500

di Bolide Everdeen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'idea ***
Capitolo 2: *** La fortuna non è mai a nostro favore -Parte 1 ***
Capitolo 3: *** La fortuna non è mai a nostro favore -Parte 2 ***
Capitolo 4: *** La fortuna non è mai a nostro favore -Parte 3 ***
Capitolo 5: *** La fortuna non è mai a nostro favore -Parte 4 ***
Capitolo 6: *** Inno d'inizio ***
Capitolo 7: *** Di tangibili incubi ***
Capitolo 8: *** Fidarsi o non fidarsi ***
Capitolo 9: *** Stringendo i pugni ***
Capitolo 10: *** L'ultimo respiro ***
Capitolo 11: *** Di parole astratte ***
Capitolo 12: *** Uccidere sulle rose ***
Capitolo 13: *** Inganni fra i cerchi ***
Capitolo 14: *** Coraggio ed incoscienza ***
Capitolo 15: *** Volgere ***
Capitolo 16: *** Il silenzio ***
Capitolo 17: *** L'aridità ***
Capitolo 18: *** Spiriti ***
Capitolo 19: *** La speranza ***
Capitolo 20: *** La voragine ***



Capitolo 1
*** L'idea ***


500

Coriolanus Snow osservava Capitol City, la sua città, il suo regno. Aveva trentasei anni, forse era un po' prematuro eleggerlo presidente, ma, anche prima della sua carica, era uno degli uomini (se non l'uomo) più popolare della capitale. Perciò, dopo l'improvvisa morte del suo predecessore, era normale se, fra i poco numerosi candidati, lui era stato il più votato.

Dopotutto, la situazione in quel momento di Panem non si poteva definire stupenda. Gli ultimi Hunger Games erano durati appena quattro giorni, più di metà delle morti era avvenuta a causa delle infezioni, della fame, della disidratazione; gli scontri diretti erano stati rari e poco interessanti; gli ibridi banali e assolutamente non spaventosi. E lo stesso anno i giochi non erano stati così disastrosi, ma ci erano andati vicino.

Forse, a pensarci un secondo, la morte dell'ormai ex-presidente non era stata così improvvisa.

A Coriolanus scappò un sorriso. Quel che lui doveva sapere lo sapeva. Bastava che gli altri non se ne accorgessero, il che era piuttosto improbabile, considerando l'intelligenza generale del popolo di Capitol City, senza calcolare la gente dei distretti. Avrebbe potuto mettere a tacere tutte le dicerie velocemente.

Però restava il problema del malcontento dei capitolini. Era sì conosciuto e parecchia gente aveva un'opinione positiva su di lui, ma non tutti. Doveva trovare una soluzione, un biglietto da visita, qualcosa che lo elevasse da presidente a mito.

Coriolanus Snow osservava Capitol City, la sua città, il suo regno. Nel complesso, l'unico aggettivo con cui si poteva descrivere era “sfavillante”: le luci delle strade, i fuochi d'artificio che disegnavano nel cielo eleganti composizioni e, più di una volta, dei “500” in tutte le calligrafie, in tutti i colori.

E così, il trentun dicembre, ultimo giorno del quattrocentonovantanovesimo anno di Panem, mentre portava la sua coppa alle labbra, il presidente Coriolanus Snow ebbe l'illuminazione.

***

Erano i primi giorni di un gelido gennaio 500, predominato dal bianco.

Bianco era il cielo, perennemente pronto a spruzzare altra neve, che colorava le strade... di bianco, ovviamente.

E anche le persone erano di quel colore che si trovava ovunque a Capitol City. Il principio di questa moda proveniva proprio lui, Coriolanus Snow.

Il presidente aveva un look che si poteva definire fisso e molto più sobrio rispetto a quello dei suoi concittadini: camicia bianca, giacca bianca, pantaloni bianchi, scarpe bianche. Era ancora troppo giovane per avere i capelli di quella tinta, ma presto sarebbero arrivati anche loro.

Ma, naturalmente, anche il suo modo di vestire aveva una particolarità, che attirava l'attenzione della gente, lo rendeva di tendenza, e quella era la sua rosa appuntata alla giacca. Inutile evidenziare il suo colore.

I suoi abiti erano esattamente quelli illustrati sopra, quando, nel suo elegante ufficio, il presidente Snow si stava preparando a girare il suo primo comunicato ufficiale.

Nessuno gli chiedeva se fosse emozionato, per due semplici motivi: il primo era il fatto che nessuno riusciva a parlare con tanta leggerezza a una persona del suo calibro; il secondo che tutti erano convinti che non lo fosse.

E infatti era così. Poteva testimoniarlo la sua faccia, perfettamente tranquilla, quando gli operatori annunciavano l'inizio delle trasmissioni.

«Buonasera, popolo di Panem» iniziò, con voce saggia e potente, un sorriso cordiale e leggermente beffardo sul suo volto.«Sono il presidente Coriolanus Snow e auguro a tutti voi un felice, magnifico 500.

«Come voi sapete, da ben cinquecento anni la nostra splendida nazione esiste, che ancora oggi ci protegge e ci nutre, sperando in un futuro altrettanto radioso.

«Perciò, vorrei onorare questo importante traguardo con una straordinaria, spettacolare, speciale edizione degli Hunger Games, oltre a quella che annualmente si svolge.

«Non sarà un'edizione normale, il vincitore non sarà riconosciuto come ufficiale, perciò non si stabilirà nel Villaggio dei Vincitori e non svolgerà il ruolo di mentore, ma sarà comunque ricoperto di onore, gloria e premi, come il suo distretto di provenienza.

«Detto ciò, ribadisco l'augurio di un buon 500. E possa la fortuna sempre essere a vostro favore.»

Lo annunciò come se fosse una cosa normalissima, da tutti i giorni, come se la condanna a morte di altri ventitré ragazzi innocenti fosse pane quotidiano.

Per lui, evidentemente, sì. Anche per gli abitanti di Capitol City, che stavano esultando eccitati all'idea di spettacolo supplementare.

Ma la situazione nei distretti non era la simile. A qualcuno sembrò di perdere un battito del cuore, a qualcuno venne voglia di piangere, altri lo fecero, senza riuscire a trattenersi. C'era chi stringeva i denti, cercando di dimostrarsi forte, chi non si preoccupò troppo, chi scappò di casa e desiderò di non tornare mai più.

Ma Panem è simile ad un'enorme arena.

Non si può fuggire.

Solo combattere, o morire.

A voi la scelta.

 

Spazio autrice

Ehilà!

Allora, questa è una storia interattiva. Siccome è originale quanto le vacanze al mare d'estate (Bolide, che senso ha questo?) penso che non ci sia bisogno di spiegare in cosa consista.

Comunque, breve riassunto per chi è nuovo: nelle fan fiction interattive, i lettori creano i tributi e io li inserisco nella storia. C'è chi muore, c'è chi sopravvive. Non è un concetto difficile.

La trama è molto semplice: ci troviamo fra la trentunesima e la trentaduesima edizione degli Hunger Games (perché proprio questa non lo so), le due precedenti sono state disastrose, Snow è appena stato eletto e deve fare qualcosa per farsi vedere per bene. Perciò gli viene la bellissima idea di fare un'edizione speciale per il nuovo secolo.

E qui c'è una cazzata che mi sono inventata: che gli anni a Panem si contano da quando è stata fondata. E nella storia sono 500. Lo so, è penoso, ma in qualche modo gli anni si devono contare.

E poi, volevo fare un'edizione un po' particolare: considerando che è la prima edizione comandata da Snow, la spettacolarità (???) deve essere al massimo. E il vincitore, se non è ufficiale, può essere benissimo un dodicenne, un tredicenne o il ragazzo del dodici. Doniamo speranza a tutti (cazzata n°13788618874).

Le regole sono queste:

  1. le schede degli OC devono essere mandate per massaggio privato, non le conto se le scrivete in recensione;

  2. potete prenotare un massimo di due tributi, ma non dello stesso distretto e di sesso differente;

  3. quando avrete prenotato un tributo, avrete una settimana per inviarmi la scheda, altrimenti lo libererò. Potete chiedere di allungare il tempo fino a un mese;

  4. la mia intelligenza è minima e per adesso non ne riesce a produrre altre regole.

La scheda da compilare è questa:

Nome:

Cognome:

Età:

Distretto

Sesso:

Descrizione caratteriale:

Descrizione fisica:

Storia:

Famiglia e rapporto con la gente:

Talenti & attitudini:

Fobie & vizi:

Mietitura (volontario sì/no, se sì specificare perché):

Alleanze:

Portafortuna:

Capacità che potrebbero tornare utili nell'arena:

Altro:

I prestavolto sono accettati e molto graditi.

 

Ovviamente, più scrivete, meglio riuscirò a descrivere il vostro personaggio.

Ah, e il capitolo è terribile, ma la mia mente ridotta non saprebbe come migliorarlo. Quindi, le recensioni sono gradite.

Con questo, non intendo che la storia sia realizzata allo scopo di ricevere recensioni, ma se me le lasciate, anche (soprattutto) neutre o negative, non ci vomito di certo sopra, anzi.

Ecco la lista: in blu i tributi liberi, in rosso quelli occupati. Spero di riuscirla ad aggiornarla il prima possibile, comunque, se volete controllare le recensioni per sicurezza, potete.

Distretto 1: giovane donna, giovane uomo
Distretto 2: giovane donna, giovane uomo
Distretto 3: giovane donna, giovane uomo
Distretto 4: giovane donna, giovane uomo
Distretto 5: giovane donna, giovane uomo
Distretto 6: giovane donna, giovane uomo
Distretto 7: giovane donna, giovane uomo
Distretto 8: giovane donna, giovane uomo
Distretto 9: giovane donna, giovane uomo
Distretto 10: giovane donna, giovane uomo
Distretto 11: giovane donna, giovane uomo
Distretto 12: giovane donna, giovane uomo

Detto questo, spero che il capitolo non vi abbia fatto vomitare sul computer di aggiornare presto!
Quindi, alla prossima,

Bolide

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Capitolo 2
*** La fortuna non è mai a nostro favore -Parte 1 ***


Capitolo I

La fortuna non è mai a nostro favore

Parte 1

Distretto 1

Il distretto 1 si poteva considerare il luogo di Panem dopo Capitol City che teneva più alle apparenze, forse per la vicinanza, forse per l'importanza, forse per la ricchezza.

Ad ogni modo, avvertiti da questa considerazione era impossibile stupirsi di fronte all'abbondanza della piazza principale: il palco era coperto da un morbido ed elegante tappeto dorato, sul quale erano state posate persino delle preziose statue, il Palazzo di Giustizia che sovrastava l'intero posto era ricoperto di piccole luci colorate che, accese al tramonto, creavano un effetto stupendo.

Infatti, la mietitura si svolgeva verso le sei del pomeriggio, orario che negli altri anni era accompagnato dal sole. Ma le normali mietiture si svolgevano di estate, mentre in quell'occasione ci si trovava alla fine di gennaio, e la notte veniva presto.

Non c'era recinzione, nel distretto 1, solo una fila di pacificatori che creava una linea immaginaria di separazione fra maschi e femmine. Tanto, probabilmente, non avrebbero infranto le regole lo stesso.

Cassandra stava in un angolo nella piazza, sperando di cavarsela anche quell'anno. Ogni tanto qualche ragazza si girava e le lanciava un'occhiataccia, ma lei fingeva di non notarli. Contraccambiava quel sentimento di astio, dopotutto.

Non ascoltò il discorso del sindaco; sapeva perfettamente di che cosa parlasse. E non concordava. Si morse la lingua per non gridare le sue opinioni, e per quanto fosse difficile, ce la fece. Diede alle mani una forma di cazzotto, per aiutarsi nel trattenersi.

Arrivò il turno dell'annunciatrice, Flixia Awerr. Cassandra la detestava. Essere in quella posizione di rilievo e non fare nulla per fermare i giochi. Strinse ancora di più i pugni.

Vedendo Flixia avvicinarsi alla boccia dei nomi femminili, Cassandra non provò pietà per la ragazza che si sarebbe offerta volontaria. Se pensava che gli Hunger Games fossero solo una passeggiata, un meraviglioso gioco, si sarebbe accorta la verità quando avrebbe lasciato il suo corpo inerte nell'arena.

«E il tributo femmina per il distretto 1 è...» pronunciò Flixia.

Per un attimo, sulla piazza scese il silenzio.

«Fuyumi Albarn!»

Non una ragazza alzò la sua mano, non una urlò di offrirsi volontaria.

E il motivo era semplice.

«Dove sei, cara?»

Fuyumi Albarn era lei, Cassandra.

E nessuna si sarebbe offerta volontaria per lei; se fosse morta, tanto meglio. Dopotutto, c'era anche l'edizione ordinaria degli Hunger Games per vincere.

«Fuyumi Albarn?»

Cassandra fissò la capitolina con un volto fra l'arrabbiato e lo stupito, per poi riassumere tutto in un ghigno. Si avviò verso il palco, salendo i gradini a testa bassa, sussurrando rabbiosamente, trattenendosi a forza per non farsi sentire:«Guarda caso... proprio io.»

Non era una brutta ragazza, ma non aveva di certo il solito aspetto del magnifico tributo biondo dell'uno. Ma, per via dello sguardo diretto verso il pavimento, si vedeva solo la corporatura magra, la sua altezza abbastanza notevole e una cascata di capelli rossicci e mossi.

«Vuoi dire qualcosa, cara?» domandò con cordialità Flexia, e Cassandra si accorse di avere il microfono sotto al capo.

E fu lì che alzò la testa, svelando, la bocca carnosa che non portava un sorriso, un piccolo nasino all'insù e le lentiggini che le costellavano il viso chiaro e quadrangolare. Puntò i suoi occhi nocciola sull'accompagnatrice e disse, velocemente:«Andate a quel paese.»

Ecco. Erano le parole che avevano raggiunto per prime la sua bocca. E forse, neanche le peggiori.

Flixia non esitò a toglierle il microfono ed annunciare:«Bene, passiamo al giovane uomo!»

Questa volta, quando fu chiamato un ragazzo di cui tutti avrebbero dimenticato presto il nome, una marea di ragazzi si offrirono volontari.

Flixia squadrò attentamente i candidati, prima di scegliere un ragazzo sui diciotto anni, dal portamento fiero, alto, muscoloso, dai capelli dritti ed ambrati e gli occhi nocciola.

«Come ti chiami, giovane?» gli chiese l'accompagnatrice.

Lui, con un sorriso sgargiante, le rispose:«Il mio nome è Emerald Goldspace, e mi sono offerto volontario per onorare il mio distretto!»

Flixia sorrise. È questo un vero tributo del distretto 1, pensò.

Emerald ricambiò il sorriso. Era lì, pronto per elevare il nome dei Goldspace.

Cercò anche il volto della sua sorella minore, Sapphire, fra le ragazze. Lui manteneva la sua espressione rilassata, allegra, e provò a contagiare anche lei. Niente da fare. Sapphire non era fiera, né contenta, né mostrava nessuna emozione positiva. Sillabava soltanto una parola, e Emerald interpretò i movimenti delle labbra per capire. “Stupido”.

Pazienza. Sapphire continuava a non capire quanto potesse cambiare, quanto potesse migliorare la sua vita avere un fratello vincitore degli Hunger Games.

Si era allenato per anni.

Morire non era fra le opzioni.

 

Distretto 2

La figura minuta si trovava in un spartano salotto del Palazzo di Giustizia, seduta con la schiena china in una poltrona dalla fodera grigia. La ragazza -perché di una ragazza si trattava- pensava che persino casa sua fosse più adornata. Ma dopotutto era nel distretto 2, non ci si poteva stupire.

Il silenzio fu interrotto dall'irruzione di un'elegantissima signora nella stanza, la preoccupazione dipinta in volto.

La ragazza fece una smorfia. Certo che per essere un'attrice è straordinaria a recitare.

«Oh, Grace» esordì la donna, tentando di abbracciare la ragazza. Però, prima, lei si scansò, alzandosi in piedi, e puntò i suoi occhi grigi sull'altra sussurrando:«Vattene.»

«Ma Grace, sono tua madre... tu stai per andare a Capitol City, volevo salutarti...» rispose lei con tristezza, stringendo al petto la sua borsetta.

«No, io sto andando a morire, non so se te ne rendi conto. E non bastano solo cinque minuti di saluto per farti perdonare» ribatté Grace, lasciando ondeggiare con i movimenti della testa i ricci capelli rossi lunghi fino alle spalle.

Rimaneva fredda. Nonostante in quel momento fosse sovraccarica di rabbia da spedire in ogni direzione, esternamente rimaneva fredda.

Non ci fu nulla da fare. Grace non volle parlare con la madre, e rifiutò anche la visita del padre. Dopotutto, la avevano lasciata sola per tutto questo tempo, le sarebbe sembrata una terribile contraddizione trascorrere l'ultima ora nel suo distretto con loro.

E chi voleva lei, era solo una persona.

«Grace.» La ragazza riconobbe subito la voce di Gioele, il suo migliore amico.

Grace, di nuovo seduta sul divanetto, non cambiò espressione, anche se si sentiva piena di felicità nel vederlo.«Ciao.»

«Mi dispiace, davvero. Si sarebbe dovuto offrire volontario qualcuno, ma... tu sei una persona importante, qui, nel distretto. Forse credevano di farti un piacere» cercò di spiegare Gioele, accomodandosi accanto a lei.

Grace alzò le spalle.«Ma io morirò lo stesso.»

«Ehi, non è detto. Sei allenata, sei molto meglio di almeno la metà dei tributi, per dire poco. Vincerai sicuramente» disse Gioele, prendendole la mano.

Grace fu turbata da quel gesto, ma gli lasciò fare lo stesso.

«Non raggiungere conclusioni affrettate, Gioele» rispose lei, incontrando i suoi occhi. Grace cercò di non arrossire, ma fu impossibile per lei evitarlo.

«Ti prego, tu devi tornare. Per me» continuò lui, prima di fare un movimento della testa, quasi esitante, quasi volesse avvicinarsi alle sue labbra.

Ma non lo fece, si fermò prima di rendere la situazione troppo imbarazzante. Restarono a parlare, fino a quando Gioele non fu obbligato ad andare.

«Bene. Arrivederci, Grace Nòel, futura vincitrice degli Hunger Games del 500.»

E qui un sorriso scappò sulla bocca della ragazza.

La stanza accanto era identica; ma la scena si poteva considerare differente. Nella stanza dei saluti di Eracle Chentaurion, tributo volontario del distretto 2, c'era un'esile ragazza dai capelli neri e un coetaneo dai capelli dorati, gli occhi verdi, il cui fisico alto e muscoloso non poteva che essere donato da anni di allenamento.

Non poteva essere altri che Eracle.

C'era silenzio, c'erano le due facce dei ragazzi che si sforzavano di essere sorridenti. Ma sembrava anche che ci fosse una infelicità che inondava le menti dei due.

«Quindi, parti?» chiese la ragazza, cercando un tono sarcastico.

«Non sarà un viaggio lungo, gli altri mi avranno come avversario. Non dureranno molto, guarda cosa c'è qui» rispose lui, mettendo in mostra i pettorali. Si stava sforzando di non accrescere la tristezza della ragazza, nonostante sapesse già cosa sarebbe accaduto. Ma gli Hunger Games... erano una cosa troppo seria.

La ragazza rise.«Sì, qualcosa che se continui così potrebbe essere una carcassa molto presto.»

Cercò di non far sentire la voce spezzata in quest'ultima parte, ma fu inutile.

«Ehi, fidati di me, Deianira. Mi sono allenato per anni, sarà una passeggiata» continuò Eracle, per poi alzarsi, avvicinarsi a lei, e posare le sue labbra sulle sue.

«Ehm ehm...» La voce giungeva dalla porta. Eracle tirò fuori tutta la sua sicurezza contro l'uomo che era sulla porta:«Sì, lo so, Chirone, che non è molto piacevole vedere che un diciottenne se la cava meglio di te in amore, ma ti dispiacerebbe non disturbarmi? Sto salutando la mia ragazza; non ci vedremo per un po'.»

Chirone sbuffò:«Va bene, puoi farla restare, ma se vuoi sopravvivere in quella dannata arena, devi eseguire i miei insegnamenti. E, magari, smetterla di fare il pavone.»

Chirone riassunse anche quelli fondamentali, ed Eracle salvava ogni parola del suo addestratore con un noncurante “Sì, lo so”, sempre più arrabbiato.

Perché doveva andare a combattere gli Hunger Games? Era a conoscenza del motivo perfettamente, ma continuava a chiederselo. Lui li odiava, ma aveva raccolto l'ordine di suo padre come una sfida, che doveva riuscire a vincere. Per dimostrare la sua forza.

Non arrabbiarti. Il ragazzo ripeté le parole all'infinito nella sua mente, per paura di perdere le staffe per l'ennesima volta.

Fu l'ora di lasciare la stanza per Chirone e Deianira. La ragazza si trattenne un momento di più, per abbracciare il suo fidanzato e sussurrargli all'orecchio:«Lo ricordi il canto?»

Eracle annuì, sbrigativo.«Bene» disse lei, per poi lasciare un altro bacio sulle labbra di Eracle.

Quando la vide uscire, Eracle pensò che non doveva vincere solo per il suo valore.

Ma anche per lei.

 

Distretto 3

«Benvenuti agli Hunger Games del 500, e possa la fortuna essere sempre a vostro favore!» annunciò con marcato accento capitolino Amelia Pers, l'accompagnatrice del distretto 3, traboccando di entusiasmo: sicuramente non arrivava alle facce avvilite dei possibili candidati.

«Non sentite anche voi questo freddo? Be', riscaldiamo la giornata con questa magnifica mietitura!» Non si poteva dubitare del fatto che le battute di Amelia erano state preparate giorni prima, e che erano interpretate magistralmente, come se le fossero capitate in mente solo in quel momento.

L'annunciatrice si compiacque in segreto della sua bravura ed annunciò: «Conosciamo la fortunata ragazza che rappresenterà questo stupendo distretto in questa edizione!»

Con una camminata saltellante nonostante gli alti (e probabilmente anche dolorosi) tacchi, Amelia si avvicinò alla boccia che conteneva i nominativi femminili; centinaia di fogliettini ripiegati in quel contenitore trasparente, in bella vista.

Ma la presentatrice ne prese solo uno, come da regolamento. Se ci fossero stati volontari, si sarebbe scoperto dopo un minuto.

«Il nome della giovane donna è...»

Il tempo utilizzato per la suspense serviva anche ad aprire la sottile striscia di carta che conteneva il nome del tributo. Amelia svolse il suo compito senza complicazioni, e ringraziò il cielo per questo.

Alcune facce erano spaventate, altre non le volgevano gli occhi, altre ancora sembravano addirittura annoiate.

Per loro Amelia si sbrigò.

«...Emilie Levieva!»

Emilie non salì subito. Amelia la riconobbe quando vide della gente che guardava una gracile ragazza, chi con pietà, chi con egoistico sollievo.

Non vide subito i suoi occhi azzurri, fino a quando non incrociarono quelli di Amelia, quasi a chiederle, con una punta di disperazione: “Sono davvero io?”

La capitolina sorrise, un sincero sorriso d'incoraggiamento. Emilie fece lo stesso, forse perché si sentiva in dovere di ringraziarla per quell'appoggio. Ma Amelia vedeva che i suoi occhi erano lucidi, quasi persi in chissà quale ricordo.

La presentatrice osservò il nuovo tributo, mentre saliva le scale: carnagione chiara, altezza media, lunghi capelli biondi, gli occhi chiari e la corporatura, che la faceva apparire tanto fragile. Emilie si posizionò al suo fianco, ed Amelia si accorse che la stava guardando di striscio.

«Vuoi dire qualcosa, Emilie?» azzardò l'accompagnatrice, temendo seriamente che in quel momento sarebbe scoppiate le lacrime su quel palco.

Ma non successe. La ragazza annuì con un movimento cordiale, prese il microfono e cominciò a parlare, con voce calma:«Vorrei solamente dire alla mia famiglia che non deve piangere per me. Abbiamo già passato dei brutti periodi, li abbiamo superati. Ma, per favore, non piangete.»

Nel tempo in cui Emilie rendeva con calma il microfono, il silenzio cadde sulla piazza, solo interrotto dai profondi singhiozzi di una donna.«Ti prego, mamma» sentì Amelia, sussurrato dalla persona che era accanto a lei.

«Andiamo avanti!» voltò pagina la capitolina, dirigendosi verso la boccia dei ragazzi e estraendo un bigliettino.

«Chiamiamo qui, sul palco, per rappresentare il suo distretto...» iniziò Amelia, per poi lasciare la dovuta pausa.

«...Reed Fox!»

L'esile figura di un ragazzo non si fece attendere e l'annunciatrice osservò con un pizzico di disappunto quello che sembrava un dodicenne, qualcuno con scarse speranze: piuttosto basso, capelli corti color miele, i grandi occhi azzurri, la pelle candida, la schiena curva, le labbra e le mani sottili. Data la somiglianza, Amelia si chiese per un attimo se ci fosse qualche rapporto di parentela fra lui ed Emilie; ma cacciò l'ipotesi notando che nessuno dei due sembrava scosso per la chiamata dell'altro, anzi; Reed sembrava calmo in una miniera straordinaria, quasi sovrannaturale, quasi come se sapesse già della sua chiamata, quasi come se stesse mentendo. Ma la frivolezza capitolina di Amelia non le permise di notarlo.

Entrambi i tributi del distretto 3 erano saliti su quel palco con un sorriso; ma se quello di Emilie era l'ultima spiaggia per non disperarsi, quello timido di Reed appariva troppo strano, troppo poco scosso; ma non gradasso come quello di un Favorito. Tranquillo, ma forse, nel profondo, aveva qualcosa di disperato che celava alla perfezione. E quando Amelia gli chiese la sua età, lui rispose cortese: «Quindici.»

La capitolina nascose con maestria un certo stupore.«Oh! Interessante! E tu, Emilie?»

«Lo stesso» rispose, quasi sussurrando, pacificamente. Entrambi i tributi davano l'aspetto di persone calme, fragili, non disposte a combattere... Amelia sperò che avessero delle doti nascoste, e che quell'anno non fosse l'ennesima occasione sfumata.

«Perfetto! Salutiamo con un applauso i due tributi del distretto 3, Emilie Levieva e Reed Fox!»

I due ragazzi si scambiarono un'educata e rispettosa stretta di mano. Ma quale pensieri attraversano la testa dei due tributi?

Questo solo loro lo sapevano, ma mi piace pensare che stavano immagazzinando quante più immagini della piazza possibile: quelli potevano essere i loro ultimi pensieri nel loro distretto.

 

Spazio autrice

OK. So che solo distretti è poco, ma per aspettare il quattro probabilmente dovrò aspettare ancora un po' di tempo.

Sinceramente, mi dispiace troppo privare i lettori dei personaggi che hanno prenotato... lo trovo scortese. Ma vi prego chi ha prenotato di inviare le schede il prima possibile.

Per il resto... sì, lo so, è penoso. Ho cambiato molte cose mentre rileggevo il capitolo, segno che non mi soddisfa minimamente. Spero che non sia così orrido come mi sembra.

Le mietiture, come vi sarete accorti, non hanno un preciso schema: o si svolgono dal punto di vista di un tributo, o dell'altro, o dell'annunciatrice, oppure sono i saluti. Ho già scritto una mietitura (distretto 12, che purtroppo probabilmente sarà l'ultima che posterò) che si svolge nel treno vale lo stesso per il sette; e non stupitevi se ce ne sarà una con il POV di qualcuno che non c'entra quasi nulla.

Per il resto, se devo spendere qualche parolina sugli OC:
Fuyumi Albarn: Cassandra o Fuyumi? Ho voluto creare un po' questo mistero, che si dissolverà man mano che si andrà bene. Non potevo rivelare tutto di botto.

Emerald Goldspace: spero che non l'abbiate già schedato come tipico favorito e personaggio banale, perché si sa, l'apparenza inganna. Potrebbe essere così, come potrebbe non essere.

Grace Nòel: sì, lo so, lui e Gioele sono altamente shippabili. Spero solo di averla rappresentata bene.

Eracle Chentaurion: spero di aver rappresentato bene anche lui. L'accenno al canto... è qualcosa che verrà fuori più avanti, come la storia.

Emilie Levieva (che si pronuncia “Emilì”, si tenevo a specificarlo): vale quanto detto per gli altri sul rappresentare (in pratica, vale per tutti)... e, che posso dire? Non so, a volte mi accade di immaginare in un certo modo la mietitura e di scriverla proprio così.

Reed Fox: ecco, penso che sia la persona per cui vale maggiormente la speranza di aver rappresentato ecc. ecc. Come ha pensato Amelia, è molto simile alla compagna di distretto, ma vi specifico già che fra loro non c'è nessun collegamento.

Alcuni OC hanno dei prestavolto, o comunque i loro creatori hanno ispirato il volto dei personaggi a persone realmente esistenti. Per chi fosse incuriosito:

Distretto 1, Fuyumi Albarn

Distretto 1, Emerald Goldspace

Distretto 2, Grace Nòel

Distretto 3, Emilie Levieva

Alcune foto le ho cercate io, spero vadano bene.

Per il resto? Spero di poter mettere nel prossimo capitolo i distretti 4, 5, 6, 7 e 8; per recuperare. Il 5 è già pronto, il 7 è work in progress e per l'otto ho già entrambe le schede, quindi probabilmente è il prossimo che inizierò. E, per chi volesse, il ragazzo del 10 è ancora libero.

Be', alla prossima. Speriamo il prima possibile.

Bolide

P.S.= titolo orrido.

 

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Capitolo 3
*** La fortuna non è mai a nostro favore -Parte 2 ***


Capitolo II

La fortuna non è mai a nostro favore
Parte 2

Distretto 4

Edmund aveva dodici anni, il numero delle schede a suo sfavore era veramente misero. Però ciò non riusciva comunque a tranquillizzarlo minimamente. Ecco perché cercava di rilassarsi, parlando con i suoi amici coetanei, o meglio tentando di ascoltare e facendo ogni tanto un cenno del capo, fingendo di seguire il filo del discorso.

Ma i suoi occhi, come i suoi pensieri, erano puntati al palco, alle sedie sulle quali sedevano le personalità fondamentali per il distretto 4: il sindaco, l'accompagnatrice e i mentori. Sarebbero potuti diventare la sua accompagnatrice ed il suo mentore, se solo i minuscoli caratteri scritti nel mortale foglietto che avrebbe decretato il tributo di quell'anno avessero composto il suo nome. Rabbrividì. Inspirò e cercò, per quanto impossibile, di non pensare a nulla.

Arrivò il momento del discorso del sindaco, ed Edmund provò a concentrarsi sul significato di ogni singola parola dell'uomo per scacciare idealmente la preoccupazione. Ma i suoi sforzi non ricevevano soddisfazione.

Venne presentata l'annunciatrice di quell'anno, ma al ragazzo sfuggì il nome. Non ricordava di averla già notata, gli scorsi anni. Era un dettaglio infinitesimale, dopotutto. E non aveva la concentrazione per rovistare nella sua memoria.

Ora la capitolina chiamava le ragazze, ed Edmund sperò che non venisse chiamata nessuna delle sue sorelle. Erano tutte più grandi e con più esperienza di lui, ma la sicurezza che fossero potute sopravvivere non c'era.

«Morgane Willblues!» fu invece la ragazza chiamata. Edmund ne conosceva solo il nome e l'aspetto fisico: i lunghi capelli spettinati di un castano così scuro che quasi cadeva nel nero, dei quali una ciocca era intrecciata con dei fili azzurri e delle perline che contrastavano con la pelle candida; la corporatura esile; l'altezza nella media. Non aveva però mai notato i suoi occhi verdi chiaro, pericolosamente tendenti all'azzurro, fino a quando, per un caso, lei non li incrociò con i suoi. Notò una cosa decisamente strana: stava sorridendo.

Se ci avesse riflettuto, avrebbe capito che così tanto anormale non era. Sua nonna era la maga, quella pazza che credeva di poter predire il futuro. O che forse lo faceva davvero: altre volte aveva trovato la giusta risposta prima che fosse posta la domanda.

La mano di Edmund era traballante, compiva una terrificante danza chiamata tremore. In realtà era la paura che ballava tramite il suo corpo, ma lui ci era dentro, immerso, perso nella confusione.

La capitolina camminava. Sì, quella verso cui si stava dirigendo era la boccia che conteneva anche il suo nome. Edmund non notava gli altri. Solo il suo, come se il timore non volesse lasciare libero campo alla speranza.

Le parole della presentatrice arrivarono distorte all'orecchio di Edmund, ma ci arrivarono. E la sua confusione mentale aumentava.

«Edmund Faiakes.»

Cosa stava accadendo? Esisteva ancora la terra sotto ai suoi piedi? Esisteva ancora l'aria, la gente, gli alberi, il suo distretto? Sì, di certo, ma lui non lo notava. Aveva voglia di correre, di urlare, di vomitare, di svenire; montagne di pensieri discordi si affollarono nella sua mente, tranne quello di salire.

Ecco, qualcosa lo sentiva. Era un urlo disperato, piangente, sconfortante.

“Edmund”.

Sua madre. La vide, suo padre che l'abbracciava, lacrimante anche lui. Come le sue sorelle, che urlavano di prendere loro, non lui, ma sapeva bene che non era possibile.

Non capiva. Non capiva comunque. I suoi amici gli sussurravano parole consolatorie, qualcuno lasciò cadere a terra anche qualche lacrima.

Tutto ciò accadde in pochi secondi, fino a quando non si accorse di delle urla estranee, che non aveva mai sentito. Erano quelle di un ragazzo, probabilmente lo stesso che ora stava salendo sul palco al posto suo.

Un attimo. Edmund riprese a respirare regolarmente, forse più intensamente del dovuto. Lo osservò bene: carnagione abbronzata, tipica del distretto, al contrario dei capelli neri, il tutto accompagnato da due occhi azzurri e una corporatura robusta. Ora la capitolina gli stava domandando qualcosa, il suo nome. Lynton Hamilton. Edmund lo registrò, e capì. Un volontario. Il suo salvatore. La persona a cui essere grato.

Anche se probabilmente non l'aveva fatto per lui. Infatti, alla domanda “Come mai ti sei offerto volontario?”, lui rispose freddamente:«Per la gloria.»

La convinzione non faceva parte della sua voce, e Edmund fu certo che stava mentendo quando i loro occhi si incontrarono. Il ragazzo si accorsero che quelli del volontario contenevano della compassione. Nel profondo dell'animo, nacque in Edmund una eterna gratitudine che difficilmente sarebbe scomparsa.

La capitolina fece una domanda di cui, probabilmente, più tardi si sarebbe pentita.«Vi mancherà il vostro distretto?»

Morgane fremette, quando fu il suo turno.«Mia nonna l'aveva predetto. Senza di lei, io non l'avrei saputo e sarei sicuramente morta. Ora chi è il pazzo?»

C'era rabbia, nella sua voce. Una rabbia che probabilmente derivava da un'incomprensione. Ma era dovuta al passato, a ciò che era appena accaduto o a entrambi?

La presentatrice non esitò a sottrarre il microfono a Morgane, per consegnarlo a Lynton. Altro errore, forse più fatale del primo.«Anche meno di te quando finalmente non ti vedrò più.»

La capitolina non riuscì a fare cosa differente dal deglutire.«Ecco a voi i tributi del distretto 4, Morgane Willblues e Lynton Hamilton.»

I due si strinsero la mano. Sarebbe stato l'inizio di un'amicizia o di una terribile nemesi?

 

Distretto 5

Myrtle passò una mano sopra i suoi capelli bruni, sistemati in un'alta, intrecciata e complicata pettinatura, per controllare se un ciuffo, per caso, fosse scappato. Niente. Un sorriso cordiale di sollievo apparve sulla sua faccia.

Il suo nome era lo stesso che appariva sul biglietto che decretava il tributo femmina del distretto 5, perciò lei era stata costretta a salire su quel palco ed apparire in diretta nazionale. Sentiva il nervoso in ogni sua parte del corpo; nervoso che sarebbe certamente aumentato se qualcosa nel suo aspetto fosse stato storto: bastava che una ciocca di capelli fosse fuori posto, che gli occhi color nocciola fossero pieni di lacrime, che i suoi abiti dai color pastello avessero qualche sgualcitura e non avrebbe fatto una figura decente davanti all'intera nazione.

Così, quando Ines Orwendell, presentatrice del distretto 5, le rivolse la parola cercando una dichiarazione, Myrtle rinnovò il suo sorriso ed iniziò a parlare, prestando attenzione alle sue parole:«Salve. Mi chiamo Myrtle Hopkins, ho quindici anni e rivolgo a tutti voi un caro saluto.»

Troppo nervosa. Questo suo stato d'animo traboccava dalla sua frase, artificiosa al massimo grado. Lei non si aspettava di essere estratta, la situazione non stava seguendo i suoi piani e doveva subito adattarsi. Perciò, dopo che un'ombra di incertezza transitò sul suo viso, fece ritornare il sorriso (anche se leggermente teso) e raddrizzò le spalle.

Doveva comportarsi amichevolmente, non nuocere a nessun avversario, essere cordiale con l'accompagnatrice del distretto e con altra gente di Capitol City...

Nel pubblico maschile, Julian la osservava, quasi divertito dalla sua faccia agitata ma comunque sorridente. A prima vista, non le sembrava che qualcuno potesse realmente sopportare, e si ritenne fortunato a non essere una di quelle persone che era costretta a farlo.

La Orwendell si dirigeva verso la boccia con i nominativi maschili, e se fosse signorile più il portamento di Myrtle o il suo non era semplice decretarlo, ma Julian non se ne fece un problema. Aveva diciotto anni, e quello era il suo ultimo anno di mietitura; le possibilità che fosse estratto persistevano. Ma lui rimaneva calmo, appoggiato alla recinzione con aria disinvolta, le mani infilate nelle tasche, aspettando di conoscere il nome del tributo maschile.

«C'è Julian Winnoth?» chiese, leggermente spaesata, guardandosi intorno, Ines, la presentatrice.

Non si poteva considerare una domanda intelligente, dato che gli assenti alla mietitura sarebbero stati puniti con la morte. Ma Julian era troppo scosso per pensarci, dato che le due parole appena formulate costituivano il suo nome.

Stette fermo un attimo, prima di condensare i suoi pensieri in un “Ah” sommesso e dirigersi verso il palco. Ora capiva perfettamente il nervosismo di Myrtle, anche se, a differenza di lei, lo mascherava perfettamente; e non gli importava se i suoi capelli corti castani erano in disordine (d'altronde, era semplice così), o se i vestiti gli stavano lievemente corti, dato che lui superava di svariati centimetri la media: doveva mantenere la sua faccia impassibile, anche se ormai era abituato a recitare.

Myrtle lo osservò, mentre saliva: gli occhi erano color cioccolato, la pelle abbronzata, il fisico robusto e, nel complesso, sembrava che non si preoccupasse molto del suo aspetto. La ragazza fece una piccola, quasi impercettibile smorfia.

«Vuoi dire qualcosa, Julian?» domandò Ines, sventolandogli il microfono sotto il naso.

Julian non resistette alla tentazione di far spuntare fuori Riley per un attimo e risponderle:«È un piacere trovarmi accanto a una bella donna come te, Ines. Scommetto che Capitol City è piena di donne e ragazze di uguale bellezza.»

Ecco fatto. In un colpo si era ingraziato accompagnatrice, che ora sorrideva timidamente, e buona parte del pubblico femminile capitolino. Come inizio non era niente male.

Julian rivolse anche a un sorriso ammiccante a Myrtle, che distolse subito lo sguardo. Aveva qualcosa di strano, quella ragazza, pensò Julian. E puzzava tremendamente di limone.

Quando si riprese dal piccolo momento dovuto al complimento, Ines riparlò:«Abbiamo conosciuto i due tributi del distretto 5, Julian Winnoth e Myrtle Hopkins! Ho detto bene?»

Rivolse questa domanda a Myrtle, che annuì cordialmente, forse leggermente scocciata.

«Perfetto! Pronti per Capitol City?» domandò la presentatrice.

Entrambi risposero positivamente con un cenno del capo.

Ma, probabilmente, non era vero.

 

Distretto 7

Milton Marvin guardava silenziosamente, durante la cena sul treno, l'altro tributo del distretto sette, Astrid Wright. Non che osservare le persone fosse una sua abitudine, anzi; probabilmente se Astrid l'avesse scoperto sarebbe diventato molto imbarazzato, ma la ragazza era un tipo decisamente particolare: l'avrebbe quasi potuta chiamare “ragazza di ghiaccio”, perché era l'elemento che lei ispirava. Il tutto era il risultato dell'accostamento della pelle candida, dei capelli corti biondo chiaro, quasi senza colore, degli occhi azzurri simili al (appunto) ghiaccio. O forse era meglio dire “occhio”, perché il destro era sfregiato da una cicatrice.

Ma più che altro, il nomignolo derivava dalla sua espressione, che non lasciava trasparire la minima emozione. Era stata sorteggiata per gli Hunger Games, aveva abbandonato la sua casa senza neanche sapere se sarebbe potuta ritornarci; sarebbe stato normale provare qualcosa di non celatile.

Evidentemente, non era così.

«Bene, ragazzi. Vogliamo cominciare?» chiese spazientito con la sua ridicola voce acuta Wender Allen, il mentore di Milton. L'altra vincitrice del sette, Lacy Stens, ancora non si era mostrata, ma il cibo si stava raffreddando.

Fu Omelia Sefern, la capitolina assegnata al distretto, a comunicare l'inizio della cena alla mentore. Dopo qualche urla giunte dal corridoio, la donna si presentò e si gettò rudemente sulla sedia. Milton ricordò dei suoi Hunger Games, svolti cinque anni prima, e un brivido gli percorse la schiena. Lui aveva passati chiuso in camera a leggere per il disgusto provocato dalle immagini mostrate. E tutt'ora la Stens, che cercava vanamente di accendere una sigaretta, sembrava decisamente scossa.

«Lacy, tesoro... ti dispiacerebbe evitare di fumare a tavola?» domandò cordialmente Ornelia. Ma la reazione della mentore non fu quella correttamente proporzionata a una domanda del genere.

«“Tesoro” lo usi per chiamare le altre troie di Capitol City. E comunque sì, mi dispiacerebbe. Perciò, arrangiati.»

Ornelia trasalì. Milton fu leggermente infastidito dall'arroganza che trapelava dalla risposta, ma non lo diede a vedere. E Astrid... Astrid fissava il piatto pienato con il cibo che esalava ancora una stretta striscia di fumo, chiusa nelle sue spalle. Milton le lanciò un'altra occhiata. Ancora niente emozioni.

«Bene... ragazzo, una domanda per iniziare» cominciò il mentore, lasciando un piccolo spazio fra quella frase e il quesito per far acconsentire a Milton di proseguire con un gesto cordiale del capo. Non che la situazione lo mettesse a suo agio, la sua timidezza rendeva spaventosa ogni occasione in cui era obbligato ad interagire con uno sconosciuto. Ma era il suo mentore. Doveva ascoltarlo.

«Ce l'hai un cognome?»

A quel punto, Milton si sentì leggermente imbarazzato. Forse era la stupidità della domanda a renderlo così.«Sì, ovviamente.» Provò a sciogliere il ghiaccio con una battuta:«Sarebbe stato complicato fare l'appello, altrimenti.»

Omelia si sforzò di ridere, ma uscì solo uno strano gemito soffocato. Stesso fece Wender, mentre Astrid si limitò a rivolgergli un'occhiata di sfuggita. Chi ebbe la reazione più forte fu Lacy, che, tolta la sigaretta di bocca, ingiuriò contro di lui:«Pensi di essere divertente? Ecco, non lo sei. Quindi, risparmia il fiato per i tuoi ultimi respiri. Non penso che uno come te potrebbe sopravvivere nell'arena.»

Omelia non esitò a intervenire, scattando in piedi e rimproverandola:«Lacy! Non osare neanche! Abbi un po' di rispetto per le persone!»

Da lì a poco sarebbe iniziato un furioso scontro vocale fra le due donne, ma Astrid si estraniò comunque dal mondo, continuando a dirigere la sua forchetta verso la bocca. Il pasto era decisamente ricco; ne aveva provati di simili, ma mai nessuno aveva avuto un sapore delizioso come questo, che cacciò velocemente via i brontolii dal suo stomaco.

Ma non il dolore alla testa. Era successo così tanto, nelle ultime ore...

A cominciare dalla sua chiamata. Pensava che fosse totalmente impossibile che il suo nome venisse chiamato; non era registrata nel distretto. La scarsa lucidità che alloggiava nel suo cervello in quel momento non le faceva raggiungere il risultato, poi spiegate dalle deduzioni del fratello.

Ivan. Era la prima parola che Atlantis aveva scritto per aprirle gli occhi, non potendo più parlare. E lei aveva collegato i pezzi.

Fosse stato solo quella, forse sarebbe stata ancora più motivata alla vittoria. Ma no, ciò non era bastato. Ivan aveva voluto farla soffrire, mandare un diretto sicario per punirla.

Era accaduto quando aveva visto le mietiture, soprattutto quella del distretto 3. Il ragazzo che era stato chiamato. Reed.

Reed! In quel momento aveva sentito che qualche lacrima stava per lasciarle gli occhi, ma riuscì a trattenerla. Esternamente, non comunicava nulla, ma al suo interno stava tremando. Avvertiva i fremiti irregolari, che non influivano sul suo corpo esterno, ma riempivano il suo cervello di dolore e di domande, anche se in realtà ce ne era una, semplice, ma disperata e prevalente sulle altre: Perché?

La capitolina e la sua mentore stavano ancora discutendo, mentre Wender mangiava (si potevano udire le sue mascelle masticare nonostante il frastuono) e Milton osservava, tramite i suoi occhi marroni, imbarazzato dalla situazione, senza sapere cosa fare. Ciò che gli conferiva un aspetto particolare forse erano i corti, ordinati capelli rossi, accompagnati da un viso costellato da una miriade di lentiggini. I pantaloni a vita alta e la vivace camicia gialla coprivano un corpo magro e minuto ed, al momento, anche piuttosto a disagio.

Ad Astrid sembrava una persona simpatica, così, a prima vista. Come a prima vista poteva presupporre che non si sarebbe meritato i giochi, la morte.

Ma poco importava. Sarebbe potuto diventare un nemico; sarebbe diventato un nemico.

E lei aveva preso una decisione.

Doveva aiutare Reed.

 

Spazio autrice

Ehilà.

Non saprei dire se questo capitolo è peggio o meglio del primo; comunque credo vada peggiorando. Diciamo che la mietitura del 4 mi soddisfa abbastanza; mi sono divertita a scriverla, anche se la trovo artificiosa e presenta poco i personaggi. Quella del 5 è passabile. Quella del 7, forse un po' di meno.

Penso che non v'importi nulla delle mie congetture. Comunque, vi avevo promesso i distretti 4, 5, 6, 7 e 8. Ma non ho ancora la scheda della ragazza del 6, e non riuscivo a sistemare la cosa. Avevo pensato anche di partire dal fondo, ma non ho la scheda del ragazzo dell'11. E quindi, alla fine ho deciso di non aspettare più e di pubblicare. Alla fine, ci saranno quattro capitoli di mietitura (1-2-3; 4-5-7; 6-8-9; 10-11-12) e penso possa andare bene. Ho già pronta la mietitura dell'8, del 9 e del 12 (quest'ultima da un bel po'), per chi lo volesse sapere.

Una cosa: chiedo a Wren Hyvaterm Crisp di inviarmi la scheda della ragazza del 6 e a la ladra di libri quella del ragazzo dell'11 entro tre giorni, altrimenti li libererò definitivamente. Avrei dovuto farlo prima, comunque. Se poi non siete interessati, potete dirmelo.

Qualche parola sui tributi:

Morgane Willblues: lui e Lynton, il compagno di distretto, hanno tante cose in comune e penso che mi piacerà scrivere di loro due. Comunque, non ho nulla da aggiungere, anche perché, come detto prima, nella mietitura del 4 credo di aver presentato poco i personaggi.

Lynton Hamilton: vale come la compagna.

Myrtle Hopkins: sì, è leggermente nevrotica. Spero di non aver esagerato.

Julian Winnoth: temo di non averlo reso benissimo, ma è colpa mia, ovviamente. La posizione che ha prima di essere chiamato... non so. A volte mi vengono in mente come degli screen di dei personaggi, e stop. Julian appoggiato alla rete è uno di questi.

Astrid Wright: e qui, non ho resistito. Ho subito presentato un dettaglio importante, e mi sa di aver sbagliato. Reed (se non ve lo ricordate) è il tributo del 3.

Milton Marvin: spero di aver scritto bene, scambio sempre i nomi. Be', anche lui spero di averlo reso bene.

Ecco i prestavolto o coloro a cui si sono ispirati gli autori (l'immagine di Lynton l'ho cercata io, spero vada bene):

Distretto 4, Lynton Hamilton

Distretto 5, Myrtle Hopkins

Distretto 5, Julian Winnoth

Detto questo, vi lascio la parola.

Alla prossima,

Bolide

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Capitolo 4
*** La fortuna non è mai a nostro favore -Parte 3 ***


Capitolo III

La fortuna non è mai a nostro favore
Parte 3

 

Distretto 6

Il treno scorreva, così velocemente che era impossibile distinguere precisamente le figure fuori dagli ampi vetri. Jeremy Corgan scorgeva solo la stanca luce invernale, luce che sembrava riflettersi nei suoi occhi azzurri persi nel vuoto. Tristi, ecco una semplice parola con cui descrivere loro e il suo aspetto in generale, il suo fisico anoressico, il volto pallido contornato dai capelli biondi a caschetto.

Così, stava per morire. Forse sarebbe successo comunque, anche senza incontrare Chris. Chris gli aveva salvato la vita, come aveva fatto Jeremy poche ore prima con lui, offrendosi volontario. Ma la sua vita non avrebbe avuto un senso, senza Chris. Gli aveva dato una casa, era il suo ragazzo da un anno, quando gli impedì di buttarsi da un muro di dieci metri. Era un brutto periodo, e Chris l'aveva salvato. Chi era lui per non fare lo stesso?

Non poteva permettersi di osservare piangendo. Ma doveva scacciare il pensiero di una sua eventuale morte, aveva promesso di vincere ed i problemi da affrontare sarebbe stati una miriade.

Per dargli più valore, bastava metterlo su un altro piano.

Non era per lui, Jeremy.

Era per Chris.

Anche l'altro tributo del distretto era una volontaria, dai lunghi capelli rossi fuoco e brillanti occhi verde smeraldo. Si chiamava Emanuelle Hepburn, e forse i pensieri che infestavano la mente di Jerermy facevano altrettanto con quella di lei, visto che la ragazza che aveva sostituto, Lexie, era la sua fidanzata; il suo unico appoggio, dopo una vita segnata da molti eventi drammatici. Probabilmente, il solo fatto di trovarsi in quel treno era il maggiore di loro. Ma Emanuelle stava pensando al suo ultimo incontro con Lexie, dove quest'ultima si era scagliata contro di lei, dicendole che era stato il suo nome ad essere estratto, che offrirsi volontaria era la più grande stupidaggine che lei avesse mai combinato e srotolando varie frasi arrabbiate, offese, quasi una contraddizione, dato che queste erano dovute all'amore. Forse era disperazione mascherata con ira, per non mostrare la debolezza.

Pensava soprattutto a quando Lexie le aveva detto che non si sarebbe aspettata da lei una mossa del genere, da una persona riflessiva come Emanuelle. Ma forse era stato per il suo sangue freddo che Emanuelle si era offerta volontaria, era riuscita a capire che avrebbe potuto perderla per sempre, che non avrebbe saputo più che fare senza di lei. Perché Lexie era la sua famiglia, una delle poche persone rimaste e che non doveva perdere.

Ma l'aveva persa. Lexie l'aveva lasciata, e si era automaticamente tramutata nel motivo principale della sua determinazione per la vincita.

Il silenzio del treno fu interrotto improvvisamente dal frastuono proveniente dalla camera del tributo maschile. Più che frastuono, musica. L'intervento dell'accompagnatrice del distretto, Carina Ollisier, nonostante la buona volontà, fu inutile.«Jeremy, che bella musica che ascolti!» azzardò, mentendo. La trovava semplicemente troppo rude. Gettò un'occhiata alle copertine di un cumulo di dischi su uno scaffale, trovando nomi insensati e mai arrivati alle sue orecchie, come Nirvana, Alice in Chains, Pearl Jam.«Dove l'hai trovata?»

«Non ho voglia di parlare» disse lui, con un tono triste e stanco.«Comunque grazie.»

«Oh, di niente. È un mio giudizio. Ma magari c'è chi non condivide, quindi... non potresti abbassare?» domandò lei, provando di essere più cordiale possibile.

Per la prima volta, Jeremy si girò, la fissò negli occhi e rispose:«Per favore. Potrebbe essere l'ultima volta.»

Lo sentiva a malapena, ma Carina fu ugualmente colpita dalla piega miserabile e inconsolabile della sua voce.«Va bene. Buon ascolto.» Sfoderò uno dei suoi sorrisi migliori, scomparì dalla stanza e si brontolò mentalmente per essere stata così permissiva.

Oltrepassò velocemente l'argomento e si diresse verso la camera di Emanuelle. Si trovò davanti la porta chiusa, a cui bussò, rimanendo con la mano sospesa per una risposta.«Chi è?» chiese una voce insicura dietro la porta.

«Sono io, Carina» rispose cortese l'accompagnatrice, che abbassò la maniglia per entrare.«Ciao, Emanuelle.»

La sua risposta fu tardiva e sussurrata:«Ciao.»

«Volevo sapere se andasse tutto bene.» Emanuelle annuì. Rimasero in silenzio fino a quando questo non diventò imbarazzante. Carina allora si schiarì la voce e continuò:«Comunque, se ne hai bisogno, sono qui.»

Annuì un'altra volta, ancora più sbrigativamente. Sembrava che volesse solo che Carina se ne andasse, che volesse rimanere sola, a pianificare la sua strategia o rendere meno imbarazzante possibile la sua morte plateale. Più probabilmente la prima opzione.

«Magari potremmo parlare un po', potresti calmarti, non direi nulla a nessuno, potrei aiutarti...» continuò Carina, che non sembrava comprendere la situazione.

Emanuelle, seduta a gambe incrociate sul letto, rispose piano:«Non mi piace parlare.» Cercò il coraggio per aggiungere qualcos'altro, e Carina si pentì di essere rimasta in ascolto quando sentì il continuo:«Soprattutto con te.»

Carina provò a replicare, ma non trovò la sicurezza per andare avanti.«Come preferisci, Emanuelle. Se cambi idea, mi trovi qui.»

«Elle.» La correzione di Emanuelle non fu subito chiara per Carina.«Chiamami Elle.»

«Va bene. Allora ci vediamo a cena, Elle» si congedò l'accompagnatrice.

Lei fece un cenno con la testa per mostrare che aveva capito.«A cena.»

L'ultima prima di arrivare a Capitol City.

 

Distretto 8

Who girava per la stanza. Cavolo. Alla fine era successo; era stata estratta per i giochi. Si sarebbe impegnata al massimo per non morire, questo era certa. Ma mentre faceva questi ragionamenti non tenne conto di altre ventitré persone che si contrapponevano fra lei e la vita.

Sapeva che le visite sarebbe state scarse; aveva cercato di limitare i contatti umani il più possibile proprio per timore di trovarsi a salutare degli eventuali amici divenuti tributi. In realtà, la situazione sarebbe dovuto essere invertita, ma lei stava comunque soffrendo.

La porta si aprì.

Come previsto, il primo ad entrare fu Stewart, suo zio e sua unica famiglia.«Who» disse, sulla porta, avviandosi per abbracciarla. Per una volta, Who non fu refrattaria: sapeva che quella sarebbe potuta essere l'ultima volta in cui l'avrebbe visto, e, nonostante non fosse una tipa molto affettiva, sentì un pizzico di dolore invaderle la mente. Non lo mostrò, ma forse per questo lo avvertì ancora più acutamente. In più, era la persona che l'aveva cresciuta. Sarebbe sembrato scortese sottrarsi.

«Ciao, zio» sussurrò lei, quando furono ne poté vedere nuovamente la faccia.

«Non è la prima volta che succede» rammentò Stewart. Lei annuì, sbrigativa. Anche lei, probabilmente, quindici anni prima, era stata in quella stanza a salutare per sempre i suoi genitori. Ma aveva solo due anni, non lo ricordava.

«Però tu sei forte. Sono sicuro che ce la farai» prosegui, aggiustandole una ciocca nera di capelli ricci dietro all'orecchio.

Who era quella che si poteva definire una bella ragazza. Alta e con un fisico ben uscito da anni di fame e fatica dovuta al lavoro, aveva un volto coperto di lentiggini che condivideva la chiarezza della pelle diffusa in tutto il corpo.

La ragazza assunse le parole dello zio con un veloce cenno di capo. Aveva accettato la morte dei genitori, era ormai diventato una motivazione per non piangere più. Forse quella del padre, un padre che non la desiderava e probabilmente non la considerava, era stata più semplice da deglutire. Ma comunque non facile.

Passarono il resto del tempo a sorreggersi a vicenda con le parole, anche se non ce n'era bisogno: erano persone forti, stabili. Questo accade fino a quando Who non ricevette la seconda visita.

Chuck, il migliore amico di Who, entrò nella stanza, accompagnato da sua madre Julia.

Chuck era un bambino; aveva solo sei anni, era normale per lui sentirsi disorientato, nonostante alla sua giovane età avesse già iniziato ad aiutare la madre al lavoro e si potesse considerare un segno di maturità. La cosa più strana era la tristezza di Julia, quando Who sembrava quasi totalmente indifferente riguardo la situazione. Per questo, dopo essersi seduto accanto alla sua amica, la prima cosa che ingenuamente chiese Chuck fu:«Va tutto bene?»

Who lo guardò con freddezza, rimuginando sull'eventuale risposta.«Nella mia vita non è mai andato “tutto bene”. Figurati ora.»

«Perché? Cosa succede ora?»

Who incontrò per un momento gli occhi di Julia.«Non li ha mai visti, è troppo piccolo» intervenne la madre di Chuck. Who capì che stava parlando degli Hunger Games ed annuì, continuando:«Ma fra un po' potrebbe esserne lui parte.»

Detto questo, Julia arrossì.«Non ora. Ancora un anno.»

«E poi glielo spiegherai. Promettimelo.»

«Lo farò.»

Poco dopo, Chuck fu costretto ad andare, ancora nella confusione più totale.

E Who sperò di non vederlo mai soffrire, non necessariamente utilizzando i suoi metodi.

Nathaniel River, l'altro tributo del distretto 8, in quanto a rapporti umani, cercava di fare l'opposto, ovvero comportarsi con gentilezza con tutti. Nonostante ciò, non c'era folla nella sua stanza. Non avrebbe avuto senso sprecare i preziosi minuti che poteva dedicare alle persone a cui teneva con gente appena conosciuta che, comunque, non faceva la fila dietro la porta per stringergli la mano.

Era così. Gli Hunger Games, la morte in generale rendeva più egoiste le persone.

Lui, forse, era un'altruistica eccezione. Si era offerto volontario per il suo migliore amico Marcus, che per lui era come un fratello. O per provare ad entrare nella società di Capitol City e fare fortuna.

Anche se, in realtà, era certamente la prima opzione.

Marcus entrò in quella stanza in quel momento, tuonando:«Ma sei stupido? Cosa avevi nella mente?»

«Calmati, Marcus. Nei giochi c'è bisogno di attitudine nel combattere, ma di materia grigia in maniera maggiore, che io posseggo. Quindi, la vittoria è quasi totalmente assicurata» spiegò lui, con calma.

Attitudine nel combattere, in effetti, sembrava non possederla, per via del suo corpo magro e non molto muscoloso. Aveva un'aria intelligente, e gli occhiali che celavano i suoi occhi verde smeraldo e il suo bel sorriso gli davano al suo viso anche qualcosa di affascinante, contornato da una massa di capelli rossi.

Marcus sembrò irritato e nel contempo divertito.«E meno male che ti vanti tanto della tua intelligenza, Nate. Altrimenti eravamo fritti. Anzi, eri fritto.»

Nate ridacchiò, anche se concordava con ciò che diceva.

In quel momento irruppe nella stanza la famiglia di Nathaniel: oltre ai genitori, le due sorelle gemelle, Samantha e Kenny, che corsero verso di lui abbracciandolo. Quello era il loro primo anno di mietitura, e il ragazzo ringraziò il cielo che non le fosse accaduto nulla.«Tutto bene?» chiese lui, quando furono liberi dall'abbraccio.

Samantha annuì, mentre Kenny tirava su vigorosamente con il naso.«Cioè, diciamo di sì. Non vogliamo che ti accada niente di brutto...»

«Non vi preoccupate, ragazze. Avete visto? Mi sono offerto volontario, ciò che significa che non ha paura di combattere i giochi. E vedrete, quando tornerò staremo meglio di prima.»

Anche se, in caso parlassero di soldi, non ce n'era bisogno; la famiglia di Nate era piuttosto benestante e forse c'era chi ne necessitava di più.

Però qui non si parlava solo di soldi.

Ma di vita.

 

Distretto 9

Distretto 9, uno dei distretti remoti. Ella si agitò sulla sedia; per lei i ragazzi di distretti con un numero più alto avevano anche di maggiore interesse la storia. Dire che era curiosa di conoscerli era riduttivo, era da giorni che stava cercando le domande adeguate e soddisfacenti da porre ai suoi tributi.

Non le passava per la mente che la voglia di parlare degli estratti, violentemente privati delle loro vite, fosse minima o inesistente. Quando il sindaco la chiamò, afferrò con vivacità il microfono e, facendo saettare gli occhi fra il pubblico, annunciò:«Benvenuti! Vi vedo molto eccitati, non sapete quanto lo sono io.. Be', iniziamo!»

In realtà, quella che a lei pareva eccitazione, era una delle forma più pure di paura, che vibrava in ogni singola cellula del corpo dei ragazzi, ed in alcuni si manifestava sotto forma di tremore.

La mano di Ella non indugiò tanto sulla boccia dei nomi femminili, ma ne tirò subito fuori uno sulla superficie, scomparendo dalla mischia in un attimo fulmineo.

Con voce eccitata, poi chiamò al microfono:«Athena Rainway?»

Athena esitò un poco a presentarsi, ma alla fine si fece avanti, con il rossore della timidezza diffuso sulle sue guance e i capelli color carota che le solleticavano le spalle. La sua altezza era nella media, quella che una ragazza di sedici anni dovrebbe avere, e il fisico magro ed allenato. Due occhi piccoli ed azzurri si occupavano di osservare i suoi passi, per vedere se i piedi avevano la giusta direzioni, o forse per evitare gli sguardi degli altri.

«Come va, Athena? Sei emozionata a dover rappresentare tutto il tuo distretto?» domandò subito di getto, con tono ed atteggiamento da intervistatrice.

«Io...» esordì timidamente Athena, stretta nelle sue braccia. Decisa, forse troppo aggressivamente, puntò i suoi occhi in quelli dell'accompagnatrice e continuò, secca, a bassa voce:«Ti importa?»

«Su, non essere timida! Un'intera nazione vuole conoscerti!»

Athena strinse i pugni, e sussurrò rabbiosamente al microfono:«E io non voglio che un'intera nazione mi conosca.»

Ella capì che non avrebbe scucito nulla dalla bocca di Athena, e rinunciò. La avrebbe convinta in treno. Dopotutto, più si mostrava refrattaria ad aprirsi, più l'interesse di Ella si accresceva.

La scena che si era verificata prima si ripeté, solo con la boccia dedicata ai maschi. Solo, questa volta il nome letto fu inutile.

«Mi offro volontario!»

Un volontario! Ella fremeva d'eccitazione. Sapeva che, nei distretti remoti, un volontario era un tributo importante, ma che non condivideva la piattezza dei volontari dei distretti più prestigiosi. In più, osservando che il ragazzo che si stava facendo avanti sembrava non considerare minimamente il tributo chiamato, Ella sentì accrescere la sua curiosità.

Ragazzo. Insomma, un ragazzo non sembrava. Aveva tratti delicati, femminili, lunghi capelli biondo cenere e due occhi azzurri che la colpirono quasi subito. Per essere un maschio, era piuttosto basso, e quel appariva del fisico sembrava sì allenato, in grado di sopportare i giochi, ma non particolarmente muscoloso.

Ogni dubbio fu scacciato quando, alla domanda “Qual è il tuo nome?”, il volontario rispose con voce sicuramente maschile:«Andrea White.»

«Oh, bene!» squittì Ella.«Sei molto coraggioso a offrirti volontario, a questa età! Quanti anni hai, di preciso?»

Andrea la fissò, ma la sua espressione sembrava più colma di odio di prima.«Diciassette» sputò velocemente, come per evitare di aggiungere altre parole di carattere certamente offensivo.

Ella sembrò non notarlo, ma oltrepassò l'imbarazzo provocato dalla risposta e continuò a tartassare il “suo” volontario di domande:«Ah! Interessante! E perché ti sei offerto volontario?»

Si trattenne. O almeno, ciò è quello che sembrò a Ella. Come se avesse voluto gridare parole sconfortanti in faccia all'accompagnatrice, al sindaco, all'intera nazione; ma si fosse trattenuto limitandosi a stare zitto. Ella preferì non indagare oltre.

«Perfetto! Salutiamo con un applauso i tributi del distretto 9, Athena Rainway e Andrea White!» squittì come ultima cosa Ella.

I due tributi rientrarono, mentre la presentatrice si riaccomodò in una delle sedie disposte lungo il perimetro del palco.

La piazza era piena del gioioso brusio delle famiglie salve. Ella osservava lo spiazzo davanti al palco senza capire.

La cosa che comprese di meno, però, fu un urlo di rabbia dal tono maschile proveniente dall'interno del palazzo.

 

Spazio autrice

Ehilà.

Che dire del capitolo? È quello che mi convince meno, ma rileggendolo mi sembra che faccia meno schifo di quanto credessi. La parte che mi convince di meno è il distretto 6.

Comunque, non sento di avere molto da dire. Forse scriverò più nelle considerazioni sui tributi.

Allora:

Emanuelle Hepburn: non sono convinta al cento per cento di averla rappresentata bene, al massimo un... cinquanta? Forse. Penso sia molto più razionale di quanto abbia mostrato io, almeno ci ho provato. Spero di aver centrato il bersaglio.

Jeremy Corgan: e qui molti si saranno chiesti: “Cosa ci fanno i CD di Nirvana nel 2600?” O forse qualcuno anche: “Chi diavolo sono questi qui?” Be', io alzo le mani. Sarà svelato tutto nelle prossime puntate! (Musichetta propagandistica). Il punto è che potrei aver scritto “Jermy” ovunque, scusate, è Jeremy.

Who Powell: ecco, qui penso di non aver scritto male il nome, perché (almeno quello di battesimo) è piuttosto ricordabile. Be', spero di averla rappresentata bene, ma non credo (spero) di aver avuto particolari problemi. Soprattutto nella parte in cui la madre di Chuck e Who parlano. Cosa che non c'entra niente (o come diciamo a scuola, “rubrica topo morto”): Chuck mi ricorda Chuck di Maze Runner perché boh.

Nathaniel River: qui potrei azzardare che forse l'ho beccato, ma non sarei così tanto sicura. Ci spero.

Athena Rainway: non sarei sicurissima di averla resa bene, o forse ne ho parlato troppo poco rispetto al compagno di distretto. Forse temo più questo secondo aspetto. Vorrei aggiungere qualcos'altro della rubrica topo morto, ma evito.

Andrea White: ecco. Dovete sapere che il capitolo era già pronto, ma non l'ho pubblicato subito perché non ero tanto sicura sulla parte del distretto 9, soprattutto su Andrea. E la versione che leggete adesso non è quella originale, ma mi convince certamente di più. Spero di non averlo rappresentato così male.

Spazio dei prestavolto:

Distretto 6, Emanuelle Hepburn

Distretto 6, Jeremy Corgan (perdonatemi per la chitarra, ma non ne trovate altre)

Distretto 9, Athena Rainway

Distretto 9, Andrea White

Then (che non so neanche cosa significhi, uso le parole inglesi a casaccio), mi dileguo. Anche perché mi manca da scrivere una mietitura e mezzo e poi potrò dedicarmi ai tributi tutti insieme appassionatamente.

Ah, e chi non mi avesse ancora comunicato nulla sulle alleanze, lo/la prego di farlo.

Alla prossima,

Bolide

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Capitolo 5
*** La fortuna non è mai a nostro favore -Parte 4 ***


Capitolo IV

La fortuna non è mai a nostro favore
Parte 4

Distretto 10

Carlotta non era mai stata nel Palazzo di Giustizia, e di certo in quel momento non avrebbe voluto esserci. Era stata chiamata per partecipare a quella edizione straordinaria degli Hunger Games, o meglio per abbandonare tutti i suoi amici, la sua famiglia.

L'ora dei saluti forse era una delle crudeltà maggiori degli Hunger Games. I tributi erano obbligati a fare promesse difficili da mantenere solo per tranquillizzare le vittime indirette dei giochi.

La porta si spalancò, e Carlotta Wilson, tributo del distretto 10 negli Hunger Games del 500, non esitò ad andare incontro ed abbracciare il nonno Peter, a rappresentanza della famiglia entrata in quel preciso momento. Appellò tutte le sue forze per non piangere sulla giacca di quello che, oltre ad essere suo parente, era anche il suo migliore amico.«Non voglio andarci» sussurrò con una tristezza venata di rabbia.«Su, piccola, non ti preoccupare» la consolò il nonno, accarezzandole i corti capelli castani che terminavano in un ciuffo.

Passò poi al resto della famiglia, composta da maschi: il padre Jake e i tre gemelli Alex, Tom e Teo. Detto questo, Carlotta fece passare i suoi occhi neri su ognuno dei suoi parenti mormorando, con un po' di tensione:«Farò di tutto per ritornare da voi. Sapete quanto vi voglio bene, sarete il mio primo pensiero nell'arena. Non vi lascerò da soli.»

«Sappiamo che non lo farai, Carlotta» continuò suo padre.«Ti abbiamo portato un pensiero.»

Dalla borsa, Jake tirò fuori un fermacapelli a forma di chiave di violino e Carlotta riconobbe subito cos'era.«Era di tua madre,» aggiunse lui, senza che ce ne fosse bisogno,«l'ho sempre portato con me per ricordarmi di lei. Ma forse tu ne hai più bisogno» continuò, utilizzandolo per tirargli dietro i capelli.

Carlotta sorrise e rispose:«Grazie.»

Salutò con affetto tutti quanti. Il resto dell'ora fu pieno per lei, dato che il numero di amici al distretto era alto. Promettere a ogni persona che sarebbe ritornata era quasi uno sfogo, o un obbligo che eseguiva con un vero sorriso sulle labbra. Le piaceva vedere che le persone ricambiavano la sua amicizia.

O il suo amore, come poté testare quando arrivò il fidanzato Lucas. Dopo aver scambiato qualche bacio, Lucas le giurò che non l'avrebbe lasciata per nessun motivo, nonostante la distanza avrebbe provato sempre a sostenerla e farle sentire il sentimento che lui provava per lei. Carlotta fotografò mentalmente il suo viso vedendolo andare via, ed appuntò quella foto immaginaria nella bacheca dei suoi motivi per vincere.

L'ultima visita fu totalmente inaspettata, ma comunque gradita: il suo fratellino Alex, con un fascicolo di libro e una penna, che le consegnò sussurrando affannosamente:«Il tuo libro. Siamo riusciti a portartelo... sappiamo quanto ci tieni.»

Carlotta, infatti, stava scrivendo un romanzo, e forse concluderlo era uno dei suoi desideri più grande.«Grazie mille.»

Quando fu lasciata sola, fu presa da un dubbio: gliel'avevano portato per farglielo finire? Per avere un ricordo di lei, in caso fosse scomparsa?

 

Il tributo maschile del distretto 10 di quell'anno era un volontario, il cui nome era Eaves Isinthaw. Il suo cognome era noto nel distretto, infatti era lo stesso di Deimo Isinthaw, vincitore di una delle edizioni dei giochi, non fra le più recenti. Infatti, era anche risaputo nel distretto che Deimo usava adottare dei ragazzi per prepararli agli Hunger Games. Eaves era uno di questi, l'unico che non si trovava nella stanza in quel momento come ospite.

«Eaves. Hai compiuto una scelta molto coraggiosa, e sono fiero di te, figlio mio. Spero che i miei consigli ti tornino utili, una volta nell'arena» esordì Deimo, posando una mano sulla spalla del figlio adottivo.«Grazie, papà» disse, in un tono aggressivo che solitamente non occupava la sua voce. Ma in quel momento era di cattivo umore, e come sarebbe possibile contraddirlo?

Si era offerto volontario in un momento di rabbia, dopo che il figlio del mugnaio gli aveva detto quelle cose malvagie su di lui, sul suo aspetto. Non era colpa di Eaves, se era nato con quella deformazione, se la sua altezza era fuori dall'ordinario, se un braccio era il doppio dell'altro, se i suoi occhi di un grigio così scuro da avvicinarsi al nero erano enormi. Aveva passato diciotto anni a vergognarsi del suo corpo, forse sarebbe stato meglio non soffrire oltre.

O almeno, così pensava al momento della mietitura. Prima di rendersi conto del suo errore. E forse era proprio questo suo pentimento, a renderlo così scontroso.

Il turno dei saluti passò ai fratelli. Moros aveva portato, oltre alla moglie Apateh, anche il figlio Kylee a salutare lo zio.«E mi raccomando, non morire» si congedò spiritosamente, scompigliandogli i soffici capelli mossi di un castano tendente al colore della ruggine. Eaves non approvò particolarmente quel gesto, ma non rimarcò perché sapeva perfettamente che se ne sarebbe pentito, più tardi, quando il suo cuore si sarebbe raffreddato. E così fu.

Toccò poi a Evan, che aveva appena affrontato la prima mietitura. Si sedette accanto a lui, rivelando che le dispiaceva tanto. Rimase lì per il resto delle visite.

Il turno successivo fu quello dei gemelli, Agni ed Idra. Nonostante il loro aspetto fisico, le loro reazioni furono totalmente differenti: mentre Agni cercava di alleggerire la situazione con qualche battuta, il saluto di Idra fu cupo, ma, probabilmente, il più profondo.

L'unico dei suoi fratelli che ancora non aveva affrontato la mietitura era Nethus, che si staccò dalla mano del padre per abbracciarlo ed augurargli buona fortuna.

La sola assenza in quella stanza era da attribuire alla sorella maggiore, Algea, che gli augurò addio in separata sede, in modo molto distaccato. Dopotutto, i rapporti fra lui ed Algea non erano dei migliori; anzi, si potevano definire inesistenti.

Ci fu solo una visita compiuta da una persona che non apparteneva alla sua famiglia: Lysimile Qualder, la sua ex insegnante e unica amica. Fu forse colei con cui si intrattenne di più, data che la comprensione che aveva sempre dimostrato nei suoi confronti. Eaves, più che altro, si sfogo. Lysimile, più altro, sembrò compatirlo.

Come previsto, i veri genitori di Eaves non si scomodarono a visitarlo. Era stato un errore, forse avevano anche altri figli; e procedevano a stento, fra mille difficoltà.

Ma sarebbero stati dei bambini normali.

Eaves aveva compreso il loro comportamento, e li aveva perdonati.

Avrebbe fatto lo stesso con il suo assassino, in caso della sua morte?

 

Distretto 11

I campi del distretto 11 erano una desolazione mascherata dai colori degli ortaggi. Adamée adorava osservarli dal treno, soprattutto il giorno della mietitura, quando il paesaggio non era disturbato dai lavoratori che bagnavano con il loro sudore il terreno, quel giorno in preparazione per un'eventuale addio.

In quanto a colori, però, Adamée sembrava competere seriamente. Il giallo della sua parrucca, il turchese della giacca, il fucsia della gonna e tutte le tonalità che si mescolavano nel suo sgargiante modo di vestirsi, o meglio, di addobbarsi. Così pensavano gli abitanti del distretto 11. Adamée voleva solo essere bella, ma il ridicolo superava di chilometri la bellezza.

«Buon pomeriggio, signore e signori, ragazze e ragazzi, bambine e bambini! Godetevi questa bella giornata! Gli uccellini fischiettano, il vento soffia calma e il sole splende!» iniziò lei, con tono allegro e sognante, quando il sindaco l'ebbe presentata. Probabilmente, era la sola a vedere il sole splendente; dato che quel giorno le nuvole oscuravano il cielo. In ogni caso, non sarebbe stato notato.

«Ehm... benissimo! Non siete eccitati anche voi? Fra poco scopriremo il nostro tributo femminile di quest'anno! Uao!» Se il suo tentativo era quello di risultare simpatica e coinvolta, questo non raggiunse il pubblico. Anzi, molti furono infastiditi da quel “nostro tributo femminile”.

Con movimenti goffi, Adamée si diresse verso la boccia femminile, tornandone con una condanna.

«Bene bene bene... allora, chi abbiamo qui? Serena Hamilton!»

Serena apparve dopo poco tempo, mentre si dirigeva con passi per niente affrettati e bighellonanti verso il palco. Si rivelò essere una ragazza alta, di una magrezza quasi scheletrica, una pelle cadaverica piuttosto rara nel distretto su cui cadevano capelli biondo platino e due bellissimi occhi azzurri. Salì le scale e si accomodò accanto a Adamée, che non esitò a chiederle:«Vuoi dire qualcosa?»

«Ehm... ciao, mi chiamo Serena e... ciao.» La ragazza sembrò non trovare altre parole da dire, forse era semplicemente troppo confusa. Si morse il labbro mentre Adamée constatava che la ragazza non aveva intenzione di proseguire.«Magnifico! Allora, vogliamo passare al tributo maschile?»

Non ricevette una risposta. Era comunque obbligata a farlo, dato che in quello consisteva il suo lavoro.

La scena si svolse con la lentezza dovuta a creare la suspense, che si fratturò solo quando la presentatrice parlò:«Aaron Hepburn!»

Questa volta, il sorteggiato si presentò velocemente e salì sul palco con un sorriso contagioso che sembrava abituato ad avere. Anche i suoi occhi erano molto belli, ma più scuri rispetto a quelli della compagna, blu; e i capelli ramati ed arruffati. Il suo fisico era smagliante e muscoloso, e anche la sua carnagione inusualmente chiara.

Quando Adamée gli chiese di parlare, la sua reazione fu questa:«Ehm... salve! Non penso che ci sia bisogno di presentarmi, il mio nome lo avete sentito già prima. E mi conoscerete meglio nei prossimi giorni, credo.» Il suo tono era gioviale, quasi colloquiale, forse un po' preoccupato: una preoccupazione automatica, che avreste anche voi, se il vostro nome venisse chiamato per i giochi.

«Certamente, Aaron, e sarà un piacere per tutti noi! Che dite?» domandò al pubblico Adamée.

Le facce degli abitanti del distretto 11 restarono lì, indifferenti, a rimarcare nella loro mente chissà quale pensiero. Solo i bambini osservavano la capitolina curiosi, credendola uno strano essere, forse neanche proveniente da un altro mondo.

Perché il mondo, per loro, si fermava ai confini del loro distretto, al loro lavoro, con uno scorcio di Capitol City ogni anno tramite gli Hunger Games, in cui veniva mostrata quella ricchezza invidiabile ed inaccessibile.

«Uao! Ora, salutate con un caloroso applauso i nostri due tributi, Serena Hamilton e Aaron Hepburn! Stringetevi la mano, ragazzi!» incitò la presentatrice, e i due tributi eseguirono l'ordine.

«Buona fortuna» augurò Aaron cordialmente, sottovoce, alla sua compagna di distretto.

Lei sorrise timidamente.«Be', grazie, ne avrò bisogno! Anche a te!» rispose, con tono molto più alto rispetto a quello del ragazzo. Alcune persone, più che altro presenti su quel palco, la guardarono in modo strano.

«Che c'è? Ho detto qualcosa di male?» Serena si guardò intorno, ma nessuno disse una parola.

«Oh, non importa» archiviò lei, scrollando le spalle.

Adamée intervenne con una risata forzata, e concluse:«Perfetto! Ci vediamo presto! Arrivederci, e possa la fortuna sempre essere a vostro favore!»

Come aveva detto prima Serena, ne avrebbero avuto bisogno.

 

Distretto 12

Il treno sfrecciava, lasciando indietro sprazzi di colore che non erano altro che il distretto 12, il luogo di provenienza dei due tributi, ma anche il posto che sicuramente uno di loro due non avrebbero mai più visto.

I tributi di quell'anno erano la speranza di Patrizia Eshern, l'accompagnatrice che da ben quattro anni si trovava nel distretto peggiore senza essere mai promossa. Nessuno dei due sembrava provenire dal Giacimento; infatti, Savannah Sparks aveva sì gli occhi grigi, e i suoi lunghi capelli a boccoli erano neri, ma i suoi abiti eleganti, oltre alla pelle chiara e alle carnose labbra rosso ciliegia, sembravano negare la provenienza dal lato più povero del distretto.

Ed per il ragazzo, Mihael Stivens, il discorso era simile. Alto, muscoloso, capelli castano chiaro, occhi verdi. Sarebbe stato insensato collocarli nel Giacimento, come provenienza; anche se non sapeva che quest'ultimo era proprio originario di lì.

Entrambi erano seduti in un confortevole salotto, in silenzio, a pensare, insieme alla loro accompagnatrice, che non sopportava più il silenzio.

Doveva lavorare. Doveva impegnarsi per essere promossa di distretto.

«Allora!» squittì, ravvivando la conversazione e facendo volgere lo sguardo ai ragazzi verso di lei. «Dobbiamo riflettere su come farvi amare dal pubblico! La base c'è... ho bisogno solo di un po' di collaborazione! Cominciamo da, te, cara Samantha...»

La ragazza rise.«Samantha... ci ha pensato mia madre di già a darmi un nome, lo sapevi?»

Patrizia cercò di mantenere il suo sorriso cordiale, con molto sforzo.«Oh, cara, cerca di non essere così irriverente nelle occasioni pubbliche. Il pubblico potrebbe non prenderti in simpatia.»

Savannah la guardò con uno sguardo beffardo, per aggiungere:«Come io ho fatto con te.»

Patrizia inghiottì una smorfia di disappunto.«Scusami, cara. Cerchiamo di ricominciare. Mi dici qualcosa di te?»

«Va bene. Mi chiamo Savannah Sparks, ho diciassette anni e vengo dal distretto 12.»

Si zittì. Patrizia la guardò stupidamente, rendendosi poi conto che non aggiungeva nulla.«E poi?»

«Be', mi hai chiesto “qualcosa”. Ed io ti ho detto qualcosa.»

«Scusami, cercherò di essere più precisa. Cosa pensi degli Hunger Games?»

«Oh, credo che siano magnifici e fondamentali! Sicuramente mi sarei offerta volontaria, se non fossi stata chiamata. Adoro veramente Capitol City!» A prima vista, sembrava sincera. Patrizia dovette tradurre un urlo di eccitazione con un “Davvero?” che uscì acutissimo.

«No! Potrei morire benissimo nel mio distretto, se ne avessi voglia!» rispose, con tono beffardo, lei.

Patrizia si concesse a uno sbuffo. Niente da fare. Meglio passare al ragazzo.

Infatti, Mihael si era offerto volontario, apparentemente per colui che era stato chiamato, un certo Jace, dal tono disperato in cui aveva urlato di voler partecipare ai giochi. Ma questo non lo rendeva un personaggio non interessante.

«E tu, Micheal? Che cosa hai da raccontarmi?» chiese Patrizia, drizzandosi con un movimento scoordinato la parrucca.

«Innanzitutto, il mio nome è Mihael, mia madre proviene da Capitol City ma non è stupida come voi. Sono passati trent'anni dalla rivolta e voi sbattete ancora innocenti adolescenti che al tempo non c'erano neanche in un'arena ad uccidersi! E poi dite che ne dovremmo essere fieri! Volete provate a stare voi nella nostra situazione? Be', accomodatevi!» La risposta era stata sputata con una rabbia pazzesca, che scaturiva dal profondo del cuore, che aveva raggiunto Savannah ed addirittura sfiorato Patrizia. Però lei rimase solamente impietrita, anche quando il ragazzo uscì violentemente dalla stanza.

Il silenzio durò fino a quando Savannah non lo interruppe con una lunga risata.«Scommetto che questa non te l'aspettavi, eh?»

Nessuna risposta. L'accompagnatrice restò nel suo stupido stupore.

Savannah si alzò, esibendo il suo fisico alto, slanciato e formoso. «Io vado. Se hai bisogno di qualcuno con cui sbagliare i nomi, vai dalla nostra mentore... peccato che sia troppo occupata a tagliarsi per prendersi cura di due ragazzi che stanno per morire.»

Fu allora che Patrizia si riprese, fissando la ragazza.«Dovresti trattare la tua mentore con più rispetto. Dopotutto lei...»

Silenzio. Patrizia non sapeva cosa dire.

O meglio, ciò che pensava non lo poteva esprimere, perché andava contro di lei.

«È passata attraverso delle brutte esperienze? Sì, gli Hunger Games non devono essere molto semplici. Però, è colpa vostra» concluse Savannah, prima di uscire.

Due tributi avevano battuto la propria accompagnatrice con poche frasi.

Avrebbero potuto anche battersi fra loro?

 

Spazio autrice

Yay.

OK, quanto tempo è passato dall'ultima pubblicazione? Spero non troppo. Ho perso il conto.

Be', del capitolo non sono convintissima. Penso di aver evitato di correggere una cinquantina di errore di battitura (a frase), spero non sia così tremendo.

Per il resto, due parole sui tributi:

Carlotta Wilson: non sono convinta di averla rappresentata benissimo, neanche di averle dato troppo spazio. Perdonatemi.

Eaves Isinthaw: vale quanto detto sopra. Perso di aver dato più spazio ai parenti che a lui. Comunque Evan è una femmina. E il suo nome si pronuncia “Ivens”.

Serena Hamilton: vi è sembrata un po' pazza? Bene. Vi è sembrata troppo pazza? Cavolo, ho esagerato.

Aaron Hepburn: chissà se qualcuno ha notato... ok, evitiamo. Spero di averlo reso bene.

Savannah Sparks: il 12 l'avevo scritto ere fa, rido. Comunque spero anche di lei averla resa bene.

Mihael Stivens: spero di averlo reso bene pt. 3.

Mi vedete molto invogliata, vero? Boh, ho la mente schiacciata.

Prestavolto:

Distretto 10, Carlotta Wilson

Distretto 11, Serena Hamilton

Distretto 12, Savannah Sparks

Distretto 12, Mihael Stivens

Se volete recensire per farmi notare gli errori sfuggiti alla mia incredibile notizia, è gradito.

Altrimenti, alla prossima,

Bolide

P.S.= giuro solennemente di non essere ubriaca.

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Capitolo 6
*** Inno d'inizio ***


Capitolo V

Inno d'inizio

Athena Rainway

«Ragazzi! Tutti pronti! Ci siamo! Non vi nascondete! Oh, eccoti qui, Andrea. Chissà dove si è cacciata la tua compagna di distretto...»

Queste voci risuonavano nel corridoio del treno proveniente dal distretto 9, pronunciate da Ella, l'accompagnatrice di quel distretto. O meglio, starnazzate da Ella. Ad Athena dispiaceva pensare quelle cose, ma non lo dimostrava. Incrementava il suo odio pensando che era una creatura di Capitol City, una di quelle più pure e incontaminate da idee “cattive” contro gli Hunger Games. Ma non andò in profondità.

Sospirò, alzandosi dal letto. Sapeva che non c'erano alternative, e perciò si diresse verso l'origine del trambusto. Ella si voltò e, con un sorriso lieto ed altrettanto finto, le disse:«Oh, finalmente, Athena! È il vostro turno!»

Accanto a lei, Andrea. Athena non era riuscita a schedarlo, a comprenderlo, ma probabilmente era lo stesso anche per un'intera nazione. Dopo l'apparente rabbia della mietitura, si era presentato solo per mangiare all'ora di cena, non aveva parlato con il mentore, non aveva guardato ciò che era accaduto negli altri distretti, al contrario della ragazza. Non che Athena stesse in compagnia con estremo piacere, ma voleva sopravvivere. Doveva ascoltare i consigli di chi aveva attraversato i giochi prima di lei. Doveva studiare gli avversari.

E ora eccolo lì. Appoggiato al muro, con un volto inespressivo. No, Athena non riusciva proprio a collocarlo. Ma proprio per questo non era da sottovalutare.

Ella le venne incontrò, la squadrò con preoccupazione e continuò:«Ma... Athena! Non ti sei truccata neanche un poco?»

Non ci aveva pensato. D'altronde, non le importava neanche. Scosse la testa velocemente, cercando di schiacciarsi contro la parete il più possibile. Non voleva cedere alla frivolezza di quella donna.

«Guarda come sei vestita! È un disastro!» proseguì, quasi infilando le mani nella parrucca. In effetti, Athena indossava quanto più comodo si potesse trovare in un armadio di Capitol City: un pigiama. Nel distretto 9 sarebbe stata riconosciuta come tuta da ginnastica, ma nella capitale no. Athena lo sapeva perfettamente. E forse questo la fece stare meglio.

Non disse nulla. Continuò a tenere la testa piegata verso il pavimento. Nonostante avesse fatto tutto ciò apposta, provò un certo imbarazzo. Ma non lo diede a vedere.

«Dovresti prendere esempio da Andrea. Guardalo!» la rimproverò Ella, indicando il suo compagno di distretto, che non cambiò minimamente la sua espressione.

In effetti, nelle vesti sopraffine ed all'ultima moda di Capitol City Andrea sembrava veramente un principe, forse anche per quell'aria distaccata ed altezzosa che aveva. Accennò un sorriso, il primo che Athena gli vedesse fare.

«Be', ora non c'è tempo. Forza, una capitale ci aspetta!» ritrovò il suo entusiasmo la capitolina. Athena la seguì di malavoglia, accanto al ragazzo. La porta era vicina. Il nervoso stava aumentando, e si accorse che la parte interna della guancia stava sanguinando. Forse perché aveva preso a mordicchiarla. Sicuramente perché aveva preso a mordicchiarla.

Grida provenivano da fuori dal treno. Il momento. Capitol City era davanti a loro. La città che Athena aveva sempre odiato era davanti a loro, ed era il momento di affrontarla.

La ragazza scese dal treno con tutta la velocità possibile, e si diresse verso la macchina a loro affidata scansando la folla, lasciandosi indietro Ella che la richiamava ed Andrea.

Un senza-voce gli aprì la portiera e lei esitò un attimo prima di salire, per voltarsi a guardare la situazione. Perché gli altri ci mettevano tanto?

Vide Andrea, con un sorriso cordiale stampato sulla faccia, stringere la mano e salutare capitolini, vicino a Ella che sembrava fargli propaganda.

Chi sei? si chiese, provando un briciolo di paura.

 

Jeremy Corgan

Jeremy non riuscì a trattenere un grido di dolore, quando gli strapparono tutti i peli sulle gambe che lui aveva collezionato in diciassette anni di vita. E che gli impiegati di Capitol City gli stavano togliendo senza considerare che potesse procurargli un po' di sofferenza. Dopotutto, Jeremy aveva affrontato di peggio, ma quello competeva seriamente.

Intanto, uno dei preparatori di cui non aveva afferrato il nome, stava parlando, cercando di rassicurarlo e di distrarlo:«Allora, caro, Capitol City è meglio del distretto 6?»

Dipende dai punti di vista. Avrebbero voluto rispondergli questo, pensando al suo ragazzo nel distretto, e che la capitale per lui significava solo morte. Ma, se si prendeva il lusso che si poteva già assaporare dal poco che aveva visto, Capitol City superava di chilometri il suo distretto di origine, nonostante la sua famiglia (o almeno, quello che era la sua famiglia prima di incontrare Chris) fosse benestante. Almeno dal punto di vista economico. Prima della scomparsa di Lillian, sua madre, quando lui aveva solo cinque anni.

Annuì, sveltamente, mentendo terribilmente. Odiava quella città. Si era portata via sua madre, solo perché lei detestava la crudeltà capitolina. E con la madre, quella serenità che aveva. Lillian era la persona più cara a Jeremy, e l'avrebbe certamente difeso dagli attacchi del padre, Gary, che lo voleva trasformare in qualcuno di differente, di perfetto. Ma Jeremy non aveva obbedito, era rimasto se stesso. E allora Gary gli aveva tolto ciò che Jeremy amava di più: la musica. I suoi CD, che proprio il padre, aveva ritrovato scavando. Gary faceva l'archeologo. Non era un lavoro usuale, ma senza il ragazzo non avrebbe mai conosciuto tutte le sue band preferite.

Ed allora, aveva abbandonato la sua casa. Ma questo era un altro capitolo della sua storia, forse più oscuro del primo. E doloroso.

«Non ne dubito. Capitol City è il centro di questo stato. È una città semplicemente magnifica: i suoi palazzi, le sue tradizioni, i suoi ristoranti... e, ovviamente, i suoi stilisti. Atticus è dotato di tantissimo talento. Tu e la tua compagna di distretto sarete stupefacenti, non ne dubitate!» continuò, strappandogli una grande quantità di peli che gli ricoprivano le gambe. Questa volta, Jeremy ebbe un fremito, ma non gridò. Doveva resistere.

Dopo un po' di tempo, ebbero finito. Lo condussero in una stanza vestito con un accappatoio dove trovò anche Elle, la sua compagna di distretto, anche lei seminuda. Jeremy aveva sentito Carina, la loro accompagnatrice, chiamarla così, e aveva registrato quel nome.

Stettero in un silenzio, un silenzio colmo di riservatezza e timidezza, senza neanche guardarsi, fino a quando un uomo vestito con abiti dai colori sgargianti irruppe nella stanza, gridando:«Magnifici! Siete veramente stupendi!»

Strinse la mano ad entrambi, che lo osservavano un po' stupefatti. Jeremy era rimasto anche un po' spaventato dal chiasso.

«Sono Atticus Forrel, il vostro stilista. Spesso i distretti ne hanno due, ma io valgo come tre! Allora, volete vedere i vostri abiti?»

Poco convinti, i due annuirono.

Erano semplicemente... imbarazzanti. Due fasce di gomma nera, in grado di coprire il tronco e poco più in basso, che sul davanti avevano un vero e proprio pneumatico che aveva la funzione di coprire le parti intime e delimitare l'area di un cerchio vuoto, che lasciava intravedere la loro pelle. In pratica, sarebbero stati seminudi.

Arrossirono entrambi, ed Atticus sembrò notarlo.«Non c'è bisogno che facciate quelle facce! Siamo nei giochi, e questi sono le armi. Indossatele. Sarete strepitosi!»

 

Emilie Levieva

Nel suo lungo, scintillante ed elegantissimo abito da sera verde il cui strascico toccava il pavimento Emilie si sentiva impacciata. Non era ciò che era abituata ad indossare, e con quel qualcosa sarebbe dovuta apparire bella davanti al pubblico. Insomma, il vestito era meraviglioso, ma era lei a sentirsi fuori luogo.

Era accanto al carro che l'avrebbe trascinata, guardandosi intorno. Gran parte della gente stava per conto loro, ascoltava gli ultimi consigli dei mentori, oppure osservava, come lei.

Una stranezza era dettata dalla ragazza del 6 (Emilie la riconobbe grazie al costume), che parlottava con il ragazzo dell'undici, il quale indossava, come la sua compagna di distretto, una tuta ricoperta di quelli che sembravano ortaggi. Lei sembrava essere furiosa, confusa, mentre lui la calmava. Non sembrava che fosse la prima volta che si vedessero.

Osservò il salone ricolmo di gente stilisti indaffarati, che apportavano le ultime modifiche. Emilie era sola, e si chiedeva dove fossero spariti tutti. Anche se la stanza era un luogo di lavoro, che era situato dietro le quinte, era dotato di tutti i lussi. La ragazza provò una fitta di dolore pensando che cinque anni prima lì si trovava Dimitri, suo fratello. Lui aveva solo dodici anni, e non ce l'aveva fatta. Si era ripresa, ma non senza fatica. Adorava il fratello. E forse, se lei avesse vinto, una parte di lui avrebbe fatto lo stesso.

Arrivò Reed, insieme alla loro accompagnatrice, Amelia, e al giovane mentore, Beetee. Reed ndossava un completo del suo stesso verde smeraldo, che sembrava renderlo, in qualche modo... prezioso. «Stai molto bene» si complimentò Emilie, e Reed arrossì velocemente.«Grazie, anche tu» sussurrò, un po' imbarazzato. Vide un piccolo sorriso che era apparso sul suo volto.

E poi, notò un'altra cosa strana: il suo sorriso si rivolse al carro più indietro, dove la ragazza del 7 si trovava accanto a un cavallo. Il suo distretto veniva presentato con un delicato vestito bianco che sembrava essere fatto di carta, da cui alcune parti spuntavano delle foglie. Anche il suo compagno di distretto, che conversava affabilmente con il suo mentore, era abbigliato con qualcosa di simile. Astrid – almeno questo pareva ad Emilie il nome della ragazza – si scoprì a guardare Reed, ed abbassò lo sguardo con un movimento veloce. Quasi impaurito. Emilie pensò che era una persona molto delicata, dolce, sotto alla sua maschera di indifferenza. O almeno, questa era l'impressione che si era fatta.

«No! Te lo puoi scordare, assolutamente!» Queste grida arrivarono dalla cima della sala, emesse dalla ragazza dell'1.«Non saluterò quegli idioti fingendomi più stupida di loro! Fallo tu, se vuoi, ma io non vado a leccare il culo a Capitol City!»

Probabilmente, le era stato chiesto di fare tutto ciò che era richiesto anche agli altri tributi: salutare il pubblico. Ma lei si opponeva. Emilie realizzò che aveva un carattere molto indipendente, testardo, e perciò coerente, leale. Sia Fuyumi, la ragazza dell'1, sia il suo compagno di distretto, Emerald, erano coperti di polvere dorata, e le loro parti intime erano oscurate da fasce argento. Emilie ringraziò di non avere un costume succinto come quello, o l'esemplare del 6.

La ragazza dell'1 sembrava creare molto scompiglio, e quando un funzionario gridò «Un minuto alla partenza!» non salì sul carro. Ma Emilie non la guardò, poiché Beetee stava dando le ultime indicazioni:«Siate amichevoli rispetto a Capitol City. Mostratevi determinati a vincere, e a farlo utilizzando tutte le armi, compresa la mente. Il pubblico vi adorerà. Se vi venisse voglia di collaborare, meglio.»

Reed arrossì, e anche Emilie si accorse di averlo fatto.«Come due fratelli, ovviamente» chiarì Beetee.

«Dieci secondi!» A quel punto, Emilie sembrò non capirci nulla. Le porte lentamente si stavano aprendo e, qualche attimo dopo, si stavano muovendo. Il carro stava andando avanti.

Era emozionata, impaurita. Il pubblico la metteva a disagio. Anche Reed sembrava essere così, ma forse, se avessero affrontato la prova insieme, ce l'avrebbero fatta.

I giochi stavano iniziando.

 

Eracle Chentaurion

Eracle si sentiva invincibile nel suo costume da “gladiatore romano”, come lo aveva definito la sua stilista, Carles. Dei romani avevano accennato appena nel programma scolastico, ma Eracle conosceva la vastità che i loro territori avevano raggiunto. E si sentiva potente anche per la testa di leone posizionata sul suo capo, e la lancia che stringeva nella mano destra. Un guerriero, che sarebbe tornato vivo dai giochi.

Grace, la sua compagna di distretto, era vestita, come nella maggior parte dei casi, simile a lui, ovvero in stile romano. L'effetto però su di lei era un po' grottesco, a causa della sua minutezza. Quando il carro iniziò a scivolare in avanti, Grace sembrò quasi avere paura del pubblico, di mostrarsi, al contrario di Eracle, che si era eretto in tutta la sua possente figura. Probabilmente sarebbe stato uno dei movimenti in cui avrebbe goduto di più. Avrebbe dimostrato la sua forza a tutti, compreso al padre. Forse lui era fra il pubblico, osservando compiaciuto colui che aveva contribuito a far nascere, ma non crescere. Eracle strinse la presa sulla lancia. Non si doveva arrabbiare in quel momento.

Le grida cominciarono a farsi udire, segno che la sfilata era iniziata. Passarono i tributi dell'1, lui salutando con un sorriso, lei indifferente, a guardare la terra. Rischiava forte, la ragazza, pensò Eracle. Ma dopotutto, non gli importava. Un ostacolo in meno in direzione di casa.

Quando fecero il loro ingresso nel viale che portava al Centro di Addestramento, l'attenzione si spostò interamente sui tributi del distretto 2. Eracle alzò al cielo la sua lancia, per mostrare la sua voglia di vincere e la sua potenza. Grace si limitò a sventolare timidamente una mano.

E allora Eracle lo vide. Zeus Olympica, suo padre, seduto in una delle tribune riservate agli esponenti di Capitol City. Il ragazzo alzò l'altro braccio, e lo piegò così da mostrare i muscoli. L'avversario principale, probabilmente, era lui.

Poco dopo, l'attenzione svanì e si concentrò su dei carri retrostanti. Eracle vide i poetici e leggeri costumi del distretto 4 sullo schermo gigante di fronte a loro, di un azzurro che sfumava verso il bianco della schiuma. Ovviamente, anche loro salutando il pubblico. Eracle fu infastidito dal fatto che gli avessero rubato l'attenzione.

Le tribune esaminarono tutti i tributi con attenzione, scrutando quelli del 5 nelle loro ridicole tute fosforescenti che facevano apparire lei piuttosto contrariata, mentre lui cercava di ingraziarsi il pubblico; quelli dell'8, coperti da quello che sembrava un tappeto, con la ragazza che non sembrava considerare gli spalti, e il ragazzo che salutava cortesemente; il distretto 9, vestiti da cereale (almeno secondo le intenzioni della stilista). La ragazza appariva indifferente, non faceva nulla per aggiudicarsi sponsor, mentre il tributo maschio sembrava fare tutto ciò che il pubblico voleva, mentre alcune persone gridavano il suo nome. Eracle quasi rise quando furono ripresi i costumi da macellaio dei 10, compreso di sangue sintetico e coltello, con i due tributi che cercavano di sorridere, nonostante apparisse totalmente fuori luogo con il travestimento. Tutto si chiuse con i due scocciati minatori del 12. Eracle continuò a salutare, come gli altri, fino all'arrivo nella piazzola dove si teneva il discorso del neo presidente Snow. Eracle lo vide, un ometto dal sorriso subdolo, come il suo predecessore, come quello di suo padre. Un capitolino al cento per cento. Il ragazzo si scoprì ad odiarlo.

«Carissimi cittadini di Panem,» iniziò il presidente, leggendo il discorso su un cartellino,«è una gioia vedervi riuniti a celebrare i cinquecento anni della nostra grande nazione. I distretti sono arterie fondamentali che fanno vivere Capitol City, e noi vi ringraziamo e sosteniamo, vi perdoniamo per i vostri errori del passato. Se questi cinquecento anni sono stati prosperosi, i prossimi saranno ancora migliori. Grazie ai distretti, grazie a Capitol City. Grazie a questa nazione. Panem oggi, Panem domani, Panem per sempre.»

L'inno nazionale accompagnò l'uscita dei tributi. Eracle bolliva di rabbia per il discorso del presidente, pensando che non era sostenimento, non era perdono la lotta a cui si apprestavano.

Ma avrebbero dovuto affrontarla ugualmente.

 

Spazio autrice

Volevo aggiornare entro il 2015? Be', ci sono riuscita. Con risultati penosi. Spero che non abbiate trovato il capitolo male come me, ma temo che ci siano parti totalmente schematiche ed altre in cui non spunta per niente il personaggio. E ovviamente anche parti in cui i personaggi non sono per niente rappresentati bene. Mi scuso terribilmente.
In caso non ve lo ricordiate, o non l'abbia detto, questi sono i distretti dei tributi:
Distretto 9 - Athena Rainway
Distretto 6 - Jeremy Corgan
Distretto 3 - Emilie Levieva
Distretto 2 - Eracle Chentaurion

 

Allora, non l'avevo detto, ma i capitoli saranno narrati attraverso il metodo dei POV. Cercherò di fare i POV di tutti i personaggi, o almeno spero di riuscirci. In questo modo si conoscono meglio i tributi e il risultato è anche meno schematico. Spero che apprezziate.

Buon anno ed alla prossima,

Bolide

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Capitolo 7
*** Di tangibili incubi ***


Capitolo VI

Di tangibili incubi

Myrtle Hopkins

Myrtle si svegliò di soprassalto, ansimando. Aveva fatto un brutto sogno, un incubo, che con il risveglio si era sfumato nei suoi ricordi. Sapeva solo di aver avuto parecchia paura. E che riguardava in qualche modo l'arena.

Gettò un'occhiata all'orologio. Le sei e mezza. Alle sette loro sarebbero dovuti essere in piedi, per iniziare l'addestramento. Avrebbe avuto un po' di tempo per risistemare la stanza, anche se oltre al letto era tutto in ordine, e il suo aspetto.

Cautamente, mise i suoi piedi sul pavimento e si diresse verso lo specchio del bagno. Aveva un aspetto terribile. I suoi capelli ricadevano sciolti sulle spalle ed erano terribilmente disordinati, segno che si era girata molto nel letto. Ancora stava cercando di ristabilire il respiro. Qualche lacrima doveva essere uscita dagli occhi, dato che erano piuttosto gonfi. Bagnò un fazzoletto e lo passò sopra a loro, fino a quando non furono di nuovo di colore normale. Fece una doccia, e dopo si riportò di nuovo davanti allo specchio, e intrecciò i suoi capelli nella sua solita, complicata, pettinatura. Dopodiché, provò un sorriso cordiale per scacciare definitivamente il brutto ricordo.

«Su, Myrtle. Era tutto un sogno» si esortò, quando si accorse che era veramente poco convincente. Riuscì a tirare fuori qualcosa di decente, per poi indossare qualche abito che sarebbe servito solo per la colazione e rifare il letto, per far scomparire ogni segno dell'incubo. Guardò un'altra volta l'ora: dieci alle sette. Si sedette su una poltrona e si lasciò andare allo schienale. Respirò profondamente, e l'incubo ritornò alla mente.

C'era... l'arena. Non se la ricordava precisamente, ma sapeva che era lei. Camminava con cautela, controllando ad ogni passo se c'era qualcosa, fino a pestare qualcosa che sembrava un corpo. Un cadavere.

Abbassava lo sguardo, e vedeva suo padre, Chuck, senza vita, come già era successo una volta nella vita reale. E iniziava a piangere, fino a quando una voce non la chiamava da dietro.«Myrtle.»

Si girava lentamente, e vedeva sua madre, Beth, con una pistola puntata.«Non lo dirai, vero?»

Non rispondeva. Si alzava in piedi, e cominciava a correre più veloce che poteva. Non sapeva per quanto tempo dopo, scorgeva dei pacificatori, e sventolava le braccia per attirare l'attenzione...

Ma una pallottola la colpiva alle spalle.

«No, Myrtle. No, è solo un ricordo» sussurrò a se stessa, con il timore che le lacrime risalissero.

Alla fine, vinse lei. Non pianse.

L'aveva fatto già troppo per i ricordi, per quel ricordo.

 

Morgane Willblues

Era uscita per fare colazione dopo una notte passata a rigirarsi sotto le coperte per il rumore dei tuoni che ogni tanto arrivava da fuori. Era il terrore ad averla tenuta sveglia, non li sopportava. Era corsa in bagno, aveva riempito una bacinella che in realtà serviva per il massaggio ai piedi e l'aveva riempita di acqua, cercando di interpretarne la durata con l'anello che la nonna le aveva regalato. Sarebbe proseguito per tutta la nottata. Morgane aveva accolto la notizia con una certa stizza, era ritornata nella camera e si era seduta sul letto.

E aveva iniziato a immaginare. Cosa stava facendo sua nonna, Cassandra, in quel momento? Forse stava trovando il vincitore di quei giochi, anche lei attraverso l'idromanzia, l'arte di prevedere il futuro osservando l'acqua. Dopotutto, era lei ad averle insegnato il suo mestiere. Se il suo si poteva considerare il mestiere.

Forse Cassandra era nella sua stanza del manicomio, aveva riempito il rubinetto e parlava fra sé e sé, sussurrando le sue nuove scoperte. E poi arrivava un'infermiera che la obbligava a tornare a letto, e a lei la nonna rivolgeva tutte le sue scoperte. Ma quali erano, queste sue scoperte?

Rabbrividì. Morgane amava praticare l'idromanzia, ma rispondere a domande come quella per lei era veramente troppo. Forse temeva che il nome che sarebbe spuntato fuori dalla predizione non sarebbe stato il suo.

E allora aveva cercato di evitare di pensare; si era alzata in piedi e si era diretta nel salotto vuoto, in cui le grida del temporale sembravano riecheggiare di meno.

E lì aveva scorto una figura.

«Anche tu sveglio?» aveva chiesto subito a Lynton, il suo compagno di distretto seduto sul divano che si era voltato all'istante.

Lui aveva fatto una smorfia, si era rimesso con le spalle verso Morgane e aveva dichiarato:«Non penso di essere addormentato.»

Morgane aveva fatto una risatina e si era accomodata accanto a lui sul divano.«Già, suppongo di no.»

«Cosa vuoi, Willblues? Non posso stare solo neanche la notte? Già ho le telecamere di Capitol City che mi sorvegliano l'intera giornata, lasciami in pace almeno adesso» aveva replicato ferocemente.

«Ma avrai bisogno di qualcun' altro per sfogarci. Non credi?» aveva risposto lei, con le gambe incrociate sul divano. Lui l'aveva guardata male.

Alla fine, però, Morgane l'aveva convinto a parlare. Non riusciva a estrapolargli alcune cose, ma avevano avuto una conversazione quasi normale in cui lui, in molti attimi, era sull'orlo del nervoso. E allora lei cambiava argomento, ma Lynton non sembrava apprezzare moltissimo la compagnia. Quasi la voleva allontanare.

Ma a Morgane lui non era sembrato uno dei soliti Favoriti strafottenti, che si credevano invincibili e la giudicavano per la sua parentela con la nonna. Voleva solo verificare ciò che pensava, senza idromanzia, ma parlandogli. Lei non aveva tanti amici, e forse aveva bisogno di una persona per sfogarsi per morire più serena prima di finire nell'arena. Ci stava che fosse così anche per lui.

«E come mai sei sveglio?» aveva chiesto lei, con meno curiosità di quanto servisse.

Lui aveva incrociato le braccia, aveva borbottato un “Non ne voglio parlare” e si era allontanato verso la sua camera, senza neanche salutarla.

E Morgane lo vedeva la mattina dopo, seduto al tavolo, con la sua solita espressione fra il cupo e l'arrabbiato, che mangiava in silenzio, mentre la capitolina a loro assegnata, Leonora Ellers, cinguettava con la giovane mentore, Everna Iller, il cui collega, Overn Sheed, la fissava infastidito.

«Buongiorno» aveva augurato, sedendosi, forse poco sinceramente.

Parte degli altri aveva ricambiato, mentre Overn si era alzato in piedi per parlare.«Bene. Oggi inizia l'addestramento. La prima cosa che dovreste fare è procurarvi degli alleati, spesso dovrebbero essere parte dei Favoriti, ma vi consiglierei di evitarli. Sono subdoli. Vi possono trovare da un momento all'altro. Dovreste trovare qualcuno di leale. Allenarvi con le armi. Cercare di imparare più cose possibile, ovviamente. Cercate di non dare troppo nell'occhio. Se volete proprio farlo, impressionate i Favoriti così tanto da convincerli a non venirvi a cercare.»

Overn si rimise a sedere e iniziò a mangiare di nuovo, sereno. Fu allora che Morgane chiese:«Ma perché parli di noi due al plurale?»

Il mentore mise giù la sua fetta di pane e burro, per poi rispondere:«Perché tu come mentore avresti una sciocca. Allora sono obbligato ad addestrare entrambi. Ah, e per facilitarmi il compito, consideratevi già come alleati.»

 

Emerald Goldspace

Si cambiò velocemente, infilando la tuta che avrebbe dovuto indossare per i tre giorni successivi durante l'addestramento. Dal distretto 1, Emerald Goldspace. Queste parole gli balenavano continuamente in testa, rendendolo fiero di sé. Ogni tanto le faceva seguire da un egocentrico “vincitore degli Hunger Games del 500”, immaginando come sarebbe stata la sua gloriosa vittoria.

Emerald ascoltava con attenzione i consigli del suo mentore, anche se spesso puntualizzava che lui li conosceva bene ed erano banalità, ottenendo qualche sfuriata.

Più che altro, era difficile stare dietro alla sua compagna di distretto, Fuyumi.

Fuyumi era ingestibile. Almeno, quando cercavi di obbligarla a compiere qualcosa che era secondo i tuoi ideali, ma non i suoi. E così, nei momenti in cui la capitolina a loro affidata, Flixia, la pregava di mangiare in modo più degno o di sedere compostamente, lei rispondeva insultando, così come quando la sua mentore provava a farsi ascoltare. Emerald si era già fatto un'opinione negativa di quella ragazza, soprattutto dopo averle parlato per mettersi d'accordo sulla loro alleanza.

«Non ci vengo con voi sbruffoni. Non voglio essere la preferita di Capitol City eseguendo i loro ordini» aveva sussurrato, rabbiosamente, per poi voltarsi e chiudersi nella sua camera. Era il posto dove trascorreva la maggior parte del tempo. Ad Emerald non era importato poi così tanto; avrebbe trovato validi alleati negli altri tributi.

I tre giorni d'addestramento si aprirono con un discorso di Marx, l'istruttore che illustrava le regole. Emerald le conosceva già, e dopotutto non gli importava così tanto. Sapeva che non ci si poteva azzuffare durante quel periodo, d'altronde avrebbe avuto tutta l'arena per sé.

La prima cosa che aveva fatto era dirigersi verso i suoi probabili alleati, separati in vari piccoli gruppi. Il motivo gli sfuggiva. Andò per primo da Eracle, il ragazzo del due.

«Ciao. Piacere di conoscerti, sono Emerald» disse, porgendo la mano, al tributo che era alla postazione delle spade.

Lui annuì, fece il suo stesso gesto e si presentò a sua volta:«Eracle.»

Fece passare un po' di secondi, prima di chiedere:«Senti... dove sono tutti quanti? La mia compagna di distretto si rifiuta di venire con noi, ma non è molto a posto. Spero che non sia così per tutti.»

Il probabile alleato si fermò un attimo, si guardò intorno e proseguì:«Non so... anche la mia compagna di distretto però ha deciso di stare da sola. Dovremmo andare a sentire i tributi del quattro.»

Emerald annuì. La ragazza non sembrava con la testa saldata sulle spalle, ma avrebbe potuto essere allenata dato che pareva sapere già il suo destino, mentre il ragazzo era un volontario, quindi avrebbe potuto essere benissimo un Favorito.

«Vado io» disse Eracle, e si diresse verso il maschio che era alla postazione delle erbe medicinali dove parlottava con la ragazza del 3. Scambiò due parole, e tornò, con un umore che non sembrava dei migliori.

«Cosa ha detto?» domandò subito Emerald.

«Né lui né la sua compagna saranno dei nostri. Evidentemente, dovremmo cercare qualcun altro.» La frase di Eracle sembrava un po' scocciata.

Si misero ad osservare ciò che accadeva. Tutti i tributi si stavano allenando in qualcosa, alcuni con risultati migliori, altri meno.

Un grido di dolore venne dal fondo della sala, dove ci si allenava al corpo a corpo. Un impiegato di Capitol City era accasciato a terra, piegato sulla pancia, nonostante avesse varie precauzioni contro al dolore.

In piedi sopra di lui, ansimando con un sorriso di vittoria, stava il ragazzo del 9.

Emerald rimase colpito:«Chissà cosa gli avrà fatto...»

Eracle, più turbato, rispose:«Già.»

«Dovremmo proporre un'alleanza a lui» obbiettò Emerald.

Il suo alleato, rimase lì, interdetto.«Non so se ci si possa fidare di un tipo come lui. Però...»

«Però?» indagò il tributo dell'1.

«Sì. Va bene. Chiediamoglielo» rispose deciso Eracle, quasi preparandosi al peggio.

 

Aaron Hepburn

Elle era ai coltelli. Aaron non era ancora riuscito a convincerla a perdonarlo, o ad almeno ad avvicinarla per discorre tranquillamente. Elle era sua sorella; se lo ricordava, nonostante non la vedesse da tredici anni, da quando lui aveva solo cinque anni. Ma non era riuscito a scordare i suoi occhi. Forse lei era troppo piccola per rimembrarlo, ma lui le teneva ugualmente moltissimo. Lei non aveva battuto il tempo.

«Elle» la chiamò, arrivato dietro di lei, che stava attendendo per il suo turno.

«Ancora tu» constatò la sorella voltandosi, per riprendere subito la posizione originaria, in modo scocciato.

«Elle!» tentò di nuovo Aaron, senza ottenere nulla. Fu costretto a girarla, per poterle parlare. «Scusami, Elle, però ho bisogno di spiegarti. So che è passato tanto tempo; so che quel che ha fatto papà è sbagliato, ma io non l'ho voluto mai seguire! Credimi, Elle, non avrei mai voluto lasciare te e la mamma da sole.»

Elle stette zitta per un po', evitando i suoi occhi. Stava riflettendo sul dal farsi. Lo spirito ottimistico di Aaron gli suggerì che stava considerando l'idea di unirsi a lui, ed anche positivamente. Ma la sua risposta fu:«La mamma si è suicidata.»

Il solito sorriso di Aaron si spense.«Cosa...»

«È successo tanti anni fa, dopo che pap... che quel coso è scappato via. Non merita neanche che io lo chiami padre. E poi mi dici che ti devo perdonare» disse lei, ritornando alla sua postazione. I suoi bellissimi occhi verdi, che si erano incagliati nel profondo dell'anima di Aaron, erano venati da un tremulo riflesso lucido.

Per un attimo, perse la sua stabilità. Anche sua madre era un vago ricordo nella sua mente, ma era pur sempre la persona che lo aveva messo al mondo e che l'aveva cresciuto per i primi anni della sua vita. E si era uccisa, e lui era rimasto inconsapevole di questo per chissà quanto tempo. Senza poter aiutare sua sorella a superare il momento. Il suo sguardo non era diretto verso nulla, forse era troppo occupato ad osservare la sua reazione.

Non pianse. Rimase zitto. Senza parole. Come se qualcosa lo avesse colpito improvvisamente e fortemente, e provocasse un dolore solo in luogo del suo corpo, ma acutissimo.

Non riuscì a parlare oltre a Elle. Si trascinò per le postazioni tutta la mattina.

Miliardi di pensieri gli correvano per la mente.

In prima linea, su madre. Ma poi, la sua sopravvivenza. Se lui fosse diventato il vincitore, sua sorella sarebbe scomparsa. E si sarebbe trascinato questo peso per tutta la sua vita. Però non voleva morire; nonostante la piega che la sua storia aveva preso. Non sopportava la sua nuova famiglia, se così si poteva definire. Sarebbe sempre voluto tornare al sei, ma non sapeva come fare. Già era un miracolo se una volta era riuscito a oltrepassare un confine, anche se controvoglia.

Aveva viaggiato, nella sua vita. Vedere due distretti e una capitale non era una cosa da poco, senza essere originari di Capitol City. Ma non derivava da questo la sua allegria. Era uno spirito ottimista da sé.

In qualche modo, avrebbe fatto.

Non si sarebbe arreso.

La sua compagnia di distretto, Serena, si avvicinò a lui mentre si trovava in coda per tentare con il tiro con l'arco. «Ciao» lo salutò sorridendo, sventolando una mano allegramente. Lui rispose con la solita parola, il solito gesto, cercando anche il suo ordinario sorriso.

Si morse il labbro per poi continuare:«Stavo pensando...»

«Stavi pensando cosa?» la esortò lui, il cui sorriso si stava cementificando. Quella ragazza era in un certo verso come lui, riusciva a migliorare l'umore delle persone. Era molto dolce, spontanea, e sembrava di non essersi fatta prendere dallo sconcerto tipico dei giochi. Aaron aveva una buona opinione di lei, in fondo.

«Stavo pensando... io e te, potremmo allearci. Siamo compagni di distretto, e, insomma, mi sembra che tu sia una persona... affidabile. Sì, affidabile» concluse, annuendo velocemente.

Il ragazzo ci pensò un po' su. Se c'era qualcosa che poteva ricavare da un'alleanza da lei, era solo di positivo. L'unico problema era che avrebbe potuto affezionarsi troppo a lei. Ma, forse, anche lei condivideva i suoi probabili guai. Era consapevole. Si sarebbe tenuta lontana?

«Sì» disse con slancio.

«Perfetto!» esultò lei, facendo girare verso di lei gran parte dei presenti.«Va tutto bene?»

La postazione si liberò.«È complicato. Comunque, vai pure tu.»

Così fece.

E mentre Serena infilava le frecce nei manichini in punti che sarebbero potuti essere mortali, Aaron cercò un modo per convincere anche sua sorella ad unirsi a loro.

 

Spazio autrice

Allora... sono stata via due settimane, e torno con questa robetta che non sembra niente di che e che, in effetti, lo è. Chiedo perdono. Avevo la mente prosciugata di idee, ma torneranno.

Sto cercando di pianificare le alleanze, un po' inventandole da me, un po' (molto) affidandole ai vostri consigli. Morgane e Lynton mi sembravano una bella coppia. Emerald ed Eracle per ora sono i Favoriti; Andrea ne ha la stoffa. Serena ed Aaron sono compagni di distretto, e vale quanto detto per i ragazzi del 4.

Credo però di essermi prese troppe libertà per il carattere dei personaggi. Sono un disastro. Ufficialmente.

Comunque, mi ero scordata di dire nello scorso capitolo: la storia è arrivata alle cinquanta recensioni! So che non v'importa, ma vi volevo ringraziare per la vostra pazienza nel seguirmi e recensirmi. E anche chi legge silenziosamente. Spero costantemente di non deludervi.

Detto questo, alla prossima,

Bolide

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Capitolo 8
*** Fidarsi o non fidarsi ***


Capitolo VII

Fidarsi o non fidarsi

Astrid Wright

Secondo giorno di addestramento. Astrid aveva trascorso il primo alla postazione delle trappole, a lavorare abilmente con le sue dita per scoprire come catturare prede per la caccia. Quando aveva pensato per la prima volta di utilizzarle, di togliere personalmente la vita a degli animali innocenti, inizialmente il suo cuore si era impaurito. Ma dopo aveva realizzato che era fondamentale per la sua sopravvivenza, e che, in qualche modo, la carne che lei a volte mangiava era raccolta da qualcuno. E che, dopotutto, uccidere innocenti non era ciò che Capitol City faceva con loro? Leggermente insicura, si era rassegnata. I suoi risultati erano abbastanza buoni, costruiti con materiali di emergenza che si sarebbero potuti ritrovare facilmente nell'arena.

In più, aveva conosciuto una persona: Eaves, del distretto 10. Le era sembrata una persona buona e leale, con cui valeva la pena di stringere un'alleanza, e così aveva pianificato. Con una punta di introversione, si era aperto e le aveva confidato la sua storia. Lei aveva ascoltato in silenzio, compatendo quel ragazzo nato con quella maledizione fisica. Non aveva fatto assolutamente niente di male, e vederlo essere colpito da occhiate schifate o raccapricciate di alcune persone le aveva donato un'infinita tristezza. Non era colpa sua. Non era colpa sua neanche se in quel momento si trovava lì.

Erano ancora lì, nella postazione delle trappole. Eaves parlava, Astrid rispondeva con cenni del capo o sguardi che lui interpretava alla perfezione. Quasi non apriva bocca, non era abituata né tanto meno riusciva a farlo con naturalezza. Ed Eaves sembrava capirla benissimo. Era una sensazione che aveva avuto con pochissime persone, come Reed, o Connor, la ragazza che abitava con loro al 3 insieme a Edward. Non vedeva Connor da tanto tempo, ma in fondo sperava che stesse bene. Anche se, affidati alle cure di una persona come Ivan, ci si poteva contare poco.

Quella mattina, a un tratto, i suoi occhi avevano incontrato quelli di Reed. Lui le aveva sorriso, lei, come alla sfilata, aveva ritratto lo sguardo in fretta. Prima o poi lo avrebbe dovuto affrontare, eppure non ce la faceva. Aveva paura di ciò che avrebbe potuto dire, e il fatto che lui si trovasse lì con lei, non era totalmente un caso. Le possibilità che in mezzo ci fosse stato Ivan erano altissime. Però, Eaves lo aveva notato.

«Che c'è?» chiese. Si era voltato in tempo per vedere Reed abbassare a sua volta gli occhi, imbarazzato, e poi continuò:«Quel Reed, il ragazzo del tre... mi sembra una persona affidabile. Che ne dici di invitarlo a venire con loro?»

Lo guardò negli occhi. Era molto perspicace, o forse aveva imparato perfettamente a conoscerla anche se aveva passato poco tempo con lui. Aveva paura di riavvicinarsi a Reed, ma anche una tremenda voglia di vederlo. Voleva ragionare, ma prima di accorgersene rispose piano:«Ok.»

Perché l'aveva fatto! Si era lasciata spingere dai sentimenti? Come aveva potuto? Era furiosa con se stessa, furore che si tradusse in un lieve rossore sulle sue guance. Prima di correggersi, però, Eaves era già andato da Reed sorridente. Rimase lì, le dita impossibilitate a muoversi, ad osservare la scena impietrita. E lo fu ancora di più quando vide Reed venire verso di lei accanto al ragazzo del 10.

«Ciao» disse Reed sedendosi accanto a lei. “Ciao”. Una parola, una marea di ricordi che le scorrevano nella mente. Tante parole da dire, senza sapere da dove iniziare. La sua reazione, però, fu un secco silenzio. Il rossore si fece un poco più evidente, mentre ritornò a testa bassa a lavorare.

Passò il resto della mattina, lì con loro. Astrid mantenne la bocca chiusa, alzando ogni tanto lo sguardo per farlo atterrare subito. Non potevano parlare, con Eaves intorno. Non potevano rivelare la loro storia, anche se il ragazzo del dieci avrebbe capito. Era tutto così personale...

Non potevano parlare neanche da soli. O meglio, Astrid non sarebbe riuscita. Sarebbe stata così spaventata, così in confusione, così travolta dalle emozioni che non avrebbe capito nulla. E vedeva che Reed aveva tanta voglia di parlarle, di spiegarle come stava, di chiederle come stava; ma entrambe le bocche erano incapaci di ricordare il passato. Era così doloroso; e per Reed forse continuava ad essere il presente.

«Voi siete alleati?» chiese a un punto Reed. Non lo aveva visto trascorrere molto tempo con la compagna di distretto, e questo le fece pensare che era rimasto solo. Lo sconforto si era impossessato di Astrid. No, Reed solo non sarebbe stata per nulla una bella cosa. Avrebbe avuto meno possibilità di sopravvivere. E lei, in fondo, voleva che Reed vivesse.

«Sì... perché?» continuò Eaves. La richiesta sembrava ovvia, ma il ragazzo aveva solo avuto la saggezza di farla fare a Reed. Sarebbe stato meno... invasivo. E, dopotutto, era il tributo del tre che aveva bisogno di qualcuno con cui stare.

«Potrei allearmi con voi?» chiese con slancio Reed, alternando lo sguardo lentamente fra i due ragazzi. Sembrava fosse l'unica cosa che in quel momento desiderasse.

«Be', per me va benissimo, non so per Astrid... tu che ne dici?» chiese Eaves, guardandola.

Gli sguardi erano puntati su di lei.

No. No. No. Non ti ci provare.

Il silenzio si stava protraendo. E tutto era dovuto a lei.

Astrid! È contro di te!

Stava per rispondere. Avrebbe negato. L'avrebbe fatto.

Reed. Solo.

Senza accorgersene, annuì.

 

Lynton Hamilton

Non gli piaceva l'aria del Centro di Addestramento. Tutta la gente che si preparava a combattere, ad uccidere. Ad uccidere lui, forse. Era uno dei cosiddetti “Favoriti mancati”, e sembrava che non fosse l'unico, insieme a Morgane, in quella edizione. Anche le ragazze del distretto 1 e del 2 si allenavano singolarmente, mostrando delle abilità, ma non avvicinandosi a quei due poveri (per dire) ragazzi che erano rimasti soli.

Però, un nuovo acquisto sembravano averlo fatto: il ragazzo del 9. Aveva visto che una volta si erano avvicinati a lui, il quale aveva risposto sorridendo a qualunque fosse la loro domanda. Anche se non era difficile da immaginare che si trattasse di un'alleanza. Le sue abilità, le aveva mostrate egregiamente. E quando i tre Favoriti camminavano in branco da una postazione all'altra per accordarsi sulle loro strategie, nonostante provenisse da un distretto remoto e per questo non sarebbe dovuto essere allenato, Andrea era colui che incuteva più timore. C'era qualcosa di così gelido nel suo sguardo, ma anche di così crudele, che faceva venire i brividi. Perciò Lynton evitava di guardarlo. E se l'avesse fatto, avrebbe cercato il più possibile di non apparire minimamente impaurito.

L'alleanza che il suo mentore aveva automaticamente pianificato con la sua compagna di distretto, Morgane, non lo faceva esultare di gioia. La conosceva di fama, e gli era sempre sembrata un'esibizionista. Il fatto che lei si comportasse in modo gentile con lui non lo rassicurava affatto; poteva essere un buonissimo metodo per indurlo a fidarsi di lei per poterlo ferire con più facilità. E non solo dal punto di vista fisico. Solo che Lynton era circondato da una corazza di durezza, che cercava di temprare il più possibile. Pochi avevano il potere di oltrepassarla, solo se la loro sincerità traspariva dagli occhi senza venature di oscurità. Solo se la fiducia non veniva riposta nelle mani sbagliate.

Con questi ragionamenti, la sua mente ricorreva a Meredith. Meredith Arrington, la sua amica d'infanzia, probabilmente la sua unica amica. In quel periodo, sicuramente. Da quando sua madre era scomparsa, da quando lei aveva ceduto alla sua depressione, non riusciva più a socializzare come prima. Forse perché lei gli aveva promesso che ce l'avrebbe fatta, forse perché il padre aveva iniziato a bere, forse perché Lynton non aveva potuto fare nulla per impedirlo; era sprofondato nella immane tristezza di quel ricordo e aveva tagliato i contatti con la gente.

Solo che il suo rapporto con Meredith non era rimasto lo stesso. Aveva tentato di allontanarla, ma lei era rimasta. Lynton lo apprezzava, nel fondo della sua anima, ma la loro amicizia era come forzata. Differente da prima.

Comunque, Morgane sembrava avere delle doti. Lei stessa gli aveva rivelato che si era allenata, dopo un'ottima performance con la lancia, e lui era diventato ancora meno fiducioso. Sapeva usare le armi, avrebbe saputo come ucciderlo. Ma non si era mostrato impaurito.

Il primo giorno di addestramento aveva iniziato a parlare con Emilie, la ragazza del tre. Gli aveva fatto una buona impressione, anche se lui non l'aveva rivelato apertamente. Era rimasto particolarmente colpito da lei, in un momento in cui erano separati, si era sentito tamponare un piede da un piccolo affare da cui sporgevano vari fili.«Scusa» aveva detto la ragazza, venendo incontro a lui,«è una specie di piccola macchina alimentata ad acqua. Potrebbe avere la sua utilità, nell'arena.»

Lui aveva annuito, per poi continuare, freddo:«Potresti ingrandirla e utilizzarla per investire gli altri tributi.»

Lei aveva riso, prendendo il congegno:«Potrebbe essere un'idea. Grazie per il suggerimento.»

Ora era l'ora di pranzo, e Lynton era seduto accanto a Morgane, servendosi silenziosamente di quei cibi deliziosi che non aveva mai visto e forse non avrebbe visto mai più. Lei ciarlava liberamente su quel che aveva predetto quella notte grazie all'idromanzia, e anche su quanto fosse irritante la gente del distretto che l'aveva indotta ad avere un carattere scortese verso di loro; a Lynton veniva voglia di gridarle di zittirsi, ma smise di ascoltarla in tempo.

Poi, arrivò Emilie.

«Posso sedervi accanto a voi?» chiese cordialmente, con una risposta affermativa da parte dell'altra ragazza.

La compagna di distretto di Lynton si presentò, porgendo una mano:«Morgane.» L'altra fece altrettanto, dicendo:«Emilie.» Poi ripresero a mangiare.

«Allora, Emilie... come ti vanno le cose?» domandò a un punto Morgane, ficcandosi una grande cucchiaiata di minestra in bocca.

«Oh, bene. Sto facendo molte scoperte interessanti» cominciò Emilie una lunga conversazione con la ragazza del 4. Conversazione che si protrasse per tutto il pomeriggio, ascoltata da Lynton che cercava di immagazzinare gran parte delle nuove utili informazioni che le due potevano dare.

Morgane sembrava molto compiaciuta dall'altro tributo.

Non fu difficile per lui credere che a fine giornata si fosse già trasformata in una loro alleata.

 

Savannah Sparks

Alla postazione del machete la fila non era chilometrica, anzi; era quasi inesistente. Savannah si divertiva a squartare i manichini, ma non per crudeltà; era un'ottima rievocazione del passato. Di quando aveva trovato un'arma simile in casa di Near, a soli sette anni, e così aveva imparato a maneggiarlo. Near era un pacificatore, perciò non era difficile credere che possedesse oggetti simili; ma lo era molto credere che lei avesse imparato da lui. Il suo rapporto con i Pacificatori non era dei migliori, nonostante si vedessero spesso. Ovvero, ogni volta che Savannah combinava una delle sue innocenti marachelle che facevano attivare subitogli agenti. E scattare i rimproveri della sua ricca famiglia, di sua madre che le ricordava costantemente che si sarebbe dovuta comportare da persona educata come le era stato insegnato. Sua madre era l'unica che aveva contribuito alla sua educazione. Il padre era sempre a lavorare, e questo aveva reso più possibile il pessimo rapporto che Savannah provava nei loro confronti. E di farla trovare sempre più spesso accanto alla recinzione, o fuori da quella.

Le piaceva, in fondo, essere la pecora nera. O, come la definivano, la strega cattiva vestita da Biancaneve. Un soprannome perfetto, e tutto ciò che voleva essere.

Mihael, il suo compagno di distretto, la stava osservando facendo la fila dove veniva tirato l'arco, dietro la ragazzina del due. Avevano optato per allearsi, essendo convinti che fosse la scelta migliore per entrambi; non avrebbero dovuto faticare molto per trovare altre persone e commettere accordi macchinosi. In più, Savannah provava stima per quel ragazzo da quando lui aveva gridato le sue idee anticapitoline alla loro accompagnatrice. Non sapeva se Mihael facesse lo stesso, tale era la sua freddezza. Non parlavano troppo spesso, né Savannah era intenzionata a conversare tanto. Temeva di affezionarsi, e in quel caso sarebbe stato un disastro, perché non aveva idea di come lasciare andare una persona. Era quasi sempre stata sola, disprezzando chi fosse intorno a lei, e non aveva imparato a dimenticare un affetto. E ora, era la cosa più inadatta.

Era sempre isolata, volteggiando da un manichino all'altro con movimenti leggiadri ma letali. Sapeva che forse avrebbe attratto l'attenzione di qualcuno, ma tutto ciò che desiderava era allenarsi. E sfogarsi. E ricordare. E tornare a casa, ricevere così tanti soldi da potersi trasferire in un appartamento dove non si trovava la sua famiglia ed essere finalmente libera da sua madre. Compiere tutto ciò che voleva, sbrigandosela senza i suoi genitori in mezzo con i Pacificatori che non l'avrebbero più considerata per la sua potenza.

Si accorse che qualcuno la stava osservando, qualcuno che voleva attirare la sua attenzione con un colpo di tosse.«Ammirabile, dodici.»

Savannah si voltò, vedendo Emerald, il ragazzo del distretto 1. Il Favorito, che le aveva dato l'impressione di un pavone. Non c'era da non crederci, data la provenienza.«Grazie. Non c'è bisogno che tu me lo dica.» rispose lei, fermandosi, ridacchiando.

Subito lui tese la mano e disse:«Dammi il machete.»

«Uh, che cattivo. Pensavo che nell'1 oltre ad avere schiavi a pulirvi il culo vi insegnassero l'educazione» rispose Savannah, stringendo più forte la sua arma. Non le era piaciuta, come mossa. Voleva imporre la sua forza su di lei, spaventandola? Esilarante. Non era così semplice.

«Capisco. Sei una dura. Dovresti unirti a noi, sai. Te la caveresti bene» continuò lui, senza abbassare la mano.

Savannah ci rifletté un attimo. Lei con i Favoriti? Non ci si vedeva. Li considerava un branco di idioti adatti solo a macellare la carne, ma un'alleanza con loro non era da trascurare. Avrebbe comportato sicuri sponsor, comodità fino al punto in cui non si fossero separati e protezione da ogni pericolo. Ne valeva la pena? Aveva già fatto un accordo con Mihael, dopotutto. E non era sicura che lui avesse accettato, minimamente. Non sarebbe stato giusto, dopotutto, rifiutare. Però, i Favoriti...

Ora la mano si era trasformata. Era una mano pronta ad accoglierla un'altra, a suggellare un patto. Savannah la fissò intensamente, pensando. Se fosse solo un trucco per ucciderla con più semplicità? Ma perché proprio lei? Se la cavava con un'arma, ma non comportava nulla.

Mihael la stava guardando, con un sguardo che cercava di decifrare come mai lei stesse parlando con un Favorito.

Non sapeva. Non era una scelta semplice. Non capiva neanche perché.

«Ci penso. Poi preciserò. Intanto, tieni il machete. E mi raccomando di non ferirti con la lama, visto che non c'è mammina a farlo, per una volta» disse lei, porgendogli l'arma. Lei era ricca, ma lui aveva sicuramente vissuto una vita estremamente più agiata della sua. E senza ribellarsi, forse per assenza di personalità. Il fatto che lui fosse lì, lo provava.

Emerald prese il machete con un momento carico di odio verso le parole della ragazza, senza replicare. Ma, andandosene, si ricordò di una cosa.

«Ehi! Se vi rispondessi di sì, fareste entrare anche il mio compagno di distretto?»

Non sarebbe stato leale lasciarlo da solo. Aveva promesso di allearsi.

Emerald sembrerò non volerci pensare.«Vedremo.»

Cosa significava? Era un sicuro no?

Aveva un'altra domanda, più urgente, a cui rispondere.

 

Julian Winnoth

Julian si guardò intorno. Per lui, quel periodo di addestramento non era così importante, dato che un'idea di come usare le armi ce l'aveva. E anche di come trattare i tributi, vedendo come si erano comportati alle sfilate e alla Mietitura. Doveva trovare un alleato, qualcuno con qualche potenzialità come lui. Erano gli Hunger Games, non un'occasione per mostrarsi qualcuno con il cuore d'oro. Dopotutto, non lo era. Voleva sopravvivere per sua madre, che lo stava aspettando a casa. Che stava aspettando una vita migliore.

Se c'era una cosa che non desiderava fare, era unirsi ai Favoriti. Quel gruppo di strafottenti ragazzi allenati fin dalla nascita per offrirsi volontari e migliorare una vita che non aveva nulla da migliorare. Julian aveva assaporato la povertà e la disperazione, e questo l'aveva indotto ad odiare chi decideva di partecipare ai giochi per qualcosa come la gloria. La gloria non poteva valere la vita, di ciò era certo.

Piccoli gruppi sembravano già essersi formati, ma nessuno attirava la sua attenzione. Se qualcuno l'avesse fatto, avrebbe utilizzato le sue sfaccettature più adatte, e a quel punto sarebbe stato impossibile dire di no.

E forse, avrebbe anche dimostrato le sue capacità al probabile alleato. Non voleva farlo platealmente, giusto per non ricevere richieste da parte dei Favoriti. Un rifiuto, sarebbe diventato una stizza e un odio tremendo da parte loro. Julian voleva semplicemente odiare in silenzio.

Era alla postazione dove venivano riportate le piante commestibili e medicinali. Julian pensava di poter ottenere sponsor, e quindi gli sarebbe potuto sembrare anche futile, ma per un primo soccorso era importante. Poi, non aveva comunque molto da imparare con le armi. Lavorando nel Giro, si era fatto una buona cultura.

Il Giro era l'associazione di cui Julian faceva parte, la quale non era troppo legale: si occupava di traffico di fucili, di pistole ed altre simili armi letali. Essendo un distributore di queste, Julian doveva saper utilizzare la sua merce, solo se si fosse dovuto difendere. Altrimenti, sarebbe stato gettato fuori. E questo, Julian non lo voleva. Aveva una madre da mantenere, che Julian non desiderava assolutamente vedere soffrire, che aveva fatto di tutto per lui, ma le pressioni che lei aveva ricevuto erano altissime. Anche alla fabbrica. La gente la guardava in modo storto solo perché lei aveva avuto una relazione con il sindaco, da cui era nato anche un figlio. Quel figlio era Julian, cresciuto senza padre, cresciuto nella povertà, nella durezza. Non gli piaceva tutto ciò che le malelingue ammettevano su sua madre. Non sapevano cosa avessero passato.

Gli Strateghi lo stavano osservando. Julian decise di rivolgergli un sorriso, per cercare di conquistare la loro simpatia. Alcuni erano dubbiosi, forse si chiedevano come mai un ragazzo con un fisico del genere dovesse impiegare il suo tempo a quella postazione. Lui sapeva benissimo perché. Gli avrebbe mostrato le sue capacità alla Sessione Privata, di questo ne era certo.

Alla postazione arrivò un'altra persona: era il ragazzo del distretto 8. Secondo Julian, la sua aria era esageratamente altezzosa; in più non lo vedeva esattamente come qualcuno che avesse una gran percentuale di possibilità. Perciò decise di chinare di nuovo la testa e continuare a studiare e memorizzare le piante.

Però, fu l'altro a cercare di iniziare un discorso.«Argomento molto interessante, la qualità delle piante. Fondamentale per la sopravvivenza. Mi stupisce la presenza di così poca gente a questo stand.»

Julian lo fissò per un attimo. Quale lato del carattere utilizzare con lui? Il ragazzo non avrebbe avuto motivo per parlargli, forse voleva proporre un'alleanza, forse voleva solo parlare, oppure... fregarlo. Il suo tono saccente non lo convinceva minimamente.

Probabilmente sarebbe stato meglio adottare il carattere di Kristof. Kristof era uno dei suoi personaggi, quello che utilizzava con la clientela che si credeva più furba di lui. Julian non avrebbe trovato motivo per non sfoderarlo.

«Probabilmente, credono che è meglio utilizzare il corpo che la mente. Penso sia parte importante, ma le misure sono pari» rispose lui, con tono presuntuoso. Non che avesse voglia di intrattenere la conversazione. Ma stare zitto non sarebbe stato meglio.

«Vero. Finalmente qualcuno che la pensa come me» disse l'altro, sorridendo.

C'era qualcosa, dietro alla sua gentilezza? Per Julian, un secondo fine c'era. E continuava a non fidarsi. Anche lui sorridendo, replicò:«Almeno sarò più sicuro di sopravvivere», per chinare di nuovo la testa sul libro.

Forse trovare un alleato di cui si sarebbe potuto fidare non sarebbe stato così semplice.

 

Spazio autrice

OK, OK, per colpa della mia stupidissima ed orrida memoria ho dovuto scrivere il capitolo in velocità perché volevo dare un avviso importante che mi sono dimenticata di inserire nello scorso spazio autrice: dal 24/01 al 31/01 sarò in crociera, senza computer e, soprattutto, senza Internet. Quindi, senza neanche EFP. Non potrò rispondere alle recensioni, né tanto meno pubblicare nuovi capitoli almeno per una settimana (che saranno di più, dovrò anche scrivere qualcosa). Ci tenevo a dirlo; so che a voi non importa tanto, ma non sarei voluta risultare dissipata nel nulla. Perciò, giusto questo.

Sul capitolo: spero di non aver fatto troppa confusione. Avevo qualche idea, ma quando ho raggiunto il POV di Julian ho capito che non avevo idea di che cosa scrivere. E mi sarebbe dispiaciuto non farlo, perché doveva apparire nello scorso capitolo con la compagna di distretto (Myrtle), ma il POV sarebbe venuto troppo lungo. Quindi ho raccontato un po' della sua storia, e ci ho inserito Nathaniel solo perché mi sarebbe dispiaciuto lasciarlo solo. Ma, francamente, non c'entra nulla.

Credo di aver incentrato il capitolo troppo sulle alleanze e troppo poco sui tributi. E quel che mi scoccia particolarmente è di aver inserito qualcuno in più di un capitolo, mi spiacerebbe lasciare qualcuno da parte. Per ora non è apparsa parecchia gente, e spero proprio che nel prossimo capitolo non mi dimentichi gente che praticamente non è stata considerata oltre la mietitura (c'è una bella lista). Se qualcuno risulta protagonista in qualche modo della storia, giuro che non era mia intenzione.

Ovviamente, spero di non essere andata troppo OOC. In alcune alleanze ho fatto un po' da me, ma cercherò di seguire le vostre indicazioni al meglio possibile. E magari lasciare anche qualcuno fuori. Gli Hunger Games totalmente in gruppo non hanno molto senso.

Detto questo, volevo ricordarvi che oggi mancano 300 giorni a Mockingjay Part 2. Devo iniziare ad accumulare i fazzoletti.

Vi lascio,

la disastratissima Bolide

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Capitolo 9
*** Stringendo i pugni ***


Capitolo VIII

Stringendo i pugni

Mihael Stivens

«Non credo sia la scelta giusta. Non mi fido dei Favoriti, e ho paura di loro. Non me la cavo neanche bene con le armi, credo di essere d'intralcio. Io direi di rifiutare» spiegò Mihael, seduto al tavolo durante la prima colazione, con voce più distaccata di quanto non fosse veramente. La proposta non lo attraeva, e più che altro disprezzava troppo i Favoriti per poter essere uno di loro. Sarebbe voluto sopravvivere, ma evitando i Favoriti sarebbe stato molto più semplice che essendone uno.

«Forse hai ragione. E poi, lasciandoli in tre potrebbero essere più in crisi di quanto si possa immaginare. Sarebbe anche un vantaggio per noi» osservò la sua compagna di distretto, Savannah. Avevano stretto alleanza, ma ancora non aveva un'opinione precisa su di lei. Comunque, gli sembrava una persona leale, su cui si poteva contare, ed anche abbastanza intelligente.

La loro mentore, Iller Rosan, annuì cupamente.«Be', per me avete fatto la giusta scelta. Cavolo, quei tizi sono dei grandissimi tritacarne, bisogna essere disperati per andare con loro pensando che non vi tocchino. Ora però andate.»

Mihael si alzò, e si diresse velocemente verso la stanza per infilarsi la tuta. Era il terzo giorno di addestramento, e nel pomeriggio avrebbero avuto la prova con gli Strateghi. Quella mattina sarebbe stata la puntualizzazione di tutto ciò che aveva imparato, l'ultimo allenamento, il consolidamento prima di apparire davanti a loro. Era abbastanza teso, ma cercava comunque di non darlo a vedere. Covava i suoi sentimenti all'interno, per non mostrarsi troppo debole. E, appunto, non lo sembrava.

In qualche minuto era pronto, e stava scivolando verso il piano in cui si trovava la palestra. Savannah era accanto a lui, aveva appena aperto la bocca per dire:«La cosa peggiore sarà comunicarglielo.» Mihael approvò con un cenno della testa, e si ritrovò alla sua destinazione prima di fare altro. I Favoriti erano riuniti sul fondo della stanza, a borbottare, e spostarono immediatamente lo sguardo su di loro al loro ingresso.

«Ascolta... forse è meglio che vada io. Non sminuirti, ma credo di poter tenere testa a quegli imbecilli meglio» disse la sua compagna di distretto, per ricevere una risposta affermativa da parte del ragazzo. Mihael temeva di aggiungere qualcosa di troppo, qualcosa che sarebbe stato abbastanza per scatenare una prematura rissa che avrebbe coinvolto loro. I Favoriti non era gente semplice da trattare, erano i più forti, ti potevano rigirare in qualsiasi modo loro desiderassero. L'astuzia e l'abilità con le parole di Savannah potevano salvare entrambi.

Mihael rimase solo, attendendo il ritorno della compagna. Si accorse che la sentenza degli altri tributi in quel momento lo preoccupava moltissimo, perché avrebbe potuto determinare la sua sopravvivenza. E non voleva sparire, sua madre e le sue sorelle avevano bisogno di lui; era il sostentamento maggiore della sua famiglia, da quando aveva iniziato a lavorare in miniera. Suo padre era scomparso dieci anni prima, e lui era l'unico uomo.

E forse, anche lui sarebbe scomparso. Si era offerto volontario per Jace, il suo unico e migliore amico, e non si sarebbe perdonato se non l'avesse fatto. La sua impulsività aveva vinto, ed eccolo lì. A lottare per la sopravvivenza. A fronteggiare i Favoriti.

Una persona si avvicinò a lui. Era Julian, il ragazzo del 5, qualcuno che gli sembrava fosse rimasto solo. Senza parlare con nessuno, almeno per quanto aveva notato. Il perché, era immerso nella nebbia.«La tua amica è andata dai Favoriti. Posso chiederti perché?»

Gli sembrò piuttosto curioso, ma non invadente. Aveva bisogno di raccogliere informazioni sui tributi circostanti. Ora, la nebbia stava iniziando a scomporsi. Gli rispose con calma:«Ci avevano proposto un'alleanza, ma la stiamo rifiutando.»

Julian sorrise:«Già. Probabilmente lo avrei fatto anche io. Siete insieme?»

«Sì.»

«Le iscrizioni per nuovi alleati sono sempre aperte?»

Stretto fra i suoi gomiti, Mihael squadrò la faccia di Julian. Come sarebbe stato come alleato? Mihael aveva girato molte postazioni di armi, e non gli sembrava di averlo mai scorto. Chiunque dovesse andare ai giochi ma non si fosse minimamente alleato con le armi, o era uno stupido od aveva un passato e una certa conoscenza. Sarebbe stato valido? O si sarebbe comportato come i Favoriti?

Non sapeva. Savannah in quel momento stava tornando, e si accostò a loro, iniziando a parlare con Julian dicendo:«Toh, guarda chi abbiamo qui. Cosa ci fai, Winnoth?»

Il ragazzo si voltò verso di lei, e spiegò, gonfiando il petto:«Sto proponendo un'alleanza. Non è da tutti rifiutare una richiesta dei Favoriti, ed anche pericoloso. Vi daranno la caccia. Io ho cercato di evitarli, ma penso che in tre si possa fare meglio che in uno.»

«Tu che ne dici?» chiese Savannah a Mihael. In effetti, il discorso non era errato. Ma ne sarebbe valsa la pena?

Sarebbe stato troppo azzardato, loro due soli. Avrebbero dovuto pareggiare i conti. Prima di accorgersene, Mihael disse:«Io penso che possa aiutarci.»

Savannah sorrise, prima di dire:«E allora benvenuto nel club degli Individualisti.»

 

Who Powell

Scagliava un coltello nel manichino e lo guardava con soddisfazione piantarsi nel suo cuore. Almeno, riguardo alle armi non avrebbe avuto troppi problemi. Non era una persona particolarmente sadica, ma le piaceva quando i suoi obbiettivi venivano portati a fondi, come quello di imparare ad utilizzare qualcosa che la avrebbe potuta proteggere.

Non era mai stata nessuno. Nessun,o come il numero delle persone che probabilmente tenevano a lei, tranne qualche rara eccezioni; nessuno, come il valore che la sua vita sembrava avere, inutile, vuota, monotona. Nessuno, come per suo padre quando sua madre Teresa, a soli sedici anni, accennava della figlia che stava per avere. “Chi?” chiedeva Khole, colui che sarebbe dovuto essere suo papà, e, per ripicca, Chi il nome era rimasto. A Who piaceva pensare a ciò che sua madre aveva avuto la forza di fare, anche se in un certo modo aveva conseguenze sulla sua vita. Meglio di qualcosa di normale, ma senza alcun significato. Era stata una mossa intelligente, e lei l'apprezzava. Forse, trovandosi nella sua situazione, avrebbe compiuto lo stesso. Ma nella sua situazione, lei non ci sarebbe mai trovata; era troppo fredda, troppo sola.

Ma ora era qualcuno. Ora era un tributo. E doveva lottare per rendersi vincitrice.

Una sirena segnò la fine del suo allenamento e, senza mostrare apparenti emozioni, riconobbe che era finito il suo turno e, come tutti, avrebbe dovuto lasciare lo spazio. Pace. Sarebbe tornata.

Si concesse un attimo di pausa guardando l'avversario seguente, ovvero la ragazza del 6. A quanto le pareva, lei era una delle poche persone che non aveva trovato un compagno. L'aveva notata parlare qualche volta con il maschio dell'11, ma non sembrava che fossero giunti ad alcuna conclusione fruttuosa. Lei gli urlava contro, o gli rivolgeva parole arrabbiate (almeno, sembrava), lui ritornava al suo posto afflitto. Era comprensibile. Avevano lo stesso cognome; e Who sapeva che, nonostante fosse illegale, molte persone si spostavano da un distretto all'altro, soprattutto dai più ricchi ai più poveri in cui i soldi acquistavano un maggiore valore. Aveva dedotto che erano fratelli, o cugini, comunque parenti.

Una visita inaspettata la travolse, in quel momento: era Eracle, il ragazzo del distretto 2. Era divertente l'idea che i Favoriti fossero solamente tre, quell'anno; quando spesso si trattava di grandi gruppi. Nella disperazione che forse loro potevano avere, Who ci trovava un po' di ironia. Aspettò con calma che si avvicinasse, per farlo iniziare a parlare:«Ciao.»

«Ciao» rispose gentilmente ma distaccatamente lei, continuando ad attendere, a braccia incrociate. Non era esattamente una persona troppo loquace, o con una fantastica voglia di parlare. Se la conversazione fosse stata per motivi non strettamente legati ai cosiddetti affari, non era decisamente interessata.

Eracle si appoggiò a un muro lì accanto, attirando lo sguardo di Who ed anche la sua attenzione. Sembrava si fosse appostato per un discorso che sarebbe potuto essere lungo, e perciò voltarsi verso di lui come aveva appena fatto sarebbe potuta essere la mossa migliore.«Senti,» iniziò il ragazzo del due,«io e gli altri saremmo interessati a stringere un'alleanza con te. Sembri una persona abbastanza valida, ed abbiamo notato che sei sola. È un' offerta che dovresti considerare seriamente, davvero. E considerare dal fattore positivo.»

Who annuì, velocemente, testimoniando di aver compreso. Fin dal momento in cui il tributo si era presentato, la sua mente aveva valutato la possibilità che i Favoriti le chiedessero di allearsi con loro, ma senza crederci troppo. Sarebbe stata un'idea troppo incredibile ed improbabile; nel contempo anche banale da quando Eracle si era avvicinato alla ragazza. Però, di ciò che lui aveva esposto neanche una parola era errata. L'occasione che avrebbe potuto salvarla dalla morte, e in più una delle poche alleanze non sentimentalmente coinvolgente ma oggettiva e fredda. Interessata. Come lei in quel momento.

Era sola. Alleandosi avrebbe avuto decisamente più possibilità di sopravvivere.

Rifiutare non sarebbe stata intelligente, una sua caratteristica che di solito prevaleva.

Però, essere prudenti era la tattica che aveva adottato per una vita, e che lasciare in quel momento sarebbe stato estremamente sbagliato.

«In che genere di alleanza consisterebbe, precisamente? Sapete perfettamente che non raggiungo i vostri livelli in fatto di armi» si spiegò, incrociando le braccia. Eracle tentennò un poco, prima di illustrare:«La nostra idea è che dovresti controllare le nostre provviste e proteggerle quando non ci siamo. E darci un aiuto su come ricavare medicine o cibo da ciò che ci circonda. Anche se è molto probabile avere degli sponsor, è sempre utile. E per te, sarebbe più semplice. Più che altro, le provviste. Abbiamo intenzione di prendere molta roba alla Cornucopia, e non ce la possiamo portare sempre dietro.»

Il compito sembrava abbastanza semplice. E che andasse a favore suo maggiormente di quanto potesse favorire il resto del gruppo.

Aveva già capito la ragione. Ed ora aveva stabilizzato le sue ipotesi.

Accettò, perfettamente consapevole del ristretto numero che quell'anno erano.

 

Milton Marvin

Stava intagliando un pezzo di legno, rendendolo una deliziosa statuetta con la forma di una danzatrice nel vivo del suo ballo. Non era molto pertinente a ciò che intorno accadeva, ma il suo terrore delle lame fin troppo taglienti e un'irrecuperabile prova con l'arco lo rendeva impossibilitato dall'allenarsi con le armi. E dopo il primo giorno passato a dimostrare la sua bravura a produrre fuochi, la seconda mattina sui libri a studiare rigorosamente quale frutto sarebbe potuto essere commestibile (ripeteva di tanto in tanto anche in quella occasione i nomi, chiudendo gli occhi e rimembrandoli) e il pomeriggio a realizzare oggetti nello stesso materiale ma con qualche utilità, quella era l'unica cosa rimasta. Fino a quando non si accorse che qualcuno gli si era avvicinato, e stava cercando di attirare la sua attenzione con discreti colpi di tosse.

Milton alzò gli occhi, trovando la figura eretta della ragazza del distretto 5 di cui gli sfuggiva il nome.«Graziosa. Interessante, come creazione. L'hai fatta tu?» chiese, guardandolo negli occhi. Quelle parole espressivamente programmate ispirarono subito un grande disagio nel ragazzo. Non gli era mai piaciuto essere al centro dell'attenzione; trovava piacere nel ricevere complimenti, ma questa sensazione non era estrema. La sua timidezza prevaleva comunque. Borbottò un «In effetti, sì. Grazie» imbarazzato, per abbassare subito gli occhi. Sentiva che il rossore si era impossessato delle sue guance, e si rimproverò mentalmente a causa delle figure che automaticamente il suo carattere provocava. Non era il modo di trattare una persona, avrebbero potuto intrattenere una conversazione, ma non voleva rischiare di parlare per paura di una parola sbagliata. Tentò di azzardare qualcosa, che uscì come un sommesso:«Be'... non ci vuole molto. Al 7, queste cose s'imparano praticamente prima della scuola.» La ragazza accennò un sorriso non troppo divertito, sorvolando su ciò che aveva appena pronunciato. Meno male, non era andata terribilmente.

Lei porse una mano, dicendo:«Mi chiamo Myrtle. Myrtle Hopkins. Mi è parso che tu abbia un potenziale interessante, ma nessuno con cui condividerlo. A tuo svantaggio, purtroppo.»

Non gli diede fastidio. Nonostante si fosse reso conto di quanto quelle parole fossero dosate, misurate, programmate; pensò solo che fosse una condizione di Myrtle; neanche negativa, ad affermare la verità. Solo che sarebbe dovuto essere meno tesa, dato che in quel momento non ce ne era totalmente bisogno. Erano soltanto due ragazzi, che cercavano qualcuno su cui potessero contare su una situazione paurosamente sovrastante. Non che lui fosse persona la quale poteva giudicare simili cose; il suo comportamento sarebbe potuto essere persino peggiore. E meno fruttuoso.

«Esattamente. Sai... non sono bravo a stringere amicizia, per sfortuna» commentò il ragazzo, grattandosi il retro della nuca. Era ancora chino sulla statuetta, senza essersene completamente accorto. Si raddrizzò velocemente, come per far svanire ogni cenno della sua posizione, ma peggiorò le cose con un movimento fin troppo brusco. Altro rossore s'impossessò delle guance.

«Ti propongo di allearci. Sarebbe produttivo per entrambi; se stessimo soli si tratterebbe della mossa più azzardata e pericolosa che potremmo fare» continuò, con calma, Myrtle.

Era proprio il punto in cui Milton, in fondo, voleva che la ragazza arrivasse. Sentiva di aver bisogno di un alleato, ma anche del coraggio per procurarselo tramite parole. E quello, era sovrastato dalla timidezza.

Però, non conosceva Myrtle. Che genere di persona era? La sua impostazione era dovuta a un carattere estremamente preciso, o alla mal (ci sta anche che fosse fin troppo buona) recitazione di un ruolo positivo per coprire un lato oscuro? Non gli pareva. Nella sua scelta delle parole, nella lieve tensione che la voce mostrava, tutto ciò che aveva riscontrato era un carattere fragile. O era un'impressione.

Doveva trarre in quel momento tutto ciò che aveva imparato dalla vita: ciò che gli era stato insegnato dalla famiglia, dalle esperienze personali, dalle montagne dei libri di Oscar Wilde e Charles Dickens che aveva letto.

Myrtle attendeva, in silenzio, immobile. Lui stava riflettendo. Pensò un attimo anche a lei: come se la sarebbe cavata nell'arena? Non gli dava l'impressione di una persona estremamente forte; in più c'era anche da contare il fatto che fosse una ragazza. E poi, perché proprio lui? Myrtle aveva spiegato, per il suo potenziale interessante, ma dove lo vedeva?

«Ehm... onorato, ma non so se un'alleanza con te ti possa avvantaggiare. Non me la cavo tanto bene» spiegò, cercando implicitamente informazioni. Non desiderava in alcun modo offenderla, voleva solo capire e non giungere a scelte affrettate.

«Probabilmente non te ne sei accorto, ma hai un'ottima manualità. Può essere abbastanza, potresti ricavare molte cose interessanti da un semplice pezzo di legno. Ed anche utili. In più...» Il discorso di Myrtle era decisamente più sciolto, meno ragionato dei precedenti. Ma lo aveva stroncato sul finale. Subito Milton si chiese cosa volesse dire.

Le domandò, delicatamente:«In più cosa, se mi posso permettere?»

La ragazza si passò il labbro superiore su quello inferiore, prima di continuare, guardandolo con quegli enormi occhi nocciola in quel momento pieni di paura:«In più... temo di morire subito, rimanendo sola.»

Milton accettò.

Perché capì che era solo un tributo, debole ed impaurito.

 

Carlotta Wilson

Carlotta traeva profondi respiri, sbattendo una gamba contro l'altra, mentre l'altoparlante chiamava il primo dei tributi destinati a mostrare le proprie capacità a Capitol City. Sapeva utilizzare in un modo piuttosto soddisfacente i coltelli, ma paragonato ad altri tributi, soprattutto i primi, non era un vero vantaggio. E correre, ma si può mostrare in una sessione privata una noiosissima corsa? In più, la posizione finale del suo distretto la sfavoriva terribilmente, almeno secondo le parole della sua mentore. Gli Strateghi avrebbero dovuto perdere la concentrazione, e giudicarla con un semplice voto adeguato alla sua provenienza.

Ad ogni tributo era destinato un quarto d'ora, che lei doveva impiegare alla perfezione. Era un tempo veramente esagerato, ed armeggiare con l'unica arma che sapeva utilizzare per tutto questo sarebbe stato un spettacolo miseramente interessante.

La preoccupazione si stava impossessando del suo cervello, il quale cercava di lavorare ugualmente. Avrebbe potuto combinare i suoi talenti, ma il tempo rimaneva comunque una quantità estrema. Poteva adoperare qualche minuto ad appostare il percorso, ma quanto l'avrebbe salvata?

Nonostante ogni assediante nota negativa presente nel suo cervello, Carlotta stava anche continuando il suo libro. Era una storia d'amore, ambientata nel passato antecedente alla creazione di Panem nella quale un'adolescente divideva la sua vita fra le preoccupazioni di ciò che accadeva nel mondo e il sentimento per un suo compagno di classe, all'oscuro delle emozioni di lei. Molti dettagli della loro vita a quell'epoca era immaginaria, perché le uniche informazioni che aveva a disposizione erano quelle reperibili sul suo libro di storia; e più che riguardare la vita quotidiana erano sulle grandi battaglie che avevano rivolto gli Stati Uniti d'America a Panem. Era arrivata al tratto in cui il ragazzo era obbligato a combattere contro gli occupatori, e lei si struggeva per ciò che aveva celato ma avrebbe potuto dire. E la paura di perderlo. L'idea di Carlotta era quella di indurre la ragazza a unirsi alle forze e al compagno di classe, che riuscisse a dichiararsi. La guerra alla fine sarebbe stata persa, ma entrambi sarebbero sopravvissuti e avrebbero vissuto oppressi in uno dei distretti ma insieme. Aveva riletto le ultime pagine, e si era sorpresa nello scoprire che era notevolmente migliorata da quando era stata estratta. Era veramente preoccupante, ma forse aveva trovato nella scrittura l'unico collegamento con la sua precedente vita. I pensieri rivolti alla sua famiglia, ai suoi amici, al suo fidanzato; qualcosa che la caricava, e la faceva sentire in modo positivo. E quelle sensazioni venivano trasmesse nel suo testo, insieme all'angoscia, al timore, all'affetto. Tutto appariva più reale. E più cruento.

Inaspettatamente, il primo quarto d'ora era già evaporato e la voce metallica condannava un altro dei tributi a mostrarsi agli Strateghi. Si trattava di Fuyumi, la ragazza dell'1. Carlotta aveva già parlato con lei. A dire la verità, la prima mossa era stata compiuta dalla mancata Favorita, dopo una sessione con i coltelli dominata dal nervosismo di Carlotta. Fuyumi sembrava aver notato la difficoltà che l'altra avrebbe potuto avere nell'arena, e la sua innocenza. Più che altro, Carlotta non riusciva a rimanere sola. In quei giorni, anche la sua estroversione si era convertita all'angoscia; ma il dolore per non avere nessuno era rimasto. Aveva dialogato scarsissime volte con il suo compagno di distretto, Eaves; il quale si era dimostrato molto introverso e poco disposto a farla ritornare quella antecedente alla mietitura. E non resisteva a non sfogare il suo tempo libero nel romanzo, e perciò la compagnia era inesistente. Fuyumi le aveva spiegato il suo notevole disprezzo nei confronti della capitale, e Carlotta aveva tentato di consolarla dicendole che aveva ottime di possibilità di tornare a casa. L'aveva vista allenarsi, e non se la cavava troppo male con le armi. Fuyumi l'aveva fulminata con un'occhiata, mostrandole che il suo comportamento non la favoriva, come lei dopotutto non voleva essere. Carlotta l'aveva trovata molto vera, e spavalda. L'ammirava, in un certo senso, perché non temeva di dichiarare il suo odio e, probabilmente, morire.

Era contenta di aver stretto alleanza con lei. Fuyumi l'aveva seriamente interessata come persona, come storia; e nonostante non pensasse che sarebbe stato semplice riuscire a estorcerle informazioni su di lei durante l'arena, aveva un briciolo di fiducia.

Il tempo passò. La mente di Carlotta lavorò fino a quando la gracchiante voce chiamò con una tranquillità che la ragazza non condivideva “Wilson, Carlotta. Distretto 10.” Si alzò speranzosa e varcò la soglia.

Non sentiva sguardi che la colpissero in quel momento, e si posizionò cercando di scacciare via la tensione su una fascia di pavimento la quale si muoveva a comando. I manichini invece furono preparati da dei Senza Voce a cui il tributo aveva comunicato la sua volontà. Era terrorizzata, ma tentò di cancellare il suo timore immaginando un ottimo risultato. Sentiva il cuore estremamente pesante, una gravità che non poteva sopportare tanto da scuoterle le mani.

Inspirò profondamente. Il suolo su cui posava i piedi iniziò ad attivarsi.

Piano, prima camminando, tirando qualche coltello e catturando con la lama molti di quei burattini che nell'arena si sarebbero trasformate in persone. Carlotta ebbe una fitta al cuore. Come avrebbe ucciso? Come sarebbe sopravvissuta?

Sempre più veloce. Cominciò a correre. I fantocci erano dinamici come lei, e la difficoltà crebbe con il proseguo del tempo. Carlotta non notò più i suoi successi, i suoi sbagli. Sentiva solo che la sensazione di bagnato data dal sudore aumentava, e che per caricare i suoi lanci erano necessarie delle urla. Talvolta, però, uscivano solo come gemiti.

«Basta così. Grazie mille» annunciò una fredda voce distaccata, e la palestra morì in un attimo, lasciando solo l'affannato respiro di Carlotta.

Alzò gli occhi, incontrando le due temibili fessure nere del Primo Stratega.

 

Spazio autrice

Ok, avete l'autorizzazione di potermi utilizzare come sacco del wrestling. Ho impiegato ore a rileggere il capitolo, e ciò non si può minimamente considerare un segno positivo. Mi dispiace veramente moltissimo per avervi fatto attendere (anche se, in realtà, penso che non vi importerà nulla dei tempi di aggiornamento della mia fan fiction); come avevo anticipato nel precedente capitolo, sono stata in crociera e in questo periodo mi è sembrato di aver sviluppato una vera ammirazione nei confronti dei “che”. Ho cercato di rimediarne qualcuno con “il/la/i/le quale/i”, ma quando si trovano come congiunzione la mia mente fatica a ragionare. Come al solito, direi.

Sto continuando a marciare troppo sulle alleanze, e temo di fare ugualmente sul numero ristretto di Favoriti (ho trovato un perché a questa apprensione, ma lo spiegherò nelle prossime puntate!). Ho cercato di diminuire, ma alcuni riferimenti erano già nelle mie idee. E sto andando troppo a ruota libera sulle alleanze, lo so. Sono una persona veramente disastrosa.

Vi comunico che mancano due capitoli all'inizio dell'arena, giusto il necessario per finire il giro dei punti di vista/opinioni/storie/seconda presentazione dei tributi. Ovvero: giorno libero ed interviste. Ho già programmato i POV nei vari momenti di noia della vacanza, e perciò dovrei esserci.

Due parole su ogni tributo:

Mihael Stivens (D12): dovevo chiudere con il discorso Savannah/Favoriti iniziato a fine scorso capitolo, e temo di avere fatto troppo frettolosamente. E poi ho aggiunto Julian perché il “club degli Individualisti” che ho fatto pronunciare a Savannah mi suonava troppo figo.

Who Powell (D8): Favoriti la vendetta, parte 2. Temo di aver approfondito troppo poco il personaggio. Ho dimenticato di dire la stessa cosa per Mihael.

Milton Marvin (D7): continuiamo con il discorso “sono una scrittrice penosa e i personaggi sembrano messi in secondo piano”. Solo rileggendo mi sono resa conto di quanto lui e Myrtle si possano shippare. L'autrice (è comune in entrambi i personaggi) aveva ragione su questo.

Carlotta Wilson (D10): ho l'impressione di aver fatto il POV troppo lungo. La trama è stata inventata da me, e la trovo un'enorme cazzata. Chiedo scusa alla creatrice per far scrivere a Carlotta questa roba. Ah, una precisazione: sulla scheda c'era scritto che è “bravissima coi coltelli”, ma non è specificato se nelle lotte corpo a corpo o da lancio. Ho trovato più probabile la seconda opzione.

Comincia la cascata di recensioni negative.

Alla prossima,

Bolide

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Capitolo 10
*** L'ultimo respiro ***


Capitolo IX

L'ultimo respiro

Emanuelle Hepburn

Era la sera del terzo giorno dell'addestramento, le sessioni private erano state completate, i voti non erano stati ancora annunciati. Elle era sdraiata sul comodo letto della sua camera, fissando il soffitto pensando ai cambiamenti che erano avvenuti in miseri quei giorni. Alla piega disastrosa, confusa che la sua vita aveva assunto. A suo fratello, con cui doveva combattere.

Ma era quasi uno sconosciuto. Elle cercava di focalizzarsi su questo pensiero, per non soffrire quando avrebbe visto il sangue, quel sangue identico al suo, scorrere via dal suo corpo. Inghiottì un'altra volta le lacrime a quella immagine. Era comunque una persona, nonostante il male che aveva provocato, e non meritava di morire. Era un ragazzo. E la mente si rivolse di nuovo al pensiero che fosse suo fratello.

Sebbene questa pietà, lei desiderava sopravvivere. Desiderava tornare da Lexie, dirle che ce l'aveva fatta, che era tutto per lei. Aaron sarebbe diventato uno dei tanti tributi morti, un ventitreesimo della sua salvezza. Perciò aveva rifiutato ogni alleanza, per soffrire di meno vedendo quella orribile fantasia realizzarsi. Si era accordata con un'altra persona, Nate, il ragazzo dell'8, e Athena del 9, che non avevano alcun collegamento con il passato e sarebbero potuti essere un aiuto. Elle aveva già chiarito a se stessa di non affezionarsi in alcun modo a loro. Mantenendo la mente fredda e oggettiva, avrebbe raggiunto il suo obbiettivo facilmente. Doveva solo seguire le sue indicazioni.

Qualcuno la richiese alla porta, bussando. La ragazza si drizzò improvvisamente e, schiarendo la voce, chiese:«Ci sono i punteggi?»

La sua sessione privata si poteva definire totalmente una nella media, in cui aveva mostrato il suo talento nel disegnare utilizzando come tela il suo corpo. Se la cavava con il coltello, ma in un modo veramente ordinario per ottenere alti punteggi. Però, era comunque interessata a venire a conoscenza dei suoi risultati. Aveva bisogno di sponsor, per vincere, e il voto era un'importante freccia per comprendere la direzione a cui la sua intervista doveva adattarsi. Quando sentì una voce maschile rispondere timidamente «No, mi spiace» annuì piano, per poi rendersi conto che le parole provenivano da Jeremy, il suo compagno di distretto.

Jeremy non le aveva lasciato un'impressione positiva. Mettendo da parte anche la sua sfiducia nel genere maschile, Elle era inquietata dalla triste sua figura. Come mai era ridotto così? Che tragedie aveva subito nella sua vita? Che tragedie avrebbe fatto subire agli altri? In più, due giorni prima, aveva parlato con Aaron e la sua svampita compagna di distretto, per poi ripetere la conversazione varie volte.

Forse, in quel momento, si trovava lì proprio per esortarla a unirsi a loro.

Si alzò di malavoglia dal letto ed andò ad aprire la porta, lasciando entrare solo un sottile fascio di luce dal corridoio.«Cosa vuoi?» domandò, a bassa voce.«Solo parlarti» rispose lui, nello stesso tono.

Permettergli di spiegarle o meno? No. Si voleva proteggere dagli attacchi di affetto ritardato che il fratello stava avendo, e non esserne coinvolta. Tremolante, nonostante la sua mente avesse già infilato le parole in modo da renderle piuttosto convincenti, Elle proseguì:«Non voglio sapere nulla. Non voglio unirmi a te, tanto meno agli altri. Ho già un alleato, e mi sta bene così.»

Si pentì dopo un secondo di essersi rivolta così sgarbatamente al ragazzo. Dopotutto, lui non aveva compiuto nessun peccato, era solo un tributo immerso in una depressione eccessiva. Riuscì a scorgere il suo sguardo triste strisciare a terra, tentando di obiettare:«Io... non volevo disturbarti. Mi hanno solo chiesto di dirtelo. Avrebbe potuto aiutarti.»

Parlava come se lei sapesse esattamente ciò che accadeva; ne era al corrente, ma fino a un certo punto. Questo tentativo aggiuntivo non era stato puntato da lui, ma da Aaron. Sentì la rabbia pizzicarle la gola: cosa voleva da lei? Recuperare i suoi errori in così poco tempo? No, lei non era riuscita a perdonarlo in anni; era impossibile che lo facesse in pochi giorni.

«Chi ti ha chiesto di dirtelo?» domandò, dimenticando le scuse programmate pochi secondi primi. Il rossore le avvolse le guance per la sua mancanza.

«Aaron... il ragazzo dell'11. Non so se lo conosci, gli sarebbe sembrato maleducato non invitarti. Scusa, non importa» concluse Jeremy, per poi ritornare alla sua stanza.

Ora. Doveva almeno giustificare la sua maleducazione.«Jeremy?»

In uno scatto di attenzione improvviso, il ragazzo di voltò e confermò:«Sì?»

«Scusa se ti ho risposto male» si sfogò lei. Deglutì, per poi sentirsi aggiungere:«Buona fortuna.»

 

Grace Nòel

Sapeva benissimo che lei sarebbe stato il neo dei distretti Favoriti. Ovvero, di ottenere una valutazione che nei distretti dal numero maggiore sarebbe stata ottima, ma veramente scarsa considerando la sua provenienza. Si aggrappava ai bordi del divano, con la schiena curva, seduta attendendo che l'ennesima pubblicità di un negozio di esagerati e sgargianti vestiti si consumasse per mostrare il volto dell'annunciatore. Aveva mostrato l'abilità con i coltelli da lancio, in cui si considerava la migliore, ma gli Strateghi sembravano già avere perso la sua attenzione. Il suo pessimismo, in più, la spingeva a credere nel peggio. E a temere.

La pubblicità concluse, e sullo schermo apparve il volto del novello presentatore, al suo primo anno di esperienza: Caesar Flickerman, con un sorriso quasi artificiale e una fluente chioma innaturalmente bianca. No, non il candido che contrassegna i capelli dei vecchi, ma di un bianco puro, glaciale. Grace era quasi spaventata da lui, come se l'annunciatore la potesse condannare a un orrido destino schivato dagli sponsor.

«Buonasera, signore e signori! Sono Caesar Flickerman, e...» Grace smise di ascoltarlo. Sapeva perfettamente che era un discorso pieno di banalità ribadite milioni di volte negli anni precedenti, solo con parole differenti. La sua attenzione riprese quando sfilò la foto con la ragazza dell'1, accompagnata da un enorme “6” per poi dissolversi. Grace fu colpita un attimo, ma poi pensò che non era incredibile come valutazione, dato il carattere che il tributo aveva già dimostrato. Il sei era una garanzia per non suscitare troppa curiosità, e quindi non obbligare Flickerman a domandarle ciò che era accaduto durante la sessione privata per portare a un voto misero. Comunque, era sempre pessimo per un tributo dell'1.

Passò il compagno di distretto della ragazza, e poi arrivò lei. La sua foto con gli occhi grigi che fissavano in uno sguardo di sfida l'obbiettivo. Si tenne aggrappata fortemente al bordo del divano, per poi rendersi conto del voto.

Sette.

Rimase impietrita. Sette era un voto compreso leggermente superiore alla media, ma comunque da considerare medio.

Forse... forse gli Strateghi avevano visto che si era staccata dai Favoriti, e la volevano punire per questo. Avevano potuto pensare a una certa antipatia nei confronti della capitale, e si erano mantenuti bassi.

Ebbe un brivido di paura. Doveva puntare sull'intervista, per avere sponsor. O non averne proprio.

Pochi complimenti bugiardi arrivarono dai mentori e dal resto delle persone circostanti. Anche da Eracle, il compagno di distretto, non troppo convinto delle sue parole. Una vera esultanza da parte del ragazzo, però, si poté vedere quando esibirono il suo dieci.

Eretto e soddisfatto di se stesso, Eracle accettò tutte le parole di elogio (stavolta sincere) dai mentori e stilisti. Grace borbottò qualcosa d'obbligo, ma non fu molto interessata. Continuò a seguire in silenzio le votazioni.

Le cifre vacillavano fra il quattro, il cinque, il sei e sette per i più capaci dei distretti meno considerati, con rialzamenti per i Favoriti e affiliati, come il ragazzo del 9, con uno stupefacente undici. Eracle apparve imperturbabile, ma espresse comunque la preoccupazione che aveva nel comprendere nell'alleanza quel ragazzo: si era dimostrato perfino maggiore in forza a lui e all'altro alleato, di cui Grace non rimembrava il voto, ordinariamente alto. In quei giorni, sperimentando le conversazioni con i mentori e gli stilisti, il carattere del compagno le era sembrato piuttosto prorompente; se lo scopo di distretto nove era sottomettere i migliori, aveva trovato, almeno in Eracle, l'obiettivo errato.

Qualche sorpresa fu rivelato dall'otto condiviso sia dal ragazzo del distretto 10 e la ragazza del 12. Ogni tanto li aveva visti, ma non le erano sembrati spettacolari. Li aggiunse alla lista dei potenzialmente pericolosi stilata mentalmente.

Ritornò silenziosamente alla camera, dove si infilò immediatamente sotto le coperte. Come giornata non si era rivelata particolarmente faticosa, ma l'ansia consumava e in più il giorno dopo avrebbe dovuto affrontare il suo mentore e la sua accompagnatrice, per disegnare la sua immagine alle interviste.

Non voleva aprirsi di fronte a una platea comprendente l'intera nazione. Non ci sarebbe riuscita.

Aveva talento nel recitare, come sua madre. Avrebbe recitato.

Per sopravvivere.

Per Gioele.

 

Eaves Isinthaw

La luce mattutina penetrò automaticamente nella sua stanza, senza neanche domandare il permesso di un paio di braccia per spalancare le tende. Lareen Phelan, l'accompagnatrice del distretto 10, aveva programmato l'apertura delle persiane come sveglia, “il modo più luminoso per iniziare la giornata!”, stando a ciò che lei aveva affermato. Eaves non ne aveva bisogno. Quelle due ore che il sonno gli aveva concesso, erano state inoltrate nella notte.

Da quando l'impeto lo aveva spinto a gridare di offrirsi volontario, di voler scomparire dal distretto anche se non era totalmente vero, l'insonnia lo aveva conquistato. Non troppa paura; dato che la sua saggezza lo aveva portato a pentirsi ed a costringersi a un altro perdono a cui era abituato, ma quell'aspetto secondario era saltato fuori da chissà quale luogo.

I suoi scatti di ira erano aumentati, probabilmente anche per la situazione circostante, ma tentava comunque di calmarsi e di tornare la sua migliore faccia.

Quella notte si era già sfogato in misura soddisfacente nella sua negatività, per scendere dal letto con abbastanza pazienza per attraversare la giornata; o quel momento. Si sfilò il pigiama personalizzato creato da Capitol City su misura per lui, con una manica maggiore rispetto all'altra. Rimase un attimo ad osservare la stranezza di quel capo a cui era tristemente abituato, per poi infilarsi un'altra maglietta rassegnandosi. Era il suo destino, non era il solo; era sopravvissuto fino a quel momento senza troppi problemi se non psicologi. Era la sua mente il problema, il suo lato oscuro; se solo avesse seguito il saggio se stesso guai del genere non si sarebbero realizzati. Spesso accadeva così: in momenti scuri perdeva ciò che era veramente, spaziava a un'aggressività deleteria, per poi obbligare la sua parte migliore, schiava dell'altra, a ricollegare i pezzi.

Si rivestì e uscì nella zona comune, dove si trovava solo un senza voce per preparare la tavola nel condannato silenzio. Si allarmò quando vide di non aver completato il suo lavoro in tempo, ma Eaves lo esortò a non vergognarsi della sua presenza con un sorriso d'incoraggiamento. Il senza voce ricambiò, anche se in modo insicuro e tremolante. Con sollievo ed angoscia, Eaves pensò che era fortunato a non essere una di quelle strani ibridi creati da Capitol City di cui era venuto a conoscenza negli ultimi giorni, privati di qualsiasi libertà, perfino della più semplice, la parola. Nei loro occhi leggeva la tristezza, lo sconforto, mascherato da un sorriso, l'unica arma contro la morte. Era una punizione, ma qual era il peccato? Ed era un peccato?

Il ragazzo aveva già abbastanza problemi, ma, se gli fosse stato possibile, avrebbe cercato di allentare le loro sbarre. In quel momento, ribellarsi contro le regole sarebbe stato un sicuro suicidio. Perciò, si limitò solo a sedersi al tavolo e aspettare di vedere l'indaffarata parrucca di Lareen Phelan.

Sorprendentemente, si presentò presto, nonostante la maschera di trucco violante quello che sarebbe dovuto essere il suo normale aspetto.«Eaves! Tesoro! Vedo che sei già qui; bravo, bravo, sarà una giornata piuttosto faticosa. Oh, e mangia, che sei troppo magro, tesoro!» disse lei, arrivando in tutta velocità sui i tacchi aguzzi.

Ad Eaves sembrava una brava persona, solamente educata nella maniera errata. Non la detestava, anche se lo esortava a cibarsi sempre più del dovuto. Con tutto ciò di esposto per la colazione, la famiglia di Eaves, nonostante fosse piuttosto numerosa, avrebbe potuto organizzare come minimo due pranzi. Non era necessario, dato che il padre era un vincitore e si riuscivano a nutrire abbastanza bene, ma i fatti erano tali. La sua compagna di distretto, Carlotta, sembrava essere presa in modo maggiore dallo sconcerto. Aveva intravisto le persone affollate alla sua porta il giorno dei saluti, ed era rimasto semplicemente spiazzato. Erano presenti almeno una decina di quelli che sembravano suoi amici stretti, un numero quasi impensabile sulle abitudini di Eaves. Anche considerando che in quei giorni la sua abitudine comprendeva stare chiusa nella sua stanza, a rimuginare su chissà cosa. Lui si intratteneva davanti alla televisione, tentando di catturare più informazioni possibili che sarebbero potute essere utili, come interviste agli Strateghi. Ma, purtroppo, nessun indizio sull'arena si era rivelato.

Successivamente, arrivarono anche Carlotta, la sua mentore e Deimo, il quale aveva il compito di prepararlo all'arena. Era confortante, come cosa, perché non si consumava tempo nel cercare di estirpare Eaves dal suo guscio di introversione. Come padre, Deimo era affettuoso, ma sotto una spessa corazza di freddezza. Eaves sapeva che lui gli voleva bene, e perciò non gli aveva mai rimproverato questa caratteristica.

«Io e Deimo ci siamo accordati. Carlotta, tu inizierai le lezioni con Lareen sul portamento, mentre tu, Eaves, imposterai il tuo personaggio con Deimo. Questo per un'ora, poi invertiremo i ruoli e continueremo dopo pranzo. Ok?» disse la rigida mentore di Carlotta, Ralen. Eaves non era preoccupato sullo svolgimento della mattina, si sarebbe solo dovuto concentrare ed essere comprensivo con la falsità.

Se voleva sopravvivere, doveva piacere a chi lo aveva condannato.

 

Nathaniel River

«Allora, Nathaniel!» cominciò con il tono di un intervistatore curioso Emmett, il mentore di Nate. Si erano accordati ad utilizzare questo metodo, probabili domande e probabili risposte, per correggere le parole sbagliate e consigliare quelle che sarebbero potute essere giuste. A Nate era sembrato più che ragionevole, e si era giurato mentalmente di godere il più possibile di quel giorno. Niente telecamere a controllarlo, niente Strateghi a controllarlo, niente esercitazioni con le armi che non scaturivano nessun risultato. Solo una simulazione dell'esibizione del suo intelletto a Capitol City, per mostrare che, nonostante non fosse solo un ammasso di muscoli, aveva le sue capacità. Il tutto però comprendeva anche il dover fingere di apprezzare i giochi. Nate desiderò ardentemente di non ricevere domande di tipo simile.

«Oh, puoi chiamarmi Nate» replicò lui, con un sorriso affabile. Era certo di poter ottenere qualcosa di ottimo, con la sua solita gentilezza.

Emmett annuì e continuò interpretando la sua scrittura sul cartellino:«Bene... domani iniziano i giochi. Sei emozionato?» Emmett aveva vinto solo a sedici anni e in quel momento, dopo quattro anni, sembrava ancora piuttosto indeciso data la sua giovinezza. Nate comprendeva il peso che gravava sulle sue spalle, e perciò non lo biasimava. Nonostante ciò, si appuntò mentalmente che, se mai avesse vinto, avrebbe dovuto far fluttuare più sicurezza verso il suo tributo. Ed essere più attento, e preciso.

«Certamente. Penso sia difficile non esserlo, e...» Nate si stupì del suo improvviso silenzio mentale. Non aveva idee? Probabilmente, l'odio lo aveva prosciugato. Non esistevano commenti positivi, sugli Hunger Games. Erano emozionanti, sì; ma riempivano di emozioni simili al terrore, allo spirito di sopravvivenza, all'egoismo; non alla fierezza, alla gloria o addirittura all'allegria di poter essere visto dall'intera nazione. Emmett lo fissò negli occhi, e commentò, sottovoce:«Lo so, è difficile. Comunque, puoi inventare qualsiasi cavolata per convincerli che sei dei loro...»

Era la prima cosa sincera, profonda, che Emmett gli diceva. Che condivideva, come pensiero. Nate cercò di spiegarsi:«Non mento spesso. E questo sarebbe farlo, spudoratamente.»

«Devi sopravvivere, per dire la verità» puntualizzò il mentore, e questa volta Nate rimase seriamente colpito dalle sue parole. Non era preoccupato dal riuscire a mentire o meno, anzi, era anche un abile attore; ma dal mentire davanti alla nazione, alla sua famiglia. Che idea avrebbe trasmesso, alle sue sorelle? Una volta tornato, avrebbero creduto su quelle storie della bontà di Capitol City, adagiandosi sull'idea senza capire totalmente? Il ragazzo lo temeva fortemente. Ma altrimenti non lo avrebbero più visto.

Riprese la sua recitazione con un respiro profondo, e riformulò la frase:«Sì, sono decisamente emozionato. Cercherò di battermi nel nome del mio distretto, della famiglia con tutto lo spirito combattivo che questa meravigliosa nazione mi ha trasmesso.»

Non sapeva da dove provenissero quelle parole, ma si trattava dello stile di Capitol City, a cui Emmett assentì con uno dei suoi veloci cenni di testa.«Così va meglio. Continuiamo...»

Rispose alle domande seguenti con quel sorriso posticcio che tanto gli veniva bene. I suoi occhi s'impietrivano a qualche domanda sulla sua famiglia, sulla sua preparazione, sulla sua paura; ma cercava comunque di proseguire. Quando si sarebbe trovato di fronte a Caesar Flickerman o comunque si chiamasse il nuovo presentatore, non sarebbero stati permessi silenzi o indecisioni. La sua mente si era già diretta nel binario delle bugie. Come avrebbe potuto comunicare alla sua famiglia che tutte le sue parole erano finzioni necessarie? Oppure i suoi genitori avrebbero raggiunto la verità attraverso lo sguardo del ragazzo e raccontato il tutto alle sue sorelline?

Con le sue alleate, Athena e Elle, non erano necessarie spiegazioni; era convinto che si sarebbero comportate allo stesso modo, salvo improvvise impulsività. Le aveva incontrate mentre confabulavano qualcosa, e aveva deciso di infiltrarsi, con la sua solita gentilezza. Le parevano due ragazze intrappolate, come lui, e totalmente ragionevoli. Elle sembrava leggermente diffidente nei suoi confronti, ma fortunatamente era riuscito a conquistare qualcosa che non si trattava della sua fiducia, ma di un rapporto di alleanza piuttosto stabile. Dopotutto, era la cosa più importante.

Ognuno avrebbe avuto un compito specifico, ancora non specificato. Le necessità sarebbero risultate all'interno dell'arena, e Nate era convinto che fosse meglio essere disperato in gruppo al posto di avere le mani vuote con un silenzio circostante. Ed era vero che esistevano molte persone con retroscena malvagi, ma anche alcune armate della sua identica voglia, come il ragazzo sospettava essere le due.

Gli fu lasciato un attimo di pace. Nate chiuse gli occhi, e la sua mente automaticamente provò ad immaginare come sarebbe stato parlare con quella folla sterminata di fronte, le persone e le telecamere.

Gli applausi. Le risposte. Le domande.

La recita che avrebbe dovuto mantenere, anche in caso di vincita.

 

Spazio autrice

Bene... potrei nascondermi in un angolino e non tirarmi fuori nemmeno all'affondare delle recensioni negative, ma cerco di convincermi che dauntless is the way (anche se, in realtà, non penso lo sia troppo). Questo è il penultimo capitolo prima dell'arena, e io credo di essere già in crisi a rendere i personaggi assassini e essere, a modo mio, un'obbligata assassina. Dopotutto, ho deciso io di scrivere un'interattiva. Non pensavo di affezionarmi così a qualcuno, però.

In realtà, ho già condannato qualcuno. Quattro persone, ma devo affettare anche qualcun altro, ovviamente. La capitale non sarebbe contenta.

Passiamo alle due parole su ogni tributo:

Emanuelle Hepburn: sarà stata troppo dolce con il suo compagno di distretto? Spero di no, spero di non aver sforato nessun “troppo”. Comunque, alleanza quasi totalmente random con (meno) Nathaniel e (più) con Athena.

Grace Nòel: niente da dire. Spero di averla resa nel giusto verso.

Eaves Isinthaw: detesto il suo cognome, temo sempre di scriverlo male. Mentalmente, 'sto poveretto per me è Deimo, dato il nome del padrigno. Per il resto, nulla.

Nathaniel River: temo di aver indugiato troppo sul discorso “finzione bla bla bla”, spero sempre che non l'abbia fatto.

Detto questo, alla prossima. I quattro POV saranno quelli dei personaggi non rappresentati (in effetti, questo capitolo era piuttosto inutile, ma pensando che avevo già fatto quasi tutti i POV ho deciso di aggiungerlo), quindi... no, evitiamo. Se qualcuno è interessato, se ne accorgerà.

Alla prossima,

Bolide

P.S.= Flickerman esordiente, penso ci stia.

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Capitolo 11
*** Di parole astratte ***


Capitolo X

Di parole astratte

Serena Hamilton

Si guardava, o meglio si rimirava, nell'enorme specchio pendente, foderata in un leggiadro vestito bianco che la faceva parere sospesa, come una nuvola.«È magnifico!» esclamò, senza neppure accorgersene, rivolgendo il suo sguardo allo stilista, Onius, che la squadrava compiaciuto.

Era il suo pensiero. Per un attimo, dimenticò l'ansia derivata dall'intervista ancora da affrontare, e si abbandonò alla sensazione di essere bellissima, una principessa, evitando di aggiungere il complemento “da sacrificare”. Era stupenda, senza eccessivo egocentrismo; si distingueva dall'ordinario, ma non attirava l'attenzione forzatamente. Qualcosa che si adattava completamente alle sue idee.

L'abito le donava più forza, in qualche modo. Sentiva che il suo disagio si sarebbe sgonfiato, avrebbe parlato, si sarebbe raccontata. Avrebbe salutato le persone che la amavano, e quelle che lo facevano in minor modo.

Si era comportata da pazza per tutti quegli anni sperando in un unico, solo fine: l'arrivo del suo nome alle orecchie di suo padre. Di quella ragazza dalla pelle stranamente cadaverica, forse per un segno del destino, adottata e sofferente di squilibri mentali. Quel fellone di suo padre aveva abbandonato la sua compagna incinta, coinvolta nella gravidanza che le avrebbe tolto la vita, per cercare fortuna a Capitol City. Serena non capiva come mai sventolasse così tanto le braccia, per un tipo come lui. Desiderava sapere. Desiderava sapere chi era, trovando informazioni su chi sarebbe stata; desiderava sapere se suo padre le aveva voluto bene, o dedicato un pensiero ogni tanto; desiderava sapere semplicemente sapere se aveva sempre un papà. Adorava la sua attuale famiglia, anche se, quando aveva otto anni, il suo patrigno Gevanni era morto. Teneva molto a Gevanni, ma con carisma era riuscita ad attutire il trauma, e dedicarsi alla sua matrigna Sarah. In realtà, era come se fosse una vera madre; l'aveva tenuta fra le braccia al posto della donna che aveva portato Serena in grembo, e di questo non poteva che esserle eternamente grata. Avevano superato il loro lutto, ma Sarah avrebbe resistito ad un altro?

A dire la verità, Serena non aveva mai riflettuto sull'arena esageratamente, sui suoi esiti. Avrebbe voluto vincere, certamente, ma perché lasciarsi prendere dall'angoscia in quei giorni complicati e immaginare l'immaginabile? L'arena era ricreata dai pensieri degli Strateghi, non dai suoi, e sarebbe stato impossibile che fossero coincidenti.

Con un sorriso, Serena si stava mostrando al creatore della sua immagine.«Sei bellissima» si complimentò Onius, avvicinandosi a lei e prendendola per i gomiti,«e stai sicura che stasera stupirai tutti quanti.»

Arrossendo, Serena lo ringraziò. Era una delle persone migliori che avesse conosciuto a Capitol City, l'aveva sostenuta ogni giorno. La ragazza non era prevenuta nei confronti dei capitolini; dopotutto erano sempre persone, in qualche modo, e ormai suo padre era parte di lui. Se Onius non fosse stato troppo giovane e così dissimile da lei, si sarebbe potuto considerare anche un candidato come suo genitore.

Si presentarono davanti al team del distretto 11, e la presentatrice del distretto, Adamée si meraviglio (o forse, si imitò meravigliata) nei confronti della ragazza, portandosi le mani alla bocca.«Oh! Ma... sei veramente perfetta!» aggiunse, provando forse una punta di invidia sotto quella maschera candida di trucco. Serena si sentì a disagio, pensando che avrebbe dovuto provare quella sensazione d'innanzi all'intero pubblico.

S'incontrò con Aaron, l'altro tributo del distretto. Fra loro era nata una certa amicizia, data dall'alleanza, ed anche un rapporto di fiducia. A Serena ricordava Matt, il suo compagno di scuola con il quale preferiva confidarsi. Non aveva sentito troppo la sua mancanza, stando una buona quantità di tempo con Aaron, ma in fondo al cuore avvertiva il vuoto provocato dalla sua assenza.

«Complimenti! Sei stupenda» disse lui, in un completo verde scintillante che richiamava, in qualche modo, le folte foglie dei frutteti. Serena pensò che neanche lui fosse orribile, anzi, gli rispose:«Anche tu, complimenti.» Sorrise timida, mentre lui la guardava negli occhi promettendole, in qualche modo, sicurezza.

Arrivò il momento dell'entrata in scena. Il loro mentore, Anner, gli spiegò nervosamente, agitando le mani:«Dovrete entrare insieme, all'inizio dell'intervista. Snow vuole vedere le reazioni di ogni tributo ad ogni risposta, donare anche lo spettacolo dal backstage. Vi consiglio di comportarvi come se foste ottimi amici, siate simpatici con il pubblico, adorabili. Capito?»

In un momento di totale serietà e concentrazione, i due annuirono. Anner scomparì, mentre Aaron offriva il braccio con un sorriso a Serena.

Lei lo accettò, con la stessa espressione ed un lembo del vestito stretto nella mano. Erano curiosi, loro due. Sembravano uno splendente angelo e la persona custodita da lei, nel verde della sua salvezza. Anche se l'angelo aveva bisogno di qualcuno a cui aggrapparsi.

Le luci si accesero.

Lo spettacolo iniziò.

 

Fuyumi Albarn

«Signore e signori! Buonasera!» annunciò entusiasta Caesar Flickerman, le braccia spalancate, al suo ingresso con il sottofondo di applausi e urla del pubblico. Cassandra li trovò patetici, eppure conosceva quelle persone. Si vergognava di aver condiviso la loro aria, ma nel suo rancore era fiera di aver mantenuto la sua individualità, portava con postura eretta il suo odio.

Detestava il vestito dorato che le ricopriva il corpo. L'avrebbe stracciato sul secondo, ma un'estrema e sconosciuta forza la stava frenando. Era la paura? Pudore? Forse, desiderava poter gridare la sua rabbia davanti all'intera Capitol City, e un abito totalmente lacero non le avrebbe permesso di uscire sul palco. Tanto meglio, avrebbe mostrato il suo nudo risentimento davanti a tutti.

Sarebbe morta, in quell'arena. Era la sicurezza comunicata dal mondo, la sputava sulla sua faccia. Lei era mossa dal desiderio di sopravvivere; si sentiva come alimentata da un fuoco, impossibile da spegnere e domare. E dopo, sarebbe scappata. Persino il distretto 1 non le comunicava la libertà desiderata, e si era sempre chiesta cosa ci fosse dietro all'orizzonte. Una terra, l'avrebbe trovata. Anche se in quel momento, il pericolo la strozzava.

Flickerman aveva continuato con i suoi frivoli discorsi, sopportati a malapena dai pugni stretti di Cassandra. Nascose di provare un'emozione indefinita, insicura, quando il presentatore annunciò:«Signore e signori, pubblico adorato, ecco a voi i tributi di questa edizione!»

Non esitò. Staccata notevolmente dal suo compagno di distretto, quel pallone gonfiato di Goldspace, Cassandra intraprese le scale con spavalderia, entrando sulle grida raddoppiate dei capitolini. Quanto vi disprezzo, non poté evitare di pensare. Quanto vi disprezzo.

Quel giorno, in sala sarebbero potuti essere stati presenti persino i suoi genitori. La frase si amplificò nella sua mente. Come la sua mentore le aveva attentamente spiegato, si fermò accanto all'applaudente Caesar Flickerman e attese l'arrivo degli altri. Giochiamo un po', decise. Arriviamo al punto dopo. Lo show sarebbe stato spettacolare, si accorse con un sorriso accennato.

«Un altro applauso per i nostri tributi!» scatenò la folla il presentatore. Dietro di loro, un cumulo di poltrone, in cui i ragazzi si accomodarono, Cassandra compresa, nonostante fosse la prima. L'egocentrismo di Caesar Flickerman aveva bisogno di una presentazione per essere sfogato.

E la presentazione iniziò.«Possiamo dire che possiamo cominciare! Colei con cui parleremo... è una combattente, è determinata e, nonostante a volte ci abbia mostrato un carattere un po' peperino, noi la amiamo, tutti quanti. Signore e signori, penso che voi abbiate capito di chi stia parlando... dal distretto 1, Fuyumi Albarn!»

Cassandra si alzò, fra lo sconcerto. Tutto quel cumulo di parole, apparentemente così spontaneo e adulatorio, erano solo bugie montate per vendere i propri personaggi alla capitale, per farli emozionare, ma non fino al punto di indurli alla sofferenza. Cassandra lo sapeva. Cassandra non aveva mai notato lacrime sincere, che non fossero di finta commozione, sugli occhi di chi la circondava. Ecco la fonte del disprezzo.

Non sorrideva. Non temeva di non sorridere, e sapeva cosa fare, in qualche modo. Avrebbe eruttato lava urticante, e nonostante l'incendio sarebbe stato domato in ogni modo, le ustioni non sarebbero scappate. Si accomodò, e quel pensiero fece spuntare un lieve sorriso.

«Fuyumi! Lasciami dire che sei incantevole, stasera!» si complimentò, con il suo plastico sorriso, Flickerman per prima cosa. Cassandra non riuscì a controllarsi, e sputò subito:«Non si può dire lo stesso del resto, qui, Caesar.»

Il presentatore non si fece cogliere alla sprovvista, e replicò solo con un ironico:«Giusto, non raggiungerò mai i tuoi livelli! Il pubblico, però, è semplicemente magnifico! Non è vero, Capitol City? Fatemi sentire il vostro calore! Fatevi un applauso!» La platea reagì rispondendo come burattini agli ordini, e urlando parole di adorazione. Verso Flickerman. Frivoli. Cassandra non aveva bisogno della pirite capitolina.

«Evidentemente, tutti gli anni che hai vissuto qui, l'hai fatto con gli occhi foderati, Caesar» replicò la ragazza, a testa alta, senza paura.«O forse sei addirittura più stupido di loro.»

Ogni sua possibilità di sopravvivenza, era annullata. Ma, dopotutto, c'erano possibilità di sopravvivenza? L'avevano spedita lì per ucciderla. No, non esistevano.

«Be', sinceramente... mi chiedo come tu possa dirlo. Panem è una nazione stupenda, ed anche la sua gente» ribatté il presentatore, a gambe accavallate.

Ora. Cassandra sorrise, e disse:«Lo so fin troppo bene. Ho vissuto in questa lurida città per quindici anni. E sono scappata. Un motivo, ci sarà, no?»

Mormorii di sorpresa si elevarono nella sala. L'aveva rivelato. Aveva esposto tutta la verità, semplicemente, una delle verità più scomode esistenti. Quei fuggitivi, quelle persone con gli occhi spalancati, che provavano delle emozioni. Delle emozioni reali. Non quella ipocrisia, quelle montagne di ipocrisia naturali sopra le maschere di trucco. Quelle comete pericolose, che brillavano della luce delle proprie idee, ma venivano continuamente minacciate.

Il segnale di fine intervista arrivò.«Sì! Mi chiamo Cassandra Stonem, sono figlia di Aris e Lauren Stonem e, dopo le minacce del presidente per il mio comportamento “strano”, quell'odio che dovrebbe essere naturale, ho deciso di andarmene! Io...»

Era in piedi. Era furiosa. Stava gridando; un flusso di parole, di rabbia, di tutte quelle emozioni compresse per la repressione non andata troppo a buon fine di quei giorni, e fermarla sarebbe stato distruttivo. O almeno si stava sopravvalutando con questi pensieri, perché quando Caesar Flcikerman la presentò alzandole il braccio, lei rimase ammutolita.

«Voi non capite nulla! C'è gente che veramente soffre, che veramente muore, per il vostro stupido gioco! Siete degli ipocriti! Siete...» si riuscì a riprendere, ma due mani la afferrarono e trascinarono via prima che lei potesse proseguire. Guardie del corpo.

Dal nervoso, un risolino abbandonò la sua bocca. Rideva, rideva a crepapelle, probabilmente per il nervoso.

Sono una ragazza morta, pensava, lasciando lo studio.

Non più morta di quando abitavo qui.

 

Reed Fox

Era immerso nella poltrona scintillante, legato in un altrettanto sfavillante completo giallo che lo stringeva quasi in modo di togliergli il respiro. O forse era solo la sensazione di panico precedente all'intervista.

In quei giorni, varie cose erano avvenute. La più importante, sicuramente: la signorina, ovvero Astrid, era viva. La signorina. La pensava ancora con quel soprannome, quello affibbiato da Ivan, e non riusciva a fare altrimenti. In ogni caso, lei era sopravvissuta a ogni circolo di avventure conseguenti la sua evasione, e quasi non ci avrebbe creduto, data la potenza di Ivan. Era stato lui a salvarla quando Ivan aveva tentato di sfoderare quella coltellata mortale, che le aveva tramutato l'aspetto per la sua intera vita, catturando le braccia del vincitore. Ed il suo odio nei confronti di Ivan era aumentato. Era impossibile che lui, così mite, così pacifico, riuscisse addirittura ad odiare una persona, ma dopo tutto il male inflitto da Ivan non riusciva ad evitarlo.

Il suo corpo era segnato da tutte le torture di quel pazzo, e lo sarebbe sempre stato. Ivan non lo aveva preso con sé per compassione, o per educarlo; ma solo per sfogare tutti i colpi dell'arena su di lui. E su Edward, che si era innamorato di una senza voce, e Connor, dopo che ebbe aggredito il suo parrucchiere per i commenti sullo “scarso” lavoro dei distretti. Entrambi avevano le sue origini, entrambi avevano compiuto gli stessi peccati per finire in quel luogo di tortura. Lo odiava, ma non se ne rendeva conto perché era tutto sovrastato dalla paura.

Ivan, essendo un vincitore, era anche il suo mentore e il pianificatore di tutto. Lo aveva obbligato ad offrirsi volontario, ed uccidere la ragazza del 7: così, avrebbe avuto il novantasette percento di possibilità di sopravvivenza. Reed non sospettava di trovarsi di fronte alla sua migliore amica, e da stupido terrorizzato, aveva accettato. Ma non voleva uccidere la signorina. Non avrebbe ucciso la signorina. Sarebbe morto, però, per questo?

Aveva rivisto Capitol City, dopo otto anni di scomparsa, otto anni di distretto 3. La sua mente non cadeva mai in pensieri sulla sua città di origine, tanto era il distaccamento che si era creato, e quasi non la ricordava più. Era comunque convinto che non l'avrebbe riconosciuta, con quel cambiamento continuo il quale la fondeva, la ricreava, la bruciava, la faceva risorgere dalle sue ceneri. Ogni giorno, niente era mai identico a quello prima. Ogni giorno, qualcosa si alzava dal trono della moda.

Aveva trovato ironico pensare che una volta, quando abitava lì, si chiamava Davis. Davis Grandiamond, lo strano ragazzino sviluppatore di strane idee dopo aver visto la desolazione dell'11. Da quanto tempo nessuno lo chiamava così. Lui, ormai, era Reed Fox, la vittima, il torturato.

La bocca di Emilie, la sua compagna di distretto, si chiuse con il segnale di fine intervista. Caesar Flickerman la congedò, e Reed realizzò la venuta del suo momento con le parole di presentazione dell'annunciatore.

Le ascoltò senza troppa attenzione, ripassando i discorsi che avrebbe dovuto compiere sul palco, e scattò quando vide la mano di Flickerman protesa verso di lui. Cercando di essere meno impacciato possibile, come l'accompagnatrice del distretto gli aveva obbligato di comportarsi, si tirò in avanti, agitando una mano in segno di saluto. Sentì qualche gridolino, ed apprezzò il fatto di non essere totalmente snobbato.

«Reed! Che piacere vederti!» esordì Flickerman, donandogli una pacca sulla spalla come se fosse un amico di lunga data. Reed sperò che il comportamento lo potesse mettere a suo agio, e si adattò al metodo:«Il piacere è tutto mio, Caesar.»

Si misero a sedere, e Reed si sorprese nello scoprire di non essere troppo preoccupato. Quante volte aveva dialogato con un capitolino? Aveva comunque compiuto degli errori, rivelando le sue idee, ma ormai la lezione si era impressa sulla sua pelle sotto forma delle cicatrici delle torture. Non avrebbe fatto come la ragazza dell'1, ribellata mortalmente. Ammirava il suo coraggio, ma lui era un codardo. E desiderava vivere.

La scoperta di gente trasferita nei distretti estranea a lui, anche così giovane, lo aveva stupito. Chissà, forse su quel palco si trovava qualcun altro proveniente da Capitol City. Qualche volontario, che avrebbe imitato la ragazza dell'1, e si sarebbe già inimicato una nazione e la vita. Oppure qualcuno rintracciato e condannato ad avere quella orribile fine. Sarebbe stato curioso.

«Allora, Reed... ci hai stupito tutti, offrendoti volontario. Cosa ti ha portato a compiere quel gesto?» domandò Flickerman, uno sguardo che si spostava costantemente dagli occhi dell'intervistato al pubblico. La risposta balenò subito in testa al ragazzo.«Volevo mostrare che il coraggio, l'orgoglio non sono solo caratteristiche appartenenti ai volontari dei distretto come l'1 o il 2. Anche noi del 3 possediamo queste virtù.»

Una marea di applausi lo investì, quasi spaventandolo. L'idea proveniva dal suo cervello, e Ivan, suo mentore, l'aveva approvata senza indugiare. Era qualcosa di estremamente apprezzabile per gli standard capitolini, e non poteva che ottenere queste reazioni.

Dopo che Flickerman ebbe spento l'applauso del pubblico e consultato i monitor sul fondo del teatro con un fugace sguardo, continuò:«Ed è proprio così! È bello incontrare gente come te, Reed. Ma, una curiosità... durante la mietitura, abbiamo visto un certo orgoglio negli occhi del mentore del vostro distretto, Ivan Stilman. Puoi dirci qualcosa a proposito?»

Reed sapeva che la domanda non dipendeva dallo sguardo, ma da qualche ricerca, o forse da un intervento proprio del mentore. Dopotutto, si era preparato anche a questa eventualità.«Sì, lui mi accolto in casa sua quando non ne avevo una. Ho avuto un passato difficile, e Ivan mi aiutato molto. È come un padre, per me. Gli voglio veramente bene e so che lui fa altrettanto. Sono felicissimo di poter stare accanto a lui.»

Quasi il vomito lo assaliva, per le bugie appena pronunciate. Era sempre una questione di sopravvivenza, ma quella menzogna era esagerata. Cosa stava pensando Astrid? Avrebbe capito? Sperava di sì. Dopotutto, anche lei era una dei suoi compagni di viaggio.

L'intervista continuò, fra battute, frasi fatte e reazioni entusiaste della platea. Reed era convinto di piacere, e lo sperava vivamente.

Sarebbero stati sponsor, sponsor per lui.

Ma anche per Astrid.

 

Andrea White

Era imbalsamato in un completo bianco, costellato di puntini che lo facevano apparire fiocchi di neve. Poteva sembrare più freddo dei suoi veri livelli, o almeno quelli voluti dimostrare. La freddezza sarebbe stata una delle sue carte principali, di certo. Se avesse permesso all'immaginazione o ai suoi reali sentimenti di trascinarlo, probabilmente, avrebbe potuto distruggere lo studio. E non voleva che nessuno lo danneggiasse, seguire i suoi piani senza problemi. Niente Strateghi a bloccargli le gambe.

Era composto, eretto, sulla sua poltrona. Il dialogo del presentatore con la sua compagna di distretto continuava, con le risposte estratte con la forza dalla sua bocca. Francamente, ad Andrea non importava nulla se l'impressione lasciata sul pubblico da lei non sarebbe stata positiva. Lei sarebbe morta, non lui. Un nemico in meno. E, magari, sarebbe stata un tassello del suo sfogo.

Era da quando si era offerto volontario che non assumeva stupefacenti e il suo corpo sopportava l'astinenza piuttosto bene. Dopotutto, non c'era nulla che il suo maledetto corpo non riuscisse a fare. Il suo corpo lo superava con le sue capacità, era solo una qualità e non un difetto. Suo padre e suo fratello, lo avevano sempre considerato più la cavia da utilizzare per creare l'essere perfetto che lui, Andrea White. Era contento, in fondo, che non ci fossero più. Era una vendetta esaudiente offerta dalla vita, che altrimenti sarebbe scaturita dalle sue mani.

Suo padre James e suo fratello Flyn lo avevano continuamente sottoposto a esperimenti per temprare il suo fisico, renderlo un raro esempio di perfezione. Era un'impresa folle, perché in mezzo alla realizzazione c'era lui, Andrea. Non era mai riuscito a sopportare il fatto di essere solamente colui su di cui gli esperimenti dovessero essere sfogati. Non aveva mai avuto un'infanzia, amici, e anche se loro due erano suoi parenti, lui li considerava solo persone con cui aveva condiviso il suo sangue e la sua casa. Nient'altro. Erano tutti nemici, contro di lui. Impossibile potersi fidare di qualcuno sopravvivendo.

James era morto in un incidente in laboratorio e Flyn sia era sopravvalutato offrendosi volontario per gli Hunger Games. Così, Andrea era riuscito a scappare nel distretto 9, che sarebbe divenuta la sua casa. Casa. A dire la verità, non ne aveva una. Quegli sguardi pieni di odio, di rancore infondato, forse perché era uno sconosciuto, lo facevano continuamente sentire lontano dalla sensazione di essere salvo.

Non era mai salvo. Non lo era mai stato. Il suo corpo era segnato da lividi, graffi, tagli; fonte dell'insofferenza che Andrea aveva verso di lui, comunque assunti senza problemi. Era in continua lotta con il suo aspetto, ed anche con il mondo. La sua mente ogni tanto riusciva ad evadere dalla sensazione di rancore e di non appartenenza a tutto questo attraverso la droga, ma l'effetto prima o poi sarebbe finito. E lui sarebbe tornato ad odiare, come suo solito.

Aveva un piano. Sarebbe stato la sua liberazione, forse la sua ultima liberazione. Avrebbe portato alla sua mente una sensazione di sfogo, una delle migliori sul volto della Terra. Prima, però, avrebbe dovuto aspettare. E passare attraverso le domande di uno stupido intervistatore pagato valanghe di soldi per parlare.

«Ah, signore e signori! Possiamo quindi passare al secondo tassello del distretto 9. Lui... lui è un ragazzo enigmatico, carismatico, e molto misterioso! Sono sicuro che ci rivelerà delle fantastiche sorprese! Accogliamo con un gran applauso... Andrea White!» esplose il presentatore, con le sue stupide manfrine artificiose. Andrea venne avanti, con un altrettanto posticcio sorriso sul suo volto, pronto a scaraventare ai suoi piedi tutti quegli viscidi scarafaggi di Capitol City. Ingannarli. Ingannare un'intera nazione. Avere la sorpresa dalla sua parte. Il coltello dalla parte del manico. Ah, che bella sensazione di potenza.

Strinse la mano all'intervistatore, cercando di non forzare molto, come la sua ira sembrava desiderare. La avrebbe contenuta. Un'altra volta, ci sarebbe riuscito. Senza problemi. Avrebbe recitato; per l'ennesima volta non esistevano alternative.

«Andrea! Siamo tutti molto interessati a fare la tua conoscenza. Soprattutto, partendo dal tuo voto. Un-di-ci. È piuttosto raro, agli Hunger Games, e tu sei riuscito a conquistarlo. Cosa hai da dichiarare, al riguardo? Come sei riuscito ad ottenerlo?» Il presentatore lo fissava, curioso. Non sopportava i suoi occhi su di lui, pronti a scavare alla ricerca di ogni segreto nascosto, di qualunque scoop che lo avrebbe potuto confermare. Pronto ad aggredire per il suo conto, senza considerare gli altri. Lo detestava. Eppure, finse di potersi fidare.

«Be', Caesar... a dire la verità, nulla di che. Mi sono solo impegnato, perché questa è un'occasione magnifico, ma ogni volta è necessario dare il meglio di sé. Ho dato il meglio di me, e sono contento che gli Starteghi lo abbiano riconosciuto.» Sfoderò i suoi denti candidi, un altro lato della sua perfezione fisica. Quanto lo odio.

«Così si fa! Certo, con questi standard piuttosto alti, nell'arena dovremo aspettarci scintille da parte tua. Puoi anticiparci...» si avvicinò, come se dovesse rivelargli un segreto o raccogliere una confidenza intima.«...cosa farai?»

«Ho trovato degli alleati. E sono certo...» Andrea si bloccò, quasi a pensare che la sua frase non fosse giusta. Invece, ci stava.

«Certo di cosa?»

Sorrise, un misto di fascino e crudeltà:«Sono certo di potervi offrire un magnifico spettacolo.»

 

Spazio autrice

Sorpassiamo l'intera parte in cui mi dilungo in scuse per il mio ritardo. Penso che la voi la conosciate esattamente, e vorrei passare alle cose “serie”.

Allora, intervista. Esordisco dicendo che spero di aver rappresentato Flickerman bene, e di aver sempre scritto in modo corretto il suo nome. Non ho riportato le interviste di tutti i personaggi ad uno a uno perché credo che sarebbe stato schematico e noioso, in più ormai sarebbe stato solo la dimostrazione dell'approccio con il pubblico dei tributi, visto che la loro storia “pubblica” e rivelabile bene o male è conosciuta. In linea generale.

Poi... passiamo ai tributi.

Serena Hamilton: creo OTP dal nulla. Nonostante lei e il suo compagno di distretto non siano collegati in alcun modo, mi sono scoperta a shipparli. E dovrò ucciderne almeno la metà. O tutti e due. Ah.

Fuyumi Albarn: nelle mie schede “ufficiali”, la faccio risultare così. In caso di suoi POV, la racconterò con il nome con cui è stata estratta, perché è come se fosse un analisi dei tributi, schematica, in qualche modo. Cioè, che parte schematica, e poi affonda nelle loro riflessioni. Sì, questa mia spiegazione è pessima. Comunque, lei è Cassandra, e la sua storia dovrebbe essere piuttosto chiara.

Reed Fox: mi sono resa conto di aver creato in questo capitolo il CCE, Circolo Capitolini Estranei. La sua provenienza non è uno dei lati principali del personaggio, ma probabilmente mi sono lasciata trasportare dalla “Cassandrezza” e mi sono dilungata un po' troppo sul discorso. Spero che anche qui sia risultato tutto chiaro.

Andrea White: concludiamo con un altro dei “misteri” di questa edizione. Ha un corpo artificiale, e un piano che ancora ho preferito non rivelare. Suspense.

In più, spero di aver rappresentato tutti bene.

Allora, che posso aggiungere? Il prossimo capitolo sarà l'arena, e moriranno in tutto sei tributi. Quali? Non oso neanche rivelarvelo. Però vi dico che i POV potrebbero raggiungere quota cinque o sei persone, in uno schema mentale ricreato. Alcuni saranno visualizzati dal punto della vittima, altri dell'assassino, altri degli alleati o da persone semplicemente passanti di qui. Questo mi sembrava piuttosto superfluo.

Ho già un'idea decisa sull'arena, e uno schema astratto di ciò che dovrebbe accadere. Molto astratto. E anche un'idea sul vincitore, signore e signori.

Prima di concludere: volevo augurare a tutte le lettrici di sesso femminile una buona festa della donna! Il capitolo era pronto ieri, ma ho preferito rimandare la lettura e dopo mi sono accorta che vi avrei potuto rivolgere, in questo modo, anche questo augurio. Mimose a tutte, prima di passare al sangue!

Alla prossima,

Bolide

 

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Capitolo 12
*** Uccidere sulle rose ***


Capitolo XI

Uccidere sulle rose

Distretto 6, Jeremy Corgan

Negli ultimi minuti era stato trasferito su hovercraft instabile, avevano catturato per sempre la sua posizione con il localizzatore e lo avevano lasciato lì, tremante dal timore che quelli potessero essere vuoti attimi della sua morente vita. Aveva la sua forza in Chris, ma anche tante debolezze. Era come se in cuore si sentisse un peso, il quale lo trascinava a terra e non gli permetteva di compiere nessuna mossa. Lo aveva conosciuto, quel peso. Nella sua impotenza seguente la morte della madre. Si era ripreso, eppure aveva deciso di rigettarsi in una probabile depressione.

Guardava Serena ed Aaron, i suoi alleati, sempre sulla nave, scambiando le ultime occhiate per verificare le loro intenzioni di alleanza. Temeva che, improvvisamente, avessero potuto cambiare idea. Invece, confermarono con un sorriso. Lui provò a fare altrettanto e constatò con terrore di non riuscirci.

Arrivò alla sua destinazione, sotto l'arena. Tentò di concentrarsi solamente sulle parole dello stilista, le quali indicavano che i suoi abiti erano di un tessuto protettivo, combattive contro le escursioni termiche. Eppure, era tutto così confuso. La sua mente stava cercando di sussurrargli qualcosa, forse l'asfissiante probabilità di un pericolo immane, ma lui la ignorava, cacciandola con il sudore già nato.

Prima di potersene accorgerne, era all'interno del tubo, canalizzato verso l'arena. Cosa avrebbe fatto? Si rese conto di non essere pronto, e voler scappare da lì. Non voleva stare lì. Voleva tornare al suo distretto, al giorno prima della mietitura, e riviverlo all'infinito. Voleva rivivere la calma, la gioia, anche le emozioni negative provate; voleva rivivere Chris. Evaporare le lacrime.

Un debole urlo giunse dalla base della gola, ma raggiunse la bocca come una canzone. “Bullet With Butterfly Wings”. La sua canzone preferita. Nel silenzio del tubo, che lo distaccava dal mondo, cominciò a cantare: «The world is a vampire sent to drain; secret destroyers, hold you up to the flames...».

Continuò, notando a malapena la mano sventolata dallo stilista fuori dal tubo, senza traccia di compassione, senza alcun pensiero tragico per la sua morte. Con la musica, si era ritrovato, e forse ce l'avrebbe fatto anche in quel momento. Intanto, stava salendo.«Even though I know I suppose I'll show all my cool and cold like old job...»

Non c'era più tempo di cantare. Una malinconia estrema scorreva nelle sue vene, mentre emergeva in una splendente arena, con una Cornucopia scintillante e dorata, festoni montati su bronzei pali avvitati su di loro, un mosaico di piccoli tasselli colorati come pavimento. La Cornucopia giaceva su un prato fiorito, ricco di rose bianche poggiate lì, un tappeto di candore. Un'area di festa, circondata da delle enormi pareti circolari diamantifere, con quattro spaccature posizionate l'una a novanta gradi dall'altra. Jeremy non si lasciò cogliere dallo stupore, come altre facce meravigliate con la bocca semiaperta. Una voce brillava nell'aria, scandendo un conto alla rovescia.

La Cornucopia. Doveva andare lì, prendere il più possibile e scappare per le porte. La via di fuga. Questo, trovando i suoi alleati. E doveva sbrigarsi.

Una frase splendeva nella sua mente, il ritornello della canzone.

Despite all my rage, I am still just a rat in a cage”. La sua mente non si stancava di ricordarglielo, e la sua bocca la seguiva scandendo le parole senza alcun ritmo in sottofondo. Nonostante tutta la sua rabbia, era ancora solo un topo in una gabbia. E in quel momento era obbligato a sopravvivere.

Prima di accorgersene, partì. I giochi, lui, gli altri tributi. Era un istinto primordiale, probabilmente la sopravvivenza, a mobilitarlo ed alimentarlo. Doveva sbrigarsi. Doveva vivere.

Avvistò Aaron e Serena, dopo una lunga corsa alla Cornucopia, affiancati mentre afferravano più cose possibili.«Jeremy!» riuscì a distinguere dalla bocca della ragazza, con una mano alzata, un misto di preoccupazione e sollievo.

Come preoccupazione e sollievo? Cosa pensava la sua mente? Aveva sempre una mente, o era qualcosa di totalmente scollegato, allucinato da quel caos, dalla paura da tutte le cose che provava? Cosa succedeva? Jeremy si ritrovò senza non sapere che fare, le mani inibite, un sudore freddo che gli colava dalla fronte. Almeno credeva che fosse sudore freddo.

E quando sentì una fitta lancinante alla schiena, non capì subito come mai stava crollando a terra. Non guardò chi potesse essere stato a infilare la lama nel suo corpo, non cercò di rassicurare Aaron e Serena e non si disperò. Non riusciva a non fare nessuna di queste cose. Qualche lacrima aveva miracolosamente raggiunto i suoi occhi, mentre il suo cuore accoglieva l'idea della morte. Ci aveva già provato, no? Lo aveva fatto per Chris, no? Li avevano distrutti, senza neanche conoscerli. E forse Chris stava piangendo a casa, forse anche suo padre, forse anche il più insensibile degli insensibili poteva provare compassione per lui. Non avrebbe più parlato, corso, riso, amato, odiato, mosso un dito, cantato, ascoltato una canzone.

E mentre moriva, queste parole aleggiavano nella sua testa: “Despite all my rage, I am stil, just a rat in a cage”.

 

Distretto 1, Emerald Goldspace

Glielo avevano spiegato, nel modo più comprensibile possibile. Tondo e chiaro. Fin dalla sua nascita, avevano impuntato nella sua mente l'idea di dover essere qualcuno. E per essere qualcuno, esisteva solo un modo: vincere gli Hunger Games. E per vincere, era obbligato ad uccidere.

In realtà, l'idea non lo feriva più di tanto. Anzi, sentiva una strana adrenalina nel suo corpo, mentre stringeva la sua spada e la ragazza del distretto 8 ammucchiava la roba destinata a loro, ai Favoriti. Erano i più forti, i marchiati come bersaglio degli sponsor, e Emerald se ne compiaceva. Nonostante quell'anno fossero un misero numero, era un'eccezione di stupidità. O la gente non era degna, o aveva qualche strano morale a sorreggerli per optare per un rifiuto. Poco importava. Quello forte era lui.

Il ragazzo del 6 era vicino a lui. Non esitò ad ucciderlo, nel momento in cui era piegato per afferrare un inutile zainetto, preso da una strana angoscia, una strana disperazione. Tanto, stava solamente risparmiando il suo tempo. Sarebbe morto ugualmente. Andrea, il portentoso ragazzo del 9, stava sovrastando quello dell'8, sfamandolo di botte. Si stava divincolando, ma Emerald constatò con un sorriso che l'avrebbe fatto ancora per poco. Eracle stava aiutando Who, cosa che Emerald considerò inutile; dopotutto, l'impiegata era lei. Avrebbe potuto afferrare un'arma ed aiutare a sfoltire il gruppo di nemici, l'unica mossa intelligente.

Uno. Emerald teneva il conto di quanto aveva contribuito alla sua vittoria, con il numero di tributi uccisi. Individuò un altro bersaglio interessante nelle due ragazze che si stavano avvicinando ora alla Cornucopia: Fuyumi, l'esibizionista compagna di distretto, e Carlotta, la sua povera alleata. Il ragazzo conosceva perfettamente la regola secondo la quale chiunque elimini un personaggio antipatico al pubblico acquista punti, o almeno così gli avevano spiegato. Perciò, che conseguenze avrebbe avuto far fuori Fuyumi? Positive. Un tributo, dopotutto, non valeva come un altro.

Si ritrovò di fronte alla compagna di distretto, fissandosi negli occhi, prima che caricasse ed attaccasse con un grido. Fuyumi tentò di fermarlo, con le sole braccia che spingevano verso di lui; mentre la lama sollevata del ragazzo formava graffi sulle sue mani poste a proteggersi. Era forte, l'avversaria, anche rivolta all'indietro per evitare la fame della morte. Emerald decise di ritrarsi, e di studiare un altro attacco. Tentò di sferzare di nuovo con la spada, ma lei lo bloccò, sempre con le sue nude mani, stringenti l'arma. Sangue scorreva ora da loro, macchiava la lama, si fondeva con quello di distretto 6 residuo. Emerald sorrise. La visione del sangue era sempre una piccola vittoria per lui, la considerava la prima della serie. Caricò una terza volta, colpendo violentemente il fianco della compagna tanto da tirarle fuori un urlo. Un grido, che si confuse con uno arrivante da dietro. Emerald si girò cautamente, vedendo Carlotta brandire un'ascia con una totale incapacità, come se fosse il primo oggetto con cui fosse venuta a contatto. Bastava la salvasse, o meglio, salvare la compagna. Ma Andrea riuscì ad afferrarla per i gomiti, trascinarla via, sbatterla sulla Cornucopia e iniziarla ad aggredirla con feroci pugni, accompagnati ognuno da una protesta per il dolore. Emerald ringraziò mentalmente l'alleato, sia per averlo tirato fuiori, sia per avergli sottratto un compito. Un valore in meno, si sarebbe comunque rifatto.

Il ragazzo si voltò piano contro Fuyumi, la quale passava all'attacco, aggredendolo e salendogli sulla groppa. Il Favorito si contrasse all'indietro, tentando di farle mollare la presa, ma riuscendoci solamente con l'ausilio delle mani. Era una sfida dura, ma la cosa piaceva al tributo. Altrimenti, non ci sarebbe stato gusto. Ora Fuyumi, o Cassandra, comunque si chiamasse, era a terra ed imprecava la sua perdita, tentando di rialzarsi. Nell'impatto una piccola fessura si era creata nella sua testa, facendo uscire un sottile ruscello di sangue. Era impattata con le rose, che intralciavano i passi del ragazzo, incontrando la sua antipatia. Ma quelle rose artificialmente rosse erano tremendamente belle.

Non riuscì a mettersi in piedi. Cercando di essere più trionfale possibile, pensando all'effetto che sarebbe fluito sugli schermi in quel momento, Emerald infilzò la ragazza, rendendola ormai un cadavere. Ritrasse lentamente l'arma della sua vittoria, e si girò per controllare cosa facesse il suo compagno.

Si stava sfogando, evidentemente. Il corpo di Carlotta, perché ormai solo corpo era, si ostinava ad afflosciarsi a terra, come Andrea si ostinava a percuoterla. Nel caos, di persone che correvano via, spargendosi per l'arena, e di ritardatari condannati.

Eracle era sempre lì, accanto a Who. Emerald doveva compiere il suo lavoro, ma certamente non essere l'unico.«Chentaurion! Vieni, diamoci da fare!» gli gridò, non aspettando per una risposta, cercando altro sangue che l'avrebbe mantenuto in vita.

 

Distretto 4, Lynton Hamilton

Affannati, cercavano di catturare più materiale possibile per sopravvivere, senza cadere nell'inutile. Sempre che esistessero cose inutili, all'interno dell'arena. Anche una goccia d'acqua, la più minuscola delle briciole, la più debole delle luci si poteva rivelare indispensabile, una benedizione. Sempre che non appesantisse troppo, l'unico dettaglio adocchiato da Lynton e le sue alleate. Intorno a loro, altra gente si stava prostrando alla raccolta del sostentamento, non interessati ancora allo scontro, nascondendosi alla lama dei Favoriti. Lynton aveva sottratto un'arma, si sarebbe dedicato con tutto il suo spirito ad un eventuale scontro, ma non sapeva se le sua capacità potessero raggiungere la vittoria. Era sempre meglio prevenire, però.

Accoglieva su ognuna delle spalle uno zaino differente, stringendo un kit di pronto soccorso in mano. Vide Emilie alle prese con una cassetta straripante di cavi, dall'aria mortalmente pesante. Si avvicinò alla ragazza del 3, chinandosi accanto a lei e domandandole:«Ehi, vuoi che ti porti io la cassa?»

Lei lo osservò con i suoi occhi azzurri, che quasi corrompevano la sua fiducia, convincendola ad essere una persona ammessa alla corte dell'amicizia di Lynton. E queste persone erano un numero scarso; tanto meno il tributo desiderava ottenere degli amici in questa situazione. Aveva paura di lei, in un certo modo, ma non poteva fare a meno di dedicarle un aiuto. Nonostante tutto, era la sua alleata. «Non ti preoccupare, grazie» gli rispose con un sorriso cordiale, comunque affaccendato. Notò il suo sguardo tornare sulla cassetta, per raccogliere i cavi per non farli straripare, con un'angoscia annidata nei suoi occhi. Lynton non disse niente, pensò che fosse normale, in quella situazione. Anche lui si sentiva catturato in qualche meccanismo più grande dell'arena, asfissiante, un bavaglio che gli legava la bocca e gli impediva di lamentarsi in ogni modo. Di urlare, forse. Perché si era offerto volontario? Cercò di tirare fuori tutta la sua scontrosaggine nel produrre la risposta, ma poi realizzò che la visione di quel ragazzino estratto al posto suo, in quell'arena, in quel momento gli avrebbe portato più dolore rispetto alla sua. Dopotutto, lui era solo, e grande. Non sarebbe mancato a nessuno, tanto meno avrebbe ispirato compassione.

Lui era pronto, Emilie quasi. E Morgane? Aveva tentato anche di distanziarsi dalla spumeggiante, folle Morgane, quanto complicato fosse, per non correre rischi neanche con lei. Però sentiva di doverla proteggere, come con la ragazza del 3. La riconobbe, grazie ai fili azzurri nei capelli, nell'arretrare davanti a...

Oh, cavolo.

Il tributo del 9, Favorito, che sferrava il primo pugno nel volto della compagna. D'improvviso, sentì come se l'impronta apparisse sulla sua guancia. Era una femmina; allenata, ma non troppo forte, comunque minore rispetto all'avversario, e lui la malmenava in questo modo, senza alcun scrupolo? Lynton non aveva mai ragionato su questo punto di vista, ma ora si rendeva conto di quanto fossero inadeguati e crudeli i giochi, anche secondo questo fattore. Vinceva il più potente, cambiava solamente il campo della sua forza. O l'agilità, o l'abilità con le armi, o la furbizia, o la capacità di sopravvivenza. Sì, aveva giurato di spargere tutte le sue capacità in quei giochi, ma non avrebbe dovuto sottintenderne nessuna, verificare la presenza di tutte, era necessaria l'accensione di ogni lampada funzionante.

Chiunque si nascondesse dietro gli schermi a dirigere o godersi quello spettacolo era spregevole. Solo spregevole.

Intanto, Morgane tentava di ribellarsi alla solida morsa del tributo. Ma stava comunque perdendo; Lynton non riusciva a scorgere il sangue a macchiarle la faccia, ma era sicuro che ci fosse. Morgane non doveva morire. Non per una sua distrazione. Doveva intervenire.

Ma Andrea era un gigante, imbattile, spaventoso; quasi sicuramente avrebbe potuto battere Lynton. Anche lui sarebbe stato fuori dai giochi. E magari Emilie avrebbe tentato di intervenire, e l'alleanza si sarebbe sgretolata per la perdita dei componenti...

Aveva un'arma, ma sarebbe bastato? Avrebbe potuto mandare la sua testa all'indietro per lo scontro addirittura prima del primo affondo. O almeno, Lynton sospettava fosse così.

Avrebbe rischiato la sua vita per una sconosciuta?

Tentò di muoversi.

Non gli riuscì.

Allora, il volto di Morgane emerse, sdraiata con la pancia rivolta verso la terra, sopportando tutti i colpi, provando solo a resistere. In un attimo di energia, guardò Lynton negli occhi, e scosse piano la testa.

No. Lo aveva programmato, aveva visto che non ce l'avrebbe fatta. Era il destino, e per una volta Lynton si adagiò nel credergli, nonostante non si fosse mai fidato. Ormai non c'era più nulla da effettuare, Morgane era un cadavere vivente. Almeno per poco.

«Vieni» ordinò il ragazzo ad Emilie, forse troppo duramente. E lei, immersa nei cavi, fino a quel momento, lo squadrò preoccupata e chiese:«Come, vieni? Morgane dov'è?» La giovane si alzò, e si portò una mano alla gola scorgendo la compagna all'opposto della Cornucopia, sussurrando il suo nome.

«Vieni» ripeté Lynton, con fermezza, muovendo qualche passo. Voleva andarsene. Sentiva un peso per Morgane, ma nessuna lacrima. E lì avevano finito.

«Ma Morgane...» si lamentò, compassionevole, Emilie.

No. Non l'avrebbero rincorsa. Era morta. Lynton imitò il gesto del tributo di poco tempo fa, raccontando il suo necrologio. Ma Emilie rimase ferma.

Istintivamente, Lynton spiegò:«Senti. Morgane è già morta, l'aveva predetto. Lo saremo anche noi, se ora non ci sbrighiamo.»

Lei non era convinta. Lynton si diresse verso un'azione drastica.

Porse una mano:«Ti fidi di me?»

Emilie esitò. Guardò il ragazzo negli occhi, pensosamente, forse realizzando che non c'era nulla da pensare.

Ed afferrò la mano di Lynton.

 

Distretto 12, Savannah Sparks

I giochi era iniziati, così. Uno solo sarebbe sopravvissuto, e quell'uno sarebbe potuto tranquillamente non essere lei. Una risatina isterica sopraggiungeva sempre, a quel pensiero. Non sapeva quale motivo affliggesse la sua mente per produrre qualcosa di simile, nel vivo dell'inizio della battaglia, mentre delle persone erano intente a bruciare i loro ultimi attimi di vita, e perciò Savannah la considerò come nevrotica. Non trovava altra spiegazione.

Non trovava neanche una ragione per la quale avesse raggiunto l'arena, con il pericolo che gravava sulla sua testa, dopo aver rifiutato i Favoriti. Forse, era proprio l'antipatia degli amati da Capitol City a esortarla a pensare di essere rinchiusa nell'antipatia dei capitolini; anche se non manifestata. Temeva, comunque. Tali parole non sarebbero mai uscite dalla sua bocca, ma il terrore si era annidato placidamente in ogni suo osso, scorreva assennato nelle sue vene. Già questa idea era, sminuendola, raccapricciante. Ma doveva superare ogni timore, per rimanere viva.

Non scorgeva nessuno dei suoi alleati; li attendeva con lo sguardo, speranzosa, ma senza cominciare la raccolta o tentare in un aiuto. Sperava solo non fosse capitato loro nulla, anche se un suo lato pessimista ammetteva con angoscia quanto si trattasse di un fatto improbabile.

Rimaneva lì. E, se rimaneva lì, c'era un motivo. Sconosciuto, ma c'era.

«Savannah» sussurrò una voce alle sue spalle; inaspettata e quasi coordinata ai suoi sentimenti, tanto da ottenere un suo sussulto. Era solo Julian, come constatò voltandosi velocemente. Si ritrovò a ringraziare qualunque entità sconosciuta lo avesse mantenuto vivo, senza neanche un particolare affetto nei suoi confronti. Forse, temeva solamente di restare sola subito, schivando ogni possibilità di cambiamento dell'accaduto.

«Julian» rispose lei, ferma, decisa, come saluto. Le parole da rivolgersi non erano, e non dovevano essere, molte. Solo gli avvenimenti. Solo sopravvivere.

«Su» la esortò lui, determinatamente,«iniziamo.» Stavano comunicando tramite uno scarso numero di parole, eppure la comprensione era massima. Forse, ad inserirli sullo stesso tono, era l'eliminazione di tutto ciò di sfarzoso conseguente al loro impercettibile, ma successo, ritorno alle origini. Erano, in un certo senso, nudi. Almeno fino a quando non si sarebbero appropriati delle armi.

Si domandò dove Mihael si fosse cacciato, ma non sembrava nell'interesse di Julian. E scatenare una discussione in quella situazione, sarebbe stato suicida. Sarebbe arrivato, se non fosse morto, altrimenti... Savannah sentì una fitta proveniente dal cuore, ma, nonostante questo, seguì le istruzioni dell'alleato. Cominciò ad arrancare con le mani, catturando tutto il possibile e caricandoselo sulla schiena, sulle braccia, controllando che non fosse un carico troppo difficoltoso. Sorrise al contatto del manico di plastica di un machete, percorrendo con cautela la sua superficie fino alla lama. Come a testare la loro compatibilità. Pensò che in quel momento sarebbero potuti essere con lei sulle telecamere e che quello sarebbe stato un momento perfetto per salutare Neal. Non l'avrebbe mai ammesso, ma gli mancava. Il burbero pacificatore ed istruttore, il suo mentore preferito dell'intera vita. Ma non c'era tempo per le frivolezze.

Quel momento di calda e fervida rievocazione del passato si cancellò quando Julian le posò una mano sulla schiena.«Savannah,» ripeté, in quella conversazione efficace ed essenziale, e lei puntò gli occhi verso il punto da lui indicato.

Era... Mihael. Sempre vivo. Un “bene” sorse spontaneo da quel luogo indefinito che scaturiva i suoi insensati sentimenti. Fronteggiava la ragazzina del 2, e rimase un attimo divertita dal fatto che una così gracile creatura si potesse scontrare con qualcuno. Anche perché il combattimento sarebbe dovuto scaturire da lei; aveva avuto modo di indicare all'interno di Mihael e poteva confermare quanto la sua rissosità fosse misera. Ma la stava comunque per sfidare.

Trattandosi di un suo alleato, Savannah trovò naturale di andarlo ad aiutare. Con un cenno della testa, annunciò la sua volontà a Julian e s'intralciò fra i due. Due aveva già impattato il suo coltello nella gamba di Mihael in qualcosa che potesse essere un graffio, ma una smorfia di dolore sul volto del compagno la preoccupò. Sfruttò la sua prima mossa per spaventare l'avversaria, e lei arretrò. Come inizio, era ottimo.

La stupì il suo vuoto celebrale nel riflettere su quale fossero i suoi obiettivi. Voleva liberare Mihael? Ucciderla? E se la sua nuova preda fosse divenuta lei? La piccola sembrava piuttosto burrascosa.

Fermò il flusso di riflessioni per un attimo, quando con il coltello Due tentò di affondare il suo pugnale nella spalla di Savannah. Qualcosa di acuto, evidente ed atroce spuntò nel punto del braccio dove lo scarto era comunque finito. Sì, lei voleva ammazzarla. E Savannah avrebbe compiuto la scelta migliore nell'imitarla.

Non voleva esagerare nella crudeltà, procurandole una soffocante e lunga vendetta, perciò tentò subito un colpo che sarebbe potuto essere mortale. La lama affondò nel fianco della ragazzina, la quale represse un piccolo verso di sofferenza e puntò il pugnale al ventre. Per una fortuna o per incredibili riflessi, Savannah lo evitò, rimanendo senza fiato per la sua stessa mossa. In quella situazione disperato, il suo corpo ricordò di meritare dei ringraziamenti, scatenando l'ilarità del cervello. Per evitare un secondo colpo al collo, Savannah si gettò a terra e agì con il machete sulla gamba di Due, che cadde a terra, continuando a cercare di infliggere con il suo coltello. Nel pensiero di quanto fosse pericolosa, Savannah non poté evitare di assalire il suo petto, producendo un sordo rumore con il machete. Allora, l'aveva uccisa. O era quasi morta. Si portò la mano alla bocca, travolta da questa riflessione. Oddio. Lei era viva. Aveva ucciso Due. Non sapeva cosa fosse meglio, quale fosse peggio.

Il letto di rose era quasi una condoglianza, un funerale mancato. Un contrasto, la crudeltà con la delicatezza apparente di quei fiori. Eppure, in loro possedevano qualcosa di profumato ed inquietante, forse anche loro sanguinavano, in qualche modo. Come, sanguinavano? Era il sangue dei tributi. E non li piangeva, crescevano grazie a loro.

«Savannah!» chiamò Julian, appostato al bordo della Cornucopia con Mihael. Corse da loro, con Mihael leggermente zoppicante, e continuò, oltre la porta dorata. Non si doveva fermare. Era viva. Aveva ucciso Due.

Arrivata al di là della porta, si stupì del cambiamento dell'arena: ora da terra s'innalzavano alberi splendenti, simili a palme, con tronchi cristallini e palme dai tratti di smeraldo, dallo stesso colore dell'erba l'erba, innaturale, che le pizzicava le gambe. Una luccicante foresta tropicale, preziosa e, probabilmente, assassina. Si voltò un attimo ad osservare le pareti da quali era emersa, notando la loro assunzione di un colore dorato. Anche Mihael e Julian, nel loro stupore, si erano formati a ruotare, ma Savannah fu la prima a notare, dall'altro parte dell'arena, un'altra porta.

Cosa celavano quei giochi?

Di certo, una prima regola: che era permesso uccidere sulle rose.

 

Spazio autrice

Signore e signori, che gli Hunger Games del 500 abbiano inizio!

No, non posso evitare un po' di vanità nel riconoscere di essere riuscita ad arrivare a questo punto ed avere ancora delle idee. Il punto è come ci sono arrivata e, se tutte le precedenti recensioni mi avevano graziato, qui penso di essere messa male. Anche perché i creatori di chi ho “ucciso” può criticarmi senza rimorso (e tutti, ve lo dico, possono, non vergognatevi).

Sei tributi, li ho inseriti tutti, vero? Qualcuno accennato, altri dal loro punto di vista, altri da quello dell'assassino. È inutile ribadire che i punti vagheranno da un tributo all'altro, senza che si tratti necessariamente del morto. Quindi, se vedete il nome del vostro tributo in alto, non allarmatevi subito.

Apriamo lo spazio chiamato “Cielo di sera”, dove racconterò tutti i caduti. Abbiamo:

  • Distretto 1, Fuyumi Albarn;

  • Distretto 2, Grace Nòel;

  • Distretto 4, Morgane Willblues;

  • Distretto 6, Jeremy Corgan;

  • Distretto 8, Nathaniel River;

  • Distretto 10, Carlotta Wilson.

Ovviamente, sono molto dispiaciuta per chi ha perso i “suoi” concorrenti, ma conosciamo le regole del gioco e quanto sia necessario. Particolarmente, sono dispiaciuta per Nathaniel per aver dedicato alla sua memoria due righi, se è andata bene. Comunque, sono riuscita a tenermi sui quattro POV, altrimenti avrei allungato troppo la data di consegna.

Se non ricordate qualcosa, o avete domande da fare, chiedete pure. Io conosco i personaggi bene, e potrei aver inserito dei dettagli facilmente dimenticabili.

Due parole su ogni POV:

Jeremy Corgan: la canzone è degli Smashing Pumpkins, indicata dall'autrice del personaggio. Parole gentilmente offerte da Internet; le prime due frasi significano “Il mondo è un vampito, mandato per dissanguare, distruttori segreti, esponetevi alle fiamme” e “Anche se lo so, suppongo che mostrerò tutta la mia tranquillità e la mia freddezza come un vecchio mestiere”. L'altra, è inserita nel testo.

Emerald Goldspace: temo di essere passata alla modalità Quentin Tarantino, qui. Spero sia poco crudo.

Lynton Hamilton: ecco, Morgane era la praticante dell'idromanzia, se l'avete scordato. E qui, non ho nulla da aggiungere.

Savannah Sparks: credo di essere troppo OOC. Spero di no.

Passo, dato che ho da rileggere il capitolo e ho sempre poca voglia.

Giusto una cosa: finita questa fan fiction, ho idea di creare una serie in cui dedicherò una one shot ad ogni tributo caduto nei giochi del 500. Voi ci state, a donarmi i vostri personaggi?

Alla prossima,

Bolide

 

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Capitolo 13
*** Inganni fra i cerchi ***


Capitolo XII

Inganni fra i cerchi

Distretto 6, Emanuelle Hepburn

«Non riesco a capirlo. È secca, come se non ci fosse mai stato nulla» osservò la sua alleata, Athena, chinata sulla conca che un tempo conteneva un lago, dissipato chissà dove. Quando si erano addormentate la sera prima, nel sesto disco contato a partire dalla Cornucopia, conteneva un lago pieno di acqua limpida e dolce. Era stato un piacere per loro due, assetate dal lungo camminare, e dalle corse del bagno di sangue; ma ora era scappato, lacerandole con delusione pari al sollievo della visione della fonte. Ora cercavano di alleviare la nebbia sospesa sul mistero.

«Gli Strateghi l'hanno prosciugato. Evidentemente temevano che saremmo state qui troppo tempo e hanno deciso di togliere il lago» intervenne Elle, spianando le sue congetture (forse addirittura certezze) ricreate nella sua mente. Congetture che vacillarono allo sguardo deciso ed infuriato della compagna.

«Sì, ma perché? Siamo al secondo giorno, i Favoriti sono tutti vivi, c'è ancora tanto spettacolo da prendere da altri luoghi! Perché ripiegare su di noi?» spiegò lei, sommessamente ma con una voce carica di rabbia. Rabbia condivisa anche da Elle. Avevano sottratto loro qualcosa di vitale, un'importanza ancora non manifestatasi, ma che sarebbe emersa presto. Avevano riempito una borraccia trafugata al bagno di sangue, ma era misera per due persone; sarebbe bastata appena una giornata. E quel posto era afoso; probabilmente volutamente afoso. Era particolare, come disco: asfaltato, con delle linee bianche tratteggiate, che talvolta salivano e si ricongiungevano in un albero grigio e si trasformavano nelle sue foglie. Ciò che si potevano considerare cespugli erano larghi cilindri piatti neri, assomigliavano alle ruote intraviste nelle macchina capitoline. Di animali, ancora non se ne scorgevano. Rimaneva solamente quella conca grigiastra, pietrosa, e terribilmente secca e vuota. Afoso e frustrante.

«Non lo so, Athena. Vogliono che ci spostiamo. Forse ci seguono per mostrare l'intera arena, dato che ci hanno già visto camminare tanto. Non so quanti cerchi ci siano, oltre questo» stabilì Elle, pensando che ormai andarsene era rimasta l'opzione migliore. Avrebbero potuto premiarle per questa loro rivitalizzazione dei luoghi spenti dell'arena e, nonostante quel permesso da parte loro infastidisse la ragazza, convincere Athena era il suo prossimo compito. La sua gola iniziava a desiderare l'acqua e non voleva sprecarne.

«Va bene. Vediamo chi è più duro» concluse lei, annuendo con fare irritato. La scontrosaggine della sua alleata sembrava già essere totalmente emersa, in tutti i momenti passati in comunità. Il giorno prima avevano perso il terzo lato del loro accordo, Nathaniel, e sebbene Elle avesse provato un pizzico di pietà per lui Athena non aveva mostrato nulla. E non ne avevano parlato. La loro bocca era servita solo per i momenti necessari, non si erano lasciate andare in frivole ed inutili conversazioni. Non avevano dato spettacolo, ma in quel momento erano costrette.

Consumarono una misera striscetta di carne essiccata per colazione, trovata in uno dei due zaini afferrati. Il loro bottino complessivo comprendeva anche un coltello e una falce scelta da Athena, senza stupire troppo Elle. Dopotutto, lei proveniva dal 9 e avrebbe potuto ritrovare più confidenza. In uno zaino era contenuto anche un sacco a pelo, non abbastanza largo per entrambe. Athena lo aveva scacciato, con il suo solito comportamento scorbutico, ma Elle era riuscita a convincerla ad instaurare dei turni. Quella notte le sarebbe toccata la dura terra nuda, e quel pavimento metallico non la attirava.

La porta conducente verso il quinto anello era sbarrata e perciò furono obbligate a dirigersi verso il settimo. Osservarono senza troppo stupore quello somigliante ad un normalissimo bosco, senza troppe apparenti sorprese, ed esaminarono la zona attente a non distanziarsi troppo.

Ad un certo punto, un frullio d'ali sopra di loro attirò i loro sguardi.«Un uccello» sussurrò Elle, mentre Athena cominciava a seguirlo con la falce ben stretta nella mano, mormorando un «Forza.» Elle non la biasimava minimamente. Il suo palato si era rilassato nella settimana capitolina e la carne essiccata le sembrava una truce tortura.

Continuarono a cacciare il volatile fino a quando il terreno sotto ai loro piedi diventò più umido, conducendole dove segretamente speravano.

«Acqua!» esclamò sorpresa Elle, mentre Athena annuiva. Ora, il suo cuore si stava risollevando. Vuol dire che avevano eseguito ottimamente il compito assegnato ed erano state risarcite della fatica. Ed erano le prime. Sempre che non fosse diventato un punto d'incontro organizzato dagli Strateghi.

Consumarono la loro borraccia completamente, per riempirla da capo, e continuare l'inseguimento. Si dilungarono per un lungo tempo, mezz'ora, forse, senza ottenere prede, arrivando ad arrancare.«Nulla da fare» concluse Athena, accennando con la testa di ritornare al lago.

E ciò fu quel che fecero, ottenendo un'altra arrabbiatura quando scorsero, al posto del lago a cui già erano affezionate il bacino terroso e miserabilmente svuotato. Ciò che Elle poté fare fu rimanere sbalordita, la bocca sbarrata, sballottata fra arrabbiatura e sorpresa. Ci hanno fregate, si ripeteva mentalmente. Ci hanno fregate.

Evidentemente, le emozioni provate da Athena erano le stesse, in quanto non commentò con una parola. Dopo qualche silenziosa e cupa riflessione, l'alleata notò:«Così, neanche qui ci vogliono.»

Elle confermò, annuendo. Si dovevano avviare verso l'ottavo cerchio.

E così camminarono, fino ad arrivare alla porta divisoria.

Chiusa.

 

Distretto 5, Myrtle Hopkins

Lei e Marvin erano in cammino da innumerevoli ore, o almeno questo era ciò che pareva alle delicate gambe di Myrtle. Non si erano rinforzate neanche in quei tre giorni di ferreo addestramento. La ragazza le maledì per la loro estrema ed estenuante debolezza, ma ciò non variò la situazione. Era stanca, terribilmente stanca. E senza meta.

La loro attuale posizione era il secondo disco e la loro attività era un misero tentativo di caccia, portato avanti da due totali inetti da quel punto di vista. Myrtle si consolava pensando che almeno in quel momento non la stavano riprendendo, con i suoi capelli totalmente sfatti, il volto segnato dalle occhiaie del turno notturno e il corpo sporco di quella sostanza raccapricciante proveniente dall'interno degli alberi. Era una resina rosso sangue, vischiosa e terribilmente appiccicosa; sembrava portare con sé, oltre alla sua consistenza ripugnante, addirittura un terrore che non riusciva più a scivolare via dalla tuta. Myrtle aveva già maledetto svariate volte quel fluido, ma senza trovare un metodo per impedirgli di importunare il suo fisico. Odiava, odiava quell'arena.

Tutto ciò che la circondava, in più, era particolarmente inquietante. Dall'affilata erba argento, si stagliavano dei fusti composti da quattro sottospecie di lastre metalliche disposte a novanta gradi l'una dall'altra, confluenti in una punta non invitante. Myrtle sperava ardentemente che questi non crollassero, altrimenti sarebbe stata una sicura e dolorosa morte. Impostata nelle parole capitolina, un sicuro e meraviglioso spettacolo.

La presenza di degli uccelli che si posavano placidamente sulle cime delle lastre senza riportare alcune ferite, apparentemente comodi e preparati al riposo. Avrebbero potuto considerare uno scherzo il tremendo aspetto dei fusti, se solo gli uccelli non apparissero più metallici dello stesso paesaggio. O almeno, erano evidentemente composti di carne, ma il loro becco affilato suscitava timore di essere ostacolo del loro. Erano stati loro la maggior causa dell'insonnia di Myrtle. Capitol City sarebbe stata capace di procurarsi nottetempo uno spettacolo per la mattina, lo squartamento di un tributo comunque non attraente dal punto di vista della combattività. Ed anche fisicamente, ormai. Myrtle compì un ultimo tentativo per scacciare la sostanza rossa, ma questa le intralciò le mani. Che schifo.

Avevano solamente scorto la Cornucopia, considerandola solamente per l'impulsività di Myrtle che l'aveva spinta a recuperare uno zaino di un brillante verde con una velocità non appartenente alle sue gambe. Con loro delusione, avevano scoperto che conteneva solo un coltello, una bottiglia d'acqua misera e dei biscotti. Myrtle era aggredita dalla sete, cercando di annullare la sua voglia deglutendo, anche se la sua saliva andava esaurendosi. Le razioni previste d'acqua erano scarse; necessarie, ma scarse. Ancora, nessuna fonte d'acqua si era rilevata ai loro occhi. La ragazza si era fissata nella mente il proverbio “Meglio prevenire, che curare”; nonostante ciò, il suo bisogno si era stabilito nella sua gola e la stava torturando. Il prossimo sorso sarebbe stato quando il sole avrebbe raggiunto la sua maggiore posizione. Milton, l'ultima volta in cui avevano comunicato, le aveva rivelato che l'ora era circa le dieci, dieci e mezza. Era passata appena mezz'ora. Ancora altra tortura.

Il coltello era gestito pavidamente da Milton, abbassato fra l'erba per non farsi scorgere, come Myrtle. La schiena di Myrtle si stava lamentando inesorabilmente, ma la ragazza tentava di zittirla con il pensiero di un animale succoso e tenero. Sicuramente, non sarebbe stato tale, ma c'era bisogno di insaporire la sua credenza.

Quando Milton le indicò di zittirsi cautamente, con una mano davanti alla bocca per dimostrarle di aver adottato una preda, Myrtle fu animata da una nuova speranza che mise a tacere ogni parola lagnante. Ne fu soddisfatta quando Milton strinse fra le mani un burrascoso coniglietto, dagli occhi innaturalmente rossi e il pelo grigio. Il ragazzo si trovò a gestirlo con una certa difficoltà, indugiando con il coltello e con la bocca:«Devo ucciderlo... bene... sei proprio sicura che debba ucciderlo?»

Era intimorito dal pensiero, sicuramente. Milton provava tenerezza verso il ragazzo, ma lo rimproverava per la sua esorbitante inettitudine. Si domandò che razza di domanda fosse “Sei proprio sicura che debba ucciderlo”, e rigirò le parole in un modo più soave.

«Ehm... trattandosi di carne, non credo possa essere consumata con l'animale ancora in vita, Milton» replicò lei, la voce estremamente posata. Milton cercò una conferma con lo sguardo, e quando la ricevette, domandò:«Vuoi fare tu?»

Non ci sarebbero state alternative. Se avessero voluto pranzare, non gli restava che l'esecuzione di quell'innocente (fino a un certo punto) animale, macchiarsi del suo sangue. Letteralmente. Il ribrezzo le percorse la braccia.

Sospirò. Si era già adeguata all'idea di dover predare il coniglio, tanto Milton sarebbe stato incorruttibile. Se avesse dovuto compiere quell'atto, almeno avrebbe dovuto dimostrare una certa sicurezza. In caso le telecamere la stessero inquadrando, e già il suo aspetto era un totale pasticcio. Impugnò il coltello con entrambe le mani, mentre il compagno sorreggeva l'animale, indietreggiò con le braccia e colpì.

Sentì l'arma affondare nella sua carne, nei suoi organi interni; in più, il sangue le stava invadendo il corpo ed era addirittura peggiore della sostanza. Come poteva scacciarlo?

Senza alcuna idea, Myrtle lasciò cadere il coltello ed iniziò a saltellare, come se questo fosse efficace per pulirla di tutto quell'orrore.«Che schifo!» gridò una volta, tentando poi di contenersi. Avrebbero potuto scoprirla.

Milton, intanto, fissava con fare funebre la carcassa del coniglio.

E Myrtle rabbrividì quando capì cosa parevano in quell'arena: il fifone e l'isterica.

 

Distretto 3, Emilie Levieva

Si avviava verso il nuovo cerchio, celato fino ad allora dallo spento verde delle mura metalliche, sperando che lo spazio successive le potesse porgere sorprendenti ma positive sorprese. A dire la verità, i giochi smorzavano questa ipotesi. La struttura concentrica dell'arena la trascinava a credere a un gran numero di colpi di scena, cosa che per i capitolini significava spettacolo, il quale a sua volta stava per sangue e violenza. Forse quella fessura si era increspata nelle pareti, con una velocità quanto inaspettata quanto inquietante, mentre loro brancolavano per il terzo cerchio. Quella lastra di metallo grigio illuminata da minuscoli rettangoli bianchi intermittenti, posizionata come pavimento, da cui s'innalzavano coni della stessa tonalità, non prometteva affatto bene. Era sempre migliore rispetto al secondo, ma cercare una nuova postazione ricca di selvaggina e, magari, anche di acqua. Al bagno di sangue, fra il loro bottino assestato in un ottimo modo, si erano appropriati di un paio di bottigliette, ma il primo consiglio era comunque quello di stabilizzarsi accanto a un lago od a un corso d'acqua, sia secondo il mentore della ragazza che quello di Lynton. Emilie si avvertiva scoraggiata dal non avere costruito ancora la realizzazione del più importante consiglio il secondo giorno. Emilie non sapeva cosa pensare. Si trovavano nel terzo cerchio, ma, per loro conoscenze, sarebbe potuto essere il penultimo quanto distante di metri dai confini; perciò l'acqua potrebbe essere stata introvabile quanto frammentata per l'intera arena. Per il momento, non era un problema.

Lei e Lynton varcarono la soglia, avvertendo un calore maggiore rispetto al clima quasi nuvoloso del disco precedente. Emilie lo trovò spettacolare. Perciò, non potevano solo tramutare completamente un ambiente in qualche secondo, ma anche il clima sovrastante. Spaventoso, ma sorprendente. Come potevano riuscirci? Se mai fosse uscita da quell'arena, avrebbe dovuto scoprirlo. Per una mente come la sua, discendente da un padre inventore, era nient'altro che affascinante. Lynton non sembrò evidenziare molto la caratteristica, più che altro osservò il territorio.

I loro piedi erano cullati da un sottile strato d'acqua, il territorio coperto appariva scoglioso. Pochi metri più in là, si stagliava un minuscolo bosco, che alla prima osservazione Emilie suppose essere una pineta, distante da dove si trovavano attualmente loro grazie a un'esile striscia di sabbia. Avevano ricreato il mare compreso fra due mura metalliche, ormai di un verde acqua splendente. Emilie aguzzò il suo stupore, per la differenza dal paesaggio precedente. Abbassando lo sguardo, poteva notare anche dei veloci e minuscoli pesci saettare per l'acqua. Guardò Lynton, cresciuto nel mare. Non mostrò alcun sentimento e continuò a camminare, stringendo in una mano la cassa di cavi recuperata da Emilie. Lei si sentiva in colpa per costringere il compagno a quel fardello, ma lui non si lamentava e in più sarebbe potuto tornare utile in qualsiasi movimento. Non doveva dare per scontato che lui sopportasse lo sforzo; non le aveva mai dato l'impressione di un tipo arrendevole. Però si era anche proposta di trasportare i cavi, ed ovviamente Lynton aveva rifiutato. Così era rimasta lì, ad affondare a metà fra il dispiacere e quei pochi centimetri di mare.

S'inoltrarono nella pineta, esplorando in cerca di qualcosa d'interessante. Selvaggina fresca, paracaduti non recuperati o, magari, acqua. Lynton la precedeva, fino a quando non sentirono entrambi delle voci.

Lynton le segnò con l'indice di non pronunciare parola, accostandosi dietro a un cespuglio. Lei annuì velocemente, improvvisamente impaurita. Chi erano? Nemici? Amici? Favoriti? Provò un brivido su questa ultima parola. Favoriti. Non avrebbero avuto il problema nell'affondare il coltello, anche se non credeva che si fossero spostati così tanto. O, a dire la verità: non voleva credere. Non voleva finire come Morgane...

A pensare il nome di Morgane, il suo cuore s'incrinò un poco. Era un brava persona, e non meritava di essere conclusa in quel modo orrido, su quella grondante conchiglia... Rivedeva ancora il suo volto che sopportava ogni colpo, come se fosse perfettamente a conoscenza di ciò che le sarebbe accaduto. Dopotutto, era una veggente. Conosceva anche il nome del vincitore, ma Emilie non l'aveva domandato. No, sarebbe stato immaturo da parte sua scoprire se il destino le aveva destinato la morte in quel luogo. In più, se il nome fosse stato un altro, non avrebbe compiuto azioni se non quelle trascinanti verso la sua perdita.

Si pietrificò, attendendo l'acquietamento di quelle voci. Sembravano due maschi ed una femmina. Se davvero fossero stati i Favoriti, uno non era presente, oppure si era già arreso. Ma non le pareva di aver avvertito colpi di cannone o di aver notato il volto di uno di loro, la sera prima. Non ricordava chi altro ci fosse.

Emilie si sporse, vedendo i ragazzi del 12 e quello del 5. Imprecò mentalmente, pensando che loro probabilmente erano i secondi più vicini alla vittoria dopo i Favoriti. Si strinse alle foglie, continuando ad osservare, in punta dei piedi per migliorare la visuale...

A un punto, accadde il terribile. Emilie scivolò, accompagnando il tutto con un piccolo urlo. E gli altri lo notarono, come testimoniò la visione delle loro facce su di lei dopo qualche secondo.

 

Distretto 12, Mihael Stivens

La ragazza del 3 era sdraiata a terra, sotterrata dalle loro ombre che le coprivano la faccia, donandole ancor più un'espressione terrorizzata. Mihael conosceva a malapena il suo nome (si chiamava Emilie, giusto?), ma gli pareva una brava persona. Era probabile che i suoi alleati, Julian e Savannah, dedicassero meno indugi sulla scelta di ucciderla o meno. Avevano una mentalità più adeguata agli Hunger Games di lui. Aveva già sofferto nel momento in cui la ragazza del 2 si era determinata nel fronteggiarlo, traendone così la morte. Era sì vero che da quello scontro aveva derivato una ferita alla gamba, medicata superficialmente e comunque dolorante, ma era stata portata dalla voglia di vincere contro di lui. E, se i suoi alleati non fossero stati marchiati dallo stesso desiderio, lei non sarebbe morta. Lo sbaglio era arrivato da entrambi le parti. In quel momento, sperava lasciassero andare Emilie, giustificata persino dalla sua evidente paura di quell'istante.

«Guarda chi abbiamo qui» intervenne Julian, in uno dei suoi momenti di comportamento da Favorito. Non era riuscito ancora a localizzarlo; aveva un carattere adeguato ad ogni situazione, ma era privo di uno suo vero e proprio, almeno secondo Mihael. Uno per i momenti di quiete. E perciò, era instancabile, non si fermava mai. Recitava in continuazione un personaggio differente, e in quel momento era quello più telegenico.

«Levieva, giusto?» continuò poi, rinfrescando a Mihael il cognome del tributo. Lei annuì, in totale velocità, come se questo la potesse far vorticare fuori dal momento. Julian le porse una mano ed Emilie, senza evitare la riluttanza, l'accettò per rimettersi in piedi, scrollandosi la terra dai vestiti. Mihael rimase in silenzio, mentre Julian si confrontava con Savannah:«Cosa ne dovremmo fare?»

Non era loro solito convincerlo nei discorsi, e più che altro rientrava nelle intenzioni di Savannah. Si erano accorti della sua inadeguatezza con lo spirito dei giochi e lo avevano accettato come tacito collaboratore. La cosa, sulle prime, aveva scaturito la rabbia di Mihael; gli sembrava un'assenza di considerazione, nonostante in parte li comprendesse. Ma aveva reagito al suo solito modo: mantenendo la freddezza. Come stava facendo in quel momento.

«Non so... io direi di prenderle la roba, poi vedremo» intervenne lei, forse consapevole del ripudio provato da Mihael verso l'uccisione.«Tu che ne dici, Mihael?» si ricordò improvvisamente lei.

Il ragazzo, annuendo, rispose:«Per me, va bene.»

In questo modo, lei avrebbe potuto conquistare altre attrezzature e, soprattutto, vivere. Ma, in realtà, sentiva che era un assassinio più innocente, anche se non completamente. Ormai, però, ciò che era compiuto era compiuto, e Emilie stava consegnando il suo zaino ai suoi alleati.

Improvvisamente, Mihael sentì un rumore. Si volto istintivamente e localizzò una figura dietro agli alberi; un'ombra, ma comunque materiale. Julian e Savannah lo richiamarono mentre lui si avviava strisciando la gamba verso il luogo da cui provenivano le informazioni, stringendo il suo coltello. Era troppo in vista per utilizzare l'arco, e la preda sarebbe sicuramente sfuggita. Il vantaggio era detenuto dal nemico invisibile.

Improvvisamente, la figura si manifestò sotto forma di un pugno terribilmente doloroso sul volto, che costrinse Mihael a far ricorrere le mani al volto per ostruire l'uscita di sangue. Si sentiva la faccia devastata e, immerso in questi pensieri, fece cadere il coltello. Non riusciva a vedere niente, e quando i suoi occhi iniziarono a concedergli la grazia, vide il ragazzo del 4 combattere contro Savannah e Julian. Rimase stupito per un attimo, poi la sua mente fece confluire il ricordo dell'avversario e di Emilie insieme nell'addestramento. Era alleata, allora. E come mai non aveva chiamato il suo compagno? Evidentemente, si era resa conto che se lui avesse agito nel silenzio lei si sarebbe potuta salvare meglio.«Scappa, Emilie!» a un punto giunse come urlo dalla ressa, nella tonalità sconosciuta del nemico. Lei, spaventata, indugiò prima di afferrare lo zaino e correre. D'improvviso, Mihael si sentì come tradito da lei, dal suo secondo piano, per la protezione donata solo con il pensiero. Arrabbiato, forse. E allora si gettò in aiuto di Julian e Savannah.

Prese per le spalle distretto 4. Quello, scattando, si girò e infilò il coltello nel suo stomaco. Da lì, dai suoi passi indietro, i pensieri di Mihael furono semplicemente... annebbiati. Era la sensazione provata in miniera quando i carichi erano troppo pesanti, simile ai momenti di tristezza infinita. Non riusciva a parlare, a protestare, a gridare aiuto. Solo cercare di non essere più ferito, spingendo sul suo addome. Ma la vista stava cominciando a lasciarlo di nuovo, insieme al mondo. Ogni sua parte del corpo ribolliva, ma senza reagire.

Stava semplicemente... male. Era la sensazione di tutto quanto che scivolava dalle sue mani, legate dietro alla sua schiena. Erano i volti della sua famiglia davanti ai suoi occhi, come se si sarebbe dovuto preparare a ricordarli prima di un lungo viaggio.

I residui delle sue orecchie gli comunicarono un colpo di cannone. Mihael pensò irosamente che fosse il suo, ma quando vide la sua situazione senza miglioramenti e sentì la voce dei suoi alleati, si rese conto che avrebbe dovuto ancora soffrire. Quindi, chi era morto? Non riusciva ad incastrare i pezzi. Sì, c'erano tre persone a combattere, due le conosceva, due gli sembravano vive...

Dopo qualche minuto, o qualche secondo, o qualche era, si addormentò.

Allora sarebbe dovuto essere arrivato il colpo di cannone giusto, ma non lo sentì.

 

Distretto 7, Astrid Wright

«Ci siete tutti?» domandò Eaves, voltandosi per confermare anche con gli occhi la risposta affermativa di Reed. Era diventato il protettore del gruppo, la guardia del corpo, lo stregone che dirottava le palle di fuoco dai due piccoli dei giochi. Astrid, con i suoi quattordici anni, era la minore dei tributi, e probabilmente anche la più fisicamente fragile. E altre debolezze in Reed erano facilmente constatabili. Per un certo verso, Astrid era grata al ragazzo del 10: le donava una certa sicurezza e smorzava il tangibile imbarazzo fra lei e l'amico. Però temeva di potersi legare troppo a lui, a temere per lui. Sarebbe già potuta essere coinvolta nell'atto di farlo. Ciò la terrorizzava.

Avevano camminato molto, in quei due giorni. Astrid sottolineava così ardentemente la durata dell'arena per l'infinita apparenza che le sembrava avesse avuto. Si sentiva assonnata, affaticata, era passata dal camminare al trascinarsi, ma sapeva che più si sarebbero spinti avanti, più il territorio sarebbe stato inviolato. Così, esplorando un poco ogni zona nell'attesa che una nuova porta si aprisse, si erano spinti nel nono cerchio.

Era uno dei più improbabili visti fino a quel momento, almeno secondo Astrid. Da terra s'innalzava uno strano tipo di erba, fra il giallo e il dorato, che ad un punto assumeva la forma simile a una treccia ed emanava dei sottili fili. Affiancavano le gambe nel camino per tutta la loro lunghezza, e non la riparavano minimamente dal grande calore emanato dal Sole in quel contesto. Astrid ne era stupita, ma anche atterrita e spaventata. Non le piaceva, quel posto. Sperava di potersi trasferire il più presto possibile.

Quel giorno, erano stati avvertiti solamente due cannoni, uno non troppo distante dall'altro. La ragazza supponeva che ci dovesse essere stato uno scontro, e sperava che potesse acquietare il più possibile i capitolini. Temeva seriamente un loro riversamento su loro due, pretendendo spettacolo dalle armi di Eaves; dopotutto, lui era stato l'autore del suo dieci. C'era anche la ragazza del 12, Savannah, ad aver ricevuto una valutazione simile; ed Astrid era seriamente spaventata anche da lei. Aveva nella sua aria qualcosa di impietoso, di assassino, di menefreghista. Perciò, la paura non derivava solo dai veri e propri gesti, bensì da lei in generale. La immaginava ad attaccarli furiosamente. In più, c'erano i Favoriti. Astrid respingeva quell'idea.

Arrivarono al muro, dove l'ombra si allungava nel terreno spegnendo quell'inquietante dorato. In un certo senso, anche Astrid si sentiva più protetta. Ed approvò totalmente quando Eaves propose di rimanere lì, di fermarsi per quel giorno. Si lasciò cadere nel terreno, quasi affondando fra la vegetazione. Riusciva comunque a scorgere Reed ed Eaves, distogliendo un poco di tutta quell'erba. Almeno, nessuno li avrebbe potuti avvistare. Mangiarono, parlando di rado, per la paura che qualcuno li potesse avvertire.

Il giorno prima, la sera, Astrid aveva chiacchierato con Reed, dopo tanto tempo, mentre Eaves dormiva (o forse, fingeva di dormire). Era riuscito ad estirpare un minimo del suo lato più affettuoso, anzi se lei non l'aveva mostrato totalmente, tenendosi lontano dall'argomento “Ivan”. Dopotutto, accennare a lui in quel contingente sarebbe potuto essere deleterio per loro, e sarebbero potuti essere sotterrati da uno spesso strato di bombe spedite dal mentore prima di rendersene conto. Ivan era potente, racchiudeva nelle sue mani il comune potere del vincitore, ed anche Reed. Avevano semplicemente chiacchierato, cullati dai loro sorrisi derivati solo dal fatto di essere insieme, come se fosse stato un giorno normale, come se fossero stati due ragazzi incontrati all'uscita di scuola ed immersi improvvisamente in un confronto spontaneo, la miglior cosa in quel momento. Del più e del meno, lo definiremmo. Ed Astrid si era sentita bene. Senza ragionare troppo sul significato della parola, era sgorgata audacemente e indipendentemente da lei stessa, dal suo profondo. Bene.

Aveva notato però in Reed qualcosa di differente. Una scintilla di paura, o di preoccupazione; ma comunque repressa. Dal modo in cui abbassava gli occhi, si intuiva che una patina magnetica avesse avvolto i suoi ricordi, richiamando qualcosa di terribile, angosciante. Era lui, però interrotto da questo.

Sperava solamente che non fosse un problema.

Ma erano nell'arena.

 

Spazio autrice

Ehilà.

Non riesco addirittura a ricordare quanto tempo fa ho aggiornato per l'ultima volta, in più vi offro questa banalità enorme. Penso che tutti abbiano capito in cosa consiste l'arena, e non ci sprecherò molte parole. Anzi, penso di averle già esaurite.

Come avrete notato, i POV sono cinque. Inizialmente erano programmati come quattro, ma quando mi sono resa conto che quello di Emilie stava iniziando ad essere eccessivamente lungo, ho optato per inserirne un altro. Spero di aver fatto bene.

Dovrei fare una domanda importante: lascio il rating giallo od è meglio che inserisca il rating arancione? È seriamente importante, perché potrei essere impressionabile, ma scrivere anche roba peggiore del rating giallo.

Due parole su ogni POV:

Elle Hepburn: gli Strateghi (/io) sono dei grandissimi cretini. Sì, in pratica me lo sto dicendo da sola.

Myrtle Hopkins: spero di non aver ridicolizzato troppo i due personaggi. Attualmente, devo rileggere e non mi ricordo cosa cavolo abbia scritto. Perciò...

Emilie Levieva: in pratica, da qui iniziano gli avvenimenti più importanti del capitolo che non sono solo un punto della situazione. Non mi ricordo neanche cosa debba puntualizzare anche qui.

Mihael Stivens: una battaglia a capitolo, leva un tributo di torno. Non fa rima, però è adeguato.

Astrid Wright: POV più corto del capitolo; istituito più che altro perché volevo dimostrare che fossero ancora vivi. Spero non sia troppo pesante, anche perché così farei del “male” ai personaggi.

Mi dispiace molto per i tributi morti, anche se, per essere il secondo giorno, non sono molti. I Favoriti sono in ferie? No. Ritorneranno nel prossimo capitolo, è una promessa.

Per la rubrica “Cielo di Panem”, abbiamo:

  • Distretto 4, Lynton Hamilton;

  • Distretto 12, Mihael Stivens.

Un'ultima cosa: sono sette pagine di capitolo, perciò spero non siano state troppo pesanti.

Ovviamente, buona Pasqua, perché sicuramente non aggiornerò di nuovo! E non mangiate troppa cioccolata! (O anche sì, per una volta).

Alla prossima,

Bolide

P.S.: mancano tre recensioni ai cento! Volevo ringraziare tutti quanti, siete i migliori lettori che avrei mai potuto avere.

 

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Capitolo 14
*** Coraggio ed incoscienza ***


Capitolo XIII

Coraggio ed incoscienza

Distretto 7, Milton Marvin

Si trovavano nel terzo cerchio dallo scorso giorno. Avanzavano lentamente, con circospezione, mentre Milton covava una sincera ed aperta speranza che nessuno intralciasse il loro cammino con intenzioni distruttive. Non sapeva con quale fegato avrebbe potuto rivolgere la sua arma contro un ragazzo che aveva visto, almeno fino a tre giorni prima, dormire nel suo palazzo, allenarsi con lui, partecipare agli stessi incontri. Magari sarebbe potuta essere addirittura Astrid, la ragazzina che condivideva il suo distretto. Stralciò l'idea quando si rese conto della sua apparente innocenza; non credeva avesse idea di poter combattere. Appariva sempre così coraggiosamente spaventata, determinata a proseguire nonostante tutto ciò che strisciava sul terreno...

Al contrario di lui. Milton, ultimamente, si sentiva scoraggiato. Interagiva con ciò che accadeva intorno, proseguiva, ma piuttosto pavidamente. Respingeva con tutte le sue forze tutte le violenze, affrontandole solo se necessarie. Il giorno prima, con Myrtle aveva trovato un coniglio, e si era accorto di non poterlo predare definitivamente nel momento in cui si era deciso a farne il suo pasto. Era difficile da comprendere, forse addirittura incomprensibile. Un collidere di varie reazioni al suo interno, che lo portavano a rifiutare l'idea di volgere qualcosa dal movimento all'inerzia. Non necessariamente alla morte, ma anche a un sonno profondo, un coma, uno svenimento. Non per sua mano. Non avrebbe mai potuto credere la durezza di quel momento, di quei pensieri.

Era seduto contro la parete che delineava il confine fra terzo e quarto disco, una pausa richiesta da Myrtle. Avevano camminato per un lasso di tempo poco maggiore all'ora, ma anche lei era visibilmente stravolta da quei giochi. Si erano intrattenuti in cacce, ricerche, fughe da apparenti allarmi per i due giorni precedenti, il tutto condito da un'esigua quantità di viveri. Avevano sopravvissuto, ma in Milton cominciavano a scavare la fame, la sete. E nella faccia estenuata di Myrtle si leggeva lo stesso bisogno di acqua. Senza contare che la vera capitana di quella chiusa, ma in qualche modo, efficace alleanza era lei. Lei aveva conquistato la forza fra i due di trascinarsi avanti, anche se solo trascinarsi, mentre lui tremava allo sbocco di vento leggermente maggiore. Se fosse uscito vivo da quell'arena, anche se non credeva veramente a una tale eventualità, si sarebbe dovuto confrontare certamente su qualcuno, ed ai racconti sulle più gelide notti, sulle più violente battaglie qualcuno avrebbe commentato di sottofondo, banalmente e con una delle più assurde bugie:«Capisco.»

E no, non avrebbe capito. Semplicemente perché non era mai stato in quell'arena, in quella morsa di improvviso calore ed improvvisa freddezza, di spaventi, di respiri affannosi. Non avrebbe mai provato la gioia alla visione più comune, negativa o positiva che fosse, a ricordargli che esisteva comunque un mondo all'esterno di quella struttura. Lui non ci era riuscito, neanche spingendosi e rinchiudendosi nelle più gravi e sanguinose immaginazioni durante i suoi periodi di pausa per entrare nell'arena, cercando in qualche modo di abituarsi e forse anche di affezionarsi alla crudeltà, alle armi, alla violenza. Ma no, era contrario; a tratti appariva un sogno anche quello, tanto era astratto ed incredibile, però si trattava della più vera realtà, mai affacciata nella sua mente.

Non avrebbero capito. E forse lui, con un'espressione da pazzo, immerso un'altra volta nel pensiero di quei boschi sempre così differente da un cerchio all'altro, avrebbe smentito le loro parole. Se solo avesse avuto il fegato. Se solo fosse uscito.

«Come va?» domandò Milton ad un punto, vedendo Myrtle alle prese con occhiate disgustate dalla visione del suo corpo.

Lei continuò a continuare quel suo inquietato, ma dolce sguardo e gli chiese, con voce melanconica:«Sono orribile, non è vero?»

Sorrise. Sperò davvero che fossero quelli i problemi che assalivano Myrtle, e che la deviavano dai veri problemi in quell'arena, le sue primarie preoccupazione le quali la spingevano ad essere più forti da altri punti di vista. Cercò di scacciare la timidezza per un'azione di recupero della sua comprensione, e tentò di rassicurarlo:«Myrtle. Sei una ragazza molto forte, decisa, determinata. Probabilmente, senza di te sarei disperato. E se capita di essere più sporca, o più spettinata... non ti preoccupare. Sei sempre la bellissima ragazza di prima.»

Lasciò le parole fluire dalla sua bocca, senza domarle o controllarle, e questo lo portò ad arrossire sotto lo sguardo stupito della compagna e, forse, amica. Sperò di essere riuscito nel suo obiettivo e si rallegrò un poco nel sentire Myrtle replicare:«Davvero pensi che io sia bellissima?»

Lo pensava veramente? O più che altro, aveva intralci nell'ammetterlo? La sua bellezza stava nella forza che emanava. Forse lei non lo notava, ma nella sua durezza c'era una determinazione effusiva, che arrivava anche a lui.«Io... credo di sì. Un poco affamata, ma guarda il lato positivo: stai dimagrendo, no?»

Si frantumarono ed unirono in una risata cordiale, cauta, sincera. Poi, calò il silenzio. Calarono i loro sguardi sul terreno, entrambi con una certa consapevolezza del loro rossore. Questo momento etereo fu spezzato da Myrtle che, alzatasi da terra, disse:«È meglio che continuiamo, probabilmente. La giornata è lunga, e non vorrei spenderla dilungandoci troppo in pause.» Era di nuovo lei. Milton non si soffermò nel pensare di chi fosse il merito.

«Andiamo, allora» confermò, timidamente, lui.

Sperando di poter conservare la determinazione.

Sperando di poter conservare la vita.

 

Distretto 2, Eracle Chentaurion

Avevano smaltito una giornata nel riordinare le loro provviste, elencandole mentalmente, un inventario per affermare di non aver un granello di fiducia in Who e fare in modo che tutto ciò di rubato da lei non venisse dimenticato. Eracle non lo riteneva necessario, non credeva che Who si potesse appropriare illegittimamente di un oggetto comunque a sua disposizione, ma era comunque un alibi per mantenersi più tempo nella zona circostante la cornucopia. Non si era reso conto, almeno fino a quando si era trovato travolto da suoi simili durante l'inizio dei giochi, di ripudiare l'uccidere gratuito. Eppure, si era preparato psicologicamente, aveva pensato che molte persone lo facevano anche senza un preciso scopo e una precisa ragione nelle loro braccia, senza alcuna riflessione. Forse era proprio quello che li trascinava a una tale facilità nell'uccidere: l'inconsapevolezza. Eracle aveva sempre trovato che ci fosse uno spesso strato appannato di differenza fra inconsapevolezza e coraggio, e molte persone si appropriassero del secondo pur possedendo solo la prima. L'inconsapevolezza era un'ottusa impulsività, il coraggio un atto difficoltoso compiuto con la mente. E aveva scoperto di essere coraggioso, nonostante, a dire la verità, lui fosse già a conoscenza della sua caratteristica. Poteva constatarlo con un sorriso sulle labbra, ma anche un'amarezza, il fatto di non riuscire ad uccidere così semplicemente. Quando avvertì la rabbia far impattare i suoi pensieri, respirò profondamente per non arrabbiarsi un'altra volta. Non voleva. Non in quel frangente. L'avrebbe trasformato nella solita belva da Capitol City. Eracle desiderava mostrare la sua potenza, ma soprattutto di aver raggiunto la calma.

Ed era difficile. Era stato obbligato dal padre, ma lo considerava quasi uno sconosciuto. Eracle era dispiaciuto dalla sua assenza, ma molte cose erano mancate nella sua vita. Anche sua madre, o meglio, la donna che lo aveva messo al mondo. L'aveva vista con gli occhi da neonato, non collegati alla sua memoria, e non la ricordava. Sapeva il suo nome, Alcmena, e che proveniva dal distretto 9, ma nient'altro. A volte, trovava ironico condividere il sangue di un capitolino e di una povera donna dei distretti remoti, ma di aver assunto grazie all'aria respirata il comportamento di un ragazzo del distretto 2. Era un meticcio, ma ciò non gli dava particolare fastidio. Aveva comunque una casa, da Chirone.

Ora lui e il gruppo si stavano preparando ad andare in cerca di prede, innocenti o intrise di colpe che fossero. Sempre di nemici si trattava.«Chentaurion! Ti vuoi muovere?» gridò con prepotenza il ragazzo dell'1, Emerald. Lui ed Andrea sembravano aver legato, nel periodo di addestramento ed in quello. Più che altro, Emerald sembrava idolatrare il sanguinario ragazzo del 9, sottomesso dalla sua potenza. Eracle, in questo modo, l'aveva valutato uno stupido. Andrea... era spaventoso. Non lo convinceva il suo comportamento da ragazzo cordiale, perché aveva visto quanto le sue mani reclutassero sangue, il primo giorno. Era finto, ma intelligente. E proprio per questo non era assolutamente da sottovalutare.

Eracle, di malavoglia, strinse la sua spada e seguì gli altri due che si avviavano verso la porta. Si era aperta d'improvviso, e perciò non avevano tardato nel voler oltrepassarla, sperando sempre di poter tornare al loro punto di partenza. Altrimenti, si erano già dotati di provviste e di acqua, e cacciare non sarebbe stato un problema. Avevano Who a proteggere il loro bottino, in ogni caso.

«Ce la farai?» chiese a Who, e lei annuì, determinata.«Buona fortuna, allora.»

«Buona fortuna» rispose lei, mentre osservava gli altri andarsene. Non le si era avvicinato troppo, ma le sembrava una brava persona. Di certo, era la migliore del gruppo, e gli sarebbe dispiaciuto se le fosse accaduto qualcosa. Non ai livelli di Megara.

Megara era la sua unica amica all'orfanotrofio in cui suo padre lo aveva posizionato prima dei suoi dieci anni, quando si era trasferito all'Accademia per studiare le tecniche per uccidere. Aveva cinque anni più di lui, e morì in un'edizione precedente dei giochi. Ecco perché Eracle li ripudiava tanto. E il suo corpo lacerato dalla violenza era la prima idea determinata dai giochi. Eracle ce l'avrebbe fatta anche per lei.

Era solo, camminando verso la porta. Gli altri lo aspettavano.

Sembrava una sfida, con i contendenti non specificati.

Mentre si aggiravano per il primo disco, i Favoriti notarono che anche la porta del secondo disco si era aperta. Fu Emerald a notarlo, con un grido euforico ed anche piuttosto stupido, secondo Eracle. Lo seguì, con una smorfia. E quella smorfia si protrasse all'interno del suo corpo.

 

Distretto 11, Serena Hamilton

Camminavano, scostando ogni foglia che poteva rappresentare una difficoltà sul camino. Erano nel secondo cerchio, e finché riuscivano a sopravvivere in quello, lei e Aaron avevano progettato di non muoversi. D'altronde, sarebbe stato inutile, una fuga da un nemico immaginato che avrebbero potuto ritrovarsi davanti. Meglio stabilizzarsi, conquistare un territorio. A Serena il loro accampamento, con i rimasugli carbonizzati del fuoco del giorno prima, dava una scarna idea di casa che riusciva a tranquillizzarla, un poco. Poteva considerarla quasi la sua salvezza, lo credeva la sua proprietà inviolabile. E sperava fosse così.

Stavano ritornando alla loro base, con le mani piene sono delle loro armi sconfitte. Non avevano la stoffa dei cacciatori, ed avevano dimostrato tutta la loro inettitudine facendo scappare tutte le prede plausibili. Avevano sempre qualcosa, ma Serena era comunque impaurita dalla prospettiva di morire di fame. In quei giorni a Capitol City, aveva assunto anche un paio di chili, spacciandoli per energie ma derivati dalla tentazione di tutto quel cibo. E il suo stomaco si stava vendicando. Aaron spesso sacrificava parte del suo pasto per lei, ma Serena preferiva rifiutare. Zittiva il suo stomaco, ma faceva rimbombare quello di Aaron, assieme al suo senso di colpa.

«Ci siamo quasi.» Aaron lo ripeteva spesso, accompagnando la sua frase spesso con un sorriso che le mostrava voltandosi. E lei annuiva e ricambiava, non credendoci del tutto, ma non volendo donare preoccupazioni al compagno. Si era dimostrato piuttosto afflitto già per la morte di Jeremy, come se questa avesse fatto scattare una certa scintilla in lui, acceso compassione o rabbia. Probabilmente lei aveva avuto un aspetto peggiore, il primo giorno. Aveva legato con Jeremy più di Aaron, le ispirava tenerezza in tutta la sua cupa ma fondata tristezza, e cercava di fare il possibile per allargare la portata della sua felicità, ma quell'alone di sconforto rimaneva comunque dipinto sul suo volto. Un velo grigio ed incancellabile, che spesso le ricordava la sua situazione.

Non che Serena volesse dimenticare di essere agli Hunger Games, a combattere per la sua sopravvivenza. Questa nota la portava ad impugnare il suo carisma, a dare il meglio di sé. Ma essere oppressa da questa idea, ogni momento, ogni attimo... l'avrebbe portata a voler dimenticare. Una giusta percentuale per essere libera.

Si avvicinarono al campo, quando sentirono delle voci. Aaron si girò spaventato verso di lei, come ad accertarsi che lei fosse sempre presente. Lei s'irrigidì, trasalendo. Li avrebbero notati, li avrebbero uccisi? Rimase in ascolto.

«Qui qualcuno c'è stato. E non credo sia lontano» suggeriva una voce maschile.

«Potrebbe risalire anche a ieri sera. Chi ha fatto questo fuoco può essere ovunque, ora» replicò un'altra, dello stesso genere. Non avevano nascosto i resti del fuoco! Serena ebbe voglia di gridare per i suoi errori. Non avevano programmato di farlo, credendo che se qualcuno avesse trovato il loro accampamento avrebbe trovato anche loro; ma non avevano considerato quelle occasioni. Non urlò, ma spalancò gli occhi, facendo entrare tutti i rimproveri.

Intanto, le voci, tutte di tono maschile, continuavano ad infuriare. Serena accolse una sottospecie di calore sferrante, qualcosa di doloroso mai affacciato prima. Un misto di terrore, di voglia di intervenire, di impotenza. Rimase comunque ferma.

Si trovava acquattata fra l'erba, dietro ad un albero. Serena si affacciò, per osservare i Favoriti.«Sono girati» commentò la loro posizione, dicendolo ad Aaron.

Lui annuì, iniziando a farsi strada. Stava... camminando verso di loro. Cosa? Voleva morire?«Aaron!» lo richiamò sottovoce. Lui si voltò, ma ignorò e proseguì. Titubante, Serena rimase lì. Aveva bisogno di un diversivo, o sarebbe stato notato...

«Ehi!» gridò, raddrizzandosi.«Ehi! Sono qui, ammasso di muscoli!»

Serena capì di essere riuscita nel suo obiettivo vedendo i Favoriti voltarsi. Sei riuscita in cosa? Sei pazza? È uno suicidio! Delle voci interne protestarono, e lei si mise a ridere. Le venne spontaneo, non sapeva come mai.

Il ragazzo dell'1, Emerald, sorrise. Gli altri due rimasero interdetti, e la ragazza comprese subito che dovevano aver sospettato. Era estremamente stupido, da parte sua, mostrarsi, senza alleati.

Emerald scagliò un lancia. Serena la evitò, rendendosi a malapena conto di ciò che stava facendo. Riconobbe un grande spavento, la schivò, con le mani nei capelli, mentre quello del 9, Andrea, saccheggiava l'erba. E trovò Aaron.

Iniziarono i pugni. Risuonavano sul corpo del compagno, pienamente, di una crudeltà assoluta, contrastanti agli acuti e deboli lamenti provenienti dalla vittima. Serena non la vedeva, ma sentiva l'atrocità nelle grida di Aaron e nei tonfi, ogni tanto accompagnati da qualche scricchiolio. Quando ipotizzò che fossero ossa, Serena si inorridì. Poi si rese conto di non essere una spettatrice.

Alzò gli occhi. Incontrò quelli di Emerald.

Sentì qualcosa di acuto e presente allo stomaco. Non ebbe il tempo di scoprire cosa fosse.

 

Distretto 3, Reed Fox

Sedevano all'ombra di un albero pieno di frutti del penultimo disco. O meglio, del distretto 11. Avevano girato ed osservato l'intera arena, ragione che aveva spinto lui e i suoi alleati a formulare l'ipotesi che quel luogo non fosse solo una miniatura, spaventosa e simbolica, di tutti i distretti, con lo splendore della Cornucopia a rappresentare nient'altro che la capitale. Un'idea piuttosto adeguata allo scopo celebrativo di quel tempo. In un certo modo, Reed si era sentito ammaliato dalla capacità di ricreare una nazione in scala accordandola anche con le idee di distruzione dei giochi, ma aveva cominciato ad immaginare come si sarebbero risvegliate le creature di Capitol City, i cosiddetti “ibridi”. Ed ogni opzione inorridiva, sempre in misura maggiore. Reed si sentiva scosso da fremiti alla visione di belve dal ghigno aguzzo e gli occhi rosseggianti, di bestie oscure e viscide, o semplicemente da qualcosa che avrebbe potuto portare la morte.

Era notte, nessuno lo vedeva. Per il momento in cui il buio calava su di loro, lui era incaricato di sorvegliare lui e i suoi amici. Ormai, erano tali. Soprattutto Astrid. Il suo sguardo era diretto costantemente su di lei, per controllare che il suo respiro non variasse, non si affannasse, non si lacrimasse. Voleva tornare indietro nel tempo, voleva salvarla da quella cicatrice che le rigava il viso, ma nel contempo aveva un obbligo. Ogni volta che tentava di riflettere su cosa fare con lei, una fitta rifiutava la gravosità di quella decisione e otteneva il suo rimando. Ancora, non sapeva come muoversi. Quel novantasette percento di possibilità di vincere contrastava e si accordava, in un certo modo, con la sua debolezza. Assisteva impietrito la sua avidità combattere il sentimento provato per la signorina, e non sapeva in che modo intervenire, e se intervenire. E la sua avidità, spesso, si scioglieva nel ricordo dei rari sorrisi di Astrid e nella piacevole sensazione che portavano.

Aveva provato a pensare a cosa sarebbe successo, in entrambi i casi. Ma nessuna idea poteva assumere la verità, era solo una supposizione, seppur contornata da qualche sicurezza.

La prima, più cruda: se non avesse ucciso la signorina, Ivan si sarebbe caricato di una pesante vendetta su loro due, e forse anche su Eaves. Avrebbe devastato la vita di Astrid davanti ai suoi occhi, e dopo averlo reso consapevole della sua colpa, lo avrebbe privato di ogni possibilità di vincita. Ma se fosse stata solo un'impressione?

Aveva tentato di assumere anche quella strada. Ad un punto, si sarebbe dovuto trovare ad assistere alla morte dei suoi alleati o peggio, a combattere contro di loro. Non avrebbe avuto la forza per vedersi scagliare il coltello in faccia, non per decidere una vittoria definitiva, figuriamoci se a sconfiggere gli altri. E non ce l'avrebbe fatta ad accettare di diventare un vincitore.

Avrebbero vinto Astrid, o Eaves. Cosa sarebbe capitato a loro, allora? Eaves gli era parso una persona piuttosto decisa, così responsabile da riuscire a soffrire per i propri rimorsi e poi annullarli, volgerli come un suo vantaggio. Ma Astrid... era così fragile. Era evidente che quel ghiaccio nei suoi occhi era solamente una protezione, per non mostrarsi debole, sofferente. Però, l'effetto ottenuto era totalmente contrario. Reed si sentiva in colpa, per essersi mostrato alle torture di Ivan senza reagire, aiutandola solamente nel momento in cui la condanna sarebbe diventata estrema. Non aveva superato quell'evento di tre anni prima, era certo. Avrebbe superato i giochi? Avrebbe superato vedere la morte di altri ragazzi come lei, ibridi?

No. Forse, era troppo debole. Reed pensava questo senza vanità, con un'addolorata tenerezza. Sarebbe potuta diventare pazza, come Ivan. Fare del male ad altri ragazzi, e sapeva benissimo che la signorina non avrebbe voluto questo. Sarebbe divenuta il corpo di un mostro.

E dal giorno dopo in poi, sarebbero iniziate le torture, come l'apparizione degli ibridi. Erano sempre in quattordici, nonostante i giochi fossero cominciati da tre giorni. Dal quarto giorno in poi, si veniva introdotti nel crudo vivo degli Hunger Games. Il momento in cui gli Strateghi si organizzavano per mostrare l'orrore ai tributi, il divertimento ai capitolini e la potenza ai distretti.

Avrebbe voluto che la signorina, la sua dolce e docile signorina vedesse questo?

No. Mai. Doveva rimanere lontano da quelle paure.

La sua mano tremolante si avviò per stringere il coltello posto per protezione accanto a lui, e quando ebbe un attimo di esitazione, sentì gli occhi affamati di Ivan su di lui, esortanti a continuare nella sua distruzione. Vai, sussurrava la voce del mentore della sua mente. E, come le altre volte in cui era stato sottomesso a lui dalla paura, eseguì gli ordini. Si alzò in piedi e, insicuro come se si trovasse in un sogno, si avviò verso Astrid. Arrivato al suo giaciglio, a quel sacco a pelo che sarebbe diventata la sua tomba, si inginocchiò accanto a lei. Dormiva, respiri profondi dichiaravano la sua vita, e Reed tremò nel pensare che era inconsapevole di tutto. Stava per andarsene.

Vai. Il sussurro di Ivan si fece più forte. Soffrirebbe, sussurrò una penosa voce dopo. Una voce in lacrime, ma decisa. E quella voce lo portò a piegarsi su di lei, a depositarle un bacio sulla testa bionda scurita dal buio. Il suo respiro s'intensificò, e Reed iniziò a sussurrare:«Mi spiace.» Si rese conto che il suo tono era impregnato di lacrime, e continuò di conseguenza:«Mi spiace...»

Vai. Ivan continuava. Reed stringeva il coltello. Astrid dormiva. Reed si sentiva un tramite, debole, obbligato; si sentiva confuso, doveva, non voleva...

Vai! Il tono di Ivan si fece più serio. Reed si sbrigò ad eseguire i suoi ordini, e quando un colpo di cannone dichiarò di essere riuscito nell'intento, il ragazzo scoppiò sul corpo inerte della ragazza.

Come se non fosse stato lei ad ucciderla, ma quella che tutti avrebbero considerato forza ed era la più miserabile delle debolezze.

 

Spazio autrice

Lo so, sono veramente una persona orribile. Alcuni tributi si sono protratti più tempo e, di conseguenza, mi sono affezionata più a loro, e mi sento peggio uccidendoli. Debellandoli. Veramente male. Non ho speso queste parole su personaggi precedenti, e mi dispiace; ma è normale che sono potuta entrare più in empatia con loro più rispetto ad altri fuori dai giochi prima.

Poi. Ho in mente uno schema generale su per giù su tutti i restanti, ed è una piccola conclusione della storia. È stato straziante, sapere di essere verso il finale di 500. Non mi ricordo da quanto stia scrivendo questa storia, ma credo sia da ottobre... ed è tanto tempo. So benissimo che mi sentirò vuotissima all'ultimo capitolo, e cercherò di prepararmi di conseguenza.

Allora... ho paura di essermi presa troppe libertà con i personaggi in questo capitolo. L'OOC forse convive con la fin troppa appropriazione dei personaggi. Visto che non capisco un caspio, è poco probabile che riesca a capire gli OC e scrivere come una loro tramite. Alla fine, faccio in modo che siano loro ad addentrarsi in me e li cambio. Perdonatemi.

Due parole su ogni tributo:

Milton Marvin: e qui, ho esagerato con l'OTP. Sicuro. Questo è uno dei tratti con la narrazione più lenta, perché m'inabisso in riflessioni inutili che ho comunque voglia di fare. Sono un disastro.

Eracle Chentaurion: sempre che abbia scritto bene il cognome. Altro capitolo in pratica... inerte. Me ne sono resa conto rileggendolo, e perdono per tutta questa... fermezza? No. Pausa.

Serena Hamilton: e qui, mi sono resa conto quando il capitolo, essendo gli Hunger Games, manchi di sangue. Sembra uno di quei film apparentemente violenti che i genitori permettono di vedere ai film adolescenti quando non ci sono. Perdonatemi la metafora, era pessima.

Reed Fox: arrivo alla fine, e ci butto più cose possibili. Tre caratteristiche del POV sono arena, passato ed omicidio. Neanche una è approfondita. Però, ovviamente, sono così svogliata da non riscrivere il capitolo.

Per la sezione “Cielo di sera” (non mi ricordavo si chiamasse così, che nome pessimo), abbiamo:

  • Distretto 7, Astrid Wright;

  • Distretto 11, Serena Hamilton;

  • Distretto 11, Aaron Hepburn.

Condoglianze, ovviamente. Ne ho già parlato abbastanza.

Ah, qualche curiosità:

  1. vi piace l'arena? Od è assolutamente banale come pensavo?

  2. Qual è il vostro personaggio preferito?

  3. Quello che vi piace di meno?

  4. Chi pensate vinca?

Come mai questo, non so. Scusatemi se sono così invadente.

Alla prossima,

Bolide

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Capitolo 15
*** Volgere ***


Capitolo XIV

Volgere

Distretto 10, Eaves Isinthaw

«Ce la fai, Reed?» chiese, voltandosi verso il suo alleato. Quella frase riportò Reed improvvisamente alla terra, prima disorientandolo e poi facendolo annuire vigorosamente. Era variato dalla sera prima, dal turno di notte, come se qualche spirito maligno si fosse presentato nella sua mente sotto forma di pensiero. Quel giorno, aveva comunicato solo con parole intrise d'ansia, concitate, quasi incomprensibili. O meglio, quella notte. Eaves era stato strappato al mondo dei sogni da un urlo atroce, femminile, debole, e da un pianto incontrastato, fluente, interminabile. E poi, un colpo di cannone. Astrid. Eaves, turbato, non aveva saputo subito come comportarsi. Aveva interpretato nei singhiozzi e nella disperazione di Reed una sua incoscienza nell'atto di uccidere, ma non aveva subito capito la sua strategia. In cosa consisteva? Voleva annullare i suoi alleati fingendosi leale e poi tradendoli nel sonno, trasformandolo in eterno? Fra il suo singhiozzare, aveva inteso, oltre a miliardi di “No” che non annullavano il suo atto, anche un nome, oltre a quello della compagna: “Ivan”. Non aveva capito chi fosse subito, poi si ricordò del vincitore della diciannovesima edizione. All'epoca, lui era ancora un bambino, ma non era difficile rimembrare il nome del sopravvissuto: dopotutto, ce n'era solamente e dannatamente uno per anno. Eaves ipotizzò che fosse stato lui, il mentore di Reed, a suggerire la strategia. E ora non sapeva se temere per sé, se l'alleato fosse immerso nella recitazione del tributo distrutto dalla sua colpa, o se cercare di sostenere il compagno. Quelle sue espressioni disorientate, non comprensive verso ciò che era successo, testimoniavano anche una confusione interna irrisolvibile, un traffico di sentimenti e di impressioni. A malapena riusciva a parlare normalmente, a malapena riusciva a non piangere. Eaves era stato sopraffatto dalla pietà, e perciò lo aveva accompagnato per il resto del viaggio.

Anche se il suo cuore era dolorante per Astrid. Si era illuso di poterla proteggere, e lei era scivolata via quando lui stava giacendo nei suoi sogni. Avrebbe potuto fermare Reed, il suo coltello, l'intera situazione... Ma lei, la piccola, taciturna, spaventata Astrid era caduta come perdente. Qualche lacrima sul suo corpo l'aveva versata. Poi, un hovercraft l'aveva prelevata, per trasportarla al suo distretto. Eaves voleva fare altrettanto, tornare, ma non in tal modo. Con le sue gambe. Con i suoi incubi, con i suoi rimpianti, però con la sua mente attiva.

La mattina dopo, Reed si era ripreso. Con gli occhi sbarrati, inquietati, per far entrare più coraggio possibile. Gli aveva raccontato la sua storia, da dove proveniva, fino a quella mietitura. Rivelare simili cose in diretta nazionale sarebbe stata come una condanna, per Ivan. Non sapeva se il ragazzo si fosse reso conto di essersi ucciso.

Stavano tornando verso il decimo cerchio. Si era aperto dopo poche ore in cui i due avevano recuperato la loro forza ed avevano raccolto vari frutti; avevano deciso di spostarsi per ottenere nuove possibilità verso il decimo cerchio. E sembrava aver verificato la sua ipotesi: dopo una tale quantità di tempo, si apriva una nuova porta e un'altra si chiudeva. Erano entrati in quel disco e in lontananza Eaves aveva potuto scorgere la via per il nono settore aperta; avrebbero dovuto vedere se ogni via verso il nono si fosse ostruita contemporaneamente all'apertura di quella in fondo all'undicesimo cerchio. Secondo le considerazioni precedenti, quello sarebbe dovuto essere anche il distretto 10. Casa sua. In realtà, Eaves non scorgeva nulla di familiare. Questa era prova di quanto i Capitolini pensassero all'apparenza dei distretti e non a quanto fosse dietro. Spesso i ragazzi del 10 erano vestiti da animali da macello alla sfilata, caratteristico, ma estremamente triste. Anche perché, se avessero dovuto rappresentare alla perfezione il distretto, avrebbero dovuto lasciare i tributi vestiti dalla stessa povertà che li copriva alla Mietitura. Gli abiti migliori non degni neanche del peggiore di Capitol City. Non erano problemi riguardanti direttamente Eaves, però scatenavano, in qualche modo, la sua rabbia.

Esponeva le sue teorie sulla regolarità delle porte ad alta voce, cercando di ravvivare Reed, quando avvertì un ringhio provenire da destra. Eaves volse il capo lentamente verso quella direzione, sapendo che non era Reed. Era un ringhio troppo disumano. Trovò con lo sguardo qualcosa di simile ad un agnello quanto a una bestia. Il suo vello era bianco, arricciolato, come di natura, ma alcune punte erano violate da una sfumatura rossa purpurea che donava un'aria malvagia a quell'animale. I suoi occhi erano due sfere nere, interrotte solo dal riflesso della luce, ma abbastanza esplicite per dimostrare il loro odio. Le sue gambe erano sottili, sostenevano con forza un corpo apparentemente pesante. Ma la parte peggiore erano i denti. Denti aguzzi, affilati, coltelli nella sua bocca pronti a produrre vittime. Un simbolo dell'innocenza volto ad uccidere. D'altronde, quello era evidentemente il suo unico obbiettivo. Sembra un Favorito, pensò Eaves con un briciolo di ironia.

Sentiva che qualcosa sarebbe accaduto. Qualcosa di terribilmente inevitabile. Così inevitabile che accettò un implicito invito posto e si avvicinò al suo nemico.

Sapeva di doversi scontrare, certamente. Lo sapevano entrambi. Perciò, Eaves, in silenzio, accettò la sfida e sfoderò il coltello. Sarebbe dovuto passare tramite quella esperienza comunque. Fu l'agnello a scagliarsi contro di lui per primo, ed Eaves ad indietreggiare terrorizzato. Sbraitava, tentava di azzannarlo senza guardare. E quando tentò una seconda volta, Eaves balzò ancora. Avrebbe dovuto colpire. Si preparò, teso, con l'arma in mano per rispondere alla prossima aggressione.

Sarebbe potuto morire. Valutò la possibilità di scappare, ma rifletté e scoprì che era impossibile che quello fosse l'unico pericolo. Ce ne sarebbero dovuti essere altri, da qualche parte. Pronto a ucciderlo, a vendicarsi della sua codardia.

Era il momento. L'agnello tentò di caricare di nuovo, ma, saltando, qualcosa si frappose.

Era Reed.

Anche lui era dotato di un'arma, ma questo non bastava. Le sottili ma potenti gambe dell'animale tirarono le sue, e fu gettato per terra e sovrastato. Le immagini dopo furono orribili. Reed accoltellava il più possibile la bestia, ma la sua lama non si macchiava; anzi, l'agnello colpiva più vigorosamente. Con i suoi denti strappava la carne del collo di Reed insieme a grida, interi pezzi di epidermide rosata che rilevavano fiotti di sangue e talvolta anche pezzi di ossa, bianche, certamente più del vello dell'avversario. E li gettava lontano, s'infiltravano nell'erba profonda, tralasciando qualche goccia rossa tristemente pendente. E il tutto condito dalle suppliche.

Eaves si rese conto di essere inerte quando strinse tanto la stretta sul manico da ferirsi. Guardò la sua arma e con un nuovo impulso colpì ferocemente con il manico l'animale, senza badare alla salute dell'alleato fino a quando la bestia non si accasciò a terra, il cranio fracassato mostrante spugnosi ed umidi pezzi di cervello venato da una chip elettronici azzurrognoli. Allora, alla presa di un'agitazione che lo colpì improvvisamente come gli altri sentimenti in quel breve lasso di tempo, scostò la carcassa dell'agnello e rivelò il corpo di Reed, con la testa quasi indipendente dal corpo, il sangue inondante la terra, l'erba, la sua tuta, i suoi respiri affannosi. Non c'era cura. Non sapeva come mai avesse compiuto quel gesto, ed Eaves si sentì angosciato quando la sua mente rispose: Per lui. No. Non tutto quel male solo per salvarlo. Non era possibile. Non se lo meritava.

Eaves rimase accanto a lui per i secondi o le ore che trascorsero. E come se fosse la sua ultima fatica per la quale aveva accumulato tutte le energie possibili, Reed sentenziò, con voce spezzata e quasi incomprensibile:«Sarei diventato come lui...»

«Lui? Lui chi? Reed? Ci sei?» Eaves sparò tutte queste domande come se la frase fosse una speranza, anche se rivelava solo una sofferenza terribile. Non voleva perdere anche Reed. Sapeva che non aveva mentito, ma saper di poter provare fiducia per lui non ricompensava la sua morte.

Reed tentò di parlare, donando alla voce quella forza destinata alla vista. Chiuse gli occhi.

Non li riaprì più.

 

Distretto 9, Athena Rainway

Elle era accucciata al muro e guardava nel vuoto, come se d'improvviso si potesse creare un buco che potesse generare acqua cristallina, pura e dissetante. Athena si sentiva quasi in colpa verso di lei, perché sapeva che ciò non sarebbe accaduto. E se degli sponsor fossero stati tentati di premiare la loro resistenza con del liquido, i viveri sarebbero stati tagliati. E perché?

Semplice: perché sarebbero stati destinati a lei.

Avrebbe voluto dichiarare tutto davanti alla capitale, per tirare su Elle, distrarla dai suoi bisogni, darle un'idea su come mai il cielo non donasse nulla. Ma, se avesse parlato, ogni barlume di possibilità di tornare a casa sarebbe stato spento.

Voleva raccontare di suo padre, Abraham Rainway, una delle persone migliori con cui Athena fosse mai venuto a contatto. Anche se era un Stratega. E proprio quello l'aveva portati alla distruzione, proprio i giochi. Per una volta, avevano rivoltato beffardamente la loro reazione. Era tutta colpa di quei disastrosi trentesimi Hunger Games, noiosi fino al sonno, in cui un tributo impazzito aveva gridato di essere un ribelle in diretta nazionale. Un gesto inaccettabile, che aveva suscitato persino qualche piccola rivolta per fortuna affogata in tempo nel sangue. Athena non avrebbe immaginato per paura la replica del vecchio presidente, se una vera e propria ribellione si fosse verificata. La distruzione che avrebbe applicato, stretta nelle sue mani, la vendetta che già aveva stritolato il Capo Stratega e tutti i suoi sottoposti era terrificante. Colpì quasi tutti gli impiegati, compreso suo padre. Ormai, si poteva basare solamente sulla vendetta: di certo, non sarebbe stato più riconfermato alla fine del mandato, non avrebbe seduto più sul suo scranno del potere. Non dopo quel disastro immane, il quale aveva sconvolto la sua vita. La ragazza si sentiva infuocare, quando pensava che qualcuno considerasse il potere importante quanto la salute di alcune persone e della loro famiglia. Perché, non trovando nessun tizzone da esasperare con le fiamme, il presidente si era deciso a danneggiare i parenti degli Strateghi. Il disperato, anziano capo, assetato di importanza, aveva mirato anche verso di lei e sua madre, Lawra. Perciò, si erano rifugiate nel distretto 9. E Athena si era denudata dei suoi sontuosi panni da capitolina, aveva impugnato la falce ed era diventata una comune cittadina di un distretto remoto; rinchiusa in casa per terrore e condannata ad essere sola e cauta, ma una comune cittadina di un distretto remoto.

Qualcuno se n'era accorto. E quel qualcuno si era voluto ingraziare Snow, che chissà per quali assurdi motivi aveva voluto chiudere la vendetta del predecessore defunto, ed era il Capo Pacificatore. Aveva rivelato che la figlia di Abraham Rainway era nel distretto 9, pronta per essere condannata. Quasi senza permetterle di accorgersi chi fossero i suoi assassini.

A volte, Athena pensava avessero vinto loro. E perciò, si schiaffeggiava mentalmente con tutte le sue forze. Non glielo avrebbe concesso. Avrebbe lottato fino alla fine, evitando le lame, schivando le bombe, correndo via dagli ibridi e senza timore di scagliare il coltello. Ma era più complicato di quanto immaginasse.

Elle quasi non riusciva a più muoversi. Non camminava, strisciava via quando era necessario ed Athena non poteva rimanere lì a proteggerla. Non avevano instaurato un rapporto indimenticabile, ma la ragazza ripudiava l'idea della morte di Elle per una sua distrazione. Credeva che anche l'altra la stesse proteggendo, era una questione di rispetto. Dialogavano solo quando era necessario, e questa cosa rientrava a pieno nei favori di Athena. Voleva dimostrarsi il più ostile possibile alla capitale e manteneva meglio un'espressione da “dura” se non conversava amabilmente con la compagna. Soprattutto perché lei non era in vena di conversazioni.

Ad un punto, un colpo di cannone le scosse. Athena, seduta appoggiata ad un albero nel settimo cerchio dove erano rimaste chiuse e dove si erano stanziate, si rizzò improvvisamente per quella puntura alle orecchie. Elle invece donò una fugace occhiata disinteressata al cielo e tornò a fissare la terra. I suoi occhi ritornarono a formare la voragine della salvezza. Solo allora Athena si rese conto di quanto le condizioni dell'alleata fossero pessime, demoralizzate. Era immersa in un torpore simile ad un'anteprima di morte. Forse, era addirittura quello. Da quanto tempo non bevevano? Era quasi un giorno, e non mangiavano da più. Sarebbe dovuta andare a cacciare. Tanto, in quel luogo non passava nessuno, e sarebbero comunque decedute di fame.

«Sarebbe meglio che io andassi a cacciare» espresse Athena a voce alta, cercando consenso sul volto dell'alleata. Lei la degnò di una faticosa occhiata ed annuì, velocemente. Era pallida. Estremamente pallida. Chissà quanto tempo era rimasta senza dire una parola. Afferrò il coltello della compagna e iniziò a vagare per il disco.

Avanzò silenziosa, impercettibile. Non le dispiaceva andare a caccia. Le donava tempo per se stessa in contemporanea ad un'occupazione fruttuosa. O meglio, necessaria.

Rintracciò un altro uccello, come quello del primo giorno in cui erano andate lì, scuotere le foglie. Non poté evitare di corrergli dietro, gridando, grondando, con le sue ultime energie. Finché il suo canto si protrasse.

Ad un punto, non lo avvertì più. Ed allora si fermò, boccheggiante, su un albero, a desiderare di essere rifocillata, sapendo di meritarselo. E fu turbata da un altro colpo di cannone.

Si chiese immediatamente chi fosse, e se si potesse trattare di Elle. , la sua mente rispose. Attaccata o distrutta da qualunque malattia l'avesse distrutta, facilmente guaribile a Capitol City, sarebbe già facilmente essere scomparsa. Athena sospettò fosse malata di febbre, che l'aveva condannata. Anche lei era su una scia simile. Si stupì a pensare questo senza neanche la sicurezza che Elle fosse morta.

Camminò, cercando di continuare la sua caccia. A un punto, divenne improvvisamente buio. Athena alzò impaurita gli occhi al cielo, ritrovando la sagoma di un hovercraft che aveva appena compiuto il suo dovere di trascinare via il corpo.

Doveva essere un cadavere vicino. Doveva essere quello di Elle.

Athena respirò, si accorse del silenzio che la circondava e lo riempì con un respiro sconsolato.

Era sola.

 

Distretto 9, Andrea White

La giornata precedente non era stata piacevole. Si erano riusciti ad infiltrare nel secondo cerchio e a recuperare qualche preda ma, dopo un po' di tempo, si erano accorti di essere rinchiusi al suo interno. Andrea aveva dovuto frenare ogni suo accenno di rabbia per non tirare pugni alla porta, come se questo avesse contribuito a sfondarla. Non ci sarebbe comunque riuscito, neanche con il suo corpo, era una struttura troppo maestosa. Lo avrebbe accettato, o almeno lo sperava per il suo ruolo. In più, se avesse mostrato le sue capacità pubblicamente, la capitale si sarebbe accorta di qualcosa di strano in lui. Di anormale. Ed allora, il suo piano sarebbe andato in fumo.

Quella notte, le porte che separavano la Cornucopia da loro si erano aperte un'altra volta. Eracle, che istituiva il turno di guardia, aveva avvisato i suoi alleati svegliandoli, privando in questo modo Andrea da un poco del sonno meritato. Quanto detestava il ragazzino del due. Era solo un pavone senza muscoli; non aveva ucciso nessuno dal momento in cui erano entrati nell'arena. Era tappezzeria. Forse, era mosso da uno spirito morale, il quale lo rendeva innocuo ed inutile. Odiava le persone del genere; erano futili, non si rendevano conto di quanto il mondo si meritasse che alcune persone scomparissero. Si poteva definire pulizia, anche se ogni tanto venivano coinvolte persone innocenti. Dopotutto, qualche sacrificio si doveva compiere. Andrea non era troppo dispiaciuto. Riusciva a sfogarsi meglio.

Nella riunione straordinaria convocata quella notte, Eracle aveva proposto di far ritornare qualcuno da Who per tranquillizzarla e per proteggere meglio i viveri, mentre gli altri sarebbero rimasti per un altro periodo di tempo. Andrea non era eccessivamente convinto da quella spiegazione; se le porte fossero state chiuse, nessuno avrebbe potuto allungare la mano verso le loro scorte. E non credeva che, quell'ampio spiazzo, qualcuno si potesse nascondere. Però aveva accettato. Era convinto che con “qualcuno” Eracle intendesse lui stesso, e la presenza del ragazzo si era rivelata piuttosto indifferente nel loro gruppo; in più, rimanendo solo con Emerald, avrebbe potuto terminare una fase delle sue intenzioni con più facilità.

Emerald. Andrea non esitava ad etichettarlo come uno sciocco. Si era piegato al suo volere senza troppi problemi, ammaliato dalla sua forza e dalla sua fredda sicurezza assunta recitando, ed era divenuto un suo seguace, un cagnolino. Sbavava ed uccideva, perché dopotutto era ciò che rientrava nelle grazie del favorito del 9. Cercava addirittura di emularlo, ma chi era lui? Dopotutto, il suo ammasso di muscoli non aveva quella voglia di sfogo che determinava Andrea e lo rendeva più assassino di prima. Più forte. Più feroce. Più efficace. E forse, anche più soddisfatto.

Ora, Emerald ed Andrea si stavano aggirando per il disco. Emerald tentava d'intrattenere una conversazione e, nonostante Andrea odiasse quella tranquillità mantenuta dal compagno evidentemente non concentrato, rispondeva a monosillabi o comunque più concisamente possibile. Non voleva ancora insospettirlo, con un repentino cambiamento di umore non più cordiale. Non aveva ancora deciso il momento in cui agire, ma lo sentiva decisamente vicino. Un uragano si stava scatenando nelle sue vene, arrabbiate, inferocite, pronte all'espiazione del suo malessere.

«...ed allora, Lucius gli ha detto: “No, stupido! Si tiene così!” E quell'altro deficiente del Maas ha guardato la spada e ha risposto: “Ah, allora si può tenere con tutte e due le mani?”» Emerald scoppiò a ridere. Stava narrando un aneddoto avvenuto all'interno della sua accademia che suscitava la sua più acuta ilarità, ma non smuoveva assolutamente nulla in Andrea. Era insulso. Come lui.«Divertente» commentò con una risatina evidentemente fittizia. Il compagno sembrò non badare alla verità celata dietro a quell'affermazione e aumentò il suo riso.

Si trovava alle sue spalle. Avrebbe potuto agire quando desiderava.«E non solo! Dopo, quel cretino non riusciva a...» continuò Emerald, però Andrea lo interruppe:«Emerald, a me va bene che tu racconti queste cose, ma non potresti parlare un po' più piano? Potrebbe sentirci qualcuno.» Cercò di non apparire scocciato. In ogni caso, Emerald non lo avvertì e confermò, abbassando almeno per un poco la voce. Poi ricominciò ad urlare.

Il ragazzo non resistette più. Afferrò l'alleato per la camicia, lo tirò indietro e con una forza incredibile lo sbatté a terra. Aveva una muscolatura sviluppata, e perciò era pesante, ma Andrea lo rigirò come se fosse stato un palloncino. Ed iniziò a colpirlo. Un pugno, ed uscì un urlo. Due pugni, e un rigagnolo rosso iniziò a strisciare sul viso pallido e sudato del compagno, il quale gridava in modo scalmanato, con una paura estrema. Invocava Eracle, gli dei, sconosciuti; Andrea lo ascoltò solo per sentirsi più gratificato del suo lavoro.

Ed osservava. Osservava il sangue spargersi per il suo corpo, sporcargli le mani, grondare da quelle, macchiare per sempre quel luogo di gloria. Osservava il volto assumere un colore violaceo, tumefatto, mentre il volto si contraeva in smorfie doloranti e le grida si facevano più acute. Ad un punto, il ragazzo non evitò di tirare un pugno in bocca alla vittima, urtando qualche dente che si fracassò sonoramente ed ottenendo un fiotto in uscita dalla sua bocca. Parte violò di più i suoi pugni, altra finì in gola ad Emerald, che trasformò un suo grido in un gemito.

A un punto suonò il cannone, e le urla si acquietarono. Andrea continuò. Continuò a distruggere quel corpo devastato, irriconoscibile, dagli occhi gonfi, spalancati e sporgenti, per puro piacere. Molta gente si sfogava tirando pugni ai sacconi, perché lui non avrebbe potuto fare altrettanto con la gente? Sarebbe morto comunque, era troppo stupido per sopravvivere.

Poi si tirò su. Utilizzò dell'acqua per pulirsi le mani, non mostrare il colpevole. Tornò al campo, senza pensare a quell'alleato diventato vittima.

 

Distretto 5, Julian Winnoth

Il pomeriggio volgeva verso la sera. Savannah e lui si trovano nel quinto cerchio, inviolati da nessun tipo di condanna esterna. Solo che Julian stava iniziando a provare la fame, come il suo stomaco borbottante testimoniava. Le provviste stavano iniziando a scarseggiare; fortunatamente possedevano acqua sufficiente per chissà quanto tempo, ma il loro cibo si stava dissipando ad ogni loro pasto, lasciandoli ogni volta sempre pieni del desiderio di possederne altro. Quell'arena era vuota di selvaggina, li tradiva della carne, e in quel settore non si trovavano neanche piante.

Era particolare, come scenografia, ma non funzionale. Era una sottospecie di distesa blu elettrico, un fiume con un colore più intenso che accompagnava ogni passo con le sue sfumature brillanti. In alcune parti, dal pavimento sorgeva un pilastro di un arancione accecante che, ogni tanto, senza preavviso emetteva faville scintillanti, quasi ustionanti per la vista. Julian non nutriva neanche una speranza di fiducia nei confronti di quelle torri sorprendentemente luminose. Gli Strateghi non avrebbero esitato a spedire un ricordo della loro presenza con una bruciatura. La vista si perdeva infinitamente, chiusa fra due strisce di mura anch'esse arancioni ma rimpicciolite dalla distanza a cui si trovavano.

Stavano camminando. D'altronde, era la loro ultima alternativa. Era impossibile, cacciare in quel luogo: le prede li avrebbero subito notati e sarebbero fuggite al loro coltello, magari senza che i due se ne accorgessero. Ed anche altri tributi li avrebbero avvistati, e scappati o aggrediti portandosi il cosiddetto effetto sorpresa. A dire la verità, Julian sperava di poterlo applicare sui nemici, vincendo. Era soddisfatto delle sue iniziative fino a quel momento, compreso il patto con Savannah, nonostante avessero allentato la presa su uno dei suoi alleati. Si era rivelata una combattente determinata, utile e in linea con le sue idee. Proprio per questa similitudine Julian non si infastidiva se, in quel momento, la ragazza si stava lamentando dell'assoluto silenzio.«Il nulla. Qui c'è il nulla» bisbigliava fra se stessa, irritata, osservando intorno con occhi infuocati. Dalla fame, ritenne opportuno aggiungere Julian. La vedeva spesso poggiare una mano sul suo stomaco, come per controllare di avere sempre un ventre, se fosse scomparso con la sua dieta forzata. Si leggeva in ogni suo movimento, la sua voglia di cibo. Condivisa da Julian, anche se non così disperatamente. Commentò, con voce pacata:«In effetti. Mandare uno scoiattolo o una lepre a questo punto non sarebbe male. Ma mi andrebbe bene anche un leone.» Sghignazzò, come se volesse dimostrare di aver fatto una battuta, ma nel cuore aveva instaurata la certezza di non aver mentito. Dopotutto, in qualche modo, sarebbe stato commestibile. E Savannah si dimostrò della sua opinione, commentando:«Tu scherzi, ma io mangerei volentieri un leone. Anche un elefante, se è per questo» e finì imitando il barrito di un elefante. Julian non lo trovò necessario, però spiritoso. Un modo per ravvivare la conversazione. In tal modo, concluse anche lui per tramutarsi in un minuscolo elefante, disperato ed affamato.

«A parte gli scherzi. Quando una porta si apre, dobbiamo subito andarci. Non sopporto più questo posto, anche a costo di avvicinarci alla Cornucopia. Anzi, se incontro i Favoriti li prendo a colpi di machete sulla testa così mi danno tutto il loro cibo» commentò lei, con un tono di rabbia acceso sulle ultime parole. Julian ebbe quasi il timore che potesse brandire la sua arma così incondizionatamente da colpirlo, e si ritrasse con qualche passo insicuro. Savannah non lo notò, e quando constatò il suo raffreddamento tornò vicino a lei.

«Rubiamo direttamente il cibo. Tanto sono così stupidi da incolparsi a vicenda; alla fine si uccidono da soli e...» Il ragazzo lasciò in sospeso la risposta nel momento in cui si accorse di un rumore estraneo, potente, ruggente. Sì, “ruggente” era l'aggettivo giusto, trattandosi sicuramente di un ruggito, emesso con la convinzione di voler spaventare.

«Hanno ascoltato le nostre preghiere, allora» commentò, divertito ed improvvisamente impaurito, Julian. In contemporanea, quasi fossero due tributi sintonizzati sulla stessa onda di pensieri, gli alleati si voltarono, affacciandosi alla vista di un leone. Julian trovò quasi spassosa la sua pelle vivamente arancione, sgargiante ed irreale, ma non rise notando il suo muso inferocito, i suoi occhi assetati di vittime, la fierezza della sua cresta che avrebbero potuto competere e stracciare ogni altro suo simile normale.

Rimase stupito dalla grandezza dell'animale. Non aveva mai visto un leone, in vita sua, se non ritratto ed inerte su pagine di libri. E ora stava per combatterlo.

«Chi va?» chiese il ragazzo, smettendo di fissare la belva.«Prima tu» rispose vacillante la compagna.

Julian se l'aspettava. Caricò con la sua lancia, piegata da quei giorni di lavoro, e la scagliò sul volto del leone. Quella errò la mira e lo trafisse in parte sulla zampa, estorcendogli un ruggito infuriato oltre a un sottile rigagnolo di sangue azzurro proveniente dalla ferita, ma lo determinò tanto che, zoppicando, avanzò.

Toccava a Savannah. Con il machete, sfondò il volto della fiera, impregnando la lama di fiotti azzurri e pezzi di cervella. Lo ritrasse, lasciando del muso orgoglioso del leone nient'altro che un naso divenuto fonte del fiume sanguinoso e una bocca in tentativo di aprirsi, di ritornare al suo piano originario di terrorizzare. Eppure, non ci riusciva. Il sangue occupava la sua bocca, la sua lingua era stracciata, ogni passo si creava con fatica e non apparivano possibilità di vincere. La paura cominciò ad abbandonare le vene di Julian, facendo circolare un poco di speranza. Savannah mise ufficialmente fine al dominio della belva, e quando fu sicura che fosse una carcassa, si chinò su di lei e rivelò i suoi pensieri:«Be', almeno sono stati gentili.»

Giusto.

Erano stati gentili.

Non capì come mai, ma le riflessioni di Julian ricorsero ad un grande pericolo.

 

Spazio autrice

Ehilà.

È piuttosto tardi, perciò sospetto di fare uno spazio autrice piuttosto breve per riuscire a pubblicare. Ho pronto il capitolo già da un po', ma senza avere il tempo di rileggerlo. Ed anche adesso sono piuttosto trafilata. Non ho idea di quanti errori abbia lasciato.Allora, non dedico due parole ad ogni morto, vi dico che il mio cuoricino si è spezzato una volta di più con questo capitolo e potete sospettare perché. Come mi vergogno.E per cosa? Per questo. Per il Cielo di Sera, che comprende:

  • Distretto 1, Emerald Goldspace;

  • Distretto 3, Reed Fox;

  • Distretto 6, Emanuelle Hepburn.

Sapete benissimo quanto mi dispiaccia. Ed altrettanto bene quanto il vincitore debba essere uno. Perdonatemi, vi prego.

Volevo anche ringraziarvi per le cento recensioni! Siete magnifici. Scusate se non mi dilungo troppo, però, come ho ribadito, è tardi e mia madre mette le canzoncine della Zumba mentre ascolto gli Imagine Dragons.

Alla prossima (queste sono le ultime volte, piango),

Bolide

 

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Capitolo 16
*** Il silenzio ***


Capitolo XV

Il silenzio

Distretto 10, Eaves Isinthaw

Si trovava nel nono cerchio. Solo. Questo aggettivo lo torturava da quando Reed si era sacrificato per lui, congedandolo con quelle strane parole, insensate. Almeno apparentemente, per il pubblico capitolino che aveva assistito a quel magnificamente crudo spettacolo, ma non aveva sentito i discorsi notturni fra i due alleati. Gli Strateghi non erano tanto stupidi e non potevano essere così assonnati da permettere allo schermo di trasmettere quelle confidenze, così private, senza alcun fondo sentimentale o commovente. Solamente terribili. In più, le amicizie già ribadite di Ivan con gli Strateghi le quali avrebbero dovuto incoronare Reed superstite dell'edizione probabilmente si erano lasciate cogliere da quel sentimento di lealtà nei confronti del mentore, però la mente di Eaves non accettava con talmente tanta facilità questo dettaglio. Non conosceva a fondo i capitolini, ma attribuiva a loro con difficoltà delle emozioni. Una parte di sé era quasi riconoscente loro, però era impossibile definirla inchinata a loro. Avevano consegnato un dignitoso futuro a suo padre, Deimo, spingendolo ad adottarlo. Ma non bastava a contrastare la sua antipatia per loro. Soprattutto, ora che ogni nota di silenzio di quel posto lo stava uccidendo.

Fischiettava, come per esorcizzare quel vuoto. Il distretto 9 era così tranquillo, una distesa dorata di cereali. Non ne aveva mai visti dal vivo, eppure le immagini nei libri erano sufficienti a comunicare quell'impressione al cervello. Un poco, facevano ricorrere la sua mente ad Astrid, quando solamente tre giorni prima l'aveva interrogato sulla natura di quelle piante. Sorrise, senza accorgersene. E, sempre senza accorgersene, rabbuiò il suo volto quando si ricordò che il minuto corpo della ragazza era gelato al tocco, pallido alla vista; inerte, riassumendo. E calò di nuovo il silenzio, come la falce della mietitura che l'aveva trascinato in quell'arena. Si permeava dal mondo, dalla tristezza, dall'angoscia rinchiudendosi in se stesso, rimanendo confuso fra i cereali, dormendo, mangiando il meno possibile, determinando nella sua mente quale potesse essere la sua strategia.

Riflettendoci, la prima alternativa era spostarsi di lì. Scaldando una piccola porzione di terra con la sua presenza, non si meritava né doni degli sponsor, non innalzava la sua situazione verso qualcosa di più positivo e, soprattutto, permetteva al lutto di conquistarlo. La sua coscienza gli imponeva di spostarsi, ma quel giorno era dominato dal suo lato oscuro. Le rivolgeva una risposta arrabbiava, e tornava a rannicchiarsi nella sua minuscola tana.

All'improvviso, conosciuto ma non atteso, un evento ravvivò la sua giornata, apparentemente morta già all'inizio: l'apertura della porta fra l'ottavo disco e il nono, segnale orario che stabiliva le otto o le nove del mattino. Eaves, ancora, non aveva compreso l'effettivo meccanismo. Però, non gli importava. Si rese conto che, da quando la sua abitazione e la sua condanna si era condensata in quel luogo, stava valutando per la prima volta la possibilità di vincere. Non c'era nessuno per cui soffrire, non più.

Camminò, incagliandosi in qualche pianta, assetato dal desiderio di trovare la sua svolta nell'ottavo cerchio. E la trovò.

Si specchiò in un volto che riuscì a localizzare scavando con qualche sforzo nella sua memoria, sporco, desolato, splendente solo per un paio di occhi che mostravano quanto quella condizione miserabile permettesse alla voglia di non essere più in quel luogo di galleggiare, anzi di sorvolare, il mare dei suoi pensieri. Era la ragazza del 9, Rainway. Emanava anche lei un odore strano, che Eaves improvvisamente si era sentito appartenere: un misto di sudore, di pioggia, di fango striato da un'enorme sofferenza avvertibile. Osservò a lungo i suoi occhi, mentre lei faceva altrettanto. Li scoprì azzurri, e senza alcuna intenzione di pace.

Si accorse che aveva solo uno zaino sgonfio, oltre alla sua arma. E lui aveva qualcosa. Questo lo metteva in un'evidente posizione di pericolo, mentre la ragazza allungava la mano.

«Lo zaino» ordinò, distogliendo il suo sguardo, quasi dimostrando di non voler essere veramente lei l'aggressore della situazione. Non era la prima volta, in quell'arena.«Scordatelo» borbottò Eaves, in preda a uno dei suoi momenti peggiori, in preda alla paura della morte che aveva afflitto i suoi amici.

«Per favore» calcò Rainway,«dammi lo zaino.» Era terribilmente seria, ed il ragazzo provò nelle sue vene quel brivido di scontro già sentito il giorno prima con l'agnello.«È mio» espresse le sue ragioni, mentre iniziava a sapere che lei si sarebbe scagliata contro di lui.

Questa volta era diverso. Era una ragazza. L'avrebbe uccisa? Sarebbe stato ucciso? Era... terribile. Ogni tanto era stato colto dall'istinto di ferire qualcuno, ma non era mai serio. Era una sua simile. Avrà avuto la sua età. Come...?

Rainway accettò la sua resistenza, inferendo ferocemente con la sua falce. Eaves si ritrasse prima di trovarsi coinvolto dal dolore, trovandosi con il coltello pronto in posizione d'attacco. Però non voleva rispondere, non subito. Si sentiva, di nuovo, costretto, quasi arrabbiato da questo. Non era necessario, se lei si fosse resa conto di poter essere in svantaggio. Ma era affamata, bisognosa, determinata. E, aspettandoselo ma non prevedendolo, Eaves sentì un pugno feroce sulla sua guancia. Ricambiò con il doppio della dose, portando Rainway a ritrarsi massaggiandosi la tempia. Un rigagnolo di sangue feriva la sua sporcizia.«Non ti conviene» ribatté la ragazza, mollando un pugno allo stomaco asfissiante all'avversario.

Eaves sentì come se tutto il suo fiato, terrorizzato, non volesse essere coinvolto nella sua morte e volesse scappare. Si piegò in due per pregarlo, riprendendosi solo dopo qualche secondo grazie alla gentilezza dell'ossigeno. Lo adorò, per un istante. Fino a quando non si scoprì a terra sovrastato da Rainway.

D'impeto, Eaves le afferrò i polsi, allontanandoli dal suo corpo, allontanando la morte. Era forte, la ragazzina. Si scagliava contro la sua presa divincolandosi, arrivando più volte a graffiare il petto di Eaves e squarciandogli la tuta. Non ci pensò. Non se ne rese conto. Voleva solo sconfiggerla.

Tentò di capovolgere la lotta, arrivando ai bracci dell'avversaria e gettandola sul fianco di terra accanto a sé. Ma non ci riuscì. Il sangue dei pugni le stava colando lungo il viso, violando quelli che sarebbero potuti essere solchi di lacrime, mischiandosi a loro. Rainway riuscì a liberare la mano opposta a quella con l'arma, sedando Eaves con un altro colpo. Per un attimo, il ragazzo perse le sue percezioni, con la vista a granuli rivolta verso l'esterno del combattimento e un dolore piatto sul volto. Allentò la presa, ma non la mollò. Tentò di offendere con il suo coltello, arrivando a condannare la spalla della nemica. Per un poco, riuscì ad affondare la lama, insieme alla sicurezza di Rainway che sfociò in un urlo. Poi lei si sottrasse, scattando i piedi, come se il male le avesse ricordato di essere viva. Dell'utilità di quel gioco.

Era sopra di lui. Lo assicurò al terreno con un piede, facendo avvertire a Eaves un'impotenza terribile al cuore, e, brandendo la sua falce con uno spavento disperato, finì per imporre la sua lama sul collo di Eaves.

Il ragazzo non ascoltò più il dolore, dopo un poco. Non durò molto.

Solo il tempo di rendersi conto di non potersi più sollevare.

I suoi pochi amici... i suoi fratelli... suo padre...

Già. Suo padre ce l'aveva fatta. Lui...

Lui...

 

Distretto 3, Emilie Levieva

Un colpo. Emilie risvegliò i suoi occhi in favore del cielo, come se esso rivelasse improvvisamente chi fosse il disgraziato carezzato dalla morte. Invece no. La risposta sarebbe arrivata a sera. A dire la verità, la ragazza avrebbe preferito intercettare un hovercraft, un aereo, un miserabile mezzo qualunque per trascinarla a casa. Anche senza vincere. Emilie stava perdendo la speranza.

Niente stuzzicava la sua voglia di rivedere la sua famiglia, il suo distretto, il suo letto, la sua vasca di bagno. Le mancavano, il letto e la vasca del bagno. La sporcizia bruciava sul suo copro come un'umiliante testimonianza di quanto la sua condizione fosse misera, inaccettabile. Quando l'arena intorno a lei si spegneva, questo processo si attuava anche su di lei. Ma non il contrario. Non si ricordava da quanto tempo non dialogasse con qualcuno, e perciò attuava un conto per scoprire da quanto tempo era morto Lynton: il secondo giorno. Ormai, si trovavano al quinto. Tre giorni. Tre giorni durante i quali aveva notato solamente il cambio di paesaggio, oramai non più affascinante, monotono come tutte le cose parte delle nostre abitudini, trovando ogni tanto una bestia e sfidandola senza prospettive, ma uscendo continuamente indenne. Riportava sulle braccia i graffi di un cavallo imbizzarrito che la aveva attaccata sulla strada del sesto cerchio, convincendola a scappare. Ogni tanto si facevano avvertire, quando si caricava dei più pesanti pesi per spostarsi, tese ferite che avevano offeso la su tuta. Sapeva che si sarebbe potuta infettare, perciò aveva creato con la tela dello zaino di Lynton delle garze per i bracci in un momento di cupa lucidità. Era sopravvissuta per un caso. Le porte fortunatamente si trovavano a suo favore, ed una volta oltrepassato il confine che la segnava sul territorio del settimo disco il cavallo non aveva osato seguirla. Non era sua autorità. Lì i suoi spaventi dovevano essere provocati da altro. Lì c'era spazio per un altro mostro, oltre ad Emilie.

Perché ormai Emilie si sentiva tale: un mostro. Non veniva più raggiunta da alcun sentimento, sfiorata dalla seme, dalla fame, dalla stanchezza di trascinarsi dietro quella cassa ripiena di cavi ancora senza la sua utilità verso la quale aveva provato un bisogno irrinunciabile, inequivocabile. Ora la malediceva, ma sentiva ancora quella necessità, per uccidere senza macchie di sangue sulla tuta. Si sentiva una bestia, e il peggio era che questa condizione non l'angosciava. Ansimava, ascoltava il suo interno, ed avvertiva quella comune sensazione uditiva: il silenzio. Rifletteva e basta, sul fondo della sua mente, svegliando il suo corpo solo per le idee migliori. Fine.

Ma qualcosa, dopo poco tempo, scavò la sua coscienza, portando a galla un avvenimento di poco tempo prima. Di quella notte. Una specie di scoperta.

Precedentemente all'attacco del cavallo, Emilie aveva scoperto una conca. Si era accucciata accanto a lei, forse per la spossatezza, o forse perché emanava una strana speranza capace di avvolgere persino lei. E dopo qualche minuto, il miracolo. L'acqua aveva iniziato a sprigionare acqua cristallina, che colpiva dolcemente i fianchi del bacino, e risvegliava la sete della ragazza.

Si era nutrita dei residui nello zaino, ormai allo stremo, dicendo che avrebbe cacciato, ma l'acqua si era essiccata in un fondo di bottiglia. Si era rinfrescata la faccia e la gola, provocando un sollievo solo temporaneo, interrotto all'arrivo burrascoso del maledettissimo cavallo. Aveva interpretato quello per uno strano regalo degli Strateghi, forse una preparazione per lo scontro. La sua idea si era volta quando aveva notato una conca identica, delle stesse dimensioni, nel settimo disco. Aveva stabilito lì la sua base, aveva consumato una cena più ricca di aria che di cibo che non si avvicinava neanche ad una colazione, e aveva cercato di reprimere il desiderio di acqua. E, durante il suo sonno, la verità l'aveva destata con un lieve rumore.

Si era voltata, notato che l'acqua era tornata a consolarla anche lì, nel buio. Il cielo non era più oppresso dal nero della notte, ed Emilie aveva intuito che l'ora circolasse attorno alle otto del mattino. E una strana ipotesi si era consolidata come certezza in pochi secondi.

Credeva che, ogni tal ora, la conca si riempisse per diventare un lago, per poi scomparire dopo aver lasciato desiderio e sollievo. Aveva due borracce, riempite con quel magnifico serio. E poi, si era ritrovata in fronte a un'idea.

Una domanda: l'acqua di questo lago circola in tutti i cerchi? In tal caso, avrebbe potuto raggiungere altri tributi senza guai. , rispose Emilie alla sua nuova iniziativa.

Aveva acqua a sufficienza, e in quel momento che più di un momento era un'occasione non era comandata dalla ragione per l'improvviso risveglio. Afferrando delle bacche raccolte la sera prima perché identificate come velenose (anche quelle si sarebbero potute rivelare utili, come il resto nello zaino straripante), le aveva schiacciate, ottenendo un liquido nerastro. Le colò per le mani, ma Emilie non ci badò subito poiché in quel momento si rese conto dell'efficacia dell'idea.

Si lavò con una semplice passata della mano nell'acqua, continuando a frantumare bacche sopra al lago. Ogni volta, il loro nettare pioveva sulla superficie, affondava, ballava e si spargeva, fino a dissiparsi. Dopo un momento, non c'era più, ed era ancora più letale di prima.

Aveva avvelenato l'acqua. Non seppe se fosse efficace, fino al sospetto che quel colpo di cannone fosse un ribadimento della sua illogica colpa, ma comunque presente.

Dove era in quel momento il lago? Era stato vero che qualcuno, cercando conforto, aveva trovato la morte a causa sua?

In questo caso, sarebbe stato qualcuno di simile a lei. Uguale, forse. In quell'arena, non c'era molta disponibilità di caratteri. O si viveva come bestie, sopravvivendo e soprassedendo sia sui miracoli sia sulle tragedie, oppure si moriva. Lei aveva scelto la prima opzione, uccidendo i suoi sentimenti.

Ma un'ampolla tossica si ruppe nel suo spirito, persuadendola con la sua voce. Sei stata tu. Sei un mostro. Ma come hai osato?

Non l'avrebbe dovuta ferire. Non avrebbe dovuto piangere, perché aveva segregato le sue emozioni, attendendo il momento in cui tutto sarebbe potuto parere un sospiro di sollievo.

Le lacrime le nettarono il viso. E, con un misto di angoscia e di rabbia verso la sua incapacità, si rese conto della sua ennesima debolezza: non era una bestia.

Doveva rimediare, in qualche modo.

Perché nell'arena, una parte di te deve essere in una tomba, per mantenerti in piedi.

 

Distretto 5, Myrtle Hopkins

C'era... silenzio. O forse, lei semplicemente non sentiva. Il giorno precedente ogni tanto le orecchie l'avevano confusa con uno strano sfrigolio, forse dovuto alla stessa malattia che la opprimeva con quel freddo e una strana, insormontabile, insopportabile fiacchezza. Non aveva voglia di camminare, di muoversi, di guardare, e non più quella di combattere. Quasi non si rendeva conto di essere in un'arena, a difendere la sua vita, a guadagnarsi la corona di vincitrice. Quasi non si rendeva conto che una simile atrocità si potesse verificare nel mondo. Quasi non si rendeva conto... della vita. Di niente.

Qualcuno la trascinava in strani ambienti oscurati da uno strano velo di stanchezza che le opprimeva gli occhi. Chi era? Conosceva così tanta gente, però, in quel posto... Milton. Quello strano, timido ragazzino dai capelli rossi e una strana fratellanza nei suoi confronti. Era un po' pauroso, certo, ma si addobbava di una gran quantità di pregi che annullavano quel pietoso timore. Non poteva essere altro. Affondando con fatica nei pensieri, Myrtle si accorse di essere all'interno degli Hunger Games. Che quegli strambi, scintillanti azzurri e per un certo senso opprimenti erano la sua casa e il suo nemico. Doveva affrontarli. Non doveva lasciarsi spaventare. O schiacciare.

Un'altra idea le violò il cervello: doveva sconfiggere la morte, sopravvivendo. All'apparenza, non si trattava di un compito così difficile, ma sentiva la fame ribollire nel suo stomaco, la sete nella sua gola, il sudore sulla fronte, la stanchezza in tutte le sue membra. Se qualcuno le avesse chiesto come stesse ed avesse trovato il coraggio di replicare, l'ovvia risposta sarebbe stata:«Male.» Si riassumeva tutto così: “Male”. E mai si era sentita tanto male. Sospettava anche che mai si sarebbe avvertita altrettanto terribilmente.

Ed ora si sentiva... fluttuare. No, questa volta non era un inganno delle sue sensazioni, qualcosa veramente la stava reggendo e portando via. Con lei c'era Milton. Ci aveva pensato poco prima, perché così tanta fatica per ricordarlo? Non ne aveva idea, né voglia di rifletterci sopra. Era così. Niente. La sua mente rispecchiava il vuoto, le sue sensazioni il desiderio di qualcosa di fortemente improbabile.

Rimase così per una quantità indecifrabile di tempo, sospesa, sia nella mente che nel corpo. E poi... finì. Forse Milton era eccessivamente stanco per continuare, ma avvertì come una lieve presenza terrena qualcosa sotto di lei. Prima, questa era manifestata sotto forma delle braccia di Milton, ma ora... Tentò di allungare la mano, per reclutare qualcosa oltre alla coltre di nebbia che le assaltava gli occhi, e si accorse di toccare un volto madido di probabile sudore, freddo e soffice.

«Va tutto bene, Myrtle. Sono io» distinsero, fra i granuli del suo udito, le sue orecchie. Non riuscì a localizzare la voce, ma pensò fosse quella del compagno. E chi altri, sennò? La sua mente non sfiorò i nemici, non s'impiegò a trovarli nei suoi pensieri. Borbottò un «Milton» come a confermare la sua presenza, fino a non sentire la sua mano afferrata con grazia dalla stessa entità che le aveva parlato.

«Come va?» le sembrò che lui stesse chiedendo. «Così» biascicò lei, sentendo la gola bruciare ancora di più, senza manifestare l'oppressione della sua mente.«Sono stanca» si accorse anche, commentando inconsapevolmente con quelle parole.

Le sue palpebre calavano, rendendo inutili quegli ultimi tentativi dei suoi occhi di riuscire a vedere qualcosa. Voleva dormire, nonostante ciò un istinto più profondo le consigliava di tenersi ben sveglia. Qualcosa di angosciante la scherniva dal farlo. Doveva rimanere vigile, qualunque cosa succedesse. Qualunque ombra calasse.

«Puoi sdraiarti, se vuoi» propose Milton, ora accucciato accanto a lei. Poteva scorgerne la macchia non gigantesca ed anche qualche ciuffo rosso al suo apice.«Penso che il terreno sia morbido.»

Le sue proposte di rimanere vigile si affumicarono in un attimo, attirate dal prospetto di un riposo. Annuì, e con l'aiuto della mano di Milton che le sorreggeva la testa, si adagiò per terra, dimenticando che quello sarebbe potuto divenire il suo sepolcro.

«Tutto bene?» chiese lui, dolcemente, nel momento in cui lei fu pronta. Priva di acqua per rifornire la sua bocca, Myrtle annuì. Che fatica, si rese conto di aver pensato dopo aver confermato.

Della luce sfuggiva dai rami, portandole un poco di conforto. Qualcosa in lei sembrava brillare, voler raggiungere quel barlume alto. Alto ed affascinante. Era lì...

Una mano assicurava di mantenerla su quel terreno, ma la ricacciava al suo interno, facendole desiderare ancora di più il chiarore.«Resisti» emergeva ogni tanto in un sussurro. Era una delle miliardi di cose che la chiamava. Le parole, la luce, il sonno. E forse...

«Milton?» chiese, quando la mano fu così abituata sulla sua fronte quasi da non avvertirla. Si accorse della sua voce, venata da una roca asprezza che sarebbe potuta non scappare più.

Silenzio.«Sì?» avvertì la voce non appena sembrò più sicuro.

Aveva bisogno di dire qualcosa di importante. Quasi potesse essere la sua testimonianza su quel mondo. Quasi potessero divenire le sue ultime parole.

«La luce... sembra bella, da qui. Ma potrebbe non esserlo» lasciò fluire la sua ispirazione, spezzando il suo tono sulla conclusione. La conclusione di tutto. Myrtle, in un momento di consapevolezza imprecisata, capì che non avrebbe più detto nulla.

Passò del tempo. Secondi lunghi giorni ma percepiti come anni. Era tutto che si dissolveva.

Myrtle raggiunse la luce nel pieno pomeriggio della giornata.

 

Distretto 8, Who Powell

Ecco. Quelli erano i suoi giochi. Il terrore, il sangue, i fiumi di grida immaginati si erano manifestati solo il primo giorno, davanti i suoi occhi e come una tortura nel sonno. E poi, l'arena si era spenta. Il suo mondo si era ridotto a montagne di provviste, armi, del futile irrinunciabile da controllare. Credeva di essere l'unico tributo a non aver abbandonato mai la Cornucopia. D'altronde, questo per lei era un vantaggio. Nessuna arma la minacciava. O almeno, non esplicitamente.

In quel clima che tanto la proteggeva, che tanto la preservava dalla morte quanto lei preservava il bottino, circolava una minaccia, rappresentata dal ghigno da una persona e condivisa sia da Who che da Eracle. Perché Who aveva paura. Paura di Andrea.

Il giorno prima il silenzio era stato devastato dal furioso ritorno a corsa del ragazzo del 9. Lei e Eracle erano accorsi verso l'angoscia di Andrea, e lui, con il fiato mozzato, aveva raccontato in velocità e scarsa lucidità di aver visto Emerald ucciso da un ibrido di Capitol City. Le sue parole erano frammenti di ricordi, non convinti, immersi in una strana emozione, quasi un'eccitazione. Qualcosa faceva storcere la bocca sia a Who che al ragazzo del 2, aveva permesso ai loro occhi di incrociarsi e domandarsi la gravità della situazione. E tutto era stato confermato quando Eracle confessò un dettaglio notato a Who, privatamente.

«Ha i bordi delle maniche macchiati di sangue» aveva confessato il Favorito, attento a mantenere un tono impercettibile, lasciando la compagna interdetta a confronto con le sue considerazioni. Esistevano mille opzioni per le quali Andrea sarebbe potuto essere corrotto con del sangue. Un combattimento diretto con l'ibrido, un tentativo di rianimazione, qualcosa di semplicemente immaginabile. E invece no. Avevano subito pensato a una colpevolezza di Andrea, a una bugia diffusa e colpevole. Ad un enorme timore. Si erano lasciati contagiare dall'idea di dover sfuggire a quella prematura e vana morte.

Tutte queste ipotesi che albeggiavano nelle menti di entrambi i ragazzi erano nascoste, taciute nella paura di essere avvertite. Who si era dovuta avvicinare ancora di più alla muscolosa figura del ragazzo, sentirne il respiro frettoloso e pensoso e cercare di soffocare le conseguenze. Non si era sporta fino al suo orecchio, per non risentire eccessivamente della pressione della vicinanza.«Dovremmo andarcene» concluse velocemente Who, il più possibile, un'idea striminzita fuggita attraverso i suoi denti. Un'idea irraggiungibile ed esorbitante come un castello di pietra.

Andarsene sarebbe significato regalare ad Andrea tutte le loro provviste; restare regalare ad Andrea la loro vita. Se, come loro pensavano, aveva ucciso il suo umile e fedele servitore, arretrava all'ipotesi di colpirli solo perché si sarebbero potuti ribellare più facilmente, l'uno schierato con l'altro. Who sperava che questa paura realmente si radicasse nel cuore del compagno e nemico, così da poterla utilizzare come vantaggio. Ma non avrebbe mai sfiorato i vertici della sua.

Persino, la divideva dal pensare di desistere dalla morsa di Andrea eliminandolo direttamente. No. Aveva una specie di stregoneria assorta nel suo interno che l'avrebbe svegliato, scatenando il suo istinto omicida contro di lei e contro di Eracle. Probabilmente anche questa era stimolata dal terrore, ma la cementava al terreno ed a congetture più possibili, meno pericolose. Da poter condividere, ovviamente, con Eracle.

La ragazza si spingeva a pensare che la sua lealtà nei suoi confronti fosse solamente mossa da una sorta di complicità sbocciata in quel periodo, comune ai Favoriti dal lato opposto di quello a cui apparteneva Andrea, ma era una convinzione instaurata per non riconoscere il fascino del compagno. Era consapevole che Eracle mai l'avrebbe sfiorata, né con il pensiero, né audacemente con una mano, tranne che con la voce. All'intervista lo aveva sentito rivelare di avere una relazione con una ragazza gelosa, ed adesso il motivo della sua diffidenza erano vividi nella sua mente. Eracle aveva un serio ascendente che stava paralizzando anche lei. Ma non l'avrebbe coinvolta fisicamente. Sotto un sorriso beffardo, Who cercava di non rimanerne delusa.

Era arrivata la sera, il cielo oscuro poggiato sulle loro teste quasi come una condanna. La cena era stata consumata, nel silenzio più imbarazzante e pieno, con qualche nota d'ipocrisia di Andrea a caratterizzarlo. Eracle e Who non avevano parlato. Si erano rifocillati il più possibile, come previsto dal piano.

Il piano si attuò poco dopo.

Si attuò quando Who fu davanti a Eracle, uno zaino pesante di provviste che si sarebbero potute rivelare necessarie, un coltello in mano, e, nel buio, al di fuori del campo uditivo del dormiente Andrea, sussurrò verso le porte spalancate:«Andiamo.»

 

Spazio autrice

Sono imperdonabile. Nello scorso spazio autrice non ho spiegato che avrei avuto per una settimana in casa la mia corrispondente francese, perciò il computer sarebbe stato solo un desiderio. Ed eccomi qua. Con un ritardo terribile ed ingiustificabile. Vedrò di sbrigarmi.

Niente... cosa c'è da dire? È un capitolo un po' vuoto; i POV stanno iniziando a ripetersi per la diminuzione del numero dei tributi. A quanto siamo? Otto, se non sbaglio. Faccio confusione. Diamine.

Mi dispiace molto per i tributi morti, soprattutto per l'alleanza Reed-Astrid-Eaves, che ha avuto una sfortuna tremenda. I membri decimati uno dopo l'altro. E pensare che tutti e tre mi piacevano.

Allora... vi anticipo che il prossimo capitolo riguarderà il sesto e il settimo giorno insieme, altrimenti sarebbe troppo corto. E altri giorni saranno saltati. Però, ancora manca abbastanza alla fine.

Giusto! Cielo di sera, oggi particolarmente incomprensibile:

  • Distretto 5, Myrtle Hopkins;

  • Distretto 10, Eaves Isinthaw.

Su Emilie... il suo veleno non ha ancora ucciso nessuno. Non ancora.

Alla prossima,

Bolide

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Capitolo 17
*** L'aridità ***


Capitolo XVI

L'aridità

Giorno 6

Distretto 8, Who Powell

Sopra, era la notte. Il buio, qualche stella solitaria e spaventata, chissà da cosa. Come potevano essere spaventate persino le stelle? Who non si era mai rimproverata di aver provato paura, ma questo accorgimento fece pensare se stessa più umana.

Come mai era finita per osservare il cielo sovrastante? Non se lo ricordava. Forse quella distesa blu l'affascinava incoscientemente, aveva un bisogno interno e magnetico di osservarla. Niente glielo garantiva, ma lo credeva. Necessitava di credere in qualcosa di totalmente irragionevole, come per giustificare il suo futuro gesto.

Eracle si era soffermato per trarre un ultimo oggetto, un ultimo calice della salvezza mentre il sonno di Andrea si protraeva.«Andiamo?» le sussurrò all'orecchio, per racchiudere il segreto fra loro due, e non condividerlo con il dormiente alleato. Ex alleato, si ricordò Who. Ora è un nemico come gli altri.

E un giorno, questa trasfigurazione avrebbe annerito anche il viso di Eracle. La ragazza tralasciò la domanda ovvia, se sarebbe sopravvissuta abbastanza perché questo evento potesse accadere, e si dedicò solamente alla spossatezza che provocava il pensiero. Si sentiva come su un burrone, spinta dal vento: era sicuro che questo sarebbe intervenuto, ma era impossibile interpretare la sua intensità, la sua cattiveria di quel momento. E, in quell'attimo, era particolarmente malvagio.

Annuì velocemente. Fecero per camminare, ma un gelido sussurro dietro di loro li catturò:«Andare, dove?»

Un altro soffio di vento. Questa volta, totalmente destabilizzante. Perché in quel posto erano solamente lei, Eracle il quale sicuramente non aveva pronunciato quelle parole e... Andrea.

Non si voltò. Non tentò neanche. Conosceva il suo ghigno eccitato e rabbioso, i pugni minacciosi, il respiro quasi ansimante e pieno di vendetta. Lo aveva rimirato così tante volte in allenamento, e si era lasciata pervadere dalla paura. Eracle non seguì la consapevolezza di conoscere già il volto. Si girò comunque, gettandole uno sguardo per tranquillizzarla. Who aveva tentato di non dimostrare il suo improvviso timore, ma forse era talmente irrigidita da far sospettare all'amico di tremare. Internamente. Non era stato una raffica di vento, ma un terremoto.

«Da qualche parte. Senza di te» rispose, con la voce lievemente insicura, Eracle. Who credeva, o meglio, era sicura, che stesse guardando negli occhi il nemico. Come fai? si domandò, mentre quella sensazione spiazzante la feriva di nuovo. Era come se, nonostante il vento aggredisse Eracle, anche lei cadesse.

Quando Andrea rise fragorosamente alla replica dell'altro, Who si decise a conquistare le sue redini e di voltarsi verso il nemico. Era come nella sua immaginazione, pronto a chissà quale rissa. Chissà a quale dolore da infliggere loro. Ma cosa ricavava da questo? Scoprì in questo modo un'altra sua caratteristica che la distruggeva: la totale incomprensione per lui. Sperò che i suoi occhi non brillassero del suo timore, o che il buio li nascondesse. Andrea non avrebbe potuto fare altro che trarre potenza dalla sua interna morte.

«Dove pensi di andare, seriamente, Chentuarion? In questi giorni, hai lasciato che i grandi ti servissero la pappa mentre facevano tutto il lavoro. E tu? Come sei intervenuto? In nessun modo. Hai lasciato che gli altri uccidessero, mentre ti rilassavi con la tua amichetta.» Fu a quel punto in cui la forza di Who fu più provata: quando Andrea la attraversò con un'occhiata meschina, fortificata dal suo sorriso beffardo. E si avvicinò a lei.«Conta così tanto che non ne ricordo neanche il nome... come si chiamava? Who? Divertente, eh?»

A terra. Guarda a terra. Si ripeteva questi comandi, per dimenticare tutte le emozioni affrettate a presentarsi ed aggrovigliarsi nella sua mente. Ma la sua testa fu violentemente riscattata quando, nella morsa di quelle possente dita, Who fu obbligata a fissare gli occhi di Andrea, improvvisamente volti alla voglia di uccidere.

E le doleva. Aveva sempre temuto quella presa, ma testarla sulla sua mandibola fu asfissiante. Quasi la sua aria non riusciva ad attraversare i polmoni, il suo respiro ad essere chiaro, la pelle a proteggere il suo scheletro. Ed Eracle non reagiva. Il dolore fermò anche le lacrime.

«Allora, Chentaurion? Si chiamava Who, giusto? Vedi che non conta nulla neanche per te? Che bella cosa, piccola Who, presa in adozione e poi scaricata come un'orfana... non sarebbe meglio fare finita, no?» le domandò, urlando, chiedendo forse al mondo e non solo a lei. Sfogandosi. Who ebbe questa impressione. Non poteva più ordinarsi di guardare a terra, ma rinfrancò il desiderio di non piangere.

E, all'improvviso, cedette. Tutto quanto, assieme. Si accorse di essere sollevata da terra quando impattò con il territorio, quando Andrea urlò senza alcun dolore, ma come se uno spillo innocente lo avesse sfiorato, come se una linea storta fosse apparsa in un'enorme disegno geometrico. Who riuscì appena a scorgerlo toccarsi la spalla, notando Eracle con la sua spada dietro, che avvertì queste parole:«Ah! Ti credevi furbo, Chentaurion?»

Ultime. Who pensò questo aggettivo, non appena si rese conto di essere sdraiata, colpita prima allo stomaco e poi al volto. A pancia all'ingiù. Il patimento si posizionò alla prima posizione in quelli totalizzati nella sua esperienza; questo la riduceva ancora di più a un fantoccio accasciato sul pavimento, a delle mani che tentavano di stringersi, a degli occhi che avrebbero voluto interpretare la vita ma scorgevano solo il buio e qualche luce, anche quella stranamente oscura...

Però, sentiva. Sentiva delle vere urla, dal tono di Eracle. Sentiva una sottospecie di lotta, ma non le importava. Voleva solo che quel dolore finisse. O respirando, o lasciandosi andare alla mente.

Dopo un po', si accorse di perdere sangue. Non le importava. Pregava affinché si sbrigasse, così da asfissiare tutta la sofferenza assieme a lei. Tutto ciò che distinse, però, fu un colpo di cannone. Non le interessava a chi appartenesse; sperò fosse suo, ma niente si calmava nel suo corpo. Non si avvertiva come morta.

Alla fine, il male si attenuò. E Who iniziò a trovare quell'inerzia, quel sedativo sanguinoso, quella soglia prima del sonno rilassante. Come se si trovasse in un sogno.

Stava bene. Si accorse che, in ogni caso, non c'era da temere. D'altronde, quale senso aveva continuare in quelle condizioni? Quale senso aveva arrendersi subito?

Chissà se morire è così.

Lo scoprì poco dopo.

 

Distretto 12, Savannah Sparks

«C'è niente?»

«No.»

Julian scrutava il cielo. Lei lo domandava quasi per gentilezza, come se ancora avesse una speranza nei confronti della sua idea. Un'idea cretina, non aveva esitato a definirla lei, ma, sul fondo dell'anima, sentiva una voce contraddirla. Forse era solo contrariata perché non era stata lei a originarla.

Tutto era nato il pomeriggio prima. Julian si era avvicinato a lei, con gli occhi spenti della noia ed accesi dalla voglia di un'occupazione, mentre erano nel settimo cerchio.

«Parlami di te» le aveva chiesto, nel momento in cui il fresco che li sovrastava e il canto di quegli uccelli quanto odiosi quanto invisibili si era presentato come opprimente. Non riusciva più a covare la sua voglia di essere in un posto dove esistesse qualche divertimento al suo interno. Allora, Savannah si era affidata alla più vicina idea di quella che era stata la sua vita fino a un paio di settimane precedenti, per raccontare come Julian le aveva domandato, per ingannare il tempo.

«I miei genitori pensano sia un disastro» aveva subito riesumato, sorridendo. Le origini di quel sorriso non era affatto chiara, forse la nostalgia stava iniziando ad annidarsi al suo cuore, a farle desiderare l'aria piena di carbone del dodici. Di stimolare un altro poco la sua famiglia ad essere delusa da lei.«Alcuni nel distretto mi chiamano “la strega cattiva vestita da Biancaneve”. Una bella reputazione, in complessivo.» Fece una smorfia. Non si trattava di disprezzo verso la sua condizione, di cui invece era decisamente orgogliosa, ma di amplificarla con un'ironia contrariata.«E tu? Quale principe delle fiabe sei?»

Anche Julian, di rimando, aveva accolto la richiesta con un risolino.«Il principe che voglio, quando desidero.» La noia stava andando affievolendosi nel suo sguardo, quando una nuova iniziativa lo aveva conquistato arditamente, animandolo di nuovo.«Ho un'idea.»

«Cosa?» aveva indagato subito lei. E cosa altro avrebbe potuto fare? Quella scintilla stava cominciando a bruciare anche Savannah. Julian si era avvicinato e aveva proposto, gesticolando eccitato concitatamente «In questo momento non ci stanno guardando, sicuramente. Avranno mandato un ibrido a qualcuno, perciò noi siamo salvi. Poi, Strateghi, state calmi, è una cosa che vi piacerà sicuramente» aveva aggiunto, dirigendo il suo sguardo verso un tronco. Aveva trovato una telecamera? Savannah si sentì offesa, anche perché lei non aveva neanche sospettato lontanamente della sua presenza.«Abbiamo bisogno di sponsor. E anche di un modo per accalappiarceli. Sei brava a recitare?»

Quella domanda si ripropose distorta più volte nelle orecchie della ragazza, come se volessero fargliela elaborare per arrivare ad un senso. «Si, ma...» iniziò, per poi interrompersi. Il senso la aveva percossa improvvisamente, tacendola e lasciandola sbigottita.«Oh.»

«Esattamente.» Non capiva per quale motivo Julian dovesse confermare un'ipotesi di cui non era affatto a conoscenza, forse avevano una strana ed asfissiante telepatia che coinvolgeva Savannah fino allo spavento. In ogni caso, il pensiero del suo alleato era... particolare. Come il modo in cui lei era arrivato a capirlo, così indefinito.

La congettura di Savannah era una finzione. Una finzione spudorata, plastica da quanto era un pensiero, una recitazione per ammorbidire i capitolini e mandare i loro soldi sotto la forma di cibo, o di utilità. Ne avevano, a dire la verità, anche se un giorno non troppo futuro i viveri si sarebbero esauriti sotto la famelica morsa dei loro provati stomaci. La necessità di sponsor si poteva manifestare anche come uno dei loro numerosi graffi, forse più gravi dei loro pensieri, che violavano il loro corpo dopo sei giorni di arena. E poi, sarebbe stato un metodo per passare il tempo. Era incredibile rendersi conto di avere per preoccupazione più lieve il modo con il quale devastare i secondi.

Ma non capiva ancora quale genere di messa in scena.«A cosa pensi, esattamente?» chiese lei, affievolendo la voce come se si preoccupasse che qualcuno riuscisse ad avvertire i loro piani. Come se dovessero essere solo un cofano dorato condiviso da loro due.«Dovremmo fare finta di essere innamorati» sputò il compagno.

E lei sputò una crisi di risa. Non era mai stata seriamente innamorata, al distretto, al massimo qualche cotta immaginaria aveva striato il suo cuore, ma l'amore? Quale sarebbe stato il senso di fingere a quel modo, di stare insieme? In fondo, Savannah era d'accordo nel credere che fosse un'idea decisamente acuta, ma quasi si vergognava nel praticarla. Una sensazione simile a non voler sprecare il suo sentimento covato in un anfratto invisibile del suo corpo per serbarlo fino al momento in cui sarebbe servito seriamente. Non lo poteva gettare solo per sopravvivere. O forse, credeva di non poter arrivare a recitare fino a quel livello. O forse, si vergognava nei confronti del volto di Julian.

Ma sarebbe servito. Niente di meglio per far sospirare i capitolini, con un dramma del genere. Perciò, aveva accettato. Si erano presentate occasioni in cui avevano finto, fredde e timide effusioni di parole, e adesso scrutavano il cielo in attesa della loro ricompensa. Ma nulla. Non era bastato.

«C'è bisogno di qualcosa di drastico» decise Julian.«Tu cosa pensi di fare?»

Un brivido, di cui non aveva compreso la natura, s'infiltrò in lei. La parola “drastico” l'aveva alimentato, e avrebbe dovuto celebrare anche la sua spiegazione, ma non la trovava. «Improvvisiamo. Fingi che io stia male, per esempio, che non mangi da un giorno.» Non credo verrebbe bene, al contrario pensò, senza aggiungerlo.

«Va bene.» Il ragazzo aveva diretto i suoi occhi verso la telecamera nascosta nell'albero, aveva fatto un cenno e atteso fino a quando non si era deciso ad iniziare, allungando una mano dolcemente verso la figura di Savannah, che nel frattempo si era accasciata a terra.«Come va, piccola?» domandò, con voce tremante, come se fosse intorpidita dalle lacrime, come se queste fossero pronte per irrigargli il volto e restituire l'energia alla ragazza.«Bene» lamentosamente era interferita lei, accomodandosi la mano dell'alleato sulla guancia, accompagnandola. Si era abituata con il tempo a contenere il suo rossore quando si sarebbe voluto presentare, e perciò si sentì tranquilla sulla sua interpretazione. Però, provava qualcosa di nuovo, e non era affatto male.«Ho fame» continuò.

«Mi spiace, piccola. Mi spiace non poter fare nulla per te» continuò Julian, riducendo il suo tono ad un tremito. E poi si avvicinò.«Mi spiace.»

Affondò la sua testa nel ventre di Savannah, e lei poté giurare di sentirsi bagnata da delle lacrime. Si stupì di quanto Julian sembrasse vero, e spero che questa sensazione arrivasse anche nelle case. Sarebbe significato che quella farsa non fosse del tutto inutile. Era divertente, ma quasi imbarazzante. Non lo dimostrò mai, da grande professionista del trattenere le sue emozioni.

«Ehi» continuò la ragazza, riscattando la testa del compagno, con degli occhi realmente segnati dalle lacrime.«Va tutto bene. Tu non devi fare nulla. Va tutto benissimo così.»

I loro volti furono, per un attimo, a distanza di respiro. Poi, Julian consolidò la commozione di quel momento in un bacio.

Savannah non lo rifiutò. Era pur sempre una scenografia, chiaramente per la sua bocca, ma non per gli spettatori. Chiuse gli occhi, perciò non vide come il risultato potesse essere. E non sapeva cosa pensare. Ecco, ora a casa hanno finito un pacchetto di fazzoletti concluse, ma non aveva un'opinione su quello che aveva provato lei. Fisicamente, non era stato spiacevole. Mentalmente, non aveva segnato nessun confine. Era una finzione. Basta. Non c'era nulla da provare.

Lievemente, si congedarono l'uno con l'altro. Il silenzio venne varcato da un bip, acuto e ripetuto. Gli occhi di Julian sembrarono cancellare in un attimo tutto il loro rossore, per poi correre subito verso la fonte del suono. Lei non si mosse. Non era finita, ancora.

Ce l'abbiamo fatta! non poté evitare di pensare, reprimendo tutti i suoi festeggiamenti. Doveva essere sofferente, ma dentro era sfrontatamente soddisfatta. E lo fu ancora di più quando Julian tornò, deponendo un barattolino con un minuscolo telo sgonfiato appresso, lo svitò e ci trovò della carne essiccata. E un paio di biscotti a forma di cuore.

Avevano vinto. Con un sorriso reciproco, di intesa mascherata con l'amore, si complimentarono uno con l'altro.

Si era formata una strategia.

 

Giorno 7

Distretto 7, Milton Marvin

Camminava. Trascinava i suoi piedi, inutilmente su quel terreno, scatenando qualche cumulo di polvere nascosto e residuo in profondità. Vorticava, nel momento in cui si alzava, come lui. Si sentiva totalmente svuotato, come se il cielo sovrastante fosse solo un'illusione, il sole che lo scaldava una cattiveria inflitta da qualcuno che voleva obbligarlo a continuare. E perché, poi? Fino a qualche giorno prima si sentiva gestito da una missione specifica: non abbandonare la sua alleata, a cui aveva promesso protezione, aiuto. Ma lei era scappata. Nelle sue braccia, aveva deciso di respingere le sue offerte e morire. Lasciarlo solo. Punirlo, forse, in qualche modo.

Come mai? Come mai? Queste parole risuonavano nella sua mente fino a tramutarsi nel più insopportabile delle grida, nel più insistente dei terremoti. No, non era un semplice mal di testa. Qualcosa di più profondo. Una bomba piazzata da Myrtle prima di andarsene, così per fargli rimpiangere di averla lasciata andare. Non era stata la giusta scelta. Ormai, era impossibile spiegarle che non aveva potuto trattenere la sua anima.

La sua gola risuonava dalla secchezza. Aveva dell'acqua? Forse. Non lo ricordava più. In ogni caso, non si soffermò ad esaminare il contenuto dello zaino. Non ci pensò neanche, non si soffermò un attimo su un'idea del genere. Gli pareva di essere in chissà quale mondo etereo, distante dalla polvere scatenata dai suoi piedi. Esisteva, da qualche parte. Ma non quella.

Non ricordava neanche di essere nato in un certo distretto 7, un posto presente nella sua memoria, ma in una memoria così vaga da potersi definire quasi un sogno. Non esisteva, probabilmente, lui non aveva alcuna ragione di sormontare quella terra ancora. La sua mente era abitata da un'enorme bolla d'aria, forse la fame e la sete, ma era talmente stanco da non riuscire a diagnosticare la causa del dolore. Se lo meritava, dopotutto; guarire non era nei suo interessi.

Ed allora, perché camminava? Si domandò questo, e istintivamente si bloccò. Già. Aveva senso. La domanda gli arrivò all'improvviso, come lo stimolo. Tentò di concentrarsi, qualche secondo solamente sprecare le sue energie, per rispondere. Forse... voleva sprecare il suo tempo fino a quando qualcosa non l'avrebbe colpito così violentemente da inibirgli persino di passeggiare. Forse cercava un particolare oggetto. Cosa, allora?
Giusto. Nulla. Voleva solo sprecare tempo.

Ricominciò, così. Trascinando i piedi, conservando le sue energie continuando a mantenere il contatto fra piedi e terreno. Fino a quando non captò miracolosamente un rumore di passi insicuramente felpati alle sue spalle.

Alzò la testa, allora. Prima l'aveva lasciata penzolare ad osservare i vani movimenti delle sue gambe, non avendo anche lei un obbiettivo. Ora doveva guardare, seriamente. Studiare la situazione.

Qualcosa si attuò al suo interno. Uno spirito materiale, determinato e testardo. E trovò la sua denominazione, sorprendentemente: era lo spirito di sopravvivenza. Allora, era ancora un essere umano.

Ma non si mosse. Attese, perché nessuna idea gli suggeriva di spostarsi. E dove, poi? La sua posizione era il desolato quinto cerchio, dove non esisteva nascondiglio. In più, se l'aggressore arrivava da dietro e non si voleva mostrare camminando con un'impercettibile leggerezza, era ormai nel mirino del bersaglio. E, per scoprire il volto del suo assassino, si voltò.

Il maggiore stupore fu percepito quando alle sue spalle non colse la figura di un assassino, ma di una ragazza moralmente indifesa. Una massa di capelli biondi oscurati dalla sporcizia, ribellati ad una coda di cavallo, con la testa piegata su un coltello dall'aspetto non più minaccioso. Il volto era oscurato dalla sua apparente tristezza.«Scusa... io non volevo.»

La sua voce sembrava rigata da un pianto, teneramente inquietato. Chi c'era ancora di tributi femminili biondi, a quel punto? Milton non ricordava. Ma non ebbe paura di lei. Si avvicinò, lievemente, sussurrando:«Ehi... non fa niente. Va tutto bene.»

Allora, lei lo fronteggiò con il suo sguardo, incagliando in un paio di occhi azzurri. E, da lì in poi, la nebbia di Milton sembrò diradarsi. Vide ai suoi piedi una cassa di cavi, sulle sue spalle le testimonianze della presenza di uno zaino, ed in lei la ragazza del distretto 3. Rimembrare il nome sembrò eccessivamente faticoso.«Non va affatto bene. Sono un mostro. Stavo per ucciderti!»

«Non l'hai fatto. Va benissimo così, fidati. Non sei un mostro, queste... queste sono le regole.» Non capì come mai queste parole fossero così spontanee nella sua bocca, come mai consolasse la sua nemica. Eppure, non era una nemica. Forse riconosceva uno spavento talmente naturale da creare una compassione. O da creare un riflesso.

La voce di Milton era segnata dalla sua siccità, e questo sembrò riscattare un animo gentile nella ragazza.«Aspetta... hai sete? Ho dell'acqua.»

Annuì senza neanche accorgersene. Era stato un'altra volta lo spirito di sopravvivenza, la sua voglia di bere. Aspettò bramoso, simile ad un cagnolino in attesa della pappa, fissando il tributo mentre estraeva tremolante una bottiglia di acqua piena a metà. Quando fu il suo turno, l'afferrò con vigore e si vide colto da una strana lucidità prima di bere. Perché aspirarne un sorso indicibilmente goloso? Avrebbe dovuto essere avaro. Conservare per un futuro che sarebbe potuto esistere. Così, si limitò a un goccio prima di restituire alla ragazza la sua bottiglia.

«Grazie» esclamò, porgendo di nuovo l'acqua.«Era il minimo, per farmi perdonare» si chiarì lei, puntando una seconda volta gli occhi al terreno. In quel momento, Milton realizzò che stava parlando con uno dei tributi ancora in gioco non per uno scontro. In pace. Lei gli aveva offerto dell'acqua, lui consolazione. Avevano già condiviso qualcosa, anche senza conoscersi.

«Milton» si presentò, porgendo la mano. Quel gesto gli parve anormale anche emesso da lui. Che senso mai aveva? Sembrava originario di quel passato, di quel sogno.

Ma, evidentemente, anche per lei aveva un significato. Accettò la presa, dichiarando:«Emilie.» Emilie, ripeté mentalmente. Emilie, la ragazza con gli occhi azzurri.

Da quel momento lei non lasciò mai più la sua memoria.

«Sei sola?» Incomprensibilmente, Milton non si sentiva affatto a disagio. La poteva capire. Erano così tremendamente simili. Terrorizzati, quasi. L'uno dall'altro, dal paesaggio, da quel cielo in qualche modo fittizio. Emilie rispose con il capo, facendo cenno di sì e confermando con la voce.«Tu?»

«Anche.» Poi, fu il silenzio. Forse stavano meditando. Entrambi, su una proposta inevitabile quanto futilmente fondamentale.

Alla fine, fu Milton a ritrovare il metodo, nutrito efficacemente da quel goccio d'acqua.«Ce la fai a portare i cavi? O è meglio che li porti io?» Con un sorriso timido, lei rifiutò cortesemente:«No, ce la faccio.»

E così fu. Insieme, s'incamminarono usandosi dell'altro come arma per spaventare la paura.

 

Distretto 9, Athena Rainway

Era notte. Era freddo. Quando si pensava alle prime due caratteristiche di quel luogo, risaltavano alle percezioni subito quello: il buio, e il gelido sospiro dell'aria sulla pelle. Athena si proteggeva solo con il suo sacco a pelo.

Aveva realizzato di necessitare di quell'arma insofferente che è il sogno nel momento in cui si era accorta di quanto fosse impossibile rimanere sveglia un'intera notte a vegliare affinché i nemici non le infliggessero nessun dolore. Ma quali nemici? Si trovava nel decimo cerchio, e sembrava essere l'unica abitante di quel posto. E così, lentamente, sinuosamente, i suoi pensieri l'avevano corretta assieme alla voglia fino a farle dormire. Così, si era arresa. Però, si parava con i suoi personali possessi tenendoli accanto a sé nel sonno, sotto il sacco. In questo modo non sarebbero stati notati. O almeno lo sperava. Era un allarme efficace, in ogni caso.

Non era caduta fra le braccia di Morfeo, la sensazione era più quella di essere affogata da loro. Da non poter respirare quasi dalla condizione in cui il riposo l'aveva posta. E quell'asfissia si coronava di un strano sogno, dove era possibile respirare, ma con una pesantezza anormale.

Si trovava in una piazza. La sua descrizione si poteva confondere in dettagli di quella del distretto 9 e quella principale di Capitol City, intorno a lei c'erano centinaia di facce di coetanei, alcuni conosciuti; ma Athena non lo notò. Sembrava... oppressa da qualche pensiero più pesante. E questo si presentò nella sua mente nella nebbia solita dei sogni: la Mietitura. Non si soffermò un attimo a ricordarsi che non era possibile, che lei era già posta nell'arena. Stava sognando. Poteva solo sperare in direzione contraria dell'estrazione.

Sul palco, che pareva straordinariamente vicino per la distanza a cui lei si posizionava, blaterava un nuovo deforme presentatore: era il ragazzo del 10, Eaves, il quale ricopriva il ruolo dell'accompagnatore con una strana attitudine capitolina mai presente nella vera versione. Si presentò e, dopo aver presentato un'edizione imprecisata dei giochi, il pubblico applaudì vigorosamente, incitando il nome di Eaves. Athena non ne capiva il motivo. Avrebbero dovuto esserne spaventati, se si trovavano lì, no? Erano raggruppati fra le persone possibili come nuovi tributi.

Eppure, era come se loro sapessero qualcosa di terrificante. Occhiate maligne e rimproveranti le venivano lanciate dai famelici sguardi dei coetanei, mentre in lei si moltiplicava la sensazione di essere appiattita al muro lì dietro. Anche se non era appoggiata a nessun muro. Non se ne accorse.

Eaves trotterellò fino ad una boccia, senza specificare se fosse maschile o femminile. D'altronde, Athena non scorgeva maschi. Ora lo notava. Era una sfilza di ragazze compresse in una folla famelica e rabbiosa, più vicina al distretto 2 che a... dove si trovava? Rendendosi conto di non conoscere il luogo in cui si trovava, lasciò cadere il paragone.

E poi, perché ci sarebbero dovuti essere maschi? Qualcosa di interno, incagliato nel suo spirito, le suggeriva che non fosse normale.

Silenzio. Poi, il ragazzo si avvicinò al microfono, mentre tutto intorno a sé sembrava congelarsi un momento.«Emanuelle Hepburn.»

Emanuelle? Giusto, anche Elle sarebbe potuta essere estratta. E allora, perché non si erano incontrate?

Allora, l'attenzione di Athena si focalizzò su un altro lato della piazza che prima era giaciuto inconsiderato, o forse non esisteva neanche. Lì, i personaggi sembravano più vaporosi, distanti da terra; oscillavano tristemente, attendendo chissà quale desolante destino. E, da quel posto, la braccia racchiuse nelle mani, veniva avanti Elle, trascinandosi lentamente, come se oppressa da un grande peso. Salì sul palco, mentre un velo di fumo si depositava ai suoi piedi. Il suo volto era cinereo.«Che cosa significa questo?» domandò ad alta voce, e Eaves la trapassò con uno sguardo venato di potenza e malvagità. Lo stesso comune delle altre ragazze. Un biglietto apparve silenzioso nelle sue mani e, senza staccare i suoi occhi da lei, come una condanna, il ragazzo annunciò:«Athena Rainway.»

Ed arrivarono le urla. Urla di derisione delle sue compagne, di quei volti talvolta visti talvolta frutto di una complessa immaginazione, tutte mirate a svestirla della sua dignità. Prima di poter muovere un passo, era sul palco. E anche una scia di vapore la aggrediva ai piedi.

Cosa sarebbe accaduto, allora? Aspettarono, mentre la gente inferiva su di lei, con fischi e condanne. Come mai? Cosa aveva mai fatto? Si ritrovò improvvisamente con le mani legate dietro ad un palo, ad osservare il cielo per eludere la folla in contraddizione rispetto a lei. Era grigiastro; le pareva di vedere la pioggia stagliarsi contro la terra, ma non la sentiva strisciare sul suo volto. Che strano. Per un momento, si concentrò su quello. Poi un crepitio iniziò ad assalirla dai piedi.

Osservò il pavimento. Fuoco. Cosa diamine...? Quando il calore si accentuò, proveniente da chissà quale inferno, la risposta le fu chiaro. Le stavano bruciando. Lei ed Elle.

In realtà, non c'era nessun inferno a detenere la paternità di quel rogo. Era lei, lei a creare le fiamme. Da lei scaturivano, da lei si diffondevano per entrambi i legni. Elle le lanciava sguardi ansiosi di spiegazioni, ma lei non riusciva a comprendere il motivo di quella condanna. Lei non era mai stata in grado di generare incendi, come mai in quel momento? Chi era stato ad appiccare il fuoco?

Si divincolava. Si doveva salvare, in qualche modo. Ma era sospesa da terra, era la causa della sua pensa, cosa mai poteva fare? Elle continuava a languire quell'occhiata, così impregnata di innocenza da far infiltrare in lei il senso di colpa. No. Nessuna di loro due sarebbe morta. Ma...

Una verità interna si nascondeva nel suo fegato. Una di loro se n'era già andata. Quale delle due? Athena non capiva. Cercava solo di salvarsi. Voleva solo salvarsi.

A un punto, un grido fendette l'aria. Il suo nome, urlato con tutta la potenza e la disperazione presente nel corpo del produttore; un'ansia incorporata in uno strillo. Non riconobbe subito la voce. Ma si voltò, e lo vide. Vide suo padre, bruciato dalle sue fiamme, mentre anche lui tentava di mantenere la sua vita.

Aveva una seconda opportunità. Era tornato. Ma stava morendo, ancora.«Papà!» strepitò, con il tono più acutamente devastato presente nel suo corpo, secco per un dolore sconosciuto. Doveva trovare una mano. Slegare suo padre. Non se lo meritava, di sparire un'altra volta. Era rimasto solo Eaves.

«Salvalo!» gridò Athena, sul volto del nemico, che si trovava sopra di lui, su un palco esasperatamente invisibile. Una figura impassibile; lunghe dita dall'aspetto minaccioso messe in risalto da chissà quale terrore.«Salva mio padre!»

L'unica cosa che poteva spegnere il fuoco erano le sue lacrime. Eaves rimase lì, ad allargare beffardamente il suo sorriso, a manifestarlo fino a quando la vita l'avrebbe torturata. E lei lo pregava, infusa da una disperazione indicibile. No. Non sarebbero state quelle fiamme la causa della sua morte. Non si sarebbe condannata, né avrebbe determinato la fine di suo padre. Perché non era il momento.

Come poteva dire che non era il momento? Poteva non volerlo, ma... ma non c'era altro. Le grida, che arrivavano nonostante nessuno stesse sullo sfondo. La risata vendicativa di Eaves. Le fiamme che la aggredivano sempre di più.

Poi, il fuoco arrivò a nutrirla direttamente alla bocca, a diventare parte integrante del suo respiro. Doveva affannarsi, per raggiungere qualcosa. Mentre tutto si annuvolava, mentre tutto si tramutava in fumo.

Si sentì attraversare da un calore indicibile. Fu un secondo, un attimo, un battito di ciglia. Fu il più atroce dolore della sua vita.

E poi si svegliò. Era notte. Era freddo. Quando si pensava alle prime due caratteristiche di quel luogo, risaltavano alle percezioni subito quello: il buio, e il gelido sospiro dell'aria sulla pelle. Athena si proteggeva solo con il suo sacco a pelo.

Proteggersi da cosa?

Si ritrovò ad avere paura dell'invisibile.

 

Spazio autrice

Be'...

Ehilà.

Qualche giorno fa, pensavo che questo è uno dei miei ultimi spazi autrice. Probabilmente, il quartultimo. Perché dopo questo capitolo, ci sarà la semifinale, che si svolgerà nel nono giorno. Ne salterò uno, ma prima di riempirlo delle banalità più grandi, mi sono contenuta. Passo velocemente ai commenti sui POV.

Who Powell: sì, lo so, qui ho esagerato come al solito con le OTP. Avrei voluto mettere più sangue, ma con Who mezza morta era impossibile scrivere qualcosa.

Savannah Sparks: ecco. Non l'ho fatto apposta. È stato più forte di me. Però, non li shippo, Savannan non prova neanche emozioni quando bacia Julian... Avevo bisogno di sponsor. In qualche modo.

Milton Marvin: non ho resistito neanche qui. Mi sembravano una bella coppia di alleati.

Athena Rainway: A.K.A., a volte ritornano. Penso che questo sogno sia una delle cavolate più grandi che abbia mai prodotto.

Ovviamente, è inutile che ribadisca di affogare la tastiera nelle lacrime ogni volta che decimo qualcuno. In questo capitolo sono morti, solo nel sesto giorno:

  • distretto 2, Eracle Chentaurion;

  • distretto 8, Who Powell.

Ecco. Nulla da aggiungere.

Alla prossima,

Bolide

 

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Capitolo 18
*** Spiriti ***


Capitolo XVII

Spiriti

Giorno 8

Distretto 9, Athena Rainway

Il nono cerchio era divenuto la sua casa da tre giorni, ovvero da quando era avvenuto l'omicidio del ragazzo del 10. E non le dispiaceva, come posto. In quella desolazione dorata, in quell'aridità monocroma, c'era una specie di tranquillità di cui sembrava avere un potente bisogno, in quel momento. Aveva bisogno di calma. Perché dei disturbi interni, dei contati di rabbia la assalivano senza alcun riguardo.

Tutto era iniziato dalla notte in cui il sogno del rogo si era manifestato nella sua mente, quando una nuova sensazione le aveva contagiato il corpo: quella di essere un mostro. In qualche modo, i suoi ragionamenti l'avevano spinta a riflettere sul dolore provocato dalla seconda morte del padre, equivalente a quello che quasi sicuramente caratterizzava in quel momento la famiglia di Eaves. Si era accorta che Eaves non era solamente un nemico da sormontare, un altro ostacolo fra lei e la vita, bensì un essere umano, simile a lei. Un essere umano con dei legami con altre persone, la cui felicità dipendeva dal suo sorriso. E lui non poteva più sorridere. Si sentiva un mostro.

Ma non l'aveva mai dimostrato. Si era rassegnata ad un rapido ed efficace pentimento per resistere a quei giorni con una coscienza devastata sulle spalle, si era calata in una sorta di mutismo utile per non sprecare la voce ed aveva deciso di dedicarsi solo alle attività in qualche modo lucrose, come la caccia. Aveva abbastanza provviste, ma essere previdenti era sempre la scelta giusta. E perciò, si trascinava in avanti per sopravvivere, per stringere una pace con se stessa come se questa le potesse portare l'ossigeno stesso. Non piangeva, mai. Era uno sperperio di lacrime che non avrebbe riportato in vita nessuno.

I giorni si solidificavano sulla sua testa, si scordavano quasi di essere trascorsi a causa della noia. Il sostentamento di Athena era prevalentemente formato dalle lunghe spighe di grano presenti in quel campo, che non ricevevano lo stesso disprezzo destinato a loro se lei fosse stata una capitolina. Ormai, dopo un anno di permanenza al nove, ci era avvezza. Tristemente avvezza.

A un punto, durante la mattina, il cielo sopra di lei sembrò lamentarsi di qualche comportamento sconosciuto. No, non era un colpo di cannone. Era qualcosa di più simile a... un tuono. Athena alzò la testa aspettandosi di trovare una sconfinata distesa azzurra, invece non riuscì a scorgere altro che un furioso grigiastro tendente verso il nero ad incombere solamente sul suo disco. Nuvole. Nuvole cariche di pioggia.

E, come conferma, la prima goccia si depositò sul terreno in quel momento. La annotò nella mente, per sicurezza, per far trascorrere il tempo con il conteggio di gocce di pioggia caduta. In quello stesso istante, ne arrivò una seconda. Due. Tre. Quattro. Cinque...

Non riuscì a localizzarle più. Quell'accenno di precipitazioni in un attimo si era trasformato in un temporale senza alcun dominio, a cui si poteva solamente assistere. Ed Athena si ritrovò immersa in dei panni bagnati senza essere mai entrata in nessun lago, solamente per effetto dell'acqua proveniente dalle nuvole. Nel tempo di un'illusione, si accorse di essere in mezzo ad un temporale.

Questo perché il fragoroso rumore di un fulmine impattato con il terreno le si manifestò assieme all'immagine dello stesso, dall'altra parte del disco, separata da lei dai dischi posti in mezzo. Si considerò salva, per un istante, quando avvertì la carica di una seconda saetta. Allora riconobbe il pericolo. Era esattamente nell'occhio del ciclone, e non poteva fare nulla per evitarlo.

Afferrò i suoi averi e, come prima cosa, corse subito verso la porta, trovandola sbarrata. Imprecò rumorosamente, ma la sua frase fu burlata dallo scoppio di un altro tuono. Continuò a correre, in cerca di una meta o di una sconosciuta salvezza, però non ottenne nulla. Si accorse che il fango le impastava le scarpe, e che un lieve strato di acqua si stava creando.

E quanto tempo era passato? Dieci minuti? Il vento iniziò a manifestarsi contro il suo volto, giocando con i suoi capelli, buttandoglieli in faccia o rubandoli dal volto. Il lago per terra accresceva, mentre le prime, sottili spighe di grano cominciavano ad arrendersi all'aria ed a volare via. Athena provò quasi a pregarle di non lasciarla sola, non in quel momento, ma la sua bocca era serrata.

Presto, arrivò anche la grandine. Ed a quel punto Athena dovette seriamente dedicarsi allo studio di un riparo. Come prima reazione, spalancò lo zaino e cercò nella velocità della sopravvivenza il sacco a pelo, tirandolo fuori con uno sguardo speranzoso. I tuoni, i fulmini, la pioggia la stavano detestando. Si rizzò in piedi, quando, a pochi passi, un lampo si frantumò contro il terreno.

Inizialmente, lo notò solamente la sua bocca, che urlò sconsideratamente, facendo vibrare tutte le gocce che lottavano con la terra. Poi realizzò l'accaduto, osservando la presenza ancora fumante di un'ustione sul campo. Quella sarebbe stata lei presto, se non avesse subito cercato un riparo. Allora si riparò nel sacco a pelo, rendendosi conto della stupidità della faccenda: l'acqua sarebbe certamente filtrata, la grandine l'avrebbe tormentata comunque, e se un fulmine l'avesse colpita sarebbe stata carbonizzata irrimediabilmente. L'unica protezione era quella delle orecchie, a causa dei tuoni attutiti. E sudò per il caldo che si manifestava all'interno di quell'involucro, quasi in contrapposizione con i panni umidi. Tremò per i giorni che quel temporale sembrò durare, ma non uscì mai. Ragionò, si chiese il motivo, si crogiolò nella sua paura, ma non uscì mai.

Quando fu sicura che fosse concluso, si liberò di quell'ambiente umido. La prima cosa di cui si accorse fu di aver lasciato lo zaino alla natura, ed infatti quello era volato via, l'aveva lasciata sola. In più, la devastazione compiuta sul terreno era la più totale: nessuna spiga di grano si ergeva come prima. La desolazione aveva condannato anche quel terreno, oltre al suo cuore, quando aveva realizzato una cosa, torturata dalla grandine, accaldata dal sacco a pelo, angosciata per la spietata mancanza di risorse, fiaccata da un nuovo principio di malattia: la capitale voleva farla fuori.

 

Giorno 9

Distretto 3, Emilie Levieva

Si conoscevano da due giorni, eppure fra loro si era sviluppata una complicità che lei avrebbe sempre pensato impossibile. Emilie aveva ammesso al suo interno quanto fosse necessaria per lei, quanto quel conforto fosse caloroso ed affettuoso, di quanto fosse utile nonostante nessuno l'avesse mai richiesto. Anche perché, grazie a Milton, la ragazza non si era lasciata devastare da un sentimento di angustia quando avevano avvistato del fumo all'orizzonte.

Non c'era altra spiegazione che la presenza di un altro campo, altri tributi spiegati contro di loro. Una sensazione si era annidata in Emilie, un sospetto disastroso e vendicativo: ci sarebbero potuti essere il ragazzo del 5 e quella del 12 in quel campo? Si trovavano nel settimo cerchio, e la distanza dal quarto disco in cui si era consumata la più furiosa lotta della sua esperienza era misera. Era possibile che i suoi nemici fossero stanziati lì. Furtivamente, si era avvicinata e, con un carico di attenzione maggiore della volta prima, aveva avvertito fragorosamente, come in un incubo vivido, le voci dei due. E cominciava a desiderare il piano.

I cavi avevano iniziato ad avere un'utilità solamente il giorno prima, in occasione della notte, in cui le stelle non erano sufficienti per portare tranquillità negli animi dei due alleati. E, con il suo materiale che si era rivelato più consistente e esaudiente di un intreccio di fili, aveva generato un minuscolo circuito elettrico per nutrire da una lampadina. Sarebbe riuscita a produrre qualcosa di più letale ed utile?

Ci stava riflettendo. Milton e lei erano scappati dalla postazione degli altri in fretta, in un tumulto di terrore della ragazza, mentre i primi lucidi istinti si scatenavano in lei. E si attuavano nel momento in cui la terra ispirava una strana sicurezza verde, così da scagliarsi sul loro riposo.

Quelle persone l'avevano minacciata di morte. Avevano spazzato via Lynton, solo il secondo giorno, per motivi futili.

Qualche attimo di silenzio aveva poi spaziato verso un'idea di vendetta: e se...

E se avesse generato qualcosa, qualunque cosa, per ripagare la solitudine a cui l'avevano costretta? Non ragionò per tanto tempo. Frugò senza lucidità nella cassa, tirando fuori un minuscolo apparecchietto nero, una specie di neo nelle sue mani. Lo guardò con immensa soddisfazione, alla luce del sole, mentre tutto si solidificava nelle sue intenzioni.

«Cos'è quello?» domandò subito, con un'attitudine curiosa, Milton. Anche lui lo stava rimirando, ed Emilie si affrettò a rispondere:«È un convertitore da energia elettrica ad energia termica. Come una stufa in miniatura. Modificata, può persino produrre un incendio.» Si accorse che la sua voce era affannata nel momento in cui scartava il minuscolo coperchio dell'oggetto e staccava violentemente un minuscolo filo. L'aveva fatto. Ora il neo riportava un serio danneggiamento.

«E quindi...» Milton cercò di elaborare prima traendo pensieri dal terreno, e poi dagli occhi dell'alleata. Un sussulto lo scosse al risultato.«Non vorrai bruciare quelli dell'altro accampamento?»

Per la prima volta, la sua idea fu intristita dalla nota del ragazzo. Giusto, li avrebbe uccisi? Comprendeva la condizione primitiva che l'aveva portata alla vendetta, ma non capì come mai lei si sarebbe dovuta sottomettere a lei. Nonostante ciò, replicò con convinzione:«Ho visto chi sono. E non si sono fatti scrupoli ad uccidere il mio alleato. Saremmo al loro pari, dopotutto.»

Silenzio. Una specie di nodo nella gola di Emilie si sciolse, rivelando dell'acqua condotta agli occhi sotto forma di lacrime, che cercò di reprimere. Milton poi parlò:«Capisco, ma c'è veramente bisogno di ucciderli? L'hai detto anche tu, sono delle persone sgradevoli. E tu vorresti essere al pari loro?»

Come ragionamento era efficace. Il flusso di acqua si dilatò in modo consistente, ma lei tentò ancora di inghiottirlo. Sì, non ne valeva la pena. Non di distruggersi per una rivalsa, per un passato che dopo poco tempo non sarebbe stato più valido oppure sarebbe divenuta un'obbligata esperienza terribile. «Hai ragione.» Lo accettò in questo modo, sedendosi, e lasciando fluire le lacrime.

Milton tentò di consolarla, ma il suo dolore era così interno da non avere neanche una fonte. E perciò, si lasciò andare al pianto, per concludere:«Ci ucciderebbero.»

Il suo alleato squadrò nei suoi occhi. Emilie studiò il riflesso dello suo sguardo in quello di Milton, e lesse una determinazione talmente intima da non essere localizzata neanche dalla sua stessa mente.«Ne sei convinta?» sibilò lui.

Emilie annuì. E tutto iniziò veramente.

In poco tempo, fu fortificato un secondo circuito elettrico, in simbiosi con l'apparecchio danneggiato. Fu condotto con il dovuto consenso della terra di sotterrarlo vicino all'accampamento, per poi fermarsi fino al momento in cui i suoi occupatori avrebbero lasciato libero spazio alla loro condanna.

Arrivò presto. Quando nessuno fu più al campo, Emilie assicurò ad un tronco il congegno. Era pressoché invisibile. Ed estremamente pericoloso.

Non era affatto sicura che funzionasse. Però ci sperava. La sua cordialità si era dissipata nella crudeltà di quel posto e furono solamente le ultime, deboli coscienze a ribadirle le sue azioni. Non le considerò. Doveva. In qualche modo. Altrimenti si sarebbe fratturata come porcellana.

I due assassini avevano lasciato lì i loro zaini. Una mossa ardita, incompresa, forse una fatale distrazione. Emilie pensò se raccoglierli, poi ricacciò l'idea. Si sarebbero accorti subito che qualcosa era sbiadito, se avessero notato l'assenza delle loro borse.

Il richiamo. Emilie camuffò in un cespuglio, in modo che comunque mantenesse il suo mestiere, un'altra minuscola macchinetta, adatta al compito di distorcere i rumori della foresta ed amplificarli fino a creare terrore. Fino a richiamare i due nemici. Fino a farli tornare alla loro base.

Fino ad attirarli in una trappola.

 

Distretto 12, Savannah Sparks

Non avrebbe voluto spostarsi. Però la loro recita aveva necessità di nuovi sfondi, di nuove minuscole tenerezze, di nuove gabbie per i capitolini per costringerli a compatirli. E ritrovarono questo nella caccia. Julian avrebbe insegnato alla compagna di menzogne a catturare una preda, così da originare scene inedite e ancora più efficaci. Savannah sapeva che quel bosco nascondeva grandi dosi di divertimento, da non eludere e non scartare. In più, era un modo per farsi piacere dal pubblico. Non osava immaginare cosa sarebbe accaduto però se entrambi fossero rimasti vivi, sul finale, davanti allo schermo. Quando tutto si sarebbe dissipato, quando non sarebbe esistito alcun motivo per accarezzarsi e si sarebbero moltiplicati quelli per pugnalarsi. La risposta affidata dalla sua mente era semplice: lo uccideremmo. No, sembrava non crearsi così tanti scrupoli, all'apparenza. Ma non realizzava la faccenda. Non la sentiva, non la comprendeva. Ed allora non poteva temere seriamente quella situazione.

Ad un punto, il territorio dietro le loro spalle gracchiò, tradendoli mentre loro si accostavano alla fabbricazione di una trappola. E li ammutolì, cercando il terrore negli occhi dell'altro per non sentirsi impotenti. Continuava, non temeva la loro reazione. E, in questo modo, li intimoriva ancora di più.

«Viene dal campo.» Julian non si preoccupò di realizzare la presenza di rumore, probabilmente ci era già arrivato al suo interno. Si alzò con cautela, e chiese con una ritrovata, fittizia premura alla compagna:«Tutto bene?»

Lei era sempre appollaiata sul terreno.«Be'... sì. Non so cosa succede là, però.» Lanciò un'occhiata inquietata a dove avevano dimenticato i loro zaini. Si erano semplicemente prestati alla loro imprudenza, credendo di essere talmente potenti e talmente isolati da trascinarsi dietro solo delle necessità. Semplicemente perché la loro pigrizia li aveva battuti; dopotutto avevano una gran quantità di risorse e servirsi di tutte quelle era semplicemente esagerato, per andare a caccia pochi metri più in là.

E lei non sapeva. Sinceramente, e sospettava, e aveva paura. E voleva tornare. Non furono necessarie parole, era l'intento di entrambi. Nella sua immersione nel personaggio, Julian la confortò con una gelida e convincente stretta di mano, da lei ricambiata con una curiosità non collegata totalmente con la recitazione. Sì. Era curiosità. Cosa c'era da temere? Avevano combattuto con altri, un altro scontro non sarebbe stato poi così inaspettato.

Già. Avevano combattuto con altri. Ma erano i primi giorni, i livelli erano aumentati, si erano votati alla violenza. E rimanevano i Favoriti. E su di loro...

Dopo un poco, Savannah sorrise. No, li avrebbe affrontati. Non aveva paura di loro.

Arrivarono al loro luogo, trovandolo vuoto come un tradimento. Il rumore rombava, sempre, persisteva, faceva credere loro di essere reale, come se non avesse considerato il loro raggiungimento, la loro scoperta. Ma era vano. Credeva di spaventare, e...

E il suo torto non era enorme. Quel fantasma alitava sui loro colli, e non li vedevano. Non aveva neanche trafugato gli zaini, li aveva graziati di tutto il loro bottino. Per quale motivo?

Incontrò gli occhi di Julian, senza riuscire a leggerli. Ma comprendeva il pericolo celato da quel vuoto. Il vuoto era sempre il posto in cui il pericolo si dilatava, in cui conquistava tutto il territorio, lo rendeva suo e condannava ogni invasore. Alla fine, erano loro gli invasori.

«Prendiamo la roba ed andiamo via» si decise Julian, avventandosi verso gli zaini. Ed allora il tradimento arrivò.

Era una folata di vento accompagnata dall'esplosione di una fiamma, capace da estirpare ad entrambi un urlo. Eccola, possente, vibrante, condannante; pronta a devastarli. Qualcuno aveva calato su di loro una trappola, con tutte quelle attrezzature invisibili e distruttive. Un'umiliazione totale. Un'umiliazione che adesso stava ustionando Julian.

Fu un attimo. Il fuoco lo inghiottì come se non fosse mai esistito, inghiottì lui, i viveri, il territorio circostante, come se fosse stata l'unica cosa esistita lì. Sembrava il camino di casa sua amplificato fino a livelli inspiegabili: una possente lingua che esalava un rigo di fumo grigiastro, indeciso e debole, il contrario del suo enorme generatore rosso, arancione, giallo, di così tanti colori da non averne uno in definitivo. Da amplificare la sua potenza. Vibrava, ed avanzava contro di lei.

Un colpo di cannone la riportò alla realtà. Julian... pensò un attimo, ricordandosi di aver avuto un alleato. Julian è morto. E no, in quel momento non era realmente mai esistito. Era lei a dover continuare a vivere, a combattere. A scappare subito da quel luogo, altrimenti le fiamme l'avrebbero presto raggiunta.

In un impeto d'impulsività, fuggì insieme al vento verso dove era arrivata, con il fuoco in una faticosa espansione. Poi, nella sua sconvolta corsa, si accorse di essere ancora un essere umano, di stringere un'arma in mano, e di poter ragionare.

L'incendio si sarebbe propagato nella direzione del vento, quella che lei stava seguendo. Perciò, non doveva continuare da quel lato, bensì aggirarlo. Era probabile anche che i suoi nemici, i piromani, alloggiassero vicino all'albero. E lei aveva il suo machete. Non era male, come prospettiva.

Non capì come mai stesse pensando a dei nemici. Solo lo sentiva, sentiva la loro presenza. E sentiva la sua vendetta.

Perciò, con una traiettoria circolare, si allontanò dall'incendio, disperdendo la vista fra gli alberi, intravedendo la maledizione luminosa, non perdendo mai l'avvertimento del fumo. Corse fino a renderlo un ricordo, fino a sentire delle voci.

Loro. Savannah si fece più sicura sul machete. Si aggiornavano sulle loro condizioni, con voce affannata, come se credessero i pericoli conclusi. Illusi. Si avvicinò, sinuosamente silenziosa, cercando di comprendere chi fosse. E ritrovò la maledetta schiena della ragazza del 3. Ancora lei, la tormentava lasciandola sola, scappando quando si ritrovava davanti alle sue responsabilità. Questa volta, non l'avrebbe passata liscia.

Si caricò. Raccolse tutta la sua furia, tutte le sue condanne, fu pronta con pochi determinanti respiri. E poi, si scagliò in direzione della nemica, piantandole sulla testa con un grido di rivalsa la lama. Non ci furono gridi di protesta, addii al mondo, ma solo un colpo di cannone; lei cadde subito, arrendendosi alla potenza della vendetta. Il suo cranio aperto sanguinava mostrando i segni di quella che era stata un odio e si era congedata nella morte. Ora era solo sangue, sparso ovunque, schizzato fino alla foglie degli alberi così da grondare, a fertilizzare il terreno, a segnalare la sua lama, a macchiarle i vestiti. Che schifo, pensò Savannah a quest'ultimo avvertimento. Qualche pezzo di cervello s'intravedeva, condannato sul terreno. Una cupa soddisfazione, quasi scavata dal rimorso, si avventò in lei.

Alzò gli occhi e trovò un'altra figura sconvolta: era probabilmente il suo alleato, un ragazzino dai capelli rossi di cui non ricordava la provenienza. Quell'anno ce n'erano vari. Nel suo turbamento sarebbe potuto essere innocuo, ma una forza spingeva Savannah ad attaccare anche lui. Uno in meno, no? La finale si avvicinava, e lei non poteva lasciarsi andare alla pietà.

Il ragazzo si risvegliò quando Savannah caricò con un grido, trovando solamente l'aria e facendo ricadere il machete sulla terra violentemente. Non c'era più, si era discostato. Furiosamente, si raddrizzò, guardandosi attorno. E vide la sua figura in corsa nella direzione del fuoco.

Era pazzo o stupido? In ogni caso, lei lo inseguì. Non era il degno modo di scomparire, lei gli avrebbe dedicato la giusta morte.

Arrivò al punto in cui non lo trovò più, e l'unica alternativa fu squadrare il vuoto circostante, trovare i suoi tradimenti prima che si potessero ripercuotere su di lei.

C'era l'aria. Non era male, come sensazione, accompagnata da quel caldo e quell'accenno di fumo che s'infiltrava nelle narici. Non era poi così dissimile dall'odore casalingo del carbone, la confortava. Quasi aveva voglia di allargare le braccia, e godersi le fiamme. Ma aveva un nemico da localizzare. Perciò, si osservava intorno. Senza trovare soluzioni.

Improvvisamente, qualcosa si scagliò contro di lei dall'alto, dolorosamente, una fitta improvvisa. Riportò la sua mano al cranio, localizzando del sangue. Era stato talmente forte?

Però, era ancora viva, era ancora capace di sconfiggere quell'altro. Non sospettò chi fosse il colpevole, ma si mosse in altre direzioni, verso altre speranze. E qualcuno bussò sulla sua mente una seconda volta, in modo più forte. Ed un'altra ancora. Solo al terzo colpo comprese l'arma del delitto: pigne. Pigne cresciute sugli alberi, forse pronte a suicidarsi impattando con il terreno tutte in quel momento per una casualità, o forse...

Il ragazzo del 7. Fu tentata di ridere, quando si accorse della stupidaggine della sua cecità, come spesso le accadeva. Com'era semplice! Il ragazzo del 7 si era arrampicato sugli alberi e da lì la stava condannando. Quei suoi pensieri erano di una nebbiosa vacuità, come se lentamente la stessero abbandonando, come il sangue che le solcava il collo. Tutto sembrava non avere più senso. Si meravigliava del fuoco, tenendosi a distanza di sicurezza, ma aveva smesso di cercare.

Si presentavano ancora i lamenti dagli alberi, le vendette del ragazzo del 7, e le gambe di Savannah iniziavano a piegarsi sopra il suo peso. A non sorreggerla più, come il graduale silenzio della sua mente, sempre più potente; gridava sempre più forte le sue intenzioni. Gridava che la stava perdendo, senza alcuna riserva. Gridava che stava cadendo in ginocchi sul suolo.

Era terrificante. Non aveva una sosta, e si era trasformata in una ripetizione, in una sottospecie di morte. Voleva urlare che bastava così, che quasi era già morta, senza essere consapevole di dire una bugia o meno. Non camminava in più, si era inginocchiata, mentre la sua mente si ribellava perché l'avversario avrebbe potuto mirare meglio.

Sangue. Alla fine lo sentiva dappertutto, sulle mani, sulla nuca, sul collo, sugli occhi. No, non sugli occhi. Voleva ancora vedere il fuoco. Voleva vedere il fuoco da sdraiata, mentre tutto intorno a lei era conquistato dal silenzio, una specie di calma, anche nei suoi pensieri.

E la sua visuale era sempre più nera. Alla fine, il fuoco fu un punto, e dopo un ricordo. Poi, non sentì più nulla.

 

Distretto 9, Andrea White

Un altro colpo di cannone. Andrea non poté evitare di sorridere; quell'esperienza si stava volgendo verso la fine, verso le spettacolari scintille conclusive. Avrebbero dovuto scannarsi, per stupire, la più cruda delle sentenze si sarebbe presentata come un ordine sulle loro teste. E lui avrebbe soddisfatto i bisogni sanguinari di Capitol City, per una necessità impellente proveniente dalla sua bocca che più dalla sua voglia di vita. Perché di voglia di vita sembrava non possederne.

Non aveva senso. Cosa significava vivere? Svegliarsi la mattina, camminare, trovarsi un'occupazione per smaltire il tempo in attesa della morte e compiangersi quando quella alitava sul proprio corpo. Era un'azione futile, predisposta per un animale stupido quale l'uomo, che non s'interrogava sull'utilità di vivere, ma seguiva accanitamente sbavando tutto ciò che veniva comunemente considerato “bello”. “Bello”, “ricco”, fino a tramutarsi in vanamente fondamentale. Questo era il principale motivo per il quale Andrea disprezzava gli umani, la loro politica, la loro filosofia, e per cui odiava anche se stesso, in fondo.

Aveva già progettato la sua mente, per un dolore inflitto da solo, atroce e soddisfacente. Niente sarebbe stato migliore nella sua intera vita che morire; la sua maggiore vincita. In più, compiendo il suo funebre riscatto fuori dall'arena, in diretta nazionale, mostrando veramente cosa fosse il sangue a quello sciame di sudditi della vanità durante l'intervista finale si sarebbe colmato dei suoi bisogni in modo così profondo da lasciare il segno persino dopo la sua morte. In lui, nel mondo. Non voleva insegnare a nessuno, ma solo librarsi verso il futuro migliore: il niente.

Era quasi finita, perciò. La sua esperienza per sfogare la sua rabbia prima della fine, per non morire senza aver mai manifestato i suoi bisogni fisiologici: mangiare, dormire, bere, uccidere. Dopotutto, era stato progettato anche quello, no? Gli era piaciuto, l'aveva apprezzato, ma riconosceva di bramare la conclusione.

Si trovava ancora presso la Cornucopia, la sua ultima casa, l'ultimo posto che l'aveva visto rilassatamente solo. E adesso aveva deciso di separarsene, di allontanarsi da lei per offrire agli Strateghi di predisporla per la sua vittoria.

Avrebbe vinto, ne era certo. Chi era rimasto, oltre a lui? Due persone. Il fragile bambino del 7 e l'ostinata ragazzina del 9. Nessuno dei due era al suo pari. Nessuno dei due.

Era pronto per distruggerli.

Si armò delle necessità, un minimo di cibo, un minimo di acqua, un minimo di armi. Tutto ciò che il suo corpo esigeva, per bruciare gli ultimi respiri.

Rimirò l'enorme dimora argentea, allontanandosi. I fiori che nessuno aveva pulito, il clima di festa abbandonata da nove giorni che giaceva lì.

Le porte si aprirono con un sussulto, quasi lo avessero avvistato. In un attimo, Andrea notò che quest'azione era comune a tutte le mura. Niente più li divideva. L'apocalisse sembrava annunciarsi così.

Andrea sorrise e si precipitò nel primo cerchio. Che i giochi abbiano fine, al più presto possibile.

 

Spazio autrice

Sarò breve. Basta dire che questo è il terzultimo capitolo di 500, e nel prossimo avremo un vincitore. Da qui, è semplice dedurre la lunghezza del diciottesimo e penultimo capitolo di 500: sarà interminabile. Cercherò di essere coincisa, ma le lacrime sulla tastiera allungheranno tutto.

Perché siamo alla fine, e questo mi fa stare abbastanza male. Questa storia lascerà dentro di me un vuoto enorme; sarò colmata da qualcosa, ma privata di altro. Cavolo.

Allora, brevemente, visione dei POV:

Athena Rainway: alla fine, l'ho spostata l'ottavo giorno. Qualcosa doveva succedere, no?

Emilie Levieva: è un POV di preludio di tutto quello che accadrà dopo, una spiegazione. Spero non sia stato troppo noioso.

Savannah Sparks: e con due pagine e un terzo di lunghezza, Savannah Sparks per ora si aggiudica il primato di POV più lungo di 500! Sempre per ora. Come sarà strutturato il prossimo capitolo? Sorpresa.

Andrea White: forse questo è il POV più corto, invece. È essenziale, per annunciare la fine. E spero di essersi riuscita.

I ringraziamenti andranno nell'ultimo capitolo, anche se vorrei iniziarli qui. Fate conto che ci siano.

Alla prossima,

Bolide

 

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Capitolo 19
*** La speranza ***


Capitolo XVIII

La speranza

Distretto 7, Milton Marvin

Era seduto, con una pietra a separarlo dal terreno, gli occhi rivolti verso il cielo.

Quale speranza c'era, ormai? Scrutava alla sua ricerca, la pregava di apparire, ma la detestava, perché non riusciva a sentirla. Tutte le devastazioni subite negli scorsi giorni, interne o esterne, avevano aspirato ogni suo spirito brillante di speranza, e l'avevano rimpiazzata con un'angoscia nefasta.

Ogni sospiro di vento, ogni goccia di pioggia, ogni sorriso ricordato, era solo una minuscola goccia in quell'enorme pattume.

Non sapeva cosa provare, in quel momento. Tentava di riflettere, ma i pensieri diventavano solo un brusio accalcato, consigli di entità sconosciute, i complimenti dei suoi demoni, grida di spavento.

Scrutava, in cerca di speranza. Alla fine, il cielo parlò.

 

Distretto 9, Athena Rainway

«Complimenti, tributi. Siete i finalisti dell'edizione del 500 degli Hunger Games. È Claudius Templesmith che vi parla, per darvi una piacevole sorpresa.»

Athena quella notte non era riuscita a dormire, come sembravano testimoniare i suoi occhi, straordinariamente pesanti, e la sua mente, annebbiata dai sintomi della feroce febbre che la scuoteva dal giorno prima. Era ancora sdraiata, ritentando di trovare quel pericoloso conforto, ma le parole di Templesmith improvvisamente si proclamarono ordine del giorno. E anche lei ne era succube.

Il cielo ricominciò a tuonare:«Ognuno di voi ha un disperato bisogno di un oggetto. Noi sappiamo cosa sia, e sappiamo anche come lo potete trovare. Recatevi al festino organizzato alla Cornucopia questo pomeriggio, dove troverete tutto il necessario. Siete tutti cortesemente invitati. A questo pomeriggio, tributi.»

Sarebbe dovuto accadere, prima o poi, soprattutto quando la vittoria alitava sulle spalle dei contendenti a quel modo. Ma Athena non lo aveva previsto; lei, accurata conoscitrice delle tattiche degli Strateghi per attirare l'attenzione, si era logorata nella sua malattia.

La malattia. La parola lampeggiò nella mente, e si attaccò fortemente all'idea del festino, affezionandosi alla visione di una medicina.

Una parte di lei non voleva andare alla Cornucopia. Sapeva che la capitale si stava predisponendo per attuare la sua esecuzione, ed offrirgli quella soddisfazione non aveva scelte.

I brividi la percorrevano, mentre la febbre vorticava in ogni membra del suo corpo. In fondo, era essa a comandare.

Aveva alternative?

 

Distretto 9, Andrea White

Quella mattina il suo risveglio era stato ornato da un sorriso inaspettato sul suo volto, determinato dalla consapevolezza di aver raggiunto il fatidico giorno.

Perciò, si era svegliato. Aveva mangiato, bevuto, effettuato le normali azioni che contrassegnavano ogni mattina, ma capitanate dall'idea della vittoria. Era stranamente sicuro di sé e dei suoi avversari; ovvero, della debolezza dei suoi avversari. Non aveva concorrenti, in pratica. L'arena era sua.

Quando arrivò l'avviso, non poté che lasciarsi andare ad una vigorosa risata, che turbò il cielo almeno quanto l'intervento di Templesmith. Così, stavano veramente lottando sui limiti. L'intera Capitol City era radunata attorno a qualunque elemento trasmettesse i loro conflitti, trepidando per quel pomeriggio. Anche lui, dopotutto, palpitava per lo stesso evento. Ma il sangue circolava in una vena di pura malvagità.

Il pomeriggio calò, assieme al sole. Le sue armi erano affilate, come la sua mente; il suo sangue non sarebbe sfuggito a quella occasione.

Fu il primo ad arrivare. Tre zaini giacevano su un banco; afferrò il suo, per illudere di aver già lasciato quel posto. Si riparò dietro alla Cornucopia, ed attese fino a quando non sarebbe stato l'unico presente.

 

Athena

Alla fine, era stato il freddo a conquistarla, ad armarla per raggiungere quella che sarebbe stata la sua tomba o la sua scala verso la vittoria. Stringeva la sua falce, l'unica cosa che si era trattenuta dall'inizio alla fine dei suoi giochi. La sua unica compagna in quel momento. Avrebbe quasi desiderato parole di conforto da lei, sussurri in cui affermava che tutto andava bene, qualche bugia per rinfrancarle il cuore. Sì, erano proprio le bugie ciò di cui necessitava in quell'istante.

Gli Strateghi avevano steso un impercettibile tappeto rosso sul suo cammino, spalancando tutte le mura che segregavano i cerchi l'uno dall'altro. Ora, l'arena pareva spenta, emanare un debole ronzio attutito dalle vite di tutti coloro che in quel posto avevano scisso la loro anima dal loro corpo, trascinando con essi l'attività del territorio. Era finita in questo modo. E in poco tempo, sarebbe stato il più totale silenzio.

Era arrivata, ed emanò un sospiro di sollievo risparmiato quando notò due zaini di eguale dimensione, uno color ocra ed un altro verde. Avvicinandosi, poté scandire con la vista i numeri “7” e “9”. Perciò, Andrea era già stato lì. Non c'era nulla da temere. Questa bugia si manifestò quasi con sincerità nelle sue orecchie.

Tentò di impostare la maggiore velocità consentita dalle sue gambe, risparmiando la corsa che l'avrebbe potuta far fallire al suolo per un qualunque inciampo inatteso. Questo voltando in una continua azione di controllo la testa, gli occhi spalancati nella ricerca di qualche colpa del paesaggio. Ma non trovò, né udì nulla.

Afferrò in un infinito alone di indifferenza lo zaino ocra con la mano libera, e poi tentò di ritrarsi. Però la risposta del destino fu un colpo nelle spalle.

Gridò, istintivamente, e poi si ritrovò a sorreggersi con le mani occupate, il volto a pochi centimetri dal suolo. L'avevano trovata. Non importava chi, ma era diventato l'avversario contro cui combattere.

Lasciò lo zaino sul prato e si raddrizzò. La prima cosa che notò girandosi fu il ghigno splendente di Andrea.

 

Andrea

La sua prima preda era la sua compagna di distretto, la rossa. Ricavando dati dalla sua personale esperienza, l'aveva classificata come il tributo ancora in vita più pericoloso, per una scintilla di determinazione nei suoi occhi non indifferente. Le aveva riconosciuto un coraggio anticonformista, che anche adesso brillava, mentre lo fronteggiava affidandosi alla sua falce. Su due piedi, le apparve leggermente patetica. Almeno sotto la sua morsa.

«Che i giochi abbiano fine, Rainway» le annunciò, riproponendo quella frase che tanto aveva perseguitato la sua mente nell'ultima giornata. E prima che lei si potesse sbloccare, ghiacciata chissà da quale sensazione, si gettò su di lei accasciandola al suolo, lui seduto sopra al suo copro. Ora il suo sguardo non sembrava contenere più la sua forza. C'era anche un terrore glaciale.

Lei reagì scalciando con il tratto delle gambe ancora utilizzabile, tracciando disperate traiettorie che s'indirizzavano alla sua schiena. Andrea sussultava, ma reprimeva gli stimoli con facilità. Il dolore, una lieve puntina con sfumature di un rosso tenue, si manifestò dopo che l'insistenza della ragazza fu accuratamente constata.

Intanto, lui la puniva con pugni: pugni permessi solo dalla mano destra, perché con la sinistra sedava il braccio della rossa che reggeva l'arma; rabbiosi, vibranti, l'apice del suo sfogo. Non era una vittima piacevole, la ragazza. Non emetteva richiami di pietà, non si lamentava, non protestava. Era di un'insopportabile resistenza da cui scaturiva solo ira.

 

Milton

L'unico oggetto superstite dell'incendio del pomeriggio precedente era il suo coltello. L'aveva recuperato dal carbone, a differenza delle provviste di cibo ed acqua, che si erano mischiate al bottino delle fiamme. Si erano spente solo per un improvviso temporale, con quel retrogusto artificiale che colpiva ogni evento dell'arena, il quale aveva annullato tutto. Lui si era salvato dal fuoco scappando in una zona dove esso temeva di spingersi, lasciandolo solo con i suoi dubbi, con i suoi rimorsi. E, quando tutto fu quieto ed incomprensibile, ritornò al punto in cui Emilie era morta, non trovando niente. Niente tranne quell'arma, stranamente ripulita con attenzione dalla furia della pioggia. Milton aveva notato che non era affatto quella originaria, ma un rafforzamento simile, con un'aura di terrore che solo le armi più efficaci potevano emettere. E lui l'aveva accettata, come un messaggio del cielo. L'unico messaggio che il cielo gli avesse mai spedito.

Aveva paura delle lame, almeno fuori dall'arena. Ma lì dentro si erano rivelate vitali, in qualche modo. Come se una persona si potesse valutare da quale arma avesse, che dalla sua capacità. E quel coltello lo rendeva, in qualche modo, più potente.

Si avvicinava alla Cornucopia armato solo di quello, non comprendendo neanche i motivi che l'avevano spinto ad aderire al festino. In realtà, sapeva inconsciamente di dipendere dalla fame che già aveva conosciuto ed adesso gravava pericolosamente sulla sua testa. Ogni volta in cui lo stomaco sbadigliava, lui aumentava la velocità del passo.

E finalmente, raggiunge la postazione del festino, tremando all'idea di poter incontrare qualcuno. Scorse con velocità il paesaggio, e si arrestò alla vista di una figura china su un'altra.

Perciò, non era il primo. Ed era condannato, in qualche modo. La prima reazione fu il sudore, che colava e gli ustionava la fronte. La seconda, la curiosità. E riconobbe come l'aggressore il ragazzo del 9, Andrea, il più inquietante concorrente dell'intera edizione.

Non giungeva alcun urlo, solo uno strano silenzio manifestante un qualche preludio di morte. Cosa era successo alla ragazza che subiva? Non poteva essere morta, avrebbe avvertito il segnale. Era svenuta? Forse. Ma in questo caso, perché continuare la sua sofferenza con colpi ancora più intensi?

Lo notava. Andrea si applicava con una violenza inaudita ed indescrivibile alla sua nemica, dosando la sua rabbia con urla eccitate. Milton fu quasi disgustato da quel comportamento, ma non notò questo sentimento. Il suo cuore era troppo impegnato a contrarsi in modo discontinuo.

Si avvicinò, con la cautela dei terrorizzati. Non capì neanche il motivo del suo gesto, ma si ritrovò alla schiena dell'avversario, a ragionare sulla sua situazione, ad osservare la malvagità dei suoi colpi.

Era giusto?

Affatto. Non riusciva a comprendere cosa fosse accaduto alla ragazza, ma non sprecò un momento per scagliare una coltellata alla scatenata figura ricurva.

 

Andrea avvertì qualcosa al fianco, come una striscia di una lama, un graffio imprevisto quanto fastidioso. Il fastidio era solo derivato dall'interromperlo nella sua opera. E nessuno avrebbe dovuto separarlo e privarlo della sua carne fresca.

Perciò, balzò in piedi, senza neanche preoccuparsi di concludere la vita della ragazza. Non sapeva a che limiti fosse giunta, ma lei si ostinava a rimirare il mondo, a contrarre le labbra, a non pregarlo. Che stupida renitenza al piacere. Sperò di trovare nell'altro un avversario più degno dei suoi colpi, più labile.

Come sospettava, stava fronteggiando il fragile ragazzo del 7.«Molto divertente, ragazzino. La prossima volta, gioca per bene» annunciò, avanzando verso la sua figura disertrice alla punizione. No, non andava affatto bene. Con uno scatto, Andrea riuscì a tirare un pugno sulla faccia del ragazzo.

Si raccapricciò su stesso, crollò al terreno, con una mano posta sulla guancia come se questa tendesse ad abbandonarlo da un momento all'altro. Gridò, anche, intensamente, la protesta di un piccolo bambino. E infatti lui era questo. Prima che si potesse riabilitare, prima che potesse divenire ancora un nemico abile al combattimento, Andrea lo frenò con un calciò allo stomaco.

«Sai una cosa, Andrea? Per me, chi non gioca per bene qui sei tu.» Lo disse con uno spasimo, afferrando la sua vita racchiusa nel suo ventre, con la voce insicura e tremante, come il suo corpo, come il suo volto che si stava dipingendo di rosso. E se ne pentì un momento dopo, con un'espressione improvvisamente languida, anche senza l'azione di Andrea.

Non se lo sarebbe mai aspettato, nemmeno con la sincerità, nemmeno con la previsione del più qualificato degli astrologi. A dire la verità, non ci avrebbe comunque creduto. Ma non pensò un attimo al significato della frase; continuò con la sua opera, con un piacere immenso di conquistare ancora una volta il ruolo del più forte, fino a quando qualcosa non inforcò la sua mente.

Avrebbe voluto urlare, ma la sua bocca era frenata dalla punta della stessa arma. E quell'estranea nel suo cervello non gli permetteva di riflettere, di voltarsi ad aggiudicarsi l'ultima vendetta, ma solo di crollare al terreno.

Sarebbe dovuto accadere, forse, prima o poi.

Ma non dalle mani di un nemico.

 

Appena Andrea si fu ritratto, Athena aveva conosciuto nuovamente un sentimento alquanto strano, forse inutile, ma che le aveva restituito la vita: la speranza. E un bisogno di rivalsa potente, quasi asfissiante, quasi l'unica cosa di cui necessitava in quel momento. Era destabilizzata, il mondo assumeva un colore brillante ai suoi occhi congestionati, e la sete si acutizzava nella sua gola. Ma si alzò, con l'arma ancora nella mano. Tutto si oscurò per un secondo, poi lo spavento fu ritratto, e qualcosa apparve, la prospettiva di una nuova vittima del suo compagno di distretto. E, all'improvviso, fu la sua falce a suggerire le sue gesta. A suggerire di ucciderlo, senza alcuni rimorsi, senza ripensamenti. D'altronde, lui era un assassino. Chi mai avrebbe potuto piangere la sua sconfitta? I cadaveri della famiglia che fosse lui stesso aveva ammazzato?

No. Si avvicinò, sollevò la sua arma con un peso indicibile e, mentre ogni sua membra del corpo era in combustione, affondò il più pesantemente possibile per assistere alla fine di Andrea.

Non era lucida, ma riconobbe alla perfezione il colpo di cannone che aveva meritato. Respirò, sentendo il merito acuto di quel gesto, ed ebbe voglia di allargare le braccia. Ma crollò in ginocchia prima di poter riuscirci.

E in un attimo, per terra, erano due avversari e un cadavere. E lo spavento si creò solo quando i loro occhi si incrociarono.

 

«È morto» sussurrò Milton, senza neanche accorgersene, scansando con velocità lo sguardo della ragazza. Sapeva che lei se ne fosse accorto, ma doveva manifestare qualcosa, forse addirittura gioia di aver terminato una vita. Non aveva mai desiderato la morte di nessuno, anche avendo ucciso, ma aveva già testimoniato la sua tristezza con lacrime infinite, lacrime per la condizione in cui era stato posto, lacrime per tutte le vittime sue o legate a lui. Eppure, non si sentì triste per Andrea. In quegli occhi azzurri non brillava dell'umanità, del dolore, ma sembrava un manichino della violenza, l'ennesima macchina di Capitol City. Forse non era stato altro che una macchina. Quando questo pensiero si affacciò sulla sua mente, provò pietà per lui. Curioso fu che l'avesse fatto solo per la sua condizione di automa e non di uomo. Appena l'altra estrasse la falce, un fiotto di sangue cominciò a scendere dal terreno, insieme a residui non classificabili. A Milton venne una forte voglia di voltarsi e gettare tutto il suo orrore nel vomito.

Gli aveva parlato, per lasciare le sue ultime parole, il suo ultimo pensiero in caso di morte. L'aveva sentita vicina, la morte. La cosa strana era che la fine della vita si manifestava con l'aumento del battito del cuore, quando questo si sarebbe dovuto frenare, inibendogli ogni azione che gli sarebbe sembrata normale. Ma, ora, era di nuovo tutto identico a prima. Gli pareva non ci fossero neanche i giochi, solo lui e la ragazza. Ma poi si rese conto della sua condizione di avversaria.

Il suo viso brillava di sudore, il suo corpo era tremante sotto ogni azione, ma la peggiore impressione fu data dal viso: pieno di ematomi, di lividi, chiazzato di un colore confuso fra il nero e il cremisi.«Hai bisogno di una mano?» chiese, istintivamente, vedendola in quella debole difficoltà. Riuscì ad attirare il suo sguardo, a confermarlo sul suo corpo, e a sentirle dire:«No. Niente.»

E nel momento in cui questo cadde, la sua voce insistette in una frase che forse lei non avrebbe voluto pronunciare:«Comunque, grazie.»

“Grazie”. Dire “grazie” al proprio nemico poteva parere una condanna, l'affermazione della debolezza. Ma Milton non si creò idee del genere. Con uno sforzo sovrumano, si alzò, si avvicinò a lei e le porse le mano per rimettersi in piedi. E lei l'accettò, dopo aver esaminato il suo sguardo. Forse si era accorta che in quel gesto non si posizionava nessuna strategia.

Erano lì, insieme, faccia a faccia, a riflettere sui loro eventuali gesti. Cosa fare, ora? L'altro meritava la morte? No, lei gli aveva praticamente salvato la vita, non poteva compiere un'azione simile. Ma non voleva neanche morire.

Il loro sguardo era verso il terreno. Milton ebbe l'impressione che stesse annunciando qualche temporale previsto ed irrimediabile.

 

Athena non riusciva a comprendere le intenzioni del ragazzo, ma si rese conto di una cosa, utilizzando forse le sue fonti sotterrate sotto il suo nuovo carattere, che credeva di aver reso solo uno spirito inerte: non era cattivo. Non voleva farle del male. E questo le consentì di percepire ancora più terrore di quella figura apparentemente innocua.

Perché neanche lui sentiva il coraggio di ucciderlo. Eppure, uno dei due sarebbe finito riverso a terra accanto al cadavere di Andrea. Niente da fare. Cercava una via di scampo, ma rimirandosi i piedi non era affatto semplice ricavarne una.

«Allora... cosa facciamo, adesso?» domandò il ragazzo, e lei si ritrovò inevitabilmente ad osservare i suoi occhi. Indietreggiò, come per scampare a quello sguardo, ma non ci riuscì. Mantenne il suo volto corrugato, accigliato, come se ogni tramonto o alba davanti ai suoi occhi potesse essere solo l'ordinario ciclo della natura.

Rifletté un attimo, torturandosi la parte interna della guancia ed assaporando il sapore del sangue fresco che scorreva, per testimoniare il suo nervosismo. Con un sussulto represso, lo trovò ironico. Quante volte l'aveva fatto, fuori da quell'arena, nelle sue vite precedenti? Era un'azione strana, eppure fisiologica, in qualche modo. Inevitabile. Quante cose sembravano esserlo, in quel momento. Poi, porse la più semplice risposta:«Combattiamo.»

Il ragazzo trasalì vistosamente, come se quel gesto avesse potuto annullare le sue ultime parole, quasi chiedesse di ripetere la sua frase per verificare quanto potesse essere veritiera. Ma non c'era nulla da fare, le condizioni erano quelle. L'unica alternativa. La richiesta del mondo.

Athena impugnò con più forza la sua falce ancora sporca, cercando di eliminare i sintomi di quella febbre che la stava trascinando quasi sotto la terra. Il suo volto bruciava ancora dai colpi di Andrea, ma non lo notava. Insieme ad Andrea sembrava essere morto il dolore inflitto. Anche l'altro aveva il volto macchiato da un enorme chiazza rossastra sulla guancia, ma continuava ad allontanarsi da lei, con la schiena curva, quasi non riuscisse a respirare. Forse, fra poco tempo non ci sarebbe seriamente riuscito. Athena fu terrorizzata, per un momento.

Fu lei la prima ad attaccare, correndo, raccogliendo di nuovo tutta la freddezza necessaria per potersi macchiare di un crimine. Ma l'altro la schivò, portandola a fendere il nulla. Si voltò una seconda volta, ritrovando il ragazzo nella postazione originaria di lei. Gli lasciò il potere di attaccare, raccogliendo qualche colpevole coraggio, e corse verso di lei. L'accolse con una falciata sul fianco, che lo fece tentennare verso il terreno. Per un momento, pensò di essere avvantaggiata, di poter vedere ancora il cielo sopra il distretto 9 nelle giornate di sole. Ma poi, si accorse di un dolore acuto alla gamba sinistra.

Si piegò ad osservare, e notò il coltello dell'avversario conficcato nel polpaccio. E, in quel momento, si inginocchiò a constatare il suo male. Doleva sempre di più, gridava, si ribellava. Eppure, c'era. Rimaneva lì, non scompariva. Non era un'illusione.

Lo tirò fuori, con cautela, e, vedendolo segnato dal suo sangue, lo lasciò ricadere spaventata. Il freddo nelle sue membra aumentò, complice il sangue che in quel momento annaffiava l'erba della Cornucopia. No. Era l'unica cosa che riusciva a ripetersi. No, no, no, no.

La sua mente non poteva bastare a mantenere una vita.

 

La ragazza era lì, a commiserarsi della sua ferita, con la sua solita automaticità che a Milton era parsa tanto fragile. Si trovava a pochi metri da lei, riverso, mentre un rivolo di sangue scendeva dal fianco, consentendogli comunque di spostarsi. Era un vantaggio consistente. Una specie di voce cavernosa al suo interno si manifestò, esortandolo a dimenticare ogni pietà: Fallo. È questo il momento adatto.

Si alzò, mosso ancora dalla carica nefasta di quella voce. Quando fu arrivato presso di lei, riconquistò il suo coltello, e cominciò a studiare il metodo per porre fine a quella coraggiosa vita. E, mentre osservava, la ragazza lo scrutava con attenzione. La voce iniziò ad affievolirsi, a cambiare il suo testo, a piangere.

Eppure, la sormontò. Si piegò verso di lei, con una cautela non dedicabile ad un avversario, e cominciò ad impugnare la lama come se fosse una proposta. Ma la morte non è proponibile. Non alle persone innocenti, come lei pareva essere. Una sorta di regalo, l'unico inaccettabile.

Respirò profondamente, per ritrovare se stesso, forse richiamare l'esortazione. Ritornò solamente il suo terrore per le armi di quel taglio, e non si capacitò di tenerne in mano una. No, doveva lanciarla via. Ma non poteva. Avrebbe potuto ferirlo.

«Non posso» sussurrò, mentre riponeva con cautela il coltello a terra. Lo annunciava a quel volto indifferente, quasi risoluto all'idea di andarsene. Come se avesse realizzato un male peggiore, un fulmine che l'avrebbe afflitta se solo fosse uscita viva da quel luogo. Lei annuì, ma non si mostrò entusiasta, bensì il suo corpo riportava una malinconia tangibile. Non conosceva la sua storia, neanche la sospettava, però non riuscì a non provare pietà per lei. Rimase lì, quasi con la voglia di prestarle un conforto. Non voleva ancora incrinare la situazione. Si ricordò che quella doveva essere la sua nemica.

L'unica cosa che per qualche secondo esistette fu il silenzio. Silenzio nei loro occhi, nelle loro mani, nel cielo, nei capitolini che li esortavano con la mente a combattere. Avrebbe dovuto trovare un altro metodo, qualcosa per finire. Ma, se non riusciva a condannare la ragazza, come avrebbero potuto decidere chi dei due si sarebbe sollevato da quel terreno? Valutò anche l'opzione di condannare la sua debolezza con uno suicidio, ma subito la rifiutò. Se lo aspettava, dopotutto. No, non aveva ragioni per uccidersi, se non eludere l'obbligo di raggiungere un accordo.

Avevano solo un metodo, per far toccare la vera terra ad uno dei due: lasciare al caso la decisione. D'altronde, chi erano loro due per giudicare chi avrebbe dovuto vivere e chi sarebbe dovuto morire?

Una fitta colse Milton nel pieno della sua riflessione. L'aveva fatto, una volta. Privare una persona dello sguardo. Che senso aveva avuto, però? Quasi si era sentito obbligato; non era stata una scelta, ma un ordine sussurrato e gridato al suo orecchio, sempre da quel tono cavernoso. Se ne sarebbe andato, una volta fuori dall'arena?

Avrebbe avuto la possibilità di affrontarlo?

No. Non erano le cose su cui riflettere. Afferrò lo zaino, alla ricerca di un opuscolo dove leggere il loro futuro, ed esaminò il contenuto. Il fianco ancora gli fiammeggiava per la ferita, che aveva avuto la sua unica forza nel farlo cadere, assieme alla faccia. Sembrava... lievitata. Aver acquistato i lineamenti di un altro. E forse, questo era accaduto.

All'interno dello zaino c'era una scarna bottiglietta d'acqua e un paio di strisce di carne essiccata, il minimo indispensabile per avere l'energia di uccidere una persona. Non esitò a inghiottire una delle due strisce con un abbondante sorso. Nel rimettere a posto la bottiglia, la sua mano incontrò qualcosa di doloroso: riuscì a tirare fuori due minuscoli coltellini da intaglio, affilati e levigati. Ne aveva visti di simili, però mai così splendenti. Erano quasi una contraddizione, in quel posto. Niente sembrava splendere. Niente splendeva.

E, a quel punto, ebbe l'idea. La ragazza era rimasta lì, a contemplare il suo polpaccio, senza il coraggio di alzarsi, ad elaborare un piano. Un piano per cosa? Milton non riusciva ad immaginarlo. Si chinò ad accanto a lei, ed iniziò a declamare, dolcemente, quasi cercando di donare un conforto:«Senti... ho trovato due coltelli nel mio zaino.»

Qualcosa s'impresse nella sua bocca; un nodo secco, da non consentire più il discorso.«Allora?» domandò lei, in un tono grigio, piatto. Se avesse parlato guardando negli occhi Milton, osservò lui, non sarebbe stato affatto così.

«Tiriamo, in contemporanea. È un'idea stupida, lo so... ma è per avere un vincitore.» Appena la sua bocca fu sigillata, si accorse di quanto poco fosse efficace il suo discorso. Attese, aspettò quasi che l'altra lo uccidesse in quel momento. Per questo, si ritrasse. Che senso aveva la fiducia, in quell'istante?

Lei tentò di avere un suggerimento dal paesaggio, squadrandolo. Milton attese, fino a quando lei non concluse:«Va bene. Facciamolo.»

 

Athena si era ripromessa di aggredire l'avversario nel momento in cui si fosse avvicinato, cercando di interpretare il suo sguardo come una minaccia. Ma non riusciva a mentire a se stessa. Alla fine, le sue braccia erano rimaste inerti a consolare la gamba. Non si era capacitata di come quel coltello si fosse incastrato nel polpaccio, ma c'era, e gridava senza sosta. Il suo pianto era infrenabile, almeno nella sua gola, eppure non provava qualcosa definibile rancore verso l'altro. Per un motivo preciso: anche lei aveva fatto lo stesso. Lo aveva ferito senza ritegno, cosa che sembrava impossibile scorgere nell'arena.

Osservava il cielo. Perché doveva morire obbligata a guardare la sfera fittizia dei giochi? Quanta gente era stata condannata, prima. Quando era una capitolina, non l'aveva mai considerata. Quando era una capitolina, la vita aveva un significato molto più colorato di allora.

Quando era una capitolina... perciò, non era più una capitolina? Era divenuta una normale cittadina dei distretti, con unico nemico Capitol City? Sì. Ed anche in quel momento, probabilmente, stavano soffiando sul suo collo al fine di farle errare il colpo. Perché lasciarla vincere, se l'avevano spedita lì per condannarla? Si sarebbero ripromessi fuori dell'arena. Ed allora, le speranze non sarebbero state sensate.

Non l'accettava. Altrimenti, non avrebbe sperato di vincere. Ventiquattro vittime su ventiquattro sarebbe stato uno spreco terrificante, ma lei si affidava a qualche forza invisibile per non sentirsi già un cadavere posto nella bara dagli Strateghi. Ci credeva, forse. Una credenza che la stava portando ora a posizionarsi all'estremità della Cornucopia, zoppicante, sorretta dal braccio del ragazzo, camminando verso il luogo dove avrebbe preso la mira. Athena non si era sbigottita quando lui le aveva porto un aiuto, alzandola in piedi per una seconda volta. Quasi, ci era abituata.

Quando furono arrivati, l'altro la lasciò, e lei si dovette affidare a tutto il suo coraggio per non cadere. Si stava reggendo solamente sulla gamba destra, ma non era un problema. L'avrebbero guarita, quando avrebbe vinto.

Se avrebbe vinto.

Il rosso le sorrise, le porse il coltello e la lasciò.

Quell'immagine sarebbe stata per sempre in lei, o in lei prima della morte.

 

In un impeto, Milton aveva trascinato la ragazza fino al punto che lui avrebbe considerato giusto per affrontarsi, l'estremo della Cornucopia. Lui si posizionò al corrispondente dall'altra parte, studiò la situazione, e poi avvertì il vuoto. Cosa sarebbe stato, dopo? C'era un'altra vita? C'era una possibilità di affrontarla?

Qualcosa mancava. Qualcosa per consolidare quell'esperienza, qualcosa da sostituire nella sua mente, qualcosa per rendere quella giornata amara con un sorriso. D'altronde, aveva sorriso, no? Era per donare coraggio, più che altro, non eccessivamente spontanea. Ma anche il volto dell'altra, inconsciamente, gli aveva risposto. Che nome avrebbe avuto quel volto?

«Posso chiederti una cosa?» domandò, strillando per una distanza immaginaria, quando furono pronti all'ultimo atto. Lei annuì, indaffarata sulla sua gamba, sofferente, un'anima nera che le turbava vistosamente la figura.

«Come ti chiami?» continuò. Sarebbe dovuto essere l'inizio, invece era la fine. Ma gli sembrava che il ciclo non sarebbe stato completo, senza.

Vedeva il suo volto. Lo vide mentre rispondeva:«Athena.» I capelli lo nascosero un momento, e in quello dopo lo notò un'altra ed ultima volta mentre replicava:«E tu?»

«Milton. Sono Milton» si presentò. Forse, anche lei aveva la sua sensazione. Forse, l'avrebbe avuta fuori, o non l'avrebbe più avuta...

Non sapeva. Non sapeva, semplicemente. C'era solo da continuare, per sapere.

Avrebbe voluto piangere. Ne sentiva il bisogno, ma sarebbe stata l'estrema perdita di tempo. Doveva cominciare.

«Va bene. Al tre. Uno, due... e tre.»

 

Una figura fra le due cadde, mentre l'altra serrava gli occhi, attendendo la morte o la vita.

Un colpo di cannone scoppiò. Ancora non comprendeva. Ancora non valeva la pena di consolidare la conoscenza della terra con lo sguardo. E si sentì capace di aprire gli occhi solo quando una voce quasi ultraterrena annunciò:«Signore e signori, vi presento Milton Marvin, il vincitore dell'edizione del 500 degli Hunger Games.»

 

Spazio autrice

L'ho fatto.

Ecco, signore e signori, vi presento l'ultimo capitolo (prima dell'epilogo) di “500”, fan fiction interattiva su Hunger Games. E, di ventiquattro, ne è rimasto veramente uno. A dire la verità, spero di no, perché non è veramente così.

Un poco di tutti i personaggi è rimasto dentro il mio cuore, sia il suo nome, sia la sua storia, sia anche il suo aspetto fisico. Ma tutti, dal distretto 1 al 12 e viceversa, rimarranno nella mia memoria per tanto tempo. Perché mi hanno concesso di narrare una storia, una storia in cui non sarei riuscita a creare e raccontare ventiquattro personaggi bene quanto con il vostro aiuto.

Alcune schede erano più scarne, altre dettagliate (persino di due pagine, con una storia dove emergeva la passione degli autori per i loro personaggi), ma presto ho imparato a scrivere senza di loro. È probabile che il risultato non sia così soddisfacente, e perciò mi scuso, però sentivo che i personaggi erano penetrati al mio interno ed avrei potuto narrarli anche così.

Perciò, mi sento in dovere di ringraziare fortemente ogni singola persona che ha scritto almeno una parola di quelle schede, che ha creato i ventiquattro tributi dell'edizione del 500 e di conseguenza questa storia. Così, grazie a So I could be lovely, Kauhsen, la ladra di libri, Blue Tokage, Claireroxy, Life before his eyes, Kingyo, Adorable Bunny, Ellie, Deadbyapril, Everdeeninfire, Colpa delle stelle, Misa_Amane96, quindici, La_Sniffa_libri, _Windurin_, Gwoww e Chair98love. Scusate se ho sbagliato a scrivere qualche nome (non tutti sono semplici), se qualcuno è cambiato ed io non ero aggiornata; vi ringrazio tutti allo stesso modo.

E ringrazio anche coloro che mi hanno seguito e dato consiglio in questo viaggio con le recensioni (spero di non aver fatto errori di battitura troppo numerosi, a questo proposito, nel testo). Qualcuno in particolar modo, ma mi sembrerebbe di privilegiare qualcuno al posto di altri, che forse hanno avuto meno voglia o meno tempo per scrivere un commento. Vorrei ringraziare soprattutto chi non partecipava all'interattiva ma si è lasciato coinvolgere dalla curiosità e chi, nonostante il ritardo, c'è stato sempre. Comunque, quando parlavo di “qualcuno in particolar modo” negli autori mi riferivo in particolare a Claireroxy, Smely_and_Gwoww, It's Ellie, quindici, i brevi commenti di riddlesdiaryx e qualcuno che sicuramente mi dimentico. Scusate se non ho resistito.

Non saprei cosa dire, sul vincitore. Per me, conta esattamente come gli altri, solo che... ha vinto. O meglio, è sopravvissuto. E sarà lui a parlare nel prossimo capitolo, nella sua sofferenza e compassione da tributo, per le sue vittime e le sue alleanze perse. E ci sarà anche qualche precisazione sugli altri.

Mi sto sicuramente dimenticando qualcosa, ma sono quaranta minuti che mi sto dedicando a questo finale di storia.

Diamine. Piango.

Questo spazio autrice è lungo quasi una pagina.

Meglio che eviti di allagare il computer. Alla prossima...

Ho trovato il metodo migliore per farlo, sob.

Vostra,

Bolide

P.S.= oggi ho notato che il primo capitolo ha ricevuto 999 visualizzazioni. Forse arriviamo a 1000...

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Capitolo 20
*** La voragine ***


Epilogo

La voragine

«Pronto, Milton?»

Con uno scatto, Milton ritirò la mano dai bottoni della giacca che stava torturando. Annuì con un'esagerata velocità nervosa alla sua accompagnatrice, dal volto eccitato ed illuminato per la presentazione del suo primo vincitore. Cosa altro avrebbe potuto rispondere Milton? Era condannato ad essere pronto, per il resto della sua vita. Sarebbe voluto rimanere lì, in quell'indaffarato dietro le quinte dove tutti gli porgevano cordiali sorrisi di congratulazioni, anche se sarebbe finito per sentirsi destabilizzato anche da quelli. Come era possibile che fosse riverito in questo modo di complimenti, nonostante il suo merito nella vittoria era solo quello di una fortuna sfacciata?

Il coltello di Athena si era depositato a pochi centimetri dal petto di Milton, poi un'indegna corrente aveva deciso di preservare la vita del ragazzo trascinando la lama in lontananza, segnando il suo fallimento facendola tintinnare a terra. E come era potuto succedere? Osservando con la freddezza di un estraneo imposta dal suo cuore per non lasciarsi sfuggire a lacrime ricavate da emozioni ancora imprecisate dalla confusione, si era accorto che c'era qualcosa di fittizio, in quel lancio.

Ma c'era sempre stato qualcosa di fittizio. Il dettaglio strano era che il suo perdono verso quel rivolo di vento non arrivava, neanche se era stata la sua vita l'oggetto del gioco.

 

La famiglia del sindaco cadde nel più profondo lutto a sentire della morte di Jeremy Corgan.

Chris, il suo ragazzo, non ebbe il coraggio per alcuni giorni di affrontare il mondo dopo la sua perdita. Sarebbe dovuto essere lui, riverso nella sconfitta. Invece, Jeremy gli aveva lasciato la possibilità di vedere il mondo.

E lui la sfruttò. Si riprese. Ma non dimenticò mai Jeremy.

 

Fuyumi Albarn non fu scordata dal gruppo di ragazzi con il quale abitava. Osservarono la sua fine nella piazza principale, dove la morte non era altro che la più coraggiosa delle umiliazioni e non il tragico buio offerto da Capitol City.

Si ribellarono. Furono catturati e uccisi come traditori della Capitale.

 

Carlotta Wilson fu vista cadere dai suoi amici e dai suoi parenti nel tentativo di difendere l'alleata, e istituirono quella immagine come il ricordo del suo spirito: dedito agli altri.

Il suo romanzo non fu terminato, e neanche recuperato, perché si trovava nelle camere del Centro d'Addestramento.

Un altro sogno spezzato dalla Capitale.

 

Il ricordo di Athena si annidava in ogni profondità delle sue azioni; e quando non era lei, si trattava di Myrtle, o di Emilie, o di qualunque persona che avesse incrociato il suo sguardo nell'arena. Ancora non si era svegliato. Ancora si trovava nella più potente delle fantasie, ancora il mondo non era suo, anche se sembrava prostrarsi ai suoi piedi.

Ma lo faceva per ordine del presidente; lo ringraziavano come rappresentante dei tributi per il divertimento offerto. E lui ne soffriva. Com'era possibile? Un lato di sé era soffocato all'interno di quella struttura, la sua innocenza, la sua stabilità.

Ogni tanto le vedeva, addirittura. Vedeva Myrtle sconvolta dalla fame e dalla sete, sdraiata sul terreno durante i suoi pranzi. Vedeva Emilie accasciarsi a terra vittima di una vendetta quando qualcuno lo tradiva con una pacca sulle spalle. E vedeva il cadavere di Athena riverso a terra, con il destino ad oltraggiarle il petto, in un'espressione quasi calma, dormiente. Era l'immagine più presente nel suo animo sconvolto, tremante. Lampeggiò anche in quel momento. Le pregò di non farlo, ma la rossa era lì, insieme alle altre. Anche la ragazza che aveva ucciso, ogni tanto, si presentava nei suoi incubi a regolare i conti. Milton trasaliva, cercava di andare avanti. Ma quello rimaneva un mondo fin troppo splendente, un'illusione.

 

Le sorelline di Nathaniel River furono spiazzate nel non trovare più il loro fratello, se non nell'immagine di una televisione. E poi, si stabilì nei loro ricordi, e mai scomparì.

Avevano quasi creduto alle sue promesse. Forse questo fu il maggiore motivo delle loro lacrime.

 

Le previsioni della nonna di Morgane Willblues si rivelarono veritiere. Probabilmente per la conoscenza del futuro i suoi occhi non si commiserarono in lacrime.

D'altronde, era il destino. Era la malvagità del destino, che aveva affidato a Capitol City.

Non era nella loro strada contenderla, non per il momento.

 

Le manfrine della madre di Grace Noèl, attrice, si protrassero per gran parte della sua vita, così da apportarle pubblicità. Nessuno seppe la verità dietro alle lacrime.

La stanza in cui Grace alloggiava all'Accademia era ormai occupata da una nuova speranza del distretto 2. L'unico che se ne accorse fu il suo amico Gioele. E la sensazione di perdita non scivolò.

 

«In scena!» qualcuno inferì nella mente di Milton. Non voleva assolutamente uscire, non voleva parlare della contentezza di essere lì a condividere la sua vittoria con gli occhi e le mani plaudenti del pubblico. No, avrebbe dovuto ancora riflettere, sarebbe dovuto rinascere. Eppure, come un cucciolo d'improvviso precipitato in questa dimensione parallela, già lo spingevano fuori.

Le voci di Caesar Flickerman si precipitavano dalla ribalta, le sue grida. Erano riferite a lui? Una prospettiva semplicemente spaventosa. Lo stava esaltando? Quali bugie stava raccontando sul suo conto? Quante ne avrebbe dovute raccontare lui?

E così, la sua squadra di preparatori entrò in una sfilata di applausi. Gli addetti al centro estetico, lo stilista, l'accompagnatrice, il mentore. Eppure, loro non erano la sua vera squadra. La sua squadra era scomparsa nell'arena, si era sgretolata in pezzettini di carta straccia, era stata strappata da qualcuno che si voleva sostituite. Loro non c'erano mai stati, se non con qualche parola, con qualche stretta di mano, con un sorriso per promuoverlo.

Si sentiva così solo. Si sentiva isolato.

 

Mihael Stivens lasciò sola una famiglia che ne aveva un furioso bisogno di lui.

Tante notti si svegliarono, attendendo nel buio il figlio od il fratello che mai più sarebbe tornato, allungando le mani e affogando nell'aria.

Eppure, furono notti vane.

 

Il padre di Lynton Hamilton digerì la morte del figlio come quella della moglie: bevendo. E, sotto i litri di alcool che gli frizzavano nella gola, alla fine dimenticò persino il motivo di quelle bottiglie vuote.

Meredith Arrington, la sua unica amica, cercò di aiutarlo. Ma si accorse di quanto fosse impossibile, e ritornò nei suoi passi calpestando la sabbia dove tempo prima lei e Lynton passeggiavano.

 

Astrid Wright rimase nei ghiacci perenni della memoria delle scarse persone che l'avevano conosciuta al 7. Suo fratello si sentì disidratato dalla disperazione. Avrebbe voluto gridare, ma la Capitale lo aveva privato persino della lingua per manifestarsi.

Nel distretto 3, invece, non accadde nulla. A casa di Ivan, Connor e Edward deglutirono solamente il ricordo della “signorina”, con l'amarezza che portava.

 

Erano rimasti lui e delle luci soffuse, in quel sontuoso retroscena che sarebbe potuto essere il palco stesso. Il suo team raccoglieva le più calorose acclamazioni, mentre lui... lui non sapeva cosa fare. Sussurrava a se stesso le battute d'obbligo, impartite dall'accompagnatrice. Quanto avrebbe potuto dire. Quanto non avrebbe potuto dire.

Il momento arrivò, assieme alla presentazione di Caesar Flickerman:«E, ultimo ma non meno importante... signore e signori, preparate le vostre più fragorose urla, predisponetevi ai più rumorosi applausi per il vincitore dell'edizione del 500, Milton Marvin!»

Non fu sicuro di avanzare sulle sue stesse gambe, in quel momento. Una qualche spinta lo fece precipitare sul palco, sotto gli occhi stupefatti ed acclamanti di una folla sconosciuta.

Sorrise, sventolando la mano, come se fossero stati da sempre i suoi amici. Eppure, non aveva alcun legame con loro, né loro avevano un motivo per complimentarsi in questo modo ad un superstite, o forse un assassino, o forse un semplice ragazzo sperduto.

In quel momento, Milton si accorse nonostante tutto di disprezzarli.

 

Serena Hamilton non trovò suo padre prima della sua morte, ma lui la vide. Riconobbe i suoi lineamenti dolci, il suo temperamento determinato, la sua frizzante dolcezza.

Ed invocò il perdono delle ombre.

 

La morte di Aaron Hepburn fu solo un argomento di conversazione al tavolo della sua famiglia. D'altronde, non aveva conquistato il cuore di nessuno dei suoi parenti; era troppo renitente all'idea di perfezione familiare della loro fantasia.

Ma quale perfezione c'era, nella distruzione?

 

Emerald Goldspace godette di una delle più umilianti morti dell'edizione. Per evitare simili peccati, gli addestratori spalancarono le porte dell'Accademia, allungarono l'orario, coltivarono il soldato in ogni bambino o ragazzo.

Quanti morirono senza saperlo, per questo.

 

Non c'erano vie di scampo. Avrebbe voluto sfogare l'inquietudine di ogni sua membra con una persona cara; ma tutte loro si trovavano a chilometri o dimensioni di distanza. Sentì qualcosa risucchiare ogni suo coraggio, e capì perfettamente di cosa si trattasse: una voragine sul suo cuore.

Si accomodarono in due soffici poltrone di velluto. Appena affondò in essa, Milton sentì delle voci gridare, protestare, scacciarlo da tutta quella comodità: non doveva permettere alla frivolezza di Capitol City di conquistarlo. Dopo tutti quelli che si erano sacrificati senza saperlo per lui; si era arreso già così tante volte, ma non davanti a un peccato esorbitante come quello.

Eppure, sentiva mani cingergli il collo da ogni lato esistente: dagli addetti dietro alle quinte, dal suo team seduto alle sue spalle, dal presentatore davanti a lui, dal pubblico che lo fronteggiava. Per cancellare il turbamento dal volto sincero di Milton, Caesar esplose:«Guarda questo, Milton: è tutto per te!»

Un altro applauso scaturì dalle mani affamate dai capitolini, e lui si costrinse ad assumere una smorfia sorridente. Ma qualcosa gli aveva sfiorato il cuore, lacerato. Era come se gli avessero consegnato fagotti d'aria, cascate di parole. Era tutto per lui, ma non lo sentiva suo.

Era colpa di quella voragine sul suo cuore.

 

Quando Reed Fox fu sopraffatto dall'ibrido, il suo mentore, Ivan, si lasciò ad andare ad una vigorosa risata di rivalsa. Aveva raccontato la sua storia, nonostante ciò nessuno lo aveva potuto ascoltare, perché gli Strateghi avevano favorito altre scene. Ma lui, lui doveva essere ugualmente punito.

I suoi compagni di sventura rimasero rinchiusi nella stessa trappola fino all'eternità. Le cicatrici smisero di formarsi sulla loro pelle solo alla morte di Ivan.

 

Lexie, la ragazza di Emanuele Hepburn, accartocciò con velocità il ricordo della fidanzata, dirigendo gli occhi verso il futuro che le era stato destinato. D'altronde, qualcuno si era offerto volontario per lei; si meritava di vivere, no?

Elle andò spesso a trovarla nei suoi incubi. Lexie morì improvvisamente sei mesi dopo.

 

La madre di Myrtle Hopkins trovò quasi sollievo nella morte della figlia, unica testimone dell'omicidio del padre compiuto da lei. In questo modo, avrebbe avuto anche più soldi.

Incrociava spesso lo sguardo di Harvey Thomas, il migliore amico di Myrtle, l'unico a conoscenza della verità. E lui lo disertava, sentendo la voce dell'amica che gli sussurrava di farlo.

Harvey la denunciò. La madre di Myrtle passò la sua eternità in galera.

 

Qualche domanda di rito era stata posta, e qualche risposta di rito era stata rispettata. Adesso, davanti agli occhi di Milton, sfilavano le atrocità che aveva vissuto e convissuto, alcune delle quali anche sconosciute. Perché nessuno gli aveva rivelato le circostanze che l'avevano elevato a vincitore? Perché? Più volte, durante l'atroce spettacolo, fu costretto a riparare le sue urla portando la sua mano davanti alla bocca. Provò pietà nelle persone aggredite da Andrea, legate da lui da un indefinito destino; e avrebbe voluto presenziare, per difenderle come accaduto con Athena.

Provò pietà, e quasi anche una malinconica compassione, nel vedere Emilie quasi uccisa dai ragazzi del 5 e del 12; e sarebbe voluto lui stesso intervenire per non lasciarla nella solitudine subito.

Provò un'incomprensibile pietà per la figura del ragazzo del 3 nel momento in cui pugnalava Astrid, ed era solo un misero corpo tremante; e sarebbe voluto apparire ad abbracciare entrambi, segnati da chissà quali obblighi che li trascinavano alle più oscure colpe.

Provò pietà persino per i Favoriti, traditi dalla sete di sangue di Andrea, al posto di quella lealtà che dovrebbe essere chiara per gli alleati; e avrebbe voluto affiancarli per ricordare al loro assassino dei principi, anche se non credeva seriamente di poter offrire una reale protezione ai Favoriti.

Provò pietà negli sguardi di sfida di Athena e del ragazzo del 10, mentre si trascinavano avanti con una mano sullo stomaco per contenere la fame; e avrebbe voluto donare loro il cibo che abbondava sulle tavole di Capitol City, posto per le bocche più meschine.

Provò pietà per Athena minata dal temporale, mentre si contraeva sotto la grandine più furiosa; e le avrebbe voluto donare più protezione della scarsa che si era creata da sola.

Provò pietà per coloro che lui stesso aveva ucciso, trovandosi improvvisamente con la bocca asciutta confrontando loro alle prese con la vita e loro alle prese con la morte; e si sarebbe voluto scusare, ma ormai erano solo anime.

Provò pietà per le scene viste e quelle sconosciute; fu sul punto di inumidire gli occhi quando Myrtle raggiungeva il cielo, quando Emilie raggiungeva la terra, e quando tutti quelli che aveva conosciuto chiudevano gli occhi a favore dell'infinito. C'era così tanto che avrebbe potuto fare, e invece era costretto a combattere come un animale.

E perché, poi?

 

Il patrigno di Eaves Isinthaw ebbe in lui il primo figlio perso, e la sua esperienza negli Hunger Games tornò a galleggiare con un'inossidabile pesantezza sul suo spirito.

Ripose le armi alle quali stava educando i suoi figli, i fratelli Eaves. Si dedicò solo al suo freddo amore che aveva donato loro, e combatté affinché i tributi a lui affidati potessero tornare con tutta la sua anima.

 

Di persone che veramente volevano bene ad Eracle Chentaurion rimasero solo il suo maestro, Chirone, e la sua ragazza, Deianira. Lo videro spesso apparire nei gesti comuni, quelli di tutti giorni, quelli a cui lui spesso partecipava. E si ritrovavano a chinare il capo e trattenere le lacrime.

 

Il migliore amico di Who Powell, Chuck, si stupì a non scorgere più intorno la sua amica. La madre gli spiegò il viaggio per la quale era partita, e dal quale non sarebbe mai più potuta tornare.

Chuck conobbe così gli Hunger Games. E il ricordo di Who maturò lui, insieme alla paura, a sussurrargli di essere forte, anche quando si trovava nei reticolati della piazza e il nome estratto sarebbe potuto essere il suo.

 

Le luci si risvegliarono su di lui, mentre Caesar poneva i suoi quesiti relativi a cosa fosse passato nella mente del vincitore in vari momenti. Si sentì improvvisamente impotente, vuoto, quasi nullo nel ribattezzare le sue credenze con i suggerimenti della sua accompagnatrice, nel dire quanto coraggio improvvisamente aveva provato in quei momenti. Avvertiva qualcosa volgergli lo spirito, opporsi, cercare di conquistare la sua bocca. Ma Milton realizzò un'altra cosa: voleva vivere. Quest'idea si era manifestata come naturale nell'arena, era divenuta la sua ragione, il motivo per il quale non si era spinto in baratri troppo pericolosi.

E poi, le domande si persero in una difficoltà assurda, almeno per lui, che lo costringeva nel ritrarsi nei suoi pensieri almeno per un attimo per raccogliere i veri motivi.

«Allora, Milton. Fra i momenti più toccanti di quest'edizione c'è stato sicuramente quando hai aiutato Athena ad alzarsi... perché l'hai fatto? Cosa hai pensato, in quegli istanti?» chiese il presentatore, con sguardo estremamente interessato, in cui all'improvviso Milton colse qualche sfumatura straniera.

Qualcosa di... oscuro, minaccioso, fin troppo, per un compito simile. E lo riconobbe: era lo sguardo del presidente Snow, che rimproverava le sue voci interne le quali lo spingevano ad eludere la sorveglianza capitolina, ed esaltare i valori commerciati da loro e creduti reali da tutto quel pubblico. Ecco qual era il suo compito: essere il giullare dei capitolini, non deludere le loro aspettative per far loro riporre più fiducia nelle mani del capo.

Aveva alternative? Sentiva la gola infiammarsi, bruciare ogni parola che avrebbe voluto gridare ma sarebbe rimasta solo un ricordo. E, alla fine, sopravvissero solo quelle adatte alla situazione, avventandosi nella sua lingua come il rossore sulle sue guance:«Volevo mostrare a tutti quanti i valori che Capitol City c'insegna tutti i giorni. E fra questi c'è anche quello di rispettare il nemico, come quello che alla fine della rivoluzione Capitol City ha avuto per noi distretti.»

Il nervosismo si scaldò nelle sue mani. Disfece più volte la sua chioma, ferì la sua lingua con profondi morsi, squadrò l'intero enorme studio come per analizzare il suo futuro: sarebbe stato quello? Una menzogna, dei riflettori puntati su di lui?

Sarebbe voluto scappare. C'era un metodo per ritornare nel passato?

O sarebbe stato meglio morire, che continuare a incespicare respiri in quel modo?

 

La vita del padre di Julian Winntoh, che l'aveva ripudiato alla nascita, continuò senza sussulti. Sperava di avere una possibilità nel momento in cui aveva visto un ragazzo del suo distretto fra gli ultimi, ma la possibilità si riferiva ad una nuova ricchezza, una nuova fama.

Ogni tanto, la madre di Julian, Eugenie, era tentata di gridargli la sua codardia. Ma si era trovata un lavoro, una nuova desolata vita, e non valeva la pena di devastarla per vendetta.

Julian le mancava come il respiro.

 

Nel passato, Emilie Levieva aveva perso la visione di una stella nel suo terreno cielo del distretto 3 a causa degli Hunger Games: suo fratello Dimitri. E questa era scomparsa anche dalla vita della sua famiglia, che si era abituata al buio dopo lungo tempo. E così anche come per Emilie.

Le tapparelle rimasero chiuse per settimane, prima che i suoi parenti ebbero il coraggio di affrontare la sfortuna che il mondo aveva apportato loro.

Quella sfortuna si chiamava Capitol City, e comandava ogni loro respiro.

 

La disperazione dei genitori di Savannah Sparks fu lustrata in un modo fin troppo scintillante alla sua morte dalla sua famiglia borghese. Probabilmente, avrebbe infastidito persino lei. Qualche giorno dopo la sua partenza, il Palazzo di Giustizia era insolitamente silenzioso: qualcuno non lo animava più come una volta, con le sue marachelle.

Il Capo Pacificatore, Near, la rimproverava sempre. Solo allora si accorse di quanto si divertisse con quella ragazzina.

 

Quando arrivarono agli ultimi respiri dell'intervista, Milton era stremato dalle parole a lui rivolte e quelle da lui pronunciate. E, soprattutto, dalle figure presentate sullo schermo, che gli avevano ricordato come certe persone fossero state fondamentali nel suo cammino, e quanto lui avesse ripagato in maniera terrificante. Sembrava aver abbandonato ogni onestà, per mantenere la sua vita.

Osservava i volti dei ventitré caduti. Alcuni lo squadravano con particolare cattiveria, giurando vendetta dall'aldilà, mentre altri gli sorridevano comprensivi. Era tutto ciò che era rimasto dei combattenti, d'altronde. L'unico loro ricordo. Avrebbe dovuto conservare loro nel cuore, paragonarli ad ogni momento della giornata, e lasciare che non avessero vissuto invano.

Chissà come si sarebbero sentiti gli altri, al posto suo. Lui non aveva nelle vene sangue di vincitore, ma solo qualche goccia trasfusa da Capitol City dopo le sue perdite. E lo avvertiva come un intruso nel suo circolo, lo avrebbe voluto estrapolare, depennare dal suo corpo; se solo l'idea non l'avesse inorridito, se solo non fosse stato proibito.

Si sentiva terrorizzato, anche se non riusciva ad ammetterlo. Lui era il vincitore. Era potente, inafferrabile, magnificente su tutti gli altri. E lui si specchiava solo come più miserabile.

Probabilmente, dietro le quinte si stavano adoperando per renderlo tale.

 

Quando Andrea White morì, l'unica reazione dell'intero distretto fu una massiccia delusione: se avesse sterminato il ragazzo del 7, loro avrebbero avuto un'intera fornitura di cibo per un anno. Alla fine, rimase solo Athena per cui tifare. E il suo corpo rimase riverso lì, aggressivamente morto, con la vita decisamente terminata.

Non conosceva nessuno, e nessuna lacrima fu per lui, pianse, e cadde nel feroce oblio a cui si era predisposto.

Nessuno seppe mai se la morte era stata appagante quanto lui avesse pensato.

 

Athena Rainway perse in un attimo, per pura sfortuna: il suo migliore amico Rhys fu troppo sconvolto per accorgersene. Si rese conto solo di aver perso qualcuno, e rimase seduto sulla sua poltrona, con un nuovo vuoto nel cuore.

Sua madre invece, Lawra, vide qualcosa di anormale, di pilotato nella morte della figlia, e lo denunciò agli Strateghi.

Il giorno dopo, delusa da tutte quelle perdite, fu trovata impiccata in casa sua.

Nessuno indagò oltre.

 

«Un'ultima domanda, Milton» intervenne Caesar, liberando un profondo masso sul cuore del ragazzo. Era arrivato alla conclusione delle sue bugie, con qualche lacrima che gli fiammeggiava negli occhi, e le mani sul punto di tremare. Quanto tempo era passato? Quanto ancora lo condannava?

«Quando eri nell'arena... qual è stato il pensiero che ti ha mandato avanti? Insomma, la tua carica principale.» Il presentatore pose ancora quel suo sorriso cordiale ed affascinato, mentre Milton radunava le sue ultime idee su cosa poter dire. Cosa era stato veramente? Cosa sarebbe dovuto essere?

Si ricordò di quella furiosa voce interna che istigava i suoi passi ed i suoi colpi contro gli altri. Eppure, nessuno avrebbe creduto ad essa.«È stata la mia famiglia. Sai... loro mi hanno cresciuto da quando sono nato, e sarei veramente voluto tornare da loro. Io... voglio molto bene a loro.»

Un'altra menzogna. Non aveva mai pensato alla sua famiglia, lì dentro. Aveva incrociato spesso gli occhi delle sue alleate, aveva temuto le possibili piogge, i possibili veleni, i possibili scontri; ma la sua famiglia era troppo lontana da rievocare. Eppure Caesar sorrise ed assentì, posandogli una mano sulla spalla:«Capisco.»

E, all'improvviso, un altro pensiero avuto nell'arena si manifestò nei suo ricordi: nessuno avrebbe mai capito la sua situazione, se prima non fosse stato condannato allo stesso suo destino. E si era permesso di correggere chi si sarebbe accusato di ingiuriarlo in un modo simile. Eppure annuì, mentre raccoglieva i suoi applausi ed attendeva l'incoronazione.

Fra i fischi, le grida, tutte quelle frivolezze che la gente avrebbe creduto il suo sostentamento, determinò il tempo delle bugie: non sarebbero mai terminate.

 

Nonostante il regolamento non lo prevedesse, Milton Marvin si trasferì nel Villaggio dei Vincitori e diventò mentore negli Hunger Games successivi, svolti subito dopo il Tour della Vittoria.

Trovò solamente in alcuni suoi colleghi sopravvissuti le persone con cui sfogarsi, a cui raccontare la sua situazione. Erano tutti estranei, che gli sorridevano, ma nonostante questo lo capivano solamente a parole. E grazie ai confronti con gli altri vincitori, Milton riuscì a non affogare.

Un suo piccolo segreto fu una minuscola raccolta di fotografie tenuta sempre con sé, in cui erano raffigurati tutti e ventitré volti dei suoi compagni di sventura. Così, fu sicuro che essi non sarebbero mai stati mai inutili.

Ne fu certo quando, quarantatré anni dopo, la rivolta iniziò ad infuriare a Capitol City.

Ed allora i giochi si conclusero veramente.

 

Spazio autrice

Allora.

Allora, questo è il capitolo conclusivo di “500”, ed io non vi stuferò una volta di più di quanto sia terrificante la presenza di una voragine persino nel mio di cuore. Ovviamente, è minore di quella figurata nel cuore di Milton, ma... è sempre una parte di me.

Inizierò presto con le one shot, che tratteranno più argomenti relativi al passato dei tributi (di cui ho parlato poco nella fan fiction, ma comunque mi affascinavano, e mi sembrava uno spreco lasciare lì), e spero che vi soddisfino, come spero che vi abbia soddisfatto questo capitolo. Spero di non aver dimenticato nessuno (sarebbe veramente umiliante, ma anche ingiusto), soprattutto perché volevo avere uno spazio per tutti all'interno di questo capitolo. Milton non li ha dimenticati, come ho scritto e, credetemi, non sono stati inutili. Grazie mille, ancora, a tutti quanti.

Volevo augurare buone vacanze ed, eventualmente, buoni esami a chi, come me, è in terza media, o deve affrontare la maturità (credo. Ancora non è un argomento che m'interessa). Non siate troppo preoccupati, d'altronde... ci sono giochi peggiori a cui giocare, no?

Devo chiudere. Signore e signori, 500 è arrivata al momento in cui il sipario si chiude, ma non disperate: se un giorno penserete a uno qualunque dei protagonisti di questa storia, saprete che loro sono ancora con voi, e sono grati per non averli scordati. Come me, dopotutto.

Grazie ancora.

E possa la fortuna sempre essere a vostro favore.

 

Bolide

P.S.= 1050 visualizzazioni. Grazie ancora, scusate la mia ripetitività. Ciao, ragazzi.

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