che, pur di difendere tutti i suoi uomini, i deboli e gli innocenti e i suoi ideali, si era lasciato sfregiare il volto senza pensarci due volte. Aveva dato inizio lui a quel circolo di gente che costantemente si riuniva più volte a settimana nel cimitero e tentava di trovare un accordo comune e un modo per mettere fine a quel periodo di guerra civile. Era stato per la curiosità di conoscerlo che Kaido aveva iniziato a riflettere sul suo rango e su tutte le ingiustizie che gli scorrevano sotto agli occhi. Quando poi si era reso conto che il Re non era altro che un’insulsa persona capricciosa e piena di boria, aveva deciso di mandarlo bellamente a quel paese, lui e tutti i suoi privilegi, e aveva contattato il Rosso, scendendo a patti con quel topo di fogna che non era altro. Shanks era un personaggio molto amato dalla folla, tanto che molti lo chiamavano Imperatore, così, sia lui che Big Mom, i quali si erano uniti successivamente ai Rivoluzionari, avevano preso quel nomignolo, essendo anche loro persone di spicco in ambiti differenti. Kaido era un nobile molto potente, Big Mom pure, perciò avere due personalità del genere dalla parte della Rivoluzione a Shanks e a tutti gli abitanti faceva molto comodo.
Dopo altre due lunghe ed estenuanti ore passate a stilare cartacce, brindare ad un futuro incerto, sparare alla cieca colpendo un uomo alla spalla, dare la caccia ai ratti che vivevano nella galleria e una bella scazzottata di gruppo, poco alla volta la sala si svuotò, lasciando l’addetto all’ingresso per ultimo, il quale chiuse bene a chiave le sbarre che si trovavano alla fine delle scale che scendevano sotto terra prima di uscire e far scivolare la lastra di sopra la botola, riportando tutto alla normalità nel bel mezzo della notte. Poi ripose il mazzo di chiavi in tasca e se ne andò fischiettando come se niente fosse.
Intanto, barcollante e con l’equilibrio incerto, Shanks si era trascinato fino a casa, nel bel mezzo del Quartiere di Montmartre, dove l’insegna del suo locale preferito svettava cigolante appesa ad un catenaccio affisso al muro. Si infilò nel vicolo che dava sul retro ed entrò dalla porta di servizio, stando attento a non fare rumore e spogliandosi nel tragitto dall’ingresso al piano superiore dove stavano le camere da letto dei mocciosi e della sua, anche se ancora la diretta interessata non lo sapeva, bella e futura donna.
Passando davanti alle prime due camere, più piccole rispetto all’ultima, non si accorse che due dei tre ragazzini che bazzicavano per l’albergo erano assenti, e proseguì dritto fino a raggiungere l’ala del primo piano che lo interessava.
Entrò senza bussare, inciampando nei suoi piedi e facendo scricchiolare la porta. Rivolse un’occhiata sbieca al pomello e si portò un dito davanti alle labbra, intimando all’oggetto in metallo di fare silenzio.
-Shhh!- Era ubriaco e non connetteva affatto.
-Shanks? Che diavolo fai?- si sentì chiedere a bassa voce, mentre un brivido gli correva lungo la spina dorsale. Com’era adorabile Makino quando dimenticava le buone maniere e si esprimeva come gli scaricatori di porto a Calais.
Si voltò a guardarla, trovando la stanzetta illuminata dalla luce di due candele e adocchiando subito come la camicia, oltre che i capelli sciolti e le guance arrossate, da notte le ricadesse larga sulle spalle, lasciando il resto alla sua immaginazione. Dannazione, quanto era attraente quella maledetta ragazza.
Sorrise sornione, avanzando verso il letto e togliendosi gli stivali, lasciandoli sparsi sul pavimento, seguiti a ruota dai calzoni. Proprio sul più bello, quando stava per levarsi anche le mutande, Makino decise di mandare in fumo il suo bel sogno.
-Shanks, se non puoi trattenerti, vai dalle ragazze di Dadan. Loro sapranno come soddisfarti.- lo beccò sorridente e per niente scocciata. Ormai conosceva quell’uomo e sapeva come trattarlo quando si trovava in quello stato. Non avrebbe ammesso, però, che vederlo senza vestiti le faceva battere il cuore all’impazzata.
-Oh, avanti Makino!- si lamentò il rosso, buttandosi sul materasso e facendo cigolare le molle del letto, gattonando verso la sua direzione e strappandole le coperte di dosso per infilarsi al caldo, stringendosi a lei e poggiando la testa sul suo petto come un bambino. –Almeno fammi dormire qui.-
La ragazza quasi scoppiò a ridergli in faccia, ma non protestò, scuotendo il capo rassegnata e soffiando sulle candele per spegnere la luce, celando così a quel ragazzino troppo cresciuto il sorriso che le curvava le labbra.
Le piaceva tanto Shanks, anzi, non aveva problemi ad ammettere a se stessa che ne era innamorata da sempre, ma non poteva di certo dirglielo e dimostrarglielo come avrebbe voluto. Insomma, lui era amato da tutta la popolazione e lei non voleva che dimenticasse o accantonasse i suoi progetti e sogni per curarsi di lei. Forse, un giorno, quando tutto quel dolore e quelle sofferenze fossero cessate, avrebbe potuto pensare di avere la sua opportunità, ma, per il momento, preferiva lasciarlo libero e mettere a tacere i suoi sentimenti per lui. Era la cosa migliore da fare e gli voleva troppo bene per bloccarlo in quella taverna con lei, una semplicissima locandiera, senza arte ne parte. Almeno con il suo lavoro poteva approfittare del fatto che vivesse in una delle camere che affittava, pagandole l’alloggio che, spesso, gli lasciava volentieri gratuitamente. Tutto, purché non rischiasse troppo la vita.
Tutto pur di vederlo sorridere almeno una volta al giorno.
-Buonanotte Shanks.- sussurrò sui suoi capelli, accarezzandoli dolcemente.
-Makino.- mormorò quello, mezzo addormentato.
-Si?-
-Je t’aime.-
 
*
 
-Sei certo che sia una buona idea?-
-A cosa ti riferisci?-
-Insomma, non sei ancora guarito del tutto. E dentro potresti avere bisogno di aiuto.-
-Killer, lo sai come funziona: io entro e svaligio la casa e tu fai il palo. Se ci sono casini spari un colpo. Chiaro?-
Il ragazzo biondo sospirò sconfitto, alzando le braccia al cielo e rispondendo stizzito. –Va bene, va bene, ma non fare cazzate.- lo ammonì, puntandogli un dito contro.
Kidd ammiccò esaltato, facendo saltare i cardini della finestra e riuscendo così ad aprirla silenziosamente per poi, dopo aver dato una consueta occhiata in giro per la strada deserta, infilarsi dentro l’ennesima abitazione che avevano scelto per il loro passatempo preferito, ovvero il furto.
Alle spalle avevano una serie infinita di innumerevoli case svaligiate, private di qualsiasi tipo di oggetto di valore che si poteva rivendere o denaro, a volte persino del cibo per sfamare chi più ne aveva bisogno. Erano bravi, veloci, lesti e, soprattutto, silenziosi. Veramente, all’inizio, Kidd non aveva avuto tutte quelle qualità, infatti avevano dovuto fare molta pratica al Sud prima di arrivare al livello in cui i proprietari non venivano svegliati nel sonno a causa dei rumori molesti prodotti dal rosso, il quale sembrava avere il brutto vizio di finire addosso a qualsiasi mobile con la sua stazza poco aggraziata. Ad ogni modo, si erano perfezionati e, con Killer a fare il palo e Kidd dalla mano invisibile, riuscivano a darsela a gambe sempre in tempo.
Quella notte, non stanchi e annoiati, avevano deciso, su ordine del rosso, di entrare in azione per sgranchirsi le gambe e avevano scelto un quartiere residenziale nella Rive Droite, dove ogni cosa era sinonimo di ricchezza, tanto che ad entrambi era venuto il voltastomaco.
Ecco come Kidd era finito all’interno di una casetta dall’aria agiata e raffinata, con un piccolo giardino sul retro e l’edificio in stile gotico. Entrare, come arrivare al secondo piano, non era stato per niente difficile e, in quel momento, il ladro si apprestava a curiosare in una stanza ben arredata e ordinata, con un ampio letto al centro e un paio di grossi mobili muniti di mensole sulle quali vi erano riposti con cura maniacale tanti libri di vario genere. Erano talmente numerosi che Kidd si chiese se non si fosse trovato in una fottuta libreria. E lui, per inciso, odiava qualsiasi cosa munita di pagine.
Diede le spalle a quella carta straccia e si mise a frugare dentro ai cassetti della scrivania posizionata sotto una finestra che dava sul retro verdeggiante, sperando di trovare qualcosa di interessante oltre che fogli, penne e calamai, altri fogli e taccuini in pelle pieni di appunti. Possibile che chi dormiva in quella stanza non fosse provvisto di effetti personali?
Una volta che quel pensiero venne formulato, nella mente di Kidd scattò qualcosa che lo mise in allarme. Qualcosa che avrebbe dovuto notare non appena aveva aperto la porta socchiusa lungo il corridoio e che lo aveva fatto ritrovare in quello spazio caldo e quasi accogliente.
Guardò il letto accanto a lui e sentì un vuoto d’ansia nel petto, come quando scivolava da un tetto e cadeva a terra, conscio di potersi rompere qualcosa.
Il giaciglio, infatti, era vuoto.
-Bonsoir, Eustass-ya.-
Vuoto e, dannazione!, di proprietà dell’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento.
-Tu?- ringhiò Kidd, alzandosi da terra e avanzando al centro della stanza con i pugni stretti lungo i fianchi e le spalle tese, -Che ci fai qui, tu?-
Davanti a lui, Law ghignò come se non avesse aspettato altro che quella domanda da quando era entrato nella sua camera da letto mezzo nudo e con solo un asciugamano avvolto attorno ai fianchi esili. –Io ci vivo qui.- chiarì, incrociando le braccia al petto e appoggiandosi allo stipite della porta, godendosi l’espressione prima spaesata e poi imbarazzata di Kidd. Strano, era forse lieve rossore quello che si intravvedeva sulle sue guance?
-A quanto pare hai scelto la casa sbagliata in cui andare a rubare.- gli rese noto allora il giovane dottore, rincarando la dose di vergogna che Kidd sentiva montare su di sé ad ogni secondo che passava. Di tutti gli stolti che gli potevano capitare, proprio quel bastardo di un chirurgo doveva saltare fuori a rovinargli non solo il giorno, ma anche la notte? Avrebbe dovuto ascoltare il consiglio di Killer e andare con Franky all’incontro alla Corte dei Miracoli.
Strinse i denti, continuando a fissare truce gli occhi divertiti e per niente impauriti di Law, il quale si stava godendo la scena, gongolando apertamente per la figuraccia fatta da quello che era stato un suo paziente. Aveva capito fin da subito che era un tipo senza speranza, ma non lo aveva creduto idiota fino a quel punto. Ovviamente, tutti potevano sbagliare un giudizio una volta.
-Ora che fai? Te ne vai da solo o devo buttarti fuori a calci?- lo punzecchiò ancora, staccandosi dal legno della porta e camminando tranquillo nella stanza, recuperando degli abiti puliti e andandosi poi a vestire dietro ad un separé disposto in un angolo che Kidd non aveva notato in precedenza. Sperava solo che non facesse troppo casino perché, se il suo tutore si svegliava e veniva a controllare, sarebbero stati guai per tutti.
Era meglio non scherzare con uno sentimentale, credulone e tendente all’isterismo come Corazón.
-Che ne dici se finisco di curiosare e poi sparisco?- propose allora il rosso, non volendo dargliela vinta e desideroso di prendersi la sua rivincita che tanto agognava. Da quando si erano incontrati, Trafalgar Law aveva sempre avuto la battuta finale nei loro battibecchi, perciò era convinto che dovesse pagare almeno una volta per la sua linguaccia troppo saccente e per il comportamento irriverente che aveva mostrato nei confronti di un assassino esperto.
Non voleva ammettere, inoltre, che la curiosità lo stava logorando. Cosa ci faceva un medico che aiutava i Rivoluzionari in una casa chiaramente agiata?
-Fai con comodo.- gli venne risposto, contrariamente a quello che aveva pensato, così, senza farselo ripetere, riprese a rovistare tra gli effetti personali di Law, scovando finalmente un orologio da tasca e facendolo scomparire immediatamente dentro un taschino interno della sua giacca sgualcita e sbrindellata.
Poi si alzò e si guardò di nuovo attorno, camminando per la stanza sovrappensiero, mentre Law usciva allo scoperto infilandosi una camicia bianca, iniziando ad abbottonarla con calma e mantenendo gli occhi fissi in quelli dell’intruso.
Si studiarono a vicenda, uno cercando di capire se aveva davanti un borghese traditore; l’altro pensando se i Rivoluzionari avessero deciso di mandare Kidd in avanscoperta per testare la sua lealtà verso di loro. Dopotutto, se l’era aspettata da sempre una mossa del genere ed era piuttosto sorpreso di vedere che avevano aspettato così a lungo.
-Allora, qual è il verdetto?- chiese di getto.
Kidd aggrottò le sopracciglia. –Il verdetto?-
-Mi ritenete una doppia faccia o no?- insisté Law, attento a non mostrare nessun tipo di preoccupazione o emozione. Un po’ lo infastidiva quella tattica che avevano adottato nei suoi confronti. Insomma, dopotutto aveva salvato il culo ad un sacco di persone con un piede nella fossa. Possibile che non si fidassero ancora di lui? Mandare quell’esaltato era stato così necessario?
Kidd sbatté le palpebre sinceramente stupito e, per la prima volta, Law si chiese se non avesse fatto male i suoi calcoli, dato che era abbastanza bravo a leggere le espressioni della gente.
-Non so di che diavolo stai parlando, ma se è un contorto modo per chiedermi se mi piaci e mi fido di te, la risposta è no.- chiarì il rosso, giusto per non lasciare fraintendimenti o cose in sospeso. Quel tipo lo faceva incazzare e gli faceva prudere le mani. Aveva una costante voglia di prenderlo a pugni e non capiva cosa cazzo ci fosse di così divertente in quella situazione, dato che il moro si era appena messo a ridacchiare da solo, continuando a fissarlo con quei suoi occhiacci freddi e inquietanti.
-Ma dai, e io che credevo di esserti simpatico.- ironizzò Law, poggiando le mani sui fianchi e ghignando beffardo. Il suo ambiguo buon umore e senso dell’umorismo erano tornati; era chiaro che Kidd non fosse capitato lì di proposito e, di certo, i Rivoluzionari non avevano avuto nessun motivo per dubitare di lui. Se la Corona cadeva a lui non fregava proprio niente. L’importante era non venire troppo coinvolto e, soprattutto, non essere preso di mira dalla folla inferocita una volta che quella avrebbe spodestato sovrano e nobili. Perché era chiaro che avrebbe vinto il Terzo Stato alla fine. Insomma, erano nettamente superiori e dalla loro parte avevano un malcontento covato per anni e arrivato al limite della sopportazione. Quanto avrebbero resistito ancora le guardie? Poco, di ciò Law ne era certo.
Kidd, ignaro di tutti i ragionamenti che la mente del suo rivale stava facendo, si sentì sempre più preso in giro, tanto che la tensione accumulata stava per fargli dimenticare dove si trovasse, portandolo a compiere qualche sciocchezza. Andiamo, se avesse ucciso un borghese spocchioso nessuno gli avrebbe detto nulla, no?
-Scusa, ma i figli di papà non mi vanno a genio.- sibilò con un sorriso tagliente.
Law inarcò un sopracciglio, per niente toccato. -Però ti piace fissarli quando sono mezzi nudi? Fammi capire.- disse con espressione fintamente angelica, mentre il viso di Kidd andava in fiamme, raggiungendo quasi il colore dei suoi capelli rossi.
-C-che cazzo d-dici?- sbottò, indietreggiando verso la porta. Assolutamente, per nessuno motivo, lui aveva guardato quel bastardo di Trafalgar con interesse quando gli era apparso sotto al naso praticamente senza niente addosso. Non gli era passato nulla per la testa. Niente. Rien!
C’era solo una soluzione: Law era un maledetto stronzo.
E per Kidd era arrivata l’ora di andarsene, e di corsa.
Diede le spalle al ragazzo, il quale aveva preso a ridere sonoramente, e raggiunse la porta, non riuscendo però ad allontanarsi senza che le parole del dottore gli arrivassero alle orecchie.
-Bonne nuit, Eustass-ya!-
Possibile che anche quella volta dovesse avere lui l’ultima parola?
 
*
 
A palazzo, in una delle sfarzose sale adibite per i banchetti, sedevano attorno ad un tavolo sei personaggi che mai si erano visti per le vie di Parigi. Venivano da fuori della regione, alcuni anche da un altro stato confinante con la Francia e non. Stavano mangiando, prendendosi la loro meritata pausa dopo una giornata estenuante passata a trattare con il sovrano francese. Si erano presentati tutti all’appello, chi per interesse personale, chi per denaro, chi per promesse di potere, chi per amicizia, ma ognuno di loro era lì non per fedeltà.
Erano mercenari, non avevano un vero e proprio Re a cui obbedire, rispondevano solo all’offerente migliore e, in quel momento, i francesi avevano pagato fior di quattrini il loro sevizio.
La Flotta dei Sette era stata di nuovo riunita ed erano tutti eccitati e ansiosi di entrare in azione.
C’era comunque silenzio nella sala, interrotto solamente dalle posate che tintinnavano all’uso, mentre i presenti pensavano ognuno ai fatti propri, non intenzionati a disturbare gli altri e ben decisi a mantenere la tranquillità che volevano.
Alcuni erano più portati per quel tipo di comportamento, altri, invece, aspettavano solo il momento migliore per dare inizio al finimondo.
Ad un tratto, la porta principale si aprì lentamente, rivelando la figura del settimo componente della nuova Guardia Reale, il quale, senza salutare nessuno e senza scusarsi per il ritardo, si avviò verso il suo posto, deciso a rimanere zitto e pronto a mettere qualcosa sotto ai denti.
-Bene, bene, bene.- iniziò a dire, invece, una voce divertita. –Drakul Mihawk. Finalmente ti sei deciso di degnarci della tua presenza.-
Il diretto interessato, senza scomporsi, si concentrò un attimo sul suo interlocutore, squadrandolo e decretando che no, non aveva ne tempo, ne voglia di perdere la cena per uno che andava in giro con un assurdo cappotto di piume orribilmente rosa. Probabilmente veniva da qualche posto nel mondo pieno di fenicotteri e aveva tutta l’aria di essere un piantagrane. E, per inciso, lui non sopportava gli inetti rompiscatole. Per quel giorno aveva già avuto a che fare con una piantagrane e non aveva nessuna intenzione di ripetere l’esperienza.
Alla fine se ne era liberato, scendendo a patti con quella mocciosa viziata e obbligandola a mostrargli l’uscita segreta che esisteva nelle mura della reggia, promettendole in cambio di non rivelare al padre le sue fughe clandestine e risparmiandole una strigliata con i fiocchi.
Aveva sopportato abbastanza, quindi.
Spostò i suoi occhi gialli sul suo piatto e da lì non li alzò più, ignorando la risata sguaiata del suo vicino e lasciando che parlasse a vanvera.
-Doflamingo, dovresti chiudere il becco.- disse un altro, seduto a capotavola e intento a bere una sorsata di vino pregiato da un calice altrettanto di valore.
Donquijote Doflamingo sorrise in direzione di quell’uomo, sghignazzando e osservandolo attentamente. –Sai, Crocodile, fossi in te porterei un po’ più di rispetto a chi ti sta intorno.- disse maligno, nascondendo nella frase una chiara minaccia.
Crocodile, però, non si lasciò impressionare e rispose a dovere. –E io mi guarderei le spalle, fossi in te.-
Una risata sinistra disturbò le orecchie di tutti, mettendone il proprietario in primo piano e dandogli così modo di esprimersi in quello scontro verbale nato per un nonnulla. –Vi siete appena incontrati e già vi fate la guerra!-
Gekko Moria era sempre stato un tipo alto e grosso che amava vedere gli altri combattersi, stando in disparte e attaccando solo quando era il momento migliore e propizio. Si trovava lì per denaro, come la maggior parte dei presenti, ma aveva iniziato subito a divertirsi immensamente.
Crocodile lo guardò schifato, mentre Doflamingo fece finta di non averlo sentito, preferendo osservare come i restanti membri continuassero ad ignorare il battibecco, mangiando silenziosamente e desiderosi di andarsene.
-Vediamo,- disse, poggiando il mento su una mano, -Orso Bartholomew, Jinbe e la bellissima Boa Hancock.-
La donna gli gettò un’occhiata gelida e aggressiva che fece allargare il ghigno sulla sua faccia. –Coraggiosa, ma ingenua.-
-Non hai di meglio da fare, Doflamingo?- si intromise a quel punto Jinbe, il quale, in quanto a stazza, era il doppio di lui e in uno scontro istantaneo avrebbe avuto la meglio. La cosa migliore era quindi lasciar perdere il divertimento e andarlo a cercare altrove. Dopotutto, avrebbe avuto tutto il tempo a sua disposizione per far impazzire i suoi nuovi e sciocchi compagni d’armi.
-Signori,- disse allora, alzandosi elegantemente da tavola, -E’ stato un piacere. Vi auguro una buona notte.- e, con ciò, si diresse all’uscita a passo lento e rilassato, la testa alta come se fosse stato il padrone della reggia e la sicurezza di chi sa di essere superiore e intoccabile.
Crocodile storse il naso, gettando infastidito il tovagliolo sul tavolo e preparandosi a lasciare la stanza anche lui. L’aria lì dentro era irrespirabile.
Moria non la smetteva di sghignazzare sotto i baffi e dopo poco anche lui si dileguò, imitato da Orso Bartholomew e Boa Hancock.
Jinbe finì il suo pasto in silenzio, alzandosi una decina di minuti dopo, pronto per andare a dormire e dimenticare quella giornata infernale. Fece un cenno di saluto a Mihawk, il quale rispose allo stesso modo. Tra tutti, quel tizio alto e grosso era uno dei pochi che non gli stavano antipatici.
Rimase solo a consumare il suo pasto, soddisfatto di non avere più persone fastidiose attorno e preparandosi mentalmente ai giorni di fuoco che lo attendevano. Sarebbe stata una tortura, già lo sapeva, ma la paga era buona. Sperava solo di poter lavorare da solo e non in compagnia di qualche idiota.
Preferiva la solitudine e non sopportava gli altri membri della Flotta dei Sette, i quali, anche se si detestavano a vicenda, condividevano il suo stesso e identico pensiero.
Almeno in qualcosa erano d’accordo.
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Buongiorno a tutti! Il mio umore non è dei migliori e in più dalle mie parti piove ;_______; ma è sabato, quindi significa festone assicurato durante il fine settimana, almeno si spera.
Ecco il quarto capitolo ^^
Sorpresa: c’è Perona ** contenti? E’ la prima volta che mi cimento con il suo personaggio, spero vogliate scusarmi eventuali cavolate sul suo conto. Inoltre, automaticamente mi ritrovo a descrivere anche Mihawk, perché a mio parere sono tanto carini assieme, perciò prego Dio di non combinare disastri. Per ogni dritta, comunque, sono sempre qui e i suggerimenti sono ben accetti.
 
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfa1/v/t1.0-9/10360390_1587861594766010_18601949868056779_n.jpg?oh=60d494d5e6ca56ed748aefc4f0f849d3&oe=556C8DFE Perona.
 
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfa1/v/l/t1.0-9/1625680_1587861584766011_12287280423337973_n.jpg?oh=78bf835160dc0ad156f8b0ab6009e32e&oe=5527A267 Mihawk. (Bellissimo Mihawk **).
 
Ammetto di aver rubato preso in prestito il nome di Corte dei Miracoli dal Gobbo di Notre Dame. Scusate, ma mi piaceva troppo e lo trovavo azzeccato per il tema. Il cimitero in cui si trova, invece, esiste tutt’oggi e si trova a nord di Parigi, mi pare.
Altro piccolo particolare un po’ simpatico: quando ho iniziato a scrivere questa ff, inserivo la Tour Eiffel ovunque. Grazie a Dio, documentandomi sulla Rivoluzione Francese, mi sono ricordata che il monumento è stato costruito molto tempo dopo. LOL.
E si, Shanks sta a capo dei Rivoluzionari ed è innamorato delle cosce di Makino :P
 
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfa1/v/t1.0-9/1493230_1587861614766008_6991372847784362843_n.jpg?oh=e71bd1d497ac889e902f39f3346f73e7&oe=552E2A58 Shanks alla Corte dei Miracoli.
 
Alla Bastiglia le cose vanno alla grande e, avendo amato alla follia la saga di Impel Down, che mi ha fatto ridere come una matta ogni volta che c’erano Bagy e Mister Three, non ho potuto non inserirli. Li amo troppo.
Ace, invece, dopo aver setacciato la città, ha trovato l’indizio lasciato da Rufy e ha pensato bene di andarlo a consolare. La situazione avrebbe dovuto essere inversa, ma il fiammiferino mi serve libero e in ottima forma. Rufy, fino al 14 luglio, può starsene in prigione a cincischiare :D
 
https://scontent-b-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfp1/v/t1.0-9/10157357_1587861621432674_3439522904975057371_n.png?oh=dc441410bc2a337fe3dd1ea979910c28&oe=55651746 ‘Ti salverò, Rufy.’
 
E infine la Flotta dei Sette. Non è vero che i sovrani avevano ingaggiato dei marines per la loro protezione, me lo sono inventato per adattare al meglio il gruppo di personaggi perché se non ci metto il naso non sono contenta. Apprezzate l’impegno, dai, cerco di fare del mio meglio ;________; anche se sono certa che non vi dispiace così tanto sapere che Doflamingo ci metterà lo zampino e che ci scapperà il morto.
A proposito, si tratta di una guerra, mi pare giusto avvisarvi, se non l’ho già fatto, che qualcuno DOVRA’ morire. Non so ancora chi, ma accadrà per forza. Si, vi voglio bene anche io.
 
https://fbcdn-sphotos-d-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xfp1/v/t1.0-9/10923618_1587861624766007_3471574857495952081_n.jpg?oh=413859e8625042370b58294ae71491b9&oe=556CB0FE&__gda__=1428562862_7d83b4acd31a51204d15b56df7a2026e
 
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xpa1/v/t1.0-9/10897007_1587861644766005_6813054135721456794_n.png?oh=4368885e544eb7c2a68760b76cb4235d&oe=5520990D
 
Per oggi è tutto, alla prossima settimana quindi!
Vorrei poter aggiornare più spesso. In effetti, i capitoli pronti arrivano fino al decimo, ma vedo che mi ritrovo con il tempo misurato per continuare a scrivere, quindi preferisco aspettare di concluderla, sempre se ce la farò in tempo. dovrete portare pazienza, anche perché avevo previsto che fosse molto più corta, invece l’arco temporale che voglio coprire è parecchio lungo, tipo che la storia inizia in primavera e dovrà concludersi dopo circa un anno per trattare al meglio tutta la parte dell’Assemblea Nazionale Costituente, la presa della Bastiglia e la fuga del Re. Ripeto, armatevi di tantissima pazienza.
 
Ad ogni modo, avviso che Tashiji e Smoker non ricompariranno per un pezzo e altre coppie faranno la loro comparsa in seguito, abbiate fede.
Grazie come sempre a tutti, recensori, vecchi e nuovi lettori.
A sabato con il quinto capitolo ^^
 
See ya,
Ace.

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Capitolo 5
*** Cinq. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Cinq.
 
Il mattino arrivò lento, portando i primi raggi di sole a filtrare attraverso le finestre e a disturbare i più pigri che avrebbero preferito dormire qualche ora in più. Fu così per chi viveva in città, ma la scena si ripeté anche nel bel mezzo delle paludi dove, anche se la luce del giorno faticava a brillare attraverso la fitta vegetazione, chi vi abitava aveva imparato da molto tutti i trucchi per svegliare l’intero accampamento in un modo semplice ed efficace.
Quanto fosse piacevole, poi, era da discuterne, ma l’importante era che funzionasse.
Per quel motivo che, come ogni mattina, Thatch, dopo essere stato svegliato allo stesso modo, si apprestava a raggiungere la tenda accanto alla sua con in mano un secchio pieno d’acqua che non gli sarebbe di certo servito per cucinare. Il suo intento era far alzare dal letto una persona dall’indole combattiva e poco cavalleresca che, molto spesso, lo metteva in crisi, oltre a lasciarlo spesso con un velo di imbarazzo e rossore sulle gote. Che nome avessero quelle sensazioni contrastanti non lo sapeva, solamente si rendeva conto che qualcosa nel suo stomaco non funzionava bene quando passava il tempo in sua compagnia.
Entrò nella tenda, facendo attenzione a non fare rumore, e si avvicinò al giaciglio su cui dormiva rannicchiata una figura all’apparenza piccolina, ma capace di prenderlo a schiaffi con la stessa forza che ci metteva Marco quando era incazzato. Fu tentato di concederle un risveglio meno tragico, ma si ricordò di tutte quelle volte che era stato svegliato in modi barbari, così non si lasciò prendere dai sentimentalismi e rovesciò senza pietà l’acqua in testa alla povera ragazza che stava sognando beata fino a pochi secondi prima.
Si tenne lo stomaco per le risate mentre la guardava emergere dal groviglio di coperte con i capelli zuppi e le gocce umide che le scendevano sul viso fino a bagnarle anche il pigiama.
-Thatch.- la sentì ringhiare, come se il suo nome fosse stato un’imprecazione, -Brutto stronzo!-
-Buongiorno anche a te, Haruta.- riuscì a dire tra le risate il ragazzo, ignorando bellamente lo sguardo assassino che gli era puntato addosso. –Dormito bene?-
Per tutta risposta gli arrivò qualcosa di pesante in testa che gli fece parecchio male e si rese conto di aver lasciato il secchio in legno troppo vicino al povero pesce fuor d’acqua che aveva davanti fino a poco prima. Haruta, infatti, era balzata giù dal letto e, dopo essersi vendicata, non contenta, gli era saltata sulle spalle, arrampicandosi sulla sua schiena e appollaiandosi lì, obbligandolo a tenerla in braccio stringendole le gambe.
-E adesso?- le chiese Thatch sorridente, voltando un poco il capo per guardarla in faccia e ricambiando il sorriso che gli veniva rivolto.
Lei si strinse nelle spalle. –Adesso mi scarrozzerai in giro tutto il giorno.- dichiarò allegra, scalciando e colpendolo ai fianchi per incitarlo a muoversi. –Portami a fare colazione, su.-
-Lo sai che questo è schiavizzare le persone?- le rese noto, obbedendo comunque alla sua richiesta.
-Così impari a svegliarmi come un barbaro.-
-Che ne dici se passiamo a svegliare anche Marco?-
-Sei pazzo? Poi ci ammazza.-
-Allora andiamo dal babbo.-
-Non lo so se è il caso.- mormorò Haruta, indecisa.
-Ti prego!- insisté il ragazzo, sfoderando quella che secondo lui era un’occhiata da cucciolo indifeso e bisognoso di affetto, anche se tutti affermavano che sembrasse più un ubriaco che altro.
-E va bene!-
Si catapultarono fuori dalla tenda ridacchiando come facevano sempre quando erano assieme. Se c’era qualcuno con cui Thatch amava passare il tempo oltre ai suoi fratelli di sangue, quella era Haruta, quell’impavida ragazza che riusciva a tenergli testa in uno duello uno contro uno e che, una volta, l’aveva pure battuto. Anche se, per evitare che i suoi compagni lo prendessero in giro fino alla sua morte, non si era vantata con nessuno e aspettava di essere sola con lui per lanciargli frecciatine e deliziarlo di battutine taglienti. Era una persona che lo capiva, che aveva tanta voglia di scherzare quanta ne aveva lui e riusciva a capirlo con uno sguardo o con un sorriso.
Sinceramente, alla diretta interessata piaceva stare con lui, la metteva sempre di buon umore e, sebbene fosse noto a tutti quanto l’uomo fosse un dongiovanni, ad Haruta non importava perché, come si comportava con lei, ovvero in modo gentile, rispettoso e onesto, non lo faceva con nessun’altra. Solo con lei passava le serate a chiacchierare e suonare la chitarra; solo per lei rubava i dolci dalla cucina per poi portarglieli al mattino o prima di andare a letto; non le rispondeva male e, soprattutto, non si stancava mai della sua compagnia.
Si divertivano un sacco e, quando Thatch, nei momenti in cui era più ubriaco, si lasciava andare alla sincerità, le diceva sempre che, se mai si fosse sposato, avrebbe voluto lei accanto.
E, quando ciò succedeva, per Haruta era sempre l’attimo più bello di tutti.
Mentre si dirigevano verso le sorgenti per recuperare un po’ d’acqua da usare per il risveglio dell’ignaro e addormentato Barbabianca, in un’altra tenda Sabo era fortunatamente sveglio e vigile, intento ad ascoltare gli schiamazzi che sentiva provenire da fuori.
Erano passate ormai due settimane da quando aveva rischiato di morire, salvato per miracolo da una sconosciuta che aveva poi perso il sonno e tempo prezioso per mantenerlo in vita, riuscendoci, stando a quanto aveva detto Trafalgar, egregiamente e senza danneggiarlo durante l’operazione effettuata sulla ferita d’arma da fuoco. Si stava riprendendo abbastanza velocemente: mangiava, stava al caldo e, di tanto in tanto, provava ad alzarsi, quando nessuno era nei paraggi, e passeggiava nella tenda, sgranchendosi le gambe e sbirciando fuori, aspettando che il tempo passasse e portasse con sé notizie differenti.
A volte si addormentava e dormiva molte ore, svegliandosi e trovandosi con le coperte pulite o un piatto di zuppa calda e, a detta sua, deliziosa sopra al tavolino basso accanto al letto. Tutte piccole cose che associava ad una sola persona che non vedeva da parecchio, per la precisione da quando si era svegliato.
Pensava spesso a come si era comportato con quella ragazza che non conosceva affatto e gli dispiaceva non riuscire a parlarle. Le avrebbe chiesto scusa e le avrebbe promesso di seguire tutte le indicazioni che gli avrebbe dato pur di farsi perdonare. Dopotutto, le doveva la vita, quindi scusarsi era il minimo che potesse fare. Da quel poco che aveva potuto apprendere parlando con lei, sapeva che era simpatica e socievole, nonché paziente, dato che aveva passato una notte intera a vegliarlo e a calmarlo durante i suoi deliri dovuti alla febbre. La mattina, quando poi si era svegliato, avevano chiacchierato molto e Sabo ricordava di essersi impegnato parecchio per vederla ridere di continuo perché la sua risata gli piaceva tanto, era contagiosa. Aveva un bel sorriso Koala e anche delle belle mani. Erano state leggere e quando gli aveva cambiato le bende non aveva sentito male, mentre i tizi che lo avevano seguito quelle settimane non erano stati altrettanto bravi. Gentili e disponibili, certo, ma non erano lei, ecco.
Sospirando, si tirò su a sedere, stiracchiandosi allungando le braccia verso l’alto e sbadigliando sonoramente, scompigliandosi poi i capelli sempre più folti che gli cascavano in ciocche disordinate e leggere sugli occhi. Lasciò ricadere le mani in grembo e le fissò inebetito, riflettendo sul cosa fare. Magari se si fosse vestito bene e fosse sgusciato fuori a prendere un po’ d’aria nessuno gli avrebbe detto niente. Solo cinque minuti, poi sarebbe rientrato.
Mentre rifletteva sul da farsi, il pesante tendaggio situato all’ingresso venne scostato, rivelando una figura, diversa da quelle che si era abituato a vedere in quei giorni, indaffarata a tenere in braccio un enorme cesto pieno di biancheria. Di lei si distinguevano solo un cappellino rosso, come i suoi capelli del resto, e una camicetta rosa arrotolata fino ai gomiti sottili.
Sabo rimase a guardare Koala mentre avanzava verso il letto cercando di non fare troppo rumore, camminando quasi in punta di piedi e rischiando di inciampare proprio quando era arrivata a destinazione. Così poggiò a terra il cesto e si tirò su soddisfatta con un sorriso stampato in viso che, per l’appunto, scomparve quando incontrò lo sguardo incuriosito e limpido di Sabo.
Rimasero a fissarsi per qualche attimo in imbarazzo, entrambi indecisi su cosa dire e su come comportarsi. Per la precisione, quello in ansia era Sabo, Koala era semplicemente sorpresa di trovarlo sveglio e senza uno straccio di maglia addosso a parte le bende. Si sarebbe preso un malanno in quel modo.
Stava per farsi prendere di nuovo da quel suo maledetto altruismo, ma, quando parlò, dalla sua bocca uscì altro. -Scusami, torno più tardi.-
Che sciocca, continuava ancora a fare l’offesa per quel piccolo battibecco. Stava diventando sempre più simile a quel permaloso di Marco e la cosa non le piaceva affatto. Insomma, alla fine non era successo nulla, le avevano semplicemente contestato il suo lavoro, prendendosela con lei senza nemmeno una valida ragione.
Ripensandoci, forse si meritava ancora un po’ di solitudine quel francese.
-Ma no!- ribatté svelto Sabo, facendole segno di fermarsi e non andare via. –Ascolta, mi dispiace, va bene? Sono stato un maleducato e non avevo il diritto di contestarti.- disse di getto per evitare di vederla sgusciare via di nuovo, temendo poi di non rivederla per altre due settimane. Tutto aveva un limite, accidenti, e lui stava impazzendo in quella schifosa tenda.
Koala sbatté le ciglia lunghe e guardò Sabo agitarsi sotto il peso del suo sguardo fermo che, dopo poco, si addolcì, seguito a ruota da un sorriso sincero. Non era così scemo come pensava, allora.
-Non devi preoccuparti, davvero. E’ tutto a posto.- gli assicurò, contenta di poter chiarire quella faccenda.
-Ti sarò sembrato un moccioso.- borbottò il ragazzo, accennando un sorriso e guardandola di sottecchi.
Lei si strinse nelle spalle e si sedette sul bordo del letto accavallando le lunghe gambe. -Un pochino.- ammiccò scherzosa, contagiando Sabo con quella sua risata allegra e lasciando che i loro piccoli e sciocchi fraintendimenti scemassero via, lasciando posto al buonumore e a quella simpatia reciproca che avevano avuto sin dall’inizio.
-Finalmente sono riuscito a beccarti.- disse il biondo, scostandosi i capelli dalla fronte e attirando così l’attenzione su quel particolare.
Koala lo guardò pensierosa, perdendo il filo del discorso e cercando una soluzione per quell’impiccio. –Ehi, e se ti tagliassi i capelli?- se ne uscì, cogliendolo alla sprovvista e allungando una mano per afferrare una ciocca ribelle che stava solleticando il naso di Sabo.
-Cosa? No! No, assolutamente!-
-Oh, ma dai!- lo riprese, scuotendo il capo. -Sono lunghi.-
-E allora?-
-Non ti danno fastidio?-
-No, mi piacciono.-
-Almeno, lascia che te li raccolga finché fai colazione.- propose.
-E come pensi di fare? E dov’è la colazione?-
-Fidati.- rispose la ragazza, sorridendo in modo furbo e slegandosi dal polso un nastro sottile che, in qualche minuto, legò tra i capelli mossi del ragazzo, creando un buffo ciuffetto in cima alla sua testa. L’unico problema fu che non riuscì a trattenersi dal ridere quando Sabo si voltò verso di lei, guardandola attentamente e imbronciandosi quando si rese conto che lo stava bellamente prendendo in giro.
-Ti sei vendicata ora?- fece sarcastico, alzando gli occhi al cielo quando lei annuì contenta, prima di avvicinare il cesto ed estrarre del pane, una bottiglia di latte, frutta e alcuni biscotti recuperati in modi alternativi dai suoi compagni che da poco avevano abbracciato l’idea del brigantaggio come forma di passatempo.
Successivamente, Sabo spazzolò via tutto dal piatto, battendosi la pancia soddisfatto e sazio, senza sentire o provare nessun tipo di dolore e fitte lancinanti al fianco, cosa che gli era successa spesso da quando era stato operato. Stava decisamente meglio, ne era certo.
Approfittò per dirlo alla ragazza, la quale, dopo aver soppesato le informazioni, decise che avrebbero iniziato, poco per volta, una riabilitazione veloce, visto e considerato che il Rivoluzionario non avrebbe accettato tempistiche di mesi, o settimane.
Gli cambiò le bende, esaminando attentamente la ferita perfettamente rimarginata e asciutta, passandogli poi i vestiti puliti che aveva recuperato per lui e aiutandolo ad indossare la camicia per evitarli movimenti bruschi.
-Ti sta bene questo colore.- gli disse ad un tratto sovrappensiero. Trovava che il blu scuro della giacca che gli aveva preso si abbinasse bene non solo al suo aspetto, ma anche alla personalità che aveva. A Koala il blu piaceva; il blu e anche il colore del grano che avevano i capelli di Sabo.
-Tu dici?- chiese il diretto interessato, guardandosi meglio.
-Certo!-
Indossati anche un altro paio di pantaloni, gli stivali e una sciarpa pesante, su obbligo imposto da Koala, a Sabo fu finalmente concesso di mettere piede fuori dalla tenda.
Dovette socchiudere gli occhi per abituarsi alla luce, seppur debole, di quella mattinata primaverile, stringendosi nella giacca pesante e muovendo i passi lentamente, conscio di dover fare attenzione, ma tranquillo perché accanto a lui sapeva che Koala lo guidava sul sentiero un po’ accidentato, poggiandogli leggermente una mano sulla schiena e pronta ad aiutarlo se si fosse sentito male.
Sabo, però, si sentiva benissimo, come aveva sempre detto di stare, e non poteva fare altro che sorridere nel vedere il posto impensabile in cui si trovavano. Non aveva mai pensato alle paludi come un così efficace nascondiglio e quella gente straniera proveniente da chissà dove aveva trovato un vero e proprio tesoro. Si erano organizzati benissimo con focolari, tende coperte da fronde, armi e turni di guardia. Non ne era certo, ma gli sembrò addirittura di intravvedere vasche da bagno ambulanti piazzate nel mezzo della boscaglia. Qualcosa gli diceva che, se avesse conosciuto tutti i particolari, si sarebbe divertito un sacco.
-Dove stiamo andando?- le domandò, continuando a guardarsi attorno e sorridendo a tutte le persone che incrociavano nel cammino, le quali salutavano Koala calorosamente e, anche se non lo conoscevano bene, rivolgevano attenzioni anche a Sabo, chiedendogli gentilmente della sua salute.
-Da nessuna parte per adesso.-
-Perché dici per adesso?-
-Non lo so, te la senti di fare un giro turistico dell’accampamento?- lo guardò interrogativa, sbirciando il fianco ferito e mordicchiandosi un labbro indecisa.
-Scherzi? Devo ripeterti che io sto benissimo?- fece Sabo, drizzando le spalle e puntandosi un pollice al petto, sorridendo smagliante per enfatizzare la cosa.
Koala si ritrovò a sorridere, stranamente entusiasta per quella risposta e impaziente di portare in giro Sabo per fargli visitare quella che era diventata ormai la sua casa. Sarebbe stata una giornata alternativa e, forse, avrebbe potuto avere il tempo di chiedergli informazioni su Parigi, la vita in città e tutto il resto. Infondo, chiacchierare con lui le veniva estremamente facile ed era pure piacevole.
-Andiamo allora.- decise, facendogli segno di seguirla.
Sabo sorrise e non se lo fece ripetere. Un po’ d’aria fresca e svago gli avrebbero fatto solo bene.
-Fermo, fermo, fermo!- urlò qualcuno all’improvviso, spaventato e quasi isterico.
Sabo si allarmò, non abituato a quelle situazioni. Il contrario era per Koala, la quale scosse il capo con rassegnazione, non prestando minimamente interesse a quelle grida disperate.
-Ehm, va tutto bene?- si sentì domandare.
-Non preoccuparti, è solo Thatch.- liquidò con un cenno della mano.
-Sta male?- insisté il biondo, alzando il capo per guardare oltre una scia di cespugli il punto in cui sembrava esserci del trambusto seguito da risate e schiamazzi.
-Deve aver infastidito il babbo. Di nuovo.-
-Uh? Il babbo?-
-Giusto, tu non lo sai. Beh, magari più tardi te lo presento. Ora andiamo.- lo rassicurò Koala, afferrandogli un bracco con attenzione e trascinandolo dalla parte opposta del campo, decisa a presentargli qualcuno di non troppo matto o fuori di testa.
-Non potete gettarmi nella Senna anche questa volta!-
Dio solo sapeva cosa aveva combinato quello sconsiderato.
 
*
 
In piazza c’era il mercato e la gente approfittava di quell’occasione per uscire senza il pericolo di incappare in una rivolta, acquistando quanto più cibo possibile nella speranza di non morire di fame e di stenti nei giorni a venire.
Il pane ormai era diventato quasi inaccessibile, come la carne del resto, riservata praticamente solo ai nobili e al clero, i benestanti per principio, ma c’era ancora qualche brava persona che faceva affari sotto banco, di nascosto e pensando al bene comune dei cittadini più poveri.
-Siete davvero gentile. Grazie infinite per quello che fate.-
-Si figuri, ora vada e non si faccia vedere.-
La donna si allontanò con due bimbi al seguito presi per mano, nascondendo sotto al mantello un consistente pezzo di carne che avrebbe usato a dovere per sfamare la sua famiglia, asciugandosi le lacrime di gioia che le si affacciavano ogni qual volta quelle persone di buon cuore le tenevano da parte del cibo, consegnandoglielo senza ricevere nulla in cambio. Quella donna non era l’unica, molti altri si fidavano di quei bravi ragazzi al banco della carne e del pane. Altri commercianti li guardavano storto, ma bastava poco per zittirli, ovvero qualche occhiata omicida da parte del macellaio, il quale non si risparmiava di sgozzare maiali di fronte a loro, guardandoli come se tra le mani non avesse un animale, ma i loro corpi.
Certo, Killer faceva una certa impressione, ma aveva un carattere d’oro se lo si prendeva da solo e non in compagnia di rozza gentaglia con cui, spesso, si accompagnava.
-Ehi, Killer,- lo chiamò il panettiere con il quale collaborava, il quale imitò una vocina stridula facendo una faccia svenevole. –Come sei gentile.- lo prese in giro.
Killer sollevò il coltello sporco di sangue e glielo puntò contro, prima di piantarlo con decisione nel cosciotto di carne che stava dividendo. –Sanji, farai la stessa fine se non la smetti.-
Il ragazzo ridacchiò per niente impaurito, riprendendo a riempire i cesti con del pane fresco che veniva direttamente dal forno del suo titolare, Zeff, un vecchio piuttosto scontroso, burbero e senza una gamba, ma che aveva assunto Sanji come garzone quando era ancora un moccioso, crescendolo e dandogli sempre una buona mancia affinché non finisse a bazzicare per le strade come tanti altri orfani.
Era cresciuto bene con lui e cucinare gli piaceva, ancora di più dividere il pranzo con gli altri amici che aveva e che faticavano a mantenersi in salute perché sapeva quanto fosse orribile avere fame e non poter mangiare, perciò aiutare i bisognosi gli dava un’immensa soddisfazione.
E poi incontrava anche un sacco di belle ragazze.
-Toh, guarda chi si vede.-
Belle ragazze, ma, purtroppo, anche gente insopportabile.
-Ciao Zoro.- salutò Killer, alzando il coltellaccio verso il nuovo arrivato, un vecchio amico di entrambi, conosciuto grazie al movimento della Rivoluzione del quale facevano parte più della metà dei giovani parigini.
Sanji si limitò ad un cenno quasi invisibile del capo e Zoro di certo non si sprecò più di tanto.
C’era da dire che tra i due non corresse affatto buon sangue, solamente una grossa dose di competizione e sfida, forse anche odio puro. E, nonostante i loro amici l’avessero domandato più volte ad entrambi, nessuno dei due aveva risposto alla domanda sul perché non andassero d’accordo. Si insultavano, a volte persino arrivavano alle mani, ma non si riusciva a trovare un motivo plausibile per quel loro disaccordo su tutto.
Era normale, da un certo punto di vista. Perché, di ciò Sanji e Zoro ne erano certi, se avessero detto di essere finiti a dormire nello stesso letto, sarebbe successo il finimondo. Era accaduto una volta, per sbaglio, per caso, per disgrazia, dopo troppo alcool assunto e molti anni addietro, quando ancora erano degli stupidi adolescenti alla scoperta del mondo, ma alla fine le cose si erano ripetute e non potevano più dare la colpa agli errori da marmocchi o alle sbronze colossali. Iniziava con una litigata, poi seguiva qualche pugno, ed infine la situazione degenerava.
Sanji non lo sopportava. Non accettava quel suo dover cedere sempre a Zoro che, da parte sua, non si capacitava di essere attratto da quello sciocco damerino. Si erano cacciati in una situazione assurda da cui non avevano idea di come uscirne indenni.
-Ehi, mocciosi.- li richiamò Zeff dalla finestra della panetteria che dava sulla via principale, attirando l’attenzione dei tre giovani. Con il capo indicò un punto tra la folla e, dopo poco, spuntarono alla luce le classiche divise degli ufficiali, in giro come al solito a controllare che tutto fosse in ordine.
-Ora di filare, testa verde.- mormorò Sanji, continuando a sistemare il pane, senza degnare Zoro di uno sguardo, il quale, dopo aver grugnito un insulto rivolto a nessuno in particolare, si dileguò. C’erano alcuni dei Rivoluzionari su cui pendevano delle taglie e, se venivano identificati, finivano o alla gogna o in prigione. Tra questi c’era anche Zoro, ma la lista era piuttosto lunga e parecchie persone erano costrette a vivere nell’ombra e ad uscire di rado, o incappucciati. In inverno si andava bene, ma con la stagione bella le cose sarebbero state complicate per tutti i diretti interessati.
Uno di loro era anche Kidd, il quale stava compiendo una delle sue solite e giornaliere scorribande lungo una delle stradine interne della città, dove stavano i cosiddetti bassifondi di Parigi, saltando immondizia varia, barboni senza tetto, muretti e recinti di vario genere, evitando accuratamente di essere colpito dai colpi di rivoltella che, di tanto in tanto, risuonavano alle sue spalle, segno che le guardie che lo avevano intravvisto non lo avevano perso.
Doveva trovare una scorciatoia per raggiungere la Rive Gauche, passando per l’Île de la Cité, ma non sarebbe stato facile con quei piantagrane alle costole. Doveva levarseli di torno con un piano di fuga alternativo che solo i tetti gli avrebbero potuto offrire. Così, girando l’angolo, si aggrappò ad una grondaia ed iniziò a salire agilmente fino al primo terrazzo, saltando poi sempre più in alto fino a raggiungere, non senza un certo sforzo fisico, il tetto spiovente di un edificio, prendendo a correre verso la direzione opposta a quella del corpo di polizia che, dopo svariati minuti, si rese conto di aver perso le tracce del fuggitivo, il quale, nel frattempo, aveva fatto attenzione a non perdere l’equilibrio e finire spiaccicato al suolo.
Ghignò Kidd, continuando a spostarsi nelle vie alte, facendo l’equilibrista e divertendosi a nascondersi dietro i caminetti per non dare nell’occhio. Era proprio bravo, non c’era che dire, scomparire e apparire quando voleva in maniera indisturbata era la sua specialità, oltre che ad uccidere, rubare, bere e fare disastri. La sua vita era una meraviglia: poteva andare dove voleva e fare quello che più desiderava, senza nessuno a mettergli i bastoni fra le ruote. Non gli sarebbe importato affatto di morire, perché sapeva che stava vivendo al meglio e non aveva nessun rimpianto che gli pesava addosso. Era libero e ciò era per lui la cosa più importante.
Raggiunse la piazza del mercato e si fermò a salutare Killer, impegnato a compiere buone azioni, come sfamare i civili e fingere di essere un brav’uomo, per poi riprendere la sua corsa verso il quartiere dove si concentrava segretamente la maggior parte dei rivoltosi, deciso a far valere le sue proposte e a farsi ascoltare.
E se quel montato di Portuguese D. Ace gli avesse messo i bastoni fra le ruote, beh, gli avrebbe dato una bella lezione.
Non che lo odiasse, a dire la verità lo rispettava, in un certo senso, ma non gli piaceva che andasse sempre in giro comportandosi come se fosse una leggenda. D’accordo, era riuscito a salvare un condannato a morte, facendo poi saltare in aria il patibolo sotto lo sguardo dei componenti della Giustizia, Re compreso, ma considerarlo un eroe gli sembrava esagerato. Aveva avuto fortuna, ecco tutto. Kidd non si capacitava del perché dovessero tutti chiamarlo Pugno di Fuoco o cazzate del genere. Era un moccioso, per l’amore di Dio! Se c’era qualcuno degno di essere lodato quello era lui e il gruppo di scalmanati del quale faceva parte. Loro aiutavano le persone e uccidevano ufficiali ogni giorno, perché nessuno lo teneva presente?
Il rosso alzò gli occhi al cielo e saltò da un tetto all’altro, ricordandosi della presenza di altri esaltati, per esempio Sabo. Ecco, qualcuno come Sabo era difficile da detestare e da invidiare perché aveva il fastidioso carattere buonista che gli faceva venire il nervoso, ma doveva trattenersi perché il biondo lo trattava bene, come qualcuno degno di nota, lo apprezzava e ci scherzava pure, anche se lui tentava di ignorarlo. Sabo poteva anche salvarsi, soprattutto perché quando si complimentavano con lui per la sua capacità di guidare la folla durante le sommosse, dicendogli che era degna di un condottiero, lui affermava di non essere così bravo, si comportava da modesto, anche se, sotto sotto, gongolava, Kidd ne era certo. Ad ogni modo, era sopportabile, mentre Ace, o addirittura Rufy, erano degli idioti. Rufy più di tutti, ma il moccioso era solo stupido e quindi lo si poteva anche perdonare. Certo, perché bisognava essere dei veri deficienti per farsi rinchiudere dentro l’inespugnabile Bastiglia.
Raggiunse il ponte ed iniziò ad attraversarlo con il cappuccio del mantello calcato sulla testa per non attirare l’attenzione sui suoi capelli rossi. Ormai era quasi arrivato.
Mise le mani in tasca ed avanzò tranquillo, senza troppa fretta. Era proprio curioso di sentire cosa avessero architettato i Rivoluzionari per tirare fuori dalla galera i loro uomini. Dopotutto, era noto che Shanks il Rosso non lasciava nessuno dei suoi compagni nelle mani della Corona.
 
*
 
-Canaglia! Essere immondo! Uomo senza rispetto! Vergogna!- mormorava la principessa Perona a mezza voce, stringendo i pugni e aggirandosi per la sua stanza come un’anima in pena, arrabbiata e fuori di sé per l’irritazione che la tormentava.
-Quel maleducato, presuntuoso, maledetto!-
La causa di tutti quegli insulti poco signorili altri non era che Drakul Mihawk, il quale, dopo averla incontrata per caso a gironzolare senza permesso per le vie di Parigi e averla riportata a palazzo dove era giusto che stesse, si era fatto svelare la sua via di fuga segreta in cambio della promessa di non raccontare al Re, suo padre, quello che aveva combinato e che andava avanti da mesi.
Fino a lì non c’era nessun problema, non fosse stato per il fatto che, dopo averla fatta rinchiudere nella sua stanza, era andato a raccontare al sovrano che aveva casualmente trovato una falla lungo la recinzione che delimitava la reggia e aveva consigliato di farla chiudere per evitare che alcuni ribelli si azzardassero ad entrare di soppiatto. In quel modo, si era conquistato la fiducia del Re e aveva ottenuto il permesso di comportarsi come meglio credeva, facendo ingelosire alcuni dei membri della Flotta dei Sette e prendendosi un bel vantaggio su personaggi come quella piaga di Doflamingo o Moria.
Ciò, però, aveva danneggiato immensamente la povera Perona, la quale, ignara di tutto, una volta scoperto che non sarebbe più potuta sgusciare all’esterno per prendere una pausa dalla sua schifosa vita, aveva dato di matto.
Uscì dalla camera da letto con un diavolo per capello, infastidita ulteriormente da quel continuo ticchettio che provocavano i tacchi delle sue scarpette sul pavimento in marmo lucido, diretta in biblioteca dove era certa di non incontrare nessuno e dove avrebbe dato sfogo alla sua rabbia, magari dipingendo qualche quadro con colori cupi e simboli di morte. Forse, se era fortunata, avrebbe avuto l’opportunità di fare il malocchio a quel traditore.
Raggiunse la sala illuminata dalla luce del giorno che filtrava attraverso delle immense vetrate, dove si respirava il tranquillizzante odore di libri, copertine di cuoio e carta e si sentì subito meglio. Chiuse la porta e andò dritta verso il camino davanti al quale, in inverno, sedeva sempre a leggere e prese da una delle mensole un volume con una rilegatura in pelle rossa senza nessun titolo. Era il suo preferito e l’aveva riletto tantissime volte perché la storia le piaceva e non parlava solo di etica, poesie, sonetti e inutili storielle romantiche che le facevano venire il mal di testa. L’autore, per lei, doveva essere stato un genio, anche se non ne conosceva il nome.
Si sedette sul tappeto e riprese a leggere da dove si era interrotta il giorno prima, torturandosi distrattamente il labro inferiore con la punta delle dita ed iniziando a calmarsi.
Sembrava andare tutto bene, ma qualcuno alle sue spalle decise di rompere quel momento di pace che era riuscita a ritagliarsi, schiarendosi la voce e facendola voltare di scatto con gli occhi sbarrati per lo spavento. Sensazione che sparì immediatamente quando riconobbe Mihawk, stravaccato su una poltrona di velluto con un libro in mano e il cappello con la piuma poggiato sul tavolino affianco.
Perona gli rivolse un’occhiata truce in risposta al suo ghigno beffardo e poi tornò a farsi gli affari suoi, decisa ad ignorarlo e così fece anche lui. Aveva solo voluto rivelarle la sua presenza, giusto per essere educato, ma, a quanto pareva, non doveva essere ben accetto in quel frangente, visto il modo rumoroso e scocciato con cui Sua Altezza era entrata nella biblioteca.
Lesse altre due pagine prima di riportare gli occhi sulla figura che, seduta poco distante da lui, affondava il viso in un libro dall’aria usurata. Non gli interessava l’argomento, ma era solo curioso di vedere le sue reazioni. Quando l’aveva incontrata in città si era divertito un mondo a seguirla, anche se all’inizio non aveva idea di chi fosse. Semplicemente, era rimasto stupito da come una donna avesse avuto il coraggio di passeggiare per le strade, da sola e al tramonto con il calare della notte. La fortuna, poi, aveva fatto si che quella ragazza intraprendente e decisamente incosciente fosse stata proprio la principessina del palazzo.
Con un movimento secco della mano chiuse il libro che teneva nel palmo e lo poggiò sopra al tavolino il legno lucido accanto alla poltrona, alzandosi in piedi e iniziando a passeggiare in maniera apparentemente casuale attorno alla stanza, avvicinandosi sempre più al camino dove Perona leggeva indisturbata. O, per la precisione, ci provava.
Con la coda dell’occhio seguì la figura dell’uomo senza farsi notare, prestando attenzione al suo abbigliamento semplice e non troppo elegante, composto solamente da un paio di pantaloni scuri, una camicia bianca e degli stivali in cuoio alti fino al ginocchio. Sapeva poco sul suo conto e aveva udito solo qualche voce di corridoio, chiacchiere che sussurravano i servitori quando credevano di essere discreti, ma non aveva scoperto gran ché, eccezione fatta per i discorsi sulle sue ricchezze e possedimenti. Le solite sciocchezze inutili a detta sua.
Ad ogni modo, non era per niente tranquilla con quell’individuo a palazzo e sapere che poteva andarsene liberamente in giro senza l’autorizzazione o il controllo di qualcuno la metteva a disagio. Insomma, chi era quell’uomo? E perché aveva accettato di fare parte della Scorta Reale di suo padre? che tenesse veramente a mantenere l’ordine e la monarchia assoluta a Parigi ci credeva ben poco, ma era intenzionata a venire a capo di quella faccenda che le aveva lasciato molti dubbi fin dall’inizio.
Ovviamente, avrebbe agito senza esporsi troppo, perciò riprese a concentrarsi sul suo libro, ignorando Mihawk e facendo finta che non esistesse.
Quando, però, le fu chiaro che avrebbe continuato a girarle attorno, assillandola con il rumore dei suoi passi e la sensazione di essere sempre più braccata, non riuscì a trattenersi e si ritrovò costretta a sbottare.
-Di norma, nelle biblioteche, vige la tacita regola di mantenere il silenzio.- gli fece notare piccata, sperando che afferrasse l’antifona e togliesse il disturbo.
Il effetti, Mihawk aveva capito perfettamente quali erano i desideri della ragazza, ma di certo non le avrebbe dato la soddisfazione di comandarlo a bacchetta. Non lo faceva il Re in persona, figuriamoci una mocciosa viziata.
Così, invece di andarsene, approfittò dell’occasione per fare un po’ di conversazione come dettava la buona educazione e, voltandosi verso Perona per guardarla in faccia come un vero gentiluomo, rispose con garbo e senza traccia del nervosismo che, invece, era stato ben noto nel tono di voce di lei.
-Per questo motivo, Mademoiselle, io non vi ho rivolto la parola.- rispose furbo, facendo arrossire Perona, la quale si rese conto di aver commesso un passo falso. Aveva dato inizio lei a quella chiacchierata non necessaria, rompendo così la regola di cui lei stessa aveva accennato.
Serrò le labbra e digrignò i denti, gesto poco consono al suo rango, ma non le importava. Non aveva nulla da dimostrare a quell’impiastro ed era decisa a non concedergli più educazione del dovuto, dato che non era stato di parola e aveva spifferato tutto sul conto della sua via di fuga segreta.
Riportò gli occhi sulle pagine ingiallite, ma dovette interrompersi nuovamente.
-Bella giornata oggi, non trovate?-
Diede un rapido sguardo alla finestra, intravvedendo uno squarcio di cielo azzurro. –Molto bella.- concordò scocciata, lasciando poi cadere il discorso. Sapeva del bel tempo di quel periodo e aveva anche una gran voglia di togliersi di dosso quel vestito che le stava stretto e correre fuori, scappare via e non tornare più. Lo aveva fatto un sacco di volte: scendeva in strada e raggiungeva il ponte che dava sull’Île de la Cité, guardando verso Notre Dame per scorgere l’altra riva, indecisa se attraversare quel pezzo di città e allontanarsi per sempre da quella vita. Alla fine non ne aveva mai il coraggio e se ne ritornava a casa con la coda tra le gambe, ripromettendosi che, prima o poi, si sarebbe sparsa la voce della scomparsa della Principessa Perona.
Odiava stare a Corte, odiava il suo titolo nobiliare, odiava le sue ricchezze, odiava la sua famiglia, odiava tutto. Per la Regina era invisibile, dato che lei era stata il frutto di una delle svariate scappatelle del Re, perciò non aveva nessun affetto materno, mentre il padre, impegnato e troppo preso dall’essere al di sopra di tutto, si dimenticava spesso di chi lo circondava. Si ricordava di lei solamente quando compiva gli anni, perché ciò significava che era un anno più grande e sempre più vicina all’età da marito. Presto, sarebbe andata in sposa a qualche balordo riccone in cambio di un contratto di alleanza o pace con qualche paese limitrofo. Sarebbe stata venduta al miglior offerente come un animale all’asta. I principi reggenti, i suoi fratellastri, Absalom, Hogback e Cindry, erano uno più insulso dell’altro, senza carattere o autorevolezza, perciò li evitava come la peste e loro facevano altrettanto. Era sola.
Tutto, come quel vestito, quelle scarpe e quelle acconciature che era obbligata a sfoggiare e quel futuro al quale non voleva pensare le stava dannatamente stretto. Si sentiva oppressa da quel mondo ingiusto e interessato a mostrare solo il meglio quando, più sotto, cadeva a pezzi.
Non sopportava i nobili e il clero, presenziare a cene importanti le chiudeva lo stomaco e dover passare il tempo con stupide oche che volevano solo fare bella figura con lei la annoiava.
Quella falla nel muro era stata la sua salvezza, l’unico attimo in cui si permetteva di sognare di meglio per la sua vita, ma quell’uomo le aveva tolto pure quel piccolo svago che le permetteva di andare avanti.
Lo odiava, odiava lui, il Re, la legge, tutto.
-Principessa?-
-Che cosa vuoi?- ringhiò furiosa, il libro stretto nelle mani che le tremavano visibilmente.
Mihawk era serio, ma non stava sfoggiando un’aria aggressiva, sembrava soltanto incuriosito da qualcosa sul suo volto.
-State piangendo.- le fece notare con tono fermo, mantenendo le distanze per non metterla in agitazione e non lasciare che fosse sopraffatta da qualche attacco isterico o dalla vergogna di essere vista in un tale stato.
Perona sbatté le palpebre incredula, sfiorandosi all’istante le guance e trovandole umide, mentre alcune dita si sporcarono con il trucco che le era probabilmente colato dagli occhi.
Che razza di sciocca.
Svelta, scattò in piedi e si avviò verso la porta, farfugliando delle scuse a bassa voce e lasciando cadere a metà strada il libro che aveva tenuto in grembo, sussultando quando udì il tonfo all’impatto con il pavimento, ma non si fermò, né tornò indietro. Aprì la porta e scappò nelle sue stanze, sperando che nessun altro vedesse come si era ridotta.
Mihawk era rimasto impassibile alla scena. Non aveva detto nulla e non aveva fatto niente per sistemare le cose. Era rimasto a guardare come la rabbia aveva lasciato posto ad una sconfinata tristezza sul volto della mocciosa che, senza rendersene conto, aveva abbassato la guardia, mostrandogli una parte che mai avrebbe pensato di vedere in una persona da carattere così fastidioso e, anche se gli costava ammetterlo, forte. Perché, per avere il coraggio di passeggiare da sola e senza protezione, quella ragazza doveva avere di certo un’indole combattiva. Oppure era semplicemente stupida.
In ogni caso, quella crisi non se l’era affatto aspettata e qualcosa gli diceva che, in qualche modo, anche se indiretto, c’entrava in parte la chiusura della falla nel muro di recinzione.
Si strinse nelle spalle, decidendo che non gli importava, che non era una questione che lo riguardava, ma poi adocchiò il libro che Perona stava leggendo fino a poco prima e si sentì un po’ in colpa. D’accordo, era una Guardia Reale, un combattente, ma era anche un nobile con un’educazione e dei principi da seguire.
Raccolse così il libro, spolverandolo e osservandolo qualche istante prima di afferrare cappello e mantello.
Gliel’avrebbe riportato e si sarebbe scusato per il disturbo, ma lo faceva solo perché non era un incivile e perché non voleva avere problemi durante la sua permanenza a palazzo.
Devo restare calmo, pensò, mentre usciva nel corridoio e si apprestava a sondare la reggia da cima a fondo per scovare quella ragazzina.
 
*
 
In una stanza non troppo grande e sorretta da precarie pareti di legno, situata all’interno del decadente edificio a ridosso delle mura di cinta dove, solitamente, bazzicavano i Rivoluzionari, si stava svolgendo quella che molti avrebbero classicamente definito lite di famiglia.
C’era solo qualche particolare da chiarire, ovvero i gradi di parentela mancanti tra le parti che si stavano contendendo il diritto di parlare e il poco affetto che trasudava dagli insulti che si udivano fino in strada.
-Idiot!- ripeté per l’ennesima volta Shanks, battendo i pugni sul traballante tavolino in legno e fissando il ragazzo davanti a sé che, non senza una certa forza, brandiva sopra la testa una sedia sgangherata che minacciava di volare addosso all’uomo.
-Ti ho detto che lo tireremo fuori!- urlò Ace, al limite della sopportazione.
-Ti rendi conto di come mi sono sentito quando non l’ho trovato da Makino?- chiese Shanks sull’orlo di una crisi isterica, -E poi vengo a sapere da esterni che Rufy è sparito! Sparito, capisci?-
Ace alzò gli occhi al cielo davanti a quella faccia da madre disperata che Shanks stava sfoggiando. A volte si comportava come un genitore troppo presente nella vita dei figli. Figli che, per inciso, nemmeno erano suoi.
-Non è stato bello nemmeno per me! Credevo morto sia lui che Sabo!-
-L’altro idiota! Dov’è adesso? Ho un discorsetto da fare anche a lui! Altro che fratelli maggiori, siete due irresponsabili!-
-Makino, digli qualcosa o giuro che lo faccio volare dalla finestra!-
-Forza, ora calmatevi tutti e due.- tentò di dire la donna, frapponendosi tra le parti contese e cercando disperatamente di calmare il ragazzo che ormai considerava parte integrante della sua stramba famiglia e l’uomo con il quale avrebbe voluto condividere il resto dei suoi giorni.
Da quando era diventata proprietaria della locanda, i tre fratelli per scelta si erano trasferiti subito da lei, aiutandola nella gestione e in qualsiasi altra mansione per pagarsi l’alloggio e, dato che anche per Shanks le cose erano andate più o meno allo stesso modo, tutti loro si erano legati molto, abituandosi a vivere sotto lo stesso tetto e ad abbracciare l’idea di avere sempre una casa e dei cari a cui fare ritorno.
Per quel motivo Shanks stava dando di matto dopo aver ricevuto la notizia riguardante la prigionia di Rufy e, in quel frangente, stava cercando di estorcere informazioni ad Ace, anche se nel modo sbagliato. A volte l’uomo dimenticava che non erano figli suoi, ma l’affetto che provava verso di loro era sconfinato, tanto che si sentiva responsabile del loro benessere.
Fu in quell’istante che fece il suo ingresso Kidd, aprendo con calma la porta e spalancando gli occhi quando vide una sedia volare attraverso la stanza e Shanks il Rosso schivarla per un pelo, gettandosi sotto al tavolo.
Cercò di capirci qualcosa in quel delirio, guardandosi attorno e vedendo che non era il solo ad assistere alla scena.
Oltre ad un gruppetto di Rivoluzionari che stavano cercando di mantenere un profilo basso per non venire presi in causa, seduto su un divanetto a due posti, con le braccia comodamente abbandonate sullo schienale, il peggior dottore in circolazione osservava divertito lo spettacolo che stava avendo luogo, sogghignando ogni volta che Ace inveiva contro uno dei capi della Rivoluzione.
Kidd ebbe la tentazione di uscire dalla stanza senza dare nell’occhio, ma, purtroppo, Trafalgar Law lo individuò nell’esatto istante in cui il rosso aveva formulato quel pensiero e, allargando il ghigno che aveva sulle labbra, lo guardò imbronciarsi e avanzare nella sala, dedicandogli un saluto degno di nota, ovvero mostrandogli con un gesto volgare della mano dove poteva andare a farsi fottere, ignorandolo subito dopo e tornando a concentrarsi su altro.
Per Kidd, rimasto a bocca aperta, quello era un affronto bello e buono. Aveva sentito voci poco positive su di lui, ma, a quanto pareva, anche in fatto di buone maniere aveva delle carenze. Non che lui fosse migliore, affatto, semplicemente si era aspettato di più da uno che conduceva una simile professione.
Ad essere sincero, Kidd era rimasto totalmente sconvolto da Trafalgar Law. Era un continuo incognita e, anche se ci aveva parlato poco e l’aveva visto altrettanto raramente, era certo che non sarebbe mai stato capace di prevedere del tutto le sue mosse.
All’apparenza appariva come tutti i nobili: ricco, altezzoso e con la puzza sotto al naso, ma bastavano cinque minuti in sua compagnia per cambiare opinione. Non era schizzinoso, era volgare e non aveva il minimo rispetto per nessuno, forse nemmeno per i morti, tranne che per se stesso. Trattava tutti allo stesso modo e senza preferenze, prestando attenzione solo al suo lavoro e ignorando i pensieri altrui. Era pieno di sé, un po’ come Kidd, ma il rosso si considerava cento volte meglio di lui, per quel motivo non sopportava di venire calpestato in quella maniera irrispettosa.
Con le urla di Shanks in sottofondo, coprì la distanza che lo separava da quel moccioso e lo raggiunse, sedendosi accanto a lui e facendo tremare il divano, ma ciò non servì ad intimidire il dottore che, divertito, non fece sparire il suo ghigno dalla faccia continuando a guardare di fronte a sé.
-Come va il braccio, Eustass-ya?- chiese, fissando Ace, intento a saltare sopra al tavolo.
Kidd grugnì senza rispondere. Non voleva dirgli che stava benissimo e che si era rimesso in poco tempo. Avrebbe significato dare un motivo in più a quell’esaltato di vantarsi.
Non sapeva se fare dello spirito o meno, ma dovette concentrarsi su altro perché sotto ai loro occhi, Shanks aveva finalmente deciso di smetterla di urlare, ascoltando il ragazzo dai capelli corvini che, il quell’istante, stava blaterando qualcosa riguardo alle paludi e alla Rivoluzione Americana.
-E me lo dici solo ora?- sbottò il Rosso, sgranando gli occhi e lasciando che l’ombra di un sorriso facesse capolino sulle sue labbra.
-Se tu la smettessi di assentarti da Parigi e restassi nei paraggi, forse riuscirei a contattarti in tempi brevi!- lo riprese Ace, riferendosi ai viaggi d’affari che compiva l’uomo parecchie volte durante la settimana, dirigendosi in periferia e nelle regioni limitrofe per cercare contatti esterni o alleati che sostenevano la causa comune.
Shanks fu preso da una risata isterica, costretto poi a sedersi e a nascondersi la faccia con le mani, mentre Makino lo guardava preoccupata e il resto dei presenti si chiedevano se fosse impazzito. Tutti, tranne Law e Ace, i quali sapevano esattamente di cosa si stava parlando. Il primo sogghignava sornione e l’altro batteva nervoso un piede a terra, fremendo per continuare il suo discorso.
-Che diavolo significa?- domandò Kidd, non sopportando di essere all’oscuro di tutto.
-Pazienza, Eustass-ya.- lo zittì il dottore, accavallando le gambe e intrecciando le dita dietro la nuca, inclinando il capo in attesa delle spiegazioni che sarebbero arrivate.
In breve, Ace si ritrovò seduto al centro della sala con l’attenzione di tutti puntata su di lui, mentre raccontava in sintesi gli avvenimenti di quelle ultime settimane. Raccontò delle condizioni di Sabo e di come fosse stato salvato; della cattura di Rufy e dell’agguato degli ufficiali; dell’accampamento fuori città e di Barbabianca.
-Un campo di profughi sta a pochi kilometri da Parigi e noi non ne sapevamo niente?- chiese Kidd, riferendosi in particolare a Shanks con quel commento. Era lui l’uomo a cui mezza popolazione faceva riferimento e, anche se non lo aveva mai voluto, gli era praticamente stato imposto da esterni il titolo di Guida, o Imperatore che dir si voglia. Tutti guardavano lui, tutti attendevano un suo ordine o decisione, tutti lo rispettavano e credevano nelle sue capacità di oratore e combattente. Era il punto di riferimento della Rivoluzione.
In effetti, Shanks abbozzò un sorrisetto imbarazzato, ammettendo che no, non ne era informato e non gli era mai nemmeno passato il dubbio per la mente. Se l’avesse saputo prima, di certo sarebbe andato di persona a curiosare e a conoscere quell’uomo di cui aveva tanto sentito parlare e che, stando a quello che gli aveva riferito Ace, voleva pure conoscerlo per portare avanti delle trattative che non faticava ad immaginare.
Non vedeva l’ora di fare una scampagnata alle paludi.
-Non costituiscono un pericolo.- si affrettò a chiarire Ace, anche se non ne era ancora del tutto sicuro. Insomma, a conti fatti quelli avevano ancora con loro Sabo e lui era stato colpito e ferito nell’orgoglio più volte da quegli idioti senza cervello che pensavano solo a fare festa e a vivere liberi nella giungla come indigeni. Figuriamoci se elementi del genere potevano essere innocui. Almeno il titolo di pazzi se lo meritavano eccome.
-Ne siamo sicuri?- domandò un uomo dai capelli gridi e lo sguardo severo, intento a riempire la stanza di fumo passivo con il suo sigaro acceso.
-Lo scopriremo presto Benn.- lo tranquillizzò Shanks, alzandosi e recuperando il cappotto nero che soleva indossare durante i suoi spostamenti. –Allora, andiamo?-
Ace lo fissò imbambolato e colto alla sprovvista. –Adesso? Subito?-
-E quando? Ricordati che non abbiamo tempo e dobbiamo ancora pensare a come tirare fuori Rufy.-
-Riguardo a questo,- soffiò allora Trafalgar, ricordando a tutti che stava presenziando a quella riunione anche lui, -Io avrei un’idea che ci semplificherebbe il lavoro.-
Shanks, il quale aveva sempre avuto fiducia in quel ragazzino dall’aria scontrosa, ma dannatamente instabile e insicuro se preso da parte e allontanato dal gruppo, sorrise ampiamente, grato per l’aiuto che gli era stato offerto.
Con un cenno del capo rivolto a Law gli fece intendere che aveva il permesso di agire come credeva, entro i limiti di sicurezza, ovviamente.
-Lasciate fare a me.- concluse il dottore, sospirando e sfregandosi le mani per mettersi subito a lavoro. Se volevano portare fuori qualcuno dalla Bastiglia era meglio organizzare il tutto nei minimi particolari e non tralasciare nemmeno un dettaglio. Non si usciva dalla prigione tanto facilmente, a meno che i carcerati non fossero stati dichiarati morti.
E lui, di quell’argomento, ne sapeva qualcosa.
Si alzò dal divanetto, salutando il gruppetto ristretto di persone che avrebbero accompagnato l’Imperatore e il suo figlioletto adottivo al colloquio con uno dei maggiori ricercati internazionali e si apprestò a dirigersi anche lui nel suo studio dove avrebbe messo in pratica qualche diavoleria con Penguin e Shachi.
Notò, però, che, a parte Makino e un paio di uomini, anche il suo scontroso paziente era rimasto nella stanza con un cipiglio indignato. Poveretto, forse si era offeso per non essere stato invitato al ballo o per non aver ricevuto nessuna informazione su tutta la faccenda in corso di sviluppo. Non che gli importasse, dopotutto era solamente un cane randagio che viveva di stenti.
E del ricavato che ruba agli altri, pensò preciso, ricordandosi di dover trovare il tempo per riprendersi il suo orologio da tasca. Era un gingillo di poco valore, ma era il più preciso che aveva in casa.
In ogni caso, continuava ad essergli indifferente, come se non fosse mai arrivato a Parigi, come se non lo avesse nemmeno mai operato. Era un’ombra, una figura con una faccia e un nome che appartenevano alla massa. Era come tutti gli altri, né più, né meno, capelli a parte e un carattere propenso a ricercare guai.
Non capì, quindi, cosa lo avesse spinto a renderlo parte integrante dei suoi progetti.
-Ehi, Eustass-ya.- lo chiamò, fissandolo dall’alto con una faccia che esprimeva quanto fosse macabro il suo piano. –Ti va di uscire con me?-
A Kidd quasi venne un colpo. –Mi prendi per il culo?-
-Non lo farei mai.- ironizzò il moro, accompagnando il tutto con un ghigno beffardo.
-Che programmi hai?- grugnì il rosso, ritroso.
-Niente di che, una visita di cortesia alla Bastiglia. Allora, ti va?- sapeva che non avrebbe resistito, quando ricapitava l’occasione di infiltrarsi nei corridoi stretti e senza uscita di quella prigione?
A Kidd brillarono gli occhi e tutta la diffidenza che aveva provato all’inizio sparì, lasciando posto ad un’insana impazienza.
-Diavolo, si!- rispose, scattando in piedi e affiancando Trafalgar che, nel frattempo, era già arrivato alla porta con la sua solita espressione poco cordiale e inquietante.
Quel tipo gli stava sulle scatole, era vero, ma in quanto a pericolo sembrava saperne abbastanza da suscitare la sua curiosità.
E poi oggi non ho niente da fare, si disse.
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Buongiorno ^^
Sto facendo tardi a lavoro ma, ehi, non potevo lasciarvi senza, altrimenti il capitolo lo avreste visto lunedì, LOL.
Insomma, si sta spargendo la voce che nelle paludi abita qualcuno, eh? Non so voi, ma sono curiosa di vedere Shanks alle prese con Barbabianca u.u e chissà come la prenderanno gli altri ^^
Ma ciao Haruta, era una vita che volevo inserirti da qualche parte solo per accoppiarti con Thatch ** Per non parlare di Sabo e Koala, rotolo :3
Anyway, ecco che sono arrivati anche Zoro e Sanji con il loro complicato rapporto di letto, mlmlml. Divertitevi, mi raccomando.
Sorvoliamo sulla vita triste di Perona, una ragazza con le palle a mio avviso e che le tirerà fuori molto presto.
E poi Kidd e Law. Kidd e Law che ancora non si sono messi le mani addosso. Mi chiedo come facciano u.u
Detto ciò vi lascio alle immagini!
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Ringrazio sempre tutti, vecchi e nuovi lettori. Un abbraccione grande :3
See ya,
Ace.

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Capitolo 6
*** Six. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Six.
 
Quella tenuta era un vero e proprio labirinto, nemmeno il suo castello era così complesso e intricato. C’erano porte in qualsiasi corridoio, scale in ogni angolo e servitori che si ammassavano negli atri in uno sconvolgimento generale per le innumerevoli mansioni da sbrigare. Finestre ampie, tendaggi pesanti, oro e argenteria ovunque, candelabri, tappeti, mobili pregiati, tutto troppo in mostra secondo i suoi gusti, molto più semplici, quasi spartani. Che bisogno c’era di tutta quella cianfrusaglia che contribuiva solo a fare confusione?
Non era quella, però, la sua preoccupazione, così continuò a scendere la scalinata principale che portava ad uno degli ingressi del palazzo reale, illuminandosi quando vide venire verso di sé una domestica dall’aria indaffarata, ma non troppo scorbutica.
-Perdonatemi,- le disse non appena la incrociò, facendola sussultare e osservandola mentre si chinava con rispetto, prodigandosi in una serie di cortesie che Mihawk non aveva tempo di stare ad ascoltare. –Sapete dove si trova la Principessa Perona? Sua Maestà mi ha incaricato di badare alla sua protezione.- abbozzò come scusa, in modo da non destare curiosità o sospetti scomodi e fuori luogo.
La donna si accigliò, ma non obbiettò nulla davanti a quella spiegazione e cercò di pensare a dove si potesse essere cacciata quella signorina scostante e capricciosa. Tra tutti i luoghi presenti nella reggia, solo uno le venne in mente come buona opzione.
-L’armeria.- rispose affabile, come se fosse stata la cosa più normale del mondo.
Per Mihawk, però, non lo era per niente, infatti la fissò un po’ stupito, domandandosi se per caso si era espresso male o se la signora si era confusa.
-Non credo di capire.- confessò infine, aggrottando la fronte.
-La signorina passa molto tempo nella vecchia armeria.- ripeté allora la governante con un sospiro stanco, quasi scoraggiato. –La troverete sicuramente lì. Seguite il corridoio fino all’ala ovest e poi scendete al piano terra. Non potete sbagliare.-
-Vi ringrazio.-
Cosa combinava quella mocciosa in un ambiente simile proprio non lo sapeva e non voleva nemmeno scoprirlo, ma ormai aveva il libro con sé e di tornare indietro non se ne parlava, non proprio quando era ormai arrivato a destinazione. Non ci avrebbe messo molto, sarebbero bastati cinque minuti, forse anche meno: avrebbe bussato, mollato il volume da qualche parte con la sua perenne poca grazia e poi sarebbe uscito dalla stanza come se non ci fosse mai entrato. Non si sarebbe fermato a chiacchierare o a fare domande indiscrete e, soprattutto, avrebbe evitato di concentrarsi sull’aspetto della ragazza. Che si fosse nascosta per piangere o frignare non aveva importanza, non era un problema suo. Ne aveva anche troppi di pensieri per la testa e non aveva tempo da dedicare alle cause perse altrui.
Seguì le indicazioni e arrivò davanti ad una porta in legno accessibile a tutti e non chiusa da lucchetti o serrature complicate. Evitò, o si dimenticò, di bussare ed entrò tranquillamente, venendo subito colpito dall’odore di chiuso misto a quello riconducibile all’acciaio e al ferro, tipico delle armi e delle armature che decoravano l’intera sala poco illuminata da alcune torce affisse alle pareti, le quali rendevano l’ambiente quasi lugubre e poco riscaldato, esattamente come piaceva a lui.
Alcuni trofei di caccia davano bella mostra impagliati su alcune mensole, mentre spade, faretre, fucili e altra ferraglia era disposta un po’ in disordine nei ripiani. Per essere una specie di vecchio ripostiglio per le armi ormai in disuso non era messa tanto male, era evidente che qualcuno si occupava della manutenzione del posto con cura, inoltre, la sala aveva l’aria di essere ben fornita.
Curiosò un po’ in giro, scordandosi il motivo di quella visita e non notando affatto la presenza di qualcuno che, a differenza sua, aveva tenuto alta la guardia e si era premurato di non farsi vedere per evitare punizioni o strigliate di capo.
Infatti, Perona osservava da un angolo buio come Mihawk fosse preso da alcune spade che lei stessa aveva affilato, testandone la pesantezza e la qualità delle lame, rimettendole poi a posto con una faccia soddisfatta.
Si sentiva a disagio sapendolo lì, nel suo angolo privato, conscia che quella parte del castello era poco trafficata, perciò non era abituata a ricevere visite, soprattutto da qualcuno che non fosse una semplice sentinella reale. Il fatto che lui l’avesse vista piangere, poi, non semplificava le cose. Si dava ancora della sciocca per essersi lasciata sopraffare dai suoi problemi, ma era arrivata ad accettare di aver avuto una debolezza, dando la colpa al nervoso, allo stress accumulato e allo scompiglio di quei giorni dovuto all’arrivo dei membri della Flotta dei Sette. Non sarebbe ricapitato una seconda volta, si sarebbe sempre controllata e non avrebbe permesso a nessun altro di poterla scorgere in quelle condizioni. La tristezza doveva conservarla dentro di sé fino a quando non calava la sera ed era certa di essere sola nella sua stanza, lontana da occhi e orecchie indiscreti. Solo allora avrebbe potuto annegare nei suoi dispiaceri.
Così, sollevando il capo e indossando una maschera di indifferenza e serietà, abbandonò la parete alla quale era rimasta appoggiata e tornò alla sua postazione, quella dove fino a pochi minuti prima si era allenata, sollevando la sua spada e riprendendo gli esercizi che aveva imparato a furia di assistere alle esibizioni delle guardie, alle parate nazionali e ad altre manifestazioni dove era richiesta la sua presenza. Lo considerava un modo per essere pronta a tutto, oltre che una protezione ulteriore per se stessa, dato che nutriva il forte sospetto che la scorta che le aveva affidato suo padre non fosse poi così preparata ed efficiente. Era chiaro come il sole che se lei fosse morta nessuno ne avrebbe sofferto, quindi per quale motivo sprecare uomini valorosi e preparati per lei?
Quindi si adeguava e faceva da sé, contando sulle sue capacità e mettendoci tutto l’impegno e il rancore che provava nei confronti di quella vita così ingiusta e priva di luce, giurando che, se mai avesse perso la vita, avrebbe preteso almeno di diventare uno spettro e tormentare tutti coloro che vivano nella reggia. Era certa che si sarebbe divertita un mondo a farli sentire in trappola.
Eseguì qualche affondo e mimò un paio di parate, concentrandosi sul muro che aveva di fronte e ignorando volutamente la sensazione di essere osservata. Sapeva che l’uomo era ancora lì, sapeva che la stava guardando ed era consapevole del fatto di essere sotto esame. Probabilmente stava ridendo di lei e la considerava proprio una disperata, ma non le importava. Strinse i denti e continuò da dove aveva lasciato. Tra loro, era lei la principessa, quindi approfittava fin che poteva della sua posizione e dei suoi diritti.
Passarono i minuti e la sensazione di avere degli occhi puntati addosso si affievolì, permettendole di rilassarsi. Forse se ne era andato, stanco di deriderla, così si sentì più libera e approfittò per provare una cosa che aveva visto fare ad un cavaliere solo una volta, ma che le era piaciuta un sacco.
Divaricò le gambe e prese un respiro profondo per prepararsi, impugnando la spada con una mano ed iniziando poi a fendere l’aria davanti a sé, avanzando passo dopo passo, sempre più veloce per poi darsi lo slancio con una gamba e compiere una piroetta, sempre a spada tratta, immaginando di attaccare un nemico e rompere le sue difese.
Tuttavia, nell’ultimo passaggio, quando doveva fermarsi e riprendere l’equilibrio, sbagliava sempre. Perdeva l’equilibrio nel poggiare il piede a terra e doveva abbassare la guardia per non cadere. Se fosse stata in un combattimento vero, a quell’ora avrebbe di certo dato l’occasione all’avversario di colpirla.
Sospirò, appoggiandosi alla spada puntata sul pavimento e massaggiandosi la base del naso. Non andava bene, doveva provarci ancora.
Sussultò quando dei passi risuonarono sul pavimento in marmo alle sue spalle, facendola voltare di scatto con l’arma sollevata. Fortunatamente, Mihawk aveva previsto una distrazione del genere e si era munito anche lui di una spada per poter bloccare il fendente che la ragazza gli aveva rivolto senza rendersene conto.
-Attenta.- soffiò, scoccandole un’occhiata glaciale che fece deglutire rumorosamente Perona. Quell’uomo, oltre a non starle simpatico, le metteva pure i brividi.
Si raddrizzò e abbassò la spada, conscia di aver commesso un errore, ma decisa a non scusarsi anche se era chiaramente nel torto.
Mihawk, d’altra parte, non sembrò darci peso, interessato sinceramente ad altro. Era rimasto molto sorpreso quando si era accorto di ciò che stava facendo in quella sala la principessa. Non avrebbe mai immaginato di vedere una donna allenarsi in un’armeria, per giunta maneggiando un’arma vera con la quale si sarebbe potuta ferire. La cosa che più lo lasciava allibito, ad ogni modo, era la capacità che dimostrava di avere nella materia, a parte certe posizioni e mosse che andavano corrette al più presto perché erano un disastro a vederle, soprattutto per uno spadaccino bravo come lui, il migliore nel suo campo.
Ecco perché si era avvicinato, dopo aver posato il libro su una mensola in bella vista, prendendo in prestito una delle spade che aveva adocchiato in precedenza e raggiungendo la ragazza, intenta ad ammazzarsi da sola con tutto quell’allenamento abbastanza scorretto. Il suo aiuto non era stato chiesto, era vero, ma non poteva permetterle di continuare ad agitarsi come una pazza, non era quella la maniera di combattere. Doveva essere elegante e letale allo stesso tempo e, se era davvero brava come aveva creduto quando l’aveva vista compiere quell’affondo, non ci avrebbe messo molto ad imparare.
-Si fa così.- disse, affiancandola e assicurandosi che la sua attenzione si focalizzasse sulla spada che stava brandendo, iniziando a compiere i movimenti base lentamente per far si che li imprimesse bene nella mente.
All’inizio, Perona rimase immobile, sbattendo le palpebre per convincersi che non si stava immaginando niente, che Mihawk, quel maleducato, le stava davvero mostrando come compiere una parata decente ed efficace. Quando ne fu certa prese, anche se continuando a mantenere un certo distacco, ad imitarlo, piano, con calma, buttando continuamente occhiate al suo braccio, guardando bene come si muoveva per copiarlo al meglio, per non sbagliare.
-Dritte le spalle. Devi essere allineata con la schiena. Non avere fretta, impara prima le basi.-
E, per la prima volta, accettò i consigli di qualcun altro, seguendoli alla lettera senza ribattere o senza ignorarli.
-Pas mal.-
E, sempre per la prima volta, non si sentì inadeguata.
 
*
 
Ace era quasi certo che quella fosse la strada giusta che conduceva all’accampamento. D’accordo, l’aveva fatta un paio di volte, ma era stato talmente impegnato a pensare a tutti i problemi che gli erano capitati in quell’ultimo periodo che non ci aveva fatto caso più di tanto quando Thatch lo aveva accompagnato, o meglio, seguito e controllato.
Da che parte bisognava girare al bivio, a destra o a sinistra? Verso il fiume o lungo le mura? Accidenti a loro, non avevano trovato altri luoghi più adatti dove stabilirsi? Proprio nei pressi di Parigi avevano dovuto accamparsi quei chiassosi americani senza una dimora?
Tutte a lui dovevano capitare. Non bastava essere al centro del mirino degli ufficiali, rischiare di morire ogni giorno, e avere come fratelli degli incoscienti, no, gli toccava pure fare da portavoce e da scorta per due uomini abbastanza grandi e grossi da potersi anche arrangiare da soli.
-Sicuro che sia la strada giusta?- gli domandò Shanks per l’ennesima volta, seguito da Benn, Yasopp, il padre di uno degli amichetti del suo fratellino Rufy, e un paio di altri uomini ben piazzati e armati fino ai denti, gente di fiducia e che sapeva tenere la bocca ben chiusa.
Ace sbuffò, continuando ad avanzare nel folto della vegetazione con le mani infossate nelle tasche dei pantaloni e gli stivali che affondavano nella fanghiglia ad ogni passo. –Oui.- rispose sovrappensiero, ma non ne era per niente certo. Ad ogni modo, non avrebbe ammesso di essersi perso, perché lui sapeva perfettamente dove si trovava.
Fortunatamente si rese conto di essere in salvo quando riconobbe un punto nella boscaglia che gli era rimasto bene in mente, ovvero un albero secolare dal quale sbucava una bicicletta arrugginita. Thatch gli aveva spiegato che, probabilmente, la pianta era cresciuta attorno ad essa, per quel motivo sbucava dalla corteccia e dava bella mostra di sé, incuriosendo i passanti e coloro che si fermavano ad osservarla. Da lì doveva proseguire dritto, tenendo la sinistra.
Affrettò il passo, conscio che solamente pochi metri lo dividevano da Sabo. Sperava di trovarlo più in forma dell’ultima volta e, soprattutto, più sorridente e meno abbattuto. Non doveva essere stato facile per lui stare lontano da casa in compagnia di sconosciuti che avrebbero potuto eliminarlo in qualsiasi momento, ma Ace si era fidato ugualmente perché quella ragazza, Koala, gli aveva fatto buona impressione oltre ad aver effettivamente salvato suo fratello da morte certa. Se ci ripensava fremeva per la rabbia. Avrebbe dato una lezione a quegli ufficiali e si sarebbe vendicato anche per la prigionia di Rufy, poco ma sicuro.
-Ehm, Ace?-
-Siamo quasi arrivati.- chiarì, intravvedendo tra le foglie alcune tende in lontananza.
-Oh, lo immagino,- mormorò Shanks, un po’ nervoso e con un sorrisetto tirato sulle labbra, -Ma mi domandavo se potessi dire ai tuoi amici di abbassare le armi.-
Il diretto interessato, che fino a quel momento non si era accorto di nulla, si bloccò e si voltò con un piede a mezz’aria a guardare come, dai lati del sentiero che stavano percorrendo, sbucassero prima le canne di alcuni fucili e poi i proprietari di essi, non intenzionati a scendere a patti, viste le loro facce mezze incappucciate, ma ostili.
Il gruppo di francesi si affrettò ad alzare le mani in segno di resa e a mostrare che non avevano intenzioni nocive, ma Ace non badò a quei gesti e focalizzò l’attenzione su un tizio in particolare, riconoscendolo e iniziando subito a ringhiare, digrignando i denti e partendo a passo di carica verso di lui.
L’uomo in questione se ne accorse e, girandosi dalla sua parte, lasciò che sul suo viso apparisse un’espressione scocciata ed esasperata.
-Ancora tu.- si lamentò, abbassando la pistola e osservando quello che secondo lui era solo un mocciosetto raggiungerlo con l’aria di chi si credeva il padrone del mondo.
-Si!- sbottò Ace, non sapendo bene come ribattere e non volendo essere da meno. –Sono ancora qui.-
-What a pity.- borbottò l’altro, facendo segno ai suoi uomini di mettere via le armi. –It’s the brat.-
-Che hai detto?- sibilò il moro, assottigliando lo sguardo e cercando di compensare i centimetri di altezza che gli mancavano per raggiungere Marco sollevandosi sulle punte dei piedi.
Quello gli rivolse un’occhiata sbieca, seguita poi da un sorrisetto altezzoso. -Heureux de te revoir.- lo sfotté, facendo salire a livelli alti l’antipatia che il ragazzo provava nei suoi confronti. Sarebbe rimasto volentieri a punzecchiarlo e a vederlo perdere le staffe per l’inferiorità palese, ma sapeva per quale motivo ci fossero degli intrusi da quelle parti, così ignorò il piccoletto e si dedicò a questioni ben più importanti per conto di suo padre.
-Siete qui per Newgate, giusto?- chiese diretto, intuendo già chi di loro detenesse il grado più alto.
Shanks, infatti, divertito dalla scenetta che si era svolta poco prima, avanzò di un passo e fronteggiò il biondo, sorridendogli amichevole e presentandosi, riuscendo perfino a strappare un sorriso a Marco, quando ammise di aver temuto di aver perso la strada con una guida scarsa come Ace. Ovviamente, il ragazzo non prese bene la cosa e tenne il broncio fino a che non raggiunsero tutti l’accampamento, dileguandosi e facendo come se fosse stato a casa sua, andando alla ricerca della tenda dove riposava Sabo, mentre Shanks si occupava degli affari della Rivoluzione.
Il Rosso, dal canto suo, era eccitatissimo all’idea di conoscere quell’uomo coraggioso che era riuscito a creare praticamente un villaggio in mezzo alle paludi e non vedeva l’ora di misurarsi con lui. Si trattenne dal fare domande lungo il tragitto e fu ben disponibile a liberarsi delle armi che aveva con sé prima di venire annunciato a Barbabianca, affiancato dal suo fidato amico Benn. Per motivi di sicurezza, avrebbero permesso solo a loro due di entrare e di esporre le trattative.
-Pronto amico?-
L’uomo accanto a lui soffiò una boccata di fumo, stringendo il sigaro tra le dita. –Lo sono sempre.-
Marco fece strada e li invitò ad entrare in una tenda più grande di quelle che avevano visto in precedenza, facendoli rimanere di stucco quando furono all’interno, vedendo con quanto ingegno quelle persone si fossero attrezzate e organizzate. Dovevano aver vissuto in segreto per molto tempo a giudicare da quello che erano riusciti a costruire.
L’ammirazione, però, lasciò presto spazio allo stupore quando, finalmente, incontrarono la figura della leggenda vivente della Rivoluzione Americana, il quale li attendeva dall’altro lato di un grosso tavolo massiccio in legno scuro, con un sorriso di benvenuto e un’espressione piuttosto cordiale per uno della sua stazza e importanza.
Shanks ebbe la tentazione di correre a stringergli la mano, ma decise che forse non sarebbe stata la mossa migliore, considerando che il biondo accanto a lui teneva ben assicurata alla cintola una pistola dall’aria carica e ammonitrice.
-Benvenuti.-vociò improvvisamente l’omone, alzandosi in piedi e raggiungendoli per stringere loro la mano. I due ospiti notarono in quel modo che il suo braccio doveva essere grande quanto una loro gamba, come minimo. –Immagino che tu sia uno dei capi dei Rivoluzionari di cui mi aveva parlato Ace.-
Quel moccioso chiacchierone, pensò il Rosso, sfoderando un sorriso caloroso mentre stringeva con forza e tenacia la mano a quel vecchio dall’aria massiccia, mettendoci quanta più pressione poté per non sembrare da meno. –In persona. E voi siete il famoso Edward Newgate. E’ un onore conoscervi.-
-Altrettanto e se è vero che ricoprite un ruolo così importante per i cittadini di Parigi, sono io ad essere onorato di avervi qui.-
Marco sbuffò come a voler contraddire il padre, ma si obbligò a mordersi la lingua per non interromperli, mettendosi in un angolo a braccia conserte a fissare la scena con aria contrariata, segno che non approvava affatto tutte quelle cortesie.
In effetti, il ragazzo aveva vari dubbi riguardo quella presunta alleanza che i due uomini volevano arrivare a formare. Era dell’idea che quella non fosse la loro guerra, dato che ne avevano già vissuta una in passato, e credeva fermamente che, come si erano arrangiati loro, avrebbero dovuto farlo anche gli altri, contando sulle loro forze. Ma suo padre era sempre stato un uomo ben disposto verso tutti, deciso a dare una mano a chiunque se la causa era di buoni intenti, quindi si era già arreso ai fatti, ma non voleva dire che avrebbe finto di esserne contento, anzi, avrebbe dato sfogo a tutto il suo malumore senza preoccuparsi di ferire nessuno.
Barbabianca si accorse che Shanks il Rosso osservava, di tanto in tanto, con la coda dell’occhio suo figlio Marco, perciò si sentì in dovere di chiarire subito quel comportamento poco rispettoso, scusandosi per il disagio.
-Non fate caso a lui, diciamo che di battaglie ne ha viste molte e non è entusiasta di prendere parte ad un’altra.- preferì essere sincero, conscio che mascherare la realtà non sarebbe servito a niente, se non a complicare i rapporti con i francesi.
Shanks annuì comprensivo, per niente offeso da quell’ostilità che leggeva nello sguardo di quel giovane che tanto somigliava al vecchio che aveva di fronte. Entrambi avevano un’aria che suscitava ammirazione e dava mostra di coraggio e determinazione, sicuramente persone da rispettare, dati i loro precedenti. A lui avevano fatto subito una buona impressione, se doveva essere sincero. Dopotutto, si erano presi cura di Sabo e di quella peste di Ace, perciò era pronto a scendere a patti con loro in qualsiasi momento, sperando in altrettanta simpatia dal loro punto di vista. Lui, di certo, ce l’avrebbe messa tutta per risultare apprezzabile.
-Sai,- iniziò a dire il Rosso, sedendosi su una sedia e rivolgendosi a Marco in particolare, -In città ci sono parecchi uomini che ogni giorno si svegliano e aspettano di scendere in strada a combattere per qualcosa in cui credono. Desiderano un futuro migliore per le loro famiglie, perciò rischiano la vita e sopportano atroci sofferenze. Ogni giorno.- ripeté, sospirando per la pesantezza che quelle parole gli provocavano nel petto. -Ci sono dei ragazzi che per me sono come dei figli, perciò credimi quando ti dico che quello che stiamo facendo è unicamente per il loro bene. Nessuno vorrebbe vedere i propri cari soffrire o morire.-
Il biondo lo ascoltò in silenzio, lo sguardo attento e la postura rigida, poi, incrociando brevemente anche lo sguardo del padre, si decise a parlare. -Combatteremo.- affermò serio, staccandosi dal una delle travi che sorreggeva il soffitto della tenda e avvicinandosi al tavolo dove erano state stese delle carte in cui sarebbe presto stato stilato un contratto che sanciva e autenticava quella conversazione. -Ma sia ben chiara una cosa: non vogliamo responsabilità sulle vite che non ci riguardano e, se la guerra sarà vinta, dovrete assicurarci la garanzia di poterci trasferire a Parigi in modo permanente se ne avremo bisogno.-
-Marco, non è la nostra terra.- gli ricordò suo padre.
-Ma dobbiamo mettere a rischio la nostra famiglia ugualmente, perciò avere delle garanzie mi sembra più che giusto.- ribatté tempestivo il giovane, fissando Shanks e sfidandolo ad accettare quelle condizioni. Avrebbe potuto decidere quello che più gli comodava con Barbabianca, ma prima doveva acconsentire alle sue di richieste, altrimenti difficilmente avrebbe partecipato all’affare.
Finalmente, il parigino prese una decisione che di complicato non aveva avuto nulla, dato che per lui qualche cittadino in più non gli avrebbe cambiato la vita. –Mettiamo subito tutto per iscritto?- chiese, sfoggiando un sorriso cauto e afferrando carta, piuma e calamaio per iniziare, facendo ridacchiare Barbabianca e accigliare Marco, il quale si era aspettato di trovare più resistenza. Non aveva più nulla da aggiungere in quel caso e così, con un cenno di saluto, uscì dalla tenda prendendo una profonda boccata d’aria e chiudendo gli occhi per rilassarsi.
Non era un egoista, tutto ciò che voleva era mantenere al sicuro la sua famiglia, come faceva anche la gente di Parigi. Non voleva essere un peso e si fidava di suo padre, solamente si sentiva preoccupato e in dovere di assicurarsi il benessere di tutti.
Si massaggiò il collo con una mano per disperdere la tensione accumulata e solo allora vide avvicinarsi suo fratello Thatch con in mano una bottiglia d’acqua fresca e un sorriso smagliante e allegro.
-Allora,- chiese il castano quando l’ebbe raggiunto, porgendogli da bere e indicando la tenda alle loro spalle, -Come sta andando?-
-Stanno decidendo i termini in questo momento.- spiegò, mandando giù una generosa sorsata e sentendosi subito meglio.
-Come ti sembrano questi francesi?-
Marco tentennò qualche istante prima di rispondere sincero.- Uno più idiota dell’altro.-
Non stava scherzando, anche se Thatch si era messo a ridere di gusto, perché considerava Ace un deficiente e pure quel tizio di nome Shanks, con quei sorrisi e quell’aria da bonaccione non gli era sembrato così furbo e intelligente, al contrario del compagno più vecchio che fumava come una locomotiva.
-Sai cosa, credo che anche loro pensino lo stesso di noi, a parte Sabo ovviamente.-
-Uh? Perché non dovrebbe?-
Thatch diede una gomitata al fianco di Marco, sogghignando malizioso e facendogli segno di guardare dall’altro lato dell’accampamento dove si riconosceva chiaramente la figura di Koala seduta su un tronco davanti ad uno dei focolari, intenta a ridere mentre, accanto a lei, il francese che avevano salvato e curato le raccontava qualcosa, gesticolando e facendo facce strane.
Il castano allora si costrinse a commentare la scena. –Seriamente, come si può pensare male di una come Koala?-
-E’ troppo buona.- concordò Marco, sospirando.
-E bella. Non mi stupirebbe se ci ritrovassimo un francese in famiglia.-
-Thatch, ti prego. Li hai visti? Sono chiassosi, stupidi e irriverenti.-
-Ti stai riferendo a qualcuno in particolare?- ironizzò il fratello, adocchiando una testolina corvina sbucare dal nulla e avvicinarsi a passo spedito verso di loro, mentre Marco continuava a guardare i due giovani poco lontano, intento a borbottare la sua disapprovazione.
-Non hanno la minima idea di quello che fanno, sono indisciplinati e… Ecco, basta guardare questo moccioso: sono bassi e insignificanti.- concluse, rispondendo a tono all’occhiataccia che Ace gli rivolse, avendo intuito che il biondo stava facendo qualche commento poco gentile nei suoi confronti. La cosa era reciproca, naturalmente. Anche lui aveva qualcosa da dire in proposito, ma si tratteneva perché capiva che la situazione era delicata e iniziare una lotta con un alleato non sarebbe stata la mossa migliore da fare. Magari, quando si sarebbero ritrovati a combattere fianco a fianco, una scazzottata se la sarebbe potuta concedere e nessuno avrebbe visto niente. Doveva solo pazientare e ignorare quel fastidio che gli faceva pizzicare le mani e stringere i pugni quando si trovava in compagnia di quello spilungone ed era costretto ad alzare la testa verso l’alto per guardarlo in faccia. Non sopportava quella differenza di altezza, proprio non gli andava giù. Lo faceva sentire, come dire, inferiore e lui non lo era. Non aveva niente da invidiare a nessuno!
-Chiudi il becco.- lo apostrofò scocciato, facendosi largo tra i due per entrare nella tenda a dire la sua, ma Thatch, roteando gli occhi al cielo, ormai abituato a quell’intraprendenza, lo afferrò per la collottola prima che si allontanasse troppo, bloccandolo lì fuori con loro.
-Non penserai di poter interferire in una riunione così seria, vero ragazzino?-
-E lasciami! Io vado dove mi pare!- si impuntò il più piccolo, facendo sbuffare Marco, il quale decise che, se non voleva farsi venire un mal di testa, era meglio per lui andarsene e così fece, lasciando le rogne a suo fratello, più portato a perdere tempo con cose inutili.
Il castano, infatti, fu ben felice di trascinarsi dietro quello che considerava già come un nuovo amico con cui divertirsi e condividere più gioie che dolori. Così, incurante delle lamentele, lo costrinse a seguirlo, iniziando a parlare del più e del meno, tenendo sempre d’occhio i due ragazzi davanti al fuoco e deciso ad aggregarsi a loro per una bella chiacchierata tra conoscenti.
-Mollami, non ci voglio venire con te! Insopportabile deficien…-
-Oh, guarda! C’è il tuo amico laggiù!- esultò Thatch, conscio di aver toccato un punto importante per il moccioso che, all’istante, smise di ribattere e drizzò le orecchie, smettendo di porre resistenza e alzandosi sulle punte dei piedi per intercettare suo fratello.
-E non è solo, c’è anche Koala con lui.- precisò il castano, facendo strada ad Ace che, una volta individuato Sabo, superò il più grande e gli fu addosso in pochi secondi, cogliendo il biondo di sorpresa e buttandolo a terra facendolo cadere dalla parte opposta del tronco sotto lo sguardo prima stupito e poi divertito della ragazza.
-Ma che… Ace? Che ci fai qui?- chiese Sabo, felice di vedere il viso famigliare del corvino e abbracciandolo a sua volta, incurante di essere in una posizione scomoda. Non sentiva più dolore e quello era un segno positivo a suo parere. Tempo atmosferico a parte, non sentiva nemmeno tanto freddo essendo vicino al fuoco e avendo fatto una doppia colazione, inoltre i vestiti che gli aveva fornito Koala tenevano caldo e gli stavano bene.
-Ho accompagnato Shanks a parlare col vecchio che comanda da queste parti. Tu piuttosto, come stai?- spiegò Ace spiccio, desideroso di conoscere le condizioni del fratello, anche se doveva essere migliorato per trovarsi all’aperto e fuori dalla tenda.
Sabo aprì bocca per dire, come al solito, che stava benissimo, ma Thatch pensò bene di precederlo e rispondere per lui.
-E’ stato fino ad ora con Koala, come vuoi che stia se non bene?- fece, sedendosi accanto all’amica e alimentando il fuoco, il tutto con un sorrisetto vagamente malizioso sulle labbra. Era certo di averci visto giusto e lui, per certe cose, aveva un fiuto incredibile.
Ace fissò il fratello sotto di sé con aria interrogativa, non capendo bene cosa l’altro avesse inteso, mentre Sabo spalancò gli occhi, sentendosi in dovere di negare quell’insinuazione.
-M-ma che dici? Non sto affatto bene.- dichiarò, scostandosi di dosso Ace e rialzandosi a fatica, appoggiandosi alla seduta in legno, rendendosi conto solo allora del significato che potevano avere le sue parole e affrettandosi a spiegarsi meglio non appena vide Koala abbassare il capo, fissandosi le mani che teneva nascoste in grembi e le labbra strette, come se non volesse farsi vedere. -No, cioè, voglio dire che sto benissimo con Koala.- riprovò, ma anche in quel caso il senso poteva essere frainteso totalmente, infatti Thatch gli scoccò un’occhiata di vittoria, mentre la ragazza accanto a lui alzò di scatto la testa, guardando Sabo e sentendo le guance diventare sempre più rosse. Che situazione imbarazzante per entrambi.
Allora il biondo sospirò esasperato, cercando le parole migliori da poter usare a suo favore per togliersi da quell’impiccio. Aveva anche la vaga sensazione che quella fosse stata tutta opera di quell’uomo con cui Ace aveva fatto amicizia. -Mi sento molto meglio e Koala è stata così gentile da tenermi compagnia.- ecco, così poteva andare e nessuno ebbe più nulla da ridire e quando Ace provò a ricordare che quella era già la seconda volta che trovava il fratello assieme alla ragazza, Sabo gli tappò la bocca ficcandogli un pezzo avanzato di baguette in gola, fulminandolo con uno sguardo che non ammetteva altri discorsi.
-Quindi ti sei rimesso?- curiosò Thatch dopo un po’.
Sabo, prima di rispondere, si sentì in dovere di guardare Koala per sapere cosa dire, ma quella abbassò lo sguardo, così dovette improvvisare. -Beh, rispetto a quando ero mezzo moribondo si, direi di si.- ammise.
-Quindi puoi tornare a casa?- domandò subito Ace, sulle labbra un sorriso che si faceva sempre più entusiasta. Dormire da Makino non era la stessa cosa con un fratello in prigione e un atro in mezzo ai campi.
-Ecco, non lo so, forse dovrei aspettare…- iniziò vago il diretto interessato, massaggiandosi distrattamente la base del collo.
-Certo.- rispose una voce al suo posto, stupendo i tre ragazzi, i quali si concentrarono all’istante su Koala che, accennando un sorriso, confermava loro che Sabo era fuori pericolo e che avrebbe potuto finire la convalescenza con la sua famiglia e in un luogo dove sarebbe stato al caldo e più comodo.
-Sarà più facile e ti riprenderai più in fretta.- gli disse. Era contenta per lui, per essere riuscita a farlo stare meglio e a non permettere che i suoi fratelli lo perdessero in quel modo orribile al quale era stato destinato. Anche lei aveva avuto un passato difficile ed era rimasta sola, ma aveva trovato una famiglia con cui stare e delle persone che le volevano bene e che la proteggevano, perciò aveva fatto del suo meglio e si era impegnata duramente per salvargli la vita. Era soddisfatta e sapeva che tornare a Parigi lo avrebbe reso felice, perciò aveva deciso che non aveva più bisogno delle sue cure. Stare con i suoi cari sarebbe stato più efficace.
Da una parte, però, una piccola e insignificante, le dispiaceva. Si era trovata bene con lui, aveva capito che potevano parlare di tutto senza troppe cerimonie e senza sentirsi a disagio. Sabo, poi, non era una di quelle persone che volevano sempre parlare di sé stesse, ma la ascoltava e le faceva un sacco di domande, rispondendo ad altrettante quando era lei a chiedergli di raccontargli della vita in città, di quello che succedeva a Parigi e di un sacco di altre cose interessanti che spesso la facevano ridere e che le facevano volare la giornata. Si era divertita tanto anche quando lui le aveva tenuto il muso perché sapeva che, quando si svegliava e trovava il pranzo, sorrideva grato. E la consapevolezza che le rivolgesse quel pensiero di gratitudine la faceva sentire utile e benvoluta.
Era un peccato doverlo lasciare andare via, ma sapeva che prima o poi sarebbe successo, inoltre voleva il suo bene e per lui era meglio tornare a casa.
-E’ stupendo!- gridò Ace, battendo una mano sulla spalla di Sabo e prodigandosi in una serie di ringraziamenti verso Koala che, modesta, si sminuì come al solito, non accorgendosi, come invece fece Thatch, dello sguardo un po’ abbattuto dell’unica persona che avrebbe dovuto essere felice di tornarsene a Parigi dai suoi amici.
In effetti, anche Sabo si rendeva conto che quella reazione non era delle migliori. Era contento, certo, non c’era dubbio, ma non riusciva a spiegarsi come mai non sentisse il bisogno di rallegrarsi ed esultare. Fino a poco prima avrebbe dato qualsiasi cosa pur di sentirsi dare quella notizia, ma in quel momento non gli aveva fatto né caldo, né freddo.
Stare lì non gli era dispiaciuto, non era come casa sua, ma era stato carino, ecco. Thatch passava spesso, ogni giorno per la precisione, a trovarlo e a farlo diventare scemo con le sue trovate e le sue storie, ma era gentile, un po’ come tutte le persone che aveva visto, anche se di sfuggita.
E poi non poteva dimenticare Koala che lo aveva salvato.
E’ stata fantastica, pensò, aggrottando la fronte subito dopo nel rendersi conto che, in parte, il fatto di non vederla più entrare di soppiatto nella sua tenda per lasciargli da mangiare e rimboccargli le coperte gli sarebbe mancato.
 
*
 
-Questa me la paghi, Trafalgar.-
-Veramente siamo pari, consideralo un modo per saldare quello che mi devi.-
-Io non ti devo proprio niente!-
-Spese mediche.- spiegò il giovane dottore con un cenno svogliato della mano, -E l’orologio che mi hai rubato, ovviamente.- aggiunse ghignando in mezzo alla folla che passava accanto a loro.
-Mi sembra comunque esagerato.- continuò a lamentarsi Kidd, camminando tra la gente in compagnia di Law che, dal canto suo, si sentiva carico come una bomba pronta ad esplodere.
Avevano fatto una tappa nella sala operatoria del moro per prendere alcuni strumenti che, a detta sua, gli sarebbero serviti per la messinscena che avrebbero presto interpretato e per avvisare Penguin e Shachi che sarebbe stato via per qualche ora. Si erano poi cambiati, in stanze rigorosamente separate, ed avevano indossato uno un completo scuro e dall’aria decaduta, con tanto di cappello abbinato e un paio di baffi finti raccattati chissà dove, mentre l’altro era stato obbligato a mettere dei veri e propri stracci e a sporcarsi il viso e le mani con polvere e terra, oltre che a doversi spostare trascinando un carrettino dove, a detta di Law, avrebbero dovuto caricare qualche salma.
-Non ti affannare, stai benissimo.- lo sfotté il più basso dei due, sogghignando divertito sotto la barbetta ispida e tinta con della cenere per risultare più vecchio e dedicandogli un’occhiata derisoria con cui squadrò il rosso dall’alto in basso, complimentandosi con se stesso per l’ottima idea avuta. Vedere quell’energumeno conciato come un barbone disperato e con quel berrettino che gli schiacciava i capelli ribelli sulla fronte corrucciata era il miglio risarcimento che avesse mai potuto sperare di ricevere.
Kidd, al contrario, non era dello stesso umore, anzi, stava ribollendo di rabbia per l’umiliazione e per essere conciato peggio di un becchino. Quelli almeno i soldi ce li avevano, mentre lui stava facendo tutto ciò per cosa? Per visitare una prigione? Al diavolo, se l’avesse saputo prima che avrebbe dovuto giocare ai travestimenti non avrebbe mai accettato.
-Ti pentirai di questo scherzetto.- lo minacciò, rispondendo al suo sguardo con uno più micidiale e intimidatorio.
-Chiudi il becco ora, siamo arrivati. Ne riparleremo più tardi.-
Se ne usciamo vivi, aggiunse nella sua mente Trafalgar, alzando il capo e osservando come la Bastiglia si ergesse davanti a loro fiera e indistruttibile, sorvegliata giorno e notte da guardie armate, gettando un’aura scura e tetra nei dintorni circostanti dove praticamente nessuno osava aggirarsi, nemmeno per passeggiare.
Eustass Kidd ebbe la tentazione e l’irrefrenabile impulso di bloccarsi e non avanzare ulteriormente di altri passi, cosa del tutto normale che capitava a tutti i fuorilegge, ma dovette imporsi di continuare per non destare sospetti, apparendo il più tranquillo e apatico possibile, seguendo quel mingherlino di Trafalgar fino al portone principale dove, al di là di una grata in ferro, sedeva ad un banco delle informazioni una guardia con un brutto muso dall’aria annoiata.
Prima ancora che i due ragazzi potessero aprire bocca, un ufficiale si avvicinò a loro con fare ammonitore e si piazzò davanti all’ingresso, bloccando il passaggio. –Non sono ammesse visite.- scandì serio e irremovibile.
Kidd deglutì e sperò sinceramente che nessuno si accorgesse di quel suo lieve disagio, nel frattempo il suo vicino piazzava un sorriso di circostanza e sfoggiava uno sguardo angelico ed innocente che con il suo carattere non aveva niente a che fare e stonava tremendamente con la mente malata e contorta che si ritrovava.
-Ho un documento firmato, sono un medico e sono qui per accertarmi che nessuno dei prigionieri sia affetto da peste.-
Kidd sbiancò, così come l’ufficiale, il quale chiese loro di attendere un minuto fino a che non avrebbe controllato il certificato e trascritto la visita come da prassi nei vari registri.
Il rosso approfittò di quel momento per tentare di pestare un piede a Law che, veloce, si scansò, tirandogli una gomitata in mezzo alle costole, ma ammaccandosi più lui che Kidd.
-Bastardo!- bisbigliò il più grosso, -Se sapevo che correvo il rischio di ammalarmi col cazzo che ti accompagnavo!-
-Rilassati Eustass-ya, è tutto sotto controllo.- lo zittì il moro, sibilando in risposta e guardandolo in cagnesco.
Fortunatamente, la guardia tornò prima che iniziassero ad azzannarsi alla gola, permettendo loro di passare, ma obbligandoli a lasciare i loro nomi all’entrata, ovvero all’uomo che oziava sulla sedia.
-Vicedirettore Annyabal, è arrivato il medico.- li annunciò, destando il tizio dalla capigliatura insolitamente verdognola e con la divisa unta di chissà cosa che, dopo aver borbottato qualche frase senza senso sul suo superiore e sui suoi progetti di prendere presto il suo posto, permise a Law di firmare un documento per poi lasciarlo passare, accompagnato dalla guardia e da Kidd che non aveva smesso un attimo di guardarsi attorno nervoso.
C’erano troppi ufficiali per  suoi gusti e non si sentiva affatto sereno sapendo di essere all’interno di una prigione dalla quale nessuno era mai uscito vivo. Se lo avessero riconosciuto sarebbe stato un disastro. Per fortuna che quell’antipatico di Trafalgar aveva fornito un nome falso anche per lui, altrimenti tutte le sentinella gli sarebbero state addosso nel giro di un  secondo.
Solo allora un pensiero lo colpì, deviando le sue paure e lasciando posto ad un’imprevista tranquillità. Ecco perché quel maledetto dottore lo aveva obbligato a sporcarsi di terra, polvere e fuliggine, facendo assumere alla sua pelle un colore indefinito e una tonalità castano sporco ai suoi capelli. In quella maniera nessuna delle guardie presenti sarebbe stata attirata dal rosso fiammeggiante che con orgoglio mostrava a tutti.
Guardò davanti a sé la figura più bassa e magra di Law, avvolta in quell’abito da morto che gli stava da schifo, più grande almeno di due taglie, e i capelli brizzolati che aveva ottenuto con la cenere del camino nel suo studio, ritrovandosi a dover ammettere che era stato proprio bravo a camuffare entrambi. Avrebbe potuto usare anche lui quel trucchetto, senza dirglielo giustamente, e passando quell’invenzione come propria. Di certo Killer avrebbe esultato e il resto dei suoi amici gli avrebbero fatto un sacco di complimenti e lo avrebbero imitato.
-I malati terminali stanno al primo piano.- spiegò la guardia, precedendoli, -Così è più facile smaltire i corpi.-
A Kidd si rivoltò lo stomaco, mentre Law, abituato, non fece una piega e rimase serio, alzando solamente gli occhi al cielo per la lentezza con cui si stavano muovendo. Non era lì per dire a quei poveri diavoli che la malattia li avrebbe presto stroncati nel sonno, aveva altro da fare.
-Dovrei vedere prima alcuni detenuti che mi sono stati assegnati.- avvertì allora, facendo voltare l’ufficiale e sorridendogli cortese. –Sono sospetti portatori di epidemie ed è mio dovere evitare che il morbo si diffonda.-
-Non ne sono stato informato.-
-E’ tutto scritto qui.- affermò allora il ragazzo, estraendo dal taschino della giacca un altro foglio che consegnò all’uomo che li accompagnava, il quale, una volta notato il sigillo che portava il documento, non ebbe più nulla da obbiettare e li condusse immediatamente ai paini alti dove, in teoria, Law avrebbe dovuto trovare dei carcerati malati.
-Questo è il piano, prendetevi pure il tempo che vi serve per fare le visite, io, ehm, ecco…-
-Non si preoccupi, aspetti qui così eviterà di venire contagiato.-
Detto ciò, Law iniziò con calma e pazienza a visitare i detenuti della prima cella, usufruendo delle chiavi che gli erano state consegnate per aprire e chiudere le porte. La guardia lo seguiva a distanza, tenendo pronte le sue armi in caso di una qualche rivolta, ma evitando di entrare in contatto con quei topi di fogna che si erano messi a schiamazzare non appena avevano notato dei visitatori nuovi.
Kidd, intanto, si trascinava dietro il suo carrettino che aveva preso a considerare come unico appiglio alla lucidità perché quella situazione gli dava un senso di assurdità tale da non riuscire del tutto a credere che stesse accadendo davvero a lui. Era dentro alla Bastiglia e stava guardando come la gente venisse trattata, ovvero legata a delle catene e lasciata lì a marcire, dimenticata dal resto del mondo. Se non mandò a monte la copertura fu solo grazie ad un’occhiataccia gelida che gli lanciò Law quando si accorse del fremito che aveva preso a scorrere sulle sue mani chiuse a pugno. Solo allora si costrinse a calmarsi e ad ignorare le facce che conosceva di vista rinchiuse nelle celle, concentrandosi invece sulle muffe che crescevano sulle pareti a causa dell’umidità.
Trafalgar, invece, si stava stancando. Gli era stato detto da fonte sicura che quel moccioso si trovava in quell’ala della prigione e ancora non l’aveva trovato. Stava per arrabbiarsi, quando, aprendo la decima cella, notò in fondo allo spazietto angusto e sudicio una figura conosciuta seduta accanto ad un tizio dall’aria sfinita e con dei lunghi capelli azzurri raccolti in una coda disordinata.
Ghignò entusiasta e un lampo gli attraversò gli occhi chiari. -Trovato.- sussurrò, incuriosendo Kidd che, alle sue spalle, gettava uno sguardo indagatore attorno a sé nel tentativo di capire a cosa si stesse riferendo.
-Trafalgar, che cazzo dici?- domandò, facendo voltare verso di sé i due detenuti che stavano chiacchierando addossati alla parete. Più precisamente, uno si stava sbracciando, mentre l’altro sembrava fare di tutto per ignorarlo.
-E’ tanto che non ci vediamo,- fece Law, avanzando e avvicinandosi ad uno dei due in particolare, abbassandosi sulle ginocchia per essere all’altezza del suo viso e togliendosi così il ciuffo di baffi finti che aveva creato lui stesso usando quelli di un cadavere. -Rufy.-
Il ragazzino davanti a lui rimase stordito per un attimo, guardando stranito il viso del giovane che gli stava ad un palmo dalla faccia, ma alla fine i suoi occhi si spalancarono e si accese in un’espressione raggiante, boccheggiando per l’incredulità. Prese fiato per mettersi ad urlare il nome dell’amico, quando Trafalgar gli piazzò una mano stretta sulle labbra per farlo tacere ed evitare che combinasse un disastro. O meglio, impedire che Rufy si rivolgesse a lui con il soprannome che gli aveva affibbiato davanti ad uno come Eustass Kidd. Era certo che il rosso lo avrebbe preso in giro fino alla morte se lo avesse udito.
-Chiamami con quel nome e giuro che ti disseziono.- soffiò a bassa voce, fulminando con un’occhiataccia il detenuto lì accanto che aveva dato segno di voler chiamare la sicurezza. Riuscì ad intimidirlo abbastanza affinché quello facesse segno di chiudersi la bocca con ago e filo, mettendosi calmo e silenzioso ad ascoltare senza fare storie.
-Sei venuto a portarmi via?- gli domandò Rufy speranzoso quando venne liberato dalla mano di Law, il quale prese ad armeggiare con alcuni strumenti medici che si era portato appresso, ficcando un legnetto in gola al ragazzino per fingere di controllargli le tonsille con aria critica.
-Non ancora.- confessò il moro, assottigliando gli occhi. –Sono qui solo per avvisarti che dovrai avere pazienza e per portarti i saluti di tutti.-
Rufy, che aveva sperato fino all’ultimo di poter tornare in libertà, non si lasciò abbattere, coscio che i suoi amici e la sua famiglia non lo avevano dimenticato e si stavano affannando per salvarlo. Era grato a tutti loro e non vedeva l’ora di poterli riabbracciare e tornare alla sua vita al loro fianco. Perciò accettò di buon grado quello che Trafalgar gli disse senza fare troppe storie, consapevole che se si fosse comportato inconsciamente come suo solito avrebbe rischiato di mettere in pericolo tutti. E lui non voleva di certo essere un peso.
-Ace come sta?- domandò allora, continuando poi con voce incrinata, timoroso della risposta. –E di Sabo avete saputo nulla?-
-Ace se la passa bene,- annuì Law, addolcendo di poco lo sguardo per poi assicurargli che anche il biondo era scampato alla morte, vedendo come un peso si sollevasse dal petto del più piccolo che si commosse. -Si stanno dando da fare per reclutare nuovi alleati per la Rivoluzione.- spiegò spiccio e vago. Non aveva tempo di raccontare le cose per filo e per segno, inoltre quello svampito di Rufy non avrebbe capito e si sarebbe annoiato subito fin dall’inizio.
-Makino e Shanks?-
-Alle solite, lei è preoccupata per te. Mi ha detto di ricordarti di mangiare e lavarti i denti.-
Il tizio accanto a loro ridacchiò, mentre Rufy non si faceva scrupoli e affermava di essere grande ormai e di saper badare a se stesso al meglio.
-E Nami?- sussurrò dopo un po’, massaggiandosi la mandibola che aveva tenuto aperta per una decina di minuti.
Law sorrise. Si era aspettato quella domanda.
-Non lo da a vedere, ma credo che senta la tua mancanza.- disse malizioso, notando come Rufy si accigliava e lo guardava incuriosito, non capendo bene dove volesse andare a parare il medico.
-Per forza, sono suo amico!- fece deciso e sorridendo, massaggiandosi la zazzera corvina, mentre Trafalgar scuoteva il capo esasperato. Più volte Ace e Sabo avevano provato a spiegargli un certo argomento abbastanza delicato e personale, una cosa che tutti, ad un certo punto, dovevano imparare e capire per campare, ma lui non aveva mai afferrato il concetto fino in fondo. Ci aveva provato lui stesso a imprimergli nella mente l’anatomia umana, ma non era valso a nulla il suo sforzo didattico. Rufy sembrava del tutto disinteressato al sesso, se così si voleva definire, e, anche frequentando una bella ragazza come Nami, la situazione non sembrava cambiare. Era un idiota e tale restava, anche se aveva coraggio e determinazione da vendere.
-Ehi, Trafalgar.- si fece sentire Kidd, per niente rilassato. Erano lì dentro da troppo tempo e sentiva che l’aria iniziava a farsi pesante, soprattutto perché tutti gli occhi dei detenuti delle celle circostanti erano fissi su di loro, con le orecchie tese, pronti a captare qualsiasi parola o frase sospetta che li smascherasse. Temeva che si fossero accorti che qualcosa non quadrava e aveva la netta sensazione che, se non se ne fossero andati immediatamente, le cose sarebbero precipitate. Dopotutto, Law nei panni di un vecchio non ci stava affatto bene ed era inverosimile che un uomo così anziano potesse restare a lungo in una posizione scomoda per le sue ossa. –E’ ora di sbaraccare.-
Law sospirò, consapevole di essersi trattenuto a lungo e ripose gli strumenti, chiudendo la valigetta nera.
-Non fare sciocchezze.- si lasciò sfuggire mentre si alzava, -Presto verremo a prenderti.-
Rufy annuì con il capo, felice di quella notizia e si trattenne dal mostrarsi troppo euforico o dal salutarli con la mano quando i due amici uscirono dalla cella per raggiungere l’uscita e tornare alla vita normale.
Non doveva temere, nessuno lo avrebbe abbandonato.
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Mi dispiaceeee! ;________________; la settimana scorsa non ho avuto un attimo libero nemmeno per me e ho preferito aspettare di nuovo il sabato prima di pubblicare per non saltare il giro anche se ho altri capitoli già pronti. Scusate per l’attesa, spero non si ripeta D:
Comunque…
BUON SAN VALENTINO A TUTTI ^^ chi più contento, chi meno, ma sorridete e mangiate cioccolata che mette sempre il sorriso **
Well, oggi si è visto finalmente come i patti tra Shanks e Barbabianca vengano finalmente sanciti e presto il nostro simpatico vecchio verrà inserito nel circolo dei Rivoluzionari in modo attivo!
Nel frattempo Sabo se ne può tornare a casa, ma chi ci dice che non tornerà più all’accampamento per rivedere i suoi nuovi amici e, beh, e Koala? :D
Lo stesso vale per Ace, il quale non può stare troppo tempo lontano da Thatch, come vedremo prossimamente, anche se odia profondamente il suo caro fratello Marco. Quanto sesso represso u.u
Bisogna dire che Law ha avuto proprio una bella idea, almeno ha avvisato Rufy di tenersi pronto perché qualcosa mi dice che presto qualcuno entrerà allo sbaraglio nella prigione e creerà un bel casino, yep! Un po’ mi è dispiaciuto per Kidd, ma ce lo vedevo troppo vestito di stracci e con quel carretto da traino ^^ Trafalgar, invece, è l’icona del becchino di mezza età, giusto per non dare nell’occhio. Chissà come le ha avute quelle scartoffie firmate.
 
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Anyway, le cose si stanno smuovendo,mi scuso se accade tutto con lentezza, ma devo stare dietro ai fatti storici e combinare tutti gli avvenimenti in modo corretto, perciò devo adeguare giorni e mesi. ora siamo verso le prime settimane di aprile nel racconto, quindi bisogna arrivare a maggio con la riunione degli Stati Generali e poi a luglio con la Presa della Bastiglia. Abbiate fede, sto cercando di smuovere il tutto per non renderlo pesante o noioso, do certo non posso andare a passo con le stagioni, altrimenti ci metterei troppo, quindi qualcosa taglierò e lo userò come sfondo.
Detto ciò vi auguro una buona giornata e una bella nottata, IF YOU KNOW WHAT I MEAN *O*
Grazie come sempre a tutti, vecchi e nuovi lettori, e un abbraccione **
 
See ya,
Ace.

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Capitolo 7
*** Sept. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Sept.

 

Il bel tempo si stava lentamente stabilizzando, regalando a Parigi delle bellissime giornate soleggiate e abbastanza calde da permettere ai cittadini di uscire e fare lunghe passeggiate presso le piazze e nelle vie brulicanti di mercanti e gente presa dalla vita frenetica e dagli impegni. Le carrozze erano tornate a scorrere per le strade con il rumore delle ruote e degli zoccoli dei cavalli; i pittori dipingevano attimi che sarebbero rimasti indelebili sulle tele; alcuni musicisti di strada rallegravano l’atmosfera che si respirava e le botteghe erano aperte a tutti. Piccoli attimi di buonumore erano evidenti nei visi di chi era più spensierato, o di coloro che semplicemente vivevano appieno le giornate senza rancori e rimpianti, evitando di pensare alla paura e alla tensione generale; il profumo di varie delizie usciva a tratti dai forni o dai negozi di alimentari, invogliando soprattutto i bimbi a mettere qualcosa sotto ai denti; lo scrosciare delle acque della Senna faceva da sottofondo al brusio frenetico che si alzava dalle vie e il sole illuminava quella giornata all’apparenza normale.
L’unica cosa che stonava con tutto ciò, purtroppo, erano gli ufficiali che facevano le ronde mattina, giorno e sera, controllando che tutto fosse in ordine e che non ci fosse nemmeno una virgola fuori posto.
Per il resto, tutto era sempre lo stesso, così come Notre Dame, le Palais de Justice, Versailles, Place des Vosges, le Quartier Latin e, naturalmente, Montmartre.
Il quartiere non godeva di una bella fama, considerato un luogo dove solo i disperati mettevano piede e mal visto dai religiosi e dalla gente con la puzza sotto al naso. Nessuno poteva immaginare, invece, l’originalità che vigeva da quelle parti. Persone senza un passato che trovavano una casa, uomini e donne senza speranza che trovavano lavoro o un posto dove stare e dove sopravvivere, giovani e vecchi che volevano dimenticare le loro origini e ne avevano la possibilità. C’era un po’ di tutto, tra cui un vecchio mulino dall’aria antica, ma non decadente, dato che la baracca era tenuta in piedi e gestita da una donna forte e con un pugno di ferro che faceva impallidire molti uomini.
Si chiamava Madame Dadan e gestiva quello che era diventato un locale molto frequentato dagli sbandati, alcolisti e disperati, gente persa, spiritata, quella con l’anima in fiamme. L’edificio non era grandissimo, ma era abbastanza da permettere alla padrona di fornire, oltre che ristoro, anche l’opportunità di assistere a qualche spettacolo da quattro soldi, inscenato dalle ragazze che lavoravano per lei come aiutanti cameriere e, a volte, come prostitute.
Dadan non era cattiva, non era nemmeno una donnaccia, e le poverette che andavano a chiedere asilo da lei erano tutte ben accette. Non venivano nemmeno costrette a prostituirsi perché la padrona lasciava loro libera scelta, quindi chi decideva di farlo lo faceva unicamente per guadagnare di più, o per piacere personale, o per chissà quale altro motivo. A Dadan, comunque, non importava, bastava solo che lavorassero bene e in maniera professionale, senza troppi sentimentalismi o lamentele. Si premurava che fossero al sicuro e, se qualche malintenzionato alzava le mani, veniva cacciato in pochi secondi dagli addetti alla sicurezza, uomini di cui si fidava.
Era ritenuto il locale del peccato, ma veniva ugualmente frequentato e mai la donna si era trovata in crisi con l’economia. Finché le sue belle ragazze ballavano e si dimostravano disponibili, andava tutto a gonfie vele.
Era lì che viveva Nami, una delle tante figliolette senza padre che le donne che lavoravano lì avevano dato alla luce. Sua madre prima di lei era stata una prostituta e, quando era rimasta incinta, si era riscoperta felice ed entusiasta. Purtroppo, però, a distanza di pochi anni dalla nascita della figlia, si era ammalata di tisi e non ce l’aveva fatta a salvarsi, lasciando nelle mani di Dadan la piccola Nami che, una volta diventata abbastanza grande e indipendente, aveva deciso di restare a dare una mano alla vecchia signora nella gestione del locale occupandosi dell’amministrazione e del servizio ai tavoli, decisa a ripagare l’enorme debito che aveva nei confronti della padrona di casa per averla cresciuta e amata come una di famiglia. A volte i visitatori le scambiavano addirittura per madre e figlia e la rispettavano, timorosi delle ire della signora più anziana.
-Ehi Nami, tutto bene?- si sentì domandare la ragazza, sbattendo le palpebre e risvegliandosi dal torpore in cui era piombata fissando il vuoto davanti a sé.
-Ehm, certo, si.- si affrettò a rispondere all’amica che le stava di fronte, la quale sbuffò divertita prima di girare i tacchi e dirigersi verso il piccolo palco che stava situato in fondo alla sala, riempita con dei tavolini disposti davanti ad esso. -Sbrigati, tra poco apriamo.- la informò, ancheggiando fino alle scalette e salendo sulla piattaforma in legno, facendole un cenno di saluto con la mano e scomparendo dietro le quinte dove, lo sapeva, altre ragazze si stavano vestendo, o meglio, svestendo per lo spettacolo della serata.
Non capiva come le sue amiche riuscissero a mostrarsi quasi senza veli davanti a degli sconosciuti. Certo, la paga era buona e proficua, ma non le sembrava abbastanza per vendersi al miglior offerente. Erano rimaste in poche a non scendere a quei compromessi, per esempio Bonney che lavorava in cucina, o Robin che faceva da levatrice a tutti i marmocchi che giravano da quelle parti. Ad ogni modo, smise di pensarci e prese a pulire alcuni bicchieri che le erano rimasti nel lavello, ripetendosi che non erano costrette e che era una loro decisione di vita.
Non era colpa loro se lei era rimasta un’inguaribile romantica e sognava ancora che Rufy si accorgesse di lei.
Che qualcuno si accorga di me, si ripeté, qualcuno, non Rufy, accidenti!
Era già passato un mese e mezzo da quando aveva ricevuto la notizia della sua carcerazione e da allora non era più riuscita a passare un momento del tutto tranquilla. Si sentiva sempre un po’ tesa e in ansia, preoccupata per la sua salute e per come se la stesse passando tra quelle quattro mura fredde e spoglie, conscia della sua natura travolgente, allegra e sempre irrefrenabile. Rufy non era fatto per stare al chiuso, aveva bisogno di muoversi, di andare in giro, di vivere le giornate al meglio. Chissà come se la stava cavando. Ace era venuto a trovarla e aveva cercato di farla sorridere, svelandole che presto lo avrebbero salvato e che Law era riuscito a parlargli e a dirgli di non preoccuparsi, che presto sarebbe tornato a fare le sue solite scorribande in città e a prendere a calci gli ufficiali.
In ogni caso, però, continuava a non dormire bene la notte e a mangiare meno del solito, anche se insisteva nell’affermare che stava bene e che non era triste. Se ne erano accorti tutti, ormai, che qualcosa non andava, ma non poteva farci nulla se non continuare a sorridere anche se non ne aveva nessuna voglia.
Le mancavano i sorrisi di Rufy, a dire la verità. Lui la faceva sempre ridere a crepapelle, dopo averla fatta arrabbiare. Sapeva sempre come farsi perdonare e lei gli era troppo affezionata per resistergli. Era un disastro su molti fronti, ma era sicura che non le avrebbe mai fatto del male di proposito perché, se c’era una cosa a cui Rufy teneva più della sua stessa vita, quella erano i suoi amici. E ne aveva tanti. E tra loro c’era anche Nami, la quale avrebbe preferito non essere parte della lista se ciò avesse significato offrirle un’opportunità di essere notata in quel modo dal ragazzo.
L’unico problema era che a Rufy certe cose non interessavano, o meglio, non erano di vitale importanza, prima venivano i suoi sogni e poi il resto, quindi, lo sapeva, avrebbe dovuto rassegnarsi. Per un po’ ci era riuscita e aveva provato a farsi passare quell’assurda cotta che l’aveva colpita quando da mocciosi giocavano assieme per strada, ma a sedici anni era tornata a confonderle le idee peggio di prima e da allora non era più riuscita a smettere di amarlo.
La verità era quella e aveva imparato a conviverci: era innamorata e basta.
Sospirò stancamente, rimettendo in ordine le stoviglie con gesti meccanici che aveva fatto fino allo sfinimento.
Perché si era presa una sbandata proprio per quel tonto? Eppure i suoi fratelli non erano affatto male, anzi. Ogni volta che Ace metteva piede nel locale tra le ragazze si aprivano cori di alleluia, per non parlare di Sabo. Quel ragazzo aveva alle spalle una scia di cuori infranti. Non che fosse un dongiovanni, non usava nemmeno le donne per divertirsi, ma nonostante tutto le sue amiche provavano in tutti i modi a portarselo a letto. Arrivavano persino alle mani per accaparrarsi il diritto di passare una notte con lui e ciò, per Nami, era assurdo.
A volte si domandava quante entrate ulteriori avrebbero avuto se Sabo avesse lavorato per Dadan; probabilmente tutte le donne del paese sarebbero accorse per lui.
Erano dei giovanotti d’oro, ma quello che l’aveva colpita e affondata era stato solo Rufy, quello più infantile e disinteressato all’altro sesso, come se il destino avesse voluto farsi beffe di lei.
Una musica leggera si diffuse nel locale e Nami si riscosse dai suoi ragionamenti, rendendosi conto che le porte del locale erano state aperte e che di lì a breve ci sarebbe stato del lavoro da fare. Iniziava un’altra serata fatta di balli, vino, risate e schiamazzi, donne e uomini. La solita routine, insomma.
Si sistemò i capelli raccolti in una treccia ordinata che le aveva fatto Violet quel pomeriggio e poi si lisciò le pieghe della gonna lunga e a balze bianche e arancioni per assicurarsi di essere al meglio e di bella presenza, piazzandosi sulle labbra un sorriso finto e tirato. Anche se non si esibiva e non si mostrava al pubblico, doveva comunque mantenere una certa apparenza, ecco spiegata la generosa scollatura e il corpetto stretto attorno ai fianchi snelli.
A chi voleva darla a bere, Rufy non si sarebbe mai invaghito di una ragazza del genere.
 
*
 
Da un mese a quella parte, Ace e Sabo avevano adottato una nuova routine, modificando quella che era la loro vecchia organizzazione giornaliera e modificandola drasticamente dall’inizio alla fine.
Innanzitutto, entrambi avevano dovuto scendere a patti con l’accettare la nuova alleanza creatasi tra i Rivoluzionari francesi e quelli americani, se così si voleva definirli, sottostando agli ordini di Shanks che aveva introdotto nel circolo degli Imperatori anche il vecchio Barbabianca, facendogli assumere lo stesso titolo suo, di Kaido e di quell’orribile donna che si faceva chiamare Big Mom. Fino a lì nessuno aveva avuto dei problemi, anche se era stato complicato spiegarlo al resto della loro numerosa e rumorosa compagnia. Per l’occasione, Shanks aveva indetto una riunione speciale alla Corte dei Miracoli alla quale avevano partecipato parecchie persone di diverse classi sociali, ovvero i cittadini e qualche esponente della borghesia che aveva voltato bandiera e si era schierato contro la Corona. Il cimitero non era mai stato così affollato da gente viva come quella notte, trascorsa tra dissensi, qualche rissa, silenzio e, alla fine, accettazione della cosa con la speranza di riuscire in quel modo ad ottenere la vittoria decisiva sul Re.
Un altro cambiamento riguardava i loro orari: Ace, certe notti, non rincasava affatto, mentre Sabo, alcune mattine, scompariva dalla città. Nessuno aveva fatto troppe domande, a parte Makino che, presi i due ragazzi da soli e in momenti diversi, si era fatta raccontare per filo e per segno dove andassero e cosa combinassero. Con lei non avevano avuto difficoltà ad essere sinceri e avevano cantato tutta la verità senza imbrogli. Lei, d’altra parte, si era poi divertita un sacco a vedere come avessero mandato Shanks a farsi benedire quando aveva provato a farsi rispettare e a pretendere una risposta per il loro nuovo comportamento.
In poche parole, Ace aveva, incredibilmente, stretto amicizia con parecchi americani che vivevano all’accampamento di Newgate, soprattutto con Thatch, anche se il diretto interessato aveva faticato parecchio prima di trovarsi il moccioso tra i piedi ovunque andasse. I due avevano scoperto di andare perfettamente d’accordo se il minore metteva da parte il suo caratterino scontroso e, soprattutto, se non veniva nominato Marco. Perché Ace aveva si ottenuto la simpatia di quei senzatetto, come li chiamava lui, ma continuava ad odiare terribilmente il fratello di Thatch e si poteva pure dire che il sentimento era reciproco, dato che anche il biondo, ogni volta che vedeva quella faccia piena di lentiggini, girava i tacchi e se ne andava altrove pur di non doversi subire quella peste.
Sabo, invece, aveva tutt’altre compagnie e commissioni da fare.
Anche lui, come Ace, era benvoluto da tutti nell’accampamento, i quali lo avevano conosciuto come un ragazzo gentile e affabile, e perciò erano sempre contenti di vederlo e di parlarci. Sabo, infatti, aveva il dono di essere molto diplomatico e ben disposto verso tutti, perciò non era stato difficile per lui entrare nelle grazie di quella gente. Non era per loro, però, che tre mattine a settimana si alzava prima dell’alba e si recava all’accampamento per l’ora di colazione con un bel cesto ricolmo di pane fresco, qualche bottiglia di latte, alcuni biscotti appena sfornati da Sanji e qualche insaccato che Killer gli rimediava.
Tornare a casa lo aveva aiutato a rimettersi molto in fretta e aveva ripreso a farsi vedere in giro come se non gli fosse mai capitato nulla, accolto a braccia aperte dalla sua famiglia e dai Rivoluzionari. Non aveva comunque dimenticato il debito che aveva con una persona in particolare e, deciso a ripagarla, aveva iniziato a tornare nelle paludi di sua spontanea volontà con la scusa di voler aiutare Koala nel suo lavoro e di dimostrarsi utile per ripagarla del tempo che aveva perso nel curarlo. Se l’era ripetuto mille volte che la accompagnava a cercare erbe curative e medicinali nei paesini limitrofi solo per gratitudine, inoltre, dal momento che erano alleati, era suo dovere assicurarsi del suo benessere, ma gli capitava spesso di sentire la mancanza della ragazza durante il giorno e la voglia di fare una corsa all’accampamento anche solo per vederla lo invadeva per lasciarlo svuotato l’attimo dopo, quando si diceva che non poteva permettersi distrazioni e che non aveva tempo da perdere. Tre mattine bastavano e avanzavano, non di più.
Ad ogni modo, era contento di quei nuovi impegni e a Koala, tutto sommato, non dispiaceva per niente la sua compagnia.
Altro particolare che aveva subito una leggera variazione era l’odio che i due giovani provavano per gli ufficiali.
In quell’ultimo periodo avevano dato inizio ad una serie di zuffe e sabotaggi alle ronde delle guardie, sia di giorno che di notte, coinvolgendo alcuni compagni e non ascoltando del tutto gli ordini di alcuni dei capi della Rivoluzione.
Sabo cercava continuamente di beccare il capitano che gli aveva sparato, rischiando quasi di ucciderlo, mentre Ace ce l’aveva a morte con chiunque indossasse una divisa per quello che avevano subito i suoi fratelli. Non si fermavano mai ed erano propensi a portare a termine la loro causa fino alla fine. Non si poteva di certo dire che non fossero determinati o che avessero paura.
Non importava dove si trovassero, se vedevano un ufficiale, era guerra aperta.
Ecco spiegato il perché della rissa scoppiata in uno dei locali del quartiere malfamato di Montmartre.
Quella sera, Ace aveva per la prima volta permesso a Thatch di accompagnarlo di nuovo in città, ovviamente senza dirlo al vecchio Barbabianca o a Marco. L’unico intoppo era stata la bocca larga del castano, il quale, non appena aveva capito che razza di quartieri avrebbero visitato, non era riuscito a trattenersi e l’aveva sbandierato a metà dei suoi compagni e fratelli, ottenendo così il risultato che tutti si autoinvitarono, implorando Ace di chiudere un occhio e di portarli con sé.
Così, incappucciati, travestiti e zittiti per non dare troppo nell’occhio, avevano percorso le vie basse di Parigi fino a raggiungere il locale di Dadan senza contrattempi, facendo il loro ingresso e attirando l’attenzione dei più curiosi, soprattutto della titolare.
-Sciagurato, cosa ci fai da queste parti?- salutò la donna imponente, osservando dall’alto della sua stazza Ace che si toglieva il mantello e le rivolgeva un sorriso sbieco, oltrepassandola per non stare a sentire le sue lamentele sul suo comportamento poco rispettoso e dirigendosi spedito al bancone dove una bellissima ragazzina dai capelli ramati serviva con pazienza da bere ai clienti.
-Bonsoir, Mademoiselle.-
-Oh, Ace!- sfarfallò le ciglia lei, sorridendogli cordiale e avvicinandosi alla sua postazione. -Tutto bene?- si informò subito.
Il moro annuì. -Certo.-
La vide tentennare un istante, ma alla fine si decise a porre la domanda che le era balzata in mente non appena aveva riconosciuto il ragazzo. -E Rufy?- sussurrò piano, quasi timidamente, ma fingendosi distaccata.
Ace sorrise, tranquillizzandola. -Lo porteremo fuori presto, non temere.-
Nami sembrò rilassarsi, lasciando andare un sospiro di sollievo per recuperare poi il suo solito sorriso e chiedere all’amico cosa desiderasse da bere, avvisandolo anche che di lì a poco sarebbe iniziato un altro spettacolo.
Thatch, nel frattempo, si guardava attorno, girando su se stesso a bocca aperta, e ammirava ogni angolo del locale, o meglio, ogni donna su cui gli capitava di posare lo sguardo. Quello era il paese delle meraviglie e si chiese perché mai Ace non aveva deciso prima di portarlo a fare un giro da quelle parti. Che brutto egoista era stato, aveva tutto quel ben di Dio a portata di mano e non ne aveva mai fatto parola con lui.
Lo individuò al bancone mentre chiacchierava con una bellissima ragazza e decise di approfittare dell’occasione per esporgli il suo fastidio nella speranza di attaccare bottone con quella deliziosa fanciulla. Così lo raggiunse, passandogli una mano sulle spalle e attirandoselo contro, intrappolandolo in una morsa ferrea e scompigliandogli i capelli già disastrati.
-Brutto furbastro.- iniziò a dire con un sorrisetto sadico, -Quindi tu passavi le notti a divertirti senza invitarci.-
-Guarda che- respiro affannato –ti stai sbagliando!- tentò di dire Ace, riuscendo a liberarsi solo dopo che la sua testa fu trasformata in un nido per uccelli.
-Come no, chissà con quante belle donne ti sei intrattenuto mentre noi ci ammazzavamo di se…-
Qualcuno davanti a loro si schiarì la voce ed impedì al castano di finire la frase di origine volgare che aveva iniziato, costringendoli a voltarsi entrambi verso Nami che, un po’ imbarazzata, piazzava sotto ai loro nasi due bicchieri di vino, garantendo che quelli li offriva la casa.
Thatch accettò di buon grado e scolò la bevanda di schiena, deciso a passare una bella serata come non gli capitava da tempo. Certo, anche loro festeggiavano di tanto in tanto, forse molto spesso, ma dovevano stare attenti a non fare troppo casino e a non accendere troppi fuochi. Inoltre, non potevano suonare o cantare, mentre lì sembrava che la musica regnasse sovrana assieme alle ragazze e alle loro gonne con le balze tutte colorate, per non parlare di tutte le grazie che mettevano in mostra. Ne era certo, sarebbe stata un’esperienza indimenticabile.
Il suo animo offeso lasciò presto spazio ad un’indole allegra e vagamente alticcia, considerando la serie di bevande che finì nella mezz’ora successiva, seguito a ruota da alcuni suoi compagni e fratelli che, altrettanto contenti, non avevano perso tempo ad iniziare a fare festa, mentre Ace rimaneva inchiodato al bancone a chiacchierare con Nami.
-Non vai con loro?- gli domandò ad un tratto la rossa, appoggiandosi con i gomiti sul lungo tavolo di legno e inclinando il capo, lasciando che qualche ciocca ramata le sfuggisse dall’acconciatura e le ricadesse ai lati del visetto regolare.
Ace scosse la testa, osservando come i suoi nuovi ed improbabili amici sorridevano senza pensieri, meritevoli di una pausa. -Nah, sai che non mi va molto.-
-O loro non sono il tuo tipo?- chiese la ragazza, indicando un paio di colleghe che si stavano intrattenendo con due uomini dall’aria alticcia.
Ace sbuffò, distogliendo lo sguardo e bevendo un’altra sorsata di vino. -Senti, quando troverò quella giusta allora mi butterò pure io.- disse scocciato, chiedendole poi di portargli un altro giro.
Nami obbedì e lo lasciò stare, conscia di aver toccato un tasto un po’ delicato per lui, anche se era praticamente l’unica con cui ne parlava.
Ace era un bellissimo ragazzo, simpatico, estroverso e per niente timido, ma aveva un piccolo problema: non sapeva esporsi con le donne. Più precisamente, non riusciva a relazionarsi con loro se l’intento era quello di finirci a letto, visto e considerato che con lei conversava tranquillamente ed erano amici da una vita. La cosa strana, in più, era che non si sforzava nemmeno di cercare la compagnia femminile, per cui doveva essere molto impacciato o timido. Le faceva tenerezza a volte, ma aveva smesso di chiedere alle sue amiche di provare a sedurlo perché lui sembrava non subire nessun effetto.
Si strinse nelle spalle e gli versò da bere, sorridendogli incoraggiante per calmarlo e fargli capire che andava tutto bene, che non importava, che non aveva bisogno di trovare una donna se per il momento stava bene da solo.
A notte inoltrata erano tutti ridotti a degli stracci, ma si reggevano ancora in piedi, dando mostra di un grande autocontrollo, anche se alcune ragazze avevano l’aria sfinita e desideravano solo poter andare a letto per dormire e non per lavorare ancora. Thatch si era perso da qualche parte con quella che secondo lui era la creatura più bella del mondo, con dei capelli rosati e l’aria birichina, decisamente adatta a lui, mentre Namiur, Rakuyo e Izou erano stravaccati sulle sedie con dei sorrisi idioti stampati in faccia e l’aria beata. Quello messo meglio era senza dubbio Ace, il quale si decise a schiodarsi dal bancone solo in quel momento, lasciando Nami libera di finire di sistemare il locale per poi chiudere i battenti e buttare fuori a calci chi non era in grado di andarsene con le proprie gambe.
-Forza ragazzi,- li incalzò il moro, appoggiandosi allo schienate di una sedia per non perdere l’equilibrio, -E’ ora di andare a dormire.-
-Ma Ace,- biascicò Rakuyo, soffiando una boccata di fumo e grattandosi i baffi scuri, -Siamo appena arrivati.-
-Esatto, restiamo ancora un po’- protestò Namiur, aggrappandosi al tavolo, faticando comunque a mantenere gli occhi aperti.
Ace si passò una mano sul volto stanco, sbuffando. -E’ tardissimo. Se il vecchio o quel bastardo di Marco vengono a sapere…-
-Scusate, signori, ma stiamo chiudendo.- fece la voce imperiosa di Dadan alle sue spalle. Inizialmente, Ace la ignorò, continuando la sua frase e spiegando ai suoi compagni brilli che era meglio alzare i tacchi, ma qualcos’altro attirò la sua attenzione, mettendolo sull’attenti.
-E’ solo una visita di cortesia. Decidiamo noi quando chiudere.-
Non sentendo nessuna risposta da parte della proprietaria che, solitamente, non si faceva scrupoli per nessuno, il moro si voltò a guardare chi fosse arrivato, trovandosi costretto a stringere i pugni fino a far sbiancare le nocche quando riconobbe le divise di quattro ufficiali nel bel mezzo di una ronda.
Se fosse stato tutto normale, Ace li avrebbe ignorati, conscio di essere ubriaco e di non avere Sabo al suo fianco, l’unico intoppo stava nel fatto che quell’uomo appena entrato stava puntando contro la sua vecchia levatrice un dito ammonitore e ciò non poteva tollerarlo.
In un attimo gli fu alle spalle, le braccia tese lungo i fianchi e l’espressione più seria e minacciosa di cui disponeva, tanto che gli altri tre soldati indietreggiarono di un passo come intimoriti.
-E voi chi sareste per dettare le regole in casa altrui, Monsieur?- domandò freddamente, fulminando il tizio con la divisa e il cappello blu davanti a lui, il quale si voltò a guardarlo, lasciando intravvedere dei capelli rossi e una cicatrice sul mento.
-Ufficiale Diez Drake.- si presentò il diretto interessato, abbassando la mano e fronteggiando Ace. -E questi non sono affari che vi riguardano.-
Il giovanotto sorrise sprezzante. -Oh, mi riguardano eccome, invece.-
L’uomo assottigliò gli occhi, riconoscendo vagamente il volto già noto del parigino. -Chi siete?-
-In città mi chiamano Pugno di Fuoco.- ironizzò il moro, godendo del risultato che diede il suo soprannome. I presenti, per l’appunto, presero a confabulare tra loro, mentre negli occhi di Drake passava un lampo di comprensione.
Allora sorrise, estraendo la spada dall’elsa, pronto a far rispettare la legge. -Un ricercato, dunque.- mormorò.
A quanto pare torneremo a casa tardi, pensò Ace, pronto a combattere.
-Ti concedo di prendere le tue armi,- disse l’ufficiale, mettendosi in posizione di attacco, -Sarebbe uno scontro impari, altrimenti.-
Ace fece come gli era stato consigliato e nel frattempo anche i suoi compagni recepirono il messaggio, alzandosi barcollanti dai tavoli e facendosi avanti per affrontare le guardie, sperando nella loro fortuna sfacciata.
Prima di iniziare, Ace fece un inchino, sorridendo strafottente. -A voi la prima mossa.-
 
*
 
Quando Thatch, con sulle labbra il sorriso più brillante e soddisfatto che avrebbe mai potuto sfoggiare e la cintola dei pantaloni ancora aperta, scese con calma le scale, ancora con la mente in paradiso per ciò che quella ragazza gli aveva fatto, Dio, se ci sapeva fare!, vide il disastro che stava avvenendo in quell’istante, rimase a fissare la scena a bocca aperta, con una mano dentro le mutande a sistemare gli attrezzi e una fra i capelli sciolti.
Non capiva come Izou e Namiur fossero finiti a giocare a carte con due ufficiali e ancora più strano era il fatto che fossero tutti e quattro mezzi svestiti, mentre sul tavolino troneggiavano mozziconi di sigarette, qualche moneta e un paio di calzini. Poco distante, Rakuyo faticava a tenere la testa sollevata sul bancone del bar mentre ascoltava i discorsi che un soldato gli stava facendo, tenendo stretta una bottiglia di alcolico nella mano opposta a quella che usava per spiegare un qualcosa di apparentemente complicato. Sul palco, invece, circondato da un gruppetto di ragazze che facevano il tifo, riconobbe la figura di Ace che, con la faccia piena di lividi, prendeva a pugni uno dei gendarmi francesi con foga, buttandolo a terra e saltandogli addosso per finirlo. La vittima, però, sembrava non essere intenzionata a cedere perché ribaltò le posizioni e rimase un minuto buono a restituire a Ace tutti i pugni che aveva ricevuto in precedenza, riducendo il ragazzo ad uno straccio. Non sapeva da quanto andasse avanti quel delirio, ma era certo che tutti avessero raggiunto il limite massimo di stupidità stabilito. E poi osavano dare dell’idiota a lui!
Si affrettò ad abbottonarsi i calzoni e a scendere le scale di corsa, agguantando una giacca dimenticata su una sedia, quasi sicuro che fosse sua, e fiondandosi sui suoi fratelli, salutando cortesemente i soldati e assicurando loro che avevano vinto e che potevano tenersi addosso mutande e stivali, intimando nel frattempo agli altri di alzarsi e levare le tende. Passò poi ad afferrare Rakuyo per i capelli, facendolo scendere dallo sgabello e offrendo un altro giro all’ufficiale ormai collassato sul banco, finendo per spedire i tre uomini all’uscita, raccomandando loro di non fare ulteriori cazzate mentre andava a salvare il culo al moccioso.
Si fece largo tra le signorine, scusandosi e pregandole di darsi un contegno e di abbassare le gonne e mettere giù i tacchi alti che avevano preso a sventolare nell’incitamento generale, saltando sul palco e buttandosi nella mischia.
Gli ci volle poco per aggrapparsi alle spalle del rosso che stava picchiando Ace e farlo rotolare di lato, soccorrendo il moro che, quasi indemoniato, si metteva velocemente in ginocchio, pronto a rialzarsi, aiutandosi con le mani per mantenere l’equilibrio.
-Tempo di filare, ragazzino!- lo avvisò affannato il castano, trascinandolo per un braccio e ignorando i ringhi selvaggi che provenivano dall’amico, il quale non sembrava affatto d’accordo con lui.
-Non ho ancora finito!- disse infatti, divincolandosi dalla sua presa e balzando verso Drake che, colto alla sprovvista, finì di nuovo con le spalle sul pavimento, percependo le nocche del Rivoluzionario abbattersi sui suoi zigomi doloranti. Certo che quei topi bastardi erano duri a morire.
-Ora basta!- sbraitò Thatch, stanco di quei comportamenti infantili da parte di tutti. Che diavolo, da quando la polizia si comportava in modo così misero? E come potevano loro non mantenere un certo contegno?
-Dio, Ace, che razza di inetto!-
Detto ciò, chiuse le dita fra i capelli scuri del più piccolo ed iniziò ad avviarsi verso l’uscita, obbligandolo a fermarsi e a concentrarsi sul fastidioso dolore che si irradiava sulla cute.
Lo spinse giù dal palco, rimettendolo poi in piedi e poggiandogli le mani sulle spalle per guidarlo verso la retta via, dove i suoi compagni lo stavano aspettando con espressioni sfatte.
Ace sputò a terra, non opponendosi comunque a quella invasione. Sentiva che avrebbe potuto continuare ancora, ma capiva che in quelle condizioni e senza il resto della sua combriccola francese sarebbe stato più difficile. Certo, Thatch e gli altri erano in gamba, ma dovevano mantenere l’anonimato e non dare troppo nell’occhio, perciò era meglio assecondare il castano e andarsene.
Sul palco, invece, Diez Drake si tirò a sedere con fatica, sentendo le braccia fremere, ma non per la rabbia, bensì per la stanchezza. Quel moccioso lo aveva incredibilmente sfinito, tanto era instancabile.
Si passò il dorso si una mano sul labbro rotto, pulendo via un rivolo di sangue e continuando a fissare le due sagome che si allontanavano verso l’uscita, rendendosi conto che da tempo non di divertiva così tanto. Nell’ultimo periodo non aveva fatto altro che condurre ronde a vuoto e a fare sopraluoghi per nulla, annoiandosi a morte. Gli ci voleva proprio un po’ di sano movimento come quello e, ad onor del vero, il ragazzino era stato un degno avversario nonostante l’età e la faccia tosta.
-Ehi, Pugno di Fuoco.- lo chiamò prima che se ne andasse, facendolo voltare verso di sé e rivolgendogli un’occhiata complice. -Per stavolta siamo pari.-
Ace lo fissò per qualche istante con aria seria, ma alla fine gli sorrise sprezzante, alzando il mento in un gesto altezzoso. -La sconfitta brucia, eh?- lo schernì, prima di voltargli le spalle e seguire i suoi amici in strada, non senza beccarsi uno scappellotto sulla nuca da Thatch che, dopo aver rivolto una frase di scuse e promesse di risarcimento a Madame Dadan, chiuse la porta del locale e si affrettò assieme agli altri lungo la via per tornare all’accampamento.
Drake, stupito e vagamente stanco, si massaggiò il capo, scompigliandosi i capelli ramati ridotti a un disastro e guardando i suoi abiti ormai sgualciti di cui restavano solo brandelli. Ci era andato giù pesante e sicuramente i giorni a venire ne avrebbe risentito in gran parte del corpo, ma pazienza. In qualche modo, se l’era cercata.
Si alzò e recuperò la sua camicia, ignorando le occhiate languide di alcune donne senza ricambiarle e non accorgendosi nemmeno di quelle odiose che le ragazze che avevano parteggiato per Ace gli avevano lanciato quando era passato davanti a loro sforzandosi di non zoppicare. Non perse nemmeno tempo a sgridare e a rimettere in riga i suoi uomini, conscio di essersi comportato peggio di loro. Dannazione, quando mai un ufficiale accettava prima da bere e poi faceva a cazzotti per divertimento?
Si accasciò su di uno sgabello, sentendo la pesantezza della giornata gravare sulle spalle e desiderando solamente di essere nella sua piccola stanza per buttarsi a letto e dormire.
A quanto pareva, però, la serata per lui non era ancora finita.
Lo capì quando una ragazza dall’aria poco cordiale sbucò da una porta secondaria situata dall’altro lato del bancone, guardando in giro con aria curiosa e lasciando intravvedere dietro di sé una dispensa e dei fornelli. Probabilmente veniva dalle cucine, ciò spiegava perché non l’aveva ancora adocchiata prima di allora.
Indossava una camicetta marrone sopra ad un corpetto bianco e non troppo scollato, che spariva dentro un paio di pantaloni lunghi e all’apparenza maschili, ma che le segnavano in un modo del tutto provocatorio le lunghe gambe snelle. Certo, Drake era un uomo di legge, ma era prima di tutto un uomo.
-Ho qualcosa in faccia, soldato?- lo apostrofò la giovane, staccandosi dallo stipite della porta e interrompendo la sua ricerca, concentrandosi su quel tizio con una faccia che doveva aver avuto giorni migliori.
Lo vide aggrottare le sopracciglia prima che le rispondesse con un cenno di diniego, facendola accigliare ulteriormente. Odiava quelli silenziosi che non avevano voglia di dare spiegazioni a voce per paura di scomodarsi troppo e quello, oltre a essere un nemico della loro causa, aveva tutta l’aria di avere un carattere antipatico.
-Ti ho fatto una domanda.- ripeté, avvicinandosi e appoggiando le mani sul bancone, chinandosi verso di lui e lasciando che i capelli le ricadessero sulle spalle, ondeggiando sul collo niveo.
Drake, capendo che non l’avrebbe avuta vinta e desideroso soltanto di restare tranquillo, prese fiato per dire un’unica e singola parola. -No.-
-Allora perche mi fissi?- continuò imperterrita e per nulla soddisfatta, sostenendo lo sguardo con l’uomo e sfidandolo ad aprire bocca se solo aveva il coraggio. Non voleva essere trattata come se non esistesse e se solo lui avesse provato ad ignorarla se ne sarebbe pentito. Purtroppo quello era il suo più grande difetto: attaccava gli altri prima di essere ferita a sua volta; era una sorta di atteggiamento di difesa e non poteva farci niente. Anche perché lei gli sbruffoni se li mangiava a colazione.
Sembrava, però, che quel tizio avesse proprio l’intenzione di farla arrabbiare e stava giusto per afferrare un coltellaccio che Nami aveva sbadatamente, e nel suo caso fortunatamente, dimenticato lì vicino, quando venne richiamata sul retro.
-Bonney? Ehi, Bonney! Andiamo, vieni via, lo sai che non puoi stare qui!-
Sentendosi chiamare, la ragazza strinse l’arma nella mano per poi lasciarla andare, digrignando i denti e assottigliando lo sguardo, fulminando l’ufficiale con un’occhiataccia torva prima di lasciarlo solo e tornarsene a passo svelto in cucina, dove la cuoca la attendeva. Sapeva benissimo che meno restava in salone e meglio era, soprattutto per se stessa e per la sua sanità mentale, ma a volte sentiva davvero il bisogno di staccare, di allontanarsi da quelle quattro mura che la tenevano rinchiusa a lavorare ai fornelli. D’accordo, cucinare le piaceva e anche mangiare, non per niente le sue amiche l’avevano soprannominata affettuosamente Pozzo senza Fondo, ma sempre più spesso le capitava di desiderare di vedere cos’altro c’era al di fuori del locale. Era rischioso dopo quello che le era capitato, ma pensava di essere diventata abbastanza forte per provare, almeno, ad ambientarsi nel mondo. Dopotutto, non dietro tutti gli angoli c’erano malintenzionati pronti a stuprare e ad uccidere, no? A dire la verità non lo sapeva e la prima e ultima volta che le era capitato di scoprirlo sua madre aveva perso la vita nel tentativo di proteggerla e lei aveva quasi perso il senno. Fortuna che era stata amorevolmente raccolta dalla strada da una delle ragazze di Dadan e il cibo le aveva dato la forza di riprendersi, oltre alla nuova famiglia che si era costruita. I rapporti col mondo esterno, comunque, erano ragionevolmente andati a farsi benedire.
Perciò non aveva la minima idea di come fare per attaccare bottone con un bel ragazzo come quello che aveva appena visto arrancare fino al bancone dalla finestrella affissa alla porta della cucina. Il suo intento irrefrenabile che le aveva fatto mollare pentole e avanzi nel lavandino era stato quello di uscire e pulirgli quella brutta ferita al labbro, ma alla fine, proprio quando aveva deciso di farsi avanti, non ce l’aveva fatta e non si era sentita per niente tranquilla con quello sguardo addosso che non sembrava esprimere proprio niente.
Così aveva mandato tutto al diavolo e ci aveva rinunciato come sempre, chiudendosi la porta alle spalle e decisa ad andarsene a letto il prima possibile, lasciando le pentole da pulire per la mattina seguente e infischiandosene di beccarsi una strigliata dalla titolare.
Le farfalle allo stomaco potevano venire anche a una strana come lei, dopotutto.
 
*
 
La stanza era buia e l’unica illuminazione fioca che rischiarava un angolo accanto al letto era data da una piccola candela quasi arrivata al limite e dalla sua fiammella tremolante e precaria. L’odore di vino impregnava gli abiti sparsi sul pavimento e, in parte, le lenzuola sfatte. Di tanto in tanto, qualche cardine del giaciglio in legno scricchiolava sotto il peso di chi vi era adagiato, ma nessun altro suono si udiva in quel capanno facente parte di una fattoria appena fuori Parigi. Eccezione fatta per gli animali, non un’anima passava da quelle parti, inoltrandosi nei campi avvolti dalla notte.
Era il luogo perfetto per nascondersi, adatto a mantenere l’anonimato e a permettere a quei due di consumare quel piacere che sentivano ribollire nel sangue ogni volta che si incontravano per caso. Doveva sempre essere l’ultima, ogni notte si ripromettevano che avrebbero dato un taglio a quel peccato, a quella sorta di relazione malsana e sbagliata, ma puntualmente si ritrovavano a scopare in mezzo a paglia e foraggio, incuranti della frescura notturna, della seduta scomoda e dello squallore che aleggiava attorno a loro e ai loro corpi avvinghiati.
Sanji si morse un labbro per non gemere, stringendo un lembo della coperta grezza e logora sulla quale era stato gettato con poca grazia e delicatezza. Quel bastardo, lo sapeva che non avrebbe dovuto accettare quella proposta, consapevole di come sarebbe andata a finire.
Quel giorno Zoro si era presentato al panificio di Zeff prima della chiusura con una scusa che non stava ne in cielo, ne in terra, ma alla quale Sanji aveva voluto credere, seppur con un ghigno ironico stampato in faccia, e aveva accettato di seguirlo per le strade della città, accompagnandolo prima a salutare un paio di amici nel Quartiere Latino, e riprendendo poi la passeggiata muniti di un paio di bottiglie da svuotare, giusto per avere un capro espiatorio da usare per spiegare a loro stessi quello che stavano facendo in quel momento. Doveva sempre esserci almeno una goccia d’alcool nei loro incontri, altrimenti non sarebbero riusciti ad accettare quella cosa. Insomma, entrambi si odiavano da sempre e ciò lo avevano capito tutti ormai. Zoro era un arrogante e un insensibile, patito solamente per la guerra e gli scontri a lame incrociate contro gli ufficiali, mentre Sanji preferiva rinchiudersi in cucina a cucinare per un reggimento o ad adulare belle ragazze. Certo, anche a lui ogni tanto piaceva uscire in piazza a dare man forte ai Rivoluzionari, ma ciò non cambiava il fatto che considerasse Zoro un vero animale, privo di educazione e cervello. Era uno zoticone idiota e ignorante, ecco.
Dovette tapparsi la bocca con una mano. Al diavolo quella testaccia verde e quella sua frenesia, non era un sacco di patate, per cui poteva anche fare un po’ più piano e stare attento a non fargli male. Perché essere sbattuto su quel letto scardinato non gli faceva piacere, neanche un po’, provava solamente ribrezzo e se lo faceva e continuava ad assecondare il compagno era solamente perché aveva bevuto troppo e confondeva la realtà.
Aveva la testa leggera, ma sentiva il pesante martellare del cuore che pareva essere sul punto di esplodergli nel petto, nelle vene e nelle orecchie. I capelli gli ricadevano continuamente sulla fronte, appannandogli la vista, anche se non vedeva male ugualmente per la poca luce. Gli dolevano le braccia perché aveva tenuto i muscoli contratti per troppo tempo ed era certo che l’indomani avrebbe avuto un mal di schiena con i fiocchi dato il modo in cui inarcava la spina dorsale per assecondare Zoro, il quale sembrava determinato a non volerlo lasciare andare.
Si morse un labbro per la disperazione, disgustato da se stesso e dalla sua incapacità di sottrarsi a tutto ciò, ma quella sgradevole sensazione venne presto sostituita da altre, facendo si che si ritrovasse costretto a lasciar perdere i suoi tormenti, di nuovo. Maledizione, quanto si faceva schifo.
-Lascia andare.- si sentì sussurrare, mentre si ritrovava i polsi intrappolati dalle mani forti di Zoro, il quale non desiderava altro che sentire come Sanji gemesse sotto di lui.
E il biondo lo fece, per quanto umiliante fosse, e lasciò andare tutto, riempiendo la stanza di sospiri e mormorii non troppo sommessi, dettati dal momento e dall’annebbiamento che aveva avvolto la sua mente durante l’amplesso, l’ennesimo.
Zoro raggiunse l’apice poco dopo e rimase per un attimo aggrappato ai fianchi sottili di Sanji, lasciandovi impresso il segno indesiderato delle sue unghie e riprendendo fiato, calmando i battiti irregolari e impazziti del cuore, imponendosi un certo contegno e ricordandosi poi di lasciarlo andare, adagiandosi a pancia in su sul letto e guardando il soffitto. Accanto a lui, l’altro ragazzo rimase immobile sul materasso, gli occhi serrati per il vago dolore al fondoschiena e la bocca dischiusa nel tentativo di calmarsi e di ritornare lucido. Non aveva bevuto molto, ma aveva comunque preso qualche abbondante sorsata e ciò bastava come scusa, anche se pessima e non più credibile, ormai. Lo facevano da talmente tanto tempo che si chiedeva come riuscissero a guardarsi allo specchio e a darla a bere a loro stessi. Ma quello era il modo migliore per non affrontare il discorso, per non parlarne e meno chiarivano, meglio era. Lui odiava Zoro, Zoro odiava lui e andava bene. Era tutto normale. Il loro si poteva chiamare scontro fisico per stabilire chi fosse il più forte. Il punto era che nemmeno a quella domanda non c’era una risposta esaustiva. Preferivano comunque lasciare le cose come stavano, calandosi entrambi ogni giorno nell’apparente normalità della loro futile vita.
Le dita dello spadaccino che gli sfioravano la schiena in un gesto quasi dolce, però, non erano per niente normali, tanto che Sanji scattò a sedere come scottato, avvertendo una fastidiosa fitta al bassoventre, e, dopo essersi passato una mano sul viso per scostare i capelli arruffati dalla fronte, assicurandosi di essere in grado di camminare, si alzò per andare alla ricerca dei suoi vestiti, non curandosi della sua nudità. Ne aveva passate troppe per mettersi a fare il pudico.
-Che fai?- si sentì domandare.
-Non lo vedi?- rispose seccamente, afferrando frettolosamente, desideroso solo di andarsene, un paio di pantaloni e scoprendo dopo averli indossati che non erano i suoi.
-Possiamo restare un altro po’.- insisté Zoro, pacato e tranquillo come se niente fosse.
Sanji si accigliò mentre continuava a tastare al buio il pavimento. Cioè, ne voleva ancora? Dovevano essere circa le tre del mattino, quindi era tardi e significava che erano lì da ore. Non aveva voglia di tornarsene in quel buco dove viveva e dormire? Non che lui fosse senza energie, affatto, non era di certo da meno di quel bastardo, ma tutto aveva un limite.
-Aspettiamo che tu ti riprenda, se vuoi.-
Quella scoccata finale, però, non l’avrebbe digerita e non gliel’avrebbe fatta passare liscia. Lo odiava anche per quel motivo, per quelle sue frecciatine malevole, dirette solo a farlo diventare matto, dato che, se qualcuno lo sfidava, non diceva mai di no per principio.
Si voltò a guardare Zoro che, ancora stravaccato a letto, sogghignava divertito, conscio di aver toccato le corde giuste per ottenere ciò che voleva, ed era proprio Sanji quello a cui ambiva.
Il biondo sbuffò, arricciando il naso e ritornando sui suoi passi, appoggiando le ginocchia al materasso che cigolò per inclinarsi fino ad essere faccia a faccia con il ragazzo che detestava quasi come se fosse stato un suo nemico.
-Vaffanculo.- sillabò.
-Oh, ma chiudi il becco.- sbottò Zoro, attirandolo a sé e baciandolo con foga.
Sono ubriaco, pensarono entrambi, lasciandosi andare e ricominciando da capo. Avrebbero risolto i loro problemi il mattino seguente.
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Buongiorno ^^ state tutti bene?
Ow, io si, alla grande, in questo momento mi sto sentendo super potente, quasi come se tenessi nelle mani il destino delle persone.
Sto scherzando, ma la sensazione è più o meno quella, vi auguro di provarla il prima possibile *risata maligna*
Mio Dio, ho fatto davvero quella cosa con le stelline (**) per favore, dimenticatela. Sono tentata io stessa di cancellarla, ma vado di fretta perché ho una tazza enorme di caffè da bere per superare il resto della giornata. Quindi, iniziamo!
Finalmente è arrivata Nami! Non vedevo l’ora di introdurla, anche perché non l’ho mai presa davvero in considerazione come personaggio e se l’ho citata è stato solo sotto il punto di vista maschile di Zoro perché, ahimé, con lei non trovo tutta questa affinità. Preferisco qualcuno più alla mano come Bonney, parecchio più ‘agra’ si dice dalle mie parti, ovvero qualcuno che vive in mezzo ai campi, molto rude, ecco. Una contadina insomma xD
Scherzi a parte, lei ha una cotta per Rufy che, come vedremo prossimamente, in certe cose è proprio negato, ma portiamo pazienza, l’amore farà il suo corso!
A proposito di donne, bravo Thatch, tu si che hai l’aria di uno che sa il fatto suo, non per niente hai passato una notte di fuoco. Ringraziami, è solo perché mi sei simpatico, ma i guai arriveranno anche per te, fidati.
Poi c’è Ace che, cucciolo, non sa approcciarsi. Io dico che è unicamente perché ha altri gusti, ma lascio che sia lui a rendersene conto. Intanto preferisce una bella scazzottata con gli ufficiali. E che ufficiali, oserei dire!
Era da un po’ che volevo mettere in mezzo Drake, quindi eccolo qua, bello come il sole ** tanto da indurre quella matta di Bonney a uscire dal suo nascondiglio per… minacciarlo e mangiarselo a colazione? Va bene. Probabilmente in giro questo pairing si è già visto, ma io ammetto di non saperne nulla e mi scuso se dovrebbero sfuggirmi di mano i caratteri o le situazioni in cui si troveranno, mlmlml. Ho detto tutto ^^
E poi. E POI.
Si, sono arrivati Sanji e Zoro, contenti? Sono certa che non vi è dispiaciuta nemmeno il contesto in cui si trovavano, mlmlml. Anyway, si odiano, si odiano tanto ma, insomma, sono taaaanto belli. Non so voi, ma volevo rendere Sanji un pochino disperato per la situazione. Gli sta sfuggendo di mano la sua vita, è normale che sia spaesato. Anche a livello sentimentale.
Okay, anche per oggi è tutto, ci si ritrova la settimana prossima ^^
Ringrazio sempre tutti, vecchi e nuovi lettori, e un grazie anche a chi mi lascia il suo parere, siete sempre così simpatiche e gentili :D
 
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Un abbraccione :3
See ya,
Ace.

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Capitolo 8
*** Huit. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Huit.

 

Law aveva finito di lavorare molto tardi quella notte a causa di un’operazione che aveva riscontrato delle complicanze e che aveva richiesto buona parte della sua concentrazione, del suo tempo e delle sue energie, perciò stava rincasando solo allora, con la luna già alta e la ronda delle guardie già iniziata. Essendo un nobile non avrebbe dovuto avere troppi problemi se lo avessero beccato a gironzolare, ma non si poteva mai essere sicuri con i tempi che correvano, inoltre gli avrebbero fatto domande che sarebbero risultate scomode e lui non aveva la minima intenzione di subire un interrogatorio. Ad aumentare il pericolo, poi, girava voce che i secondini si divertissero intrattenendosi con coloro che beccavano a passeggiare fuori l’orario stabilito dal coprifuoco. Ad ogni modo, stava percorrendo stradine basse, quindi non avrebbe rischiato di incappare in nessun ufficiale curioso e armato.
Trattenne uno sbadiglio e si stropicciò gli occhi, stanco come non gli capitava da mesi. Aveva sonno e anche fame. A pensarci bene, non ricordava nemmeno quando era stato il suo ultimo pasto decente, ma non se ne preoccupò più di tanto, ci aveva fatto l’abitudine ormai e per lui era più importante che il tutore che viveva sotto il suo stesso tetto avesse sempre la pancia piena e che i pazienti fossero soddisfatti, il resto poteva aspettare.
Stava pensando alla giacca leggera che aveva dimenticato sulla sedia del suo studio, stringendosi nelle spalle per contrastare l’arietta fresca, quando un rumore sommesso di cocci lo riscosse, facendogli alzare automaticamente il capo sopra di sé, verso il tetto dell’edificio diroccato accanto al quale stava passando. Assottigliò lo sguardo e per un istante gli parve di vedere un’ombra scomparire dietro i camini, ma poi il silenzio calò più pesante di prima e si convinse di aver visto male. Forse si era trattato semplicemente di un gatto. Un gatto enorme, per la precisione.
Scosse la testa e continuò a camminare, ma i suoi sensi si erano fatti più attenti dopo quell’intoppo e prese a lanciare occhiate attorno a sé, per sicurezza, pronto a scattare se fosse stato necessario. Dal suo aspetto poteva avere l’aria di uno sprovveduto disarmato, ma era esattamente ciò che voleva dimostrare. Non gli andava l’idea che tutti sapessero quanto poteva fare male se provocato. Viveva a stretto contatto con i Rivoluzionari da anni e il suo coinquilino era un ex militare, ovvio che sapesse come difendersi.
Sentì ancora quel rumore, quella volta più deciso e più vicino, seguito da un tonfo sordo proprio dietro l’angolo di una casa che dava su di un vicolo cieco dove vecchi travi di legno erano stati abbandonati a marcire.
Law si fermò a pochi passi da lì, guardando intensamente in quella direzione e attendendo con pazienza che chiunque lo stesse seguendo si mostrasse a lui, perché era chiaro che fosse stata la sua intenzione fin dall’inizio, altrimenti sarebbe stato più prudente. Perciò o era stupido, o non era un professionista.
Capì che si trattava della prima supposizione quando, da dietro il muro, sbucò la figura conosciuta e imbronciata di Eustass Kidd, il quale, appoggiatosi alla parete, incrociò le braccia al petto e lo fissò di rimando, come se si aspettasse qualcosa.
Ciò che ricevette per educazione fu un’espressione ambigua e una battuta tagliente. -Sei così ossessionato da me che ora mi segui?-
Kidd, che aveva badato bene a tenersi alla larga da quel dottore dopo che lo aveva introdotto alla Bastiglia, ignorò quella frecciatina sarcastica e diede sfogo al suo fastidio, ma senza rispondere alla domanda. -Che ci fai in giro a queste ore?-
-Non mi pare siano affari tuoi, Eustass-ya.- rispose con tono acido Trafalgar, avanzando di un passo e avvicinandosi a lui con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni e le spalle rilassate. Quel rosso isterico non era una minaccia e stare in guardia non aveva senso, dopotutto, poteva batterlo quando voleva.
-C’è la ronda.- sentenziò Kidd, come se ciò bastasse a spiegare il suo umore nero ed il fatto che non fosse consigliabile andare in giro la notte.
Il moro avrebbe voluto informarlo che non era uno ignorante e conosceva perfettamente i decreti che stabilivano quando la gente potesse o no passeggiare all’aria aperta, ma all’ultimo momento un sorrisetto fece capolino sul suo viso, mentre la stanchezza scompariva come per magia. -Non sarai preoccupato per me, vero?-
-Ti piacerebbe!- fu la secca risposta di Eustass, ma nemmeno l’assenza di luce poté nascondere a Law l’ambiguo rossore che spuntò sulle guance dell’uomo davanti a lui che, svelto, voltò il capo di lato, passandosi una mano tra i capelli per sviare l’attenzione. Il medico conosceva bene quel comportamento, era facile per lui capire le persone dato il suo lavoro, e si accorgeva immediatamente quando qualcuno era in forte imbarazzo o provava disagio. In quel caso, Kidd doveva stare provando entrambe le sensazioni.
-Oh, andiamo, non ti prenderò in giro se lo ammetti.- continuò vittorioso, allargando il ghigno e inclinando la testa per osservare meglio la reazione di Kidd. Era iniziata come una serata pessima, ma, forse, non si sarebbe conclusa poi così male. Non l’avrebbe mai detto, ma era stato inspiegabilmente fortunato a incrociare la strada di quello sbandato.
Il più grande, spostando lo sguardo sulla figura più bassa di qualche centimetro di Law, stava per ribattere con una serie di insulti coloriti, chicche provenienti dai bassifondi della Costa Azzurra, ma dovette abbandonare alla svelta il suo intento quando, in fondo alla strada, una guardia si fermò ad osservare nella loro direzione, dando poi l’allarme e ordinando loro di rimanere immobili.
-Merde!-
La mano di Kidd scattò fulminea ad afferrare saldamente il braccio del dottore, trascinandoselo dietro con un movimento tanto brusco da rischiare quasi di farlo cadere a terra senza un minimo di preavviso e costringendolo a corrergli dietro lungo la via il più velocemente possibile mentre, alle loro spalle, il gruppo di soldati allarmati iniziava l’inseguimento, armati di fucili.
-Dove andiamo?- domandò Law affannato. Era stanco, per lui era stata una giornata pesante e chiedere quello sforzo imprevisto alle sue gambe stava dando la mazzata finale a tutto il suo corpo. Inoltre, era a corto di energie, ma sperò di non svenire proprio in quel momento, il meno opportuno di tutti. Non si sarebbe mai perdonato di essere stato un peso.
Kidd, però, non rispose e continuò a sviare prima a destra, poi a sinistra, concentrato e con un’espressione impenetrabile, fissata a ricordare la piantina di tutto l’agglomerato parigino e i suoi vari e possibili nascondigli e svincoli, fino a raggiungere uno dei molteplici ponticelli che attraversavano la Senna, silenziosa e con una palla di luce lunare che si specchiava limpida sulle sue acque quella notte. Avevano appena svoltato l’angolo e, prima ancora che Trafalgar potesse reagire e rendersene conto, si ritrovò spinto oltre il bordo del ciglio della strada, finendo per cadere di sotto e seguito a ruota dal rosso che, prontamente, atterrò in equilibrio sul terriccio che spuntava appena al limitare del canale. Velocemente e senza parlare, aiutò Law, ancora sconvolto e sorpreso di non essere finito ammollo, a rimettersi in piedi e a non scivolare in acqua, dato il terreno bagnato e scivoloso, spingendolo sotto alla costruzione in roccia e legno e schiacciandolo con forza e poca grazia contro la parete.
-Eustass-ya ma che…- provò a ribattere Law affannato, ma una mano gli tappò la bocca, mentre con l’altra Kidd gli intimava di stare zitto e gli si faceva ancora più vicino, quasi come se volesse diventare un tutt’uno con il muro freddo e umido alle loro spalle che ammaccava la schiena del ragazzo più piccolo.
Sopra di loro, le guardie si guardavano attorno frenetiche, imprecando ed ipotizzando la via che i fuggitivi avevano preso. Uno di loro si sporse verso il fiume con una lanterna per illuminare le acque, ma da quella posizione non si scorgeva la riva e l’insenatura sotto al ponticello. I fuggitivi non potevano essere spariti nel nulla e la probabilità più alta era che avessero attraversato il ponte per raggiungere l’altra riva. Fu così che decisero di seguire quella pista, allontanandosi sempre di più fino a scomparire nei quartieri di Parigi, facendo esattamente quello che Eustass Kidd aveva previsto fin dall’inizio del suo piano.
L’aveva scampata, di nuovo.
E se ne sarebbe rallegrato e vantato, se solo non si fosse ritrovato con la testa completamente svuotata da ogni pensiero e da tutto ciò che riguardava la Rivoluzione, le guardie e il pericolo appena corso. L’unica cosa su cui riusciva a concentrarsi era il ragazzo davanti a lui, con le palpebre abbassate, la fronte appoggiata senza rendersene conto al suo petto e le mani strette sulla sua giacca sbrindellata, intento a fare respiri profondi e a tranquillizzarsi dopo la corsa a rotta di collo per le strade e la paura di essere beccati quando la luce delle fiaccole aveva quasi rischiato di raggiungerli, mentre lui non dava segno di volersi staccare dalla parete, continuando a tenere entrambi inchiodati lì, vicini, stretti e spaesati.
E c’era qualcos’altro che Kidd sentiva, o credeva di stare provando, ma non ne era certo. Partiva dal centro dello stomaco e saliva fino al petto, come una scossa, per poi tornare giù. Era strano, sembrava quasi una sensazione di vuoto, compensata poi da una sorta di calore. Doveva aver sudato, per quel motivo si sentiva in quel modo, non c’era altra spiegazione plausibile.
Alla fine, Law alzò la testa, ignorando il fatto di essere scomodo e di sentirsi premere contro il muro, e mosse i suoi occhi alla ricerca di quelli del rosso per inchiodarli con uno dei suoi soliti sguardi critici e velenosi, deciso più che mai a sgridarlo per aver preso una decisione senza consultarlo, ma le parole taglienti che aveva intenzione di usare gli morirono in gola al momento del confronto.
Riflettendoci, non era andata male. Erano salvi, certo, avevano rischiato grosso e lui stava per crollare dalla stanchezza, ma stavano tutti e due bene e così premuto contro il petto di Kidd non sentiva nemmeno molto freddo. A dire la verità, così vicini, sentiva anche troppo caldo.
Serrò le labbra e non si mosse, colto all’improvviso da un’orribile consapevolezza che gli fece provare per la prima volta, seppur lievemente e in piccola parte, una sensazione che si poteva benissimo avvicinare all’imbarazzo. Perché Law era un dottore, ma anche un uomo, e, alle volte, quei due aspetti non andavano esattamente d’accordo. Avendo studiato e imparato tanto, sapeva perfettamente a cosa associare quelle emozioni e poi, essendo giovane e avendo Kidd così appiccicato a sé, era facile trarre le conclusioni e definire con una parola il suo stato d’animo.
Si morse l’interno di una guancia per calmarsi, pregando che i pantaloni non iniziassero a diventare stretti.
Il Rivoluzionario, invece, pareva come sempre più lontano dalla realtà. Le braccia si flessero da sole, dandogli modo di abbassarsi un poco e di avvicinarsi sempre di più al viso del medico, mentre i suoi occhi scivolarono per un attimo su quelle labbra all’apparenza inaccessibili. Sapeva che stava facendo una cazzata, ma non riusciva a rendersene conto del tutto.
E quando Law, chiudendo gli occhi, gli sussurrò che gli stava facendo male, si staccò da lui all’istante, con il corpo in fiamme, ma non avrebbe mai ammesso, mai, che, per un misero secondo, aveva pensato che, ad essere sincero, tutta quella situazione non era poi così male.
 
*
 
Mezzogiorno era passato da un pezzo quando Thatch si ritrovò ad aprire svogliato prima un occhio e poi l’altro, trovandosi in una stanza dalle calde ed accoglienti pareti in legno ben curate e non abbandonate a marcire. L’ambiente, secondo lui, non sembrava nemmeno tanto freddo, ma non ne aveva la certezza perché realizzò di essere sotto a delle coperte pulite e, accidenti!, profumate.
Si concesse qualche minuto di pace per affondare la faccia nel morbido cuscino in stoffa e coprirsi fin sopra i capelli con quelle lenzuola, rotolando in quel letto comodo. Era da una vita che non dormiva così bene e profondamente, per lui svegliarsi in quella maniera tranquilla e spontanea, senza secchiate d’acqua in faccia o scherzi di cattivo gusto era un sogno.
-Oh, buongiorno.- sentì pronunciare in francese da una voce pacata e divertita, -Ti sei svegliato?-
Riemerse dalle coltri con i capelli disastrati e le palpebre mezze abbassate per scoprire chi aveva un tono così gentile e dolce di primo mattino, mettendo a fuoco la figura di una donna dai capelli scuri raccolti da un fazzoletto legato dietro le orecchie e gli occhioni grandi. Teneva in mano un vassoio con delle tazze di latte e alcuni panini e dolci. Sicuramente doveva essere morto perché quello era per forza il paradiso.
-Umh, si.- rispose con la bocca impastata dal sonno, -Voi chi siete?-
La donna sorrise e appoggiò il vassoio sul comodino, dirigendosi poi a scostare le tende per aprire le finestre e far entrare un po’ di luce.
-Sono Makino, la proprietaria della locanda. Sei uno degli amici di Ace, giusto?- chiese bonaria.
-Sono Thatch.- rispose il castano, aggrottando la fronte e mettendosi seduto sul materasso, accorgendosi di essere a petto nudo. Oltre a quell’aspetto, si rese anche conto di non ricordare niente della notte passata, perciò non riusciva a spiegarsi cosa ci facesse in casa di quella gentilissima signorina.
-Ace dov’è?- domandò infine, sentendo crescere in sé la preoccupazione. Inspiegabilmente, gli pareva che qualcosa non stesse andando affatto bene.
Makino gli indicò il letto accanto al suo, rivelando la presenza di un ammasso indistinto sotterrato sotto al lenzuolo bianco. Un cuscino era a terra, mentre un cappello di un arancione acceso dava bella mostra di sé appeso alla testiera del giaciglio.
A Thatch bastò allungare una mano per scuotere il corpo che riposava accanto a lui, sentendo provenire in risposta un mugolio infastidito. Allora riprovò con più decisione, arrivando persino a scendere dal letto e a saltare in quello dell’amico per svegliarlo, costretto infine a farlo scivolare sul pavimento, ottenendo così il suo successo e dando il buongiorno a Ace che, con un insulto a sua madre, si massaggiava la testa dolente per la botta. Ad ogni modo, non si scusò; aveva una brutta, bruttissima sensazione.
-Ace, dove siamo?-
-A casa mia.- biascicò l’altro, scoccandogli un’occhiataccia. –Ed è ora di colazione.-
Oh, per fortuna, forse siamo ancora in tempo, pensò Thatch, rilassandosi. Se si fosse sbrigato, avrebbe raggiunto l’accampamento appena in tempo per inventare una scusa plausibile per giustificare la sua assenza al risveglio. Dopo aver recuperato gli altri suoi compagni, ovviamente.
-Veramente,- si intromise Makino, lisciandosi le pieghe della gonna, -E’ già passata l’ora di pranzo.-
-What? Oh my God!- sbraitò Thatch, scattando in piedi e cercando i suoi abiti che trovò dopo poco sotto al letto, infilandoseli al volo e correndo fuori dalla stanza a cercare il resto dei suoi fratelli per i corridoi della locanda.
Ace, dopo aver sbattuto più volte le palpebre ed essersi accertato che non avrebbe più preso sonno, si decise a seguirlo pure lui, indossando di fretta una camicia nera e un paio di pantaloni del medesimo colore che gli passò Makino, salutandolo quando vide schizzare anche lui fuori dalla camera.
Il ragazzo trovò i suoi amici al piano terra nell’atrio, dove Thatch stava animatamente discutendo con Izou a voce talmente alta da lasciar intendere a tutti il motivo della lite. A quanto pareva avevano dormito troppo e chi si era svegliato prima non aveva avvisato gli altri del tremendo ritardo in cui erano incappati dopo essersi sbronzati la notte precedente a Montmartre.
-Ti rendi conto che se ci beccano siamo in guai grossi, razza di deficiente?- stava urlando il castano, abbottonandosi la camicia in fretta e furia e saltando accidentalmente qualche bottone.
Izou, dal canto suo, alzava le mani in segno di pace, insistendo a dire che non era stata colpa sua e che Rakuyo non aveva pensato a quell’inconveniente, convincendolo ad accettare il pranzo di Makino.
-L’avete fatto solo perché è una bella donna.- disse allora Thatch, furioso, passandosi una mano tra i capelli nel tentativo di sistemarli. Si sentiva addosso l’odore dell’alcool che aveva bevuto, di carne grigliata e, ne era certo, di sesso. L’unica cosa che desiderava in quel momento era poter fare una doccia, ma non ne aveva nemmeno il tempo.
-Beh, ammetti che non è male.- si lasciò scappare Namiur.
Fu allora che Ace scese l’ultimo gradino, schiarendosi la voce per attirare volutamente l’attenzione e fissando torvo tutto il gruppetto di uomini per i commenti fuori luogo sulla padrona di casa che gli aveva, in un certo senso, fatto quasi da madre e che era per giunta impegnata con un altro uomo che stimava e rispettava.
Thatch lo guardò di striscio, mettendosi gli stivali e intimando agli altri che era ora di levare le tende.
-Ace, noi dobbiamo andare o avremo problemi all’accampamento. Sai che non vogliono che gironzoliamo troppo in città.- spiegò, già sulla porta e con il ragazzino alle sue spalle. Sapeva che non c’era bisogno di chiederglielo perché Ace, difetti a parte, capiva le cose al volo ancora prima che le persone gliele facessero notare o gliele chiedessero. Infatti, li aveva subito affiancati e li stava accompagnando alle paludi, conscio che avrebbero avuto bisogno della sua parola e di un complice per inventare una scusa abbastanza credibile che li salvasse dal venire ripresi dal loro capo.
-Potete sempre dire che siete andati a caccia.- fece ad un tratto il giovane, il quale si stava scervellando per inventarsi qualcosa lungo il sentiero folto di erbacce che avevano raggiunto a passo svelto in una quindicina di minuti.
-Siamo senza balestre e non abbiamo prede con noi.- gli fece notare con sarcasmo Rakuyo, accendendosi una sigaretta nervoso con le dita tremanti che faticavano a tenere fermo il fiammifero, -Capirebbero subito che li stiamo prendendo per il culo.-
-E se diciamo che siamo andati in avanscoperta?- provò ad ipotizzare Izou, legandosi in una coda i lunghi capelli scuri e lisci.
-Siamo sul sentiero che porta in città. Per risultare credibile dovremo almeno arrivare dal lato opposto dell’accampamento.- sentenziò Thatch che, per la precisione, era di umore pessimo. Per una volta che si svegliava in maniera perfetta doveva capitargli quell’imprevisto del ritardo. Al diavolo lui e il suo amore per l’alcool e le belle donne.
-Ci sono!- disse Ace, illuminandosi, -Perché non dite…-
-Dove siete stati?-
I quattro si fermarono all’istante e si sentirono gelare il sangue nelle vene quando udirono alle loro spalle la voce ferma e autoritaria di Marco che, con le braccia incrociate al petto e l’espressione truce, li fissava mentre si voltavano lentamente e intimoriti a guardarlo.
Vedendo che nessuno si azzardava a rispondere, il biondo ripeté la domanda ancora più freddamente. -Vi ho chiesto dove diavolo siete stati tutto questo tempo.-
Namiur deglutì rumorosamente. -Siamo… Siamo andati a…-
-A prendere…- continuò Rakuyo, andando in suo aiuto, ma indeciso su come continuare.
-A prendere Ace!- concluse infine Thatch, inscenando un sorriso finto e allegro e attirando a sé il moccioso, passandogli un braccio attorno alle spalle con confidenza. -Sai, eravamo d’accordo che ci saremo visti oggi per parlare della guerra e così lo abbiamo aspettato al limitare del bosco.-
Ci stava, poteva reggere benissimo quella montatura, non fosse stato per il lasso di tempo durante il quale erano stati assenti. Erano troppe ore, quando, per recuperare il ragazzino, ci avrebbero dovuto impiegare massimo una mezz’ora.
La faccia di Marco, infatti, diceva che non aveva creduto nemmeno ad una sillaba di quello che avevano detto.
-Vediamo,- iniziò, avanzando verso di loro fino a raggiungerli, guardandoli attentamente. -Rakuyo, ogni volta che bevi ti tremano le mani; Namiur, non sprecarti a raccontare balle, si capisce sempre quando menti, e poi quelli che indossi non sono i tuoi stivali; Izou, amico mio, hai un bruttissimo livido sulla faccia e tu,- concluse, puntando un dito accusatore contro Thatch, il quale si impietrì sotto quello sguardo tagliente, -Tu, mio caro fratello, hai il collo che sembra essere stato in balìa dei vampiri.-
In effetti non ha tutti i torti, pensò segretamente Ace, sbirciando la pelle che si intravvedeva sotto al colletto della camicia del castano e notando come risaltassero i segni rossi che gli avevano lasciato le ragazze di Dadan.
Erano stati beccati, non c’era dubbio.
-Mentre il moccioso ha l’aria di uno che le ha prese di santa ragione.-
Ad onor del vero, Thatch pensò che non avevano affatto tenuto conto di quei particolari perché, sinceramente, Ace era messo male sul serio. Il labbro inferiore era rotto e gonfio, mentre sullo zigomo destro aveva un grosso segno violaceo e Dio solo sapeva in che stato era la sua condizione fisica.
-Quindi ve lo chiedo per l’ultima volta.- sibilò Marco senza aria di scherzo nella voce e nello sguardo, -Dove vi eravate cacciati?-
Thatch, che nel frattempo aveva abbassato la testa con aria colpevole, coprendosi una parte del collo con una mano quando gli era stato fatto notare che su di esso fiammeggiavano numerosi baci, rialzò gli occhi per fronteggiare il fratello nella speranza di calmarlo e di tranquillizzarlo, ma una figura leggermente più bassa e con dei folti capelli corvini si parò davanti a lui e prese parola al posto suo, lasciandolo sorpreso e allibito.
-E’ stata colpa mia.- confessò Ace, sostenendo lo sguardo severo e duro di Marco che, concentrato su di lui, stringeva impercettibilmente i pugni. -Ieri sera dovevo andare a fare visita a degli amici e ho permesso loro di venire con me.-
-Ace sta zitto, eravamo d’accordo tutti!- s’intromise Izou, voltandosi verso il ragazzino e guardandolo intensamente, intimandogli di non addossarsi tutta la colpa.
-No, invece ho insistito!- fece quello, con più sicurezza. -Volevo mostrare loro Parigi. Sono stato uno sciocco, lo ammetto, e mi assumo io la responsabilità dei problemi che abbiamo causato.-
Tutt’attorno calò il silenzio, rotto solamente dai respiri accelerati degli uomini alle spalle del francese, i quali si lanciavano occhiate sorprese, sconcertati dalla scena davanti ai loro occhi e incapaci di credere davvero che Ace avesse preso le loro difese. Il fatto era che lui non sapeva che Marco non li avrebbe mai puniti severamente, ma solamente sgridati e, magari, dato loro qualche pugno di ammonimento. In ogni caso, anche il biondo era rimasto stupito da quella scena e in quel momento non aveva idea di cosa fare. Il ragazzino si era preoccupato per le conseguenze che avrebbero potuto patire e si era fatto carico di tutto, esponendosi come colpevole e pronto a ricevere la punizione che meritava.
Per Marco era strano, in un certo senso. Inizialmente non si era preoccupato di nascondere il disprezzo che provava per la loro origine inglese, ma davanti ai nuovi fatti non ci aveva pensato due volte a difenderli. Assurdo che li considerasse tutti suoi amici a tal punto da prendersi tutte le colpe. A lui, sinceramente, un po’ dava fastidio tutta quella simpatia che i suoi fratelli dimostravano a quel francese scapestrato, ma non poteva farci niente a riguardo. Di certo, non lo avrebbe ammirato per quel gesto, poco ma sicuro. Restava sempre e comunque un incosciente.
Alla fine sospirò. Non gli avrebbe fatto del male, non ne aveva il diritto e, sicuramente, non avrebbe creato disagi tra americani e francesi dopo che l’alleanza era stata stretta, inoltre gli altri suoi compagni presenti non gliel’avrebbero mai permesso, però voleva assicurarsi di fargli capire bene la gravità del problema, cosicché la smettesse di volersene andare in giro ad ogni ora del giorno.
Mosse un passo verso di lui e, nello stesso istante, lanciò un’occhiata oltre le sue spalle,  ammonendo Thatch di non azzardarsi ad intromettersi, dato che aveva già cominciato ad agitarsi sul posto.
Quando gli fu accanto, Ace alzò lo sguardo e lo guardò con una leggera preoccupazione negli occhi davanti alla quale Marco si ritrovò a gongolare in silenzio. Quindi, tutto sommato, un po’ di paura la metteva a quel moccioso impertinente.
-Voi quattro, tornate all’accampamento.- ordinò senza ammettere repliche.
-Ma Marco, non puoi…- iniziò a lamentarsi Izou, trattenuto da Namiur che, interpretata l’occhiata che il biondo rivolse loro subito dopo, preferì ubbidire e non infierire oltre. Sapeva che non l’avrebbero passata tanto liscia, ma non voleva rischiare di peggiorare le cose. Sperava solo che Ace la smettesse di fare l’eroe e abbassasse il capo per una volta.
Thatch non diede segno di volersi muovere, ma dovette arrendersi pure lui dopo lo scambio di sguardi avvenuto con il fratello, il quale sembrava deciso a rimanere solo con il ragazzino. Conosceva l’indole di Marco e fin da quando era piccolo, anche se non era il maggiore, aveva sempre avuto un forte senso di protezione nei confronti della famiglia e di certo non aveva preso bene la loro scappatella notturna. L’avevano fatto preoccupare e sapeva per certo che nessuno l’avrebbe salvato dal beccarsi una ramanzina con i fiocchi, l’unica cosa che gli dispiaceva era abbandonare Ace senza poter fare altrimenti.
Il moro, dal canto suo, era più che deciso ad affrontare a testa alta le ire del biondo, niente affatto preoccupato di non avere più nessuno che gli guardasse le spalle. Aveva volentieri preso le difese dei ragazzi, dopotutto, se lui non avesse raccontato loro di Montmartre e delle ragazze di Dadan, nessuno avrebbe mai iniziato ad insistere per visitare Parigi, perciò se si trovavano in quel guaio la colpa era solo sua e della sua linguaccia troppo lunga.
Prese un respiro profondo e si preparò a beccarsi una bella lavata di capo dalla persona che più detestava all’accampamento.
Marco intuì che Ace era pronto ad ascoltarlo, così non perse altro tempo. -Hai una vaga idea della gravità della cosa?-
Ace si morse un labbro, pensando a cosa rispondere, ma l’altro non aveva ancora finito.
-Ti rendi conto che se le guardie vengono a sapere della presenza di noi inglesi sulle vostre terre scoppierebbe il finimondo? Cosa ti diceva quel tuo cervello?-
-Oh, insomma, non è successo niente!­- Sbottò Ace, stanco di sentirsi riversare addosso tutte quelle accuse. -Stanno tutti bene e nessuno ha visto nulla.- affermò deciso.
Marco incrociò le braccia al petto e lo guardò scettico. -E che mi dici delle donne con cui hanno passato la notte? Se le interrogassero…-
-Non diranno niente.- lo anticipò il corvino, fissandolo serio e sicuro delle sue parole. -Mi conoscono e so che non metteranno mai in pericolo i Rivoluzionari.-
-Allora spiegami i lividi sulle facce di Izou, Rakuyo e Namiur. E’ sempre opera delle tue amichette?- lo riprese Marco, sentendo montare la rabbia di attimo in attimo ad ogni parola del più piccolo. Non sapeva spiegarsi perché, dato che inizialmente aveva solo avuto intenzione di spiegargli pacatamente la pericolosità della situazione, ma si era sentito come animato dal fastidio e dalla voglia di aggredirlo quando aveva capito che razza di postaccio avesse frequentato. Non gli piaceva l’idea che avesse coinvolto i suoi fratelli, probabilmente era per quello, anche se da lui un comportamento così libertino, chissà come, non se lo sarebbe aspettato. Forse si era solo lasciato ingannare da quell’aria infantile e ingenua. In ogni caso, però, non erano affari suoi.
-Smettila di parlare così di loro, non ne hai il diritto!- si animò a quel punto Ace. Se la gente se la prendeva con lui e lo insultava poteva andargli bene, ma se per sbaglio tiravano in ballo i suoi amici e la sua famiglia non c’era più scampo per nessuno. Era tutto ciò che aveva al mondo e non permetteva ad anima viva di giudicarli in quel modo. Per anni Dadan lo aveva lasciato vivere sotto il suo stesso tetto facendolo sgobbare e insegnandogli a guadagnarsi il pane con le sue sole forze e le ragazze che erano state adottate da lei quando non avevano più avuto un posto dove andare erano sempre state buone e gentili nei suoi confronti e in quelli della proprietaria. Certo, crescendo lui se ne era andato per la sua strada, ma non aveva dimenticato l’enorme debito che aveva con quella donna di malaffare.
-Sei tu a non avere il diritto di mettere in pericolo la vita della mia gente!- esplose allora Marco, sovrastandolo con la sua stazza, trattenendosi a stento dal mettergli le mani addosso. -Tu vieni qui e pensi di poter spadroneggiare su tutto, ma dovresti smettere di coinvolgere in quello che fai persone innocenti. Se a te va di rischiare la morte ogni giorno fa pure, ma non azzardarti a trascinarti dietro la mia famiglia.-
-E tu vedi di rispettare la mia di famiglia, perché come esseri umani sono mille volte meglio di te!-
-Felice di risultarti così antipatico, almeno non mi sentirò in colpa quando, finita l’alleanza, ti darò una bella lezione.- sputò acido Marco, superandolo con una spallata e incamminandosi lungo il sentiero che portava all’accampamento, deciso a mettere fine a quella sceneggiata che lo aveva fatto arrabbiare più del previsto. Ogni volta che si ritrovava ad avere a che fare con quel francese sentiva che la sua pazienza veniva messa a dura prova.
-Oh, fidati che sarà un piacere chiuderti la bocca a suon di pugni.- ribatté Ace, fissandolo con rabbia e stringendo forte i denti, quasi ringhiando. Quello era senza ogni dubbio l’uomo più insopportabile, bastardo, borioso e odioso che avesse mai incontrato in vita sua.
-Stanne certo, moccioso,- lo informò il biondo, voltandosi di lato prima di riprendere a camminare e guardandolo con un sorriso minaccioso, -Quando tutto sarà finito pregherai affinché gli accordi non vengano spezzati. Perché, quando accadrà, niente mi fermerà dal venire a cercarti e ucciderti.-
 
*
 
Un altro lungo, noioso e infinito giorno era trascorso per i carcerati rinchiusi nella Bastiglia. Era stata una giornata come le altre: lenta, silenziosa e fatale per alcuni uomini che erano arrivati al capolinea. Due erano stati giustiziati e tre erano morti di stenti, uno di quelli proprio sotto agli occhi impauriti e schifati di Mister Three che, colto da un improvviso conato di vomito davanti a quelle scene macabre, si era rannicchiato in un angolino della brandina che condivideva con Von Clay e da lì non si era più mosso. Il compagno aveva inscenato un balletto per esprimere le sue condoglianze ai prigionieri della cella accanto e per dare l’ultimo saluto a quel tizio che bene non era mai stato, mentre Bagy era rimasto impassibile davanti a ciò, comodamente sdraiato sul suo giaciglio precario, con le braccia incrociate dietro la nuca e gli occhi chiusi nel tentativo di riposare. Non era stato facile dato il continuo via vai di guardie che avevano provveduto a smaltire il corpo del defunto, operazione durata circa un’ora. Aveva poi temuto che il moccioso non gli avrebbe dato pace nemmeno per un attimo, assillandolo di domande come al solito, ma aveva dovuto ricredersi quando lo aveva visto con la coda dell’occhio avvicinarsi al suo materasso polveroso, sdraiandosi e rannicchiandosi al suo fianco come un cucciolo abbandonato, il tutto credendo che lui stesse dormendo. Inizialmente aveva avuto l’istinto di scattare a sedere per buttarlo giù e toglierselo dai piedi, ma alla fine non lo aveva fatto e si era risparmiato così un altro pomeriggio all’insegna dello stress nervoso che quella peste gli causava.
Si, perché Rufy si era stranamente attaccato a lui e sembrava averlo preso come punto di riferimento. Gli chiedeva un sacco di cose e, quando parlava, lo fissava e lo ascoltava attento. Ogni tanto capitava che si distraeva, o che si addormentava, o addirittura si alzava e andava a giocare con Von Clay, irritando Bagy e offendendolo non poco, ma ritornava sempre. La notte si accovacciava sul pagliericcio vicino al suo e la mattina lo svegliava sempre per primo, urlandogli nelle orecchie. Gli rubava anche la colazione, ma quello lo faceva anche agli altri due detenuti, quindi andava bene, se si tralasciavano il pranzo e la cena. Era sempre tra i piedi, poco importava che soggiornassero nella stessa cella. Ad ogni modo, Bagy, in un certo senso, gli si era affezionato. Gli piaceva che qualcuno lo prendesse in considerazione e, quelle volte che il moccioso era concentrato sulle sue chiacchiere, sentiva di non valere poi così poco. La maggior parte delle sue storie erano balle, racconti sottratti ad altri cantastorie e invenzioni della sua mente, ma ci aveva messo dentro anche qualche verità. E Rufy lo ascoltava davvero, non come facevano gli altri, i quali lo davano sempre per scontato o finivano per annoiarsi e lasciarlo in disparte. Lui gli dava tutta l’attenzione che sentiva di meritare, standolo a sentire senza prenderlo in giro o dandogli del bugiardo.
Se vedeva che Bagy esagerava si metteva a ridere, ma non in maniera offensiva, rideva perché lo trovava buffo, come gli aveva detto una volta. L’uomo se lo ritrovava accanto quando meno se lo aspettava, intento a seguirlo e a incitarlo con lo sguardo allegro a continuare. E Bagy, pur di non venire assillato da quella sua fastidiosa vocina che lo obbligava ad aprire bocca, lo assecondava e si stupiva che il ragazzino non si permettesse mai di dirgli di stare zitto.
Per quello non lo odiava poi così tanto, perché si sentiva apprezzato.
E quella sensazione gli piaceva.
Furono le chiacchiere di Mister Three e Von Clay a destarlo e a fargli intendere che si era appisolato senza rendersene conto davvero. A giudicare dal sole che tramontava doveva aver dormito tutto il pomeriggio. Per fortuna, almeno non si era accorto del tempo che passava.
Si alzò, stiracchiandosi e sbadigliando sonoramente per poi osservare in maniera scettica i due uomini seduti sul letto con le schiene addossate alla parete, intenti a sospirare come due povere anime con il cuore infranto. Davanti a loro, seduto a gambe incrociate sul pavimento, se ne stava Rufy che, con la testa alta e rivolta verso di loro, spostava lo sguardo curioso da uno all’altro, grattandosi la zazzera scura e chiedendo come mai fossero diventati così tristi.
Mister Three lo ignorò, guardando il soffitto. -Secondo voi mi starà aspettando?- domandò a nessuno in particolare.
Accanto a lui, Von Clay sospirò. -Temo che si sia rifatta una vita, amico mio.-
-Che sta succedendo?- chiese Bagy, raggiungendoli e notando come quell’ultima affermazione avesse dato il colpo di grazia all’umore tetro del fabbricante di candele, il quale si mise a singhiozzare disperato.
Rufy ruotò il capo e lo salutò con un enorme sorriso al quale Bagy rispose prontamente con uno sbuffo infastidito. Non poteva mica rammollirsi. -Stanno parlando di donne, credo.- gli spiegò, facendogli spazio affinché anche lui si unisse al loro gruppetto.
Bagy fece finta di nulla e rimase in piedi, massaggiandosi la schiena dolorante e osservando la scena pietosa che aveva sotto al naso. Quei due erano delle vere cause perse e sicuramente di donne non sapevano proprio un bel niente.
-Ah, ma di cosa vi preoccupate.- disse con finto disinteresse, appoggiandosi con una spalla al muro e guardando fuori dalla finestra con aria vissuta che attirò l’attenzione dei compagni. Oh, come gli piaceva essere sotto ai riflettori.
-Non puoi capire.- si lamentò Von Clay, -Tu non hai mai avuto qualcuno da amare.-
-E’ qui che ti sbagli, vecchio mio.- lo interruppe allora il clown, sospirando con fare teatrale e schiarendosi la voce per iniziare a raccontare la sua storia, dato che i tre si erano fatti silenziosi e più vicini a lui. Rufy era salito sul letto che, sotto al loro peso, si era incrinato, e si era zittito per una buona volta, impaziente di sentire la storia.
-Conoscerete tutti, immagino, il locale di Montmartre, quello gestito da quell’orco di femmina con i capelli rossi.-
Vide il moccioso aprire bocca per dire qualcosa, ma Mister Three era stato più veloce e aveva risposto affermativamente per tutti, così Bagy si era sentito libero di continuare senza problemi.
-Molto bene. Dunque, dovete sapere che anni fa, quando arrivai a Parigi per la prima volta, mi diressi in quel postaccio alla ricerca di una bettola dove passare la notte. Allora non conoscevo bene la città e i suoi locali, così non mi feci scrupolo ad entrare nella taverna di Madame Dadan per chiedere ristoro.- raccontò, prendendo una piccola pausa per accertarsi che tutti avessero le orecchie tese e gli occhi puntati su di lui. Una volta appurato ciò, continuò soddisfatto, nascondendo un sorrisetto di orgoglio. -Me la ricordo ancora, quella prima volta, quando la vidi. Stava servendo da bere e, quando fu il mio turno, mi dimenticai persino di quello che volevo ordinare, tanto era affascinante.- ammise sognante, dimenticando la finzione e le montature che aveva preparato per loro, lasciandosi andare ai ricordi veri e belli che segretamente conservava e teneva per sé. -Era la cosa più bella che avessi mai visto.- mormorò, più a se stesso che agli altri, i quali erano rimasti a bocca aperta, persi a ricordare anche loro le ragazze per le quali avevano perso la testa. Tutti tranne Rufy che, sorridente, non aveva per niente idea del sentimento di cui stavano parlando.
-Come si chiamava?- domandò Von Clay, comprensivo.
Bagy sospirò, pronunciando il nome della donna quasi come se fosse stato pura poesia. -Alvida.-
-Ma non mi dire! Ti sei innamorato di quella strega?-
Se gli sguardi avessero potuto uccidere, a quell’ora Rufy sarebbe stato sotto terra, visto il mondo in cui Bagy lo guardò, un misto tra rabbia, istinto omicida e voglia di piantargli nel petto una spada. Come si permetteva quel moccioso di offendere la sua donna? E, soprattutto, come faceva a conoscerla?
-Sai di chi sta parlando?- sussurrò Mister Three.
Il ragazzo si strinse nelle spalle con fare ovvio. -Certo, ho passato la mia infanzia a Montmartre. Dadan mi ha fatto da balia.- spiegò tranquillo.
-Cosa? Quindi tu conosci le sue ragazze?- sbraitò Bagy, staccandosi dalla parete e avvicinandosi al ragazzino, fissandolo allibito.
-Dalla prima all’ultima.- sorrise Rufy, iniziando ad elencare le varie signorine del locale che lo salutavano ogni volta che andava a trovare la vecchia padrona del locale. -Ci sono Robin, Hina, Bibi, poi chi c’è? Oh, si! Margaret, Califa, Bonney, Nami…-
-Conosci anche Nami?-
-E’ la mia migliore amica.- lo informò il moro, -Siamo cresciuti assieme, sai?-
Se Rufy fosse stato un ragazzo sveglio come gli altri, si sarebbe reso conto delle occhiate complici e maliziose che i suoi tre compagni di cella si scambiarono in quell’istante, iniziando a sogghignare curiosi, ma lui non aveva mai badato a certe cose. Forse, però, era arrivato il momento di conoscere alcuni particolari che in futuro gli sarebbero potuti tornare utili.
-E dimmi, la conosci bene?- Si informò Mister Three, attirandolo accanto a sé e facendolo sedere tra lui e Von Clay, mentre Bagy li raggiungeva, schioccandosi le nocche con l’aria di uno strozzino.
-Uh? Sei sordo? Ti ho appena detto di si.- ripeté Rufy accigliato.
-Si, ma quanto la conosci?- insisté l’altro.
Il ragazzo lo osservò stranito, voltandosi poi dalla parte del ballerino, indicandogli con un dito la faccia di Mister Three. -Ma è scemo?-
Fu Bagy che, dopo aver alzato con esasperazione le mani al cielo, diede una scrollata al corvino, sbattendolo da una parte all’altra. -Vuole sapere se avete una relazione, idiota!-
-Chi? Io e Nami? Niente affatto! E’ mia amica, non potrei mai!- ribatté Rufy, guardandoli come se fossero ammattiti. Insomma, cosa volevano sapere di preciso? Aveva detto che conosceva le ragazze e che era amico di Nami. Andavano d’accordo e spesso la andava a trovare per tenerle compagnia mentre lavorava, cosa volevano di più? Quello che facevano non era stare assieme? Non era una relazione amichevole? Perché mai la gente si stupiva sempre quando lui affermava convinto e orgoglioso che la ragazza era sua amica?
-Potresti benissimo, invece!- gli fece notare Bagy, il quale stava già per perdere le staffe.
-Ma che bisogno c’è?- si animò il più piccolo, non capendo più un accidenti.
-Quello che vuole dire,- spiegò pacato Von Clay, -E’ che sembra strano che una bella ragazza come lei non susciti in te nessun interesse.-
Calò il silenzio per qualche minuto, durante il quale i tre uomini attesero ansiosi una risposta, certi che Rufy non avrebbe mai negato il bell’aspetto di Nami, invece lui riuscì ugualmente a stupirli, iniziando a sghignazzare.
-Semplice, a me le donne non piacciono.-
Quello che accadde dopo disturbò il sonno di molti detenuti e la tranquillità sinistra che aleggiava nella prigione. Bagy afferrò Rufy per i lembi della giacca che gli aveva prestato e lo trascinò sul pavimento per prenderlo a schiaffi, mentre Mister Three si copriva il volto disperato con le mani. Von Clay era così divertito che improvvisò una danza assurda. Ormai la situazione era degenerata, tanto valeva esagerare.
-Non dirlo mai più!- stava dicendo il clown, a cavalcioni sul corpo del piccoletto intento a tenerlo fermo e determinato a farlo tornare sulla retta via. -C’è un girone dell’inferno solo per chi non ama le donne!-
-Lascia stare Bagy, è inutile.-
-Tappati la bocca con la tua cera, a lui ci penso io.-
-Lasciami, che vuoi fare?- fece Rufy, quando si sentì sollevare di peso e scaraventare sul letto che aveva visto giorni migliori.
-Von Clay, sei abbastanza ferrato in materia?-
-Eh? Parli della danza?- chiese quello, inarcando un sopracciglio.
Bagy negò con il capo, incrociando le braccia al petto e battendo un piede a terra. -No, di sesso.-
-Oh, adesso ho capito! Certo, ovviamente.-
-Ovviamente.- gli fece eco Mister Three con l’intento di prenderlo in giro, riuscendoci e beccandosi una smorfia piccata in risposta.
-Molto bene, perché è ora che il moccioso impari qualcosa in fatto di cultura generale e non solo combattimenti e armi.- dichiarò Bagy, avvicinandosi pericolosamente a Rufy che, schiacciandosi contro la parete, lo fissava preoccupato. A lui non interessavano quelle cose, Ace e Sabo avevano già provveduto a spiegargliele, anche se con i disegni orribili che avevano fatto non ci aveva capito molto e aveva preferito ignorare la cosa perché l’aveva trovata noiosa e poco interessante.
-Dimmi, ragazzino, cosa sai dirmi sul sesso?- domandò Bagy, sperando almeno in una risposta non troppo stupida.
Rufy ci pensò su, decidendo di essere sincero, così, sorridendo come era solito fare, fece capire ai tre uomini che stava per dire qualcosa di incredibilmente assurdo.
-Niente!-
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Buongiorno!
‘Il lunedì mattina tutti zitti’ cit.
Scusatemi, ma il fine settimana è stato un inferno e non ho avuto tempo di aggiornare, adesso ho dato una ricontrollata veloce per non farvi aspettare oltre e per non saltare anche questa settimana.
La vita va avanti, i giorni si alternano lenti e tutti vivono qualche esperienza nuova. Godetevi il momento, perché a breve arriveranno gli sbalzi temporali -.- purtroppo la Rivoluzione Francese sembra essere composta da periodi di tranquillità ad altri di rivolta totale!
Dunque, mentre Ace e i suoi compari si prendono a schiaffoni con gli ufficiali, Law si fa una passeggiata al chiaro di luna con Kidd, ovviamente non prevista come cosa, ma noi siamo felici lo stesso :3 e si rende pure conto di provare una certa maledettissima attrazione! Si innalzano cori di Alleluia! ** e Dio solo sa cosa stava per fare il rosso, ma riprenderemo tutto nella prossima puntata, LOL.
Thatch e i suoi fratelli si risvegliano in paradiso da Makino, ma il buonumore non dura per molto, rovinato giustamente da quel musone di Marco, chiaramente preoccupato per loro. Il suo è tutto amore fraterno, comprendetelo. Rimane sorpreso da Ace, l’eroe di sempre, ma da quel loro diverbio esce tutta l’antipatia che provano in modo reciproco. Bene, di male in peggio.
Intanto alla Bastiglia tutti si divertono a piangersi addosso, per fortuna c’è Bagy a intrattenere un po’ i detenuti, anche se la scena gli viene rubata da un ingenuo Rufy :D speriamo che quando uscirà dalla prigione sia un po’ più informato in certi argomenti ^^
Anche per questa volta è tutto, appuntamento a sabato **
Grazie a tutti, vecchi e nuovi lettori, e scusate per la lentezza nelle risposte, con il lavoro non riesco più a venirne fuori D:
 
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Un abbraccione ^^
See ya,
Ace.

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Capitolo 9
*** Neuf. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Neuf.
 
-Dritte quelle spalle, non dovete dare l’impressione di essere debole, anche se lo siete.-
Non appena quelle parole ebbero lasciato la bocca di Mihawk, l’uomo ricevette in risposta un’occhiata storta e molto offesa da parte della sua, chi mai l’avrebbe detto!, allieva, la quale pensò bene di riprovare l’attacco con più carica e determinazione di prima, impegnandolo per qualche minuto nella difesa contro i suoi colpi che, di giorno in giorno, si facevano sempre più precisi e puliti.
Da quando aveva iniziato ad insegnarle le basi della scherma e del combattimento, inizialmente più per gioco e passatempo che per reale interesse alla sua causa, la ragazza era migliorata notevolmente, correggendo gli svariati errori che commetteva e imparando nuove tecniche che la tenevano sveglia fino a tardi nella sua stanza a provarle, brandendo un ombrellino da passeggio come se fosse stato un arma micidiale.
La spada che ormai utilizzava sempre era diventata quasi un’estensione del suo braccio e si sentiva sempre più forte e sicura di sé perché, anche se il suo insegnante acquisito per caso non si esprimeva riguardo ai suoi progressi, sapeva che stava facendo un lavoro abbastanza decente, visto e considerato che la riprendeva molto meno. Anche se, quando lo faceva, si impegnava nel farla sentire una perdente, risultando odioso e pungente, come in quel momento.
Le lame si incrociarono e i due si ritrovarono uno di fronte all’altra, lei con il fiatone, lui con l’aria di chi ha in corpo ancora tutte le energie, fresco come una rosa e con l’ombra sinistra di un mezzo sorriso che non accennava a scomparire.
-Siete già stanca?- la stuzzicò, tormentando il suo orgoglio femminile e la sua insana e costante voglia di essere migliore degli altri.
Perona strinse i denti e deglutì determinata, aggrottando le sopracciglia in un broncio da bambina. -Vi piacerebbe.- lo sfidò, allontanandosi di qualche passo e riprendendo ad attaccarlo direttamente, mettendo in pratica tutto quello che aveva imparato.
-Siete troppo lenta, Mademoiselle.-
Stavano duellando da circa un’ora, cosa che avevano preso l’abitudine di fare ogni giorno dopo pranzo, quando tutta la Corte si ritirava a riposare un poco prima di affrontare il pomeriggio.
Era diventata una specie di routine la loro: uno passava davanti all’altro e di proposito lanciava la sfida che poteva essere dettata da uno scambio di sguardi, uno sbuffo esasperato, come faceva sempre lui, uno schiarimento di voce, questo lo faceva lei, oppure semplicemente bastava un cenno in direzione dell’armeria e tutto cominciava.
Perona aveva appena provato un affondo nella sua direzione con l’intento di metterlo alle strette cogliendolo all’improvviso, ma Mihawk era riuscito a scansarsi appena in tempo facendo una capriola di lato e rimettendosi subito in piedi, pronto a controbattere.
Ti faccio vedere io quanto sono lenta, pensò indispettita la principessa, scostandosi una ciocca rosa di capelli che le era sfuggita dalla treccia stretta che aveva fatto prima di scendere nella sala.
Gli andò incontro a testa alta e ripresero a scontrarsi: lei attaccava e lui parava i suoi colpi senza troppa difficoltà, ma pur sempre mantenendo la concentrazione per evitare di beccarsi un altro calcio in pieno volto come gli era successo una settimana prima. In quell’occasione lei non aveva smesso di ghignare soddisfatta ogni volta che lo incrociava, facendolo innervosire più del dovuto.
Non si poteva, inoltre, dire che giocassero pulito, dato che ogni oggetto era buono per essere lanciato addosso all’avversario ed ogni attimo di indecisione era una buona occasione per cogliere l’altro di sorpresa.
Inutile dire che in quello Mihawk era un maestro.
Perona notò che in quel frangente stava giocando d’astuzia, cercando di spingerla addosso alla parete per bloccarle qualsiasi via di fuga e disarmarla al fine di concludere l’incontro ma, per sua fortuna, aveva imparato alla perfezione come muoversi in quella circostanza. Così, raccogliendo le forze, parò un fendente abbastanza pesante e lo fece indietreggiare, dandogli poi le spalle e correndo verso la parete. Saltò addosso al muro e, aiutandosi con la spinta delle gambe, fece una capriola all’indietro, inarcando la schiena e atterrando agile in piedi alle spalle dell’uomo, cogliendolo di sorpresa, il quale si voltò di scatto, parando all’ultimo momento un suo attacco diretto.
-E questo cos’era?- domandò, per la prima volta sinceramente stupito visto che la situazione era stata invertita.
Lei sorrise orgogliosa. -Un mio trucchetto, diciamo un gioco da ragazzi.- spiegò, vantandosi non poco. Oh, come gongolava soddisfatta!
-Ragazzina impertinente.- iniziò ad inveire a denti stretti Mihawk, prima di abbassarsi sulle ginocchia per evitare di essere trafitto dalla sua spada. Quella mocciosa imparava troppo in fretta per i suoi gusti e, soprattutto, non le fregava niente di essere leale. Si rialzò trovandosi in trappola ma, mentre lei si preparava a sconfiggerlo definitivamente, le lanciò negli occhi della polvere che aveva raccattato dal pavimento sempre sporco e poco pulito, facendola sussultare e sbagliare mira. Schivando il colpo aveva approfittato del momento per raccogliere qualsiasi cosa gli fosse capitata a tiro e nemmeno si sentiva colpevole. Se lei giocava sporco, poteva benissimo farlo anche lui e il fatto che fosse una donna non lo scalfiva minimamente.
Quando Perona riprese il controllo, sbattendo più volte le palpebre con gli occhi che le bruciavano, si rese conto di essere appoggiata alla parete fredda e ruvida con una lama puntata alla gola.
-Avete perso.- fece l’uomo in tono sfacciato e per nulla sorpreso, usando la classica frase che le ripeteva ogni giorno e dopo ogni sconfitta che le infliggeva.
Lei lo fissò seria qualche istante per poi portare anche la sua spada a sfiorargli il collo, imitandolo.
Mihawk, comunque, sapeva che non l’avrebbe colpito e quindi la lasciò fare, sorridendo appena per la strana situazione in cui si erano venuti a trovare.
-Ti batterò un giorno.- gli disse piano, assicurandosi che capisse bene le sue parole e che non le dimenticasse.
Lui affilò lo sguardo, ma senza smettere di sorridere mostrando i denti bianchi e candidi.
-E’ una minaccia?- chiese, rinfoderando l’arma e allontanandosi da lei, dandogli le spalle per vedere se avesse avuto il coraggio di coglierlo di sorpresa.
-No.- fece lei, imitandolo. -E’ una promessa.-
Non seppe dire se la prese sul serio o se la sottovalutò, l’importante era che lei credeva fermamente a quello che diceva, voleva davvero batterlo al suo gioco. Tra di loro tutto era diventato una continua sfida, erano sempre in competizione e cercavano sempre di essere uno migliore dell’altro, arrivando a battersi per stabilire chi dei due fosse superiore.
-Per oggi abbiamo finito.- la informò Mihawk ad un tratto, facendole alzare il capo nella sua direzione e aggrottare la fronte interdetta.
-Ma siamo qui da appena un’ora.- gli rese noto con tono contrariato. Insomma, lei doveva migliorare e se non si allenava non poteva farlo. Lui la faceva facile visto che era un uomo fatto e finito, e pure antipatico, ma lei non era stanca e pretendeva di continuare come stabilito.
-Scusatemi, Principessa,- la prese in giro con fare sarcastico, -Ma io non ho tutto il giorno a disposizione come voi. Ho un incarico da svolgere.- decretò senza ammettere altre discussioni e piagnistei. Quando quella viziata si impuntava con qualcosa nessuno le faceva cambiare idea e a lui le persone che creavano troppe storie gli facevano venire il mal di testa. Anche se, ad essere sincero, Perona l’unica cosa che gli faceva venire era l’istinto omicida nei suoi confronti.
La principessa batté i piedi a terra e incrociò le braccia al petto, frustrata. Ecco, le sarebbe toccato passare un’altra giornata all’insegna della noia come al solito, visto che quel barbaro aveva da fare. Che compito aveva poi? Una ricognizione per le strade? Beato lui che almeno poteva uscire da quelle quattro mura.
Con uno sbuffo lasciò cadere la questione, non avendo voglia di sprecare ossigeno e tempo con quell’individuo sempre antipatico, e andò a riporre la sua arma, levandosi scocciata i guanti e sbattendoli con malo modo sul tavolo in legno, iniziando a slacciarsi la pettorina che indossava, su obbligo di Mihawk, durante gli allenamenti per evitare ferite. Aveva accettato solo perché, dopo la prima volta, si era resa perfettamente conto che lui non scherzava e, se ce n’era il bisogno, ci andava giù pesante. Ne erano la prova anche l’indolenzimento ai muscoli che aveva avuto i primi giorni e il segno violaceo di qualche livido sulle braccia e sulle gambe.
Stava litigando con un laccetto dietro la schiena, quando sentì un paio di mani sostituire le sue nell’impresa. Allora si immobilizzò, portando le braccia a stringersi il petto e zittendosi nell’attesa che Mihawk la aiutasse a sfilare quell’affare scomodo che le ammaccava le scapole.
La situazione era imbarazzante a dir poco, almeno per Perona, la quale non era abituata a certe vicinanze e a certe intromissioni, per lei c’erano dei limiti da rispettare e, anche se non era l’esempio perfetto di donna di alto rango, aveva ricevuto un’educazione ferrea e disciplinata riguardo certi comportamenti e una tale vicinanza con un uomo che non era un parente e nemmeno suo marito era assolutamente impensabile.
Se ci vedesse qualcuno, pensò la ragazza, mordendosi un labbro e fissando con insistenza le assi del pavimento, mi immagino le facce scandalizzate delle Dame di Corte. Povere zitelle frigide!
Per poco non scoppiò a ridere da sola, ma, per sua fortuna, le mani di Mihawk non erano dotate di grande gentilezza e, di tanto in tanto, strattonavano con poca pazienza i lacci, facendole mancare il respiro e distraendola.
Quando ebbe finito, si spostò di lato, depositando anche lui le armi che usava per gli allenamenti, tenendo lo sguardo basso e parlandole con calma.
-Continueremo domani, ma per oggi basta. Ho degli ordini da eseguire.-
Perona annuì mestamente con il capo. Impressionante come era bastata quella vicinanza per metterla in soggezione e farle morire la rabbia in gola.
Non c’era altro da dire e da spiegare, così lo spadaccino recuperò i suoi effetti, la sua spada che aveva lasciato in disparte durante il combattimento e il suo mantello appeso ad un chiodo sulla parete, indossandolo. Si voltò a guardare Perona che, in un attimo di incantamento, era rimasta ad osservarlo come facesse svolazzare elegantemente la cappa scura, riscuotendosi quando le rivolse la parola per congedarsi rispettosamente.
Sebbene sembrasse assurdo, lei era pur sempre la Principessa e lui, volente o non, doveva mantenere un certo contegno. Dunque, inchinandosi lievemente, la salutò per poi andarsene quando ebbe ottenuto il suo appena udibile consenso.
Aveva capito che ci era rimasta male, ma lui non poteva farci nulla. Aveva delle questioni urgenti da sbrigare e perdere tempo con una ragazzina non era contemplato.
Sospirò, uscendo dalla stanza e chiudendosi la porta alle spalle, pronto per avviarsi lungo il corridoio per raggiungere la sala dove era previsto l’incontro con gli altri membri della Flotta dei Sette.
All’ultimo momento, però, tornò sui suoi passi, non sapendo nemmeno lui il perché, e aprì il portone in legno massiccio, rimanendo sull’uscio e beccandosi uno sguardo incuriosito e stupito da parte di Perona che, non essendosi aspettata di rivederlo, era rimasta parecchio sorpresa, mentre il cuore aveva preso a battere più forte nella sciocca speranza che avesse cambiato idea.
Mihawk ignorò quella luce nei suoi occhi e si sbrigò a spiegarsi, desideroso di fare in fretta e togliersi di dosso quella sensazione per lui imbarazzante. Da quando sentiva l’impulso di doversi scusare e dare spiegazioni per quello che faceva?
-Se non avete nulla in contrario,- disse pacato, -Domani ci soffermeremo di più sugli allenamenti.- e, dopo aver ricevuto l’ennesimo cenno di assenso, si sentì libero di andarsene, lasciando che Perona si riprendesse da quella notizia e si concedesse un sorriso di vittoria.
Non vedeva l’ora che l’indomani arrivasse.
 
*
 
In città tutto e tutti erano in fermento per l’ormai imminente arrivo di maggio. Il popolo era fin troppo frenetico, tanto che era stato aumentato il numero di guardie addetto a fare ricognizioni in giro per le strade di tutta Parigi, in modo da evitare o prevenire rivolte di qualche tipo, anche se non ce ne sarebbero state in ogni caso. Dopotutto, il Terzo Stato mica era così stupido e impavido, non si sarebbe mai giocato l’opportunità di ottenere dei cambiamenti per le sue condizioni, bruciandosi l’invito a Corte per l’Assemblea degli Stati Generali prevista per il quinto giorno di maggio. Finalmente, dopo anni e anni, era stata indetta nuovamente su promessa del Sovrano che, ormai alle strette, aveva ceduto a quella permissione.
I preparativi da fare, quindi, erano molteplici, soprattutto per i rappresentanti del popolo, per i cittadini speranzosi e per i Rivoluzionari in allerta.
-Ne vedremo delle belle.- stava dicendo Zeff a Sanji, mentre preparava una vasta quantità di pasta da infornare per riuscire nell’intendo di sfamare la popolazione ridotta agli stenti, molte volte guadagnando meno del previsto, ma non disperandosi. Per lui, nessuno doveva morire di fame e si faceva volentieri in quattro per aiutare i bisognosi che bussavano alla sua porta implorando per un pezzetto di mollica.
Sanji, accanto a lui, intento ad impastare la farina, annuiva pensieroso con i capelli biondi che gli ricadevano sulla fronte, troppo lunghi ormai, coprendogli una parte del viso. Non li scostò, ormai ci aveva fatto l’abitudine e non gli davano fastidio, anzi.
-Sono curioso di vedere come andrà a finire.- continuò il vecchio, muovendosi nella stanza e preparando l’occorrente per cucinare.
-Spero che non sia tutto vano.- ammise mestamente il giovane ragazzo, posando le mani ai lati del paniere e sospirando stancamente a capo chino. Tutta quella frenesia, quell’aspettativa e quelle speranze lo coinvolgevano troppo, facendogli temere in un brutto finale. Cosa sarebbe toccato ai cittadini se fosse tutto andato a rotoli? E quanti Rivoluzionari sarebbero stati condannati a morte? Quante persone avrebbe dovuto vedere morire? E quanto sarebbe passato prima che i suoi amici venissero fatti fuori uno ad uno?
-Che succede, ragazzo?-
Sanji scosse la testa, accennando un sorriso tirato e falso. -Nulla, mi prendo una pausa.- lo informò, togliendosi il grembiule e uscendo in strada per fumarsi una sigaretta. Aveva bisogno di rilassarsi, distrarsi e di pensare ad altro, per esempio al bel tempo e al sole che illuminava Parigi; al vociare della gente per le strade; allo scorrazzare dei bimbi; alle belle donne che lo salutavamo sorridendo; a quell’idiota di Zoro che era appena piombato giù dal tetto e che gli aveva fatto quasi venire un infarto.
-Testa di cazzo!-
-Felice di vederti.- lo sfotté il ragazzo incappucciato, sorridendo beffardo e appoggiandosi alla parete con una spalla e le braccia incrociate, rivolgendogli uno sguardo furbo e vittorioso.
Era diretto al Quartier Latin per incontrare un gruppo di Rivoluzionari con i quali avrebbe dovuto discutere sulle questioni riguardanti l’Assemblea imminente, ma aveva sbagliato strada ed era stato costretto da una serie di imprevisti, dovuti al suo scarso senso dell’orientamento, a fare la via più lunga passando da quelle parti, così aveva visto il fumo uscire dal camino del panificio e aveva deciso di fermarsi a sgraffignare qualche pezzo di pane da mettere nello stomaco. Era scivolato silenzioso sul tetto e, quando aveva adocchiato Sanji sotto di lui, non aveva resistito a coglierlo di sorpresa.
Il biondo sbuffò infastidito, fulminandolo con un’occhiataccia. -Che diavolo ci fai qui, testa verde? Non hai qualche incarico da svolgere?-
-No,- ammise Zoro, -Sono libero per adesso.- mentì. La prospettiva di poter passare cinque minuti in qualche vicolo con il biondo accanto a lui non gli dispiaceva, se doveva essere sincero, ma avrebbe dovuto rimediare immediatamente un goccio di alcool come stabilivano le loro tacite, e in parte ridicole, regole.
-Non ci pensare nemmeno.- lo ammonì il cuoco, indovinando all’istante lo sguardo malizioso e i pensieri volgari dell’altro, -Devo lavorare.-
Zoro fece una smorfia, scostandosi dal muro e prendendo a camminare li attorno per non rimanere con le mani in mano. -Avanti, non fare il ritroso.-
Le sopracciglia chiare e lievemente arricciate di Sanji saettarono verso l’alto, incredule. -Io? Io sarei ritroso?-
-Cos’è, sei pure sordo per caso?- sogghignò Zoro, guardandolo con aria di sfida. Era più forte di lui, quando Sanji iniziava a scaldarsi non riusciva mai a fare finta di niente per ignorarlo, al contrario si sentiva obbligato a continuare quello scambio di battutine acide, insulti e malauguri.
-Almeno non sembro uscito dalle paludi.- ribatté il biondo, riferendosi palesemente al colore insolito dei capelli di Zoro che gli ricordava molto le erbacce, le alghe e la melma che sporcavano la Senna. C’era una somiglianza colossale tra quello schifo e lo spadaccino, infatti l’uomo insozzava il suo umore, la sua vita e le sue sensazioni, per non chiamarle sentimenti.
-Ma sentilo, ha parlato la Perfezione fatta persona.-
-Grazie del complimento.-
-Non c’è di che!-
-Voi due, la piantate?- li interruppe una voce alle loro spalle, proveniente dalla strada.
Entrambi si voltarono a guardare il nuovo arrivato che, sospirando stancamente, ormai abituato a quei battibecchi, li raggiungeva salendo gli scalini in legno che portavano alla veranda.
-Sul serio, ragazzi, non potete smetterla di beccarvi per una volta?-
-Ha iniziato lui.- dissero all’unisono Sanji e Zoro, guardandosi poi in cagnesco.
Usopp alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo e togliendosi il berrettino che indossava, sospirando esasperato. Erano un caso disperato, poco importava quello che avrebbe detto per calmarli. Ad ogni modo era lì per ben altro e non per cincischiare.
-Che fai da queste parti?- lo anticipò Zoro, -Non dovresti essere alla base?-
-Mio padre mi ha mandato ad avvisare gli Imperatori di una prossima riunione per accordarsi sulle richieste da presentare quando gli Stati Generali si incontreranno a Versailles.- spiegò, grattandosi la testa. -Non sapete che paura quando mi è toccato entrare in casa di Kaido.- mormorò tra sé, ricordando l’ambiente poco illuminato e freddo, per non parlare di tutte le teste di animali imbalsamati appesi alle pareti!
-Quindi i Rivoluzionari si riuniranno presto?- si informò Zoro.
-Esatto.- annuì Usopp. -A quanto pare ci è giunta voce che a Corte sia stata indetta una riunione molto ristretta del corpo di guardia, perciò è meglio tenersi pronti a tutto. Ora scusate, ma devo scappare. Ci vediamo presto!- disse, scomparendo tra la folla.
-Sarà da ridere dato che, questa volta, gli Imperatori si ritroveranno ad essere in quattro.- constatò Sanji, accendendosi un’altra sigaretta e riponendo la scatoletta di fiammiferi nella tasca posteriore dei pantaloni che, però, gli cadde a terra.
Fu Zoro a raccoglierla fulmineo, rigirandosela tra le mani sotto gli occhi scocciati del biondo che, porgendogli una mano con il palmo aperto, gli faceva la muta richiesta di rendergliela, sperando di non doverlo pregare troppo.
Con sua sorpresa, Zoro lo fece, ma in modo totalmente diverso da quello che si era aspettato, non ché risultando inappropriato, perché il Rivoluzionario gli si avvicinò, dando le spalle alla strada in modo da apparire solamente impegnato in una conversazione importante, passando invece un braccio attorno alla vita del biodo e infilando lui stesso la scatoletta nella tasca, rimettendola a posto e sorridendo lascivo, indugiando con la mano per lasciare una carezza da sopra la stoffa.
Non si dissero una parola, solamente rimasero a fissarsi per qualche secondo, entrambi troppo orgogliosi per cedere alle parole. Sanji represse i brividi che gli corsero lungo la schiena e mantenne un’espressione fredda, quasi scontrosa. Era furibondo, quella cosa gli stava sfuggendo di mano, tanto che faticava a gestirla anche a livello emotivo. Era snervante dover sempre pensare alle conseguenze di quello che facevano e sentiva chiaramente che stava raggiungendo un limite. E poi, da quando Zoro si fermava a salutarlo? E come gli era saltato in mente di proporgli un incontro senza nemmeno una goccia di liquore? In pieno giorno per giunta!
Era in bilico e, prima o poi, da una parte o dall’altra, sarebbe dovuto cadere, costretto a fare una scelta che continuava a rimandare e a cacciare in un angolo buio della sua mente.
Alla fine fu Zoro ad allontanarsi, vedendo che dal biondo non proveniva nessun segnale di risposta o gratitudine, così, dandogli le spalle e alzando una mano in segno di saluto, si sollevò il cappuccio della giacca che aveva abbassato in quei minuti e si avviò verso la Rive Gauche.
Il biondo gettò a terra il mozzicone, infastidito. Detestava quel suo coetaneo, non lo sopportava, gli faceva girare la testa per la sfacciataggine con cui si comportava. Al diavolo lui e quella volta che si erano conosciuti quando erano ancora dei mocciosi.
-Sanji, torna a lavoro, sfaticato!- si sentì chiamare dall’interno.
-Arrivo vecchio.- rispose, gettando un ultimo sguardo furente al punto in cui Zoro era sparito.
Decisamente doveva darci un taglio netto, o non avrebbe retto a lungo.
 
*
 
Thatch sospirò di sollievo quando si passò il panno bagnato sulla fronte, crollando stancamente sul suo letto e chiudendo gli occhi. Quella notte passata a divertirsi l’aveva pagata molto cara e ne sentiva ancora i postumi, ma, tutto sommato, ne era valsa la pena e non aveva nessun rimpianto. Se avesse potuto, l’avrebbe rifatto subito. Insomma, Parigi era così bella! Ace gli aveva fatto vedere un sacco di cose lungo la strada che portava a Montmartre, per esempio le numerose piazze pittoresche, con le vie in ciottoli; gli edifici gotici e gli angoletti più artistici e suggestivi, anche se la cosa che gli era piaciuta di più era stata la Cattedrale di Notre Dame. Diamine, i francesi erano proprio fortunati ad avere una città come quella con tutto a portata di mano. Certo, anche il locale di quella vecchia strega aveva il suo perché, infatti era stato la ciliegina sulla torta, il modo migliore per concludere la giornata. Tutto quell’alcool, quel cibo e quella musica. E le donne! Stupende, affascinanti e ben disponibili donne! Non c’era dubbio, doveva assolutamente ritornarci e al diavolo le lamentele di Marco e di suo padre, loro non capivano, erano troppo ottusi e impegnati a preoccuparsi di salvare la pellaccia. Lui, al contrario, credeva che una vita vissuta senza dei rischi non avesse niente di speciale, perciò era ben deciso a fare di testa sua, come al solito. Soprattutto, voleva rivedere Rebecca. Quella ragazzina, anche se molto giovane, ci sapeva proprio fare.
-Oh, ti ho trovato finalmente.- fece una voce. -Dov’eri finito? Ti ho cercato questa mattina.-
Thatch si morse un labbro, battendosi una mano in fronte. Si era completamente scordato che aveva promesso ad Haruta di allenarsi con lei. Era già la seconda volta che saltava un appuntamento.
Voltò il capo, rimanendo sdraiato e guardandola con aria di scuse, facendola sospirare.
-Tranquillo, mi sono arrangiata.- lo informò lei, non arrabbiandosi. Sapeva com’era fatto quel ragazzone ed era abituata alle sue dimenticanze. Quando si era svegliata lo aveva cercato un po’ ovunque all’accampamento ma, non trovandolo e ipotizzando che avesse avuto qualche impegno all’ultimo minuto, dato che pure Namiur, Izou e Rakuyo erano spariti, aveva lasciato perdere. Poi aveva incrociato Koala ed erano rimaste a chiacchierare per un bel pezzo del più e del meno, accennando lievemente alla sua situazione sentimentale. Anche se lei non ne era del tutto convinta, Koala le aveva consigliato di provare ad esprimersi, evitando di lasciar sempre correre per non rischiare di ritrovarsi un giorno con un pugno di mosche in mano. Ci aveva riflettuto per il tempo successivo e si era quasi convinta di poterne essere in grado, di essere abbastanza coraggiosa e spavalda per mettere le cose bene in chiaro con Thatch, per quello si trovava nella sua tenda. In quel momento, però, era curiosa e voleva almeno sapere cosa lo avesse tenuto lontano.
-Quindi, dove eri scappato a gironzolare?- gli chiese sorridente, sedendosi sul bordo del letto e aggrottando la fronte quando si accorse delle occhiaie marcate sul viso dell’uomo e dello straccio bagnato.
Thatch, entusiasta per l’avventura vissuta e per il divertimento, scattò a sedere, iniziando a raccontarle la gita in centro città che aveva fatto con gli altri, descrivendole ogni edificio con minuziosità, stando attento ai particolari e assicurandole che, non appena avessero avuto l’occasione, l’avrebbe portata con sé per mostrarle tutto.
-Che bellezza. E poi cosa avete fatto?- continuò Haruta, divertita dal buon umore dell’amico. Thatch era un chiacchierone, a volte pure logorroico, ma non la annoiava. Lei preferiva stare in silenzio, piuttosto di prodigarsi in lunghi discorsi e adorava ascoltare gli altri, per quello con lui si trovava sempre a suo agio. E poi, quando le raccontava qualcosa, le piaceva da matti starlo a guardare perché aveva sempre un sorrisone sulle labbra, la faceva ridere e gli si illuminavano gli occhi.
-Avresti dovuto esserci!- fece allora il castano con aria sognante, -Ace ci ha portati in un locale dove fanno degli spettacoli da togliere il fiato. E quante ragazze, Haruta. Quante! Se tutti gli uomini passassero una notte da quelle parti, sicuramente sarebbero sempre allegri e soddisfatti.- decretò, facendola insospettire.
-Perché? Che cosa fanno?-
Lo aveva intuito, Haruta, quello che poteva essere successo, non era una stupida, ma non era il tipo di persona che giudicava prima di conoscere la situazione ed ogni sfaccettatura delle cose, perciò aveva preferito assicurarsi della verità, sperando con tutta se stessa che non fosse successo di nuovo.
Perché lei era innamorata di Thatch, gli voleva un bene dell’anima nonostante fosse a conoscenza delle sue scappatelle. Era già successo e lei non aveva mai detto niente. All’inizio perché non le importava, poi, quando aveva iniziato ad esserne gelosa, si era ripetuta che non aveva nessun diritto di ficcare il naso nei suoi affari. Da un pezzo, però, le cose si erano sistemate e Thatch non aveva più passato la notte fuori a fare festa con alcuni suoi compagni. Sempre più spesso aveva passato il tempo con lei e le era sembrato che, di giorno in giorno, il loro rapporto si fosse intensificato, anche se nessuno dei due aveva mai sollevato l’argomento. Sapeva solamente che stavano bene, che erano felici. L’unica cosa che stonava in tutto ciò era il suo punto di vista. Per lei, Thatch era importante, ma per lui era lo stesso? Se l’era chiesto tante volte e magari si, lei poteva significare qualcosa, ma che garanzie aveva che si trattasse di amore? Aveva sempre evitato di pensarci, sperando che, prima o poi, si accorgesse di lei, dell’affetto che provava per lui, ma si conosceva abbastanza bene e sicuramente non avrebbe retto un altro colpo basso.
-Giocano a carte.- ironizzò lui, guardandola scettico. -Dai, Haruta, secondo te cosa vuoi che facciano? Parliamo di signorine molto gentili e disponibili ad assecondare ogni richiesta.- ammiccò malizioso, mentre lei si irrigidiva e si sforzava di mantenersi calma e controllata, anche se il cuore sembrava esploderle nel petto, tanto batteva.
-E… e hanno, insomma, esaudito pure te?- faticò a chiedere, senza preoccuparsi di risultare invasiva. Doveva saperlo, via il dente, via il dolore. Almeno si sarebbe messa l’anima in pace, pazienza se avrebbe sofferto.
Era brutto da dire, ma ci aveva fatto l’abitudine.
Thatch la guardò come se fosse venuta da un altro mondo. Che razza di domande gli stava facendo? -Ovvio che si!- esplose ad un tratto, saltando sul materasso e facendola sussultare. -Guarda, mi hanno praticamente mangiato vivo.- si espose orgoglioso.
Furono i molteplici segni rossi sul collo di Thatch a darle il colpo di grazia, spezzandole il cuore e lasciandola senza fiato. Quelle macchie svettavano come lanterne nella notte sulla sua pelle, distribuite in vari punti, quasi come se volessero prendersi gioco di lei e del suo amore diventato solo un’illusione.
L’aveva fatto, di nuovo, e per quel motivo non si era presentato da lei quella mattina. Per delle donne con cui non avrebbe mai condiviso nulla di più che una notte di sesso e di piacere. Aveva preferito loro a tutto il resto, mettendola da parte, dimenticandosene. Che sciocca era stata a sperare di contare qualcosa di più. Alla fine, cosa aveva lei da dargli? Non era aggraziata come le dame parigine o inglesi, non aveva gli occhi azzurri e magnetici, ma due pupille scure e anonime, i capelli non erano folti e lunghi, ma corti e sbarazzini perché a lei piacevano in quel modo e la facevano sentire più libera, così come il fatto di indossare abiti maschili perché le gonne erano ingombranti. Non era nemmeno tanto alta e le sue forme le nascondeva sotto a camicie di taglie più grandi. Sapeva combattere e sparare, ma a cosa servivano quelle doti, quando lui non aveva occhi che per un bel fisico e un’apparenza affascinante?
Doveva farsene una ragione: lei non era proprio nulla di speciale.
Si alzò meccanicamente dal letto, ignorando lo sguardo stranito di Thatch, il quale si era accorto che qualcosa non andava. Haruta si era zittita all’improvviso e aveva una faccia da funerale.
-Ehi, che ti prende?- le chiese, prendendole una mano per bloccarla, con l’intenzione di conoscere il perché di quel cambiamento repentino.
Non era mai successo prima, ma lei lo scostò malamente, liberandosi della sua presa e allontanandosi di qualche passo come un animale impaurito e ferito. E lo era davvero, ferita nel profondo e disperata. Non se l’era aspettato tutto quel dolore, non pensava che potesse fare così male.
-Haruta?-
Thatch era in piedi e cercava di alzarle il viso verso di lui, ma nuovamente lei indietreggiò, portando una mano in avanti per mantenerlo a distanza. Non stava piangendo, non l’avrebbe mai fatto davanti a lui, non si sarebbe resa ancora più ridicola di quanto non fosse già stata fino ad allora. Era stanca, davvero stanca e delusa. Aveva sprecato un sacco di tempo a sognare e a fantasticare in qualcosa di inesistente.
Aveva amato un’illusione.
Ed era anche arrabbiata perché l’uomo che l’aveva fatta innamorare come non mai era solo un idiota insensibile.
-Tu sei…- provò a dire, mordendosi un labbro e chiudendo il palmo a pugno. -Non hai idea di quanto tu mi abbia delusa.- scandì lentamente, rivolgendogli un’occhiata di disgusto che fece sprofondare Thatch nella preoccupazione.
Che cosa aveva fatto di male? Dove aveva sbagliato? Non l’aveva ne offesa ne presa in giro, le aveva solo raccontato la sua serata. Perché reagiva in quel modo? E, sopra ogni cosa, perché lo stava guardando come se fosse stato il peggior bastardo sulla terra?
-Mi spieghi che cosa…- provò a dire invano.
-No, non c’è niente da spiegare. Stammi lontano, chiaro? Non voglio più vedere la tua faccia!- disse lei, voltandosi per andarsene il più velocemente possibile. Sapeva che era impossibile allontanarlo dalla sua vita, ma si sarebbe impegnata a fondo per evitarlo come la peste in quell’accampamento.
-Haruta aspetta! Mi dici cosa ho fatto? Perché ti comporti così?- la richiamò il ragazzo, seguendola fuori dalla tenda, ma lei non gli rispose e affrettò il passo, mettendosi quasi a correre, sperando che non la seguisse perché non aveva la minima voglia di parlare, ne di starlo a sentire. Non voleva più saperne, almeno per quel momento. Così lo lasciò indietro, a tormentarsi di domande alle quali non avrebbe trovato facilmente risposta. E non le importava affatto se ci era rimasto male, dato che lei stava provando una sofferenza insopportabile, ovvero quella del rifiuto.
Stava da schifo e desiderava solamente rimanere da sola, senza nessuno che la consolasse o che la compatisse.
E si dette della stupida per non aver ascoltato Marco. Lui le aveva sempre detto che Thatch, con le donne, non ci sapeva proprio fare.
 
*
 
Doflamingo era sempre stato un uomo che aveva vissuto nel lusso e nell’agiatezza fin da quando era nato. Era abituato ad avere intorno a sé servitori pronti a soddisfarlo sempre e ad assecondare qualsiasi sua richiesta, per quel motivo il suo soggiorno a Parigi non si stava rivelando divertente per lui. A quanto pareva, l’unico che godeva di quei privilegi era il Sovrano, e lui doveva accontentarsi di quello che era concesso ai vari nobili, ma non era il massimo. Insomma, lui prestava servizio, perciò pretendeva di essere trattato al meglio, non come un qualsiasi altro borghese perché, a conti fatti, l’unico che aveva più soldi di lui era appunto il Re. Se poi si teneva conto che la cassa dello stato altro non era che denaro pubblico, allora automaticamente il suo patrimonio passava al primo posto.
Ad ogni modo, avrebbe dovuto adattarsi se voleva arrivare a vedere la disfatta della monarchia, offrendosi come volontario per l’organizzazione di nuove leggi e di un nuovo tipo di governo, facendo la sua scalata verso la vetta per arrivare a compiere un colpo di stato con i fiocchi ed assumere il potere. Quello sarebbe stato il suo premio e per un po’ avrebbe sopportato di non avere tutto ciò che voleva in quella reggia.
Sedeva scomposto al tavolo con aria annoiata, attendendo l’arrivo del resto dei membri del consiglio, della Flotta dei Sette e del Corpo di Guardia della città, ascoltando senza troppo attenzione il chiacchiericcio che stavano facendo alcuni dei presenti e giocherellando distrattamente con la manica della sua giacca piumata.
Boa Hancock entrò in quell’istante, attirando su di sé sguardi ammirati e poco casti della maggior parte dei sudditi, avanzando con eleganza nel suo abito viola e una certa aria di superiorità fino a raggiungere il suo posto che, per la precisione, era situato ben lontano da lui.
Davanti a quella constatazione, Doflamingo inclinò le labbra in un sorrisetto divertito, continuando a fissare il vuoto e non degnando di una minima occhiata la bellissima donna che era appena arrivata. Non che non ne fosse attratto, ma semplicemente perché conosceva alla perfezione il carattere delle gran signore e non era disposto a darle nessuna soddisfazione, preferendo che fosse lei ad attaccare bottone con il solo intento di farlo capitolare ai suoi piedi. Peccato che lui non era certo il tipo che perdeva la testa per un bel faccino, al contrario, tutto ciò che voleva era portarsela a letto e, poteva starne certa, ci sarebbe riuscito a tempo debito.
Uno dei maggiordomi aprì nuovamente la porta e, quella volta, Doflamingo non poté frenarsi dallo sghignazzare apertamente quando vide Drakul Mihawk precedere Gekko Moria e fare il suo ingresso nella sala, anche lui tenendosi a debita distanza da uno dei posti liberi che lo circondavano. Strano, stava così antipatico a tutti?
-Dormito bene, Mihawk?- lo salutò, poggiando i gomiti sulla superficie in legno e incrociando le dita sotto al mento.
L’interpellato non rispose e non si scomodò nemmeno a guardarlo, accomodandosi accanto a Boa Hancock e incrociando le braccia al petto. Non si tolse nemmeno il cappello, anzi, se lo calcò bene in testa per celare parte del viso in modo da non essere disturbato oltre.
Doflamingo ridacchiò tra sé. Aveva a che fare proprio con degli elementi particolari, tutti presi da se stessi e di poche parole. Per fortuna che il Re era un completo idiota, almeno si divertiva a sentire le sue sparate colossali in fatto di politica e finanze.
Quando tutti furono arrivati e quando anche l’ultimo componente dell’arma, un certo Capitano Smoker, li deliziò della sua presenza che puzzava di fumo, l’assemblea ebbe inizio.
Inutile dire che l’argomento principale riguardava l’imminente Riunione degli Stati Generali che sarebbe avvenuta all’inizio di maggio che, ormai, era alle porte.
-Dobbiamo tenerci pronti a qualsiasi evenienza.- stava dicendo un ministro di qualcosa. -Non sappiamo cosa corra nelle menti di quegli straccioni, quindi propongo di aumentare la vigilanza attorno al Palazzo.-
Un brusio di assenso corse per tutta la sala, accolto con un cenno del capo dai sette mercenari ingaggiati per l’occasione. Ovviamente, loro avrebbero dovuto scortare Sua Maestà ovunque, promettendo di servirlo e proteggerlo anche a costo della vita.
Doflamingo accavallò le gambe e si abbandonò allo schienale della sedia. Se credevano che avrebbe buttato via la sua esistenza per una persona insignificante, si sbagliavano di grosso. Se avesse potuto, avrebbe fatto fuori lui un po’ di persone inutili in quel luogo a partire proprio da tizio con la corona e la parrucca incipriata. Era anche pronto a scommettere che il suo pensiero era ben condiviso da Moria e da Sir Crocodile accanto a lui. Chissà, magari, se avesse esposto loro il suo piano, avrebbe incontrato degli alleati.
-Prego, Capitano, avete qualcosa da esporre?-
Tutti si voltarono verso la porta dove, in piedi e in formazione di riposo, stavano un paio di soldati e il loro comandante, un uomo abbastanza giovane, ma con la sfacciataggine di fumare un sigaro in una situazione come quella. A Doflamingo stette subito simpatico per quella lieve impudenza.
-Se serriamo i ranghi attorno alla Reggia, il popolo capirà che non ci fidiamo di loro.- spiegò con calma, ma saccente, cercando di far intendere a tutti l’ovvietà della cosa.
-E come potrebbero? Sono degli animali!-
Jinbe roteò gli occhi al cielo, restandosene comunque in silenzio e avvertendo l’irrigidirsi della postura di Mihawk, seduto vicino a lui. Un’uscita del genere poteva venire solo da un Sovrano disinteressato dei problemi della nazione.
-Sua Maestà ha ragione.-
Chissà a quanto ammonta la cifra della corruzione dei ministri da queste parti, pensò Crocodile, osservando la scena con aria critica e notando il perenne ghigno sulla faccia di Doflamingo ingrandirsi.
-Me ne rendo conto.- continuò Smoker, stringendo i denti e faticando per portare pazienza, -Non dico di non proteggere i Reali, ma di movimentare più ufficiali anche in periferia, così da non creare troppe differenze.-
L’idea sembrò essere accolta bene, tanto che venne trascritta per essere presa in considerazione al momento opportuno.
Per le restanti due ore, l’incontro si svolse normalmente e l’attenzione fu presto sviata dal punto cruciale a cose di poco conto come nuove costruzioni, avvenimenti e feste di vario tipo. Era chiaro a tutti che non importava a nessuno del pericolo che la Francia stava correndo, diventando un facile bersaglio per le potenze esterne a causa di quella rottura tra popolo e monarchia.
Di certo, Doflamingo non aveva intenzione di far notare la cosa e, una volta terminata la riunione, fu il primo ad uscire dalla stanza annoiato come non mai.
Fortuna volle che, voltandosi indietro, notò come Boa Hancock lo stesse osservando quasi con astio e la giornata prese immediatamente un’altra piega.
Sorrise, pensando al modo migliore per avvicinarla, riflettendo che, dopotutto, se l’avesse invitata a cena non sarebbe stato così male. Almeno si sarebbe divertito.
 
 
 
Angolo Autrice.
Buona domenica mattina! Da me piove, LOL.
Sembra una routine, ormai, per primo viene il saluto e subito dopo le scuse. Yep, ancora mi scuso per il ritardo, soprattutto perché il capitolo era già pronto e ricontrollato, ma la verità è che non so mai cosa mi possa capitare il sabato. A volte, se non riesco a pubblicare in pausa pranzo, spero di avere libera la sera, invece figuriamoci! Il lavoro mi occupa parecchio tempo e, quando ho dei momenti liberi che coincidono magari con quelli di altre persone ecco che automaticamente il tempo si riduce perché ho una vita da portare avanti, sperando di non mandarla a rotoli.
Ditemi una cosa, sono l’unica che crede di vivere in una bolla personale dove tutto è in ordine e, se qualcosa si scompone, la bolla scoppia? No, perché io mi sento così. Forse mi serve uno psicologo. Ad ogni modo, scusatemi ancora.
Ma veniamo a noi!
Perona e Mihawk ormai li sto trattando come la mia coppia preferita e non va bene! Dovevano esserci Sabo e Koala al loro posto, insomma, di loro non ho ancora niente di romantico fatto D: ma proprio niente! Persino Bonney ha la sua occasione già scritta, fatta e pronta! Cioè, che diamine! Pure Doffy sembra aver trovato qualcuna che gliela da con cui intrattenersi, ma andiamo con calma.
Mhm, l’ultima frase è un po’ volgare, la sistemo meglio. Ecco.
Insomma, il fatto è che rotolo ogni volta che penso alla principessa disagiata e al poveraccio di turno che arriva e la salva. Ovviamente renderò difficile la loro vita, ma, dai, sono così carini **
Mentre Sanji è tutto scombussolato, e va bene così, ci sta che qualcuno si roda il fegato, perché Zoro è un selvaggio, un animale, e pensa se qualcuno scoprisse la loro relazione, OMG! Non sa cosa fare, è disperato, e- oh, ma veni qua, povera anima ;___________;
Intervento di Usopp con un tempismo perfetto, direi u.u
Arriviamo poi a Thatch. Allora, io lo adoro. E’ sempre visto pieno di energie, sciupa femmine, simpatico e tenerone. E’ perfetto, ma è un idiota, punto. Finalmente, anche Haruta l’ha capito. Loro due non so ancora come organizzarli, ma qualcosa mi verrà in mente.
Arriviamo a Doffy.
Chi segue le uscite settimanali del manga? Io so e, non per fare spoiler, ma Doffy è davvero un gran bastardo, ma anche, a detta mia, uno dei migliori cattivi di sempre. Insomma, è fantastico nel suo ruolo, mi piace da matti, per non parlare delle ff dove è descritto con ironia o come capo famiglia amorevole e isterico. Penso che ci sia molto su cui lavorare con un personaggio del genere. Ed ecco che io prendo lui, gli affianco Boa Hancock e ci faccio uscire la scintilla! Se si tratti d’amore o se sia un passatempo lo vedremo, ad ogni modo mi piaceva il ricco spilungone con lei che fa la preziosa.
Adesso che me lo chiedo, che fine hanno fatto Kidd e Law? Si, insomma, mi sono resa conto che devo tirarli fuori e mandare avanti la baracca perché tra poco c’è la presa della Bastiglia, mlmlml ^^
Gente, per oggi è tutto. Se sono brava spero di riuscire a regalarvi il prossimo capitolo in anticipo, giusto per farmi perdonare.
Grazie come sempre a tutti e anche alle ragazze che mi lasciando quelle recensioni tanto carine alle quali io non rispondo -.- mi dispiace, sul serio, magari un giorno riuscirò a mettermi in pari.

Ma non è questo il giorno! Cit.
 
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Well, see ya,
Ace.

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Capitolo 10
*** Dix. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Dix.

 

L’ultima convocazione degli Stati Generali era avvenuta nel lontano 1614 e da allora la società francese era considerevolmente cambiata. Il Primo e il Secondo Stato, ovvero Clero, Nobiltà di alto ceto e borghesia, rappresentavano solo una minuscola parte della popolazione, di conseguenza il Terzo Stato, il quale racchiudeva in sé ogni cittadino francese non nobile e non ecclesiastico, dalla borghesia ai braccianti feudali, era in netta maggioranza.
Quell’assemblea prevedeva la riunione di tutti e tre gli ordini in camere separate nelle quali si sarebbero trovati a discutere e ad emettere una votazione. Riguardo a ciò, il voto della Nobiltà e del Clero, molto spesso, coincideva, perciò il Terzo Stato poteva essere messo in minoranza con facilità. Ad ogni modo, i cittadini accolsero l’imminente riunione degli Stati Generali come un’opportunità per dare una svolta alla loro critica situazione e condizione sociale: i contadini pregavano per l’abbandono dei diritti feudali, mentre una parte della borghesia che assecondava i principi della Rivoluzione, credeva nella possibile instaurazione di una monarchia parlamentare e non assoluta, ispirata a quella inglese.
Anche se la prospettiva dava l’idea di essere ad un punto di svolta, i Rivoluzionari avevano imparato a loro spese che non ci si poteva mai fidare molto di quelli che vantavano il diritto di comando, per quel motivo, la notte del 4 maggio, il giorno prima della data stabilita per l’assemblea, si erano ritrovati tutti, dal primo all’ultimo, alla Corte dei Miracoli, sotto al tetro cimitero incolto e poco curato.
L’enorme tavolo era al completo come la sala e molti si erano adattati a stare in piedi a braccia conserte, stretti lungo le pareti del sottosuolo non più freddo e buio, ma illuminato da torce e candelabri che avevano reso l’ambiente un forno. Alcuni, addirittura, si erano arrampicati sulle travi che sorreggevano il soffitto e osservavano la scena dall’alto, dondolando le gambe all’aria e lasciando gocciolare dalle bottiglie, di tanto in tanto, qualche goccia di poiré o di vino bianco dell’Alsazia.
Davanti a loro, al centro dell’attenzione, si stava svolgendo un intricato e serio dibattito sulle richieste da presentare a favore del popolo, pensando e ragionando sui pro e i contro di ogni proposta.
A capotavola, su una sedia in legno di buona fattura e con la testa appoggiata ad una mano, mentre con l’altra era intento a grattarsi la barba ispida, troppo lunga per i suoi gusti, stava seduto Shanks il Rosso, il quale stava arrivando al limite della sopportazione perché, alla sua destra, Kaido stava complicando un po’ troppo le cose con le sue domande e i suoi sospetti verso il nuovo membro degli Imperatori.
Alla sua sinistra, il diretto interessato pareva divertirsi un mondo e ascoltava le frecciatine del borghese con aria sfacciata e allegra, come se non gli importasse di non essere creduto e di non avere la completa fiducia dei parigini.
Infatti, Barbabianca era tranquillissimo. Con sé aveva i suoi uomini migliori e, esattamente alle sue spalle, sentiva la fissa presenza dei suoi figli, Marco e Thatch, entrambi attenti e concentrati sulla riunione, armati fino ai denti e con pistole e pugnali in ogni tasca degli abiti. Osservavano la scena, sondando con gli occhi ogni movimento e prevedendo ogni minaccia, quasi come degli avvoltoi, seguendo nello stesso momento il filo del discorso. Per la mente non avevano altri pensieri oltre la riunione, nemmeno Thatch, il quale, di problemi con cui intrattenersi, ne aveva fin troppi, ma li aveva comunque accantonati per bene. Alcuni uomini vicino a loro gli gettavano qualche occhiata diffidente, non intenzionati però ad attaccar briga, date le espressioni truci e di ghiaccio che sfoggiavano.
Accanto a Kaido, Big Mom ascoltava e, di tanto in tanto, annuiva convinta o negava con il capo, dando qualche dritta alle varie proposte e correggendole dove sembravano ambigue o incomplete. Comunque, era certamente la più calma e la meno impicciona.
Shanks, invece, continuava ad avere l’aria stanca e stressata, ma, fortunatamente, aveva con sé Benn, Yasop e altri suoi compagni pronti a sostenerlo e a passargli bicchieri di alcool ogni volta che ne aveva bisogno.
Allo spettacolo, oltre che ad un alto numero di volontari, erano presenti anche Ace e Sabo, i quali erano a capo di un gruppetto di giovanotti pronti ad entrare in azione in ogni momento. I due erano sempre stati bravi ad incitare e animare la folla, sapevano dare un motivo valido a chiunque per spronare la gente a credere nei propri diritti, per quello, quando avevano ricevuto l’incarico da Shanks nell’arruolare nei ranghi gente con degli obbiettivi da portare a termine, nessuno aveva avuto nulla da ridire.
Sabo seguiva la discussione con concentrazione. Era sempre stato un tipo molto carismatico e propenso al dialogo e, se fosse nato nobile, probabilmente non avrebbe faticato a diventare un politico o un ministro. Grazie al Cielo, come diceva sempre lui, ciò non era accaduto e poteva vivere tranquillo e in pace con se stesso.
Teneva gli occhi fissi sul pezzo di carta che riassumeva ogni punto importante della riunione e nel frattempo formulava varie ipotesi o possibili richieste da esporre. Le labbra serrate, i capelli scostati dalla fronte e le maniche della camicia arrotolate sui gomiti per il troppo caldo. Niente lo interessava più di quella causa.
Ace, al contrario, aveva seguito il chiacchiericcio fino ad un certo punto, poi si era inevitabilmente perso per strada. Aveva sempre preferito i fatti alle parole e, sebbene capisse che tutto ciò fosse necessario, si stava annoiando a morte, oltre che ad avere un forte prurito alle mani.
Si, perché, da quando avevano discusso, tra lui e Marco le cose erano crollate e, se prima, antipatia a parte, c’era stato una lieve capacità di sopportarsi, dopo il casino successo nel locale di Dadan, i rapporti si erano spezzati definitivamente. Quando aveva rimesso piede all’accampamento, dopo che Sabo gli aveva riferito che Thatch non gli faceva nessuna colpa e lo riteneva un amico, il biondo si era comportato come se lui non esistesse. Gli aveva fatto intendere con un’occhiata micidiale che la sua presenza era indifferente e da allora non si erano più parlati, nemmeno per maledirsi o minacciarsi.
A lui andava benissimo, almeno non doveva sprecare fiato con un idiota, però la questione gli faceva fremere ogni fibra del corpo, non sopportava l’idea di non aver avuto l’ultima parola in capitolo perché Marco doveva sempre essere superiore a lui. Odiava vederlo così calmo e padrone di se stesso e sapere che a lui non interessava proprio niente di quello che aveva da dirgli lo mandava in bestia. Gli aveva praticamente sbattuto la porta in faccia dopo averlo minacciato e si comportava come se nulla fosse accaduto. Non aveva neanche più ricevuto uno sguardo torvo, un insulto, niente. Era diventato invisibile. Nemmeno quella sera, quando erano arrivati, non aveva fatto nessun cenno verso di lui. Thatch e gli altri lo avevano salutato come al solito, trattandolo come un loro pari, come uno di famiglia praticamente, anche se si sentiva strano a pensarci, invece Marco era rimasto apatico e impassibile. Si era solo scomodato a salutare Sabo e forse Shanks, perché, sotto, sotto, lo rispettava e si fidava un po’ di lui, poi nient’altro.
Lo odiava e detestava il fatto di perdere tempo pensando a quel bastardo che, oltretutto, non si sprecava nemmeno a fingere che la causa francese gli interessasse. Ne era certo, per lui potevano morire tutti.
Sbuffando infastidito, anche per il discorso che Sabo pareva essersi dimenticato di lui, si alzò dalla sedia e prese a camminare, seppur lentamente perché era pieno di gente, li attorno, decidendo infine, quando il caldo era diventato insopportabile, di uscire all’aperto, magari per dare il cambio a qualcuno che stava di guardia. Tanto era certo che si sarebbero arrangiati anche senza di lui. Alla fine, quello che gli premeva, era avere un piano d’azione da seguire e da mettere in pratica perché, di starsene senza niente da fare era veramente stanco.
Sabo, infatti, non si rese neanche conto dell’assenza del fratello, e continuò ad ascoltare con attenzione il dibattito tra gli Imperatori.
-Dovremo essere molto più convincenti di così.- stava affermando Shanks, spossato. Di quel passo non sarebbero arrivati da nessuna parte.
-Con il voto per testa non avremo nessun problema.- decretò Kaido con un cipiglio serio e impenetrabile.
Shanks sorrise beffardo e per niente sollevato. -Ti ricordo che il Re ha acconsentito a raddoppiare i deputati del Terzo Stato, ma riguardo il voto non si è espresso.-
Kaido rimase in silenzio per qualche secondo prima di ribattere, un po’ meno convinto delle sue stesse parole. -Non potrà negarcelo, si metterebbe nei guai da solo.-
Eppure, Shanks non era così sicuro che tutto sarebbe stato facile. Da anni stavano lottando per dei cambiamenti e non avevano mai risolto granché. Sperava solo che tutti quegli sforzi, un giorno, sarebbero seguiti a qualcosa.
-In ogni caso, domani vedremo come si evolverà la situazione e decideremo il da farsi. Speriamo solo che si parli di questioni inerenti ai problemi sociali e non solo finanziari.- disse Big Mom, chiudendo la questione e ricordando a tutti che, ormai, era notte inoltrata e l’ora dei conti si avvicinava sempre più.
-D’accordo.- sospirò il Rosso, passandosi una mano tra i capelli per ravvivarli e togliersi di dosso il torpore che sentiva su tutto il corpo. Quella riunione era stata asfissiante. -Dobbiamo solo decidere chi si presenterà domani a Versailles.-
Nella sala corse un brusio concitato, ma nessuno osò esprimersi in merito.
-Ovviamente noi non possiamo esporci troppo, altrimenti addio copertura e informazioni sui movimenti della Corona.- chiarì Kaido, rendendo subito noto che lui non avrebbe rischiato, compresa la donna accanto a lui.
Shanks se l’era aspettato, ma non aveva niente da ridire, dopotutto le informazioni che i due nobili gli passavano erano molto specifiche e troppo preziose per gettarle al vento, chiedendo ai due amici di mettersi in prima fila per sostenere la causa. Sarebbe andato lui, ma girava già voce che lo stessero cercando e meno si faceva vedere in giro, meglio era. Doveva quindi affidare l’incarico a qualcun altro, purtroppo.
-Manda me.- fece ad un tratto una voce decisa alle sue spalle che lo fece sorridere orgoglioso. Quel ragazzo era davvero imprevedibile, a volte, ma andava fiero del suo comportamento sempre disponibile a tutto, pronto a prendersi sulle spalle ogni responsabilità, nonostante l’età giovanissima.
-Sabo,- disse in modo paterno, voltandosi verso di lui e leggendo nei suoi occhi la determinazione e la voglia di mettersi in gioco. -Ne abbiamo già parlato.-
-Ma posso farcela, lo sai!- si animò il biondo, facendosi largo fino al tavolo sotto lo sguardo di tutti, -Conosco la legge, i vari mandati, tutto. Sicuramente sarei utile per…-
-Sabo.- ripeté Shanks con più vigore, facendosi serio e alzando una mano per mettere fine a quella richiesta troppo avventata. -Apprezzo il gesto, ma basta così.-
Lo vide sospirare per poi allontanarsi senza dire altro, deluso per non essere riuscito a fare di meglio. Capiva che era giovane e che era presto per essere preso in considerazione, ma se mai cominciava, mai avrebbe imparato, accidenti.
Stringendo i pugni a recuperando la sua giacca, raggiunse l’uscita, lasciando che decidessero da soli il da farsi, visto che la sua presenza non era più richiesta.
All’aperto, una folata di vento fresco notturno gli servì per schiarirsi le idee e per risollevarsi d’animo, decidendo che, molto presto, avrebbe dimostrato a tutti quanto valeva e quanto era bravo. Sapeva di esserne in grado, doveva solo pazientare.
-Sentiamo, hai finito di fare il sapientone?- lo schernì una voce ironica che riconobbe all’istante e che gli accese una scintilla all’interno. Ace era sempre stato capace di risvegliare la sua vena sarcastica e ogni scusa era buona per punzecchiarsi a vicenda, sebbene con affetto.
-Almeno io ci capisco qualcosa in fatto di politica.- lo derise, voltandosi a sinistra e trovando il fratello appollaiato su un mausoleo che aveva visto giorni migliori. -A proposito, lo sai che stai profanando una tomba?- gli chiese poi, riferendosi al fatto che Ace fosse stravaccato comodamente sul marmo.
Il moro fece spallucce, sollevando il busto e appoggiandosi sui gomiti. -Morto per morto.- disse, inclinando il capo e guardandolo con un sopracciglio inarcato e un sorrisetto sfacciato. Quello era lo sguardo enigmatico di Ace che Sabo non riusciva mai a decifrare. Sapeva solo che, quando appariva su quel viso lentigginoso, era sinonimo di guai in arrivo.
-Quindi? Cosa hanno deciso di fare?- gli domandò invece, cogliendolo impreparato e lasciando da parte le sciocchezze che aveva avuto intenzione di dire.
Sabo allora sospirò con aria sconfortata, raggiungendolo e sedendosi ai piedi della lapide, prendendosi la testa fra le mani e iniziando a borbottare una risposta. -Non mi lasceranno fare le veci di Shanks.- confessò abbattuto. -Sono troppo giovane per loro. E inesperto. Seriamente, Ace, ti sembro un citrullo, per caso?- chiese, animandosi alla battuta finale e sollevando il capo verso l’alto per incontrare gli occhi neri del fratello fissi su di lui. -Sono preparato, ho studiato tutto ciò che riguarda la situazione economica e politica della Francia, conosco a memoria ogni sfaccettatura dei doveri che riguardano Clero, Nobiltà e Popolo e so quali sono i punti ambigui su cui possiamo fare leva.- affermò con furore, scattando in piedi e prendendo a camminare nervosamente li attorno, gesticolando con le mani. -Perché ancora non basta? Io sono in grado di farlo, dannazione!- sbottò, fermandosi e battendo un piede a terra.
-Secondo me, Shanks non vuole farti bruciare le tappe.- ipotizzò a quel punto Ace, rilassandosi contro la pietra fredda della tomba, prendendo a giocherellare con un rametto secco di una composizione floreale appassita. -E forse non ha tutti i torti.-
-Si può sapere da che parte stai?- gli chiese acidamente Sabo, assottigliando lo sguardo e osservandolo mentre sospirava prima di saltare giù con agilità per avvicinarsi fino ad essere faccia a faccia con lui. Poi gli sorrise allegramente, posandogli una mano sulla spalla e stringendola impercettibilmente per fargli capire che non era da solo in quella storia.
-Dalla tua, è ovvio.- gli spiegò, -E sono certo che molto presto avrai la tua occasione per dimostrare a tutti quanto vali. Io lo so, fratello.-
Il petto di Sabo parve contorcersi al suono di quelle parole. Se doveva essere sincero, l’unico ad avere un animo valoroso era Ace. Lui era sempre così coraggioso e privo di paure. Se una cosa si faceva complicata non si fermava a chiedersi come e perché, ma andava avanti con i suoi propositi, anche a costo di sbattere la testa mille volte prima di raggiungere i suoi obbiettivi. A molti poteva sembrare impulsivo e troppo incauto, ma Sabo, che lo conosceva da sempre, sapeva che il ragazzo altro non era che un eroe. Il suo, quello di Rufy e di molti altri giovanotti adolescenti che lo prendevano come esempio, desiderosi di diventare come lui, un giorno. Ace era quello e molto di più. Era parte della sua vita e della sua famiglia, era suo fratello per scelta e, anche se non avevano alcun legame di sangue, gli voleva un bene infinito. Poteva contare su di lui, sempre, perché Ace lo sosteneva in ogni momento e lo trattava come se fosse stato lui il migliore. Ma a Sabo non interessava essere superiore a nessuno. Tra lui e i suoi fratelli non c’era nessun tipo di invidia o contrasto, erano alla pari. E lui li amava entrambi in un modo difficile da spiegare. Sapeva solo che erano importanti e che per niente al mondo avrebbe voluto perderli.
-Ti ringrazio.- fece, già più tranquillo e sollevato, coprendo con la sua mano quella di Ace e sorridendogli di rimando.
-Forza, torniamocene a casa adesso. Ho proprio sonno.-
-Si, domani sarà una lunga giornata.- concordò il biondo, avviandosi verso l’uscita del cimitero con Ace al suo fianco, allegro e spensierato come sempre.
-Ehi, cosa ne dici se chiedessi a Law di aiutarmi a fare degli spaventapasseri dissotterrando i nostri amici sotto le tombe?- domandò ad un tratto il moro, guardandosi attorno con curiosità, riflettendo se la cosa potesse essere fattibile o meno.
-Insomma, Ace! Un po’ di rispetto per i morti!- lo riprese Sabo, dandogli uno scappellotto sulla nuca e facendolo ridacchiare. -Di questo passo, quando entrerai in chiesa l’acqua santa inizierà a bollire, poco ma sicuro!-
 
*
 
Guardò la ragazza prendere un respiro profondo, mentre cercava dentro di sé la concentrazione e la calma necessaria per compiere quel passo difficile e che richiedeva un enorme capacità di equilibrio, oltre che a una vasta esperienza alle spalle. Lui non ne era sprovvisto, affatto, ma, anche se lei aveva iniziato ad allenarsi seriamente da più di un mese, aveva comunque fatto grossi progressi.
Rimase al limitare della stanza, rasente la parete per lasciarle più spazio, osservando se le braccia erano abbastanza rilassate e se le spalle erano dritte e non gobbe; cercava con lo sguardo il minimo difetto per riprenderla e per spronarla a migliorarsi. Non erano ammessi errori, doveva essere perfetta quando combatteva. Quella della spada era un’arte che non aveva nulla da invidiare alla pittura, alla danza, al canto e a tutte quelle doti che spesso le persone si vantavano di avere. Era un qualcosa che pochi erano in grado di fare con eleganza, per quello si era rivelato un insegnante pignolo e poco propenso ad elargire complimenti e incitazioni.
Il cuore non aumentò il suo ritmo quando Perona mosse il primo passo di quella danza, avanzando leggera, con la mente sgombera da ogni cosa, concentrata solo nel compiere al meglio i movimenti. Non trattenne il fiato, Mihawk, quando il primo fendente, caricato da una precedente piroetta, tagliò l’aria, portando l’eco del fruscio con sé e non sgranò gli occhi quando, dopo altre due giravolte, la principessa abbatté il suo colpo su di un manichino, tranciandolo da una spalla fino al petto. L’unica cosa che fece, fu rimanere immobile e in silenzio, sempre con il suo cipiglio serio e per niente toccato. Dentro di sé, però, una piccola fiammella di orgoglio si accese, rendendolo quasi fiero dell’ottimo lavoro svolto dalla ragazza. Non poteva negare che non ci avesse messo l’anima in quei giorni passati a tirare di scherma, cadendo mille volte a terra e rialzandosi sempre, incassando i suoi colpi e uscendone spesso con lividi che poi doveva nascondere sotto le gonne e i merletti per non destare sospetti. Era stata brava, quello poteva concederglielo.
Perona, ancora incredula per essere riuscita a compiere quel movimento che tante volte aveva sognato di fare, lasciò cadere a terra la spada dopo aver osservato il suo operato e i brandelli del manichino ai suoi piedi, voltandosi verso lo spadaccino con l’ombra di un sorriso sul volto che pareva diventare sempre più ampio ogni secondo che passava. Non fece caso all’espressione immutata dell’uomo che la guardava come se fosse impazzita, non si preoccupò nemmeno di contenersi ed esplose in un urlo di gioia, saltellando sul posto e stringendo i pugni al petto, sentendosi fiera di sé. Ci era riuscita, aveva imparato un sacco di attacchi e quello che più le premeva in pochissimo tempo. Aveva sputato sangue per farcela, ma alla fine ne era valsa la pena.
Con la coda dell’occhio intravide Mihawk scuotere il capo, silenzioso. Lui stava pensando che esaltarsi fosse inutile, dopotutto aveva imparato un affondo di secondo livello, non chissà che cosa, ma per la ragazzina quello era un traguardo importante. Finalmente aveva fatto qualcosa unicamente per lei, deciso da lei e voluto solo da lei, senza costrizioni o obblighi. E la cosa la faceva sentire incredibilmente bene, tanto che si sentiva allegra come non lo era da tempo.
E, conscia che parte di quel benessere lo doveva solo a lui, mise da parte le regole che decretavano il comportamento di una principessa di alto lignaggio e lo raggiunse, fermandosi a pochi passi e regalandogli un sorriso solare ed entusiasta che, per un mero istante, lo spiazzò.
Perona non aveva mai sorriso in quel modo, anzi, forse non aveva proprio mai sorriso veramente, come una persona felice e tranquilla. Era sempre stata distaccata, circospetta e anche un po’ altezzosa, all’inizio, ma da quando aveva preso ad allenarla, si era aperta sempre di più, mostrandogli senza rendersene conto la sua vera personalità, quella di una ragazza determinata, forte, un po’ cocciuta e desiderosa di vivere pienamente la vita, senza sbarre che la tenessero imprigionata in una stanza, a guardare lo scorrere del tempo da una finestra.
-Vi ringrazio immensamente.- disse Perona, distogliendolo dai suoi pensieri e porgendogli educatamente la mano. -Avete fatto così tanto per me.-
Mihawk, non preparato a tutti quei ringraziamenti, si prese un momento per riflettere, portandosi nel frattempo alle labbra le nocche della ragazza per depositarvi un leggero bacio, come dettavano le usanze dell’epoca. Un gesto di rispetto e per nulla esagerato, qualcosa che aveva fatto mille volte, ma che mai gli aveva lasciato dentro la voglia di continuare, così come a Perona mai aveva fatto venire i brividi sulla schiena.
Ruppe subito il contatto, schiarendosi la voce. -Non ringraziatemi, Principessa.-
-Ma non eravate costretto.- affermò lei, torturandosi le dita e sfiorandosi inconsapevolmente il dorso della mano che le pareva rovente. -Come posso sdebitarmi con voi?-
Mihawk non rispose. Non sapeva cosa dire e, sinceramente, non capiva nemmeno cosa dovesse fare in particolare in una circostanza come quella. Insomma, una principessa, e non una qualsiasi, ma la Principessa della Francia, gli stava dicendo che era in debito con lui, un mercenario, un uomo che della legge se ne curava poco e che pensava solo al benessere suo e di quello della gente che stava alle sue dipendenze a casa, nella sua terra, dove sperava che la guerra non arrivasse mai. Poteva chiederle di tutto, dal denaro alla fama, ma non gli importava nulla di ciò. Non gli serviva niente. Aveva ricchezze, terreni, un buon nome e una vita tranquilla, perciò cosa poteva mai offrirgli che lui già non possedesse?
-Ditemi, posso darvi qualsiasi cosa.- riprovò lei, schiudendo le labbra e incurvandole per dare forma ad un altro piccolo sorriso, sperando di convincerlo, e lo fece in un modo così innocente e carico di aspettative che Mihawk per un attimo si sentì vacillare. Forse fu per la sincerità della richiesta, forse fu l’attimo in cui i suoi occhi vacillarono sulla bocca della ragazza, in ogni caso si ritrovò a rispondere a quella domanda senza nemmeno rendersene conto.
-Datemi del tu.- disse pacato, nascondendo alla perfezione il momento di sbandamento che lo aveva colto, -Ormai penso che non sia un problema dopo tutti gli allenamenti passati.-
Perona sbatté le palpebre con stupore, fissandolo incredula. -Sul serio? Solamente questo?- domandò nuovamente. Le sembrava così assurdo che non le chiedesse oro, gioielli, informazioni sulle finanze e sullo stato, insomma, qualcosa di materiale.
-E cos’altro dovrei volere?- fece allora Mihawk, inclinando il capo e avvicinandosi di un passo, coprendo le distanze che li separavano.
-Non saprei.- esclamò lei, sentendosi vagamente in imbarazzo. Credeva di essersi abituata alla sua vicinanza, dato che durante gli scontri si ritrovava spesso in un angolo con lui addosso e una lama affilata puntata alla gola, ma, evidentemente, si era sbagliata.
Sospirò, cercando di indietreggiare, ma non ci riuscì perché sentì la mano di Mihawk afferrarle gentilmente un polso senza alcuna pretesa. Le venne la pelle d’oca e incrociò il suo sguardo, sentendosi quasi con le spalle al muro. Gli occhi di lui la guardavano con una luce strana che non aveva mai notato e non le parevano più tanto minacciosi come la prima volta che li aveva visti. A dire la verità, le piacevano.
-In ogni caso, non potreste darmi quello che desidero, Principessa.- lo sentì mormorare.
Perona smise di respirare, ghiacciata sul posto. Lui continuava a guardarla intensamente e si era fatto ancora più vicino, troppo forse, ma non riusciva a provare disagio. Non si sentiva male come quando presenziava alle feste che venivano organizzate a Corte, dove tutte le persone la circondavano e le toglievano l’aria. Non si sentiva stretta.
-E che cosa vuoi?- gli domandò in un sussurro, dandogli inconsciamente del tu, come le aveva chiesto.
Si sentiva strana, con le gambe molli e il cuore che batteva più velocemente del normale. Forse era l’effetto dell’allenamento, o la felicità per essere riuscita dove spesso aveva fallito, ma smise di pensarci perché non le importava trovare una definizione a quel suo stato d’animo. Nulla era importante con Mihawk così dannatamente vicino.
Lo spadaccino indugiò un secondo sulle sue labbra, ma alla fine sospirò, solleticandole la pelle del viso e lasciando andare la presa, allontanandosi lui stesso e lasciando che i polmoni della principessa si riempissero nuovamente di ossigeno.
-Che la rivolta finisca presto così da poter tornare a casa, ma so che è impossibile.- rispose, lasciando Perona allibita e senza parole.
Lei, allora, lasciò uscire l’aria che aveva trattenuto, ricomponendosi e cercando di darsi un contegno, facendo sparire il rossore che sicuramente le era salito alle guance, sistemandosi con imbarazzo una ciocca di capelli rosa. Non le sfuggì, però, il sorrisetto beffardo di Mihawk, il quale si allontanò con finta indifferenza, diretto a recuperare il suo mantello che, come sempre, aveva messo da parte durante il combattimento.
C’era stato un momento in cui aveva quasi ceduto all’istinto, ma si era trattato solo di un istante fortunatamente controllato e passato. Non poteva permettersi tali confidenze e, soprattutto, non avrebbe mai potuto chiedere alla principessa, una mocciosa per giunta, quello che gli era passato per la testa come un fulmine. Non era contemplato a quei tempi e non era certo che il Re lo avesse tenuto ancora nelle sue simpatie se avesse saputo che aveva iniziato a corteggiare sua figlia.
Sorrise, abbottonandosi i polsini della camicia che aveva arrotolato sui gomiti. Sinceramente, avrebbe dato qualsiasi cosa pur di vedere la faccia del Sovrano davanti ad una notizia simile.
-Domani ci vediamo?- si sentì domandare inaspettatamente, voltando di qualche centimetro la testa e trovando Perona in piedi accanto a lui, con le braccia incrociate sotto al seno e l’espressione decisa e vagamente altezzosa. Quella non era sparita del tutto, a quanto pareva.
-Dovremo?-
La vide accigliarsi prima di riprendere la parola. -Perché no?-
-Avete imparato quello che volevate, non vedo il motivo di continuare.- dichiarò Mihawk, afferrando il suo cappello e dirigendosi verso l’uscita, gettandole un’occhiata e un sorriso obliquo mentre la sorpassava. Era stato tentato a provocarla con una spallata e lo avrebbe fatto se non avesse temuto di farla finire a terra. Doveva andarci paino e ricordarsi che era pur sempre una mocciosa.
-Voglio imparare di più.- affermò lei. -Voglio allenarmi ancora.- ripeté più decisa, quando lo vide fermarsi a metà strada. Non poteva permettersi di fermarsi proprio sul più bello. Da un po’ le cose stavano migliorando, si svegliava più contenta e col sorriso, le giornate non erano più tanto grigie e tristi e tutto le sembrava più bello e meno pesante da sopportare. Persino i suoi fratellastri le risultavano sopportabili. E poi, anche se non lo avrebbe ammesso mai, nemmeno a se stessa, non voleva rinunciare a quel paio d’ore che passava in sua compagnia ogni giorno. Erano diventate una routine, un qualcosa di normale e che sentiva come suo.
-Per favore.- riprovò, mettendo da parte l’orgoglio e abbassandosi ad essere umile per una volta. Stava imparando così tante cose e sentiva che ciò era utile anche alla sua personalità. Si sentiva meno bambina e meno antipatica verso i servitori e la gente che la circondava. Inoltre, cosa da non dimenticare e che la faceva sospirare sempre più spesso, era il fatto che, con Mihawk, si sentiva più donna.
Lui sospirò, chiudendo gli occhi e riprendendo a camminare, raggiungendo l’uscita. Solo allora si voltò a guardarla, trovandola impaziente e speranzosa di non ricevere un no come risposta. E chi era lui per negare un desiderio ad una reale?
-A domani allora, Vostra Grazia.- disse, trattenendo a stento un sorriso. A tutto c’era un limite e lui aveva anche una reputazione da mantenere.
-Perona.-
-Come, prego?-
-Possiamo darci del tu.- fece lei. -Dopo tutti gli allenamenti, penso che non sia un problema.- lo citò, ammiccando con fare civettuolo. Quello, doveva ammetterlo, le riusciva alla perfezione e l’imbarazzo che lasciò Mihawk in silenzio per troppi secondi prima che se ne andasse lasciandola da sola ne fu la prova.
Sorrise trionfante. Avere l’ultima parola la divertiva da matti.
 
*
 
Quella sera, nel locale di Montmartre, i rumori prodotti dai musicisti, misti a quelli di bicchieri rotti, vetri infranti, chiacchiericcio e grasse risate si riversava fino in strada, impedendo ai proprietari delle catapecchie vicine di riposare in pace.
In mezzo al via vai di ubriaconi, gente con loschi affari tra le mani, signore in abiti succinti e varie risse in corso, al centro del palco si stava esibendo una bellissima donna dai lunghi capelli neri e dalle movenze attraenti, leggiadra e delicata come un fiore appena sbocciato, che ammaliava più di metà sala, attirando su di sé sguardi meravigliati, sospiri di cuori infranti e desideri impossibili da esaudire.
Tutti guardavano con la consapevolezza di non poter toccare, con il rischio di incappare nelle ire della proprietaria che, in quel momento, si trovava al bancone di servizio con Nami, intenta a contare gli spiccioli e le banconote ricavate dall’apertura fino a quel momento. Una regola da lei imposta e che non poteva venire infranta riguardava il volere e le decisioni delle sue protette, ovvero coloro che si risparmiavano di compiacere gli uomini non dovevano venire importunate o altro. Di donne disinibite e ben disposte ne erano piene le stanze, perciò per Dadan era inammissibile che qualche povero idiota e balordo pretendesse di avere anche ciò che era proibito.
Per quello Nico Robin si sentiva libera di potersi esibire senza correre dei rischi, volteggiando e muovendo sensuale i fianchi, permettendosi un piccolo sorriso nel vedere che in molti la apprezzavano. Non lo faceva con malizia, a lei piaceva davvero ballare e Dadan le dava la possibilità di poter esprimere se stessa e la sua passione, pagandola oltretutto, dato che faceva anche da balia ai marmocchi, figli di nessuno, che gironzolavano sotto ai tavoli con l’intento di svuotare le tasche a chi era troppo ubriaco. Un gioco che aveva insegnato loro Nami, esperta in materia.
La melodia arrivò al termine e lei concluse il suo spettacolo sotto un coro di fischi di apprezzamento, applausi e richieste di vario genere che ignorò bellamente, dando le spalle al pubblico dopo aver fatto un modesto inchino e recandosi dietro le quinte, stanca e desiderosa di fare una pausa. Stava ballando da ore ormai, visto e considerato che tutte le altre sue colleghe erano sparite al piano superiore a guadagnarsi la paga facendo il loro lavoro, ma nessuno avrebbe obbiettato se per una mezz’oretta se ne sarebbe stata tranquilla.
Indossò una camicia blu più coprente di quella che aveva addosso e una gonna lunga che le celava interamente le gambe snelle, uscendo poi nel salone con l’intenzione di nascondersi in cucina per mettere qualcosa sotto ai denti e vedere come se la stava cavando Bonney con le ordinazioni.
Camminò rasente la parete con la speranza di passare inosservata ma, giusto quando era a pochi passi dal raggiungere il bancone, una figura vestita di nero le si parò di fronte, sbarrandole la strada e obbligandola a fermarsi, sollevando il capo per capire di chi si trattasse.
Era un uomo alto e ben vestito, con dei capelli raccolti in una coda bassa e il viso ben curato, sicuramente un nobile o un borghese dati gli abiti eleganti. Osservandolo meglio, si rese conto di averlo già intravvisto da quelle parti, spesso seduto in un angolo a guardare i vari spettacoli e a scolarsi una bottiglia di buon vino d’annata. Non aveva mai passato la notte da loro e mai lo aveva visto conversare con qualcuna delle ragazze. Ad essere sincera, la cosa la inquietava un poco perché spesso aveva notato il suo sguardo verso di lei, quando ballava, ma non gli aveva dato peso in precedenza, credendolo uno di quelli a cui piaceva stare a guardare senza agire.
Prese in considerazione l’opportunità di essersi sbagliata quando lui le fece un baciamano, presentandosi con il nome di Rob Lucci, un Duca a quanto pareva.
-E’ da molto che vi osservo, Mademoiselle.- le disse con un sorriso sbilenco sulle labbra sottili, -E mi domandavo se mi concedereste l’onore di passare del tempo in vostra compagnia.-
Robin rimase impassibile, abituata a certe avances e ben in grado di declinare l’offerta senza rischiare di ferire l’animo fin troppo orgoglioso che avevano certi uomini.
-Scusatemi, Monsieur, ma non sono disponibile.- disse, sorridendogli affabile, un gesto del tutto calcolato, -Posso comunque presentarvi una persona che…-
Rob Lucci rise sommessamente, interrompendola e non lasciandole finire la frase. Sapeva bene che lei non era lì per fare la prostituta, ma a lui non importava nulla di quello che fosse disposta a fare o no e, sinceramente, se ne infischiava anche delle regole stabilite da quella donnaccia che dirigeva la baracca. Lui aveva deciso che voleva avere quella donna per sé, punto. E, con le buone o con le cattive, se la sarebbe presa.
Le afferrò il polso che prima aveva sfiorato con delicatezza, attirandola verso di sé con uno strattone e facendole male volontariamente, abbassandosi sul suo viso per sussurrarle quello che aveva intenzione di fare.
-Ora tu verrai con me e mi obbedirai, chiaro?- fece sibilando, mentre Robin cercava di allontanarsi, picchiando un pugno sul petto dell’uomo che pareva non risentire dei suoi colpi.
Non aveva nessuna intenzione di seguirlo e di sottostare a lui, lei era una donna forte e indipendente e, quando aveva detto che non era disponibile, intendeva sia per il lavoro, sia sentimentalmente.
Usando il tacco delle sue scarpette, gli pestò un piede, riuscendo a liberarsi dalla sua presa e dandogli le spalle per correre via, ma non si allontanò abbastanza perché l’uomo riuscì a riacciuffarla, facendola cozzare contro il suo petto e portando una mano a stringerle la base della gola.
-Tu, lurida sgualdrina.- disse con rabbia, alzando una mano per tirarle un sonoro schiaffo.
-Non lo farei se fossi in te.- gli intimò qualcuno alle sue spalle e, nonostante la musica alta e il casino lì attorno, riconobbe facilmente il rumore di un grilletto che caricava un colpo in canna di una pistola. Solo allora si decise a mollare la presa su Robin, lasciando che si appoggiasse alla parete tossendo e riprendendo fiato. Sentì una punta di fastidio e di gelosia quando poi la vide sollevare il capo e guardare con quei grandi occhi azzurri la persona alle sue spalle. In quello sguardo vi legge benissimo la gratitudine e l’affetto che la legavano a quell’uomo.
Rob Lucci sollevò le mani in segno di resa, voltandosi lentamente per vedere chi fosse così fortunato da avere tra le mani una donna così magnifica e il suo orgoglio venne ferito non appena adocchiò gli abiti stracciati e di seconda mano, la barba e incolta e i capelli spettinati, gli stivali bucati e delle lenti spesse e scure sugli occhi. Com’era possibile che un poveraccio avesse avuto più successo di lui? Avrebbe potuto offrirle una casa accogliente, denaro, prestigio, invece quella sciocca pareva essere innamorata di quello scarto.
-Non lo sa che è maleducazione interrompere due persone durante una conversazione?- fece sfrontato, deciso a non andarsene senza prima essersi preso una rivincita su quella feccia.
-Se non te ne fossi accorto, io non sono affatto un gentiluomo.- rispose a tono Franky, rinfoderando la pistola, ma non smettendo di fulminare con ogni fibra del suo corpo quel damerino che aveva osato trattare Robin in quel modo. Come si era permesso di alzare le mani su di lei?
-Calmati, amico, penso che ce ne sia abbastanza per tutti e due.-
Il Duca non aveva proprio capito che non era il caso di scherzare in quella situazione e battute sulla virtù di Robin avrebbe dovuto risparmiarsele, ma non fu abbastanza furbo e il pugno che ricevette da Franky in quell’esatto istante lo fece finire a terra dolorante e con il setto nasale rotto. Sicuramente, ci avrebbe ripensato mille volte prima di rimettere piede nei bassifondi di Montmartre.
Il carpentiere gli si accovacciò accanto, togliendosi gli occhiali per guardarlo dritto negli occhi. -Prova a toccare ancora la mia donna e giuro che ti uccido a suo di pugni.- lo minacciò, tirandolo poi in piedi con malo modo e spingendolo lontano, più precisamente verso l’uscita con la speranza di non rivederlo mai più.
-Franky.- si sentì chiamare, girandosi verso la ragazza e sorridendole contento, ignorando la sua espressione seria. -Lo sai che non dovresti inimicarti i nobili. Quello potrebbe denunciarti.- lo riprese, sentendosi in dovere di metterlo in guardia costantemente.
Lui non ci badò e si avvicinò fino a poterle accarezzare dolcemente una guancia, sollevando il pollice con l’altra mano per tranquillizzarla e farle capire che andava tutto bene. -So badare a me stesso.- le ricordò ammiccando.
Robin sospirò, scuotendo il capo, ma decidendo che era meglio lasciare perdere e pregare che tutto andasse bene. Così sorrise a Franky, lasciando che la baciasse senza scostarsi, dimentica che a Dadan la cosa non andava a genio perché, a detta della donna, lui non era abbastanza ricco. A lei, però, non importava. Lui la faceva ridere e la trattava con rispetto, senza forzarla o chiederle mai niente e, la prima volta che si erano incontrati, era rimasta colpita dal suo comportamento galante. Non l’aveva fissata come gli altri uomini, i quali parevano spogliarla con gli occhi, al contrario era rimasto affascinato dal suo talento, come le aveva rivelato successivamente, conquistandola. Stranezze a parte, era un uomo buono che le voleva bene davvero e a lei bastava, era tutto ciò che potesse desiderare.
Intanto, in cucina, Bonney stava totalmente dando di matto. Pareva che quella sera tutti i francesi avessero deciso di andare a svagarsi da quelle parti, costringendola a cucinare quantità incredibili di cibo e pietanze varie, privandola anche delle sue colleghe, tutte felici di andarsene a letto con degli sconosciuti.
Sbuffò esasperata, abbattendo in un moto di stizza un coltellaccio affilato sul tavolo, piantando la punta nel legno, e poggiando i palmi sul bordo, abbassando il capo con stanchezza. Stava raggiungendo il limite della sopportazione e, prima di commettere qualche disastro, decise di ricorrere al suo piano di scorta, prendendo dalla credenza un cartello e fissandolo poi alla porta della cucina, uscendo e chiudendo a chiave. Quello sarebbe servito ad avvisare tutti, Dadan compresa, che la cucina era chiusa per esaurimento scorte e tanti saluti. Non sarebbe morto nessuno di fame, in più era notte inoltrata, perciò la maggior parte del lavoro lo aveva svolto, ma pretendeva gli interessi per avere sgobbato da sola tutto il tempo.
-Bonney, che ci fai qui? Non dovresti essere in cucina?- le chiese Nami, quando se la ritrovò seduta al bancone come un cliente qualsiasi, con le dita che tamburellavano nervosamente sul ripiano e l’aria assassina. Intuì che doveva essere parecchio agitata, così, senza aspettare una risposta che sarebbe arrivata con una serie di bestemmie verso ignoti, le preparò un bicchiere di vino e lasciò che se lo scolasse di schiena, sospirando sollevata quando la vide calmarsi un poco.
Bonney le passò di nuovo il bicchiere. -Dammene un altro.-
-Ne sei sicura?-
Un’occhiata torva bastò alla rossa come affermazione e le lasciò la bottiglia direttamente, allontanandosi per servire un paio di uomini che erano appena arrivati.
La cuoca, rimasta sola con il suo liquore, si rigirò il vetro scheggiato tra le mani, mordicchiandosi le labbra pensierosa. Come aveva potuto finire in quel modo stancante la serata? Pareva quasi che il mondo si fosse messo d’accordo per farla sentire di cattivo umore.
Si prese la testa fra le mani e tentò di isolarsi dal frastuono che sentiva attorno a sé, cercando di controllare il nervosismo e la stanchezza, ripetendosi che andava tutto bene, che aveva lavorato in maniera impeccabile e che presto sarebbe andata a dormire. Stava funzionando quella tecnica, le palpebre le sembravano già meno pesanti e lo stress si era alleggerito, quando lo sgabello accanto al suo strisciò sul pavimento producendo un suono assordante che la fece irrigidire di nuovo.
Si voltò per lanciare fulmini e saette con lo sguardo, desiderosa di sgozzare come un animale l’idiota che aveva fatto quel casino, quando tutte le sue intenzioni crollarono alla vista del tizio che si era seduto vicino a lei.
-Una signorina come voi non dovrebbe bere certe bevande.- le fece notare l’uomo appena arrivato, vestito con abiti normali, all’apparenza stracci, con dei capelli rossi e spettinati in varie direzioni, come se qualcuno li avesse arruffati di proposito, e una benda con due fessure sugli occhi che celava parte del suo viso.
Bonney aggrottò la fronte infastidita da quel commento, pronta a rispondere a tono. -E un ufficiale come voi non dovrebbe frequentare certi posti.- ribatté con sarcasmo, sogghignando soddisfatta quando vide il nuovo arrivato stringere impercettibilmente i pugni adagiati sul bancone, nell’attesa di ordinare da bere. Cosa credeva, che non l’avrebbe riconosciuto?
Lui accennò un sorriso apatico. -Touché.-
-Non dimentico mai una faccia.- gli spiegò allora, alzandosi e saltando agilmente dall’altra parte del piano bar per prendere un bicchiere e servirlo al soldato, ritornando poi al suo posto con la stessa agilità e stappando la bottiglia.
Ignorò l’espressione sorpresa presente sul viso dell’uomo e gli versò da bere in silenzio, lasciandolo poi alle sue riflessioni mentre sorseggiava il suo liquore senza più aprire bocca, anzi, buttando giù tutto d’un fiato, guardando altrove.
Non si era aspettata di rivederlo, anche se ci aveva inconsciamente sperato. A dirla tutta, da quando l’aveva visto per la prima volta, non aveva fatto altro che affacciarsi alla finestrella della cucina tutte le sere per controllare se lui ci fosse o meno, ma ora che era lì non sapeva come interagire con lui. Cosa avrebbe potuto dirgli? Non era brava con i discorsi, soprattutto non sapeva come iniziare a parlare con gli uomini, cosa molto scomoda in quel momento. Con le ragazze era più facile, ma con loro non sapeva mai se fossero dei vili bastardi o se ci si potesse fidare. Poteva fare finta che davanti a lei ci fosse Ace, o Sabo, oppure Zoro, ancora meglio, con lui si faceva lunghe bevute, ma non ci riusciva perché, se solo provava a spiare di sottecchi quell’individuo, si sentiva andare a fuoco le guance, ma forse si trattava solo del vino.
Fu quell’ultima constatazione che le diede un’idea.
-Brindiamo?- propose, voltandosi sullo sgabello verso di lui e sollevando il bicchiere mezzo vuoto, attendendo una risposta.
Lo vide accigliarsi, ma non rifiutò. -E a cosa brindiamo?-
Lei si strinse nelle spalle, pensandoci su per un istante. -Ai travestimenti falliti miseramente.- lo prese in giro, senza sapere da dove le fosse uscita quella trovata ironica, abbozzando un sorrisetto divertito.
L’ufficiale non poté fare a meno di ridere sommessamente, nonostante il suo umore fosse pessimo.
Da un mese a quella parte il suo lavoro era diventato maledettamente pesante a causa delle continue riunioni degli Stati Generali che non riuscivano a trovare un accordo comune, come aveva predetto lui stesso fin dall’inizio. Il 5 di maggio, da quello che aveva capito, il Terzo Stato aveva appreso la notizia che la votazione si sarebbe svolta per ordine come in passato e non per testa, perciò il loro voto collettivo avrebbe pesato esattamente come quello di uno degli altri due stati. Nobiltà e Clero, ad ogni modo, non ne erano rimasti dispiaciuti, consapevoli che con l'utilizzo del voto per testa avrebbero perso più potere nei confronti del popolo. Ad ogni modo, anche se a lui i crucci dei cittadini interessavano poco, era certo che a Corte, il Re e i suoi ministri, stessero sottovalutando la situazione. Cercare di evitare le questioni riguardanti le rappresentanze politiche e focalizzandosi unicamente sui problemi finanziari, tra entrate e uscite di denaro pubblico, era stata, a detta sua, una pessima strategia che non aveva fruttato nulla di buono, se non ulteriori malcontenti. A sostenere la sua tesi, quando il Sovrano aveva ceduto alle richieste del Terzo Stato riferite al sistema di votazione, l’azione era stata vista e percepita da tutti come una concessione forzata, estorta alla monarchia, piuttosto che una decisione magnanima che avrebbe, ad onor del vero, convinto il popolo delle buone intenzioni e del cambiamento morale del Re.
Il 9 maggio, infatti, invece di affrontare la questione finanziaria come era stato richiesto, i tre Stati avevano iniziato a discutere sull'organizzazione della legislatura. I rappresentanti dei cittadini erano stati completamente unanimi nella decisione del voto per testa e si erano autoproclamati rappresentanti della Nazione. Drake lo aveva capito bene, anche prima dei suoi colleghi, che quello altro non era stato che un atto rivoluzionario. Finalmente, dopo uno stallo di un mese, le danze erano state riaperte con un'assemblea comune per verificare e stabilizzare i vari poteri. Infatti, il 17 di giugno, il Terzo Stato era diventato l'unico ordine con i poteri legalizzati e si era autodefinito Assemblea Nazionale con l'intento di identificare una riunione di tutto il popolo. La conclusione di quel mese di trattative e di vigilanza prestata nel luogo dell’incontro per prevenire intoppi di vario tipo era avvenuta quello stesso giorno, il 19 giugno, quando il Clero, grazie alla presenza di parroci sensibili ai problemi dei contadini, aveva votato a favore dell'unione all'Assemblea Nazionale, creando non poco stupore e scompiglio a Corte. Restava solo da attendere e vedere quale sarebbe stata la prossima mossa fatta dalla monarchia a quel punto della situazione e, se il suo sesto senso non si stava sbagliando, era certo che i nobili non avrebbero tardato a farsi avanti a spada tratta per difendere i loro diritti e le loro comodità.
Già lo immaginava il casino che avrebbe trovato l’indomani quando si sarebbe recato a lavoro e, se voleva essere schietto con se stesso, qualche risata non gli avrebbe fatto male, giovando invece alla sua salute.
-E sia.- acconsentì allora, dopo le sue riflessioni, facendo cozzare i calici e mandando giù l’alcool tutto d’un fiato senza staccare gli occhi da quelli della ragazza che, seduta di fronte a lui, lo imitò senza battere ciglio.
Certo che era davvero strano il suo comportamento, pareva quasi di avere a che fare con un giovanotto, tanto era sfacciata, ma si sentiva parecchio meglio e, per qualche attimo, merito del bruciore alla gola dovuto al liquore, aveva dimenticato i suoi problemi.
Al diavolo, pensò, per una sera posso prendermi una pausa dal lavoro.
-E ora?- le chiese all’improvviso, afferrando la bottiglia e aprendola per riempire nuovamente i bicchieri di entrambi. -A cosa brindiamo adesso?-
Bonney lo fissò per un istante presa alla sprovvista, ma alla fine sorrise, decidendo di cogliere la palla al balzo e approfittare dell’occasione per parlare con lui, una fortuna nella quale non aveva nemmeno osato sperare, timorosa di rimanerne delusa. Per una volta, una sola e unica volta, però, avrebbe potuto lasciarsi andare e godersi il momento, stando ovviamente attenta a non esagerare.
-All’allegria?- propose ingenuamente, ma a lui non sembrò dispiacere quella trovata.
-Mi sembra giusto.- concordò, -E ‘fanculo i brutti pensieri.-
Bonney rise di cuore, brindando nuovamente. -‘Fanculo tutto.-
 
*
 
Era passato più di un mese dall’inizio della Riunione degli Stati Generali e la tensione era palpabile nell’aria. Il clima di guerra si respirava in ogni angolo di Parigi e dintorni, persino nelle paludi e nelle terre vicine.
Erano stati bravi ad evitare scontri nelle strade o rivolte impreviste in quel lasso di tempo e, grazie al Cielo, la loro presenza e il loro aiuto non era stato richiesto più di tanto. Avevano, invece, solo dovuto tenersi pronti a qualsiasi evenienza, ma fino a che dovevano stare in allerta andava bene, almeno nessuno si sarebbe fatto troppo male.
Marco sospirò stanco, passandosi una mano sul viso assonnato e portandosi alle labbra la tazza piena di latte caldo che aveva retto tra le mani fino ad allora per scaldarle, prendendone una generosa sorsata per poi ritornare alla posizione precedente, ovvero lo sguardo assorto nel piccolo focolare che scoppiettava davanti a lui, le labbra dischiuse, le spalle rilassate e un po’ ricurve in avanti, le gambe piegate e leggermente divaricate di fronte a sé.
Stava ragionando sul da farsi, preparandosi a dover affrontare una battaglia che si faceva sempre più vicina mano a mano che i giorni passavano. Era vero, avevano avuto una fortuna sfacciata quei Rivoluzionari casinisti, ed erano stati anche bravi a mantenere la calma necessaria per arrivare fino a quel punto, ottenendo almeno il favore del Clero, ma era certo che non sarebbe durata a lungo. Prima o poi, avrebbe dovuto fare i conti con il fatto che la sua famiglia avrebbe combattuto in strada contro gente che non aveva mai visto, rischiando la vita.
Da quando aveva dato il suo consenso non aveva mai smesso di pensarci, cercando inutili soluzioni o pianificando di legare Barbabianca e levare le tende da quel luogo, dirigendosi più a nord, o a sud, insomma, ovunque, fuori che nei pressi di Parigi. Volendo avrebbe potuto farlo, sapeva che la sua gente lo rispettava e lo considerava tanto quanto suo padre, ma come avrebbe potuto guardarlo ancora in faccia poi? Un ammutinamento, così lo avrebbe visto Newgate e, per quanto Marco desiderasse solo il meglio per la sua famiglia, sapeva che non avrebbe sopportato leggere negli occhi del vecchio la delusione per il suo gesto estremo.
Doveva accettare la situazione e fare il possibile per ridurre al minimo i risvolti negativi, nonostante il malumore che si era impossessato di lui da quando quella faccenda era iniziata e la tensione che l’attesa gli provocava. Era più forte di lui, proprio non riusciva a vederci niente di buono in tutto quello che stava accadendo.
-Posso disturbarti?-
Marco alzò gli occhi, scosso da quell’interruzione, e li fissò sulla ragazza che, avvolta in una coperta scura, stava in piedi accanto a lui chiedendogli con una muta richiesta il permesso di sedersi vicino al fuoco.
-E’ presto per il cambio turno.- la informò, facendole comunque posto.
-Non riuscivo a dormire.- confessò lei, sorridendogli sincera e stringendosi nella lana. –Ho pensato che avresti potuto prenderti una pausa più lunga. Ultimamente sei molto teso, non ti farebbe male un po’ di riposo.-
-Sei gentile, Koala,- la ringraziò il biondo, -Ma non preoccuparti, sto bene.-
Per qualche ragione, la sua espressione non del tutto convinta tradì il suo vero stato d’animo e la giovane lo guardò con disapprovazione, anche se la dolcezza e la gentilezza nei suoi occhi non scomparvero. -Certo, come no.- lo prese in giro.
Marco si grattò la nuca imbarazzato. -Sono solo preoccupato.- ammise infine, conscio che alla donna che gli stava accanto difficilmente si poteva nascondere qualcosa. Era una persona molto socievole e attenta al benessere degli altri. Spesso, infatti, pensava più al prossimo che a se stessa, per quello era particolarmente incline a comprendere al volo le emozioni altrui. Oltre a quelle belle qualità, una cosa che poteva tornare utile, ma che spesso per loro era scomoda, stava nel fatto che intuisse al volo quando qualcuno mentiva.
-Lo siamo tutti.- lo rincuorò, poggiandogli una mano sul braccio, -Ma quella gente ha bisogno di aiuto. Non possiamo negarglielo.-
Il più grande si trattenne dal roteare gli occhi con stizza. Ormai glielo avevano ripetuto mille volte che era giusto fare quella opera di carità, ma a lui, sinceramente, di andare in paradiso morendo martire per una buona causa proprio non interessava.
-Pensa se la situazione fosse capovolta.- lo esortò Koala, continuando imperterrita con il suo punto di vista.
-Noi avremo saputo arrangiarci.- la bloccò Marco prima ancora che si buttasse a capofitto in una discussione alla quale non aveva nessuna voglia di partecipare.
La sentì sospirare e la scorse scuotere il capo, ma quel sorriso sulle labbra non voleva sapere di andarsene nonostante lui le avesse risposto un po’ bruscamente. C’era poco da fare, Koala era davvero troppo buona. Sperava che la cosa non le si ritorcesse contro, in futuro.
-Forse dovrei davvero riposare.- disse il biondo sovrappensiero.
-Si, direi di si. Vai, qui ci penso io.-
-Ne sei certa?- chiese, giusto per precauzione, anche se si stava già alzando, desideroso solo di andare a dormire.
Lei annuì convinta. -Si! E poi…- disse, frugando in una tasca interna della giacca che portava sotto alla coperta, -Ho questo.- affermò, mostrandogli un libricino dalla copertina di cuoio. Allora sorrise di rimando, ricordandosi che a lei piaceva tanto leggere e ogni momento le pareva buono per sfogliare pagine e pagine ingiallite dal tempo.
-Bene, allora buonanotte.-
-Notte Marco.- lo salutò, già con il naso immerso nei fogli.
Le diede le spalle, avviandosi verso la tenda che condivideva con quello squilibrato di suo fratello Thatch, consapevole che quella notte non l’avrebbe trovato nel suo letto.
Dopo che aveva scoperto la sua capatina in città con Izou, Namiur e Rakuyo, ci aveva litigato pesantemente, arrabbiato soprattutto per il rischio che aveva corso e per la sua incoscienza, più che per il gesto in sé. Insomma, Thatch era adulto e sapeva badare a se stesso, quello non lo metteva in dubbio, ma a volte si lasciava prendere troppo dall’entusiasmo e dimenticava di avere delle responsabilità. Diventava immaturo quando perdeva la testa e si comportava in maniera sconsiderata, proprio come Ace. Quei due erano troppo simili e assieme erano un vero disastro. Entrambi erano istigati l’uno dall’altro a dare il peggio di sé, tanto erano sciocchi e incauti.
Avevano discusso pesantemente come non capitava da una vita, arrivando a non parlarsi per giorni. Alla fine, come sempre del resto, si erano venuti incontro, chiarendosi un poco sulle loro motivazioni. Marco voleva solo che suo fratello avesse fatto più attenzione e Thatch gli aveva spiegato che sarebbe stato sincero e non avrebbe più tentato di nascondergli qualcosa. Dopotutto, si volevano bene e fare pace era stato inevitabile, anche perché Barbabianca aveva anche troppi inghippi per la testa e non aveva tempo di prestare attenzione ai loro bisticci. Marco, da bravo figliolo, preferiva dargli meno dispiaceri e pensieri possibile.
Quella notte Thatch era fuori. Glielo aveva annunciato quel pomeriggio, come faceva almeno una volta a settimana. Almeno in quel modo sapeva dove trovarlo, anche se continuava ad essere preoccupato di conoscere la sua destinazione. Quel locale a Montmartre doveva averlo proprio preso se continuava a recarsi lì tanto spesso.
Sospirò, entrando nella tenda e slacciandosi la cintura con affisse le armi. Quello scemo poteva andare dove voleva, purché mantenesse un profilo basso e non attirasse troppo l’attenzione. Capiva che si era stancato di nascondersi e di vivere solo in mezzo ai boschi, ma fino a che le navi non fossero arrivate sulle coste della Francia, loro tutti avrebbero dovuto continuare a pazientare e a mantenere la calma.
Si tolse la giacca e cominciò ad aprire i bottoni della camicia, avvicinandosi al letto. In pochi secondi si tolse anche quella e poi seguirono anche i pantaloni. Dei vecchi stracci fungevano da pigiama così, dopo averli indossati, si coricò finalmente sotto le coperte. Era così stanco che sentì immediatamente le palpebre pesanti e sperò di prendere sonno e dormire bene almeno quella notte. Era stufo di fare sogni, svegliandosi agitato senza riuscire a ricordare nulla, sentendosi solo spossato e più esausto di prima. Sapeva che ciò era dovuto all’agitazione, ma doveva mantenere la sua solita calma, almeno davanti agli altri. Non doveva mostrarsi preoccupato, altrimenti tutti si sarebbero scoraggiati e qualcuno che mantenesse le redini della situazione, oltre al vecchio, doveva pur esserci. Fortunatamente, aveva acquisito dei fratelli con parecchia spina dorsale e con un carattere forte, almeno non era da solo in quell’impresa che gli pareva, a volte, impossibile. Chiedeva solo che finisse presto.
Lasciò una lanterna accesa, in caso Thatch avesse deciso di rincasare prima dell’alba. Era quello l’accordo: Marco gli permetteva di andare a sfogare lo stress che accumulava e l’altro, in cambio, non beveva e tornava all’accampamento sobrio e vigile. Fino ad allora doveva ammettere che aveva funzionato e che il fratello, oltre che apparire più tranquillo, rispettava i patti.
Non era riuscito a negargli quella piccola libertà quando Thatch gli aveva raccontato, dopo che avevano fatto pace, la scomoda situazione in cui si era trovato.
Per qualche assurda ragione, Haruta non gli aveva più rivolto la parola, togliendogli persino il saluto. Un’idea sul perché, Marco se l’era fatta solo che, dopo aver chiesto chiarimenti alla diretta interessata, aveva deciso di tenere la bocca chiusa e lasciare che se la sbrigassero da soli senza intervenire. Gli dispiaceva per suo fratello, ma era d’accordo con la ragazza. Se ne erano accorti tutti del loro legame particolare e c’era persino chi aveva scommesso sulle tempistiche del loro fidanzamento, ma Thatch pareva non rendersene conto. Secondo Marco, o lo faceva di proposito per evitare di dare all’amica un dispiacere, o era semplicemente troppo stupido per arrivarci. Ad ogni modo, aveva capito che per lui non era un bel periodo e gli aveva concesso di tornare in quel locale dove, stando ai racconti del castano, c’erano un sacco di donne. E, dall’espressione beata con cui rincasava quel dongiovanni, Marco era sicuro che ce ne fosse una in particolare con cui gli piaceva intrattenersi. Era un po’ sadico da parte sua, ma sperava che Haruta lo venisse a sapere e che decidesse di prenderlo a ceffoni per riportarlo sulla retta via.
Si massaggiò gli occhi, sbadigliando. Se non la smetteva di pensare alle pene amorose di suo fratello non avrebbe preso sonno e aveva un bisogno disperato di dormire, lui. Così si mise comodo, lasciandosi avvolgere dalle coperte e dal calore che lo circondava, imponendosi di non pensare a nulla.
Dopo poco, già dormiva.
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Ciao a tutti! Sorpresa, il capitolo un giorno in anticipo!
Solo perché avevo tempo e perché domani, probabilmente, sarà un inferno, evvai!
Beh, che dire, le cose iniziano a farsi pesanti, soprattutto perché stiamo entrando in quello che sarà il turbine della Rivoluzione, anche se per chi sta aspettando la Presa della Bastiglia dovrà aspettare altri tre capitoli come minimo, lol. Come consolazione posso dire che mi sto mettendo d’impegno e che ci saranno, letteralmente, fuoco e fiamme.
Intanto stasera ci becchiamo la riunione d’affari alla Corte dei Miracoli, assistendo al testa a testa tra i Quattro Imperatori, (Marco e Thatch sono fighissimi!), allo scoppio di energia di Sabo e a quella sottospecie di Ace/Sabo che penso mi abbia fatto venire il diabete mentre la scrivevo, ecco.
 
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Poi c’è festone a Montmartre. E scusatemi, ma shippo anche Frobin, quindi mi sembrava d’obbligo metterci in mezzo anche loro visto che, ormai, questa long sta diventando un minestrone di gente che spunta come le margherite.
 
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E mi sto anche drogando con Bonney e Drake adesso ;________________; insomma, lei sembra così schizzata e lui sempre così posato ma, per una volta, entrambi provano a fare come vogliono, a viversi il momento. E CHE MOMENTO, MLMLML. If you know what I mean.
Ovviamente, lei non dimentica mai una faccia, soprattutto se ha passato le notti a pensare all’ufficiale che le ha prese da Ace, epic lol.
 
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Detto ciò, vorrei solo chiarire che il capitolo inizia con una scena che si svolge all’inizio di maggio con la riunione al cimitero e ci si ritrova a Montmartre un mese dopo, a più di metà giugno, lasciando che sia Drake a ripensare a come si sono svolte le cose fino ad allora, senza starci troppo dietro, altrimenti sarebbe stato pesante per tutti.
Per qualsiasi problema, mi trovate qua ^^
Non penso ci sia molto da dire su Marco che, stanco morto, se ne va a dormire. Come farò io ora, lol. E’ solo preoccupato per i suoi cari e presto, a quella lista, si aggiungerà anche un ragazzo in particolare ** rotolo OMG how much love.
Ok, basta.
Grazie come sempre a tutti e un abbraccione grande!
 
See ya,
Ace.

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Capitolo 11
*** Onze. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Onze.
 
Quella mattina era ancora presto quando Bonney sbatté le palpebre, infastidita dall’insistente e odioso canto del gallo che, puntualmente, deliziava tutto il vicinato con il suo verso ad orari in cui la gente non si sarebbe mai alzata di proposito. A conferma di ciò, il sole doveva ancora sorgere e dalla strada non proveniva alcun rumore di carrozze o scalpiccio di zoccoli, neppure il classico vociare dei cittadini, nulla. Solo silenzio e calma, animali a parte.
Sbuffò stancamente, chiudendo gli occhi e ripromettendosi di fare qualcosa a riguardo con quella bestiaccia. Chissà, magari i clienti sarebbero stati felici di trovare nel menù stufato di pollo, o petto arrosto, o anche brodo di gallina. Si diceva che fosse miracoloso per le sbornie.
Esattamente come quella che sentiva di essersi presa lei.
Si, perché non appena la ragazza mosse di poco la testa, sentì le tempie pulsare dolorosamente come se fossero state sul punto di esplodere. Provò a passarsi una mano sulla fronte, ma aveva le braccia indolenzite e quel piccolo gesto le costò una fatica enorme. Voleva voltarsi, girarsi a pancia in su, ma aveva paura di non riuscirci e di scoprire che era conciata peggio di quello che credeva. Qualcosa le diceva che avrebbe potuto benissimo sentire l’impellente bisogno di vomitare.
Facendosi coraggio, però, poggiò le mani sul materasso e, con calma e lentezza calcolata, si mosse lentamente, voltandosi dalla parte opposta e cercando una parte fresca del cuscino per trovare un po’ di refrigerio, dato che sentiva anche molto caldo. Uno sguardo alla pelle scoperta delle sue spalle le fece intendere che doveva essersi tolta la camicia e la sensazione della stoffa morbida sulle gambe le confermò che anche i pantaloni dovevano essere scomparsi. Niente di grave, durante la stagione calda si ritrovava spesso a dormire senza il pigiama, indossando solo l’intimo striminzito, comoda e geniale invenzione di una delle ragazze che vivevano con Dadan da più tempo.
Prese un respiro profondo e cercò di rilassarsi per riprendere sonno, dato che il gallo si era finalmente zittito. Si accoccolò meglio sotto il lenzuolo che si tirò sulla testa e, prima di cadere addormentata, si azzardò a dare una sbirciata nella stanza per intuire dalla poca illuminazione presente che ore fossero.
Anche se la luce che filtrava dalle finestre scardinate e con le ante precarie era poca, riuscì comunque ad identificare una massa indefinita stesa accanto a lei, la quale si alzava ed abbassava come se respirasse regolarmente. A conti fatti, dopo un attimo di sbigottimento che lasciò Bonney senza fiato, si rese conto che altro non doveva essere che una persona.
Le si serrò la gola, sentì improvvisamente freddo e si irrigidì all’istante, smettendo di respirare. Cosa ci faceva un estraneo nel suo letto? Perché non si ricordava niente, nemmeno come era arrivata in camera sua la notte precedente?
Sicuramente, il panico l’avrebbe fatta impazzire, ma una voce tranquilla e lievemente impastata a causa del sonno la riscosse, calmandola in parte e facendola smettere di tremare come una foglia.
-Non ti preoccupare, la tua virtù è intatta.-
Senza nemmeno rendersene conto, Bonney buttò fuori l’aria che aveva trattenuto come se fosse stata con la testa sott’acqua fino ad allora. Quella consapevolezza era stata un toccasana per la sua salute mentale e il terrore di aver combinato qualcosa di irreparabile lasciò spazio ad una forte curiosità mista a sospetto. Se quel tizio, perché di un uomo si trattava, aveva detto la verità, allora come mai si trovava nel suo letto e a pochi centimetri da lei?
Un sospiro le giunse alle orecchie, prima di vedere la sagoma coperta dalle coltri leggere scostarsi per scoprire le braccia nude che si mossero per aiutare il corpo a girarsi dalla sua parte. Inutile dire che la ragazza si ritrovò a dover trattenere di nuovo il respiro alla vista del viso rilassato e privo di maschere dell’ufficiale al quale aveva offerto da bere la notte precedente.
Lo guardò appoggiare la testa coperta di ciuffi rossi e ribelli sul cuscino, mentre con una mano si stropicciava gli occhi assonnati che poi si posarono su di lei, intenti a studiare la sua reazione. A giudicare dal sorrisetto che spuntò sulle labbra dell’uomo, l’imbarazzo di Bonney lo aveva divertito parecchio.
Infatti, la giovane donna era arrossita visibilmente e non aveva idea di come comportarsi, restando immobile con il viso sollevato dal materasso, i capelli scompigliati che le ricadevano in generose ciocche sul collo e sulle spalle nude e le labbra dischiuse per la sorpresa. In che razza di situazione si era cacciata?
Cercando di mantenere la calma e di non dare di matto a causa degli scheletri del suo passato che aveva nell’armadio e che ancora la tormentavano, deglutì rumorosamente, pensando a qualcosa da dire o fare per non apparire impacciata davanti a Drake. Perché se lo ricordava il suo nome, lo aveva sentito pronunciare da lui stesso la prima sera che aveva messo piede nel locale, attirando la sua attenzione dalla cucina e rimanendole impresso per tutto quel tempo, nonostante i suoi sforzi di dimenticarselo, maledicendolo per il suo ruolo di ufficiale.
Alla fine ci era finita a letto, che ironia.
Drake, notando la sua indecisione, giustamente dovuta, visto il modo in cui si trovavano facilmente fraintendibile, si schiarì la voce, andando in suo aiuto.
-Va tutto bene.- la rassicurò prima, assicurandosi di mantenere parecchi centimetri di distanza da quel corpo sottile e candido che intravvedeva da sotto le lenzuola. Non doveva distrarsi e lasciarsi andare all’istinto, altrimenti non si sarebbe fatto nessuno scrupolo con quella ragazza. Ancora si chiedeva perché non la stesse inchiodando al materasso in quell’esatto istante, correndo a baciarle quelle labbra rosee che lei continuava a mordersi. Ci avrebbe volentieri pensato lui a intrattenerle se solo la sua coscienza avesse smesso di urlargli che non doveva azzardarsi ad alzare un dito su quella donna che tanto gentilmente gli aveva offerto mezza scorta di liquori del locale.
-Ti ho portata in camera dopo la quarta bottiglia di vino.- le spiegò, -Non ti reggevi in piedi e ti ho presa in braccio.- aggiunse poi, sorridendo pure, come se ciò non gli avesse dato fastidio, anzi, era come se fosse un ricordo piacevole da portare alla mente.
Bonney era rimasta nella stessa posizione senza battere ciglio, impegnata a frenare il suo cuore impazzito. Aveva seguito più o meno tutte le frasi che Drake aveva pronunciato, ma alla fine aveva lasciato perdere, preferendo notare come fosse bello il suo viso, con la barba fatta da poco, la mascella squadrata e regolare, il naso dritto e gli occhi risaltati dal colore dei capelli sparsi sulla federa. Anche la cicatrice che aveva sul mento le piaceva, gli dava un tocco affascinante, secondo il suo modesto parere. Per non parlare delle spalle larghe e del petto ampio che riusciva a scorgere da quella posizione scomoda.
Aveva compreso che doveva essersi ubriacata, e di brutto. Il suo gesto di accompagnarla e di trasportarla pure fino al secondo piano era stato molto gentile e cavalleresco, ma non le tornava una cosa: perché diavolo non se ne era andato? E, soprattutto, per quale ragione i loro vestiti giacevano disordinati sul pavimento?
Fece per aprire bocca e dare voce ai suoi pensieri, quando Drake la anticipò, rispondendole prima ancora che ponesse le sue domande dirette.
-Sono rimasto perché lamentavi un forte malessere.- si spiegò, corrucciando la fronte, come se si fosse ricordato qualcosa di importante solo allora. -A proposito, come ti senti ora?-
Bonney lo fissò imbambolata come aveva fatto fino a quel punto. -B-bene.- balbettò, sfarfallando le ciglia e rilassandosi un poco, appoggiando il mento al palmo della mano e sostenendo lo sguardo che le stava rivolgendo in quel momento l’uomo accanto a lei.
Chi l’avrebbe mai detto che se lo sarebbe ritrovato nella sua stanza prima ancora di ricevere un invito formale come facevano quelle per bene. A parte che lei non c’entrava nulla con la normalità e con le tradizioni, anzi, le riteneva una perdita di tempo, vedendo come con quanta facilità le sue colleghe si accalappiassero gli uomini nel giro di pochi minuti. Solo, conoscendosi, aveva pensato che le ci sarebbe voluto tempo prima di sbloccarsi e superare le sue paure.
Doveva ricordarsi di promuovere l’alcool come toccasana e non come peccato mortale.
-Non so nemmeno il tuo nome.- mormorò Drake, cambiando argomento e continuando ad osservarla rilassato e tranquillo, dimentico dei suoi doveri, del lavoro, della giornata di fuoco che stava per cominciare e che lo avrebbe lasciato stremato e senza forze. Incredibilmente, però, si era svegliato riposato e fresco come una rosa come non gli capitava da tempo, fatto assurdo se calcolava di essersi ubriacato la sera precedente. Forse era stato il sonno profondo, oppure il letto comodo, o forse, semplicemente, la dolce compagnia che aveva inconsciamente stretto tra le braccia durante quelle ore di riposo.
-Bonney.- gli svelò lei, ormai a suo agio, senza nemmeno preoccuparsi di coprirsi un pochino di più perché, forse, quella confidenza non era consona, ma non le importava. Finalmente aveva un momento diverso, speciale per lei, e non aveva intenzione di rovinarlo. Anche se poi non sarebbe più successo le sarebbe bastato.
Lui sorrise, accomodandosi meglio, avvicinandosi un pochino di più in quel modo senza che entrambi ci facessero caso. -Tu non mi chiedi il mio?-
Era davvero strano, ma sentiva il bisogno di chiacchierare, cosa rara per uno come lui, il classico gendarme da una notte e via a causa degli impegni di lavoro. Voleva che quella ragazza si ricordasse di lui se mai avesse rimesso piede da quelle parti dato che, se aveva capito qualcosa delle regole che vigevano, la titolare, non avrebbe preso bene la notizia di lui a letto con una donna che non fosse una prostituta. Se solo gli fosse stata concessa la grazia, comunque, sarebbe tornato a fare un giro volentieri se ciò significava poter passare un’altra serata spensierata come quella che aveva vissuto in sua compagnia.
La vide sorridere con fare furbetto prima che la sua voce allegra gli giungesse alle orecchie. -Oh, ma io lo so già.-
-Davvero?- fece stupito. Non ricordava di averglielo detto, ma un po’ se lo era aspettato, dopotutto aveva riconosciuto subito il ruolo che copriva nell’esercito.
Bonney ammiccò, un gesto che non era da lei, ma che fece sorridere Drake. -Certo. Te l’ho detto: non dimentico mai una faccia.-
-Quindi io ti sono rimasto impresso?- la stuzzicò, inarcando un sopracciglio e inclinando un poco il capo, trovando dannatamente attraente il modo in cui cercava di fare finta di nulla, anche se era arrossita. Gli piaceva come mantenesse una faccia da dura, quando invece si vedeva che era ancora una ragazzina giovane.
-Non più di altri.- rispose lei, fingendo indifferenza, riprendendo totalmente padronanza della sua spavalderia e del suo caratterino forte.
Per Drake, invece, fu una sfida bella e buona. -Ah, è così?- domandò. Sollevandosi sui gomiti e sovrastandola senza smettere un attimo di sorridere, mentre lei lo fissava un po’ preoccupata, ma non spaventata, forse leggermente intimidita di ritrovarsi con un uomo come lui che poggiava le braccia ai lati del suo viso quasi come se volesse impedirle si spostarsi. Conoscendosi, non sarebbe andata da nessuna parte neppure se avesse potuto. Dopotutto, lei era abituata ad averla sempre vinta.
-Posso sempre rimediare.- le rese noto, indugiando con gli occhi sulla sua bocca. Era troppo vicina e stava diventando sempre più difficile resisterle e il fatto che lei stessa non si preoccupasse minimamente di spostarsi o coprirsi non lo aiutava per niente. Maledizione a lui e al suo autocontrollo da gentiluomo.
-In che modo?- chiese curiosa. Che sciocco, se solo avesse saputo che difficilmente lo avrebbe dimenticato. Insomma, aveva passato giorni interi a gettare occhiate nel salone con la speranza di rivederlo solo per potersi godere quella sensazione di leggerezza, spensieratezza e ansia che le avevano attanagliato lo stomaco la prima volta. Esattamente ciò che stava provando in quel momento, con il suo viso a pochi centimetri e la mente svuotata di ogni cosa, pensiero o ricordo. Era tutto nuovo, emozionante e bello. Chi l’avrebbe mai detto che si sarebbe sentita così bene e a suo agio con un uomo dopo il trauma che aveva vissuto.
Avrebbe volentieri scoperto cosa aveva in mente Drake per rimanerle impresso, ma, evidentemente, aveva esaurito la sua fortuna la notte prima perché qualcuno iniziò a bussare alla porta, chiamandola per nome e facendola impallidire.
-Bonney?-
La maniglia si abbassò cigolando e la ragazza smise di respirare, affondando inconsciamente le unghie nelle braccia di Drake che fece una smorfia in riflesso a quel movimento. Non poté descrivere il suo sollievo quando si rese conto che non era entrato nessuno, visto e considerato che la porta era stata chiusa a chiave.
-Bonney? Va tutto bene?-
-Rispondile.- le disse Drake a bassa voce, sollevandosi da lei per scendere dal letto e raccogliere così i suoi vestiti. Era arrivato per lui il momento di andarsene.
Osservando il ragazzo che le dava le spalle e deglutendo affascinata da quella schiena scolpita, Bonney si schiarì la voce, pregando di non risultare troppo isterica. –Ehm, si. Si, sto bene. U-un attimo e arrivo, Nami!-
Scese dal materasso avvolgendosi il lenzuolo lungo il corpo, andando dritta verso il piccolo cassettone in legno usurato dove teneva alcuni vestiti, cercando alla rinfusa una camicia a quadri abbastanza grande da coprirla per bene, indossandola al volo e lasciando cadere la coperta sul pavimento senza più curarsene.
Quando si voltò, scostandosi i capelli sciolti dalla faccia, si ritrovò Drake a pochi passi da lei, intento ad infilarsi uno stivale prima di rivolgerle un piccolo sorriso di approvazione. Poi si alzò da terra e la raggiunse, sistemandole in un secondo momento un bottone che, altrimenti, lasciava troppo all’immaginazione e lui doveva proprio andare, perciò non ammetteva distrazioni.
-Grazie per il vino.- disse, superandola e andando ad aprire le ante della finestra con l’intento di scendere calandosi dalla grondaia. Cose che aveva già avuto modo di fare e non perché fosse solito fare visita al gentil sesso.
-Grazie a te per la bella nottata.- rispose Bonney, incrociando le braccia al petto, sogghignando maliziosa e lasciando Drake senza parole, tanto che la fece ridere divertita. Dopotutto, era sempre una ragazza dei bassifondi, ovvio che fosse in grado di badare a se stessa e a tenere testa ai balordi che frequentavano il locale. La lingua biforcuta e la frecciatina sempre pronta erano merito, invece, delle sue amiche.
Drake abbozzò un sorriso. -Devi sempre avere l’ultima battuta?- le chiese, osservandola avvicinarsi e gettando un’occhiata veloce alle gambe nude, giusto per non dimenticarle, con una gamba poggiata al balcone e una sul pavimento in procinto di uscire.
La ragazza si appoggiò con un braccio alla finestra, piegando l’altro su un fianco e stringendosi nelle spalle, sorridendo con ovvietà. -Certo.-
La sua sicurezza vacillò quando Drake le sfiorò il dorso della mano con le dita, afferrandolo poi con gentilezza e portandoselo alle labbra per depositarvi un casto bacio, il tutto senza staccarle gli occhi di dosso.
Si sarebbe ricordata di lui, ne era più che convinto.
-Bonney, ti muovi?-
-Vai, o butterà giù la porta.- le consigliò, spingendosi col busto verso l’esterno senza notare l’espressione di panico che, per un istante, colse il viso della ragazza. Lui se ne stava andando e lei non aveva idea se si sarebbero rivisti o meno. La risposta le era sembrata semplice e chiara fino a poco prima, di certo non si aspettava che dopo quella notte apparentemente tranquilla Drake sarebbe rimasto, o per lo meno che avrebbe avuto l’intenzione di tornare da lei. Sapeva come funzionavano le cose e si era ripetuta che le sarebbe bastata quell’opportunità di conoscerlo e parlarci, ma si stava rivelando tutto più difficile del previsto.
Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non era una povera illusa e non voleva nemmeno risultare appiccicosa o altro. Era forte e indipendente e avrebbe continuato ad esserlo anche senza di lui.
-Ehi.- si sentì chiamare e, quando si sporse dalla finestra, si impose di mantenere un’espressione quasi scocciata.
-Non te ne sei ancora andato?- scherzò, guardandolo mentre scendeva dalla grondaia, attento a non scivolare. Scosse il capo esasperata quando saltò a terra, spolverandosi i pantaloni e guardando verso l’alto, verso di lei, con un ghigno appena accennato, calcandosi il cappuccio del mantello in testa e rimettendo la benda negli occhi.
-La prossima volta offro io.- E, detto ciò, si incamminò verso la strada, lasciando Bonney con un sorriso troppo ampio sulle labbra e il battito accelerato.
-Insomma, vuoi aprire o no?-
-Arrivo!-
 
*
 
Era il 20 giugno e l'Assemblea Nazionale cercò di ottenere favori da parte di chi possedeva dei capitali, utili come fonte di credito per le finanze dello stato e per il debito pubblico. Dichiarò illegali tutte le tasse esistenti che gravavano pesantemente sul popolo e istituì un comitato di sussistenza per affrontare la carenza di cibo e dare così aiuto alla gente bisognosa, sperando in quel modo di far riottenere al sistema finanziario un po’ di fiducia da parte degli abitanti.
I nobili, preoccupati dell’avvicinamento del Clero ai cittadini, avevano presentato al Re una proposta con la quale gli avevano evidenziato che il sostenimento all’Assemblea Nazionale avrebbe messo in discussione i diritti e il destino della Monarchia. In quel modo, i borghesi tornavano a sottomettersi ai reali, nonostante fossero stati loro i primi a pretendere la convocazione degli Stati Generali. Il Re, influenzato da consiglieri e ministri, aveva accolto l’idea e aveva deciso di annullare i decreti attuati in quel mese dall'Assemblea Nazionale, cercando di ritornare alla situazione iniziale, quando il Terzo Stato non rappresentava nessuna minaccia.
Le cose mutarono dal mattino al pomeriggio nel giro di poche ore, tanto che i rappresentanti dell’assemblea si videro chiudere la sala dove si erano riuniti su ordine diretto del sovrano. Ciò, ai presenti, non piacque affatto, ma, fortunatamente, quel giorno presenziavano esponenti dei Rivoluzionari abbastanza svegli da non farsi mettere i piedi in testa dopo aver lavorato duramente.
Infatti Sabo, che era riuscito a convincere Shanks e aveva ottenuto il permesso di partecipare alle ultime due riunioni, decise di prendere in mano la situazione, ignorando gli avvertimenti della sera prima che il Rosso gli aveva fatto, ovvero di non esporsi troppo, e incitò i collaboratori a spostare l’incontro in una sala che aveva visto quando erano arrivati e che stava giusto alla fine del corridoio.
Aveva capito fin da subito che la borghesia e i ricchi gli avrebbero messo i bastoni tra le ruote. Certo, il Clero aveva ormai abbracciato le loro idee, ma quei leccapiedi della Corona erano ossi duri, troppo attaccati ai loro beni per accorgersi del degrado che ormai li circondava.
-Ragazzo, hai idea di quello che stai facendo?- gli chiese Benn accanto a lui, presente solo per controllarlo, più che per raccogliere informazioni.
Sabo sbuffò, sedendosi al tavolo e facendo segno ai presenti di fare lo stesso e di chiudere quella maledetta porta a chiave per non subire altre interruzioni dall’esterno. Gli addetti alla manutenzione avevano detto loro che la stanza precedente doveva essere svuotata per lavori di ristrutturazione.
Che stronzate! aveva pensato il giovane, stringendo i denti per la frustrazione ed elaborando immediatamente ad un’alternativa, riuscendo egregiamente nell’impresa e impossessandosi di quella stanza adibita al gioco della pallacorda.
-Non preoccuparti. Da qui non ci muoveremo fino a che non raggiungeremo il nostro obbiettivo.- lo informò, esponendo poi le sue idee e i suoi pareri al resto dei deputati, facendo sentire per la prima volta la sua voce e conquistando tutti con il suo carisma e la sua determinazione, mantenendosi calmo, serio e pronto a rispondere a qualsiasi domanda o quesito. Si era preparato tanto per quel momento e non aveva intenzione di sprecare la sua occasione per cambiare il Paese. I deputati, affascinati dai suoi discorsi e credendo fermamente nei loro ideali, giurarono assieme al ragazzo di non separarsi in nessun caso e di continuare a riunirsi ovunque e in qualsiasi momento fino ad ottenere ciò che volevano.
-Cosa dirò al capo?-
-La verità, Benn.- gli disse Sabo a fine giornata, raccogliendo le sue cose e ficcando i suoi appunti riguardanti una nuova Costituzione dentro una sacca in pelle che si mise a tracolla. –Non pretendo che tu menta per me, ma sappi che non mi pento di niente.-
Benn sospirò, sorridendo ugualmente e dandogli una pacca sulla schiena. –Forza, torniamo a casa.-
Uscendo, alcuni esponenti del gruppo gli si avvicinarono curiosi, interrogandolo su alcuni punti che avevano ritenuto più importanti di altri e stringendogli la mano prima di separarsi sulla via del ritorno.
-I miei complimenti.- gli stava dicendo un tizio, -Non si vedono spesso giovani con il tuo carattere. La tua famiglia deve essere molto fiera.-
Sabo sorrise imbarazzato, deglutendo a fatica. Se solo pensava a quello che lo attendeva una volta rientrato alla locanda, gli veniva la pelle d’oca. Sicuramente non l’avrebbe passata liscia e di tenere nascosto il fatto non se ne parlava, dato che l’indomani non si sarebbe parlato d’altro che del suo intervento magistrale.
Benn, dietro di lui, si schiarì la voce, deliziato dall’idea di assistere ad un altro dei litigi famigliari di Shanks che finivano sempre per farlo morire dalle risate. Poteva vantarsi di non annoiarsi mai in loro compagnia.
-Vorrei solo chiederti che cosa faremo se dovessero chiudere anche la nuova sala.- continuò poi l’uomo con aria preoccupata, stringendosi al petto un grosso volume che parlava di leggi e di politica.
Il biondo Rivoluzionario si strinse nelle spalle, alleggerendo la tensione con un gesto secco della mano. -Non preoccuparti.- lo tranquillizzò, -Ne troveremo subito un’altra e non gliela daremo vinta, poco ma sicuro.-
In effetti, Sabo aveva già calcolato la possibilità di dover cercare un ulteriore luogo dove stabilire l’assemblea perché, se il suo parere sulla testardaggine dei ricchi era giusto, il re non avrebbe permesso che continuassero ad andare controcorrente con le loro idee e i loro obbiettivi. Di certo dovevano aspettarsi qualche sabotaggio o brutto scherzo, poco ma sicuro.
Sospirò, incamminandosi con Benn verso casa, totalmente immerso nei suoi pensieri e deciso a trovare una soluzione, preparando già un piano alternativo. Avrebbe dovuto riflettere anche su cosa dire a Shanks una volta rientrato, ma non ne aveva il tempo. Sperava nella sua buona stella e, in caso di guai, non avrebbe fatto altro che esprimersi sinceramente. Dopotutto, non si pentiva di quello che aveva fatto perché ciò aveva significato aiutare gli altri deputati, oltre che a mandare avanti l’Assemblea Nazionale. Se non fosse intervenuto, probabilmente la situazione sarebbe precipitata nel giro di poche ore e chissà in che caos sarebbe piombata la città. Aveva dato una mano e ne andava fiero, dicessero pure che era troppo giovane o inesperto. D’accordo, era ancora alle prime armi, ma non era uno sprovveduto, ne aveva dato prova a se stesso e a Koala, la quale glielo aveva detto subito che avrebbe potuto farcela, se solo ci avesse provato.
Sorrise, ricordando la prima volta che le aveva parlato delle sue idee e dei suoi progetti riguardanti la situazione critica della Francia. Lei non aveva perso tempo e, quando aveva finito, gli aveva chiesto cosa stesse aspettando per darsi da fare. Lo aveva lasciato senza parole e le era stato così grato per la fiducia che aveva riposto nelle sue capacità che in quel momento sentiva il bisogno di correre all’accampamento solo per ringraziarla. Si ripromise che lo avrebbe fatto non appena si fosse liberato della scocciatura che lo attendeva a casa. Magari avrebbe potuto anche fargli un regalo, qualcosa di carino per farla contenta, giusto per sdebitarsi, anche se nei suoi confronti aveva un debito enorme.
-Beh, figliolo,- esclamò Benn, aspettandolo sulla soglia della locanda per lasciarlo entrare per primo, accendendosi con finto disinteresse un sigaro. –Buona fortuna.-
-Grazie amico.- fece Sabo, prendendo un respiro profondo e aprendo la porta.
Che il cielo mi aiuti.
 
*
 
A Palazzo le cose stavano degenerando sempre più drasticamente e i suoi nervi cominciavano a risentirne parecchio, tanto da indurlo quasi a prendere decisioni avventate, come quella che aveva deciso di assecondare circa un’ora prima quando, nel bel mezzo di un allenamento, più precisamente quando aveva fatto perdere l’equilibrio a Perona ed era finito stramazzato al suolo come un allocco solo perché lei gli si era avvinghiata ad un braccio come una sanguisuga, l’aveva sentita sbuffare sotto il suo petto per poi udire la fatidica richiesta di portarla in città, lontano da quelle quattro mura.
Era seguita un’accesa discussione su come uscire dalla reggia, visto e considerato che lui aveva fatto chiudere l’unico passaggio segreto facile da raggiungere e utilizzare, ma alla fine avevano trovato una soluzione comoda per entrambi.
Con sua sorpresa, la Principessa era stata molto disponibile, fin troppo, e aveva seguito alla lettera le sue indicazione senza ribattere. Un po’ si era insospettito e aveva temuto che stesse tramando qualcosa, ma era arrivato alla conclusione che non vedesse semplicemente l’ora di evadere.
Le aveva procurato qualche straccio dalle stanze della servitù, vestiti maschili soprattutto e, una volta legati i capelli in una crocchia poco ordinata, ficcato un cappello largo in testa e sporcate le mani, dopo lunghi piagnistei, di fuliggine, ecco che avevano imboccato l’uscita di servizio, quella utilizzata dai dipendenti con una scusa qualsiasi alla quale le due guardie indisciplinate poste all’entrata dei cancelli in ferro battuto avevano creduto, non degnando di altra attenzione uno spadaccino nobile e uno sguattero.
Così, col sole del primo pomeriggio sopra le loro teste, in quel momento stavano camminando lungo una delle molteplici vie affollate. Per la precisione, la Principessa correva da un angolo all’altro per non perdersi nulla di tutte quelle meraviglie, mentre Mihawk la seguiva sospirando scocciato senza perderla d’occhio. Gli mancava solo vederla scomparire in mezzo alla gente per farlo finire alla gogna.
Intanto Perona non la smetteva di vagabondare a destra e a sinistra, fermandosi ad ogni passo per guardare qualcosa, per assaggiare quell’altra e per annotare alcune frasi su alcuni fogli che si era portata appresso. Una chiesetta, una casa, una bancarella o addirittura dei mendicanti, qualsiasi cosa era degna di essere ammirata e quando informò Mihawk di non aver mai mangiato una baguette in vita sua, lui non le credette e si allontanò per un'altra strada, seguito a ruota da lei e dalle sue risa mentre gli assicurava che quello che diceva era vero.
Sembrava una bambina nel regno della fantasia, dove non esistevano sofferenze, ma solo motivi per cui sorridere e non essere abbattuti. Tutto era nuovo, tutto le piaceva e cercare di essere discreti e non dare nell’occhio era impossibile anche con addosso abiti poco appariscenti.
-Piantala di correre di qua e di là.- fece esasperato senza guadarla, -Se ti perdi non verrò a cercarti.-
La vide alzare gli occhi al cielo. Cosa credeva, di essere l’unica a sentirsi seccata?
-Non mi perderò, tranquillo. E poi non ho bisogno della balia, sarei in grado di ritrovare la strada e aspettarti a palazzo.- affermò, sicura di quello che diceva.
L’uomo la fulminò con lo sguardo, intimandole di non provare nemmeno a fare una cosa del genere.
Per tutta risposta, Perona si imbronciò, intuendo i pensieri di Mihawk e prendendola sul personale. -Posso benissimo difendermi.- ribatté offesa, -Il fatto che io sia una donna non significa nulla.-
-Ah no?- si lasciò scappare lui, superandola per camminare qualche passo avanti a lei.
-Presuntuoso.- la sentì mormorare.
-Guarda che ti sento.-
Non vide, però, lo sberleffo che la ragazza si lasciò scappare, un gesto infantile da parte sua, ma che si sentiva orgogliosa di aver fatto senza essere stata beccata o rimproverata.
Quella passeggiata le stava piacendo da impazzire e voleva passare al meglio la giornata senza continuare a sentile le lamentele di quel pezzo di ghiaccio, sempre troppo composto e serio. Pensandoci bene, non lo aveva mai nemmeno sentito ridere. Era proprio ora che si sciogliesse un pochino e lei, da principessa viziata quale era, abituata a vivere al meglio, sapeva esattamente come fare. Le serviva solo l’occasione adatta da cogliere al volo.
-Yohohoho!-
Volse il capo alla sua sinistra e scorse una deliziosa piazzetta che costeggiava un tratto della Senna, adibita con alcune panchine poste proprio di fronte al fiume, mentre un paio di bancarelle, una di ortaggi e frutta e l’altra di fiori, animavano il centro, intrattenendo uomini e donne interessati alla vendita. Ciò che attirava di più l’attenzione, però, era uno strano individuo, altissimo e molto magro, quasi scheletrico, e con una buffa chioma voluminosa di capelli neri e ricci che rideva e scherzava con dei bambini di strada, suonando nel frattempo un violino. Attorno a lui, qualche madre guardava la scena, tenendo d’occhio i figlioletti, mentre, in compagnia del musicista, seduto sul ciglio della strada, un ragazzo con un naso davvero notevole batteva a ritmo i palmi su un tamburello, accompagnando la melodia del compagno e partecipando alle risate collettive dei passanti che si fermavano a lasciare loro qualche spicciolo.
Fu più forte di lei e, afferrata saldamente una manica della camicia bordeaux di Mihawk, lo trascinò davanti a quel teatrino, incurante dei suoi tentativi di fermarla e rimetterla in riga. Al diavolo lui e l’apparenza da gentiluomo, che a parere della principessa non era affatto.
Perona iniziò subito a partecipare allo spettacolo, battendo le mani e dondolando un pochino il capo, quando, gettando un’occhiata al suo accompagnatore per coinvolgerlo e vedere se si stava divertendo, rimase immobile, cambiando umore e scoccandogli uno sguardo torvo che lui ricambiò sogghignando. Lui riteneva tutto quel trambusto una grandissima sciocchezza e lei era ancora più infantile visto che ci andava dietro.
-Perché quella faccia?- la punzecchiò, infilando le mani nelle tasche e tornando a guardare il musicista, che aveva l’aria di uno abbastanza folgorato, con fare svogliato.
-Sei sempre così frigido ad ogni appuntamento?-
-Ovviamen… un momento, che cosa?- sbottò, perdendo per la prima volta la sua solita calma e rispondendo alla battuta di Perona con più enfasi di quanto avesse voluto, ma non la trovò accanto a sé, bensì a qualche metro di distanza, intenta a ballare con uno dei mocciosetti che fino a prima stavano correndo verso tutte le direzioni. Non sembravano seguire una coreografia precisa, ma nessuno dei presenti aveva l’aria averlo notato e tutti non facevano altro che applaudire e ridacchiare, intonando anche qualche canzone.
Inutile dire che ben presto la situazione degenerò e più di qualcuno iniziò a seguire l’esempio di Perona e dei bambini, iniziando a danzare sulle note prodotte dallo sgangherato pezzo di legno che l’uomo rachitico stringeva con apparente amore tra le mani, ridendo isterico e sfondando i timpani di Mihawk.
Lui, a differenza della gente, era rimasto al limitare della zona con le braccia conserte e un’espressione schifata e un pochino disorientata. Si sentiva fuori luogo, non abituato a ritrovarsi in situazioni simili nemmeno quando presenziava a delle feste indette da nobili o a cerimonie lussuose. Se proprio si volevano mettere i puntini sulle i, lui non ballava nemmeno se ne aveva l’occasione o se era circondato da belle dame che non aspettavano altro che una sua proposta, sebbene la sua educazione lo avesse portato ad imparare la danza. Non se la cavava male, più o meno era come la scherma, bastava imparare i passi, ma non aveva mai sentito la voglia di invitare qualcuno a ballare.
Non dovette farlo nemmeno in quell’occasione, dato che fu Perona a trascinarlo in mezzo alla folla sempre più numerosa, dopo che lo ebbe adocchiato tutto solo e imbarazzato.
-Non ho la minima intenzione di muovere un passo.- la informò deciso, sentendosi ignorato quando lei, proprio sotto al suo naso, roteò gli occhi in un moto di stizza, afferrandogli le mani e obbligandolo a muoversi girando a destra e a sinistra, seguendo il resto delle persone che avevano appena dato inizio ad una ballata popolare, fortunatamente una che aveva imparato a Corte.
Era certa che anche lui la conoscesse, nonostante continuasse a fare il prezioso, ma non si scoraggiò e, determinata a smuoverlo con l’intento di passare una giornata indimenticabile, non si fece problemi a circondargli il collo con un braccio e a guidare la sua mano fino al suo fianco per regolare le posizioni, ritrovandosi estremamente vicina a lui, vicinanza facilitata oltretutto dalla mancanza di gonne ampie.
-Allora, vuoi guidare le danze o pensi di lasciare il comando a una donna?- lo provocò, sorridendo sfacciatamente e dandogli l’impressione di voler iniziare a muoversi.
Esattamente come aveva previsto, e sperato, Mihawk, anche se con un cipiglio chiaramente arrabbiato e oltraggiato, la precedette e cominciò a seguire i passi, più per orgoglio ferito che per accontentarla, dimostrando di conoscerli e di essere pure portato per il ballo, sorprendendo parecchio Perona, la quale aveva scambiato tutto quel distacco per incapacità nella materia.
Un paio di piroette dopo, lei stava ridendo come mai le era capitato, saltando, battendo le mani, e passando di coppia in coppia, senza mai però staccare lo sguardo dall’uomo che, come lei, ignorava il resto dei presenti, strappandola quasi dalle braccia di un povero giovanotto quando la musica l’aveva riportata nuovamente da lui. Trovava che fossero in perfetta sintonia e voleva evitare di rovinarsi il momento, preferendo danzare con lei invece che con qualcun altro. E di certo non avrebbe rischiato che Perona trovasse altri ballerini più esperti, ma tale pensiero non lo prese nemmeno in considerazione, arginandolo in un angolo buio della mente prima ancora di formularlo.
E solo quando la danza volse al termine, facendo si che la Principessa, finalmente spensierata e sorridente, gli gettasse le braccia al collo, stringendolo in un gesto troppo confidenziale per due personaggi come loro, si accorse che aveva inconsciamente sorriso per buona parte del tempo. Fu ancora più assurdo perché fu proprio lei stessa a farglielo notare.
-Sapevo che eri capace di sorridere.-
Non le diede una risposta, solamente le concesse un’espressione neutrale e un lungo e intenso sguardo che la lasciò con il fiato sospeso fino a che la folla non si fu dileguata, lasciandoli soli, di fronte alla Senna, intenti a fissarsi nel tentativo di leggersi nell’anima, o semplicemente impegnati a godersi un attimo di pace, lontano da pregiudizi, titoli nobiliari e obblighi.
Sembrava quasi di stare in una scena del libro preferito della ragazza, con l’unica differenza che nella storia i due protagonisti, nonostante le varie avventure rocambolesche e i loro sentimenti e caratteri contrastanti, erano innamorati. Riflettendoci, alla Principessa non sarebbe dispiaciuto che la giornata finisse nel migliori dei modi, per esempio con un, ecco, insomma, con…
-E’ ora di tornare.-
Fu Mihawk a riportare Perona con i piedi per terra, facendola sospirare dispiaciuta, anche se in fondo sapeva che non avrebbero potuto stare fuori per sempre, nonostante avesse pensato più di una volta di scappare.
A parte l’obbligatorio ritorno alla realtà, decise di non sprecare quegli ultimi attimi di libertà e viverli appieno, lasciando qualche moneta d’oro al musicista, il quale si prodigò in mille ringraziamenti non appena si rese conto di essere stato apprezzato tanto. Poi seguì Mihawk attraverso la piazza, dirigendosi con lui verso la reggia e facendo la strada a ritroso, riempiendosi gli occhi di tutte quelle cose che a palazzo avrebbe solo potuto sognarsi, come i bimbi che correvano scalzi; le donne che giravano per le vie senza scarpe troppo scomode o gonne troppo ampie; animali liberi di scorrazzare ovunque, ubriaconi che barcollavano e ridevano sguaiatamente; il sorriso nel volto di ogni persona che incontrava, indipendentemente dal fatto che possedessero solamente le loro vite e qualche spicciolo. Erano felici anche se vivevano con poco, mentre lei, che aveva tutto, si sentiva povera e sola da quando era nata.
Mano a mano che si avvicinavano a casa, Perona si fece sempre più silenziosa, conscia che presto sarebbe ritornata alla sua solita routine. Non si scoraggiava solo perché sapeva che gli allenamenti di scherma sarebbero continuati e lei avrebbe potuto prendersi una pausa di qualche ora dal suo essere una principessa da servire e riverire.
Lo spadaccino se ne era accordo del suo cambio di umore, dopotutto lo aveva stressato per tutto il pomeriggio con chiacchiere, gridolini, ‘comprami questo, comprami quello’ e ‘oh mio Dio, voglio quella cosa!’. Perciò il fatto che si fosse zittita lo fece insospettire, tanto da indurlo a iniziare una conversazione, cosa che non faceva mai visto e considerato che trovava chiunque noioso ed insignificante.
-Cosa c’è?- chiese diretto, senza nemmeno troppa delicatezza. Certo, non poteva mica passare dal non parlare all’essere gentile e garbato tutto in un attimo. Persino per lui quella continua curiosità nei confronti di quella ragazzina viziata era una novità abbastanza sconvolgente e che cercava di tenere a freno, senza successo ovviamente.
La vide stringersi nelle spalle, continuando a fissare la strada battuta in ciottoli. -Nulla. Mi fanno un po’ male i piedi.- confessò, non sentendosi comunque dispiaciuta. Per una volta le dolevano per qualcosa che le era piaciuto fare e non solamente perché le calzature erano un supplizio.
-Siamo quasi arrivati. Tra poco potrai riposarti.- le rese noto, riprendendo a guardare di fronte a sé, camminando fiero e disinvolto.
Perona, invece, aveva alzato il capo e aveva iniziato ad osservarlo, ammirando quel comportamento sempre sicuro e determinato, come se nulla potesse scalfirlo, conscio di poter fare ciò che più gli aggradava e di essere libero di andare ovunque. Oh, quanto lo invidiava per quello.
-Non sono affatto stanca.- si affrettò a spiegare, -Anzi, non mi sono mai sentita meglio! Magari potessi restare fuori di più.- borbottò abbattuta.
Mihawk si lasciò scappare un mezzo ghigno. -Credo che per oggi tu abbia trasgredito abbastanza alle regole.- la punzecchiò, sicuro che se la sua piccola gita in città fosse giunta alle orecchie di Sua Altezza, ci sarebbe stato un corpo penzolante al cappio il giorno successivo: il suo.
Perona gli rivolse un’occhiata complice. -Potremo sempre rifarlo.-
-Assolutamente no.-
-Ti prego!- lo scongiurò, congiungendo le mani e precedendolo per camminare davanti a lui, indietreggiando mentre lui avanzava.
-Non insistere.-
-Perché altrimenti ti convincerei?-
-Per riuscirci dovresti impegnarti di più.- la informò, fermandosi e incrociando le braccia al petto in un atteggiamento quasi di sfida, cosa che indispettì Perona, decisa ad ottenere ciò che voleva.
Piegare un uomo come Drakul Mihawk? Un obbiettivo alquanto difficile, non ci voleva un genio per capirlo, ma lei non pretendeva chissà che cosa, le bastava solo una piccola parte e tutto si sarebbe sistemato nel migliore dei modi. Corromperlo? Non aveva senso: era ricco, aveva una buona posizione e un’ottima fama, smentirlo non le sarebbe giovato, soprattutto perché avrebbe detto addio alle sue lezioni di scherma; ammaliarlo? Chi voleva prendere in giro, quello pareva immune a qualsiasi bella dama gli passasse di fronte; mirare al suo animo buono? Ne aveva almeno uno?
Perona si mordicchiò un labbro indecisa, cercando freneticamente nella sua testa un modo efficace per raggiungere il suo scopo, peccato però che quel maleducato fosse un osso duro. A conti fatti non aveva nulla per le mani che potesse darle un briciolo di speranza. Forse tutto quello che le rimaneva da fare era ammettere che ce l’aveva vinta lui e basta.
-Scommetto che hai paura.- dichiarò invece, contrariamente a quello che si era prefissata. Doveva ricordarsi di fare attenzione al filtro che collegava il suo cervello alla bocca per assicurarsi di non fare in futuro altre sparate del genere.
Le sopracciglia dell’uomo si sollevarono più di quanto si sarebbe aspettata. Finalmente un cenno di natura umana in quella faccia sempre apatica. -Come, prego?-
Erano ritornate le buone maniere? Doveva approfittarne.
Raddrizzò le spalle e alzò il mento. -Deve essere così, altrimenti non avresti difficoltà a farmi uscire come hai fatto oggi. Deduco quindi che tu tema di metterti in pericolo, ma perché mi stupisco? Dopotutto, il rischio fa questo effetto su molti uomini.- rincarò, fingendo indifferenza ai pugno stretti lungo i fianchi di Mihawk e allo sguardo torvo che le aveva scoccato senza curarsi di mancarle di rispetto.
Avrebbe voluto prenderla e buttarla giù da una delle torri della cattedrale se solo avesse potuto. Dannazione, quella ragazzina era una vera e propria piaga nella sua vita; maledetta quella volta in cui aveva accettato quell’incarico e si era trasferito a Parigi. Al diavolo lei e al diavolo anche se stesso per essersi calato in una simile e sciocca impresa. Lui non aveva paura, affatto!
Con la frustrazione che gli scorreva nelle vene, coprì le distanze che li separavano, stringendo i denti nel notare la poca attenzione che Perona gli stava rivolgendo, quasi come se fosse stata certa del fatto che lui fosse un codardo. Quattro schiaffi sul suo bel visino avrebbe potuto permettersi di darglieli?
-Potrei farti uscire ogni volta che vorrei senza il minimo tentennamento.- disse, vedendola voltarsi verso di lui ed iniziare a sorridere ampiamente.
-Magnifico, quindi che ne dici di domani?- esultò, battendo le mani e facendo una giravolta, tenendosi bel calcato il cappello in testa per evitare che la sua chioma rosa sgusciasse fuori. -Sono certa che ci divertiremo! E potremo anche attraversare il fiume e vedere cosa c’è dall’altra parte e anche fermarci a mangiare in un bistrot. Non vedo l’ora!-
-Aspetta, che cosa stai dicendo?- Mihawk era allibito. E stupito. E parecchio incazzato con se stesso. Si era fatto abbindolare come un allocco, toccato nell’orgoglio e aveva finito per seguire l’istinto, accecato dalla priorità di mantenere alto il suo onore e non essere preso per un uomo di poco valore. Quella ragazzina! Le avrebbe dato una lezione con i fiocchi la prossima volta che avrebbero incrociato le lame.
-Sarà bellissimo! Usciremo ancora, tu ed io!- stava continuando imperterrita ed entusiasta lei, girandogli attorno per poi fermarsi e afferrargli improvvisamente una mano, mostrandogli un sorriso che le illuminò persino gli occhi. -Grazie.- mormorò, prima di lasciar scivolare via il suo palmo e precederlo lungo la via dalla quale si intravvedevano le mura del palazzo.
Mihawk sospirò e si calò il cappello per celare parte del viso e della sua espressione che non avrebbe saputo descrivere, mentre la sua mano pizzicava e bruciava allo stesso tempo.
E non sapeva perché.

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Capitolo 12
*** Douze. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.

Douze.

 
-Ace! Ace!-
Thatch, imbacuccato di stracci e coperto fin sopra i capelli con scialli dai colori sgargianti e tre borse di stoffa rattoppate per braccio, riempite con carote, patate, e un polletto vivo, seguiva il giovane davanti a lui agghindato alla stessa maniera, completo di sottogonna e parrucca.
-Moccioso, aspettami!- ripeté, alzando un poco la voce e ottenendo l’attenzione dell’amico, il quale si voltò verso di lui con il solo scopo di scoccargli un’occhiataccia. Gli aveva intimato di non urlare e di comportarsi come una vecchietta per non attirare l’attenzione e lui che faceva? Si lamentava e lo rallentava.
-Muoviti, razza di idiota, così li perdiamo!- lo incitò, afferrandolo per un gomito e trascinandosi dietro l’uomo più grande che, a causa della sua stazza, era fonte di curiosità per molti passanti. Non si vedevano tutti i giorni due anziane signore andare così di fretta, tutte indaffarate a agghindate.
E con un pollo in una borsa.
-Non riesco a camminare con tutta questa roba!- si lamentò Thatch, bisbigliando irritato per non farsi sentire da orecchie indiscrete, sollevando stizzito l’orlo della gonna per evitare di pestarlo e mostrando così uno stivaletto che gli stringeva in modo doloroso il piede e la gamba con una peluria abbondante e poco curata.
Ace roteò gli occhi al cielo, schiaffeggiandogli il dorso e obbligandolo a lasciare la stoffa. -Non metterti in mostra, depravato!- lo riprese, guardandosi attorno e non perdendo di vista la coppia di guardie che stavano pedinando in maniera da avere una mappa precisa del giro di ronda per le strade effettuato dagli ufficiali.
Thatch sbuffò, facendosi aria sul viso. Quel giorno il sole spiccava alto nel cielo e scaldava tantissimo, soprattutto se si indossavano abiti come quelli che aveva lui. Quando Ace gli aveva proposto di andare in missione ricognitiva non aveva immaginato che avrebbero dovuto vestirsi da donna. Gliel’avrebbe fatta pagare, poco ma sicuro, perciò tanto valeva iniziare subito nel modo che meglio conosceva.
-Dimmi, moccioso, come mai sei così a tuo agio con questi vestiti?- domandò, continuando a seguire il ragazzo e sorridendo ironico. Di certo avrebbe tenuto l’informazione per sé in modo da usarla negli anni a venire per sfottere quel piccolo bastardo francese.
Il corvino si strinse nelle spalle, camminando a passo svelto e tenendo sollevato il bastone da passeggio senza nemmeno poggiarlo a terra per andare più veloce. -Facciamo sempre così.- spiegò con disinteresse.
-E vestirvi da mendicanti?- insistette l’altro. Che diamine, quello delle vecchiette non poteva essere l’unico travestimento disponibile.
-Di solito le guardie li picchiano.-
Thatch sbatté le palpebre, scioccato.
Oh, ecco perché, pensò dispiaciuto, non per i barboni, ma per non aver trovato abbastanza materiale interessante da poter usare a suo piacimento. Aveva sperato in una confessione del tipo ‘mi vesto spesso così’, o qualcosa di simile, roba scottante, ecco.
Seguirono indisturbati la pattuglia lungo le viuzze di Parigi, evitando accuratamente distinti signori di età avanzata che avevano dato segno di interesse verso di loro, scambiandoli giustamente per signore, e ritornando al punto di partenza da dove era partito il giro, ovvero alla caserma. Lì si diedero il cambio con altri due Rivoluzionari, altrettanto camuffati, completi persino di ombrellini e rossetto davanti ai quali l’inglese scosse il capo, dovendo però ammettere che quei parigini prendevano sul serio i pedinamenti.
Ace, invece, ritenendosi soddisfatto, puntò verso il Quartiere Latino con l’intento di andare a fare rapporto e riferire a Shanks l’ennesimo giro di pattuglia con Thatch rigorosamente al suo fianco, impegnato a levarsi di dosso la camicia rosa, ficcandola in malo modo dentro un borsone dopo aver abbandonato il ruspante animale in un cortile li vicino.
-Abbiamo finito per oggi?- gli chiese poi, passandosi una mano tra i capelli folti e respirando a pieni polmoni, ringraziando il Cielo per essersi tolto quegli strati in eccesso di merletti e pizzi.
Ace annuì, calcandosi il cappello sulla testa con fare sapiente. Quell’affare, di un assurdo colore arancione, ricamato con due pezze di cuoio sul frontale e un laccetto con un pendaglio piumato appeso alle estremità, se lo era ritrovato il giovane nella sua camera alla locanda dopo la prima notte che avevano passato assieme a Montmartre, probabilmente un souvenir che aveva portato con sé inconsciamente. Inutile dire che ci si era affezionato molto e che non se lo toglieva mai, a volte nemmeno per dormire, cosa strana, ma che nessuno aveva commentato, pensando che di stranezze, al mondo, ce n’erano di peggiori. Nemmeno Thatch aveva detto nulla, anzi, quel cappello dava ad Ace un tocco di personalità in più, rendendolo ulteriormente particolare.
-Ehi, stamattina Curiel e Blenheim sono andati a caccia e hanno preso due cinghiali.- si ricordò il castano, battendo le mani sulle spalle di Ace e facendogli fare un lungo passo in avanti per non perdere l’equilibrio, -Vieni a cena da noi? Abbiamo pure trovato della birra!-
-Uh? Birra? E cos’è?-
A quella domanda, l’uomo si fece serio e sbatté le palpebre perplesso. Quei buongustai in fatto di vino e donne non sapevano cos’era la birra? Assurdo, doveva assolutamente rimediare.
-Ah, ragazzo mio,- iniziò a dire, passandogli un braccio attorno alla schiena e trascinandoselo addosso tanto da schiacciarlo contro il suo petto ampio, incurante delle lamentele di Ace che non riusciva a respirare. -Stasera vedrai come festeggiamo noi inglesi. Chiama pure il biondino, Sabo, o chi vuoi. Ci divertiremo.-
Ace si divincolò dalla presa, allontanandosi di qualche passo per evitare un altro degli assalti del castano, molto frequenti, dato che aveva a che fare con una persona tanto, forse troppo, espansiva.
-Glielo farò sapere, ma non so se ne avrà voglia. Si sta occupando dell’Assemblea alla Cattedrale di Saint Paul-Saint Louis. Sai, per via della chiusura della sala della pallacorda.- fece sbrigativo e un po’ nervoso. La situazione si stava facendo sempre più complessa e a Palazzo sembrava che il Re non volesse proprio cedere. Lurido zoticone pomposo che non era altro.
-Mhm, capisco. Beh, ma tu non puoi mancare!- sdrammatizzò Thatch, volendo distrarre un pochino Ace dai suoi pensieri. Avevano lavorato in incognito tutti il giorno, dato che da poche settimane Barbabianca aveva messo a disposizione di Shanks alcuni dei suoi uomini, lui compreso, e da allora avevano preso a lavorare assieme. A volte c’era anche Sabo, quando non era impegnato in affari burocratici assieme al Rosso che, dopo una baruffa con i fiocchi della quale Ace gli aveva solo accennato, lo aveva assunto sotto la sua ala e lo faceva partecipare a molte riunioni stressanti e noiose, come ripeteva costantemente il corvino, ma che a suo fratello piacevano, perché molto più intellettuale e portato alle chiacchiere.
Ace sorrise, pregustando già una cena con i fiocchi a base di carne vera e non solo di verdure o stufati. Non che Makino non fosse una brava cuoca, ma le prelibatezze scarseggiavano per tutti, se non si contavano i regalini che Sanji, di tanto in tanto, passava a portargli.
-Ci puoi scommettere!-
 
*
 
Ace non aveva mai visto le paludi conciate in quel modo.
Certo, a causa delle ronde gli inglesi non potevano permettersi di esagerare con le illuminazioni e con le fiaccole, ma avevano ideato abbastanza bene il modo giusto per far si che nulla fosse completamente avvolto dal buio.
Appese agli alberi c’erano una serie di lanterne per la maggior parte bianche, in modo da rischiarare l’ambiente, mentre sopra di esse erano stati posti strategicamente dei fasci di rami e foglie uniti tra loro, in modo da creare quasi dei tettucci bassi e sospesi, impedendo così alle luci di attirare l’attenzione dalla città. Per quanto riguardava la carne, invece, era stata arrostita nei pressi di uno dei ponti situati sulla Senna giusto all’uscita fuori dalle mura, dove la vegetazione era più fitta e dove l’atmosfera era fresca. Inoltre, essendo vicino al rivolo d’acqua, estinguere il fuoco non era stato un problema, mentre il fumo era finito tutto verso la boscaglia. Il buon profumo che era aleggiato da quelle parti era stato un po’ un problema, ma alla fine nessuna guardia era passata da quelle parti ed era bastato donare una parte di quella carne a qualche curioso per comprare il suo silenzio. Tutto riuscito e non un’anima aveva visto nulla.
-Allora? Cosa te ne pare?- gli stava chiedendo Thatch a bocca piena, ingoiando un boccone intero e rischiando quasi di strozzarsi, costretto poi a bere una generosa sorsata di birra.
Birra! Ace non avrebbe mai detto che esisteva qualcosa di più buono del suo cognac o del poiré, ma si era dovuto ricrede dopo aver assaggiato quella bevanda tanto decantata dai suoi amici che scendeva lungo la gola fino allo stomaco tanto velocemente quanto dava alla testa. Era più pesante del vino e gli dava un senso di sazietà, ma la carne era ancora tanta e lui non aveva intenzione di sprecarla lasciandola sul piatto. Perciò, rispondendo al castano che era tutto una meraviglia, addentò il suo pasto e non proferì più parola per un pezzo, lasciando che fosse Sabo, arrivato da poco più di cinque minuti, a intrattenere una conversazione con gli altri seduti accanto a lui.
Il biondo aveva passato una giornata infernale, ma alla fine, anche se il Re non aveva dato segno di cedimento e la questione non era ancora stata chiusa, i Rivoluzionari avevano guadagnato altri alleati nei loro ranghi e ottenuto parecchi favori da parte del Clero, quindi poteva ritenersi soddisfatto e prendersi una pausa, riempiendosi lo stomaco e bevendo fino a dissetarsi. Anche a lui sembrava piacere la birra.
-E quindi ho sollevato la gonna e gli ho fatto vedere il ben di Dio che nascondevo!- concluse Thatch, scatenando le risate generali e facendo andare di traverso l’alcool a Marco, il quale stava partecipando alla festicciola improvvisata giusto perché quei momenti spensierati con i suoi fratelli gli erano mancati immensamente e pensava che una rimpatriata avrebbe giovato all’umore teso di tutti. Aveva storto il naso quando il fratello gli aveva comunicato che aveva invitato anche qualche francese, ma non aveva fatto storie, vedendo come suo padre, presente a quella scena, avesse sorriso entusiasta, felice di vedere che andavano tutti d’accordo come una famiglia. Non aveva avuto cuore di dargli un dispiacere, perciò aveva sospirato e aveva annuito, garantendo che ci sarebbe stato e che per lui andava bene. Anche se, in verità, non gli piaceva per niente quell’idea. Quelli non c’entravano nulla con la loro vita, ma non poteva lamentarsi perché l’unico ad avere delle riserve nei loro confronti era lui, mentre tutti gli altri parevano non vedere l’ora di passare il tempo con i parigini. Cosa avessero di speciale, lui proprio non lo capiva, ma era abbastanza grande e intelligente per fare finta che non esistessero e provare a godersi la cena con quelli che amava davvero.
-E poi cos’è successo?- si intromise Namiur, alzando un bicchiere verso Thatch, il quale, camminando davanti a loro sopra ad una tavola improvvisata, si scopriva una gamba fino al ginocchio, tirando su i pantaloni.
Afferrò il boccale e bevve una generosa sorsata di schiena, restituendolo poi al fratello e, dopo aver deliziato i presenti con un rutto, finì il suo racconto. -Niente, mi hanno consigliato di depilarmi e mi hanno palpato il culo!-
Marco nascose parte del volto tra le mani, voltando il capo per non guardare oltre quella scena penosa in cui suo fratello si rendeva ridicolo come al solito. Quella storia l’aveva sentita mille volte ma, puntualmente, ad ogni festa doveva saltare fuori in modo da renderla nota anche agli ultimi arrivati.
Sospirando senza speranza, aprì gli occhi, guardandosi attorno con l’intento di estraniarsi per non ascoltare per l’ennesima volta il finale assurdo che quel cretino si divertiva a raccontare, adocchiando una figura intenta a divorare tranquillamente buona parte della sua cena, scroccando di tanto in tanto qualche pietanza dal piatto dei vicini ignari, i quali prestavano tutta la loro attenzione a Thatch senza accorgersi di nulla.
Fissò a lungo come Ace ingurgitava una quantità assurda di cibo senza quasi prendere fiato, alternando carne, verdure, birra, pane, ancora birra e poi di nuovo carne. Sembrava che non mangiasse da giorni e, quando lo vide afferrare una stracciata borsa a tracolla verde e nera e ficcarci dentro parte degli avanzi, non poté fare a meno di sorridere, tornando immediatamente freddo quando si rese conto di quella reazione sciocca e inutile. Era solo un classico comportamento da mocciosi quello che aveva visto, nulla di più. Lo facevano tutti, quindi perché perdere tempo?
Indurendo lo sguardo, riportò gli occhi davanti a lui, scoprendo con sollievo che Thatch aveva finito la sua esibizione e si prodigava in inchini, accogliendo di buon grato le risate e gli applausi che gli venivano fatti.
Come Marco, anche Sabo aveva notato quello che stava facendo Ace e, dopo essersi scambiato un’occhiata eloquente con il fratello, gli passò lui stesso il suo piatto con il cibo che era rimasto in modo che lo mettesse nel sacco per portarlo a casa. Il giorno dopo lo avrebbero dato alle famiglie che soffrivano di più il peso delle tasse sul pane e sugli alimenti.
Sembrava che Ace fosse sempre al centro dell’attenzione di tutti, perché anche Koala stava da un po’ fissando quello che stava combinando, incuriosita e con un sorriso dolce sulle labbra. Era accanto a Sabo e, se si sporgeva un pochino, riusciva a vedere il ragazzo moro che, incurante di quello che gli stava accadendo attorno, ripuliva tutti i piatti senza nemmeno chiedere il permesso. Le scappò una risata sommessa quando lo vide alzarsi per andare a chiedere a Blamenco se avesse intenzione di finire la sua parte o se poteva prenderla lui.
Sabo, sentendola, si voltò verso di lei con un sopracciglio inarcato, domandandole tacitamente cosa ci fosse, oltre a Thatch, di così divertente.
Lei si strinse nelle spalle, inclinando il capo di lato. -Ace.- disse solamente, come se bastasse a spiegare il suo umore. Allora anche Sabo, dopo aver rivolto un’altra occhiata all’apparenza esasperata, ma anche di profondo affetto al fratello, sorrise, poggiando un gomito sul tavolo per appoggiarci il mento, girandosi completamente verso la ragazza per accertarsi di escludere tutti gli altri dalla conversazione.
-Lo fa per non sprecare nulla.- chiarì, prima che iniziasse a pensare che era solo un ladruncolo, ma Koala riuscì a stupirlo con la sua bontà un’altra volta.
-Lo avevo immaginato. Anche lui non era riuscito a finire tutto. Inoltre, pure Haruta ed io, di tanto in tanto, lo facciamo.- concluse sussurrando, facendosi più vicina al volto dell’amico e mettendosi una mano al lato della bocca per parlargli vicino all’orecchio. -Ma non dirlo al babbo, lui non lo sa.-
Sul viso di Sabo si aprì un sorriso che sfociò in una risata sonora, tanto che reclinò il capo all’indietro, mentre Koala si mordicchiava il labbro, ridacchiando in maniera più contenuta per non attirare troppo l’attenzione, colpendolo intanto al braccio o sul petto nella speranza di farlo smettere.
Sembravano due bambini che giocavano, avrebbe pensato qualcuno, ma a notarli fu l’acuta vista di Thatch e, ovviamente, la sua immaginazione fervida e maliziosa iniziò subito a mettersi in moto. Poggiò il boccale appena riempito sul legno, schiarendosi la voce per lasciare uscire dalle labbra una battutina sarcastica e decisamente poco elegante, quando accanto a Koala vide materializzarsi la figura minuta di Haruta, dovendo così zittirsi all’istante e perdendo parte del buonumore che aveva acquistato con l’alcool.
La guardò parlare con la compagna, salutando allegramente Sabo, il quale rispose educatamente, domandandole qualcosa che il castano non riuscì a sentire, vedendola poi allontanarsi agitando la mano verso quei due, diretta forse nella sua tenda a dormire.
Il suo stomaco si chiuse e tutto l’interesse per la birra e per la festa che aveva atteso con impazienza dall’ora di pranzo scomparirono a causa della consapevolezza che Haruta, da un mese a quella parte, aveva smesso di passare il tempo in famiglia. La sera, solitamente, si trovavano tutti attorno ad uno dei focolari per chiacchierare, oppure andavano dal babbo, o addirittura passeggiavano per le paludi in compagnia, mentre, da quando gli aveva urlato di volerlo evitare, non la vedeva più. Inizialmente aveva creduto impossibile non riuscire a beccarla in qualche momento della giornata all’accampamento, ma la ragazza si stava rivelando più brava e furba del previsto. Lo ignorava e spariva l’attimo prima che lui arrivasse.
Quella sera non si era nemmeno accorto del momento in cui era spuntata e solo in quell’istante si era reso conto che ciò era stato l’intento di Haruta fin dal principio. Si comportava come se non vivesse all’accampamento, non mangiava più con i fratelli e non si allenava nemmeno più dove era solita farlo. Era praticamente scomparsa dalla sua vita.
E lui non sapeva ancora perché.
Quando Vista gli chiese dove era diretto quando si alzò da tavola con un’espressione dura e senza l’ombra di un sorriso sulla faccia, gli rispose semplicemente che andava a vomitare, in modo da tenersi tutti lontani e avere l’occasione di chiarire una volta per tutte quel problema che Haruta sembrava avere con lui. E se non voleva ascoltarlo allora l’avrebbe obbligata.
-Lei come sta?- stava chiedendo intanto Sabo a Koala, facendo un cenno in direzione della ragazza che era appena passata a dare loro la buonanotte.
-Insomma.- sospirò lei, -E’ davvero tanto triste. Io cerco di starle vicina e anche Marco e gli altri che hanno capito la situazione, ma credo si senta ugualmente tanto sola.- gli confessò, scuotendo il capo, tanto che una ciocca ramata e ribelle le sfuggì dal cerchietto rosso che portava per tenere in ordine i capelli.
Senza riflettere, Sabo la catturò tra le dita, giocherellandoci distratto, ignorando il baccano che avveniva attorno a loro. A quanto pareva, Curiel aveva sostenuto di aver catturato da solo i cinghiali, mentre Blenheim insisteva nel dire che era stato tutto merito suo, scatenando così una salutare rissa tra amici e fratelli alla quale si erano unite più persone del previsto. Si udì pure il timido suono di una chitarra e di un tamburello rallegrare quel momento.
-Potresti portarla in città.- mormorò pensieroso Sabo, fissando i capelli morbidi di Koala che aveva ancora tra le mani. -Le farebbe bene distrarsi.- decretò con sicurezza, rimettendo a posto la ciocca e sorridendo convinto alla ragazza di fronte a lui, il cui sguardo si illuminava per la bella idea che le aveva consigliato.
-Non ci avevo pensato, ma hai ragione! Posso proporglielo e sono certa che non dirà di no.-
-Sarà entusiasta, credimi. Parigi sa conquistare chiunque.- scherzò lui, coinvolgendo pure la giovane.
-Come te, insomma.-
Nell’esatto momento in cui quella frase prese vita, Koala si sentì andare a fuoco le guance, mentre, davanti a lei, Sabo si grattava la nuca imbarazzato, sorridendo appena. Accidenti, doveva imparare a smetterla di dire sempre quello che le passava per la mente.
-Cioè… io volevo solo dire che, beh, sei… ehm, bravo c-con le parole. Uh, sai farti ascoltare, come nelle assemblee. Questo intendevo io, ecco.- balbettò insicura, guardando ovunque, tranne che verso di lui e sperando che qualcosa, qualsiasi cosa interrompesse quella tortura, mettendo fine alla figuraccia che stava facendo.
Il miracolo arrivò dall’alto, cadendo rumorosamente sotto al loro naso e battendo sul tavolo, facendolo sussultare. Un qualche idiota aveva bevuto troppo ed era caduto dall’albero sul quale si era arrampicato e, a giudicare dal divertimento generale, non si era fatto gran ché, ma aveva dato l’occasione a Koala per scattare in piedi e battere in ritirata.
-Si è fatto tardi, meglio che vada a dormire pure io.- disse di fretta, indietreggiando impacciata e con lo sguardo di Sabo addosso che, per l’appunto, sembrava avere una paralisi facciale dato che quel sorriso non voleva saperne di sparire.
-Buonanotte!- sbottò infine, affrettandosi a voltarsi per scomparire nella speranza che il ragazzo si ubriacasse e dimenticasse quella sparata colossale che il suo cervello non aveva censurato.
-Sei molto bella, Koala.- si sentì dire e fu come se le venisse tolta tutta l’aria. Si bloccò all’istante, non sapendo cosa fare o come reagire. Qual’era la regola da rispettare in quelle circostanze? C’era un elenco da seguire o qualche frase da pronunciare? Ed era possibile che sentisse le guance in fiamme in quella maniera?
Si abbracciò il petto con le braccia, stringendosi nelle camicetta rosa antico che aveva indossato.
Davvero Sabo pensava che fosse bella? Insomma, lui viveva in città, aveva una casa, dei vestiti puliti ed era sempre così attento e gentile, mentre lei cosa aveva? Aveva si e no tre paia di abiti, giusto il necessario per poterli indossare e lavare allo stesso tempo, viveva in mezzo al nulla e l’unica cosa che sapeva fare era il medico quando serviva e leggere. Di certo, nessuno le aveva mai detto che era bella per quelle poche cose che la riguardavano.
Però sentirselo dire le fece piacere, qualcosa doveva pur valere e detto da Sabo, il quale, lo sapeva, era incapace di mentire, doveva essere per forza vero, quindi un pizzico di bellezza in lei c’era.
Così si voltò, regalandogli un sorriso timido e mimando un grazie con le labbra, salutandolo prima di andarsene e perdendosi il sospiro dall’aria vagamente sognante che il ragazzo si lasciò sfuggire.
 
*
 
-M-marco…- provò a dire un balbettante e nervoso Ace, immobilizzato contro il tronco di un grosso albero senza vie di fuga da poter prendere per fuggire da quella situazione imbarazzante e sorprendente in cui mai avrebbe pensato di ritrovarsi.
Per tutta risposta, il biondo si avvicinò ulteriormente a lui fino a far aderire il suo corpo accaldato a quello impietrito del ragazzo, continuando a lasciare una scia di baci sul collo del più piccolo che sapevano di vino e birra, ma anche di dolce e meringhe, giusto quelle che Sabo aveva portato dalla città per festeggiare, mordicchiandolo di tanto in tanto.
-Marco.- riprovò allora Ace, con un po’ più di fermezza nella voce con la speranza di riuscire a farsi valere e a cavarsi da quell’impiccio, trattenendo però il respiro quando i denti dell’uomo gli sfiorarono la gola.
Era tutto così assurdo, lui non avrebbe dovuto trovarsi lì, con il suo nemico giurato mezzo ubriaco, anzi, totalmente ubriaco marcio, spalmatogli addosso, quasi come il formaggio che metteva Makino sul pane la mattina, intento a divorarlo lentamente.
-Non credo c-che sia una b-buona idea.- Riuscì a dire tutto d’un fiato. Oh no, non lo era affatto, anzi, se li avessero beccati in quel frangente, come minimo lo avrebbero legato ad una delle postazioni delle sentinelle, quelle situate più in alto sugli alberi, senza cibo ne acqua.
-Ah no?- sussurrò Marco, depositandogli l’ennesimo bacio sulla pelle e facendogli scorrere un brivido lungo la schiena.
Ma che diavolo…?
Era malizia quella che Ace sentì nella sua voce? E da quando quel bastardo si rivolgeva a lui in quel modo e con quel tono? Di solito lo guardava con disprezzo o lo ignorava bellamente. Di sicuro non lo avvicinava in quella maniera! Ancora non si capacitava di come se lo era ritrovato tra i piedi quella sera, sapeva solo che prima stava camminando con la sua sacca piena di cibo e quello dopo si era ritrovato sbattuto addosso a un albero con quell’inglese che senza troppe cerimonie gli si era avventato contro.
Marco approfittò di quel momento di silenzio per schiacciarlo contro il tronco e afferrargli saldamente un fianco per non permettergli di muoversi, scorrendo con le dita sotto al tessuto giallo della camicia e sentendo come i nervi di Ace si tendessero al suo passaggio.
Il ragazzo si morse le labbra per non tremare a quel tocco, mentre dentro di lui si muovevano sensazioni strane mai provate prima, facendogli quasi percepire il sangue che gli scorreva nelle vene e il cuore che accelerava il ritmo, svegliandolo completamente e rendendolo lucido. Aveva l’impulso di rispondere a quelle attenzioni, di aggrapparsi alle spalle di Marco e di affondare le dita tra quei capelli improbabili con il desiderio di strapparglieli per obbligarlo finalmente a prestargli attenzione. Voleva restituirgli il gesto e morderlo fino a fargli male, fino a fargli vedere che lui c’era, che esisteva e che non avrebbe smesso di comportarsi come era solito solo perché a lui dava fastidio.
Fottuto inglese.
Ma, quando le labbra di Marco risalirono la linea del collo fino alla sua guancia, si rese conto che qualcosa non andava bene, che quello non era il principio di una rissa e nemmeno una casta discussione, no, quello era tutto un casino che gli stava facendo scoppiare la testa per la confusione.
Doveva reagire, sapeva che il braccio destro di Barbabianca non era lucido e voleva evitare fraintendimenti e casini irreversibili dato che aveva già perso troppo il sonno a causa sua. Non gli occorreva di certo essere additato come seduttore, figuriamoci. Lui, poi, che in quell’ambito non ci capiva niente!
Peccato che quella inesperienza, però, giocasse a suo sfavore, visto e considerato che le attenzioni che Marco gli stava rivolgendo, sotto, sotto, a una parte di lui non dispiacevano affatto. Era un qualcosa di nuovo e di piacevole, tanto che avrebbe quasi voluto scoprire fino a che punto si sarebbe spinto quel fastidioso essere che gli aveva fatto capire che lo odiava, ma la paura di finire nei guai e l’antipatia che provava verso di lui ebbero la meglio.
Così, con un sospiro stanco, posò entrambe le mani sul petto del biondo, facendo leva per staccarselo di dosso e allontanarlo, per sua fortuna riuscendoci.
-Hai bevuto troppo.- gli fece notare con sarcasmo, sorreggendolo quando lo vide traballare incerto sulle sue gambe. -Meglio se vai a dormire.-
-Gneh, io sto benis-simo!- contestò l’altro, colpito nell’orgoglio e desideroso di dimostrare la sua ormai perduta lucidità mentale che, se fosse stata presente, non gli avrebbe mai permesso di avvicinare Ace in quel modo. Non voleva comunque ammettere che tutto ciò di cui aveva bisogno era un letto e un secchio dove vomitare l’anima.
Ciò Ace l’aveva capito dal colore pallido che aveva assunto il volto di Marco e dalle palpebre pesanti, così, ingoiando improperi e giurando vendetta, lo trascinò verso uno dei focolari poco lontani dove era sicuro di aver visto delle panche e qualche coperta. Non era certo di riuscire a portarlo fino alla sua tenda, la stessa che condivideva con Thatch, perciò avrebbe dovuto accontentarsi di dormire per terra e guai a lui se avesse avuto il coraggio di lamentarsi.
La distanza era poca, circa una decina di metri, ma furono infinite tra imprecazioni, risate sguaiate e senza motivo, battute insensate, colorite e ingegnose verso la madre di ignoti.
-Ecco!- esalò il ragazzo, lasciando scivolare il più grande su una delle due panche disposte attorno al fuoco quasi al limite e gettandogli addosso una coperta raccattata da terra con poca grazia. -Bene, ora dormi, ne hai bisogno.- concluse scocciato e con una buona dose di acidità che non si preoccupò di nascondere, anche se vedere le condizioni pietose in cui Marco si era ridotto gli dava un senso di soddisfazione immenso.
Farlo fuori in quel momento sarebbe stato un gioco da ragazzi.
Il pensiero colpì Ace all’improvviso e fu talmente sconvolgente che si vergognò di se stesso. Aveva dovuto imparare troppo presto ad uccidere per salvarsi la vita e, ogni volta che sparava a qualcuno, doveva per forza estraniarsi dal mondo e non pensare per non venire sopraffatto dalle emozioni e dall’ansia. Le domande erano la parte peggiore, si chiedeva spesso se fosse giusto o sbagliato, ma alla fine Shanks gli aveva spiegato che, a volte, era solamente necessario. Lui arrivava ad uccidere unicamente se non aveva altra scelta o se una persona a cui teneva era in pericolo. Per la sua famiglia, ad esempio, avrebbe raso al suolo un intero battaglione, ma uccidere così, per puro piacere o ripicca gli faceva rivoltare lo stomaco. Persino l’odio non gli pareva un buon motivo per arrivare a tanto.
Fu per quello che si ripromise di chiarire i conti con Marco. Dovevano trovare un modo per andare d’accordo e per non desiderare costantemente di scannarsi a vicenda. Certo, non sarebbe stato facile, lui per primo lo ammetteva, ma continuare in quella maniera non avrebbe portato da nessuna parte e, se fosse servito a qualcosa, avrebbe fatto lui il primo passo quando ne avrebbe avuto l’occasione.
Presa quella decisione, Ace mandò giù l’ennesimo boccone amaro e si avviò con la sua sacca piena di avanzi verso casa, desideroso di buttarsi a letto e cadere in un sonno profondo. Avrebbe lasciato il divertimento agli altri, lui, per quella notte, ne aveva avuto abbastanza.
Marco, ormai, dormiva della grossa nel suo giaciglio improvvisato in modo scomposto e, russando rumorosamente, si sarebbe svegliato al mattino con la sensazione di avere le ossa fracassate e di aver fatto qualche cazzata ridotta solo ad un vago ricordo riguardante la gola di qualcuno.
 
*
 
Era il 27 di giugno e per le strade correvano un sacco di voci, tutte diverse, ma tutte, fortunatamente, vere.
Gli schiamazzi arrivavano persino alle orecchie disinteressate di Law che, dalla sua stanza, non aveva la minima intenzione di uscire da sotto le lenzuola e scendere dal letto. Dopo la notte precedente non se ne parlava proprio.
Se avesse saputo che Corazòn avrebbe fatto tutto quel casino, di sicuro non avrebbe mai permesso che quella cosa accadesse. Pazienza l’arrivo di un cucciolo, quello il suo tutore lo aveva accettato di buon grado, affezionandosi subito all’animale, un batuffolo di pelo tutto bianco e con dei particolari e, a detta di Law, interessanti occhi rossi. Nel giro di un mese il cucciolo era cresciuto notevolmente e di certo sarebbe cresciuto ancora, ma quella non era affatto una preoccupazione. Avevano spazio in casa e il giardinetto sul retro andava benissimo, purché non scappasse in strada. Law dubitava che le guardie avrebbero lasciato vivere a lungo un cane lupo una volta adulto.
Dove lo avesse trovato quella testaccia rossa proprio non lo sapeva, glielo aveva piazzato tra le braccia una sera nella sala dove operava, tutto sporco e con una zampa rotta, ordinandogli di curarlo e, non contento, obbligandolo a tenerlo perché non poteva vivere da solo. Alla domanda sulla ragione per la quale non potesse stare con Kidd, quello aveva risposto con una semplicità spiazzante, e con un po’ di sarcasmo che Law aveva mal digerito, dicendogli che non aveva una casa e che viveva a scrocco, solitamente da Ace senza nemmeno pagare l’affitto perché ci pensava il ragazzino.
Su quella confessione, il dottore ci aveva riflettuto a lungo e, alla fine, dato che quel ladruncolo dei sobborghi della Costa Azzurra aveva preso l’abitudine di fargli visita ad ore improponibili della notte per elemosinare qualcosa da mangiare, anche se inventava sempre un sacco di scuse per non fare la parte del mendicante, il ragazzo aveva deciso di tentare l’impossibile. Così, senza sapere nemmeno lui il perché di quel comportamento, ne aveva prima parlato col diretto interessato, rigirando la frittata in modo che non sembrasse un invito e, una volta ottenuto il suo consenso, l’aveva introdotto in casa sue e, beh, presentato inevitabilmente a Corazòn.
Il quale, per la precisione, si era chiuso nel suo classico mutismo e non aveva più proferito parola.
Se la ricordava benissimo la scena e difficilmente l’avrebbe dimenticata, ne era certo.
Nel bel mezzo della cena, lui si era alzato e, senza dire nulla, era andato sul retro per raggiungere Eustass-ya che, indispettito per l’attesa, era entrato e si era fatto accompagnare, stranamente in maniera molto composta e docile, fino alla sala da pranzo dove, dopo che Law si era schiarito la voce per attirare su di sé lo sguardo del mentore, aveva fatto il suo ingresso con i suoi stracci, i suoi capelli disastrati, nemmeno l’ombra di un sorriso e il suo muso da schiaffi.
Corazòn aveva sbattuto più volte le palpebre e, alla fine, aveva spostato lo sguardo su Law che, in piedi accanto alla porta e con le braccia conserte, lo aveva guardato di rimando, intrattenendo una lunga ed estenuante gara di sguardi. Talmente lunga che, dopo un po’, Kidd si era seduto a tavola e aveva iniziato a sgraffignare qualcosa da mangiare. Alla fine, dopo aver notato con la coda dell’occhio l’uomo seduto davanti a lui alzare le braccia al cielo e scuotere il capo con esasperazione, stringendo le labbra truccate in maniera da allungarle quasi fino a coprire anche le guance e facendo dondolare i laccetti neri appesi al cappuccio della giacca che indossava terminanti in due cuori neri, Law era entrato al centro del suo campo visivo e si era seduto a capotavola, riprendendo il suo pasto e rendendo noto che lui sarebbe stato loro ospite fino a tempo debito. La cena si era consumata silenziosamente e Law non si era perso l’occhiata truce che Corazòn aveva rivolto più volte al loro nuovo coinquilino, ma aveva deciso di ignorare quel suo comportamento protettivo facendo di testa sua.
Ecco come si era ritrovato a dividere il letto con Bepo, il suo nuovo cane, e con quell’idiota che in quell’esatto istante stava russando come una locomotiva.
Si, era stato costretto a far entrare Eustass-ya nel suo letto dopo che Corazòn aveva chiuso a chiave tutte le stanze degli ospiti per fargli un dispetto, sapendo quanto lui amasse starsene tranquillo all’interno della sua stanza, il suo angolo di paradiso.
Sentì Bepo muoversi a pochi centimetri dal suo viso e bastò una carezza all’animale per dargli il permesso di andare a leccare la faccia addormentata di Kidd che, sentendosi inumidire le guance, si svegliò intontito e leggermente preoccupato di essere finito a letto con una delle ragazze di Dadan. Donne di cui, per la precisione, aveva una paura fottuta perché aveva sentito dire che svuotavano le tasche dei poveri allocchi e li sciupavano fino allo stremo. E lui preferiva non restare traumatizzato da una notte di sesso, grazie tante.
Quando si rese conto che si trattava solo del cagnaccio, Law udì una sonora bestemmia e un tonfo sordo che doveva essere stato Bepo che finiva con un balzo giù dal letto. In un altro momento avrebbe provveduto e soffocare Kidd con un cuscino per aver colpito il suo cane, ma sapeva che l’animale era guarito dalla piccola storta che aveva preso, altro che frattura, perciò lasciò momentaneamente perdere la questione, preferendo sorridere sotto i baffi per lo strano risveglio che aveva avuto.
-Buongiorno Eustass-ya.-
-Dannata bestiaccia.- grugnì il rosso, ributtandosi sotto le coperte con la speranza di prendere nuovamente sonno, ignorando bellamente il ragazzo accanto a lui che, ridacchiando e conscio che il tempo di poltrire era finito, si levava di dosso le lenzuola per alzarsi e andare ad aprire la finestra per scoprire cosa metteva tutti così di buonumore.
Mettendo la testa fuori non riuscì a capire niente e di richiamare l’attenzione quando era a torso nudo non se ne parlava proprio. Anzi, avrebbe dovuto sbrigarsi a vestirsi se voleva evitare che a Kidd venisse un altro infarto vedendolo senza abiti come quando era successo la notte che si era intrufolato in casa sua per rubare.
-Ehi, chiudi quella cazzo di finestra.-
Troppo tardi, pensò Law sogghignando, approfittando dell’occasione per voltarsi e vedere come l’espressione assonnata di Kidd lasciasse posto ad una più sveglia e attenta. Il suo ghigno si allargò e si ritrovò ad ammettere che si sentiva quasi euforico quando vedeva quello sguardo negli occhi ambra del rosso. Se fosse stato un po’ più esperto, avrebbe definito l’atmosfera tra loro come attrazione, ma non ne era del tutto certo. Poteva benissimo trattarsi di una fase pre-infarto, oppure di una situazione di stallo prima di uno scoppio di eresie che, puntualmente, arrivarono l’attimo dopo.
-Che diavolo fai? Vuoi che tutti ti vedano mezzo nudo?- sbraitò Kidd, alzandosi a sua volta e andando con poche falcate a chiudere le ante del balcone.
Law incrociò le braccia al petto senza spostarsi di un millimetro. -Sei geloso?- lo stuzzicò con fare innocente, beccandosi un’occhiataccia assassina.
-Fottiti. Vado a lavarmi.- fu l’unica risposta che ricevette dal nuovo ospite, il quale lo superò per dirigersi nella stanza adiacente con l’intento di gettarsi in faccia molta acqua, preferibilmente fredda, per mettere fine al caldo asfissiante che sentiva in corpo.
Law si appoggiò alla parete e chiuse gli occhi nel tentativo di calmarsi. Aveva cantato vittoria troppo presto per non aver subito la fase degli ormoni instabili quando era adolescente, ma, a quanto pareva, la stava iniziando a vivere in quell’ultimo periodo e quel poveraccio non lo aiutava di certo, anzi.
Sospirò stizzito, ancora si chiedeva perché diavolo gli avesse proposto di stabilirsi momentaneamente da lui. Doveva essere stato colto da un momento di follia.
Quando scesero a colazione, trovarono Corazòn intento a dare da mangiare a Bepo, accarezzandogli amorevolmente il capo e sorridendo quando la bestiola scodinzolava e si alzava su due zampe per avere ancora qualche pezzetto di cibo.
Non appena si accorse dell’ingresso dei due ragazzi, l’uomo si imbronciò e fece finta di nulla, facendo sbuffare Law, il quale si sedette al solito posto, mentre Kidd lo affiancava, attento e vigile. Non si azzardava nemmeno ad abboffarsi come faceva alla locanda di Makino. Insomma, lì lo facevano tutti, mentre in quella casa usavano una serie infinita di posate e numerose tazze e piattini. Se avesse bevuto direttamente dalla brocca si sarebbero scandalizzati?
Era ancora indeciso su come agire, quando Law venne in suo soccorso, fingendo indifferenza e muovendosi con calma in modo che Kidd potesse imitarlo senza sbagliare. E, quando il rosso si rese conto che anche quel perfettino di Trafalgar mangiava il pane con la marmellata usando le mani, si sentì a casa e non ebbe più nessuna paura.
Nel frattempo, Corazòn aveva sbattuto sul tavolo il giornale e il chirurgo lo aveva afferrato con curiosità mentre finiva il suo latte. A quanto pareva, il Re aveva abbassato la corona, per modo di dire, e aveva invitato il Clero e la Nobiltà ad unirsi all’Assemblea Nazionale. Law era certo che, ormai, il Clero non avrebbe avuto più niente da ridire, ma aveva qualche perplessità sui nobili. In ogni caso, il popolo poteva portare tranquillamente avanti l’idea di creare una Costituzione. Era innegabile che avessero ottenuto un punto a loro favore.
Sorrise, un sorriso sinistro e sardonico, mentre pensava ad alta voce che quello era stato proprio un colpo di fortuna.
-Cosa dice?- si informò Kidd, stanco di starlo a guardare mentre sghignazzava come faceva solitamente al Quartier Generale davanti ad un cadavere.
Per tutta risposta, il moro gli passò il giornale.
-Beh?- lo interrogò allora il rosso, spiazzato e infastidito.
-Leggi.-
Merde.
-Tu hai appena letto, cosa ti costa dirmelo?- si scaldò, lanciando da parte il quotidiano e beccandosi in quella maniera un’occhiata glaciale da parte di Corazòn che, anche se si era alzando in piedi e sbirciava le strade da una finestra, aveva seguito lo scambio di battute e non si era perso quel gesto maleducato.
Law alzò gli occhi su di lui e lo studiò qualche istante, notando il respiro un po’ accelerato e le mani strette a pugno. Espressione truce e arrabbiata a parte, sembrava quasi preoccupato e teso. Un’idea sul perché di quella reazione se l’era fatta, ma preferì metterla da parte per un’altra occasione, posando con pazienza la tazza sul piatto e preparandosi a spiegare con calma quello che era successo.
Più tardi avrebbe chiesto a Kidd se aveva voglia di imparare a leggere.
 
*
 
-Ehi, aspetta. Fermo, aspetta!-
Perona stava camminando a passo svelto lungo il corridoio illuminato dalle decine di candelabri spolverati e lucidati, posti ordinatamente e con cura lungo le pareti, cercando inutilmente di attirare l’attenzione di Mihawk che, con espressione dura e senza la minima intenzione di fermarsi ad ascoltarla, procedeva svelto verso l’uscita con l’intento di scendere nei bassifondi della città e scomparire.
Sapeva quello che la ragazza aveva da dirgli, lo immaginava benissimo, nonostante non avessero più avuto modo di parlasi dopo l’annuncio ufficiale del suo fidanzamento.
A quanto pareva, quei piccoli momenti che si erano ritagliati senza nemmeno averne l’intenzione, quelle ore che avevano passato in compagnia quando avrebbero potuto impiegare i giorni diversamente, quel loro segreto, se così lo si voleva chiamare, non gli apparteneva più.
Qualcuno, e Mihawk una vaga idea su chi fosse stato il colpevole ce l’aveva, era corso a spifferare, o a mettere la pulce nell’orecchio, al Re di quei loro ritrovi nella vecchia armeria, il quale lo aveva convocato al suo cospetto per chiedergli spiegazioni. Al momento della confessione, lo spadaccino aveva mantenuto la calma senza lasciar trapelare nulla dai suoi occhi freddi e inespressivi, spiegando che doveva essere stato un malinteso e che l’incontro con la Principessa era stato puramente casuale. Sua Maestà aveva annuito e non aveva insistito, ma gli aveva espressamente fatto intendere che non avrebbe ammesso altri sbagli. Gli aveva affidato una serie infinita di incarichi, per la maggior parte sciocchezze per occupargli tutte le giornate e, come a volersi assicurare che la cosa non si ripetesse, quando qualche giorno prima era giunto a Palazzo uno sconosciuto Marchese del Lussemburgo, aveva pubblicamente annunciato davanti a tutta la Corte reale Corte Reale e qualche membro della Flotta dei Sette, lui compreso, l’imminente matrimonio di sua figlia per sancire così un’amicizia che sarebbe tornata comodo solo a lui e alle sue casse nei momenti critici come, ad esempio, una Rivoluzione.
-Vi ordino di fermarvi!-
Mihawk bloccò il suo passo, stringendo i pugni nascosti sotto al mantello e indurendo l’espressione già minacciosa presente sul suo viso. Avevano lasciato perdere i convenevoli, finendo per parlarsi con confidenza per molto tempo e quel ritorno di formalità lo aveva infastidito, ma doveva accettarlo e farsela passare. Quella ragazza era una principessa e avrebbe dovuto rivolgersi a lei come tale. Dopotutto, lei non si faceva problemi a dettare legge a destra e a manca.
-Dobbiamo parlare.- la sentì pronunciare alle sue spalle, così decise di voltarsi per fronteggiarla, trovandola a braccia conserte davanti a lui con gli occhi che lanciavano saette, infastidita dalla sua poca attenzione.
Sospirò stancamente. -E di cosa?-
-Degli allenamenti.- attaccò subito lei. -Non ti sei più fatto vedere ed io…-
-Non ci saranno più allenamenti, la questione è chiusa.- dichiarò immediatamente, senza permetterle di aggiungere altro. Non sarebbe servito a nulla perdere tempo in chiacchiere e lui andava di fretta. A quanto pareva, l’Assemblea Nazionale aveva riscosso più successo del previsto e a Corte c’era un gran trambusto. In quelle due ultime settimane erano cambiate talmente tante cose che tutti facevano fatica a rendersene conto veramente.
Circa due settimane prima il Terzo Stato si era spostato nella chiesa di Saint Paul-Saint Louis dato che il Re aveva fatto chiudere anche la sala della pallacorda, privandolo così di un luogo d’incontro. Peccato che quei poveracci non fossero del tutto degli zoticoni ignoranti, infatti non ci avevano messo molto a riprendersi e a passare al contrattacco, soprattutto perché la maggior parte del Clero era ufficialmente passata dalla loro parte. Ciò, Mihawk, lo aveva previsto da molto prima, anche se quando aveva esposto la sua idea al resto della Flotta dei Sette quelli non gli avevano dato retta, primo fra tutti Gekko Moria. Inutile dire che, quando i capricci del Monarca non avevano fatto altro che accelerare il corso della rivolta, lo spadaccino si era concesso di rivolgere un’espressione carica di superiorità e soddisfazione in direzione del suo rivale, innervosendolo e obbligandolo ad uscire adirato dalla stanza dove si erano riuniti. Dopo quell’avvenimento, Mihawk aveva creduto che fosse finita, invece il Re, non contento e troppo lontano dal popolo per poter capire il loro comportamento, aveva espresso la richiesta che l’Assemblea rinunciasse a continuare quella campagna, promettendo che egli avrebbe ugualmente fatto il bene della popolazione. Quella era stata, non solo secondo la Guardia Reale, ma anche a detta della maggior parte delle persone che avevano ancora qualche briciola di buon senso, l’azione più stupida e incauta che un sovrano avesse mai fatto. Ad onor del vero, nel giro di pochi giorni, i ranghi dell’Assemblea Nazionale erano aumentati, accogliendo nel giro un gran numero di nobili.
Se avessero chiesto a Mihawk come si fosse sentito quando il Re aveva ammesso di essersi comportato in maniera azzardata e di aver fallito nel suo intento, lui avrebbe risposto che, a parte il divertimento iniziale, si era reso conto di essere stato uno stupido ad accettare di servire un buono a nulla come quello. Ne aveva avuto la prova un sacco di volte, ma aveva sempre finto di non vedere quella poca organizzazione, quell’ossessione per il denaro, quel continuo benestare che richiedeva ingenti somme ogni anno, soldi pubblici del resto. Solo in quell’ultimo periodo si era accorto dell’assurdità della situazione ed era ad un passo dal mollare tutto e andarsene. Chissà, magari tra i Rivoluzionari c’era posto anche per lui.
Qualche giorno prima, inoltre, il popolo si era dichiarato Assemblea Nazionale Costituente e sembrava più che intenzionato a mettere su carta le basi per una Costituzione, mentre la minaccia della caduta della monarchia assoluta era sempre più probabile. A discapito di tutto, il contraccolpo militare che era stato proposto tempo addietro durante una riunione con la Guardia Cittadina e tutto il corpo degli Ufficiali, aveva scaldato gli animi dei Rivoluzionari e la situazione stava per degenerare, mentre la minaccia di una rivolta era nell’aria, lo sapevano tutti. L’aumento dei gendarmi attorno a Versailles, Parigi e Saint-Denis era stato coperto dall’arrivo di un ospite del Lussemburgo in visita a Corte, un certo Marchese di nome Cavendish, per l’appunto il futuro marito della Principessa Perona, sulla quale lui non poteva vantare nessun diritto.
Fece per andarsene, muovendosi per darle di nuovo le spalle, ma Perona non era dell’umore per affrontare la sua solita scontrosità. Stava troppo male e aveva passato gli ultimi giorni chiusa in camera a decidere cosa fare della sua misera vita, perciò non era affatto intenzionata a vedersi sbattere un’altra porta in faccia. Ne aveva passate troppe per vedersi mettere di nuovo da parte.
Si mosse veloce, nonostante l’abito lungo e quelle odiose e scomode scarpette, e lo afferrò per un braccio, sentendo subito il muscolo sotto irrigidirsi, ma ignorandolo.
-Stammi a sentire.- sbottò, abbandonando le buone maniere che spesso dimostrava di detestare, -Non mi piace essere ignorata, quindi vedi di non voltarmi mai più le spalle!-
Non era esattamente quello che avrebbe voluto dire, ma stava perdendo il controllo e non sapeva più se era la disperazione che la stava guidando o la rabbia.
Mihawk le si parò di fronte, sovrastandola con la sua altezza e fissandola con quei suoi occhi inquietanti e severi, parlandole sottovoce quasi come se stesse sibilando. -Vi chiedo perdono, Vostra Altezza, ma al momento sono di fretta e non posso perdere tempo dietro alle vostre lamentele.-
Per Perona fu l’ennesima pugnalata al petto.
Dopo che suo padre le aveva annunciato il suo già organizzato matrimonio, dandole la notizia davanti a tutta la Corte di nobili e sotto lo sguardo di Mihawk, aveva passato dei momenti infernali. Si era sentita tremendamente sbagliata, tutto le era parso soffocante, asfissiante e stretto. Dannatamente stretto da farla quasi soffocare. Anche in amore non le era stata concessa la libertà di scelta e si era ritrovata a dover incontrare uno sconosciuto proveniente da una terra che non aveva voglia di vedere e visitare. Figurarsi andarci a vivere.
Da allora, lui non le aveva più rivolto la parola e non si erano più nemmeno visti. Lo aveva cercato inizialmente, arrivando persino a bussare alla porta della sua stanza durante una notte in cui non era proprio riuscita a prendere sonno, ma non aveva ricevuto nessuna risposta, anche se era rimasta per un pezzo a bussare, prima sommessamente e dopo un pochino più forte, quello che secondo le bastava per svegliarlo, ma non era venuto nessuno ad aprire. In quel momento aveva capito che era rimasta di nuovo sola anche se, forse, visto il comportamento di quello che era stato il suo maestro, lo era sempre stata.
Non aveva dimenticato l’occhiata che si erano scambiati non appena il Re aveva annunciato la schifosissima lieta notizia. Lei aveva immediatamente alzato gli occhi e l’aveva cercato, trovandolo in fondo alla sala intento a fare altrettanto. Le era venuto da piangere, ma si era trattenuta, sapendo che avrebbe solo complicato le cose se si fosse messa a fare scenate in pubblico, perciò aveva incassato il colpo e drizzato le spalle, affrontando quell’uragano di tristezza che aveva provato quando lo aveva visto uscire a grandi falcate senza più voltarsi indietro. Non aveva capito perché aveva reagito in quella maniera e non se lo era nemmeno voluta chiedere per paura di darsi una risposta che l’avrebbe illusa e basta. Perché la verità era che ci teneva troppo a quegli allenamenti e a quelle ore di svago che l’avevano salvata dal baratro della sua esistenza in quei mesi. L’armeria era diventato il suo luogo preferito in assoluto dove poteva essere se stessa senza paure e senza maschere, dove i fantasmi del suo rango scomparivano, lasciandola libera. E si era, inevitabilmente, affezionata a quell’uomo sempre così controllato e distante senza nemmeno rendersene conto, capendolo solo quando tutto era finito.
-Capisco.- rispose sommessamente, anche se no, non capiva affatto, ma tanto a cosa sarebbe servito insistere? Cosa si era aspettata? Che disobbedisse agli ordini per lei? Che le desse qualche speranza? Che stesse male quanto lei per la piega che aveva preso la situazione?
Abbassò lo sguardo, celandogli i suoi occhi che si erano fatti lucidi, mollando la presa e indietreggiando di un passo.
-Andate pure.- sussurrò, abbandonando le braccia lungo i fianchi.
Mihawk tentennò un istante, per la prima volta indeciso sul da farsi. Perché la vedeva così abbattuta? Perché sembrava che le decisioni prese da Sua Maestà facessero comodo solo a lui, mentre ad entrambi risultavano dannatamente ingiuste e insensate?
Era sul punto di prendere una decisione importante, tentennando con una mano a mezz’aria, quando vide Perona alzare la testa di scatto e fulminarlo con quei suoi occhioni scuri, profondi e lucidi, irrimediabilmente feriti.
-Andatevene via!- gli urlò contro, dandogli una motivazione per allontanarsi da quel corridoio una volta per tutte.
Scappare non era esattamente quello che avrebbe voluto fare, ma aveva ricevuto determinati ordini a riguardo e non aveva il permesso di stare in compagnia della Principessa, non più, anche se i suoi desideri erano altri.
E, fino a che non avesse deciso se continuare o meno a sottostare al servizio della Corona o passare dall’altra parte della sponda, non si sarebbe azzardato a compromettere la sua posizione e quella di Perona. Non voleva causarle altri guai perché, se si era trovata costretta a doversi sposare prima del previsto, la colpa era stata solo sua e della sua presenza accanto a lei.
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Buon lunedì a tutti! so che non è sabato ma, ehi, il fine settimana diventa sempre più incasinato, perciò scusatemi il silenzioso aggiornamento dell’ultima settimana, so che non è stato carino, ma la verità è che ero in piena crisi, giuro, ma non volevo farvi aspettare ancora, quindi ho lasciato il tutto a questo capitolo.
Vi lascio le immagini dello scorso che spero vi sia piaciuto, per la maggior parte ci sono stati cuori ovunque con Bonney e Perona, ma vi prometto che le battaglie e il sangue stanno epr arrivare, LOL.
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Passiamo ora al capitolo di oggi.
Thatch, Ace e un pollo nella borsa che, quasi quasi, chiamerei Rosita; Sabo e Koala che fanno i ruffiani; Marco che vuole violentare Ace, mlmlml; Kidd, Law e Corazòn sotto lo stesso tetto, Bepo compreso; e, per finire, un bel fraintendimento di sentimenti per Perona e Mihawk.
Un bel mazzo, direi.
Ma siamo in dirittura di arrivo, non per la fine della storia, ma per la Rivoluzione ^^
 
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Penso sia quello che molti aspettavano. Un passo dopo l’altro, insulti e bestemmie, qualcosa tra i due si smuove, peccato si tratti solo della birra! Cose che capitano, anche se da questo momento in poi, Ace le proverà tutte per sistemare le cose. Almeno, ci proverà.
 
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E intanto Sabo e Koala diventano sempre più amici. Sono così carini che per loro riservo solo romanticismo, dolci e zucchero in abbondanza da far venire il diabete a chiunque. Anche se Sabo continua a non capire niente.
 
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Bepo diventerà grande e bello proprio in questo modo ** per averne un esempio migliore, chi segue il Trono di Spade dovrà solo immaginarsi Spettro, il metalupo di Jon Snow :3 a quanto pare, Kidd ha trovato la bestiola in giro e ha pensato di fare un regalo darlo in affido a Law, il quale, NON SI SA PERCHE’, ha deciso di ospitarlo in casa. Con Corazòn iper-protettivo. Bene, andiamo proprio bene.
 
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Questi due non saranno mai felici, punto. Troppi problemi, troppe regole, tutto troppo stretto per Perona e troppo impegnativo per Mihawk, ma staremo a vedere. Dopotutto, il 14 luglio si avvicina e servono altri uomini nei ranghi dei Rivoluzionari.
 
Siamo alla fine, per oggi. La prossima settimana credo che aggiornerò di nuovo di lunedì perché il fine settimana sarà difficile, credo.
Come sempre grazie a tutti, vecchi e nuovi lettori ^^ vorrei solo essere più presente, scusate.
Un abbraccione a tutti!
 
See yaa,
Ace.

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Capitolo 13
*** Treize. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Treize.

 

-Allora? Che cosa hanno fatto?-
-Dannazione, Eustass-ya! Applicati, ti risulta così difficile?-
Raramente Trafalgar Law perdeva la pazienza e quelle poche volte in cui capitava si assicurava di essere da solo in maniera da poter sfogare la sua rabbia senza nessuno attorno. Quel giorno, invece, oltre che alla fonte del suo fastidio, c’erano anche Penguin e Shachi, spaparanzati su un divanetto posto in un lato della sala dove visitavano i pazienti. Stavano mangiando qualche frutto che Bonney era passata a portare loro durante il pomeriggio per merenda, dicendo che al locale ne avevano troppi e che non andavano mangiati. Da quando quella ragazza avesse preso a gironzolare per le strade, loro non lo sapevano, visto il suo trauma infantile, ma se usciva accompagnata da Nami o da Baby, certamente non correva rischi.
Intanto, lui si massaggiava le tempie per evitare un mal di testa con i fiocchi, dato che quell’ignorante di Kidd non sembrava incline a volerlo ascoltare.
-Ne ho piene le palle di questa roba! Dimmi che cazzo succede e facciamola finita!- stava insistendo il rosso, scaraventando i vari fogli di giornale sul pavimento.
-E’ tutto scritto lì. Se solo tu sapessi leggere non ci sarebbero questi problemi!- ribatté il dottore al limite dell’esasperazione.
Era assurdo, quell’ammasso di muscoli si stava rivelando una vera capra, tanto che fargli da insegnante era risultata una pessima idea e uno spreco di tempo. Non voleva imparare, non ascoltava e non si impegnava nemmeno, quindi lui, per ripicca, non gli diceva cosa scrivevano i giornali. E fanculo lui e le sue urla.
Non gli avrebbe detto per quale motivo, quella mattina del 12 luglio, la folla si era radunata davanti ai cancelli della Reggia Reale con l’intenzione di mostrare il malcontento generale scatenato dalla destituzione di un nobile francese che aveva mostrato, forse troppo apertamente, di essere a favore del popolo davanti ai nobili e al Sovrano stesso. La sua causa era stata presa a cuore dai cittadini e poco prima avevano fatto il diavolo a quattro, ottenendo solo la reazione dell’esercito posto a protezione del Palazzo. Ciò aveva procurato parecchio lavoro a Law, impegnandolo l’intera giornata a ricucire qualche vittima e risanare qualche ferita superficiale, niente di così pesante, ma il difficile si stava presentando in quel frangente, con Kidd che faceva i capricci per non fare i compiti come se fosse stato un moccioso.
Se si fosse comportato meglio e, soprattutto, se avesse preso sul serio l’opportunità di imparare a leggere, avrebbe certamente saputo che Shanks, tramite i suoi rappresentati, aveva richiesto al Re, in modi educati ma fermi, la rimozione delle truppe da Parigi, ottenendo come risposta che solo il Monarca poteva prendere decisioni sulla milizia e che quei militari stavano lì solamente per precauzione. A quella notizia, Law, così come il resto dei Rivoluzionari, si erano fatti una bella risata carica di sarcasmo e disprezzo. Ancora ricordava il pugno chiuso che si era abbattuto con stizza sul tavolo delle riunioni impreviste, quelle che venivano indette all’ultimo minuto e con i pochi presenti che si racimolavano. Ace aveva espresso il suo parere in maniera colorita e con frasi degne di un vero scaricatore di porto, tanto che da Kidd, che aveva ridacchiato per quella sua esplosione, era partito un applauso di rispetto per quelle eresie che erano uscite dalla bocca del corvino. Ovviamente, gli era andato dietro per non essere da meno, anche se di quello che stava succedendo a Parigi sapeva poco o niente, visto che Law aveva proibito a chiunque di rispondere alle domande del rosso. Per convincerli, aveva minacciato di ridurli a cavie per i suoi studi. Dopotutto, doveva ancora scoprire cosa si nascondeva nelle viscere di uno stomaco umano.
Era ovvio che l’aumento delle guardie serviva solo a garantire al Re una qualche via di fuga e, quando aveva proposto all’Assemblea Nazionale di spostare la sede in modo da metterla al centro degli eserciti e averla in pugno, quello che aveva ottenuto era stato un bel dito medio da parte della popolazione, quello di Trafalgar compreso, dimostrando così che la decisione negativa era stata presa con l’intera nazione. Bisognava ammetterlo, l’idea che aveva avuto Sabo, ovvero quella di prendere in considerazione il pensiero di tutti i cittadini, era riuscita perfettamente e lui si era dimostrato proprio un piccolo bastardo calcolatore. Shanks poteva andare fiero dei suoi ragazzi.
La stampa aveva fatto una fortuna con i giornali, dato che non si era parlato d’altro per giorni e in tutte le piazze, salotti mondani compresi. Le Palais Royal e l’area circostante erano diventati luoghi d’incontro tra la gente e la questione politica era diventata talmente importante da far si che l’Assemblea decidesse di far liberare alcuni gendarmi che erano stati imprigionati per non aver aperto il fuoco sulla folla durante una rivolta, chiedendo e ottenendo per loro il perdono. Altra mossa strategica con la quale i Rivoluzionari si erano guadagnati la simpatia e la fiducia dell’esercito.
Infine, era toccato a quel tale, un ministro con idee troppo filo-popolari, per quel motivo la folla aveva organizzato una manifestazione di protesta, con tanto di statue raffiguranti il busto del nobile, opera che era finita in frantumi a causa delle guardie.
Secondo il modesto parere di Law, quella era stata una mossa sbagliata davanti alla quale Shanks e il resto degli Imperatori non sarebbero rimasti impassibili.
-Beh? Me lo dici o devo cavarti le parole di bocca con la forza?- insisté di nuovo Kidd, schioccandosi minaccioso le nocche.
Law, che era veramente stanco di quelle proteste assillanti, voltò il capo verso di lui e lo deliziò di un contorto sorriso che prometteva solo guai. Si poteva definirlo il suo biglietto da visita, il ghigno che avrebbe fatto impallidire il peggiore dei diavoli, quello del Chirurgo della Morte.
-Provaci. Sarebbe estremamente divertente.- disse, sembrando uno squilibrato, tanto che riuscì ad inquietare persino uno come Kidd, il quale, frustrato, lo oltrepassò e uscì dalla stanza, non senza prima aver sbattuto la porta, fregandosene di dover tornare a casa con quell’individuo.
Lasciatosi alle spalle quell’essere fastidioso con il quale si era ritrovato costretto a dividere troppe ore delle sue giornate, tra cena, notte e colazione, si avviò a passo di carica al piano superiore, più che intenzionato a schiaristi le idee. Avrebbe afferrato per la collottola il primo poveraccio che gli fosse capitato a tiro e lo avrebbe obbligato a suon di pugni a rivelargli quello che stava succedendo.
Fu Ace a finirgli addosso mentre saliva le scale, travolgendolo in uno scontro impossibile da evitare e facendo rotolare entrambi giù per i gradini, finendo sul pavimento in un ammasso intricato di gambe e braccia. Inutile dire che l’umore del rosso era peggiorato ulteriormente.
-Moccioso,- sputò con rabbia, -Hai tre secondi per dire le tue preghiere.-
-Oh, ma va’ al diavolo, Kidd! Sei sempre in mezzo ai co…-
-Un’altra parola e ti strappo anche le tonsille.-
-Ma che state facendo voi due?- li apostrofò la voce di Benn, il quale, stringendo un sigaro tra le labbra, afferrò entrambi per il colletto delle loro camicie e li sollevò da terra, spingendoli poi verso il terzo piano, sgridandoli per tutto il chiasso che avevano fatto.
Una volta raggiunto l’ultimo piano, l’uomo, senza lasciare andare i due giovani, aprì la porta socchiusa con un calcio e li fece ruzzolare dentro quella che era stata prima dell’inizio della Rivoluzione un granaio, ecco spiegate le travi del soffitto impolverate e piene di ragnatele. Al centro, posizionato alla meno peggio e con una gamba mancante rimpiazzata da un palo di una staccionata, era stato messo un tavolo sgangherato, con due sedie di numero e qualche candelabro posto sopra a dei vecchi mobili inutilizzati da tempo.
-Marmocchi indisciplinati.- sbuffò Benn, spegnendo il suo sigaro schiacciandolo contro la parete e superandoli, lasciando che si alzassero da soli. Aveva avuto la tentazione di dare ad entrambi un calcio nel sedere, ma si era trattenuto solo perché avevano cose più importanti da fare.
-Sempre a combinare guai, vero?-
Ace sogghignò quando Sabo gli si parò davanti, porgendogli una mano come sostegno, mentre Kidd, accanto a loro, brontolava a mezza voce qualche insulto.
-E’ stata colpa sua, lo giuro!- disse subito il corvino, mettendosi addirittura una mano sul cuore per dare più enfasi alle sue parole.
-Ehi, sei tu che mi sei venuto addosso!- si intromise subito il rosso, sentendosi preso in causa e volendo mettere in chiaro la sua innocenza. Lui stava solo cercando di allontanarsi il più possibile da quel dottore rognoso, era stato il piccoletto che gli era piombato addosso come un proiettile.
Sabo li guardava curioso, ma il teatrino venne interrotto da Shanks che, ordinando con voce ferma a tutti di chiudere il becco, ottenne il silenzio che agognava da parecchio per mettere tutti al corrente degli ultimi avvenimenti.
Ace lo osservò attentamente, zittendosi e mostrandosi loquace. Shanks aveva un’aria stanca e tirata, un bel paio di occhiaie gli segnavano gli occhi assonnati, i capelli gli ricadevano disordinati sulla fronte, mentre la barba incolta e ispida gli aveva ricoperto parte del viso. Gli abiti che portava erano gli stessi che gli aveva visto addosso qualche giorno prima, segno che non passava alla locanda da parecchio.
L’uomo appoggiò le mani sul bordo del tavolo, sospirando prima di iniziare a parlare.
-Dunque,- disse serio, -Poco fa abbiamo mandato una missiva a Corte e abbiamo avvertito, sempre in maniera fin troppo civile, che se Sua Maestà non ritirerà le truppe, Parigi correrà un grosso rischio.-
Benn, poco distante, annuì, d’accordo con il compagno, guardando intanto le facce dei tre ragazzi posti in angoli diversi della stanza, tutti ben distanti tra loro. Kidd si era isolato per sua scelta, Ace aveva trovato una comoda seduta su un vecchio divanetto e Sabo se ne stava appoggiato alla parete, assorto nei suoi pensieri e concentrato sul capo.
Fu lui il primo a porre una domanda che ronzava in testa a tutti, Benn compreso, il quale non aveva ancora avuto modo di porla direttamente a Shanks.
-Cosa ha risposto?-
Il Rosso sorrise sarcastico in risposta. -Ha dichiarato che non cambierà le sue disposizioni.-
-Non avevo dubbi.- sbottò allora Kidd con una mezza risata, ma senza traccia di divertimento. Era più che altro di scherno. -Lo avete praticamente minacciato.-
Ace, riflettendoci meglio, si ritrovò dello stesso parere e boccheggiò per qualche secondo davanti a quella notizia. Perché mai Shanks aveva agito in un modo tanto sfacciato, sapendo quanto la situazione fosse stata in stallo? Il Re avrebbe potuto decidere di attaccare la città da un momento all’altro per un affronto del genere.
-Shanks, con tutto il rispetto,- provò a dire Sabo, mantenendo la calma, -Non ti sembra di avere esagerato?-
Ed ecco che sul volto del Rivoluzionario il sorrisetto iniziale si allargò in modo preoccupante. -Oh, ho sicuramente esagerato.- ammise lui stesso, confondendo sempre più i presenti. -E’ proprio questo che costringerà il Re a fare una mossa sbagliata.-
-Cosa intendi?- fece Benn, muovendosi irrequieto e accendendosi un altro sigaro per tranquillizzarsi.
-Semplice: non appena la Corona muoverà le pedine contro Parigi, noi insorgeremo con una rivolta.-
Ace e Kidd scattarono addosso al tavolo che, fortunatamente si frapponeva tra loro e Shanks, il quale si ritrovò i due ragazzi a pochi centimetri dalla sua faccia intenti a fargli domande e a chiedergli spiegazioni sotto lo sguardo divertito del suo vecchio amico Benn che, assottigliando gli occhi e sorridendo malignamente, lo guardava con un’espressione che sembrava dire ‘sono affari tuoi, adesso’.
L’unico che non si era mosso era stato Sabo, il quale, sconcertato e offeso, batté un pugno addosso al muro, mostrando il suo dissenso e attirando l’attenzione su di sé e sul suo cipiglio arrabbiato.
-Non hai pensato ai cittadini?- ringhiò alterato, fissando il Rosso in maniera torva, -Gli darai l’opportunità di colpire una parte della città che, anche se minima, causerà delle morti?-
Shanks sospirò piano, raddrizzando la schiena e facendo il giro del tavolo per percorrere i pochi passi che lo separavano da quel giovane che vedeva crescere ogni giorno di più. Una volta che fu faccia a faccia con lui, gli posò una mano su una spalla e la strinse in modo da non permettergli di scostarsi, guardandolo dritto negli occhi.
-So per certo che non attaccherà il popolo, Sabo.-
-Come puoi esserne sicuro?- lo sfidò il biondo, incredulo.
-Un uomo che si trova a stretto contatto con il Re e l’intero corpo di guardia è venuto a cercarmi e mi ha riferito un paio di cose interessanti. Non so come agirà la milizia, ma di sicuro non verranno coinvolti i parigini. Noi non gliene daremo il tempo.-
Sabo rimase senza parole per qualche secondo, tempo durante il quale Ace avrebbe voluto chiedere di chi si trattasse ma, notando l’espressione stranita di Benn, si rese conto che nessuno a parte Shanks sapeva di quella soffiata e, se conosceva bene il Rosso, qualcosa gli diceva che non aveva intenzione di rivelare tutte le sue carte, non per il momento.
-Di chi si tratta?- chiese Sabo, più calmo.
-Non posso dirtelo, ho promesso di non citarlo se non fosse stato necessario. Ti basti sapere che è uno si cui ci si può fidare.-
-E’ un ufficiale?- ipotizzò Kidd. Solo uno che fosse stato dentro il giro dei militari avrebbe potuto conoscere certi movimenti e, che lui sapesse, i Rivoluzionari non avevano più inserito spie o corrotto guardie nella cerchia della polizia locale.
Shanks scosse il capo, ghignando enigmatico e spostandosi per recuperare il suo mantello appeso ad un chiodo con l’intento di uscire e andare a casa. Aveva fame e il letto di Makino gli mancava, ma all’ultimo momento si ricordò che c’era ancora una cosa da fare e che non poteva assolutamente essere rimandata. Quella notte, ne lui ne Ace avrebbero dormito.
Così, facendo un cenno al corvino per dirgli di seguirlo, si avviò verso l’uscita con il ragazzo al suo seguito, stranito e all’oscuro del suo piano.
-Meglio.- annunciò prima di varcare la soglia. -E’ un membro della Flotta dei Sette.-
 
*
 
-Perché stiamo andando all’accampamento adesso?- chiese il giovane, arrancando tra le sterpaglie, facendo attenzione a dove metteva i piedi perché, a causa del buio pesto, non vedeva nulla e la lanterna che Shanks teneva in mano davanti a loro per illuminare la via serviva a poco.
L’uomo, alzando gli occhi al cielo, rispose con calma, come se stesse spiegando un concetto difficile ad un bambino ed Ace, a volte, lo era davvero. -Te l’ho detto, abbiamo un appuntamento con Barbabianca.-
-E il vecchio non poteva aspettare domani?- fece sarcastico il moro, facendo una smorfia per evidenziare il suo disappunto. Era notte fonda, la città era in fermento e lui aveva sonno, non era proprio dell’umore adatto per una riunione improvvisata.
E poi, se doveva dirla tutta, aveva delle preferenze all’accampamento, anche se non era carino da parte sua, dato che la sua infanzia gli aveva insegnato ad essere amico di tutti, ma quelle persone, alcune in particolari, difficilmente gli andavano a genio. Primo tra tutti era Marco, la cosa non era nuova a nessuno, poi c’era anche Barbabianca stesso, il quale gli sembrava troppo ben disposto a raccogliere gli sconosciuti sotto la sua ala protettiva. Ciò lo spaventava un poco e lo metteva in soggezione, tanto che meno gli stava accanto, meglio si sentiva. Era una sensazione strana che solo quelli che erano cresciuti senza un padre potevano capire, almeno, quella era la spiegazione più plausibile che Ace aveva trovato, ma si era ugualmente ripromesso che avrebbe fatto uno sforzo per farsi piacere tutti, giusto per non complicare di più la situazione.
Certo era, però, che perdere il sonno non aumentava la sua simpatia nei confronti di quegli stranieri.
-Fidati, è per una buona causa.- dopo di ché, Shanks si fece silenzioso e chiuse quel discorso, addentrandosi sempre più nelle paludi per raggiungere l’accampamento.
Incontrarono un paio di sentinelle lungo il sentiero, tutte persone con le quali Ace ci aveva parlato almeno una volta, quindi passarono senza troppi problemi, raggiungendo finalmente il focolare più grande, quello centrale dove, molto spesso, tutti si fermavano a mangiare.
Le braci erano al limite, una precauzione che bisognava mantenere affinché le fiamme non facessero troppo fumo e non rischiassero di appiccare qualche incendio accidentale che avrebbe messo a rischio la loro permanenza in quei dintorni.
Ace si guardò attorno e, non vedendo nessuno, fece per aprire bocca, ma Shanks lo precedette.
-Arriveranno presto.-
Allora il giovane sbuffò seccato, superandolo e sedendosi su un tronco per non stare in piedi durante l’attesa.
Stava quasi per addormentarsi quando arrivò Barbabianca, destandolo dal torpore e dando un motivo alle sue gambe di alzarsi per non farsi trovare impreparato o poco attento. Gli piaceva mantenere un atteggiamento sempre fiero quando si trovava di fronte quell’uomo tanto alto quanto largo, imponente e leggermente intimidatorio. Avrebbe fatto paura ai meno temerari se non avesse avuto quell’enorme sorriso sempre sul volto, ma Ace non era uno che si impressionava facilmente e non perdeva mai l’occasione per fare lo spaccone in sua presenza. Per qualche strana e contorta ragione, vedere il vecchio ridacchiare per il suo comportamento non lo offendeva, ma al contrario gli dava un motivo in più per mettersi in mostra, come se dovesse avere la sua attenzione.
O la sua approvazione.
-Newgate.- disse Shanks, alzando un braccio e sorridendo cordiale.
-Rosso.- lo salutò il vecchio, raggiungendolo e porgendogli la mano che l’altro strinse calorosamente. -Oh, ciao Ace. E’ un po’ che non ti vedo.- si rivolse poi al giovane, il quale si irrigidì e voltò il capo altrove per mantenere un’aria distaccata che faticava a mostrare mano a mano che il tempo passava. Non voleva avvicinarsi troppo a quella gente, ma allo stesso tempo voleva conoscerli e quei loro modi così aperti, gentili e schifosamente altruisti lo facevano sentire a disagio a volte, sorprendendolo.
Barbabianca rise divertito, spostandosi di lato per sedersi di fronte a Shanks, rivelando allora una figura in piedi alle sue spalle.
-Marco.-
-Shanks.- rispose il biondo con un cenno del capo in direzione del Rivoluzionario, non prestando minimamente attenzione a Ace, il quale, al solo sentir pronunciare il suo nome, si era girato di scatto verso di lui con il battito accelerato e le mani strette a pugno. Accantonando le sue antipatie, e cercando di non pensare per nessuna ragione al contatto troppo ravvicinato che avevano avuto, era stato sul punto di salutarlo, ma il braccio destro di Barbabianca lo aveva ignorato come sempre, facendogli ribollire il sangue nelle vene, mentre un’insana voglia di prenderlo a pugni gli aveva fatto digrignare i denti con rabbia. Allora si sedette accanto al Rosso, incrociando le braccia al petto e zittendosi, ma fissando lo sguardo sul viso di Marco con l’intenzione di guardarlo fino a obbligarlo a degnarlo di attenzione. Se era la guerra che voleva, allora l’avrebbe avuta e gli avrebbe pure dimostrato che lui esisteva e non poteva essere ignorato per sempre.
E mi volevi pure baciare, stronzo! pensò irritato, battendo nervosamente un piede a terra.
Shanks, dopo aver fatto scorrere gli occhi per un istante tra i due, scambiandosi poi un’occhiata con Barbabianca, prese un respiro profondo per iniziare a parlare.
-Dunque, Sua Maestà non ha accettato di ritirare le truppe, perciò mi vedo costretto ad agire.- spiegò al suo alleato, -Inizieremo da domani, non posso permettermi di perdere altro tempo e, come sai, il rischio diventa sempre più alto.-
Si parlavano come vecchi amici, alcuni uomini li avevano visti persino darsi pacche sulle spalle o sedere vicini bevendo un boccale di vino o birra, addirittura lasciandosi scappare qualche risata. Shanks, dal canto suo, rispettava Edward Newgate, lo riteneva un uomo leale e un compagno fidato, pensiero reciproco che condivideva anche Barbabianca, il quale lo ammirava per tutto quello che faceva per salvare la sua Parigi. Avevano molto in comune, entrambi attaccati alle loro famiglie, entrambi desiderosi di migliorare il mondo per i loro cari, entrambi con qualcuno da amare e qualcosa da perdere.
-Siamo pronti, puoi contare su di me e sui miei uomini.- annuì Newgate, imitato da Marco accanto a lui che, sempre fingendo che a quell’incontro ci fosse solo Shanks, gli domandò in che modo avrebbero potuto rendersi utili.
Fu allora che il Rosso si sentì lievemente imbarazzato, tanto che si morse un labbro, passandosi una mano tra i capelli con fare indeciso e lanciando occhiate di richiesta di aiuto a Barbabianca. I due avevano discusso molte volte sul da farsi, preparando in anticipo svariati metodi di attacco e di difesa in modo da non correre il rischio di venire colti impreparati quando sarebbe scoppiata la guerra e in quel frangente si erano visti costretti a mettere in pratica una loro teoria che, fin dall’inizio, era sembrata impossibile, anche se entrambi, almeno un pochino, speravano potesse realizzarsi senza troppe catastrofi.
-Ecco, vedete, è una cosa da niente.- balbettò Shanks, ridacchiando nervoso.
-Un gioco da ragazzi!- lo soccorse il vecchio, battendo il pugno sul palmo della mano, come a voler far risaltare la sua convinzione. In realtà non ci credeva più molto, ma valeva la pena provare.
Marco rimase in silenzio, attendendo con pazienza che la smettessero di fare i bambini e che vuotassero il sacco, mentre Ace, spostando lo sguardo dall’uno all’altro, inclinò il capo confuso e decise di chiedere spiegazioni.
-E in cosa consiste?-
-Voglio che i Rivoluzionari facciano la loro mossa prima dell’esercito.- spiegò il Rosso, imponendosi di rimanere calmo e di arrivare fino alla fine, -Ace, hai presente i vari ingressi che permettono l’accesso a Parigi?-
Il moro annuì, facendo mente locale dell’agglomerato parigino e di tutte le sue strade.
-Bene, voglio che vengano bruciati.-
-Cosa?- esclamò il giovane con aria sconvolta. Forse l’uomo non si rendeva conto di quello che aveva detto. -Si tratta di una cinquantina di entrate!-
-Infatti dovrai appiccare il fuoco solo a quaranta di essi.-
Sbuffando, Ace fece una smorfia insoddisfatta. -Come vuoi, domani vedrò di procurarmi qualcosa di infiammabile, alcuni fasci di legna e anche…-
-Non hai capito, devi farli bruciare domani mattina.-
Barbabianca si morse un labbro, fingendosi impegnato nel controllare i suoi lunghi baffi; Marco si grattò la nuca perplesso, ma vagamente divertito e Shanks temette per un solo istante di non vedere più la luce del sole perché Ace gli aveva rivolto un’occhiata inteneritrice, degna del suo soprannome.
-Tu te moque de moi.- sussurrò minaccioso. Non poteva esserci altra spiegazione perché era assolutamente impensabile riuscire a organizzare circa una quarantina di falò nel giro di una notte e accenderli tutti in simultanea. Shanks doveva per forza stare scherzando.
-Affatto. Anzi, sarà meglio che tu ti metta subito a lavoro.- detto ciò, sfregandosi le mani, il Rosso si alzò con l’intento di salutare tutti, tornarsene a casa e farsi una bella dormita in previsione dell’imminente scontro, per nulla preoccupato degli isterismi del giovane che, contrariato, stanco e offeso da quel comportamento, si lamentava dell’incarico appena ricevuto.
A detta sua, era pretendere troppo e il tempo a disposizione era pochissimo.
-Anche se riuscissi per miracolo a trovare l’infiammabile e a posizionare i fasci di legna nelle entrate, come potrei appiccare gli incendi tutti in una volta? Se ne accorgeranno e inizieranno a darmi la caccia e a domare le fiamme!- calcolò Ace, massaggiandosi le tempie. Tutto quello stress gli aveva fatto venire mal di testa oltre che una fame assurda.
-Ho fatto accumulare della legna sul retro della locanda e troverai già tutte le schifezze che ti servono come combustibile.- affermò Shanks, il quale aveva offerto una ricompensa abbastanza alta a Killer che, disponibile come sempre, gli aveva procurato parte delle risorse in anticipo e nel giro di qualche giorno. -Hai metà del lavoro svolto praticamente.-
-Va bene,- concesse il corvino con fare spiccio, -Ma il resto? Dovrò essere svelto se voglio accendere almeno una ventina di pire prima che se ne accorgano.-
-Hai due cavalli a disposizione.-
Ace lo guardò stranito. -E che me ne faccio di due? Uno basta e avanza.-
-Ne sono certo, ragazzo, infatti l’altro è per mio figlio.- si intromise Barbabianca, sorridendo ampiamente e battendo una pacca sulla spalla di Marco, in piedi accanto a lui, il quale fu colto per la prima volta di sorpresa, mista a orrore.
-W-wait, what?- si scompose, fissando Newgate come se l’uomo avesse appena tradito la sua fiducia. Per l’appunto, lui non aveva la minima intenzione di aiutare quel piromane esaltato a dare fuoco a mezza città, era un compito che non gli spettava. Inoltre, suo padre sapeva bene che non sopportava di buon grado quell’alleanza ed era certo che sarebbe stato più utile in campo, ovvero per le strade a dare man forte ai suoi fratelli e a quei ribelli desiderosi di vendetta.
-Are you fucking…- iniziò a ribattere, ma venne fermato sul nascere delle offese dallo stesso Barbabianca.
-Marco ti aiuterà a far si che tutto sia pronto per domattina, puoi starne certo.- e, con quelle parole, tolse ogni speranza ai due giovani di poter evitare di rimanere in compagnia, cosa che fin dall’inizio erano stati bene attenti a portare avanti per non rischiare di ammazzarsi a vicenda.
Ace ingoiò l’amara notizia e smise di opporsi, sbuffando e preparandosi a tornare in città per iniziare il lavoro, mentre Marco, celatosi dietro un’espressione impenetrabile e caduto in un mutismo per ripicca, si voltò a guardarlo, per la prima volta durante il loro incontro, solamente per trasmettergli con uno sguardo tutto il suo astio e la poca voglia che aveva di lavorare con lui.
Il moro fece una smorfia, deciso a non farsi sopraffarre da quell’aria vissuta e arcigna. Avrebbe accettato la cosa e si sarebbe dimostrato superiore e più maturo. Qualche scaramuccia non gli avrebbe fatto perdere di vista il suo obbiettivo e in quel modo, forse, sarebbe riuscito a smorzare un po’ l’antipatia di entrambi, giusto per rendere tutti più contenti. E, se proprio non ci fosse riuscito, allora avrebbe mandato al diavolo lui, Barbabianca e Shanks compreso.
-Muoviamoci allora.- fece rassegnato, -Abbiamo un falò da preparare.-
 
*
 
Quella fu per Marco la notte peggiore della sua vita e, anche se aveva davanti a sé ancora molti anni prima di campare, era certo che nulla, per nessuna ragione, avrebbe potuto superare quello che aveva passato. A parte l’essere stato messo nel sacco e incastrato in quella situazione da suo padre, aveva toccato il fondo non appena si era ritrovato solo con quel, quel…
Quello stupido moccioso.
Avevano preso una via diversa da quella del Rosso perché la loro destinazione era apparentemente un’altra e durante il tragitto lui aveva pensato bene di mantenersi a distanza di qualche passo, giusto per non dover sentire gli sbuffi fin troppo sonori del ragazzino e per non rischiare di venire coinvolto in una chiacchierata che non avrebbe mai avuto voglia di intrattenere con uno del suo calibro.
Perciò l’aveva seguito in religioso silenzio, con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, l’aria svogliata e priva di altri sentimenti e la mente persa nei suoi ragionamenti riguardanti il compito assegnatoli dal babbo.
Prima di partire aveva recuperato le sue armi perché, a lavoro finito, si sarebbe ritrovato in piazza a combattere, quindi era partito prevenuto, dando così modo a Barbabianca di potergli spiegare che il suo intervento e aiuto erano davvero necessari.
Marco non ne era rimasto tanto convinto, ma al suo vecchio non sapeva dire di no, perciò aveva annuito, sfoggiando per pochi secondi un mesto sorriso, e poi era partito al seguito di Ace.
Avevano mantenuto un passo svelto ed erano riusciti a mettersi a lavoro molto prima dell’alba, spostandosi di alcune decine di metri ogni volta che finivano di piazzare legna cosparsa di una sostanza infiammabile di dubbia provenienza davanti ad ogni ingresso. Lo scopo era quello di farli ardere tutti in una volta per creare un po’ di scompiglio e impedire ai reggimenti situati nei pressi della capitale di raggiungere e dare man forte ai militari fermi all’interno. Un buon piano e la fortuna era dalla parte dei parigini, dato che molte entrate presentavano costruzioni e ponti in legno che il fuoco avrebbe bruciato nel giro di qualche ora.
Avevano fatto tutto in silenzio, senza scambiare mai una parola, ne Marco, ne Ace. Il primo per principio, l’altro perché era stato troppo impegnato e preso dal lavoro per curarsi dei problemi di comunicazione che si erano creati tra loro. Si rese però conto che la questione aveva sfiorato il ridicolo quando Marco, per chiedergli di passargli altra legna, si era schiarito la voce e gli aveva poi indicato i fasci di rami secchi adagiati poco lontano dalle sue gambe. In quel momento, Ace non si era preoccupato di alzare gli occhi al cielo e di lanciarglieli praticamente addosso, ottenendo in risposta una serie di frasi in inglese. Probabilmente insulti a cui non diede peso.
L’altro, dal canto suo, proprio non riusciva a comportarsi diversamente. Sentiva troppo spesso su di sé lo sguardo del francese che, puntualmente, ignorava, fingendo che non esistesse. Certo, si domandava cosa diavolo avesse sempre da guardare, puntandogli contro quegli occhi scuri con tanta insistenza da perforargli la pelle, ma rimaneva fisso nella sua decisione. Ace, per lui, era come il nulla. Non gli importava delle sue lamentele, detestava quando gonfiava il petto come un pavone mentre gli altri lo elogiavano, non sopportava quel suo sorrisetto beffardo e altezzoso, odiava vedere che i suoi fratelli lo coinvolgevano sempre in qualsiasi cosa si inventassero di fare e, sopra ogni altra cosa, gli ribolliva il sangue quando sentiva suo padre apprezzarlo. Era assurdo e impensabile che un mocciosetto come lui venisse preso in considerazione da tutti, insomma, cosa diavolo aveva di così speciale?
-Ehi, testa d’ananas?-
Marco si bloccò e smise di accumulare la legna attorno all’ultimo ingresso quando quel nomignolo raggiunse le sue orecchie, riportandolo con i piedi per terra e attirando la sua attenzione, facendolo voltare verso Ace, guardandolo per la prima volta dopo mesi.
Il ragazzo era in piedi alle sue spalle a circa un metro di distanza, con il peso appoggiato su una gamba, mentre l’altra era rilassata. Aveva le braccia lungo i fianchi, con i gomiti scoperti e le maniche della giacca arrotolate, e la testa inclinata verso di lui. In quel modo i capelli gli ricadevano da un lato e alcuni ciuffi disordinati, oltre che ad incorniciargli il viso dall’aria interrogatoria, gli si erano fermati sulla fronte.
A prima vista dava l’impressione di essere molto più grande della sua età perché le spalle larghe, le braccia dai muscoli sviluppati e l’altezza lo spacciavano per qualcuno con almeno dieci anni in più, ma la sorpresa stava nello scoprire quanto infantile e idiota potesse essere.
Marco assottigliò lo sguardo, lasciando cadere a terra un ceppo, che per la precisione avrebbe voluto scaraventare in testa al compagno, per poi alzarsi e spolverarsi le mani senza mai abbassare la guardia.
-Prego?- si sforzò di chiedere, parlando in francese e facendo risuonare una nota ostile nella sua voce.
Vide le labbra del ragazzo modellarsi in una smorfia infastidita, mentre con una mano faceva un gesto spiccio verso il suo operato. -Ti ho chiesto se hai finito, ma evidentemente non mi hai sentito.- gli spiegò e la smorfia si trasformò subito in un piccolo ghigno beffardo.
Cosa che, ovviamente, Marco non sopportò.
Decise comunque di affrontare la cosa con calma, senza scomporsi troppo. Aveva capito che la sua indifferenza mandava in bestia Ace, perciò era determinato a farne tutto l’uso che poteva.
Così gli restituì il sorriso, sistemandosi la camicia un po’ sgualcita. -Oh, sai, ho semplicemente pensato che era inutile risponderti. Non ne valeva la pena.-
Come aveva previsto, l’effetto fu immediato, ma non uguale a quello che aveva immaginato di vedere.
Ace si arrabbiò, ma gli si avvicinò in un paio di secondi e gli si parò davanti, fronteggiandolo e sentendosi per un istante soddisfatto per non essere così tanto basso come gli era sembrato all’inizio. Lo aveva quasi raggiunto, anche se il biondo continuava ad essere superiore di qualche centimetro.
Ad ogni modo, si ritrovò Marco ad una spanna dal suo viso e non gli importò niente del tempo che stringeva, dei fuochi da appiccare e della battaglia imminente, no, perché era talmente incazzato da voler usare la testa di quell’inglese spilungone come torcia da usare per accendere i falò.
-Stammi a sentire, razza di sbruffone!- sbottò, stringendo i pugni e alzando la voce, -Non me ne frega proprio un cazzo se non mi sopporti e se sei indifferente alle ingiustizie che stiamo subendo qui da anni, ma lascia che ti dica una cosa.- lo informò, facendosi più vicino a Marco, il quale, anche se stupito, non aveva fatto una piega. -Non sei l’unico ad essere preoccupato per le sorti della tua famiglia e non sei nemmeno il primo a non voler combattere. Se non vuoi partecipare allora vattene, se non mi sopporti allora ignorami, ma se per colpa tua le cose vanno storte, sarò io a venirti a cercare alla fine dell’alleanza per ucciderti, chiaro?- domandò il corvino, puntando un dito contro il petto del più grande che, zittito, non ribatté nemmeno a quello sfogo.
-E adesso scusami, ma non ho tempo da perdere con queste sciocchezze.- concluse Ace, superandolo con una spallata abbastanza pesante che dimostrò al biondo che il moccioso era più forte di quanto aveva pensato.
Lo guardò finire di sistemare la legna per poi dirigersi a recuperare due bastoni che avrebbero usato come torce.
Nonostante tutto, si ritrovò costretto ad ammettere che, forse, e in piccola parte, aveva un pochino esagerato. D’accordo, odiava quella situazione, ma era semplicemente preoccupato per i suoi cari come, d’altronde, lo erano tutti i Rivoluzionari. Che poi fossero simpatici o meno, non aveva importanza. L’obbiettivo, il quelle circostanze pericolose, era collaborare.
Quando Ace andò verso di lui con due torce accese in mano e gliene porse una, non lo ignorò e non evitò il suo sguardo, mantenendo alta la guardia e cercando di capire cosa gli passasse per la testa. Non era sicuro che sarebbe riuscito a farselo amico come aveva fatto Thatch, ne che avrebbero iniziato a rispettarsi, ma un minimo di civiltà poteva dimostrarlo nei suoi confronti.
-Tieni questa e monta a cavallo. Tu andrai da quella parte, mentre io farò il giro dall’altra. Ci ritroviamo al punto stabilito questa notte.- detto ciò, Ace salì con un movimento fluido sul suo destriero e Marco fece altrettanto, tenendo poi a bada l’animale e aspettando che il rivoluzionario dichiarasse la partenza.
-Ah, un’ultima cosa.- fece il moro, calcandosi con un sorriso il cappello in testa per poi scoccargli un’occhiata che sapeva di sfida. -Spero tu sia veloce.-
Marco, rispondendogli con lo stesso tono e lo stesso sguardo, riuscì, per la prima volta, a rendere l’atmosfera tra loro meno pesante di com’era di solito.
-Facciamo a chi arriva prima?-
 
*
 
Come aveva previsto Shanks, la mattina del 13 luglio nessun attacco da parte della milizia venne mosso contro i cittadini parigini, ma chiunque dalle proprie abitazioni avrebbe potuto vedere quaranta dei cinquanta ingressi della città andare a fuoco e ardere tra le fiamme alte e vivaci e il fumo soffocante.
I reggimenti della Guardia cercarono di contenere gli incendi, ma senza un gran successo. Era accaduto tutto troppo in fretta; una ad una le entrate si erano accese e illuminate come le vie durante i mesi più freddi e non c’era stato nulla da fare per impedirlo. Anche dopo qualche ora, il fuoco non si spegneva e i militari non avevano la minima idea di cosa fare, ne su chi fosse stato l’artefice, anche se la colpa era stata sicuramente dei Rivoluzionari, i quali stavano aizzando la popolazione nelle piazze proprio in quegli istanti.
Poco lontano dal convento di Saint-Lazare, un edificio che fungeva anche da ospedale e orfanotrofio, appostato lungo una via stava un giovane ciarlatano e logorroico a cui era stato dato l’incarico di radunare la folla e indurli, con coinvolgenti giri di parole e frasi incoraggianti, di prendere in mano la situazione e saccheggiare tutti i magazzini della città per appropriarsi del cibo che spettava a tutti loro.
-Come farete a sfamare i vostri figli se il prezzo sul pane continua a crescere?- stava chiedendo il ragazzo, urlando a squarciagola e brandendo in mano una baguette come simbolo per la sua campagna. -Quanti ancora dovranno morire di fame, mentre a Palazzo il Re e tutta la Corte si ingozzano fino a scoppiare?-
La folla faceva sentire il suo malcontento con urla, insulti e minacce, e Usopp sapeva che mancava veramente poco prima che tutti afferrassero pale e forconi per mettersi all’opera. Serviva solo una piccola spinta finale e, fortunatamente, Zoro gliel’aveva fornita poco prima, tornando vittorioso dal suo giro di ricognizione e rivelandogli quello che aveva scoperto.
-Cosa fareste se vi dicessi che tengono il nostro cibo nascosto in dei magazzini?- domandò allora, ottenendo l’effetto che voleva.
-Ce lo prenderemo!-
-Si! Ce lo meritiamo!-
-Ce n’è uno proprio qui vicino! Il convento di Saint-Lazare!- li informò allora, -Chi è con me?-
Aveva immaginato di portare a termine il suo compito di aizzare gli animi, ma non aveva previsto che una calca numerosa di persone lo avrebbe quasi investito, rischiando di calpestarlo, per correre di fretta verso il posto da lui indicato. Fortuna che si era fatto da parte in tempo, altrimenti avrebbe fatto ritorno a casa tutto acciaccato.
Certo, perché lui la sua parte l’aveva fatta e, sicuramente, non avrebbe fatto a botte con nessuno per essere in prima fila quando la rivolta sarebbe arrivata ad un corpo a corpo con i gendarmi.
Se lo possono scordare!, pensò, coprendosi bene con un mantello e dirigendosi svelto verso il Quartier Generale, Ora me ne torno a casa e aspetto che le acque si calmino. Dopotutto, non posso mica sfoderare subito le mie carte vincenti. Sono il Rivoluzionario Usopp, uno dei migliori, cosa farebbero se rimanessi ferito, o peggio, se morissi?
Un brivido gli corse lungo la schiena, facendogli aumentare il passo. Col cavolo che avrebbe rischiato la pelle, lui.
 
*
 
Intanto, al Municipio di Parigi, mentre vari disordini e saccheggi continuavano ad aumentare di numero e la città sprofondava nel caos, un gruppo di Rivoluzionari assieme ad alcuni esponenti del Clero e della Borghesia, si stavano riunendo in quelle sale per impedire che i soldati si accanissero sulla popolazione. Per difendere i cittadini, quelli meno adatti alla guerra, era giusto mettere a disposizione un buon numero di combattenti che fossero all’altezza di sostenere uno scontro, in modo da trovarsi preparati e pronti a tutto se le cose fossero degenerate. Venne così deciso di organizzare una milizia popolare composta da insorgenti, alcuni furfanti, rivoltosi e uomini borghesi. Quella milizia avrebbe garantito il mantenimento dell’ordine e avrebbe inoltre difeso i diritti costituzionali.
-Dunque, siete tutti d’accordo?- stava chiedendo Benn, una piuma tra le mani e l’inchiostro a portata di mano, pronto a scrivere una lista dei nomi dei volontari e dei Signori che avrebbero messo a disposizione della Rivoluzione i loro uomini di fiducia.
A parte qualche dissenso, la maggioranza approvò la proposta che era stata fatta da uno dei più giovani presenti quel giorno, il quale faceva le veci di Shanks. L’idea era venuta da lui, ma per motivi di sicurezza e per questioni più importanti, ovvero tenere a bada le guardie francesi nei sobborghi, non si era presentato, lasciando il compito a Sabo che, ormai, ci aveva preso la mano a dettare legge e a farsi rispettare.
-Uno ad uno fatevi avanti e dite il vostro nome.-
Mentre gli uomini stavano in fila, la lista si allungava e il numero dei partecipanti alla milizia cittadina aumentava a dismisura, dando buone speranze a Benn, felice di potersene tornare a casa a lavoro finito a dare la buona notizia al suo capo per poi prendersi una sbronza con Yasop e il resto della banda.
-Nome?- chiese, quando si presentò l’ennesimo candidato.
-Basil Hawkins, al vostro servizio.- rispose l’uomo, attirando su di sé lo sguardo curioso di buona parte dei presenti. Nessuno lo aveva ne sentito ne visto arrivare e, di certo, nessuno lo conosceva o lo aveva mai incontrato prima.
Anche Sabo, che di gente ne conosceva parecchia, non si era mai imbattuto in un personaggio simile e gli avrebbe fatto volentieri qualche domanda prima di accettarlo nei ranghi se Koala, la quale si trovava assieme a lui con il compito di aiutarli, non lo avesse distratto con la sua espressione sorpresa.
-Lo conosci?- le bisbigliò all’orecchio, chinandosi un poco.
Lei annuì. -Non bene, ma l’ho già visto. Conosce Barbabianca ed è una specie di cartomante, ma non so altro.-
-Siete solo, Monsieur?- fece Benn, fissando il nuovo arrivato con distacco e sospetto.
Basil non si offese per quella diffidenza plausibile, l’aveva prevista, come aveva previsto il luogo d’incontro e come sapeva da molto prima di quell’idea di organizzare una milizia a difesa del popolo,  perciò rispose in modo educato, ma secco. -Siamo circa una cinquantina di uomini.-
Lesse lo stupore negli occhi di molti, soprattutto in quelli del giovanotto in fondo alla sala, il quale sembrava morire dalla voglia di presentarsi e porgli un sacco di domande.
Gli bastò un’occhiata per capire che quel ragazzo aveva un gran compito da svolgere, oltre che a possedere molto carisma, e anche a lui stesso avrebbe fatto piacere scambiarci qualche parola, ma sentiva che quello non era il momento. Ce ne sarebbero stati altri e, per quel giorno, le carte gli avevano mostrato compiti differenti.
-Col vostro permesso, Signori.- mormorò Hawkins, dando le spalle al gruppetto di persone e avviandosi verso l’uscita.
-Mette i brividi.- sussurrò Koala e trovò Sabo pienamente d’accordo con lei, anche se avrebbe tanto voluto fermarlo per raccogliere qualche informazione sul suo conto da presentare a Shanks. Non si era mai troppo al sicuro, soprattutto con gli sconosciuti.
Una volta terminata la lista, venne stabilito che ogni uomo partecipante alla brigata avrebbe indossato come simbolo una coccarda ricamata con i colori di Parigi, ovvero blu e rosso.
Ne venne consegnata una a tutti i presenti e altre vennero date loro in dotazione affinché le distribuissero ai loro uomini. Ne indossò una anche Sabo, puntandosela al petto con orgoglio. Se ne mise poi una in tasca per darla più tardi a Ace, mentre l’ultima che teneva tra le mani sapeva esattamente a chi regalarla.
-Tieni.- disse a Koala, porgendogliela con un sorriso entusiasta.
Lei sbatté le palpebre, sorridendo poi a sua volta. -Posso? Davvero?-
-Che domande! Fai parte del gruppo, no?-
La guardò ridacchiare, mentre fissava la spilla sul bavero della giacca, nascondendo infine le braccia dietro la schiena e alzando la testa per mostrargliela. -Come mi sta?-
-D’incanto.- approvò il ragazzo, annuendo convinto, tornando poi con i piedi per terra quando Benn lo chiamò, ponendogli una domanda alla sprovvista.
-Ehi, Sabo, ma le armi?-
Effettivamente, se volevano avere una possibilità, avevano bisogno di armi per la milizia e si dava il caso che Sabo sapeva esattamente dove trovarle.
Doveva ammettere che all’inizio, quando Shanks aveva ideato il piano, si erano ritrovati ad un punto morto proprio a causa della carenza di ferri, ma grazie alle continue ronde e ricognizioni fatte per tutta la città, erano riusciti a scoprire che alcuni edifici, oltre che a fungere da magazzini per il cibo, mantenevano al sicuro anche molte armi.
Il giovane sorrise, scambiandosi un’occhiata complice con Koala, la quale era a conoscenza della cosa, e afferrò la sua giacca blu, pronto per uscire.
-Dite ai vostri uomini di prepararsi.- li avvisò. -Abbiamo un po’ di luoghi da saccheggiare.-
E, mentre chiudevano le sale del municipio e si affrettavano a scendere nelle strade, un pensiero fisso spiccava nella mente di Sabo, determinato ad andare fino in fondo e a mettere fine a quel lungo tempo di separazione forzata.
Prima tappa: la fortezza della Bastiglia.
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Buonasera! E’ tardissimo, lo so! Ho anche un sacco di scuse da fare e cose da dire, quindi andiamo con CALMA.
Scusatemi il mio ormai classico ritardo, a parte gli impegni vari, voglio sempre avere un capitolo pronto in più, giusto per non perdermi troppo per strada come mi è già capitato con altre long (CHE PRIMA O POI FINIRO’ *O* ).
Stiamo, finalmente oserei dire, arrivando alla parte centrale, chiamiamola così, dove troviamo il famoso avvenimento della presa della Bastiglia. Informandomi sui fatti ho letto di un sacco di morti, quindi dovrò sbizzarrirmi e buttare giù una lista di vittime. LOL, mi servirebbe un Death Note.
Anyway, su questo capitolo vediamo un Eustass Kidd analfabeta. No, ok, la cosa mi ha fatta scoppiare a ridere. Insomma, il poveretto è una capra! Oltre a lui, vediamo che Shanks ne ha sempre una pronta, ma non riesce mai a raggiungere la cara Makino. Lo prometto, mi farò perdonare, mlmlml.
Ace inizia a prendere in simpatia Barbabianca e quell’aria paterna del vecchio lo sta, a poco a poco, conquistando ** anche se con Marco le cose non vanno proprio alla grande ma, chi lo sa, forse stanno per cambiare? Anche perché il biondo ha provato ad abbordarlo, ricordiamocelo!
E poi arriva Usopp che ha il suo bel da fare come oratore, ma solo per poco perché non può rischiare troppo, non è ancora arrivata la sua ora, mentre Sabo ormai sta usurpando il posto di Shanks, è sempre in mezzo come il giovedì, dopotutto. Ma lasciamogli pure le questioni burocratiche, penso che nessuno sia più adatto di lui a fare il politico. E, come è giusto che sia, dove c’è lui c’è Koala :3 E’ arrivato anche Basil, ma di lui ne parleremo più avanti.
(Mi sono resa conto che Smokah-san è scomparso, così come Tashiji ;________________; non so dove siano finiti, lo giuro)
Oh, e nel prossimo capitolo inizia la rivoluzione, giusto per dire :D
 
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http://images3.wikia.nocookie.net/__cb20090630154539/onepiece/tr/images/3/3d/Shanks1.png come to me, bro.
 
http://40.media.tumblr.com/tumblr_m49k5kwPEU1qebmgqo1_1280.jpg vecchio, vuoi rogne?
 
http://img4.wikia.nocookie.net/__cb20140916081227/onepiece/images/e/e6/Usopp_Manga_Pre_Timeskip_Infobox.png vai, Usopp, incita la folla.
http://www.centrostudilaruna.it/wp-content/rivoluzionefranceses.jpg Saint-Lazare durante la rivolta.
 
https://s-media-cache-ak0.pinimg.com/originals/b2/c9/9e/b2c99e64e97f9bb38ac96821beb294b4.jpg
 
Grazie come sempre a tutti, recensori e lettori silenziosi, spero vi stiate divertendo!
Beeeeeene, ci vediamo la prossima settimana, spero ^^
See ya,
Ace.

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Capitolo 14
*** Quatorze. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Quatorze.
 
Era stata una notte movimentata quella che aveva preceduto la mattina del 14 luglio e i poveri diavoli che erano finiti per svariate ragioni a passare quel che restava della loro vita nella Bastiglia non avevano chiuso occhio, curiosi e interessati allo scompiglio che si era ininterrottamente riversato per le strade.
Tutti gli occhi si erano ammassati alle finestrelle strette e sbarrate per osservare meglio, per fare da tramite a quelli che non potevano muoversi o alle celle situate più in profondità, senza contatti con il mondo esterno. Anche se lontani, riuscivano ad adocchiare svariati particolari e, ogni qualvolta che una guardia veniva colpita dai cittadini, si alzava un urlo di gioia generale, mostrando chiaramente per chi tifassero tutti i detenuti.
Le uniche ore di calma furono all’alba, quando gli spari cessarono e le grida di malcontento si zittirono per dare modo alle due fazioni di riposare e riprendere fiato prima del botto finale.
Perché la rivolta era appena iniziata, lo sapevano tutti. Nell’aria si respirava quel clima di stallo, l’attimo prima dello scoppio. L’aria era satura di tensione e aspettative, dalle strade si alzava la polvere e alcune vie erano impraticabili dopo i vari scontri avvenuti. Numerosi edifici erano stati saccheggiati e gli ingressi arsi dalle fiamme erano crollati con il calare del sole.
All’interno del penitenziario, non si sentiva volare una mosca. Tutto era silenzioso, molti uomini si erano rannicchiati negli angoli meno sudici, o sdraiati nelle brandine per schiacciare un pisolino, o semplicemente per aspettare che qualcosa accadesse.
Uno solo era rimasto vigile senza mai chiudere gli occhi, mantenendo lo sguardo fisso sulla città, mentre con le mani si teneva ancorato alle sbarre della finestrella, come se fosse stata l’unica sua salvezza. Di lì a breve sarebbe successo qualcosa, lo sapeva, se lo sentiva. Ne era certo, come non aveva dubbi su chi fosse stato l’artefice di tutti quegli incendi. Solo un esperto come suo fratello Ace avrebbe potuto organizzare un botto come quello e di ciò ne andava fiero.
Un movimento alle sue spalle lo avvisò del risveglio di uno dei suoi compagni di cella e, poco dopo, un viso conosciuto spuntò al suo fianco.
-Moccioso, sei ancora fermo qui?- gli domandò Bagy, assonnato, mentre si stiracchiava e faceva scricchiolare tutte le ossa indolenzite a causa delle posizioni scomode alle quali era costretto.
Rufy annuì lievemente, concentrato su ogni piccolo movimento che scorgeva da quell’altezza. -Stanno arrivando.- sussurrò pacato, al che Bagy lo squadrò con un velo di preoccupazione. Certo, anche a lui sarebbe piaciuto filarsela da quel postaccio, ma aveva seri dubbi sul fatto che a qualcuno venisse in mente di attaccare una fortezza come quella in cui si trovavano.
Si passò una mano sul volto stanco, segnato da occhiaie profonde. -Lo spero, ragazzino. Lo spero davvero.-
Allora, Rufy si voltò a guardarlo e, inaspettatamente, gli regalò un ampio sorriso, uno di quelli che gli riempivano tutta la faccia e che andavano da un orecchio all’altro. A volte sembrava essere di gomma perché nessuno mai era riuscito ad imitarlo.
-Stanno arrivando!- ripeté con convinzione.
-Ho capito.- fece Bagy, guardandolo con il suo solito cipiglio scettico. -Ti ho detto che lo spero.-
-Ma no!- disse il ragazzo, afferrando l’uomo per i capelli e trascinandolo più vicino per schiacciargli direttamente il viso contro le sbarre fredde. -Guarda! Stanno arrivando.- scandì con entusiasmo, indicando un gruppo di gente che si avvicinava sempre di più alla Bastiglia, brandendo forconi, bastoni e spade.
Bagy sgranò gli occhi, incredulo, mentre, attimo dopo attimo, le grida iniziavano a farsi strada, salendo sempre più di volume fino ad arrivare alle orecchie di tutti, svegliando i detenuti e allertando le guardie di ronda che, insospettite dal baccano, si riversarono fuori dall’edificio, lasciando le celle senza controllo.
-Ehi, che succede?-
-Fatemi vedere!- si lamentò Mister Three, allungando le mani per aggrapparsi alle spalle di Bagy e Rufy con l’intento di spostarli.
Il più piccolo lo lasciò fare, sghignazzando allegramente e dirigendosi verso l’entrata della sua cella, mettendo la testa tra le sbarre e gridando a tutti di svegliarsi e di tenersi pronti per l’evasione, scatenando un pandemonio di speranze e impazienza. L’aria di libertà iniziava a scorrere tra le mura, animando sempre più le persone all’interno e dando la carica giusta che serviva per raggiungere l’obbiettivo.
-Ehi tu, piccoletto, ne sei certo?- gli chiese un energumeno nella stanzetta accanto alla sua.
-Assolutamente. Dopotutto, i miei fratelli me lo avevano promesso.-
-Uh? Promesso cosa?-
-Che mi avrebbero fatto uscire!-
 
*
 
Quella mattina, alle prime luci dell’alba, un gruppo di insorti attaccò l’Hôtel des Invalides con lo scopo di recuperare delle armi, riuscendo nell’impresa e impossessandosi di un alto numero di fucili e baionette, compresi un paio di cannoni. L’unico intoppo che trovarono, però, fu la mancanza di polvere da sparo. Fu quello uno dei principali motivi per i quali decisero di attaccare la prigione-fortezza della Bastiglia, da tempo ormai simbolo del potere del Monarca.
L’imponente edificio medievale non scoraggiò gli uomini quando lo raggiunsero, trovando il ponte levatoio alzato e l’ingresso principale sbarrato da un gruppetto di ufficiali volontari. I Rivoluzionari erano nettamente superiori, ma acconsentirono ad intavolare una trattativa che, dopo un paio d’ore, rese chiaro che non sarebbe servita a nulla. Non restava che trovare altre entrate secondarie.
-Io non avevo pensato al problema delle guardie.- borbottò Ace, colto alla sprovvista. Aveva sentito dire che i detenuti rinchiusi non fossero molti, perciò aveva ipotizzato che, allo stesso modo, la polizia non avesse ritenuto necessario mettere a guardia della prigione una quarantina di uomini, quando in città era scoppiato il finimondo.
-Fortuna che ci sia io, allora.- lo apostrofò Sabo, sorridendogli sfacciato. -Ieri abbiamo passato l’intera giornata a saccheggiare magazzini, era ovvio che avrebbero aumentato la vigilanza nei luoghi in cui nascondono qualcosa.- spiegò, tornando a guardare la Bastiglia e sorridendo quando si accorse che, ad una delle finestre in alto, era legata una camicia rossa. Anche se sbiadita, sapeva esattamente a chi apparteneva.
Ace seguì il suo sguardo e si ritrovò a sorridere pure lui, sentendo il battito nel cuore aumentare di velocità, mentre il petto si gonfiava di determinazione e coraggio.
-Penso che Rufy si sia riposato abbastanza.- mormorò il biondo, scambiandosi un’occhiata complice con il moro, il quale annuì convinto.
-E’ ora di tirarlo fuori.- decretò, estraendo un paio di pistole che aveva assicurato alla cintura e caricandole. -Tu pensi a questi, mentre io mi occupo del ponte?-
-Fantastico. Ci vediamo più tardi in piazza.- concordò Sabo, poi fece qualche passo avanti, mettendosi in prima linea mentre, alle sue spalle, i suoi compagni impugnavano le armi, pronti all’attacco.
Si assicurò di avere l’attenzione dei soldati su di sé e, sistemandosi i guanti, si fermò per fronteggiarli, sorridendo sprezzante e sicuro di sé.
Ci fu un attimo di immobilità assoluta in cui nessuno osò respirare.
Ad un tratto, Sabo alzò le braccia verso il cielo in un gesto teatrale e le riabbassò fulmineo, lasciando cadere a terra dei sacchetti contenenti un composto esplosivo preparato apposta per quel momento da Usopp, i quali, a contatto con il terreno, scoppiarono e fecero alzare tutt’attorno una cortina di fumo che permise agli insorti di attaccare senza la preoccupazione di venire colpiti dagli spari.
Tutto ciò, infatti, era stato organizzato per cogliere le guardie di sorpresa, aumentando le probabilità di riuscita e dando modo a Ace e al resto degli uomini di tagliare le catene del ponte levatoio per penetrare nel cortile interno senza essere braccati o presi di mira.
Così, mentre Sabo apriva le danze alle porte della Bastiglia, Ace sfondava un portone di servizio, entrando a spada tratta nell’edificio e iniziando a setacciarlo da cima a fondo, lasciandosi alle spalle una serie di vittime che gli avevano sbarrato la strada quando aveva superato la prima linea di difesa.
-Liberate tutti i prigionieri, non deve restare nessuno qui dentro!- esclamò, indicando agli insorti le prime celle che incontrarono lungo il corridoio. -E prendete tutte le armi che trovate!-
-Forza gente, muoviamoci!-
I Rivoluzionari si divisero ed iniziarono ad eseguire gli ordini, facendosi aiutare dai detenuti che, mano a mano, liberavano per scoprire dove i soldati tenevano cibo e armi.
-E non dimenticate la polvere da sparo.- si premurò di ricordare loro il corvino, prima di filare su per le scale con l’intento di raggiungere il terzo piano. Obbiettivo che, a metà rampa, trovò un intoppo dovuto a tre secondini che erano rimasti a guardia del secondo livello.
Sbuffò seccato, alzando gli occhi al cielo e rinfoderando le pistole per estrarre la spada, pronto a farsi largo.
-Levatevi dai piedi!- disse frettoloso, incrociando le lame con il primo soldato che si fece avanti, sbilanciandolo e facendogli perdere l’equilibrio per spintonarlo poi giù dalle scale, lasciandolo in balìa dei suoi compagni che lo stavano seguendo.
Toccò poi al secondo, il quale ricevette un poderoso pugno allo stomaco, invece il terzo si ritrovò semplicemente alle strette, accerchiato da un alto numero di uomini, mentre Ace lo superava e lasciava agli altri buona parte del divertimento, facendo gli scalini due a due per essere più veloce, arrivando al terzo piano incespicando nei suoi stivali e col fiatone.
C’era un bel casino nelle celle. Molti detenuti sbraitavano e cercavano di acchiapparlo per costringerlo a liberarli, ma Ace li evitò con facilità, percorrendo il corridoio e guardandosi a destra e a sinistra alla ricerca di un prigioniero in particolare.
Lo trovò in fondo, dove l’edificio faceva angolo, in una cella con altri tre uomini che indossavano abiti che avevano l’aria di aver visto giorni migliori. Lo riconobbe immediatamente, anche se indossava una giacca diversa e più grande di almeno due taglie. Era inconfondibile anche in quello stato, con i capelli in disordine e più lunghi, il viso e le mani sporchi e un lieve accenno di barba sul mento ancora da adolescente. Avrebbe saputo trovare suo fratello ovunque solamente grazie all’enorme sorriso di quest’ultimo e allo sguardo acceso e gioioso che lesse in quegli occhi scuri e grandi.
E non avrebbe mai permesso a nessuno di portarglielo via perché, quando se lo ritrovò tra le braccia dopo aver aperto la porta della cella, la sensazione che provò nel saperlo vivo e vegeto gli scaldò l’anima, facendolo sentire nel posto giusto al momento giusto.
-Sapevo che saresti arrivato, Ace!- ridacchiò Rufy, stringendosi convulsamente alle spalle del fratello maggiore, abbracciandolo con forza e felice di rivederlo dopo tutti quei mesi, soprattutto perché i primi tempi lo aveva creduto perso per sempre. Invece Ace era tornato, lo aveva fatto per lui e non lo avrebbe mai abbandonato in quel mondo da solo, senza una famiglia e senza un fratello.
-Te l’avevo promesso, no?- gli ricordò il più grande, accarezzandogli la zazzera scura e spettinata. -Non potevo lasciare il mio fratellino rinchiuso in questo postaccio e per giunta senza carne.-
Rufy si bloccò all’istante, alzando il capo verso di lui e mostrandogli un paio di occhioni lucidi. -Ace… Io…-
-Andiamo, Rufy, va tutto bene, ci sono qui io ades…-
-Ho fame!- scoppiò il minore, sbraitando e zittendo per alcuni secondi tutte le voci che avevano fatto da sottofondo durante quella rimpatriata tra fratelli.
Una furia dai capelli azzurri si parò tra di loro, afferrando il piccoletto per la collottola e strattonandolo senza ritegno, stupendo Ace. -Tu, razza di pozzo senza fondo!- lo insultò, spedendolo a terra con uno spintone e rivolgendosi poi a Pugno di Fuoco. -Il tuo caro fratellino non ha fatto altro che ingozzarsi con la nostra razione di cibo!-
-Ma io ho sempre fame!-
-Come se non l’avessimo capito.-
-Ehi, io ti conosco. Tu sei Bagy!-
A quelle parole, l’ego dell’uomo prese il sopravvento sull’affronto e sulle sofferenze subite. Si voltò verso il corvino, gonfiando il petto e indicandosi. -In persona. Mi compiace sapere che mi hai riconosciuto, ragazzo. Di certo il nostro incontro deve averti toccato parecchio.-
Si beccò una pacca sulla schiena che lo lasciò senza fiato a causa della forza esercitata. -Come potrei dimenticarlo!- fece Ace, felice di rivedere quel clown tanto simpatico. -Sei quello che hanno sbattuto fuori dalla locanda per aver imbrogliato durante una partita a carte! Che risate quel giorno.-
Bagy si sentì gelare. Ovviamente non aveva raccontato quella parte della storia ai suoi compagni di cella e i risolini che gli giunsero alle orecchie da parte di Mister Three e Von Clay lo irritarono parecchio. Possibile che Rufy avesse un fratello ancora più stupido e piantagrane?
-M-ma… Ma che stai dicendo?- provò a salvarsi la faccia senza però molto successo, anche perché il tempo stringeva e Ace sembrava essersi reso conto di aver cincischiato fin troppo.
Aiutò Rufy ad alzarsi e, dopo avergli messo in mano una spada, gli spiegò velocemente cosa fare e in poco tempo tutti i detenuti del terzo piano facevano il diavolo a quattro in strada, dando man forte ai Rivoluzionari che avevano intrattenuto le guardie durante l’assedio.
A Rufy non sembrava vero di mettere piede fuori da quell’infernale prigione, respirare finalmente a pieni polmoni l’aria parigina e vedere cose diverse dalle mura e dalle solite facce note. Anche se, doveva ammetterlo, era certo di essere stato in compagnia dei migliori compagni di cella di sempre, persone che si mise subito a cercare in mezzo alla folla, accorgendosi di averli persi di vista tutti.
-Ehi, Rufy! Andiamo, la festa si sta svolgendo in piazza!- lo richiamò Ace, distraendolo e ricordandogli che, probabilmente, avevano determinati ordini da eseguire, perciò si rassegnò a seguirlo. Non che non fosse contento, ma avrebbe voluto salutare i suoi amici e augurare loro buona fortuna.
Ormai i rivoltosi avevano messo alle strette le guardie ed erano riusciti con successo ad impossessarsi della Bastiglia, liberando tutti i prigionieri, compresi ex militari incarcerati per aver sostenuto la causa del popolo, i quali presero immediatamente le difese dei cittadini. I soldati trovati morti vennero decapitati e le loro teste furono infilzate su pali appuntiti e brandite come trofei lungo le strade attraverso tutta la città, in modo da rendere chiaro a tutti l’esito dell’attacco. Uno dei dirigenti della prigione che aveva gettato la resa fu aggredito dalla folla e linciato, mentre gli altri sopravvissuti furono fatti prigionieri, in attesa di giudizio.
Non sarebbe passato molto prima che la notizia della presa della Bastiglia si diffondesse in tutta la Francia.
 
*
 
In una delle piazze più grandi, più precisamente quella poco distante dalla reggia del sovrano, gli insorti avevano dato inizio ad una rivolta che si era allargata a macchia d’olio, raggiungendo buona parte della periferia e comprendendo entrambe le rive. Chi non poteva combattere si era rifugiato o barricato in casa, mentre chi era in grado di impugnare una qualsiasi arma era corso in strada a combattere per i propri diritti. Si vedevano uomini di ogni età, giovani ragazzi che correvano da una parte all’altra per aiutare i rivoltosi a costruire delle barricate nelle vie più strette, donne che, dall’interno dei magazzini, rifornivano di fucili e pistole coloro che ne erano sprovvisti. Tutti si davano da fare per ottenere ciò che volevano, ovvero la libertà di parole e di pensiero, la possibilità di una vita migliore e di un’esistenza serena, senza l’acqua alla gola e la paura di non arrivare a fine giornata.
C’era chi combatteva per la prima volta e chi di battaglie era ormai un veterano ma, anche se la maggior parte dei parigini erano mercanti e contadini, le guardie avevano comunque il loro bel da fare per tenere a bada Rivoluzionari e giovanotti attaccabrighe.
A quel proposito, appostati sul terrazzo di una casa a quattro piani, ben riparati dietro ad una porta in legno massiccio scardinata e usata come scudo appoggiato alla ringhiera, Thatch e Izou giocavano a colpire i soldati che vedevano svoltare l’angolo della via per raggiungere i rivoltosi, sparandogli addosso e guardandoli cadere uno ad uno.
Izou si accovacciò per mettersi comodo, puntando il suo fucile attraverso il buco creatosi dopo che avevano divelto la maniglia, e chiuse un occhio per prendere meglio la mira.
Senza nemmeno guardare il fratello, gli fece una proposta. -Chi ne elimina di più vince?-
Thatch sorrise in maniera contorta, caricando un altro colpo. -Io sono già a quota diciassette.-
Il volto del compagno rimase impassibile e, dopo aver sparato, si rilassò per passare al prossimo. -Con questo fanno ventinove.-
-Cazzone.- ringhiò il castano, continuando a prendere la mira e sparando più spesso di prima nella speranza di beccarne più di qualcuno e alzare i suoi punti.
L’aveva ormai quasi raggiunto quando, mentre si sporgeva per scorgerne altri, un proiettile andò a conficcarsi sul muro alle sue spalle, passandogli esattamente a pochi centimetri dal viso e graffiandogli uno zigomo.
Si tirò indietro, imprecando e pulendosi con una mano il rivolo di sangue, allertando Izou e dicendogli di fare attenzione. Il moro assottigliò lo sguardo, nel tentativo di capire dove si stava nascondendo il cecchino che, sicuramente, era salito allo stesso piano nell’edificio di fronte al loro per fermare il massacro dall’alto che stavano compiendo indisturbati.
-Riesci a vederlo?- fece Thatch, sbuffando arrabbiato e rimettendosi in posizione.
Izou annuì. -E’ nascosto bene. Facciamo attenzione.-
L’uomo si sporgeva di rado e ogni qual volta che i due fratelli provavano a mirare verso la strada per fornire fuoco di copertura ai civili, puntualmente gli scaricava addosso una serie di proiettili nel tentativo di farli fuori. Nemmeno Izou, che da sempre era un grande tiratore, era ancora riuscito a renderlo inoffensivo.
-Ora basta!- sbottò Thatch ad un certo punto e, dopo aver atteso che una nuova scarica cessasse, si alzò e si appoggiò alla porta stesa lungo la ringhiera e crivellata di colpi, incurante del rischio che stava correndo ad esporsi in quel modo e posizionando il fucile, prendendo la mira mentre il soldato dall’altra parte ricaricava.
Sparò nello stesso istante in cui lo vide sporgere la testa per mirare verso di loro, centrandolo in piena fronte e facendolo stramazzare al suolo con gli occhi vitrei e l’espressione vuota.
-Yeah man!- gridò, battendo un pugno sul legno e alzando il fucile al cielo, guardando poi Izou dall’alto, il quale lo scrutava con stupore e il vago sentore di aver perso una scommessa che gli sarebbe costata molto cara.
Indicando il punto davanti a loro nel quale giaceva il militare, il castano disse orgoglioso: -How about that?-
L’altro scosse il capo, leggermente infastidito, ma ammettendo a se stesso che Thatch aveva avuto una fortuna sfacciata, nonché una mira eccellente, anche se non glielo avrebbe mai e poi mai detto di persona. Decise di fare finta di niente, riprendendo a concentrarsi su quello che succedeva in strada, ignorandolo.
-Shut the fuck up.-
 
*
 
La spada cadde a terra e il corpo indifeso del soldato fu trapassato senza insicurezze e lasciato poi scivolare nella polvere assieme a tutti quelli che avevano perso lo scontro prima di lui. Ed ecco che Eustass Kidd passava ad un altro attacco, facendo arretrare il nemico, il quale non poteva fare altro sotto i suoi colpi micidiali e la sua forza che sembrava non esaurirsi mai. Avanzava nella via infierendo un affondo dopo l’altro, aprendosi la strada verso la piazza dove era scoppiato il culmine della rivolta, sbraitando insulti e tagliando gole senza preoccuparsi troppo di risultare crudele o senz’anima.
Se prima una parte di lui si soffermava in maniera minima a riflettere sui misteri della fede e sul significato di Paradiso e Inferno, dopo ciò che aveva visto quel giorno aveva deciso di fregarsene altamente di commettere peccati perché aveva capito che di gente peggiore di lui ne esisteva.
Una, in particolare, pareva rispecchiare gli esatti canoni del Figlio del Demonio in persona.
Non aveva mai visto nessuno torturare le sue vittime come faceva Trafalgar. Lo guardava mozzare via arti, gambe o mani che fossero; infilzare senza esitazione corpi nemici e piantare pallottole nei punti vitali degli avversari con una precisione invidiabile, per poi restarsene ad ascoltare le grida di disperazione e dolore dei malcapitati quasi come se provasse orgoglio o gongolasse.
E sorrideva. Quel figlio di puttana sadico ghignava vittorioso prima di spedire le anime all’altro mondo. Certo, anche a Kidd ormai non faceva più impressione uccidere le persone, ma arrivare addirittura a provare piacere, beh, era una cosa che metteva i brividi, maledizione!
Si ritrovarono spalla contro spalla, entrambi intenti a fronteggiare i loro nemici. Law poteva chiaramente sentire le scapole del rosso premere contro il suo collo data la notevole altezza del ragazzone, mentre Kidd si chiese come potesse quello scricciolo essere tanto letale.
-Buongiorno Eustass-ya.- lo salutò il dottore, menando un fendente che andò a squarciare il fianco del soldato che aveva provato ad attaccarlo.
-Ti sembra forse un buongiorno questo, Trafalgar?- rispose con irritazione il rosso, parando un affondo. - Stavo meglio prima, senza la tua faccia nei paraggi.-
-Strano, eppure ogni notte siamo sempre così vicini.- lo sfotté il moro, gettando un’occhiata veloce e maliziosa al suo compagno, cogliendolo impreparato. Kidd, però, si riprese subito davanti a quella frecciatina e rispose all’attacco con la rabbia, come faceva in ogni occasione.
-E puntualmente mi ritrovo i tuoi piedi gelati nel culo!- sbottò, abbattendo un militare e respirando a pieni polmoni per riprendere aria, voltandosi verso Law con un braccio abbandonato lungo il fianco e l’altro che reggeva la sua spada. -Usa quel fottuto cane per scaldarti, io non sono una stufa.-
Nel dire ciò, spostò la sua attenzione in un punto alle spalle del suo interlocutore, ma non ebbe nemmeno il tempo di aprire bocca per avvisare il dottore della presenza di un nemico alle sue spalle perché, con un movimento veloce e ben assestato, Law estrasse un pugnale da chissà dove, ovviamente il bastardo era ben armato, e con una mezza piroetta tranciò di netto la trachea dell’avversario, riportando poi l’attenzione su Kidd e ignorando l’uomo agonizzante ai suoi piedi che affogava nel suo stesso sangue.
Inarcò un sopracciglio scuro ed elegante, guardando la faccia allibita di quell’armadio con i capelli rossi, tanto disordinati quanto folti. Era sempre più curioso di scoprire come sarebbe stato affondarci le mani, anche se quello, si rese conto, non era affatto un pensiero su cui soffermarsi in una situazione del genere.
-Stavamo dicendo?- chiese infine, con l’ombra di un ghigno sulle labbra sottili.
Kidd si riscosse, sbattendo le palpebre e fissandolo di rimando. Quel ragazzo era senza pietà. Aveva massacrato tutti i soldati che gli si erano parati di fronte senza battere ciglio e non sembrava avere l’aria di uno che stava per vomitare dopo aver visto tanti cadaveri. Forse era grazie al suo lavoro che sembrava non provare il minimo rimorso, ma non avrebbe mai pensato che nascondesse una vena così macabra. Combatteva in maniera strana, diversa da quella che vedeva di solito durante gli scontri. Attaccare e difendersi erano le regole basi che praticamente ogni combattente seguiva; Trafalgar, invece, studiava l’avversario e, al momento propizio, colpiva. Non perdeva neanche il tempo ad indebolirlo, semplicemente gli infieriva un colpo ben assestato e poi lo lasciava al suo destino. A parte quando sembrava giocarci come i gatti con le loro prede, non lasciava via di scampo. Li uccideva e rimaneva a guardarli, occhi negli occhi, fino a che le anime non si spegnevano e non restava più nulla ad impegnarlo.
Se ne stava lì, in mezzo a quel tappeto di morti, con un sorriso contorto sulle labbra e gli abiti sporchi di sangue e polvere.
E Kidd fece fatica a resistere all’impulso di avvicinarsi a lui e mordergli le labbra fino a distruggergliele.
 
*
 
Parigi era in preda al caos più totale. L’occhio del ciclone era l’Île de la Cité, dove soldati e popolo si stavano scontrando dalle prime luci dell’alba, mentre nelle periferie i saccheggi di magazzini, edifici e chiese continuavano senza sosta. Di tanto in tanto si faceva viva qualche pattuglia di militari che intrattenevano i ribelli per un po’, ma alla fine venivano sopraffatti e fatti a pezzi, il più delle volte, dalla rabbia e dal malcontento che regnava negli animi di tutti.
A Montmartre i baracchini di contrabbando e i vari locali del peccato erano chiusi, compreso il vecchio mulino gestito da Madame Dadan. La donna aveva fatto barricare porte e finestre, nascosto l’oro rubato ai clienti e il denaro ricavato in post sicuri e armato le ragazze di piccole armi da taglio, padelle, bastoni e pale. Con loro avevano solo un paio di fucili, ma li avrebbero usati senza timore in caso di necessità.
Erano tutte rintanate nelle stanze, in attesa che la rivolta cessasse o che qualcuno andasse a dire loro di non preoccuparsi e che il peggio era passato, ma il tempo scorreva e la tensione saliva di minuto in minuto.
-Io mi sono stancata.- decretò ad un tratto Bonney, alzandosi dal pavimento sul quale era stata seduta per più di un’ora, intenta ad incidere frasi a caso sulle assi in legno.
-Cosa vuoi fare?- le chiese un’allarmata Nami, vedendola afferrare una giacca scura dall’armadio ed indossarla. Quando poi la vide estrarre dalla tasca una pistola carica non ebbe più molti dubbi sulle intenzioni dell’amica.
-Stai scherzando? Ti faranno fuori in un secondo!-
Bonney le scoccò un’occhiataccia offesa. -Grazie tante per il sostegno.- fece sarcastica.
-Lo sai che ha ragione.- si intromise Bibi, una delle loro compagne, -Che speranze vuoi avere?-
-Sempre meglio di restare qui come un’oca impaurita.- sentenziò decisa. Non aveva alcuna intenzione di passare l’intera giornata a tremare per il terrore di sentire i soldati sfondare la porta e fare irruzione nel locale. E, soprattutto, non sarebbe rimasta in quel posto a farsi violentare e poi sgozzare.
-Stupida esaltata.- borbottò a quel punto Rebecca, accomodata sul bordo del letto e intenta a lisciarsi i capelli. Tra lei e Bonney non era mai corso buon sangue, infatti non passò molto prima che insulti colorati la raggiungessero.
-Sta zitta, puttana.-
-Guarda che non mi offendi. E’ il mio lavoro.- rispose semplicemente l’altra con indifferenza.
-Bonney, è una pazzia.- cercò di farla ragionare Nami, mettendo fine al battibecco, anche se il suo comportamento era dettato più dal senso del dovere, che dalla sincerità perché, se fosse stato per lei, avrebbe seguito la ragazza in strada e avrebbe contribuito a dare man forte ai ribelli.
Bonney, ignorandole, aprì i balconi, cercando di non fare troppo rumore e, una volta aperte anche le ante della finestra, mise un piede fuori, e poi un altro, fino a ritrovarsi sul tetto spiovente, con la città che andava in fiamme e l’orizzonte tinto di grigio, nero e rosso, mentre l’aria calda di luglio le sferzava i capelli e il viso.
Aveva passato anni rinchiusa in quella casa del piacere, tra le mura delle cucine e della sua stanza, troppo spaventata per uscire allo scoperto e troppo impaurita dalle persone per potersi relazionare con esse. Aveva vissuto in compagnia, ma era come se al mondo non avesse nessun amico. Quella che si avvicinava di più ad una conoscenza era Nami, ma era ancora troppo timida per permettere a quel rapporto di migliorarsi, per quello aveva continuato a mantenere le distanze dalla rossa e da tutte le altre.
Però, in quel momento voleva cambiare, uscire dal suo guscio e affrontare la realtà, o non avrebbe mai potuto costruirsi un futuro. Sarebbe morta comunque se fosse rimasta nel locale; per mano di qualcuno, o per la vecchiaia, un giorno avrebbe chiuso gli occhi e non si sarebbe più risvegliata, perciò tanto valeva darsi da fare e avere qualche bel ricordo prima di trapassare. E poi, era già uscita altre volte nell’ultimo periodo, era stata brava ed era andato tutto bene.
Si chinò quindi sulle ginocchia e prese a scendere lungo le tegole, mantenendosi in equilibrio e raggiungendo la grondaia più vicina per calarsi a terra. Non fu difficile, l’aveva visto fare mille volte dagli uomini che se ne andavano di nascosto dalle stanze delle sue coinquiline. Dadan poteva pure imporre delle regole ferree, ma venivano trasgredite ogni notte. Ad ogni modo, se ci riusciva un ubriacone, poteva farcela di sicuro anche lei da sobria.
Infatti così fu, i suoi stivali toccarono terra e automaticamente una sensazione di grandezza si fece strada in lei. Era certa che, se soltanto avesse voluto, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, persino ritornare a casa tutta intera.
Fece per voltarsi e dirigersi verso la battaglia, ma un rumore dietro di lei attirò la sua attenzione, facendo si che sul suo viso si dipingesse un’espressione di sorpresa, sostituendo per un momento la sua facciata poco disponibile.
-Non crederai che ti lasci andare da sola, spero.-
Nami, pulendosi le mani sulla gonna, le si avvicinò con passo deciso, superandola e precedendola sulla via.
Bonney la guardò con scetticismo prima di decidersi a seguirla, affiancandola e camminando accanto a lei, vestita con dei comodi pantaloni e un’ampia camicia.
-Non ti chiederò dove tu abbia trovato quegli abiti.- disse Nami, in un chiaro intento di curiosare negli scheletri nell’armadio di quella ragazza dai capelli rosa tanto aggressiva quanto asociale.
La diretta interessata si strinse nelle spalle. -Uomini.- rispose semplicemente, anche se con ciò intendeva dire che li aveva raccattati in giro, e non sottratti agli amanti che mai aveva ospitato nel suo letto.
Eccezione fatta per uno, si ritrovò a pensare, abbassando subito il capo. Chissà che fine ha fatto.
Vide Nami alzare gli occhi al cielo, ma lasciar comunque cadere il discorso. -Ci sarà il disastro, lo sai, vero?-
Bonney annuì, ugualmente determinata ad andare avanti e ad essere lei stessa a prendere le decisioni migliori per lei.
Avevano immaginato che non sarebbe stata delle migliori la situazione, ma non avevano previsto tutte le vere e proprie difficoltà.
Non appena si ritrovarono nei pressi dei confini della Rive Droite, capirono subito che buttarsi nella mischia non era esattamente una delle idee migliori. La gente urlava, gridava improperi e maledizioni, rumore di spari e clangore di spade sovrastavano qualsiasi cosa, c’era un’esplosione dietro l’altra a causa dei barili di polvere da sparo e, spesso, la polvere che si alzava da terra rendeva impossibile avanzare con sicurezza. Anche se, a dire la verità, un posto sicuro in quel delirio non c’era.
Avanzavano lentamente, riparandosi dietro alle barricate e camminando rasente i muri delle case, in modo da nascondersi nei vari angoli o vicoli che incontravano lungo il cammino, riuscendo a raggiungere un punto abbastanza vicino al ponte che portava all’isola in mezzo alla Senna da dove si alzavano alte delle fiamme.
-Quella che brucia è Notre-Dame?- chiese Bonney, la quale non aveva mai visto la cattedrale dall’interno.
-No.- rispose Nami, spiando l’edificio al di là del fiume da una fessura creatasi in un muro mezzo distrutto, -Hanno troppa paura di Dio per farlo.- chiarì, gettando un’occhiata tutt’intorno alla ricerca di facce conosciute e riconoscendo alcuni Rivoluzionari, abituali clienti di Dadan.
Si erano fermate dietro una barricata dall’aria resistente, abbastanza vicina all’acqua e con un’ottima visuale sul ponte, tanto che dall’alto di essa, alcuni uomini prendevano di mira i soldati che si avvicinavano troppo con l’intento di abbatterla.
-E ora che si fa?- domandò la rossa, voltandosi verso l’amica che aveva avuto l’idea geniale di uscire a dare man forte ai civili, ma senza pianificare nulla di concreto.
Bonney gliela lesse negli occhi quell’accusa e, per non venire ripresa, si schiarì la gola ed estrasse con sicurezza un’arma che non aveva mai usato, ma che, fin da quando ne era entrata in possesso, la teneva accanto al letto come una specie di talismano. Aveva pensato che l’avrebbe conservata fino a quando non avrebbe rivisto il suo proprietario, ma non aveva la certezza di riuscire a ricavarsi un altro momento per loro due, perciò era meglio usarla per difendersi, o almeno provarci.
La caricò, spostando gli occhi seri e determinati a sostenere lo sguardo dell’amica. -Facciamo vedere a tutti che anche le donne sanno combattere.-
Nami sapeva che il momento era il meno adatto, perciò si trattenne dallo scoppiare a ridere troppo fragorosamente e si accontentò di mostrare un sorrisetto divertito. Bonney era veramente una pazza senza il minimo tatto, ma aveva coraggio da vendere, per quello le stava simpatica e, se le cose stavano in quel modo, era meglio darsi subito da fare.
Curiosò in giro alla ricerca di una qualsiasi arma, trovando in mezzo alle macerie un pezzo di un corrimano in ferro battuto, piuttosto lungo, ma abbastanza leggero da poterlo maneggiare con facilità. Così, dopo averlo raccolto, si scambiò un’occhiata eloquente con Bonney e poi si fecero strada verso la piazza più vicina, quella da cui partiva il ponte, attirando sguardi stupiti, ma anche molti rimproveri. Ovviamente, quello non era affatto un posto adatto a delle signore, ma bastò che Bonney piazzasse un paio di pallottole nelle gambe di qualche soldato che tutti i rivoltosi non ebbero più nulla da ridire, riprendendo da dove avevano interrotto.
-Non sapevo che fossi capace di sparare.- notò Nami, alle prese con il suo primo avversario, un soldato poco più alto di lei che aveva tutta l’intenzione di farla retrocedere senza ucciderla.
-Nemmeno io. Ho premuto il grilletto a caso.- ammise l’altra ragazza, osservando come la rossa, senza troppe cerimonie, abbattesse la spranga di ferro sulla schiena del militare, ribaltandolo e iniziando a prenderlo a calci fino a che non venne allontanata dalla stessa Bonney.
-Davvero? Ottimo.- fece con il fiatone.
-E tu? Da quando sai fare quello?-
-Beh, sai, ho improvvisato.- sorrise complice la rossa, altrettanto stupita delle sue azioni.
Un’esplosione particolarmente vicina e improvvisa le colse di sorpresa, facendo perdere l’equilibrio a Bonney che, maledicendo l’artefice, si ritrovò a sbattere per terra il sedere. Nemmeno il tempo di rialzarsi, pronta a trovare il pazzo che aveva quasi rischiato di farle saltare in aria assieme ad altri civili, che un gruppo di Rivoluzionari spuntarono dall’altro lato della piazza, correndo allo sbaraglio come animali impauriti.
Bonney non capiva cosa diavolo stava succedendo, ma Nami, avendo intuito chi c’era dietro quelle esplosioni continue, assottigliò gli occhi fino a riconoscere la figura di Ace che, sbraitando frasi ai compagni e indicando continuamente punti diversi del perimetro, si avvicinava a loro sempre di più con accanto Sabo e una ragazza dai capelli corti, un altro tizio biondo che non conosceva e…
-Rufy.- sussurrò, mentre il cuore iniziava a batterle all’impazzata, facendole girare la testa per un attimo.
-Mon Dieu, l’Idiota di Fuoco e la sua combriccola.- borbottò la ragazza accanto a lei, rinfoderando la pistola in quel momento di calma e guardando divertita come Ace le raggiungeva, litigando, come sempre, con i suoi fratelli. Tra lei e quel ragazzo c’era un rapporto complicato, fatto di frecciatine e insulti continui, ma le stava simpatico, in sua compagnia non doveva preoccuparsi di apparire volgare o poco educata, anche perché, in fatto di buone maniere, Ace non era affatto ferrato. Andavano d’accordo, ma restava comunque uno stupido davanti ai suoi occhi. Con i suoi fratelli, invece, andava tutto bene. Sabo era gentile, mentre era impossibile non essere amici del piccoletto.
-Dovevi fare più attenzione!- riuscirono a sentire quando tutti furono più vicini. Sabo stava riprendendo Ace per qualcosa che aveva fatto mentre, qualche passo più indietro, Rufy li seguiva sghignazzando con un paio di coetanei  che aveva incrociato lungo la via e che si erano aggregati a loro, curiosi di sapere come stava il ragazzino, dato che era da mesi che non lo vedevano. -Ci è praticamente esplosa sotto al naso!-
-Ti ho detto che è stato un incidente!- si difese il moro, camminando a passo spedito e alzando le braccia al cielo. -Se solo Marco non si fosse messo in mezzo, io…-
-Io? Mi stai forse dando la colpa?- si intromise quello nuovo, che nessuna delle due conosceva. Aveva uno strano accento e l’aria da straniero, gli abiti erano sporchi, ma non erano vecchi o usurati, mentre dall’aspetto e dalla corporatura doveva essere più grande, almeno sulla trentina.
Ace aprì la bocca per ribattere, ma Sabo pensò bene di mettere fine a quel battibecco. -Non voglio sapere altro, l’importante è che non si sia fatto male nessuno.-
-Sai che non sbaglio mai.-
-Ne hai combinata una delle tue, Ace?- lo prese in giro Bonney, incapace di trattenersi, e sfoggiando un sorrisetto malefico quando il ragazzo fu abbastanza vicino da poterla sentire e riconoscerla. Godette nel vederlo arrestarsi in mezzo al gruppo per lo stupore, espressione che sfoggiò anche Sabo non appena si accorse di lei, notando anche Nami alle sue spalle.
-Ragazze, cosa ci fa…-
-Nami?-
La voce di Rufy sovrastò le altre e, subito dopo, Bonney lo vide superare i fratelli, facendosi largo tra loro, spintonando Ace che gli stava inconsciamente sbarrando la strada. Davanti a ciò, lei pensò bene di spostarsi di sua spontanea volontà, lasciando via libera all’amico che, senza degnarla di attenzione, avanzava serio e determinato verso Nami.
Bonney inclinò il capo incuriosita quando, non appena furono uno di fronte all’altra, Rufy si fermò a guardare come la sua migliore amica fosse tutta intera, senza ferite o graffi.
-Come stai?- lo sentì domandare, accorgendosi di Ace che l’aveva affiancata, seguito dagli altri. Era andata più o meno in quel modo con tutti gli amici di Rufy che avevano trovato lungo la strada. Non appena l’avevano visto, avevano avuto le reazioni più differenti. Usopp, ad esempio, era scoppiato in lacrime dopo aver tentato senza successo di trattenerle; Sanji e Zoro, incontrati in momenti differenti, lo avevano salutato con un sorriso appena accennato e una pacca sulla spalla, mentre Franky aveva interrotto un assalto ad un magazzino solo per dare il benvenuto tra la gente libera a quel moccioso.
Nami annuì mesta, intimorita dai cambiamenti che leggeva negli occhi di Rufy. Anche se il ragazzo era sempre lo stesso, notava come fosse diventato un poco più alto, come i capelli fossero più folti e scuri e la barba che gli era cresciuta leggermente. -Bene.- disse solamente, anche se avrebbe voluto domandargli come stesse lui, cosa aveva fatto tutti quei mesi in prigione, se aveva mangiato e, soprattutto, se un pochino gli era mancata. Qualcosa le diceva, però, che a quell’ultima domanda avrebbe avuto molto presto risposta, perché Rufy la guardava diversamente dal solito, come se fosse davvero preoccupato per lei, come se ci tenesse molto, tanto, come se fosse interessato.
Stava per aggiungere qualcosa, ma lui la precedette, facendo una cosa che nessuno dei presenti si sarebbero mai aspettati.
Sentì le sue labbra sulle sue e tutto scomparve. Spari, grida, esplosioni, voci, tutto. Non c’era più niente, solo Rufy e lei. Rufy che le stava dando un bacio timido, leggero, ma che la rese più felice di qualsiasi altro perché sentiva con quanto affetto avesse fatto quel gesto.
Purtroppo, però, era una donna molto orgogliosa e, in parte arrabbiata per averlo creduto in pericolo e non aver ricevuto mai una qualche informazione se non da Ace, in parte offesa per quel bacio rubato senza il suo permesso, lo allontanò con un sonoro ceffone sul viso, tanto forte che fece voltare il viso al ragazzo.
-E questo per cos’era?- le domandò lui immediatamente, massaggiandosi la guancia senza capirci molto. Non era stata contenta? Le aveva dimostrato che gli piaceva, perché, quindi, lo aveva picchiato?
Come se Nami non fosse stata abbastanza, ricevette due scappellotti in testa contemporaneamente, uno da Sabo, il quale provvide subito a scusarsi con la ragazza, e uno da Ace che non credeva ai suoi occhi.
-Sei impazzito?- gli urlò contro, -Ti sembra il momento, questo?-
-Ma Ace, Bagy mi ha detto che se voglio baciare una donna devo farlo e basta.- si difese Rufy, strofinandosi una mano sulla testa per far passare il dolore. Perché dovevano sempre avercela tutti con lui?
-Fammi capire, uno sconosciuto di dice cosa fare e tu lo ascolti, quando Sabo ed io ci abbiamo messo un anno per farti capire come nascono i bambini?- fece il moro, fuori di sé per gli ultimi avvenimenti. Prima Marco gli aveva fatto perdere la concentrazione, facendo esplodere troppo in anticipo della polvere da sparo; poi Sabo che incolpava solo lui e infine suo fratello minore che decideva di abbandonare l’età dell’adolescenza e diventare uomo nel bel mezzo della rivolta.
Proprio allora, Sabo, con uno sguardo omicida e con Koala che ridacchiava al suo fianco, si schioccò le nocche con fare minaccioso. -Giuro che pesterò a sangue quell’idiota che ti ha messo in testa certe idee.-
-Oh, sono certa che a Nami non sarà dispiaciuto.- puntualizzò Bonney, ignorando le proteste della ragazza che arrivarono non appena si lasciò scappare quella frase. Diede le spalle al gruppo, lasciando i due palesemente innamorati a litigare, una che sbraitava parole senza senso riguardanti la lontananza, e l’altro che ridacchiava, stringendosi nelle spalle come se volesse giustificare quella sua impulsività con il carattere infantile che si ritrovava.
La pausa stava finendo, se ne accorse perché dal ponte proveniva un rumore di spari sempre più forte e la gente si stava riversando proprio verso di esso nel tentativo di placare un’altra ondata di militari. Ma quanti erano, dannazione?
-Ehi, Bonney, ti ricordi come si usa una di queste?- le chiese Ace, raggiungendola con una spada che le mise in mano.
-Fidati, ho imparato bene.-
-Ti ha insegnato il migliore.- affermò il ragazzo, ammiccando e augurandole buona fortuna prima di riunirsi ai fratelli per riprendere l’assalto.
Si annodò velocemente i capelli in una coda alta e si tolse di dosso la giacca troppo larga che le ostacolava i movimenti, rimanendo con una camicetta senza maniche bianca. Certo, non aveva nessun tipo di protezione, ma aveva intenzione di rimanere dietro le quinte e aiutare come poteva da quella posizione di sicurezza. Sapeva combattere, era vero, Ace le aveva insegnato bene, ma lo aveva fatto solo un paio di volte da ubriaco e stenderlo non era stato difficile, soprattutto prendendolo a bastonate con i manici di scopa che usavano come armi, ma non aveva mai affrontato un combattente esperto e temeva di essersi esaltata troppo e di aver confidato esageratamente nelle sue capacità, ma ormai era lì, in quella piazza e in mezzo alla battaglia e per niente al mondo si sarebbe tirata indietro.
Ritornò sui suoi passi al limitare della barricata che chiudeva ogni passaggio alle vie interne per impedire ai soldati di infiltrarsi, affrettandosi lungo la parete dove i vetri infranti facevano presumere che il proprietario del negozio non avrebbe riaperto il giorno seguente.
Aveva quasi raggiunto i ribelli, pronta ad esibire la coccarda che Sabo le aveva consegnato prima di separarsi, quando un braccio uscì dalla porta sfondata alla sua destra, afferrandola e trascinandola con forza al suo interno, disarmandola prima ancora che sollevasse la spada per difendersi e puntandole una rivoltella alla tempia mentre veniva sbattuta contro la parete.
-Cosa diamine ci fai qui?-
Bonney aprì gli occhi che aveva serrato per lo spavento, scoprendo che si era mezza rannicchiata su se stessa, un gesto involontario e inconscio dovuto al trauma subito da piccola, alzando lo sguardo sul suo aggressore e lasciandosi scappare un sospiro di sollievo. Ormai lo conosceva così bene che lo avrebbe riconosciuto ovunque quell’ufficiale.
Stava per sorridere e chiamarlo per nome, ma si ricordò del particolare riguardante la pistola che era ancora puntata contro di lei e del tono freddo a duro che aveva usato per parlarle, perciò rispose allo stesso modo, non volendo dimostrarsi debole e indifesa.
-Combatto con il popolo.- disse fiera, incrociando le braccia sotto al seno e fissandolo dritto negli occhi, quasi a volerlo sfidare.
Drake strinse la mano libera in un pugno, guardandola in maniera, se possibile, più truce di prima. -Torna subito a Montmartre.- le ordinò, ma aveva fatto male i suoi calcoli se pensava che Bonney lo avrebbe ascoltato.
-No.- rispose infatti, inflessibile e arrabbiata. Non si erano più visti, lui non aveva più fatto nessuna ronda da quelle parti e lei aveva ancora la pistola che aveva dimenticato quella notte. Però non poteva dirgli quelle cose, non poteva esporsi e ammettere che la decisione di uscire dal suo luogo sicuro e rischiare tanto era stata presa in parte con la speranza di incontrarlo e di vedere come stava, se era ferito o peggio. Ad ogni modo, solo allora si rese veramente conto di com’era la situazione: erano parti di due fazioni opposte, combattevano per ideali e motivi diversi ed erano nemici a prescindere dai loro sentimenti.
-Vattene via, non farmelo ripetere.-
E’ impossibile, pensò la ragazza, rattristata e incapace di mantenere l’espressione dura, mentre tutti i suoi stupidi sogni di ragazzina si sgretolavano, lasciando nient’altro al loro posto.
La scrollata che ricevette, ritrovandosi schiacciata ulteriormente addosso al muro, la riportò alla realtà, scuotendola il necessario per farle ritrovare un po’ di verve.
-C’è un’uscita, attraversando il negozio ti ritroverai dall’altra parte della barricata.- parlò svelto Drake, indicandole la strada, -Appena sei fuori, corri più veloce che puoi e allontanati, hai capito?-
Bonney lesse un sacco di emozioni nei suoi occhi quando ritornò a guardarla. Era stanco, nervoso e impaziente, ma quell’ordine nascondeva una preghiera che, per un attimo, pensò di esaudire, accontentandolo e dandogli un pensiero in meno.
Ma così non fu.
Si divincolò dalla sua presa, colpendolo all’improvviso allo stomaco, abbastanza forte da farlo allontanare di qualche passo e avere il tempo di sgusciare fuori e dirigersi verso i suoi compagni. Doveva avvisarsi della falla sulla barricata o si sarebbero ritrovai i soldati all’interno senza rendersene conto. Doveva muoversi, erano in pericolo un sacco di persone e dipendeva tutto da lei.
Quando, però, qualcuno alle sue spalle urlò il suo nome, tanto forte e distintamente da farle venire i brividi, fu costretta a fermarsi, bloccandosi all’improvviso e rischiando di cadere. Ebbe solo il tempo di voltarsi per vedere Drake che puntava la pistola verso di lei e sparava.
 
 
 
Angolo Autrice.
E’ tardissimo, lo so. Mi dispiace, davvero. Mi dispiace un sacco, ma ci sono. Adesso ho due capitoli pronti, buttati fuori con sudore e ansia, ma ci sono e il prossimo non tarderà, promesso!
Sono di fretta, perciò niente immagini, slittano al prossimo incontro, settimana prossima, non so quale giorno ;___________;
Faccio schifo come tempistiche, sono la ritardataria numero 1 al mondo su tutto, ma sto continuando a lavorarci, non ho mollato nulla.
Sono ancora qua e la porto avanti.
Non sono convintissima del capitolo, volevo aspettare ancora, ma ho deciso che stavolta va così. Metterò più sangue e più stragi nel prossimo, promesso, LOL.
 
Un abbraccio infinito e grazie alle povere anime che continuano a seguire la ff ;__________;
See ya,
Ace.

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Capitolo 15
*** Quinze. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Quinze.

 

-L’avevo già steso io con un calcio.-
-Io gli ho fatto un buco sullo stomaco!-
-Ma non serviva che ti intromettessi, l’avevo finito ormai.-
-Almeno hai la certezza che è morto!-
-Ce l’avevo anche prima, razza di idiota!-
Sanji e Zoro stavano tenendo a bada una decina di soldati sulla riva del fiume, spedendone qualcuno in acqua e mettendo fuori gioco gli altri. Lo spadaccino si difendeva utilizzando addirittura tre spade, mentre il biondo si arrangiava come poteva schivando le armi da taglio e confidando nelle sue capacità atletiche, spezzando ossa, rompendo qualche collo e prendendo a pugni un militare dopo l’altro.
Poco distante da loro, Rufy si stava divertendo come un bambino al parco, usando per combattere tutto quello che gli capitava sotto gli occhi, compreso il remo di una barchetta ancorata alla riva, sassi e una rete da pesca che finì per aggrovigliarsi alle gambe, ruzzolando a terra e ridendo come un ubriaco.
-Ehi! Mi dareste una mano?-
Nemmeno il tempo di dirlo, che Zoro era già sul posto ad impedire che un gendarme sparasse all’amico appena ritrovato.
-Non ti ricordi più come si combatte?- gli chiese spiccio, liberandolo e tirandolo su di peso, scuotendo il capo nell’udire le risate del moro, troppo felice di essere uscito di prigione e di aver ritrovato i suoi fratelli.
Quando Ace lo aveva portato via dalla Bastiglia, raggiungendo poi la piazza, aveva creduto che nulla sarebbe potuto andare meglio, ma quando il maggiore, sorridendogli in modo fraterno, lo aveva spinto in avanti per fargli vedere una sorpresa di cui gli aveva parlato durante la strada, beh, si era reso conto che non c’era limite alla felicità.
Era scoppiato a piangere senza vergogna, correndo verso l’ingresso dell’edificio dove Sabo lo stava aspettando, anche lui con le lacrime agli occhi e un nodo in gola, e gli era saltato addosso, stringendolo forte e mormorando all’infinito il suo nome. Aveva passato giorni credendo morto Ace e mesi con la convinzione che non avrebbe mai più rivisto il bel sorriso di Sabo, invece era stato graziato ed era di nuovo con la sua famiglia. Ad aggregarsi, poi, era arrivato anche Ace e si erano stretti l’uno con l’altro per un po’, giusto per recuperare parte del tempo passato in lontananza forzata e ridando tutte le energie a Rufy, compresa la carica per affrontare una rivolta, nonostante la malnutrizione e il sonno patito.
Si sentiva invincibile.
Si passò una mano sul viso, alzando i pugni pronto a ricominciare. -Devo solo riscaldarmi.- affermò, sorridendo enigmatico al soldato che gli si era parato di fronte.
Anche rivedere i suoi amici lo aveva mandato direttamente al settimo cielo e baciare Nami era stata la ciliegina sulla torta, anche se l’aveva vista sparire dietro le barricate poco dopo. Era meglio per tutti, almeno la sapeva al sicuro e, quando avrebbe concluso quella battaglia, l’avrebbe raggiunta subito, senza perdere altro tempo. Doveva rendere orgogliosi Bagy, Mister Three e Von Clay, dopotutto.
-Ehi, guardate chi c’é.- disse Sanji, notando come un impaurito Usopp li raggiungeva, cercando di passare inosservato tra i soldati e schivando con precisione innata tutte le risse che incontrava lungo il tragitto, nascondendosi dietro al coperchio di un barile che si portava appresso come scudo.
-Ici! Usopp!- lo chiamò Rufy a gran voce, facendo ricadere l’attenzione di molti sul ragazzo appena arrivato. -Da questa parte!-
-Accidenti a te, Rufy!- rispose l’altro, notando tre uomini armati accerchiarlo, richiamati dalle urla del Rivoluzionario. Fortuna che aveva con sé della polvere da sparo che aveva modificato nella sua serra, trattandola fino a farle produrre solo del fumo e non un’esplosione, così ne lanciò un po’ a terra e sfruttò il fattore sorpresa per defilarsi senza troppi rischi. Aveva avuto proprio un’idea geniale e, da quello che aveva sentito, le dosi che aveva dato a Sabo avevano fatto scalpore alla Bastiglia.
-Quando hai finito di giocare a fare lo scienziato pazzo,- ironizzò Sanji, respingendo con un’asse di legno un nemico, -Vieni a dare una mano!-
Un’ombra di terrore passò sul volto di Usopp che di combattere non ne aveva proprio l’intenzione e, sgusciando dietro alle spalle di Rufy, poggiandogli le mani sulle braccia per voltarlo a destra e a sinistra, ovvero ovunque vedesse dei soldati, si preparò a fare di tutto per salvarsi la vita.
-Scordatelo,- disse, alzando la voce per farsi sentire in mezzo a quel caos e per sovrastare le risate di Rufy. -Piuttosto, voi dovreste difendermi. Non vorrete rischiare di perdere il vostro guerriero più valoroso.-
-Eccolo che ricomincia.- Zoro roteò gli occhi al cielo, sostenendo una spada con la bocca, stringendo i denti attorno all’elsa e difendendosi da un fendente con le altre due, incrociandole davanti al suo corpo e creando una barriera difficile da infrangere. Era sempre stato bravo e portato per quell’arte fin da piccolo e crescendo era migliorato di giorno in giorno, diventando uno dei più bravi ed essenziali spadaccini nei ranghi dei Rivoluzionari. Parte di quella fortuna la doveva a Rufy che, dopo averlo incontrato, aiutato ad uscire dai guai e assillato per diventare suo amico, lo aveva convinto ad aggregarsi a quella sua combriccola di gente persa e apparentemente senza beni, ma che in realtà possedeva il tesoro più prezioso di tutti, ovvero la famiglia, l’amicizia e il voler dare la vita gli uni per gli altri.
Aveva conosciuto tante belle persone e si era fatto un sacco di amici, anche se per Rufy conservava un posto speciale nel suo cuore, dato che aveva fatto molto per lui anche se all’inizio non lo conosceva affatto. Aveva trovato un poso dove stare e si era creato degli obbiettivi da raggiungere. Uno di questi era diventare il combattente migliore di tutta la Francia e poi chissà, magari anche del mondo.
Per quello si trovava in piazza a combattere, per difendere i suoi sogni e le persone che amava.
-Diamine, ma sei sempre in mezzo?-
Eccezione fatta per quel cuoco maledetto.
Mentre era distratto, Sanji gli era finito contro senza accorgersene, inciampando sui suoi piedi e coinvolgendolo in un ruzzolone tra la polvere, proprio nel bel mezzo di una battaglia rischiosa e pericolosa.
Zoro, già nervoso di suo, non accettò per niente quel commento, soprattutto perché, per una volta, la colpa non era stata sua.
-Sei tu che mi sei venuto addosso, impiastro!- sbottò, ringhiando e scalciando per togliersi di dosso il peso del ragazzo biondo che, appoggiate le mani suo terreno, faceva leva per rialzarsi.
-Se ti fossi spostato, forse non sarebbe successo!- ribatté Sanji, indietreggiando di qualche passo per lasciare al compagno lo spazio per muoversi e sollevarsi da terra, raccogliendo le spade e mettendosi in posizione d’attacco, fronteggiandolo. Decisamente, la situazione non stava prendendo una bella piega.
Fu quello il pensiero di Usopp che, ancora nascosto dietro Rufy, aveva adocchiato i due amici, schiaffandosi una mano sul viso per celare la sua espressione esasperata e disperata. Se si fossero messi a litigare in quel momento sarebbero stati guai per tutti.
Dovette però concentrarsi su altro, rendendosi conto che, se non si fosse dato finalmente da fare, per Rufy ci sarebbero state delle complicanze. Il ragazzino era forte, ma non aveva gli occhi ovunque, perciò gli avrebbe guardato le spalle e avrebbe fronteggiato il soldato che si stava avvicinando di silenziosamente.
-Non ho tempo per farti da balia perché, se non l’hai notato, sono impegnato a farci vincere la causa.-
-Come se avessi bisogno di te per vivere.- sputò Sanji a quel punto, offeso dal commento dell’altro. Lui non aveva bisogno di nessuno e si era sempre arrangiato, fin da piccolo. Nemmeno quando Zeff gli aveva offerto un tetto sopra la testa aveva ceduto a farsi coccolare e viziare. In parte perché il vecchio di certo non rappresentava l’icona dell’amore, ma anche perché sapeva badare a se stesso e la sua indipendenza gli piaceva. Se lì c’era qualcuno di infantile, quello era solo Zoro che, tra parentesi, non aveva nemmeno un minimo di senso dell’orientamento, figurarsi quindi se sapeva arrangiarsi.
In quelle parole, però, c’era molto di più. C’erano rabbia, rancore, risentimento, frustrazione, odio e un sacco di altri sentimenti che il biondo provava da molto tempo verso quel ragazzo dai capelli verdi e con la fissa per le spade. Lo detestava come pochi e se non lo aveva ancora ucciso era solo perché stavano dalla stessa parte.
Ad ogni modo, Zoro capì. Non era una mente brillante o un sapientone, ma se voleva ci arrivava e lo sfogo di Sanji era stato tanto spontaneo quanto brutto da vedere e sentire. In poche parole gli aveva detto di stargli alla larga, di smetterla di cercarlo e di assillarlo. A sua discolpa non poteva nemmeno dire che era il biondo a richiedere la sua presenza perché ciò non era mai successo. Era sempre lui il primo a farsi avanti, a chiedere di più di qualche insulto o di uno sguardo, era sempre e solo lui quello che trasformava un momento tranquillo in un attimo di passione. Sanji, invece, stava zitto e lo accontentava. Riflettendoci, non sapeva nemmeno se gli piacesse tutto ciò, quello che facevano, il sesso, ecco.
Aggrottò le sopracciglia in un’espressione furiosa. Se non voleva allora poteva dirglielo benissimo e non fare la parte della vittima costretta.
-Beh, di certo non ne ho bisogno io.- scandì, mettendo in quelle parole tutto il disprezzo che aveva a disposizione e vedendo negli occhi azzurri del biondo spezzarsi qualcosa, facendogli chiedere subito dopo se non avesse sbagliato a lasciarsi prendere la mano.
Ma Zoro agiva così, non pensava e seguiva l’istinto e, in quella circostanza, l’unica cosa che aveva voluto era stato ferire Sanji, come si era sentito ferito lui dall’affermazione di poco prima.
Si erano appena dati le spalle, quando uno sparo particolarmente vicino a loro gelò il sangue nelle vene di entrambi.
Si guardarono negli occhi in quello stesso istante, cercandosi con ansia, giusto il tempo necessario per controllare che nessuno dei due fosse stato ferito e concentrandosi poi su altro per nascondere lo stato sconvolto e il sollievo che avevano provato nell’accertarsi che non erano stati loro le vittime, ma qualcun altro.
Fu Zoro ad accorgersi per primo dell’ennesima morte avvenuta nel campo di battaglia.
A pochi metri, Rufy gli dava le spalle, inginocchiato sull’erba macchiata di fango e sangue mentre reggeva tra le braccia un corpo che non si stava muovendo, ma che sembrava essere ancora in vita, dato che il ragazzino lo scrollava e gli parlava affannato e preoccupato.
Sanji, però, si mosse prima di lui, correndo per raggiungere l’amico, seguito dopo qualche secondo dallo stesso Zoro che, avendo intuito chi si nascondesse dietro le spalle coperte dalla camicia rossa troppo appariscente di Rufy, cercava di auto convincersi che non fosse così grave come gli sembrava.
-Oh, merde.-
Gli bastò vedere il viso del biondo contrarsi in una smorfia di dolore per capire che la situazione aveva iniziato a precipitare e, quando aggirò il ragazzo a terra, il respirò gli venne completamente tolto.
Rufy stava sostenendo Usopp, stringendoselo al petto e dandogli dei colpetti sulle guance per tenerlo sveglio, blaterando cose insensate che lo spadaccino non capì, mentre Sanji si era accovacciato per controllare le condizioni della ferita. Poi si rialzò e scosse la testa senza guardare nessuno in particolare.
-Usopp, ehi, mi senti? Resta sveglio, forza! Ci… ci sono io. Sono qui. Ehi? Sono Rufy!-
Con le palpebre socchiuse, Usopp si sforzò di aprire le labbra e sorridere, ottenendo però un colpo violento di tosse nel momento in cui tentò di parlare. Si sentiva malissimo e con le membra pesanti, mentre al petto sentiva una fitta continua e una sensazione di calore che andava, via, via, disperdendosi, lasciandolo al freddo.
Gli bastò però spostare lo sguardo su Rufy e si sentì meglio, consapevole di avergli salvato la vita, proteggendolo con la sua. Sarebbe stato un eroe, l’uomo che aveva sempre sognato di essere. Coraggioso, valoroso e amato.
-N-non vi preoc-cupate…- balbettò, deglutendo a fatica e combattendo le lacrime che gli stavano facendo bruciare gli occhi. I guerrieri non piangevano. -Me la caverò.-
-Certo che ce la farai! Ora chiamiamo Traffy e lui ti guarirà, vedrai. Lui… Usopp? Usopp!-
-Sono…- provò a dire, accennando un sorriso tirato e stanco, -Sono il vostro guerriero più valoroso… no?-
Zoro respirò a fondo, mordendosi un labbro e stringendo i pugni, costringendosi a mantenere un certo controllo. Lo faceva per rispetto verso Usopp che era stato davvero il più coraggioso di tutti quel giorno e per Rufy che sembrava ancora convinto che il ragazzo che reggeva tra le braccia si fosse solamente addormentato per riprendere le forze.
-Va bene così, riposati e poi… ti… sveglio io.- mormorò tra i singhiozzi. -Quando sarà ora di pranzo verrò a chiamarti e ti lascerò anche la mia porzione.-
Sanji voltò la testa altrove, fissando un punto in lontananza e sperando che quel soffio di vento che c’era asciugasse le poche lacrime che gli avevano rigato le guance, mentre per quelle di Rufy ci sarebbe voluto più di un fazzoletto per assorbirle.
Quando fu chiaro che Usopp non si sarebbe risvegliato, ne rialzato, Rufy smise improvvisamente di singhiozzare, ammutolendosi e stringendo impercettibilmente le dita attorno al corpo dell’amico, chinando il capo su di lui e sussurrandogli qualcosa che agli altri due sfuggì. Lo videro solamente alzare il capo e guardare davanti a sé, con uno sguardo vuoto, privo di sentimento. L’unica cosa che vi lessero furono assenza di pietà e sete di vendetta.
A quel punto, Zoro capì che il tempo iniziava a stringere e che presto sarebbero giunti ad un finale, perciò, se voleva portare a termine la missione che gli aveva affidato Shanks, doveva sbrigarsi. Agguantò Sanji per un braccio e gli parlò vicino all’orecchio in modo serio e deciso. -Fate in modo di arrivare vivi alla barricata. Tutti e due.- ordinò, dando ad intendere che né lui né l’altro ragazzo dovevano azzardarsi a morire.
Il biondo annuì e, caricatosi il corpo inerme di Usopp sulle spalle, si avviò dietro Rufy che apriva la strada, sparando ad ogni soldato che intralciava il loro cammino senza battere ciglio.
-Ti portiamo a casa Usopp.- sospirò Sanji, sentendo una stretta al petto nel vedere Zoro dirigersi proprio verso il plotone di soldati, -Ti portiamo a casa.-
 
*
 
Questo posto è un fottuto labirinto, pensò Zoro, correndo a perdifiato e nel modo più silenzioso possibile, per quanto il continuo tintinnare delle sue spade potesse permetterglielo, lungo gli infiniti corridoi del palazzo reale, svoltando prima a destra e poi a sinistra, salendo e scendendo scale fino a perdere completamente l’orientamento. O almeno, lo avrebbe perso se solo ne fosse stato provvisto.
Perché mai Shanks non avesse affidato il lavoro a uno più capace di orientarsi non riusciva a spiegarselo. Gli aveva detto di infiltrarsi nella reggia, trovare le stanze dei reali e cercare una principessa per portarla alla base. Doveva ammettere che, quando aveva sentito quelle parole, un pensierino sulla sanità mentale del Rivoluzionario se l’era fatto, ma l’uomo gli aveva detto che era una questione di vitale importanza, che erano in gioco cose come l’onore e il coraggio e che lui era senza dubbio il migliore sul campo. Inizialmente, Zoro si era fatto una risata e gli aveva detto di no, ma Shanks era stato bravo a rigirare la frittata a suo favore e gli aveva messo la pulce nell’orecchio, avvisandolo che in città girava voce che fosse arrivato lo spadaccino più forte al mondo e che, guarda caso, lui sapeva come e dove trovarlo.
Per quel motivo, in quel momento, si trovava a cercare di non scivolare sul marmo lucido, aggrappandosi alle tende in tessuto pregiato appese alle pareti con la speranza di trovare al più presto quella smorfiosa di una nobile.
Non gli interessava sapere a cosa sarebbe servita a Shanks, forse per fare un ricatto al Re, ma non aveva intenzione di pensarci troppo. Voleva solo portarla via da quel posto e sapere chi diavolo era quel bastardo che si vantava di essere il più forte.
Quante storie, sono io il migliore dell’intera regione! pensò, guardandosi attorno.
Finì si salire gli ultimi scalini, saltandoli due a due, e si ritrovò all’inizio di un lungo e ampio corridoio con pareti e colonne di un bianco brillante e con rifiniture in oro e argento. Ai muri erano appesi quadri di svariate dimensioni e uno in particolare con l’immagine della Famiglia Reale riempiva una parete intera.
Forse ci siamo, rifletté il ragazzo, avvicinandosi alla tela e sfiorando la cornice preziosa e lavorata, cercando con gli occhi la figura di una ragazzina con i capelli rosa, almeno ciò gli aveva detto il Rosso.
L’unico problema fu che non la trovò.
Maledizione!, imprecò tra sé e sé, decidendo di fregarsene di creare scompiglio ed iniziando ad aprire tutte le porte delle varie stanze, trovandole, per sua fortuna, rigorosamente vuote.
Continuò in quella maniera fino al piano superiore, partendo dall’inizio e arrivando al lato estremo, dove le finestre davano la visuale sulla Parigi sottostante, in quel momento polverosa e rumorosa, con le persone che si scannavano nelle piazze.
Brontolando per stare perdendo tempo invece che combattere, Zoro aprì l’ennesima porta, entrando in una stanza illuminata solamente dalla luce del giorno che filtrava da una porta finestra dall’altro lato, di fronte a lui, dove, appoggiata al parapetto in lucido marmo chiaro, stava una ragazza che si voltò nello stesso istante in cui lui mise un piede a terra, invadendo il suo spazio privato e provando la sensazione di aver irrimediabilmente distrutto la calma apparente che aleggiava lì attorno.
Fu un attimo e vide una scheggia rosa spostarsi dalla finestra al letto, estraendo da dietro la testiera del baldacchino una spada dall’aria maneggevole e, soprattutto, affilata.
La cosa che più lo colpì, però, non fu l’arma, ma bensì la visione di una donna che lo stava fronteggiando senza esitazione.
Una donna aveva avuto il coraggio di sfidare lui.
Scoppiò a ridere di gusto, scuotendo il capo e iniziando a camminare senza meta, passandosi una mano sugli occhi e appoggiandosi poi ad un armadio per calmarsi, incrociando le braccia al petto e ragionando sul fatto che le assurdità non avevano limite.
-Chi siete? E che cosa volete?- si sentì domandare e osservò di sottecchi come potesse una voce così imperiosa provenire da un corpicino tanto piccolo. Probabilmente la mocciosa era abituata a dare ordini e dettare legge.
-Scusa, ma non abbiamo tempo da perdere.- le rese noto dopo un’attenta occhiata curiosa, -Dobbiamo andare.-
-Andare dove?-
-Via da qui.-
La guardò boccheggiare spaesata e si accorse del breve istante di tentennamento, ma lei si riprese immediatamente e indurì lo sguardo. -Io non vado da nessuna parte.-
Zoro roteò gli occhi scocciato. Perché la gente doveva sempre essere tanto complicata? E perché tutti insistevano nel farlo lavorare, quando il suo unico desiderio era sdraiarsi e bere fino a svenire?
-Senti,- iniziò, avvicinandosi di qualche passo e notando che lei indietreggiava, sempre con la guardia alta. -Il tempo stringe e presto qualcuno si accorgerà delle guardie e del personale ucciso nei corridoi, per cui…-
-Hai ucciso le guardie?- domandò la ragazza con la voce incrinata, facendo si che Zoro si mordesse la lingua, rimproverandosi di aver parlato troppo come al solito. Riflettendoci, non sarebbe stata una buona pensata raccontarle delle vittime che si era lasciato alle spalle con la gola squarciata e le interiora sparse sui pavimenti pregiati.
Cercò di salvare il salvabile, ma dovette concentrarsi per schivare un affondo effettuato in maniera pulita ed impeccabile da parte della nobile che, in quel modo, lo stupì non poco.
-Come diavolo hai fatto? Ci vuole un sacco di esercizio per saperlo fare!- sbottò, sgranando gli occhi.
-E non è ancora finita.- fu la pronta risposta della donna, la quale si avventò di nuovo su di lui, costringendolo ad estrarre una delle sue spade per respingere l’attacco e tenerla a bada per non finire infilzato. Se lo avesse sconfitto non si sarebbe più fatto vedere vivo in giro.
Per sua fortuna poteva contare sulla sua forza e sull’esperienza acquisita, anche se la ragazzina sapeva il fatto suo e mirava a punti parecchio pericolosi se colpiti. Doveva per forza aver avuto un buon maestro.
Intercettò un attacco e deviò la traiettoria, facendo così finire l’arma dell’avversaria addosso al muro e disarmandola.
-Allora,- disse, riprendendo fiato e assicurandosi di tenere ben ferma la lama sulla gola della principessa. -Vogliamo andare o continuiamo ancora un po’, Vostra Grazia?-
-Sai chi sono?- sussurrò lei, più indispettita per aver perso lo scontro che preoccupata per la situazione in cui si trovava. Per quanto ne sapeva, l’uomo avrebbe potuto ucciderla, violentarla o chissà cos’altro.
Zoro sogghignò sarcastico. -Non tutti i Reali hanno i capelli rosa.-
La diretta interessata arricciò il naso, puntellando le mani sui fianchi. -E non tutti i francesi hanno i capelli verdi.- lo riprese saccente, colpendolo nel vivo e facendolo sbuffare.
-Smettila di blaterare e spogliati.- le ordinò burbero, rinfoderando la spada ed iniziando a trafficare con qualcosa che aveva dentro una borsa in pelle a tracolla che aveva portato con sé.
-Che cosa?- strillò Perona, coprendosi il petto con le mani, la quale credette di aver toccato il fondo per quella giornata. Si era svegliata disturbata dagli scoppi violenti avvenuti in città e per tutta la mattinata fino all’ora di pranzo se ne era rimasta rintanata nella sua stanza a guardare quello che succedeva in città dalla sua finestra, scrutando l’orizzonte con lo sguardo pieno di sogni, paure e speranze, desiderando solo di poter fuggire via e, per concludere, era arrivato quello straccione per portarla Dio solo sapeva dove.
-Mettiti questi.- precisò allora, lanciandole addosso dei vestiti comodi appartenuti a chissà quale poveraccio. -Non ti riconosceranno così. E sbrigati!-
-Mi dici chi diavolo sei? Perché sei qui? Chi ti manda?-
Doveva sapere se poteva almeno fidarsi. Di certo non sarebbe stata tanto sciocca da seguire uno sconosciuto senza sospetti. D’accordo che odiava la sua vita, ma addirittura buttarsi in braccio alla morte, beh, quello le sembrava un pochino esagerato e drastico.
Incrociò lo sguardo con il ragazzo, il quale si era fatto serio e la fissava intensamente, finendo per sogghignare.
-Fai troppe domande.- esclamò, grattandosi distrattamente la testa e dandole le spalle per lasciarle la sua privacy. -Mi hanno detto di cercare la principessa dai capelli rosa e di portarla via da palazzo. Per quanto riguarda chi mi manda, ho solo un nome: Drakul Mihawk. E ora muoviti o giuro che ti trascinerò fuori di peso.-
 
*
 
-Spada!-
Afferrò al volo l’arma che gli era stata lanciata dal compagno e parò all’ultimo momento l’attacco di un ufficiale, facendo breccia nella sua difesa e affondando poi la lama nello stomaco dell’uomo, spingendolo lontano con un calcio e lasciandolo cadere a terra.
-Spada!-
In quello stesso istante, lanciò il ferro al biondo che stava a circa un metro di distanza e che ebbe così modo di far fare la stessa fine, più o meno, ad un altro soldato.
Una volta sconfitta l’orda di guardie, i due si scambiarono un lungo sguardo, prendendosi un momento per studiarsi a vicenda e per rendersi conto di quello che era successo in quegli ultimi minuti.
Si erano ritrovati nel bel mezzo del casino più totale e si erano dovuti separare in piccoli gruppi per riuscire ad essere presenti in più punti della città.
Ace aveva imprecato sonoramente quando aveva capito che avrebbe dovuto arrangiarsi con Marco, praticamente da solo, dato che aveva la certezza che l’atro l’avrebbe lasciato morire alla prima occasione. Invece, al contrario di quello che aveva pensato, il ragazzo lo aveva aiutato quando aveva perso la sua arma in uno scontro piuttosto intenso, iniziando così quello scambio che si era appena concluso con una vittoria da parte loro.
Si guardavano, cercando di capire come diavolo erano finiti a sostenersi a vicenda, quando, fino al giorno prima, avrebbero fatto carte false per distruggersi.
Alla fine si sorrisero, un po’ in imbarazzo perché non si erano mai scambiati altro, oltre che alle minacce e agli sguardi assassini, e poco dopo il sorriso divenne una risata che li costrinse a reggersi la pancia per respirare.
-Dio, se è stato divertente!- fece Ace, affiancando il biondo e avviandosi con lui verso le barricate. Potevano stare tranquilli, quella piazza era ormai sgombera e la gente si stava lentamente riprendendo, scacciando gli ultimi gendarmi e costringendoli alla ritirata.
-Da rifare assolutamente!- concordò Marco, massaggiandosi il collo indolenzito.
-E quando hai lanciato quel pugnale dritto sul petto del militare!- ricordò il corvino, saltellando qualche passo più avanti al maggiore e agitando le braccia per imitare il gesto che l’altro aveva compiuto. -Una mira perfetta!-
-Invece tu hai praticamente dato fuoco a due ufficiali con una torcia!- si complimentò Marco, ancora impressionato dalla strana vocazione che il ragazzino aveva per il fuoco.
-Si, ma si sono spenti cadendo in acqua.- si imbronciò Ace, abbassando il capo con uno sbuffo contrariato e gettando un’occhiata veloce in direzione del fiume dove i due uomini ai quali aveva bruciato le uniformi si erano gettati, correndo come forsennati impazziti. Era stato divertente, Marco stesso aveva ridacchiato e gli stava pure facendo un complimento.
-La scena rimane comunque indimenticabile.- gli confermò per l’appunto il biondo, battendogli istintivamente una mano sulla spalla, un gesto comune e semplicissimo che facevano tutti e che lo stesso Ace aveva fatto e ricevuto mille volte, ma che in quell’occasione lo lasciò senza fiato.
Guardò Marco, notando come anche lui era rimasto un tantino sconvolto, anche se cercò ugualmente di non darlo a vedere, schiarendosi la voce e continuando a camminare come se niente fosse.
Pure il moro decise di non darci troppo peso e di prendere l’accaduto come una specie di buon segno. Forse erano arrivati ad una tregua e avrebbero potuto, col tempo, spianare le loro divergenze e riuscire ad andare d’accordo come tutti gli altri senza odiarsi reciprocamente.
Sorrise Ace, entusiasta per il buon finale della battaglia e per quella specie di nuovo inizio. Doveva ammettere che Marco non lo aveva rallentato durante il lavoro, nemmeno il giorno prima, quando aveva preparato i falò da accendere. Dopo la sfuriata che gli aveva fatto, si era dimostrato per lo meno propenso a dare una mano e a non intralciare nessuno e quello il rivoluzionario lo aveva apprezzato molto. Quella mattina avevano poi combattuto praticamente sempre fianco a fianco, dall’inizio alla fine, aiutando i propri compagni e guardandosi le spalle in quell’ultimo frangente, ritrovandosi in sintonia almeno su qualcosa.
Non è così terribile, si diceva intanto Marco, i cui pensieri erano sulla stessa lunghezza d’onda di quelli di Ace. Poteva essere che si fosse sbagliato a giudicarlo tanto in fretta, senza imporsi di conoscerlo meglio. Certo, a primo impatto sembrava solamente un moccioso pestifero, ma cercando più a fondo risultava addirittura interessante e, spesso, divertente. Non aveva mai perso il sorriso nemmeno quando aveva rischiato di perdere un braccio. Fortuna che era intervenuto lui di persona a salvare la situazione, dando inizio in quel modo un gioco, se così potevano chiamarlo. Si stupiva ad accettarlo, ma si era davvero divertito.
Nei pressi della barricata aiutarono alcuni uomini feriti a superare la barriera, assicurandosi che tutti fossero al sicuro e che i più gravi venissero spostati immediatamente dai dintorni.
-Ace! Ace!-
Fu Marco a voltarsi per primo verso la figura piccolina che si stava avvicinando a loro, incespicando nei suoi piedini e agitando le braccia magroline.
-Uhm, credo vogliano te.- avvisò, battendo dei colpetti leggeri sulla spalla del corvino, impegnato in quel momento a parlare con un suo compagno d’armi.
Quando Ace prestò attenzione allo scricciolo che lo aveva raggiunto, guardandolo torvo dal basso, si illuminò, sorridendo allegro e abbassandosi fino ad appoggiare un ginocchio a terra, andando poi a posare una mano sulla testolina bionda che gli stava di fronte.
-Oh, la bambina del latte.- disse, scompigliandole i capelli.
-Mi chiamo Elise, lo sai.- si imbronciò lei, sporgendo il labbro inferiore in una smorfia che avrebbe addolcito chiunque e che fece sogghignare persino Marco.
-Appunto, la bimba del latte.- ripeté il moro, che con i nomi non era mai stato un maestro e quello della piccola gli sfuggiva sempre. Si ricordava di lei solamente perché, a parte averla vista un sacco di volte, quando passava per casa sua si fermava sempre per un bicchiere di latte fresco che lei gli offriva gentilmente e si offendeva pure se le diceva che andava di fretta. Sabo lo prendeva in giro perché diceva che si era probabilmente innamorata di lui.
-Cosa ci fai qui fuori? E’ pericoloso, lo sai vero?- la riprese bonario, alzandosi e aggirandola. -Forza, mettiti dietro la barricata e torna a casa, va bene?-
-Ma il mio papà è ancora fuori.- rispose Elise, alzando il capo e guardando i due ragazzi con gli occhi lucidi. -Io e la mamma non lo troviamo da nessuna parte.-
Ace sospirò, scambiandosi un’occhiata indecisa con Marco.
-Non ti preoccupare.- rispose allora quello, decidendo per entrambi. -Ora Ace ed io lo andiamo a cercare, d’accordo?-
La bambina parve tentennare, ma alla fine si asciugò una lacrima che le era corsa lungo la guancia con una manina e annuì convinta, lasciandosi convincere a rientrare al di là della barricata.
-Non sei obbligato ad accompagnarmi.- fece notare Ace quando si fu allontanata, affondando le mani nelle tasche dei calzoni e voltandosi verso la piazza, imitato subito da Marco. Non voleva coinvolgerlo in un giro di recupero quando era perfettamente consapevole che avrebbero potuto non trovare affatto il padre della bambina e voleva evitargli rischi inutili, anche se l’altro sembrava più che propenso a tenergli compagnia.
-Lo so.- rispose infatti il biondo, tranquillo.
-Bene. Andiamo allora.-
Non lo avrebbe detto, ma era contento di non dover essere da solo, anzi, gli faceva piacere che Marco avesse scelto spontaneamente di accompagnarlo. Tutto aveva un altro aspetto se fatto volentieri, a differenza dell’ordine che avevano ricevuto due notti prima. In quell’occasione erano stati costretti da altri a lavorare assieme, mentre in quell’occasione lo avevano fatto semplicemente perché gli andava e ciò faceva sentire Ace al settimo cielo. Era decisamente meglio andare d’accordo, senza la paura di fare domande o chiacchierare di tanto in tanto.
In piazza ormai non c’era altro che polvere e corpi privi di vita sparsi a terra, eccetto alcuni uomini che si erano resi volontari per andare alla ricerca degli ultimi sopravvissuti o di quelli rimasti indietro. Nel pomeriggio avrebbero chiuso le barricate, dividendo la città i vari blocchi e chi restava fuori non avrebbe avuto scampo quando sarebbero ritornate le guardie per il contrattacco, perciò era meglio ridurre il numero delle vittime più che si poteva e cercare di salvare il salvabile. Era anche una questione di principio e di fratellanza. Dopotutto, tutta la città si era mobilitata perché era unita e credeva nella possibilità di avere un futuro migliore, perciò sarebbe stato da ipocriti abbandonare un compagno, un amico o un fratello se c’era la possibilità di non farlo.
Aiutarono un paio di rivoluzionari a trascinare fuori dal campo di battaglia un paio dei feriti, chiedendo nel frattempo in giro informazioni sul padre della piccola Elise, ma non trovando purtroppo risposte soddisfacenti, fino a che un uomo che lo conosceva disse loro che il tizio che stavano cercano era stato portato poco prima alla barricata dopo che lo avevano trovato con una gamba rotta, ma vivo e vegeto.
-Oh, beh, credo che possiamo rientrare anche noi in questo caso.- fece Ace, stringendosi nelle spalle e guardando marco alla sua destra annuire. Ancora non se ne rendevano conto, ma il fatto di scambiarsi uno sguardo per consultarsi prima di prendere una qualsiasi decisione sarebbe diventata un’abitudine per loro.
Si incamminarono con calma, commentando la battaglia e dando una mano di tanto in tanto ai volontari in difficoltà, coprendo loro le spalle e controllando che non ci fossero altre guardie appostate e pronte a tendere un agguato.
-Altri dieci metri e poi ci siamo.- stava dicendo un rivoluzionario ad un ferito che si era caricato in spalla.
-Stasera berremo come dei disperati.- scherzò un altro, cercando di tirare su il morale a tutti e riuscendo a strappare qualche sorriso tirato.
Anche Ace stava immaginando come avrebbe passato la serata. Si sarebbe riposato e avrebbe mangiato fino a scoppiare con la sua famiglia e, finalmente, in compagnia di Rufy. Non vedeva l’ora di guardarlo litigare con Shanks o con Sabo per il cibo.
-Entrate, vi copriamo noi.- disse ad un tratto Marco, facendo passare avanti gli ultimi cittadini, mentre Ace si guardava attorno reggendo una pistola. Ormai avevano finito per quella parte della giornata.
-E’ stato impegnativo.- sospirò infine, con l’adrenalina ancora nel sangue. Era rimasto con il fiato sospeso per tutto il tempo.
Marco concordò con lui, asciugandosi il sudore sulla fronte con la manica della giacca. Era sfinito, stanco e dolorante per gli scontri corpo a corpo impegnativi che aveva sostenuto. Sentiva le orecchie che fischiavano a causa degli spari ed era certo di non aver mai visto tanto sangue come in quell’occasione, nemmeno quando gli era capitato di ingaggiare una battaglia in mare aperto completa di abbordaggio con le navi inglesi.
-Dai, rientriamo anche noi.- mormorò, indicando con un cenno del capo l’ingresso della barricata alle loro spalle e incamminandosi prima di Ace.
-Uh? Aspetta, quello chi è?- chiese il moro, fissando qualcosa che si muoveva poco distante da loro in mezzo alla polvere, ai corpi e ai resti di carri distrutti, baracchini in legno e mura crollate. Poteva essere uno di loro che era svenuto in battaglia o che era stato ferito e non era riuscito a farsi notare prima.
-Marco, sta chiedendo aiuto.-
Il biondo, che non riusciva a distinguere l’uomo a terra, rimase immobile, indeciso su cosa fare. -Potrebbe essere un nemico.-
Non sapeva perché lo stava dicendo, ma aveva una brutta sensazione.
Ace lo guardò scettico. -Ma che dici, è moribondo! Muoviti, vieni a darmi una mano.- e si avviò verso la vittima, obbligando Marco corrergli dietro in fretta, sempre più preoccupato. La visibilità era scarsa a causa dei fuochi e delle esplosioni, l’aria era ancora soffocante e non si vedeva nulla. Se solo fosse stato tutto un po’ più nitido.
-Ehi, amico! Ci siamo noi.- si fece sentire Ace, alzando un braccio per farsi notare dal moribondo che, udendolo, alzò il capo, rimanendo steso a terra e attendendo che il ragazzo si facesse un po’ più vicino.
-Sei ferito?- continuò il ragazzo, abbozzando un sorriso amichevole, ignorando il biondo dietro di lui che cercava di afferrarlo per la collottola.  -Adesso ti aiutia…-
-Ace spostati!-
Perché Marco si era accorto del braccio che l’uomo a pochi metri da loro aveva alzato e aveva riconosciuto l’uniforme della polizia bene quanto la rivoltella che stringeva con la mano e che puntava dritta e senza esitazione verso il giovane più vicino che, con tutta la sua buona volontà, non ci aveva proprio fatto caso, intendo com’era stato a voltarsi verso il biondo per rimproverarlo di non essere fiducioso.
Per Ace era accaduto tutto a rallentatore, come se fosse stato uno spettatore esterno e non all’interno del suo corpo, mentre per Marco era stato un susseguirsi veloce di azioni e decisioni. In un attimo era scattato in avanti, spingendo Ace con tutta la forza che aveva nelle braccia e facendolo rotolare a terra di lato appena in tempo per evitare che venisse colpito dalle pallottole, ma non riuscendo a scansarsi per salvare se stesso.
Il moro, invece, aveva visto tutto. Aveva visto Marco andargli addosso; si era visto cadere a terra malamente e aveva anche percepito la fitta dolorosa al polso; aveva visto il biondo continuare a muoversi verso di lui e, ad un tratto, aveva visto, e udito, benissimo gli spari che colpivano il suo corpo, bloccandolo e facendolo accasciare al suolo, privo di sensi.
Poi non aveva sentito altro, ogni rumore era stato attutito e si era ritrovato di nuovo padrone di sé e del suo corpo, perciò si era alzato, aveva raccolto la sua pistola ed era andato verso il soldato che, resosi conto di averlo mancato, aveva ripreso a sparare, ma le munizioni erano finite. Si era messo a strisciare, implorando pietà mano a mano che Ace avanzava con in faccia lo sguardo peggiore che un uomo potesse vedere. Fu con quell’immagine che morì l’ufficiale, troncato da un colpo preciso alla testa. Una fortuna per lui, perché il Rivoluzionario aveva troppa fretta di tornare da Marco per portarlo al di là della barricata per perdere tempo a farlo trapassare nel modo più doloroso e lento possibile.
Il ragazzo si era caricato il biondo sulle spalle, sentendo qualcosa di viscido e caldo scorrergli lungo un braccio e, ignorando il braccio sicuramente slogato, la testa che gli girava e la mancanza di aria nei polmoni, percorse gli ultimi metri fino a trovarsi al sicuro in mezzo ai suoi compagni.
L’unica cosa che disse, fu un ordine che non poteva essere ignorato, non quando era dato con quel tono e con quello sguardo.
-Trovate Trafalgar Law.-
 
*
 
Il Quartier Generale pullulava di ogni tipo di disperato.
Gente ammassata lungo la via, sulle porte, nelle sale, chi seduto sui balconi delle finestre, chi osservava dalle terrazze, chi aspettava all’aperto e chi all’interno, ognuno dando sfogo ai propri pensieri chiacchierando, urlando, piangendo e litigando per accaparrarsi un posto in fila per essere visti da un dottore.
O meglio, da uno dei tanti.
C’era stato bisogno di ogni persona che avesse almeno un minimo di conoscenze mediche per calmare la folla agitata e per seguire i feriti, dato che erano veramente tanti e un medico soltanto non sarebbe mai bastato. I più esperti si occupavano dei casi gravi, mentre quelli che si vantavano di curare un raffreddore con dei rimedi vegetali badavano al superfluo.
Quelli coscienti si erano messi l’anima in pace, avevano bevuto una brodaglia aspra che aveva alleviato il loro dolore e si erano messi ad attendere pazientemente che il Dottr Chopper si liberasse, mentre i più coraggiosi ed intrepidi, o accecati dal dolore o svenuti, erano finiti nelle abili e sapienti, e a volte troppo azzardate, mani del Chirurgo della Morte, il quale non aveva smesso un attimo di lavorare da quando la rivolta aveva avuto fine.
Aveva perso il conto ormai di quelli che erano passati sotto ai suoi ferri. Non ricordava di aver mai amputato tanti arti come quel giorno, o di aver effettuato operazioni improvvisate con le uniche risorse che possedeva. Ad ogni modo, continuava imperterrito a salvare vite, compiendo il suo dovere e i suoi compiti senza battere ciglio, non abbattendosi quando un caso troppo disperato moriva sotto i suoi occhi. Lui faceva il possibile e lo faceva al meglio. Tre vittime su cento erano un numero che poteva sopportare e portare sulla coscienza.
-Penguin, sei libero?- domandò ad operazione finita, poggiando gli attrezzi e dirigendosi verso una bacinella piena d’acqua per lavarsi le mani.
-Ho appena finito.- rispose prontamente il suo assistente.
-Bene. Richiudilo e poi prenditi una pausa.- lo informò, mentre il ragazzo lo sostituiva ed iniziava ad applicare meticolosamente i punti di sutura su una ferita all’addome di un poveraccio che si era beccato un affondo da parte di uno dei soldati.
Law si rinfrescò velocemente anche il viso, massaggiandosi gli occhi e sospirando. Aveva ancora un sacco di lavoro da fare, ma la testa iniziava a pulsare e se volava lavorare bene doveva essere lucido, perciò, a meno che non ci fossero state altre emergenze, si sarebbe riposato per qualche minuti. Il pomeriggio era lungo e di certo non sarebbe tornato a casa tanto presto. Di quel passo sarebbe potuto anche rimanere alla base per qualche giorno, quindi gli conveniva mandare un messo a Corazòn per informarlo della sua salute e delle condizioni in cui si trovava.
Uscì dalla stanza passando per una porta secondaria, collegata ad un salottino dove, solitamente, alcuni dei rivoluzionari si fermavano per rifocillarsi bevendo qualcosa o schiacciando un pisolino.
Si era aspettato di trovarci qualcuno, ma non Eustass Kidd.
Il rosso era stravaccato su un divanetto, troppo piccolo per la sua stazza e le gambe superavano di parecchi centimetri il bordo, lasciate penzolare nel vuoto, mentre le braccia erano incrociate dietro la testa per sostenerla e stare comodo.
Si fermò a guardarlo Law, osservando le membra rilassate; i capelli spettinati e sporchi, alcuni addirittura imbrattati di polvere e fango; i vestiti macchiati di sangue in più punti; il petto che si alzava e abbassava ad ogni respiro e il viso sereno mentre dormiva profondamente, con gli occhi chiusi. Credendolo addormentato, il dottore si avvicinò, chinandosi su di lui e avendo la conferma dei suoi sospetti, accorgendosi di alcuni graffi che risaltavano sulle pelle chiara, in particolare un brutto taglio di cinque centimetri che partiva dall’attaccatura dell’orecchio sinistro e finiva sul sopracciglio rossiccio. Così, sospirando, recuperò del disinfettante e inumidì un paio di garze, poggiandole poi con attenzione sulla ferita del rosso che, infastidito, corrugò le sopracciglia facendo sogghignare Law.
-Brucia.- borbottò Kidd, tenendo gli occhi chiusi e prendendo un respiro profondo, come se fosse stato appena svegliato.
-Lo so, ma si cicatrizzerà più in fretta.- gli spiegò il moro, sedendosi sulla poltrona li vicino e allungando le braccia per stiracchiarsi. Si sentiva veramente stanco e spossato.
-Come sta andando?- domandò Kidd dopo un po’.
Law si strinse nelle spalle, chiudendo gli occhi. -Va.- rispose, non sapendo definire meglio l’andamento della situazione. -Gente che vive, gente che muore. Un po’ come sempre del resto.-
Il rosso annuì lievemente, capendo che era meglio non indagare oltre. -Gli altri?-
 -Sono quasi tutti rientrati. Ne mancano pochi all’appello.-
-Chi è rimasto indietro?-
-Uhm, non saprei di preciso, ma da quel che mi ha riferito Shachi, gli unici che devono ancora tornare sono Ace e Zoro.-
Nella sala adiacente dove Penguin stava finendo di porre le ultime suture scoppiò un gran baccano che fece scattare Kidd a sedere e schizzare in piedi Law, il quale si diresse a grandi falcate verso la fonte del rumore fatto di oggetti che cadevano per terra in continuazione e frasi frettolose di più persone.
-Ehi, aspetta un attimo!- si udì la voce dell’infermiere di alcune note troppo alta.
-Dov’è Trafalgar?-
-Sono qui, Ace.- si rivelò il diretto interessato, mentre alle sue spalle appariva la figura di Kidd che aveva decisamente visto giorni migliori.
-Toh, parli del diavolo.- disse quello, appoggiandosi con un sospiro stanco allo stipite. Camminare gli faceva venire le vertigini e la ferita alla tempia pulsava più forte di quello che si era aspettato, ma non poteva di certo buttarsi giù per così poco e farsi vedere debole. Non se lo sarebbe mai perdonato.
Il corvino ignorò tutto ciò che gli stava attorno, spostando Penguin di lato con poca grazia e mostrando così al medico ciò che aveva disteso sul tavolo non appena era entrato.
Law, a quella vista, gli fu accanto in un istante, iniziando subito ad osservare il corpo e formulando nella sua testa varie domande e ipotisi, assieme, ovviamente, ad un piano da seguire per fare del suo meglio e cominciare con l’operazione.
-Cosa gli è successo?- chiese freddo, buttandosi alle spalle stanchezza e preoccupazioni varie e recuperando la solita aria professionale.
Ace deglutì e strinse i pugni. -Gli hanno sparato.- mormorò a denti stretti. -Sono tre colpi in tutto. Qui, qui e anche qui.- spiegò velocemente, indicando con la mano un punto sullo stomaco di Marco, privo di sensi e dal colorito pallido, uno sul torace e un altro decisamente meno grave sulla spalla sinistra.
Poi bloccò il braccio di Trafalgar, stringendogli il polso e obbligandolo ad incontrare i suoi occhi spiritati. -Devi. Salvarlo.-
Suonò quasi come un ordine, misto ad una preghiera fatta di disperazione, ma Law non rispose subito e nemmeno fece commenti sull’agitazione e sulla paura che aveva visto nello sguardo e nel comportamento dell’amico. Prese invece il tutto come l’ennesima sfida contro la Morte. Ed era più che intenzionato a vincere.
-Esci. Ti chiamo quando ho finito.- dichiarò senza degnarlo più di uno sguardo, facendo segno a Penguin di accompagnare il ragazzo fuori dalla sala e di controllare che non avesse bisogno anche lui di qualcosa. Dopodiché andò a lavarsi nuovamente le mani fino agli avambracci e preparò l’occorrente per un intervento d’urgenza, rendendosi conto solo dopo dello sguardo di Kidd puntato addosso.
-Vai pure a casa, Eustass-ya. Io tornerò presto.-
Il rosso grugnì scocciato. -Scordatelo, qui ho tutto quello che mi serve.- decretò, muovendosi per tornare a riposare sul divanetto nella stanza accanto. -E poi,- aggiunse, -Corazòn è noioso. Sono certo di non piacergli.-
Law sogghignò ironico, l’ultima distrazione prima di escludere il mondo da quella stanza. -Ma dai, cosa te lo fa credere?-
-Lo so e basta.-
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Ehm, buona estate?
Perché, insomma, non credo di essere l’unica che ha voglia di fare niente, causa maggior questo caldo insopportabile! Ma dalla prossima settimana sono in ferie, quindi spero di portarmi avanti un pochino .-. il prossimo capitolo è pronto a metà, ma almeno è qualcosa dai ^^ per il resto, spero stiate tutti bene e vi auguro di divertirvi un sacco! La scorsa settimana ho fatto il mio primo AFTER ** ne vado così fiera, alla veneranda età di 21 anni ho fatto una cazzata pure io, anche se non ero ubriaca e ho dovuto fare da balia a due idioti ubriachi marci, gustando l’alba nei pressi di un distributore di benzina. Poetico, ci scriverò una one-shot magari.
Che dire, le immagini nemmeno le metto più perché ho visto che dopo un po’ il link si annulla e non so metterle intere sulla pagina D: sono disperata per questo!
Tornerò presto, spero. Sto tirando avanti una mini-long e spero di finirla perché tipo non vedo l’ora di farvela leggere :3
E nei prossimi capitoli, a brevissimo, alzo il rating grazie ad un bestione con la testa rossa e un ragazzetto saccente, MLMLML. Indovinate chi sono, LOL.
Un abbraccione e grazie per la pazienza, grazie a chi legge e a chi lascia un pensierino, vorrei poter fare di più.
 
See ya,
Ace.

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Capitolo 16
*** Seize. ***


Liberté, Égalité, Fraternité.
Seize.

 
La notizia della Presa della Bastiglia si era diffusa in tutta la Francia a macchia d’olio, rendendo chiaro immediatamente alla maggior parte della popolazione che la forza dei cittadini era più che capace di tenere testa alla monarchia. Fu per quel motivo che per le vie iniziò a circolare la voce sul significato simbolico che la prigione aveva assunto, ovvero il potere vulnerabile del Re.
Le ore che erano seguite alla rivolta erano state lente e pesanti da sopportare per tutti e con l’arrivo della notte le cose non si erano messe meglio, soprattutto per i feriti e per quelli che erano rimasti senza un tetto sopra la testa dove poter stare al sicuro.
Inoltre, c’erano un sacco di problemi secondari, ma non di poca importanza, da risolvere per i Rivoluzionari. Soprattutto, Shanks aveva urgenza di sapere come stavano i suoi uomini, come se l’erano cavata, chi mancava all’appello e quali erano le condizioni degli uomini di Barbabianca ai quali, ormai, si era affezionato.
Era lui stesso a girare per il Quartier Generale quella notte, elargendo sorrisi di incoraggiamento a coloro che erano addossati alle pareti, in attesa di una visita o dell’assegnazione di una branda per dormire. Molti cittadini erano tornati alle loro case e dalle loro famiglie, ma altri che avevano perso tutto avevano ricevuto asilo da un paio di conventi, la locanda di Makino, mai stata piena come in quella circostanza, e dall’edificio in cui si trovavano. Si erano arrangiati al meglio, riuscendo, con un po’ di organizzazione, a superare gli intoppi di quel primo giorno, poi sarebbe seguito il resto.
Aveva appuntamento con Benn e alcuni uomini di Barbabianca, così si affrettò lungo il corridoio, scusandosi con le persone che urtava per sbaglio, e raggiungendo una stanzetta non troppo grande, ma accogliente dove trovò i suoi compagni nel silenzio più totale, sdraiati a terra o seduti.
Fu Benn a salutarlo per primo, facendogli un cenno con il capo e indicando con lo sguardo un tizio sul pavimento con i capelli castani.
-Salve ragazzi.- mormorò Shanks, con un tono che non era per niente allegro come il solito.
Thatch se ne accorse subito, ma immaginò che fosse dovuto alla stanchezza. Dopotutto, era stata una giornata pesante per tutti e nemmeno il suo umore era alle stelle.
-Bonsoir.-
-Capitano.- fece Izou, seduto a gambe incrociate su una panca e con le braccia strette attorno al petto. Molti della loro compagnia avevano preso il vizio di riferirsi al rosso con quell’appellativo da quando avevano ricevuto l’ordine di obbedirgli e seguirlo in battaglia. Era più facile se lo vedevano come una specie di condottiero, altrimenti, se fosse stato solamente un amico del loro babbo, privo di importanza, lo avrebbero ignorato.
-Allora,- sospirò Shanks, sedendosi pure lui, -Quali sono i risultati?-
-Mezza città distrutta; una prigione sotto sequestro; le truppe della Corona dimezzate e centinaia di cittadini sparsi per le strade senza vita.- elencò Thatch, alzando il capo da terra e recuperando parte del suo temperamento attivo, anche se la risposta grondava di puro sarcasmo.
-Thatch.- lo richiamò il fratello, scoccandogli un’occhiata ammonitrice. -Don’t...-
-E perché no? E’ la pura verità, così come è vero che Marco è quasi morto!- scattò il castano, alzandosi completamente e avanzando verso Shanks per fronteggiarlo, poggiando i palmi aperti sul tavolo che li separava. -Volevi una stima dei danni? Bene, queste sono le vittime.- disse arrabbiato, sbattendogli sotto al naso dei fogli di carta scribacchiati e uscendo poi dalla stanza, lasciando il silenzio dietro di sé.
Izou si schiarì la voce poco dopo. -Devi scusarlo, è solo teso per le condizioni di nostro fratello.-
-Non deve essere scusato, ne ha tutto il diritto.- chiarì il rosso, sorridendogli appena in modo gentile e venendo ricambiato. Con Izou, che fosse contento o meno, si riusciva sempre a parlare e a ragionare. Al contrario, Thatch era la persona migliore al mondo quando era allegro e spensierato, ma quando era preoccupato o furioso era meglio stargli alla larga perché sapeva diventare piuttosto violento.
Shanks sfogliò la lunga lista dove notò esserci scritti tutti i nomi dei caduti durante la presa della Bastiglia e pareva quasi che non avessero più fine, mentre, nelle carte successive, erano annotati i nominativi di alcuni soldati fatti prigionieri per un motivo o per l’altro e quelli dei gendarmi liberati dalla prigione che avevano in seguito combattuto a favore del popolo.
Li lasciò ricadere sulla superficie del tavolo e si massaggiò le tempie, pensando a cosa fare.
Aveva saputo dell’incidente di Marco, Sabo glielo aveva accennato, spiegandogli anche il motivo per cui Ace fosse sparito chissà dove. Si era sentito sollevato alla notizia che i suoi tre ragazzi stessero tutti bene e si era concesso un momento in disparte con Rufy per stringerlo forte a sé, tirargli uno schiaffone e facendosi promettere che non si sarebbe mai più cacciato nei guai, abbracciandolo nuovamente al primo cenno di assenso che aveva ricevuto. Avrebbe anche voluto correre a ringraziare Marco per quello che aveva fatto, ma sapeva che era impossibile. Sarebbe comunque andato di persona da Barbabianca una volta sistemati i problemi più gravi a Parigi.
Sollevò la testa alla ricerca di Benn. Gli sarebbe servito più di qualche uomo fidato per interrogare i prigionieri e lasciare a qualcuno il compito di sostituirlo fino al suo ritorno.
-Mi serve un favore.- iniziò. -Assicurati che tutti abbiano cibo e acqua e che vengano visitati. Raduna tutti i volontari che riesci a trovare e organizza delle ronde sulle barricate con dei turni, tutti devono riuscire a riposare. Domani mattina, appena torno, ci occuperemo dei prigionieri, organizzeremo i funerali e alla fine penseremo anche al resto.-
Con resto, intendeva tutto ciò che riguardava la monarchia e il marciume che li aveva ridotti in quel modo. Le complicanze non si limitavano a quelle già elencate, doveva anche risolvere la questione del membro della Flotta dei Sette, dell’ufficiale che avevano catturato le ragazze di Dadan e della principessa che aveva affidato alle cure della donna.
-Izou, sto andando all’accampamento. Immagino vorrai tornare dalla tua famiglia.-
Il ragazzo dai capelli corvini lo guardò con un misto di stanchezza e ringraziamento, annuendo e avvisandolo che sarebbe andato a cercare Thatch e che lo avrebbero aspettato all’uscita per fare la strada assieme.
Quando anche Shanks fu pronto per partire, dopo aver scambiato le ultime parole con Benn, raggiunse la soglia, ma si fermò prima di andarsene con un quesito in testa. -Yasop?-
Aveva cercato di stare tranquillo e di pensare positivo, ma non aveva visto l’amico da nessuna parte.
L’ombra che oscurò il viso del suo vecchio compagno non gli fece presagire nulla di buono. -Tutto questo è niente in confronto ai funerali che si terranno a giorni. Aveva bisogno di una notte per piangere il figlio.-
 
*
 
Regnava il caos.
Ancora non si spiegava per quale ragione aveva tanto insistito per partecipare a quell’interrogatorio che durava ormai da troppe ore, cadenzate solamente da urla, imprecazioni, insulti, minacce di morte e nessuna assoluzione.
Durante la presa della Bastiglia erano stati fatti prigionieri pochissimi soldati perché la maggior parte erano ancora esposti sulle mura della prigione, penzolanti e con il cappio al collo. Quelli ancora in vita si contavano sulle dita di una mano e non si trovavano certo in una posizione di prestigio che potesse salvarli dai crimini di cui erano accusati.
Bonney si trovava nei sotterranei del Quartier Generale dove alcune stanze inutilizzate e sgabuzzini erano stati adibiti per rinchiudere gli ufficiali, quel mattino liberi di uscire uno ad uno per essere ascoltati da una specie di giuria imparziale fatta da alcuni Rivoluzionari, quali Shanks e un paio dei suoi uomini, più due messi che facevano le veci di Kaido e Big Mom e un altro tizio che rappresentava un gruppo di nomadi che vivevano poco fuori della capitale, di cui Bonney aveva appreso l’esistenza solo quel giorno.
Si trovava tra gli spettatori per pura fortuna, ma anche per furbizia, dato che sia lei che Nami erano le dirette interessate per quanto riguardava la cattura di uno dei gendarmi. Lei, in particolare, ci teneva a dire la sua per evitare che al diretto interessato tagliassero la testa dato che, fino ad allora, tutti i prigionieri erano stati condannati e la situazione non sembrava volgere per il meglio.
Si mordicchiava le unghie, rovinandole e scorticandosi i polpastrelli del mignolo e dell’indice della mano sinistra, passando poi alla destra quando gli altri iniziarono a sanguinare.
-Chi è il prossimo?-
A quelle parole si fece attenta, ignorando le occhiate stranite che Nami le rivolgeva, turbata dal suo comportamento fin troppo interessato ogni volta che nominavano un nuovo soldato.
-Un certo Smoker.- sentì borbottare da Benn e, automaticamente, la sua attenzione venne meno, facendola ricadere nell’ansia dell’attesa.
Intanto nella sala veniva scortato da due uomini un tizio che non aveva mai visto, ma che molti altri conoscevano con il grado di Capitano della Guardia Principale di Parigi, Smoker. Il prigioniero non ebbe nemmeno il tempo di sedere davanti a Shanks perché, all’improvviso, Ace si alzò dalla sua postazione e saltò in mezzo alla stanza seguito a ruota da Sabo, il quale non riuscì a fermare in  tempo il fratello dallo sferrare un pugno in pieno volto all’uomo.
-Ace fermati!- lo pregò biondo, stringendo le braccia attorno al corpo del fratello nel tentativo di allontanarlo dall’ufficiale a terra con il naso rotto.
-Lo ammazzo! Lasciami!- urlava il corvino, dimenandosi come una furia e riuscendo quasi a togliersi di dosso Sabo. Sfortunatamente per lui, si ritrovò stretto nella morsa di Thatch che, raggiuntolo, aiutò il biondo a trascinare il ragazzo lontano da Smoker, al limitare della sala, costringendolo a sedersi e a non muoversi, tenendolo fermo per le spalle, esercitando una certa pressione per assicurarsi che stesse buono.
-Devo legarti o ti calmi?- lo minacciò il castano, due volte più muscoloso di entrambi i giovani.
Il corvino non rispose, continuando a fissare con uno sguardo di fuoco l’uomo che aveva buttato suo fratello nella Senna, che aveva ordinato di farlo uccidere e che aveva poi rinchiuso Rufy nella Bastiglia. Non ne voleva sapere di farlo redimere, per lui era già morto.
Shanks scosse il capo davanti a quell’episodio. A quanto pareva, l’unico soldato che li aveva aiutati durante la battaglia aveva qualche diatriba in sospeso con il moccioso più incontrollabile dei suoi ranghi.
Iniziò ad interrogare Smoker, scoprendolo ben disposto a collaborare, anche se le frasi che mormorava erano spicce e contenevano il minimo indispensabile per rispondere alle sue domande. Più lo guardava e più gli sembrava una persona affidabile, anche con quell’aria arcigna e poco gioviale. Ciò che lo colpiva di più, però, erano la mancanza di interesse per la sua posizione e la luce spenta negli occhi, come se si fosse arreso e non avesse nulla che lo spingesse a sopravvivere.
Al momento del verdetto, inevitabilmente, scoppiarono i dibattiti. Per la precisione, i suoi colleghi, sebbene con alcuni dubbi, avevano tutta l’aria di essere d’accordo sul fatto di metterlo in libertà, magari tenendolo controllato per un po’ di tempo, l’unico inghippo, però, riguardava Ace, il quale non aveva per niente preso bene la cosa.
Infatti il giovane scattò in piedi, placcato prontamente da Thatch che gli sbarrava la strada, pronto a fermarlo in caso avesse deciso di fare pazzie e commettere un omicidio.
-Ha sparato a Sabo,- iniziò, rivolgendosi direttamente a Shanks e fissandolo dritto negli occhi, -Ha ordinato la mia morte e ha rinchiuso Rufy. Non ti basta come accusa? Quanti altri morti vuoi avere, eh?-
-Ace…- cercò di tranquillizzarlo Sabo.
-Sta zitto! Dovresti essere il primo a volere la sua testa!- lo accusò il moro, scostando il braccio che il biondo gli aveva sfiorato.
-Si, ma non è così che possiamo andare avanti. Non saremo diversi da loro, altrimenti.- gli spiegò, alzando di poco la voce. Certo, aveva rischiato di morire a causa di quell’uomo, ma aveva anche ascoltato tutti i pro e i contro che si erano susseguiti durante quel processo improvvisato e, alla luce dei fatti e di alcune testimonianze a favore dell’uomo, si era convinto che meritasse una possibilità. Sapeva, però, che sarebbe stato difficile convincere Ace, lui ragionava solo a fatti, non a parole.
-Sei pazzo. Lo siete tutti. Cosa vi assicura che non andrà a spifferare tutto a quegli stronzi che stanno a Corte?- chiese a quel punto Ace, fuori di sé dalla rabbia. Le cose stavano andando di male in peggio. Prima Marco e poi quel bastardo che aveva quasi sterminato le uniche persone che amava al mondo. -Appena ne avrà l’occasione tornerà dai suoi uomini e…-
-Hanno ucciso la donna che amavo.- disse a quel punto Smoker, stanco di quel teatrino e buttando fuori tutte le parole che gli stavano logorando l’anima, zittendo ogni lamentela contro di lui e facendo calare nella sala un silenzio opprimente. Non era solito coinvolgere gli altri degli affari suoi, ma aveva fatto una promessa a Tashiji e l’avrebbe mantenuta a tutti i costi. -Era un’innocente e l’hanno uccisa ugualmente. Questa non é la giustizia per cui combatto. Non è ciò che mi hanno insegnato.- scandì a denti stretti, stringendo i pugni con i polsi ammanettati.
Riviveva tutte le notti quell’incubo, quando l’avevano scoperta e riconosciuta, condannandola immediatamente a morire solo perché il padre aveva fatto una scelta diversa. A nulla erano valsi i suoi sforzi di proteggerla, facendola scappare e nascondendola in casa sua. Era durata per un po’, ma alla fine era andato tutto in malora. Ancora non capiva perché si era arrischiata ad uscire, quando glielo aveva espressamente vietato. L’avevano trovata, imprigionata e, proprio quando lui era arrivato alla centrale per salvarla, l’avevano tolta di mezzo con un colpo secco e indolore. Era stato un gesto misericordioso dato che si trattava di una donna, avevano spiegato.
Da quel momento aveva perso tutto quello in cui credeva: il lavoro, la giustizia, gli ideali, la vita, l’amore. Tutto andato in fumo e cenere.
-Se in qualche modo posso aiutare a capovolgere il sistema, sappiate che lo farò.- promise, guardando direttamente Shanks e intrattenendo con lui un silenzioso dialogo al fine del quale il Rosso prese una decisione.
-Liberatelo.-
Smoker trattenne un sospiro di sollievo quando sentì i pesi ai polsi venire meno e li massaggiò subito per riattivare la circolazione del sangue, mormorando un ringraziamento masticato a mezza voce e lasciandosi scortare verso una panca sulla quale si sedette, facendo finta di non notare le persone che si spostavano sensibilmente per allontanarsi da lui. Di certo non sarebbe stato facile inserirsi nel giro anche se aveva buone intenzioni.
Ace, invece, roteò gli occhi al cielo, allontanò Sabo che aveva cercato di farlo ragionare e si era scrollato di dosso Thatch, deciso a lasciare la casa e ad andare da Marco dove, ne era sicuro, non sarebbe stato disturbato e avrebbe potuto sfogarsi e crogiolarsi nelle sue pene.
Shanks lo vide allontanarsi e si ripromise che avrebbe trovato il tempo per parlare con i suoi ragazzi come non faceva da molto. Li aveva trascurati, ne era consapevole, ma era anche certo che avrebbero capito. Presto, una volta finita la guerra, sarebbero stati di nuovo una famiglia unita, con Makino. Sarebbe andato tutto bene.
-Bene,- sospirò, rendendosi conto che erano arrivati all’ultimo prigioniero. -Il prossimo è Diez Drake.-
Smoker aggrottò la fronte nell’udire il nome di un suo ex sottoposto, mentre dall’altra parte della stanza Bonney scattava in piedi, obbligata a sedersi subito dopo da Nami, la quale l’aveva afferrata per un gomito, trascinandola al suo posto e chiedendole bisbigliando cosa le era preso.
L’ufficiale interessato fece il suo ingresso pochi istanti dopo, a testa bassa e con ancora addosso l’uniforme blu e bianca. Teneva lo sguardo a terra, mentre le mani erano legate con una corda davanti a lui, permettendogli di potersi tranquillamente sedere senza schiacciarle.
Nel frattempo, Benn aveva fatto un piccolo riassunto al Rosso, informandolo del perché quell’uomo si trovasse lì e come era stato fatto prigioniero. Al termine del racconto, Shanks lasciò ciondolare la mascella e cercò con lo sguardo le due ragazze che erano state tanto coraggiose, individuandole tra la folla e ricevendo un saluto da parte di Nami.
Si schiarì la voce, appuntandosi di interrogarle in un secondo momento. -Dunque,- scandì, -Ufficiale Drake, ti trovi davanti a questa corte per…-
-Poche storie. Giudicatemi e facciamola finita.- lo interruppe l’uomo, senza degnare nessuno della sua attenzione e arrivando al dunque. Non aveva niente a che fare con quelle persone, non si era nemmeno schierato dalla loro parte in battaglia, era ovvio che lo avrebbero dichiarato colpevole, perciò tanto valeva concludere in fretta e smetterla con quella farsa. Inoltre, per essere precisi, quel gruppo di ubriaconi che gli sedevano davanti non aveva nessuna facoltà e nessun potere per decidere della sua esistenza, ma era stanco, i suoi principi erano andati in pezzi e aveva tradito la divisa per una donna.
Sorrise amaramente tra sé a quel pensiero. Nonostante i sensi di colpa, era sollevato di aver cambiato mira all’ultimo secondo e di averla risparmiata.
-Uhm, come scusa?- Shanks era piuttosto perplesso. Non gli piaceva quel ruolo, fare da giudice era stata una pessima idea di Benn, ma, a detta dell’amico, una parte del popolo si sarebbe lamentata se il capo dei Rivoluzionari avesse delegato a qualcun altro quel compito.
-Avete compreso benissimo.- ribatté Diez, sibilando frustrato. Non ne poteva più, si era tormentato tutta la notte per ciò che aveva fatto e se non lo avrebbero ucciso subito si sarebbe tolto la vita da solo.
-M-ma, ecco, non mi p-pare il caso.- balbettò una voce tra i presenti, facendo voltare tutti, Drake compreso, verso di essa e rimanendo senza una copertura.
Shanks la osservò stupito, prima di invitare Bonney ad alzarsi e a raggiungerlo affinché tutti la udissero meglio.
Fu così che, maledicendosi, la ragazza obbedì, avvicinandosi passo dopo passo e sentendosi perforare la pelle a causa dell’occhiata che l’ufficiale le stava rivolgendo.
-Dicci pure, Bonney. Mi sembra, inoltre, che tu fossi presente alla sua cattura.- notò Benn, esortando la giovane a parlare.
Lei sembrò spaesata per un attimo, voltandosi immediatamente a guardare prima Nami e poi riconcentrandosi su Drake, il quale, però, la ignorò, spostando gli occhi altrove e facendola rimanere molto male, ma non demoralizzandola.
-Beh, io… io ero fuori dalla barricata e… e stavo rientrando. Non mi ero accorta dei soldati…- disse, torturandosi nuovamente le mani e sentendosi troppi occhi puntati addosso. Non le piaceva essere al centro dell’attenzione e si ricordò perché se ne era sempre stata in disparte e per conto suo. In quella maniera nessuno poteva giudicarla o pensare male di lei. In quel momento, però, quando incontrò ancora lo sguardo di Drake, riuscendo a mantenere il contatto più a lungo, capì anche che le stava chiedendo di smetterla di nascondersi e di non avere paura. Le stava dicendo che, nonostante tutto, sarebbe andata bene in qualsiasi caso. Non la obbligava a parlare o a difenderlo, non sarebbe importato se lo avrebbero assolto o meno.
Però a lei importava e non lo avrebbe lasciato al suo destino, come aveva fatto lui con lei, aiutandola.
-Diez Drake ha ucciso tre guardie per salvarmi.- disse tutto d’un fiato, per niente intimorita dal brusio concitato che invase la stanza dopo la sua confessione, concentrata unicamente sugli occhi di Drake che la fissavano come se fosse ammattita. Avrebbero potuto ritenerla sua complice, o peggio, una spia. Perché mai un gendarme avrebbe difeso una rivoltosa altrimenti?
Infatti, la domanda non mancò di arrivare.
-Bonney, per quale ragione lo avrebbe fatto?- domandò Shanks, cercando di essere il più delicato possibile.
-Perché lui… insomma… noi…-
Ci conosciamo. Siamo amici. Non mi avrebbe mai fatto del male. E’ una brava persona, non è cattivo. Non merita di morire.
Avrebbe voluto dire tutte quelle cose, ma era bloccata. E se non le avessero creduto? E se lo avessero ucciso ugualmente? Come avrebbe potuto aiutarlo in quel caso? Cosa doveva fare per salvarli da quella situazione?
-Perché hanno una relazione! E lei aspetta un figlio suo!-
Bonney sentì il sangue gelare nelle vene nell’udire la voce squillante e dalla nota quasi isterica che inondò la sala, arrivando perfettamente alle orecchie di tutti e zittendo per la seconda volta quel giorno i presenti. Se la ritrovò poi alle spalle, sentendosi abbracciare e consolare in maniera teatrale, mentre parole di conforto uscivano dalla bocca larga della rossa, la quale sperava di darla a bere a chiunque con quella farsa. Aveva capito che qualcosa bolliva in pentola e che Bonney le stava nascondendo molti particolari della sua vita. Era bastato osservarla bene per capire che i suoi stati d’animo riguardavano l’ufficiale al quale aveva dato una botta in testa con il suo bastone durante la rivolta, facendolo svenire sotto allo sguardo attonito dell’amica dai capelli rosa. Lo aveva fatto per istinto, nonostante lo avesse visto uccidere i soldati che avevano preso di mira Bonney senza che lei se ne rendesse conto. Non sapeva quanto i due fossero intimi, ma era certa che, se non avesse salvato la situazione, Bonney avrebbe combinato una cazzata, perciò tanto valeva ingigantire la cosa.
-Oh, mia cara, carissima sorella. Sarò la zia più felice di sempre, come potrei non esserlo? Il vostro amore va avanti da così tanto ed è così forte da superare ogni difficoltà! Piccola, dolce amica mia.- blaterava, asciugandosi fintamente una lacrima che non c’era e accarezzando la pancia piatta della ragazza accanto a lei.
Drake, invece, era rimasto senza fiato. Lui aspettava un figlio? Da quando? Con Bonney l’unica volta che ci aveva dormito assieme si era solo eccitato al pensiero di sfiorarla come un ragazzino alle prime armi, ma non l’aveva toccata nemmeno per sbaglio, figurarsi se poteva anche solo minimamente essere incinta. Era tanto impegnato a rendersi conto della cosa che si accorse in ritardo della presenza di un suo conoscente e, quando lo riconobbe come il suo superore, si sentì mancare.
Avrebbe voluto chiedere a Smoker cosa diavolo ci faceva tra i Rivoluzionari, ma l’occhiata di fuoco che ricevette lo fece desistere dal suo intento e si preoccupò piuttosto di negare impercettibilmente con il capo nel tentativo di fargli capire che era innocente e che non aveva minimamente abusato di quella ragazza, conscio di quanto l’argomento fosse tabù per l’ex Capitano.
-Beh, congratulazioni Bonney.- fece Shanks, dimenticando per un momento il caso delicato e sorridendole allegro, guadagnandosi una gomitata sulle costole da Benn e riprendendo il controllo, tornando fintamente serio. Era più forte di lui: quel mestiere faceva proprio schifo. -Alla luce di questi fatti, mi metto nelle vostre mani, Signori.- mormorò, chiamando all’appello il resto della giuria.
Il rappresentante di Kaido lo condannò all’istante, come era stato per tutti quelli prima di Drake, mentre quello di Big Mom fece spallucce.
Izou si chiamò fuori dai giochi perché non conosceva al meglio tutti i dettagli e non voleva avere ulteriori pesi sulla coscienza, mentre Benn era pensieroso. Shanks, di certo, lo avrebbe assolto al volo, ma per farlo senza scatenare un putiferio aveva bisogno di un aiuto.
-Potremo rilasciarlo sulla parola.- propose.
-E chi garantirà per lui? Non lo conosciamo e non ha mai fatto nulla per i cittadini.- ragionò Benn accanto a lui.
-Posso assicurarvi che è un uomo d’onore e di buoni principi.- si intromise Smoker.
-Tu non conti.- lo zittì un rivoluzionario poco lontano da lui.
-Garantiamo io e lei!- disse Nami, la quale aveva intravvisto uno spiraglio di speranza grazie al Rosso. -Dopotutto, io lo conosco perché l’ho visto spesso a Montmarte e lei, beh, è la sua donna.- concluse, ignorando bellamente il rossore sulle guance di Bonney e l’imbarazzo di Drake. Nessuno dei due, però, smascherò la bugia, consci che quella poteva essere la loro unica salvezza.
Passò un minuto di silenzio durante il quale il cuore dei diretti interessati parve saltare fuori dalle loro casse toraciche.
-E sia. Diez Drake è assolto.-
E fu con un colpo deciso e un ghigno sulla faccia che Shanks batté un martelletto di legno sul tavolino sgangherato per ufficializzare la sua decisione, ignorando le opposizioni di mezza sala, ma ritenendosi soddisfatto di aver convinto almeno l’altra metà. Tutti buonisti, sicuramente.
-Che aspetti?- bisbigliò Nami all’amica, dandole un pizzicotto sul braccio senza farsi notare, -Corri ad abbracciarlo e fingiti disperata.-
Bonney annuì dopo un attimo di incertezza e si avviò verso Drake con passo incerto, non paragonabile ad uno stato d’animo di gioia o felicità, ma non riusciva a fingere qualcosa di meglio, date le sue condizioni. Aveva appena ottenuto la custodia di un soldato e per il popolo lei aspettava un figlio. Dio solo sapeva cosa le avrebbe fatto Dadan una volta tornata al bordello.
Aspettò nervosa che slegassero le mani di Drake e sentì l’imbarazzo palpabile tra di loro quando si ritrovarono faccia a faccia. Cosa doveva fare? Che fine aveva fatto la sua spavalderia e il poco pudore di quella famosa mattina sotto le lenzuola?
Sentì la rossa alle sue spalle schiarirsi la voce e spiegare a qualcuno del romanticismo che si racchiudeva nei loro sguardi, inventando sciocchezze su sciocchezze, ma fulminando Drake con uno sguardo che non prometteva nulla di buono, smuovendolo così a fare un passo avanti e a tendere le braccia verso Bonney che, mesta, si lasciò avvolgere subito dopo in un goffo abbraccio.
-Ti sei messa nei guai. Te ne rendi conto?- le sussurrò all’orecchio.
Lei sospirò, già più calma. -Lo so, ma nemmeno tu sei messo meglio.- gli ricordò, puntualizzando. Di certo era un ricercato per la polizia, dopo quello che aveva fatto.
-Ho ucciso i miei uomini.-
-Per salvarmi.- ribatté prontamente Bonney, scostandosi e guardandolo negli occhi. -Mentire era il minimo che potessi fare per sdebitarmi.-
Lasciò che Drake le sfiorasse una guancia, pensando che, forse, ce l’avrebbero fatta a calmare le acque e a convincere tutti che non meritava la forca.
-Voi due.- li riprese una voce alterata. -A casa, ora.- A quanto pareva, Nami era più che intenzionata a prendere sul serio l’incarico di controllare l’ufficiale.
-Avete una gravidanza da organizzare.-
Non sarebbe stata una passeggiata.
 
*
 
Le Cimitère du Père-Lachaise non aveva mai visto tanti visitatori, e non aveva nemmeno mai avuto tante buche scavate nel terreno, come quel giorno.
La gente si ammassava fino ai cancelli d’entrata ed era sparsa per tutto il perimetro, spostandosi lentamente e a testa china, con lo sguardo fisso a terra o rivolto alle tombe dei loro cari caduti durante la Rivolta.
In mezzo alle vecchie lapidi, svettavano quelle nuove, molte improvvisate e senza nemmeno un messaggio d’addio o di affetto da parte dei famigliari, ma con solo un nome scolpito nelle croci di legno piantate alla base della fossa. I becchini della città avevano avuto un gran da fare per evitare che i corpi venissero ammassati sulle strade e dessero inizio ad un’epidemia.
E, per concludere quella pessima giornata, pioveva.
Kidd osservava dalla sua postazione, ovvero seduto sugli scalini di un mausoleo più vecchio della Parigi stessa, il contrasto di grigi che rendevano monotono quel luogo. L’erba scura e bagnata, gli abiti grigi o neri, le nuvole grigie, il marmo grigio, le facce grigie. Tutto quel grigiore lo faceva sentire fuoriposto. Lui, che con quei suoi capelli rossi sembrava un faro nella notte, si tirò il cappuccio del mantello di pelliccia in testa per non dare nell’occhio e per rispettare il dolore degli altri. Gli sembrava di risultare offensivo con quei suoi colori, quando tutti volevano solo avvolgersi nella disperazione di quella grigia giornata.
Vedeva chiaramente ad una decina di metri di distanza un gruppetto numeroso di giovani che cercavano di sostenersi a vicenda, abbracciati e stretti l’un l’altro nel tentativo di ridurre al minimo la sofferenza che condividevano. Aveva riconosciuto Shanks, in piedi accanto ad una bella lapide, probabilmente intento a fare un discorso in memoria del ragazzo defunto. Si trattava di un caro amico del fratello di Pugno di Fuoco, anch’egli presente alla cerimonia funebre con i fratelli. Il piccoletto, Rufy, era in ginocchio e sembrava concentrato nell’azione di strappare l’erba dal terreno con rabbia. Nessuno, però, provava a fermarlo. A Kidd pareva quasi di sentir piangere più di qualcuno.
Ad ogni modo, aveva anche lui le sue preghiere da recitare e decise di ignorarli e lasciare loro un po’ di privacy.
Aveva perso un compagno d’armi, Wire, che aveva sempre fatto gruppo con lui, Killer e un altro paio di ragazzi più o meno della loro età. Nelle sue grazie entravano in pochi, ma quelli che ci riuscivano ottenevano un posto speciale nella sua scala di affetti e Wire era stato uno di quelli. Non parlava mai molto, ma quando lo faceva non era mai banale. E poi sapeva fare a botte, quindi gli era simpatico.
Purtroppo era caduto come tanti e andare al suo funerale era stato il minimo che Kidd avesse potuto fare, l’ultima occasione che aveva per salutarlo e per augurargli buona fortuna, ovunque se ne fosse andato.
Congiunse le mani e incrociò le dita, rigirandosi i pollici e stringendosi nelle spalle nel suo angolino isolato e tranquillo, avvolto nella mantella per ripararsi dalle goccioline d’acqua che gli picchiettavano nelle spalle, scivolando dal tettuccio del mausoleo, e da quell’aria quasi nebbiosa e spessa, ma sempre grigia.
Rivolse un breve sguardo al mucchio di terra appena smossa che formava una piccola collinetta a pochi metri da lui, con una croce che svettava alta e spessa, frutto del suo lavoro e di quello dei ragazzi. Un ultimo regalo per Wire.
Gli fece un cenno con il capo, non sapendo bene cosa dire o cosa pensare, optando infine per qualcosa di classico e non troppo commovente.
Stammi bene, vecchio mio.
Non sapeva se lo avrebbe sentito, ma gli piaceva pensare di aver fatto una bella cosa, un pensiero per una persona cara poteva anche concederselo.
Stava ancora cincischiando ai piedi della tomba monumentale appartenuta a chissà quale borghese, quando sentì dei passi sulla ghiaia farsi sempre più vicini, dettati da un ritmo lento e cadenzato, fermandosi proprio di fronte a lui.
Riconobbe gli stivali eleganti e i pantaloni puliti, non stracciati e bucati in più punti come i suoi, e già prima di vederlo in faccia seppe che si trattava di quella spina nel fianco con cui condivideva la casa, che aveva iniziato, da bravo egoista esaltato, a considerare sua.
Stava appunto per aprire la bocca e mandarlo a farsi un giro, ma non disse nulla quando i loro sguardi si incrociarono. Preferì mordersi la lingua e ingoiare gli insulti davanti al ghigno che vide modellare le labbra del medico. Persino ad un funerale quello riusciva a trovare il lato ironico della situaizone.
Anche dopo mesi non riusciva ad abituarsi a quell’espressione sempre presente, sfacciata e saccente; quel comportamento posato, che mai si alterava, ma allo stesso tempo dannatamente irritante e provocante, nel senso che gli faceva prudere le mani dalla voglia quasi irrefrenabile di prenderlo a pugni. E lo avrebbe fatto se non fosse stato che condivideva un tetto sulla testa con quel pazzo.
Perché Trafalgar tutto era fuori che normale. Era strano, con un senso dell’umorismo inquietante, sadico da mettere i brividi, schifosamente ricco e intelligente, spudoratamente altezzoso e oscenamente attraente.
Se da una parte Kidd lo detestava, dall’altra aveva dovuto fare i conti con la consapevolezza di desiderarlo tra le sue mani per ridurlo in cenere, spezzarlo e consumarlo; obbligarlo al suo controllo e fargli abbassare le tante arie da superiore che si dava. Lo voleva perso, abbandonato al suo volere, disperatamente dipendente da lui.
Deglutì a vuoto, sentendo un guizzo al basso ventre.
Dio, e quanto avrebbe voluto trascinarlo dietro al mausoleo, sbatterlo contro il muro, piegarlo in avanti e fotterlo in quel modo, sotto la pioggia e in un cimitero. Era certo che, con quella vena macabra, al moro non sarebbe particolarmente dispiaciuto.
Lo odiava anche per quel motivo, perché era capace di fargli perdere la concentrazione nei momenti meno adatti come, ad esempio, un funerale collettivo. Dove tutti piangevano, a lui veniva un’erezione.
E quel figlio di puttana ghignava.
-Che vuoi?- ringhiò seccato, spostando gli occhi altrove e alzandosi per lasciare che la pioggia lo raggiungesse in più punti nella speranza di raffreddare i bollenti spiriti.
-Era un tuo amico?- gli domandò inaspettatamente Law, voltandosi verso la tomba di Wire.
Kidd si strinse nella spalle. -Ormai non ha importanza. E’ morto.-
Vide con la coda dell’occhio che il ragazzo accanto a lui scuoteva il capo con esasperazione, ma con il sorriso sempre perenne sul viso.
-Se vuoi piangere puoi farlo.- gli disse strafottente, scoccandogli un’occhiata derisoria che il rosso contraccambiò, ma in modo più truce e infastidito. Cosa stava cercando di fare quello stronzo? Farlo arrabbiare era l’ultima cosa che gli conveniva, data la situazione.
Ciò che il moro stava facendo, però, era distrarlo dal dolore e il modo migliore che conosceva per ottenere l’effetto sperato era tartassargli i nervi fino all’esasperazione.
-Ti avverto, Trafalgar, falla finita o giuro che…-
-Che cosa, Eustass-ya?- lo riprese immediatamente Law, facendo un passo in avanti e portandosi ad un palmo dal suo viso. Non era alto quanto Kidd e doveva alzare la testa per guardarlo, mentre il rosso si ritrovò costretto ad abbassarla per osservarlo senza indietreggiare, ma andava bene, al moro non dispiaceva, sapeva benissimo che non gli servivano centimetri in più per sovrastare quella testaccia rossa. -Cosa farai?- ripeté, il sorriso più grande, i denti in bella mostra e gli occhi, grigi, che sembravano non trasmettere il solito cinismo, ma un barlume di divertimento. -Avanti, sono proprio curioso di saperlo.-
E Kidd guardava rapito quelle labbra che si schiudevano per parlare e sussurrare parole che nemmeno aveva afferrato, ipnotizzato com’era da quella vipera che gli stava avvelenando la mente e l’esistenza.
Una mano strinse involontariamente il bavero del cappotto di Law, trascinandolo più vicino e obbligandolo a salire sulle punte dei piedi. Si sentiva fremere, voleva vedere fino a dove sarebbe riuscito a spingersi Eustass-ya e quanto ci avrebbe messo per capitolare perché, di sicuro, non avrebbe fatto lui la prima mossa, ma punzecchiare il rosso era diventato il suo passatempo preferito.
Anche se, a conti fatti, non si trattava più di un diversivo per staccare dalla monotonia della giornata, ma di qualcos’altro. Uno strano bisogno di non sentirsi solo, di sapere di essere la causa di qualcosa per qualcuno. Eustass Kidd era il peggio che i sobborghi potevano offrire, la crème de la crème dello schifo più totale, ma si era reso conto che tra loro si era instaurata una strana intesa. Incomprensioni a parte, anche se i loro discorsi si basavano unicamente su frasi fatte di insulti, litigi e disaccordi, c’era qualcosa che andava a riempire le mancanze che entrambi avevano, come se li completasse e li rendesse stabili in quelle loro vite traballanti.
E, anche se non lo ammetteva, anche se lo stava tenendo nascosto, Law non voleva lasciare andare quel caprone figlio di nessuno che gli aveva regalato un fottuto cane e che chiudeva le finestre anche se faceva caldo la notte, lasciandogli pure tutto il lenzuolo perché sapeva che lui, nonostante l’estate, sentiva freddo verso le prime ore del mattino. Non voleva e basta.
Come Kidd non voleva saperne di andarsene. Diamine, non dopo che aveva trovato una baracca senza buchi sul soffitto e dove ci si poteva specchiare sui piatti. Soprattutto, non dopo che Trafalgar rifaceva il letto senza chiedere una mano e gli lasciava la sua parte di pane per colazione, sapendo quando a lui piacesse inzupparlo nel latte. Poco importava che a Law il pane fosse indigesto, a Kidd piaceva pensare che lo faceva per lui, non per se stesso.
-Mi fai impazzire.- sussurrò il rosso, al limite della sopportazione e con ogni fibra del suo corpo che gli urlava di creare un contatto con il suo peggior nemico.
Furono tre parole sussurrate sulla sua bocca a mettere Law nella posizione di chi non sa come reagire. Si era aspettato un insulto, un pugno, una bestemmia, qualsiasi cosa di irruento com’era solito fare Kidd, ma non quello. Non una frase che si, poteva essere intesa come un’offesa, ma riusciva a passare anche come un velato complimento. Perché, insomma, detta con quel tono basso, roco e tremendamente provocante poteva significare solo una cosa.
Era abbastanza per spingere Law a gettarsi su quelle labbra, baciandole e assaggiandole timidamente con la punta della lingua, non trovando la minima resistenza ma, al contrario, sentendosi accogliere senza remore e con aspettativa.
Poco importava del luogo, del momento, dell’apparire indelicati, delle persone che avrebbero potuto vederli.
Erano solo loro due, davanti ad un mausoleo, in un cimitero, sotto la pioggia e intenti a baciarsi.
 
*
 
Il fuoco ardeva vispo nelle braci, illuminando il retro della locanda di Makino che offriva una visuale ampia della campagna. Varie lanterne erano appoggiate sulle casse abbandonate appena fuori del granaio, contenenti alcune scorte di cibo che i ragazzi non avevano avuto tempo di sistemare. Erano, però, state utilizzare come comode sedute dal gruppetto di giovani che si erano ritrovati quella sera a passarsi di mano in mano un certo numero di bottiglie di alcolici, con l’intento di non fare nulla, se non prendere una sbronza e diluire in quel modo il dolore, annacquando i pensieri dopo una giornata passata a versare lacrime al cimitero.
Avevano mangiucchiato un paio di polli allo spiedo rubati da qualche pollaio in periferia, acceso due fuochi e aperto vari liquori, recuperati dalle scorte personali di Shanks, ovviamente senza permesso.
Rufy stava seduto per terra, con le ginocchia strette al petto e lo sguardo perso tra le fiamme, silenzioso e triste. Di tanto in tanto lasciava andare un sospiro o un singhiozzo mal trattenuto, segno che si commuoveva ancora se ripensava a Usopp e al suo sacrificio per salvarlo. Si sentiva in colpa per non essere stato più attento, per non essere stato più forte e per non averlo protetto come meritava. Forse, se fosse stato meno distratto e si fosse guardato intorno, magari sarebbe riuscito…
Una mano andò alla ricerca della sua, trovandola e intrecciando le dita lunghe ed eleganti ad essa per stringerla leggermente, seguita da una pressione sulla spalla. Nami gli si era appena accovacciata accanto e aveva poggiato la testa su di lui, mettendosi comoda e chiudendo gli occhi.
-Va tutto bene.- gli aveva sussurrato, sfiorandogli il dorso con il pollice in una serie di cerchi immaginari.
E Rufy non poté che sentirsi in pace e meno tormentato, osservandola con la coda dell’occhio e sorridendo impercettibilmente, chiedendole se avesse sete o fame, aggiungendo che lui ne aveva tanta e strappandole una lieve risata.
Di fronte a loro, Sanji, chiuso nel suo silenzio, si accendeva una sigaretta, non sapeva più a che numero era arrivato quel giorno, con un fiammifero, gettandolo poi in mezzo al fuoco e prendendone una profonda e per niente rilassante boccata. Sentiva dentro di sé un peso enorme sul petto e non c’era verso di cancellarlo. Si era distrutto un labbro a forza di morderlo per frenare le lacrime al funerale di Usopp e in quel momento gli faceva male persino tenere il filtro tra le labbra, ma poco gli importava. Gli sembrava di essere vuoto e allo stesso tempo pesante, era di cattivo umore e non aveva nemmeno disdegnato l’alcool, bevendone generose sorsate ogni volta che aveva potuto, arrivando persino a tenere una bottiglia per sé. Rivedeva nella sua mente l’immagine dei suoi amici a terra, Usopp grondante di sangue e Rufy disperato e privo di protezione. Riviveva il ricordo della tensione, della paura, dell’eccitazione per la battaglia, della delusione, della rabbia e del timore logorante al suono di uno sparo alle sue spalle. Odiava con tutto se stesso il sollievo che il suo animo provava ancora in minima parte nel vedere Zoro vivo e vegeto a pochi passi da lui, sdraiato sull’erba, circondato da bottiglie rigorosamente vuote, apparentemente addormentato. Più lo guardava e più si detestava. Un suo amico era morto e lui ringraziava il Cielo per la grazia di vedere il petto di quella testa verde alzarsi e abbassarsi. Era veramente una persona di merda.
In quanto a Zoro, lui si era semplicemente assopito, troppo stanco e troppo ubriaco per pensare lucidamente, ma anche troppo angosciato per permettersi anche solo di formulare qualcosa nella sua mente che avesse un senso logico. Erano stati giorni infernali, per tutti e non solo per lui, e le vicende che ne erano scaturite non erano state del tutto rosee. Loro, infatti, ne erano usciti vagamente a pezzi. Non si sognava nemmeno di piangere, sarebbe stato come offendere la memoria di Usopp, perciò aveva lasciato le lacrime a Rufy, lui si che aveva tutto il diritto di versarle. Dopotutto, gli era morto un compagno tra le braccia e gli dispiaceva vederlo tanto abbattuto, ma altro non poteva fare se non stargli vicino e mostrargli il suo sostegno comportandosi come sempre e apparendo determinato, solo in quel modo avrebbe spronato il ragazzo a rialzarsi e a superare l’accaduto. Doveva essere forte, doveva farlo per i suoi amici, doveva essere il loro sostegno.
Aveva, comunque, bisogno di bere e lo aveva fatto fino a sentirsi male, tanto da doversi stendere e riposare per poi ricominciare da dove aveva lasciato. Aveva tutta la notte a disposizione e se per un po’ avesse disconnesso il cervello gli avrebbe fatto solamente bene.
Appoggiati sulla staccionata e con il viso rivolto verso il cielo stellato, se ne stavano Sabo e Koala, i quali si parlavano, sussurrando a bassa voce per non disturbare la quiete che avvolgeva i dintorni, indicando punti luminosi che brillavano di una luce fredda e lontana, ma che li ammaliavano ugualmente, stimolando la loro curiosità.
Koala le conosceva quasi tutte le costellazioni, essendosi spostata molto e avendo viaggiato per mare, mentre Sabo sapeva riconoscere solo le principali, riempiendo di domande l’amica e ascoltando con attenzione tutte le spiegazioni e le leggende sui nomi delle stelle riguardanti ere lontane, Dèi ed eroi.
Era il loro modo di distrarsi, di pensare ad altro e quando erano assieme ci riuscivano alla perfezione, trovando argomenti che a nessuno sarebbero mai venuti in mente con una spontaneità e una facilità che disarmavano chi li osservava da distante. Andavano d’accordo ed era una fortuna essersi trovati. Koala era contenta perché con Sabo riusciva a non preoccuparsi in continuazione per la condizione incognita di Marco, invece il biondo dimenticava momentaneamente tutte le disgrazie che il popolo aveva subito e i dispiaceri che gravavano sui suoi fratelli. In particolare, ad intervalli di tempo, si voltava verso il granaio per controllare le condizioni di Ace, chiedendosi come se la stesse passando.
-Vai da lui.- gli disse Koala, seguendo il suo sguardo e sorridendogli gentilmente quando lui la guardò.
-Non voglio che resti da sola.- si mortificò.
-Stavo per dirti che andavo a dormire. Thatch sarà già a letto da un pezzo. E’ stata una giornata lunga per tutti.- rispose, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e recuperando il suo cappellino rosso che aveva appoggiato ad un palo del recinto. Lei, Thatch e Izou alloggiavano momentaneamente da Makino per fare da tramite tra l’accampamento e il Quartier Generale, oltre che assicurarsi costantemente della salute del loro fratello, quindi non correva nessun pericolo di ritrovarsi da sola.
Sabo le sorrise di rimando, soffermandosi a pensare a quando fosse dolce quella ragazza, sempre pronta a fare del bene per il prossimo anche quando si riscontrava difficile. Ripensandoci, lui doveva essere stato un caso disperato e probabilmente l’aveva fatta diventare matta mettendo a dura prova la sua santa pazienza.
Fu perciò normale per lui avvicinarsi e abbracciarla, stringendole le spalle e trattenendola contro il suo petto, spostando una mano per accarezzarle i capelli e poggiando poi una guancia contro la sua per parlarle.
-Grazie.-
Provò una sensazione euforica quando Koala sorrise contro il suo collo, sentendo poi le sue manine circondargli i fianchi per comodità, dato che era parecchio più alto di lei.
-Non c’è di che.- gli rispose la ragazza quando si staccarono, salutandolo e dirigendosi verso la locanda, dandosi della stupida per sentirsi tanto felice.
Intanto, Ace se ne stava sdraiato scompostamente sopra a delle casse coperte da delle balle di fieno, quindi era pure comodo, ma il suo stato d’animo lo stava facendo impazzire. Era vagamente conscio di aver bevuto come un dannato e di avere un mal di testa che gli stava facendo martellare insistentemente le tempie, ma ciò non bastava a farlo smettere di pensare allo stato in cui si trovava Marco.
Trafalgar era stato vago nel fornirgli informazioni sulla sua salute e non si sbilanciava a dirgli se era più morto che vivo o il contrario, lasciandolo nello sconforto e nella disperazione.
Si sentiva uno schifo per essere stato tanto stupido, incauto e infantile da trascinarlo a recuperare un moribondo, senza accorgersi che si trattava di una trappola. Lo aveva messo in pericolo lui stesso ed era finita nel peggiore dei modi. In un letto a combattere tra la vita e la morte doveva esserci lui, non Marco.
Perché poi si fosse buttato per salvarlo non riusciva a spiegarselo. Sarebbe stato più facile estrarre la pistola e sparare, certo, lui si sarebbe beccato del piombo in testa, ma almeno il biondo ne sarebbe uscito illeso. A lui non serviva aiuto, se l’era sempre cavata e ce l’avrebbe sempre fatta, preferiva di gran lunga essere lui stesso a dare una mano, invece che riceverla. Avrebbe dovuto proteggere Marco, ma non l’aveva fatto. Aveva promesso a se stesso che, in sua compagnia, nessuno si sarebbe ferito, invece aveva fallito. Marco rischiava la vita, Thatch non lo incolpava di nulla e Barbabianca, quando era andato a dargli la notizia, fregandosene del fatto che Shanks lo avesse già avvisato in precedenza, lo aveva abbracciato, ringraziandolo e dicendogli che era sicuro del fatto che suo figlio fosse in ottime mani anche se moribondo.
-Cazzo!- farfugliò, dando un pugno secco che venne attutito dalla paglia, rotolandosi su un fianco e sentendo il bisogno di vomitare.
Tutti continuavano a dargli fiducia e a ritenerlo un eroe, una persona di valore, però lui si sentiva solamente uno straccio, un incapace e un buono a nulla senza spina dorsale.
-Mio Dio, puzzi come un maiale.-
Ace represse un conato, stringendosi la testa fra le mani. -Vaffanculo Sabo.-
Accanto a lui il fieno si abbassò, segno che il biondo si era sdraiato e si era accomodato, incrociando le braccia dietro la testa e sospirando, chiudendo gli occhi.
-Come stai?- chiese dopo un paio di minuti.
-Vuoi la verità o ti accontenti di una balla?-
-La verità, Ace.-
Il moro si lamentò. -Ma è una storia lunga.-
-Non ho fretta.-
Sabo si beccò una manata sul viso, seguita da un commento su quanto fosse insistente e impiccione, ma non demorse e aspettò con calma che Ace recuperasse abbastanza fiato da parlargli e sfogarsi. Era certo che, dopo, si sarebbe sentito meglio.
Non si aspettava, però, di vedere il fratello sul punto di piangere.
-E’ stata colpa mia, Sabo.- stava mormorando con le lacrime agli occhi e un nodo in gola, combattendo per non scoppiare, anche se non desiderava altro. -Non sono stato attento e Marco… ehi, che fai?-
-Mi dispiace, Ace.- mormorò il biondo, abbracciando il fratello che gli dava le spalle e strofinando il volto sulla sua schiena, mentre l’altro cercava senza successo di levarselo di dosso.
-Smettila, idiota!-
-Oh, dai Ace, fatti fare le coccole.-
-Ma tu sei matto!-
Doveva ammettere, comunque, che si sentiva già molto meglio. Sapere che dalla sua parte aveva Sabo lo faceva sentire più leggero e tranquillo, anche se non era avvezzo di smancerie e dimostrazioni d’affetto di quel genere. Di solito, quello più ruffiano era Rufy, mentre loro due si limitavano a pacche sulle spalle, schiaffoni di tanto in tanto e sorrisi, non di certo abbracci e baci.
-Tieni quella bocca lontano dalla mia faccia.- minacciò il moro, assottigliando lo sguardo e mettendo una mano sul volto di Sabo per tenerlo fermo.
-Avanti,- insisté il biondo, -Lascia che ti dia un bacetto.-
-Giuro che ti butto giù da qui.-
Sabo alzò gli occhi al cielo, sorridendo sconfitto, ma non allentando la presa sul corpo del fratello, stringendolo forse più forte e accomodandosi meglio accanto a lui. Non gli sembrava strano e nemmeno sbagliato, anzi, forse era il gesto che gli veniva più spontaneo di tutti abbracciare una delle persone che amava di più al mondo e che rappresentava parte della sua famiglia. Teneva così tanto ad Ace e Rufy, così tanto!
-Vedrai che andrà tutto bene.- mormorò una volta che Ace ebbe smesso di lottare per scrollarselo di dosso, arrendendosi a quella morsa ferrea e, a suo modo, confortevole e calorosa.
-Ne sei certo?-
Quello di Ace era stato quasi un sussurro, ma Sabo aveva annuito convinto. -Assolutamente. Fidati di Law.-
-So che è il migliore, ma se non ci riesce? Se, insomma, se Marco dovesse…-
-Marco guarirà e tornerà a farti incazzare come al solito, d’accordo? Anche perché ti stai rammollendo. Quando c’era lui a stressarti l’anima era più divertente.-
-Grazie tante eh.-
Il biondo ignorò il sarcasmo e sbuffò una risata tra i capelli folti di Ace. -Sto scherzando, idiota.-
-Sabo?-
-Si?-
-Grazie davvero.-
-Quando vuoi, Ace.-
 
 
 
Angolo Autrice.
Sono in ritardo, lo so, ma ormai mi conoscete e ci avrete fatto l’abitudine, LOL.
Avevo detto che avrei alzato il rating, ma mi sono resa conto che non è da questo capitolo, ma dal prossimo. Ad ogni modo, mi è stato fatto notare che molte persone non potrebbero più leggerla se la passo da arancione a rossa, perciò credo che limiterò i danni e la lascerò così, in modo da non privare nessuno della continuazione della storia per colpa di un po’ di sesso coccole.
Detto ciò, spero che il prossimo capitolo arrivi prima di natale, TROLLOL.
Ultima cosa: il capitolo è per Kidd e Law. Perché li amo e basta.
Grazie a tutti e un abbraccio come sempre!
 
Scusate ancora per le tempistiche, mea culpa.
 
See ya,
Ace.

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