The fight for you is all I've ever known

di ki_ra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Buio ***
Capitolo 2: *** Luce ***
Capitolo 3: *** Sabbia e polvere ***
Capitolo 4: *** Al pensiero di te ***
Capitolo 5: *** Dolore ***
Capitolo 6: *** L'unica speranza ***
Capitolo 7: *** Difronte al nemico ***
Capitolo 8: *** Congettute e conclusioni ***
Capitolo 9: *** Incontro al nemico ***
Capitolo 10: *** Bestie e padroni ***
Capitolo 11: *** Io ti salverò ***
Capitolo 12: *** Velàthri ***
Capitolo 13: *** Come se tu fossi qui ***
Capitolo 14: *** Missione ***
Capitolo 15: *** Eros e Thanatos ***
Capitolo 16: *** Volterra A. D. 1398 ***
Capitolo 17: *** Le dita del diavolo ***
Capitolo 18: *** Immago ***
Capitolo 19: *** 19 - Fragile e fiera ***



Capitolo 1
*** Buio ***


Buio

 

 

Aprì gli occhi e poi li richiuse, il buio era così fitto che, nonostante i sensi sviluppati del lupo, non riusciva a mettere a fuoco che pochi insignificanti particolari.

Tastò con una mano il pavimento su cui era sdraiato: era di pietra, freddo e umido, così come le pareti anguste e ruvide.

Un fetore intenso gli feriva le narici, l’odore di muffa suppurava nei polmoni, come un’infezione tossica, e il respiro diveniva sempre più corto per la poca aria irrespirabile che gli infiammava la gola.

Non riusciva a capire dove potesse trovarsi: in una cella, nella segreta di un castello medievale, nell’antro di una caverna o anche in una scatola ermeticamente chiusa. Né sapeva da quanto vi fosse rinchiuso, sfiorò con il palmo della mano il mento e le guance e sentì che erano ispide di una barba non troppo lunga, segno che fossero passati almeno un paio di giorni.

Deglutì a fatica un grumo di saliva e terra, ma quando il groppo attraversò la trachea, un dolore lancinante gli scosse il petto.

Un colpo di tosse violentissimo gli fece sputare sangue, come se una ferita aperta gli avesse squarciato gli organi interni.

Tossì e sputò ancora, fino a che il dolore divenne bruciore, una fiamma lenta e costante che lo costrinse a rannicchiarsi portando le ginocchia al petto, come un bimbo nel grembo della madre.

Aprì di nuovo gli occhi impastati di lacrime, e cercò di mettere ordine nel groviglio del suo cervello.

Cercò di ricordare, immagini fumose e disordinate gli invasero la mente, fino a che, per lo sforzo, le tempie cominciarono a pulsare, con lo stesso ritmo forsennato del cuore.

Improvvisamente tutto si spense, anche la sua mente.

Persino il dolore.

 

********************************

Bentrovate, a voi che già mi conoscete, e benvenute, a chi mi legge per la prima volta.
Questo è il seguito di Love and Darkness
la mia storia su Jacob e Renesmee.
(chi non l'ha ancora letta, corra a farlo!)
Spero che l'inizio sia accattivante tanto da farvi continuare a leggere ...
Vi aspetto tutte al primo capitolo!
Un bacio.

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Capitolo 2
*** Luce ***


Luce
 
Era ormai l’ora del tramonto.

Il sole cominciava a sciogliersi dietro le cime aguzze dei monti, ne arroventava i contorni che apparivano come guglie svettanti di antiche cattedrali di roccia.

Il mare, stranamente calmo e silenzioso, rifletteva la luce d’arancio che invadeva il cielo con una lunga scia infuocata dalle rocce a picco della rupe, fino all’orizzonte.

Aveva deciso così, Renesmee; aveva deciso che l'avrebbe sposato come Sara aveva sposato Billy e come sua nonna aveva sposato Ephraim.

L'avrebbe sposato come si sposa un Quileute.

E a niente erano valse le preghiere di Alice per organizzarle un matrimonio da favola, come aveva fatto con Bella, con un meraviglioso abito e per bouquet orchidee africane.

Remesmee sposava un nativo americano, non un principe ereditario, dunque assolutamente niente sfarzi, niente scarpe con tacchi vertiginosi, né ambientazioni da sogno.

Solo un abito di purissima seta bianca, tanto leggero da ondeggiare al più piccolo alito di vento, niente trucco e i capelli liberi e arrotolati su stessi, come i trucioli nella bottega di un falegname.

E i piedi scalzi, le dita a sfiorare la sabbia nera e granulosa di First Beach, rimescolandone gli strati ancora tiepidi dell'ultimo sole d'agosto; le caviglie dentro e fuori dall'impalpabile stoffa ad ogni passo; le spalle nude, come la schiena, e il ventre impercettibilmente arrotondato, culla della nuova vita che si portava dentro come lo scrigno il più prezioso dei tesori.

Una pira gigantesca bruciava a pochi metri dalla battigia, in uno scenario suggestivo e avvolgente che mescolava acqua e fuoco, aria e terra, esaltando gli elementi della natura in una mistura magica, avversa a qualunque legge terrena.

Ai piedi dell’ammasso di fuoco, un anello di persone circondavano Billy e gli anziani della tribù, umani e immortali, lupi e freddi, confusi tra loro, senza alcuna distinzione, se non quella della loro pelle e del colore degli occhi. Mani nelle mani, anticipavano l’inizio della nuova era che di lì a poco sarebbe sorta.

L’aria era impregnata dell’odore singolare della salvia bianca, la cui cenere prodotta dal fuoco, saliva al cielo, come fiocchi di neve al contrario; si insinuava nella trama della pelle, nei capelli e sulle mani, come incenso purificatore.

Jacob era in piedi immobile, una camicia bianca e candida, come la sua anima, dei pantaloni scuri e i piedi nudi, affondati nella sabbia nera. Gli occhi luminosi, come i mattini di primavera e l'espressione concentrata.

Le sue narici fremettero quando tra i profumi contrastanti se ne levò uno, docilissimo e pulito, fresco e rigenerante, l'odore della vita che nasce e si moltiplica, il profumo di Renesmee.

Tirò su gli occhi, mentre il cerchio si apriva e si richiudeva al passaggio di lei.

Edward l’accompagnava, stringendola per il braccio, gli occhi di miele fissi su di lui e la mente impegnata a intercettare ogni più piccolo pensiero del mezzo lupo.

Jacob sorrise nella sua testa prima che con le labbra, appena i suoi occhi incrociarono quelli di Renesmee, e in quell’istante, più che in tutta la sua vita centenaria, il vampiro seppe che quella era la cosa giusta.
 
Quando furono l’uno davanti all’altra, Billy schiarì la voce, nella maldestra speranza di celare la commozione e richiamare l’attenzione dei presenti.

- Come l’arco è legato alla corda, così lo è la donna all’uomo.
Anche se ella lo piega a sé, al contempo gli obbedisce; benché ella lo attragga, nondimeno lo segue. Separati, ognuno è inutile. – pronunciò l’antica preghiera che apriva il rito nuziale, poi, con un cenno del capo, li invitò a stringersi la destra.

La mano di Jacob avvolse il polso sottile di Renesmee, le dita lunghe e forti, si insinuarono tra i lembi di pelle nivea, come lingue di terra nera tra la spuma del mare. Strinsero e accarezzarono la superficie liscia e il calore del mezzo lupo ne contagiò carne e sangue, fino ad infiammarne le vene.

Gli occhi profondi del vecchio Quileute si posarono sull'intreccio di mani e di anime, il viso rugoso e concentrato si ammorbidì in un accenno di sorriso, finché con la voce morbida e commossa, aggiunse: - Pronunciate le vostre promesse. -

Jacob inspirò, osservò con devozione gli occhi di Renesmee, liquido cioccolato, denso e caldo, e sorrise.

Le labbra si schiusero sui denti bianchissimi, poi si richiusero, così come gli occhi per riordinare parole e sentimenti che si muovevano convulsi tra testa e cuore.

- Il giorno che nascesti ... io nacqui, con te, nei tuoi occhi. - cominciò, - E ti amai, come già senza saperlo ti avevo amato negli occhi di tua madre e nel suo desiderio disperato di te.

E così continuerò ad amarti, così come la magia e il destino hanno deciso. - pronunciò, offrendole la piuma bianca di una colomba, voto di onestà e verità.

- Del giorno in cui sono nata, ricordo urla, terrore e sgomento, e la paura d'essere sola. Fino a che incontrai i tuoi occhi, pozzi neri e profondi, velati di odio e della mia stessa paura. Ma nell'istante in cui in essi riconobbi la mia anima, tutta la pace del mondo mi invase il cuore. – sussurrò, con una voce dolcissima e stranamente calma e nella mano libera una spiga di grano, fertile e prosperosa, come il loro legame.

Billy avvolse i loro polsi con piccole stringhe intrecciate di lacci di cuoio e, con i lembi sfrangiati, formò un nodo.

- Così io vi lego, l’uno all’altra. – disse, visibilmente commosso, - Sia, questo laccio, legame che unisce e non vincola, nodo lento che non si scioglie mai. -

La presa di Jacob sul polso di Renesmee si fece più decisa e lo sguardo si riempì tutto della figura di lei, piccola, fragile e umana e, al tempo stesso, decisa e indipendente. Si portò le loro mani incrociate e legate al petto e tutto il corpo di lei aderì al proprio. Il braccio libero le circondò la vita, le dita sfiorarono la pelle dei fianchi, velata dalla seta sottile, e giunsero sulla schiena. Percorsero la colonna vertebrale, sfiorandone ad uno, ad uno, gli anelli, prima verso l’alto, fino alla nuca bianchissima e nuda, poi verso il basso fino all’osso sacro.

La scia calda, come quella di una fiammella, le si accese sulla pelle, si diramò in tutte le parti del corpo, attraverso le vene, fino alle guance e alle labbra che formicolarono per l’urgenza di un bacio.

- Adesso, dovresti baciarmi! – lo provocò, avvicinando il proprio viso all’altro, fino a che le punte dei nasi si sfiorarono.

- Nessuno mi ha ancora dato il permesso … - le resse il gioco, le labbra caldissime e scure, invitanti ad un soffio da quelle di lei.

- E da quando in qua Jacob Black ha bisogno di permessi per fare ciò che vuole? – insistette, mentre con la mano libera insinuava la punta delle dita sotto la stoffa della camicia e gli rinfrescava la pelle bollente.

- Giusto! Sei mia moglie, adesso … posso fare ciò che voglio! – constatò, come se solo in quell’istante avesse realizzato la concretezza del loro legame.

- Cosa aspetti, lupo! – gridò qualcuno dal cerchio di persone intorno a loro.

- Insomma, la baci o no? – aggiunse qualcun altro, mentre gli altri sghignazzavano.

Un ringhio sommesso salì su per la gola dell’alfa, il petto si gonfiò, ma Renesmee sorrise e le labbra divennero petali umidi nella rugiada del mattino.

Allora la baciò, stringendosela di più addosso, come se non potesse più farne a meno.

La baciò e labbra, lingue, mani, lacci e ossa sancirono il legame, indissolubile, vitale, mortale e infinito, che li aveva uniti già prima di venire al mondo.

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Capitolo 3
*** Sabbia e polvere ***


Sabbia e polvere


La sera giunse serena e profumata, tra una manciata di stelle e le scintille dei ceppi accesi nelle pire.

Una musica lentissima e soffusa, quasi venisse da lontano, aveva fatto da controcanto al brontolio del mare, alle risa dei ragazzi, agli schiocchi del fuoco, relegando Jacob e Renesmee in una specie di bolla di sapone, sottile e permeabile, che li aveva separati dal mondo.

- Non ti spiace se te lo rubo un attimo, vero. – li interruppe Edward, poggiando delicatamente il palmo aperto sulla schiena nuda di Renesmee e riportando entrambi alla realtà.

- Che sia davvero solo un attimo! – gli raccomandò, lasciando un sorriso furbo negli occhi di Jacob, - Non ho più a disposizione l’eternità … io! – aggiunse, sciogliendo la stretta nella quale si era rintanata negli ultimi minuti.

- Sono felice per voi. – cominciò il vampiro, mentre l’uno di fianco all’altro, camminavano sulla battigia.

- Davvero? Onestamente, faccio fatica a crederlo. – ribatté il mezzo lupo.

- Mi stai dando del bugiardo, Jacob? – ironizzò, un sopracciglio alzato e i piedi fermi nella sabbia bagnata.

Jacob fece un sorriso storto: bugiardo non era esattamente l’epiteto che avrebbe voluto riservargli. Ma quando sul viso del vampiro comparve una smorfia di disappunto per i suoi pensieri, il mezzo lupo aggiustò il tiro.

- Semplicemente, non credo che sia così semplice accettare di sopravvivere al proprio figlio e al figlio di suo figlio ... –

- Nessun genitore potrebbe. Ma i nostri figli non sono nostri*: non possiamo imporre le nostre idee, né decidere della loro vita come fosse nostra … -

- Tu l’hai fatto! – gli ricordò, nessun risentimento nella voce, solo l’eco del dolore che ancora sentiva al ricordo di quei mesi di separazione.

- Lo so e ti chiedo scusa, ma credevo di essere nel giusto allora. Credevo di dover proteggere Renesmee … - cercò di far comprendere le proprie ragioni e aggiunse: -
Quando anche tu sarai padre … -

- Ti sbagli, io non farò mai a mio figlio ciò che tu hai fatto a lei! – lo interruppe.

- Allora sarai un padre migliore di me. Motivo in più per essere felice! – gli sorrise storto, ma con una sincera limpidezza negli occhi d’ambra.

Anche Jacob sorrise contagiato, riprese a camminare e, quando gli fu di schiena, lo provocò: - Di’ la verità, Eddy: in fondo mi hai sempre voluto bene! –

- Non tirare troppo la corda, lupo. – replicò e, divenendo improvvisamente serio, aggiunse: - E ricorda: hai nelle mani il mio bene più grande, abbine sempre cura. –

- O mi verrai a cercare in capo al mondo. Lo so, lo so. – sembrò canzonarlo, mentre nella sua testa, tutti i suoi pensieri, puliti e dolcissimi, confidavano al vampiro l’amore grande, la dedizione assoluta, il desiderio inestinguibile di proteggere e custodire, come fossero sacri, corpo e anima di Renesmee.

- Fila da tua moglie adesso … - replicò, con il cuore riempito dalle promesse silenziose del lupo.



Lo squittio di un topo gli squarciò i timpani assuefatti al silenzio, i respiri ansanti e affannosi che gli opprimevano il petto si adeguarono a un gocciolio continuo, come di un rubinetto che perde. Gli occhi erano gonfi e tumefatti e si aprivano in piccole fessure che cercavano uno spiraglio di luce per orientarsi. Ma il buio era assoluto padrone di quella prigione, come della sua mente.

Qualunque cosa gli fosse successa, la forza del lupo avrebbe dovuto già soccorrerlo, invece i sensi, i muscoli, le ossa e persino il cervello facevano fatica a divincolarsi dalla morsa di dolore che lo teneva a terra. La gola era invasa da sangue raggrumato, così fece schioccare la lingua sotto il palato arso per la sete, lisciò i denti alla ricerca di una ferita e si accorse che il labbro inferiore era tagliato in due.

Non aveva provato mai tanto dolore.

La mente si perse nella nebbia del delirio, come i malati in preda alla febbre, fino a che il ricordo formicolante delle labbra di Renesmee lo riportò ai loro ultimi baci.


- Puoi aprire gli occhi adesso, signora Black! – le sussurrò all’orecchio, mentre Renesmee teneva il viso nascosto nell’incavo del suo collo.

Le aveva chiesto di non guardare, mentre la portava in braccio dalla spiaggia in un posto per lei ancora segreto.

Avevano percorso, per diversi minuti, il sentiero che saliva alla riserva, in mezzo alle felci e nel profumo del muschio del sottobosco che divideva la scogliera dalla spianata dove sorgevano le case dei Quileutes.

Non era ancora totalmente umana, dunque l’olfatto acuto della sua metà vampira, aveva potuto crogiolarsi negli odori della sera, dal salmastro del mare, che andava via, via assottigliandosi, alle sfumature profumate delle piante notturne, ma soprattutto dell’odore denso della pelle di Jacob.  

Quando giunsero a destinazione, la fece scivolare lungo il proprio corpo, fino a che i piedi ancora nudi non toccarono terra.

Renesmee aprì gli occhi, sbattendo le ciglia lunghe e nere e si guardò intorno. Un vialetto di terra battuta giungeva, come un serpentello d'acqua, fino ai quattro gradini che conducevano al piccolo portico di una casa di pietra e legno. Un dondolo, di ferro battuto e impreziosito da cuscini dalle mille righe verdi e bianchi, cigolava in un angolo e piccoli vasi di piantine profumate pendevano dai travetti del tetto. Ai lati della porta d'ingresso, due ampie finestre spiccavano tra la calce bianca che legava il legno.

Renesmee pestò un gradino alla volta, appoggiandosi alla balaustra e godendo dell'allegro scricchiolio sotto il suo seppur esile peso.

- Ferma, ferma! - la richiamò Jacob, raggiungendola prima che potesse aprire la porta. - Le cose a casa Black si fanno per bene! - ammiccò, sollevandola di nuovo e abbassando la maniglia.

La stanza era in penombra, mille candele di svariate forme e dimensioni  la illuminavano a tratti tremolanti, lasciando intuire solo vagamente gli arredi e la grandezza.

Un camino divorava un fuoco allegro e scoppiettante e davanti ad esso un grande tappeto coloratissimo spiccava sul pavimento di legno sbiancato.

- Era di mia madre … - le rivelò, mentre le lasciava esplorare la stanza, - Ci ha vissuto fino a che non ha sposato Billy … - aggiunse, seguendone i movimenti curiosi. – Ci abbiamo lavorato io e i ragazzi. –

- Quindi, se il tetto dovesse venir giù, so con chi prendermela! – ammiccò.

Jacob sorrise mordendosi il labbro inferiore, un po’ in ansia per il giudizio di Renesmee che tardava ad arrivare.

- L’arredamento non è farina del mio sacco, però. – sollevò le mani con i palmi aperti in un gesto teatrale fingendo di giustificarsi.

- Riconosco la mano di Esmee, infatti! Non ci resta che controllare la stanza da letto ... sai, tanto per essere sicuri che sia tutto al proprio posto! - disse con un sorriso malizioso, mentre camminando all'indietro si avvicinava alla porta della camera.

Jacob la guardò, reclinando il capo; gli occhi divennero ancora più profondi, come l'oceano sotto un cielo cinerino; il desiderio di consumarsi sulla pelle e sulle labbra di lei, gli passò sul volto, come un'ombra, gli incendiò la bocca e bruciò le mani, fino alle punte delle dita, come le fiamme che si arrotolano intorno al legno.

- Non mi importa di cosa ci sia in quella stanza ... - sussurrò con la voce lenta, come il veleno che si espande, - Tutto quello che voglio è già sotto le mie dita! - aggiunse sfiorandole con l'indice lo zigomo, poi la linea del collo sottile, la clavicola, fino a fermarsi sullo sterno.

In quel punto, dove la pelle sembrava un velo, il cuore di Renesmee pulsava sempre più veloce, tanto che l'uomo ne percepì i battiti sotto il palmo della mano.

Fu per il lupo come il richiamo delle sirene per i marinai. Fu attrazione gravitazionale, il precipizio per una cascata.

Le labbra di lui si riversarono su quelle di Renesmee, tirandosi dietro il peso di tutto il resto del corpo; le mani la cinsero, gli occhi si chiusero e la mente si perse nel cuore.

 

Eccomi!
Con enorme difficoltà e ritardo, sono riuscita a pubblicare.
Se vi è piaciuto il capitolo, recensite, recensite, recensite!
Un bacio!
*La frase: "i nostri figli non sono nostri" è l'adattamento di un verso di una famosa e bellissima poesia di Gibran.

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Capitolo 4
*** Al pensiero di te ***


Al pensiero di te

- Da quanto? - sentì chiedere, nella semincoscienza che lo accomapagnava da giorni.

La voce era maschile, affettata, falsa e composta, come recitata; graffiava come le unghie che stridono sulla lavagna. Gli accapponò la pelle, ricordandogli quella vecchia sensazione di gelo che lo avvolgeva quando era ancora del tutto umano.

- Dodici giorni. - rispose un'altra, stavolta femminile e dolcissima, ma con punta feroce e assassina. - Niente cibo, nè acqua. - aggiunse, - Solo dosi massiccie di sedativo, per tenerlo buono. -

- Affascinante ... - constatò l'altro, con una nota entusiasta e meravigliata.

- Come può esserlo un animale! - sentì commentare dalla donna con disgusto, mentre le voci si allontanavano portandosi dietro il fruscio freddo delle vesti.

Raccolse le idee, anche se la testa sembrava aprirsi in due alla formulazione dei pensieri. Dunque, doveva essere a causa dei sedativi che non riusciva a mutare, nonostante il calore che precedeva il passaggio fosse soffocante e lo tenesse in bilico tra le sue due nature.

Finalmente, poteva dare risposta ad almeno una delle domande che gli consumavano il cervello. Ma tutto il resto era ancora un pantano fetido e incomprensibile: non ricordava come diavolo fosse finito prigioniero; non riusciva a comprendere di chi potessero essere quelle voci; non era riuscito a distinguere alcun odore, né quello dolciastro e ributtante dei succhia sangue, nè quello umano.

Oramai si era rassegnato ad aver perso i sensi sviluppati del lupo, la sua forza, la capacità sovrumana di rimanere indistruttibile, l'attitudine alla lotta. Ciò che non poteva sopportare era, però, l'oscurità in cui la propria mente affogava, l'impossibilità di conoscere la sorte di Renesmee.

Strizzò gli occhi e strinse i pugni, sentì le vene ingrossarsi per i muscoli fiacchi sottoposti allo sforzo e pregò con un filo di voce che gli arrancava nella gola, affinchè fosse al sicuro, ancora nel loro letto.

Come fotogrammi di quelle vecchie pellicole girate da Billy, quando lui e le sorelle erano piccoli e Sara ancora viva, le immagini slabbrate e sfrigolanti di Renesmee scorsero nella mente, dietro le palpebre appesantite e dolenti.

Uno alla volta affiorarono i ricordi sempre più nitidi delle ore che avevano preceduto il buio e i tasselli del puzzle che tentava di ricostruire tornarono miracolosamnte ciascuno al proprio posto.

 

Era l'ora della ronda.

Non usciva dalla loro casa dal momento in cui vi erano entrati, la sera del matrimonio.

Erano i giorni della sua luna di miele, del resto, e se li era goduti tutti.

Alla sicurezza della riserva avrebbero pensato gli altri lupi; dei tre giovani appena trasformati a causa della visita dei succhia sangue amici dei Cullen, si sarebbero occupati Sam, Embry e Paul e Renesmee sarebbe caduta preda dell'invasione delle donne della sua famiglia, curiose e impiccione come delle vecchie comari.

L'idea di Rose e Alice, Bella ed Esme attorno alla propria donna lo fece sorridere, soprattutto quando immaginò la bionda storcere il naso all'odore del lupo sulla pelle di sua nipote.

Si mise a sedere sul bordo del letto; stiracchiò i muscoli indolensiti della schiena, tendendo le braccia verso l'alto, fece scricchiolare il collo e poi passò le dita tra i capelli nerissimi come la pece, fino ad intrecciarle sulla nuca.

Rimase qualche secondo immobile, con la schiena dritta e il capo reclinato all'indietro, gli occhi chiusi e la bocca tirata in una smorfia scocciata.

Sarebbe rimasto volentieri seppellito tra quelle lenzuola, con il petto invaso dai capelli di Renesmee, la guancia di lei all'altezza del cuore e la bocca rossa come le ciliegie a implorarlo di baci. Ci sarebbe rimasto volentieri per un mese, un altro anno o per la vita intera, senza bisogno d'altro, senza la necessità del resto del mondo, tanto il mondo, l'universo, erano lei, le sue mani, gli occhi e il suo ventre caldo, col suo dono dentro.

Si voltò a guadarla: dormiva bocconi, tra le lenzuola agrrovigliate blu, la pelle bianchissima della schiena, le natiche tonde sotto il groviglio e i capelli sparsi sul cuscino. Gli sembrò l'ammasso delle stelle della via lattea nel buio siderale del cosmo.

La sua luce, la sua guida, il giorno nella notte, tutti i giorni e tutte le notti della loro eternità mortale.

Scosse la testa e spostò gli occhi dallo spetacolo pericoloso della propria donna addormentata; infilò i suoi pantaloncini "da battaglia", e in una manciata di secondi fu fuori sul portico. Inspirò l'odore di muschio e felci, il sale evaporato dalla vicina scogliera, e con un balzo saltò oltre i gradini.

Atterrò sulla ghiaia sbrilluccicante al riverbero lunare e prese a correre verso il bosco, fino a che le gambe divennero zampe, la pelle si ricoprì del suo pelo rossiccio e i denti si allungarono in quelli possenti della sua parte animale.

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Capitolo 5
*** Dolore ***


L'aria era densa e gelida.
L'estate di La Push spandeva gli ultimi suoi fuochi. Presto le piogge dell'autunno avrebbero inondato la terra, le nuvole avrebbero invaso il cielo, rendendolo grigio e pesante.
La bella stagione sarebbe presto finita e con essa anche una stagione della propria vita: quella del lupo.
Renesmee portava dentro il suo sangue, le sue tradizioni che si facevano carne, i suoi geni di uomo e di lupo.
Renesmee portava dentro la vita: non gli occorreva altro per essere immortale; niente altro che la vita che si sarebbe perpetuata attraverso suo figlio e i figli di suo figlio.
Jacob Black sarebbe rimasto vivo, uomo di carne e sangue, fragile e mortale, ma avrebbe vissuto in eterno attraverso la sua discendenza.
Aveva già deciso che non sarebbe più mutato; il ruolo di alfa sarebbe andato ad un altro lupo e lui sarebbe diventato grande e poi invecchiato accanto alla sua donna, come aveva fatto Sam per Emily o come avrebbe fatto Quil, quando la piccola Claire fosse stata pronta per amarlo.
" Uh, uh ... guarda un po' chi è tornato nel mondo dei vivi! " lo provocò la bella lupa grigia, appena Jacob l'ebbe raggiunta nel luogo stabilito.
"Ti rivedo anch'io con piacere, Leah! " la salutò, infastidito, l'alfa.
"Non ti arrabbiare, capo! Ero sinceramente preoccupata per te" replicò, "Credevo che ci saresti morto in quel letto! " aggiunse sghignazzando.
"Piantala!" l'avvertì.
"Ok, la luna di miele ... ma, diamine! Un po' di misura." aggiunse.
Jacob sogghignò perfido e lasciò che la mente di entrambi fosse invasa dall'immagine languida e sensuale di Renesmee seduta a cavalcioni su di lui, i seni tra le ciocche di capelli e la bocca rossa e tentatrice.
"Basta, basta, basta! Jacob, ti prego basta!" lo imploro', "Ne ho abbastanza di ripetere tutte le posizioni del Kamasutra, ogni volta che sono di ronda, non c'è bisogno che ti ci metta anche tu!"
"Non mostrerei mai Nessie così al resto del branco." precisò.
"Che privilegio! " ironizzò.
"Non è un privilegio, ma un avvertimento: smetti di provocarmi e farai le ronde solo con me; continua e ti insegno io un paio di cosette ..." concluse con tono minaccioso.
" Ricevuto" lo rassicurò.
" Brava bambina!" commentò, mentre prendeva a correre per il solito giro di perlustrazione.
"L'hai sentito? " chiese arrestandosi all'improvviso la lupa.
Le zampe anteriori affondarono nella terra molle del sottobosco, l'odore acre delle zolle sbriciolate si liberò nell'aria, ma non riuscì a coprire quello marcescente della scia persistente e sconosciuta.
"Sono due!" constatò l'alfa, dirigendo il naso umido verso la fonte della zaffata.
"Tiramoceli dietro fino alla radura. Sarà più facile fronteggiarli in uno spazio ampio." suggerì, cominciando a correre.
Le fronde si spezzarono al loro passaggio, la terra si smosse e i rumori notturni del bosco si risvegliarono di colpo, come se anche gli animali si fossero accorti di un pericolo imminente.
Quando, pochi minuti, dopo la radura gli si spalancò davanti, alla luce di una luna piccola e lontana, l'alfa arrestò la corsa, digrignando i denti appuntiti, con un ringhio minaccioso e possente.
Ma quando si voltò a cercare la sua beta, si ritrovò solo, in mezzo ad una nebbia crescente, nera e densa come caligine.
Ne rimase avvolto, come la preda nelle spire del serpente; i polmoni ne furono invasi, rubando spazio all'ossigeno e in pochi secondi tutto intorno e dentro l'animale divenne fitto e scuro, denso e avvilupante come l'onda inquinante di petrolio sulla superficie marina.
Una lama sembrò trafiggergli la schiena; una seconda trapassargli il petto, mentre altre dieci, cento, mille lo ferivano ovunque.
"Dolore!"
Una voce sibilò, nella sua mente e uno spasmo indefinibile, continuo, insopportabile gli azzannò le membra.
"Dolore!"
Ripeté più forte e uno strappo lancinante, opprimente, asfissiante gli lacerò la carne.
"Dolore!"
Continuò ancora e ancora, fino a che la tempra del lupo cedette e il corpo svuotato stramazzò sulla terra bagnata di brina.


 

Bentrovate!
Chiedo scusa a chi dovesse aver già letto il capitolo intitolato "L'unica speranza", ma c'è stato un errore da parte mia nella pubblicazione delle parti.
Spero di non avervi confuso le idee.
Un bacio a tutte.

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Capitolo 6
*** L'unica speranza ***


L'unica speranza


Il guaito del lupo squarciò l'aria.
Fendette il silenzio innaturale del bosco, stormendo le fronde più alte, come il vento invernale. Svegliò gli animali nelle tane, gli uccelli notturni imbalsamati sui rami; strisciò tra i muschi e le cortecce, fino alla riserva.
Scosse i vetri delle piccole case, come un lamento oscuro e i lupi, ancora nascosti nella pelle degli uomini, vi percepirono la richiesta d'aiuto del loro fratello.
I pochi secondi un branco velocissimo e possente invase il margine tra la riserva e il bosco.
Le menti si collegarono tra loro in una rete fitta di pensieri, domande e apprensione, fino a che il vecchio alfa dettò gli ordini.
Sam divise in due il branco perché un gruppo perlustrasse il solito percorso stabilito per le ronde e l'altro raggiungesse la radura da dove proveniva l'ululato.
Vi giunse in pochi minuti, in ranghi compatti e serrati, ma l'area era deserta.
Nessun segno di lotta, niente sangue o rami spezzati, solo una puzza ributtante di vampiro, mescolato all'odore di Jacob.

"Sam." chiamò Embry dall'altro gruppo, "Abbiamo trovato Leah. È ferita e incosciente!" l'avvertì allarmato.
"Di Jacob, invece, non c'è traccia" rispose con tono desolato, per poi aggiungere: "Due di voi, la riportino alla riserva e avvertano Carlise. Gli altri continuino a perlustrare il territorio verso nord-est. Noi faremo lo stesso da questo lato."
I lupi eseguirono l'ordine, mentre i pensieri di Sam raccomandavano prudenza e attenzione a qualunque indizio.
La scia che i lupi avevano avvertito si dissolveva completamente ai margini della radura, come se fosse evaporata, assorbita dagli altri odori del bosco.
Dell'odore di Jacob rimaneva invece un sentore vacuo, come un ricordo lontano.
Troppo poco perché l'olfatto del branco riconoscesse una direzione da seguire.
Ciò che rimaneva impresso era soltanto il dolore, lo spasmo dei muscoli soprafatti, la paura di cedere al proprio aguzzino.

"Torniamo a casa!" ordinò, "Qui non è rimasto nulla che ci possa far capire cosa sia successo a Jacob", continuò, annusando l'aria non ancora completamente rassegnato, "L'unica speranza che ci rimane è Leah".

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Capitolo 7
*** Difronte al nemico ***


Difronte al nemico


-Tirati su, cane. - sibilò la voce di donna che aveva già sentito, - Qualcuno vuole vederti.-

Le braccia forti di due uomini lo misero in piedi, afferrandolo sotto le ascelle.

Le gambe gli tremavano per i troppi giorni d'inerzia e la testa girava come se stare eretto, dopo tutto quel tempo steso su di un pavimento, gli provocasse le vertigini.

Ma non voleva mostrare la sua debolezza, dichiararsi sconfitto, completamente alla loro mercé.

- Mi reggo in piedi da solo!- ringhiò con tutta la frustrazione che aveva in gola, divincolandosi.

I due allentarono la presa di colpo, lasciandolo senza sostegno, ma Jacob strinse i denti e ad occhi chiusi ritrovò l'equilibrio.

Quando li riaprì era in piedi, le gambe leggermente divaricate per contenere il baricentro del proprio corpo e il petto gonfio di soddisfazione per non essere stato ancora annientato.

Era ancora completamente nudo, il corpo era sporco di terra e sangue rappreso; qualche echimosi segnava i polsi e le caviglie e sul petto e sulle braccia rimanevano alcune cicatrici, tracce di ferite quasi del tutto rimarginate.

Erano state accese delle torce nel frattempo, una tenuta da uno degli uomini, altre nel corridoio fuori dalla cella.

La poca luce che ne veniva gli permise di guardarsi intorno: era stato rinchiuso in uno spazio angusto dalle pareti di pietra viva e umida, il soffitto basso gli sfiorava di poco il capo e, ora che era in piedi, l'ambiente sembrava ancora più piccolo, come fosse un gigante in un mondo di nani.

Non c'era altra apertura oltre alla porta della cella, l'aria era così satura di muffa e sudore, di sangue e polvere che si meravigliò di quanto vi si fosse assuefatto e riuscisse a respirare, nonostante il tanfo.

Uno degli uomini gli gettò dei pantaloni, colpendolo in pieno petto e intimandogli di vestirsi.

Jacob, nonostante l'equilibrio tremolante, li infilò, e con un tono dissacrante, mormorò: - Uh! Credevo di far più bella figura così!  -
L'uomo, ignorandolo, lo spintonò energicamente verso l'uscita, mentre l'altro con la torcia li precedeva.

- Quanta fretta, amico! - ironizzò, rimettendosi dritto, - Non ci corre dietro nessuno. - aggiunse, muovendosi e riconquistando ad ogni passo,  sempre maggiore coordinazione.

La donna, di cui conosceva solo la voce, lo precedeva solo di pochi metri, ma la luce insufficiente e gli occhi malandati e stanchi gli permettevano di vedere di lei solo le onde sinuose di un lungo mantello nero che si muoveva assecondandone i passi e i capelli biondo scuro che alla luce della torcia riverberavano di scie ramate.

- Dov'è che andiamo? - ruppe il silenzio che rendeva il corridoio ancora più tetro, ma non ottenne alcuna risposta.

L'aria diventava meno pesante, l'odore di sottosuolo si affievoliva, perdendo quel tanfo di morte e terra. I respiri di Jacob divenivano sempre più ampi e profondi, come quando ci si allontana dalla cappa di smog della città, per respirare l'aria pulita e frizzante di montagna.

Il corridoio terminò davanti ad una porta massiccia di ferro, chiusa con una spranga.

Quando la donna la spalancò, una lama di luce serpeggiò sulla pietra del pavimento, inondò le pareti del cunicolo e gli ferì gli occhi assuefatti al buio.

Una sala enorme si aprì oltre l'uscio.

Un pavimento di marmo policromo spiccò sotto i suoi piedi sporchi e nudi; le pareti affrescate sugli intonaci bianchi gli riempirono gli occhi di colori e  gli enormi lampadari di cristallo scintillarono dal soffitto altissimo.

Jacob, in tutta la vita, non aveva mai visto tanta magnificenza: persino la villa dei Cullen, enorme e curata, sembrava senza pretese al confronto.

Sbatté le palpebre un paio di volte, soffermandosi a guardare tra le grinze degli affreschi e notò che le enormi finestre, che si susseguivano alla sua destra, erano schermate da pesanti drappeggi di velluto, lasciando filtrare la luce esterna solo lungo il bordo.

Rimase a fissarne il riverbero ancora intontito, quando un fruscio ovattato ed elegante catturò tutta la sua attenzione.


◇◆◇◆◇◆◇◆◇◆◇◆◇◆◇◆◇◆◇

Ben trovate!
Eccoci al nuovo capitolo.
Dove si troverà Jacob?
Si accettano scommesse.

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Capitolo 8
*** Congettute e conclusioni ***


Congetture e conclusioni

Il labbro era ancora tumefatto e le nocche delle dita già leggermente escoriate.

Una benda strettissima le fasciava il costato, le strizzava i seni, come i corpetti di una dama dell'ottocento.

I capelli erano pettinati, scostati dal viso e lasciavano intravedere un livido sulla tempia sinistra e gli occhi un po' gonfi socchiusi, non per il dolore, che di certo andava attenuandosi, ma per l'apprensione e il peso di non essere riuscita a salvare suo fratello.

Renesmee entrò nella stanza, che era di Leah da sempre, nella casa di Sue.

Seth se ne stava ritto davanti alla finestra, guardando fuori come se si aspettasse di vedere Jacob spuntare all'improvviso tra i cespugli, malconcio come la sorella, ma salvo.

- Non è possibile che tu non riesca a ricordare altro.- la rimproverò Sam, portandosi le mani tra i capelli.

- Ma cazzo, Sam! Ti ha già ripetuto una dozzina di volte come è andata. Credi che se ci fosse altro se lo terrebbe per sé? - la difese Embry, dall'altro lato della stanza.

- È come se mi avessero strappato i ricordi dalla testa. L'unica cosa di cui sono certa è che eravamo sul crinale quando abbiamo avvertito le due scie. Jacob ha voluto portarli fino alla radura, allo scoperto. Li sentivo correrci dietro, avevo il loro fiato sul collo, fino a quando qualcosa mi ha rallentato. Mi sono sentita intorpidita, senza più alcuna forza e poi un dolore fortissimo mi ha spezzato il fiato. -
raccontò, con gli occhi sempre più lucidi. - Mi dispiace ... - aggiunse, sollevando il viso verso Renesmee, - Mi dispiace ... -

La mezza vampira ricambiò lo sguardo con la dolcezza di cui Leah aveva bisogno.
Non era colpa sua, Leah era leale alla legge del branco, fedele a Jake, non solo come suo alfa, ma come amico.

Per i suoi fratelli si sarebbe fatta ammazzare e per Jake anche di più.

- Stiamo perdendo solo tempo! - intervenne Seth, - Io vado a fare un altro giro, ci deve essere qualcosa che ci è sfuggito. Deve esserci per forza! - aggiunse, raggiungendo a grandi falcate la porta della stanza.

- Prendi un paio di ragazzi! Non ho intenzione di venire a cercare anche te! - gli ordinò Sam, - E niente pivelli! -

- È chiaro che sono stati loro. Ci stiamo girando intorno come se avessimo paura di ammetterlo, invece è palese. - sbottò Renesmee, come se non potesse trattenere più i propri timori. - Ero ancora una bambina, ma non scorderò mai la maniera in cui lo guardavano, come se fosse un altro fenomeno per arricchire la loro collezione. -

- Perché loro? Che motivo avrebbero di scatenare di nuovo una guerra? - argometò Bella, stringendole le spalle in un abbraccio avvolgente.

- Perché stavolta hanno loro un asso nella manica. - intervenne Carlise che si era preso cura della lupa.

Tutti gli occhi corsero a lui, al suo bel viso eternamente confortante.

Carlise ne conosceva ogni subdolo, sanguinoso istinto assassino. Li aveva visti governare la luce del mondo attraverso le tenebre delle loro scelte di sangue; ne aveva persino condiviso la sete di potere, di dominio, di morte.

Carlise li aveva visti squarciare le gole, bere sangue da coppe d'oro, cibarsi dell'energia vitale di migliaia di uomini.

Carlise sapeva di cosa essi potessero essere capaci.

E non aveva mai creduto che il futuro che si era mostrato quel giorno, attraverso il dono di sua figlia, sarebbe stato per sempre un deterrente al loro desiderio di possederli tutti, di sottometterli.

Per questo era sicuro, come era sicura Renesmee, che fossero stati loro.

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Incontro al nemico ***


Incontro al nemico

La grande casa dei Cullen era immersa in un silenzio asfissiante.

I clan erano rimasti a Forks dopo il matrimonio e di certo non l'avrebbero lasciata in quel momento così difficile. Nei decenni i legami erano divenuti indissolubili, nonostante le distanze geografiche o le abitudini di vita, come in una grande famiglia.

Del resto, talvolta, sono più vincolanti la stima e il rispetto che i legami di sangue.

- Andremo a Volterra, ma soltanto io, Bella e Carlise. - esordì Edward, rompendo il silenzio con la sua voce screziata di apprensione.

Jacob era sempre stata una spina nel fianco, il suo nemico naturale, l'eterno rivale in amore, il ladro furtivo che gli aveva sottratto l'anima bambina di sua figlia.

Ma la sua onestà, il coraggio, la forza interiore da cui era animato e soprattutto l'amore che lo legava a Renesmee, gli avevano ammorbito ogni resistenza, fino a farglielo stimare, apprezzare e amare come un amico, un fratello, un figlio.

Ora poi che nel grembo di Renesmee cresceva suo nipote, Jacob Black era ancora più prezioso, carne da proteggere come fosse la propria.

- Verrò anch'io. - replicò la mezza vampira.

- Invece, non verrai. -

- È mio marito. - insistette, con un tono così determinato, da far vacillare per un momento la sua decisione.

Renesmee era un giunco, flessuoso e resistente; era determinata, quasi cocciuta.

Non aveva paura e non certo per la propria natura soprannaturale. La sua forza era amore, abnegazione e sacrificio; era la stessa che aveva visto negli occhi di Bella, nel suo corpo provato e nelle ossa che bucavano la pelle, mentre difendeva il suo grembo. Non v'era alcuna differenza tra le due donne più importanti della sua vita: entrambe avrebbero sacrificato sé stesse per ciò che amavano, poiché la loro stessa esistenza dipendeva da ciò che amavano.

Ma se un tempo aveva permesso a Bella di avviarsi verso la morte, pur di dare la vita al proprio seme, adesso non avrebbe lasciato che Renesmee si tuffasse nella stessa sconsiderata follia.

In gioco c'erano troppe vite, quelle della sua famiglia, degli amici, dei lupi, oltre a quelle più preziose di sua figlia e del suo bambino.

- Sei incinta. - cercò di farla riflettere con tutta l'autorità paterna che possedeva.

- E lui è il padre di mio figlio. -

- Vuoi rischiare di perdere entrambi? Non verrai, Renesmee. E la discussione finisce qui. - decretò.

Bella le si avvicinò stringendola per le spalle. La dolcezza di madre stemperò la tensione dei muscoli e il profumo dolcissimo di lillà acquietò il desiderio di ribattere e opporsi alla decisione ingiusta del padre.

- Ha ragione, amore mio. - le sussurrò all'orecchio, - Hai il dovere di salvaguardare la vita di questo bambino. - aggiunse carezzandole il ventre sempre più pronunciato. - Fidati della tua famiglia, Renesmee. -

La giovane intrecciò le dita di Bella tra le proprie e, mordendosi il labbro inferiore, calò gli occhi sul ventre, annuendo in silenzio.

- Dobbiamo agire con calma e senza provocazioni. Stavolta, non abbiamo alcuna possibilità contro la loro forza.
Non possiamo contare sulla sorpresa, perché ormai conoscono il potere dei nostri alleati. - spiegò, riferendosi ai vari clan e ai lupi, - Né possediamo il vantaggio del campo: Volterra è un loro dominio. - aggiunse, strofinandosi gli occhi con le mani, come se cominciasse a sentire la stanchezza appesantirgli le palpebre.

Come se un vampiro potesse sentire stanchezza o dolore!

- Ma così vi consegnerete volontariamente a loro, disarmati. - intervenne Rose, con la voce preoccupata e la mano stretta in quella di Elmett. - Sarete alla loro mercé e noi, da qui ... non potremo fare nulla, nulla per aiutarvi. -

- Ma non si sentiranno provocati da una delegazione ... pacifica. E noi potremo capire le loro intenzioni, arrivare ad un accordo o, quanto meno, riuscire a darvi il tempo necessario a costruire una difesa per voi e per la riserva. -

- Vorresti provare a contrattare? - intervenne Renesmee. - E quali sarebbero i termini, sentiamo? I miei genitori in cambio della salvezza di mio figlio, mio nonno in cambio della libertà di mio marito? -

- Se fosse sufficiente a mettere in salvo te, tuo figlio e tutti gli altri ... volentieri! -

- Lo sai che non servirebbe ... Si terrebbero voi e poi verrebbero a reclamare il resto! -

- Non c'è altra soluzione. -

- Invece c'è: andiamo in Italia e gli sacchiamo la testa dal collo. Così la facciamo finita una volta per tutte! - suggerì Emmett, con un mezzo sorriso bellicoso.
Carlise sorrise, scuotendo la testa: suo figlio era sempre stato un uomo d'azione, col nemico niente parole o compromessi.
Doveva ammettere che in certi casi poteva anche essere la soluzione migliore, ma non questa volta. Non se in gioco c'erano le vite di tutti coloro che amava, della famiglia sacra che aveva costruito negli anni.

- L'idea non è male ... ti do il permesso di provarci, se il nostro tentativo dovesse fallire. - gli rispose con il suo solito sorriso, - Intanto, tieni al sicuro la famiglia. -

Emmett annuì destabilizzato, non c'era essere sulla terra più rassicurante e placido di suo padre, neanche Jasper col suo potere riusciva a tranquillizzare e sedare angoscia o paura come riusciva a fare lui.

Forse era per via della saggezza accumulata nei secoli o della capacità di ragionare con calma, tanto il tempo non era più un padrone, o forse era solo grazie alla sua indole: Carlise era destinato ad essere padre e neanche la trasformazione aveva potuto impedirlo.

- Qualcuno comunichi a Sam la nostra decisione, mentre ci prepariamo. Partiremo domani. -

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Capitolo 10
*** Bestie e padroni ***


Bestie e padroni

Il grande salone era illuminato dalla luce scintillante di enormi lampadari, tanto forte da fa pensare che il giorno fosse penetrato nonostante i drappi alle finestre.

In fondo ad esso, su di una pedana di marmo, era collocato uno scranno di legno, rivestito di foglia d'oro, e un morbido velluto rosso, come sangue, che ne rivestiva l'imbottitura.

Aveva tutta l'aria di essere una sala del trono.

Passò le dita ruvide sulla faccia e stropicciò gli occhi, mentre un fruscio elegante di stoffa serpeggiò nella sala, fino a spegnersi completamente giunto al centro.

Riaprì gli occhi e, nonostante fosse ancora destabilizzato, un mezzo sorriso gli colorò il viso.

- Dovevo immaginare che dietro questa accoglienza così amichevole e calorosa ci potessi essere solo tu, maledetto succhia sangue bastardo! -

Un ringhio di bestia salì per la gola della fanciulla bionda. La pelle di alabastro divenne ancora più eterea esaltata dal rosso rubino dei suoi occhi.

"Dolore" comandò la sua mente e la carne del lupo divenne preda indifesa di un rostro che lo afferrò allo stomaco, facendolo inginocchiare.

Aro lentamente sollevò la destra perché Jane arrestasse il supplizio.

- Vi ha mancato di rispetto, signore! - si giustificò, ma in un istante le punte acuminate di dolore cessarono, lasciandolo indolensito e completamente disorientato.

- Le bestie, mia cara, hanno bisogno di un padrone intransigente e dal polso fermo, ma al contempo amorevole. - le spiegò con la voce pacata, come di un padre alla figlia. - Dà loro il tempo necessario, ed esse ti leccheranno i piedi, senza chiedere nulla in cambio. -

- Col cazzo! - ansimò, Jacob ancora con le ginocchia sul pavimento e lacrime di dolore che gli ingombravano gli occhi, - Tu sarai il mio padrone quando sarò morto e comunque non prima di aver provato a staccarti la testa a morsi! - lo minacciò spavaldo, tirando su la faccia in una smorfia di scherno.

Jacob era sempre stato un soldato; uno di quelli che si gettano nella mischia, che vendono cara la pelle, prima di arrendersi alla sconfitta e non certo per i geni del lupo. Essere forte, determinato, quasi aggressivo, glielo aveva insegnato la vita sin da bambino, sin dal giorno in cui gli aveva tolto Sara. Nessun dolore, nessuna delusione, da allora erano state capaci di abbatterlo. Anzi gli avevano forgiato il carattere, come il fuoco incandescente fa con i metalli.

- Temo che dovrai rivedere le tue teorie ... - aggiunse, con lo stesso sorriso di prima, strafottente e fastidioso.

- Io non ho fretta! - gli fece notare il vampiro, avvicinandosi a lui elegante e lento. - Tra non molto sarai tu stesso a chiamarmi "Signore" ... - aggiunse in un sibilo agghiacciante, - Del resto, la libertà non vale quanto la vita di chi ami! -

- Che significa? - chiese, mentre l'altro si allontanava senza degnarlo di alcuna risposta. - Che significa, ho detto? - ripeté.

La voce venne fuori come un ruggito, rabbiosa, aggressiva, potetente, tanto che per un attimo Jacob sentì la gola, i muscoli del petto, i nervi delle cosce prendere fuoco, come se il lupo si stesse risvegliando.

Ma la sua forza durò un attimo soltanto.

Il calore della trasformazione sfumò, come vapore, la rabbia serpeggiò lungo le braccia, fino ad estinguersi sulla punta delle dita; divenne paura, terrore per Renesmee e il loro bambino, per i suoi fratelli e per i Cullen.

Quel maledetto aveva preso lui e l'avrebbe usato come un'esca viva per prendere tutti gli altri.

Ma quello che più gli faceva paura era la certezza che ciascuno di loro si sarebbe sacrificato per salvarlo; che ciascuno, antichi nemici compresi, avrebbe dato la propria vita in cambio della sua.

Tremò e sentì il petto indolenzirsi per un'apprensione insopportabile, contro la quale non poteva nulla se non pregare.

E così fece.

Pregò che Edward Cullen tenesse lontana sua figlia dal pericolo, che la proteggesse, magari con i suoi antiquati, insopportabili divieti, per i quali lo aveva irriso e detestato. Pregò perché la tenesse al caldo e al sicuro.

Avrebbe sopportato qualunque cosa, pure di morire sotto i denti di quei mostri senz'anima, purché la donna che amava gli sopravvivesse, con suo figlio in grembo.

Calò la testa, in attesa della risposta che non tardò ad arrivare, ancora più sibillina.

- Tempo al tempo! Te l'ho detto: io non ho fretta! -

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Capitolo 11
*** Io ti salverò ***


Io ti salverò

La partenza dei suoi genitori e di Carlise era stata straziante.

Li aveva visti uscire nella bruma del mattino, entrare nell'auto e sparire nel lungo viale che serpeggiava attraverso il bosco.

L'autunno era arrivato in anticipo a Forks, come ogni anno; aveva già sparso le foglie, i colori, le gocce di pioggia, come un velo, a coprire ogni cosa; una languida sensazione di angoscia e impotenza.

Una morsa allo stomaco le bloccò il respiro, costringendola a sedere sul bordo del letto, nella vecchia stanza in cui aveva dormito tante volte da bambina.

Le ampie vetrate sul bosco, il verde degli altissimi abeti, il muschio delle felci, il contrasto con il cielo plumbeo di fine settembre la riportarono all'immagine sfocata di sé stessa ragazzina e sognante, quando per ore sedeva in quello stesso punto e fissava le foglie e i rami più bassi in attesa del suo lupo.

Lo amava da sempre, da prima di sapere cosa fosse l'amore carnale, cosa fossero i baci, le mani, le lingue e l'odore dell'amore. Lo amava dal grembo di sua madre e lo voleva da allora, così come la sua età richiedeva.
E da sempre lo aveva avuto; dal suo primo respiro, nello stesso istante in cui era venuta al mondo.

Un conato di vomito le inacidì la bocca; d'istinto si portò entrambe le mani sul viso, cercando di respirare lentamente, ma la nausea era troppo forte perché potesse respingerla.

Era la prima volta che accadeva in tutta la sua vita.

Carlise le aveva detto che nei primi mesi di gravidanza era piuttosto normale avere nausee. Ma lei sembrava immune a quel fastidio comune alle donne umane.

Umane, pensò nella sua testa, mentre si asciugava gli occhi pieni di lacrime per lo sforzo.

Umane e vulnerabili, ripeté.

Esattamente come lei stessa stava diventando.

Non aveva mai avuto dubbi sulla sua scelta di trasformarsi.

Diventare umana, completamente umana, pur di far nascere il figlio di Jacob e vivere e invecchiare accanto a lui, non era un sacrificio.

Jacob le avrebbe donato la vita, avrebbe affrontato la morte, persino l'immortalità, lasciandosi dietro suo padre, le sorelle, il branco, pur di amarla.

Dunque aveva il diritto di avere una donna che scegliesse alla stessa maniera.

Con coraggio e amore infiniti.

Ma in quel momento, mentre lui era nelle mani dei Volturi, mentre i suoi genitori e suo nonno gli andavano incontro nel tentativo, vano in partenza, di salvarlo, sentiva la sua scelta pericolosa e ingiusta.

Il motivo di quel rapimento stava proprio nella sua scelta, nel bambino miracoloso che le cresceva dentro; nel sangue di Jacob che si mescolava al suo.

I Volturi non potevano accettare nulla di ciò che stava accadendo, la loro insubordinazione, la ribellione alle loro leggi e soprattutto la possibilità che esistesse una minaccia alla loro immortalità.

Si tirò su, fino a rimettersi in piedi.

Il riflesso che lo specchio le restituiva era una maschera sofferente e triste, impotente davanti alla rovina della sua vita.

Non poteva accettarlo, non poteva permettersi di perdere un solo componente della sua felicità.

Non poteva aspettare che qualcosa o qualcun altro le salvassero la vita.
Non poteva rimanere per l'ennesima volta al caldo della bambagia che quelli che l'amavano le avevano costruito intorno.

Quella volta toccava a lei, salvare suo marito, i suoi genitori e tutti quelli minacciati.
Non avrebbe più atteso inerme, che la fine arrivasse, non senza combattere almeno.

Sciacquò il viso con l'acqua fresca che scrosciava dal rubinetto, tirò via le ciocche fulve dal viso, legando i capelli sulla nuca e indossò qualcosa di comodo.

Per l'impresa che si era decisa a compiere le serviva un alleato.

O meglio, un complice!

 

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Capitolo 12
*** Velàthri ***


Velàthri

 

Certe città sono immortali, come certi uomini.
Sfidano il tempo, fulgide e irriverenti,
si modificano, si adeguano alle nuove ere, si espandono tutt'intorno al loro nucleo che rimane illeso, tale e quale a come è nato.
Volterra era una di quelle, non a caso l'avevano eletta a loro dimora.

Giaceva, come in tutti i secoli passati, in mezzo a paesaggi maestosi, a colline e valli verdi e profumate.

Le stesse viuzze vecchie di secoli, si intricavano tra i palazzi medievali, dalle vecchie porte etrusche, fino al cuore del borgo, nella Piazza dei Priori, dove le finestre della loro dimora si aprivano.
Alzò gli occhi d'ambra sulla facciata del palazzo, la pietra rude e scarna era ingentilita da cornici marcapiano e coronata da merli.
Si soffermò sulla torre pentagonale a due ripiani merlati, che svettava sulla struttura; la rivide triste e diroccata, dopo il terremoto, e poi nuovamente sana e austera, rinata con la ricostruzione.
Una fenice, invincibile e immortale, proprio come certi uomini!
Non credeva che avrebbe mai rimesso piede nella bocca dell'Inferno; che avrebbe annusato di nuovo l'odore del sangue caldo mentre sgorga a fiotti dalle vene, il puzzo della morte divoratrice che vibra tra le membra e impregna le pareti e i tappeti e i drappi alle finestre.
Il cuore già immobile gli si strinse in petto, quando la sensazione si trasformò nell'orribile ricordo di quello stesso sapore dolce nella sua bocca, vecchio di secoli, smarrito nel tempo, eppure ancora così vivido.
I visi trasfigurati delle sue vittime gli affollarono la mente e lo pugnalarono di rimorsi.
- Carlise? - lo chiamò Edward, scuotendolo per un braccio.
Gli occhi curiosi di suo figlio scrutarono i propri alla ricerca di quel segreto nascosto.
Per un attimo, un doloroso desiderio di lacrime si affacciò sul volto liscio e bellissimo dell'uomo che gli aveva dato la sua seconda vita.
- È l'ora. - si incoraggiò e fece un passo in avanti, proprio nell'istante in cui il grande portone si aprì.
Il fondo del salone illuminato e i marmi freddi degli arredi portarono alla luce altri ricordi, ma stavolta nelle menti dei suoi accompagnatori.
La testa e le orecchie si riempirono di urla disumane, arrochite dallo sforzo della lotta, degli scricchiolii dei pavimenti distrutti dai colpi, in quel giorno in cui Bella, col solo coraggio fragile di una mortale, difese il suo amore e la propria vita.
Sedeva sullo scranno, le braccia mollemente adagiate sui braccioli, l'eleganza studiata del nobiluomo d'altri tempi. Al suo fianco Caius e Marcus.
e un gradino più in basso Jane e Alec, i demoni gemelli.
- Che magnifica sorpresa! - li accolse con la sua voce melliflua e falsa Aro, - Se avessi saputo della vostra visita, vi avrei riservato una più degna accoglienza. - aggiunse, incurvando gli angoli delle labbra rosse, come lembi sanguinanti di una ferita.
- Avete rapito il marito di mia figlia. - sbottò Bella, stringendo i pugni, - Credevate che avremmo aspettato un vostro invito? - aggiunse, mentre Edward le si metteva di fianco.
Le loro spalle si sfiorarono, e il profumo dolce della pelle di suo marito le acquietò i nervi, ma non la rabbia e l'apprensione.
Era strano, ma il rapimento di Jacob era doloroso come lo strappo del suo stesso cuore dal petto.
Quanto amava Jabob!
La sua irriverenza, la sfacciataggine e la capacità di dire pane al pane e vino al vino, come solo i puri possono fare.
E di più, la risata semplice che riduceva le pietre in polvere fine; l'amava dal tempo delle sue estati a Forks, dalle torte di fango da bambini.
E ora l'amava ancora di più, perché non era solo il suo amico, ma anche il fratello e il figlio, l'ancora legata alla sua mortalità rinnegata, la sua eternità fatta carne.
- Bella, mia cara! Non ti ricordavo così aggressiva. - ammiccò, viscido, - Forte e determinata, ma non aggressiva! È una qualità che ti dona. - aggiunse, sollevandosi e compiendo alcuni passi verso i suoi ospiti. - L'immortalità ti dona! -
- Perché lo avete preso? Avevamo un patto. - intervenne Edward, stringendo ancora di più la mano di sua moglie.
- Un patto che voi per primi avete violato. - replicò, con la voce che si alterava ad ogni sillaba. - Vi avevo assicurato che non saremmo più intervenuti nelle vostre scelte, e così ho lasciato che fosse, ma non avrei mai potuto permettere che Renesmee divenisse altro da ciò che era, né che avrei approvato una tale unione! -
Gli occhi si incupirono, divennero così rossi da sembrare pozze di sangue vivo e la pelle ancora più bianca come cera.
- È inaccettabile, un aborto contro natura e in aggiunta il seme che ne è venuto è una pericolosa minaccia per la nostra esistenza. -
- Un bambino, un mortale, una minaccia per voi? - fu la volta di Carlise.
- Mio caro amico, quanto sono lontani i tempi in cui tu, mio discepolo, approvavi le mie scelte e le sostenevi, come ancora fanno i miei fratelli! Provo nostalgia e rimpianto per quegli anni solidali. - sospirò, con una smorfia di finta delusione.
- Furono anni di massacri, Aro. Anni di morte e dolore. Furono i giorni in cui credevo che potessimo nutrirci solo di carne e sangue e di un'umanità che noi avevamo perduto. - replicò, - Al contrario di te, non provo rimpianto per averti seguito, ma un rimorso insostenibile che neanche con l'eternità potrò risanare. -
- Oh! - esclamò, allargando le braccia verso l'alto con un gesto teatrale. - Povero angelo confinato all'Inferno! - lo schernì. - Tu ... - aggiunse, poi con la voce gelida e affilata, - Usa pure la tua eternità per espiare quelle che chiami colpe. Io la cavalcherò come il dio della morte e la difenderò da ogni minaccia, fino alla fine dei tempi. -
- Nessuno della mia famiglia sarà mai una minaccia per te, Aro. Te lo giuro! - cercò di persuaderlo, - Libera Jacob! -lo implorò.
- Il sangue di quell'animale è una minaccia, il potere di cambiare la propria natura e quella di una semidea in una semplice mortale, quella è una minaccia. - gli ringhiò contro imbestialito, - Il suo bambino è una minaccia! - aggiunse, voltandogli le spalle per ritornare sul suo trono.
Vi si settette, il lungo mantello adagiato ai suoi piedi e il capo ritto e fiero.
- L'unica possibilità di avere di nuovo libero quell'animale ... - terminò come un giudice dal suo scranno, - È che quel bambino non nasca! -

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Capitolo 13
*** Come se tu fossi qui ***


Come se tu fossi qui

Il battito leggermente accelerato del suo piccolo cuore portava un tempo musicale armonioso e rilassante.

Rimbombava nella cassa toracica, attraverso il sangue pulsante delle vene che le alimentavano il ventre e si espandeva ovattato, come onde sonore attraverso un liquido.

Era piena notte, forse, ma anche se fosse stato giorno fatto, non si sarebbe mosso da quella posizione, neanche per lo scoppio di una guerra mondiale.

Le dita sottili di lei si perdevano nei suoi capelli corti e nerissimi, ispidi come il pelo di un animale, mentre il respiro tranquillo e rilassato le faceva danzare il petto, che si alzava e abbassava come il mare sotto l'effetto della luna.

Dormivano sempre così, lei distesa in una massa aggrovigliata di lenzuola candide, lui accoccolato accanto con la guancia e con l'orecchio sul suo ventre, all'erta in attesa di un movimento improvviso, di un fruscio attraverso il quale sentire la vita del suo cucciolo crescere e fortificarsi prima della venuta al mondo.

- Jake? Adesso ti devi svegliare! - mormorò con un soffio di voce.

- No ... - mugolò il mezzo lupo, stringendo di più la presa delle proprie mani sui fianchi rotondi di Renesmee.

- Apri gli occhi, Jake! - insistette, strattonandolo leggermente per i capelli, perché l'ascoltasse. - Ce ne dobbiamo andare da qui, subito! - aggiunse con un tono di voce stridulo, quasi allarmato.

- Ness, ti prego ... - inspirò, strofinandosi gli occhi ancora chiusi.

- Tirati su, Jake, non abbiamo più tempo! -

 

Jacob spalancò gli occhi improvvisamente, sbatté più volte le palpebre pesanti, fino a che la vista non si stabilizzò alla luce fioca che lo avvolgeva.

Era ancora nella sua cella, sottoterra, lontano dal resto del mondo. Intorno a sé tutto era come prima che si addormentasse, buio, putrido e maleodorante, ma, nelle sue orecchie, la voce del sogno ancora danzava, come una piuma sulle note del vento.

Era la voce di Renesmee, dolce come il flauto di Pan, morbida e profumata, come pane fragrante.

Era la voce di casa, della sua vita che ancora aleggiava nei polmoni, come l'aria di salvezza per chi nuota in apnea che l'aveva chiamato nel torpore della prigionia, nella rassegnazione della propria impotenza.

L'aveva chiamato per scuoterlo, per rinvigorirlo, sostituendo alla forza del lupo quella del loro legame.

Il tempo di agire era arrivato, non poteva più stare così inerme ad aspettare che qualcuno lo salvasse.

Non sapeva quanto tempo fosse passato da quella notte nella radura, ma ormai era sicuro che i suoi fratelli e i Cullen avessero già intuito la sua sorte. Non poteva permettere che nessuno di loro si esponesse per la sua salvezza, tantomeno quella testa calda di sua moglie!

Buffo!

Renesmee era sempre stata tra i due la più assennata, anche quando era ancora una bambina. Ma nelle questioni di cuore, era come una miccia troppo corta, per avere il tempo di mettersi in salvo dopo essere stata accesa.

Aveva disobbedito a quel dinosauro di suo padre, lasciando Denali; aveva mentito per rifugiarsi nelle braccia dell'uomo che amava da sempre e certamente l'avrebbe fatto anche quella volta pur salvarlo.

Nonostante fosse ogni giorno più umana, più fragile ed esposta, non sarebbero bastati un branco di lupi e tutta la sua famiglia a tenerla lontana da Volterra.

Non poteva permetterlo, non l'avrebbe permesso mai, a costo di mordere e graffiare, di pregare, umiliarsi e dopo morire, pur di avere la certezza della salvezza di lei.

Anche se fosse morto per salvarla, sarebbe rimasto vivo comunque, nel suo cuore e nel suo ventre.

Ci voleva un piano, una strategia consistente, giacché la forza del lupo l'aveva abbandonato e poteva contare solo su sé stesso.

Ci voleva l'incoscienza di chi può affidarsi solo al proprio coraggio, la furia di un essere mortale che diventa eroe per salvarne un altro.

Quei bastardi dei suoi carcerieri si presentavano una sola volta al giorno, per portargli un rancio schifoso e puzzolente, un pezzo di pane e dell'acqua in una tazza di latta mezza incrostata.

Non gli aveva potuto vedere il colore degli occhi, a causa della semioscurità della cella, né era riuscito a distinguere il loro odore, ma l'istinto gli suggeriva che fossero due umani asserviti ai succhia sangue. Due umani enormi, con i muscoli potenti e forti come erano i suoi quando stava avviandosi alla sua prima trasformazione, ma pur sempre umani.

Atterrarli per rubare le chiavi era la sua unica possibilità di uscire dal quel sotterraneo. Una volta fuori di lì, avrebbe cercato una via di fuga verso l'esterno del palazzo e poi fuori dalle mura della città.

A come tornare a casa avrebbe pensato dopo.

Era un pessimo piano, un piano che faceva acqua da tutte le parti, ma al momento era l'unico che aveva, quindi se lo sarebbe fatto andare bene.

Si guardò intorno alla ricerca di qualunque cosa potesse sostituire un'arma.

Un'arma.

Detestava le armi, lo ripugnavano, erano il mezzo degli uomini per sopraffare gli altri uomini.
Meglio le mani nude o, nel suo caso, i denti. Ma in quelle circostanze, non poteva andare troppo per il sottile.

Lo sguardo si soffermò sulla tazza di latta che gli avevano portato con il cibo. Il manico, leggermente dissaldato, forse poteva fare al caso suo. Lo lavorò con le dita fino a che non riuscì a posizionare la parte libera e contundente in orizzontale, come la punta di un coltello.

Si rannicchiò sul pavimento, un braccio sotto la testa, le ginocchia sotto il mento e la sua arma improvvisata accanto al busto a portata di mano.

Socchiuse gli occhi e ispirò forte, per allentare la tensione dell'attesa.
Mancavano ancora diverse ore alla visita successiva, gli avrebbero fatto comodo per riposare e prepararsi alla libertà.

 

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Capitolo 14
*** Missione ***



La sera calava lenta e silenziosa, un'altra volta.

Spandeva le sue ombre sulle foglie e sull'erba del meraviglioso giardino di Esme.
Un'acquerugiola picchiettava sui fiori e sulle siepi esaltandone i colori, come tocchi di vernice su un'immensa tela.

Era rimasta rinchiusa, per l'intera giornata, nella stanza che era stata di suo padre, nell'attesa che Leah arrivasse. Aveva rimuginato sui brandelli di un piano sgangherato, cercando il modo di farlo andar giù anche alla lupa. Ma soprattutto aveva cercato le parole più adatte a convincerla che aiutarla in quell'impresa disperata fosse l'unica cosa da fare.

Sedeva a gambe incrociate, stretta nella felpa di Jacob sul grande letto disfatto, quando la porta si aprì alle sue spalle e la luce soffusa del corridoio squarciò la penombra del crepuscolo che penetrava dalle vetrate.

- Allora, principessa, a cosa devo l'invito? Non sarà per il thè, vero? - la canzonò, con il suo solito sarcasmo.

- Devi aiutarmi a riportare a casa Jacob. - le rispose, senza curarsi della sua battuta.

Conosceva Leah da che era nata. Di lei, nonostante le risposte acide e talvolta cattive, apprezzava, come in tutti gli altri lupi, la forza non comune, la lealtà incondizionata al branco, la dedizione totale alla sua missione di protezione e cura che la sua natura le aveva imposto.
Ma ciò che ammirava più di tutto era la sua unicità, era il suo essere donna in mezzo ad un mondo di maschi.

Leah era femmina in ogni gesto o azione che compiva, dai balzi aggraziati della lupa, alle movenze sinuose e sensuali della donna.
I suoi fratelli resistevano rapiti davanti al suo corpo lucido e tornito, agli occhi scintillanti ed indipendenti; si affidavano alle sue capacità in battaglia e a quell'indipendenza consapevole che la spingeva verso la decisione giusta ogni volta.
Leah era capace di fare ogni cosa con la naturalezza dei suoi fratelli, con la forza dei suoi fratelli, ma nella maniera speciale con cui le donne fanno le cose.

Di lei si fidava, come di Jacob.

Solo a lei poteva chiedere aiuto.

- Avrei preferito che fosse per il thè! - tergiversò, cercando di mascherare la sorpresa di quelle intenzioni.

Jacob diceva di Renesmee le cose più dolci e avvolgenti che si potessero immaginare di una donna.

La dipingeva come fuoco ardente che infiamma il cervello prima che le vene, nascosto in rivoli di acqua fresca.

Parole sdolcinate di un maschietto innamorato e in eterna tempesta ormonale, pensava.

Ma di una cosa era certa: Renesmee era nata per amare, e per amare Jacob, dunque la sua intenzione di partecipare alla liberazione di suo marito non era poi così inconcepibile.

- Dico sul serio, Leah ... -

- Anche io, Renesmee! Ci penseranno i tuoi genitori e Carlise a riportarlo a casa. -

- Lo credi davvero o stai cercando di tenermi buona? I miei non riusciranno a salvare Jacob, né ci riuscirebbero tutta la mia famiglia, gli altri clan o tutti i lupi insieme. I Volturi sono superiori per forza e ferocia ... in uno scontro frontale ci sbriciolerebbero come le pietre sotto una schiacciasassi! -

- Parla per te e per tutti i tuoi succhia sangue ... -

- Leah! -

- E d'accordo ... hai ragione, ma comunque non se ne parla, principessa. Tu rimani qui buona, fino a che i grandi non trovano il modo di ... -

- Ho bisogno di te! Solo tu puoi aiutarmi ... - la interruppe, puntandole addosso i suoi occhi seri e penetranti.

- Ma ti rendi conto di ciò che mi stai chiedendo? Se ti aiutassi tradirei la fiducia di mio fratello. Tu non sai ... non immagini nemmeno quanto tu sia importante, quanto tuo figlio sia importante! - cercò di dissuaderla, di farle comprenderle che, se pure comprensibile, la sua richiesta era assurda, inattuabile, ma soprattutto suicida. - Renesmee, Ness ... lo capisci che questo bambino non è soltanto il figlio di Jacob, è il simbolo di un'alleanza nuova, di un'era che tutti aspettavamo. -

- E tu lo capisci che se i Volturi usassero Jacob per qualche loro scopo, o se addirittura lo ... uccidessero ... - replicò con gli occhi pieni di lacrime amarissime, - Tutto, tutto ciò che abbiamo costruito: la pace, la collaborazione, il rispetto reciproco andrebbero distrutti, sparpagliati come polvere dal vento? -

Leah abbassò gli occhi davanti alle lacrime dell'altra e sentì un vuoto nello stomaco all'idea che Jacob potesse morire per mano di quelle bestie, come se un organo vitale, un osso, la pelle le fossero stati strappati, senza però squarciarle il petto.

Ciò che provava per ciascuno dei suoi fratelli era più che un amore, era un legame viscerale, totalizzante, che la sosteneva, le gonfiava i polmoni come aria. Dunque non poteva fare a meno di nessuno di loro, anche se talvolta quel laccio era una catena opprimente e fastidiosa.

Con Jacob poi quel laccio era ancora più stretto, più vincolante, anche se si rintuzzavano continuamente, come i bimbi che si fanno i dispetti. Forse era per la loro comune indipendenza, per la forza con cui rimanevano sé stessi, pur assecondando le leggi del branco, o forse soltanto perché si amavano e si leggevano nella testa, senza necessità di trasformarsi.

- E ... esattamente ... cosa pensi di fare? - cominciò, senza guardare Renesmee che continuava a fissarla sperando che cedesse.

La mezza vampira asciugò le guance col dorso della mano, nascondendo sotto le dita sottili e bianchissime anche un mezzo sorriso soddisfatto, intuendo che la fermezza della lupa cominciava a scricchiolare. Si alzò dal letto e Leah notò chiaramente nonostante la stoffa abbondante della felpa, il profilo tondo del ventre e pensò che quel bambino piccolissimo che ancora non conosceva la luce, era davvero il mondo nuovo che doveva essere preservato ad ogni costo. Ma era anche una fonte inesauribile di forza disperata, come quella di tutti gli esseri che anelano di vivere.

Continuò a fissarla mentre si avvicinava ad un cassetto del comò.

La vide estrarne una cartelletta di cuoio sbiadito e consumato i cui lembi erano legati da un cordino.

Sedette di nuovo e ne sparpagliò il contenuto sulle lenzuola.

- Queste sono le planimetrie del Palazzo dei Priori a Volterra. Le disegnò Carlise, quando lasciò l'Italia e quella vita di sangue e ferocia. - le spiegò, indicando una decina di fogli ingialliti su cui linee sbiadite si intersecavano. - Sono riportate anche le segrete medioevali, dove sicuramente tengono prigioniero Jacob. - continuò, puntando l'indice su uno in particolate che rappresentava la muratura spessa e i vani angusti e senza aperture tipiche dei sotterranei.

- Vuoi entrare lì dentro? - chiese incredula, - Ti sei forse dimenticata che sei più umana che vampira e che per di più sei incinta? - le fece notare.

- Proprio la mia natura in trasformazione mi permetterà di entrare senza che si accorgano di me. -

Leah la guardò, corrucciando la fronte, Renesmee era così sicura di quello che stava dicendo, da farle sembrare quel suo piano strampalato degno di una fuga da manuale.

- Ragiona ... - incalzò, per non darle il tempo di tirarsi indietro, - Il mio odore è cambiato: è sempre più umano, quindi si confonderà perfettamente con le decine di turisti che i Volturi attirano nel palazzo, con l'attrattiva della visita guidata. Una volta dentro, mi sarà facile raggiungere i sotterranei. -

- Brava Renesmee, che idea geniale hai avuto! - la irrise, - Pensi di uscire da lì indisturbata con la "puzza di cane" di Jacob che farà venire l'acquolina in bocca a tutti quei succhia sangue? - le fece notare.

Renesmee senza controbattere, indicò il disegno di un cunicolo che si apriva verso l'esterno sul retro del palazzo.

- E' un vecchio scivolo del carbone ed è adiacente ai locali dei sotterranei. Dalle indicazioni di Carlise sembra abbastanza grande da lasciar passare me e anche Jacob. Una volta fuori ... ci confonderemo in mezzo ai turisti, agli sbandieratori e ai balestrieri che inonderanno le piazze e i vicoli della vecchia città in occasione dell'annuale festa medioevale. - spiegò con un sorrisino furbo. - E fuori dalla città ... la mia complice starà pronta per portarci in salvo! - aggiunse ovvia.

Leah si indicò, portandosi al petto l'indice destro, e con una smorfia di sarcasmo, mugugnò: - Che dolce! Così Jacob non dovrà aspettare per scuoiarmi viva! - e, all'alzata di spalle di Renesmee, continuò: - Quando? -

- Adesso! Tutta la mia famiglia è a caccia, di sotto ci sono solo Jasper e Alice: mia zia non può prevedere le nostre intenzioni e nessuno dei due farà caso al mio odore che svanisce perché sarà coperto dal tuo. -

- Suppongo che se ti dicessi di no, troveresti comunque un modo per attuare questa specie di piano! - constatò sconfitta.

Renesmee esultò come una bimba davanti alle caramelle, per poi aggiungere: - Io scappo dalla finestra, tu esci dalla porta principale, dopo aver rassicurato Jasper e Alice che mi sono addormentata. - le ordinò, raggiungendo il bagno per cambiarsi e indossare qualcosa di comodo per la fuga. - Io ti aspetto alla riserva nella vecchia rimessa di Jake. - le fece l'occhiolino.

Anche la lupa si alzò, le rivolse le spalle avvicinandosi alla porta e con un sonoro sbuffo, commentò: - E io che credevo che fosse Jacob l'alfa! -

 

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Ben trovate!
Chiedo scusa per il ritardo, ma stavolta ho avuto problemi tecnici: il capitolo era pronto già da una settimana, ma nel pubblicarlo è andato perso!
Ho dovuto riscriverlo e non è stato facile perché avevo già in testa il successivo. Comunque, pazienza!
Spero che vi piaccia e che lo votiate e commentiate!
Un bacio.

 

 

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Capitolo 15
*** Eros e Thanatos ***


Eros e Thanatos



C'è un pesce africano, un astuto predatore, che giace su di un fianco, sul fondo sabbioso; finge di essere morto, irrigidendo totalmente il corpo per attrarre le prede.

Continua a rimanere immobile, anche quando esse cominciano a strappargli brandelli di carne, fino a che, ormai vicine e senza paura, le ghermisce con un guizzo improvviso e le divora.

Si immaginava così, Jacob, come un predatore che aspetta in silenzio l'istante propizio per sferrare l'attacco.

Giaceva disteso sulla pietra fredda e viscida della sua cella, paziente come non era mai stato; gli occhi vigili dietro le palpebre; il respiro regolare di chi dorme e nella testa i rintocchi dei minuti che lo separavano dalla più grande sfida che la vita gli avesse messo contro.

Non era più lupo, non aveva denti e zampe possenti, solo povere braccia fiaccate dalla prigionia, vene languide invase dai sedativi e come sola arma una vecchia tazza di metallo scrostato. Ma il cervello rimaneva vigile nella nebbia, deciso a trovare la via di uscita da quell'inferno in terra, deciso a riprendersi di nuovo dentro le braccia la donna che amava, a poggiarle ancora l'orecchio attento sul ventre per sentire il battito di due cuori, uno piccolo e veloce, l'altro lento e ritmato.

Chissà quanto era cresciuto quel ventre e quanto i fianchi; come erano diventati i suoi seni, pronti a nutrire la nuova esistenza che le scalpitava dentro affamata.

Ebbe voglia di lei, dei suoi seni, della carne, della bocca e di tutto il suo corpo nuovo e morbido attorcigliato attorno al proprio.

La desiderò come aria fresca del mattino, come respiro e acqua, cibo e sonno dopo aver patito. La desiderò come un condannato a morte, la vita.

Strinse i denti dietro le labbra screpolate e ispirò: il ricordo del suo odore, del colore fulvo dei capelli scarmigliati sul viso e la dolcezza nivea dell'incarnato lo riempì di una forza antica e sovrannaturale, sedata e maltrattata dalla prigionia, eppure ancora vivida e all'erta. Gli tese i muscoli, alleviò stanchezza e paura e, attraverso le vene, come sangue, raggiunse ogni spigolo del corpo.

Era nato per Renesmee, per amarla, per toccarla, baciarla ed entrarle dentro. Lo aveva stabilito il destino o l'imprinting o la loro natura o qualcuno che non tirava i dadi a caso, ma che giocava al posto degli uomini per mettere le cose ciascuna nell'ordine naturale dell'universo.

Era nato per dare la vita a quel bambino miracoloso, per sostenerlo in ogni suo passo e né i demoni della notte che lo imprigionavano, né qualunque altra beffa della vita gli avrebbero impedito di essere padre!

Il cigolio della grande porta di ferro che chiudeva il cunicolo delle segrete catturò la sua attenzione che, fino a quel momento, aveva indirizzato verso l'amore che lo teneva in vita.

Il momento stava arrivando.

Serrò gli occhi e strinse più forte la presa intorno alla sua arma di salvezza, pronto a scattare.

Era l'ora in cui i suoi due aguzzini gli portavano il cibo.
Uno entrò nella cella semi buia, lasciandosi la cancellata aperta alle spalle, mentre l'altro rimase nel corridoio. Il primo si chinò per lasciare sul pavimento la ciotola con la brodaglia scura e, quando fu di nuovo dritto di spalle, Jacob gli saltò al collo, i muscoli dell'avambraccio gli serrarono la gola, impedendogli di respirare, mentre gli infilava punta della vecchia tazza nel fianco destro.

Un lamento roco si diffuse nella stanza, come quello di una bestia ferita, mentre il metallo affondava in profondità e poi ne usciva, sfrangiando la pelle e le fasce muscolari, la carne e le arterie.

Solo quando la sua resistenza si affievolì fino ad estinguersi, Jacob allentò la stretta alla gola e l'uomo ricadde sulle proprie ginocchia e poi sul pavimento, con un tonfo sordo che richiamò l'attenzione dell'altro che fino a quel momento non si era accorto di nulla.

Fu soltanto un attimo, il tempo di un respiro.
Jacob gli si scagliò addosso, spingendolo contro il muro del corridoio.
La torcia che teneva in una mano roteò in aria, creando un gioco intermittente di luce e buio; il cranio dell'uomo batté sulla pietra viva, lasciandolo intontito e rendendo sconnesso ogni tentativo di divincolarsi.
Jacob gli tenne premuta la mano contro la faccia, con tutta la forza che gli arrivava dalla sua determinazione, e quando la capacità di respirare fu ridotta a un fiato, con una decisa pressione dell'arma, gli perforò il costato, facendolo crollare al suolo senza vita.

Jacob inspirò forte, allentò la presa delle dita intorno alla tazza, lasciandola cadere, e gettò la testa all'indietro; il tremore delle mani si attutiva man mano che i secondi passavano, ma il senso di nausea per l'odore del sangue dei soli esseri umani che avesse mai ucciso, gli inondava la bocca di un rigurgito acido.

Si piegò su sé stesso tentando di trattenerlo: non aveva né il tempo di sentirsi male, né quello di pentirsi.

Ad un tratto, non era più il subdolo predatore che inganna la preda, solo l'animale spaventato che con l'astuzia si salva la vita.
Ripeté nella testa, come un mantra incoraggiante, necessario a non cadere in ginocchio e mollare, che c'era una sola via per tornare a casa ed era macchiata di sangue.

Così, mettendo nell'angolo più lontano della coscienza rimorsi e indecisioni, frugò nelle tasche dell'uomo riverso nella pozza del suo stesso sangue, vi trovò le chiavi per uscire dai sotterranei e, con le mani sporche, i vestiti e la pelle imbrattati, si diresse verso l'uscita.

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Ben trovate!
Mi scuso per la mia prolungata assenza, ma ho avuto problemi tecnici.
Spero che quelle di voi che seguivano la storia non si siano stancate di aspettare e tornino a leggere.
spero nelle vostre recensioni.
Alla prossima


 

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Capitolo 16
*** Volterra A. D. 1398 ***


Volterra A. D. 1398


Il viaggio fu lungo, il primo viaggio in aereo della lupa, il primo viaggio in assoluto fuori dai confini della sua terra.
La stranezza del paesaggio, così dissimile dalla riserva, la grande città, l'aeroporto e la strada in macchina fino alla Val di Cecina, la fecero sentire fuori posto, un alieno atterrato su di un pianeta lontano.

Ma forse, tutto quel subbuglio non era causato dal viaggio o dalla distanza di quella terra; forse tutto appariva distorto per il motivo folle e pericoloso per il quale lo avevano intrapreso, per la paura di farsi più male di quanto il dolore fisico potesse fare, di perdere e fallire nel proprio intento, senza la possibilità alcuna di appello.

Al contrario, Renesmee sembrava perfettamente a proprio agio alla guida dell'auto sportiva fiammante che avevano noleggiato. I grandi occhiali scuri le coprivano gran parte del viso latteo, i capelli erano costretti in un tirato chignon e le mettevano in risalto la fronte ampia, il naso piccolo e le bellissime labbra carnose, rosa come i boccioli delle rose in maggio.

Ma le mani, strette saldamente intorno al volante, le dita lunghe, ancora più bianche sulle nocche, tradivano lo stesso terrore della lupa, la stessa paura di fallire.

Quando giunsero a Volterra, sotto le ultime luci di un sole morente, la città era in pieno tumulto.

Nel suo cuore medievale e pulsante, nel magnifico Parco di Castello, sotto la mole della Fortezza Medicea, austera come una madonna fiorentina, il centro storico della città si animava di un passato ancora vivo e palpitante, mentre turisti e visitatori venivano trasportati, come per magia, settecento anni indietro nel tempo.

Dall'alba al tramonto, ogni angolo della città era piombato nello scenario aspro e scarno del 1398: tra i mercati animati da artigiani, popolani e contadini, audaci cavalieri erti sui propri destrieri, nobili e dame esibivano abiti sontuosi e sbandieratori, balestrieri e soldati, giocolieri, musici e giullari facevano rivivere l'incanto del misterioso medioevo di Volterra.

Leah rimase con gli occhi sgranati e la bocca schiusa, come una bimba per la prima volta ammaliata dallo spettacolo del circo, mentre la folla variopinta e chiassosa le si agitava intorno.

Arrivarono alla piazza del Palazzo da una delle viuzze che le si aprono intorno, confuse in una fiumana di persone.
Si guadarono negli occhi per un solo momento, il tempo necessario a ripetere nella mente all'unisono il loro piano e a dirsi senza parole che ce l'avrebbero fatta, che dalla loro parte avevano la forza di legami indistruttibili, dell'amore incondizionato e dell'amicizia, e che per questo non avrebbero fallito.

Si strinsero forte in un abbraccio caldo e incoraggiante per entrambe, il primo vero contatto fisico che avevano da sempre, finché Renesmee non le diede le spalle incontro al suo piano.

La vide allontanarsi, confondersi in mezzo alla gente comune, lei che di comune non aveva avuto mai nulla da che era nata.
La guardò, fino a che il suo occhio attento riuscì ad arrivare, mentre spariva, contro corrente, tra le viuzze affollate e strette.

Fu solo allora che si pentì e si maledisse per aver accettato di farle da complice. Immaginò la voce imperiosa del suo alfa, imprecare contro di lei e la sua leggerezza; stringere i pugni fino ad ingrossare le vene, sotto la pelle scura, afferrarle la gola e mandarla all'inferno, per aver mancato all'obbligo di proteggere la sua vita.

Una serie di immagini torbide e angoscianti le agitarono il petto e il respiro: morte e sangue, ferite e lacrime, come torrenti, le ferirono il cuore, mentre si rendeva conto che per porre rimedio a ciò che aveva fatto non le rimanevano che le preghiere.
Allora pregò, nella sola maniera che conosceva, con rabbia disperata, con la lucida fierezza con cui aveva sempre chiesto.
Pregò il Creatore della Vita, i suoi antenati, i guerrieri che avevano difeso la sua gente e chiamò suo padre, che sentiva ancora dolorosamente a metà strada tra il cielo e la terra.
Renesmee doveva vivere e con lei Jacob e il loro bambino, perché i loro mondi soprannaturali e distinti potessero essere per sempre uno solo.
Dovevano vivere perché erano suo fratello e sua sorella, perché erano passato e futuro insieme.
E doveva nascere pure quel bambino, il figlio di suo fratello, l'unico figlio che forse avrebbe mai aveto lei.
Dovevano vivere tutti e basta e se le forze celesti che li avevano messi insieme se ne fossero infischiate, allora se ne sarebbe occupata lei stessa, senza pietà per nessuno, nemmeno per la propria vita.

Intanto si era fatto buio, mentre le grida e le risate dei turisti continuavano, ingnare di tutto quel tumulto interiore. Le strade erano illuminate da fioche torce alle mura delle costruzioni.

Tutto si confondeva nella poca luce, tutto si scioglieva alla propria vista, minata dalle lacrime.

 

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Capitolo 17
*** Le dita del diavolo ***


Le dita del diavolo


Girò la chiave nella toppa il più lentamente possibile, perché lo schiocco della mandata non facesse troppo rumore, ma non riuscì comunque ad impedire che il suono rintoccasse nel cunicolo per spandersi con la sua eco sinistra. Allo stesso modo, fu costretto a fermarsi al cigolio della porta, quando era ancora appena discosta al cardine.

Dall'esterno una luce molto forte gli ferì gli occhi, in quel chiarore artificiale riconobbe il corridoio che aveva attraversato qualche giorno prima per la sua "udienza" con Aro. Era l'unica via di uscita dai sotterranei, anche se con molte probabilità portava direttamente alla sala del trono, come l'aveva ribattezzata con scherno.

Per quanto si sforzasse, non ricordava eventuali diramazioni: l'ultima volta che lo aveva attraversato aveva il cervello troppo intorpidito dai sedativi che gli avevano tolto la lucidità e la forza del lupo.

Doveva arrangiarsi, affidarsi alla sorte, giacché non aveva più fiuto, né ricordi per uscire da quel labirinto putrido. Ma doveva anche mimetizzarsi più che poteva, poiché quei maledetti il suo odore lo avrebbero riconosciuto a miglia di distanza.

Sbuffò esasperato dall'ennesima falla che rallentava il suo piano e si morse l'interno della guancia, così forte che ne incise la carne, provocando la fuoriuscita di alcune gocce di sangue.

Il suo sapore ferruginoso gli invase la bocca, accendendo nel lavorio del cervello la luce della soluzione.

Risalirono a galla nella sua mente i racconti di Edward e Bella del giorno in cui erano stati entrambi al cospetto di Aro, quando il vampiro aveva cercato la morte, credendo morta la donna che amava più di sé stesso. Gli avevano raccontato che l'odore del sangue umano delle vittime dei Volturi, che entravano come ignari turisti nel Palazzo e divenivano il loro impietoso pasto, impregnava l'aria, le tende, gli arredi insieme a quello paralizzante della paura, dell'orrore della fine, dei denti e delle unghie.

Il sangue, il sangue ancora una volta sarebbe stata la soluzione!

Tornò sui suoi passi, fino all'ingresso della sua cella, dove i corpi dei suoi aguzzini giacevano inerti, si inginocchiò accanto ad uno di loro e immerse le mani nella pozza rossa che impregnava il pavimento.

Se ne cosparse il petto e le guance e poi strofinò i palmi sporchi sulle cosce. L'odore lo nauseò, come l'idea di aver fatto un bagno nella linfa di un uomo morto.

Ma, poiché anche questa sensazione di colpevolezza rischiava di diventare un impedimento pericoloso per la sua fuga, scrollò la testa e quel pensiero schizzò via nell'angolo remoto della coscienza dove ciascuno di noi relega i pensieri scomodi, e ritornò alla porta, la schiuse di nuovo e cominciò a percorrere il corridoio.

Un miscuglio di voci che parlava una lingua straniera, cominciò ad arrivargli alle orecchie, dapprima leggero e lontano, poi sempre più distinguibile.

Erano certamente i turisti di cui gli avevano parlato, il segno che forse era sulla strada giusta per uscire.

Sarebbe bastato ripercorre l'ampio corridoio controcorrente rispetto alla comitiva, sperando che nessuno dei succhia sangue della Guardia fosse nei paraggi a fiutare il suo odore.

Si nascose dietro una delle pesanti tende, drappeggiate davanti alle enormi vetrate ulteriormente schermate dagli scuri. La schiena aderente alla parete e il respiro ridotto allo stretto necessario a evitare l'asfissia.

Una lingua di adrenalina gli serpeggiava sottopelle, come una linfa vitale che raggiunge un centimetro alla volta gli organi, i tessuti, le cellule tutte del corpo e del cervello, accendendoli per lo sforzo finale. La gola era secca, come se avesse scordato di bere da ore, e la pelle tirava sotto la crosta delle scie di sangue di cui l'aveva imbrattata.

Le dita tremarono e la pelle si accapponò, quando le voci furono vicine.

I polmoni fermarono il proprio lavoro, centellinando le molecole d'aria al loro interno per l'apnea necessaria a mimetizzarsi completamente, quando il calore vivo dei corpi dei turisti gli passò davanti, con le voci entusiaste ed eccitate.

I denti strinsero il labbro inferiore con apprensione e impazienza, quando il vociare si allontanò gradualmente dalle sue orecchie, fino a esaurirsi del tutto.

Il respiro fluì lentissimo attraverso le narici, così come il sangue nelle vene che sembrava essersi coagulato nello spasmo dell'attesa, non appena si sentì al sicuro e pronto a riprendere la via di fuga.

Ci fu un solo, unico istante in cui tutto sembrò ricominciare daccapo, il respiro, la possibilità di salvezza, la forza che regala la ritrovata speranza.

Un unico, solo istante perché tutto, allo stesso modo svanisse, come vapore nell'aria.

Perché tutto si dissolvesse con la stessa veloce prepotenza con cui sembrava essere cominciato, quando dita fredde e morte gli strinsero il collo, come ganasce mortali.

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Capitolo 18
*** Immago ***


Immago



La comitiva procedette folta e chiassosa, concentrando occhi e attenzione ora agli arredi, ora ai fregi, ora alla voce della guida, che in un perfetto accento tedesco illustrava le attrattive del luogo.

Renesmee vi si era perfettamente confusa, quasi fosse una di loro, fingendo attenzione e interesse, come da copione.

In realtà, il suo intento era quello di scovare l'ingresso del cunicolo che portava ai sotterranei, come era indicato sulle planimetrie di Carlise.

Nella sua testa rimaneva, come in una fotografia, l'indicazione di una porta piuttosto piccola rispetto a tutte le altre che, imponenti, si aprivano sul corridoio.
Secondo gli appunti trafugati, avrebbe dovuto essere chiusa dall'esterno con una semplice serratura di cui il nonno aveva duplicato la chiave, insieme a tutte le altre della sua vecchia dimora.

Se avesse saputo che un centinaio di anni dopo sarebbero servite a sua nipote, più umana che vampira, per salvare un marito mutaforma!

Sorrise al pensiero, mentre stringeva il mazzo nella tasca e si attardava, fingendosi interessata all'enorme affresco sul soffitto.

La diramazione che portava ai sotterranei le si aprì sulla sinistra, mentre davanti, il corridoio proseguiva verso il salone principale.
Fece per prenderla, quando in un secondo, le narici e le orecchie registrarono un odore e un suono anomali, scartando, in una gincana dei sensi, quelli della comitiva che si allontanava.

Un respiro sottilissimo, quasi un anelito, e sangue, terra, muschio.

Il respiro le si incastrò in gola e le dita tremarono. Il ventre scalciò, come se quell'odore antico fosse penetrato per osmosi, attraverso la pelle, nel liquido amniotico.

Odore del lupo, odore di Jacob.
E al contempo, odore di morte.

Veniva da qualche punto davanti o dietro o tutt'intorno a lei. Stava nell'aria, sospeso, in attesa che lei lo riconoscesse, come un indizio, una traccia, un richiamo.

Si acquattò nell'angolo, con il naso ancora alla ricerca, benedicendo i suoi sensi ancora così straordinari, da mostrarle la via che conduceva a lui.

Camminò leggera, come i gatti in bilico sui cornicioni, mantenendo la distanza necessaria a non farsi scoprire; anche se il cuore pulsava rumoroso e velocissimo e il sangue sobbolliva, tanto da avvertirne ella stessa l'odore caldo, espandersi attraverso la pelle.

Il richiamo di quell'odore, come una scia di miele e spine, portava al punto in cui il corridoio sfociava nella grande sala di cui il nonno parlava nei suoi racconti degli anni del terrore.

Aro era assiso sul trono come un dio pagano, alle sue spalle i suoi fratelli e davanti a lui la sua guardia schierata.

Pochi passi davanti, ai suoi piedi, la schiena di Felix, ampia e robusta sotto il lungo mantello nero, il braccio destro sollevato e rigido.
Reggeva per la gola, sospeso in aria, come se non avesse peso, il corpo di un uomo, mezzo nudo e lacero.

Dal suo nascondiglio dietro i drappi purpurei delle tende, Renesmee non riusciva a distinguerne i tratti del viso. Ma l'ampiezza delle spalle e i muscoli tesi degli avambracci, che si serravano intorno alla stretta del vampiro; la lucentezza della pelle ambrata, nonostante la polvere e i grumi di sangue, definivano inequivocabilmente il corpo di Jacob.

Un capogiro le annebbiò la vista per un istante, adrenalina e sconforto velarono i suoi intenti e la sua fede incrollabile di riuscire.

Ad un cenno pacato e lento della mano di Aro, il gemello mollò la presa lasciando cadere in terra il mezzo lupo.
Il tonfo risuonò nel silenzio di tomba del salone, seguito da un breve lamento e da un sospiro strozzato.

- Tentava di fuggire, signore. - riferì il vampiro, con un'inflessione reverenziale nella voce.

- E perché mai? - replicò, Aro, la voce melliflua e gli occhi rossi e affilati come lame taglienti, - Non ti abbiamo, forse, trattato come un ospite gradito? - insistette, fintamente offeso.

- Fottiti! - replicò il ragazzo, sforzandosi di rimettersi in piedi.

Il vampiro sgranò gli occhi e si coprì la bocca, con le dita bianchissime e scheletriche, fingendosi scandalizzato.

- Non dovresti usare un simile linguaggio, non davanti alle signore. - lo rimproverò, per poi aggiungere: - Vieni avanti, mia cara. -

Jacob ruotò il busto verso il fondo del salone, avvolto in una penombra che non gli permetteva di distinguere oggetti o figure animate.

La mano, con cui massaggiava la gola sofferente per la stretta, si paralizzò all'istante, quando le movenze sinuose di Renesmee si fecero spazio tra i suoi sensi.

Un piede alla volta, un fianco dopo l'altro, entrò nel suo campo visivo, come una saetta attraverso il piombo del temporale. Poi comparvero la curva amorevole del ventre, i seni tondi e la lucentezza nivea della pelle, che le illuminò l'ovale del viso.

Fu allora, dopo giorni e dolore, che Jacob seppe di essere ancora vivo.

 

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Capitolo 19
*** 19 - Fragile e fiera ***


La visione di Renesmee procurò agli occhi di Jacob uno spasmo, come a chi non vede la luce da tempo e per questo non riesce più a sopportarla.
La sua bellezza, la sua presenza straordinaria lo feriva in quel momento funesto, come in tutti gli altri momenti della propria esistenza. Dal giorno che ella aveva aperto i propri occhi su quelli di Jacob, a soli pochi istanti di vita, l'amore che gli era nato in corpo era stato così forte e devastante, da aprirgli il petto in due, da spazzargli via dalla mente ogni altro valore. L'aveva svuotato e riempito in un solo sguardo ed egli si era trovato all'istante rinnovato senza scampo; si era scoperto tradito da tutte quelle vane certezze che la vita gli aveva propinato fino a quel momento, pieno solo di lei, della sua essenza magica e indispensabile.
In quell'ora di prigionia, l'incantesimo si ripeteva con la stessa potenza, con la cattiveria di un invasore, di un dominatore o di un dio pagano, che non ammette distrazioni alla propria devozione.
Perché l'amore che lo legava a lei era la salvezza dentro il tormento; la felicità dopo lo sgomento; l'esaltazione che si scioglie nella pace placida delle certezze.
La resurrezione e la vita eterna.
Un sorriso leggero, quasi impercettibile, si mosse sulle sue belle labbra brune; i tagli e le screpolature che le imbruttivano si attutirono sotto il riflesso della propria pienezza; le pupille si dilatarono, come quelle di un gatto nel buio, alla completa conquista di quella immagine.
Renesmee ricambiò con una dolcezza candida e avvolgente; con lo stesso squilibrio, come se, anche per lei, il buio avesse perso ogni potere, nell'istante in cui i loro sguardi si erano fusi. Ogni altro riverbero intorno si spense, illuminando ad uno la figura dell'altra, come fossero i due attori principali sulla ribalta.
Entrambi erano lì, vivi, determinati, di nuovo forti nella coscienza dell'altro; di nuovo aggrovigliati nei legacci imprescindibili del loro amore. Jacob sembrava una di quelle statue bronzee, annerite dall'aria e dal tempo, i ginocchi sul pavimento e il torso ruotato verso di lei, prostrato, ma fiero.
Era visibilmente provato, la pelle sporca, qualche tumefazione sparsa sul corpo e il collo livido e ancora segnato dalla stretta del vampiro.
Il lupo non c'era più: Renesmee comprese che per qualche strana ragione era scomparso e davanti a lei rimaneva solo un uomo, mortale e fragile, in balia di un assassino. Era lei, Renesmee, per la prima volta, la più forte: mezza mortale, mezza vampira, con la punta dei canini che premeva sulle labbra, il veleno che le risaliva acido per la gola e nel ventre l'ancora della sua umanità.
In tutta la sua vita, Jacob era stato il suo protettore, la roccia sicura a cui appigliarsi, la fune nella caduta; il suo salvatore, nei giochi spericolati di una bambina che non poteva ferirsi, nelle corse forsennate, nella caccia per i boschi; era stato fonte serena di pace quando il suo corpo e la sua mente crescevano in fretta e il mondo intorno rimaneva uguale; guida e conforto, forza e certezza in ogni scompiglio.
Era giunto però un momento che nessuno avrebbe mai creduto possibile: il giorno in cui Jacob, da protettore sarebbe diventato dono da proteggere.
Era giunto per Renesmee il giorno in cui avrebbe dedicato a lui tutta la sua forza e gli ultimi brandelli della sua immortalità, arrischiando il ventre pieno, davanti ai mostri sanguinari che un tempo le avevano fatto paura e dai quali era stata salvata.
Avanzò lentamente, con gli occhi sempre puntati in quelli di lui, con un desiderio di toccarlo e far passare attraverso le dita la rassicurazione che ce l'avrebbero fatta in un modo o in un altro; mai come in quel momento desiderò di poter mettere a frutto il proprio dono.
Non l'aveva mai usato con Jacob, non ne aveva mai avuto bisogno.
Tra loro c'era sempre stato come un filo invisibile e potente che ne intrecciava le menti e ne fondeva i cuori, tanto che i sentimenti dell'una attraversavano l'aria, come onde radio, ultrasuoni magnetici, e incontravano l'altro. Le parole poi erano la maggior parte delle volte chincaglieria, ornamenti superflui al collo di una bella donna. La sua famiglia se ne stupiva, giacché con loro usava continuamente sia l'uno, che le altre, mentre i lupi trovavano incredibile quella corrispondenza che non dipendeva affatto da una mente comune, ma soltanto dai sentimenti. Jacob e Renesmee, però, erano esseri straordinari, ciascuno nella propria natura e ancor più della comunione.
Come poteva il resto del mondo comprendere una simile rarità? Come gli estranei avrebbero potuto accettare ciò che prevarica l'ordinario assetto delle cose comuni, soprannaturali o umane che fossero, se neanche coloro che più li avevano sotto gli occhi riuscivano a spiegarselo? Le loro famiglie alla fine l'avevano accettato, ma era stato solo un puro, grande gesto d'amore. Del resto cosa ci permette di accettare l'incomprensibile e il diverso, se non l'amore?
- La tua bellezza è diventata disarmante, mia piccola cara. - si complimentò Aro, avvicinandosi. - Il giorno che ti vidi sulla spianata bianca della radura, la pelle nivea e il rame nei tuoi capelli ... - aggiunse, fermandosi a soli pochi centimetri da lei, - ... fui abbagliato. Ma ora, nella tua piena maturità, mi appari come l'incanto dell'universo! -
Un piccolo ringhio di animale venne su per la gola di Jacob, nel constatare che la distanza tra Renesmee e il vampiro diminuiva ad ogni suo passo.
Tutta la forza sovrannaturale in lui era sopita, ma non l'istinto di protezione e il senso di appartenenza.
Arò sogghignò, come farebbe un gigante davanti ai pugni stretti di un bambino, e ancor più serafico continuò ad osservarla, girandole intorno.
- Sì! - confermò, quando il giro fu completo, - L'incanto dell'universo! -
- Le tue parole mi lusingano, Aro, ma non mi confondono: tu sai perché sono qui! -
- Oh, mia dolce bambina! - replicò allungando la punta delle dita sui riccioli fiammeggianti, - Ho già dato la mia risposta alla tua famiglia, neanche la tua bellezza divina potrebbe cambiare la fede incrollabile delle mie convinzioni. -
- Ti prego ... permettimi di riportare a casa ... - fece per insistere, sebbene il gelo di quel tocco si arrampicasse lungo i nervi di tutto il corpo, paralizzandolo.
- ... Il tuo cane da guardia? - la anticipò con scherno, - Perché non è altro che questo: un animale presuntuoso che si crede all'altezza degli dei! -
- E' mio marito, l'uomo che amo, il padre di mio figlio, la mia vita stessa! - lo corresse, gli occhi scintillanti di fierezza e il battito del cuore rinvigorito dalle sue stesse parole.
- Voi Cullen e la vostra inconcepibile, assurda smania di vivere con degli esseri inferiori! Prima gli uomini, ora anche le bestie! - sbottò, in un crescendo di rabbia. - Tuo nonno vi ha infettati tutti con questa fame di uguaglianza! - aggiunse quasi desolato. - Ma non vedete che noi siamo diversi, più grandi e potenti? Che siamo liberi dalla sofferenza, dal dolore e dalla perdita? Che dominiamo il tempo, perpetuiamo la vita e beffiamo la morte, che non abbiamo limiti? Non vedete, stolti, che noi siamo gli dei! -
- Non c'è nulla di divino nell'imporre le proprie scelte agli altri, nel cibarsi delle debolezze degli uomini o nello schernirsi dei loro limiti mortali. Anzi, proprio nella vostra intransigenza sta il vostro limite invalicabile! -
- Che illusione puerile! Che vaneggiamenti. Mi apparite come quei nobili che di tanto in tanto pur di provare l'ebbrezza della diversità, non disdegnavano di travestirsi da ignobili popolani e vivevano sul fondo, prima di ritornare alla luce. -riflettette quasi tra sé, - Perché rifiutate la vostra vera natura? Voi siete uguali noi, mia piccola Renesmee. -
- Ti sbagli, Aro: non vi assomigliamo e non rifiutiamo la nostra natura. Ne assecondiamo una più grande e più pulita: noi amiamo la fragilità della vita, la sua inevitabile fine; amiamo le lacrime che essa ci procura e i dolori e la perdita. Desideriamo farci straziare dalle sue infinite dolcezze, dalle infezioni dei sentimenti, poiché sono esse che ci tengono in vita, come le scariche elettriche nei fili di rame. E questo ci rende più grandi di voi, più grandi degli dei, ci rende uomini! - terminò con la foga che metteva nell'amore per gli altri, con la ferma fierezza della sua fragilità.
Jacob gonfiò il petto orgoglioso: quella era la sua donna e il destino aveva scelto bene per lui. La guardò con tutta l'intensità di cui erano capaci i suoi occhi e il filo invisibile che li univa strinse l'ennesimo nodo.
- E sia! - sentenziò il vampiro, - Siete una spina nel fianco ... - aggiunse sconfitto, - Vuoi bere fango per acqua di fonte? Concesso! -
Gli occhi di tutti i presenti strabuzzarono per quella incredibile resa, ma una serpe di dubbio strisciò sotto la pelle di Renesmee.
- Ma ... - riprese, raggelando il sangue dei vivi. - Ma, non accetterò mai che nel tuo ventre cresca l'antidoto alla mia immortalità! -
Con un balzo, Jacob le fu accanto con un'agilità dimenticata; le vene del collo si gonfiarono e strane fiamme cominciarono a bruciarlo dall'interno.
Quella vecchia sensazione animale tornò a scoppiargli nel petto, spezzandogli il fiato.
Rispose ringhiando, come i lupi che difendono i cuccioli, pronto a sbranare, a stracciare le carni di chi li minaccia, ma un dolore lancinante gli stritolò il petto e gli esplose in mille schegge nel cervello, prima che tutto divenisse rivoluzione.
 
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Ben trovate!
Come avevo promesso, ho finalmente aggiornato.
Mi scuso per avervi fatto aspettare, ma davvero non sono riuscita a farlo prima.
Spero che questa lunga pausa non vi abbia fatto perdere interesse nella storia e aspetto un vostro commento!
A tutte un bacio!

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