Ciao ragazze. Mi
dispiace per il ritardo mostruoso, vi chiedo
umilmente perdono. Questo capitolo è più di
passaggio, che di azione vera e
propria. È più che altro un piccolo spezzone di
quotidianità dei nostri due
personaggi. Spero vi piaccia J Spero anche in
un commentino. Un bacio,
Sara.
Capitolo
Due: Souvenirs
I
flebili raggi del sole colpivano la
piccola, chiara, camera da letto, attraversando le svolazzanti tende
arancioni.
Una fastidiosa musichetta proveniva dalla radio sveglia posta sul
comodino,
mentre sullo schermo lampeggiava l’orario: le 6:45. Amaya,
sdraiata sul suo
letto, grugnì, infastidita dall’odioso rumore.
Schiacciò il viso nel cuscino e
colpì l’oggetto con la mano, che smise di suonare
cadendo a terra. Un’altra
giornata di lavoro l’attendeva. Si sistemò
svogliatamente a sedere sul letto,
sbadigliò e si strofinò stancamente gli occhi.
Lavoro, università e ancora
lavoro. Quella routine la stava distruggendo. Si alzò,
uscì dalla sua camera e
si diresse in cucina. L’unica cosa di cui aveva bisogno in
quel momento era una
grossa tazza di caffè bollente.
Belle
le corse incontro, scodinzolando,
e le saltò sulle gambe. Amaya sorrise, felice di vedere il
suo bellissimo cane,
e le donò qualche carezza e una pacca amichevole. Belle era
un cane di bellezza
degna dei migliori concorsi. La ragazza non poteva passeggiare
tranquillamente
con il suo cane senza che qualcuno la fermasse. Belle era una splendida
Husky
dal manto grigio scuro e bianco, con gli occhi azzurri come il
ghiaccio. Ma
soprattutto, era un cane dal carattere fantastico: legata ad Amaya con
tutto
l’amore che un cane può avere per un padrone. Per
la ragazza, Belle non era
solo il suo cane: era un’amica fedele e leale.
Continuò
a dirigersi verso la cucina,
mentre la cagnolina le girava intorno scodinzolando.
-
Sì, lo so che anche te vuoi fare
colazione. Ma lasciami almeno arrivare in cucina! - la ragazza rise,
dando
un’altra carezza al pelo morbido e fitto
dell’animale. Belle abbaiò di
risposta, con allegria.
Mise
sul fuoco la caffettiera e,
mentre aspettava che il caffè venisse su, prese dal cassetto
sopra la sua testa
dei croccantini e li rovesciò nella ciotola del cane. Belle
si abbassò ad annusarli
ed emise un verso contrariato, alzando il muso verso la padrona.
-Ehi,
non fare così eh. So bene che
preferisci la carne, ma sai che al mattino devi mangiare anche i
croccantini-
Belle ripeté il suo verso contrariato ma si mise a mangiare
la sua colazione,
rassegnata. Amaya scosse la testa divertita e spense il fuoco del
fornello: la
caffettiera borbottava. Versò il contenuto in una tazza e si
sedette al tavolo,
sorseggiando il liquido caldo che le scivolava per la gola, scaldandole
tutto
il corpo. Mangiò qualche biscotto distrattamente, mentre
osservava il paesaggio
oltre la porta finestra della cucina, la quale dava sul piccolo
giardino.
Quella domenica di marzo, il sole era basso all’orizzonte. I
timidi raggi
solari coloravano il cielo azzurro di una leggera sfumatura arancione,
eppure
la giornata non era affatto calda. Continuò a osservare la
verde distesa di
prato, con l’erba ancora ricoperta di rugiada.
Aveva
faticato così tanto per avere
una casa che fosse immersa nel verde ed era stata entusiasta quando
l’agente
immobiliare le aveva comunicato che finalmente era sua.
-Non
lo avrai mica finito tutto?!- i
suoi pensieri furono interrotti dalla voce squillante di una ragazza
dai
capelli rossi che era entrata nella cucina.
-Te
ne ho lasciato un po’, acida- la
rossa si stiracchiò i muscoli delle braccia, sbadigliando
rumorosamente. Si
rovesciò il caffè rimasto in una tazza e si
sedette accanto all’amica.
-La
tua bestia mi ha svegliata. Deve
per forza abbaiare?- sentenziò questa, rivolgendo
un’occhiata truce alla
cagnolina. Amaya la guardò esterrefatta, inarcando le
sopracciglia.
-Becky!
Non parlare così di Belle,
caspita! Non è una bestia, è un cane;
è ovvio che abbai!- l’Husky, come se
avesse compreso quello che Becky le aveva detto, ringhiò
infastidita verso di
lei. La rossa borbottò qualcosa e poi continuò a
sorseggiare il suo caffè.
Amaya
si alzò da tavola e andò nel
bagno per continuare a prepararsi.
-Non
dilungarti troppo, arriveremo in
ritardo- avvertì. La rossa annuì e Amaya
sparì nel bagno.
Passata
mezz’ora, Amaya era sulla
porta che batteva impazientemente il piede sul pavimento. Aveva legato
i lunghi
capelli corvini in una liscissima coda di cavallo. Il viso era rimasto
pulito,
solo del mascara nero le infoltiva le già lunghe ciglia.
Indossava già la
divisa da lavoro, bianca e rossa, così da limitare il
ritardo. Osservò l’ora
sul suo orologio da polso.
-Becky,
muoviti, santo cielo!
Arriveremo ancora in ritardo!- l’amica le urlò di
essere quasi pronta. Quindi,
Amaya si sistemò nel lungo cappotto bianco, prese la sua
borsa e salutò Belle,
seduta accanto alla porta. La ragazza le allungò un grosso
osso di gomma che la
cagnolina prese volentieri.
-Non
distruggermi il giardino, mi
raccomando- Belle continuava a rosicchiare il suo osso, quando
finalmente Becky
uscì in giardino, infilandosi il cappotto.
-Pronta?-
domandò la mora. La rossa
alzò il pollice facendole l’occhiolino. Anche
Becky aveva legato i lunghi
capelli ricci in una coda di cavallo. Ma, a differenza
dell’amica, lei amava
truccarsi pesantemente: gli occhi truccati con l’ombretto
nero, il fard color
mattone sulle guance e il rossetto del medesimo colore. Ma questo era
normale
per una ragazza al terzo anno della Facoltà di Moda e Design
di Berlino.
Salirono sulla loro piccola utilitaria e sfrecciarono sulle strade
della città.
***
Un
mucchio di documenti erano sparsi
sul lungo tavolo in legno della sala conferenze. Tom percorreva avanti
e
indietro la stanza a grandi falcate, con aria affranta. Dopo tre giorni
dal
ritrovamento della ragazza, Julia, il caso non sembrava fare passi
avanti. Le
foto delle tre giovani e belle ragazze erano appese alla lavagna
trasparente,
sembravano guardarlo con sguardo accusatorio. L’ispettore si
passò una mano tra
i capelli, sbuffando sonoramente.
A
peggiorare la situazione, quella
mattina era arrivata una lettera con il suo nome scritto chiaramente
anteriormente. Georg aveva ancora in mente il volto del compagno,
quando aprì
la lettera: lo vide impallidire improvvisamente e i suoi occhi si
spalancarono.
Scosse la testa, quel caso stava lentamente distruggendo il suo amico.
Sapeva
quanto gli stesse a cuore e, soprattutto, quanto si tormentasse per la
fine di
quelle povere ragazze. Eppure quel caso, e quella lettera, avevano
sconvolto
tutti.
“Non
mi fermerai, Kaulitz. Ho appena cominciato.”
Si
era aperta una guerra, e loro la
stavano perdendo in partenza.
Decise
di uscire per una sigaretta,
magari si sarebbe schiarito le idee. Indossò il cappotto
scuro e uscì nel
cortile, sfregandosi le mani per il freddo. Si appoggiò con
la schiena al
tronco di un albero e si accese la sigaretta. Socchiuse gli occhi,
beandosi del
fumo che gli avvolgeva i polmoni.
Il
suo cellulare trillò. Osservò
sullo schermo il nome del mittente e aprì il messaggio,
alzando gli occhi al
cielo. Ancora non capiva perché suo fratello si ostinasse a
comunicare con lui
per messaggio quando si trovava a un paio di stanze dopo la sua.
“Finisco
al solito orario. Mi hanno parlato di un posto, dicono sia fico. A
dopo!”
Tom
sorrise. Suo fratello lavorava
spesso con lui. La cosa lo spaventava all’inizio, ma, per
fortuna, raramente
Bill era chiamato a lavorare sul campo. Lui e il suo compagno, Gustav,
erano
due Profiler. La loro era una figura fondamentale nel processo di
cattura di un
assassino. Tom adorava i casi in cui era implicato suo fratello. Questo
non era
uno di quelli ma Tom era così disperato che sapeva di dover
chiedere il suo
aiuto.
Immerso
nei suoi pensieri, quasi non
si accorse della sigaretta che si consumava tra le sue dita. Doveva
rientrare.
***
Parcheggiarono
l’auto in fretta e
furia e si catapultarono all’interno della tavola calda,
passando dal retro.
Aprirono i loro armadietti e si affrettarono a indossare il grembiule
bianco.
Si guardarono intorno, ma del loro capo nessuna traccia. Sospirarono,
sollevate, e varcarono la porta che portava al salone da pranzo.
-Signorine!
- una voce tonante le raggiunse. Strizzarono gli occhi. Beccate…-Siete
in ritardo! Di nuovo! – le ragazze guardarono
l’orologio posto dietro al bancone.
-Ma,
signor Schmitz, sono solo le
8:02! – replicò Becky con aria affranta.
-Sono
due minuti di ritardo. La
prossima volta vi faccio un reclamo. Qui, i ritardi non sono tollerati
–
rispose severamente. Era un uomo rude, alto e robusto. Aveva i capelli
cortissimi e neri che facevano contrasto con i suoi occhi glaciali.
Aveva
quarant’anni e un bell’aspetto, ma il suo carattere
duro lo rendeva antipatico
sia ai clienti sia ai dipendenti.
Le
ragazze annuirono e si misero al
lavoro, a capo chino. Quel giorno, a Becky toccava stare dietro il
bancone a
preparare i piatti, mentre Amaya doveva stare in sala per servire i
tavoli. La mattina
fu frenetica ma niente in confronto all’ora di pranzo. Erano
al completo. I
tavoli erano pieni di persone che aspettavano di essere serviti da lei.
L’altra
cameriera, Samantha, si era data malata all’ultimo. Dunque,
si era trovata ad
affrontare tutto quel lavoro da sola, correndo da un tavolo
all’altro.
A
uno di essi, stavano seduti quattro
ragazzi intenti a parlare.
***
-Ah,
ma io e Tom conosciamo molto
bene questo posto, vero compare?- esordì, ironico, Georg.
-Prendi
per il culo, Listing?-
rispose con ironia, il che fece ridere ancora di più
l’amico. Poi si rivolse al
fratello: -Ho bisogno del tuo parere, Bill. È la terza
vittima, vorrei
prenderlo prima che ne faccia una quarta!- l’ispettore si
strinse la testa fra
le mani, tenendo lo sguardo supplicante sul fratello. Bill
sospirò affranto.
Aveva già molto lavoro e, in un’altra occasione,
avrebbe rifiutato. Ma riusciva
a sentire la disperazione del fratello, proprio come se fosse sua.
-Okay,
aggiornami- rispose. Tom
chiuse gli occhi con un sospiro, rilassandosi. Dalla valigetta di
lavoro estrasse
gli ultimi documenti, porgendoli al fratello. Bill leggeva gli
aggiornamenti,
corrugando la fronte di tanto in tanto. Tom aspettava che lui parlasse,
picchiettando nervosamente le dita sul tavolino. Mentre nella mente
aveva
ancora l’immagine dell’ultima vittima, Julia, i
suoi pensieri vennero
interrotti da una voce soave.
-Buongiorno,
volete ordinare?- la
voce era frettolosa e tremolante. I ragazzi alzarono lo sguardo verso
la
ragazza mora, poi spostarono lo sguardo sul menu rimasto chiuso sul
tavolo: non
avevano pensato a cosa ordinare. Tom, involontariamente,
continuò a fissarla.
Solo quando lei abbassò lo sguardo, sorridendo imbarazzata,
lui si accorse di
essere imbambolato. Scosse il capo e le chiese un hamburger e una
Coca-Cola. Il
resto del gruppo fece un ordinazione veloce, così Amaya
poté tornare agli altri
tavoli.
-Terra
chiama Tom- Bill sventolava la
mano davanti agli occhi di suo fratello, il quale sembrava non
accorgersene e
continuava a fissare la cameriera. Quando finalmente si
destò, rimase a
boccheggiare qualche secondo, avvertendo lo sguardo dei tre amici su di
sé.
-Hai
finito di consumare con gli
occhi la cameriera?- continuò il gemello, sogghignando. Tom
sorrise
imbarazzato, con le gote improvvisamente rosse. Infine diede una pacca
al
braccio del ragazzo, intimandogli di piantarla.
Ricominciarono
a discutere del caso,
ma presto vennero interrotti da un secco rumore di vetri infranti.
Tutti si
voltarono nella direzione del frastuono. La cameriera era piegata verso
il
pavimento, mentre cercava di raccogliere i pezzi di un bicchiere
caduto.
Sembrava molto agitata e a Tom fece molta tenerezza.
-Lewis!
Quello te lo detraggo dallo
stipendio!- urlò un uomo con la voce profonda. Il signor
Schmitz si dirigeva
con passo pesante verso la ragazza, che sembrava diventare sempre
più piccola
sotto quelle urla.
-Sei
un’incompetente! Dovrei
licenziarti!- Amaya tirò su con il naso, continuando a
raccogliere pezzi di
vetro dal pavimento.
-Mi
scusi, signor Schmitz, sono
inciampata- sussurrò lei, mortificata. L’uomo
l’afferrò per la manica,
strattonandola per farla alzare, e le puntò un dito davanti
il viso,
continuando ad urlare.
-Ehi!
Le sembra il modo di trattare
una signora?- esordì Tom, parandosi accanto
all’uomo.
-E
tu chi saresti? Il suo avvocato?-
sputò l’uomo, con acidità. Tom lo
osservò per un istante: era un uomo robusto,
sui quarant’anni, con i capelli corti e scuri e gli occhi
glaciali. Aveva un
bell’aspetto, se non fosse stato per la camicia gialla a
quadroni e soprattutto
un’orrenda cravatta a quadri rossi e gialli. Tom pensava di
non aver mai visto
una cravatta più orrenda di quella.
-No,
non sono il suo avvocato. Sono
un poliziotto- il signor Schmitz cambiò velocemente
espressione e allentò la
presa al braccio della ragazza, così lei se ne
liberò, massaggiandosi.
-Ehi
amico, non è successo niente.
Era solo un diverbio- diede una pacca sulla spalla del ragazzo, che lo
guardò
sprezzante.
-Bene,
facciamo in modo che non ce ne
siano altri. Amico- Tom
ricambiò la
pacca con un sorriso ironico e si avvicinò alla ragazza.
-Stai
bene?- le domandò, con premura.
Amaya sorrise dolcemente e annuì.
-La
ringrazio agente- Tom stava per
ribattere, non voleva gli desse del “lei”. La voce
vicina di Bill, però, gli
ricordò di essere in ritardo. Così, si
congedò rapidamente e seguì di corsa gli
amici fuori dal locale. Amaya rimase ad osservarlo allontanarsi per
alcuni
secondi, poi sorrise e tornò al lavoro.
***
Nel
pomeriggio, Tom faticava a
concentrarsi. Seduto al tavolo insieme ai tre amici, cercava di capire
la
prossima mossa del killer. Tuttavia, la sua mente continuava a vagare
al
sorriso di Amaya quando lui le aveva chiesto se stesse bene.
-Tom,
dannazione, vuoi prestare un
po’ di attenzione!- sbottò il gemello con stizza.
L’ispettore scosse il capo
come a volersi togliere quell’immagine dalla mente.
-Scusa
Bill, hai ragione. Cosa stavi
dicendo?- Bill sbuffò, lanciando un’occhiataccia
al fratello, e poi riprese il
discorso.
-Stavo
dicendo, gli omicidi sono
molto violenti. Sono guidati dalla rabbia. Ciò significa che
le vittime e
l’assassino si conoscevano o, per lo meno, devono essersi
incontrati prima di…-
-Ho
capito,- continuò il fratello
–quindi si conoscevano…- sospirò,
pensoso.
-Signor
Kaulitz- i gemelli si
voltarono contemporaneamente verso l’entrata, incontrando lo
sguardo velato di
una ragazza mora.
-Signorina
Kamm- rispose Tom,
alzandosi per dirigersi verso di lei. Le strinse la mano e la
invitò ad
avvicinarsi; -mi dica…-
La
ragazza si strofinava le braccia
con fare nervoso, era pallida e aveva gli occhi rossi.
-Ragazzi,
lei è la sorella della
signorina Julia Kamm-
-Ci
dispiace molto per la sua
perdita, signorina. Stiamo facendo il possibile per trovare quel
mostro- Gustav
le rivolse un sorriso, ma la ragazza rimase impassibile, annuendo
debolmente.
-Signor
Kaulitz, vorrei chiederle una
cortesia. Vorrei riavere la collana di mia sorella. Sa, apparteneva a
nostra
madre… Io ci terrei a riaverla…- Tom
corrugò la fronte, perplesso. Non
ricordava nessuna collana sul corpo della ragazza.
-Signorina,
sua sorella non aveva
gioielli quando l’abbiamo trovata- la ragazza strinse gli
occhi con forza,
sull’orlo del pianto e scosse la testa.
-Non
è possibile. Julia non si
toglieva mai la collana di mamma. Non l’avrebbe mai tolta.
Mai- sottolineò. Tom
si voltò verso i compagni, accigliato, ma loro scossero il
capo. La ragazza, allora,
estrasse il cellulare dalla tasca e ci armeggiò per qualche
secondo, poi lo
porse al ragazzo.
-Ecco
vede, questa è la collana che
non si toglieva mai;- continuò indicando la foto e mostrando
la stessa collana
che lei aveva al collo; -se la trovate, vi prego di riportarmela- si
asciugò
velocemente gli angoli degli occhi e si riprese il cellulare.
Ringraziò gli
agenti e si congedò velocemente.
I
ragazzi, confusi, cominciarono a
riguardare i documenti. Finché Gustav non sbattè
il pugno sul tavolo, facendo
sussultare i compagni. Poi indicò sei foto, delle tre
ragazze sia da vive sia
da morte.
-Guardate
qua!- urlò; -Cosa notate?-
gli amici lo raggiunsero, osservando ciò che lui indicava.
-Io
non vedo nulla di strano- rispose
Georg.
-L’anello-
indicò Tom. –Non ha
l’anello-
-Esatto!-
continuò Gustav.
-Il
figlio di puttana prende dei
ricordi-
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