I ragazzi del Social Detoxification Center

di Madam Morgana
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01 ***
Capitolo 2: *** 02 ***
Capitolo 3: *** 03 ***
Capitolo 4: *** 04 ***
Capitolo 5: *** 05 ***



Capitolo 1
*** 01 ***


 
 
1.



Si guarda allo specchio, con la consapevolezza che, ormai, è cresciuta.
E n'è passata di acqua, sotto i ponti, forse così tanta che ha allagato la sua intera vita, ma lei ha sempre continuato a credere, sperare, convincersi che il futuro poteva cambiarlo. Il suo futuro, poteva essere cambiato, se solo avesse creduto in se stessa.
E lo pensava a dieci anni, continuava a pensarlo a sedici, a diciotto, ed ora che ha la bellezza di ventitré anni, continua a pensarlo.
C'è che la vita o la modelli a tuo piacimento, o prenderà una piega sbagliata, e lei di certo ha scelto la seconda opzione. Non ha mai voluto, né pensato, che la vita le fosse stata modellata da qualche altro, e le sue azioni, i suoi pensieri, le sue determinazioni se l'è sempre imposta solo lei, perché forse cambiare per piacere agli altri, era sbagliato, ma credere in se stessi, quello si che era giusto.
E lo pensava prima, ma lo pensa anche adesso, Penelope, quando – ancora con i ricci biondo grano sparpagliati in aria, o pronti ad incorniciare il suo viso pallido – insistentemente, fissa la sua immagine riflessa sul vetro.
C'è che adesso è felice, del traguardo raggiunto, c'è che, adesso, lei è la dottoressa Penelope James, quello che desiderava di essere da sempre, sin da quando ne ha memoria.
E va bene così, perché non sostituirebbe la sua vita, il suo cammino, il suo traguardo, con nessun'altra cosa al mondo. E' felice, e questo a lei va più che bene.
Smette di fissarsi allo specchio solo quando, l'enorme orologio di legno a cucù affisso alla parete bianco sporco, segna le nove del mattino.
Sgrana gli occhi, 'ché forse ha già perso abbastanza tempo a rimuginare sul passato e su quanto sia perfetta la sua vita, ed affonda le mani tra i capelli lucenti.
Non può arrivare tardi.
Non può arrivare tardi il primo giorno di lavoro!
Afferra la vestaglia bianca, se la infila e poi corre di sotto, maledicendo i diciassette scalini che la separano dalla cucina.
E quando fa il suo ingresso, di gran carriera, Andrea, sua madre, sorride. C'è che conosce Penelope, sa quanto tiene all'ordine, alla puntualità e tutto, ma la prima a non rispettare quelle cose, è proprio lei.
Lascia, dunque, scivolare due pancake sul piatto che poi para davanti alla figlia, mentre questa cerca di riordinare la zazzera bionda, quel giorno indomabile e simile alla cresta di un leone.
«Mamma, cosa devo mettermi? Devo presentarmi a lavoro tra un'ora, e devo prendere la metro, devo passare dal giornalaio a ritirare la tua rivista, e poi prendere i ragazzi della signora Adelaide a scuola, poi ho detto al signor Barnaby che sarei passata per aiutarlo a potare le sue piante e – » ma Andrea scuote il capo, alza le mani in segno di resa e si siede, 'chè per i suoi gusti, Penelope sta già parlando troppo.
«Tesoro, sono le nove del mattino, a stento ricordo il mio nome, credi forse che saprei rispondere all'interrogatorio? E poi, sta' tranquilla, andrà bene, non penserai mica che ti lasceranno lavorare da sola, sei ancora una principiante, diciamo. Per tutto il resto, ci penso io, che tu di pensieri ne hai già troppi» dice, trangugiando l'ennesimo pezzetto di pancake.
Penelope cerca di rilassarsi, poggiando la schiena sul legno color ciliegio della sedia. I piedi che penzolano prima avanti, poi indietro, mentre sfiletta il pancake che, sua madre, le ha preparato.
C'è ch'è troppo ansiosa, euforica e sì, impaurita, non riuscirebbe a mandar giù nemmeno un pezzetto di quella delizia.
E pensare che, tecnicamente, adora i pancake.
Ed Andrea lo capisce, sospira, poggia una mano sul braccio della figlia e sorride, «Andrà bene, vedrai» mormora, perché riconosce che, sì, Penelope ha bisogno di sostegno.
Questi si morde l'interno guancia con fare nervoso, mentre lo sguardo vitreo si posa sulla figura sfocata del piattino, «Vorrei che papà fosse qui.»
«Tuo padre sarebbe orgoglioso della tua scelta, di quello che sei diventata, e delle persone che sarai in grado di aiutare. Non rimproverarti Penny, devi solo credere in te stessa» e lei annuisce, sorride e caccia via le lacrime.
Nonostante il sostegno di sua madre, Penelope non riesce a non pensare a quanto sarebbe felice se Stewart, suo padre, fosse lì.
Partito in guerra nelle terre straniere, non lo vede dal Natale di due anni fa. Si sentono solo tramite lettere, e per quanto possa amare la scrittura, lei, capisce che non è lo stesso.
Stringe i pugni, fino a far sbiancare le nocche, ingoia il malloppo pungente che le impedisce di respirare e poi annuisce con fare di chi si è rassegnato.
«Ora sei la dottoressa James, tesoro» continua sua madre, e quell'affermazione riesce a metterla di buonumore.
Ha lavorato tanto, per diventare dottoressa, per aiutare le persone bisognose, sia fisicamente che mentalmente, e lo ricorda, quante volte suo padre le diceva che, sì, poteva farcela.
E' stato lui a comprarle i primi libri universitari, un regalo di compleanno alla mia futura dottoressa, le aveva detto.
E lei aveva sorriso perché suo padre, come lei, credeva nei sogni.
Era meraviglioso Stewart, e lo è anche adesso, per Penelope, nonostante abbia dimenticato la sua voce, ma non il suo sorriso.
«Sarà meglio che vada, mamma. Devo prendere la metro» sentenzia, sta per alzarsi e cercare le ballerine, quando sua madre scoppia a ridere.
«Non vorrai andare in camicia da notte, Penelope» ed in effetti lo aveva dimenticato, lei, di vestirsi.
Sorride, guardandosi allo specchio dell'atrio, sbuffa e poi fila dritta in camera sua, afferrando le ballerine bianche, per andare a vestirsi.
Decide di indossare capi freschi, limpidi, perché vuole dare una buona impressione ai ragazzi del centro. Sa che saranno certamente tipi difficili, schivi, senza speranze e tante altre cose negative, e dunque pensa sia giusto donare un po' di positività. I fiori, ad esempio, a lei mettono allegria e positività, ecco perché indossa una maglia dalle maniche a palloncino, a fantasia floreale. Poi una gonna rosa che le cade fino alle ginocchia, le ballerine ed infine pettina la chioma per domarla.
Non si trucca, Penelope, perché crede che coprire la bellezza naturale con ceroni tossici non sia un bene, la gente deve apprezzarsi per quello che è, non per quello che diventa grazie ai cosmetici.
E dopo essersi ripassata il medesimo motto, percorre nuovamente le scale, saluta sua madre e si catapulta fuori, nella caotica Sydney.
Tra il vociferare dei passanti ed i rumori assordanti dei clacson, si avvia verso la fermata della metro, quando qualcuno le suona dietro.
Si volta, sorride ed agita la mano in segno di saluto.
Ashton Irwin, abbassa il finestrino, sfila gli occhiali e sfoggia uno dei suoi meravigliosi sorrisi che incavano alla perfezione quelle fossette preziose.
«Penny, dove vai?» chiede, senza smettere di guardarla.
Conosce Penelope dai tempi del college, e sono sempre stati grandi amici, senza contare che la famiglia Jamese quella Irwin abitano quasi vicino.
«Sto andando a lavoro,» spiega lei, stringendosi nelle spalle.
«Vieni dai, ti do uno strappo» gli occhi di Penelope si accendono , esulta interiormente e poi si avvicina all'auto dell'amico, apre la portiera e salta su.
Ashton mette nuovamente in moto, non prima di averle schioccato un bacio sulla gota rosata, poi torna a guardare la strada davanti a lui, «Dove lavori, Penny?» domanda. Perché non si sentono da un bel po', considerando gli impegni del ragazzo, e non ha più saputo che strada ha intrapreso lei.
«Al centro di Melbourne, oggi è il mio primo giorno» spiega, quasi con un filo di orgoglio in quella voce così sottile.
Ashton sgrana gli occhi, non ci può credere.
L'ultima volta che hanno parlato del loro futuro, lo ricorda ancora. Penelope voleva aiutare la gente, a migliorare la vita di chi, non era stato fortunato come lei. Ma erano solo sogni di ragazzini, e non credeva lei potesse riuscirci. Sentire, invece, il contrario, lo entusiasma e sorprende allo stesso modo.
«Davvero? E' fantastico Penny! Non pensavo che – » Penny lo blocca, fissa il paesaggio che scorre veloce, dal finestrino, e sistema alcune pieghe formatosi sulla gonna rosata.
«Che ci riuscissi? Beh, ce l'ho fatta» e poi lo guarda, perché finalmente può dire che, sì, è riuscita a coronare il suo sogno.
«Penny, è meraviglioso, sono davvero felice. Però non voglio scoraggiarti, ho sentito dire che i ragazzi del Social Detoxification Center non sono tipi da sottovalutare» e stringe i pugni nel manubrio con fare di chi, sul serio, un po' ha timore.
Lui, personalmente, non si recherebbe mai in quel postaccio caratterizzato da un edificio decaduto, aiuole sottoposte ad atti vandalici, muri scritti, e quant'altro. C'è che il Social Detoxification non è mai stato ristrutturato, perché sarebbe inutile farlo. I ragazzi tornerebbero a distruggerlo, e non ci sono abbastanza fondi per sistemarlo nuovamente, poi.
«Starò attenta» lo rimbecca, sperando che lui – almeno a quello – ci creda.
Poi cambiano discorso, o almeno Penelope cerca di farlo, perché non vuole far preoccupare ulteriormente il suo amico, sa bene che con Leslie non vanno bene le cose, e di problemi lui già ha abbastanza. Aggiungergliene uno in più, peggiorerebbe solo la cosa.
«Comunque dovremmo vederci più spesso, ormai ci sentiamo poche volte» ed Ashton la pensa come lei. Annuisce mentre attende il verde del semaforo, picchiettando le dita sul volante.
«Lo penso anche io, magari un giorno di questi potremmo organizzare una serata insieme, che ne pensi?» chiede, ma lei scuote il capo perché non vuole interferire nella sua relazione. Conosce Leslie, sa quanto possa essere gelosa di Ashton e di certo l'uscita con una cara e vecchia amica, peggiorerebbe tutto quanto.
«Non credo che a Leslie farebbe piacere» e lo dice a denti stretti, con l'amarezza in bocca. Perché da quando Leslie ed Ashton formano una coppia, il tempo a disposizione per loro, si è dimezzato.
«Non m'importa, non posso permetterle di separarmi anche dalla mia più cara amica. Vedrò quello che posso fare» e Penelope lo abbraccia, così forte che spera di non fare male a quell'omone del suo amico.
E tutto mentre guida, poi! Che ragazzina sprovveduta!
Poi si fermano, perché sono arrivati.
In lontananza, maestoso e temerario, s'innalza l'imponente centro.
«Credo che siamo arrivati» sussurra Ashton, con un velo di sgomento. C'è che lui se la darebbe a gambe anche subito, ma non vuole che la sua amica lo veda come un cagasotto.
E poi è lì che lei lavorerà, da oggi in poi, e che a lui piaccia o no, non può cambiare le scelte di lei.
Penelope scende dall'auto, chiudendosi la portiera con delicatezza, poi fa cenno ad Ashton di andare,e questi la saluta cordiale, sfrecciando via.
Ora è sola, Penelope, mentre osserva il tenebroso edificio.
E' sola con il suo futuro, con le sue scelte, con quello che da bambina voleva fare e che, adesso, è riuscita a diventare.
Avanza silenziosamente, perdendosi ad osservare il degrado del posto. Aiuole distrutte, X rosse in ogni albero, nastri rossi e bianchi che vietano l'accesso in parecchie aree.
E' il decadimento, quel posto, e per un attimo Penelope si è chiesta cosa ci faccia lì, ma la risposta l'ha subito trovata.
C'è che le persone non sono sempre fortunate come lei, nata e cresciuta con principi e morali che l'anno messa su con grazia e positività. Genitori affabili, amici straordinari.
C'è che non tutti sono cresciuti così, e lei vuole solo donare un po' di felicità ed aiutare gente che, nonostante tutto, non ammetterebbe mai di aver bisogno di aiuto.
Ora vicina alla costruzione, sale i primi due scalini vecchi e sporchi, mentre sente una leggera folata di terrore che le carezza la spina dorsale, poi il terzo e il quarto scalino, quinto, sesto, settimo, e poi eccola, davanti alla porta scarabocchiata.
Sbatte gli anelli color oro sulla porta, mentre si guarda intorno.
L'attesa non è tanta, per fortuna. Ad aprirle è una signora di mezz'età, con i capelli nocciola raccolti in uno chignon disordinato «Sì?» gracchia, mentre fa scivolare di poco gli occhiali sul suo naso aquilino.
«Sono la dottoressa James» spiega, mentre continua a stringersi nelle spalle. Deva ammetterlo, quella donna così vecchia e pallida le incute terrore. Somiglia più ad un fantasma che ad un essere umano, senza contare che la sua pelle cerea è caratterizzata da delle grinze orribili.
La signora si sposta, permettendo a Penelope di entrare, «Mi segua.»
I tacchi di entrambe sbattono sul pavimento grigio, ed è l'unico suono in grado di spezzare il silenzio.
Perché nessuno parla, né la donna pallida né Penelope, che ha deciso di adottare il silenzio.
Stringe il manico della borsa con fare nervoso, mentre sente il cuore in gola. Durante il tragitto che la sta portando in un posto sconosciuto, si permette di osservare i quadri, anch'essi vittime di atti vandalici. Ogni cosa, in quel posto, è deteriorata, spenta, vuota, corrosa dal tempo. Ed è ingiusto, secondo lei, che comunque non ha voce in capitolo. Perché se il centro fosse lustrato e tirato a dovere, sarebbe meraviglioso.
«Ma ch'è successo qui? Perché questo posto è così?» sussurra, 'ché non riesce più a starsene in silenzio.
La donna dalle grinze orrende non parla, scrolla le spalle e continua la marcia tenebrosa verso un luogo sconosciuto.
Si fermano solo davanti ad una porta nera, la donna picchia le sue mani ossute su di essa, e poi lascia Penelope da sola, senza più parlare.
E quando finalmente la porta viene aperta, un omone panciuto l'accoglie, sorridendole cordiale.
«Benvenuta, dottoressa James, la stavo aspettando» continua, invitandola a sedersi di fronte a lui. E lei lo fa, si accomoda sistemando la gonna, e mandando dietro ad un orecchio una ciocca di capelli color grano. «Sono lieto che abbia accettato l'invito a lavorare qui, dottoressa – espone l'uomo, porgendo poi la mano – io sono Frank Fallowey, direttore del centro» Penelope gli stringe la mano, avverte una stretta ferrea caratterizzata da pelle sudaticcia.
«Perché questo posto è così, signor Fallowey?» domanda. Ha constatato da se che qualcosa non va, in quel posto, e sicuramente se dovrà lavorarci per anni, giorni o mesi, deve conoscere la storia.
Dal canto di Fallowey non c'è poi nessun ripensamento, e tranquillamente delucida la questione, «Il centro non era così, dottoressa James, ma è andato in malora a causa dei ragazzi. In questo centro nessuno vuole più lavorarci, e mi rammarica dirlo perché, seriamente, era il centro migliore di Melbourne. Ma quando sono arrivati ragazzi difficili, hanno... come dire, deteriorato il posto. E parlerò con la verità, dottoressa, non ci sono abbastanza fondi per tirarlo su a nuovo, senza contare che sarebbe nuovamente reduce di altri atti vandalici. Tanto vale lasciarlo così, fin quando non cadrà a pezzi» e le parole dei direttore feriscono Penelope e la sua positività, sembra un po' tornare con i piedi per terra, ma ciò non la persuade dal cambiare idea.
Lei è lì per migliorare la vita delle persone, a prescindere dal posto.
«Da dove comincio, signor Fallowey?» assottiglia lo sguardo, incrocia le braccia al petto ed è pronta a vincere contro tutti, come fosse una nuova sfida a se stessa, quel lavoro.
«Le mostro l'edificio, credo sia meglio» entrambi si alzano, abbandonano la stanza del direttore e percorrono una rampa di scale decadente e scricchiolante che li conduce al piano superiore, dove una sfilza di porte tutte uguali invadono il campo visivo della ragazza.
Fallowey ne addita qualcuna con fare distratto, «Questa è l'ala ovest dell'edificio. Qui ci sono i casi meno critici, diciamo che hanno solo fatto qualche bravata, o rubato, è un po' come un piccolo riformatorio quest'ala. Nulla di che» conclude, trascinandosela dall'altra parte del corridoio, dove nuove stanze dalla medesima porta continuano ad invaderle il campo visivo. L'unica cosa a differenziarle da quelle precedenti è il colore della vernice con cui sono state dipinte. Le prime azzurre, queste rosse «Nell'ala est ci sono i cleptomani, e gli alcolisti. Nella fascia di quest'ultimi c'è né uno con cui dovrà lavorare specialmente, è un ragazzo difficile ma sono certo che con il suo aiuto potrebbe salvarsi, scampare alla vita caratterizzata da alcool, capisce, dottoressa?»
E lei annuisce, del resto è lì per quello, «Sì, capisco perfettamente.»
Poi scendono le scale, attraversano una stanza immensa e subito dopo salgono un'altra rampa, distante dalle alee precedenti.
Sembra isolata quella zona, come se non volessero mischiare quella precedente a questa.
E Penelope la nota, la differenza. Nota come le porte non siano colorate, di colori pressoché accesi, ma interamente dipinte di nero.
Fallowey sospira, nasconde le mani grasse dentro le tasche del giubbino smanicato e scuote il capo, «L'ala nord è la peggiore, dottoressa, non credo possa fare qualcosa per loro» anche il tono di voce del direttore cambia, oltre all'espressione corrucciata.
E lei non capisce. «Chi ci sono, nell'ala nord, signore?»
«Chi, ormai, di speranza non ne ha più. Chi è giunto al capolinea, dottoressa James, chi vuole solo distruggere la vita degli altri, perché la loro è già stata distrutta» Penelope indietreggia, perché quell'affermazione un po' la mette in soggezione.
Il rimbombo dei tacchi arriva alle sue orecchie come un frastuono lontano, ovattato dalle parole del direttore. «Chi sono, loro?»
«Chi fa uso di droghe, e mi creda, chi c'è dietro quelle porte non è mai stato in grado di domarlo alcun dottore. Sono loro i peggiori, chi ha distrutto l'intero centro. Ma credo che non servirà sapere ulteriori cose, su di loro, li teniamo nella sezione nord perché nessuno può più aiutarli. Potremmo cacciarli, vero, ma non hanno un posto dove andare e poi persino noi, un po', li temiamo. Venga con me, adesso, le do gli incarichi da fare» e mentre scendono le scale, Penelope si volta dietro per dare una rapida occhiata alle porte nere.
E giura di averne sentita una socchiudersi piano, con un cigolio raccapricciante che le ha gelato il sangue.
Qualcuno li aveva ascoltati.



 
BUUUUUH


Sono matta da legare, lo so, ma tecnicamente non faccio altro che pensare a questa storia, ultimamente.
Non so se proseguirà, ma la cosa di cui sono certa è che mi sta prendendo tantissimo. Spero solo che
voi possiate apprezzare, perché, credetemi, metto sempre anima, corpo, sudore, e mal di testa quando
posto qualcosa di nuovo. Senza contare che sono sempre molto scettica. Mi auguro vivamente che voi
vogliate seguirmi anche in quest'altro cammino che sto intraprendendo. Ho deciso di trattare - o almeno
ci proverò, insomma - alcune tematiche delicate. Perché purtroppo la vita non è sempre rosa e fiori, è
giusto rendere le storie anche veritiere, secondo me. Dunque cosa ne pensate di questo primo capitolo?
Vi prende? Vi piace? Come vi sembra la dottoressa James? Io personalmente l'adoro ç___ç
E secondo voi chi si nasconde dietro le porte nere? Fatemelo sapere, ci tengo tanto ai vostri pareri.
Vi lascio con un grandissimo bacione.


Madam Morgana.

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Capitolo 2
*** 02 ***


 
2.


 
Penelope sbuffa, mentre mordicchia una matita. Fissa il foglio che ha davanti con fare assente.
Il signor Fallowey le ha dato un test da fare, prima di cominciare a lavorare con i ragazzi. Lei ha sempre odiato i test a sorpresa, anche quando frequentava l'università. C'è che Penelope James odia l'inaspettato, 'ché la sua vita è sempre stata organizzata, seguendo schemi di cui lei stessa è l'artefice.
E non sapeva di dover fronteggiare con un test, nonostante le domande siano abbastanza semplici. Insomma, a che serve un test? Lei è una dottoressa, ormai. Okay forse una novellina, ma pur sempre dottoressa rimane.
Il direttore l'ha lasciata da sola, così ti concentri meglio, le ha detto.
Decide, dunque, di cominciare a rispondere, mentre nota la semplicità delle domande.
Con una calligrafia ordinata e tondeggiante, ha quasi terminato la prima risposta quando, un cigolio proveniente dalla porta, la costringe a voltarsi.
La matita cade sul foglio, la punta si spezza «Chi c'è?» il tono di voce leggermente alterato. Deglutisce con fare nervoso, alzandosi poi dalla sedia.
Il rumore dei tacchi spezza il silenzio, afferra la borsetta e si guarda intorno. Male che vada, se qualcuno decidesse di farle qualcosa, può sempre prenderlo a colpi di borsetta in faccia. E non ha mai pensato quelle cose, lei, ma non nasconde che il Detoxification è un brutto posto, forse Ashton aveva ragione.
«Sono la dottoressa James» continua, nonostante trovi ridicolo parlare ad alta voce e pure da sola.
Ed il respiro si blocca nel momento in cui avverte una risata accennata, quasi lontana. Nota un leggero movimento della porta, ed allora si affretta a raggiungerla.
Esitante, poggia una mano sulla maniglia; il cuore corre all'impazzata sbattendo freneticamente contro la gabbia toracica, le labbra secche, la paura a mille, e – quando finalmente si decide ad aprire la porta – caccia un urlo liberatorio.
«Dottoressa James, ma cosa sta facendo?» Fallowey la fissa sbalordito, non del tutto certo che la ragazza sia in se.
Questa indietreggia, con occhi lucidi fissa il direttore, poi cade all'indietro, assicurandosi che la sedia sia pronta a sorreggere il suo peso.
«C – c'era qualcuno, dietro la porta» spiega, perché non vuole che il direttore Fallowey pensi che lei sia matta. Non lo è affatto.
Dal canto dell'uomo, nessuna sorpresa. Sospira stringendosi nelle spalle, poi torna a sedere dietro la sua scrivania.
«Ha finito il test, dottoressa?» chiede, dando una rapida occhiata al foglio che, però, non è stato del tutto completato.
«Io n – non...» deglutisce, sente il sangue tornare a percorrere il suo flusso regolare.
«Da domani lavorerà con quelli dell'ala est» conclude, incrociando le braccia al petto. Probabilmente non gli importa poi così tanto del test concluso o meno.
«Quelli delle porte azzurre?» e l'uomo annuisce.
Penelope torna a stringere la matita tra le dita, cerca di scrivere le risposte, ma la sua calligrafia, ora, è poco chiara a causa del tremolio alla mano.
«Mi dia il test, su, non ha poi così tanta importanza!»
Pazzesco, pensa Penelope.
Ha quasi rischiato un infarto per cosa? Per un test di poca importanza. Cerca di trattenere l'ira stringendo i pugni e deglutendo, fissa l'uomo che la guarda con un sorriso e poi annuisce.
Lei non può lasciar spazio alle emozioni negative, è pur sempre una dottoressa. Il suo compito è essere positiva e gentile con tutti.
«A che ora dovrò venire, domani, signore?» chiede, perché un po' quell'attesa la sta frustrando parecchio. Vuole solo svolgere il suo compito.
«Per le dieci va benissimo, i ragazzi non si svegliano mai prima delle nove, e poi devono fare la colazione, e che a loro piaccia o no, devono sorbirsi mezz'ora di messa» e lo dice ridendo, Fallowey, che quasi certamente conosce le menti contorte di quei ragazzini.
La invita poi ad alzarsi, mentre abbandonano la stanza, «Mi conceda di offrirle un caffè, dottoressa James, la prego» e lei annuisce, perché forse le ci vuole proprio, un caffè.
Insieme attraversano il corridoio, con Penelope che si guarda intorno, vigile ed attenta, e con Fallowey che non si cura più di tanto.
Si fermano solo quando sono vicini ad una macchinetta e... dov'è il bar?
«Si starà chiedendo perché siamo sprovvisti di bar, eh?» il direttore la rimbecca quasi come se fosse stato in grado di leggerle la mente.
Infila due gettoni dentro la fessura della macchinetta e pigia il tasto che consentirà al congegno di fare un caffè annacquato che ricorderà un po' l'acqua sporca, «C'era, un bar, una volta. Comunque a causa di quei sprovveduti, poi, l'hanno chiuso. La gente che ci lavorava ha deciso di darsela a gambe. Credo siano stati quelli dell'ala nord, a – » e Penelope lo blocca.
«Quelli delle porte nere?» perché ancora non l'è chiara tutta quella faccenda delle porte, delle sezioni e quant'altro. A lei viene facile suddividere i ragazzi grazie al colore delle porte.
«Sì, quelli delle porte nere, i ragazzi dell'ala nord. Ma credo siano stati aiutati anche da quelli della sezione est, delle porte rosse, per farle intendere. I cleptomani sono lì, quei ladruncoli non fanno altro che rubare» spiega, con un velo di tristezza in voce che tradisce la sua aura autoritaria.
Probabilmente quel posto era stato costruito con amore e buone intenzioni, una volta, e vederlo così dimesso e decadente provoca al direttore una morsa al petto che Penelope avverte.
«Mi va bene anche il caffè della macchinetta, signor Fallowey» e questi ride, riprendendosi dal suo stato di tristezza apparente.
«E lo credo bene, è il miglior caffè che una macchinetta possa fare!» delucida infine, porgendo un bicchiere alla ragazza.
Sorridono, i due, si scambiano pensieri e pareri ed a Penelope sta già simpatico, potrebbe anche perdonarlo per il test a sorpresa quando, un rumore raccapricciante li riporta alla realtà.
Un fragore causato da vetri rotti che si schiantano al suolo, poi delle risate e niente più. Il sangue di Penelope torna a gelarsi, e giura che nemmeno quel caffè possa scaldarla a sufficienza.
«Che sta succedendo?» e spera di avere una risposta degna di essere chiamata tale.
«Credo che per lei si sia fatto tardi, dottoressa. E' meglio che vada,» e dicendo così la spinge verso il corridoio che la condurrà alla porta centrale, per uscire dal centro.
Penelope si volta, mentre Fallowey continua a spingerla «Signor Fallowey, la prego, io devo sapere!»
«Domani, dottoressa, domani» insiste l'uomo, senza indugiare sulla presa.
La lascia fuori, chiudendosi il grande portico dietro le spalle.
Penelope si guarda intorno, poi alza lo sguardo non appena l'ennesimo cigolio arriva al suo padiglione auricolare.
Qualcuno ride, beffardo, poi una finestra dell'ala nord si chiude.

«Com'è andato il tuo primo giorno?» Andrea è entusiasta. Le si legge in faccia. Scalcia via le scarpe, mentre sfila il foulard dal collo esile e lungo. Ripone poi il cappotto nell'appendiabiti ed infine si dirige in cucina, dove Penelope sta preparando un succulento pranzetto.
O almeno ci prova, considerando che non è molto brava a cucinare. C'è che preferisce starsene sui libri, capisce più la psicologia che un ricettario.
«Bene, mamma» spiega, anche se forse non è pienamente convinta della risposta. Ha conosciuto il signor Fallowey, direttore del centro, è una brava persona, ma è certa che nasconda qualcosa.
Dal canto di Andrea, però, nota come sua figlia stia mentendo. Sospira, avvicinandosi a lei, poggia una mano sul braccio della ragazza e si mordicchia le labbra con fare assente.
«Sei nervosa?» e Penelope vorrebbe rispondere , ch'è nervosa ed anche molto. Perché quel posto non è granché, di certo non si aspettava di lavorare lì, una volta finita l'università. Francamente aveva immaginato il suo primo lavoro in modo un po'... diverso, ma la realtà è un'altra ed alcuni sogni sono per principianti.
«No, sono solo concentrata. Voglio cucinarti qualcosa coi fiocchi» spiega, anche se Andrea non crede sia così. Penelope non si è mai preoccupata della cucina, alla fine a lei basta avere qualcosa in pancia, che poi sia una prelibatezza o un cibo congelato, poco le importa.
Andrea non parla, decide di lasciar scivolare la questione perché sa quanto sua figlia sia stressata, nell'ultimo periodo. Con la continua assenza di suo padre, con la paura costante che avverte ma che, comunque, cerca di reprimere. Perché ormai lei è la dottoressa James, non può di certo piangersi addosso.
«Non sforzarti troppo, facciamo che ti aiuto ad apparecchiare?» dice, aprendo l'anta del mobiletto accanto alla penisola, per cercare l'argenteria. Afferra poi coltelli, cucchiai e forchette, mentre corre da una parte all'altra della stanza per prendere i piatti.
E' smemorata, Andrea «Ho incontrato Ashton, oggi» continua Penelope, mentre rigira il mestolo dentro l'enorme pentola in ghisa.
Sua madre sgrana gli occhi, mentre il sorriso si espande a macchia d'olio, quasi come se volesse coprirle gran parte del viso.
«Oddio, davvero? E com'è andata? Come sta?» le domande escono veloci come acqua che sgorga in un ruscello. Armeggia poi con le posate, mentre apparecchia per due nel tavolo rettangolare di legno posto in mezzo alla stanza.
«Mi ha dato uno strappo al centro» prosegue la ragazza, perché forse non capisce tutta la felicità di Andrea, del resto sono amici, nulla di più.
«Si frequenta ancora con Leslie?» la rimbecca Andrea, 'ché forse lei si era pure fatta quattro calcoli. Del resto il sogno di una madre è vedere la figlia sistemata con un giovinotto sempre allegro, benestante e buono, il prototipo di Ashton Irwin, insomma.
Penelope sbotta, lascia scivolare il mestolo dentro la pentola e poi si volta guardando la madre, con cipiglio severo e braccia incrociate al petto.
«Mamma fattene una ragione, siamo amici io e lui, fin dai tempi del college e non potrebbe esserci nient'altro, l'amicizia con lui è speciale ed io ci tengo, non la rovinerei per qualcos'altro. E comunque sì, sta ancora con Leslie» conclude, tornando a cucinare.
«Ma a te Leslie nemmeno piace» e con questo? le urlerebbe Penny, ma non lo fa perché ha rispetto per sua madre.
«Non è a me che deve piacere, mamma» e spera che l'argomento Ashton Irwin cessi lì, perché comincia ad infastidirsi.
Andrea pare capirlo, scrolla le spalle ed ultima la tavola.
Penny conclude il suo stufato, poi lo lascia scivolare in due capienti scodelle, infine raggiunge sua madre e prende posto a capotavola.
«Parlami del centro, com'è quel posto?» chiede la donna, ma Penny non sa rispondere. Le piacerebbe, avere la risposta, ma comunque ancora conosce ben poco del posto. Senza contare che il signor Fallowey è parecchio restrittivo e racconta solo ciò che fa comodo a lui.
Penny trangugia l'ennesima cucchiaiata di minestra, mentre scrolla le spalle, «Ho conosciuto il direttore, un certo Fallowey, sembra un tipo alla mano» delucida.
Sua madre annuisce, spezzando altro pane da inzuppare nella brodaglia, «Immagino quanto sia bello l'edificio.»
Ma su questo potrebbe dire tutt'altro, Penny, che la catalogato come un vecchio maniero con vasta tenuta da ristrutturare. Insomma manca solo il cimitero privato e poi farebbe invidia alla casa degli Addams.
Storce il naso, indecisa se raccontare il vero oppure no, ma alla fine una bugia cosa potrebbe comportare? E dunque, «E' un bel posto, un grandissimo maniero dai colori sgargianti e dalle aiuole sempre verdi» mente, almeno sua madre sarà lieta.
«Hai conosciuto i ragazzi?» continua, del resto Penny conosce sua madre, sempre pronta a fare terzi gradi. Ancora una volta scrolla le spalle e continua con le cucchiaiate di stufato.
«Non ancora, probabilmente il primo incontro è domani. Oggi il signor Fallowey mi ha fatto fare un giro per conoscere il posto» e poi basta. Il silenzio.
C'è che Penelope si è stancata di raccontare, ed Andrea preferisce terminare la minestra che sua figlia ha preparato con amore.
E va bene così, con solo i rumori dei cucchiai che sbattono nelle ciotole.
Poi lavano i piatti, ed Andrea esce, 'ché ha una questione importante da svolgere, e Penelope – invece – preferisce rimanersene a casa, stendendosi un po'.

Fissa il soffitto, mentre si rigira nel letto.
Una pallida luce fioca trapela dalle tapparelle verdi abbassate fino a metà. Penny osserva i bagliori di un sole rossastro, mentre sorride.
Alla fine è contenta, e poco importa se il Social Detoxification è degradante. L'unica cosa che le preme è aiutare quei poveri ragazzi infelici, che ancora – però – non ha conosciuto.
Sospira, si morde le labbra a cuore e poi intreccia i capelli in una morbida treccia. Sta per lasciare l'ennesimo sbuffo, quando il cellulare prende a vibrare.
Sblocca lo schermo e Ashton lampeggia sull'ampio display.
«Penny!» la voce squillante dell'amico le lascia vibrare i timpani. Sorride, anche se non si capacita di come l'altro possa averla chiamata. Del resto ha conosciuto Leslie, poche volte si sono incontrare e sono bastate per fare un netto quadro di quest'ultima. Sciocca, oca, gallina ed anche gelosa marcia. Cosa ci veda di bello, Ashton, in una tipa come lei, questo ancora non l'ha capito.
Spera solo che non ne sussegua un cataclisma, dopo quella telefonata.
«Ash, ehi!» mormora, quasi come se avesse gli occhi inquisitori di Leslie addosso. Intreccia una ciocca bionda tra le dita e poi la lascia cadere, morbida, sulla spalla cerea.
«Ero curioso di sapere come fosse andata la giornata al centro» delucida infine, e lei rotea gli occhi. Possibile che tutti si ostinino a voler conoscere l'andatura del centro? Senza contare che, in fondo, nemmeno lei conosce molto. Non a sufficienza per parlarne, almeno.
«Ho solo conosciuto il direttore, farò l'incontro con i ragazzi, domani» gli spiega. Dall'altra parte della cornetta un “ah-ah” squillante. Ashton si rotola nel letto con fare assente, mentre affonda le mani nella sua chioma biondo rame.
Pare che la chiamata stia per altro, e non per sapere del centro. E nonostante ormai non siano più legati come prima, a Penny quella risposta è bastata per farle capire che c'è qualcosa che non va, sotto sotto.
«Qualcosa non va, Ash?» e lui scuote il capo, come se lei potesse vederlo.
«Eh? No, no, va tutto bene Penny» continua, forse più per convincere se stesso che l'altra.
Penelope si alza dal letto, arriva all'armadio e lo spalanca, cercando qualcosa di più fresco da mettere.
C'è che, se Ashton non si decide a parlare, andrà lei da lui «Posso auto-invitarmi a casa tua? Non la ricordo nemmeno più» ed allora gli occhi di Ashton diventano due biglie chiare, boccheggia non sapendo che fare, poi sospira ed infine, rassegnato gracchia un «Va bene» che a Penelope non piace nemmeno un po'.
Chiudono la chiamata, poi lei arraffa i vestiti e sfreccia via, indirizzandosi al bagno dove opterà per una doccia fresca.
Il bagnoschiuma ai lamponi scorre lentamente sul suo corpo esile di porcellana, mentre con fare assente si massaggia le braccia, poi le cosce ed infine il collo.
Quella chiamata di Ashton, così improvvisa – poi – l'ha un po' preoccupata.
Francamente non sa se sia giusto presentarsi a casa dell'amico, ma poco importa. Alla fine si conoscono da tanto, ed è giusto che lei lo aiuti. Senza contare che ormai il suo lavoro è quello: aiutare le persone.
Spazza via i ricordi allo stesso modo con cui l'acqua sta lavando via la saponata. Prende poi l'accappatoio e, infilandoselo, si dirige in camera per vestirsi.
Ci mette poco, lei, che non si è mai curata dell'apparenza.
Dopo una manciata di minuti è nuovamente fuori, 'ché ci vuole vedere chiaro, in quella situazione.

«Ehi, Penny, allora sei venuta sul serio» Ashton sembra sorpreso, nel vederla. Appoggiato allo stipite della porta, massaggia la sua cute chiara. Probabilmente non sa che fare, né come comportarsi, ma dallo sguardo non sembra essere felice, tutt'altro.
Penelope sbuffa, «Faccio sempre quello che dico» è diretta. Il suo sguardo inquisitorio lascia capire al maggiore che sarà meglio farla entrare.
E poi a lui non sono mai piaciuti gli interrogatori, figuriamoci fuori, dove tutti possono farsi i fatti loro.
Percorrono un piccolo corridoio, poi attraversano il soggiorno ed infine si ritrovano in cucina, dove alcune pentole e piatti sporchi sono ancora riposti sul lavabo, simbolo che, no, Ashton non cambierà mai: eterno sfaccendato.
«Siediti pure, ti offro un caffè?» ma lei scuote il capo. Si siede e poi incrocia le braccia al petto, facendo oscillare avanti ed indietro il piede della gamba destra, accavallata dapprima su quella sinistra.
«Non sono venuta per il caffè» ribadisce. Lui si siede di fronte a lei, boccheggia indeciso sul da farsi ed alla fine sbotta. Perché tanto conosce Penelope, non riuscirebbe a tenerle qualcosa segreta per più di dieci minuti.
Che poi lei sia specializzata a capire i bisogni della gente, quella è un'altra storia.
«Lo so che non sei venuta per il caffè» continua, mentre – invece – lui ne ha già presa una tazzina, nonostante il caffè proprio non lo gradisca.
E' giusto per ammazzare il tempo, e soprattutto non guardare le iridi chiare dell'amica che sembrano saettare irrequiete.
«Non ti forzerò a parlare, ma lo sai che mi accorgo se mi nascondi qualcosa, Ashton» dice infine, incrociando le braccia ossute al petto.
E lui lo sa bene, e nonostante non debba per forza parlarle di ciò, sente un'assurda pressione sulla gabbia toracica che lo costringe ad annaspare, quasi come se l'aria, Penny, gliela stesse togliendo, con quei occhi di ghiaccio che gli scavano le viscere.
E' frustrato, certo, ma non può andare avanti così. Non ce la fa proprio più.
«Voglio mollare Leslie, Penny» e lo dice tutto d'un fiato, per paura di fermarsi proprio quando non dovrebbe.
Probabilmente non è stata nemmeno giusta, come mossa, ma poco importa ormai. E gli occhi sgranati dell'amica, con tanto di bocca spalancata, gli fanno capire che, sì, l'ha realmente detto. Non è più solo un pensiero.
«Cosa? Come mai?» ha smesso di sorseggiare il caffè, lei che – comunque – Ashton le aveva offerto seppur la sua risposta era stata negativa. Alla fine è venuto annacquato, ed un po' le ricorda il caffè che il signor Fallowey le ha offerto. Quello della macchinetta.
Ashton china il capo, fissa il tavolo color nocciola e si mordicchia le labbra con fare di chi, sul serio, non sa a che scusa aggrapparsi.
«Mi sono reso conto che c'è qualcosa che non va, tra di noi» ribadisce, e sa che Penny capirà.
«Beh, il fatto che lei sia stressante non comporta questo, Ash, alla fine a lei piaci, ti am – » ma lui la blocca. Non vuole parlare di Leslie e di ciò che lei prova per lui.
C'è che non gli importa dei sentimenti della sua ragazza, non più «Penny, non m'interessa. Non più, francamente» gli occhi vacui si posano su quelli accesi di Penelope, che continua a non capirlo.
Ashton è contorto, alle volte, ha sempre fatto di testa sua fin dai tempi del college, ma non ha mai mollato Leslie, mai. Stanno insieme da così tanto tempo.
Il maggiore stringe i pugni, digrigna i denti e continua a fissarla, sembra essere deciso, determinato.
«Potresti pentirtene, Ash, pensaci bene. Magari le chiedi una pausa, ma non lasciarla così» perché, nonostante a lei, Leslie, non piaccia proprio, non osa immaginarsi come si sentirà se – sul serio – Ashton prenderà in considerazione di lasciarla.
Ma lui scuote il capo, convinto, 'ché nessuno lo ferma più, «Penny, come devo dirtelo? Mi piace un'altra.»
E questo basta a farle capire che, sul serio, lui non tornerà indietro.
 

BUUUUUH
 
Ehehehe, eccomi nuovamente qui, miei piccini bellissimi. State passando una
buona Domenica? Spero di sì, ecco!Allora, cosa ne pensate della storia? C'è
che Penelope èaffascinata dal centro perché alla fine vuole davvero aiutare
i ragazzi ma, come potete vedere, sarà abbastanza difficile. Senza contare che,
probabilmente, qualcuno continua a spiarla. Che sia lo stesso che aveva origliato
in mattinata? Chi lo sa! Comunque cosa ve ne pare del signor Fallowey?
Io lo vedo come un omone grasso ma gentile. Andrea è una brava mamma,
forse un po' ficcanaso ma sempre bravarimane. Ashton, invece, sembra essersi
deciso a lasciare Leslie. Non siete curiosi di sapere di chi si sia preso la cotta?
Ehehe, come sempre fatemi sapere cosa ne pensate. I vostri pareri sono importantissimi
per me, senza contare che m'invogliano a scrivere, mi incitano a continuare.
Un grosso bacione, grandissimo. Ed alla prossima!

Madam Morgana.

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Capitolo 3
*** 03 ***


 
3.


 
Penny è in ritardo, oggi. Non vorrebbe dirlo, né pensarlo, ma lo è. E' in ritardo di ben tredici minuti. Intrappolata in una metro piena, si ritrova a pensare che persino le sardine all'interno di una scatoletta abbiano più spazio di lei, in quel momento.
Riesce a sentire il tanfo di sudore, il fetore di qualcuno che ha spento da poco una sigaretta ed anche qualche sgradevole parola che vola alle nove del mattino.
A lei, personalmente, non piace proprio prendere la metro per il semplice fatto ch'è sempre troppo piena, soprattutto quella delle nove, poi, forse più propensa ad essere presa per recarsi a lavoro oppure andare a scuola.
Poco importa, pensa Penelope.
La prossima volta sarà costretta a prendere la metro delle sette, 'ché proprio non le va di arrivare tardi. Sono le nove e tredici minuti, ed è in ritardo.
Stretta tra un corpo e l'altro, spera vivamente che la sua fermata non sia poi così lontana, e maledice di non avere ancora la patente.
Del resto, però, come biasimarla? Proprio non le andava di dimezzare lo stipendio di sua madre per prendersi uno straccio di quattro ruote, è meglio camminare a piedi, pensa. Forse per convincersi e rassegnarsi all'idea che, l'auto, potrà prenderla solo quando avrà il suo primo stipendio da dottoressa.
Sbuffa, sistema i capelli biondi dietro le orecchie e cerca di mantenere l'equilibrio, sorreggendosi agli anelli agganciati su di un tubo di ferro, mentre con l'altra mano stringe la carpetta viola in cui ha annotato diversi appunti. Probabilmente dovrà ancora consultare qualcosa, ha paura di sbagliare.
Del resto rimane pur sempre una novellina.
Dottoressa, certo, ma sempre novellina.
Si guarda intorno, visionando i volti della gente. Uomini in giacca e cravatta, mamme con bambini, qualche accattone lurido che ha approfittato della metro senza comprare il biglietto, pensa.
E dire che lei queste cose un po' non le sopporta, i mezzi pubblici dovrebbero essere accessibili a tutti, sprovvisti di biglietti perché non è giusto pensare che, un accattone non può permettersi quel privilegio di salire.
E' rammaricata, Penelope, che alla fine sa bene di non poter fare tutto per tutti. Ritorna in se e distoglie lo sguardo altrove quando, il viso inzaccherato di un barbone si volta verso lei, sorridendole perversamente.
Poco dopo, e finalmente, la porta della metro si spalanca. Penny scende di fretta e furia, stando attenta a non inciampare tra la folla. Stringe al petto la carpetta e si guarda intorno.
Melbourne è davvero caotica, ma non c'è da stupirsi. D'altro canto è la seconda città più popolata dell'Australia, dopo Sydney.
Avanza tra la gente, continuando la sua marcia.
Attende poi il bus, ed infine si ritrova nuovamente davanti all'imponente edificio più isolato della zona, una volta scesa dal secondo mezzo pubblico preso in quel giorno.
Ed è strano, secondo lei. In centro tutte quelle persone accalcate tra loro, come se i servizi offerti dalla città fossero gratis mentre, invece, quella zona è così abbandonata, desolata. Una zona morta in cui nessuno sembra venire da tanto, troppo tempo.
Penelope cammina tra l'erba alta, mentre alcuni germogli le solleticano le caviglie nude.
Una manciata di metri la stanziano dal fabbricato lugubre, oltre una rampa di scale. Sospira, lei, che ormai è rassegnata all'idea di lavorare lì.
Non si è soffermata a guardare le aiuole non curate, né gli alberi sgangherati dai rami troppo sporgenti. Semplicemente non ha guardato nulla.
A capofitto sta salendo le scale, contandole.
Sono sette scalini corrosi dal tempo, sporchi e pieni di polvere. Ancora l'ennesima porta piena di scritte ed il legno rovinato, poi i soliti anelli.
Ne prende uno tra le mani, sbattendolo, attendendo che qualcuno le vada ad aprire.
E non sa perché, ma si sente nuovamente agitata. Forse perché si è resa conto che, oggi, comincerà effettivamente a lavorare con i ragazzi.
Ad aprirle è stata lei. La vecchia dalle grinze orrende, dalla pelle cerea e dallo chignon ancora disordinato. Penelope comincia a chiedersi se quella donna si sia cambiata, perché, davvero, ha sempre gli stessi abiti.
La donna in questione, sistema gli occhiali dapprima scivolati sul suo lungo naso aquilino, poi schiude le labbra imbrattate di un viola prugna, «Sì?» gracchia.
Penelope strabuzza gli occhi. Com'è possibile? Non si ricorda?
«Sono la dottoressa James,» continua, visto che l'altra ha assunto un'espressione stralunata. Probabilmente manca di memoria e non è una novità, del resto anche il suo viso sembra caratterizzato dal segno dell'età.
Penelope, poi, è molto paziente e di certo non sarà la mancanza di memoria della donna a farle saltare i nervi.
Dal canto della signora, solo un sorriso storto, mostra i denti giallognoli e poi si sposta verso destra, «Si accomodi, dottoressa» dice infine.
Ed accade di nuovo.
Penelope e la donna stanno percorrendo lo stesso corridoio, la stessa marcia funebre del giorno prima. L'edificio sembra avvolgerli in una cappa nera che fa gelare il sangue della ragazza.
Al petto continua a stringere la carpetta, lo scoccare dei tacchi sul pavimento la distoglie dal pensare. Poi si fermano davanti alla porta nera traslucida del direttore, ormai quella Penny la riconosce bene.
La donna poi scompare, come avvolta dall'oscurità.
Ed allora lei tira un sospiro, sistema meglio i capelli e stringe un pugno, picchiando poi le nocche della mano destra sul legno intatto della porta.
Probabilmente è l'unica lucidata e tirata su a dovere.
Fallowey non tarda ad aprire, con quel sorriso ch'è così inappropriato per un luogo simile, ma a lei va più che bene. Serve qualcuno pieno di positività.
«Buongiorno dottoressa James, non mi aspettavo venisse più, oramai» e Penelope è mortificata. Chissà cos'ha pensato il direttore di quel ritardo.
Senza contare che potrebbe presupporre l'idea di lei spaventata, tanto da non volerci più lavorare in un luogo simile. Ancor prima di aver cominciato, poi!
«La metro è passata con tredici minuti di ritardo, sono mortificata. Le prometto che non accadrà più» ma all'uomo poco importa della metro, del ritardo e dello sguardo mortificato della dottoressa. L'unica cosa che sembra importargli è la tenacia con cui la ragazza vuole continuare a venire, in quel posto.
Che poi ritardi di dieci minuti o giù di lì non è un problema, «Si figuri, dottoressa. Allora, è pronta?» continua, con quel velo di entusiasmo che, sì, anche quello è inappropriato.
Penelope annuisce, poggiando poi la carpetta sulla scrivania del direttore. Sfila il cappottino e lo ripone nell'attaccapanni.
«Prontissima!» e la grinta non manca. Anche quella è inappropriata, certo, ma Penelope è davvero motivata. C'è che la vita non è sempre agiata per tutti, ed allora lei ha scelto di migliorare – o almeno provarci – quella di chi, purtroppo, è stato poco fortunato.
«Mi segua» Fallowey esce dalla stanza, mentre cammina lungo tutto il corridoio. Lei lo segue, così come l'è stato detto. Percorrono una lunga rampa di scale che, la fissazione di Penelope, la induce a contare.
Venticinque scalini.
«Comincerà dall'ala ovest» Dispotico, il direttore incrocia le braccia grasse al petto. Fissa le porte azzurre ancora chiuse, mentre lei avverte il vociferare dei ragazzi, «Come le avevo già detto, l'ala ovest è quella che mi da meno problemi» continua. Ed un po' la cosa infastidisce Penelope perché, nonostante Fallowey voglia-si dimostrare gentile, sembra prenderla per stupida.
Lo sguardo, però, la tradisce ed il direttore sembra aver capito i suoi pensieri «Deve cominciare dalle basi, dottoressa James. Mi creda meglio così» poi le fa cenno di seguirlo, fino ad arrivare in una stanza spaziosa, caratterizzata da due finestre che permettono il passaggio di una leggera brezza. E' ventilata e piacevole.
«Qui è dove si svolgono le sedute, metterete le sedie a cerchio e discuterete un po'. Giusto per conoscervi. L'avverto che i ragazzi non sono cattivi né indomabili, ma comunque hanno passati devastanti che li hanno costretti a vedere la vita storpiata. Non so se rendo» ma Penny annuisce perché, sebbene contorto il discorso del direttore, un po' ha capito.
Poi questo la liquida. «Avviso i ragazzi che la nuova dottoressa è arrivata, così verranno da lei»
«Va bene, grazie» sorride, Penelope, mentre sente il cuore martellarle in petto. Ha paura, perché nonostante ormai sia dotta è comunque una ragazza in un covo di spossati.
Decide di cominciare a sistemare le sedie pieghevoli di legno, ne dispone qualcuna a cerchio, mentre è avvolta da un silenzio inquietante. L'unico rumore è il fruscio del vento che sposta alcune tende bianche strappate che, in teoria, dovrebbero coprire le finestre.
«Tu sei la nuova dottoressa?» la sedia, dapprima, tenuta in mano, cade per terra con un sonoro tonfo. Il rimbombo di questa che si schianta al pavimento echeggia dentro i suoi timpani, facendoglieli vibrare.
Si volta, spaventata, mentre nota un ragazzino che, all'incirca, non può avere più di vent'anni. Appoggiato allo stipite della porta, tiene le braccia incrociate al petto. Lo sguardo di chi, non gli importa poi granché di qualcosa. Lascia scivolare la lingua sul labbro inferiore, mentre giocherella con un anellino in metallo nero che l'accentua.
«Sì», gracchia Penelope mentre si china per raccogliere la sedia caduta, «Sono la dottoressa James e lavorerò con voi» continua.
Il ragazzo si avvicina, mentre prende alcune sedie accatastate al muro. Ne apre una, poi due, mentre segue la traiettoria di Penelope, ed alla fine cercano di formare un cerchio.
Lei, allora, si concede qualche istante per osservare quel ragazzo, caratterizzato da un accenno di barba bionda, incolta, su tutto il mento, pelle pallida, capelli biondi ed occhi azzurri più del mare. Si chiede cosa abbia fatto per ritrovarsi in quel postaccio.
«Come ti chiami?» prova lei. Il ragazzo alza lo sguardo, torna a fissarla con fare assente e poi sbuffa, sedendosi su di una sedia che prima aveva sistemato.
«Pensavo che attendesse la venuta di tutti, per cominciare con le domande, dottoressa» beffardo, lui, accenna un sorriso sghembo che mostra la dentatura bianca, smagliante.
Penelope si sente presa in giro perché, sul serio, un ragazzino che la rimbecca in quel modo proprio non se lo aspettava. Del resto, però, deve ricredersi. Alla fine non è un centro di divertimento quello, è normale ci siano anche i maleducati. Soprattutto quelli.
«Sono Luke, comunque» scrolla le spalle, Luke, alzandosi dal posto. Sembra già stanco della presenza di Penelope e dall'unica domanda che gli ha fatto, «Vado a chiamare i ragazzi?» continua, ed allora la dottoressa torna in se.
Sta davvero per cominciare la sua prima seduta con i ragazzi, «Sì» e basta. Si siede composta, stringendo la carpetta al petto mentre fissa l'andatura zoppa di Luke che si allontana, oltrepassando la porta per richiamare i suoi compagni.
Penelope fissa la stanza, è davvero vuota, un po' come il cuore di quei ragazzi costretti a vivere lì. Si domanda se siano agiate, le stanze, e se abbiano la TV. Magari nemmeno sanno cosa sia, la televisione, pensa.
Rammaricata e delusa, non si rende conto che, dalla grande porta, stanno facendo capolino i primi ragazzi con cui parlerà oggi.
Capitanati da Luke, sembrano seguirlo con ammirazione.
Questi incrocia le braccia al petto, poi si ferma dietro le sedie mentre viene schierato da quattro ragazzi sia da destra che sinistra.
«Sedetevi pure, prego» comincia lei.
Luke sbuffa, zoppicando arriva alla sedia di centro, poi si siede.
Un ragazzino dai capelli rossi e lentigginoso, si siede al suo fianco, un altro dai capelli verdi e dagli occhiali caratterizzati da una montatura spessa e nera, fa altrettanto, poi altri tre per lato. Qualcuno più grasso, qualche altro più magro e basso. Tutti diversi ma tutti lì per un unico motivo, probabilmente.
Penelope apre la carpetta, sfila un foglio ed una penna e poi la ripone sopra il cartone della cartellina, «Sono la dottoressa Penelope James, e da oggi lavoreremo insieme» ne sussegue un risolino di qualche ragazzo che Penelope ancora non riesce a riconoscere.
Luke fulmina il ragazzino con lo sguardo, e questi sembra tornare serio, tacendo.
«Mi piacerebbe conoscervi, sapere i vostri nomi, instaurare un rapporto prima di parlare del perché siete qui.»
Ed allora i ragazzi si guardano tra loro, come a volersi contendere, chiedersi a vicenda che fare.
Poi cominciano, decisi che, sì, devono fare quanto richiesto.
Il ragazzo rossiccio lentigginoso si presenta come Oliver Smith, quello dai capelli verdi come Harry Low, poi ci sono Aron, Cedric, Daniel, Eliah, Ronald e Ross, due gemelli.
Luke, invece, se ne sta in silenzio. Con aria di sfida guarda la dottoressa, mentre questa, dapprima intenta ad appuntare i nomi dei ragazzi, ha alzato lo sguardo per fissarlo.
«E tu?» chiede, anche se, alla fine, il suo nome lo conosce. Comunque vuole segnarlo, perché è giusto così.
«Luke Hemmings» e lui non sembra intimorito dagli occhi chiari di lei che, nota, somiglino tantissimo ai suoi. Così come i capelli, biondi quanto quelli della dottoressa James.
E Penelope scrive il suo nome sul foglio bianco, poi lo cerchia, senza saperne l'effettivo motivo.
«Ha delle splendide gambe, dottoressa» Harry Low, il ragazzino dai capelli verdi ed un'assurda montatura di occhiali, sorride nuovamente e ciò provoca le risate di tutti, nell'ala.
Penelope avvampa, e si sente così stupida. Davvero, avrebbe dovuto indossare qualcosa di più coprente, ma non si sarebbe immaginata quella constatazione, non da ragazzini poi.
«Harry, parla di nuovo e ti giuro che la tua faccia sarà spappolata contro il suolo dopo che io ti avrò lanciato dalla finestra» Luke lo mette a tacere, incrocia le braccia al petto, accavalla le gambe e poi fissa la dottoressa. Harry Low ha smesso di parlare, torna nel più assiduo silenzio con sguardo di chi, un po' è spaventato sul serio.
Penny capisce appieno che, in quel gruppo, a comandare è proprio il biondo. Poi tutti smettono di fare gli stupidi e cominciano a raccontare le storie, abbandonando la stanza non appena finiscono i loro racconti.
Si scopre così che, Harry Low è senza genitori, cresciuto con la zia che l'ha violentato tante di quelle volte che nemmeno ricorda più quando sia stata la prima.
I gemelli Ronald e Ross, invece, hanno rubato al supermercato, ed i suoi genitori hanno deciso di mandarli in quel posto, così da mettersi nuovamente in riga.
Cedric era un accattone, Fallowey l'ha preso con se ma, non potendolo crescere come figlio l'ha collocato tra quelli delle porte azzurre.
Aron, Daniel ed Eliah erano amici, prima, poi qualcosa è andato storto ed hanno cominciato a rubare, anche se poi si sono pentiti di tutto, ma comunque starsene un po' insieme a quelli delle porte azzurre, di certo male non gli fa.
Penelope alza lo sguardo, la mano stanca e sporca d'inchiostro. Si guarda intorno mentre nota le sedie quasi tutte vuote.
Lui è ancora lì, seduto, quelle gambe accavallate malamente, giocherella ancora con il piercing e mantiene sempre le braccia conserte. Con cipiglio severo la scruta.
«Parlami di te, Luke» ed è pronta a scrivere, Penelope, quando Luke le afferra la penna dalle mani.
«Non scriverà di me, su quel pezzo di carta» la rimbrotta, quasi come se non volesse mischiarsi insieme ai suoi compagni.
Penelope sussulta, non sa che fare. Che a lui piaccia o no lei rimane comunque una dottoressa e deve rapportare tutto, anche perché poi Fallowey vuole avere il resoconto della situazione. Si morde le labbra, e Luke afferra la cartellina posandola su di una sedia. Poi il silenzio.
Si guardano per minuti interminabili mentre Penny sente il cuore in gola, lo sguardo di lui che scava in profondità, «In principio nemmeno dovevo trovarmi qui – comincia, con voce roca. Per qualche strana ragione il suo sguardo rimane ancorato a quello di Penelope, che ancora non ha trovato la forza di sbatter ciglia – i miei genitori erano normali. Mia madre lavorava come promoter per dei centri commerciali. Mio padre, invece, aveva una fabbrica di scarpe. Sembravamo una famiglia felice, dottoressa, una di quelle invidiabili. Poi qualcosa è cambiata – e non sa perché, ma a Penelope bruciano gli occhi. Anche quelli di Luke bruciano, fanno male, si schiarisce la gola e continua – mia madre ha perso il lavoro, e la fabbrica di papà è andata in rovina. Non avevamo un cazzo di soldo da poterci ficcare in culo. Era diventato tutto così difficile in così poco tempo. Mamma e papà litigavano spesso, non eravamo più l'invidia di qualcuno. Eravamo più la compassione della gente. Fatto sta che papà un giorno è tornato a casa ubriaco, tra le mani stringeva una pistola e l'ha puntata alla tempia di mamma, quando ha premuto il grilletto ho avuto il tempo di cadere su mia madre. La pallottola mi ha perforato la tibia, ma comunque l'importante è stato sopravvivere, no? Liz frequenta uno psicologo, papà ora è in carcere ed i miei nonni mi hanno sbattuto qui perché per pagare le sedute di mamma ho cominciato a rubare» la vista di Penelope si annebbia, è tanto doloroso ascoltare il racconto di Luke che, sul serio, non sa che fare.
Probabilmente lei nemmeno doveva lavorarci, lì, troppi ragazzi con troppi passati tristi.
Stringe i denti, caccia indietro le lacrime. Lei non può piangere.
E' il suo lavoro, quello, doveva immaginarselo.
«Ecco perché zoppichi» è l'unica cosa che lei può dire. Luke annuisce, poi si alza dalla sedia e la richiude mentre, a passo zoppo si avvia per riporla insieme alle altre.
Penelope ha scritto di tutti i ragazzi, tranne di Luke. Quasi certamente non lo farà.
«Dottoressa?» la voce di Luke è ferma, decisa. Non si volta per guardarla, rimane vicino alla porta, pronto ad andar via.
«Sì?» Penelope scatta in piedi, si sistema la gonna e cerca di non piangere, davvero non può farlo.
«Lei non può aiutarci» sussurra infine Luke, a capo chino. Ancora una volta rimane impassibile, con le spalle rivolte verso Penelope.
«Perché dici così?» lo rimbecca. Luke pare pensarci su, ma poi, deciso, sa cosa rispondere.
«Perché lei è felice, noi no» la frase cruda di lui, si fa spazio dentro le viscere di lei. E' come una lama a doppio taglio che le perfora il ventre.
«La felicità si può sempre trovare, Luke, credimi» dice infine, forse per convincere se stessa più che l'altro. Il suo racconto l'ha devastata tanto.
«Non può aiutare la gente che non ha nulla per cui vale la pena essere felice.»
E poi nulla più. Luke abbandona la stanza, a passo zoppo, mentre Penelope fissa la sua figura trasandata farsi sempre più lontana.
Rimane da sola, in quella stanza, con la voce di Luke che le rimbomba in testa.
Ed ora lo sa. Sa che, sul serio, c'è gente che non ha mai conosciuto la felicità. Quella vera, quella che lei ha avuto.
E si rende conto ch'è sempre stata fortunata, lei. Lo è sempre stata.
 

BUUUUUH

Come state bimbi miei? A Morgana mancate tantissimo, e dunque eccola qui!
Pronta ad aggiornare! Cosa ve ne pare del capitolo? Finalmente incontriamo i
ragazzi delle porte azzurre, tra cui spiccano personaggi un po' strambi ma
comunque teneri, almeno secondo me. ç__ç Li vedo come dei ragazzi così
combattuti, che della vita hanno assaggiato solo cose amare. ç__ç
C'è Harry Low, poi, che fa una battuta squallida, e Luke lo riprende. Sembra
così taciturno, Hemmings, ma alla fine si scopre la ragione della sua sofferenza
e, sì, anche della sua gamba zoppa. La dottoressa sembra così turbata, eppure
doveva immaginarselo, del resto non si è mica addentrata in un parco giochi!
Spero nelle vostre più fidate recensioni, a Morgana piace parlare con voi, davvero
tanto, tantissimo.
Un bacione grande, amori miei, alla prossima!


Madam Morgana.

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Capitolo 4
*** 04 ***


 
4.
 


Fallowey l'aspetta nel suo ufficio.
Scribacchia su alcune carte, lui, mentre attende la dottoressa. Spera vivamente che possa fare qualcosa, per quei ragazzi, perché il suo più grande sogno è quello di ristrutturare il centro, forse troppo legato ad esso.
C'è che suo nonno glielo aveva lasciato in eredita, costruito nel lontano 1938, tramandato poi ad ogni superstite fino ad arrivare a lui.
Ed era sempre stato un centro magnifico, il Social Detoxification, ma poi – pian piano – i ragazzi sotto la sua tutela erano stati in grado di tramutarlo in un maniero con vasta tenuta da ristrutturare.
Benché Fallowey continui a sperare, è consapevole che probabilmente nemmeno Penelope riuscirà a smuovere i ragazzi.
Sospira, forse frustrato o magari dubbioso, poi ad un tratto la porta si apre piano, rivelando la fanciulla dai capelli biondi.
Tiene stretta al petto una cartellina viola. Accenna un sorriso, «Direttore, la disturbo?» chiede, con voce di chi non vuole sul serio disturbare. D'altronde, Penny, l'ha visto parecchio pensieroso e di intaccare la sua quiete proprio non ha voglia.
Fallowey, dal canto suo, evita i pensieri, 'ché non vuole pensare troppo al passato ed a tutte le cose belle che hanno fatto i suoi antenati, prima di lui, dunque annuisce mentre un sorriso sornione s'espande a macchia d'olio fino ad allargargli il volto.
«Si accomodi pure, dottoressa James» e lei entra. Poggia la cartellina sulla scrivania, sistema poi alcune ciocche ribelli dietro l'orecchio e si schiarisce la voce.
«Io e i ragazzi abbiamo appena terminato la prima seduta» e sicuramente non è andata bene, vorrebbe anche aggiungere. Ma non lo fa per paura di perdere il posto ed anche perché, davvero, lei farà di tutto per aiutare quei giovani.
Fallowey si mette composto nella sua poltrona di pelle nera, con le rotelle di essa si trascina fino a poter poggiare i gomiti sul legno color ciliegio del banco, poi si liscia la barba folta e brizzolata, «E com'è andata? Ha fatto un rapporto della seduta?» il sangue di Penelope comincia a gelarsi, le arterie ostruiscono il passaggio fluido del liquido rosso. Si sente mancare il terreno sotto i piedi e la consapevolezza che, già dal primo giorno, non ha fatto ciò che l'è stato richiesto, non del tutto, almeno.
«Sì, Harry Low mi ha raccontato dell'abuso da parte di sua zia, poi ci sono i gemelli Ronald e Ross, ed anche Cedric è parecchio combattuto, mi ha raccontato di come l'ha preso sotto sua tutela, per quanto riguarda Eliah, Daniel e – » ma il direttore scuote la mano in segno che, sul serio, deve andare avanti. Del resto lui le conosce abbastanza bene le storie.
«Luke Hemmings. Mi parli di lui, dottoressa» e lei, che magari aveva sperato che Fallowey si dimenticasse di quel caso, si sente spiazzata. Paralizzata. Ha parlato e scritto di tutti, tranne che di Luke.
Luke.
Quanto ha potuto soffrire quel ragazzino? Penelope trova ingiusta la vita, a volte, cattiva con i più deboli, con chi non si può difendere. Ed alla fine la gente cambia, pian piano, contro il suo volere, magari, ma cambia lo stesso.
E probabilmente Luke non era quel ragazzino che, adesso, è diventato. Ma Penelope capisce. Comprende che o si cambia o si muore di una morte lenta e dolorosa, sovrastati dai fatti, dalle angosce, dalle paure.
«Luke non voleva che io scrivessi di lui, signore» Fallowey stringe i pugni grassi, poi li sbatte nel bancone, facendo sussultare Penelope.
Il cambio repentino d'umore del direttore, dapprima solare e positivo, la spiazza e la impaurisce. Ora i suoi occhi non sembrano più allegri, le lebbra distese in una linea retta, e la mascella completamente serrata.
«Delle porte azzurre, Luke Hemmings è quello che più mi da problemi, dottoressa. Non si è mai aperto, sappiamo la sua storia, certo, ma nient'altro. Non socializza, schivo, impassibile, sembra privo di emozioni. Mi chiedo se devo collocarlo in qualche altra ala dell'edificio, a questo punto» Penelope sospira, ingoia un malloppo formatosi alla gola.
C'è da dire che la storia di Luke l'ha colpita parecchio e sentir dire quelle parole al superiore un po' le fa male.
Secondo lei non è giusto collocarlo in qualche altra ala, perché – volente o nolente – ormai ha socializzato con quei ragazzi. Spostarlo peggiorerebbe le cose, e pian piano si chiuderebbe in se stesso più di quanto non lo sia già.
«Non credo che debba spostarlo, signore, mi conceda qualche altro giorno, magari riesco a parlarci di più» Fallowey annuisce, del resto la dottoressa ha bisogno di tempo. Come darle torto?
E' il suo primo giorno.
Ed allora annuisce, le passa un paio di fogli e, «Questi sono tutti i fascicoli da compilare, credo c'è ne siano per un bel paio d'ore, avrà un bel po' da lavorare, dottoressa» va via, richiudendosi la porta alle spalle.
Sicuramente uscirà fuori a prendere una boccata d'aria, perché ogni volta è la stessa storia.
Luke Hemmings non si apre con nessun dottore.

Le ore scorrono velocemente, ma forse non per Penny che, ormai stanca, alza gli occhi per guardare che ora si sia fatta.
L'orologio posto sulla parete di fronte a lei, segna le sei del pomeriggio. Tanto l'ha presa, la storia del centro e tutti i suoi casi che non si è accorta di quanto siano passate velocemente quelle ore.
Passa i capelli da un lato, con un elastico, poi, li raggruppa in una coda sfatta e disordinata. Poggia la schiena sul morbido schienale della poltroncina, e chiude gli occhi. In mente troppe parole, troppe righe dei fascicoli che le rimbombano tra le pareti come a volerla opprimere.
Guarda fuori dalla finestra, ed il cielo non è dei migliori.
Da quando ha cominciato a piovere? Pensa Penny, notando come l'erba alta del giardino sia già completamente zuppa. Il vento impetuoso soffia forte sulle fronde degli alberi tetri, e qualche ramo si spezza pure, cadendo con un tonfo sordo sul fogliame ormai non più verde.
E' una scena tetra quella che Penelope osserva dalla finestra, del resto – però – sa bene che in quel posto nulla sprizzi di felicità propria.
Poi qualcosa la disturba; Fallowey apre la porta notandola ancora lì, per come l'ha lasciata. Penelope non si è mossa, ha speso davvero tutto il tempo a leggere la storia del centro, dei casi e di qualche persona in particolare. Del resto non poteva fare altrimenti, secondo il direttore, per essere una brava dottoressa deve conoscere tutto, ma proprio tutto.
«Dottoressa» sussurra, mentre intasca le mani grasse dentro le sacche strette dei jeans, «si è fatto molto tardi» continua, e Penelope allora si alza dalla sedia, afferrando la sua borsetta e la cartellina. Si è anche concessa di appuntare qualche nome e qualche storia particolare.
Scioglie i capelli, abbozzando un sorriso pressoché imbarazzato «Mi dispiace, io – non mi sono resa conto di che ora si fosse fatta, è meglio che vada.»
«Non le conviene lasciare il centro, dottoressa James. Fuori sta piovendo ed ho appena visto in TV che si prospetta una tempesta, meglio che rimanga qui, per questa notte» ed è allora che Penny perde un battito.
Rimanere lì? Di notte? In quel luogo così lugubre pieno zeppo di ragazzini leggermente combattuti? Il sangue le si gela nuovamente, trova ancora una volta difficoltà a passare nelle vene, ma cerca di mantenere la calma.
«Una tempesta a Sydney?» in realtà sarebbe dovuto essere un pensiero, un discorso retorico, ma la voce la tradisce balzando fuori con facilità. Fallowey scrolla le spalle ed annuisce, probabilmente è sorpreso tanto quanto lei.
«A quanto pare è così, venga, le mostro la stanza per la notte» e che a lei piaccia o no, ormai il suo destino è segnato. Sarà costretta a rimanere lì.
Uscendo dalla stanza, percorrono l'ennesimo corridoio che poi si biforca in due sezioni. Prendono la destra, continuando la loro marcia nel più assurdo silenzio.
Penelope si stringe nelle spalle, mentre fissa con ammirazione i splendidi quadri e dipinti che tappezzano il muro. In quella sezione nessun degrado, niente di danneggiato, ed un po' – la cosa – la rincuora.
Si fermano solo quando Fallowey è davanti ad una porta, «Credo che qui possa andar bene – sospira, si morde le labbra e poi carezza la barba – dottoressa io adesso andrei, se ha bisogno di qualcosa me lo faccia sapere. Mi trova sempre nel mio ufficio, ad ogni modo è meglio che rimanga dentro. Non conosce ancora bene l'edificio e potrebbe perdersi nelle varie alee, meglio che faccia attenzione» e lei annuisce perché d'altronde non ha voglia di perdersi in quel posto.
Non con dei ragazzi che potrebbero farle del male, «Starò attenta signor Fallowey, grazie mille» poi lui va via, e lei apre la porta della stanza in cui passerà la notte.
Una graziosa camera forse non troppo confortevole, ma dispone di una bella finestra ampia da cui, Penelope, può notare la bufera che si sta andando a formare.
Il vento continua a soffiare forte ed il movimento dell'erba le ricorda un po' l'infrangersi dell'acqua di mare sugli scogli. Sistema le poche cose che ha, per poi fissarsi al miserabile specchio affisso in un angolo della parete. Osserva i suoi capelli biondo grano, per poi intrecciarsi qualche punta nelle lunghe dita snelle.
Poi si siede nella branda e fissa il soffitto. Purtroppo non c'è nessuna TV, e nemmeno una radio per ascoltare la musica!
Sono solo le otto di sera, quando si lascia abbracciare da Morfeo.

Nel cuore della notte Penelope si sveglia. Sgrana gli occhi cerulei e si guarda intorno. La cosa che l'ha svegliata è stato il rombo sconvolgente di un tuono che ha squarciato in due il cielo. Lampi che hanno illuminato il giardino.
Lei si stringe, mentre cerca di nascondersi nelle misere coperte che le sono state date in dotazione per la branda. E dire che, di certo, non aveva valutato l'idea di dormire fuori da casa.
Prima di addormentarsi è riuscita solo ad avvisare Andrea, almeno rassicurandola.
La pioggia non cessa, con la stessa frequenza di sempre bagna l'asfalto già zuppo di suo. Penelope, allora, si alza dal letto e si avvicina alla vetrata della finestra per guardare lo scenario lugubre.
Ha sempre avuto paura dei tuoni, lei, così come delle bufere in se stesse. Le provocano uno strano senso d'angoscia che non riesce a colmare nemmeno con le canzoni allegre.
Lei, poi, ch'è sempre stata così positiva.
Scaccia via quei pensieri e, trascinando i piedi fino alla porta, decide di uscire. Vero, ha promesso al signor Fallowey di rimanere in camera, ma l'angosciante ticchettio della pioggia che s'infrange sul vetro la tartassa, e non vuole rimanere un minuto di più in quel posto.
Vaga lungo tutto il corridoio buio, mentre si fa luce con il flash della fotocamera. Si chiede perché in un edificio in quel modo, di notte non possano esserci dei lumini, poi si ricorda della bufera, e probabilmente anche la luce è andata via, per il momento.
Non sa in quale ala si trova, ma l'unica cosa certa è che, l'andito risulta assai freddo.
Cammina, Penelope, senza preoccuparsi di nulla, l'unica cosa che la spaventa è il rumore della pioggia, di qualche lampo che squarcia il cielo per poi dar spazio a tuoni raccapriccianti. Il vento che si fa spazio lungo gli infissi delle finestre lascia muovere le tende strappate. Ha perso il conto, lei, da quanto stia camminando. E sembra sempre allo stesso posto, tutti uguali, quei corridoi.
La mancanza di luce, poi, non l'aiuta di certo. Vorrebbe sapere dove si trova, in che direzione sta andando, ma non può.
All'improvviso una mano fredda le tappa la bocca, da dietro qualcuno che respira sommessamente.
Penelope sgrana gli occhi cerca di urlare in preda al terrore, quando lui le punta un coltelletto in acciaio sul fianco destro.
«Non muoverti, dolcezza» la voce dell'essere si rivela quella di un uomo. O magari un ragazzo, non saprebbe definirlo, lei, che al momento non si cura della voce di quello, ma dell'essere in pericolo.
Rimane immobile, con gli occhi sgranati. Guarda davanti a se e non vede nulla; quella mano continua a premere sulle sue labbra, e Penelope vorrebbe dirgli che non parlerebbe comunque, per paura che il coltelletto le trafigga il fianco.
«Non le hanno detto che qui non puoi venirci, ah?» ringhia. Il respiro di lui le solletica l'orecchio. L'alito di chi ha fumato tanto, troppo.
Poi, piano, lentamente, la mano dell'uomo abbandona la bocca di Penelope, senza, però, abbassare il coltello dal suo fianco.
«Prova ad urlare e la lama ti trafiggerà il costato, dottoressa» e quella parola la dice con così tanto disprezzo che Penny si domanda cosa abbia fatto di sbagliato. Sta solo cercando di aiutare la gente, quella che, purtroppo, non è stata fortunata quanto lei.
«C – Chi sei?» la sua voce in un sussurro terrorizzato. Probabilmente ha scavato in profondità per cercare un briciolo di coraggio, la dottoressa. Non si aspetta una risposta, ma la domanda la trovava lecita, per certi versi.
«Non ha importanza» abbaia lui, mentre affonda delicatamente la lama sul vestito leggero di Penelope. Ne strappa un pezzetto giusto per vedere il suo colorito così pallido, quasi di porcellana.
Poi piazza la lama sull'epiderma scarlatto, e l'intacca piano, senza affondarci troppo. Nota come il sangue cremisi sgorga veloce, macchiando il coltelletto e il piccolo squarcio fatto al vestito.
Penelope non piange, né grida. Prega Dio che quell'istante finisca presto e se, lui vuole davvero ucciderla, che lo faccia alla svelta. Questa lenta agonia la terrorizza, è più brutale di qualsiasi altra cosa.
«Dovrebbe tornarsene nella sua stanza, dottoressa» continua. Ripone poi il coltelletto nella tasca anteriore degli skinny, mentre ancora, Penelope, gli da le spalle.
Vorrebbe voltarsi per vedere il suo aggressore, ma un passo falso e la vita le sfuggirà di mano, volerà via.
E dunque rimane inerme, mentre continua a pregare e spera che le sue suppliche vengano ascoltate.
Poi nulla più. Penelope non sente più nulla se non il continuo sbattere delle finestre aperte, il fruscio del vento, i tuoni, i lampi e tutte quelle cose che ascoltava prima.
Si volta, lentamente, ma non c'è nessuno. E forse può essere stato un sogno, se non fosse per il graffio sul fianco ed il buco al vestito. Penelope si morde le labbra, mentre sente gli occhi bruciare, poi corre via, e non ha importanza dove si stia dirigendo. L'unica cosa che vuole è sparire dalla circolazione, abbandonare quell'ala che il buio ha reso anonima.
Corre, sente il respiro morirle in gola ma non smette di correre. Si ferma solo quando sbatte contro un corpo longilineo e snello.
Alza lo sguardo, impaurita e tremante.
«Dottoressa James» Luke inarca un sopracciglio, la guarda con fare di chi, tutto si aspettava tranne quella ragazza in quel corridoio.
Sospira, si massaggia le tempie e s'inumidisce le labbra. «Cosa ci fa in giro a quest'ora della notte?»
«Io non – non...» ma a lui poco importa. Tecnicamente gli frega ben poco del perché Penelope stia girando per i corridoi del centro.
La prende da un polso, perché conosce già la stanza. E' lì che Fallowey ha ospitato le vecchie dottoresse, quando erano costrette a rimanere per qualcosa.
«La riporto in camera sua,» ringhia. E' incazzato, Luke, perché dovrebbe farsi i fatti suoi, lei, di certo non andrà molto lontano se farà la ficcanaso.
Per quanto riguarda la dottoressa, si chiede come il biondo riesca a sorpassare ogni corridoio ed imboccarne un altro con altrettanta facilità, visto che, ora, si ritrovano nuovamente nella porta da cui lei è uscita.
Luke si ferma sull'uscio, lascia la presa dal braccio di lei ed incrocia gli arti al petto, «Veda di non uscire più» controbatte.
«Stavo cercando il bagno» cerca di spiegare lei, anche se non è affatto vero e lui lo capisce, mica è stupido.
«Immagino» e si massaggia le tempie. Se non fosse donna le avrebbe già urlato addosso ma visto anche l'ora non è conveniente.
Penelope ha male al fianco, e lo massaggia piano, sicuramente ci dovrà mettere su un cerotto, «Grazie per avermi portato nuovamente in stanza» perché, in fondo, è realmente grata a Luke. Senza di lui avrebbe corso all'impazzata per tutto l'edificio senza mai trovare la stanza.
Dal canto del biondo, scrolla le spalle e poi si volta, è pronto ad andarsene 'ché ormai è stanco di fumare, cercherà di dormire un po'. «Dottoressa?»
Lei smette di massaggiarsi il fianco e, «Sì, Luke?» domanda.
«Il mio è un consiglio. Non torni più nell'ala nord. Un graffio si può curare, una vita persa non si può riavere indietro. Quelli delle porte nere non perdonano, dottoressa. Buonanotte» e lui va via, lasciando Penny spiazzata.
Ecco dove si era incappata.
Ecco quale ala aveva percorso.
Sicuramente, senza ombra di dubbio, colui che l'aveva attaccata era un ragazzo della porta nera.

 
 

BUUUUUH

Hola tesorini! Come state? Spero bene.
Allora, che ve ne pare del capitolo? Sinceramente è quello che, fino ad ora - pubblicato, più mi piace.
Eheheh, ammettetelo che, come Morgana, questo mistero vi piace! ;) Secondo voi chi si nasconde
dietro quest'ombra misteriosa? Chi vi immaginate? Secondo voi chi ha aggredito Penny?
Sono proprio curiosa di sapere, insomma vestitevi da detectivee dite le vostre, che Morgana è assai
curiosa u.u A parte questo, Fallowey continua a lottare per far aprire il dolce Luke, che proprio non
ci è mai riuscito nessuno. Solo Penny sembra aver toccato il cuore del biondino. Ma secondo voi,
perché Luke non si vuole aprire con le dottoresse? Cosa nasconde?  Mi rendo conto ch'è un capitolo
pieno di domande, omg ç__ç Spero che la storia vi stia piacendo, 'ché Morgana ci tiene tanto a voi
lettori, siete la ragione per cui le sue storie proseguono, dico davvero.
Grazie per essere arrivati sin qui.
Un bacione grande grande!


Madam Morgana.

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Capitolo 5
*** 05 ***


 
5.



 
Si sveglia con l'affanno, Penelope.
Passa le mani al collo latteo, bianco come fosse di porcellana, e le fa male. Non sa se ha urlato, durante la notte, ma francamente anche se l'avesse fatto nessuno l'avrebbe soccorsa.
Gattona, fino ad arrivare ai bordi del letto, poi si mette seduta; la stanza è sempre la stessa e... come potrebbe dimenticarsi dove ha trascorso la notte? Una camera non sua, un posto che non è casa. Senza Andrea, senza il suo letto caldo, senza la sua sottoveste rosa, senza nulla che le appartiene.
D'altro canto non riuscirebbe a dimenticare quello ch'è successo. Appena svegliata pensava fosse solo un sogno, un brutto incubo che l'ha inghiottita nell'oblio della notte. Poi, però, quando ha sfiorato il fianco, il vestito presentava ancora quello squarcio ed una piccola crosta marrone si ramificava sulla pelle scarlatta.
Penelope ha paura.
Ha paura di tante cose, senza però poterlo dire. C'è che una dottoressa non può aver paura, lei dovrebbe essere in grado di domarla, la tensione, senza contare che deve curare quella dei ragazzini del centro.
Eppure, per certi versi contorti spera di non finire dentro il centro, non come spossata da curare.
Si massaggia i polsi, con fare assente. Gli occhi cerulei fissano tutto e nulla, mentre mordicchia il labbro inferiore. Posa poi lo sguardo sulle sue gambe snelle e scoperte fin sopra la coscia, a causa del vestito ch'è risalito durante il sonno.
Ha delle belle gambe, dottoressa” e ricorda come Harry Low, con quel suo sguardo perverso, l'abbia messa in soggezione, e di come Luke Hemmings l'aveva ripreso. Di come, in maniera grottesca – forse – l'aveva aiutata.
C'è che forse, Penny, sa che qualcuno può salvarsi, perché nulla è perduto e la speranza è l'ultima a morire. C'è che, probabilmente, Luke Hemmings è quello che può salvarsi, più di quanto Fallowey stesso non creda.
Sospira, i pensieri positivi l'hanno messa di buon umore, poi si alza dal letto e trascina i piedi scalzi verso la porta, ma non appena posa la mano sulla maniglia, essa è già scattata e qualcuno l'ha aperta.
Fallowey, con fare sveglio e tranquillo, abbozza un sorriso del tutto invisibile a causa della barba grigia che ricopre le labbra, «Buongiorno dottoressa James!» esclama. Sembra più positivo di lei, ed il che la mette ulteriormente di buonumore. C'è poco da essere felici, al Detoxification, ma sembra che il direttore non si scoraggi né voglia pensarci sul serio.
«Buongiorno, signore» sorride lei, di rimando, chinando il capo con riverenza per un saluto formale.
«Come ha dormito?» e forse non è opportuno che lei racconti tutto al direttore. Di come, spinta dalla curiosità, abbia abbandonato la stanza, durante la notte, di come abbia rischiato la vita perché un anonimato aggressore le ha puntato un coltello al fianco, e di come, Luke Hemmings, l'abbia riportata nella stanza.
Quasi certamente perderebbe il lavoro, ma non vuole, perché è tutto ciò che ha. E' tutto ciò che vuole davvero, aiutare quelle persone.
Sospira, si morde le labbra e, nonostante a lei le bugie non piacciano, è costretta a mentire. «Meravigliosamente, è una stanza parecchio ospitale» potreste mettere a una TV, magari, vorrebbe anche aggiungere, ma non lo fa. Sembrerebbe assai irrispettoso nei confronti del suo superiore.
«Molto bene. Le va di fare colazione? Mi sono permesso di comprare dei cornetti caldi e due cappuccini, la signora Agatha li ha appena portati» continua, uscendo dalla stanza. Sembra non curarsi di avere Penelope dietro. E ciò fa capire a lei ch'è costretta a seguirlo, a prescindere se le vada o no di fare colazione.
Scendono le scale nere a chiocciola, poi percorrono uno degli innumerevoli corridoi e poi si ritrovano nell'ufficio del signor Fallowey, sempre perfettamente in ordine.
La signora dalle grinze orrende e dallo chignon perennemente sfatto, è dentro la stanza. Maldestramente sistema alcuni tovaglioli bianchi, «Agatha, che piacere! Dormito bene?» la donna sorride, mostrando la dentatura giallognola che a Penelope le procura un conato di vomito.
«Frank!, ho appena finito di sistemare la colazione. Lascio lei e la dottoressa da soli» e così Penelope scopre che quella megera pallida dispone anche di un nome.
La signora Agatha va via, salutandola cordiale ma che, comunque, presenta sempre quel velo lugubre. Poi la porta viene chiusa, ed insieme al signor Fallowey si accomoda nella poltroncina nera uguale a quella di lui.
Spezza il croissant alla marmellata, mentre – distrattamente – fissa il bianco del latte accerchiarsi nella tazza di porcellana.
«Qualcosa la turba, dottoressa James?» chiede Fallowey. Anche se sa che, qualcosa, sotto sotto, c'è.
«Eh? Oh, no no! Nulla, non è nulla» e forse non è così. Ma la sua coscienza le suggerisce di non parlare, di non dire tutto.
Ed è così che passano il tempo, a fare colazione insieme, scambiandosi opinioni. Penelope si permette pure di esporre il suo desiderio, ovvero quello di abbellire le aiuole, e, se costretta, comprerà anche lei i semi da piantare in giardino.
E' stanca di vedere tutto quel verde trascurato, senza contare che darebbe un'altra aria al posto.
Ma, non appena Fallowey apre bocca, la porta si spalanca rivelando Agatha con l'affanno. La sua crocchia spelacchiata turba ancora una volta Penelope.
«Spero sia importante, Agatha» ringhia Fallowey, che per una volta stava apprezzando la consulta di qualcuno.
Questa, dal canto suo, china il capo in segno di scusa, poi un ragazzo alto, snello e dalla chioma variopinta, spinge la vecchia dentro la stanza, facendosi largo per venir notato.
L'espressione del direttore s'imbruttisce. Serra la mascella e strizza ciò che resta del cornetto tra le dita, facendo si che la marmellata gli coli sul pollice adiposo, «Che ci fai tu, qui?» sputa, in così cattivo modo che Penelope sembra non riconoscerlo più.
Era ancora quel direttore affabile?
Il ragazzo sorride beffardo, affonda una mano su una ciocca di capelli blu e poi lo guarda. Gli occhi verdi dalle striature color sabbia si riducono a due piccole fessure, e con disdegno ringhia un, «Dobbiamo parlare» che a Penelope non piace nemmeno un po'.
«Non vedi che sono impegnato?» sbotta l'uomo, facendogli notare di avere la ragazza in stanza.
«Non m'importa. Me lo avevi promesso, cazzo, me l'avevi promessa una merda di televisione, Fallowey!» controbatte, al che Fallowey si alza dalla sedia, che per poco non va a sbattere contro il termosifone dietro di lui, l'addita fissandolo con cipiglio severo.
«Anche tu mi avevi promesso di smettere ma non l'hai fatto, e non mi sembra nemmeno che tu la meriti, la televisione, dunque sparisci. Ed avvisa i tuoi quattro compari che tra un po' la dottoressa farà il primo incontro con voi» sbotta.
Il ragazzo china il capo, stringe i pugni e serra la mascella. Probabilmente se Penelope non fosse lì si sarebbe già azzuffato contro il direttore.
Da una rapida occhiata a Penny, poi, che intanto non si è mossa dalla sedia, completamente sbigottita da tutto.
«E sarebbe 'sta mocciosa, la dottoressa?» sentenzia. L'espressione perversa che incalza sul volto suo di porcellana provocano una strana scarica elettrica lungo tutta la spina dorsale di lei che, esterrefatta nota quanto manchino di disciplina quei ragazzi.
Non che si aspettasse il contrario, certo, ma ancora non ha visto nessuno con un briciolo di riconoscenza.
«Non parlare così alla dottoressa, chiaro?» e mentre dice così, l'uomo ha già preso dal colletto il ragazzo, spintonandolo fuori, chiudendosi poi la porta alle spalle.
Dal canto del ragazzo non c'è nessuna obiezione, probabilmente abituato a quel trattamento. Sbatte solo le mani sulla porta, freneticamente e con violenza, ringhia indispettito e, sì, forse pure incazzato, «Me l'avevi promessa Fallowey! Porca puttana, me l'avevi promessa la televisione! T'ammazzo prima o poi, stronzo!» dopo il silenzio.
«Cani randagi» abbaia il capo, tornandosi a sedere sulla poltrona in pelle. Per quanto riguarda la dottoressa, non sa né che fare né che dire. Trova così insignificante tornare a parlare delle aiuole, poi, dopo tutto quello.
Quel ragazzo che si lamentava per la scarsità di comfort le aveva fatto tenerezza, senza contare, però, che il direttore aveva ragione. La disciplina alla base di tutto, «dov'eravamo rimasti, dottoressa?» la riprende così, Fallowey, distraendola dai suoi pensieri insensati.
«Stavamo parlando delle – ecco delle … signore, quel ragazzo – ecco forse dovrebbe concedergliela, una televisione. Magari un – » ma dal canto dell'altro, l'espressione cambia radicalmente. Dapprima tornato pressoché sereno, sembra aver nuovamente voglia di urlare.
Stringe i pugni grassi, e cerca di regolarizzare il respiro, «Mi creda, dottoressa, quel ragazzo non merita assolutamente nulla» sbotta iracondo.
«Sembrava così – » ma l'uomo continua, 'ché Penny dovrebbe solo svolgere il lavoro da dottoressa e non da ficcanaso.
«Mi creda, so quel che faccio. Forse sarebbe meglio per lei cominciare ad avviarsi verso la stanza dell'incontro» e lui si è già alzato, dirigendosi verso la porta per aprirgliela, quasi come se l'incitasse ad andarsene.
E lei non controbatte, esce annuendo per poi notare con quanto astio il direttore si chiude la porta alle spalle.
Ma Penelope è decisa, perché il suo compito non è solo fare la dottoressa, prima di questi rimane una persona con sentimenti.
Sa dove trovare Agatha, la donna dalla pelle cerea, ed è per questo che si dirige verso la porta d'entrata, l'unica che ricorda con sicurezza.
Difatti la trova lì, e, senza esitare, le poggia una mano sulla schiena ingobbita «Signora Agatha?» questa si volta, mentre issa gli occhiali dapprima scivolati sul suo naso aquilino.
«Dottoressa James! Ma non dovrebbe già essere alla seduta con i ragazzi?» la riprende, ed un po' le ricorda il direttore.
Lei annuisce, perché sa che non sta facendo tutto secondo i piani, ma l'istinto di altruismo è tanto, «Sì, lo so, comincio tra un poco. Mi chiedevo dove potessi trovare quel ragazzo ch'è entrato prima, nell'ufficio del direttore Fallowey» e ad Agatha, quella domanda, non piace nemmeno un po'.
Scuote il capo e probabilmente questo è bastato a far capire alla dottoressa che non parlerà, rimarrà muta come un pesce.
Esasperata, corre via, mentre i tacchi calpestano il pavimento grigio.
Riesce a salire le scale, svoltare un corridoio, poi a destra, sinistra e di nuovo a destra, ed ecco la porta dove, tecnicamente, dovrebbe fare le sedute.
Quando la apre, già i ragazzi sono lì, seduti a cerchio, sulle sedie di legno pieghevoli. La stanza sembra esser diventata una ciminiera a causa del fumo che esce dalle labbra sottili di ogni ragazzo. Tutti loro tengono tra le dita nodose una sigaretta, e Penelope la nota, la differenza, con quelli delle porte azzurre, sicuramente più tranquilli.
Poi sgrana gli occhi, nel momento in cui lo vede.
Il ragazzo di prima, quello entrato nell'ufficio del signor Fallowey.
Questi la guarda, con aria di sfida, mentre inspira nuovamente dal suo filtro, rilasciando poi il fumo non appena apre la bocca per parlare, «Guardate chi c'è, la dottoressa» e ridono. Beffardi, ridono. E' differente dal ridere sfrontato di Harry Low, quello delle porte azzurre, ma più una risata perversa che si espande a macchia d'olio.
Penelope cerca di contenersi, vorrebbe fuggire ma non può.
Si siede sull'unica sedia ancora vuota, poi apre la sua cartellina e sistema i capelli, passandoseli da un lato.
«Sono la dottoressa James,» comincia, ma qualcuno la blocca ancor prima del previsto.
Il ragazzo dai capelli tinti, accavalla le gambe, fa volare il mozzicone di sigaretta per terra e poi incrocia le braccia al petto. «Lo sappiamo chi sei, pupa. Facciamo che ci stai a sentire e poi te ne vai affanculo, che ne dici?»
«Non ti permetto di parlarmi così, io... io sono una dottoressa!» cerca di rimbrottarlo, senza però riuscirci sul serio. Dal canto di lui, infatti, esce un sorriso sghembo. Giocherella poi con il piercing al sopracciglio e sospira, scuotendo il capo.
«Ahi, ahi, dottoressa. Non ha ancora capito chi comanda, qui – continua a sospirare, mentre due ragazzi alti e grassi l'affiancano – diglielo tu, Melma. Digli chi comanda, qui» Il ragazzo grasso dalla carnagione scura, scoppia in una fragorosa risata, si sconquassa divertito quasi come se quello avesse fatto una battuta.
«Qui comanda Clifford, dottoressa» e gli altri smettono di ridere, come se quel cognome servisse a placare ogni cosa.
Penelope china il capo, stringe i pugni ed ingoia il nodo formatosi alla gola, «Ti ringrazio per avermi informato chi comanda, ma sono qui per aiutarvi, non per comandare» cerca di spiegare, lei. Anche se sa ch'è tutto inutile.
«Melma non è stato chiaro, dottoressa?» il ragazzo dai capelli tinti smette di giocare con il piercing, poi s'avvicina pericolosamente a lei e la guarda attentamente. Penelope cerca d'indietreggiare, ma non può far nulla, considerando che sembra aver inchiodato il culo alla sedia.
«Io non – non...»
«Nessun problema, lo capirà col tempo. Che ne dite ragazzi?» e si volta per guardare i suoi compari, che hanno deciso di tornarsene a ridere.
Probabilmente quella seduta sarà la più difficile di tutti, per Penny, che ancora non sa nemmeno i nomi dei giovani.
Solo dopo una prima mezz'ora di totale disastro riesce a capire del perché siano così difficili: porte rosse.
Ha ascoltato le storie di ognuno, o almeno quello che le hanno raccontato. Quasi tutti alcolizzati e qualche cleptomane. Per quel che la riguarda potrebbero anche non essere vere, ma non può fare molto. Deve comunque attenersi a ciò che ha sentito.
Quando Clifford rimane nella stanza, da solo con lei, la dottoressa si rende conto ch'è l'unico a non avergli detto ancora il nome. Ma sa che non lo farà. Dunque Penny decide di giocare un'altra carta vincente.
«Ho sentito dire che vuoi una televisione» esprime, mentre continua a scribacchiare sul suo taccuino già colmo di appunti.
Clifford s'acciglia, mentre si stringe nelle spalle. Velocemente cerca l'accendino dentro i pantaloni stretti e neri che gli fasciano alla perfezione le gambe snelle, mentre dal giubbino scuro estrae un pacchetto di Marlboro.
«Significa che l'udito le funziona bene, dottoressa» beffardo, torna a sorridere. Si porta poi la sigaretta alle labbra e l'accende, riponendo la mano sinistra all'interno della tasca.
«Perché Fallowey non vuole dartela?» riprova. Alza lo sguardo per guardarlo e si perde letteralmente. I suoi occhi verdastri sono caratterizzati da striature color sabbia. Le labbra sottili e rosse come il sangue, un accenno di barba scura e la pelle esangue.
«E' solo un bastardo Fallowey, merita di morire» rotea gli occhi e continua ad aspirare il fumo che, sicuramente, ha già rovinato i polmoni da tempo.
Penelope non capisce, e francamente non comprende nemmeno perché non si stia attenendo alle domande che dovrebbe fare. Tuttavia non può farci nulla.
«Cosa ti piacerebbe guardare in TV?» e forse ha parlato troppo, al punto che lui decide di alzarsi dalla sedia. Il fumo continua ad uscire dalle sue labbra.
Afferra la scranna in cui è rimasto seduto per tutto il tempo, e si avvia per riporla insieme alle altre.
Penelope non ci spera più, nella risposta, ma poi lui la sorprende, «Le partite di calcio.»
E non sa quel che fa, lei, che ha già infilato le mani dentro le tasche per cercare il suo cellulare. Forse troppo avventata, ma comunque buona di cuore, «Prendi il mio cellulare, puoi vedere le partite con Internet. Non sarà bello come vederle in TV ma – » ma lui scuote il capo.
C'è che non sopporta l'elemosina, tanto meno quella delle dottoresse. «Non ho bisogno della tua elemosina» ringhia, inferocito.
«Ma non è elemosina, né compassione. Prendilo e basta!» gli spiega, anche se lui non è stupido. Sa bene che l'umiltà che scorre nelle vene della dottoressa fa di lui un poveraccio, o almeno è quello che lei pensa di lui.
«Io non voglio nulla da te, cazzo, sono stato chi – »
«Prendilo, ti prego» e gli occhi ludici di lei, lo ammutoliscono. Penelope lo fissa intensamente e lui, stregato, afferra il cellulare. Non si muove, Clifford, né dice nulla.
E' Penelope a supplicarlo quando, invece, dovrebbe essere lui a farlo con lei, per venire aiutato, per essere compatito. L'invertirsi delle azioni gli hanno provocato grossi scossoni al petto.
Intasca il cellulare accennando poi un sorriso, non le dirà grazie. Lui non ringrazia mai.
Sta per andarsene, quando Penelope lo ferma. «Aspetta! Non mi hai detto come ti chiami!»
«Sono Michael Clifford.» Sussurra lui, mentre a capo chino e senza più guardare Penelope, s'inoltra nel corridoio che lo porterà all'ala est, quella delle porte rosse.
Penny lo guarda, fin quando la figura di lui non scompare, come inghiottita dall'oscurità. Non sa nulla di Michael Clifford, nemmeno del perché sia lì. Ma giura che, darle il cellulare per soddisfare la sua curiosità sulle partite di calcio, sia stata la cosa giusta.
Del resto, tutti devono essere felici.
E Michael non fa eccezione.



BUUUUUH


Bimbi miei belli! Eccomi qui, nuovamente alla carica u.u
Ammettetelo che aspettavate Morgana, eh? (No Morgana, levati) comunque bando alle ciance
di cui Morgana ciarla sempre. Allora, cosa ve ne pare del capitolo? Qui incontriamo un altro
personaggio che tutto è tranne che tranquillo. Vi piace Michael? A me, personalmente, molto.
Cioè ha del carisma, non so, poi sarà che mi faccio i soliti viaggi mentali ed allora è tutto okay.
A parte questo, la dottoressa James, ancora una volta, si dimostra altruista e solidale verso il
prossimo, dando - così - a Michael, il suo cellulare. Voi l'avreste fatto? A prescindere di chi si
tratti. Pare, infatti, che Penny non badi alle conseguenze, ed allora mossa dall'impulso compie
quest'atto eroico (o forse non troppo eroico?) a parte questo... spero che il capitolo vi sia piaciuto
che la storia vi piaccia e vi prenda sempre. Mi riprometto di fare il meglio, per voi, per me, per il
fatto che voglio sempre migliorarmi. Dunque fatemi sapere cosa ne pensate, i vostri pareri sono
molto importanti.
Un bacione grande grande, ed alla prossima!


Madam Morgana.

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