If music be the food of love ...

di The Writer Of The Stars
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1- You'll be in my heart ***
Capitolo 2: *** #2. Some Nights ***
Capitolo 3: *** #3: Who wants to live forever? - Queen ***
Capitolo 4: *** Don't stop believing - Journey/Glee Cast ***
Capitolo 5: *** Seasons of love - Rent/Glee Cast ***
Capitolo 6: *** #6 - Bohemian Rapsody, Queen ***
Capitolo 7: *** #7: Tears in heaven, Eric Clapton ***
Capitolo 8: *** You'll be in my heart (2) ***
Capitolo 9: *** Warrior, Demi Lovato ***
Capitolo 10: *** #10; Make you feel my love, Lea Michele ***



Capitolo 1
*** 1- You'll be in my heart ***


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"Why can't they understan the way we feel?" - You'll be in my heart, Phil Collins


“Trunks!” il bambino dai capelli color glicine si voltò verso la provenienza di quella voce infantile. A pochi passi da lui, scorse il suo migliore amico, grattarsi la zazzera scompigliata con un gesto impacciato. Lo squadrò un attimo, sorridendo leggermente, nel constatare quanto fossero diversi. Goten era uguale a suo padre, una piccola miniatura di quell’uomo che gli avevano spiegato essere il salvatore della terra. aveva conosciuto Goku poco tempo prima, il giorno del torneo Tenchaichi, avvenuto ormai neanche una settimana prima. Gli era subito parso simpatico, quando si era presentato a loro con quella vecchia tuta arancione indosso, così simile a quella che il suo amico indossava sempre. Immediatamente, senza nemmeno rendersene conto, aveva fatto il confronto con il suo di padre; Goku era l’esatto opposto di Vegeta. aveva osservato attentamente ogni gesto che l’uomo dai capelli a forma di palma compiva. Aveva spiato anche tutti gli abbracci, le pacche sulle spalle, le scompigliate di capelli che Goku aveva dispensato al piccolo Goten, durante quella giornata di festa. Per un attimo, il fatto che Majin Bu fosse davvero stato sconfitto, era passato in secondo piano, quando aveva visto Goku prendere in braccio la sua mini copia e lanciarla scherzosamente in aria. Tutto il combattimento, le botte, i lividi e le cicatrici che sarebbero rimasti di quell’avventura che aveva rischiato non avere fine, erano stati oscurati da uno strano sentimento che era certo non aver mai provato prima. Era un fastidio all’altezza della cassa toracica, che si insinuava all’interno delle ossa, corrodendogli l’anima. Non sapeva come chiamarla, e non sapeva nemmeno per quale motivo lo facesse stare così male. Sapeva però che vedere Goku ridere e scherzare così affettuosamente con suo figlio, gli dava fastidio. Gli dava fastidio, perché lui non riceveva mai gesti del genere. Certo, sua madre lo coccolava e lo viziava ogni giorno, fino alla nausea ma …

“Trunks?” lo richiamò nuovamente il bambino dai capelli corvini. Trunks scosse leggermente il capo, tornando alla realtà. Quei pensieri erano assurdi.

“Cosa c’è Goten?” chiese, cercando di riacquistare il solito tono beffardo. La bocca di Goten si aprì in un largo sorriso.

“Io e papà andiamo a giocare giù al fiume.” Cominciò. All’udire quelle parole, il nodo allo stomaco di Trunks si strinse maggiormente.

“Vieni anche tu?” Trunks avrebbe tanto voluto urlare che no, non gliene importava niente di dove Goten e suo padre andassero.

“No, resto un po’ qui.” Rispose invece semplicemente. Goten annuì, e senza fare domande, si defilò con un rapido “okay, come vuoi”,che si perse nel vento, mentre il piccolo correva in direzione di suo padre. Trunks osservò padre e figlio allontanarsi insieme, allegramente, e per un attimo, gli venne quasi l’istinto di distruggere tutto ciò che lo circondava. Sentiva le voci di sua madre, di Chichi e di tutti gli altri risuonare nel giardino della casetta sui monti Paoz, dove si erano riuniti tutti ormai da diverse ore, dopo la sconfitta del mostro rosa. Sentì un peso piombargli sul cuore, e per poco non si sentì soffocare. Prese un profondo respiro, scuotendo lentamente il capo. Un po’ d’aria, aveva solo bisogno di un po’ d’aria, pensò.

A piccoli passi, si incamminò verso la grande distesa di alberi che si espandevano a macchia d’olio, a pochi metri dalla piccola casa dove la comitiva brindava alla vittoria. Si addentrò nel boschetto a testa bassa, riflettendo su quanto era accaduto. Ci pensò, e capì che quel peso che gli opprimeva il cuore non era nato solo alla vista di Goku e Goten. Cioè, non solo per quello. Si rese conto, che quel peso lo aveva accompagnato durante tutti quei giorni di lotta e agonia. E si rese anche conto, che non sapeva perché. Continuava a camminare a testa bassa, non capendo più niente ormai. Non si rese quasi nemmeno conto di essere inciampato su qualcosa e di essere caduto in terra. Non se ne rese conto, almeno fino a quando non fu una voce burbera a rimproverarlo.

 “Trunks!” aprì gli occhi, trovandosi a pochi centimetri da un ciuffo d’erba.

“Si può sapere che diavolo stai facendo? Ma dove hai la testa?!”  si decise finalmente a voltare un po’ il capo, giusto quel poco che bastava per scorgere colui che lo aveva rimproverato tanto duramente. Gli occhi di suo padre lo fissarono seri, senza accennare un minimo cambiamento d’espressione. Vegeta stava appoggiato al tronco di un albero, seduto in terra e con le gambe distese dinnanzi a sé. Ecco in cos’era inciampato, pensò Trunks. Non si accorse di quanto tempo passò da quando aveva cominciato a fissare suo padre. Forse minuti, forse secondi, non lo sapeva. Si era semplicemente incantato, rimasto immobile a fissare il riverbero della luce solare, ormai calante, negli occhi d’antracite di suo padre.

“Trunks! Ti ho fatto una domanda, esigo una risposta! Sai che odio essere ignorato …” ma Trunks non lo stava più ascoltando. Era ancora rimasto disteso in terra, con il capo voltato di lato, a fissare un uomo che sin da piccolo aveva imparato a chiamare papà. e perso nelle pozzi di petrolio di suo padre, aveva capito tutto. Era stato un pensiero fulminante, giunto come una scossa; aveva sentito il peso sul cuore appesantirsi ancora di più e una sensazione di disagio lo aveva inondato. E aveva capito. Aveva capito che la colpa di tutto era di suo padre. Vegeta era l’estremità di quel groviglio che lui si portava dentro, attorcigliato dagli anni di indifferenza sopportati in silenzio. Non se ne era mai accorto, ma quel groviglio, ce lo aveva sempre avuto dentro di lui. Forse lo aveva sommerso con strati e strati di sfacciataggine, con quell’atteggiamento burlone e sfrontato, che agli occhi di tutto lo rendevano un bambino a dir poco vivace, un monello, come diceva Chichi. E che forse, non se ne era reso conto nemmeno lui, ma in realtà nel profondo si sentiva triste. A sette anni il massimo della disperazione poteva essere causato dalla rottura di un giocattolo. Trunks invece era molto più maturo dei suoi coetanei, e in realtà, nonostante ostentasse una sicurezza ineccepibile, dentro di sé si sentiva vuoto. Quella strana sensazione quindi c’era sempre stata, lo aveva sempre accompagnato dal giorno in cui i suoi occhioni azzurri si erano posati sulla figura austera di suo padre. Lui lo adorava e lo venerava quasi fosse un dio, e i continui rifiuti e i mancati gesti d’affetto da parte del genitore, avevano fatto sì che la delusione inghiottita come un boccone amaro, si agglomerasse e solidificasse in quegli anni. Senza accorgersene, in lui viveva l’anima di un bambino tormentato e deluso, in un certo senso, dalla mancanza di affetto di un padre diverso da come si aspetterebbe. C’era poi stato l’arrivo di Majin Bu, e forse un po’ per la paura di morire, un po’ per tutto quello che suo padre aveva combinato, un po’ per la responsabilità di sconfiggere quel mostro piombatagli addosso da un momento all’altro, il gomitolo era venuto fuori. O forse, era riemerso nel momento in cui suo padre lo aveva abbracciato. In quel momento, a dire il vero, si era sentito un completo idiota. Aveva bramato per anni quel contatto, atteso sin da quando aveva cominciato a pronunciare le prime parole di essere stretto a quelle braccia muscolose. E quando finalmente era accaduto, quando prima di morire suo padre aveva voluto donargli ciò che mai gli aveva dato, lui cosa aveva fatto? Si era limitato a dire un assurdo “smettila papà, mi fai diventare rosso …” eppure quell’abbraccio aveva risvegliato tutto. E adesso aveva capito, aveva capito che c’era un complicato groviglio incastrato tra le sue arterie e il suo cuore. E se c’era ancora una possibilità di scioglierlo, un modo per allentarlo, era tirando quel capo che adesso stringeva tra le dita. Boccheggiò qualche attimo, prima di riuscire a riacquistare il pieno possesso delle proprie capacità mentali.

“N – niente …” riuscì a balbettare infine. Vegeta continuò a fissarlo, infastidito.

“Hai intenzione di restare lì per terra per tutto il giorno?” domandò poi brusco. Trunks scosse il capo, andando poi a rialzarsi. Si inginocchiò dinanzi a suo padre, fissandolo intensamente negli occhi. Lui rimase impassibile, ricambiando lo sguardo del figlio. Alla fine, Trunks decise che potevano anche smetterla di fissarsi come due perfetti estranei. Si avvicinò così a suo padre, sedendosi anche lui con la schiena poggiata al tronco della quercia secolare. Puntarono entrambi lo sguardo al bosco dinanzi a sé, senza muoversi minimamente. Trunks voleva parlare, ma la verità è che non sapeva cosa dire. Pensò di poter cominciare il discorso con un “sai papà, è tutta colpa tua …” ma poi pensò che però non era giusto. Pensò anche che in realtà, proprio colpa di suo padre non era, e pensò anche che alla fine nemmeno lui sapeva davvero cosa volesse.

“Si può sapere che ti prende?” sbottò alla fine Vegeta, dopo aver ascoltato il rumore del silenzio. Trunks sobbalzò leggermente. Puntò gli occhi sulla chioma dell’albero che faceva loro ombra, e si ritrovò a fissare le foglie verdi e larghe che ricoprivano lo scheletro nodoso, la struttura frattale dei rami.

“N – niente.” Si ritrovò a balbettare. Il viso di Vegeta si contrasse in una smorfia indecifrabile.

“Non prendermi in giro, Trunks. Dimmi cosa ti prende.” Tuonò imperioso. Trunks deglutì a fatica, mandando giù un grosso groppo di saliva, che si era fermato proprio al centro dell’epiglottide. Continuò a fissare i rami sopra di sé, interessandosi poi agli squarci di cielo offerti tra una fronda e l’altra.

“Non ne ho idea …” sussurrò, ed era vero.

 “Trunks, finiscila di fare il bambino …”

 “Io sono un bambino, papà!” Trunks non si rese nemmeno conto di aver urlato, né tantomeno di aver contradetto suo padre.
 Dal canto suo, Vegeta rimase immobile. Spalancò le iridi color della notte, e uno strano stato di confusione lo avvolse. Quasi non si era accorto di aver detto a suo figlio di smetterla di fare il bambino. Solitamente non pesava molto le parole, raramente le ascoltava. Gli era venuto quindi spontaneo rivolgersi così a suo figlio, quasi stesse parlando ad un guerriero sayan. Che a pensarci bene, Trunks era un guerriero, mezzo sayan, ma indubbiamente più potente di tutti coloro appartenenti alla sua stessa razza, si ritrovò a pensare il Principe. Trunks racchiudeva in sé tutte le doti che un buon guerriero deve possedere, e che non è solo la forza fisica. Trunks è intelligente, furbo, coraggioso, scaltro e ingegnoso. Metterlo in difficoltà era tanto difficile quanto riuscire a batterlo. Ma Trunks era anche un mezzo terrestre e inevitabilmente il gene di Bulma si era insinuato nel cromosoma genetico del piccolo, rendendolo a sette anni, un concentrato di egocentrismo, forza, intelligenza e coraggio senza precedenti. Probabilmente, se in un’assurda ipotesi Vegeta e Bulma avessero ricorso alla fusione, il guerriero nato sarebbe stato esattamente come Trunks. Che poi, a pensarci bene, era un pensiero stupido. Era stupido, perché Trunks era già il frutto di un’unione; l’unione tra la scienziata più tediosa, irritante, egocentrica, fastidiosa, intelligente, dolce, coraggiosa e bella mai esistita; e tra il megalomane, presuntuoso, burbero, orgoglioso, scontroso, tenace, testardo, bello e forte Principe di una razza di guerrieri alieni ormai estinta. L’unione tra due anime difficili da comprendere, ma complementari, come una frazione a cui manca il suo intero. L’unione tra Bulma e Vegeta. Trunks era stramaledettamente imperfetto, ma in mezzo a tutta quell’imperfezione, c’era qualcosa di impeccabile, di perfetto; l’anima di un bambino. E l’anima dei bambini sono la cosa più pura mai generata dalla natura. Le anime dei bambini sono intoccabili, perché sono innocenti, colpevoli solo a volte di essere nati in un mondo in cui non c’è spazio per la loro purezza, per la loro spontaneità, per il loro modo così imperfettamente perfetto di essere bambini. Vegeta l’aveva capito solo adesso. Non aveva mai considerato Trunks come un bambino; un guerriero, il figlio del Principe dei Sayan, il frutto della sua unione con la donna che amava. Ma mai si era soffermato su quel dettaglio fondamentale, scontato; Trunks era un bambino.
 

Suo figlio gli piaceva. Gli piaceva, perché gli somigliava terribilmente. Prima di quella settimana, suo figlio gli piaceva e basta. Si era reso conto di amarlo, nel momento in cui aveva dato la sua vita per salvarlo. E glielo aveva anche detto, a modo suo. Lo aveva stretto a sé, cingendo la figura minuta di suo figlio con un solo braccio, imbarazzato, perché in realtà non era mai stato in grado di abbracciare nessuno.  E gli aveva anche detto cosa davvero pensava di lui; gli aveva detto che era orgoglioso di lui. Certo, poco importa che dopo nemmeno un secondo lo aveva colpito alla nuca, stordendolo. L’importante era che glielo avesse detto. Ma forse, pensò il Principe, quella sola volta non era bastata a colmare un vuoto causato da sette anni di indifferenza. Quasi come Trunks, anche lui d’un tratto sentì qualcosa gettarsi a peso morto sul suo cuore. Sentì anche lui quel groviglio che si era insinuato nell’animo di suo figlio, e si rese conto di avere lui in mano l’estremità del filo invisibile. Toccava a lui tirarla.
 

 Trunks intanto era rimasto a fissare le fronde degli alberi. Aveva spalancato gli occhi nel sentire la propria voce rispondere così duramente al padre, e adesso aspettava una qualunque reazione dal genitore. Voltò leggermente il capo in direzione dell’uomo al suo fianco, scoprendolo fissare un punto indefinito dinanzi a sé con la solita espressione dura di sempre. Impossibile dire a cosa stesse pensando. Boccheggiò per qualche attimo, indeciso sul da farsi.

“P – papà scusa, non volevo …” 

“Hai ragione.” Lo interruppe invece Vegeta. Trunks fissò suo padre come se avesse dinanzi a sé un fantasma.

“Hai ragione, sei un bambino. Il fatto è che spesso tendo a dimenticarlo …” disse Vegeta, sorridendo amaramente. Trunks era rimasto con la bocca aperta e gli occhi spalancati. Non seppe spiegarsi come trovò il coraggio di parlare. Lo fece e basta.

 “Papà … è colpa tua.” Disse solamente. Vegeta non si mosse, incassando quelle parole con la solita indifferenza. Giusto un leggero tremolio delle sopracciglia fece da riverbero al fastidio causato dalle parole del figlio. Sapeva a cosa si riferisse, era stata colpa sua se Majin Bu si era risvegliato. Da quando era ritornato nel mondo dei vivi, da poco tempo a dire il vero, nessuno aveva accennato al come quell’incubo avesse avuto inizio. Non avevano voluto parlare proprio dinanzi a lui, infierire ricordandogli che la ragione per cui la Terra aveva rischiato di lasciare un vuoto nell’immenso spazio, era stata risvegliata da lui. Tutti lo sapevano che era stata colpa sua, sua e di quello stupido orgoglio che si portava dietro e indossava come la maschera di un commediante a cui è stata affidata una parte da recitare. Lui doveva recitare per tutta la vita. C’era voluto un bambino a dirglielo, anche se già lo sapeva. Non aveva considerato però quel tono così ingenuo, candido e allo stesso tempo macchiato dalla sofferenza che un bambino di sette anni non dovrebbe MAI provare, accusarlo che si, la colpa di tutto era stata sua. E non aveva nemmeno pensato a quello strano fastidio all’altezza del petto scatenatosi nel sentire proprio suo figlio rivelargli quella semplice verità. E pensò anche che quel dolore interiore, quel senso di malessere e di colpa, se lo era solo immaginato.

“Lo so.” Disse solamente, ostentando quel tono freddo e quello stupido orgoglio che lo aveva portato a vendere la propria anima ad un mago da quattro soldi. Trunks rimase zitto.

“Lo hanno detto loro.” Disse alla fine. Vegeta aggrottò le sopracciglia.

“Loro chi?” chiese con tono inquisitorio. Trunks scrollò le spalle.

 “Tutti. Al palazzo del supremo, lo dicevano sempre. Bisbigliavano sottovoce, perché avevano paura che potessi sentirli. Ma io li ho sentiti …” confessò con innocenza Trunks.

 “Solo la mamma non diceva niente.” Riprese poi. Una luce saettò negli occhi di Vegeta.

“Cosa faceva lei?” chiese infatti il Principe. Trunks sorrise amaramente.

“Piangeva.” Disse con l’ingenuità che solo un bambino di sette anni può possedere. A Vegeta mancò un battito. Non diede a vederlo, ma adesso quella notizia gli aveva squarciato l’anima. Aveva avuto il sospetto che sua moglie avesse pianto, dopo la sua morte. Ma venirlo a sapere così, dalle piccole labbra innocenti di suo figlio, gli fece salire un groppo alla gola che non riuscì ad inghiottire.

“Papà?”si sentì richiamare da suo figlio.

“Cosa?” chiese duramente. Trunks abbassò lo sguardo, puntandolo sull’erba su cui era seduto.

“Loro dicevano anche che non eri cambiato. Dicevano che eri rimasto lo spietato sayan di un tempo. Dicevano che non ci amavi, che di me e della mamma non ti importa niente.” Il sayan strinse i pugni con rabbia. Era ovvio, loro non sapevano che si era sacrificato per le due uniche persone importanti della sua vita … ad essere sinceri, non lo sapevano nemmeno loro due. Avevano una vaga idea di quanto accaduto, ma lui non aveva lasciato trapelare una sola rivelazione, emozione o altro nelle poche parole pronunciate quel giorno.

“Ma io non li ho ascoltati.” Per un attimo, i pugni smisero di tremare dalla rabbia, e la chiusura ferrea si allentò. Voltò con lentezza la testa verso suo figlio. Trunks stava col capo chinato sul prato. Aveva le gambe incrociate e tra le mani si rigirava nervosamente un filetto d’erba staccato pochi secondi prima.

“So che non è vero. Anche se non mi abbracci mai, io lo so che mi vuoi bene. E so che ne vuoi anche alla mamma.” A Vegeta si strinse il cuore. Gli scappò un flebile sorriso, e a vederlo, il cuore di Trunks si fece un pochino più leggero. Ecco, iniziavano a tirare il filo. Rimasero per altri attimi in silenzio. Il vento scompigliava loro i capelli e la luce del sole, che andava a tramontare, si divertiva a comporre giochi di luce sui volti di un padre e di un figlio tanto uguali quanto diversi.

“Papà?” Trunks richiamò nuovamente suo padre. “Mh?” mugugnò Vegeta, segno che gli stava prestando la sua attenzione. Il bambino alzò gli occhi dal filo d’erba con cui stava giocherellando, puntando le iridi azzurri in quelle del padre.

“Perché loro non possono capire il modo in cui ci sentiamo?” gli chiese con voce tremante, e per un attimo a Vegeta parve anche di vedere l’ombra delle lacrime negli occhioni blu di suo figlio. Rimase interdetto per diversi attimi, senza sapere cosa dire. Gli occhi di suo figlio lo fissavano imploranti, come se dalla risposta di sui padre dipendesse tutta la propria vita. E effettivamente, era così. Vegeta adesso aveva in mano l’altra estremità del groviglio. E stava a lui decidere se tirare o meno.

“Sai, loro non si fidano di quello che non riescono a spiegarsi …” rispose ambiguo. Trunks sentì il peso alleggerirsi ancora un po’ di più, ma non aveva ben capito cosa significassero le parole del padre.

 “C – che vuoi dire?” chiese infatti confuso. Vegeta sorrise amaramente, nel rispondere.

“Vedi, loro continuano a vedermi come il Sayan assassino che era atterrato sulla terra con lo scopo di conquistarla e distruggerla … temono che li voglia ancora uccidere …” la boccuccia di Trunks tremò vistosamente.

“E – e non è così, vero papà? Tu …”

“Credi davvero che voglia farvi del male dopo essermi ammazzato per salvarvi?!” lo interruppe brusco Vegeta, quasi arrabbiato. Trunks spalancò gli occhi, e in quel momento sentì come una forte scossa, come se suo padre avesse tirato il filo tutto in una volta, con forza. Non seppe mai spiegarsi come accadde. Sa solamente che con quelle parole, il groviglio che sentiva all’interno del suo cuore si era quasi srotolato completamente.

“Papà …” Vegeta intanto aveva voltato nuovamente la testa dall’altro lato, imbarazzato.

“Cosa vuoi ancora?” rispose brusco. Trunks deglutì rumorosamente, consapevole che adesso l’ultimo passo da compiere era il suo, l’ultima mossa per disincastrare ed eliminare completamente quel groviglio spettava a lui.

 “P – posso abbracciarti?” Al sentire la voce tremante di suo figlio dire così, il cuore di Vegeta subì uno scatto improvviso. Avrebbe tanto voluto rispondere che no, i sayan non si abbracciano, che è solo un gesto da femminucce e che si sarebbe dovuto accontentare di quell’unico gesto affettuoso ricevuto prima di morire, che per tutta la sua vita non ne avrebbe ricevuti altri. Ma quando si ritrovò il viso di suo figlio compresso contro il suo petto, tutto quello che riuscì a fare, fu restare immobile. Sentì la maglietta bagnarsi leggermente e appiccicarsi un poco alla sua pelle, e capì che Trunks stava piangendo, anche se non singhiozzava. Era un pianto liberatorio, uno sfogo, un pianto di gioia e dolore insieme. Era un pianto indecifrabile. In circostanze normali, lo avrebbe rimproverato, gli avrebbe detto che i Sayan non piangono, gli avrebbe intimato di smetterla di fare la femminuccia. Ma in quel momento, non fece nessuna di queste cose. Quasi involontariamente, si ritrovò a stringere piano il corpo di suo figlio a sé, che intanto continuava a piangere.  E non si sentì in colpa per questa sua debolezza, perché pensò che infondo glielo doveva. Che suo figlio era si un guerriero, ma prima di tutto era un bambino. E si, che quel bambino era suo figlio. Tuttavia, l’orgoglio dovette comunque farsi sentire, anche se in minima parte, nel momento in cui all’orecchio del figlio sussurrò un “ma vedi di non farci l’abitudine”. E Trunks, col viso schiacciato al petto muscoloso di suo padre, sorrise leggermente tra le lacrime. Sorrise felice, sentendosi libero. Adesso, tra le braccia di suo padre, il peso era scomparso, il cuore era tornato ad essere leggero. Tra le braccia di suo padre, il groviglio si era sciolto.
 

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Capitolo 2
*** #2. Some Nights ***


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Nota:vecchia flash fic già postata anche questa in precedenza. No ho apportato alcuna modifica, lasciando il testo intatto così com’è, perciò in un certo senso dallo stile si vede che è un lavoro un po’ vecchio … ma spero che vi piaccia comunque. ;)
 
Some nights, I stay up cashing in my bad luck 
Some nights, I call it a draw


Vi siete mai fermati a guardare le stelle? Si, proprio loro, le stelle. La luna. La notte. Notte. Sin dall’antichità, questo termine ha sempre suscitato grandi domande. Il giorno è quanto di più semplice si possa richiedere; c’è la luce del sole, tutto appare limpido, chiaro, ci è possibile scorgere ogni cosa. La notte invece, è il mistero. Con le sue tenebre, le sue oscurità ad avvolgere ogni cosa, è sempre stata uno dei più grandi perché dell’uomo. Gli uomini primitivi si stupivano, si preoccupavano di questo cambiamento. Tutto ciò che era chiaro, visibile fino a qualche ora prima, scompare così, inghiottita dal nero. I nostri antenati passavano ore con lo sguardo rivolto verso l’alto, gli occhi puntati sulle stelle. Fissavano quelle lucine a costellare la volta celeste, chiedendosi cosa mai potessero essere. Forse un dono degli dèi, la manifestazione divina di quanto si trova al dì sopra di noi, o forse erano le anime dei defunti, a vagare sperduti in mezzo quell’immensità oscura. E poi c’è la luna. La madre di tutto, la luce più luminosa, l’unica testimone dell’amore proibito degli amanti notturni, colei che tutto vede e nulla sa. E così iniziarono ad osservare, a farsi domande, a capire. Anche successivamente, quando ormai era chiaro che quelle lucine non fossero altre che piccoli corpi celesti, la gente continuava a fissare le stelle incantato. Chi per romanticheria, chi per curiosità, nessuno ha mai smesso di contemplare il cielo notturno, sin dalla notte dei tempi. Ogni notte, milioni, miliardi di occhi si puntano su quei puntini luminosi, fissandoli estasiati.


Vegeta no. Vegeta non aveva mai guardato le stelle da lontano, domandandosi cosa nascondessero. Non lo aveva mai fatto, semplicemente perché le stelle erano la sua casa. Lui non contemplava le stelle, lui ci viveva. O meglio, sopravviveva. Lui non si fermava ad osservare la notte, lui era la notte. Vegeta era quanto di più oscuro e misterioso si possa immaginare. Con quei due occhi, così profondi da contenere l’intero universo, sembrava quasi un buco nero, un oggetto non identificato che racchiude in sé tutti i più grandi misteri della storia. Vegeta era la notte. E di notti, ne ha passate tante. Le notti passate durante la sua sottomissione a Freezer. Le notti più buie della sua vita. Notti passate in giro per lo spazio, a conquistare pianeti e a solcare galassie, come il più temibile dei pirati naviga nel mare burrascoso. E altre notti passate in quella stanzetta, quel buco di pochi metri quadri dove solo un misero giaciglio faceva lui compagnia. Ma la cosa più bella di quella prigione era la piccola finestrella posta poco al di sopra del suo letto. Da quella finestra, lui vedeva tutto, illuminato dalla luce lattiginosa della luna. Luna. La madre mai avuta, l’unica compagna di anni di solitudine, che pur senza dir niente, comprendeva tutto.
 Dicono che l’universo sia infinito. Vegeta non sa se confermare o meno questa teoria. Potrebbe davvero non avere limiti, ma ormai è quasi certo di averlo visitato tutto, lo spazio. Ricorda la notte prima di partire alla volta della terra, la prima volta di anni prima. Quella sera la luna aveva una luce strana, meno luminosa del solito. Sembrava quasi riflettere lo stato d’animo del Principe, stranamente preoccupato per quella nuova spedizione, alla ricerca dell’ultimo Sayan, oltre a lui e quei due idioti che gli facevano da compagni, rimasto. Stranito, aveva lanciato un’ultima occhiata veloce al satellite, prima di coricarsi nella misera stanzetta messagli a disposizione da Freezer. L’ultimo raggio lunare riflesso sul pavimento lucido, prima di chiudere gli occhi, cadendo nell’oblio del sonno. Non sapeva, che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe guardato la luna in quel modo. E soprattutto, da quel pianeta.
 



 
La porta si schiude piano, cigolando leggermente. Piccoli passi, attutiti da dei bianchi calzini di cotone, riecheggiano debolmente per la stanza, immersa nel buio. Stretta al suo peluche preferito, cammina velocemente, fino a raggiungere l’estremità sinistra del grande letto, quella vicino alla finestra. Si piazza davanti a lui, a fargli da scudo con quel piccolo corpicino da bambina di quattro anni appena, fissandolo. Lui dorme, non sembra essersi accorta della sua presenza. Prende un profondo respiro, pronunciando poi tremante:

“Papà …” l’uomo non risponde, continuando beatamente a dormire. Facendosi forza, la bambina lo richiama, scuotendolo leggermente per un braccio.

“Papà …” ripete un po’ più forte. Lui socchiude leggermente gli occhi, svegliato da quella dolce vocina infantile. Impiega un po’ di tempo prima di mettere a fuoco la chiazza rosa e azzurra palesatasi ai suoi occhi. Poi, riconoscendo la coda color del cielo, da cui piccoli riccioli ribelli fanno irruzione, le guance arrossate, gli occhioni blu lucidi e spalancati, esclama:

 “Bra, che diavolo ci fai in piedi a quest’ora?!” la voce ancora assonnata. La bambina sta per rispondere, quando un tuono più violento degli altri soggiunge interrompendo il silenzio creatosi in quel momento. Sobbalzando leggermente, la piccola stringe maggiormente a sé il suo pupazzo, cercando di trattenere le lacrime. Vegeta sospira pesantemente, chiedendo poi con tono piatto:

 “Hai paura del temporale, vero?” la piccola annuisce, prima di serrare gli occhi, colta da un ulteriore fragore di tuoni. Il Sayan scuote leggermente la testa, lasciandosi sfuggire un sospiro. Poi, in un gesto quasi abituale, solleva il caldo piumone in cui è avvolto, facendo spazio alla piccola.

 “Dai, vieni, per stanotte puoi dormire qui.” Proclama stancamente. La bambina sorride entusiasta, andando poi ad arrampicarsi nel grande letto, troppo alto per lei, fino a raggiungere la postazione tanto bramata. Si sdraia, coprendosi fino al mento, guardando per un attimo a destra e poi a sinistra. La sua mamma sta dormendo, sembra non essersi accorta della tempesta che sta infuriando al di fuori della loro abitazione. I corti capelli azzurri, come i suoi, sparsi disordinatamente sul cuscino, stretto tra le sue braccia. È proprio bella, la sua mamma. Guarda poi il suo amato papà, che nel frattempo si è di nuovo coricato, pronto a riprendere sonno. Gli sorride dolcemente, prima di essere spaventata dall’ennesimo tuono. Al fragoroso rumore, nasconde istintivamente la testa sul petto del padre, serrando gli occhi. Vegeta, leggermente sorpreso, non replica nulla, lasciandola fare.

 “Vegeta …” mugola qualcuno, ma non è sua figlia. Guarda oltre il corpo della bambina, scoprendo sua moglie rannicchiata in posizione fetale, avvolta tra le calde coperte e il cuscino stretto saldamente, l’espressione spaventata anche nel sonno. Sorride leggermente. Beh, da qualcuno Bra doveva pur aver ereditato la paura per i temporali …

“Papà?” lo richiama una voce sotto di lui. Abbassa leggermente lo sguardo, scontrandosi gli occhioni blu di sua figlia.

“Cosa c’è ora?” chiede, fintamente infastidito. La piccola sorride dolcemente. “Niente. Volevo dirti che ti voglio bene.”

Conclude, prima di accoccolarsi nuovamente al petto del padre, chiudendo gli occhi. Vegeta fissa la chioma azzurra della figlia, lo sguardo intenerito. Non risponde nulla, volgendo poi istintivamente lo sguardo alla finestra alla sua sinistra. Il vetro è imperlato dalle numerose gocce di pioggia, il cielo nero oscurato da grossi nuvoloni minacciosi. Eppure la vede. Eccola là, con la sua luce bianca e quella forma incredibilmente sferica. La luna. Sorride leggermente.
E poi, ci sono notti come queste. Certe notti vanno così. Notti in cui si ritrova incastrato su un pianeta azzurro, da due occhi altrettanto azzurri ed incantevoli, con due mocciosi che lo rendono fiero di sentirsi chiamare papà. Notti passate a tranquillizzare una scienziata dai capelli azzurri e una figlia di quattro anni, entrambe spaventate da uno sciocco temporale. Notti in cui non c’è gioia più grande nel sentirsi dire “ti voglio bene” dalla propria figlia. Notti che fino ad anni prima, mai avrebbe pensato di vivere.  Eppure, stanotte di fronte alla luna,  non può fare a meno di ammettere che queste sono le notti più belle di tutta la sua vita.

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Capitolo 3
*** #3: Who wants to live forever? - Queen ***


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Who wants to live forever
Who wants to live forever?
 
 
Un vento impetuoso soffia per due secondi, all’improvviso, alzando dal terreno la polvere rossastra. Due occhi color delle tenebre si serrano infastiditi, per poi riaprirsi nel percepire il vento cambiare, assumendo le sembianze di una leggera brezza nemmeno troppo fastidiosa. I profondi occhi bui si puntano al terreno, fissando un sassolino rosso rotolare piano, sospinto dal tifone, mentre la chioma leonina nera come la notte ondeggia leggermente. Scivola un poco con lo sguardo, seguendo il percorso dell’inutile sassolino, quando ad un tratto l’intrepida roccia arresta il suo incedere, bloccato da qualcosa. Gli occhi bui saettano veloci un po’ più in alto, scontrandosi con un flebile arto roseo blandamente abbandonato. Un sadico sorriso si impossessa delle labbra sottili del Principe, mentre l’adrenalina torna a circolare nel sangue blu del Sayan, al ricordo del genocidio avvenuto nemmeno un’ora prima ormai. Fissa la mano rugosa e piena di venature, il palmo aperto come ad elemosinare un’ultima pietà ad un Principe estraneo a tali parole di compassione. incrocia le braccia al petto, mentre la lunga coda oscilla con fierezza alle sue spalle forgiate dai combattimenti e da torture inflitte lasciandovi cicatrici che mai rivelerà. Si guarda intorno, scoprendosi circondato da migliaia di cadaveri che giacciono a terra, tutti lì vicino, come a volergli fare compagnia. L’odore acre del sangue aleggia intorno a quel cimitero di abitanti di un pianeta di cui a breve non resterà che solo polvere nello spazio, lo spirito della Dea morte è ancora ben tangibile nell’aria, quasi palpabile intorno a lui, come a voler prendere il Principe per mano e trascinarlo con sé nell’ingannevole mondo degli Inferi. Ma il Principe non accetterà la velata proposta della Moira. Presto, molto presto, avrà la sua vendetta. È questione di tempo ormai, poco tempo, e ce la farà. Chiude gli occhi, pregustando l’immagine del corpo squartato di Freezer ricadere con un tonfo davanti a lui, lui che diventerà allora il padrone dell’universo. Sorride vittorioso,stringendo i pugni con forza, dimenticandosi dei cadaveri, di quell’insulso pianeta, di Napa e di Radish, e perfino della morte che sfiora delicatamente le sue membra rigide per lo sforzo e ancora calde, insinuandosi con carezze lascive e sensuali. Le sue labbra si contraggono in un sorriso, prima di aprirsi completamente, liberando una risata agghiacciante, maligna e psicopatica, di quella dei pazzi che arrivano a toccare il fondo del loro subconscio malato. Lui vivrà per sempre. Il per sempre sarà il suo oggi. E allora, che lo soggioghi pure Freezer al suo dominio, che creda di essere imbattibile. È questione di tempo ormai. Basterà solo trovare quelle sette sfere e allora, finalmente, l’immortalità lo avvolgerà. Il suo ambizioso desiderio diverrà realtà, perché grazie a quella mistica leggenda lui vivrà per sempre. Non siate sciocchi, suvvia. Infondo, è forse sbagliato voler vivere per sempre?
 
Forever is our today
 
Who waits forever anyway
 
Who wants to live forever?
 
Nota autrice: Eccolo qua, un nuovo lavoro. Beh, dopo aver visto il concerto del 1981 di Montreal dei miei amati Queen ((Datemi Roger Taylor. Datemi.Roger.Taylor. *-*) non potevo non scrivere una flash ispirata ad uno dei loro capolavori. Sono fissata, lo so. (Al cinema mi sono pure commossa durante l'assolo di batteria di Roger e durante Bohemian Rapsody, di fronte allo sguardo sconvolto di una mia povera amica che ho costretto ad accompagnarmi). E niente, this is it (adesso passiamo anche alla modalità Michael Jackson). Spero che la flash vi sia piaciuta, fatemi sapere le vostre opinioni! ;)
Un bacio

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Capitolo 4
*** Don't stop believing - Journey/Glee Cast ***


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Nota: La seguente One shot (moolto lunga)è ispirata al Pilot della serie televisiva “Glee” (si lo so, sono fissata.) Poiché lo scorso venerdì in America è andata in onda l’ultima puntata di questa serie meravigliosa, che dopo sei anni di successi chiude i battenti (non devo piangere, non devo piangere … ) ho deciso di rendere omaggio alla cosa che amo di più al mondo a modo mio … e questo è quanto. ;)
Ps: In quanto Au, i personaggi potrebbero a tratti risultare OOC.
 

Alla Orange star High School esistevano fondamentalmente tre tipi di ragazzi:

-C’erano i popolari, vale a dire i giocatori di football e le loro fidanzate con comportamenti da oche appartenenti al gruppo delle cheerleader;

-I normali, gente comune, con un giusto numero di amici e una reputazione tutto sommato tranquilla, né carne né pesce. Niente di più, niente di meno.

-E poi c’erano gli sfigati; doveva probabilmente esistere una specie di codice d’onore già scritto e impresso nella memoria degli studenti secondo il quale questa divisione fosse così terribilmente marcata. Gli sfigati
erano gli invisibili della scuola, i fantasmi seduti in ultimo banco nelle classi, i senza voce nelle assemblee d’istituto, le vittime preferite dei bulli appartenenti alla prima categoria già citata in precedenza. Gli sfigati non erano poi così molti, credeva ingenuamente il preside Muten , senza sapere che in realtà il 70% degli studenti di quella scuola ricevevano come accoglienza ogni mattina una bella granita ghiacciata in pieno viso. Ma era sempre stato così, non c’era nulla da fare; i giocatori di football e le cheerleader, grande orgoglio della scuola, appartenevano ai club sportivi, molti dei ragazzi normali mettevano il loro genio a disposizione di concorsi scientifici, mentre la restante parte di sfigati non facevano nulla. C’era stato un tempo in cui la Orange Star era famosa per il suo Glee Club, ovvero per il gruppo di ragazzi amanti della musica e del canto, specializzati così in gare di canto coreografato. Poi con la dipartita degli studenti veterani il vecchio Glee Club si era sciolto, e al suo posto avevano acquistato prestigio la squadra di Football e la palestra interna, facendo si che quell’auletta canto si riempisse di polvere e venisse dimenticata da tutti. Almeno fino a quel giorno.
 
La prima volta in cui il Professor Son aveva messo piede alla Orange High School aveva quindici anni e una timidezza fuori dal comune. A quei tempi la divisone sfigati/popolari non era poi così marcata, ma la differenza si sentiva. Gohan non era bravo in matematica, e il terrore di vedere i suoi preziosi occhiali andare in frantumi sotto al peso di una palla da rugby avevano fatto sì che la squadra di football, allora non così famosa, restasse solo un lontano miraggio. Gohan sapeva solo cantare e si arrangiava un poco alla chitarra, ma quei pochi accordi che conosceva lo rendevano talmente felice che quando scoprì l’esistenza del Glee Club non esitò un solo minuto ad iscriversi. Gli anni del liceo erano così passati da noiosi ed anonimi a incredibili ed emozionanti sfide vissute sui palcoscenici dei teatri più famosi della nazione, tra vittorie, canzoni, lacrime di gioia e non.

Vent’anni dopo si era ritrovato a rientrare in quella scuola,stavolta senza l’apparecchio ai denti e i vestiti da adolescente anni ‘80, ma nei panni di professore di spagnolo, con i libri sottobraccio e l’immancabile montatura nera premuta sul viso. Il primo giorno in cui era rientrato lì l’adrenalina e l’emozione di tornare nel teatro della sua adolescenza erano svanite subito, nell’istante in cui davanti ai suoi occhi un gigante vestito con la felpa della squadra di football aveva gettato con nonchalance una granita ghiacciata contro una ragazzina con gli occhiali e una lunga treccia, colpendola in pieno viso. Era stato allora forse, proprio nel momento in cui il ghiaccio al sapore di mirtilli aveva schiaffeggiato il volto roseo e giovanile di quella povera ragazzina, che Gohan aveva deciso che il Glee Club avesse bisogno di tornare a vivere.
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Si morse il labbro inferiore, preso dalla concentrazione. Il foglio giallognolo di carta pesante urlava per essere appeso alla bacheca, mentre le puntine racchiuse nel pugno della sua mano si conficcarono nella carne, costringendolo ad una lieve imprecazione di dolore e a spalancare involontariamente l’arto. Una cascata di puntine colorate si schiantò al freddo impiantito, rimbombando fastidiosamente con un’accozzaglia di suoni metallici. Gohan si piegò in terra, raccogliendo i resti dei piccoli chiodi tirando mezze imprecazioni alla sua sbadataggine. Con gli occhi puntati al pavimento osservò per diversi attimi le converse e le scarpe da ginnastica correre freneticamente per i corridoi e in un moto di insicurezza si chiese quanti di quegli studenti che attraversavano il bianco linoleum della scuola avessero davvero preso parte a quella pazzia. Gli occhioni neri si oscurarono per un attimo di delusione, pensando che forse sua madre aveva ragione a dirgli che quell’idea era folle e non gli avrebbe mai permesso di ricevere uno stipendio ragionevole e mettere su famiglia. Non era intenzionato a sposarsi, dal momento che non aveva mai conosciuto qualcuna che gli avesse davvero fatto perdere la testa, ma a casa di soldi non ne giravano molti. Da quando suo padre era venuto a mancare per un grave incidente sul lavoro sua madre era rimasta sola e senza alcun sostegno economico, così si era accollato le spese dell’affitto, di bollette e quant’altro, trascurando se stesso. Il lavoro da insegnante di spagnolo non gli fruttava poi molto, ma almeno gli permetteva di tirare avanti. Quando tre sere prima era rientrato in casa tutto pimpante ed entusiasta annunciando a sua madre che aveva deciso di prendere in mano il Glee Club e riportarlo alla luce, negli occhi della donna non aveva letto felicità e gioia ma solo tanta, tanta rassegnazione. Nonostante ciò aveva deciso di andare avanti, andando contro tutto e tutti, affrontando persino il vice preside Cold, assolutamente schifato dalla proposta e convinto dell’inutilità delle arti. Guardando il freddo pavimento pensò di essere un illuso senza speranze, che doveva rinunciare ai suoi vani sogni di gloria. Poi però in un attimo, attraverso le spesse lenti trasparenti si materializzò l’immagine assistita poche ore prima, quando aveva visto un tizio pelato ed enorme gettare un ragazzo con una cicatrice in viso all’interno di uno dei cassonetti dell’immondizia. La rabbia e la voglia di rivalsa di quel sedicenne lo avevano invaso con una forza talmente esorbitante da spingerlo a stampare immediatamente i volantini d’iscrizione al Club e appenderli quella stessa mattina. Gohan sorrise deciso, alzandosi in piedi e avvicinandosi alla bacheca stracolma di manifesti e volantini scolastici. Con un respiro profondo avvicinò il suo foglio al legno chiaro, fissandolo con decisione con una puntina rossa in cima. Si staccò di scatto, come scottato, osservando soddisfatto il suo operato. Sul suo viso di giovane insegnante, un sorriso speranzoso si dipinse nel leggere, in alto al foglio vuoto, quelle tre agognate parole:
Glee Club!
Iscrizioni

 
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Strinse a se i testi scolastici, fissando incuriosita il foglio dinanzi a lei. Si passò una mano tra i capelli azzurri, ordinati da un cerchietto rosa in tinta con il maglioncino a scacchi e con l’altra mano si lisciò la gonna della stessa fantasia, sorridendo fieramente. Bulma Brief era una diva. Quando aveva tre anni aveva assistito per la prima volta in televisione ad una prima del musical “Funny Girl” ed era sembrato quasi un deja vu: gli occhioni azzurri si erano spalancati entusiasti e nella sua mente da bambina di tre anni si era susseguita l’immagine di sé stessa cantare “Don’t rain on my parade” al posto di Barbra Streisand, gesticolando in quello stesso modo psicopatico e teatrale. Appena compiuti quattro anni si era fiondata da suo padre, l’unico a crescerla dopo la morte prematura della madre, tartassandolo tediante perché la iscrivesse ad un corso di danza. Da lì in poi i corsi di danza erano diventati due, a cui si erano aggiunte lezioni di pianoforte e di canto. Tutti coloro che l’udivano cantare riconoscevano meravigliati il talento della piccola bimba prodigio, facendo si che mano a mano l’ego della mini Streisand si ingigantisse fino ad arrivare ad una sedicenne con manie di protagonismo e convinta di essere l’unica stella indiscussa della città.  Sogno di gloria ben impresso nella sua mente ma non nei fatti perché ahimè, Bulma era in realtà parte integrante degli sfigati. Emarginata e derisa per il suo carattere e per l’abbigliamento altamente discutibile e molto retrò – fissata con il tweed, le gonne, i calzini fino al ginocchio e ogni tipo di ballerine- Bulma veniva altamente presa in giro all’interno del liceo e continuamente presa di mira dai bulli, diventata così uno dei principali bersagli delle granitate in faccia. Ma nonostante ciò l’ego di Bulma non era stato sfiorato, almeno così sembrava esternamente, e il suo sogno di divenire una stella di Broadway urlava ogni qualvolta si presentasse con tono di superiorità agli altri. Un Glee Club non sarebbe stato male infondo, ed inoltre le avrebbe permesso non solo di accrescere le proprie capacità, ma soprattutto di mostrare il proprio talento calcando i teatri più importanti della Nazione, vincendo gare su gare di canto coreografato. Bulma estrasse una penna dalla sua ordinatissima borsa a tracolla, si avvicinò al foglio e firmò elegantemente sull’apposito spazio dedito alle iscrizioni, constatando con fierezza di essere il primo membro e di come la sua firma stesse diventando sempre più professionale e degna di una star musicale quale sarebbe diventata. Sorrise compiaciuta, applicando poi di fianco alla sua firma una piccola stellina dorata adesiva, suo marchio di riconoscenza.

“Potrebbe sembrarvi strana questa mia abitudine di mettere sempre una stellina d’oro affianco al mio nome” aveva annunciato una volta con fierezza ad un insegnante, quando si era iscritta al corso di spagnolo.
“Ma è una metafora, e le metafore contano. Le mie stelline dorate significano che io diventerò una stella.” Aveva concluso a testa alta, e gli insegnanti non avevano potuto fare a meno di ammettere che quella ragazzina dai capelli azzurri e le ballerine sformate avesse una sicurezza e un coraggio fuori dal comune.

Bulma sorrise sicura di sé, respirando a fondo e voltandosi a testa alta. Ma il suo busto non aveva ancora completato la rotazione che una granita, gelida e rossa, alla fragola, si era schiantata contro il suo volto diafano, costringendola a spalancare gli occhi e reprimere un grido di indignazione. Furiosa fissò con la vista appannata dal ghiaccio colorato la figura del bullo allontanarsi con tranquillità, il bicchiere in plastica ancora stretto tra le mani, e osservando i capelli neri e rivolti verso l’alto del ragazzo di spalle, sbuffò rassegnata, ormai abituata al trattamento a base di granite. Strinse i pugni, respirando a fondo nel tentativo di calmare l’ira. Tre anni. Tre anni e il liceo sarebbe finito e con esso, anche gli atti di bullismo ormai all’ordine del giorno. Poi, finalmente, sarebbe diventata una stella.
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Chichi del Toro aveva sedici anni, abiti gotici ed era una finta balbuziente. Non lasciatevi spaventare da queste descrizioni così dirette, perché sapete, voglio presentarvi gli sfigati così come sono, per intero, senza tralasciare nulla. Se Chichi balbettava, non era per un motivo in particolare. Semplicemente la faceva sentire più sfigata ed emarginata di quanto già non fosse. Camminare per i corridoi della scuola spingendo la sedia a rotelle del suo migliore amico, Crillin, non aveva certo avuto il potere di accrescere la loro popolarità, eclissandoli così come “la gotica balbuziente” e “il nerd in carrozzina”. Chichi e Crillin furono i secondi ad iscriversi al Glee Club, seguiti a ruota subito dopo da C18 Ice. C18 era un altro tipico esempio di diva con manie di protagonismo ed egocentrismo. Bionda e con due glaciali occhi azzurri, C18 era la stella indiscussa del coro della sua chiesa, solista principale ed elogiata per le sue doti canore. E così Glee Club fu.
Yamcha Wolf aveva sedici anni ed un’omosessualità non ancora svelata. Figlio di un meccanico burbero e ancora ancorato alle tradizioni, Yamcha si era ormai reso pienamente conto della sua sessualità, ma la paura del giudizio e del rifiuto lo avevano sempre trattenuto dal fare coming out. A scuola però alcuni sembravano essersene accorti, e così Yamcha era diventato il rifiuto preferito dei giocatori di Football, che si divertivano a gettarlo nel cassonetto dell’immondizia ogni giorno. Yamcha cantava bene, lo sapeva, così quando aveva scorto quel foglio spiegazzato in mezzo a tutta la bacheca stracolma, aveva trovato in quelle parole la sua vendetta e la rivalsa che aspettava da tutta una vita. E aveva deciso di provarci.
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-Salve! Mi chiamo Bulma Brief e vorrei cantare “On my own” dall’intramontabile musical di Broadway “Les miserables”.

L’auditorium era vuoto. I posti in platea completamente liberi, ad eccezione fatta per uno, dove seduto il Professor Son, era pronto a valutare gli aspiranti membri del Glee Club. Sul palcoscenico vi era solo una tenue luce ad illuminare Bulma e un uomo al pianoforte, futuro accompagnatore abituale del Glee Club. Gohan fissò incuriosito la ragazzina con le Mary Jane ai piedi ritta sul palcoscenico a testa alta, in attesa di potersi esibire. Il professore annuì entusiasta, incoraggiandola a cominciare.

“Prego, comincia pure, Bulma.”
Bulma prese un respiro profondo, e sicura di sé, permise all’aria di entrare in contatto con le corde vocali, liberandosi in aria nella sua magnifica voce.
 
On my own, pretending he's beside me …
 
 
Cantando, Bulma ricordò del momento in cui, pochi giorni prima, era stata derisa per quel brano. Convinta che al giorno d’oggi l’anonimato fosse peggio della povertà, solitamente cercava di caricare in Internet un video al giorno di una sua esibizione. Lei, chiusa nella sua cameretta, cantava dinanzi ad una telecamera con la stessa mimica ed emozione di un’artista su un palcoscenico. Due sere prima aveva pubblicato così un video di sé stessa intenta ad interpretare quel difficile brano tratto da uno dei suoi musical preferiti. Ma anziché applausi entusiasti e bouquet di fiori sul palcoscenico, in risposta aveva ricevuto solo commenti di anonimi codardi online che la insultavano alquanto pesantemente.

“Se fossi nei tuoi genitori ti rispedirei indietro.” Le era rimasto quello più impresso di tutti e anche se non lo avrebbe mai ammesso, per tutta la notte aveva pianto per quelle parole, inondando il suo cuscino bianco a ricami rosa.

Bulma ripensò a quelle parole e un moto di rabbia e indignazione la colse, rendendo ancora più intensa la sua esibizione. Il professor Son sbatté più volte le palpebre, sorpreso ed incantato, ascoltando Bulma raggiungere tonalità altissime e acuti da brivido, lasciandolo a bocca aperta.

I love him
But only on my own

Gohan sorrise entusiasta, applaudendo lievemente, soddisfatto dinanzi alla conclusione di Bulma.

“Molto brava, Bulma. Complimenti.” Si congratulò sinceramente sorpreso. Bulma sorrise sicura di sé, come certa di quelle parole prima ancora che uscissero dalle labbra del giovane insegnante. Lo guardò dal palcoscenico, chiedendo poi, con nonchalance, ciò che più le premeva:

“Quando cominciamo le prove?”
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(https://www.youtube.com/watch?v=pnqiBOK622g     esibizione)
 
Gohan fissò i ragazzini dinanzi a sé imbarazzato. A quanto pareva gli unici membri del Glee club erano un’ aspirante stella di Broadway con manie di protagonismo, un ragazzo gay con una cicatrice in viso, una ragazza gotica e balbuziente ancorata ad un ragazzino pelato e seduto su una sedia a rotelle, seguiti infine da una diva egocentrica dagli occhi glaciali. Un sorriso tirato si dipinse sul suo volto dinanzi all’esibizione improvvisata delle Nuove Direzioni (aveva scelto questo come nome per il Glee club) nell’auletta canto sulle note di “Sit down you’re rocking the boat” accompagnati da un solo pianoforte.

“Muovete le mani a tempo!” intimò osservando i ragazzi muoversi scordinatamente intorno alla sedia a rotelle di Crillin, cantando in coretto. Uno sguardo sconsolato si tinse sul volto di Gohan che cercò di sorridere comunque, nonostante la situazione imbarazzante. Finirono poi il brano tutti in fila, in posa, con un sorriso a trentadue denti in volto che si trasformò subito in uno sguardo schifato.

“Che schifo.” Annunciò subito Bulma, mettendo fine alla posizione. Gohan boccheggiò, non sapendo cosa dire, poiché Bulma aveva effettivamente ragione. Quei ragazzi erano davvero talentuosi, ma avevano bisogno di lavoro. Tanto lavoro. E poi il preside era stato chiaro: se le Nuove Direzioni non avessero vinto almeno le gare Provinciali contro gli altri Glee Club delle scuole, i fondi già minimi per il progetto sarebbero stati tagliati e addio sogno di rivalsa.

“N – noi miglioreremo. Basta solo continuare a provare.” Disse con finta sicurezza. Bulma sospirò pesantemente, guardando l’insegnante sconsolata.

-Professor Son, ha idea di quanto sia ridicolo far cantare “Siediti che la barca si ribalta” ad un tizio sulla sedia a rotelle?
Esclamò esasperata, additando il povero Crillin. Gohan si grattò nervosamente la testa, senza sapere cosa dire.

“B- beh forse vuole usare l’ironia per dare forza all’esibizione.” Per fortuna in suo aiuto venne lo stesso Crillin, che con un sorriso impacciato espose la sua teoria. Gohan si ritrovò ad annuire convinto, ringraziando silenziosamente Crillin per averlo salvato. Ma Bulma serrò i piccoli pugni, sbattendo adirata un piede in terra.

“Non c’è niente di ironico nel canto coreografato!” esclamò indignato verso i suoi compagni, prima di allontanarsi a grandi falcate, uscendo dall’aula. Gohan alzò gli occhi al cielo, esasperato.

“Bulma …” la richiamò, ma la ragazza dai capelli turchini era già uscita dall’aula.

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La ritrovò fuori dalla scuola, al campo di atletica dove le cheerleader si stavano allenando, seduta su una delle gradinate vuote degli spalti. Gohan si avvicinò da dietro con calma, sedendosi sul posto dietro al suo.

“Ti sei tolta il costume di scena …” sentenziò pacatamente il professor Son, notando come Bulma avesse cambiato abiti.

“Sono stufa di essere presa in giro …” esclamò la ragazza con un sospiro amareggiato, fissando il vuoto davanti a sé. Gohan sospirò sedendosi meglio e giungendo le mani tra loro.

“Tu sei la migliore, Bulma. E questo ha un prezzo …”

“Sono solo al secondo anno, lo so, ma sento che il tempo sta passando e non voglio finire il liceo senza aver lasciato un segno.” Esclamò voltandosi di scatto, fissando il professor Son.

“Hai dei voti alti, e sei una cantante fantastica!”

“Però nessuno mi sopporta.” Lo interruppe subito, con tono deluso e negli occhioni blu di Bulma, Gohan riuscì a leggere tanta, ma davvero tanta tristezza. Gohan la guardò alquanto sorpreso.

“Credi che il Glee club cambierà le cose?”

“Dimostrare le mie doti cambierà le cose! Partecipare a qualcosa di speciale rende speciali, non crede?” esclamò speranzosa, mentre Gohan la fissava sinceramente ammirato.

“Deve affiancarmi una voce maschile alla mia altezza!” continuò decisa.

“Beh magari Crillin fra qualche lezione …”

“Professore, apprezzo quello che sta cercando di fare, ma se non mi dà gli stimoli giusti mi perderà!” lo interruppe subito, voltandosi di nuovo di scatto, tornando a fissare il campo da football dove le Cheerleader si stavano allenando.

“Non continuerò a rendermi ridicola …” disse a voce più bassa, scuotendo tra sé e sé il capo.

“Non posso perdere tempo con il Glee Club … mi fa troppo male …”
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Bardack soffiò con forza all’interno del fischietto, richiamando l’attenzione dei ragazzi nello spogliatoio. Il coach della squadra di football osservò i ragazzi della squadra intenti a cambiarsi per gli allenamenti voltarsi verso di lui, in attesa di sapere cosa volesse.

“Attenzione! Ora il Professor Son vi dirà due parole.” Esclamò Bardack, portando le mani ai fianchi.

“Chi non ascolta … seicento addominali” tuonò imperioso, lanciando un’occhiataccia a Vegeta, quarterback della squadra.

“Chi fa battutine … seicento addominali” continuò, guardando ora minaccioso Napa, un energumeno dalla testa pelata e insieme a Vegeta due dei peggiori bulli della scuola.

“Capito?!” al vedere le teste dei ragazzi annuire con uno sbuffo, si fece da parte, permettendo a Gohan di entrare nello spogliatoio.

“Tutti tuoi, Gohan.”

“Grazie, Bardack.” Il professor Son guardò i ragazzi dinanzi a lui, imbarazzato.

“Ciao ragazzi! Come va?” cominciò titubante, nel tentativo di rompere il ghiaccio, senza ottenere alcuna risposta.

“Con qualcuno già ci conosciamo dal corso di spagnolo …” disse, lanciando uno sguardo a Vegeta, studente che seguiva appunto il proprio corso, per “costrizione familiare” come aveva detto lui.

“Però oggi vorrei parlarvi di qualcosa di … diverso! Esclamò, gesticolando con il foglio stretto tra le mani e sorridendo nervoso.

“La musica!” annunciò entusiasta, ricevendo solo occhiate stranite dai ragazzi.

“Al Glee Club siamo pochi …” continuò e a quelle parole, alcuni dei ragazzi scoppiarono in lievi risatine mal trattenute. Gohan sospirò, evidentemente deluso.

“Troverete il foglio per le iscrizioni sulla porta dello spogliatoio … grazie.” Concluse a testa bassa, sconfitto.
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Diverse ore dopo, Gohan tornò allo spogliatoio dei ragazzi, per controllare se qualcuno si fosse miracolosamente iscritto. Fissò il foglio completamente vuoto dinanzi a sé, sospirando e convinto che ormai il suo sogno delirante intitolato “Nuove Direzioni” fosse giunto al capolinea. In un eco indistinto sentì lo scrosciare dell’acqua dal bagno, constatando che qualche ragazzo stesse facendo la doccia dopo gli allenamenti.

On a cold, dark winter's night
And I'm getting closer than I ever thought I might

Fu quando ad un tratto al rilassante rumore dell’acqua si unì una voce che gli occhi di Gohan si spalancarono, confusi. Sospettoso, Gohan prese ad incedere a piccoli passi verso la provenienza di quella voce maschile a dir poco fantastica, raggiungendo piano piano le docce del bagno. Quando a pochi passi riconobbe sbucare dal marmo delle mura una chioma scura e rivolta verso l’alto, il cuore di Gohan subì uno scatto, per poi bloccarsi definitivamente nel riconoscere il volto a cui quella voce appartenesse. Vegeta Prince, Quarterback della squadra di Football e bullo arrogante ed orgoglioso, stava canticchiando “Can’t fight this feeling” sotto la doccia, in uno spogliatoio che credeva deserto. Ad un tratto Vegeta spalancò gli occhi, come acccortosi della presenza di qualcuno, e in un istante, Gohan si abbassò in terra, trattenendo il respiro in attesa che Vegeta si voltasse e che non lo vedesse. Nel abbassarsi aveva accidentalmente colpito una borsa poggiata malamente sulla panca a fianco e guardandola, la riconobbe come quella di Napa, l’amico di Vegeta. La borsa cadde in terra, rovesciando il suo contenuto. Imprecando silenziosamente, Gohan prese a raccogliere i vari oggetti, rimettendoli al loro posto, quando ad un tratto si bloccò. Tra le sua mani strinse una bustina trasparente, contenente una polverina verde, sembrava dell’erbetta tritata. Gohan spalancò gli occhi, riconoscendo quella sostanza come Marijuana e non meravigliandosi poi troppo che un tipo come Napa ne avesse una piccola quantità nel borsone degli allenamenti. Nel frattempo, Vegeta aveva ripreso a canticchiare noncurante, senza essersi accorto di nulla, e all’udire la sua voce Gohan si ricordò per quale motivo avesse deciso di intraprendere quell’avventura delirante: il voler scoprire nei ragazzi doni che nemmeno loro credevano di avere. Ascoltò la voce di Vegeta incantato, pensando che quello fosse talento puro. Ma la razionalità torno per un attimo a farsi spazio nella sua mente, ricordandogli che Vegeta non avrebbe mai deciso di sua spontanea volontà di unirsi al Glee Club. Lanciò un’occhiata alla bustina stretta tra le sue mani, decretando che quello che fece poi, fu l’azione più spregevole di tutta la sua vita.
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Sbatté la bustina sulla cattedra in legno, spingendola in direzione del proprio interlocutore.

“Mi parli dei tuoi problemi di droga?” chiese con fare indagatore, sentendosi tremendamente in colpa.

“Io non so nemmeno di chi sia quella bustina!”  ribatté irritato Vegeta Prince, seduto nervosamente sulla sedia di fronte al Professor Son, che lo aveva convocato in quell’ufficio pochi minuti prima.

“Senti, se fosse per me non esisterebbero i controlli bisettimanali nei vostri armadietti.” Disse Gohan, incrociando le braccia al petto.

“Ma io non l’ho mai vista quella bustina, professore! Mi dia un barattolo per fare le analisi!” esclamò con tono di sfida e allo stesso tempo tremendamente serio Vegeta. Gohan boccheggiò per qualche attimo, maledicendosi per non aver messo in conto la tenacia e l’intelligenza di Vegeta Prince.

“Ma non farebbe nessuna differenza.” Riuscì a dire dopo pochi attimi, sicuro di sé.

“Per la legge basta il possesso e scommetto che quel quantitativo è già reato.” Spiegò con pacatezza, osservando il duro ragazzo davanti a lui passarsi una mano tra i capelli e scuotendo il capo, evidentemente sconvolto.

“Ti cacceranno dalla scuola. Addio borsa di studio per il football.” A quelle parole, Vegeta alzò lo sguardo, fissando il professore esterrefatto.

“Cosa? Avevo una borsa di studio per il football?” chiese confuso. Gohan lo fissò serio, sentendosi dentro di se morire per il rimorso.

“In prigione non ti servirà.” Disse con fermezza.

“Cazzo …” imprecò a bassa voce Vegeta.

“Senta non lo dica a mia madre, professore.” Esclamò subito e per la prima volta da quando lo conosceva nelle lezioni di spagnolo, Gohan lo sentì utilizzare un tono di voce quasi supplichevole, anziché il solito sbruffone e autoritario. Sospirò pesantemente, abbassando poi lo sguardo e rialzandolo sul ragazzo.

“Sai, io mi rivedo in te, Vegeta … so quanto sia difficile fare le scelte giuste nella vita, e non voglio vederti buttar al vento tutto ciò che hai da offrire al mondo. Mi aspettavo molto di più da te …” disse con tono quasi deluso, alche Vegeta rimase sconvolto, rimuginando tra sé e sé.


Vegeta non aveva mai conosciuto suo padre. A quanto gli aveva detto sua madre, era morto in guerra e di lui non aveva che qualche foto. Sua madre lo aveva quindi cresciuto da sola, senza nessuno aiuto, contando solo sulle proprie forze. Era una donna forte, sua madre, e quando Vegeta aveva sette anni, per il suo compleanno gli aveva regalato una batteria. Entusiasta per quel regalo, il bambino aveva da subito preso a suonarla e ad appassionarsi di musica, sino a quando raggiunse l’apice del suo amore musicale grazie a Chris. Chris era il giardiniere della famiglia Prince e sin dal primo momento, tra l’uomo e sua madre Rosicheena era scoccata la scintilla che li aveva portati a mettersi insieme. Chris era simpatico e da appassionato di musica, aveva insegnato a Vegeta come suonare la batteria e la chitarra, passandogli poi i suoi dischi e cd. A dieci anni Vegeta era diventato così esperto di musica da battere perfino lo stesso Chris. Sua madre era felice con quell’uomo e lo stesso valeva per lui, ancora piccolo ed ingenuo bambino fortemente legato alla persona che lo stava crescendo. Poi un giorno Chris era scomparso, andandosene via con Dolly, la vicina dei Prince, una bambolina bionda e completamente rifatta. Il giorno in cui Chris se ne era andato Vegeta aveva visto per la prima volta Rosicheena piangere, e fu in quel momento che decise che nella vita avrebbe fatto di tutto per rendere sua madre orgogliosa di lui, per farle capire che i suoi sacrifici erano valsi a qualcosa. Non poteva ora deludere l’unica persona di cui gli importasse davvero nella vita, per colpa di uno stupido errore con cui lui non c’entrava niente. Si divertiva a picchiare gli sfigati, ma Dio, non era un drogato!

“Abbiamo due possibilità” esclamò ad un tratto il professor Gohan, riportandolo alla realtà.

“Gestisco l’aula punizioni; puoi venirci per due mesi dopo la scuola ma … rimarrà sui registri scolastici.” Vegeta rifletté tra se, chiedendo poi sconfitto:

“Qual è la seconda possibilità?”
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(https://www.youtube.com/watch?v=EJVzucfuOho esibizione)

I got chills.
They're multiplyin'.
And I'm losin' control.
'Cause the power
you're supplyin',
it's electrifyin'!

 
 
Vegeta si maledì milioni di volte dentro di sé per aver accettato quella proposta. Da una parte era stato costretto, ma il dover cantare ora con quel gruppo di sfigatelli era un qualcosa di inaccettabile. Il Professor Son lo aveva trascinato con sé nell’Auditorium della scuola dove, messo in fila al fianco di quei cinque losers canterini, gli aveva consegnato un foglio in mano, dicendogli semplicemente: “canta.” Un tizio al pianoforte aveva iniziato a suonare una melodia alquanto famosa, perciò quando suo malgrado si ritrovò costretto ad aprire bocca, si stupì di come fosse riuscito a beccare subito la nota esatta. Non appena cantò il primo verso, dieci paia di occhi stupiti saettarono verso di lui, increduli. Vegeta li guardò di sottecchi, sentendo la rabbia montare all’infinito, cercando così di concentrarsi sulle parole del testo consegnatogli dal Prof. Son. Quattro persone dopo di lui, Bulma lo guardava soddisfatta, compiacendosi dapprima della sua voce per poi ammettere a se stessa che il bullo che fino ad allora l’aveva perseguitata era davvero carino. Compiaciuta del fatto che il Professor Son avesse ascoltato il suo consiglio e si fosse impegnato a trovare una voce maschile degna del suo talento, la diva vivente in Bulma decise di fare un salto fuori, facendo sì che al cambio di solista la ragazzina dai capelli azzurri gettasse in terra il foglio del testo, voltandosi di scatto in direzione di Vegeta e cominciando anch’ella a cantare.

You better shape up,
'cause I need a man
and my heart is set on you ([New Directions:] And my heart is set on you!)
You better shape up;
you better understand
to my heart I must be true.

 
 
Mentre i suoi compagni facevano da coro, Bulma prese ad incedere teatralmente verso Vegeta, cantando con foga e mimica esagerata per un Glee Club di sei persone in un Auditorium vuoto. Scansò via i suoi compagni senza nemmeno guardarli in faccia, spingendo poi la sedia a rotelle di Crillin in avanti, prontamente fermata dal Professor Son, entusiasta per l’esibizione. Vegeta la guardò inorridito, spaventato da quella ragazzina così presa dalla sua canzone e da lui. Lo stava divorando con gli occhi.

Nothin' left, nothin' left for me to do.

You are the one I want, Ooo, oo, o


Honey
The one that I want.


Ad un tratto Bulma afferrò la mano di Vegeta, strattonandola con forza. Dapprima sconvolto per quel gesto, il ragazzo fece finta di non percepire quella strana scossa creatasi al tocco della manina delicata di Bulma con la sua. Tutta presa dalla canzone, Bulma lo tirò verso di sé petr poi lasciarlo andare all’indietro, seguendo il ritmo della canzone. Suo malgrado, Vegeta si ritrovò immobile ad assecondare i suoi movimenti, cantando e fissando la ragazza che ammiccava vistosamente sempre più sconvolto e convinto di essere capitato in un branco di matti senza via d’uscita.

You are the one I want, Ooo, oo, o

Honey
The one that I want.

 
 

“Eh no, adesso mi sono rotta!” a rompere l’allegra atmosfera ci pensò C18 che prontamente, frapponendosi ai due e staccandoli, si rivolse in tono scocciato al Professor Son.

“Senta, a me non frega niente di questi coretti idioti! Io dovrei essere Beyoncè, non di certo Kelly Rowland!” si lamentò adirata la biondina, scuotendo il capo con foga.

“Ascolta C18, è solo per questa canzone.” Spiegò con cautela il professor Dawson, nel tentativo di calmarla.

“E per la prima volta eravamo ascoltabili.” Aggiunse Yamcha, dando man forte al professore. C18 sembrò soppesare per un po’ le parole di Gohan e Yamcha, prima di sospirare accondiscente, rivolgendosi a Vegeta.

“Okay va bene. Sei bravo tappetto, te lo posso concedere, ma datti una svegliata.” Si voltò poi verso il professor Son, sorridendo melliflua.

“Vogliamo riprendere?” chiese retorica. Gohan rise un po’, osservando i ragazzi davanti a lui.

“Okay, ricominciamo. Dal principio!”
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“Tu sei il Quarterback!”

“Coach, mi ascolti …”

“Tu devi ascoltare me!”
Da lontano, Napa osservò Vegeta discutere con il coach Bardack, evidentemente arrabbiato.

“Devi scegliere; o giochi a Football o ti metti a cantare!”
 
A passi dinoccolati Vegeta si avvicinò a Napa, in piedi nel campo da football, pronto per gli allenamenti.

“Ehi!” lo richiamò. Vegeta si voltò a guardarlo.

“Che succede?” Vegeta sembrò indeciso sul rispondere o meno, fuggendo dallo sguardo del suo migliore amico.

“Niente, devo saltare gli allenamenti sabato pomeriggio.” Rispose annoiato, sbuffando rumorosamente. Napa si accigliò confuso.

“E perché?” chiese sospettoso. Vegeta lo guardò, in silenzio. Non poteva certo dirgli che quel fallito del professor Son aveva deciso di portare tutto il glee Club alla Carmel High School,  per assistere all’esibizione dei loro futuri avversari alle provinciali, ovvero i Vocal Adrenaline. Napa non doveva venire a sapere del glee club, e di certo Vegeta non sospettava che la causa per cui fosse stato costretto ad unirsi a quella pagliacciata era stato proprio un certo quantitativo di sostanze illegali ritrovate nel borsone dell’amico.

“Affari miei.” Rispose brusco, come suo solito. Napa lo guardò sospettoso, senza però dire niente. Quando Vegeta diceva così, voleva dire che la questione era chiusa.
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Vegeta sbuffò spazientito, lanciando un’ennesima occhiata all’orologio da parete. Erano in fila da mezz’ora, ma si poteva sapere perché fossero così lenti? La Carmel vantava di essere una delle migliori scuole della regione, ma a quanto pareva il servizio bar lasciava molto a desiderare.

“Sei bravo, sai?” una voce al suo fianco lo riportò alla realtà. Lanciò un’occhiata alla ragazzina dai capelli azzurri alla sua destra, alzando gli occhi al cielo nel constatare quanto quella diva fosse appiccicosa e tediante. Da quando era entrato nel Glee Club, tre giorni a dire il vero, Bulma si era presa una sbandata terribile per lui. Ogni volta che entrava in aula canto cercava di fissarlo senza farsi scoprire e tentava assiduamente di farsi più vicina a lui, facendosi assegnare duetti personalizzati. Avevano la stessa età, ma Bulma non capiva perché lui la chiamasse sempre ragazzina, epiteto che tra parentesi aveva già generato numerose liti tra i due nel corso di quei due giorni. Vegeta grugnì indistintamente, alzando gli occhi al cielo.

“Voglio dire, io me ne intendo … sono brava anch’io.” Concluse quasi con ovvietà, come se fosse scontato al mondo intero il suo talento. Per diversi secondi nessuno dei due fiatò e Vegeta, convinto che si fosse finalmente zittita, mosse alcuni passi avanti, sollevato nel vedere la fila scorrere.

“Credo che gli altri si aspettino che ci mettiamo insieme.” Disse ad un tratto l’azzurra e a quelle parole, Vegeta rischiò quasi di soffocare con il chewngum che stava masticando.

“Il solista bravo e bello e l’ingenua, giovane, carina contesa da tutti.” Disse con’aria mista tra il sognante e la superbia. Vegeta a momenti scoppiò a ridere per quelle parole, consapevole che nonostante Bulma fosse davvero una bella ragazza, gli unici che la guardavano lo facevano per riuscire a mirare meglio il bersaglio per la granita, proprio dritto al centro del viso. Fortunatamente l’arrivo del proprio turno al bancone lo sollevò dal pesante incarico del rispondere alle avanche dell’azzurra, facendo si che quelle parole venissero dimenticate e lasciate al vento. Almeno così credeva.

 

“Sembra che quegli Hot dog siano lì da un bel po’ …” constatò il professor Dawson, osservando i prodotti al di là del vetro del bancone.


“Ho dei sandwich con del burro d’arachidi.” Videl Satan, guida scolastica e giovane segretamente innamorata di Gohan, aveva accompagnato il gruppo del Glee alla Carmel High School, in rappresentanza della scuola, secondo i moduli, ma per passare del tempo con Gohan, nel suo cuore. Gohan si voltò verso la moretta in piedi al suo fianco, soppesando la proposta della giovane.

“E sandwich al burro d’arachidi siano.”
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“Ehi ragazzi!” il professore si sporse un po’ in avanati, rivolgendosi ai ragazzi seduti sui posti della sua stessa fila nell’auditorium della scuola, gremito di gente.
“Stanno per esibirsi i nostri “nemici”  sottolineò le ultime parole mimando delle virgolette con le dita.
“Sinceramente non credo abbiano il talento che avete voi … ma cerchiamo di applaudirli, okay? Si meritano il rispetto del liceo Orange Star."  Disse convinto, rassicurando i suoi allievi, senza sapere nemmeno lui a cosa stessero per andare incontro.

“Spettatori dell’Ohio! Date un caldo benvenuto ai campioni regionali dell’anno scorso, i Vocal Adrenaline!”

Le ultime parole famose. L’esibizione dei Vocal Adrenaline fu a dir poco magistrale, piena di salti mortali, capriole, coreografie mozzafiato e il tutto, cantando. Al termine dell’esibizione, i volti delle  Nuove Direzioni e del Professor Son erano a dir poco allibiti.

“S – siamo s – spacciati.” Le sole parole balbettate da Chichi furono necessarie ad esprimere l’effettivo pensiero comune dei ragazzi. Erano spacciati.

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“Quindi se ne va? Quando?” la domanda di Crillin fece le veci di tutti i volti dei ragazzi, confusi dinanzi al professor Son. Gohan sospirò tristemente.

“Ho dato due settimane di preavviso. Purtroppo le condizioni di salute di mia madre sono peggiorate e ha bisogno di cure più forti e … costose.” Ammise sconfitto il professore. La notizia del peggioramento di salute di sua madre era arrivata come un fulmine a ciel sereno, e i soldi che il suo lavoro gli permetteva di guadagnare non sarebbero bastati per le cure. Doveva andarsene dalla scuola, smetterla con i suoi sogni di gloria deliranti. Sua madre stava male, doveva trovare un lavoro più redditizio per pagare le cure. Sapeva che in un centro commercialistico cercavano un ragioniere, non sarebbe stato male. Ma non voleva abbandonare i ragazzi. Dopo la fatica che aveva fatto per metterli insieme non poteva lasciarli così, non era giusto … ma non aveva altra scelta.

“Ma vi prometto di trovarvi un bravo sostituto prima di andarmene.” Disse in tono rassicurante.

“Se ne va perché quelli del Carmel sono più bravi di noi?  Possiamo migliorare!”

“Non è giusto, Professor Son. Non possiamo farcela senza di lei!” intervennero prima C18 e poi Bulma, sconvolte ed imploranti. Gohan guardò le ragazze con tristezza senza sapere cosa dire. D’un tratto una risatina si spanse dal posto dietro di Bulma, nell’auditorium dell’Orange Star vuoto.

“Beh, meglio così.” Disse una voce roca, facendo voltare tutti.

“Almeno non sarò più costretto a frequentare questo covo di sfigati.” Continuò con un mezzo ghigno sulle labbra. Bulma boccheggiò diversi attimi, incredula.

“Sono felice che se ne vada” continuò, avvicinandosi al professor Son. “Non avevo intenzione di sprecare il mio tempo per un fallito come lei …” sibilò maligno, guardando Gohan restare immobile, senza dire nulla.

“Vegeta!” lo richiamò Bulma, ma nessuno le prestò attenzione.

“Con questi tipi qua!” disse, indicando con un largo gesto della mano i ragazzi lì intorno a lui.

“Smettila, Vegeta …” lo intimò a denti stretti il professore. Vegeta sorrise ironico.

“Smetterla? Ma li ha visti bene? Li guardi! Crede che voglia passare il mio tempo con un nano su una sedia a rotelle, un’emo balbuziente, quel frocio là e una sottospecie di diva con gli abiti di mia nonna convinta di essere una stella di Broad …” ma non riuscì a terminare la frase, che subito si senti il fiato mancare. Gohan lo aveva afferrato per il bavero della maglieta, alzandolo leggermente da terra.

“Puoi dire quello che vuoi su di me … che sono un fallito, un illuso, un idiota …” sibilò a denti stretti, infuriato.

“Ma non ti permetto di parlare così dei tuoi compagni.” Lo ammonì con sguardo infuocato, furioso. Era probabilmente la prima volta che Gohan si arrabbiava davvero. Nonostante la mancanza d’aria, Vegeta ghignò comunque, maligno.

“Non sono più i miei compagni … non lo sono mai stati …” disse a mezza voce con malvagità, liberandosi con uno strattone dalla presa dell’insegnante, uscendo a grandi passi dall’Auditorium.
 

Camminò per i corridoi, allontanandosi il più velocemente possibile dall’Auditorium. Udì d’un tratto rapidi passetti ritmati di un paio di Mary Jane con piccolo tacco alle sue spalle, e alzando gli occhi al cielo si voltò esasperato.

“Che cosa diavolo vuoi t …” ma non riuscì a terminare la domanda, che un delicata manina bianco latte si schiantò contro la sua guancia, colpendolo  con forza. Vegeta si portò una mano alla guancia, fissando Bulma dinanzi a se sconvolto.

“Questo …” disse la ragazza di fronte a lui, ritta in piedi a testa alta e i pugni serrati, cercando di contenere le lacrime.

“È per aver distrutto l’unica cosa che avevo …” pronunciò con voce rotta ma tremendamente ferma, prima di voltarsi ed allontanarsi dal Quarterback di cui si era innamorata e che aveva appena distrutto a l’unica famiglia di cui avesse davvero fatto parte per una volta. Vegeta la fissò allontanarsi, incredulo. E allora, pensò che quel fastidioso senso di oppressione alla bocca dello stomaco e sul cuore, se lo fosse solo immaginato.

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Chiuse il fascicolo con un sospiro, riponendolo all’interno della vecchia borsa ormai logora.

“Serve una mano a correggere quei compiti?” alzò lo sguardo, scontrandosi con il volto di Videl. Le sorrise a metà, scuotendo il capo.

“In realtà è una domanda d’assunzione per la MainCare … cercano gente alla contabilità …” spiegò tristemente, chiudendo la borsa. Rimasero entrambi in silenzio, ascoltando il brusio indistinto degli studenti provenire dal cortile esterno.

“Mi mancherai.” Disse poi ad un tratto Gohan, alzando gli occhi verso Videl.

“Anche tu …” sussurrò la ragazza, prima di allontanarsi con velocità, uscendo dalla stanza.

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“Senti, mi spieghi come ci eri finito lì dentro?!” chiese irritato Napa, attraversando il campo da Football dopo gli allenamenti.  Vegeta strinse i pugni, adirato e stanco di tutte quelle domande riguardo ad una cosa con cui aveva definitivamente chiuso ma che lo teneva sveglio da due notti ormai, inspiegabilmente.

“Il professor Son mi aveva promesso dei crediti in più per aiutarmi in spagnolo, okay?” rispose nervoso, alzando la voce.

“Non ho avuto scelta! Se mi bocciava di nuovo ero fuori dalla squadra!” continuò.

“Ma adesso è finita, ho lasciato perdere. Chiaro?” Napa sorrise malefico, annuendo.

“Chiarissimo. Sono felice che abbia cambiato idea e per darti il bentornato tra noi persone normali … ho un regalino per te.” Disse ghignando, dandogli una pacca sulla spalla. Napa camminò un po’ in avanti e Vegeta lo seguì, sospettoso.

“Che succede?” chiese più a se stesso che a lui. Napa si fermò dinanzi ad un bagno chimico, circondato dal resto della squadra. Vegeta fissò il bagno dinanzi a lui, udendo dei lamenti provenire dall’interno.

“Chi c’è là dentro?” chiese a bruciapelo. Napa sghignazzò, seguito a ruota dal resto del gruppo.

“Quel tizio sulla sedia a rotelle. Ora lo rivoltiamo!” esclamò ridacchiando. Vegeta lo guardò impassibile.

“Dai bello, il primo giro faglielo fare tu!” lo incitò con un sorriso sadico. Vegeta non disse nulla. Per la prima volta in vita sua, sentì di non voler picchiare qualcuno né di voler far del male a quello che durante il Glee Club aveva scoperto chiamarsi Crillin ed essere un bassista strepitoso. Lo schiaffo di Bulma pulsò dolorosamente sulla guancia, dove il segno era sparito ma non le parole che l’avevano accompagnato e che l’avevano costretto sveglio tutta la notte da quel momento. Scosse la testa, aprendo poi di scatto la porta del bagno dinanzi a lui. Crillin respirò a fondo, tentando di uscire dall’angusto spazio nel quale era stato richiuso.

“A –a … grazie mille …” balbettò col fiatone, uscendo da lì’ dentro. Napa guardò Vegeta inorridito, incapace di trovare una spiegazione a quel gesto.

“Ma che diavolo fai?! Ti metti a difendere questo sfigato?!” gli chiese infatti duramente, con sguardo perso.

“Non ci arrivi, Napa?” chiese retorico, scuotendo il capo e preparandosi a mettere per una volta da parte l’orgoglio nel discorso più serio di tutta la sua vita.

“Tutti noi siamo degli sfigati. Tutta questa scuola è sfigata. Tutta questa città!” disse alzando la voce, dinanzi agli sguardi stupiti di Napa e dei suoi compagni di squadra.

“Forse la metà dei diplomati avrà un posto al college e gli altri dovranno lasciare lo stato! Non mi spaventa passare per uno sfigato, perché so benissimo di esserlo.” Ammise con fierezza, lasciando tutti di sasso.

“Però mi spaventa voltare le spalle all’unica cosa che mi ha reso felice per la prima volta in tutta la mia vita del cazzo.” Affermò, lanciando un’occhiata a Crillin, facendo riferimento al Glee Club.

“E allora? Lasci la squadra per andare al gay pride?!” fu la dura risposta di Napa. Vegeta scosse il capo.

“No. Farò tutte e due le cose. Voi non vincerete senza di me, e loro neanche.” Disse con ovvietà, prima di voltare loro le spalle e allontanarsi, seguito a ruota da Crillin.

“Ehi … ehi aspettami!” gridò Cillin spiengndo con tutta la forza che poteva la sedia a rotelle, arrancando dietro Vegeta.

“Datti una mossa, idiota. Non aspettarti di sentire più ciò che ho detto poco fa, men che meno aspettati favori da me o altro. Chiaro?” lo rimbeccò il Quarterback, voltando leggermente il capo indietro. Crillin annuì, sorridendo leggermente, consapevole che per quel giorno Vegeta aveva già fatto abbastanza.
Ad un tratto il ragazzo davanti a lui si bloccò, fissando il centro del campo da Football. Il giardiniere stava innaffiando il prato e dallo stereo dell’uomo usciva una melodia potente, incoraggiante e che Vegeta riconobbe subito. Non era mai stato un grande fan dei Journey, ma doveva ammettere che alcune delle loro canzoni erano davvero belle. E “Don’t stop believing” era una di quelle.

“Andiamo, datti una mossa.” Lo intimò duramente. Crillin lo guardò stralunato.

“Eh? Perché, che vuoi fare?” Vegeta accennò un mezzo sorriso, fissando la vecchia radio sul prato.

“Rimettere insieme il Glee Club.”
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“Prima che te ne vada, vorrei farti vedere una cosa.” Gohan alzò lo sguardo verso Videl, osservandola armeggiare con il computer. Gli porse il pc, posizionandolo davanti ai suoi occhi. Gohan sgranò gli occhi, incredulo.

“Sono la squadra del ’93 alle Nazionali.” Disse, osservando Gohan aprire la bocca dinanzi al vecchio video dove un gruppo di ragazzini si esibivano in una performance di canto coreografato.

“Quel ragazzo lo conosci?” chiese, indicando la figura di un diciottenne occhialuto vestito con uno sgargiante costume di scena cantare e ballare entusiasta.

“Sei tu, Gohan.” Disse dopo pochi attimi, mentre lui restava immobile, incantato di fronte al video.

“Non credo di averti mai visto tanto felice …” continuò, osservandolo. Gohan sorrise a metà, senza staccare gli occhi dallo schermo.

“Il momento più bello della mia vita …” sussurrò.

“Perché?” chiese Videl.

“Perché amavo quello che facevo …” rispose con un sorriso il professore.

“Prima di arrivare a metà del numero capii che avremmo vinto noi … com’era bello essere lì … “ ammise, lasciandosi sfuggire una risatina triste.

“In quel momento, sapevo qual era il mio posto nel mondo …” disse con le lacrime agli occhi, sinceramente emozionato. Rifletté per diversi attimi, scuotendo poi il capo e chiudendo il computer.

“N – no … devo provvedere alla mia famiglia …”

“Grazie …” disse solamente, prima di alzarsi e uscire dall’aula, lasciando Videl sola, sconfitta ed amareggiata.

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Camminò con lentezza per i corridoi, a testa bassa, immerso nei suoi pensieri. Passò davanti all’Auditorium, voltandosi di scatto nell’udire delle voci provenire dal suo interno. Con lentezza, Gohan si avvicinò, aprendo il pesante portone.

(https://www.youtube.com/watch?v=7vN2mkeCjlw esibizione)
 
Just a small town girl
Livin' in a lonely world
She took the midnight train goin' anywhere


Far parte di un gruppo significa anche cambiare alle volte. Significa imparare a mettersi sullo stesso piano degli altri, imparare ad aiutarsi a vicenda, crescere insieme. Fino ad almeno una settimana prima, Vegeta non avrebbe mai creduo a robe del genere. All’udire tali parole sarebbe scoppiato a ridere cinico, gettando una granita in faccia a quella che ancora non sapeva si chiamasse Bulma. Faceva uno strano effetto allora vederlo in quel momento in piedi sul palcoscenico, affianco agli altri ragazzi, intonare una canzone di sua spontanea volontà, senza essere stato costretto da nessun ricatto fasullo con della droga. Ed era ancora più strano il fatto che lì, sul palcoscenico di un Auditorium vuoto, cantando con altri cinque sfigatelli e un gruppo jazz a suonare in disparte, si stesse sentendo per la prima volta felice. Ma non lo avrebbe mai ammesso.

Just a city boy
Born and raised in South Detroit
He took the midnight train goin' anywhere

 
Per quanto Bulma fosse insopportabile e fin troppo egocentrica e megalomane, Vegeta aveva dovuto ammettere a se stesso che quella ragazzina dalla voce angelica gli piacesse davvero. Era un po’ una sua versione femminile, così determinata, decisa, coraggiosa e orgogliosa, una che non si era mai piegata davanti agli insulti e aveva sempre accolto le granite in faccia a testa alta, come solo una vera diva poteva fare. La ammirava, si che l’ammirava, e guardandola cantare insieme a lui, osservandolo sorridendo, Vegeta sentì una strana sensazione di calore farsi posto al centro del petto. E stavolta, non fece finta di non sentirla.

A singer in a smokey room
The smell of wine and cheap perfume
For a smile they can share the night
It goes on and on and on and on

 
 
Quel Glee Club non era male, pensò Yamcha intonando la seconda voce insieme agli altri. Insomma, nell’ultima settimana era sempre stata la parte migliore della sua giornata, durante la quale si era quasi dimenticato dei bulli, dei cassonetti e delle granite in faccia. Era bello far parte del Glee Club, perché sembrava di stare in una vera famiglia. Ed era bello avere una famiglia, pensò, sorridendo con le labbra a pochi centimetri dal microfono.

Strangers waiting
Up and down the boulevard
Their shadows searchin' in the night

Streetlight, people
Livin' just to find emotion
Hidin' somewhere in the night

 
 
Le Nuove Direzioni si fiondarono al centro del palco, tutti uniti. Intonarono il ritornello guardandosi negli occhi, trasmettendo un’energia e una voglia di rivalsa talmente tangibile da lasciare stupiti perfino loro stessi. Ma era quello il loro messaggio. Non smettere di credere. Resta aggrappato a quell’emozione.


Workin' hard to get my fill
Everybody wants a thrill
Payin' anythin' to roll the dice
Just one more time

 
 
Gohan entrò in Auditorium con lentezza, confuso. Scese piano gli scalini che portavano alla platea senza staccare gli occhi dal palcoscenico, osservando Vegeta suonare la batteria, Bulma saltare entusiasta senza smettere di cantare e gli altri ragazzi sorridere tra loro, intonando la seconda voce. Non mutò espressione, ma dentro di sé sentì l’orgoglio e la felicità crescere sempre più nel vedere i suoi ragazzi portare avanti quello che tutti ritenevano un sogno delirante, senza smettere di crederci.

Some will win, some will lose
Some are born to sing the blues
And now the movie never ends
It goes on and on and on and on

Strangers waiting
Up and down the boulevard
Their shadows searchin' in the night

Streetlight, people
Livin' just to find emotion
Hidin' somewhere in the night


Si avvicinò sempre più al palcoscenico, rendendosi conto che i ragazzi non si erano ancora accorti della sua presenza. Indossavano una semplice t-shirt rossa e un paio di blue jeans ma Gohan non poté fare a meno di notare come nella loro semplicità, quei ragazzi emanassero una bellezza mozzafiato. Perché era la voglia di farsi valere, e non un po’ di trucco a rendere quei giovani davvero bellissimi.

Don't stop believin'
Hold on to that feelin'
Streetlight, people

Don't stop believin'
Hold on to that feelin'
Streetlight, people

Don't stop!

 
 
I ragazzi finirono di cantare intonando quel “Don’t stop!” tutti insieme, abbassando poi il capo al termine della musica. Per pochi decimi di secondo l’Auditorium rimase avvolto nel silenzio.
 
Clap,clap,clap.

I ragazzi alzarono di scatto il capo in contemporanea all’udire quel ruomore. Davanti a loro scorsero il professor Son osservarli dalla platea, battendo le mani con lentezza e annuendo soddisfatto.

“Bravi ragazzi!” disse con fierezza, complimentandosi.

“Vi do un nove, ma serve un dieci.” Disse, osservando i ragazzi sorridere, chi in modo più entusiasta, chi più contenuto ma ugualmente felice.

“Bulma, nell’armonia canta la quinta; Vegeta, puoi arrivare al Si naturale se lavoriamo bene …” esclamò, additando i ragazzi e impartendo loro suggerimenti per l’intonazione. Bulma annuì tra sé, prima di alzare il capo di scatto, come colta da un’illuminazione.

“Significa che resterà?” chiese speranzosa. Gohan sorrise, abbassando il capo per poi rialzarlo subito.

“Non sopporterei che vinceste le Nazionali senza di me.” Disse enigmatico, ma i ragazzi capirono alla perfezione, sorridendo e guardandosi entusiasti, soddisfatti per essere riusciti a riportare il Professor Son al suo posto. Gohan sorrise, prima di squadrare i ragazzi uno ad uno, e con uno sguardo determinato, diede il via alla vita delle Nuove Direzioni, esclamando:


“Dal principio!”

E questo, era davvero il principio di tutto.

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Capitolo 5
*** Seasons of love - Rent/Glee Cast ***


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How do you measure the life of a woman or a man?
( https://www.youtube.com/watch?v=qGrA-ER9-nM )

Il santuario di Dio non è un luogo dove è possibile giocare a nascondino, poiché di nascondigli non ce ne sono. Perciò Chichi non si stupisce di trovarla subito, in quel luogo che sta ospitando tutti loro, in attesa e nella speranza che Majin Bu venga sconfitto. Bulma se ne sta seduta in terra, le spalle appoggiate ad una colonna, la testa abbandonata all’indietro. Non ci aveva mai fatto caso prima d’ora, ma in quel momento, Chichi si rende conto che dalla  notizia della morte di Vegeta, Bulma non ha versato una sola lacrima. Vaga come un fantasma per le bianche mura del palazzo, lo sguardo spento e lucido. Eppure non piange. E non sa se esserne sollevata o preoccupata. Ognuno gestisce il dolore a modo suo: c’è chi piange e si dispera senza contegno. E ci sono persone come lei; persone che piangono dentro, che soffrono senza dire una parola, che tengono tutto il proprio dolore all’interno del loro cuore. In questo, lei e Bulma sono molto simili:  entrambe forti, entrambe coraggiose, entrambe cercano di non mostrare apertamente il loro dolore. Ed entrambe, ora senza l’amore della loro vita.

Si avvicina lentamente, i passi delle sue scarpette risuonano per il freddo pavimento del palazzo. Eppure Bulma non guarda, non apre gli occhi verso colei che si sta avvicinando. Chichi si appoggia all’altra parte della colonna, si lascia scivolare fino a trovare il pavimento. Si siede come la donna dall’altra parte, e come lei chiude gli occhi. Nessuna delle due parla, e per un tempo indefinibile non si ode alcun rumore intorno a loro.

 “Come stai?” poi la voce di Bulma, solitamente cristallina e allegra, ora roca e spenta. Chichi sorride amaramente.

“Tutti continuano a chiedermelo … Sto bene. Voglio dire, non sto davvero bene, ma … sì, sto bene.” Pronuncia sospirando triste.

 “Ma cosa più importante: come stai tu?” riprende poi. Sente la donna alle sue spalle sospirare.

“Non ne ho idea …” dice poi in sussurro.

“Sai, ci parlo molto …” continua Bulma, la voce incrinata. Chichi capisce: anche lei parla molto con suo marito. Con un marito che non c’è più. Sente Bulma tirare su col naso, e poi riprendere.

“Ma non sono pazza, te lo giuro …” si riprende subito, cercando quasi di giustificarsi. Chichi sorride amara, intenerita.

“Non l’ho mai pensato.”

“Riesco ancora a vedere il suo viso e sento la sua voce così chiaramente …” Bulma alza lo sguardo verso l’alto.

 “Credi che lo dimenticherò mai?”

 “Perché ho paura che un giorno possa accadere …” confessa in un sussurro, iniziando a piangere.

“Di cosa gli parli?” chiede Chichi. Bulma sospira.

 “Di tutto. Voglio dire, quando era vivo principalmente ero io a parlare e lui fingeva di ascoltare, perciò non è poi così diverso …” dice, sorridendo amaramente. Chichi si lascia sfuggire una risatina triste, straziata. 

 “Avevo pianificato tutto … sai, mi sembrava incredibile che stesse andando tutto bene. Vegeta era rimasto con me, con Trunks. Stava crescendo suo figlio, e a modo suo lo amava, e amava me …” sospira pesantemente.

“Avevo pensato che forse un giorno ci sarebbero stati dei momenti critici, come escluderlo con Vegeta … eppure sapevo che un giorno sarebbe sempre tornato da me e da nostro figlio. E magari rientrando in casa mi avrebbe guardato, io gli avrei chiesto cosa ci faceva lì e lui avrebbe risposto semplicemente “Sono a casa.” E avremmo vissuto per sempre insieme …” termina Bulma, lasciandosi sfuggire un singhiozzo. Chichi annuisce tristemente.

 “È un bel piano … glielo avevi detto?” chiede Chichi.

“Non avevo bisogno di farlo. Lui lo sapeva, sapeva quali erano le mie speranze, i miei sogni, i miei pensieri …” risponde Bulma.

 “E adesso?” azzarda Chichi. Bulma abbassa lo sguardo, le lacrime le inondano il viso.

“Non lo so, qualcosa di diverso …”

“Magari qualcosa di migliore?” Sente Bulma sospirare.

 “È che non credo che sia possibile … lui era tutto …” sospira tra le lacrime, la sua voce trema tremendamente.

“Come puoi misurare la vita di un uomo?” riprende d’un tratto la turchina, in una domanda spiazzante.
“Insomma, come fai a quantificare l’esistenza di una persona? In giorni, in tramonti, in notti … come puoi dare una misura alla vita?” Chichi riflette per diversi attimi tra se, cogliendo l’immensa profondità di quella domanda.

 “Vegeta ha ammazzato così tante persone nella sua vita … ha avuto un passato torbido, che non ha mai raccontato nemmeno a me. Come posso misurare la sua vita se non in uccisioni, morti e guerre?” Bulma si perde tra gli stessi chiaroscuri delle sue domande, riflettendo ad alta voce su ciò che ha avuto, ciò che ha amato e che continua ad amare, anche se non c’è più.

“Che ne dici dell’amore?” Spalanca di scatto le iridi cerulee colme di lacrime, tenendosi la testa tra le mani. Ha capito bene?

“C – Come?” balbetta confusa.

“Vegeta ha fatto tanto del male, è vero. Ma ti ha amata. E ha amato anche Trunks, la vostra famiglia, i vostri momenti insieme! Ne sono sicura, altrimenti perché farsi saltare in aria per salvarvi, se di voi non gli fosse importato nulla?” esclama con lucidità Chichi, ed allora per Bulma tutto si fa più chiaro.

“Stagioni d’amore …” balbetta tra se, prima di sorridere amara.

“Se fosse stato qui ti avrebbe accusata di aver detto un’enorme stronzata, lo sai?” chiede retorica Bulma, con un minuscolo sorriso.

“Sì, effettivamente me ne rendo conto.” Esclama lasciandosi andare ad una risatina triste, che contagia inesorabilmente anche Bulma. Dura solo pochi attimi, ma per almeno cinque secondi riescono a sentirsi meglio, insieme.

“Però è così, fidati. Potresti provare a misurare la vita di Vegeta in amore … e vedrai che sarà lunga tanto quanto il tempo passato al vostro fianco, qui sulla Terra.” Dice Chichi, tornando seria. Bulma annuisce tra se, certa che la donna abbia ragione.

 “Sai Bulma, so cosa vuol dire. La morte fa paura, tanta paura.” Bulma alza di scatto il capo, prestando attenzione alle parole della donna alle sue spalle.

"Quando ero una ragazzina non avevo mai pensato al fatto che avrei potuto perdere i miei affetti più cari, così, da un momento all’altro. Sentivo in giro le storie tragiche di orfani, madri che perdono i propri figli … io cercavo di non ascoltare, di cambiare argomento, perché andiamo, non penseresti mai che potrebbe accadere anche a te. E mi chiedevo: ma come fanno? Come fanno coloro che perdono qualcuno ad alzarsi ogni mattina? Come riescono a vivere, come riescono a respirare?”  nella voce della corvina, Bulma riesce a cogliere un tremendo tono supplichevole, disperato, stanco, che mai avrebbe associato ad una donna come Chichi.

 “Ma poi ti alzi, continui a respirare. E ogni volta che ti svegli, dimentichi tutto per un secondo …” la sua voce diventa un sussurro appena udibile, ma alle orecchie di Bulma risulta come un grido disperato.

 “Ma poi la realtà torna, e ti ricordi tutto. E allora è come ricevere quella dannata notizia ancora, ancora ed ancora, fino allo sfinimento …” continua lei, piangendo.

“Non puoi smettere di svegliarti, non smetti di essere una madre o una moglie …  bisogna continuare a vivere da genitori anche nel momento in cui non è più concesso avere un figlio …” rigetta le ultime parole con una fatica immensa, prendendo a singhiozzare dolorosamente. Bulma serra gli occhi, ricacciando inutilmente indietro le lacrime.

 È strano per Chichi, perché solitamente non piange di fronte agli altri. Teme di mostrarsi debole, lei che invece è una donna forte, lei che ha cresciuto due figli da sola … eppure adesso, di fronte, anzi di spalle a Bulma, sta confidando tutto quello che mai avrebbe pensato di dire apertamente. Si sente sollevata, quasi. Ha confidato le proprie emozioni ad una donna che fino a quel giorno non aveva mai considerato con troppa confidenza. Eppure adesso lei è l’unica che può comprenderla. Entrambe stanno soffrendo, entrambe sanno quanto bastarda sia la morte, entrambe hanno perso l’amore della loro vita, entrambe temono di dimostrarsi deboli al mondo. Ma è finita. Si sono tenute dentro tutto il dolore, l’angoscia e la frustrazione che quei maledetti giorni hanno procurato alle loro vite, e sono arrivate ad un punto di rottura in cui sentono di non poter più trattenere quello che hanno lì, nel cuore. Sono forti, è vero, ma prima di tutto sono umane.

“Ma ti posso assicurare una cosa, Bulma” continua Chichi, dopo aver preso un profondo respiro.

“Non dimenticherai mai la sua voce … Non lo dimenticherai mai. ” Bulma annuisce tra le lacrime.

“Mai …” ripete in un sussurro debole, ma che risuona un grido alle orecchie di Chichi.
 
How about love? Seasons of love …

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Capitolo 6
*** #6 - Bohemian Rapsody, Queen ***


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Mirai Trunks/Mirai Bulma (Universo Mirai!)
 
Mama,
Didn't mean to make you cry 
If I'm not back again this time tomorrow 
Carry on, carry on, as if nothing really matters ...



 
Trunks chiuse il portellone della navicella, sedendosi al posto di guida. Con un tonfo metallico segnò l’inizio di quella che poteva essere la fine e con un sospiro profondo accettò quella prospettiva di incertezze. Per un secondo lanciò uno sguardo oltre il vetro della navicella, cercando con gli occhi la figura di sua madre ritta lì in mezzo al giardino, fiera e immobile, con le braccia conserte e l’espressione orgogliosa. Per un attimo i loro occhi congeneri si scontrarono, in un acceso dibattito silenzioso fatto di ciglia frementi e iridi lucide. Trunks si rese conto, nonostante la lontananza, che entrambi i globi oculari di sua madre erano colmi di lacrime represse, dettate da quella partenza verso un passato incerto, e lui lo sapeva. Non aveva mai voluto farla piangere, quando mai era stata sua intenzione, ma forse allora quelle parole non avrebbe dovuto sussurrargliele all’orecchio, prima di fuggire nell’abitacolo della navicella.

“Mamma, se stavolta non dovessi tornare indietro …” aveva detto con voce leggermente tremante, ma comunque dura. Entrambi sapevano che di pessimismo ce n’era già troppo nella loro vita e ora da quella missione dipendeva la felicità dei loro alter ego passati, di coloro che sarebbero potuti essere felici al loro posto. Ma da quando aveva acquisito la capacità di parola e di pensiero, Trunks aveva imparato ad essere realista. Non voleva spaventare sua madre, era certo di potercela fare. Ma ce’era sempre quell’ uno percento che manca ad ogni intero, quello che fa l’incertezza e il dubbio, l’ansia e l’angoscia.

“Tu vai avanti, okay? Vai avanti, vai avanti come se niente fosse. E so che sarà impossibile ma tu sei forte, ricordatelo. Perciò almeno provaci. Io ti voglio bene.” Le aveva sussurrato nel mentre di un abbraccio che sapeva di dolore e di speranza, di addio e di incontro.
 

Trunks abbassò lo sguardo, cominciando a digitare combinazioni di pulsanti sulla tastiera della navicella. E poi partì, velocemente, senza quasi guardarsi indietro. Tutto pur di non vedere le lacrime solcare le gote chiare di sua madre. Tutto pur di non vederla piangere, per la prima volta in tutta la sua vita.
 

Nota:
Uh, è la prima flash/o quello che sia che scrivo sull’universo Mirai, accidenti! Ehm, credo di non dover dire nulla, a dire il vero (angolo autrice inutile, insomma.) Ah sì, la canzone. Bohemian Rapsody dei miei lovely Queen, e in realtà il testo non avrebbe nulla a che fare con questa storia ma i versi che ho riportato all’inizio mi sembravano perfetti così mi è venuta in mente questa coserella. ;)
Alla prossima!
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Capitolo 7
*** #7: Tears in heaven, Eric Clapton ***


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Would you know my name if I saw you in heaven?
Would it be the same if I saw you in heaven?



Trunks serrò i piccoli pugnetti con una forza atroce, conficcando le unghie nella carne del palmo minuto ma tremendamente forte. Sentì gli occhioni blu inumidirsi e si rese conto che stava per piangere. Con un gesto fulmineo si passò la mano sugli occhi, strofinandoli con forza nel tentativo di ricacciare indietro le lacrime. Non voleva piangere come una femminuccia, glielo diceva sempre lui che era un Sayan e i Sayan non piangono mai. Per un attimo però le sue sinapsi trasmisero alla sua mente per la centesima volta in quei minuti il messaggio che lo aveva lasciato così, inerte e sull’orlo delle lacrime. 

“Ragazzi mi dispiace … ma Vegeta e Gohan non ci sono più.”

Aveva odiato Goku in quel momento, eccome se l’aveva odiato, e per un attimo si era così sentito un po’ come suo padre, sempre disgustato da quel sorriso melenso e  umano. La filantropia non era mai stata una sua virtù, suo padre preferiva la distruzione alla creazione. Suo padre era così, era diverso da tutti gli altri papà che conosceva, a partire proprio dal suo acerrimo rivale, e non si curava di dispensare abbracci inutili e gesti d’affetto vuoti e pieni di falsità. Aveva preferito concedergli un solo gesto, l’unico dono in quei sette anni di vita era arrivato proprio quel giorno di morte inaspettato, quando mai avrebbe creduto di poter ricevere un gesto tipicamente amorevole da parte del suo burbero padre. 

Trunks rimase immobile, fissando il pavimento bianco del santuario di Dio sotto ai suoi occhi, inerme. Per un attimo ripensò a quell’abbraccio inaspettato e percepì indistintamente il proprio cuore aumentare di un battito la sua andatura. Se avesse chiuso gli occhi avrebbe potuto percepire ancora perfettamente quelle braccia rudi circondarlo e stringerlo a sé, quell’odore forte e virile che era tipico di suo padre, quegli occhi azzurri di Super Sayan che avevano assunto una quasi invisibile inflessione di tristezza. E mentre nella sua mente la scena di quell’abbraccio tanto bramato si ripeteva all’infinito, Trunks per un attimo venne colto da un sospetto assurdo; e se suo padre l’avesse abbracciato solo per pietà? Se davvero lui avesse saputo ciò a cui stava andando incontro, non era forse possibile considerare quel gesto come una tacita richiesta di remissione dai propri peccati, e magari trovata proprio negli occhi blu di suo figlio? Detestava dover considerare quell’opzione perché lui avrebbe voluto un abbraccio vero, venuto dritto dal cuore, ma infondo credere di essere stato la causa del pentimento di suo padre lo rendeva ambiguamente felice, soddisfatto quasi. Suo padre lo amava e amava anche sua madre, e aveva dato la sua stessa vita per loro. Era quello l’importante. E poi, chi poteva dirgli se quell’abbraccio fosse stato davvero un gesto d’amore incondizionato, se non proprio colui che ora si trovava da qualche parte tra il cielo e la terra? 

Non aveva idea di cosa fosse il Paradiso. Lo aveva sentito nominare milioni di volte nei film, nei libri, nei racconti strappalacrime che leggevano loro a scuola.

“Ora si trova in cielo, in un posto migliore …” dicevano sempre i protagonisti con gli occhi lucidi e lo sguardo rivolto verso l’alto, dritto tra le nuvole. Non ci aveva mai capito più di tanto, ma evidentemente il Paradiso doveva per forza stare lassù in alto, vicino al sole e immerso tra quelle nuvolette imbellettate di rosa. Che suo padre si trovasse lì allora? Non aveva mai creduto a stupidaggini buoniste del genere, ma in quel momento pregò con tutto se stesso che suo padre fosse immerso tra quelle nuvole bianche e soffici, magari al fianco del sole, che era il Re del cielo, e lui alla sua destra, che era il Principe della notte. E non tanto perché si sentisse occasionalmente filantropo o commosso, ma semplicemente perché sapeva che suo padre meritasse quel posto. E certo, magari così avrebbe potuto sentire ancora di più la sua presenza, alzando anche lui gli occhi al cielo come nei film avrebbe potuto vedere il debole riflesso di quel mezzo ghigno un po’ sghembo e leggermente sadico, con quei pezzi di antracite che aveva per occhi un po’ sbiaditi ma comunque sempre uguali, sempre duri e pieni di amore celato. Pensò poi al giorno in cui anche lui sarebbe morto finendo in Paradiso, raggiungendo suo padre e sedendosi al suo fianco, senza lasciarlo mai più. Per un attimo si chiese mestamente se suo padre lo avesse riconosciuto il giorno in cui sarebbe andato a fargli visita, se in Paradiso le cose si dimenticano o restano invariate nella mente. E se suo padre non si fosse ricordato il suo nome quando lo avrebbe visto in Paradiso?  Se lo avesse scacciato via, senza tendergli la mano e sorreggerlo come un vero padre fa? Se si fosse dimenticato di lui e della sua mamma, di tutti i momenti belli passati insieme?


Trunks serrò di nuovo i pugni con violenza, strizzando gli occhi per non piangere di rabbia. Per un attimo aprì le palpebre e le sue iridi incontrarono un piccolo sassolino adagiato in terra, vicino al suo piede. Si abbassò a raccoglierlo, osservando per qualche secondo la pietruzza appoggiata nel suo palmo. In un moto di rabbia scaglio d’un tratto il sasso contro la strana fontana bianca al suo fianco, facendolo cadere in acqua. Con gli occhi spenti e rassegnati osservò il sassolino fluttuare pesantemente verso il basso, fino ad adagiarsi con un minuscolo tonfo sul fondo della fontana, proprio come la vita di suo padre, e mestamente si chiese perché certe cose restano a galla e altre invece no.

Would you hold my hand if I saw you in heaven?
Would you help me stand if I saw you in heaven?

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Capitolo 8
*** You'll be in my heart (2) ***


 
 
 In questa storia, Vegeta è partito senza essere a conoscenza della gravidanza di Bulma, perciò non sa nulla della nascita di Trunks.
                                      
Un vento freddo si infranse contro il suo viso, scuotendogli leggermente i capelli corvini. Faceva freddo quella notte, ma non gli importava. Incrociò le braccia al petto, chiudendo leggermente gli occhi, perché alcuni granelli di polvere si erano sollevati dal terreno ed erano andati a colpire il suo viso, e lui odiava la polvere. La polvere era insignificante, inutile. La polvere è per i perdenti, per coloro che non avevano senso di esistere. per le mezze classi. Erano loro che dovevano mangiare la polvere, prostrandosi dinanzi a lui, come conviene ad un suddito verso il suo re. Mai le sue regali membra avevano sfiorato la polvere, eccetto una volta, su Namecc, e quella volta non se la sarebbe mai dimenticata.
 
La polvere era insignificante, e lui odiava le cose insignificanti. La polvere, i fiori, gli insetti … tutta roba inutile. E quella strana cosa all’interno della cassa toracica. Quella cosa che batteva, pulsava trasportando sangue verso tutto il suo corpo, in un movimento involontario. 90 pulsazioni al minuto, 4200 all’ora,100.800 al giorno. Il centro vitale di tutto l’organismo concentrato lì, in un qualcosa grande come il proprio pugno. Quella cosa, il cuore, era importante. Per tutta la sua vita, lo aveva solo sentito battere regolarmente, un po’ più veloce durante i combattimenti. Era tutto normale, niente di strano. Poi era arrivato sulla terra e aveva conosciuto quella donna dai capelli azzurri … e da lì, il suo cuore aveva preso una strada tutta sua. Gli era capitato alle volte di sentirlo accelerare un po’ troppo il ritmo quando quella Bulma era nelle vicinanze, e la cosa non gli era piaciuta per niente. Il suo cuore batteva, e anche troppo forte. Aveva sempre adorato stare da solo, ma da quando quella terrestre era entrata nella sua vita si era scoperto quasi interessato a passare del tempo con lei. Certo, parlava davvero troppo per i suoi gusti. Ma infondo, non era poi così male …
 
Era stato nel momento in cui si era reso conto di quei pensieri completamente controproducenti verso quella ragazza che aveva preso la sua decisione; con lei si era divertito, a letto non era male, ma per lui non contava nulla. Altre erano le sue priorità, in primis quel tanto agognato oro e potere leggendario. E non era di certo al fianco di Bulma che lo avrebbe raggiunto. Perciò se ne era andato. Aveva passato quei mesi in giro per lo spazio, vagando di pianeta in pianeta, senza mai smettere di allenarsi. E una notte, quando ormai ogni speranza di riuscire nel proprio obbiettivo sembrava sfumata, ce l’aveva fatta. Era diventato un Super Sayan.


Adesso che era tornato sulla terra dopo tanto tempo si sentiva strano. Una mancanza, quasi un vuoto, si era impadronito del suo animo. Eppure era strano, perché se era la solitudine ciò che ricercava l’aveva trovata e come. E allora perché due occhi azzurri si erano fatti largo nella sua mente, costringendolo a serrare i pugni con forza, quasi con rabbia?  Perché quella cosa che pulsava sangue aveva deciso di mettersi a battere più forte proprio in quel momento?  Perché si era librato in aria e in un attimo aveva preso il volo, diretto verso quel luogo dove mai avrebbe pensato più di ritornare?
 


 
Bulma si alzò stancamente dal letto, aprendo gli occhi azzurri arrossati dal sonno. Si mise a sedere sul letto, passandosi una mano sul viso di porcellana dove i segni del sonno perso si rivelavano alla luce della luna, senza tutto il correttore che ultimamente aveva preso ad usare per nascondere le occhiaie. Poggiò in terra i piedi e al contatto col gelido marmo un brivido attraversò tutta la sua esile figura, avvolta da una vestaglia di cotone un po’ troppo leggera per quella notte. Mosse i piedi distrattamente, cercando a tentoni le pantofoline rosse che aveva abbandonato ai piedi del letto, poco prima di coricarsi. Il pianto di un bambino riecheggiò all’interno della stanza, più forte del primo vagito che l’aveva destata. Rinunciando all’impresa di indossare le sue calde pantofole imbottite di lanuggine si alzò in piedi, attraversando la stanza a piedi nudi. Si avvicinò alla culletta al fianco del suo letto, piegandosi un po’ in avanti in modo da poter osservare bene il suo occupante.


“Trunks, tesoro che succede?” sussurrò con voce stanca al neonato che continuava a piangere disperatamente nel suo lettino.


 Bulma sospirò pesantemente, porgendo le braccia verso il bambino e prendendolo in braccio con delicatezza. “Trunks … ehi, che succede?” sussurrò nuovamente al fagotto lilla che continuava a dimenarsi disperato tra le sue braccia.
Il piccolo Trunks aveva appena nove mesi ed era uguale a suo padre. Gli occhioni azzurri avevano le stesse sfumature di quelli di Bulma, così come i capelli violetti si avvicinavano a quelli della donna. Eppure era Vegeta. Gli stessi occhi, quella forma sempre imbronciata e seriosa, a dir poco assurda per un bambino di pochi mesi. Era ormai passato più di un anno da quando Vegeta se ne era andato, senza sapere che lei fosse incinta. Bulma aveva affrontato i nove mesi della gravidanza con una forza ed una tenacia degna solo di colei che aveva avuto il coraggio di innamorarsi del Principe dei Sayan. Il suo cammino verso la venuta al mondo del piccolo era stato duro e costellato di dolori, ma nel momento in cui aveva intravisto una piccola codina scura spuntare dal fagottino che le porgevano in ospedale, aveva scordato tutto. Si era innamorata del suo bambino dal primo momento in cui lo aveva visto. Crescere un figlio da sola non si prospettava come la più semplice delle imprese, ma lei ci stava riuscendo. A costo di passare notti insonni, di finirsi la voce a furia di cantare ninne nanne, quel bambino lo avrebbe cresciuto da sola, senza l’aiuto di nessuno.
Perché lei era forte. Sospirò stancamente, osservando Trunks dimenarsi e piangere, preda chissà quali drammi neonatali. C’era solo una cosa in grado di calmare Trunks in momenti come quelli. Le ninne nanne. Strinse a sé il suo bambino, socchiudendo gli occhi. Poi, a bassa voce, iniziò ad intonare una delle sue ninne nanne preferite. (https://www.youtube.com/watch?v=KgVtvORKt3M consiglio di leggere ascoltando questa canzone del link in sottofondo)

 
Come stop your crying 
It will be all right 
Just take my hand Hold it tight 
I will protect you 
from all around you 
I will be here 
Don't you cry 



Vegeta volava a gran velocità nel cielo buio, illuminato solo dalla luce della luna. All’interno della sua mente un disperato monologo interiore stava avendo luogo. Centro del dibattito; il perché in piena notte stesse sorvolando quella stupida città diretto verso la sua casa. Non aveva un senso logico, perché a lui non importava niente di quella terrestre. Il fatto è che il suo corpo aveva agito da solo, senza ricevere alcun comando dal cervello. Per un attimo, il suo sistema nervoso si era ribellato al suo volere e le sinapsi avevano intrapreso una strada che non gli era piaciuta per nulla, costringendolo ora a ricercare quasi con disperazione l’aura di quella terrestre. Vegeta strinse i pugni, ringhiando; era tutto troppo assurdo, non si riconosceva nemmeno più. Quello non era lo spietato Principe dei Sayan, l’assassino intergalattico responsabile del novanta percento dei genocidi delle popolazioni nell’universo. Il massacratore, una macchina da guerra senza pietà, il più devoto tra tutti alla dea Morte. Non era lui quello che vedeva ora. Non era lui, e non doveva essere lui. Stava quasi per fare retromarcia e tornare indietro, quando la vide; la casa gialla a forma di cupola troneggiava tra tutte le altre abitazioni del centro abitato, e nel vederla Vegeta sentì un groppo di saliva bloccarsi proprio al centro dell’epiglottide. Dall’esterno non vi era niente di nuovo, tutto era rimasto come il giorno in cui era partito e Vegeta ebbe quasi la tracotanza e la presunzione di pensare che forse, dopo la sua partenza, la vita dei Brief fosse rimasta ferma, come un orologio dalle pile scariche. Ghignò leggermente, sentendosi importante. Ad un tratto però, una flebile luce proveniente da una delle finestre cancellò quel sorrisetto dal suo viso. Si avvicinò con lentezza, senza smettere di fluttuare nell’aria, perché la luce proveniva da una delle stanze al secondo piano. E quando si ricordò anche a chi quella camera appartenesse  sentì quella cosa al centro del petto arrestarsi per un attimo. Inorridito da quell’assurda reazione fece finta di niente, avvicinandosi maggiormente alla finestra della camera di Bulma. E fu quando si ritrovò a meno di un metro dal vetro della finestra che si bloccò, spalancando la bocca. Le tende non erano state tirate, poteva intravedere ogni cosa dall’esterno. Una figura esile dava lui le spalle e lunghi capelli turchini ricadevano liberi sulla schiena perlacea, illuminata dai raggi lunari. Una voce melodiosa e delicata giunse in lontananza alle sue orecchie, quasi come un eco lontano, ostacolato dalla sottile lastra di vetro della finestra.
 
For one so small
You seem so strong
My arms will hold you
Keep you safe and warm
This bond between us
Can't be broken
I will be here don't you cry


Bulma si voltò un poco, e nel vederla, Vegeta temette di svenire. I capelli turchini solitamente acconciati alla perfezione ora erano sciolti e leggermente scompigliati, sparpagliati sulle spalle a creare boccoli naturali e onde color del mare. Gli occhioni d’oceano velati da una tenerezza che mai aveva visto e le labbra increspate in un sorriso così dolce da spiazzarlo. Non l’aveva mai vista così, ma non poté fare a meno di ammettere a sé stesso che non aveva mai visto niente di più bello. Bulma non si era però accorta di lui; tutte quelle dolci attenzioni erano rivolte ad un fagotto fasciato in una copertina azzurra che la ragazza stringeva a sé con tenerezza. Involontariamente, gli occhi di Vegeta si corrugarono più del solito, e quando dalla coperta emerse il volto di un bambino dagli occhioni azzurri e un ciuffetto lillà in testa, sentì una morsa stringergli il petto. Si chiese chi accidenti fosse quel marmocchio e quando sentì Bulma sussurrare, tra una nota e l’altra della ninna nanna, “Tesoro, la mamma è qui … non preoccuparti” non ebbe più bisogno di spiegazioni.
 
 Bulma era divenuta madre.
Bulma aveva avuto un figlio.
 Vegeta si ritrovò a stringere i pugni con rabbia, nel realizzare che un uomo che non fosse lui, aveva donato alla terrestre un bambino. Non che fosse sua intenzione avere figli, assolutamente no; ma scoprire che dopo la sua partenza Bulma era andata avanti … gli fece male a quella cosa nel petto. I suoi pensieri egoistici e arroganti erano sfumati proprio in quel momento, dove si era reso conto che a differenza di ogni sua aspettativa Bulma si era rifatta una vita.
 Un figlio, tsk.
 Assurdo.
Ma c’era qualcosa che non quadrava. Oltre alla debole aura di Bulma riuscì ad avvertirne un’altra, estremamente più forte e più potente. Guardò per un attimo quel bambino che nel mentre continuava ad agitarsi tra le braccia di Bulma, pensando che c’era qualcosa che non andava. Quel bambino aveva un’aura troppo forte, troppo potente per essere quella di un comune terrestre … che fosse? No, impossibile. Quei pensieri erano assurdi, quel bambino non poteva essere …


Ma quando Bulma liberò il piccolo della copertina non ci furono più dubbi per Vegeta. Una codina pelosa sbucava dal fondoschiena del bambino, attraverso un piccolo foro posto appositamente nella tutina lavanda in cui era avvolto. La coda ondeggiava agitata alle spalle del piccolo, mentre Bulma tentava ancora di calmarlo, continuando a canticchiare quella canzone dalla melodia così … bella. Vegeta fissò le due figure oltre il vetro, puntò le iridi spalancate su madre e figlio, incapace di muoversi.
Quel bambino era suo figlio.

 
'Cause you'll be in my heart
Yes, you'll be in my heart
From this day on
Now and forever more
You'll be in my heart
No matter what they say
You'll be here in my heart
Always


Vegeta era rimasto immobile. Non era possibile, come poteva quel marmocchio stretto al petto di Bulma essere … suo figlio? Eppure era così. Quel moccioso dai capelli lillà, che colore assurdo poi, e gli occhi azzurri era suo figlio. Bulma continuava a cantare, offrendogli la visione del profilo di lei che cercava di far addormentare quel bambino. Era rimasto ancora immobile, incapace di compiere alcun  movimento, quando si rese conto che Bulma si era mossa. E quando si accorse che si stava avvicinando proprio alla finestra, in un gesto involontario si nascose al lato del vetro, appoggiandosi la muro che costeggiava l’esterno della stanza della ragazza. Si scoprì trattenere il fiato, spaventato quasi dall’idea di sporgere di un poco la testa e di farsi scoprire.
 
Why can't they understand
the way we feel
They just don't trust
What they can't explain
I know we're different
But deep inside us
We're not that different at all


Bulma invece non si era minimamente accorta della presenza di Vegeta. Con stanchezza, si avvicinò al davanzale della finestra, sedendosi su di esso e appoggiando la schiena all’indietro, sul ciglio del muro. Tra le sue braccia, Trunks sembrava essersi finalmente calmato, ma non accennava ancora ad addormentarsi. Bulma continuò a canticchiare, sentendo la testa farsi improvvisamente pesante e il sonno divorarla. Non sapeva certo che, proprio al di là di quel vetro, compresso contro un muro, vi era il padre del suo bambino. E soprattutto, non sapeva che Vegeta fosse ora a conoscenza che quel bambino stretto tra le sue braccia fosse suo figlio.

 
Don't listen to them
Cause what do they know?
We need each other
To have, to hold
They'll see in time
I know
 
when destiny calls you
You must be strong
I may not be with you
But you've got to hold on
They'll see in time
I know
We'll show them together


Bulma abbandonò la testa contro il muro, sentendo la stanchezza farsi sempre più percepibile. Vegeta intanto, al di là del muro, era rimasto immobile, in attesa di trovare la giusta mossa da compiere. Sentiva Bulma continuare a cantare, ma percepì la voce della ragazza affievolirsi, sempre di più. Fu quando non la sentì più cantare che decise di sporgersi con cautela, sbirciando dal vetro della finestra. La scoprì così, seduta sul davanzale della finestra, con il capo reclinato all’indietro e gli occhi chiusi, placidamente addormentata. Il viso era rilassato in un’espressione di eterna dolcezza, il respiro regolare e un lieve sorriso ad increspare inconsciamente le labbra carnose che mai come allora gli erano parse tanto invitanti. Era rimasto a fissare quell’immagine onirica di una Bulma dormiente, quando un movimento dai colori dell’azzurro e del lillà aveva attirato la sua attenzione. Con sguardo incuriosito aveva voltato leggermente il capo, scontrandosi con il viso paffutello del marmocchio poggiato al ventre di Bulma, che, nel sonno, lo stringeva delicatamente a sé con fare protettivo. Vegeta guardò il bambino con un’espressione indecifrabile; era suo figlio, di questo era certo. Ma dopotutto, a lui cosa importava? Dopo tutte quelle notti passate tra le lenzuola della terrestre, alla fine era anche quasi normale che lei fosse rimasta incinta. Ecco, forse la cosa che più gli rodeva era che Bulma non glielo avesse detto. Non che gliene importasse qualcosa, giammai, ma era il fatto di per sé a dargli fastidio, a farlo sentire … raggirato. Avrebbe benissimo potuto dirglielo prima che lui partisse, avrebbe potuto dirgli “Vegeta, sono incinta” perché tanto per lui non sarebbe cambiato niente, aveva deciso di partire e così avrebbe fatto. Ma il Principe dei Sayan doveva essere a conoscenza di tutto ciò che riguardava la sua vita. Come quel giorno in cui dopo anni di schiavitù a servizio quella lucertola era venuto a conoscenza della vera fine del suo popolo dalle labbra di un mostro dal tessuto adiposo rosa, terrorizzato dalla morte imminente. E anche in quel caso a fargli male non era stato tanto sapere che il suo popolo fosse stato distrutto da Freezer, figuriamoci, come se potesse importargli di un branco di terze classi o di un padre che non ci aveva pensato due volte a consegnarlo in mano al suo padrone per renderlo uno schiavo mercenario. La cosa che lo aveva davvero fatto infuriare era stato rendersi conto di essere stato raggirato da quella lucertola e dai suoi luridi seguaci.
 Essere preso in giro. E lui questo non poteva sopportarlo.
Guardò suo figlio con un’espressione infastidita. Quel misero mezzosangue non era degno di essere il suo erede,il figlio del Principe dei Sayan. Spostò poi gli occhi su Bulma e le sue iridi d’antracite luccicarono per un attimo, come una supernova che viene inghiottita in un buco nero risplende per l’ultima volta prima di andare incontro all’ignoto. Vegeta era infuriato con lei, Vegeta la odiava, doveva odiarla per quello che gli aveva fatto. Un ghigno malvagio si dipinse nel viso di Vegeta, quando con lentezza esasperante alzò il braccio, aprendo il palmo e puntandolo proprio in direzione di Bulma. Vi era solo una sottile lastra di vetro a separarli, a separare la vittima dal suo assassino. Gli occhi di Vegeta si riempirono di sadismo puro nel momento in cui, dal suo palmo, cominciò a prendere vita una piccola sfera d’energia. Non ne serviva molta, bastava un piccolo ki blast e tutto si sarebbe risolto, quella terrestre sarebbe scomparsa per sempre, il suo orgoglio sarebbe tornato a rivendicare il proprio posto con più impeto di prima, e quell’assurda e odiosa sensazione al petto sarebbe stata uccisa, proprio come lei. Era tutto così semplice, tutto così logico. E si che l’avrebbe lanciata quell’onda d’energia, se uno strano verso acuto non lo avesse infastidito, costringendolo a voltare di scatto il capo verso la provenienza di quel suono. Non gli ci volle molto a capire, perché si scontrò subito con due iridi celesti che lo fissavano senza remore, dal minuscolo corpo di un neonato. Trunks aveva lanciato un urletto di disapprovazione nel momento in cui aveva percepito il pericolo a pochi centimetri dal volto di sua madre, al di là del vetro. E adesso quello strano uomo dai capelli a forma di fiamma lo stava fissando con un’espressione infastidita, e senza rendersene conto, il bambino sentì una “cosa bella” sopra il pancino, sensazione che aveva provato solo durante gli allattamenti della madre. Era felice, e d’istinto, il piccolo iniziò a gorgogliare gioioso, tendendo le braccine verso colui che lo fissava oltre il vetro. Quest’ultimo intanto era rimasto a fissarlo basito.
 
Quel marmocchio prima lo aveva interrotto dal far fuori la madre e adesso si metteva a ridere senza motivo?
 
Infastidito, Vegeta si avvicinò di più al vetro, appiccicando il viso su di esso e poggiandovi sopra le mani, così da poter spaventare il bambino. Ma Trunks, per nulla intimidito, ripeté gli stessi gesti paterni, avvicinando anche lui il visino al vetro e poggiando le manine in corrispondenza di quelle del padre, fissandolo negli occhi.
E forse fu proprio quello. Forse furono quegli occhi a destabilizzarlo. Perché prima Vegeta non ci aveva fatto caso, ma adesso, a due palmi da suo figlio, si rende conto che quegli occhi sono i suoi. Che sono si azzurri, ma non hanno la stessa forma dolce di quelli di Bulma. Sono duri, corrucciati, proprio come i suoi. E forse è impossibile da spiegare, ma in quegli occhi, Vegeta aveva letto più spirito Sayan puro che in quelli ingenui e bambineschi del suo acerrimo rivale.
 
Vegeta non riusciva più a capire nulla; Bulma aveva smesso da un bel po’ di cantare, ma in quel momento, nella sua testa continuava a riecheggiare il ritornello di quella canzoncina per far addormentare i bambini. E la cosa non aveva senso, perché diamine, a lui cosa importava di quel marmocchio dagli assurdi colori che lo fissava al di là del vetro? Quel bambino che aveva poggiato le sue piccole manine su quelle grandi e forti di lui, costringendolo a confrontare quelle due grandezze, scoprendole tanto diverse quanto uguali.  Ed era rimasto poi a bocca aperta quando, con una delicatezza che gli era parsa quasi fiabesca, il piccolo Trunks aveva avvicinato il volto al suo, posandogli poi un leggero bacino sulla lastra di vetro, in corrispondenza del suo naso, spiazzandolo completamente. In quel momento Vegeta sentì quella cosa al centro del petto cominciare a battere con una forza spaventosa, senza riuscire a spiegarsi il motivo.
Batteva troppo forte per i suoi gusti.
Per questo forse si era allontanato di scatto dal vetro, staccandosi dalla finestra, guardando il bambino con occhi spalancati. Trunks intanto non aveva smesso un minuto di fissarlo e di sorridere, e ad un tratto, gli occhioni azzurri si erano ottenebrati dal sentimento della confusione, nel vedere quel meraviglioso contatto interrompersi così bruscamente. Vegeta continuava a fissare suo figlio inorridito, non capacitandosi di quanto accaduto. Il cuore stava battendo con una potenza inaudita, e gli occhi non potevano fare a meno di guardare ora Trunks, ora Bulma ancora dormiente, con orrore e confusione. E magari fu proprio quel battito troppo forte, quel tum tum continuo, quelle 90 pulsazioni che erano diventati molte di più, a spaventarlo. Confuso, indietreggiò un poco senza smettere di fissare Trunks.
 
Poi, fece la cosa che gli sembrò più semplice ed ovvia; scappare, come sempre. E mentre si allontanava nel cielo scuro ad una velocità non inferiore a quella della luce, un bambino dai grandi occhioni azzurri continuava a fissare estasiato quell’uomo che adesso non stava diventando altro che un puntino nella notte. E senza rendersene nemmeno conto, le prime parole del piccolo si fecero strada nella sua boccuccia, senza che nemmeno lui sapesse il perché o dove le avesse sentite. Lo disse e basta, balbettando ed incespicando  nell’ inesperienza dei suoi primi suoni di senso compiuto.

“P –P –papà …” balbettò Trunks, con il viso premuto sul vetro e lo sguardo rivolto verso il cielo notturno. Ma Vegeta era già troppo lontano …

'Cause you'll be in my heart 
Yes you'll be in my heart 
From this day on 
Now and forever more 

Yes you'll be in my heart 
No matter what they say 
You'll be in my heart 
Always and always 

Just look over your shoulder 
Just look over your shoulder 
Just look over your shoulder 
I'll be there 
Always

 
Nota autrice: essendo oggi il giorno del mio compleanno volevo a tutti i costi pubblicare qualcosa, se non altro da regalare a me stessa. Sfortuna vuole che oggi non avessi un briciolo d’ispirazione perciò, pensando a questa mia vecchia one shot, ho deciso di inserirla nella raccolta, dedicandola a me stessa (sì, non sono normale XD) poiché è effettivamente uno dei miei lavori a cui tengo di più. ;)

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Capitolo 9
*** Warrior, Demi Lovato ***


“I’ve got shame, I’ve got scars that I would never show
I’m a survivor. Am always, and you know …”

 
“Io non riesco a capire! È la sesta volta che riparo il motore centrale, ma si può sapere cosa accidenti combini per ridurre la Gravity room in questo stato ogni volta che entri qui dentro?!” Vegeta alzò gli occhi al cielo, irritato dal soliloquio che la scienziata dai capelli turchini aveva intrapreso nel momento in cui le aveva ordinato di aggiustare per l’ennesima volta la Gravity room, provata dagli estenuanti allenamenti del Sayan.  Avrebbe volentieri fatto a meno di chiedere il suo intervento, ma quel vecchio pazzo dai capelli lavanda era misteriosamente sparito dalla circolazione insieme alla tipa bionda e insopportabile che aveva scoperto chiamarsi “moglie”, e i suoi allenamenti non potevano di certo aspettare per colpa di una “crociera”, qualunque cosa essa fosse. E la tipa dai capelli azzurri era l’unica in grado di risolvere il problema.

“Mi alleno, ecco cosa faccio! E giacché sono un Sayan, la mia forza e i miei allenamenti sono ben diversi da quelli di voi smidollati terrestri.” Rispose  con una punta di derisione nella voce graffiante. Sentì la scienziata chinata in terra sulla centrale della navicella sbuffare sonoramente, alzando gli occhi al cielo.

“Anche Goku è un Sayan, eppure non crea tutti questi danni. Nonostante si stia allenando all’aria aperta, non mi risulta di aver sentito alcun terremoto o altro.” esclamò con tranquillità, avvitando un bullone all’apparecchio sotto esame. Non sapeva che così dicendo stesse scatenando le ire dell’ interlocutore alle sue spalle.

“Non osare paragonarmi a Kaarot.” Si sentì rispondere con voce minacciosa dal Sayan. Probabilmente non era ben conscia del pericolo che stesse correndo, o forse il suo animo covava dentro di sé un lato tremendamente masochista e incontrollabile. Sta di fatto che evidentemente le sue sinapsi non erano ben collegate, quando con un tono tranquillo e di superiorità disse:

“Beh,effettivamente non dovrei fare certi confronti; Goku uscirebbe vincitore in ognuno di questi.” Alle sue spalle Vegeta strinse i pugni,ringhiando di rabbia.
“Che cosa vorresti dire?!” chiese irritato, cercando di mantenere la calma. Bulma alzò le spalle con indifferenza, afferrando una vite e avvitandola con noncuranza.

“Quello che ho detto, Vegeta. Goku è un Sayan come te, eppure la sua forza è ben superiore alla tua, se non sbaglio. Mi è stato detto che è riuscito a trasformarsi nel famoso Super Sayan durante lo scontro con Freezer … tu ancora brami quel tanto agognato oro senza nemmeno riuscire a sfiorarlo …”

Vegeta ringhiò rabbioso dietro di lei, sentendo la rabbia scorrergli nelle vene.

“Goku è senza dubbio un guerriero migliore di te … sempre che tu sia un vero guerriero …” concluse Bulma, toccando con quelle parole il fondo.  Non capì poi molto di quello che accade, perché pochi secondi dopo si ritrovò sbattuta con violenza sulla parete della Gravity Room, il collo stretto in una morsa letale e il volto del Principe dei Sayan a pochi millimetri dal suo, contratto in un’espressione spaventosa.

“Stammi bene a sentire, ragazzina …” sibilò il Sayan, stringendo i denti con rabbia.

“Tu non hai la minima idea di chi hai di fronte … io sono un guerriero …” disse, stringendole maggiormente il collo. Bulma emise un gemito strozzato, mentre le dita della mano destra si aprivano di scatto, lasciando cadere la chiave meccanica che fino a pochi secondi prima stringevano con sicurezza.

“Io combatto da quando avevo quattro anni … distruggo pianeti e massacro intere popolazioni da quando ne avevo appena cinque …” disse a bassa voce, con un tono sprezzante e quasi compiaciuto, vedendo alcune lacrime di dolore solcare le gote diafane di Bulma.

“Io ho sfiorato la morte centinaia di volte … ho peccato e ho delle cicatrici che non mostrerò mai …” continuò,alzando il tono di voce senza smettere di stringere il collo di Bulma che lacrimando cercava di frugare
all’interno degli occhi del Sayan, scoprendoli colmi di odio e frustrazione.

“Io sono un sopravvissuto, lo sono sempre stato!” urlò, sbattendo Bulma verso il muro con forza, rischiando di tramortirla.

“Ma non mi faccio problemi ad uccidere qualcuno … specialmente coloro che mettono in dubbio la mia forza.” Disse ghignando un poco, accorgendosi che ormai Bulma stesse per esaurire l’aria.

“E vedi di ricordartelo bene la prossima volta che avrai l’ardore di parlarmi così …” sussurrò minaccioso all’orecchio della ragazza, prima di lasciarla andare di colpo, allontanandosi ed uscendo dalla GR.
 
Alle sue spalle, Bulma giaceva sconvolta in terra, tossendo nel tentativo di riprendere fiato e ammettendo a sé stessa di essere stata davvero una stupida. Era ovvio che Vegeta non sapesse cosa fosse un vero guerriero … ma ci avrebbe provato lei a farglielo capire, pensò, sorridendo amaramente.

 

“This is a story that I Have never told …”
 

Quel giorno Vegeta le aveva inconsciamente svelato un pezzettino del suo passato, e forse lui non se ne era nemmeno accorto, ma Bulma era riuscita a percepire una minuscola ma esistente punta di dolore nelle sue parole. Le aveva urlato in faccia che aveva tante cicatrici che mai avrebbe mostrato … e invece lei le aveva viste. È strano da spiegare, e a dirla tutta all’inizio Bulma non era riuscita a capirlo bene. La prima volta che avevano fatto l’amore ( o come lo aveva romanticamente definito lui, “erano finiti a letto”) Bulma era rimasta sconvolta quando lo aveva visto sfilarsi la maglietta di dosso. Il petto scolpito e muscoloso di Vegeta era forse uno spettacolo mozzafiato, ma era stato altro a toglierle il respiro in quel frangente, e non in senso positivo;  il petto di Vegeta era ricoperto di ferite. Tagli superficiali, moltissimi profondi, cicatrici rimarginate ed altre addirittura ancora aperte. Tutto il corpo di Vegeta era costellato di cicatrici, di ferite di battaglia messe lì a testimoniare tutto quello che vi era stato prima di allora. Il sangue, i combattimenti cruenti, le torture inflitte da Freezer sul suo giovane corpo martoriato e ora marchiato per sempre. Non glielo aveva detto lui, lui non le aveva detto niente. Lo aveva capito da sola; aveva capito tutto guardando quelle cicatrici, quelle ferite custodi gelose di una vita passata nelle mani di un aguzzino.
Eerano state le sue cicatrici a parlarle, a dirle tutto. Lei aveva solo dovuto guardarle ad una ad una.  Nel momento in cui aveva sfiorato con dita tremanti quella più grande, la cicatrice più profonda di Vegeta, quella in corrispondenza del cuore e che raccontava della sua morte su Namecc, Bulma aveva alzato di scatto gli occhi verso Vegeta. Aveva incastrato le sue iridi cerulee con quelle buie del Sayan. E lui non aveva parlato, non aveva detto nulla, non aveva nemmeno cambiato espressione. Bulma si era limitata a frugare in quelle iridi d’antracite. E sul fondo del buco nero, aveva intravisto una piccola supernova luccicare debolmente; la sofferenza.
 
Vegeta non era un guerriero. Vegeta combatteva, uccideva senza pietà, ma in realtà non era un vero combattente. Prima di arrivare sulla terra, Vegeta aveva combattuto solo per sé stesso. Quando quel giorno nella Gravity room Buma lo aveva fatto infuriare, confrontandolo con Goku, Vegeta non aveva capito. Non sapeva che Bulma stesse cercando di fargli capire cosa realmente fosse un guerriero. Non credeva affatto che un vero guerriero potesse essere qualcuno come Kaarot.
 
Essere un guerriero significa combattere per qualcun altro, per proteggere qualcuno e non per il sadico gusto di vedere il sangue scorrere dalle ferite delle proprie vittime. Significa anteporre la vita di coloro che si amano alla propria, e dare la propria esistenza per essi. Ma non è solo un corpo a corpo fisico, quella guerra che i Sayan venerano con tanta fedeltà. I guerrieri più forti sono coloro che riescono in altro. I Guerrieri, quelli con la G maiuscola, sono quelli che alle volte perdono. Sono quelli che peccano, sbagliano per tutta la vita, ma ad un certo punto si trovano davanti ad un bivio; continuare a sbagliare, o decidere di cambiare. I Guerrieri sono quelli che scelgono la seconda opzione, quelli che lottano per cambiare. Sono coloro che nonostante l’orgoglio, il dolore e la sofferenza, riescono ad ammettere a sé stessi le proprie sconfitte da cui non si fanno però sopraffare, ma combattono con le unghie e con i denti per rialzarsi da terra, più forti di prima. Lottare fino alla fine per coloro che si amano, e morire con il sorriso stampato in faccia, non pentendosi di donare la propria vita per qualcun altro. Questo significa essere un Guerriero.
Dopo anni di battaglie e lotte interiori, Vegeta ha capito. Ed è proprio ora, mentre con un piccolo sorrisino accoglie la morte in faccia, sacrificandosi per quel figlio che ha appena abbracciato per la prima volta e per quella moglie a cui non lo ha mai detto, ma ama più di ogni altra cosa, che tutto si fa chiaro.  Ora che ha ammesso le sue sconfitte, ora che ha finalmente capito il perché delle parole di Bulma quel giorno nella Gravity room. E ora, ora che è un Guerriero,  persino morire non sembra tanto doloroso …

Bulma alzò gli occhi al cielo, sorridendo tra le lacrime. Perché finalmente Vegeta ce l’ha fatta, perché lei ce l’ha fatta. Ci sono voluti sette anni, 2255 giorni costellati di lacrime, litigi, momenti belli e momenti brutti, affrontati insieme. Ma tutto questo tempo è valso davvero la pena d’essere stato vissuto. Non trattenendo un singhiozzo, Bulma fissò il cielo sopra la sua testa, mimando un “Ti amo” con le labbra, certa che il suo guerriero avesse capito. Perché adesso Vegeta era divenuto un vero Guerriero. Il suo Guerriero

 
-Warrior, Demi Lovato

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Capitolo 10
*** #10; Make you feel my love, Lea Michele ***


 
Vecchia one shot AU già pubblicata precedentemente. Ho pensato di aggiungerla alla raccolta (che non aggiornavo da un bel po') per "festeggiare" in quanto il 24 luglio di un anno fa mi sono finalmente iscritta su Efp. Anche se un po' in ritardo, festeggio la ricorrenza. 

 
“Prejudice is just ignorance …”
(Glee)
No, there's nothing that I wouldn't do,
To make you feel my love …

(https://www.youtube.com/watch?v=1hIW83L0bsw canzone)

Nessuna madre vorrebbe mai vedere il proprio figlio piangere. È contro natura, non ce la fai. Ti sale un nodo pazzesco allo stomaco e poi senti il cuore soffocare, come se qualcuno lo avesse preso in pugno e lo stesse stritolando con tutta la propria forza, al solo vedere le lacrime scendere dal volto del tuo bambino. Bulma ora guarda fissa negli occhi azzurri di suo figlio, uguali ai suoi. Bulma vede le lacrime riempire quegli occhioni innocenti e sente gli occhi pungere, d’istinto. Bulma si morde violentemente il labbro inferiore, nel tentativo di trattenere le lacrime, facendolo sanguinare. Glielo dice sempre Vegeta che ha le labbra troppo delicate. Il suo bambino comincia a piangere senza singhiozzare, perché anche se tutti gli dicono che è ritardato, lui ha capito tutto. E allora le piccole gambette tozze prendono a correre veloci verso le scale, fiondandosi in una delle stanze al piano superiore, sbattendo la porta tanto forte da far tremare la donna. Bulma resta immobile, fissando il punto in cui fino a pochi secondi si trovava il suo bambino. D’istinto muove la mano verso l’alto, cercando quella di Vegeta. E la trova, e sente subito la sua manina pallida inondarsi del calore di una stretta forte e decisa. Non si aspetta che lui dica niente, non c’è niente da dire.


“C’era da aspettarselo.” Dice solo quello Vegeta, e Bulma sa che ha ragione.

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Una piccola goccia di pioggia si schiantò con violenza contro il nasino alla francese della donna.  Bulma alzò gli occhi verso il cielo, scoprendolo terso e pieno di nuvoloni grigi carichi di pioggia. Fece una smorfia infastidita, ficcando allora una mano all’interno della borsa sulla sua spalla. Un’altra goccia cadde sul suo capo, seguita da una terza, e poi da una quarta. Con un verso preoccupato Bulma frugò velocemente all’interno della borsa, sospirando sollevata nello sfiorare il manico di plastica di un piccolo ombrellino gettato sul fondo della sacca. Non le sarebbe importato più di tanto bagnarsi infondo, ma aveva Trunks con sé, e non poteva certo permettere che si ammalasse. Fissò i cancelli della scuola arrugginiti, in attesa di vederli aprirsi. La gente stava cominciando ad arrivare a fiotti, e in poco tempo si ritrovò circondata da altre venti madri come lei, ad aspettare il proprio figlio uscire da scuola, riparate da un ombrellino sgargiante. Bulma si guardò intorno, ripensando a quanto avvenuto quella mattina. Mancavano solo tre giorni al compleanno di Trunks. Tre giorni, e il suo ometto avrebbe compiuto sei anni. Non avevano mai organizzato feste o quant’altro, perché di amici il bambino non ne aveva giacché non aveva frequentato la scuola materna, e i compagni con cui si ritrovava quattro pomeriggi a settimana per la terapia di gruppo insieme ai genitori non avevano mai attirato più di tanto la sua attenzione. Ma quest’anno aveva cominciato la prima elementare, e nonostante non lo avesse mai notato giocare con qualcuno dei suoi compagni di classe, Bulma aveva pensato che sarebbe stata un’idea carina quella di organizzare una piccola festicciola per il festeggiato. Trunks aveva bisogno di qualche amico, e magari la festa sarebbe stata l’occasione migliore. Glielo aveva proposto quella stessa mattina, prima di uscire di casa per portarlo a scuola.


“Allora, tesoro.” Aveva cominciato, mentre si era abbassata alla sua altezza per allacciargli il giubbetto.

“Venerdì compi gli anni … sei felice?” aveva chiesto gioiosa, alzando per un attimo gli occhi dalla zip del giubbetto che non ne voleva sapere di chiudersi. Trunks si fissò a guardare un punto vuoto dinanzi a sé, senza rispondere con alcun segno. Solo dopo diversi secondi il bambino aveva annuito, sorridendo entusiasta. 

“Che ne dici se chiamiamo i tuoi compagni di scuola e facciamo una festa qui a casa per festeggiare?” aveva allora chiesto speranzosa Bulma,imprecando mentalmente contro quel dannato giubbetto. Trunks sembrò riflettere diversi attimi sulle parole della madre, fissando il pavimento in silenzio. Poi ad un tratto iniziò a saltellare, ridendo entusiasta. Dapprima sorpresa, Bulma sorrise poi intenerita, conscia che quello fosse il modo di Trunks per dirle che gli piaceva l’idea. Trunks cominciò a correre per tutta casa, ridendo come un matto tra sé. 

“Trunks! Trunks, fermati, è tardi, dobbiamo andare!” esclamò sconsolata Bulma, nel tentativo di fermarlo. Trunks correva talmente preso nel suo mondo che non si accorse nemmeno di essere andato a sbattere contro qualcosa, se non quando si ritrovò con il sedere per terra, a gambe all’aria. Confuso da quel brusco impatto, il piccolo alzò gli occhi, scontrandosi con l’imponente figura paterna che lo squadrò dall’alto con serietà.

“Trunks, alzati e fai ciò che ti ha detto tua madre. Devi andare a scuola.” Tuonò serio, con le braccia incrociate al petto. Trunks fissò suo padre confuso, senza prestare attenzione alle sue parole. Vegeta allora sospirò stancamente, abbassandosi all’altezza del bambino.

“Se non ti alzi farai tardi a scuola, capito?” chiese allora con meno durezza, quasi dolcemente. Trunks ci pensò, annuendo poi, entusiasta di aver capito. Si alzò in piedi, correndo verso sua madre e spalancando il portone d’ingresso, fiondandosi fuori di casa.

“Trunks, aspettami!” gli urlò di rimando Bulma, fissando preoccupata il bambino fermarsi dinanzi alla loro auto parcheggiata sul vialetto.

“Di che gli stavi parlando prima?” sobbalzò all’udire quella voce roca alle sue spalle. Si voltò, sorridendo allora timidamente in direzione del suo consorte. 

“Venerdì è il suo compleanno, così gli ho proposto di fare una piccola festa qui da noi, con i suoi compagni di scuola.” Spiegò pacatamente. Vegeta la squadrò con una smorfia.

“Non credo sia una buona idea.” Esclamò serio, per nulla convinto. Bulma alzò gli occhi al cielo, leggermente esasperata.

“E sentiamo, perché no?” chiese allora retorica.

“Trunks non è come gli altri, Bulma.”

“E allora?! Solo perché nostro figlio è autistico non significa che valga meno degli altri!” esclamò ferita la donna.

“Non ho mai detto che vale meno degli altri, anzi sai cosa penso. Trunks ha un’intelligenza sopra la norma, e lo sappiamo. Ma è comunque diverso dai suoi compagni. Anche se sono piccoli, i bambini sanno essere cattivi alle volte.” Spiegò quasi preoccupato.

“Ma Trunks ha il diritto come tutti di poter festeggiare il suo compleanno! Ha bisogno di fare amicizie, lo ha detto anche la psicologa.” Spiegò allora Bulma con tono calmo, cercando di far ragionare il marito. Vegeta fece una smorfia contrariata all’udire quelle parole. Sapeva quanto odiasse tutti gli strizzacervelli e i vari cervelloni a cui Bulma sottoponeva il caso di Trunks. Sembrava quasi che non riuscisse ad ammettere a se stesso che Trunks fosse effettivamente affetto d’autismo, come se fosse un’enorme sconfitta per lui, tra i più stimati avvocati del paese e risaputo oratore nei tribunali, che suo figlio non parlasse.

“Senti devo andare, altrimenti faccio tardi.” Disse alla fine Bulma, dopo attimi di silenzio. Si sporse in avanti, cercando le labbra di suo marito, che vennero catturate in un bacio dolce ma comunque intenso.

“Ci vediamo dopo. Lascia fare a me, okay? Trunks avrà un compleanno fantastico.” Sussurrò sulle sue labbra, di scomparire dietro il portone d’ingresso. 
 

Bulma ripensando alla discussione con suo marito si guardò intorno preoccupata, alla ricerca di qualcuna delle madri dei compagni di Trunks. Intravide da lontano quella che doveva essere la madre di un certo Jake, così prese ad avvicinarsi alla donna con passo sicuro. Ma proprio in quel momento la campanella trillò fastidiosamente e i cancelli in ferro si aprirono, riversando sui genitori bambini urlanti e alla ricerca dei propri parenti. Bulma allora prese a cercare con lo sguardo la chioma lillà di Trunks e quando la intravide in mezzo ad un gruppetto di bambini gli corse incontro, salutandolo. Trunks subito corse verso la madre, senza abbracciarla. Il bambino non voleva mai farsi toccare da nessuno, e solo ai genitori era concesso di sfiorarlo, senza troppi abbracci o strette possessive. Bulma sorrise al piccolo, prendendolo per mano senza che Trunks opponesse resistenza alcuna, perché aveva imparato a dare sempre la mano alla mamma quando uscivano di casa. La giovane madre si guardò intorno, cercando allora in mezzo alla folla la donna di poco prima. 

“Vieni, Trunks.” Lo incitò allora non appena riconobbe la signora affianco al piccolo Jake, camminando svelta nella loro direzione.

“Signora!” la richiamò allora ad alta voce, nel tentativo di attirare l’attenzione della donna. Questa si voltò, osservando Bulma confusa.

“Salve! Non so se si ricorda di me, ci siamo viste alle assemblee scolastiche … sono la madre di Trunks.” Disse la donna dai capelli azzurri, sorridendo cordiale. La signora squadrò prima la ragazza, posando poi i suoi piccoli occhietti neri sul bambino al suo fianco, che la osservava senza dire nulla.

“Ah, salve.” Rispose allora freddamente, riconoscendo il bambino “che aveva problemi”, come lo aveva definito una delle insegnanti.

“So che Jake è un compagno di scuola di Trunks e dato che venerdì compirà gli anni avevo pensato di organizzare una piccola festa a casa nostra, con tutti i suoi amici. Se le fa piacere, noi vorremmo che venisse anche Jake, Trunks ne sarebbe felice.” Esclamò sorridente Bulma, nascondendo il nervosismo. La donna davanti a lei strabuzzò gli occhi, boccheggiando per diversi attimi senza sapere cosa dire.

“Grazie  dell’invito … le farò sapere.” Biascicò allora velocemente, afferrando Jake per mano e allontanandosi camminando svelta, trascinando dietro il bambino con sé. Bulma la osservò in silenzio, confusa. Abbassò poi lo sguardo su Trunks, esclamando allegramente:


“Hai visto, tesoro? Jake verrà al tuo compleanno!” e Trunks sorrise, comunicando a modo suo che era felice.



Il venerdì pomeriggio era arrivato e Bulma camminava svelta per la casa, sistemando al meglio ogni piccolo particolare. Lanciò un’occhiata al grande tavolo in cucina, colmo di pizzette, dolci, patatine e ogni tipo di bibita, per poi osservare celere i palloncini e i festoni di auguri appesi alle pareti, sorridendo soddisfatta.

“A che ora arrivano i marmocchi?” sobbalzò, maledicendo suo marito per essere sempre così silenzioso nei suoi ingressi.

“Dovrebbero essere qui per le 16,30, ma di certo alcuni faranno ritardo. Trunks dov’è?” chiese allora curiosa.

“In camera sua, sta giocando con quei pupazzi che gli hai comprato.” Disse pratico, additando il piano superiore. Bulma sorrise, emozionata.

“Non l’ho mai visto così felice, sai? È davvero emozionato per la festa.” Esclamò entusiasta, prima di sorridere al marito, lanciandogli un occhiolino. Vegeta non disse nulla, fissandola imperturbabile, come se sapesse che sua moglie si sbagliava.

Alle 16,30 nessuno aveva ancora bussato alla porta di casa Brief, e andava bene, perché si sa che mai nessuno arriva perfettamente in orario. Alle 16,45 non vi era ancora alcun bambino urlante in giro per la casa, e alle 17,30 Bulma lanciò un’occhiata al portone d’ingresso, mordendosi un labbro ferita. Trunks trotterellava per la casa da ore ormai, presentandosi ogni tanto dinanzi a lei e fissandola con quegli occhioni interrogativi, come a chiederle: “dove sono i miei amici?” Bulma gli sorrideva intenerita, senza lasciar trapelare risentimento o delusione alcuna. “Arriveranno” diceva, e Trunks sembrava crederci davvero. 

Alle 18,45 Bulma trovò Trunks seduto in terra a gambe incrociate dinanzi al portone d’ingresso. Il piccolo fissava la porta e il campanello come se volesse dire: “Andiamo, suona!” . Bulma lo guardò, sentendosi uno schifo per aver illuso sé stessa e il suo bambino con un vanaglorioso sogno di ordinaria amministrazione. Era solo un compleanno, diamine! Per quale motivo i genitori, perché era colpa dei genitori, lo sapeva, non avevano voluto mandare i bambini alla festa del figlio, trattandolo come se fosse un essere strano, un malato contagioso. Bulma emise un sospiro tremante, prima di abbassarsi all’altezza del bambino, richiamandolo con dolcezza.

“Trunks?” Il piccolo posò gli occhioni azzurri su quelli identici della madre, confuso. Bulma sentì il cuore stringersi in una morsa letale nel dover pronunciare le successive parole.

“Credo che non verrà nessuno … mi dispiace, tesoro …” sussurrò, trattenendo le lacrime di frustrazione. Trunks allora la fissò per diversi attimi, cercando di comprendere le parole della madre. Poi i suoi occhioni cerulei si spalancarono riempiendosi di lacrime, e Bulma si sentì mancare un battito. Trunks cominciò a piangere in silenzio, portandosi il volto tra le mani e abbassando la testa sulle ginocchia, scuotendo il capo con veemenza. Con mano tremante Bulma cercò di toccare il piccolo, ma non appena gli sfiorò il braccio, Trunks si alzò di scatto precipitandosi su per le scale. Con il cuore in fiamme cercò la mano di Vegeta, percependo la sua presenza alle sue spalle e non appena la trovò la strinse, con tutta la forza che aveva.


“C’era da aspettarselo …”

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“C’era da aspettarselo …” e Bulma sa che ha ragione.

“Non è vero che i bambini sanno essere cattivi …” dice con voce ferma ma incrinata Bulma, fissando un punto vuoto dinanzi a sé.

“Sono i loro genitori ad esserlo …” conclude arrabbiata, alzandosi in piedi e correndo su per le scale, verso la stanza di Trunks, seguita a ruota da Vegeta.
Lo trovano così allora, steso sul suo letto con le spalle rivolte verso la porta, rannicchiato su di sé a riccio, come a volersi proteggere da solo da qualcosa che la gente chiama “pregiudizio”.  Bulma allora si fionda sul letto del piccolo, abbracciandolo subito da dietro, fregandosene del fatto che Trunks non vuole essere toccato e tutto il resto. Da quando è nato aspetta di sentire la voce del suo bambino chiamarla “mamma” con dolcezza, dal giorno in cui hanno diagnosticato al piccolo una particolare forma di autismo cerca un modo per poter far sentire a Trunks il proprio amore, e ci sono notti in cui si rende conto che è difficile, e allora si ritrova sempre a piangere contro il petto muscoloso di Vegeta che fa il forte per entrambi. Però adesso non ce la fa e si ritrova a singhiozzare di nuovo con il volto premuto sull’esile spalla del suo bambino. E forse avviene già allora un miracolo, perché Trunks non comincia ad urlare, a dimenarsi e a scalciare perché venga lasciato in pace. Si fa stringere senza dire nulla e Bulma, che dovrebbe esserne felice, comincia a piangere ancora più forte,sfogando la tensione accumulata in tutti quegli anni. Tutti quei gesti accennati, i modi tentati per far capire al proprio bambino di volergli bene, perché non sarebbe bastato dirglielo in faccia come a tutti gli altri.  Tutti e tre, perfino Trunks, sanno che Bulma non sta piangendo solo per la festa andata male, o perlomeno non solo per quello. Bulma piange perché dopo aver fatto la forte per tutti quegli anni, è arrivata ad un punto di rottura in cui sente di doversi sfogare. E allora sulla spalla del figlio riversa attraverso le lacrime tutte le sedute dalla psicologa, le visite mediche nei migliori centri specialistici al mondo, le sedute di gruppo con gli altri bambini come lui, i volti infastiditi delle altre madri dinanzi a Trunks, il silenzio con cui il piccolo comunica loro, parlando con gli occhi.

“S – scusa …” balbetta con il volto ancora premuto sulla spalla del figlio.

“S – scusami se non sono una brava mamma … scusami se non riesco a farti capire che ti voglio bene …” continua reprimendo i singhiozzi, vergognandosi quasi di piangere così davanti a suo marito, lui che la ritiene sempre una roccia indistruttibile.

“Ma lo sai che farei qualunque cosa per farti sentire il mio amore … lo sai, vero?” dice in un sussurro all’orecchio del bambino, che però non risponde, resta immobile. D’un tratto si accorge di non avvertire più la presenza del marito alle sue spalle e alzando gli occhi si scontra con la figura imponente di Vegeta piegato sulle ginocchia dinanzi al figlio, in modo da poterlo guardare in viso. Non dice nulla, non si mette a piangere o altri sentimentalismi vari. Una carezza veloce. Una carezza veloce sul capo del suo bambino, scompigliandogli i capelli, e ammette finalmente a se stesso che quel bambino non è una sconfitta, ma la sua vittoria più grande. Bulma gli sorride intenerita, passandosi una mano sul volto per asciugare le lacrime. E poi restano lì, tutti e tre, e si addormentano insieme lasciando fuori da quelle quattro mura azzurrine tutto il resto del mondo. Come una vera famiglia.
 



“… Perciò ritengo che non sia corretto per i nostri bambini restare indietro con il programma solo perché quel bambino non riesce ad apprendere come tutti gli altri! E discutendo anche con altre madri abbiamo trovato che sia alquanto spiacevole la convivenza in classe tra Brief e gli altri bambini … cosa dobbiamo dire noi ai nostri figli quando vengono a chiederci perché Trunks non vuole parlare con loro, se si è forse arrabbiato?”

Bulma picchietta ritmicamente due dita sul tavolo in legno di noce, mentre un sorriso amaro si impossessa delle sue labbra carnose. Alza un po’ lo sguardo per puntarlo sulla  madre di Jake, intenta ad esporre le proprie idee in piedi all’assemblea di classe con le insegnanti. La guarda gesticolare come una furia, e si sente disgustata dalle parole della donna che nonostante lei sia lì, non ha il minimo rispetto nel voler parlare di Trunks come “il problema della classe.” Poi finalmente la tozza signora si siede al suo posto e una delle maestre prende parola, chiedendo timorosa:

“C’è qualcuno che vorrebbe aggiungere qualcos’altro?” Bulma non aveva mai parlato durante le assemblee di classe. Si limitava a starsene seduta al suo posto senza fiatare, ascoltando le parole smodate delle altre madri e riflettendo tra sé. Ma adesso il gesto avviene quasi volontariamente, la manina bianco latte si alza di scatto, chiedendo silenziosamente la parola. Alcune delle madri strabuzzano gli occhi, comprese anche le maestre.

“Signora Brief, prego, dica pure!” esclama sorpresa una delle insegnanti. Bulma si alza in piedi, mentre il silenzio cala per la stanza. Lancia uno sguardo impassibile ad ognuna delle donne presenti, sentendo la rabbia montarle dentro al sapere che quelle madri non hanno voluto far si che i loro figli divenissero amici di Trunks.

“Abbiamo scoperto l’autismo di Trunks quando lui aveva poco più di un anno. Appena lo abbiamo saputo io e mio marito ci siamo guardati in faccia e abbiamo sentito il mondo caderci addosso, tutto in una sola volta. Trunks non parla. Non mi ha mai chiamato mamma, e mentirei se vi dicessi che non passa giorno in cui speri di sentirlo pronunciare quelle cinque lettere. È vero, Trunks non parla, ma noi riusciamo comunque a capirci. Credo che voi non abbiate la minima idea di quanto sia potente il rumore del silenzio, perché scommetto che non vi siete mai fermati ad ascoltarlo. E sono sincera, prima della nascita di Trunks nemmeno io gli davo molto peso. Non ero in grado di stare zitta, non riuscivo a rispettare il silenzio. Poi però ho capito che quella era la dimensione di Trunks, e ho deciso che se volevo davvero comunicare con mio figlio, l’unico modo era il silenzio. Ho cominciato ad ascoltare le sue parole mute e a guardarlo negli occhi … e vi giuro, non potete immaginare cosa gli occhi di un bambino che non parla possono dire. Ogni volta che mio figlio mi guarda negli occhi sento un calore strano, come se quelle iridi azzurre mi stessero chiamando da sole “mamma” e sento che non c’è cosa più bella di vedere i suoi occhi cercarmi disperatamente quando non mi trova per un attimo.  L’altro giorno Trunks ha compiuto sei anni, immagino lo sappiate tutti, dal momento che vi avevo invitato alla sua festa. So che non è questo il momento per esporre i miei problemi personali e sinceramente non voglio nemmeno sentire stupide giustificazioni o altro, dal momento che nessuno di voi si è perlomeno preoccupato di telefonare fingendo un’influenza improvvisa al proprio bambino. Però volevo dire una cosa che credo dobbiate ascoltare tutti. Mio marito l’altro giorno mi ha detto che i bambini alle volte sanno essere cattivi. Ma non è affatto vero, i bambini non sanno essere cattivi. Sono i loro genitori ad esserlo. Ai bambini non importa se un altro ha la pelle bianca o nera, se crede in Dio o in Allah, se parla oppure non parla. I bambini non sanno nemmeno cosa sia il pregiudizio e non interessa nemmeno saperlo, perché per loro tutti i bambini sono uguali in quanto tali. Sono gli adulti che hanno il tarlo della diversità insinuato fin dentro le ossa, a corrodere la cartilagine e a mangiarsi il calcio e le vitamine. Il pregiudizio è la più grande stronzata che questo mondo ha creato e non scandalizzatevi adesso per i miei francesismi, ma è così. Il pregiudizio è solo ignoranza, perché solo gli ignoranti possono trovare del male nella diversità. Mio figlio è diverso e non mi vergogno di ammetterlo o di passare per una sfigata, perché so benissimo di esserlo. Se fossi in voi comincerei a diminuire queste inutili assemblee scolastiche e ad intraprendere qualche incontro sull’accettazione della diversità. Perché se non insegniamo ai nostri figli ad accettare tutti, anche chi è diverso da noi … beh,allora credo proprio che abbiamo fallito davvero tutto nella vita.”

Bulma sente gli occhi sconcertati delle madri puntati addosso a lei, che invece se ne sta ritta in piedi dopo aver pronunciato uno dei discorsi più forti quanto veri che siano mai usciti dalle sue labbra. L’aria nella sala si fa pesante, la tensione è talmente densa che si può tranquillamente afferrare con una mano. Bulma si piega a raccogliere la sua borsa lasciata in terra e si infila il cappotto abbandonato sulla sedia dove era seduta. Poi se ne va senza dire niente, non per fare chissà quale uscita spettacolare, ma perché sa che non ha più nulla da dire e lei in quella gabbia di ignoranti non ci vuole più stare. Non appena varca il cancello della scuola un sorriso intenerito le si disegna sul volto al vedere Trunks appollaiato tra le braccia di Vegeta attenderla dinanzi all’edificio. Si avvicina piano, sorridendo furbetta.

“Ma guarda un po’ chi ci sono … i miei due uomini …” esclama sporgendosi verso Trunks, scompigliandogli la chioma lillà.

“Era ora che uscissi fuori … avevi intenzione di restare là dentro ancora per molto?!” Bulma alza gli occhi al cielo, sorridendo esasperata.

“Sono felice di vederti anche io, Vegeta …” sussurra sulle labbra del marito, prima di baciarlo con dolcezza. L’uomo grugnisce qualcosa di incomprensibile ma viene subito interrotto dal salto verso il terreno di Trunks, che scalcia per potersi divincolare da quel raro abbraccio paterno.

“Che cosa stavi facendo?” chiede Vegeta camminando di fianco a Bulma, mentre la donna stringe la mano di Trunks che li segue in silenzio, osservando gli alberi del parco a cui si stanno avvicinando.

“Dovevo dire una cosa a tutte quelle donne là dentro …” dice incurante, cercando di sorvolare l’argomento.

“E cosa hai detto?” chiede Vegeta, insistendo. Bulma guarda Trunks staccarsi dalla presa della sua mano, prendendo ad inseguire gioiosamente una farfalla variopinta per il parco deserto. Sorride intenerita, certa di aver fatto la cosa giusta.

“La verità … che il pregiudizio è solo ignoranza.”
 
 

 

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