Liberté, Égalité, Fraternité. di ___Ace (/viewuser.php?uid=280123)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un. ***
Capitolo 2: *** Deux. ***
Capitolo 3: *** Trois. ***
Capitolo 4: *** Quatre. ***
Capitolo 5: *** Cinq. ***
Capitolo 6: *** Six. ***
Capitolo 7: *** Sept. ***
Capitolo 8: *** Huit. ***
Capitolo 9: *** Neuf. ***
Capitolo 10: *** Dix. ***
Capitolo 11: *** Onze. ***
Capitolo 12: *** Douze. ***
Capitolo 13: *** Treize. ***
Capitolo 14: *** Quatorze. ***
Capitolo 15: *** Quinze. ***
Capitolo 16: *** Seize. ***
Capitolo 1 *** Un. ***
Liberté,
Égalité, Fraternité.
Un.
Nella
Francia del XVIII secolo, più precisamente durante il corso
del 1789,
ogni tipo di potere immaginabile era riposto unicamente nelle mani
della
Monarchia assoluta, a detta dei nobili e del sovrano, per diritto
divino. Tutta
la società era divisa in tre determinati ceti, o classi
sociali, quali: Nobiltà,
ovvero coloro che più di ogni
altro spadroneggiavano senza limite e giustizia; Clero,
quindi le anime sante che avevano intrapreso la via del
sacrificio, della fede, della devozione e, in teoria, ma non in
pratica, della
povertà; infine, proprio nel gradino più basso
della scala sociale, e anche
della catena alimentare, in poche parole il degrado, si trovava il Terzo Stato, comprendente i poveracci
che non sapevano mai se avrebbero visto o no il giorno a venire.
Quella
classe sociale costituiva la maggioranza degli abitanti presenti a
Parigi, la bellezza del novant’otto per cento della
popolazione, ed era,
inoltre, la classe maggiormente tassata, in quanto l’antica e
ingiusta
tradizione monarchica francese prevedeva dei consistenti ed infiniti
privilegi
per i primi due ceti.
I
cittadini avevano sopportato tanto per molto tempo, senza mai
lamentarsi
e continuando a seppellire vittime di quelle ingiustizie, fino a quando
una
serie di problemi economici non risolti, causa le enormi spese fatte
dalla Corona
e i fondi inviati per la Guerra d’America, avevano provocato
un malcontento generale
e disordini nella popolazione. Dopo la caduta dei prezzi e della
produzione
industriale, una violenta siccità aveva pure provocato la
morte del bestiame.
Infine, un pessimo raccolto aveva decretato un’ulteriore
grande crisi, quella
del pane, così il suo prezzo era aumentato a dismisura e
continuamente,
mandando i lavoratori nella miseria per potersi guadagnare da mangiare.
Per
risolvere la gravissima crisi in cui la Francia era precipitata e
aumentare
le entrate fiscali, la monarchia aveva imposto tasse ad ogni ceto
sociale, ma
nobiltà e clero ne erano state interessate solo in minima
parte. Le nuove
imposte avevano, invece, continuato a pesare solamente sul Terzo Stato
e non
furono quindi in grado di contrastare la perdita del Paese, facendo
aumentare all’inverosimile
il debito pubblico.
L'avversione
dei sudditi francesi, quindi, non aveva fatto altro che crescere
e inasprirsi di giorno in giorno e ad ogni fallimento.
Fu
in quel periodo che si sviluppò una nuova cultura chiamata Illuminismo, la cui filosofia si diffuse
fino ai ceti più alti della società. La monarchia
assoluta francese venne
contrapposta a quella inglese, limitata da un parlamento e da vari
organi
politici interni. Da ciò si diffuse a macchia
d’olio l’idea che il potere
risiedeva non in un’unica persona, ma nell’intera Nazione.
A
conferma di quella corrente rivoluzionaria e a sfavore delle
più alte
classi sociali, quello che era accaduto qualche anno prima al di
là
dell’oceano, ovvero nelle Americhe, aveva contribuito ad
accendere la scintilla
negli animi dei cittadini francesi, arrabbiati e stanchi della miseria,
facendo
crescere in loro il desiderio sempre più grande di cambiare
le cose una volta
per tutte.
*
Paris,
1789.
-Sabo!-
-Portatelo
via.-
-Lasciatemi!
Sabo!-
-Maledetti!
Vi ucciderò
tutti!-
-Legate
anche l’altro,
poi portateli in prigione e rinchiudeteli.-
Era una
fredda e
nebbiosa mattinata di inizio primavera; l’inverno stava
lentamente abbandonando
quelle terre, ma il gelo persisteva e il sole non ne voleva sapere di
sbucare
nel cielo per riscaldare le giornate che, lentamente, si allungavano.
Era
l’alba e le guardie
stavano compiendo il loro dovere, eliminando un seguace dei
Rivoluzionari, un
gruppo di ribelli che, da qualche tempo, stavano mettendo a dura prova
l’ordine
pubblico, incitando la folla alla ribalta contro la Corona e contro il
Re di
Francia. Ciò, per lo Stato, era inammissibile, per quel
motivo ogni fuggiasco o
complice di quei farabutti veniva catturato e giustiziato dopo essere
stato
sottoposto ad un giusto, o quasi,
processo.
Quella
volta la
sfortuna era capitata ad un giovane ragazzo, troppo spavaldo e
coraggioso,
nonché convinto di essere dalla parte della ragione. Si
accompagnava ad un paio
di altri ragazzini, straccioni per la precisione, orfani senza una
casa, e gli
ufficiali si sarebbero limitati a metterli tutti al fresco per un
po’, se solo
lui non avesse opposto resistenza, uccidendo un soldato con un colpo di
rivoltella. E tutto per difendere i due mocciosi che erano con lui.
Ah,
se solo non avessero scelto la fazione sbagliata per la quale combattere,
pensò il comandante della spedizione,
dando le spalle alla Senna, il fiume dalle acque scure e profonde che
attraversava la bella Parigi, accendendosi un sigaro tra le labbra e
ignorando
le urla isteriche dei due prigionieri che non avrebbero smesso tanto
presto di
piangere la morte del loro compagno ormai annegato.
Il
Capitano Smoker era
stato svelto e previdente nell’agire. Aveva intuito che il
ragazzo non si
sarebbe arreso tanto facilmente e, non appena uno dei suoi era caduto,
aveva
provveduto ad intervenire, sparando al nemico e facendogli perdere i
sensi per
il dolore. Era stato semplice poi legargli i polsi e le gambe,
assicurandogli
ai piedi un masso e gettandolo nel canale alle porte della
città dove nessuno
sarebbe mai andato a cercarlo. Era stato costretto a farlo. Era quello
il suo
lavoro, anche se spesso faceva schifo.
Esatto,
proprio quella
parola aveva formulato nella sua mente: schifo.
Quello non era il motivo per il quale si era arruolato anni prima; non
era
l’ideale di giustizia che aveva e per il quale combatteva;
non si avvicinava
minimamente ai suoi principi patriottici. Era solo morte e dolore,
nulla di
più. Quel giovane non era diverso dagli altri che aveva
visto perdere la vita,
ma, dannazione!, era solo un
ragazzo!
Perché aveva dovuto agire in quel modo? Se non avesse dato
di matto forse
avrebbe avuto una possibilità, forse lo avrebbero rilasciato
dopo avergli fatto
scontare qualche notte in cella.
Forse.
Forse. Forse.
A chi
voleva darla a
bere, le cose non sarebbero cambiate e donne, bambini, vecchi, giovani,
nessuno
sarebbe stato risparmiato in quella guerra.
Un brusio
dietro di lui
lo riscosse dai suoi pensieri.
-Capitano
Smoker, il
più grande ha ferito due dei nostri!-
L’uomo
sospirò
esasperato, continuando però ad avanzare verso la strada in
ghiaia, ordinando
svogliatamente ai suoi sottoposti di togliere di mezzo anche quel
piantagrane con
i capelli scuri e di trattenere solo un prigioniero. Lacrime e urla di
un
marmocchio poteva sopportarle, ma pugni e ribellioni no, ce
n’erano già troppe
in giro per la regione, meglio quindi estirpare l’erbaccia
alla radice.
Ad ogni
modo, fece
comunque di tutto per ignorare la sgradevole sensazione di stare
facendo la
cosa sbagliata che lo colse non appena decretò la morte di
un’altra persona.
Era
obbligato a farlo,
era costretto.
-No,
fermi! Vi prego!
Ace! Ace, no! Lasciatelo! Lasciatelo, è mio fratello!-
sbraitò il ragazzino più
piccolo non appena capì la svolta che aveva preso la
situazione, avvolto in una
camicia rossa e logora, tremante e stremato, ma abbastanza forte, o
cocciuto,
da reggersi ancora in piedi, mentre due guardie si allontanavano dal
resto del gruppo
di militari trascinando con forza un altro giovanotto più
robusto, ma
ugualmente malconcio dopo le botte che aveva subito.
Scomparirono
dietro
l’angolo delle mura, addentrandosi nel sentiero che portava
alle fosse comuni.
In quel punto nessuno li avrebbe disturbati dal compiere il loro dovere
di
giustizia.
-Ace!
Ace!- urlava intanto
il piccolo, dimenandosi e tirando le braccia legate dalle catene fino a
far
lacerare la pelle nel tentativo di liberarsi e correre dal suo amato
fratello.
Aveva perso un amico da nemmeno dieci minuti, non voleva rimanere da
solo. Non
poteva andare tutto così male.
Smoker lo
osservò
impassibile, avvolto dal fumo del sigaro che stringeva tra i denti
tanto forte
da poterlo spezzare. Avrebbe davvero voluto fare diversamente e
risparmiarli,
ma non poteva. Aveva anche lui le mani legate.
Stava
cercando di
convincersi che le sue azioni erano per il bene comune, quando il
prigioniero
si voltò verso di lui con gli occhi inondati di lacrime e
l’aria di chi era
appeso alla vita con un filo. Il Capitano gli rivolse uno sguardo
ammorbidito,
quasi di scuse senza nemmeno rendersene conto. Non si curò
di apparire debole,
quella situazione lo aveva fatto riflettere profondamente
sull’idea di bene e
male.
L’occhiata
carica di
odio che ricevette in cambio, però, fu un vero e proprio
colpo di grazia per le
sue convinzioni. Fu quasi come se quel piccoletto avesse fatto crollare
il suo credo con uno sguardo.
Gli aveva
portato via
la sua famiglia, e chissà quante altre volte sarebbe
successo. Le guardie
stavano mettendo a ferro e fuoco Parigi su ordine dei capricci del Re e
tanta
gente moriva inutilmente. Voleva davvero continuare ad essere trattato
come un
burattino? La parte con la quale si era schierato era davvero quella
dei buoni?
Due spari
riecheggiarono in lontananza alle loro spalle, mandando in frantumi i
ragionamenti di Smoker e spezzando il cuore del ragazzino.
Calò un silenzio che
fece gelare il sangue persino ai soldati. Era la calma prima della
tempesta, se
lo sentivano.
Poi un
urlo squarciò
l’aria.
-Ace!-
strillò il
moccioso con tutte le sue forze, tanto che sentì quasi i
polmoni scoppiare
nella cassa toracica, crollando in ginocchio quando non ottenne
risposta.
–Ace!- fece ancora, battendo selvaggiamente i pugni sul
terreno e piangendo
lacrime amare, mordendosi freneticamente le labbra fino a farle
sanguinare, non
sentendo il dolore.
Aveva
perso tutto e
tutti, non aveva più nulla e nessuno, era solo. Totalmente,
completamente e
irreparabilmente solo.
E ne suo
fratello, ne
il suo migliore amico sarebbero ritornati dalla Terra dei Morti.
Volse il
capo al cielo
grigio e nuvoloso, denso di pioggia, e prese l’ultimo respiro
puro prima che i
soldati lo trasportassero di peso verso l’oblio.
-Ace!-
Poi il
buio.
*
Osservava
la scena
nascosta nel folto della vegetazione, silenziosa e attenta, pronta a
scattare
al minimo segnale di pericolo, con le gambe immerse nel pantano e il
freddo
pungente che le trapassava la pelle. Doveva rimanere immobile se voleva
evitare
di essere vista.
Fino a
circa un quarto
d’ora prima aveva guardato con divertimento quelli che
dovevano essere tre
fratelli rotolarsi nel fango della palude, lottando tra loro, ridendo e
schiamazzando, allegri e spensierati. Le erano sembrati così
simpatici che si
era chiesta più volte perché non si decidesse ad
uscire allo scoperto e
presentarsi. Era rimasta malissimo, poi, quando la guardia della
cittadina li
aveva accerchiati, interrogandoli e scoprendoli dalla parte dei
Rivoluzionari.
Se soltanto fossero stati furbi e avessero tenuto chiusa la bocca!
Stavano
combattendo già
da un po’, e lei sarebbe corsa a dare loro man forte ma,
quando era stata sul
punto di farlo, uno sparo le aveva mozzato il respiro, lasciandola con
il fiato
sospeso. Si era coperta la bocca con una mano per celare un lamento non
appena aveva
visto un ragazzo cadere a terra privo di sensi e aveva dovuto lottare
contro se
stessa per non intervenire, rischiando di rivelare così la
sua posizione e
mettere a rischio la copertura del resto della sua compagnia.
-Ecco
dove ti eri
cacciata!- disse una voce dietro di lei, facendola sussultare per lo
spavento.
Fortunatamente aveva dei nervi d’acciaio e si riprese subito,
dando un ceffone
al suo compagno e zittendo le sue lamentele con
un’espressione che non
ammetteva repliche, indicandogli un punto oltre la boscaglia e
mostrandogli
quello che stava accadendo a pochi metri di distanza.
Il
ragazzo, massaggiandosi
la parte lesa e scompigliando così i suoi capelli castani,
si abbassò accanto a
lei per guardare cosa diavolo aveva catturato l’attenzione
della mocciosa,
rimanendo sconvolto quando le guardie francesi legarono un tizio
svenuto,
gettandolo poi nel fiume con le urla degli altri due prigionieri in
sottofondo
che fecero accapponare la pelle a entrambi.
-Per
Dio!- sussurrò con
orrore.
Fu
così che, non appena
gli ufficiali si allontanarono dalla zona paludosa con i due
prigionieri, la
ragazza saltò fuori dal suo nascondiglio, ignorando gli
avvertimenti di Thatch,
raggiungendo la riva e tuffandosi nelle acque gelide
l’istante dopo, agendo
d’istinto e con il cuore in gola.
L’acqua
era ghiacciata,
ma se l’era aspettato e, anche tenendo gli occhi aperti,
faticava a vedere per
colpa della luce del giorno totalmente assente. Si sforzò
comunque di darsi la
spinta verso il fondale con le gambe, usando invece le mani e le
braccia per
cercare a vuoto il corpo del ragazzo che avevano appena spedito a
dormire con i
pesci. Era certa che, a causa del masso, l’avrebbe trovato
sul fondo, perciò
continuò a scendere in profondità e sperando di
venire graziata per quella
volta.
Quando
riemerse con un
corpo privo di sensi tra le braccia, annaspò fino a farsi
notare dall’amico, il
quale fissava il fiume con aria preoccupata, andando avanti e indietro
sulla
riva, indeciso se chiamare i rinforzi o farsi un bagno non previsto
pure lui.
-Grazie
al Cielo!-
sospirò sollevato, andandole incontro non appena la
intercettò e aiutandola a trasportare
il corpo del ragazzo mezzo morto sull’erba in un punto
riparato da alcune folte
piante, lontano da occhi e orecchie indiscrete.
-Che
cazzo ha
combinato?- domandò nervoso, dando sfogo all’ansia
accumulata gli attimi prima,
strappandogli senza troppe cerimonie la camicia e cercando la ferita
per
bloccare l’emorragia, mentre la sua amica si affrettava a
controllare il
battito cardiaco del polso e del collo per fare una stima dei danni e
assicurarsi che il poveretto fosse ancora in vita.
-Thatch,
devi fare
qualcosa!- lo pregò con voce preoccupata, iniziando un
lento, ma efficace,
massaggio cardiaco.
-E cosa?-
sbottò lui,
alzando con fare esasperato le mani al cielo per poi strapparsi un
abbondante
lembo di stoffa dalla giacca e premendolo con cura sulla ferita,
arrestando momentaneamente
il flusso del sangue. –Qui ci vogliono dei punti! E io non
sono un dottore! E,
oh, maledizione!- stava decisamente perdendo la calma.
Non
ebbero il tempo di consultarsi
oltre perché alcune voci li misero in allerta. Il ragazzo
scostò le foglie per
controllare i dintorni, stupendosi quando avvistò due
secondini ritornare sui
loro passi con un ragazzo che si dimenava come un cane rabbioso.
Deglutì
sonoramente,
pensando che se le guardie si fossero accorte anche di loro, non
avrebbero
fatto una bella fine. E tutto per salvare il culo a due francesi mangia
baguette!
Strinse i
denti e si
voltò a guardare a che punto era la sua collega, lanciandole
un’occhiata severa
quando quella si accorse della sua attenzione. Lei sembrò
leggergli nel
pensiero perché sospirò stancamente, andando
avanti con la sua opera di
salvataggio. Sapeva benissimo che la compagnia non voleva immischiarsi
nelle
cause del paese, non erano cose che li riguardavano, ed era consapevole
che i
francesi dovevano arrangiarsi. Avevano ragione nel dire che non era la
loro
guerra, ma non riusciva a capire perché mai doveva lasciar
soffrire i più
deboli quando aveva la capacità di salvarli e aiutarli.
-Volevano
ucciderlo.-
spiegò allora, -Non potevo lasciarlo morire in quel modo.-
-Non sono
affari
nostri, lo sai.- le ricordò, tenendo d’occhio la
situazione che si stava
svolgendo ad una decina di metri dal loro nascondiglio.
-Dovrebbero!-
ribatté
con furore, continuando il suo lavoro, sussurrando preghiere sconnesse
e
supplicando il moribondo di non morire. Gli slacciò il
cravattino blu che
teneva legato malamente al collo e gli prese il viso tra le mani,
forzandogli
le labbra per posarvi poi le proprie e donargli la sua aria con
l’intenzione di
liberargli i polmoni. Doveva essere veloce e precisa, così,
passando poi a
premere sul petto con i palmi, si sentì meno in ansia quando
vide che la
procedura diede l’effetto sperato e il ragazzo
rigettò tutta l’acqua che aveva
ingerito nel fiume.
Gli
sollevò il busto,
tenendogli il capo inclinato verso di sé quando quello
iniziò a tossire, mentre
Thatch tentava di tenere fermo il corpo scosso dagli spasmi.
Ebbe
paura solo per un
attimo, ovvero quando si sentì afferrare saldamente il
polso, ritrovandosi due
occhi spaesati, ma fiammeggianti, incastrati nei suoi.
-C-chi
se-ei?- si sentì
domandare in francese.
Con calma
e gentilezza
si liberò dalla presa salda, accarezzando i riccioli biondi
del giovane appiccicati
alla fronte per tranquillizzarlo, riuscendoci un pochino.
-Sono
Koala.- gli
rispose, sperando di farsi capire, vedendolo sempre più
confuso. Conosceva la
lingua, ma non la parlava ancora in modo perfetto. -Non preoccuparti,
penso io
a te.-
Sabo
annuì, non sicuro
di aver capito bene quello che stava accadendo attorno a lui, ma il
dolore che
provava era allucinante e la stanchezza accumulata nei giorni
precedenti gli si
riversò addosso tutta in quel momento, perciò si
lasciò andare, chiudendo gli
occhi e cadendo in un sonno profondo.
-Abbiamo
fatto una
cazzata, ma almeno non l’abbiamo fatta per niente.-
ironizzò il giovane uomo
dai capelli castani scompigliati e i vestiti, in altre occasioni sempre
in
ordine, disastrati, ma venne interrotto dalle parole delle guardie, le
quali
stavano in piedi davanti ad un giovanotto traballante e
dall’equilibrio
incerto, ma con lo sguardo fiero, intoccabile e carico di sfida.
-Inginocchiati.-
gli
ordinarono, ma quello scosse il capo seccamente, sputando a terra.
-Merda,
lo ammazzeranno
di sicuro.- borbottò Thatch, guardandosi attorno alla
ricerca di qualcosa che
potesse aiutare quel disgraziato. Non gli piaceva disubbidire agli
ordini, ma a
quanto pareva la nuova arrivata non sembrava capire il concetto di ‘non immischiarsi negli affari
altrui’,
e a lui, personalmente, non piaceva veder morire la gente innocente.
Quindi, a
conti fatti, entrambi avevano trasgredito alle regole.
-Non mi
piegherò mai a
nessuno!- affermò nel frattempo il ragazzino, fissando una
guardia che gli
puntava contro una pistola.
Thatch
imprecò e Koala trattenne
il fiato quando il primo sparo sovrastò il resto dei rumori
attorno a loro.
*
Ad Ace
non era mai
importato di vivere.
Era
cresciuto in una
bettola situata nella periferia di Parigi, nella Rive
Droite, poco lontano da Montmartre,
il quartiere più malfamato, dove svettava fiera
l’icona della perdizione e del
peccato.
Ad ogni
modo, tutte
quelle balle le raccontavano le madri amorevoli ai figli viziati, nella
speranza di tenerli lontani dal pericolo e da una vita senza un futuro,
ma Ace era
sempre stato convinto che non tutto era bianco o nero. Certo, anche
lui,
all’inizio, aveva creduto che non valesse la pena vivere a
lungo perché al
mondo non c’era nulla di bello o di interessante. Non
c’era da stupirsi di quel
suo pessimismo, tutti gli orfani parigini di quell’epoca
crescevano con la
consapevolezza di dover morire abbastanza presto, non avendo famiglia,
lavoro o
qualcuno a cui fare riferimento. Se poi eri pure il figlio di un
criminale,
allora le prospettive non erano rose e fiori. Fortunatamente per lui,
però, la
vita era stata magnanima e, anche se aveva patito un’infanzia
non felice,
durante la sua adolescenza era stato così fortunato, anche
se lui continuava a
considerare quell’incontro una sfortuna, da conoscere delle
persone che gli
avevano cambiato l’esistenza in meglio.
Colui che
occupava
buona parte del suo cuore era Rufy, un ragazzino di tre anni
più piccolo e con
un temperamento degno di un combattente. Era stata la sua spina nel
fianco per
mesi, lo aveva seguito e pedinato ovunque, lo aveva stressato fino
all’esasperazione con la sua voce, la sua presenza e quelle
assurde frasi come ‘ehi, diventiamo
amici!’ che Ace non
voleva ascoltare. Alla fine, però, il piccoletto era
riuscito nel suo intento,
e il ragazzo più grande aveva dovuto arrendersi, accettando
l’idea di aver
acquisito un fratello a cui badare.
Poi era
arrivato anche
Sabo, il quale, con la sua calma e pazienza, aveva conquistato la
simpatia di
Ace, più restio a fare amicizia con chiunque, e i tre erano
diventati inevitabilmente
inseparabili.
Erano dei
terremoti,
conosciuti da tutti nella città bassa e nei quartieri
più poveri. Gironzolavano
indisturbati per le vie, guadagnandosi il pane facendo qualche
lavoretto e
vivendo sotto lo stesso tetto in un’adorabile catapecchia al
limitare delle
mura, dalla quale si godeva la meravigliosa vista della
città e
dell’agglomerato urbano assieme a tutti i suoi monumenti.
Stavano bene, erano
felici e al sicuro.
Crescendo
e maturando,
inevitabilmente, avevano abbracciato il pensiero della Rivoluzione con
patriottismo ed erano entrati a far parte della compagnia dei
Rivoluzionari
quasi subito. Si poteva dire che l’idea fosse partita da
loro, più precisamente
da un gruppo di giovani randagi che contava un alto numero di persone,
ma quell’informazione
era difficile da stabilire, perciò la gente mormorava
ipotesi e basta. Erano in
tanti, tutti amici, tutti fratelli, tutti una grande famiglia e Ace non
si era
mai sentito così contento di essere venuto al mondo. Aveva
riscoperto la gioia
di vivere e aveva anche trovato un valido motivo per cui lottare.
Da quando
aveva
incontrato quei ragazzi, aveva appreso che vi erano
un’infinita serie di
sfumature differenti tra i vari colori, lo sapeva, glielo aveva
spiegato Kanjuro,
un artista di strada piuttosto in gamba, e lui si collocava in mezzo a
tutte
quelle differenze. Un giorno la sua vita era azzurra come un cielo
estivo
tranquillo, altre era verde, quindi fresca come una foresta, altre
ancora era
gialla, ovvero divertente come il sole. Capitavano anche giornate
grigie e
tristi, addirittura nere quando era arrabbiato, ma cambiavano sempre,
senza che
lui si annoiasse.
Per quel
motivo, quando
la guardia cittadina gli puntò contro la canna del fucile,
sentì una punta di
delusione accendersi nel petto. Se fosse capitato negli anni addietro
non gli
avrebbe fatto ne caldo ne freddo, ma quei tempi erano finiti. Aveva
delle
persone per cui vivere, doveva lavorare per portare a casa il pane e
doveva
dare tutto se stesso per garantire un futuro alla sua famiglia e a
tutta
Parigi. Se lui se ne andava, chi avrebbe badato a Rufy e agli altri
orfanelli?
E chi si sarebbe scontrato con i parigini che stavano dalla parte della
Corona
nelle piazze della città? E come poteva lasciare tutto nelle
mani dei suoi compagni
Rivoluzionari? Era così ingiusto!
-Inginocchiati.-
gli
ordinò la guardia, incitando a compiere quel gesto con un
movimento secco del
braccio che reggeva l’arma.
Ace lo
guardò con
scetticismo. Davvero credeva che avrebbe fatto come gli era stato
detto? Sul
serio gli avevano appena chiesto di abbassare la testa, di arrendersi
alla
Corona prima di morire?
Mai!, pensò.
Fece una
smorfia
schifata, accompagnando l’espressione con parole dure e
cariche di libertà.
–Non mi piegherò mai a nessuno!- sbottò
furente.
E
fanculo anche la Morte,
aggiunse nella sua testa.
Non ebbe
nemmeno il
tempo di rendersene conto e di dire addio al mondo perché
uno sparo riecheggiò
nell’aria l’istante successivo e Ace si
ritrovò a serrare gli occhi. Si stupì
quando ne sentì un altro l’attimo successivo,
volevano ridurlo a un colabrodo
forse? Rimase ancora più sconcertato, però,
quando si accorse di reggersi ancora
in piedi e di stare impercettibilmente tremando come un fesso, mentre
attorno a
lui le due guardie erano stramazzate a terra.
Morte.
Aprì
prima un occhio
curioso e poi l’altro, rilassandosi e sbattendo le palpebre
confuso, alzando infine
il capo per guardarsi attorno alla ricerca del suo salvatore.
Perché, andiamo,
mica potevano essersi fatte fuori a vicenda. Forse Rufy si era
liberato, o
magari i loro compagni li avevano raggiunti dalla periferia, oppure
Sabo non
era morto, e magari…
Trattenne
il fiato
quando vide uscire una figura estranea dalla vegetazione alla sua
sinistra.
Non si
sentì affatto
tranquillo dato che non sapeva di chi si trattasse; non
l’aveva mai visto prima
quell’uomo dall’aria inquietante. Indossava degli
abiti semplici, ma non per
questo potevano essere considerati poveri; un lungo cappotto pesante
gli
ricopriva buona parte del corpo, una sciarpa azzurra penzolava
disordinata attorno
al collo e sulle spalle e una pistola era stretta nella sua mano
coperta da un
paio guanti.
Lo
sguardo fermo e
l’espressione fredda e distaccata misero Ace
sull’attenti e, se non fosse stato
per l’assurdità di quei capelli, improbabili
ciuffi biondi che sembravano avere
vita propria tanto erano disordinati, avrebbe incassato la testa nelle
spalle
come un cane. E lui non era tipo che si spaventava facilmente.
L’uomo
si avvicinò a
lui così tanto da superare le distanze di sicurezza,
arrivandogli ad un palmo
dal viso e sovrastandolo con la sua stazza. Quando poi estrasse un
pugnale, Ace
ebbe la tentazione di scappare, ma era bloccato. Non poteva proprio
muoversi,
dato che il tizio gli afferrò malamente un braccio,
girandolo di spalle. Temette
di venire colpito alla schiena per poi essere gettato nella Senna, o
peggio,
invece non accadde e la lama passò tra le corde che lo
imprigionavano,
liberandolo e togliendogli un ulteriore peso dal petto.
Si
ritrovò così libero
e, senza rendersene conto, prese una profonda boccata d’aria,
sentendosi subito
meglio, dopodiché si massaggiò i polsi, sorpreso
e allibito, trovando infine il
coraggio, e la sfrontatezza avrebbe detto qualcun altro, di voltarsi e
guardare
in faccia quello strano individuo, venendo ricambiato con
un’occhiata di
sufficienza, come se lui fosse stato un peso. E ciò, per la
precisione, gli
diede parecchio fastidio. Non sopportava di dover alzare la testa per
guardare
le persone e nemmeno essere salvato lo faceva sentire bene. Insomma,
era in
grado di arrangiarsi, lo aveva sempre fatto. E se per
quell’uomo era stato una
scocciatura, beh, avrebbe potuto risparmiarsela.
Così
gonfiò il petto e
lo guardò con superiorità, anche se era parecchio
più basso, ma quello era un
dettaglio che poteva passare in secondo piano. –Avrei potuto
cavarmela da
solo.- dichiarò, notando un sopracciglio biondo e scettico
sollevarsi sul viso
dell’altro. Cos’era, non gli credeva forse?
-Non sei
un po’ basso
per fare l’impertinente?- ghignò il nuovo arrivato
con un forte accento inglese,
scoccando la battuta finale e lasciando Ace a fissarlo con occhi
sgranati e a
rodersi il fegato.
E
questo chi si crede di essere?
*
Le fosse
comuni erano
grandi e maleodoranti buche scavate alla meno peggio nei campi, ormai
diventati
paludi, fuori dalle mura della città, poco lontano dalla
Senna. Abbastanza
vicine, ma non troppo, giusto quello che bastava per non dover faticare
per
seppellire qualcuno e per non beccare malattie infettive come la peste,
la lebbra
o altro.
Quella
mattina le fosse
non videro uno, ma la bellezza di due cadaveri freschi, ancora caldi,
rotolare
con un tonfo sordo all’interno di esse, già colme
di altri uomini a cui era
stata strappata la vita.
Allo
spettacolo
parteciparono, però, anche un gruppo di imbucati, gente
straniera, mai vista
prima e che sperava di poter continuare a mantenere
l’anonimato, ovvero essere
scambiata per un gruppo di teatranti, o addirittura per un circo, fino
a che
sostava nei dintorni della capitale.
-Abbiamo
rischiato
parecchio.- constatò un tizio dall’aria
tranquilla, nonostante il significato
pericoloso della frase, incrociando le braccia dietro la testa e
stiracchiandosi, mentre un altro accanto a lui osservava apatico le
fosse,
giocherellando con una pistola nera tra le dita.
-Mai
quanto loro.-
rispose semplicemente, indicando con il capo le due figure che erano
scampate
per un soffio alla morte, lasciate alle cure del resto della loro
combriccola.
-Quel
Sabo è stato
estremamente fortunato.- affermò Thatch, sentendosi in
dovere di sorridere.
–Non sei d’accordo, Marco?-
Il
diretto interessato
annuì, dando le spalle a quelle tombe all’aria
aperta e dirigendosi verso quei
due poveri sventurati per informarsi delle loro provenienza e, se fosse
stato
necessario, minacciarli per evitare che svelassero la loro presenza a
chi non
doveva sapere nulla.
-Se la
caverà?- stava
chiedendo il ragazzino moro che avevano salvato qualche attimo prima,
inginocchiato accanto al corpo bagnato fradicio del suo amico quasi
morto per
annegamento.
-Lo spero
tanto.-
sussurrò la ragazza minuta vicino a lui, impegnata a
fasciare la ferita al
fianco della vittima svenuta per il troppo sangue perso. –I
polmoni sono
liberi, ma è molto debole. Vediamo come si comporta nelle
prossime ore.- spiegò
con professionalità, non curandosi del freddo pungente e dei
suoi abiti
inzuppati d’acqua che le si erano appiccicati alla pelle come
anche i capelli
castani. Era il prezzo da pagare per essersi tuffata nel fiume per
evitare un
altro omicidio di un innocente, riuscendo a recidere la corda legata al
masso e
a riportare in superficie il Rivoluzionario appena in tempo.
-Ti
prego, tu lo devi
salvare.- disse ad un tratto Ace, dopo essersi mordicchiato le labbra
con
incertezza, afferrandole saldamente un polso e supplicandola con gli
occhi.
Dopotutto non sapeva nulla su quella femmina, ma era anche vero che
aveva
rischiato grosso per aiutare Sabo, quindi il minimo che poteva fare era
fidarsi
di lei.
A Koala
quasi si spezzò
il cuore.
-Farò
tutto quello che
posso, te lo prometto.- affermò.
-Grazie.-
mormorò a
quel punto Ace un po’ sollevato, permettendosi solo allora di
riprendere a
respirare, guardandosi attorno spaesato.
Era
ancora scosso per
gli avvenimenti di quella mattina e per aver visto letteralmente la Morte in faccia, così gli ci
volle
qualche attimo per mettere a fuoco la zona e riconoscere il luogo. Si
trovava
al limitare delle paludi venutesi a creare con le piogge torrenziali
del
periodo invernale e con l’ormai nulla pulizia della
città da parte degli
addetti. Erano numerosi e maleodoranti stagni, circondati da una non
indifferente boscaglia fatta di erbacce, cespugli e alberelli
scheletrici ed
inquietanti. Nessuno si azzardava ad avvicinarsi, becchini a parte,
ovviamente.
La Senna
attraversava
quel degrado, ed era proprio sulla riva di essa che si trovava Ace,
stremato,
psicologicamente turbato e incredulo. L’ansia accumulata gli
avevano lasciato
addosso un senso di stanchezza pesante, mentre la preoccupazione per la
sorte
incerta di Sabo lo stava logorando.
Guardò
il viso contorto
dal dolore dell’amico e provò un senso di profonda
angoscia. Non poteva
rimanere fuori al freddo in quelle condizioni, altrimenti oltre alla
ferita
d’arma da fuoco si sarebbe persino beccato il colera, o
peggio, visto e considerato
che si trovavano vicino alle fosse comuni.
Stava
pensando a cosa
fare per trasportarlo senza rischi a casa, quando due uomini gli si
avvicinarono chiacchierando.
-Te
l’ho detto, mi sono
voltato e non l’ho più vista, così sono
andato a cercarla e l’ho trovata qui
dietro. Poi mi sono accorto delle guardie e mi sono nascosto pure io,
ma lei dopo
si è tuffata nel fiume perché le era venuta
voglia di andare a pesca ed è
riemersa con quello! Cosa dovevo
fare? Era mezzo morto, accidenti!-
Un
ragazzo che doveva
essere sulla trentina finì la sua contorta spiegazione con
un gesticolare
continuo di mani e guardò il suo compagno che gli stava
accanto con
un’espressione carica di aspettativa, volendo praticamente
sentirsi dire che
aveva agito bene.
L’altro,
però, non
sembrava essere dello stesso parere e glielo comunicò senza
tanti giri inutili
di parole. –Dovevi prendere Koala e trascinarla via prima che
combinasse
sciocchezze. Sei più grande, avresti dovuto farti
rispettare.-
-Che
cosa?- sbottò il
castano. Poi si rivolse alla ragazza alla ricerca di un qualche
sostenimento. -Ehi,
ma l’hai sentito?-
-Marco,-
disse allora lei
con fare sconsolato e senza staccare gli occhi dal ferito, -Per favore,
non
adesso.-
Per
Thatch fu chiaro
fin da subito che non avrebbero risolto nulla se avessero deciso di
caricarsi
in spalla Koala e riportarla all’accampamento, quindi
andò a piazzarsi vicino a
lei in modo da rendere chiaro anche al fratello da che parte aveva
deciso di
stare. Il biondo, infatti, non tardò a rivolgergli
un’occhiataccia, ma sapevano
entrambi che alla bontà della giovane non resisteva nessuno.
Ace
guardò come il
ragazzo che rispondeva al nome di Marco sospirasse stancamente,
passandosi una
mano tra i capelli mentre ragionava sul da farsi. –E va
bene.- dichiarò
sconfitto, -Ma lo spiegate voi al babbo.-
Quando
poi vide i tre
sconosciuti armeggiare per sollevare il ferito, si fece prendere dal
panico e
un forte senso di protezione si impossessò di lui.
–Cosa
credete di fare?-
sibilò, scattando in avanti e coprendo con il busto il corpo
inerme di Sabo,
impedendo così agli altri di spostarlo. Non avrebbe permesso
a nessuno di loro
di portarglielo via. Chi erano poi quelle persone? Da dove erano
spuntate
fuori? Erano chiaramente degli stranieri dato l’accento e la
poca conoscenza,
quasi nulla per quanto riguardava il castano, del francese, per cui,
per quanto
ne sapeva, potevano essere contrabbandieri, zingari, rapitori o spie in
incognito. Forse volevano catturare entrambi per venderli o consegnarli
alla
polizia locale. No, non poteva rischiare di mettersi ulteriormente nei
pasticci. Sabo era in fin di vita, lui era piuttosto acciaccato e dalle
paludi
alla Rive Gauche, ovvero
dall’altra
parte della città, c’era parecchia distanza.
Doveva conservare le forze e
liberarsi di quegli impiastri.
La
ragazza cercò di
calmarlo, parlando con un tono dolce, ma allo stesso tempo deciso.
–Il tuo
amico ha perso molto sangue e se non curiamo la ferita la sua
condizione
peggiorerà sicuramente. Vogliamo solo portarlo al caldo e
all’asciutto per
aiutarlo.-
Ace la
fissò per
qualche istante, decidendo se crederle o meno.
-Lo
porterò a casa sua e lo
curerò allora.- dichiarò secco,
vedendola scuotere il capo sconsolata.
-Non
resisterà così a
lungo.- gli fece notare a quel punto Thatch, il quale lo osservava
dall’alto
con le braccia incrociate al petto e un’espressione
enigmatica sul volto,
chiaro segno della sua indecisione. Stava infatti pensando al modo
migliore per
liberarsi del moro e aiutare Koala a trasportare il poveraccio
all’accampamento
a un paio di kilometri da lì.
-Ho detto
che lo
porterò io al sicuro
dove è giusto
che stia!-
Ace non
ammetteva
repliche e, da come mostrava i canini, quasi come un animale selvatico,
Marco
ebbe la conferma che non avrebbero risolto niente continuando a parlare
con le
buone. Prese la sua decisione, ovviamente senza consultare Thatch, il
quale
glielo fece notare durante il cammino verso casa, così,
sospirando quasi con
fare annoiato, estrasse la pistola che teneva nascosta dietro la
schiena e,
senza alcun preavviso, colpì violentemente alla testa Ace
che cadde a terra
svenuto ed innocuo.
-Adesso
non morde più.-
fece con nonchalance, rimettendo a posto l’arma sotto gli
sguardi attoniti dei
due compagni, i quali lo fissarono a bocca aperta, senza parole.
Fu Thatch
a riprendersi
per primo. –Ma sei impazzito? Non serviva arrivare a tanto!-
Marco gli
rivolse
un’occhiata in tralice. –Datti una mossa e aiuta
Koala, a lui ci penso io. Faremo i conti a
casa.-
Detto
ciò, o meglio,
dopo quella minaccia velata che prometteva future torture e strigliate
di capo
sia per Thatch che per Koala, il più grande si
caricò senza sforzo Ace in
spalla e si inoltrò nella palude, diretto verso la base.
L’unico
suo pensiero
era rivolto a cercare il modo migliore per spiegare al resto della
famiglia che
la loro copertura rischiava di saltare.
*
-Brucia,
bellezza.
Brucia!-
La
sommossa non era
iniziata nemmeno da mezz’ora e già le strade basse
pullulavano di civili
incazzati che scorrazzavano senza ordine e allo sbaraglio, scontrandosi
contro
qualsiasi ufficiale che si parava di fronte al loro cammino con
l’intento di
sopprimere la momentaneamente piccola rivolta che era scoppiata.
Un gruppo
di uomini ci
era andato giù pesante, al cantiere. Certo, anche lui non
era stato da meno e
quando quel soldato gli si era avvicinato con l’intento di
perquisirlo,
puntandogli il fucile contro, non ci aveva più visto e si
era lasciato prendere
un po’ la mano, dandogli una bella lezione. I suoi compagni
di lavoro non erano
stati da meno e si erano subito lanciati addosso al resto della truppa
che era
passata dalle parti del cantiere per le solite ronde. Da lì
era cominciato
l’ennesimo scontro tra popolo e classi elevate.
Proprio
quello di cui
lui aveva bisogno per divertirsi.
Con la
torcia che
reggeva in mano diede fuoco ad un pagliericcio situato in un punto
strategico, causalmente vicino ad
uno dei patiboli
costruiti in ogni piazza e utilizzati per le esecuzioni pubbliche.
Meglio
distruggere quella merda e ridurne il numero il prima possibile ed
evitare di
vedere conoscenti penzolare con il cappio al collo.
L’incendio
divampò
quasi subito e in breve, dopo che una scia di polvere da sparo e
combustibile
venne magicamente sparsa a terra
fino
alla forca, ci fu il botto. Un’esplosione di legno, cenere e
brandelli di
qualche ufficiale che si era trovato nel posto sbagliato al momento
sbagliato
investì i presenti in strada, richiamando ulteriori rinforzi
da entrambe le
parti.
-Bel
lavoro Kidd!- si
complimentò un giovane francese del sud con
l’artefice di quello scompiglio,
affiancandolo e piazzandogli in mano una rivoltella carica,
sorridendogli
complice e incoraggiante.
Il
diretto interessato ghignò
trionfante, gongolando per quelle attenzioni. Era conscio di essere un
fenomeno, ma quando la gente glielo faceva notare si sentiva sempre un
passo
sopra agli altri. E la sensazione di potere gli piaceva immensamente,
anche se
ciò lo rendeva un autentico bastardo.
Le urla
rabbiose della
folla coprivano a malapena il rumore degli spari e delle lame
incrociate che i
più spavaldi avevano il coraggio di utilizzare, scontrandosi
direttamente con
alcune guardie della cittadina, mentre altri si limitavano a fare atti
vandalici, casino e bloccare le strade per dimostrare il malcontento
che aveva
messo radici in ogni casa nei quartieri di Parigi.
In mezzo
alla bolgia,
solo pochi erano entusiasti di tutto quel delirio, ovvero un gruppetto
di
uomini e giovanotti troppo boriosi e poco intelligenti, gente abituata
ad usare
le mani prima del cervello. Erano considerati i carpentieri
più in gamba del
vicinato; almeno, fino a qualche anno prima il pensiero comune era
quello. Con
l’arrivo della crisi e lo schieramento nelle varie fazioni,
quei lavoratori si
erano trovati a scegliere un partito per cui patteggiare e, alla fine,
com’era
stato ovvio, avevano scelto il popolo, la loro famiglia. In quel modo,
considerando gli elementi che componevano quella sgangherata compagnia,
era
stato inevitabile che le forze dell’ordine mettessero fine ai
loro affari,
obbligando il proprietario a vendere tutto e a campare diversamente.
Fortuna
volle che
Franky fosse un uomo dalle mille risorse.
Era
riuscito a
cavarsela aprendo un piccolo baretto e con quello tirava avanti, a
stento, ma
ce la faceva. Aveva ricavato dal cantiere un grande locale che usava
per due
scopi principali: il primo era vendere illegalmente alcolici a chiunque
glieli
chiedesse; il secondo era affittare l’intero edificio ai
Rivoluzionari per le
riunioni importanti.
Quel
giorno si era
ripromesso che avrebbe tenuto chiuso e si sarebbe preso una pausa, ma
le
guardie erano capitate a mettergli i bastoni tra le ruote e lo avevano
fatto
incazzare, perciò non aveva aspettato l’invito e
gli ordini di nessuno e aveva
dato inizio ad una rissa, creando una baraonda incontrollata. Pazienza
se poi i
capi si sarebbero incazzati per la sua intraprendenza, stare con le
mani in
mano a subire ingiustizie non gli era mai piaciuto.
Fu per
difendere il suo
onore che Kidd aveva sferrato il primo colpo all’ufficiale
troppo curioso ed
invadente, il quale si era pure permesso di offendere il miglior
carpentiere
della città. I suoi intenti erano stati nobili, ma i modi
avevano lasciato del
tutto a desiderare. Di certo, non ci si poteva aspettare altro da un
ragazzo
cresciuto per le strade e abituato a sopravvivere e a fare di tutto,
anche
l’assassino su commissione.
Proprio
allora,
schivando abilmente un affondo ben assestato da parte di un soldato,
raggiunse
il centro della piazza, seguito a ruota dalla sua ombra: un tizio dai
lunghi
capelli biondi sciolti sulle spalle e un pessimo gusto in fatto di
abbigliamento, ma Kidd non era nessuno per poter criticare i gusti
degli altri
perché lui per primo era un elemento alquanto particolare e
unico.
Era un
ragazzo che si
notava ovunque andasse. Forse per i capelli rosso sangue, forse per lo
sguardo
sempre corrucciato e diffidente, forse per la costante aria
intimidatoria o per
la sensazione di disagio che incuteva nelle persone, ad ogni modo,
attirava
l’attenzione, sempre.
Kidd si
appiattì contro
il muretto di una delle tre fontane presenti, prendendo fiato e
caricando
l’arma con altre pallottole. Le aveva finite tutte e tutte
avevano centrato il
bersaglio. Stava migliorando, non c’era dubbio.
-Quanti
sono?- chiese
al suo migliore amico, il quale stava calcolando velocemente gli
ufficiali più
vicini alla loro portata, concentrato sulla piazza e sulle figure che
la
riempivano.
-Quattro
alla mia
sinistra. Sei dalla tua parte. Due sono vicini, direi circa cinque
metri.-
disse preciso per poi voltarsi verso il compagno e sogghignare in un
modo
enigmatico che solo Kidd avrebbe compreso. -E ti danno le spalle.-
Bastarono
quelle parole
per far scattare il rosso allo scoperto. Uscì dal suo
nascondiglio, mentre il
biondo pensava agli altri quattro, e corse veloce e invisibile verso i
suoi
bersagli, sfilando due pugnali dalla cintola dei pantaloni e
piantandoli con
decisione e forza nelle schiene delle guardie che, ignare del suo
arrivo,
avevano prestato attenzione ad altro.
Il colpo
fu di tale
brutalità che i due uomini finirono sbalzati a terra con la
faccia sconvolta,
ma priva di vita.
Era in
quel modo che
colpiva Kidd, era quello che aveva imparato a fare vivendo per evitare
di
morire. Il più forte sopravviveva e lui, negli anni, era
diventato molto forte.
Era un bravo combattente, era veloce, era silenzioso e letale. Era un
assassino, ma almeno tornava a casa la sera con addosso la sua
pellaccia.
-Ehi,
Kidd!- lo salutò
qualcuno, sbucando dalla ressa.
-Chi si
rivede! Anche
tu a sgranchirti le gambe, Zoro?-
Un
giovane dall’aria
divertita, gli abiti a brandelli e un paio di spade affilate strette
nelle mani
gli si avvicinò, controllando che non fossero in arrivo
altri inetti leccapiedi
della Corona, salutandolo con un cenno del capo.
-E’
opera tua il botto
di poco fa?- gli chiese col fiatone, segno che si era dato un bel da
fare fino
a qualche istante prima. La prova di tale affermazione erano alcuni
cadaveri in
divisa sdraiati nella polvere a qualche metro da loro.
Kidd
gonfiò il petto
come un pavone, pronto a vantarsi. –Esattamente! Visto che
roba?-
Zoro
scosse il capo,
ridacchiando tra sé e indispettendo l’altro povero
illuso. –Me lo immaginavo.-
ammise, quasi dispiaciuto, sfoggiando poi un sorrisetto malefico.
-Che vuoi
dire?- sibilò
allora Kidd, stringendo i pugni. Non gli piaceva venire criticato,
proprio per
niente. Tutto quello che faceva era perfetto, non sbagliava mai un
colpo, mai.
-Semplice,-
spiegò
Zoro, impugnando con più decisione le spade e guardando
davanti a loro dove, in
fondo alla strada, proprio al limitare della piazza, si intravvedevano
altri
ufficiali diretti verso la mischia di scalmanati che si stavano
scannando lì
attorno. –Se fosse stato Ace non sarebbe risultato tutto
così banale.-
Detto
ciò partì
all’attacco, lasciando il rosso interdetto a riflettere su
quelle parole. Alla
fine si riscosse e, digrignando i denti, trattenendo a stento un
ringhio,
afferrò la rivoltella e prese a sfogare la sua frustrazione
giocando a tiro al
bersaglio con ogni soldato che adocchiava. Doveva tenersi impegnato e
concentrato
sul nemico se voleva evitare di uccidere un compagno d’armi.
Quello
stronzo,
pensò,
sperando che qualcuno desse una lezione a Zoro, ‘fanculo
lui e la sua combriccola di deficienti! Sono mille volte
meglio di Ace!
Improvvisamente,
si
rese conto di un particolare che avrebbe dovuto notare già
da molto, ovvero la
mancanza della presenza di qualcuno.
A
proposito, che fine ha fatto quel moccioso?
*
Era
calata la sera già
da un pezzo sulla bella Parigi. Dopo un pomeriggio passato a creare
rivolte per
le piazze, tutte soppresse con successo dagli ufficiali
dell’esercito, gli
abitanti, quelli scampati alla morte, erano tutti rientrati in casa e
si
preparavano per la notte, mentre per le vie nessun rumore disturbava la
quiete
pubblica.
In un
vicolo poco illuminato,
ma non per questo meno abitato, del tanto frequentato e rivoluzionario Quartier Latin, le luci tremolanti delle
lampade a olio poste fuori dalla porta delle modeste casette a schiera
erano
l’unico segno della presenza di vita da quelle parti.
In una di
queste, in
particolare, l’ultima della via, costruita esattamente a
ridosso delle mura di
cinta, e per quel motivo utilizzata dai rivoltosi come punto di ritrovo
per la
possibilità di entrare e uscire dalla città senza
essere visti, si trovavano un
buon numero di feriti, uomini reduci dalla rivolta del pomeriggio. Chi
con una
gamba rotta, chi con delle ferite d’arma da fuoco o da
taglio, gente che
addirittura si trovava in fin di vita, tutti attendevano con calma il
loro
turno in un’ampia stanza, affidati alle cure di gente ormai
abituata a vederne
di tutti i colori. Quelli messi peggio avevano la priorità
sugli altri, ma
nessuno si lamentava. Non ne avevano il coraggio dato il dottore che si
ritrovavano ad avere.
Il
diretto interessato
uscì dalla stanza in cui operava con
un’espressione soddisfatta stampata sul
viso magro e giovane con uno straccio tra le mani, intento ad
asciugarle e
pulirle dal sangue rappreso. C’era un che di inquietante
nella strana luce dei
suoi occhi chiari, nelle macchioline scarlatte che lampeggiavano come
insegne
sul colletto bianco della camicia, nelle occhiaie scure e nella voce
decisa, ma
i presenti ci avevano fatto l’abitudine e avevano smesso di
fare domande o
sussurrare tra loro.
Il giorno
in cui il
dottore aveva fatto la sua prima apparizione, quando il malcontento
generale
dei cittadini si era acceso come una piccola candela, divampando sempre
più e
causando le prime vittime, tutti gli abitanti dei bassifondi avevano
dato voce
al loro parere, decretando che non avevano di certo bisogno di un
borghese
doppia faccia tra loro. A primo avviso, il ragazzo non aveva nessun
problema,
se non fosse stato per la sua appartenenza alla classe sociale
benestante,
ovvero quella che, per logica e interessi, era più vicina
alla Corona francese.
Ogni
volta che lo
vedevano aggirarsi da quelle parti lo evitavano come la peste o lo
insultavano,
fremendo quando lui non rispondeva o li ignorava bellamente senza
curarsi di
loro, o della loro stupidità che dir si voglia, ma avevano
tutti dovuto ricredersi
quando il signorino si era preso la sua rivincita, salvando le vite
degli
uomini più in vista del ceto popolare. Prima una malattia
incurabile, poi un
polmone perforato ed infine un’intossicazione per
avvelenamento. Era riuscito a
curarli tutti e da quel giorno nessuno aveva più osato
fiatare o aprire bocca
sul suo conto. Non che prima lo facessero apertamente, non
un’anima era stata
tanto stolta da provocare volutamente e apertamente colui che era stato
nominato Il Chirurgo della Morte.
C’era
chi diceva,
quando lui non era nei paraggi, che fosse il figlio del Diavolo; altri
sostenevano di averlo visto praticare magia nera e altri ancora lo
paragonavano
ad una piaga, ma erano tutte dicerie, storie dell’orrore che
si raccontavano
tra ragazzini per spaventarsi a vicenda. Nessuno ci credeva
più ormai, ma il
soprannome era rimasto e, a detta di molti, calzava a pennello con la
personalità del dottore.
-Il
prossimo.- disse
semplicemente il giovane medico, mentre alle sue spalle usciva un
adulto, sostenuto
da un compagno, con un braccio fasciato e una benda
sull’occhio.
Un
ragazzo con un buffo
berretto a visiera e dei ciuffetti ramati e ribelli che gli spuntavano
da sotto
la stoffa gli si avvicinò affannato, gesticolando e parlando
velocemente,
cambiando continuamente discorso e senso logico delle frasi.
Il
chirurgo non perse
nemmeno tempo a starlo a sentire e lo superò, sapendo che
quello gli sarebbe
stato alle calcagna continuando a blaterare, e raggiunse un altro
ragazzo, più
grande e meno stupido, anche lui vestito con cappello e camice
professionale,
il quale stava annotando alcuni dati su un registro che stringeva tra
le mani.
Davanti a lui, sdraiato su una barella improvvisata, giaceva un
energumeno
dall’aria malconcia, sanguinante e privo di sensi.
Quello,
per il dottore,
era oro puro.
-Penguin,
diagnosi.-
chiese sbrigativo, ottenendo una risposta altrettanto veloce e precisa
mentre
si avvicinava all’individuo mezzo morto e iniziava a
studiarlo, fissandolo con
interesse che gli illuminava lo sguardo.
-Maschio,
circa
ventitré anni, francese. Ferita d’arma da taglio
al braccio sinistro con
parziale lacerazione dei tendini e sfregi sulla parte sinistra del
viso.
L’occhio non è stato danneggiato, ma sembra aver
subito molti attacchi violenti
in tutto il corpo. Oh, e un’altra cosa,- aggiunse infine,
sorridendo complice
al suo superiore e ricordandosi di un particolare non indifferente che
aveva
promesso di riferire, -Ha detto che avrebbe preso a calci in culo il
dottore se
gli fosse stato amputato il braccio.- concluse.
I
pazienti presenti che
si erano interessati alla scena rabbrividirono e tornarono a pensare
agli
affari propri quando videro il ghigno sadico del chirurgo prendere
posto sulle
sue labbra.
-Ottimo.
Portatelo
dentro.- ordinò, indicando la sala alle sue spalle. Poi si
voltò alla ricerca
di qualcuno non troppo idiota e abbastanza sveglio da essere in grado
di
portare un messaggio. La scelta ricadde su un moccioso appollaiato per
terra
sul tappeto accanto ad un anziano signore, forse il nonno.
-Tu,
piccoletto,- lo
chiamò, avvicinandosi e accucciandosi per essere alla sua
altezza. I brividi
sulle sue braccia finse di non vederli. –Corri dal Dottor
Chopper e digli di
venire qui a sostituirmi. Io avrò da fare per un
po’.-
Detto
ciò si alzò e
raggiunse i suoi colleghi, pronto per ricominciare da capo con bisturi,
ago e
filo.
-Vediamo
chi prenderai
a calci nel culo quando avrò finito.- sogghignò,
prima di iniziare ad operare
quel tizio dall’aria così, ecco,
qual’era la parola adatta?
Particolare, pensò
il dottore, armeggiando con
abilità e sicurezza con gli strumenti mentre cercava di
rimettere in sesto
l’arto del ferito nel tentativo di non dover essere costretto
a buttare via un
pezzo del suo corpo. Va bene, forse non lo avrebbe gettato per strada e
lo
avrebbe segretamente custodito per fare delle ricerche o per studiare
più
accuratamente i legamenti e i fasci muscolari, ma quelli erano dettagli
che non
era tenuto a spiegare al resto del mondo. Ad ogni modo, aveva preso la
frase
del moribondo come una sorta di sfida, una questione personale in poche
parole.
Non avrebbe di certo dato a quello spericolato con i capelli
assurdamente rossi
la soddisfazione di poter criticare il suo perfetto operato. Mica era
un
novellino arrivato ieri, lui.
In ogni
caso, ne era
incuriosito, soprattutto per l’aspetto fisico. Era troppo
altro e sviluppato
per poter essere un parigino; di quei tempi se si aveva il pane in
tavola si
era fortunati, figuriamoci se tutti erano ben nutriti e grossi quanto
degli
armadi con il cibo che scarseggiava in ogni abitazione. Deve
per forza venire da fuori della regione, ragionò
per conto
suo. Insomma, con quei capelli era
difficile non essersi accorti prima della presenza di un rosso per le
vie di
Parigi. Decise di chiedere informazioni, ovviamente per puri scopi
medici.
-Ehi
Penguin,
raccontami la storia di questo disperato.- fece con tono casuale,
apparendo
annoiato come sempre e non destando alcun sospetto.
Sentendosi
chiamare, il
diretto interessato drizzò le orecchie e si
schiarì la voce, contento di poter
spettegolare un poco. Lui, con la scusa di dover raccogliere dati sui
pazienti,
sapeva tutto di tutti. E poi, quello che stava sotto ai ferri in quel
momento
se lo ricordava particolarmente bene visto che per poco non gli aveva
staccato
la testa dal collo per un moto di rabbia cieca.
-Viene
dal Sud, dalla Côte
d’Azur.-
iniziò di buona lena, -E’ arrivato in
città da circa un mese per offrirsi come
volontario nella causa dei Rivoluzionari. Praticamente è
venuto qui per
combattere. Di sua spontanea
volontà.-
calcò bene le ultime parole per evidenziare quanto
quell’dea fosse stata
assurda e insensata.
Infatti
il dottore
scosse il capo. –Per quale motivo ha lasciato il caldo,
pacifico e accogliente
Sud per venire all’Inferno?-
-Bella
domanda. Potremo
chiederglielo quando si sveglierà.- propose Shachi, il
ragazzino dai capelli
ramati che non sapeva mettere assieme due frasi senza fare confusione.
Forse
era un pochino dislessico, ciò lo avevano capito tutti, ma
portavano pazienza
perché era un nuovo arrivato e anche perché aveva
superato l’esame, ovvero era
riuscito a non vomitare o svenire durante le operazioni del Chirurgo della Morte, conquistandone la
stima, oltre che a un posto di lavoro come assistente infermiere.
Praticamente
era stato nominato l’ombra di Penguin, poco entusiasta di
avere il fratello
minore alle calcagna anche a lavoro.
-Non sono
certo che
sarà cordiale, ma sei libero di provare.- affermò
il capo, chiudendo la
discussione e riprendendo a concentrarsi sulla sua opera di sutura.
Qualche
punto e il braccio sarebbe tornato quasi del tutto come nuovo. Certo,
avrebbe
continuato ad usarlo come sempre e non si sarebbe ritrovato con un
moncherino,
cosa che sarebbe di certo accaduta se a operarlo fosse stato un altro
medico e
non il migliore. Chissà se quel pezzente aveva almeno
qualche soldo per
pagarlo.
-Qui
abbiamo finito.-
dichiarò una volta che la ferita fu ricucita e disinfettata.
–Penguin, come
siamo messi con la faccia?-
-Abbiamo
pulito i tagli
e applicato alcune bende. Non rimarranno segni profondi e
tornerà come nuovo.-
affermò con orgoglio, ma poi una smorfia un po’
amara gli increspò le labbra
sottili. –Anche se devo dire che ha un naso davvero brutto.-
Il medico
sogghignò
beffardo. –Conseguenze di una frattura non sistemata in
precedenza.- spiegò
ironico, lavandosi accuratamente le mani e iniziando a riporre gli
strumenti,
aiutato dai due compagni che, nel frattempo, continuavano a parlottare
tra loro
come due vecchie signore pettegole.
-Se avete
finito di
sfottermi, io vorrei alzarmi.- grugnì ad un certo punto una
voce roca e per
niente divertita alle loro spalle, facendoli sobbalzare. Almeno, Shachi
e
Penguin si sentirono cogliere in fallo, mentre il pioniere della
medicina si
concesse un sorriso deliziato per la piega che stava prendendo la
situazione.
Era incredibile come la professione del medico gli desse
così tante occasioni
per dare aria alla sua lingua biforcuta e velenosa.
Si
girò verso il
paziente, asciugandosi distrattamente le mani e avanzando di qualche
passo per
avvicinarsi alla brandina dove lo avevano operato.
-Già
sveglio dopo
un’operazione? Sorprendente.- disse con sorpresa, o almeno,
questo voleva far
credere al rosso che lo stava fissando in modo decisamente truce, il
quale si
stava domandando se quella sottospecie di mucchio d’ossa con
le occhiaie si
stava prendendo gioco di lui o meno. –E come dobbiamo
chiamare questo uomo così
forte e coraggioso?- continuò con un ghigno il dottore.
Si,
mi sta proprio prendendo per il culo,
pensò la vittima prima di rispondere rudemente.
–Eustass Kidd. Lei chi è?-
-Quello
che non le ha
amputato il braccio.-
-E posso
sapere come si
chiama il coglione che ho di fronte?- sputò Kidd, sollevando
il capo sprezzante
e ponendo lui stesso una domanda, dando così prova della sua
poca grazia, cosa
che i tre medici avevano già dedotto in precedenza.
Il
ragazzo davanti a
lui fece una risata bassa, ma abbastanza sinistra da far accapponare la
pelle,
soprattutto per l’espressione contorta che assunse
successivamente, quasi simile
ad un sorriso demoniaco che ad altro, almeno, quello fu il pensiero del
rosso.
Non che lui avesse avuto paura, semplicemente sentiva che
quell’individuo non
era uno di cui potersi fidare. Non gli piaceva, ecco.
-Mi
chiamano Il Chirurgo della Morte,-
spiegò quello,
beccandosi un’occhiata curiosa da parte di Kidd che sembrava
non credere ad una
parola di quello che gli era appena stato detto.
Questo
è un pazzo esaltato,
si disse, pronto a prendere la sua roba e andarsene, ma poi il pazzo gli fu accanto in un attimo e
si ritrovò a chiedersi se con quella faccia macabra non
avesse sul serio
meritato quel nomignolo. Ripensandoci, gli calzava a pennello.
-Sono
Trafalgar Law.- si
presentò ghignando, -Lo tenga a mente, Monsieur
Eustass-ya.-
-E’
Eustass.- si premurò di
chiarire Kidd,
dopo qualche attimo di esitazione davanti a quel viso da schiaffi che
aveva
infranto le distanze di sicurezza che avrebbero dovuto esistere tra una
persona
normale e una malata di mente. Perché, andiamo, quello
doveva essere proprio
suonato per apparire tanto inquietante. I capelli neri spettinati; la
barbetta
lunga di qualche giorno; i vestiti sgualciti e macchiati di sangue e, che schifo, di chissà
cos’altro; due
occhi di ghiaccio e un sorriso da psicopatico. Davvero macabro da
vedere,
ancora peggio se lo si aveva a pochi centimetri di lontananza.
-Può
andare. Stia a
riposo per qualche giorno, ma domani torni qui per una visita di
controllo.- lo
avvisò il moro con uno sguardo di sufficienza, girandogli le
spalle e non
degnandolo più di altre attenzioni. Con lui aveva finito,
era arrivato il turno
di altri pazienti.
Kidd
colse al volo
l’occasione per defilarsi da quel luogo. Le gambe
funzionavano ancora bene e
probabilmente il suo amico Killer lo stava aspettando fuori per sapere
delle
sue condizioni. Se era fortunato avrebbe potuto tornare a casa con lui
e
dimenticare quella lunga ed estenuante giornata. Prima la rivolta in
piazza,
poi l’operazione e per concludere quel dottore saccente.
Decisamente doveva
buttarsi a letto e dormire.
Si
alzò con un po’ di
fatica ma, una volta testata la resistenza delle gambe, raccolse le sue
cose,
ovvero una camicia logora e una giacca autunnale, e si avviò
verso l’uscita con
i braccio fasciato legato al busto da una benda.
-Ehi.- si
sentì
chiamare prima di varcare la soglia, al che si voltò di lato
giusto per vedere
quel Trafalgar Law appoggiato al bordo del tavolo che lo fissava a
braccia
incrociate con un sorrisetto sfacciato.
Sul viso
di Kidd
apparve automaticamente una smorfia mentre si sforzava di essere
educato. –Che
vuole?-
-Faccia
attenzione a
non perdere il braccio per strada.-
-Vas te faire foutre.-
E
sbatté la porta.
Angolo
Autrice.
Buonasera
a tutti e
Buone Feste!
Grazie al
Cielo è
arrivato Natale e con esso anche la mia connessione a internet si
è
miracolosamente ristabilita dopo avermi abbandonata per più
di un mese. Non
bastava il pessimo periodaccio di novembre-metà dicembre,
pure lei si doveva
mettere a rovinarmi la vita.
Anyway,
colgo
l’occasione per fare a tutti gli Auguri
di Buone Feste, Buon Natale e Buon Anno e mi scuso anche per
essere
scomparsa, cause personali, ma eccomi di nuovo, come sempre, con
qualcosa che
era rimasto in cantiere, ma che sta procedendo, al momento, a gonfie
vele.
Da notare
che sembro
avere un feeling particolare con il sabato, ma se devo essere sincera
sono solo
in ritardo con la pubblicazione dato che era tutto pronto per la
Vigilia, LOL.
Yep,
è una nuova long,
è un’impresa complicata, ma mi ci sono
affezionata, forse per il bisogno di
evadere, forse per la disperazione di sognare sempre di più,
insomma, volevo
condividerla nella speranza di portarvi tanti sorrisi e diabete.
Non
spenderò molte
parole, la trama parla da sé e si svolge tutto durante la
Rivoluzione Francese,
uno dei miei argomenti preferiti in storia, perciò spero di
renderla bene come
lo è nella mia testa.
Temo di
incappare in
qualche imprecisione, perciò se ne trovate fatemi sapere.
Non prometto di
essere costante nelle risposte, ma spero al limite di riuscire a
inserirle
tutte nelle note alla fine dei prossimi capitoli.
Oh, e per
le frasi in
francese non so bene come organizzarmi. Insomma, se volete inserisco le
traduzioni alla fine, oppure vi lascio interpretare, ditemi voi, sono a
disposizione.
E, dato
che prendo
spunto da molte immagini che mi capitano sotto al naso, quelle ci
saranno come
sempre:
https://scontent-b-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfp1/v/t1.0-9/10393550_1579696172249219_6201799347061129791_n.jpg?oh=399bfb94ae74b6c4718ca0c07344e066&oe=55020FF0
Sabo lasciato affogare nella Senna;
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfa1/v/t1.0-9/10806412_1579696182249218_4562459023543876321_n.jpg?oh=82f6886aed4ff376432ab200a2614143&oe=5537A35D
Questa mi piaceva perché riassumeva un po’ di
personaggi in generale e volevo
metterla come copertina, ma so che ne troverò altre, quindi
diciamo che è la
prima prova, ecco;
https://fbcdn-sphotos-a-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xap1/v/t1.0-9/10625082_1579696268915876_7646465115711332191_n.jpg?oh=fa2d56b471a9e6ada13a182164d7bfec&oe=5540D7A0&__gda__=1425916057_3e8a0b62cc4420851898d4ff0cf12a4d
Come dicevo, questa è la seconda prova.
Dunque,
è una storia, è assurda, e la dedico a tutti
quelli che, come me, passano la maggior
parte del tempo a formulare pensieri, scenari, ipotesi e film mentali
con la
speranza, un giorno, di fare qualcosa di grande e di epico.
La
dedico ai sognatori; a quelli che sorridono anche se stanno male; a
quelli
persi e a quelli che non hanno problemi; a coloro che non sanno dove
sbattere
la testa e alle persone che hanno appena trovato una nuova speranza; a
quelli
che sono tristi e che piangono e a quelli che sorridono in ogni
occasione; alla
gente che ride, che urla quando parla, o che parla poco per timidezza;
a quelli
impacciati e a quelli estroversi; a quelli che non hanno paura di
niente e a
coloro che temono il giudizio degli altri; ai coraggiosi e agli
impulsivi; agli
innamorati e agli eterni single; a quelli che pensano solo ad una botta
e via e
a quelli che sognano l’amore; a chi ha fatto tutto per la
prima volta e a chi
deve ancora scoprire cosa vuol dire essere grandi; alle persone sole e
a quelle
che amano la compagnia; a chi preferisce un libro a un film e
viceversa; a chi
adora l’horror e a chi preferisce il romanticismo; a chi ha
gli occhi di un
colore impossibile; a chi non si piace e che in realtà
è speciale; a chi deve
solo alzarsi e prendersi ciò che gli spetta; a chi deve
lottare per
sopravvivere; a chi soffre e a chi si salva; a chi piace il cioccolato
e a
quelli che preferiscono il salato; a chi crede nella fortuna e a chi fa
fatica
ad andare avanti; a quelli che sono usciti da un periodo difficile e a
coloro
che sanno sempre come cavarsela; a quelli che hanno bisogno di sentirsi
sostenere e a chi fa tutto da solo; a chi è pazzo e a chi
è normale; a chi
tiene agli amici; a chi tradisce; a chi desidera una seconda occasione;
a chi
gioca col fuoco; a chi vuole raggiungere la cima; a quelli che sono
disposti a
tutto e a quelli che prendono scorciatoie; a chi subisce ingiustizie; a
chi si
comporta bene; a quelli che non si accontentano; alle persone che non
smettono
di cercare quello che vogliono; a chi non si arrende; a chi prega e a
chi non
crede in nulla; a chi ha gettato la spugna; a chi si sente morire
dentro;
a coloro che non
hanno idea di cosa
fare; a quelli che hanno paura dell’ignoto e a chi non teme
nemmeno la morte; a
chi osa; a chi vive fino in fondo; a chi se ne frega di tutto; a chi
ama i
genitori; a chi litiga col mondo; a quelli che vengono fraintesi; alla
gente
che si sente sola e abbandonata; a chi è voluto bene da
tutti; a quelli che non
vanno d’accordo con nessuno; a chi ha bisogno di un
abbraccio; a chi sogna la
gloria; a chi racconta balle; a chi sa essere sincero; a quelli che
darebbero
la vita per i loro cari; a chi ama; a chi cresce e a chi è
già troppo grande; a
chi ha l’anima in fiamme; a chi ama e a chi odia; a chi ha
tutta una vita
davanti.
Non
fermatevi, mai.
Buon
Natale a Auguri a
tutti ^^
Con
affetto e simpatia,
See
ya,
Ace.
|
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Capitolo 2 *** Deux. ***
Liberté,
Égalité, Fraternité.
Deux.
Ace
dormì della grossa
fino al mattino seguente, quando si svegliò di soprassalto
in un letto che
realizzò non essere il suo e in una stanza che non
apparteneva ad un’ala precisa
della sua abitazione in città. Ad essere sinceri, non aveva
nemmeno le pareti.
Al loro posto c’era della stoffa spessa e il ragazzo
intuì che doveva trattarsi
di una specie di tenda improvvisata. All’interno pochi
oggetti occupavano lo spazio,
non vi erano armi e la brandina sulla quale si trovava scricchiolava in
modo
precario. Non che quell’aspetto lo avesse disturbato la
notte, lui se doveva
dormire lo faceva tranquillamente ovunque, anche con la testa nel
piatto.
In ogni
caso, decise
che non aveva affatto tempo da perdere nel capire dove si trovava e,
memore dei
tragici avvenimenti del giorno precedente, scattò in piedi,
venendo però colto
da un violento capogiro che lo costrinse con un lamento a rimettersi
seduto e a
stringersi il capo con le mani per fermare il forte senso di nausea.
La testa
gli faceva
dannatamente male e dietro la nuca sentiva chiaramente la presenza di
un
bernoccolo. Provò a ricordare quello che gli era successo,
ma tutto si faceva
buio non appena tentava di riportare alla memoria quella ferita.
-Si
sarà svegliato?-
sentì una voce fuori dalla tenda, mentre due ombre si
piazzavano al di fuori di
essa.
-Ne
dubito, Marco l’ha
colpito forte.-
Ace
inarcò un
sopracciglio pensieroso, ma non ebbe modo di riflettere oltre
perché le due
figure entrarono in quello spiazzo continuando a chiacchierare e
zittendosi
stupiti quando lo videro seduto sul letto con la testa tra le mani,
pallido
come un lenzuolo, intento a fissarli spaesato.
-Oh…-
fece quello che
doveva chiamarsi Thatch, preso alla sprovvista. –Beh, mi
correggo: è sveglio.-
L’uomo
accanto a lui,
uno strano ragazzo con dei lunghi capelli neri legati in una coda e
smilzo,
annuì automaticamente, osservando con curiosità
il nuovo arrivato di cui tutti
avevano parlato per l’intera notte.
-Mi
sembra messo meglio
dell’altro.- notò.
-Puoi
dirlo forte.-
rispose il castano.
Ace, a
quelle parole,
capì che si stavano per forza riferendo a Sabo,
così i suoi occhi saettarono su
di loro, inchiodandoli sul posto. –Lui
dov’è? Come sta?- domandò categorico,
pretendendo
una spiegazione che, però, non arrivò.
Thatch si
divertì
molto, muovendosi per andare a tirare su di peso Ace, il quale non
mancò di
opporre resistenza. -Ma dai, non fare il difficile.-
scherzò, acchiappando il
moccioso con uno slancio e caricandoselo in spalla. –Non
abbiamo tempo, il
babbo ti vuole vedere.-
-Mettimi
subito giù!
Dov’è Sabo? Devo andare da lui!-
sbraitò il ragazzo, dimenandosi per poter
sfuggire a quella presa che si fece ferrea attorno alla sua schiena,
incastrandolo e obbligandolo a lasciarsi trasportare per quello che
doveva
sicuramente essere un accampamento sotto gli occhi sgranati di un
numeroso
gruppo di persone che non aveva mai visto prima. E quelli da dove
sbucavano
fuori?
-Ci
andrai una volta
che il capo avrà finito con te.- gli rese noto Thatch,
sorridendo entusiasta
all’idea di presentare quel tipetto al vecchio. Di sicuro gli
sarebbe piaciuto
dato il modo di fare poco accondiscendente.
L’accampamento
si
rivelò più grande di quello che Ace si era
immaginato. Era ben nascosto,
situato in un particolare punto verdeggiante e coperto da alti alberi e
fitte
sterpaglie. Le stoffe delle tende, inoltre, erano tutte tinte di varie
tonalità
di verde, in modo da non destare sospetti a distanza. Alcune,
addirittura,
erano state piazzate in cima agli alberi e molti stranieri ci si
arrampicavano
senza sforzo o saltavano a terra con acrobazie di vario genere.
Ace non
sapeva davvero
cosa pensare. Gli veniva quasi da scambiarli per barbari o nomadi, ma
ormai
vivevano in un mondo civilizzato, non nel medioevo!
Non si
accorse che la
passeggiata in mezzo al bosco era finita fino a quando non venne
scaraventato a
terra con poca grazia, battendo il sedere e imprecando sonoramente
contro
Thatch, il quale si fece una bella risata battendogli una mano sulla
spalla con
fare amichevole.
Ace si
rialzò
velocemente, fulminandolo furente e pronto ad insultarlo. –Tu
sei veramente…-
Una
risata cavernosa
gli fece morire le parole in bocca e si ritrovò costretto a
voltarsi per vedere
chi aveva la faccia tosta da ridere di lui, oltre che al resto di
quella
compagnia davanti alla quale era stato ridicolizzato abbastanza.
Il suo
malumore scemò
non appena si ritrovò di fronte un uomo tanto alto quanto
largo, nonché imponente. Se non fosse stato per i capelli bianchi
e per i
baffi, Ace non avrebbe mai detto che quell’uomo fosse
vecchio. Era vestito di
tutto punto, con una lunga giacca in pelle marrone, una bandana nera
che
scendeva sulla fronte, degli stivali enormi che avrebbero potuto
schiacciare un
essere umano, guanti pesanti e rivoltella alla cintola. Sembrava uno
dei pirati
delle storie che gli avevano spesso raccontato quando era piccolo e
viveva
sotto la custodia di Madame Dadan.
-Che
ragazzetto
impertinente.- vociò l’omone, facendo gelare il
sangue nelle vene di Ace che,
però, non lo diede a vedere e si riscosse abbastanza in
fretta da non fare la
figura della femminuccia terrorizzata. Così si
schiarì la voce e si preparò a
fronteggiare quell’individuo a testa alta, sfrontato come
sempre. –E tu chi
saresti, vecchio?-
Attorno a
lui cadde il
silenzio ed ebbe come la sensazione di aver osato troppo, ma ormai ci
era
dentro fino al collo in quel pasticcio, per cui tanto valeva fingere di
essere
sicuro di sé e andare avanti. Le gambe, poi, non
gli tremavano affatto.
Dopo
qualche attimo
durante il quale nessuno osò fiatare, il gigante di fronte a
lui scoppiò
nuovamente in una fragorosa risata, seguito a ruota nello stesso
istante da
Thatch, il quale non perse tempo ad affiancare Ace, passandogli un
braccio
attorno alle spalle e stringendolo a sé con confidenza.
-Sei una
costante
sorpresa, lo sai, ragazzino?- gli rese noto, scompigliandogli i capelli
e non
obbiettando quando Ace si tolse di dosso le sue mani con stizza,
risultando
ancora più buffo.
-Adorabile.-
disse
invece il ragazzo con i capelli lunghi dietro di loro in compagnia di
altre
persone che si erano avvicinate per guardare meglio la scena.
Da quando
quel moccioso
era arrivato all’accampamento il mezzogiorno precedente,
tutti non avevano
fatto altro che curiosare e fare domande sul suo conto, oltre che sulle
condizioni
dell’altro ferito che era stato affidato alle cure di Koala e
di altri due
aspiranti medici.
Ace non
ci stava
capendo nulla. Il vecchio rideva, l’idiota col parrucchino
rideva, il resto dei
presenti rideva, insomma, lui non sapeva cosa doveva fare per farli
stare zitti
e farsi portare da Sabo.
Già
era nervoso per
quella situazione, ma il suo stato d’animo non
migliorò quando, mentre si
guardava attorno con l’aria di chi crede di trovarsi in mezzo
a dei pazzi, si
accorse per caso della presenza di quel tale, Marco, con cui aveva
avuto a che
fare la mattina precedente. Lo stava guardando con una faccia niente
affatto
amichevole, ma ad Ace importò poco e non associò
la sua immagine al suo
salvatore, per niente, perché nella sua testa il biondo era
stato nominato come
la causa del suo malessere. Che fosse in debito con lui per essere
ancora vivo,
poi, era un dettaglio che poteva passare in secondo piano.
-Tu.-
sussurrò, puntandogli un dito contro
e attirando l’attenzione di Thatch e del vecchio. –Bâtard!-
Un coro
di ‘Oooh’ si
alzò alle sue spalle, ma lo
ignorò bellamente, avanzando di un passo verso la sua preda
con fare
minaccioso.
-Sai,
Izou, credo che
lo abbia chiamato bastardo.-
Non si
curò nemmeno
della gomitata che il castano diede alle costole del suo amico,
sussurrandogli poi
che avrebbero assistito ad una rissa con i fiocchi.
Marco non
sembrò per
niente colpito e uscì dalla penombra, piazzandosi affianco
del vecchio per rivolgergli
uno sguardo di sufficienza. –Che vuoi?- domandò
annoiato.
-Non
avresti dovuto
colpirmi!- sbottò il ragazzo, desideroso di prendere a pugni
quella faccia da
schiaffi. La cosa che detestava di più al mondo era venire
ignorato e quel
tizio lo stava trattando come se non valesse un soldo bucato!
Marco
fece spallucce.
–Se non avessi smesso di frignare a quest’ora il
tuo amico non sarebbe vivo.-
spiegò pacato, zittendo Ace e lasciandolo senza parole e
senza alcun argomento
con cui ribattere. Proprio come il giorno prima lo aveva freddato con
una
frase, esattamente come un moccioso ignorante.
Strinse i
pugni. Gli
avrebbe volentieri dato una lezione, ma aveva appena realizzato che
Sabo era
sopravvissuto. Doveva concentrarsi su di lui, quindi, il resto non era
importante.
-Posso
vederlo ora?-
chiese mestamente, abbassando il capo e guardando altrove, fremendo per
la
risposta.
Fu il
vecchio ad
acconsentire a quella sua richiesta, intenerito dalla preoccupazione
crescente
che si leggeva sul volto del giovane e spaesato figliolo, ordinando a
Thatch di
accompagnarlo alla tenda dove riposava il suo amico, con la promessa
che in
seguito avrebbero parlato di affari.
Ace lo
ascoltò, ma non
lo ringraziò e non promise di tornare. Come aveva precisato:
nulla aveva importanza
in quel frangente e Sabo aveva la priorità assoluta.
*
A
differenza di quello
che stava pensando Ace, Sabo se la stava passando benissimo.
Aveva
avuto gli incubi
per tutta la notte e si era svegliato più volte grondante di
sudore e bollente
come un camino acceso in preda agli spasmi, ricadendo continuamente in
uno
stato di incoscienza fino all’alba, quando aveva aperto gli
occhi con calma e
senza movimenti bruschi. Si era riscoperto pieno di bende e sotterrato
da cumuli
di coperte. Stranamente, non si sentiva del tutto al caldo, ma doveva
essere
una conseguenza della febbre. Sicuramente si era beccato una bronchite
visto
che la tosse lo aveva tartassato anche nel sonno.
A parte
la stanchezza,
la sonnolenza, il freddo, l’influenza e il dolore lancinante
al fianco, stava
alla grande.
O almeno,
era quello
che voleva far credere a tutti i costi.
-Avanti,
devo
disinfettare la ferita.-
Insomma,
mica poteva
farsi vedere debole davanti ad una ragazza così gentile e,
si, tutto sommato
anche carina, ecco. Non bella, lui non aveva tempo per pensare certe
cose e la
sua vicinanza non gli faceva assolutamente nessuno tipo di effetto, ma
doveva
per forza ammettere che non era nemmeno così brutta. E
comunque, quei capelli
ramati e quegli occhi azzurri e pieni di bontà non lo
avevano affatto colpito,
figuriamoci.
Non
voleva sembrare un
moribondo e da un pezzo stava cercando di convincerla che si sentiva
benissimo
e che avrebbe anche potuto alzarsi per dimostrarglielo, ma lei non ci
cascava.
Lo ascoltava, lo guardava con un misto di divertimento ed esasperazione
e,
infine, sorrideva e ritornava all’attacco con bende e vasetti
di poltiglie
maleodoranti, chiedendogli gentilmente di scostare le coperte per
medicarlo.
-Ti
ripeto che non
serve. Guardami,- colpo di tosse, -Sono in splendida forma!-
La
ragazza sospirò,
poggiando sul tavolino accanto al letto garze e medicine per poi
tornare ad
osservare il ragazzo che da quella mattina stava facendo i capricci.
Non
riusciva a capire se era in imbarazzo o se semplicemente avesse paura
dei
dottori.
-Ascolta,-
iniziò per
la millesima volta con pazienza, -Sei vivo per miracolo. Lascia almeno
che
controlli se i punti sono puliti.- lo pregò, allungando un
braccio verso il suo
busto, ma non arrivò mai a destinazione, venendo bloccata
dalla mano del
ragazzo che la afferrò per un polso, alzando un poco la
schiena per avvicinarsi
al suo viso.
-Non
è necessario.- le
disse ammiccando, sperando di riuscire a farla desistere usando come
carta
vincente quel po’ di quel fascino che credeva di avere, e
che, oltretutto,
aveva davvero, peccato che davanti a lui non ci fosse una di quelle
ragazze
qualunque del locale di Dadan che svenivano ogni volta che lui passava
e che lo
veneravano solo perché era un Rivoluzionario.
Infatti
lei rimase
impassibile, scoppiando a ridere e lasciandolo di stucco quando gli
poggiò una
mano sulla fronte per rispedirlo sdraiato sul letto con un movimento
deciso.
–Con me non funziona, Sabo.- lo informò sorridente.
-Oh,
andiamo Koala, non
mi servono cure!- si lamentò quello, dando sfogo alle sue
lamentele. Le aveva
permesso di imbottirlo di sostanze schifose e brodaglie per
l’intera notte, a
tutto c’era un limite però!
-Smettila
e fatti
curare.- lo riprese bonariamente, evitando una manata in viso e
ignorando la
serie di lamenti, scongiure e isterismi, riuscendo a strappargli via le
coperte
di lana e lasciandolo allo scoperto con addosso solo i pantaloni e i
bendaggi.
-Fa
freddo!- strillò
allora il ragazzo, cercando di coprirsi.
Koala
alzò gli occhi al
cielo, chiedendosi se aveva a che fare con un adulto o con un bambino,
e,
afferrate le bende e il disinfettante, un estratto di erbe, si sedette
sul
bordo del letto con l’intento di controllare la ferita.
-Forza,
mettiti seduto
e appoggia la schiena sui cuscini.- gli disse, sospirando sollevata
quando lui
obbedì imbronciandosi. Finalmente era riuscita a spuntarla
dopo ore di tentativi andati in
fumo.
Sciolse i
bendaggi
attorno al costato con precisione, concentrata sul suo lavoro, o
meglio, lo
sarebbe stata se Sabo non l’avesse fissata in quel
modo così insistente.
-Lo
faccio per il tuo
bene.- si sentì in obbligo di spiegare, sperando che
spostasse l’attenzione
altrove. Ovunque, tranne che addosso a lei. Non le piaceva quando la
gente la
studiava in quel modo, la metteva in soggezione e la faceva sentire
insicura e,
a volte, inadeguata.
Sabo
sbatté le palpebre
e si riscosse dai suoi pensieri, scrollando il capo. –Lo so,
l’ho capito.-
chiarì.
Pensavo
ad altro,
realizzò
nella sua mente, ma non lo disse alla ragazza. Non ce n’era
bisogno di
rivelarle che il colore dei suoi capelli gli piaceva perché
era solo un
ragionamento senza senso.
Rimasero
in silenzio e
Koala poté medicare i punti e cambiare le bende, evitando
così infezioni che
avrebbero peggiorato le condizioni del ragazzo. Doveva solo attendere
che gli
passasse anche la bronchite che aveva preso per colpa
dell’acqua gelida e
sarebbe tornato come nuovo nel giro di qualche settimana, se tutto
andava bene.
Gli stava
applicando la
stoffa sterilizzata e pulita attorno al fianco, bisticciando con lui
per farlo
stare fermo, quando entrò qualcuno nella tenda senza
preavviso.
-E io che
credevo che
te la stessi passando male.- constatò una voce leggermente
canzonatoria, ma
sollevata.
Koala
arrossì per il
significato della frase e si allontanò come scottata,
esattamente come fece
Sabo, sbattendo la testa nella testiera del letto per la
velocità del
movimento.
-Cazzo,
che botta!-
sussurrò, massaggiandosi la nuca e sentendosi stringere in
una morsa l’attimo
dopo. Strinse i denti per non gemere di dolore. Era ancora un
po’ acciaccato,
ma non avrebbe mai rinunciato all’abbraccio fraterno di Ace
che, fino a poche
ore prima, aveva creduto di averlo perso per sempre.
-Mi hai
fatto prendere
un colpo, brutto idiota.- lo riprese il corvino, non accennando a
volersi
staccare da lui.
-Beh,
qualcuno doveva
pur levarti dai guai.- ironizzò Sabo, tossendo quasi
soffocato e facendo si che
Ace si rendesse conto di stare stringendo troppo la presa delle braccia
attorno
al suo collo.
-Lo sai
che mi posso difendere
da solo.- gli ricordò, lasciandolo libero di respirare e
sedendosi a gambe
incrociate accanto a lui, felice di saperlo fuori pericolo.
Perché, insomma, se
stava seduto e chiacchierava voleva dire che non stava per morire.
Una
risatina sarcastica
fece si che Ace scoccasse un’occhiataccia verso Thatch, il
quale non era del
tutto convinto che il mocciosetto fosse così forte, ma
stette ben attento a non
fare commenti, alzando le mani in segno di pace.
-Allora,
come ti
senti?-
-Magnificamente!-
mentì
Sabo, cogliendo al volo l’occasione per poter mettere fine a
quella tortura.
Non era fatto per stare fermo e voleva ottenere il permesso di potersi
alzare
il prima possibile. Peccato che non tutti erano d’accordo con
lui.
Koala,
infatti, ad
un’occhiata interrogativa di Thatch scosse il capo,
rispondendo per le rime
allo sguardo contrariato del biondo con una smorfia per chiudere la
questione.
-Come sta
davvero?-
domandò allora Ace, dopo aver assistito a quello scambio di
occhiate
contrastanti. Anche se non la conosceva, la ragazza sembrava quella di
cui ci
si potesse fidare di più in quell’accampamento. E
poi Sabo era vivo, doveva pur
contare qualcosa quell’aspetto.
Lei fu
sincera,
ignorando lo sguardo supplichevole del biondo che la pregava di mentire
per
lui, inutilmente. –Ha superato la notte e la ferita
è stata richiusa, ma ha
preso la bronchite e avrà bisogno di tempo per riprendersi.
Se la tosse
peggiora e si trasforma in colera non so quante possibilità
avrà.-
Le
dispiaceva doverlo
dire, ma era la verità e non voleva di certo che quel
ragazzo morisse, non dopo
che aveva faticato tanto per salvarlo e ricucirlo. Sarebbe stato tutto
inutile,
allora.
Ace
scoccò
un’occhiataccia a Sabo, il quale sfoggiò
un’espressione angelica ed innocente,
cosa che gli riusciva perfettamente di solito, solo che quella volta
non
incantò nessuno.
Che
diavolo, cosa è preso a tutti oggi? Non mi ascoltano
più, pensò
irritato, mentre suo fratello
iniziava a fargli la paternale.
-Appena
torniamo a casa
non uscirai per un mese!- stava dicendo Ace.
-Te lo
puoi scordare!
C’è in ballo una Rivoluzione, l’hai
dimenticato?-
-Non se
ne andrà da qui
fino a che non sarà guarito del tutto.- decretò
Koala alle loro spalle,
interrompendo il battibecco e fissandoli seria in volto.
-Scusami?-
chiese a
quel punto Sabo, anche lui senza traccia di scherzo nella voce. Koala
era stata
gentilissima, fantastica fin da subito. Gli aveva tenuto compagnia e si
era
presa cura di lui tutta la notte, sopportando le sue chiacchiere per
l’intera
mattinata e dandogli anche qualcosa di caldo da mangiare. Gli era
simpatica, ci
andava stranamente d’accordo e avevano anche fatto amicizia;
insomma, non era
male, ma lui era un Rivoluzionario e aveva una città da
difendere. Non poteva
perdere tempo a rimettersi in forze ed era pronto a dimenticare la sua
gentilezza se fosse stato necessario a ritornare a casa.
Koala
sembrò capirlo,
ma non era una stupida e il suo lavoro lo faceva con
professionalità. Se avesse
permesso a Sabo di andarsene, sapeva che non avrebbe resistito a lungo.
La sua
condizione era ancora troppo instabile e poteva esserci una ricaduta.
Così
prese un respiro
profondo e, spalleggiata da Thatch accanto a lei, ripeté la
sua diagnosi. –Non
hai il permesso di uscire di qui, non finché non ti sarai
rimesso.-
Sabo la
fissò in
silenzio per qualche istante, i muscoli delle braccia tesi e
l’espressione
impenetrabile. Non sembrava affatto il ragazzo solare che era stato
fino a
qualche minuto prima, ma Koala avrebbe dovuto immaginarlo. Dopotutto,
era un
combattente.
-Ace,-
disse ad un
tratto, -Aiutami ad alzarmi. Ce ne andiamo. Ora.-
scandì con precisione.
La
sorpresa più grande
venne proprio dal suo amico, il quale aveva miracolosamente capito la
gravità
della situazione. Così, dopo avergli rivolto uno sguardo di
scuse, gli mise una
mano sul petto per fermare la sua avanzata. –Sabo, credo che
dovresti
ascoltarla.- affermò pacato, mentre l’altro
strabuzzava gli occhi e gli
domandava se era per caso diventato matto.
-Gli
altri ci staranno
aspettando!- ringhiò arrabbiato, -Non sanno dove siamo! E
Rufy? A lui non
pensi?-
In quel
momento, Ace
strinse i denti e si trattenne dal prendere a pugni l’amico,
irrigidendo la
postura e facendo capire a Sabo di aver esagerato. Ovvio che pensava a
Rufy,
non aveva mai smesso di farlo da quando si era svegliato e aveva
già deciso che
sarebbe andato a liberarlo il prima possibile e con tutto
l’aiuto di cui
disponeva. Ma non poteva farlo in quelle condizioni, con Sabo allo
stremo e
sperduti in mezzo alle paludi in compagnia di gente sconosciuta. Doveva
prima
capire come allontanarsi da lì, con lui in salute e fuori
pericolo, si
intendeva.
-Ace,-
riprovò il
biondo con più calma, -Sto bene.-
Il moro
sospirò,
prendendosi la testa fra le mani e pensando ad una soluzione
soddisfacente. Un
lampo di genio lo colse inaspettatamente per sua fortuna.
-Andrò
a chiamare
Trafalgar.- decretò sorridente, -Lo farò venire a
visitarti e sentiremo anche
il suo parere, così potrai…-
-Non
credo che te lo
lasceremo fare, ragazzino.- lo informò una voce allegra alle
sue spalle. I due
si voltarono a fulminare Thatch con gli occhi, il quale
sfoggiò un sorriso per
niente intimorito e si spiegò meglio.
–Già è un problema che sappiate del
nostro nascondiglio, figuriamoci se vi permetteremo di andarlo a
sbandierare in
giro. Anzi,- aggiunse poi, assumendo un’aria che voleva
essere pericolosa e
minacciosa, -Potremo anche decidere di uccidervi.-
Koala
roteò gli occhi
al cielo, scuotendo il capo e ripetendosi che quel ragazzo era senza
speranza,
mentre Sabo ed Ace si guardarono scettici. Non ci era voluto molto per
capire
che non rischiavano affatto la vita; dopotutto, anche se erano degli
intrusi,
quelle persone si erano comunque adoperate per salvare la vita ad
entrambi.
Fu Ace a
spezzare quel
silenzio imbarazzante. –Bene, allora io vado.-
dichiarò tranquillo,
rivolgendosi poi solo a Sabo. –Tornerò prima di
sera con Law, va bene? Tu cerca
di fare quello che ti dice la ragazza.-
Sabo mise
il broncio e
borbottò qualcosa infastidito, ma alla fine
acconsentì e lo lasciò andare, affondando
sotto le coperte una volta che tutti furono usciti, deciso ad
addormentarsi, o a fare finta di dormire,
per ignorare
Koala.
Voleva
farla sentire in
colpa, ma aveva sbagliato i suoi calcoli. Per lei, coloro che si
comportavano
in quel modo, non erano altro che dei bambini, perciò,
nonostante tutta la sua
bontà, lo lasciò a cuocere nel suo brodo e
uscì dalla tenda. Si sarebbe data
una ripulita e avrebbe fatto due passi per rilassarsi.
Certo che
i francesi
erano proprio testardi.
*
-Frena,
ragazzino, dove
pensi di scappare?- fece Thatch, afferrando Ace per la collottola e
facendogli
cambiare direzione, spingendolo verso l’interno
dell’accampamento per
riportarlo dal babbo.
-Oh, e
lasciami! Lo so
che non mi ucciderai.- si lamentò quello, dimenandosi per
togliersi di dosso
quel piantagrane. Peccato che il castano, oltre ad essere
più grande, fosse
anche il doppio di lui, così ogni suo tentativo di liberarsi
fu vano.
-Potrei
cambiare idea.-
scherzò Thatch, ammiccando nella sua direzione. Quel
mocciosetto lo divertiva
parecchio: era simpatico e sveglio, forse un po’ pestifero e
svampito, con
l’aria di un disperato, e anche un po’ poveraccio,
ma erano tutti dettagli!
Sembrava in gamba e aveva un caratterino davvero interessante, inoltre
aveva
dato del bastardo a suo fratello Marco, quindi aveva per
forza la sua simpatia e quella di metà della
famiglia. Era a
buon punto, di certo non sarebbe morto stecchito in quel campo.
Arrivarono
dal babbo
con un sottofondo di imprecazioni, bestemmie e minacce fatte a vuoto e
solo
quando gli furono di fronte Thatch si permise di spintonarlo in avanti,
finendo
per far cadere il più piccolo a terra per la seconda volta
in quel giorno.
Forse stava esagerando, doveva darsi una controllata.
Ace non
mancò di
incendiarlo con lo sguardo prima che il vecchio, trattenendo una
risata, si
decidesse ad attirare l’attenzione di tutti su di lui.
-Allora,
qual è il tuo
nome?- lo interrogò.
-Non sono
affari tuoi.-
gli venne risposto.
-Si
chiama Ace.-
-Spione.-
-Piantatela
di fare i
bambini voi due.- li sgridò Marco, il quale stava
raggiungendo il limite della
pazienza. Non bastava Thatch che si comportava da deficiente ogni santo
giorno,
doveva pure capitargli uno che gli tenesse testa e che lo incitasse a
dare il
peggio di sé.
Il
vecchio rise
sommessamente, riprendendo poi da dove aveva interrotto e tirando in
ballo un
argomento piuttosto delicato. –Dimmi, Ace, tu da che parte
stai?-
A quella
domanda, il
ragazzo drizzò le orecchie e si mise sull’attenti.
Aveva capito che l’uomo si
stava riferendo alle due fazioni che dividevano Parigi in quel periodo
e che si
facevano la guerra per le strade, perciò decise di essere
serio per quella
volta.
-Sto con
i Rivoluzionari.-
rispose fiero, drizzando le spalle e alzando il mento. Non era un
atteggiamento
di sfida il suo, solo era orgoglioso di quello che era e ogni occasione
era
buona per dimostrare che credeva negli ideali della Rivoluzione.
-Quindi
vuoi far
capitolare la Corona?-
-Farò
di tutto affinché
accada.- dichiarò sicuro.
-E adesso
vorresti che
io ti lasciassi libero, giusto?-
Ace
nemmeno immaginava
di essere un prigioniero. –Si,- rispose comunque, -Ho un
fratello da liberare,
dei compagni da cui tornare e una nuova rivolta da organizzare.-
rivelò senza
esitazione. Era un tipo impegnato, lui.
Tutti si
fecero
stranamente silenziosi per i minuti successivi, tanto che Ace si
preoccupò di
essere finito in mezzo a degli ufficiali in incognito. Dopotutto, non
era da
escludere quella ipotesi visto che non si fidavano ancora a lasciarlo
andare.
Poteva essersi messo nel sacco con le sue stesse mani, ma decise che
non gli
importava. Sarebbe morto per difendere quello in cui credeva.
Alla
fine, una mano si
abbatté sulla sua spalla e si ritrovò accanto un
ghignante Thatch, intento a
fissare in modo complice il vecchio davanti a loro, il quale non
mancò di
rispondere al sorriso.
-Molto
bene allora.-
annunciò, alzandosi dalla sedia per andargli incontro,
-Sappi che potrai
contare anche sul nostro aiuto.-
-Cosa?-
domandò Ace
isterico, indietreggiando per non essere raggiunto, azione del tutto
inutile
dato che l’uomo allungò un braccio e lo
afferrò prima che potesse allontanarsi
troppo, stringendolo in una specie di abbraccio che sembrava
più un tentativo
di omicidio per soffocamento che altro.
Non ci
stava capendo
niente e quando anche Thatch gli saltò addosso, tutto
contento e felice come
una Pasqua, credette di aver preso un abbaglio. Che diavolo era
successo?
-Non fare
quella
faccia, non dirmi che non hai mai sentito parlare di Barbabianca!- gli
urlò il
castano nelle orecchie, lasciandolo intontito.
Barbabianca.
Barbabianca? Dove ho già sentito questo nome?
-E’
solo il vecchio più
rivoltoso di tutta l’Inghilterra.- gi spiegò
subito dopo il castano, vedendolo
perplesso.
Ace si
illuminò come
una lampada a olio. Oh, quel Barbabianca!
Quando
era ancora un
bambino e lavorava come sguattero a Montmartre gli era giunta voce di
un Lord
inglese trasferitosi nel Nuovo Mondo, un certo Edward Newgate, detto
Barbabianca, ricco quasi quanto il Re d’Inghilterra, ma poco
disposto ad
accettare la supremazia della Famiglia Reale e la condizione di dover
cedere
metà delle sue terre oltre a dover obbligare i suoi figli ad
arruolarsi nella
milizia per servire al meglio la Patria. Quando, inevitabilmente, era
scoppiata
una guerra di interessi tra l’America e il Regno Unito, dal
quale aveva dipeso
per anni, i giornali non avevano parlato d’altro per mesi,
raccontando del suo
contributo alla causa, della fuga dalla città portuale dopo
l’arrivo dei
marines inglesi, del casino al porto, con tanto di rivolta popolare e
incendio,
del furto di una nave della Marina e della successiva scomparsa. Lo
avevano
creduto morto a causa di una tempesta improvvisa scoppiata in mare
aperto
mentre era diretto chissà dove ma, a quanto pareva, sia lui
che la sua famiglia
stavano bene e se la godevano alla grande.
-Non ci
posso credere.-
sussurrò incredulo, faticando a chiudere la bocca, aperta
per lo stupore.
Quell’inglese aveva fatto perdere le sue tracce, scampando
alla pena capitale e
mettendo in salvo tutti i suoi cari. Era una leggenda dalle sue parti e
ricordava che, più di dieci anni prima, tutti i mocciosi,
lui compreso, che
scorrazzavano per strada avevano stressato gli animi degli abitanti,
dando
fuoco a qualsiasi cosa nelle vie dei sobborghi, per un pezzo dopo che
la
notizia aveva raggiunto quelle terre.
-Quante
storie, sono
solo un povero vecchio.- si giustificò Barbabianca con
modestia.
-Ti
abbiamo lasciato di
stucco, eh?- ridacchiò Thatch.
-Sorpreso,
piccoletto?-
lo prese in giro Marco, passandogli accanto e superandolo con una
spallata
provocatoria che lo riscosse.
Il moro
ci rifletté per
un istante, mentre un’idea e un piano malefico e contorto gli
balenavano nella
mente. Se era vero che il vecchio Newgate era disposto a prendere parte
alla
Rivoluzione, allora era più che benvenuto.
Ace si
schiarì la voce
e fronteggiò il vecchio, ignorando la sgradevole sensazione
di essere più basso
e gonfiando il petto per apparire più grosso e meno
mingherlino.
-Barbabianca,
voglio
parlarti!-
Avevano
un sacco di
cose su cui discutere.
*
Freddo.
Freddo e buio.
Erano quelle le uniche cose che lo circondavano da quel fatidico
mattino,
quando il mondo aveva deciso di rivoltarsi contro di lui e iniziare a
fargli
patire le pene dell’Inferno. Perché era di quello
che si stava parlando, dato
che i suoi nemici erano nientemeno che diavoli, e per giunta della
peggior
specie.
Avevano
rinchiuso il
ragazzino a in una cella angustia e sporca, con le assi del pavimento
marce e
dure, mangiate dai tarli e corrose dall’umidità; a
terra, in un angolo, c’era
un mucchietto di paglia bagnata e puzzolente che solo a starci vicino
faceva
venire la nausea, mentre tutt’attorno c’erano
sbarre di ferro irremovibili e
senza nemmeno una via d’uscita. E c’era silenzio,
troppo, rotto solamente dal rumore
di passi delle guardie lungo i corridoi e dai lamenti, alle volte
strazianti,
del resto dei carcerati. Ad ogni modo, Rufy si sentiva solo.
Ah
giusto, c’è Orazio con me,
pensò sarcastico, rivolgendo un’occhiata
disgustata ad un ammasso di stracci e
carne in decomposizione gettato in una posa inquietante nella cella
accanto
alla sua. Probabilmente quello che rimaneva dell’ultimo
prigioniero dimenticato
da tutti. Appena l’aveva notato si ero sentito cedere le
gambe e rivoltare lo
stomaco, tanto che era stato costretto a tapparsi con forza la bocca
per non
urlare o vomitare. La scena era stata raccapricciante e la paura di
finire in
quel modo si era insinuata con forza dentro di lui, nonostante avesse
cercato
di scacciarla.
A conti
fatti, però,
cosa gli importava di morire? Non gli era rimasto più
nessuno in quella vita e
il dolore per la perdita dei suoi cari bruciava più di mille
ferite. Non era
giusto che un ragazzo di soli diciassette anni dovesse patire tutte
quelle
sofferenze. Quando avrebbe avuto fine quella tortura?
Affiancato
al pensiero
della Morte, però, ce n’era anche un altro, ovvero
quante speranze poteva avere
di riuscire a fuggire. Aveva già provato a forzare la
serratura o a trovare una
crepa nelle pareti per riuscire in qualche modo ad uscire, ma era stato
tutto
inutile e vano. Sembrava che quello fosse il suo destino: bloccato in
una cella
a piangere tutte le sue lacrime e ad aspettare il momento del trapasso.
Stava
appunto vagliando
la possibilità di lasciarsi morire di fame, quando, ad un
tratto, qualcosa
attirò la sua attenzione e lo fece scattare in allerta con
il cuore in gola.
Uno scricchiolio sinistro in un angolo lontano delle segrete che si
ripeté per
un altro paio di volte, come dei passi che si facevano sempre
più vicini.
Smise
persino di
respirare e osservò attento i contorni scuri della prigione
nel tentativo di
scorgere qualcosa nonostante la poca luce presente che gli permetteva
solamente
di riuscire a vedere le celle di fronte e di fianco alle sue.
-Avete
capito male! E’
tutto un grosso equivoco!- sbraitò all’improvviso
la voce di un detenuto in
lontananza, la quale si faceva sempre più forte e acuta mano
a mano che si
avvicinava.
Rufy
sospirò e si
adagiò a ridosso della parete fredda. Da quando era stato
rinchiuso ne aveva
viste circa cinque di scene come quella. Le guardie non si stancavano
mai di
catturare le persone?
-Sta
zitto, non hai il
diritto di parlare.- sancì un secondino con tono duro.
-Ascoltatemi!-
insisteva il poveraccio, disperato. –Io non ho fatto niente,
sono innocente vi
dico!-
Nessuno
lo ascoltò,
ovviamente, e il nuovo arrivato venne scaraventato senza grazia dentro
alla stessa
cella di Rufy, il quale si scansò appena in tempo per
evitare di venire
investito dal corpo del suo nuovo compagno, fresco di arresto.
Chissà cosa
aveva combinato.
Le sbarre
furono
richiuse a chiave con un suono metallico e gli ufficiali se ne andarono
velocemente, ignorando gli isterismi di quello strano individuo e
lasciandolo a
strillare da solo.
L’uomo
tirò un calcio
alla prigione, stizzito e arrabbiato. –Bastardi.-
sputò.
Rufy, che
se ne era
rimasto buono fino a quel momento, si rannicchiò a terra,
osservando meglio il
tizio dall’aria famigliare, il quale continuò ad
imprecare per la successiva
mezz’ora senza accorgersi di essere in compagnia.
-Dannazione,
come
faccio ad uscire di qui adesso?- si lamentò, grattandosi il
capo e guardandosi
attorno con fare dubbioso. Nell’osservare la cella si accorse
della presenza di
uno scheletro e la sua faccia impallidì per il disgusto.
Rufy,
invece, si
illuminò in quell’istante. –Scusa,-
disse educato, ma spaventando ugualmente a
morte l’altro prigioniero, il quale credette per un istante
che il deceduto
avesse parlato. -Anche tu vuoi andartene?-
-Mon Dieu,
un morto che parla! Guardie! Guardie, vi prego, aiutatemi!-
Una mano
si appoggiò
sulla sua spalla e la paura fu così tanta che il poveretto
crollò svenuto nel
giro di pochi secondi.
Quando
rinvenne con la
sensazione di essere preso a schiaffi, si ritrovò faccia a
faccia con un
ragazzino dall’aria distrutta che non aveva visto prima.
Forse era arrivato da
poco mentre lui aveva perso i sensi. Poi il ricordo dello scheletro
parlante
gli invase la mente e gli venne la pelle d’oca.
Abbracciò
il più
piccolo e lo trascinò dall’altro lato della cella,
tremante.
-Ascolta,
amico, non
avvicinarti a quell’ammasso di ossa. E’ posseduto!-
Rufy
inclinò il capo,
leggermente in imbarazzo. –Uh? Ma no, cosa dici, prima ero io
che parlavo. Tu
non mi hai semplicemente visto.- gli spiegò mortificato,
sorridendo colpevole
quando l’uomo iniziò ad inveire contro di lui non
appena scoprì la verità.
-Pazzo!
Ti rendi conto
della paura che ho preso?- sbraitò inferocito. Aveva fatto
una pessima figura e
sarebbe stato un disastro se si fosse venuto a sapere in giro. Lui, la Leggenda Vivente di tutta Parigi,
spaventato da un moccioso burlone. Totalmente assurdo.
Si
voltò per vederlo
bene in faccia per ricordarne i tratti con lo scopo di ucciderlo il
prima
possibile, quando, guardandolo meglio, un brivido gli corse lungo la
schiena.
-Ehi,
aspetta un
momento,- farfugliò indietreggiando, -Io ti conosco! Tu sei
Rufy, il fratello
di Ace!-
-Conoscevi
mio
fratello?- chiese il ragazzino, sentendo qualcosa incrinarsi nel suo
petto e
gli occhi farsi lucidi. Non era una novità, Ace era
conosciuto e benvoluto da
tutti in periferia.
-Certo
che si! Siamo grandi
amici!- affermò l’uomo, annuendo convinto e
raccontandogli di quella volta in
cui il ragazzo in questione era capitato nella taverna dove stava
festeggiando
e si era messo a mangiare e a bere con lui e i suoi compagni di
contrabbando
senza essere stato invitato. Un paio di spiegazioni e una scazzottata
avevano
sistemato tutto e i due erano andati subito d’amore e
d’accordo.
-Non mi
sembra che mi
abbia mai raccontato di te.- confessò Rufy, pensieroso.
-Come
è possibile? Io
sono Bagy, Bagy il Clown! Sono
famosissimo in città!-
-Bagy?-
quel nome gli
diceva qualcosa, in effetti.
-In
persona!
Impossibile che tu non sappia di me!-
-Mhm, sei
quello che è
stato sfrattato da palazzo e dalla compagnia teatrale?-
azzardò Rufy,
ricordando lo scandalo di cui avevano parlato per giorni i giornali. A
quanto
pareva un teatrante di corte, ricercato per aver messo le mani nelle
casse
reali, aveva tentato di truffare i cittadini fingendosi un pagliaccio
del circo
di nomadi che, puntualmente, faceva la sua apparizione a Parigi una
volta ogni
due mesi. Doveva per forza trattarsi di lui perché quei
capelli
inspiegabilmente azzurri, probabilmente una parrucca, e quel naso
rosso, senza
dubbio finto, potevano appartenere solamente ad un clown.
-Tutte
chiacchiere
senza fondamenta.- ribatté quello piccato. Possibile che la
gente non avesse un
minimo di rispetto per la sua persona? Maledetta quella volta in cui
aveva
smesso di fare il ladro professionista per iscriversi a recitazione.
Rufy
ridacchiò,
sinceramente divertito da quello strano tipo. Aveva sentito anche altre
storie
sul suo conto, per esempio che fosse un ladro e un assassino, ma non
era
affatto intimorito. Anzi, gli stava parecchio simpatico.
Chissà da che parte
stava.
Decise
che glielo
avrebbe chiesto prima o poi, ma aveva altre questioni da risolvere, per
esempio
escogitare un modo per uscire da quella misera prigione.
-Senti,-
proruppe, interrompendo
lo sproloquio di Bagy senza scusarsi, -Tu hai qualche idea su come si
possa
evadere da qui?-
Bagy lo
guardò come se
fosse impazzito. Quel moccioso aveva sul serio chiesto se esisteva un
modo per
andarsene? Va bene che non aveva la faccia di uno sveglio, ma non
immaginava
che potesse essere così ingenuo.
-Ragazzino,
ma hai una
vaga idea di dove siamo?- domandò, fissandolo interrogativo.
Rufy fece
spallucce.
–No.- rispose, quasi con ovvietà.
E’
stupido, pensò
Bagy,
scuotendo il capo. Sospirò sconsolato, allargando le braccia
come a voler
abbracciare l’intero edificio. –Siamo
rinchiusi nella Bastiglia, la Fortezza inespugnabile, il Santuario
delle Forze
dell’Ordine, l’Inferno dei carcerati, il Punto di
non ritorno!- terminò
macabro.
-E
allora?- gli venne
chiesto con indifferenza, ma a quel punto la sua pazienza si era
esaurita.
Afferrò
il moccioso e
lo scrollò a destra e a sinistra senza curarsi di fargli
male. Probabilmente
dovevano averlo torturato prima di rinchiuderlo, altrimenti non si
sarebbe
spiegato quella sua ingenuità.
-Sei
sordo? Ho detto la Bastille!-
Rufy si
grattò la
testa, pensieroso. Certo, aveva capito che stavano parlando del
penitenziario
peggiore della città, quello enorme e brutto, senza colori,
ma perché Bagy
continuava ad agitarsi? Era una prigione come un’altra,
potevano benissimo
evadere.
Si
guardò attorno per
farsi una migliore idea dell’angusto spazietto a loro
riservato, fermandosi ad
osservare la piccola finestrella che lasciava passare un filo di luce e
aria
pulita. Avrebbero usato quell’apertura per mandare un
messaggio o per segnalare
la loro posizione ai compagni, di certo se ne sarebbero accorti quando
avrebbero fatto le ronde in incognito.
-Prendimi
in braccio.-
ordinò al suo nuovo amico, saltandogli addosso e
arrampicandosi sulle sue
spalle senza attendere nemmeno il permesso.
-Ehi, ma
che fai?
Levati di dosso, moccioso!-
-Fermo,
vai più a
sinistra! No, non da quella parte, à
gauche!-
Rischiando
di cadere e
di perdere l’equilibrio più volte, in un
sottofondo di borbotti, insulti e
maledizioni che destarono anche il resto dei prigionieri nelle celle
affianco,
i quali allungarono il collo oltre le sbarre per curiosare e scoprire
chi aveva
tante energie da sprecare facendo baccano, Rufy riuscì ad
aggrapparsi al
ripiano della piccola finestra e a sporgersi verso l’esterno,
guardando in basso.
Non
immaginava che
fossero così in alto, ma non sarebbe stato un problema.
Si tolse
la camicia
rossa che stava indossando e la legò alle sbarre,
assicurandosi che sventolasse
fuori in modo da essere visibile ai passanti. Era certo che a qualcosa
di buono
sarebbe servito.
-E adesso
che si fa?-
gli domandò Bagy una volta che il ragazzino tornò
con i piedi per terra,
sedendosi accanto a lui con un sospiro stanco e dalla nota rassegnata.
Rufy
tirò su col naso,
stringendosi nelle spalle. –Aspettiamo.- disse semplicemente,
starnutendo
l’istante dopo. –Ohi, prestami la tua giacca, ho
freddo.-
-Te lo
puoi scordare,
brutto impiastro!-
All’imbrunire,
Rufy
aveva guadagnato un nuovo cappotto e Bagy si malediceva per aver
indossato una
camicia troppo leggera quando era uscito di casa quella mattina.
Angolo
Autrice:
Buongiorno
^^
Sono un
po’ di fretta,
se ci sono errori li correggerò presto perché,
anche se il capitolo era già
pronto, mi sono presa all’ultimo per rivederlo e or il lavoro
mi aspetta,
stasera ci sarà un bel diciottesimo da festeggiare, la notte
sarà giovane e io
domani sarò uno straccio. YEEEE.
Dunque,
per chi non ci
stesse capendo un accidente avviso che dal prossimo capitolo si
capiranno molte
più cose, questa è ancora
un’infarinatura generale.
Qualcuno
si è chiesto
cosa ci facesse Koala con la ciurma di Barbabianca. Beh, diciamo che mi
serviva
una scusa per far prendere a Sabo una bella cotta per lei ^^ Non
sarà tutto
canon, alcune cose le ho cambiate per comodità, ma
più o meno non distruggerò tutte
le basi di OP.
Bene,
capitolo
revisionato e corretto, con aggiunta di immagini che ieri non sono
riuscita a
mettere ^^
https://scontent-b-cdg.xx.fbcdn.net/hphotos-xap1/v/t1.0-9/s526x296/1902824_1583276841891152_4008948130538364570_n.png?oh=2d9177ccd03f648613715792206d7e18&oe=552C29E0
Bagy.
https://fbcdn-sphotos-b-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xpa1/v/t1.0-9/10885591_1583276805224489_745714689518258276_n.png?oh=7672c3c7cfa0c78f62ecdfb3592d3145&oe=5534E665&__gda__=1429690845_555714e3aa00b78261d12e920fd8953a
Marco.
https://scontent-b-cdg.xx.fbcdn.net/hphotos-xap1/v/t1.0-9/10849894_1583276771891159_5150425834204807030_n.jpg?oh=60bf3ed7d2608275a60f3eb0ca15d395&oe=55305DBD
Thatch.
Ringrazio
tutti per le
recensioni al capitolo scorso, mi fa davvero piacere che abbiate
apprezzato l’idea
^^ e grazie anche ai vecchi e ai nuovi lettori.
Alla
prossima
settimana!
See
ya,
Ace.
|
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Capitolo 3 *** Trois. ***
Liberté,
Égalité,
Fraternité.
Trois.
Marco era molto
scettico riguardo la decisione presa da Barbabianca. Era passato
già molto tempo
da quando avevano lasciato l’America in fretta e furia,
braccati da quelli che
una volta avevano chiamato amici, confratelli, famiglia. Li ricordava
ancora
bene, quei momenti, quando il panico aveva preso possesso di lui e dei
suoi due
fratelli, ma il babbo li aveva tranquillizzati e aveva promesso loro
che
nessuno si sarebbe fatto male. Alla fine, era andato tutto per il
meglio e loro
erano riusciti a lasciarsi alle spalle quella terra traditrice e
malvagia.
Certo, gli anni passati in mare, girovagando allo sbaraglio, erano
stati duri e
faticosi, ma avevano dato modo al loro piccolo nucleo famigliare di
allargarsi
acquisendo nuovi fratelli, tanto da non poterci più stare
tutti su una sola
nave. La compagnia di navigatori che avevano formato di conseguenza era
stata
un’ottima trovata e, in quell’ultimo periodo, le
tre navi che continuavano a
perlustrare il mondo per conto del grande Capitano Newgate avevano
avvisato che
erano riusciti a trovare un posto tranquillo nel Nuovo Mondo, dove
nessuno di
loro era ricercato e dove avrebbero potuto stabilirsi in maniera
permanente.
Finalmente avrebbero potuto lasciare la Francia, ci erano rimasti anche
troppo
a lungo e ormai la conoscevano alla perfezione. Si erano
momentaneamente
stabiliti da quelle parti perché la salute di Barbabianca
aveva iniziato a far
preoccupare un po’ tutti, così avevano deciso di
fargli fare una pausa,
tenendolo a riposo e non lasciandogli più manovrare una
nave. Le cose stavano
andando bene, mancava davvero poco alla loro partenza, giusto qualche
mese,
tempo che due delle loro navi attraversassero l’oceano,
quindi, perché
imbarcarsi in quella causa che con loro non aveva proprio nulla a che
fare?
Tuttavia
sapeva che,
anche se l’uomo era ormai vecchio e un po’
svampito, non era un incosciente e
aveva anche la certezza che non avrebbe mai messo in pericolo la vita
dei suoi
figli invano.
Così
sospirò, tentando
di rilassarsi e di prestare attenzione a quella sottospecie di
trattativa improvvisata
che stava avvenendo sotto al suo naso all’interno della tenda
adibita per le
riunioni importanti. Ancora non riusciva a credere che quel mocciosetto
stesse
tentando di guadagnare un alleato in battaglia, per giunta del calibro
di
Edward Newgate.
-E
abbiamo anche un
sacco di armi ben nascoste!- stava dicendo entusiasta, come se un paio
di
misere pistole e qualche spada potessero essere sufficienti a
sbaragliare
l’esercito francese che proteggeva la Corona. Quasi gli venne
da ridere. Loro,
a confronto, erano superiori e la mezza dozzina di cannoni che tenevano
al
sicuro nel folto delle paludi ne era la prova.
Barbabianca
ascoltava
la spiegazione del ragazzino con interesse misto a divertimento. Da
tempo non
gli capitava di imbattersi in un moccioso così irriverente e
irrispettoso, ma a
suo favore poteva dire che il carattere e la determinazione non gli
mancavano
affatto. Avrebbe potuto dargli una possibilità, giusto per
non vivere con il
rimpianto e, anche se quei Rivoluzionari erano male organizzati e privi
di una
buona preparazione militare, ci sarebbero sempre stati i suoi figli da
poter
assumere come maestri temporanei. E poi, ad essere sincero, vedere
capitombolare il Re della Francia sarebbe stato per lui il miglior
regalo di
sempre.
-Molto
bene, ragazzo,-
proruppe soddisfatto ad un certo punto, battendo il palmo di una mano
sul
tavolo e facendolo vibrare, -Mi hai convinto.-
-What?- domandarono
Marco e Thatch
all’unisono, uno scattando in piedi dalla sedia e
l’altro sputando il vino che
stava sorseggiando, non preoccupandosi nemmeno di parlare in francese,
ma
utilizzando direttamente la loro lingua madre.
-What
the hell
are you doing? We don’t know anything about this shitty brat!- si
animò Marco. Aveva detto che si
fidava di suo padre, ma non aveva di certo immaginato che avrebbe
scelto così
velocemente il da farsi. Cosa credeva, che tutti sarebbero stati
d’accordo e
che avrebbero fatto i salti di gioia per l’inizio di una
guerra che, per
giunta, non li riguardava?
-Don’t
worry,
guys.- li
zittì
Barbabianca, chiudendo il discorso con un gesto secco della mano,
rivolgendosi
poi a Ace che aveva seguito lo scambio di battute con una faccia
confusa.
–Dimmi, chi sta a capo della Rivoluzione?-
-Uh? Beh,
il popolo.-
rispose Ace con ovvietà. Era tra le persone povere che
correva il malcontento
generale.
-Non
c’è nessuno che
dirige le vostre rivolte o le operazioni di sabotaggio?- chiese allora
in modo
più specifico il vecchio.
Ace ci
pensò su per
qualche istante prima di decidere se parlare o meno. A dire la
verità alcune
persone, una in particolare, c’erano, ma non era sicuro che
fare i loro nomi
fosse una buona idea. Optò per il vago. –Forse
c’è qualcuno.-
Barbabianca
sorrise.
–Allora ti sarei grato se riuscissi a mettermi in contatto
con questa persona.
Non per offenderti, ma non mi sembra il caso di affidare incarichi
troppo
importanti ad un ragazzino come te.-
A quelle
parole, Marco
si rilassò visibilmente, mentre Ace digrignò i
denti. Era offeso eccome!
-Sono
benissimo in
grado di fare qualsiasi cosa!- affermò spavaldo.
-Certo,
farti catturare
dalle guardie ti riesce benissimo a quanto pare.-
Thatch si
preparò ad
assistere ad una carneficina nell’esatto istante in cui il
suo troppo esaltato
fratello prese in giro il mocciosetto, il quale non perse tempo prima
di
rivolgergli un’occhiataccia torva. Quando poi lo vide
avanzare di un passo
verso il biondo sorrise, felice che finalmente qualcuno osasse sfidare
Marco in
modo diretto.
-Ripetilo
se hai il
coraggio.- soffiò Ace, piuttosto incazzato.
-Altrimenti?-
ovviamente, Marco non gli avrebbe lasciato carta bianca, assolutamente.
Quel
piccoletto gli aveva dato fastidio dal primo momento in cui
l’aveva visto e se
era una lezione quella che voleva, allora non si sarebbe fatto pregare
troppo:
l’avrebbe rivoltato per bene e a dovere.
Fu
Barbabianca a
mettere fine al battibecco, liberando Marco da quella scocciatura e
incaricando
Thatch di accompagnare Ace in città a cercare il loro
fantomatico stratega Rivoluzionario
e il dottore per il suo amico moribondo.
-Veramente,
ecco…-
iniziò a dire Thatch a disagio. Non aveva tanta voglia di
andare a Parigi,
aveva promesso ad Haruta che avrebbe seguito i suoi allenamenti.
–Io, insomma,
avrei da fare e…-
-Io non
ci vado.-
scandì Marco, negando con il capo quando il fratello
provò a supplicarlo di
prendere il suo posto con gli occhi.
Ace
attese con
impazienza malcelata che decidessero cosa fare. Avrebbe voluto
insistere per
andare da solo, però aveva capito bene che non si fidavano
ancora ciecamente di
lui, ma non se la prese. Se doveva dire la sua, nemmeno lui era certo
di quello
che stava facendo, ma se tutto ciò fosse servito a vincere
la causa del popolo,
allora avrebbe fatto qualche sacrificio di sopportazione.
Alla
fine, Thatch fu
costretto ad accettare il compito.
Poco
male, si disse, almeno non mi annoierò a morte e
andrò a
farmi una passeggiata in centro. Con questa storia
dell’anonimato non si può
mai andare in giro!
Uscendo
dalla tenda,
prima che si separassero, Marco lo affiancò per parlargli
con tono complice.
–Non ti preoccupare, avviso io Haruta.- gli
assicurò ammiccando.
-Non so
di cosa parli.-
ribadì il castano, mantenendo un portamento serio e
disinteressato. Non era
nulla di che e non gli dispiaceva poi così tanto. Sua
sorella avrebbe potuto
benissimo arrangiarsi da sola come al solito senza alcun problema.
Oh,
ma dannazione, e lui come lo sa? si
domandò in ogni caso, procedendo lungo il sentiero verso le
mura con Ace al suo
fianco, tutto allegro mentre trotterellava facendogli strada. Non
vedeva l’ora
di mettere piede a Parigi per liberarsi di quell’impiastro
che gli avevano
appioppato alle calcagna. Avrebbe fatto perdere le sue tracce e poi
sarebbe
corso alla base per recuperare Law e ideare qualcosa per ritrovare
Rufy. Non
gli andava che uno di quegli svitati che vivevano nelle paludi vedesse
il
Quartier Generale dei Rivoluzionari, quindi sarebbe tornato lui da loro
una
volta sistemate alcune faccende personali.
Con i
tempi che correvano
non ci si poteva fidare di nessuno.
*
Law
sistemò gli
strumenti da lavoro in una borsa abbastanza ampia da poterli contenere
tutti
per poi uscire dalla sua stanza e scendere le scale fino
all’ingresso dove si
fermò per indossare un lungo cappotto nero. Nel vestirsi
gettò un’occhiata
fuori dalla finestra, notando il cielo grigio e con le nuvole gonfie di
pioggia.
Che
tempo di merda, pensò
svogliato, apprestandosi ad aprire la porta per uscire.
-Law, tu vais où?- gli chiese una
voce che sbucò all’improvviso alle sue
spalle, facendolo bloccare sull’uscio appena aperto.
Il
ragazzo sospirò,
assumendo poi un espressione piatta e neutrale, voltandosi appena per
rispondere al suo mentore. –Ho delle visite da fare.
Starò fuori tutto il
giorno.-
Non stava
mentendo, non
ne aveva bisogno dato che aveva sul serio dei pazienti da visitare,
operare e
ricucire, solo che più della metà di loro non
erano esattamente gente delle
alte sfere, ma miseri poveracci che credevano di poter portare la pace
nel
mondo con una rivoluzione improvvisata.
L’uomo
alle sue spalle
annuì pensieroso, salutandolo e ricordandogli di non
rientrare troppo tardi la
sera. –Gira brutta gente per le strade.- lo ammonì.
Law
annuì e uscì in
strada, chiudendosi il portone dietro di sé e alzando gli
occhi al cielo,
scocciato. Come se non sapesse quello che stava succedendo a Parigi in
quel
periodo, anzi, se doveva essere sincero aveva esattamente ben presente
che
razza di gentaglia brulicava la notte per le vie della
città, ma non si
preoccupava affatto di correre dei pericoli. Insomma, era o non era il
medico
di fiducia dei Rivoluzionari?
Ghignando
divertito, si
incamminò lungo la rue,
ripassando
mentalmente alcune nozioni che aveva studiato la sera precedente e
facendo
mente locale di tutti gli appuntamenti che aveva quel giorno. Nella sua
lista
rientrava anche qualche nobile, visto che doveva pur dire al suo tutore
da
quali persone illustri andava, così, nel giro di un paio
d’ore, completò le
visite a domicilio nei quartieri più ricchi, facendo buon
viso a cattivo gioco
e immaginando tutti quei luridi figli di puttana bruciare nelle fiamme
della
rivolta. Ovviamente, si comportò in modo impeccabile.
Una volta
libero da
quelle seccature si concesse una pausa in un café
nel Quartiere Latino, imboccando poi una stradina laterale e
scomparendo nei vicoli della periferia senza che nessuno prestasse
attenzione
ad un anonimo passante incappucciato e solo.
Solamente
quando iniziò
a riconoscere il quartiere si rilassò, conscio che presto
sarebbe stato
circondato da gente con degli ideali e del carattere forte, a
differenza di
quelli che, solo perché avevano i soldi, non facevano altro
che oziare e
perdere tempo. Li considerava insulsi e inutili, quindi se quei
maleducati
cittadini dei bassifondi li toglievano di mezzo a lui andava
più che bene.
Un paio
di uomini lo
riconobbero e lo salutarono con un cenno rispettoso, mentre Law
poté ben notare
le armi sotto i loro vestiti. Difficilmente qualche intruso sarebbe
riuscito ad
andarsene vivo dalla periferia.
-Signor
Trafalgar!-
strillò con fare infantile un mocciosetto che conosceva fin
troppo bene,
correndogli incontro e fermandosi davanti a lui con occhi adoranti.
–Come sta?
Ha dormito bene? Vuole che le porti la borsa?-
-No
Shachi, voglio solo
che tu stia zitto.- rispose lui, guardandosi attorno alla ricerca di
Penguin,
più professionale e meno espansivo. Perché quella
sanguisuga che baciava la
terra dove camminava non aveva preso dal fratello?
-Bonjour.-
salutò a quel punto l’altro infermiere, apparendo
sulla soglia di un’apparente
edificio abbandonato e decadente, facendogli cenno di entrare.
Se
all’esterno la
costruzione sembrava cadere a pezzi, l’interno era
tutt’altra cosa. Era
accogliente, caldo e colorato. Law avrebbe usato anche
l’aggettivo vivo per
descriverlo perché le persone
che vi si aggiravano erano sempre molte. C’era un clima
amichevole,
confidenziale, quasi famigliare. Tutti si conoscevano e si sostenevano
a
vicenda, nessuno veniva lasciato da solo e ogni povera anima che
arrancava fino
alle porte della casa in cerca di aiuto era sempre ben accetta. Era
diverso
dalle sale fredde, spente e solitarie che c’erano nelle
abitazioni dei nobili.
Law lo sapeva bene, dopotutto, lui ci viveva in un ambiente come quello
e si
sentiva orribilmente solo. Era stato quello uno dei motivi che lo
avevano spinto
ad abbracciare l’idea della Rivoluzione: i ricchi credevano
di avere tutto, ma
la verità era che non avevano proprio nulla. Preferiva di
gran lunga stare in
compagnia di grezzi contadini e lavoratori, piuttosto di conversare con
gente
raffinata e ignorante.
Finse di
non apprezzare
i saluti che gli venivano rivolti, mantenendosi distaccato e
disinteressato,
salendo al primo piano ed entrando nella sala che avevano riservato
alle cure
dei feriti e dei bisognosi. Si sentiva bene in quel luogo ed era ogni
giorno
più vicino a definirlo quasi come una casa.
Lì poteva essere se stesso, poteva osservare senza dire
nulla, poteva studiare,
sperimentare, provare, poteva seguire la sua passione, poteva fare
tutto. Era
libero.
-Aspetti,
non può
entrare! Si metta in fila!- disse una voce all’esterno,
seguita da un baccano e
da un colpo secco addosso alla porta della stanza in cui si trovava con
Penguin
e Shachi, intenti ad
organizzare il tutto
per cominciare le visite.
-Levati
di mezzo,
microbo!-
L’istante
successivo,
un energumeno isterico fece il suo ingresso con al seguito un tizio con
dei
lunghi capelli biondi che cercava di calmarlo, pregandolo di
comportarsi bene.
Il
medico, di fronte a
quella scena, si concesse un ghigno beffardo, mentre osservava i due
con
curiosità.
A volte,
facendo il suo
lavoro si divertiva pure.
-Bene,
bene, bene.-
disse, sbottonandosi lentamente i polsini della camicia ed iniziando a
ripiegare le maniche fin sopra i gomiti, -Ha seguito i miei consigli, Monsieur Eustass. E’ tornato
per la
visita di controllo?-
Il
diretto interessato,
nel frattempo, si era fermato al centro della stanza e soffiava aria
dal naso
come un toro irritato, proprio come quelli che aizzavano gli spagnoli
durante
le Corride. Il suo amico, invece, pareva indeciso se mettersi in mezzo
o
lasciarlo fare.
-Senta un
po’, Dottor
Trafalgar,- sbottò il rosso, levandosi con un gesto secco la
giacca che aveva
indossato prima di uscire da quella bettola che chiamava casa, -Il suo
lavoro é
sicuro di saperlo fare bene?- lo sfotté, mostrando la
camicia macchiata di
sangue, segno che la ferita curata la notte precedente si era riaperta.
A quella
vista Penguin
impallidì, mentre Shachi decise che era meglio uscire dalla
sala prima che
qualcun altro si fosse ritrovato con arti sanguinanti oltre che a
quell’idiota
di un Rivoluzionario.
-Siediti
sul tavolo.-
ordinò con tono freddo Trafalgar, lasciando perdere le forme
di cortesia e
ignorando tutti, voltandosi per afferrare ciò che gli
serviva per curare quel
braccio.
Eustass
Kidd avrebbe
voluto ribattere che lui non si faceva comandare da nessuno, ma
capì da solo
che sarebbe stato meglio se fosse rimasto zitto, almeno per quella
volta, così
obbedì suo malgrado e si sedette sul bordo del tavolino in
legno utilizzato
come tavolo operatorio.
-Ehi,
Killer, non
azzardarti ad uscire di qui.- disse sottovoce al ragazzo accanto a lui,
il
quale annuì con un cenno deciso del capo. Non lo avrebbe
detto, ma era contento
di aver trovato qualcuno in grado di calmare gli isterismi di Kidd e,
anche se
quel dottore gli metteva una certa inquietudine, gli era grato per non
averli
fatti sbattere fuori a calci dopo che erano entrati senza educazione e
rispetto
per quelli che stavano attendendo prima di loro.
A Kidd,
invece, non
fregava proprio un cazzo di non aver rispettato la fila e fremeva per
potersene
andare di lì alla svelta. Prima, però, doveva
farsi sistemare il braccio.
Accidenti a lui e a quando aveva deciso di fare a cazzotti con un suo
compagno.
Non era stata tutta colpa sua, però, era stato
l’altro a irritarlo e a fare
battute sui suoi capelli. Quel particolare dello scontro,
però, non lo avrebbe
confessato a quel dottorino, preferiva farlo sentire un incompetente
buono a
nulla. E poi era ancora incazzato per il fatto che, mentre lo stavano
operando,
si fossero permessi di prendersi gioco di lui.
Law gli
si avvicinò e
si collocò davanti, fissando la macchia che aveva inzuppato
la camicia bianca.
-Spogliati.-
disse con
voce apatica, come se ormai conoscesse la procedura a memoria e stesse
ripetendo un’azione che aveva fatto, e visto fare, migliaia
di volte.
Kidd,
però, non era
tipo da rimanersene buono e zitto troppo a lungo, così non
perse tempo e,
iniziando a sbottonarsi la veste, decise che una chiacchierata non
avrebbe
fatto male a nessuno.
-Ma dai,
è la seconda
volta che ci vediamo e già mi chiedi di spogliarmi?- lo
beccò, sorridendo
malizioso e sfilandosi una manica, lasciando scoperta una parte del
torace asciutto
e allenato e della spalla sinistra, ampia e forte, sfregiata in quel
momento da
una brutta ferita sanguinante.
Law
sembrò non sentire
nemmeno le battutine di quello che considerava solo uno stupido
paziente e
afferrò saldamente il suo avambraccio, ruotandolo verso di
sé ed iniziando a
controllare con attenzione e concentrazione i punti, curioso di
constatare se
aveva fatto lui un pessimo lavoro o se quel coglione di un francese del
sud lo
stava prendendo per il culo.
-Ma dai,-
rispose in
ogni caso, imitando il tono sorpreso usato prima dall’altro,
-Tieni il conto
dei nostri incontri?-
Sentì
Penguin
sghignazzare sommessamente alle sue spalle e non gli sfuggì
nemmeno il sorriso
trattenuto a stento del tizio biondo e grosso quanto un armadio che
osservava
la scena dall’alto, vicino al suo amico, rosso di capelli e
di imbarazzo, il
quale lo fissava in modo stupito e offeso.
Prima che
Kidd potesse
ribattere, Law posò le dita sulla ferita e godette nel
sentirlo sussultare.
Almeno se ne sarebbe rimasto in silenzio e non avrebbe aperto la bocca
per dire
cazzate durante un controllo medico.
Alla
fine, senza dire
una parola, prese il disinfettante e pulì la zona
interessata, rimettendo poi i
punti dove serviva e fasciando il braccio con bende pulite e nuove.
Solo
quando ebbe finito
e rifatto la medicazione si concesse di riprendere il discorso da dove
lo
avevano interrotto, incrociando le braccia al petto e guardando
spudoratamente
dritto in faccia l’uomo che gli stava di fronte, fissandolo
torvo a sua volta.
-Sentiamo,-
esordì il
moro con sarcasmo, -Quale scusa hai da inventarti per spiegare questo?- domandò, indicando
con il capo
l’arto leso del rosso.
-Assolutamente
nessuna!- si infervorò Kidd, deciso a farlo sentire un
inetto, -Hai
semplicemente sbagliato a curarmi ieri.-
Trafalgar
scoppiò in
una risata che non aveva niente di divertente, anzi, sembrava solamente
di
scherno. E lo era davvero.
-Senti,-
fece poi con
aria glaciale, guardandolo come se fosse stato un rifiuto. -So meglio
io come
operare e salvare una persona in fin di vita che quei coglioni pieni di
soldi
che si credono dottori solo perché lavorano a Corte,
perciò non pensare nemmeno
di potermi fregare. La ferita si è riaperta
perché tu non sei stato fermo. Mi
sbaglio, Eustass-ya?-
Kidd lo
guardò senza
parole e senza sapere cosa ribattere. Quel moccioso dall’aria
rachitica e
smilza poteva schiacciarlo quando voleva, ma doveva ammettere che aveva
le
palle per rispondere a tono. Nessuno lo aveva mai affrontato in quel
modo. Uno
grosso e minaccioso come lui, poi! Gli avrebbe stretto la mano se non
fosse
stato tanto fastidioso e saccente, ma di certo non poteva ammettere che
non era
stato ai patti e che aveva forzato il braccio solo per passare il tempo.
Per sua
fortuna, o
sfortuna, dipendeva dai punti di vista, fu il suo amico Killer a
spiegare la
faccenda, desideroso di mettere fine a quel battibecco che, lo sapeva e
ne era
certo, sarebbe finito in una zuffa. E, considerando che il dottore
aveva dalla
sua parte oggetti appuntiti e conosceva benissimo i punti vitali del
corpo
umano, era meglio filarsela e non rischiare oltre.
-Si
è battuto e la
ferita si è riaperta.- confessò mestamente,
mentre un sorriso di vittoria
stirava le labbra di Law e un ringhio basso fuoriusciva da quelle di
Kidd.
Stava per
iniziare a
bestemmiare, quando la porta si aprì
all’improvviso come aveva fatto in
precedenza, lasciando entrare un ragazzo dai capelli corvini
scompigliati e con
gli abiti sgualciti, ansante e frettoloso in compagnia di un uomo
sconosciuto e
con un buffo ciuffo di capelli castani ben pettinati, tutto sorridente
e
incuriosito dal luogo.
-Oh, Law,
finalmente ti
ho trovato!- disse Ace tutto d’un fiato, avanzando nella
stanza e ritrovandosi
due paia di occhi puntati addosso. –Uh? Ciao Kidd. Anche tu
qui?-
-Conosci
questo
sbandato?-
-Conosci
questo
stronzo?-
I due
ragazzi parlarono
all’unisono, scoccandosi poi un’occhiataccia poco
amichevole e sbuffando subito
dopo, ognuno riprendendo ad ignorarsi: Trafalgar impegnato a ordinare
gli
strumenti da medico sparsi sul tavolo vicino a Kidd, mentre quello
guardava
altrove sussurrando improperi.
-Cosa ti
serve, Ace?-
Trafalgar
fu il primo a
parlare, rompendo quel silenzio e dando le spalle ai nuovi arrivati e
al suo
paziente che, nonostante l’etica medica lo obbligasse a
curare chiunque,
avrebbe volentieri lasciato morire.
Il
ragazzo parve
ricordarsi solo in quel momento del motivo per il quale aveva corso a
rotta di
collo per le vie di Parigi con quella piaga di inglese alle calcagna,
il quale
non gli aveva dato un attimo di respiro e lo aveva persino legato a
sé con un
paio di manette rubate chissà dove che, grazie al Cielo,
aveva tolto non appena
arrivati alla base. A quanto pareva, avevano previsto una sua fuga e si
erano
organizzati a dovere.
-Devi
venire con me alle
paludi, mi serve il tuo aiuto. Vedi, Sabo é…-
iniziò a raccontare.
-A
proposito, che fine
avevate fatto? Ieri contavamo su di voi, invece non vi siete fatti vivi
e la
rivolta è andata a puttane!- si intromise a quel punto Kidd,
balzando giù dal
tavolino e avvicinandosi al ragazzo per avere spiegazioni.
Ace lo
guardò stranito,
non capendo di cosa stesse parlando.
-Una
rivolta? Voi del
cantiere ne avete organizzata un’altra?- domandò,
spalancando gli occhi e
iniziando a innervosirsi. –Vi avevamo detto espressamente di
aspettare!-
-Lo sai
com’è fatto
Franky. Gli si sono girate le palle e ha deciso di aizzare gli animi.-
si
giustificò il rosso, non del tutto dispiaciuto. Lui, ogni
volta che poteva,
prendeva parte a qualsiasi battaglia. Era nel suo sangue.
-Idioti,
non avreste
dovuto farlo!-
-E questo
chi l’ha
deciso, tu? Non sei a capo dei Rivoluzionari, moccioso.-
-Bada a
come parli,
Kidd.-
-Problemi
di coppia?-
ironizzò Thatch, osservando i due giovani fissarsi in modo
truce e ricordandosi
con piacere delle zuffe che avvenivano spesso tra lui e i suoi
fratelli. Tutto
affetto, quello.
-E tu chi
cazzo sei?-
gli venne chiesto dal tizio dall’aria minacciosa e poco
amichevole.
Si
schiarì la voce e
fece un passo avanti, sorridendo ampiamente e porgendogli la mano che,
come
aveva immaginato, non venne nemmeno degnata di attenzione.
–Il mio nome è
Thatch. Sono un amico di Ace, diciamo.-
-Cazzate.-
lo liquidò
il diretto interessato, chiudendo il discorso. –Kidd, ora
vado di fretta, ma
sappi che presto faremo un discorsetto, tu ed io, chiaro?-
Il rosso
sbuffò
seccato, alzando gli occhi al cielo e voltandosi verso
l’uscita per andarsene
assieme al suo compagno che, nel frattempo, se ne era rimasto in
silenzio ad
osservare annoiato la scena.
-Ti mando
la parcella a
casa, Eustass-ya.- si fece sentire allora la voce del chirurgo,
piuttosto
divertita e sarcastica, cosa che urtò parecchio i nervi
già tesi di Kidd,
obbligandolo a salutare tutti con un gestaccio della mano prima che la
porta si
chiudesse sbattendo.
-E’
un tipetto
particolare.- commentò Thatch.
-E’
una testa di
cazzo.- fu la sincera risposta di Ace. –Senti, Law, so che
sei impegnato e non
te lo chiederei se non fosse un’emergenza, ma devi venire con
me alle paludi.-
-Non ti
aiuterò a
riesumare cadaveri solo per usarli come manichini per spaventare le
guardie di
nuovo.- lo avvisò quello, inarcando un sopracciglio scettico
e osservando di
sottecchi come il nuovo amico di Ace rabbrividisse a
quell’idea.
Il
più piccolo scosse
energicamente il capo. –No, no, no!- lo rassicurò,
-Devi venire a visitare
Sabo. Le guardie ci hanno teso un’imboscata ieri e lui
è rimasto ferito. Non
può muoversi.- gli spiegò di fretta, iniziando a
trascinarlo per la manica
della camicia. –Avanti, vieni, ti prego!-
Trafalgar
sospirò
sconfitto, prendendo subito una decisione positiva e acconsentendo ad
accompagnare quell’impiastro del suo amico. Sapeva che, se
avesse detto di no,
non avrebbe avuto un attimo di pace. E poi c’era Sabo da
mettere in conto. Quel
ragazzo era essenziale nei loro ranghi, per cui bisognava andare a
recuperarlo
il prima possibile.
-Penguin,
te la senti
di pensarci tu fino al mio ritorno?- chiese, rivolgendo
un’occhiata speranzosa
verso il suo infermiere di fiducia.
-Assolutamente!-
gli
assicurò, entusiasta per l’incarico affidato.
-Bien.- disse,
recuperando il cappotto
poggiato sullo schienale di una sedia e guardando i due nuovi arrivati.
–On y va?-
*
-Hai
intenzione di
tenermi il muso ancora per molto?-
Sabo, se
possibile, si
imbronciò ulteriormente e si tirò le coperte fin
sopra la testa, nascondendosi
interamente alla vista della ragazza che, stanca di quel comportamento
che
durava ormai da troppo, posò malamente il piatto con la
minestra che gli aveva
portato sopra al tavolino improvvisato accanto al letto.
-Well,
you
know what? Do the fuck you want, little princess.- disse scocciata,
alzandosi e
dirigendosi a passo deciso verso l’uscita, scostando la tenda
ruvida e finendo
quasi per sbattere addosso a suo fratello Thatch, il quale la
salutò sorridendo
e agitando la mano nella sua direzione.
-Allora,
come sta il
nostro ospite?- le chiese allegro, mentre veniva raggiunto da Ace e da
un
ragazzo che lei non aveva mai visto ed era certa di non conoscere. Li
avrebbe
salutati e si sarebbe presentata al nuovo arrivato, ma era davvero
troppo
infastidita da quei modi di fare altezzosi e spocchiosi che avevano la
maggior
parte dei francesi, compreso quell’idiota che stava vegetando
a letto in quel
momento, così li ignorò, superandoli e
allontanandosi con un sottofondo di
improperi.
-That
silly
brat. Fuck him!-
Thatch la
fissò
sbattendo le palpebre, non sapendo bene cosa dire, ma decidendo infine
di
scoprirlo da solo e di lasciarla sbollire la rabbia. Non voleva di
certo
incappare nelle sue ire e rischiare che il malumore della ragazza si
riversasse
su di lui. Era meglio se andava a sbraitare con Marco, o Izou, ancora
meglio.
Così
scosse il capo,
liquidando la faccenda e facendo segno agli altri due di seguirlo nella
tenda,
trovando un Sabo silenzioso e pensieroso che guardava il vuoto di
fronte a sé
come se fosse stato in trance. Che Koala lo avesse preso a schiaffoni?
Probabile, ma il volto non era arrossato. Forse, per quella volta,
l’aveva
scampata.
Il
biondino, in realtà,
si stava semplicemente chiedendo cosa aveva detto la ragazza prima di
uscire.
Lui, con l’inglese, non era molto bravo, e gli era rimasta la
curiosità di
conoscere il significato di alcune parole. Per esempio, little
princess.
Ad ogni
modo, tutto fu
accantonato non appena scorse Ace entrare nella stanza, tutto
affannato, con i
capelli disastrati e, lo notava sempre, troppo lunghi, la giacca
sgualcita e
l’aria esausta, ma anche sollevata. E poi sorrideva e, quando
lo faceva, voleva
dire che tutto andava bene.
-Mon
frère!- disse il
corvino, raggiungendo il
giaciglio dove era sdraiato e saltandoci praticamente sopra. –Comment ça va?-
-Très
bien!- gli
assicurò il biondo, assumendo
un’espressione convincente. Non se la stava passando male,
non del tutto,
eccetto qualche fitta al fianco che gli continuava a dare un certo
fastidio di
tanto in tanto, ma era normale, si diceva.
-Ho
trovato Law.- gli
rese noto allora Ace e, proprio in quel momento, la figura del diretto
interessato entrò nel campo visivo di Sabo con
un’aria inquietante e vagamente
curiosa.
-Hai
fatto l’eroe
vedo.- commentò, ma nel suo tono non c’era traccia
di divertimento o sarcasmo.
Era semplicemente piatto e disinteressato, come al solito
d’altronde. Sabo,
però, non si fece impressionare; conosceva Trafalgar da
tempo e aveva imparato,
un po’ come tutti gli altri, a come comportarsi con lui.
Bastava ignorare
quella sua aria intoccabile da uomo superiore perennemente scocciato ed
essere
se stessi. Il che, per la precisione, non era sempre facile
perché il dottore
aveva l’inconsueto potere di far sentire anche il
più intelligente uno stupido.
-Solo un
poco.- ammise,
grattandosi la nuca con fare imbarazzato e lasciando che si avvicinasse
per
visitarlo. Ne avrebbe avuto per un po’ lo sapeva, Law era
sempre molto attento
e impeccabile nel suo lavoro e se doveva scegliere qualcuno a cui
affidare la
sua vita, beh, avrebbe fatto il suo nome senza esitazione.
Law
esaminò con calma e
attenzione la ferita che era stata ricucita e, a parte il fatto che
erano stati
applicati più punti del necessario, si ritrovò a
constatare che, almeno, non
era stato condotto un lavoro pessimo e le condizioni di Sabo non erano
state
messe a rischio, ma migliorate. Un problema in meno, restava solo da
vedere
come avrebbe superato la cosa. Doveva stare a riposo, disinfettare
costantemente il fianco e cambiare le bende in modo da evitare
infezioni. Era
meglio essere previdenti, dato che era stato a contatto con i batteri
presenti
nella Senna e ritrovarsi con un virus in corpo di certo non era da
prendere
alla leggera come possibilità, anche se Law era quasi certo
che il peggio fosse
passato.
Alla fine
della visita
sospirò e finì di sistemare le bende nuove sotto
lo sguardo impaziente di Sabo
e quello preoccupato di Ace. Thatch, invece, se ne stava tranquillo e
sorridente appoggiato all’ingresso, certo che la sua collega
avesse fatto un
ottimo lavoro.
-Sei
stato fortunato,-
disse appunto Trafalgar in quel momento, -Ti hanno operato bene.
Ringrazia il
dottore.- gli consigliò, battendogli con poca delicatezza
una pacca sulla
spalla e lasciandolo boccheggiante per il dolore che ancora sentiva,
ovvero un
continuo indolenzimento a tutti gli arti. Ma era normale, continuava a
ripetersi, tutto normale.
Era
normale sentirsi
affaticati, stanchi e senza un polmone, dato che, per colpa
dell’acqua ingerita
e del freddo, sentiva gli organi bruciare ad ogni respiro; era normale
avere i
muscoli a pezzi e le palpebre pesanti; era anche normale sentirsi
ignoranti e
cretini quando non si capiva la lingua altrui; infine, ma non meno
importante, era
normale sentirsi in colpa per aver trattato male qualcuno che non lo
aveva
affatto meritato.
Ad
esempio, il dottore
in questione che gli aveva salvato la vita.
Sabo era
stato così
preso da se stesso e dai suoi problemi che si era lasciato prendere la
mano,
comportandosi in maniera scortese con chi gli aveva offerto aiuto, cibo
e un
posto dove dormire e non morire congelato. Cosa avrebbero pensato di
lui i suoi
fratelli? Cosa avrebbe detto Rufy, il quale lo vedeva come un esempio e
lo
lodava sempre davanti a tutti per il suo buon cuore e per
l’altruismo che lo
caratterizzava? Era stato proprio un moccioso, doveva ammetterlo per
forza.
Mentre
era ancora
intento a riflettere, Law aveva raccolto le sue cose e si era preparato
per
tornare in città a svolgere il suo lavoro e a ricucire
poveri esagitati
francesi che credevano di poter entrare a palazzo senza un preciso
piano
d’azione.
-Io me ne
vado. Vedi di
non strafare.- ammonì Sabo, il annuì con un cenno
del capo distratto. Poi si
rivolse a Ace, sperando di venire ascoltato con più
interesse. –Tienilo
d’occhio.-
Detto
ciò, fece per
uscire, trovando il cammino sbarrato da quell’inglese
sempliciotto che lo
guardava con quell’incancellabile sorrisetto che gli
conferiva un’aria da
babbeo. Ciò Law glielo avrebbe detto con gusto, ma non
voleva sprecare fiato
con gli ignoranti.
-Dovrei
passare.-
dichiarò con una calma agghiacciante.
-Non
crederai che ti
lasci andare tanto facilmente. Devo prima bendarti per non farti
riconoscere la
strada e…-
-Senti, chiunque tu sia, ci troviamo nel bel
mezzo delle paludi e all’andata non mi hai coperto gli occhi.
Inoltre dovrò
tornare per controllare le sue condizioni e preferisco farlo quando mi
pare
senza un invito scritto. A differenza di voi perditempo, io lavoro.-
spiegò
freddamente, lasciando il castano senza un valido argomento con cui
ribattere e
con la sensazione di essere appena stato fottuto alla grande. Ma cosa
avevano
tutti in quel periodo? Lui voleva solo giocare e scherzare, mentre gli
altri
erano scorbutici e schizzati. Forse era l’aria di guerra che
si respirava in
città ma, accidenti, un pochino potevano anche rilassarsi.
Si arrese
comunque
all’evidenza e alzò le mani in segno di resa,
spostandosi per lasciar passare
quel tizio dall’aria inquietante. –Fa come se fossi
a casa tua.- ironizzò.
-Bene. Ci
vediamo Ace.-
-Aspetta,
vengo con
te.- lo informò il giovane, affrettandosi per raggiungerlo.
-Cosa? Mi
lasci qui?-
Solo
allora Sabo si
riscosse, concentrandosi sulle persone davanti a lui.
-Devo
organizzare un
giro di ricognizione per trovare Rufy, lo sai.- gli ricordò
tetro; l’ansia ben
visibile sul suo volto. Poi gli rivolse uno sguardo di scuse.
–Tornerò presto
con buone notizie.- gli promise, avvicinandosi al letto e porgendogli
il pugno.
Sabo
sospirò, conscio
che il fratello aveva un compito importante da svolgere,
perciò non insisté
oltre e accettò la cosa, facendo cozzare la mano contro
quella dell’altro in un
segno di consenso.
-Trovalo
e riportalo a
casa.- disse, guardando Ace negli occhi e sorridendo nel trovarli
determinati e
fermi, brucianti di coraggio e iniziativa.
-Ci puoi
scommettere!-
*
Tashiji
stava
osservando il baracchino del fornaio situato sulla via principale
brulicante di
persone da un buon quarto d’ora ormai, deglutendo ogni volta
che qualcuno
comperava una pagnotta o mezza baguette, perché a quei tempi
la tassa sul pane
era salita a dismisura, e ascoltando il sonoro concerto che stava
facendo il
suo stomaco vuoto e affamato. Non mangiava qualcosa da quasi due giorni
e le
forze la stavano abbandonando, se lo sentiva, perciò voleva
essere certa che
nessuno potesse riconoscerla quando si sarebbe azzardata a rubare. Si,
perché
le persone si erano ridotte a dover ricorrere a inutili sotterfugi per
sopravvivere.
Non le
piaceva
comportarsi male, da sempre era stata abituata a seguire le regole e ad
essere
onesta, ma i tempi erano duri ed era stata quindi costretta a scendere
a patti
con lati di se stessa che non credeva di avere. Lei, la ragazza che
avrebbe
dato la vita per un mondo giusto ed equo stava per sputare in faccia
alle sue
convinzioni.
Strinse i
pugni e
scosse il capo per evitare dei ripensamenti. Aveva fame e doveva
mangiare
qualcosa per forza, o non sarebbe arrivata alla fine della settimana.
Così,
calcandosi bene
il cappuccio in testa e lanciando occhiate a destra e a sinistra,
uscì dal
vicolo e si confuse tra la folla presente quel giorno di mercato,
avvicinandosi
sempre di più alla bancarella con il pane caldo e profumato
che le faceva
gorgogliare lo stomaco. Silenziosamente raggiunse il banco e finse di
guardare
altro fino a che il fornaio non si impegnò in una trattativa
che comprendeva un
cesto di pane in cambio di due polli. Fu allora che agì,
facendo uscire lesta
una mano dalla mantella e afferrando una pagnotta appena sfornata,
facendola
poi scomparire velocemente sotto all’abito, allontanandosi a
passo svelto.
Il cuore
le batteva
all’impazzata e aveva rubato solo un misero pezzo di pane!
Anche se pensava che
c’era gente che per disperazione si infiltrava nelle case
altrui non si sentiva
meno colpevole, ma decise che si sarebbe crogiolata nella vergogna
più tardi,
quando avrebbe pranzato.
Si
allontanò solo di
qualche passo, però, prima di rallentare fino a fermarsi in
mezzo alla strada,
mentre la gente continuava a passarle accanto, urtandola di tanto in
tanto.
Ma
cosa sto facendo?, si
chiese, sospirando amareggiata e schifata dalle sue stesse azioni. Non
erano
quelli i comportamenti che le aveva insegnato la sua famiglia, non
erano quelli
i gesti altruisti e rispettosi che sognava di fare, non era quello un
giusto
ideale di lealtà e giustizia e, di sicuro, non era la via
migliore per essere
un giorno una persona corretta e ammirata.
Si
strinse nel mantello
e si voltò per tornare sui suoi passi, disposta a rinunciare
al primo pezzo di
cibo che vedeva da giorni. Dopotutto, non era così affamata
e lo stomaco le si
era chiuso dopo quello che aveva fatto. Raggiunse allora la bancarella
e,
invisibile come quando lo aveva rubato, ripose il pane al suo posto.
Tornò
nel suo vicolo e
ci si infilò dentro, schivando dei bancali di legno e
raggiungendo il suo
angolino buio e poco illuminato dove si era trasferita da qualche
settimana,
costretta a nascondersi per non venire identificata e catturata. Dopo
il casino
che aveva combinato suo padre nelle forze dell’ordine era
meglio non farsi
vedere in giro.
Si
permise di sospirare
sollevata, stanca, ma felice di non aver ceduto a quello che sarebbe
potuta
diventare, ovvero una ladruncola di strada, quando qualcuno si
schiarì la voce,
facendola sussultare, tanto che si schiacciò contro la
parete in ombra per non
farsi vedere.
Una
figura si staccò da
uno dei fasci di legno che rendevano il vicolo una via impraticabile e
si
avvicinò per mostrarsi a lei, facendole rivoltare le budella
e salire
l’angoscia e la disperazione. Sentì
l’aria mancarle quando si rese conto che si
trattava di un ufficiale.
Merde!
-Lo sai
che rubare è un
reato?- le chiese l’uomo, portandosi con due dita un sigaro
alla bocca per
prenderne una lunga boccata e soffiarla poi verso di lei, facendole
bruciare le
narici per via dell’odore acre e pesante.
Tashiji
deglutì a
fatica, ma non si azzardò a rispondere, impegnata
com’era a controllare i
tremiti che le percorrevano violentemente il corpo. Si era fatta
beccare come
una stupida, avrebbe dovuto saperlo che durante il mercato le guardie
giravano
anonime per la città con il fine di evitare o placare
rivolte sul nascere visti
gli avvenimenti degli ultimi giorni. E lei si era fidata di se stessa e
si era
azzardata a rubare senza assicurarsi di non dover poi finire nei guai.
Ormai era
tardi per
colpevolizzarsi, così decise che, prima di infastidire
ulteriormente la guardia
continuando a sperare di diventare un tutt’uno con la parete
e scomparire, era
meglio dimostrarsi collaborativi e pronti a subire il meritato castigo.
Sperava
solo che non le avrebbe amputato il braccio.
Così
si fece avanti
mestamente a capo chino, torturandosi le mani e infossando la testa
nelle
spalle, nascondendo parte del viso nel mantello rosa antico e logoro,
ma ancora
abbastanza pesante da tenerle un po’ di caldo durante la
notte.
Tirò
su col naso, aveva
un po’ di raffreddore, e prese coraggio per non parlare con
voce tremante o
balbettante. –Mi assumo le mie responsabilità,
Signore.- sussurrò.
Avrebbe
potuto fare di
meglio, ma era soddisfatta, almeno non era risultata impaurita o
scontrosa. Sperò
solo che l’uomo apprezzasse il suo temperamento.
-Potresti
finire in
prigione per una cosa del genere.- continuò il diretto
interessato, incrociando
le braccia al petto e fronteggiandola con tutta la sua stazza. Le aveva
tolto
ogni via di fuga in quel modo, ma più la guardava e
più si rendeva conto che la
ragazza non avrebbe fatto assolutamente niente per non perdere la sua
libertà,
a differenza dei tanti topi di fogna con cui si trovava ad avere a che
fare
tutti gli stramaledetti giorni della sua vita.
La vide
annuire con il
capo facendosi, se possibile, ancora più piccola.
Chiuse
gli occhi
stancamente e prese il sigaro tra le dita, passandosi una mano sul
volto e
premendo alla base del naso per riordinare i pensieri. Era veramente
stufo di
quella situazione, praticamente esasperato. La Rivoluzione era in corso
e le
cose non stavano andando per niente bene. Ancora non avevano scovato
chi stava
dietro a quella massa di ignoranti, animati solo dal desiderio di un
futuro
migliore ed equo; il Re di certo non faceva del suo meglio per farsi
amare e le
leggi ingiuste che continuavano ad essere emanate non aiutavano a
calmare gli
animi. Per non parlare dei coprifuochi, delle tasse, delle prigioni e
di tutto
il corpo di guardia corrotto. In che merda di mondo stava vivendo?
Guardò
di nuovo quella
ragazzina, troppo indifesa e forse troppo piccola per poter sopportare
di
venire rinchiusa in una cella dove, sicuramente, avrebbe subito i
peggiori
trattamenti immaginabili e si chiese se valesse veramente la pena
applicare la
legge anche in quel frangente. Dopotutto, lei non aveva esattamente
rubato.
Certo, si era impossessata di una pagnotta, piccola ed insignificante,
tanto
che nessuno se ne era accorto, ma l’aveva anche rimessa al
suo posto. Non
sapeva per quale diavolo di motivo, ma era certo che, anche se non
conosceva la
ragione, la ragazza non fosse un pericolo. Anzi, forse era lei stessa a
dover
temere quello che la circondava. Per esempio, vivere in quelle
condizioni non
era ne salutare, ne sicuro, anche se sembrava non avere
nient’altro con sé.
Forse era una dei vagabondi che spopolavano per i vari quartieri, o
semplicemente era finita sul lastrico a causa delle ingenti somme di
denaro che
i cittadini erano costretti a versare alla Corte, ad ogni modo, a
Smoker non
interessava la sua storia e non voleva neppure sapere come avrebbe
fatto a
tirare avanti. L’unica cosa che contava per lui era che si
era comportata
correttamente e, per quel motivo, non meritava di essere punita. Non
c’era
bisogno di fare giustizia.
Riprese
il sigaro tra
le labbra, affondando le mani nelle tasche e cercando qualche spicciolo
da
lasciarle.
-Tieni.-le
disse,
porgendole tre monete con una mano guantata, ritrovandosi in quel modo
un paio
di occhi sgranati su di sé.
Tashiji
sbatté le
palpebre più volte prima di rendersi conto di quello che
stava effettivamente
succedendo. Un ufficiale le stava offrendo del denaro dopo che
l’aveva colta in
flagrante. Tutto ciò era assurdo e aveva
dell’incredibile per lei. Perché non
la arrestava o non la ammoniva? Perché non la guardava con
ribrezzo o con
minaccia, ma mostrava pietà e compiva un gesto magnanimo nei
suoi confronti?
Non riusciva a trovare una risposta adatta alle sue domande, anche se
una vaga
idea poteva avercela. Che si fosse comportato in quel modo solo
perché era una
donna e si sentiva impietosito per la sua condizione?
Subito,
il disagio che
aveva provato per la paura di un arresto venne sostituito da un senso
bruciante
di fastidio e orgoglio ferito. Lei non aveva bisogno
dell’aiuto di nessuno e
tantomeno voleva essere trattata con favoritismi solo perché
non era
considerata alla pari di un fottuto uomo.
-Non so
perché lo
stiate facendo,- mormorò freddamente, scandendo bene le
parole, -Ma non
accetterò il vostro denaro.-
Stronzo, avrebbe voluto
aggiungere, ma si
trattenne dal farlo.
-Il mio
era un ordine.-
le rese noto allora l’ufficiale con una smorfia poco
amichevole, ma, vedendo
che lei non accennava a muoversi per obbedire, continuando invece a
fissarlo
apertamente in viso con una determinazione disarmante e che aveva visto
solo in
poche persone, decise che non avrebbe perso altro tempo.
Aprì
il pugno e lasciò
che le monete cadessero a terra, dedicandole un ultimo sguardo ambiguo
prima di
darle le spalle e andarsene come era venuto.
-Con chi
devo ritenermi
in debito, Signore?- sbottò allora Tashiji, stringendo i
denti e i pugni,
ferita nell’orgoglio e umiliata fin dentro
nell’animo onesto che si ritrovava.
Senza
fermarsi, l’uomo
continuò ad avanzare seguito da una leggera nuvoletta di
fumo grigio e denso. –Capitano
Smoker.- rispose atono e disinteressato, come se non credesse
più nel valore
del suo nome e del suo grado. –E non sei in debito con
nessuno.-
Angolo
Autrice:
Buongiorno
a tutti! Mi
stavo completamente dimenticando che oggi è sabato, LOL, ma
alla fine ho fatto
mente locale, per cui eccomi qua ^^
Questo
capitolo mi è sembrato
infinito, anzi no, aspettate di vedere il prossimo D: la
verità è che mi sono
data una specie di limite, ovvero circa dodici pagine alla
volta… Si, sono
troppe, ma la prima volta che ho iniziato questa storia mi sentivo come
un
fiume in piena e non riuscivo a smettere, per cui portate pazienza,
sarà che a
me i capitoli infiniti piacciono.
Allora,
oggi vediamo un
po’ la panoramica riguardante le vicende della ciurma di
Barbabianca e dei vari
stati d’animo, per esempio Marco, diffidente come sempre,
Thatch, allegro e
spavaldo, Newgate che si esalta con poco, eccetera. Nella mia testa
Marco ha
come fratelli di sangue Thatch (perché, andiamo, con quei
capelli stanno
benissimo nella stessa famiglia) e Vista, perché mi sta
simpatico. Gli altri
sono stati raccattati nel tempo, ecco. Anche Koala è stata
adottata, quindi
svelato il mistero del perché sta con loro, ma
più avanti vedrò di dare un’inquadrata
anche alla sua storia.
Poi, beh,
tra Law e
Kidd le cose sembrano andare di male in peggio. Molto bene direi ^^ a
differenza di Sabo e Ace che credo di amare.
Yep, ho
aggiunto anche
Tashiji e Smoker. Si, insomma, mi piacciono assieme. Certo, lei non
rientra per
niente nelle mie preferenze femminili, ma assieme al modernissimo Smokah-san mi piace.
Che altro
dire,
ringrazio tutti, vecchi e nuovi lettori, e anche in particolar modo
coloro che
mi lasciano da leggere le recensioni. Sono contenta che vi piaccia,
spero di
fare un buon lavoro!
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xpa1/t31.0-8/s960x960/10896275_1585400701678766_6613732209104661888_o.jpg
Smoker da Tashiji
https://fbcdn-sphotos-f-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xap1/v/t1.0-9/10915207_1585400611678775_1807253556388648865_n.jpg?oh=aee04a7e549a15c87de5be5268789196&oe=55381806&__gda__=1429260095_f37dce58b2416db24227f610a07319d8
Lo sguardo d’amor… ehm, volevo dire odio
tra i due
Anche per
oggi è tutto
^^ alla prossima settimana con il quarto capitolo che, sinceramente,
spero vi
strappi qualche risata ^^
See
ya,
Ace.
|
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Capitolo 4 *** Quatre. ***
Liberté,
Égalité, Fraternité.
Quatre.
-Buonanotte
Signorina, riposi bene.-
La
porta si chiuse silenziosamente dietro le spalle della domestica e,
nello
stesso istante, l’espressione altezzosa che svettava sul viso
dalla ragazza
dalla mattina alla sera sparì e lasciò posto ad
un sorriso birichino e spavaldo
mentre, con poca eleganza che non si addiceva affatto ad una
principessa,
scalciava via le odiose scarpette a punta e col tacco che tanto
detestava.
Contemporaneamente lottava con i lacci del lungo ed ampio vestito per
toglierselo di dosso il più velocemente possibile per poi,
una volta libera da
quel tendone da circo, strapparsi letteralmente via il corsetto che
spesso le
aveva fatto girare la testa per i mancamenti che le provocava. Gettato
tutto
sul pavimento in modo disordinato e chiusa a chiave la porta della
camera, andò
ad aprire le ante dell’enorme armadio in legno che
troneggiava in mezzo alla
stanza, cercando in uno degli scomparti segreti degli abiti che era
riuscita a
rubare ai servitori addetti al bucato. Li nascondeva perché
erano vestiti
maschili e, se qualcuno li avesse trovati nelle sue stanze, sarebbe
scoppiato
il finimondo.
Indossò
la camicia ampia con un sospiro di sollievo, arrotolando le maniche sui
gomiti
e passando poi ad un paio di calzoni bordeaux che le fasciavano le
gambe lunghe
e snelle, per poi completare il tutto con degli stivali alti fino al
ginocchio.
Legò i lacci ben stretti per non perderli dato che non erano
esattamente della
sua misura e poi afferrò un lungo mantello con il cappuccio
che si piazzò sulle
spalle.
Era
quasi pronta, doveva solo finire di sistemare i cuscini sotto alle
coperte per
evitare di lasciare intravvedere una stanza vuota e poi poteva anche
uscire.
Non era ancora il tramonto, dato che con la nuova stagione le giornate
si
stavano lentamente allungando, ma aveva cenato prima e da sola, dato
che i suoi
genitori erano stati impegnati tutto il giorno con una riunione
importante e
della massima urgenza che a lei poco interessava. Infatti, non aveva
messo
piede fuori dal secondo piano per tutto il tempo, facendo avanti e
indietro per
i corridoi e leggendo qualche noioso libro fino a che non era arrivata
l’ora di
coricarsi. O meglio, svignarsela.
Afferrò
una borsa a tracolla rattoppata in più punti e, passando
davanti allo specchio,
si ricordò di un piccolo particolare: il trucco.
Velocemente,
prese un panno e lavò il viso, approfittando anche per
sciogliere la complicata
acconciatura che aveva in testa, lasciando che i capelli le ricadessero
su una
spalla in una treccia leggera e poco impegnativa. Un’ultima
occhiata e si disse
pronta.
Si
affacciò dal balcone e, con agilità, prese a
scendere la parete fino a
raggiungere il terreno sottostante, utilizzando i vari appigli presenti
sul
muro. Non era difficile per lei, abituata fin da piccola ad
arrampicarsi
ovunque e a spingersi sempre più in alto, rischiando spesso
l’osso del collo,
ma incapace di smettere.
La
sua stanza dava su una porzione di giardino poco frequentata e lasciata
un po’
in disuso, infatti gli alberi erano verdi e rigogliosi e le siepi
crescevano
alte, offrendole un’ottima e perfetta copertura che,
altrimenti, non avrebbe
avuto.
Scivolò
silenziosa per i sentieri in ghiaia fino al limitare della reggia dove
si
trovava la sua via di fuga, ovvero una falla sulla recinzione che
delimitava i
confini della tenuta. Lo aveva scoperto lei, ma non aveva dato
l’allarme. Non
le interessava se qualcuno lo avesse usato per infiltrarsi
all’interno e
compiere un colpo di stato, l’importante era che non venisse
chiuso, dato che
rappresentava la sua unica opportunità di sentirsi libera
per qualche ora.
Così
ci passò attraverso, quasi come un fantasma, e si
ritrovò fuori, all’aperto, in
mezzo alla strada e non lontana dall’animato e vivo centro di
Parigi che tanto
amava, ma che le era proibito visitare se non in carrozza.
Si
tirò su il cappuccio e si avviò lungo la via,
guardandosi attorno e
ritrovandosi a sorridere quando iniziò ad incontrare le
prime persone
indaffarate che giravano per le strade.
Amava
la sua città, amava la vitalità e
l’aria di continua espansione che si
respirava; adorava i monumenti ed era incantata da ogni minimo
particolare. Era
curiosa ed ogni cosa era degna di attenzione. I pittori di strada, i
viandanti,
i commercianti, le piazze, i prodotti in vendita, gli zingari e i loro
amuleti,
gli intellettuali e le loro ipotesi e i giornali. Oh, cosa avrebbe dato
per
poterne leggere uno in santa pace!
Ma a
lei non era permesso. Non poteva andare in giro da sola, non poteva
vestire
come preferiva, non poteva esprimere il proprio giudizio e non poteva
decidere
per se stessa. Ad una principessa non era permesso vivere.
Si
perse ad osservare un musicista in riva alla Senna, intento a deliziare
gli
ascoltatori con una melodia dolcissima prodotta da un violino
dall’aria
antiquata, quasi quanto il suo suonatore, ovvero un uomo dalla
corporatura un
po’ scheletrica, degli strambi e non comuni capelli folti,
scuri e ricci e degli
occhiali tondi sul naso, simili a quelli di un becchino. Era strano nel
complesso, ma era per quello che le piaceva. Così rimase in
ascolto, incantata,
lasciando che la musica la accompagnasse nella sua passeggiata e non si
accorse
di ciò che aveva davanti fino a che non finì
addosso a qualcosa, più
precisamente, a qualcuno.
Quando
se ne rese conto, si affrettò a schiarirsi la voce per
fingere un’intonazione
maschile come faceva sempre quando usciva in strada, scusandosi con il
diretto
interessato con cui si era scontrata.
-Pardon,
Monsieur.-
gracchiò, tenendo basso lo sguardo e
fissando un paio di stivali scuri e il bordo di un mantello nero che, a
giudicare dal tipo di tessuto e dai ricami viola scuro, doveva essere
molto pregiato.
L’elsa di una grossa spada entrò nel suo campo
visivo solo qualche secondo più
tardi.
Quegli
abiti non erano tipici del posto, ne era certa, i pantaloni erano
troppo ampi e
la camicia seguiva una linea differente da quelle in voga nei pressi di
Parigi,
inoltre quell’arma era veramente fuori dal comune, troppo
diversa da quelle che
vedeva di solito utilizzare dalle guardie che proteggevano il palazzo
reale. Fu
in quel modo che la curiosità ebbe la meglio su di lei,
obbligandola ad alzare
un poco il capo per spiare chi aveva di fronte.
Il
cuore prese a batterle leggermente più veloce, ma
assolutamente non per paura, quando
incrociò lo
sguardo serio e poco gentile di uno strano individuo. Era abituata a
vedere di
tutto stando a Corte, ma degli occhi inquietanti e particolari come
quelli non
li aveva mai visti se non nei gufi impagliati e affissi ai muri di una
delle
infinite stanze della reggia. Se voleva essere sincera, quelli che
aveva di
fronte la mettevano ancora più a disagio perché
erano vivi e la stavano
fissando intensamente, come se volessero trafiggerla.
Si
sentì a disagio e temette che quello sguardo insistente
nascondesse un motivo
che non voleva conoscere, così fece un cenno di saluto e
aggirò l’uomo,
passando svelta oltre, diretta il più lontano possibile da
quella piazzetta.
Capì
di avere corso solo quando si fermò sotto gli alberi di un
giardino nei pressi
di una chiesetta modesta, intenta a calmarsi e a porre fine al fiatone
che la
obbligava a riempire i polmoni più in fretta del solito. Si
era presa un bello
spavento per colpa di quell’individuo losco e
dall’aria straniera. Era certa di
non averlo mai visto prima, nonostante l’abbigliamento
elegante, ma in qualche
modo alternativo, sinonimo di agiatezza economica.
Una volta
riacquisito il controllo, si permise di sospirare profondamente,
appoggiandosi
al tronco di un albero e rilassandosi. Quando riaprì gli
occhi notò, però, che
tutt’attorno era calata la luce del sole, lasciando posto
all’imminente arrivo
della sera e con essa il coprifuoco stabilito dalla Corona.
-Maledizione!-
sbottò fra sé e sé, dando un pugnetto
alla corteccia. Se non fosse stato per
quell’idiota con la piuma sul cappello non avrebbe fatto
così tardi e sarebbe
riuscita a rientrare con la luce degli ultimi raggi ad accompagnarla.
Non
rimaneva mai fuori oltre per paura di eventuali intoppi, ma
c’era sempre una
prima volta. Peccato che lei non ci tenesse affatto a viverla.
In ogni
caso, ormai non poteva farci niente, se non riprendere a correre a
rotta di
collo verso la direzione da cui era venuta.
Si
staccò dall’albero e si sistemò la
mantella, pronta a ripartire e decisa a non
farsi notare. Nel farlo, lanciò qualche occhiata agli
edifici lì vicino,
valutando se fosse il caso di prendere la via sui tetti o arrischiarsi
lungo la
strada. Passando dall’alto ci avrebbe messo di
più, ma almeno avrebbe evitato
brutti incontri.
-Non
è tardi per uscire a queste ore?- domandò una
voce alle sue spalle che la fece
voltare di scatto con i pugni alzati, pronta a difendersi. Fu sorpresa
e un
poco agitata di trovarsi nuovamente faccia a faccia con quello
sconosciuto, ma
non era poi tanto preoccupata. Se fosse stata in pericolo sarebbe
ricorsa alla
sua posizione sociale per sistemare le cose, a costo di venire scoperta
e punita
da suo padre. Insomma, mica voleva rimetterci le penne, che diavolo.
-La
cosa non vi riguarda.- rispose spavalda, modificando come poteva la sua
voce,
altrimenti squillante e decisa. Non si trattenne, inoltre, dal
provocarlo. –E
anche per voi sarebbe tardi, comunque.-
Non
si poteva di certo dire che fosse stata una mossa intelligente la sua,
ma lei
non era mai stata il tipo che si lasciava mettere i piedi in testa. Era
cresciuta in un luogo dove le sue richieste e la sua parola erano legge
e, col
tempo, aveva assunto un po’ un atteggiamento altezzoso e
superiore.
L’uomo
non si scompose, a differenza di quello che si era aspettata la
giovane, e si
limitò a fare un mezzo sorrisetto sprezzante, ma che di
divertito non aveva
nulla, dandole una veloce occhiata dall’alto in basso.
–Potete anche smettere
di impegnarvi, si vede lontano un miglio che siete una donna.-
La
principessa si sentì gelare il sangue per un momento. Se ne
era accorto,
accidenti a lui, ma come aveva fatto? Non gli aveva rivelato il suo
volto ed
era stata attenta a non lasciar intravvedere nemmeno una ciocca dei
suoi
capelli, altrimenti l’avrebbero riconosciuta tranquillamente
ovunque. Certo,
perché tutti avevano ben presente l’aspetto della
bellissima, e viziatissima,
principessa dai capelli insolitamente rosati.
Menti, si disse, menti fino alla morte. Lui non sa un bel niente!
-Non
so di cosa stiate parlando, Monsieur.- dichiarò,
indietreggiando senza
rendersene davvero conto. Un riflesso ben giustificato, dato che
l’altro aveva
appena fatto il primo passo verso di lei, guardandola come se fosse
stata un
animale da sgozzare.
E
intanto il sole tramontava.
-Oh,
io credo proprio di si, Mademoiselle.- rispose
l’uomo appena arrivato in
città.
Ne
avrebbe volentieri fatto a meno, ma la proposta era stata interessante
e,
inoltre, era ben pagato per il lavoro che sarebbe andato a fare,
perciò aveva
abbandonato la sua regione natia e aveva viaggiato ininterrottamente
fino a
Parigi a vedere cosa c’era di così divertente,
dato che da un pezzo non si
parlava d’altro che di rivolte e guerre
nell’entroterra.
Coprì
le distanze con poche falcate, approfittando dell’attimo di
sbigottimento della
ragazza inesperta e poco furba che aveva di fronte e che lo fissava con
occhi
sbarrati pieni di sorpresa, ma non di paura. Infatti, appena si permise
di
afferrarle un braccio con l’intento di toglierle il cappuccio
per smascherarla,
sulle sue pupille passò un lampo di risolutezza prima che si
divincolasse
agilmente, prendendo le distanze. Non senza avergli rubato il pugnale
che
nascondeva nella cintura, notò dopo con divertimento.
-Non
avvicinatevi!- lo ammonì, puntandogli contro
l’arma nel tentativo di
spaventarlo, anche se si rese conto pure lei che era tutto inutile.
-Altrimenti?-
la provocò apertamente, inarcando un sopracciglio scuro e
rivolgendole un
sorrisetto beffardo e di sfida.
A
quel punto, la ragazza perse le staffe. Chi si credeva di essere quel
rifiuto
di strada per parlarle in quel modo?
In un
attimo di rabbia, si tolse il cappuccio con un gesto secco della mano e
rivelò
così la sua identità, fissandolo truce.
–Sono la principessa Perona.- lo
informò, alzando il mento con fare imperioso, -Badate,
quindi, a come vi
rivolgete a me.-
-La
principessa, eh? Ma pensa, a quanto pare sono venuto qui per fare da
balia ad
una mocciosa.- disse quello, dandole l’impressione di parlare
a vanvera, dato
che non riuscì ad interpretare al meglio le sue parole. Non
dovette, però,
pensarci su troppo a lungo perché il giovane, togliendosi il
cappello piumato,
la deliziò di un elegante e rispettoso inchino, o lo sarebbe
stato se non
avesse riconosciuto nei gesti e nell’espressione del suo
volto una certa presa
in giro e derisione per il suo rango, come se non gli importasse
proprio niente
di chi lei fosse.
-Vogliate
perdonarmi, Vostra Grazia, se sono
stato irrispettoso.- la schernì, sempre con quel sorriso da
schiaffi in faccia,
-Ma non vi avevo riconosciuta così abbigliata. Permettetemi
di riaccompagnarvi
a palazzo.-
-Cosa?-
sbottò Perona in maniera poco signorile, ricomponendosi
subito dopo. –Voglio
dire, no, non è necessario. Vi congedo.-
-Devo
insistere.-
-E io
vi ripeto che non è necessaria la vostra presenza. Grazie!-
Perché
non le ubbidiva e se ne andava? Gli aveva imposto di lasciarla sola e
non
doveva avere altra scelta, invece continuava a rimanerle troppo vicino,
con
quegli occhi insolitamente ocra, troppo grandi e troppo intimidatori
per
metterla a suo agio e farla sentire tranquilla. Chi era quello? E
perché la
voleva portare a palazzo dove avrebbe dovuto essere in
realtà?
Smise
di pensare quando lui le porse la mano, invitandola a seguirlo.
–Venite, vi
accompagno.-
Ma quel
sorriso non le piaceva per niente.
A
quel punto strinse il pugnale che aveva in mano e lo alzò a
livello del suo
viso, marcando bene la frase. –No, grazie.-
Allora
lo vide sospirare, ma non lo lasciò parlare quando si rese
conto che avrebbe
aperto ancora la sua boccaccia. –Vi consiglio di ascoltarmi,
altrimenti dirò al
Re cose poco carine sul vostro conto.-
Se
con le buone non lo capiva, allora glielo avrebbe reso chiaro con le
cattive.
Peccato solo che Perona non sapesse che aveva a che fare con qualcuno
molto più
subdolo e crudele di lei.
Il
sorrisetto, per l’appunto, non scomparve nemmeno in
quell’occasione, anzi, si
allargò ulteriormente.
-Sono
curioso di vedere a chi crederà vostro padre: a sua figlia,
o al nuovo membro
della Flotta dei Sette. Voi che
dite?-
e con ciò, scoccò la battuta finale, godendosi lo
sguardo perso e finalmente
spaventato della principessa che, troppo sconvolta e conscia di essere
nei
guai, lasciò cadere a terra il pugnale, mentre lui le
imponeva la sua presenza,
trascinandola lungo la via e dritto verso la Corte Reale.
*
-Un,
deux, trois,
quatre. Un, deux, trois, quatre. Un, deux, trois, quatre.-
-Se
non la smette giuro che gli amputo entrambe le gambe.-
-Mi
sta scoppiando la testa. Non capisco come abbia fatto quel piccoletto
ad
addormentarsi.-
-Già,
non dirlo a me.-
-Un, deux, trois,
quatre.-
-Piantala!-
Era
calata la sera, l’ennesima per chi era rinchiuso
all’interno della Bastiglia,
dove notte e giorno si alternavano senza sosta, lasciando immutato il
destino
dei prigionieri ormai condannati. Le ore si susseguivano lente ed
infinite,
scandite solo dal suono delle campane di una qualche chiesa poco
distante.
Tutto rimaneva invariato, come se le celle fossero isolate dal resto
del mondo
che andava avanti e subiva svariati mutamenti nel giro di pochi minuti,
costantemente.
Era
un inferno per coloro che si ritrovavano ad attendere
l’inizio della loro fine,
ma lo era ancora di più per chi aveva avuto la sfortuna di
venire rinchiuso nel
terzo piano, dove, da qualche ora, era stato inserito un nuovo
fuorilegge. Che
fosse o no un furfante non aveva importanza, era stato dichiarato
colpevole di
Dio solo sapeva cosa e ciò bastava per farlo scomparire
dalla circolazione. A
nessuno importava se fosse innocente o meno, ma il diretto interessato
pareva
non prestare attenzione a quelle formalità, preferendo
esercitarsi in passi di
danza, tirando al limite i nervi dei suoi compagni di cella, ovvero un
clown
del circo, un fabbricante di candele e un moccioso Rivoluzionario.
Proprio
un bel gruppetto.
-Lo
sto facendo per voi, per aiutarvi a dimenticare le vostre sofferenze
con un po’
di arte!- rispose l’ultimo arrivato, fermandosi nel bel mezzo
di una piroetta e
trattenendo le braccia inarcate verso l’alto al centro della
cella.
Davanti
a lui, seduti a terra e addossati alla parete, i suoi nuovi amici lo
fissavano
truci, uno con un’aria omicida e lo sguardo tagliente che si
intravvedeva sotto
ai suoi ciuffi azzurri, mentre l’altro aveva solo la faccia
di chi era
rassegnato a dover sopportare una tortura, con la testa appoggiata al
palmo di
una mano e le gambe incrociate sul pavimento.
-Grazie,
stiamo bene lo stesso, amico.-
rispose sarcastico Bagy, sperando di essere riuscito a mettere fine a
quello
spettacolo pietoso.
-Forse
una pausa potrei prendermela.- rifletté il ballerino,
ponderando l’idea.
-Oh,
si!- sorrise speranzoso Mister Three, grattandosi via dalla mano i
residui di
cera che gli erano rimasti addosso la sera prima, quanto gli ufficiali
avevano
fatto irruzione in casa sua e nel suo negozio. –Riposati pure
Von Clay, sarai
stanco.-
Bagy
si scambiò con lui un’occhiata complice, sperando
di riuscire ad ottenere un
po’ di silenzio e tranquillità.
Stavano
quasi per convincerlo, quando, accanto a loro, coperto da una serie di
giacche
pesanti appartenute in precedenza ai tre uomini presenti nella cella,
emerse il
faccino assonnato e spaesato del più piccolo del gruppo,
Rufy, il quale si era
appisolato durante una performance del suo nuovo amico.
-Uh?
Hai già finito?- mormorò, fissando Von Clay e
facendo scorrere un brivido di
terrore lungo le schiene degli altri due. –Peccato, era
divertente.-
-Mon Dieu.-
mormorò Bagy rassegnato, passandosi
una mano sul volto, mentre l’idiota danzante che aveva di
fronte iniziava a
dare di matto, prodigandosi in ringraziamenti e assicurando al moccioso
una
seconda esibizione istantanea, dimenticandosi della pausa che avrebbe
dovuto
fare.
Non
ne poteva più di quei suoi compagni di cella e, anche se
sapeva che quella era
la sua condanna, sperò intensamente che gli venisse concesso
dal Cielo un
miracolo. Chissà, magari poteva venire la peste o il colera
a qualcuno di loro,
almeno ci sarebbe stata una seccatura in meno da sopportare.
Si
alzò, ignorando Rufy che batteva le mani a tempo e le
lamentele di Mister Three
che si tappava le orecchie, e si avviò verso la piccola
finestrella per
prendere una boccata d’aria e guardare di sotto.
Poggiò
le mani sulle sbarre e, scostando la camicia rossa che il ragazzino
aveva
legato ai ferri, fece scorrere lo sguardo sul profilo della bella
Parigi
illuminata dalla luna, silenziosa e calma come avrebbe dovuto essere
sempre, e
non rumorosa e sanguinosa a causa delle rivolte.
Rimase
a fissare il vuoto per qualche minuto, non prestando attenzione a
ciò che lo
circondava, anche se gli schiamazzi dei suoi compagni folgorati
disturbavano la
quiete. Forse fu per quei rumori che non si accorse subito di un
particolare
abbastanza interessante che si trovava parecchi metri più in
basso,
precisamente lungo la strada, ai piedi della prigione.
Quando
si accorse di un’ombra umana che agitava spasmodicamente le
braccia per farsi
notare, sbatté le palpebre e corrugò la fronte
curioso. Che diavolo stava
facendo quell’uomo a quell’ora di notte davanti
alla Bastiglia?
-Ehi,
ragazzi,- disse, continuando a guardare giù, sporgendosi
dalla finestra, -C’è
un tizio giù che sta facendo dei segnali.-
Rufy
smise di battere le mani, mentre Mister Three intimava Von Clay di
stare zitto
almeno per un minuto. –Forse è ubriaco.-
ipotizzò poi, alzandosi e raggiungendo
Bagy per guardare anche lui la scena, imitato anche dai due restanti
prigionieri.
-Chiudete
il becco, sta dicendo qualcosa.- si rese conto il clown, drizzando le
orecchie
e mettendosi in punta di piedi.
-Ehi!- udirono dopo
qualche secondo,
sbalorditi.
-Ma
chi diavolo è?- chiese Von Clay.
-Rufy!-
I tre
uomini si voltarono verso l’unico ragazzo che rispondeva a
quel nome, il quale
fissava la finestra con occhi sbarrati e pieni di sorpresa, mentre le
labbra
tremavano come il resto del corpo.
-Credo
che vogliano te.- ironizzò Bagy, facendogli posto e
lasciando che si
avvicinasse, caricandoselo poi in spalla per farlo arrivare
all’altezza della
finestrella.
-Rufy!
Mi senti?- continuava a gridare la voce, sempre più forte.
Rufy
strinse le sbarre, fremendo di impazienza e rispondendo al richiamo,
faticando
a mantenere la calma. Perché aveva riconosciuto quella voce,
solo non voleva
crederci per paura di risvegliarsi e scoprire che era tutta
un’illusione, che
si stava sbagliando e che quello da basso non era veramente il suo
fratellone
che era venuto a cercarlo come aveva sempre fatto, anche quando erano
piccoli.
-Rufy!-
urlò ancora il ragazzo in strada, iniziando a sorridere
sollevato quando
intravide una mano agitarsi dalla finestrella da cui pendeva la camicia
rossa
del suo fratellino.
-Ace!- si
sentì in risposta dopo qualche
istante, tanto forte e tanto chiaramente che il diretto interessato
scoppiò a
ridere felice, seguito dal gruppetto di Rivoluzionari che lo avevano
accompagnato nella ricerca, tutti sollevati dall’aver
finalmente scoperto dove
era stato rinchiuso uno dei membri più intraprendenti e
coraggiosi del gruppo
rivoltoso di Parigi.
-Ehi,
smettila di agitarti!- lo sgridò Bagy, tentando di tenere
fermo il corpo del
moccioso che si divincolava in tutti i modi, quasi come se volesse
schiacciarsi
verso la finestrella e per uscire fuori e gettarsi giù.
-Ace!-
ripeteva intanto il piccolo, con gli occhi inondati di lacrime e un
sorriso
tremolante, ma ampio, che gli incorniciava il viso, mentre i polmoni
gli
scoppiavano nel petto dato che continuava ad urlare il nome del
fratello
ritrovato, infischiandosene altamente di poter allertare in quel modo i
secondini. Era vivo, lo aveva sempre saputo dentro di sé.
Suo fratello era
troppo forte per soccombere. Era un vero guerriero e sarebbe sempre
tornato
indietro per lui. Sempre.
-Ace!
Sei vivo!-
-Certo
che si, che credevi?- gli venne risposto e quelle parole lo riempirono
di
gioia. Non gli importava più della prigione, della
Rivoluzione, dei nemici, non
gli interessava nulla. Ace era vivo, quello era l’importante.
-Che
succede qui?-
-Arrivano
le guardie.- lo avvisò Mister Three, il quale era corso
all’ingresso della
cella per guardare lungo il corridoio dal quale provenivano le voci
degli
ufficiali, disturbati da quel fracasso.
-Ace!-
ripeté allora Rufy, aggrappandosi alle sbarre per evitare
che Bagy riuscisse ad
allontanarlo prima che lasciasse il suo messaggio ai suoi compagni.
–Vieni a
prendermi!- gridò tra i singhiozzi. Non che avesse paura,
non che fosse debole,
ma solamente perché non voleva altro che abbracciare la sua
famiglia ancora una
volta.
In
strada, Ace udì chiaro e tondo quella preghiera e, annuendo
con determinazione
e stringendo i pugni lungo i fianchi con lo sguardo fiammeggiante di
amore
fraterno e rabbia verso la legge, tolse ogni preoccupazione al minore.
-Ti
salverò, Rufy!-
*
Il
Quartier Generale dei Rivoluzionari esisteva e non esisteva. Era
ambiguo, ma
era così. I rivoltosi non avevano un punto preciso in cui
incontrarsi, almeno,
quello era ciò che facevano credere alla guardia cittadina
che aveva setacciato
più della metà dei posti sospetti presenti in
città. Non era sicuro, infatti,
utilizzare edifici abbandonati o poco frequentati appunto
perché erano quelli
che più attiravano l’attenzione dei curiosi.
Per
cui, per la Corona, non esisteva nessuna mente
dietro ai cittadini arrabbiati e nessun luogo
segreto.
Quello
che ignoravano, però, era l’effettiva esistenza di
un posto in cui venivano
messe a tavolino tutte le strategie, passate e future, che adoperavano
i
Rivoluzionari e in cui venivano fatte discussioni, spesso con al finale
una
bella rissa, riguardanti le ultime novità in fatto di
politica. Insomma, una
vera e propria sala dei dibattiti situata nel luogo più
impensabile e
inquietante presente in città: le
cimetière de Père Lachaise.
Situato
nella periferia di Parigi, il cimitero poco frequentato e lasciato in
decadenza, con tombe e lapidi sbiadite dal tempo e dalle intemperie,
rappresentava il miglior punto d’incontro per i fuorilegge
che brulicavano
anonimi per le vie. All’interno di esso, più
precisamente nella tomba monumentale
di un ignoto francese morto per chissà quali motivi, si
trovava una spessa
botola di pietra che, se spostata, rivelava l’entrata del
covo della
Rivoluzione, conosciuto anche tra la popolazione con il nome di Corte dei Miracoli.
La
leggenda di un sito simile esisteva già da molto tempo e i
più furbi avevano
approfittato di quella credenza per coprire le proprie impronte e
lasciare
tutto nell’ombra.
Era
in quel buco sotto terra, illuminato da torce e riscaldato da tre
grandi
caminetti che si ritrovavano quella sera una quarantina di persone,
intente a
litigare, più che discutere, tra loro. Chi pretendeva di
avere più controllo,
chi azzardava proposte assurde per la nomina di nuovi capi, chi faceva
minacce
e chi dormiva, tutti seduti ad un enorme tavolo in legno massiccio e
scheggiato
in più punti da lame di coltelli o asce da boscaioli.
In
quel momento, Shanks sedeva a capotavola con un boccale di vino rosso
in una
mano e l’altra stretta tra i ciuffi vermigli che gli
ricadevano disordinati
sulla fronte, mentre si reggeva la testa che minacciava di esplodere da
un
momento all’altro.
Chi
glielo aveva fatto fare di presenziare a quella inutile riunione invece
di
rintanarsi a casa, a letto e tra le cosce di Makino. Cosce che, ad
essere
sinceri, non poteva avere. Al solo pensiero, prese un profondo respiro
per
calmare il suo animo e riprendere a pregare Dio che quella tortura
finisse
presto.
-L’altro
giorno avete combinato un disastro!- stava urlando qualcuno,
rivolgendosi
chiaramente alla rivolta fallita iniziata dagli ex carpentieri, amici
suoi per
l’appunto, gente che stimava. Ne avevano vinte tante e perse
altrettante, una
in più non faceva la differenza, perciò non
capiva quel continuo accanimento
verso Franky da parte di quell’obesa di Charlotte Linlin,
detta appunto Big Mom,
una donna massiccia, brutta e rivoltante come poche.
-Signora,
si dia una calmata o le verrà un colpo.- sibilò
in risposta l’uomo preso in
causa, calandosi degli occhiali scuri dalla montatura tagliente sugli
occhi e
incrociando le braccia sul petto ampio, senza più degnarla
di attenzione.
-Dovete
smetterla con le cazzate, stiamo rischiando grosso, soprattutto ora che
la
guardia del corpo reale è stata riorganizzata.- disse una
voce cupa e dal
timbro intimidatorio. Apparteneva ad uno dei pezzi grossi del gruppo.
L’uomo si
chiamava Kaido e non era ben chiaro il suo posto nell’alta
società. Di lui si
sapeva solo che era pieno di soldi, che poteva avere tutto quello che
desiderava e che detestava a morte il Re. Tutto sommato era un buon
alleato,
fedele alla loro causa e disposto a giocarsi il tutto per tutto. Solo
una cosa
non piaceva a Shanks, ovvero che fosse un borghese. Era più
forte di lui, ma i
borghesi proprio non li sopportava. Gli stavano sulle palle e basta.
-Ne
sei certo?- si obbligò a domandare, borbottando a mezza voce
e faticando a
tenere gli occhi aperti. Forse aveva bevuto troppo.
Kaido
gli rivolse un’occhiata truce, disgustato da quella feccia
che aveva davanti,
ma si sforzò comunque di rispondere. –Uno dei miei
uomini mi ha riferito che
quel coglione di un Re ha convocato dei mercenari. Immagino abbiate
sentito
parlare tutti della Flotta dei Sette.-
Un
mormorio di assenso percorse tutta la sala, ma quando alcuni dei
presenti
negarono, venne fatto un chiarimento su tutta la faccenda.
-Anni
fa i monarchi usavano avere delle guardie del corpo al loro servizio. I
primi
furono dei marines della flotta francese e da lì presero il
nome di Flotta; il numero ve lo
lascio
immaginare, ovviamente intende i membri che ne fanno parte.-
-Solo
che il gruppo venne sciolto dopo alcuni disagi sorti tra la Corona e le
guardie.- aggiunse Shanks sovrappensiero.
-Già,
ma stranamente ora è stato riassortito e, da quel che ho
potuto sentire, i
prescelti vengono tutti da fuori della regione.-
-C’è
un modo per saperne di più sul loro conto?- chiese Big Mom.
Shanks
guardò Kaido, il quale si strinse nelle spalle.
–Vedrò cosa riesco a fare.-
dichiarò, ignorando il sorrisetto del rosso poco lontano da
lui.
Non
correva buon sangue tra loro, era vero, ma si portavano reciproco
rispetto,
eccezion fatta per quando si comportavano in modo sconsiderato, cosa
che
capitava spessissimo quando si parlava di Shanks il Rosso, colui che,
pur di
difendere tutti i suoi uomini, i deboli e gli innocenti e i suoi
ideali, si era
lasciato sfregiare il volto senza pensarci due volte. Aveva dato inizio
lui a
quel circolo di gente che costantemente si riuniva più volte
a settimana nel
cimitero e tentava di trovare un accordo comune e un modo per mettere
fine a
quel periodo di guerra civile. Era stato per la curiosità di
conoscerlo che
Kaido aveva iniziato a riflettere sul suo rango e su tutte le
ingiustizie che
gli scorrevano sotto agli occhi. Quando poi si era reso conto che il Re
non era
altro che un’insulsa persona capricciosa e piena di boria,
aveva deciso di
mandarlo bellamente a quel paese, lui e tutti i suoi privilegi, e aveva
contattato il Rosso, scendendo a patti con quel topo di fogna che non
era
altro. Shanks era un personaggio molto amato dalla folla, tanto che
molti lo
chiamavano Imperatore,
così, sia lui
che Big Mom, i quali si erano uniti successivamente ai Rivoluzionari,
avevano preso
quel nomignolo, essendo anche loro persone di spicco in ambiti
differenti.
Kaido era un nobile molto potente, Big Mom pure, perciò
avere due personalità
del genere dalla parte della Rivoluzione a Shanks e a tutti gli
abitanti faceva
molto comodo.
Dopo
altre due lunghe ed estenuanti ore passate a stilare cartacce, brindare
ad un
futuro incerto, sparare alla cieca colpendo un uomo alla spalla, dare
la caccia
ai ratti che vivevano nella galleria e una bella scazzottata di gruppo,
poco
alla volta la sala si svuotò, lasciando l’addetto
all’ingresso per ultimo, il
quale chiuse bene a chiave le sbarre che si trovavano alla fine delle
scale che
scendevano sotto terra prima di uscire e far scivolare la lastra di
sopra la
botola, riportando tutto alla normalità nel bel mezzo della
notte. Poi ripose
il mazzo di chiavi in tasca e se ne andò fischiettando come
se niente fosse.
Intanto,
barcollante e con l’equilibrio incerto, Shanks si era
trascinato fino a casa,
nel bel mezzo del Quartiere di Montmartre, dove l’insegna del
suo locale
preferito svettava cigolante appesa ad un catenaccio affisso al muro.
Si infilò
nel vicolo che dava sul retro ed entrò dalla porta di
servizio, stando attento
a non fare rumore e spogliandosi nel tragitto dall’ingresso
al piano superiore dove
stavano le camere da letto dei mocciosi e della sua, anche se ancora la
diretta
interessata non lo sapeva, bella e futura donna.
Passando
davanti alle prime due camere, più piccole rispetto
all’ultima, non si accorse
che due dei tre ragazzini che bazzicavano per l’albergo erano
assenti, e
proseguì dritto fino a raggiungere l’ala del primo
piano che lo interessava.
Entrò
senza bussare, inciampando nei suoi piedi e facendo scricchiolare la
porta.
Rivolse un’occhiata sbieca al pomello e si portò
un dito davanti alle labbra,
intimando all’oggetto in metallo di fare silenzio.
-Shhh!- Era ubriaco e
non connetteva affatto.
-Shanks?
Che diavolo fai?- si sentì chiedere a bassa voce, mentre un
brivido gli correva
lungo la spina dorsale. Com’era adorabile Makino quando
dimenticava le buone
maniere e si esprimeva come gli scaricatori di porto a Calais.
Si
voltò a guardarla, trovando la stanzetta illuminata dalla
luce di due candele e
adocchiando subito come la camicia, oltre che i capelli sciolti e le
guance
arrossate, da notte le ricadesse larga sulle spalle, lasciando il resto
alla
sua immaginazione. Dannazione, quanto era attraente quella maledetta
ragazza.
Sorrise
sornione, avanzando verso il letto e togliendosi gli stivali,
lasciandoli
sparsi sul pavimento, seguiti a ruota dai calzoni. Proprio sul
più bello,
quando stava per levarsi anche le mutande, Makino decise di mandare in
fumo il
suo bel sogno.
-Shanks,
se non puoi trattenerti, vai dalle ragazze di Dadan. Loro sapranno come
soddisfarti.- lo beccò sorridente e per niente scocciata.
Ormai conosceva
quell’uomo e sapeva come trattarlo quando si trovava in
quello stato. Non
avrebbe ammesso, però, che vederlo senza vestiti le faceva
battere il cuore
all’impazzata.
-Oh,
avanti Makino!- si lamentò il rosso, buttandosi sul
materasso e facendo
cigolare le molle del letto, gattonando verso la sua direzione e
strappandole
le coperte di dosso per infilarsi al caldo, stringendosi a lei e
poggiando la
testa sul suo petto come un bambino. –Almeno fammi dormire
qui.-
La
ragazza quasi scoppiò a ridergli in faccia, ma non
protestò, scuotendo il capo
rassegnata e soffiando sulle candele per spegnere la luce, celando
così a quel
ragazzino troppo cresciuto il sorriso che le curvava le labbra.
Le
piaceva tanto Shanks, anzi, non aveva problemi ad ammettere a se stessa
che ne
era innamorata da sempre, ma non poteva di certo dirglielo e
dimostrarglielo
come avrebbe voluto. Insomma, lui era amato da tutta la popolazione e
lei non
voleva che dimenticasse o accantonasse i suoi progetti e sogni per
curarsi di
lei. Forse, un giorno, quando tutto quel dolore e quelle sofferenze
fossero
cessate, avrebbe potuto pensare di avere la sua opportunità,
ma, per il
momento, preferiva lasciarlo libero e mettere a tacere i suoi
sentimenti per
lui. Era la cosa migliore da fare e gli voleva troppo bene per
bloccarlo in
quella taverna con lei, una semplicissima locandiera, senza arte ne
parte.
Almeno con il suo lavoro poteva approfittare del fatto che vivesse in
una delle
camere che affittava, pagandole l’alloggio che, spesso, gli
lasciava volentieri
gratuitamente. Tutto, purché non rischiasse troppo la vita.
Tutto
pur di vederlo sorridere almeno una volta al giorno.
-Buonanotte
Shanks.- sussurrò sui suoi capelli, accarezzandoli
dolcemente.
-Makino.-
mormorò quello, mezzo addormentato.
-Si?-
-Je
t’aime.-
*
-Sei
certo che sia una buona idea?-
-A
cosa ti riferisci?-
-Insomma,
non sei ancora guarito del tutto. E dentro potresti avere bisogno di
aiuto.-
-Killer,
lo sai come funziona: io entro e svaligio la casa e tu fai il palo. Se
ci sono
casini spari un colpo. Chiaro?-
Il
ragazzo biondo sospirò sconfitto, alzando le braccia al
cielo e rispondendo
stizzito. –Va bene, va bene, ma non fare cazzate.- lo
ammonì, puntandogli un dito
contro.
Kidd
ammiccò esaltato, facendo saltare i cardini della finestra e
riuscendo così ad
aprirla silenziosamente per poi, dopo aver dato una consueta occhiata
in giro
per la strada deserta, infilarsi dentro l’ennesima abitazione
che avevano
scelto per il loro passatempo preferito, ovvero il furto.
Alle
spalle avevano una serie infinita di innumerevoli case svaligiate,
private di
qualsiasi tipo di oggetto di valore che si poteva rivendere o denaro, a
volte
persino del cibo per sfamare chi più ne aveva bisogno. Erano
bravi, veloci,
lesti e, soprattutto, silenziosi. Veramente, all’inizio, Kidd
non aveva avuto
tutte quelle qualità, infatti avevano dovuto fare molta
pratica al Sud prima di
arrivare al livello in cui i proprietari non venivano svegliati nel
sonno a
causa dei rumori molesti prodotti dal rosso, il quale sembrava avere il
brutto
vizio di finire addosso a qualsiasi mobile con la sua stazza poco
aggraziata.
Ad ogni modo, si erano perfezionati e, con Killer a fare il palo e Kidd
dalla
mano invisibile, riuscivano a darsela a gambe sempre in tempo.
Quella
notte, non stanchi e annoiati, avevano deciso, su ordine del rosso, di
entrare
in azione per sgranchirsi le gambe e avevano scelto un quartiere
residenziale
nella Rive Droite, dove ogni cosa era sinonimo di ricchezza, tanto che
ad
entrambi era venuto il voltastomaco.
Ecco
come Kidd era finito all’interno di una casetta
dall’aria agiata e raffinata,
con un piccolo giardino sul retro e l’edificio in stile
gotico. Entrare, come
arrivare al secondo piano, non era stato per niente difficile e, in
quel
momento, il ladro si apprestava a curiosare in una stanza ben arredata
e
ordinata, con un ampio letto al centro e un paio di grossi mobili
muniti di
mensole sulle quali vi erano riposti con cura maniacale tanti libri di
vario
genere. Erano talmente numerosi che Kidd si chiese se non si fosse
trovato in
una fottuta libreria. E lui, per inciso, odiava qualsiasi cosa munita
di pagine.
Diede
le spalle a quella carta straccia e si mise a frugare dentro ai
cassetti della
scrivania posizionata sotto una finestra che dava sul retro
verdeggiante,
sperando di trovare qualcosa di interessante oltre che fogli, penne e
calamai,
altri fogli e taccuini in pelle pieni di appunti. Possibile che chi
dormiva in
quella stanza non fosse provvisto di effetti personali?
Una
volta che quel pensiero venne formulato, nella mente di Kidd
scattò qualcosa
che lo mise in allarme. Qualcosa che avrebbe dovuto notare non appena
aveva
aperto la porta socchiusa lungo il corridoio e che lo aveva fatto
ritrovare in
quello spazio caldo e quasi accogliente.
Guardò
il letto accanto a lui e sentì un vuoto d’ansia
nel petto, come quando
scivolava da un tetto e cadeva a terra, conscio di potersi rompere
qualcosa.
Il
giaciglio, infatti, era vuoto.
-Bonsoir,
Eustass-ya.-
Vuoto
e, dannazione!, di
proprietà
dell’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento.
-Tu?-
ringhiò Kidd, alzandosi da terra e avanzando al centro della
stanza con i pugni
stretti lungo i fianchi e le spalle tese, -Che ci fai qui, tu?-
Davanti
a lui, Law ghignò come se non avesse aspettato altro che
quella domanda da
quando era entrato nella sua camera da letto mezzo nudo e con solo un
asciugamano avvolto attorno ai fianchi esili. –Io ci vivo
qui.- chiarì,
incrociando le braccia al petto e appoggiandosi allo stipite della
porta,
godendosi l’espressione prima spaesata e poi imbarazzata di
Kidd. Strano, era
forse lieve rossore quello che si intravvedeva sulle sue guance?
-A
quanto pare hai scelto la casa sbagliata in cui andare a rubare.- gli
rese noto
allora il giovane dottore, rincarando la dose di vergogna che Kidd
sentiva
montare su di sé ad ogni secondo che passava. Di tutti gli
stolti che gli
potevano capitare, proprio quel bastardo di un chirurgo doveva saltare
fuori a
rovinargli non solo il giorno, ma anche la notte? Avrebbe dovuto
ascoltare il
consiglio di Killer e andare con Franky all’incontro alla
Corte dei Miracoli.
Strinse
i denti, continuando a fissare truce gli occhi divertiti e per niente
impauriti
di Law, il quale si stava godendo la scena, gongolando apertamente per
la
figuraccia fatta da quello che era stato un suo paziente. Aveva capito
fin da
subito che era un tipo senza speranza, ma non lo aveva creduto idiota
fino a
quel punto. Ovviamente, tutti potevano sbagliare un giudizio una volta.
-Ora
che fai? Te ne vai da solo o devo buttarti fuori a calci?- lo
punzecchiò
ancora, staccandosi dal legno della porta e camminando tranquillo nella
stanza,
recuperando degli abiti puliti e andandosi poi a vestire dietro ad un
separé
disposto in un angolo che Kidd non aveva notato in precedenza. Sperava
solo che
non facesse troppo casino perché, se il suo tutore si
svegliava e veniva a
controllare, sarebbero stati guai per tutti.
Era
meglio non scherzare con uno sentimentale, credulone e tendente
all’isterismo
come Corazón.
-Che
ne dici se finisco di curiosare e poi sparisco?- propose allora il
rosso, non
volendo dargliela vinta e desideroso di prendersi la sua rivincita che
tanto
agognava. Da quando si erano incontrati, Trafalgar Law aveva sempre
avuto la
battuta finale nei loro battibecchi, perciò era convinto che
dovesse pagare
almeno una volta per la sua linguaccia troppo saccente e per il
comportamento
irriverente che aveva mostrato nei confronti di un assassino esperto.
Non
voleva ammettere, inoltre, che la curiosità lo stava
logorando. Cosa ci faceva
un medico che aiutava i Rivoluzionari in una casa chiaramente agiata?
-Fai
con comodo.- gli venne risposto, contrariamente a quello che aveva
pensato,
così, senza farselo ripetere, riprese a rovistare tra gli
effetti personali di
Law, scovando finalmente un orologio da tasca e facendolo scomparire
immediatamente dentro un taschino interno della sua giacca sgualcita e
sbrindellata.
Poi
si alzò e si guardò di nuovo attorno, camminando
per la stanza sovrappensiero,
mentre Law usciva allo scoperto infilandosi una camicia bianca,
iniziando ad
abbottonarla con calma e mantenendo gli occhi fissi in quelli
dell’intruso.
Si
studiarono a vicenda, uno cercando di capire se aveva davanti un
borghese
traditore; l’altro pensando se i Rivoluzionari avessero
deciso di mandare Kidd
in avanscoperta per testare la sua lealtà verso di loro.
Dopotutto, se l’era
aspettata da sempre una mossa del genere ed era piuttosto sorpreso di
vedere
che avevano aspettato così a lungo.
-Allora,
qual è il verdetto?- chiese di getto.
Kidd
aggrottò le sopracciglia. –Il verdetto?-
-Mi
ritenete una doppia faccia o no?- insisté Law, attento a non
mostrare nessun
tipo di preoccupazione o emozione. Un po’ lo infastidiva
quella tattica che
avevano adottato nei suoi confronti. Insomma, dopotutto aveva salvato
il culo
ad un sacco di persone con un piede nella fossa. Possibile che non si
fidassero
ancora di lui? Mandare quell’esaltato era stato
così necessario?
Kidd
sbatté le palpebre sinceramente stupito e, per la prima
volta, Law si chiese se
non avesse fatto male i suoi calcoli, dato che era abbastanza bravo a
leggere
le espressioni della gente.
-Non
so di che diavolo stai parlando, ma se è un contorto modo
per chiedermi se mi
piaci e mi fido di te, la risposta è no.- chiarì
il rosso, giusto per non
lasciare fraintendimenti o cose in sospeso. Quel tipo lo faceva
incazzare e gli
faceva prudere le mani. Aveva una costante voglia di prenderlo a pugni
e non
capiva cosa cazzo ci fosse di così divertente in quella
situazione, dato che il
moro si era appena messo a ridacchiare da solo, continuando a fissarlo
con quei
suoi occhiacci freddi e inquietanti.
-Ma
dai, e io che credevo di esserti simpatico.- ironizzò Law,
poggiando le mani
sui fianchi e ghignando beffardo. Il suo ambiguo buon umore e senso
dell’umorismo erano tornati; era chiaro che Kidd non fosse
capitato lì di
proposito e, di certo, i Rivoluzionari non avevano avuto nessun motivo
per
dubitare di lui. Se la Corona cadeva a lui non fregava proprio niente.
L’importante era non venire troppo coinvolto e, soprattutto,
non essere preso
di mira dalla folla inferocita una volta che quella avrebbe spodestato
sovrano
e nobili. Perché era chiaro che avrebbe vinto il Terzo Stato
alla fine.
Insomma, erano nettamente superiori e dalla loro parte avevano un
malcontento
covato per anni e arrivato al limite della sopportazione. Quanto
avrebbero
resistito ancora le guardie? Poco, di ciò Law ne era certo.
Kidd,
ignaro di tutti i ragionamenti che la mente del suo rivale stava
facendo, si
sentì sempre più preso in giro, tanto che la
tensione accumulata stava per
fargli dimenticare dove si trovasse, portandolo a compiere qualche
sciocchezza.
Andiamo, se avesse ucciso un borghese spocchioso nessuno gli avrebbe
detto
nulla, no?
-Scusa,
ma i figli di papà non mi vanno a genio.- sibilò
con un sorriso tagliente.
Law
inarcò un sopracciglio, per niente toccato. -Però
ti piace fissarli quando sono
mezzi nudi? Fammi capire.- disse con espressione fintamente angelica,
mentre il
viso di Kidd andava in fiamme, raggiungendo quasi il colore dei suoi
capelli
rossi.
-C-che
cazzo d-dici?- sbottò, indietreggiando verso la porta.
Assolutamente, per
nessuno motivo, lui aveva guardato quel bastardo di Trafalgar con
interesse
quando gli era apparso sotto al naso praticamente senza niente addosso.
Non gli
era passato nulla per la testa. Niente. Rien!
C’era
solo una soluzione: Law era un maledetto stronzo.
E per
Kidd era arrivata l’ora di andarsene, e di corsa.
Diede
le spalle al ragazzo, il quale aveva preso a ridere sonoramente, e
raggiunse la
porta, non riuscendo però ad allontanarsi senza che le
parole del dottore gli
arrivassero alle orecchie.
-Bonne nuit, Eustass-ya!-
Possibile
che anche quella volta dovesse avere lui l’ultima parola?
*
A
palazzo, in una delle sfarzose sale adibite per i banchetti, sedevano
attorno
ad un tavolo sei personaggi che mai si erano visti per le vie di
Parigi. Venivano
da fuori della regione, alcuni anche da un altro stato confinante con
la
Francia e non. Stavano mangiando, prendendosi la loro meritata pausa
dopo una
giornata estenuante passata a trattare con il sovrano francese. Si
erano
presentati tutti all’appello, chi per interesse personale,
chi per denaro, chi
per promesse di potere, chi per amicizia, ma ognuno di loro era
lì non per
fedeltà.
Erano
mercenari, non avevano un vero e proprio Re a cui obbedire,
rispondevano solo
all’offerente migliore e, in quel momento, i francesi avevano
pagato fior di
quattrini il loro sevizio.
La
Flotta dei Sette era stata di nuovo riunita ed erano tutti eccitati e
ansiosi
di entrare in azione.
C’era
comunque silenzio nella sala, interrotto solamente dalle posate che
tintinnavano all’uso, mentre i presenti pensavano ognuno ai
fatti propri, non
intenzionati a disturbare gli altri e ben decisi a mantenere la
tranquillità
che volevano.
Alcuni
erano più portati per quel tipo di comportamento, altri,
invece, aspettavano
solo il momento migliore per dare inizio al finimondo.
Ad un
tratto, la porta principale si aprì lentamente, rivelando la
figura del settimo
componente della nuova Guardia Reale, il quale, senza salutare nessuno
e senza
scusarsi per il ritardo, si avviò verso il suo posto, deciso
a rimanere zitto e
pronto a mettere qualcosa sotto ai denti.
-Bene,
bene, bene.- iniziò a dire, invece, una voce divertita.
–Drakul Mihawk. Finalmente
ti sei deciso di degnarci della tua
presenza.-
Il
diretto interessato, senza scomporsi, si concentrò un attimo
sul suo
interlocutore, squadrandolo e decretando che no, non aveva ne tempo, ne
voglia
di perdere la cena per uno che andava in giro con un assurdo cappotto
di piume
orribilmente rosa. Probabilmente veniva da qualche posto nel mondo
pieno di
fenicotteri e aveva tutta l’aria di essere un piantagrane. E,
per inciso, lui
non sopportava gli inetti rompiscatole. Per quel giorno aveva
già avuto a che fare
con una piantagrane e non aveva nessuna intenzione di ripetere
l’esperienza.
Alla
fine se ne era liberato, scendendo a patti con quella mocciosa viziata
e
obbligandola a mostrargli l’uscita segreta che esisteva nelle
mura della
reggia, promettendole in cambio di non rivelare al padre le sue fughe
clandestine e risparmiandole una strigliata con i fiocchi.
Aveva
sopportato abbastanza, quindi.
Spostò
i suoi occhi gialli sul suo piatto e da lì non li
alzò più, ignorando la risata
sguaiata del suo vicino e lasciando che parlasse a vanvera.
-Doflamingo,
dovresti chiudere il becco.- disse un altro, seduto a capotavola e
intento a
bere una sorsata di vino pregiato da un calice altrettanto di valore.
Donquijote
Doflamingo sorrise in
direzione di quell’uomo,
sghignazzando e osservandolo attentamente. –Sai, Crocodile, fossi in te porterei un
po’ più di rispetto a chi ti sta
intorno.- disse maligno, nascondendo nella frase una chiara minaccia.
Crocodile,
però, non si lasciò impressionare e rispose a
dovere. –E io mi guarderei le
spalle, fossi in te.-
Una
risata sinistra disturbò le orecchie di tutti, mettendone il
proprietario in
primo piano e dandogli così modo di esprimersi in quello
scontro verbale nato
per un nonnulla. –Vi siete appena incontrati e già
vi fate la guerra!-
Gekko Moria era sempre stato
un tipo alto e
grosso che amava vedere gli altri combattersi, stando in disparte e
attaccando
solo quando era il momento migliore e propizio. Si trovava
lì per denaro, come
la maggior parte dei presenti, ma aveva iniziato subito a divertirsi
immensamente.
Crocodile
lo guardò schifato, mentre Doflamingo fece finta di non
averlo sentito,
preferendo osservare come i restanti membri continuassero ad ignorare
il
battibecco, mangiando silenziosamente e desiderosi di andarsene.
-Vediamo,-
disse, poggiando il mento su una mano, -Orso
Bartholomew, Jinbe e la bellissima Boa
Hancock.-
La
donna gli gettò un’occhiata gelida e aggressiva
che fece allargare il ghigno
sulla sua faccia. –Coraggiosa, ma ingenua.-
-Non
hai di meglio da fare, Doflamingo?- si intromise a quel punto Jinbe, il
quale,
in quanto a stazza, era il doppio di lui e in uno scontro istantaneo
avrebbe
avuto la meglio. La cosa migliore era quindi lasciar perdere il
divertimento e
andarlo a cercare altrove. Dopotutto, avrebbe avuto tutto il tempo a
sua
disposizione per far impazzire i suoi nuovi e sciocchi compagni
d’armi.
-Signori,-
disse allora, alzandosi elegantemente da tavola, -E’ stato un
piacere. Vi
auguro una buona notte.- e, con ciò, si diresse
all’uscita a passo lento e
rilassato, la testa alta come se fosse stato il padrone della reggia e
la
sicurezza di chi sa di essere superiore e intoccabile.
Crocodile
storse il naso, gettando infastidito il tovagliolo sul tavolo e
preparandosi a
lasciare la stanza anche lui. L’aria lì dentro era
irrespirabile.
Moria
non la smetteva di sghignazzare sotto i baffi e dopo poco anche lui si
dileguò,
imitato da Orso Bartholomew e Boa Hancock.
Jinbe
finì il suo pasto in silenzio, alzandosi una decina di
minuti dopo, pronto per
andare a dormire e dimenticare quella giornata infernale. Fece un cenno
di
saluto a Mihawk, il quale rispose allo stesso modo. Tra tutti, quel
tizio alto
e grosso era uno dei pochi che non gli stavano antipatici.
Rimase
solo a consumare il suo pasto, soddisfatto di non avere più
persone fastidiose
attorno e preparandosi mentalmente ai giorni di fuoco che lo
attendevano.
Sarebbe stata una tortura, già lo sapeva, ma la paga era
buona. Sperava solo di
poter lavorare da solo e non in compagnia di qualche idiota.
Preferiva
la solitudine e non sopportava gli altri membri della Flotta dei Sette,
i
quali, anche se si detestavano a vicenda, condividevano il suo stesso e
identico pensiero.
Almeno
in qualcosa erano d’accordo.
Angolo
Autrice.
Buongiorno
a tutti! Il mio umore non è dei migliori e in più
dalle mie parti piove
;_______; ma è sabato, quindi significa festone assicurato
durante il fine
settimana, almeno si spera.
Ecco
il quarto capitolo ^^
Sorpresa:
c’è Perona ** contenti? E’ la prima
volta che mi cimento con il suo
personaggio, spero vogliate scusarmi eventuali cavolate sul suo conto.
Inoltre,
automaticamente mi ritrovo a descrivere anche Mihawk, perché
a mio parere sono
tanto carini assieme, perciò prego Dio di non combinare
disastri. Per ogni
dritta, comunque, sono sempre qui e i suggerimenti sono ben accetti.
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfa1/v/t1.0-9/10360390_1587861594766010_18601949868056779_n.jpg?oh=60d494d5e6ca56ed748aefc4f0f849d3&oe=556C8DFE
Perona.
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfa1/v/l/t1.0-9/1625680_1587861584766011_12287280423337973_n.jpg?oh=78bf835160dc0ad156f8b0ab6009e32e&oe=5527A267
Mihawk. (Bellissimo Mihawk **).
Ammetto
di aver rubato preso in prestito il nome di Corte dei Miracoli dal Gobbo
di Notre Dame. Scusate, ma mi piaceva troppo e lo trovavo
azzeccato per il
tema. Il cimitero in cui si trova, invece, esiste tutt’oggi e
si trova a nord
di Parigi, mi pare.
Altro
piccolo particolare un po’ simpatico: quando ho iniziato a
scrivere questa ff,
inserivo la Tour Eiffel ovunque.
Grazie
a Dio, documentandomi sulla Rivoluzione Francese, mi sono ricordata che
il
monumento è stato costruito molto tempo dopo. LOL.
E si,
Shanks sta a capo dei Rivoluzionari ed è innamorato delle
cosce di Makino :P
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfa1/v/t1.0-9/1493230_1587861614766008_6991372847784362843_n.jpg?oh=e71bd1d497ac889e902f39f3346f73e7&oe=552E2A58
Shanks alla Corte dei Miracoli.
Alla
Bastiglia le cose vanno alla grande e, avendo amato alla follia la saga
di
Impel Down, che mi ha fatto ridere come una matta ogni volta che
c’erano Bagy e
Mister Three, non ho potuto non inserirli. Li amo troppo.
Ace,
invece, dopo aver setacciato la città, ha trovato
l’indizio lasciato da Rufy e
ha pensato bene di andarlo a consolare. La situazione avrebbe dovuto
essere
inversa, ma il fiammiferino mi serve libero e in ottima forma. Rufy,
fino al 14
luglio, può starsene in prigione a cincischiare :D
https://scontent-b-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfp1/v/t1.0-9/10157357_1587861621432674_3439522904975057371_n.png?oh=dc441410bc2a337fe3dd1ea979910c28&oe=55651746
‘Ti salverò, Rufy.’
E infine
la Flotta dei Sette. Non è vero che i sovrani avevano
ingaggiato dei marines
per la loro protezione, me lo sono inventato per adattare al meglio il
gruppo
di personaggi perché se non ci metto il naso non sono
contenta. Apprezzate l’impegno,
dai, cerco di fare del mio meglio ;________; anche se sono certa che
non vi
dispiace così tanto sapere che Doflamingo ci
metterà lo zampino e che ci
scapperà il morto.
A
proposito,
si tratta di una guerra, mi pare giusto avvisarvi, se non
l’ho già fatto, che
qualcuno DOVRA’ morire. Non so ancora chi, ma
accadrà per forza. Si, vi voglio
bene anche io.
https://fbcdn-sphotos-d-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xfp1/v/t1.0-9/10923618_1587861624766007_3471574857495952081_n.jpg?oh=413859e8625042370b58294ae71491b9&oe=556CB0FE&__gda__=1428562862_7d83b4acd31a51204d15b56df7a2026e
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xpa1/v/t1.0-9/10897007_1587861644766005_6813054135721456794_n.png?oh=4368885e544eb7c2a68760b76cb4235d&oe=5520990D
Per
oggi è tutto, alla prossima settimana quindi!
Vorrei
poter aggiornare più spesso. In effetti, i capitoli pronti
arrivano fino al
decimo, ma vedo che mi ritrovo con il tempo misurato per continuare a
scrivere,
quindi preferisco aspettare di concluderla, sempre se ce la
farò in tempo.
dovrete portare pazienza, anche perché avevo previsto che
fosse molto più
corta, invece l’arco temporale che voglio coprire
è parecchio lungo, tipo che
la storia inizia in primavera e dovrà concludersi dopo circa
un anno per
trattare al meglio tutta la parte dell’Assemblea Nazionale
Costituente, la
presa della Bastiglia e la fuga del Re. Ripeto, armatevi di tantissima
pazienza.
Ad
ogni modo, avviso che Tashiji e Smoker non ricompariranno per un pezzo
e altre
coppie faranno la loro comparsa in seguito, abbiate fede.
Grazie
come sempre a tutti, recensori, vecchi e nuovi lettori.
A
sabato con il quinto capitolo ^^
See
ya,
Ace.
|
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Capitolo 5 *** Cinq. ***
Liberté,
Égalité, Fraternité.
Cinq.
Il
mattino arrivò lento, portando i primi raggi di sole a
filtrare attraverso le
finestre e a disturbare i più pigri che avrebbero preferito
dormire qualche ora
in più. Fu così per chi viveva in
città, ma la scena si ripeté anche nel bel
mezzo delle paludi dove, anche se la luce del giorno faticava a
brillare
attraverso la fitta vegetazione, chi vi abitava aveva imparato da molto
tutti i
trucchi per svegliare l’intero accampamento in un modo
semplice ed efficace.
Quanto
fosse piacevole, poi, era da discuterne, ma l’importante era
che funzionasse.
Per
quel motivo che, come ogni mattina, Thatch, dopo essere stato svegliato
allo
stesso modo, si apprestava a raggiungere la tenda accanto alla sua con
in mano
un secchio pieno d’acqua che non gli sarebbe di certo servito
per cucinare. Il suo
intento era far alzare dal letto una persona dall’indole
combattiva e poco
cavalleresca che, molto spesso, lo metteva in crisi, oltre a lasciarlo
spesso
con un velo di imbarazzo e rossore sulle gote. Che nome avessero quelle
sensazioni contrastanti non lo sapeva, solamente si rendeva conto che
qualcosa
nel suo stomaco non funzionava bene quando passava il tempo in sua
compagnia.
Entrò
nella tenda, facendo attenzione a non fare rumore, e si
avvicinò al giaciglio
su cui dormiva rannicchiata una figura all’apparenza
piccolina, ma capace di
prenderlo a schiaffi con la stessa forza che ci metteva Marco quando
era
incazzato. Fu tentato di concederle un risveglio meno tragico, ma si
ricordò di
tutte quelle volte che era stato svegliato in modi barbari,
così non si lasciò
prendere dai sentimentalismi e rovesciò senza
pietà l’acqua in testa alla
povera ragazza che stava sognando beata fino a pochi secondi prima.
Si
tenne lo stomaco per le risate mentre la guardava emergere dal
groviglio di
coperte con i capelli zuppi e le gocce umide che le scendevano sul viso
fino a
bagnarle anche il pigiama.
-Thatch.-
la sentì ringhiare, come se il suo nome fosse stato
un’imprecazione, -Brutto
stronzo!-
-Buongiorno
anche a te, Haruta.- riuscì a dire tra le risate il ragazzo,
ignorando
bellamente lo sguardo assassino che gli era puntato addosso.
–Dormito bene?-
Per
tutta risposta gli arrivò qualcosa di pesante in testa che
gli fece parecchio
male e si rese conto di aver lasciato il secchio in legno troppo vicino
al
povero pesce fuor d’acqua che aveva davanti fino a poco
prima. Haruta, infatti,
era balzata giù dal letto e, dopo essersi vendicata, non
contenta, gli era
saltata sulle spalle, arrampicandosi sulla sua schiena e appollaiandosi
lì,
obbligandolo a tenerla in braccio stringendole le gambe.
-E
adesso?- le chiese Thatch sorridente, voltando un poco il capo per
guardarla in
faccia e ricambiando il sorriso che gli veniva rivolto.
Lei
si strinse nelle spalle. –Adesso mi scarrozzerai in giro
tutto il giorno.-
dichiarò allegra, scalciando e colpendolo ai fianchi per
incitarlo a muoversi.
–Portami a fare colazione, su.-
-Lo
sai che questo è schiavizzare le persone?- le rese noto,
obbedendo comunque
alla sua richiesta.
-Così
impari a svegliarmi come un barbaro.-
-Che
ne dici se passiamo a svegliare anche Marco?-
-Sei
pazzo? Poi ci ammazza.-
-Allora
andiamo dal babbo.-
-Non
lo so se è il caso.- mormorò Haruta, indecisa.
-Ti
prego!- insisté il ragazzo, sfoderando quella che secondo
lui era un’occhiata
da cucciolo indifeso e bisognoso di affetto, anche se tutti affermavano
che
sembrasse più un ubriaco che altro.
-E va
bene!-
Si
catapultarono fuori dalla tenda ridacchiando come facevano sempre
quando erano
assieme. Se c’era qualcuno con cui Thatch amava passare il
tempo oltre ai suoi
fratelli di sangue, quella era Haruta, quell’impavida ragazza
che riusciva a
tenergli testa in uno duello uno contro uno e che, una volta,
l’aveva pure
battuto. Anche se, per evitare che i suoi compagni lo prendessero in
giro fino
alla sua morte, non si era vantata con nessuno e aspettava di essere
sola con
lui per lanciargli frecciatine e deliziarlo di battutine taglienti. Era
una
persona che lo capiva, che aveva tanta voglia di scherzare quanta ne
aveva lui
e riusciva a capirlo con uno sguardo o con un sorriso.
Sinceramente,
alla diretta interessata piaceva stare con lui, la metteva sempre di
buon umore
e, sebbene fosse noto a tutti quanto l’uomo fosse un
dongiovanni, ad Haruta non
importava perché, come si comportava con lei, ovvero in modo
gentile,
rispettoso e onesto, non lo faceva con nessun’altra. Solo con
lei passava le
serate a chiacchierare e suonare la chitarra; solo per lei rubava i
dolci dalla
cucina per poi portarglieli al mattino o prima di andare a letto; non
le
rispondeva male e, soprattutto, non si stancava mai della sua
compagnia.
Si
divertivano un sacco e, quando Thatch, nei momenti in cui era
più ubriaco, si
lasciava andare alla sincerità, le diceva sempre che, se mai
si fosse sposato,
avrebbe voluto lei accanto.
E,
quando ciò succedeva, per Haruta era sempre
l’attimo più bello di tutti.
Mentre
si dirigevano verso le sorgenti per recuperare un po’
d’acqua da usare per il
risveglio dell’ignaro e addormentato Barbabianca, in
un’altra tenda Sabo era
fortunatamente sveglio e vigile, intento ad ascoltare gli schiamazzi
che
sentiva provenire da fuori.
Erano
passate ormai due settimane da quando aveva rischiato di morire,
salvato per
miracolo da una sconosciuta che aveva poi perso il sonno e tempo
prezioso per
mantenerlo in vita, riuscendoci, stando a quanto aveva detto Trafalgar,
egregiamente e senza danneggiarlo durante l’operazione
effettuata sulla ferita
d’arma da fuoco. Si stava riprendendo abbastanza velocemente:
mangiava, stava
al caldo e, di tanto in tanto, provava ad alzarsi, quando nessuno era
nei
paraggi, e passeggiava nella tenda, sgranchendosi le gambe e sbirciando
fuori,
aspettando che il tempo passasse e portasse con sé notizie
differenti.
A
volte si addormentava e dormiva molte ore, svegliandosi e trovandosi
con le
coperte pulite o un piatto di zuppa calda e, a detta sua, deliziosa
sopra al
tavolino basso accanto al letto. Tutte piccole cose che associava ad
una sola
persona che non vedeva da parecchio, per la precisione da quando si era
svegliato.
Pensava
spesso a come si era comportato con quella ragazza che non conosceva
affatto e
gli dispiaceva non riuscire a parlarle. Le avrebbe chiesto scusa e le
avrebbe
promesso di seguire tutte le indicazioni che gli avrebbe dato pur di
farsi
perdonare. Dopotutto, le doveva la vita, quindi scusarsi era il minimo
che
potesse fare. Da quel poco che aveva potuto apprendere parlando con
lei, sapeva
che era simpatica e socievole, nonché paziente, dato che
aveva passato una
notte intera a vegliarlo e a calmarlo durante i suoi deliri dovuti alla
febbre.
La mattina, quando poi si era svegliato, avevano chiacchierato molto e
Sabo
ricordava di essersi impegnato parecchio per vederla ridere di continuo
perché
la sua risata gli piaceva tanto, era contagiosa. Aveva un bel sorriso
Koala e
anche delle belle mani. Erano state leggere e quando gli aveva cambiato
le
bende non aveva sentito male, mentre i tizi che lo avevano seguito
quelle
settimane non erano stati altrettanto bravi. Gentili e disponibili,
certo, ma
non erano lei, ecco.
Sospirando,
si tirò su a sedere, stiracchiandosi allungando le braccia
verso l’alto e
sbadigliando sonoramente, scompigliandosi poi i capelli sempre
più folti che
gli cascavano in ciocche disordinate e leggere sugli occhi.
Lasciò ricadere le
mani in grembo e le fissò inebetito, riflettendo sul cosa
fare. Magari se si
fosse vestito bene e fosse sgusciato fuori a prendere un po’
d’aria nessuno gli
avrebbe detto niente. Solo cinque minuti, poi sarebbe rientrato.
Mentre
rifletteva sul da farsi, il pesante tendaggio situato
all’ingresso venne scostato,
rivelando una figura, diversa da quelle che si era abituato a vedere in
quei
giorni, indaffarata a tenere in braccio un enorme cesto pieno di
biancheria. Di
lei si distinguevano solo un cappellino rosso, come i suoi capelli del
resto, e
una camicetta rosa arrotolata fino ai gomiti sottili.
Sabo
rimase a guardare Koala mentre avanzava verso il letto cercando di non
fare
troppo rumore, camminando quasi in punta di piedi e rischiando di
inciampare proprio
quando era arrivata a destinazione. Così poggiò a
terra il cesto e si tirò su
soddisfatta con un sorriso stampato in viso che, per
l’appunto, scomparve
quando incontrò lo sguardo incuriosito e limpido di Sabo.
Rimasero
a fissarsi per qualche attimo in imbarazzo, entrambi indecisi su cosa
dire e su
come comportarsi. Per la precisione, quello in ansia era Sabo, Koala
era
semplicemente sorpresa di trovarlo sveglio e senza uno straccio di
maglia
addosso a parte le bende. Si sarebbe preso un malanno in quel modo.
Stava
per farsi prendere di nuovo da quel suo maledetto altruismo, ma, quando
parlò,
dalla sua bocca uscì altro. -Scusami, torno più
tardi.-
Che
sciocca, continuava ancora a fare l’offesa per quel piccolo
battibecco. Stava
diventando sempre più simile a quel permaloso di Marco e la
cosa non le piaceva
affatto. Insomma, alla fine non era successo nulla, le avevano
semplicemente
contestato il suo lavoro, prendendosela con lei senza nemmeno una
valida
ragione.
Ripensandoci,
forse si meritava ancora un po’ di solitudine quel francese.
-Ma
no!- ribatté svelto Sabo, facendole segno di fermarsi e non
andare via.
–Ascolta, mi dispiace, va bene? Sono stato un maleducato e
non avevo il diritto
di contestarti.- disse di getto per evitare di vederla sgusciare via di
nuovo,
temendo poi di non rivederla per altre due settimane. Tutto aveva un
limite,
accidenti, e lui stava impazzendo in quella schifosa tenda.
Koala
sbatté le ciglia lunghe e guardò Sabo agitarsi
sotto il peso del suo sguardo
fermo che, dopo poco, si addolcì, seguito a ruota da un
sorriso sincero. Non
era così scemo come pensava, allora.
-Non
devi preoccuparti, davvero. E’ tutto a posto.- gli
assicurò, contenta di poter
chiarire quella faccenda.
-Ti
sarò sembrato un moccioso.- borbottò il ragazzo,
accennando un sorriso e
guardandola di sottecchi.
Lei si
strinse nelle spalle e si sedette sul bordo del letto accavallando le
lunghe
gambe. -Un pochino.- ammiccò scherzosa, contagiando Sabo con
quella sua risata
allegra e lasciando che i loro piccoli e sciocchi fraintendimenti
scemassero
via, lasciando posto al buonumore e a quella simpatia reciproca che
avevano
avuto sin dall’inizio.
-Finalmente
sono riuscito a beccarti.- disse il biondo, scostandosi i capelli dalla
fronte
e attirando così l’attenzione su quel particolare.
Koala
lo guardò pensierosa, perdendo il filo del discorso e
cercando una soluzione
per quell’impiccio. –Ehi, e se ti tagliassi i
capelli?- se ne uscì, cogliendolo
alla sprovvista e allungando una mano per afferrare una ciocca ribelle
che
stava solleticando il naso di Sabo.
-Cosa?
No! No, assolutamente!-
-Oh,
ma dai!- lo riprese, scuotendo il capo. -Sono lunghi.-
-E
allora?-
-Non
ti danno fastidio?-
-No,
mi piacciono.-
-Almeno,
lascia che te li raccolga finché fai colazione.- propose.
-E
come pensi di fare? E dov’è la colazione?-
-Fidati.-
rispose la ragazza, sorridendo in modo furbo e slegandosi dal polso un
nastro
sottile che, in qualche minuto, legò tra i capelli mossi del
ragazzo, creando
un buffo ciuffetto in cima alla sua testa. L’unico problema
fu che non riuscì a
trattenersi dal ridere quando Sabo si voltò verso di lei,
guardandola
attentamente e imbronciandosi quando si rese conto che lo stava
bellamente
prendendo in giro.
-Ti
sei vendicata ora?- fece sarcastico, alzando gli occhi al cielo quando
lei
annuì contenta, prima di avvicinare il cesto ed estrarre del
pane, una
bottiglia di latte, frutta e alcuni biscotti recuperati in modi
alternativi dai
suoi compagni che da poco avevano abbracciato l’idea del
brigantaggio come
forma di passatempo.
Successivamente,
Sabo spazzolò via tutto dal piatto, battendosi la pancia
soddisfatto e sazio,
senza sentire o provare nessun tipo di dolore e fitte lancinanti al
fianco,
cosa che gli era successa spesso da quando era stato operato. Stava
decisamente
meglio, ne era certo.
Approfittò
per dirlo alla ragazza, la quale, dopo aver soppesato le informazioni,
decise
che avrebbero iniziato, poco per volta, una riabilitazione veloce,
visto e
considerato che il Rivoluzionario non avrebbe accettato tempistiche di
mesi, o
settimane.
Gli
cambiò le bende, esaminando attentamente la ferita
perfettamente rimarginata e
asciutta, passandogli poi i vestiti puliti che aveva recuperato per lui
e
aiutandolo ad indossare la camicia per evitarli movimenti bruschi.
-Ti
sta bene questo colore.- gli disse ad un tratto sovrappensiero. Trovava
che il
blu scuro della giacca che gli aveva preso si abbinasse bene non solo
al suo
aspetto, ma anche alla personalità che aveva. A Koala il blu
piaceva; il blu e
anche il colore del grano che avevano i capelli di Sabo.
-Tu
dici?- chiese il diretto interessato, guardandosi meglio.
-Certo!-
Indossati
anche un altro paio di pantaloni, gli stivali e una sciarpa pesante, su
obbligo
imposto da Koala, a Sabo fu finalmente concesso di mettere piede fuori
dalla
tenda.
Dovette
socchiudere gli occhi per abituarsi alla luce, seppur debole, di quella
mattinata primaverile, stringendosi nella giacca pesante e muovendo i
passi
lentamente, conscio di dover fare attenzione, ma tranquillo
perché accanto a
lui sapeva che Koala lo guidava sul sentiero un po’
accidentato, poggiandogli
leggermente una mano sulla schiena e pronta ad aiutarlo se si fosse
sentito
male.
Sabo,
però, si sentiva benissimo, come aveva sempre detto di
stare, e non poteva fare
altro che sorridere nel vedere il posto impensabile in cui si
trovavano. Non
aveva mai pensato alle paludi come un così efficace
nascondiglio e quella gente
straniera proveniente da chissà dove aveva trovato un vero e
proprio tesoro. Si
erano organizzati benissimo con focolari, tende coperte da fronde, armi
e turni
di guardia. Non ne era certo, ma gli sembrò addirittura di
intravvedere vasche
da bagno ambulanti piazzate nel mezzo della boscaglia. Qualcosa gli
diceva che,
se avesse conosciuto tutti i particolari, si sarebbe divertito un sacco.
-Dove
stiamo andando?- le domandò, continuando a guardarsi attorno
e sorridendo a
tutte le persone che incrociavano nel cammino, le quali salutavano
Koala
calorosamente e, anche se non lo conoscevano bene, rivolgevano
attenzioni anche
a Sabo, chiedendogli gentilmente della sua salute.
-Da
nessuna parte per adesso.-
-Perché
dici per adesso?-
-Non
lo so, te la senti di fare un giro turistico
dell’accampamento?- lo guardò
interrogativa, sbirciando il fianco ferito e mordicchiandosi un labbro
indecisa.
-Scherzi?
Devo ripeterti che io sto benissimo?-
fece Sabo, drizzando le spalle e puntandosi un pollice al petto,
sorridendo
smagliante per enfatizzare la cosa.
Koala
si ritrovò a sorridere, stranamente entusiasta per quella
risposta e impaziente
di portare in giro Sabo per fargli visitare quella che era diventata
ormai la
sua casa. Sarebbe stata una giornata alternativa e, forse, avrebbe
potuto avere
il tempo di chiedergli informazioni su Parigi, la vita in
città e tutto il
resto. Infondo, chiacchierare con lui le veniva estremamente facile ed
era pure
piacevole.
-Andiamo
allora.- decise, facendogli segno di seguirla.
Sabo
sorrise e non se lo fece ripetere. Un po’ d’aria
fresca e svago gli avrebbero
fatto solo bene.
-Fermo,
fermo, fermo!- urlò qualcuno all’improvviso,
spaventato e quasi isterico.
Sabo
si allarmò, non abituato a quelle situazioni. Il contrario
era per Koala, la
quale scosse il capo con rassegnazione, non prestando minimamente
interesse a
quelle grida disperate.
-Ehm,
va tutto bene?- si sentì domandare.
-Non
preoccuparti, è solo Thatch.- liquidò con un
cenno della mano.
-Sta
male?- insisté il biondo, alzando il capo per guardare oltre
una scia di
cespugli il punto in cui sembrava esserci del trambusto seguito da
risate e
schiamazzi.
-Deve
aver infastidito il babbo. Di nuovo.-
-Uh?
Il babbo?-
-Giusto,
tu non lo sai. Beh, magari più tardi te lo presento. Ora
andiamo.- lo rassicurò
Koala, afferrandogli un bracco con attenzione e trascinandolo dalla
parte
opposta del campo, decisa a presentargli qualcuno di non troppo matto o
fuori di
testa.
-Non
potete gettarmi nella Senna anche questa volta!-
Dio
solo sapeva cosa aveva combinato quello sconsiderato.
*
In
piazza c’era il mercato e la gente approfittava di
quell’occasione per uscire
senza il pericolo di incappare in una rivolta, acquistando quanto
più cibo
possibile nella speranza di non morire di fame e di stenti nei giorni a
venire.
Il
pane ormai era diventato quasi inaccessibile, come la carne del resto,
riservata praticamente solo ai nobili e al clero, i benestanti per
principio,
ma c’era ancora qualche brava persona che faceva affari sotto
banco, di
nascosto e pensando al bene comune dei cittadini più poveri.
-Siete
davvero gentile. Grazie infinite per quello che fate.-
-Si
figuri, ora vada e non si faccia vedere.-
La
donna si allontanò con due bimbi al seguito presi per mano,
nascondendo sotto
al mantello un consistente pezzo di carne che avrebbe usato a dovere
per
sfamare la sua famiglia, asciugandosi le lacrime di gioia che le si
affacciavano ogni qual volta quelle persone di buon cuore le tenevano
da parte
del cibo, consegnandoglielo senza ricevere nulla in cambio. Quella
donna non
era l’unica, molti altri si fidavano di quei bravi ragazzi al
banco della carne
e del pane. Altri commercianti li guardavano storto, ma bastava poco
per
zittirli, ovvero qualche occhiata omicida da parte del macellaio, il
quale non
si risparmiava di sgozzare maiali di fronte a loro, guardandoli come se
tra le
mani non avesse un animale, ma i loro corpi.
Certo,
Killer faceva una certa impressione, ma aveva un carattere
d’oro se lo si
prendeva da solo e non in compagnia di rozza gentaglia con cui, spesso,
si
accompagnava.
-Ehi,
Killer,- lo chiamò il panettiere con il quale collaborava,
il quale imitò una
vocina stridula facendo una faccia svenevole. –Come
sei gentile.- lo prese in giro.
Killer
sollevò il coltello sporco di sangue e glielo
puntò contro, prima di piantarlo
con decisione nel cosciotto di carne che stava dividendo.
–Sanji, farai la
stessa fine se non la smetti.-
Il
ragazzo ridacchiò per niente impaurito, riprendendo a
riempire i cesti con del
pane fresco che veniva direttamente dal forno del suo titolare, Zeff,
un
vecchio piuttosto scontroso, burbero e senza una gamba, ma che aveva
assunto
Sanji come garzone quando era ancora un moccioso, crescendolo e
dandogli sempre
una buona mancia affinché non finisse a bazzicare per le
strade come tanti
altri orfani.
Era
cresciuto bene con lui e cucinare gli piaceva, ancora di più
dividere il pranzo
con gli altri amici che aveva e che faticavano a mantenersi in salute
perché
sapeva quanto fosse orribile avere fame e non poter mangiare,
perciò aiutare i bisognosi
gli dava un’immensa soddisfazione.
E poi
incontrava anche un sacco di belle ragazze.
-Toh,
guarda chi si vede.-
Belle
ragazze, ma, purtroppo, anche gente insopportabile.
-Ciao
Zoro.- salutò Killer, alzando il coltellaccio verso il nuovo
arrivato, un
vecchio amico di entrambi, conosciuto grazie al movimento della
Rivoluzione del
quale facevano parte più della metà dei giovani
parigini.
Sanji
si limitò ad un cenno quasi invisibile del capo e Zoro di
certo non si sprecò
più di tanto.
C’era
da dire che tra i due non corresse affatto buon sangue, solamente una
grossa
dose di competizione e sfida, forse anche odio puro. E, nonostante i
loro amici
l’avessero domandato più volte ad entrambi,
nessuno dei due aveva risposto alla
domanda sul perché non andassero d’accordo. Si
insultavano, a volte persino
arrivavano alle mani, ma non si riusciva a trovare un motivo plausibile
per
quel loro disaccordo su tutto.
Era
normale, da un certo punto di vista. Perché, di
ciò Sanji e Zoro ne erano
certi, se avessero detto di essere finiti a dormire nello stesso letto,
sarebbe
successo il finimondo. Era accaduto una volta, per sbaglio, per caso, per disgrazia, dopo troppo alcool
assunto e molti anni addietro, quando ancora erano degli stupidi
adolescenti
alla scoperta del mondo, ma alla fine le cose si erano ripetute e non
potevano
più dare la colpa agli errori da marmocchi o alle sbronze
colossali. Iniziava
con una litigata, poi seguiva qualche pugno, ed infine la situazione
degenerava.
Sanji
non lo sopportava. Non accettava quel suo dover cedere sempre a Zoro
che, da
parte sua, non si capacitava di essere attratto da quello sciocco
damerino. Si
erano cacciati in una situazione assurda da cui non avevano idea di
come
uscirne indenni.
-Ehi,
mocciosi.- li richiamò Zeff dalla finestra della panetteria
che dava sulla via
principale, attirando l’attenzione dei tre giovani. Con il
capo indicò un punto
tra la folla e, dopo poco, spuntarono alla luce le classiche divise
degli
ufficiali, in giro come al solito a controllare che tutto fosse in
ordine.
-Ora
di filare, testa verde.- mormorò Sanji, continuando a
sistemare il pane, senza
degnare Zoro di uno sguardo, il quale, dopo aver grugnito un insulto
rivolto a
nessuno in particolare, si dileguò. C’erano alcuni
dei Rivoluzionari su cui pendevano
delle taglie e, se venivano identificati, finivano o alla gogna o in
prigione.
Tra questi c’era anche Zoro, ma la lista era piuttosto lunga
e parecchie
persone erano costrette a vivere nell’ombra e ad uscire di
rado, o
incappucciati. In inverno si andava bene, ma con la stagione bella le
cose
sarebbero state complicate per tutti i diretti interessati.
Uno
di loro era anche Kidd, il quale stava compiendo una delle sue solite e
giornaliere scorribande lungo una delle stradine interne della
città, dove stavano
i cosiddetti bassifondi di Parigi, saltando immondizia varia, barboni
senza
tetto, muretti e recinti di vario genere, evitando accuratamente di
essere
colpito dai colpi di rivoltella che, di tanto in tanto, risuonavano
alle sue
spalle, segno che le guardie che lo avevano intravvisto non lo avevano
perso.
Doveva
trovare una scorciatoia per raggiungere la Rive Gauche, passando per
l’Île de la Cité,
ma non sarebbe stato
facile con quei piantagrane alle costole. Doveva levarseli di torno con
un
piano di fuga alternativo che solo i tetti gli avrebbero potuto
offrire. Così,
girando l’angolo, si aggrappò ad una grondaia ed
iniziò a salire agilmente fino
al primo terrazzo, saltando poi sempre più in alto fino a
raggiungere, non
senza un certo sforzo fisico, il tetto spiovente di un edificio,
prendendo a
correre verso la direzione opposta a quella del corpo di polizia che,
dopo
svariati minuti, si rese conto di aver perso le tracce del fuggitivo,
il quale,
nel frattempo, aveva fatto attenzione a non perdere
l’equilibrio e finire
spiaccicato al suolo.
Ghignò
Kidd, continuando a spostarsi nelle vie alte, facendo
l’equilibrista e
divertendosi a nascondersi dietro i caminetti per non dare
nell’occhio. Era
proprio bravo, non c’era che dire, scomparire e apparire
quando voleva in
maniera indisturbata era la sua specialità, oltre che ad
uccidere, rubare, bere
e fare disastri. La sua vita era una meraviglia: poteva andare dove
voleva e
fare quello che più desiderava, senza nessuno a mettergli i
bastoni fra le
ruote. Non gli sarebbe importato affatto di morire, perché
sapeva che stava
vivendo al meglio e non aveva nessun rimpianto che gli pesava addosso.
Era
libero e ciò era per lui la cosa più importante.
Raggiunse
la piazza del mercato e si fermò a salutare Killer,
impegnato a compiere buone
azioni, come sfamare i civili e fingere di essere un
brav’uomo, per poi
riprendere la sua corsa verso il quartiere dove si concentrava
segretamente la
maggior parte dei rivoltosi, deciso a far valere le sue proposte e a
farsi
ascoltare.
E se
quel montato di Portuguese D. Ace gli avesse messo i bastoni fra le
ruote, beh,
gli avrebbe dato una bella lezione.
Non
che lo odiasse, a dire la verità lo rispettava, in un certo
senso, ma non gli
piaceva che andasse sempre in giro comportandosi come se fosse una
leggenda.
D’accordo, era riuscito a salvare un condannato a morte,
facendo poi saltare in
aria il patibolo sotto lo sguardo dei componenti della Giustizia, Re
compreso,
ma considerarlo un eroe gli sembrava esagerato. Aveva avuto fortuna,
ecco tutto.
Kidd non si capacitava del perché dovessero tutti chiamarlo Pugno di Fuoco o cazzate del genere. Era
un moccioso, per l’amore di Dio! Se c’era qualcuno
degno di essere lodato
quello era lui e il gruppo di scalmanati del quale faceva parte. Loro
aiutavano
le persone e uccidevano ufficiali ogni giorno, perché
nessuno lo teneva
presente?
Il
rosso alzò gli occhi al cielo e saltò da un tetto
all’altro, ricordandosi della
presenza di altri esaltati, per esempio Sabo. Ecco, qualcuno come Sabo
era
difficile da detestare e da invidiare perché aveva il
fastidioso carattere
buonista che gli faceva venire il nervoso, ma doveva trattenersi
perché il
biondo lo trattava bene, come qualcuno degno di nota, lo apprezzava e
ci
scherzava pure, anche se lui tentava di ignorarlo. Sabo poteva anche
salvarsi,
soprattutto perché quando si complimentavano con lui per la
sua capacità di
guidare la folla durante le sommosse, dicendogli che era degna di un
condottiero, lui affermava di non essere così bravo, si
comportava da modesto,
anche se, sotto sotto, gongolava, Kidd ne era certo. Ad ogni modo, era
sopportabile, mentre Ace, o addirittura Rufy, erano degli idioti. Rufy
più di
tutti, ma il moccioso era solo stupido e quindi lo si poteva anche
perdonare.
Certo, perché bisognava essere dei veri deficienti per farsi
rinchiudere dentro
l’inespugnabile Bastiglia.
Raggiunse
il ponte ed iniziò ad attraversarlo con il cappuccio del
mantello calcato sulla
testa per non attirare l’attenzione sui suoi capelli rossi.
Ormai era quasi
arrivato.
Mise
le mani in tasca ed avanzò tranquillo, senza troppa fretta.
Era proprio curioso
di sentire cosa avessero architettato i Rivoluzionari per tirare fuori
dalla
galera i loro uomini. Dopotutto, era noto che Shanks il Rosso non
lasciava
nessuno dei suoi compagni nelle mani della Corona.
*
-Canaglia!
Essere immondo! Uomo senza rispetto! Vergogna!- mormorava la
principessa Perona
a mezza voce, stringendo i pugni e aggirandosi per la sua stanza come
un’anima
in pena, arrabbiata e fuori di sé per
l’irritazione che la tormentava.
-Quel
maleducato, presuntuoso, maledetto!-
La
causa di tutti quegli insulti poco signorili altri non era che Drakul
Mihawk,
il quale, dopo averla incontrata per caso a gironzolare senza permesso
per le
vie di Parigi e averla riportata a palazzo dove era giusto che stesse,
si era
fatto svelare la sua via di fuga segreta in cambio della promessa di
non
raccontare al Re, suo padre, quello che aveva combinato e che andava
avanti da
mesi.
Fino
a lì non c’era nessun problema, non fosse stato
per il fatto che, dopo averla
fatta rinchiudere nella sua stanza, era andato a raccontare al sovrano
che
aveva casualmente trovato una falla
lungo la recinzione che delimitava la reggia e aveva consigliato di
farla
chiudere per evitare che alcuni ribelli si azzardassero ad entrare di
soppiatto. In quel modo, si era conquistato la fiducia del Re e aveva
ottenuto
il permesso di comportarsi come meglio credeva, facendo ingelosire
alcuni dei
membri della Flotta dei Sette e prendendosi un bel vantaggio su
personaggi come
quella piaga di Doflamingo o Moria.
Ciò,
però, aveva danneggiato immensamente la povera Perona, la
quale, ignara di
tutto, una volta scoperto che non sarebbe più potuta
sgusciare all’esterno per
prendere una pausa dalla sua schifosa vita, aveva dato di matto.
Uscì
dalla camera da letto con un diavolo per capello, infastidita
ulteriormente da
quel continuo ticchettio che provocavano i tacchi delle sue scarpette
sul
pavimento in marmo lucido, diretta in biblioteca dove era certa di non
incontrare
nessuno e dove avrebbe dato sfogo alla sua rabbia, magari dipingendo
qualche
quadro con colori cupi e simboli di morte. Forse, se era fortunata,
avrebbe
avuto l’opportunità di fare il malocchio a quel
traditore.
Raggiunse
la sala illuminata dalla luce del giorno che filtrava attraverso delle
immense
vetrate, dove si respirava il tranquillizzante odore di libri,
copertine di
cuoio e carta e si sentì subito meglio. Chiuse la porta e
andò dritta verso il
camino davanti al quale, in inverno, sedeva sempre a leggere e prese da
una
delle mensole un volume con una rilegatura in pelle rossa senza nessun
titolo.
Era il suo preferito e l’aveva riletto tantissime volte
perché la storia le
piaceva e non parlava solo di etica, poesie, sonetti e inutili
storielle romantiche
che le facevano venire il mal di testa. L’autore, per lei,
doveva essere stato
un genio, anche se non ne conosceva il nome.
Si
sedette sul tappeto e riprese a leggere da dove si era interrotta il
giorno
prima, torturandosi distrattamente il labro inferiore con la punta
delle dita
ed iniziando a calmarsi.
Sembrava
andare tutto bene, ma qualcuno alle sue spalle decise di rompere quel
momento
di pace che era riuscita a ritagliarsi, schiarendosi la voce e
facendola
voltare di scatto con gli occhi sbarrati per lo spavento. Sensazione
che sparì
immediatamente quando riconobbe Mihawk, stravaccato su una poltrona di
velluto
con un libro in mano e il cappello con la piuma poggiato sul tavolino
affianco.
Perona
gli rivolse un’occhiata truce in risposta al suo ghigno
beffardo e poi tornò a
farsi gli affari suoi, decisa ad ignorarlo e così fece anche
lui. Aveva solo
voluto rivelarle la sua presenza, giusto per essere educato, ma, a
quanto
pareva, non doveva essere ben accetto in quel frangente, visto il modo
rumoroso
e scocciato con cui Sua Altezza era entrata nella biblioteca.
Lesse
altre due pagine prima di riportare gli occhi sulla figura che, seduta
poco
distante da lui, affondava il viso in un libro dall’aria
usurata. Non gli
interessava l’argomento, ma era solo curioso di vedere le sue
reazioni. Quando
l’aveva incontrata in città si era divertito un
mondo a seguirla, anche se
all’inizio non aveva idea di chi fosse. Semplicemente, era
rimasto stupito da
come una donna avesse avuto il coraggio di passeggiare per le strade,
da sola e
al tramonto con il calare della notte. La fortuna, poi, aveva fatto si
che
quella ragazza intraprendente e decisamente incosciente fosse stata
proprio la
principessina del palazzo.
Con
un movimento secco della mano chiuse il libro che teneva nel palmo e lo
poggiò
sopra al tavolino il legno lucido accanto alla poltrona, alzandosi in
piedi e
iniziando a passeggiare in maniera apparentemente casuale attorno alla
stanza,
avvicinandosi sempre più al camino dove Perona leggeva
indisturbata. O, per la
precisione, ci provava.
Con
la coda dell’occhio seguì la figura
dell’uomo senza farsi notare, prestando
attenzione al suo abbigliamento semplice e non troppo elegante,
composto
solamente da un paio di pantaloni scuri, una camicia bianca e degli
stivali in
cuoio alti fino al ginocchio. Sapeva poco sul suo conto e aveva udito
solo
qualche voce di corridoio, chiacchiere che sussurravano i servitori
quando
credevano di essere discreti, ma non aveva scoperto gran
ché, eccezione fatta
per i discorsi sulle sue ricchezze e possedimenti. Le solite
sciocchezze
inutili a detta sua.
Ad
ogni modo, non era per niente tranquilla con quell’individuo
a palazzo e sapere
che poteva andarsene liberamente in giro senza
l’autorizzazione o il controllo
di qualcuno la metteva a disagio. Insomma, chi era
quell’uomo? E perché aveva
accettato di fare parte della Scorta Reale di suo padre? che tenesse
veramente
a mantenere l’ordine e la monarchia assoluta a Parigi ci
credeva ben poco, ma
era intenzionata a venire a capo di quella faccenda che le aveva
lasciato molti
dubbi fin dall’inizio.
Ovviamente,
avrebbe agito senza esporsi troppo, perciò riprese a
concentrarsi sul suo
libro, ignorando Mihawk e facendo finta che non esistesse.
Quando,
però, le fu chiaro che avrebbe continuato a girarle attorno,
assillandola con
il rumore dei suoi passi e la sensazione di essere sempre
più braccata, non
riuscì a trattenersi e si ritrovò costretta a
sbottare.
-Di
norma, nelle biblioteche, vige la tacita regola di mantenere il
silenzio.- gli
fece notare piccata, sperando che afferrasse l’antifona e
togliesse il
disturbo.
Il
effetti, Mihawk aveva capito perfettamente quali erano i desideri della
ragazza, ma di certo non le avrebbe dato la soddisfazione di comandarlo
a
bacchetta. Non lo faceva il Re in persona, figuriamoci una mocciosa
viziata.
Così,
invece di andarsene, approfittò dell’occasione per
fare un po’ di conversazione
come dettava la buona educazione e, voltandosi verso Perona per
guardarla in
faccia come un vero gentiluomo, rispose con garbo e senza traccia del
nervosismo che, invece, era stato ben noto nel tono di voce di lei.
-Per
questo motivo, Mademoiselle, io non vi ho
rivolto la parola.-
rispose furbo, facendo arrossire Perona, la quale si rese conto di aver
commesso un passo falso. Aveva dato inizio lei a quella chiacchierata
non
necessaria, rompendo così la regola di cui lei stessa aveva
accennato.
Serrò
le labbra e digrignò i denti, gesto poco consono al suo
rango, ma non le
importava. Non aveva nulla da dimostrare a quell’impiastro ed
era decisa a non
concedergli più educazione del dovuto, dato che non era
stato di parola e aveva
spifferato tutto sul conto della sua via di fuga segreta.
Riportò
gli occhi sulle pagine ingiallite, ma dovette interrompersi nuovamente.
-Bella
giornata oggi, non trovate?-
Diede
un rapido sguardo alla finestra, intravvedendo uno squarcio di cielo
azzurro.
–Molto bella.- concordò scocciata, lasciando poi
cadere il discorso. Sapeva del
bel tempo di quel periodo e aveva anche una gran voglia di togliersi di
dosso
quel vestito che le stava stretto e correre fuori, scappare via e non
tornare
più. Lo aveva fatto un sacco di volte: scendeva in strada e
raggiungeva il
ponte che dava sull’Île de la Cité,
guardando verso Notre Dame per scorgere
l’altra riva, indecisa se attraversare quel pezzo di
città e allontanarsi per
sempre da quella vita. Alla fine non ne aveva mai il coraggio e se ne
ritornava
a casa con la coda tra le gambe, ripromettendosi che, prima o poi, si
sarebbe
sparsa la voce della scomparsa della Principessa Perona.
Odiava
stare a Corte, odiava il suo titolo nobiliare, odiava le sue ricchezze,
odiava
la sua famiglia, odiava tutto. Per la Regina era invisibile, dato che
lei era
stata il frutto di una delle svariate scappatelle del Re,
perciò non aveva
nessun affetto materno, mentre il padre, impegnato e troppo preso
dall’essere
al di sopra di tutto, si dimenticava spesso di chi lo circondava. Si
ricordava
di lei solamente quando compiva gli anni, perché
ciò significava che era un
anno più grande e sempre più vicina
all’età da marito. Presto, sarebbe andata
in sposa a qualche balordo riccone in cambio di un contratto di
alleanza o pace
con qualche paese limitrofo. Sarebbe stata venduta al miglior offerente
come un
animale all’asta. I principi reggenti, i suoi fratellastri,
Absalom, Hogback e
Cindry, erano uno più insulso dell’altro, senza
carattere o autorevolezza,
perciò li evitava come la peste e loro facevano altrettanto.
Era sola.
Tutto,
come quel vestito, quelle scarpe e quelle acconciature che era
obbligata a
sfoggiare e quel futuro al quale non voleva pensare le stava
dannatamente stretto. Si sentiva
oppressa da quel
mondo ingiusto e interessato a mostrare solo il meglio quando,
più sotto,
cadeva a pezzi.
Non
sopportava i nobili e il clero, presenziare a cene importanti le
chiudeva lo
stomaco e dover passare il tempo con stupide oche che volevano solo
fare bella
figura con lei la annoiava.
Quella
falla nel muro era stata la sua salvezza, l’unico attimo in
cui si permetteva
di sognare di meglio per la sua vita, ma quell’uomo le aveva
tolto pure quel
piccolo svago che le permetteva di andare avanti.
Lo
odiava, odiava lui, il Re, la legge, tutto.
-Principessa?-
-Che
cosa vuoi?- ringhiò furiosa, il libro stretto nelle mani che
le tremavano
visibilmente.
Mihawk
era serio, ma non stava sfoggiando un’aria aggressiva,
sembrava soltanto
incuriosito da qualcosa sul suo volto.
-State
piangendo.- le fece notare con tono fermo, mantenendo le distanze per
non
metterla in agitazione e non lasciare che fosse sopraffatta da qualche
attacco
isterico o dalla vergogna di essere vista in un tale stato.
Perona
sbatté le palpebre incredula, sfiorandosi
all’istante le guance e trovandole
umide, mentre alcune dita si sporcarono con il trucco che le era
probabilmente
colato dagli occhi.
Che
razza di sciocca.
Svelta,
scattò in piedi e si avviò verso la porta,
farfugliando delle scuse a bassa
voce e lasciando cadere a metà strada il libro che aveva
tenuto in grembo,
sussultando quando udì il tonfo all’impatto con il
pavimento, ma non si fermò,
né tornò indietro. Aprì la porta e
scappò nelle sue stanze, sperando che nessun
altro vedesse come si era ridotta.
Mihawk
era rimasto impassibile alla scena. Non aveva detto nulla e non aveva
fatto
niente per sistemare le cose. Era rimasto a guardare come la rabbia
aveva
lasciato posto ad una sconfinata tristezza sul volto della mocciosa
che, senza
rendersene conto, aveva abbassato la guardia, mostrandogli una parte
che mai
avrebbe pensato di vedere in una persona da carattere così
fastidioso e, anche
se gli costava ammetterlo, forte. Perché, per avere il
coraggio di passeggiare
da sola e senza protezione, quella ragazza doveva avere di certo
un’indole
combattiva. Oppure era semplicemente stupida.
In
ogni caso, quella crisi non se l’era affatto aspettata e
qualcosa gli diceva
che, in qualche modo, anche se indiretto, c’entrava in parte
la chiusura della
falla nel muro di recinzione.
Si
strinse nelle spalle, decidendo che non gli importava, che non era una
questione che lo riguardava, ma poi adocchiò il libro che
Perona stava leggendo
fino a poco prima e si sentì un po’ in colpa.
D’accordo, era una Guardia Reale,
un combattente, ma era anche un nobile con un’educazione e
dei principi da
seguire.
Raccolse
così il libro, spolverandolo e osservandolo qualche istante
prima di afferrare
cappello e mantello.
Gliel’avrebbe
riportato e si sarebbe scusato per il disturbo, ma lo faceva solo
perché non
era un incivile e perché non voleva avere problemi durante
la sua permanenza a
palazzo.
Devo restare
calmo,
pensò, mentre usciva nel corridoio e
si apprestava a sondare la reggia da cima a fondo per scovare quella
ragazzina.
*
In
una stanza non troppo grande e sorretta da precarie pareti di legno,
situata
all’interno del decadente edificio a ridosso delle mura di
cinta dove,
solitamente, bazzicavano i Rivoluzionari, si stava svolgendo quella che
molti
avrebbero classicamente definito lite di
famiglia.
C’era
solo qualche particolare da chiarire, ovvero i gradi di parentela
mancanti tra
le parti che si stavano contendendo il diritto di parlare e il poco
affetto che
trasudava dagli insulti che si udivano fino in strada.
-Idiot!-
ripeté per l’ennesima volta Shanks,
battendo i pugni sul traballante tavolino in legno e fissando il
ragazzo
davanti a sé che, non senza una certa forza, brandiva sopra
la testa una sedia
sgangherata che minacciava di volare addosso all’uomo.
-Ti
ho detto che lo tireremo fuori!- urlò Ace, al limite della
sopportazione.
-Ti
rendi conto di come mi sono sentito quando non l’ho trovato
da Makino?- chiese
Shanks sull’orlo di una crisi isterica, -E poi vengo a sapere
da esterni che
Rufy è sparito! Sparito,
capisci?-
Ace
alzò gli occhi al cielo davanti a quella faccia da madre
disperata che Shanks
stava sfoggiando. A volte si comportava come un genitore troppo
presente nella
vita dei figli. Figli che, per inciso, nemmeno erano suoi.
-Non
è stato bello nemmeno per me! Credevo morto sia lui che
Sabo!-
-L’altro
idiota! Dov’è adesso? Ho un discorsetto da fare
anche a lui! Altro che fratelli
maggiori, siete due irresponsabili!-
-Makino,
digli qualcosa o giuro che lo faccio volare dalla finestra!-
-Forza,
ora calmatevi tutti e due.- tentò di dire la donna,
frapponendosi tra le parti
contese e cercando disperatamente di calmare il ragazzo che ormai
considerava
parte integrante della sua stramba famiglia e l’uomo con il
quale avrebbe
voluto condividere il resto dei suoi giorni.
Da
quando era diventata proprietaria della locanda, i tre fratelli per
scelta si
erano trasferiti subito da lei, aiutandola nella gestione e in
qualsiasi altra
mansione per pagarsi l’alloggio e, dato che anche per Shanks
le cose erano
andate più o meno allo stesso modo, tutti loro si erano
legati molto,
abituandosi a vivere sotto lo stesso tetto e ad abbracciare
l’idea di avere sempre
una casa e dei cari a cui fare ritorno.
Per
quel motivo Shanks stava dando di matto dopo aver ricevuto la notizia
riguardante la prigionia di Rufy e, in quel frangente, stava cercando
di
estorcere informazioni ad Ace, anche se nel modo sbagliato. A volte
l’uomo
dimenticava che non erano figli suoi, ma l’affetto che
provava verso di loro
era sconfinato, tanto che si sentiva responsabile del loro benessere.
Fu in
quell’istante che fece il suo ingresso Kidd, aprendo con
calma la porta e
spalancando gli occhi quando vide una sedia volare attraverso la stanza
e
Shanks il Rosso schivarla per un pelo, gettandosi sotto al tavolo.
Cercò
di capirci qualcosa in quel delirio, guardandosi attorno e vedendo che
non era
il solo ad assistere alla scena.
Oltre
ad un gruppetto di Rivoluzionari che stavano cercando di mantenere un
profilo
basso per non venire presi in causa, seduto su un divanetto a due
posti, con le
braccia comodamente abbandonate sullo schienale, il peggior dottore in
circolazione osservava divertito lo spettacolo che stava avendo luogo,
sogghignando ogni volta che Ace inveiva contro uno dei capi della
Rivoluzione.
Kidd
ebbe la tentazione di uscire dalla stanza senza dare
nell’occhio, ma,
purtroppo, Trafalgar Law lo individuò nell’esatto
istante in cui il rosso aveva
formulato quel pensiero e, allargando il ghigno che aveva sulle labbra,
lo
guardò imbronciarsi e avanzare nella sala, dedicandogli un
saluto degno di
nota, ovvero mostrandogli con un gesto volgare della mano dove poteva
andare a
farsi fottere, ignorandolo subito dopo e tornando a concentrarsi su
altro.
Per
Kidd, rimasto a bocca aperta, quello era un affronto bello e buono.
Aveva
sentito voci poco positive su di lui, ma, a quanto pareva, anche in
fatto di
buone maniere aveva delle carenze. Non che lui fosse migliore, affatto,
semplicemente si era aspettato di più da uno che conduceva
una simile
professione.
Ad
essere sincero, Kidd era rimasto totalmente sconvolto da Trafalgar Law.
Era un
continuo incognita e, anche se ci aveva parlato poco e
l’aveva visto
altrettanto raramente, era certo che non sarebbe mai stato capace di
prevedere
del tutto le sue mosse.
All’apparenza
appariva come tutti i nobili: ricco, altezzoso e con la puzza sotto al
naso, ma
bastavano cinque minuti in sua compagnia per cambiare opinione. Non era
schizzinoso,
era volgare e non aveva il minimo rispetto per nessuno, forse nemmeno
per i
morti, tranne che per se stesso. Trattava tutti allo stesso modo e
senza
preferenze, prestando attenzione solo al suo lavoro e ignorando i
pensieri
altrui. Era pieno di sé, un po’ come Kidd, ma il
rosso si considerava cento
volte meglio di lui, per quel motivo non sopportava di venire
calpestato in
quella maniera irrispettosa.
Con
le urla di Shanks in sottofondo, coprì la distanza che lo
separava da quel
moccioso e lo raggiunse, sedendosi accanto a lui e facendo tremare il
divano,
ma ciò non servì ad intimidire il dottore che,
divertito, non fece sparire il
suo ghigno dalla faccia continuando a guardare di fronte a
sé.
-Come
va il braccio, Eustass-ya?- chiese, fissando Ace, intento a saltare
sopra al
tavolo.
Kidd
grugnì senza rispondere. Non voleva dirgli che stava
benissimo e che si era
rimesso in poco tempo. Avrebbe significato dare un motivo in
più a
quell’esaltato di vantarsi.
Non
sapeva se fare dello spirito o meno, ma dovette concentrarsi su altro
perché
sotto ai loro occhi, Shanks aveva finalmente deciso di smetterla di
urlare,
ascoltando il ragazzo dai capelli corvini che, il
quell’istante, stava
blaterando qualcosa riguardo alle paludi e alla Rivoluzione Americana.
-E me
lo dici solo ora?- sbottò il Rosso, sgranando gli occhi e
lasciando che l’ombra
di un sorriso facesse capolino sulle sue labbra.
-Se
tu la smettessi di assentarti da Parigi e restassi nei paraggi, forse
riuscirei
a contattarti in tempi brevi!- lo riprese Ace, riferendosi ai viaggi
d’affari
che compiva l’uomo parecchie volte durante la settimana,
dirigendosi in
periferia e nelle regioni limitrofe per cercare contatti esterni o
alleati che
sostenevano la causa comune.
Shanks
fu preso da una risata isterica, costretto poi a sedersi e a
nascondersi la
faccia con le mani, mentre Makino lo guardava preoccupata e il resto
dei
presenti si chiedevano se fosse impazzito. Tutti, tranne Law e Ace, i
quali
sapevano esattamente di cosa si stava parlando. Il primo sogghignava
sornione e
l’altro batteva nervoso un piede a terra, fremendo per
continuare il suo
discorso.
-Che
diavolo significa?- domandò Kidd, non sopportando di essere
all’oscuro di
tutto.
-Pazienza,
Eustass-ya.- lo zittì il dottore, accavallando le gambe e
intrecciando le dita
dietro la nuca, inclinando il capo in attesa delle spiegazioni che
sarebbero
arrivate.
In
breve, Ace si ritrovò seduto al centro della sala con
l’attenzione di tutti
puntata su di lui, mentre raccontava in sintesi gli avvenimenti di
quelle
ultime settimane. Raccontò delle condizioni di Sabo e di
come fosse stato
salvato; della cattura di Rufy e dell’agguato degli
ufficiali;
dell’accampamento fuori città e di Barbabianca.
-Un
campo di profughi sta a pochi kilometri da Parigi e noi non ne sapevamo
niente?- chiese Kidd, riferendosi in particolare a Shanks con quel
commento.
Era lui l’uomo a cui mezza popolazione faceva riferimento e,
anche se non lo
aveva mai voluto, gli era praticamente stato imposto da esterni il
titolo di
Guida, o Imperatore che dir si voglia. Tutti guardavano lui, tutti
attendevano
un suo ordine o decisione, tutti lo rispettavano e credevano nelle sue
capacità
di oratore e combattente. Era il punto di riferimento della Rivoluzione.
In
effetti, Shanks abbozzò un sorrisetto imbarazzato,
ammettendo che no, non ne
era informato e non gli era mai nemmeno passato il dubbio per la mente.
Se
l’avesse saputo prima, di certo sarebbe andato di persona a
curiosare e a
conoscere quell’uomo di cui aveva tanto sentito parlare e
che, stando a quello
che gli aveva riferito Ace, voleva pure conoscerlo per portare avanti
delle
trattative che non faticava ad immaginare.
Non
vedeva l’ora di fare una scampagnata alle paludi.
-Non
costituiscono un pericolo.- si affrettò a chiarire Ace,
anche se non ne era
ancora del tutto sicuro. Insomma, a conti fatti quelli avevano ancora
con loro
Sabo e lui era stato colpito e ferito nell’orgoglio
più volte da quegli idioti
senza cervello che pensavano solo a fare festa e a vivere liberi nella
giungla
come indigeni. Figuriamoci se elementi del genere potevano essere
innocui.
Almeno il titolo di pazzi se lo
meritavano eccome.
-Ne
siamo sicuri?- domandò un uomo dai capelli gridi e lo
sguardo severo, intento a
riempire la stanza di fumo passivo con il suo sigaro acceso.
-Lo
scopriremo presto Benn.- lo tranquillizzò Shanks, alzandosi
e recuperando il
cappotto nero che soleva indossare durante i suoi spostamenti.
–Allora,
andiamo?-
Ace
lo fissò imbambolato e colto alla sprovvista.
–Adesso? Subito?-
-E
quando? Ricordati che non abbiamo tempo e dobbiamo ancora pensare a
come tirare
fuori Rufy.-
-Riguardo
a questo,- soffiò allora Trafalgar, ricordando a tutti che
stava presenziando a
quella riunione anche lui, -Io avrei un’idea che ci
semplificherebbe il lavoro.-
Shanks,
il quale aveva sempre avuto fiducia in quel ragazzino
dall’aria scontrosa, ma
dannatamente instabile e insicuro se preso da parte e allontanato dal
gruppo,
sorrise ampiamente, grato per l’aiuto che gli era stato
offerto.
Con
un cenno del capo rivolto a Law gli fece intendere che aveva il
permesso di
agire come credeva, entro i limiti di sicurezza, ovviamente.
-Lasciate
fare a me.- concluse il dottore, sospirando e sfregandosi le mani per
mettersi
subito a lavoro. Se volevano portare fuori qualcuno dalla Bastiglia era
meglio
organizzare il tutto nei minimi particolari e non tralasciare nemmeno
un
dettaglio. Non si usciva dalla prigione tanto facilmente, a meno che i
carcerati non fossero stati dichiarati morti.
E
lui, di quell’argomento, ne sapeva qualcosa.
Si
alzò dal divanetto, salutando il gruppetto ristretto di
persone che avrebbero
accompagnato l’Imperatore e il suo figlioletto adottivo al
colloquio con uno
dei maggiori ricercati internazionali e si apprestò a
dirigersi anche lui nel
suo studio dove avrebbe messo in pratica qualche diavoleria con Penguin
e
Shachi.
Notò,
però, che, a parte Makino e un paio di uomini, anche il suo
scontroso paziente
era rimasto nella stanza con un cipiglio indignato. Poveretto, forse si
era
offeso per non essere stato invitato al ballo o per non aver ricevuto
nessuna
informazione su tutta la faccenda in corso di sviluppo. Non che gli
importasse,
dopotutto era solamente un cane randagio che viveva di stenti.
E del ricavato
che ruba agli altri, pensò
preciso, ricordandosi di dover
trovare il tempo per riprendersi il suo orologio da tasca. Era un
gingillo di
poco valore, ma era il più preciso che aveva in casa.
In
ogni caso, continuava ad essergli indifferente, come se non fosse mai
arrivato
a Parigi, come se non lo avesse nemmeno mai operato. Era
un’ombra, una figura
con una faccia e un nome che appartenevano alla massa. Era come tutti
gli
altri, né più, né meno, capelli a
parte e un carattere propenso a ricercare
guai.
Non
capì, quindi, cosa lo avesse spinto a renderlo parte
integrante dei suoi
progetti.
-Ehi,
Eustass-ya.- lo chiamò, fissandolo dall’alto con
una faccia che esprimeva
quanto fosse macabro il suo piano. –Ti va di uscire con me?-
A
Kidd quasi venne un colpo. –Mi prendi per il culo?-
-Non
lo farei mai.- ironizzò il moro, accompagnando il tutto con
un ghigno beffardo.
-Che
programmi hai?- grugnì il rosso, ritroso.
-Niente
di che, una visita di cortesia alla Bastiglia. Allora, ti va?- sapeva
che non
avrebbe resistito, quando ricapitava l’occasione di
infiltrarsi nei corridoi
stretti e senza uscita di quella prigione?
A
Kidd brillarono gli occhi e tutta la diffidenza che aveva provato
all’inizio
sparì, lasciando posto ad un’insana impazienza.
-Diavolo,
si!- rispose, scattando in piedi e affiancando Trafalgar che, nel
frattempo,
era già arrivato alla porta con la sua solita espressione
poco cordiale e
inquietante.
Quel
tipo gli stava sulle scatole, era vero, ma in quanto a pericolo
sembrava
saperne abbastanza da suscitare la sua curiosità.
E poi oggi non ho
niente da fare, si disse.
Angolo
Autrice.
Buongiorno
^^
Sto
facendo tardi a lavoro ma, ehi, non potevo lasciarvi senza, altrimenti
il
capitolo lo avreste visto lunedì, LOL.
Insomma,
si sta spargendo la voce che nelle paludi abita qualcuno, eh? Non so
voi, ma
sono curiosa di vedere Shanks alle prese con Barbabianca u.u e
chissà come la
prenderanno gli altri ^^
Ma
ciao Haruta, era una vita che volevo inserirti da qualche parte solo
per
accoppiarti con Thatch ** Per non parlare di Sabo e Koala, rotolo :3
Anyway,
ecco che sono arrivati anche Zoro e Sanji con il loro complicato
rapporto di
letto, mlmlml. Divertitevi, mi raccomando.
Sorvoliamo
sulla vita triste di Perona, una ragazza con le palle a mio avviso e
che le
tirerà fuori molto presto.
E poi
Kidd e Law. Kidd e Law che ancora non si sono messi le mani addosso. Mi
chiedo
come facciano u.u
Detto
ciò vi lascio alle immagini!
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Ringrazio
sempre tutti, vecchi e nuovi lettori. Un abbraccione grande :3
See ya,
Ace.
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Capitolo 6 *** Six. ***
Liberté,
Égalité, Fraternité.
Six.
Quella
tenuta era un vero e proprio labirinto, nemmeno il suo castello era
così
complesso e intricato. C’erano porte in qualsiasi corridoio,
scale in ogni
angolo e servitori che si ammassavano negli atri in uno sconvolgimento
generale
per le innumerevoli mansioni da sbrigare. Finestre ampie, tendaggi
pesanti, oro
e argenteria ovunque, candelabri, tappeti, mobili pregiati, tutto
troppo in
mostra secondo i suoi gusti, molto più semplici, quasi
spartani. Che bisogno
c’era di tutta quella cianfrusaglia che contribuiva solo a
fare confusione?
Non
era quella, però, la sua preoccupazione, così
continuò a scendere la scalinata
principale che portava ad uno degli ingressi del palazzo reale,
illuminandosi
quando vide venire verso di sé una domestica
dall’aria indaffarata, ma non
troppo scorbutica.
-Perdonatemi,-
le disse non appena la incrociò, facendola sussultare e
osservandola mentre si
chinava con rispetto, prodigandosi in una serie di cortesie che Mihawk
non
aveva tempo di stare ad ascoltare. –Sapete dove si trova la
Principessa Perona?
Sua Maestà mi ha incaricato di badare alla sua protezione.-
abbozzò come scusa,
in modo da non destare curiosità o sospetti scomodi e fuori
luogo.
La
donna si accigliò, ma non obbiettò nulla davanti
a quella spiegazione e cercò
di pensare a dove si potesse essere cacciata quella signorina scostante
e
capricciosa. Tra tutti i luoghi presenti nella reggia, solo uno le
venne in
mente come buona opzione.
-L’armeria.-
rispose affabile, come se fosse stata la cosa più normale
del mondo.
Per
Mihawk, però, non lo era per niente, infatti la
fissò un po’ stupito,
domandandosi se per caso si era espresso male o se la signora si era
confusa.
-Non
credo di capire.- confessò infine, aggrottando la fronte.
-La
signorina
passa molto tempo nella vecchia armeria.- ripeté allora la
governante con un
sospiro stanco, quasi scoraggiato. –La troverete sicuramente
lì. Seguite il
corridoio fino all’ala ovest e poi scendete al piano terra.
Non potete
sbagliare.-
-Vi
ringrazio.-
Cosa
combinava quella mocciosa in un ambiente simile proprio non lo sapeva e
non
voleva nemmeno scoprirlo, ma ormai aveva il libro con sé e
di tornare indietro
non se ne parlava, non proprio quando era ormai arrivato a
destinazione. Non ci
avrebbe messo molto, sarebbero bastati cinque minuti, forse anche meno:
avrebbe
bussato, mollato il volume da qualche parte con la sua perenne poca
grazia e
poi sarebbe uscito dalla stanza come se non ci fosse mai entrato. Non
si
sarebbe fermato a chiacchierare o a fare domande indiscrete e,
soprattutto,
avrebbe evitato di concentrarsi sull’aspetto della ragazza.
Che si fosse
nascosta per piangere o frignare non aveva importanza, non era un
problema suo.
Ne aveva anche troppi di pensieri per la testa e non aveva tempo da
dedicare
alle cause perse altrui.
Seguì
le indicazioni e arrivò davanti ad una porta in legno
accessibile a tutti e non
chiusa da lucchetti o serrature complicate. Evitò, o si
dimenticò, di bussare
ed entrò tranquillamente, venendo subito colpito
dall’odore di chiuso misto a
quello riconducibile all’acciaio e al ferro, tipico delle
armi e delle armature
che decoravano l’intera sala poco illuminata da alcune torce
affisse alle
pareti, le quali rendevano l’ambiente quasi lugubre e poco
riscaldato,
esattamente come piaceva a lui.
Alcuni
trofei di caccia davano bella mostra impagliati su alcune mensole,
mentre
spade, faretre, fucili e altra ferraglia era disposta un po’
in disordine nei
ripiani. Per essere una specie di vecchio ripostiglio per le armi ormai
in
disuso non era messa tanto male, era evidente che qualcuno si occupava
della
manutenzione del posto con cura, inoltre, la sala aveva
l’aria di essere ben
fornita.
Curiosò
un po’ in giro, scordandosi il motivo di quella visita e non
notando affatto la
presenza di qualcuno che, a differenza sua, aveva tenuto alta la
guardia e si
era premurato di non farsi vedere per evitare punizioni o strigliate di
capo.
Infatti,
Perona osservava da un angolo buio come Mihawk fosse preso da alcune
spade che
lei stessa aveva affilato, testandone la pesantezza e la
qualità delle lame,
rimettendole poi a posto con una faccia soddisfatta.
Si
sentiva a disagio sapendolo lì, nel suo angolo privato,
conscia che quella
parte del castello era poco trafficata, perciò non era
abituata a ricevere
visite, soprattutto da qualcuno che non fosse una semplice sentinella
reale. Il
fatto che lui l’avesse vista piangere, poi, non semplificava
le cose. Si dava
ancora della sciocca per essersi lasciata sopraffare dai suoi problemi,
ma era
arrivata ad accettare di aver avuto una debolezza, dando la colpa al
nervoso,
allo stress accumulato e allo scompiglio di quei giorni dovuto
all’arrivo dei
membri della Flotta dei Sette. Non sarebbe ricapitato una seconda
volta, si
sarebbe sempre controllata e non avrebbe permesso a nessun altro di
poterla
scorgere in quelle condizioni. La tristezza doveva conservarla dentro
di sé
fino a quando non calava la sera ed era certa di essere sola nella sua
stanza,
lontana da occhi e orecchie indiscreti. Solo allora avrebbe potuto
annegare nei
suoi dispiaceri.
Così,
sollevando il capo e indossando una maschera di indifferenza e
serietà,
abbandonò la parete alla quale era rimasta appoggiata e
tornò alla sua
postazione, quella dove fino a pochi minuti prima si era allenata,
sollevando
la sua spada e riprendendo gli esercizi che aveva imparato a furia di
assistere
alle esibizioni delle guardie, alle parate nazionali e ad altre
manifestazioni
dove era richiesta la sua presenza. Lo considerava un modo per essere
pronta a
tutto, oltre che una protezione ulteriore per se stessa, dato che
nutriva il
forte sospetto che la scorta che le aveva affidato suo padre non fosse
poi così
preparata ed efficiente. Era chiaro come il sole che se lei fosse morta
nessuno
ne avrebbe sofferto, quindi per quale motivo sprecare uomini valorosi e
preparati per lei?
Quindi
si adeguava e faceva da sé, contando sulle sue
capacità e mettendoci tutto
l’impegno e il rancore che provava nei confronti di quella
vita così ingiusta e
priva di luce, giurando che, se mai avesse perso la vita, avrebbe
preteso
almeno di diventare uno spettro e tormentare tutti coloro che vivano
nella
reggia. Era certa che si sarebbe divertita un mondo a farli sentire in
trappola.
Eseguì
qualche affondo e mimò un paio di parate, concentrandosi sul
muro che aveva di
fronte e ignorando volutamente la sensazione di essere osservata.
Sapeva che l’uomo
era ancora lì, sapeva che la stava guardando ed era
consapevole del fatto di
essere sotto esame. Probabilmente stava ridendo di lei e la considerava
proprio
una disperata, ma non le importava. Strinse i denti e
continuò da dove aveva
lasciato. Tra loro, era lei la principessa, quindi approfittava fin che
poteva
della sua posizione e dei suoi diritti.
Passarono
i minuti e la sensazione di avere degli occhi puntati addosso si
affievolì,
permettendole di rilassarsi. Forse se ne era andato, stanco di
deriderla, così
si sentì più libera e approfittò per
provare una cosa che aveva visto fare ad
un cavaliere solo una volta, ma che le era piaciuta un sacco.
Divaricò
le gambe e prese un respiro profondo per prepararsi, impugnando la
spada con una
mano ed iniziando poi a fendere l’aria davanti a
sé, avanzando passo dopo
passo, sempre più veloce per poi darsi lo slancio con una
gamba e compiere una
piroetta, sempre a spada tratta, immaginando di attaccare un nemico e
rompere
le sue difese.
Tuttavia,
nell’ultimo passaggio, quando doveva fermarsi e riprendere
l’equilibrio,
sbagliava sempre. Perdeva l’equilibrio nel poggiare il piede
a terra e doveva
abbassare la guardia per non cadere. Se fosse stata in un combattimento
vero, a
quell’ora avrebbe di certo dato l’occasione
all’avversario di colpirla.
Sospirò,
appoggiandosi alla spada puntata sul pavimento e massaggiandosi la base
del
naso. Non andava bene, doveva provarci ancora.
Sussultò
quando dei passi risuonarono sul pavimento in marmo alle sue spalle,
facendola
voltare di scatto con l’arma sollevata. Fortunatamente,
Mihawk aveva previsto
una distrazione del genere e si era munito anche lui di una spada per
poter
bloccare il fendente che la ragazza gli aveva rivolto senza rendersene
conto.
-Attenta.-
soffiò, scoccandole un’occhiata glaciale che fece
deglutire rumorosamente
Perona. Quell’uomo, oltre a non starle simpatico, le metteva
pure i brividi.
Si
raddrizzò e abbassò la spada, conscia di aver
commesso un errore, ma decisa a
non scusarsi anche se era chiaramente nel torto.
Mihawk,
d’altra parte, non sembrò darci peso, interessato
sinceramente ad altro. Era
rimasto molto sorpreso quando si era accorto di ciò che
stava facendo in quella
sala la principessa. Non avrebbe mai immaginato di vedere una donna
allenarsi
in un’armeria, per giunta maneggiando un’arma vera
con la quale si sarebbe
potuta ferire. La cosa che più lo lasciava allibito, ad ogni
modo, era la
capacità che dimostrava di avere nella materia, a parte
certe posizioni e mosse
che andavano corrette al più presto perché erano
un disastro a vederle,
soprattutto per uno spadaccino bravo come lui, il migliore nel suo
campo.
Ecco
perché si era avvicinato, dopo aver posato il libro su una
mensola in bella
vista, prendendo in prestito una delle spade che aveva adocchiato in
precedenza
e raggiungendo la ragazza, intenta ad ammazzarsi da sola con tutto
quell’allenamento abbastanza scorretto. Il suo aiuto non era
stato chiesto, era
vero, ma non poteva permetterle di continuare ad agitarsi come una
pazza, non
era quella la maniera di combattere. Doveva essere elegante e letale
allo
stesso tempo e, se era davvero brava come aveva creduto quando
l’aveva vista
compiere quell’affondo, non ci avrebbe messo molto ad
imparare.
-Si
fa così.- disse, affiancandola e assicurandosi che la sua
attenzione si
focalizzasse sulla spada che stava brandendo, iniziando a compiere i
movimenti
base lentamente per far si che li imprimesse bene nella mente.
All’inizio,
Perona rimase immobile, sbattendo le palpebre per convincersi che non
si stava
immaginando niente, che Mihawk, quel maleducato, le stava davvero
mostrando
come compiere una parata decente ed efficace. Quando ne fu certa prese,
anche
se continuando a mantenere un certo distacco, ad imitarlo, piano, con
calma,
buttando continuamente occhiate al suo braccio, guardando bene come si
muoveva
per copiarlo al meglio, per non sbagliare.
-Dritte
le spalle. Devi essere allineata con la schiena. Non avere fretta,
impara prima
le basi.-
E,
per la prima volta, accettò i consigli di qualcun altro,
seguendoli alla
lettera senza ribattere o senza ignorarli.
-Pas
mal.-
E,
sempre per la prima volta, non si sentì inadeguata.
*
Ace
era quasi certo che quella fosse
la
strada giusta che conduceva all’accampamento.
D’accordo, l’aveva fatta un paio
di volte, ma era stato talmente impegnato a pensare a tutti i problemi
che gli
erano capitati in quell’ultimo periodo che non ci aveva fatto
caso più di tanto
quando Thatch lo aveva accompagnato, o meglio, seguito e controllato.
Da che parte
bisognava girare al
bivio, a destra o a sinistra? Verso il fiume o lungo le mura? Accidenti
a loro,
non avevano trovato altri luoghi più adatti dove stabilirsi?
Proprio nei pressi
di Parigi avevano dovuto accamparsi quei chiassosi americani senza una
dimora?
Tutte
a lui dovevano capitare. Non bastava essere al centro del mirino degli
ufficiali, rischiare di morire ogni giorno, e avere come fratelli degli
incoscienti,
no, gli toccava pure fare da portavoce e da scorta per due uomini
abbastanza
grandi e grossi da potersi anche arrangiare da soli.
-Sicuro
che sia la strada giusta?- gli domandò Shanks per
l’ennesima volta, seguito da
Benn, Yasopp, il padre di uno degli amichetti del suo fratellino Rufy,
e un
paio di altri uomini ben piazzati e armati fino ai denti, gente di
fiducia e
che sapeva tenere la bocca ben chiusa.
Ace
sbuffò, continuando ad avanzare nel folto della vegetazione
con le mani
infossate nelle tasche dei pantaloni e gli stivali che affondavano
nella
fanghiglia ad ogni passo. –Oui.-
rispose sovrappensiero, ma non ne era per niente certo. Ad ogni modo,
non
avrebbe ammesso di essersi perso, perché lui sapeva
perfettamente dove si
trovava.
Fortunatamente
si rese conto di essere in salvo quando riconobbe un punto nella
boscaglia che
gli era rimasto bene in mente, ovvero un albero secolare dal quale
sbucava una
bicicletta arrugginita. Thatch gli aveva spiegato che, probabilmente,
la pianta
era cresciuta attorno ad essa, per quel motivo sbucava dalla corteccia
e dava
bella mostra di sé, incuriosendo i passanti e coloro che si
fermavano ad
osservarla. Da lì doveva proseguire dritto, tenendo la
sinistra.
Affrettò
il passo, conscio che solamente pochi metri lo dividevano da Sabo.
Sperava di
trovarlo più in forma dell’ultima volta e,
soprattutto, più sorridente e meno
abbattuto. Non doveva essere stato facile per lui stare lontano da casa
in
compagnia di sconosciuti che avrebbero potuto eliminarlo in qualsiasi
momento,
ma Ace si era fidato ugualmente perché quella ragazza,
Koala, gli aveva fatto
buona impressione oltre ad aver effettivamente salvato suo fratello da
morte
certa. Se ci ripensava fremeva per la rabbia. Avrebbe dato una lezione
a quegli
ufficiali e si sarebbe vendicato anche per la prigionia di Rufy, poco
ma
sicuro.
-Ehm,
Ace?-
-Siamo
quasi arrivati.- chiarì, intravvedendo tra le foglie alcune
tende in
lontananza.
-Oh,
lo immagino,- mormorò Shanks, un po’ nervoso e con
un sorrisetto tirato sulle labbra,
-Ma mi domandavo se potessi dire ai tuoi amici di abbassare le armi.-
Il
diretto
interessato, che fino a quel momento non si era accorto di nulla, si
bloccò e
si voltò con un piede a mezz’aria a guardare come,
dai lati del sentiero che
stavano percorrendo, sbucassero prima le canne di alcuni fucili e poi i
proprietari di essi, non intenzionati a scendere a patti, viste le loro
facce
mezze incappucciate, ma ostili.
Il
gruppo di francesi si affrettò ad alzare le mani in segno di
resa e a mostrare
che non avevano intenzioni nocive, ma Ace non badò a quei
gesti e focalizzò
l’attenzione su un tizio in particolare, riconoscendolo e
iniziando subito a
ringhiare, digrignando i denti e partendo a passo di carica verso di
lui.
L’uomo
in questione se ne accorse e, girandosi dalla sua parte,
lasciò che sul suo
viso apparisse un’espressione scocciata ed esasperata.
-Ancora
tu.- si lamentò, abbassando la pistola e osservando quello
che secondo lui era
solo un mocciosetto raggiungerlo con l’aria di chi si credeva
il padrone del
mondo.
-Si!-
sbottò Ace, non sapendo bene come ribattere e non volendo
essere da meno. –Sono
ancora qui.-
-What a pity.-
borbottò l’altro, facendo segno ai
suoi uomini di mettere via le armi. –It’s
the brat.-
-Che
hai detto?- sibilò il moro, assottigliando lo sguardo e
cercando di compensare
i centimetri di altezza che gli mancavano per raggiungere Marco
sollevandosi
sulle punte dei piedi.
Quello
gli rivolse un’occhiata sbieca, seguita poi da un sorrisetto
altezzoso. -Heureux
de te revoir.- lo
sfotté, facendo salire a livelli
alti l’antipatia che il ragazzo provava nei suoi confronti.
Sarebbe rimasto
volentieri a punzecchiarlo e a vederlo perdere le staffe per
l’inferiorità palese,
ma sapeva per quale motivo ci fossero degli intrusi da quelle parti,
così
ignorò il piccoletto e si dedicò a questioni ben
più importanti per conto di
suo padre.
-Siete
qui per Newgate, giusto?- chiese diretto, intuendo già chi
di loro detenesse il
grado più alto.
Shanks,
infatti, divertito dalla scenetta che si era svolta poco prima,
avanzò di un
passo e fronteggiò il biondo, sorridendogli amichevole e
presentandosi,
riuscendo perfino a strappare un sorriso a Marco, quando ammise di aver
temuto
di aver perso la strada con una guida scarsa come Ace. Ovviamente, il
ragazzo
non prese bene la cosa e tenne il broncio fino a che non raggiunsero
tutti
l’accampamento, dileguandosi e facendo come se fosse stato a
casa sua, andando
alla ricerca della tenda dove riposava Sabo, mentre Shanks si occupava
degli
affari della Rivoluzione.
Il
Rosso, dal canto suo, era eccitatissimo all’idea di conoscere
quell’uomo
coraggioso che era riuscito a creare praticamente un villaggio in mezzo
alle
paludi e non vedeva l’ora di misurarsi con lui. Si trattenne
dal fare domande
lungo il tragitto e fu ben disponibile a liberarsi delle armi che aveva
con sé
prima di venire annunciato a Barbabianca, affiancato dal suo fidato
amico Benn.
Per motivi di sicurezza, avrebbero permesso solo a loro due di entrare
e di
esporre le trattative.
-Pronto
amico?-
L’uomo
accanto a lui soffiò una boccata di fumo, stringendo il
sigaro tra le dita. –Lo
sono sempre.-
Marco
fece strada e li invitò ad entrare in una tenda
più grande di quelle che
avevano visto in precedenza, facendoli rimanere di stucco quando furono
all’interno, vedendo con quanto ingegno quelle persone si
fossero attrezzate e
organizzate. Dovevano aver vissuto in segreto per molto tempo a
giudicare da
quello che erano riusciti a costruire.
L’ammirazione,
però, lasciò presto spazio allo stupore quando,
finalmente, incontrarono la
figura della leggenda vivente della Rivoluzione Americana, il quale li
attendeva dall’altro lato di un grosso tavolo massiccio in
legno scuro, con un
sorriso di benvenuto e un’espressione piuttosto cordiale per
uno della sua
stazza e importanza.
Shanks
ebbe la tentazione di correre a stringergli la mano, ma decise che
forse non
sarebbe stata la mossa migliore, considerando che il biondo accanto a
lui
teneva ben assicurata alla cintola una pistola dall’aria
carica e ammonitrice.
-Benvenuti.-vociò
improvvisamente l’omone, alzandosi in piedi e raggiungendoli
per stringere loro
la mano. I due ospiti notarono in quel modo che il suo braccio doveva
essere
grande quanto una loro gamba, come minimo. –Immagino che tu
sia uno dei capi
dei Rivoluzionari di cui mi aveva parlato Ace.-
Quel moccioso
chiacchierone, pensò
il Rosso, sfoderando un sorriso
caloroso mentre stringeva con forza e tenacia la mano a quel vecchio
dall’aria
massiccia, mettendoci quanta più pressione poté
per non sembrare da meno. –In
persona. E voi siete il famoso Edward Newgate. E’ un onore
conoscervi.-
-Altrettanto
e se è vero che ricoprite un ruolo così
importante per i cittadini di Parigi,
sono io ad essere onorato di avervi qui.-
Marco
sbuffò come a voler contraddire il padre, ma si
obbligò a mordersi la lingua
per non interromperli, mettendosi in un angolo a braccia conserte a
fissare la
scena con aria contrariata, segno che non approvava affatto tutte
quelle cortesie.
In
effetti, il ragazzo aveva vari dubbi riguardo quella presunta alleanza
che i
due uomini volevano arrivare a formare. Era dell’idea che
quella non fosse la
loro guerra, dato che ne avevano già vissuta una in passato,
e credeva
fermamente che, come si erano arrangiati loro, avrebbero dovuto farlo
anche gli
altri, contando sulle loro forze. Ma suo padre era sempre stato un uomo
ben
disposto verso tutti, deciso a dare una mano a chiunque se la causa era
di
buoni intenti, quindi si era già arreso ai fatti, ma non
voleva dire che
avrebbe finto di esserne contento, anzi, avrebbe dato sfogo a tutto il
suo
malumore senza preoccuparsi di ferire nessuno.
Barbabianca
si accorse che Shanks il Rosso osservava, di tanto in tanto, con la
coda
dell’occhio suo figlio Marco, perciò si
sentì in dovere di chiarire subito quel
comportamento poco rispettoso, scusandosi per il disagio.
-Non
fate caso a lui, diciamo che di battaglie ne ha viste molte e non
è entusiasta
di prendere parte ad un’altra.- preferì essere
sincero, conscio che mascherare
la realtà non sarebbe servito a niente, se non a complicare
i rapporti con i
francesi.
Shanks
annuì comprensivo, per niente offeso da
quell’ostilità che leggeva nello
sguardo di quel giovane che tanto somigliava al vecchio che aveva di
fronte.
Entrambi avevano un’aria che suscitava ammirazione e dava
mostra di coraggio e
determinazione, sicuramente persone da rispettare, dati i loro
precedenti. A
lui avevano fatto subito una buona impressione, se doveva essere
sincero.
Dopotutto, si erano presi cura di Sabo e di quella peste di Ace,
perciò era
pronto a scendere a patti con loro in qualsiasi momento, sperando in
altrettanta simpatia dal loro punto di vista. Lui, di certo, ce
l’avrebbe messa
tutta per risultare apprezzabile.
-Sai,-
iniziò a dire il Rosso, sedendosi su una sedia e
rivolgendosi a Marco in
particolare, -In città ci sono parecchi uomini che ogni
giorno si svegliano e
aspettano di scendere in strada a combattere per qualcosa in cui
credono.
Desiderano un futuro migliore per le loro famiglie, perciò
rischiano la vita e
sopportano atroci sofferenze. Ogni giorno.- ripeté,
sospirando per la
pesantezza che quelle parole gli provocavano nel petto. -Ci sono dei
ragazzi
che per me sono come dei figli, perciò credimi quando ti
dico che quello che
stiamo facendo è unicamente per il loro bene. Nessuno
vorrebbe vedere i propri
cari soffrire o morire.-
Il
biondo lo ascoltò in silenzio, lo sguardo attento e la
postura rigida, poi,
incrociando brevemente anche lo sguardo del padre, si decise a parlare.
-Combatteremo.-
affermò serio, staccandosi dal una delle travi che
sorreggeva il soffitto della
tenda e avvicinandosi al tavolo dove erano state stese delle carte in
cui
sarebbe presto stato stilato un contratto che sanciva e autenticava
quella
conversazione. -Ma sia ben chiara una cosa: non vogliamo
responsabilità sulle
vite che non ci riguardano e, se la guerra sarà vinta,
dovrete assicurarci la
garanzia di poterci trasferire a Parigi in modo permanente se ne avremo
bisogno.-
-Marco,
non è la nostra terra.- gli ricordò suo padre.
-Ma
dobbiamo mettere a rischio la nostra famiglia ugualmente,
perciò avere delle
garanzie mi sembra più che giusto.- ribatté
tempestivo il giovane, fissando
Shanks e sfidandolo ad accettare quelle condizioni. Avrebbe potuto
decidere
quello che più gli comodava con Barbabianca, ma prima doveva
acconsentire alle
sue di richieste, altrimenti difficilmente avrebbe partecipato
all’affare.
Finalmente,
il parigino prese una decisione che di complicato non aveva avuto
nulla, dato
che per lui qualche cittadino in più non gli avrebbe
cambiato la vita.
–Mettiamo subito tutto per iscritto?- chiese, sfoggiando un
sorriso cauto e
afferrando carta, piuma e calamaio per iniziare, facendo ridacchiare
Barbabianca e accigliare Marco, il quale si era aspettato di trovare
più
resistenza. Non aveva più nulla da aggiungere in quel caso e
così, con un cenno
di saluto, uscì dalla tenda prendendo una profonda boccata
d’aria e chiudendo
gli occhi per rilassarsi.
Non
era un egoista, tutto ciò che voleva era mantenere al sicuro
la sua famiglia,
come faceva anche la gente di Parigi. Non voleva essere un peso e si
fidava di
suo padre, solamente si sentiva preoccupato e in dovere di assicurarsi
il
benessere di tutti.
Si
massaggiò il collo con una mano per disperdere la tensione
accumulata e solo
allora vide avvicinarsi suo fratello Thatch con in mano una bottiglia
d’acqua
fresca e un sorriso smagliante e allegro.
-Allora,-
chiese il castano quando l’ebbe raggiunto, porgendogli da
bere e indicando la
tenda alle loro spalle, -Come sta andando?-
-Stanno
decidendo i termini in questo momento.- spiegò, mandando
giù una generosa
sorsata e sentendosi subito meglio.
-Come
ti sembrano questi francesi?-
Marco
tentennò qualche istante prima di rispondere sincero.- Uno
più idiota dell’altro.-
Non
stava scherzando, anche se Thatch si era messo a ridere di gusto,
perché
considerava Ace un deficiente e pure quel tizio di nome Shanks, con
quei
sorrisi e quell’aria da bonaccione non gli era sembrato
così furbo e
intelligente, al contrario del compagno più vecchio che
fumava come una
locomotiva.
-Sai
cosa, credo che anche loro pensino lo stesso di noi, a parte Sabo
ovviamente.-
-Uh?
Perché non dovrebbe?-
Thatch
diede una gomitata al fianco di Marco, sogghignando malizioso e
facendogli
segno di guardare dall’altro lato dell’accampamento
dove si riconosceva
chiaramente la figura di Koala seduta su un tronco davanti ad uno dei
focolari,
intenta a ridere mentre, accanto a lei, il francese che avevano salvato
e
curato le raccontava qualcosa, gesticolando e facendo facce strane.
Il
castano allora si costrinse a commentare la scena.
–Seriamente, come si può
pensare male di una come Koala?-
-E’
troppo buona.- concordò Marco, sospirando.
-E
bella. Non mi stupirebbe se ci ritrovassimo un francese in famiglia.-
-Thatch,
ti prego. Li hai visti? Sono chiassosi, stupidi e irriverenti.-
-Ti
stai riferendo a qualcuno in particolare?- ironizzò il
fratello, adocchiando
una testolina corvina sbucare dal nulla e avvicinarsi a passo spedito
verso di
loro, mentre Marco continuava a guardare i due giovani poco lontano,
intento a
borbottare la sua disapprovazione.
-Non
hanno la minima idea di quello che fanno, sono indisciplinati
e… Ecco, basta
guardare questo moccioso: sono bassi e insignificanti.- concluse,
rispondendo a
tono all’occhiataccia che Ace gli rivolse, avendo intuito che
il biondo stava
facendo qualche commento poco gentile nei suoi confronti. La cosa era
reciproca, naturalmente. Anche lui aveva qualcosa da dire in proposito,
ma si
tratteneva perché capiva che la situazione era delicata e
iniziare una lotta
con un alleato non sarebbe stata la mossa migliore da fare. Magari,
quando si
sarebbero ritrovati a combattere fianco a fianco, una scazzottata se la
sarebbe
potuta concedere e nessuno avrebbe visto niente. Doveva solo pazientare
e
ignorare quel fastidio che gli faceva pizzicare le mani e stringere i
pugni
quando si trovava in compagnia di quello spilungone ed era costretto ad
alzare
la testa verso l’alto per guardarlo in faccia. Non sopportava
quella differenza
di altezza, proprio non gli andava giù. Lo faceva sentire,
come dire, inferiore
e lui non lo era. Non aveva niente da invidiare a nessuno!
-Chiudi
il becco.- lo apostrofò scocciato, facendosi largo tra i due
per entrare nella
tenda a dire la sua, ma Thatch, roteando gli occhi al cielo, ormai
abituato a
quell’intraprendenza, lo afferrò per la collottola
prima che si allontanasse
troppo, bloccandolo lì fuori con loro.
-Non
penserai di poter interferire in una riunione così seria,
vero ragazzino?-
-E
lasciami! Io vado dove mi pare!- si impuntò il
più piccolo, facendo sbuffare
Marco, il quale decise che, se non voleva farsi venire un mal di testa,
era
meglio per lui andarsene e così fece, lasciando le rogne a
suo fratello, più
portato a perdere tempo con cose inutili.
Il
castano, infatti, fu ben felice di trascinarsi dietro quello che
considerava
già come un nuovo amico con cui divertirsi e condividere
più gioie che dolori.
Così, incurante delle lamentele, lo costrinse a seguirlo,
iniziando a parlare
del più e del meno, tenendo sempre d’occhio i due
ragazzi davanti al fuoco e
deciso ad aggregarsi a loro per una bella chiacchierata tra conoscenti.
-Mollami,
non ci voglio venire con te! Insopportabile deficien…-
-Oh,
guarda! C’è il tuo amico laggiù!-
esultò Thatch, conscio di aver toccato un
punto importante per il moccioso che, all’istante, smise di
ribattere e drizzò
le orecchie, smettendo di porre resistenza e alzandosi sulle punte dei
piedi
per intercettare suo fratello.
-E
non è solo, c’è anche Koala con lui.-
precisò il castano, facendo strada ad Ace
che, una volta individuato Sabo, superò il più
grande e gli fu addosso in pochi
secondi, cogliendo il biondo di sorpresa e buttandolo a terra facendolo
cadere
dalla parte opposta del tronco sotto lo sguardo prima stupito e poi
divertito
della ragazza.
-Ma
che… Ace? Che ci fai qui?- chiese Sabo, felice di vedere il
viso famigliare del
corvino e abbracciandolo a sua volta, incurante di essere in una
posizione
scomoda. Non sentiva più dolore e quello era un segno
positivo a suo parere. Tempo
atmosferico a parte, non sentiva nemmeno tanto freddo essendo vicino al
fuoco e
avendo fatto una doppia colazione, inoltre i vestiti che gli aveva
fornito
Koala tenevano caldo e gli stavano bene.
-Ho
accompagnato Shanks a parlare col vecchio che comanda da queste parti.
Tu
piuttosto, come stai?- spiegò Ace spiccio, desideroso di
conoscere le
condizioni del fratello, anche se doveva essere migliorato per trovarsi
all’aperto e fuori dalla tenda.
Sabo
aprì bocca per dire, come al solito, che stava benissimo, ma
Thatch pensò bene
di precederlo e rispondere per lui.
-E’
stato fino ad ora con Koala, come vuoi che stia se non bene?- fece,
sedendosi
accanto all’amica e alimentando il fuoco, il tutto con un
sorrisetto vagamente
malizioso sulle labbra. Era certo di averci visto giusto e lui, per
certe cose,
aveva un fiuto incredibile.
Ace
fissò il fratello sotto di sé con aria
interrogativa, non capendo bene cosa
l’altro avesse inteso, mentre Sabo spalancò gli
occhi, sentendosi in dovere di
negare quell’insinuazione.
-M-ma
che dici? Non sto affatto bene.- dichiarò, scostandosi di
dosso Ace e
rialzandosi a fatica, appoggiandosi alla seduta in legno, rendendosi
conto solo
allora del significato che potevano avere le sue parole e affrettandosi
a spiegarsi
meglio non appena vide Koala abbassare il capo, fissandosi le mani che
teneva
nascoste in grembi e le labbra strette, come se non volesse farsi
vedere. -No,
cioè, voglio dire che sto benissimo con Koala.-
riprovò, ma anche in quel caso
il senso poteva essere frainteso totalmente, infatti Thatch gli
scoccò
un’occhiata di vittoria, mentre la ragazza accanto a lui
alzò di scatto la
testa, guardando Sabo e sentendo le guance diventare sempre
più rosse. Che
situazione imbarazzante per entrambi.
Allora
il biondo sospirò esasperato, cercando le parole migliori da
poter usare a suo
favore per togliersi da quell’impiccio. Aveva anche la vaga
sensazione che
quella fosse stata tutta opera di quell’uomo con cui Ace
aveva fatto amicizia.
-Mi sento molto meglio e Koala è stata così
gentile da tenermi compagnia.-
ecco, così poteva andare e nessuno ebbe più nulla
da ridire e quando Ace provò
a ricordare che quella era già la seconda volta che trovava
il fratello assieme
alla ragazza, Sabo gli tappò la bocca ficcandogli un pezzo
avanzato di baguette
in gola, fulminandolo con uno sguardo che non ammetteva altri discorsi.
-Quindi
ti sei rimesso?- curiosò Thatch dopo un po’.
Sabo,
prima di rispondere, si sentì in dovere di guardare Koala
per sapere cosa dire,
ma quella abbassò lo sguardo, così dovette
improvvisare. -Beh, rispetto a
quando ero mezzo moribondo si, direi di si.- ammise.
-Quindi
puoi tornare a casa?- domandò subito Ace, sulle labbra un
sorriso che si faceva
sempre più entusiasta. Dormire da Makino non era la stessa
cosa con un fratello
in prigione e un atro in mezzo ai campi.
-Ecco,
non lo so, forse dovrei aspettare…- iniziò vago
il diretto interessato,
massaggiandosi distrattamente la base del collo.
-Certo.-
rispose una voce al suo posto, stupendo i tre ragazzi, i quali si
concentrarono
all’istante su Koala che, accennando un sorriso, confermava
loro che Sabo era
fuori pericolo e che avrebbe potuto finire la convalescenza con la sua
famiglia
e in un luogo dove sarebbe stato al caldo e più comodo.
-Sarà
più facile e ti riprenderai più in fretta.- gli
disse. Era contenta per lui,
per essere riuscita a farlo stare meglio e a non permettere che i suoi
fratelli
lo perdessero in quel modo orribile al quale era stato destinato. Anche
lei
aveva avuto un passato difficile ed era rimasta sola, ma aveva trovato
una
famiglia con cui stare e delle persone che le volevano bene e che la
proteggevano, perciò aveva fatto del suo meglio e si era
impegnata duramente
per salvargli la vita. Era soddisfatta e sapeva che tornare a Parigi lo
avrebbe
reso felice, perciò aveva deciso che non aveva
più bisogno delle sue cure.
Stare con i suoi cari sarebbe stato più efficace.
Da
una parte, però, una piccola e insignificante, le
dispiaceva. Si era trovata
bene con lui, aveva capito che potevano parlare di tutto senza troppe
cerimonie
e senza sentirsi a disagio. Sabo, poi, non era una di quelle persone
che
volevano sempre parlare di sé stesse, ma la ascoltava e le
faceva un sacco di
domande, rispondendo ad altrettante quando era lei a chiedergli di
raccontargli
della vita in città, di quello che succedeva a Parigi e di
un sacco di altre
cose interessanti che spesso la facevano ridere e che le facevano
volare la
giornata. Si era divertita tanto anche quando lui le aveva tenuto il
muso
perché sapeva che, quando si svegliava e trovava il pranzo,
sorrideva grato. E
la consapevolezza che le rivolgesse quel pensiero di gratitudine la
faceva
sentire utile e benvoluta.
Era
un peccato doverlo lasciare andare via, ma sapeva che prima o poi
sarebbe
successo, inoltre voleva il suo bene e per lui era meglio tornare a
casa.
-E’
stupendo!- gridò Ace, battendo una mano sulla spalla di Sabo
e prodigandosi in
una serie di ringraziamenti verso Koala che, modesta, si
sminuì come al solito,
non accorgendosi, come invece fece Thatch, dello sguardo un
po’ abbattuto
dell’unica persona che avrebbe dovuto essere felice di
tornarsene a Parigi dai
suoi amici.
In
effetti, anche Sabo si rendeva conto che quella reazione non era delle
migliori. Era contento, certo, non c’era dubbio, ma non
riusciva a spiegarsi
come mai non sentisse il bisogno di rallegrarsi ed esultare. Fino a
poco prima
avrebbe dato qualsiasi cosa pur di sentirsi dare quella notizia, ma in
quel
momento non gli aveva fatto né caldo, né freddo.
Stare
lì non gli era dispiaciuto, non era come casa sua, ma era
stato carino, ecco.
Thatch passava spesso, ogni giorno per la precisione, a trovarlo e a
farlo
diventare scemo con le sue trovate e le sue storie, ma era gentile, un
po’ come
tutte le persone che aveva visto, anche se di sfuggita.
E poi
non poteva dimenticare Koala che lo aveva salvato.
E’
stata fantastica, pensò,
aggrottando la fronte subito
dopo nel rendersi conto che, in parte, il fatto di non vederla
più entrare di
soppiatto nella sua tenda per lasciargli da mangiare e rimboccargli le
coperte
gli sarebbe mancato.
*
-Questa
me la paghi, Trafalgar.-
-Veramente
siamo pari, consideralo un modo per saldare quello che mi devi.-
-Io
non ti devo proprio niente!-
-Spese
mediche.- spiegò il giovane dottore con un cenno svogliato
della mano, -E
l’orologio che mi hai rubato, ovviamente.- aggiunse ghignando
in mezzo alla
folla che passava accanto a loro.
-Mi
sembra comunque esagerato.- continuò a lamentarsi Kidd,
camminando tra la gente
in compagnia di Law che, dal canto suo, si sentiva carico come una
bomba pronta
ad esplodere.
Avevano
fatto una tappa nella sala operatoria del moro per prendere alcuni
strumenti
che, a detta sua, gli sarebbero serviti per la messinscena che
avrebbero presto
interpretato e per avvisare Penguin e Shachi che sarebbe stato via per
qualche
ora. Si erano poi cambiati, in stanze rigorosamente separate, ed
avevano
indossato uno un completo scuro e dall’aria decaduta, con
tanto di cappello
abbinato e un paio di baffi finti raccattati chissà dove,
mentre l’altro era
stato obbligato a mettere dei veri e propri stracci e a sporcarsi il
viso e le
mani con polvere e terra, oltre che a doversi spostare trascinando un
carrettino dove, a detta di Law, avrebbero dovuto caricare qualche
salma.
-Non
ti affannare, stai benissimo.- lo sfotté il più
basso dei due, sogghignando divertito
sotto la barbetta ispida e tinta con della cenere per risultare
più vecchio e
dedicandogli un’occhiata derisoria con cui squadrò
il rosso dall’alto in basso,
complimentandosi con se stesso per l’ottima idea avuta.
Vedere quell’energumeno
conciato come un barbone disperato e con quel berrettino che gli
schiacciava i
capelli ribelli sulla fronte corrucciata era il miglio risarcimento che
avesse
mai potuto sperare di ricevere.
Kidd,
al contrario, non era dello stesso umore, anzi, stava ribollendo di
rabbia per
l’umiliazione e per essere conciato peggio di un becchino.
Quelli almeno i
soldi ce li avevano, mentre lui stava facendo tutto ciò per
cosa? Per visitare
una prigione? Al diavolo, se l’avesse saputo prima che
avrebbe dovuto giocare
ai travestimenti non avrebbe mai accettato.
-Ti
pentirai di questo scherzetto.- lo minacciò, rispondendo al
suo sguardo con uno
più micidiale e intimidatorio.
-Chiudi
il becco ora, siamo arrivati. Ne riparleremo più tardi.-
Se ne usciamo
vivi, aggiunse nella
sua mente Trafalgar,
alzando il capo e osservando come la Bastiglia si ergesse davanti a
loro fiera
e indistruttibile, sorvegliata giorno e notte da guardie armate,
gettando
un’aura scura e tetra nei dintorni circostanti dove
praticamente nessuno osava
aggirarsi, nemmeno per passeggiare.
Eustass
Kidd ebbe la tentazione e l’irrefrenabile impulso di
bloccarsi e non avanzare
ulteriormente di altri passi, cosa del tutto normale che capitava a
tutti i
fuorilegge, ma dovette imporsi di continuare per non destare sospetti,
apparendo il più tranquillo e apatico possibile, seguendo
quel mingherlino di
Trafalgar fino al portone principale dove, al di là di una
grata in ferro,
sedeva ad un banco delle informazioni una guardia con un brutto muso
dall’aria
annoiata.
Prima
ancora che i due ragazzi potessero aprire bocca, un ufficiale si
avvicinò a
loro con fare ammonitore e si piazzò davanti
all’ingresso, bloccando il
passaggio. –Non sono ammesse visite.- scandì serio
e irremovibile.
Kidd
deglutì e sperò sinceramente che nessuno si
accorgesse di quel suo lieve
disagio, nel frattempo il suo vicino piazzava un sorriso di circostanza
e
sfoggiava uno sguardo angelico ed innocente che con il suo carattere
non aveva
niente a che fare e stonava tremendamente con la mente malata e
contorta che si
ritrovava.
-Ho
un documento firmato, sono un medico e sono qui per accertarmi che
nessuno dei
prigionieri sia affetto da peste.-
Kidd
sbiancò, così come l’ufficiale, il
quale chiese loro di attendere un minuto
fino a che non avrebbe controllato il certificato e trascritto la
visita come
da prassi nei vari registri.
Il
rosso approfittò di quel momento per tentare di pestare un
piede a Law che, veloce,
si scansò, tirandogli una gomitata in mezzo alle costole, ma
ammaccandosi più
lui che Kidd.
-Bastardo!-
bisbigliò il più grosso, -Se sapevo che correvo
il rischio di ammalarmi col
cazzo che ti accompagnavo!-
-Rilassati
Eustass-ya, è tutto sotto controllo.- lo zittì il
moro, sibilando in risposta e
guardandolo in cagnesco.
Fortunatamente,
la guardia tornò prima che iniziassero ad azzannarsi alla
gola, permettendo
loro di passare, ma obbligandoli a lasciare i loro nomi
all’entrata, ovvero
all’uomo che oziava sulla sedia.
-Vicedirettore
Annyabal, è arrivato il medico.- li annunciò,
destando il tizio dalla
capigliatura insolitamente verdognola e con la divisa unta di
chissà cosa che,
dopo aver borbottato qualche frase senza senso sul suo superiore e sui
suoi
progetti di prendere presto il suo posto, permise a Law di firmare un
documento
per poi lasciarlo passare, accompagnato dalla guardia e da Kidd che non
aveva
smesso un attimo di guardarsi attorno nervoso.
C’erano
troppi ufficiali per suoi
gusti e non si
sentiva affatto sereno sapendo di essere all’interno di una
prigione dalla
quale nessuno era mai uscito vivo. Se lo avessero riconosciuto sarebbe
stato un
disastro. Per fortuna che quell’antipatico di Trafalgar aveva
fornito un nome
falso anche per lui, altrimenti tutte le sentinella gli sarebbero state
addosso
nel giro di un secondo.
Solo
allora un pensiero lo colpì, deviando le sue paure e
lasciando posto ad
un’imprevista tranquillità. Ecco perché
quel maledetto dottore lo aveva
obbligato a sporcarsi di terra, polvere e fuliggine, facendo assumere
alla sua
pelle un colore indefinito e una tonalità castano sporco ai
suoi capelli. In
quella maniera nessuna delle guardie presenti sarebbe stata attirata
dal rosso fiammeggiante
che con orgoglio mostrava a tutti.
Guardò
davanti a sé la figura più bassa e magra di Law,
avvolta in quell’abito da
morto che gli stava da schifo, più grande almeno di due
taglie, e i capelli
brizzolati che aveva ottenuto con la cenere del camino nel suo studio,
ritrovandosi a dover ammettere che era stato proprio bravo a camuffare
entrambi. Avrebbe potuto usare anche lui quel trucchetto, senza
dirglielo
giustamente, e passando quell’invenzione come propria. Di
certo Killer avrebbe esultato
e il resto dei suoi amici gli avrebbero fatto un sacco di complimenti e
lo
avrebbero imitato.
-I
malati terminali stanno al primo piano.- spiegò la guardia,
precedendoli, -Così
è più facile smaltire i corpi.-
A
Kidd si rivoltò lo stomaco, mentre Law, abituato, non fece
una piega e rimase
serio, alzando solamente gli occhi al cielo per la lentezza con cui si
stavano
muovendo. Non era lì per dire a quei poveri diavoli che la
malattia li avrebbe
presto stroncati nel sonno, aveva altro da fare.
-Dovrei
vedere prima alcuni detenuti che mi sono stati assegnati.-
avvertì allora,
facendo voltare l’ufficiale e sorridendogli cortese.
–Sono sospetti portatori
di epidemie ed è mio dovere evitare che il morbo si
diffonda.-
-Non
ne sono stato informato.-
-E’
tutto scritto qui.- affermò allora il ragazzo, estraendo dal
taschino della
giacca un altro foglio che consegnò all’uomo che
li accompagnava, il quale, una
volta notato il sigillo che portava il documento, non ebbe
più nulla da
obbiettare e li condusse immediatamente ai paini alti dove, in teoria,
Law
avrebbe dovuto trovare dei carcerati malati.
-Questo
è il piano, prendetevi pure il tempo che vi serve per fare
le visite, io, ehm,
ecco…-
-Non
si preoccupi, aspetti qui così eviterà di venire
contagiato.-
Detto
ciò, Law iniziò con calma e pazienza a visitare i
detenuti della prima cella,
usufruendo delle chiavi che gli erano state consegnate per aprire e
chiudere le
porte. La guardia lo seguiva a distanza, tenendo pronte le sue armi in
caso di
una qualche rivolta, ma evitando di entrare in contatto con quei topi
di fogna
che si erano messi a schiamazzare non appena avevano notato dei
visitatori
nuovi.
Kidd,
intanto, si trascinava dietro il suo carrettino che aveva preso a
considerare
come unico appiglio alla lucidità perché quella
situazione gli dava un senso di
assurdità tale da non riuscire del tutto a credere che
stesse accadendo davvero
a lui. Era dentro alla Bastiglia e stava guardando come la gente
venisse
trattata, ovvero legata a delle catene e lasciata lì a
marcire, dimenticata dal
resto del mondo. Se non mandò a monte la copertura fu solo
grazie ad
un’occhiataccia gelida che gli lanciò Law quando
si accorse del fremito che
aveva preso a scorrere sulle sue mani chiuse a pugno. Solo allora si
costrinse
a calmarsi e ad ignorare le facce che conosceva di vista rinchiuse
nelle celle,
concentrandosi invece sulle muffe che crescevano sulle pareti a causa
dell’umidità.
Trafalgar,
invece, si stava stancando. Gli era stato detto da fonte sicura che
quel
moccioso si trovava in quell’ala della prigione e ancora non
l’aveva trovato.
Stava per arrabbiarsi, quando, aprendo la decima cella, notò
in fondo allo
spazietto angusto e sudicio una figura conosciuta seduta accanto ad un
tizio
dall’aria sfinita e con dei lunghi capelli azzurri raccolti
in una coda
disordinata.
Ghignò
entusiasta e un lampo gli attraversò gli occhi chiari.
-Trovato.- sussurrò,
incuriosendo Kidd che, alle sue spalle, gettava uno sguardo indagatore
attorno
a sé nel tentativo di capire a cosa si stesse riferendo.
-Trafalgar,
che cazzo dici?- domandò, facendo voltare verso di
sé i due detenuti che
stavano chiacchierando addossati alla parete. Più
precisamente, uno si stava
sbracciando, mentre l’altro sembrava fare di tutto per
ignorarlo.
-E’
tanto che non ci vediamo,- fece Law, avanzando e avvicinandosi ad uno
dei due
in particolare, abbassandosi sulle ginocchia per essere
all’altezza del suo
viso e togliendosi così il ciuffo di baffi finti che aveva
creato lui stesso
usando quelli di un cadavere. -Rufy.-
Il
ragazzino davanti a lui rimase stordito per un attimo, guardando
stranito il
viso del giovane che gli stava ad un palmo dalla faccia, ma alla fine i
suoi
occhi si spalancarono e si accese in un’espressione
raggiante, boccheggiando
per l’incredulità. Prese fiato per mettersi ad
urlare il nome dell’amico,
quando Trafalgar gli piazzò una mano stretta sulle labbra
per farlo tacere ed
evitare che combinasse un disastro. O meglio, impedire che Rufy si
rivolgesse a
lui con il soprannome che gli aveva affibbiato davanti ad uno come
Eustass
Kidd. Era certo che il rosso lo avrebbe preso in giro fino alla morte
se lo
avesse udito.
-Chiamami
con quel nome e giuro che ti disseziono.- soffiò a bassa
voce, fulminando con
un’occhiataccia il detenuto lì accanto che aveva
dato segno di voler chiamare
la sicurezza. Riuscì ad intimidirlo abbastanza
affinché quello facesse segno di
chiudersi la bocca con ago e filo, mettendosi calmo e silenzioso ad
ascoltare
senza fare storie.
-Sei
venuto a portarmi via?- gli domandò Rufy speranzoso quando
venne liberato dalla
mano di Law, il quale prese ad armeggiare con alcuni strumenti medici
che si
era portato appresso, ficcando un legnetto in gola al ragazzino per
fingere di
controllargli le tonsille con aria critica.
-Non
ancora.- confessò il moro, assottigliando gli occhi.
–Sono qui solo per
avvisarti che dovrai avere pazienza e per portarti i saluti di tutti.-
Rufy,
che aveva sperato fino all’ultimo di poter tornare in
libertà, non si lasciò
abbattere, coscio che i suoi amici e la sua famiglia non lo avevano
dimenticato
e si stavano affannando per salvarlo. Era grato a tutti loro e non
vedeva l’ora
di poterli riabbracciare e tornare alla sua vita al loro fianco.
Perciò accettò
di buon grado quello che Trafalgar gli disse senza fare troppe storie,
consapevole che se si fosse comportato inconsciamente come suo solito
avrebbe rischiato
di mettere in pericolo tutti. E lui non voleva di certo essere un peso.
-Ace
come sta?- domandò allora, continuando poi con voce
incrinata, timoroso della
risposta. –E di Sabo avete saputo nulla?-
-Ace
se la passa bene,- annuì Law, addolcendo di poco lo sguardo
per poi
assicurargli che anche il biondo era scampato alla morte, vedendo come
un peso si
sollevasse dal petto del più piccolo che si commosse. -Si
stanno dando da fare
per reclutare nuovi alleati per la Rivoluzione.- spiegò
spiccio e vago. Non
aveva tempo di raccontare le cose per filo e per segno, inoltre quello
svampito
di Rufy non avrebbe capito e si sarebbe annoiato subito fin
dall’inizio.
-Makino
e Shanks?-
-Alle
solite, lei è preoccupata per te. Mi ha detto di ricordarti
di mangiare e
lavarti i denti.-
Il
tizio accanto a loro ridacchiò, mentre Rufy non si faceva
scrupoli e affermava
di essere grande ormai e di saper badare a se stesso al meglio.
-E
Nami?- sussurrò dopo un po’, massaggiandosi la
mandibola che aveva tenuto
aperta per una decina di minuti.
Law
sorrise. Si era aspettato quella domanda.
-Non
lo da a vedere, ma credo che senta la tua mancanza.- disse malizioso,
notando
come Rufy si accigliava e lo guardava incuriosito, non capendo bene
dove
volesse andare a parare il medico.
-Per
forza, sono suo amico!- fece deciso e sorridendo, massaggiandosi la
zazzera
corvina, mentre Trafalgar scuoteva il capo esasperato. Più
volte Ace e Sabo
avevano provato a spiegargli un certo argomento abbastanza delicato e
personale, una cosa che tutti, ad un certo punto, dovevano imparare e
capire
per campare, ma lui non aveva mai afferrato il concetto fino in fondo.
Ci aveva
provato lui stesso a imprimergli nella mente l’anatomia
umana, ma non era valso
a nulla il suo sforzo didattico. Rufy sembrava del tutto disinteressato
al
sesso, se così si voleva definire, e, anche frequentando una
bella ragazza come
Nami, la situazione non sembrava cambiare. Era un idiota e tale
restava, anche
se aveva coraggio e determinazione da vendere.
-Ehi,
Trafalgar.- si fece sentire Kidd, per niente rilassato. Erano
lì dentro da
troppo tempo e sentiva che l’aria iniziava a farsi pesante,
soprattutto perché
tutti gli occhi dei detenuti delle celle circostanti erano fissi su di
loro,
con le orecchie tese, pronti a captare qualsiasi parola o frase
sospetta che li
smascherasse. Temeva che si fossero accorti che qualcosa non quadrava e
aveva
la netta sensazione che, se non se ne fossero andati immediatamente, le
cose
sarebbero precipitate. Dopotutto, Law nei panni di un vecchio non ci
stava
affatto bene ed era inverosimile che un uomo così anziano
potesse restare a
lungo in una posizione scomoda per le sue ossa. –E’
ora di sbaraccare.-
Law
sospirò, consapevole di essersi trattenuto a lungo e ripose
gli strumenti,
chiudendo la valigetta nera.
-Non
fare sciocchezze.- si lasciò sfuggire mentre si alzava,
-Presto verremo a
prenderti.-
Rufy
annuì con il capo, felice di quella notizia e si trattenne
dal mostrarsi troppo
euforico o dal salutarli con la mano quando i due amici uscirono dalla
cella
per raggiungere l’uscita e tornare alla vita normale.
Non
doveva temere, nessuno lo avrebbe abbandonato.
Angolo
Autrice.
Mi
dispiaceeee! ;________________; la settimana scorsa non ho avuto un
attimo libero
nemmeno per me e ho preferito aspettare di nuovo il sabato prima di
pubblicare
per non saltare il giro anche se ho altri capitoli già
pronti. Scusate per l’attesa,
spero non si ripeta D:
Comunque…
BUON
SAN VALENTINO A TUTTI ^^ chi più contento, chi meno, ma
sorridete e mangiate
cioccolata che mette sempre il sorriso **
Well,
oggi si è visto finalmente come i patti tra Shanks e
Barbabianca vengano
finalmente sanciti e presto il nostro simpatico vecchio
verrà inserito nel
circolo dei Rivoluzionari in modo attivo!
Nel
frattempo
Sabo se ne può tornare a casa, ma chi ci dice che non
tornerà più all’accampamento
per rivedere i suoi nuovi amici e, beh, e Koala? :D
Lo stesso
vale per Ace, il quale non può stare troppo tempo lontano da
Thatch, come vedremo
prossimamente, anche se odia profondamente il suo caro fratello Marco.
Quanto
sesso represso u.u
Bisogna
dire che Law ha avuto proprio una bella idea, almeno ha avvisato Rufy
di
tenersi pronto perché qualcosa mi dice che presto qualcuno
entrerà allo
sbaraglio nella prigione e creerà un bel casino, yep! Un
po’ mi è dispiaciuto
per Kidd, ma ce lo vedevo troppo vestito di stracci e con quel carretto
da
traino ^^ Trafalgar, invece, è l’icona del
becchino di mezza età, giusto per
non dare nell’occhio. Chissà come le ha avute
quelle scartoffie firmate.
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Anyway,
le cose si stanno smuovendo,mi scuso se accade tutto con lentezza, ma
devo
stare dietro ai fatti storici e combinare tutti gli avvenimenti in modo
corretto, perciò devo adeguare giorni e mesi. ora siamo
verso le prime
settimane di aprile nel racconto, quindi bisogna arrivare a maggio con
la riunione
degli Stati Generali e poi a luglio con la Presa della Bastiglia.
Abbiate fede,
sto cercando di smuovere il tutto per non renderlo pesante o noioso, do
certo
non posso andare a passo con le stagioni, altrimenti ci metterei
troppo, quindi
qualcosa taglierò e lo userò come sfondo.
Detto
ciò vi auguro una buona giornata e una bella nottata, IF YOU
KNOW WHAT I MEAN
*O*
Grazie
come sempre a tutti, vecchi e nuovi lettori, e un abbraccione **
See
ya,
Ace.
|
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Capitolo 7 *** Sept. ***
Liberté,
Égalité, Fraternité.
Sept.
Il
bel tempo si stava lentamente stabilizzando, regalando a Parigi delle
bellissime giornate soleggiate e abbastanza calde da permettere ai
cittadini di
uscire e fare lunghe passeggiate presso le piazze e nelle vie
brulicanti di
mercanti e gente presa dalla vita frenetica e dagli impegni. Le
carrozze erano
tornate a scorrere per le strade con il rumore delle ruote e degli
zoccoli dei
cavalli; i pittori dipingevano attimi che sarebbero rimasti indelebili
sulle
tele; alcuni musicisti di strada rallegravano l’atmosfera che
si respirava e le
botteghe erano aperte a tutti. Piccoli attimi di buonumore erano
evidenti nei
visi di chi era più spensierato, o di coloro che
semplicemente vivevano appieno
le giornate senza rancori e rimpianti, evitando di pensare alla paura e
alla
tensione generale; il profumo di varie delizie usciva a tratti dai
forni o dai
negozi di alimentari, invogliando soprattutto i bimbi a mettere
qualcosa sotto
ai denti; lo scrosciare delle acque della Senna faceva da sottofondo al
brusio
frenetico che si alzava dalle vie e il sole illuminava quella giornata
all’apparenza normale.
L’unica
cosa che stonava con tutto ciò, purtroppo, erano gli
ufficiali che facevano le
ronde mattina, giorno e sera, controllando che tutto fosse in ordine e
che non
ci fosse nemmeno una virgola fuori posto.
Per
il resto, tutto era sempre lo stesso, così come Notre Dame, le
Palais
de Justice, Versailles, Place des Vosges, le Quartier Latin e, naturalmente,
Montmartre.
Il
quartiere
non godeva di una bella fama, considerato un luogo dove solo i
disperati
mettevano piede e mal visto dai religiosi e dalla gente con la puzza
sotto al
naso. Nessuno poteva immaginare, invece,
l’originalità che vigeva da quelle
parti. Persone senza un passato che trovavano una casa, uomini e donne
senza
speranza che trovavano lavoro o un posto dove stare e dove
sopravvivere,
giovani e vecchi che volevano dimenticare le loro origini e ne avevano
la
possibilità. C’era un po’ di tutto, tra
cui un vecchio mulino dall’aria antica,
ma non decadente, dato che la baracca era tenuta in piedi e gestita da
una
donna forte e con un pugno di ferro che faceva impallidire molti uomini.
Si
chiamava
Madame Dadan e gestiva quello che
era
diventato un locale molto frequentato dagli sbandati, alcolisti e
disperati,
gente persa, spiritata, quella con l’anima in fiamme.
L’edificio non era
grandissimo, ma era abbastanza da permettere alla padrona di fornire,
oltre che
ristoro, anche l’opportunità di assistere a
qualche spettacolo da quattro
soldi, inscenato dalle ragazze che lavoravano per lei come aiutanti
cameriere
e, a volte, come prostitute.
Dadan
non era cattiva, non era nemmeno una donnaccia, e le poverette che
andavano a
chiedere asilo da lei erano tutte ben accette. Non venivano nemmeno
costrette a
prostituirsi perché la padrona lasciava loro libera scelta,
quindi chi decideva
di farlo lo faceva unicamente per guadagnare di più, o per
piacere personale, o
per chissà quale altro motivo. A Dadan, comunque, non
importava, bastava solo
che lavorassero bene e in maniera professionale, senza troppi
sentimentalismi o
lamentele. Si premurava che fossero al sicuro e, se qualche
malintenzionato
alzava le mani, veniva cacciato in pochi secondi dagli addetti alla
sicurezza,
uomini di cui si fidava.
Era
ritenuto il locale del peccato, ma veniva ugualmente frequentato e mai
la donna
si era trovata in crisi con l’economia. Finché le
sue belle ragazze ballavano e
si dimostravano disponibili, andava tutto a gonfie vele.
Era
lì che viveva Nami, una delle tante figliolette senza padre
che le donne che
lavoravano lì avevano dato alla luce. Sua madre prima di lei
era stata una
prostituta e, quando era rimasta incinta, si era riscoperta felice ed
entusiasta. Purtroppo, però, a distanza di pochi anni dalla
nascita della
figlia, si era ammalata di tisi e non ce l’aveva fatta a
salvarsi, lasciando
nelle mani di Dadan la piccola Nami che, una volta diventata abbastanza
grande
e indipendente, aveva deciso di restare a dare una mano alla vecchia
signora
nella gestione del locale occupandosi dell’amministrazione e
del servizio ai
tavoli, decisa a ripagare l’enorme debito che aveva nei
confronti della padrona
di casa per averla cresciuta e amata come una di famiglia. A volte i
visitatori
le scambiavano addirittura per madre e figlia e la rispettavano,
timorosi delle
ire della signora più anziana.
-Ehi
Nami, tutto bene?- si sentì domandare la ragazza, sbattendo
le palpebre e
risvegliandosi dal torpore in cui era piombata fissando il vuoto
davanti a sé.
-Ehm,
certo, si.- si affrettò a rispondere all’amica che
le stava di fronte, la quale
sbuffò divertita prima di girare i tacchi e dirigersi verso
il piccolo palco
che stava situato in fondo alla sala, riempita con dei tavolini
disposti
davanti ad esso. -Sbrigati, tra poco apriamo.- la informò,
ancheggiando fino
alle scalette e salendo sulla piattaforma in legno, facendole un cenno
di
saluto con la mano e scomparendo dietro le quinte dove, lo sapeva,
altre
ragazze si stavano vestendo, o meglio, svestendo
per lo spettacolo della serata.
Non
capiva come le sue amiche riuscissero a mostrarsi quasi senza veli
davanti a
degli sconosciuti. Certo, la paga era buona e proficua, ma non le
sembrava
abbastanza per vendersi al miglior offerente. Erano rimaste in poche a
non
scendere a quei compromessi, per esempio Bonney che lavorava in cucina,
o Robin
che faceva da levatrice a tutti i marmocchi che giravano da quelle
parti. Ad
ogni modo, smise di pensarci e prese a pulire alcuni bicchieri che le
erano
rimasti nel lavello, ripetendosi che non erano costrette e che era una
loro
decisione di vita.
Non
era colpa loro se lei era rimasta un’inguaribile romantica e
sognava ancora che
Rufy si accorgesse di lei.
Che qualcuno si
accorga di me, si
ripeté, qualcuno, non Rufy,
accidenti!
Era
già passato un mese e mezzo da quando aveva ricevuto la
notizia della sua
carcerazione e da allora non era più riuscita a passare un
momento del tutto
tranquilla. Si sentiva sempre un po’ tesa e in ansia,
preoccupata per la sua
salute e per come se la stesse passando tra quelle quattro mura fredde
e
spoglie, conscia della sua natura travolgente, allegra e sempre
irrefrenabile.
Rufy non era fatto per stare al chiuso, aveva bisogno di muoversi, di
andare in
giro, di vivere le giornate al meglio. Chissà come se la
stava cavando. Ace era
venuto a trovarla e aveva cercato di farla sorridere, svelandole che
presto lo
avrebbero salvato e che Law era riuscito a parlargli e a dirgli di non
preoccuparsi, che presto sarebbe tornato a fare le sue solite
scorribande in città
e a prendere a calci gli ufficiali.
In
ogni caso, però, continuava a non dormire bene la notte e a
mangiare meno del
solito, anche se insisteva nell’affermare che stava bene e
che non era triste.
Se ne erano accorti tutti, ormai, che qualcosa non andava, ma non
poteva farci
nulla se non continuare a sorridere anche se non ne aveva nessuna
voglia.
Le
mancavano i sorrisi di Rufy, a dire la verità. Lui la faceva
sempre ridere a
crepapelle, dopo averla fatta arrabbiare. Sapeva sempre come farsi
perdonare e lei
gli era troppo affezionata per resistergli. Era un disastro su molti
fronti, ma
era sicura che non le avrebbe mai fatto del male di proposito
perché, se c’era
una cosa a cui Rufy teneva più della sua stessa vita, quella
erano i suoi
amici. E ne aveva tanti. E tra loro c’era anche Nami, la
quale avrebbe
preferito non essere parte della lista se ciò avesse
significato offrirle
un’opportunità di essere notata in quel modo dal
ragazzo.
L’unico
problema era che a Rufy certe cose non interessavano, o meglio, non
erano di
vitale importanza, prima venivano i suoi sogni e poi il resto, quindi,
lo
sapeva, avrebbe dovuto rassegnarsi. Per un po’ ci era
riuscita e aveva provato
a farsi passare quell’assurda cotta che l’aveva
colpita quando da mocciosi
giocavano assieme per strada, ma a sedici anni era tornata a
confonderle le
idee peggio di prima e da allora non era più riuscita a
smettere di amarlo.
La
verità era quella e aveva imparato a conviverci: era
innamorata e basta.
Sospirò
stancamente, rimettendo in ordine le stoviglie con gesti meccanici che
aveva
fatto fino allo sfinimento.
Perché
si era presa una sbandata proprio per quel tonto? Eppure i suoi
fratelli non
erano affatto male, anzi. Ogni volta che Ace metteva piede nel locale
tra le
ragazze si aprivano cori di alleluia, per non parlare di Sabo. Quel
ragazzo
aveva alle spalle una scia di cuori infranti. Non che fosse un
dongiovanni, non
usava nemmeno le donne per divertirsi, ma nonostante tutto le sue
amiche
provavano in tutti i modi a portarselo a letto. Arrivavano persino alle
mani
per accaparrarsi il diritto di passare una notte con lui e
ciò, per Nami, era
assurdo.
A
volte si domandava quante entrate ulteriori avrebbero avuto se Sabo
avesse
lavorato per Dadan; probabilmente tutte le donne del paese sarebbero
accorse
per lui.
Erano
dei giovanotti d’oro, ma quello che l’aveva colpita
e affondata era stato solo
Rufy, quello più infantile e disinteressato
all’altro sesso, come se il destino
avesse voluto farsi beffe di lei.
Una
musica leggera si diffuse nel locale e Nami si riscosse dai suoi
ragionamenti,
rendendosi conto che le porte del locale erano state aperte e che di
lì a breve
ci sarebbe stato del lavoro da fare. Iniziava un’altra serata
fatta di balli,
vino, risate e schiamazzi, donne e uomini. La solita routine, insomma.
Si
sistemò i capelli raccolti in una treccia ordinata che le
aveva fatto Violet
quel pomeriggio e poi si lisciò le pieghe della gonna lunga
e a balze bianche e
arancioni per assicurarsi di essere al meglio e di bella presenza,
piazzandosi
sulle labbra un sorriso finto e tirato. Anche se non si esibiva e non
si
mostrava al pubblico, doveva comunque mantenere una certa apparenza,
ecco
spiegata la generosa scollatura e il corpetto stretto attorno ai
fianchi
snelli.
A chi
voleva darla a bere, Rufy non si sarebbe mai invaghito di una ragazza
del
genere.
*
Da un
mese a quella parte, Ace e Sabo avevano adottato una nuova routine,
modificando
quella che era la loro vecchia organizzazione giornaliera e
modificandola
drasticamente dall’inizio alla fine.
Innanzitutto,
entrambi avevano dovuto scendere a patti con l’accettare la
nuova alleanza
creatasi tra i Rivoluzionari francesi e quelli americani, se
così si voleva
definirli, sottostando agli ordini di Shanks che aveva introdotto nel
circolo
degli Imperatori anche il vecchio Barbabianca, facendogli assumere lo
stesso
titolo suo, di Kaido e di quell’orribile donna che si faceva
chiamare Big Mom.
Fino a lì nessuno aveva avuto dei problemi, anche se era
stato complicato
spiegarlo al resto della loro numerosa e rumorosa compagnia. Per
l’occasione,
Shanks aveva indetto una riunione speciale alla Corte dei Miracoli alla
quale
avevano partecipato parecchie persone di diverse classi sociali, ovvero
i
cittadini e qualche esponente della borghesia che aveva voltato
bandiera e si
era schierato contro la Corona. Il cimitero non era mai stato
così affollato da
gente viva come quella notte, trascorsa tra dissensi, qualche rissa,
silenzio
e, alla fine, accettazione della cosa con la speranza di riuscire in
quel modo
ad ottenere la vittoria decisiva sul Re.
Un
altro cambiamento riguardava i loro orari: Ace, certe notti, non
rincasava
affatto, mentre Sabo, alcune mattine, scompariva dalla
città. Nessuno aveva
fatto troppe domande, a parte Makino che, presi i due ragazzi da soli e
in
momenti diversi, si era fatta raccontare per filo e per segno dove
andassero e
cosa combinassero. Con lei non avevano avuto difficoltà ad
essere sinceri e
avevano cantato tutta la verità senza imbrogli. Lei,
d’altra parte, si era poi
divertita un sacco a vedere come avessero mandato Shanks a farsi
benedire
quando aveva provato a farsi rispettare e a pretendere una risposta per
il loro
nuovo comportamento.
In
poche parole, Ace aveva, incredibilmente, stretto amicizia con parecchi
americani che vivevano all’accampamento di Newgate,
soprattutto con Thatch,
anche se il diretto interessato aveva faticato parecchio prima di
trovarsi il
moccioso tra i piedi ovunque andasse. I due avevano scoperto di andare
perfettamente d’accordo se il minore metteva da parte il suo
caratterino
scontroso e, soprattutto, se non veniva nominato Marco.
Perché Ace aveva si
ottenuto la simpatia di quei senzatetto, come li chiamava lui, ma
continuava ad
odiare terribilmente il fratello di Thatch e si poteva pure dire che il
sentimento era reciproco, dato che anche il biondo, ogni volta che
vedeva
quella faccia piena di lentiggini, girava i tacchi e se ne andava
altrove pur
di non doversi subire quella peste.
Sabo,
invece, aveva tutt’altre compagnie e commissioni da fare.
Anche
lui, come Ace, era benvoluto da tutti nell’accampamento, i
quali lo avevano
conosciuto come un ragazzo gentile e affabile, e perciò
erano sempre contenti
di vederlo e di parlarci. Sabo, infatti, aveva il dono di essere molto
diplomatico e ben disposto verso tutti, perciò non era stato
difficile per lui
entrare nelle grazie di quella gente. Non era per loro,
però, che tre mattine a
settimana si alzava prima dell’alba e si recava
all’accampamento per l’ora di
colazione con un bel cesto ricolmo di pane fresco, qualche bottiglia di
latte,
alcuni biscotti appena sfornati da Sanji e qualche insaccato che Killer
gli
rimediava.
Tornare
a casa lo aveva aiutato a rimettersi molto in fretta e aveva ripreso a
farsi
vedere in giro come se non gli fosse mai capitato nulla, accolto a
braccia
aperte dalla sua famiglia e dai Rivoluzionari. Non aveva comunque
dimenticato
il debito che aveva con una persona in particolare e, deciso a
ripagarla, aveva
iniziato a tornare nelle paludi di sua spontanea volontà con
la scusa di voler
aiutare Koala nel suo lavoro e di dimostrarsi utile per ripagarla del
tempo che
aveva perso nel curarlo. Se l’era ripetuto mille volte che la
accompagnava a
cercare erbe curative e medicinali nei paesini limitrofi solo
per gratitudine, inoltre, dal momento che erano alleati, era
suo dovere assicurarsi del suo benessere, ma gli capitava spesso di
sentire la
mancanza della ragazza durante il giorno e la voglia di fare una corsa
all’accampamento anche solo per vederla lo invadeva per
lasciarlo svuotato
l’attimo dopo, quando si diceva che non poteva permettersi
distrazioni e che
non aveva tempo da perdere. Tre mattine bastavano e avanzavano, non di
più.
Ad
ogni modo, era contento di quei nuovi impegni e a Koala, tutto sommato,
non
dispiaceva per niente la sua compagnia.
Altro
particolare che aveva subito una leggera variazione era
l’odio che i due
giovani provavano per gli ufficiali.
In
quell’ultimo periodo avevano dato inizio ad una serie di
zuffe e sabotaggi alle
ronde delle guardie, sia di giorno che di notte, coinvolgendo alcuni
compagni e
non ascoltando del tutto gli ordini di alcuni dei capi della
Rivoluzione.
Sabo
cercava continuamente di beccare il capitano che gli aveva sparato,
rischiando
quasi di ucciderlo, mentre Ace ce l’aveva a morte con
chiunque indossasse una
divisa per quello che avevano subito i suoi fratelli. Non si fermavano
mai ed
erano propensi a portare a termine la loro causa fino alla fine. Non si
poteva
di certo dire che non fossero determinati o che avessero paura.
Non
importava dove si trovassero, se vedevano un ufficiale, era guerra
aperta.
Ecco
spiegato il perché della rissa scoppiata in uno dei locali
del quartiere
malfamato di Montmartre.
Quella
sera, Ace aveva per la prima volta permesso a Thatch di accompagnarlo
di nuovo in
città, ovviamente senza dirlo al vecchio Barbabianca o a
Marco. L’unico intoppo
era stata la bocca larga del castano, il quale, non appena aveva capito
che
razza di quartieri avrebbero visitato, non era riuscito a trattenersi e
l’aveva
sbandierato a metà dei suoi compagni e fratelli, ottenendo
così il risultato
che tutti si autoinvitarono, implorando Ace di chiudere un occhio e di
portarli
con sé.
Così,
incappucciati, travestiti e zittiti per non dare troppo
nell’occhio, avevano
percorso le vie basse di Parigi fino a raggiungere il locale di Dadan
senza
contrattempi, facendo il loro ingresso e attirando
l’attenzione dei più
curiosi, soprattutto della titolare.
-Sciagurato,
cosa ci fai da queste parti?- salutò la donna imponente,
osservando dall’alto
della sua stazza Ace che si toglieva il mantello e le rivolgeva un
sorriso
sbieco, oltrepassandola per non stare a sentire le sue lamentele sul
suo
comportamento poco rispettoso e dirigendosi spedito al bancone dove una
bellissima ragazzina dai capelli ramati serviva con pazienza da bere ai
clienti.
-Bonsoir,
Mademoiselle.-
-Oh,
Ace!- sfarfallò le ciglia lei, sorridendogli cordiale e
avvicinandosi alla sua
postazione. -Tutto bene?- si informò subito.
Il
moro annuì. -Certo.-
La
vide tentennare un istante, ma alla fine si decise a porre la domanda
che le
era balzata in mente non appena aveva riconosciuto il ragazzo. -E
Rufy?-
sussurrò piano, quasi timidamente, ma fingendosi distaccata.
Ace
sorrise, tranquillizzandola. -Lo porteremo fuori presto, non temere.-
Nami
sembrò rilassarsi, lasciando andare un sospiro di sollievo
per recuperare poi
il suo solito sorriso e chiedere all’amico cosa desiderasse
da bere,
avvisandolo anche che di lì a poco sarebbe iniziato un altro
spettacolo.
Thatch,
nel frattempo, si guardava attorno, girando su se stesso a bocca
aperta, e
ammirava ogni angolo del locale, o meglio, ogni donna su cui gli
capitava di
posare lo sguardo. Quello era il paese delle meraviglie e si chiese
perché mai
Ace non aveva deciso prima di portarlo a fare un giro da quelle parti.
Che
brutto egoista era stato, aveva tutto quel ben di Dio a portata di mano
e non
ne aveva mai fatto parola con lui.
Lo
individuò al bancone mentre chiacchierava con una bellissima
ragazza e decise
di approfittare dell’occasione per esporgli il suo fastidio
nella speranza di
attaccare bottone con quella deliziosa fanciulla. Così lo
raggiunse,
passandogli una mano sulle spalle e attirandoselo contro,
intrappolandolo in
una morsa ferrea e scompigliandogli i capelli già disastrati.
-Brutto
furbastro.- iniziò a dire con un sorrisetto sadico, -Quindi
tu passavi le notti
a divertirti senza invitarci.-
-Guarda
che- respiro affannato –ti stai sbagliando!- tentò
di dire Ace, riuscendo a
liberarsi solo dopo che la sua testa fu trasformata in un nido per
uccelli.
-Come
no, chissà con quante belle donne ti sei intrattenuto mentre
noi ci ammazzavamo
di se…-
Qualcuno
davanti a loro si schiarì la voce ed impedì al
castano di finire la frase di
origine volgare che aveva iniziato, costringendoli a voltarsi entrambi
verso
Nami che, un po’ imbarazzata, piazzava sotto ai loro nasi due
bicchieri di
vino, garantendo che quelli li offriva la casa.
Thatch
accettò di buon grado e scolò la bevanda di
schiena, deciso a passare una bella
serata come non gli capitava da tempo. Certo, anche loro festeggiavano
di tanto
in tanto, forse molto spesso, ma dovevano stare attenti a non fare
troppo
casino e a non accendere troppi fuochi. Inoltre, non potevano suonare o
cantare, mentre lì sembrava che la musica regnasse sovrana
assieme alle ragazze
e alle loro gonne con le balze tutte colorate, per non parlare di tutte
le
grazie che mettevano in mostra. Ne era certo, sarebbe stata
un’esperienza
indimenticabile.
Il
suo animo offeso lasciò presto spazio ad un’indole
allegra e vagamente
alticcia, considerando la serie di bevande che finì nella
mezz’ora successiva,
seguito a ruota da alcuni suoi compagni e fratelli che, altrettanto
contenti,
non avevano perso tempo ad iniziare a fare festa, mentre Ace rimaneva
inchiodato al bancone a chiacchierare con Nami.
-Non
vai con loro?- gli domandò ad un tratto la rossa,
appoggiandosi con i gomiti
sul lungo tavolo di legno e inclinando il capo, lasciando che qualche
ciocca
ramata le sfuggisse dall’acconciatura e le ricadesse ai lati
del visetto regolare.
Ace
scosse la testa, osservando come i suoi nuovi ed improbabili amici
sorridevano
senza pensieri, meritevoli di una pausa. -Nah, sai che non mi va molto.-
-O
loro non sono il tuo tipo?- chiese la ragazza, indicando un paio di
colleghe
che si stavano intrattenendo con due uomini dall’aria
alticcia.
Ace
sbuffò, distogliendo lo sguardo e bevendo un’altra
sorsata di vino. -Senti,
quando troverò quella giusta allora mi butterò
pure io.- disse scocciato,
chiedendole poi di portargli un altro giro.
Nami
obbedì
e lo lasciò stare, conscia di aver toccato un tasto un
po’ delicato per lui,
anche se era praticamente l’unica con cui ne parlava.
Ace
era un bellissimo ragazzo, simpatico, estroverso e per niente timido,
ma aveva
un piccolo problema: non sapeva esporsi con le donne. Più
precisamente, non
riusciva a relazionarsi con loro se l’intento era quello di
finirci a letto,
visto e considerato che con lei conversava tranquillamente ed erano
amici da
una vita. La cosa strana, in più, era che non si sforzava
nemmeno di cercare la
compagnia femminile, per cui doveva essere molto impacciato o timido.
Le faceva
tenerezza a volte, ma aveva smesso di chiedere alle sue amiche di
provare a
sedurlo perché lui sembrava non subire nessun effetto.
Si
strinse nelle spalle e gli versò da bere, sorridendogli
incoraggiante per
calmarlo e fargli capire che andava tutto bene, che non importava, che
non
aveva bisogno di trovare una donna se per il momento stava bene da solo.
A
notte inoltrata erano tutti ridotti a degli stracci, ma si reggevano
ancora in
piedi, dando mostra di un grande autocontrollo, anche se alcune ragazze
avevano
l’aria sfinita e desideravano solo poter andare a letto per
dormire e non per
lavorare ancora. Thatch si era perso da qualche parte con quella che
secondo
lui era la creatura più bella del mondo, con dei capelli
rosati e l’aria
birichina, decisamente adatta a lui, mentre Namiur, Rakuyo e Izou erano
stravaccati sulle sedie con dei sorrisi idioti stampati in faccia e
l’aria
beata. Quello messo meglio era senza dubbio Ace, il quale si decise a
schiodarsi dal bancone solo in quel momento, lasciando Nami libera di
finire di
sistemare il locale per poi chiudere i battenti e buttare fuori a calci
chi non
era in grado di andarsene con le proprie gambe.
-Forza
ragazzi,- li incalzò il moro, appoggiandosi allo schienate
di una sedia per non
perdere l’equilibrio, -E’ ora di andare a dormire.-
-Ma
Ace,- biascicò Rakuyo, soffiando una boccata di fumo e
grattandosi i baffi
scuri, -Siamo appena arrivati.-
-Esatto,
restiamo ancora un po’- protestò Namiur,
aggrappandosi al tavolo, faticando
comunque a mantenere gli occhi aperti.
Ace
si passò una mano sul volto stanco, sbuffando. -E’
tardissimo. Se il vecchio o
quel bastardo di Marco vengono a sapere…-
-Scusate,
signori, ma stiamo chiudendo.- fece la voce imperiosa di Dadan alle sue
spalle.
Inizialmente, Ace la ignorò, continuando la sua frase e
spiegando ai suoi
compagni brilli che era meglio alzare i tacchi, ma
qualcos’altro attirò la sua
attenzione, mettendolo sull’attenti.
-E’
solo una visita di cortesia. Decidiamo noi quando chiudere.-
Non
sentendo nessuna risposta da parte della proprietaria che, solitamente,
non si
faceva scrupoli per nessuno, il moro si voltò a guardare chi
fosse arrivato,
trovandosi costretto a stringere i pugni fino a far sbiancare le nocche
quando
riconobbe le divise di quattro ufficiali nel bel mezzo di una ronda.
Se
fosse stato tutto normale, Ace li avrebbe ignorati, conscio di essere
ubriaco e
di non avere Sabo al suo fianco, l’unico intoppo stava nel
fatto che quell’uomo
appena entrato stava puntando contro la sua vecchia levatrice un dito
ammonitore e ciò non poteva tollerarlo.
In un
attimo gli fu alle spalle, le braccia tese lungo i fianchi e
l’espressione più
seria e minacciosa di cui disponeva, tanto che gli altri tre soldati
indietreggiarono di un passo come intimoriti.
-E
voi chi sareste per dettare le regole in casa altrui, Monsieur?-
domandò freddamente, fulminando il tizio con la divisa e
il cappello blu davanti a lui, il quale si voltò a
guardarlo, lasciando
intravvedere dei capelli rossi e una cicatrice sul mento.
-Ufficiale
Diez Drake.- si presentò il diretto interessato, abbassando
la mano e
fronteggiando Ace. -E questi non sono affari che vi riguardano.-
Il
giovanotto
sorrise sprezzante. -Oh, mi riguardano eccome, invece.-
L’uomo
assottigliò gli occhi, riconoscendo vagamente il volto
già noto del parigino. -Chi
siete?-
-In
città mi chiamano Pugno di Fuoco.- ironizzò il
moro, godendo del risultato che
diede il suo soprannome. I presenti, per l’appunto, presero a
confabulare tra
loro, mentre negli occhi di Drake passava un lampo di comprensione.
Allora
sorrise, estraendo la spada dall’elsa, pronto a far
rispettare la legge. -Un
ricercato, dunque.- mormorò.
A quanto pare
torneremo a casa tardi, pensò
Ace, pronto a combattere.
-Ti
concedo di prendere le tue armi,- disse l’ufficiale,
mettendosi in posizione di
attacco, -Sarebbe uno scontro impari, altrimenti.-
Ace
fece come gli era stato consigliato e nel frattempo anche i suoi
compagni recepirono
il messaggio, alzandosi barcollanti dai tavoli e facendosi avanti per
affrontare le guardie, sperando nella loro fortuna sfacciata.
Prima
di iniziare, Ace fece un inchino, sorridendo strafottente. -A voi la
prima
mossa.-
*
Quando
Thatch, con sulle labbra il sorriso più brillante e
soddisfatto che avrebbe mai
potuto sfoggiare e la cintola dei pantaloni ancora aperta, scese con
calma le
scale, ancora con la mente in paradiso per ciò che quella
ragazza gli aveva
fatto, Dio, se ci sapeva fare!,
vide il
disastro che stava avvenendo in quell’istante, rimase a
fissare la scena a
bocca aperta, con una mano dentro le mutande a sistemare gli attrezzi e
una fra
i capelli sciolti.
Non
capiva come Izou e Namiur fossero finiti a giocare a carte con due
ufficiali e
ancora più strano era il fatto che fossero tutti e quattro
mezzi svestiti,
mentre sul tavolino troneggiavano mozziconi di sigarette, qualche
moneta e un
paio di calzini. Poco distante, Rakuyo faticava a tenere la testa
sollevata sul
bancone del bar mentre ascoltava i discorsi che un soldato gli stava
facendo,
tenendo stretta una bottiglia di alcolico nella mano opposta a quella
che usava
per spiegare un qualcosa di apparentemente complicato. Sul palco,
invece,
circondato da un gruppetto di ragazze che facevano il tifo, riconobbe
la figura
di Ace che, con la faccia piena di lividi, prendeva a pugni uno dei
gendarmi
francesi con foga, buttandolo a terra e saltandogli addosso per
finirlo. La
vittima, però, sembrava non essere intenzionata a cedere
perché ribaltò le
posizioni e rimase un minuto buono a restituire a Ace tutti i pugni che
aveva
ricevuto in precedenza, riducendo il ragazzo ad uno straccio. Non
sapeva da
quanto andasse avanti quel delirio, ma era certo che tutti avessero
raggiunto
il limite massimo di stupidità stabilito. E poi osavano dare
dell’idiota a lui!
Si
affrettò ad abbottonarsi i calzoni e a scendere le scale di
corsa, agguantando
una giacca dimenticata su una sedia, quasi sicuro che fosse sua, e
fiondandosi
sui suoi fratelli, salutando cortesemente i soldati e assicurando loro
che
avevano vinto e che potevano tenersi addosso mutande e stivali,
intimando nel
frattempo agli altri di alzarsi e levare le tende. Passò poi
ad afferrare Rakuyo
per i capelli, facendolo scendere dallo sgabello e offrendo un altro
giro
all’ufficiale ormai collassato sul banco, finendo per spedire
i tre uomini
all’uscita, raccomandando loro di non fare ulteriori cazzate
mentre andava a
salvare il culo al moccioso.
Si
fece largo tra le signorine, scusandosi e pregandole di darsi un
contegno e di
abbassare le gonne e mettere giù i tacchi alti che avevano
preso a sventolare
nell’incitamento generale, saltando sul palco e buttandosi
nella mischia.
Gli
ci volle poco per aggrapparsi alle spalle del rosso che stava
picchiando Ace e
farlo rotolare di lato, soccorrendo il moro che, quasi indemoniato, si
metteva
velocemente in ginocchio, pronto a rialzarsi, aiutandosi con le mani
per
mantenere l’equilibrio.
-Tempo
di filare, ragazzino!- lo avvisò affannato il castano,
trascinandolo per un
braccio e ignorando i ringhi selvaggi che provenivano
dall’amico, il quale non
sembrava affatto d’accordo con lui.
-Non
ho ancora finito!- disse infatti, divincolandosi dalla sua presa e
balzando
verso Drake che, colto alla sprovvista, finì di nuovo con le
spalle sul
pavimento, percependo le nocche del Rivoluzionario abbattersi sui suoi
zigomi
doloranti. Certo che quei topi bastardi erano duri a morire.
-Ora
basta!- sbraitò Thatch, stanco di quei comportamenti
infantili da parte di
tutti. Che diavolo, da quando la polizia si comportava in modo
così misero? E
come potevano loro non mantenere un certo contegno?
-Dio,
Ace, che razza di inetto!-
Detto
ciò, chiuse le dita fra i capelli scuri del più
piccolo ed iniziò ad avviarsi
verso l’uscita, obbligandolo a fermarsi e a concentrarsi sul
fastidioso dolore
che si irradiava sulla cute.
Lo
spinse giù dal palco, rimettendolo poi in piedi e
poggiandogli le mani sulle
spalle per guidarlo verso la retta via, dove i suoi compagni lo stavano
aspettando con espressioni sfatte.
Ace
sputò a terra, non opponendosi comunque a quella invasione.
Sentiva che avrebbe
potuto continuare ancora, ma capiva che in quelle condizioni e senza il
resto
della sua combriccola francese sarebbe stato più difficile.
Certo, Thatch e gli
altri erano in gamba, ma dovevano mantenere l’anonimato e non
dare troppo
nell’occhio, perciò era meglio assecondare il
castano e andarsene.
Sul
palco, invece, Diez Drake si tirò a sedere con fatica,
sentendo le braccia
fremere, ma non per la rabbia, bensì per la stanchezza. Quel
moccioso lo aveva
incredibilmente sfinito, tanto era instancabile.
Si
passò il dorso si una mano sul labbro rotto, pulendo via un
rivolo di sangue e continuando
a fissare le due sagome che si allontanavano verso l’uscita,
rendendosi conto
che da tempo non di divertiva così tanto.
Nell’ultimo periodo non aveva fatto
altro che condurre ronde a vuoto e a fare sopraluoghi per nulla,
annoiandosi a
morte. Gli ci voleva proprio un po’ di sano movimento come
quello e, ad onor
del vero, il ragazzino era stato un degno avversario nonostante
l’età e la
faccia tosta.
-Ehi,
Pugno di Fuoco.- lo chiamò prima che se ne andasse,
facendolo voltare verso di
sé e rivolgendogli un’occhiata complice. -Per
stavolta siamo pari.-
Ace
lo fissò per qualche istante con aria seria, ma alla fine
gli sorrise
sprezzante, alzando il mento in un gesto altezzoso. -La sconfitta
brucia, eh?-
lo schernì, prima di voltargli le spalle e seguire i suoi
amici in strada, non
senza beccarsi uno scappellotto sulla nuca da Thatch che, dopo aver
rivolto una
frase di scuse e promesse di risarcimento a Madame Dadan, chiuse la
porta del
locale e si affrettò assieme agli altri lungo la via per
tornare
all’accampamento.
Drake,
stupito e vagamente stanco, si massaggiò il capo,
scompigliandosi i capelli
ramati ridotti a un disastro e guardando i suoi abiti ormai sgualciti
di cui
restavano solo brandelli. Ci era andato giù pesante e
sicuramente i giorni a
venire ne avrebbe risentito in gran parte del corpo, ma pazienza. In
qualche
modo, se l’era cercata.
Si
alzò e recuperò la sua camicia, ignorando le
occhiate languide di alcune donne
senza ricambiarle e non accorgendosi nemmeno di quelle odiose che le
ragazze
che avevano parteggiato per Ace gli avevano lanciato quando era passato
davanti
a loro sforzandosi di non zoppicare. Non perse nemmeno tempo a sgridare
e a
rimettere in riga i suoi uomini, conscio di essersi comportato peggio
di loro.
Dannazione, quando mai un ufficiale accettava prima da bere e poi
faceva a
cazzotti per divertimento?
Si
accasciò su di uno sgabello, sentendo la pesantezza della
giornata gravare
sulle spalle e desiderando solamente di essere nella sua piccola stanza
per
buttarsi a letto e dormire.
A
quanto pareva, però, la serata per lui non era ancora finita.
Lo
capì quando una ragazza dall’aria poco cordiale
sbucò da una porta secondaria
situata dall’altro lato del bancone, guardando in giro con
aria curiosa e
lasciando intravvedere dietro di sé una dispensa e dei
fornelli. Probabilmente
veniva dalle cucine, ciò spiegava perché non
l’aveva ancora adocchiata prima di
allora.
Indossava
una camicetta marrone sopra ad un corpetto bianco e non troppo
scollato, che
spariva dentro un paio di pantaloni lunghi e all’apparenza
maschili, ma che le
segnavano in un modo del tutto provocatorio le lunghe gambe snelle.
Certo,
Drake era un uomo di legge, ma era prima di tutto un uomo.
-Ho
qualcosa in faccia, soldato?- lo apostrofò la giovane,
staccandosi dallo
stipite della porta e interrompendo la sua ricerca, concentrandosi su
quel
tizio con una faccia che doveva aver avuto giorni migliori.
Lo
vide aggrottare le sopracciglia prima che le rispondesse con un cenno
di
diniego, facendola accigliare ulteriormente. Odiava quelli silenziosi
che non
avevano voglia di dare spiegazioni a voce per paura di scomodarsi
troppo e
quello, oltre a essere un nemico della loro causa, aveva tutta
l’aria di avere
un carattere antipatico.
-Ti
ho fatto una domanda.- ripeté, avvicinandosi e appoggiando
le mani sul bancone,
chinandosi verso di lui e lasciando che i capelli le ricadessero sulle
spalle,
ondeggiando sul collo niveo.
Drake,
capendo che non l’avrebbe avuta vinta e desideroso soltanto
di restare
tranquillo, prese fiato per dire un’unica e singola parola.
-No.-
-Allora
perche mi fissi?- continuò imperterrita e per nulla
soddisfatta, sostenendo lo
sguardo con l’uomo e sfidandolo ad aprire bocca se solo aveva
il coraggio. Non
voleva essere trattata come se non esistesse e se solo lui avesse
provato ad
ignorarla se ne sarebbe pentito. Purtroppo quello era il suo
più grande
difetto: attaccava gli altri prima di essere ferita a sua volta; era
una sorta
di atteggiamento di difesa e non poteva farci niente. Anche
perché lei gli
sbruffoni se li mangiava a colazione.
Sembrava,
però, che quel tizio avesse proprio l’intenzione
di farla arrabbiare e stava
giusto per afferrare un coltellaccio che Nami aveva sbadatamente, e nel
suo
caso fortunatamente, dimenticato lì vicino, quando venne
richiamata sul retro.
-Bonney?
Ehi, Bonney! Andiamo, vieni via, lo sai che non puoi stare qui!-
Sentendosi
chiamare, la ragazza strinse l’arma nella mano per poi
lasciarla andare, digrignando
i denti e assottigliando lo sguardo, fulminando l’ufficiale
con un’occhiataccia
torva prima di lasciarlo solo e tornarsene a passo svelto in cucina,
dove la
cuoca la attendeva. Sapeva benissimo che meno restava in salone e
meglio era,
soprattutto per se stessa e per la sua sanità mentale, ma a
volte sentiva
davvero il bisogno di staccare, di allontanarsi da quelle quattro mura
che la
tenevano rinchiusa a lavorare ai fornelli. D’accordo,
cucinare le piaceva e
anche mangiare, non per niente le sue amiche l’avevano
soprannominata
affettuosamente Pozzo senza Fondo,
ma
sempre più spesso le capitava di desiderare di vedere
cos’altro c’era al di fuori
del locale. Era rischioso dopo quello che le era capitato, ma pensava
di essere
diventata abbastanza forte per provare, almeno, ad ambientarsi nel
mondo.
Dopotutto, non dietro tutti gli angoli c’erano
malintenzionati pronti a
stuprare e ad uccidere, no? A dire la verità non lo sapeva e
la prima e ultima
volta che le era capitato di scoprirlo sua madre aveva perso la vita
nel
tentativo di proteggerla e lei aveva quasi perso il senno. Fortuna che
era
stata amorevolmente raccolta dalla strada da una delle ragazze di Dadan
e il
cibo le aveva dato la forza di riprendersi, oltre alla nuova famiglia
che si
era costruita. I rapporti col mondo esterno, comunque, erano
ragionevolmente
andati a farsi benedire.
Perciò
non aveva la minima idea di come fare per attaccare bottone con un bel
ragazzo
come quello che aveva appena visto arrancare fino al bancone dalla
finestrella
affissa alla porta della cucina. Il suo intento irrefrenabile che le
aveva
fatto mollare pentole e avanzi nel lavandino era stato quello di uscire
e
pulirgli quella brutta ferita al labbro, ma alla fine, proprio quando
aveva
deciso di farsi avanti, non ce l’aveva fatta e non si era
sentita per niente
tranquilla con quello sguardo addosso che non sembrava esprimere
proprio
niente.
Così
aveva mandato tutto al diavolo e ci aveva rinunciato come sempre,
chiudendosi
la porta alle spalle e decisa ad andarsene a letto il prima possibile,
lasciando le pentole da pulire per la mattina seguente e
infischiandosene di
beccarsi una strigliata dalla titolare.
Le
farfalle allo stomaco potevano venire anche a una strana come lei,
dopotutto.
*
La
stanza era buia e l’unica illuminazione fioca che rischiarava
un angolo accanto
al letto era data da una piccola candela quasi arrivata al limite e
dalla sua fiammella
tremolante e precaria. L’odore di vino impregnava gli abiti
sparsi sul
pavimento e, in parte, le lenzuola sfatte. Di tanto in tanto, qualche
cardine
del giaciglio in legno scricchiolava sotto il peso di chi vi era
adagiato, ma
nessun altro suono si udiva in quel capanno facente parte di una
fattoria
appena fuori Parigi. Eccezione fatta per gli animali, non
un’anima passava da
quelle parti, inoltrandosi nei campi avvolti dalla notte.
Era
il luogo perfetto per nascondersi, adatto a mantenere
l’anonimato e a permettere
a quei due di consumare quel piacere che sentivano ribollire nel sangue
ogni
volta che si incontravano per caso. Doveva sempre essere
l’ultima, ogni notte
si ripromettevano che avrebbero dato un taglio a quel peccato, a quella
sorta
di relazione malsana e sbagliata, ma puntualmente si ritrovavano a
scopare in
mezzo a paglia e foraggio, incuranti della frescura notturna, della
seduta
scomoda e dello squallore che aleggiava attorno a loro e ai loro corpi
avvinghiati.
Sanji
si morse un labbro per non gemere, stringendo un lembo della coperta
grezza e
logora sulla quale era stato gettato con poca grazia e delicatezza.
Quel
bastardo, lo sapeva che non avrebbe dovuto accettare quella proposta,
consapevole di come sarebbe andata a finire.
Quel
giorno Zoro si era presentato al panificio di Zeff prima della chiusura
con una
scusa che non stava ne in cielo, ne in terra, ma alla quale Sanji aveva
voluto
credere, seppur con un ghigno ironico stampato in faccia, e aveva
accettato di
seguirlo per le strade della città, accompagnandolo prima a
salutare un paio di
amici nel Quartiere Latino, e riprendendo poi la passeggiata muniti di
un paio
di bottiglie da svuotare, giusto per avere un capro espiatorio da usare
per
spiegare a loro stessi quello che stavano facendo in quel momento.
Doveva
sempre esserci almeno una goccia d’alcool nei loro incontri,
altrimenti non
sarebbero riusciti ad accettare quella
cosa. Insomma, entrambi si odiavano da sempre e
ciò lo avevano capito tutti
ormai. Zoro era un arrogante e un insensibile, patito solamente per la
guerra e
gli scontri a lame incrociate contro gli ufficiali, mentre Sanji
preferiva
rinchiudersi in cucina a cucinare per un reggimento o ad adulare belle
ragazze.
Certo, anche a lui ogni tanto piaceva uscire in piazza a dare man forte
ai
Rivoluzionari, ma ciò non cambiava il fatto che considerasse
Zoro un vero
animale, privo di educazione e cervello. Era uno zoticone idiota e
ignorante,
ecco.
Dovette
tapparsi la bocca con una mano. Al diavolo quella testaccia verde e
quella sua
frenesia, non era un sacco di patate, per cui poteva anche fare un
po’ più
piano e stare attento a non fargli male. Perché essere
sbattuto su quel letto
scardinato non gli faceva piacere,
neanche un po’, provava solamente ribrezzo e se lo faceva e
continuava ad
assecondare il compagno era solamente perché aveva bevuto
troppo e confondeva
la realtà.
Aveva
la testa leggera, ma sentiva il pesante martellare del cuore che pareva
essere
sul punto di esplodergli nel petto, nelle vene e nelle orecchie. I
capelli gli
ricadevano continuamente sulla fronte, appannandogli la vista, anche se
non
vedeva male ugualmente per la poca luce. Gli dolevano le braccia
perché aveva
tenuto i muscoli contratti per troppo tempo ed era certo che
l’indomani avrebbe
avuto un mal di schiena con i fiocchi dato il modo in cui inarcava la
spina
dorsale per assecondare Zoro, il quale sembrava determinato a non
volerlo
lasciare andare.
Si
morse un labbro per la disperazione, disgustato da se stesso e dalla
sua
incapacità di sottrarsi a tutto ciò, ma quella
sgradevole sensazione venne
presto sostituita da altre, facendo si che si ritrovasse costretto a
lasciar
perdere i suoi tormenti, di nuovo. Maledizione, quanto si faceva schifo.
-Lascia
andare.- si sentì sussurrare, mentre si ritrovava i polsi
intrappolati dalle
mani forti di Zoro, il quale non desiderava altro che sentire come
Sanji
gemesse sotto di lui.
E il
biondo lo fece, per quanto umiliante fosse, e lasciò andare
tutto, riempiendo
la stanza di sospiri e mormorii non troppo sommessi, dettati dal
momento e
dall’annebbiamento che aveva avvolto la sua mente durante
l’amplesso,
l’ennesimo.
Zoro
raggiunse l’apice poco dopo e rimase per un attimo aggrappato
ai fianchi
sottili di Sanji, lasciandovi impresso il segno indesiderato delle sue
unghie e
riprendendo fiato, calmando i battiti irregolari e impazziti del cuore,
imponendosi un certo contegno e ricordandosi poi di lasciarlo andare,
adagiandosi a pancia in su sul letto e guardando il soffitto. Accanto a
lui,
l’altro ragazzo rimase immobile sul materasso, gli occhi
serrati per il vago
dolore al fondoschiena e la bocca dischiusa nel tentativo di calmarsi e
di
ritornare lucido. Non aveva bevuto molto, ma aveva comunque preso
qualche
abbondante sorsata e ciò bastava come scusa, anche se
pessima e non più
credibile, ormai. Lo facevano da talmente tanto tempo che si chiedeva
come
riuscissero a guardarsi allo specchio e a darla a bere a loro stessi.
Ma quello
era il modo migliore per non affrontare il discorso, per non parlarne e
meno
chiarivano, meglio era. Lui odiava Zoro, Zoro odiava lui e andava bene.
Era
tutto normale. Il loro si poteva chiamare scontro fisico per stabilire
chi
fosse il più forte. Il punto era che nemmeno a quella
domanda non c’era una
risposta esaustiva. Preferivano comunque lasciare le cose come stavano,
calandosi entrambi ogni giorno nell’apparente
normalità della loro futile vita.
Le
dita dello spadaccino che gli sfioravano la schiena in un gesto quasi
dolce,
però, non erano per niente
normali,
tanto che Sanji scattò a sedere come scottato, avvertendo
una fastidiosa fitta
al bassoventre, e, dopo essersi passato una mano sul viso per scostare
i
capelli arruffati dalla fronte, assicurandosi di essere in grado di
camminare, si
alzò per andare alla ricerca dei suoi vestiti, non curandosi
della sua nudità. Ne
aveva passate troppe per mettersi a fare il pudico.
-Che
fai?- si sentì domandare.
-Non
lo vedi?- rispose seccamente, afferrando frettolosamente, desideroso
solo di
andarsene, un paio di pantaloni e scoprendo dopo averli indossati che
non erano
i suoi.
-Possiamo
restare un altro po’.- insisté Zoro, pacato e
tranquillo come se niente fosse.
Sanji
si accigliò mentre continuava a tastare al buio il
pavimento. Cioè, ne voleva ancora?
Dovevano essere circa le tre del
mattino, quindi era tardi e significava che erano lì da ore. Non aveva voglia di tornarsene in
quel buco dove viveva e
dormire? Non che lui fosse senza energie, affatto, non era di certo da
meno di
quel bastardo, ma tutto aveva un limite.
-Aspettiamo
che tu ti riprenda, se vuoi.-
Quella
scoccata finale, però, non l’avrebbe digerita e
non gliel’avrebbe fatta passare
liscia. Lo odiava anche per quel motivo, per quelle sue frecciatine
malevole,
dirette solo a farlo diventare matto, dato che, se qualcuno lo sfidava,
non diceva
mai di no per principio.
Si
voltò a guardare Zoro che, ancora stravaccato a letto,
sogghignava divertito,
conscio di aver toccato le corde giuste per ottenere ciò che
voleva, ed era
proprio Sanji quello a cui ambiva.
Il
biondo sbuffò, arricciando il naso e ritornando sui suoi
passi, appoggiando le
ginocchia al materasso che cigolò per inclinarsi fino ad
essere faccia a faccia
con il ragazzo che detestava quasi come se fosse stato un suo nemico.
-Vaffanculo.-
sillabò.
-Oh,
ma chiudi il becco.- sbottò Zoro, attirandolo a
sé e baciandolo con foga.
Sono ubriaco, pensarono
entrambi, lasciandosi
andare e ricominciando da capo. Avrebbero risolto i loro problemi il
mattino
seguente.
Angolo
Autrice.
Buongiorno
^^ state tutti bene?
Ow,
io si, alla grande, in questo momento mi sto sentendo super potente,
quasi come
se tenessi nelle mani il destino delle persone.
Sto
scherzando, ma la sensazione è più o meno quella,
vi auguro di provarla il
prima possibile *risata maligna*
Mio
Dio, ho fatto davvero quella cosa con le stelline (**) per favore,
dimenticatela. Sono tentata io stessa di cancellarla, ma vado di fretta
perché
ho una tazza enorme di caffè da bere per superare il resto
della giornata.
Quindi, iniziamo!
Finalmente
è arrivata Nami! Non vedevo l’ora di introdurla,
anche perché non l’ho mai
presa davvero in considerazione come personaggio e se l’ho
citata è stato solo
sotto il punto di vista maschile di Zoro perché,
ahimé, con lei non trovo tutta
questa affinità. Preferisco qualcuno più alla
mano come Bonney, parecchio più
‘agra’ si dice dalle mie parti, ovvero qualcuno che
vive in mezzo ai campi,
molto rude, ecco. Una contadina insomma xD
Scherzi
a parte, lei ha una cotta per Rufy che, come vedremo prossimamente, in
certe
cose è proprio negato, ma portiamo pazienza,
l’amore farà il suo corso!
A
proposito di donne, bravo Thatch, tu si che hai l’aria di uno
che sa il fatto
suo, non per niente hai passato una notte di fuoco. Ringraziami,
è solo perché
mi sei simpatico, ma i guai arriveranno anche per te, fidati.
Poi
c’è Ace che, cucciolo, non sa approcciarsi. Io
dico che è unicamente perché ha
altri gusti, ma lascio che sia lui a rendersene conto. Intanto
preferisce una
bella scazzottata con gli ufficiali. E che ufficiali, oserei dire!
Era da
un po’ che volevo mettere in mezzo Drake, quindi eccolo qua,
bello come il sole
** tanto da indurre quella matta di Bonney a uscire dal suo
nascondiglio per…
minacciarlo e mangiarselo a colazione? Va bene. Probabilmente in giro
questo
pairing si è già visto, ma io ammetto di non
saperne nulla e mi scuso se
dovrebbero sfuggirmi di mano i caratteri o le situazioni in cui si
troveranno,
mlmlml. Ho detto tutto ^^
E poi.
E POI.
Si,
sono arrivati Sanji e Zoro, contenti? Sono certa che non vi
è dispiaciuta
nemmeno il contesto in cui si trovavano, mlmlml. Anyway, si odiano, si
odiano
tanto ma, insomma, sono taaaanto belli. Non so voi, ma volevo rendere
Sanji un
pochino disperato per la situazione. Gli sta sfuggendo di mano la sua
vita, è normale
che sia spaesato. Anche a livello sentimentale.
Okay,
anche per oggi è tutto, ci si ritrova la settimana prossima
^^
Ringrazio
sempre tutti, vecchi e nuovi lettori, e un grazie anche a chi mi lascia
il suo
parere, siete sempre così simpatiche e gentili :D
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Un
abbraccione :3
See
ya,
Ace.
|
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Capitolo 8 *** Huit. ***
Liberté,
Égalité, Fraternité.
Huit.
Law
aveva finito di lavorare molto tardi quella notte a causa di
un’operazione che
aveva riscontrato delle complicanze e che aveva richiesto buona parte
della sua
concentrazione, del suo tempo e delle sue energie, perciò
stava rincasando solo
allora, con la luna già alta e la ronda delle guardie
già iniziata. Essendo un
nobile non avrebbe dovuto avere troppi problemi se lo avessero beccato
a
gironzolare, ma non si poteva mai essere sicuri con i tempi che
correvano,
inoltre gli avrebbero fatto domande che sarebbero risultate scomode e
lui non aveva
la minima intenzione di subire un interrogatorio. Ad aumentare il
pericolo,
poi, girava voce che i secondini si divertissero intrattenendosi
con coloro che beccavano a passeggiare fuori
l’orario stabilito dal coprifuoco. Ad ogni modo, stava
percorrendo stradine
basse, quindi non avrebbe rischiato di incappare in nessun ufficiale
curioso e
armato.
Trattenne
uno sbadiglio e si stropicciò gli occhi, stanco come non gli
capitava da mesi.
Aveva sonno e anche fame. A pensarci bene, non ricordava nemmeno quando
era
stato il suo ultimo pasto decente, ma non se ne preoccupò
più di tanto, ci
aveva fatto l’abitudine ormai e per lui era più
importante che il tutore che
viveva sotto il suo stesso tetto avesse sempre la pancia piena e che i
pazienti
fossero soddisfatti, il resto poteva aspettare.
Stava
pensando alla giacca leggera che aveva dimenticato sulla sedia del suo
studio, stringendosi
nelle spalle per contrastare l’arietta fresca, quando un
rumore sommesso di
cocci lo riscosse, facendogli alzare automaticamente il capo sopra di
sé, verso
il tetto dell’edificio diroccato accanto al quale stava
passando. Assottigliò
lo sguardo e per un istante gli parve di vedere un’ombra
scomparire dietro i
camini, ma poi il silenzio calò più pesante di
prima e si convinse di aver
visto male. Forse si era trattato semplicemente di un gatto. Un gatto
enorme,
per la precisione.
Scosse
la testa e continuò a camminare, ma i suoi sensi si erano
fatti più attenti dopo
quell’intoppo e prese a lanciare occhiate attorno a
sé, per sicurezza, pronto a
scattare se fosse stato necessario. Dal suo aspetto poteva avere
l’aria di uno
sprovveduto disarmato, ma era esattamente ciò che voleva
dimostrare. Non gli
andava l’idea che tutti sapessero quanto poteva fare male se
provocato. Viveva
a stretto contatto con i Rivoluzionari da anni e il suo coinquilino era
un ex
militare, ovvio che sapesse come difendersi.
Sentì
ancora quel rumore, quella volta più deciso e più
vicino, seguito da un tonfo
sordo proprio dietro l’angolo di una casa che dava su di un
vicolo cieco dove
vecchi travi di legno erano stati abbandonati a marcire.
Law
si fermò a pochi passi da lì, guardando
intensamente in quella direzione e
attendendo con pazienza che chiunque lo stesse seguendo si mostrasse a
lui,
perché era chiaro che fosse stata la sua intenzione fin
dall’inizio, altrimenti
sarebbe stato più prudente. Perciò o era stupido,
o non era un professionista.
Capì
che si trattava della prima supposizione quando, da dietro il muro,
sbucò la
figura conosciuta e imbronciata di Eustass Kidd, il quale, appoggiatosi
alla
parete, incrociò le braccia al petto e lo fissò
di rimando, come se si
aspettasse qualcosa.
Ciò
che ricevette per educazione fu un’espressione ambigua e una
battuta tagliente.
-Sei così ossessionato da me che ora mi segui?-
Kidd,
che aveva badato bene a tenersi alla larga da quel dottore dopo che lo
aveva
introdotto alla Bastiglia, ignorò quella frecciatina
sarcastica e diede sfogo
al suo fastidio, ma senza rispondere alla domanda. -Che ci fai in giro
a queste
ore?-
-Non
mi pare siano affari tuoi, Eustass-ya.- rispose con tono acido
Trafalgar,
avanzando di un passo e avvicinandosi a lui con le mani affondate nelle
tasche dei
pantaloni e le spalle rilassate. Quel rosso isterico non era una
minaccia e
stare in guardia non aveva senso, dopotutto, poteva batterlo quando
voleva.
-C’è
la ronda.- sentenziò Kidd, come se ciò bastasse a
spiegare il suo umore nero ed
il fatto che non fosse consigliabile andare in giro la notte.
Il
moro avrebbe voluto informarlo che non era uno ignorante e conosceva
perfettamente i decreti che stabilivano quando la gente potesse o no
passeggiare all’aria aperta, ma all’ultimo momento
un sorrisetto fece capolino
sul suo viso, mentre la stanchezza scompariva come per magia. -Non
sarai
preoccupato per me, vero?-
-Ti
piacerebbe!- fu la secca risposta di Eustass, ma nemmeno
l’assenza di luce poté
nascondere a Law l’ambiguo rossore che spuntò
sulle guance dell’uomo davanti a
lui che, svelto, voltò il capo di lato, passandosi una mano
tra i capelli per sviare
l’attenzione. Il medico conosceva bene quel comportamento,
era facile per lui
capire le persone dato il suo lavoro, e si accorgeva immediatamente
quando
qualcuno era in forte imbarazzo o provava disagio. In quel caso, Kidd
doveva
stare provando entrambe le sensazioni.
-Oh,
andiamo, non ti prenderò in giro se lo ammetti.-
continuò vittorioso,
allargando il ghigno e inclinando la testa per osservare meglio la
reazione di
Kidd. Era iniziata come una serata pessima, ma, forse, non si sarebbe
conclusa
poi così male. Non l’avrebbe mai detto, ma era
stato inspiegabilmente fortunato
a incrociare la strada di quello sbandato.
Il
più grande, spostando lo sguardo sulla figura più
bassa di qualche centimetro
di Law, stava per ribattere con una serie di insulti coloriti, chicche
provenienti dai bassifondi della Costa Azzurra, ma dovette abbandonare
alla
svelta il suo intento quando, in fondo alla strada, una guardia si
fermò ad
osservare nella loro direzione, dando poi l’allarme e
ordinando loro di
rimanere immobili.
-Merde!-
La
mano di Kidd scattò fulminea ad afferrare saldamente il
braccio del dottore,
trascinandoselo dietro con un movimento tanto brusco da rischiare quasi
di
farlo cadere a terra senza un minimo di preavviso e costringendolo a
corrergli
dietro lungo la via il più velocemente possibile mentre,
alle loro spalle, il
gruppo di soldati allarmati iniziava l’inseguimento, armati
di fucili.
-Dove
andiamo?- domandò Law affannato. Era stanco, per lui era
stata una giornata
pesante e chiedere quello sforzo imprevisto alle sue gambe stava dando
la
mazzata finale a tutto il suo corpo. Inoltre, era a corto di energie,
ma sperò
di non svenire proprio in quel momento, il meno opportuno di tutti. Non
si
sarebbe mai perdonato di essere stato un peso.
Kidd,
però, non rispose e continuò a sviare prima a
destra, poi a sinistra, concentrato
e con un’espressione impenetrabile, fissata a ricordare la
piantina di tutto
l’agglomerato parigino e i suoi vari e possibili nascondigli
e svincoli, fino a
raggiungere uno dei molteplici ponticelli che attraversavano la Senna,
silenziosa e con una palla di luce lunare che si specchiava limpida
sulle sue
acque quella notte. Avevano appena svoltato l’angolo e, prima
ancora che
Trafalgar potesse reagire e rendersene conto, si ritrovò
spinto oltre il bordo
del ciglio della strada, finendo per cadere di sotto e seguito a ruota
dal
rosso che, prontamente, atterrò in equilibrio sul terriccio
che spuntava appena
al limitare del canale. Velocemente e senza parlare, aiutò
Law, ancora
sconvolto e sorpreso di non essere finito ammollo, a rimettersi in
piedi e a
non scivolare in acqua, dato il terreno bagnato e scivoloso,
spingendolo sotto
alla costruzione in roccia e legno e schiacciandolo con forza e poca
grazia contro
la parete.
-Eustass-ya
ma che…- provò a ribattere Law affannato, ma una
mano gli tappò la bocca,
mentre con l’altra Kidd gli intimava di stare zitto e gli si
faceva ancora più
vicino, quasi come se volesse diventare un tutt’uno con il
muro freddo e umido
alle loro spalle che ammaccava la schiena del ragazzo più
piccolo.
Sopra
di loro, le guardie si guardavano attorno frenetiche, imprecando ed
ipotizzando
la via che i fuggitivi avevano preso. Uno di loro si sporse verso il
fiume con
una lanterna per illuminare le acque, ma da quella posizione non si
scorgeva la
riva e l’insenatura sotto al ponticello. I fuggitivi non
potevano essere
spariti nel nulla e la probabilità più alta era
che avessero attraversato il
ponte per raggiungere l’altra riva. Fu così che
decisero di seguire quella
pista, allontanandosi sempre di più fino a scomparire nei
quartieri di Parigi,
facendo esattamente quello che Eustass Kidd aveva previsto fin
dall’inizio del
suo piano.
L’aveva
scampata, di nuovo.
E se
ne sarebbe rallegrato e vantato, se solo non si fosse ritrovato con la
testa
completamente svuotata da ogni pensiero e da tutto ciò che
riguardava la
Rivoluzione, le guardie e il pericolo appena corso. L’unica
cosa su cui
riusciva a concentrarsi era il ragazzo davanti a lui, con le palpebre
abbassate,
la fronte appoggiata senza rendersene conto al suo petto e le mani
strette
sulla sua giacca sbrindellata, intento a fare respiri profondi e a
tranquillizzarsi dopo la corsa a rotta di collo per le strade e la
paura di
essere beccati quando la luce delle fiaccole aveva quasi rischiato di
raggiungerli, mentre lui non dava segno di volersi staccare dalla
parete,
continuando a tenere entrambi inchiodati lì, vicini, stretti
e spaesati.
E
c’era qualcos’altro che Kidd sentiva, o credeva di
stare provando, ma non ne
era certo. Partiva dal centro dello stomaco e saliva fino al petto,
come una
scossa, per poi tornare giù. Era strano, sembrava quasi una
sensazione di
vuoto, compensata poi da una sorta di calore. Doveva aver sudato, per
quel
motivo si sentiva in quel modo, non c’era altra spiegazione
plausibile.
Alla
fine, Law alzò la testa, ignorando il fatto di essere
scomodo e di sentirsi
premere contro il muro, e mosse i suoi occhi alla ricerca di quelli del
rosso
per inchiodarli con uno dei suoi soliti sguardi critici e velenosi,
deciso più
che mai a sgridarlo per aver preso una decisione senza consultarlo, ma
le
parole taglienti che aveva intenzione di usare gli morirono in gola al
momento
del confronto.
Riflettendoci,
non era andata male. Erano salvi, certo, avevano rischiato grosso e lui
stava
per crollare dalla stanchezza, ma stavano tutti e due bene e
così premuto
contro il petto di Kidd non sentiva nemmeno molto freddo. A dire la
verità,
così vicini, sentiva anche troppo caldo.
Serrò
le labbra e non si mosse, colto all’improvviso da
un’orribile consapevolezza
che gli fece provare per la prima volta, seppur lievemente
e in piccola parte,
una sensazione che si poteva benissimo avvicinare
all’imbarazzo. Perché Law era
un dottore, ma anche un uomo, e, alle volte, quei due aspetti non
andavano esattamente
d’accordo. Avendo studiato e imparato tanto, sapeva
perfettamente a cosa
associare quelle emozioni e poi, essendo giovane e avendo Kidd così appiccicato a
sé, era facile trarre
le conclusioni e definire con una parola il suo stato
d’animo.
Si
morse l’interno di una guancia per calmarsi, pregando che i
pantaloni non
iniziassero a diventare stretti.
Il
Rivoluzionario, invece, pareva come sempre più lontano dalla
realtà. Le braccia
si flessero da sole, dandogli modo di abbassarsi un poco e di
avvicinarsi
sempre di più al viso del medico, mentre i suoi occhi
scivolarono per un attimo
su quelle labbra all’apparenza inaccessibili. Sapeva che
stava facendo una
cazzata, ma non riusciva a rendersene conto del tutto.
E
quando Law, chiudendo gli occhi, gli sussurrò che gli stava
facendo male, si
staccò da lui all’istante, con il corpo in fiamme,
ma non avrebbe mai ammesso, mai,
che, per un misero secondo, aveva
pensato che, ad essere sincero, tutta quella situazione non era poi
così male.
*
Mezzogiorno
era passato da un pezzo quando Thatch si ritrovò ad aprire
svogliato prima un
occhio e poi l’altro, trovandosi in una stanza dalle calde ed
accoglienti
pareti in legno ben curate e non abbandonate a marcire.
L’ambiente, secondo
lui, non sembrava nemmeno tanto freddo, ma non ne aveva la certezza
perché
realizzò di essere sotto a delle coperte pulite e, accidenti!, profumate.
Si
concesse qualche minuto di pace per affondare la faccia nel morbido
cuscino in
stoffa e coprirsi fin sopra i capelli con quelle lenzuola, rotolando in
quel
letto comodo. Era da una vita che non dormiva così bene e
profondamente, per
lui svegliarsi in quella maniera tranquilla e spontanea, senza
secchiate
d’acqua in faccia o scherzi di cattivo gusto era un sogno.
-Oh,
buongiorno.- sentì pronunciare in francese da una voce
pacata e divertita, -Ti
sei svegliato?-
Riemerse
dalle coltri con i capelli disastrati e le palpebre mezze abbassate per
scoprire chi aveva un tono così gentile e dolce di primo
mattino, mettendo a
fuoco la figura di una donna dai capelli scuri raccolti da un
fazzoletto legato
dietro le orecchie e gli occhioni grandi. Teneva in mano un vassoio con
delle
tazze di latte e alcuni panini e dolci. Sicuramente doveva essere morto
perché
quello era per forza il paradiso.
-Umh,
si.- rispose con la bocca impastata dal sonno, -Voi chi siete?-
La
donna sorrise e appoggiò il vassoio sul comodino,
dirigendosi poi a scostare le
tende per aprire le finestre e far entrare un po’ di luce.
-Sono
Makino, la proprietaria della locanda. Sei uno degli amici di Ace,
giusto?-
chiese bonaria.
-Sono
Thatch.- rispose il castano, aggrottando la fronte e mettendosi seduto
sul
materasso, accorgendosi di essere a petto nudo. Oltre a
quell’aspetto, si rese
anche conto di non ricordare niente della notte passata,
perciò non riusciva a
spiegarsi cosa ci facesse in casa di quella gentilissima signorina.
-Ace
dov’è?- domandò infine, sentendo
crescere in sé la preoccupazione.
Inspiegabilmente, gli pareva che qualcosa non stesse andando affatto
bene.
Makino
gli indicò il letto accanto al suo, rivelando la presenza di
un ammasso
indistinto sotterrato sotto al lenzuolo bianco. Un cuscino era a terra,
mentre
un cappello di un arancione acceso dava bella mostra di sé
appeso alla testiera
del giaciglio.
A
Thatch bastò allungare una mano per scuotere il corpo che
riposava accanto a
lui, sentendo provenire in risposta un mugolio infastidito. Allora
riprovò con
più decisione, arrivando persino a scendere dal letto e a
saltare in quello
dell’amico per svegliarlo, costretto infine a farlo scivolare
sul pavimento,
ottenendo così il suo successo e dando il buongiorno a Ace
che, con un insulto
a sua madre, si massaggiava la testa dolente per la botta. Ad ogni
modo, non si
scusò; aveva una brutta, bruttissima sensazione.
-Ace,
dove siamo?-
-A
casa mia.- biascicò l’altro, scoccandogli
un’occhiataccia. –Ed è ora di colazione.-
Oh, per fortuna,
forse siamo ancora in
tempo, pensò
Thatch,
rilassandosi. Se si fosse sbrigato, avrebbe raggiunto
l’accampamento appena in
tempo per inventare una scusa plausibile per giustificare la sua
assenza al
risveglio. Dopo aver recuperato gli altri suoi compagni, ovviamente.
-Veramente,-
si intromise Makino, lisciandosi le pieghe della gonna, -E’
già passata l’ora
di pranzo.-
-What? Oh my God!-
sbraitò Thatch, scattando in piedi e
cercando i suoi abiti che trovò dopo poco sotto al letto,
infilandoseli al volo
e correndo fuori dalla stanza a cercare il resto dei suoi fratelli per
i
corridoi della locanda.
Ace,
dopo aver sbattuto più volte le palpebre ed essersi
accertato che non avrebbe
più preso sonno, si decise a seguirlo pure lui, indossando
di fretta una
camicia nera e un paio di pantaloni del medesimo colore che gli
passò Makino,
salutandolo quando vide schizzare anche lui fuori dalla camera.
Il
ragazzo trovò i suoi amici al piano terra
nell’atrio, dove Thatch stava
animatamente discutendo con Izou a voce talmente alta da lasciar
intendere a
tutti il motivo della lite. A quanto pareva avevano dormito troppo e
chi si era
svegliato prima non aveva avvisato gli altri del tremendo ritardo in
cui erano
incappati dopo essersi sbronzati la notte precedente a Montmartre.
-Ti
rendi conto che se ci beccano siamo in guai grossi, razza di
deficiente?- stava
urlando il castano, abbottonandosi la camicia in fretta e furia e
saltando
accidentalmente qualche bottone.
Izou,
dal canto suo, alzava le mani in segno di pace, insistendo a dire che
non era
stata colpa sua e che Rakuyo non aveva pensato a
quell’inconveniente,
convincendolo ad accettare il pranzo di Makino.
-L’avete
fatto solo perché è una bella donna.- disse
allora Thatch, furioso, passandosi
una mano tra i capelli nel tentativo di sistemarli. Si sentiva addosso
l’odore
dell’alcool che aveva bevuto, di carne grigliata e, ne era
certo, di sesso.
L’unica cosa che desiderava in quel momento era poter fare
una doccia, ma non
ne aveva nemmeno il tempo.
-Beh,
ammetti che non è male.- si lasciò scappare
Namiur.
Fu
allora che Ace scese l’ultimo gradino, schiarendosi la voce
per attirare
volutamente l’attenzione e fissando torvo tutto il gruppetto
di uomini per i
commenti fuori luogo sulla padrona di casa che gli aveva, in un certo
senso,
fatto quasi da madre e che era per giunta impegnata con un altro uomo
che
stimava e rispettava.
Thatch
lo guardò di striscio, mettendosi gli stivali e intimando
agli altri che era
ora di levare le tende.
-Ace,
noi dobbiamo andare o avremo problemi all’accampamento. Sai
che non vogliono
che gironzoliamo troppo in città.- spiegò,
già sulla porta e con il ragazzino
alle sue spalle. Sapeva che non c’era bisogno di
chiederglielo perché Ace,
difetti a parte, capiva le cose al volo ancora prima che le persone
gliele
facessero notare o gliele chiedessero. Infatti, li aveva subito
affiancati e li
stava accompagnando alle paludi, conscio che avrebbero avuto bisogno
della sua
parola e di un complice per inventare una scusa abbastanza credibile
che li
salvasse dal venire ripresi dal loro capo.
-Potete
sempre dire che siete andati a caccia.- fece ad un tratto il giovane,
il quale
si stava scervellando per inventarsi qualcosa lungo il sentiero folto
di
erbacce che avevano raggiunto a passo svelto in una quindicina di
minuti.
-Siamo
senza balestre e non abbiamo prede con noi.- gli fece notare con
sarcasmo Rakuyo,
accendendosi una sigaretta nervoso con le dita tremanti che faticavano
a tenere
fermo il fiammifero, -Capirebbero subito che li stiamo prendendo per il
culo.-
-E se
diciamo che siamo andati in avanscoperta?- provò ad
ipotizzare Izou, legandosi
in una coda i lunghi capelli scuri e lisci.
-Siamo
sul sentiero che porta in città. Per risultare credibile
dovremo almeno
arrivare dal lato opposto dell’accampamento.-
sentenziò Thatch che, per la
precisione, era di umore pessimo. Per una volta che si svegliava in
maniera
perfetta doveva capitargli quell’imprevisto del ritardo. Al
diavolo lui e il
suo amore per l’alcool e le belle donne.
-Ci
sono!- disse Ace, illuminandosi, -Perché non
dite…-
-Dove
siete stati?-
I
quattro si fermarono all’istante e si sentirono gelare il
sangue nelle vene quando
udirono alle loro spalle la voce ferma e autoritaria di Marco che, con
le
braccia incrociate al petto e l’espressione truce, li fissava
mentre si
voltavano lentamente e intimoriti a guardarlo.
Vedendo
che nessuno si azzardava a rispondere, il biondo ripeté la
domanda ancora più
freddamente. -Vi ho chiesto dove diavolo siete stati tutto questo
tempo.-
Namiur
deglutì rumorosamente. -Siamo… Siamo andati
a…-
-A
prendere…- continuò Rakuyo, andando in suo aiuto,
ma indeciso su come
continuare.
-A
prendere Ace!- concluse infine Thatch, inscenando un sorriso finto e
allegro e
attirando a sé il moccioso, passandogli un braccio attorno
alle spalle con
confidenza. -Sai, eravamo d’accordo che ci saremo visti oggi
per parlare della
guerra e così lo abbiamo aspettato al limitare del bosco.-
Ci
stava, poteva reggere benissimo quella montatura, non fosse stato per
il lasso
di tempo durante il quale erano stati assenti. Erano troppe ore,
quando, per
recuperare il ragazzino, ci avrebbero dovuto impiegare massimo una
mezz’ora.
La
faccia di Marco, infatti, diceva che non aveva creduto nemmeno ad una
sillaba
di quello che avevano detto.
-Vediamo,-
iniziò, avanzando verso di loro fino a raggiungerli,
guardandoli attentamente.
-Rakuyo, ogni volta che bevi ti tremano le mani; Namiur, non sprecarti
a
raccontare balle, si capisce sempre quando menti, e poi quelli che
indossi non
sono i tuoi stivali; Izou, amico mio, hai un bruttissimo livido sulla
faccia e tu,- concluse, puntando un
dito
accusatore contro Thatch, il quale si impietrì sotto quello
sguardo tagliente,
-Tu, mio caro fratello, hai il collo che sembra essere stato in
balìa dei vampiri.-
In effetti non ha
tutti i torti, pensò
segretamente Ace, sbirciando la
pelle che si intravvedeva sotto al colletto della camicia del castano e
notando
come risaltassero i segni rossi che gli avevano lasciato le ragazze di
Dadan.
Erano
stati beccati, non c’era dubbio.
-Mentre
il moccioso ha l’aria di uno che le ha prese di santa
ragione.-
Ad
onor del vero, Thatch pensò che non avevano affatto tenuto
conto di quei
particolari perché, sinceramente, Ace era messo male sul
serio. Il labbro
inferiore era rotto e gonfio, mentre sullo zigomo destro aveva un
grosso segno
violaceo e Dio solo sapeva in che stato era la sua condizione fisica.
-Quindi
ve lo chiedo per l’ultima volta.- sibilò Marco
senza aria di scherzo nella voce
e nello sguardo, -Dove vi eravate cacciati?-
Thatch,
che nel frattempo aveva abbassato la testa con aria colpevole,
coprendosi una
parte del collo con una mano quando gli era stato fatto notare che su
di esso
fiammeggiavano numerosi baci, rialzò gli occhi per
fronteggiare il fratello nella
speranza di calmarlo e di tranquillizzarlo, ma una figura leggermente
più bassa
e con dei folti capelli corvini si parò davanti a lui e
prese parola al posto
suo, lasciandolo sorpreso e allibito.
-E’
stata colpa mia.- confessò Ace, sostenendo lo sguardo severo
e duro di Marco
che, concentrato su di lui, stringeva impercettibilmente i pugni. -Ieri
sera
dovevo andare a fare visita a degli amici e ho permesso loro di venire
con me.-
-Ace
sta zitto, eravamo d’accordo tutti!-
s’intromise Izou, voltandosi verso il ragazzino e guardandolo
intensamente,
intimandogli di non addossarsi tutta la colpa.
-No,
invece ho insistito!- fece quello, con più sicurezza.
-Volevo
mostrare loro Parigi. Sono stato uno sciocco, lo ammetto, e mi assumo
io la
responsabilità dei problemi che abbiamo causato.-
Tutt’attorno
calò il silenzio, rotto solamente dai respiri accelerati
degli
uomini alle spalle del francese, i quali si lanciavano occhiate
sorprese,
sconcertati dalla scena davanti ai loro occhi e incapaci di credere
davvero che
Ace avesse preso le loro difese. Il fatto era che lui non sapeva che
Marco non
li avrebbe mai puniti severamente, ma solamente sgridati e, magari,
dato loro
qualche pugno di ammonimento. In ogni caso, anche il biondo era rimasto
stupito
da quella scena e in quel momento non aveva idea di cosa fare. Il
ragazzino si
era preoccupato per le conseguenze che avrebbero potuto patire e si era
fatto
carico di tutto, esponendosi come colpevole e pronto a ricevere la
punizione
che meritava.
Per
Marco era strano, in un certo senso. Inizialmente non si era
preoccupato di nascondere il disprezzo che provava per la loro origine
inglese,
ma davanti ai nuovi fatti non ci aveva pensato due volte a difenderli.
Assurdo
che li considerasse tutti suoi amici a tal punto da prendersi tutte le
colpe. A
lui, sinceramente, un po’ dava fastidio tutta quella simpatia
che i suoi
fratelli dimostravano a quel francese scapestrato, ma non poteva farci
niente a
riguardo. Di certo, non lo avrebbe ammirato per quel gesto, poco ma
sicuro. Restava
sempre e comunque un incosciente.
Alla
fine sospirò. Non gli avrebbe fatto del male, non ne aveva
il diritto
e, sicuramente, non avrebbe creato disagi tra americani e francesi dopo
che
l’alleanza era stata stretta, inoltre gli altri suoi compagni
presenti non gliel’avrebbero
mai permesso, però voleva assicurarsi di fargli capire bene
la gravità del
problema, cosicché la smettesse di volersene andare in giro
ad ogni ora del
giorno.
Mosse
un passo verso di lui e, nello stesso istante, lanciò
un’occhiata oltre
le sue spalle, ammonendo
Thatch di non
azzardarsi ad intromettersi, dato che aveva già cominciato
ad agitarsi sul
posto.
Quando
gli fu accanto, Ace alzò lo sguardo e lo guardò
con una leggera
preoccupazione negli occhi davanti alla quale Marco si
ritrovò a gongolare in
silenzio. Quindi, tutto sommato, un po’ di paura la metteva a
quel moccioso
impertinente.
-Voi
quattro, tornate all’accampamento.- ordinò senza
ammettere
repliche.
-Ma
Marco, non puoi…- iniziò a lamentarsi Izou,
trattenuto da Namiur che,
interpretata l’occhiata che il biondo rivolse loro subito
dopo, preferì
ubbidire e non infierire oltre. Sapeva che non l’avrebbero
passata tanto
liscia, ma non voleva rischiare di peggiorare le cose. Sperava solo che
Ace la
smettesse di fare l’eroe e abbassasse il capo per una volta.
Thatch
non diede segno di volersi muovere, ma dovette arrendersi pure
lui dopo lo scambio di sguardi avvenuto con il fratello, il quale
sembrava
deciso a rimanere solo con il ragazzino. Conosceva l’indole
di Marco e fin da
quando era piccolo, anche se non era il maggiore, aveva sempre avuto un
forte
senso di protezione nei confronti della famiglia e di certo non aveva
preso
bene la loro scappatella notturna. L’avevano fatto
preoccupare e sapeva per
certo che nessuno l’avrebbe salvato dal beccarsi una
ramanzina con i fiocchi,
l’unica cosa che gli dispiaceva era abbandonare Ace senza
poter fare
altrimenti.
Il
moro, dal canto suo, era più che deciso ad affrontare a
testa alta le
ire del biondo, niente affatto preoccupato di non avere più
nessuno che gli
guardasse le spalle. Aveva volentieri preso le difese dei ragazzi,
dopotutto,
se lui non avesse raccontato loro di Montmartre e delle ragazze di
Dadan,
nessuno avrebbe mai iniziato ad insistere per visitare Parigi,
perciò se si trovavano
in quel guaio la colpa era solo sua e della sua linguaccia troppo lunga.
Prese
un respiro profondo e si preparò a beccarsi una bella lavata
di
capo dalla persona che più detestava
all’accampamento.
Marco
intuì che Ace era pronto ad ascoltarlo, così non
perse altro
tempo. -Hai una vaga idea della gravità della cosa?-
Ace
si morse un labbro, pensando a cosa rispondere, ma l’altro
non aveva ancora
finito.
-Ti
rendi conto che se le guardie vengono a sapere della presenza di noi
inglesi
sulle vostre terre scoppierebbe il finimondo? Cosa ti diceva quel tuo
cervello?-
-Oh,
insomma, non è successo niente!- Sbottò
Ace, stanco di sentirsi riversare
addosso tutte quelle accuse. -Stanno tutti bene e nessuno ha visto
nulla.-
affermò deciso.
Marco
incrociò le braccia al petto e lo guardò
scettico. -E che mi dici delle donne
con cui hanno passato la notte? Se le interrogassero…-
-Non
diranno niente.- lo anticipò il corvino, fissandolo serio e
sicuro delle sue
parole. -Mi conoscono e so che non metteranno mai in pericolo i
Rivoluzionari.-
-Allora
spiegami i lividi sulle facce di Izou, Rakuyo e Namiur. E’
sempre opera delle
tue amichette?- lo riprese Marco, sentendo montare la rabbia di attimo
in
attimo ad ogni parola del più piccolo. Non sapeva spiegarsi
perché, dato che
inizialmente aveva solo avuto intenzione di spiegargli pacatamente la
pericolosità della situazione, ma si era sentito come
animato dal fastidio e
dalla voglia di aggredirlo quando aveva capito che razza di postaccio
avesse
frequentato. Non gli piaceva l’idea che avesse coinvolto i
suoi fratelli,
probabilmente era per quello, anche se da lui un comportamento
così libertino,
chissà come, non se lo sarebbe aspettato. Forse si era solo
lasciato ingannare
da quell’aria infantile e ingenua. In ogni caso,
però, non erano affari suoi.
-Smettila
di parlare così di loro, non ne hai il diritto!- si
animò a quel punto Ace. Se
la gente se la prendeva con lui e lo insultava poteva andargli bene, ma
se per
sbaglio tiravano in ballo i suoi amici e la sua famiglia non
c’era più scampo
per nessuno. Era tutto ciò che aveva al mondo e non
permetteva ad anima viva di
giudicarli in quel modo. Per anni Dadan lo aveva lasciato vivere sotto
il suo
stesso tetto facendolo sgobbare e insegnandogli a guadagnarsi il pane
con le sue
sole forze e le ragazze che erano state adottate da lei quando non
avevano più
avuto un posto dove andare erano sempre state buone e gentili nei suoi
confronti e in quelli della proprietaria. Certo, crescendo lui se ne
era andato
per la sua strada, ma non aveva dimenticato l’enorme debito
che aveva con
quella donna di malaffare.
-Sei
tu a non avere il diritto di mettere in pericolo la vita della mia
gente!-
esplose allora Marco, sovrastandolo con la sua stazza, trattenendosi a
stento dal
mettergli le mani addosso. -Tu vieni qui e pensi di poter
spadroneggiare su
tutto, ma dovresti smettere di coinvolgere in quello che fai persone
innocenti.
Se a te va di rischiare la morte ogni giorno fa pure, ma non azzardarti
a
trascinarti dietro la mia famiglia.-
-E tu
vedi di rispettare la mia di
famiglia,
perché come esseri umani sono mille volte meglio di te!-
-Felice
di risultarti così antipatico, almeno non mi
sentirò in colpa quando, finita
l’alleanza, ti darò una bella lezione.-
sputò acido Marco, superandolo con una
spallata e incamminandosi lungo il sentiero che portava
all’accampamento,
deciso a mettere fine a quella sceneggiata che lo aveva fatto
arrabbiare più
del previsto. Ogni volta che si ritrovava ad avere a che fare con quel
francese
sentiva che la sua pazienza veniva messa a dura prova.
-Oh,
fidati
che sarà un piacere chiuderti la bocca a suon di pugni.-
ribatté Ace,
fissandolo con rabbia e stringendo forte i denti, quasi ringhiando.
Quello era senza
ogni dubbio l’uomo più insopportabile, bastardo,
borioso e odioso che avesse
mai incontrato in vita sua.
-Stanne
certo, moccioso,- lo informò il biondo, voltandosi di lato
prima di riprendere
a camminare e guardandolo con un sorriso minaccioso, -Quando tutto
sarà finito
pregherai affinché gli accordi non vengano spezzati.
Perché, quando accadrà,
niente mi fermerà dal venire a cercarti e ucciderti.-
*
Un
altro lungo, noioso e infinito giorno era trascorso per i carcerati
rinchiusi
nella Bastiglia. Era stata una giornata come le altre: lenta,
silenziosa e
fatale per alcuni uomini che erano arrivati al capolinea. Due erano
stati
giustiziati e tre erano morti di stenti, uno di quelli proprio sotto
agli occhi
impauriti e schifati di Mister Three che, colto da un improvviso conato
di
vomito davanti a quelle scene macabre, si era rannicchiato in un
angolino della
brandina che condivideva con Von Clay e da lì non si era
più mosso. Il compagno
aveva inscenato un balletto per esprimere le sue condoglianze ai
prigionieri
della cella accanto e per dare l’ultimo saluto a quel tizio
che bene non era
mai stato, mentre Bagy era rimasto impassibile davanti a
ciò, comodamente
sdraiato sul suo giaciglio precario, con le braccia incrociate dietro
la nuca e
gli occhi chiusi nel tentativo di riposare. Non era stato facile dato
il continuo
via vai di guardie che avevano provveduto a smaltire il corpo del
defunto,
operazione durata circa un’ora. Aveva poi temuto che il
moccioso non gli
avrebbe dato pace nemmeno per un attimo, assillandolo di domande come
al
solito, ma aveva dovuto ricredersi quando lo aveva visto con la coda
dell’occhio avvicinarsi al suo materasso polveroso,
sdraiandosi e
rannicchiandosi al suo fianco come un cucciolo abbandonato, il tutto
credendo
che lui stesse dormendo. Inizialmente aveva avuto l’istinto
di scattare a
sedere per buttarlo giù e toglierselo dai piedi, ma alla
fine non lo aveva
fatto e si era risparmiato così un altro pomeriggio
all’insegna dello stress
nervoso che quella peste gli causava.
Si,
perché Rufy si era stranamente attaccato a lui e sembrava
averlo preso come
punto di riferimento. Gli chiedeva un sacco di cose e, quando parlava,
lo
fissava e lo ascoltava attento. Ogni tanto capitava che si distraeva, o
che si
addormentava, o addirittura si alzava e andava a giocare con Von Clay,
irritando Bagy e offendendolo non poco, ma ritornava sempre. La notte
si
accovacciava sul pagliericcio vicino al suo e la mattina lo svegliava
sempre
per primo, urlandogli nelle orecchie. Gli rubava anche la colazione, ma
quello
lo faceva anche agli altri due detenuti, quindi andava bene, se si
tralasciavano il pranzo e la cena. Era sempre tra i piedi, poco
importava che
soggiornassero nella stessa cella. Ad ogni modo, Bagy, in un certo
senso, gli
si era affezionato. Gli piaceva che qualcuno lo prendesse in
considerazione e,
quelle volte che il moccioso era concentrato sulle sue chiacchiere,
sentiva di
non valere poi così poco. La maggior parte delle sue storie
erano balle,
racconti sottratti ad altri cantastorie e invenzioni della sua mente,
ma ci
aveva messo dentro anche qualche verità. E Rufy lo ascoltava davvero, non come
facevano gli altri, i quali lo
davano sempre per scontato o finivano per annoiarsi e lasciarlo in
disparte.
Lui gli dava tutta l’attenzione che sentiva di meritare,
standolo a sentire
senza prenderlo in giro o dandogli del bugiardo.
Se
vedeva che Bagy esagerava si metteva a ridere, ma non in maniera
offensiva, rideva perché lo trovava buffo, come gli aveva
detto una volta. L’uomo
se lo ritrovava accanto quando meno se lo aspettava, intento a seguirlo
e a
incitarlo con lo sguardo allegro a continuare. E Bagy, pur di non
venire
assillato da quella sua fastidiosa vocina che lo obbligava ad aprire
bocca, lo
assecondava e si stupiva che il ragazzino non si permettesse mai di
dirgli di
stare zitto.
Per
quello non lo odiava poi così tanto, perché si
sentiva apprezzato.
E
quella sensazione gli piaceva.
Furono
le chiacchiere di Mister Three e Von Clay a destarlo e a fargli
intendere che
si era appisolato senza rendersene conto davvero. A giudicare dal sole
che tramontava
doveva aver dormito tutto il pomeriggio. Per fortuna, almeno non si era
accorto
del tempo che passava.
Si
alzò, stiracchiandosi e sbadigliando sonoramente per poi
osservare in maniera
scettica i due uomini seduti sul letto con le schiene addossate alla
parete,
intenti a sospirare come due povere anime con il cuore infranto.
Davanti a
loro, seduto a gambe incrociate sul pavimento, se ne stava Rufy che,
con la
testa alta e rivolta verso di loro, spostava lo sguardo curioso da uno
all’altro, grattandosi la zazzera scura e chiedendo come mai
fossero diventati
così tristi.
Mister
Three lo ignorò, guardando il soffitto. -Secondo voi mi
starà aspettando?-
domandò a nessuno in particolare.
Accanto
a lui, Von Clay sospirò. -Temo che si sia rifatta una vita,
amico mio.-
-Che
sta succedendo?- chiese Bagy, raggiungendoli e notando come
quell’ultima
affermazione avesse dato il colpo di grazia all’umore tetro
del fabbricante di
candele, il quale si mise a singhiozzare disperato.
Rufy
ruotò il capo e lo salutò con un enorme sorriso
al quale Bagy rispose prontamente
con uno sbuffo infastidito. Non poteva mica rammollirsi. -Stanno
parlando di
donne, credo.- gli spiegò, facendogli spazio
affinché anche lui si unisse al
loro gruppetto.
Bagy
fece finta di nulla e rimase in piedi, massaggiandosi la schiena
dolorante e
osservando la scena pietosa che aveva sotto al naso. Quei due erano
delle vere
cause perse e sicuramente di donne non sapevano proprio un bel niente.
-Ah,
ma di cosa vi preoccupate.- disse con finto disinteresse, appoggiandosi
con una
spalla al muro e guardando fuori dalla finestra con aria vissuta che
attirò
l’attenzione dei compagni. Oh, come gli piaceva essere sotto
ai riflettori.
-Non
puoi capire.- si lamentò Von Clay, -Tu non hai mai avuto
qualcuno da amare.-
-E’
qui che ti sbagli, vecchio mio.- lo interruppe allora il clown,
sospirando con
fare teatrale e schiarendosi la voce per iniziare a raccontare la sua
storia,
dato che i tre si erano fatti silenziosi e più vicini a lui.
Rufy era salito
sul letto che, sotto al loro peso, si era incrinato, e si era zittito
per una
buona volta, impaziente di sentire la storia.
-Conoscerete
tutti, immagino, il locale di Montmartre, quello gestito da
quell’orco di
femmina con i capelli rossi.-
Vide
il moccioso aprire bocca per dire qualcosa, ma Mister Three era stato
più
veloce e aveva risposto affermativamente per tutti, così
Bagy si era sentito
libero di continuare senza problemi.
-Molto
bene. Dunque, dovete sapere che anni fa, quando arrivai a Parigi per la
prima
volta, mi diressi in quel postaccio alla ricerca di una bettola dove
passare la
notte. Allora non conoscevo bene la città e i suoi locali,
così non mi feci
scrupolo ad entrare nella taverna di Madame Dadan per chiedere
ristoro.-
raccontò, prendendo una piccola pausa per accertarsi che
tutti avessero le
orecchie tese e gli occhi puntati su di lui. Una volta appurato
ciò, continuò
soddisfatto, nascondendo un sorrisetto di orgoglio. -Me la ricordo
ancora,
quella prima volta, quando la vidi. Stava servendo da bere e, quando fu
il mio
turno, mi dimenticai persino di quello che volevo ordinare, tanto era
affascinante.-
ammise sognante, dimenticando la finzione e le montature che aveva
preparato
per loro, lasciandosi andare ai ricordi veri e belli che segretamente
conservava e teneva per sé. -Era la cosa più
bella che avessi mai visto.-
mormorò, più a se stesso che agli altri, i quali
erano rimasti a bocca aperta,
persi a ricordare anche loro le ragazze per le quali avevano perso la
testa.
Tutti tranne Rufy che, sorridente, non aveva per niente idea del
sentimento di
cui stavano parlando.
-Come
si chiamava?- domandò Von Clay, comprensivo.
Bagy
sospirò, pronunciando il nome della donna quasi come se
fosse stato pura
poesia. -Alvida.-
-Ma
non mi dire! Ti sei innamorato di quella strega?-
Se
gli sguardi avessero potuto uccidere, a quell’ora Rufy
sarebbe stato sotto
terra, visto il mondo in cui Bagy lo guardò, un misto tra
rabbia, istinto
omicida e voglia di piantargli nel petto una spada. Come si permetteva
quel
moccioso di offendere la sua donna? E, soprattutto, come faceva a
conoscerla?
-Sai
di chi sta parlando?- sussurrò Mister Three.
Il
ragazzo si strinse nelle spalle con fare ovvio. -Certo, ho passato la
mia
infanzia a Montmartre. Dadan mi ha fatto da balia.- spiegò
tranquillo.
-Cosa?
Quindi tu conosci le sue ragazze?- sbraitò Bagy, staccandosi
dalla parete e
avvicinandosi al ragazzino, fissandolo allibito.
-Dalla
prima all’ultima.- sorrise Rufy, iniziando ad elencare le
varie signorine del
locale che lo salutavano ogni volta che andava a trovare la vecchia
padrona del
locale. -Ci sono Robin, Hina, Bibi, poi chi c’è?
Oh, si! Margaret, Califa,
Bonney, Nami…-
-Conosci
anche Nami?-
-E’
la mia migliore amica.- lo informò il moro, -Siamo cresciuti
assieme, sai?-
Se
Rufy fosse stato un ragazzo sveglio come gli altri, si sarebbe reso
conto delle
occhiate complici e maliziose che i suoi tre compagni di cella si
scambiarono
in quell’istante, iniziando a sogghignare curiosi, ma lui non
aveva mai badato
a certe cose. Forse, però, era arrivato il momento di
conoscere alcuni particolari
che in futuro gli sarebbero potuti tornare utili.
-E
dimmi, la conosci bene?- Si
informò
Mister Three, attirandolo accanto a sé e facendolo sedere
tra lui e Von Clay,
mentre Bagy li raggiungeva, schioccandosi le nocche con
l’aria di uno strozzino.
-Uh?
Sei sordo? Ti ho appena detto di si.- ripeté Rufy accigliato.
-Si,
ma quanto la conosci?-
insisté
l’altro.
Il
ragazzo lo osservò stranito, voltandosi poi dalla parte del
ballerino,
indicandogli con un dito la faccia di Mister Three. -Ma è
scemo?-
Fu
Bagy che, dopo aver alzato con esasperazione le mani al cielo, diede
una
scrollata al corvino, sbattendolo da una parte all’altra.
-Vuole sapere se
avete una relazione, idiota!-
-Chi?
Io e Nami? Niente affatto! E’ mia amica, non potrei mai!-
ribatté Rufy,
guardandoli come se fossero ammattiti. Insomma, cosa volevano sapere di
preciso? Aveva detto che conosceva le ragazze e che era amico di Nami.
Andavano
d’accordo e spesso la andava a trovare per tenerle compagnia
mentre lavorava,
cosa volevano di più? Quello che facevano non era stare
assieme? Non era una relazione
amichevole? Perché mai la
gente si stupiva sempre quando lui affermava convinto e orgoglioso che
la
ragazza era sua amica?
-Potresti
benissimo, invece!- gli fece notare Bagy, il quale stava già
per perdere le
staffe.
-Ma
che bisogno c’è?- si animò il
più piccolo, non capendo più un accidenti.
-Quello
che vuole dire,- spiegò pacato Von Clay, -E’ che
sembra strano che una bella
ragazza come lei non susciti in te nessun interesse.-
Calò
il silenzio per qualche minuto, durante il quale i tre uomini attesero
ansiosi
una risposta, certi che Rufy non avrebbe mai negato il
bell’aspetto di Nami,
invece lui riuscì ugualmente a stupirli, iniziando a
sghignazzare.
-Semplice,
a me le donne non piacciono.-
Quello
che accadde dopo disturbò il sonno di molti detenuti e la
tranquillità sinistra
che aleggiava nella prigione. Bagy afferrò Rufy per i lembi
della giacca che
gli aveva prestato e lo trascinò sul pavimento per prenderlo
a schiaffi, mentre
Mister Three si copriva il volto disperato con le mani. Von Clay era
così
divertito che improvvisò una danza assurda. Ormai la
situazione era degenerata,
tanto valeva esagerare.
-Non
dirlo mai più!- stava dicendo il clown, a cavalcioni sul
corpo del piccoletto
intento a tenerlo fermo e determinato a farlo tornare sulla retta via.
-C’è un
girone dell’inferno solo per chi non ama le donne!-
-Lascia
stare Bagy, è inutile.-
-Tappati
la bocca con la tua cera, a lui ci penso io.-
-Lasciami,
che vuoi fare?- fece Rufy, quando si sentì sollevare di peso
e scaraventare sul
letto che aveva visto giorni migliori.
-Von
Clay, sei abbastanza ferrato in materia?-
-Eh?
Parli della danza?- chiese quello, inarcando un sopracciglio.
Bagy
negò con il capo, incrociando le braccia al petto e battendo
un piede a terra.
-No, di sesso.-
-Oh,
adesso ho capito! Certo, ovviamente.-
-Ovviamente.- gli fece eco
Mister Three con
l’intento di prenderlo in giro, riuscendoci e beccandosi una
smorfia piccata in
risposta.
-Molto
bene, perché è ora che il moccioso impari
qualcosa in fatto di cultura generale
e non solo combattimenti e armi.- dichiarò Bagy,
avvicinandosi pericolosamente
a Rufy che, schiacciandosi contro la parete, lo fissava preoccupato. A
lui non
interessavano quelle cose, Ace e Sabo avevano già provveduto
a spiegargliele,
anche se con i disegni orribili che avevano fatto non ci aveva capito
molto e
aveva preferito ignorare la cosa perché l’aveva
trovata noiosa e poco
interessante.
-Dimmi,
ragazzino, cosa sai dirmi sul sesso?- domandò Bagy, sperando
almeno in una
risposta non troppo stupida.
Rufy
ci pensò su, decidendo di essere sincero, così,
sorridendo come era solito
fare, fece capire ai tre uomini che stava per dire qualcosa di
incredibilmente
assurdo.
-Niente!-
Angolo
Autrice.
Buongiorno!
‘Il
lunedì
mattina tutti zitti’ cit.
Scusatemi,
ma il fine settimana è stato un inferno e non ho avuto tempo
di aggiornare,
adesso ho dato una ricontrollata veloce per non farvi aspettare oltre e
per non
saltare anche questa settimana.
La
vita va avanti, i giorni si alternano lenti e tutti vivono qualche
esperienza
nuova. Godetevi il momento, perché a breve arriveranno gli
sbalzi temporali -.-
purtroppo la Rivoluzione Francese sembra essere composta da periodi di
tranquillità ad altri di rivolta totale!
Dunque,
mentre Ace e i suoi compari si prendono a schiaffoni con gli ufficiali,
Law si
fa una passeggiata al chiaro di luna con Kidd, ovviamente non prevista
come
cosa, ma noi siamo felici lo stesso :3 e si rende pure conto di provare
una
certa maledettissima attrazione! Si innalzano cori di Alleluia! ** e
Dio solo
sa cosa stava per fare il rosso, ma riprenderemo tutto nella prossima
puntata,
LOL.
Thatch
e i suoi fratelli si risvegliano in paradiso da Makino, ma il buonumore
non
dura per molto, rovinato giustamente da quel musone di Marco,
chiaramente
preoccupato per loro. Il suo è tutto amore fraterno,
comprendetelo. Rimane
sorpreso da Ace, l’eroe di sempre, ma da quel loro diverbio
esce tutta l’antipatia
che provano in modo reciproco. Bene, di male in peggio.
Intanto
alla Bastiglia tutti si divertono a piangersi addosso, per fortuna
c’è Bagy a
intrattenere un po’ i detenuti, anche se la scena gli viene
rubata da un
ingenuo Rufy :D speriamo che quando uscirà dalla prigione
sia un po’ più
informato in certi argomenti ^^
Anche
per questa volta è tutto, appuntamento a sabato **
Grazie
a tutti, vecchi e nuovi lettori, e scusate per la lentezza nelle
risposte, con
il lavoro non riesco più a venirne fuori D:
https://fbcdn-sphotos-d-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xfp1/v/t1.0-9/11016098_1603595483192621_8338689955126976667_n.png?oh=ab3d3214e94bbd61b3001fece13af41d&oe=558AEFED&__gda__=1435575229_2b8ea641a7bc4c47b75c13d72e255dd3
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Un
abbraccione ^^
See
ya,
Ace.
|
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Capitolo 9 *** Neuf. ***
Liberté,
Égalité, Fraternité.
Neuf.
-Dritte
quelle spalle, non dovete dare l’impressione di essere
debole, anche se lo siete.-
Non
appena quelle parole ebbero lasciato la bocca di Mihawk,
l’uomo ricevette in
risposta un’occhiata storta e molto offesa da parte della
sua, chi mai l’avrebbe detto!,
allieva, la
quale pensò bene di riprovare l’attacco con
più carica e determinazione di
prima, impegnandolo per qualche minuto nella difesa contro i suoi colpi
che, di
giorno in giorno, si facevano sempre più precisi e puliti.
Da
quando aveva iniziato ad insegnarle le basi della scherma e del
combattimento,
inizialmente più per gioco e passatempo che per reale
interesse alla sua causa,
la ragazza era migliorata notevolmente, correggendo gli svariati errori
che
commetteva e imparando nuove tecniche che la tenevano sveglia fino a
tardi
nella sua stanza a provarle, brandendo un ombrellino da passeggio come
se fosse
stato un arma micidiale.
La
spada che ormai utilizzava sempre era diventata quasi
un’estensione del suo
braccio e si sentiva sempre più forte e sicura di
sé perché, anche se il suo
insegnante acquisito per caso non si esprimeva riguardo ai suoi
progressi,
sapeva che stava facendo un lavoro abbastanza decente, visto e
considerato che
la riprendeva molto meno. Anche se, quando lo faceva, si impegnava nel
farla
sentire una perdente, risultando odioso e pungente, come in quel
momento.
Le lame
si incrociarono e i due si ritrovarono uno di fronte
all’altra, lei con il
fiatone, lui con l’aria di chi ha in corpo ancora tutte le
energie, fresco come
una rosa e con l’ombra sinistra di un mezzo sorriso che non
accennava a
scomparire.
-Siete
già stanca?- la stuzzicò, tormentando il suo
orgoglio femminile e la sua insana
e costante voglia di essere migliore degli altri.
Perona
strinse i denti e deglutì determinata, aggrottando le
sopracciglia in un
broncio da bambina. -Vi piacerebbe.- lo sfidò,
allontanandosi di qualche passo
e riprendendo ad attaccarlo direttamente, mettendo in pratica tutto
quello che
aveva imparato.
-Siete
troppo lenta, Mademoiselle.-
Stavano
duellando da circa un’ora, cosa che avevano preso
l’abitudine di
fare ogni giorno dopo pranzo, quando tutta la Corte si ritirava a
riposare un
poco prima di affrontare il pomeriggio.
Era
diventata una specie di routine la loro: uno passava davanti
all’altro e di proposito lanciava la sfida che poteva essere
dettata da uno
scambio di sguardi, uno sbuffo esasperato, come faceva sempre lui, uno
schiarimento
di voce, questo lo faceva lei, oppure semplicemente bastava un cenno in
direzione dell’armeria e tutto cominciava.
Perona
aveva appena provato un affondo nella sua direzione con
l’intento
di metterlo alle strette cogliendolo all’improvviso, ma
Mihawk era riuscito a
scansarsi appena in tempo facendo una capriola di lato e rimettendosi
subito in
piedi, pronto a controbattere.
Ti
faccio vedere io quanto sono lenta,
pensò indispettita la principessa, scostandosi una ciocca
rosa di capelli che
le era sfuggita dalla treccia stretta che aveva fatto prima di scendere
nella
sala.
Gli
andò incontro a testa alta e ripresero a scontrarsi: lei
attaccava e
lui parava i suoi colpi senza troppa difficoltà, ma pur
sempre mantenendo la
concentrazione per evitare di beccarsi un altro calcio in pieno volto
come gli
era successo una settimana prima. In quell’occasione lei non
aveva smesso di
ghignare soddisfatta ogni volta che lo incrociava, facendolo
innervosire più
del dovuto.
Non
si poteva, inoltre, dire che giocassero pulito, dato che ogni
oggetto era buono per essere lanciato addosso all’avversario
ed ogni attimo di
indecisione era una buona occasione per cogliere l’altro di
sorpresa.
Inutile
dire che in quello Mihawk era un maestro.
Perona
notò che in quel frangente stava giocando
d’astuzia, cercando di
spingerla addosso alla parete per bloccarle qualsiasi via di fuga e
disarmarla
al fine di concludere l’incontro ma, per sua fortuna, aveva
imparato alla perfezione
come muoversi in quella circostanza. Così, raccogliendo le
forze, parò un fendente
abbastanza pesante e lo fece indietreggiare, dandogli poi le spalle e
correndo
verso la parete. Saltò addosso al muro e, aiutandosi con la
spinta delle gambe,
fece una capriola all’indietro, inarcando la schiena e
atterrando agile in
piedi alle spalle dell’uomo, cogliendolo di sorpresa, il
quale si voltò di
scatto, parando all’ultimo momento un suo attacco diretto.
-E
questo cos’era?- domandò, per la prima volta
sinceramente stupito
visto che la situazione era stata invertita.
Lei
sorrise orgogliosa. -Un mio trucchetto, diciamo un gioco da
ragazzi.- spiegò, vantandosi non poco. Oh, come gongolava
soddisfatta!
-Ragazzina
impertinente.- iniziò ad inveire a denti stretti Mihawk,
prima di abbassarsi sulle ginocchia per evitare di essere trafitto
dalla sua
spada. Quella mocciosa imparava troppo in fretta per i suoi gusti e,
soprattutto, non le fregava niente di essere leale. Si
rialzò trovandosi in
trappola ma, mentre lei si preparava a sconfiggerlo definitivamente, le
lanciò
negli occhi della polvere che aveva raccattato dal pavimento sempre
sporco e
poco pulito, facendola sussultare e sbagliare mira. Schivando il colpo
aveva
approfittato del momento per raccogliere qualsiasi cosa gli fosse
capitata a
tiro e nemmeno si sentiva colpevole. Se lei giocava sporco, poteva
benissimo
farlo anche lui e il fatto che fosse una donna non lo scalfiva
minimamente.
Quando
Perona riprese il controllo, sbattendo più volte le palpebre
con
gli occhi che le bruciavano, si rese conto di essere appoggiata alla
parete
fredda e ruvida con una lama puntata alla gola.
-Avete
perso.- fece l’uomo in tono sfacciato e per nulla sorpreso,
usando la classica frase che le ripeteva ogni giorno e dopo ogni
sconfitta che
le infliggeva.
Lei
lo fissò seria qualche istante per poi portare anche la sua
spada a
sfiorargli il collo, imitandolo.
Mihawk,
comunque, sapeva che non l’avrebbe colpito e quindi la
lasciò
fare, sorridendo appena per la strana situazione in cui si erano venuti
a
trovare.
-Ti
batterò un giorno.- gli disse piano, assicurandosi che
capisse bene
le sue parole e che non le dimenticasse.
Lui
affilò lo sguardo, ma senza smettere di sorridere mostrando
i denti
bianchi e candidi.
-E’
una minaccia?- chiese, rinfoderando l’arma e allontanandosi
da lei,
dandogli le spalle per vedere se avesse avuto il coraggio di coglierlo
di
sorpresa.
-No.-
fece lei, imitandolo. -E’ una promessa.-
Non
seppe dire se la prese sul serio o se la
sottovalutò, l’importante era che lei credeva
fermamente a quello che diceva,
voleva davvero batterlo al suo gioco. Tra di loro tutto era diventato
una
continua sfida, erano sempre in competizione e cercavano sempre di
essere uno
migliore dell’altro, arrivando a battersi per stabilire chi
dei due fosse
superiore.
-Per
oggi abbiamo finito.- la informò Mihawk
ad un tratto, facendole alzare il capo nella sua direzione e aggrottare
la
fronte interdetta.
-Ma
siamo qui da appena un’ora.- gli rese
noto con tono contrariato. Insomma, lei doveva migliorare e se non si
allenava
non poteva farlo. Lui la faceva facile visto che era un uomo fatto e
finito, e
pure antipatico, ma lei non era stanca e pretendeva di continuare come
stabilito.
-Scusatemi,
Principessa,- la prese in giro con
fare sarcastico, -Ma io non ho
tutto il giorno a disposizione come voi. Ho un incarico da svolgere.-
decretò
senza ammettere altre discussioni e piagnistei. Quando quella viziata
si
impuntava con qualcosa nessuno le faceva cambiare idea e a lui le
persone che creavano
troppe storie gli facevano venire il mal di testa. Anche se, ad essere
sincero,
Perona l’unica cosa che gli faceva venire era
l’istinto omicida nei suoi
confronti.
La
principessa batté i piedi a terra e incrociò le
braccia al petto, frustrata.
Ecco, le sarebbe toccato passare un’altra giornata
all’insegna della noia come
al solito, visto che quel barbaro aveva da fare. Che compito aveva poi?
Una
ricognizione per le strade? Beato lui che almeno poteva uscire da
quelle quattro
mura.
Con
uno sbuffo lasciò cadere la questione, non avendo voglia di
sprecare ossigeno e
tempo con quell’individuo sempre antipatico, e
andò a riporre la sua arma,
levandosi scocciata i guanti e sbattendoli con malo modo sul tavolo in
legno,
iniziando a slacciarsi la pettorina che indossava, su obbligo di
Mihawk,
durante gli allenamenti per evitare ferite. Aveva accettato solo
perché, dopo
la prima volta, si era resa perfettamente conto che lui non scherzava
e, se ce
n’era il bisogno, ci andava giù pesante. Ne erano
la prova anche
l’indolenzimento ai muscoli che aveva avuto i primi giorni e
il segno violaceo
di qualche livido sulle braccia e sulle gambe.
Stava
litigando con un laccetto dietro la schiena, quando sentì un
paio di mani sostituire
le sue nell’impresa. Allora si immobilizzò,
portando le braccia a stringersi il
petto e zittendosi nell’attesa che Mihawk la aiutasse a
sfilare quell’affare
scomodo che le ammaccava le scapole.
La
situazione era imbarazzante a dir poco, almeno per Perona, la quale non
era
abituata a certe vicinanze e a certe intromissioni, per lei
c’erano dei limiti
da rispettare e, anche se non era l’esempio perfetto di donna
di alto rango,
aveva ricevuto un’educazione ferrea e disciplinata riguardo
certi comportamenti
e una tale vicinanza con un uomo che non era un parente e nemmeno suo
marito
era assolutamente impensabile.
Se ci vedesse
qualcuno, pensò
la ragazza, mordendosi un
labbro e fissando con insistenza le assi del pavimento, mi
immagino le facce scandalizzate delle Dame di Corte. Povere zitelle
frigide!
Per
poco non scoppiò a ridere da sola, ma, per sua fortuna, le
mani di Mihawk non
erano dotate di grande gentilezza e, di tanto in tanto, strattonavano
con poca
pazienza i lacci, facendole mancare il respiro e distraendola.
Quando
ebbe finito, si spostò di lato, depositando anche lui le
armi che usava per gli
allenamenti, tenendo lo sguardo basso e parlandole con calma.
-Continueremo
domani, ma per oggi basta. Ho degli ordini da eseguire.-
Perona
annuì mestamente con il capo. Impressionante come era
bastata quella vicinanza
per metterla in soggezione e farle morire la rabbia in gola.
Non
c’era altro da dire e da spiegare, così lo
spadaccino recuperò i suoi effetti,
la sua spada che aveva lasciato in disparte durante il combattimento e
il suo
mantello appeso ad un chiodo sulla parete, indossandolo. Si
voltò a guardare
Perona che, in un attimo di incantamento, era rimasta ad osservarlo
come
facesse svolazzare elegantemente la cappa scura, riscuotendosi quando
le
rivolse la parola per congedarsi rispettosamente.
Sebbene
sembrasse assurdo, lei era pur sempre la Principessa e lui, volente o
non,
doveva mantenere un certo contegno. Dunque, inchinandosi lievemente, la
salutò
per poi andarsene quando ebbe ottenuto il suo appena udibile consenso.
Aveva
capito che ci era rimasta male, ma lui non poteva farci nulla. Aveva
delle
questioni urgenti da sbrigare e perdere tempo con una ragazzina non era
contemplato.
Sospirò,
uscendo dalla stanza e chiudendosi la porta alle spalle, pronto per
avviarsi
lungo il corridoio per raggiungere la sala dove era previsto
l’incontro con gli
altri membri della Flotta dei Sette.
All’ultimo
momento, però, tornò sui suoi passi, non sapendo
nemmeno lui il perché, e aprì
il portone in legno massiccio, rimanendo sull’uscio e
beccandosi uno sguardo
incuriosito e stupito da parte di Perona che, non essendosi aspettata
di
rivederlo, era rimasta parecchio sorpresa, mentre il cuore aveva preso
a
battere più forte nella sciocca speranza che avesse cambiato
idea.
Mihawk
ignorò quella luce nei suoi occhi e si sbrigò a
spiegarsi, desideroso di fare
in fretta e togliersi di dosso quella sensazione per lui imbarazzante.
Da
quando sentiva l’impulso di doversi scusare e dare
spiegazioni per quello che
faceva?
-Se
non avete nulla in contrario,- disse pacato, -Domani ci soffermeremo di
più
sugli allenamenti.- e, dopo aver ricevuto l’ennesimo cenno di
assenso, si sentì
libero di andarsene, lasciando che Perona si riprendesse da quella
notizia e si
concedesse un sorriso di vittoria.
Non
vedeva l’ora che l’indomani arrivasse.
*
In
città tutto e tutti erano in fermento per l’ormai
imminente arrivo di maggio.
Il popolo era fin troppo frenetico, tanto che era stato aumentato il
numero di
guardie addetto a fare ricognizioni in giro per le strade di tutta
Parigi, in
modo da evitare o prevenire rivolte di qualche tipo, anche se non ce ne
sarebbero state in ogni caso. Dopotutto, il Terzo Stato mica era
così stupido e
impavido, non si sarebbe mai giocato l’opportunità
di ottenere dei cambiamenti
per le sue condizioni, bruciandosi l’invito a Corte per
l’Assemblea degli Stati Generali
prevista per il quinto giorno di
maggio. Finalmente, dopo anni e anni, era stata indetta nuovamente su
promessa
del Sovrano che, ormai alle strette, aveva ceduto a quella permissione.
I
preparativi da fare, quindi, erano molteplici, soprattutto per i
rappresentanti
del popolo, per i cittadini speranzosi e per i Rivoluzionari in allerta.
-Ne
vedremo delle belle.- stava dicendo Zeff a Sanji, mentre preparava una
vasta
quantità di pasta da infornare per riuscire
nell’intendo di sfamare la
popolazione ridotta agli stenti, molte volte guadagnando meno del
previsto, ma
non disperandosi. Per lui, nessuno doveva morire di fame e si faceva
volentieri
in quattro per aiutare i bisognosi che bussavano alla sua porta
implorando per
un pezzetto di mollica.
Sanji,
accanto a lui, intento ad impastare la farina, annuiva pensieroso con i
capelli
biondi che gli ricadevano sulla fronte, troppo lunghi ormai,
coprendogli una
parte del viso. Non li scostò, ormai ci aveva fatto
l’abitudine e non gli
davano fastidio, anzi.
-Sono
curioso di vedere come andrà a finire.- continuò
il vecchio, muovendosi nella
stanza e preparando l’occorrente per cucinare.
-Spero
che non sia tutto vano.- ammise mestamente il giovane ragazzo, posando
le mani
ai lati del paniere e sospirando stancamente a capo chino. Tutta quella
frenesia, quell’aspettativa e quelle speranze lo
coinvolgevano troppo,
facendogli temere in un brutto finale. Cosa sarebbe toccato ai
cittadini se
fosse tutto andato a rotoli? E quanti Rivoluzionari sarebbero stati
condannati
a morte? Quante persone avrebbe dovuto vedere morire? E quanto sarebbe
passato
prima che i suoi amici venissero fatti fuori uno ad uno?
-Che
succede, ragazzo?-
Sanji
scosse la testa, accennando un sorriso tirato e falso. -Nulla, mi
prendo una
pausa.- lo informò, togliendosi il grembiule e uscendo in
strada per fumarsi
una sigaretta. Aveva bisogno di rilassarsi, distrarsi e di pensare ad
altro,
per esempio al bel tempo e al sole che illuminava Parigi; al vociare
della
gente per le strade; allo scorrazzare dei bimbi; alle belle donne che
lo
salutavamo sorridendo; a quell’idiota di Zoro che era appena
piombato giù dal
tetto e che gli aveva fatto quasi venire un infarto.
-Testa
di cazzo!-
-Felice
di vederti.- lo sfotté il ragazzo incappucciato, sorridendo
beffardo e
appoggiandosi alla parete con una spalla e le braccia incrociate,
rivolgendogli
uno sguardo furbo e vittorioso.
Era
diretto al Quartier Latin per incontrare un gruppo di Rivoluzionari con
i quali
avrebbe dovuto discutere sulle questioni riguardanti
l’Assemblea imminente, ma aveva
sbagliato strada ed era stato costretto da una serie di imprevisti,
dovuti al
suo scarso senso dell’orientamento, a fare la via
più lunga passando da quelle
parti, così aveva visto il fumo uscire dal camino del
panificio e aveva deciso
di fermarsi a sgraffignare qualche pezzo di pane da mettere nello
stomaco. Era
scivolato silenzioso sul tetto e, quando aveva adocchiato Sanji sotto
di lui,
non aveva resistito a coglierlo di sorpresa.
Il
biondo sbuffò infastidito, fulminandolo con
un’occhiataccia. -Che diavolo ci
fai qui, testa verde? Non hai qualche incarico da svolgere?-
-No,-
ammise Zoro, -Sono libero per adesso.- mentì. La prospettiva
di poter passare
cinque minuti in qualche vicolo con il biondo accanto a lui non gli
dispiaceva,
se doveva essere sincero, ma avrebbe dovuto rimediare immediatamente un
goccio
di alcool come stabilivano le loro tacite, e in parte ridicole, regole.
-Non
ci pensare nemmeno.- lo ammonì il cuoco, indovinando
all’istante lo sguardo
malizioso e i pensieri volgari dell’altro, -Devo lavorare.-
Zoro
fece una smorfia, scostandosi dal muro e prendendo a camminare li
attorno per
non rimanere con le mani in mano. -Avanti, non fare il ritroso.-
Le
sopracciglia chiare e lievemente arricciate di Sanji saettarono verso
l’alto,
incredule. -Io? Io sarei ritroso?-
-Cos’è,
sei pure sordo per caso?- sogghignò Zoro, guardandolo con
aria di sfida. Era
più forte di lui, quando Sanji iniziava a scaldarsi non
riusciva mai a fare
finta di niente per ignorarlo, al contrario si sentiva obbligato a
continuare
quello scambio di battutine acide, insulti e malauguri.
-Almeno
non sembro uscito dalle paludi.- ribatté il biondo,
riferendosi palesemente al
colore insolito dei capelli di Zoro che gli ricordava molto le erbacce,
le
alghe e la melma che sporcavano la Senna. C’era una
somiglianza colossale tra
quello schifo e lo spadaccino, infatti l’uomo insozzava il
suo umore, la sua
vita e le sue sensazioni, per non chiamarle sentimenti.
-Ma
sentilo, ha parlato la Perfezione
fatta persona.-
-Grazie
del complimento.-
-Non
c’è di che!-
-Voi
due, la piantate?- li interruppe una voce alle loro spalle, proveniente
dalla
strada.
Entrambi
si voltarono a guardare il nuovo arrivato che, sospirando stancamente,
ormai abituato
a quei battibecchi, li raggiungeva salendo gli scalini in legno che
portavano
alla veranda.
-Sul
serio, ragazzi, non potete smetterla di beccarvi per una volta?-
-Ha
iniziato lui.- dissero all’unisono Sanji e Zoro, guardandosi
poi in cagnesco.
Usopp
alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo e togliendosi il
berrettino che
indossava, sospirando esasperato. Erano un caso disperato, poco
importava
quello che avrebbe detto per calmarli. Ad ogni modo era lì
per ben altro e non
per cincischiare.
-Che
fai da queste parti?- lo anticipò Zoro, -Non dovresti essere
alla base?-
-Mio
padre mi ha mandato ad avvisare gli Imperatori di una prossima riunione
per
accordarsi sulle richieste da presentare quando gli Stati Generali si
incontreranno a Versailles.- spiegò, grattandosi la testa.
-Non sapete che
paura quando mi è toccato entrare in casa di Kaido.-
mormorò tra sé, ricordando
l’ambiente poco illuminato e freddo, per non parlare di tutte
le teste di
animali imbalsamati appesi alle pareti!
-Quindi
i Rivoluzionari si riuniranno presto?- si informò Zoro.
-Esatto.-
annuì Usopp. -A quanto pare ci è giunta voce che
a Corte sia stata indetta una
riunione molto ristretta del corpo di guardia, perciò
è meglio tenersi pronti a
tutto. Ora scusate, ma devo scappare. Ci vediamo presto!- disse,
scomparendo
tra la folla.
-Sarà
da ridere dato che, questa volta, gli Imperatori si ritroveranno ad
essere in
quattro.- constatò Sanji, accendendosi un’altra
sigaretta e riponendo la
scatoletta di fiammiferi nella tasca posteriore dei pantaloni che,
però, gli
cadde a terra.
Fu
Zoro a raccoglierla fulmineo, rigirandosela tra le mani sotto gli occhi
scocciati del biondo che, porgendogli una mano con il palmo aperto, gli
faceva
la muta richiesta di rendergliela, sperando di non doverlo pregare
troppo.
Con
sua sorpresa, Zoro lo fece, ma in modo totalmente diverso da quello che
si era
aspettato, non ché risultando inappropriato,
perché il Rivoluzionario gli si
avvicinò, dando le spalle alla strada in modo da apparire
solamente impegnato
in una conversazione importante, passando invece un braccio attorno
alla vita
del biodo e infilando lui stesso la scatoletta nella tasca,
rimettendola a
posto e sorridendo lascivo, indugiando con la mano per lasciare una
carezza da
sopra la stoffa.
Non
si dissero una parola, solamente rimasero a fissarsi per qualche
secondo,
entrambi troppo orgogliosi per cedere alle parole. Sanji represse i
brividi che
gli corsero lungo la schiena e mantenne un’espressione
fredda, quasi scontrosa.
Era furibondo, quella cosa gli stava sfuggendo di mano, tanto che
faticava a
gestirla anche a livello emotivo. Era snervante dover sempre pensare
alle
conseguenze di quello che facevano e sentiva chiaramente che stava
raggiungendo
un limite. E poi, da quando Zoro si fermava a salutarlo? E come gli era
saltato
in mente di proporgli un incontro senza nemmeno una goccia di liquore?
In pieno
giorno per giunta!
Era
in bilico e, prima o poi, da una parte o dall’altra, sarebbe
dovuto cadere,
costretto a fare una scelta che continuava a rimandare e a cacciare in
un
angolo buio della sua mente.
Alla
fine fu Zoro ad allontanarsi, vedendo che dal biondo non proveniva
nessun
segnale di risposta o gratitudine, così, dandogli le spalle
e alzando una mano in
segno di saluto, si sollevò il cappuccio della giacca che
aveva abbassato in
quei minuti e si avviò verso la Rive Gauche.
Il
biondo gettò a terra il mozzicone, infastidito. Detestava
quel suo coetaneo,
non lo sopportava, gli faceva girare la testa per la sfacciataggine con
cui si
comportava. Al diavolo lui e quella volta che si erano conosciuti
quando erano
ancora dei mocciosi.
-Sanji,
torna a lavoro, sfaticato!- si sentì chiamare
dall’interno.
-Arrivo
vecchio.- rispose, gettando un ultimo sguardo furente al punto in cui
Zoro era
sparito.
Decisamente
doveva darci un taglio netto, o non avrebbe retto a lungo.
*
Thatch
sospirò di sollievo quando si passò il panno
bagnato sulla fronte, crollando
stancamente sul suo letto e chiudendo gli occhi. Quella notte passata a
divertirsi l’aveva pagata molto cara e ne sentiva ancora i
postumi, ma, tutto
sommato, ne era valsa la pena e non aveva nessun rimpianto. Se avesse
potuto,
l’avrebbe rifatto subito. Insomma, Parigi era così
bella! Ace gli aveva fatto
vedere un sacco di cose lungo la strada che portava a Montmartre, per
esempio
le numerose piazze pittoresche, con le vie in ciottoli; gli edifici
gotici e
gli angoletti più artistici e suggestivi, anche se la cosa
che gli era piaciuta
di più era stata la Cattedrale di Notre Dame. Diamine, i
francesi erano proprio
fortunati ad avere una città come quella con tutto a portata
di mano. Certo,
anche il locale di quella vecchia strega aveva il suo
perché, infatti era stato
la ciliegina sulla torta, il modo migliore per concludere la giornata.
Tutto
quell’alcool, quel cibo e quella musica. E le donne!
Stupende, affascinanti e
ben disponibili donne! Non c’era dubbio, doveva assolutamente
ritornarci e al
diavolo le lamentele di Marco e di suo padre, loro non capivano, erano
troppo
ottusi e impegnati a preoccuparsi di salvare la pellaccia. Lui, al
contrario,
credeva che una vita vissuta senza dei rischi non avesse niente di
speciale,
perciò era ben deciso a fare di testa sua, come al solito.
Soprattutto, voleva
rivedere Rebecca. Quella ragazzina, anche se molto giovane, ci sapeva
proprio
fare.
-Oh,
ti ho trovato finalmente.- fece una voce. -Dov’eri finito? Ti
ho cercato questa
mattina.-
Thatch
si morse un labbro, battendosi una mano in fronte. Si era completamente
scordato che aveva promesso ad Haruta di allenarsi con lei. Era
già la seconda
volta che saltava un appuntamento.
Voltò
il capo, rimanendo sdraiato e guardandola con aria di scuse, facendola
sospirare.
-Tranquillo,
mi sono arrangiata.- lo informò lei, non arrabbiandosi.
Sapeva com’era fatto
quel ragazzone ed era abituata alle sue dimenticanze. Quando si era
svegliata
lo aveva cercato un po’ ovunque all’accampamento
ma, non trovandolo e
ipotizzando che avesse avuto qualche impegno all’ultimo
minuto, dato che pure
Namiur, Izou e Rakuyo erano spariti, aveva lasciato perdere. Poi aveva
incrociato Koala ed erano rimaste a chiacchierare per un bel pezzo del
più e
del meno, accennando lievemente alla sua situazione sentimentale. Anche
se lei
non ne era del tutto convinta, Koala le aveva consigliato di provare ad
esprimersi, evitando di lasciar sempre correre per non rischiare di
ritrovarsi
un giorno con un pugno di mosche in mano. Ci aveva riflettuto per il
tempo
successivo e si era quasi convinta di poterne essere in grado, di
essere
abbastanza coraggiosa e spavalda per mettere le cose bene in chiaro con
Thatch,
per quello si trovava nella sua tenda. In quel momento,
però, era curiosa e
voleva almeno sapere cosa lo avesse tenuto lontano.
-Quindi,
dove eri scappato a gironzolare?- gli chiese sorridente, sedendosi sul
bordo
del letto e aggrottando la fronte quando si accorse delle occhiaie
marcate sul
viso dell’uomo e dello straccio bagnato.
Thatch,
entusiasta per l’avventura vissuta e per il divertimento,
scattò a sedere,
iniziando a raccontarle la gita in centro città che aveva
fatto con gli altri,
descrivendole ogni edificio con minuziosità, stando attento
ai particolari e
assicurandole che, non appena avessero avuto l’occasione,
l’avrebbe portata con
sé per mostrarle tutto.
-Che
bellezza. E poi cosa avete fatto?- continuò Haruta,
divertita dal buon umore
dell’amico. Thatch era un chiacchierone, a volte pure
logorroico, ma non la
annoiava. Lei preferiva stare in silenzio, piuttosto di prodigarsi in
lunghi
discorsi e adorava ascoltare gli altri, per quello con lui si trovava
sempre a
suo agio. E poi, quando le raccontava qualcosa, le piaceva da matti
starlo a
guardare perché aveva sempre un sorrisone sulle labbra, la
faceva ridere e gli
si illuminavano gli occhi.
-Avresti
dovuto esserci!- fece allora il castano con aria sognante, -Ace ci ha
portati
in un locale dove fanno degli spettacoli da togliere il fiato. E quante
ragazze, Haruta. Quante! Se tutti gli uomini passassero una notte da
quelle
parti, sicuramente sarebbero sempre allegri e soddisfatti.-
decretò, facendola
insospettire.
-Perché?
Che cosa fanno?-
Lo
aveva intuito, Haruta, quello che poteva essere successo, non era una
stupida,
ma non era il tipo di persona che giudicava prima di conoscere la
situazione ed
ogni sfaccettatura delle cose, perciò aveva preferito
assicurarsi della verità,
sperando con tutta se stessa che non fosse successo di nuovo.
Perché
lei era innamorata di Thatch, gli voleva un bene dell’anima
nonostante fosse a
conoscenza delle sue scappatelle. Era già successo e lei non
aveva mai detto
niente. All’inizio perché non le importava, poi,
quando aveva iniziato ad
esserne gelosa, si era ripetuta che non aveva nessun diritto di ficcare
il naso
nei suoi affari. Da un pezzo, però, le cose si erano
sistemate e Thatch non
aveva più passato la notte fuori a fare festa con alcuni
suoi compagni. Sempre
più spesso aveva passato il tempo con lei e le era sembrato
che, di giorno in
giorno, il loro rapporto si fosse intensificato, anche se nessuno dei
due aveva
mai sollevato l’argomento. Sapeva solamente che stavano bene,
che erano felici.
L’unica cosa che stonava in tutto ciò era il suo
punto di vista. Per lei,
Thatch era importante, ma per lui era lo stesso? Se l’era
chiesto tante volte e
magari si, lei poteva significare qualcosa, ma che garanzie aveva che
si
trattasse di amore? Aveva sempre evitato di pensarci, sperando che,
prima o
poi, si accorgesse di lei, dell’affetto che provava per lui,
ma si conosceva
abbastanza bene e sicuramente non avrebbe retto un altro colpo basso.
-Giocano
a carte.- ironizzò lui, guardandola scettico. -Dai, Haruta,
secondo te cosa
vuoi che facciano? Parliamo di signorine molto gentili e disponibili ad
assecondare ogni richiesta.- ammiccò malizioso, mentre lei
si irrigidiva e si
sforzava di mantenersi calma e controllata, anche se il cuore sembrava
esploderle nel petto, tanto batteva.
-E…
e
hanno, insomma, esaudito pure te?- faticò a chiedere, senza
preoccuparsi di
risultare invasiva. Doveva saperlo, via il dente, via il dolore. Almeno
si
sarebbe messa l’anima in pace, pazienza se avrebbe sofferto.
Era
brutto da dire, ma ci aveva fatto l’abitudine.
Thatch
la guardò come se fosse venuta da un altro mondo. Che razza
di domande gli
stava facendo? -Ovvio che si!- esplose ad un tratto, saltando sul
materasso e
facendola sussultare. -Guarda, mi hanno praticamente mangiato vivo.- si
espose
orgoglioso.
Furono
i molteplici segni rossi sul collo di Thatch a darle il colpo di
grazia,
spezzandole il cuore e lasciandola senza fiato. Quelle macchie
svettavano come
lanterne nella notte sulla sua pelle, distribuite in vari punti, quasi
come se
volessero prendersi gioco di lei e del suo amore diventato solo
un’illusione.
L’aveva
fatto, di nuovo, e per quel motivo non si era presentato da lei quella
mattina.
Per delle donne con cui non avrebbe mai condiviso nulla di
più che una notte di
sesso e di piacere. Aveva preferito loro a tutto il resto, mettendola
da parte,
dimenticandosene. Che sciocca era stata a sperare di contare qualcosa
di più.
Alla fine, cosa aveva lei da dargli? Non era aggraziata come le dame
parigine o
inglesi, non aveva gli occhi azzurri e magnetici, ma due pupille scure
e
anonime, i capelli non erano folti e lunghi, ma corti e sbarazzini
perché a lei
piacevano in quel modo e la facevano sentire più libera,
così come il fatto di
indossare abiti maschili perché le gonne erano ingombranti.
Non era nemmeno
tanto alta e le sue forme le nascondeva sotto a camicie di taglie
più grandi.
Sapeva combattere e sparare, ma a cosa servivano quelle doti, quando
lui non
aveva occhi che per un bel fisico e un’apparenza
affascinante?
Doveva
farsene una ragione: lei non era proprio nulla di speciale.
Si
alzò meccanicamente dal letto, ignorando lo sguardo stranito
di Thatch, il
quale si era accorto che qualcosa non andava. Haruta si era zittita
all’improvviso e aveva una faccia da funerale.
-Ehi,
che ti prende?- le chiese, prendendole una mano per bloccarla, con
l’intenzione
di conoscere il perché di quel cambiamento repentino.
Non
era mai successo prima, ma lei lo scostò malamente,
liberandosi della sua presa
e allontanandosi di qualche passo come un animale impaurito e ferito. E
lo era
davvero, ferita nel profondo e disperata. Non se l’era
aspettato tutto quel
dolore, non pensava che potesse fare così male.
-Haruta?-
Thatch
era in piedi e cercava di alzarle il viso verso di lui, ma nuovamente
lei
indietreggiò, portando una mano in avanti per mantenerlo a
distanza. Non stava
piangendo, non l’avrebbe mai fatto davanti a lui, non si
sarebbe resa ancora
più ridicola di quanto non fosse già stata fino
ad allora. Era stanca, davvero
stanca e delusa. Aveva sprecato un sacco di tempo a sognare e a
fantasticare in
qualcosa di inesistente.
Aveva
amato un’illusione.
Ed
era anche arrabbiata perché l’uomo che
l’aveva fatta innamorare come non mai
era solo un idiota insensibile.
-Tu
sei…- provò a dire, mordendosi un labbro e
chiudendo il palmo a pugno. -Non hai
idea di quanto tu mi abbia delusa.- scandì lentamente,
rivolgendogli
un’occhiata di disgusto che fece sprofondare Thatch nella
preoccupazione.
Che
cosa aveva fatto di male? Dove aveva sbagliato? Non l’aveva
ne offesa ne presa
in giro, le aveva solo raccontato la sua serata. Perché
reagiva in quel modo?
E, sopra ogni cosa, perché lo stava guardando come se fosse
stato il peggior
bastardo sulla terra?
-Mi
spieghi che cosa…- provò a dire invano.
-No,
non c’è niente da spiegare. Stammi lontano,
chiaro? Non voglio più vedere la
tua faccia!- disse lei, voltandosi per andarsene il più
velocemente possibile.
Sapeva che era impossibile allontanarlo dalla sua vita, ma si sarebbe
impegnata
a fondo per evitarlo come la peste in quell’accampamento.
-Haruta
aspetta! Mi dici cosa ho fatto? Perché ti comporti
così?- la richiamò il
ragazzo, seguendola fuori dalla tenda, ma lei non gli rispose e
affrettò il
passo, mettendosi quasi a correre, sperando che non la seguisse
perché non
aveva la minima voglia di parlare, ne di starlo a sentire. Non voleva
più
saperne, almeno per quel momento. Così lo lasciò
indietro, a tormentarsi di
domande alle quali non avrebbe trovato facilmente risposta. E non le
importava
affatto se ci era rimasto male, dato che lei stava provando una
sofferenza
insopportabile, ovvero quella del rifiuto.
Stava
da schifo e desiderava solamente rimanere da sola, senza nessuno che la
consolasse o che la compatisse.
E si
dette della stupida per non aver ascoltato Marco. Lui le aveva sempre
detto che
Thatch, con le donne, non ci sapeva proprio fare.
*
Doflamingo
era sempre stato un uomo che aveva vissuto nel lusso e
nell’agiatezza fin da
quando era nato. Era abituato ad avere intorno a sé
servitori pronti a
soddisfarlo sempre e ad assecondare qualsiasi sua richiesta, per quel
motivo il
suo soggiorno a Parigi non si stava rivelando divertente per lui. A
quanto
pareva, l’unico che godeva di quei privilegi era il Sovrano,
e lui doveva
accontentarsi di quello che era concesso ai vari nobili, ma non era il
massimo.
Insomma, lui prestava servizio, perciò pretendeva di essere
trattato al meglio,
non come un qualsiasi altro borghese perché, a conti fatti,
l’unico che aveva
più soldi di lui era appunto il Re. Se poi si teneva conto
che la cassa dello
stato altro non era che denaro pubblico, allora automaticamente il suo
patrimonio passava al primo posto.
Ad
ogni modo, avrebbe dovuto adattarsi se voleva arrivare a vedere la
disfatta
della monarchia, offrendosi come volontario per
l’organizzazione di nuove leggi
e di un nuovo tipo di governo, facendo la sua scalata verso la vetta
per
arrivare a compiere un colpo di stato con i fiocchi ed assumere il
potere.
Quello sarebbe stato il suo premio e per un po’ avrebbe
sopportato di non avere
tutto ciò che voleva in quella reggia.
Sedeva
scomposto al tavolo con aria annoiata, attendendo l’arrivo
del resto dei membri
del consiglio, della Flotta dei Sette e del Corpo di Guardia della
città,
ascoltando senza troppo attenzione il chiacchiericcio che stavano
facendo
alcuni dei presenti e giocherellando distrattamente con la manica della
sua
giacca piumata.
Boa
Hancock entrò in quell’istante, attirando su di
sé sguardi ammirati e poco
casti della maggior parte dei sudditi, avanzando con eleganza nel suo
abito
viola e una certa aria di superiorità fino a raggiungere il
suo posto che, per
la precisione, era situato ben lontano da lui.
Davanti
a quella constatazione, Doflamingo inclinò le labbra in un
sorrisetto
divertito, continuando a fissare il vuoto e non degnando di una minima
occhiata
la bellissima donna che era appena arrivata. Non che non ne fosse
attratto, ma
semplicemente perché conosceva alla perfezione il carattere
delle gran signore
e non era disposto a darle nessuna soddisfazione, preferendo che fosse
lei ad
attaccare bottone con il solo intento di farlo capitolare ai suoi
piedi.
Peccato che lui non era certo il tipo che perdeva la testa per un bel
faccino,
al contrario, tutto ciò che voleva era portarsela a letto e,
poteva starne
certa, ci sarebbe riuscito a tempo debito.
Uno
dei maggiordomi aprì nuovamente la porta e, quella volta,
Doflamingo non poté
frenarsi dallo sghignazzare apertamente quando vide Drakul Mihawk
precedere
Gekko Moria e fare il suo ingresso nella sala, anche lui tenendosi a
debita
distanza da uno dei posti liberi che lo circondavano. Strano, stava
così
antipatico a tutti?
-Dormito
bene, Mihawk?- lo salutò, poggiando i gomiti sulla
superficie in legno e
incrociando le dita sotto al mento.
L’interpellato
non rispose e non si scomodò nemmeno a guardarlo,
accomodandosi accanto a Boa
Hancock e incrociando le braccia al petto. Non si tolse nemmeno il
cappello,
anzi, se lo calcò bene in testa per celare parte del viso in
modo da non essere
disturbato oltre.
Doflamingo
ridacchiò tra sé. Aveva a che fare proprio con
degli elementi particolari,
tutti presi da se stessi e di poche parole. Per fortuna che il Re era
un
completo idiota, almeno si divertiva a sentire le sue sparate colossali
in
fatto di politica e finanze.
Quando
tutti furono arrivati e quando anche l’ultimo componente
dell’arma, un certo
Capitano Smoker, li deliziò della sua presenza che puzzava
di fumo, l’assemblea
ebbe inizio.
Inutile
dire che l’argomento principale riguardava
l’imminente Riunione degli Stati
Generali che sarebbe avvenuta all’inizio di maggio che,
ormai, era alle porte.
-Dobbiamo
tenerci pronti a qualsiasi evenienza.- stava dicendo un ministro di
qualcosa. -Non
sappiamo cosa corra nelle menti di quegli straccioni, quindi propongo
di
aumentare la vigilanza attorno al Palazzo.-
Un
brusio di assenso corse per tutta la sala, accolto con un cenno del
capo dai
sette mercenari ingaggiati per l’occasione. Ovviamente, loro
avrebbero dovuto
scortare Sua Maestà ovunque, promettendo di servirlo e
proteggerlo anche a
costo della vita.
Doflamingo
accavallò le gambe e si abbandonò allo schienale
della sedia. Se credevano che
avrebbe buttato via la sua esistenza per una persona insignificante, si
sbagliavano di grosso. Se avesse potuto, avrebbe fatto fuori lui un
po’ di
persone inutili in quel luogo a partire proprio da tizio con la corona
e la
parrucca incipriata. Era anche pronto a scommettere che il suo pensiero
era ben
condiviso da Moria e da Sir Crocodile accanto a lui. Chissà,
magari, se avesse
esposto loro il suo piano, avrebbe incontrato degli alleati.
-Prego,
Capitano, avete qualcosa da esporre?-
Tutti
si voltarono verso la porta dove, in piedi e in formazione di riposo,
stavano
un paio di soldati e il loro comandante, un uomo abbastanza giovane, ma
con la
sfacciataggine di fumare un sigaro in una situazione come quella. A
Doflamingo
stette subito simpatico per quella lieve impudenza.
-Se
serriamo i ranghi attorno alla Reggia, il popolo capirà che
non ci fidiamo di
loro.- spiegò con calma, ma saccente, cercando di far
intendere a tutti
l’ovvietà della cosa.
-E
come potrebbero? Sono degli animali!-
Jinbe
roteò gli occhi al cielo, restandosene comunque in silenzio
e avvertendo
l’irrigidirsi della postura di Mihawk, seduto vicino a lui.
Un’uscita del genere
poteva venire solo da un Sovrano disinteressato dei problemi della
nazione.
-Sua
Maestà ha ragione.-
Chissà
a quanto ammonta la cifra della
corruzione dei ministri da queste parti, pensò
Crocodile, osservando la scena con aria critica e
notando il perenne ghigno sulla faccia di Doflamingo ingrandirsi.
-Me
ne rendo conto.- continuò Smoker, stringendo i denti e
faticando per portare
pazienza, -Non dico di non proteggere i Reali, ma di movimentare
più ufficiali
anche in periferia, così da non creare troppe differenze.-
L’idea
sembrò essere accolta bene, tanto che venne trascritta per
essere presa in
considerazione al momento opportuno.
Per
le restanti due ore, l’incontro si svolse normalmente e
l’attenzione fu presto
sviata dal punto cruciale a cose di poco conto come nuove costruzioni,
avvenimenti e feste di vario tipo. Era chiaro a tutti che non importava
a
nessuno del pericolo che la Francia stava correndo, diventando un
facile
bersaglio per le potenze esterne a causa di quella rottura tra popolo e
monarchia.
Di
certo, Doflamingo non aveva intenzione di far notare la cosa e, una
volta
terminata la riunione, fu il primo ad uscire dalla stanza annoiato come
non
mai.
Fortuna
volle che, voltandosi indietro, notò come Boa Hancock lo
stesse osservando
quasi con astio e la giornata prese immediatamente un’altra
piega.
Sorrise,
pensando al modo migliore per avvicinarla, riflettendo che, dopotutto,
se
l’avesse invitata a cena non sarebbe stato così
male. Almeno si sarebbe
divertito.
Angolo
Autrice.
Buona
domenica mattina! Da me piove, LOL.
Sembra
una routine, ormai, per primo viene il saluto e subito dopo le scuse.
Yep,
ancora mi scuso per il ritardo, soprattutto perché il
capitolo era già pronto e
ricontrollato, ma la verità è che non so mai cosa
mi possa capitare il sabato.
A volte, se non riesco a pubblicare in pausa pranzo, spero di avere
libera la
sera, invece figuriamoci! Il lavoro mi occupa parecchio tempo e, quando
ho dei
momenti liberi che coincidono magari con quelli di altre persone ecco
che
automaticamente il tempo si riduce perché ho una vita da
portare avanti,
sperando di non mandarla a rotoli.
Ditemi
una cosa, sono l’unica che crede di vivere in una bolla
personale dove tutto è
in ordine e, se qualcosa si scompone, la bolla scoppia? No,
perché io mi sento
così. Forse mi serve uno psicologo. Ad ogni modo, scusatemi
ancora.
Ma
veniamo a noi!
Perona
e Mihawk ormai li sto trattando come la mia coppia preferita e non va
bene!
Dovevano esserci Sabo e Koala al loro posto, insomma, di loro non ho
ancora
niente di romantico fatto D: ma proprio niente! Persino Bonney ha la
sua
occasione già scritta, fatta e pronta! Cioè, che
diamine! Pure Doffy sembra
aver trovato qualcuna che gliela da con cui
intrattenersi, ma andiamo
con calma.
Mhm,
l’ultima frase è un po’ volgare, la
sistemo meglio. Ecco.
Insomma,
il fatto è che rotolo ogni volta che penso alla principessa
disagiata e al
poveraccio di turno che arriva e la salva. Ovviamente
renderò difficile la loro
vita, ma, dai, sono così carini **
Mentre
Sanji è tutto scombussolato, e va bene così, ci
sta che qualcuno si roda il
fegato, perché Zoro è un selvaggio, un animale, e
pensa se qualcuno scoprisse
la loro relazione, OMG! Non sa cosa fare, è disperato, e-
oh, ma veni qua,
povera anima ;___________;
Intervento
di Usopp con un tempismo perfetto, direi u.u
Arriviamo
poi a Thatch. Allora, io lo adoro. E’ sempre visto pieno di
energie, sciupa
femmine, simpatico e tenerone. E’ perfetto, ma è
un idiota, punto. Finalmente,
anche Haruta l’ha capito. Loro due non so ancora come
organizzarli, ma qualcosa
mi verrà in mente.
Arriviamo
a Doffy.
Chi
segue le uscite settimanali del manga? Io so e, non per fare spoiler,
ma Doffy
è davvero un gran bastardo, ma anche, a detta mia, uno dei
migliori cattivi di
sempre. Insomma, è fantastico nel suo ruolo, mi piace da
matti, per non parlare
delle ff dove è descritto con ironia o come capo famiglia
amorevole e isterico.
Penso che ci sia molto su cui lavorare con un personaggio del genere.
Ed ecco
che io prendo lui, gli affianco Boa Hancock e ci faccio uscire la
scintilla! Se
si tratti d’amore o se sia un passatempo lo vedremo, ad ogni
modo mi piaceva il
ricco spilungone con lei che fa la preziosa.
Adesso
che me lo chiedo, che fine hanno fatto Kidd e Law? Si, insomma, mi sono
resa
conto che devo tirarli fuori e mandare avanti la baracca
perché tra poco c’è la
presa della Bastiglia, mlmlml ^^
Gente,
per oggi è tutto. Se sono brava spero di riuscire a
regalarvi il prossimo
capitolo in anticipo, giusto per farmi perdonare.
Grazie
come sempre a tutti e anche alle ragazze che mi lasciando quelle
recensioni
tanto carine alle quali io non rispondo -.- mi dispiace, sul serio,
magari un
giorno riuscirò a mettermi in pari.
…
Ma
non è questo il giorno! Cit.
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Well,
see ya,
Ace.
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Capitolo 10 *** Dix. ***
Liberté,
Égalité, Fraternité.
Dix.
L’ultima
convocazione degli Stati Generali
era
avvenuta nel lontano 1614 e da allora la società francese
era considerevolmente
cambiata. Il Primo e il Secondo Stato, ovvero Clero, Nobiltà
di alto ceto e
borghesia, rappresentavano solo una minuscola parte della popolazione,
di
conseguenza il Terzo Stato, il quale racchiudeva in sé ogni
cittadino francese
non nobile e non ecclesiastico, dalla borghesia ai braccianti feudali,
era in
netta maggioranza.
Quell’assemblea
prevedeva la riunione di tutti e tre gli ordini in camere separate
nelle quali
si sarebbero trovati a discutere e ad emettere una votazione. Riguardo
a ciò,
il voto della Nobiltà e del Clero, molto spesso, coincideva,
perciò il Terzo
Stato poteva essere messo in minoranza con facilità. Ad ogni
modo, i cittadini
accolsero l’imminente riunione degli Stati Generali come
un’opportunità per
dare una svolta alla loro critica situazione e condizione sociale: i
contadini
pregavano per l’abbandono dei diritti feudali, mentre una
parte della borghesia
che assecondava i principi della Rivoluzione, credeva nella possibile
instaurazione di una monarchia parlamentare e non assoluta, ispirata a
quella
inglese.
Anche
se la prospettiva dava l’idea di essere ad un punto di
svolta, i Rivoluzionari
avevano imparato a loro spese che non ci si poteva mai fidare molto di
quelli
che vantavano il diritto di comando, per quel motivo, la notte del 4
maggio, il
giorno prima della data stabilita per l’assemblea, si erano
ritrovati tutti,
dal primo all’ultimo, alla Corte dei Miracoli, sotto al tetro
cimitero incolto
e poco curato.
L’enorme
tavolo era al completo come la sala e molti si erano adattati a stare
in piedi
a braccia conserte, stretti lungo le pareti del sottosuolo non
più freddo e
buio, ma illuminato da torce e candelabri che avevano reso
l’ambiente un forno.
Alcuni, addirittura, si erano arrampicati sulle travi che sorreggevano
il
soffitto e osservavano la scena dall’alto, dondolando le
gambe all’aria e
lasciando gocciolare dalle bottiglie, di tanto in tanto, qualche goccia
di poiré o di vino
bianco dell’Alsazia.
Davanti
a loro, al centro dell’attenzione, si stava svolgendo un
intricato e serio
dibattito sulle richieste da presentare a favore del popolo, pensando e
ragionando sui pro e i contro di ogni proposta.
A
capotavola, su una sedia in legno di buona fattura e con la testa
appoggiata ad
una mano, mentre con l’altra era intento a grattarsi la barba
ispida, troppo
lunga per i suoi gusti, stava seduto Shanks il Rosso, il quale stava
arrivando
al limite della sopportazione perché, alla sua destra, Kaido
stava complicando
un po’ troppo le cose con le sue domande e i suoi sospetti
verso il nuovo
membro degli Imperatori.
Alla
sua sinistra, il diretto interessato pareva divertirsi un mondo e
ascoltava le
frecciatine del borghese con aria sfacciata e allegra, come se non gli
importasse di non essere creduto e di non avere la completa fiducia dei
parigini.
Infatti,
Barbabianca era tranquillissimo. Con sé aveva i suoi uomini
migliori e,
esattamente alle sue spalle, sentiva la fissa presenza dei suoi figli,
Marco e
Thatch, entrambi attenti e concentrati sulla riunione, armati fino ai
denti e
con pistole e pugnali in ogni tasca degli abiti. Osservavano la scena,
sondando
con gli occhi ogni movimento e prevedendo ogni minaccia, quasi come
degli
avvoltoi, seguendo nello stesso momento il filo del discorso. Per la
mente non
avevano altri pensieri oltre la riunione, nemmeno Thatch, il quale, di
problemi
con cui intrattenersi, ne aveva fin troppi, ma li aveva comunque
accantonati
per bene. Alcuni uomini vicino a loro gli gettavano qualche occhiata
diffidente, non intenzionati però ad attaccar briga, date le
espressioni truci
e di ghiaccio che sfoggiavano.
Accanto
a Kaido, Big Mom ascoltava e, di tanto in tanto, annuiva convinta o
negava con
il capo, dando qualche dritta alle varie proposte e correggendole dove
sembravano ambigue o incomplete. Comunque, era certamente la
più calma e la
meno impicciona.
Shanks,
invece, continuava ad avere l’aria stanca e stressata, ma,
fortunatamente,
aveva con sé Benn, Yasop e altri suoi compagni pronti a
sostenerlo e a
passargli bicchieri di alcool ogni volta che ne aveva bisogno.
Allo
spettacolo, oltre che ad un alto numero di volontari, erano presenti
anche Ace
e Sabo, i quali erano a capo di un gruppetto di giovanotti pronti ad
entrare in
azione in ogni momento. I due erano sempre stati bravi ad incitare e
animare la
folla, sapevano dare un motivo valido a chiunque per spronare la gente
a credere
nei propri diritti, per quello, quando avevano ricevuto
l’incarico da Shanks
nell’arruolare nei ranghi gente con degli obbiettivi da
portare a termine,
nessuno aveva avuto nulla da ridire.
Sabo
seguiva la discussione con concentrazione. Era sempre stato un tipo
molto
carismatico e propenso al dialogo e, se fosse nato nobile,
probabilmente non
avrebbe faticato a diventare un politico o un ministro. Grazie al
Cielo, come
diceva sempre lui, ciò non era accaduto e poteva vivere
tranquillo e in pace
con se stesso.
Teneva
gli occhi fissi sul pezzo di carta che riassumeva ogni punto importante
della
riunione e nel frattempo formulava varie ipotesi o possibili richieste
da
esporre. Le labbra serrate, i capelli scostati dalla fronte e le
maniche della
camicia arrotolate sui gomiti per il troppo caldo. Niente lo
interessava più di
quella causa.
Ace,
al contrario, aveva seguito il chiacchiericcio fino ad un certo punto,
poi si
era inevitabilmente perso per strada. Aveva sempre preferito i fatti
alle
parole e, sebbene capisse che tutto ciò fosse necessario, si
stava annoiando a
morte, oltre che ad avere un forte prurito alle mani.
Si,
perché, da quando avevano discusso, tra lui e Marco le cose
erano crollate e,
se prima, antipatia a parte, c’era stato una lieve
capacità di sopportarsi,
dopo il casino successo nel locale di Dadan, i rapporti si erano
spezzati
definitivamente. Quando aveva rimesso piede all’accampamento,
dopo che Sabo gli
aveva riferito che Thatch non gli faceva nessuna colpa e lo riteneva un
amico,
il biondo si era comportato come se lui non esistesse. Gli aveva fatto
intendere con un’occhiata micidiale che la sua presenza era
indifferente e da
allora non si erano più parlati, nemmeno per maledirsi o
minacciarsi.
A lui
andava benissimo, almeno non doveva sprecare fiato con un idiota,
però la
questione gli faceva fremere ogni fibra del corpo, non sopportava
l’idea di non
aver avuto l’ultima parola in capitolo perché
Marco doveva sempre essere
superiore a lui. Odiava vederlo così calmo e padrone di se
stesso e sapere che
a lui non interessava proprio niente di quello che aveva da dirgli lo
mandava
in bestia. Gli aveva praticamente sbattuto la porta in faccia dopo
averlo
minacciato e si comportava come se nulla fosse accaduto. Non aveva
neanche più
ricevuto uno sguardo torvo, un insulto, niente. Era diventato
invisibile.
Nemmeno quella sera, quando erano arrivati, non aveva fatto nessun
cenno verso
di lui. Thatch e gli altri lo avevano salutato come al solito,
trattandolo come
un loro pari, come uno di famiglia praticamente, anche se si sentiva
strano a
pensarci, invece Marco era rimasto apatico e impassibile. Si era solo
scomodato
a salutare Sabo e forse Shanks, perché, sotto, sotto, lo
rispettava e si fidava
un po’ di lui, poi nient’altro.
Lo
odiava e detestava il fatto di perdere tempo pensando a quel bastardo
che,
oltretutto, non si sprecava nemmeno a fingere che la causa francese gli
interessasse. Ne era certo, per lui potevano morire tutti.
Sbuffando
infastidito, anche per il discorso che Sabo pareva essersi dimenticato
di lui,
si alzò dalla sedia e prese a camminare, seppur lentamente
perché era pieno di
gente, li attorno, decidendo infine, quando il caldo era diventato
insopportabile, di uscire all’aperto, magari per dare il
cambio a qualcuno che
stava di guardia. Tanto era certo che si sarebbero arrangiati anche
senza di
lui. Alla fine, quello che gli premeva, era avere un piano
d’azione da seguire
e da mettere in pratica perché, di starsene senza niente da
fare era veramente
stanco.
Sabo,
infatti, non si rese neanche conto dell’assenza del fratello,
e continuò ad
ascoltare con attenzione il dibattito tra gli Imperatori.
-Dovremo
essere molto più convincenti di così.- stava
affermando Shanks, spossato. Di
quel passo non sarebbero arrivati da nessuna parte.
-Con
il voto per testa non avremo nessun problema.- decretò Kaido
con un cipiglio
serio e impenetrabile.
Shanks
sorrise beffardo e per niente sollevato. -Ti ricordo che il Re ha
acconsentito
a raddoppiare i deputati del Terzo Stato, ma riguardo il voto non si
è
espresso.-
Kaido
rimase in silenzio per qualche secondo prima di ribattere, un
po’ meno convinto
delle sue stesse parole. -Non potrà negarcelo, si metterebbe
nei guai da solo.-
Eppure,
Shanks non era così sicuro che tutto sarebbe stato facile.
Da anni stavano
lottando per dei cambiamenti e non avevano mai risolto
granché. Sperava solo
che tutti quegli sforzi, un giorno, sarebbero seguiti a qualcosa.
-In
ogni caso, domani vedremo come si evolverà la situazione e
decideremo il da
farsi. Speriamo solo che si parli di questioni inerenti ai problemi
sociali e
non solo finanziari.- disse Big Mom, chiudendo la questione e
ricordando a
tutti che, ormai, era notte inoltrata e l’ora dei conti si
avvicinava sempre
più.
-D’accordo.-
sospirò il Rosso, passandosi una mano tra i capelli per
ravvivarli e togliersi
di dosso il torpore che sentiva su tutto il corpo. Quella riunione era
stata
asfissiante. -Dobbiamo solo decidere chi si presenterà
domani a Versailles.-
Nella
sala corse un brusio concitato, ma nessuno osò esprimersi in
merito.
-Ovviamente
noi non possiamo esporci troppo, altrimenti addio copertura e
informazioni sui
movimenti della Corona.- chiarì Kaido, rendendo subito noto
che lui non avrebbe
rischiato, compresa la donna accanto a lui.
Shanks
se l’era aspettato, ma non aveva niente da ridire, dopotutto
le informazioni
che i due nobili gli passavano erano molto specifiche e troppo preziose
per
gettarle al vento, chiedendo ai due amici di mettersi in prima fila per
sostenere la causa. Sarebbe andato lui, ma girava già voce
che lo stessero cercando
e meno si faceva vedere in giro, meglio era. Doveva quindi affidare
l’incarico
a qualcun altro, purtroppo.
-Manda
me.- fece ad un tratto una voce decisa alle sue spalle che lo fece
sorridere
orgoglioso. Quel ragazzo era davvero imprevedibile, a volte, ma andava
fiero
del suo comportamento sempre disponibile a tutto, pronto a prendersi
sulle
spalle ogni responsabilità, nonostante
l’età giovanissima.
-Sabo,-
disse in modo paterno, voltandosi verso di lui e leggendo nei suoi
occhi la
determinazione e la voglia di mettersi in gioco. -Ne abbiamo
già parlato.-
-Ma
posso farcela, lo sai!- si animò il biondo, facendosi largo
fino al tavolo
sotto lo sguardo di tutti, -Conosco la legge, i vari mandati, tutto.
Sicuramente sarei utile per…-
-Sabo.-
ripeté Shanks con più vigore, facendosi serio e
alzando una mano per mettere
fine a quella richiesta troppo avventata. -Apprezzo il gesto, ma basta
così.-
Lo
vide sospirare per poi allontanarsi senza dire altro, deluso per non
essere
riuscito a fare di meglio. Capiva che era giovane e che era presto per
essere
preso in considerazione, ma se mai cominciava, mai avrebbe imparato,
accidenti.
Stringendo
i pugni a recuperando la sua giacca, raggiunse l’uscita,
lasciando che
decidessero da soli il da farsi, visto che la sua presenza non era
più
richiesta.
All’aperto,
una folata di vento fresco notturno gli servì per schiarirsi
le idee e per
risollevarsi d’animo, decidendo che, molto presto, avrebbe
dimostrato a tutti
quanto valeva e quanto era bravo. Sapeva di esserne in grado, doveva
solo
pazientare.
-Sentiamo,
hai finito di fare il sapientone?- lo schernì una voce
ironica che riconobbe
all’istante e che gli accese una scintilla
all’interno. Ace era sempre stato
capace di risvegliare la sua vena sarcastica e ogni scusa era buona per
punzecchiarsi a vicenda, sebbene con affetto.
-Almeno
io ci capisco qualcosa in fatto di politica.- lo derise, voltandosi a
sinistra
e trovando il fratello appollaiato su un mausoleo che aveva visto
giorni
migliori. -A proposito, lo sai che stai profanando una tomba?- gli
chiese poi,
riferendosi al fatto che Ace fosse stravaccato comodamente sul marmo.
Il
moro fece spallucce, sollevando il busto e appoggiandosi sui gomiti.
-Morto per
morto.- disse, inclinando il capo e guardandolo con un sopracciglio
inarcato e
un sorrisetto sfacciato. Quello era lo sguardo enigmatico di Ace che
Sabo non
riusciva mai a decifrare. Sapeva solo che, quando appariva su quel viso
lentigginoso, era sinonimo di guai in arrivo.
-Quindi?
Cosa hanno deciso di fare?- gli domandò invece, cogliendolo
impreparato e
lasciando da parte le sciocchezze che aveva avuto intenzione di dire.
Sabo
allora sospirò con aria sconfortata, raggiungendolo e
sedendosi ai piedi della
lapide, prendendosi la testa fra le mani e iniziando a borbottare una
risposta.
-Non mi lasceranno fare le veci di Shanks.- confessò
abbattuto. -Sono troppo
giovane per loro. E inesperto. Seriamente, Ace, ti sembro un citrullo,
per
caso?- chiese, animandosi alla battuta finale e sollevando il capo
verso l’alto
per incontrare gli occhi neri del fratello fissi su di lui. -Sono
preparato, ho
studiato tutto ciò che riguarda la situazione economica e
politica della
Francia, conosco a memoria ogni sfaccettatura dei doveri che riguardano
Clero,
Nobiltà e Popolo e so quali sono i punti ambigui su cui
possiamo fare leva.-
affermò con furore, scattando in piedi e prendendo a
camminare nervosamente li
attorno, gesticolando con le mani. -Perché ancora non basta?
Io sono in grado
di farlo, dannazione!- sbottò, fermandosi e battendo un
piede a terra.
-Secondo
me, Shanks non vuole farti bruciare le tappe.- ipotizzò a
quel punto Ace,
rilassandosi contro la pietra fredda della tomba, prendendo a
giocherellare con
un rametto secco di una composizione floreale appassita. -E forse non
ha tutti
i torti.-
-Si
può sapere da che parte stai?- gli chiese acidamente Sabo,
assottigliando lo
sguardo e osservandolo mentre sospirava prima di saltare giù
con agilità per
avvicinarsi fino ad essere faccia a faccia con lui. Poi gli sorrise
allegramente, posandogli una mano sulla spalla e stringendola
impercettibilmente per fargli capire che non era da solo in quella
storia.
-Dalla
tua, è ovvio.- gli spiegò, -E sono certo che
molto presto avrai la tua
occasione per dimostrare a tutti quanto vali. Io lo so, fratello.-
Il
petto di Sabo parve contorcersi al suono di quelle parole. Se doveva
essere
sincero, l’unico ad avere un animo valoroso era Ace. Lui era
sempre così
coraggioso e privo di paure. Se una cosa si faceva complicata non si
fermava a
chiedersi come e perché, ma andava avanti con i suoi
propositi, anche a costo
di sbattere la testa mille volte prima di raggiungere i suoi
obbiettivi. A
molti poteva sembrare impulsivo e troppo incauto, ma Sabo, che lo
conosceva da
sempre, sapeva che il ragazzo altro non era che un eroe. Il suo, quello
di Rufy
e di molti altri giovanotti adolescenti che lo prendevano come esempio,
desiderosi di diventare come lui, un giorno. Ace era quello e molto di
più. Era
parte della sua vita e della sua famiglia, era suo fratello per scelta
e, anche
se non avevano alcun legame di sangue, gli voleva un bene infinito.
Poteva
contare su di lui, sempre, perché Ace lo sosteneva in ogni
momento e lo
trattava come se fosse stato lui il migliore. Ma a Sabo non interessava
essere
superiore a nessuno. Tra lui e i suoi fratelli non c’era
nessun tipo di invidia
o contrasto, erano alla pari. E lui li amava entrambi in un modo
difficile da
spiegare. Sapeva solo che erano importanti e che per niente al mondo
avrebbe voluto
perderli.
-Ti
ringrazio.- fece, già più tranquillo e sollevato,
coprendo con la sua mano
quella di Ace e sorridendogli di rimando.
-Forza,
torniamocene a casa adesso. Ho proprio sonno.-
-Si,
domani sarà una lunga giornata.- concordò il
biondo, avviandosi verso l’uscita
del cimitero con Ace al suo fianco, allegro e spensierato come sempre.
-Ehi,
cosa ne dici se chiedessi a Law di aiutarmi a fare degli
spaventapasseri
dissotterrando i nostri amici sotto le tombe?- domandò ad un
tratto il moro,
guardandosi attorno con curiosità, riflettendo se la cosa
potesse essere
fattibile o meno.
-Insomma,
Ace! Un po’ di rispetto per i morti!- lo riprese Sabo,
dandogli uno
scappellotto sulla nuca e facendolo ridacchiare. -Di questo passo,
quando
entrerai in chiesa l’acqua santa inizierà a
bollire, poco ma sicuro!-
*
Guardò
la ragazza prendere un respiro profondo, mentre cercava dentro di
sé la
concentrazione e la calma necessaria per compiere quel passo difficile
e che
richiedeva un enorme capacità di equilibrio, oltre che a una
vasta esperienza
alle spalle. Lui non ne era sprovvisto, affatto, ma, anche se lei aveva
iniziato ad allenarsi seriamente da più di un mese, aveva
comunque fatto grossi
progressi.
Rimase
al limitare della stanza, rasente la parete per lasciarle
più spazio,
osservando se le braccia erano abbastanza rilassate e se le spalle
erano dritte
e non gobbe; cercava con lo sguardo il minimo difetto per riprenderla e
per
spronarla a migliorarsi. Non erano ammessi errori, doveva essere
perfetta quando
combatteva. Quella della spada era un’arte che non aveva
nulla da invidiare
alla pittura, alla danza, al canto e a tutte quelle doti che spesso le
persone
si vantavano di avere. Era un qualcosa che pochi erano in grado di fare
con
eleganza, per quello si era rivelato un insegnante pignolo e poco
propenso ad
elargire complimenti e incitazioni.
Il
cuore non aumentò il suo ritmo quando Perona mosse il primo
passo di quella
danza, avanzando leggera, con la mente sgombera da ogni cosa,
concentrata solo
nel compiere al meglio i movimenti. Non trattenne il fiato, Mihawk,
quando il
primo fendente, caricato da una precedente piroetta, tagliò
l’aria, portando
l’eco del fruscio con sé e non sgranò
gli occhi quando, dopo altre due
giravolte, la principessa abbatté il suo colpo su di un
manichino, tranciandolo
da una spalla fino al petto. L’unica cosa che fece, fu
rimanere immobile e in
silenzio, sempre con il suo cipiglio serio e per niente toccato. Dentro
di sé,
però, una piccola fiammella di orgoglio si accese,
rendendolo quasi fiero
dell’ottimo lavoro svolto dalla ragazza. Non poteva negare
che non ci avesse
messo l’anima in quei giorni passati a tirare di scherma,
cadendo mille volte a
terra e rialzandosi sempre, incassando i suoi colpi e uscendone spesso
con
lividi che poi doveva nascondere sotto le gonne e i merletti per non
destare sospetti.
Era stata brava, quello poteva concederglielo.
Perona,
ancora incredula per essere riuscita a compiere quel movimento che
tante volte
aveva sognato di fare, lasciò cadere a terra la spada dopo
aver osservato il
suo operato e i brandelli del manichino ai suoi piedi, voltandosi verso
lo
spadaccino con l’ombra di un sorriso sul volto che pareva
diventare sempre più
ampio ogni secondo che passava. Non fece caso all’espressione
immutata
dell’uomo che la guardava come se fosse impazzita, non si
preoccupò nemmeno di
contenersi ed esplose in un urlo di gioia, saltellando sul posto e
stringendo i
pugni al petto, sentendosi fiera di sé. Ci era riuscita,
aveva imparato un
sacco di attacchi e quello che più le premeva in pochissimo
tempo. Aveva
sputato sangue per farcela, ma alla fine ne era valsa la pena.
Con
la coda dell’occhio intravide Mihawk scuotere il capo,
silenzioso. Lui stava
pensando che esaltarsi fosse inutile, dopotutto aveva imparato un
affondo di
secondo livello, non chissà che cosa, ma per la ragazzina
quello era un
traguardo importante. Finalmente aveva fatto qualcosa unicamente per
lei,
deciso da lei e voluto solo da lei, senza costrizioni o obblighi. E la
cosa la
faceva sentire incredibilmente bene, tanto che si sentiva allegra come
non lo
era da tempo.
E,
conscia che parte di quel benessere lo doveva solo a lui, mise da parte
le
regole che decretavano il comportamento di una principessa di alto
lignaggio e
lo raggiunse, fermandosi a pochi passi e regalandogli un sorriso solare
ed
entusiasta che, per un mero istante, lo spiazzò.
Perona
non aveva mai sorriso in quel modo, anzi, forse non aveva proprio mai
sorriso
veramente, come una persona felice e tranquilla. Era sempre stata
distaccata,
circospetta e anche un po’ altezzosa, all’inizio,
ma da quando aveva preso ad
allenarla, si era aperta sempre di più, mostrandogli senza
rendersene conto la
sua vera personalità, quella di una ragazza determinata,
forte, un po’ cocciuta
e desiderosa di vivere pienamente la vita, senza sbarre che la
tenessero
imprigionata in una stanza, a guardare lo scorrere del tempo da una
finestra.
-Vi
ringrazio immensamente.- disse Perona, distogliendolo dai suoi pensieri
e porgendogli
educatamente la mano. -Avete fatto così tanto per me.-
Mihawk,
non preparato a tutti quei ringraziamenti, si prese un momento per
riflettere,
portandosi nel frattempo alle labbra le nocche della ragazza per
depositarvi un
leggero bacio, come dettavano le usanze dell’epoca. Un gesto
di rispetto e per
nulla esagerato, qualcosa che aveva fatto mille volte, ma che mai gli
aveva
lasciato dentro la voglia di continuare, così come a Perona
mai aveva fatto
venire i brividi sulla schiena.
Ruppe
subito il contatto, schiarendosi la voce. -Non ringraziatemi,
Principessa.-
-Ma
non eravate costretto.- affermò lei, torturandosi le dita e
sfiorandosi
inconsapevolmente il dorso della mano che le pareva rovente. -Come
posso
sdebitarmi con voi?-
Mihawk
non rispose. Non sapeva cosa dire e, sinceramente, non capiva nemmeno
cosa
dovesse fare in particolare in una circostanza come quella. Insomma,
una
principessa, e non una qualsiasi, ma la Principessa della Francia, gli
stava
dicendo che era in debito con lui, un mercenario, un uomo che della
legge se ne
curava poco e che pensava solo al benessere suo e di quello della gente
che
stava alle sue dipendenze a casa, nella sua terra, dove sperava che la
guerra
non arrivasse mai. Poteva chiederle di tutto, dal denaro alla fama, ma
non gli
importava nulla di ciò. Non gli serviva niente. Aveva
ricchezze, terreni, un
buon nome e una vita tranquilla, perciò cosa poteva mai
offrirgli che lui già
non possedesse?
-Ditemi,
posso darvi qualsiasi cosa.- riprovò lei, schiudendo le
labbra e incurvandole
per dare forma ad un altro piccolo sorriso, sperando di convincerlo, e
lo fece
in un modo così innocente e carico di aspettative che Mihawk
per un attimo si
sentì vacillare. Forse fu per la sincerità della
richiesta, forse fu l’attimo
in cui i suoi occhi vacillarono sulla bocca della ragazza, in ogni caso
si
ritrovò a rispondere a quella domanda senza nemmeno
rendersene conto.
-Datemi
del tu.- disse pacato, nascondendo
alla perfezione il momento di sbandamento che lo aveva colto, -Ormai
penso che
non sia un problema dopo tutti gli allenamenti passati.-
Perona
sbatté le palpebre con stupore, fissandolo incredula. -Sul
serio? Solamente
questo?- domandò nuovamente. Le sembrava così
assurdo che non le chiedesse oro,
gioielli, informazioni sulle finanze e sullo stato, insomma, qualcosa
di
materiale.
-E
cos’altro dovrei volere?- fece allora Mihawk, inclinando il
capo e
avvicinandosi di un passo, coprendo le distanze che li separavano.
-Non
saprei.- esclamò lei, sentendosi vagamente in imbarazzo.
Credeva di essersi
abituata alla sua vicinanza, dato che durante gli scontri si ritrovava
spesso
in un angolo con lui addosso e una lama affilata puntata alla gola, ma,
evidentemente, si era sbagliata.
Sospirò,
cercando di indietreggiare, ma non ci riuscì
perché sentì la mano di Mihawk afferrarle
gentilmente un polso senza alcuna pretesa. Le venne la pelle
d’oca e incrociò
il suo sguardo, sentendosi quasi con le spalle al muro. Gli occhi di
lui la
guardavano con una luce strana che non aveva mai notato e non le
parevano più
tanto minacciosi come la prima volta che li aveva visti. A dire la
verità, le
piacevano.
-In
ogni caso, non potreste darmi quello che desidero, Principessa.- lo
sentì
mormorare.
Perona
smise di respirare, ghiacciata sul posto. Lui continuava a guardarla
intensamente e si era fatto ancora più vicino, troppo forse,
ma non riusciva a
provare disagio. Non si sentiva male come quando presenziava alle feste
che
venivano organizzate a Corte, dove tutte le persone la circondavano e
le
toglievano l’aria. Non si sentiva stretta.
-E che
cosa vuoi?- gli domandò in un sussurro, dandogli
inconsciamente del tu, come le
aveva chiesto.
Si
sentiva strana, con le gambe molli e il cuore che batteva
più velocemente del
normale. Forse era l’effetto dell’allenamento, o la
felicità per essere riuscita
dove spesso aveva fallito, ma smise di pensarci perché non
le importava trovare
una definizione a quel suo stato d’animo. Nulla era
importante con Mihawk così
dannatamente vicino.
Lo
spadaccino indugiò un secondo sulle sue labbra, ma alla fine
sospirò,
solleticandole la pelle del viso e lasciando andare la presa,
allontanandosi
lui stesso e lasciando che i polmoni della principessa si riempissero
nuovamente di ossigeno.
-Che
la rivolta finisca presto così da poter tornare a casa, ma
so che è impossibile.-
rispose, lasciando Perona allibita e senza parole.
Lei,
allora, lasciò uscire l’aria che aveva trattenuto,
ricomponendosi e cercando di
darsi un contegno, facendo sparire il rossore che sicuramente le era
salito
alle guance, sistemandosi con imbarazzo una ciocca di capelli rosa. Non
le
sfuggì, però, il sorrisetto beffardo di Mihawk,
il quale si allontanò con finta
indifferenza, diretto a recuperare il suo mantello che, come sempre,
aveva
messo da parte durante il combattimento.
C’era
stato un momento in cui aveva quasi ceduto all’istinto, ma si
era trattato solo
di un istante fortunatamente controllato e passato. Non poteva
permettersi tali
confidenze e, soprattutto, non avrebbe mai potuto chiedere alla
principessa,
una mocciosa per giunta, quello che gli era passato per la testa come
un
fulmine. Non era contemplato a quei tempi e non era certo che il Re lo
avesse
tenuto ancora nelle sue simpatie se avesse saputo che aveva iniziato a
corteggiare sua figlia.
Sorrise,
abbottonandosi i polsini della camicia che aveva arrotolato sui gomiti.
Sinceramente, avrebbe dato qualsiasi cosa pur di vedere la faccia del
Sovrano
davanti ad una notizia simile.
-Domani
ci vediamo?- si sentì domandare inaspettatamente, voltando
di qualche
centimetro la testa e trovando Perona in piedi accanto a lui, con le
braccia
incrociate sotto al seno e l’espressione decisa e vagamente
altezzosa. Quella
non era sparita del tutto, a quanto pareva.
-Dovremo?-
La
vide accigliarsi prima di riprendere la parola. -Perché no?-
-Avete
imparato quello che volevate, non vedo il motivo di continuare.-
dichiarò
Mihawk, afferrando il suo cappello e dirigendosi verso
l’uscita, gettandole
un’occhiata e un sorriso obliquo mentre la sorpassava. Era
stato tentato a
provocarla con una spallata e lo avrebbe fatto se non avesse temuto di
farla
finire a terra. Doveva andarci paino e ricordarsi che era pur sempre
una
mocciosa.
-Voglio
imparare di più.- affermò lei. -Voglio allenarmi
ancora.- ripeté più decisa,
quando lo vide fermarsi a metà strada. Non poteva
permettersi di fermarsi
proprio sul più bello. Da un po’ le cose stavano
migliorando, si svegliava più
contenta e col sorriso, le giornate non erano più tanto
grigie e tristi e tutto
le sembrava più bello e meno pesante da sopportare. Persino
i suoi fratellastri
le risultavano sopportabili. E poi, anche se non lo avrebbe ammesso
mai,
nemmeno a se stessa, non voleva rinunciare a quel paio d’ore
che passava in sua
compagnia ogni giorno. Erano diventate una routine, un qualcosa di
normale e
che sentiva come suo.
-Per
favore.- riprovò, mettendo da parte l’orgoglio e
abbassandosi ad essere umile
per una volta. Stava imparando così tante cose e sentiva che
ciò era utile
anche alla sua personalità. Si sentiva meno bambina e meno
antipatica verso i
servitori e la gente che la circondava. Inoltre, cosa da non
dimenticare e che
la faceva sospirare sempre più spesso, era il fatto che, con
Mihawk, si sentiva
più donna.
Lui
sospirò, chiudendo gli occhi e riprendendo a camminare,
raggiungendo l’uscita.
Solo allora si voltò a guardarla, trovandola impaziente e
speranzosa di non
ricevere un no come risposta. E chi era lui per negare un desiderio ad
una
reale?
-A
domani allora, Vostra Grazia.-
disse,
trattenendo a stento un sorriso. A tutto c’era un limite e
lui aveva anche una reputazione
da mantenere.
-Perona.-
-Come,
prego?-
-Possiamo
darci del tu.- fece lei. -Dopo
tutti
gli allenamenti, penso che non sia un problema.- lo citò,
ammiccando con fare
civettuolo. Quello, doveva ammetterlo, le riusciva alla perfezione e
l’imbarazzo
che lasciò Mihawk in silenzio per troppi secondi prima che
se ne andasse
lasciandola da sola ne fu la prova.
Sorrise
trionfante. Avere l’ultima parola la divertiva da matti.
*
Quella
sera, nel locale di Montmartre, i rumori prodotti dai musicisti, misti
a quelli
di bicchieri rotti, vetri infranti, chiacchiericcio e grasse risate si
riversava fino in strada, impedendo ai proprietari delle catapecchie
vicine di
riposare in pace.
In
mezzo al via vai di ubriaconi, gente con loschi affari tra le mani,
signore in
abiti succinti e varie risse in corso, al centro del palco si stava
esibendo
una bellissima donna dai lunghi capelli neri e dalle movenze attraenti,
leggiadra e delicata come un fiore appena sbocciato, che ammaliava
più di metà
sala, attirando su di sé sguardi meravigliati, sospiri di
cuori infranti e
desideri impossibili da esaudire.
Tutti
guardavano con la consapevolezza di non poter toccare, con il rischio
di
incappare nelle ire della proprietaria che, in quel momento, si trovava
al
bancone di servizio con Nami, intenta a contare gli spiccioli e le
banconote
ricavate dall’apertura fino a quel momento. Una regola da lei
imposta e che non
poteva venire infranta riguardava il volere e le decisioni delle sue
protette,
ovvero coloro che si risparmiavano di compiacere gli uomini non
dovevano venire
importunate o altro. Di donne disinibite e ben disposte ne erano piene
le
stanze, perciò per Dadan era inammissibile che qualche
povero idiota e balordo
pretendesse di avere anche ciò che era proibito.
Per
quello Nico Robin si sentiva libera di potersi esibire senza correre
dei
rischi, volteggiando e muovendo sensuale i fianchi, permettendosi un
piccolo
sorriso nel vedere che in molti la apprezzavano. Non lo faceva con
malizia, a
lei piaceva davvero ballare e Dadan le dava la possibilità
di poter esprimere
se stessa e la sua passione, pagandola oltretutto, dato che faceva
anche da
balia ai marmocchi, figli di nessuno, che gironzolavano sotto ai tavoli
con
l’intento di svuotare le tasche a chi era troppo ubriaco. Un
gioco che aveva
insegnato loro Nami, esperta in materia.
La
melodia arrivò al termine e lei concluse il suo spettacolo
sotto un coro di
fischi di apprezzamento, applausi e richieste di vario genere che
ignorò
bellamente, dando le spalle al pubblico dopo aver fatto un modesto
inchino e
recandosi dietro le quinte, stanca e desiderosa di fare una pausa.
Stava
ballando da ore ormai, visto e considerato che tutte le altre sue
colleghe
erano sparite al piano superiore a guadagnarsi la paga facendo il loro
lavoro,
ma nessuno avrebbe obbiettato se per una mezz’oretta se ne
sarebbe stata tranquilla.
Indossò
una camicia blu più coprente di quella che aveva addosso e
una gonna lunga che
le celava interamente le gambe snelle, uscendo poi nel salone con
l’intenzione
di nascondersi in cucina per mettere qualcosa sotto ai denti e vedere
come se
la stava cavando Bonney con le ordinazioni.
Camminò
rasente la parete con la speranza di passare inosservata ma, giusto
quando era
a pochi passi dal raggiungere il bancone, una figura vestita di nero le
si parò
di fronte, sbarrandole la strada e obbligandola a fermarsi, sollevando
il capo
per capire di chi si trattasse.
Era
un uomo alto e ben vestito, con dei capelli raccolti in una coda bassa
e il
viso ben curato, sicuramente un nobile o un borghese dati gli abiti
eleganti.
Osservandolo meglio, si rese conto di averlo già intravvisto
da quelle parti,
spesso seduto in un angolo a guardare i vari spettacoli e a scolarsi
una
bottiglia di buon vino d’annata. Non aveva mai passato la
notte da loro e mai
lo aveva visto conversare con qualcuna delle ragazze. Ad essere
sincera, la
cosa la inquietava un poco perché spesso aveva notato il suo
sguardo verso di
lei, quando ballava, ma non gli aveva dato peso in precedenza,
credendolo uno
di quelli a cui piaceva stare a guardare senza agire.
Prese
in considerazione l’opportunità di essersi
sbagliata quando lui le fece un
baciamano, presentandosi con il nome di Rob Lucci, un Duca a quanto
pareva.
-E’
da molto che vi osservo, Mademoiselle.-
le disse con un sorriso sbilenco sulle labbra sottili, -E mi domandavo
se mi
concedereste l’onore di passare del tempo in vostra
compagnia.-
Robin
rimase impassibile, abituata a certe avances e ben in grado di
declinare
l’offerta senza rischiare di ferire l’animo fin
troppo orgoglioso che avevano
certi uomini.
-Scusatemi,
Monsieur, ma non sono disponibile.-
disse, sorridendogli affabile, un gesto del tutto calcolato, -Posso
comunque
presentarvi una persona che…-
Rob
Lucci rise sommessamente, interrompendola e non lasciandole finire la
frase.
Sapeva bene che lei non era lì per fare la prostituta, ma a
lui non importava
nulla di quello che fosse disposta a fare o no e, sinceramente, se ne
infischiava anche delle regole stabilite da quella donnaccia che
dirigeva la
baracca. Lui aveva deciso che voleva avere quella donna per
sé, punto. E, con
le buone o con le cattive, se la sarebbe presa.
Le
afferrò il polso che prima aveva sfiorato con delicatezza,
attirandola verso di
sé con uno strattone e facendole male volontariamente,
abbassandosi sul suo
viso per sussurrarle quello che aveva intenzione di fare.
-Ora
tu verrai con me e mi obbedirai, chiaro?- fece sibilando, mentre Robin
cercava
di allontanarsi, picchiando un pugno sul petto dell’uomo che
pareva non
risentire dei suoi colpi.
Non
aveva nessuna intenzione di seguirlo e di sottostare a lui, lei era una
donna
forte e indipendente e, quando aveva detto che non era disponibile,
intendeva
sia per il lavoro, sia sentimentalmente.
Usando
il tacco delle sue scarpette, gli pestò un piede, riuscendo
a liberarsi dalla
sua presa e dandogli le spalle per correre via, ma non si
allontanò abbastanza
perché l’uomo riuscì a riacciuffarla,
facendola cozzare contro il suo petto e
portando una mano a stringerle la base della gola.
-Tu,
lurida sgualdrina.- disse con rabbia, alzando una mano per tirarle un
sonoro
schiaffo.
-Non
lo farei se fossi in te.- gli intimò qualcuno alle sue
spalle e, nonostante la
musica alta e il casino lì attorno, riconobbe facilmente il
rumore di un
grilletto che caricava un colpo in canna di una pistola. Solo allora si
decise
a mollare la presa su Robin, lasciando che si appoggiasse alla parete
tossendo
e riprendendo fiato. Sentì una punta di fastidio e di
gelosia quando poi la
vide sollevare il capo e guardare con quei grandi occhi azzurri la
persona alle
sue spalle. In quello sguardo vi legge benissimo la gratitudine e
l’affetto che
la legavano a quell’uomo.
Rob
Lucci sollevò le mani in segno di resa, voltandosi
lentamente per vedere chi
fosse così fortunato da avere tra le mani una donna
così magnifica e il suo
orgoglio venne ferito non appena adocchiò gli abiti
stracciati e di seconda
mano, la barba e incolta e i capelli spettinati, gli stivali bucati e
delle
lenti spesse e scure sugli occhi. Com’era possibile che un
poveraccio avesse
avuto più successo di lui? Avrebbe potuto offrirle una casa
accogliente,
denaro, prestigio, invece quella sciocca pareva essere innamorata di
quello
scarto.
-Non
lo sa che è maleducazione interrompere due persone durante
una conversazione?-
fece sfrontato, deciso a non andarsene senza prima essersi preso una
rivincita
su quella feccia.
-Se
non te ne fossi accorto, io non sono affatto un gentiluomo.- rispose a
tono
Franky, rinfoderando la pistola, ma non smettendo di fulminare con ogni
fibra
del suo corpo quel damerino che aveva osato trattare Robin in quel
modo. Come
si era permesso di alzare le mani su di lei?
-Calmati,
amico, penso che ce ne sia abbastanza per tutti e due.-
Il
Duca non aveva proprio capito che non era il caso di scherzare in
quella situazione
e battute sulla virtù di Robin avrebbe dovuto
risparmiarsele, ma non fu
abbastanza furbo e il pugno che ricevette da Franky in
quell’esatto istante lo
fece finire a terra dolorante e con il setto nasale rotto. Sicuramente,
ci
avrebbe ripensato mille volte prima di rimettere piede nei bassifondi
di
Montmartre.
Il
carpentiere gli si accovacciò accanto, togliendosi gli
occhiali per guardarlo
dritto negli occhi. -Prova a toccare ancora la mia
donna e giuro che ti uccido a suo di pugni.- lo minacciò,
tirandolo
poi in piedi con malo modo e spingendolo lontano, più
precisamente verso
l’uscita con la speranza di non rivederlo mai più.
-Franky.-
si sentì chiamare, girandosi verso la ragazza e sorridendole
contento, ignorando
la sua espressione seria. -Lo sai che non dovresti inimicarti i nobili.
Quello
potrebbe denunciarti.- lo riprese, sentendosi in dovere di metterlo in
guardia
costantemente.
Lui
non ci badò e si avvicinò fino a poterle
accarezzare dolcemente una guancia,
sollevando il pollice con l’altra mano per tranquillizzarla e
farle capire che
andava tutto bene. -So badare a me stesso.- le ricordò
ammiccando.
Robin
sospirò, scuotendo il capo, ma decidendo che era meglio
lasciare perdere e
pregare che tutto andasse bene. Così sorrise a Franky,
lasciando che la
baciasse senza scostarsi, dimentica che a Dadan la cosa non andava a
genio
perché, a detta della donna, lui non era abbastanza ricco. A
lei, però, non
importava. Lui la faceva ridere e la trattava con rispetto, senza
forzarla o
chiederle mai niente e, la prima volta che si erano incontrati, era
rimasta
colpita dal suo comportamento galante. Non l’aveva fissata
come gli altri
uomini, i quali parevano spogliarla con gli occhi, al contrario era
rimasto
affascinato dal suo talento, come le aveva rivelato successivamente,
conquistandola. Stranezze a parte, era un uomo buono che le voleva bene
davvero
e a lei bastava, era tutto ciò che potesse desiderare.
Intanto,
in cucina, Bonney stava totalmente dando di matto. Pareva che quella
sera tutti
i francesi avessero deciso di andare a svagarsi da quelle parti,
costringendola
a cucinare quantità incredibili di cibo e pietanze varie,
privandola anche
delle sue colleghe, tutte felici di andarsene a letto con degli
sconosciuti.
Sbuffò
esasperata, abbattendo in un moto di stizza un coltellaccio affilato
sul tavolo,
piantando la punta nel legno, e poggiando i palmi sul bordo, abbassando
il capo
con stanchezza. Stava raggiungendo il limite della sopportazione e,
prima di
commettere qualche disastro, decise di ricorrere al suo piano di
scorta,
prendendo dalla credenza un cartello e fissandolo poi alla porta della
cucina,
uscendo e chiudendo a chiave. Quello sarebbe servito ad avvisare tutti,
Dadan
compresa, che la cucina era chiusa per esaurimento scorte e tanti
saluti. Non
sarebbe morto nessuno di fame, in più era notte inoltrata,
perciò la maggior
parte del lavoro lo aveva svolto, ma pretendeva gli interessi per avere
sgobbato da sola tutto il tempo.
-Bonney,
che ci fai qui? Non dovresti essere in cucina?- le chiese Nami, quando
se la
ritrovò seduta al bancone come un cliente qualsiasi, con le
dita che
tamburellavano nervosamente sul ripiano e l’aria assassina.
Intuì che doveva
essere parecchio agitata, così, senza aspettare una risposta
che sarebbe
arrivata con una serie di bestemmie verso ignoti, le preparò
un bicchiere di
vino e lasciò che se lo scolasse di schiena, sospirando
sollevata quando la
vide calmarsi un poco.
Bonney
le passò di nuovo il bicchiere. -Dammene un altro.-
-Ne
sei sicura?-
Un’occhiata
torva bastò alla rossa come affermazione e le
lasciò la bottiglia direttamente,
allontanandosi per servire un paio di uomini che erano appena arrivati.
La
cuoca, rimasta sola con il suo liquore, si rigirò il vetro
scheggiato tra le
mani, mordicchiandosi le labbra pensierosa. Come aveva potuto finire in
quel
modo stancante la serata? Pareva quasi che il mondo si fosse messo
d’accordo
per farla sentire di cattivo umore.
Si
prese la testa fra le mani e tentò di isolarsi dal frastuono
che sentiva
attorno a sé, cercando di controllare il nervosismo e la
stanchezza, ripetendosi
che andava tutto bene, che aveva lavorato in maniera impeccabile e che
presto
sarebbe andata a dormire. Stava funzionando quella tecnica, le palpebre
le
sembravano già meno pesanti e lo stress si era alleggerito,
quando lo sgabello
accanto al suo strisciò sul pavimento producendo un suono
assordante che la
fece irrigidire di nuovo.
Si
voltò per lanciare fulmini e saette con lo sguardo,
desiderosa di sgozzare come
un animale l’idiota che aveva fatto quel casino, quando tutte
le sue intenzioni
crollarono alla vista del tizio che si era seduto vicino a lei.
-Una
signorina come voi non dovrebbe bere certe bevande.- le fece notare
l’uomo
appena arrivato, vestito con abiti normali, all’apparenza
stracci, con dei
capelli rossi e spettinati in varie direzioni, come se qualcuno li
avesse
arruffati di proposito, e una benda con due fessure sugli occhi che
celava
parte del suo viso.
Bonney
aggrottò la fronte infastidita da quel commento, pronta a
rispondere a tono. -E
un ufficiale come voi non dovrebbe
frequentare certi posti.- ribatté con sarcasmo, sogghignando
soddisfatta quando
vide il nuovo arrivato stringere impercettibilmente i pugni adagiati
sul
bancone, nell’attesa di ordinare da bere. Cosa credeva, che
non l’avrebbe
riconosciuto?
Lui
accennò un sorriso apatico. -Touché.-
-Non
dimentico mai una faccia.- gli spiegò allora, alzandosi e
saltando agilmente
dall’altra parte del piano bar per prendere un bicchiere e
servirlo al soldato,
ritornando poi al suo posto con la stessa agilità e
stappando la bottiglia.
Ignorò
l’espressione sorpresa presente sul viso dell’uomo
e gli versò da bere in
silenzio, lasciandolo poi alle sue riflessioni mentre sorseggiava il
suo liquore
senza più aprire bocca, anzi, buttando giù tutto
d’un fiato, guardando altrove.
Non
si era aspettata di rivederlo, anche se ci aveva inconsciamente
sperato. A
dirla tutta, da quando l’aveva visto per la prima volta, non
aveva fatto altro
che affacciarsi alla finestrella della cucina tutte le sere per
controllare se
lui ci fosse o meno, ma ora che era lì non sapeva come
interagire con lui. Cosa
avrebbe potuto dirgli? Non era brava con i discorsi, soprattutto non
sapeva
come iniziare a parlare con gli uomini, cosa molto scomoda in quel
momento. Con
le ragazze era più facile, ma con loro non sapeva mai se
fossero dei vili
bastardi o se ci si potesse fidare. Poteva fare finta che davanti a lei
ci
fosse Ace, o Sabo, oppure Zoro, ancora meglio, con lui si faceva lunghe
bevute,
ma non ci riusciva perché, se solo provava a spiare di
sottecchi
quell’individuo, si sentiva andare a fuoco le guance, ma
forse si trattava solo
del vino.
Fu
quell’ultima constatazione che le diede un’idea.
-Brindiamo?-
propose, voltandosi sullo sgabello verso di lui e sollevando il
bicchiere mezzo
vuoto, attendendo una risposta.
Lo
vide accigliarsi, ma non rifiutò. -E a cosa brindiamo?-
Lei
si strinse nelle spalle, pensandoci su per un istante. -Ai
travestimenti
falliti miseramente.- lo prese in giro, senza sapere da dove le fosse
uscita
quella trovata ironica, abbozzando un sorrisetto divertito.
L’ufficiale
non poté fare a meno di ridere sommessamente, nonostante il
suo umore fosse
pessimo.
Da un
mese a quella parte il suo lavoro era diventato maledettamente pesante
a causa
delle continue riunioni degli Stati Generali che non riuscivano a
trovare un
accordo comune, come aveva predetto lui stesso fin
dall’inizio. Il 5 di maggio,
da quello che aveva capito, il Terzo Stato aveva appreso la notizia che
la
votazione si sarebbe svolta per ordine come in
passato e non per testa, perciò il loro voto collettivo
avrebbe pesato
esattamente come quello di uno degli altri due stati.
Nobiltà e Clero, ad ogni
modo, non ne erano rimasti dispiaciuti, consapevoli che con l'utilizzo
del voto
per testa avrebbero perso più potere nei confronti del
popolo. Ad ogni modo,
anche se a lui i crucci dei cittadini interessavano poco, era certo che
a
Corte, il Re e i suoi ministri, stessero sottovalutando la situazione.
Cercare
di evitare le questioni riguardanti le rappresentanze politiche e
focalizzandosi unicamente sui problemi finanziari, tra entrate e uscite
di
denaro pubblico, era stata, a detta sua, una pessima strategia che non
aveva
fruttato nulla di buono, se non ulteriori malcontenti. A sostenere la
sua tesi,
quando il Sovrano aveva ceduto alle richieste del Terzo Stato riferite
al sistema
di votazione, l’azione era stata vista e percepita da tutti
come una
concessione forzata, estorta alla monarchia, piuttosto che una
decisione
magnanima che avrebbe, ad onor del vero, convinto il popolo delle buone
intenzioni e del cambiamento morale del Re.
Il 9
maggio,
infatti, invece di affrontare la questione finanziaria come era stato
richiesto,
i tre Stati avevano iniziato a discutere sull'organizzazione della
legislatura.
I rappresentanti dei cittadini erano stati completamente unanimi nella
decisione
del voto per testa e si erano autoproclamati rappresentanti della
Nazione. Drake
lo aveva capito bene, anche prima dei suoi colleghi, che quello altro
non era
stato che un atto rivoluzionario. Finalmente, dopo uno stallo di un
mese, le
danze erano state riaperte con un'assemblea comune per verificare e
stabilizzare i vari poteri. Infatti, il 17 di giugno, il Terzo Stato
era
diventato l'unico ordine con i poteri legalizzati e si era autodefinito
Assemblea Nazionale con l'intento di
identificare una riunione di tutto il popolo. La conclusione di quel
mese di
trattative e di vigilanza prestata nel luogo dell’incontro
per prevenire
intoppi di vario tipo era avvenuta quello stesso giorno, il 19 giugno,
quando
il Clero, grazie alla presenza di parroci sensibili ai problemi dei
contadini, aveva
votato a favore dell'unione all'Assemblea Nazionale, creando non poco
stupore e
scompiglio a Corte. Restava solo da attendere e vedere quale sarebbe
stata la
prossima mossa fatta dalla monarchia a quel punto della situazione e,
se il suo
sesto senso non si stava sbagliando, era certo che i nobili non
avrebbero
tardato a farsi avanti a spada tratta per difendere i loro diritti e le
loro
comodità.
Già
lo
immaginava il casino che avrebbe trovato l’indomani quando si
sarebbe recato a
lavoro e, se voleva essere schietto con se stesso, qualche risata non
gli
avrebbe fatto male, giovando invece alla sua salute.
-E sia.-
acconsentì allora, dopo le sue riflessioni, facendo cozzare
i calici e mandando
giù l’alcool tutto d’un fiato senza
staccare gli occhi da quelli della ragazza
che, seduta di fronte a lui, lo imitò senza battere ciglio.
Certo
che era davvero strano il suo comportamento, pareva quasi di avere a
che fare
con un giovanotto, tanto era sfacciata, ma si sentiva parecchio meglio
e, per
qualche attimo, merito del bruciore alla gola dovuto al liquore, aveva
dimenticato i suoi problemi.
Al diavolo,
pensò, per una sera posso
prendermi una pausa dal lavoro.
-E
ora?- le chiese all’improvviso, afferrando la bottiglia e
aprendola per
riempire nuovamente i bicchieri di entrambi. -A cosa brindiamo adesso?-
Bonney
lo fissò per un istante presa alla sprovvista, ma alla fine
sorrise, decidendo
di cogliere la palla al balzo e approfittare dell’occasione
per parlare con
lui, una fortuna nella quale non aveva nemmeno osato sperare, timorosa
di
rimanerne delusa. Per una volta, una sola e unica volta,
però, avrebbe potuto
lasciarsi andare e godersi il momento, stando ovviamente attenta a non
esagerare.
-All’allegria?-
propose ingenuamente, ma a lui non sembrò dispiacere quella
trovata.
-Mi
sembra giusto.- concordò, -E ‘fanculo i brutti
pensieri.-
Bonney
rise di cuore, brindando nuovamente. -‘Fanculo tutto.-
*
Era
passato più di un mese dall’inizio della Riunione
degli Stati Generali e la tensione
era palpabile nell’aria. Il clima di guerra si respirava in
ogni angolo di
Parigi e dintorni, persino nelle paludi e nelle terre vicine.
Erano
stati bravi ad evitare scontri nelle strade o rivolte impreviste in
quel lasso
di tempo e, grazie al Cielo, la loro presenza e il loro aiuto non era
stato
richiesto più di tanto. Avevano, invece, solo dovuto tenersi
pronti a qualsiasi
evenienza, ma fino a che dovevano stare in allerta andava bene, almeno
nessuno
si sarebbe fatto troppo male.
Marco
sospirò stanco, passandosi una mano sul viso assonnato e
portandosi alle labbra
la tazza piena di latte caldo che aveva retto tra le mani fino ad
allora per
scaldarle, prendendone una generosa sorsata per poi ritornare alla
posizione
precedente, ovvero lo sguardo assorto nel piccolo focolare che
scoppiettava
davanti a lui, le labbra dischiuse, le spalle rilassate e un
po’ ricurve in
avanti, le gambe piegate e leggermente divaricate di fronte a
sé.
Stava
ragionando sul da farsi, preparandosi a dover affrontare una battaglia
che si
faceva sempre più vicina mano a mano che i giorni passavano.
Era vero, avevano
avuto una fortuna sfacciata quei Rivoluzionari casinisti, ed erano
stati anche
bravi a mantenere la calma necessaria per arrivare fino a quel punto,
ottenendo
almeno il favore del Clero, ma era certo che non sarebbe durata a
lungo. Prima
o poi, avrebbe dovuto fare i conti con il fatto che la sua famiglia
avrebbe
combattuto in strada contro gente che non aveva mai visto, rischiando
la vita.
Da
quando aveva dato il suo consenso non aveva mai smesso di pensarci,
cercando
inutili soluzioni o pianificando di legare Barbabianca e levare le
tende da
quel luogo, dirigendosi più a nord, o a sud, insomma,
ovunque, fuori che nei pressi
di Parigi. Volendo avrebbe potuto farlo, sapeva che la sua gente lo
rispettava e
lo considerava tanto quanto suo padre, ma come avrebbe potuto guardarlo
ancora
in faccia poi? Un ammutinamento, così lo avrebbe visto
Newgate e, per quanto
Marco desiderasse solo il meglio per la sua famiglia, sapeva che non
avrebbe
sopportato leggere negli occhi del vecchio la delusione per il suo
gesto
estremo.
Doveva
accettare la situazione e fare il possibile per ridurre al minimo i
risvolti
negativi, nonostante il malumore che si era impossessato di lui da
quando
quella faccenda era iniziata e la tensione che l’attesa gli
provocava. Era più
forte di lui, proprio non riusciva a vederci niente di buono in tutto
quello
che stava accadendo.
-Posso
disturbarti?-
Marco
alzò gli occhi, scosso da quell’interruzione, e li
fissò sulla ragazza che,
avvolta in una coperta scura, stava in piedi accanto a lui chiedendogli
con una
muta richiesta il permesso di sedersi vicino al fuoco.
-E’
presto per il cambio turno.- la informò, facendole comunque
posto.
-Non
riuscivo a dormire.- confessò lei, sorridendogli sincera e
stringendosi nella
lana. –Ho pensato che avresti potuto prenderti una pausa
più lunga. Ultimamente
sei molto teso, non ti farebbe male un po’ di riposo.-
-Sei
gentile, Koala,- la ringraziò il biondo, -Ma non
preoccuparti, sto bene.-
Per
qualche ragione, la sua espressione non del tutto convinta
tradì il suo vero
stato d’animo e la giovane lo guardò con
disapprovazione, anche se la dolcezza
e la gentilezza nei suoi occhi non scomparvero. -Certo, come no.- lo
prese in
giro.
Marco
si grattò la nuca imbarazzato. -Sono solo preoccupato.-
ammise infine, conscio
che alla donna che gli stava accanto difficilmente si poteva nascondere
qualcosa. Era una persona molto socievole e attenta al benessere degli
altri.
Spesso, infatti, pensava più al prossimo che a se stessa,
per quello era
particolarmente incline a comprendere al volo le emozioni altrui. Oltre
a
quelle belle qualità, una cosa che poteva tornare utile, ma
che spesso per loro
era scomoda, stava nel fatto che intuisse al volo quando qualcuno
mentiva.
-Lo
siamo tutti.- lo rincuorò, poggiandogli una mano sul
braccio, -Ma quella gente
ha bisogno di aiuto. Non possiamo negarglielo.-
Il
più grande si trattenne dal roteare gli occhi con stizza.
Ormai glielo avevano
ripetuto mille volte che era giusto fare quella opera di
carità, ma a lui,
sinceramente, di andare in paradiso morendo martire per una buona causa
proprio
non interessava.
-Pensa
se la situazione fosse capovolta.- lo esortò Koala,
continuando imperterrita
con il suo punto di vista.
-Noi
avremo saputo arrangiarci.- la bloccò Marco prima ancora che
si buttasse a
capofitto in una discussione alla quale non aveva nessuna voglia di
partecipare.
La
sentì sospirare e la scorse scuotere il capo, ma quel
sorriso sulle labbra non
voleva sapere di andarsene nonostante lui le avesse risposto un
po’
bruscamente. C’era poco da fare, Koala era davvero troppo
buona. Sperava che la
cosa non le si ritorcesse contro, in futuro.
-Forse
dovrei davvero riposare.- disse il biondo sovrappensiero.
-Si,
direi di si. Vai, qui ci penso io.-
-Ne
sei certa?- chiese, giusto per precauzione, anche se si stava
già alzando,
desideroso solo di andare a dormire.
Lei
annuì convinta. -Si! E poi…- disse, frugando in
una tasca interna della giacca
che portava sotto alla coperta, -Ho questo.- affermò,
mostrandogli un libricino
dalla copertina di cuoio. Allora sorrise di rimando, ricordandosi che a
lei
piaceva tanto leggere e ogni momento le pareva buono per sfogliare
pagine e
pagine ingiallite dal tempo.
-Bene,
allora buonanotte.-
-Notte
Marco.- lo salutò, già con il naso immerso nei
fogli.
Le
diede le spalle, avviandosi verso la tenda che condivideva con quello
squilibrato di suo fratello Thatch, consapevole che quella notte non
l’avrebbe
trovato nel suo letto.
Dopo
che aveva scoperto la sua capatina in città con Izou, Namiur
e Rakuyo, ci aveva
litigato pesantemente, arrabbiato soprattutto per il rischio che aveva
corso e
per la sua incoscienza, più che per il gesto in
sé. Insomma, Thatch era adulto
e sapeva badare a se stesso, quello non lo metteva in dubbio, ma a
volte si
lasciava prendere troppo dall’entusiasmo e dimenticava di
avere delle
responsabilità. Diventava immaturo quando perdeva la testa e
si comportava in
maniera sconsiderata, proprio come Ace. Quei due erano troppo simili e
assieme
erano un vero disastro. Entrambi erano istigati l’uno
dall’altro a dare il
peggio di sé, tanto erano sciocchi e incauti.
Avevano
discusso pesantemente come non capitava da una vita, arrivando a non
parlarsi
per giorni. Alla fine, come sempre del resto, si erano venuti incontro,
chiarendosi un poco sulle loro motivazioni. Marco voleva solo che suo
fratello
avesse fatto più attenzione e Thatch gli aveva spiegato che
sarebbe stato
sincero e non avrebbe più tentato di nascondergli qualcosa.
Dopotutto, si
volevano bene e fare pace era stato inevitabile, anche
perché Barbabianca aveva
anche troppi inghippi per la testa e non aveva tempo di prestare
attenzione ai
loro bisticci. Marco, da bravo figliolo, preferiva dargli meno
dispiaceri e
pensieri possibile.
Quella
notte Thatch era fuori. Glielo aveva annunciato quel pomeriggio, come
faceva
almeno una volta a settimana. Almeno in quel modo sapeva dove trovarlo,
anche
se continuava ad essere preoccupato di conoscere la sua destinazione.
Quel
locale a Montmartre doveva averlo proprio preso se continuava a recarsi
lì
tanto spesso.
Sospirò,
entrando nella tenda e slacciandosi la cintura con affisse le armi.
Quello
scemo poteva andare dove voleva, purché mantenesse un
profilo basso e non
attirasse troppo l’attenzione. Capiva che si era stancato di
nascondersi e di
vivere solo in mezzo ai boschi, ma fino a che le navi non fossero
arrivate
sulle coste della Francia, loro tutti avrebbero dovuto continuare a
pazientare
e a mantenere la calma.
Si
tolse la giacca e cominciò ad aprire i bottoni della
camicia, avvicinandosi al
letto. In pochi secondi si tolse anche quella e poi seguirono anche i
pantaloni. Dei vecchi stracci fungevano da pigiama così,
dopo averli indossati,
si coricò finalmente sotto le coperte. Era così
stanco che sentì immediatamente
le palpebre pesanti e sperò di prendere sonno e dormire bene
almeno quella
notte. Era stufo di fare sogni, svegliandosi agitato senza riuscire a
ricordare
nulla, sentendosi solo spossato e più esausto di prima.
Sapeva che ciò era
dovuto all’agitazione, ma doveva mantenere la sua solita
calma, almeno davanti
agli altri. Non doveva mostrarsi preoccupato, altrimenti tutti si
sarebbero
scoraggiati e qualcuno che mantenesse le redini della situazione, oltre
al
vecchio, doveva pur esserci. Fortunatamente, aveva acquisito dei
fratelli con
parecchia spina dorsale e con un carattere forte, almeno non era da
solo in
quell’impresa che gli pareva, a volte, impossibile. Chiedeva
solo che finisse
presto.
Lasciò
una lanterna accesa, in caso Thatch avesse deciso di rincasare prima
dell’alba.
Era quello l’accordo: Marco gli permetteva di andare a
sfogare lo stress che
accumulava e l’altro, in cambio, non beveva e tornava
all’accampamento sobrio e
vigile. Fino ad allora doveva ammettere che aveva funzionato e che il
fratello,
oltre che apparire più tranquillo, rispettava i patti.
Non
era riuscito a negargli quella piccola libertà quando Thatch
gli aveva
raccontato, dopo che avevano fatto pace, la scomoda situazione in cui
si era
trovato.
Per
qualche assurda ragione, Haruta non gli aveva più rivolto la
parola,
togliendogli persino il saluto. Un’idea sul
perché, Marco se l’era fatta solo
che, dopo aver chiesto chiarimenti alla diretta interessata, aveva
deciso di
tenere la bocca chiusa e lasciare che se la sbrigassero da soli senza
intervenire. Gli dispiaceva per suo fratello, ma era
d’accordo con la ragazza.
Se ne erano accorti tutti del loro legame particolare e c’era
persino chi aveva
scommesso sulle tempistiche del loro fidanzamento, ma Thatch pareva non
rendersene conto. Secondo Marco, o lo faceva di proposito per evitare
di dare
all’amica un dispiacere, o era semplicemente troppo stupido
per arrivarci. Ad
ogni modo, aveva capito che per lui non era un bel periodo e gli aveva
concesso
di tornare in quel locale dove, stando ai racconti del castano,
c’erano un
sacco di donne. E, dall’espressione beata con cui rincasava
quel dongiovanni,
Marco era sicuro che ce ne fosse una in particolare con cui gli piaceva
intrattenersi. Era un po’ sadico da parte sua, ma sperava che
Haruta lo venisse
a sapere e che decidesse di prenderlo a ceffoni per riportarlo sulla
retta via.
Si
massaggiò gli occhi, sbadigliando. Se non la smetteva di
pensare alle pene
amorose di suo fratello non avrebbe preso sonno e aveva un bisogno
disperato di
dormire, lui. Così si mise comodo, lasciandosi avvolgere
dalle coperte e dal
calore che lo circondava, imponendosi di non pensare a nulla.
Dopo
poco, già dormiva.
Angolo
Autrice.
Ciao
a tutti! Sorpresa, il capitolo un giorno in anticipo!
Solo
perché
avevo tempo e perché domani, probabilmente, sarà
un inferno, evvai!
Beh,
che dire, le cose iniziano a farsi pesanti, soprattutto
perché stiamo entrando
in quello che sarà il turbine della Rivoluzione, anche se
per chi sta
aspettando la Presa della Bastiglia dovrà aspettare altri
tre capitoli come
minimo, lol. Come consolazione posso dire che mi sto mettendo
d’impegno e che
ci saranno, letteralmente, fuoco e fiamme.
Intanto
stasera ci becchiamo la riunione d’affari alla Corte dei
Miracoli, assistendo
al testa a testa tra i Quattro Imperatori, (Marco e Thatch sono
fighissimi!),
allo scoppio di energia di Sabo e a quella sottospecie di Ace/Sabo che
penso mi
abbia fatto venire il diabete mentre la scrivevo, ecco.
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Poi
c’è
festone a Montmartre. E scusatemi, ma shippo anche Frobin, quindi mi
sembrava d’obbligo
metterci in mezzo anche loro visto che, ormai, questa long sta
diventando un
minestrone di gente che spunta come le margherite.
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https://scontent-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xpa1/v/t1.0-9/10482065_1614152328803603_1791537363715066954_n.png?oh=abf22edcdb38e19ba6438dc9e4495896&oe=55B8E314
E mi
sto anche drogando con Bonney e Drake adesso ;________________;
insomma, lei
sembra così schizzata e lui sempre così posato
ma, per una volta, entrambi
provano a fare come vogliono, a viversi il momento. E CHE MOMENTO,
MLMLML. If
you know what I mean.
Ovviamente,
lei non dimentica mai una faccia, soprattutto se ha passato le notti a
pensare
all’ufficiale che le ha prese da Ace, epic lol.
https://scontent-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xpa1/v/t1.0-9/19095_1614152308803605_734705905267579523_n.png?oh=266f4febfbe1eba6ca45d3984912bfbd&oe=55B75986
https://fbcdn-sphotos-d-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xpf1/v/t1.0-9/1508551_1614152318803604_441137044072399147_n.jpg?oh=15044d6baf87a420b9ba458cc4f906e3&oe=55BE0A0C&__gda__=1437715661_17ba3b289eb01f8a60db6dcb0c030f54
Detto
ciò, vorrei solo chiarire che il capitolo inizia con una
scena che si svolge
all’inizio di maggio con la riunione al cimitero e ci si
ritrova a Montmartre
un mese dopo, a più di metà giugno, lasciando che
sia Drake a ripensare a come
si sono svolte le cose fino ad allora, senza starci troppo dietro,
altrimenti
sarebbe stato pesante per tutti.
Per
qualsiasi
problema, mi trovate qua ^^
Non penso
ci sia molto da dire su Marco che, stanco morto, se ne va a dormire.
Come farò
io ora, lol. E’ solo preoccupato per i suoi cari e presto, a
quella lista, si
aggiungerà anche un ragazzo in particolare ** rotolo OMG how
much love.
Ok,
basta.
Grazie
come sempre a tutti e un abbraccione grande!
See
ya,
Ace.
|
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Capitolo 11 *** Onze. ***
Liberté,
Égalité, Fraternité.
Onze.
Quella
mattina era ancora presto quando Bonney sbatté le palpebre,
infastidita
dall’insistente e odioso canto del gallo che, puntualmente,
deliziava tutto il
vicinato con il suo verso ad orari in cui la gente non si sarebbe mai
alzata di
proposito. A conferma di ciò, il sole doveva ancora sorgere
e dalla strada non
proveniva alcun rumore di carrozze o scalpiccio di zoccoli, neppure il
classico
vociare dei cittadini, nulla. Solo silenzio e calma, animali a parte.
Sbuffò
stancamente, chiudendo gli occhi e ripromettendosi di fare qualcosa a
riguardo
con quella bestiaccia. Chissà, magari i clienti sarebbero
stati felici di
trovare nel menù stufato di pollo, o petto arrosto, o anche
brodo di gallina.
Si diceva che fosse miracoloso per le sbornie.
Esattamente
come quella che sentiva di essersi presa lei.
Si,
perché non appena la ragazza mosse di poco la testa,
sentì le tempie pulsare
dolorosamente come se fossero state sul punto di esplodere.
Provò a passarsi
una mano sulla fronte, ma aveva le braccia indolenzite e quel piccolo
gesto le
costò una fatica enorme. Voleva voltarsi, girarsi a pancia
in su, ma aveva
paura di non riuscirci e di scoprire che era conciata peggio di quello
che
credeva. Qualcosa le diceva che avrebbe potuto benissimo sentire
l’impellente
bisogno di vomitare.
Facendosi
coraggio, però, poggiò le mani sul materasso e,
con calma e lentezza calcolata,
si mosse lentamente, voltandosi dalla parte opposta e cercando una
parte fresca
del cuscino per trovare un po’ di refrigerio, dato che
sentiva anche molto
caldo. Uno sguardo alla pelle scoperta delle sue spalle le fece
intendere che
doveva essersi tolta la camicia e la sensazione della stoffa morbida
sulle
gambe le confermò che anche i pantaloni dovevano essere
scomparsi. Niente di
grave, durante la stagione calda si ritrovava spesso a dormire senza il
pigiama, indossando solo l’intimo striminzito, comoda e
geniale invenzione di
una delle ragazze che vivevano con Dadan da più tempo.
Prese
un respiro profondo e cercò di rilassarsi per riprendere
sonno, dato che il
gallo si era finalmente zittito. Si accoccolò meglio sotto
il lenzuolo che si
tirò sulla testa e, prima di cadere addormentata, si
azzardò a dare una
sbirciata nella stanza per intuire dalla poca illuminazione presente
che ore
fossero.
Anche
se la luce che filtrava dalle finestre scardinate e con le ante
precarie era
poca, riuscì comunque ad identificare una massa indefinita
stesa accanto a lei,
la quale si alzava ed abbassava come se respirasse regolarmente. A
conti fatti,
dopo un attimo di sbigottimento che lasciò Bonney senza
fiato, si rese conto
che altro non doveva essere che una persona.
Le si
serrò la gola, sentì improvvisamente freddo e si
irrigidì all’istante,
smettendo di respirare. Cosa ci faceva un estraneo nel suo letto?
Perché non si
ricordava niente, nemmeno come era arrivata in camera sua la notte
precedente?
Sicuramente,
il panico l’avrebbe fatta impazzire, ma una voce tranquilla e
lievemente
impastata a causa del sonno la riscosse, calmandola in parte e
facendola
smettere di tremare come una foglia.
-Non
ti preoccupare, la tua virtù è intatta.-
Senza
nemmeno rendersene conto, Bonney buttò fuori
l’aria che aveva trattenuto come
se fosse stata con la testa sott’acqua fino ad allora. Quella
consapevolezza
era stata un toccasana per la sua salute mentale e il terrore di aver
combinato
qualcosa di irreparabile lasciò spazio ad una forte
curiosità mista a sospetto.
Se quel tizio, perché di un uomo si trattava, aveva detto la
verità, allora
come mai si trovava nel suo letto e a pochi centimetri da lei?
Un
sospiro le giunse alle orecchie, prima di vedere la sagoma coperta
dalle coltri
leggere scostarsi per scoprire le braccia nude che si mossero per
aiutare il
corpo a girarsi dalla sua parte. Inutile dire che la ragazza si
ritrovò a dover
trattenere di nuovo il respiro alla vista del viso rilassato e privo di
maschere dell’ufficiale al quale aveva offerto da bere la
notte precedente.
Lo
guardò appoggiare la testa coperta di ciuffi rossi e ribelli
sul cuscino,
mentre con una mano si stropicciava gli occhi assonnati che poi si
posarono su
di lei, intenti a studiare la sua reazione. A giudicare dal sorrisetto
che
spuntò sulle labbra dell’uomo,
l’imbarazzo di Bonney lo aveva divertito
parecchio.
Infatti,
la giovane donna era arrossita visibilmente e non aveva idea di come
comportarsi, restando immobile con il viso sollevato dal materasso, i
capelli
scompigliati che le ricadevano in generose ciocche sul collo e sulle
spalle
nude e le labbra dischiuse per la sorpresa. In che razza di situazione
si era
cacciata?
Cercando
di mantenere la calma e di non dare di matto a causa degli scheletri
del suo
passato che aveva nell’armadio e che ancora la tormentavano,
deglutì
rumorosamente, pensando a qualcosa da dire o fare per non apparire
impacciata
davanti a Drake. Perché se lo ricordava il suo nome, lo
aveva sentito
pronunciare da lui stesso la prima sera che aveva messo piede nel
locale, attirando
la sua attenzione dalla cucina e rimanendole impresso per tutto quel
tempo,
nonostante i suoi sforzi di dimenticarselo, maledicendolo per il suo
ruolo di
ufficiale.
Alla
fine ci era finita a letto, che ironia.
Drake,
notando la sua indecisione, giustamente dovuta, visto il modo in cui si
trovavano facilmente fraintendibile, si schiarì la voce,
andando in suo aiuto.
-Va
tutto bene.- la rassicurò prima, assicurandosi di mantenere
parecchi centimetri
di distanza da quel corpo sottile e candido che intravvedeva da sotto
le
lenzuola. Non doveva distrarsi e lasciarsi andare
all’istinto, altrimenti non
si sarebbe fatto nessuno scrupolo con quella ragazza. Ancora si
chiedeva perché
non la stesse inchiodando al materasso in quell’esatto
istante, correndo a baciarle
quelle labbra rosee che lei continuava a mordersi. Ci avrebbe
volentieri
pensato lui a intrattenerle se solo la sua coscienza avesse smesso di
urlargli
che non doveva azzardarsi ad alzare un dito su quella donna che tanto
gentilmente gli aveva offerto mezza scorta di liquori del locale.
-Ti
ho portata in camera dopo la quarta bottiglia di vino.- le
spiegò, -Non ti
reggevi in piedi e ti ho presa in braccio.- aggiunse poi, sorridendo
pure, come
se ciò non gli avesse dato fastidio, anzi, era come se fosse
un ricordo
piacevole da portare alla mente.
Bonney
era rimasta nella stessa posizione senza battere ciglio, impegnata a
frenare il
suo cuore impazzito. Aveva seguito più o meno tutte le frasi
che Drake aveva
pronunciato, ma alla fine aveva lasciato perdere, preferendo notare
come fosse
bello il suo viso, con la barba fatta da poco, la mascella squadrata e
regolare, il naso dritto e gli occhi risaltati dal colore dei capelli
sparsi
sulla federa. Anche la cicatrice che aveva sul mento le piaceva, gli
dava un
tocco affascinante, secondo il suo modesto parere. Per non parlare
delle spalle
larghe e del petto ampio che riusciva a scorgere da quella posizione
scomoda.
Aveva
compreso che doveva essersi ubriacata, e di brutto. Il suo gesto di
accompagnarla e di trasportarla pure fino al secondo piano era stato
molto
gentile e cavalleresco, ma non le tornava una cosa: perché
diavolo non se ne
era andato? E, soprattutto, per quale ragione i loro vestiti giacevano
disordinati sul pavimento?
Fece
per aprire bocca e dare voce ai suoi pensieri, quando Drake la
anticipò,
rispondendole prima ancora che ponesse le sue domande dirette.
-Sono
rimasto perché lamentavi un forte malessere.- si
spiegò, corrucciando la
fronte, come se si fosse ricordato qualcosa di importante solo allora.
-A
proposito, come ti senti ora?-
Bonney
lo fissò imbambolata come aveva fatto fino a quel punto.
-B-bene.- balbettò,
sfarfallando le ciglia e rilassandosi un poco, appoggiando il mento al
palmo
della mano e sostenendo lo sguardo che le stava rivolgendo in quel
momento
l’uomo accanto a lei.
Chi
l’avrebbe mai detto che se lo sarebbe ritrovato nella sua
stanza prima ancora
di ricevere un invito formale come facevano quelle per bene. A parte
che lei
non c’entrava nulla con la normalità e con le
tradizioni, anzi, le riteneva una
perdita di tempo, vedendo come con quanta facilità le sue
colleghe si
accalappiassero gli uomini nel giro di pochi minuti. Solo,
conoscendosi, aveva
pensato che le ci sarebbe voluto tempo prima di sbloccarsi e superare
le sue
paure.
Doveva
ricordarsi di promuovere l’alcool come toccasana e non come
peccato mortale.
-Non
so nemmeno il tuo nome.- mormorò Drake, cambiando argomento
e continuando ad
osservarla rilassato e tranquillo, dimentico dei suoi doveri, del
lavoro, della
giornata di fuoco che stava per cominciare e che lo avrebbe lasciato
stremato e
senza forze. Incredibilmente, però, si era svegliato
riposato e fresco come una
rosa come non gli capitava da tempo, fatto assurdo se calcolava di
essersi
ubriacato la sera precedente. Forse era stato il sonno profondo, oppure
il
letto comodo, o forse, semplicemente, la dolce compagnia che aveva
inconsciamente stretto tra le braccia durante quelle ore di riposo.
-Bonney.-
gli svelò lei, ormai a suo agio, senza nemmeno preoccuparsi
di coprirsi un
pochino di più perché, forse, quella confidenza
non era consona, ma non le
importava. Finalmente aveva un momento diverso, speciale per lei, e non
aveva
intenzione di rovinarlo. Anche se poi non sarebbe più
successo le sarebbe
bastato.
Lui
sorrise, accomodandosi meglio, avvicinandosi un pochino di
più in quel modo
senza che entrambi ci facessero caso. -Tu non mi chiedi il mio?-
Era
davvero strano, ma sentiva il bisogno di chiacchierare, cosa rara per
uno come
lui, il classico gendarme da una notte e via a causa degli impegni di
lavoro. Voleva
che quella ragazza si ricordasse di lui se mai avesse rimesso piede da
quelle
parti dato che, se aveva capito qualcosa delle regole che vigevano, la
titolare,
non avrebbe preso bene la notizia di lui a letto con una donna che non
fosse
una prostituta. Se solo gli fosse stata concessa la grazia, comunque,
sarebbe
tornato a fare un giro volentieri se ciò significava poter
passare un’altra
serata spensierata come quella che aveva vissuto in sua compagnia.
La
vide sorridere con fare furbetto prima che la sua voce allegra gli
giungesse
alle orecchie. -Oh, ma io lo so già.-
-Davvero?-
fece stupito. Non ricordava di averglielo detto, ma un po’ se
lo era aspettato,
dopotutto aveva riconosciuto subito il ruolo che copriva
nell’esercito.
Bonney
ammiccò, un gesto che non era da lei, ma che fece sorridere
Drake. -Certo. Te
l’ho detto: non dimentico mai una faccia.-
-Quindi
io ti sono rimasto impresso?- la stuzzicò, inarcando un
sopracciglio e
inclinando un poco il capo, trovando dannatamente attraente il modo in
cui
cercava di fare finta di nulla, anche se era arrossita. Gli piaceva
come
mantenesse una faccia da dura, quando invece si vedeva che era ancora
una
ragazzina giovane.
-Non
più di altri.- rispose lei, fingendo indifferenza,
riprendendo totalmente
padronanza della sua spavalderia e del suo caratterino forte.
Per
Drake, invece, fu una sfida bella e buona. -Ah, è
così?- domandò. Sollevandosi
sui gomiti e sovrastandola senza smettere un attimo di sorridere,
mentre lei lo
fissava un po’ preoccupata, ma non spaventata, forse
leggermente intimidita di
ritrovarsi con un uomo come lui che poggiava le braccia ai lati del suo
viso
quasi come se volesse impedirle si spostarsi. Conoscendosi, non sarebbe
andata
da nessuna parte neppure se avesse potuto. Dopotutto, lei era abituata
ad
averla sempre vinta.
-Posso
sempre rimediare.- le rese noto, indugiando con gli occhi sulla sua
bocca. Era
troppo vicina e stava diventando sempre più difficile
resisterle e il fatto che
lei stessa non si preoccupasse minimamente di spostarsi o coprirsi non
lo
aiutava per niente. Maledizione a lui e al suo autocontrollo da
gentiluomo.
-In
che modo?- chiese curiosa. Che sciocco, se solo avesse saputo che
difficilmente
lo avrebbe dimenticato. Insomma, aveva passato giorni interi a gettare
occhiate
nel salone con la speranza di rivederlo solo per potersi godere quella
sensazione di leggerezza, spensieratezza e ansia che le avevano
attanagliato lo
stomaco la prima volta. Esattamente ciò che stava provando
in quel momento, con
il suo viso a pochi centimetri e la mente svuotata di ogni cosa,
pensiero o
ricordo. Era tutto nuovo, emozionante e bello. Chi l’avrebbe
mai detto che si
sarebbe sentita così bene e a suo agio con un uomo dopo il
trauma che aveva
vissuto.
Avrebbe
volentieri scoperto cosa aveva in mente Drake per rimanerle impresso,
ma,
evidentemente, aveva esaurito la sua fortuna la notte prima
perché qualcuno
iniziò a bussare alla porta, chiamandola per nome e
facendola impallidire.
-Bonney?-
La
maniglia
si abbassò cigolando e la ragazza smise di respirare,
affondando inconsciamente
le unghie nelle braccia di Drake che fece una smorfia in riflesso a
quel
movimento. Non poté descrivere il suo sollievo quando si
rese conto che non era
entrato nessuno, visto e considerato che la porta era stata chiusa a
chiave.
-Bonney?
Va tutto bene?-
-Rispondile.-
le disse Drake a bassa voce, sollevandosi da lei per scendere dal letto
e
raccogliere così i suoi vestiti. Era arrivato per lui il
momento di andarsene.
Osservando
il ragazzo che le dava le spalle e deglutendo affascinata da quella
schiena
scolpita, Bonney si schiarì la voce, pregando di non
risultare troppo isterica.
–Ehm, si. Si, sto bene. U-un attimo e arrivo, Nami!-
Scese
dal materasso avvolgendosi il lenzuolo lungo il corpo, andando dritta
verso il
piccolo cassettone in legno usurato dove teneva alcuni vestiti,
cercando alla
rinfusa una camicia a quadri abbastanza grande da coprirla per bene,
indossandola
al volo e lasciando cadere la coperta sul pavimento senza
più curarsene.
Quando
si voltò, scostandosi i capelli sciolti dalla faccia, si
ritrovò Drake a pochi
passi da lei, intento ad infilarsi uno stivale prima di rivolgerle un
piccolo
sorriso di approvazione. Poi si alzò da terra e la
raggiunse, sistemandole in
un secondo momento un bottone che, altrimenti, lasciava troppo
all’immaginazione e lui doveva proprio andare,
perciò non ammetteva
distrazioni.
-Grazie
per il vino.- disse, superandola e andando ad aprire le ante della
finestra con
l’intento di scendere calandosi dalla grondaia. Cose che
aveva già avuto modo
di fare e non perché fosse solito fare visita al gentil
sesso.
-Grazie
a te per la bella nottata.- rispose Bonney, incrociando le braccia al
petto,
sogghignando maliziosa e lasciando Drake senza parole, tanto che la
fece ridere
divertita. Dopotutto, era sempre una ragazza dei bassifondi, ovvio che
fosse in
grado di badare a se stessa e a tenere testa ai balordi che
frequentavano il
locale. La lingua biforcuta e la frecciatina sempre pronta erano
merito,
invece, delle sue amiche.
Drake
abbozzò un sorriso. -Devi sempre avere l’ultima
battuta?- le chiese,
osservandola avvicinarsi e gettando un’occhiata veloce alle
gambe nude, giusto
per non dimenticarle, con una gamba poggiata al balcone e una sul
pavimento in
procinto di uscire.
La
ragazza si appoggiò con un braccio alla finestra, piegando
l’altro su un fianco
e stringendosi nelle spalle, sorridendo con ovvietà. -Certo.-
La
sua sicurezza vacillò quando Drake le sfiorò il
dorso della mano con le dita,
afferrandolo poi con gentilezza e portandoselo alle labbra per
depositarvi un
casto bacio, il tutto senza staccarle gli occhi di dosso.
Si
sarebbe ricordata di lui, ne era più che convinto.
-Bonney,
ti muovi?-
-Vai,
o butterà giù la porta.- le consigliò,
spingendosi col busto verso l’esterno
senza notare l’espressione di panico che, per un istante,
colse il viso della
ragazza. Lui se ne stava andando e lei non aveva idea se si sarebbero
rivisti o
meno. La risposta le era sembrata semplice e chiara fino a poco prima,
di certo
non si aspettava che dopo quella notte apparentemente tranquilla Drake
sarebbe
rimasto, o per lo meno che avrebbe avuto l’intenzione di
tornare da lei. Sapeva
come funzionavano le cose e si era ripetuta che le sarebbe bastata
quell’opportunità
di conoscerlo e parlarci, ma si stava rivelando tutto più
difficile del
previsto.
Avrebbe
voluto dire qualcosa, ma non era una povera illusa e non voleva nemmeno
risultare appiccicosa o altro. Era forte e indipendente e avrebbe
continuato ad
esserlo anche senza di lui.
-Ehi.-
si sentì chiamare e, quando si sporse dalla finestra, si
impose di mantenere un’espressione
quasi scocciata.
-Non
te ne sei ancora andato?- scherzò, guardandolo mentre
scendeva dalla grondaia,
attento a non scivolare. Scosse il capo esasperata quando
saltò a terra,
spolverandosi i pantaloni e guardando verso l’alto, verso di lei, con un ghigno appena
accennato, calcandosi il
cappuccio del mantello in testa e rimettendo la benda negli occhi.
-La
prossima volta offro io.- E, detto ciò, si
incamminò verso la strada, lasciando
Bonney con un sorriso troppo ampio sulle labbra e il battito accelerato.
-Insomma,
vuoi aprire o no?-
-Arrivo!-
*
Era il 20
giugno e l'Assemblea Nazionale cercò di ottenere favori da
parte di chi
possedeva dei capitali, utili come fonte di credito per le finanze
dello stato
e per il debito pubblico. Dichiarò illegali tutte le tasse
esistenti che
gravavano pesantemente sul popolo e istituì un comitato di
sussistenza per
affrontare la carenza di cibo e dare così aiuto alla gente
bisognosa, sperando
in quel modo di far riottenere al sistema finanziario un po’
di fiducia da
parte degli abitanti.
I nobili,
preoccupati
dell’avvicinamento del Clero ai cittadini, avevano presentato
al Re una
proposta con la quale gli avevano evidenziato che il sostenimento
all’Assemblea
Nazionale avrebbe messo in discussione i diritti e il destino della
Monarchia.
In quel modo, i borghesi tornavano a sottomettersi ai reali, nonostante
fossero
stati loro i primi a pretendere la convocazione degli Stati Generali.
Il Re,
influenzato da consiglieri e ministri, aveva accolto l’idea e
aveva deciso di
annullare i decreti attuati in quel mese dall'Assemblea Nazionale,
cercando di
ritornare alla situazione iniziale, quando il Terzo Stato non
rappresentava
nessuna minaccia.
Le cose
mutarono
dal mattino al pomeriggio nel giro di poche ore, tanto che i
rappresentanti
dell’assemblea si videro chiudere la sala dove si erano
riuniti su ordine
diretto del sovrano. Ciò, ai presenti, non piacque affatto,
ma, fortunatamente,
quel giorno presenziavano esponenti dei Rivoluzionari abbastanza svegli
da non
farsi mettere i piedi in testa dopo aver lavorato duramente.
Infatti
Sabo,
che era riuscito a convincere Shanks e aveva ottenuto il permesso di
partecipare alle ultime due riunioni, decise di prendere in mano la
situazione,
ignorando gli avvertimenti della sera prima che il Rosso gli aveva
fatto,
ovvero di non esporsi troppo, e incitò i collaboratori a
spostare l’incontro in
una sala che aveva visto quando erano arrivati e che stava giusto alla
fine del
corridoio.
Aveva
capito
fin da subito che la borghesia e i ricchi gli avrebbero messo i bastoni
tra le
ruote. Certo, il Clero aveva ormai abbracciato le loro idee, ma quei
leccapiedi
della Corona erano ossi duri, troppo attaccati ai loro beni per
accorgersi del
degrado che ormai li circondava.
-Ragazzo,
hai idea di quello che stai facendo?- gli chiese Benn accanto a lui,
presente
solo per controllarlo, più che per raccogliere informazioni.
Sabo
sbuffò,
sedendosi al tavolo e facendo segno ai presenti di fare lo stesso e di
chiudere
quella maledetta porta a chiave per non subire altre interruzioni
dall’esterno.
Gli addetti alla manutenzione avevano detto loro che la stanza
precedente
doveva essere svuotata per lavori di ristrutturazione.
Che stronzate! aveva pensato il
giovane, stringendo i denti per la frustrazione ed
elaborando immediatamente ad un’alternativa, riuscendo
egregiamente
nell’impresa e impossessandosi di quella stanza adibita al
gioco della
pallacorda.
-Non
preoccuparti. Da qui non ci muoveremo fino a che non raggiungeremo il
nostro
obbiettivo.- lo informò, esponendo poi le sue idee e i suoi
pareri al resto dei
deputati, facendo sentire per la prima volta la sua voce e conquistando
tutti
con il suo carisma e la sua determinazione, mantenendosi calmo, serio e
pronto
a rispondere a qualsiasi domanda o quesito. Si era preparato tanto per
quel
momento e non aveva intenzione di sprecare la sua occasione per
cambiare il
Paese. I deputati, affascinati dai suoi discorsi e credendo fermamente
nei loro
ideali, giurarono assieme al ragazzo di non separarsi in nessun caso e
di
continuare a riunirsi ovunque e in qualsiasi momento fino ad ottenere
ciò che
volevano.
-Cosa
dirò
al capo?-
-La
verità,
Benn.- gli disse Sabo a fine giornata, raccogliendo le sue cose e
ficcando i
suoi appunti riguardanti una nuova Costituzione dentro una sacca in
pelle che
si mise a tracolla. –Non pretendo che tu menta per me, ma
sappi che non mi
pento di niente.-
Benn
sospirò, sorridendo ugualmente e dandogli una pacca sulla
schiena. –Forza,
torniamo a casa.-
Uscendo,
alcuni esponenti del gruppo gli si avvicinarono curiosi, interrogandolo
su
alcuni punti che avevano ritenuto più importanti di altri e
stringendogli la
mano prima di separarsi sulla via del ritorno.
-I miei
complimenti.- gli stava dicendo un tizio, -Non si vedono spesso giovani
con il
tuo carattere. La tua famiglia deve essere molto fiera.-
Sabo
sorrise
imbarazzato, deglutendo a fatica. Se solo pensava a quello che lo
attendeva una
volta rientrato alla locanda, gli veniva la pelle d’oca.
Sicuramente non
l’avrebbe passata liscia e di tenere nascosto il fatto non se
ne parlava, dato
che l’indomani non si sarebbe parlato d’altro che
del suo intervento
magistrale.
Benn,
dietro
di lui, si schiarì la voce, deliziato dall’idea di
assistere ad un altro dei
litigi famigliari di Shanks che finivano sempre per farlo morire dalle
risate.
Poteva vantarsi di non annoiarsi mai in loro compagnia.
-Vorrei
solo
chiederti che cosa faremo se dovessero chiudere anche la nuova sala.-
continuò
poi l’uomo con aria preoccupata, stringendosi al petto un
grosso volume che
parlava di leggi e di politica.
Il biondo
Rivoluzionario si strinse nelle spalle, alleggerendo la tensione con un
gesto
secco della mano. -Non preoccuparti.- lo tranquillizzò, -Ne
troveremo subito
un’altra e non gliela daremo vinta, poco ma sicuro.-
In
effetti,
Sabo aveva già calcolato la possibilità di dover
cercare un ulteriore luogo
dove stabilire l’assemblea perché, se il suo
parere sulla testardaggine dei
ricchi era giusto, il re non avrebbe permesso che continuassero ad
andare
controcorrente con le loro idee e i loro obbiettivi. Di certo dovevano
aspettarsi qualche sabotaggio o brutto scherzo, poco ma sicuro.
Sospirò,
incamminandosi con Benn verso casa, totalmente immerso nei suoi
pensieri e
deciso a trovare una soluzione, preparando già un piano
alternativo. Avrebbe
dovuto riflettere anche su cosa dire a Shanks una volta rientrato, ma
non ne
aveva il tempo. Sperava nella sua buona stella e, in caso di guai, non
avrebbe
fatto altro che esprimersi sinceramente. Dopotutto, non si pentiva di
quello
che aveva fatto perché ciò aveva significato
aiutare gli altri deputati, oltre
che a mandare avanti l’Assemblea Nazionale. Se non fosse
intervenuto,
probabilmente la situazione sarebbe precipitata nel giro di poche ore e
chissà
in che caos sarebbe piombata la città. Aveva dato una mano e
ne andava fiero,
dicessero pure che era troppo giovane o inesperto. D’accordo,
era ancora alle
prime armi, ma non era uno sprovveduto, ne aveva dato prova a se stesso
e a
Koala, la quale glielo aveva detto subito che avrebbe potuto farcela,
se solo
ci avesse provato.
Sorrise,
ricordando la prima volta che le aveva parlato delle sue idee e dei
suoi
progetti riguardanti la situazione critica della Francia. Lei non aveva
perso
tempo e, quando aveva finito, gli aveva chiesto cosa stesse aspettando
per
darsi da fare. Lo aveva lasciato senza parole e le era stato
così grato per la
fiducia che aveva riposto nelle sue capacità che in quel
momento sentiva il
bisogno di correre all’accampamento solo per ringraziarla. Si
ripromise che lo
avrebbe fatto non appena si fosse liberato della scocciatura che lo
attendeva a
casa. Magari avrebbe potuto anche fargli un regalo, qualcosa di carino
per
farla contenta, giusto per sdebitarsi, anche se nei suoi confronti
aveva un
debito enorme.
-Beh,
figliolo,- esclamò Benn, aspettandolo sulla soglia della
locanda per lasciarlo
entrare per primo, accendendosi con finto disinteresse un sigaro.
–Buona
fortuna.-
-Grazie
amico.- fece Sabo, prendendo un respiro profondo e aprendo la porta.
Che il cielo mi
aiuti.
*
A Palazzo
le
cose stavano degenerando sempre più drasticamente e i suoi
nervi cominciavano a
risentirne parecchio, tanto da indurlo quasi a prendere decisioni
avventate,
come quella che aveva deciso di assecondare circa un’ora
prima quando, nel bel
mezzo di un allenamento, più precisamente quando aveva fatto
perdere
l’equilibrio a Perona ed era finito stramazzato al suolo come
un allocco solo
perché lei gli si era avvinghiata ad un braccio come una
sanguisuga, l’aveva
sentita sbuffare sotto il suo petto per poi udire la fatidica richiesta
di
portarla in città, lontano da quelle quattro mura.
Era
seguita
un’accesa discussione su come uscire dalla reggia, visto e
considerato che lui
aveva fatto chiudere l’unico passaggio segreto facile da
raggiungere e
utilizzare, ma alla fine avevano trovato una soluzione comoda per
entrambi.
Con sua
sorpresa, la Principessa era stata molto disponibile, fin troppo, e
aveva
seguito alla lettera le sue indicazione senza ribattere. Un
po’ si era
insospettito e aveva temuto che stesse tramando qualcosa, ma era
arrivato alla
conclusione che non vedesse semplicemente l’ora di evadere.
Le aveva
procurato qualche straccio dalle stanze della servitù,
vestiti maschili
soprattutto e, una volta legati i capelli in una crocchia poco
ordinata,
ficcato un cappello largo in testa e sporcate le mani, dopo lunghi
piagnistei,
di fuliggine, ecco che avevano imboccato l’uscita di
servizio, quella
utilizzata dai dipendenti con una scusa qualsiasi alla quale le due
guardie
indisciplinate poste all’entrata dei cancelli in ferro
battuto avevano creduto,
non degnando di altra attenzione uno spadaccino nobile e uno sguattero.
Così,
col
sole del primo pomeriggio sopra le loro teste, in quel momento stavano
camminando lungo una delle molteplici vie affollate. Per la precisione,
la Principessa
correva da un angolo all’altro per non perdersi nulla di
tutte quelle
meraviglie, mentre Mihawk la seguiva sospirando scocciato senza
perderla
d’occhio. Gli mancava solo vederla scomparire in mezzo alla
gente per farlo
finire alla gogna.
Intanto
Perona non la smetteva di vagabondare a destra e a sinistra,
fermandosi ad ogni passo per guardare qualcosa, per assaggiare
quell’altra e
per annotare alcune frasi su alcuni fogli che si era portata appresso.
Una
chiesetta, una casa, una bancarella o addirittura dei mendicanti,
qualsiasi
cosa era degna di essere ammirata e quando informò Mihawk di
non aver mai
mangiato una baguette in vita sua,
lui non le credette e si allontanò per un'altra strada,
seguito a ruota da lei
e dalle sue risa mentre gli assicurava che quello che diceva era vero.
Sembrava
una bambina nel regno della fantasia, dove non esistevano
sofferenze, ma solo motivi per cui sorridere e non essere abbattuti.
Tutto era
nuovo, tutto le piaceva e cercare di essere discreti e non dare
nell’occhio era
impossibile anche con addosso abiti poco appariscenti.
-Piantala
di correre di qua e di là.- fece esasperato senza guadarla,
-Se ti perdi non verrò a cercarti.-
La
vide alzare gli occhi al cielo. Cosa credeva, di essere
l’unica a
sentirsi seccata?
-Non
mi perderò, tranquillo. E poi non ho bisogno della balia,
sarei in
grado di ritrovare la strada e aspettarti a palazzo.-
affermò, sicura di quello
che diceva.
L’uomo
la fulminò con lo sguardo, intimandole di non provare
nemmeno a
fare una cosa del genere.
Per
tutta risposta, Perona si imbronciò, intuendo i pensieri di
Mihawk e
prendendola sul personale. -Posso benissimo difendermi.-
ribatté offesa, -Il
fatto che io sia una donna non significa nulla.-
-Ah
no?- si lasciò scappare lui, superandola per camminare
qualche passo
avanti a lei.
-Presuntuoso.-
la sentì mormorare.
-Guarda
che ti sento.-
Non
vide, però, lo sberleffo che la ragazza si lasciò
scappare, un gesto
infantile da parte sua, ma che si sentiva orgogliosa di aver fatto
senza essere
stata beccata o rimproverata.
Quella
passeggiata le stava piacendo da impazzire e voleva passare al
meglio la giornata senza continuare a sentile le lamentele di quel
pezzo di
ghiaccio, sempre troppo composto e serio. Pensandoci bene, non lo aveva
mai
nemmeno sentito ridere. Era proprio ora che si sciogliesse un pochino e
lei, da
principessa viziata quale era, abituata a vivere al meglio, sapeva
esattamente
come fare. Le serviva solo l’occasione adatta da cogliere al
volo.
-Yohohoho!-
Volse
il capo alla sua sinistra e scorse una deliziosa piazzetta che
costeggiava un tratto della Senna, adibita con alcune panchine poste
proprio di
fronte al fiume, mentre un paio di bancarelle, una di ortaggi e frutta
e
l’altra di fiori, animavano il centro, intrattenendo uomini e
donne interessati
alla vendita. Ciò che attirava di più
l’attenzione, però, era uno strano
individuo, altissimo e molto magro, quasi scheletrico, e con una buffa
chioma
voluminosa di capelli neri e ricci che rideva e scherzava con dei
bambini di
strada, suonando nel frattempo un violino. Attorno a lui, qualche madre
guardava la scena, tenendo d’occhio i figlioletti, mentre, in
compagnia del
musicista, seduto sul ciglio della strada, un ragazzo con un naso
davvero
notevole batteva a ritmo i palmi su un tamburello, accompagnando la
melodia del
compagno e partecipando alle risate collettive dei passanti che si
fermavano a
lasciare loro qualche spicciolo.
Fu
più forte di lei e, afferrata saldamente una manica della
camicia
bordeaux di Mihawk, lo trascinò davanti a quel teatrino,
incurante dei suoi
tentativi di fermarla e rimetterla in riga. Al diavolo lui e
l’apparenza da
gentiluomo, che a parere della principessa non era affatto.
Perona
iniziò subito a partecipare allo spettacolo, battendo le
mani e
dondolando un pochino il capo, quando, gettando un’occhiata
al suo
accompagnatore per coinvolgerlo e vedere se si stava divertendo, rimase
immobile,
cambiando umore e scoccandogli uno sguardo torvo che lui
ricambiò sogghignando.
Lui riteneva tutto quel trambusto una grandissima sciocchezza e lei era
ancora
più infantile visto che ci andava dietro.
-Perché
quella faccia?- la punzecchiò, infilando le mani nelle
tasche e
tornando a guardare il musicista, che aveva l’aria di uno
abbastanza folgorato,
con fare svogliato.
-Sei
sempre così frigido ad ogni appuntamento?-
-Ovviamen…
un momento, che cosa?- sbottò, perdendo per la prima volta
la
sua solita calma e rispondendo alla battuta di Perona con
più enfasi di quanto
avesse voluto, ma non la trovò accanto a sé,
bensì a qualche metro di distanza,
intenta a ballare con uno dei mocciosetti che fino a prima stavano
correndo
verso tutte le direzioni. Non sembravano seguire una coreografia
precisa, ma
nessuno dei presenti aveva l’aria averlo notato e tutti non
facevano altro che
applaudire e ridacchiare, intonando anche qualche canzone.
Inutile
dire che ben presto la situazione degenerò e più
di qualcuno
iniziò a seguire l’esempio di Perona e dei
bambini, iniziando a danzare sulle
note prodotte dallo sgangherato pezzo di legno che l’uomo
rachitico stringeva
con apparente amore tra le mani, ridendo isterico e sfondando i timpani
di
Mihawk.
Lui,
a differenza della gente, era rimasto al limitare della zona con le
braccia conserte e un’espressione schifata e un pochino
disorientata. Si
sentiva fuori luogo, non abituato a ritrovarsi in situazioni simili
nemmeno
quando presenziava a delle feste indette da nobili o a cerimonie
lussuose. Se
proprio si volevano mettere i puntini sulle i,
lui non ballava nemmeno se ne aveva l’occasione o se era
circondato da belle
dame che non aspettavano altro che una sua proposta, sebbene la sua
educazione
lo avesse portato ad imparare la danza. Non se la cavava male,
più o meno era
come la scherma, bastava imparare i passi, ma non aveva mai sentito la
voglia
di invitare qualcuno a ballare.
Non
dovette farlo nemmeno in quell’occasione, dato che fu Perona
a
trascinarlo in mezzo alla folla sempre più numerosa, dopo
che lo ebbe
adocchiato tutto solo e imbarazzato.
-Non
ho la minima intenzione di muovere un passo.- la informò
deciso,
sentendosi ignorato quando lei, proprio sotto al suo naso,
roteò gli occhi in
un moto di stizza, afferrandogli le mani e obbligandolo a muoversi
girando a
destra e a sinistra, seguendo il resto delle persone che avevano appena
dato
inizio ad una ballata popolare, fortunatamente una che aveva imparato a
Corte.
Era
certa che anche lui la conoscesse, nonostante continuasse a fare il
prezioso, ma non si scoraggiò e, determinata a smuoverlo con
l’intento di
passare una giornata indimenticabile, non si fece problemi a
circondargli il
collo con un braccio e a guidare la sua mano fino al suo fianco per
regolare le
posizioni, ritrovandosi estremamente vicina a lui, vicinanza facilitata
oltretutto dalla mancanza di gonne ampie.
-Allora,
vuoi guidare le danze o pensi di lasciare il comando a una
donna?- lo provocò, sorridendo sfacciatamente e dandogli
l’impressione di voler
iniziare a muoversi.
Esattamente
come aveva previsto, e sperato, Mihawk, anche se con un
cipiglio chiaramente arrabbiato e oltraggiato, la precedette e
cominciò a
seguire i passi, più per orgoglio ferito che per
accontentarla, dimostrando di
conoscerli e di essere pure portato per il ballo, sorprendendo
parecchio
Perona, la quale aveva scambiato tutto quel distacco per
incapacità nella
materia.
Un
paio di piroette dopo, lei stava ridendo come mai le era capitato,
saltando, battendo le mani, e passando di coppia in coppia, senza mai
però
staccare lo sguardo dall’uomo che, come lei, ignorava il
resto dei presenti,
strappandola quasi dalle braccia di un povero giovanotto quando la
musica
l’aveva riportata nuovamente da lui. Trovava che fossero in
perfetta sintonia e
voleva evitare di rovinarsi il momento, preferendo danzare con lei
invece che
con qualcun altro. E di certo non avrebbe rischiato che Perona trovasse
altri
ballerini più esperti, ma tale pensiero non lo prese nemmeno
in considerazione,
arginandolo in un angolo buio della mente prima ancora di formularlo.
E
solo quando la danza volse al termine, facendo si che la Principessa,
finalmente spensierata e sorridente, gli gettasse le braccia al collo,
stringendolo in un gesto troppo confidenziale per due personaggi come
loro, si
accorse che aveva inconsciamente sorriso per buona parte del tempo. Fu
ancora
più assurdo perché fu proprio lei stessa a
farglielo notare.
-Sapevo
che eri capace di sorridere.-
Non
le diede una risposta, solamente le concesse un’espressione
neutrale
e un lungo e intenso sguardo che la lasciò con il fiato
sospeso fino a che la
folla non si fu dileguata, lasciandoli soli, di fronte alla Senna,
intenti a
fissarsi nel tentativo di leggersi nell’anima, o
semplicemente impegnati a
godersi un attimo di pace, lontano da pregiudizi, titoli nobiliari e
obblighi.
Sembrava
quasi di stare in una scena del libro preferito della ragazza,
con l’unica differenza che nella storia i due protagonisti,
nonostante le varie
avventure rocambolesche e i loro sentimenti e caratteri contrastanti,
erano innamorati.
Riflettendoci, alla Principessa non sarebbe dispiaciuto che la giornata
finisse
nel migliori dei modi, per esempio con un, ecco, insomma,
con…
-E’
ora di tornare.-
Fu
Mihawk a riportare Perona con i piedi per terra, facendola sospirare
dispiaciuta, anche se in fondo sapeva che non avrebbero potuto stare
fuori per
sempre, nonostante avesse pensato più di una volta di
scappare.
A
parte l’obbligatorio ritorno alla realtà, decise
di non sprecare
quegli ultimi attimi di libertà e viverli appieno, lasciando
qualche moneta
d’oro al musicista, il quale si prodigò in mille
ringraziamenti non appena si
rese conto di essere stato apprezzato tanto. Poi seguì
Mihawk attraverso la
piazza, dirigendosi con lui verso la reggia e facendo la strada a
ritroso,
riempiendosi gli occhi di tutte quelle cose che a palazzo avrebbe solo
potuto
sognarsi, come i bimbi che correvano scalzi; le donne che giravano per
le vie
senza scarpe troppo scomode o gonne troppo ampie; animali liberi di
scorrazzare
ovunque, ubriaconi che barcollavano e ridevano sguaiatamente; il
sorriso nel
volto di ogni persona che incontrava, indipendentemente dal fatto che
possedessero solamente le loro vite e qualche spicciolo. Erano felici
anche se
vivevano con poco, mentre lei, che aveva tutto, si sentiva povera e
sola da
quando era nata.
Mano
a mano che si avvicinavano a casa, Perona si fece sempre più
silenziosa, conscia che presto sarebbe ritornata alla sua solita
routine. Non
si scoraggiava solo perché sapeva che gli allenamenti di
scherma sarebbero
continuati e lei avrebbe potuto prendersi una pausa di qualche ora dal
suo
essere una principessa da servire e riverire.
Lo
spadaccino se ne era accordo del suo cambio di umore, dopotutto lo
aveva stressato per tutto il pomeriggio con chiacchiere, gridolini, ‘comprami questo, comprami
quello’ e ‘oh
mio Dio, voglio quella cosa!’.
Perciò il fatto che si fosse zittita lo fece insospettire,
tanto da indurlo a
iniziare una conversazione, cosa che non faceva mai visto e considerato
che
trovava chiunque noioso ed insignificante.
-Cosa
c’è?- chiese diretto, senza nemmeno troppa
delicatezza. Certo, non
poteva mica passare dal non parlare all’essere gentile e
garbato tutto in un
attimo. Persino per lui quella continua curiosità nei
confronti di quella
ragazzina viziata era una novità abbastanza sconvolgente e
che cercava di
tenere a freno, senza successo ovviamente.
La
vide stringersi nelle spalle, continuando a fissare la strada battuta
in ciottoli. -Nulla. Mi fanno un po’ male i piedi.-
confessò, non sentendosi
comunque dispiaciuta. Per una volta le dolevano per qualcosa che le era
piaciuto fare e non solamente perché le calzature erano un
supplizio.
-Siamo
quasi arrivati. Tra poco potrai riposarti.- le rese noto,
riprendendo a guardare di fronte a sé, camminando fiero e
disinvolto.
Perona,
invece, aveva alzato il capo e aveva iniziato ad osservarlo,
ammirando quel comportamento sempre sicuro e determinato, come se nulla
potesse
scalfirlo, conscio di poter fare ciò che più gli
aggradava e di essere libero
di andare ovunque. Oh, quanto lo invidiava per quello.
-Non
sono affatto stanca.- si affrettò a spiegare, -Anzi, non mi
sono
mai sentita meglio! Magari potessi restare fuori di più.-
borbottò abbattuta.
Mihawk
si lasciò scappare un mezzo ghigno. -Credo che per oggi tu
abbia
trasgredito abbastanza alle regole.- la punzecchiò, sicuro
che se la sua
piccola gita in città fosse giunta alle orecchie di Sua
Altezza, ci sarebbe
stato un corpo penzolante al cappio il giorno successivo: il suo.
Perona
gli rivolse un’occhiata complice. -Potremo sempre rifarlo.-
-Assolutamente
no.-
-Ti
prego!- lo scongiurò, congiungendo le mani e precedendolo
per
camminare davanti a lui, indietreggiando mentre lui avanzava.
-Non
insistere.-
-Perché
altrimenti ti convincerei?-
-Per
riuscirci dovresti impegnarti di più.- la
informò, fermandosi e
incrociando le braccia al petto in un atteggiamento quasi di sfida,
cosa che
indispettì Perona, decisa ad ottenere ciò che
voleva.
Piegare
un uomo come Drakul Mihawk? Un obbiettivo alquanto difficile,
non ci voleva un genio per capirlo, ma lei non pretendeva
chissà che cosa, le
bastava solo una piccola parte e tutto si sarebbe sistemato nel
migliore dei
modi. Corromperlo? Non aveva senso: era ricco, aveva una buona
posizione e un’ottima
fama, smentirlo non le sarebbe giovato, soprattutto perché
avrebbe detto addio
alle sue lezioni di scherma; ammaliarlo? Chi voleva prendere in giro,
quello
pareva immune a qualsiasi bella dama gli passasse di fronte; mirare al
suo
animo buono? Ne aveva almeno uno?
Perona
si mordicchiò un labbro indecisa, cercando freneticamente
nella
sua testa un modo efficace per raggiungere il suo scopo, peccato
però che quel
maleducato fosse un osso duro. A conti fatti non aveva nulla per le
mani che
potesse darle un briciolo di speranza. Forse tutto quello che le
rimaneva da
fare era ammettere che ce l’aveva vinta lui e basta.
-Scommetto
che hai paura.- dichiarò invece, contrariamente a quello che
si era prefissata. Doveva ricordarsi di fare attenzione al filtro che
collegava
il suo cervello alla bocca per assicurarsi di non fare in futuro altre
sparate
del genere.
Le
sopracciglia dell’uomo si sollevarono più di
quanto si sarebbe
aspettata. Finalmente un cenno di natura umana in quella faccia sempre
apatica.
-Come, prego?-
Erano
ritornate le buone maniere? Doveva approfittarne.
Raddrizzò
le spalle e alzò il mento. -Deve essere così,
altrimenti non
avresti difficoltà a farmi uscire come hai fatto oggi.
Deduco quindi che tu
tema di metterti in pericolo, ma perché mi stupisco?
Dopotutto, il rischio fa
questo effetto su molti uomini.- rincarò, fingendo
indifferenza ai pugno
stretti lungo i fianchi di Mihawk e allo sguardo torvo che le aveva
scoccato
senza curarsi di mancarle di rispetto.
Avrebbe
voluto prenderla e buttarla giù da una delle torri della
cattedrale se solo avesse potuto. Dannazione, quella ragazzina era una
vera e
propria piaga nella sua vita; maledetta quella volta in cui aveva
accettato
quell’incarico e si era trasferito a Parigi. Al diavolo lei e
al diavolo anche
se stesso per essersi calato in una simile e sciocca impresa. Lui non
aveva
paura, affatto!
Con
la frustrazione che gli scorreva nelle vene, coprì le
distanze che
li separavano, stringendo i denti nel notare la poca attenzione che
Perona gli
stava rivolgendo, quasi come se fosse stata certa del fatto che lui
fosse un
codardo. Quattro schiaffi sul suo bel visino avrebbe potuto permettersi
di
darglieli?
-Potrei
farti uscire ogni volta che vorrei senza il minimo
tentennamento.- disse, vedendola voltarsi verso di lui ed iniziare a
sorridere
ampiamente.
-Magnifico,
quindi che ne dici di domani?- esultò, battendo le mani e
facendo una giravolta, tenendosi bel calcato il cappello in testa per
evitare
che la sua chioma rosa sgusciasse fuori. -Sono certa che ci
divertiremo! E
potremo anche attraversare il fiume e vedere cosa
c’è dall’altra parte e anche
fermarci a mangiare in un bistrot. Non vedo l’ora!-
-Aspetta,
che cosa stai dicendo?- Mihawk era allibito. E stupito. E
parecchio incazzato con se stesso. Si era fatto abbindolare come un
allocco,
toccato nell’orgoglio e aveva finito per seguire
l’istinto, accecato dalla
priorità di mantenere alto il suo onore e non essere preso
per un uomo di poco
valore. Quella ragazzina! Le avrebbe dato una lezione con i fiocchi la
prossima
volta che avrebbero incrociato le lame.
-Sarà
bellissimo! Usciremo ancora, tu ed io!- stava continuando
imperterrita ed entusiasta lei, girandogli attorno per poi fermarsi e
afferrargli improvvisamente una mano, mostrandogli un sorriso che le
illuminò
persino gli occhi. -Grazie.- mormorò, prima di lasciar
scivolare via il suo
palmo e precederlo lungo la via dalla quale si intravvedevano le mura
del
palazzo.
Mihawk
sospirò e si calò il cappello per celare parte
del viso e della
sua espressione che non avrebbe saputo descrivere, mentre la sua mano
pizzicava
e bruciava allo stesso tempo.
E
non sapeva perché.
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Capitolo 12 *** Douze. ***
Liberté, Égalité,
Fraternité.
Douze.
-Ace!
Ace!-
Thatch,
imbacuccato di stracci e coperto fin sopra i capelli con scialli
dai colori sgargianti e tre borse di stoffa rattoppate per braccio,
riempite
con carote, patate, e un polletto vivo,
seguiva il giovane davanti a lui agghindato alla stessa maniera,
completo di
sottogonna e parrucca.
-Moccioso,
aspettami!- ripeté, alzando un poco la voce e ottenendo
l’attenzione dell’amico, il quale si
voltò verso di lui con il solo scopo di
scoccargli un’occhiataccia. Gli aveva intimato di non urlare
e di comportarsi
come una vecchietta per non attirare l’attenzione e lui che
faceva? Si
lamentava e lo rallentava.
-Muoviti,
razza di idiota, così li perdiamo!- lo incitò,
afferrandolo
per un gomito e trascinandosi dietro l’uomo più
grande che, a causa della sua
stazza, era fonte di curiosità per molti passanti. Non si
vedevano tutti i
giorni due anziane signore andare così di fretta, tutte
indaffarate a
agghindate.
E
con un pollo in una borsa.
-Non
riesco a camminare con tutta questa roba!- si lamentò
Thatch,
bisbigliando irritato per non farsi sentire da orecchie indiscrete,
sollevando
stizzito l’orlo della gonna per evitare di pestarlo e
mostrando così uno
stivaletto che gli stringeva in modo doloroso il piede e la gamba con
una
peluria abbondante e poco curata.
Ace
roteò gli occhi al cielo, schiaffeggiandogli il dorso e
obbligandolo
a lasciare la stoffa. -Non metterti in mostra, depravato!- lo riprese,
guardandosi attorno e non perdendo di vista la coppia di guardie che
stavano
pedinando in maniera da avere una mappa precisa del giro di ronda per
le strade
effettuato dagli ufficiali.
Thatch
sbuffò, facendosi aria sul viso. Quel giorno il sole
spiccava
alto nel cielo e scaldava tantissimo, soprattutto se si indossavano
abiti come
quelli che aveva lui. Quando Ace gli aveva proposto di andare in
missione
ricognitiva non aveva immaginato che avrebbero dovuto vestirsi da
donna.
Gliel’avrebbe fatta pagare, poco ma sicuro, perciò
tanto valeva iniziare subito
nel modo che meglio conosceva.
-Dimmi,
moccioso, come mai sei così a tuo agio con questi vestiti?-
domandò, continuando a seguire il ragazzo e sorridendo
ironico. Di certo
avrebbe tenuto l’informazione per sé in modo da
usarla negli anni a venire per
sfottere quel piccolo bastardo francese.
Il
corvino si strinse nelle spalle, camminando a passo svelto e tenendo
sollevato il bastone da passeggio senza nemmeno poggiarlo a terra per
andare
più veloce. -Facciamo sempre così.-
spiegò con disinteresse.
-E
vestirvi da mendicanti?- insistette l’altro. Che diamine,
quello
delle vecchiette non poteva essere l’unico travestimento
disponibile.
-Di
solito le guardie li picchiano.-
Thatch
sbatté le palpebre, scioccato.
Oh,
ecco perché,
pensò dispiaciuto, non per i barboni, ma per non aver
trovato abbastanza
materiale interessante da poter usare a suo piacimento. Aveva sperato
in una
confessione del tipo ‘mi vesto
spesso
così’, o qualcosa di simile, roba
scottante, ecco.
Seguirono
indisturbati la pattuglia lungo le viuzze di Parigi, evitando
accuratamente distinti signori di età avanzata che avevano
dato segno di
interesse verso di loro, scambiandoli giustamente per signore, e
ritornando al
punto di partenza da dove era partito il giro, ovvero alla caserma.
Lì si
diedero il cambio con altri due Rivoluzionari, altrettanto camuffati,
completi
persino di ombrellini e rossetto davanti ai quali l’inglese
scosse il capo,
dovendo però ammettere che quei parigini prendevano sul
serio i pedinamenti.
Ace,
invece, ritenendosi soddisfatto, puntò verso il Quartiere
Latino
con l’intento di andare a fare rapporto e riferire a Shanks
l’ennesimo giro di
pattuglia con Thatch rigorosamente al suo fianco, impegnato a levarsi
di dosso
la camicia rosa, ficcandola in malo modo dentro un borsone dopo aver
abbandonato il ruspante animale in un cortile li vicino.
-Abbiamo
finito per oggi?- gli chiese poi, passandosi una mano tra i
capelli folti e respirando a pieni polmoni, ringraziando il Cielo per
essersi
tolto quegli strati in eccesso di merletti e pizzi.
Ace
annuì, calcandosi il cappello sulla testa con fare sapiente.
Quell’affare, di un assurdo colore arancione, ricamato con
due pezze di cuoio
sul frontale e un laccetto con un pendaglio piumato appeso alle
estremità, se
lo era ritrovato il giovane nella sua camera alla locanda dopo la prima
notte
che avevano passato assieme a Montmartre, probabilmente un souvenir che
aveva
portato con sé inconsciamente. Inutile dire che ci si era
affezionato molto e
che non se lo toglieva mai, a volte nemmeno per dormire, cosa strana,
ma che
nessuno aveva commentato, pensando che di stranezze, al mondo, ce
n’erano di
peggiori. Nemmeno Thatch aveva detto nulla, anzi, quel cappello dava ad
Ace un
tocco di personalità in più, rendendolo
ulteriormente particolare.
-Ehi,
stamattina Curiel e Blenheim sono andati a caccia e hanno preso
due cinghiali.- si ricordò il castano, battendo le mani
sulle spalle di Ace e
facendogli fare un lungo passo in avanti per non perdere
l’equilibrio, -Vieni a
cena da noi? Abbiamo pure trovato della birra!-
-Uh?
Birra? E cos’è?-
A
quella domanda, l’uomo si fece serio e sbatté le
palpebre perplesso.
Quei buongustai in fatto di vino e donne non sapevano cos’era
la birra? Assurdo, doveva
assolutamente
rimediare.
-Ah,
ragazzo mio,- iniziò a dire, passandogli un braccio attorno
alla
schiena e trascinandoselo addosso tanto da schiacciarlo contro il suo
petto
ampio, incurante delle lamentele di Ace che non riusciva a respirare.
-Stasera
vedrai come festeggiamo noi inglesi. Chiama pure il biondino, Sabo, o
chi vuoi.
Ci divertiremo.-
Ace
si divincolò dalla presa, allontanandosi di qualche passo
per
evitare un altro degli assalti del castano, molto frequenti, dato che
aveva a
che fare con una persona tanto, forse troppo, espansiva.
-Glielo
farò sapere, ma non so se ne avrà voglia. Si sta
occupando
dell’Assemblea alla Cattedrale di
Saint
Paul-Saint Louis. Sai, per via della chiusura della sala
della pallacorda.-
fece sbrigativo e un po’ nervoso. La situazione si stava
facendo sempre più
complessa e a Palazzo sembrava che il Re non volesse proprio cedere.
Lurido
zoticone pomposo che non era altro.
-Mhm,
capisco. Beh, ma tu non puoi mancare!- sdrammatizzò Thatch,
volendo distrarre un pochino Ace dai suoi pensieri. Avevano lavorato in
incognito tutti il giorno, dato che da poche settimane Barbabianca
aveva messo
a disposizione di Shanks alcuni dei suoi uomini, lui compreso, e da
allora avevano
preso a lavorare assieme. A volte c’era anche Sabo, quando
non era impegnato in
affari burocratici assieme al Rosso che, dopo una baruffa con i fiocchi
della
quale Ace gli aveva solo accennato, lo aveva assunto sotto la sua ala e
lo
faceva partecipare a molte riunioni stressanti e noiose, come ripeteva
costantemente il corvino, ma che a suo fratello piacevano,
perché molto più
intellettuale e portato alle chiacchiere.
Ace
sorrise, pregustando già una cena con i fiocchi a base di
carne vera
e non solo di verdure o stufati. Non che Makino non fosse una brava
cuoca, ma
le prelibatezze scarseggiavano per tutti, se non si contavano i
regalini che
Sanji, di tanto in tanto, passava a portargli.
-Ci
puoi scommettere!-
*
Ace
non aveva mai visto le paludi conciate in quel modo.
Certo,
a causa delle ronde gli inglesi non potevano permettersi di
esagerare con le illuminazioni e con le fiaccole, ma avevano ideato
abbastanza
bene il modo giusto per far si che nulla fosse completamente avvolto
dal buio.
Appese
agli alberi c’erano una serie di lanterne per la maggior
parte
bianche, in modo da rischiarare l’ambiente, mentre sopra di
esse erano stati
posti strategicamente dei fasci di rami e foglie uniti tra loro, in
modo da
creare quasi dei tettucci bassi e sospesi, impedendo così
alle luci di attirare
l’attenzione dalla città. Per quanto riguardava la
carne, invece, era stata
arrostita nei pressi di uno dei ponti situati sulla Senna giusto
all’uscita
fuori dalle mura, dove la vegetazione era più fitta e dove
l’atmosfera era
fresca. Inoltre, essendo vicino al rivolo d’acqua, estinguere
il fuoco non era
stato un problema, mentre il fumo era finito tutto verso la boscaglia.
Il buon
profumo che era aleggiato da quelle parti era stato un po’ un
problema, ma alla
fine nessuna guardia era passata da quelle parti ed era bastato donare
una
parte di quella carne a qualche curioso per comprare il suo silenzio.
Tutto
riuscito e non un’anima aveva visto nulla.
-Allora?
Cosa te ne pare?- gli stava chiedendo Thatch a bocca piena,
ingoiando un boccone intero e rischiando quasi di strozzarsi, costretto
poi a
bere una generosa sorsata di birra.
Birra!
Ace non avrebbe mai detto che esisteva qualcosa di più buono
del
suo cognac o del poiré,
ma si era dovuto ricrede dopo aver assaggiato quella bevanda
tanto decantata dai suoi amici che scendeva lungo la gola fino allo
stomaco
tanto velocemente quanto dava alla testa. Era più pesante
del vino e gli dava
un senso di sazietà, ma la carne era ancora tanta e lui non
aveva intenzione di
sprecarla lasciandola sul piatto. Perciò, rispondendo al
castano che era tutto
una meraviglia, addentò il suo pasto e non
proferì più parola per un pezzo,
lasciando che fosse Sabo, arrivato da poco più di cinque
minuti, a intrattenere
una conversazione con gli altri seduti accanto a lui.
Il
biondo aveva passato una giornata infernale, ma alla fine, anche se
il Re non aveva dato segno di cedimento e la questione non era ancora
stata
chiusa, i Rivoluzionari avevano guadagnato altri alleati nei loro
ranghi e ottenuto
parecchi favori da parte del Clero, quindi poteva ritenersi soddisfatto
e
prendersi una pausa, riempiendosi lo stomaco e bevendo fino a
dissetarsi. Anche
a lui sembrava piacere la birra.
-E
quindi ho sollevato la gonna e gli ho fatto vedere il ben di Dio che
nascondevo!- concluse Thatch, scatenando le risate generali e facendo
andare di
traverso l’alcool a Marco, il quale stava partecipando alla
festicciola
improvvisata giusto perché quei momenti spensierati con i
suoi fratelli gli
erano mancati immensamente e pensava che una rimpatriata avrebbe
giovato
all’umore teso di tutti. Aveva storto il naso quando il
fratello gli aveva
comunicato che aveva invitato anche qualche francese, ma non aveva
fatto
storie, vedendo come suo padre, presente a quella scena, avesse sorriso
entusiasta, felice di vedere che andavano tutti d’accordo
come una famiglia.
Non aveva avuto cuore di dargli un dispiacere, perciò aveva
sospirato e aveva
annuito, garantendo che ci sarebbe stato e che per lui andava bene.
Anche se,
in verità, non gli piaceva per niente quell’idea.
Quelli non c’entravano nulla
con la loro vita, ma non poteva lamentarsi perché
l’unico ad avere delle
riserve nei loro confronti era lui, mentre tutti gli altri parevano non
vedere
l’ora di passare il tempo con i parigini. Cosa avessero di
speciale, lui
proprio non lo capiva, ma era abbastanza grande e intelligente per fare
finta
che non esistessero e provare a godersi la cena con quelli che amava
davvero.
-E
poi cos’è successo?- si intromise Namiur, alzando
un bicchiere verso
Thatch, il quale, camminando davanti a loro sopra ad una tavola
improvvisata,
si scopriva una gamba fino al ginocchio, tirando su i pantaloni.
Afferrò
il boccale e bevve una generosa sorsata di schiena,
restituendolo poi al fratello e, dopo aver deliziato i presenti con un
rutto,
finì il suo racconto. -Niente, mi hanno consigliato di
depilarmi e mi hanno
palpato il culo!-
Marco
nascose parte del volto tra le mani, voltando il capo per non
guardare oltre quella scena penosa in cui suo fratello si rendeva
ridicolo come
al solito. Quella storia l’aveva sentita mille volte ma,
puntualmente, ad ogni
festa doveva saltare fuori in modo da renderla nota anche agli ultimi
arrivati.
Sospirando
senza speranza, aprì gli occhi, guardandosi attorno con
l’intento
di estraniarsi per non ascoltare per l’ennesima volta il
finale assurdo che
quel cretino si divertiva a raccontare, adocchiando una figura intenta
a
divorare tranquillamente buona parte della sua cena, scroccando di
tanto in
tanto qualche pietanza dal piatto dei vicini ignari, i quali prestavano
tutta
la loro attenzione a Thatch senza accorgersi di nulla.
Fissò
a lungo come Ace ingurgitava una quantità assurda di cibo
senza
quasi prendere fiato, alternando carne, verdure, birra, pane, ancora
birra e
poi di nuovo carne. Sembrava che non mangiasse da giorni e, quando lo
vide
afferrare una stracciata borsa a tracolla verde e nera e ficcarci
dentro parte
degli avanzi, non poté fare a meno di sorridere, tornando
immediatamente freddo
quando si rese conto di quella reazione sciocca e inutile. Era solo un
classico
comportamento da mocciosi quello che aveva visto, nulla di
più. Lo facevano
tutti, quindi perché perdere tempo?
Indurendo
lo sguardo, riportò gli occhi davanti a lui, scoprendo con
sollievo che Thatch aveva finito la sua esibizione e si prodigava in
inchini,
accogliendo di buon grato le risate e gli applausi che gli venivano
fatti.
Come
Marco, anche Sabo aveva notato quello che stava facendo Ace e, dopo
essersi scambiato un’occhiata eloquente con il fratello, gli
passò lui stesso
il suo piatto con il cibo che era rimasto in modo che lo mettesse nel
sacco per
portarlo a casa. Il giorno dopo lo avrebbero dato alle famiglie che
soffrivano
di più il peso delle tasse sul pane e sugli alimenti.
Sembrava
che Ace fosse sempre al centro dell’attenzione di tutti,
perché
anche Koala stava da un po’ fissando quello che stava
combinando, incuriosita e
con un sorriso dolce sulle labbra. Era accanto a Sabo e, se si sporgeva
un
pochino, riusciva a vedere il ragazzo moro che, incurante di quello che
gli
stava accadendo attorno, ripuliva tutti i piatti senza nemmeno chiedere
il
permesso. Le scappò una risata sommessa quando lo vide
alzarsi per andare a
chiedere a Blamenco se avesse intenzione di finire la sua parte o se
poteva
prenderla lui.
Sabo,
sentendola, si voltò verso di lei con un sopracciglio
inarcato,
domandandole tacitamente cosa ci fosse, oltre a Thatch, di
così divertente.
Lei
si strinse nelle spalle, inclinando il capo di lato. -Ace.- disse
solamente, come se bastasse a spiegare il suo umore. Allora anche Sabo,
dopo
aver rivolto un’altra occhiata all’apparenza
esasperata, ma anche di profondo
affetto al fratello, sorrise, poggiando un gomito sul tavolo per
appoggiarci il
mento, girandosi completamente verso la ragazza per accertarsi di
escludere
tutti gli altri dalla conversazione.
-Lo
fa per non sprecare nulla.- chiarì, prima che iniziasse a
pensare
che era solo un ladruncolo, ma Koala riuscì a stupirlo con
la sua bontà
un’altra volta.
-Lo
avevo immaginato. Anche lui non era riuscito a finire tutto.
Inoltre, pure Haruta ed io, di tanto in tanto, lo facciamo.- concluse
sussurrando, facendosi più vicina al volto
dell’amico e mettendosi una mano al
lato della bocca per parlargli vicino all’orecchio. -Ma non
dirlo al babbo, lui
non lo sa.-
Sul
viso di Sabo si aprì un sorriso che sfociò in una
risata sonora,
tanto che reclinò il capo all’indietro, mentre
Koala si mordicchiava il labbro,
ridacchiando in maniera più contenuta per non attirare
troppo l’attenzione, colpendolo
intanto al braccio o sul petto nella speranza di farlo smettere.
Sembravano
due bambini che giocavano, avrebbe pensato qualcuno, ma a
notarli fu l’acuta vista di Thatch e, ovviamente, la sua
immaginazione fervida
e maliziosa iniziò subito a mettersi in moto.
Poggiò il boccale appena riempito
sul legno, schiarendosi la voce per lasciare uscire dalle labbra una
battutina
sarcastica e decisamente poco elegante, quando accanto a Koala vide
materializzarsi la figura minuta di Haruta, dovendo così
zittirsi all’istante e
perdendo parte del buonumore che aveva acquistato con
l’alcool.
La
guardò parlare con la compagna, salutando allegramente Sabo,
il quale
rispose educatamente, domandandole qualcosa che il castano non
riuscì a
sentire, vedendola poi allontanarsi agitando la mano verso quei due,
diretta
forse nella sua tenda a dormire.
Il
suo stomaco si chiuse e tutto l’interesse per la birra e per
la festa
che aveva atteso con impazienza dall’ora di pranzo
scomparirono a causa della
consapevolezza che Haruta, da un mese a quella parte, aveva smesso di
passare
il tempo in famiglia. La sera, solitamente, si trovavano tutti attorno
ad uno
dei focolari per chiacchierare, oppure andavano dal babbo, o
addirittura
passeggiavano per le paludi in compagnia, mentre, da quando gli aveva
urlato di
volerlo evitare, non la vedeva più. Inizialmente aveva
creduto impossibile non
riuscire a beccarla in qualche momento della giornata
all’accampamento, ma la
ragazza si stava rivelando più brava e furba del previsto.
Lo ignorava e
spariva l’attimo prima che lui arrivasse.
Quella
sera non si era nemmeno accorto del momento in cui era spuntata e
solo in quell’istante si era reso conto che ciò
era stato l’intento di Haruta
fin dal principio. Si comportava come se non vivesse
all’accampamento, non
mangiava più con i fratelli e non si allenava nemmeno
più dove era solita
farlo. Era praticamente scomparsa dalla sua vita.
E
lui non sapeva ancora perché.
Quando
Vista gli chiese dove era diretto quando si alzò da tavola
con
un’espressione dura e senza l’ombra di un sorriso
sulla faccia, gli rispose
semplicemente che andava a vomitare, in modo da tenersi tutti lontani e
avere
l’occasione di chiarire una volta per tutte quel problema che
Haruta sembrava
avere con lui. E se non voleva ascoltarlo allora l’avrebbe
obbligata.
-Lei
come sta?- stava chiedendo intanto Sabo a Koala, facendo un cenno
in direzione della ragazza che era appena passata a dare loro la
buonanotte.
-Insomma.-
sospirò lei, -E’ davvero tanto triste. Io cerco di
starle
vicina e anche Marco e gli altri che hanno capito la situazione, ma
credo si
senta ugualmente tanto sola.- gli confessò, scuotendo il
capo, tanto che una ciocca
ramata e ribelle le sfuggì dal cerchietto rosso che portava
per tenere in
ordine i capelli.
Senza
riflettere, Sabo la catturò tra le dita, giocherellandoci
distratto, ignorando il baccano che avveniva attorno a loro. A quanto
pareva, Curiel
aveva sostenuto di aver catturato da solo i cinghiali, mentre Blenheim
insisteva nel dire che era stato tutto merito suo, scatenando
così una salutare
rissa tra amici e fratelli alla quale si erano unite più
persone del previsto.
Si udì pure il timido suono di una chitarra e di un
tamburello rallegrare quel
momento.
-Potresti
portarla in città.- mormorò pensieroso Sabo,
fissando i
capelli morbidi di Koala che aveva ancora tra le mani. -Le farebbe bene
distrarsi.- decretò con sicurezza, rimettendo a posto la
ciocca e sorridendo
convinto alla ragazza di fronte a lui, il cui sguardo si illuminava per
la
bella idea che le aveva consigliato.
-Non
ci avevo pensato, ma hai ragione! Posso proporglielo e sono certa
che non dirà di no.-
-Sarà
entusiasta, credimi. Parigi sa conquistare chiunque.-
scherzò lui,
coinvolgendo pure la giovane.
-Come
te, insomma.-
Nell’esatto
momento in cui quella frase prese vita, Koala si sentì
andare a fuoco le guance, mentre, davanti a lei, Sabo si grattava la
nuca
imbarazzato, sorridendo appena. Accidenti, doveva imparare a smetterla
di dire
sempre quello che le passava per la mente.
-Cioè…
io volevo solo dire che, beh, sei… ehm, bravo c-con le
parole.
Uh, sai farti ascoltare, come nelle assemblee. Questo intendevo io,
ecco.-
balbettò insicura, guardando ovunque, tranne che verso di
lui e sperando che
qualcosa, qualsiasi cosa interrompesse quella tortura, mettendo fine
alla
figuraccia che stava facendo.
Il
miracolo arrivò dall’alto, cadendo rumorosamente
sotto al loro naso e
battendo sul tavolo, facendolo sussultare. Un qualche idiota aveva
bevuto
troppo ed era caduto dall’albero sul quale si era arrampicato
e, a giudicare
dal divertimento generale, non si era fatto gran ché, ma
aveva dato l’occasione
a Koala per scattare in piedi e battere in ritirata.
-Si
è fatto tardi, meglio che vada a dormire pure io.- disse di
fretta,
indietreggiando impacciata e con lo sguardo di Sabo addosso che, per
l’appunto,
sembrava avere una paralisi facciale dato che quel sorriso non voleva
saperne
di sparire.
-Buonanotte!-
sbottò infine, affrettandosi a voltarsi per scomparire
nella speranza che il ragazzo si ubriacasse e dimenticasse quella
sparata
colossale che il suo cervello non aveva censurato.
-Sei
molto bella, Koala.- si sentì dire e fu come se le venisse
tolta
tutta l’aria. Si bloccò all’istante, non
sapendo cosa fare o come reagire.
Qual’era la regola da rispettare in quelle circostanze?
C’era un elenco da
seguire o qualche frase da pronunciare? Ed era possibile che sentisse
le guance
in fiamme in quella maniera?
Si
abbracciò il petto con le braccia, stringendosi nelle
camicetta rosa
antico che aveva indossato.
Davvero
Sabo pensava che fosse bella? Insomma, lui viveva in città,
aveva una casa, dei vestiti puliti ed era sempre così
attento e gentile, mentre
lei cosa aveva? Aveva si e no tre paia di abiti, giusto il necessario
per
poterli indossare e lavare allo stesso tempo, viveva in mezzo al nulla
e
l’unica cosa che sapeva fare era il medico quando serviva e
leggere. Di certo,
nessuno le aveva mai detto che era bella per quelle poche cose che la
riguardavano.
Però
sentirselo dire le fece piacere, qualcosa doveva pur valere e detto
da Sabo, il quale, lo sapeva, era incapace di mentire, doveva essere
per forza
vero, quindi un pizzico di bellezza in lei c’era.
Così
si voltò, regalandogli un sorriso timido e mimando un grazie
con le
labbra, salutandolo prima di andarsene e perdendosi il sospiro
dall’aria
vagamente sognante che il ragazzo si lasciò sfuggire.
*
-M-marco…-
provò a dire un balbettante e nervoso Ace, immobilizzato
contro il tronco di un grosso albero senza vie di fuga da poter
prendere per
fuggire da quella situazione imbarazzante e sorprendente in cui mai
avrebbe
pensato di ritrovarsi.
Per
tutta risposta, il biondo si avvicinò ulteriormente a lui
fino a far
aderire il suo corpo accaldato a quello impietrito del ragazzo,
continuando a
lasciare una scia di baci sul collo del più piccolo che
sapevano di vino e
birra, ma anche di dolce e meringhe, giusto quelle che Sabo aveva
portato dalla
città per festeggiare, mordicchiandolo di tanto in tanto.
-Marco.-
riprovò allora Ace, con un po’ più di
fermezza nella voce con
la speranza di riuscire a farsi valere e a cavarsi da
quell’impiccio,
trattenendo però il respiro quando i denti
dell’uomo gli sfiorarono la gola.
Era
tutto così assurdo, lui non avrebbe dovuto trovarsi
lì, con il suo
nemico giurato mezzo ubriaco, anzi, totalmente ubriaco marcio,
spalmatogli
addosso, quasi come il formaggio che metteva Makino sul pane la
mattina,
intento a divorarlo lentamente.
-Non
credo c-che sia una b-buona idea.- Riuscì a dire tutto
d’un fiato.
Oh no, non lo era affatto, anzi, se li avessero beccati in quel
frangente, come
minimo lo avrebbero legato ad una delle postazioni delle sentinelle,
quelle
situate più in alto sugli alberi, senza cibo ne acqua.
-Ah
no?- sussurrò Marco, depositandogli l’ennesimo
bacio sulla pelle e
facendogli scorrere un brivido lungo la schiena.
Ma
che diavolo…?
Era
malizia quella che Ace sentì nella sua voce? E da quando
quel
bastardo si rivolgeva a lui in quel
modo e con quel tono? Di solito lo
guardava con disprezzo o lo ignorava bellamente. Di sicuro non lo
avvicinava in
quella maniera! Ancora non si capacitava di come se lo era ritrovato
tra i
piedi quella sera, sapeva solo che prima stava camminando con la sua
sacca
piena di cibo e quello dopo si era ritrovato sbattuto addosso a un
albero con
quell’inglese che senza troppe cerimonie gli si era avventato
contro.
Marco
approfittò di quel momento di silenzio per schiacciarlo
contro il
tronco e afferrargli saldamente un fianco per non permettergli di
muoversi,
scorrendo con le dita sotto al tessuto giallo della camicia e sentendo
come i
nervi di Ace si tendessero al suo passaggio.
Il
ragazzo si morse le labbra per non tremare a quel tocco, mentre
dentro di lui si muovevano sensazioni strane mai provate prima,
facendogli
quasi percepire il sangue che gli scorreva nelle vene e il cuore che
accelerava
il ritmo, svegliandolo completamente e rendendolo lucido. Aveva
l’impulso di
rispondere a quelle attenzioni, di aggrapparsi alle spalle di Marco e
di
affondare le dita tra quei capelli improbabili con il desiderio di
strapparglieli
per obbligarlo finalmente a prestargli attenzione. Voleva restituirgli
il gesto
e morderlo fino a fargli male, fino a fargli vedere che lui
c’era, che esisteva
e che non avrebbe smesso di comportarsi come era solito solo
perché a lui dava
fastidio.
Fottuto
inglese.
Ma,
quando le labbra di Marco risalirono la linea del collo fino alla
sua guancia, si rese conto che qualcosa non andava bene, che quello non
era il
principio di una rissa e nemmeno una casta discussione, no, quello era
tutto un
casino che gli stava facendo scoppiare la testa per la confusione.
Doveva
reagire, sapeva che il braccio destro di Barbabianca non era
lucido e voleva evitare fraintendimenti e casini irreversibili dato che
aveva
già perso troppo il sonno a causa sua. Non gli occorreva di
certo essere
additato come seduttore, figuriamoci. Lui, poi, che in
quell’ambito non ci
capiva niente!
Peccato
che quella inesperienza, però, giocasse a suo sfavore, visto
e
considerato che le attenzioni che Marco gli stava rivolgendo, sotto,
sotto, a
una parte di lui non dispiacevano affatto. Era un qualcosa di nuovo e
di
piacevole, tanto che avrebbe quasi voluto scoprire fino a che punto si
sarebbe
spinto quel fastidioso essere che gli aveva fatto capire che lo odiava,
ma la
paura di finire nei guai e l’antipatia che provava verso di
lui ebbero la
meglio.
Così,
con un sospiro stanco, posò entrambe le mani sul petto del
biondo,
facendo leva per staccarselo di dosso e allontanarlo, per sua fortuna
riuscendoci.
-Hai
bevuto troppo.- gli fece notare con sarcasmo, sorreggendolo quando
lo vide traballare incerto sulle sue gambe. -Meglio se vai a dormire.-
-Gneh,
io sto benis-simo!- contestò l’altro, colpito
nell’orgoglio e
desideroso di dimostrare la sua ormai perduta lucidità
mentale che, se fosse stata
presente, non gli avrebbe mai permesso di avvicinare Ace in quel modo.
Non
voleva comunque ammettere che tutto ciò di cui aveva bisogno
era un letto e un
secchio dove vomitare l’anima.
Ciò
Ace l’aveva capito dal colore pallido che aveva assunto il
volto di
Marco e dalle palpebre pesanti, così, ingoiando improperi e
giurando vendetta,
lo trascinò verso uno dei focolari poco lontani dove era
sicuro di aver visto
delle panche e qualche coperta. Non era certo di riuscire a portarlo
fino alla
sua tenda, la stessa che condivideva con Thatch, perciò
avrebbe dovuto
accontentarsi di dormire per terra e guai a lui se avesse avuto il
coraggio di
lamentarsi.
La
distanza era poca, circa una decina di metri, ma furono infinite tra
imprecazioni, risate sguaiate e senza motivo, battute insensate,
colorite e
ingegnose verso la madre di ignoti.
-Ecco!-
esalò il ragazzo, lasciando scivolare il più
grande su una delle
due panche disposte attorno al fuoco quasi al limite e gettandogli
addosso una
coperta raccattata da terra con poca grazia. -Bene, ora dormi, ne hai
bisogno.-
concluse scocciato e con una buona dose di acidità che non
si preoccupò di
nascondere, anche se vedere le condizioni pietose in cui Marco si era
ridotto
gli dava un senso di soddisfazione immenso.
Farlo
fuori in quel momento sarebbe stato un gioco da ragazzi.
Il
pensiero colpì Ace all’improvviso e fu talmente
sconvolgente che si
vergognò di se stesso. Aveva dovuto imparare troppo presto
ad uccidere per
salvarsi la vita e, ogni volta che sparava a qualcuno, doveva per forza
estraniarsi dal mondo e non pensare per non venire sopraffatto dalle
emozioni e
dall’ansia. Le domande erano la parte peggiore, si chiedeva
spesso se fosse
giusto o sbagliato, ma alla fine Shanks gli aveva spiegato che, a
volte, era solamente
necessario. Lui arrivava ad uccidere unicamente se non aveva altra
scelta o se
una persona a cui teneva era in pericolo. Per la sua famiglia, ad
esempio,
avrebbe raso al suolo un intero battaglione, ma uccidere
così, per puro piacere
o ripicca gli faceva rivoltare lo stomaco. Persino l’odio non
gli pareva un
buon motivo per arrivare a tanto.
Fu
per quello che si ripromise di chiarire i conti con Marco. Dovevano
trovare un modo per andare d’accordo e per non desiderare
costantemente di
scannarsi a vicenda. Certo, non sarebbe stato facile, lui per primo lo
ammetteva, ma continuare in quella maniera non avrebbe portato da
nessuna parte
e, se fosse servito a qualcosa, avrebbe fatto lui il primo passo quando
ne
avrebbe avuto l’occasione.
Presa
quella decisione, Ace mandò giù
l’ennesimo boccone amaro e si
avviò con la sua sacca piena di avanzi verso casa,
desideroso di buttarsi a
letto e cadere in un sonno profondo. Avrebbe lasciato il divertimento
agli
altri, lui, per quella notte, ne aveva avuto abbastanza.
Marco,
ormai, dormiva della grossa nel suo giaciglio improvvisato in
modo scomposto e, russando rumorosamente, si sarebbe svegliato al
mattino con
la sensazione di avere le ossa fracassate e di aver fatto qualche
cazzata
ridotta solo ad un vago ricordo riguardante la gola di qualcuno.
*
Era
il 27 di giugno e per le strade correvano un sacco di voci, tutte
diverse, ma tutte, fortunatamente, vere.
Gli
schiamazzi arrivavano persino alle orecchie disinteressate di Law
che, dalla sua stanza, non aveva la minima intenzione di uscire da
sotto le
lenzuola e scendere dal letto. Dopo la notte precedente non se ne
parlava
proprio.
Se
avesse saputo che Corazòn avrebbe fatto tutto quel casino,
di sicuro
non avrebbe mai permesso che quella cosa accadesse. Pazienza
l’arrivo di un
cucciolo, quello il suo tutore lo aveva accettato di buon grado,
affezionandosi
subito all’animale, un batuffolo di pelo tutto bianco e con
dei particolari e,
a detta di Law, interessanti occhi rossi. Nel giro di un mese il
cucciolo era
cresciuto notevolmente e di certo sarebbe cresciuto ancora, ma quella
non era
affatto una preoccupazione. Avevano spazio in casa e il giardinetto sul
retro
andava benissimo, purché non scappasse in strada. Law
dubitava che le guardie
avrebbero lasciato vivere a lungo un cane lupo una volta adulto.
Dove
lo avesse trovato quella testaccia rossa proprio non lo sapeva,
glielo aveva piazzato tra le braccia una sera nella sala dove operava,
tutto
sporco e con una zampa rotta, ordinandogli di curarlo e, non contento,
obbligandolo
a tenerlo perché non poteva vivere da solo. Alla domanda
sulla ragione per la
quale non potesse stare con Kidd, quello aveva risposto con una
semplicità
spiazzante, e con un po’ di sarcasmo che Law aveva mal
digerito, dicendogli che
non aveva una casa e che viveva a scrocco, solitamente da Ace senza
nemmeno
pagare l’affitto perché ci pensava il ragazzino.
Su
quella confessione, il dottore ci aveva riflettuto a lungo e, alla
fine, dato che quel ladruncolo dei sobborghi della Costa Azzurra aveva
preso
l’abitudine di fargli visita ad ore improponibili della notte
per elemosinare
qualcosa da mangiare, anche se inventava sempre un sacco di scuse per
non fare
la parte del mendicante, il ragazzo aveva deciso di tentare
l’impossibile.
Così, senza sapere nemmeno lui il perché di quel
comportamento, ne aveva prima
parlato col diretto interessato, rigirando la frittata in modo che non
sembrasse un invito e, una volta ottenuto il suo consenso,
l’aveva introdotto
in casa sue e, beh, presentato inevitabilmente a Corazòn.
Il
quale, per la precisione, si era chiuso nel suo classico mutismo e
non aveva più proferito parola.
Se
la ricordava benissimo la scena e difficilmente l’avrebbe
dimenticata, ne era certo.
Nel
bel mezzo della cena, lui si era alzato e, senza dire nulla, era
andato sul retro per raggiungere Eustass-ya che, indispettito per
l’attesa, era
entrato e si era fatto accompagnare, stranamente in maniera molto
composta e
docile, fino alla sala da pranzo dove, dopo che Law si era schiarito la
voce
per attirare su di sé lo sguardo del mentore, aveva fatto il
suo ingresso con i
suoi stracci, i suoi capelli disastrati, nemmeno l’ombra di
un sorriso e il suo
muso da schiaffi.
Corazòn
aveva sbattuto più volte le palpebre e, alla fine, aveva
spostato lo sguardo su Law che, in piedi accanto alla porta e con le
braccia
conserte, lo aveva guardato di rimando, intrattenendo una lunga ed
estenuante
gara di sguardi. Talmente lunga che, dopo un po’, Kidd si era
seduto a tavola e
aveva iniziato a sgraffignare qualcosa da mangiare. Alla fine, dopo
aver notato
con la coda dell’occhio l’uomo seduto davanti a lui
alzare le braccia al cielo
e scuotere il capo con esasperazione, stringendo le labbra truccate in
maniera
da allungarle quasi fino a coprire anche le guance e facendo dondolare
i
laccetti neri appesi al cappuccio della giacca che indossava terminanti
in due
cuori neri, Law era entrato al centro del suo campo visivo e si era
seduto a
capotavola, riprendendo il suo pasto e rendendo noto che lui sarebbe
stato loro
ospite fino a tempo debito. La cena si era consumata silenziosamente e
Law non
si era perso l’occhiata truce che Corazòn aveva
rivolto più volte al loro nuovo
coinquilino, ma aveva deciso di ignorare quel suo comportamento
protettivo
facendo di testa sua.
Ecco
come si era ritrovato a dividere il letto con Bepo, il suo nuovo
cane, e con quell’idiota che in quell’esatto
istante stava russando come una
locomotiva.
Si,
era stato costretto a far entrare Eustass-ya nel suo letto dopo che
Corazòn aveva chiuso a chiave tutte le stanze degli ospiti
per fargli un
dispetto, sapendo quanto lui amasse starsene tranquillo
all’interno della sua
stanza, il suo angolo di paradiso.
Sentì
Bepo muoversi a pochi centimetri dal suo viso e bastò una
carezza
all’animale per dargli il permesso di andare a leccare la
faccia addormentata
di Kidd che, sentendosi inumidire le guance, si svegliò
intontito e leggermente
preoccupato di essere finito a letto con una delle ragazze di Dadan.
Donne di
cui, per la precisione, aveva una paura fottuta perché aveva
sentito dire che
svuotavano le tasche dei poveri allocchi e li sciupavano fino allo
stremo. E
lui preferiva non restare traumatizzato da una notte di sesso, grazie
tante.
Quando
si rese conto che si trattava solo del cagnaccio, Law udì
una
sonora bestemmia e un tonfo sordo che doveva essere stato Bepo che
finiva con
un balzo giù dal letto. In un altro momento avrebbe
provveduto e soffocare Kidd
con un cuscino per aver colpito il suo cane, ma sapeva che
l’animale era
guarito dalla piccola storta che aveva preso, altro che frattura,
perciò lasciò
momentaneamente perdere la questione, preferendo sorridere sotto i
baffi per lo
strano risveglio che aveva avuto.
-Buongiorno
Eustass-ya.-
-Dannata
bestiaccia.- grugnì il rosso, ributtandosi sotto le coperte
con
la speranza di prendere nuovamente sonno, ignorando bellamente il
ragazzo
accanto a lui che, ridacchiando e conscio che il tempo di poltrire era
finito,
si levava di dosso le lenzuola per alzarsi e andare ad aprire la
finestra per
scoprire cosa metteva tutti così di buonumore.
Mettendo
la testa fuori non riuscì a capire niente e di richiamare
l’attenzione quando era a torso nudo non se ne parlava
proprio. Anzi, avrebbe
dovuto sbrigarsi a vestirsi se voleva evitare che a Kidd venisse un
altro
infarto vedendolo senza abiti come quando era successo la notte che si
era
intrufolato in casa sua per rubare.
-Ehi,
chiudi quella cazzo di finestra.-
Troppo
tardi,
pensò Law sogghignando, approfittando
dell’occasione per voltarsi e vedere come
l’espressione assonnata di Kidd lasciasse posto ad una
più sveglia e attenta.
Il suo ghigno si allargò e si ritrovò ad
ammettere che si sentiva quasi
euforico quando vedeva quello sguardo negli occhi ambra del rosso. Se
fosse
stato un po’ più esperto, avrebbe definito
l’atmosfera tra loro come attrazione,
ma non ne era del tutto
certo. Poteva benissimo trattarsi di una fase pre-infarto,
oppure di una situazione di stallo prima di uno
scoppio di eresie che, puntualmente, arrivarono l’attimo dopo.
-Che
diavolo fai? Vuoi che tutti ti vedano mezzo nudo?- sbraitò
Kidd,
alzandosi a sua volta e andando con poche falcate a chiudere le ante
del
balcone.
Law
incrociò le braccia al petto senza spostarsi di un
millimetro. -Sei
geloso?- lo stuzzicò con fare innocente, beccandosi
un’occhiataccia assassina.
-Fottiti.
Vado a lavarmi.- fu l’unica risposta che ricevette dal nuovo
ospite, il quale lo superò per dirigersi nella stanza
adiacente con l’intento
di gettarsi in faccia molta acqua, preferibilmente fredda, per mettere
fine al
caldo asfissiante che sentiva in corpo.
Law
si appoggiò alla parete e chiuse gli occhi nel tentativo di
calmarsi. Aveva cantato vittoria troppo presto per non aver subito la
fase
degli ormoni instabili quando era adolescente, ma, a quanto pareva, la
stava
iniziando a vivere in quell’ultimo periodo e quel poveraccio
non lo aiutava di
certo, anzi.
Sospirò
stizzito, ancora si chiedeva perché diavolo gli avesse
proposto
di stabilirsi momentaneamente da lui. Doveva essere stato colto da un
momento
di follia.
Quando
scesero a colazione, trovarono Corazòn intento a dare da
mangiare
a Bepo, accarezzandogli amorevolmente il capo e sorridendo quando la
bestiola
scodinzolava e si alzava su due zampe per avere ancora qualche pezzetto
di
cibo.
Non
appena si accorse dell’ingresso dei due ragazzi,
l’uomo si imbronciò
e fece finta di nulla, facendo sbuffare Law, il quale si sedette al
solito
posto, mentre Kidd lo affiancava, attento e vigile. Non si azzardava
nemmeno ad
abboffarsi come faceva alla locanda di Makino. Insomma, lì
lo facevano tutti,
mentre in quella casa usavano una serie infinita di posate e numerose
tazze e
piattini. Se avesse bevuto direttamente dalla brocca si sarebbero
scandalizzati?
Era
ancora indeciso su come agire, quando Law venne in suo soccorso,
fingendo indifferenza e muovendosi con calma in modo che Kidd potesse
imitarlo
senza sbagliare. E, quando il rosso si rese conto che anche quel
perfettino di
Trafalgar mangiava il pane con la marmellata usando le mani, si
sentì a casa e
non ebbe più nessuna paura.
Nel
frattempo, Corazòn aveva sbattuto sul tavolo il giornale e
il
chirurgo lo aveva afferrato con curiosità mentre finiva il
suo latte. A quanto
pareva, il Re aveva abbassato la corona, per modo di dire, e aveva
invitato il
Clero e la Nobiltà ad unirsi all’Assemblea
Nazionale. Law era certo che, ormai,
il Clero non avrebbe avuto più niente da ridire, ma aveva
qualche perplessità
sui nobili. In ogni caso, il popolo poteva portare tranquillamente
avanti
l’idea di creare una Costituzione. Era innegabile che
avessero ottenuto un
punto a loro favore.
Sorrise,
un sorriso sinistro e sardonico, mentre pensava ad alta voce
che quello era stato proprio un colpo di fortuna.
-Cosa
dice?- si informò Kidd, stanco di starlo a guardare mentre
sghignazzava come faceva solitamente al Quartier Generale davanti ad un
cadavere.
Per
tutta risposta, il moro gli passò il giornale.
-Beh?-
lo interrogò allora il rosso, spiazzato e infastidito.
-Leggi.-
Merde.
-Tu
hai appena letto, cosa ti costa dirmelo?- si scaldò,
lanciando da
parte il quotidiano e beccandosi in quella maniera
un’occhiata glaciale da
parte di Corazòn che, anche se si era alzando in piedi e
sbirciava le strade da
una finestra, aveva seguito lo scambio di battute e non si era perso
quel gesto
maleducato.
Law
alzò gli occhi su di lui e lo studiò qualche
istante, notando il
respiro un po’ accelerato e le mani strette a pugno.
Espressione truce e
arrabbiata a parte, sembrava quasi preoccupato e teso.
Un’idea sul perché di
quella reazione se l’era fatta, ma preferì
metterla da parte per un’altra
occasione, posando con pazienza la tazza sul piatto e preparandosi a
spiegare
con calma quello che era successo.
Più
tardi avrebbe chiesto a Kidd se aveva voglia di imparare a leggere.
*
-Ehi,
aspetta. Fermo, aspetta!-
Perona
stava
camminando a passo svelto lungo il corridoio illuminato dalle decine di
candelabri spolverati e lucidati, posti ordinatamente e con cura lungo
le
pareti, cercando inutilmente di attirare l’attenzione di
Mihawk che, con
espressione dura e senza la minima intenzione di fermarsi ad
ascoltarla,
procedeva svelto verso l’uscita con l’intento di
scendere nei bassifondi della
città e scomparire.
Sapeva
quello che la ragazza aveva da dirgli, lo immaginava benissimo,
nonostante non avessero
più avuto modo di parlasi dopo l’annuncio
ufficiale del suo fidanzamento.
A quanto
pareva, quei piccoli momenti che si erano ritagliati senza nemmeno
averne
l’intenzione, quelle ore che avevano passato in compagnia
quando avrebbero
potuto impiegare i giorni diversamente, quel loro segreto, se
così lo si voleva
chiamare, non gli apparteneva più.
Qualcuno,
e
Mihawk una vaga idea su chi fosse stato il colpevole ce
l’aveva, era corso a
spifferare, o a mettere la pulce nell’orecchio, al Re di quei
loro ritrovi
nella vecchia armeria, il quale lo aveva convocato al suo cospetto per
chiedergli spiegazioni. Al momento della confessione, lo spadaccino
aveva
mantenuto la calma senza lasciar trapelare nulla dai suoi occhi freddi
e
inespressivi, spiegando che doveva essere stato un malinteso e che
l’incontro
con la Principessa era stato puramente casuale. Sua Maestà
aveva annuito e non
aveva insistito, ma gli aveva espressamente fatto intendere che non
avrebbe
ammesso altri sbagli. Gli aveva affidato una serie infinita di
incarichi, per
la maggior parte sciocchezze per occupargli tutte le giornate e, come a
volersi
assicurare che la cosa non si ripetesse, quando qualche giorno prima
era giunto
a Palazzo uno sconosciuto Marchese del Lussemburgo, aveva pubblicamente
annunciato davanti a tutta la Corte reale Corte Reale e qualche membro
della
Flotta dei Sette, lui compreso, l’imminente matrimonio di sua
figlia per
sancire così un’amicizia che sarebbe tornata
comodo solo a lui e alle sue casse
nei momenti critici come, ad esempio, una Rivoluzione.
-Vi
ordino di
fermarvi!-
Mihawk
bloccò il suo passo, stringendo i pugni nascosti sotto al
mantello e indurendo
l’espressione già minacciosa presente sul suo
viso. Avevano lasciato perdere i
convenevoli, finendo per parlarsi con confidenza per molto tempo e quel
ritorno
di formalità lo aveva infastidito, ma doveva accettarlo e
farsela passare.
Quella ragazza era una principessa e avrebbe dovuto rivolgersi a lei
come tale.
Dopotutto, lei non si faceva problemi a dettare legge a destra e a
manca.
-Dobbiamo
parlare.- la sentì pronunciare alle sue spalle,
così decise di voltarsi per
fronteggiarla, trovandola a braccia conserte davanti a lui con gli
occhi che
lanciavano saette, infastidita dalla sua poca attenzione.
Sospirò
stancamente. -E di cosa?-
-Degli
allenamenti.- attaccò subito lei. -Non ti sei più
fatto vedere ed io…-
-Non ci
saranno più allenamenti, la questione è chiusa.-
dichiarò immediatamente, senza
permetterle di aggiungere altro. Non sarebbe servito a nulla perdere
tempo in
chiacchiere e lui andava di fretta. A quanto pareva,
l’Assemblea Nazionale
aveva riscosso più successo del previsto e a Corte
c’era un gran trambusto. In
quelle due ultime settimane erano cambiate talmente tante cose che
tutti
facevano fatica a rendersene conto veramente.
Circa due
settimane prima il Terzo Stato si era spostato nella chiesa di Saint Paul-Saint Louis dato che il Re
aveva fatto chiudere anche la sala della pallacorda, privandolo
così di un
luogo d’incontro. Peccato che quei poveracci non fossero del
tutto degli
zoticoni ignoranti, infatti non ci avevano messo molto a riprendersi e
a
passare al contrattacco, soprattutto perché la maggior parte
del Clero era
ufficialmente passata dalla loro parte. Ciò, Mihawk, lo
aveva previsto da molto
prima, anche se quando aveva esposto la sua idea al resto della Flotta
dei
Sette quelli non gli avevano dato retta, primo fra tutti Gekko Moria.
Inutile
dire che, quando i capricci del Monarca non avevano fatto altro che
accelerare
il corso della rivolta, lo spadaccino si era concesso di rivolgere
un’espressione
carica di superiorità e soddisfazione in direzione del suo
rivale,
innervosendolo e obbligandolo ad uscire adirato dalla stanza dove si
erano
riuniti. Dopo quell’avvenimento, Mihawk aveva creduto che
fosse finita, invece
il Re, non contento e troppo lontano dal popolo per poter capire il
loro
comportamento, aveva espresso la richiesta che l’Assemblea
rinunciasse a
continuare quella campagna, promettendo che egli avrebbe ugualmente
fatto il
bene della popolazione. Quella era stata, non solo secondo la Guardia
Reale, ma
anche a detta della maggior parte delle persone che avevano ancora
qualche
briciola di buon senso, l’azione più stupida e
incauta che un sovrano avesse
mai fatto. Ad onor del vero, nel giro di pochi giorni, i ranghi
dell’Assemblea
Nazionale erano aumentati, accogliendo nel giro un gran numero di
nobili.
Se
avessero
chiesto a Mihawk come si fosse sentito quando il Re aveva ammesso di
essersi
comportato in maniera azzardata e di aver fallito nel suo intento, lui
avrebbe
risposto che, a parte il divertimento iniziale, si era reso conto di
essere
stato uno stupido ad accettare di servire un buono a nulla come quello.
Ne
aveva avuto la prova un sacco di volte, ma aveva sempre finto di non
vedere
quella poca organizzazione, quell’ossessione per il denaro,
quel continuo
benestare che richiedeva ingenti somme ogni anno, soldi pubblici del
resto. Solo
in quell’ultimo periodo si era accorto
dell’assurdità della situazione ed era
ad un passo dal mollare tutto e andarsene. Chissà, magari
tra i Rivoluzionari
c’era posto anche per lui.
Qualche
giorno prima, inoltre, il popolo si era dichiarato Assemblea Nazionale
Costituente e sembrava più che intenzionato a mettere su
carta le basi per una
Costituzione, mentre la minaccia della caduta della monarchia assoluta
era
sempre più probabile. A discapito di tutto, il contraccolpo
militare che era
stato proposto tempo addietro durante una riunione con la Guardia
Cittadina e
tutto il corpo degli Ufficiali, aveva scaldato gli animi dei
Rivoluzionari e la
situazione stava per degenerare, mentre la minaccia di una rivolta era
nell’aria, lo sapevano tutti. L’aumento dei
gendarmi attorno a Versailles,
Parigi e Saint-Denis era stato coperto dall’arrivo di un
ospite del Lussemburgo
in visita a Corte, un certo Marchese di nome Cavendish, per
l’appunto il futuro
marito della Principessa Perona, sulla quale lui non poteva vantare
nessun
diritto.
Fece per
andarsene, muovendosi per darle di nuovo le spalle, ma Perona non era
dell’umore per affrontare la sua solita
scontrosità. Stava troppo male e aveva
passato gli ultimi giorni chiusa in camera a decidere cosa fare della
sua
misera vita, perciò non era affatto intenzionata a vedersi
sbattere un’altra
porta in faccia. Ne aveva passate troppe per vedersi mettere di nuovo
da parte.
Si mosse
veloce, nonostante l’abito lungo e quelle odiose e scomode
scarpette, e lo
afferrò per un braccio, sentendo subito il muscolo sotto
irrigidirsi, ma
ignorandolo.
-Stammi a
sentire.- sbottò, abbandonando le buone maniere che spesso
dimostrava di
detestare, -Non mi piace essere ignorata, quindi vedi di non voltarmi
mai più le
spalle!-
Non era
esattamente quello che avrebbe voluto dire, ma stava perdendo il
controllo e
non sapeva più se era la disperazione che la stava guidando
o la rabbia.
Mihawk le
si
parò di fronte, sovrastandola con la sua altezza e
fissandola con quei suoi
occhi inquietanti e severi, parlandole sottovoce quasi come se stesse
sibilando. -Vi chiedo perdono, Vostra Altezza, ma al momento sono di
fretta e
non posso perdere tempo dietro alle vostre lamentele.-
Per
Perona
fu l’ennesima pugnalata al petto.
Dopo che
suo
padre le aveva annunciato il suo già organizzato matrimonio,
dandole la notizia
davanti a tutta la Corte di nobili e sotto lo sguardo di Mihawk, aveva
passato
dei momenti infernali. Si era sentita tremendamente sbagliata, tutto le
era
parso soffocante, asfissiante e stretto. Dannatamente stretto da farla
quasi
soffocare. Anche in amore non le era stata concessa la
libertà di scelta e si
era ritrovata a dover incontrare uno sconosciuto proveniente da una
terra che
non aveva voglia di vedere e visitare. Figurarsi andarci a vivere.
Da
allora,
lui non le aveva più rivolto la parola e non si erano
più nemmeno visti. Lo
aveva cercato inizialmente, arrivando persino a bussare alla porta
della sua
stanza durante una notte in cui non era proprio riuscita a prendere
sonno, ma
non aveva ricevuto nessuna risposta, anche se era rimasta per un pezzo
a
bussare, prima sommessamente e dopo un pochino più forte,
quello che secondo le
bastava per svegliarlo, ma non era venuto nessuno ad aprire. In quel
momento
aveva capito che era rimasta di nuovo sola anche se, forse, visto il
comportamento di quello che era stato il suo maestro, lo era sempre
stata.
Non aveva
dimenticato l’occhiata che si erano scambiati non appena il
Re aveva annunciato
la schifosissima lieta notizia. Lei aveva immediatamente alzato gli
occhi e
l’aveva cercato, trovandolo in fondo alla sala intento a fare
altrettanto. Le
era venuto da piangere, ma si era trattenuta, sapendo che avrebbe solo
complicato le cose se si fosse messa a fare scenate in pubblico,
perciò aveva
incassato il colpo e drizzato le spalle, affrontando
quell’uragano di tristezza
che aveva provato quando lo aveva visto uscire a grandi falcate senza
più
voltarsi indietro. Non aveva capito perché aveva reagito in
quella maniera e
non se lo era nemmeno voluta chiedere per paura di darsi una risposta
che
l’avrebbe illusa e basta. Perché la
verità era che ci teneva troppo a quegli
allenamenti e a quelle ore di svago che l’avevano salvata dal
baratro della sua
esistenza in quei mesi. L’armeria era diventato il suo luogo
preferito in
assoluto dove poteva essere se stessa senza paure e senza maschere,
dove i
fantasmi del suo rango scomparivano, lasciandola libera. E si era,
inevitabilmente, affezionata a quell’uomo sempre
così controllato e distante
senza nemmeno rendersene conto, capendolo solo quando tutto era finito.
-Capisco.-
rispose sommessamente, anche se no, non capiva affatto, ma tanto a cosa
sarebbe
servito insistere? Cosa si era aspettata? Che disobbedisse agli ordini
per lei?
Che le desse qualche speranza? Che stesse male quanto lei per la piega
che
aveva preso la situazione?
Abbassò
lo
sguardo, celandogli i suoi occhi che si erano fatti lucidi, mollando la
presa e
indietreggiando di un passo.
-Andate
pure.- sussurrò, abbandonando le braccia lungo i fianchi.
Mihawk
tentennò un istante, per la prima volta indeciso sul da
farsi. Perché la vedeva
così abbattuta? Perché sembrava che le decisioni
prese da Sua Maestà facessero
comodo solo a lui, mentre ad entrambi risultavano dannatamente ingiuste
e
insensate?
Era sul
punto di prendere una decisione importante, tentennando con una mano a
mezz’aria, quando vide Perona alzare la testa di scatto e
fulminarlo con quei
suoi occhioni scuri, profondi e lucidi, irrimediabilmente feriti.
-Andatevene
via!- gli urlò contro, dandogli una motivazione per
allontanarsi da quel
corridoio una volta per tutte.
Scappare
non
era esattamente quello che avrebbe voluto fare, ma aveva ricevuto
determinati
ordini a riguardo e non aveva il permesso di stare in compagnia della
Principessa,
non più, anche se i suoi desideri erano altri.
E, fino a
che non avesse deciso se continuare o meno a sottostare al servizio
della
Corona o passare dall’altra parte della sponda, non si
sarebbe azzardato a
compromettere la sua posizione e quella di Perona. Non voleva causarle
altri
guai perché, se si era trovata costretta a doversi sposare
prima del previsto,
la colpa era stata solo sua e della sua presenza accanto a lei.
Angolo
Autrice.
Buon
lunedì
a tutti! so che non è sabato ma, ehi, il fine settimana
diventa sempre più
incasinato, perciò scusatemi il silenzioso aggiornamento
dell’ultima settimana,
so che non è stato carino, ma la verità
è che ero in piena crisi, giuro, ma non
volevo farvi aspettare ancora, quindi ho lasciato il tutto a questo
capitolo.
Vi lascio
le
immagini dello scorso che spero vi sia piaciuto, per la maggior parte
ci sono
stati cuori ovunque con Bonney e Perona, ma vi prometto che le
battaglie e il
sangue stanno epr arrivare, LOL.
https://fbcdn-sphotos-a-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xtf1/v/t1.0-9/11146308_1623899021162267_402847919391244699_n.jpg?oh=c49d76bffb9ef2351a789c55c643c049&oe=559AB8E7&__gda__=1436666556_db84d3e73c6c541a679347ca9e577508
https://fbcdn-sphotos-g-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xpa1/v/t1.0-9/11078225_1623899014495601_3594890387658983955_n.jpg?oh=890c254db687498d58b53239ecb1d6c3&oe=55E2D26C&__gda__=1441129734_d489f0e41ce748781507003a188c1997
https://scontent-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xaf1/v/t1.0-9/20488_1623899024495600_8046539231085380492_n.jpg?oh=b0dcadd7762836130268cf9e03799789&oe=55DBE7BB
Passiamo
ora
al capitolo di oggi.
Thatch,
Ace
e un pollo nella borsa che, quasi quasi, chiamerei Rosita; Sabo e Koala
che
fanno i ruffiani; Marco che vuole violentare Ace, mlmlml; Kidd, Law e
Corazòn
sotto lo stesso tetto, Bepo compreso; e, per finire, un bel
fraintendimento di
sentimenti per Perona e Mihawk.
Un bel
mazzo, direi.
Ma siamo
in
dirittura di arrivo, non per la fine della storia, ma per la
Rivoluzione ^^
https://scontent-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xft1/v/t1.0-9/11148817_1623902971161872_7880381437572999838_n.png?oh=ca793c46e536a75a550c8d6afb9e0fcf&oe=559EAF4D
Penso sia
quello che molti aspettavano. Un passo dopo l’altro, insulti
e bestemmie,
qualcosa tra i due si smuove, peccato si tratti solo della birra! Cose
che
capitano, anche se da questo momento in poi, Ace le proverà
tutte per sistemare
le cose. Almeno, ci proverà.
https://fbcdn-sphotos-e-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xft1/v/t1.0-9/10989113_1623903021161867_3011417808306949898_n.jpg?oh=633bbd416ad914b3b52c5bb89035265e&oe=55A0AAD6&__gda__=1440557495_918f3c48d20bddbf6ddf1fac82bcc570
E intanto
Sabo e Koala diventano sempre più amici. Sono
così carini che per loro riservo
solo romanticismo, dolci e zucchero in abbondanza da far venire il
diabete a
chiunque. Anche se Sabo continua a non capire niente.
https://fbcdn-sphotos-h-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xfp1/v/t1.0-9/11148457_1623902801161889_1222714807869739144_n.jpg?oh=150c843c39f12277d3f99cb29f82c8f9&oe=55E27E3E&__gda__=1440977774_1fb9c9a9d251816043d06bb9ffe11701
Bepo
diventerà grande e bello proprio in questo modo ** per
averne un esempio
migliore, chi segue il Trono di Spade dovrà solo immaginarsi
Spettro, il
metalupo di Jon Snow :3 a quanto pare, Kidd ha trovato la bestiola in
giro e ha
pensato di fare un regalo darlo in affido a Law, il
quale, NON SI SA
PERCHE’, ha deciso di ospitarlo in casa. Con
Corazòn iper-protettivo. Bene,
andiamo proprio bene.
https://scontent-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xtp1/v/t1.0-9/11159978_1623902767828559_2500802538062241887_n.jpg?oh=8f0a7e62672aada02626dae8e60bac11&oe=55A2B949
https://scontent-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xfp1/v/t1.0-9/11061242_1623902814495221_748476397308544098_n.jpg?oh=61b9de82365a69dacb4a31ee9fecaac6&oe=55A71D9E
Questi
due
non saranno mai felici, punto. Troppi problemi, troppe regole, tutto
troppo
stretto per Perona e troppo impegnativo per Mihawk, ma staremo a
vedere. Dopotutto,
il 14 luglio si avvicina e servono altri uomini nei ranghi dei
Rivoluzionari.
Siamo
alla
fine, per oggi. La prossima settimana credo che aggiornerò
di nuovo di lunedì
perché il fine settimana sarà difficile, credo.
Come
sempre
grazie a tutti, vecchi e nuovi lettori ^^ vorrei solo essere
più presente,
scusate.
Un
abbraccione
a tutti!
See yaa,
Ace.
|
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Capitolo 13 *** Treize. ***
Liberté,
Égalité, Fraternité.
Treize.
-Allora? Che
cosa hanno fatto?-
-Dannazione,
Eustass-ya! Applicati, ti risulta così difficile?-
Raramente
Trafalgar Law perdeva la pazienza e quelle poche volte in cui capitava
si
assicurava di essere da solo in maniera da poter sfogare la sua rabbia
senza
nessuno attorno. Quel giorno, invece, oltre che alla fonte del suo
fastidio,
c’erano anche Penguin e Shachi, spaparanzati su un divanetto
posto in un lato
della sala dove visitavano i pazienti. Stavano mangiando qualche frutto
che Bonney
era passata a portare loro durante il pomeriggio per merenda, dicendo
che al
locale ne avevano troppi e che non andavano mangiati. Da quando quella
ragazza
avesse preso a gironzolare per le strade, loro non lo sapevano, visto
il suo
trauma infantile, ma se usciva accompagnata da Nami o da Baby,
certamente non
correva rischi.
Intanto,
lui
si massaggiava le tempie per evitare un mal di testa con i fiocchi,
dato che
quell’ignorante di Kidd non sembrava incline a volerlo
ascoltare.
-Ne ho
piene
le palle di questa roba! Dimmi che cazzo succede e facciamola finita!-
stava
insistendo il rosso, scaraventando i vari fogli di giornale sul
pavimento.
-E’
tutto
scritto lì. Se solo tu sapessi leggere non ci sarebbero
questi problemi!-
ribatté il dottore al limite dell’esasperazione.
Era
assurdo,
quell’ammasso di muscoli si stava rivelando una vera capra,
tanto che fargli da
insegnante era risultata una pessima idea e uno spreco di tempo. Non
voleva
imparare, non ascoltava e non si impegnava nemmeno, quindi lui, per
ripicca,
non gli diceva cosa scrivevano i giornali. E fanculo lui e le sue urla.
Non gli
avrebbe detto per quale motivo, quella mattina del 12 luglio, la folla
si era
radunata davanti ai cancelli della Reggia Reale con
l’intenzione di mostrare il
malcontento generale scatenato dalla destituzione di un nobile francese
che
aveva mostrato, forse troppo apertamente, di essere a favore del popolo
davanti
ai nobili e al Sovrano stesso. La sua causa era stata presa a cuore dai
cittadini e poco prima avevano fatto il diavolo a quattro, ottenendo
solo la
reazione dell’esercito posto a protezione del Palazzo.
Ciò aveva procurato
parecchio lavoro a Law, impegnandolo l’intera giornata a
ricucire qualche vittima
e risanare qualche ferita superficiale, niente di così
pesante, ma il difficile
si stava presentando in quel frangente, con Kidd che faceva i capricci
per non
fare i compiti come se fosse stato un moccioso.
Se si
fosse
comportato meglio e, soprattutto, se avesse preso sul serio
l’opportunità di
imparare a leggere, avrebbe certamente saputo che Shanks, tramite i
suoi rappresentati,
aveva richiesto al Re, in modi educati ma fermi, la rimozione delle
truppe da
Parigi, ottenendo come risposta che solo il Monarca poteva prendere
decisioni
sulla milizia e che quei militari stavano lì solamente per
precauzione. A
quella notizia, Law, così come il resto dei Rivoluzionari,
si erano fatti una
bella risata carica di sarcasmo e disprezzo. Ancora ricordava il pugno
chiuso
che si era abbattuto con stizza sul tavolo delle riunioni impreviste,
quelle
che venivano indette all’ultimo minuto e con i pochi presenti
che si
racimolavano. Ace aveva espresso il suo parere in maniera colorita e
con frasi degne
di un vero scaricatore di porto, tanto che da Kidd, che aveva
ridacchiato per
quella sua esplosione, era partito un applauso di rispetto per quelle
eresie
che erano uscite dalla bocca del corvino. Ovviamente, gli era andato
dietro per
non essere da meno, anche se di quello che stava succedendo a Parigi
sapeva
poco o niente, visto che Law aveva proibito a chiunque di rispondere
alle
domande del rosso. Per convincerli, aveva minacciato di ridurli a cavie
per i
suoi studi. Dopotutto, doveva ancora scoprire cosa si nascondeva nelle
viscere
di uno stomaco umano.
Era ovvio
che l’aumento delle guardie serviva solo a garantire al Re
una qualche via di
fuga e, quando aveva proposto all’Assemblea Nazionale di
spostare la sede in
modo da metterla al centro degli eserciti e averla in pugno, quello che
aveva
ottenuto era stato un bel dito medio da parte della popolazione, quello
di
Trafalgar compreso, dimostrando così che la decisione
negativa era stata presa
con l’intera nazione. Bisognava ammetterlo, l’idea
che aveva avuto Sabo, ovvero
quella di prendere in considerazione il pensiero di tutti i cittadini,
era
riuscita perfettamente e lui si era dimostrato proprio un piccolo
bastardo
calcolatore. Shanks poteva andare fiero dei suoi ragazzi.
La stampa
aveva fatto una fortuna con i giornali, dato che non si era parlato
d’altro per
giorni e in tutte le piazze, salotti mondani compresi. Le
Palais Royal e l’area circostante erano diventati
luoghi
d’incontro tra la gente e la questione politica era diventata
talmente importante
da far si che l’Assemblea decidesse di far liberare alcuni
gendarmi che erano
stati imprigionati per non aver aperto il fuoco sulla folla durante una
rivolta, chiedendo e ottenendo per loro il perdono. Altra mossa
strategica con
la quale i Rivoluzionari si erano guadagnati la simpatia e la fiducia
dell’esercito.
Infine,
era
toccato a quel tale, un ministro con idee troppo filo-popolari, per
quel motivo
la folla aveva organizzato una manifestazione di protesta, con tanto di
statue
raffiguranti il busto del nobile, opera che era finita in frantumi a
causa
delle guardie.
Secondo
il
modesto parere di Law, quella era stata una mossa sbagliata davanti
alla quale
Shanks e il resto degli Imperatori non sarebbero rimasti impassibili.
-Beh? Me
lo
dici o devo cavarti le parole di bocca con la forza?-
insisté di nuovo Kidd,
schioccandosi minaccioso le nocche.
Law, che
era
veramente stanco di quelle proteste assillanti, voltò il
capo verso di lui e lo
deliziò di un contorto sorriso che prometteva solo guai. Si
poteva definirlo il
suo biglietto da visita, il ghigno che avrebbe fatto impallidire il
peggiore
dei diavoli, quello del Chirurgo della Morte.
-Provaci.
Sarebbe estremamente divertente.- disse, sembrando uno squilibrato,
tanto che
riuscì ad inquietare persino uno come Kidd, il quale,
frustrato, lo oltrepassò
e uscì dalla stanza, non senza prima aver sbattuto la porta,
fregandosene di
dover tornare a casa con quell’individuo.
Lasciatosi
alle spalle quell’essere fastidioso con il quale si era
ritrovato costretto a
dividere troppe ore delle sue giornate, tra cena, notte e colazione, si
avviò a
passo di carica al piano superiore, più che intenzionato a
schiaristi le idee.
Avrebbe afferrato per la collottola il primo poveraccio che gli fosse
capitato
a tiro e lo avrebbe obbligato a suon di pugni a rivelargli quello che
stava
succedendo.
Fu Ace a
finirgli addosso mentre saliva le scale, travolgendolo in uno scontro
impossibile da evitare e facendo rotolare entrambi giù per i
gradini, finendo
sul pavimento in un ammasso intricato di gambe e braccia. Inutile dire
che
l’umore del rosso era peggiorato ulteriormente.
-Moccioso,-
sputò con rabbia, -Hai tre secondi per dire le tue
preghiere.-
-Oh, ma
va’
al diavolo, Kidd! Sei sempre in mezzo ai co…-
-Un’altra
parola e ti strappo anche le tonsille.-
-Ma che
state facendo voi due?- li apostrofò la voce di Benn, il
quale, stringendo un
sigaro tra le labbra, afferrò entrambi per il colletto delle
loro camicie e li
sollevò da terra, spingendoli poi verso il terzo piano,
sgridandoli per tutto
il chiasso che avevano fatto.
Una volta
raggiunto l’ultimo piano, l’uomo, senza lasciare
andare i due giovani, aprì la
porta socchiusa con un calcio e li fece ruzzolare dentro quella che era
stata
prima dell’inizio della Rivoluzione un granaio, ecco spiegate
le travi del
soffitto impolverate e piene di ragnatele. Al centro, posizionato alla
meno
peggio e con una gamba mancante rimpiazzata da un palo di una
staccionata, era
stato messo un tavolo sgangherato, con due sedie di numero e qualche
candelabro
posto sopra a dei vecchi mobili inutilizzati da tempo.
-Marmocchi
indisciplinati.- sbuffò Benn, spegnendo il suo sigaro
schiacciandolo contro la
parete e superandoli, lasciando che si alzassero da soli. Aveva avuto
la
tentazione di dare ad entrambi un calcio nel sedere, ma si era
trattenuto solo
perché avevano cose più importanti da fare.
-Sempre a
combinare guai, vero?-
Ace
sogghignò quando Sabo gli si parò davanti,
porgendogli una mano come sostegno,
mentre Kidd, accanto a loro, brontolava a mezza voce qualche insulto.
-E’
stata
colpa sua, lo giuro!- disse subito il corvino, mettendosi addirittura
una mano
sul cuore per dare più enfasi alle sue parole.
-Ehi, sei
tu
che mi sei venuto addosso!- si intromise subito il rosso, sentendosi
preso in
causa e volendo mettere in chiaro la sua innocenza. Lui stava solo
cercando di
allontanarsi il più possibile da quel dottore rognoso, era
stato il piccoletto
che gli era piombato addosso come un proiettile.
Sabo li
guardava curioso, ma il teatrino venne interrotto da Shanks che,
ordinando con
voce ferma a tutti di chiudere il becco, ottenne il silenzio che
agognava da
parecchio per mettere tutti al corrente degli ultimi avvenimenti.
Ace lo
osservò attentamente, zittendosi e mostrandosi loquace.
Shanks aveva un’aria
stanca e tirata, un bel paio di occhiaie gli segnavano gli occhi
assonnati, i
capelli gli ricadevano disordinati sulla fronte, mentre la barba
incolta e
ispida gli aveva ricoperto parte del viso. Gli abiti che portava erano
gli
stessi che gli aveva visto addosso qualche giorno prima, segno che non
passava
alla locanda da parecchio.
L’uomo
appoggiò le mani sul bordo del tavolo, sospirando prima di
iniziare a parlare.
-Dunque,-
disse serio, -Poco fa abbiamo mandato una missiva a Corte e abbiamo
avvertito,
sempre in maniera fin troppo civile, che se Sua Maestà non
ritirerà le truppe,
Parigi correrà un grosso rischio.-
Benn,
poco
distante, annuì, d’accordo con il compagno,
guardando intanto le facce dei tre
ragazzi posti in angoli diversi della stanza, tutti ben distanti tra
loro. Kidd
si era isolato per sua scelta, Ace aveva trovato una comoda seduta su
un
vecchio divanetto e Sabo se ne stava appoggiato alla parete, assorto
nei suoi
pensieri e concentrato sul capo.
Fu lui il
primo a porre una domanda che ronzava in testa a tutti, Benn compreso,
il quale
non aveva ancora avuto modo di porla direttamente a Shanks.
-Cosa ha
risposto?-
Il Rosso
sorrise sarcastico in risposta. -Ha dichiarato che non
cambierà le sue
disposizioni.-
-Non
avevo
dubbi.- sbottò allora Kidd con una mezza risata, ma senza
traccia di
divertimento. Era più che altro di scherno. -Lo avete
praticamente minacciato.-
Ace,
riflettendoci meglio, si ritrovò dello stesso parere e
boccheggiò per qualche
secondo davanti a quella notizia. Perché mai Shanks aveva
agito in un modo
tanto sfacciato, sapendo quanto la situazione fosse stata in stallo? Il
Re
avrebbe potuto decidere di attaccare la città da un momento
all’altro per un
affronto del genere.
-Shanks,
con
tutto il rispetto,- provò a dire Sabo, mantenendo la calma,
-Non ti sembra di
avere esagerato?-
Ed ecco
che
sul volto del Rivoluzionario il sorrisetto iniziale si
allargò in modo
preoccupante. -Oh, ho sicuramente esagerato.- ammise lui stesso,
confondendo
sempre più i presenti. -E’ proprio questo che
costringerà il Re a fare una
mossa sbagliata.-
-Cosa
intendi?- fece Benn, muovendosi irrequieto e accendendosi un altro
sigaro per
tranquillizzarsi.
-Semplice:
non appena la Corona muoverà le pedine contro Parigi, noi
insorgeremo con una rivolta.-
Ace e
Kidd
scattarono addosso al tavolo che, fortunatamente si frapponeva tra loro
e
Shanks, il quale si ritrovò i due ragazzi a pochi centimetri
dalla sua faccia
intenti a fargli domande e a chiedergli spiegazioni sotto lo sguardo
divertito
del suo vecchio amico Benn che, assottigliando gli occhi e sorridendo
malignamente, lo guardava con un’espressione che sembrava
dire ‘sono affari tuoi,
adesso’.
L’unico
che non
si era mosso era stato Sabo, il quale, sconcertato e offeso,
batté un pugno
addosso al muro, mostrando il suo dissenso e attirando
l’attenzione su di sé e
sul suo cipiglio arrabbiato.
-Non hai
pensato ai cittadini?- ringhiò alterato, fissando il Rosso
in maniera torva,
-Gli darai l’opportunità di colpire una parte
della città che, anche se minima,
causerà delle morti?-
Shanks
sospirò piano, raddrizzando la schiena e facendo il giro del
tavolo per
percorrere i pochi passi che lo separavano da quel giovane che vedeva
crescere
ogni giorno di più. Una volta che fu faccia a faccia con
lui, gli posò una mano
su una spalla e la strinse in modo da non permettergli di scostarsi,
guardandolo dritto negli occhi.
-So per
certo che non attaccherà il popolo, Sabo.-
-Come
puoi
esserne sicuro?- lo sfidò il biondo, incredulo.
-Un uomo
che
si trova a stretto contatto con il Re e l’intero corpo di
guardia è venuto a
cercarmi e mi ha riferito un paio di cose interessanti. Non so come
agirà la
milizia, ma di sicuro non verranno coinvolti i parigini. Noi non gliene
daremo
il tempo.-
Sabo
rimase
senza parole per qualche secondo, tempo durante il quale Ace avrebbe
voluto
chiedere di chi si trattasse ma, notando l’espressione
stranita di Benn, si
rese conto che nessuno a parte Shanks sapeva di quella soffiata e, se
conosceva
bene il Rosso, qualcosa gli diceva che non aveva intenzione di rivelare
tutte
le sue carte, non per il momento.
-Di chi
si
tratta?- chiese Sabo, più calmo.
-Non
posso
dirtelo, ho promesso di non citarlo se non fosse stato necessario. Ti
basti
sapere che è uno si cui ci si può fidare.-
-E’
un
ufficiale?- ipotizzò Kidd. Solo uno che fosse stato dentro
il giro dei militari
avrebbe potuto conoscere certi movimenti e, che lui sapesse, i
Rivoluzionari
non avevano più inserito spie o corrotto guardie nella
cerchia della polizia
locale.
Shanks
scosse il capo, ghignando enigmatico e spostandosi per recuperare il
suo
mantello appeso ad un chiodo con l’intento di uscire e andare
a casa. Aveva
fame e il letto di Makino gli mancava, ma all’ultimo momento
si ricordò che
c’era ancora una cosa da fare e che non poteva assolutamente
essere rimandata.
Quella notte, ne lui ne Ace avrebbero dormito.
Così,
facendo un cenno al corvino per dirgli di seguirlo, si avviò
verso l’uscita con
il ragazzo al suo seguito, stranito e all’oscuro del suo
piano.
-Meglio.-
annunciò prima di varcare la soglia. -E’ un membro
della Flotta dei Sette.-
*
-Perché
stiamo andando all’accampamento adesso?-
chiese il giovane, arrancando tra le sterpaglie, facendo attenzione a
dove
metteva i piedi perché, a causa del buio pesto, non vedeva
nulla e la lanterna
che Shanks teneva in mano davanti a loro per illuminare la via serviva
a poco.
L’uomo,
alzando gli occhi al cielo, rispose con calma, come se stesse spiegando
un
concetto difficile ad un bambino ed Ace, a volte, lo era davvero. -Te
l’ho
detto, abbiamo un appuntamento con Barbabianca.-
-E il
vecchio non poteva aspettare domani?- fece sarcastico il moro, facendo
una
smorfia per evidenziare il suo disappunto. Era notte fonda, la
città era in
fermento e lui aveva sonno, non era proprio dell’umore adatto
per una riunione
improvvisata.
E poi, se
doveva dirla tutta, aveva delle preferenze all’accampamento,
anche se non era
carino da parte sua, dato che la sua infanzia gli aveva insegnato ad
essere
amico di tutti, ma quelle persone, alcune in particolari, difficilmente
gli
andavano a genio. Primo tra tutti era Marco, la cosa non era nuova a
nessuno,
poi c’era anche Barbabianca stesso, il quale gli sembrava
troppo ben disposto a
raccogliere gli sconosciuti sotto la sua ala protettiva. Ciò
lo spaventava un
poco e lo metteva in soggezione, tanto che meno gli stava accanto,
meglio si
sentiva. Era una sensazione strana che solo quelli che erano cresciuti
senza un
padre potevano capire, almeno, quella era la spiegazione più
plausibile che Ace
aveva trovato, ma si era ugualmente ripromesso che avrebbe fatto uno
sforzo per
farsi piacere tutti, giusto per non complicare di più la
situazione.
Certo
era,
però, che perdere il sonno non aumentava la sua simpatia nei
confronti di
quegli stranieri.
-Fidati,
è
per una buona causa.- dopo di ché, Shanks si fece silenzioso
e chiuse quel
discorso, addentrandosi sempre più nelle paludi per
raggiungere l’accampamento.
Incontrarono
un paio di sentinelle lungo il sentiero, tutte persone con le quali Ace
ci
aveva parlato almeno una volta, quindi passarono senza troppi problemi,
raggiungendo finalmente il focolare più grande, quello
centrale dove, molto
spesso, tutti si fermavano a mangiare.
Le braci
erano al limite, una precauzione che bisognava mantenere
affinché le fiamme non
facessero troppo fumo e non rischiassero di appiccare qualche incendio
accidentale che avrebbe messo a rischio la loro permanenza in quei
dintorni.
Ace si
guardò attorno e, non vedendo nessuno, fece per aprire
bocca, ma Shanks lo
precedette.
-Arriveranno
presto.-
Allora il
giovane sbuffò seccato, superandolo e sedendosi su un tronco
per non stare in
piedi durante l’attesa.
Stava
quasi
per addormentarsi quando arrivò Barbabianca, destandolo dal
torpore e dando un
motivo alle sue gambe di alzarsi per non farsi trovare impreparato o
poco attento.
Gli piaceva mantenere un atteggiamento sempre fiero quando si trovava
di fronte
quell’uomo tanto alto quanto largo, imponente e leggermente
intimidatorio.
Avrebbe fatto paura ai meno temerari se non avesse avuto
quell’enorme sorriso
sempre sul volto, ma Ace non era uno che si impressionava facilmente e
non
perdeva mai l’occasione per fare lo spaccone in sua presenza.
Per qualche
strana e contorta ragione, vedere il vecchio ridacchiare per il suo
comportamento non lo offendeva, ma al contrario gli dava un motivo in
più per
mettersi in mostra, come se dovesse avere la sua attenzione.
O la sua
approvazione.
-Newgate.-
disse Shanks, alzando un braccio e sorridendo cordiale.
-Rosso.-
lo salutò
il vecchio, raggiungendolo e porgendogli la mano che l’altro
strinse
calorosamente. -Oh, ciao Ace. E’ un po’ che non ti
vedo.- si rivolse poi al
giovane, il quale si irrigidì e voltò il capo
altrove per mantenere un’aria
distaccata che faticava a mostrare mano a mano che il tempo passava.
Non voleva
avvicinarsi troppo a quella gente, ma allo stesso tempo voleva
conoscerli e
quei loro modi così aperti, gentili e schifosamente
altruisti lo facevano
sentire a disagio a volte, sorprendendolo.
Barbabianca
rise divertito, spostandosi di lato per sedersi di fronte a Shanks,
rivelando
allora una figura in piedi alle sue spalle.
-Marco.-
-Shanks.-
rispose il biondo con un cenno del capo in direzione del
Rivoluzionario, non
prestando minimamente attenzione a Ace, il quale, al solo sentir
pronunciare il
suo nome, si era girato di scatto verso di lui con il battito
accelerato e le
mani strette a pugno. Accantonando le sue antipatie, e cercando di non
pensare
per nessuna ragione al contatto troppo ravvicinato che avevano avuto,
era stato
sul punto di salutarlo, ma il braccio destro di Barbabianca lo aveva
ignorato
come sempre, facendogli ribollire il sangue nelle vene, mentre
un’insana voglia
di prenderlo a pugni gli aveva fatto digrignare i denti con rabbia.
Allora si
sedette accanto al Rosso, incrociando le braccia al petto e zittendosi,
ma
fissando lo sguardo sul viso di Marco con l’intenzione di
guardarlo fino a
obbligarlo a degnarlo di attenzione. Se era la guerra che voleva,
allora
l’avrebbe avuta e gli avrebbe pure dimostrato che lui
esisteva e non poteva
essere ignorato per sempre.
E mi volevi pure
baciare, stronzo! pensò
irritato, battendo nervosamente un piede a
terra.
Shanks,
dopo
aver fatto scorrere gli occhi per un istante tra i due, scambiandosi
poi
un’occhiata con Barbabianca, prese un respiro profondo per
iniziare a parlare.
-Dunque,
Sua
Maestà non ha accettato di ritirare le truppe,
perciò mi vedo costretto ad
agire.- spiegò al suo alleato, -Inizieremo da domani, non
posso permettermi di
perdere altro tempo e, come sai, il rischio diventa sempre
più alto.-
Si
parlavano
come vecchi amici, alcuni uomini li avevano visti persino darsi pacche
sulle
spalle o sedere vicini bevendo un boccale di vino o birra, addirittura
lasciandosi scappare qualche risata. Shanks, dal canto suo, rispettava
Edward
Newgate, lo riteneva un uomo leale e un compagno fidato, pensiero
reciproco che
condivideva anche Barbabianca, il quale lo ammirava per tutto quello
che faceva
per salvare la sua Parigi. Avevano molto in comune, entrambi attaccati
alle
loro famiglie, entrambi desiderosi di migliorare il mondo per i loro
cari,
entrambi con qualcuno da amare e qualcosa da perdere.
-Siamo
pronti, puoi contare su di me e sui miei uomini.- annuì
Newgate, imitato da
Marco accanto a lui che, sempre fingendo che a quell’incontro
ci fosse solo
Shanks, gli domandò in che modo avrebbero potuto rendersi
utili.
Fu allora
che il Rosso si sentì lievemente imbarazzato, tanto che si
morse un labbro,
passandosi una mano tra i capelli con fare indeciso e lanciando
occhiate di
richiesta di aiuto a Barbabianca. I due avevano discusso molte volte
sul da
farsi, preparando in anticipo svariati metodi di attacco e di difesa in
modo da
non correre il rischio di venire colti impreparati quando sarebbe
scoppiata la
guerra e in quel frangente si erano visti costretti a mettere in
pratica una
loro teoria che, fin dall’inizio, era sembrata impossibile,
anche se entrambi,
almeno un pochino, speravano potesse realizzarsi senza troppe
catastrofi.
-Ecco,
vedete, è una cosa da niente.- balbettò Shanks,
ridacchiando nervoso.
-Un gioco
da
ragazzi!- lo soccorse il vecchio, battendo il pugno sul palmo della
mano, come
a voler far risaltare la sua convinzione. In realtà non ci
credeva più molto,
ma valeva la pena provare.
Marco
rimase
in silenzio, attendendo con pazienza che la smettessero di fare i
bambini e che
vuotassero il sacco, mentre Ace, spostando lo sguardo
dall’uno all’altro,
inclinò il capo confuso e decise di chiedere spiegazioni.
-E in
cosa
consiste?-
-Voglio
che
i Rivoluzionari facciano la loro mossa prima dell’esercito.-
spiegò il Rosso,
imponendosi di rimanere calmo e di arrivare fino alla fine, -Ace, hai
presente
i vari ingressi che permettono l’accesso a Parigi?-
Il moro
annuì, facendo mente locale dell’agglomerato
parigino e di tutte le sue strade.
-Bene,
voglio che vengano bruciati.-
-Cosa?-
esclamò il giovane con aria sconvolta. Forse
l’uomo non si rendeva conto di
quello che aveva detto. -Si tratta di una cinquantina di entrate!-
-Infatti
dovrai appiccare il fuoco solo a quaranta di essi.-
Sbuffando,
Ace fece una smorfia insoddisfatta. -Come vuoi, domani vedrò
di procurarmi
qualcosa di infiammabile, alcuni fasci di legna e anche…-
-Non hai
capito, devi farli bruciare domani mattina.-
Barbabianca
si morse un labbro, fingendosi impegnato nel controllare i suoi lunghi
baffi;
Marco si grattò la nuca perplesso, ma vagamente divertito e
Shanks temette per
un solo istante di non vedere più la luce del sole
perché Ace gli aveva rivolto
un’occhiata inteneritrice, degna del suo soprannome.
-Tu
te moque de moi.-
sussurrò
minaccioso. Non poteva esserci altra spiegazione perché era
assolutamente impensabile riuscire a organizzare circa una quarantina
di falò
nel giro di una notte e accenderli tutti in simultanea. Shanks doveva
per forza
stare scherzando.
-Affatto.
Anzi, sarà meglio che tu ti metta subito a lavoro.- detto
ciò, sfregandosi le
mani, il Rosso si alzò con l’intento di salutare
tutti, tornarsene a casa e
farsi una bella dormita in previsione dell’imminente scontro,
per nulla
preoccupato degli isterismi del giovane che, contrariato, stanco e
offeso da
quel comportamento, si lamentava dell’incarico appena
ricevuto.
A detta
sua,
era pretendere troppo e il tempo a disposizione era pochissimo.
-Anche se
riuscissi per miracolo a trovare l’infiammabile e a
posizionare i fasci di
legna nelle entrate, come potrei appiccare gli incendi tutti in una
volta? Se
ne accorgeranno e inizieranno a darmi la caccia e a domare le fiamme!-
calcolò
Ace, massaggiandosi le tempie. Tutto quello stress gli aveva fatto
venire mal
di testa oltre che una fame assurda.
-Ho fatto
accumulare della legna sul retro della locanda e troverai
già tutte le
schifezze che ti servono come combustibile.- affermò Shanks,
il quale aveva
offerto una ricompensa abbastanza alta a Killer che, disponibile come
sempre, gli
aveva procurato parte delle risorse in anticipo e nel giro di qualche
giorno.
-Hai metà del lavoro svolto praticamente.-
-Va
bene,-
concesse il corvino con fare spiccio, -Ma il resto? Dovrò
essere svelto se
voglio accendere almeno una ventina di pire prima che se ne accorgano.-
-Hai due
cavalli a disposizione.-
Ace lo
guardò stranito. -E che me ne faccio di due? Uno basta e
avanza.-
-Ne sono
certo, ragazzo, infatti l’altro è per mio figlio.-
si intromise Barbabianca,
sorridendo ampiamente e battendo una pacca sulla spalla di Marco, in
piedi
accanto a lui, il quale fu colto per la prima volta di sorpresa, mista
a
orrore.
-W-wait,
what?- si scompose,
fissando Newgate come
se l’uomo avesse appena tradito la sua fiducia. Per
l’appunto, lui non aveva la
minima intenzione di aiutare quel piromane esaltato a dare fuoco a
mezza città,
era un compito che non gli spettava. Inoltre, suo padre sapeva bene che
non
sopportava di buon grado quell’alleanza ed era certo che
sarebbe stato più
utile in campo, ovvero per le strade a dare man forte ai suoi fratelli
e a quei
ribelli desiderosi di vendetta.
-Are you
fucking…-
iniziò a ribattere, ma venne
fermato sul nascere delle offese dallo stesso Barbabianca.
-Marco ti
aiuterà a far si che tutto sia pronto per domattina, puoi
starne certo.- e, con
quelle parole, tolse ogni speranza ai due giovani di poter evitare di
rimanere
in compagnia, cosa che fin dall’inizio erano stati bene
attenti a portare
avanti per non rischiare di ammazzarsi a vicenda.
Ace
ingoiò
l’amara notizia e smise di opporsi, sbuffando e preparandosi
a tornare in città
per iniziare il lavoro, mentre Marco, celatosi dietro
un’espressione
impenetrabile e caduto in un mutismo per ripicca, si voltò a
guardarlo, per la
prima volta durante il loro incontro, solamente per trasmettergli con
uno
sguardo tutto il suo astio e la poca voglia che aveva di lavorare con
lui.
Il moro
fece
una smorfia, deciso a non farsi sopraffarre da quell’aria
vissuta e arcigna.
Avrebbe accettato la cosa e si sarebbe dimostrato superiore e
più maturo.
Qualche scaramuccia non gli avrebbe fatto perdere di vista il suo
obbiettivo e
in quel modo, forse, sarebbe riuscito a smorzare un po’
l’antipatia di
entrambi, giusto per rendere tutti più contenti. E, se
proprio non ci fosse
riuscito, allora avrebbe mandato al diavolo lui, Barbabianca e Shanks
compreso.
-Muoviamoci
allora.- fece rassegnato, -Abbiamo un falò da preparare.-
*
Quella fu
per Marco la notte peggiore della sua vita e, anche se aveva davanti a
sé
ancora molti anni prima di campare, era certo che nulla, per nessuna
ragione,
avrebbe potuto superare quello che aveva passato. A parte
l’essere stato messo
nel sacco e incastrato in quella situazione da suo padre, aveva toccato
il
fondo non appena si era ritrovato solo con quel, quel…
Quello
stupido moccioso.
Avevano
preso una via diversa da quella del Rosso perché la loro
destinazione era
apparentemente un’altra e durante il tragitto lui aveva
pensato bene di
mantenersi a distanza di qualche passo, giusto per non dover sentire
gli sbuffi
fin troppo sonori del ragazzino e per non rischiare di venire coinvolto
in una
chiacchierata che non avrebbe mai avuto voglia di intrattenere con uno
del suo
calibro.
Perciò
l’aveva seguito in religioso silenzio, con le mani affondate
nelle tasche dei
pantaloni, l’aria svogliata e priva di altri sentimenti e la
mente persa nei
suoi ragionamenti riguardanti il compito assegnatoli dal babbo.
Prima di
partire aveva recuperato le sue armi perché, a lavoro
finito, si sarebbe
ritrovato in piazza a combattere, quindi era partito prevenuto, dando
così modo
a Barbabianca di potergli spiegare che il suo intervento e aiuto erano
davvero
necessari.
Marco non
ne
era rimasto tanto convinto, ma al suo vecchio non sapeva dire di no,
perciò
aveva annuito, sfoggiando per pochi secondi un mesto sorriso, e poi era
partito
al seguito di Ace.
Avevano
mantenuto un passo svelto ed erano riusciti a mettersi a lavoro molto
prima
dell’alba, spostandosi di alcune decine di metri ogni volta
che finivano di
piazzare legna cosparsa di una sostanza infiammabile di dubbia
provenienza
davanti ad ogni ingresso. Lo scopo era quello di farli ardere tutti in
una
volta per creare un po’ di scompiglio e impedire ai
reggimenti situati nei
pressi della capitale di raggiungere e dare man forte ai militari fermi
all’interno.
Un buon piano e la fortuna era dalla parte dei parigini, dato che molte
entrate
presentavano costruzioni e ponti in legno che il fuoco avrebbe bruciato
nel
giro di qualche ora.
Avevano
fatto tutto in silenzio, senza scambiare mai una parola, ne Marco, ne
Ace. Il
primo per principio, l’altro perché era stato
troppo impegnato e preso dal
lavoro per curarsi dei problemi di comunicazione che si erano creati
tra loro.
Si rese però conto che la questione aveva sfiorato il
ridicolo quando Marco, per
chiedergli di passargli altra legna, si era schiarito la voce e gli
aveva poi
indicato i fasci di rami secchi adagiati poco lontano dalle sue gambe.
In quel
momento, Ace non si era preoccupato di alzare gli occhi al cielo e di
lanciarglieli praticamente addosso, ottenendo in risposta una serie di
frasi in
inglese. Probabilmente insulti a cui non diede peso.
L’altro,
dal
canto suo, proprio non riusciva a comportarsi diversamente. Sentiva
troppo
spesso su di sé lo sguardo del francese che, puntualmente,
ignorava, fingendo
che non esistesse. Certo, si domandava cosa diavolo avesse sempre da
guardare,
puntandogli contro quegli occhi scuri con tanta insistenza da
perforargli la
pelle, ma rimaneva fisso nella sua decisione. Ace, per lui, era come il
nulla.
Non gli importava delle sue lamentele, detestava quando gonfiava il
petto come
un pavone mentre gli altri lo elogiavano, non sopportava quel suo
sorrisetto
beffardo e altezzoso, odiava vedere che i suoi fratelli lo
coinvolgevano sempre
in qualsiasi cosa si inventassero di fare e, sopra ogni altra cosa, gli
ribolliva il sangue quando sentiva suo padre apprezzarlo. Era assurdo e
impensabile che un mocciosetto come lui venisse preso in considerazione
da
tutti, insomma, cosa diavolo aveva di così speciale?
-Ehi,
testa
d’ananas?-
Marco si
bloccò e smise di accumulare la legna attorno
all’ultimo ingresso quando quel
nomignolo raggiunse le sue orecchie, riportandolo con i piedi per terra
e
attirando la sua attenzione, facendolo voltare verso Ace, guardandolo
per la prima
volta dopo mesi.
Il
ragazzo
era in piedi alle sue spalle a circa un metro di distanza, con il peso
appoggiato su una gamba, mentre l’altra era rilassata. Aveva
le braccia lungo i
fianchi, con i gomiti scoperti e le maniche della giacca arrotolate, e
la testa
inclinata verso di lui. In quel modo i capelli gli ricadevano da un
lato e
alcuni ciuffi disordinati, oltre che ad incorniciargli il viso
dall’aria
interrogatoria, gli si erano fermati sulla fronte.
A prima
vista dava l’impressione di essere molto più
grande della sua età perché le
spalle larghe, le braccia dai muscoli sviluppati e l’altezza
lo spacciavano per
qualcuno con almeno dieci anni in più, ma la sorpresa stava
nello scoprire
quanto infantile e idiota potesse essere.
Marco
assottigliò lo sguardo, lasciando cadere a terra un ceppo,
che per la
precisione avrebbe voluto scaraventare in testa al compagno, per poi
alzarsi e
spolverarsi le mani senza mai abbassare la guardia.
-Prego?-
si
sforzò di chiedere, parlando in francese e facendo risuonare
una nota ostile nella
sua voce.
Vide le
labbra del ragazzo modellarsi in una smorfia infastidita, mentre con
una mano
faceva un gesto spiccio verso il suo operato. -Ti ho chiesto se hai
finito, ma
evidentemente non mi hai sentito.- gli spiegò e la smorfia
si trasformò subito
in un piccolo ghigno beffardo.
Cosa che,
ovviamente, Marco non sopportò.
Decise
comunque di affrontare la cosa con calma, senza scomporsi troppo. Aveva
capito
che la sua indifferenza mandava in bestia Ace, perciò era
determinato a farne
tutto l’uso che poteva.
Così
gli
restituì il sorriso, sistemandosi la camicia un
po’ sgualcita. -Oh, sai, ho
semplicemente pensato che era inutile risponderti. Non ne valeva la
pena.-
Come
aveva
previsto, l’effetto fu immediato, ma non uguale a quello che
aveva immaginato
di vedere.
Ace si
arrabbiò, ma gli si avvicinò in un paio di
secondi e gli si parò davanti,
fronteggiandolo e sentendosi per un istante soddisfatto per non essere
così
tanto basso come gli era sembrato all’inizio. Lo aveva quasi
raggiunto, anche
se il biondo continuava ad essere superiore di qualche centimetro.
Ad ogni
modo, si ritrovò Marco ad una spanna dal suo viso e non gli
importò niente del
tempo che stringeva, dei fuochi da appiccare e della battaglia
imminente, no,
perché era talmente incazzato da voler usare la testa di
quell’inglese
spilungone come torcia da usare per accendere i falò.
-Stammi a
sentire, razza di sbruffone!- sbottò, stringendo i pugni e
alzando la voce,
-Non me ne frega proprio un cazzo se non mi sopporti e se sei
indifferente alle
ingiustizie che stiamo subendo qui da anni, ma lascia che ti dica una
cosa.- lo
informò, facendosi più vicino a Marco, il quale,
anche se stupito, non aveva
fatto una piega. -Non sei l’unico ad essere preoccupato per
le sorti della tua
famiglia e non sei nemmeno il primo a non voler combattere. Se non vuoi
partecipare allora vattene, se non mi sopporti allora ignorami, ma se
per colpa
tua le cose vanno storte, sarò io a
venirti a cercare alla fine dell’alleanza per ucciderti,
chiaro?- domandò il
corvino, puntando un dito contro il petto del più grande
che, zittito, non
ribatté nemmeno a quello sfogo.
-E adesso
scusami, ma non ho tempo da perdere con queste sciocchezze.- concluse
Ace,
superandolo con una spallata abbastanza pesante che dimostrò
al biondo che il
moccioso era più forte di quanto aveva pensato.
Lo
guardò
finire di sistemare la legna per poi dirigersi a recuperare due bastoni
che
avrebbero usato come torce.
Nonostante
tutto, si ritrovò costretto ad ammettere che, forse,
e in piccola parte, aveva un pochino esagerato.
D’accordo,
odiava quella situazione, ma era semplicemente preoccupato per i suoi
cari
come, d’altronde, lo erano tutti i Rivoluzionari. Che poi
fossero simpatici o
meno, non aveva importanza. L’obbiettivo, il quelle
circostanze pericolose, era
collaborare.
Quando
Ace
andò verso di lui con due torce accese in mano e gliene
porse una, non lo
ignorò e non evitò il suo sguardo, mantenendo
alta la guardia e cercando di
capire cosa gli passasse per la testa. Non era sicuro che sarebbe
riuscito a farselo
amico come aveva fatto Thatch, ne che avrebbero iniziato a rispettarsi,
ma un
minimo di civiltà poteva dimostrarlo nei suoi confronti.
-Tieni
questa e monta a cavallo. Tu andrai da quella parte, mentre io
farò il giro dall’altra.
Ci ritroviamo al punto stabilito questa notte.- detto ciò,
Ace salì con un
movimento fluido sul suo destriero e Marco fece altrettanto, tenendo
poi a bada
l’animale e aspettando che il rivoluzionario dichiarasse la
partenza.
-Ah,
un’ultima cosa.- fece il moro, calcandosi con un sorriso il
cappello in testa
per poi scoccargli un’occhiata che sapeva di sfida. -Spero tu
sia veloce.-
Marco,
rispondendogli con lo stesso tono e lo stesso sguardo,
riuscì, per la prima
volta, a rendere l’atmosfera tra loro meno pesante di
com’era di solito.
-Facciamo
a
chi arriva prima?-
*
Come
aveva
previsto Shanks, la mattina del 13 luglio nessun attacco da parte della
milizia
venne mosso contro i cittadini parigini, ma chiunque dalle proprie
abitazioni
avrebbe potuto vedere quaranta dei cinquanta ingressi della
città andare a
fuoco e ardere tra le fiamme alte e vivaci e il fumo soffocante.
I
reggimenti
della Guardia cercarono di contenere gli incendi, ma senza un gran
successo.
Era accaduto tutto troppo in fretta; una ad una le entrate si erano
accese e
illuminate come le vie durante i mesi più freddi e non
c’era stato nulla da
fare per impedirlo. Anche dopo qualche ora, il fuoco non si spegneva e
i
militari non avevano la minima idea di cosa fare, ne su chi fosse stato
l’artefice, anche se la colpa era stata sicuramente dei
Rivoluzionari, i quali
stavano aizzando la popolazione nelle piazze proprio in quegli istanti.
Poco
lontano
dal convento di Saint-Lazare, un
edificio che fungeva anche da ospedale e orfanotrofio, appostato lungo
una via
stava un giovane ciarlatano e logorroico a cui era stato dato
l’incarico di
radunare la folla e indurli, con coinvolgenti giri di parole e frasi
incoraggianti, di prendere in mano la situazione e saccheggiare tutti i
magazzini della città per appropriarsi del cibo che spettava
a tutti loro.
-Come
farete
a sfamare i vostri figli se il prezzo sul pane continua a crescere?-
stava
chiedendo il ragazzo, urlando a squarciagola e brandendo in mano una
baguette
come simbolo per la sua campagna. -Quanti ancora dovranno morire di
fame,
mentre a Palazzo il Re e tutta la Corte si ingozzano fino a scoppiare?-
La folla
faceva sentire il suo malcontento con urla, insulti e minacce, e Usopp
sapeva
che mancava veramente poco prima che tutti afferrassero pale e forconi
per
mettersi all’opera. Serviva solo una piccola spinta finale e,
fortunatamente,
Zoro gliel’aveva fornita poco prima, tornando vittorioso dal
suo giro di
ricognizione e rivelandogli quello che aveva scoperto.
-Cosa
fareste se vi dicessi che tengono il nostro cibo nascosto in dei
magazzini?-
domandò allora, ottenendo l’effetto che voleva.
-Ce lo
prenderemo!-
-Si! Ce
lo
meritiamo!-
-Ce
n’è uno
proprio qui vicino! Il convento di Saint-Lazare!- li informò
allora, -Chi è con
me?-
Aveva
immaginato di portare a termine il suo compito di aizzare gli animi, ma
non
aveva previsto che una calca numerosa di persone lo avrebbe quasi
investito,
rischiando di calpestarlo, per correre di fretta verso il posto da lui
indicato. Fortuna che si era fatto da parte in tempo, altrimenti
avrebbe fatto
ritorno a casa tutto acciaccato.
Certo,
perché lui la sua parte l’aveva fatta e,
sicuramente, non avrebbe fatto a botte
con nessuno per essere in prima fila quando la rivolta sarebbe arrivata
ad un
corpo a corpo con i gendarmi.
Se lo possono
scordare!,
pensò, coprendosi bene con un mantello e dirigendosi
svelto verso il Quartier Generale, Ora me
ne torno a casa e aspetto che le acque si calmino. Dopotutto, non posso
mica
sfoderare subito le mie carte vincenti. Sono il Rivoluzionario Usopp,
uno dei
migliori, cosa farebbero se rimanessi ferito, o peggio, se morissi?
Un
brivido
gli corse lungo la schiena, facendogli aumentare il passo. Col cavolo
che
avrebbe rischiato la pelle, lui.
*
Intanto,
al
Municipio di Parigi, mentre vari disordini e saccheggi continuavano ad
aumentare di numero e la città sprofondava nel caos, un
gruppo di Rivoluzionari
assieme ad alcuni esponenti del Clero e della Borghesia, si stavano
riunendo in
quelle sale per impedire che i soldati si accanissero sulla
popolazione. Per
difendere i cittadini, quelli meno adatti alla guerra, era giusto
mettere a
disposizione un buon numero di combattenti che fossero
all’altezza di sostenere
uno scontro, in modo da trovarsi preparati e pronti a tutto se le cose
fossero
degenerate. Venne così deciso di organizzare una milizia
popolare composta da
insorgenti, alcuni furfanti, rivoltosi e uomini borghesi. Quella
milizia
avrebbe garantito il mantenimento dell’ordine e avrebbe
inoltre difeso i
diritti costituzionali.
-Dunque,
siete tutti d’accordo?- stava chiedendo Benn, una piuma tra
le mani e
l’inchiostro a portata di mano, pronto a scrivere una lista
dei nomi dei
volontari e dei Signori che avrebbero messo a disposizione della
Rivoluzione i
loro uomini di fiducia.
A parte
qualche dissenso, la maggioranza approvò la proposta che era
stata fatta da uno
dei più giovani presenti quel giorno, il quale faceva le
veci di Shanks. L’idea
era venuta da lui, ma per motivi di sicurezza e per questioni
più importanti,
ovvero tenere a bada le guardie francesi nei sobborghi, non si era
presentato,
lasciando il compito a Sabo che, ormai, ci aveva preso la mano a
dettare legge
e a farsi rispettare.
-Uno ad
uno
fatevi avanti e dite il vostro nome.-
Mentre
gli
uomini stavano in fila, la lista si allungava e il numero dei
partecipanti alla
milizia cittadina aumentava a dismisura, dando buone speranze a Benn,
felice di
potersene tornare a casa a lavoro finito a dare la buona notizia al suo
capo
per poi prendersi una sbronza con Yasop e il resto della banda.
-Nome?-
chiese, quando si presentò l’ennesimo candidato.
-Basil
Hawkins, al vostro servizio.- rispose l’uomo, attirando su di
sé lo sguardo
curioso di buona parte dei presenti. Nessuno lo aveva ne sentito ne
visto
arrivare e, di certo, nessuno lo conosceva o lo aveva mai incontrato
prima.
Anche
Sabo,
che di gente ne conosceva parecchia, non si era mai imbattuto in un
personaggio
simile e gli avrebbe fatto volentieri qualche domanda prima di
accettarlo nei
ranghi se Koala, la quale si trovava assieme a lui con il compito di
aiutarli,
non lo avesse distratto con la sua espressione sorpresa.
-Lo
conosci?- le bisbigliò all’orecchio, chinandosi un
poco.
Lei
annuì.
-Non bene, ma l’ho già visto. Conosce Barbabianca
ed è una specie di
cartomante, ma non so altro.-
-Siete
solo,
Monsieur?- fece Benn, fissando il
nuovo arrivato con distacco e sospetto.
Basil non
si
offese per quella diffidenza plausibile, l’aveva prevista,
come aveva previsto
il luogo d’incontro e come sapeva da molto prima di
quell’idea di organizzare
una milizia a difesa del popolo, perciò
rispose in modo educato, ma secco. -Siamo circa una cinquantina di
uomini.-
Lesse lo
stupore negli occhi di molti, soprattutto in quelli del giovanotto in
fondo
alla sala, il quale sembrava morire dalla voglia di presentarsi e
porgli un
sacco di domande.
Gli
bastò
un’occhiata per capire che quel ragazzo aveva un gran compito
da svolgere,
oltre che a possedere molto carisma, e anche a lui stesso avrebbe fatto
piacere
scambiarci qualche parola, ma sentiva che quello non era il momento. Ce
ne
sarebbero stati altri e, per quel giorno, le carte gli avevano mostrato
compiti
differenti.
-Col
vostro
permesso, Signori.- mormorò Hawkins, dando le spalle al
gruppetto di persone e
avviandosi verso l’uscita.
-Mette i
brividi.- sussurrò Koala e trovò Sabo pienamente
d’accordo con lei, anche se
avrebbe tanto voluto fermarlo per raccogliere qualche informazione sul
suo
conto da presentare a Shanks. Non si era mai troppo al sicuro,
soprattutto con
gli sconosciuti.
Una volta
terminata la lista, venne stabilito che ogni uomo partecipante alla
brigata
avrebbe indossato come simbolo una coccarda ricamata con i colori di
Parigi,
ovvero blu e rosso.
Ne venne
consegnata una a tutti i presenti e altre vennero date loro in
dotazione
affinché le distribuissero ai loro uomini. Ne
indossò una anche Sabo,
puntandosela al petto con orgoglio. Se ne mise poi una in tasca per
darla più
tardi a Ace, mentre l’ultima che teneva tra le mani sapeva
esattamente a chi
regalarla.
-Tieni.-
disse a Koala, porgendogliela con un sorriso entusiasta.
Lei
sbatté
le palpebre, sorridendo poi a sua volta. -Posso? Davvero?-
-Che
domande! Fai parte del gruppo, no?-
La
guardò
ridacchiare, mentre fissava la spilla sul bavero della giacca,
nascondendo
infine le braccia dietro la schiena e alzando la testa per
mostrargliela. -Come
mi sta?-
-D’incanto.-
approvò il ragazzo, annuendo convinto, tornando poi con i
piedi per terra
quando Benn lo chiamò, ponendogli una domanda alla
sprovvista.
-Ehi,
Sabo,
ma le armi?-
Effettivamente,
se volevano avere una possibilità, avevano bisogno di armi
per la milizia e si
dava il caso che Sabo sapeva esattamente dove trovarle.
Doveva
ammettere che all’inizio, quando Shanks aveva ideato il
piano, si erano
ritrovati ad un punto morto proprio a causa della carenza di ferri, ma
grazie
alle continue ronde e ricognizioni fatte per tutta la città,
erano riusciti a
scoprire che alcuni edifici, oltre che a fungere da magazzini per il
cibo,
mantenevano al sicuro anche molte armi.
Il
giovane
sorrise, scambiandosi un’occhiata complice con Koala, la
quale era a conoscenza
della cosa, e afferrò la sua giacca blu, pronto per uscire.
-Dite ai
vostri uomini di prepararsi.- li avvisò. -Abbiamo un
po’ di luoghi da
saccheggiare.-
E, mentre
chiudevano le sale del municipio e si affrettavano a scendere nelle
strade, un
pensiero fisso spiccava nella mente di Sabo, determinato ad andare fino
in
fondo e a mettere fine a quel lungo tempo di separazione forzata.
Prima tappa: la
fortezza della Bastiglia.
Angolo
Autrice.
Buonasera!
E’
tardissimo, lo so! Ho anche un sacco di scuse da fare e cose da dire,
quindi
andiamo con CALMA.
Scusatemi
il
mio ormai classico ritardo, a parte gli impegni vari, voglio sempre
avere un
capitolo pronto in più, giusto per non perdermi troppo per
strada come mi è già
capitato con altre long (CHE PRIMA O POI FINIRO’ *O* ).
Stiamo,
finalmente oserei dire, arrivando alla parte centrale, chiamiamola
così, dove
troviamo il famoso avvenimento della presa della Bastiglia.
Informandomi sui
fatti ho letto di un sacco di morti, quindi dovrò
sbizzarrirmi e buttare giù
una lista di vittime. LOL, mi servirebbe un Death Note.
Anyway,
su
questo capitolo vediamo un Eustass Kidd analfabeta. No, ok, la cosa mi
ha fatta
scoppiare a ridere. Insomma, il poveretto è una capra! Oltre
a lui, vediamo che
Shanks ne ha sempre una pronta, ma non riesce mai a raggiungere la cara
Makino.
Lo prometto, mi farò perdonare, mlmlml.
Ace
inizia a
prendere in simpatia Barbabianca e quell’aria paterna del
vecchio lo sta, a
poco a poco, conquistando ** anche se con Marco le cose non vanno
proprio alla
grande ma, chi lo sa, forse stanno per cambiare? Anche
perché il biondo ha
provato ad abbordarlo, ricordiamocelo!
E poi
arriva
Usopp che ha il suo bel da fare come oratore, ma solo per poco
perché non può
rischiare troppo, non è ancora arrivata la sua ora, mentre
Sabo ormai sta
usurpando il posto di Shanks, è sempre in mezzo come il
giovedì, dopotutto. Ma lasciamogli
pure le questioni burocratiche, penso che nessuno sia più
adatto di lui a fare
il politico. E, come è giusto che sia, dove
c’è lui c’è Koala :3
E’ arrivato
anche Basil, ma di lui ne parleremo più avanti.
(Mi sono
resa conto che Smokah-san è scomparso, così come
Tashiji ;________________; non
so dove siano finiti, lo giuro)
Oh, e nel
prossimo capitolo inizia la rivoluzione, giusto per dire :D
https://fbcdn-sphotos-c-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xat1/v/t1.0-9/11109506_1628719847346851_5391308717378018927_n.jpg?oh=cfda587e3a8b2d4d7fb301c70b04602f&oe=55D616BD&__gda__=1440779189_cac56ebc476ae23f03505fbb256948eb
http://images3.wikia.nocookie.net/__cb20090630154539/onepiece/tr/images/3/3d/Shanks1.png
come to me, bro.
http://40.media.tumblr.com/tumblr_m49k5kwPEU1qebmgqo1_1280.jpg
vecchio, vuoi rogne?
http://img4.wikia.nocookie.net/__cb20140916081227/onepiece/images/e/e6/Usopp_Manga_Pre_Timeskip_Infobox.png
vai, Usopp, incita la folla.
http://www.centrostudilaruna.it/wp-content/rivoluzionefranceses.jpg
Saint-Lazare durante la rivolta.
https://s-media-cache-ak0.pinimg.com/originals/b2/c9/9e/b2c99e64e97f9bb38ac96821beb294b4.jpg
Grazie
come
sempre a tutti, recensori e lettori silenziosi, spero vi stiate
divertendo!
Beeeeeene,
ci vediamo la prossima settimana, spero ^^
See ya,
Ace.
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Capitolo 14 *** Quatorze. ***
Liberté,
Égalité, Fraternité.
Quatorze.
Era stata
una notte movimentata quella che aveva preceduto la mattina del 14
luglio e i
poveri diavoli che erano finiti per svariate ragioni a passare quel che
restava
della loro vita nella Bastiglia non avevano chiuso occhio, curiosi e
interessati allo scompiglio che si era ininterrottamente riversato per
le
strade.
Tutti gli
occhi si erano ammassati alle finestrelle strette e sbarrate per
osservare
meglio, per fare da tramite a quelli che non potevano muoversi o alle
celle
situate più in profondità, senza contatti con il
mondo esterno. Anche se lontani,
riuscivano ad adocchiare svariati particolari e, ogni qualvolta che una
guardia
veniva colpita dai cittadini, si alzava un urlo di gioia generale,
mostrando
chiaramente per chi tifassero tutti i detenuti.
Le uniche
ore di calma furono all’alba, quando gli spari cessarono e le
grida di
malcontento si zittirono per dare modo alle due fazioni di riposare e
riprendere fiato prima del botto finale.
Perché
la
rivolta era appena iniziata, lo sapevano tutti. Nell’aria si
respirava quel
clima di stallo, l’attimo prima dello scoppio.
L’aria era satura di tensione e
aspettative, dalle strade si alzava la polvere e alcune vie erano
impraticabili
dopo i vari scontri avvenuti. Numerosi edifici erano stati saccheggiati
e gli
ingressi arsi dalle fiamme erano crollati con il calare del sole.
All’interno
del penitenziario, non si sentiva volare una mosca. Tutto era
silenzioso, molti
uomini si erano rannicchiati negli angoli meno sudici, o sdraiati nelle
brandine per schiacciare un pisolino, o semplicemente per aspettare che
qualcosa accadesse.
Uno solo
era
rimasto vigile senza mai chiudere gli occhi, mantenendo lo sguardo
fisso sulla
città, mentre con le mani si teneva ancorato alle sbarre
della finestrella,
come se fosse stata l’unica sua salvezza. Di lì a
breve sarebbe successo
qualcosa, lo sapeva, se lo sentiva. Ne era certo, come non aveva dubbi
su chi
fosse stato l’artefice di tutti quegli incendi. Solo un
esperto come suo
fratello Ace avrebbe potuto organizzare un botto come quello e di
ciò ne andava
fiero.
Un
movimento
alle sue spalle lo avvisò del risveglio di uno dei suoi
compagni di cella e,
poco dopo, un viso conosciuto spuntò al suo fianco.
-Moccioso,
sei ancora fermo qui?- gli domandò Bagy, assonnato, mentre
si stiracchiava e
faceva scricchiolare tutte le ossa indolenzite a causa delle posizioni
scomode
alle quali era costretto.
Rufy
annuì
lievemente, concentrato su ogni piccolo movimento che scorgeva da
quell’altezza. -Stanno arrivando.- sussurrò
pacato, al che Bagy lo squadrò con
un velo di preoccupazione. Certo, anche a lui sarebbe piaciuto
filarsela da
quel postaccio, ma aveva seri dubbi sul fatto che a qualcuno venisse in
mente
di attaccare una fortezza come quella in cui si trovavano.
Si
passò una
mano sul volto stanco, segnato da occhiaie profonde. -Lo spero,
ragazzino. Lo
spero davvero.-
Allora,
Rufy
si voltò a guardarlo e, inaspettatamente, gli
regalò un ampio sorriso, uno di
quelli che gli riempivano tutta la faccia e che andavano da un orecchio
all’altro. A volte sembrava essere di gomma perché
nessuno mai era riuscito ad
imitarlo.
-Stanno
arrivando!- ripeté con convinzione.
-Ho
capito.-
fece Bagy, guardandolo con il suo solito cipiglio scettico. -Ti ho
detto che lo
spero.-
-Ma no!-
disse il ragazzo, afferrando l’uomo per i capelli e
trascinandolo più vicino
per schiacciargli direttamente il viso contro le sbarre fredde.
-Guarda! Stanno arrivando.-
scandì con
entusiasmo, indicando un gruppo di gente che si avvicinava sempre di
più alla
Bastiglia, brandendo forconi, bastoni e spade.
Bagy
sgranò
gli occhi, incredulo, mentre, attimo dopo attimo, le grida iniziavano a
farsi
strada, salendo sempre più di volume fino ad arrivare alle
orecchie di tutti,
svegliando i detenuti e allertando le guardie di ronda che,
insospettite dal
baccano, si riversarono fuori dall’edificio, lasciando le
celle senza
controllo.
-Ehi, che
succede?-
-Fatemi
vedere!- si lamentò Mister Three, allungando le mani per
aggrapparsi alle
spalle di Bagy e Rufy con l’intento di spostarli.
Il
più
piccolo lo lasciò fare, sghignazzando allegramente e
dirigendosi verso
l’entrata della sua cella, mettendo la testa tra le sbarre e
gridando a tutti
di svegliarsi e di tenersi pronti per l’evasione, scatenando
un pandemonio di
speranze e impazienza. L’aria di libertà iniziava
a scorrere tra le mura,
animando sempre più le persone all’interno e dando
la carica giusta che serviva
per raggiungere l’obbiettivo.
-Ehi tu,
piccoletto, ne sei certo?- gli chiese un energumeno nella stanzetta
accanto
alla sua.
-Assolutamente.
Dopotutto, i miei fratelli me lo avevano promesso.-
-Uh?
Promesso cosa?-
-Che mi
avrebbero fatto uscire!-
*
Quella
mattina, alle prime luci dell’alba, un gruppo di insorti
attaccò l’Hôtel
des Invalides con lo scopo di
recuperare delle armi, riuscendo nell’impresa e
impossessandosi di un alto
numero di fucili e baionette, compresi un paio di cannoni.
L’unico intoppo che
trovarono, però, fu la mancanza di polvere da sparo. Fu
quello uno dei
principali motivi per i quali decisero di attaccare la
prigione-fortezza della
Bastiglia, da tempo ormai simbolo del potere del Monarca.
L’imponente
edificio medievale non scoraggiò gli uomini quando lo
raggiunsero, trovando il
ponte levatoio alzato e l’ingresso principale sbarrato da un
gruppetto di
ufficiali volontari. I Rivoluzionari erano nettamente superiori, ma
acconsentirono ad intavolare una trattativa che, dopo un paio
d’ore, rese
chiaro che non sarebbe servita a nulla. Non restava che trovare altre
entrate
secondarie.
-Io non
avevo pensato al problema delle guardie.- borbottò Ace,
colto alla sprovvista.
Aveva sentito dire che i detenuti rinchiusi non fossero molti,
perciò aveva
ipotizzato che, allo stesso modo, la polizia non avesse ritenuto
necessario
mettere a guardia della prigione una quarantina di uomini, quando in
città era
scoppiato il finimondo.
-Fortuna
che
ci sia io, allora.- lo apostrofò Sabo, sorridendogli
sfacciato. -Ieri abbiamo
passato l’intera giornata a saccheggiare magazzini, era ovvio
che avrebbero
aumentato la vigilanza nei luoghi in cui nascondono qualcosa.-
spiegò, tornando
a guardare la Bastiglia e sorridendo quando si accorse che, ad una
delle
finestre in alto, era legata una camicia rossa. Anche se sbiadita,
sapeva esattamente
a chi apparteneva.
Ace
seguì il
suo sguardo e si ritrovò a sorridere pure lui, sentendo il
battito nel cuore
aumentare di velocità, mentre il petto si gonfiava di
determinazione e
coraggio.
-Penso
che
Rufy si sia riposato abbastanza.- mormorò il biondo,
scambiandosi un’occhiata
complice con il moro, il quale annuì convinto.
-E’
ora di
tirarlo fuori.- decretò, estraendo un paio di pistole che
aveva assicurato alla
cintura e caricandole. -Tu pensi a questi, mentre io mi occupo del
ponte?-
-Fantastico.
Ci vediamo più tardi in piazza.- concordò Sabo,
poi fece qualche passo avanti,
mettendosi in prima linea mentre, alle sue spalle, i suoi compagni
impugnavano
le armi, pronti all’attacco.
Si
assicurò
di avere l’attenzione dei soldati su di sé e,
sistemandosi i guanti, si fermò
per fronteggiarli, sorridendo sprezzante e sicuro di sé.
Ci fu un
attimo di immobilità assoluta in cui nessuno osò
respirare.
Ad un
tratto, Sabo alzò le braccia verso il cielo in un gesto
teatrale e le riabbassò
fulmineo, lasciando cadere a terra dei sacchetti contenenti un composto
esplosivo
preparato apposta per quel momento da Usopp, i quali, a contatto con il
terreno, scoppiarono e fecero alzare tutt’attorno una cortina
di fumo che
permise agli insorti di attaccare senza la preoccupazione di venire
colpiti
dagli spari.
Tutto
ciò,
infatti, era stato organizzato per cogliere le guardie di sorpresa,
aumentando
le probabilità di riuscita e dando modo a Ace e al resto
degli uomini di tagliare
le catene del ponte levatoio per penetrare nel cortile interno senza
essere
braccati o presi di mira.
Così,
mentre
Sabo apriva le danze alle porte della Bastiglia, Ace sfondava un
portone di
servizio, entrando a spada tratta nell’edificio e iniziando a
setacciarlo da
cima a fondo, lasciandosi alle spalle una serie di vittime che gli
avevano
sbarrato la strada quando aveva superato la prima linea di difesa.
-Liberate
tutti i prigionieri, non deve restare nessuno qui dentro!-
esclamò, indicando
agli insorti le prime celle che incontrarono lungo il corridoio. -E
prendete
tutte le armi che trovate!-
-Forza
gente, muoviamoci!-
I
Rivoluzionari si divisero ed iniziarono ad eseguire gli ordini,
facendosi
aiutare dai detenuti che, mano a mano, liberavano per scoprire dove i
soldati
tenevano cibo e armi.
-E non
dimenticate la polvere da sparo.- si premurò di ricordare
loro il corvino,
prima di filare su per le scale con l’intento di raggiungere
il terzo piano.
Obbiettivo che, a metà rampa, trovò un intoppo
dovuto a tre secondini che erano
rimasti a guardia del secondo livello.
Sbuffò
seccato, alzando gli occhi al cielo e rinfoderando le pistole per
estrarre la
spada, pronto a farsi largo.
-Levatevi
dai piedi!- disse frettoloso, incrociando le lame con il primo soldato
che si
fece avanti, sbilanciandolo e facendogli perdere l’equilibrio
per spintonarlo
poi giù dalle scale, lasciandolo in balìa dei
suoi compagni che lo stavano
seguendo.
Toccò
poi al
secondo, il quale ricevette un poderoso pugno allo stomaco, invece il
terzo si
ritrovò semplicemente alle strette, accerchiato da un alto
numero di uomini,
mentre Ace lo superava e lasciava agli altri buona parte del
divertimento,
facendo gli scalini due a due per essere più veloce,
arrivando al terzo piano
incespicando nei suoi stivali e col fiatone.
C’era
un bel
casino nelle celle. Molti detenuti sbraitavano e cercavano di
acchiapparlo per
costringerlo a liberarli, ma Ace li evitò con
facilità, percorrendo il
corridoio e guardandosi a destra e a sinistra alla ricerca di un
prigioniero in
particolare.
Lo
trovò in
fondo, dove l’edificio faceva angolo, in una cella con altri
tre uomini che
indossavano abiti che avevano l’aria di aver visto giorni
migliori. Lo
riconobbe immediatamente, anche se indossava una giacca diversa e
più grande di
almeno due taglie. Era inconfondibile anche in quello stato, con i
capelli in
disordine e più lunghi, il viso e le mani sporchi e un lieve
accenno di barba
sul mento ancora da adolescente. Avrebbe saputo trovare suo fratello
ovunque
solamente grazie all’enorme sorriso di quest’ultimo
e allo sguardo acceso e
gioioso che lesse in quegli occhi scuri e grandi.
E non
avrebbe mai permesso a nessuno di portarglielo via perché,
quando se lo ritrovò
tra le braccia dopo aver aperto la porta della cella, la sensazione che
provò
nel saperlo vivo e vegeto gli scaldò l’anima,
facendolo sentire nel posto
giusto al momento giusto.
-Sapevo
che
saresti arrivato, Ace!- ridacchiò Rufy, stringendosi
convulsamente alle spalle
del fratello maggiore, abbracciandolo con forza e felice di rivederlo
dopo
tutti quei mesi, soprattutto perché i primi tempi lo aveva
creduto perso per
sempre. Invece Ace era tornato, lo aveva fatto per lui e non lo avrebbe
mai
abbandonato in quel mondo da solo, senza una famiglia e senza un
fratello.
-Te
l’avevo
promesso, no?- gli ricordò il più grande,
accarezzandogli la zazzera scura e
spettinata. -Non potevo lasciare il mio fratellino rinchiuso in questo
postaccio e per giunta senza carne.-
Rufy si
bloccò all’istante, alzando il capo verso di lui e
mostrandogli un paio di
occhioni lucidi. -Ace… Io…-
-Andiamo,
Rufy, va tutto bene, ci sono qui io ades…-
-Ho fame!-
scoppiò il
minore, sbraitando e zittendo per alcuni secondi tutte le voci che
avevano
fatto da sottofondo durante quella rimpatriata tra fratelli.
Una furia
dai capelli azzurri si parò tra di loro, afferrando il
piccoletto per la
collottola e strattonandolo senza ritegno, stupendo Ace. -Tu, razza di
pozzo
senza fondo!- lo insultò, spedendolo a terra con uno
spintone e rivolgendosi
poi a Pugno di Fuoco. -Il tuo caro fratellino non ha fatto altro che
ingozzarsi
con la nostra razione di cibo!-
-Ma io ho
sempre fame!-
-Come se
non
l’avessimo capito.-
-Ehi, io
ti
conosco. Tu sei Bagy!-
A quelle
parole, l’ego dell’uomo prese il sopravvento
sull’affronto e sulle sofferenze
subite. Si voltò verso il corvino, gonfiando il petto e
indicandosi. -In
persona. Mi compiace sapere che mi hai riconosciuto, ragazzo. Di certo
il
nostro incontro deve averti toccato parecchio.-
Si
beccò una
pacca sulla schiena che lo lasciò senza fiato a causa della
forza esercitata.
-Come potrei dimenticarlo!- fece Ace, felice di rivedere quel clown
tanto
simpatico. -Sei quello che hanno sbattuto fuori dalla locanda per aver
imbrogliato durante una partita a carte! Che risate quel giorno.-
Bagy si
sentì gelare. Ovviamente non aveva raccontato quella parte
della storia ai suoi
compagni di cella e i risolini che gli giunsero alle orecchie da parte
di
Mister Three e Von Clay lo irritarono parecchio. Possibile che Rufy
avesse un
fratello ancora più stupido e piantagrane?
-M-ma…
Ma
che stai dicendo?- provò a salvarsi la faccia senza
però molto successo, anche
perché il tempo stringeva e Ace sembrava essersi reso conto
di aver
cincischiato fin troppo.
Aiutò
Rufy
ad alzarsi e, dopo avergli messo in mano una spada, gli
spiegò velocemente cosa
fare e in poco tempo tutti i detenuti del terzo piano facevano il
diavolo a
quattro in strada, dando man forte ai Rivoluzionari che avevano
intrattenuto le
guardie durante l’assedio.
A Rufy
non
sembrava vero di mettere piede fuori da quell’infernale
prigione, respirare
finalmente a pieni polmoni l’aria parigina e vedere cose
diverse dalle mura e
dalle solite facce note. Anche se, doveva ammetterlo, era certo di
essere stato
in compagnia dei migliori compagni di cella di sempre, persone che si
mise
subito a cercare in mezzo alla folla, accorgendosi di averli persi di
vista
tutti.
-Ehi,
Rufy!
Andiamo, la festa si sta svolgendo in piazza!- lo richiamò
Ace, distraendolo e
ricordandogli che, probabilmente, avevano determinati ordini da
eseguire, perciò
si rassegnò a seguirlo. Non che non fosse contento, ma
avrebbe voluto salutare
i suoi amici e augurare loro buona fortuna.
Ormai i
rivoltosi avevano messo alle strette le guardie ed erano riusciti con
successo
ad impossessarsi della Bastiglia, liberando tutti i prigionieri,
compresi ex
militari incarcerati per aver sostenuto la causa del popolo, i quali
presero
immediatamente le difese dei cittadini. I soldati trovati morti vennero
decapitati e le loro teste furono infilzate su pali appuntiti e
brandite come
trofei lungo le strade attraverso tutta la città, in modo da
rendere chiaro a
tutti l’esito dell’attacco. Uno dei dirigenti della
prigione che aveva gettato
la resa fu aggredito dalla folla e linciato, mentre gli altri
sopravvissuti
furono fatti prigionieri, in attesa di giudizio.
Non
sarebbe
passato molto prima che la notizia della presa della Bastiglia si
diffondesse
in tutta la Francia.
*
In una
delle
piazze più grandi, più precisamente quella poco
distante dalla reggia del
sovrano, gli insorti avevano dato inizio ad una rivolta che si era
allargata a
macchia d’olio, raggiungendo buona parte della periferia e
comprendendo
entrambe le rive. Chi non poteva combattere si era rifugiato o
barricato in
casa, mentre chi era in grado di impugnare una qualsiasi arma era corso
in
strada a combattere per i propri diritti. Si vedevano uomini di ogni
età,
giovani ragazzi che correvano da una parte all’altra per
aiutare i rivoltosi a
costruire delle barricate nelle vie più strette, donne che,
dall’interno dei magazzini,
rifornivano di fucili e pistole coloro che ne erano sprovvisti. Tutti
si davano
da fare per ottenere ciò che volevano, ovvero la
libertà di parole e di
pensiero, la possibilità di una vita migliore e di
un’esistenza serena, senza
l’acqua alla gola e la paura di non arrivare a fine giornata.
C’era
chi
combatteva per la prima volta e chi di battaglie era ormai un veterano
ma,
anche se la maggior parte dei parigini erano mercanti e contadini, le
guardie
avevano comunque il loro bel da fare per tenere a bada Rivoluzionari e
giovanotti attaccabrighe.
A quel
proposito, appostati sul terrazzo di una casa a quattro piani, ben
riparati
dietro ad una porta in legno massiccio scardinata e usata come scudo
appoggiato
alla ringhiera, Thatch e Izou giocavano a colpire i soldati che
vedevano
svoltare l’angolo della via per raggiungere i rivoltosi,
sparandogli addosso e
guardandoli cadere uno ad uno.
Izou si
accovacciò per mettersi comodo, puntando il suo fucile
attraverso il buco
creatosi dopo che avevano divelto la maniglia, e chiuse un occhio per
prendere
meglio la mira.
Senza
nemmeno guardare il fratello, gli fece una proposta. -Chi ne elimina di
più
vince?-
Thatch
sorrise in maniera contorta, caricando un altro colpo. -Io sono
già a quota
diciassette.-
Il volto
del
compagno rimase impassibile e, dopo aver sparato, si rilassò
per passare al
prossimo. -Con questo fanno ventinove.-
-Cazzone.-
ringhiò il castano, continuando a prendere la mira e
sparando più spesso di
prima nella speranza di beccarne più di qualcuno e alzare i
suoi punti.
L’aveva
ormai quasi raggiunto quando, mentre si sporgeva per scorgerne altri,
un
proiettile andò a conficcarsi sul muro alle sue spalle,
passandogli esattamente
a pochi centimetri dal viso e graffiandogli uno zigomo.
Si
tirò
indietro, imprecando e pulendosi con una mano il rivolo di sangue,
allertando
Izou e dicendogli di fare attenzione. Il moro assottigliò lo
sguardo, nel
tentativo di capire dove si stava nascondendo il cecchino che,
sicuramente, era
salito allo stesso piano nell’edificio di fronte al loro per
fermare il
massacro dall’alto che stavano compiendo indisturbati.
-Riesci a
vederlo?- fece Thatch, sbuffando arrabbiato e rimettendosi in
posizione.
Izou
annuì.
-E’ nascosto bene. Facciamo attenzione.-
L’uomo
si
sporgeva di rado e ogni qual volta che i due fratelli provavano a
mirare verso
la strada per fornire fuoco di copertura ai civili, puntualmente gli
scaricava
addosso una serie di proiettili nel tentativo di farli fuori. Nemmeno
Izou, che
da sempre era un grande tiratore, era ancora riuscito a renderlo
inoffensivo.
-Ora
basta!-
sbottò Thatch ad un certo punto e, dopo aver atteso che una
nuova scarica
cessasse, si alzò e si appoggiò alla porta stesa
lungo la ringhiera e
crivellata di colpi, incurante del rischio che stava correndo ad
esporsi in
quel modo e posizionando il fucile, prendendo la mira mentre il soldato
dall’altra parte ricaricava.
Sparò
nello
stesso istante in cui lo vide sporgere la testa per mirare verso di
loro,
centrandolo in piena fronte e facendolo stramazzare al suolo con gli
occhi
vitrei e l’espressione vuota.
-Yeah
man!-
gridò, battendo un pugno sul legno e alzando il
fucile al cielo, guardando poi Izou dall’alto, il quale lo
scrutava con stupore
e il vago sentore di aver perso una scommessa che gli sarebbe costata
molto
cara.
Indicando
il
punto davanti a loro nel quale giaceva il militare, il castano disse
orgoglioso: -How
about that?-
L’altro
scosse il capo, leggermente infastidito, ma ammettendo a se stesso che
Thatch
aveva avuto una fortuna sfacciata, nonché una mira
eccellente, anche se non
glielo avrebbe mai e poi mai detto di persona. Decise di fare finta di
niente,
riprendendo a concentrarsi su quello che succedeva in strada,
ignorandolo.
-Shut
the
fuck up.-
*
La spada
cadde a terra e il corpo indifeso del soldato fu trapassato senza
insicurezze e
lasciato poi scivolare nella polvere assieme a tutti quelli che avevano
perso
lo scontro prima di lui. Ed ecco che Eustass Kidd passava ad un altro
attacco,
facendo arretrare il nemico, il quale non poteva fare altro sotto i
suoi colpi
micidiali e la sua forza che sembrava non esaurirsi mai. Avanzava nella
via
infierendo un affondo dopo l’altro, aprendosi la strada verso
la piazza dove
era scoppiato il culmine della rivolta, sbraitando insulti e tagliando
gole
senza preoccuparsi troppo di risultare crudele o senz’anima.
Se prima
una
parte di lui si soffermava in maniera
minima a riflettere sui misteri della fede e sul significato
di Paradiso e
Inferno, dopo ciò che aveva visto quel giorno aveva deciso
di fregarsene
altamente di commettere peccati perché aveva capito che di
gente peggiore di
lui ne esisteva.
Una, in
particolare, pareva rispecchiare gli esatti canoni del Figlio del
Demonio in
persona.
Non aveva
mai visto nessuno torturare le sue vittime come faceva Trafalgar. Lo
guardava
mozzare via arti, gambe o mani che fossero; infilzare senza esitazione
corpi
nemici e piantare pallottole nei punti vitali degli avversari con una
precisione invidiabile, per poi restarsene ad ascoltare le grida di
disperazione
e dolore dei malcapitati quasi come se provasse orgoglio o gongolasse.
E
sorrideva.
Quel figlio di puttana sadico ghignava vittorioso prima di spedire le
anime
all’altro mondo. Certo, anche a Kidd ormai non faceva
più impressione uccidere
le persone, ma arrivare addirittura a provare piacere, beh, era una
cosa che
metteva i brividi, maledizione!
Si
ritrovarono
spalla contro spalla, entrambi intenti a fronteggiare i loro nemici.
Law poteva
chiaramente sentire le scapole del rosso premere contro il suo collo
data la
notevole altezza del ragazzone, mentre Kidd si chiese come potesse
quello
scricciolo essere tanto letale.
-Buongiorno
Eustass-ya.- lo salutò il dottore, menando un fendente che
andò a squarciare il
fianco del soldato che aveva provato ad attaccarlo.
-Ti
sembra
forse un buongiorno questo, Trafalgar?- rispose con irritazione il
rosso,
parando un affondo. - Stavo meglio prima, senza la tua faccia nei
paraggi.-
-Strano,
eppure ogni notte siamo sempre così vicini.- lo
sfotté il moro, gettando
un’occhiata veloce e maliziosa al suo compagno, cogliendolo
impreparato. Kidd,
però, si riprese subito davanti a quella frecciatina e
rispose all’attacco con
la rabbia, come faceva in ogni occasione.
-E
puntualmente mi ritrovo i tuoi piedi gelati nel culo!-
sbottò, abbattendo un militare
e respirando a pieni polmoni per riprendere aria, voltandosi verso Law
con un
braccio abbandonato lungo il fianco e l’altro che reggeva la
sua spada. -Usa
quel fottuto cane per scaldarti, io non sono una stufa.-
Nel dire
ciò, spostò la sua attenzione in un punto alle
spalle del suo interlocutore, ma
non ebbe nemmeno il tempo di aprire bocca per avvisare il dottore della
presenza di un nemico alle sue spalle perché, con un
movimento veloce e ben
assestato, Law estrasse un pugnale da chissà dove,
ovviamente il bastardo era
ben armato, e con una mezza piroetta tranciò di netto la
trachea
dell’avversario, riportando poi l’attenzione su
Kidd e ignorando l’uomo
agonizzante ai suoi piedi che affogava nel suo stesso sangue.
Inarcò
un
sopracciglio scuro ed elegante, guardando la faccia allibita di
quell’armadio
con i capelli rossi, tanto disordinati quanto folti. Era sempre
più curioso di
scoprire come sarebbe stato affondarci le mani, anche se quello, si
rese conto,
non era affatto un pensiero su cui soffermarsi in una situazione del
genere.
-Stavamo
dicendo?- chiese infine, con l’ombra di un ghigno sulle
labbra sottili.
Kidd si
riscosse, sbattendo le palpebre e fissandolo di rimando. Quel ragazzo
era senza
pietà. Aveva massacrato tutti i soldati che gli si erano
parati di fronte senza
battere ciglio e non sembrava avere l’aria di uno che stava
per vomitare dopo
aver visto tanti cadaveri. Forse era grazie al suo lavoro che sembrava
non
provare il minimo rimorso, ma non avrebbe mai pensato che nascondesse
una vena
così macabra. Combatteva in maniera strana, diversa da
quella che vedeva di
solito durante gli scontri. Attaccare e difendersi erano le regole basi
che
praticamente ogni combattente seguiva; Trafalgar, invece, studiava
l’avversario
e, al momento propizio, colpiva. Non perdeva neanche il tempo ad
indebolirlo,
semplicemente gli infieriva un colpo ben assestato e poi lo lasciava al
suo
destino. A parte quando sembrava giocarci come i gatti con le loro
prede, non
lasciava via di scampo. Li uccideva e rimaneva a guardarli, occhi negli
occhi,
fino a che le anime non si spegnevano e non restava più
nulla ad impegnarlo.
Se ne
stava
lì, in mezzo a quel tappeto di morti, con un sorriso
contorto sulle labbra e
gli abiti sporchi di sangue e polvere.
E Kidd
fece
fatica a resistere all’impulso di avvicinarsi a lui e
mordergli le labbra fino
a distruggergliele.
*
Parigi
era
in preda al caos più totale. L’occhio del ciclone
era l’Île de la
Cité, dove soldati e popolo si stavano scontrando
dalle
prime luci dell’alba, mentre nelle periferie i saccheggi di
magazzini, edifici
e chiese continuavano senza sosta. Di tanto in tanto si faceva viva
qualche
pattuglia di militari che intrattenevano i ribelli per un
po’, ma alla fine
venivano sopraffatti e fatti a pezzi, il più delle volte,
dalla rabbia e dal
malcontento che regnava negli animi di tutti.
A
Montmartre
i baracchini di contrabbando e i vari locali del peccato erano chiusi,
compreso
il vecchio mulino gestito da Madame Dadan. La donna aveva fatto
barricare porte
e finestre, nascosto l’oro rubato ai clienti e il denaro
ricavato in post
sicuri e armato le ragazze di piccole armi da taglio, padelle, bastoni
e pale.
Con loro avevano solo un paio di fucili, ma li avrebbero usati senza
timore in
caso di necessità.
Erano
tutte
rintanate nelle stanze, in attesa che la rivolta cessasse o che
qualcuno
andasse a dire loro di non preoccuparsi e che il peggio era passato, ma
il
tempo scorreva e la tensione saliva di minuto in minuto.
-Io mi
sono
stancata.- decretò ad un tratto Bonney, alzandosi dal
pavimento sul quale era
stata seduta per più di un’ora, intenta ad
incidere frasi a caso sulle assi in
legno.
-Cosa
vuoi
fare?- le chiese un’allarmata Nami, vedendola afferrare una
giacca scura
dall’armadio ed indossarla. Quando poi la vide estrarre dalla
tasca una pistola
carica non ebbe più molti dubbi sulle intenzioni
dell’amica.
-Stai
scherzando? Ti faranno fuori in un secondo!-
Bonney le
scoccò un’occhiataccia offesa. -Grazie tante per
il sostegno.- fece sarcastica.
-Lo sai
che
ha ragione.- si intromise Bibi, una delle loro compagne, -Che speranze
vuoi
avere?-
-Sempre
meglio di restare qui come un’oca impaurita.-
sentenziò decisa. Non aveva
alcuna intenzione di passare l’intera giornata a tremare per
il terrore di
sentire i soldati sfondare la porta e fare irruzione nel locale. E,
soprattutto, non sarebbe rimasta in quel posto a farsi violentare e poi
sgozzare.
-Stupida
esaltata.-
borbottò a quel punto Rebecca, accomodata sul bordo del
letto e intenta a
lisciarsi i capelli. Tra lei e Bonney non era mai corso buon sangue,
infatti
non passò molto prima che insulti colorati la raggiungessero.
-Sta
zitta,
puttana.-
-Guarda
che
non mi offendi. E’ il mio lavoro.- rispose semplicemente
l’altra con indifferenza.
-Bonney,
è
una pazzia.- cercò di farla ragionare Nami, mettendo fine al
battibecco, anche se
il suo comportamento era dettato più dal senso del dovere,
che dalla sincerità
perché, se fosse stato per lei, avrebbe seguito la ragazza
in strada e avrebbe
contribuito a dare man forte ai ribelli.
Bonney,
ignorandole, aprì i balconi, cercando di non fare troppo
rumore e, una volta
aperte anche le ante della finestra, mise un piede fuori, e poi un
altro, fino
a ritrovarsi sul tetto spiovente, con la città che andava in
fiamme e
l’orizzonte tinto di grigio, nero e rosso, mentre
l’aria calda di luglio le sferzava
i capelli e il viso.
Aveva
passato anni rinchiusa in quella casa del piacere, tra le mura delle
cucine e
della sua stanza, troppo spaventata per uscire allo scoperto e troppo
impaurita
dalle persone per potersi relazionare con esse. Aveva vissuto in
compagnia, ma
era come se al mondo non avesse nessun amico. Quella che si avvicinava
di più
ad una conoscenza era Nami, ma era ancora troppo timida per permettere
a quel
rapporto di migliorarsi, per quello aveva continuato a mantenere le
distanze
dalla rossa e da tutte le altre.
Però,
in
quel momento voleva cambiare, uscire dal suo guscio e affrontare la
realtà, o
non avrebbe mai potuto costruirsi un futuro. Sarebbe morta comunque se
fosse
rimasta nel locale; per mano di qualcuno, o per la vecchiaia, un giorno
avrebbe
chiuso gli occhi e non si sarebbe più risvegliata,
perciò tanto valeva darsi da
fare e avere qualche bel ricordo prima di trapassare. E poi, era
già uscita
altre volte nell’ultimo periodo, era stata brava ed era
andato tutto bene.
Si
chinò
quindi sulle ginocchia e prese a scendere lungo le tegole, mantenendosi
in
equilibrio e raggiungendo la grondaia più vicina per calarsi
a terra. Non fu
difficile, l’aveva visto fare mille volte dagli uomini che se
ne andavano di
nascosto dalle stanze delle sue coinquiline. Dadan poteva pure imporre
delle
regole ferree, ma venivano trasgredite ogni notte. Ad ogni modo, se ci
riusciva
un ubriacone, poteva farcela di sicuro anche lei da sobria.
Infatti
così
fu, i suoi stivali toccarono terra e automaticamente una sensazione di
grandezza
si fece strada in lei. Era certa che, se soltanto avesse voluto,
avrebbe potuto
fare qualsiasi cosa, persino ritornare a casa tutta intera.
Fece per
voltarsi e dirigersi verso la battaglia, ma un rumore dietro di lei
attirò la
sua attenzione, facendo si che sul suo viso si dipingesse
un’espressione di
sorpresa, sostituendo per un momento la sua facciata poco disponibile.
-Non
crederai che ti lasci andare da sola, spero.-
Nami,
pulendosi le mani sulla gonna, le si avvicinò con passo
deciso, superandola e
precedendola sulla via.
Bonney la
guardò con scetticismo prima di decidersi a seguirla,
affiancandola e
camminando accanto a lei, vestita con dei comodi pantaloni e
un’ampia camicia.
-Non ti
chiederò dove tu abbia trovato quegli abiti.- disse Nami, in
un chiaro intento
di curiosare negli scheletri nell’armadio di quella ragazza
dai capelli rosa
tanto aggressiva quanto asociale.
La
diretta
interessata si strinse nelle spalle. -Uomini.- rispose semplicemente,
anche se
con ciò intendeva dire che li aveva raccattati in giro, e
non sottratti agli
amanti che mai aveva ospitato nel
suo
letto.
Eccezione fatta
per uno, si
ritrovò a pensare, abbassando subito il capo. Chissà
che fine ha fatto.
Vide Nami
alzare gli occhi al cielo, ma lasciar comunque cadere il discorso. -Ci
sarà il
disastro, lo sai, vero?-
Bonney
annuì, ugualmente determinata ad andare avanti e ad essere
lei stessa a
prendere le decisioni migliori per lei.
Avevano
immaginato che non sarebbe stata delle migliori la situazione, ma non
avevano
previsto tutte le vere e proprie difficoltà.
Non
appena
si ritrovarono nei pressi dei confini della Rive
Droite, capirono subito che buttarsi nella mischia non era
esattamente una
delle idee migliori. La gente urlava, gridava improperi e maledizioni,
rumore
di spari e clangore di spade sovrastavano qualsiasi cosa,
c’era un’esplosione
dietro l’altra a causa dei barili di polvere da sparo e,
spesso, la polvere che
si alzava da terra rendeva impossibile avanzare con sicurezza. Anche
se, a dire
la verità, un posto sicuro in quel delirio non
c’era.
Avanzavano
lentamente, riparandosi dietro alle barricate e camminando rasente i
muri delle
case, in modo da nascondersi nei vari angoli o vicoli che incontravano
lungo il
cammino, riuscendo a raggiungere un punto abbastanza vicino al ponte
che
portava all’isola in mezzo alla Senna da dove si alzavano
alte delle fiamme.
-Quella
che
brucia è Notre-Dame?-
chiese Bonney,
la quale non aveva mai visto la cattedrale dall’interno.
-No.-
rispose Nami, spiando l’edificio al di là del
fiume da una fessura creatasi in
un muro mezzo distrutto, -Hanno troppa paura di Dio per farlo.-
chiarì,
gettando un’occhiata tutt’intorno alla ricerca di
facce conosciute e
riconoscendo alcuni Rivoluzionari, abituali clienti di Dadan.
Si erano
fermate dietro una barricata dall’aria resistente, abbastanza
vicina all’acqua
e con un’ottima visuale sul ponte, tanto che
dall’alto di essa, alcuni uomini
prendevano di mira i soldati che si avvicinavano troppo con
l’intento di
abbatterla.
-E ora
che
si fa?- domandò la rossa, voltandosi verso l’amica
che aveva avuto l’idea
geniale di uscire a dare man forte ai civili, ma senza pianificare
nulla di
concreto.
Bonney
gliela lesse negli occhi quell’accusa e, per non venire
ripresa, si schiarì la
gola ed estrasse con sicurezza un’arma che non aveva mai
usato, ma che, fin da
quando ne era entrata in possesso, la teneva accanto al letto come una
specie
di talismano. Aveva pensato che l’avrebbe conservata fino a
quando non avrebbe
rivisto il suo proprietario, ma non aveva la certezza di riuscire a
ricavarsi
un altro momento per loro due, perciò era meglio usarla per
difendersi, o
almeno provarci.
La
caricò,
spostando gli occhi seri e determinati a sostenere lo sguardo
dell’amica.
-Facciamo vedere a tutti che anche le donne sanno combattere.-
Nami
sapeva
che il momento era il meno adatto, perciò si trattenne dallo
scoppiare a ridere
troppo fragorosamente e si accontentò di mostrare un
sorrisetto divertito.
Bonney era veramente una pazza senza il minimo tatto, ma aveva coraggio
da
vendere, per quello le stava simpatica e, se le cose stavano in quel
modo, era
meglio darsi subito da fare.
Curiosò
in
giro alla ricerca di una qualsiasi arma, trovando in mezzo alle macerie
un
pezzo di un corrimano in ferro battuto, piuttosto lungo, ma abbastanza
leggero
da poterlo maneggiare con facilità. Così, dopo
averlo raccolto, si scambiò
un’occhiata eloquente con Bonney e poi si fecero strada verso
la piazza più
vicina, quella da cui partiva il ponte, attirando sguardi stupiti, ma
anche
molti rimproveri. Ovviamente, quello non era affatto un posto adatto a
delle
signore, ma bastò che Bonney piazzasse un paio di pallottole
nelle gambe di
qualche soldato che tutti i rivoltosi non ebbero più nulla
da ridire,
riprendendo da dove avevano interrotto.
-Non
sapevo
che fossi capace di sparare.- notò Nami, alle prese con il
suo primo avversario,
un soldato poco più alto di lei che aveva tutta
l’intenzione di farla
retrocedere senza ucciderla.
-Nemmeno
io.
Ho premuto il grilletto a caso.- ammise l’altra ragazza,
osservando come la
rossa, senza troppe cerimonie, abbattesse la spranga di ferro sulla
schiena del
militare, ribaltandolo e iniziando a prenderlo a calci fino a che non
venne
allontanata dalla stessa Bonney.
-Davvero?
Ottimo.- fece con il fiatone.
-E tu? Da
quando sai fare quello?-
-Beh,
sai,
ho improvvisato.- sorrise complice la rossa, altrettanto stupita delle
sue
azioni.
Un’esplosione
particolarmente vicina e improvvisa le colse di sorpresa, facendo
perdere
l’equilibrio a Bonney che, maledicendo l’artefice,
si ritrovò a sbattere per
terra il sedere. Nemmeno il tempo di rialzarsi, pronta a trovare il
pazzo che
aveva quasi rischiato di farle saltare in aria assieme ad altri civili,
che un
gruppo di Rivoluzionari spuntarono dall’altro lato della
piazza, correndo allo
sbaraglio come animali impauriti.
Bonney
non
capiva cosa diavolo stava succedendo, ma Nami, avendo intuito chi
c’era dietro
quelle esplosioni continue, assottigliò gli occhi fino a
riconoscere la figura
di Ace che, sbraitando frasi ai compagni e indicando continuamente
punti
diversi del perimetro, si avvicinava a loro sempre di più
con accanto Sabo e
una ragazza dai capelli corti, un altro tizio biondo che non conosceva
e…
-Rufy.-
sussurrò,
mentre il cuore iniziava a batterle all’impazzata, facendole
girare la testa
per un attimo.
-Mon Dieu, l’Idiota
di Fuoco e la sua combriccola.- borbottò la
ragazza
accanto a lei, rinfoderando la pistola in quel momento di calma e
guardando
divertita come Ace le raggiungeva, litigando, come sempre, con i suoi
fratelli.
Tra lei e quel ragazzo c’era un rapporto complicato, fatto di
frecciatine e
insulti continui, ma le stava simpatico, in sua compagnia non doveva
preoccuparsi di apparire volgare o poco educata, anche
perché, in fatto di
buone maniere, Ace non era affatto ferrato. Andavano
d’accordo, ma restava
comunque uno stupido davanti ai suoi occhi. Con i suoi fratelli,
invece, andava
tutto bene. Sabo era gentile, mentre era impossibile non essere amici
del
piccoletto.
-Dovevi
fare
più attenzione!- riuscirono a sentire quando tutti furono
più vicini. Sabo
stava riprendendo Ace per qualcosa che aveva fatto mentre, qualche
passo più
indietro, Rufy li seguiva sghignazzando con un paio di coetanei che aveva incrociato lungo
la via e che si
erano aggregati a loro, curiosi di sapere come stava il ragazzino, dato
che era
da mesi che non lo vedevano. -Ci è praticamente esplosa
sotto al naso!-
-Ti ho
detto
che è stato un incidente!- si difese il moro, camminando a
passo spedito e
alzando le braccia al cielo. -Se solo Marco non si fosse messo in
mezzo, io…-
-Io? Mi
stai
forse dando la colpa?- si intromise quello nuovo, che nessuna delle due
conosceva. Aveva uno strano accento e l’aria da straniero,
gli abiti erano
sporchi, ma non erano vecchi o usurati, mentre dall’aspetto e
dalla corporatura
doveva essere più grande, almeno sulla trentina.
Ace
aprì la
bocca per ribattere, ma Sabo pensò bene di mettere fine a
quel battibecco. -Non
voglio sapere altro, l’importante è che non si sia
fatto male nessuno.-
-Sai che
non
sbaglio mai.-
-Ne hai
combinata una delle tue, Ace?- lo prese in giro Bonney, incapace di
trattenersi, e sfoggiando un sorrisetto malefico quando il ragazzo fu
abbastanza vicino da poterla sentire e riconoscerla. Godette nel
vederlo
arrestarsi in mezzo al gruppo per lo stupore, espressione che
sfoggiò anche
Sabo non appena si accorse di lei, notando anche Nami alle sue spalle.
-Ragazze,
cosa ci fa…-
-Nami?-
La voce
di
Rufy sovrastò le altre e, subito dopo, Bonney lo vide
superare i fratelli,
facendosi largo tra loro, spintonando Ace che gli stava inconsciamente
sbarrando la strada. Davanti a ciò, lei pensò
bene di spostarsi di sua
spontanea volontà, lasciando via libera all’amico
che, senza degnarla di
attenzione, avanzava serio e determinato verso Nami.
Bonney
inclinò il capo incuriosita quando, non appena furono uno di
fronte all’altra,
Rufy si fermò a guardare come la sua migliore amica fosse
tutta intera, senza
ferite o graffi.
-Come
stai?-
lo sentì domandare, accorgendosi di Ace che
l’aveva affiancata, seguito dagli
altri. Era andata più o meno in quel modo con tutti gli
amici di Rufy che
avevano trovato lungo la strada. Non appena l’avevano visto,
avevano avuto le
reazioni più differenti. Usopp, ad esempio, era scoppiato in
lacrime dopo aver
tentato senza successo di trattenerle; Sanji e Zoro, incontrati in
momenti
differenti, lo avevano salutato con un sorriso appena accennato e una
pacca
sulla spalla, mentre Franky aveva interrotto un assalto ad un magazzino
solo
per dare il benvenuto tra la gente libera a quel moccioso.
Nami
annuì
mesta, intimorita dai cambiamenti che leggeva negli occhi di Rufy.
Anche se il
ragazzo era sempre lo stesso, notava come fosse diventato un poco
più alto,
come i capelli fossero più folti e scuri e la barba che gli
era cresciuta
leggermente. -Bene.- disse solamente, anche se avrebbe voluto
domandargli come
stesse lui, cosa aveva fatto tutti quei mesi in prigione, se aveva
mangiato e,
soprattutto, se un pochino gli era mancata. Qualcosa le diceva,
però, che a
quell’ultima domanda avrebbe avuto molto presto risposta,
perché Rufy la
guardava diversamente dal solito, come se fosse davvero preoccupato per
lei, come
se ci tenesse molto, tanto, come se
fosse interessato.
Stava per
aggiungere qualcosa, ma lui la precedette, facendo una cosa che nessuno
dei
presenti si sarebbero mai aspettati.
Sentì
le sue
labbra sulle sue e tutto scomparve. Spari, grida, esplosioni, voci,
tutto. Non
c’era più niente, solo Rufy e lei. Rufy che le
stava dando un bacio timido,
leggero, ma che la rese più felice di qualsiasi altro
perché sentiva con quanto
affetto avesse fatto quel gesto.
Purtroppo,
però, era una donna molto orgogliosa e, in parte arrabbiata
per averlo creduto
in pericolo e non aver ricevuto mai una qualche informazione se non da
Ace, in
parte offesa per quel bacio rubato senza il suo permesso, lo
allontanò con un
sonoro ceffone sul viso, tanto forte che fece voltare il viso al
ragazzo.
-E questo
per cos’era?- le domandò lui immediatamente,
massaggiandosi la guancia senza
capirci molto. Non era stata contenta? Le aveva dimostrato che gli
piaceva,
perché, quindi, lo aveva picchiato?
Come se
Nami
non fosse stata abbastanza, ricevette due scappellotti in testa
contemporaneamente, uno da Sabo, il quale provvide subito a scusarsi
con la
ragazza, e uno da Ace che non credeva ai suoi occhi.
-Sei
impazzito?- gli urlò contro, -Ti sembra il momento, questo?-
-Ma Ace,
Bagy mi ha detto che se voglio baciare una donna devo farlo e basta.-
si difese
Rufy, strofinandosi una mano sulla testa per far passare il dolore.
Perché
dovevano sempre avercela tutti con lui?
-Fammi
capire, uno sconosciuto di dice cosa fare e tu lo ascolti, quando Sabo
ed io ci
abbiamo messo un anno per farti capire come nascono i bambini?- fece il
moro,
fuori di sé per gli ultimi avvenimenti. Prima Marco gli
aveva fatto perdere la
concentrazione, facendo esplodere troppo in anticipo della polvere da
sparo;
poi Sabo che incolpava solo lui e infine suo fratello minore che
decideva di
abbandonare l’età dell’adolescenza e
diventare uomo nel bel mezzo della
rivolta.
Proprio
allora, Sabo, con uno sguardo omicida e con Koala che ridacchiava al
suo
fianco, si schioccò le nocche con fare minaccioso. -Giuro
che pesterò a sangue
quell’idiota che ti ha messo in testa certe idee.-
-Oh, sono
certa che a Nami non sarà dispiaciuto.-
puntualizzò Bonney, ignorando le
proteste della ragazza che arrivarono non appena si lasciò
scappare quella
frase. Diede le spalle al gruppo, lasciando i due palesemente
innamorati a
litigare, una che sbraitava parole senza senso riguardanti la
lontananza, e
l’altro che ridacchiava, stringendosi nelle spalle come se
volesse giustificare
quella sua impulsività con il carattere infantile che si
ritrovava.
La pausa
stava finendo, se ne accorse perché dal ponte proveniva un
rumore di spari
sempre più forte e la gente si stava riversando proprio
verso di esso nel tentativo
di placare un’altra ondata di militari. Ma quanti erano,
dannazione?
-Ehi,
Bonney, ti ricordi come si usa una di queste?- le chiese Ace,
raggiungendola
con una spada che le mise in mano.
-Fidati,
ho
imparato bene.-
-Ti ha
insegnato il migliore.- affermò il ragazzo, ammiccando e
augurandole buona
fortuna prima di riunirsi ai fratelli per riprendere
l’assalto.
Si
annodò
velocemente i capelli in una coda alta e si tolse di dosso la giacca
troppo
larga che le ostacolava i movimenti, rimanendo con una camicetta senza
maniche
bianca. Certo, non aveva nessun tipo di protezione, ma aveva intenzione
di
rimanere dietro le quinte e aiutare come poteva da quella posizione di
sicurezza. Sapeva combattere, era vero, Ace le aveva insegnato bene, ma
lo
aveva fatto solo un paio di volte da ubriaco e stenderlo non era stato
difficile, soprattutto prendendolo a bastonate con i manici di scopa
che
usavano come armi, ma non aveva mai affrontato un combattente esperto e
temeva
di essersi esaltata troppo e di aver confidato esageratamente nelle sue
capacità, ma ormai era lì, in quella piazza e in
mezzo alla battaglia e per
niente al mondo si sarebbe tirata indietro.
Ritornò
sui
suoi passi al limitare della barricata che chiudeva ogni passaggio alle
vie
interne per impedire ai soldati di infiltrarsi, affrettandosi lungo la
parete
dove i vetri infranti facevano presumere che il proprietario del
negozio non
avrebbe riaperto il giorno seguente.
Aveva
quasi
raggiunto i ribelli, pronta ad esibire la coccarda che Sabo le aveva
consegnato
prima di separarsi, quando un braccio uscì dalla porta
sfondata alla sua
destra, afferrandola e trascinandola con forza al suo interno,
disarmandola
prima ancora che sollevasse la spada per difendersi e puntandole una
rivoltella
alla tempia mentre veniva sbattuta contro la parete.
-Cosa
diamine ci fai qui?-
Bonney
aprì
gli occhi che aveva serrato per lo spavento, scoprendo che si era mezza
rannicchiata su se stessa, un gesto involontario e inconscio dovuto al
trauma
subito da piccola, alzando lo sguardo sul suo aggressore e lasciandosi
scappare
un sospiro di sollievo. Ormai lo conosceva così bene che lo
avrebbe
riconosciuto ovunque quell’ufficiale.
Stava per
sorridere e chiamarlo per nome, ma si ricordò del
particolare riguardante la
pistola che era ancora puntata contro di lei e del tono freddo a duro
che aveva
usato per parlarle, perciò rispose allo stesso modo, non
volendo dimostrarsi
debole e indifesa.
-Combatto
con il popolo.- disse fiera, incrociando le braccia sotto al seno e
fissandolo
dritto negli occhi, quasi a volerlo sfidare.
Drake
strinse la mano libera in un pugno, guardandola in maniera, se
possibile, più
truce di prima. -Torna subito a Montmartre.- le ordinò, ma
aveva fatto male i
suoi calcoli se pensava che Bonney lo avrebbe ascoltato.
-No.-
rispose infatti, inflessibile e arrabbiata. Non si erano più
visti, lui non
aveva più fatto nessuna ronda da quelle parti e lei aveva
ancora la pistola che
aveva dimenticato quella notte. Però non poteva dirgli
quelle cose, non poteva
esporsi e ammettere che la decisione di uscire dal suo luogo sicuro e
rischiare
tanto era stata presa in parte con la speranza di incontrarlo e di
vedere come
stava, se era ferito o peggio. Ad ogni modo, solo allora si rese
veramente
conto di com’era la situazione: erano parti di due fazioni
opposte,
combattevano per ideali e motivi diversi ed erano nemici a prescindere
dai loro
sentimenti.
-Vattene
via, non farmelo ripetere.-
E’
impossibile, pensò
la ragazza, rattristata e incapace di mantenere l’espressione
dura,
mentre tutti i suoi stupidi sogni di ragazzina si sgretolavano,
lasciando
nient’altro al loro posto.
La
scrollata
che ricevette, ritrovandosi schiacciata ulteriormente addosso al muro,
la
riportò alla realtà, scuotendola il necessario
per farle ritrovare un po’ di
verve.
-C’è
un’uscita, attraversando il negozio ti ritroverai
dall’altra parte della
barricata.- parlò svelto Drake, indicandole la strada,
-Appena sei fuori, corri
più veloce che puoi e allontanati, hai capito?-
Bonney
lesse
un sacco di emozioni nei suoi occhi quando ritornò a
guardarla. Era stanco,
nervoso e impaziente, ma quell’ordine nascondeva una
preghiera che, per un
attimo, pensò di esaudire, accontentandolo e dandogli un
pensiero in meno.
Ma
così non
fu.
Si
divincolò
dalla sua presa, colpendolo all’improvviso allo stomaco,
abbastanza forte da
farlo allontanare di qualche passo e avere il tempo di sgusciare fuori
e
dirigersi verso i suoi compagni. Doveva avvisarsi della falla sulla
barricata o
si sarebbero ritrovai i soldati all’interno senza rendersene
conto. Doveva
muoversi, erano in pericolo un sacco di persone e dipendeva tutto da
lei.
Quando,
però, qualcuno alle sue spalle urlò il suo nome,
tanto forte e distintamente da
farle venire i brividi, fu costretta a fermarsi, bloccandosi
all’improvviso e
rischiando di cadere. Ebbe solo il tempo di voltarsi per vedere Drake
che
puntava la pistola verso di lei e sparava.
Angolo
Autrice.
E’
tardissimo, lo so. Mi dispiace, davvero. Mi dispiace un sacco, ma ci
sono.
Adesso ho due capitoli pronti, buttati fuori con sudore e ansia, ma ci
sono e
il prossimo non tarderà, promesso!
Sono di
fretta, perciò niente immagini, slittano al prossimo
incontro, settimana
prossima, non so quale giorno ;___________;
Faccio
schifo come tempistiche, sono la ritardataria numero 1 al mondo su
tutto, ma
sto continuando a lavorarci, non ho mollato nulla.
Sono
ancora
qua e la porto avanti.
Non sono
convintissima del capitolo, volevo aspettare ancora, ma ho deciso che
stavolta
va così. Metterò più sangue e
più stragi nel prossimo, promesso, LOL.
Un
abbraccio
infinito e grazie alle povere anime che continuano a seguire la ff
;__________;
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 15 *** Quinze. ***
Liberté,
Égalité, Fraternité.
Quinze.
-L’avevo
già
steso io con un calcio.-
-Io gli
ho
fatto un buco sullo stomaco!-
-Ma non
serviva che ti intromettessi, l’avevo finito ormai.-
-Almeno
hai
la certezza che è morto!-
-Ce
l’avevo
anche prima, razza di idiota!-
Sanji e
Zoro
stavano tenendo a bada una decina di soldati sulla riva del fiume,
spedendone
qualcuno in acqua e mettendo fuori gioco gli altri. Lo spadaccino si
difendeva
utilizzando addirittura tre spade, mentre il biondo si arrangiava come
poteva
schivando le armi da taglio e confidando nelle sue capacità
atletiche,
spezzando ossa, rompendo qualche collo e prendendo a pugni un militare
dopo
l’altro.
Poco
distante da loro, Rufy si stava divertendo come un bambino al parco,
usando per
combattere tutto quello che gli capitava sotto gli occhi, compreso il
remo di
una barchetta ancorata alla riva, sassi e una rete da pesca che
finì per
aggrovigliarsi alle gambe, ruzzolando a terra e ridendo come un ubriaco.
-Ehi! Mi
dareste una mano?-
Nemmeno
il
tempo di dirlo, che Zoro era già sul posto ad impedire che
un gendarme sparasse
all’amico appena ritrovato.
-Non ti
ricordi più come si combatte?- gli chiese spiccio,
liberandolo e tirandolo su
di peso, scuotendo il capo nell’udire le risate del moro,
troppo felice di
essere uscito di prigione e di aver ritrovato i suoi fratelli.
Quando
Ace
lo aveva portato via dalla Bastiglia, raggiungendo poi la piazza, aveva
creduto
che nulla sarebbe potuto andare meglio, ma quando il maggiore,
sorridendogli in
modo fraterno, lo aveva spinto in avanti per fargli vedere una sorpresa
di cui
gli aveva parlato durante la strada, beh, si era reso conto che non
c’era
limite alla felicità.
Era
scoppiato a piangere senza vergogna, correndo verso
l’ingresso dell’edificio
dove Sabo lo stava aspettando, anche lui con le lacrime agli occhi e un
nodo in
gola, e gli era saltato addosso, stringendolo forte e mormorando
all’infinito
il suo nome. Aveva passato giorni credendo morto Ace e mesi con la
convinzione
che non avrebbe mai più rivisto il bel sorriso di Sabo,
invece era stato
graziato ed era di nuovo con la sua famiglia. Ad aggregarsi, poi, era
arrivato
anche Ace e si erano stretti l’uno con l’altro per
un po’, giusto per
recuperare parte del tempo passato in lontananza forzata e ridando
tutte le
energie a Rufy, compresa la carica per affrontare una rivolta,
nonostante la
malnutrizione e il sonno patito.
Si
sentiva
invincibile.
Si
passò una
mano sul viso, alzando i pugni pronto a ricominciare. -Devo solo
riscaldarmi.-
affermò, sorridendo enigmatico al soldato che gli si era
parato di fronte.
Anche
rivedere i suoi amici lo aveva mandato direttamente al settimo cielo e
baciare
Nami era stata la ciliegina sulla torta, anche se l’aveva
vista sparire dietro
le barricate poco dopo. Era meglio per tutti, almeno la sapeva al
sicuro e,
quando avrebbe concluso quella battaglia, l’avrebbe raggiunta
subito, senza
perdere altro tempo. Doveva rendere orgogliosi Bagy, Mister Three e Von
Clay,
dopotutto.
-Ehi,
guardate
chi c’é.- disse Sanji, notando come un impaurito
Usopp li raggiungeva, cercando
di passare inosservato tra i soldati e schivando con precisione innata
tutte le
risse che incontrava lungo il tragitto, nascondendosi dietro al
coperchio di un
barile che si portava appresso come scudo.
-Ici! Usopp!- lo
chiamò
Rufy a gran voce, facendo ricadere l’attenzione di molti sul
ragazzo appena
arrivato. -Da questa parte!-
-Accidenti
a
te, Rufy!- rispose l’altro, notando tre uomini armati
accerchiarlo, richiamati
dalle urla del Rivoluzionario. Fortuna che aveva con sé
della polvere da sparo
che aveva modificato nella sua serra, trattandola fino a farle produrre
solo
del fumo e non un’esplosione, così ne
lanciò un po’ a terra e sfruttò il
fattore sorpresa per defilarsi senza troppi rischi. Aveva avuto proprio
un’idea
geniale e, da quello che aveva sentito, le dosi che aveva dato a Sabo
avevano
fatto scalpore alla Bastiglia.
-Quando
hai
finito di giocare a fare lo scienziato pazzo,- ironizzò
Sanji, respingendo con
un’asse di legno un nemico, -Vieni a dare una mano!-
Un’ombra
di
terrore passò sul volto di Usopp che di combattere non ne
aveva proprio
l’intenzione e, sgusciando dietro alle spalle di Rufy,
poggiandogli le mani
sulle braccia per voltarlo a destra e a sinistra, ovvero ovunque
vedesse dei
soldati, si preparò a fare di tutto per salvarsi la vita.
-Scordatelo,-
disse, alzando la voce per farsi sentire in mezzo a quel caos e per
sovrastare
le risate di Rufy. -Piuttosto, voi dovreste difendermi. Non vorrete
rischiare di
perdere il vostro guerriero più valoroso.-
-Eccolo
che
ricomincia.- Zoro roteò gli occhi al cielo, sostenendo una
spada con la bocca,
stringendo i denti attorno all’elsa e difendendosi da un
fendente con le altre
due, incrociandole davanti al suo corpo e creando una barriera
difficile da
infrangere. Era sempre stato bravo e portato per quell’arte
fin da piccolo e
crescendo era migliorato di giorno in giorno, diventando uno dei
più bravi ed
essenziali spadaccini nei ranghi dei Rivoluzionari. Parte di quella
fortuna la
doveva a Rufy che, dopo averlo incontrato, aiutato ad uscire dai guai e
assillato per diventare suo amico, lo aveva convinto ad aggregarsi a
quella sua
combriccola di gente persa e apparentemente senza beni, ma che in
realtà
possedeva il tesoro più prezioso di tutti, ovvero la
famiglia, l’amicizia e il
voler dare la vita gli uni per gli altri.
Aveva
conosciuto tante belle persone e si era fatto un sacco di amici, anche
se per
Rufy conservava un posto speciale nel suo cuore, dato che aveva fatto
molto per
lui anche se all’inizio non lo conosceva affatto. Aveva
trovato un poso dove
stare e si era creato degli obbiettivi da raggiungere. Uno di questi
era
diventare il combattente migliore di tutta la Francia e poi
chissà, magari
anche del mondo.
Per
quello
si trovava in piazza a combattere, per difendere i suoi sogni e le
persone che
amava.
-Diamine,
ma
sei sempre in mezzo?-
Eccezione
fatta per quel cuoco maledetto.
Mentre
era
distratto, Sanji gli era finito contro senza accorgersene, inciampando
sui suoi
piedi e coinvolgendolo in un ruzzolone tra la polvere, proprio nel bel
mezzo di
una battaglia rischiosa e pericolosa.
Zoro,
già
nervoso di suo, non accettò per niente quel commento,
soprattutto perché, per
una volta, la colpa non era stata sua.
-Sei tu
che
mi sei venuto addosso, impiastro!- sbottò, ringhiando e
scalciando per
togliersi di dosso il peso del ragazzo biondo che, appoggiate le mani
suo
terreno, faceva leva per rialzarsi.
-Se ti
fossi
spostato, forse non sarebbe successo!- ribatté Sanji,
indietreggiando di
qualche passo per lasciare al compagno lo spazio per muoversi e
sollevarsi da
terra, raccogliendo le spade e mettendosi in posizione
d’attacco,
fronteggiandolo. Decisamente, la situazione non stava prendendo una
bella
piega.
Fu quello
il
pensiero di Usopp che, ancora nascosto dietro Rufy, aveva adocchiato i
due
amici, schiaffandosi una mano sul viso per celare la sua espressione
esasperata
e disperata. Se si fossero messi a litigare in quel momento sarebbero
stati
guai per tutti.
Dovette
però
concentrarsi su altro, rendendosi conto che, se non si fosse dato
finalmente da
fare, per Rufy ci sarebbero state delle complicanze. Il ragazzino era
forte, ma
non aveva gli occhi ovunque, perciò gli avrebbe guardato le
spalle e avrebbe
fronteggiato il soldato che si stava avvicinando di silenziosamente.
-Non ho
tempo per farti da balia perché, se non l’hai
notato, sono impegnato a farci
vincere la causa.-
-Come se
avessi bisogno di te per vivere.- sputò Sanji a quel punto,
offeso dal commento
dell’altro. Lui non aveva bisogno di nessuno e si era sempre
arrangiato, fin da
piccolo. Nemmeno quando Zeff gli aveva offerto un tetto sopra la testa
aveva
ceduto a farsi coccolare e viziare. In parte perché il
vecchio di certo non
rappresentava l’icona dell’amore, ma anche
perché sapeva badare a se stesso e
la sua indipendenza gli piaceva. Se lì c’era
qualcuno di infantile, quello era
solo Zoro che, tra parentesi, non aveva nemmeno un minimo di senso
dell’orientamento, figurarsi quindi se sapeva arrangiarsi.
In quelle
parole, però, c’era molto di più.
C’erano rabbia, rancore, risentimento,
frustrazione, odio e un sacco di altri sentimenti che il biondo provava
da
molto tempo verso quel ragazzo dai capelli verdi e con la fissa per le
spade.
Lo detestava come pochi e se non lo aveva ancora ucciso era solo
perché stavano
dalla stessa parte.
Ad ogni
modo, Zoro capì. Non era una mente brillante o un
sapientone, ma se voleva ci
arrivava e lo sfogo di Sanji era stato tanto spontaneo quanto brutto da
vedere
e sentire. In poche parole gli aveva detto di stargli alla larga, di
smetterla
di cercarlo e di assillarlo. A sua discolpa non poteva nemmeno dire che
era il
biondo a richiedere la sua presenza perché ciò
non era mai successo. Era sempre
lui il primo a farsi avanti, a chiedere di più di qualche
insulto o di uno
sguardo, era sempre e solo lui quello che trasformava un momento
tranquillo in
un attimo di passione. Sanji, invece, stava zitto e lo accontentava.
Riflettendoci, non sapeva nemmeno se gli piacesse tutto ciò,
quello che
facevano, il sesso, ecco.
Aggrottò
le
sopracciglia in un’espressione furiosa. Se non voleva allora
poteva dirglielo
benissimo e non fare la parte della vittima costretta.
-Beh, di
certo non ne ho bisogno io.- scandì, mettendo in quelle
parole tutto il
disprezzo che aveva a disposizione e vedendo negli occhi azzurri del
biondo
spezzarsi qualcosa, facendogli chiedere subito dopo se non avesse
sbagliato a
lasciarsi prendere la mano.
Ma Zoro
agiva così, non pensava e seguiva l’istinto e, in
quella circostanza, l’unica
cosa che aveva voluto era stato ferire Sanji, come si era sentito
ferito lui
dall’affermazione di poco prima.
Si erano
appena dati le spalle, quando uno sparo particolarmente vicino a loro
gelò il
sangue nelle vene di entrambi.
Si
guardarono
negli occhi in quello stesso istante, cercandosi con ansia, giusto il
tempo
necessario per controllare che nessuno dei due fosse stato ferito e
concentrandosi poi su altro per nascondere lo stato sconvolto e il
sollievo che
avevano provato nell’accertarsi che non erano stati loro le
vittime, ma qualcun
altro.
Fu Zoro
ad
accorgersi per primo dell’ennesima morte avvenuta nel campo
di battaglia.
A pochi
metri, Rufy gli dava le spalle, inginocchiato sull’erba
macchiata di fango e
sangue mentre reggeva tra le braccia un corpo che non si stava
muovendo, ma che
sembrava essere ancora in vita, dato che il ragazzino lo scrollava e
gli
parlava affannato e preoccupato.
Sanji,
però,
si mosse prima di lui, correndo per raggiungere l’amico,
seguito dopo qualche
secondo dallo stesso Zoro che, avendo intuito chi si nascondesse dietro
le
spalle coperte dalla camicia rossa troppo appariscente di Rufy, cercava
di auto
convincersi che non fosse così grave come gli sembrava.
-Oh, merde.-
Gli
bastò
vedere il viso del biondo contrarsi in una smorfia di dolore per capire
che la
situazione aveva iniziato a precipitare e, quando aggirò il
ragazzo a terra, il
respirò gli venne completamente tolto.
Rufy
stava
sostenendo Usopp, stringendoselo al petto e dandogli dei colpetti sulle
guance
per tenerlo sveglio, blaterando cose insensate che lo spadaccino non
capì,
mentre Sanji si era accovacciato per controllare le condizioni della
ferita.
Poi si rialzò e scosse la testa senza guardare nessuno in
particolare.
-Usopp,
ehi,
mi senti? Resta sveglio, forza! Ci… ci sono io. Sono qui.
Ehi? Sono Rufy!-
Con le
palpebre socchiuse, Usopp si sforzò di aprire le labbra e
sorridere, ottenendo
però un colpo violento di tosse nel momento in cui
tentò di parlare. Si sentiva
malissimo e con le membra pesanti, mentre al petto sentiva una fitta
continua e
una sensazione di calore che andava, via, via, disperdendosi,
lasciandolo al
freddo.
Gli
bastò
però spostare lo sguardo su Rufy e si sentì
meglio, consapevole di avergli
salvato la vita, proteggendolo con la sua. Sarebbe stato un eroe,
l’uomo che
aveva sempre sognato di essere. Coraggioso, valoroso e amato.
-N-non vi
preoc-cupate…- balbettò, deglutendo a fatica e
combattendo le lacrime che gli
stavano facendo bruciare gli occhi. I guerrieri non piangevano. -Me la
caverò.-
-Certo
che
ce la farai! Ora chiamiamo Traffy e lui ti guarirà, vedrai.
Lui… Usopp? Usopp!-
-Sono…-
provò a dire, accennando un sorriso tirato e stanco, -Sono
il vostro guerriero
più valoroso… no?-
Zoro
respirò
a fondo, mordendosi un labbro e stringendo i pugni, costringendosi a
mantenere
un certo controllo. Lo faceva per rispetto verso Usopp che era stato
davvero il
più coraggioso di tutti quel giorno e per Rufy che sembrava
ancora convinto che
il ragazzo che reggeva tra le braccia si fosse solamente addormentato
per
riprendere le forze.
-Va bene
così, riposati e poi… ti… sveglio io.-
mormorò tra i singhiozzi. -Quando sarà
ora di pranzo verrò a chiamarti e ti lascerò
anche la mia porzione.-
Sanji
voltò
la testa altrove, fissando un punto in lontananza e sperando che quel
soffio di
vento che c’era asciugasse le poche lacrime che gli avevano
rigato le guance,
mentre per quelle di Rufy ci sarebbe voluto più di un
fazzoletto per
assorbirle.
Quando fu
chiaro che Usopp non si sarebbe risvegliato, ne rialzato, Rufy smise
improvvisamente di singhiozzare, ammutolendosi e stringendo
impercettibilmente
le dita attorno al corpo dell’amico, chinando il capo su di
lui e
sussurrandogli qualcosa che agli altri due sfuggì. Lo videro
solamente alzare
il capo e guardare davanti a sé, con uno sguardo vuoto,
privo di sentimento.
L’unica cosa che vi lessero furono assenza di
pietà e sete di vendetta.
A quel
punto,
Zoro capì che il tempo iniziava a stringere e che presto
sarebbero giunti ad un
finale, perciò, se voleva portare a termine la missione che
gli aveva affidato
Shanks, doveva sbrigarsi. Agguantò Sanji per un braccio e
gli parlò vicino
all’orecchio in modo serio e deciso. -Fate in modo di
arrivare vivi alla
barricata. Tutti e due.- ordinò, dando ad intendere che
né lui né l’altro
ragazzo dovevano azzardarsi a morire.
Il biondo
annuì e, caricatosi il corpo inerme di Usopp sulle spalle,
si avviò dietro Rufy
che apriva la strada, sparando ad ogni soldato che intralciava il loro
cammino
senza battere ciglio.
-Ti
portiamo
a casa Usopp.- sospirò Sanji, sentendo una stretta al petto
nel vedere Zoro
dirigersi proprio verso il plotone di soldati, -Ti portiamo a casa.-
*
Questo posto
è un fottuto labirinto, pensò
Zoro, correndo a perdifiato e nel modo più
silenzioso possibile, per quanto il continuo tintinnare delle sue spade
potesse
permetterglielo, lungo gli infiniti corridoi del palazzo reale,
svoltando prima
a destra e poi a sinistra, salendo e scendendo scale fino a perdere
completamente l’orientamento. O almeno, lo avrebbe perso se
solo ne fosse stato
provvisto.
Perché
mai
Shanks non avesse affidato il lavoro a uno più capace di
orientarsi non
riusciva a spiegarselo. Gli aveva detto di infiltrarsi nella reggia,
trovare le
stanze dei reali e cercare una principessa per portarla alla base.
Doveva
ammettere che, quando aveva sentito quelle parole, un pensierino sulla
sanità
mentale del Rivoluzionario se l’era fatto, ma
l’uomo gli aveva detto che era
una questione di vitale importanza, che erano in gioco cose come
l’onore e il
coraggio e che lui era senza dubbio il migliore sul campo.
Inizialmente, Zoro
si era fatto una risata e gli aveva detto di no, ma Shanks era stato
bravo a
rigirare la frittata a suo favore e gli aveva messo la pulce
nell’orecchio,
avvisandolo che in città girava voce che fosse arrivato lo
spadaccino più forte
al mondo e che, guarda caso, lui sapeva come e dove trovarlo.
Per quel
motivo, in quel momento, si trovava a cercare di non scivolare sul
marmo
lucido, aggrappandosi alle tende in tessuto pregiato appese alle pareti
con la
speranza di trovare al più presto quella smorfiosa di una
nobile.
Non gli
interessava sapere a cosa sarebbe servita a Shanks, forse per fare un
ricatto
al Re, ma non aveva intenzione di pensarci troppo. Voleva solo portarla
via da
quel posto e sapere chi diavolo era quel bastardo che si vantava di
essere il più
forte.
Quante storie,
sono io il migliore dell’intera
regione!
pensò, guardandosi attorno.
Finì
si
salire gli ultimi scalini, saltandoli due a due, e si
ritrovò all’inizio di un
lungo e ampio corridoio con pareti e colonne di un bianco brillante e
con
rifiniture in oro e argento. Ai muri erano appesi quadri di svariate
dimensioni
e uno in particolare con l’immagine della Famiglia Reale
riempiva una parete
intera.
Forse ci siamo,
rifletté il ragazzo, avvicinandosi alla tela e sfiorando la
cornice
preziosa e lavorata, cercando con gli occhi la figura di una ragazzina
con i
capelli rosa, almeno ciò gli aveva detto il Rosso.
L’unico
problema fu che non la trovò.
Maledizione!,
imprecò tra
sé e sé, decidendo di fregarsene di creare
scompiglio ed iniziando ad aprire
tutte le porte delle varie stanze, trovandole, per sua fortuna,
rigorosamente
vuote.
Continuò
in
quella maniera fino al piano superiore, partendo dall’inizio
e arrivando al
lato estremo, dove le finestre davano la visuale sulla Parigi
sottostante, in
quel momento polverosa e rumorosa, con le persone che si scannavano
nelle
piazze.
Brontolando
per stare perdendo tempo invece che combattere, Zoro aprì
l’ennesima porta, entrando
in una stanza illuminata solamente dalla luce del giorno che filtrava
da una
porta finestra dall’altro lato, di fronte a lui, dove,
appoggiata al parapetto
in lucido marmo chiaro, stava una ragazza che si voltò nello
stesso istante in
cui lui mise un piede a terra, invadendo il suo spazio privato e
provando la
sensazione di aver irrimediabilmente distrutto la calma apparente che
aleggiava
lì attorno.
Fu un
attimo
e vide una scheggia rosa spostarsi dalla finestra al letto, estraendo
da dietro
la testiera del baldacchino una spada dall’aria maneggevole
e, soprattutto,
affilata.
La cosa
che
più lo colpì, però, non fu
l’arma, ma bensì la visione di una donna che lo
stava fronteggiando senza esitazione.
Una donna
aveva avuto il coraggio di sfidare lui.
Scoppiò
a
ridere di gusto, scuotendo il capo e iniziando a camminare senza meta,
passandosi una mano sugli occhi e appoggiandosi poi ad un armadio per
calmarsi,
incrociando le braccia al petto e ragionando sul fatto che le
assurdità non
avevano limite.
-Chi
siete?
E che cosa volete?- si sentì domandare e osservò
di sottecchi come potesse una
voce così imperiosa provenire da un corpicino tanto piccolo.
Probabilmente la
mocciosa era abituata a dare ordini e dettare legge.
-Scusa,
ma
non abbiamo tempo da perdere.- le rese noto dopo un’attenta
occhiata curiosa,
-Dobbiamo andare.-
-Andare
dove?-
-Via da
qui.-
La
guardò
boccheggiare spaesata e si accorse del breve istante di tentennamento,
ma lei
si riprese immediatamente e indurì lo sguardo. -Io non vado
da nessuna parte.-
Zoro
roteò
gli occhi scocciato. Perché la gente doveva sempre essere
tanto complicata? E
perché tutti insistevano nel farlo lavorare, quando il suo
unico desiderio era
sdraiarsi e bere fino a svenire?
-Senti,-
iniziò, avvicinandosi di qualche passo e notando che lei
indietreggiava, sempre
con la guardia alta. -Il tempo stringe e presto qualcuno si
accorgerà delle
guardie e del personale ucciso nei corridoi, per cui…-
-Hai
ucciso
le guardie?- domandò la ragazza con la voce incrinata,
facendo si che Zoro si
mordesse la lingua, rimproverandosi di aver parlato troppo come al
solito.
Riflettendoci, non sarebbe stata una buona pensata raccontarle delle
vittime
che si era lasciato alle spalle con la gola squarciata e le interiora
sparse
sui pavimenti pregiati.
Cercò
di
salvare il salvabile, ma dovette concentrarsi per schivare un affondo
effettuato in maniera pulita ed impeccabile da parte della nobile che,
in quel
modo, lo stupì non poco.
-Come
diavolo hai fatto? Ci vuole un sacco di esercizio per saperlo fare!-
sbottò,
sgranando gli occhi.
-E non
è
ancora finita.- fu la pronta risposta della donna, la quale si
avventò di nuovo
su di lui, costringendolo ad estrarre una delle sue spade per
respingere
l’attacco e tenerla a bada per non finire infilzato. Se lo
avesse sconfitto non
si sarebbe più fatto vedere vivo in giro.
Per sua
fortuna poteva contare sulla sua forza e sull’esperienza
acquisita, anche se la
ragazzina sapeva il fatto suo e mirava a punti parecchio pericolosi se
colpiti.
Doveva per forza aver avuto un buon maestro.
Intercettò
un attacco e deviò la traiettoria, facendo così
finire l’arma dell’avversaria
addosso al muro e disarmandola.
-Allora,-
disse, riprendendo fiato e assicurandosi di tenere ben ferma la lama
sulla gola
della principessa. -Vogliamo andare o continuiamo ancora un
po’, Vostra Grazia?-
-Sai chi
sono?- sussurrò lei, più indispettita per aver
perso lo scontro che preoccupata
per la situazione in cui si trovava. Per quanto ne sapeva,
l’uomo avrebbe
potuto ucciderla, violentarla o chissà cos’altro.
Zoro
sogghignò sarcastico. -Non tutti i Reali hanno i capelli
rosa.-
La
diretta
interessata arricciò il naso, puntellando le mani sui
fianchi. -E non tutti i
francesi hanno i capelli verdi.- lo riprese saccente, colpendolo nel
vivo e
facendolo sbuffare.
-Smettila
di
blaterare e spogliati.- le ordinò burbero, rinfoderando la
spada ed iniziando a
trafficare con qualcosa che aveva dentro una borsa in pelle a tracolla
che
aveva portato con sé.
-Che
cosa?-
strillò Perona, coprendosi il petto con le mani, la quale
credette di aver
toccato il fondo per quella giornata. Si era svegliata disturbata dagli
scoppi
violenti avvenuti in città e per tutta la mattinata fino
all’ora di pranzo se
ne era rimasta rintanata nella sua stanza a guardare quello che
succedeva in
città dalla sua finestra, scrutando l’orizzonte
con lo sguardo pieno di sogni,
paure e speranze, desiderando solo di poter fuggire via e, per
concludere, era
arrivato quello straccione per portarla Dio solo sapeva dove.
-Mettiti
questi.- precisò allora, lanciandole addosso dei vestiti
comodi appartenuti a
chissà quale poveraccio. -Non ti riconosceranno
così. E sbrigati!-
-Mi dici
chi
diavolo sei? Perché sei qui? Chi ti manda?-
Doveva
sapere se poteva almeno fidarsi. Di certo non sarebbe stata tanto
sciocca da
seguire uno sconosciuto senza sospetti. D’accordo che odiava
la sua vita, ma
addirittura buttarsi in braccio alla morte, beh, quello le sembrava un
pochino
esagerato e drastico.
Incrociò
lo
sguardo con il ragazzo, il quale si era fatto serio e la fissava
intensamente,
finendo per sogghignare.
-Fai
troppe
domande.- esclamò, grattandosi distrattamente la testa e
dandole le spalle per
lasciarle la sua privacy. -Mi hanno detto di cercare la principessa dai
capelli
rosa e di portarla via da palazzo. Per quanto riguarda chi mi manda, ho
solo un
nome: Drakul Mihawk. E ora muoviti
o
giuro che ti trascinerò fuori di peso.-
*
-Spada!-
Afferrò
al
volo l’arma che gli era stata lanciata dal compagno e
parò all’ultimo momento
l’attacco di un ufficiale, facendo breccia nella sua difesa e
affondando poi la
lama nello stomaco dell’uomo, spingendolo lontano con un
calcio e lasciandolo
cadere a terra.
-Spada!-
In quello
stesso istante, lanciò il ferro al biondo che stava a circa
un metro di
distanza e che ebbe così modo di far fare la stessa fine,
più o meno, ad un
altro soldato.
Una volta
sconfitta l’orda di guardie, i due si scambiarono un lungo
sguardo, prendendosi
un momento per studiarsi a vicenda e per rendersi conto di quello che
era
successo in quegli ultimi minuti.
Si erano
ritrovati nel bel mezzo del casino più totale e si erano
dovuti separare in
piccoli gruppi per riuscire ad essere presenti in più punti
della città.
Ace aveva
imprecato sonoramente quando aveva capito che avrebbe dovuto
arrangiarsi con
Marco, praticamente da solo, dato che aveva la certezza che
l’atro l’avrebbe
lasciato morire alla prima occasione. Invece, al contrario di quello
che aveva
pensato, il ragazzo lo aveva aiutato quando aveva perso la sua arma in
uno
scontro piuttosto intenso, iniziando così quello scambio che
si era appena
concluso con una vittoria da parte loro.
Si
guardavano, cercando di capire come diavolo erano finiti a sostenersi a
vicenda, quando, fino al giorno prima, avrebbero fatto carte false per
distruggersi.
Alla fine
si
sorrisero, un po’ in imbarazzo perché non si erano
mai scambiati altro, oltre
che alle minacce e agli sguardi assassini, e poco dopo il sorriso
divenne una risata
che li costrinse a reggersi la pancia per respirare.
-Dio, se
è
stato divertente!- fece Ace, affiancando il biondo e avviandosi con lui
verso
le barricate. Potevano stare tranquilli, quella piazza era ormai
sgombera e la
gente si stava lentamente riprendendo, scacciando gli ultimi gendarmi e
costringendoli alla ritirata.
-Da
rifare
assolutamente!- concordò Marco, massaggiandosi il collo
indolenzito.
-E quando
hai lanciato quel pugnale dritto sul petto del militare!-
ricordò il corvino,
saltellando qualche passo più avanti al maggiore e agitando
le braccia per
imitare il gesto che l’altro aveva compiuto. -Una mira
perfetta!-
-Invece
tu
hai praticamente dato fuoco a due ufficiali con una torcia!- si
complimentò
Marco, ancora impressionato dalla strana vocazione che il ragazzino
aveva per
il fuoco.
-Si, ma
si
sono spenti cadendo in acqua.- si imbronciò Ace, abbassando
il capo con uno
sbuffo contrariato e gettando un’occhiata veloce in direzione
del fiume dove i
due uomini ai quali aveva bruciato le uniformi si erano gettati,
correndo come
forsennati impazziti. Era stato divertente, Marco stesso aveva
ridacchiato e
gli stava pure facendo un complimento.
-La scena
rimane comunque indimenticabile.- gli confermò per
l’appunto il biondo,
battendogli istintivamente una mano sulla spalla, un gesto comune e
semplicissimo che facevano tutti e che lo stesso Ace aveva fatto e
ricevuto
mille volte, ma che in quell’occasione lo lasciò
senza fiato.
Guardò
Marco, notando come anche lui era rimasto un tantino sconvolto, anche
se cercò
ugualmente di non darlo a vedere, schiarendosi la voce e continuando a
camminare
come se niente fosse.
Pure il
moro
decise di non darci troppo peso e di prendere l’accaduto come
una specie di
buon segno. Forse erano arrivati ad una tregua e avrebbero potuto, col
tempo,
spianare le loro divergenze e riuscire ad andare d’accordo
come tutti gli altri
senza odiarsi reciprocamente.
Sorrise
Ace,
entusiasta per il buon finale della battaglia e per quella specie di
nuovo
inizio. Doveva ammettere che Marco non lo aveva rallentato durante il
lavoro,
nemmeno il giorno prima, quando aveva preparato i falò da
accendere. Dopo la
sfuriata che gli aveva fatto, si era dimostrato per lo meno propenso a
dare una
mano e a non intralciare nessuno e quello il rivoluzionario lo aveva
apprezzato
molto. Quella mattina avevano poi combattuto praticamente sempre fianco
a
fianco, dall’inizio alla fine, aiutando i propri compagni e
guardandosi le
spalle in quell’ultimo frangente, ritrovandosi in sintonia
almeno su qualcosa.
Non è
così terribile, si diceva
intanto Marco, i cui pensieri erano sulla stessa lunghezza
d’onda di quelli di Ace. Poteva essere che si fosse sbagliato
a giudicarlo
tanto in fretta, senza imporsi di conoscerlo meglio. Certo, a primo
impatto
sembrava solamente un moccioso pestifero, ma cercando più a
fondo risultava
addirittura interessante e, spesso, divertente. Non aveva mai perso il
sorriso
nemmeno quando aveva rischiato di perdere un braccio. Fortuna che era
intervenuto lui di persona a salvare la situazione, dando inizio in
quel modo
un gioco, se così potevano chiamarlo. Si stupiva ad
accettarlo, ma si era
davvero divertito.
Nei
pressi
della barricata aiutarono alcuni uomini feriti a superare la barriera,
assicurandosi che tutti fossero al sicuro e che i più gravi
venissero spostati
immediatamente dai dintorni.
-Ace!
Ace!-
Fu Marco
a
voltarsi per primo verso la figura piccolina che si stava avvicinando a
loro,
incespicando nei suoi piedini e agitando le braccia magroline.
-Uhm,
credo
vogliano te.- avvisò, battendo dei colpetti leggeri sulla
spalla del corvino,
impegnato in quel momento a parlare con un suo compagno
d’armi.
Quando
Ace
prestò attenzione allo scricciolo che lo aveva raggiunto,
guardandolo torvo dal
basso, si illuminò, sorridendo allegro e abbassandosi fino
ad appoggiare un
ginocchio a terra, andando poi a posare una mano sulla testolina bionda
che gli
stava di fronte.
-Oh, la
bambina del latte.- disse, scompigliandole i capelli.
-Mi
chiamo
Elise, lo sai.- si imbronciò lei, sporgendo il labbro
inferiore in una smorfia
che avrebbe addolcito chiunque e che fece sogghignare persino Marco.
-Appunto,
la
bimba del latte.- ripeté il moro, che con i nomi non era mai
stato un maestro e
quello della piccola gli sfuggiva sempre. Si ricordava di lei solamente
perché,
a parte averla vista un sacco di volte, quando passava per casa sua si
fermava
sempre per un bicchiere di latte fresco che lei gli offriva gentilmente
e si
offendeva pure se le diceva che andava di fretta. Sabo lo prendeva in
giro
perché diceva che si era probabilmente innamorata di lui.
-Cosa ci
fai
qui fuori? E’ pericoloso, lo sai vero?- la riprese bonario,
alzandosi e
aggirandola. -Forza, mettiti dietro la barricata e torna a casa, va
bene?-
-Ma il
mio
papà è ancora fuori.- rispose Elise, alzando il
capo e guardando i due ragazzi
con gli occhi lucidi. -Io e la mamma non lo troviamo da nessuna parte.-
Ace
sospirò,
scambiandosi un’occhiata indecisa con Marco.
-Non ti
preoccupare.- rispose allora quello, decidendo per entrambi. -Ora Ace
ed io lo
andiamo a cercare, d’accordo?-
La
bambina
parve tentennare, ma alla fine si asciugò una lacrima che le
era corsa lungo la
guancia con una manina e annuì convinta, lasciandosi
convincere a rientrare al
di là della barricata.
-Non sei
obbligato
ad accompagnarmi.- fece notare Ace quando si fu allontanata, affondando
le mani
nelle tasche dei calzoni e voltandosi verso la piazza, imitato subito
da Marco.
Non voleva coinvolgerlo in un giro di recupero quando era perfettamente
consapevole che avrebbero potuto non trovare affatto il padre della
bambina e
voleva evitargli rischi inutili, anche se l’altro sembrava
più che propenso a
tenergli compagnia.
-Lo so.-
rispose infatti il biondo, tranquillo.
-Bene.
Andiamo allora.-
Non lo
avrebbe detto, ma era contento di non dover essere da solo, anzi, gli
faceva
piacere che Marco avesse scelto spontaneamente di accompagnarlo. Tutto
aveva un
altro aspetto se fatto volentieri, a differenza dell’ordine
che avevano
ricevuto due notti prima. In quell’occasione erano stati
costretti da altri a
lavorare assieme, mentre in quell’occasione lo avevano fatto
semplicemente
perché gli andava e ciò faceva sentire Ace al
settimo cielo. Era decisamente
meglio andare d’accordo, senza la paura di fare domande o
chiacchierare di
tanto in tanto.
In piazza
ormai non c’era altro che polvere e corpi privi di vita
sparsi a terra, eccetto
alcuni uomini che si erano resi volontari per andare alla ricerca degli
ultimi
sopravvissuti o di quelli rimasti indietro. Nel pomeriggio avrebbero
chiuso le
barricate, dividendo la città i vari blocchi e chi restava
fuori non avrebbe
avuto scampo quando sarebbero ritornate le guardie per il contrattacco,
perciò
era meglio ridurre il numero delle vittime più che si poteva
e cercare di
salvare il salvabile. Era anche una questione di principio e di
fratellanza.
Dopotutto, tutta la città si era mobilitata
perché era unita e credeva nella
possibilità di avere un futuro migliore, perciò
sarebbe stato da ipocriti
abbandonare un compagno, un amico o un fratello se c’era la
possibilità di non
farlo.
Aiutarono
un
paio di rivoluzionari a trascinare fuori dal campo di battaglia un paio
dei
feriti, chiedendo nel frattempo in giro informazioni sul padre della
piccola
Elise, ma non trovando purtroppo risposte soddisfacenti, fino a che un
uomo che
lo conosceva disse loro che il tizio che stavano cercano era stato
portato poco
prima alla barricata dopo che lo avevano trovato con una gamba rotta,
ma vivo e
vegeto.
-Oh, beh,
credo che possiamo rientrare anche noi in questo caso.- fece Ace,
stringendosi
nelle spalle e guardando marco alla sua destra annuire. Ancora non se
ne
rendevano conto, ma il fatto di scambiarsi uno sguardo per consultarsi
prima di
prendere una qualsiasi decisione sarebbe diventata
un’abitudine per loro.
Si
incamminarono con calma, commentando la battaglia e dando una mano di
tanto in
tanto ai volontari in difficoltà, coprendo loro le spalle e
controllando che
non ci fossero altre guardie appostate e pronte a tendere un agguato.
-Altri
dieci
metri e poi ci siamo.- stava dicendo un rivoluzionario ad un ferito che
si era
caricato in spalla.
-Stasera
berremo come dei disperati.- scherzò un altro, cercando di
tirare su il morale
a tutti e riuscendo a strappare qualche sorriso tirato.
Anche Ace
stava immaginando come avrebbe passato la serata. Si sarebbe riposato e
avrebbe
mangiato fino a scoppiare con la sua famiglia e, finalmente, in
compagnia di
Rufy. Non vedeva l’ora di guardarlo litigare con Shanks o con
Sabo per il cibo.
-Entrate,
vi
copriamo noi.- disse ad un tratto Marco, facendo passare avanti gli
ultimi
cittadini, mentre Ace si guardava attorno reggendo una pistola. Ormai
avevano
finito per quella parte della giornata.
-E’
stato
impegnativo.- sospirò infine, con l’adrenalina
ancora nel sangue. Era rimasto
con il fiato sospeso per tutto il tempo.
Marco
concordò con lui, asciugandosi il sudore sulla fronte con la
manica della
giacca. Era sfinito, stanco e dolorante per gli scontri corpo a corpo
impegnativi che aveva sostenuto. Sentiva le orecchie che fischiavano a
causa
degli spari ed era certo di non aver mai visto tanto sangue come in
quell’occasione, nemmeno quando gli era capitato di
ingaggiare una battaglia in
mare aperto completa di abbordaggio con le navi inglesi.
-Dai,
rientriamo anche noi.- mormorò, indicando con un cenno del
capo l’ingresso
della barricata alle loro spalle e incamminandosi prima di Ace.
-Uh?
Aspetta, quello chi è?- chiese il moro, fissando qualcosa
che si muoveva poco
distante da loro in mezzo alla polvere, ai corpi e ai resti di carri
distrutti,
baracchini in legno e mura crollate. Poteva essere uno di loro che era
svenuto
in battaglia o che era stato ferito e non era riuscito a farsi notare
prima.
-Marco,
sta
chiedendo aiuto.-
Il
biondo,
che non riusciva a distinguere l’uomo a terra, rimase
immobile, indeciso su
cosa fare. -Potrebbe essere un nemico.-
Non
sapeva
perché lo stava dicendo, ma aveva una brutta sensazione.
Ace lo
guardò scettico. -Ma che dici, è moribondo!
Muoviti, vieni a darmi una mano.- e
si avviò verso la vittima, obbligando Marco corrergli dietro
in fretta, sempre
più preoccupato. La visibilità era scarsa a causa
dei fuochi e delle
esplosioni, l’aria era ancora soffocante e non si vedeva
nulla. Se solo fosse
stato tutto un po’ più nitido.
-Ehi,
amico!
Ci siamo noi.- si fece sentire Ace, alzando un braccio per farsi notare
dal
moribondo che, udendolo, alzò il capo, rimanendo steso a
terra e attendendo che
il ragazzo si facesse un po’ più vicino.
-Sei
ferito?-
continuò il ragazzo, abbozzando un sorriso amichevole,
ignorando il biondo
dietro di lui che cercava di afferrarlo per la collottola. -Adesso ti
aiutia…-
-Ace
spostati!-
Perché
Marco
si era accorto del braccio che l’uomo a pochi metri da loro
aveva alzato e
aveva riconosciuto l’uniforme della polizia bene quanto la
rivoltella che
stringeva con la mano e che puntava dritta e senza esitazione verso il
giovane
più vicino che, con tutta la sua buona volontà,
non ci aveva proprio fatto
caso, intendo com’era stato a voltarsi verso il biondo per
rimproverarlo di non
essere fiducioso.
Per Ace
era
accaduto tutto a rallentatore, come se fosse stato uno spettatore
esterno e non
all’interno del suo corpo, mentre per Marco era stato un
susseguirsi veloce di
azioni e decisioni. In un attimo era scattato in avanti, spingendo Ace
con
tutta la forza che aveva nelle braccia e facendolo rotolare a terra di
lato
appena in tempo per evitare che venisse colpito dalle pallottole, ma
non
riuscendo a scansarsi per salvare se stesso.
Il moro,
invece, aveva visto tutto. Aveva visto Marco andargli addosso; si era
visto
cadere a terra malamente e aveva anche percepito la fitta dolorosa al
polso;
aveva visto il biondo continuare a muoversi verso di lui e, ad un
tratto, aveva
visto, e udito, benissimo gli spari che colpivano il suo corpo,
bloccandolo e
facendolo accasciare al suolo, privo di sensi.
Poi non
aveva sentito altro, ogni rumore era stato attutito e si era ritrovato
di nuovo
padrone di sé e del suo corpo, perciò si era
alzato, aveva raccolto la sua
pistola ed era andato verso il soldato che, resosi conto di averlo
mancato,
aveva ripreso a sparare, ma le munizioni erano finite. Si era messo a
strisciare, implorando pietà mano a mano che Ace avanzava
con in faccia lo
sguardo peggiore che un uomo potesse vedere. Fu con
quell’immagine che morì
l’ufficiale, troncato da un colpo preciso alla testa. Una
fortuna per lui,
perché il Rivoluzionario aveva troppa fretta di tornare da
Marco per portarlo
al di là della barricata per perdere tempo a farlo
trapassare nel modo più
doloroso e lento possibile.
Il
ragazzo
si era caricato il biondo sulle spalle, sentendo qualcosa di viscido e
caldo
scorrergli lungo un braccio e, ignorando il braccio sicuramente
slogato, la
testa che gli girava e la mancanza di aria nei polmoni, percorse gli
ultimi
metri fino a trovarsi al sicuro in mezzo ai suoi compagni.
L’unica
cosa
che disse, fu un ordine che non poteva essere ignorato, non quando era
dato con
quel tono e con quello sguardo.
-Trovate
Trafalgar Law.-
*
Il
Quartier
Generale pullulava di ogni tipo di disperato.
Gente
ammassata lungo la via, sulle porte, nelle sale, chi seduto sui balconi
delle
finestre, chi osservava dalle terrazze, chi aspettava
all’aperto e chi
all’interno, ognuno dando sfogo ai propri pensieri
chiacchierando, urlando,
piangendo e litigando per accaparrarsi un posto in fila per essere
visti da un
dottore.
O meglio,
da
uno dei tanti.
C’era
stato
bisogno di ogni persona che avesse almeno un minimo di conoscenze
mediche per
calmare la folla agitata e per seguire i feriti, dato che erano
veramente tanti
e un medico soltanto non sarebbe mai bastato. I più esperti
si occupavano dei
casi gravi, mentre quelli che si vantavano di curare un raffreddore con
dei
rimedi vegetali badavano al superfluo.
Quelli
coscienti si erano messi l’anima in pace, avevano bevuto una
brodaglia aspra
che aveva alleviato il loro dolore e si erano messi ad attendere
pazientemente
che il Dottr Chopper si liberasse, mentre i più coraggiosi
ed intrepidi, o
accecati dal dolore o svenuti, erano finiti nelle abili e sapienti, e a
volte
troppo azzardate, mani del Chirurgo della Morte, il quale non aveva
smesso un
attimo di lavorare da quando la rivolta aveva avuto fine.
Aveva
perso
il conto ormai di quelli che erano passati sotto ai suoi ferri. Non
ricordava
di aver mai amputato tanti arti come quel giorno, o di aver effettuato
operazioni improvvisate con le uniche risorse che possedeva. Ad ogni
modo,
continuava imperterrito a salvare vite, compiendo il suo dovere e i
suoi
compiti senza battere ciglio, non abbattendosi quando un caso troppo
disperato
moriva sotto i suoi occhi. Lui faceva il possibile e lo faceva al
meglio. Tre
vittime su cento erano un numero che poteva sopportare e portare sulla
coscienza.
-Penguin,
sei libero?- domandò ad operazione finita, poggiando gli
attrezzi e dirigendosi
verso una bacinella piena d’acqua per lavarsi le mani.
-Ho
appena
finito.- rispose prontamente il suo assistente.
-Bene.
Richiudilo e poi prenditi una pausa.- lo informò, mentre il
ragazzo lo
sostituiva ed iniziava ad applicare meticolosamente i punti di sutura
su una
ferita all’addome di un poveraccio che si era beccato un
affondo da parte di uno
dei soldati.
Law si
rinfrescò velocemente anche il viso, massaggiandosi gli
occhi e sospirando.
Aveva ancora un sacco di lavoro da fare, ma la testa iniziava a pulsare
e se
volava lavorare bene doveva essere lucido, perciò, a meno
che non ci fossero
state altre emergenze, si sarebbe riposato per qualche minuti. Il
pomeriggio
era lungo e di certo non sarebbe tornato a casa tanto presto. Di quel
passo
sarebbe potuto anche rimanere alla base per qualche giorno, quindi gli
conveniva mandare un messo a Corazòn per informarlo della
sua salute e delle
condizioni in cui si trovava.
Uscì
dalla
stanza passando per una porta secondaria, collegata ad un salottino
dove,
solitamente, alcuni dei rivoluzionari si fermavano per rifocillarsi
bevendo
qualcosa o schiacciando un pisolino.
Si era
aspettato di trovarci qualcuno, ma non Eustass Kidd.
Il rosso
era
stravaccato su un divanetto, troppo piccolo per la sua stazza e le
gambe
superavano di parecchi centimetri il bordo, lasciate penzolare nel
vuoto,
mentre le braccia erano incrociate dietro la testa per sostenerla e
stare
comodo.
Si
fermò a
guardarlo Law, osservando le membra rilassate; i capelli spettinati e
sporchi,
alcuni addirittura imbrattati di polvere e fango; i vestiti macchiati
di sangue
in più punti; il petto che si alzava e abbassava ad ogni
respiro e il viso
sereno mentre dormiva profondamente, con gli occhi chiusi. Credendolo
addormentato, il dottore si avvicinò, chinandosi su di lui e
avendo la conferma
dei suoi sospetti, accorgendosi di alcuni graffi che risaltavano sulle
pelle
chiara, in particolare un brutto taglio di cinque centimetri che
partiva
dall’attaccatura dell’orecchio sinistro e finiva
sul sopracciglio rossiccio.
Così, sospirando, recuperò del disinfettante e
inumidì un paio di garze,
poggiandole poi con attenzione sulla ferita del rosso che, infastidito,
corrugò
le sopracciglia facendo sogghignare Law.
-Brucia.-
borbottò Kidd, tenendo gli occhi chiusi e prendendo un
respiro profondo, come
se fosse stato appena svegliato.
-Lo so,
ma
si cicatrizzerà più in fretta.- gli
spiegò il moro, sedendosi sulla poltrona li
vicino e allungando le braccia per stiracchiarsi. Si sentiva veramente
stanco e
spossato.
-Come sta
andando?- domandò Kidd dopo un po’.
Law si
strinse nelle spalle, chiudendo gli occhi. -Va.- rispose, non sapendo
definire
meglio l’andamento della situazione. -Gente che vive, gente
che muore. Un po’
come sempre del resto.-
Il rosso
annuì lievemente, capendo che era meglio non indagare oltre.
-Gli altri?-
-Sono quasi tutti rientrati.
Ne mancano pochi
all’appello.-
-Chi
è
rimasto indietro?-
-Uhm, non
saprei di preciso, ma da quel che mi ha riferito Shachi, gli unici che
devono
ancora tornare sono Ace e Zoro.-
Nella
sala
adiacente dove Penguin stava finendo di porre le ultime suture
scoppiò un gran
baccano che fece scattare Kidd a sedere e schizzare in piedi Law, il
quale si
diresse a grandi falcate verso la fonte del rumore fatto di oggetti che
cadevano per terra in continuazione e frasi frettolose di
più persone.
-Ehi,
aspetta un attimo!- si udì la voce dell’infermiere
di alcune note troppo alta.
-Dov’è
Trafalgar?-
-Sono
qui,
Ace.- si rivelò il diretto interessato, mentre alle sue
spalle appariva la
figura di Kidd che aveva decisamente visto giorni migliori.
-Toh,
parli
del diavolo.- disse quello, appoggiandosi con un sospiro stanco allo
stipite.
Camminare gli faceva venire le vertigini e la ferita alla tempia
pulsava più
forte di quello che si era aspettato, ma non poteva di certo buttarsi
giù per
così poco e farsi vedere debole. Non se lo sarebbe mai
perdonato.
Il
corvino
ignorò tutto ciò che gli stava attorno, spostando
Penguin di lato con poca
grazia e mostrando così al medico ciò che aveva
disteso sul tavolo non appena
era entrato.
Law, a
quella vista, gli fu accanto in un istante, iniziando subito ad
osservare il
corpo e formulando nella sua testa varie domande e ipotisi, assieme,
ovviamente, ad un piano da seguire per fare del suo meglio e cominciare
con
l’operazione.
-Cosa gli
è
successo?- chiese freddo, buttandosi alle spalle stanchezza e
preoccupazioni
varie e recuperando la solita aria professionale.
Ace
deglutì
e strinse i pugni. -Gli hanno sparato.- mormorò a denti
stretti. -Sono tre
colpi in tutto. Qui, qui e anche qui.- spiegò velocemente,
indicando con la mano
un punto sullo stomaco di Marco, privo di sensi e dal colorito pallido,
uno sul
torace e un altro decisamente meno grave sulla spalla sinistra.
Poi
bloccò
il braccio di Trafalgar, stringendogli il polso e obbligandolo ad
incontrare i
suoi occhi spiritati. -Devi. Salvarlo.-
Suonò
quasi
come un ordine, misto ad una preghiera fatta di disperazione, ma Law
non
rispose subito e nemmeno fece commenti sull’agitazione e
sulla paura che aveva
visto nello sguardo e nel comportamento dell’amico. Prese
invece il tutto come
l’ennesima sfida contro la Morte. Ed era più che
intenzionato a vincere.
-Esci. Ti
chiamo quando ho finito.- dichiarò senza degnarlo
più di uno sguardo, facendo
segno a Penguin di accompagnare il ragazzo fuori dalla sala e di
controllare
che non avesse bisogno anche lui di qualcosa. Dopodiché
andò a lavarsi
nuovamente le mani fino agli avambracci e preparò
l’occorrente per un
intervento d’urgenza, rendendosi conto solo dopo dello
sguardo di Kidd puntato
addosso.
-Vai pure
a
casa, Eustass-ya. Io tornerò presto.-
Il rosso
grugnì scocciato. -Scordatelo, qui ho tutto quello che mi
serve.- decretò,
muovendosi per tornare a riposare sul divanetto nella stanza accanto.
-E poi,-
aggiunse, -Corazòn è noioso. Sono certo di non
piacergli.-
Law
sogghignò ironico, l’ultima distrazione prima di
escludere il mondo da quella
stanza. -Ma dai, cosa te lo fa credere?-
-Lo so e
basta.-
Angolo
Autrice.
Ehm,
buona
estate?
Perché,
insomma, non credo di essere l’unica che ha voglia di fare
niente, causa
maggior questo caldo insopportabile! Ma dalla prossima settimana sono
in ferie,
quindi spero di portarmi avanti un pochino .-. il prossimo capitolo
è pronto a
metà, ma almeno è qualcosa dai ^^ per il resto,
spero stiate tutti bene e vi
auguro di divertirvi un sacco! La scorsa settimana ho fatto il mio
primo AFTER
** ne vado così fiera, alla veneranda età di 21
anni ho fatto una cazzata pure
io, anche se non ero ubriaca e ho dovuto fare da balia a due idioti
ubriachi
marci, gustando l’alba nei pressi di un distributore di
benzina. Poetico, ci
scriverò una one-shot magari.
Che dire,
le
immagini nemmeno le metto più perché ho visto che
dopo un po’ il link si
annulla e non so metterle intere sulla pagina D: sono disperata per
questo!
Tornerò
presto, spero. Sto tirando avanti una mini-long e spero di finirla
perché tipo
non vedo l’ora di farvela leggere :3
E nei
prossimi capitoli, a brevissimo, alzo il rating grazie ad un bestione
con la
testa rossa e un ragazzetto saccente, MLMLML. Indovinate chi sono, LOL.
Un
abbraccione e grazie per la pazienza, grazie a chi legge e a chi lascia
un
pensierino, vorrei poter fare di più.
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 16 *** Seize. ***
Liberté,
Égalité, Fraternité.
Seize.
La
notizia
della Presa della Bastiglia si era diffusa in tutta la Francia a
macchia
d’olio, rendendo chiaro immediatamente alla maggior parte
della popolazione che
la forza dei cittadini era più che capace di tenere testa
alla monarchia. Fu
per quel motivo che per le vie iniziò a circolare la voce
sul significato
simbolico che la prigione aveva assunto, ovvero il potere vulnerabile
del Re.
Le ore
che
erano seguite alla rivolta erano state lente e pesanti da sopportare
per tutti
e con l’arrivo della notte le cose non si erano messe meglio,
soprattutto per i
feriti e per quelli che erano rimasti senza un tetto sopra la testa
dove poter
stare al sicuro.
Inoltre,
c’erano un sacco di problemi secondari, ma non di poca
importanza, da risolvere
per i Rivoluzionari. Soprattutto, Shanks aveva urgenza di sapere come
stavano i
suoi uomini, come se l’erano cavata, chi mancava
all’appello e quali erano le
condizioni degli uomini di Barbabianca ai quali, ormai, si era
affezionato.
Era lui
stesso a girare per il Quartier Generale quella notte, elargendo
sorrisi di
incoraggiamento a coloro che erano addossati alle pareti, in attesa di
una
visita o dell’assegnazione di una branda per dormire. Molti
cittadini erano
tornati alle loro case e dalle loro famiglie, ma altri che avevano
perso tutto
avevano ricevuto asilo da un paio di conventi, la locanda di Makino,
mai stata
piena come in quella circostanza, e dall’edificio in cui si
trovavano. Si erano
arrangiati al meglio, riuscendo, con un po’ di
organizzazione, a superare gli
intoppi di quel primo giorno, poi sarebbe seguito il resto.
Aveva
appuntamento con Benn e alcuni uomini di Barbabianca, così
si affrettò lungo il
corridoio, scusandosi con le persone che urtava per sbaglio, e
raggiungendo una
stanzetta non troppo grande, ma accogliente dove trovò i
suoi compagni nel
silenzio più totale, sdraiati a terra o seduti.
Fu Benn a
salutarlo per primo, facendogli un cenno con il capo e indicando con lo
sguardo
un tizio sul pavimento con i capelli castani.
-Salve
ragazzi.- mormorò Shanks, con un tono che non era per niente
allegro come il
solito.
Thatch se
ne
accorse subito, ma immaginò che fosse dovuto alla
stanchezza. Dopotutto, era
stata una giornata pesante per tutti e nemmeno il suo umore era alle
stelle.
-Bonsoir.-
-Capitano.-
fece Izou, seduto a gambe incrociate su una panca e con le braccia
strette
attorno al petto. Molti della loro compagnia avevano preso il vizio di
riferirsi al rosso con quell’appellativo da quando avevano
ricevuto l’ordine di
obbedirgli e seguirlo in battaglia. Era più facile se lo
vedevano come una
specie di condottiero, altrimenti, se fosse stato solamente un amico del loro babbo, privo di
importanza, lo avrebbero ignorato.
-Allora,-
sospirò Shanks, sedendosi pure lui, -Quali sono i risultati?-
-Mezza
città
distrutta; una prigione sotto sequestro; le truppe della Corona
dimezzate e
centinaia di cittadini sparsi per le strade senza vita.-
elencò Thatch, alzando
il capo da terra e recuperando parte del suo temperamento attivo, anche
se la
risposta grondava di puro sarcasmo.
-Thatch.- lo
richiamò
il fratello, scoccandogli un’occhiata ammonitrice. -Don’t...-
-E
perché
no? E’ la pura verità, così come
è vero che Marco è quasi morto!-
scattò il
castano, alzandosi completamente e avanzando verso Shanks per
fronteggiarlo,
poggiando i palmi aperti sul tavolo che li separava. -Volevi una stima
dei
danni? Bene, queste sono le vittime.- disse arrabbiato, sbattendogli
sotto al
naso dei fogli di carta scribacchiati e uscendo poi dalla stanza,
lasciando il
silenzio dietro di sé.
Izou si
schiarì la voce poco dopo. -Devi scusarlo, è solo
teso per le condizioni di
nostro fratello.-
-Non deve
essere scusato, ne ha tutto il diritto.- chiarì il rosso,
sorridendogli appena
in modo gentile e venendo ricambiato. Con Izou, che fosse contento o
meno, si
riusciva sempre a parlare e a ragionare. Al contrario, Thatch era la
persona
migliore al mondo quando era allegro e spensierato, ma quando era
preoccupato o
furioso era meglio stargli alla larga perché sapeva
diventare piuttosto
violento.
Shanks
sfogliò la lunga lista dove notò esserci scritti
tutti i nomi dei caduti
durante la presa della Bastiglia e pareva quasi che non avessero
più fine,
mentre, nelle carte successive, erano annotati i nominativi di alcuni
soldati
fatti prigionieri per un motivo o per l’altro e quelli dei
gendarmi liberati
dalla prigione che avevano in seguito combattuto a favore del popolo.
Li
lasciò
ricadere sulla superficie del tavolo e si massaggiò le
tempie, pensando a cosa
fare.
Aveva
saputo
dell’incidente di Marco, Sabo glielo aveva accennato,
spiegandogli anche il
motivo per cui Ace fosse sparito chissà dove. Si era sentito
sollevato alla
notizia che i suoi tre ragazzi stessero tutti bene e si era concesso un
momento
in disparte con Rufy per stringerlo forte a sé, tirargli uno
schiaffone e
facendosi promettere che non si sarebbe mai più cacciato nei
guai,
abbracciandolo nuovamente al primo cenno di assenso che aveva ricevuto.
Avrebbe
anche voluto correre a ringraziare Marco per quello che aveva fatto, ma
sapeva
che era impossibile. Sarebbe comunque andato di persona da Barbabianca
una
volta sistemati i problemi più gravi a Parigi.
Sollevò
la
testa alla ricerca di Benn. Gli sarebbe servito più di
qualche uomo fidato per
interrogare i prigionieri e lasciare a qualcuno il compito di
sostituirlo fino
al suo ritorno.
-Mi serve
un
favore.- iniziò. -Assicurati che tutti abbiano cibo e acqua
e che vengano
visitati. Raduna tutti i volontari che riesci a trovare e organizza
delle ronde
sulle barricate con dei turni, tutti devono riuscire a riposare. Domani
mattina, appena torno, ci occuperemo dei prigionieri, organizzeremo i
funerali
e alla fine penseremo anche al resto.-
Con resto, intendeva tutto ciò che
riguardava la monarchia e il marciume che li aveva ridotti in quel
modo. Le
complicanze non si limitavano a quelle già elencate, doveva
anche risolvere la
questione del membro della Flotta dei Sette, dell’ufficiale
che avevano
catturato le ragazze di Dadan e della principessa che aveva affidato
alle cure della
donna.
-Izou,
sto
andando all’accampamento. Immagino vorrai tornare dalla tua
famiglia.-
Il
ragazzo
dai capelli corvini lo guardò con un misto di stanchezza e
ringraziamento,
annuendo e avvisandolo che sarebbe andato a cercare Thatch e che lo
avrebbero
aspettato all’uscita per fare la strada assieme.
Quando
anche
Shanks fu pronto per partire, dopo aver scambiato le ultime parole con
Benn,
raggiunse la soglia, ma si fermò prima di andarsene con un
quesito in testa.
-Yasop?-
Aveva
cercato di stare tranquillo e di pensare positivo, ma non aveva visto
l’amico
da nessuna parte.
L’ombra
che
oscurò il viso del suo vecchio compagno non gli fece
presagire nulla di buono. -Tutto
questo è niente in confronto ai funerali che si terranno a
giorni. Aveva
bisogno di una notte per piangere il figlio.-
*
Regnava
il
caos.
Ancora
non
si spiegava per quale ragione aveva tanto insistito per partecipare a
quell’interrogatorio che durava ormai da troppe ore,
cadenzate solamente da
urla, imprecazioni, insulti, minacce di morte e nessuna assoluzione.
Durante
la
presa della Bastiglia erano stati fatti prigionieri pochissimi soldati
perché
la maggior parte erano ancora esposti sulle mura della prigione,
penzolanti e
con il cappio al collo. Quelli ancora in vita si contavano sulle dita
di una
mano e non si trovavano certo in una posizione di prestigio che potesse
salvarli dai crimini di cui erano accusati.
Bonney si
trovava nei sotterranei del Quartier Generale dove alcune stanze
inutilizzate e
sgabuzzini erano stati adibiti per rinchiudere gli ufficiali, quel
mattino
liberi di uscire uno ad uno per essere ascoltati da una specie di
giuria
imparziale fatta da alcuni Rivoluzionari, quali Shanks e un paio dei
suoi
uomini, più due messi che facevano le veci di Kaido e Big
Mom e un altro tizio
che rappresentava un gruppo di nomadi che vivevano poco fuori della
capitale,
di cui Bonney aveva appreso l’esistenza solo quel giorno.
Si
trovava
tra gli spettatori per pura fortuna, ma anche per furbizia, dato che
sia lei
che Nami erano le dirette interessate per quanto riguardava la cattura
di uno
dei gendarmi. Lei, in particolare, ci teneva a dire la sua per evitare
che al
diretto interessato tagliassero la testa dato che, fino ad allora,
tutti i
prigionieri erano stati condannati e la situazione non sembrava volgere
per il
meglio.
Si
mordicchiava le unghie, rovinandole e scorticandosi i polpastrelli del
mignolo
e dell’indice della mano sinistra, passando poi alla destra
quando gli altri
iniziarono a sanguinare.
-Chi
è il
prossimo?-
A quelle
parole si fece attenta, ignorando le occhiate stranite che Nami le
rivolgeva,
turbata dal suo comportamento fin troppo interessato ogni volta che
nominavano
un nuovo soldato.
-Un certo
Smoker.- sentì borbottare da Benn e, automaticamente, la sua
attenzione venne
meno, facendola ricadere nell’ansia dell’attesa.
Intanto
nella sala veniva scortato da due uomini un tizio che non aveva mai
visto, ma
che molti altri conoscevano con il grado di Capitano della Guardia
Principale
di Parigi, Smoker. Il prigioniero non ebbe nemmeno il tempo di sedere
davanti a
Shanks perché, all’improvviso, Ace si
alzò dalla sua postazione e saltò in
mezzo alla stanza seguito a ruota da Sabo, il quale non
riuscì a fermare in tempo
il fratello dallo sferrare un pugno in
pieno volto all’uomo.
-Ace
fermati!- lo pregò biondo, stringendo le braccia attorno al
corpo del fratello
nel tentativo di allontanarlo dall’ufficiale a terra con il
naso rotto.
-Lo
ammazzo!
Lasciami!- urlava il corvino, dimenandosi come una furia e riuscendo
quasi a
togliersi di dosso Sabo. Sfortunatamente per lui, si ritrovò
stretto nella morsa
di Thatch che, raggiuntolo, aiutò il biondo a trascinare il
ragazzo lontano da
Smoker, al limitare della sala, costringendolo a sedersi e a non
muoversi,
tenendolo fermo per le spalle, esercitando una certa pressione per
assicurarsi
che stesse buono.
-Devo
legarti o ti calmi?- lo minacciò il castano, due volte
più muscoloso di entrambi
i giovani.
Il
corvino non
rispose, continuando a fissare con uno sguardo di fuoco
l’uomo che aveva
buttato suo fratello nella Senna, che aveva ordinato di farlo uccidere
e che
aveva poi rinchiuso Rufy nella Bastiglia. Non ne voleva sapere di farlo
redimere, per lui era già morto.
Shanks
scosse il capo davanti a quell’episodio. A quanto pareva,
l’unico soldato che
li aveva aiutati durante la battaglia aveva qualche diatriba in sospeso
con il
moccioso più incontrollabile dei suoi ranghi.
Iniziò
ad
interrogare Smoker, scoprendolo ben disposto a collaborare, anche se le
frasi
che mormorava erano spicce e contenevano il minimo indispensabile per
rispondere alle sue domande. Più lo guardava e
più gli sembrava una persona
affidabile, anche con quell’aria arcigna e poco gioviale.
Ciò che lo colpiva di
più, però, erano la mancanza di interesse per la
sua posizione e la luce spenta
negli occhi, come se si fosse arreso e non avesse nulla che lo
spingesse a
sopravvivere.
Al
momento
del verdetto, inevitabilmente, scoppiarono i dibattiti. Per la
precisione, i
suoi colleghi, sebbene con alcuni dubbi, avevano tutta l’aria
di essere
d’accordo sul fatto di metterlo in libertà, magari
tenendolo controllato per un
po’ di tempo, l’unico inghippo, però,
riguardava Ace, il quale non aveva per
niente preso bene la cosa.
Infatti
il
giovane scattò in piedi, placcato prontamente da Thatch che
gli sbarrava la
strada, pronto a fermarlo in caso avesse deciso di fare pazzie e
commettere un
omicidio.
-Ha
sparato
a Sabo,- iniziò, rivolgendosi direttamente a Shanks e
fissandolo dritto negli
occhi, -Ha ordinato la mia morte e ha rinchiuso Rufy. Non ti basta come
accusa?
Quanti altri morti vuoi avere, eh?-
-Ace…-
cercò
di tranquillizzarlo Sabo.
-Sta
zitto!
Dovresti essere il primo a volere la sua testa!- lo accusò
il moro, scostando
il braccio che il biondo gli aveva sfiorato.
-Si, ma
non
è così che possiamo andare avanti. Non saremo
diversi da loro, altrimenti.- gli
spiegò, alzando di poco la voce. Certo, aveva rischiato di
morire a causa di
quell’uomo, ma aveva anche ascoltato tutti i pro e i contro
che si erano
susseguiti durante quel processo improvvisato e, alla luce dei fatti e
di
alcune testimonianze a favore dell’uomo, si era convinto che
meritasse una
possibilità. Sapeva, però, che sarebbe stato
difficile convincere Ace, lui
ragionava solo a fatti, non a parole.
-Sei
pazzo.
Lo siete tutti. Cosa vi assicura che non andrà a spifferare
tutto a quegli
stronzi che stanno a Corte?- chiese a quel punto Ace, fuori di
sé dalla rabbia.
Le cose stavano andando di male in peggio. Prima Marco e poi quel
bastardo che
aveva quasi sterminato le uniche persone che amava al mondo. -Appena ne
avrà
l’occasione tornerà dai suoi uomini e…-
-Hanno
ucciso la donna che amavo.- disse a quel punto Smoker, stanco di quel
teatrino
e buttando fuori tutte le parole che gli stavano logorando
l’anima, zittendo
ogni lamentela contro di lui e facendo calare nella sala un silenzio
opprimente. Non era solito coinvolgere gli altri degli affari suoi, ma
aveva fatto
una promessa a Tashiji e l’avrebbe mantenuta a tutti i costi.
-Era un’innocente
e l’hanno uccisa ugualmente. Questa non é la
giustizia per cui combatto. Non è
ciò che mi hanno insegnato.- scandì a denti
stretti, stringendo i pugni con i
polsi ammanettati.
Riviveva
tutte le notti quell’incubo, quando l’avevano
scoperta e riconosciuta,
condannandola immediatamente a morire solo perché il padre
aveva fatto una
scelta diversa. A nulla erano valsi i suoi sforzi di proteggerla,
facendola
scappare e nascondendola in casa sua. Era durata per un po’,
ma alla fine era
andato tutto in malora. Ancora non capiva perché si era
arrischiata ad uscire,
quando glielo aveva espressamente vietato. L’avevano trovata,
imprigionata e,
proprio quando lui era arrivato alla centrale per salvarla,
l’avevano tolta di
mezzo con un colpo secco e indolore. Era stato un gesto misericordioso
dato che
si trattava di una donna, avevano spiegato.
Da quel
momento aveva perso tutto quello in cui credeva: il lavoro, la
giustizia, gli
ideali, la vita, l’amore. Tutto andato in fumo e cenere.
-Se in
qualche modo posso aiutare a capovolgere il sistema, sappiate che lo
farò.-
promise, guardando direttamente Shanks e intrattenendo con lui un
silenzioso
dialogo al fine del quale il Rosso prese una decisione.
-Liberatelo.-
Smoker
trattenne un sospiro di sollievo quando sentì i pesi ai
polsi venire meno e li
massaggiò subito per riattivare la circolazione del sangue,
mormorando un
ringraziamento masticato a mezza voce e lasciandosi scortare verso una
panca
sulla quale si sedette, facendo finta di non notare le persone che si
spostavano sensibilmente per allontanarsi da lui. Di certo non sarebbe
stato
facile inserirsi nel giro anche se aveva buone intenzioni.
Ace,
invece,
roteò gli occhi al cielo, allontanò Sabo che
aveva cercato di farlo ragionare e
si era scrollato di dosso Thatch, deciso a lasciare la casa e ad andare
da
Marco dove, ne era sicuro, non sarebbe stato disturbato e avrebbe
potuto
sfogarsi e crogiolarsi nelle sue pene.
Shanks lo
vide allontanarsi e si ripromise che avrebbe trovato il tempo per
parlare con i
suoi ragazzi come non faceva da molto. Li aveva trascurati, ne era
consapevole,
ma era anche certo che avrebbero capito. Presto, una volta finita la
guerra,
sarebbero stati di nuovo una famiglia unita, con Makino. Sarebbe andato
tutto
bene.
-Bene,-
sospirò, rendendosi conto che erano arrivati
all’ultimo prigioniero. -Il
prossimo è Diez Drake.-
Smoker
aggrottò la fronte nell’udire il nome di un suo ex
sottoposto, mentre
dall’altra parte della stanza Bonney scattava in piedi,
obbligata a sedersi
subito dopo da Nami, la quale l’aveva afferrata per un
gomito, trascinandola al
suo posto e chiedendole bisbigliando cosa le era preso.
L’ufficiale
interessato fece il suo ingresso pochi istanti dopo, a testa bassa e
con ancora
addosso l’uniforme blu e bianca. Teneva lo sguardo a terra,
mentre le mani
erano legate con una corda davanti a lui, permettendogli di potersi
tranquillamente sedere senza schiacciarle.
Nel
frattempo, Benn aveva fatto un piccolo riassunto al Rosso, informandolo
del
perché quell’uomo si trovasse lì e come
era stato fatto prigioniero. Al termine
del racconto, Shanks lasciò ciondolare la mascella e
cercò con lo sguardo le
due ragazze che erano state tanto coraggiose, individuandole tra la
folla e
ricevendo un saluto da parte di Nami.
Si
schiarì
la voce, appuntandosi di interrogarle in un secondo momento. -Dunque,-
scandì,
-Ufficiale Drake, ti trovi davanti a questa corte per…-
-Poche
storie. Giudicatemi e facciamola finita.- lo interruppe
l’uomo, senza degnare
nessuno della sua attenzione e arrivando al dunque. Non aveva niente a
che fare
con quelle persone, non si era nemmeno schierato dalla loro parte in
battaglia,
era ovvio che lo avrebbero dichiarato colpevole, perciò
tanto valeva concludere
in fretta e smetterla con quella farsa. Inoltre, per essere precisi,
quel
gruppo di ubriaconi che gli sedevano davanti non aveva nessuna
facoltà e nessun
potere per decidere della sua esistenza, ma era stanco, i suoi principi
erano
andati in pezzi e aveva tradito la divisa per una donna.
Sorrise
amaramente tra sé a quel pensiero. Nonostante i sensi di
colpa, era sollevato
di aver cambiato mira all’ultimo secondo e di averla
risparmiata.
-Uhm,
come
scusa?- Shanks era piuttosto perplesso. Non gli piaceva quel ruolo,
fare da
giudice era stata una pessima idea di Benn, ma, a detta
dell’amico, una parte
del popolo si sarebbe lamentata se il capo
dei Rivoluzionari avesse delegato a qualcun altro quel compito.
-Avete
compreso benissimo.- ribatté Diez, sibilando frustrato. Non
ne poteva più, si
era tormentato tutta la notte per ciò che aveva fatto e se
non lo avrebbero
ucciso subito si sarebbe tolto la vita da solo.
-M-ma,
ecco,
non mi p-pare il caso.- balbettò una voce tra i presenti,
facendo voltare
tutti, Drake compreso, verso di essa e rimanendo senza una copertura.
Shanks la
osservò stupito, prima di invitare Bonney ad alzarsi e a
raggiungerlo affinché
tutti la udissero meglio.
Fu
così che,
maledicendosi, la ragazza obbedì, avvicinandosi passo dopo
passo e sentendosi
perforare la pelle a causa dell’occhiata che
l’ufficiale le stava rivolgendo.
-Dicci
pure,
Bonney. Mi sembra, inoltre, che tu fossi presente alla sua cattura.-
notò Benn,
esortando la giovane a parlare.
Lei
sembrò
spaesata per un attimo, voltandosi immediatamente a guardare prima Nami
e poi
riconcentrandosi su Drake, il quale, però, la
ignorò, spostando gli occhi
altrove e facendola rimanere molto male, ma non demoralizzandola.
-Beh,
io… io
ero fuori dalla barricata e… e stavo rientrando. Non mi ero
accorta dei
soldati…- disse, torturandosi nuovamente le mani e
sentendosi troppi occhi
puntati addosso. Non le piaceva essere al centro
dell’attenzione e si ricordò
perché se ne era sempre stata in disparte e per conto suo.
In quella maniera
nessuno poteva giudicarla o pensare male di lei. In quel momento,
però, quando
incontrò ancora lo sguardo di Drake, riuscendo a mantenere
il contatto più a
lungo, capì anche che le stava chiedendo di smetterla di
nascondersi e di non
avere paura. Le stava dicendo che, nonostante tutto, sarebbe andata
bene in
qualsiasi caso. Non la obbligava a parlare o a difenderlo, non sarebbe
importato se lo avrebbero assolto o meno.
Però
a lei
importava e non lo avrebbe lasciato al suo destino, come aveva fatto
lui con
lei, aiutandola.
-Diez
Drake
ha ucciso tre guardie per salvarmi.- disse tutto d’un fiato,
per niente
intimorita dal brusio concitato che invase la stanza dopo la sua
confessione,
concentrata unicamente sugli occhi di Drake che la fissavano come se
fosse
ammattita. Avrebbero potuto ritenerla sua complice, o peggio, una spia.
Perché
mai un gendarme avrebbe difeso una rivoltosa altrimenti?
Infatti,
la
domanda non mancò di arrivare.
-Bonney,
per
quale ragione lo avrebbe fatto?- domandò Shanks, cercando di
essere il più
delicato possibile.
-Perché
lui…
insomma… noi…-
Ci conosciamo.
Siamo amici. Non mi avrebbe mai fatto
del male. E’ una brava persona, non è cattivo. Non
merita di morire.
Avrebbe
voluto dire tutte quelle cose, ma era bloccata. E se non le avessero
creduto? E
se lo avessero ucciso ugualmente? Come avrebbe potuto aiutarlo in quel
caso?
Cosa doveva fare per salvarli da quella situazione?
-Perché
hanno una relazione! E lei aspetta un figlio suo!-
Bonney
sentì
il sangue gelare nelle vene nell’udire la voce squillante e
dalla nota quasi
isterica che inondò la sala, arrivando perfettamente alle
orecchie di tutti e
zittendo per la seconda volta quel giorno i presenti. Se la
ritrovò poi alle
spalle, sentendosi abbracciare e consolare in maniera teatrale, mentre
parole
di conforto uscivano dalla bocca larga della rossa, la quale sperava di
darla a
bere a chiunque con quella farsa. Aveva capito che qualcosa bolliva in
pentola
e che Bonney le stava nascondendo molti particolari della sua vita. Era
bastato
osservarla bene per capire che i suoi stati d’animo
riguardavano l’ufficiale al
quale aveva dato una botta in testa con il suo bastone durante la
rivolta,
facendolo svenire sotto allo sguardo attonito dell’amica dai
capelli rosa. Lo
aveva fatto per istinto, nonostante lo avesse visto uccidere i soldati
che
avevano preso di mira Bonney senza che lei se ne rendesse conto. Non
sapeva
quanto i due fossero intimi, ma era certa che, se non avesse salvato la
situazione, Bonney avrebbe combinato una cazzata, perciò
tanto valeva
ingigantire la cosa.
-Oh, mia
cara, carissima sorella. Sarò la zia più felice
di sempre, come potrei non
esserlo? Il vostro amore va avanti da
così tanto ed è così
forte da
superare ogni difficoltà! Piccola, dolce amica mia.-
blaterava, asciugandosi
fintamente una lacrima che non c’era e accarezzando la pancia
piatta della
ragazza accanto a lei.
Drake,
invece,
era rimasto senza fiato. Lui aspettava un figlio? Da quando? Con Bonney
l’unica
volta che ci aveva dormito assieme si era solo eccitato al pensiero di
sfiorarla come un ragazzino alle prime armi, ma non l’aveva
toccata nemmeno per
sbaglio, figurarsi se poteva anche solo minimamente essere incinta. Era
tanto
impegnato a rendersi conto della cosa che si accorse in ritardo della
presenza
di un suo conoscente e, quando lo riconobbe come il suo superore, si
sentì
mancare.
Avrebbe
voluto chiedere a Smoker cosa diavolo ci faceva tra i Rivoluzionari, ma
l’occhiata di fuoco che ricevette lo fece desistere dal suo
intento e si
preoccupò piuttosto di negare impercettibilmente con il capo
nel tentativo di
fargli capire che era innocente e che non aveva minimamente abusato di
quella
ragazza, conscio di quanto l’argomento fosse tabù
per l’ex Capitano.
-Beh,
congratulazioni Bonney.- fece Shanks, dimenticando per un momento il
caso
delicato e sorridendole allegro, guadagnandosi una gomitata sulle
costole da
Benn e riprendendo il controllo, tornando fintamente serio. Era
più forte di
lui: quel mestiere faceva proprio schifo. -Alla luce di questi fatti,
mi metto
nelle vostre mani, Signori.- mormorò, chiamando
all’appello il resto della
giuria.
Il
rappresentante di Kaido lo condannò all’istante,
come era stato per tutti
quelli prima di Drake, mentre quello di Big Mom fece spallucce.
Izou si
chiamò fuori dai giochi perché non conosceva al
meglio tutti i dettagli e non
voleva avere ulteriori pesi sulla coscienza, mentre Benn era
pensieroso.
Shanks, di certo, lo avrebbe assolto al volo, ma per farlo senza
scatenare un
putiferio aveva bisogno di un aiuto.
-Potremo
rilasciarlo sulla parola.- propose.
-E chi
garantirà per lui? Non lo conosciamo e non ha mai fatto
nulla per i cittadini.-
ragionò Benn accanto a lui.
-Posso
assicurarvi che è un uomo d’onore e di buoni
principi.- si intromise Smoker.
-Tu non
conti.- lo zittì un rivoluzionario poco lontano da lui.
-Garantiamo
io e lei!- disse Nami, la quale aveva intravvisto uno spiraglio di
speranza
grazie al Rosso. -Dopotutto, io lo conosco perché
l’ho visto spesso a Montmarte
e lei, beh, è la sua donna.- concluse, ignorando bellamente
il rossore sulle
guance di Bonney e l’imbarazzo di Drake. Nessuno dei due,
però, smascherò la
bugia, consci che quella poteva essere la loro unica salvezza.
Passò
un
minuto di silenzio durante il quale il cuore dei diretti interessati
parve
saltare fuori dalle loro casse toraciche.
-E sia.
Diez
Drake è assolto.-
E fu con
un
colpo deciso e un ghigno sulla faccia che Shanks batté un
martelletto di legno
sul tavolino sgangherato per ufficializzare la sua decisione, ignorando
le
opposizioni di mezza sala, ma ritenendosi soddisfatto di aver convinto
almeno
l’altra metà. Tutti buonisti, sicuramente.
-Che
aspetti?- bisbigliò Nami all’amica, dandole un
pizzicotto sul braccio senza
farsi notare, -Corri ad abbracciarlo e fingiti disperata.-
Bonney
annuì
dopo un attimo di incertezza e si avviò verso Drake con
passo incerto, non
paragonabile ad uno stato d’animo di gioia o
felicità, ma non riusciva a
fingere qualcosa di meglio, date le sue condizioni. Aveva appena
ottenuto la
custodia di un soldato e per il popolo lei aspettava un figlio. Dio
solo sapeva
cosa le avrebbe fatto Dadan una volta tornata al bordello.
Aspettò
nervosa
che slegassero le mani di Drake e sentì
l’imbarazzo palpabile tra di loro
quando si ritrovarono faccia a faccia. Cosa doveva fare? Che fine aveva
fatto
la sua spavalderia e il poco pudore di quella famosa mattina sotto le
lenzuola?
Sentì
la
rossa alle sue spalle schiarirsi la voce e spiegare a qualcuno del
romanticismo
che si racchiudeva nei loro sguardi, inventando sciocchezze su
sciocchezze, ma
fulminando Drake con uno sguardo che non prometteva nulla di buono,
smuovendolo
così a fare un passo avanti e a tendere le braccia verso
Bonney che, mesta, si
lasciò avvolgere subito dopo in un goffo abbraccio.
-Ti sei
messa nei guai. Te ne rendi conto?- le sussurrò
all’orecchio.
Lei
sospirò,
già più calma. -Lo so, ma nemmeno tu sei messo
meglio.- gli ricordò,
puntualizzando. Di certo era un ricercato per la polizia, dopo quello
che aveva
fatto.
-Ho
ucciso i
miei uomini.-
-Per
salvarmi.- ribatté prontamente Bonney, scostandosi e
guardandolo negli occhi.
-Mentire era il minimo che potessi fare per sdebitarmi.-
Lasciò
che
Drake le sfiorasse una guancia, pensando che, forse, ce
l’avrebbero fatta a
calmare le acque e a convincere tutti che non meritava la forca.
-Voi
due.-
li riprese una voce alterata. -A casa, ora.-
A quanto pareva, Nami era più che intenzionata a prendere
sul serio l’incarico
di controllare l’ufficiale.
-Avete
una
gravidanza da organizzare.-
Non
sarebbe
stata una passeggiata.
*
Le
Cimitère du Père-Lachaise non aveva mai
visto tanti visitatori, e non aveva
nemmeno mai avuto tante buche scavate nel terreno, come quel giorno.
La gente
si
ammassava fino ai cancelli d’entrata ed era sparsa per tutto
il perimetro,
spostandosi lentamente e a testa china, con lo sguardo fisso a terra o
rivolto
alle tombe dei loro cari caduti durante la Rivolta.
In mezzo
alle vecchie lapidi, svettavano quelle nuove, molte improvvisate e
senza
nemmeno un messaggio d’addio o di affetto da parte dei
famigliari, ma con solo
un nome scolpito nelle croci di legno piantate alla base della fossa. I
becchini della città avevano avuto un gran da fare per
evitare che i corpi
venissero ammassati sulle strade e dessero inizio ad
un’epidemia.
E, per
concludere quella pessima giornata, pioveva.
Kidd
osservava dalla sua postazione, ovvero seduto sugli scalini di un
mausoleo più
vecchio della Parigi stessa, il contrasto di grigi che rendevano
monotono quel
luogo. L’erba scura e bagnata, gli abiti grigi o neri, le
nuvole grigie, il
marmo grigio, le facce grigie. Tutto quel grigiore lo faceva sentire
fuoriposto. Lui, che con quei suoi capelli rossi sembrava un faro nella
notte,
si tirò il cappuccio del mantello di pelliccia in testa per
non dare
nell’occhio e per rispettare il dolore degli altri. Gli
sembrava di risultare
offensivo con quei suoi colori, quando tutti volevano solo avvolgersi
nella
disperazione di quella grigia giornata.
Vedeva
chiaramente ad una decina di metri di distanza un gruppetto numeroso di
giovani
che cercavano di sostenersi a vicenda, abbracciati e stretti
l’un l’altro nel
tentativo di ridurre al minimo la sofferenza che condividevano. Aveva
riconosciuto Shanks, in piedi accanto ad una bella lapide,
probabilmente intento
a fare un discorso in memoria del ragazzo defunto. Si trattava di un
caro amico
del fratello di Pugno di Fuoco, anch’egli presente alla
cerimonia funebre con i
fratelli. Il piccoletto, Rufy, era in ginocchio e sembrava concentrato
nell’azione di strappare l’erba dal terreno con
rabbia. Nessuno, però, provava
a fermarlo. A Kidd pareva quasi di sentir piangere più di
qualcuno.
Ad ogni
modo, aveva anche lui le sue preghiere da recitare e decise di
ignorarli e
lasciare loro un po’ di privacy.
Aveva
perso
un compagno d’armi, Wire, che aveva sempre fatto gruppo con
lui, Killer e un
altro paio di ragazzi più o meno della loro età.
Nelle sue grazie entravano in
pochi, ma quelli che ci riuscivano ottenevano un posto speciale nella
sua scala
di affetti e Wire era stato uno di quelli. Non parlava mai molto, ma
quando lo
faceva non era mai banale. E poi sapeva fare a botte, quindi gli era
simpatico.
Purtroppo
era caduto come tanti e andare al suo funerale era stato il minimo che
Kidd
avesse potuto fare, l’ultima occasione che aveva per
salutarlo e per augurargli
buona fortuna, ovunque se ne fosse andato.
Congiunse
le
mani e incrociò le dita, rigirandosi i pollici e
stringendosi nelle spalle nel
suo angolino isolato e tranquillo, avvolto nella mantella per ripararsi
dalle
goccioline d’acqua che gli picchiettavano nelle spalle,
scivolando dal
tettuccio del mausoleo, e da quell’aria quasi nebbiosa e
spessa, ma sempre
grigia.
Rivolse
un
breve sguardo al mucchio di terra appena smossa che formava una piccola
collinetta a pochi metri da lui, con una croce che svettava alta e
spessa,
frutto del suo lavoro e di quello dei ragazzi. Un ultimo regalo per
Wire.
Gli fece
un
cenno con il capo, non sapendo bene cosa dire o cosa pensare, optando
infine
per qualcosa di classico e non troppo commovente.
Stammi bene,
vecchio mio.
Non
sapeva
se lo avrebbe sentito, ma gli piaceva pensare di aver fatto una bella
cosa, un
pensiero per una persona cara poteva anche concederselo.
Stava
ancora
cincischiando ai piedi della tomba monumentale appartenuta a
chissà quale
borghese, quando sentì dei passi sulla ghiaia farsi sempre
più vicini, dettati
da un ritmo lento e cadenzato, fermandosi proprio di fronte a lui.
Riconobbe
gli
stivali eleganti e i pantaloni puliti, non stracciati e bucati in
più punti
come i suoi, e già prima di vederlo in faccia seppe che si
trattava di quella
spina nel fianco con cui condivideva la casa, che aveva iniziato, da
bravo
egoista esaltato, a considerare sua.
Stava
appunto per aprire la bocca e mandarlo a farsi un giro, ma non disse
nulla
quando i loro sguardi si incrociarono. Preferì mordersi la
lingua e ingoiare
gli insulti davanti al ghigno che vide modellare le labbra del medico.
Persino ad
un funerale quello riusciva a trovare il lato ironico della situaizone.
Anche
dopo
mesi non riusciva ad abituarsi a quell’espressione sempre
presente, sfacciata e
saccente; quel comportamento posato, che mai si alterava, ma allo
stesso tempo
dannatamente irritante e provocante, nel senso che gli faceva prudere
le mani
dalla voglia quasi irrefrenabile di prenderlo a pugni. E lo avrebbe
fatto se
non fosse stato che condivideva un tetto sulla testa con quel pazzo.
Perché
Trafalgar tutto era fuori che normale. Era strano, con un senso
dell’umorismo
inquietante, sadico da mettere i brividi, schifosamente ricco e
intelligente,
spudoratamente altezzoso e oscenamente attraente.
Se da una
parte Kidd lo detestava, dall’altra aveva dovuto fare i conti
con la
consapevolezza di desiderarlo tra le sue mani per ridurlo in cenere,
spezzarlo
e consumarlo; obbligarlo al suo controllo e fargli abbassare le tante
arie da
superiore che si dava. Lo voleva perso, abbandonato al suo volere,
disperatamente dipendente da lui.
Deglutì
a
vuoto, sentendo un guizzo al basso ventre.
Dio, e
quanto
avrebbe voluto trascinarlo dietro al mausoleo, sbatterlo contro il
muro,
piegarlo in avanti e fotterlo in quel modo, sotto la pioggia e in un
cimitero.
Era certo che, con quella vena macabra, al moro non sarebbe
particolarmente
dispiaciuto.
Lo odiava
anche per quel motivo, perché era capace di fargli perdere
la concentrazione
nei momenti meno adatti come, ad esempio, un funerale collettivo. Dove
tutti
piangevano, a lui veniva un’erezione.
E quel
figlio di puttana ghignava.
-Che
vuoi?-
ringhiò seccato, spostando gli occhi altrove e alzandosi per
lasciare che la
pioggia lo raggiungesse in più punti nella speranza di
raffreddare i bollenti
spiriti.
-Era un
tuo
amico?- gli domandò inaspettatamente Law, voltandosi verso
la tomba di Wire.
Kidd si
strinse nella spalle. -Ormai non ha importanza. E’ morto.-
Vide con
la
coda dell’occhio che il ragazzo accanto a lui scuoteva il
capo con
esasperazione, ma con il sorriso sempre perenne sul viso.
-Se vuoi
piangere puoi farlo.- gli disse strafottente, scoccandogli
un’occhiata
derisoria che il rosso contraccambiò, ma in modo
più truce e infastidito. Cosa
stava cercando di fare quello stronzo? Farlo arrabbiare era
l’ultima cosa che
gli conveniva, data la situazione.
Ciò
che il
moro stava facendo, però, era distrarlo dal dolore e il modo
migliore che
conosceva per ottenere l’effetto sperato era tartassargli i
nervi fino
all’esasperazione.
-Ti
avverto,
Trafalgar, falla finita o giuro che…-
-Che cosa, Eustass-ya?- lo riprese
immediatamente Law, facendo un passo in avanti e portandosi ad un palmo
dal suo
viso. Non era alto quanto Kidd e doveva alzare la testa per guardarlo,
mentre
il rosso si ritrovò costretto ad abbassarla per osservarlo
senza
indietreggiare, ma andava bene, al moro non dispiaceva, sapeva
benissimo che
non gli servivano centimetri in più per sovrastare quella
testaccia rossa.
-Cosa farai?- ripeté, il sorriso più grande, i
denti in bella mostra e gli
occhi, grigi, che sembravano non trasmettere il solito cinismo, ma un
barlume
di divertimento. -Avanti, sono proprio curioso di saperlo.-
E Kidd
guardava rapito quelle labbra che si schiudevano per parlare e
sussurrare
parole che nemmeno aveva afferrato, ipnotizzato com’era da
quella vipera che
gli stava avvelenando la mente e l’esistenza.
Una mano
strinse involontariamente il bavero del cappotto di Law, trascinandolo
più
vicino e obbligandolo a salire sulle punte dei piedi. Si sentiva
fremere,
voleva vedere fino a dove sarebbe riuscito a spingersi Eustass-ya e
quanto ci
avrebbe messo per capitolare perché, di sicuro, non avrebbe
fatto lui la prima
mossa, ma punzecchiare il rosso era diventato il suo passatempo
preferito.
Anche se,
a
conti fatti, non si trattava più di un diversivo per
staccare dalla monotonia
della giornata, ma di qualcos’altro. Uno strano bisogno di
non sentirsi solo,
di sapere di essere la causa di qualcosa
per qualcuno. Eustass Kidd era il
peggio che i sobborghi potevano offrire, la
crème de la crème dello schifo
più totale, ma si era reso conto che tra
loro si era instaurata una strana intesa. Incomprensioni a parte, anche
se i
loro discorsi si basavano unicamente su frasi fatte di insulti, litigi
e
disaccordi, c’era qualcosa che andava a riempire le mancanze
che entrambi
avevano, come se li completasse e li rendesse stabili in quelle loro
vite
traballanti.
E, anche
se
non lo ammetteva, anche se lo stava tenendo nascosto, Law non voleva
lasciare
andare quel caprone figlio di nessuno che gli aveva regalato un fottuto
cane e
che chiudeva le finestre anche se faceva caldo la notte, lasciandogli
pure
tutto il lenzuolo perché sapeva che lui, nonostante
l’estate, sentiva freddo
verso le prime ore del mattino. Non voleva e basta.
Come Kidd
non voleva saperne di andarsene. Diamine, non dopo che aveva trovato
una
baracca senza buchi sul soffitto e dove ci si poteva specchiare sui
piatti.
Soprattutto, non dopo che Trafalgar rifaceva il letto senza chiedere
una mano e
gli lasciava la sua parte di pane per colazione, sapendo quando a lui
piacesse
inzupparlo nel latte. Poco importava che a Law il pane fosse indigesto,
a Kidd
piaceva pensare che lo faceva per lui, non per se stesso.
-Mi fai
impazzire.-
sussurrò il rosso, al limite della sopportazione e con ogni
fibra del suo
corpo che gli urlava di creare un contatto con il suo peggior nemico.
Furono
tre
parole sussurrate sulla sua bocca a mettere Law nella posizione di chi
non sa
come reagire. Si era aspettato un insulto, un pugno, una bestemmia,
qualsiasi
cosa di irruento com’era solito fare Kidd, ma non quello. Non
una frase che si,
poteva essere intesa come un’offesa, ma riusciva a passare
anche come un velato complimento.
Perché, insomma,
detta con quel tono basso, roco e tremendamente provocante poteva
significare
solo una cosa.
Era
abbastanza per spingere Law a gettarsi su quelle labbra, baciandole e
assaggiandole timidamente con la punta della lingua, non trovando la
minima
resistenza ma, al contrario, sentendosi accogliere senza remore e con
aspettativa.
Poco
importava del luogo, del momento, dell’apparire indelicati,
delle persone che
avrebbero potuto vederli.
Erano
solo
loro due, davanti ad un mausoleo, in un cimitero, sotto la pioggia e
intenti a
baciarsi.
*
Il fuoco
ardeva vispo nelle braci, illuminando il retro della locanda di Makino
che
offriva una visuale ampia della campagna. Varie lanterne erano
appoggiate sulle
casse abbandonate appena fuori del granaio, contenenti alcune scorte di
cibo
che i ragazzi non avevano avuto tempo di sistemare. Erano,
però, state
utilizzare come comode sedute dal gruppetto di giovani che si erano
ritrovati
quella sera a passarsi di mano in mano un certo numero di bottiglie di
alcolici, con l’intento di non fare nulla, se non prendere
una sbronza e
diluire in quel modo il dolore, annacquando i pensieri dopo una
giornata
passata a versare lacrime al cimitero.
Avevano
mangiucchiato un paio di polli allo spiedo rubati da qualche pollaio in
periferia, acceso due fuochi e aperto vari liquori, recuperati dalle
scorte
personali di Shanks, ovviamente senza permesso.
Rufy
stava
seduto per terra, con le ginocchia strette al petto e lo sguardo perso
tra le
fiamme, silenzioso e triste. Di tanto in tanto lasciava andare un
sospiro o un
singhiozzo mal trattenuto, segno che si commuoveva ancora se ripensava
a Usopp
e al suo sacrificio per salvarlo. Si sentiva in colpa per non essere
stato più
attento, per non essere stato più forte e per non averlo
protetto come
meritava. Forse, se fosse stato meno distratto e si fosse guardato
intorno,
magari sarebbe riuscito…
Una mano
andò alla ricerca della sua, trovandola e intrecciando le
dita lunghe ed
eleganti ad essa per stringerla leggermente, seguita da una pressione
sulla
spalla. Nami gli si era appena accovacciata accanto e aveva poggiato la
testa
su di lui, mettendosi comoda e chiudendo gli occhi.
-Va tutto
bene.- gli aveva sussurrato, sfiorandogli il dorso con il pollice in
una serie
di cerchi immaginari.
E Rufy
non
poté che sentirsi in pace e meno tormentato, osservandola
con la coda
dell’occhio e sorridendo impercettibilmente, chiedendole se
avesse sete o fame,
aggiungendo che lui ne aveva tanta e strappandole una lieve risata.
Di fronte
a
loro, Sanji, chiuso nel suo silenzio, si accendeva una sigaretta, non
sapeva
più a che numero era arrivato quel giorno, con un
fiammifero, gettandolo poi in
mezzo al fuoco e prendendone una profonda e per niente rilassante
boccata.
Sentiva dentro di sé un peso enorme sul petto e non
c’era verso di cancellarlo.
Si era distrutto un labbro a forza di morderlo per frenare le lacrime
al
funerale di Usopp e in quel momento gli faceva male persino tenere il
filtro
tra le labbra, ma poco gli importava. Gli sembrava di essere vuoto e
allo
stesso tempo pesante, era di cattivo umore e non aveva nemmeno
disdegnato
l’alcool, bevendone generose sorsate ogni volta che aveva
potuto, arrivando
persino a tenere una bottiglia per sé. Rivedeva nella sua
mente l’immagine dei
suoi amici a terra, Usopp grondante di sangue e Rufy disperato e privo
di
protezione. Riviveva il ricordo della tensione, della paura,
dell’eccitazione
per la battaglia, della delusione, della rabbia e del timore logorante
al suono
di uno sparo alle sue spalle. Odiava con tutto se stesso il sollievo
che il suo
animo provava ancora in minima parte nel vedere Zoro vivo e vegeto a
pochi
passi da lui, sdraiato sull’erba, circondato da bottiglie
rigorosamente vuote,
apparentemente addormentato. Più lo guardava e
più si detestava. Un suo amico era
morto e lui ringraziava il Cielo per la grazia di vedere il petto di
quella
testa verde alzarsi e abbassarsi. Era veramente una persona di merda.
In quanto
a
Zoro, lui si era semplicemente assopito, troppo stanco e troppo ubriaco
per
pensare lucidamente, ma anche troppo angosciato per permettersi anche
solo di
formulare qualcosa nella sua mente che avesse un senso logico. Erano
stati
giorni infernali, per tutti e non solo per lui, e le vicende che ne
erano scaturite
non erano state del tutto rosee. Loro, infatti, ne erano usciti
vagamente a
pezzi. Non si sognava nemmeno di piangere, sarebbe stato come offendere
la
memoria di Usopp, perciò aveva lasciato le lacrime a Rufy,
lui si che aveva
tutto il diritto di versarle. Dopotutto, gli era morto un compagno tra
le
braccia e gli dispiaceva vederlo tanto abbattuto, ma altro non poteva
fare se
non stargli vicino e mostrargli il suo sostegno comportandosi come
sempre e apparendo
determinato, solo in quel modo avrebbe spronato il ragazzo a rialzarsi
e a
superare l’accaduto. Doveva essere forte, doveva farlo per i
suoi amici, doveva
essere il loro sostegno.
Aveva,
comunque, bisogno di bere e lo aveva fatto fino a sentirsi male, tanto
da
doversi stendere e riposare per poi ricominciare da dove aveva
lasciato. Aveva
tutta la notte a disposizione e se per un po’ avesse
disconnesso il cervello
gli avrebbe fatto solamente bene.
Appoggiati
sulla staccionata e con il viso rivolto verso il cielo stellato, se ne
stavano
Sabo e Koala, i quali si parlavano, sussurrando a bassa voce per non
disturbare
la quiete che avvolgeva i dintorni, indicando punti luminosi che
brillavano di
una luce fredda e lontana, ma che li ammaliavano ugualmente, stimolando
la loro
curiosità.
Koala le
conosceva quasi tutte le costellazioni, essendosi spostata molto e
avendo
viaggiato per mare, mentre Sabo sapeva riconoscere solo le principali,
riempiendo di domande l’amica e ascoltando con attenzione
tutte le spiegazioni
e le leggende sui nomi delle stelle riguardanti ere lontane,
Dèi ed eroi.
Era il
loro
modo di distrarsi, di pensare ad altro e quando erano assieme ci
riuscivano
alla perfezione, trovando argomenti che a nessuno sarebbero mai venuti
in mente
con una spontaneità e una facilità che
disarmavano chi li osservava da
distante. Andavano d’accordo ed era una fortuna essersi
trovati. Koala era
contenta perché con Sabo riusciva a non preoccuparsi in
continuazione per la
condizione incognita di Marco, invece il biondo dimenticava
momentaneamente
tutte le disgrazie che il popolo aveva subito e i dispiaceri che
gravavano sui
suoi fratelli. In particolare, ad intervalli di tempo, si voltava verso
il
granaio per controllare le condizioni di Ace, chiedendosi come se la
stesse
passando.
-Vai da
lui.- gli disse Koala, seguendo il suo sguardo e sorridendogli
gentilmente
quando lui la guardò.
-Non
voglio
che resti da sola.- si mortificò.
-Stavo
per
dirti che andavo a dormire. Thatch sarà già a
letto da un pezzo. E’ stata una
giornata lunga per tutti.- rispose, sistemandosi una ciocca di capelli
dietro
l’orecchio e recuperando il suo cappellino rosso che aveva
appoggiato ad un palo
del recinto. Lei, Thatch e Izou alloggiavano momentaneamente da Makino
per fare
da tramite tra l’accampamento e il Quartier Generale, oltre
che assicurarsi
costantemente della salute del loro fratello, quindi non correva nessun
pericolo di ritrovarsi da sola.
Sabo le
sorrise di rimando, soffermandosi a pensare a quando fosse dolce quella
ragazza, sempre pronta a fare del bene per il prossimo anche quando si
riscontrava difficile. Ripensandoci, lui doveva essere stato un caso
disperato
e probabilmente l’aveva fatta diventare matta mettendo a dura
prova la sua
santa pazienza.
Fu
perciò
normale per lui avvicinarsi e abbracciarla, stringendole le spalle e
trattenendola contro il suo petto, spostando una mano per accarezzarle
i
capelli e poggiando poi una guancia contro la sua per parlarle.
-Grazie.-
Provò
una
sensazione euforica quando Koala sorrise contro il suo collo, sentendo
poi le
sue manine circondargli i fianchi per comodità, dato che era
parecchio più alto
di lei.
-Non
c’è di
che.- gli rispose la ragazza quando si staccarono, salutandolo e
dirigendosi
verso la locanda, dandosi della stupida per sentirsi tanto felice.
Intanto,
Ace
se ne stava sdraiato scompostamente sopra a delle casse coperte da
delle balle
di fieno, quindi era pure comodo, ma il suo stato d’animo lo
stava facendo
impazzire. Era vagamente conscio di aver bevuto come un dannato e di
avere un
mal di testa che gli stava facendo martellare insistentemente le
tempie, ma ciò
non bastava a farlo smettere di pensare allo stato in cui si trovava
Marco.
Trafalgar
era stato vago nel fornirgli informazioni sulla sua salute e non si
sbilanciava
a dirgli se era più morto che vivo o il contrario,
lasciandolo nello sconforto
e nella disperazione.
Si
sentiva
uno schifo per essere stato tanto stupido, incauto e infantile da
trascinarlo a
recuperare un moribondo, senza accorgersi che si trattava di una
trappola. Lo
aveva messo in pericolo lui stesso ed era finita nel peggiore dei modi.
In un
letto a combattere tra la vita e la morte doveva esserci lui, non
Marco.
Perché
poi
si fosse buttato per salvarlo non riusciva a spiegarselo. Sarebbe stato
più
facile estrarre la pistola e sparare, certo, lui si sarebbe beccato del
piombo
in testa, ma almeno il biondo ne sarebbe uscito illeso. A lui non
serviva
aiuto, se l’era sempre cavata e ce l’avrebbe sempre
fatta, preferiva di gran
lunga essere lui stesso a dare una mano, invece che riceverla. Avrebbe
dovuto
proteggere Marco, ma non l’aveva fatto. Aveva promesso a se
stesso che, in sua
compagnia, nessuno si sarebbe ferito, invece aveva fallito. Marco
rischiava la
vita, Thatch non lo incolpava di nulla e Barbabianca, quando era andato
a
dargli la notizia, fregandosene del fatto che Shanks lo avesse
già avvisato in
precedenza, lo aveva abbracciato, ringraziandolo e dicendogli che era
sicuro
del fatto che suo figlio fosse in ottime mani anche se moribondo.
-Cazzo!-
farfugliò, dando un pugno secco che venne attutito dalla
paglia, rotolandosi su
un fianco e sentendo il bisogno di vomitare.
Tutti
continuavano a dargli fiducia e a ritenerlo un eroe, una persona di
valore,
però lui si sentiva solamente uno straccio, un incapace e un
buono a nulla
senza spina dorsale.
-Mio Dio,
puzzi come un maiale.-
Ace
represse
un conato, stringendosi la testa fra le mani. -Vaffanculo Sabo.-
Accanto a
lui il fieno si abbassò, segno che il biondo si era sdraiato
e si era
accomodato, incrociando le braccia dietro la testa e sospirando,
chiudendo gli
occhi.
-Come
stai?-
chiese dopo un paio di minuti.
-Vuoi la
verità o ti accontenti di una balla?-
-La
verità,
Ace.-
Il moro
si
lamentò. -Ma è una storia lunga.-
-Non ho
fretta.-
Sabo si
beccò una manata sul viso, seguita da un commento su quanto
fosse insistente e
impiccione, ma non demorse e aspettò con calma che Ace
recuperasse abbastanza
fiato da parlargli e sfogarsi. Era certo che, dopo, si sarebbe sentito
meglio.
Non si
aspettava, però, di vedere il fratello sul punto di piangere.
-E’
stata
colpa mia, Sabo.- stava mormorando con le lacrime agli occhi e un nodo
in gola,
combattendo per non scoppiare, anche se non desiderava altro. -Non sono
stato
attento e Marco… ehi, che fai?-
-Mi
dispiace, Ace.- mormorò il biondo, abbracciando il fratello
che gli dava le
spalle e strofinando il volto sulla sua schiena, mentre
l’altro cercava senza
successo di levarselo di dosso.
-Smettila,
idiota!-
-Oh, dai
Ace, fatti fare le coccole.-
-Ma tu
sei
matto!-
Doveva
ammettere, comunque, che si sentiva già molto meglio. Sapere
che dalla sua
parte aveva Sabo lo faceva sentire più leggero e tranquillo,
anche se non era
avvezzo di smancerie e dimostrazioni d’affetto di quel
genere. Di solito,
quello più ruffiano era Rufy, mentre loro due si limitavano
a pacche sulle
spalle, schiaffoni di tanto in tanto e sorrisi, non di certo abbracci e
baci.
-Tieni
quella bocca lontano dalla mia faccia.- minacciò il moro,
assottigliando lo
sguardo e mettendo una mano sul volto di Sabo per tenerlo fermo.
-Avanti,-
insisté il biondo, -Lascia che ti dia un bacetto.-
-Giuro
che
ti butto giù da qui.-
Sabo
alzò
gli occhi al cielo, sorridendo sconfitto, ma non allentando la presa
sul corpo
del fratello, stringendolo forse più forte e accomodandosi
meglio accanto a
lui. Non gli sembrava strano e nemmeno sbagliato, anzi, forse era il
gesto che
gli veniva più spontaneo di tutti abbracciare una delle
persone che amava di
più al mondo e che rappresentava parte della sua famiglia.
Teneva così tanto ad
Ace e Rufy, così tanto!
-Vedrai
che
andrà tutto bene.- mormorò una volta che Ace ebbe
smesso di lottare per
scrollarselo di dosso, arrendendosi a quella morsa ferrea e, a suo
modo,
confortevole e calorosa.
-Ne sei
certo?-
Quello di
Ace era stato quasi un sussurro, ma Sabo aveva annuito convinto.
-Assolutamente.
Fidati di Law.-
-So che
è il
migliore, ma se non ci riesce? Se, insomma, se Marco
dovesse…-
-Marco
guarirà e tornerà a farti incazzare come al
solito, d’accordo? Anche perché ti
stai rammollendo. Quando c’era lui a stressarti
l’anima era più divertente.-
-Grazie
tante eh.-
Il biondo
ignorò il sarcasmo e sbuffò una risata tra i
capelli folti di Ace. -Sto
scherzando, idiota.-
-Sabo?-
-Si?-
-Grazie
davvero.-
-Quando
vuoi, Ace.-
Angolo
Autrice.
Sono in
ritardo, lo so, ma ormai mi conoscete e ci avrete fatto
l’abitudine, LOL.
Avevo
detto
che avrei alzato il rating, ma mi sono resa conto che non è
da questo capitolo,
ma dal prossimo. Ad ogni modo, mi è stato fatto notare che
molte persone non
potrebbero più leggerla se la passo da arancione
a rossa, perciò credo
che limiterò i
danni e la lascerò così, in modo da non privare
nessuno della continuazione
della storia per colpa di un po’ di sesso
coccole.
Detto
ciò,
spero che il prossimo capitolo arrivi prima di natale, TROLLOL.
Ultima
cosa:
il capitolo è per Kidd e Law. Perché li amo e
basta.
Grazie a
tutti e un abbraccio come sempre!
Scusate
ancora
per le tempistiche, mea culpa.
See ya,
Ace.
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