Strane combinazioni

di Emelyee
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


1
Il finto fidanzato


 

«Amore, finalmente!», stampai un bacio sulla guancia al ragazzo di fronte a me e gli feci un enorme sorriso, prendendolo sottobraccio e appoggiando la testa sulla sua spalla. Lui mi guardò con gli occhi spalancati dalla sorpresa e fece per scostarsi, ma io lo strinsi più forte. «Shh, fermo. Non sono pazza, mi serve solo un piccolo aiuto», sussurrai a denti stretti. Il suo sguardo mi diceva molto chiaramente che credeva fossi scappata da qualche ospedale psichiatrico, ma non avevo il tempo di preoccuparmene.
Quell’uomo aveva cominciato a seguirmi quando ero uscita dall’appartamento di mia cugina Alice. All’inizio non ci avevo fatto caso, troppo occupata a riflettere sulla notizia che mi aveva appena dato, ma quando il suo volto aveva iniziato a riflettersi in ogni vetrina che incontravo sulla mia strada mi ero preoccupata. Avevo provato a fingere una chiamata con mio fratello, parlando del tutto casualmente del suo prossimo “pericolosissimo incontro di boxe”, ma lui non aveva fatto una piega e aveva continuato a piantonarmi. Avevo attraversato la strada, poi l’avevo attraversata di nuovo muovendomi a zigzag tra i taxi gialli e i camioncini delle consegne, e quando mi ero voltata, convinta di averlo seminato, lui era ancora lì.
Poi avevo visto quel ragazzo e il mio corpo aveva fatto tutto da solo.
«Ma che... e tu chi diavolo sei?», disse cercando di nuovo di liberarsi dalla mia stretta. Cercai di trattenerlo, ma evidentemente lui non aveva trovato una scusa per saltare tutte le lezioni di ginnastica al liceo, perciò avrebbe vinto facilmente se non mi fossi innervosita e non gli avessi dato un piccolo schiaffo sul bicipite.
«Mi chiamo Isabella, molto piacere di conoscerti. Ora potresti collaborare, per favore?», chiesi, agitata che la mia copertura potesse saltare, visto che l’uomo era ancora alle mie spalle.
«Collaborare a cosa? Se è uno scherzo non è affatto divertente», iniziò a guardarsi attorno in cerca di indizi su ciò che stava succedendo, ma fortunatamente non cercò di liberarsi un’altra volta. Chissà, forse credeva che assecondandomi sarebbe riuscito a riportarmi all’ospedale o da qualsiasi altro luogo pensasse fossi fuggita.
«C’è un tizio che mi sta seguendo da più di mezz’ora, devi solo aiutarmi a seminarlo e poi non mi vedrai mai più. Che ne pensi?», spiegai velocemente, appoggiando di nuovo la testa sulla sua spalla con aria serena.
«E chi sarebbe questo tipo?», chiese scrutando la folla con le sopracciglia aggrottate. Tesi l’indice e indicai l’uomo con i capelli biondo spento e la pancia alla nostra destra, notando che rimaneva sempre alla stessa distanza da noi.
«Senti, mi dispiace di essere stata così impulsiva, ma ero spaventata e poi ti ho visto e ho pensato che...»
«Non importa, è tutto a posto. Ora allontaniamoci e vediamo di farti mantenere la tua promessa di sparire, Isabella». Mi parve che pronunciasse il mio nome con una punta di ironia, ma decisi di non farci caso; al suo posto, anche io avrei reagito così, se non peggio.
«Sono d’accordo», concordai annuendo. «Il mio autobus si ferma lì tra dieci minuti». Gli indicai la fermata già affollata e sorrisi radiosa, come se stessi passando dei piacevolissimi minuti in compagnia del mio adorato fidanzato.
«Oppure potresti prendere un taxi», suggerì il ragazzo.
«Hai proprio voglia di liberarti di me, vero?». Lui annuì e sorrise. Forse, se avesse sorriso un po’ più spesso, quelle adorabili fossette sulle guance si sarebbero trasformate in rughe d’espressione e non sarebbe più sembrato così dannatamente irritante.
«Naturalmente. Non è mia abitudine passeggiare a braccetto con una ragazza che non ho mai visto prima», disse, accigliandosi.
«Beh, immagina la faccia dei tuoi amici quando glielo racconterai, allora; non smetteranno più di ridere». Il mio tentativo di addolcire la sua espressione fallì miseramente. Mi dispiacque non riuscire a rallegrare il mio salvatore; in fondo lo avevo costretto ad aiutarmi e ora lo stavo trascinando per le strade della città stringendolo come se stessimo insieme da anni. Doveva essere piuttosto irritato. Portò due dita alle labbra e fischiò forte, tanto che alcuni passanti si voltarono a guardarlo allibiti, ma ottenne il risultato voluto perché un taxi si fermò di fronte a noi.
«Prego», disse aprendomi la portiera e sostenendomi con una mano mentre salivo. Quando fui seduta mi voltai verso di lui e gli concessi il primo vero sorriso da quando lo avevo incontrato.
«Grazie, davvero. Probabilmente mi hai salvato la vita».
«Già. O forse era semplicemente un tizio che doveva fare la stessa strada che stavi facendo tu. Comunque sia, addio, Isabella». Mi sorrise, chiuse la portiera e si allontanò dal taxi giallo con le mani in tasca. Solo in quel momento mi resi conto di non conoscere il suo nome.



 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


2
Edward il fioraio

 

«Un mazzo di iris e tulipani rosa, per favore», ordinai entrando nel negozio di fiori su Brooklyn Road con la testa infilata nella borsa, alla disperata ricerca del telefono. Dovevo assolutamente avvisare Alice che sarei arrivata in ritardo o mi avrebbe fatto una scenata. Da quando aveva avuto Luke si era trasformata in una mammina iperprotettiva nei confronti di chiunque la circondasse e nessuno aveva il coraggio di dirle che non la sopportavamo più.
«Signora, desidera allegare un bigliettino?». Aggrottai le sopracciglia e alzai lo sguardo, incuriosita dal senso di familiarità che mi provocava quella voce e per poco non urlati per la sorpresa.
«Amore!», esclamai, avvicinandomi al bancone dietro il quale stava trafficando lui.
«Isabella?». I suoi occhi e la sua bocca si spalancarono in un modo così comico che non potei trattenermi dal ridergli in faccia. «Cosa diavolo ci fai, qui?».
«Mia cugina ha avuto un bambino da poco e volevo farle un regalo perché ultimamente non ha nemmeno il tempo di andare in bagno o di sistemare casa, quindi... ma cosa ci fai tu, qui?», chiesi, piacevolmente sorpresa. Da quella volta in cui avevo finto che fosse il mio fidanzato erano passati sette mesi e non ci eravamo mai incrociati. Per i primi tempi lo avevo cercato, ma poi avevo deciso di rinunciare visto che non conoscevo nemmeno il suo nome e l’unica cosa che ricordavo di lui era la comodità della sua spalla. Mi era dispiaciuto non poterlo ringraziare come si conveniva, ma me n’ero fatta una ragione, e invece eccolo qui, proprio di fronte a me.
«Ci lavoro. È il negozio di mia madre», spiegò allargando le braccia per indicare lo spazio attorno a sé.
«Ma non mi dire! Sono anni che ci passo davanti tutti i giorni per andare al lavoro!». Il ragazzo inarcò un sopracciglio e come se niente fosse tornò a comporre il mazzo di iris e tulipani.
«Lo vuoi il bigliettino o no?», chiese ignorandomi.
Sbuffai e misi le mani sui fianchi, facendo scivolare la borsa fino al polso. «Senti... tu... ehi, un momento: come ti chiami?». La consapevolezza di non conoscere il suo nome nonostante lo considerassi il mio eroe mi colpì di nuovo, stupendomi, ma quella volta ero preparata e non lo diedi troppo a vedere.
«Edward, piacere di conoscerti. Sono quindici dollari e sessanta», disse porgendomi il mazzo di fiori senza alcuna espressione particolare. Io non li presi e gli puntai un dito contro, irritata.
«Ascoltami bene Amore-Edward, ho passato settimane a cercarti per ringraziarti di quello che hai fatto per me, perciò ora lascerai che lo faccia».
«Come vuoi». Edward scrollò le spalle e appoggiò i fiori sul bancone. Barcollai per un secondo sotto la freddezza di quelle parole, ma non demorsi, feci il giro del bancone e mi posizionai davanti a lui, guardandolo minacciosa – cioè, minacciosa per quanto potrebbe sembrarlo una ragazza di ventiquattro anni con una maglietta dell’Orso nella Casa Blu che al primo incontro gli si era praticamente appiccicata addosso.
«Tu, Amore-Edward! Ora uscirai di qui e verrai a bere un caffè con la sottoscritta, così potrà sfruttare la sua occasione». Edward scoppiò a ridere e non seppi se per la mia maglietta, il mio tono di voce o il nostro precedente incontro. Forse tutti e tre, chissà. Gonfiai le guance, irritata dal suo comportamento. «Non sto ridendo, Amore!»
«Edward, tesoro, cosa sta succedendo qui?». Una donna fece capolino da una porta alle spalle di Edward e alternò lo sguardo tra noi due, confusa.
«Niente. Torna pure di là, mamma, è tutto a posto», disse lui, voltandosi e appoggiandole le mani sulle spalle e cercando di spingerla di nuovo nella stanza da cui era uscita, attirata dalla mia voce. «Ma... Edward!», balbettò.
«È tutto okay, davvero! Ora vai». La sua espressione indicava perfettamente quanto fosse confusa dal comportamento di suo figlio, ma si lasciò condurre al di là della porta e non batté ciglio quando Edward gliela chiuse in faccia.
«Non sei stato carino con tua madre, Amore», considerai incrociando le braccia e osservandolo critica. Lui mi fulminò con lo sguardo.
«Il mio nome è Edward Anthony Cullen, smettila di chiamarmi Amore!», sbraitò. «E non provare a commentare il mio comportamento con mia madre, stavo solo provando ad evitare che lei scoprisse che ho conosciuto un’altra pazza furiosa, va bene?», continuò, puntandomi un dito contro. «Non voglio diventare tuo amico, né il tuo eroe o chissà cos’altro. Non voglio prendere un caffè con te, né oggi né mai. E ora sparisci!». Si voltò e non diede segno di voler cambiare posizione.
Sospirai e iniziai frugare nella borsa alla ricerca dei soldi che poi lasciai sul bancone. Mentre aprivo la porta e mi giravo a guardarlo, mi chiesi con le lacrime agli occhi dove mai avessi sbagliato con Amore... ops: Edward Anthony Cullen.
 


 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


3
Isabella l'aspirante astronoma

 


L’Hakuna Matata non era un locale molto grande o frequentato, ma alle undici di quel piovoso martedì qualcuno entrò imprecando e scuotendo il suo impermeabile verde. «Dannazione... Rose, mi senti ancora? Ah, al diavolo». Udii lo scatto dello sportellino di un telefono che si chiudeva, poi un’altra imprecazione e il rumore di una sedia che veniva spostata.
«C’è qualcuno, qui?», disse Amore, ma io feci attenzione a rimanere nascosta nel mio angolino. Purtroppo Hoogan, il gatto che la proprietaria mi aveva chiesto di tenere d’occhio durante il mio turno, non era dello stesso parere e si sedette ai miei piedi iniziando a miagolare forte, in modo che Amore potesse sentirlo. Lui, ovviamente, si alzò per cercare la fonte di quel suono e io non ebbi altra scelta che uscire allo scoperto, maledicendo Hoogan.
«Io... ehm... ciao», mormorai, sobbalzando quando mi accorsi che era più vicino di quanto avessi pensato.
«Isabella?». La voce di Amore era sorpresa, ma non sembrava arrabbiato. Io, però, iniziai comunque a tormentarmi nervosamente le pellicine vicino alle unghie.
«Senti, so che sei arrabbiato con me e che probabilmente sono l’ultima persona la mondo che vorresti vedere o ascoltare in questo momento, ma vorrei scusarmi. Non so esattamente cosa ho sbagliato l’altro giorno, ma sei sei esploso in questo modo deve essere qualcosa di grosso e...». Mi bloccai quando mi sfiorò il braccio con la punta delle dita, ma non mi azzardai ad alzare lo sguardo.
«Non scusarti, è stata colpa mia. Avevo scoperto da poco che Tanya, la mia ex fidanzata, si era inventata ogni cosa che mi aveva raccontato sulla sua famiglia e quando ti ho vista mi sono ricordato della prima volta che ci siamo visti e sono andato fuori di testa», mi spiegò, stringendomi il polso. «Tu sembri una brava ragazza, anche se un po’ pazza, e mi dispiace tanto di averti urlato contro. Perdonami, Isabella». Mi liberai dalla sua stretta e alzai un po’ la testa, abbastanza per vedere il suo viso ansioso e rendermi conto che, anche se non ci avevo mai fatto caso, Amore era bello.
Sorrisi e gli buttai le braccia al collo perché, come aveva appena detto lui, ero un po’ pazza, dicendo: «Bastava: “scusami, sono stato un coglione”, ma anche così va bene», risi. Edward non mi abbracciò, ma ricambiò il sorriso. Poi mi fece sedere ad uno dei tavolini ed Hoogan ci seguì, acciambellandosi ai miei piedi, guadagnandosi una tirata d’orecchie e una strofinata sulla schiena.
«E così fai la cameriera», disse lui, guardandosi attorno.
Io scrollai le spalle e appoggiai i gomiti sul tavolo. «Per ora. Ma un giorno farò l’astronoma», annunciai orgogliosa. Amore piegò la testa e mi guardò storto per un attimo, prima di chiudere gli occhi e ridacchiare.
«L’astronoma?», chiese.                                                                               
«Sì. Quando ero bambina andavo spesso in campeggio nei boschi con mio padre, è stato lui a farmi appassionare alle stelle. Era il suo modo di trascorrere un po’ di tempo padre-figlia insieme senza rischiare che mi facessi male come quando aveva provato a portarmi a pescare. Sai, quella volta sono riuscita ad infilarmi l’amo nella pancia e a cadere dalla barca sbattendo la testa contro un sasso sul fondo del laghetto. Mi hanno dato sei punti sulla testa e due sulla pancia e mia madre...». Mi fermai quando lo sentii ridere. Aggrottai le sopracciglia confusa. Avevo detto qualcosa di sbagliato? Quando vidi che non smetteva decisi di chiederglielo. «Che c’è?»
Amore continuò a ridacchiare per un paio di minuti prima di decidersi a rispondere. «Tu... parli sempre così tanto e così velocemente?»
«Sì, perché?», chiesi.
«Sei buffa. Non posso credere di averti considerata pazza». Sorrisi.
«Lo prendo come un complimento, se non ti dispiace», dissi guardando fuori e rendendomi conto che stava ancora piovendo. «Ti va un caffè?»
«Sì, grazie». Mi alzai e andai dietro il bancone con Hoogan al seguito mentre Edward mi osservava.
«Ti facevo più un tipo da cioccolata calda», disse, sistemandosi meglio sulla sedia. Io feci una smorfia.
«Non mi piace particolarmente la cioccolata. La trovo banale», lo informai mentre versavo il caffè in due tazze. I suoi occhi si spalancarono così tanto che risi di nuovo.
«Banale? Che ci trovi di banale nella cioccolata?», chiese allibito. Riflettei sulla risposta mentre gli portavo il caffè e mentre mi sedevo sul bordo della sedia.
«Non saprei. Mamma la preparava sempre per papà quando litigavano o quando doveva dargli una buona notizia o quando era il compleanno di qualcuno della famiglia o quando una vicina partoriva o... per San Valentino! Ah, quella festa è largamente sopravvalutata, Amore. Se il mio ragazzo mi prendesse una scatola di cioccolatini li darei da mangiare ai suoi pesci rossi, giuro», dissi facendolo ridere di nuovo.
«E comunque, grazie ancora per sette mesi fa, sai... non so cos’avrei fatto senza di te».
«Non era necessario ringraziarmi, Isabella», disse. «Ma alla fine hai avuto il tuo caffè».
Risi alla sue parole e pensai che quella era la prima volta che il nostro incontro finiva bene.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


4
La casa sbagliata


 

Adoravo la mia casa. L’avevo presa  dopo la laurea con i soldi che avevo messo da parte negli anni e un piccolo aiuto dei miei genitori, anche se mia madre non era particolarmente entusiasta del mio piano di andare a vivere da sola. Era una casa piccola, ma per me e per il mio cane, Bess, andava più che bene finché non mi veniva in mente di invitare tutta la mia famiglia a pranzo la domenica, e nelle serate libere come quella – quando Emily decideva che poteva cavarsela da sola – me ne stavo seduta sul divano lilla del soggiorno con un barattolino di gelato sulle ginocchia a guardare qualche stupido film strappalacrime.
Quella sera davano “Gimme shelter*”, e proprio mente Apple stava finalmente per partorire sentii un rumore. Pensai che Bess avesse fatto cadere qualcosa mentre gironzolava per casa alla ricerca di cibo, perciò la chiamai ad alta voce perché mi raggiungesse nel salone. Lei saltò sul divano e si accoccolò su uno dei cuscini, in attesa che dicessi qualcosa.
«Ehi, piccola. Non è che hai combinato un disastro da qualche parte?», chiesi dandole una grattatina dietro le orecchie e affondando le dita nel suo pelo morbido. Bess uggiolò e io sorrisi. In quel momento sentii un altro rumore e mi guardai intorno, alla ricerca di indizi su cosa potesse essere stato, senza trovare nulla. Abbassai il volume del televisore e aspettai qualche secondo finché... eccolo di nuovo! Veniva dall’ingresso.
Mi alzai lentamente e afferrai il cellulare, cercando il numero di mio fratello Emmett nella rubrica senza fare caso all’orario. Rispose al terzo squillo con voce preoccupata.
«Bells? C’è qualche problema?», chiese.
Risposi sussurrando mentre mi avvicinavo alla porta d’ingresso, ormai certa che il rumore provenisse da lì. «Credo che qualcuno stia cercando di entrare in casa mia. Sto andando a controllare»
«Cosa? Bells, ferma! Potrebbe essere qualche psicopatico», sbraitò lui. In sottofondo sentii il fruscio dei vestiti, segno che voleva raggiungermi al più presto.
«Oppure è solo Milky, il gatto di Lucille», ribattei facendo qualche altro passo in avanti.
«Chi diavolo è Lucille? Anzi, non rispondere, non mi interessa. Sto venendo a controllare. Non ti muovere da lì, capito?», chiese, mentre una porta sbatteva.
«Lucille Olsen, la mia vicina di casa, non ricordi?», dissi tranquilla. A quel punto mi domandai che senso avesse avuto chiamare mio fratello; insomma, era perfettamente chiaro che quella che stava mantenendo il sangue freddo in quella situazione ero io, non Emmett. A quel punto, mentre mi abbandonavo alle mie considerazioni sulle paure di Emm, la porta si spalancò e io lanciai un grido, spaventata. La figura mi si avvicinò barcollando e io afferrai il primo oggetto che trovai al mio fianco, pronta a sbatterlo su quella maledetta testa di capelli rossi... un momento. Capelli rossi?
«Amore! Che diavolo ci fai a casa mia?», esclamai sorpresa. Edward Anthony Cullen alzò gli occhi fino ad incontrare i miei e mi sorrise, anche se sembrava più una smorfia che un vero sorriso, devo ammetterlo. Se ne stava lì, nell’ingresso di casa mia, con una mano appoggiata alla parete, le gambe terribilmente tremolanti, evidentemente ubriaco fradicio e mi sorrideva come se stesse cercando proprio me. Chissà perché, poi.
«Io sono Capitan Eddy e sono qui per salvarla, bella signorina», biascicò, facendomi ridacchiare.
«Ne sono sicura, Capitano. Ma ora perché non fa aiutare a stendersi?». Gli passai un braccio attorno alla vita e lo condussi nella camera degli ospiti, seguita da Bess, evidentemente incuriosita da quello strano soggetto che stavo trasportando in quella che, di solito, era la stanza dove la lasciavo combinare tutti i disastri che voleva, visto che non avevo spesso ospiti. Fortuna che avevo cambiato le lenzuola quella mattina. Lo lasciai cadere sul letto, dove fece un piccolo rimbalzo, prima di ricordarmi che probabilmente mio fratello stava ancora aspettando una mia risposta.
«Emm?», chiesi incerta.
«Isabella! Che diavolo è successo?», sbraitò furioso. Emmett non si arrabbiava spesso, soprattutto non con me, quindi dovevo averlo fatto preoccupare parecchio.
«Era solo un amico ubriaco. Ora è nella stanza degli ospiti», spiegai, sedendomi sul letto, attenta a non schiacciare la mano di Amore, che stava cercando di voltarsi senza molto successo.
«Un amico ubriaco? E perché diavolo è dovuto venire proprio a casa tua? Alle due e mezza di notte, per giunta!». Io feci spallucce anche se sapevo che non poteva vedermi.
«Non lo so. Glielo chiederò quando si sveglia, se è così importante per te, ma ora devo andare prima che vomiti l’anima sul tappetino preferito di Bess. Buonanotte Emm, e grazie!», dissi riattaccando. Guardai amore che, disteso sul letto con il mio cane che gli leccava un orecchio con circospezione, sembrava più una foca arenata con un casco da football rosso in testa che l’uomo irritante che era la maggior parte delle volte.
«Che ne pensi, Bess?», chiesi mentre iniziavo a spogliarlo dai vestiti che odoravano di acido e di cacca di piccione, anche se in molti sostengono che quest’ultima non abbia odore. Lei abbaiò una sola volta e iniziò a scodinzolare piano, segno che non aveva ancora deciso se Amore sarebbe potuto entrare nelle sue grazie canine oppure no, e poi iniziò a tirare una manica della sua maglia a maniche corte, come a volermi dare una mano mentre io mi occupavo delle scarpe e dei pantaloni di Capitan Eddy che, tanto carinamente, era venuto fino a lì con l’intento di salvarmi. O più probabilmente aveva sbagliato via.
«Dagli una possibilità, Bess», le dissi mentre le sfilavo dalla bocca la manica ormai fradicia. «Non hai ancora visto la faccia del cavolo che fa quando si convince che ci sia qualcuno di pazzo nella sua stessa stanza. Chissà che espressione avrà quando capirà di essere lui, eh?». Bess abbaiò una volta e scodinzolò allegramente, impaziente di vedere qualche fosse la faccia di cui parlavo visto che, per il momento, tutto ciò che aveva visto di lui erano stati i capelli e l’orecchio.
Ci sarebbe stato da divertirsi.


*Gimme shelter: è uno dei miei film preferiti. se volete cercarlo il titolo italiano è "Non lasciarmi sola", se l'avete già visto siete già i miei migliori amici.

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