Maybe It’s All Part of a Plan

di Kerri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** All of the Steps that Led Me to You ***
Capitolo 3: *** I'm a Ghost in a Sea of Souls ***
Capitolo 4: *** The Blue Mermaid Restaurant ***
Capitolo 5: *** Don't leave me out in the cold ***
Capitolo 6: *** New Chance ***
Capitolo 7: *** An Unexpected Circumstance ***
Capitolo 8: *** Old Friends ***
Capitolo 9: *** Things Change ***
Capitolo 10: *** Forgive me ***
Capitolo 11: *** What the Hell?! ***
Capitolo 12: *** I won't let you go. Will you? ***
Capitolo 13: *** Meet the time as it seeks us ***
Capitolo 14: *** Outstanding Matters ***
Capitolo 15: *** Come back ***
Capitolo 16: *** Fighting my Demons, answering your Questions ***
Capitolo 17: *** Shadows of the Past ***
Capitolo 18: *** Could you take care of a broken soul? ***
Capitolo 19: *** Confessions ***
Capitolo 20: *** I'll be better for you ***
Capitolo 21: *** My faults, my darkness, my past, my beginning ***
Capitolo 22: *** Regrets are a family thing ***
Capitolo 23: *** Missing ***
Capitolo 24: *** This is what you were born for ***
Capitolo 25: *** Lights on and off ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Storybrooke, 4 Settembre 2003
 
Perdonami, se puoi.
Perdonami Killian.
Perdonami per tutte le volte in cui non mi sono fidata di te, per tutte le volte in cui sono stata irritabile e scostante.
Io non
Perché in fondo il nostro è am
Perdonami per averti mentito sui miei veri sentimenti.
Perdonami perché forse, anch’io ti ho fatto del male e forse con questa stessa lettera, te ne sto facendo ancora.
Perdonami perché non era mia intenzione. Forse avresti preferito che
Infine, perdonami per essermene andata così, nel bel mezzo della notte, senza neanche un saluto.
Perdonami, ma non mi pento della mia scelta.
Tu non mi hai mai chiesto di restare, di rimanere qui per te, per noi.
Ma i tuoi occhi, oh i tuoi occhi continuano ad implorarlo ogni volta. Non avrei potuto sopportare di vederli ancora. Perché probabilmente, se solo quelle parole fossero fuoriuscite dalle tue labbra, io sarei rimasta, mandando in frantumi tutti i miei sogni.
Ma non posso permetterlo, Killian.
Non posso.
Non mi pento di avere dei sogni perché, insieme a te, sono stati l’unica via di fuga, l’unico modo di sopportare questo mondo.
E mi conosci, sai quanto io sia testarda e sai che farò tutto ciò che mi è possibile per realizzarli, per realizzarmi. Perché so che posso farcela, Killian. So che posso dimostrare al mondo che non sono soltanto Emma la ragazzina orfana per cui tutti provano pietà.
No.
Io sono Emma Swan e posso diventare chi voglio.
Non puoi immaginare quanto
Grazie di tutto.
Grazie per i tuoi occhi blu, sempre così sinceri, per il tuo sorriso che ammalia chiunque, per i tuoi consigli, per essermi stato accanto sempre, nonostante tutto e tutti.
Molti ostacoli, molte persone si sono frapposte sulla nostra strada, ma tu hai sempre lottato affinché non ci separassero, mai.
Adesso sono io ad arrendermi e mi dispiace se tutti i tuoi sforzi potrebbero sembrarti vani. Non lo sono, non lo sono mai stati.
Grazie perché mi hai dato la forza di rialzarmi, perché probabilmente non sarei la persona che sono adesso se tu non mi avessi trovato, in un angolino del parco giochi, quel giorno di tanti anni fa.
Grazie per avermi raccolto, per avermi fatta ridere e anche per tutte le litigate.
Sei stato la persona più importante per me, sei la persona più importante.
Ma devo andare avanti.
Per me, per te non
Sei l’unico filo che ancora mi unisce a questa città, l’unico ostacolo che non mi permette di accettare quella borsa di studio con il cuore leggero.
Ma io devo farlo, Killian.
Devo tagliare questo filo, per me, per il mio futuro. Non posso permettermi di avere legami.
Non voglio restare qui per sempre, Kill. I confini di Storybrooke sono troppo piccoli per me. Ho bisogno di libertà, di vedere il mondo, di vivere. E non posso farlo, restando qui.
Perdonami
Ti auguro ogni bene che la vita possa offrirti. Ti auguro di dimenticarmi il prima possibile e di andare avanti. L’ultima cosa che desidero è che tu soffra, perciò non farlo, ti prego. Io starò bene, te lo prometto. Non preoccuparti per me, la tua piccola Emma è cresciuta e saprà badare a sé stessa, o almeno ci proverà.
Pensa solo a te, al tuo futuro, al tuo presente e al tuo passato.
Ti auguro di diventare la persona che vuoi diventare, anche se ancora non hai capito chi essa sia.
Non importa se diventerai un astronauta, uno spazzino o un banchiere, Killian. Importa come lo diventerai.
Ti auguro di cadere e di rialzarti, perché puoi farcela. Sei forte Killian, la persona più forte che io conosca e non possono esserci sfide che tu non riesca a vincere o ostacoli che tu non riesca a superare.
Ricorda Silente, ricorda Harry. “La felicità può essere trovata anche nei momenti più oscuri, se uno solo si ricorda di accendere la luce”.
Ti auguro di accenderla sempre quella luce e ti auguro che quella stessa luce possa illuminare la vita di chi ti sta intorno, proprio come ha fatto con me.  
Ti auguro di conoscere una donna che possa amarti nello stesso modo in cui avrei voluto fare io.
Ti auguro di avere una famiglia, migliore di quella che il destino ha affidato a noi due tanto tempo fa.
Una volta capito chi vuoi diventare, fai di tutto per raggiungere il tuo obiettivo. Non rinnegare i tuoi valori, non commettere gli stessi sbagli che qualcuno, prima di noi, ha commesso.
Stai attento, Killian.
Io cercherò di fare lo stesso, cercherò di vivere la mia vita lontano da qui. Non voglio più nessun contatto con questa cittadina. Non voglio più tornarci.
Per troppo tempo, ho subito i suoi mali, i suoi soprusi e pregiudizi. Adesso basta.
Non cercarmi più, Killian.
Dimenticami.
Fidati, sarà meglio per entrambi.
Ti voglio bene,
 
Sempre tua
Emma
 
 
 
 
 


 
Salve a tutti! :)
Vi starete chiedendo: cosa ho appena letto?! Bene è una domanda lecita ed intelligente ma vi prometto che tutto verrà spiegato nel prossimo capitolo, il primo vero capitolo della storia! Chi mi conosce, sa che già da un po’ avevo in mente di lanciarmi in un’altra storia a capitoli, ma non riuscivo mai a trovare il tempo per mettere per iscritto tutto ciò che mi frullava per la testa!
Finalmente però, ci sono riuscita!
Ringrazio tutti coloro che sono arrivati fin qui, lo so, il prologo è leggermente corto, ma mi farò perdonare! :)
Vorrei ringraziare due persone che mi hanno supportato e sopportato in questo lungo periodo e hanno insistito affinché pubblicassi la storia al più presto! Grazie Claudia e Erin! Senza di voi, probabilmente non sarei qui, la sera di Pasquetta, a pubblicare il prologo di una storia!
Fatemi sapere cosa ne pensate, ogni vostra recensione sia positiva che negativa, è sempre ben accetta!!
Adesso vi lascio, altrimenti “L’angolo dell’Autrice” diventa più lungo del capitolo!
Un bacio a tutti e buona Pasquetta,
A presto
Kerri <3 

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Capitolo 2
*** All of the Steps that Led Me to You ***


 
La sveglia suonò come al solito alle 6.30. Con gli occhi ancora chiusi la giovane donna cercò di spegnere quel rumore assordante, in modo da riposare ancora un po’.
Si tirò le coperte fin sopra al naso quando qualcuno irruppe nella sua calda e oscura camera per aprire le finestre e illuminare la stanza.
Avrebbe tanto desiderato dormire ancora ma, a quanto pareva, quel qualcuno non era d’accordo con lei.
«Mamma, svegliati! Devi accompagnarmi a scuola!»
Chi avrebbe potuto essere se non suo figlio? L’unico uomo della sua vita da dodici anni ormai…
«Henry, che ore sono? Non passa l’autobus oggi?» disse stropicciandosi gli occhi e sbadigliando.
«No mamma, quindi alzati! Non voglio fare tardi!» urlò suo figlio, schioccandole un bacio sulla guancia e scendendo giù in cucina.
A malincuore spostò tutte le coperte e si alzò. La testa le girava ancora un po’, residui della notte precedente. Avrebbe preferito tanto dimenticare, lasciare tutto e andarsene. Ma non poteva. O non voleva?
Scacciò quei pensieri dalla testa e rovistò nel suo armadio, trovandovi un maglioncino azzurro. Poi si infilò i pantaloni del giorno prima e cercò di riordinare quanto meglio poté il disastro che era la sua camera. Raccolse gli avanzi di cibo cinese, vecchi ormai di qualche giorno e spostò la colonna di vestiti sporchi dalla piccola poltrona di fronte alla finestra, alla lavatrice.
«Mamma! Proprio oggi devi metterti a riordinare? Siamo in ritardo!»
Oh maledizione!
Suo figlio aveva ragione. Alle volte le sembrava che i ruoli fossero invertiti, che la bambina capricciosa da sgridare e mettere in punizione fosse lei, non Henry. Suo figlio era così intelligente, così brillante e sveglio che alle volte si domandava veramente se avesse preso qualcosa da lei.
«Arrivo ragazzino!» gli urlò, precipitandosi in bagno per rendersi più o meno presentabile. Dopo aver accompagnato Henry, sarebbe andata direttamente in negozio e non poteva rischiare che il suo aspetto spaventasse i clienti.
Si lavò il viso con acqua gelida, si spazzolò velocemente i denti e per i successivi dieci minuti cercò di coprire quanto meglio poté quelle orrende occhiaie che le incorniciavano gli occhi. Alla fine, il risultato non era dei migliori ma fu comunque soddisfatta.
Scese di corsa le scale, prese al volo le chiavi della sua adorata macchina, la sua borsa e la sua fidata giacca di pelle rossa e uscì, seguita a ruota da suo figlio.
«Mamma! Dovresti fare colazione, la colazione è il pasto più importante della giornata!» la rimbeccò suo figlio, una volta saliti entrambi nel maggiolone giallo di Emma.
Rieccoci allo scambio dei ruoli.
«Ragazzino, dovrei essere io la mamma, non tu!» rise Emma, infilando le chiavi e mettendo in moto l’auto. Il bambino si limitò a sorriderle poi frugò nel suo zaino e ne estrasse uno dei suoi amati giornalini.
La sua scuola non era tanto distante dal loro appartamento, ma a New York, perfino alle sette e mezza del mattino c’era traffico.
«Se la maestra ti chiede qualcosa, digli che l’autobus non è passato e in città c’era troppo traffico!»
«Va bene, mamma! Ci vediamo dopo al negozio?»
«Sì tesoro, a dopo!»
Emma fissò suo figlio correre veloce verso l’entrata del grande edificio rosso scuro, sorrise e ripartì, risvegliata dal rumore del clacson della macchina dietro di lei.
Controllò l’orario e constatò che aveva ancora un’altra mezz’oretta così, memore del consiglio di suo figlio, si fermò a comprare un caffè con panna e cioccolato e una brioche alla cannella.
La giornata sarebbe stata lunga, come al solito.
 
Storybrooke, Ottobre 1996
«Ciao»
La piccola bimba si asciugò in fretta le lacrime che le bagnavano le guance rosee, si alzò in fretta dal suo nascondiglio, discostando un po’ le foglie e puntò i suoi grandi occhi verdi sul suo interlocutore.
Se era un altro di quegli idioti che la prendevano in giro, gliene avrebbe dette quattro. Si sarebbe difesa come si deve, era stufa di piangere nascosta nel parco della scuola.
«Cosa vuoi?» rispose infastidita.
Il bambino ci pensò su un momento. Si era accorto di lei soltanto qualche ora prima, quando i suoi stupidi compagni di classe avevano deciso di prenderla di mira. Adesso, dopo aver ottenuto ciò che volevano, erano ritornati in classe, ridendo e scherzando come se nulla fosse, come se non avessero appena fatto piangere una persona. E lui questo non poteva sopportarlo. Lui era un gentiluomo, glielo ripeteva sempre la sua mamma. Certo, prima che morisse.
I suoi piedi si erano spinti fin laggiù, nell’angolo più remoto del parco, aveva sentito i suoi singhiozzi e aveva intravisto un piccola macchia bionda tra i cespugli.
E così l’aveva trovata.
Timoroso aveva girovagato un altro po’, non voleva disturbarla o farla sentire a disagio, ma i suoi piedi lo riportavano sempre lì.
«Ti va di giocare con me?»
La bimba lo fissò ancora, cercando di capire quali fossero le sue reali intenzioni. Ormai aveva capito come andavano le cose, come funzionava il mondo, seppur non avesse ancora dieci anni. La realtà non è mai quella che sembra e quel bambino dagli occhi color del cielo, all’apparenza così gentile, poteva rivelarsi tutt’altro. E lei non aveva più le forze di litigare, di piangere o di fare qualsiasi altra cosa.
«Come mi hai trovato?» chiese, vestendo di durezza il suo tono di voce.
Il bambino sorrise, un sorriso che gli illuminò il volto e gli occhi, un sorriso birichino, di chi è stato appena colto con le mani nel barattolo dei biscotti appena sfornati.
«Non posso dirtelo! È un segreto!»
La bambina lo fissò con gli occhi sgranati e la bocca semi aperta. Niente poteva mettere freno alla sua curiosità, alla sua voglia di sapere e di conoscere seppur ciò che aveva conosciuto fino a quel momento, non era stato tutto molto bello.
«Dimmelo!» ordinò perentoria. Quando si era rifugiata lì, l’aveva fatto con il chiaro intento di non essere trovata o disturbata. Se quel bambino l’aveva fatto, significava che aveva commesso degli errori e lei non poteva permetterselo.
Quello non rispose. Si limitò a porgerle la mano, accennando al grande edificio grigio alle sue spalle.
«Dobbiamo muoverci, la campanella sta per suonare!»
Non sapeva perché si fosse fissato tanto con quella bambina. Forse voleva solo scusarsi per il comportamento dei suoi compagni. Forse.
La piccola fissò il palmo bianco di fronte a lei per qualche secondo. Aveva imparato a non fidarsi degli estranei. Qualcosa però, negli occhi di quel bambino, le diceva che poteva fidarsi, che non era un mascalzone come tutti gli altri.
Nello stesso istante in cui la campanella suonò segnando l’inizio delle lezioni, la bimba afferrò la mano del bambino dagli occhi color del cielo, trascinandolo in una folle corsa fino alla porta della loro classe.
«A proposito, sono Killian Jones, al vostro servizio milady!» disse il bambino, inspirando quanta più aria possibile; poi mimò un grande inchino, sfiorando quasi il pavimento.
La bambina alzò gli occhi al cielo, posando le mani sui fianchi, riprendendo fiato per la corsa appena compiuta.
«Sono Emma, Emma Swan.» disse alzando un po’ il mento, per sembrare giusto un po’ più alta.
I due si squadrarono un altro po’, sorridendo. Poi Killian aprì la porta ed entrarono in aula.
«Swan! Jones! Siete in ritardo!» li sgridò la maestra.
«Ci scusi maestra Zelena, non accadrà più» si scusò Emma e alle sue parole Killian annuì col capo.
«Lo spero bene! Adesso filate al vostro posto!»
I due si diressero ognuno al proprio posto. Emma si accomodò come sempre all’ultimo banco della seconda fila mentre Killian si diresse verso la terza fila, accolto dai sorrisini idioti dei suoi compagni. Li ignorò volontariamente e si accomodò, proprio dietro il banco di Emma.
 
 
Da quando suo figlio aveva cominciato ad andare a scuola la sua vita si era trasformata in una folle corsa contro il tempo. Non che prima se la passasse tanto meglio.
Il padre di Henry l’aveva lasciata prima ancora di scoprire che fosse incinta. Non voleva dirglielo, perché non voleva che si sentisse obbligato a tornare con lei. Da allora non l’aveva più visto, non aveva più sentito parlare di lui, per quel che ne sapeva poteva essersi benissimo trasferito in Alaska. Ma ormai, ci aveva fatto l’abitudine. Lo odiava ma le aveva dato la cosa più bella e importante della sua vita.
Tuttavia, crescere un figlio da sola a diciott’anni, in una città come New York, non era stato per niente facile.
Per crescerlo aveva dovuto abbandonare un sogno, un sogno che custodiva nel cuore sin da bambina, un sogno che aveva portato lei stessa ad abbandonare qualcuno di importante tanti anni prima.
Per mesi, dopo aver scoperto di essere incinta, non era più uscita dal suo monolocale se non per recarsi a scuola. Ma perfino quel luogo divenne un inferno.
Vide sgretolarsi ogni suo desiderio davanti ad i suoi occhi, ogni suo sogno si volatilizzò.
Sopravvisse soltanto grazie ad una persona, una persona che continuò a credere in lei nonostante i terribili errori che aveva commesso, salvandola più di una volta dall’oblio. Oggi, aveva la fortuna di poter chiamare questa persona la sua Migliore Amica e non poteva immaginare una vita senza di lei.
«Swan! Che ci fai qui? Hai visto che ore sono? Dovresti già essere al lavoro maledizione! Non a poltrire in un bar!»
Ed ecco a voi, signori e signore, Regina Mills.
«Scusa Regina, sono un po’ stanca…» commentò Emma pensierosa, abituata ormai ai continui insulti della sua amica. Non se la prendeva più di tanto, dopotutto Regina era fatta così. E se lei era riuscita a sopportarla per tutti quei lunghi anni, be’ anche Emma aveva avuto tanta pazienza con quella donna. Erano due facce della stessa medaglie, uguali eppure così diverse…
Regina non era esattamente un tipo facile, anzi. Come lei, anche quella bellissima donna dai capelli corvini aveva sofferto e aveva numerose cicatrici sul cuore e sul viso, invisibili agli occhi del resto del mondo, fuorché ad Emma.
Regina sospirò teatralmente, alzando gli occhi al cielo. Poi la trascinò fuori dal piccolo bar e si incamminarono verso il negozio.
I tacchi a spillo della giovane Mills tintinnavano sul marciapiede. Emma si concesse due minuti per sbirciare la donna accanto a lei. Ogni giorno era impeccabile, mai un capello fuori posto. Quella mattina indossava un caldo cappotto nero che le arrivava al ginocchio, un foulard annodato distrattamente al collo, che le dava l’aria da attrice di successo e il solito e immancabile rossetto rosso. I suoi modi, un po’ bruschi ma decisi incutevano paura, era autoritaria, pignola e anche un po’ permalosa. Orgogliosa fino allo sfinimento e un po’ maniaca del controllo.
Questo era Regina Mills per il resto del mondo.
Ma se il mondo l’avesse vista con Henry, probabilmente non l’avrebbe mai riconosciuta. Quando era con lui, molto spesso visti gli impegni di Emma, Regina si trasformava e la donna austera diventava una mamma amorevole.
Alle volte Emma si sentiva sproporzionata, inadeguata se si confrontava a lei. Non indossava tacchi a spillo per uscire dalle feste del liceo, odiava le gonne e i vestiti ed evitava il più possibile di indossarli.
«Emma, mi ascolti?» sbuffò Regina, notando che la sua amica non dava segni di vita.
«Cosa?!» chiese la giovane Swan, ridestandosi dai suoi pensieri e ritornando alla realtà. Ormai erano arrivate e Regina stava rovistando nella sua borsa in cerca delle chiavi.
Emma fu più veloce, estrasse dalla tasca il mazzo di chiavi con la tartaruga ed aprì. Regina le riservò uno dei suoi sguardi glaciali, chiedendole probabilmente perché le avesse fatto perdere tutto quel tempo. Emma alzò le spalle ed entrò, accendendo le luci.
Ecco.
Inspirò forte l’odore di legno e si voltò verso la sua amica.
Quel posto l’aveva salvata dal baratro, era diventato il suo rifugio e doveva ringraziare solamente lei.
Il negozio “Once Upon A Time” era aperto ormai da ben dieci anni. Dopo aver lasciato la scuola, qualche anno dopo di lei, Regina aveva deciso di aprirsi un piccolo negozio di antiquariato, assumendo Emma a tempo pieno come commessa. Potevi trovarci di tutto: specchiere, vasi, quadri, vecchi mobili, libri, vestiti d’epoca, appendiabiti. Qualsiasi cosa.
Poteva sembrare un semplice negozio di antiquariato dall’esterno ma c’era molto di più. La proprietaria aveva deciso di rinnovarlo e le due giovani donne non si limitavano soltanto a vendere mobili e altri vecchi suppellettili. Si impegnavano ad arredare ed ideare qualsiasi stanza, camera o ufficio i clienti volessero. E gli affari, andavano piuttosto bene.
Emma poggiò le sue cose dietro il bancone e accese il piccolo computer. Regina intanto la guardava, cercando di farle capire quanto importante fosse ciò che aveva intenzione di dirle.
«Swan, per la miseria, adesso vuoi stare a sentirmi?» sbottò la donna dai capelli neri.
«Sì, scusa Regina, ti ascolto!» disse Emma seria, puntandole i suoi grandi occhi verdi addosso.
Regina sospirò e si appoggiò al bancone.
«Emma, mia madre sta morendo…»
Le parole restarono sospese nell’aria ed Emma dovette mettercela tutta per afferrarle e assimilarle. Cora Mills, una delle donne più ricche e potenti della città, stava per morire. Emma conosceva la madre di Regina, forse fin troppo bene. Era la preside della sua scuola, una donna forte e autoritaria, proprio come la figlia. A prima vista poteva sembrare piccola, non era molto alta infatti. Ma bastava guardarla bene negli occhi e ogni tua precedente impressione scompariva. Emanava una sorta di aurea magica, tutti cadevano ai suoi piedi, facendo tutto ciò che ella desiderasse. Emma si sentiva parecchio in soggezione con gli occhi di Cora Mills puntati addosso. Non poteva crederci che probabilmente, non li avrebbe più rivisti.
«Oh Regina, mi dispiace!»
Emma si alzò ad abbracciare la sua amica, benché sapesse quanto ella detestasse qualsiasi manifestazione d’affetto, a patto che non si trattasse di Henry.
Ma quella volta, Regina si lasciò abbracciare. Perfino lei stentava ancora a crederci.
«Vuole che io prenda il suo posto Emma!» sussurrò la donna.
La giovane Swan restò a bocca aperta. Regina e sua madre non avevano mai avuto un rapporto normale, alle volte si amavano, altre non si parlavano per giorni. Erano quasi sempre in conflitto, litigavano per delle piccolezze. Regina aveva dovuto lottare con tutte le sue forze per dimostrare al mondo che non era soltanto la figlia raccomandata e ricca della preside. No, lei aveva talento. Le cose però peggiorarono dopo la catastrofe e poco tempo dopo, Cora si ammalò.
Così Emma restò sorpresa quando Regina le diede quella notizia, anche se probabilmente non avrebbe dovuto. Cora non aveva altri figli e nonostante il suo conflittuale rapporto con Regina, le voleva bene.
«Cosa hai intenzione di fare Regina?» chiese Emma, sapendo in cuor suo già la risposta. Ormai conosceva alquanto bene la sua amica.
«Tu cosa credi Emma? Accetterò» rispose risoluta la Mills.
«Ma si può fare? È legale?» chiese Emma titubante.
Regina scoppiò a ridere.
«Ormai Swan, dovresti sapere che per mia madre, nulla è impossibile. Riesce a dare ordini persino da un letto d’ospedale…»
«E questo posto?» continuò Emma guardandosi attorno. Il negozio era di Regina, non il suo.
«È esattamente di questo che vorrei parlarti Emma. Voglio che lo gestisca tu…»
Emma restò a bocca aperta per la seconda volta in quella mattina.
«Cosa? Stai scherzando? Io non saprei da dove cominciare…» disse mentre cercava una vecchia scopa per spazzare via un po’ di polvere dal pavimento.
«Oh andiamo Swan, sappiamo benissimo che non è vero e che, quando ti applichi, riesci a mettere insieme qualcosa di gradevole…»
Per Regina, questa era la cosa più vicina ad un complimento ed Emma lo apprezzò.
 «E i fornitori? Gli ordini? Non conosco nessuno, non ce la farò mai da sola…» continuò Emma sconsolata, accasciandosi su di una vecchia sedia.
«Non preoccuparti, a questo ho già pensato io. Infatti stasera preparati perché usciamo con due tipi che hanno intenzione di vendere tutti i mobili della loro casa, in modo che tu possa conoscere loro e loro possano conoscere te. E poi se vorrai, potrai assumere qualcun altro…»
Regina usò quel tono che non ammetteva repliche, quel tono che usava di solito con i clienti un po’ troppo indecisi. Emma era entusiasta ma allo stesso tempo spaventata. Ce l’avrebbe fatta a gestire tutto da sola?
Si guardò intorno e capì che sì, ci sarebbe riuscita. Regina si sbagliava raramente e se credeva che lei, Emma Swan, avrebbe potuto gestire quel piccolo negozio da sola, allora ce l’avrebbe fatta. Non aveva nessuna intenzione di deluderla, anzi. Avrebbe tanto voluto trovare un modo per ripagarla, per ringraziarla per tutto ciò che aveva fatto per lei, perché continuava a fidarsi di lei, nonostante non aprisse il negozio tutti i giorni alle 8.30 e qualche volta si dimenticava di schedare qualche nuovo oggetto. Sì, ce l’avrebbe fatta e Regina sarebbe stata fiera di lei e tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Non sapeva, però, che il destino aveva ancora qualcos’altro in serbo per lei, qualcosa che avrebbe riportato indietro i suoi più antichi rimpianti, i suoi più oscuri fantasmi.
 
 
Emma adorava la maestra Zelena, era la sua insegnante preferita. Le piaceva ascoltare le sue storie, le piaceva la sua voce e le piaceva il modo in cui i suoi occhi si illuminavano tutte le volte che parlava del suo paese natale, a detta sua, lontanissimo da Storybrooke. Più volte aveva desiderato che fosse lei la sua mamma, così avrebbe potuto vivere per sempre con lei e le sue torte di carote.
Quel giorno però, non riusciva proprio a concentrarsi. Non riusciva a stare dietro a quel fiume di parole che fuoriusciva dalla bocca della sua insegnate.
L’incontro con quel bambino l’aveva resa inquieta.
Chissà perché aveva deciso di assecondarlo? Insomma, non era da lei dopotutto.
Sentì una leggera pressione sulla spalla, che, volontariamente, ignorò.
Chi si credeva di essere? Davvero credeva di avere con lei tutta quella confidenza soltanto dopo una corsa nel parco? Non che lei avesse corso nel parco con qualche altro bambino…
Stufa, Emma si girò, stando ben attenta a non farsi vedere dalla maestra e restando folgorata dal sorriso del bimbo dietro di lei. C’era una piccola finestrella, segno che il bambino aveva avuto di recente una visita del topino dei denti. Fortunato lui! Chissà cosa gli aveva portato…
Emma dovette trattenersi dal non sorridere anche lei; invece mise su l’espressione più corrucciata e stanca possibile per fargli capire di non insistere ancora. Con lei, non attaccava.
Il bambino fece scivolare sul banco un piccolo fogliettino che Emma raccolse al volo, timorosa che Zelena potesse sgridarli ancora.
 
Se vuoi sapere il mio segreto ci vediamo al cespuglio alla fine delle lezioni.
Ti mostrerò il mio mondo, Swan.
-K.

 
«Emma!»
Emma sussultò. La maestra Zelena l’aveva colta di sorpresa. Alzò lo sguardo, accartocciando il bigliettino tra le mani, decisamente troppo sudate.
«Vuoi ripeterci la storia del “Brutto Anatroccolo”, spiegandoci anche cosa si intende per morale? »
Fortunatamente conosceva quella storia e sapeva anche cos’era la morale.
Per tutto il resto della lezione Emma non si girò più e Killian non la infastidì.
La bimba continuava a fissare il grande orologio appeso in classe, proprio sopra la lavagna. Man mano che la lancetta si avvicinava alle dodici, il cuore di Emma batteva sempre più velocemente.
Andarci avrebbe significato dargli una chance, fidarsi, per la prima volta nella sua vita, di un’altra persona, per di più non-femmina.
Non andarci, invece, avrebbe significato forse perdere l’unica occasione per poter conoscere quel bambino misterioso e irritante, per poter scoprire, chissà, i punti deboli dei suoi compagni stupidi e potersi, finalmente, vendicare di loro.
La campanella suonò.
Emma raccolse le sue cose, ormai aveva preso una decisione.
Si voltò verso di lui, ma Killian era già scomparso.
 
«Regina, puoi scordartelo! Non indosserò un vestito per degli stupidi fornitori!» si lamentò Emma al telefono.
«Swan, per l’amor del Cielo, sforzati, per una buona volta, di toglierti di dosso quei jeans e quelle scarpe da ginnastica!»
«Ma sono comodi!» protestò Emma e in quel momento, si sentì tanto una bimba piagnucolona.
Regina sbuffò.
«Non ne sei capace, Swan? Ti chiedo solo di essere presentabile, tutto qui. »
La donna riattaccò ed Emma continuò a fissare lo schermo del cellulare per un bel po’. Regina sapeva bene quanto Emma amasse le sfide, così gliene aveva presentata una su di un piatto d’argento.
Ti stupirò, Regina.
Fosse l’ultima cosa che faccio.
 
Emma si incamminò verso la sua camera e cominciò a rovistare tra i suoi vestiti. Doveva ammettere che i suoi vestiti eleganti si limitavano ad un vestito nero, semplice, senza spalline con una gonna lunga fino al ginocchio e un vestito rosso, decisamente troppo attillato, che Regina le aveva regalato quando ancora nutriva qualche speranza riguardo il suo stile.
Li scartò entrambi.
Optò invece per un paio di pantaloni neri e attillati e un top bordeaux che aveva comprato qualche settimana prima in saldo. Completò il tutto con una collana e un filo di trucco.
«Mamma!»
«Che c’è Henry?» chiese la donna mentre fissava gli alti tacchi a spillo che Regina sicuramente si aspettava che indossasse.
«Regina è arrivata e mi ha detto di dirti di metterti i tacchi, immediatamente!» gridò suo figlio, trattenendo a stento le risate.
Emma sospirò. Raccolse tutte le sue cose, la borsa, le chiavi del maggiolino, il suo giubbino di pelle nera e diede un bacio ad Henry, raccomandandogli di fare il bravo. Infine si infilò quelle trappole mortali.
Regina gliel’avrebbe pagata.
Ringraziò mentalmente quel giorno in cui Henry la pregò di acquistare l’appartamento nel condominio con l’ascensore. All’epoca non credeva le sarebbe stato così utile.
«Swan, sono colpita! Hai fatto un buon lavoro…» disse Regina non appena si fu accomodata in macchina.
Emma le riservò un’occhiataccia. I piedi le facevano già male.
«Grazie, ho imparato dalla migliore!» disse, mal celando il suo tono sarcastico.
Regina se ne accorse ma non vi badò. Amava i complimenti al contrario della sua amica.
«Allora dove andiamo? »
«Al Blue Mermaid Restaurant» disse Regina, con un sorriso.
 
 


Salve a tutti! :)
Eccoci qui con il primo vero capitolo! Spero vi sia piaciuto e non vi abbia annoiato! Aspetto i vostri pareri… :D
Per il momento abbiamo conosciuto meglio Emma, il suo lavoro e il suo rapporto con Regina! Mi diverte troppo scrivere dei loro battibecchi, spero piacciano anche a voi!
Tuttavia non potevo non inserire Killian in qualche modo! E così, assistiamo al primo incontro tra due bambini di dieci anni, già segnati dalla crudeltà del mondo.  
Le domande ora sono: chi ci sarà mai al Blue Mermaid Restaurant?  Cosa accadrà in quel ristorante? Che cosa sta combinando Killian nel frattempo? Che cosa Emma preferisce dimenticare? Che cosa è successo a Regina?  La piccola Emma ha seguito Killian nel bosco?
Spero di avervi incuriosito almeno un po’! :)
Mi dispiace avervi traumatizzato con il prologo, non era mia intenzione! Anche se mi ha fatto tanto tanto tanto piacere ricevere i vostri pareri, vi ringrazio tantissimo! <3
Fatemi sapere cosa pensate anche di questo capitolo! Il prossimo arriverà presto, devo rivederlo ma è già scritto. Vi dico solo che alcune delle domande di sopra, avranno una risposta!
Un bacio a tutti e alla prossima,
Kerri :*


Ps: il titolo del capitolo è un verso della canzone di Christina Perri "The Words". Ho visto il video 38943828! Ditemi che non sono l'unica! ^^"
Pss(l'ultimo lo giuro): pretendo il nuovo episodio!! Non ce la faccio più!! T.T 

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Capitolo 3
*** I'm a Ghost in a Sea of Souls ***


2. I’m a Ghost in a Sea of Souls
 

Aprì la porta e lanciò le chiavi da qualche parte, sul piccolo tavolino all’ingresso. Si allentò il nodo, troppo stretto, della cravatta che anche quel giorno indossava e si trascinò in cucina. Come d’abitudine, aprì l’ultima anta in basso ed estrasse una bottiglia di rhum. Cercò un bicchiere pulito da qualche parte ma giacevano tutti, in bella mostra, nel lavabo. Per un attimo, gli passò per la testa che ne avrebbe potuto tranquillamente fare a meno e scolarsi quell’ultima bottiglia, così come aveva fatto nei giorni precedenti con le altre. Ubriacarsi, fino a perdere conoscenza, sensi, vista. Ubriacarsi fino a dimenticare.
No, lei non avrebbe voluto vederlo così.
Adocchiò una vecchia tazza di Mickey Mouse, comprata chissà quanto tempo prima e senza neanche pensarci l’afferrò e vi versò dentro buona parte del liquido. Poi chiuse diligentemente la bottiglia e la ripose al suo posto. Prese la tazza, dirigendosi verso il salotto, bagnandosi le labbra con quel liquido ambrato che ogni sera, gli faceva dimenticare un po’ del disastro che era la sua vita. Quella sentimentale, almeno.
Due anni.
Due anni da quando se n’era andata. Così come tutti gli altri.
 
Storybrooke, 21 Giugno 2002
 
«Emma!»
La ragazza si voltò di scatto. I capelli biondi le volarono dietro le spalle, disegnando un perfetto gioco di luci e riflessi dorati.
«Ah, sei tu…» disse, dopo aver riconosciuto chi fosse il malcapitato che aveva deciso di disturbarla.
«Scusa, vado di fretta. Ho lezione tra dieci minuti» continuò, accennando al grande borsone che portava a tracolla e accelerando un po’ il passo.
«Lo so che hai lezione Emma! Ma non ci vorrà molto, per favore! Devo parlarti! »
Emma ignorò volontariamente quella voce e riprese a camminare, frugando nelle tasche del giubbotto in cerca degli auricolari. Ma aveva sottovalutato la tenacia e la testardaggine del suo interlocutore.
«Emma aspetta!»
La ragazza sentì una mano calda sulla spalla, segno tangibile che il ragazzo era riuscito a raggiungerla.
Fantastico, anche oggi avrebbe fatto ritardo per colpa sua.
Sospirò e si voltò, incrociando le braccia infastidita, spostando il peso su un piede.
«Sentiamo Killian, che vuoi questa volta? Hai esattamente – fissò il piccolo orologio al suo polso – sessanta secondi a partire da ora…»
Killian si grattò la nuca con il braccio sinistro, come era solito fare quando era nervoso o agitato.
«Quarantotto, quarantasette, quarantasei…»
«Emma, smettila! Che diamine!» urlò, forse un po’ troppo, ma quella ragazza lo stava letteralmente facendo impazzire da quando... be’ in realtà da sempre.
La ragazza ammutolì. Alzò gli occhi al cielo e cominciò a battere il piede sull’asfalto.
Dio!
«Emma, io n-non… Mi dispiace, ok? Ho fatto una cazzata e so che tu…»
«Killian!» lo interruppe Emma, prima che la situazione degenerasse. E lei sapeva cosa sarebbe successo se Killian avesse continuato e no, non poteva permetterlo.
«Killian, ascolta: tu non devi dare conto a me di quello che fai o non fai nella tua vita privata. Io sono tua amica, non tua madre, né tantomeno la tua ragazza gelosa, ok? Ciò che mi ha infastidito è che proprio in virtù di quell’amicizia, avrei gradito che fossi stato tu a raccontarmi della tua relazione con la bella Ruby e non che lo venissi a sapere per bocca altrui…»
«Emma, tra me e Ruby non c’è niente!» chiarì Killian, abbassando lo sguardo e rialzandolo poco dopo, immergendosi nel verde prato degli occhi di Emma.
La ragazza si limitò a sorridere e assottigliando lo sguardo, fissò Killian di rimando.
Il giovane odiava quello sguardo. Significava “Non mentire, tanto lo scopro!”. Ed Emma lo scopriva veramente. Emma era in grado di leggergli dentro come nessun’altro. Forse perché ormai lo conosceva meglio di sé stessa, forse perché loro due non avevano mai avuto molti segreti. Forse perché ormai gli era entrata dentro.
«È vero!» si giustificò, alzando entrambe le mani al cielo, in segno di innocenza.
Emma, finalmente, abbandonò lo sguardo da dura e l’espressione corrucciata e si aprì in un sorriso che le illuminò il volto. Ormai ogni risentimento nei confronti dell’amico era svanito, anche se continuava a provare una strana voglia omicida nei confronti di Ruby.
Guardò l’orologio e strabuzzò gli occhi. In poco meno di cinque minuti, avrebbe dovuto essere in sala, pronta a cominciare.
«Ti accompagno io, Emmy» disse Killian, capendola al volo e lanciandole il suo casco.
«Non chiamarmi Emmy! Te l’ho detto mille volte, mi ricordano quei premi che danno ai cantanti o agli attori o a non so chi…» borbottò Emma, afferrando il casco al volo e dirigendosi verso la moto del suo amico.
«Solo se tu la smetti di chiamarmi Killy. Andiamo non ho più dieci anni!»
Emma rise, tirandogli un pizzicotto sul braccio destro. Si sistemò il casco mentre Killian salì in sella, accendendo i motori.
La ragazza montò dietro di lui, stando ben attenta al borsone e come al solito, si aggrappò alla sua schiena. Ormai erano movimenti autonomi, dettati dalla quotidianità. Avrebbe potuto riconoscere la moto di Killian anche bendata, ascoltando solo il familiare rombo con cui ogni mattina la salutava per accompagnarla a scuola.
«Sai che dovresti portare due caschi, vero? Nel caso tu voglia portare la tua nuova ragazza…» gli urlò Emma in un orecchio, mentre sfrecciavano a tutta velocità tra le vie del paesino.
Killian non rispose. Si limitò a premere il pedale dell’acceleratore e a far impennare la moto. Gli piaceva correre su quel veicolo, potenzialmente mortale. Gli piaceva sentire il vento tra i capelli e amava i brividi della velocità. Avere Emma dietro di lui poi, rendeva tutto più magico e surreale.
Arrivarono prima di quanto avrebbe voluto.
Vide Emma scendere dalla moto con grazia e sfilarsi il casco che gli porse gentilmente. Poi gli schioccò un bacio sulla guancia.
«Sta’ attento, capitano! La tua nave potrebbe affondare un giorno di questi…» gridò salutandolo con la mano, prima di entrare in quella che da sempre considerava casa sua.
Killian le riservò uno dei suoi sorrisi più belli e sistemandosi il casco, partì.
 
 
Killian Jones si era da poco trasferito a New York. Dopo aver detto addio alle uniche persone che contavano davvero nella sua vita, aveva bisogno di una boccata d’aria fresca, di cambiamenti e novità, novità che soltanto una grande città avrebbe potuto dargli.
Così, con i soldi messi da parte nel corso degli anni, lasciò Storybrooke, con la chiara intenzione di non ritornarvi mai più. La stessa di chi aveva lasciato quel paesino molto prima di lui.
Chissà come se la stava cavando con il mondo, dispersa chissà dove…
La sua bravura, insieme al suo fascino, l’avevano reso in poco tempo, uno degli architetti più promettenti di New York. Nessuno avrebbe mai scommesso su di lui, sul ragazzo scapestrato dal passato difficile, eppure era lì, ed era riuscito a riscattarsi.
I suoi clienti erano soddisfatti del suo lavoro e Killian ce la metteva tutta per non deluderli, ascoltando pazientemente ogni loro desiderio e prendendo nota dei loro gusti. Poi la sua fantasia e la sua creatività facevano il resto, dando vita a qualcosa sempre nuovo, mai visto, di cui andava quasi sempre fiero. Alle volte gli capitava di lavorare per giorni interi, settimane ad un solo progetto. Voleva che tutto fosse perfetto, che non ci fossero errori da contestare o calcoli errati. Faceva sopralluoghi su sopralluoghi, a volte esasperando gli stessi clienti. Ma per lui era normale: amava avere tutto sotto controllo.
Lavorare gli faceva bene. Non appena varcava la soglia del suo ufficio, tutte le sue preoccupazioni e i suoi dolori più profondi si dissolvevano, lasciando spazio soltanto a concentrazione e perfezione.
Sì, erano questi gli ingredienti basilari del suo lavoro: concentrazione, mente vuota e perfezione.
Aveva acquistato un piccolo studio, al decimo piano di un grande condominio. Era piccolo e perfetto, progettato interamente da lui. Il suo studio fu il primo progetto al quale si dedicò appena arrivato a New York. Ci lavorò per giorni interi perché quello sarebbe stato il suo biglietto da visita, il luogo nel quale avrebbe ricevuto i suoi clienti ed essi si sarebbero fatti un’idea del suo talento.
E doveva ammettere che ci era riuscito più che bene. Killian Jones non era certo avido di complimenti, anzi. Ma, quando entrava nel suo studio, capiva perché, tanti anni prima, aveva deciso di intraprendere quella lunga e tortuosa strada che non sempre era stata tutta rose e fiori.
L’unica pecca del suo piccolo rifugio era la posizione. Non era difficile da raggiungere ma si trovava esattamente di fronte ad una scuola elementare, un grande edificio antico di mattoni rossi e c’era sempre traffico. Le mamme che accompagnavano i bambini a scuola sapevano essere davvero incivili alle volte. Chi parcheggiava in seconda fila davanti all’ingresso del suo studio o chi bloccava il traffico soltanto per controllare che il suo bambino arrivasse integro alla porta di ingresso, proprio come successe quella mattina quando una tipa con un maggiolino giallo aveva bloccato tutto il traffico.
Scusa tesoro, ma non esistete soltanto tu e la tua vistosa auto!
Dio, che vita!
Qualche volta si ritrovava a rimpiangere le strade tranquille e silenziose di Storybrooke, quel pacato senso di immobilità che vi regnava.
New York, al confronto, era una grande bomba ad orologeria, un continuo viavai di gente, cani, giovani, vecchi, bambini, impiegati, donne. Potevi trovarci il mondo a New York. New York era il mondo. E tu, in quella grande insalata etnica, non eri altro che un puntino, un piccolo uomo tra la miriade di gente. 
Aveva bisogno di quel caos, dei rumori del traffico e del viavai della gente per mettere a tacere e riordinare i suoi pensieri, per ritornare ad un normale stato di equilibrio, semplicemente per ricominciare.
Aveva bisogno di quel senso di solitudine e anonimato e allo stesso tempo di quell’unità che soltanto una grande città come New York, avrebbe potuto offrirgli. Lontano dai pettegolezzi di Storybrooke, dalle dicerie, dai suoi sbagli. Lontano, senza più nessun obbligo, nessun legame.
Libero.
Ecco, voleva sentirsi libero, slegato da quei forti vincoli che l’avevano intrappolato nella sperduta cittadina del Maine. Vincoli che avevano il volto e le sembianze di una giovane donna dai lunghi capelli castani e dagli occhi color del ghiaccio. 
Mentre sorseggiava il suo rhum nella tazza di Topolino, sentì il suo telefono vibrare.
Lo estrasse lentamente dalla tasca dei suoi pantaloni e controllò i messaggi.
Due erano della sua segretaria, una tipetta un po’ stramba e ingenua ma sempre disponibile e tanto ordinata.
L’altro era di David.
David Nolan fu la prima persona che Killian conobbe a New York. Quel giorno, di qualche anno fa, si trovava come al solito in un pub, poco distante dal suo nuovo appartamento. Stava sorseggiando la sua birra, guardando attentamente la partita degli Giants contro i Bucs. Le sue conoscenze in merito al football erano piuttosto scarse, non si era mai appassionato molto a dir la verità, ma aveva deciso di cambiare vita no? E quale modo migliore se non quello di imparare a conoscere il più importante e popolare sport americano?
Così, in quel piccolo pub, Killian Jones cercava di seguire una partita, provando a non chiudere gli occhi per più di tre secondi.
L’uomo alla sua destra, invece, era su di giri. Incitava la sua squadra, si disperava quando gli avversari segnavano un punto ed esultava in caso contrario. Killian riuscì a tenersi sveglio, anche e soprattutto grazie alle sue urla, sebbene non avesse ancora ben capito chi tifasse quell’uomo.
A fine partita, quando Killian era al suo terzo boccale di birra, l’uomo, esultante, cominciò ad abbracciare tutti, felice che la sua squadra avesse vinto.
Killian non è di per sé molto incline alle manifestazioni d’affetto, ma con una quantità sproporzionata di alcool in circolo lo era ancora meno. E così, in men che non si dica, si ritrovò a fare a pugni con uno sconosciuto, forse più ubriaco di lui. Il proprietario li buttò fuori non appena notò che la situazione stava degenerando.
Continuarono a lanciare pugni, uno di seguito all’altro, sfinendosi a vicenda e mancandone tre su quattro. Alla fine si accasciarono su di una panchina e si addormentarono profondamente.
La gente che si ritrovava a passare di lì per caso, sorrideva davanti a quello spettacolo. Due uomini grandi e grossi, pieni di lividi e qualche taglio, addormentati uno sulla spalla dell’altro.
Si risvegliarono così, si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere.
Killian quel giorno tornò a casa con qualche livido e un paio di tagli sul labbro ma soprattutto con un amico in più. Un amico che, da quel giorno, lo avrebbe aiutato più di chiunque altro.
La suoneria del suo telefono lo risvegliò da quei ricordi lontani.
«Ehi Jones, sei vivo? Non hai risposto al mio messaggio…»
«L’ho appena letto, amico. Cosa vuoi fare?» chiese un po’ annoiato.
«Voglio uscire Killian, divertirmi! Io, te e Robin come ai vecchi tempi… cosa ne pensi?»
In realtà, Killian avrebbe voluto chiudersi in casa e dormire ma accontentò il suo amico. Era da molto, in effetti, che loro tre non passavano un po’ di tempo insieme e si sarebbero divertiti. Robin era il terzo componente della loro banda di scapestrati. Era un amico di vecchia data di David che si era trasferito a New York con la sua famiglia. Sua moglie aveva una grave malattia e soltanto in una clinica della Grande Mela avevano acconsentito a somministrarle una cura sperimentale che, con un po’ di fortuna e un miracolo, le avrebbe salvato la vita. Purtroppo però, la donna era da poco entrata in coma.
Robin e Marian avevano un figlio, Roland. Il piccolo era un tipo sveglio e Killian si divertiva un mondo con lui, gli ricordava il tempo che, molto tempo prima, aveva passato con altri bimbi della sua età. Un tempo che segnò il primo passo verso la sua rinascita, seppur all’epoca non sapeva ancora cosa farsene della sua vita. 
«Va bene, ci vediamo al solito posto?» chiese, cercando di sembrare più entusiasta di quanto non lo fosse in realtà.
«No, è ora di cambiare! Ti passo a prendere tra un’ora» disse David, riattaccando.
Killian sospirò. Pregò soltanto che i suoi amici non gli avessero organizzato altri appuntamenti al buio, visti i recenti fallimenti. Killian non voleva impegnarsi, non aveva nessuna voglia di sentirsi, ancora una volta, abbandonato. Perché tre donne furono importanti nella sua vita e tutte e tre lo avevano lasciato solo.
Non aveva nessun intenzione di commettere lo stesso errore.
Il suo amico però, aveva voglia di cambiamenti. Aveva appena rotto con la sua secolare fiamma, una certa Kathryn, e voleva divertirsi. Come dargli torto?
Sospirò e continuò a sorseggiare il suo rhum, distratto dal sottofondo della televisione che contribuiva a zittire ogni suo pensiero.
L’ora passò prima che Killian potesse cambiarsi, oppure David arrivò prima di quanto avessero concordato. Killian optò per la seconda opzione, mentre cercava di risistemarsi in fretta e furia la cravatta. Quella sera non si sarebbe cambiato, pazienza. Qualche ragazza gli aveva perfino confessato di trovarlo più affascinante in giacca e cravatta. Prima di chiudersi la porta alle spalle, diede un’occhiata al suo appartamento immacolato. Probabilmente nessuno avrebbe mai pensato che ci vivesse qualcuno, se non per i vestiti nell’armadio e quel po’ di cibo che aveva in dispensa. Sì, avrebbe potuto benissimo appartenere ad un fantasma. E in fondo lui cos’era diventato dopo tutto quel dolore? Un fantasma.
 
Quella sera, dopo tre ore di duro allenamento, Emma trovò qualcuno fuori ad aspettarla. Sorrise incamminandosi verso quella figura oscura, illuminata solo dalla luce di un lampione.
«Hey»
«Hey! Vuoi un passaggio?» chiese porgendole lo stesso casco che aveva indossato qualche ora prima.
La ragazza sorrise e annuì.
Killian partì. Sfrecciò per le strade desolate di Storybrooke, deserte e immerse in un religioso silenzio. Erano solo le dieci e tutti erano già al calduccio nei loro letti, addormentati già da qualche ora.
Emma si strinse alla sua schiena, poggiando la guancia sulla pelle nera del suo giubbotto. Era sudata, avrebbe potuto ammalarsi con quel vento, ma non le importava. Con Killian era al sicuro, dovunque fossero.
Dopo qualche minuto, il ragazzo fermò la moto.
«Perché siamo qui?» chiese Emma, guardandosi intorno e saltando giù dalla sella.
Si trovavano all’entrata del parco di Storybrooke, qualche metro più in là si vedeva il piccolo laghetto, illuminato dalla luce dei lampioni.
Killian scrollò le spalle, aveva solo voglia di passare un po’ di tempo con lei, lontano dagli allenamenti, dai problemi, da Ruby e dal resto del mondo.
«Non vorrai approfittarti di una povera ragazzina indifesa vero?» chiese la giovane, sorridendo e mascherando il suo tono di innocenza.
«Se avessi voluto, l’avrei già fatto mia cara» disse, beccandosi un pugno sul braccio.
«E a quanto pare non sei così indifesa come vuoi far credere, no?»
Scoppiarono a ridere e si incamminarono verso il laghetto, camminando l’uno di fianco all’altro.
Emma gli raccontò ciò che si era perso della sua vita in quei giorni, della nuova coreografia che stavano provando e di quanto le facessero male i piedi.
Killian l’ascoltava, la vedeva ridere, lamentarsi, sognare e una nuova consapevolezza si insinuava nel suo animo, una consapevolezza che lo eccitava e lo spaventava allo stesso tempo.
Voleva dirglielo. Quello era il momento giusto per dirle tutto.
Il parco di Storybrooke sembrava deserto e molto probabilmente lo era, se si escludevano loro due. I lampioni illuminavano il sentiero fino al lago. L’acqua era immobile, placida e silenziosa. La luna, non ancora completa, vi si rispecchiava perfettamente ma in cielo, non c’era neanche una stella.
«Così, quella stronza di Ashley Tremaine ha cercato di soffiarmi il posto…» disse accomodandosi sulla solita panchina, di fronte al lago.
In altre circostanze, Emma non sarebbe mai arrivata fin laggiù da sola, di notte. Anzi, probabilmente l’avrebbe fatto ma non ci sarebbe mai andata senza Killian. Quello era il loro posto speciale, il luogo in cui avevano giocato da bambini, il luogo che solo il bambino dagli occhi color del cielo conosceva e che aveva deciso di condividere con lei, la Bimba Sperduta.
Killian rise e si accomodò al suo fianco. Non riusciva a vederla bene, i lampioni non arrivavano fin lì ma riusciva ad immaginare perfettamente la sua espressione in quel momento.
«Emma, devo dirti una cosa…»
Il cuore cominciò a martellargli nel petto, le mani cominciarono a sudare. La giovane si voltò verso di lui, cercando di incrociare il suo sguardo.
«È successo qualcosa? – chiese preoccupata – t-ti ha fatto del male ancora?»
Killian distolse lo sguardo. Il suo cuore mancò un battito.
«No, lui non c’entra…»
Sospirò.
Lui.
Non ce la faceva a chiamarlo “papà”, non dopo tutto ciò che aveva fatto. Non dopo avergli fratturato due costole, non dopo avergli rotto una bottiglia in testa, non dopo averlo quasi ucciso.
Fortunatamente adesso non poteva più fare del male a nessuno, men che meno ai suoi figli. Quello era stato un brutto periodo, sia per sé che per suo fratello Liam. Ma era riuscito a superarlo, ad andare avanti anche se non avrebbe mai dimenticato. Suo padre era per lui e suo fratello l’esempio da non seguire, l’uomo che non sarebbero mai diventati.
Adesso poteva considerarsi come lei, un orfano.
«Lui non può più farci nulla Emma, lo sai…» disse in un soffio.
«Sì, è vero, hai ragione» rispose la giovane, maledicendosi per aver toccato l’argomento. Sapeva quanto fosse difficile per Killian, difficile era un eufemismo in realtà. Conosceva meglio di chiunque altro i suoi dolori e le sue sofferenze ed era preoccupata per lui.
«Allora, cosa c’è?»
Nominare suo padre gli fece tornare in mente immagini che avrebbe voluto dimenticare, vetri rotti, puzza e stanze bianche di ospedale. Dovette fare uno sforzo inimmaginabile per ritornare alla realtà, per non affogare nei ricordi. Anche se forse, era ancora troppo presto parlare di ricordi.
«Killian, ci sei?»
Emma fu la sua ancora di salvezza anche in quel caso, quel giorno come gli altri.
«Sì, scusa, io…»
Un cellulare vibrò. Emma gli lanciò una breve occhiata di scuse e poi rispose e il suo volto si illuminò. Killian riuscì a vederlo. I suoi occhi divennero piccoli, le sue guance si alzarono e i denti bianchi risplendettero alla luce della luna.
Si alzò in piedi, gironzolò un po’, si risedette. Era euforica.  
Quando chiuse la chiamata, si buttò al suo collo e cominciò a piangere e a ridere e a tirargli dei pizzicotti.
«Emma, diamine, calmati! Cosa è successo? Chi era?»
«Era Turchina, la mia insegnante! Si scusava per l’ora, sapeva che era tardi ma voleva dirmelo il prima possibile e quindi ha provato a chiamarmi e così…»
«Emma, arriva al punto! Che ti ha detto?» disse scuotendola.
«Sono stata presa, Killian! Ho la borsa di studio! Non ci credo! Non ci credo!» disse, saltandogli di nuovo al collo.
Le lacrime punsero anche gli occhi cobalto di Killian, ma il giovane le ricacciò indietro, ingoiando quel grosso malloppo che gli era salito in gola. Si limitò a stringerla e a carezzarle la schiena e ad inspirare il suo profumo.
«Brava la mia piccola ballerina…» disse, dopo che Emma si calmò un po’. Continuava a ridere e piangere contemporaneamente. Cercava di mascherare quanto poteva quella strana sensazione, quella tristezza che gli attanagliava il cuore, sapendo che prima o poi avrebbe dovuto salutarla.
Una parte di lui, sperava che Emma restasse sempre lì con lui. Era da egoisti e lo sapeva, ma non poteva farne a meno. L’altra parte però, quella più razionale, era felice per lei, felice che potesse realizzare il suo sogno e spiccare il volo.
«Sono felice per te!» disse, cercando di convincere anche sé stesso.
«Grazie, di tutto!» gli rispose, scompigliandogli i capelli e continuando ad abbracciarlo.
«A proposito, cosa volevi dirmi?»
«Oh, niente di importante! Lascia perdere!»
Avrebbe dovuto dirle addio, a cosa sarebbe servito rivelarle ciò che realmente provava per lei?
 
 
Aprì la portiera della macchina grigio metallizzato di David e si accomodò sul sedile di pelle.
«Finalmente amico! Credevo sarei morto quaggiù ad aspettarti!» lo prese in giro David. Era impeccabile nella sua solita camicia a quadri e i jeans larghi. Gli davano quell’aria da eterno cowboy. Killian riusciva ad immaginarselo perfettamente con un largo cappello, intento a catturare con un lazzo un cavallo o a cavalcare un toro imbestialito.
Rise scuotendo la testa per cacciare via quell’immagine dalla mente. Chissà, magari se un giorno il suo amico avesse festeggiato un addio al celibato, si sarebbe sicuramente divertito.
«Non è colpa mia se qualcuno è talmente impaziente da presentarsi un quarto d’ora prima del previsto!» sbuffò Killian, aprendo il finestrino.
David non rispose ma Killian notò uno strano fremito. Sì, era decisamente impaziente. La domanda era: perché?
«Robin?» chiese l’uomo, cercando di svelare l’arcano. Doveva essere cauto, indagare senza farsi scoprire; altrimenti David l’avrebbe accusato di volersi immischiare troppo e gli avrebbe intimato di farsi gli affari suoi. Sì, certo.
E poi lui e il suo amichetto, si divertivano alle sue spalle, organizzandogli appuntamenti ed intervenendo deliberatamente nella sua vita privata.
«Ci raggiunge tra un po’…»
L’uomo sbuffò.
«Come le ultime volte!» disse sarcasticamente, aprendo il porta oggetti di fronte a lui.
«Permettimi di ricordarti che ha una moglie in coma e un figlio di quattro anni Jones! E sta’ fermo per l’amor del cielo…» disse chiudendo con un colpo lo sportello.
Fantastico.
Killian avrebbe passato un’altra serata romantica in compagnia di David.
«Vuoi dirmi almeno dove stiamo andando?» chiese annoiato dopo qualche minuto di silenzio.
«Al Blue Mermaid Restaurant»
«Mai sentito nominare» disse Killian, facendo mente locale di tutti i ristoranti che aveva visitato a New York.
«Oh vedrai, ti piacerà Capitano!» rise David, prendendolo in giro.
 
 
 
Buonasera a tutti!! :)
Grazie per essere arrivati fin qui!! Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto!! So che probabilmente vi aspettavate di leggere qualcos’altro ma per andare avanti nella storia, avevo bisogno di introdurre anche il personaggio di Killian.
Anche lui, come Emma ha un passato difficile. E nel presente, il suo miglior amico è niente meno che il nostro bel Principe Azzurro! #CaptainCharmingisTheWay :)
Così come per Emma e Regina, mi sono divertita tanto scrivendo di loro e della loro combriccola!! Soprattutto del primo incontro tra Killian e David xD
Anche in questo capitolo c’è un bel flashback e credo ce ne saranno ancora!
Ringrazio tutte voi che avete recensito il capitolo precedente <3 Grazie, grazie, grazie!! Non mi stancherò mai di dirlo!! Grazie perché sprecate un po’ del vostro tempo per me e questo mi rende davvero orgogliosa!! :D
Grazie anche a tutti voi, che avete inserito la storia nelle varie categorie e a tutti i “lettori silenziosi”! GRAZIE!
Se vi va, fatemi sapere il vostro parere anche su questo capitolo!!
Un abbraccio a tutti,
Kerri :*
 
 
 
 
PS: (SPOILER) Wicked is back, dearie!! Zelenaaa!! Ancora non ci credo! X.X

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Capitolo 4
*** The Blue Mermaid Restaurant ***


3. The Blue Mermaid Restaurant

 
Il ristorante, doveva ammetterlo, era piuttosto carino. Era enorme, una miriade di gente affollava i tavoli, sistemati dappertutto. Le pareti erano di un bel celeste opaco e ad ogni angolo risaltava una pianta differente, somigliante alle alghe del mare. Ma la cosa più originale erano i dettagli: sulle pareti erano appese conchiglie di ogni forma e dimensione, stelle marine dai più svariati colori e fotografie di navi, velieri e di tramonti. Di fronte all’entrata, poco distante dalle cucine, era posizionato un grande acquario che copriva tutta la parete. Vi erano pesci dalle più svariate specie, grandi, piccoli e poi aragoste e granchi giganti. La cosa curiosa però, era che quei pesci non erano lì per essere mangiati.
Killian aveva da sempre amato il mare. Era libero, impetuoso, senza confini. Gli piaceva sentire l’odore della salsedine, camminare sul bagnasciuga, nuotare fin dove il suo fiato glielo permetteva. Prima di trasferirsi a New York, andava spesso in spiaggia per studiare, per schiarirsi le idee o semplicemente per passeggiare in compagnia della sua Milah.
Milah.
L’ultima donna che l’aveva lasciato.
Due anni fa, se n’era andata anche lei.
Il dolore era ancora vivo in lui e dubitava lo avrebbe mai lasciato per sempre. Ma aveva imparato a conviverci, come aveva già fatto in precedenza. Le cicatrici piano piano si erano rimarginate, il tempo era passato, ma non sarebbe mai guarito del tutto.
«Signori, avete prenotato?» chiese una graziosa cameriera dai capelli rossi.
«Sì, a nome “Nolan”»
La giovane controllò il suo taccuino, sorrise e li condusse verso un tavolo appartato, a destra del grande acquario.
 
Storybrooke, Settembre 2003

I giorni passarono prima di quanto Killian ed Emma potessero rendersene conto. I mesi diventarono settimane e le settimane giorni. Facevano finta di niente, come se l’imminente partenza non incombesse su di loro, come se nulla dovesse succedere. Ma non era così e per quanto cercavano di non pensarci, Emma e Killian lo sapevano bene.
Nulla era cambiato però da quel fatidico giorno. Killian continuava ad accompagnarla alle lezioni quasi ogni giorno, in sella alla sua moto. Queste ripresero, ancora più estenuanti di prima. Emma cercava in tutti i modi di non pensarci, qualche volta aveva perfino cercato di evitarlo, per provare ad abituarsi alla sua assenza, ma era più forte di lei. Killian era una calamita. Non passò un giorno in cui non si videro o semplicemente non si scambiarono una telefonata.
Anche quando la ragazza cercava in tutti i modi di non incontrarlo, alla fine cedeva e si presentava a casa sua con una scatola di ciambelle e un film. Il ragazzo la faceva entrare, si accoccolavano sul divano e divoravano i dolcetti, litigando a chi spettasse l’ultimo. Finiva sempre che la dividevano o la lasciavano nella scatola per il fratello di Killian, Liam. Parlavano fino a notte fonda, delle cose più stupide. Commentavano il film, Killian se ne usciva con una delle sue battutine sciocche ed Emma gli rispondeva a tono e continuavano così, finché il telefono di Emma squillava e lei doveva rientrare a casa.
 
«Proprio così, Emma è stata bravissima, è riuscita a progettare e organizzare tutto da sola…»
Regina continuava a elogiarla davanti a quei due sconosciuti ed Emma, che probabilmente aveva utilizzato la voce soltanto per presentarsi, non faceva altro che annuire e abbassare lo sguardo. E arrossire.
Non aveva mai ricevuto così tanti complimenti in una sola sera, per di più da Regina. La donna, in macchina, era stata abbastanza chiara con quel “Lascia parlare me” tant’è che aveva persino deciso per lei cosa ordinare, penne con zucchine e gamberetti, sapendo quanto Emma fosse eternamente indecisa.
Quando erano arrivate, i due uomini erano già arrivati. Si trattava di due fratelli, John e Michael, che avevano ricevuto in eredità un’antica casa vittoriana, piena di mobili e pezzi unici, che desideravano vendere o ristrutturare. Regina, con il suo solito fiuto per gli affari, aveva elegantemente invitato i due a cena, per discutere degli ultimi dettagli, cogliendo l’occasione per presentare loro la nuova direttrice del negozio, colei che si sarebbe effettivamente occupata dei loro oggetti.
«Allora, signorina Swan, siamo molto contenti che sarà lei ad occuparsi della nostra casa… Per noi e nostra sorella quella casa è piena di ricordi d’infanzia quindi, non se la prenderà se vorremmo assistere ai suoi sopralluoghi…» disse, sorseggiando del vino, uno dei due, il più vecchio. John, di regola. Il suo sesto senso l’avvisò che quell’uomo ci stava provando con lei. Una grande scritta rossa lampeggiava nella sua testa: “Pericolo! Pericolo!”
«Certo che no, non darete alcun fastidio!» sorrise Emma, prendendo a sua volta il suo calice e riempendolo con lo stesso liquido rosso scuro.
«Quando potremo cominciare?» chiese, sempre più interessata a quel nuovo lavoro. Adorava le case antiche, le finestre che si aprivano dopo anni, i mobili, le lampade e i lampadari. Adorava ridare vita alle cose vecchie, a quegli oggetti che nessuno avrebbe mai notato. Credeva nelle seconde occasioni.
«Oh, anche domani se per lei va bene, Miss Swan!» rispose l’altro con un sorriso.
«La prego, se dovremmo lavorare insieme, Emma va bene!» rispose, voltandosi verso Regina che le riservò un’occhiata poco amichevole. Quella donna e le sue manie del controllo!
 
Emma sarebbe dovuta partire il 10 Settembre, alle 10.15. Per questo, la mattina del 3 Settembre, Killian si svegliò e passò a prenderla come al solito. Prima di andare a casa sua si fermò perfino da Granny’s, l’unico luogo decente in tutta Storybrooke in cui si potesse acquistare qualcosa di commestibile. Comprò due cioccolate calde e due brioches alla cannella. Sapeva quanto ne andasse ghiotta e avrebbero fatto colazione prima che la lezione cominciasse.
Lasciò la moto poco distante dal piccolo ristorante e si incamminò a piedi verso l’appartamento in cui Emma viveva da un po’ di tempo, insieme alla donna che aveva deciso di prendersi cura di lei.
Suonò il campanello.
«Chi è?»
«Signora, sono Killian. C’è Emma?»
«Ciao caro, no Emma è già andata a lezione, mi dispiace…»
«Oh, va bene, grazie...»
Il ragazzo controllò il cellulare. Erano solo le 8.15, davvero era già lì?
Bevve la sua cioccolata, decidendo cosa farsene del resto della sua giornata. Avrebbe potuto chiamare Eric, William e gli altri, ma non ne aveva voglia.
Erano i loro ultimi giorni insieme, voleva trascorrerli assieme a lei. Così cominciò a bighellonare per le vie di Storybrooke, finché i suoi piedi non lo portarono dove la sua testa e il suo cuore desideravano.
Una musica proveniva dall’interno. Le finestre erano aperte per far fronte agli ultimi giorni estivi dell’anno.
Fu un momento, un istante.
La intravide dalla finestra, con i capelli perfettamente legati in uno chignon e il solito sorriso dipinto sul volto. La vide volteggiare per la sala, libera e bellissima.
Fu in quel preciso istante che Killian capì e realizzò che l’avrebbe persa, che non importava quante promesse o patti avrebbero strinto, il suo cigno aveva spiccato il volo. Senza di lui.
 
Killian si stava annoiando a morte.
Quando David gli aveva proposto di uscire, credeva sarebbero andati in un pub, una discoteca, in qualsiasi altro posto eccetto quello. Non è che non gli piacesse, anzi. Ma era troppo intimo e formale per un tipo come lui, sebbene indossasse ancora giacca e cravatta. Avrebbe preferito passare il venerdì sera in un locale più movimentato, con gente ubriaca, musica assordante e birra.
David aveva un’idea un po’ inusuale del divertirsi, soprattutto dopo essere tornato single.
Avrebbe dovuto fargli un discorsetto.
«David, amico, non fraintendermi, ma…»
«Zitto, Jones! Sta’ giù!» disse mentre faceva cadere di proposito un tovagliolo e abbassandosi per riprenderlo.
Killian alzò un sopracciglio, poi si abbassò, seguendo il suo amico sotto il tavolo.
Seguì lo sguardo di David e finalmente capì.
«Nolan, spero tu stia scherzando!» sussurrò Killian a denti stretti.
«Cosa ci facciamo qui, esattamente?» continuò.
David gli fece segno di stare zitto e fissò di nuovo la coppia appena arrivata.
Kathryn aveva fatto il suo ingresso, assieme ad un altro uomo che Killian non aveva mai visto. La cameriera andò anche da loro e li condusse al tavolo che avevano prenotato, fortunatamente abbastanza distante da quello dei due amici.
Killian si tirò su, sbuffando.
«Se avevi intenzione di portare avanti una missione segreta per spiare la tua ex, potevi avvisarmi! Avrei risparmiato cinquanta dollari!» disse, ritornando a fissare il piatto che aveva ordinato.
David non rispose, si limitò a raccogliere il fazzoletto e sorridere.
Killian pensò che il suo amico avesse dei seri problemi. Aveva appena visto la sua ex uscire con un altro uomo dopo nemmeno una settimana dalla loro rottura e…sorrideva?
«David, tutto bene? So che potrebbe essere difficile all’inizio ma…» disse, poggiandogli una mano sulla spalla.
Oh sì, Killian lo sapeva bene.
«Sta’ tranquillo Jones, sto alla grande!» disse quello, avventandosi sulla sua bistecca. Soltanto David avrebbe ordinato una bistecca in un ristorante così.
«Vedi quello?» disse ingoiandone un pezzo e addentando una patatina.
«È un mio collega. L’ho presentato io a Kathryn!»
«Spero tu stia scherzando! Amico, ti ha sfilato la ragazza da sotto gli occhi!»
«Non hai capito, Jones. Sei sempre così tardo! – sbuffò, ingoiando un altro boccone della sua bistecca - Io li ho presentati perché credevo sarebbero stati perfetti insieme e infatti, guarda laggiù come se la spassano!» disse sorridendo e continuando a masticare, indicando la coppietta felice.
Killian scoppiò a ridere. Quello era veramente il colmo!
«Scusa ma se volevi lasciarla, perché mettere in scena tutto questo teatrino? Pensavo che ci fossi rimasto seriamente male!»
«Non sono insensibile come te, Jones! Non volevo ferirla!» borbottò.
«Tra me e Kathryn era finita da un pezzo! Ormai stavamo insieme più per abitudine che per amore e quando i miei genitori mi hanno chiesto di sposarla, io non ce l’ho fatta più…» si spiegò l’uomo.
«Io voglio sposarmi per amore, non per soldi, abitudine o altro!»
David era un eterno ottimista e Killian doveva ammettere che qualche volta gli faceva bene abbandonare per un po’ la sua cinica visione del mondo, per abbracciare la sua. Quella volta però, aveva un po’ esagerato. 
L’uomo rise sotto i baffi per un altro po’.
«E di grazia, potrei sapere perché siamo qui stasera?» chiese, divertito. Sembrava proprio una missione segreta.
«Ma non capisci proprio niente?! Ho organizzato io anche questo, anche se loro non sanno niente. Credono che la Jones Enterprise li abbia scelti per una cena gratuita in questo posto…»
«Cosa?» tuonò Killian, alzando un po’ la voce.
«Cosa?» ripeté a denti stretti, notando che si erano voltati tutti verso di loro.
«Prima di tutto, non esiste nessuna Jones Enterprise e secondo, quando avresti voluto dirmelo? Pagherai tu, vero?»
«Certo che no! Guarda come sono felici! Hai contribuito alla loro felicità e alla mia! Sii felice anche tu!» disse, dandogli una pacca sulla spalla.
«Nolan, ti giuro che questa me la paghi!» borbottò addentando l’ultimo fusillo.
 
Emma sarebbe dovuta partire il 10 Settembre, alle 10.15. O almeno così aveva detto a Killian. Non riusciva neanche a spiegarsi perché gli avesse mentito, perché non gli avesse semplicemente detto la verità. L’avrebbe accompagnata all’aeroporto, così come aveva promesso e si sarebbero salutati, ripromettendosi di sentirsi presto. Sì, sarebbe dovuta andare così.
Ma allora perché gli aveva mentito? Perché illuderlo che avevano ancora del tempo, quando il loro tempo era ormai scaduto?
Non riusciva a spiegarselo, finché non lo vide.
Eccolo lì, il suo migliore amico, impalato di fronte a lei, con il suo solito sorriso da togliere il fiato e un bicchiere di cioccolata calda ormai freddo e una brioche mezza mangiucchiata tra le mani. Il cuore cominciò a batterle all’impazzata e capì che non si trattava dello sforzo fisica appena compiuto.
«Ciao»
La verità le si rivelò, chiara come non mai.
Semplice.
Non aveva voluto illudere lui, ma sé stessa. Non era lui che non si sentiva pronto alla partenza, alla lontananza, alla loro imminente separazione.
Era lei.
Era lei che non riusciva ancora ad accettare che avrebbe dovuto lasciarlo, che non lo avrebbe più rivisto e non avrebbe ascoltato più la sua voce o la sua risata così spesso.
Per tutti quei mesi aveva cercato di convincere sé stessa del contrario, che sarebbe andato tutto bene e che ce l’avrebbe fatta. Ma in quell’istante capì.
Era lei che non aveva ancora realizzato che avrebbe dovuto lasciarlo.
Era lei che non voleva lasciarlo.
Aveva paura, troppa.
Diamine, aveva diciassette anni!
In quell’istante, tutte le sue certezze tremarono e i suoi sogni perfetti si creparono.
Per un secondo, pensò seriamente di rifiutare quella borsa di studio, di restare lì, per sempre.
Fu solo un secondo, un battito di ciglia.
Realizzò, per la prima volta nella sua vita, che Killian Jones non era soltanto un amico per lei, non più almeno.
Non le sarebbe mai passata per la testa l’opzione di restare, se fosse stato ancora così.
No, i suoi sentimenti andavano ben oltre l’amicizia e l’amore fraterno, quegli stessi sentimenti che l’avevano trasformato di colpo in una valida ragione per restare, per sopportare ancora quel piccolo paesino, per rinunciare a tutti i suoi sogni.
Ma non poteva permetterlo.
Non poteva rinunciare a tutto, non poteva rivelargli tutto perché era convinta che non avrebbe potuto funzionare e per quanto lo desiderasse, non poteva semplicemente portarlo con sé.
Si ritrovò a scegliere tra lui e il suo sogno, tra l’amore che provava per lui e quello che provava per la danza. Perché era così difficile? Perché non poteva semplicemente averli entrambi?
No, per Emma Swan nulla era mai facile, nulla era mai dato per scontato. Non potevano esserci vie di mezzo, nessuna zona grigia.
Doveva scegliere: bianco o nero.
Scelse.
Fu guardando i suoi occhi color del cielo che si convinse che sarebbe stato meglio per entrambi, non sentirsi più.
Fu guardando l’unica ragione che aveva per restare che si convinse a partire.
 
«Bene, signori, per noi ragazze è ora di tornare a casa! Vi ringrazio per la vostra gentilezza…» disse Regina, alludendo all’insistere dei due signori di pagare il conto e cercando di scappare da quel locale il più presto possibile. Ormai era arrivata al limite massimo della sopportazione. Quei due, le stavano diventando sempre più antipatici.
«È il minimo signorina Mills» dissero in coro i due fratelli, infilandosi il cappotto. Regina stirò il suo viso in un sorriso, completamente falso.
«Signorina Swan, noi ci vediamo domani a mezzogiorno!»
«Non mancherò!» rispose Emma con un sorriso.
«Se ha qualche problema nel trovare la casa, ha il nostro numero di telefono oppure può…»
«Non si preoccupi, signor Darling. Sono piuttosto brava nel trovare le persone! O le case…»
Emma sorrise ancora, prendendo le sue cose e voltandosi verso Regina. Sapeva che la donna non avrebbe resistito per altri cinque minuti con quei due, quindi si sbrigò il prima possibile e uscirono, immergendosi nella fresca notte autunnale di New York.
 
Quella sera, gli scrisse una lettera. Cercò di spiegargli perché avesse agito in quella maniera, perché non si fosse neanche degnata di salutarlo. Probabilmente tradì perfino sé stessa, rivelandogli i suoi veri sentimenti. Ma non le importò.
Voleva che sapesse tutto, che per quanto meschina e ignobile fosse, lui capisse e la perdonasse.
Pensava davvero ciò che scrisse in quella dannata lettera e tante volte cancellò, riscrisse e ricancellò daccapo.
Sapeva quanto dolore gli stava infliggendo, ma sarebbe stato meglio per entrambi.
Avrebbero soltanto sofferto, si sarebbero soltanto fatti altro male. Sarebbero per sempre stati legati ad un’idea, ad una speranza di rincontrarsi magari un giorno. E nel frattempo si sarebbero costruiti un’altra vita, con altre persone e altri amici, allontanandosi sempre di più, diventando estranei.
Avrebbero soltanto sofferto di più.
Quello era l’unico modo. Avrebbero sofferto soltanto una volta. Come si strappa un cerotto, velocemente e stringendo i denti.
Nel cuore della notte, poco prima dell’alba, finì di scrivere. Piegò il foglio e lo ripose in una busta. Adesso doveva soltanto trovare il modo di dargliela.
 
«Jones, ho pagato il conto!» disse David con un sorriso, ritornando nel suo campo visivo.
«Con quali soldi, Nolan?» chiese, irritato.
«Oh, sei ancora arrabbiato?» sbuffò.
In quel momento, qualcuno uscì dal locale. Due uomini, una donna mora e una bionda.
Killian si fermò a guardare l’ultima figura. Quel suo modo di camminare, quelle gambe lunghe e slanciate, quei capelli ondulati e di tutte le gradazioni del giallo. Per un attimo pensò fosse lei, poté perfino giurarlo.
«Killian? Ci sei?»
David lo scosse e l’uomo ritornò in sé, fissando i suoi occhi blu in quelli del suo amico.
«Stavi dicendo?» chiese.
Nolan scoppiò a ridere.
«Conosco quello sguardo, Jones! Hai qualcosa in mente!»
Killian alzò un sopracciglio, grattandosi la nuca. L’unica cosa che aveva in mente in quel momento era una bella birra ghiacciata. Poi avrebbe pensato al resto. Abbassò lo sguardo e notò uno strano luccichio ai suoi piedi.
Si chinò e raccolse quel piccolo ciondolo.
Era un medaglione argentato con al centro inciso un piccolo cigno.
Che coincidenza.
«Guarda David!» disse, mostrando l’oggetto all’amico.
«Bello, hai trovato cosa regalerai per Natale alla tua nuova fiamma!»
Killian sbuffò, si infilò il ciondolo in tasca e lo spinse fuori dal locale.
Per una frazione di secondo, valutò realmente le probabilità che quella donna potesse essere lei. Non la vedeva da dodici anni o poco meno, per quello che ne sapeva poteva benissimo essersi trasferita in Irlanda, tinta i capelli e aver cambiato nome.
No, Killian non credeva nelle coincidenze e tantomeno nel destino. Eppure...
«Adesso, amico, andiamo in un vero locale!» rise, mettendo da parte il ciondolo e rubando le chiavi dell’auto di David, infilandosi al posto del guidatore.
David gli doveva più di un favore e guidare la sua auto era un prezzo che avrebbe dovuto sopportare.
 
Uscì di casa alle sei meno un quarto. Scansò tutte le valigie aperte sul pavimento, cercando di non far rumore, si richiuse la porta alle spalle. Si incamminò verso il suo piccolo appartamento, quello che gli assistenti sociali avevano affidato alla loro famiglia.
Non era molto vicino ma Emma avrebbe potuto percorrere quella strada ad occhi chiusi.
Arrivò prima di quanto avrebbe mai desiderato. La lettera bruciava tra le sue mani, troppo sudate.
Era davanti al portone. Avrebbe potuto semplicemente imbucarla nella cassetta delle lettere ma sapeva che così non l’avrebbe mai letta.
Fece due passi avanti.
Prese la chiave di riserva da dietro un albero lì vicino (Killian credeva che nasconderla sotto il tappeto fosse troppo scontato) e poi fece per tornare indietro.
No, gli doveva una spiegazione.
Fece un profondo respiro e si intrufolò in casa, sentendosi, per la prima volta nella sua vita, una ladra e non la benvenuta.
Killian in genere aveva un sonno molto pesante e raramente si svegliava di notte. Bene, quello era un punto a suo favore.
Salì le scale, in punta di piedi. Le prime luci dell’alba cominciavano ad illuminare l’appartamento, facilitandole il compito.
La prima stanza sulla destra era il bagno, poi c’era la camera di Liam e di fronte, ecco la sua stanza.
La porta era socchiusa. Emma sbirciò dentro e notò il suo corpo, il suo torace alzarsi e abbassarsi ritmicamente, una mano completamente abbandonata sul cuscino e l’altra che penzolava dal letto.
Si concesse di sorridere, tristemente.
Poggiò la lettera sul comodino. Si guardò intorno per l’ultima volta. Nonostante fossero lì da qualche mese, il ragazzo era riuscito a dare personalità alla stanza, la sua. Fissò le foto attaccate al muro, qualcuna con i suoi amici, una con suo fratello e sua madre, le altre con lei.
Si concesse per un’ultima occhiata al ragazzo, dormiva beatamente, inconscio di tutto.
Mi dispiace, Killian.
Chiuse la porta e uscì.
 
I due uomini si congedarono non appena furono usciti. Un taxi li aspettava poco lontano da lì, così Emma e Regina si incamminarono verso l’auto di quest’ultima.
«Merda Regina, ho perso il ciondolo che mi ha regalato Henry!» disse la bionda, portandosi la mano sulla fronte.
Di solito, mentre pensava, stringeva tra le mani quel piccolo ciondolo che suo figlio le aveva regalato qualche anno prima, ovviamente con l’aiuto di Regina. Ci giocherellava quando era sovrappensiero, quando era nervosa e voleva sfogarsi o quando i clienti ci mettevano troppo tempo per scegliere cosa desiderassero.
«Swan! Sei un caso perso!» asserì la mora, aprendo lo sportello della sua auto e gettando la borsa sui sedili posteriori.
«E adesso?! Potrei ritornare e chiedere se qualcuno l’ha trovato al ristorante!»
«Sì, potresti. Ma sono stanca, quei due deficienti non la smettevano di parlare e ho dovuto mantenere per bene tre ore la mia maschera da perfetta gentildonna, quindi se adesso non ti dispiace vorrei andare a dormire! E a meno che tu non voglia tornare a casa in taxi, a piedi o facendo l’autostop come una sgualdrina, ti consiglio di infilarti in auto».
Emma sbuffò, cercò di ribattere ma Regina la fulminò con lo sguardo. Avrebbe dovuto dire addio al suo amato ciondolo.
«Regina, per l’amor del cielo, rallenta! E’ giallo, non ce la farai mai!» asserì la giovane Swan quando arrivarono ad un semaforo poco più avanti e fissando il tacco di Regina conficcarsi sull’acceleratore.
Non appena Emma finì di parlare, scattò il rosso. Regina frenò e le due donne furono sballottolate in avanti.
«La prossima volta, guido io!» disse Emma, ringraziando mentalmente la sua coscienza che le aveva suggerito di mettersi la cintura.
Regina non rispose, si limitò a mandarle un’altra occhiata sprezzante e ticchettare con le sue unghie rosso fuoco sul volante come se non avessero appena rischiato la vita per colpa sua.
Emma sospirò e si voltò verso il finestrino. Accanto alla macchina rossa di Regina, ce n’era una grigia. La donna fissò l’uomo alla guida, chiedendosi chi fosse. Sembrava sorridere, probabilmente tornava a casa dopo una lunga giornata di lavoro. Emma non riuscì a vedere se ci fosse qualcun altro in macchina con lui, probabilmente sì, visto che adesso l’uomo sembrava stesse parlando.
Poi scattò il verde e Regina continuò la sua folle corsa verso l’appartamento di Emma. L’auto grigia svoltò a destra ed Emma si chiese se quell’uomo sorridente fosse felice e sperò con tutto il cuore che lo fosse.
La spaventava la casualità di tutto, come delle persone che per lei avrebbero potuto essere importanti, le passavano accanto e se ne andavano. E lei faceva altrettanto. E se quell’uomo si fosse presentato al suo negozio? Probabilmente non l’avrebbe riconosciuto, probabilmente l’avrebbe dimenticato quella sera stessa. E se quella persona fosse diventata importante nella sua vita? Non sapeva neanche il suo nome e presto si sarebbe dimenticata persino della sua esistenza.
Ecco, questo la spaventava.
Come delle persone potessero essere dimenticate così facilmente. Lei non aveva mai dimenticato. Gli altri, forse, avevano dimenticato lei.
 
 
 
 
 
 
 
Ok, non mi uccidete! ^^”
Lo so, lo so che non è quello che vi aspettavate! In realtà ero talmente indecisa su questo capitolo, ma alla fine ho deciso di lasciarlo così. Non è ancora giunto il momento per il grande incontro e a mia discolpa, vorrei citare una frase di un libro che ho amato e che consiglio a tutti voi di leggere:
 
“Ormai i giochetti di prestigio volgono al termine, ma non la lotta.
In una mano tengo Liesel Meminger, nell’altra Max Vandenburg. Presto li sbatterò assieme: concedimi ancora qualche pagina”
“Storia di una ladra di libri”  ̴ Markus Zusak
 
Bene, io ho in una mano Emma e nell’altra Killian e presto li sbatterò assieme!
I due sono stati molto vicini oggi, così come in passato (nei capitoli precedenti, forse qualcuno non l’ha notato ^^”), si sono sfiorati ma non si sono mai scontrati! Per ora!
E alla fine, è ciò che avevo scritto nella breve introduzione: “Il destino si prenderà gioco di loro”
Beh, io sono il destino xD
Non me ne vogliate, spero che, nonostante tutto, anche questo capitolo vi sia piaciuto! :)
Come sempre ringrazio tutti voi che siete arrivati fin qui, senza ancora mandarmi da qualche parte a farmi un giretto O:)
E tutte voi che continuate a lasciarmi una recensione che mi rende felice ogni volta! GRAZIE!
Spero di avervi incuriosito almeno un po’, sarei ben felice di sapere cosa pensate anche di questo capitolo!
Ah, dimenticavo.
Per le ultime riflessioni di Emma (per chi non l’avesse capito, quell’uomo era Killian! Lo so, sono crudele! Mi dispiace! xD) ho preso spunto da un altro libro che ho letto, “Un giorno questo dolore ti sarà utile” di Peter Cameron. È molto carino, vi consiglio anche questo!
Non si è capito proprio che ho una fissazione per i libri vero? Ahahah
Credo che troverete spesso qualche citazione qui e lì, spero vi piaccia!
Adesso la smetto, altrimenti divento paranoica/logorroica e mi mandate davvero una spedizione punitiva sotto casa!
Al prossimo capitolo (sarà la volta buona?)
Un abbraccio a tutti
La vostra,
Kerri 

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Capitolo 5
*** Don't leave me out in the cold ***


 4. Don’t leave me out in the cold 
 

Hold me please
I need you to see who I am
Open up to me
Stop hiding from me
It's hurting me
Only you can stop the pain
Don't leave me out in the cold
Don't leave me out to die
I gave you everything
I can't give you any more
Now I've become just like you
[…]
Now I’m dead inside.
(“Dead inside”-Muse)
 
Storybrooke, 15 Ottobre 2003
 
Cosa credevi di fare? Di potertene andare così, in punta di piedi, senza fare rumore? Credevi davvero che avrei potuto dimenticarti così in fretta? Come se tutti questi anni fossero scomparsi? Come se tutto quello che abbiamo passato non sia stato niente?
Emma io non posso dimenticarti.
Non voglio farlo.
Mi chiedi qualcosa che non posso prometterti.
Perché la sento la tua mancanza, Emma, e la sentirò per sempre. Adesso è rumorosa, mi si appiccica addosso e difficilmente si lava via. Ci ho provato, Emma. Ho provato a rinchiuderti in fondo al cuore o da qualche parte, ma salti fuori all’improvviso, libera e ribelle e bellissima come sempre. Chissà se prima o poi, questo rumore sordo si affievolirà, chissà se resterà soltanto un flebile brusio un giorno.
La sento la tua mancanza Emma e mi attraversa le ossa, lo stomaco, la mente. Ogni giorno, ogni maledettissimo giorno c’è qualcosa che mi ricorda te. Il sole, con la sua luce dorata, dello stesso colore dei tuoi capelli. Come è possibile che brilli ancora se tu non sei più qui?  
La sera, quando soffia il vento, nell’aria c’è lo stesso tuo profumo.
E vani sono stati i miei tentativi di far credere al mondo che sto bene, che sono forte e posso farcela. La verità Emma è che ti sei portata via anche una parte di me, quel giorno. E non rispondi, non so dove tu sia, non mi chiami e io resto qui, resto qui con le mani in mano, sperando ancora che ti ripresenti, una sera, con una scatola di ciambelle, costringendomi a rivedere Harry Potter e la Camera dei Segreti, per la quattro centunesima volta.
Chi sono, Emma?
Chi è Killian Jones?
Il mascalzone, l’ubriacone, il dongiovanni da quattro soldi.
O il ragazzo altruista, sempre pronto ad aiutare gli altri di cui tu parlavi?
Chi hai amato Emma?
Dimmelo, ti prego. Ho bisogno di te per capire chi sono, perché io non lo so più. Non so più chi voglio essere.
Smettila di nasconderti, Emma, mi fa male e so che anche tu stai soffrendo. Solo tu puoi fermare il dolore.
Ho bisogno di te. Tu eri la mia famiglia, ma non sei più qui.
 
 
 
Killian Jones e David Nolan, dopo aver lasciato il ristorante, si diressero verso il pub nel quale si incontrarono la prima volta. Robin aveva mandato loro un messaggio, dicendo che non ce l’avrebbe fatta neanche quella sera a raggiungerli. Tipico.
Dopo un paio di birre, o forse qualcuna in più, la situazione si era fatta calda. Molto calda. Bollente quasi.
Killian come al solito, aveva conosciuto una ragazza che, dopo neanche due parole, era letteralmente caduta ai suoi piedi. Si stavano divertendo, molto, finché David lo richiamò all’ordine. La sua partita era finita e voleva assicurarsi che Killian tornasse a casa, altrimenti sarebbe rimasto a dormire da lui. Perché questo pensiero paterno, poi? Probabilmente anche il suo amico ci era andato giù pesante con la birra. 
Killian valutò quell’ultima opzione, rabbrividendo. David, un’intera notte, a casa sua. No, grazie.
Così a malincuore, dovette staccarsi da quella graziosa biondina, lasciandole il suo biglietto da visita.
Quando l’uomo cercò di chiamargli un taxi, considerando che non avrebbe potuto guidare in quelle condizioni, David cominciò a ridere e a piangere contemporaneamente, blaterando qualcosa sul “Vero Amore” e su “quei gran bastardi dei Bucs”. Fantastico, era andato, l’aveva perso. L’alcool era ormai entrato in circolo. Probabilmente in quelle condizioni, non avrebbe raggiunto neanche il portone del suo appartamento.
Così non poté fare altro che trascinarlo verso casa sua e una volta arrivati, stenderlo sul divano.
Avrebbe dovuto ricordarselo, David non reggeva molto bene l’alcool a differenza sua.
Andò a prendergli una coperta di lana e lo coprì. L’uomo dormiva già profondamente e sembrava anche piuttosto felice. Beato lui.
Lasciò il suo amico in salotto e si diresse verso la sua camera. Finalmente si tolse quella cravatta troppo stretta che indossava da tutto il giorno e si spogliò, infilando i pantaloni della tuta grigi e la solita maglietta nera con i quali dormiva. Si ricordò del piccolo ciondolo con il cigno e lo tirò fuori, accarezzandolo con il pollice. Chissà quale era la sua storia.
Lo poggiò sul comodino, accanto ad un grande vaso. Fissò per un momento quello strano quadretto, poi il suo sguardo cadde su un pezzo di carta, piegato a metà nel cassetto. Lo prese e lo esaminò. La carta era diventata quasi gialla col tempo ma le parole, le cancellature erano sempre lì, vivide e affilate come non mai.
Avrebbe dovuto buttarla, sbarazzarsene, bruciarla anni prima.
E invece eccola lì, nel suo comodino, accanto alle cose più care che aveva. La fissò per un po’ e poi la rimise al suo posto, accanto ad un ciondolo da pirata, una fotografia, un cigno e le ceneri della sua Milah.
 
 
Storybrooke, 24 Dicembre 2003
Cazzo.  
Killian che cazzo stai facendo?
Riusciva a sentirla la sua voce, così nitida e perfetta, quasi avesse potuto toccarla, quasi come se lei fosse stata veramente lì, accanto a lui.
Killian, riprenditi! Prendi in mano la tua vita, non lasciarti morire.
Perché era questo che stava facendo, questo ciò che lei gli aveva fatto. Ormai mangiava poco e niente, qualche hamburger e patatine fritte ma beveva, beveva a tutte le ore del giorno e della notte. Rhum, birra, vino, cognac, whisky, tutto ciò che avrebbe potuto stordirlo, che avrebbe potuto fargli dimenticare quel dolore lancinante all’altezza del cuore.
Ma non se ne andava, lo accompagnava per tutto il giorno, perfino la notte, nei suoi incubi.
Non aveva sue notizie da 111 giorni.
Guardò l’orologio distrattamente, tra un conato di vomito e l’altro e notò che la mezzanotte era ormai passata.
112.
Buona Vigilia di Natale, Emma.
La prima senza i nostri maglioni rossi, senza la tua cioccolata alla cannella, senza i tuoi biscotti, senza i tuoi regali strani, senza la tua voce. D’istinto accarezzò il piccolo ciondolo che portava al collo.
La prima di una serie.
Buona Vigilia di Natale, Emma.
Si accasciò sul lurido pavimento di quel bagno e si prese la testa tra le mani.
Cosa stava facendo?
L’acidità di quello che aveva rimesso gli entrò nelle narici e gli perforò il cervello. Si asciugò il velo di sudore che gli aveva coperto la fronte e delle lacrime salirono a pizzicargli gli occhi.
Questa volta non le fermò.
Per la prima volta dopo settimane, accasciato sul pavimento di un pub da quattro soldi, si concesse il lusso di piangere, di mostrarsi fragile.
Quelle piastrelle sporche furono testimoni delle sue prime lacrime dacché Emma se n’era andata.
Prima c’era stata la rabbia, la frustrazione, l’indifferenza, la nostalgia. E adesso, solo lacrime.
Cosa stai facendo Killian? Lei non sarebbe fiera di quello che sei diventato.
Sì, ma lei non c’era più.
 
Quando varcò la soglia del suo appartamento, Emma poté fare la cosa che più desiderava fare dacché lo aveva lasciato: togliersi quelle maledette scarpe.
Le scalciò via, giurando a sé stessa che non le avrebbe più indossate e si tolse la giacca. Si incamminò scalza verso la cucina, controllando che non ci fosse niente di rotto e che suo figlio non avesse combinato nessun danno. Notò che c’erano delle briciole sul bancone e un cartone della pizza vuoto. Sorrise e prese un po’ di latte dal frigo. Lo scaldò nel microonde e ci aggiunse un cucchiaino di miele.
Compiva quell’operazione quasi ogni sera. Il latte caldo riusciva a riscaldarle la gola e il corpo, facendola rilassare e dormire meglio.
Portò la tazza bollente di sopra, stando ben attenta a non fare rumore per non rischiare di svegliare suo figlio. Appoggiò la tazza sul comodino e andò a controllarlo.
Socchiuse la porta della sua camera e notò che l’abat-jour era ancora accesa. Basita, entrò, pronta a sgridarlo per aver fatto così tardi, sebbene l’indomani non sarebbe andato a scuola.
Lo spettacolo che le si parò davanti però, era tutto eccetto ciò che si era aspettata.
Henry si era addormentato con la luce accesa, mentre leggeva un grande libro. Emma sorrise e in punta di piedi, gli rimboccò le coperte e gli sfilò il libro. Gli diede un bacio sulla fronte e spense la luce, chiudendosi la porta alle spalle.
 
Non riuscì mai a dire quanto tempo avesse passato in quel bagno. Forse due minuti, forse tre ore.
Seppe soltanto che, quando varcò la soglia di quel pub, con la testa pesante e le gambe molli e ancora lacrime secche sulle guance, non era più lo stesso Killian Jones che vi era entrato.
 
 
Killian Jones aprì gli occhi, risvegliato dal forte aroma di caffè che proveniva dalla cucina. Per un attimo si chiese chi fosse la ragazza di quella sera e perché era stata così insolente da alzarsi e frugare nella sua cucina, poi si ricordò che era soltanto David.
Guardò l’orario e si alzò, camminando scalzo e dirigendosi verso il bagno, ma non appena uscì dalla sua camera, si trovò davanti un David alquanto disorientato. Tutto normale, dopo una sbronza come la sua.
«David, amico, ti prendo un’aspirina?» chiese Killian, sorridendo sotto i baffi.
«Sì grazie. E non ridere, non c’è assolutamente niente da ridere… Dio, mi scoppia la testa…» disse l’uomo, massaggiandosi le tempie. Era bianco come un lenzuolo e delle pesanti occhiaie violacee gli incorniciavo gli occhi blu.
«Comunque lì c’è il caffè. Ho consumato le tue ultime scorte, probabilmente era persino scaduto…» disse David, superando di corsa il suo amico e dirigendosi in bagno a vomitare. Non si sa se per l’alcool o il caffè.
Fantastico.
Avrebbe passato il sabato mattina a fare da balia al suo amico. Cosa si potrebbe desiderare di più dalla vita?
Borbottando si versò l’ultimo goccio di caffè e continuò a sorseggiarlo, chiedendosi cosa avrebbero fatto quel giorno. Probabilmente sarebbero andati da Robin e Marian all’ospedale, per tirare un po’ su il morale del loro amico e del suo piccolo bimbo. Si consideravano un po’ i pagliacci dell’ospedale. Quando arrivavano, tutti i bimbi ricoverati e non, correvano loro incontro. All’inizio erano soltanto gli amichetti di Roland, poi la voce si era sparsa per tutto l’ospedale e sebbene qualche infermiera non li vedesse di buon occhio, David e Killian si divertivano un mondo insieme a quei piccoli birbanti.
Con la tazza ancora in mano, si diresse verso il suo laptop per controllare le ultime mail. Il sabato mattina, di solito, non aveva nessun appuntamento e l’ufficio restava chiuso.
La prima mail lo informava che il suo ultimo cliente era stato molto felice del suo lavoro e avrebbe finito di pagare entro la prossima settimana.
Le altre erano per lo più pubblicità e siti di design a cui era iscritto. Voleva mantenersi sempre al passo con la moda, le ultime tendenze e cercava di leggere qualsiasi cosa che avrebbe potuto essergli utile.
Dopo una ventina di minuti, David si decise ad uscire dal bagno.
«Jones, mi sono fatto la doccia. Ho usato il tuo accappatoio e ho preso questa felpa dal tuo armadio…»
«Sì, Nolan, fa’ pure, è casa tua no?» disse Killian, irritato. Quell’uomo stava volontariamente invadendo la sua privacy, contribuendo ad accrescere la sua tipica irascibilità mattutina.
«Oh, andiamo! Piuttosto che facciamo oggi?» chiese David che dopo un’aspirina e una bella doccia fredda era ritornato nel pieno delle sue forze. O almeno, così voleva far credere. 
«Possiamo farci un giro in bicicletta, andare in palestra, all’ospedale…» elencò l’uomo, contando le varie opzioni sulle dita di una mano.
Killian non gli stava prestando molta attenzione. Sentiva il suo cellulare vibrare ma non aveva idea di dove lo avesse lasciato.
«Jones, mi ascolti?»
«Zitto!» disse l’uomo, alzandosi dal divano e notando che l’apparecchio si trovava esattamente sotto di lui.
Rispose, senza neanche controllare chi fosse.
«Dottor Jones, buongiorno!» lo salutò una voce familiare.
«Buongiorno signorina Blanchard, a cosa devo l’onore?»
La donna proruppe in una risatina imbarazzata.
«Mi dispiace disturbarla di sabato mattina, so che di solito l’ufficio è chiuso ma credo che debba sapere una cosa il prima possibile…»
«Mi dica, signorina Blanchard, è successo qualcosa?»
«Ha ricevuto un’altra proposta Jones, una proposta che non potrà rifiutare!»
 
Il giorno dopo, il giorno di Natale, si recò alla mensa dei poveri, dove Emma serviva pasti caldi ogni volta che aveva del tempo libero, quando ancora viveva lì. Era incredibile che trovasse del tempo anche per quelle persone, con tutti gli impegni che aveva. Ma, in qualche modo, riusciva a conciliarli tutti e ogni due domeniche andava lì, indossava l’orribile cuffietta a righe e serviva a quelle persone un piatto caldo e uno dei suoi luminosi sorrisi.
La sua amica aveva insistito così tante volte perché la accompagnasse ma lui aveva sempre declinato l’invito, alle volte inventando scuse, altre dicendole semplicemente che non credeva che un piatto di zuppa potesse cambiare il mondo. Emma non replicava, non l’aveva mai costretto ma i suoi occhi riflettevano tutta la delusione che provava in quei momenti di fronte alla sua testardaggine.
Ora, guardando tutte quelle persone che forse non avevano neanche una casa, capì che aveva torto. Soltanto i loro sorrisi, a volte quegli sdentati degli anziani, altri quelli contagiosi dei bambini, gli riscaldarono il cuore. E capì che sì, un piatto di zuppa e un sorriso potevano cambiarlo veramente il mondo.
Gli fecero indossare uno stupido cappello rosso da Babbo Natale, ma lui non replicò. Qualcuno si ricordò perfino di lui, o meglio della sua moto, per esser andato a prendere Emma qualche volta, dopo il suo turno. Le chiesero come stesse la biondina dal cuore d’oro e per la prima volta dopo tanto tempo, non fu difficile nominarla. Non fu difficile mentire, sì l’ho sentita proprio ieri, è tutto ok, si trova benissimo anche se, sapete, all’inizio è dura, non fu difficile far finta che facesse ancora parte della sua vita, che non se n’era andata, non lasciandogli nient’altro se non un pezzetto di carta.
Passò la giornata a giocare a bingo e a carte o a disegnare con i piccoli bimbi.
Avrebbe voluto fare di più per loro.
Tornò lì anche il giorno dopo e quello dopo ancora. Per la prima volta nella sua vita, si sentiva utile, si sentiva al suo posto.
 
Emma si era alzata di buon ora, questa volta un po’ più di buonumore rispetto al giorno prima. Andò di sotto a preparare la colazione per suo figlio, eccitata per il sopralluogo di quella mattina. Avrebbe chiesto ad Henry se voleva accompagnarla, il suo lavoro le piaceva molto di più se c’era suo figlio assieme a lei.
I due avevano un istinto e uno spirito avventuroso non attribuibile a tutti. Henry riusciva a notare sempre i dettagli più belli, un pomello d’argento finemente decorato, un piccolo specchietto conservato in uno dei tanti cassetti vuoti, delle vecchie fotografie da incorniciare.
«Buongiorno ma’!» la salutò il suo non più tanto piccolo, ometto.
«Che profumo!» disse, leccandosi le labbra, pregustando già tutte quelle prelibatezze.
«Ciao tesoro, dormito bene?» chiese Emma, versandogli del latte in una tazza, controllando sempre con la coda dell’occhio le frittelle.
Il bambino annuì, prese la sua tazza e si posizionò al bancone, aspettando la sua colazione. Emma sorrise, gli mise un paio di frittelle in un piatto e glielo passò. Poi prese la sua tazza di cioccolata calda e si sedette difronte a lui.
«Mamma, le tue frittelle sono fantastiche!» mugugnò Henry, con la bocca ancora piena.
Emma sorrise. Quando si traferì a New York, cucinare non era davvero il suo forte. Poi però, aveva dovuto adattarsi e fortunatamente la sua ex coinquilina era un’ottima cuoca.
Sorseggiò un goccio di cioccolata, ovviamente con un pizzico di cannella, prima di proporre ad Henry di passare la giornata insieme. Ovviamente il bambino accettò, più che felice di passare un po’ di tempo con sua madre.
«Perfetto, allora vai a prepararti! Dobbiamo partire presto perché la casa non è esattamente nel centro di New York!»
Il bambino finì di bere il suo latte in un lungo sorso e corse di sopra a cambiarsi.
Emma, prima di seguirlo, riordinò la cucina. Sembrò strano persino a lei, visto che di solito lasciava tutto nel lavello. Quel giorno però, voleva fare le cose per bene. Voleva essere, almeno per un sabato mattina, una perfetta mamma modello, sempre pronta e sempre sorridente e soprattutto, sempre in orario.
Quel giorno sembrava diverso.
Col senno di poi, Emma avrebbe cerchiato quel giorno sul calendario per averle sconvolto la vita.
In meglio o in peggio, sta a voi dirlo.
 
New York, 24 Dicembre 2003
Buon Natale Killian.
Il messaggio era già pronto. Avrebbe voluto aggiungere mille altre cose, avrebbe voluto dirgli delle audizioni, di Regina, delle prove, delle lezioni, della preside Mills.
Avrebbe voluto ascoltare la sua voce dirle che l’aveva perdonata, che stava bene, che la capiva.
Ma non scrisse niente, non inviò niente.
Gli aveva promesso che non si sarebbe più intromessa nella sua vita e aveva intenzione di tenere fede a ciò che si era imposta.
Nessun contatto, nessun messaggio, nessuna mail, nessuna telefonata.
Perché Emma?
Perché hai voluto lavare via la nostra amicizia? Come se non fossimo mai stati niente.
Riusciva a sentirla così chiaramente la sua voce che quasi la spaventava.
Era il loro primo Natale separati, a chilometri e chilometri di distanza.
Quell’anno, per lei, il Natale non era mai arrivato. Non ci fu nessun albero, nessun presepe, nessuna canzone che avrebbe potuto soltanto eguagliare l’atmosfera che regnava, in quello stesso periodo, a Storybrooke, con Killian.
Nessuno dei due credeva o andava in chiesa (il solo pensiero di Killian in quel luogo la faceva sorridere) ma nel periodo natalizio, abbandonavano per un po’ quel grigio ateismo per lasciar spazio al calore del Natale.
Aiutavano ad addobbare l’albero nel cortile della scuola e si ripromettevano sempre di non regalarsi alcunché, sapendo entrambi che avrebbero visto, un giorno o l’altro, qualcosa di totalmente perfetto e non avrebbero resistito a mettere mani al loro salvadanaio per sorprendersi a vicenda.
L’ultimo Natale, Emma aveva comprato a Killian un piccolo ciondolo dorato con inciso il teschio dei pirati. Avevano da poco rivisto i “Pirati dei Caraibi” e Emma sosteneva che Killian fosse perfetto per affiancare Jack Sparrow in una delle sue numerose avventure. Scoprì in seguito, ricercando su internet che il nome di quel simbolo era “Jolly Roger”.
Killian invece, le aveva regalato “Jane Eyre”, marchiandolo con una delle sue solite dediche da scrittore da quattro soldi. Rise, ripescando quei ricordi felici da un cassetto della sua memoria che si era ripromessa di non aprire per molto tempo.
A volte si malediceva per ciò che aveva fatto. Perché le mancava, le mancava più di quanto le costasse ammettere. Ma sapeva che non avrebbe mai potuto funzionare, che se gli avesse detto chiaramente tutto, non sarebbe mai partita. Non credeva nelle relazioni a distanza, non credeva nelle relazioni e basta.
Eppure, il dubbio si insinuava nei suoi sogni, nei suoi pensieri. E se per loro fosse stato diverso? E se avessero potuto farlo, se solo lei avesse avuto più fiducia in ciò che avevano costruito per anni?
In quei momenti chiudeva gli occhi e si copriva le orecchie con le mani, ascoltando il rumore ovattato e silenzioso dell’aria.
Passerà.
Tutto passerà.
Ti ci abituerai, Em.
Hai fatto la tua scelta.
 
 
«Che succede, Jones?» chiese David, non appena Killian chiuse la chiamata.
«Era la mia segretaria, dobbiamo andare immediatamente…» disse, misterioso, dirigendosi in fretta verso la sua camera e indossando più in fretta che poté, il suo completo più nuovo.
Dopo neanche dieci minuti, Killian e David uscirono dall’appartamento, dirigendosi verso lo studio.
Anche Killian, probabilmente, avrebbe ricordato quel giorno come il giorno in cui tutto cominciò.
 
 
 
 
Buonasera a tutti! :)
Come potrete notare, cominciamo ad addentrarci nel vivo della storia! Direte voi, “era pure ora, dopo quattro capitoli” xD
Avete ragione, avete pienamente ragione!! Questi capitoli, seppur all’apparenza banali, in realtà sono molto importanti per le vicende a venire, perché ci aiutano a capire meglio il passato tra Emma e Killian e perché, una volta che le loro strade si saranno incrociate, si comporteranno in un certo modo!
Ma, ho già fatto abbastanza spoiler per oggi! In realtà, il mio era un misero tentativo per non ricevere insulti! :P
Spero che, nonostante tutto, vi sia piaciuto anche questo!!
Ho già scritto parte del prossimo capitolo quindi posso anticiparvi che, forse, ci sarà la svolta che tutti voi aspettate! (Kerri smettila di spoilerare a destra e a manca!)
Come sempre, il mio ringraziamento più sentito va a tutti voi che continuate a sopportarmi, leggendo e spendendo anche un po’ del vostro tempo per recensire! GRAZIE GRAZIE GRAZIE!! Non mi stancherò mai di dirlo!! <3
Se volete, fatemi sapere cosa pensate anche di questo capitolo!!
Forse, sono ancora un po’ sconvolta per la puntata di domenica scorsa, quindi capitemi se c’è qualche errore che potrebbe essermi sfuggito! :(
 
Un forte abbraccio a todos,
Kerri :*
 
PS: vi lascio il link della canzone dei Muse che ha “ispirato” i flashback di questo capitolo, nel caso qualcuno abbia voglia di sentirla! Secondo me, è fantastica!
https://www.youtube.com/watch?v=I5sJhSNUkwQ

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Capitolo 6
*** New Chance ***


5. New Chance
 

“Alcuni dicono che al destino non si comanda, che il destino non è una cosa nostra. Ma io so che non è così. Il nostro destino vive in noi, bisogna soltanto avere il coraggio di vederlo”.
Merida, “Ribelle – The Brave”
 
Emma era più che soddisfatta.
Quella casa era davvero un forziere, un tesoro nascosto. Lei e suo figlio avevano raccolto una grande quantità di oggetti bellissimi, così tanti che gli scatoloni che Emma si era portata non erano neanche bastati.
Mentre tornavano a casa, discutevano su ciò che avevano trovato, scommettendo su quali oggetti sarebbero stati venduti per prima e quali invece, sarebbero rimasti al negozio per un po’.
Prima di tornare al loro appartamento, passarono dal negozio, per scaricare tutti gli scatoloni e magari, cominciare a catalogare gli oggetti.
L’ora di pranzo era ormai passata da un pezzo e loro avevano mangiucchiato qualche sandwich che si erano portati da casa.
Fortunatamente riuscirono a trovare un parcheggio non troppo distante dal negozio e dopo una serie di viaggi, tutti gli scatoloni furono portati dentro.
Erano ben quattro scatole strabordanti di oggetti di ogni genere, libri, maniglie, lampade, specchi, bambole, quadri.
Emma scattò una foto e la inviò a Regina, poi si misero all’opera.
Henry si occupava di scattare qualche foto da postare in internet, sul loro sito, mentre sua madre compilava una piccola descrizione dell’oggetto e ne concordava il prezzo. 
Dopo circa un quarto d’ora, arrivò la risposta di Regina che si complimentava con Emma ed Henry per il bottino.
La donna stava per risponderle, quando sentì il campanello del negozio suonare. In genere, quando si occupavano di catalogare i nuovi oggetti, il negozio era chiuso, ma evidentemente i due, presi dalla foga del momento, si erano dimenticati di chiudere la porta a chiave.
Posò il telefono sul bancone, lanciando un’occhiata ad Henry, poi andò a vedere chi fosse.
«Buongiorno, posso aiutarla?» chiese cordialmente alla giovane donna che le si presentò davanti.
«Salve, mi chiamo Belle French e spero proprio di sì…» disse, sorridendo e porgendole la mano.
 

I mesi passarono e Killian aveva finalmente deciso cosa farsene della sua vita.
Tutto cominciò quasi per caso e solo ripensandoci, gli veniva da sorridere e da domandarsi se da qualche parte, ci fosse realmente qualcuno che aveva già un progetto per lui.
Si trovava come al solito, al rifugio per i poveri. Ormai ci andava lì quasi tutti i giorni come volontario. Aveva lasciato la scuola da tempo ma da un po’ gli ronzava in testa l’idea di riprendere gli studi e dare almeno gli esami per il diploma.
Non appena arrivò, un gruppetto di bimbi si attaccò alle sue caviglie, impedendogli di camminare.
«Guardate!! È arrivato lo zio Kill! Giochiamo insieme?» gridarono in coro.
Il giovane non poté fare altro che accettare ciò che i bambini gli proposero e in men che non si dica, si ritrovò seduto ad un tavolo, con un bimbo sulle ginocchia e una matita tra le mani.
«Disegniamo una casa!» esclamò eccitato il bambino.
Killian gli sorrise e prese a disegnare la solita casetta stilizzata che tutti hanno disegnato almeno una volta nella vita.
«No, non voglio questa! È troppo semplice! Facciamone un’altra, dai! Ti prego, ti prego! Voglio la più bella casa del mondo!» piagnucolò il bambino, guardandolo con i suoi grandi occhi color cioccolato, in trepidante attesa.
E adesso?
Killian tirò qualche linea, la matita scivolava sul foglio bianco e ad ogni tratto, il disegno prendeva forma. Il giovane dimenticò la richiesta del bambino, si lasciò totalmente trasportare da quei segni grigi e da ciò che la sua testa gli dettava.
Magari il balcone potrebbe essere così, qui ci starebbe bene una finestra e sì, il tetto dovrebbe andare bene di questo colore…
«Zio Killian, ma è bellissima!! »
Killian si ridestò come per magia e ammirò quello che le sue mani, lui, sembravano aver creato.
E fu in quel momento che decise che si sarebbe iscritto al college.
E sì, avrebbe studiato architettura.
Emma ho finalmente capito cosa mi piace fare.
 
 
Killian era nervoso, molto nervoso. Di solito lo era sempre prima di incontrare un cliente per la prima volta, ma quel giorno lo era più del solito. Quel cliente, avrebbe potuto dare una svolta alla sua carriera, farla decollare.
Si sedette sulla sua sedia girevole di pelle nera e strofinò le mani sudate sui pantaloni. Diede un’occhiata al computer, poi all’orologio, poi di nuovo al computer.
La porta si aprì e Killian trattenne il respiro.
«Jones, tutto bene?»
David.
Ancora non se n’era andato?
«David, maledizione! Mi hai fatto prendere un colpo!»
L’uomo si richiuse la porta alle spalle e vi si appoggiò.
«Hai una pessima cera, amico. Nervoso?»
«Tu che dici?! Nolan, questo incarico potrebbe cambiarmi la vita!» gli spiegò Killian, cercando di convincere più sé stesso che il suo amico.
La porta si aprì di nuovo. Il cuore di Killian mancò un battito.
«Signor Jones, tra venti minuti sarà qui…»
La Blanchard.
Quel giorno avevano deciso tutti di fargli prendere un infarto?
«Va bene, grazie Mary Margaret» disse, massaggiandosi le tempie.
Aprì gli occhi e notò uno sguardo piuttosto irato tra la sua segretaria e il suo amico.
«Mary Margaret, vorrei presentarti il mio amico David! David, lei è Mary Margaret, la mia assistente! Non credo vi siate mai conosciuti…»
«Oh, mi dispiace deluderla signore, ma ci siamo già conosciuti! Per mia sfortuna!» disse la donna, rivolgendosi al suo amico sprezzante. Gli lanciò un’occhiata tutt’altro che amichevole e uscì dalla stanza, voltandogli le spalle.
Killian alzò un sopracciglio, basito. C’era qualcosa che non sapeva. Interrogò il suo amico con lo sguardo ma quello si limitò ad alzare le spalle.
«Due settimane fa ho, involontariamente, investito un cane e miss “Salviamo il pianeta” ha assistito alla scena… Il cane non è morto, fortunatamente! Altrimenti credo che mi avrebbe denunciato!» si spiegò.
Killian rise. Sapeva quanto la sua segretaria ci tenesse agli animali.
«Non ridere! Mi ha offeso con ogni insulto possibile! E sai qual è la cosa più strana?! Il cane non era neanche il suo!»
A quell’affermazione, Killian scoppiò a ridere, seguito a ruota da David. Risero a crepapelle, risero per smorzare la tensione, furono più urli isterici che risate vere e proprie. Si zittirono non appena sentirono il suono familiare del campanello.
Merda.
«Maledizione, è qui!» urlò Killian.
«Respira Jones, respira!» gli consigliò il suo amico, sventolandogli una rivista sotto il naso.
«Respira un corno! Esci di qui, David!» disse, strappandogli di mano il giornale e spingendolo verso l’uscita. Si passò le mani tra i capelli un‘ultima volta, prima di andare ad accogliere il suo importante ospite.
«Salve signor Gold! Killian Jones! È un piacere averla qui!»
«Oh, puoi ben dirlo caro!»
 
Belle French era una ragazza molto dolce. Emma l’aveva capito soltanto ascoltando la sua voce e poi ne aveva avuto la conferma quando suo figlio aveva fatto il suo ingresso nel negozio. Di solito era piuttosto brava a catalogare le persone, a capirle con un solo sguardo.
«Allora signorina French, cosa possiamo fare per lei?» chiese Emma, posando le mani sulle spalle di Henry.
«Belle, mi chiami pure Belle!»
«Bene, io sono Emma! Piacere di conoscerla!» le rispose sinceramente.
«Oh, il piacere è mio! Sono qui per chiedere i suoi servigi!»
Quella ragazza le piaceva. Nessun giro di parole, dritta al nocciolo della questione. Proprio come lei.
«Mi dica, vuole vendere qualche oggetto?»
«Non proprio!» disse la giovane, curiosando un po’ per il negozio.
«Tra tre mesi mi sposo!» disse, quasi come se non ci credesse neanche lei.
«Congratulazioni!» dissero in coro Emma ed Henry.
«Grazie! Sono qui perché vorrei chiederle di arredare la nostra casa. Ho sentito tanto parlare di questo posto e ci sono passata davanti così tante volte, ripromettendomi sempre di entrarci prima o poi, ma non ne ho mai avuto il tempo. Finché oggi mi sono detta “se non lo fai ora Belle, non lo farai mai più”, così… eccomi qui. Che ne dice? Accetta? Ovviamente la pagherò…»
«Aspetti…» la fermò la giovane Swan, suscitando un’occhiataccia di Henry, che ignorò.
«La verità è che è da poco che mi occupo di queste faccende, in realtà da ieri, quindi non so quanto potrà costarle e la capirò se mi dirà di voler aspettare un altro po’, magari parlare con Regina e…»
«No» la interruppe la giovane dai capelli color del cioccolato.
«Non ci ripenserò, non mi interessano i soldi. Vorrei soltanto avere la casa dei miei sogni!» disse risoluta.
«Oh, ok allora. Dovrei prendere i suoi dati e chiederle un po’ quali siano i vostri gusti, potremo prendere un appuntamento, non so vederci per un caffè…»
Emma cominciò a parlare velocemente, cercando furiosamente un post-it dove segnarsi i dati della giovane, l’ora dell’appuntamento e possibilmente il suo indirizzo e codice fiscale, non si sa mai dovesse ripensarci seriamente.
«Mamma, non ti serve il codice fiscale!» rise Henry, cercando di calmarla.
«Hai ragione, ragazzino! Mi scusi, allora che ne dice?»
«Purtroppo lavoro tutti i giorni fino a sabato prossimo e domani è domenica, non voglio disturbarla. Che dice se sabato sera viene a cena da noi?! Così le presento il mio fidanzato e le faccio vedere la casa, in modo che possa farsi un’idea… Voglio una luogo che ci rispecchi, un luogo in cui mi senta veramente a casa!» sorrise la giovane dagli occhi blu.
«Ehm, va bene, se non è un disturbo…»
«Nessun disturbo! Adoro cucinare! Le lascio il mio indirizzo email e il mio numero di telefono. Mi contatti così ci accordiamo!»
Emma annuì, afferrando il biglietto da visita della giovane.
«La ringrazio Emma! Sono sicura che farà un ottimo lavoro!» disse, salutandola.
Quando la giovane uscì dal negozio, Emma ricominciò a respirare. Gestiva il negozio da sola da neanche ventiquattro ore e in una mattina aveva racimolato una quantità industriale di cimeli e oggetti e un incarico.
Magari fossero state tutte così le sue giornate.
Strinse il cartoncino tra le mani e lo esaminò. Il campanello tintinnò ancora.
«Swan, che diavolo ci faceva Belle French qui?»
Regina entrò in tutto il suo splendore. Quel giorno indossava un cappotto rosso fuoco e dei vertiginosi tacchi neri.
«Regina! Io, ehm, la conosci?»
Regina sbuffò, poggiando la borsa sul bancone.
«Tu no?»
«Be’, l’ho conosciuta oggi e mi ha…»
«Swan! È una delle giornaliste più celebri della città, so che è stata perfino in Afghanistan ed è la fidanzata di Robert Gold! Ma leggi i giornali? O mi ascolti quando parlo?»
Emma si accasciò su una sedia.
«Quel Robert Gold?» chiese, con voce flebile.
«Esatto! L’uomo che possiede quasi la metà degli edifici di New York!» concluse la giovane dai capelli corvini.
«Henry! Tu lo sapevi?» chiese Emma al bambino, accorso a salutare la sua seconda mamma, come gli piaceva definire Regina.
«Certo che sì! Tu no?» chiese ingenuamente il bambino, nascondendo sul volto un sorriso furbo.
«Perché non me l’hai detto?!»
«Perché se l’avessi fatto, tu non avresti accettato!» sorrise Henry.
«Tuo figlio ha ragione, Swan. Ma si può sapere cosa diavolo ti ha proposto?» chiese la donna, rivolgendosi alla bionda che adesso era accasciata sul bancone e si massaggiava le tempie.
«Di arredare la loro futura casa! E sabato prossimo andrò a cena da loro…Regina vieni con me, ti supplico!»
«Per quanto adori quelle due paroline, non posso Swan! Ormai sei tu la responsabile e gli affari sono i tuoi, quindi dovrai sbrigartela da sola! E poi, io ho già troppe cose per la testa…» disse, rispondendo ad un messaggio che le era arrivato sul cellulare.
«È l’ospedale! Devo andare!» disse, preoccupata.
«Ciao Henry, fai il bravo mi raccomando! E controlla tua madre!» disse, schioccandogli un bacio sui capelli e uscendo alla svelta dal locale.
«Ciao anche a te Emma! Sono sicura che puoi farcela, io sono dalla tua parte!» borbottò Emma, quando Regina si chiuse la porta alle spalle.
Sospirò e ritornò al lavoro.
La giornata era ancora lunga. 
 
«Jones, lei è molto fortunato! È la prima volta che mi sposto personalmente per ricevere qualcuno…»
Killian sorrise. In realtà era lui che stava ricevendo quell’uomo, ma preferì non fare commenti. Doveva andarci piano, essere cauto e non buttare all’aria quell’occasione. Probabilmente non gli si sarebbe presentata mai più.
«Quindi non vorrei sprecare il suo tempo signor Gold, cosa posso fare per lei?»
«Mi piace come ragionate Jones, il tempo è denaro per noi, uomini di mondo!» rise l’uomo, mostrando una fila di denti non esattamente perfetti. Killian riuscì persino a notare un luccichio. Come si soleva dire, un nome, una garanzia. E il signor Gold, di soldi e d’oro ne aveva a palate.
«Tra tre mesi, io e la mia Belle finalmente ci sposiamo!» disse, mostrando per la prima volta dacché era entrato, un minimo di affetto verso qualcosa che non fosse il denaro.
«Sì, l’ho sentito dire! Congratulazioni!»
L’uomo lo ignorò completamente e continuò.
«Jones, sarò sincero con lei. Lei non è il primo architetto al quale mi rivolgo e se non mi piace il suo lavoro, non sarà neanche l’ultimo…» sorrise tra sé e sé.
Killian ingoiò quello strano malloppo che gli era salito in gola.
«Ma ho sentito diversi pareri positivi su di voi e sul vostro lavoro, quindi ho deciso di concederle una chance…»
«Non se ne pentirà, signor Gold! Farò tutto ciò che è in mio potere per assecondare i vostri gusti…» disse Killian, mostrandosi sicuro e disinvolto. Di solito, gli riusciva bene.
L’uomo proruppe in un risolino.
«Oh caro, non sono i miei desideri che dovete assecondare, ma quelli della mia futura moglie! Lei è un tipo un po’, alternativo ecco»
«Credo di potercela fare» sorrise Killian, sapendo quanto bravo fosse con le donne.
«Lo spero per voi! Vorrei che la casa fosse pronta prima del matrimonio, se non riuscite a consegnarla entro quella data, mi dispiace ma non otterrete nessun pagamento…» disse Gold, ghignando ancora.
Killian stava sudando freddo. Quell’uomo riusciva a metterlo in soggezione, con quei suoi piccoli occhietti e quel ghigno divertito sempre dipinto in volto. Sembrava prendersi gioco di tutto e tutti.
«Va bene, signor Gold!» disse il giovane, sperando che l’uomo sparisse il prima possibile di lì. Tutto ciò che desiderava era bere un buon sorso di rhum, in mutande, da solo, sul suo divano.
Killian scosse la testa, scacciando via quell’immagine dalla mente. Ad un tratto, un telefono squillò. L’uomo controllò immediatamente il suo cellulare.
Il signor Gold estrasse dalla tasca il suo e aprì il messaggio, dipingendo sul suo volto una specie di sorriso.
«È Belle! Sembra che abbia trovato un negozio di antiquariato che l’aiuterà nel suo lavoro, signor Jones!»
Cosa?
Aiutarlo nel suo lavoro? Non aveva mai lavorato con nessuno, perché avrebbe dovuto cominciare proprio ora?
Strinse i pugni e si sforzò di sorridere.
«Nessun problema!» si sentì pronunciare.
«Ah, è invitato da noi sabato sera! Così avrà modo di conoscere la mia Belle, la casa e soprattutto il vostro braccio destro. La mia segretaria vi manderà le coordinate specifiche.» disse l’uomo, alzandosi e uscendo dallo studio.
Killian lo seguì prontamente verso l’ascensore.
«Vi ringrazio, signor Gold! Non se ne pentirà!»
«Lo spero per voi, signor Jones!»
Poi le porte dell’ascensore si chiusero.
E Killian ritornò a respirare normalmente.
 
 
Eccomi qui!! :)
Ormai ci siamo quasi!! Il capitolo era pronto ma era davvero troppo lungo (12 pagine di Word!) così ho dovuto tagliarlo!! Mi dispiace!
Siamo nel vivo della storia, ormai abbiamo capito come Emma e Killian si ritrovano a collaborare e notiamo che il nostro bel capitano non è molo entusiasta dell’idea! Ma ancora non sa di chi si tratta…
Spero che vi sia piaciuto anche questo capitolo e sarei felicissima di ricevere i vostri commenti/pareri! Dobbiamo pur ingannare quest’attesa che ci separa dal finale di stagione no?! Io sto già preparando i fazzoletti ç_ç
Come sempre ringrazio tutti voi che leggete, chi in silenzio, chi lasciandomi una recensione! G R A Z I E
È anche grazie a voi che la storia sta andando avanti quindi un grazie particolare va a Pandina, Persefone, Arya, Erin, Em e CSLover! (L'ordine è quello delle precedenti recensioni!) Grazie davvero! :*
Adesso vi lascio,
Il prossimo capitolo è già pronto quindi non dovrei metterci tanto, a meno che dopo aver visto il finale di stagione di domani, muoio sul colpo xD
Buon Ouat day a tutti voi (mi mancherà dirlo :’( ) e buon finale di stagione!
Un bacio
Kerri :-*

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Capitolo 7
*** An Unexpected Circumstance ***


6. An Unexpected Circumstance

 
“In fondo ad ogni vita scorre una infinita saggezza
che permette di far arrivare le cose giuste
al momento giusto”
S.Tamaro
 
Quella mattina, Emma si era svegliata di pessimo umore. Era rientrata di nuovo tardi, quasi all’alba e non aveva dormito neanche un’ora. Il suo aspetto non era dei migliori, ormai le occhiaie non la abbandonavano più e le labbra erano tutte screpolate. Tuttavia non le dispiaceva più di tanto, ormai era diventata quasi un’abitudine.
Doveva ammettere che la sua vita non era mai stata facile ma adesso, stranamente, aveva trovato un equilibrio. Certo, qualche volta si dimenticava di mettere la sveglia e Henry faceva tardi a scuola per colpa sua, oppure si dimenticava di andare a comprare il latte, ma poteva dirsi quasi soddisfatta della sua vita.
Il problema, però, era proprio quel quasi.
Aveva dovuto lottare per raggiungere quell’equilibrio, sacrificando i suoi sogni e immolandoli per una giusta causa: suo figlio.
Per la sua felicità aveva fatto cose che non avrebbe mai pensato di poter fare, alcune delle quali non andava molto fiera. Ma non se ne pentiva perché il suo unico obiettivo era il bene di Henry e la sua felicità. Non poteva non ammettere che le mancavano le prove estenuanti prima di uno spettacolo, le mancava quell’adrenalina prima di salire sul palco e le mancava la stoffa leggere dei tutù.
Ma suo figlio, riusciva a ripagare ogni suo sacrificio ed era grata che, dodici anni prima, non avesse deciso di darlo in adozione. Ad abortire non ci aveva neanche pensato. Non ne aveva le forze, non avrebbe mai negato un futuro a quella minuscola creaturina che cresceva dentro di lei, anche se questo avrebbe compromesso il suo. Probabilmente perché non voleva negare anche a lui, un’infanzia felice. Si chiese cosa avesse fatto se non fosse partita, se all’epoca, non fosse a New York.  
Scosse la testa, cercando di scacciare via quelle immagini dalla mente. Non doveva avere rimpianti. Era così che Emma Swan andava avanti, cercando di non pensare al passato e focalizzandosi soltanto sul presente, altrimenti il peso dei ricordi l’avrebbe schiacciata.
«Swan, per l’amor del cielo, vuoi smetterla di pulire quel dannato bancone?! Finirà per consumarsi!»
La donna dai capelli biondi alzò gli occhi spaventata. Non si era neanche accorta che Regina aveva fatto il suo ingresso nel negozio.
«Ciao!» la salutò continuando a passare lo straccio sul bancone, ignorando ciò che la donna le aveva appena detto.  
«Emma!» tuonò la giovane dai capelli corvini, alquanto irritata. Odiava quando le persone non la ascoltavano e soprattutto odiava quando Swan si rinchiudeva nel suo piccolo mondo, non lasciando entrare nessuno. Perfino lei, che la conosceva da una vita ormai, non aveva ancora capito bene quale fosse la chiave giusta per entrare nella sua testa.
«Domani hai una cena! Una cena molto importante! E devi essere in forma!» le disse, strappandole di mano la pezza.
«Regina, non ho intenzione di indossare nessun vestito!» annunciò la bionda, capendo al volo ciò che la sua amica intendesse dietro quelle parole.
«Oh no, Swan e invece lo indosserai! Eccome se lo indosserai!» disse estraendo una busta dalla borsa e porgendola alla sua amica. Un sorriso beffardo le si dipinse sul volto.
Emma strabuzzò gli occhi e incrociò le braccia al petto.
L’aveva incastrata! Maledetta!
«Non è quello che penso, vero?» disse Emma, nonostante sapesse già la risposta. 
«È esattamente quello che pensi!» sorrise Regina, frantumando anche la più piccola briciola di speranza della giovane Swan.
«Ci vediamo domani, cara! Sarò da te alle cinque! Non hai scuse! E smettila di frignare, sembra che ti abbiano condannato al patibolo!»
La donna sbuffò.
«Ah, questo lo tengo io! Non si sa mai cosa può passare nella tua testolina! Mi è costato una fortuna!»
Detto questo, rimise la busta nella borsa e uscì dal locale, dirigendosi verso la sua auto rosso fuoco.
Emma sospirò.
Regina non aveva tempo per accompagnarla a quella maledetta cena, ma per andare a fare shopping e comprarle un vestito costoso, be’ allora ce l’aveva.
Si diresse verso il retro nel negozio. Doveva sistemare ancora gli ultimi oggetti.
Controllò l’orologio, mancavano otto ore. La sua vita stava per cambiare.
 
Storybrooke, 15 Giugno 2004
 
Killian Jones sapeva che il college non era un gioco e che se voleva diventare qualcuno, avrebbe dovuto impegnarsi sul serio.
Così decise di cominciare fin da subito. Con molta forza di volontà, dimostrò ai professori di poter passare l’anno anche senza aver frequentato tutte le lezioni. Loro vollero dare un po’ di fiducia a quel ragazzo dai capelli corvini e gli occhi color del cielo perché, forse, avevano capito che qualcosa in lui era cambiata.
Killian per parecchie settimane, non pensò ad altro se non alla scuola. Restava sveglio fino a tardi e studiò libri su libri perché potesse ritornare al passo con i suoi compagni. Ormai, la metà del suo sangue era un concentrato di caffeina e qualche volta, si era perfino concesso il lusso di qualche sigaretta.
Il giorno tanto atteso, arrivò prima che il ragazzo potesse accorgersene e si ritrovò seduto in una classe, con una matita e un foglio bianco, in attesa di ricevere i risultati della sua prova.
Credeva di aver fatto un buon lavoro, era indeciso soltanto su un paio di domande.
Le lancette dell’orologio continuava a scorrere e Killian le guardava scivolare lente e silenziose.
Si rigirava la matita tra le mani, scarabocchiando sul bordo del foglio.
Fissò la porta.
Ancora nessuno.
Ma quanto ci mettevano a correggere un misero compito in classe?
Sentiva goccioline di sudore scendergli lungo la schiena e il cuore martellargli nel petto. Che ansia.
Si alzò e vagò silenzioso per l’aula, puntando i suoi occhi limpidi sui cartelloni colorati appesi alle pareti e curiosando nel piccolo armadio accanto alla finestra.
Tutto pur di tenersi impegnato.
Tutto purché la sua mente fosse impegnata.
Perché sapeva che se le avesse dato libertà di correre e viaggiare, lo avrebbe portato da lei. Qualsiasi cosa lo riportava da lei e al momento, non era un bene per lui. Al momento, l’unica cosa di cui avrebbe dovuto preoccuparsi era l’esito del suo esame.
La porta dietro di lui si aprì e il professor Montgomery entrò con un sorriso sul volto. Il cuore di Killian prese a martellare incessantemente.
«Signor Jones, siamo davvero sorpresi! La sua prova è perfetta, nessun errore! Tant’è che il preside ha voluto accertarsi di persona se avesse usato metodi “alternativi” ma noi gli abbiamo assicurato che era tutto frutto della sua spiccata e nascosta intelligenza!»
Killian sorrise, abbassando lo sguardo e grattandosi la nuca come faceva sempre quand’era in imbarazzo. Di solito, i professori non lo lodavano. Di solito, lo sbattevano in punizione.
«Sono convinto che otterrà ciò che desidera, Jones! Mi dispiace soltanto che non abbia scoperto questa passione per lo studio qualche anno prima!»
Il professore si congedò, stringendogli vigorosamente la mano.
Era bello.
Era bello avere qualcuno che crede in te, nonostante il tuo passato, nonostante i suoi sbagli.
Sì, professore. Ce la farò.
Proprio così Em, ce la farò. E un giorno, ci rincontreremo.
 
Killian trascorse quella settimana elaborando un progetto dietro l’altro. Non aveva la minima idea di quanto grande fosse la pianta, delle misure, dei colori ma lavorare gli faceva bene.
Lo rendeva meno nervoso e più sicuro di sé. Decise che avrebbe portato i suoi schizzi la sera della cena, così per dare un’impressione positiva e non lasciarsi cogliere impreparato, nel caso la signora Gold chiedesse qualcosa. David decise di trasferirsi a casa sua, per evitare che facesse sciocchezze. Vani furono i tentativi di smuovere l’amico, il martedì mattina bussò alla sua porta con un piccolo borsone e una scorta di birre ghiacciate. Killian lo lasciò entrare solo perché aveva portato le birre.
Nonostante questo, doveva ammettere che non gli dispiaceva avere compagnia in casa. Certo, escludendo il russare di David, il suo disordine e il suo grande appetito…
A parte questi piccoli dettagli, David e Killian si divertirono insieme, condividendo per quattro giorni lo stesso tetto.
«Amico, se ritornerò nel mio appartamento, avrò bisogno del tuo aiuto per pulirlo…»
«Nolan, quando ritornerai nel tuo appartamento, ovvero presto, ti conviene chiamare la disinfestazione!» disse Killian, aprendo il frigo.
Era ormai sabato mattina, la cena era ormai imminente e l’ansia di Killian cresceva sempre più.
Stranamente, la maggior parte delle persone, non mangia quando si trova in una situazione difficile; Killian no. In quella settimana aveva fatto più visite al supermercato di quante ne avesse mai fatte in vita sua.
Certo, la presenza di David influì di molto, visto che ingurgitava panini a tutte le ore.
«Ti è arrivata una mail dalla tua simpatica assistente…» mormorò David, intento a trafficare con il laptop del suo amico.
L’uomo richiuse immediatamente il frigo e si incamminò verso il divano.
«La smetti di farti gli affari miei?!» chiese, prendendo il computer e poggiandolo sulle sue gambe. David sbuffò.
«Dice che l’assistente del signor Gold ha mandato gli orari e l’indirizzo esatto…»
«Fammi vedere!»
«Alle sette e mezza, devo essere da loro e fortunatamente la casa non è lontana!» constatò l’uomo, pensando già a quale strada avrebbe dovuto prendere per evitare traffico.
David prese di nuovo il computer per leggere meglio.
«Amico, se ti sei preso una cotta per la Blanchard puoi dirmelo!» esclamò Killian di punto in bianco.
David divenne paonazzo, andando a confermare i suoi sospetti. Da qualche giorno diventava sempre agitato quando Killian nominava la giovane dai capelli corti, domandava di lei e poi ritornava ad odiarla.
«Non ho una cotta per lei!»
«Sì, certo e io sono Johnny Depp!» rise l’uomo, cercando di smorzare la tensione.
Guardò l’orologio. Il conto alla rovescia era cominciato.
La sua vita stava per cambiare.
 
New York, 15 Marzo 2004

Le lezioni alla New York Academy of Arts erano estenuanti. Emma si allenava tutti i giorni per tre ore, a volte anche quattro o cinque. E tutte le mattine, doveva assistere a lezioni teoriche di musica, storia della danza e recitazione, cinema, disegno e tante altre materie di cui non ricordava neanche il nome dei professori. Ovviamente aveva chiesto di specializzarsi nella danza ma la scuola prevedeva che studiasse tutte e le materie e a lei questo non dispiaceva più di tanto.
All’inizio fu più difficile di quanto si fosse aspettata. Era sola al mondo, in una città in cui non conosceva niente e nessuno. Non fu facile farsi accettare, entrare nelle grazie dei professori e dimostrare a tutti ciò di cui era capace. Si era allenata duramente per tutta la sua breve vita, la danza era parte di lei da ché ne aveva memoria e non poteva permettere che questa occasione le scivolasse dalle mani.
Quel giorno, come tutti gli altri, si alzò di buon ora e prima di prepararsi per le lezioni, cercò di riordinare un po’ il piccolo monolocale che i soldi ricevuti dalla donna che, chissà per quale assurdo motivo, aveva deciso di prendersi cura di lei, le avevano permesso di affittare. La sua coinquilina, una tipa piuttosto disordinata, aveva lasciato una fila di piatti sporchi da lavare nel lavello. Guardandoli Emma storse il naso, immaginando la puzza e la fatica che avrebbe fatto nel cercare di scrostarli. Sospirando indossò un paio di guanti, lanciando un’occhiata di sfuggita al grande orologio appeso al muro, uno dei pochi oggetti di arredamento che spiccavano in casa, e notò con forte dispiacere che aveva più tempo di quanto credesse. Così si mise al lavoro, cercando di ricordare la coreografia che avrebbe dovuto provare nel pomeriggio.
«Buongiorno!» la salutò una voce piuttosto assonnata. Emma si voltò e sorrise di fronte allo spettacolo che le si prospettava davanti: la giovane Anna Harendel, nonché sua coinquilina, si massaggiava gli occhi con una mano mentre con l’altra cercava di districare quell’enorme massa di capelli rossi che le incorniciavano il volto e che di prima mattina, erano parecchio disordinati e crespi. La giovane dai capelli biondi non poté non trattenere un sorriso.
«Buongiorno a te Anna! Dormito bene?» chiese, ritornando a preoccuparsi delle ultime posate.
Emma sapeva che la sua era una domanda retorica. Era più che certa che la giovane dai capelli rossi avesse dormito come un ghiro, ricordando quanto russasse la notte precedente.
Doveva ammettere che era stata più che fortunata a trovare una coinquilina come Anna. Certo, era la persona più disordinata del pianeta e se avesse cominciato a parlare, difficilmente qualcuno l’avrebbe mai fermata, ma era una ragazza dal cuore d’oro, sempre pronta a dare una mano, sempre coraggiosa e piena di vita. Almeno dopo il solito caffè della mattina.
«Emma! Mi dispiace tanto, avrei dovuto lavarli io quei piatti! Oh sono così disordinata, puoi perdonarmi? Ti prometto che stasera lavo tutto io e anche domani! Che pessima coinquilina che sono! Non sarei dovuta andare a dormire così presto ieri sera, dovevo tenerti un po’ compagnia! Povera, chissà come ti sentirai, tutta sola…»
Anna, sebbene fosse poco più giovane di Emma, aveva questo innato senso materno verso ciò che la circondava. Si preoccupava di tutto e di tutti, a partire dalla minuscola piantina che Emma le aveva portato come regalo, per finire al cagnolino della loro vicina. Ormai la giovane l’aveva capito, ma non poté fare a meno di sentirsi infastidita da tutte quelle attenzioni. Non ne aveva mai avute, era da sempre riuscita a cavarsela senza l’aiuto di nessuno, escludendo Killian. Qualcosa nel suo cuore, le impediva di aprirsi totalmente con il resto del mondo, sebbene sapesse che Anna fosse una delle persone più dolci che aveva avuto la fortuna di incontrare.
Forse, la infastidì così tanto perché in fondo aveva ragione. Non era facile, per niente. Non era facile svegliarsi in una città sconosciuta, sola e distante da coloro colui che amava. Non era facile abituarsi al ritmo frenetico di quella grande città, imparare gli orari delle stazioni, delle fermate della metropolitana. Non era facile vivere con quel poco che la sua madre affidataria le inviava, comprarsi da mangiare e tutto ciò che le serviva per le lezioni. No, non era per niente facile. Ma la fortuna, un giorno, aveva deciso di sorriderle quando le aveva concesso quella borsa di studio e lei non aveva nessuna intenzione di sprecarla. Voleva portare avanti il suo sogno e realizzarlo. Era stata una sua scelta, una sua decisione. E non se n’era pentita. Eppure c’era qualcosa dentro di lei che le mancava, un piccolo pezzettino, all’apparenza insignificante, ma senza il quale non riusciva a sentirsi completa.
Non aveva nostalgia o forse si illudeva di non averne. Ogni giorno dava il meglio di lei in tutto ciò che faceva, si sforzava nel far capire ai professori che sì, quella borsa di studio se l’era meritata dopotutto e non era soltanto un’incapace e sciocca ragazzina di campagna. Alla sera, quando ritornava a casa era stanca, sfinita. Con un po’ di fortuna, Anna aveva cucinato una delle sue specialità, lasciandone un po’ per lei e lei mangiucchiava qualcosa mentre finiva qualche compito. Dopo di che, si infilava sotto le coperte e piombava in un sonno profondo.
«Sto bene Anna, davvero! Non preoccuparti!» disse, ridestandosi e tirando il volto in un sorriso, un po’ meno vero del precedente.
La ragazza annuì e si versò la solita tazza di caffè che l’aiutava ad affrontare il mondo. O almeno, così diceva lei.
Emma si sfilò i guanti gialli e corse in bagno a prepararsi per una nuova, intensa, giornata.
Ce la farò, Killian. E tu sarai orgoglioso di me. E un giorno ci rincontreremo.
  
Ok.
Era tutto pronto.
Emma si fissò un’altra volta allo specchio. Indossava il vestito regalatole da Regina. Era carino, corto e nero. O almeno queste furono le prime tre parole che le vennero in mente, quando la donna glielo mise addosso.
Davanti era piuttosto semplice, così la sua amica le aveva prestato una collana gioiello. Dietro, invece, si apriva in una scollatura che lasciava seminuda la sua schiena bianca. Doveva ammettere che Regina aveva fatto un buon lavoro rendendola presentabile, ma si sentiva comunque un po’ a disagio. Aveva acconsentito, seppur controvoglia, ad indossare di nuovo i tacchi ma, in cambio, era riuscita ad ottenere due piccole vittorie. Avrebbe potuto indossare un cardigan, per coprire la schiena e le braccia e, cosa più importante, i capelli sarebbero rimasti sciolti, liberi da qualsiasi intricata acconciatura ideata dalla donna dai capelli corvini.
Sospirò.
«Swan, se continui a guardarti stai pur certa che lo specchio si consumerà!»
«Ma è proprio necessario? Dopotutto è soltanto una cena!»
Se fosse stato per lei, si sarebbe presentata in jeans. E scarpe comode.
Tuttavia restava sempre una cena a casa di Robert Gold e per quanto volesse ignorarlo, non era un dettaglio così insignificante.
«Soltanto una cena?! È meglio per te che io faccia finta di non aver sentito! Adesso alza il tuo bel sederino e infilati quel dannato cappotto! Il taxi starà per arrivare!»
Emma fece come le ordinò l’amica. Si infilò il cappottino nero che aveva comprato qualche settimana prima a saldo e molto lentamente, si incamminò verso la stanza di Henry per salutarlo. Quella sera, lui e Regina sarebbero restati a casa, a mangiare sushi e a guardare un film. Oh, quanto li invidiava!
«Sembri un ippopotamo! Una donna deve saper soffrire senza darlo a vedere agli altri! Tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro!» la apostrofò Regina, mentre la seguiva in camera del bambino, che bambino ormai non era più.
Emma sapeva che la donna si stava riferendo alla danza, alla grande quantità di sacrifici e dolori che aveva dovuto sopportare, sempre con il sorriso.
Dopotutto aveva ragione. Aveva sopportato caviglie doloranti, lividi alle ginocchia, distorsioni, strappi per settimane. Un paio di scarpe alte non sarebbero state la sua fine.
Salutò il figlio leggermente più sollevata, facendosi promettere che si sarebbe comportato bene e non avrebbe fatto arrabbiare Regina. Promessa inutile in quanto Regina ed Henry andava più che d’accordo, ma Emma si sentiva più sicura ricordandoglielo ogni volta.
Il campanello suonò, segno che il taxi era arrivato.
«Sei proprio sicura che non vuoi andarci tu?» chiese. Una piccola fiammella di speranza era ancora accesa in lei.
«Non ho sprecato il mio pomeriggio per giocare a farti a bella Swan! Adesso muoviti!» disse, spingendola fuori di casa e chiudendo la porta.
 
Le strade di New York si susseguivano, una dietro l’altra. Il tassista era stato gentile, aveva cercato di iniziare una conversazione ma Emma non era molto in vena di parlare del traffico o del cattivo tempo in arrivo. Così i miseri tentativi dell’uomo erano caduti, dopo aver superato il primo semaforo.
Regnava uno strano silenzio all’interno dell’abitacolo, segnato soltanto dal ticchettare del contakilometri e dai continui sospiri della giovane donna.
Emma era seduta sul sedile posteriore, le mani strette in grembo e lo sguardo perso.
Di cosa avrebbe parlato? Si sarebbe sentita a disagio? Che uomo era il signor Gold?
Di certo non era famoso per essere l’uomo più buono e altruista del mondo, anzi.
Si chiese cosa avesse portato una ragazza tanto dolce e gentile come le era parsa Belle, ad innamorarsi di quello che, agli occhi di tutti, era conosciuto come un mostro.
Arrivarono a destinazione prima di quanto Emma avesse voluto. Il taxi la lasciò proprio sul vialetto della grande villa. La donna pagò e si incamminò, cercando di tenere a mente le quattro regole di Regina.
Regola numero uno: dimostrarsi il più disinvolta e sicura possibile.
In questo non avrebbe avuto molti problemi, a patto che non fosse inciampata o caduta. Rabbrividì al solo pensiero.
Regola numero due: sorridere sempre.
Pensò a quella volta quando Henry scambiò il sale con lo zucchero e alla faccia disgustata di Regina quando assaggiò la sua tisana. Un sorriso le si dipinse sul volto.
Regola numero tre: essere sempre gentile e disponibile.
Questo le risultava abbastanza facile con i clienti.
La regola numero quattro però, non riusciva proprio a ricordarla. 
Notò un’auto nera, parcheggiata di fronte al garage. Sembrava piuttosto grande e lussuosa, decisamente l’auto che ti aspetteresti da un tipo come Gold.
Era ormai arrivata al portone principale. Prima di suonare il campanello, prese un profondo respiro.
Ormai era in gioco, tanto valeva giocare.
Bussò.
«Buonasera Emma! Sono felice di vederti!»
Belle era radiosa come al solito. Indossava una graziosa minigonna bordeaux e una camicetta nera semi trasparente. Le lunghe gambe fasciate in calze nere e pesanti che, a dispetto di quanto si potesse pensare, la rendevano ancora più elegante. Ai piedi, la donna indossava dei tacchi a spillo dello stesso colore della gonna.
«Buonasera Belle! Grazie, anche io sono felice di vederti!»
La donna dai capelli color del cioccolato la salutò con due baci sulla guancia, prima di farla accomodare in casa.
Emma non era abituata ad essere trattata in modo così amichevole.  Avendo come migliore amica Regina Mills, i baci e i lunghi abbracci erano se non vietati, piuttosto scarsi nella loro relazione. Ma a lei non importava più di tanto. Non le costava ammettere che neanche lei era il tipo da manifestazioni pubbliche d’affetto.
«Ecco, prima di raggiungere gli altri in salotto, vorrei dirti una cosa…»
«Gli altri? Non c’è solo il tuo, ehm, fidanzato?» rispose Emma, un po’ troppo agitata e già a disagio. Cosa l’aspettava dall’altro lato di quel muro?
«A questo proposito, volevo dirti che lui, Robert, ha ingaggiato un architetto che ti aiuterà nell’arredare la casa…Non è un problema per te, vero?» chiese, notando la preoccupazione negli occhi di Emma.
La ragazza scosse la testa.
«No, assolutamente!» si sforzò di dire, sorridendo.
Cosa? E quando avrebbe voluto dirglielo?
«Bene, se vuoi seguirmi!» disse, aprendo una grande porta a vetri.
 
La prima cosa che Emma notò in quella stanza non fu la presenza austera di Robert Gold e neanche l’arredamento raffinato della stanza o il crepitio del fuoco nel camino, nonostante fosse appena settembre.
La prima cosa che Emma notò fu una giacca di pelle, abbandonata sul bracciolo di una sedia.
Poi lo vide.
«Swan!»
Sentì il suo nome, la sua voce era calda, esattamente come la ricordava.
Trattenne il respiro.
Qualcosa le lampeggiava nella mente, imperterrita e fastidiosa.
Regola numero quattro: sii sempre pronta agli imprevisti.
E Killian Jones, insieme ai ricordi che riportò a galla, erano un bell’imprevisto.
 
 
 
 
 




Tadaan! :)
Finalmente, dopo sei lunghi capitoli, lettere, lacrime, parole non dette e difficoltà, eccoci qui, al loro primo vero (re)incontro! Ormai siamo entrati nel vivo della storia e d’ora in poi vedremo cosa succederà!
Riusciranno a superare il passato, per riuscire nella loro collaborazione?
Mi dispiace averlo concluso così, ma un po' di suspense non guasta mai! Non uccidetemi! ^.^”
Ho postato stasera perché nei prossimi giorni, non avrò il tempo neanche di respirare! T.T
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto e sarei contenta di sapere cosa ne pensate! Contribuirete a risollevare un po' il mio umore #postseasonfinale 
Ringrazio come sempre tutti coloro che inseriscono la storia nelle varie categorie, chi legge soltanto e chi spende un po’ del suo tempo per recensire! GRAZIE A TUTTI! Non mi stancherò mai di ripetervelo! Siete fantastici! <3
Adesso vi lascio altrimenti mi addormento sulla tastiera,
un bacione
Kerri :*
 
 
 
 

SPOILER: Ma vi rendete conto?! #DarkSwan! Non ce la posso fare! :’(

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Capitolo 8
*** Old Friends ***


7. Old Friends

 
…la sconcertante scoperta di quanto sia silenzioso il destino,
quando, d’un tratto, esplode.
̴“Oceano Mare” di A. Baricco
 
«Swan!»
Killian pronunciò il suo nome, per la prima volta dopo anni.
Lei era lì, era lei, ne era più che certo.
La donna che non avrebbe mai pensato di poter rivedere era lì, proprio di fronte a lui.
Di colpo, tutto il dolore che aveva cercato di chiudere in un cassetto del suo cuore, straripò, come un fiume in piena. Avrebbe voluto dirle tante cose, rinfacciarle tutto il dolore che gli aveva causato, urlarglielo. La rabbia gli montò dentro, rabbia per essere stato abbandonato, trattato come uno zerbino, rabbia per non aver mai risposto alle sue chiamate, ai suoi messaggi, rabbia per non averlo mai salutato, per avergli mentito, per la sua testardaggine, per non aver avuto fiducia in lui, in loro.
Avrebbe voluto urlare, finalmente, dopo anni di silenzio. 
Ma non poteva.
Il signor Gold, incombeva su di lui, uno strano uccello del malaugurio che, per quanto si sforzasse di ignorare era lì, al suo fianco, con i suoi piccoli occhietti attenti ad ogni suo più piccolo passo falso.
«Voi, vi conoscete?» chiese Belle, fissando prima l’uno e poi l’altra, alquanto disorientata.
Emma restò ferma, non si mosse di un centimetro. I suoi occhi verdi erano un misto di sorpresa e paura, Killian riuscì a leggerli come sempre, come se non fosse mai cambiato niente. Ma tutto era cambiato.
«Sì, siamo…»
Cos’erano?
Emma non lo sapeva più. Erano stati amici, migliori amici, avevano condiviso qualsiasi cosa, erano stati l’uno
l’àncora dell’altro, ma adesso? Cos’era rimasto di tutto quello?
Crepe, cocci, vetri rotti.
Ricordi, solo ricordi.
«Vecchi amici» concluse Killian per lei. La sua voce si era fatta più fredda, più cupa, Emma poté cogliere persino un velo di tristezza in quell’affermazione, ma forse doveva averlo solo immaginato.
La donna annuì, confermando quanto appena detto dall’uomo.
Cercò di ricordare il motivo per il quale si trovava in quella casa, sotto lo stesso tetto di Killian Jones, a pochi metri di distanza da Killian Jones.
«Oh, bene! Sarà più facile allora!» disse Belle, eccitata, battendo le mani.
«Visto che già conosci il signor Killian Jones, permettimi di presentarti Robert, il mio fidanzato…»
La voce di Belle la riportò alla realtà.
Gold, la casa, le regole di Regina, sorridere sempre.
Spostò a fatica lo sguardo dalla figura di Killian e cercò di concentrarsi sull’uomo accanto a Belle.
Doveva avere un cinquantina d’anni, dei capelli piuttosto lunghi e grigi gli scendevano ai lati della fronte.
I suoi occhi la scrutarono per secondi che le parvero un’eternità, poi l’uomo le porse la mano.
«Piacere di conoscerla, signorina Swan! Belle mi ha parlato molto della sua attività, se così possiamo definirla…»
Ad Emma vennero i brividi. Quell’uomo incuteva timore, riverenza, un po’ come Cora Mills. Ignorò quell’ultimo commento poco educato sul suo negozio e cercò di mostrarsi sicura, come la sua amica le aveva insegnato.
«Il piacere è mio, signor Gold!» disse, cerando di sorridere.
Il suo sguardo fu però catturato ancora una volta dall’altro uomo. Non aveva smesso per un istante di puntare i suoi occhi cobalto su di lei.
Sì, era un uomo adesso.
Fissò la barbetta incolta, la cicatrice, la cravatta, non avrebbe mai immaginato di vedere Killian Jones con una cravatta, i capelli neri, gli occhi blu, le mani grandi. Nessun segno dell'orecchino che gli piaceva indossare, soltanto un anello d’argento.
Era lì, così familiare eppure così lontano. Ai suoi occhi, non era nient’altro che uno sconosciuto, uno sconosciuto con cui condivideva troppi ricordi, uno sconosciuto capace ancora di metterla in soggezione, sotto quel suo sguardo limpido, specchio di tutti i suoi sentimenti più nascosti. Emma poteva leggere la sorpresa dal suo sguardo, dalla mascella contratta, dai pugni stretti. Eppure si chiese se non c’era dell’altro, se non nascondesse qualcosa in più. Era fuori allenamento: da troppo tempo non gli leggeva dentro.
«Se volete seguirmi, la cena è pronta!» disse la giovane donna, riportandola ancora una volta alla realtà.
Il signor Gold sorrise alla sua futura moglie e la seguì. Emma fece lo stesso, desiderando rimandare il più possibile il momento in cui lei e Killian si sarebbero trovati da soli e avrebbe dovuto rispondere alle sue domande. Era certa che ne aveva, a bizzeffe. E, scoprì che perfino lei era curiosa sul suo conto. Cosa aveva fatto in tutti quegli anni? Si era sposato? Aveva avuto figli? Quell’anello cosa significava?  
Prima che potesse continuare oltre, si sentì afferrare il polso e si voltò di scatto.
«Non so cosa tu abbia in mente, Swan, ma non ho intenzione di rinunciare a questo lavoro!»
Lo disse fissandola dritta negli occhi, con sguardo truce, serio.
Emma lo guardò a bocca aperta. Da quanto tempo non la chiamava così? Da quanto tempo non sentiva il suo nome, pronunciato da quella voce?
Quella fu la seconda volta in mezz’ora, dopo anni di silenzio, eppure le parve che non sarebbe mai riuscita a riabituarcisi. Uno strano brivido le attraversò il corpo.
«Neanche io»
Pronunciò quelle parole fissandolo a sua volta, accettando la sfida che evidentemente lui le aveva proposto. 
Davvero aveva pensato che lei, Emma Swan, si sarebbe tirata indietro soltanto per via della sua, scomoda, presenza?
Doveva essersi rammollito.
«Bene» disse, lasciandole andare via il braccio.
Si prospettava un lunga serata. La tensione poteva tagliarsi con un coltello.
 
Seguirono i padroni di casa in cucina e si accomodarono ai loro posti. Emma e Killian sedevano di fronte, Belle e Gold accanto a loro.
Emma notò quanto l’uomo davanti a sé fosse agitato. Bene, almeno non sarebbe stata l’unica a sudare freddo ed anche lui, dietro quell’aria perenne da sbruffone, celava agitazione e insicurezza.
Riusciva ancora a cogliere quei piccoli gesti che tradivano la sua ansia, il suo abbassare lo sguardo alle domande troppo personali (non aveva mai amato parlare troppo di sé) e il suo grattarsi la nuca, quando non sapeva cosa rispondere. Emma riuscì a notare i suoi tentativi di fare conversazione, ignorandola il più possibile. Tralasciando quella frase idiota di poco prima, non le aveva più rivolto la parola. Come poteva biasimarlo? Dopotutto la loro separazione era stata solo colpa sua.
Mentre mangiarono il primo, Emma scoprì più cose dei suoi ultimi anni di quanto avesse mai immaginato, grazie all’immane curiosità della padrona di casa.
Non era sposato, si era trasferito a New York da poco meno di due anni e al momento, era single. Notò un velo di imbarazzo quando l’uomo dovette rispondere a quella domanda e cercò di evitare di fissarlo. Sforzò che ovviamente si rivelò inutile.
Erano risposte futili all’apparenza eppure per Emma Swan, si rivelarono di vitale importanza. Quelle informazioni andarono ad aggiungersi alle altre, andando a costituire il punto di partenza dal quale si sarebbe mossa in seguito.
Purtroppo il suo interrogatorio finì prima di quanto avesse desiderato, doveva ammettere che si stava dimostrando piuttosto divertente vederlo così in imbarazzo e visibilmente a disagio.
Lui che di solito, o almeno per quello che si ricordava, era uno sbruffone nato.
Già. Era. 
I riflettori si spostarono inevitabilmente su di lei e dovette rispondere alle domande curiose dei futuri signori Gold. Sì, perché anche il signor Gold si dimostrò stranamente interessato sul suo conto.
 
Killian tirò un sospiro di sollievo quando le domande cessarono e poté finalmente concentrarsi sulla sua bistecca. E fu ancora più felice, notando che adesso, sarebbe stato il turno di Emma.
Fino a quel momento l’aveva vista sorridere di tanto in tanto, di fronte ai suoi goffi tentativi di parlare di sé e notò con piacere che neanche lei aveva perso le sue abitudini: odiava essere al centro dell’attenzione. Sentimento che si dissolveva come l’acqua al sole quando si trovava su un palcoscenico. O almeno così ricordava.
«Emma, come sta Henry?» chiese Belle improvvisamente, versando un po’ di vino nel suo bicchiere.
Henry? Chi era Henry?
Suo marito?
No, non portava la fede e poi, se fosse stato così, si sarebbe presentato anche lui lì, no? O avrebbe avuto un altro cognome.
Allora il suo fidanzato…
Questo pensiero lo infastidì non poco, per quanto gli costasse ammetterlo. Quella donna stimolava in lui un innato senso di protezione, fin da quando la vide per la prima volta, in un angolo remoto di un parco.
Doveva avere qualche serio problema.
«Sta bene, grazie!» sentì Emma rispondere. Il suo tono di voce si addolcì o fu solo una sua impressione?
Diamine, non la vedeva da dodici anni, avrebbe dovuto odiarla, urlarle contro, avercela a morte con lei per averlo lasciato senza neanche una spiegazione e tutto ciò che riusciva a provare era… cosa? Senso di protezione, dannato senso di protezione!
Infilzò con più forza l’ultima patata arrosto e la ingoiò arrabbiato.
Maledetta Swan!
Ci fu un attimo di silenzio, un istante in cui ognuno restò concentrato sui propri pensieri.
Fu Emma a romperlo.
«Era tutto buonissimo, complimenti Belle!»
«Sì, complimenti!» continuò Killian, cercando di smorzare la tensione.
«Grazie! Felice che vi sia piaciuto!» disse la donna con un sorriso, poi si rivolse al suo futuro marito
«Adesso, mentre io riordino, Robert puoi mostrare la casa ai nostri ospiti? Poi parliamo di affari!» rise Belle, afferrando un piatto.
Emma si alzò. Non aveva nessuna intenzione di restare sola con Gold e Killian. Il primo le incuteva un certo timore, dubitava delle sue capacità e la faceva sentire piuttosto in soggezione; il secondo… il secondo era Killian Jones! Il ragazzino con il quale aveva fatto un bagno in mare, vestiti solo della biancheria intima! Colui che era andato a comprarle gli assorbenti, la prima volta che arrivarono “le sue cose” e lo stesso ragazzino che aveva abbandonato per seguire il suo sogno, senza neanche una spiegazione…
«Se vuoi, ti aiuto io…» propose speranzosa, ma la giovane le strappò le posate di mano.
«Assolutamente no! Non faccio lavorare i miei ospiti!» disse, appoggiando tutto nel lavabo.
Gli uomini si erano già incamminati verso il salotto. Emma li vide confabulare e si sentì esclusa. Dopotutto anche lei avrebbe dovuto far parte di quel progetto, no?
Così, a malincuore, si incamminò verso di loro, stirando il suo volto in un sorriso, che alla fine, sembrò più una smorfia.
«Vogliamo andare?» chiese, notando con piacere che con i tacchi era alta quanto Killian. Per la prima volta nella sua vita, ringraziò Regina per averle ordinato di indossarli.
«Come potrete notare, questo piano è già pronto e non necessita alcuna modifica…» disse il padrone di casa, incamminandosi verso le scale.
Emma e Killian si guardarono frettolosamente intorno, ognuno annotando in mente qualche dettaglio che avrebbe potuto aiutarli in seguito.
«Il vostro compito, da domani in poi, sarà quello di progettare e arredare questi piani…»
Ormai erano arrivati in cima alle scale. L’uomo accese un interruttore illuminando un grande corridoio, sul quale si affacciavano quattro porte.
«Sto parlando della nostra camera, il bagno e le altre due camere da letto. Al piano di sopra vi è un altro bagno e una soffitta ma dubito che la signorina Swan, con quei tacchi, possa arrivarci…»
Emma arrossì, abbassando lo sguardo. Cercò di replicare ma il signor Gold si voltò e aprì ad una ad una le porte, rivelando delle grandi stanze vuote. Emma si chiese dove dormissero, poi si ricordò del grande divano in salotto. Probabilmente fungeva anche da letto.
«Ovviamente il signor Jones proporrà dei progetti e lei, signorina Swan, si occuperà di cercare nel suo… –fece una piccola pausa, cercando di trovare la parola adatta - deposito, dei mobili adatti!»
Ai suoi occhi il suo piano non faceva una piega, anzi. Ma agli occhi degli altri due, non era di certo gradito.
Collaborare avrebbe significato passare del tempo insieme, vedersi, riprendere quel loro rapporto interrotto bruscamente anni fa.
Emma cercò di trattenersi, sorvolando sull’ulteriore affermazione sprezzante nei confronti del suo negozio e annuì.
«Tutto chiaro? Potrete cominciare da domani, venire a prendere le misure, appunti, scattare fotografie eccetera… troverete le domestiche»
«Signor Gold, io…»
«Ah signorina Swan, vorrei mettere in chiaro una cosa anche con lei…» disse interrompendola e puntando il dito verso il suo petto.
«So che la mia Belle nutre profonda stima in lei, quindi spero per lei che non commetta nessun passo falso altrimenti, come ho già accennato al signor Jones, sarete immediatamente licenziati!»
Rise in un modo che ad Emma sembrò sovrannaturale e che le gelò il sangue. Questo era il signor Gold di cui tutti parlavano, l’uomo avaro e interessato esclusivamente ai propri fini.
Furono interrotti dal rumore dei tacchi di Belle, segno che la giovane stava per raggiungerli. La bestia si acquietò, non appena il sorriso della sua fidanzata illuminò il corridoio.
 
Si accordarono per vedersi il lunedì successivo, lasciandosi un giorno per riflettere e capire cosa fare e soprattutto come andare avanti. Belle aveva insistito, voleva che tornassero già il giorno dopo per prendere tutte le misure necessarie e abituarsi alla casa. Sia Emma che Killian declinarono gentilmente l’invito.
«Non voglio disturbarvi, Belle! Domani è domenica, l’unico giorno in cui non lavori, non voglio rovinartelo!»
«La signorina Swan – continuò Killian, ma quelle parole gli parvero talmente assurde che si corresse immediatamente – Emma, ha ragione. Cominceremo lunedì. »
In tutto quel battibeccare, il signor Gold non era mai intervenuto. Se ne stava seduto sulla sua poltrona, immobile a fissare il fuoco, perso in chissà quali pensieri.
Alla fine Belle cedette.
Erano quasi le undici, si era fatto molto tardi ed Emma non vedeva l’ora di tornare a casa, buttarsi sul letto e chiedersi perché la sfortuna l’amasse tanto.
«Credo che chiamerò un taxi, si sta facendo tardi e devo tornare da Henry…» disse la donna, alzandosi in piedi e cercando la sua borsa.
Il cuore di Killian mancò un battito. Non poteva scivolargli via un’altra volta, non poteva andarsene senza neanche una risposta. Sapeva che si sarebbero inevitabilmente rivisti ma aveva la sensazione che sarebbe fuggita ancora, che fosse tutto uno scherzo della sua mente e presto non avrebbe più sentito parlare di lei. Non poteva lasciarla scappare.
«Se vuoi, posso darti io un passaggio!» si offrì, alzandosi a sua volta. Belle li fissava sorridente e soddisfatta.
«Oh no, non voglio darti nessun fastidio…»
Emma era stranamente diventata paonazza, si disse che era sicuramente colpa del fuoco.
«Insisto! Il taxi arriverà sicuramente tra un’oretta, non vorrai fare tardi…»
«Sì Emma, il signor Jones ha ragione!» si intromise Belle.
Emma chinò lo sguardo. Se avrebbero dovuto passare i prossimi mesi insieme, tanto valeva cominciare fin da subito a collaborare.
«Va bene, ti ringrazio.» sussurrò, prima di afferrare il suo cappotto e infilarselo.
Killian prese la sua giacca di pelle ma non la indossò.
Dopo aver salutato i padroni di casa, o meglio Belle, visto che il signor Gold borbottò soltanto un cupo “Buonanotte”, i due uscirono nell’aria fresca della notte.
Il freddo era pungente, la differenza di temperatura tra l’interno della casa e l’esterno era considerevole, sebbene fosse ancora settembre. Emma rabbrividì, probabilmente non soltanto per il freddo.
Per un qualche assurdo motivo, si aspettò quasi di vedere la sua moto, quella che per anni l’aveva accompagnata a scuola e a lezione. Si aspettò che qualcuno le porgesse un casco, un casco fin troppo familiare.
Ma la sensazione durò poco.
Vide l’uomo incamminarsi verso la grande auto nera che, qualche ora prima, aveva creduto appartenesse al ricco imprenditore.
«È tua!» mormorò a bassa voce, non aspettandosi che lui la sentisse.
«Non capisco perché ti stupisca così tanto…»
L’uomo spinse un bottone sul portachiavi che stringeva in mano e l’auto si illuminò.
«Vieni o no?!»
Emma arrancò verso di lui, spazientita. Una cosa era certa: in quegli anni, entrambi non avevano mai perso il loro orgoglio.
Entrò in macchina e si accomodò sul sedile di pelle, troppo freddo per le sue gambe scoperte.
Killian mise in moto, cercando di non fissarla troppo, di non distrarsi. C’erano così tante cose che voleva chiederle…
Emma dal canto suo, fissava la macchina cercando di trovare un minimo segno, un qualche indizio sull’uomo accanto a lei. Ma era vuota, neanche un portachiavi, un mozzicone di sigaretta, uno scontrino dimenticato. Nulla che indicasse che quell’auto appartenesse a qualcuno. A differenza di quella, il suo maggiolino sembrava vecchia ferraglia. Ma, per nulla al mondo lo avrebbe scambiato per una di quelle macchine, vuota, fredda e anonima.
Il silenzio calò sull’abitacolo. Era pesante, pungente, opprimente. Emma si sentiva soffocare, notava di tanto in tanto le occhiate sfuggenti dell’uomo accanto a lei, si chiedeva perché diavolo non cominciasse il suo interrogatorio. Perché era sicura che ne avesse uno.
Un altro secondo in più e gli avrebbe detto che sarebbe scesa lì, a chilometri di distanza da casa sua, soltanto per porre fine a quell’incontro imbarazzante.
«Dove abiti?»
La sua voce era ritornata bassa, piatta, disinteressata. Emma credette di essersi completamente sbagliata, lui non aveva proprio niente in serbo per lei, tutto ciò che voleva era fare una bella figura agli occhi dei loro nuovi datori di lavoro, offrendole un passaggio. 
Dopo avergli spiegato la strada più corta per raggiungere il suo appartamento, scivolò di nuovo il silenzio.
Minuti interminabili, lenti, vuoti, silenziosi.
Emma credeva di poter sentire il suo cuore battere più del normale.
Fu lui, di nuovo, a rompere il silenzio.
«Chi è Henry?»
Stupido. Di tutte le domande che avrebbe voluto porgerle, tra tutte le risposte che pretendeva da lei, quella era sicuramente la più banale.
«Mio figlio»
Killian non poté evitare di alzare il sopracciglio e stringere la presa sul volante.
Cosa?
Suo figlio?
Emma Swan aveva un figlio? La sua Emma, la piccola bambina indifesa, era diventata mamma?
Si corresse mentalmente, dandosi dello stupido. Non era mai stata sua. 
Non seppe spiegarsi perché, ma sentiva lo strano impulso di fermarsi a vomitare.
Probabilmente lo avrebbe fatto se non avesse avuto i suoi occhi verdi puntati addosso, pronti a cogliere ogni minima reazione. Strinse la mascella, cercando di mostrarsi indifferente. Non poteva dargliela vinta, non avrebbe avuto la soddisfazione di vederlo crollare.
«Quanti anni ha?»
Emma sospirò, stanca. Uno strano sorriso le si dipinse sul viso.
«Piantala, Killian. Sappiamo entrambi che hai domande più importanti di questa!»
Erano ormai arrivati di fronte al condominio in cui la donna viveva. Le luci erano spente, segno che sia Regina che Henry erano già a letto.
Killian parcheggiò lì vicino, spense la macchina e si voltò a guardarla.
La guardò, per la prima volta in quella serata, senza preoccuparsi di nulla. Senza preoccuparsi di risultare indiscreto. I suoi occhi indugiarono sul suo viso, sulle poche lentiggini che le erano rimaste sul naso, sulle sue labbra. Era cambiata, eppure sembrava essere sempre la stessa.
«Hai ragione, Emma. Ho molte altre domande da farti…» ammise, più a se stesso che a lei.
Sospirò.
La donna guardò fuori dal finestrino, aspettando il primo insulto, la prima accusa. Desiderava soltanto che si sbrigasse, per poi scendere da quella macchina e non voltarsi mai più.
Desiderava non aver mai accettato quel lavoro, desiderava che la sua vita non si fosse mai incrociata con quella di Killian Jones.
Desiderava soltanto che chiarissero il prima possibile, così da poter lavorare meglio.
Ma ciò che stava aspettando tardò ad arrivare.
«Tuttavia credo si sia fatto tardi. È meglio se ritorni a casa, la tua famiglia ti starà aspettando…»
Emma si voltò di scatto. Quella parola le provocava ancora uno strano effetto, sembrava vuota, priva di significato soprattutto pronunciata dalle sua labbra.
Restò ferma al suo posto, immobile e in silenzio.
Di certo non si sarebbe mai aspettata che l’avrebbe lasciata andare via così.
«Voglio che tu te ne vada Emma» sibilò.
Le sue parole furono taglienti, affilate. La colpirono in pieno, come un secchio di acqua gelida. Fissò la sua espressione. Avevo lo sguardo puntato dritto di fronte a sé, la mano sulla chiave pronta a partire e la mascella serrata.
«Grazie per il passaggio, ci vediamo presto…» si sentì mormorare.
Detto questo scese dalla macchina, con una matta voglia di urlare. Le salì uno strano groppo in gola e le lacrime arrivarono a pungerle gli occhi, ma lei le ricacciò indietro ostinata.
Quel bastardo.
Lo odiava, lo odiava con tutta se stessa. Godeva nel vederla in difficoltà, si stava riservando lo spettacolo per un momento più appagante, non vedeva l’ora di vederla supplicare il suo perdono. Ma si sbagliava.
Stronzo.
Non avrebbe voluto rivederlo mai più. Invece quel “presto” incombeva su di lei.
Presto significava vederlo tutti i giorni, lavorarci assieme, collaborare, sopportare quelle occhiate.
Attraversò la strada senza mai voltarsi indietro. Sentì soltanto il rumore di una macchina che si allontanava e poco dopo, il rombo familiare di una moto. Non seppe mai se quest’ultimo fu reale o semplicemente frutto della sua immaginazione o della sua coscienza che riportava piano piano a galla ricordi che, seppur felici, avrebbe preferito dimenticare. 
 
 
Killian si maledisse non appena la vide scendere dall’auto, per la seconda volta in quella sera. O forse la terza, ormai aveva perso il conto. Si era ripromesso di non lasciarsela sfuggire, di metterla con le spalle al muro e farsi gridare le risposte che da anni desiderava, ma l’aveva lasciata andare. E lei era lì, camminava leggera su quella strada nera e si infilava in un portone, un portone simile a tutti gli altri, un portone di fronte al quale era passato così tante volte. Adesso era il suo. Adesso sapeva che c’era lei lì dentro, lei e tutti i suoi segreti, la sua famiglia, i suoi sogni e la sua ambizione.
Adesso non sarebbe più stato un portone come gli altri.
Killian aspettò che entrasse e ripartì.
Sfrecciò sulle strade di New York, abbandonandosi a quell’ebrezza che la velocità gli donava. Per un attimo sentì la nostalgia della sua moto, del vento tra i capelli. Fu un solo istante, perché quel ricordo ne portò a galla degli altri, inevitabilmente con Emma aggrappata dietro di lui.
Lasciò la macchina e si diresse verso il suo appartamento. Sperò che David se ne fosse andato o che stesse già dormendo, non aveva nessuna voglia di raccontargli come fosse andata la cena, perché avrebbe dovuto menzionare Emma e raccontargli tutto e lui, non era ancora pronto.
Infilò la chiave nella serratura e fu invaso dal solito profumo di legno e vernice. Tutto era buio, immerso nel silenzio. Killian accese la luce, buttò la cartellina contente i progetti da qualche parte sul tavolino e si slacciò la cravatta. Odiava quel maledetto aggeggio. Non riusciva a capire perché dovesse sempre indossarla.
Ispezionò la casa e notò che il suo amico non c’era.
Trovò un paio di bottiglie di birra vuote e un biglietto in cui David annunciava che avrebbe fatto ritorno nella sua caverna.
Killian sorrise. Forse gli avrebbe fatto bene parlarne con lui, forse sfogarsi gli sarebbe servito.
Controllò l’orario e valutò l’ipotesi di chiamarlo ma era troppo tardi.
Così lentamente scivolò in camera sua, si tolse i vestiti e si fece una doccia. L’intenzione era quella di farla fredda, gelata così da raffreddare ogni suo pensiero, ma non ci riuscì. Lasciò scorrere l’acqua calda sul suo corpo, chiuse gli occhi e cercò di non pensare a niente.
Dopo un tempo che non riuscì a contare uscì, si infilò il pigiama e si buttò sul letto.
Si passò una mano sugli occhi stancamente, fissando il soffitto.
Forse, forse non era ancora pronto, dopotutto.
Forse temeva le risposte a quelle domande e non riuscì a spiegarsi perché.
Chiuse gli occhi e si addormentò.
Quel “presto” incombeva anche su di lui.
 
 
 
 
 
 
 
 


Eccomi qui! :)
Finalmente Emma e Killian si sono rivisti. Ormai, nessuno dei due ci sperava più eppure, il destino (vale a dire io xD) aveva altri piani per loro!
Il loro primo incontro non è stato tra i migliori come avrete potuto notare. A dividerli ci sono tante cose, forse troppe. Killian non è riuscito a perdonare Emma per ciò che ha fatto, ma allo stesso tempo, non ha voluto sapere niente.
Questa volta, la fine è un po’ più tranquilla! Presto, già nel prossimo capitolo suppongo, vedremo i due all’opera!
Come sempre non posso non spendere due parole per tutti voi, che continuate a leggere e a seguire questa storia! GRAZIE MILLE!
E un grazie particolare va come sempre a tutte coloro che mi lasciano una recensione! Grazie, davvero!! Siete fantastichee! Non sarei mai arrivata fin qui senza il vostro supporto!
Ringrazio già in anticipo chi vorrà, anche questa volta, lasciarmi un commento! Spero che il capitolo vi sia piaciuto!!
A prestissimo,
un abbraccio
Kerri :*

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Capitolo 9
*** Things Change ***


8. Things change

 
Di cosa siamo capaci, pensò.
 Crescere, amare, fare figli, invecchiare -
e tutto questo mentre anche siamo altrove,
nel tempo lungo di una risposta mai arrivata,
o di un gesto non finito.
̴A. Baricco
 
 
Il giorno dopo Emma vagava per la casa come un’ossessa, raccogliendo vestiti, spazzando i pavimenti e spolverando i mobili.
Henry non ricordò di averla mai vista così in forma, soprattutto di domenica mattina.
La verità era che Emma non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Continuava a girarsi e rigirarsi nel letto, la sua mente si rifiutava di lasciarla riposare in pace, ricordava, ripassava ogni piccolo dettaglio.
La cicatrice, i suoi occhi cupi, la barba incolta, la cravatta, il suo sorriso stanco, la sua voce.
Dannazione!
Lo odiava, sì lo odiava con tutta se stessa.
«Mamma, tutto bene?»
La voce di Henry la riportò alla realtà.
No Henry, non c’è niente che vada bene.
«Certo tesoro, perché me lo chiedi?» chiese con un tono tranquillo che stupì lei stessa.
«Be’ perché è domenica, sono le nove e tu stai facendo le pulizie!»
«Qualcuno dovrà pur farle…» rispose la donna, dirigendosi in cucina.
Tenersi impegnata la aiutava a non pensare, perché sapeva che se avesse lasciato liberi i propri pensieri, essi l’avrebbero portata di nuovo alla sera precedente.
Le sue parole le rimbombarono nella mente.
Voglio che tu te ne vada.
Dopotutto, forse se l’era meritato. Anzi, se l’era sicuramente meritato.
Il bambino sbuffò e la seguì, aprì il frigorifero e si versò un po’ di latte in una tazza.
«Com’è andata ieri?»
Eccola, la domanda che temeva più di tutte.
Cosa avrebbe dovuto fare? Raccontargli tutto?
Era solo un bambino e per quanto fosse intelligente non poteva certo dirgli “Tutto bene, ho solo incontrato un mio vecchio amico che probabilmente ho fatto soffrire come un cane e mi ha fatto sentire di merda, come è giusto che sia…vuoi dei cereali?”
Henry non sapeva dell’esistenza di Killian, così come Killian non sapeva dell’esistenza del bambino.
Emma non gliene aveva mai parlato, non perché non si fosse presentata l’occasione, semplicemente perché non amava parlare della sua infanzia.
Erano ferite che ancora non si erano rimarginate, ferite che Killian aveva riaperto con sei parole.
«Tutto bene, il signor Gold è un tipo strano e dovrò collaborare con qualcuno…»
«Chi?» chiese il bambino, versando un po’ di cereali nella tazza.
«Un architetto»
Già, un architetto.
Tra tutti i lavori esistenti al mondo, non avrebbe mai pensato che Killian Jones sarebbe diventato un architetto.
«Fico! E com’è?»
«Mmm…»
Il bambino alzò un sopracciglio. Non era certo stupido: le pulizie, quel tono vago ed evasivo. Aveva capito che sua madre gli stava nascondendo qualcosa, qualcosa accaduta la sera prima e di cui non aveva nessuna intenzione di parlargli. Il suo compito era scoprire cosa fosse quel qualcosa.
In quel preciso istante il campanello suonò. Emma sussultò, chissà per quale motivo, si aspettava un uomo dai capelli corvini e gli occhi color del mare. Andò ad aprire titubante e tirò un sospiro di sollievo quando si rese conto che era soltanto la sua amica.
Aspetta, e adesso? Cosa avrebbe dovuto raccontare a Regina?
«Swan! Già sveglia? Mi stupisci, non sei mai stata così mattiniera!»
Emma sbuffò, alzando gli occhi al cielo e si scostò per lasciarla entrare. La donna si recò immediatamente in cucina e salutò Henry con un bacio sui capelli.
«Allora, come è andata?» chiese, dopo essersi tolta il solito cappotto nero.
«Bene…»
«Mamma ha detto che lavorerà con qualcuno! Un architetto!» si intromise Henry. Emma avrebbe voluto fulminarlo con lo sguardo, ma si contenne.
Regina la fissò, inarcando un sopracciglio. Aspettò che Emma si spiegasse, ma quando notò che la sua amica non accennava ad aprir bocca, insisté.
«Che vuoi che ti dica, Regina? Sì, dovrò collaborare con qualcuno…»
La donna dai capelli neri capì subito che qualcosa non quadrava. Di solito Emma non si faceva molti problemi, anzi. In varie occasioni aveva dimostrato di essere perfettamente capace di adattarsi a qualsiasi situazione.
Ma questa volta, nel suo tono stanco, nei suoi occhi spenti, Regina notò qualcosa di strano, di diverso.
«Henry, va’ di sopra a prepararti così poi usciamo!»
Il ragazzino annuì, capì subito al volo e scomparve di sopra in pochi secondi.
Emma prese il posto di suo figlio, si accasciò sullo sgabello e sospirò.
«Allora? Che diavolo è successo Emma?»
«Un casino, Regina! Un enorme e gigante casino!» sbottò la donna, prendendosi la testa tra le mani.
«È successo qualcosa con Gold? Con Belle?»
«No no, Belle è fantastica e il signor Gold, be’ è il signor Gold, penso tu sappia di chi stiamo parlando…»
La donna annuì.
«Allora cosa c’è? Parla dannazione, prima che decida di strapparti la lingua!»
«L’architetto»
Di nuovo quella strana sensazione si impossessò di lei. Perché era così strano definirlo come tale?
«Cosa ha fatto?»
«Non cosa ha fatto, la vera domanda che devi pormi è un’altra…»
«Emma, ti giuro che sto per perdere la pazienza! E lo sai cosa accade, quando perdo la pazienza! Smettila con questi giri di parole e parla, maledizione!»
«Killian Jones»
Un solo nome. Un nome e Regina capì tutto. La sua mente la riportò alle lunghe chiacchierate in camera di Emma, qualche mese dopo essersi conosciute. La riportò a quella ragazzina un po’ impaurita che si era lasciata alle spalle la sua vecchia vita, per cominciarne un’altra. E in quei discorsi, un nome veniva ripetuto in continuazione. Un nome che non aveva mai avuto un volto definito, un nome a cui erano legati molti rimpianti.
Dopo la nascita di Henry, dopo Neal, non ne avevano parlato più. E adesso si ripresentava prepotentemente nelle loro vite, nei loro discorsi.
Eppure, Regina non mostrò alcun segno di sorpresa, non restò sbigottita, non curvò le labbra, chiuse soltanto gli occhi per qualche istante e poi, lentamente, li riaprì.
«Oh…quel Killian Jones?»
Emma annuì.
«Perché non mi sembri così sorpresa?»
Regina abbassò lo sguardo e si attorcigliò le mani.
«Sapevi qualcosa? Regina, sapevi qualcosa?» urlò Emma, alzando di un’ottava il suo normale tono di voce.
«Certo che no, Swan! Come ti salta in mente?»
«E allora che c’è?»
«Io, be’ sapevo che si era trasferito da queste parti!»
«Cosa?! E perché non me lo hai detto?» esclamò Emma, sentendosi di colpo arrabbiata, frustrata.
«E che diavolo avresti fatto Emma? Ti saresti presentata alla sua porta con un mazzo di fiori e una scatola di cioccolatini e un biglietto con su scritto “Scusa se ti ho abbandonato nel cuore della notte non ho mai più risposto alle tue chiamate?!” Cosa, Emma?!»
La donna restò in silenzio, guardando torva di fronte a sé. Sì, forse l’avrebbe fatto o chissà, forse no. Forse non l’avrebbe mai incontrato, dopotutto New York non è certo Storybrooke. Ma forse sarebbe stata più preparata all’incontro della sera precedente.
«Non volevo provocarti ulteriori grattacapi Emma! Mi sembrava inutile che tu lo sapessi, tutto qui! L’ho fatto solo per il tuo bene…»
Lo sapeva, Emma lo sapeva.
Ma per una qualche ragione sfogare la sua rabbia su Regina era un buon modo per alleviarla, per non pensare a colui che l’aveva effettivamente provocata.
«Domani dobbiamo vederci» mormorò, quasi volesse convincere se stessa più che riferirlo a Regina.
La donna non replicò. Sentirono i passi di Henry scendere le scale e per tutto il resto della giornata, né Emma, né Regina ritornarono sull’argomento.
 
 
La domenica trascorse lentamente e prima che Killian potesse rendersene conto, la sveglia suonò ricordandogli che il suo primo giorno di lavoro con Emma Swan, stava per cominciare.
Si tirò giù dal letto di malavoglia, si trascinò in bagno e si fece una doccia bollente. Poi si recò di nuovo in camera e optò per un abbigliamento un po’ più sportivo: dei jeans scuri e un maglione grigio. Sì, sicuramente si sentiva più a suo agio in quella tenuta.
Raccolse le sue cose, i suoi appunti e la sua cartellina e si chiuse la porta di casa alle spalle.
Quel giorno, il cielo di New York era completamente grigio. Non si distingueva né una nuvola, né un piccolo pezzettino di cielo.
Prima di dirigersi a casa Gold, si fermò a comprare un caffè e chissà perché, gli venne la malsana idea di comprarne uno anche a lei, insieme ad una brioche alla cannella.
Si diede dello stupido mentre porgeva i soldi alla cameriera che l’aveva servito, chiedendosi perché l’avesse fatto. Ma dopotutto, avrebbero dovuto lavorare e quel caffè sarebbe stata un’offerta di pace, considerando che il loro rapporto non era ricominciato nel migliore dei modi.
Ne aveva parlato con David il giorno precedente. Alla fine aveva scelto di dirgli tutto, ovviamente tralasciando i dettagli più imbarazzanti. L’uomo era rimasto sorpreso tanto quanto lui, esclamando “Diavolo amico! Tra tutti gli abitanti di New York! La sfiga è tua amica!” e poi aveva cominciato a blaterare qualcosa sul “Destino” o una cosa del genere; alla fine, gli aveva consigliato di andare avanti, di ricominciare senza curarsi dei vecchi rancori. Killian gli aveva dato ragione, sapeva che aveva ragione ma non poteva assecondarlo. Non poteva vivere la restante parte della sua vita affogando nei dubbi.
Rientrò in macchina e si diresse verso il suo nuovo posto di lavoro.
 
 
Quando arrivò di fronte alla casa dei futuri coniugi Gold, parcheggiò accanto ad un maggiolino giallo. Scese dall’auto, con la strana sensazione di averlo già visto. Ma viveva a New York, in una delle città più grandi del mondo, probabilmente ce n’erano a dozzine di macchine simili.
Suonò il campanello e una donnina dai grandi occhi neri, venne ad aprirgli.
«Oh, lei deve essere il signor Jones! Prego, la sua collega è già arrivata!»
Killian le sorrise e seguì la donna. Sentì uno strano prurito alle mani, pian piano che si avvicinavano al piano superiore, piano in cui molto probabilmente si trovava Emma. Era così agitato che non sentì neanche il nome della gentile domestica. Si limitò a sorridere ed annuire, dandosi dell’idiota da solo.
Stringeva tra le mani il caffè e la brioche, mentre sotto il braccio aveva la sua fidata cartellina di pelle.
Alla luce del sole, la casa sembrava molto più spaziosa e ariosa. Il legno dei mobili e del parquet sembrava quasi splendesse. Killian ne restò affascinato.
«Bene, la signorina ha deciso di cominciare da questa stanza! Vi lascio, ho così tante cose da sbrigare! Se avete bisogno di qualcosa, urlate!»
Killian sorrise ancora a quella donna dalle maniere un po’ buffe e la vide incamminarsi di nuovo verso il pian terreno.
Prese un profondo respiro ed entrò nella prima stanza di cui, lui ed Emma si sarebbero occupati.
«Sei in ritardo»
Emma era di spalle, al centro della stanza, di fronte alla finestra e si guardava intorno, scarabocchiando qualcosa sul suo block notes.
«Forse sei tu ad essere in anticipo» disse grattandosi la nuca.
La ragazza non replicò.
«Ti ho portato qualcosa» continuò Killian, posizionandosi affianco a lei e porgendole il sacchetto e il bicchiere di caffè.
Emma lo guardò sospettosa, fissando prima il suo volto e poi ciò che le sue mani stringevano.
«Un caffè e una brioche non riusciranno a farti perdonare così velocemente, Jones»
L’uomo sorrise, una scintilla gli illuminò lo sguardo.
«La brioche è alla cannella…»
Emma abbandonò per una frazione di secondo l’espressione da dura che si era ripromessa di mantenere, schiudendo le sue labbra in un sorriso.
«Cominciamo a ragionare!» mormorò afferrando il bicchiere e ingoiando un po’ di quel liquido bollente. Quel giorno, come del resto tutti gli altri, non era riuscita a fare colazione. Doveva ammettere che era leggermente agitata al solo pensiero di dover rivedere il suo vecchio amico di infanzia e nonostante si fosse svegliata prima del dovuto, non era riuscita a mangiar nulla. Così accettò di buon grado la colazione offertale da Killian.
«Sei qui da molto?» chiese Killian, sorseggiando a sua volta un po’ del suo caffè latte.
«Abbastanza da avere già qualche idea su come sistemare questo posto…» esclamò la donna, addentando un altro morso della brioche, stando ben attenta a non fare troppe briciole.
Killian alzò un sopracciglio. Forse Emma aveva dimenticato il significato della parola “Collaborare”.
«Ah sì? Non mi dire…»
La donna gli lanciò un’occhiataccia poco amichevole e si accovacciò proprio al centro della stanza, continuando a scarabocchiare sul suo quaderno.
Killian sorrise.
«Secondo i miei appunti, questa dovrebbe essere una delle due camere da letto, giusto?»
Emma lo ignorò e continuò a scrivere e sorseggiare il caffè.
Killian vagò per la stanza, tastando i muri, affacciandosi alla finestra, misurando quanti passi fosse larga. Emma faceva finta di ignorarlo, continuava a scribacchiare qualche appunto sulla sua agenda, ma di tanto in tanto, si concedeva una piccola sbirciatina. Aveva uno strano metodo, sembrava quasi buffo. Si accovacciava, toccava gli angoli e batteva sul parquet e contava. Non aveva mai visto un architetto all’opera ma era piuttosto sicura che non tutti agissero in quel modo. Anzi, quasi nessuno.
Dopo quasi un quarto d’ora di misurazione e prove tecniche si alzò di scatto e si avviò verso di lei a grandi falcate.
«Bene, ho finito! Possiamo andare!» disse, posizionandosi di fronte a lei e con le braccia sui fianchi, coprendole tutta la visuale.
Sembrava piuttosto imponente visto dal basso.
«Swan, non puoi continuare ad ignorarmi. Forse dovrei ricordarti che sono io quello che dovrebbe essere arrabbiato!»
Emma sbuffando si alzò, incrociò le braccia al petto e spostò il peso sulla gamba destra.
«E si può sapere dove vorresti andare, di grazia?»
Killian le riservò uno dei sorrisi più veri dacché si erano ritrovati, un sorriso da mascalzone che celava una fila di denti perfetti. Un sorriso che inevitabilmente, riportò Emma ai pomeriggi passati insieme, sgranocchiando popcorn sul divano.
«Ovviamente al tuo negozio, no?» disse, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Emma fu colta alla sprovvista. Di certo non avrebbe dovuto stupirla quell’affermazione, prima o poi ci sarebbe andato, però non pensava così presto. Andare lì, significava rendere la collaborazione ufficiale, farlo entrare nel suo mondo, nella sua vita.
«Se non so cosa abbiamo a disposizione, non potrò progettare un bel niente, non credi?» disse Killian, notando il volto spaesato di Emma. La donna annuì.
Killian raccolse i suoi appunti, la cartellina e i due bicchieri ormai vuoti.
Emma lo seguì in silenzio, lanciò un’ultima occhiata alla stanza e poi si chiuse la porta alle spalle.
«Dovremo dire a Mrs Bric che ce ne stiamo andando…» pensò Emma ad alta voce.
Oh, allora era quello il nome della donnina!
Emma vide il capo di Killian annuire e un attimo dopo, scomparve di sotto.
«Fatto, le ho detto che forse ritornavamo più tardi…Fai strada, collega» disse, aprendole la porta e facendosi da parte.
Buffone.
Emma si diresse verso il suo maggiolino giallo, il suo amato e fidato maggiolino giallo. Ormai ne era affezionata e non l’avrebbe cambiato per nulla al mondo. Ne aveva passate tante eppure continuava a scarrozzarla in giro per la città, come se gli anni non pesassero anche su di lui.
Sentì una risata dietro di lei e si girò di scatto, portando le mani sui fianchi.
«Che c’è da ridere?» chiese acidamente.
«È tua? Sul serio?» disse l’uomo, trattenendo a stento le risate. Aveva pensato appartenesse a Belle o a Mrs Bric. Emma era sicuramente l’ultima candidata nella sua lista.
«Non capisco perché ti stupisca così tanto…» disse la donna, ricordando le sue parole di qualche giorno prima. «È ridicola!» si limitò a rispondere, come se stesse appurando una verità ovvia a tutti.
«Non-osare-parlare-male-della-mia-macchina!» tuonò la giovane.
Killian trattenne un’ulteriore risata di fronte alla reazione esagerata di Emma.
«Ok, tigre. Scusa, non volevo offenderla! Poverina, spero non si sia arrabbiata con me…» disse ironicamente, battendo il pugno sul cofano della macchina.
Emma gli lanciò un’occhiataccia, probabilmente la decima anche se aveva perso il conto.
Entrò in auto e accese il motore.
Sentì qualcuno bussare al finestrino.
Ma perché era così insistente? Così irritante? Così…
«Swan, non fare la bambina! Non so dove sia il tuo negozio, vieni con me!»
Scocciata abbassò il vetro.
«Segui questa ridicola auto, Jones!»
 
 
Tutto filò liscio, fortunatamente. Emma sapeva che la sfortuna ormai l’aveva presa in simpatia quindi, quando arrivò di fronte al suo piccolo negozio, tirò un sospiro di sollievo.
Nessuna ruota bucata, nessun incidente stradale, nessun guasto al motore.
Bene.
Controllò che Jones parcheggiasse il suo bolide da qualche parte, poi uscì all’aria aperta del mattino. Controllò il piccolo orologio che aveva al polso. Erano già le undici e mezza.
Si avvicinò alla piccola vetrina e aspettò che Killian la raggiungesse. Lo fissò camminare disinvolto verso di lei, gli occhi coperti da un paio di occhiali da sole e la sicurezza di chi è conscio delle sue qualità.
Non riusciva più a capirlo come qualche tempo prima, doveva ammetterlo. Avrebbe giurato che, se l’avesse anche solo incontrata, le avrebbe puntato una pistola alla tempia o l’avrebbe rapita, desiderando porgerle quelle domande alle quali lei, molto tempo prima, si era rifiutata di rispondere.
Sì, forse stava un po’ esagerando. Forse l’avrebbe soltanto ignorata, se il destino non si fosse messo in mezzo e avesse deciso di intrecciare ancora le loro strade, forse non avrebbe più sentito parlare di Killian Jones per il resto della sua vita, lui non avrebbe mai più interferito.
Eppure…
Eppure era delusa. Una piccola parte del suo cuore, la più remota, la più isolata, credeva davvero che Killian Jones, a dispetto di tutto, non se ne sarebbe mai andato, che l’avrebbe sempre aspettata a braccia aperte, con una scatola di ciambelle e un rimprovero per averlo fatto aspettare così tanto.
Prima non ci pensava, viveva nel dubbio. Adesso che ce l’aveva davanti, aveva potuto constatare lei stessa che lui era riuscito ad andare avanti con la sua vita, a diventare quella persona che lei gli aveva augurato che fosse. Era un brillante architetto, un uomo avvenente che di sicuro non aveva nessun problema con le donne e stava per concludere l’affare più importante della sua vita. All’apparenza, Killian Jones sembrava essere perfettamente riuscito ad ottenere ciò che chiunque desiderasse dalla vita.
E forse era questo che le faceva più male, perché lei, al contrario, aveva sempre conservato il suo ricordo, aveva sempre accarezzato l’idea, in una piccola e remota parte del suo cuore, di ritrovarlo, di chiedergli scusa, di riabbracciarlo. Ma se ne rendeva conto soltanto adesso, purtroppo.
Non sapeva quanto si sbagliava.
«Once Upon A Time…?! Non ti facevo così poetica, Swan!» scherzò l’uomo, leggendo l’insegna di legno che spiccava sulla porta del negozio e interrompendo i suoi pensieri.
«Non l’ho scelto io, è stata un’idea di Henry…» rispose la donna seccata, mentre infilava le chiavi nella serratura.
Killian non rispose. La porta cigolò un po’ quando Emma la spalancò. La giovane andò ad aprire le altre finestre, così che la luce potesse filtrare liberamente e illuminare quel piccolo posticino.
Lo sguardo dell’uomo vagava per la stanza e sì, doveva ammettere che Swan ci sapeva fare. Sebbene la camera in cui si trovava non fosse grande, ogni angolo era pieno zeppo di oggetti di ogni tipo: da antichi comodini a quadri moderni, da piccole bambole di porcellana a fotografie in bianco e nero.
«Devo ammetterlo Emma, sono piuttosto stupito!»
La donna alzò gli occhi al cielo. Certo, la descrizione del signor Gold non aveva lasciato molto spazio all’immaginazione quindi Killian aveva tutte le ragioni del mondo per essere sorpreso. 
«Quello che vedi non è neanche la metà di ciò che vendiamo!» disse la donna, spostandosi verso il bancone al lato sinistro della stanza, esattamente di fronte alla porta di ingresso.
«Ah no?!» chiese, seriamente interessato.
«Sorprendimi!» mormorò, sfoderando un altro dei suoi sorrisi mozzafiato.
Emma si accomodò sullo sgabello, fece scrocchiare le ossa delle dita e accese il computer.
«Una settimana fa, abbiamo trovato un vero tesoro!» disse, aprendo le foto che avevano scattato nella casa dei Darling e facendo segno a Killian di avvicinarsi.
«È un’antica casa vittoriana che i proprietari vogliono ristrutturare o vendere, non ho capito bene…comunque ci hanno ingaggiato per raccogliere tutti gli oggetti, i mobili, i quadri, le foto, i pomelli e rivenderli! Io ed Henry siamo riusciti a trasportare soltanto quattro scatole ma c’era ancora dell’altro, per non parlare dei letti a baldacchino e del pianoforte a corda…»
«Come farai a trasportare un pianoforte a coda?» chiese l’uomo piuttosto incuriosito e divertito.
«Non ne ho la più pallida idea!» rise la donna.
E Killian la sentì ridere per la prima volta dacché si erano ritrovati e vide di nuovo quelle piccole fossette agli angoli delle labbra e suoi occhi verdi come l’erba diventare più piccoli.
E rise anche lui, contagiato dalla risata cristallina della donna al suo fianco. Rise dimenticandosi che quella era Emma Swan, la donna che l’aveva fatto soffrire più di chiunque altro essere umano al mondo, dimenticandosi che non l’aveva ancora perdonata e probabilmente non l’avrebbe mai fatto, se non avesse sentito prima le sue motivazioni. Rise, come ridono un uomo e una donna qualunque, in un negozio d’antiquariato qualunque e con un lavoro qualunque.
«Se vuoi, possiamo andarci insieme…» si sentì pronunciare, non appena si furono un po’ calmati. Vide la sorpresa nel volto di Emma.
«Il mio amico David ha un furgoncino che utilizzava prima per lavoro…posso chiedere se può prestarcelo! Di certo sarebbe molto più utile della tua macchina!» si affrettò a spiegare.
Emma alzò un sopracciglio.
«Intendo che ci entrerebbe sicuramente più roba!» disse alzando le braccia, in segno di innocenza.
La donna sorrise.
«Certo, se ti va, possiamo andarci domani! Così vediamo se riesci a trovare qualcosa per casa Gold!»
Killian annuì.
Per secondi che sembrarono interminabili, regnò il silenzio. Non riuscivano a staccarsi gli occhi di dosso, aspettando che fosse l’altro a fare la prima mossa, a parlare per primo, a ripescare vecchie ferite del passato. Ma nessuno dei due lo fece.
Killian stava per aprire la bocca, quando sentì un tintinnio familiare. Entrambi spostarono lo sguardo verso la porta. Un bambino di circa dieci anni o poco più, aveva fatto il suo ingresso.
«Ciao mamma!»
«Henry! Che ci fai qui? Non dovresti essere a scuola?!» chiese la donna, sgranando gli occhi alla vista del suo piccolo ometto.
Il tono di voce di Emma era alquanto stridulo, allarmato e sorpreso. Sbirciò in direzione dell’uomo accanto a lei, avrebbe voluto che le “presentazioni ufficiali” avvenissero in maniera differente, ma la fortuna, ancora una volta, non era dalla sua parte.
Killian era sconvolto. Il ragazzino che aveva davanti era… be’ era un ragazzino! Non un neonato, men che meno un bambino! Era un ragazzino, doveva avere all’incirca dieci, dodici anni, il che voleva dire che o Emma l’aveva adottato, oppure era rimasta incinta qualche mese dopo averlo lasciato.
Di chi? Perché se ci pensava, una strana sensazione si insinuava in lui? Emma, la ragazzina sognatrice che aveva scelto la danza al posto della sua amicizia, aveva avuto un figlio. Perché non gliel’aveva mai detto? Ah, giusto. Niente contatti. Che stupidità.
Probabilmente la sua espressione era piuttosto sconvolta.
«Mamma, te l’ho detto oggi a colazione! Tra due settimane c’è lo spettacolo del corso di teatro e oggi pomeriggio dobbiamo provare! Così, prima di andare a teatro, sono passato di qui! È lui l’architetto?» disse, addentando una mela che aveva estratto dallo zaino e spostando il suo interesse verso l’uomo.
Killian si riscosse alla parola “architetto”. Stava parlando di lui no? Non poteva essere altrimenti, era l’unico architetto presente in quella stanza! A meno che, anche il padre del ragazzino era un architetto e questo spiegherebbe come mai Swan, da ballerina si era ritrovata in quel negozietto. Ma dov’era il padre del ragazzo?
«Sì, Henry vorrei presentarti Killian Jones! Killian, questo è Henry, mio figlio!»
La voce di Emma lo riportò alla realtà e porse, in tempo, la mano al ragazzo che gliela strinse con un sorriso. I suoi occhi divennero piccoli, come lo diventavano quelli della madre quando rideva.
Forse stava esagerando.
«Forte! Killian, come il pirata delle tue storie mamma!»
Emma avrebbe preferito che un fulmine la colpisse in pieno, piuttosto che dover sopportare quel momento così imbarazzante. Avrebbe voluto sotterrare la testa sotto terra come gli struzzi ed evitare di fornire a Killian un ulteriore motivo per prenderla in giro e farle ammettere la verità.
Aveva sperato, a quanto pare inutilmente, che suo figlio non ricordasse quel piccolo particolare, ma l’aveva sottovalutato ancora una volta. Non a caso era l’unico a sapere a memoria tutto il copione dello spettacolo.
Killian inarcò un sopracciglio. Pirata?! Questa era davvero buona… cercò di trattenere il sorriso che stava nascendo sul suo volto.
Henry notando l’espressione sorpresa dell’uomo si affrettò a spiegare che sua madre, quando era piccolo, gli raccontava le avventure di un coraggioso pirata, capitano di una nave pirata e degli altri marinai, tutti pirati.
Ho già detto che era un pirata?
«Ti piacciono ancora i pirati, Swan?» chiese divertito.
«Sì, be’…» cominciò Emma, cercando di inventarsi qualcosa.
«Ancora?! Vi conoscevate già?!» esclamò Henry, sorpreso. Fu più una constatazione logica che una domanda. Il bambino aveva già la risposta e cominciava a capire perché sua madre si comportava in modo strano in quei giorni.
«Io e tua madre eravamo vecchi amici…» rispose Killian, appoggiandosi ad una libreria e incrociando le gambe, ripetendo quanto aveva già ammesso il primo giorno in cui l’aveva rincontrata.
«Super fantastico! Allora sarà più facile, vero ma’?!»
«Già, sì, più facile, come no…» annuì la donna, poco convinta.
Killian sorrise ancora. Gli piaceva quella versione di Emma, meno scontrosa e più imbarazzata.
Henry diede l’ultimo morso alla mela e gettò il torsolo nel cestino, sotto il bancone.
«Bene, adesso devo andare! Ci vediamo stasera mamma!» disse, schioccandole un bacio sulla guancia.
Poi si rivolse a Killian.
«È stato un piacere conoscerla, signor Killian! Perché non viene da noi a cena una di queste sere?!»
«Se tua madre è d’accordo…» disse l’uomo cautamente. Una cena, a casa di Emma Swan. Se qualcuno gliel’avesse detto qualche settimana prima, gli avrebbe riso in faccia.
«Sì, certo! La mamma è d’accordo, non vede l’ora di potersi vantare delle sue doti culinarie!»
«HENRY!» urlò Emma, ormai rossa dall’imbarazzo.
«Che c’è? Sei brava a cucinare, no?» disse il bambino, alzando le spalle. Strizzò un occhio a Killian e poi si precipitò fuori dal locale.
Killian ed Emma lo seguirono con lo sguardo. Quando scese in metropolitana, Killian spezzò il silenzio.
«Davvero sai cucinare?»
Emma sospirò, cercando di sembrare scocciata ma nascondendo un sorriso.
«Già. Le cose cambiano, Killian! Anche quando noi non ce ne accorgiamo…»
 
 
 
 
 
 
 
 
Salvee a tutti! :)
Come avrete potuto notare, sono tornata! Questo è probabilmente uno dei capitoli più lunghi di questa storiae spero davvero che vi sia piaciuto! Emma e Killian devono cominciare a lavorare insieme! Killian stava per parlare, per chiederle qualcosa ma sono stati interrotti da… Henry!! Ahahah povero Killian, vedendolo gli sarà venuto un infarto!! xD
Il prossimo capitolo è già in stesura, quasi pronto!! Vedremo come si evolveranno le cose, se finalmente riusciranno a mettere una pietra sopra il loro passato e ricominciare.
Ovviamente, nel mio angolino, non posso non ringraziare tutti voi che siete arrivati fin qui, spendendo un po’ del vostro tempo per la mia storia! Davvero, so che sto diventando logorroica, ma G R A Z I E!
Grazie a tutte voi che mi lasciate una recensione, spingendomi sempre a dare il massimo, grazie a voi che inserite la storia nelle varie categorie e grazie anche a chi legge solamente!
La storia è anche vostra!
Adesso mi dissolvo,
ho ricominciato a vedere OUAT quindi vado a vedere qualche puntata! Giusto per alleviare un po’ l’attesa xD
Un bacione,
Kerri :*
 

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Capitolo 10
*** Forgive me ***


9. Forgive Me

 
“Because when you betray the people you love,
When you make them see the worst parts of you, 
What you’ve done changes everything. 
There’s no going back, you’ve shattered the bonds
You worked so hard to forge.
And the stronger those bonds once were, 
The more difficult they are to put back together…
If they can be repaired at all.
 
-Mary Margaret 
 
Regina si era da poco sistemata in quello che, da lì fino alla fine della sua carriera, sarebbe stato il suo studio personale. Aveva poggiato sulla scrivania diverse fotografie, una delle quali la ritraeva in uno dei suoi momenti migliori. All’epoca aveva tutto ciò che una persona desiderava: era bella, celebre, ricca, aveva un uomo che la amava più della sua stessa vita e una lunga carriera le si prospettava dinanzi.
Aveva tutto.
Poi, nel giro di un secondo, ogni cosa si era spezzata, andando in frantumi.
Non l’avrebbe ammesso neanche sotto tortura ma aveva trovato la sua àncora di salvezza in quella giovane un po’ sbadata e terribilmente ansiosa, allo stesso modo in cui Emma l'aveva trovata in lei. Prima della gravidanza di Emma, prima della catastrofe il loro era un legame piuttosto strano. Si consideravano amiche, parlavano di tutto, si scambiavano i compiti ma erano sempre in lotta. Entrambe avevano un carattere forte, entrambe volevano dimostrare all’altra il rispettivo valore. Per questo litigavano spesso all’epoca, a causa dell’eccessivo orgoglio di entrambe e doveva ammettere, dell’eccesivo egocentrismo.
Grazie alle loro vite disastrate però, la loro amicizia era divenuta più forte e più salda. Come si dice, non tutti i mali vengono per nuocere…
Le venne quasi da ridere di fronte all’assurdità di quella affermazione. Certo, aveva Emma, aveva Henry ed era più che felice, ma cosa ci aveva guadagnato? Quel giorno, aveva perso l’uomo che amava. Da quel giorno il suo cuore era morto con lui.
Non era più riuscita ad amare da allora, ad amare totalmente ed incondizionatamente almeno. Aveva avuto diverse storie è vero, ma a quegli uomini stupidi e così sicuri delle loro facoltà, aveva donato soltanto il suo corpo, non la sua anima, men che meno il suo cuore.
Adesso, dopo dieci anni dalla morte di Daniel aveva riacquistato quasi tutto: era bella, più bella che mai ed aveva una lunga carriera che le si prospettava dinanzi, ma il suo cuore era bucato e difficilmente si sarebbe riaggiustato.
Il telefono squillò. La donna alzò la cornetta e rispose.
«Regina Mills»
«Signora, sua madre ha avuto un infarto. Deve venire immediatamente!»
Regina sbiancò ma il tono della sua voce restò fermo.
«Arrivo!»
 
 
La sera, una volta rientrata a casa, Emma non poté fare a meno di fissare, ogni due secondi, lo schermo del suo cellulare.
Quel pomeriggio, dopo l’uscita di scena di suo figlio, Emma aveva mostrato al suo collega, buona parte degli oggetti e dei mobili che conservava nel negozio.
Gli aveva mostrato l’antica libreria che giaceva lì da qualche anno, la sua preferita, e le bambole di porcellana più spaventose, nascoste dietro qualche vecchia fotografia.
Senza che se ne accorgessero, il tempo era passato piuttosto velocemente. Emma dovette ammettere che non fu così spiacevole come aveva pensato, anzi. Killian non aveva toccato neanche una volta il loro passato, limitandosi a fare battutine e commentare qualche oggetto. Come se non fossero passati dodici anni, Emma gli rispondeva a tono e continuarono così finché il suo stomaco non cominciò a brontolare.
Che vergogna!
«Sono già le quattro Emma e non abbiamo mangiato niente per pranzo! Credo che come primo giorno possa bastare…»
La donna si limitò ad annuire e prima che Killian potesse uscire di lì, scrisse al volo su un post-it, il suo numero di telefono.
Adesso, doveva solo aspettare.
Aveva poggiato il telefono sul bancone dove lei ed Henry erano soliti fare colazione. Mentre preparava la cena per sé e per suo figlio, gli lanciava qualche occhiata di sfuggita, alle volte illuminandolo.
Lo tenne d’occhio perfino mentre mangiarono e mentre suo figlio le raccontava delle prove dello spettacolo.
Non riuscì a spiegarsi il motivo, forse aveva soltanto voglia di andarci con lui, in quella casa. Non poteva portarci Henry ancora una volta, perché aveva scuola; Regina, invece, aveva il suo bel daffare con la scuola di danza e sua madre in ospedale. Così sì, voleva andarci con Killian. Si era offerto lui stesso di accompagnarla, no? Quindi perché avrebbe dovuto tirarsi indietro? Forse si era finalmente reso conto che non avrebbe mai potuto perdonarla, che non poteva più sopportare di far finta di niente e andare avanti così. Come dargli torto?
Sapeva di essersi comportata da vera stronza e sapeva di dovergli una spiegazione, più lunga e dettagliata di una misera lettera, scritta in fretta e furia prima di partire.
Si chiese se Killian non stesse aspettando un segnale da parte sua, uno qualsiasi. Perché non le domandava ancora niente?
Era sdraiata sul divano a guardare un film, suo figlio era andato a dormire già da un po’.
Mentre ingurgitava un’altra cucchiaiata di gelato al cioccolato, ripensò ad Henry. Aveva reagito stranamente bene, quel giorno, con Killian. Non che si aspettasse qualcosa di diverso, anzi. Conosceva suo figlio ormai e sapeva che, a dispetto di tutto, avrebbe sempre concesso una chance a chiunque. Forse era una caratteristica che avrebbe perso crescendo o forse no, ma suo figlio vedeva sempre del buono in tutti, nella signora che portava a spasso il cane e non raccoglieva i suoi bisogni e nel cattivo del film, che uccideva tutti per ripagare l’affetto che sua madre non gli aveva mai dato.
Era fatto così. Era buono, troppo, ed Emma sapeva che presto il mondo gli avrebbe regalato una qualche delusione.
Tuttavia invitare una persona a cena, dopo averlo incontrato dieci minuti prima, non era da lui. Forse, il suo intuito, gli aveva suggerito l’evidente e pura verità, ovvero che Killian era molto più che un estraneo.
Forse…
I suoi pensieri furono interrotti dalla suoneria del suo cellulare.
«Merda!» esclamò, pensando a suo figlio che dormiva al piano di sopra.
Lo afferrò al volo e rispose.
«Pronto!»
«Emma, sono io…»
Il tono di Regina era diverso dal solito, stanco e incrinato. Sembrava quasi dovesse scoppiare a piangere da un momento all’altro. Poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui Emma aveva visto Regina Mills piangere.
«Regina! È successo qualcosa? Oggi non sei passata proprio dal negozio…» constatò Emma, preoccupata.
«Sono in ospedale Emma»
La voce della giovane era quasi un sussurro.
«Tua madre è…?»
La donna non riusciva neanche a pronunciare quella parola.
«Sta bene…»
Emma tirò un sospiro di sollievo.
«…Per ora» concluse la giovane Mills dall’altro lato del telefono.
«Regina, se posso fare qualcosa io…»
«No Emma, ti ringrazio ma non possiamo fare niente, né tu, né io»
Lo disse con un velo di rassegnazione ed impotenza. Emma sapeva quanto Regina odiasse starsene con le mani in mano, senza poter fare niente.
Al suo posto, la donna dai capelli corvini non avrebbe esitato un attimo a chiamare Killian e chiedergli se si sarebbe o meno degnato di accompagnarla il giorno dopo.
Ma lei non era Regina, era Emma. E preferiva aspettare piuttosto che fare la prima mossa, perché tutte le volte che aveva agito per prima, niente era andato per il verso giusto, portandola a una delusione dopo l’altra.
«Regina, vedrai che supereremo anche questa…»
La donna non rispose. Sentì soltanto un sospiro.
Emma chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie.
«Devo andare, ora. Domani io e Jones dovremmo andare di nuovo a casa Darling per prendere le ultime cose, o almeno così credevo, ma lui non mi ha richiamata e non so se lo farà…»
«Emma»
«Sì?»
«Grazie»
 
 
Non appena rimise piede nel suo appartamento, Killian non poté fare a meno di correre alla dispensa e cercare la sua fidata bottiglia di rum. Se ne versò un po’ in un bicchiere pulito e si sdraiò sul divano. Almeno, durante il suo pernottamento in casa sua, David si era reso utile caricando la lavastoviglie.
Killian ingoiò buona parte del liquido ambrato in una volta, poi si permise il lusso di ripensare alla folle giornata appena trascorsa.
A differenza di Emma, il suo stomaco era piuttosto abituato a scioperi della fame quindi, non si era accorto che avevano saltato da un pezzo l’ora di pranzo.
Si ritrovò ancora una volta a pensare al bambino, o meglio al ragazzino.
Henry.
Che tipo!
Riusciva a riconoscere parecchi tratti di Emma sul suo volto, di un’Emma bambina, innocente e sognatrice. Gli occhi del bambino, seppur di un colore diverso, esprimevano la stessa tenacia e la stessa forza che esprimevano i suoi a quell’età. Si ritrovò ancora una volta a riflettere sull’età del ragazzo. Era sorpreso, molto.
Bevve un altro sorso.
Si era immaginato che il bambino non avesse più di due o tre anni, anzi. Che fosse un neonato, un lattante, un piccolo esserino nato da qualche mese.
Si versò un altro po’ di rum e ingoiò anche quello.
Ma che differenza faceva poi quanti anni avesse? Perché gli importava così tanto?
Certo che gli importava, diamine!
Quel ragazzino doveva avere undici, dodici anni e dodici anni fa, lui ed Emma erano amici, migliori amici! Avrebbe dovuto dirglielo! E poi, dov’era il padre del ragazzo? Perché non era con loro?
Dio, quella donna aveva un talento naturale per farlo impazzire!
Si chiese ancora una volta perché non le avesse posto neanche una delle domande a cui pensava ogni sera, prima di chiudere gli occhi.
Avrebbe voluto smetterla con quella storia del “passato” e delle “cose non dette” e ricominciare daccapo il loro rapporto. Perché, dopo quella giornata insieme, Killian si rese conto che Emma non era mai uscita dalla sua vita. Non per sempre, come aveva creduto fino a qualche giorno prima.
Eppure perché esitava ancora?
Estrasse dalla tasca il post-it giallo sul quale aveva scarabocchiato il suo numero.
La sua scrittura era rimasta sempre la stessa, questo doveva concederglielo.
Fissò quella fila ordinata di numeri, scritti in fretta e furia. Avrebbero dovuto passare molto tempo insieme no? Quindi, accompagnarla in quella casa, non sarebbe stato un problema, non doveva essere un problema.
Afferrò il suo cellulare al volo e attese pazientemente in linea.
«Pronto!»
«David, amico, sono io!» lo salutò, cercando di mascherare il suo tono di entusiasmo.
«Jones! Com’è andata il primo giorno con la tua vecchia fiamma?» rise David. Killian pensò che non c’era un bel niente da ridere.
«Non è una mia vecchia fiamma – disse marcando le ultime due parole, così che si imprimessero bene nel cervello vuoto del suo amico – è soltanto una vecchia amica!»
«Sì sì, certo!» lo snobbò David e Killian immaginò il ghigno divertito del suo amico.
«A questo proposito, vorrei chiederti un favore! E dopo la faccenda del ristorante, credo che tu sia ancora in debito con me!» esclamò vittorioso.
«Ancora con quella storia?! Pensavo fosse acqua passata ormai…»
«Nolan, quella sera hai speso mille dei miei fottutissimi dollari e cosa ancora più importante, due ore del mio preziosissimo tempo, quindi no, non è acqua passata e dubito lo sarà mai!»
David, dall’altro lato del telefono, rise come un bambino.
«Certo che sei proprio sexy quando ti arrabbi!»
L’uomo non poté fare a meno di scoppiare a ridere, a sua volta. David era davvero molte cose, insopportabile, idiota, qualche volta tardo e un po’ lunatico e Killian, faticava a comprendere il modo in cui ragionava, però sarebbe rimasto sempre il suo migliore amico, a dispetto di tutto e tutti. L’unico che riusciva a tirarlo su di morale, in momenti come quello.
«Sei un coglione!» gridò Jones, trattenendosi dallo scoppiare a ridere un’altra volta.
«Il tuo preferito! Avanti, cosa ti serve? Per quanto ami flirtare con te, ho altre cose da fare…»
«Mi serve il furgone domani! Puoi prestarmelo?» disse Killian, ritornando immediatamente serio e ignorando la battuta del suo amico. 
«Certo, a patto che mi giuri che non vuoi rapire quella povera donna e torturarla!»
Tentativo inutile, Killian soffocò un’altra risata.
«Dobbiamo andare a recuperare qualche mobile da una casa vittoriana, a qualche miglio da qui!» si spiegò Killian.
«Sì, Jones, ti credo sulla parola! Comunque domani devo svegliarmi presto per andare a lavoro, te lo porto sotto casa tua e ti lascio le chiavi nella cassetta della posta?»
«Perfetto, grazie amico!»
Grazie per avermi risollevato l’umore, per avermi fatto ridere e per essere un completo idiota.
«Quando vuoi! Io sì che sono un vero amico, non come te e Robin…»
«Devo ricordarti che ti ho presentato la tua futura moglie?»
«E chi sarebbe?»
«La Blanchard ovviamente!» esclamò, divertito. Adesso, era il suo turno per prendersi gioco di lui.
«Il giorno che sposerò quella brunetta antipatica, ti prego, dammi uno schiaffo!» rispose David, allegro.
«Secondo me siete anime gemelle!» rise Killian, prendendolo in giro.
«Certo, sta parlando un vero intenditore no?»
«Che hai da dire scusa?»
«Niente, niente! Adesso devo andare! A presto, Jones!»
«Ricordati del furgon…» cercò di dire, ma David aveva già chiuso la chiamata.
La chiacchierata con l’amico aveva migliorato di molto il suo umore, tant’è che rimise la bottiglia di rum al suo posto e aprì il frigorifero, per prepararsi un panino.
Bene, adesso doveva solo chiamare Emma.
Dopo aver constato che aveva più fame di ciò che pensava e aver divorato tre tramezzini al tonno, prese di nuovo il cellulare e si stese sul divano.
Compose il numero sul post-it e aspettò in silenzio.
Dopo due squilli, però, scattò la segreteria telefonica. La voce di Emma, stranamente entusiasta e un po’ distorta, intimava a lasciare un messaggio dopo il bip.
Richiuse e riprovò di nuovo, senza alcun successo.
Stanco, decise di scriverle un messaggio. Lanciò un’occhiata all’orario: mezzanotte meno un quarto. Caspita, di già? Forse era già andata a letto, spegnendo il telefono.
Scrisse e dopo qualche secondo di esitazione, inviò.
 
 
Emma aveva da poco chiuso la chiamata con Regina. Sarebbe stato inutile continuare ad aspettare sul divano e per un attimo, si pentì di non avergli chiesto il suo numero, così da evitare quella grande scenata.
Si diresse in cucina, per prepararsi il suo solito latte caldo, quando il telefono, poggiato sul bacone, vibrò.
Emma lo afferrò e aprì impaziente i messaggi.
Erano tutti da parte dello stesso numero, due avvisi di chiamata, mentre lei era irraggiungibile. Aprì l’ultimo.
 
Ho il furgone. Ti passo a prendere alle nove, ok?
-K

 
Emma digitò la risposta in fretta, dimenticandosi il latte nel fornetto. Dopo, le toccò ripulire ma lo fece con una strana sensazione nella mente. Finì tutto, spense le luci e si diresse al piano di sopra, nella sua stanza. Si buttò sul letto e si addormentò, con uno strano sorriso sulle labbra.
 
Dopo aver inviato il messaggio, Killian si concesse un’altra lunga doccia bollente. Si infilò come sempre i pantaloni del pigiama e andò a dormire. Prima di chiudere gli occhi, controllò, poco convinto, il telefono.
Credeva che Emma fosse ormai andata a dormire ma, evidentemente, si sbagliava.
Aprì il nuovo messaggio e lesse.
 
Okay. Grazie.
 
Si chiese cosa stesse facendo a quell’ora della notte, se come lui stava ripensando a tutto ciò che avevano passato e a ciò che stava capitando loro in quell’ultimo periodo.
Si disse che la vita, alle volte, era veramente assurda.
Chiuse gli occhi e cadde in un sonno profondo, per la prima volta dopo settimane, senza incubi.
 
 
Quel giorno, il sole aveva deciso di brillare un’ultima volta, prima di nascondersi dietro le nuvole per tutto l’inverno. Il cielo era blu, limpido e soltanto qualche nuvola, come ovatta, spiccava in quel mare infinito.
Stranamente, Emma si svegliò in orario. Si alzò, senza proteste e si diresse di sotto per preparare la colazione. Quella sera, nonostante fosse andata a letto tardi, aveva dormito come un ghiro, di un sonno pesante e ristoratore, come da tempo ormai non le capitava più.
Preparò velocemente due tazze di cioccolata calda e qualche frittella. Non voleva che Killian la cogliesse di nuovo impreparata, o meglio affamata e non voleva essere ripresa di nuovo da suo figlio.
Così, mentre aspettava che Henry si preparasse per la scuola, fece colazione, guardando perfino un po’ di televisione. Non viveva una mattinata così tranquilla da un tempo immemore. Si disse che l’avrebbe fatto più spesso anche se, conoscendosi, avrebbe rotto quella promessa la mattina dopo.
«Buongiorno mamma!» la salutò Henry, prendendo posto di fronte a lei.
«Ciao ragazzino! Dormito bene?»
«Come sempre...» sorrise furbamente il bambino.
Emma annuì, porgendogli la sua tazza di cioccolata e la porzione di frittelle che aveva preparato per lui.
Uno strano silenzio, rotto soltanto dal vocio della televisione, si instaurò tra madre e figlio, entrambi persi nei propri pensieri.
Emma, guardava suo figlio divorare la sua colazione, sorridendogli e pensando a quanto fosse stata fortunata nella sua sfortuna, a come sarebbe andata la giornata con Killian e a cosa avrebbe indossato. Andiamo Emma, da quanto ti interessano i vestiti?
Collaborare non si stava rivelando così spiacevole come aveva creduto, anche se sentiva una grande barriera a dividerli ancora. Un muro di parole non dette e domande mai poste, un muro di vecchi rancori e certezze passate. Un muro che le impediva di riaprirsi totalmente a lui e di poter lavorare bene, senza intoppi o stupidi imbarazzi.
«Mamma, Killian Jones è mio padre?»
La voce di Henry la riportò alla realtà. Quasi si soffocò con la cioccolata che stava sorseggiando e dovette fare uno sforzo disumano nell’evitare di scoppiare in una risata isterica e senza senso, di fronte a suo figlio.
«Cosa?!»
«L’architetto, Killian, è mio padre?» ripeté il bambino, sapendo che la madre avesse comunque capito tutto.
«Certo che no! Come ti salta in mente?»
Henry si morse il labbro e tornò a concentrarsi sul suo piatto. Era un’idea che gli vorticava in testa da un po’, che l’architetto con il quale sua madre avrebbe dovuto collaborare c’entrasse qualcosa con la sua famiglia. Quando il giorno prima l’aveva conosciuto, gli era parso un tipo a posto, un po’ troppo sicuro di sé ma simpatico, e aveva appurato che conosceva sua madre già da tempo. In più aveva notato come cambiasse il comportamento di sua madre di fronte all’uomo.
Certo, come ogni bambino della sua età, aveva sempre sognato conoscere quel padre che non aveva mai visto. Per carità, amava sua madre e le era totalmente riconoscente per non averlo abbandonato in qualche orfanotrofio. Sapeva da lei il minimo indispensabile sull’uomo che gli aveva trasmesso la metà del suo patrimonio genetico, ovvero che era un “bastardo” (citando le parole di sua madre e Regina) perché aveva lasciato Emma in una brutta situazione e che era più grande della mamma.
Quando aveva visto Killian, gli era parso il candidato perfetto e una parte di lui avrebbe davvero desiderato che fosse suo padre, perché gli era sembrato davvero davvero simpatico e finalmente avrebbe trovato una soluzione ai suoi problemi.
«Ah…»
Emma guardò suo figlio, di colpo triste. Si chiese se avesse fatto la cosa giusta non raccontandogli di suo padre, non raccontandogli di come si fossero conosciuti o di che colore fossero i suoi capelli.
Poi però si ricordo di ciò che quell’uomo le aveva fatto passare.
Sì, aveva fatto decisamente la cosa migliore.
«Senti Henry, hai ragione. So che è difficile crescere senza un padre, credimi. Ma non puoi pensare che ogni uomo che entra nella mia vita, sia tuo padre! Come sai, quell’individuo se n’è andato prima che tu nascessi e non ho la più pallida idea di dove sia adesso, né cosa abbia fatto della sua vita…» cercò di spiegarsi Emma.
«Lo so, è solo che ho pensato che visto che vi conoscevate…»
«Sì, è vero, ci conoscevamo ma da molto tempo prima! Killian Jones è stato… - si fermò, cercando di trovare le parole adatte – lui, è stato il mio primo vero amico. Però, all’epoca ho combinato un casino e per colpa mia, non ci siamo visti per dodici anni. Ecco perché lui è così arrabbiato con me…»
«Non sembra arrabbiato con te, però!» rispose il bambino, interessato. Sua madre non parlava mai della sua infanzia, della sua vita prima della sua nascita, almeno non in sua presenza. Sapeva che lo faceva perché c’era qualcosa che la faceva soffrire e d’un tratto, si sentì vicino a scoprire cosa fosse quel qualcosa.
«In realtà lo è, e molto! E ha tutte le ragioni del mondo per esserlo, tesoro! Io non avrei mai pensato di rivederlo e…»
«Non potete chiarire? Sembra un tipo simpatico, sono certo che capirà!»
Emma sorrise di fronte all’innocenza del suo bambino. Dodici anni non erano pochi, dodici anni erano una vita. Certo, avrebbe capito ma non sarebbe stato così facile! Cosa avrebbe dovuto dirgli?! Che se n’era andata, perché aveva troppa paura per restare e affrontarlo?
Annuì e baciò la fronte del suo coraggioso ometto. Si ripromise che non appena sarebbe stato abbastanza adulto da comprendere, gli avrebbe raccontato tutto.
«Vedremo…adesso va’ a prepararti, altrimenti perderai l’autobus!»
 
 
Erano le nove e mezza e David ancora non si era presentato. Dove diavolo era?
Killian camminava nervosamente per l’appartamento, misurando i passi e guardando l’orologio ogni due minuti. Perché non era mai puntuale? Anzi, si presentava in orario soltanto quando faceva comodo a lui, come quella sera al Blue Mermaid Restaurant.
Mandò un altro messaggio ad Emma, scusandosi per il ritardo e spiegandole che non era assolutamente colpa sua. Non appena ebbe inviato, il campanello suonò.
«Scusa, amico!»
Killian non gli rispose neanche, prese velocemente la sua giacca di pelle e la cartellina e si precipitò dabbasso.
«Che diavolo è successo? Non avevi detto che avresti dovuto svegliarti presto?!»
«È così ma ho avuto un contrattempo, comunque perdonami, ti racconto dopo ok? Sono in ritardo anche io!» detto questo, l’uomo corse verso la fermata della metropolitana più vicina, lasciando le chiavi del furgone al suo amico.
Killian sospirò, mise in moto e partì.
Quando arrivò, la trovò già giù, stretta in una giacca di pelle rossa. Le fece un segno con la mano e lei si avvicinò non appena lo vide.
«Cosa è successo? Di solito sono io la ritardataria…» mormorò, dopo aver chiuso la portiera del passeggero.
Killian fece una smorfia. Aveva un vago ricordo degli innumerevoli ritardi della donna.
«Sì, be’, il mio amico ha avuto un contrattempo… O almeno così ha detto!»
«Ah…»
Prima che potessero sprofondare di nuovo nel silenzio, Killian mise in moto e disse la prima cosa che gli venne in mente. Tutto ciò che voleva era evitare in qualsiasi modo la situazione spiacevole e piuttosto imbarazzante di qualche giorno prima.
«Allora, come va la vita?»
Si diede dell’idiota un secondo dopo aver capito ciò che le aveva chiesto.
La donna lo guardò di sottecchi e sorrise.
«Me la cavo… la tua?»
«Me la cavo anche io, suppongo… - borbottò – a proposito, dov’è la casa?» chiese, finalmente sollevato di averle posto una domanda più normale e intelligente. Non che le altre che avrebbe voluto chiederle, non lo fossero…
Emma gli spiegò la via più breve che lei ed Henry avevano percorso la volta precedente, ignorando deliberatamente le indicazioni del navigatore. Non che il maggiolino potesse permettersi un navigatore sofisticato, era tutto merito del nuovo cellulare di Henry.
«Hai avuto qualche idea sulla stanza da letto?» chiese Emma, cercando, come lui, di iniziare una qualsiasi conversazione, evitando il più possibile il silenzio.
Killian non ci aveva minimamente pensato, non ne aveva avuto il tempo materiale e stranamente neanche la voglia, eppure si sforzò di descriverle un ambiente il più dettagliato possibile, in modo che lei avrebbe potuto capire cosa cercare.
Emma ascoltava e annuiva, probabilmente annotava qualche appunto in una parte remota del suo cervello. Sembrava stranamente interessata e attenta. Che si fosse finalmente arresa all’idea di collaborare?! Non che prima non fosse propriamente disposta, ma Killian l’aveva trovata piuttosto fredda e distaccata nei suoi confronti, quando l’unico che avrebbe dovuto essere arrabbiato, freddo e distaccato, era proprio lui.
Ad ogni modo, arrivarono prima che l’uomo se ne accorgesse. Parcheggiò il pick-up di David in un grande vialetto ciottolato e si guardò intorno.
La casa si trovava alla loro sinistra ed era veramente grande. Probabilmente, assieme alla soffitta, costava di quattro piani e Killian poteva scommettere qualsiasi cosa che ad ogni piano c’era un bagno.
E avere parecchi bagni per la casa, significava avere parecchi soldi, almeno, per ciò che aveva capito lui del mondo.
Vide Emma percorrere con passo sicuro la distanza che li separava dall’ingresso principale. Killian la seguì, salì i gradini e si ritrovò sotto un grande porticato in legno.
Per un momento si immaginò lì sotto, seduto su una sedia a dondolo, ad aspettare suo figlio che rientrava dalle sue serate con gli amici.
Che assurdità!
Killian Jones non aveva mai pensato all’eventualità di avere un figlio, non gli era mai passata per la testa neppure l’idea.
Eppure era lì, accanto ad Emma Swan e si ritrovava a fare questi pensieri assurdi. Quella donna, l’avrebbe portato alla distruzione, lo sapeva, l’aveva sempre saputo!
Scosse la testa, cercando di scacciare quelle immagini e si concentrò sul grande battente a forma di testa di leone, che troneggiava proprio al centro della porta.
Bussò due, tre volte notando che Emma non lo faceva. La donna puntò i suoi occhi verdi nei suoi e Killian non riuscì a capire se si stava prendendo gioco di lui oppure cercava di scoprire qualcosa.
«Chi vuoi che ti risponda Killian? Non c’è nessuno… A meno che tu non creda nei fantasmi...» sorrise la giovane, armeggiando con una chiave che aveva trovato chissà dove.
«Non c’è nessuno?!»
«Ti dà fastidio?» chiese, facendo scattare finalmente la vecchia serratura. La porta cigolò e per un momento, Killian pensò se dopotutto i fantasmi esistessero davvero.
Scosse la testa e riservò alla giovane Swan uno dei suoi sorrisi sghembi più belli e la seguì, all’interno di quella casa.
«A proposito, bel tipo tuo figlio…» cominciò Killian, cercando di spostare la conversazione a suo vantaggio.
Emma aveva già aperto la maggior parte delle finestre del pian terreno, illuminando la casa che sembrò sicuramente meno tetra. Killian arrivò addirittura a pensare che fosse bella, anche se aveva bisogno di qualche aggiustatina.
Il pavimento cigolò sotto il suo peso, ma lo ignorò mentre seguiva Emma in tutte le stanze.
La donna elencava ed indicava gli oggetti, i mobili, i quadri che aveva puntato e che aveva dovuto lasciare lì l’ultima volta.
«Sì, lo so… Sembra che anche tu gli piaccia…»
Killian pensò a quanto fossero ingenui i bambini, eppure così puri. Quel bambino si era fidato di lui soltanto pochi minuti dopo averlo conosciuto, caratteristica che sicuramente non aveva preso dalla madre.
Eppure l’immagine di una piccola bambina bionda, nascosta dietro un cespuglio, in un angolino del parco gli colorò la mente. Anche lei, all’epoca, si era fidata.
«Per quanto riguarda la cena, so che…» cominciò l’uomo.
«Sei invitato, venerdì andrebbe bene? Henry il sabato non va a scuola, quindi potrebbe fermarsi con noi più a lungo…»
«Sì, certo, se non è un problema…» mormorò Killian, piuttosto sorpreso. Non avrebbe mai pensato che Emma Swan l’avrebbe invitato un giorno a casa sua e soprattutto non avrebbe mai pensato che lui avrebbe accettato.
«Nessun problema…»
L’uomo annuì e la seguì nell’ennesima stanza. Si erano spostati al piano superiore, ma a differenza di quanto Killian si aspettava, le stanze lì erano quasi tutte vuote.
Emma diede loro una rapida occhiata, come volesse controllare che fosse tutto come l’aveva lasciato e poi salì ancora.
«Comunque non devi sentirti obbligato a venire, insomma, non dopo ciò che ti ho fatto…»
Per la prima volta, da quando si erano rincontrati, la stessa Emma aveva tirato in ballo l’argomento. Perché, durante il tragitto e soprattutto in quel momento, un pensiero aveva preso possesso della sua mente: non voleva che Killian Jones facesse qualsiasi cosa senza il suo volere. Insomma, si era ritrovato da un giorno all’altro a dover collaborare con la sua ex migliore amica e per di più, suo figlio, di cui non sapeva neanche l’esistenza, l’aveva invitato a cena. Non voleva che lui si sentisse obbligato a riprendere quella relazione che lei stessa, aveva deciso di recidere dodici anni prima. Non voleva che si sentisse in obbligo di far evolvere quella forzata collaborazione in qualcos’altro.
«Lo so. Ma voglio farlo… Mi piacciono i bambini e tuo figlio, come ho detto, sembra un tipo intelligente…»
«Lo è, a volte mi chiedo da chi abbia preso…» mormorò Emma, fingendo un sorriso.
In realtà, seppur controvoglia, stava ripensando al padre del bambino e negli occhi di Killian, lesse curiosità, proprio sullo stesso argomento.
Prese un sospiro. Dopotutto glielo doveva.
«Avevo appena compiuto diciott’anni. Lo conobbi a scuola e…»
«Emma, non sei obbligata»
«Sì, Killian. Lo sono.» disse, fissandolo dritto negli occhi poi continuò.
 
New York, 19 Novembre 2004
 
Da giorni, il cielo di New York sembrava non far altro che piangere. Pioveva come se Dio avesse deciso di mandare agli uomini un’altra punizione per il loro comportamento. 
Emma Swan camminava spedita sotto la pioggia, con il cappuccio del giubbotto tirato sui biondi capelli e il borsone a tracolla. 
Un giorno, avrebbe avuto abbastanza soldi da comprare un’auto e allora, la pioggia non l’avrebbe più infastidita. Avrebbe potuto piovere tutti i giorni, a lei non sarebbe importato. 
Arrivò a scuola, prima del previsto. Forse, grazie alla pioggia, era per la prima volta in orario. Anna, la sua coinquilina, era rimasta a casa con un brutto raffreddore. 
Entrò e come sempre, lo sfarzo di quella hall le mozzò il respiro. Nessuno avrebbe mai detto che si trattasse di una scuola di belle arti, anzi. Sembrava più un hotel di lusso. 
La ragazza salutò la giovane segretaria con cui aveva scambiato sì e no due o tre parole, tralasciando i “Buongiorno” e gli “Arrivederci”. 
Si incamminò verso la sua classe di pittura. Certo, avrebbe dovuto far colazione prima così adesso il suo stomaco non brontolerebbe. 
Che stupida, pensare che c’era ancora un po’ della torta di mele che Anna aveva preparato qualche giorno prima. 
Sovrappensiero, non si accorse di un gradino, e cadde rovinosamente a terra. 
Bella figura di merda!
Si rialzò, più in fretta che poté ma ormai il danno era fatto. Vide un giovane, proprio di fronte a lei, trattenersi a stento dallo scoppiarle a ridere in faccia. 
«Puoi ridere! Non me la prendo…» sospirò lei, spazzolandosi un po’ imbarazzata i pantaloni. 
Quello non se lo fece ripetere due volte e si sbellicò dalle risate. Non accennava a smettere, sembrava posseduto, ripensava e ripensava alla scena e non poteva fare altro che ridere ininterrottamente. Alla fine Emma non resisté più e lasciò quel nero cipiglio, per unirsi alle sue risate. 
Si guardavano e ridevano, più si guardavano e più ridevano. Ormai, probabilmente, avevano persino dimenticato il motivo. 
La campanella suonò e finalmente i due si calmarono. Continuarono a guardarsi, a studiarsi. 
«Sono Neal, comunque… Neal Cassidy!» disse il giovane, porgendole una mano.
«Emma, Emma Swan!» rispose, stringendogliela e sorridendogli. 
 
«Be’, sembra l’incontro perfetto, non c’è che dire…» mormorò Killian, cercando di chiudere una delle scatole che avevano riempito.
Perché sentiva qualcosa di strano dentro? Perché sentiva che c’era qualcosa di sbagliato, di terribilmente sbagliato nel suo racconto? Avrebbe dovuto esserci lui, lì con lei. Provava fastidio e un certo odio, nei confronti di quest’uomo che si era preso gioco del “volo” di Emma. Certo, anche lui l’aveva presa in giro molte volte chiedendosi perché sul palcoscenico fosse così leggiadra mentre invece, riusciva ad inciampare su un marciapiede.
Si chiese se Emma proverebbe la stessa cosa, se lui le raccontasse di Milah. Solo il nome della donna, gli provocò un’altra fitta al cuore, fitta che ignorò deliberatamente.
«Certo, era tutto perfetto, sembrava tutto perfetto! Ci credevo davvero! Ma sono stata ingenua, avrei dovuto saperlo, le persone non sono mai quelle che sembrano!»
Killian lasciò perdere la scatola, non sarebbe mai riuscito a chiuderla perché era troppo piena. Si asciugò il sudore e si dedicò ad altri oggetti, non prima di aver chiesto ad Emma cosa fosse successo. Finalmente, riusciva ad articolare un discorso con lei...Che passi avanti!
«Non era chi credevo che fosse. Un giorno, qualche mese dopo esserci uscita assieme, arrivò in classe e si presentò come il nostro nuovo professore di recitazione! Non avrebbe potuto trovare una materia migliore…»
«Sei stata a letto con un tuo professore?»
«Non è questo il punto, Jones! Recitazione era una materia che avrei abbandonato dopo qualche mese… Mi ha mentito, molte volte, e per di più mi ha spinto a fare cose di cui non vado fiera…» mormorò a denti stretti.
Non era facile ripescare quei ricordi, sebbene Emma non li avesse mai dimenticati e Killian lo capì, capì che c’era ancora qualcosa che la donna gli stava nascondendo. Non riuscì a spiegarsi perché o come lo avesse capito, lo sapeva e basta, ne era certo.
«Cosa ti ha costretto a fare, Emma?» pronunciò quelle parole scandendole bene, cercando di contenere la rabbia che gli stava montando dentro. Quel lurido bastardo, come aveva potuto anche solo toccarla?
«Niente, tranquillo, non voglio annoiarti con i miei problemi, Killian. Ho smesso parecchio tempo fa di farlo, per tua fortuna. Sono certa che tu invece, hai avuto una vita perfetta…»
L’uomo scoppiò a ridere.
Perfetta?
La sua vita?
Non c’era aggettivo peggiore, davvero.
«Perfetta?! Emma, davvero credi che la mia vita sia stata perfetta? Mio padre mi picchiava, mia madre è morta quando avevo otto anni, tu te ne sei andata, mio fratello è chissà dove in Iraq e l’unica ragazza che abbia mai amato è morta di leucemia due anni fa! Davvero, “perfetta” non è esattamente la parola che userei per descrivere tutto questo…» urlò.
«M-mi dispiace, Killian. Io, io n-non lo sapevo…»
«Sì, be’, dispiace anche a me Swan, dispiace anche a me!»
 
 
Vide Killian allontanarsi velocemente, girarsi e darle le spalle. Qualcosa la colpì proprio al centro del petto, una lama affilata piena di sale, che bruciava. Se lo meritava, se lo meritava eccome.
Si diede della stupida, dell’idiota, della ragazza senza cuore, senza sentimenti. Davvero era stata così cieca?! Eppure prima era così brava a leggergli dentro, sicuramente se ne sarebbe accorta.
Quell’uomo soffriva, soffriva più di lei probabilmente. Anzi, quasi sicuramente. All’improvviso tutti i suoi problemi scomparvero, paragonandoli a quelli del giovane.
Il suo problema era soltanto uno: da troppo tempo, aveva vissuto da sola. Si era costruita un muro, un muro invalicabile e lei era lì, rinchiusa, sola, ad autocommiserarsi, a guardare tutti dall’alto, credendo di essere l’unica ad aver sofferto così tanto. Da tempo non aveva una relazione stabile, una persona alla quale affidare la sua vita incondizionatamente, senza riserve. Da troppo tempo aveva vissuto da sola, con se stessa. Henry e Regina erano gli unici a poter sorpassare quel muro ma per quanto avessero lavorato sodo, non erano mai riusciti a buttarlo giù.
Da tempo, non aveva avuto altri confronti col dolore degli altri, rinchiudendosi solamente nel suo.
Credeva di essere l’unica alla quale la sfortuna si era affezionata, l’unica ad aver sofferto, l’unica con la quale la vita non era stata clemente.
Era stata egoista ed egocentrica, solo adesso se ne rendeva conto. Finì di riempire l’ultimo scatolone, in silenzio. Lavorava meccanicamente, i pensieri rivolti ad altro, a qualcun altro.
Uno strano groppo le salì in gola e delle lacrime si affacciarono a pizzicarle gli occhi.
Che stupida!
Senza pensarci troppo mollò quella scatola troppo pesante sul pavimento e uscì in fretta dalla stanza.
Lo chiamò ma non ottenne nessuna risposta. Salì le scale e urlò ancora il suo nome. Niente.
Dov’era?
Si affacciò ad una finestra. I vetri erano sporchi e unti, pieni di polvere ma Emma riuscì a scorgere comunque il giardino sul retro della casa e una figura nera seduta su un vecchio tronco secco.
Emma si precipitò dabbasso, chiedendosi come avrebbe dovuto comportarsi, cosa avrebbe dovuto fare.
Si diede dell’idiota per la duecentesima volta quel giorno.
Lo raggiunse quasi velocemente. Fissò per un po’ le sue grandi spalle larghe e poi si decise ad accomodarsi accanto a lui.
«Scusa…» disse solamente.
Fissavano l’orizzonte, il prato malridotto, l’erba secca e una serie ordinata di alberi verdi che delimitavano il confine tra cielo e terra. Si trovavano appena fuori New York, eppure ad Emma sembrò essere di nuovo a Storybrooke, nel piccolo parco della città.
L’uomo non rispose. Cosa avrebbe dovuto dirle? Che la perdonava? Non poteva farlo, non ancora.
Che non era colpa sua? La morte di Milah non era colpa sua, la decisione di arruolarsi nei Marines di Liam non era colpa sua. Ma il suo abbandono sì, il dolore che ne seguì sì e non importava se quel dolore l’aveva portato ad essere una persona migliore, l’uomo d’onore che si considerava oggi, tutto sarebbe stato più facile se lei non se ne fosse mai andata, se lei non avesse deciso di tagliare tutti i ponti con il suo passato. E sfortunatamente, lui non aveva ancora attraversato quel ponte, ritrovandosi da solo, sull’altra riva. Quindi sì, era colpa sua.
Distolse lo sguardo dall’orizzonte e lo puntò sulla donna al suo fianco. Non ci fu bisogno che articolasse nessuna parola, la domanda era chiara come il sole, chiara come i suoi occhi.
Perché? Perché? Perché?
Perché mi hai mentito?
Perché mi hai lasciato?
Perché mi hai tagliato fuori dalla tua vita?
Emma capì.
Probabilmente glielo avrebbe anche detto, lì, su quel tronco, se non fossero stati interrotti dalla suoneria di un cellulare. Continuarono a fissarsi per due secondi, dopo Emma dovette distogliere lo sguardo, mentre l’uomo estraeva dalla tasca il cellulare. Finse e cercò di sembrare disinteressata alla conversazione ma non ci riuscì più di tanto.
«Era il signor Gold, o meglio, la sua segretaria…» disse, non appena chiuse la chiamata.
«Che voleva?»
«Ha chiesto perché oggi non ci siamo presentati…»
«Ah…» borbottò Emma. Fissò l’orologio che aveva al polso e si stupì: era già ora di pranzo. Killian lo notò e pronunciò le parole che lei, forse, non riusciva a proferire.
«È ora di tornare, non credi?»
La donna annuì. Si alzarono e si incamminarono verso la casa. Riuscirono a caricare sul pick-up buona parte dei mobili restanti e le altre tre scatole, piene di piccoli oggetti che avevano trovato in giro per la casa.
Emma avrebbe dovuto trovare un altro modo di trasportare il grande pianoforte che troneggiava al centro del salotto. Per tutto il tempo, non si scambiarono una parola, tralasciando i “Dove lo metto questo?” e “Aspetta, ti do una mano!”
Una volta partiti, Killian accese la radio un po’ scassata di David e, per tutto il tragitto, nessuno dei due parlò.
L’uomo la accompagnò al negozio, ormai non ci fu bisogno neanche di chiederle indicazioni, riuscì a trovare la strada senza problemi.
Scaricarono tutta la merce e la deposero nel retro.
Quando finirono, Killian si offrì di accompagnarla a casa se non aveva niente da fare lì. Emma accettò, non riusciva a spiegarsi il motivo ma non voleva porre fine a quella strana giornata.
La musica invase di nuovo l’abitacolo del pick-up e lasciarono parlare i dj, al posto loro.
Arrivarono prima che Emma se ne accorgesse. L’uomo parcheggiò proprio difronte al piccolo portone del suo appartamento, spense il motore e aspettò che la donna dicesse qualcosa.
Pensò all’ultima volta che l’aveva accompagnata a casa, che poi era anche la prima, al modo in cui le aveva intimato di andarsene.
«Perché ti amavo, Killian… ti amavo e, ho avuto paura, non potevo permettermi di… Perdonami… sono stata egoista…»
Quelle parole colpirono Killian come un secchio d’acqua gelata. Strinse le mani sul volante, le nocche gli divennero improvvisamente bianche.
Cosa?
«Perché non me l’hai mai detto?» chiese con un filo di voce, guardandola dritta negli occhi.
Emma sorrise e come se fosse la cosa più normale e naturale del mondo, gli carezzò una guancia.
«Perché me ne resi conto troppo tardi…»
Killian sentì il viso andare a fuoco dove la donna aveva poggiato la sua mano bianca. Non riusciva a spiegare i sentimenti che si rincorrevano dentro di lui. Da anni aveva sognato una risposta ed ora che ce l’aveva, non sapeva che farsene.
Guardò Emma con uno sguardo triste e la donna gli sorrise timidamente. Aveva ragione, meritava una risposta e l’aveva avuta. Non si era mai esposta così tanto di fronte ad un uomo, neanche con Neal si era mai sentita così nuda.
«Perdonami» sussurrò, prima di aprire lo sportello e dirigersi verso casa.
Questa volta, prima di entrare, si voltò ed incontrò lo sguardo cobalto dell’uomo, che non aveva mai smesso di fissarla.
 
 
 
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Rieccomi, con immane ritardo, ad aggiornare questa storia!
Lo so, lo so è passata più di una settima, mi dispiace!
Come avete potuto notare, mi sono un po’ lasciata prendere la mano ed il capitolo è venuto lunghissimo, però per farmi perdonare, ho deciso di pubblicarlo così com’è nato, senza “mutilarlo” xD
Emma ha ammesso (“Era ora” direte voi!) perché ha lasciato Killian, dodici anni fa. Era spaventata dai suoi stessi sentimenti e non poteva permettere che essi prendessero il sopravvento sulla sua vita. Come al solito, mi sono divertita da matti scrivendo di David&Killian! xD Che coppia! 
E abbiamo scoperto anche un po' di più del passato di Killian e
 chi è il misterioso padre di Henry (sai che novità) anche se non sappiamo ancora perché si è meritato quella nomina xD
Lo scopriremo nel prossimo capitolo penso e siate pronti a colpi di scena! #KerriNoMoreSpoiler
Ad ogni modo, grazie a tutti! Grazie per ogni recensione, visita ed inserimento nelle varie categorie! Siete fantastici davvero! Senza di voi, la storia non andrebbe avanti! G R A Z I E <3
Non vedo l’ora di sapere cosa pensate anche di questo capitolo, spero vi sia piaciuto e che la lunghezza non vi abbia pesato. Fatemi sapere, così la prossima volta, cerco di contenermi nel caso!
Un grossissimo abbraccio a tutti,
La vostra
Kerri :*

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Capitolo 11
*** What the Hell?! ***


10. What the hell?!

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Quante volte l’amore è paura e la paura è amore?
-Clara Sánchez
 
 
Killian continuò a fissare il piccolo portone per un tempo che gli sembrò interminabile. Non riusciva a pensare a niente. La sua mente era vuota, ovattata. Non sentiva nulla, né la radio che si era inspiegabilmente accesa da sola, né i rumori del traffico, i clacson, lo sbuffare dei treni e dei tram.
Passarono secondi, minuti, forse ore e non si mosse. Le mani ancora strette sul volante, il piede sull’acceleratore, lo sguardo vacuo, perso. Forse sarebbe ricomparsa, forse sarebbe scesa e l’avrebbe trovato ancora lì e probabilmente avrebbe fatto una grandissima figura di merda, ma non gli importava più di tanto.
Si sentiva da schifo.
Non si sentiva così da schifo da quando Milah era morta e, prima ancora, dall’abbandono di Emma.
Emma.
Cosa sarebbe successo se quella sera, in quel parco, lui le avesse detto tutto? Le avesse detto che era pazzamente ed incondizionatamente innamorato di lei? Sarebbe partita? Forse no, forse avrebbero lasciato Storybrooke insieme.
Quanto potere avevano le parole…
Se solo lui avesse avuto più coraggio, più determinazione, più sicurezza, non avrebbe esitato e le avrebbe detto la verità.  Non aveva mai preso lontanamente in considerazione un’ipotesi del genere, non avrebbe mai creduto che Emma potesse provare qualcosa per lui, qualcosa oltre ai dolci sentimenti fraterni; così come lei adesso non sapeva certo che quel qualcosa era totalmente ricambiato.
Era.
Adesso erano cambiate così tante cose, adesso Emma Swan era una sconosciuta. Non poteva certo non ammettere che provava ancora qualcosa per lei, ma si trattava di amore? O soltanto pura attrazione fisica?
Molto probabilmente la seconda, si disse.
L’amore non l’aveva mai fatto soffrire così, se si poteva parlare di sofferenza. Quello che sentiva adesso era più un grande ed immenso vuoto, un deserto sconfinato all’altezza del cuore e dello stomaco.
L’amore che provava per Milah era diverso. Era sicuro si trattasse di amore in quel caso, non aveva mai avuto neppure un dubbio. Forse perché, quella donna dai bellissimi occhi color del ghiaccio fu il suo primo vero amore, forse perché proprio il primo amore non si scorda mai. Era bello, era leggero, vivo, libero, senza confini, spensierato, felice. Perfino durante la malattia della donna, Killian era certo che non si sarebbero mai divisi, che non avrebbe mai amato nessun’altra come aveva amato lei. E probabilmente sarebbe stato così per sempre.
Adesso si sentiva preso in giro, raggirato, schernito… da lei, dalla vita, forse da tutti…
Si sentiva persino un codardo.
Quindi no, non era questo l’amore per Killian Jones.
Dopo un tempo che non riuscì a calcolare, distolse lo sguardo dal portone e partì.
Girovagò per un po’, la velocità gli aveva sempre fatto bene. Sentì la mancanza della sua moto.
Lanciò un’occhiata all’orologio e si stupì nel constatare di quanto tempo fosse passato, tempo sprecato.
Si diresse verso casa di David, per lasciargli il furgone, poi se ne sarebbe tornato a piedi, oppure avrebbe chiamato un taxi o meglio ancora, avrebbe passato la notte in qualche locale a bere rhum, chiedendosi perché mai il destino fosse tanto bastardo.
Forse avrebbe fatto tutte e tre le cose.
Parcheggiò il pick-up nel posto riservato al suo amico, lasciando le chiavi al custode.
Non aveva neanche poi così tanta voglia di parlare con lui, quindi non si fermò ad aspettarlo, si incamminò verso il pub più vicino.
Camminava come un automa, prima un piede e poi l’altro, fissando un punto imprecisato dritto di fronte a sé. Non gli piaceva camminare a testa bassa, odiava le persone che lo facevano, a suo dire era un segno di debolezza. Quindi sì, Killian Jones camminava a testa alta, fiero e spavaldo come sempre.
Anche se, qualcosa dentro di lui si era spezzato e faceva male.
Forse era soltanto il dolore di un osso rotto, che ritorna al proprio posto…
Indugiò parecchio, gironzolò nel quartiere del suo amico e oltrepassò uno, due, tre pub diversi, prima di fermarsi.
Come poi ebbe l’occasione di scoprire, quello in cui entrò, non era soltanto un pub.
Tanto meglio.
Mentre si faceva qualche bicchierino, riflettendo sull’assurdità della sua vita, si sarebbe potuto risciacquare gli occhi con i corpi mezzi nudi delle bellissime cameriere, che servivano ai tavoli.
Forse quelle visioni gli avrebbero fatto dimenticare Emma Swan e i suoi occhi maledettamente verdi, e la sua voce cristallina che ammetteva, senza remore, come se fosse la cosa più logica del mondo, i suoi sentimenti per lui; gli avrebbero fatto dimenticare la donna dalla pelle pallida e i lunghi capelli color del cioccolato, inerme, senza vita, all’interno di una bara di mogano.
Sì, forse.
Due anni, due anni erano passati dalla morte di Milah e non riusciva ancora a togliersi dalla testa quelle immagini. Ricordava perfettamente il lungo vestito azzurro che sua madre aveva deciso di farle indossare, l’aria maleodorante e stantia che si respirava all’interno della chiesa, i singhiozzi, i sussulti. Quel giorno era ormai impresso indelebilmente nella sua memoria. Riusciva a ricordare tutto o quasi, eppure, il suono della voce della sua amata era sempre più difficile da sentire, da ascoltare, da ricordare. Si confondeva, si allontanava e sfumava in mezzo a tutte le altre voci, in mezzo al chiasso di New York.
E anche se non avrebbe dovuto esserne sorpreso, gli faceva male.
L’aveva promesso, l’aveva promesso che sarebbe andato avanti, ma andare avanti non significa dimenticare, vero?
 
 
Mary Margaret Blanchard si era da sempre considerata una persona ordinaria, nella media. Non era né alta, né bassa, né troppo magra, né troppo grassa. I suoi capelli erano forse un po’ corti, frutto di uno dei suoi ultimi capricci. La sua amica Ruby le aveva detto che le stavano bene, le davano quell’aria sbarazzina e innocente che faceva impazzire gli uomini. Ovviamente Mary Margaret non aveva di certo deciso, un giorno di metà dicembre, di tagliare i suoi lunghi capelli neri, per piacere agli uomini. Era semplicemente stufa, aveva voglia di cambiamenti.
Aurora, la sua coinquilina, le aveva detto che la facevano sembrare una piccola francesina e Mary Margaret non poteva che esserne felice.
Le piaceva quando le persone si accorgevano del suo accento, sebbene fosse quasi del tutto sparito, o meglio ancora delle sue origini.
Era da sempre stata legata alle tradizioni e alle radici famigliari.  Quelle del suo albero genealogico, erano piantate in un piccolo paesino al sud della Francia, tra il sole e il mare.
Fin da piccola aveva vissuto lì e a volte, risfogliando vecchi album, la nostalgia prendeva il sopravvento, ripensando ai suoi vecchi amici, al mare cristallino, ai frutti freschi e ai suoi genitori.
I suoi genitori: Eva e Leopold
Pensava spesso a loro. Secondo Mary Margaret, la loro storia d’amore fu la più bella che chiunque avesse mai ascoltato, sognato o desiderato.
Sua madre aveva aspettato per ben cinque anni, prima di poter finalmente sposare il suo amato Leopold. I genitori del giovane, infatti, erano contrari alla loro unione e avevano mandato il figlio in America, a fare fortuna. Il suo viaggio però, non fermò il loro amore che si rivelò ben più saldo e duraturo di una futile cottarella giovanile.
Eva, non aveva mai avuto nessun dubbio. Il Vero Amore trionfa sempre e una volta trovato, non può essere rimpiazzato da nessun altro.
Così aspettò, dapprima settimane, poi mesi ed infine anni.
Si scambiarono decine e decine di lettere, in quel periodo. Eva le conservava in una scatola di cartone a fiori, la piccola Mary Margaret le aveva viste più volte, sebbene non le avesse mai lette.
Dopo cinque anni, due mesi e sette giorni, l’uomo ritornò.
I genitori acconsentirono all’unione dei due amanti e finalmente l’amore trionfò davvero.
Dopo qualche tempo nacque la loro primogenita: Mary Margaret. I suoi genitori non potevano essere più felici. La piccola portava i nomi di entrambe le nonne. Sebbene la madre di Leopold fosse contraria al loro amore, Eva era una donna forte, che dava molta importanza alle tradizioni e soprattutto che non si lasciava abbattere da niente. Dopo la morte inaspettata del suocero, il padre di Leopold, Eva perdonò ogni cosa alla madre di suo marito, ribadendo più volte che non c’era assolutamente nulla da perdonare, e le permise perfino di vivere assieme alla sua famiglia gli ultimi anni della sua vita.
Mary Margaret era cresciuta così, in un clima di perdono, tradizioni, parecchio romanticismo e un pizzico di orgoglio. Era cresciuta credendo che l’amore fosse il cemento della vita, che senza amore non si vive bene. Era cresciuta sognando per sé, l’amore da favola che avevano avuto i suoi genitori.
Dopo la morte della cara nonna Meggie, la famiglia Blanchard si trasferì in America, dove il signor Leopold aveva ancora parecchi amici. La piccola Mary Margaret non riuscì a trovare un motivo preciso per giustificare la loro partenza all’epoca: forse sua madre era stanca della monotonia del piccolo paese francese, forse a suo padre mancavano i vecchi amici americani…
Col senno di poi, capì che quel trasferimento fu dettato dal bisogno della famiglia di soldi, poiché il vecchio Leopold, aveva perso il lavoro.
Così Mary Margaret terminò i suoi studi in America e poi, si iscrisse al college.
Il suo sogno diventò quello di essere medico un giorno, e poter salvare delle vite.
Tuttavia, la vita ci riserva sempre qualche sorpresa. Dopo qualche mese, suo padre si ammalò gravemente e la giovane fu costretta ad abbandonare gli studi per occuparsi di lui e della casa, e soprattutto per cominciare a lavorare. Suo padre non poteva muoversi dal letto, sua madre era una casalinga. Spettava a lei, adesso, guadagnare i soldi che servivano alla famiglia per vivere.
Non fu facile, è inutile prendersi in giro. Non fu facile trovare un lavoro, non fu facile portare avanti una famiglia, non fu facile quando suo padre, giunto alla fine di questa vita, esalò l’ultimo respiro, e non fu facile consolare sua madre. Quando suo padre morì, anche lei se ne andò con lui e Mary Margaret se ne accorse dopo sei mesi esatti, quando anche sua madre la salutò per sempre.
Adesso la giovane Blanchard era sola al mondo, eccezion fatta per le sue amiche ovviamente. Crescendo, aveva perso un po’ della sua innocenza e soprattutto della sua ingenuità, sebbene ne conservasse ancora un po’ da qualche parte. Viveva ancora sognando l’amore eterno, l’amore dei suoi genitori, l’amore delle fiabe e cercava sempre di essere ottimista, di guardare il lato positivo di ogni cosa anche quando era difficile trovarne uno. Cercava sempre di aiutare tutti, nei suoi limiti, e non negava mai a nessuno un consiglio o una parola di incoraggiamento.
Amava prendersi cura delle persone e il sogno di diventare un medico non l’aveva ancora abbandonata del tutto, sebbene adesso lavorasse in uno studio come segretaria. Prima di riuscire a trovare quel lavoro, era stata assunta in un supermercato, in un ristorante e in una ferramenta, ma per un motivo o per l’altro, fu licenziata da tutte le parti.
Trovare quel lavoro, fu una vera e propria fortuna, si diceva. Un treno che passa e che se non prendi al volo, ti sorpassa e non ritorna mai più.
In nome di quell’innato ottimismo, cercava di sentirsi grata al suo capo per il suo lavoro, sebbene non si sentisse ancora del tutto completa. Mancava ancora qualche tassello nella sua vita.
Quel giorno, come tutti del resto, si era diretta all’ufficio del signor Jones alle otto e un quarto in punto. Aveva aperto e si era seduta alla sua solita postazione. Aveva acceso il computer, controllato le email e gli appuntamenti.
Il suo capo l’aveva avvisata che non sarebbe passato, quindi poté mettersi comoda e leggere uno dei suoi manuali di anatomia. Quando il telefono squillava, rispondeva alle chiamate, con tono gentile e disponibile, come era suo solito.
Tuttavia quel giorno, il telefono squillò poche volte. Si ritrovò a sfogliare una delle riviste che il signor Jones aveva comprato per lo studio: gossip, arredamento, ancora gossip.
Il suo capo era una persona alquanto strana, però era bravo in ciò che faceva, questo doveva concederglielo.
Nonostante fosse molto giovane, qualche anno più grande di lei, aveva già ottenuto diverse gratificazioni dalla vita e quello studio era l’esempio lampante di quanto aveva lottato per raggiungere i suoi obiettivi.
Non avevano un rapporto intimo, nel senso che lui non le raccontava i suoi problemi e lei non gli raccontava i suoi, ma Mary Margaret aveva intuito che, dietro quella facciata all’apparenza così felice, si nascondeva un uomo solo, bisognoso di piantare le sue radici da qualche parte.
La donna, aveva anche intuito che Killian Jones sarebbe morto prima di riuscire ad ammettere una cosa del genere e che, qualcosa, ultimamente, stava cambiando. Da quando aveva ottenuto l’incarico di arredare casa Gold, i suoi occhi erano più vivi, più felici.
Il campanello squillò improvvisamente, distraendola dai suoi pensieri.
Chi poteva mai essere?
Lanciò uno sguardo verso il grande ed eccentrico orologio appeso alla parete. Le sette e mezze. Avrebbe dovuto chiudere lo studio già da un pezzo, ma come al solito, si era lasciata distrarre dalle sue fantasie. 
Riluttante, si alzò e aprì la porta, ritrovandosi davanti, l’ultima persona al mondo che avrebbe voluto vedere.
«Oh ma non è possibile! David! Che ci fai qui?» sbuffò, poggiando le mani sui fianchi.
«Oh allora ti ricordi il mio nome? Che onore!»
Mary Margaret alzò gli occhi al cielo, spazientita. Quell’uomo era veramente una spina nel fianco. Ultimamente se lo ritrovava dappertutto.
«Che vuoi?» rispose, ignorando l’ultima battuta dell’uomo.
«Anche io sono felice di rivederti…»
«Non mi pare di averti detto che sia felice di rivederti!»
«Forse è destino…»
«Forse è sfortuna!»
«Sei davvero strana, lo sai?»
«Detto da te è un complimento…»
«Che simpatica! Comunque, cerco il mio amico…»
Si incamminò verso la porta dell’ufficio del signor Jones, ignorando completamente la voce di Mary Margaret che gli urlava che non c’era nessuno a parte lei. Perché avrebbe dovuto mentirgli?
Dopo aver constatato che la brunetta aveva ragione, David si accasciò su una piccola poltroncina rossa.
«Merda!» mormorò, prendendosi la testa tra le mani.
Mary Margaret, come ormai dovreste aver capito, non era una donna fredda, per quanto l’uomo che aveva davanti non facesse altro che far emergere questo lato nascosto del suo carattere. Anzi, la giovane donna si considerava diametralmente l’opposto. Odiava vedere qualcuno in difficoltà, che si trattasse di persone o animali, non c’era alcuna differenza, lei doveva fare qualsiasi cosa in suo potere per aiutarli.
Così, prese posto accanto all’uomo e gli posò una mano sulla spalla, stupendo perfino lei stessa.
«È successo qualcosa di grave?» chiese, titubante. L’uomo alzò gli occhi color del cielo e li puntò dritti nei suoi. Il suo sguardo divenne improvvisamente triste e Mary Margaret cominciò a preoccuparsi sul serio.
«Non lo so! Mi hanno chiamato, mio padre sembra abbia avuto un incidente e Jones ha il mio furgone…» spiegò il giovane, gli occhi della donna di fronte a lui, si spalancarono dalla preoccupazione.
«Devo raggiungere mia madre, lei… non può stare da sola, in un momento come questo, capisci? Devo controllare, devo assicurarmi che non sia successo nulla di grave…»
Per la prima volta dacché lo aveva conosciuto, David le sembrò estremamente serio e preoccupato.
Mary Margaret annuì, rivivendo nella sua mente, i giorni orribili che seguirono il funerale di suo padre.
«M-mi dispiace David… Posso fare qualcosa?» chiese.
L’uomo sorrise, stancamente, strofinandosi gli occhi.
«No, a meno che tu non abbia una macchina, con abbastanza benzina per arrivare in Massachuttes!»
La donna sorrise.
«Be’, ce l’ho!»
 
Killian ingurgitò l’ultimo sorso di liquore, sbattendo il bicchiere sul bancone e facendo segno all’uomo di riempirgliene un altro. Probabilmente era il terzo, forse il quarto, non gli importava. Non si sentiva neanche un po’ sbronzo, brillo o ubriaco come avrebbe voluto. Tutti i suoi problemi erano ancora lì, stampati nella sua mente e non accennavano a lasciarlo in pace. Controllò il cellulare e vide parecchie chiamate perse da parte di David. Una parte di lui, cominciò a preoccuparsi seriamente, che fosse successo qualcosa di grave? L’altra però, sbuffò, accogliendo con un mugolio il bicchiere di nuovo pieno offertogli dal barista.
Non era cattiveria, o ingratitudine nei confronti del suo amico. Gli voleva bene e lui lo sapeva. Ma in quel momento, il suo unico desiderio era sparire dalla faccia della terra, rintanarsi in quel piccolo bar, in mezzo a quelle cameriere mezze nude e aspettare che succedesse qualcosa. Qualsiasi cosa! Che si trattasse di venire rapito dagli alieni, di un’invasione di zombie, oppure un semplice incendio dall’altro lato della strada (ovviamente senza morti o feriti)! Qualsiasi cosa, pur di distrarsi da quel pensiero fisso, da quelle parole, da quegli occhi.
E più continuava a bere, più il ghiaccio si sovrapponeva all’erba e il dorato prendeva il posto del cioccolato.
Che cosa gli stava succedendo?
 
Storybrooke, 5 Aprile 2012
 
Milah stava peggiorando.
Lo sapeva, lo sentiva dentro, nonostante nessun medico l’avesse ancora visitata. Era sempre stanca, faticava ad alzarsi, a fare qualsiasi cosa, persino a parlare.
Quando si svegliava, il suo cuscino era pieno di ciocche di capelli, così come la spazzola. Lei non ci faceva caso, fingeva che andasse tutto bene, fingeva di stare bene.
Ma anche lei, alla fine, si era dovuta arrendere all’evidenza.
Fu ricoverata, i medici le proposero un ulteriore ciclo di chemio. I dolori erano lancinanti, Killian lo sapeva e nonostante questo, non l’aveva mai sentita lamentarsi, neppure una volta.
Le cure non sarebbero servite a niente, soltanto a prolungare i dolori e la sofferenza.
Milah le rifiutò.
Non voleva prendere neanche gli antidolorifici, voleva restare lucida, fino alla fine. Voleva andarsene, restando se stessa, non un fantasma di ciò che era.
Killian riuscì a dissuaderla, almeno in parte. Avrebbe voluto che continuasse le terapie, egoisticamente avrebbe voluto tenerla con sé se non per sempre, per il maggior tempo possibile. Ma la donna aveva preso la sua decisione e anche se non riusciva ad accettarla, la capiva.
La convinse a prendere almeno qualche antidolorifico, odiava vederla soffrire, «fallo per me» le disse.
«Killian!» lo ammonì, accarezzandogli una guancia.
«Sai che prima o poi dovrai lasciarmi andare, vero?» gli chiese, un triste sorriso dipinto sul volto.
Entrambi avevano le lacrime agli occhi ed entrambi stentavano a trattenerle.
«Mai, Milah! Tu resterai sempre con me…» disse, baciandole la fronte. Ormai non v’era più traccia della folta chioma castana che le incorniciava il volto.
La donna annuì.
«Sì, resterò sempre con te, veglierò su di te, ma tu devi promettermi una cosa…»
«Cosa?»
«Dovrai andare avanti Killian, dovrai vivere anche per me, dovrai innamorarti di nuovo, sposarti, avere figli, dovrai trovare una donna che ti ama come avrei voluto fare io…»
Killian scosse la testa, non riuscì più a trattenersi e delle calde lacrime gli solcarono il volto.
Ascoltava quelle parole per la seconda volta. Certo, la prima volta le aveva lette, ma non c’era poi tanta differenza, gli avevano fatto male comunque.
Per la seconda volta, una donna che aveva amato lo stava lasciando, augurandogli di vivere al suo posto, di innamorarsi di qualcun’altra che non fosse lei. Come se fosse facile!  
Vide il fantasma di Emma in quella stanza, accanto a lui, accanto a Milah. I suoi occhi verdi, i suoi boccoli biondi, il volto preoccupato.
«Come…?!»
La sua voce ormai era incrinata e Killian non poté più nasconderla.
«Devi farlo amore mio! Non puoi lasciarti andare ancora una volta…» mormorò, con le ultime forze che le restavano.
«Me lo prometti?» continuò in un sussurrò, prima di chiudere gli occhi.
«Te lo prometto»
Killian si asciugò le lacrime e strinse forte la mano della sua amata.
Quella fu l’ultima volta che riuscì a parlare con lei, da solo.
Milah accettò di prendere qualche farmaco, per alleviare il dolore, ma non servì a nulla.
Un mese dopo, il suo sangue divenne completamente bianco e lei, chiuse gli occhi per sempre.
 
«Ehi amico, quello era il mio bicchiere!» mormorò qualcuno.
Stava parlando con lui?
Farfugliò qualcosa, voleva dirgli «No, amico, l’ho appena ordinato!» ma, dalle sue labbra, non fuoriuscì altro se non una specie di lamento.
Continuò a bere, aveva raggiunto quel livello tale da non avere più nessuna percezione del mondo circostante. C’erano solo lui, i suoi problemi e il suo bicchiere.
«Ti-ho-detto-che-era-il-mio!!» tuonò l’altro, spintonandolo giù dallo sgabello sul quale era seduto.
Eh sì, a quanto pareva ce l’aveva proprio con lui…
Cercò di dipingersi in volto la sua solita aria da sbruffone, non capì se ci riuscì o meno. Ad ogni modo, si rimise in piedi traballante e si alzò le maniche del maglione.
«Ordinatene un altro, stronzo!» urlò, spingendolo a sua volta.
Quello che successe dopo, fu difficile da spiegare. Gli spintoni divennero pugni, i pugni schiaffi e calci. Quel tizio l’aveva colto in uno dei suoi momenti peggiori ed era riuscito a far emergere il suo lato violento. Si azzuffarono, Killian sentiva gli ammonimenti del proprietario, qualcuno urlava di smetterla, qualcun altro che la polizia stava arrivando, ma non gli importava. Sferrava un pugno dopo l’altro, sfogandosi su quell’uomo sconosciuto, incolpandolo dello sfacelo che era la sua vita, incanalando in quei pugni la rabbia e la frustrazione di quella giornata e di tutta la sua vita, l’impotenza che lo investiva ogni maledettissima volta: dopo la morte di sua madre, dopo l’abbandono di Emma e quello di Milah, dopo la partenza di suo fratello.
Era sempre stato così, si era sempre sentito legato ad un palo, bloccato a guardare. Guardava la vita scorrergli davanti, i pochi momenti di felicità sorpassarlo velocemente. E lui era lì, incapace di arraffare quella felicità e tenersela stretta, incapace di salvare sua madre, di fermare Emma, di salvare Milah.
Ma adesso basta.
Adesso le cose sarebbero cambiate.
Adesso finalmente avrebbe rincorso quel maledetto treno e ci sarebbe salito, a costo di esserne investito.
«Killian! Che diavolo…?»
La sua voce lo distrasse.
No, non era possibile.
«Swan!» mormorò, prima che l’uomo sotto di lui gli rompesse una bottiglia in testa.
Dopo, il buio.
 
New York, Novembre 2004
 
Emma Swan si era da sempre considerata una donna forte. La sua infanzia non era stata tra le migliori, vissuta tra le mura grigie di un orfanotrofio. A quindici anni aveva finalmente lasciato quell’istituto, credendo che la sua vita sarebbe stata finalmente migliore: una donna di nome Ingrid aveva chiesto il suo affidamento. Emma le sarebbe stata riconoscente a vita per aver scelto lei, tra tutti gli altri.
Nessuno l’aveva mai scelta prima di allora. Nessuno, eccetto lui.
Ma preferiva non pensare a lui. Credeva che così, il senso di colpa non l’avrebbe divorata.
Ingrid si era presa cura di lei come fosse una figlia, tant’è che per un breve periodo di tempo, Emma si considerò persino felice in quella casa dalle pareti bianche come il latte.
Non riuscirono mai a creare un vero rapporto, Emma aveva costruito troppi muri attorno a sé e faticava ad abbatterli. Ingrid però si accontentò e la giovane Swan, trovò un posticino nel suo cuore anche per lei.
La donna lavorava in una pasticceria, la più famosa di tutta Storybrooke. Ogni giorno, a colazione, c’era una torta diversa. 
Fu lei ad aggiungere, per la prima volta, un pizzico di cannella nella sua cioccolata.
Fu lei a spronarla ad accettare quella borsa di studio, nonostante non avesse abbastanza soldi per mantenerla.
Emma la ammirava e le voleva bene, sebbene non le parlasse dei suoi problemi e non la chiamasse “mamma”.
I primi mesi dopo la sua partenza, fu l’unica persona con la quale scambiò qualche telefonata.
Poi, però, andò via anche lei.
Accadde undici mesi dopo il suo arrivo a New York. Era inverno, faceva molto freddo e aveva nevicato tutta la notte, le strade erano gelate. Ingrid stava guidando per tornare a casa dopo una giornata di lavoro, o almeno così le aveva detto la polizia, e la sua macchina sbandò, finendo contro un albero.
La polizia la chiamò il giorno dopo, comunicandole l’accaduto e assicurandole che la donna fosse morta sul colpo. Come se questo avrebbe potuto consolarla.
Quel giorno, Emma vacillò. Le era già successo prima, ma si era sempre fermata in tempo. Ma quel giorno, fu diverso. Era distrutta.
Stava per disobbedire a sé stessa, ai suoi valori e a ciò che si era imposta.
Stava per ricontattarlo, sentiva il disperato bisogno di risentire la sua voce, la sua versione dei fatti, di essere semplicemente consolata da qualcuno che l’aveva conosciuta realmente.
Ma si fermò.
Cancellò il messaggio e lanciò il telefono dall’altro lato della stanza.
Il giorno dopo, conobbe Neal, il padre di suo figlio.
 
Dalla morte di Ingrid, Emma non ricevette più alcun denaro per mantenersi a New York. All’epoca lavorava in una piccolo pub, solo nei weekend, per guadagnare almeno ciò che le serviva per fare la spesa e comprare l’occorrente per la scuola. Riusciva a conciliare gli allenamenti, i compiti ed il lavoro.  Ma i soldi che Ingrid le inviava le servivano per pagare l’affitto…
Chiese al proprietario del locale di poter lavorare tutti i giorni, rispose a tutti gli annunci che trovava sui giornali, inviando loro il suo curriculum e assicurando la sua piena disponibilità.
Lavorava fino a notte fonda, il giorno dopo si alzava per andare a scuola, si allenava duramente per ore, poi esausta, ritornava al pub. Qualche volta Neal veniva a trovarla, poi a turno finito, la riaccompagnava a casa. Dormiva sì e no quattro ore a notte, quando era fortunata riusciva ad arrivare a sei. 
All’epoca, credeva fermamente nel loro amore. Neal fu l’unica nota positiva della sua vita in quel periodo.
Era gentile, solare, la faceva sempre ridere e riusciva a farle dimenticare ciò che si era lasciata alle spalle.
Credeva davvero che, nonostante tutte le difficoltà, avesse trovato il suo lieto fine.
Non aveva abbandonato però ciò per cui aveva lavorato per tutta la vita: si allenava in continuazione, per portare avanti il suo sogno.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa per realizzarlo.
La danza era la sua maestra di vita, lo era sempre stata. Grazie a lei aveva imparato a stringere i denti, aveva imparato l’arte della pazienza e del sacrificio e soprattutto, aveva imparato che soltanto lavorando sodo, poteva ottenere degli ottimi risultati.
Ma non fu più abbastanza, aveva bisogno di più soldi. La borsa di studio aveva coperto i costi di un solo anno che sarebbe finito di lì a poco. Grazie ai soldi racimolati, più quelli che Ingrid le aveva lasciato come eredità, avrebbe potuto permettersi di frequentare un altro anno, l’ultimo.
Ma i soldi le servivano anche per fare la spesa, pagare le bollette, l’affitto…
Neal le parlò di un locale, in cui assumevano ragazze per intrattenere i clienti. La paga era buona e le mance non mancavano.
Emma si lasciò convincere.
La prima volta che entrò nel “Rabbit Hole” aveva diciott’anni. Continuava a ripetersi che l’avrebbe fatto solamente un paio di volte, solo per racimolare abbastanza soldi per finire l’ultimo anno.
Lavorava tutta la notte, da aspirante ballerina riusciva a muoversi abbastanza bene e in men che non si dica, divenne famosa.
Poi scoprì di essere incinta. Non l’aveva mai detto a Neal. Stava per farlo, stava per bussare alla porta della sua classe, quando la preside Mills, l’avvertì che il professor Cassidy si era trasferito.
A quanto le aveva detto, non sopportava più la troppa distanza tra lui e la sua famiglia.
«F-famiglia?» mormorò Emma. Il sorriso le si spense in volto, gli occhi divennero improvvisamente lucidi, il cuore sembrò fermarsi nel petto.
«Esatto signorina Swan: sua moglie e suo figlio vivono a Los Angeles…»
Famiglia.
In quel momento il cuore di Emma si crepò. Salutò la preside con un cenno poi, trattenendo a stento le lacrime, si precipitò fuori.
Era stata un’ingenua, una stupida. Si era fatta abbindolare da quell’individuo, dalle sue false promesse e dai suoi complimenti.
Una cosa doveva concedergliela: era un ottimo attore, il più bravo che avesse mai conosciuto.
In quei mesi, non aveva fatto altro che recitare una parte ed Emma se ne accorse solo allora.
Provò a chiamarlo ma il telefono squillò a vuoto.
Era sola, di nuovo. 
Quel giorno, dopo tempo, ripensò a Killian Jones. Si chiese cosa sarebbe successo se lui fosse stato lì, con lei.
Di sicuro, tutto sarebbe stato diverso.
Finì la scuola, studiando a casa, non riuscendo più a sopportare gli sguardi insolenti puntati sul suo ventre rigonfio e i continui mormorii.
L’unico lavoro che le rimase fu quello in una piccola libreria a due passi dal suo appartamento. Vide tutti i suoi sogni frantumarsi sotto i suoi occhi, ogni sacrificio che aveva fatto le sembrò vano.
Vacillò ancora ma non cadde mai.
Nonostante tutte le difficoltà che sapeva avrebbe dovuto incontrare non ebbe la forza di lasciare andare quel bambino, non riuscì ad abortire e non riuscì a darlo in adozione. Non voleva che quell’esserino che portava in grembo si sentisse come lei, solo e abbandonato, in un mondo privo d’amore. Perché, nonostante tutto, lei lo amava. Lo amava con tutta se stessa ed era il frutto di quello che considerava uno dei periodi più felici della sua vita.
Non fu facile.
Anna l’aiutò durante il primo periodo, quando non riusciva a mangiare niente che non fosse cioccolato, perché vomitava tutto il resto. Emma ricordò che la giovane scese a comprarle del succo di frutta alla pesca, quando le venne l’inspiegabile voglia di pesca. Poi, Anna partì: fu ingaggiata in una compagnia di successo per interpretare Clara, dello Schiaccianoci. Ogni tanto, grazie alle nuove tecnologie, parlavano ancora ed Emma le mandava qualche foto di lei ed Henry. Anna diceva che li aspettava in Olanda, un giorno o l’altro. Adesso viveva lì, insieme a suo marito, un certo Kristoff e sua sorella, Elsa.
Regina, invece, fu la sua ancora di salvezza. 
L’aiutò, le diede un lavoro e divenne per lei una sorella, una madre, un’amica e una confidente.
Quando il bambino nacque e il suo pianto squarciò l’aria di quella camera d’ospedale, Emma pensò che non aveva mai sentito niente di più bello e se ne innamorò all’istante.
Lo chiamò Henry che deriva dal nome germanico “heim”: casa. Se ne rese conto solo più tardi, quando a suo figlio assegnarono una ricerca sull’origine del suo nome. L’aveva fatto inconsciamente, eppure non vi era nome più adatto. Voleva che quel bambino, nonostante sarebbe cresciuto senza un padre, trovasse la sua casa nel mondo, a differenza sua.  
Dopo essere stata dimessa dall’ospedale, tornando a casa sul suo maggiolino giallo, si fermò al “Rabbit Hole”.
«Oh, miss Swan, quale onore!» la salutò il proprietario del locale, Sebastian Hatter.
«Ho bisogno di lavorare Sebastian!» rispose la donna seria.
Quello scoppiò a ridere, affilando lo sguardo.
«Chi mi dice che sei ancora in forma tesoro? Una gravidanza non è facile da smaltire…»
«Mettimi alla prova, domani!» disse Emma guardandolo dritto negli occhi. Quei soldi le servivano, non poteva dipendere da Regina. Per quanto odiasse quel posto, era disposta a tutto pur di far felice suo figlio.
«Andata, tesoro!» disse, facendole l’occhiolino «Dimostrami chi sei! Ho sempre pensato che la tua carriera non fosse ancora finita!»
Emma gli fece un cenno d’assenso, poi se ne andò.
Come le altre volte, anche quella si disse che sarebbe stata una soluzione temporanea. Presto avrebbe trovato un altro lavoro, un’altra sistemazione.
Se lo ripeteva ancora oggi, dopo dieci anni.
A volte le sembrava di avere una doppia vita. Il giorno provava ad essere una buona madre, cucinava, preparava la merenda, lavorava al negozio. Di notte, invece, si spogliava e faceva quello che aveva desiderato fare fin da bambina: ballare. Forse non furono tanto i soldi la vera motivazione per la quale non si licenziò, quanto il ballo. La danza era sempre stata parte integrante di lei e della sua vita. Grazie ad essa, aveva imparato a non arrendersi mai, a sopportare il dolore e la sofferenza con il sorriso sulle labbra. Quando danzava si sentiva libera, felice e incanalava tutte le sue emozioni, paure, angosce in quei movimenti. Era quello ciò che avrebbe desiderato fare per sempre, prima di Henry. Era per quel sogno che aveva lasciato Storybrooke. Le piaceva danzare persino lì, in quella topaia, quando i soli a guardarla erano uomini in calore, avidi del suo corpo. Non si era mai concessa loro, aveva una morale e la rispettava. Ma ballava per loro, questo sì. Ballava cercando di trasmettere loro la forza di uscire di lì e prendere in mano la loro misera vita. Si diceva questo per consolarsi, sperava di fare qualcosa di buono.
L’unica che aveva sempre saputo tutta la verità era Regina che, ovviamente, non approvava. Lei teneva Henry, le notti nelle quali Emma lavorava. La giovane era testarda, non voleva pesare sulla sua amica e quei soldi, insieme al guadagno del negozio, le permisero di comprare una casa e di dare a suo figlio un’esistenza più o meno felice. Non erano ricchi, né potevano considerarsi benestanti. A volte Henry doveva rinunciare a qualcosa, ma sapeva che per sua madre non era facile, quindi di rado si lamentava.
Era la sua vita e sebbene non fosse perfetta, ad Emma andava bene così.
 
«Killian! Killian, maledizione, svegliati!»
Emma aveva trascinato fuori Killian, grazie all’aiuto di due tipi. Li aveva ringraziati e congedati con un gesto della mano, «Adesso ci penso io… Sì, è un mio amico…Grazie ancora e tornate a trovarci!»
L’aveva steso sul marciapiede e aveva cominciato a schiaffeggiarlo piano, ma quello non voleva saperne di aprire gli occhi.
Cominciava a preoccuparsi sul serio adesso.
«Ahia…ma che diavolo...?» mormorò l’uomo, massaggiandosi la testa. Probabilmente l’ultimo schiaffo fu più forte degli altri. Emma pensò che se non avesse funzionato, sarebbe ricorsa all’acqua fredda, oppure avrebbe chiamato il 911. Forse, avrebbe fatto entrambe le cose.
«Shh, non muoverti, fammi vedere…»
La donna gli ispezionò la testa. Fortunatamente, nessun pezzo di vetro era rimasto incastrato tra i capelli, sebbene l’impatto avesse provocato diversi tagli.
«Ti porto all’ospedale!» concluse.
 
 
Killian era ancora stordito. Non riusciva a ricordarsi un bel niente e non riusciva a capire come avesse fatto a finire in macchina con Emma Swan e procurarsi quel dolore lancinante alla testa. Non sapeva se era dovuto all’alcool o a qualcos’altro, probabilmente un mix di entrambe le cose. Provò a massaggiarsi le tempie e la nuca.
Sentì qualcosa di denso e appiccicaticcio sporcargli le mani.
Sangue?
Spostò lo sguardo sulla donna al volante. Assomigliava terribilmente ad Emma Swan ma era piuttosto impossibile che si trovava, a quell’ora della notte, in quel locale malfamato.
Quando l’avrebbe rivista, perché prima o poi l’avrebbe fatto, le avrebbe detto che aveva un sosia.
L’Emma accanto a lui distolse un secondo lo sguardo dalla strada e puntò i suoi occhi preoccupati su di lui.
Avrebbero potuto essere gemelle, erano identiche, davvero identiche!
Aveva trovato la famiglia di Emma Swan! Avrebbero dovuto dargli un premio!
Provò a sorriderle ma con scarsi risultati.  
La donna ritornò a guardare la strada, stava guidando, chissà dove stavano andando.
Killian chiuse di nuovo gli occhi e si addormentò.
 
 
La prima cosa che vide quando riaprì gli occhi, fu uno strano soffitto bianco.
Dove diavolo era?
Sbatté più volte le palpebre per abituarsi a quella strana luce. Provò a muoversi ma qualcosa teneva fermo il suo braccio, impedendogli di compiere qualsiasi movimento. Voltò la testa e ciò che vide lo stupì non poco.
Emma Swan, la vera Emma Swan, era seduta lì, su una piccola poltroncina accanto a lui. Aveva la testa piegata da un lato, appoggiata ad una mano e gli occhi chiusi.
Sembrava quasi fragile, così.
Probabilmente stava sognando, si tirò un pizzicotto, aspettandosi di vedere anche Milah da qualche parte.
Poi, le immagini del giorno prima, gli invasero la mente. Emma che gli rivelava i suoi sentimenti, la folle corsa, il pub, la zuffa, la corsa in macchina e di nuovo Emma.
Lei era sempre lì.
«Ti sei svegliato…» mormorò la donna, spalancando i suoi grandi occhi verdi e stiracchiandosi.
Era reale. Stava parlando, doveva essere veramente lì… Giusto?
«Come? Che? Dove sono?»
«In ospedale, dopo il grande spettacolo che hai dato ieri sera… Aspetta qui, vado a chiamare il dottor Whale…»
«Dove vuoi che vada!» borbottò Killian. Finalmente, stava ritornando più o meno lucido.
Emma ritornò qualche minuto dopo insieme ad un uomo sulla trentina, forse anche più vecchio. Era biondo, con la fronte alta e spaziosa e Killian notò che indossava delle scarpe veramente orrende.  
Contento lui!
Probabilmente doveva sentirsi davvero irresistibile…
«Ben svegliato signor Jones!» lo salutò, urlando un po’ troppo. Gli faceva ancora male la testa e gridare non era proprio un buon modo per entrare nelle sue grazie, quel giorno.
«Grazie…» mormorò, spostando il suo sguardo su Emma. La donna si era appoggiata ad un muro, le braccia incrociate e l’espressione seria e corrucciata.
Whale estrasse la sua cartella e la controllò.
«Ha subito un lieve trauma cranico, signor Jones! Ha riportato diversi tagli lievi e uno più profondo, le abbiamo messo quattro punti; in questi giorni può avere dei forti capogiri, dolori alla testa e può perdere conoscenza. Signorina Swan – disse rivolgendosi ad Emma – se accade spesso, portatelo di nuovo qui…»
Killian vide Emma annuire e alzò un sopracciglio.
«Mi dica, ricorda tutto ciò che è successo ieri sera?» chiese l’uomo, puntandogli una luce gialla prima in un occhio, poi nell’altro.
Killian annuì.
«Bene! Ad ogni modo, signor Jones, ha bisogno di riposo. Le consiglio di prendersi tre, quattro giorni liberi…»
«Quando posso tornare a casa?» chiese l’uomo, ignorando ciò che il dottore gli aveva appena detto.
«Per quanto mi riguarda, può essere dimesso anche in mattinata!» urlò ancora e Killian avrebbe voluto prenderlo a schiaffi.
«Bene, la ringrazio dottor Whale!»
«È mio dovere, signor Jones! Si riguardi! E la prossima volta, cerchi di non farsi rompere una bottiglia in testa…»
«Farò il possibile!» rispose Killian, sfoderando il suo solito sorriso sghembo.
Il dottor Whale gli riservò un’ultima occhiata e poi uscì. Emma lo seguì, Killian la vide confabulare con lui fuori dalla porta e vide il sorriso forzato che cercò di dipingersi sul volto. Era una pessima bugiarda. Carina. Una pessima bugiarda, piuttosto carina.
«Tra poco un’infermiera verrà a toglierti la flebo e poi potremo andare…» mormorò Emma, una volta salutato il dottore. Si avvicinò lentamente al suo letto, gli occhi ancora preoccupati.
«Lo conosci?» chiese l’uomo, cercando di sembrare impassibile.
«Sì, qualche volta viene al locale… mi ha permesso di restare qui con te stanotte!» spiegò la donna, sedendosi sulla piccola poltroncina.
«Sei rimasta qui, tutta la notte?»
«Non potevo lasciarti da solo, Jones!»
Killian ignorò quella strana sensazione all’altezza del cuore, quasi volesse scoppiare.
«Che diavolo ci facevi lì Emma?» chiese invece, domandandosi a sua volta se volesse davvero sapere la risposta.
«Ci lavoro…»
«Tu…cosa?!»
Emma sorrise, aspettandosi una reazione del genere da parte sua. Così cominciò a raccontargli tutto, di come aveva conosciuto il “Rabbit Hole” grazie a Neal, di come aveva provato ad andarsene, senza risultati, della sua gravidanza, della voglia di dare ad Henry tutto il meglio che meritava e della sensazione che provava ancora, ballando.
Non si fermò mai, neanche quando l’infermiera venne a togliergli la flebo. Killian dal canto suo, non la interruppe mai, ascoltava la storia della sua vita in un religioso silenzio. Ascoltava ogni parola, ogni tentennamento, ogni imbarazzo, rispettava i suoi silenzi e le lasciava il tempo per rimettere in ordine le idee e poi ricominciare.
Seppe così di Neal, di Anna, di Henry, di Regina. Seppe del suo sogno in frantumi, del sacrificio per donare a suo figlio il meglio. Seppe del suo oscuro e infinito desiderio di danzare. Seppe della libreria che, dopo qualche tempo, chiuse i battenti. Seppe del negozio di antiquariato e di come questo fosse nato dalle ceneri di due donne col cuore a pezzi.
Piano piano, i muri attorno ad Emma Swan crollarono, schiacciati dal peso di quelle parole.
Piano piano gli sembrò di essere tornati soltanto Emma e Killian, seduti da qualche parte, a confabulare della loro vita e del loro futuro.
Si ritrovarono in macchina, Emma aveva appena finito di parlare. Il suo racconto, questa volta, era finito per davvero.
Killian non sapeva cosa dirle. Odiava Neal per ciò che le aveva fatto, si odiava per non aver potuto consolarla in tempo e odiava lei, per non averglielo permesso.
«Dov’è casa tua?» chiese la donna. Gli occhi continuavano ad essere fissi di fronte a sé.
Killian le illustrò il modo più facile di trovare il suo appartamento, poi cadde nuovamente il silenzio.
«Ah… un certo David ti ha chiamato diverse volte…»
«Hai risposto?»
La donna annuì.
«Scusa, non volevo intromettermi, ma era la quinta volta che il telefono squillava e ho pensato si trattasse di qualcosa di grave...»
«Non ti preoccupare… che ha detto? Ha trovato il furgone?»
«È successo qualcosa in famiglia, non ho chiesto, non volevo sembrare scortese ed è andato in Massachuttes con una certa Mary…Mary…»
«Mary Margaret! » esclamò Killian.
«Esatto»
«Dov’è il mio telefono adesso?» chiese l’uomo, preoccupato. Una parte del suo cervello si chiedeva perché diavolo David era andato dai suoi genitori con Mary Margaret, l’altra sperava che non fosse successo nulla di grave e l’altra ancora continuava a rielaborare la storia di Emma e il tutto non faceva che fargli aumentare il mal di testa.
«È nella tua giacca penso…»
L’uomo lo estrasse e chiamò il suo amico.
«Jones, finalmente! Come stai? La tua amica mi ha raccontato tutto! Perché diavolo finisci sempre ad azzuffarti nei bar?»
«Sto bene Nolan! L’ultima volta che ho preso qualcuno a cazzotti in un locale, ho conosciuto te…»
«Sì, il giorno più fortunato della tua vita!»
«Coglione! – guardò Emma e alzò le spalle, fortunatamente suo figlio non era con loro – piuttosto, perché sei scappato in Massachuttes con la mia segretaria?»
«La tua segretaria?» mormorò Emma a bassa voce e Killian rise e annuì.
«Mio padre ha avuto un incidente… - rispose David, abbassando il tono della voce che divenne improvvisamente più serio – la serra in cui stava lavorando ha preso fuoco, i vigili del fuoco non riescono ancora a capire com’è successo…»
«S-sta bene, vero?» chiese Killian, preoccupato.
«Lui, lui…»
«No, David…n-non può essere, parto adesso…»
«Lui sta bene!!! Fortunatamente non era dentro quando l’incendio è scoppiato!»
«Sei un coglione! Mi hai fatto spaventare a morte!» rispose Killian, tirando un sospiro di sollievo e ingoiando quello strano malloppo che gli era salito in gola. Perché aveva un amico così idiota?
Sentì Mary Margaret dall’altro capo del telefono sgridarlo “David, sei uno stupido! Non si scherza su queste cose…”
«Esatto David, non si scherza su queste cose!!» gli ripeté Killian al telefono.
«Lo so, lo so mi dispiace…»
«Ti dispiace? Quella donna sta facendo davvero un buon lavoro su di te! Te l’avevo detto: siete anime gemelle!»
«Sì, sì certo!»
«Quando torni? Ho bisogno della mia segretaria!»
«Mary Margaret mi supplica di chiederti se può prendersi due giorni di ferie anticipate…»
«Cosa? Non è vero!» sentì la donna urlare dall’altro capo del telefono.
Killian sorrise.
«Certamente… Mi arrangerò… Non divertitevi troppo! Ci sentiamo dopo…»
«Sì, grazie signor Jones!»
«Cogli…»
Troppo tardi, David aveva già chiuso la chiamata. Avrebbe dovuto togliersi questo vizio, cominciava a dargli sui nervi.
«Ho sentito più parolacce in dieci minuti con te, che in tutto l’anno scorso!»
«Andiamo Swan, non fare la santarellina! Sappiamo entrambi che anche a te scappa qualche parolina poco adatta ad una signora ogni tanto…»
Emma cercò di contenere un sorriso. Sì, forse la conosceva fin troppo bene.
«Quindi non è successo niente di grave?»
«No, fortunatamente no…»
«Un giorno mi piacerebbe conoscere questo David…»
«Oh, sì, sono sicuro che ti piacerà…»
«Lo penso anch’io… - sorrise - Come va la testa?»
Ormai erano quasi arrivati.
«Vai dritto, alla seconda svolta a sinistra e poi subito a destra…ecco, lì! Bene, mi fa un po’ male…i punti tirano… mi hanno rasato! – esclamò, toccandosi la testa -Maledetti, si vede?»
Emma scoppiò a ridere.
«Tranquillo, non si vede molto… La tua immagine esteriore è salva! Le tue fan saranno felici…»
Scesero e Killian non poté fare a meno di cogliere un velato fastidio nelle parole della donna.
«Gelosa, Swan?»
«Ti piacerebbe!»
Killian sorrise e scosse la testa. Si diresse verso il portone del suo appartamento e, da gentiluomo quale era, lasciò passare prima le signore. Emma alzò gli occhi al cielo.
Entrarono in casa. Killian buttò tutto sul divano, giacca, borsa, chiavi, cellulare, per poi stendercisi sopra lui stesso.
«Scusa Swan…fai come se fossi a casa tua!»
Emma si guardò intorno. La prima cosa che pensò fu che la sua casa, così come l’auto, era spoglia. Era bella, questo doveva ammetterlo, grande e spaziosa, con l’arredamento moderno che aveva sempre desiderato e non si era mai potuta permettere, ma vuota. Non c’erano fotografie, macchie sul pavimento, dvd sparsi per terra, impronte sui muri.
Di nuovo, le parve quasi che Killian avesse paura a mettere radici in quel posto, quasi avrebbe dovuto lasciarlo da un momento all’altro.
Gironzolò un po’, lesse di sfuggita i titoli dei libri che aveva esposto, le mille riviste accantonate ordinatamente in un angolo, sbirciò il bagno e le altre camere e poi si diresse in cucina.
«Stai bene?» chiese, notando la smorfia di dolore dipinta sul volto dell’uomo.
«S-sì, grazie di tutto, Swan… Se adesso devi andare, puoi farlo…»
Emma lo ignorò.
«Dove hai le medicine?» chiese, invece.
«In bagno…»
Emma aprì qualche anta, finché non trovò ciò che stava cercando. Ritornò in cucina e sciolse il contenuto della bustina in un bicchiere.
«Tieni, prendi un’aspirina… vado a prepararti qualcosa da mangiare…»
Killian bevve tutto d’un sorso. Non gli faceva schifo, però di certo preferiva bevande migliori di quella. Vide Emma trafficare nella sua cucina e gli sembrò la cosa più normale e giusta del mondo. E al tempo stesso, la più strana.
«Da quanti anni non mangi qualcosa di diverso da panini al tonno?»
«Mmmm…» mugugnò.
«Sappi che venerdì non ci sarà neanche l’ombra di tonno in scatola! O qualsiasi altra cosa, in scatola!»
Emma non poté fare altro che preparargli un tramezzino, visto che non c’era nient’altro.
Lo costrinse a mangiarlo, sebbene continuasse a ripetere di non avere fame.
«Devi mangiare! Altrimenti ti riporto in ospedale!» gli ripeteva, quasi fosse un bambino malato e non un uomo.
Killian mangiucchiò qualcosa. Accesero la televisione e guardarono un documentario sugli scimpanzé. L’uomo riuscì persino a prendere in giro Emma, paragonandola ad una di quegli animali pelosi.
In compenso si beccò una cuscinata in faccia.
«Ti ricordo che sono malato!»
«E lo sarai ancora di più se continui così…» constatò Emma, prendendo il telecomando e cercando qualcosa di più interessante.
Killian rimase a fissarla. Gli sembrò di essere tornato ai tanti pomeriggi passati in sua compagnia, ai film di Harry Potter, chissà se aveva continuato a guardarli tutti… Mancavano soltanto le ciambelle.
Il loro rapporto non sarebbe mai ritornato come prima. Erano cambiate troppe cose, loro stessi erano cambiati, cresciuti, maturati. Si rese conto di non voler neanche ritornare a quell’amicizia scomoda, no, voleva qualcosa di più da quella donna. E questo lo spaventava non poco. Finalmente ogni sua domanda aveva ricevuto una risposta, sentiva che ormai ogni barriera era caduta, dopo quella notte.
«Emma…»
«Sì?»
«Per quel che ne vale... ti amavo anch’io…»
Emma spalancò gli occhi, sorpresa. Poi sorrise.
«Adesso lo so…»
 
Perché forse, in un certo senso,
Non ci eravamo lasciati alle spalle quello che ritenevamo di aver abbandonato.
Perché, sotto sotto, una parte di noi rimase sempre così:
Timorosa del mondo intorno e - non importa quanto ci disprezzassimo per questo-
Incapaci di staccarci l’uno dall’altra.
-Kazuo Ishiguro
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Salve a tutti! :)
I’m back! (Non vi liberate di me, così facilmente!)
Non ripeto più neanche di essere in clamoroso ritardo (perché lo sono) però, a mia discolpa, voglio dirvi che non ho tagliato neanche questo capitolo, perché vi voglio bene e non voglio trovare nessuna minaccia di morte sotto casa! xD
Comunque, il capitolo l’ho praticamente scritto quasi tutto oggi e spero davvero che vi piaccia!! Abbiamo scoperto cosa Neal ha fatto ad Emma, come veramente la donna se l’è cavata e ciò che ha dovuto fare per sopravvivere. In più, abbiamo anche scoperto qualcosa in più sul passato di Killian, su Milah (ho cercato, per quanto mi è stato possibile, di non farla risultare odiosa…spero di esserci riuscita xD) e sui suoi sentimenti: continua ad incolpare se stesso per ciò che è successo, credendo che avrebbe potuto fare qualcosa in più! E si è fatto pure un giro all’ospedale, poverino! :(
E poi, abbiamo scoperto anche qualcosa su Mary Margaret! Speri di aver reso bene il personaggio. Ultimamente ho rivisto la prima stagione, ho rivisto la Snow magra combattiva, coraggiosa e pronta a tutto pur di difendere gli altri… oltre alla bambina che non sa mantenere i segreti!
Be’ è questa la Snow alla quale mi sono ispirata! :)
Come sempre, non posso non ringraziare tutte voi che mi avete lasciato una recensione, che spendete un po’ di tempo per me e per la mia storia e avete da parte sempre delle belle parole che mi incoraggiano e mandano avanti questo “esperimento”.
Quindi grazie Persefone (ho fatto il prima possibile, visto?! Mi sono stupita da sola xD), Pandina, Erin, Arya, Chipped Cup, Em e CsLover e a tutte le altre ragazze che mi hanno lasciato una recensione!! GRAZIE! <3
Grazie anche a chi si ferma solamente a leggere e chi inserisce nelle varie categorie!!
Ah, dimenticavo. Questo capitolo ha due citazioni. La prima non penso abbia bisogno di spiegazioni; la seconda, invece, qualcuno di voi la conosce già! È la stessa, dalla quale partii (ormai un anno fa, come passa il tempo) per scrivere la mia prima long “Non lasciarmi”. Penso sia perfetta anche in questo contesto e quindi ve l’ho riproposta…niente, sono molto affezionata a quella frase xD
Okey, la smetto di blaterare! Adesso il mio spazietto, diventerà più lungo del capitolo!
Grazie ancora a tutti! Se il capitolo vi è piaciuto, mi farebbe davvero piacere ricevere i vostri pareri (ovviamente anche se non vi è piaciuto, ogni critica è ben accetta!)
Un fortissimo abbraccio,
la vostra
Kerri :-*

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Capitolo 12
*** I won't let you go. Will you? ***


11. I won’t let you go. Will you?

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*When it’s black,
Take a little time to hold yourself
Take a little time to feel around,
Before it’s gone
You won’t let go, but you still keep on falling down

 

«Posso farti una domanda?»
Dopo la rivelazione di Killian di poco prima, il silenzio aveva regnato nel grande salone di casa Jones. Sia Emma che l’uomo al suo fianco, avevano concesso alle loro menti di vagare incontrollate, chiedendosi cosa sarebbe successo se all’epoca, fossero stati entrambi meno codardi.
La donna annuì. In fondo, non aveva più niente da nascondergli. Gli aveva rivelato tutto, ogni più piccolo tassello della sua vita ed era stato talmente facile parlare di fronte a quegli occhi così famigliari e così azzurri che quasi se ne spaventava.
«Tuo figlio sa…del tuo lavoro part-time?» chiese, titubante. La donna sorrise tristemente, poi rivolse di nuovo lo sguardo verso il televisore ancora acceso.
«No, sa che lavoro in un supermercato…» mormorò.
Mentire a suo figlio era una delle cose che odiava di più. Lei, Emma Swan, che si era sempre vantata di riuscire a smascherare qualsiasi bugiardo, lentamente, era diventata esattamente come loro.
«Non ne vado fiera Killian…» disse, continuando a tenere lo sguardo ancora fisso sullo schermo. Sembrava quasi cercasse di concentrarsi su quelle immagini, di cui non riusciva neanche a capire il nesso.
Cos’era? Un film o una pubblicità? Perché quell’uomo stava puntando una pistola alla tempia di quell’altro? Cos’aveva fatto di tanto grave? Meritava una seconda chance? Tutti meritano una seconda chance…
«E allora perché lo fai Emma? Non intendo mentire, cioè anche quello… ma perché continui a lavorare lì? Perché non ti licenzi?» chiese l’uomo, come fosse la cosa più ovvia del mondo. E dopotutto, lo era, no?
«Non è così semplice…»
Killian alzò gli occhi al cielo. Era sdraiato sul grande divano, riusciva a vedere la donna appollaiata da qualche parta difronte a lui e sperò si rendesse conto che non aveva intenzione di mollare così.
«Emma, guardami! Non ci vediamo da dodici anni, sono quasi morto, posso morire da un momento all’altro, merito una risposta no?»
La donna distolse lo sguardo dallo schermo e puntò i suoi grandi occhi verdi sull’uomo. Era ancora un po’ pallido, doveva ammetterlo.
«Non morirai da un giorno all’altro…» disse, non riuscendo a nascondere un’espressione divertita.
«Parla… mi gira la testa…» continuò quello con teatralità, poggiandosi una mano sulla fronte e ignorandola completamente.
Che idiota!
«Te l’ho detto Killian… non riesco a smettere di ballare… è…è una droga! E tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro… Io mi sento…mi sento bene, per quanto può sembrare insano e stupido…»
L’uomo divenne di nuovo serio. Accolse quelle parole come una confessione. Sì, Emma si stava confessando con lui. Gli stava rivelando tutte le sue più grandi paure, i suoi desideri più nascosti, i suoi segreti più oscuri. L’immagine della ragazzina dai biondi capelli legati in un chignon gli colorò la mente.
Certo che lo sapeva, lo sapeva meglio di chiunque altro.
«“Insano e stupido” sono degli eufemismi…» mormorò ed Emma gli riservò un’occhiataccia.
«Hai ragione, mi ricordo… ma non puoi…che ne so…iscriverti ad una scuola di danza?»
«Devo occuparmi del negozio Killian… ci ho pensato così tante volte, cosa credi?! Ma ho delle responsabilità, ho Henry, Regina… devo a quella donna tutto ciò che di buono c’è nella mia vita e adesso che lei non può più occuparsi di “Once”, devo farlo io…lei si è fidata di me… e non voglio deluderla…»
«Capisco…»
«Davvero?»
L’uomo aprì la bocca per ribattere, poi la richiuse. No, ovvio che no. Non si era mai ritrovato in una situazione del genere, in cui era obbligato a rinunciare a qualcosa che amava.
Certo, aveva perso molte cose nella sua vita ma sempre contro la sua volontà.
«E prima? Da quello che mi hai detto, è da poco che questa Regina ti ha chiesto di prendere in mano le redini del negozio…»
«È così…ma prima… Henry, il negozio, la casa… Killian non ho mai avuto tempo, né le possibilità… e poi, quei soldi, per quanto banali, fanno la differenza… credimi…»
Passarono secondi interminabili, secondi in cui calò di nuovo il silenzio. Emma ritornò a guardare la televisione, rigirandosi il telecomando tra le mani. Non riusciva ancora a credere di essere lì, in casa di Killian Jones, e di avergli raccontato la sua vita.
«Posso dirti ciò che penso, Emma? In assoluta franchezza e senza peli sulla lingua?» esclamò improvvisamente l’uomo, destandola dai suoi pensieri.
Annuì.
«Tu non vuoi lasciare quel posto… non vuoi! Perché se lo volessi, se lo volessi realmente, tu te ne saresti andata da tempo… ma per qualche motivo, tu non vuoi lasciarlo… perché?» 
«Lo sai già Jones! Per quanto fatiscente sia, lì ho la possibilità di fare ciò che mi piace, di fingere, per un momento, che la mia vita non sia andata a rotoli, che non ti abbia lasciato per niente, che sia andato tutto bene…»
Killian cercò di alzarsi, facendo leva sui cuscini. Voleva guardarla negli occhi.
«Non è solo questo e non è neanche per i soldi, Swan e lo sai anche tu…»
«No Killian, non lo so! Illuminami!»
L’architetto prese un profondo respiro. Forse l’avrebbe odiato, forse gli avrebbe dato ragione, forse avrebbe lasciato il suo appartamento per non farci più ritorno. Ma doveva rischiare, non voleva più avere segreti con lei, non ne aveva mai avuti. Voleva aiutarla ad aprire gli occhi, a prendere in mano la sua vita e licenziarsi da quel locale, perché non era il luogo adatto a lei. Perché nessuno di quegli uomini la meritava, meritava di vederla danzare per loro.
«Quel posto, quei muri, quei banconi, ti ricordano il padre di tuo figlio…» non riusciva a pronunciare il suo nome senza provare una strana sensazione alla bocca dello stomaco e un istinto omicida. Li ignorò.
«Ti riportano all’epoca in cui mi hai detto di essere stata felice, ti ricordano quell’uomo che dici tanto di odiare ma io so, so che per quanto tu ti sforzi, non riesci a dimenticare… Non accetti l’idea di lasciare il “Rabbit Hole”, perché è un modo per sentirti vicina a lui…»
Le parole sembrarono svolazzare per la stanza.
Emma le ascoltò, non si rese conto di aver spalancato la bocca, la richiuse, deglutì.
Riusciva a vederle lì, le parole, le lettere, gli spazi, galleggiare, rincorrersi, fuoriuscire dalle sue labbra e raggiungere le sue orecchie.
Cosa? Che assurdità!
Era vero? No, certo che no!
Eppure…
Quel bastardo l’aveva abbandonata!
Sì ma… Non lo sapeva…
Come diavolo aveva fatto Killian Jones a capire tutto questo così in fretta? Soprattutto, a capirlo prima di lei?
Per chiunque, Emma Swan era sempre stata un mistero, una donna difficile da comprendere e ancor più difficile da amare. E allora perché quell’uomo riusciva a farlo così bene? Dopo tutto quel tempo, sembrava fosse ancora un libro aperto per lui e i suoi dannatissimi occhi azzurri.
«C-come fai a dirlo? Cosa ne sai tu? Non hai mai…» balbettò.
«Lo so Emma – la interruppe l’uomo, prima ancora che finisse la frase - lo so perché anche io ho perso qualcuno a cui tenevo, qualcuno che ho amato più di me stesso. E mi era impossibile vivere, esattamente come mi era impossibile quando tu te ne andasti… ma sono qui, sono sopravvissuto. Ho lasciato Storybrooke, ho lasciato tutti i luoghi che mi ricordavano Milah e sono qui… cercando, forse con scarsi risultati, di mandare avanti la mia vita, senza di lei…»
Emma lo guardò, gli occhi improvvisamente tristi.
«Non sei meglio di me, Killian – sorrise mestamente – non puoi tagliare tutti i ponti con il passato così bruscamente…»
«Tu l’hai fatto…»
«E guarda dove sono ora? Il passato verrà a cercarti prima o poi Killian, verrà ad infilare i suoi artigli velenosi dentro di te, risvegliato da un profumo, da un paesaggio, da qualsiasi cosa… ritornerà…e tutte le tue certezze crolleranno…»
«Come io sono ritornato nella tua vita? L’ho davvero sconvolta Emma?»
«All’inizio sì… Adesso chi può dirlo?» prese un respiro poi continuò.
«Il punto è che neanche tu sembri stare meglio. Insomma guarda questa casa! Non c’è una foto, una macchia, non c’è la Nutella in dispensa e non ci sono merendine, non ci sono videogiochi sul tappeto e succo d’arancia dappertutto… eppure sei qui da due anni! Avresti potuto trovare qualcun’altra, sposarti, avere figli… e invece sei qui, in una casa vuota, a rimpiangere il tuo passato… Siamo uguali, Killian. Se non l’ho superato io, dopo undici anni, non l’hai fatto neanche tu… Tu l’ami ancora e sempre l’amerai… non puoi dimenticarla, non puoi dimenticare una persona, soltanto perché non la vedi, non la tocchi, non la accarezzi…»
«Hai fatto anche questo… - disse e i suoi occhi sembrarono lampeggiare, più azzurri che mai – …con me» mormorò.
«Questo non è affatto vero! – esclamò la donna, con più enfasi di quanto si sarebbe mai aspettata - Credi sia stato un caso che il pirata delle storie di mio figlio si chiamasse come te, stupido idiota? Credi che sia un caso se l’unico libro che conservo nel comodino sia “Jane Eyre”?! E che non riesco a guardare una maledettissima modo, senza pensare alla tua?! No, non è affatto un caso!» tuonò, alzandosi di scatto e parandosi di fronte a lui.
Poteva accusarla di qualsiasi cosa, di averlo abbandonato, di non aver risposto alle sue chiamate, di non avergli mai più scritto, di essere scomparsa dalla sua vita.
Ma non poteva dire che l’aveva dimenticato. No, questo no, mai.
«Ascoltami bene Killian Jones, perché non credo lo ripeterò un’altra volta: tu sei stato una parte molto importante nella mia vita e lasciarti è stata la cosa più meschina e orrenda che io abbia mai fatto, ma non ti ho mai dimenticato e mai lo farò… intesi?»
Probabilmente il suo viso era più rosso del solito, ma non le importò.
«Emma…io…»
Silenzio. Non riusciva a trovare le parole adatte.
Cosa?
Emma non lo sapevo.
Emma non ti ho mai dimenticato neanche io.
Emma non andartene mai più.
«Lo so, Killian…» rispose, spegnendo quel fuoco che si era acceso in lei, quasi per magia.
La donna controllò che ore fossero. Merda, Henry sarebbe ritornato da scuola tra poco e lei non lo vedeva dal giorno prima. Le mancava. Voleva sapere delle prove, della scuola, del compito di geografia. Voleva preparargli qualcosa da mangiare e rimproverarlo per aver lasciato la sua camera in disordine, per poi correre ad aiutarlo a riordinare.
Cominciò a raccogliere le sue cose, ancora scossa per la discussione di poco prima, la giacca, la borsa, il cellulare e quando Killian si accorse di ciò che stava facendo, cercò di alzarsi.
«Non fare sforzi idiota!»
«Siamo in vena di complimenti eh, Swan?»
Emma sorrise. Era contenta che nonostante tutto, l’uomo avesse ritrovato il suo senso dell’umorismo.
«Aspetta! Voglio farti vedere una cosa…»
«Henry arriverà tra poco, Killian! Puoi farmela vedere domani…»
L’uomo la ignorò. Si alzò, traballò un po’, poi camminò verso la sua camera. Emma lo seguì, in silenzio.
«Non sei costretta Emma…lo sai vero?»
«Ho promesso al Dottor Whale che mi sarei presa cura di te…» sbuffò alzando le spalle.
«E poi non ti lascio da solo!»
Era strano. Non voleva lasciarlo, aveva paura che se ne andasse da un momento all’altro, che scomparisse. Gli aveva rivelato se stessa quel giorno, non poteva andarsene così, sentiva che qualcuno stava tessendo un nuovo filo tra di loro. Aveva paura che lasciando quella casa, il filo si sarebbe spezzato. Di nuovo.
Prima o poi l’avrebbe fatto, lo sapeva. Voleva soltanto rimandare quel giorno…
Killian trafficò con il comodino per un po’, poi estrasse un ciondolo e un foglio giallastro e glieli porse.
Emma fissò prima gli occhi blu dell’uomo, poi il suo palmo, poi di nuovo i suoi occhi.
Davvero erano ciò che pensava?
Davvero era…
Tremante, prese il foglio tra le mani, ne sentì la consistenza, lo aprì. Le parole, le lettere, le cancellature erano ancora lì, dove lei stessa le aveva poste anni prima. Riuscì persino a scorgere qualche goccia, lacrime sue o di Killian non seppe dirlo.
Fissò anche il ciondolo. Un teschio… Jolly Roger… Il suo regalo di Natale…
«Li hai tenuti, dopo tutto questo tempo?» chiese in sussurro, stringendo ancora la lettera e il ciondolo tra le mani.
«Neanche io ho dimenticato, Swan…» disse, guardandola dritta negli occhi.  
Emma sorrise, con gli occhi lucidi.
«Non sai quante altre cianfrusaglie ho, qui, da qualche parte…» mormorò l’uomo, chiudendo di nuovo i suoi tesori nel cassetto del comodino.
«Cosa?»
«Biglietti, frasi, cose che avrei voluto dirti se un giorno ti avessi incontrata di nuovo, foto, una tua maglia che lasciasti a casa mia…»
«Hai conservato tutto? Davvero?»
«Già…sono sempre stato un tipo sentimentale, non fare quella faccia sconvolta! E poi, scrivevo… Scrivere aiuta a riordinare le idee…» disse, stendendosi sul letto.
«Sì, ricordo che ti piaceva…» rispose la donna, alludendo alla dedica scribacchiata in fretta e furia sul libro che custodiva gelosamente nel comodino.
«Bene… Un giorno scriverò un libro su noi due…» mormorò Killian, soffocando uno sbadiglio.
«Non so se qualcuno comprerebbe mai la storia delle nostre vite disastrate!»
«Ma la nostra vita non è ancora finita, giusto? Non sappiamo cosa ci aspetta dietro l’angolo…» disse l’uomo, quasi nel dormiveglia.
«No, hai ragione… Adesso devo proprio andare…»
«Ciao Emma»
«Ciao Killian»
 
***
 
«Sei sicuro che sia questa la strada?» chiese Mary Margaret, sbuffando.
«Te lo ripeto per la duecentocinquantesima volta, sì!» rispose David, sbuffando. Dopo aver constato che i suoi genitori stessero bene e aver ripetuto loro parecchie volte che Mary Margaret non era chi loro credevano che fosse, aveva afferrato il polso della sua ospite, trascinandola fuori, verso una meta sconosciuta.
Be’, per lei, almeno!
«Dove stiamo andando?»
«Da qualche parte…»
«Fantastico! E tu sai dove “qualche parte” si trovi?»
«Certo! Siamo quasi arrivati… se tu la smettessi di parlare e ti limitassi a camminare, le cose sarebbero molto più facili!»
Mary Margaret si chiese per la miliardesima volta perché avesse acconsentito a quella pazzia, perché aveva seguito un uomo pressappoco sconosciuto nel Massachusetts, dai suoi genitori, e perché, se voleva almeno fare l’eroina di turno, non gli aveva lasciato solamente la macchina, ritornandosene nel suo appartamento, come se niente fosse.
E lì, in mezzo agli alberi, sperduta chissà dove, finalmente si diede una risposta.
Era stufa di portare avanti sempre la stessa vita, di svegliarsi tutti i giorni alle sette, fare colazione e andare in ufficio. Aveva bisogno di cambiamenti, cambiamenti che erano cominciati con quel repentino taglio di capelli e che l’avevano portata ad accompagnare David in un altro stato.
Non l’avrebbe ammesso neanche sotto tortura ma gli era grata. Per averla strappata, per un po’, dalla monotona rutine, per aver chiesto al suo capo qualche giorno di ferie, per averle fatto assaggiare il più buon Clam Chowder che avesse mai mangiato e anche per il suo essere così irritante.
Sotto sotto, si stava divertendo.
Ciò non toglieva che l’uomo era diventato più insopportabile del solito…
«Ecco, siamo arrivati!» mormorò David.
Davanti a loro si apriva un immenso lago, calmo e piatto. Mary Margaret non riusciva neanche a distinguere il confine tra il cielo e l’acqua.
Tutt’attorno, delle alte canne spuntavano dal terreno bagnato.
Il profumo non era dei migliori ma a Mary Margaret non importò.
Fissò il cielo autunnale rispecchiarsi sulla superficie di acqua dolce. Non era più azzurro, era grigio, spento e l’acqua era dello stesso colore. 
«È bellissimo!» disse, chiudendo gli occhi e assaporando i timidi raggi solari che riuscivano a penetrare la fitta coltre di nuvole.
«Già…»
Si incamminarono verso la riva più vicina. Mary Margaret stava per inciampare e, quasi per istinto, si appoggiò a David che l’aiutò, senza proferire neppure una battuta sulla sua goffaggine.
Strano, pensò la donna.
Camminavano a pochi centimetri di distanza, se avessero voluto, avrebbero potuto toccarsi, sfiorarsi, prendersi per mano. Ma non lo fecero, continuando a marciare in religioso silenzio.
«Come conoscevi questo posto?» chiese la donna, quando si furono seduti, più o meno a riva, incuranti di poter sporcare i jeans che indossavano.
«Venivo qui fin da piccolo… sai per schiarirmi le idee… questo è un luogo magico… almeno per me…» mormorò David senza guardarla, fissando un punto imprecisato verso l’orizzonte.
«Non ci avevo mai portato nessuno…» disse, più a se stesso, che alla donna al suo fianco, che si limitò ad abbassare lo sguardo.
Davvero gli stava credendo?
Mary Margaret, riprenditi!
«Ci sono tante leggende su questo posto…»
«Leggende tipo il mostro di Lochness?!» chiese curiosa, alzando di nuovo lo sguardo verso di lui.
«No… si racconta che una giovane donna, dalla bellezza disarmante, fosse stata trovata morta, proprio qui, dove ci troviamo noi adesso…» rispose l’uomo, indicando il posto in cui sedevano.
La donna lo guardò, cercando di capire se fosse serio o meno.
«Mi stai prendendo in giro!»
«Per niente! Si dice che la sua matrigna fosse invidiosa di lei e l’avesse spinta giù nell’acqua, pur sapendo che la giovane non sapesse nuotare…»
«Che crudeltà… una sorta di Biancaneve senza lieto fine, quindi…»
L’uomo sorrise.
«Sì, una cosa del genere…»
 
***
 
Emma era ritornata a casa tardi. Henry era già in camera sua, intento a leggere un pesante librone di storia.
«Ciao ragazzino!» esclamò Emma, dandogli un bacio sui capelli e subito dopo arruffandoglieli.
Henry alzò gli occhi dal libro e sorrise.
«Mamma! Com’è andato il lavoro?»
«Piuttosto bene… oggi non ho aperto il negozio, sono stata con Killian…» spiegò Emma. Si sentiva terribilmente in colpa per la questione del suo lavoro part-time e odiava mentire a suo figlio, quindi cercava di rivelargli qualsiasi altra informazione, seppur banale, sulla sua giornata, quasi a voler cancellare i sensi di colpa.
«E avete chiarito?» chiese il bimbo, chiudendo il libro e poggiandovi sopra i gomiti interessato. Ad Emma sembrò di essere da uno strizzacervelli.
«Più o meno… dopodomani verrà a cena da noi, ricordi?»
Il bambino annuì, felice.
«Cosa cucinerai?» chiese, leccandosi già le labbra al solo pensiero del dolce al cioccolato che sua madre preparava quando avevano ospiti. Segretamente, aveva invitato Killian anche per quel dolce.
Emma sbuffò.
«Non ne ho la più pallida idea Henry! Domani ci pensiamo, che dici?»
«Okey… però…» azzardò il bambino, lasciando le parole sospese. Sua madre capì al volo.
«Tranquillo ragazzino! Il dolce al cioccolato è d’obbligo!» disse, prima di lasciargli un altro bacio sui capelli e correre in bagno a farsi una doccia più che meritata.
 
Killian aveva dormito per più di tre ore. Quando riaprì gli occhi, dopo quel lungo sonno rigenerante, i punti gli tiravano un po’ e ricordava ancora distintamente ciò che Emma gli aveva urlato quel pomeriggio.
Io non ti ho mai dimenticato!
Perché, al solo pensiero, sentiva lo stomaco in subbuglio e il cuore accelerare?
Forse aveva fame…
Sì, decisamente.
Si alzò barcollando e si diresse verso il bagno. Fissò la sua immagine riflessa. Doveva ammettere che non aveva proprio una bella cera, nonostante avesse dormito per quasi quattro ore di fila.
Delle occhiaie violacee gli incorniciavano gli occhi, stanchi e gonfi. Avrebbe dovuto farsi una doccia e radersi, ma non ne aveva le forze, men che meno la voglia.
Si trascinò verso la cucina e vide che Emma gli aveva lasciato un panino al tonno (che novità) già pronto nel frigo. Lo afferrò, ignorando ancora quelle strane sensazioni che si susseguivano nel suo animo e lo divorò.
Poi si stese sul divano, afferrò il suo laptop e controllò le ultime news dal mondo e dall’architettura. Aveva ricevuto una miriade di email ma erano per lo più pubblicità e cancellò ogni cosa.
Sentì il suo telefono vibrare da qualche parte e si alzò, alla sua ricerca, trovandolo poi abbandonato in un angolo del divano.
Era un messaggio di David.
Killian lo lesse e non poté evitare che un sorriso gli spuntasse sul viso.
Forse potresti aver ragione.
 
Dopo una lunga doccia rigenerante, dopo che l’acqua, scivolando sul suo corpo, aveva lavato via tutte le incertezze e le preoccupazioni di quel giorno, lasciando solo una calma precaria, Emma Swan uscì dal bagno, ridotto ad una nuvola di vapore.
«Henry!» urlò, infilandosi un pantaloncino di felpa e una maglietta a maniche lunghe ed entrando in camera di suo figlio. Il bambino sbuffò, mettendo in pausa il videogioco a cui stava giocando
«Che cosa c’è?» chiese. Sua madre l’aveva interrotto sul più bello di uno scontro vincente.
«Cosa vuoi mangiare stasera?»
«Boh» rispose il bambino alzando le spalle e ritornando a giocare. Emma odiava quella risposta, la odiava più di ogni altra cosa. Non poteva cucinare nessun “boh”, né al forno, né in padella! Cosa diavolo se ne faceva?! E poi, avrebbe dovuto scervellarsi per trovare qualcosa che andasse bene a suo figlio, che non gli facesse male e soprattutto che non contenesse troppi grassi. Ma non poteva dargli solamente foglie di insalata e qualche pomodoro!
Che vita dura quella del genitore!
Sbuffando si diresse di sotto, aprì il frigo e vi trovò qualche salsiccia. Decise, senza pensarci troppo, che quel giorno il “boh” si sarebbe trasformato in salsicce.
Prese tutto l’occorrente, mise le salsicce in padella con un filo d’olio e le sfumò con un po’ di vino. Non troppo, altrimenti Henry si sarebbe ubriacato. Poi prese un po’ di pomodori, mais e mozzarella e li sminuzzò in una coppa, come contorno. Stava per prendere il tonno ma ripensando a quante scatolette aveva aperto quel giorno, lasciò perdere.
Stava aspettando che la carne cuocesse quando il suo telefono squillò. Dando un’occhiata ai fornelli, si precipitò a prenderlo e a rispondere.
«Pronto!»
«Emma, sono io…» rispose una voce famigliare dall’altro capo del telefono.
«Regina! Dimmi, come stai?» chiese. La donna si era presa cura di Henry quella notte, ma Emma non aveva ancora avuto modo di raccontarle tutto ciò che era successo in quelle 48 ore.
«Sono stata meglio Swan! Tu, piuttosto, che combini?»
«Cucino…» rispose Emma, sviando la domanda ben più seria che la sua amica le aveva posto.
«Emma!»
«Okey, va bene… anche se penso sarebbe meglio farlo di persona…»
«Be’, è il tuo giorno fortunato visto che sono sotto il tuo appartamento! Aprimi il portone!» rispose la mora, chiudendo la chiamata. Subito dopo, si sentì il suono famigliare del campanello.
Suo figlio si precipitò ad aprire, buttandosi poi sul divano, insieme al suo Nintendo.
«Buonasera!» li salutò Regina, subito dopo aver varcato la porta ed essersi tolta il cappotto rosso.
«Ciao zia Reg!»
La donna andò a baciare Henry su una guancia e poi si diresse verso Emma.
«Da quanto tempo…» mormorò la donna dai lunghi capelli biondi, sarcasticamente.
«Smettila Swan! Adesso dimmi tutto!»
Mentre mettevano la tavola, Emma si lanciò in un discorso dettagliato su tutto ciò che era successo, cominciando dalla casa e dalla sua confessione, per finire all’episodio nel “Rabbit Hole” e poi, l’ospedale, casa Jones, le scatolette di tonno e la lettera ancora gelosamente conservata nel comodino.
«Certo che qualcuno, da qualche parte, sembra stia giocando con le vostre vite…» mormorò Regina, quando Emma ebbe terminato il suo racconto. Aveva le braccia incrociate sul tavolo ed era seduta al posto che ormai considerava come il suo.
«Già…»
«Con tutti i night-club che esistono, doveva capitare proprio in quello dove lavori tu…»
«Sì, Regina, ho afferrato il concetto!» esclamò Emma, servendo le salsicce nei piatti. Fortunatamente ce n’era qualcuna in più per la sua amica e aveva dovuto aggiungere qualche altro pomodoro alla sua insalata.
«Comunque sono d’accordo con lui!»
«Credi davvero che non mi licenzi da quel posto, perché mi ricorda Neal?! Siete tutti pazzi…»
«Credo che c’è un motivo per cui non lo fai, dopo tutti questi anni! E quello che il signor Jones ti ha dato, sembra molto plausibile…»
«Il signor Jones…» mormorò la donna «Quante formalità…»
«Pensaci Emma. Non so più quante volte te l’ho detto ma quel posto non fa per te…»
Poi la donna si alzò, andò a chiamare Henry e insieme cenarono senza più far parola sull’argomento. Henry raccontò loro della recita imminente, il suo entusiasmo traspariva da tutti i pori, poi del compito di geografia che sfortunatamente era andato piuttosto male.
«Recupera Henry, oppure sarò costretta a toglierti i videogiochi…» lo rimproverò sua madre.
 
 
Quando finalmente Emma finì di asciugare l’ultimo piatto, suo figlio si era già rintanato nella sua stanza e Regina, continuava a fissare il telefono sul tavolo, quasi aspettando che squillasse da un momento all’altro.
E squillò.
La donna trasalì, afferrandolo e constatando che non fosse il suo. Tirò un sospiro di sollievo e lo rimise dov’era.
Inutile dire che era preoccupata per sua madre, preoccupata di ricevere quella fatale telefonata da un momento all’altro.
Avrebbe voluto essere con lei in questo momento ma l’orario di visita troppo rigido non glielo permetteva.
«…Davvero?»
Emma nel frattempo aveva risposto al telefono e gironzolava per la casa.
«Chi è?» chiese la donna dai capelli scuri. Emma scostò l’apparecchio dal telefono per qualche secondo, coprendolo con una mano.
«Killian! Ha avuto un’idea per la camera da letto…»
Regina capì al volo. Raccolse tutte le sue cose, la borsa, il cellulare e le chiavi della macchina, infilò il suo giubbotto rosso e dopo aver fatto un cenno di saluto ad Emma, si chiuse la porta di casa alle spalle.
 
 
«Non se ne parla, Killian! Quello è il mio preferito!» si lamentò Emma, buttandosi sul divano.
«Ma non puoi tenerlo in negozio per sempre!»
«Sì che posso! È lì da quasi quattro anni!»
L’uomo stava cercando di spiegarle il suo progetto, un progetto abbastanza semplice, in linea con lo stile della casa, ma che comprendeva il comò preferito della bionda.
«È ora di utilizzarlo, allora!»
Emma si arrese. Dopotutto era lui l’architetto no?
«Va bene, domani mi fai vedere questo progetto e decidiamo!»
«Ci vediamo a casa Gold?»
«Non puoi guidare con un trauma cranico Killian! È fuori discussione!»
«Non sono in coma Emma! Posso arrivarci benissimo da solo!»
«Ti passo a prendere io verso le nove…» disse la donna, ignorandolo e non ammettendo repliche.
«Buonanotte!»
«Ma…»
L’uomo tentò di replicare, inutilmente. Emma chiuse la chiamata.
 
 
Il mattino seguente, Killian spalancò gli occhi alle prime luci dell’alba. Odiava svegliarsi così presto, perché poi raramente riusciva a riaddormentarsi.
Si girò su un fianco, stando ben attento ai punti e controllò la piccola radiosveglia che aveva sul comodino. Erano appena le sei e mezzo. Ritornò supino, posizionò le mani dietro la nuca e fissò il soffitto per alcuni secondi. Provò a contare le pecore, a intonare una qualche canzone rilassante, provò di tutto, ma alle sette, stanco, si alzò e si incamminò verso il bagno.
Si svestì ed entrò sotto la doccia.
Lasciò che l’acqua scorresse su tutto il suo corpo. Fu ben attento a non bagnare la ferita e per questo, non poté bagnarsi neanche i capelli. Dopo minuti interminabili e dopo aver ridotto il bagno ad una nuvola di vapore, uscì. Con il phon tentò di spannare lo specchio, un asciugamano ben stretto in vita.
Fissò ancora una volta la sua immagine riflessa e, stranamente sorrise. Si lavò i denti, ignorò la barba che diventava sempre più lunga e tornò in camera a vestirsi.
Indossò un paio di jeans e una maglietta azzurra. Guardò l’orologio. Le otto meno venti. Cosa avrebbe fatto fino alle nove?
Si accomodò sul divano e afferrò il telecomando. Avrebbe guardato un po’ di tv e si ritrovò a sperare che Emma arrivasse prima del loro appuntamento.
 
 
La sveglia suonò come sempre alle sette e mezzo. Emma la spense e ritornò sotto le coperte, seppellendo il suo volo tra i morbidi cuscini.
«Mamma! Io vado!» sentì Henry urlare, prima che la porta di ingresso sbattesse e sentisse il rumore del clacson del pullman.
Fantastico. Anche quel giorno non aveva preparato la colazione a suo figlio.
È vero, stava crescendo ed era da un po’ che il piccoletto, riusciva a fare benissimo da solo. Ma Emma apparteneva a quella categoria di madri apprensive e sempre fuori casa, che non riuscendo a godersi il loro bambino per via del lavoro, cercavano di rimediare alla situazione diversamente. Ed Emma si sentiva tremendamente in colpa quando non lo faceva.
Buttò le coperte da un lato. L’autunno era cominciato da poco ma a New York, il freddo era arrivato molto prima.
Corse in bagno e scese di sotto per prepararsi almeno un po’ di caffè. Dopo, fissò l’orologio. Le otto meno un quarto. Aveva meno di un’ora per riordinare la casa, fare il bucato e lavare le tazze della colazione. Accese la radio, si legò i capelli e si mise all’opera.
Nessuno dica mai che Emma Swan non sia una perfetta casalinga!
 
 
Alle nove meno tre minuti aveva chiamato l’ascensore, mentre si allacciava le scarpe da ginnastica che aveva deciso di indossare quel giorno.
Corse verso il maggiolino giallo, parcheggiato non molto lontano dal suo portone e diede un’occhiata veloce al cielo. Il suo istinto (e il meteo) dicevano che poteva piovere da un momento all’altro e lei, come al solito, aveva dimenticato l’ombrello.
Entrò al posto di guida e mise in moto, recandosi verso casa di Killian. Riusciva a ricordare la strada quasi perfettamente. Parcheggiò e prima di suonare il campanello, corse verso un uomo che vendeva caffè per strada. Ne comprò due e poi salì, in quella casa che, dopo neanche un giorno, le sembrava fin troppo famigliare.
«Buongiorno Swan!» la salutò l’uomo, soffocando uno sbadiglio.
«Ti ho portato un caffè… sei pronto? Come ti senti?»
Gli occhi azzurri dell’uomo si illuminarono alla vista del bicchiere colmo di caffeina e ne ingurgitò subito un sorso, incurante del bruciore alla lingua e alla gola.
«Adesso molto meglio…» mormorò, accennando al caffè.
«Che c’è?!» chiese poi, riferendosi all’espressione della bionda di fronte a lui.
«Un giorno o l’altro dovresti andare a fare la spesa, lo sai vero?» chiese, incrociando le braccia e appoggiandosi alla porta.
«Sì, prima o poi lo farò…» rispose l’uomo, infilandosi una giacca blu e afferrando le sue cose. Fece segno ad Emma di uscire, poi chiuse la porta a chiave e si infilarono nell’ascensore.
Una volta giunti di fronte alla macchina di Emma, Killian non poté fare a meno di sorridere.
«La vuoi smettere?!» disse spazientita la donna, entrando in macchina.
«Di fare cosa esattamente?»
«Stavi di nuovo prendendo in giro la mia macchina! E non provare a discolparti perché so che lo stavi facendo…»
«Se lo dici tu…» rispose divertito l’uomo.
Emma finì l’ultimo sorso di caffè, poi ripose il bicchiere da qualche parte, insieme agli altri.
«Dovresti darle una lavata, Swan!» sentenziò Killian, guardandosi attorno.
Emma sbuffò. Sì, forse avrebbe dovuto farlo, ma non le andava. E poi, a lei piaceva così. Le piaceva sentire di aver vissuto appieno la sua macchina, che nonostante tutte le ammaccature e i difetti, quel piccolo maggiolino giallo si era sempre ripreso, proprio come aveva fatto lei.
Arrivarono da Gold dopo una mezz’oretta. Il traffico newyorkese era fin troppo quel giovedì mattina. Emma parcheggiò dove aveva parcheggiato qualche giorno prima. Come al solito, trovarono ad attenderli Mrs Bric e i suoi grandi occhioni neri.
«Oh eccovi! Come state? Gradite una tazza di thè, caffè?»
I due rifiutarono e si misero subito al lavoro. Killian mostrò ad Emma il suo abbozzo, scarabocchiato la sera prima su un foglio già usato.
Emma doveva ammettere che non faceva una piega e che sì, avrebbe dovuto rinunciare al suo amato comò, se anche i signori Gold avessero approvato il progetto.
Questo prevedeva di dipingere le pareti di un colore tenue ma caldo al tempo stesso, una specie di oro però molto più chiaro. Se Belle avesse preferito la carta da parati, andava bene anche quella, ma avrebbero dovuto comprarla perché Emma non ne aveva in negozio.
Al centro della camera, troneggiava un grande letto da una piazza e mezzo, decorato con una testata particolare che avevano trovato a casa Darling. Il tutto, accompagnato da un piccolo comodino alla parte destra del letto e il comò color legno bruciato che Emma aveva trovato quasi quattro anni prima, vicino ad un bidone dell’immondizia e che aveva messo a lucido da sola.
Sì, sembrava davvero carino. Killian le promise che le avrebbe fatto un progetto tridimensionale al computer appena fosse tornato a casa.
Si spostarono nell’altra camera da letto e le diedero un’occhiata veloce. Non volevano accorciare i tempi, seppur questi fossero parecchio ristretti, ma preferivano fare le cose con calma.
«A proposito…» esclamò Emma, mentre scendevano al piano di sotto, pronti a tornare a casa.
«C’è qualcosa che non mangi? Devo fare la spesa per domani sera…» si spiegò la bionda.
«No, mangio tutto, puoi stare tranquilla! Ma Swan, lo sai che…»
«Taci, Jones!» lo interruppe Emma, prima che potesse finire la frase.
Salutarono Mrs Bric e tornarono a casa. Durante il viaggio, Killian mandò un messaggio a Belle, chiedendole quando avrebbero potuto mostrarle il primo progetto per la stanza.
«Sei sicuro che non vuoi venire?»
«No, sta’ tranquilla Swan!»
«La tua dispensa grida pietà!»
«Andrò al supermercato non appena il dottor Whale mi avrà tolto questi punti…» disse toccandosi la testa.
«Non sia mai che qualcuno possa vederti con la testa mezza rasata! – lo prese in giro la giovane dai lunghi capelli biondi - Nel frattempo morirai di fame!»
«Forse…» ammise «Ma sono sopravvissuto a parecchie cose Emma. La fame non mi ucciderà…»
La donna annuì, riaccese il motore e partì. Non proprio alla velocità della luce, ma la sua fu un’uscita comunque trionfale. E Killian fissò quel puntino giallo, finché non scomparve all’orizzonte.
 
 
David inviò un altro messaggio al suo amico, avvisandolo che sarebbero tornati quel sabato. Poi fissò il panorama dalla grande porta finestra difronte a sé. Il giardino, alle spalle della casa, era pieno di foglie secche che, sotto il suo peso, scricchiolavano.
L’uomo si incamminò verso il luogo dove, quand’era più piccolo, suo padre aveva montato una piccola altalena, ad un’estremità del giardino, rottasi quando David era ormai adolescente. Al suo posto troneggiavano due pali di legno, conficcati nel terreno e uno pneumatico malridotto che avevano usato come sedile dopo che quello vero si era rotto.
David fissò quello scheletro, assorto con i suoi occhi chiari e stranamente seri.
Non si accorse neanche dei passi leggeri che si avvicinavano, finché qualcuno non gli posò una mano sulla spalla.
Si girò, sobbalzando.
«Mamma, mi hai fatto spaventare!»
La donna sorrise e insieme alle labbra, David vide distendersi anche le piccole rughe agli angoli della bocca e degli occhi. Sua madre, Ruth, era una donna molto forte e nonostante fosse in avanti con gli anni, riusciva a fare tutto ciò che faceva dieci anni prima. Lei e suo marito si prendevano cura di una fattoria, la loro casa, e della serra di famiglia. Avevano lasciato che il loro unico figlio partisse alla volta della Grande Mela, avevano lasciato che abbandonasse la sua casa e l’attività di famiglia. Ruth non voleva che David si sentisse in qualche modo costretto ad assumersi la responsabilità della loro azienda. L’avrebbe fatto, soltanto se l’avesse davvero desiderato e suo figlio gli era davvero grato per quello.
«Scusa, tesoro! Ti ho portato una tazza di cioccolata…» disse la donna, porgendogli la tazza fumante.
David la prese e la strinse, riscaldandosi un po’ le mani e la gola. Nonostante fosse appena autunno, il freddo era pungente.
«Grazie» mormorò, bevendo un altro sorso di quella deliziosa bevanda.
«Dov’è la tua amica?» chiese la donna, dopo qualche minuto di silenzio.
David alzò le spalle.
«Mi ha detto che sono un maleducato e di sparire dalla faccia della terra e che sarebbe andata a farsi una doccia…»
L’anziana signora non poté fare a meno di sorridere.
«Che caratterino! Riesce davvero a tenerti testa!» esclamò sorpresa, poi continuò.
«Cosa le hai fatto, questa volta?»
«Niente… le ho solo detto che se avesse continuato ad abbuffarsi di biscotti, sarebbe diventata troppo grassa e avrebbe dovuto rifarsi tutto il guardaroba…»
La donna sospirò, scuotendo la testa.
«Povera me! Non ti ho insegnato niente?! Non ci si rivolge così ad una signora!»
«Mi sembra di sentire mia madre… ah no, aspetta… tu sei mia madre!» borbottò David, sorseggiando un altro po’ di cioccolata.
«Cosa pensi di lei, mamma? Ti piace?» mormorò, con lo sguardo fisso sull’altalena, o meglio ciò che rimaneva di essa, dopo qualche minuto di silenzio. Avrebbe voluto guardarla in faccia, ma si sentiva in imbarazzo. Lui, David Nolan, che chiedeva consigli?! Se Jones l’avesse saputo, l’avrebbe preso in giro fino alla fine dei suoi giorni.
«Come faccio a dirlo? La conosco da appena due giorni!»
«Tu sei sempre stata brava con le persone… le capisci! Cosa pensi di lei?» ripeté, puntando i suoi occhi chiari, in quelli della madre.
La donna sospirò ancora e gli carezzò una spalla.
«Ascolta tesoro, non conosco Mary Margaret e non ho nessun diritto di giudicarla. Per ciò che ho visto in questi due giorni sembra una ragazza fantastica e molto dolce, ma ripeto, potrei sbagliarmi…»
«Lei…»
«Tuttavia conosco te, David! Meglio delle tasche del mio grembiule! Non l’avresti portata qui, se non provassi qualcosa…E ho visto come la guardi, ho visto i tuoi occhi sorridere quando c’è lei in un modo così diverso… non avevi mai guardato Kathryn così…»
David divenne improvvisamente paonazzo. Davvero guardava Mary Margaret in quel modo? E che modo era quel modo? Lui non se ne rendeva neanche conto…
«Non ti sto dicendo di sposarla David… Ma dalle una possibilità, datti una possibilità per essere felice… Non fartela scappare per delle stupidaggini!»
«C-come?»
«Puoi cominciare alzando il tuo bel sederino e andandoti a scusare con lei!» rispose la donna con ovvietà.
David annuì. Lasciò un bacio sulla guancia di sua madre, mormorandole un “grazie” e poi si diresse, a grandi falcate, verso la casa. Voleva essere felice, lo voleva davvero.
 
 

**And if there’s love just feel it,
And if there’s life we’ll see it
There is no time to be alone, alone yeah
I won’t let you go
Say those words, say those words like there’s nothing left
Close your eyes and you might begin that there is some way out
Open up, open up your heart to me now…
 ̴ James Morrison "I won't let you go"

 
 
Il venerdì sera arrivò prima che Emma potesse rendersene conto. Quegli ultimi due giorni erano stati talmente incasinati che erano volati alla velocità della luce.
Avevano mostrato il progetto a Belle, recandosi alla redazione in cui lavorava. Killian aveva preparato il modellino tridimensionale e la giovane ne era stata davvero entusiasta. Emma si chiedeva ancora come una ragazza così dolce e piena di vita potesse stare con un tipo come Gold…
I misteri della via!
Aveva piovuto e come Killian aveva già preannunciato, la giovane aveva preferito la carta da parati, preoccupandosi di sceglierla lei stessa dal grande catalogo che l’uomo le aveva procurato.
Così, dopo essere usciti dalla redazione e aver mangiato un panino in fretta e furia, erano andati a comprarla. Avevano discusso per quanta ne serviva perché Emma insisteva a prendere qualche foglio in più, mentre Killian sosteneva che non era necessario. Alla fine l’aveva spuntata la donna.
Dopo, avevano portato tutto il materiale a casa Gold, lasciando che qualcuno, più esperto di loro, attaccasse la carta e preparasse la base sulla quale loro poi si sarebbero sbizzarriti.
Emma, dopo, era corsa al supermercato, pronta a fare la spesa. Per non rischiare, aveva deciso di comprare del pollo (a chi non piace il pollo?), dell’insalata mista, una bottiglia di vino, la Coca Cola per Henry, patate, cacao, Nutella…
Infine si era precipitata a casa, prima che Henry tornasse da scuola e si era messa a riordinare la casa. Aveva spazzato, spolverato, riordinato, lavato i pavimenti, spruzzato il deodorante in bagno, acceso qualche candela e cercato di dare all’ambiente, quell’aspetto che tanto amava, l’aspetto di casa sua.
Dopo aver gridato ad Henry di andarsi a preparare, si mise all’opera. Cucinò il pollo alle mandorle, come le aveva insegnato la sua ex coinquilina, ci aggiunse qualche spezia in più, perché sapeva che né ad Henry, né a Killian sarebbe dispiaciuta. Poi schiacciò le patate e cucinò del purè, odiava farlo con quelle farine industriali che vendevano al supermercato. Preferiva cucinarlo lei, con ingrediente sani e genuini, senza l’aggiunta di altri conservanti. Lavò l’insalata e la condì, dopo di che si dedicò al dolce. Preparò un semplice pan di spagna al cioccolato, che dopo, farcì con Nutella e mascarpone.
Riordinò tutto e lanciò uno sguardo all’orologio. Aveva meno di mezz’ora per vestirsi e rendersi per lo meno presentabile. Probabilmente fu la doccia più corta della storia, lasciò i capelli ancora un po’ bagnati e si precipitò in camera.
Maledizione.
E adesso, cosa diavolo si sarebbe messa?
Passò in rassegna tutti i suoi capi, scartando quasi tutto. Era così disperata che valutò persino di indossare uno dei due vestiti che aveva nell’armadio. Si diede della stupida da sola e li scaraventò per terra.
Prese dei pantaloni neri, simili a quelli che aveva indossato quel giorno al “Blue Mermaid Restaurant” ma più corti e più larghi. Le lasciavano la caviglia scoperta. Poi, in un angolo remoto del suo armadio, scovò una camicetta che probabilmente, non si era mai messa o se l’aveva fatto, non se ne ricordava.
Era bianca, con un fiocco al centro e molto elegante. La indossò, senza neanche guardarsi allo specchio e poi rimise tutti i vestiti nell’armadio, non esattamente in ordine.
Si truccò, un filo di matita nera e del mascara, poi ritornò in camera.
Il suo sguardo si spostava dalle alte scarpe col tacco e alle piccole infradito gioiello che aveva comprato quell’estate. Stava per indossare queste quando il telefono, abbandonato sul comodino, vibrò.
Se non ti metti i tacchi, giuro che mando a casa tua i fratelli Darling mezzi nudi!
Emma strabuzzò gli occhi. Come diavolo faceva Regina a sapere sempre tutto? Alle volte la spaventava, non poco.
Nello stesso istante in cui finì di allacciarsi il braccialetto di una scarpa, il campanello suonò.
Merda.
In fretta e furia e senza neanche pensarci, si infilò l’altra, maledicendo la sua amica in tutte le lingue che conosceva (che erano piuttosto poche). Si diede un’ultima occhiata e si considerò piuttosto accettabile, poi scese dabbasso, dove suo figlio, vestito con la sua maglietta più nuova, l’aspettava.
Non disse niente sul fatto che indossasse i tacchi, probabilmente perfino lui sapeva delle minacce di Regina. Aspettarono il loro ospite sulla soglia della porta. Quando sentirono il familiare suono del campanello, il cuore di Emma cominciò a battere così forte, che si chiese cosa diavolo le stesse prendendo…
Era solo Killian.
Il suo migliore amico, il ragazzo che aveva abbandonato da un giorno all’altro, l’uomo che adesso faceva di nuovo parte della sua vita e che stranamente, non aveva nessuna intenzione di lasciarla. Almeno per il momento…
«Da questa parte!» gridò Henry, sbracciandosi.
Emma si limitò ad appoggiarsi a suo figlio, quasi dovesse sostenerla, per evitare che cadesse.
Poi Killian comparve, in tutto il suo fascino. Indossava una giacca di pelle nera, dei pantaloni stretti e una camicia dello stesso colore. Al collo portava una piccola catenina ma Emma non riuscì a vederne il ciondolo.
«Ciao Swan! Henry…»
L’uomo li salutò con un sorriso, quasi imbarazzato. Poi porse ad Emma una bottiglia di vino, all’apparenza piuttosto costoso, e ad Henry un piccolo pacchetto.
«Grazie… Non dovevi disturbarti, Killian!» rispose la donna sorridendogli e lasciandolo entrare in casa.
«Grazie!» mormorò Henry, scartando il suo pacchetto. Conteneva un piccolo modellino di un veliero pirata.
«È bellissimo!»
Killian rise.
«Visto che ti piacciono i pirati…» commentò, sfilandosi la giacca. Emma l’appese al piccolo appendiabiti lì vicino.
«È quasi pronto! Se vuoi, puoi accomodarti sul divano… Henry ti farà compagnia…» disse la giovane donna, temendo lei stessa ciò che sarebbe potuto succedere lasciando soli quei due.
Si diresse, a passo sicuro, o almeno così le parve, verso la cucina. Accese i fornelli e lasciò che il pollo si riscaldasse.
Con la coda dell’occhio, vide suo figlio e Killian sul divano, intenti in un’accesa discussione. Di cosa stavano parlando? Per qualche minuto, cercò di ignorarli, ricordando a se stessa che non aveva nulla di cui preoccuparsi. Certo, non voleva che Henry si affezionasse ad una persona che, forse, tra qualche mese, non avrebbe più fatto parte della sua vita. Non ne aveva la certezza, ma Emma preferiva non illudersi. Non era pessimista, si considerava solamente realista. La vita le aveva dato troppe batoste, perché lei sperasse ancora in un lieto fine. Preferiva non crearsi illusioni, così, almeno, non avrebbe ricevuto delusioni.
Alzò lo sguardo e notò che Killian stava venendo verso di lei.
«Hai bisogno di una mano?» chiese educatamente.
Emma scosse la testa.
«Di cosa parlavate?» domandò invece, accennando al bambino che sedeva ancora sul divano, rigirandosi il modellino tra le mani.
«Cose da uomini!»
«Chissà perché mi aspettavo una risposta del genere…» mormorò la donna, roteando gli occhi e cominciando a servire il pollo.
Killian le passò i piatti, annusando il profumino che aleggiava in cucina che gli fece venire l’acquolina in bocca. «Allora non avresti dovuto chiedere…»
«Sono sua madre! E tu un tipo che conosce da neanche una settimana… Non penso ti abbia detto qualcosa che io già non sappia…»
L’uomo appoggiò un piatto a tavola e poi alzò le mani in segno di resa.
«Touché! Mi ha parlato del compito di geografia e della tua… minaccia…»
«Be’, essere severi a volte serve… Lo faccio per il suo bene, non perché mi diverta…»
«È ciò che gli ho detto io…» mormorò l’uomo.
«Davvero?!» chiese sorpresa. Non era certa che il ragazzino che aveva conosciuto tanti anni addietro, avrebbe parlato così.
«Certo! Perché ti stupisce?! Gli ho consigliato anche dei metodi per studiare senza distrarsi…»
«Spero che questi metodi non comprendano caffè e sigarette… è troppo piccolo!»
«Chissà…» rispose, facendole l’occhiolino e portando gli altri due piatti a tavola.
Emma alzò gli occhi al cielo, poi chiamò Henry.
«Ah Swan…»
«Che c’è?»
«È casa tua, puoi toglierli i tacchi…»
Emma fissò prima le scarpe, poi lui, con un sorriso.
«Speravo tanto lo dicessi…» disse, prima di sfilarli e calciarli via.
 

«Ti ho chiesto scusa per quello! Mi dispiace, davvero…» ripeté l’uomo, stringendo il volante.
Mary Margaret, seduta al suo fianco sbuffò.
Sì, è vero, le aveva chiesto, ed era stato persino piuttosto dolce, portandole una cioccolata calda con panna e cannella, proprio come piaceva a lei, però…
Erano sulla via del ritorno, avevano superato da un pezzo il confine del Massachusetts e adesso guidavano verso New York. Mary Margaret aveva salutato i genitori di David con un abbraccio, augurando loro tutta la fortuna e il bene che meritavano e aveva risposto con un sorriso all’augurio di Ruth di rivedersi presto.
Era ancora arrabbiata con David, è vero, ma non più soltanto per ciò che le aveva detto… c’era qualcos’altro. E non riuscì a capire cosa, finché i suoi occhi furono in quelli dell’uomo al suo fianco.
Lo odiava.
Lo odiava con tutta se stessa.
Per quegli occhi così azzurri che la fissavano, sinceri e strafottenti. Per quel sorriso da ebete che ogni tanto gli si dipingeva in viso e per la sua risata, così fragorosa e così coinvolgente. Per le sue battute, perché la faceva solamente arrabbiare.
Lo odiava per averle fatto conoscere i suoi genitori, per averle fatto assaggiare quella maledetta e buonissima zuppa e per averla condotta in quel posto così magico e surreale.
Lo odiava per quel suo modo di parlare, perché non riuscivi mai a capire se fosse serio o ti stava prendendo solamente in giro.
E soprattutto lo odiava perché, in quei due giorni, l’aveva fatta sentire come non si sentiva da tanto, troppo tempo. A casa, al sicuro, protetta.
«Mary Margaret?! Ci sei?! David chiama Mary Margaret…»
La donna si riscosse dai suoi pensieri.
«Attendi in linea!» mormorò, puntando gli occhi sulla strada.
«Dimmi almeno cosa posso fare per farmi perdonare!»
La donna sbuffò. Ecco, lo odiava anche per questa sua testardaggine. Lo odiava sì…
Allora perché sentiva le guance così calde?
«Puoi cominciare con lo stare zitto…» brontolò, incrociando le braccia.
«Sei ancora arrabbiata per i dolcetti?» chiese l’uomo, distogliendo gli occhi dalla strada per qualche secondo, soltanto per incontrare quelli della donna al suo fianco.
«No, ti odio perché… DAVID, attento!» urlò Mary Margaret, indicando qualcosa davanti a loro.
David, allarmato puntò di nuovo gli occhi difronte a sé. Un grande animale, un cervo o forse un lupo, sbarrava loro la strada.
Ebbe soltanto il tempo di sterzare, poi perse il controllo dell’auto. Prima che si scontrassero con qualche albero, l’uomo afferrò Mary Margaret, paralizzata, e la spinse verso il basso.
Poi il buio.
 
 
Avevano appena finito di mangiare. Killian era pieno come non lo era da tempo. Emma aveva mantenuto la sua promessa, non vi era stata l’ombra di tonno o altri prodotti in scatola.
Il pollo era buonissimo, l’uomo non ne aveva mai mangiato uno simile, si scioglieva in bocca! Per non parlare del dolce…
Henry aveva ragione! Emma era davvero un’ottima cuoca.
«Complimenti Swan! Era tutto squisito!»
Emma abbassò lo sguardo, imbarazzata. Certo, le faceva piacere ricevere dei complimenti, ma non era più abituata come una volta. Posò l’ultimo piatto nel lavabo e poi aprì l’anta di uno dei mobiletti in salotto.
«Vuoi qualcosa da bere?» chiese, accennando ai liquori che conservava per quando lei e Regina volevano ubriacarsi.
«Sì, grazie! Un po’ di whiskey!»
«Henry, non dicevo a te! E poi, neanche sai cos’è il whiskey!» mormorò la donna, non riuscendo a reprimere un sorriso.
«Certo che lo so!» la sfidò suo figlio.
«Ragazzino, fidati! È molto meglio il rhum…» disse, prima di ricevere un’occhiata fulminante dalla donna in piedi di fronte a loro, così cercò di rimediare.
«Ma tua madre ha ragione! Sei ancora troppo piccolo… Magari tra qualche anno…»
Il bimbo sbuffò, poi cercò a stento di reprimere uno sbadiglio.
«Che ne dici di andare a letto Henry? Anche se domani non vai a scuola, non puoi fare tardi…»
 Maledizione! Sua madre se n’era accorta! Sarebbe voluto restare con loro ancora per un po’, si stava divertendo e poi, il signor Jones gli stava davvero simpatico.
Però non poteva negare che era piuttosto stanco. Guardò prima sua madre e poi Killian, che annuì.
«Sì ragazzino, vai! Se vuoi possiamo vederci un altro giorno…» mormorò l’uomo, leggendogli nella mente.
Henry sorrise, felice e acconsentì. Baciò sua madre sulla guancia e poi, con grande sorpresa sia di Emma che di Killian, abbracciò anche l’uomo.
«Buonanotte Henry!»
Il bambino aveva cominciato a salire le scale, stringendo il suo modellino tra le mani, quando si ricordò di una cosa e si precipitò di nuovo in salotto.
«Killian! Verrai alla mia recita vero? Ci sono i pirati!»
L’uomo annuì, senza pensarci e senza guardare neppure la reazione di Emma.
«Grande! È tra otto giorni!»
«Va bene, ci sarò…»
Il bambino sorrise ancora e saltellò felice verso la sua camera.
Restarono in silenzio, finché sentirono la porta della sua camera chiudersi. A quel punto, Killian si permise di fissare il volto della sua ex migliore amica.
Era contratto, preoccupato e sembrava assente, sembrava essersi chiusa nel suo universo personale.
«Emma…»
Al suo nome, i suoi occhi si mossero, cercando l’azzurro dei suoi.
«Lo so a quello che stai pensando, Killian… Stai per dirmi che ho un figlio d’oro, gentile e intelligente e che sei davvero felice di averlo conosciuto…»
L’uomo strabuzzò gli occhi.
Okey, aveva ragione, avrebbe voluto dirle questo ma non riusciva a capire quale fosse il problema e perché il suo tono fosse così… Triste? Rassegnato?
«…e io fingerò di darti ragione, magari ti racconterò qualche episodio buffo o divertente e rideremo…»
Killian la guardò interrogativo. Eppure aveva bevuto soltanto un bicchiere di vino. Emma Swan reggeva l’alcool molto meglio che lui ricordasse.
«…ma questo non cambierà niente! Potremo andare avanti per settimane, ti affezionerai a lui e lui si affezionerà a te ma arriverà un momento in cui…» le parole le morirono in gola. Si accasciò sulla sedia più vicina e reclinò la testa all’indietro. Voleva piangere, ma fortunatamente, riuscì a trattenersi.
«Di cosa diavolo stai parlando Emma?»
La donna rialzò il capo, chiuse gli occhi e cominciò a massaggiarsi le tempie. Poi scoppiò in una fragorosa risata isterica.
Quell’uomo, che diceva di conoscerla e di capirla meglio di chiunque altro, non riusciva ad arrivare a capire una cosa così stupida? L’aveva sopravvalutato, decisamente!
Killian scattò in piedi, afferrò il suo piccolo polso e la costrinse ad alzarsi. Senza tacchi, Killian era molto più alto di lei ed Emma doveva sollevare un po’ il capo per guardarlo bene. Erano vicini, talmente vicini che la donna riusciva a sentire il suo profumo e il suo respiro.
«Emma stai delirando!»
La donna scosse la testa.
«No, Killian. È inutile negarlo. Te ne andrai, prima o poi lo farai, so che lo farai…» disse, non riuscendo più a trattenere le lacrime «E io non voglio che lui soffra, non voglio, l-lui non lo merita…»
L’uomo spalancò gli occhi.
«Swan, sei così pessimista… Perché credi che me ne andrò? Perché non accetti l’idea che magari sono tornato nella tua vita, per restarci?» le sussurrò ad un orecchio, stringendo il suo corpo.
«Perché nessuno l’ha mai fatto, perché io non l’ho fatto Killian… Sono un essere ripugnante e davvero, non ti biasimerei se lo facessi…» disse, sciogliendo l’abbraccio e guardandolo negli occhi.
«Non lo farò…» rispose l’uomo risoluto, ricambiando il suo sguardo.
«Lo dici solo per farmi piacere… Non devi, nessuno ti obbliga…»
«Non lo farò, Emma…» rispose, avvicinandosi di nuovo e invadendo il suo spazio. Si trovavano a millimetri di distanza, la donna riusciva a sentire di nuovo il suo profumo.
«Ti dimostrerò che ti sbagli Emma Swan, stasera stessa!»
«E cosa intendi fare?» chiese, asciugandosi le ultime lacrime con il dorso della mano e non riuscendo a trattenere un timido sorriso, dovuto al tono con cui aveva pronunciato quell’ultima frase.
«Lo scoprirai…» e prima che Emma potesse replicare, l’uomo unì le loro labbra. All’inizio fu un bacio casto, timido quasi, uno sfiorarsi di labbra e di respiri. Killian temeva che la donna lo avrebbe buttato fuori a calci, così aprì gli occhi e la fissò, appoggiando la fronte alla sua.
Emma si sentiva tremare le ginocchia e dovette aggrapparsi alle sue spalle per non cadere. Poi, quasi per istinto, spinta da una fame che non credeva di avere fino a quel momento, afferrò il colletto della camicia dell’uomo e fece scontrare di nuovo le loro labbra. Erano morbide ed esperte e sapevano ancora di cioccolata e tutto le sembrò così giusto, nuovo e familiare allo stesso tempo.
Quest’uomo mi vuole morta, pensò.
Non riuscì a dire quanto tempo passò ma ad un tratto, un telefono vibrò. Probabilmente lo maledissero entrambi. Lentamente si allontanarono e Killian estrasse dalla tasca il suo cellulare.
Rispose.
Emma vide la sua espressione cambiare, poté quasi giurare che il sangue avesse smesso di defluire sul suo volto. Divenne pallido, spalancò gli occhi, li chiuse e poi li riaprì di nuovo.
Mormorò qualcosa, poi chiuse la chiamata.
«Cosa è successo?» chiese, allarmata.
«Devo andare! David e Mary Margaret hanno avuto un incidente!»
 
  
 
 

 
 
 
 
Salve a tutti!
Sìì, lo so, sono sempre in ritardo però spero di essermi fatta perdonare con questo luungo capitolo!! Ci sono parecchi momenti CaptainSwan, spero che vi piacciano! Chiacchiere, confessioni e anche la cena!! E sìì, c’è anche un bacio!! (Allelujaa)
E ma purtroppo non possono goderselo, perché Killian riceve una brutta notizia!! :(
Però anche David e Mary Margaret vivono parecchi (intensi) momenti… e il principe chiede consiglio addirittura alla mamma! xD
Non mi uccidete per aver interrotto proprio sul più bello!! Cercherò di non farvi rimanere sulle spine… E poi, dal prossimo capitolo, penso sarà introdotto un altro personaggio, di cui avete già sentito parlare! :D
Spero davvero che il capitolo vi piaccia e mi farebbe davvero piacere ricevere i vostri pareri!! Come sempre, non posso non ringraziare le sette ragazze che hanno recensito lo scorso capitolo!! Siete fantastiche!!
E poi GRAZIE ad ognuno di voi, che leggete, inserite nelle varie categorie e recensite! La storia non sarebbe arrivata fin qui, senza il vostro supporto! :’)
Adesso vi lascio!! Sto aspettando che incominci il panel di OUAT a San Diego e non vedo l’ora di vedere il promo!! Cheee ansiaaaa!
Un grandissimo abbraccio a tutti,
La vostra
Kerri
 
 
 
PS: io e la mia fantastica amica Erin, stiamo scrivendo una storia a quattro mani!! Se vi va, potete darle un’occhiata e farci sapere se vi piace!! Ne saremmo davvero felici!! Colgo l'occasione per ringraziarla, per tutto quello che fa e per la meravigliosa persona e scrittrice che è! <3
Un bacio :*

(il link http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3155745&i=1)

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Capitolo 13
*** Meet the time as it seeks us ***


  

12. Meet the time as it seeks us
(Andiamo a far fronte agli eventi che ci si parano davanti)*                                      
 

 
Non è la morte che ci fa paura. È la vita.
Quando ci stupiamo di quanto sia difficile affrontarla
o quanto sia complicata spiegarla,
dobbiamo ricordare che in una frazione di secondo tutto più cambiare.
(Sara Rattaro “Non volare via”)
 
 
 
Ore 11.53 p.m.
 
Emma spalancò gli occhi.
«Vengo con te…» disse, quasi senza neanche pensarci.
«Henry?!» chiese Killian, infilandosi la giacca e cercando di riflettere lucidamente.
Aveva appena baciato Emma Swan. David e Mary Margaret avevano avuto un incidente.
David e Mary Margaret avevano avuto un incidente. Aveva appena baciato Emma Swan.
Era piuttosto semplice, eppure sentiva il sangue gelarsi sotto le vene e ribollire subito dopo. Il suo cuore era un misto di emozioni contrastanti, a cui non sapeva neppure dare un nome.
Ma, al momento, la preoccupazione per il suo migliore amico ebbe la meglio.
«È già stato da solo altre volte… Sta dormendo, tornerò prima che si svegli…»
Killian vide Emma, le guance rosse, gli occhi verde bottiglia e per un millesimo di secondo, ripensò a ciò che era accaduto.
Scosse la testa, sapeva quanto fosse testarda e restare lì a discutere non sarebbe servito a niente se non a fargli perdere tempo.
La donna salì in fretta le scale, afferrò le sue vecchie Converse logore e se le infilò in fretta e furia.
«Sono pronta…» mormorò una volta infilato anche il giubbino.
«Emma»
«Sì?»
«Andiamo con la mia macchina…!»
E, per la prima volta, la donna non ebbe nulla da obiettare. Si accomodò sui sedili di pelle, in silenzio e si limitò a fissare l’uomo accanto a lei.
Cosa avevano fatto?
La testa le scoppiava, si sentiva stranamente accaldata, ma per niente stanca.
Si chiese perché l’avesse seguito, senza remore, senza neppure un dubbio. Aveva lasciato Henry da solo, per seguire lui! Gli aveva mentito, il bambino non aveva mai dormito senza nessuno in casa. Di solito quando lei lavorava, c’era Regina. Oppure chiamava Joan, una studentessa che abitava qualche piano sotto il loro.
Aveva chiuso la porta a chiave, almeno questo riusciva a tranquillizzarla un po’.
Ma non riusciva a pentirsene. Sentiva il bisogno di essergli accanto, non soltanto per quel bacio, ma per ciò che lui rappresentava per lei. A causa sua, non gli era stata vicina per buona parte della sua vita e dubitava se lo sarebbe mai perdonata. Sapeva quanto fosse forte, ma sapeva che anche i più forti, alle volte, hanno bisogno di qualcuno a cui appoggiarsi. Lo sapeva perché erano simili, lo erano sempre stati. Loro due si capivano.
Lesse la preoccupazione nel suo sguardo fisso di fronte a sé e il piede conficcato sull’acceleratore. La mascella contratta, le nocche bianche.
Voleva toccarlo, confortarlo, ma non lo fece. Si conficcò le unghia nella carne, affinché riuscisse a fermarsi.
Lui, probabilmente, si accorse del suo sguardo e fraintese.
«Scusa…»
«Per cosa?»
«Per… sì, insomma… per il bacio… non avrei dovuto…»
Emma non poté fare a meno di ridere. Eccolo, il Killian Jones che aveva conosciuto sin da bambina. Sbruffone all’esterno, e così insicuro all’interno. I sensi di colpa, la certezza che avrebbe potuto fare di più per migliorare la situazione e l’autocommiserazione erano tutti ostacoli che Killian combatteva sin dall’infanzia, sin dalla morte della madre e dalla successiva violenza del padre.
«Sono io che ti sono saltata addosso, Killian… non c’è niente per cui scusarsi… adesso, pensiamo solo ai tuoi amici… staranno bene, vedrai…» lo rassicurò la donna.
Il moro distolse per un attimo gli occhi dalla strada e li puntò in quelli verdi di lei. Poi annuì.
«Dovremo parlarne, prima o poi, Emma…» aggiunse poi, dopo qualche secondo di silenzio. Lo sguardo di nuovo fisso di fronte a sé.
«Lo so» rispose la donna, chiudendo gli occhi e abbandonandosi sul sedile. Troppe informazioni, troppi sentimenti, troppe emozioni. Il suo cuore sembrava essersi svegliato, dopo anni e anni di letargo. E non riusciva a capire se avrebbe retto o meno.
«Bene… siamo arrivati!»
Killian parcheggiò proprio difronte all’ingresso dell’ospedale dove, pochi giorni prima, si era risvegliato dopo una notte burrascosa.
Nessun divieto di sosta o passo carrabile l’avrebbe fermato in quel momento.
Sperò soltanto che stessero bene, non poteva neanche immaginare una vita a New York senza David, semplicemente perché non c’era mai stata.
Sbatté con forza la portella e vide Emma fare lo stesso, poi insieme, si precipitarono all’interno dell’edificio.
Il solito odore di disinfettante e malattia, invase loro le narici.
Si precipitarono verso il Pronto Soccorso.
«Mi scusi, stiamo cercando David Nolan e Mary Margaret Blanchard… hanno avuto un incidente…»
La donna che avevano fermato in corridoio puntò i suoi occhietti neri prima su Killian e poi su Emma. Doveva essere un’infermiera oppure una dottoressa molto giovane. Infilò la penna che stringeva in mano nel taschino del camice bianco e poi, infilò le mani in tasca, cercando di fare mente locale e ricordare di chi, quei due, stessero parlando.
«Chi siete?»
«Degli amici»
«Mi dispiace…»
Killian sbarrò gli occhi. Emma gli poggiò una mano sul braccio.
«S-stanno bene?» chiese l’uomo, con voce rauca.
«Li hanno portati qui da poco, il signor Nolan è in sala operatoria… Mi dispiace…»
«La smetta!» urlò Emma frustrata, stringendo i pugni e cercando di non scoppiare a piangere lei stessa.
«La smetta di dire che le dispiace, ci dica come stanno, maledizione!»
L’infermiera fece per aprire bocca, ma Killian non la sentiva più. Qualcosa aveva catturato la sua attenzione. O meglio, qualcuno.
Si allontanò da Emma e corse verso di lei.
«Mary Margaret»
La donna era bianca e se i fantasmi fossero esistiti per Emma avrebbero avuto quello stesso pallore. I capelli corti e scompigliati, gli occhi gonfi e rossi. La camicetta bianca sporca di sangue, la gonna logora. Alla giovane Swan, parve che la donna faticasse persino a reggersi in piedi.
Mary Margaret, ascoltando il suo nome, si fermò al centro del corridoio e non appena Killian la raggiunse, scoppiò a piangere.
«Mi dispiace! Mi dispiace! È tutta colpa mia…»
 
Ore 00.05

«Signora, dovete uscire! L’orario delle visite è terminato da un pezzo!»
«Io voglio restare qui! Con mia madre!» urlò con le mani sui fianchi.
«Non può… E adesso, se vuole scusarmi, dobbiamo prenderci cura di vostra madre…»
L’infermiera trascinò Regina fuori e a nulla valsero le urla e le minacce, la donna vide la porta della camera di sua madre chiudersi davanti ai suoi occhi.
Avrebbe voluto prendere a schiaffi quelle infermieri insolenti! Perché non capivano? Voleva soltanto passare del tempo con sua madre prima che…
Oh, non riusciva neanche a pensarlo!
Le lacrime le punsero gli occhi ma lei le ricacciò indietro. Regina Mills non piange.
Avvertì l’impulso di chiamare Emma ma non lo fece, sapeva che quella sera, il suo amico sarebbe andato a cena da loro e non voleva disturbarla.
Si incamminò verso l’uscita, il reparto di sua madre era così rumoroso perfino a quell’ora di notte, non riusciva a capire come riuscisse a dormire in quelle condizioni. Campanelli, urla, singhiozzi.
Regina camminò più velocemente, lasciandosi quei corridoi alle spalle. I tacchi a spillo ticchettavano sul pavimento. Si sentiva stanca, sfinita, ma non riusciva a lasciare quell’ospedale. Aveva paura che se l’avesse fatto, sarebbe poi arrivata troppo tardi.
Preferì usare le scale piuttosto che rinchiudersi nell’ascensore, troppo stretto per lei in quel momento.
Scese la prima rampa e poi l’altra ancora.
Si guardò intorno.
Lesse il grande cartello attaccato al muro: rianimazione.
Se la geriatria, di sopra, era così rumorosa, lì il silenzio sembrava regnare sovrano. Metteva quasi soggezione.
Spinta da una forza invisibile, si incamminò verso il corridoio vuoto di fronte a sé. Passava in rassegna le camere, una più silenziosa dell’altra. Sembrava non ci fosse un’anima viva, lì dentro. O meglio, le loro anime erano vive; i loro corpi no. O forse era il contrario?
Posò lo sguardo su tutte le camere, ognuna chiusa a chiave. Sentiva soltanto il leggero vibrare dei macchinari, ogni tanto qualche bip proveniente dai monitor accesi.
L’unica porta aperta era la stanza di una giovane donna. Aveva lunghi capelli neri e gli occhi chiusi, l’espressione rilassata e serena, due fossette agli angoli della bocca.
Regina si guardò intorno e poi entrò.
La donna era piena di tubi, nell’incavo del gomito, sul palmo della mano e uno fuoriusciva persino dalla sua gola.
Si sedette su di una piccola poltroncina, vicino al capezzale, sperando che nessuno si accorgesse della sua presenza.
Vegliò un po’ su quella sconosciuta, chiedendosi chi fosse e cosa avesse fatto per ritrovarsi lì. Ma alle volte, uno non fa proprio niente. È soltanto il destino o l’ordine naturale delle cose a decidere per te e Regina lo trovava davvero ingiusto.
Pian piano i suoi occhi divennero sempre più pesanti e alla fine, scivolò in un sonno profondo e senza sogni.
 
Ore 00.17  

Killian continuava a camminare avanti e indietro, misurando il corridoio a grandi passi, sotto lo sguardo triste e preoccupato della sua segretaria, seduta su una delle poltrone d’aspetto attaccate al muro.
Emma arrivò poco dopo, stringendo tra le mani, piuttosto precariamente, tre bicchieri di caffè. Porse uno a Killian e poi si diresse verso Mary Margaret, offrendole l’altro.
La donna accettò, sforzandosi di stirare il volto stanco e pallido in un sorriso.
Emma si sentiva un po’ il terzo incomodo lì dentro. Non conosceva David e per quanto potesse essere alto il suo livello di empatia, non poteva comprendere quanto gli altri due stessero soffrendo.
Però, solo pensando che ci potesse essere Regina lì dentro, le si rizzavano i peli sulle braccia e le lacrime cominciavano a pizzicarle gli occhi.
Mary Margaret aveva raccontato, per sommi capi, ciò che era successo e i due l’avevano ascoltata in religioso silenzio, silenzio che avevano poi mantenuto fino ad allora.
«È colpa mia…» mormorò di nuovo la donna, stringendo il bicchiere bollente tra le mani, ignorando il dolore.
Emma non sapeva cosa dirle… Sì, è colpa tua? No, non è così?
Nessuno, se non David, avrebbe potuto consolarla, sapendo la verità. Ma era proprio questo il punto, David non c’era. E nessuno sapeva se sarebbe mai tornato indietro per raccontare la sua versione dei fatti.
Emma ddiava mentire alla gente e si odiava quando lei stessa faceva ricorso alle “bugie bianche”, credendo di fare del bene, proprio come era accaduto con Henry e il suo lavoro. Quindi, questa volta, scelse di dire la verità, non importava quanto dura fosse risultata.
«Forse…»
Mary Margaret abbassò lo sguardo e per un attimo, Emma pensò sarebbe scoppiata a piangere di nuovo.
«Ma sono sicura che potrai scusarti con lui, presto…» continuò.
La donna la guardò per qualche secondo.
«Grazie…»
 
Ore 00.25

Robin guardava suo figlio dormire, il volto rilassato e le piccole fossette agli angoli della bocca. Marian diceva sempre che quelle fossette fossero un distintivo della famiglia Hood. Ce le aveva Robin, ce le aveva lei e le aveva ereditate persino il piccolo Roland.
L’uomo gli rimboccò le coperte e lasciò la stanza del figlioletto. La porta aperta, una piccola lucina che illuminava il corridoio.
Da quando Roland non vedeva più la sua mamma gironzolare per la casa, intenta a pulire i pavimenti o a cucinare, non riusciva più a dormire al buio, da solo. Forse il bambino, nonostante fosse troppo piccolo ancora, aveva capito che c’era qualcosa che non andava, che la mamma mancava da troppo tempo. Ma per lui, se qualcuno partiva, poi tornava sempre indietro no?
Anche lo zio Kill e lo zio Dave erano partiti una volta, però poi, una volta tornati, gli avevano portato un grande orso di peluche. Chissà cosa gli avrebbe portato la mamma quando sarebbe tornata, visto che mancava da così tanto tempo…
Da poco aveva una nuova ossessione per i dinosauri e i T-Rex… ne avrebbe desiderato tanto uno!
«Posso dormire con te, papino?» mormorava quando di notte si svegliava e zampettava verso il letto del padre.
Robin gli sorrideva.
«Certo ometto…»
Gli faceva spazio tra le coperte e il bimbo si infilava in quel letto, troppo grande per entrambi da quando Marian non c’era più.
Poi, i suoi amici, avevano risolto il problema, comprandogli la piccola lampada a forma di pesce che adesso occupava un angolo del corridoio, illuminandolo.
Roland non era più tornato nel suo letto e Robin non era più riuscito a dormire bene.
Sentire il corpicino di suo figlio, accanto al proprio, lo faceva sentire meno solo, anche se faticava ad ammetterlo.
Gli lanciò un’ultima occhiata e poi si diresse verso la cucina. Il lavello era pieno zeppo di piatti da lavare, il tappeto disseminato di ogni tipo di giocattolo.
Si diresse scalzo verso il divano, inciampando in qualche mattoncino e imprecando sottovoce.
Quando si sedette, si prese la testa tra le mani.
«Quali sono le ultime volontà di sua moglie?»
La voce del medico continuava a riecheggiare nella sua testa.
Cosa avrebbe dovuto fare?
Ricordava perfettamente il giorno in cui Marian gli disse che avrebbe preferito morire, piuttosto che restare in vita come un vegetale.
Ma era giusto?
E se si fosse risvegliata, prima o poi?
Era una decisione troppo grande, persino per lui. Non avrebbe mai pensato di dover scegliere tra la vita e la morte di sua moglie. Ma che vita era?
Vide un pezzo di carta abbandonato sul mobile all’ingresso.
Vide l’espressione del dottor Bone mentre glielo consegnava.
 «Ci pensi bene, signor Hood. Poi, non potrà più tornare indietro…»
«Lo so»
Aveva preso la decisione giusta?
Ci aveva pensato così tanto, mentre vedeva Roland giocare, mentre gli faceva indossare il grembiule e lo accompagnava al suo primo giorno d’asilo.
Aveva fatto bene?
Probabilmente solo il tempo gliel’avrebbe detto.
Ad un tratto il telefono squillò. Lanciò uno sguardo all’orologio, mezzanotte e venti. Chi poteva essere a quell’ora?
Con il cuore in gola, rispose.
«Signor Hood! Deve correre immediatamente in ospedale! Si tratta di sua moglie!»
Robin riattaccò, l’ansia cominciò a farsi spazio nel suo cuore e nella sua mente. Il suo primo pensiero andò a suo figlio. Era troppo tardi, non poteva lasciarlo lì. Si infilò le scarpe e il giubbotto, poi si precipitò verso la sua camera e lo prese in braccio, più delicatamente che poté. Il bambino mugugnò qualcosa ma non si svegliò. Robin si chiuse la porta alle spalle.
Forse, aveva preso davvero la giusta decisione.
 
Ore 00.53

Killian non si era fermato un attimo. Camminava, si sedeva e poi si rialzava un attimo dopo. Non riusciva a stare fermo, non riusciva neanche lontanamente a pensare all’eventualità di perdere il suo amico per sempre.
Avrebbe dovuto chiamare Ruth e George, i suoi genitori; avrebbe dovuto chiamare Robin e il capo di David, per avvisarlo che domani non sarebbe andato a lavoro.
Ma non poteva sopportare di sentire la loro voce, di ascoltare le loro lacrime, di rispondere alle loro domande.
Lo avrebbe fatto, quando qualcuno si sarebbe degnato di uscire da quella maledetta porta e dirgli come stava il suo amico.
«Killian»
Sentì la mano di Emma sulla sua spalla, piccola ma sicura. Lo costrinse a voltarsi verso di lei e per la seconda volta, in quella sera, erano ancora troppo vicini.
Basta Killian! Come puoi pensare a lei, quando il tuo migliore amico sta rischiando la vita?
L’uomo scosse la testa, delle lacrime arrivarono a pungergli gli occhi.
Abbassò la fronte contro il suo collo, abbandonandosi al suo profumo e alla freschezza della sua pelle.
«Io n-non posso…» sussurrò ed Emma lo sentì a malapena.
Gli posò una mano sulla nuca, stringendolo ancora di più a lei.
Era una posizione strana, eppure sembrò che fossero nati per quello. Non c’era imbarazzo, si erano abbracciati così tante volte quando erano bambini. Era un gesto che veniva loro naturale e spontaneo. E adesso, nonostante entrambi fossero cresciuti, sembrò che il mondo non fosse cambiato poi così tanto.
Era diventato alto, troppo alto affinché lei riuscisse ad abbracciarlo completamente, ma così, raggomitolato contro di lei, Emma riuscì a percepire tutta la paura che sgorgava dal suo corpo, alleggerendola un po’. O almeno così credette.
Sentì il suo cuore battere contro la cassa toracica, non appena la porta dietro di loro aprirsi.
Si voltarono e videro uscire un uomo sulla sessantina. Avrebbe dovuto essere il chirurgo che aveva portato avanti l’operazione.
Emma e Killian non badarono neanche a Mary Margaret, che si alzò di scatto e si incamminò verso di loro, troppo occupati a decifrare l’espressione enigmatica del medico.
Emma strinse il braccio di Killian.
«Ebbene?» chiese, con voce roca l’uomo.
Mary Margaret trattenne il respiro.
«Tutto bene, l’operazione è riuscita!»
Il peso che gravava sul cuore dei presenti svanì e tutti tirarono un sospiro di sollievo.
«Quando possiamo vederlo?» chiese Mary Margaret, strofinandosi un fazzoletto sugli occhi di nuovo lucidi.
«Non appena si sveglia» esclamò il dottore e Killian pensò di non essere mai stato più sollevato. Certo, non appena avrebbe visto il suo amico, probabilmente l’avrebbe ucciso con le sue mani per tutto quello che gli aveva fatto passare quella sera ma era felice.
Sorrise, strofinandosi una mano sugli occhi. La mano di Emma, ancora sul suo braccio.
 
Ore 00.57

«Voi chi siete?»
Una voce, una voce maschile e insistente.
Regina aprì gli occhi, soffocando uno sbadiglio. Si stiracchiò e poi cercò di mettere a fuoco il suo interlocutore.
Maledizione, dove si trovava?
Oh no…
Come prima cosa vide due occhi azzurri, poi un volto. Era un uomo, più o meno della sua età. Stringeva un fagottino tra le braccia e per un millesimo di secondo, la donna pensò si trattasse di un cadavere.
Vide l’uomo posare il bambino sul letto affianco a quello della donna sconosciuta e con un sollievo, Regina si accorse che il piccolo stava solo dormendo.
«Chi siete? Non vi ho mai visto! Cosa avete fatto?» ripeté, sussurrando appena.
Non appena la donna si rese conto dell’orribile figuraccia che stava facendo, si alzò di scatto.
«Io… io… mi dispiace… mia madre… non avrei dovuto…» balbettò, abbassando lo sguardo.
«Conoscete Marian?» rispose l’uomo, alludendo alla donna stesa sul letto.
Oh, allora si chiamava così…
«No…»
L’uomo alzò un sopracciglio, sorpreso.
«Allora che ci fate qui a quest’ora? Le avete dato qualcosa?» chiese, senza tanti giri di parole.
Regina prese un sospiro e gli disse la verità.
«Mia madre è ricoverata di sopra… non so quanto tempo le resta e le infermiere non mi permettono di starle accanto come vorrei… io volevo solo restare in ospedale e ho visto che la porta di questa camera era aperta e…»
Robin la squadrò per un po’. Stava per replicare, lo sguardo improvvisamente più calmo, quando il suo telefono squillò.
Lo estrasse immediatamente dalla tasca della giacca e rispose.
Quando riattaccò, il suo volto era sbiancato.
Regina lo fissava, aspettando che le dicesse qualcosa. Si era intrufolata di nascosto nella camera della moglie… oppure era sua sorella?
Oh ma che importanza aveva!
«Ascolta mi dispiace, davvero…» provò a dire ma l’uomo non la stava più ad ascoltare. Lanciò un’occhiata al bambino che dormiva profondamente e poi uscì immediatamente dalla camera.
Regina non ci mise molto a seguirlo.
«Aspetta! Dove vai?» chiese, cercando di stargli dietro, ma con i tacchi, non era poi così facile.
La situazione sembrava addirittura comica, considerando che non poteva urlare in quella specie di cimitero vivente…
Oh questa era cattiva!
Povera Marian… aveva detto che si chiamava così no?
Sentì il cellulare vibrare nella sua borsa ma non ci badò.
Aspetta…
Avrebbe potuto trattarsi di sua madre!
Così si fermò, nel bel mezzo della rampa di scale, per cercare nella sua elegante borsa di pelle nera, il suo telefono.
Era Emma.
«Swan! Cosa diavolo ci fai sveglia all’una di notte?»
«Sono in ospedale… ti spiego dopo… puoi andare da Henry domani mattina?»
«Sei dove?!» mormorò la mora, continuando a scendere.
«In ospedale… quello vicino casa…»
«Dove?»
«Al Pronto Soccorso! Regina, ma che sta succedendo?» chiese la giovane, ma di tutta risposta ottenne soltanto la fine della chiamata.
  
Ore 01.16
«Killian! »
«Robin!»
«Regina?!»
«Regina!»
«Swan!»
«Ciuchino!»**
Tutti gli occhi, straniti, erano puntati su di lei adesso. Fantastico.
Emma alzò gli occhi al cielo.
«Che c’è?»
Sbuffò.
«Bene, dai vostri sguardi intontiti capisco che non avete mai visto Shrek e mi dispiace per voi! Io sì, perché, vi ricordo, ho un figlio di dieci anni che adesso è solo a casa e se non vi dispiace, vorrei tornare da lui prima che si svegli!» urlò, le mani sui fianchi.
«Swan, cosa diavolo è successo? Perché sei qui?» chiese Regina, prendendo la parola per prima.
Emma sospirò. Sapeva che se non le avesse dato una spiegazione, Regina non se ne sarebbe mai andata.
«Un amico di Killian ha fatto un incidente…»
«David!» esclamò Robin, portandosi la mano sulla testa «Come sta?»
«Bene» rispose il giovane architetto, lanciando un’occhiata prima a Regina e poi ad Emma.
«Fortunatamente si riprenderà» continuò.
«Oh menomale!» sospirò l’uomo.
«Ma aspetta…voi due vi conoscete?» chiese Emma, rivolgendosi a Regina e Robin che erano arrivati praticamente contemporaneamente.
«L’ho trovata nella camera di Marian…» spiegò Robin alzando le spalle.
«Non l’ho mai vista prima di oggi…»
Regina gli riservò un’occhiata davvero poco amichevole. Avrebbe preferito che Emma non sapesse della sua figuraccia o che almeno venisse a saperlo da lei. Non le piaceva ammettere che aveva commesso passi falsi.
«Chi?» chiese la donna dai lunghi capelli biondi, assottigliando lo sguardo, le mani incrociate sul petto.
«Marian… sua moglie…» le spiegò Killian, accennando a Robin
Oh, quindi aveva ragione… La donna era davvero sua moglie…
«Ah… e cosa diavolo ci facevi lì?»
«Dormiva…Ahi!»
Regina non si era più trattenuta e gli aveva lanciato uno schiaffo sul braccio. Adesso l’uomo la guardava stupito, massaggiandosi il punto dove, pochi secondi prima, la donna l’aveva colpito, un mezzo sorriso dipinto in volto.
Ma dov’era capitato?!
«Scusa… e non ti ho fatto poi così male…» disse rivolgendosi all’uomo.
La donna rivolse poi il suo sguardo ad Emma e all’uomo di fianco a lei.
Merda…
«Non mi lasciano stare con mia madre!» mormorò, cercando di evitare il più possibile lo sguardo dell’uomo.
«E tu hai deciso di intrufolarti in una stanza solo per questo?»
La donna alzò le spalle.
Poco dopo, prima che Emma potesse replicare, arrivò Mary Margaret.
«Possiamo vederlo… non è ancora sveglio ma possiamo vederlo!»
Dopo di che, tutti incominciarono a parlare contemporaneamente, Killian cercava di parlare con Robin, Robin parlava contemporaneamente di Marian e Regina blaterava qualcosa su quanto fossero stronze le infermiere di questo ospedale…
«Basta!» urlò Emma.
«Killian va’ con Mary Margaret da David; Regina, vieni con me… parlerò con il dottor Whale e gli chiederò se puoi restare con tua madre; Robin… tu fai quello che vuoi… Sono Emma, comunque!» disse, porgendogli la mano. Quello la strinse, ancora piuttosto sconvolto.
Killian puntò i suoi occhi blu nei suoi, la tirò per un braccio, lanciando un’ultima occhiata in direzione di Regina.
«Grazie» mormorò, prima di voltarsi e seguire Mary Margaret verso i corridoi.
«Piuttosto carina la camicetta Emma… ma quelle scarpe… non mi esprimo!»
«Bene, è meglio…» mormorò la giovane, fissando ancora il punto in cui Killian era sparito.
Robin fissava prima l’una e poi l’altra, si rischiarò la gola, cercando di attirare la loro attenzione.
«È stato un piacere conoscervi signore…»
«Signorine» lo corresse Regina.
«Ad ogni modo, io devo andare… A presto…» disse, prima di dirigersi verso la camera di sua moglie. A quanto pare, nonostante l’avessero chiamato soltanto per avvisarlo che una strana donna dormiva nella camera di sua moglie, una piccola fiammella di speranza si era riaccesa nel suo cuore. Forse, sarebbe andato davvero tutto bene.
Eppure, non riusciva a non pensare a quegli occhi neri e tristi che aveva incrociato poco prima.
 
 
Dopo aver parlato con Whale, che aveva permesso a Regina di restare in ospedale fintanto che desiderava e un “Avresti potuto ricordartene prima Swan!” da parte della sua amica, Emma aveva preso un taxi. Sarebbe voluta passare a salutare Killian, ma non voleva disturbarlo. E poi, voleva tornare a casa, prima che suo figlio si accorgesse della sua assenza.
Si sentiva stanca, sfinita.
Quando riaprì la porta di casa, si precipitò a controllare suo figlio e tirò un sospiro di sollievo notandolo ancora nel suo letto, sano e salvo, senza nessun biglietto che richiedeva soldi per la sua vita.
Ok, forse era solo un po’ paranoica.
Ma se c’era una cosa che gli eventi di quella folle serata le avevano insegnato era che non puoi sapere quando una persona uscirà dalla tua vita, può accadere un giorno qualsiasi, il giorno del tuo compleanno o quello del tuo anniversario, per un litigio o un incidente.
Non puoi prepararti. Killian non sapeva, quel giorno, che lei se ne sarebbe andata per sempre. Regina non sapeva che non avrebbe mai più rivisto Daniel, quando l’aveva salutato per l’ultima volta.
Mary Margaret non sapeva che lei e David avrebbero avuto un incidente.
Non puoi saperlo e basta.
Quindi è inutile tenersi tutto dentro, i propri sentimenti, le proprie paure. Se ami qualcuno, è sempre giusto ricordarglielo, ogni giorno, fino alla noia.
Non è bello vivere nel rimorso, con parole non dette cucite nel cuore.
Sì, era decisamente paranoica.
Controllò l’orario. Le tre meno venti. Henry si sarebbe svegliato di lì a tre ore. Si stese sul divano, togliendosi le scarpe e chiuse gli occhi.
Riusciva a sentire ancora il viso di Killian nell’incavo del suo collo, il suo respiro caldo. Rabbrividì. Non riusciva a spiegarlo ma c’era stato qualcosa, in quella sorta di abbraccio, più intimo del bacio stesso.
Si addormentò, in testa ancora le sue parole.
Dovremmo parlarne prima o poi, Emma.
 
 
Mary Margaret non riusciva a spiegare i sentimenti che si susseguirono nel suo cuore, dopo aver visto David in quel letto d’ospedale.
Sembrava dormisse, sembrava sereno persino in quelle condizioni.
Vide Killian indugiare sulla soglia della porta. Si chiese come diavolo fosse finita lei, in quel posto, ma non le importava neanche poi tanto.
Ciò che le importava era che stava bene, lui stava bene.
Le lacrime ritornarono a pungerle gli occhi. Si avvicinò al letto, in punta di piedi, temendo quasi di poterlo svegliare.
Gli strinse la mano, poi si voltò verso la porta, ma Killian era scomparso.
Dove era finito?
Chiuse gli occhi e calde gocce salate cominciarono a rigarle le guance.
«Ti odio, David! Ti odio perché sei così, perché mi hai fatto innamorare di te brutto idiota!» mormorò, prima di abbandonarsi ad un pianto liberatorio.
 
 
Killian aveva capito. Era stato semplice dopotutto.
Aveva cominciato a rendersene conto da tempo, ma quella sera ne aveva avuto la certezza. Aveva visto gli occhi della sua segretaria, inondati di lacrime. Aveva letto, al loro interno, il senso di colpa, la frustrazione, l’ansia ma anche qualcos’altro.
Qualcosa che, ormai, riusciva a scorgere solo negli altri, mai in se stesso. Almeno da quando era morta Milah.
Qualcosa che assomigliava alla paura, ma era molto di più.
La donna, non temeva per la sua vita, ma per quella di qualcun altro.
Killian riusciva a scorgere il suo desiderio inappropriato di poter essere al posto dell’uomo, di voler sobbarcarsi tutto il suo dolore, pur di farlo stare meglio, pur di guarirlo.
E non era soltanto per alleviare i sensi di colpa, no, c’era dell’altro.
Aveva visto qualcosa di molto più profondo nello sguardo di Mary Margaret, qualcosa che assomigliava incredibilmente all’amore e, improvvisamente, si era sentito di troppo.
Le aveva lasciato il suo spazio, le aveva lasciato del tempo con David. Lui, dopotutto, ne aveva avuto fin troppo in quegli anni.
Si incamminò verso il distributore del caffè, poco distante. Quanti ne aveva presi da quella mattina? Ormai ne aveva perso il conto.
Il suo cervello era un tripudio di emozioni, pensieri, sensazioni.
C’erano Emma e tutti i sentimenti che portava con sé; c’era il sollievo per David; c’era l’ansia per Robin; e c’era il volto di Regina, un volto che, poteva giurarci, aveva già visto.
 
 
«Mamma! Che ci fai sul divano?»
Emma strizzò gli occhi, li stropicciò e poi mugugnò qualcosa.
«Mammaaaa»
«Mmmm»
«A che ora se n’è andato Killian? Ha detto qualcosa? Verrà alla mia recita vero?»
Emma non avrebbe potuto continuare a dormire neanche tra un milione d’anni se suo figlio continuava a parlare nell’orecchio, così si stiracchio e finalmente si mise a sedere.
«Buongiorno anche a te, ragazzino!»
«Perché dormivi sul divano?» chiese Henry, intento a versare un po’ di latte nella sua tazza preferita.
«È una storia lunga… Te la racconto mentre ti accompagno a scuola, che dici?»
«Va bene… vorrà dire che, purtroppo, perderò il pullman! Oh che immenso dispiacere!» mormorò il bambino, portandosi teatralmente una mano sulla fronte.
Emma rise, si alzò e gli scompigliò i capelli.
«Il mio piccolo Brad Pitt» disse, baciandogli la testa.
«Johnny Depp, mamma!» la corresse il bambino, con la bocca piena di cereali.
Emma capì al volo.
«Tu e la tua ossessione per i pirati…» mormorò, sospirando, fingendosi seccata.
«È colpa tua! Non avresti dovuto iniziarmi alla pirateria…» rispose, facendole la linguaccia.
«Hai ragione… sono proprio una pessima madre!» disse, prima che entrambi scoppiassero a ridere.
«Vado a rendermi presentabile… finisci di mangiare e poi lascia tutto nel lavello…»
Il bimbo annuì. Fissò sua madre mentre si incamminava di sopra e poco dopo, il suo sguardo cadde sul piccolo modellino di un veliero di fronte a sé.
Sì, Killian gli stava davvero simpatico.
 
 
David aveva aperto gli occhi verso le cinque. Sentiva una leggera pressione sulla mano sinistra, oltre al fastidioso prurito degli aghi.
La prima cosa che vide fu uno strano soffitto color celeste, troppo chiaro per i suoi gusti.
Poi, il suo sguardo cadde su di una strana macchia nera.
Strizzò gli occhi e mise bene a fuoco.
«Finalmente!» mormorò una voce familiare.
«Killian?!» chiese, la voce impastata.
«In carne ed ossa!»
«C-che è successo? Dove sono? Mary Margaret sta bene?»
«Sei in ospedale e sì, sta più che bene…» disse, scostandosi e facendo entrare la giovane donna nella stanza.
Killian era riuscito a convincerla a tornare a casa, per riposarsi, farsi una doccia, cambiarsi.
Sarebbe restato lui con il suo amico.
La donna aveva fatto tutto in fretta e furia e prima di tornare all’ospedale, si era preoccupata di comprare la colazione per tutti.
«David!» mormorò, correndo verso di lui.
Killian colse l’occasione al volo per congedarsi e anche se avrebbe voluto passare un po’ di tempo con lui (da sveglio), gli promise che sarebbe passato più tardi.
Uscì dall’ospedale, concedendosi finalmente di lasciar vagare i suoi pensieri liberi.
Toccarono una serie di tasti, ma quasi come attratti da una calamita, si posarono di nuovo su di lei, Emma.
Mangiucchiò il baegel che la sua segretaria gli aveva portato, ingoiando un po’ di cappuccino.
Si infilò in macchina e cominciò a guidare verso casa, già pregustando il momento in cui avrebbe fatto una bella doccia rigenerante, per lavarsi via tutte le preoccupazioni di quella folle notte.
 
 
«Mi dispiace! Mi dispiace! Mi dispiace così tanto…» continuava a mormorare la donna, sembrava un disco rotto.
«Mary Margaret sta’ tranquilla… n-non è colpa tua…»
Il medico che aveva controllato i valori di David aveva appena lasciato la stanza, giudicandoli piuttosto stabili.
David si sentiva piuttosto rintontito, a causa degli antidolorifici che gli avevano somministrato e anche, sicuramente, per i residui dell’anestesia.
Nonostante questo, però, aveva riacquistato un po’ del suo colorito e sicuramente, un po’ del suo buonumore.
«Sì, invece! Se io non avessi fatto così tante storie…»
«Ma le hai fatte! – disse, interrompendola – ma non potevi saperlo che quel… quel coso… sarebbe comparso, così all’improvviso!»
La donna tacque.
«Fortunatamente stiamo bene, tutti e due…» continuò l’uomo, chiudendo gli occhi azzurri per un po’, ancora troppo stanco.
«Mi hai salvato» sussurrò la giovane, dopo secondi di silenzio.
David riaprì gli occhi.
«Se tu non mi avessi spinta giù… probabilmente non sarei qui… Grazie…»
«Non c’è di che! Sai, avresti potuto dirmelo prima che se avessi rischiato la vita, ti avrei sentita pronunciare quelle parole…»
«Se non fossi completamente intubato e già malridotto, probabilmente ti darei un pugno…» sorrise la giovane, felice che l’ilarità fosse tornata.
L’uomo la ignorò.
«Quindi adesso sono il tuo eroe?!»
«Adesso non esageriamo…»
«Il tuo Principe Azzurro?»
Mary Margaret ci pensò su, squadrando l’uomo sul letto e immaginandoselo con un armatura, su un maestoso cavallo bianco.
«Sì, ti si addice… Charming
 
 
Dopo aver accompagnato Henry a scuola e avergli raccontato tutto quello che era successo la notte precedente (omettendo il bacio, ovviamente), Emma si era recata di nuovo a casa.
Sapeva che sarebbe dovuta passare dal negozio ma prima, voleva togliersi quei vestiti che indossava dalla sera prima e farsi una doccia.
Controllò il cellulare, sperando in qualche messaggio. Niente.
Si diresse verso la sua camera, lanciò tutti i vestiti nel cesto della biancheria sporca e poi si chiuse in bagno.
Forse, tornando indietro, avrebbe chiesto una vasca al posto della doccia, sicuramente molto più rilassante.
Ad ogni modo, ormai, era troppo tardi.
Si prese tutto il tempo per insaponarsi i capelli e il corpo e poi sciacquarsi. Canticchiava una vecchia canzone che aveva ascoltato alla radio, tornando dalla scuola di Henry e che le era entrata in testa, come un mantra.
E pensare che odiava quella canzone!
La cantava per distrarsi, perché un altro pensiero insistente faceva capolino nella sua mente.
Dobbiamo parlarne. Dobbiamo parlarne. Dobbiamo parlarne.
Parlare di che?
Di quel meraviglioso e tanto agognato bacio?
Oh mio dio, l’aveva pensato sul serio?!
Insomma, si trattava pur sempre di Killian…
Eppure perché, ogni volta che ripensava a quel momento, sentiva le guance andare a fuoco e il cuore scalpitare nel petto?
Perché, ogni fibra del suo corpo, le urlava che non c’era davvero nulla di male? Che dopotutto, l’aveva sempre saputo che sarebbe andata a finire così, sin dal loro primo rincontro a casa Gold?
Spaventata dai suoi stessi sentimenti, si infilò l’accappatoio, cercando di non gocciolare sul pavimento perché non aveva davvero voglia di lavarlo.
Si infilò i suoi amati jeans e un maglioncino bianco, si asciugò i capelli e si preparò per uscire.
Nel frattempo sentì il telefono vibrare.
Ci vediamo al negozio tra mezz’ora?
Rispose in fretta e furia, prese la borsa, gli occhiali da sole, più per nascondere le occhiaie che per proteggersi dai del tutto assenti, raggi solari, le chiavi della macchina e uscì.
 
 
«Ciao…»
Regina alzò di scatto la testa. Sua madre dormiva, i medici le avevano somministrato parecchi tranquillanti.
Riconobbe l’uomo sulla soglia della porta e spalancò la bocca, sorpresa.
«Oh, ciao… come hai fatto a trovarmi?» chiese la donna, stupita.
Robin alzò le spalle.
«Non sei l’unica persona a sapersi intrufolare nelle stanze altrui…»
Regina gli sorrise, poi spostò lo sguardo su sua madre.
«Non pensavo ti avrei rivisto così presto…» mormorò la donna.
Robin si grattò la nuca.
«Si, be’ neanche io…»
«Ti va un caffè?»
«Certo…» accettò l’uomo e insieme si diressero verso il bar dell’ospedale.
«Ho pensato che non ci siamo presentati a dovere… Sono Robin!» disse.
«Regina – sorrise la donna, afferrando la mano salda dell’uomo al suo fianco - se non l’avevi capito…»
«L’avevo capito…» mormorò sorridendo, infilandosi poi le mani in tasca.
«Senti, vorrei scusarmi ancora per ieri sera… non avrei voluto che ti disturbassero, per colpa mia… mi dispiace…»
«Non ti preoccupare… Sarei venuto lo stesso, sapendo dell’incidente di David… tu hai solo velocizzato un po’ i tempi…»
Il silenzio calò su di loro, per qualche secondo. Ognuno, cercava di immaginare come fosse la vita dell’altro, all’insegna della malattia di una persona cara.
«Posso chiederti una cosa?» esclamò Regina, interrompendo il flusso dei loro pensieri.
«Certo»
«Perché ti hanno chiamato? Insomma… non stavo facendo niente… niente di che…»
La donna vide un accenno di sorriso dipingersi sulle labbra di Robin, ma forse lo immaginò soltanto.
«Pensavano fossi un medico… sai, qualcuno che avesse somministrato qualcosa a Marian…»
«Che cosa avrei dov… Oh…»
Regina capì al volo.
«M-mi dispiace…» disse soltanto.
«Anche a me… Per tua madre, intendo…»
Ormai erano arrivati. Ordinarono due caffè macchiati e Robin prese anche una cioccolata per suo figlio.
«Cos’ha?» chiese l’uomo, una volta che si accomodarono ad uno dei tavolini di ferro.
«Alzheimer… Qualche giorno fa, ha avuto un mini infarto…Suppongo sia la vecchiaia…» sorrise Regina, cercando di mostrarsi forte. Non seppe dire se ci riuscì o meno.
«Com’è?»
«Cosa?» chiese la donna, curiosa, rialzando lo sguardo.
«Andare lì, parlarle, volerle bene, sapendo che lei forse non sa nemmeno chi tu sia…»
«Non è così semplice… lei ricorda… ricorda cose accadute anni fa… è convinta che abbia ancora dieci anni…»
Sentì la mano dell’uomo sulla sua. Fissò quell’incrocio di mani sconosciute e pensò che, dopotutto, non lo erano poi così tanto.
«Ti sembrerà strano… ma ti capisco…»
Regina lo fissò dritto negli occhi.
«Non mi sembra strano» mormorò «Anche per te è difficile…»
Robin sospirò.
«Io vado da lei ogni giorno… le parlo, le racconto di nostro figlio, del tempo, di qualsiasi cosa… ma lei è lì, non mi risponde, non apre gli occhi e alle volte io mi chiedo se ho preso davvero la decisione giusta…»
«Mi dispiace, Robin… cos’ha di preciso?»
«Sindrome di Guillan-Barré… è una malattia rara che colpisce i muscoli volontari e non, paralizzandoli… avevano trovato un modo per fermare l’incedere della malattia, ma ha subito una ricaduta e hanno dovuto intubarla e…» si prese la testa tra le mani.
«Da quanto tempo sta così?» chiese la donna, con cautela.
«Troppo… I medici non sanno se si riprenderà… ho letto così tante testimonianze di persone che ce l’hanno fatta ma, ammesso che lei ci riuscisse, non riuscirebbe più a camminare come prima… a vivere come prima… Forse sono stato egoista…»
«No, Robin… è tua moglie… tu la ami…» rispose Regina, con le lacrime agli occhi.
La verità era che lo capiva, sapeva benissimo come ci si sente a vivere con quel peso sulle spalle. Lo stava vivendo con sua madre, anche se, la situazione dell’uomo di fronte a lei, era molto più grave.
«Proprio per questo…se ami qualcuno, devi imparare a lasciarlo andare…»
Regina posò di nuovo la sua mano su quella dell’uomo, un muto gesto di consolazione.
«Ascolta, se hai bisogno di qualcosa, qualunque cosa, sai dove trovarmi…»
«…Anche solo per un caffè…» sorrise, lasciandogli il suo biglietto da visita sul tavolo.
«Potrei prenderti in parola Regina… Roland avrebbe davvero bisogno di una baby-sitter!»
«Be’ sei fortunato! Si dà il caso che sia molto brava con i bambini…» disse, alzandosi e gettando il bicchiere ormai vuoto nel cestino.
«…Anche se al momento sono piuttosto impegnata…» gli fece un occhiolino e poi risalì da sua madre, nel cuore e in testa ancora le parole dell’uomo.
Se ami qualcuno, devi imparare a lasciarlo andare.
 

Alzò gli occhi dallo schermo del computer nello stesso istante in cui il familiare campanello all’ingresso del negozio, tintinnò.
Non riuscì a spiegarsi perché improvvisamente cominciò a sudare. Eppure si era rifugiata nel retro del negozio proprio per far fronte a quell’improvvisa ondata di gelo che si era abbattuta sulla città.
«Swan! Ci sei?»
Prese due profondi respiri, abbassò lo schermo del computer portatile e si recò verso la voce. La sua.
«Sì, sono qui…»
Killian era di spalle, si guardava intorno, ma appena Emma parlò, si voltò di scatto e sorrise, grattandosi la nuca.
«Ciao»
«Ciao» mormorò lei.
Continuarono a squadrarsi per qualche secondo, in silenzio e con un velo di imbarazzo, aspettando che l’altro cominciasse a parlare.
«Che cosa stavi facendo?» chiese poi Killian.
«Guardavo dei cataloghi su internet… Sai, per cercare quello specchio…»
Belle aveva espressamente chiesto che in ogni camera da letto (e ovviamente anche in bagno) ci fosse uno specchio. Così Emma si era messa all’opera per cercarne uno adatto, visto che in negozio non ne aveva molti.
«Trovato niente?»
«Qualcosina… Per la prima volta nella mia “carriera” il prezzo non sarà un problema no?»
L’uomo sorrise, quel sorriso bello e maledetto che le riservava tempo addietro. Solo allora si rese conto di quanto le fosse mancato quel sorriso.
Le immagini della sera prima le colorarono la mente, le sue labbra sulle sue, i respiri incollati. Dovette trattenersi, per non saltargli addosso, di nuovo. E questo la spaventò non poco. Insomma era ancora Killian no? La persona che aveva fatto soffrire di più al mondo…
Dobbiamo parlarne, Emma.
«Hai ragione!»
«Una signora oggi mi ha portato degli scatoloni… ti va di aiutarmi?» chiese la donna, dopo qualche secondo di silenzio.
Killian annuì, senza pensarci due volte.
«Seguimi… ti aspetta il tuo primo inventario!»
«Dovrei essere emozionato?»
«Puoi dirlo forte! Se fossi in te lo scriverei sul calendario…» rise Emma, prendendolo in giro.
«Non ho un calendario…»
«Chissà perché, la cosa non mi stupisce più di tanto…» rise.
Era bello.
Era bello parlarsi di nuovo, parlarsi per davvero, senza dover nascondere più nulla. Era bello scherzare, prenderlo in giro e poi scoppiare a ridere.
Non si era resa conto di quanto le fosse mancato tutto quello.
«A che serve questa busta enorme?» chiese l’uomo, indicando un grande sacco di plastica nero, accanto ai due scatoloni, ancora sigillati.
«Ci buttiamo le cose brutte o rotte o invendibili…» disse Emma, guardandosi intorno alla ricerca del taglierino.
Eppure l’aveva poggiato proprio sul bancone…
«Swan, mi deludi! Pensavo la tua filosofia fosse quella di non buttare niente, per riciclare tutto!»
«E quando ti avrei detto la mia filosofia?»
L’uomo ci pensò su.
«In effetti, non l’hai fatto… no…»
«Appunto! Adesso mettiamoci al lavoro!» rise. Di nuovo. Il cuore di Killian fece una capriola.
La donna gli passò il taglierino. Decisero di aprire una scatola alla volta. Killian tirava fuori gli oggetti ed Emma decideva se registrarli oppure buttarli.
«Dai Swan! Questo è carino!» disse Killian, tirando fuori una testa di cerbiatto imbalsamato.
Emma non riusciva a guardarlo, le faceva troppa impressione.
«Scherzi? Non possiamo buttarlo, ci sono persone che lo comprerebbero per chissà quale assurdo motivo, ma toglilo dalla mia vista! Mi ricorda la mamma di Bambi!»
«Di chi?»
«Non conosci Shrek, non conosci Bambi… ma dove hai vissuto in tutto questo tempo?»
«A Storybrooke!»
Entrambi scoppiarono a ridere, ricordando la piccola e sperduta cittadina nella quale erano cresciuti. Effettivamente Storybrooke era abbastanza isolata. Emma ricordava che quando lei e Killian volevano andare a vedere un film appena uscito al cinema, dovevano aspettare mesi prima che questo venisse proiettato anche a Storybrooke.
Ricordava quante volte avevano supplicato la maestra Zelena affinché li accompagnasse nella città più vicina in gita.
Continuarono a scavare nello scatolone e finito col primo, aprirono il secondo. Trovarono un sacco di oggetti interessanti, come un soprammobile cinese (Killian sosteneva che valesse milioni di dollari, ma Emma sapeva che si stava prendendo gioco di lei), due vasi di due dimensioni diverse, un set di posate un po’ arrugginite, parecchie bambole di porcellana (Emma non sapeva più dove metterle!) e perfino un antico pezzo di biancheria intima femminile in pizzo, ormai ingiallito.
Quando aveva preso in mano quel mutandone, Emma lottava per non scoppiare a ridere, lotta che Killian aveva già perso in partenza.
Ma soprattutto, trovarono tanti vecchi giornali e tanta tanta polvere!
Finirono in tempi record, appena due ore. Se fosse stata da sola, la donna dai lunghi capelli biondi ci avrebbe impiegato molto di più.
«Allora, che si fa?» chiese il giovane Jones, una volta che Emma ebbe terminato di segnare l’ultimo oggetto, un piccolo svuota tasche a forma di coccinella.
La donna lanciò uno sguardo all’orologio.
«Che ne dici se andiamo a prendere qualcosa da mettere sotto i denti?»
«Certo…»
Chiusero il negozio a chiave e si diressero verso il primo Prêt-À-Manger che trovarono.
«Oggi devi andare a togliere i punti!» esclamò Emma, masticando il primo boccone del suo tramezzino.
«Non so se me li tolgono oggi… ad ogni modo devo comunque andare in ospedale per andare a trovare David…»
«Come sta?» chiese.
«Sicuramente se l’è passata meglio… ma sta bene… i dottori dicono che tra qualche giorno potrà uscire…»
«Menomale…»
Emma abbassò gli occhi sul suo cibo, improvvisamente interessata alla foglia di lattuga che fuoriusciva dal panino.
Non aveva mai visto una foglia così verde… Sembrava strana…
Oh, c’erano anche i pomodori! Non se n’era proprio accorta…
Killian la guardava. Avevano evitato l’argomento per tutta la mattinata ma, lo sapeva, era arrivato il momento. Seduti in un fast food, avrebbero parlato della loro vita. Be’ suonava piuttosto romantico, no?
«Emma…» cominciò lui.
«Mmmm» mugugnò lei, gli occhi ancora fissi sul cibo. Non aveva il coraggio di alzarli.
«Emma… è arrivato il momento no?» la riprese gentilmente lui, scuotendole un braccio.
Erano seduti di fronte. Killian aveva finito la sua insalata (per tenersi leggero, o almeno così aveva detto) da un pezzo, mentre Emma doveva ancora finire buona parte del panino.
La donna alzò lentamente gli occhi.
«Dobbiamo parlare…» cominciò lui solenne, una volta sicuro di avere la sua attenzione.
«Sembra più una confessione di omicidio»
«Sto cercando di essere serio!»
«Appunto!»
«Tu non capisci!»
«Io capisco, eccome!» urlò Emma e per un attimo, ringraziò che il Pret fosse quasi del tutto vuoto, altrimenti avrebbero dato spettacolo.
Killian alzò gli occhi al cielo e incrociò le braccia.
«Allora, ricominciamo…»
«Killian» lo interruppe «Non è una cosa che puoi controllare con… che ne so, le leggi della matematica, come fai con i tuoi progetti! Quindi per favore, smettila di essere così… così… matematico!»
Razionale. Era quella la parola che stava cercando… Maledizione!
«Non sono matematico!»
«Sì che lo sei! Sei convinto che puoi pianificare ogni cosa, meticolosamente, inserirla in una specie di schema nella tua testa e poi arrivare ad una conclusione… Ma qui, in questo caso, il cervello non centra…»
L’uomo alzò un sopracciglio.
«Vuoi farmi credere che centra il cuore invece?»
Emma abbassò gli occhi. Touché.
«Killian…» riprovò.
«Senti Emma, lo so che per te è stato uno sbaglio e che vorresti ritornare indietro ma per me…»
«Cosa?» sbottò Emma, spalancando gli occhi. Per poco, non mollò la presa sul panino.
«Killian sei uno stupido! Come puoi anche solo pensare una cosa del genere?»
«Non lo so! Ma se non me lo dici tu, io non so che pensare, non so cosa ti passa per la testa!» urlò allora l’uomo.
Emma si fermò un secondo a squadrarlo, il cuore le batteva all’impazzata nel petto. Si rendeva conto di essere sull’orlo di un precipizio. Si era fermata lì per troppo tempo. Questa volta, era arrivato il momento di saltare.
Abbassò gli occhi, per farsi coraggio, poi li rialzò.
«Ho paura Killian»
Tre parole. Tre parole, così banali, eppure così difficili da pronunciare.
Emma sentì il cuore alleggerirsi. Da anni, non aveva mai ammesso così apertamente ciò che provava.
All’epoca, temeva i suoi sentimenti e continuava a temerli anche adesso.
«Dodici anni fa, avevo paura e sono scappata. Adesso, sei ritornato e tutto quello che avevo racchiuso, così difficilmente, da qualche parte nel mio cuore è esploso e sembra quasi che non ti avessi mai lasciato…»
«Stai dicendo che…?!»
«Sto dicendo che ho paura e continuerò ad averne perché mi conosci, sai quanto sia pessimista, mi aspetto sempre il peggio dalle persone, perché è solo ciò che mi hanno dato…»
«Non me ne andrò, Emma, te l’ho già detto…»
«Lo so, lo so. Mi dispiace, è più forte di me…»
«Quello che sto cercando di dirti, fallendo miseramente, perché sei tu quello bravo con le parole, non io… è che non so cosa siamo, né cosa diventeremo ma so che, qualsiasi cosa accada tra di noi da oggi in poi, non voglio allontanarti mai più. Ti chiedo solo di essere paziente…»
Emma abbassò lo sguardo. Si sentiva andare a fuoco. Non aveva il coraggio neanche di guardarlo in faccia.
Non lo avrebbe biasimato se si fosse alzato, di punto in bianco, e l’avrebbe lasciata lì, con il suo panino, la lattuga e i pomodori.
Ma non lo fece.
Posò la mano sulla sua.
«Va bene…» mormorò.
Incrociò le dita alle sue e ad Emma sembrò tanto una promessa.
«…ma voglio che anche tu mi prometta una cosa, Swan: non importa quanta paura avrai, io forse, ne avrò più di te… o quanti dubbi ti attanaglieranno… non voglio perderti, non di nuovo. Ho perso mia madre, mio padre, mio fratello, Milah… non posso perdere anche te…»
Emma aveva le lacrime agli occhi.
«Mi dispiace…»
«Lo so, davvero. Ma non farlo mai più… affronteremo tutto questo, insieme, giorno per giorno. Non scapperemo, perché è da codardi e noi non lo siamo. Promettimelo! Se questa cosa, non funzionerà per un motivo o per l’altro, resteremo amici, non scompariremo dalla vita dell’altro… promettimelo!»
La donna sentiva l’urgenza nel tono della sua voce, il bisogno di certezze, prima di lanciarsi in quel tunnel oscuro che avevano deciso di percorrere.
«Te lo prometto»
E questa volta fu davvero una promessa.
 
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…ma che fretta hai di capire cosa siamo noi? 

Inventerai l'equilibrio che cerco, 
oppure lo troverai in ogni dubbio che sei. 
ma che fretta hai? 
Tu sai già che cosa siamo noi.

(Marco Mengoni, “Non me ne accorgo”)
https://www.youtube.com/watch?v=v0KT6qLNDZ0
 
*William Shakespeare “Cimbelino”
**Questo pezzo si rifà ad una scena del film “Shrek 2”. Il link https://www.youtube.com/watch?v=M9fCSk9Ov5Y, minuto 03.05 per chi non lo conoscesse! ;)
 
 
 
 













Buonasera a tutti! O buonanotte, come preferite! xD
Ebbene sì, sono tornata!!
(Della serie “sembrava impossibile, ma ce l’abbiamo fatta!”)
Questo capitolo è stato un po’ difficile da scrivere in realtà e non so nemmeno cosa è uscito da sotto… spero che tutto sommato vi piaccia!
Emma e Killian hanno deciso di buttarsi in questa nuova “Cosa” come l’ha giustamente definita Killian e staremo a vedere se funzionerà o meno!!
L’operazione di David è riuscita e Mary Margaret ha finalmente accettato i suoi sentimenti!! :P
(A questo proposito vorrei lasciarvi il link della canzone che ha ispirato il loro momento
https://www.youtube.com/watch?v=zsmUOdmm02A)
E alla fine, ma non per importanza, la new entry di cui vi parlavo, Robin Hood!! Povero, neanche lui se la passa così bene… :\
Ah e ho messo anche gli orari, così, giusto per aumentare la suspense!!
Niente, come al solito vorrei ringraziarvi per tutto il sostegno che mi date, perché continuate a leggere la storia, inserirla nelle varie categorie e lasciarmi i vostri pareri.
A questo proposito non posso non ringraziare le sette meravigliose ragazze che hanno recensito lo scorso capitolo (e anche tutti gli altri :P)! Grazie Persefone, Arya, Erin, Lely, Em, Chipped Cup e Pandina! E grazie anche ad Alexies perché grazie al tuo messaggio, hai “sollecitato” i tempi della stesura del capitolo!
Grazie grazie grazie!!
Se sono arrivata a questo dodicesimo capitolo è anche e soprattutto merito vostro!!
Adesso vi lascio!! Spero davvero che vi sia piaciuto anche questo capitolo e non vedo l’ora di leggere i vostri pareri!!
Un bacione ad ognuno di voi,
Kerri :*
 
 
 
PS: non so quando arriverà il prossimo capitolo perché parto e non avrò modo di scrivere, purtroppo! :(
PPS: in un’intervista Jen ha detto che se non fosse divenuta un’attrice, sarebbe diventata un’arredatrice di interni… coincidenze?! Io non credo xD

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Capitolo 14
*** Outstanding Matters ***


13. Outstanding matters



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Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.
-Primo Levi
 
 
Dopo aver varcato la soglia del suo ufficio, Regina si lasciò cadere sulla poltrona di pelle nera dietro la scrivania, uno dei suoi ultimi acquisti. Aveva infatti voluto rimodernare quel luogo, cosicché perdesse quel profumo e quell’atmosfera che associava da sempre a sua madre e alla sua sala delle torture.
Chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie.
Da quando aveva perso il controllo della sua vita?
Quel pomeriggio, avrebbe dovuto assistere alla recita di Henry e niente, neanche il nuovo fidanzato di Emma, le avrebbe impedito di parteciparvi. Quindi si era recata in ufficio di buon’ora, per portarsi avanti il lavoro.
Ella, la sua segretaria, le portò qualche modulo da firmare. La scuola, purtroppo, stava perdendo parecchi sponsor da quando Cora era in ospedale, e la giovane Mills doveva trovarne a tutti i costi degli altri. Non c’era pericolo di chiusura, ma senza quei soldi le borse di studio sarebbero state molte di meno, così come le possibilità che giovani di talento potessero realizzare i propri sogni.
In più, il sindaco in persona aveva espressamente chiesto alla scuola di organizzare uno spettacolo, in onore dei festeggiamenti natalizi. Regina sbuffò. Quel ciccione non avrebbe potuto farsi gli affari suoi?!
Adesso avrebbe dovuto scegliere il tema, chiamare il teatro, occuparsi delle sceneggiature, delle scenografie, delle luci, selezionare gli allievi assieme agli insegnanti e tutto questo le sarebbe costato tempo, quanto denaro. Denaro che, ultimamente, scarseggiava.
E in tutto questo, doveva conciliare la preoccupazione per sua madre, Emma e il suo nuovo spasimante (da cui doveva tenersi alla larga il più possibile) e Robin e il piccolo Roland.
Da quel giorno al bar, li aveva visti soltanto una volta. Robin aveva sempre quello sguardo triste e rassegnato che gli aveva visto dipinto in volto l’ultima volta, sguardo che purtroppo andava sempre più riflettendosi in quello di suo figlio.
Regina avrebbe tanto voluto fare qualcosa. La sua storia le era rimasta impressa, così improbabile eppure così vera. Perché una così brava persona, era così sfortunata?! Chi decideva tutto questo?! Era sicuramente molto più facile attribuire la colpa a qualcuno o a qualcosa, piuttosto che pensare che tutto fosse dovuto al caso.
In preda ai suoi pensieri, la donna si ridestò, svegliata da insistenti colpi alla porta.
«Avanti» rispose assente, immaginando già qualche altro problema a cui avrebbe dovuto far fronte.
La porta si aprì ed Ella fece di nuovo il suo ingresso.
«Signorina Mills, c’è qualcuno che dice di voler parlare con lei…»
«Sbaglio o oggi non avevo nessun appuntamento?!» chiese la donna, continuando a scorrere con gli occhi i fogli che la sua segretaria, poco prima, le aveva portato.
«Infatti… so che non dovrei neanche dirglielo, ma…»
Regina alzò lo sguardo, duro e autoritario, tanto da intimidire chiunque.
«Se non ha un appuntamento, dica a questa persona di prenderne uno! – disse, scandendo bene le parole- Ho molto da fare al momento e di certo non posso perdere la testa con chiunque!»
«È ciò che gli ho detto anche io… ma l’uomo ha insistito così tanto che… sembra importante, ecco…»
La donna sbuffò. Certo, per quella piccola svampita anche una cartolina dei suoi lontani prozii italiani era importante.
«Credi che mi diverta?! Che stia in quest’ufficio senza fare niente?! Adesso esci di qui e dì a chiunque ci sia dall’altra parte che non ho tempo, che sono impegnata… digli quello che vuoi ma esci di qui!» disse, prima di tuffarsi di nuovo sui suoi fogli.
Ella annuì, abbassando il capo. Si voltò ma la porta si spalancò all’improvviso. La donna balzò all’indietro, spaventata.
«C-Come avete fatto ad entrare?!» chiese.
Regina alzò gli occhi, pronta a urlare di persona a chiunque si fosse introdotto nel suo ufficio senza permesso, né appuntamento.
Ma quello che vide, le portò via ogni parola.
«Robin» riuscì soltanto a mormorare.
 
 
«Sei sicuro?» chiese ancora una volta la donna, preoccupata.
«Sì, Mary Margaret posso farcela, tranquilla!» ripeté l’uomo per la duecentesima volta.
David era finalmente uscito dall’ospedale dopo aver passato una lunga settimana sotto osservazione. Mary Margaret non l’aveva lasciato solo neanche per un momento. In quelle interminabili ore, avevano parlato parecchio e avevano scoperto che avevano parecchie cose in comune. L’amore incondizionato per i Beatles e per la pizza ai peperoni, per i telefilm polizieschi e per tutto ciò che fosse piccolo e peloso. Anche se aveva rischiato di investirne uno, David amava i cani e gli animali in generale, tant’è che, per un periodo, aveva persino lavorato in un canile.
Mary Margaret gli aveva raccontato perfino del suo sogno di diventare medico e David non poté non affermare che sarebbe stata perfetta in quel ruolo.
Si conobbero e la donna arrivò addirittura a ridere alle battute idiote del giovane, stupendo entrambi. Certo, l’ospedale non è esattamente il luogo migliore per cominciare a conoscere una persona, però per loro, fu un’eccezione.
Quel giorno, dopo che l’uomo era stato finalmente dimesso, Mary Margaret l’aveva accompagnato a casa. A piedi, visto che la sua auto era ancora dal meccanico.
«Se vuoi, posso restare…» gli disse, fissandolo negli occhi, una volta arrivati al portone dell’appartamento di David.
L’uomo alzò le spalle. Gli avrebbe fatto piacere, davvero, ma non poteva obbligarla.
«Mary Margaret non devi…»
«Taci!» rispose quella, spingendo la porta e dirigendosi verso l’ascensore.
«Come vuoi…» disse David, non riuscendo ad evitare che un sorriso gli si dipingesse in volto.
 
 
«Cosa ci fai qui? È successo qualcosa?» chiese Regina preoccupata, invitando l’uomo a prendere posto di fronte a sé.
«Mi dispiace essermi introdotto così… Avrei dovuto chiamarti, avvisarti, mandarti un messaggio…»
«Robin – lo richiamò la donna – va tutto bene… Dimmi, cosa posso fare per te? Roland sta bene?»
L’uomo si portò le mani sugli occhi.
«È proprio per lui che sono qui…» mormorò.
«Spiegati meglio» rispose la donna, incrociando le mani davanti a sé, come faceva sempre quando riceveva degli alunni.
«Tra poco ho un colloquio di lavoro molto importante. Il lavoro mi serve, non possiamo più vivere soltanto con i soldi che mi invia lo Stato per il Servizio Militare…»
«Non sapevo che…»
«Sono stato congedato con onore…» spiegò l’uomo, anticipando le domande di Regina.
«Il problema è che Roland è all’asilo e non so come fare… Killian è con Emma, non so dove, e non mi risponde al telefono; David è appena uscito dall’ospedale e…»
«Vuoi che vada a prendere io il bambino dall’asilo?!» si offrì la donna, capendo al volo.
«Davvero lo faresti?!»
«Certo! Dimmi ora e indirizzo…» disse, porgendogli dei foglietti colorati e una penna. L’uomo scarabocchiò qualcosa in fretta e furia, fissando l’orologio ogni trenta secondi.
«Grazie Regina! Non so come potrò mai sdebitarmi!»
«Non ti preoccupare… dopotutto è questo che fanno gli amici no?» rispose la donna, stupendo perfino lei stessa per le sue parole.
«Grazie davvero! E scusami ancora!» disse afferrandole la mano e baciandone il dorso, prima di voltarsi e correre verso l’uscita.
La donna restò imbambolata per alcuni secondi, fissando ad intermittenza prima la mano e poi il punto in cui Robin era sparito.
Ma che diavolo?!
 
 
La vita è strana, pensava mentre si incamminava verso l’ingresso.
Chi l’avrebbe mai immaginato, un mese fa, che Killian Jones avrebbe varcato, quel giorno, la porta di una scuola elementare per andare a vedere la recita del figlio della sua ex amica, ora sua… ragazza?!
Era davvero così che avrebbe dovuto descrivere Emma? Come la sua “ragazza”?
No, Emma era molto di più. Quel nome le andava troppo stretto.
Emma era la sua migliore amica, da sempre; era un temporale estivo in pieno agosto e il sapore del cioccolato; era il sorriso di un bambino, il sole sulla pelle, il profumo della pioggia e quello del caffè.
“Ragazza” era un termine troppo vago per descrivere Emma Swan, decise Killian, spingendo con forza la porta della scuola.
Si incamminò per i corridoi vuoti, sconosciuti e allo stesso tempo così simili a quelli che anche lui, parecchio tempo prima, percorreva assieme a lei.
Di colpo, una strana consapevolezza lo avvolse.
In ogni suo ricordo, dal più banale, al più importante, in ogni suo traguardo, lei c’era sempre stata.
Prima che partisse, sì, ma anche dopo.
Lei c’era stata quando suo padre venne arrestato, quando si sbucciò un ginocchio perché voleva provare a tutti i costi a pattinare.
C’era stata anche quando aveva stretto tra le mani il diploma, quando aveva visto Milah per la prima volta, seduta sull’erba di fronte all’università e quando le aveva detto addio. Ricordò quel fantasma accanto al letto della sua amata, gli occhi tristi e i boccoli biondi.
Emma Swan e il ricordo che aveva di lei, non l’avevano mai abbandonato.
Con uno sguardo nuovo sul mondo, si accorse della piccola freccia appesa al muro che indicava la strada per la palestra. Bene, almeno avrebbe smesso di vagare per la scuola…
Percorse il corridoio, sotto lo sguardo di genitori e soprattutto mamme, che sembravano apprezzare la sua persona.
Non poté fare a meno di sorridere, sapendo l’effetto che di solito faceva alle donne.
E soprattutto, ascoltando la voce di Emma che gli intimava a continuare a camminare, altrimenti l’avrebbe preso a pugni.
Arrivò finalmente in palestra e per un secondo, si chiese come avrebbe fatto a trovare la sua Swan in mezzo a così tanta gente.
Fu un secondo.
Non appena finì di pensarlo, scorse una valanga di capelli biondi, esattamente in seconda fila, china su di un piccolo bambino.
Eccola.
Dopotutto, si sarebbero ritrovati sempre no?
Si avviò verso di lei, le mani nelle tasche della giacca di pelle, un sorriso stampato in volto.
«Ehilà ragazzino, sei pronto?»
Il bambino alzò gli occhi verso di lui, aprì le labbra in un sorriso.
«Killian!» saltellò felice.
Anche Emma alzò lo sguardo verso di lui, un po’ scocciato. Sembrava gli stesse urlando “Finalmente sei qui!”
«Finalmente sei qui!»
Ecco appunto.
«Sì, non riuscivo a trovare la palestra…» mormorò lui, grattandosi la nuca.
La donna valutò se credergli o meno, ma nell’attesa, gli si accostò prendendogli la mano.
Un brivido percorse il corpo di Killian a quel contatto, inatteso e allo stesso tempo così giusto.
«Henry, non avevi detto che ci saranno i pirati? Perché sei vestito… insomma…»
«Come un normale ragazzino del ventunesimo secolo?!» lo aiutò Emma, sorridendogli.
«Esatto, grazie!»
«Lo scoprirai presto!» disse il bambino, sfoderando quel sorriso furbo che, qualche volta, associava ad Emma.
Poco dopo, la maestra chiamò a raccolta tutti i piccoli attori. Henry, euforico e molto emozionato, cominciò ad agitarsi.
«Tranquillo, andrà bene! Sai tutto a memoria, sarai bravissimo!»
«Tua madre ha ragione!»
Henry prese due profondi respiri ad occhi chiusi.
«Avete ragione, posso farcela!»
«Certo che puoi!» esclamò Killian, un po’ troppo ad alta voce.
«Buona fortuna!» gridarono in coro i due, mentre il bambino correva dietro le quinte.
 
 
Regina si ritrovò a fissare il bigliettino più e più volte quella mattinata. Perché la sfortuna le si era appiccicata addosso? Eppure non aveva cambiato profumo, né shampoo negli ultimi giorni.
Sospirò, appoggiandosi di peso allo schienale della poltrona girevole.
Le lezioni del piccolo Roland finivano esattamente allo stesso orario dell’inizio della recita di Henry.
Avrebbe dovuto scegliere.
Ci teneva così tanto a vedere il grande debutto del suo figlioccio, ma allo stesso tempo, aveva dato la sua parola a Robin.
Valutò l’ipotesi di mandare Ella a prendere il figlio del suo amico ma con ogni probabilità, le maestre avrebbero opposto resistenza e quella ragazzina incapace e senza spina dorsale sarebbe tornata a casa a mani vuote. 
Sospirò, afferrando il telefono e cercando di comporre un messaggio di scuse per il piccolo Henry.
Dio, quanto si sentiva in colpa…
Al diavolo! pensò scaraventando il telefono sulla scrivania.
Avrebbe fatto entrambe le cose!
Sarebbe arrivata a spettacolo già cominciato, con un ospite in più, ma sarebbe arrivata! A costo di passare con tutti i semafori rossi.
 
 
«Che stai facendo?!» chiese l’uomo, sbirciando incuriosito dalla spalla di Emma.
«Mando un messaggio a Regina… Avrebbe dovuto essere già qui… Lo spettacolo sta per cominciare!»
Emma sbatté nervosamente una, due, tre volte il telefono al bracciolo della sedia.
«Maledizione!» esclamò.
«Swan, sta’ calma… vedrai che arriverà…» la consolò Killian, cercando di sfilarle dalle mani ciò che restava del suo telefono.
«È bello averti qui…» mormorò Emma, una volta che le luci si spensero e la maestra di Henry saliva sul palco per presentare lo spettacolo.
Killian distolse lo sguardo dalla scena e lo puntò in quello di Emma, sorridendo.
«…Non fare quella faccia!»
«Quale faccia?» chiese l’uomo, a bassa voce.
«Quella da “Sì, anche lei è caduta ai miei piedi! Sono un portento!”» borbottò la donna.
Killian trattenne a stento una risata.
«Io non faccio nessuna faccia! E poi è la verità…» disse, accennando alle loro mani intrecciate. Da quel giorno al Fast-Food, non si erano mai più staccate. Si erano abituate l’una all’altra e non importava quanto caldo o freddo fosse il tempo, restavano sempre così, incapaci di staccarsi.
«Zitto che comincia!» rispose la donna, dandogli un leggero buffetto sulla spalla.
Killian rise sotto i baffi e si concentrò sullo spettacolo.
 
 
«Non ci credo!» mormorò l’uomo, steso sul divano, cercando di reprimere un sorriso.
Mary Margaret si asciugò il sudore, sbuffando.
«Ti dico che sono un’ottima cuoca!» ripeté, cercando di ignorare il caos che regnava in cucina.
«Non lo metto in dubbio…» mormorò l’uomo, calibrando le parole. Sapeva bene quanto la donna fosse irascibile, in certe situazioni.
«…Ma è da un’ora che aspetto la mia zuppa e, non fraintendermi, sembra buonissima, ma io l’avrei gradita sicuramente di più del tappeto e del pavimento…»
«M-mi è caduta…» provò a scusarsi, afferrando uno strofinaccio e asciugando il brodo sparso per terra.
«Che pasticciona! Sono un disastro! Mi dispiace, mi dispiace così tanto!» mormorò.
David si alzò, a fatica, e si diresse verso di lei, chiudendola in un abbraccio.
«Shh… non ti preoccupare! So che non l’hai fatto apposta!» la consolò.
«Grazie che non l’ho fatto apposta! Mi ero così impegnata e sembrava buonissima e di norma, la mia zuppa si beve, di certo non la si usa come concime per le piante…» borbottò la donna, lasciandosi però abbracciare.
«Sei stanca anche tu! Stenditi sul divano e chiudi gli occhi…»
David la trascinò dove, fino a qualche minuto prima, era steso lui. Le sistemò i cuscini e, con uno sguardo incoraggiante, le rimboccò le coperte.
«E tu dove dormi?» mormorò la donna, reprimendo a stento uno sbadiglio.
«Prima devo fare una cosa…» rispose l’uomo.
«Mmm… Ok…»
«Vuoi il bacio della buonanotte?!» chiese divertito David, ma Mary Margaret si era già addormentata.
Così, con gli occhi chiusi, era ancora più bella. La pelle diafana, le labbra rosse, i capelli sbarazzini che le ricadevano sul viso.
David sorrise, guardandosi attorno. Nel lavello c’erano quasi tutte le pentole e le padelle che possedeva, alcune di cui non ricordava neanche l’esistenza. Dappertutto erano disseminati cucchiai, coltelli e forchette, non riusciva a capire se puliti o meno. La pastina a forma di stelle era sparsa su tutto il pavimento e nell’aria aleggiava una puzza terribile, se di pollo o di pesce non riusciva a dirlo.
Si incamminò verso il tavolino all’entrata, cercando di scansare quanti più mestoli e stelline possibili.
«Pronto?! Parlo con il Belly Burger?! Bene… vorrei ordinare una zuppa e due hot dog…»
 
 
Emma continuava a fissare il posto vuoto accanto a sé. Dove diavolo era la sua migliore amica?! Sapeva che non avrebbe mai rinunciato ad una recita di Henry per niente al mondo. Lei e suo figlio erano sempre stati molto legati e Emma riusciva benissimo a immaginare quanto il piccolo avesse stressato anche lei per quella rappresentazione. Non poteva perdersela!
Aveva paura che le fosse successo qualcosa, qualcosa di grave.
E se Cora…?
Oh, non riusciva neanche a pensarlo.
Scacciò di colpo quei brutti pensieri.
Lanciò uno sguardo alla sua borsa, che occupava da tempo il posto per la sua amica.
Pensa positivo. Pensa positivo.
Si concentrò sul profilo dell’uomo alla sua sinistra. I capelli neri e perfetti, la fronte, gli occhi luminosi e il naso dritto, le labbra aperte in un sorriso.
Era in momenti come quello che Emma si rendeva conto di quanto Killian Jones le fosse mancato. All’inizio, era stato così difficile andare avanti senza di lui, senza le sue risate e i suoi incoraggiamenti. Pian piano, si era però abituata a quell’assenza forzata. Era un fastidio, leggero, alla bocca dello stomaco o forse nel cuore, un fastidio che era diventato ormai parte di lei. Adesso, riaverlo lì, le infondeva uno strano senso di sicurezza e protezione.
Quasi richiamato dagli occhi verdi della donna, Killian distolse lo sguardo dalla rappresentazione e lo puntò in quello di Emma.
Alzò un sopracciglio, preoccupato.
Tutto bene? Sembrava chiedere ed Emma si stupì di quanto fosse in grado di decifrare il suo sguardo, come tanti anni prima.
Lei annuì e sorrise brevemente, ritornando a fissare suo figlio che cercava di combattere Peter Pan.
 
 
«Henry sei stato bravissimo!» esclamò la giovane, correndo incontro al bambino che, ancora un po’ sudato, cercava di farsi largo tra tutte le altre persone.
«Grazie! È tutto merito delle prove allo specchio!» esclamò il piccolo, stringendo le braccia attorno al collo della madre.
Killian, poco più dietro, cercava di raggiungere la donna e il bambino, che si erano appartati ad un angolino della palestra.
«…Killian?»
«Sono qui!» disse, facendo un cenno di scuse al signore che aveva appena urtato per potersi sbracciare e farsi notare. Finalmente, riuscì a raggiungerli e anche lui si complimentò con il bambino.
«Wow Henry! Sono davvero stupito! E la storia?! Insomma, non avrei mai pensato che Peter Pan potesse essere così malvagio!*» esclamò Killian.
«Sì, be’ è una nuova versione che abbiamo inventato con la maestra…»  
«Siete stati bravissimi! Tutti quanti!» si complimentò ancora.
Il ragazzino arrossì ed Emma gli scompigliò i capelli.
«Tutto merito delle prove allo specchio!» lo imitò.
«Prove allo specchio?!» chiese l’uomo curioso.
«Sì, Regina ha detto che così avrei potuto controllare la mimica facciale…»
Emma rise.
«Sono colpita! Sai cos’è la mimica facciale?!»
«Sono o non sono un attore?!» rise il bambino. Poi ritornò subito serio.
«A proposito, dov’è Regina?» chiese, guardandosi attorno. Emma e Killian si scambiarono uno sguardo, poi la donna sospirò.
«Henry purtroppo…»
Ma il bambino non l’ascoltava più. Il suo viso si era aperto in un sorriso e aveva cominciato a correre verso una direzione imprecisata, dall’altra parte della stanza.
«Ragazzino, aspetta!» esclamò Emma, prima di corrergli dietro.
 
 
«Robin Hood, dico bene? Che nome curioso!» esclamò, prima di far cenno all’uomo di accomodarsi.
Robin annuì e ubbidì. Si sentiva un po’ a disagio, si chiese se avesse fatto bene a indossare quella camicia bianca. Adesso che ricordava, aveva letto da qualche parte che ad un colloquio di lavoro è meglio vestirsi di nero o di blu.
Maledizione!
Si asciugò il sudore delle mani sui pantaloni e cercò di apparire più sicuro di quanto non fosse in realtà.
«Ho letto il suo curriculum e sembra avere tutti i requisiti necessari…» disse l’uomo, sfogliando una cartellina che, quasi sicuramente, si trattava dei documenti in questione.
«Grazie signore io…»
«Ma sa com’è, mi piace controllare di persona!»
«Certo, lo capisco…» rispose, nervoso.
Robin fissò l’uomo di fronte a sé esaminare i fogli, in silenzio. Concesse al suo cervello e alle sue membra di rilassarsi qualche secondo.
«Bene!» esclamò quello improvvisamente, alzando lo sguardo e sorridendo divertito, battendo le mani. Robin saltò sulla sedia.
«Suppongo che l’unico modo per essere totalmente certi è concederle un giorno di prova… che ne dice?»
«Sì io…»
«Domani sera. Apriamo alle otto…»
«Grazie Mr Hatter! Ci sarò!»
«Oh caro, se tutto andrà bene, come credo andrà, puoi chiamarmi Sebastian!»
«Va bene… A domani, Sebastian! E grazie!» sorrise l’uomo, prima di alzarsi e stringere la mano al suo nuovo datore di lavoro.
«Non ringrazi me, signor Hood! Non ringrazi me!» disse quello, accompagnandolo alla porta. Un ghigno divertito dipinto in volto.
 
 
«Regina!» mormorò Emma, aprendosi in un sorriso.
La donna, sentendosi chiamare, alzò lo sguardo.
Attaccato alla sua vita come un koala c’era Henry e da dietro le sue gambe, spuntava una zazzera di capelli marroni e due grandi occhioni neri.
Killian arrivò al suo fianco. Di nuovo, quella strana sensazione di déjà-vu si impossessò di lui, ma non vi badò.
«Roland?!» domandò stupito, cercando di sbirciare dietro le spalle della donna.
«Zio Kill!» esclamò il bambino, correndogli incontro e buttandosi tra le sue braccia. Killian, incredulo, lo prese al volo e lo fece volteggiare in aria.
«Che ci fai qui, piccolo? Dov’è tuo padre?» chiese, scompigliandogli i capelli.
«’Gina è venuta a prendermi!» disse, indicando la donna dietro di lui.
«È il figlio di Robin» disse la donna, intenerita, rispondendo alla muta domanda di Emma.
«Mi ha chiesto di andare a prenderlo all’asilo… ecco perché ho fatto tardi…» rispose, posando lo sguardo su Henry, quasi a volersi scusare. Il ragazzino annuì.
«Ma, nonostante quelle stupide maestre incapaci mi abbiano fatto perdere tempo, sono riuscita a vederti Henry e sei stato bravissimo!»
«Grazie!»
«Visto?! Che ti avevo detto, le prove allo specchio hanno dato il loro frutto!»
Emma rise di fronte alla riunione di quella che, da un po’, considerava la sua famiglia. Henry, Regina e… sì, anche Killian. Lui era stato la sua famiglia, prima di tutti loro. Famiglia che non era stata in grado di preservare.
«Che ne dite se andassimo a mangiare un boccone adesso?» propose la giovane donna dai lunghi capelli biondi.
Regina guardò prima Henry e poi Roland, ancora in braccio a Killian.
«Mi dispiace Swan! Ma io devo accompagnare il piccolo Roland da suo padre…»
«Ma io voglio restare con zio Kill!» si lamentò il piccolo, stringendo la presa attorno al collo del povero uomo.
«Non sapevo che, col tuo fascino, riuscissi a conquistare anche i bambini!» disse Emma, prendendolo in giro.
Killian sorrise.
«I bambini sì, e non sai quante mamme…! Ahi!» esclamò, quando Emma gli tirò un pugno sul braccio. Adorava quando la sua Swan, diventava gelosa.
«Se vuoi, posso riaccompagnare io Roland a casa…» propose l’uomo, rivolgendosi a Regina.
«Grazie ma Robin verrà a prenderlo dal mio ufficio tra un’ora… Sarà per un’altra volta…» rispose quella, allungando le braccia per far sì che il bimbo vi si tuffasse.
«Possiamo chiamarlo e avvisarlo…» mormorò l’uomo, neanche troppo convinto.
«È ad un colloquio di lavoro… non vorrai disturbarlo proprio ora!»
«No, hai ragione…»
Killian le porse il fagottino che aveva tra le braccia.
«Mi raccomando Rolly, fai il bravo e non far arrabbiare Regina!» mormorò Killian, guardando il bimbo dritto negli occhi.
«Va bene, zio Kill! Però tu e zio Dave venite a trovarmi un giorno?!»
«Certo! Non appena zio Dave si sarà rimesso, veniamo a trovarti! Tu prepara tu-sai-cosa!» sussurrò divertito.
«Okey!» sorrise il bimbo e Killian gli fece l’occhiolino, prima di salutarlo.
«Ci sentiamo presto! – mormorò Regina ad Emma – Ciao Henry!» disse poi, rivolgendosi al ragazzino.
Quando non riuscì più a distinguere le sagome di Regina e Roland, Henry si voltò verso l’uomo al suo fianco.
«Cos’è che deve preparare?» chiese curioso, gli occhi lampeggianti.
Killian sorrise e si grattò la nuca.
«La vasca da bagno!» rise.
Emma ed Henry alzarono il sopracciglio destro contemporaneamente e Killian l’avrebbe trovata una cosa alquanto inquietante se non fosse stato troppo impegnato a ridere.
«Io e David siamo gli unici esseri viventi che riescono a convincere Roland a farsi un bagno!»
«E come fate?!»
«Mi dispiace, amico! È un segreto! Neanche suo padre lo sa!» disse, prima di scoppiare a ridere.
Henry alzò gli occhi al cielo, divertito.
«Sì, certo! Nel frattempo che voi vi confidate i vostri segreti, vado a salutare Grace! E vi consiglio di scegliere anche un posto dove andare a mangiare! Sto morendo di fame!» disse, prima di scomparire tra la folla.
Killian sorrise, immaginandosi Roland che costringeva suo padre a riempire la vasca da bagno tutte le sere, finché lui e David non si fossero fatti vivi.
«Che c’è?» chiese.
Emma, davanti a lui, aveva le braccia incrociate e ticchettava sul pavimento con il piede.
«Le mamme dei bambini eh?!»
«Oh andiamo Swan! Non essere gelosa!» rispose quello, alzando le mani in segno di resa.
«Ti conviene dirmi cosa fate a quel povero bambino per convincerlo a lavarsi, prima che ti prenda per le orecchie e ti presenti alle “mamme” …»
Killian rise.
«Per carità! Non voglio risvegliare il can che dorme! Mi piegherò al tuo volere, Swan! A patto che stasera, possa scegliere io dove andare a mangiare…»
Emma lo guardò, socchiudendo gli occhi e valutando la sua offerta. Ma se suo figlio non mancava di curiosità, sicuramente l’aveva ereditata da lei.
«Andata!» acconsentì.
«Bene! Però preparati, dovrai giurare sulla tua stessa vita! Non devi mai, mai e dico mai svelare quello che sto per dirti! Soprattutto a Robin!»
«Che scemo! Avanti parla!»
«Pronta?!» Killian si fermò per creare la giusta suspense. Un ghigno divertito dipinto in volto.
«Affondiamo le paperelle!» esclamò, pronto già a schivare un altro pugno della sua bella fidanzata.
 
 
Prima di tornare alla New York School of Arts, Regina e Roland si fermarono ad una gelateria lì vicino.
Roland, con i suoi occhietti vispi e le fossette, aveva convinto la donna a comprargli un gelato così facilmente, che adesso quasi se ne stupiva. Era davvero così malleabile con i bambini?
Il pezzo di ghiaccio che era dentro di lei, si scioglieva quasi per magia, se nelle vicinanze c’era un bimbo.
Lei, che era da sempre cresciuta all’ombra di sua madre, temendo i suoi giudizi, temendo di non essere abbastanza, covava da qualche parte un innato senso materno.
Il colmo!
Ma forse, era proprio per questo. Aveva sempre giurato a se stessa che, se un giorno fosse diventata madre, non avrebbe commesso gli stessi errori di Cora.
Perché quella donna, dai capelli sempre perfetti e dai modi autoritari, era stata tutto nella sua vita, una commessa, una ballerina, una donna in carriera, una dittatrice, un preside, tutto, fuorché una madre.
Nonostante questo, però, Regina non poteva fare a meno di comportarsi come sua figlia.
«’Gina non ne voglio più!»
La voce innocente di Roland la riportò alla realtà. Fissò il bambino, il viso tutto impiastricciato di gelato, e la manina protesa verso di lei che stringeva un cono, completamente vuoto.
«Roland hai mangiato tutto il gelato! Non vuoi il cono, non ti piace?»
«No no» disse, scuotendo la testa.
Regina sorrise, controllò l’ora e verificò che avevano ancora qualche minuto prima di mettersi in macchina e tornare al suo ufficio.
«Guarda qui, adesso ti faccio vedere una cosa…» prese il bimbo per mano e ritornò nella gelateria.
Chiese alla commessa se, gentilmente, disse proprio così “gentilmente” e Regina Mills non dice poi così spesso “gentilmente”; ad ogni modo, se gentilmente potesse mettere un po’ di panna dentro il cono vuoto.
La donna annuì e fece come lei le aveva chiesto.
«Ecco qui Roland! Adesso mangia tutto insieme! Vedrai che buono!» sorrise ancora, porgendo al piccolo il gelato.
 
 
Alla fine, dopo diverse discussioni, Killian, Henry ed Emma avevano deciso di fermarsi a mangiare sempre al solito posto, a qualche isolato da casa della donna.
Killian aveva proposto un ristorante ma Henry non era stato molto d’accordo.
«Non voglio essere il terzo incomodo in una cena a lume di candela tra voi due!» disse puntando il dito, prima verso sua madre e poi verso Killian.
Emma era diventata paonazza, Killian si era limitato a sorridere e grattarsi la nuca.
«Andiamo al Mc Donald’s?!»
«Scordatelo Henry!»
Il bambino sbuffò. Tanto, lo sapeva, sarebbero comunque finiti a mangiare in quella piccola tavola calda, sotto casa, non importava quanti ristoranti, pub e fast food esistessero a New York.
E infatti, così fu.
Alice, la gentile commessa che ormai li conosceva da una vita (da quando Emma ed Henry si erano trasferiti in quell’appartamento), prese le loro ordinazioni, sempre le stesse e si congedò con un sorriso.
«Menomale che avrei dovuto scegliere io!» si lamentò Killian, chiudendo il menu e porgendolo alla donna.
«Infatti hai scelto tu!» sorrise Emma, afferrando il bicchiere di Cola di Henry e assaggiandone un po’.
«Mamma quella è mia!» esclamò il bambino, riprendendosi la sua bibita.
«Certo, dopo che voi due avete bocciato tutte le altre proposte! Alla fine, per disperazione, mi sono arreso!»
«Poverino!» lo prese in giro la donna, carezzandogli un braccio.
«Ma se tu volevi portarci in un ristorante di pesce!» rise Henry, prendendo dalla borsa di sua madre il suo Nintendo e cominciando a giocare.
«Non è un ristorante di pesce! Puoi ordinare tutto ciò che vuoi!» specificò Killian, sbirciando ogni tanto verso la cucina. Non voleva ammetterlo, ma aveva una gran fame!
«Be’ non importa, ci porterai la mamma, non me!»
Emma alzò gli occhi al cielo.
«Henry, spegni immediatamente quell’aggeggio! Alice sta portando il tuo cheeseburger!» lo rimproverò sua madre.
«Non è vero!»
«Sì che è vero!» trillò la giovane cameriera, lasciando il panino di fronte ad Henry, che a malincuore, fu costretto a mettere in pausa il gioco.
Killian sorrise, di fronte a quella scena. Come quel pomeriggio, si ritrovò di nuovo a pensare a quanto la sua vita fosse cambiata in quelle ultime settimane. Un mese prima, avrebbe riso in faccia a chiunque gli avesse detto che si sarebbe trovato a cenare, assieme ad Emma Swan e a suo figlio, in una tavola calda.
«Questo posto assomiglia un po’ al Granny’s…» mormorò guardandosi intorno. In effetti, l’atmosfera era molto simile, i tavolini, il lungo bancone bianco, gli alti sgabelli.
«Già…»
La voce di Emma era divenuta d’un tratto assente. Quante cene, colazioni, pranzi aveva consumato assieme a lui, in quella tavola calda, tanti anni prima?
Avrebbe dovuto saperlo.
Permettendo a Killian di rientrare nella sua vita, ora, avrebbe significato accettare anche quel passato, da cui, per molto tempo, era fuggita.
L’aveva fatto per i sensi di colpa, per aver abbandonato il suo migliore amico, sì, ma c’era anche dell’altro. Non voleva ricordare, non voleva che tutto quello che a fatica, aveva rinchiuso da qualche parte dentro di sé, ritornasse a galla. Ma era ormai, troppo tardi: vide lei stessa, al tavolino di fronte, intenta a sorseggiare una cioccolata calda, sotto lo sguardo compassionevole di tutti gli altri clienti; vide lei e Killian, il giorno del diciottesimo compleanno del ragazzo, i pochi festeggiamenti, l’eccitazione della maggiore età e del poter finalmente fare ciò che voleva, una bottiglia di vodka divisa a metà; le sembrò di risentire le urla della nonnina, di vedere i vestiti succinti di Ruby e provare l’ennesima ondata di fastidio per le occhiate che lei e Killian si scambiavano.
Le parole che, qualche giorno prima, lei stessa aveva pronunciato, le rimbombarono nella mente.
Il passato verrà a cercarti prima o poi, verrà ad infilare i suoi artigli velenosi dentro di te, risvegliato da un profumo, da un paesaggio, da qualsiasi cosa… ritornerà…
«Emma?! Emma ci sei?!»
La voce dell’uomo la riportò alla realtà.
«Cosa?»
«Sono arrivate le tue cipolle!» mormorò, capendo al volo che c’era qualcosa che non andava.
Era strano, a volte faceva quasi paura, il modo in cui riusciva a capirla, a leggerle dentro. A volte si era chiesto perché, perché riusciva così bene a capire lei, e non il resto del mondo?! Perfino Milah, per lui, era sempre stata un mistero. Non era mai riuscito a capirla al volo, solo con uno sguardo, un’occhiata, un cenno del capo, così come gli succedeva con Emma. Col tempo, si era un po’ abituato ai suoi segnali, al suo modo di fare e qualche volta, riusciva persino a prevedere le sue azioni. Ma era così raro.
Emma invece, no. La conosceva meglio di se stesso, riusciva a capire quand’era arrabbiata o felice, o quando le serviva solamente che qualcuno le ricordasse che era importante. Sapeva che se decideva di indossare qualcosa di colorato, allora sarebbe stata una bella giornata e fu per questo che, un giorno, le regalò una sciarpa rossa, così l’avrebbe indossata tutti i giorni per non morire di freddo, e sarebbe sempre stata una bella giornata. Riusciva a capire se stava male dal suo tono di voce, più cercava di mascherare i suoi sentimenti, più per lui era facile interpretarli.
La conosceva così bene e, dopo tutti quegli anni, aveva pensato che almeno un po’, le cose fossero cambiate. Ma Emma era ancora Emma, amava le cipolle grigliate e il formaggio fuso, adorava la cannella e profumava di quel misto di fragranze e odori che erano solo i suoi e di nessun altro. Profumo che Killian avrebbe sempre associato a lei.
Eppure, in quelle ultime settimane, ma anche prima, c’erano cose che neanche lui, riusciva a prevedere.
Emma era così.
Un giorno, poteva alzarsi e girare mezza città perché le era venuta voglia di yogurt alla liquirizia (l’aveva fatto davvero), non sapendo neanche se esistesse davvero, lo yogurt alla liquirizia.
Un giorno, poteva alzarsi e decidere di andarsene, senza lasciare nient’altro che un misero pezzo di carta e qualche scusa e purtroppo, aveva fatto anche questo.
Killian non riusciva a spiegarselo, oggi come allora.
Emma era un mistero, anche quando era un libro aperto.
A volte pensava che quel loro legame, unico e speciale, quel legame che a fatica avevano cercato di ricostruire, era dovuto soltanto all’aver condiviso così tanto, durante tutto il corso della loro amicizia. Ma adesso, non ne più così sicuro.
Era qualcosa di molto più profondo, qualcosa che non sarebbe mai riuscito a capire. Qualcosa che, a dispetto del tempo, era destinato a durare.
Così, per lui fu abbastanza facile capire il suo stato d’animo e avrebbe voluto essere da solo, con lei, per chiederle cosa non andasse. Sapeva che non avrebbe parlato di fronte a suo figlio e da un lato, la capiva.
«Che buone!» mormorò la giovane, ritornando di buon umore e leccandosi la punta delle dita.
Killian sorrise, per poi prenderne una e infilarsela in bocca.
«Sono meglio quelle della Nonna!» disse, masticando.
«Ehi! Sono mie!» esclamò, schiaffeggiando il dorso della mano del povero Killian, già pronto ad afferrare un altro anello di cipolla.
«Tu rubi la mia Coca Cola, noi rubiamo le tue cipolle!» lo sostenne il ragazzino, rubando a sua volta un anello dal piatto della madre.
«Il ragazzo ha ragione!» rise Killian, per poi battere il cinque con Henry.
«Voi due, insieme, siete pericolosi!» si lamentò Emma, sorridendo di fronte alla complicità tra suo figlio e l’architetto.
«Condividi con noi le tue cipolle e nessuno si farà male!»
Emma scoppiò a ridere.
«Ecco bimbi, mangiate!»
 
 
Regina alzò di scatto la testa, sentendo i colpi alla porta.
«Avanti!» esclamò, forse un po’ troppo ad alta voce. Lanciò un’occhiata al bambino, beatamente addormentato sul suo divanetto.
La porta si aprì e come la donna aveva previsto, Robin fece il suo ingresso. Indossava una camicia completamente bianca, un po’ spiegazzata, dei pantaloni neri e una giacca distrattamente abbandonata nell’incavo del suo braccio.
Si ritrovò di nuovo a pensare che fosse un bell’uomo, maledicendosi ancora.
È sposato, dannazione!
«Ciao» lo salutò, «Com’è andata?» chiese, alzandosi e andandogli incontro.
«Non ne ho idea… - mormorò, grattandosi la nuca – Roland?» domandò, prima di accorgersi che suo figlio era proprio dietro di lui, gli occhi chiusi e le fossette di un sorriso appena accennate.
«So che è presto e non dovrebbe dormire a quest’ora ma forse era stanco, insomma dopo l’asilo l’ho portato alla recita di Henry e…»
«Regina, non fa niente! Anzi, dovrei ringraziarti per avergli fatto passare un pomeriggio diverso…»
La donna abbozzò un sorriso.
«Sì, be’, abbiamo preso anche un gelato…»
«Cioccolato?»
Annuì.
«Be’ ecco svelato il mistero! Il cioccolato ha uno strano effetto soporifero su Roland…» rise l’uomo, guardando ancora una volta, intenerito, il piccolino addormentato.
Regina si unì a lui.
«Davvero?» chiese, divertita. Che strani i bimbi!
«Sì… e gli piace disegnare e colorare, ha paura del buio e odia farsi il bagno…»
Restarono in silenzio per qualche secondo.
«Scusa…» continuò dopo l’uomo «Non volevo annoiarti…»
«Non mi hai annoiato! Roland è un bambino talmente buono… Sono felice che tu mi abbia chiesto di badare a lui…»
«Sì, anche io…»
I due si sorrisero, imbarazzati.
«Posso chiederti una cosa?» chiese improvvisamente la donna. Sapeva che si sarebbe pentita, non appena quelle parole fossero uscite dalla sua bocca, ma aveva bisogno di sapere.
L’uomo annuì. Regina prese un respiro.
«Perché io?» Robin alzò un sopracciglio «Insomma, mi hai affidato tuo figlio dopo avermi visto a malapena due volte e diciamocelo, mi sono intrufolata nella stanza di tua moglie e ti hanno chiamato nel cuore della notte per questo e non ti ho certo dato una buona impressione e…»
«Regina…»
«Come sapevi che non fossi un’assassina, una pedofila o…»
«Lo sei?»
«Certo che no! Ma…» esclamò risentita la donna.
«Quindi ho fatto bene…» sorrise Robin.
«Sì, ma… Nessuno si è mai fidato di me così… e soprattutto non dopo avermi conosciuto da così poco tempo…»
«Be’- cominciò l’uomo alzando le spalle – sbagliano… Come ho detto, sono felice che tu ti sia presa cura di lui…»
Regina sorrise ascoltando quelle parole e abbassò lo sguardo.
Era vero.
Nessuno, a parte Emma ovviamente, le avrebbe mai chiesto di occuparsi del proprio figlio. Certo, il modo in cui si comportava con il resto del mondo, era ben diverso da quello con cui si relazionava ad Henry o a Roland, per esempio. Sapeva che, per tutti gli altri, Regina Mills era una donna tutta d’un pezzo, severa e pronta a tutto pur di ottenere ciò che desiderava. E lo era.
Ma quella, era solo una parte del suo carattere.
L’altra, quella fragile e piena di cicatrici mai rimarginate, la conservava per sé e fuoriusciva così raramente, che perfino lei stessa, a volte, se ne stupiva.
Vi erano i giorni “grigi”, fissi, come l’anniversario della morte di Daniel e quello di suo padre. E poi, le giornate in cui la malinconia la coglieva di sorpresa e riusciva a prendere il sopravvento, le giornate in cui faticava persino ad uscire di casa.
«Come sta Marian?» chiese, per porre fine al vortice di pensieri in cui era inceppata.
«Il solito… e tua madre?»
«Il solito…» sorrise tristemente la donna.
«Mi dispiace»
«Anche a me»
Regina non riusciva a descrivere quei sentimenti, quelle sensazioni. Aveva da sempre odiato suscitare compassione, o peggio ancora, pietà negli altri. Ma con Robin, era diverso.
Il suo istinto le diceva che a lui dispiaceva veramente, che era sincero quando si interessava alle condizioni di sua madre e non lo faceva per pura cortesia.
Si sentiva stranamente legata a quell’uomo che ne aveva passate così tante… Sicuramente, più di quante voleva far credere al resto del mondo.
«Adesso dobbiamo proprio andare…» mormorò lui, infilandosi la giacca e avvicinandosi al bambino.
Con una delicatezza che Regina non si aspettava certo di vedere, lo prese in braccio e lo cullò, cercando di non svegliarlo.
«Non so come avrei fatto senza di te! Ringrazio il giorno che decidesti di infiltrarsi nella stanza di mia moglie…»
La donna sorrise, ripensando all’enorme figuraccia che aveva fatto quel giorno. Ma dopotutto, non tutti i mali vengono per nuocere no? E qualcosa le diceva che Robin era tutto, fuorché un male.
«Sì, continua pure a prendermi in giro!»
«Non ti sto prendendo in giro! – disse l’uomo, contagiato dal sorriso della donna di fronte a sé – ti sto ringraziando…»
La giovane Mills fu colta alla sprovvista.
«Figurati… Mi fa piacere aiutarti…»
«Troverò un modo per sdebitarmi un giorno!» ripeté.
«Sono curiosa!» disse, appoggiandosi allo stipite della porta. Il sorriso ancora stampato in volto. Non aveva mai sorriso per così tanto tempo.
«Ciao Regina»
«Ciao Robin»
 
 
«Posso farti una domanda?»
Killian ed Emma camminavano lungo il marciapiede, l’uno di fianco all’altra, le mani intrecciate. Davanti a loro, Henry saltellava sui mattoni, cercando di non toccarne le fugature. Avevano finito di mangiare da poco e adesso Killian si era offerto di accompagnarli a casa.
«Non è già una domanda?» sorrise la donna, continuando a fissare suo figlio.
Killian alzò gli occhi al cielo.
«Se mi stai per chiedere qualcosa su cui devo riflettere per rispondere, non farlo… Sono troppo stanca!» mormorò, fingendo uno sbadiglio.
«Tu rifletteresti anche se ti chiedessi di che colore sono le tue scarpe…»
Emma guardò la punta dei suoi stivali neri.
«Sì, hai ragione…» ammise dopo.
«Anzi, rettifico, due domande…»
La donna sospirò. Erano quasi arrivati di fronte al portone del suo appartamento. Forse sarebbe riuscita a sfuggirgli per tempo.
«Su spara!»
«Perché non vuoi portare Henry al Mc Donald’s?!»
Emma faticò per non scoppiargli a ridere in faccia. Ma non ci riuscì e la sua risata cristallina, aleggiò per tutta la strada.
«Non ridere! Questa era quella meno seria!» disse, dandole una spintarella con la spalla.
«Be’, perché voglio fingere almeno per un po’, di essere una brava madre, che non fa mangiare schifezze a suo figlio…»
«Ti ricordo che ha appena mangiato un cheeseburger gigante…»
La donna sbruffò.
«Oh, sta’ zitto!»
«Tu sei strana Emma Swan! La persona più strana che io conosca!»
I due si guardarono negli occhi sorridendo, dietro gli occhi e per la mente lo stesso ricordo lontano.
 
 
Storybrooke, Giugno 2001
 
«Swan cosa diavolo stai facendo?»
Emma si voltò di scatto. Quella voce, ormai, era diventata fin troppo familiare.
«Che c’è?» chiese ingenuamente, sbattendo le lunghe ciglia.
«Cos’è questa?» domandò Killian, strappandogli dalle mani la bottiglia che custodiva, così gelosamente.
«Vodka, sei cieco?» sorrise, cercando di riafferrare la bottiglia.
«No, ma tu sei ubriaca!» esclamò il ragazzo, dirigendosi verso il suo armadietto e chiudendovi la bottiglia.
La scuola aveva organizzato l’usuale ballo di fine anno ed Emma, dopo numerose battaglie e promesse, aveva convinto Killian ad andarci, “Ci sarà tutta la scuola! Vedrai, ci divertiremo!”.
Certo, Killian si stava divertendo, ma ad un certo punto, voltandosi alla ricerca di Emma, non l’aveva più trovata.
«Tanto la so la combinazione!» esclamò, soddisfatta. La testa le girava un po’, ma solo un po’.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. La prese per un braccio e la trascinò fuori.
«Dove sono finiti i tuoi “No, le ballerine non bevono”, “Sono astemia” e “Madame ha detto che l’alcool inibisce i sensi” ?!» domandò, mimando il tono di voce dell’insegnante.
«Madame ha seriamente bisogno di qualche ora di buon esercizio fisico!»
«Emma!»
«Che c’è?! Sono stata carina ed educata! Non ho mica detto “Ha seriamente bisogno di fottersi” anche se, se non l’avevi capito, era ciò che intendevo… Se ti va, puoi proporti… sono sicura che ha un debole per te!»
«Non ci tengo» borbottò quello, rabbrividendo al solo pensiero «E poi, chi non ha un debole per me a questo mondo?»
«Smettila! Mi… mi gira un po’ la testa…»
Killian lasciò che Emma si fermasse.
«Va meglio?!»
«Mmmm»
«Perché non eri dentro a divertirti?!» chiese, afferrando la borsa della sua amica, un istante prima che lei si piegasse a vomitare.
«Che schifo!» mormorò, pulendosi la bocca.
«Spero tu non mi abbia macchiato le scarpe! Non ho neanche il coraggio di abbassare lo sguardo…»
«Idiota»
«Forse dimentichi che sei tu, quella che ha appena vomitato…»
Emma si rialzò, lanciandogli un’occhiata assassina. Era tutta colpa sua. Se lui non l’avesse lasciata da sola per andare a ballare con quella tipa del secondo anno, tutto questo non sarebbe successo, lei sarebbe ancora astemia e il suo vestito ancora pulito.
«Ti riaccompagno da Ingrid»
«No! Ritorna pure dentro, ritorna da quelle gatte morte che pendono dalle tue labbra! Io me la posso cavare benissimo da sola!»
Killian strabuzzò gli occhi.
«Emma sei ridicola! Ma se sei stata tu stessa a dirmi che, se fossi venuto, avrei fatto nuove conoscenze! “Vedrai Kill, ci divertiremo!”» mimò la voce della sua amica, prima di scansarsi dal pugno in faccia che stava per ricevere. In un angolo remoto della sua mente, prese un appunto: tenere l’alcool lontano da Emma Swan.  
La ragazza ammutolì, stringendo le braccia al petto. Nonostante l’alcool, sapeva che il suo amico aveva ragione, ricordava benissimo di averglielo detto.
Così, colpita nel segno, si tolse le scarpe dal tacco vertiginoso e cominciò a camminare verso casa. Voleva conservare ancora un minimo di dignità.
Killian non ci mise molto a raggiungerla, dopo aver alzato ancora una volta gli occhi al cielo.
«Dove vai adesso?»
«Da qualche parte»
«Emma… Sei strana, sei la persona più strana che io conosca!» disse, borbottando tra sé e sé. Non si aspettava certo che lei sentisse.
«Be’ grazie tante!» sbuffò. Non riusciva a capire se fosse un effetto dell’alcool o altro, ma si sentiva davvero davvero arrabbiata.
«Era un complimento»
«Se lo dici tu… Adesso se non ti è di troppo disturbo, vorrei andarmene…»
«Emma ascolta! So che sei sbronza, che è la tua prima sbronza, che l’alcool ti ha inibito i sensi e anche il cervello, ma prova a riflettere: le “gatte morte” come le chiami tu, sono lì dentro – disse, indicando i corridoi della scuola – io, invece, sono qui fuori! Con te! Questo cosa ti fa capire?»
«Non sono una bambina Jones!» esclamò indignata.
«Qualche volta sì, lo sei ancora! Tu sarai sempre più importante di tutte le altre! Adesso, vieni con me! Ti riaccompagno…» disse, prima di coprirle le spalle con la sua giacca.
 
 
«Te lo ricordi?» sorrise Emma, ripescando quel ricordo da un angolino del suo cuore.
«Ovvio! Non sei mai stata astemia Swan!» rise Killian.
«No, mi sa di no!»
Emma si unì a lui, per poi ridiventare seria subito dopo.
«Ero gelosa…» mormorò, quasi illuminandosi. Aveva da sempre cercato una spiegazione logica per quel comportamento infantile, rifiutandosi di accettare la pura e semplice verità.
«Ero gelosa… - ripeté - …Perché anche allora ero innamorata di te!»
La donna costrinse Killian a fermarsi, così da poterlo guardare negli occhi.
«Lo sai, è sempre più strano sentirtelo dire…» mormorò lui, qualche secondo dopo.
«Ma è la verità, Killian… Mi chiedo cosa sarebbe successo se all’epoca avessi capito tutto in tempo…»
Vide Henry salutare Killian da lontano, per poi sparire dietro il portone di casa.
Da un po’, infatti, Emma gli aveva regalato una copia delle chiavi e il bambino ne era stato felicissimo.
«Lui non sarebbe qui…» mormorò l’uomo, serio, contraccambiando il saluto del bambino.
«Già! È l’unica cosa che mi impedisce di prendermi a schiaffi da sola!» disse, abbozzando un sorriso in direzione dell’uomo.
«Vuoi farmi l’altra domanda oppure passiamo direttamente alla parte in cui mi saluti?» continuò poi, allacciando le braccia attorno al collo di Killian.
Il solito sorriso da mascalzone gli si dipinse in viso di fronte alla sfacciataggine di Emma. Si beò di quel contatto e per qualche minuto, pensò che dopotutto, avrebbe potuto chiederglielo un’altra volta…
«A cosa stavi pensando, prima, nella tavola calda?» chiese, ridestandosi.
La donna distolse un attimo lo sguardo dai suoi occhi, puntandolo lontano, nel punto in cui, qualche settimana prima, lui le aveva intimato di andarsene dalla sua auto.
«Non ti sfugge niente eh?!»
«Swan, se non vuoi dirmelo va bene… Voglio solo sapere se è tutto ok… sembravi strana…»
«A Storybrooke – il verde di nuovo immerso nell’azzurro – pensavo a Storybrooke.»
Killian alzò un sopracciglio ed Emma sciolse l’abbraccio. Le braccia le ricaddero pesantemente lungo i fianchi.
«Era da un po’ che non ci pensavo, ma ora che ci sei di nuovo tu, mi è impossibile non farlo… Nonostante tutto, è il luogo dove tutto è cominciato…»
«Tu non metti piede a Storybrooke da…da allora?»
La donna annuì.
«Pensavo a ciò che io stessa ti dissi quel giorno, sul passato, sulle questioni in sospeso… tu eri una parte di quella questione, la parte più consistente che, di regola, dovrei aver risolto…»
«L’hai fatto, Swan! Smettila di autocommiserarti… ti ho perdonato, davvero!» esclamò prendendole la mano.
Lei sorrise, guardando quelle dita intrecciate e continuò a parlare.
«…ma non credo di aver fatto ancora i conti col mio passato. E non voglio temerlo più Killian, sono stanca di fuggire…»
«Allora non farlo!»
«Non riesco a evitarlo! Cosa posso fare di fronte a domande come “Chi sono i miei genitori?!” o “Perché hanno deciso di abbandonarmi, proprio lì?! Nella più sperduta cittadina del Maine?!” Prima che tu tornassi, fingevo che queste domande ormai, non mi toccassero più… ma non è così… io ho bisogno di sapere… devo tornarci… solo lì, potrò trovare le risposte che cerco e chiudere, una volta per tutte, i conti con Storybrooke.»
 
 
 
 
 
 
 
 
*La storia rappresentata riprende la storyline di Peter Pan della terza stagione! :)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Salve a tutti!! :)
Finalmente dopo quasi un mese, riesco ad aggiornare!! (Non so voi, ma io sento cori di alleluia in lontananza xD)
Nonostante il mio madornale ritardo, però, voi, con le vostre parole, i vostri incoraggiamenti, non avete mai abbandonato la mia mente e il mio cuore!! Vi ho pensato spessissimo! :)
E per farmi perdonare, il capitolo è anche piuttosto tranquillo! Mi sono divertita a scriverlo, sia la parte di Emma e Killian, che tutte le altre! (David <3)
Spero che il capitolo sia piaciuto anche a voi e nel caso vogliate farmi sapere i vostri pareri, io sono sempre qui, pronta a leggerli!! :)
Come sempre non posso non ringraziare le nove ragazze che hanno recensito lo scorso capitolo! GRAZIE GRAZIE GRAZIE!! Senza di voi, la storia non sarebbe arrivata a questo punto!!
Grazie anche a chi inserisce la storia nelle varie categorie o chi legge silenziosamente!!
Prometto che il prossimo capitolo arriverà prima!! Anche perché qui, a parte il mare, non faccio un granché! xD
Un bacione a tutti,
Kerri :*
 
 
 
 
 
PS: Avete visto le foto dal set della 5x04?! Io rischio un mancamento ogni volta che le vedo ahahah! Per non parlare del promo!! Forza forza, mancano solo 32 giorni! Possiamo farcela!!
 

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Capitolo 15
*** Come back ***


14. Come back


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And I know, the scariest part is letting go,
‘cause love is a ghost you can’t control,
I promise you the truth can’t hurt us now,
So let the words slip out of your mouth.
And I know, the scariest part is letting go,
Let my love be the light that guides you home.
-Christina Perri, “The Words”
 
«Sei sicura, Swan?»
La voce di Killian la riportò alla realtà.
«Io, io credo di sì…» disse e il suo tono di voce si rivelò più insicuro di quanto avrebbe desiderato.
«Non potrai più tornare indietro, lo sai vero?»
«Sì, lo so… Ma voglio farlo, devo farlo!»
L’uomo annuì.
«Allora, bentornata a Storybrooke!» esclamò, prima di riaccendere l’auto e varcare il confine della città.
 
24 ore prima
 
«Regina, Regina per favore ascoltami!»
«No Swan! Quello che vuoi fare va oltre ogni limite! Come puoi anche solo pensare di partire e lasciare tuo figlio a casa mia?! E il lavoro?! Avete pensato a quello che dirà Gold quando lo verrà a sapere?!» urlò la donna, sbattendo la borsa sul bancone del negozio.
«Lo so, Regina, ma ho bisogno di sapere! È della mia famiglia che stiamo parlando!»
«Tu hai già una famiglia! Me, Henry e quel tipo che non vedevi da anni e che adesso ti ostini a chiamare “ragazzo”!»
«Parlo dei miei genitori, Regina! Parlo di Ingrid, la donna che scelse di prendersi cura di me! Non sono mai andata a salutarla come si deve e glielo devo!»
«E dimmi, come mai, glielo devi proprio ora? Non puoi partire, che ne so, tra una settimana, due, tra un mese?! Perché ti sei ricordata proprio adesso Emma?!» disse, puntandole un dito contro.
«Lo sai perché!»
«No, Emma, non lo so!»
«Regina…»
«E al tuo lavoro non pensi? – sbottò la donna - Non parlo di quel locale da quattro soldi dove ti ostini ancora a ballare, ma di quello vero, in questo negozio!»
«Resterà chiuso, per qualche giorno…»
«Sono sempre il tuo datore di lavoro, Emma, e poiché credo che stai per fare una grande cazzata, te lo impedisco!» disse, prima di riprendere le sue cose e uscire dal negozio, sbattendosi la porta alle spalle.
Emma sospirò, accasciandosi su di un antico sgabello di legno. Regina sapeva come uscire di scena perfettamente, questo era certo.
Non poteva dire di essere sorpresa dalla reazione della donna. La conosceva, sapeva che avrebbe reagito esattamente a quel modo. Per questo aveva cercato di essere quanto più calma possibile, sperando che la donna capisse la sua situazione.
Dopo aver confessato a Killian le sue paure e i suoi dubbi, avevano entrambi convenuto che per risolvere il problema, occorreva recarsi direttamente alla fonte.
Emma sapeva che l’uomo non era poi così entusiasta di ritornare in quella cittadina, glielo leggeva nello sguardo perso ogni qual volta la nominava. Quando glielo fece notare, lui annuì, ma insisté affinché fosse lui ad accompagnarla.
«Solo io posso farlo Em, e questo lo sai bene!» le disse ed era vero, Emma lo sapeva bene. Così, decisero di farlo il prima possibile, come un cerotto che deve essere strappato via. Chiesero perfino a Belle qualche giorno di permesso (perché sapevano che il signor Gold li avrebbe licenziati immediatamente), spiegandole per sommi capi la situazione e la giovane donna ovviamente acconsentì.
Emma, invece, era un po’ restia nel raccontare tutto ad Henry. Aveva paura che lui potesse chiederle di nuovo di suo padre. Sapeva che prima o poi, l’avrebbe cercato comunque ma non voleva affrettare i tempi. Killian, però, la convinse a non mentirgli ulteriormente. Ovviamente, il ragazzino insisté nel voler partire con loro ma sua madre fu irremovibile.
«Non puoi perderti la scuola, Henry! Mi dispiace… Anche io avrei voluto che ci fossi anche tu ma è una cosa che devo fare da sola…»
L’unica ancora, all’oscuro della faccenda era proprio Regina. L’aveva chiamata, dicendole che doveva parlarle di una cosa importante e la donna si era precipitata al negozio immediatamente.
Non aveva reagito bene, soprattutto alla notizia che sarebbe stato Killian ad accompagnarla. Emma non riusciva a capire perché non le andasse a genio. Evitava casa sua se c’era anche lui, non veniva più così spesso al negozio e diventava più acida del solito se Emma o Henry lo nominavano.
Emma si ripromise che, più tardi, l’avrebbe richiamata. Ormai avevano preparato tutto, non poteva disdire così su due piedi, perché la sua migliore amica non era d’accordo.
Certo, la giovane Swan sapeva che avrebbe dovuto avvisarla prima ma ormai, i dadi erano tratti.
Sentì il telefono vibrare nella tasca.
La sveglia l’avvisava che era il momento di andare a prendere Henry da scuola, per poi tornare a casa a preparare gli ultimi bagagli.
Afferrò gli occhiali da sole e le chiavi del maggiolino e partì.
 
Presente
 
Emma fissava gli alberi scorrerle accanto, grandi e verdi e per un attimo ripensò a quando, un’assistente sociale, la condusse per la prima volta a Storybrooke. Quella volta, la bambina che era stata pensò esattamente la stessa cosa.
Pensò a quanto fossero grandi quegli alberi e quanto fossero fortunati. Loro non si sarebbero mai spostati, loro nascono, crescono e muoiono esattamente nello stesso punto. La Emma di vent’anni fa, avrebbe preferito essere un albero, piuttosto che una bambola usa e getta che tutti compravano, ma che nessuno teneva. Da quand’era piccola, tante erano state le famiglie che avevano deciso di prendersi cura di lei, alcune persino gentili. Ma alla fine, dopo qualche tempo, ritornava sempre lì, nel retro di una macchina grigia a ripercorrere quelle strade verdi verso Storybrooke.
«Questo posto è sempre uguale…»
La voce di Killian la riportò alla realtà. Distolse lo sguardo dalla foresta, per posarlo sul profilo dell’uomo al suo fianco. Non riusciva neanche a spiegargli quanto gli fosse grata per aver assecondato i suoi pazzi desideri. Se fosse stato un altro, lo sapeva, l’avrebbe mollata immediatamente, etichettandola come “troppo complicata”.
Lui no.
Lui aveva capito, lui l’aveva convinta a ritornarci (a patto che avessero utilizzato la sua macchina!).
Lui era lì, per lei, con lei, nonostante lui stesso aveva giurato che non avrebbe più messo piede in quella cittadina.
«Già…»
Non sapeva cosa le avrebbe riservato quel viaggio, se risposte o ancora più domande.
Sapeva solo che avrebbe dovuto farlo tanti anni prima, ma non ne aveva avuto il coraggio.
Ritornare lì, avrebbe significato ammettere al mondo intero di aver fallito.
Ritornare lì, avrebbe significato dar voce a migliaia di pettegolezzi, affrontare la realtà, gli sguardi indiscreti, compassionevoli, pietosi.
Non ne aveva avuto il coraggio, anche perché non voleva rincontrare Killian. Ma adesso, che lui era lì con lei, che si erano ritrovati quasi per caso nell’ultimo posto in cui Emma avrebbe potuto immaginare, si sentiva più sicura.
«Grazie per essere qui…» mormorò, poggiando la mano su quella dell’uomo.
 
 
«Sai dovresti smetterla di camminare avanti e indietro come un’ossessa… O almeno togliti i tacchi! Non riesco a leggere!» urlò il bambino dal divano.
Regina si fermò, conscia che avrebbe dovuto smetterla. Non poteva certo dare la colpa ad Henry per il comportamento stupido e insensato di sua madre. Quella pazza lo aveva spedito a casa sua, nonostante sapesse benissimo che lei non approvava di certo ciò che stava per fare! Mollare tutto per andare dove? Alla ricerca di fantasmi! Sapeva che sarebbe ritornata con la coda tra le gambe e con ancor più domande nella testa.
Sbuffò e decise che avrebbe dovuto preparare la cena. Se non per lei, per il ragazzino che era comodamente disteso a leggere uno dei suoi fumetti sul suo divano.
«Cosa vuoi mangiare per cena Henry?» chiese la donna, infilandosi il grembiule che usava sempre per cucinare e legandosi i capelli.
«Quello che vuoi!» urlò.
Regina si diresse verso la dispensa, sperando di trovarvi qualcosa.
Bingo!
Lasagne.
Sapeva che Henry ne andava ghiotto e non per vantarsi, ma sapeva cucinarle piuttosto bene.
Si mise all’opera e in men che non si dica, la teglia era già in forno. Una teglia piuttosto grande, a dir la verità.
Mentre riordinava la cucina, sentì il cellulare squillare. Si asciugò in fretta le mani e corse a rispondere.
«Pronto» chiese, la voce ferma e decisa. Il numero era sconosciuto.
«Regina?» domandò un’altra voce maschile, dall’altra parte della cornetta.
«Sì, chi è?»
«Mi hai già dimenticato?!» chiese quello sorridendo.
La donna strabuzzò gli occhi.
«Robin?» domandò, più titubante di prima.
«In persona, milady!»
Regina alzò le sopracciglia. Quell’uomo, non riusciva proprio a capirlo. Certo, non poteva negare che si sentiva stranamente legata a lui, ma era scostante, ecco. Troppo per i suoi gusti.
Da quel giorno, quando si era presentato nel suo ufficio chiedendole di occuparsi di suo figlio, non si era fatto più vedere né sentire. La donna, comunque aveva avuto altro a cui pensare, come la scuola o sua madre, ma una parte di lei, quella che restava sveglia di notte a fissare il soffitto, incapace di addormentarsi, si chiedeva che fine avesse fatto quell’uomo dallo sguardo triste, se fosse successo qualcosa.
«Disturbo?» chiese ancora la sua voce.
«No, certo che no!»
«Come stai?»
«Abbastanza bene… e tu?»
«Abbastanza bene…»
Regina poté giurare che stesse sorridendo.
«Chi è? Mamma?» sentì Henry urlare dall’altra stanza. Coprì per un attimo l’apparecchio con la mano e gli rispose.
«Hai ospiti?» domandò Robin, una volta che Regina riprese a parlare con lui.
«No, o meglio sì. Emma è partita con Killian e suo figlio dorme da me…»
«Oh, non lo sapevo…» mormorò l’uomo.
«Sì, hanno deciso all’ultimo momento… è una questione… complicata, ecco.»
Probabilmente il suo tono di voce si rivelò più acido di quanto avrebbe voluto, ma Robin sembrò non notarlo.
«Ho capito… Hai già preparato la cena?»
«S-sì… perché?» chiese la donna, sorpresa.
«Oh… avrei voluto invitarti, sai per sdebitarmi!»
«Ah… Se vuoi, puoi venire tu! Tu e Roland ovviamente…» si affrettò a correggersi la donna, sapendo che si sarebbe pentita non appena avrebbe riattaccato.
«Ma così sono ancora più in debito!» rise l’uomo.
«Facciamo così, se venite stasera, potrei cancellarti quel conto in sospeso che abbiamo…» continuò la donna, stando al gioco.
Robin sembrò pensarci su.
«Affare fatto! Se per te non è un disturbo…»
«No, nessun disturbo!»
«Va bene, allora! Mandami l’indirizzo…»
«Sì, certo!»
«A dopo e… grazie!» la salutò l’uomo.
«A dopo…»
Chiuse la chiamata e fissò per qualche secondo lo schermo del telefono. Non appena rialzò lo sguardo, si ritrovò gli occhi vispi di Henry a qualche centimetro dal naso. Quando si era seduta? Non se n’era nemmeno accorta!
«Chi era?» domandò, curioso.
«Un amico… - disse e stentava a crederci perfino lei – verrà a cena qui stasera, con il figlio!»
«Simpatico?»
«Chi?» chiese Regina, ancora in trance, alzando lo sguardo «Roland? È il bimbo che ho portato alla tua recita! Te lo ricordi?»
«Sì, certo… ma io intendevo il tuo amico! È simpatico?» chiese, lo sguardo furbo con cui la guardava ogni volta che aveva in mente qualcosa.
«Sì, diciamo di sì… adesso vuoi aiutarmi a preparare il dolce?» chiese, scompigliandogli i capelli per mettere fine a quella conversazione fin troppo imbarazzante. Da quando Regina Mills si faceva mettere alle strette da un undicenne?
«Strudel o torta di mele?» chiese divertito il ragazzino, andando a prendere il suo grembiule da chef personalizzato che Regina gli aveva regalato qualche anno prima.
«Sono davvero così scontata?!» chiese, fingendosi offesa.
«Mmmm un pochettino!» rise il bambino.
«Be’ oggi ti stupirò! Prepariamo un bel tiramisù!»
 
 
«Non avrei mai pensato che prima o poi, sarei finita anche io ad alloggiare da Granny…» mormorò la donna, afferrando la chiave. Dopo qualche secondo di imbarazzo, avevano convenuto che fosse meglio prendere due camere separate, benché adiacenti.
La nonnina li aveva riconosciuti non appena avevano messo piede nel negozio e il familiare campanello aveva tintinnato.
Si era aggiustata gli occhiali sul naso, incredula, ed era corsa ad abbracciarli. Emma si stupì che si ricordasse ancora di lei, dopo tutti quegli anni. Lei era ancora come dodici anni prima, i capelli solo più bianchi che grigi.
Quel comportamento così inusuale della padrona del locale, aveva portato tutto il resto dei clienti a voltarsi per vedere in faccia i nuovi arrivati.
Molti li riconobbero, chi per averli conosciuti di persona, chi per aver sentito parlare di loro, della ballerina e del giovane architetto che ormai vivevano a New York.
Emma, imbarazzata, ricambiò l’abbraccio, con uno strano nodo alla gola.
Adesso, dopo aver preso le chiavi della loro camera, si stavano dirigendo a lasciare i borsoni. Emma aveva portato con sé anche la scatola della sua infanzia, come la chiamava suo figlio.
Era uno scatolone, né troppo grande, né troppo piccolo, dove la donna aveva racchiuso tutto quello che aveva deciso di lasciarsi alle spalle.
C’era la copertina, con la quale i suoi genitori l’avevano avvolta prima di abbandonarla sul ciglio della strada; c’erano gli occhiali da vista che ormai non metteva più; c’erano tante foto, sue, con Killian, con Ingrid, con le sue compagne di danza e quelle di scuola. Ce n’erano alcune perfino con Neal.
E c’era qualche trofeo che aveva vinto.
Aveva pensato che forse, avrebbero potuto essere d’aiuto nella loro ricerca.
Fissò quegli oggetti sparsi sul letto ancora per qualche secondo, prima di rimetterli tutti nella scatola. Sentì qualcuno bussare.
«Sì, Killian, puoi entrare…»
La porta si aprì e l’uomo fece il suo ingresso. In quei dieci minuti, si era cambiato e sicuramente rinfrescato.
«Sei pronta?» chiese, incamminandosi verso il letto e sedendosi. La grande scatola ai suoi piedi.
«Sì, dammi solo un altro minuto…» disse, dirigendosi verso il bagno e chiudendosi la porta alle spalle. Killian sentì lo scroscio dell’acqua.
Distolse lo sguardo dalla porta. Le mani gli sudavano, era impossibile non notarlo e il cuore gli batteva forte, troppo forte.
Queste camere, questo posto, questi alberi, gli ricordavano troppe cose ed era impossibile continuare a fingere che non fosse così.
Gli ricordavano Emma, Liam, suo padre, sua madre, Milah.
Milah.
Sarebbe dovuto andare sulla sua tomba. Ma a che scopo se sapeva che lei non c’era lì sotto?
Sospirò.
Qualcosa attirò il suo sguardo.
Si piegò per vedere meglio. Sorrise.
Raccolse quella vecchia fotografia, non ricordava neppure chi l’avesse scattata, forse Liam o forse sua madre.
Rappresentava loro due, Killian ed Emma, sempre insieme, seduti su di una panchina al molo, le facce sorridenti tutte impiastricciate di gelato, le bocche piegate in un sorriso.
Proprio in quel momento, Emma uscì dal bagno.
«Che cosa stai guardando?» chiese, avvicinandosi e sbirciando.
Sorrise anche lei e Killian fu certo che anche lei stesse ricordando.
«Deve essermi caduta…» mormorò, accennando allo scatolone ai loro piedi.
«Te lo ricordi questo giorno?» chiese l’uomo, sollevando ancora un po’ la fotografia.
La donna annuì.
«Tua madre era felicissima e super eccitata che il suo dolce Kill avesse trovato una nuova amica, così ci portò tutti e due a prendere un gelato e poi al porto e ci scattò questa fotografia…» disse, prendendola in mano e leggendovi la data scritta dietro.
Estate 1997.
«Allora è stata lei a scattarla…» mormorò di nuovo Killian, guardandola quasi fosse una pietra preziosa.
«Ci conoscevamo da neanche un anno… Non ti ricordi?»
«Non molto… morì un anno dopo…»
Emma si sedette accanto a lui, posando la testa sulla sua spalla. Avrebbe voluto dirgli che le dispiaceva, ma a cosa sarebbe servito? Più che dirglielo, avrebbe voluto farglielo capire e al momento, quello le sembrò la cosa più giusta da fare.
Killian poggiò la guancia sui suoi capelli, inspirandone il profumo.
«Sai, puoi tenerla se vuoi…» mormorò la donna, dopo qualche minuto di silenzio.
«No, tienila tu. Lei te l’ha data per un motivo, desiderava che la conservassi tu…»
Emma gli strinse la mano. Quel viaggio, sarebbe stato più duro di quanto avesse immaginato. Un viaggio non solo nel suo passato, ma anche in quello dell’uomo al suo fianco.
«Mi dispiace»
«Anche a me»
 
 
Il campanello suonò. Regina indugiò ancora qualche secondo davanti allo specchio, prima di correre ad aprire. Non era così agitata da… Oh, non lo ricordava neppure.
In realtà non riusciva a capire se fosse agitata, emozionata, nervosa…
«’Gina!» la salutò il piccolo Roland, saltandole alla vita, non appena aprì la porta. Regina, colta alla sprovvista, per poco non perse l’equilibrio.
«Roland! Quante volte ti ho detto di essere educato?» lo rimproverò suo padre, prendendolo in braccio.
«Non sgridarlo! È stato carino!» mormorò la donna, scompigliando i capelli del bimbo e allisciandosi il vestito.
«Ciao Regina…»
«Robin! – lo salutò la donna – prego accomodatevi!» disse, mettendosi da parte e lasciando passare i due.
«Che casa graaande» esclamò Roland, guardandosi attorno. Regina rise.
«Robin, questo è Henry, il figlio di Emma!» mormorò la donna, presentando il ragazzino che nel frattempo, si era avvicinato loro. I due si strinsero la mano.
«Ciao Erri!» lo salutò anche Roland.
«Venite, la cena è pronta!» esclamò Regina, da perfetta padrona di casa, avviandosi verso la cucina.
«Ha cucinato la sua specialità! Lasagne!» sussurrò il giovane Henry agli altri due.
«Buonee le ‘asagne! Papà non le cucina mai!» mormorò triste il piccolo Rolly.
«E quando dovrei farle sentiamo, ometto?» rise Robin, facendogli il solletico.
Il bimbo non ebbe il tempo di rispondere, troppo intento a ridere.
«Venite o no?» chiese Regina, affacciandosi in salotto, dove gli uomini si erano fermati a confabulare.
«Arriviamo!» esclamarono in coro.
 
 
Camminavano per il parco, lentamente, le mani intrecciate. Nessuno dei due sentiva il bisogno di parlare. Il silenzio regnava sovrano, spezzato qualche volta dallo scricchiolio di una foglia secca. Era il silenzio di chi decide che le parole sono superflue. Era quel silenzio raro e prezioso, privo di qualsiasi imbarazzo. Era il silenzio che non deve essere per forza spiegato o spezzato. Ad entrambi bastava la presenza dell’altro, la sua mano nella propria, sapere di non essere solo in quel viaggio nel passato.
Perché era questo che entrambi immaginavano.
Ogni passo, ogni angolo, ogni viale, era un anno, un mese, un giorno al quale ritornavano con la mente e con il cuore, non importava se passato insieme o con qualcun altro.
Superarono il laghetto, sempre in silenzio. Emma si accorse che tutti i cigni che all’epoca vivevano lì, se n’erano andati. Forse emigrati, in qualche paese più caldo. Non sapeva se i cigni emigrassero. Le piaceva, da bambina, venire a vedere quegli animali eleganti e fieri da cui aveva ereditato il nome.
Si illudeva che magari, avrebbe potuto somigliare loro almeno un po’.
Senza nemmeno accorgersi, persa nei propri pensieri, seguendo i passi dell’uomo al suo fianco, si ritrovò nel loro rifugio segreto.
La loro panchina era ancora lì, la vernice verde e sempre scrostata, piena di ruggine e qualche scritta. Chissà se qualcun altro l’avesse trovata nel frattempo, chissà se per qualcun altro, quella panchina sgangherata avrebbe mai significato ciò che significava per loro.
Senza pronunciare neanche una parola, vi si sedettero, l’uno di fianco all’altra, proprio come all’epoca.
Restarono così, a contemplare la superficie lontana del laghetto, per chissà quanto tempo. Emma non riuscì a dire se fossero passati minuti o perfino ore, quando d’un tratto, Killian parlò.
«Sai, una volta mi hai detto che le cose cambiano, anche quando noi non ce ne accorgiamo. Forse… Ma delle altre Emma, delle altre cose non cambieranno mai… Questo, non cambierà mai…» disse, lo sguardo perso verso l’orizzonte.
In quel momento, gli occhi di Emma si velarono di lacrime. E non seppe dire perché, visto che proprio allora aveva pensato che Killian sarebbe stato veramente bravo nel descrivere le loro vite. Lui ci sapeva fare con le parole, non come lei. Il suo libro, il suo libro l’avrebbe sicuramente comprato.
Aveva pensato questo, Emma, in quel momento e allora perché di colpo, una lacrima solitaria aveva deciso di rotolare via dai suoi occhi?
L’asciugò, sperando che lui non se ne accorgesse.
Non seppe dirlo ma ad un tratto, sentì il suo respiro sempre più vicino, le sue labbra sulle sue. Fu un bacio al sapore di lacrime, di gelato al cioccolato, di vecchie promesse non mantenute e di nuove rinnovate, di passato, di presente e sì, anche di futuro.
 
 
«Regina, davvero, era tutto squisito!» esclamò Robin, ingoiando l’ultimo pezzetto di tiramisù.
Roland si era addormentato subito dopo aver finito la sua porzione gigante di lasagne ed Henry si era ritirato in salotto, con la scusa dei compiti.
«Grazie…» mormorò la donna, arrossendo.
«So che parliamo sempre delle stesse cose, ma devo chiedertelo: novità?»
La donna ci pensò su.
«Be’ in effetti ultimamente la mia vita è un po’… movimentata…»
«Come mai?»
«Mia madre peggiora, il sindaco mi ha chiesto di organizzare uno spettacolo per Natale, Emma è partita e il negozio è scoperto… Devo far fronte a più problemi del solito, diciamo così…» mormorò, abbozzando un sorriso e finendo l’ultimo goccio di vino nel suo bicchiere.
«Sono sicuro che te la caverai benissimo…» esclamò l’uomo, poggiando la mano sulla sua. Regina sentì una scossa, non riuscì a dire se per colpa del vino o altro.
«Grazie Robin» gli sorrise, fissando prima le loro mani e poi gli occhi azzurri dell’uomo.
«Posso chiederti una cosa?» domandò lui, dopo qualche secondo di silenzio.
«Sì, certo…»
«Perdonami se ti sembrerò indiscreto e forse, lo sono, ma perché una bella donna come te, non ha nessuno al suo fianco?»
Regina strabuzzò gli occhi. Di certo non si sarebbe mai aspettata una domanda del genere e nemmeno così tanta sfacciataggine.
«Forse perché non ho ancora trovato la persona adatta…» mormorò, sfoderando uno dei suoi sorrisi più belli.
«È successo qualcosa che non vuoi dirmi, vero?» chiese l’uomo, dopo averla fissata dritta negli occhi per qualche secondo.
Regina si stupì, ancora una volta. Come ci riusciva? Come faceva a leggerle dentro così bene? Lui sembrava vedere la donna nascosta dietro la maschera, la donna fragile e piena di cicatrici mai rimarginate. La donna che credeva di essere riuscita a nascondere.
«Non voglio forzarti, né sembrarti sfacciato… vorrei solo capirti, capirti meglio…»
«Purtroppo non c’è niente da capire…» mormorò la donna, con tono duro, ridiventando l’austera signorina Mills e non più Regina. Non poteva permetterglielo, non poteva permettergli di vedere oltre la spessa corazza, che tanto duramente aveva forgiato. Senza di essa, si sentiva nuda, scoperta, alla mercé di tutti. Non poteva permettere che quell’uomo sconosciuto, mandasse all’aria gli sforzi di una vita.
«Non è vero… sei sempre triste, anche quando sei felice…»
«Robin non vorrei sembrarti scortese ma tu non mi conosci!»
«No… - silenzio – Hai ragione…»
 
 
«Che ore sono?» chiese la donna, guardandosi intorno.
«Fammi indovinare, hai fame!» rise l’uomo al suo fianco, beccandosi un pugno sulla spalla.
«Sì, Killian, ho fame!» esclamò, prima di alzarsi e porgergli la mano che lui, prontamente afferrò.
Avevano deciso che le ricerche sarebbero partite l’indomani. Si sarebbero recati al comune o alla biblioteca del paese, alla ricerca di registri, censimenti, documenti, qualsiasi cosa che riconducesse alla famiglia della giovane Swan. Nonostante avessero perso del tempo a causa della loro passeggiata pomeridiana nel passato, non sentivano di averlo sprecato. Ne avevano bisogno, entrambi. Ed entrambi, avevano bisogno dell’altro per affrontare i fantasmi e gli scheletri del passato.
Si recarono di nuovo verso il centro del paesino. Qualche volta, l’uno o l’altro indicava qualche nuova o vecchia insegna, passarono dalla vecchia scuola di danza e perfino dalla vecchia casa di Killian.
«Kill»
«Che c’è?»
«Domani voglio andare da Ingrid…»
Killian la fissò, in silenzio. Cosa gli stava chiedendo? Di andare assieme a lei? Oppure di lasciarla andare da sola?
«Certo Em, ci andremo…»
Il familiare tintinnio annunciò il loro ingresso nella tavola calda, esattamente come qualche ora prima. E proprio come prima, tutti voltarono gli occhi verso di loro.
Emma vide una giovane donna venir loro incontro, lo sguardo sorridente e familiare. Eppure non riusciva proprio a ricordare a chi appartenesse…
«Emma! Killian! Sono felice di vedervi di nuovo insieme!»
«Ashley, sei sempre in forma vedo!» la salutò Killian.
Oh, ecco chi era! Ashley Tremaine! L’odiosa ragazzina che aspirava a soffiarle il ruolo da protagonista in tutti gli spettacoli. Emma non riusciva proprio a sopportarla e si chiese se da allora, fosse cambiata almeno un po’.
«Il solito adulatore! Allora, cosa vi porta qui a Storybrooke? New York è diventata troppo grande per voi?!»
No, a quanto pare il suo carattere odioso si era preservato negli anni. Che fortuna!
Andiamo Em, forse vuole soltanto essere gentile…
Il suo stomaco brontolò.
Aveva decisamente troppa fame per pensare che qualcuno potesse essere gentile con lei, per di più ostacolandole la via verso il tavolino e il cibo.
Sorridi. Sorridi. Sorridi.
«No, siamo qui per risolvere delle faccende… Non contiamo di fermarci molto…» mormorò, cercando di piegare le sue labbra in un sorriso. Non seppe se fu abbastanza convincente.
«Oh capisco… Eppure sono così curiosa! Come vi siete rincontrati? Credevo che tu avessi deciso di non rivederlo più! E poverino, era veramente distrutto dopo che l’hai lasciato…» mormorò la giovane donna con tono triste.
Killian strinse la mano di Emma più forte.
«Che ne dite di venire a cena da noi una di queste sere?! Da quando è nata Alexandra, mia figlia, io e Thomas non abbiamo più vita sociale!»
«Perché cominciare proprio adesso?» borbottò Emma e probabilmente Killian sentì, perché sorrise.
«Grazie ma come sai, non sappiamo quanto tempo ci fermeremo… E abbiamo questioni molto importanti da risolvere…» disse ed Emma pensò che gli sarebbe stata debitrice per una vita intera.
«Oh… Se cambiate idea…»
«Sì, grazie ancora per l’invito!» esclamò Emma, desiderosa di addentare il suo panino o qualsiasi altra cosa Granny avesse cucinato.
La donna, finalmente, si scostò, un sorriso forzato dipinto sul viso.
Poverina!
Dovevano averle rovinato i piani per scoprire tutto su di loro e andare a spifferare tutto ai quattro venti! Che peccato!
Quando, finalmente, presero posto, l’uno di fronte all’altra, Emma sospirò.
«Menomale! Non penso l’avrei sopportata per altri cinque minuti!» borbottò, dando un’occhiata al menu.
Killian rise.
«Le persone qui non cambiano mai eh?! Sempre pronte ad immischiarsi nei fatti degli altri, a spettegolare e…»
La donna non riuscì a continuare perché una giovane cameriera si presentò a prendere le loro ordinazioni.
«Per me una cotoletta di pollo con insalata e maionese…»
«Io prendo la parmigiana della casa…» disse l’uomo, porgendo i menu alla cameriera. Quella sorrise, abbassando lo sguardo.
«Killian… bentornato a Storybrooke!»
«Grazie Rose!»
Una volta che la giovane donna si fu congedata, Emma puntò il suo sguardo indagatore sull’uomo.
«Rose?!» chiese, il sopracciglio alzato.
L’uomo alzò le spalle.
«Non hai avuto il piacere di conoscerla… sono uscito con lei qualche volta…»
«Penso tu sia uscito con tutte le donne di questa città con età compresa tra i quindici e i quarant’anni!» esclamò la giovane, ringraziando la nonnina che stava portando loro le bibite che avevano ordinato.
«Quindici?! Ma che dici, non sono mica un pedofilo!» rise l’uomo.
Emma si unì a lui, poi lo sguardo cadde di nuovo su Ashley Tremaine, l’eco delle sue parole in mente e ritornò subito seria.
«È vero, quindi?»
«Cosa? Che non sono un pedofilo? Certo!»
«Che eri distrutto dopo che… - prese un respiro – dopo che me ne sono andata…»
Il sorriso morì sulle labbra dell’uomo. Cosa doveva dirle? Che sì, era distrutto? Che ancor peggio, si era lasciato andare?
Distolse lo sguardo. Si grattò la nuca. Abbassò gli occhi.
«Emma… Sinceramente, non ne voglio parlare adesso…»
La donna abbassò lo sguardo.
«Mi dispiace… anche se non ha senso dirlo ora… mi dispiace veramente…»
«Lo so» mormorò, guardandola dritta negli occhi ed Emma capì che forse, lo sapeva veramente.
 
 
«Adesso è meglio andare…» mormorò l’uomo, imbarazzato, lanciando uno sguardo a suo figlio addormentato sul divano.
«Sì, forse hai ragione…»
Robin annuì. Sapeva di essersi spinto, forse troppo in là con Regina. Ma sapeva che non si stava sbagliando e il suo comportamento, adesso, gliene dava una conferma.
Avrebbe solo voluto aiutarla, o almeno così si illudeva quando si malediceva per la sua sfacciataggine.
«Grazie di tutto…» mormorò, prendendo in braccio il bambino e incamminandosi verso l’ingresso.
«E scusa per prima…» aggiunse.
Lo sguardo di Regina si intenerì, Robin poté quasi giurare che si sciolse. Di nuovo, la donna che aveva conosciuto all’ospedale e a cui aveva chiesto di prendersi cura di suoi figlio, fece capolino.
«Non ti preoccupare…»
«Grazie ancora! E ci sentiamo presto ok?»
«Robin… Io non so se è il caso andare avanti così…»
Di nuovo la maschera. Di nuovo il ghiaccio. Di nuovo la pietra.
«Se è per quello che ho detto prima io… davvero, mi dispiace! Ma non voglio perderti Regina… ti chiedo solo di fidarti di me… tu, tu ti fidi di me?»
La donna ci pensò.
«Sì, sì mi fido!»
«Allora andrà tutto bene…» mormorò sorridente, prima di voltarsi e incamminarsi verso la sua auto.
Regina stette lì, sull’uscio, a fissarli. E per quella sera, si concesse di pensare che sì, forse sarebbe andato tutto bene.
 
 
«Sai stavo pensando…»
Erano appena usciti dalla tavola calda. Avevano deciso di passeggiare ancora un po’ prima di chiudersi nelle rispettive camere.
Eh sì, l’avevano fatto anche per far capire ad Ashley che avevano davvero mille cose da fare.
L’aria pungente della sera fece rabbrividire la donna, che aveva cominciato a parlare. Un leggero venticello le accarezzò la pelle.
«Pensi?»
Killian si voltò nella sua direzione. Sul volto, la chiara espressione di quando aveva intenzione di prendersi gioco di lei, quell’espressione al contempo seria, beffarda e sorpresa che aveva tutte le volte che la prendeva in giro.
«Idiota» mormorò, non riuscendo a trattenere un sorriso e dandogli un leggero pugno sul braccio.
«Sai Swan, la prossima volta dovresti cambiare braccio! Su questo mi si sta formando un livido enorme!» esclamò massaggiandosi il punto che la donna aveva colpito.
«Non fare la vittima! Non è niente di che… Comunque, stavo pensando…»
«Sai, è strano, che tu pensi…» la interruppe di nuovo l’uomo, ricevendo un’altra occhiataccia.
La ignorò.
«…Voglio dire, di solito, dopo aver mangiato, il tuo cervello entra in stand-by e…»
«La smetti?! Sto cercando di dirti una cosa seria!» sbuffò la donna, alzando gli occhi al cielo. A volte, Killian Jones riusciva ad essere la persona più insopportabile del pianeta.
L’uomo si zittì. Ritornò a guardare la strada di fronte a sé, sorridendo ancora sotto i baffi.
«Va bene, Swan. Cosa c’è?»
«Stavo pensando che tu sai tutto quello che mi è accaduto in questi anni mentre io… io non so un granché…» continuò la donna, dandosi della stupida un attimo dopo che le parole fuoriuscirono dalle sue labbra. Abbassò lo sguardo e fissò la punta dei suoi stivali.
«Be’, perché non c’è molto da sapere…»
Il suo tono cambiò. Chiunque se ne sarebbe accorto, probabilmente anche la foglia secca che aveva appena pestato, o quel lampione che si era appena acceso.
La sfacciataggine, l’ilarità di poco prima avevano lasciato spazio alla nostalgia, alla tristezza, al freddo.
Il sorriso gli morì sulle labbra. Gli occhi persero un po’ della loro lucentezza.
«Non è vero, Killian…»
L’uomo continuò a fissare la strada, incapace di dissentire. Aveva ragione lei. C’erano così tante cose che avrebbe voluto dirle, del diploma, del suo lavoro, della decisione di suo fratello, di Milah ma sentiva che era passato troppo tempo, sentiva che ormai era troppo tardi. Lei, era arrivata troppo tardi.
Perché avrebbe dovuto farle pesare ancora ciò che aveva fatto? Raccontandole del suo passato, del suo passato senza di lei, non poteva certo omettere quel dolore sordo all’altezza dello stomaco, quel brusio a cui pian piano aveva dovuto abituarsi.
Non voleva che ritornasse a sentirsi in colpa. Lui l’aveva perdonata, davvero.
O forse, non era ancora pronto a rivelarle ciò che aveva vissuto dopo la sua partenza, come si fosse lasciato andare, come fosse rinato sempre e soltanto grazie a lei.
La rivide, riascoltò la sua voce rimproverarlo in quel bagno schifoso di un bar sconosciuto.
No, non era ancora pronto a rivelarle le sue debolezze. Non era ancora pronto a rivelarle cosa gli aveva fatto veramente.
Il silenziò calò su di loro, grave e pesante come un fardello.
Emma fissò il profilo dell’uomo al suo fianco. Gli occhi persi, distanti.
«Lo so, Killian» mormorò la donna, minuti dopo.
«Chi meglio di me potrebbe comprenderti?! So che è difficile, so che è l’ultima cosa che vuoi, ripescare ricordi seppelliti chissà dove ma forse, forse ti farà bene aprirti con qualcuno, aprirti con me!» mormorò, posandosi la mano sul petto.
Non rispose.
«A me ha fatto bene parlarne con te…» continuò, stringendogli la mano, quasi a volergli dare forza.
Non rispose.
Emma si sentì talmente stupida. Non voleva forzarlo, non voleva spaventarlo. A lei c’erano volute settimane intere, una litigata e un incidente per raccontargli la sua vita. Non poteva così, di punto in bianco, chiedergli di raccontarle cosa fosse successo in dodici anni di assenza.
Non poteva pretendere che, come lei, avrebbe deciso di raccontarglieli tutti in una volta. Forse sarebbero arrivati a pezzi, riascoltando una vecchia canzone o guardando un vecchio film.
Forse doveva solo aspettare.
«Va bene» disse, spezzando ancora una volta quel silenzio troppo grande per loro due.
Killian si voltò a guardarla, il sopracciglio destro alzato.
«Va bene – ripeté – Non voglio forzarti. Volevo solo dirti che sono qui se un giorno vorrai parlarmene…»
Non rispose.
Ma Emma poté giurare di aver visto un impercettibile segno del capo.
Poté giurare che la stretta di mano dell’uomo divenne più forte, faceva quasi male.
La donna ricambiò, certa che quei gesti significavano una cosa sola.
Grazie.
 
 
Mary Margaret era appena uscita dalla doccia. Le giornate senza il suo capo, erano certamente le più stressanti. Soprattutto se quest’ultimo le aveva espressamente chiesto di disturbarlo solo in casi di emergenza. Sbuffò, tamponandosi con un asciugamano i capelli bagnati.
Non sapeva neppure quando sarebbe tornato. E sarebbe toccato a lei spiegare ad un adirato signor Gold che il suo architetto si era preso un periodo indeterminato di vacanza.
Scalza, si incamminò verso la sua camera, maledicendosi per essersi dimenticata ancora una volta le pantofole. Adesso avrebbe dovuto anche lavare il pavimento, come se non bastasse.
«Auroraa! Hai visto le mie pantofole?» urlò, sperando che la sua coinquilina non si fosse addormentata. Lanciò un’occhiata alla radiosveglia sul comodino. Erano quasi le nove.
Nessuno rispose.
Oh ma certo!
La donna si colpì la testa, dandosi della stupida. Aurora non era in casa, quella sera. Pianificava quell’uscita da una settimana, come poteva esserselo dimenticato? Philip, il suo ragazzo, le aveva regalato due biglietti per l’inaugurazione di un nuovo museo, in particolare per la mostra di un noto artista che entrambi amavano.
Aurora non aveva smesso un attimo di parlarne, era così eccitata. E Mary Margaret non poteva che essere felice per lei ovviamente, anche se dubitava che lei si sarebbe divertita all’inaugurazione di un museo…
Poco male.
Quella sera avrebbe avuto la casa tutta per lei e finalmente, avrebbe recuperato le puntate della sua serie tv preferita che aveva perso a causa del lavoro.
Si diresse di nuovo verso il bagno, canticchiando una canzone.
Afferrò il phon, sovrappensiero, anche se non ne aveva poi così bisogno, visto che i suoi capelli erano già asciutti.
Aspetta un attimo...
Spense il phon.
Un rumore.
Cos’era?
Staccò la spina e si incamminò, con passo felpato, verso la fonte di quel brusio sommesso.
La televisione era accesa.
Di nuovo quel rumore.
Il cuore di Mary Margaret cominciò a battere all’impazzata.
Aurora non avrebbe mai lasciato la televisione accesa, a meno che non si fosse addormentata sul divano, cosa improbabile visto che non era in casa.
Si guardò intorno, afferrò il primo oggetto contundente che riuscì a trovare e…
«David!» esclamò, riconoscendo il profilo dell’uomo intento a curiosare nei pensili della sua cucina.
Abbassò il… telecomando?!
«Mary Margaret!»
«Che ci fai qui? Chi ti ha fatto entrare?» chiese la donna, sempre più sorpresa. Poi si ricordò di avere addosso ancora il suo splendido accappatoio fucsia e cercò di coprirsi.
«La tua coinquilina! Che chiacchierona! Adesso capisco perché tu non parli quasi mai… Comunque volevo farti una sorpresa, quindi… sorpresa!» sorrise, allargando le braccia.
Mary Margaret stava per arrabbiarsi seriamente, ma guardando quella scena, non poté fare a meno di sorridere intenerita.
Cosa?
Andiamo Mary Margaret, riprenditi!
«Aspetta qui, vado a vestirmi e poi parliamo!» disse, cercando di mascherare la voce di durezza. Non riuscì a capire se ottenne i risultati sperati.
«Tu… Aspettami qui! E non fare danni! O sforzi! Sei ancora in convalescenza!» gli ricordò la donna, puntandogli un dito contro.
Poi si voltò e corse in camera a vestirsi.
Prese della biancheria intima, casualmente quella di pizzo, e sempre molto casualmente si infilò una gonna cipria un po’ corta e una camicetta bianca che Aurora le aveva prestato qualche mese fa.
Ritornò in bagno per mettersi un filo di trucco e finalmente ritrovò le ciabatte. Erano esattamente dove avrebbero dovuto essere. Quando avrebbe smesso di essere così sbadata?!
Dopo essersi truccata, Mary Margaret si diresse verso il salotto. David si era seduto sul divanetto vintage che lei e Aurora avevano comprato ad un mercatino e trafficava con il telecomando.
Quando la vide però, alzò gli occhi e le sorrise.
«Sei bellissima!» mormorò e le gote della donna si imporporarono leggermente.
«Allora, come hai fatto a sapere dove abito?» chiese, accomodandosi accanto a lui e prendendogli di mano il povero telecomando, prima che grazie a lui, esalasse il suo ultimo respiro.
«Me l’ha detto un uccellino!» sorrise, ignorando l’occhiataccia che la donna gli riservò.
«Che c’è? Ho le mie fonti!»
«Sì, certo! Continuo a pensare che tu sia uno stalker!» rise la donna, riuscendo finalmente a far funzionare la tv.
«E va bene, miss “Devo-avere-per-forza-tutto-sotto-controllo”! Sono andato dal meccanico a prenderti la macchina e gli ho chiesto quale fosse il tuo indirizzo, così avrei potuto portartela! Come ho detto, volevo farti una sorpresa!»
La donna spalancò gli occhi sorpresa.
«Grazie» mormorò «Non dovevi… E poi avrei dovuto anche pagare e…»
«Tranquilla! Io ti ho rotto la macchina e io pago i danni!»
«David! Che dici?! C’è l’assicurazione e… sei un idiota!» sbuffò, dandogli uno schiaffo sulla spalla.
«Un “grazie” sarebbe stato più gradito!» borbottò lui, afferrando un cuscino e mettendolo tra loro due.
«Grazie» ripeté la donna «Davvero! Non appena l’assicurazione mi risarcirà, ti ridarò tutti i soldi indietro!»
«Non ce n’è bisogno…»
«David» lo rimproverò.
«Allora, che facciamo stasera?»
Mary Margaret alzò gli occhi al cielo difronte allo spudorato tentativo di cambiare discorso e soprattutto al suo autoinvitarsi a casa sua. Però, con una certa sorpresa, scoprì che non le dava poi così tanto fastidio.
«Stavo per ordinare una mega pizza ai peperoni e guardare le ultime puntate di Game of Thrones!»
«Game of Thrones? Davvero?» chiese l’uomo sbigottito.
La donna annuì.
«Perché? Ti sembra strano?»
«Un po’…» ammise «…Ma sei fortunata perché io adoro Game of Thrones e anche se ho già visto tutte le stagioni e aspetto con ansia la prossima, posso benissimo rivederlo assieme a te!»
Mary Margaret scoppiò a ridere.
«Va bene!» mormorò, prima di afferrare il telefono e ordinare la pizza. Poi si riaccomodò sul divano e fece partire la puntata. Sia lodato il giorno in cui inventarono Netflix, pensò.
«Sai perché mi piace così tanto?» chiese, mentre la familiare melodia iniziale cominciava.
«Perché?»
«Mi ha fatto capire che ci sarà sempre qualcuno, la cui vita sarà peggio della mia e che i miei problemi in fondo, non sono niente in confronto ad un re quasi dodicenne che si diverte a torturare il popolo!»
David rise.
«Hai perfettamente ragione!» mormorò, scompigliandole i capelli. Lei sorrise, come una bambina, poi rivolse la sua attenzione di nuovo allo schermo.
Ad un certo punto, non ricordò bene quando, si ritrovò il braccio dell’uomo dietro la spalla e assecondando un folle pensiero della sua folle mente, si avvicinò a lui, accoccolandosi tra le sue braccia.  
 
 
Emma non riusciva a dormire.
Come al solito.
Tutte le volte che dormiva in un letto diverso dal suo per la prima volta, i suoi occhi proprio non ce la facevano a chiudersi.
Il cuscino era troppo duro.
Il materasso troppo morbido e cigolava tutte le volte che cambiava posizione, cosa che la stava letteralmente facendo impazzire.
Sbuffò.
Puntò i grandi occhi verdi, mai stati così aperti, verso il soffitto. Aveva provato di tutto, a contare le pecore, a guardare un punto fisso, ad intonare una canzone. Niente.
L’insonnia, come sempre, portava con sé una miriade di pensieri, pensieri che contribuivano a farle perdere del tutto quel poco senso di stanchezza che si sentiva addosso.
Era stata una giornata tutt’altro che facile, ma qualcosa le diceva che le prossime non sarebbero state da meno, anzi.
Scoprire l’identità dei suoi genitori…
Ma cosa le era venuto in mente? Era forse diventata pazza?
Ci aveva già provato e non aveva trovato niente, perché questa volta sarebbe dovuto essere diverso?
Perché, forse non hai più quindici anni?!
Che stupida.
Sbuffò ancora.
Si alzò, stufa di non riuscire a dormire. Andò verso la finestra e la spalancò, forse così, con un po’ d’aria fresca, i suoi pensieri sarebbero andati a dormire, lasciando riposare anche lei.
Sentì dei leggeri colpetti alla porta.
Guardò l’ora.
Le tre e mezzo.
Doveva esserselo inventato.
Andò in bagno, qualche secondo, per sciacquarsi il viso.
Di nuovo quei colpi.
Poco convinta, si diresse verso la porta.
«Killian» mormorò.
L’uomo di fronte a lei, era sicuramente lui, il suo amico, il suo… non sapeva come definirlo. Ma era lui.
Eppure il suo sguardo, perso, triste, stanco non gli apparteneva, non apparteneva alla persona che Emma conosceva.
Quelle occhiaie sotto gli occhi, quei capelli disordinati e scompigliati, non erano del Killian che era abituata a conoscere.
«Swan»
Fu l’unica cosa che la donna riuscì a capire prima che lui si avventasse sulle sue labbra, come un assetato nel deserto, come un drogato in astinenza, come un prigioniero che non vede la luce del sole da anni.
Lei ricambiò, assuefatta da quelle labbra morbide, dalle sue mani sulla schiena, nei capelli, dappertutto.
Non si sarebbe mai abituata al tocco sicuro di quelle labbra sulle sue, alla loro esperienza e allo stesso tempo alla loro certezza, al legame che rappresentavano.
Gli carezzò la barba, le guance, la nuca. Ispirò il suo odore.
No.
Qualcosa non andava.
Si staccò da lui, sforzandosi più di quanto avrebbe immaginato.
«Killian… Hai bevuto?» chiese, sicura già della risposta. Ecco, quel sapore che non riusciva a decifrare.
L’uomo non rispose.
Si abbandonò a lei, al suo profumo familiare, quello che più si avvicinava alla concezione di casa.
Chiuse gli occhi.
Sono debole Emma. Sono stato debole. Sei tu che mi hai reso debole. Tu, lei, mia madre… tutte voi!
Sentì le braccia della donna avvolgerlo, sentì la sua voce mormorare che no, non era vero, che lui era Killian Jones la persona più forte che avesse incontrato.
Oh no.
Quella maledetta boccaccia che si ritrovava, aveva parlato senza che se ne accorgesse!
«Non è vero» blaterò.
La donna lo condusse verso il letto. Lo fece sedere. Lo fece stendere.
La stanchezza calò su di lui come un peso. Gli occhi, che prima non riuscivano a chiudersi, faticavano adesso a restare aperti.
Aveva paura. Aveva paura di sognare, di ricordare ciò che avrebbe preferito dimenticare.
Ma era troppo stanco per lottare ancora.
Chiuse gli occhi e si addormentò.
 
 
Si risvegliò quando qualcosa cominciò a vibrare accanto al suo orecchio. A fatica, aprì prima un occhio, poi l’altro, strizzandoli subito per farli abituare alla luce che adesso filtrava dalla finestra.
Cercò di ignorare quella forte emicrania, concentrandosi piuttosto sul capire dove diavolo fosse.
Si guardò intorno, cercando di mettersi a sedere.
Oh no.
Quella non era la sua camera.
Era la camera di…
«Swan!» mormorò, quando la donna dai capelli biondi irruppe nella stanza con due tazze di caffè bollente e delle brioche (rigorosamente alla cannella).
Il suo tono era spaventato. Ricordava la cena da Granny, ricordava la passeggiata e ricordava che, una volta rientrato, aveva buttato giù qualche bicchierino.
Maledizione! La situazione doveva essergli sfuggita di mano!
Sperò almeno che…
Sì, insomma, non voleva che la sua prima volta con Emma fosse un ricordo sperduto nella sua mente. L’essere completamente vestito, però, gli faceva supporre che evidentemente e fortunatamente non si era spinto troppo in là.
«Buongiorno dormiglione!» lo salutò la donna, porgendogli uno dei due bicchieri.
Killian lo accettò di buon grado, sorseggiandone un po’ e ignorando deliberatamente il calore infuocargli la lingua e la gola.
«Mi fa male la testa…» borbottò, chiudendo gli occhi.
«Lo so! Ieri ti sei ubriacato!» gli spiegò la donna, quasi fosse la cosa più logica del mondo. Addentò poi un pezzo della sua brioche e sì, le erano mancate veramente tanto quelle squisitezze alla cannella!
L’uomo grugnì qualcosa che Emma non riuscì a percepire, troppo in estasi per ciò che il suo palato stava gustando.
«Quando finisci di baciare la tua colazione, potresti gentilmente dirmi dove trovare un’aspirina?»
Emma lo guardò di sottecchi. Si gustò l’ultimo boccone, si ripulì le mani e poi si diresse verso il bagno, dove aveva sistemato la trousse e tutti i medicinali esistenti che si era portata da New York.
«Grazie…» sussurrò l’uomo, dopo aver mandato giù quel liquido effervescente.
«Figurati!»
«No, Emma, grazie! Per ciò che è accaduto stasera… Grazie!»
La donna appoggiò la mano sulla sua.
«Io sono qui, Killian, da adesso in poi, sono qui!»
 
 
Dopo essere tornato in camera sua ed essersi fatto una lunga doccia rigenerante, Killian ritornò più o meno in forma. Certo, la testa gli doleva ancora ma era ormai piuttosto abituato. Si vestì, indossando i primi abiti puliti che trovò nella valigia e poi scese di sotto.
Prese posto al solito tavolino. Salutò con un cenno l’anziana donna dietro il bancone e cominciò a guardarsi intorno. A quell’ora, la tavola calda era di solito molto frequentata. Chi si fermava per la colazione, chi per un semplice caffè, chi per comprare la merenda al proprio figlio prima del suono della campanella. Ma stranamente, quel giorno, era abbastanza silenzioso.
Killian chiese un altro caffè, da aggiungere al suo conto.  
Sorseggiò la bevanda, aspettando che Emma lo raggiungesse. Non sapeva come comportarsi con lei, dopo quella sera. Aveva ricordi vaghi, parole che si rincorrevano nella mente, le sue labbra…
«Eccomi!»
La sua voce lo distolse dai suoi pensieri. Alzò lo sguardo e sorrise. Doveva essersi lavata i capelli, perché le punte erano ancora un po’ bagnate e gocciolavano sul maglioncino bianco che aveva indossato.
«Andiamo?» chiese, una volta finito l’ultimo sorso di caffè.
La donna annuì.
Il loro primo giorno di ricerche aveva ufficialmente inizio.
Decisero di recarsi immediatamente in biblioteca, dove avrebbero potuto consultare tutti i registri e i censimenti della città.
La bibliotecaria, una certa Rapunzel, li accolse subito calorosamente, cominciando a chiacchierare come se non parlasse con nessuno da anni.
Emma e Killian cercarono di stare dietro quel fiume di parole quanto meglio poterono, mostrandosi gentili e cordiali, ma non appena la donna li ebbe lasciati soli, non poterono che tirare un sospiro di sollievo.
«Menomale che in biblioteca non si parla!» mormorò Killian, reduce ancora dei sintomi post-sbornia.
La donna affianco a lui stirò il volto in un sorriso. Anche se evidentemente, non ottenne il risultato che sperava.
«Dai, non preoccuparti! Troveremo qualcosa!» mormorò l’uomo, accarezzandole una guancia.
Lei annuì.
Consultarono una quantità infinita di documenti, fogli, fotocopie impolverati, starnutendo ogni volta che un nuovo fascicolo veniva aperto e chiedendosi ogni volta perché l’avvento dell’era tecnologica aveva saltato il sistema delle adozioni.
Emma aveva perso il conto di quanti fogli aveva letto e sfogliato, così come piano piano stava perdendo anche quel briciolo di speranza che germogliava nel suo cuore.
Nessuno, neanche uno dei tanti documenti, riportava il suo nome.
Sfinita, si accasciò su una sedia.
«Killian… Dovremmo arrenderci… Non c’è niente!» mormorò, prendendosi la testa tra le mani.
«Emma, aspetta… Abbiamo ancora qualche scatola da controllare e se non c’è niente possiamo richiedere i documenti riservati dell’orfanotrofio e…»
«Killian?!» mormorò sollevando la testa «Che c’è? Hai trovato qualcosa?» chiese, alzandosi e andando incontro all’uomo. Era seduto per terra, a gambe incrociate, accerchiato da scatoloni e fogli sparsi. Ma ne stringeva solo uno in mano.
«Non ci posso credere!» esclamò.
«Cosa? Che hai trovato?» chiese la donna, afferrando il foglio.
«Mia madre» cominciò.
Emma sollevò gli occhi dal foglio, incredula quanto lui.
«Aveva chiesto il tuo affidamento!»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Buonasera/buonanotte a tutti!! :)
Questa volta sono stata un pochino più puntuale del solito no?
Scherzi a parte, questo capitolo si è praticamente scritto da solo! Forse è un po’ più lungo e corposo rispetto agli altri ma spero davvero che vi piaccia! Penso sia uno dei miei preferiti xD
Comunque accadono tante cose, partendo dai nostri amati CS (be’ ci sono tante scene riservate a loro! *-*), per finire a Regina e Robin e Mary Margaret e David!
Come molti di voi avevano già preannunciato, Emma e Killian sono partiti per Storybrooke!! (Anche se Regina non era molto d’accordo! xD) e piano piano, cercano di rimettere insieme i pezzi, sia i loro, che quelli del loro passato.
Questa volta è toccato a Killian crollare. Il paesino gli ricorda troppe cose, anche se stenta ad ammetterlo!
E poi la notizia bomba, la mamma di Killian aveva chiesto l’affidamento di Emma!! Ci sarà sotto qualcosa?! Chissà…
Perdonate se Ashley in questa storia non è esattamente come nella serie tv! Non ho niente contro di lei, davvero! Ma adesso, mi serviva in versione “pettegola del paese” xD
Come sempre non posso non ringraziarvi per tutto l’affetto e le parole che dimostrate a me e alla storia! Lo so che lo ripeto sempre ma non posso proprio farne a meno! GRAZIE! Ogni vostra parola è un spinta in più a fare sempre del mio meglio! Spero di esserci riuscita! E sarei davvero felice di sapere cosa ne pensate anche questa volta!! :)
Lunedì comincia la scuola (purtroppo) ma cercherò comunque di fare il possibile per aggiornare questa storia il prima possibile!! 
E pian piano si avvicina anche il fatidico 27 settembre!! Ahhh non vedo l’oraa!! *-*
Un bacio a tutti/e
A presto
Kerri :*
 
 
 
PS: No, ma la canzone della Perri all’inizio è proprio un caso! Non so perché stia lì ahahah Vi lascio il link così potete ascoltarvela e vedere il bellissimo e fantastico video per la 1039030 volta! :*
https://www.youtube.com/watch?v=B9tc9R_Y3FY
PSS: Perdonate se ultimamente mi sono persa qualche aggiornamento delle vostre storie! Ero impegnata a scrivere e a finire la terza stagione di Arrow! Rimedierò presto! :*

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Capitolo 16
*** Fighting my Demons, answering your Questions ***


15. Fighting my Demons, answering your questions

 
 
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È come quando c’è chi crede di essere felice
Andando a vivere da qualche altra parte, ma poi
Impara che non è così che funziona.
Ovunque tu vada, porti sempre te stesso con te.
-N. Gaiman
 
Cosa?
Emma spalancò la bocca e sbarrò gli occhi, continuando a spostare lo sguardo da quel foglio ingiallito agli occhi blu dell’uomo, sconcertati almeno quanto i suoi.
Cosa?
Stentava a crederci. Perché nessuno gliel’aveva mai detto?
«Elizabeth aveva chiesto il mio affidamento?» ripeté, più per convincere se stessa che riferirlo all’uomo.
«Perché?» le fece eco Killian, avvicinandosi e leggendo il documento, incapace perfino di riprenderlo tra le mani.
Perché ne era tanto scosso? Perché gli tremavano le gambe al solo pensiero?
Forse, se tutto fosse andato secondo i piani di sua madre, le cose sarebbero andate diversamente?
Probabile.
«Suppongo che non potremo più chiederglielo…» mormorò Emma sconsolata, accasciandosi sul pavimento polveroso della biblioteca e accorgendosi, qualche secondo dopo, che alle volte era davvero priva di qualsiasi tatto.
«Scusa Killian»
L’uomo parve non sentirla neanche, troppo occupato a cercare tra le altre scartoffie qualche altra cosa utile al loro caso.
Sempre se così potevano definirlo.
«Maledizione!» esclamò, forse un po’ troppo ad alta voce, sbattendo violentemente la mano su una scatola.
Emma gli si avvicinò.
«Kill, ehi, calmati, calmati ok? Perdere la pazienza non servirà a un bel niente!» lo ammonì, carezzandogli un braccio.
Lui distolse lo sguardo per qualche secondo. Poi serio, ritornò a fissarla.
«Prendi quel foglio, ce ne andiamo!» disse, trascinandola verso l’uscita.
«Cosa? Aspetta! Dobbiamo mettere in ordine e fare delle fotocopie e…» puntò i piedi, cercando di fermare quell’assurda corsa «…dove diavolo vorresti andare?»
«A cercare delle risposte»
«Dove?» sbuffò la donna.
Di certo, non si sarebbe mai aspettata ciò che successe dopo, di certo le parole dell’uomo di fronte a sé, erano le ultime che avrebbe mai creduto di sentire.  
«Dall’unica persona ancora in vita che può darcele…»
Quando Emma capì, spalancò gli occhi.
Non poteva parlare seriamente.
Non poteva farlo!
Non a causa sua…
«No, Killian, stai delirando! Non puoi dire sul serio!»
«Vuoi le tue risposte Emma?» chiese, stanco, perdendo quasi la pazienza, quel po’ di autocontrollo che gli era rimasto.
«Sì ma non facendo del male a te!»
«Nessun “ma”, vieni! – disse perentorio, prendendole la mano – Andiamo a parlare con mio padre!»
 
 
«Cosa?!» tuonò l’uomo, alzandosi di scatto dalla sedia.
«Robert, per favore! Sii ragionevole!»
«Ragionevole?! Io li pago e loro se ne vanno in giro per l’America? Non se ne parla! Licenziati! Licenziati tutti e due!» urlò, sedendosi di nuovo sulla sua sedia in pelle e afferrando la cornetta del telefono, pronto a chiamare la sua assistente, l’inserviente, chiunque, affinché quei due irresponsabili venissero licenziati immediatamente!
«Robert!» lo rimproverò la giovane, interrompendo qualsiasi chiamata avesse intenzione di fare.
L’uomo la guardò per qualche secondo, incapace di capire come riuscisse ad essere così calma in una situazione del genere!
Quei due, quei due avevano osato mancargli di rispetto e nessuno, nessuno mancava di rispetto al signor Gold, restandone immune. Per di più, non avevano avuto neanche il coraggio di dirgli niente, facendo affidamento alla bontà e all’ingenuità della sua fidanzata.
Oh, ma non l’avrebbero passata liscia! Questo era sicuro!
«Robert, smettila! Sono stata io! Io ho permesso loro di partire!» esclamò la giovane alzandosi di scatto e sbattendo i pugni sul tavolo.
«Tu hai fatto… cosa?» domandò sbigottito l’uomo.
«Ho lasciato che partissero!»
«E perché avresti fatto una cosa del genere? Sai quanto ci serva la casa e dopo tre settimane, quei due buoni a nulla hanno progettato solo una camera e mezzo! Avrei dovuto licenziarli già per questo motivo!» disse, riprendendo in mano la cornetta.
«Robert smettila! Non puoi non ammettere che hanno fatto un ottimo lavoro con la camera degli ospiti, perché non dare loro un po’ di fiducia?»
«Perché sono a otto ore da qui e non possono di certo lavorare?»
«Sono via per delle questioni… importanti… ti prego, fidati di me!» replicò la giovane, fissandolo con quei suoi occhi blu, prendendo le mani dell’uomo tra le sue.
Robert, proprio non ce la faceva a resistere a quegli occhi, così limpidi e pieni d’amore.
«Va bene» acconsentì.
«Ma se non si fanno vedere entro una settimana, sono fuori!»
 
 
Killian continuava a guidare. Da quando si erano infilati in macchina, nessuno dei due aveva osato aprir bocca.
Lo sguardo duro e impassibile dell’uomo era fisso sulla strada.
Cercava di non pensarci, Emma lo sapeva. Cercava di convincersi che fosse forte.
La sera prima era crollato a causa di qualche domanda, cosa sarebbe successo adesso che stavano per affrontare il primo vero mostro del suo passato?  
Suo padre.
Emma ricordava poco di lui. Era un uomo dal fisico asciutto, alto e con le sopracciglia sempre incurvate.
Ciò che ricordava erano soprattutto i lividi di Killian, i punti, le corse all’ospedale e le preghiere per convincerlo a farsi curare o a parlarne con qualcuno.
Ricordava il sospiro di sollievo tirato quando gli assistenti sociali scoprirono cosa accadeva dietro quelle mura.
Ne avevano riparlato poche volte, da quel giorno. Né Killian, né suo fratello amavano rispolverare quelle vecchie questioni famigliari, ed Emma non poteva biasimarli. Forse, non ne avevano avuto neanche il tempo, vista la successiva notizia della sua partenza.
Si chiese se gli fosse stata davvero d’aiuto, come lui diceva.
“Signorino, il preside contatterà i tuoi genitori se continui a saltare le lezioni…”
“Non può, professore. Sono morti. Entrambi”
Quelle parole risuonarono nelle orecchie di Emma.
Rivide quel ragazzino smilzo, dai capelli neri e gli occhi azzurri, fissare impassibile il professore, sfidandolo quasi.
Il tono di voce che il giovane aveva usato quel giorno così lontano, il freddo nella sua voce, il gelo nei suoi occhi e nel suo viso erano qualcosa che Emma non avrebbe mai dimenticato.
Qualcosa che, qualche secondo prima, aveva intravisto sul volto dell’uomo che quel ragazzino era diventato.
Cosa stavano facendo?
Emma si voltò a guardarlo, la mascella contratta e le dita a stringere nervosamente il volante.
«Killian» sussurrò, una volta che l’uomo fermò la macchina di fronte ad una villetta a schiera, uguale a tante altre.
Faceva quasi paura, per quanto normale potesse sembrare. Una normale casetta con il tetto spiovente, la cassetta delle lettere rossa e le tendine alle finestre. Ad Emma ricordò quella dei nani di Biancaneve, paragone che non fece altro che farle venire la pelle d’oca.
Come faceva a sapere che abitasse proprio lì?
Il giovane architetto si voltò verso di lei. Lo sguardo indecifrabile per chiunque, tranne che per la giovane.
«Non sei costretto» ripeté, leggendo ciò che quegli occhi, all’apparenza così sicuri, in realtà provassero.
L’uomo non l’ascoltò.
Testardo, proprio come lo era sempre stato.
Testardo, quasi quanto lei.
Aprì la portella e si incamminò sul vialetto. Emma fu dietro di lui, in pochi secondi.
«Smettila Killian!» urlò, tirandolo per un braccio e facendolo voltare verso di lei.
«Non nasconderti da me! Ti conosco! Non puoi fingere, non con me!» esclamò la donna, puntandogli un dito contro il petto.
Lei sapeva.
Sapeva che aveva paura.
Lo sapeva, perché ne aveva anche lei, molta, troppa.
Ma se lui avesse continuato a comportarsi così, da idiota, non avrebbe risolto nulla.
«Non mi sto nascondendo, Emma» mormorò l’uomo, con voce rauca, non riuscendo a fare a meno di lanciare delle piccole occhiate alla casa.
Quelle tendine si erano spostate, o era solo una sua impressione?
«Sì, Killian, lo stai facendo! Ti ho detto che non sei costretto a farlo! Quell’uomo, ti picchiava! Quell’uomo – disse indicando la casa con un dito – ti ha reso la vita un inferno!»
«Adesso sono io l’uomo, Swan! Non sono più il bambino frignone che conoscevi! Sono perfettamente in grado di gestirlo!»
Emma incrociò le braccia al petto e scoppiò a ridere.
«Vedi?! Tu non capisci! Comportandoti così, ti stai solo facendo del male da solo!»
«Le vuoi o no quelle dannatissime risposte, Swan? Le vuoi o no?» sbottò l’uomo, perdendo la pazienza e afferrandole il braccio. Il viso, a pochi centimetri da quello della donna.
Lei cercò di allontanarsi, ma lui rafforzò la presa.
Forte. Forse, troppo.
«Smettila! Mi fai male!» urlò.
Killian abbassò lo sguardo. La pelle di Emma, così bianca e pura, si era arrossata e la sua mano, la sua mano ne era la causa.
Lasciò la presa.
Delle immagini gli riempirono la mente.
Immagini di un uomo, di una cinta, di bottiglie rotte e pavimenti sporchi.
No.
Stava diventando come lui.
Non poteva, non con Emma, non con lei.
Si allontanò, lo sguardo terrorizzato e colpevole.
«S-scusa…» mormorò, fissando ancora la mano che poco prima era stretta intorno al braccio della giovane Swan.
Forse avevano ragione, forse per quanto cercasse di provare il contrario, non poteva negare ciò che era.
Un uomo violento.
Proprio come suo padre.
Non poteva permettere che Emma o chiunque altro, si facesse del male a causa sua.
Le diede le spalle e cominciò ad incamminarsi da qualsiasi altra parte, ovunque, purché lontano da lei e quella casa degli orrori.
 
 
David aprì gli occhi e li strizzò per farli abituare alla luce.
Si stiracchiò e si ritrovò piuttosto dolorante.
Ma dove diavolo era?
Le immagini della sera prima, gli ritornarono alla mente.
Avevano finito per vedere quattro puntate e Mary Margaret aveva insistito affinché si fermasse a dormire lì, ovviamente sul divano.
Ecco perché non si sentiva più la schiena e i piedi.
Allungandosi, finì per cadere rovinosamente a terra.
«Ahia» mormorò, alzandosi di scatto, non ancora completamente lucido e sveglio.
«Buongiorno David!» lo salutò Mary Margaret allegramente, dirigendosi verso la cucina.
Da dove usciva fuori tutto questo buon umore? Per di più alle – lanciò uno sguardo all’orologio- sei e mezzo del mattino?
Si strofinò gli occhi e il suo naso fu pizzicato dall’odore pungente del caffè.
Quando li riaprì, vide che la donna, già completamente vestita e pronta per uscire, teneva stretta una tazza fumante proprio sotto il suo naso.
L’afferrò, mormorando un “grazie” o qualcosa di molto simile. 
Dopo averne assaggiato un sorso, si sentì già molto meglio e più capace di articolare parole e frasi di senso compiuto.
«Perché sei già sveglia a quest’ora del mattino?»
«Tutte le mattine, prima del lavoro, vado a fare volontariato ad un rifugio per animali, qui vicino…» sorrise.
«E non puoi andarci, che so, il pomeriggio?» chiese David, reprimendo a stento uno sbadiglio.
«No, ti ricordo che lavoro! Insomma, vuoi venire o no?»
L’uomo finse di pensarci su ma in fondo, aveva già deciso.
«Andiamo! Ma per favore, prima posso avere dell’altro caffè?»
 
 
«Killian! Aspetta!»
Emma gli corse dietro.
«No, Emma, vattene!» urlò quello di rimando. La donna si guardò intorno, incrociando qualche sguardo curioso affacciato ad una finestra, intento a godersi lo spettacolo. C’era da aspettarselo. Dopotutto, erano a Storybrooke, no?
«Killian, fermati!» corse e lo raggiunse. Gli si parò davanti, le braccia sui fianchi, lo sguardo dritto e sicuro.
L’uomo si bloccò. Non riuscì neanche a guardarla negli occhi.
Cosa gli era preso? Avrebbe davvero potuto farle del male? Lei, che adesso, stava riportando luce nella sua vita.
Non la meritava.
Emma lo fissò con quel suo sguardo verde e indagatore, con quegli occhi, quell’espressione preoccupata, quelle sopracciglia arricciate e le braccia sui fianchi. Era bellissima, bellissima e lui non lo meritava.
Abbassò gli occhi, incapace di reggere ancora quello sguardo. Poi la donna, fece l’ultima cosa che l’uomo si sarebbe mai aspettato.
Si avvicinò e lo abbracciò.
Si sentì circondato dal suo odore, dalla sua chioma bionda e dalle sue esili e forti braccia.
Dapprima rimase immobile, congelato sul posto.
Poi, pian piano si sciolse e si abbandonò a quell’abbraccio, a quell’odore familiare che, da sempre, l’aveva riportato a casa.
Non seppe dire quanto tempo restarono così, forse secondi, a Killian parvero ore. Avrebbe voluto che quel momento durasse per sempre.
«Va meglio?» gli chiese la donna gentilmente, scostandosi un po’ dal suo collo. Un brivido gli salì la schiena.
Annuì.
«Bene!» Emma sciolse del tutto l’abbraccio e gli si parò di fronte.
Ancora una volta, Killian fu colto di sorpresa.
«Ahi!» esclamò massaggiandosi la guancia che la giovane aveva appena colpito.
«E questo per cos’era?» chiese, sbigottito.
«Perché sei un idiota! Perché ti ho già detto che non sei più solo! Perché tu non sei come lui e non lo sarai mai! Perché, come hai potuto anche solo pensare di fare una cosa del genere, senza neanche parlarmene?! Avresti dovuto! Avresti dovuto, farlo! Perché ti conosco Killian e lo so che non è facile per te affrontare tutto questo!» urlò.
L’uomo la guardò in silenzio, assimilando le sue parole.
«Hai ragione» sussurrò, dopo qualche secondo di silenzio.
«E soprattutto, non voglio che tu lo faccia a causa mia, non voglio che ti senta costretto a… - continuò a sfogarsi la giovane, ignorando ciò che l’uomo aveva appena detto -…cosa?»
«Hai ragione» ripeté Killian, più forte, ritornando a guardarla negli occhi.
«Oh…»
«Sono stato uno stupido…» abbassò lo sguardo.
Emma alzò un sopracciglio. Di certo, non si sarebbe mai aspettata che sarebbe stato così facile.
«Ma non lo stavo facendo solo per te, Emma…»
«Killian, se tu non sei pronto noi…»
«Lo so, potremmo trovare un altro modo ma ci porterà via altro tempo e noi non ne abbiamo…» disse, sospirando. Uscì il cellulare dalla tasca del giubbotto e le mostrò il messaggio, decisamente poco amichevole, ricevuto qualche ora prima, dal signor Gold.
«Cosa? Perché non me l’hai detto?» mormorò la donna, spalancando gli occhi.
«Perché tu meriti di sapere, Emma. E anche io…»
«Vuoi farlo? Vuoi farlo davvero?»
L’uomo annuì.
«Insieme?» mormorò, porgendole una mano, la stessa che poco prima le aveva stretto il polso, la stessa che poco prima si era posata tra i suoi capelli.
«Insieme»  
Emma afferrò la mano dell’uomo e si incamminarono di nuovo verso il vialetto.
 
 
Regina non riusciva a capire come diavolo funzionasse quel dannato aggeggio. Erano ore che cercava di capirci qualcosa e non aveva ottenuto un bel nulla.
Perché quando aveva bisogno della sua assistente, lei spariva?!
Dove diavolo era finita adesso, quella buona a nulla?
Spinse di nuovo con forza qualche tasto a caso, apostrofando il povero computer con delle parole decisamente poco carine e giurò a se stessa che se non avesse funzionato di lì a due secondi, l’avrebbe gettato direttamente dalla finestra.
Maledizione!
Doveva stampare ciò a cui aveva lavorato per tutta la mattinata!
D’istinto prese il telefono abbandonato all’angolo della sua scrivania e compose il numero di Emma. Lei sicuramente, avrebbe saputo come aggiustare quel casino e…
Merda!
Quella stupida della sua amica aveva avuto la brillante idea di partire alla volta del Maine con quel tipo, scaricandole suo figlio! Ma cosa aveva fatto per meritare una simile punizione?
Batté un pugno sulla scrivania, stringendo i denti per evitare di urlare.
Subito dopo, qualcuno bussò alla porta.
Oh finalmente, Ella aveva deciso di riportare il suo bel faccino lì!
«Entra stupida, da quand’è che bussi?!» urlò la donna.
La porta si aprì, ma chi entrò non fu la bionda assistente della giovane Mills.
«Henry! Che ci fai qui?» chiese, spalancando gli occhi e mordendosi la lingua. Che il bambino avesse ascoltato tutte le imprecazioni lanciate qualche minuto prima al suo maledettissimo computer? Non che non fosse a conoscenza del suo lato… scontroso… ma di certo, con lui, non l’aveva mai utilizzato.
«Pensavo fossi Ella… Sai, lei non bussa mai! Anche se dovrebbe…» borbottò, giustificandosi.
«Sì, l’avevo capito!» rise, avvicinandosi alla scrivania e prendendo posto su una delle due poltrone di fronte ad essa.
«Allora? Che ci fai qui? Non dovresti essere a scuola?»
«Oggi è mercoledì e il mercoledì non abbiamo mai lezione nel pomeriggio…»
«Oh, scusa! Avrei dovuto saperlo…»
«Non ti preoccupare zia Reg… piuttosto, vedo che qui hai dei problemi più seri! Cosa è successo?»
«Non stampa!» sbuffò la donna, alzando gli occhi al cielo per poi lanciare al monitor lampeggiante un’occhiata di fuoco.
Se avesse avuto qualche potere magico, di certo per il povero computer non ci sarebbe stato scampo.
«Fammi dare un’occhiata…»
«Fai pure!»
Henry la raggiunse dietro la scrivania. Armeggiò un po’ con i fili.
«Se ci riesci, ti giuro che stasera ti porto al McDonald’s!»
Il bambino riaccese la stampante che, ad un tratto, cominciò a sputare fuori una miriade di fogli.
«Era solo spenta!» rise Henry.
«Oh»
«Bene, bene, bene! Qualcosa mi dice che stasera si mangiano hamburger! Tranquilla, non lo dirò alla mamma!» sorrise, felice.
 
 
Emma continuava a pensare che fosse una terribile decisione e che si stavano cacciando in un grosso guaio.
Perché diamine gli aveva dato ascolto? Lui non era pronto, lo sapeva, e neanche lei.
Cosa dovevano aspettarsi da quell’uomo che per anni, aveva popolato gli incubi di entrambi?
Prima di suonare il campanello, si scambiarono un’occhiata.
Il loro cuore, sembrava voler uscire dal petto.
Killian poteva sentire le goccioline di sudore che gli scivolavano sulla schiena, sulla nuca, dappertutto.
Ascoltarono il rumore dei passi, farsi sempre più vicino.
Le mani si strinsero.
La porta si aprì.
«Killian» mormorò l’uomo di fronte a loro.
Gli anni erano passati anche per lui ed Emma se ne rese conto subito. Non era più grande e grosso come lo ricordava e non le incuteva più lo stesso timore.
Adesso, con gli occhi dell’adulta che era diventata, Emma non vedeva altro che un uomo, magro e smilzo, vecchio.
La donna spostò gli occhi sull’uomo accanto a lei.
Sembrava paralizzato.
Il padrone di casa, dai capelli ormai bianchi, non aveva occhi che per suo figlio. Quasi non si era accorto che c’era anche lei, lì con lui.
«Buonasera signor Jones, siamo qui per farle alcune domande…» esclamò, per porre fine a quella situazione piuttosto imbarazzante.
L’uomo spostò lo sguardo su di lei e sorrise.
«Emma, Emma Swan! Quanto tempo è passato!»
Killian non riusciva a descrivere ciò che sentiva dentro in quel momento. Lo odiava, lo odiava con tutto sé stesso. Pretendeva di far finta che niente fosse accaduto, che fosse una normale e banale visita di cortesia. Sapeva che se avesse aperto bocca, ne sarebbero usciti solo insulti e domande a cui, purtroppo, non poteva dare una risposta.
Così, preferì assecondare ciò che Emma aveva detto.
Seguì quell’uomo, che da tempo aveva considerato morto, nella sua nuova casa.
«Prego, accomodatevi! Se avessi saputo che sareste venuti, avrei preparato qualcosa…»
«Sì, certo, come se non sapessi che fossimo in città…» mormorò Killian, tagliente.
L’uomo parve ignorare quell’ultimo commento e li condusse in salotto.
Emma cercò lo sguardo di Killian.
Lui capì.
Gli sarebbe bastato dire qualcosa e se ne sarebbero andati immediatamente.
Scosse la testa.
Avevano bisogno di risposte e al momento, lui era l’unico in grado di dargliele.
«Gradite un caffè? Un tè?»
«No, grazie, siamo a posto…» rispose la donna, per entrambi.
L’uomo annuì con espressione un po’ delusa.
Fece loro segno di accomodarsi sul divano.
Lui si posizionò su di una poltrona lì accanto.
Emma si guardò intorno e ciò che aveva pensato, prima, sulla soglia della porta, ritrovò conferma.
Isaac Jones aveva perso ogni cosa, dopo ciò che aveva fatto. Era un uomo solo, in una casa forse troppo grande.
«Basta con questa messa in scena, non metterti in testa strane idee…» mormorò Killian, fissandolo truce, negli occhi.
L’uomo si accomodò meglio sulla poltrona.
Sospirò.
«…Siamo qui solo per farti delle domande, dopo di che toglieremo il disturbo e continueremo ad ignorarci come in questi anni…»
«Io non ti ho mai ignorato, figliolo!»
Il volto di Killian si aprì in un sorriso amaro e sprezzante.
«Ti consideri ancora mio padre dopo tutto quello che mi hai fatto? Che ci hai fatto?» chiese l’uomo, alzando la voce e pensando, per una frazione di secondo, a suo fratello.
«Io vi volevo bene! Voi eravate tutto, per me!»
«Bel modo di dimostrarlo, davvero! Mi chiedo perché non ti abbiano dato il titolo di padre dell’anno!» esclamò Killian sarcasticamente.
«Ho commesso degli errori! Mi dispiace avervi ferito… dopo la morte di tua madre io… - lasciò la frase in sospeso, fissandosi le mani, le stesse mani che Killian aveva da sempre temuto -…ma in questi anni, ho cercato di cambiare, devi credermi Killian!»
«Basta così… Emma, chiedigli ciò che devi! Dopodiché ce ne andremo…» mormorò, fissando la donna al suo fianco. Quella annuì.
Le faceva male, vederlo così.
«Signor Jones…»
«Chiamami pure Isaac…»
«Isaac – riprese – abbiamo trovato questo documento in uno dei miei fascicoli… può dirci cosa significa?» mormorò la donna, alzandosi per portare al padre di Killian il documento in questione.
Quello lo prese tra le sue mani nodose e lo fissò per qualche secondo.
Emma aveva il cuore in gola e probabilmente, a giudicare dalla sua espressione, anche Killian era teso allo stesso modo.
«Cosa non capisci? Elizabeth voleva chiedere il tuo affidamento…»
«Fin lì, ci eravamo arrivati!» mormorò sprezzante Killian.
«Perché? Perché non ce l’avete mai detto?»
«Non lo sapevo neanche io…» mormorò l’uomo, alzando le spalle.
«Guarda la data, “21 Settembre 1998”, è il giorno in cui la ricoverarono in ospedale…»
 
 
Storybrooke, 21 Settembre 1998
 
Elizabeth Jones si considerava tutto, fuorché una brava madre.
Credeva che nessuno dovrebbe mai avere la presunzione di affibbiarsi un tale merito. Essere madre, a suo dire, era una delle cose più difficili al mondo. È un lavoro a tempo pieno, che raramente viene retribuito e per di più, consta di tanti sacrifici.
Per non parlare degli altri “effetti collaterali”: cucinare, stirare, lavare il pavimento, fare il bucato non sono attività così divertenti come qualcuno, vuole far credere.
E si commettono degli errori, a volte.
Educare degli esseri umani a comportarsi da esseri umani, non è facile, è una grande responsabilità.
Ma lei ce la metteva davvero tutta, affinché la sua piccola famiglia funzionasse. E non si sarebbe mai pentita della scelta di metter su famiglia in così tenera età.
Elizabeth Jones era convinta di un’altra cosa: nessun essere umano è fatto per stare da solo.
Guardando la nuova amichetta di suo figlio, questa convinzione si era rafforzata ulteriormente.
Cosa aveva fatto quella piccola creatura, per essere stata abbandonata così, sul ciglio di una strada? Perché quella bambina così dolce e gentile, aveva dovuto vivere senza l’amore e l’affetto dei suoi cari?
Guardando i suoi occhi felici quando aveva di fronte una tazza di cioccolata calda o il suo sguardo triste, quando giungeva l’ora di tornare in orfanotrofio, Elizabeth Jones aveva deciso che non era giusto, per niente, e che avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere pur di rimediare, pur di rendere quella bambina, felice.
Così, con un nuovo obiettivo nel cuore e una nuova luce negli occhi, quel giorno, si era recata dalle suore (tutt’altro che simpatiche) che gestivano il posto in cui Emma viveva e aveva chiesto il modulo per il suo affidamento.
Aveva compilato tutto, copie su copie. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di prendersi quella bambina.
Sapeva che per suo marito, non sarebbe stato un grosso problema. E sapeva anche che entrambi i suoi figli ne sarebbero stati felici.
Dopo una lunga e interminabile attesa, Elizabeth rientrò a casa, felice, stringendo una copia degli ultimi documenti nella tasca del cappotto.
Non vedeva l’ora di annunciare la notizia ai suoi uomini!
Sarebbe stato bello avere un’altra donna in casa! Almeno così, Killian non si sarebbe sentito costretto ad accompagnarla, tutte le volte, a fare shopping. Anche perché, sapeva, che non sarebbe durato per troppo tempo questo suo senso di colpa.
Infilò la chiave nella toppa della porta.
«Sono a casa!» urlò.
Si sfilò la sciarpa e il cappotto.
Un leggero capogiro la colse impreparata.
Si incamminò verso la poltrona in salotto e vi si adagiò.
«Mamma! Mamma tutto bene? Mamma svegliati! Mamma!» gridarono i suoi figli, accorsi al pian terreno a salutarla.
Elizabeth non riusciva a sentirli.
Non si alzò mai più.
 
«Morì il giorno dopo…» sussurrò Killian, fissando il foglio.
Come aveva fatto a non notarlo? Era stato troppo preso da quella notizia, che aveva tralasciato un così importante dettaglio.
«Già…» annuì il padre, porgendo ad Emma il documento. Probabilmente, una delle ultime cose che sua moglie aveva toccato.
«Siete sicuri di averlo trovato in un fascicolo?»
«Sì…»
«Forse, quando ho dato via le sue cose, avranno trovato il documento da qualche parte… non so che dirvi…»
«Non sapeva nulla?»
«No, mi dispiace… ma, per quel che vale, mi sarebbe piaciuto accoglierti nella mia famiglia… forse le cose sarebbero andate diversamente…»
Emma non sapeva che dire.
Grazie? Forse?
«Tu eri una specie di giornalista, in città… sei davvero sicuro che non sai niente? Qualcosa, del passato di Emma?» chiese Killian, ignorando quell’ultima frase, quell’ultima domanda che lui stesso, da qualche ore, continuava a porgersi.
Isaac tacque per qualche secondo, fissando prima suo figlio e poi la donna al suo fianco.
«Io…»
«Parla!»
L’uomo sospirò.
«All’epoca, quando ti trovarono, girarono delle voci…»
«Quali voci?» domandò la donna, con voce tremante.
«Poco prima della tua comparsa, in città arrivò una coppia di senza tetto. Me li ricordo bene, li vidi io stesso. Lui era alto, lei bionda con gli occhi azzurri. Erano rivestiti di stracci, per cui non si notava se la donna fosse incinta…»
«Quindi? Cosa successe dopo? Perché nessuno ce l’ha mai detto?» chiese Killian perché sapeva che Emma era troppo sconvolta perfino per parlare.
«Loro se ne andarono, tu arrivasti. Sei cresciuta e dopo parecchi anni, una donna dai capelli biondi e gli occhi azzurri ha chiesto il tuo affidamento…»
«Ingrid»
Emma spalancò gli occhi e la bocca.
No, non era possibile.
«E tu come fai a saperlo?» chiese Killian, considerando che in quel periodo era in carcere.
L’uomo sorrise.
«L’hai detto tu stesso, figliolo… ero un giornalista…»
«Stai dicendo che Ingrid era davvero mia madre?!» chiese di nuovo la donna, sentendosi mancare la terra sotto i piedi. Tutte quelle domande, tutti quei punti interrogativi nella sua mente, non facevano altro che aumentare e lampeggiare ancora di più.
«No, Emma, non ne ho la certezza… Ti sto dicendo che quella donna, che ventotto anni fa arrivò in questa città, assieme a suo marito, le somigliava terribilmente… Non so, se siano veramente la stessa persona…»
«E nessuno potrà mai dircelo…»
Emma aveva le lacrime agli occhi e la pelle d’oca.
Era diventata irrequieta, aveva bisogno d’aria, aveva bisogno di riordinare le idee e uscire da quella casa.
Killian se ne accorse.
«Grazie per la tua collaborazione… Adesso togliamo il disturbo…» mormorò l’uomo, prendendo la mano di Emma e trascinandola verso la porta di ingresso.
Isaac li seguì, impotente.
«Addio» mormorò l’uomo, senza neanche girarsi.
«Killian, aspetta…»
«Ah, un’altra cosa papà, non puoi comprare il mio perdono!»
«Sto solo cercando di sistemare le cose figliolo! – urlò alle figure che, velocemente, si allontanavano da lui – Sto solo cercando di sistemare le cose…» ripeté.
Killian ed Emma, non si girarono più.
 
New York, 10 Marzo 2012
 
«Regina, davvero, non so se è una buona idea!» ripeté Emma, fissando ancora una volta lo schermo del computer.
«Aspetta un attimo…» la donna dai corti capelli color dell’ebano, afferrò il foglietto abbandonato lì vicino, e tracciò con la penna un piccolo segno.
«Cosa fai?» chiese la giovane Swan, sbirciando da sopra le sue spalle.
«Segno quante sciocchezze dici al giorno!» disse seria la donna, richiudendo la penna.
Emma alzò entrambe le sopracciglia.
«Sei seria?»
«Mai stata così seria in vita mia! Se avessi un dollaro per tutte quelle che ho segnato oggi, sarei più ricca di… - si fermò un attimo a contare i segnetti rossi sul foglio -… trentasette dollari!»
La giovane Swan, alzò gli occhi al cielo.
Cosa aveva fatto per avere un’amica così… così…
Oh, non riusciva neanche a trovare un termine per descriverla. Odiosa? Irritante? Scostante?
«Certo, la mia preferita di quest’oggi è stata quando hai detto che saresti andata ad una vera scuola di danza, seguita a ruota da questa!»
«Io mi iscriverò ad una scuola di danza… prima o poi… ma questo è diverso!» urlò Emma, puntando la mano verso lo schermo del computer.
«Swan, lascia che ti spieghi una cosa…» sussurrò Regina, col suo solito tono di voce che usava con chiunque avesse l’ardore di contraddirla.
«Tu hai talento, del vero talento! Ed è un peccato non sfruttarlo, soprattutto se questo talento, ti porterebbe finalmente a licenziarti da quella topaia dove ti ostini ancora a ballare!»
Emma sbuffò.
«Regina, non ho nessun talento! Tu mi hai detto di cercare una persona e io l’ho fatto, punto! Il lavoro più grosso, l’ha fatto il computer! Io ho solo dovuto digitare il nome della De Vil, su internet!»
«Appunto!» esclamò la donna dai capelli neri, chiedendosi perché mai Emma non ci arrivasse.
«Perché non puoi farlo anche per gli altri? Magari guadagnando anche soldi? Tanti soldi!»
«Io…»
«Henry mi ha detto proprio l’altro giorno che vorrebbe iscriversi in piscina ma ha paura di chiedertelo…»
Regina sapeva che Henry era il punto debole di Emma e se non l’avesse tirato in ballo, la giovane donna, non si sarebbe mai decisa.
Ovviamente, inventando tutto di sana pianta.
«Cosa? Davvero?» chiese sbigottita la giovane, con sguardo triste.
Regina sapeva che non aveva molto tempo, perché il superpotere della sua amica, si sarebbe presentato di lì a poco, quindi si alzò di scatto e si diresse verso il computer.
«Sì sì…»
Premette quel dannato bottone.
«Ecco fatto, Swan! Sei ufficialmente un’investigatrice privata!» esclamò soddisfatta, distendendo il volto in un sorriso.
 
Regina ormai, non poteva più tirarsi indietro.
Verso le sette, lasciò l’ufficio e raggiunse il bambino, che nel frattempo era tornato a casa, e poi si recarono insieme al Mc Donald’s più vicino.
«Non lo dire a tua madre…» borbottò la donna, parcheggiando nell’apposito spazio riservato ai clienti.
«Va bene!»
La donna ci pensò su. Un sorriso le si dipinse in viso.
«Anzi no, diglielo pure! Così forse, la prossima volta, impara a non partire, senza prima avermi avvisato una settimana prima…»
«Addirittura!» rise Henry, scendendo dalla macchina rosso fuoco della donna che, da tempo, considerava parte integrante della sua famiglia.
«Sì, infatti… Forse è meglio due mesi prima! Così mi preparo psicologicamente…»
Il bambino continuò a ridere e Regina si unì a lui. Entrarono nel grande locale e si misero in fila.
Di solito, non era una grande fan di hamburger e patatine. Quando Emma e Henry la invitavano per cena alla piccola tavola calda nei pressi di casa loro, lei prendeva quasi sempre un’insalata. Doveva ammettere, che lì erano anche piuttosto buone.
Tuttavia, quella volta, avrebbe fatto un’eccezione. Dopotutto, si trovavano nella patria delle patatine fritte no?
Un hamburger, ogni tanto, non le avrebbe di certo fatto male…
Henry saltellava di qua e di là.
Di certo, non avrebbe mai capito come ragionasse quel ragazzino! Così come non avrebbe mai capito sua madre…
Il primo, mangiava comunque hamburger e patatine fritte almeno una volta a settimana, seppur non dal Mc Donald’s; la seconda, era così restia a portare il figlio in quel luogo, quando non si rendeva conto che alla fine, mangiava esattamente le stesse cose poco sane, anche fuori di lì.
Finalmente era arrivato il loro turno ed entrambi ordinarono.  
«Sei sicuro che non vuoi l’Happy Meal?»
«No, zia Reg! Voglio quel grande hamburger laggiù!» affermò il bambino, già con l’acquolina in bocca.
«Se non lo finisci tutto, io non lo mangio! Ci sono le cipolle e io odio le cipolle!»
«Tranquilla, tranquilla! Ho una certa fame!» mormorò, toccandosi la pancia con la mano.
La donna pagò e dopo aver preso i loro vassoi pieni, si diressero verso il primo tavolo libero che trovarono.
«Bene, buon appetito!» esclamò il bambino, tuffandosi nel suo immenso panino, forse persino più grande della sua faccia.
«Buon appetito!»
Una cosa che proprio non amava dei Fast Food, era l’assenza di posate.
Una donna di classe come lei, non poteva di certo abbassarsi a mangiare un panino con le mani, sbrodolandosi tutta, proprio come stava facendo Henry….
O almeno non avrebbe potuto.
Sbuffò e controllando che in giro, non ci fosse nessuno di sua conoscenza, addentò il panino.
Mandando giù, dovette ammettere (forse un po’ a malincuore) che in fondo, era piuttosto buono.
«Sai, non capisco perché tua madre non voglia portarti qui…» mormorò la donna, mandando a quel paese quelle poche e semplici regole del galateo che aveva imparato, pulendosi le dita con la bocca.
«Non lo so neanche io!»
Henry, con suo grande stupore, aveva finito il panino per primo e adesso si era lanciato a capofitto sulle patatine che aveva riempito con quantità industriali di ketchup e maionese.
Regina, fece lo stesso.
«Com’è andata oggi a scuola?» chiese la donna, cambiando argomento.
«Bene… Perché Killian non ti sta simpatico?»
Regina per poco non si strozzò con la coca cola (altra bevanda severamente vietata nella sua dieta quotidiana) che stava bevendo.
«Cosa dici?!»
«Pensavo fosse una specie di intervista, tu fai le domande a me e io le faccio a te…» mormorò il bambino, per nulla turbato di fronte alla reazione della donna.
Regina alzò un sopracciglio.
«Perché non ti sta simpatico?»
«Non è che non mi sta simpatico…» mormorò, addentando una patatina.
«No? E allora perché entri in modalità “Allarme rosso: odio tutti”, quando siamo con lui?!»
«Io non ho nessuna modalità “Allarme rosso”, Henry!» disse, forse alzando un po’ la voce.
Il bambino alzò le spalle. Era troppo intelligente per bersi le scuse della donna di fronte a sé. E poi, la conosceva fin troppo bene…
Continuò a mangiare in silenzio, abbassando gli occhi, una patatina dopo l’altra, andando a stimolare il senso di colpa della donna e sapendo, che prima o poi, si sarebbe arresa.
«Ok, va bene…» annunciò finalmente, dandogliela vinta.
Quel ragazzino era davvero furbo, questo doveva ammetterlo. E non era mai riuscita a capire se fosse una qualità che aveva ereditato da Emma o da suo padre.
Il ragazzino alzò lo sguardo e sorrise.
«Allora?»
«Sono solo preoccupata, ecco… Ho paura che tua madre possa soffrire ancora…»
«Intendi dire dopo mio padre?» chiese il bambino, veramente interessato. Di certo, le questioni sentimentali di sua madre non era un argomento affrontato spesso nelle conversazioni di famiglia.
«Non solo, Henry… Dopo di lui, Emma ha avuto altre storie e purtroppo, nessuna è andata a finire bene…»
«Perché non so niente?»
«Perché non dovresti sapere niente e non dirai niente a nessuno, perché se tua madre scopre che ti ho detto qualcosa, mi uccide!»  
«Ma… forse con Killian è diverso… loro si conoscevano da piccoli…» tentò Henry, sforzandosi di capire cosa la donna dai capelli corvini vedesse di tanto negativo in Killian.
«Lo so, tesoro… ma fidati, conosco quell’uomo e so che non è ciò che tua madre cerca… lei ha bisogno di stabilità, capisci? Di un punto fisso…»
Il bambino annuì e Regina andò avanti, chiedendosi, in un angolo remoto della sua mente, perché stava facendo simili discorsi ad un bambino di dodici anni.
«Killian Jones non è in grado di darle quella stabilità…»
«Perché?»
«Diciamo che, una volta conquistata la sua preda, si stanca facilmente…»
Henry non ascoltò quell’ultima battuta. Il suo sguardo fu catturato da qualcuno in lontananza, qualcuno di familiare…
«Belle!» esclamò, alzandosi in piedi e salutando con la mano.
 
 
«Ehi, tutto bene?» chiese la donna, sedendosi accanto a lui. Erano rientrati da poco da Granny’s.
Killian sentì una piccola pressione sulla spalla. Spostò lo sguardo e notò la piccola mano della donna, adagiata sulla giacca di pelle, che non aveva avuto neanche la voglia e la forza di togliere.
«Credo di sì…tu?»
Emma non disse niente. Strinse un po’ la presa.
Come si sentiva?
Confusa? Sorpresa? Arrabbiata? Frustrata? Stanca?
Non riusciva a capirlo.  
Erano così simili, loro due. Così dannatamente sicuri di poter affrontare il mondo intero da soli, senza far affidamento su nessuno. E dopo anni di cedimenti e cadute, ancora non avevano imparato la lezione.
Ma Emma sentiva che quell’improvviso cambiamento, quel riavvicinamento nelle loro vite, doveva pur significare qualcosa. Forse, dopo anni, dopo tutti gli sbagli commessi, insieme, avrebbero potuto guarirsi a vicenda e aggiustare le loro vite. E chissà, magari capire che, qualche volta, è bello poter contare su qualcuno che trasporti con te il fardello che sei condannato a portare sulle spalle.
«Credi sia vero? Ingrid era davvero mia madre?» chiese Emma, invece.
«Non lo so, non so se possiamo fidarci di lui… Forse dovremmo scoprire di più di questi due “senzatetto” …»
Non rispose. Il silenzio calò su di loro, ancora.
Ognuno perso nei propri pensieri, ognuno incapace di articolarli.
«Lui diceva che lo faceva per insegnarci una lezione…» mormorò con scherno l’uomo ad un tratto, fissando un punto imprecisato della stanza, chiedendosi come avesse mai potuto credere all’assurdità di quell’affermazione.
«Sai, probabilmente ero piuttosto lento perché la lezione, non finiva mai…»
Era la prima volta che Killian ne parlava così apertamente ed Emma lo sapeva.
Era la prima volta che mostrava al mondo le sue ferite, quelle vere e mai rimarginate del tutto. Quelle ferite che, dopo quel pomeriggio, erano tornate a bruciare più di prima.
Posò la sua mano su quella dell’uomo, trovandola bollente.
Lui gliela strinse, continuando a fissare il vuoto, forse incoraggiato da quella piccola e importante presenza accanto a lui.
Era buffo.
Non aveva mai voluto affrontare il suo passato, anche a causa della donna dai capelli biondi al suo fianco.
E adesso, era proprio lei colei che lo stava guidando in quel viaggio doloroso e, allo stesso tempo, necessario. Un viaggio alla riscoperta degli scheletri più nascosti del suo passato.
«Tu ricordi i lividi, le ferite, il sangue… io ricordo solo rumori… il rumore della cinta quando la sfilava dai pantaloni, quello della sua risata e quello dei vetri e…»
Lasciò la frase a metà, stanco di ripercorrere quei ricordi.
«Avevi ragione, Swan. Non puoi scappare dal tuo passato, men che meno da chi sei veramente…»
«Killian, non sei come lui!»
«No… - disse, e il suo tono non sembrò convincere neanche lui - è meglio che tu vada…»
«No»
L’uomo la guardò, sorpreso. Di certo non si sarebbe mai aspettato una simile insistenza. Ma era di Emma Swan che stavano parlando e raramente quella donna, faceva ciò che qualcuno si aspettava.
«Emma, per favore, ho bisogno di stare solo…»
«Bene, saremo soli insieme! Non ti lascio Killian! L’ho fatto una volta e non sono una che commette gli stessi sbagli due volte…»
L’uomo la fissò. Quello sguardo deciso e allo stesso tempo dolce, le mani sui fianchi come una madre intenta a rimproverare il proprio figlio disubbidiente e le sopracciglia incurvate, la bocca stretta.
La vecchia Emma, quella che conosceva, non si sarebbe mai esposta così. Non avrebbe mai ammesso di aver sbagliato.
Si rese conto, che tutto quello di cui aveva bisogno era un posto da chiamare casa.
E solo quando, con impeto, le si avvicinò e la baciò, capì che forse, anche una persona può essere casa tua.
I vestiti scivolarono lenti, uno per uno.
Nessuno dei due vi badò, troppo intenti a spogliare l’altro delle proprie paure, dei propri timori, caricandoseli sulle spalle, promettendo di esserci, di lì in poi, sempre.
Fu una notte di passione, di gemiti e forse qualche lacrima.
Si leccarono le ferite e cercarono di guarirle.
Si scoprirono e riscoprirono un nuovo modo di amare, amare incondizionatamente e senza remore, senza inutili paure.
Si resero conto di essere da sempre stati due pezzi di uno stesso puzzle che, da dodici anni non aspettavano altro che quel ricongiungimento. Due anime, alla disperata ricerca l’una dell’altra.
Finalmente si sentirono completi.
All’apice del piacere, quando finalmente furono una cosa sola, forse capirono che tutto ciò che era capitato loro, tutte le incomprensioni, i litigi, le parole non dette, li aveva condotti a quel momento, quel momento che cambiò ogni cosa.
Cambiò ogni loro prospettiva di vedere le cose, rinforzò quel legame così profondo che era sopravvissuto a dispetto del tempo e della distanza.
Killian continuò a baciarla, gli occhi, il naso, la bocca, la mandibola, le spalle nude e perfette e lei assaporò a pieno quei momenti, imprimendoli a fuoco nella sua memoria.
Si addormentarono abbracciati e nudi, riscaldati dal calore del corpo dell’altro.
Quel momento cambiò ogni cosa.
Quel momento li riportò a casa, loro che una casa non l’avevano mai avuta. 
 
 
 







Si conobbero.
Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità
Non s’era mai saputo.
E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre,
mai s’era potuta riconoscere così.
-Italo Calvino, “Il barone rampante”.
 
 
 
 
 
 
 
 
Buonasera! :)
Lo so, sono in super mega extra ritardo!! La scuola e altri impegni vari mi stanno portando via un sacco di tempo, tempo che purtroppo viene tolto alla storia… Ho così tante idee, che non vedo l’ora di condividerle con voi ma, non so quando metterle per iscritto e il tempo tra un capitolo e l’altra si allunga inesorabilmente! Vi chiedo scusa!! :(
Spero che con questo capitolo mi sia fatta perdonare! È un capitolo cruciale e molto molto importante per la storia (non solo perché Emma e Killian si sono lasciati finalmente andare alla passione ehehe xD) ma anche per rispondere alle tante domande ancora in sospeso… :)
E comunque avete letto bene, Isaac è proprio il padre di Killian! Almeno in questa storia!! Avevo deciso di inserirlo prima ancora dei cast (a proposito, vi piace l’attore che hanno scelto?! J)… poi avrei potuto cambiarlo con il personaggio che vedremo di qui a poco, però non me la sono sentita di affibbiargli un simile peso senza essere comparso neanche una volta sul grande schermo ahahah
(Sì, sono normale, mia madre mi ha fatto controllare! :P)
Isaac invece, è pienamente in grado di sopportare questo fardello, seppur con qualche anno in più! :)
Ingrid, invece, è davvero la vera madre di Emma? Chissà…
Mi piacerebbe un giorno raccontarvi cosa sia successo tra Crudelia e Regina e perché quest’ultima aveva così bisogno di qualche informazione utile da internet…
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto! Io non sono sicura del risultato,sinceramente non mi convince appieno, vista anche l’importanza che ha, ma vabbe’… la storia deve andare avanti no?
Non vedo l’ora di leggere i vostri pareri e spero che la vostra vita, sia meno incasinata della mia!
Ringrazio come sempre chiunque inserisca/abbia inserito la storia nelle varie categorie, chi legge solamente e chi decide di dedicarmi un po’ del suo tempo, inviandomi una recensione!! GRAZIE!! Vi sono infinitamente grata!!
Adesso la smetto di blaterare, anche perché il mio spazietto sta diventando più lungo e noioso del capitolo!!
Un bacio a tutti
Kerri :*
 
 
PS: ma vogliamo parlare delle puntate? Tra spoiler, baci nei prati e angst, non so se il mio cuore reggerà ancora per molto!! #CSFEELS *-*
PSS: ieri era il compleanno della nostra Emma e l’anniversario della nostra amata serie tv! Non posso che “commemorare” anche io questa giornata! Senza lo show, questa storia non sarebbe mai esistita e io non avrei mai avuto l'opportunità di conoscere e confrontarmi con persone fantastiche come voi!! Quindi EVVIVA ONCE UPON A TIME! :D

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Capitolo 17
*** Shadows of the Past ***


 

16. Shadows of the Past



 
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L’amore può anche essere soltanto qualcuno che ci chiede
Di lasciarci proteggere, e ci protegge davvero.
P.C. Freitas  
 
«Belle!»
La giovane dai capelli color del cioccolato, voltò di scatto il capo.
Sorrise, di fronte alla faccia sorridente del piccolo bambino che continuava a salutarla dall’altra parte del locale.
Aveva da poco finito un’intervista, lì vicino, e aveva deciso di fermarsi per prendere velocemente qualcosa da mettere sotto i denti. Portò il vassoio nell’apposito contenitore, svuotandone il contenuto e poi si avvicinò al tavolo di Henry e della donna dai capelli corvini di fronte a lui.
«Ciao tesoro! Da quanto tempo! Come stai?» la sua voce risultò troppo sdolcinata alle orecchie di Regina, che di certo non apprezzavano tutte quelle inutili smancerie.
«Tutto bene! E tu?»
«Bene…»
«Ti piace la camera?»
«Sì, certo! Tua madre e Killian stanno facendo un ottimo lavoro!» esclamò la giovane, sorridente.
«Sai, ho suggerito io alla mamma di aggiungere quel quadro! Sapevo che ti sarebbe piaciuto!»
«Sì, hai ragione, è molto bello! Hai avuto un’ottima idea… A proposito, sai quando Emma e Killian hanno intenzione di tornare?» chiese, ripensando alla discussione del pomeriggio, con Robert. Aveva pensato di avvisarli, ma non voleva disturbare. E poi, l’istinto le diceva che il suo futuro marito ci aveva già pensato…
Regina, stanca di indossare ancora la maschera della perfetta donna sorridente, si intromise nella conversazione.
«Non lo sappiamo con precisione…» mormorò, forse con un tono più acido del normale.
Belle spostò la sua attenzione sulla donna.
«Oh, lei deve essere Regina Mills! Sono felice di conoscerla, ho sentito molto parlare di lei! Mi chiamo Belle French!»
Il volto di Regina non poté che aprirsi in un sorriso alle parole della giovane. Non poteva non ammettere che le piaceva sentirsi al centro dell’attenzione, forse un po’ troppo.
«Grazie, anche io ho sentito molto parlare di lei, signorina French!» ricambiò il sorriso della donna, forse, per la prima volta, con uno dei più genuini che avesse mai riservato a qualcuno, conosciuto da poco.
«Mi chiami pure Belle! Come sta vostra madre? Robert mi ha accennato che purtroppo, è in gravi condizioni…»
Il volto di Regina si rabbuiò. Sua madre, non era di certo il suo argomento di conversazione preferito.
«Per adesso è stabile…»
«Bene, sono felice!»
La giovane giornalista, si fermò un attimo. Un’idea le aveva appena attraversato la mente ed era indecisa se assecondarla o lasciar perdere.
«Mi piacerebbe molto intervistarla Regina, scrivere un articolo sulla vostra scuola e sui vostri meravigliosi spettacoli…»
Decise di darle ascolto. Dopotutto, non sarebbe mai diventata la famosa giornalista che era oggi, se non avesse dato ascolto alle sue idee e ai suoi sogni strampalati.
«Io, be’, non saprei…» rispose titubante la giovane Mills. Non amava le interviste, men che meno dar voce a stupidi pettegolezzi sul suo conto e sapeva che, quelle che Belle le avrebbe posto, non sarebbero state domande così facili a cui dare una risposta.
«Quello che zia Regina voleva dire è che sarebbe un onore poter essere intervistata da te!» esclamò Henry facendo un occhiolino alla zia acquisita, ricevendo invece, un’occhiata fulminante.
«Fantastico! Ecco il mio biglietto da visita…»
Belle, frugò nella borsa, in cerca di uno di quei piccoli pezzi di carta da porgere alla giovane donna.
Maledizione, perché li perdeva in continuazione? Eppure, di solito, non era così disordinata!
«Oh, ho anche questi!» esclamò, estraendo una pila di lettere, tenute insieme da un elastico giallo.
«Cosa sono?» chiese il bambino, piuttosto incuriosito.
«Gli inviti del matrimonio! Visto che ci siamo Henry, do a te quello per Emma e Killian…» sorrise la giovane, scegliendo una bustina d’avorio con il nome di sua madre e dell’architetto, per poi porgerla al bambino.
«Ovviamente sei invitato anche tu!» si affrettò ad aggiungere.
«…e questo è per lei signorina Mills! Ci sentiamo per telefono!»
Regina afferrò il piccolo bigliettino e se lo rigirò tra le mani, annuendo.
«Adesso devo proprio scappare! È stato bello rivederti Henry ed è stato un piacere conoscerla Regina!» disse stringendo la mano della donna.
«A presto! E salutatemi Emma e Killian!» mormorò, allontanandosi e uscendo dal locale.
Henry continuò a salutarla, finché, non vedendola più, rivolse la sua attenzione alla piccola busta d’avorio che stringeva tra le mani.
«Henry…»
«Mmm» mormorò il bambino, riponendo con cura la lettera nella tasca del giubbotto.
«Questa me la paghi!» sbuffò Regina, addentando l’ultima patatina.
 
 
New York, Marzo 2012
 
«Basta, ho troppa fame, non ce la faccio più!» sbuffò la bionda, appoggiando la testa sulla scrivania. Lo stomaco brontolava da ore, la testa stava per scoppiare e in più doveva anche andare in bagno.
Regina le si avvicinò sui suoi tacchi a spillo. Il rumore, perforò ulteriormente la testa della giovane, provocandole ancora più fastidio.
«Swan! Smettila di lamentarti!»
«Sono giorni che vivo praticamente solo e soltanto in questo negozio. Ho provato di tutto, ma niente! Ho bisogno di una pausa, ho bisogno di vita sociale!» esclamò la giovane, allontanandosi di colpo dalla scrivania e alzandosi di colpo.
Regina la fissò a braccia incrociate, stiracchiarsi per bene.
«Dio, che mal di schiena!» brontolò.
«Adesso dove stai andando?» chiese la mora, puntando gli occhi sui movimenti dell’altra donna.
«A prendere una boccata di aria fresca, sana e pulita e possibilmente anche un grande e grosso hamburger!» esclamò, afferrando la borsa e gli occhiali da sole, abbandonati in un angolo della scrivania.
La donna non ascoltò neanche le repliche dell’amica che la rimproveravano della sua poca professionalità. Era passato davvero troppo tempo dall’ultima volta che le sue papille gustative avevano assaporato qualcosa di decente. La salutò con un cenno, promettendole di rientrare il prima possibile, e sparì.
«Come devo fare con te, Swan?» sospirò Regina, fissando i biondi capelli dell’amica, ondeggiarle dietro le spalle, mentre con passo spedito si allontanava verso la sua auto.
Sospirò.
Si incamminò verso il retro del negozio, ricordandosi di avere ancora degli oggetti da schedare.
Un rumore, però, la distrasse.
Si avvicinò allo schermo del computer e si accomodò dove, fino a poco tempo prima, era seduta Emma.
Una nuova schermata lampeggiava prepotentemente sul desktop.
«Merda» esclamò la donna, leggendo il nome che a grandi lettere, campeggiava sulla mail.
Killian Jones.
 
 
I primi raggi dell’alba filtrarono dalla finestra della camera, illuminando la stanza, disturbando i sogni tranquilli della giovane Swan. Da tempo, non dormiva così bene, così beatamente e per di più senza quella terribile e fastidiosa sveglia pronta a strillare e a ricordarle che era tempo di alzarsi.
Emma pensò fosse piuttosto strano, quel sole che sentiva sulla pelle. Dopotutto a New York, di solito, il tempo non era esattamente così soleggiato.
Si risistemò meglio sotto le coperte, accucciandosi accanto ad un corpo caldo.
Nell’inconscio, non riusciva a ricordare chi fosse, ma aveva l’odore di mare, di cannella e qualche altra spezia familiare, quindi poteva star tranquilla, era a casa.
Con il volto disteso in un sorriso, si riaddormentò profondamente.
«Ahi» mormorò l’uomo, quando la mano della giovane, gli colpì il naso.
«Che diavolo…» strizzò gli occhi qualche volta, per farli abituare alla nuova luce che rischiarava la stanza. Il suo sguardo, fu subito attirato da un valanga di capelli biondi accanto a sé. Sentiva il braccio sinistro indolenzito e adesso ne capiva il motivo.
Il suo volto, non poté che aprirsi in un sorriso, di fronte a quello spettacolo.
Avevano dormito abbracciati tutta la notte, incapaci di separarsi per più di qualche istante. Il suo braccio stringeva a sé il corpo nudo e perfetto della donna che a sua volta, era aggrappata a lui. Sentiva il suo respiro regolare solleticargli l’incavo del collo, il suo profumo invadergli le narici.
Le immagini della sera prima gli colorarono la mente.
Ricordava.
Non riusciva a descrivere a parole quello che era stato, quello che avevano vissuto, lui che di parole ne aveva sempre avute in abbondanza.
Tutto ciò che riusciva a fare era stringersi maggiormente al corpo della donna e ripromettersi che non le avrebbe mai più permesso di andare via, di lasciare quel giaciglio, quel rifugio che insieme avevano creato, forse ricostruito.
Se tutto ciò che aveva passato, lo avrebbe portato direttamente a quel momento, non avrebbe esitato a scegliere di affrontare tutto daccapo.
Forse era magia.
Forse qualcosa di inspiegabilmente impossibile.
Una vocina, nella sua testa, continuava a dirgli che forse era amore.
E quella strana voce, chissà per quale assurda ragione, riusciva a riconoscerla fin troppo bene: apparteneva a qualcuno che conosceva.
O meglio, che aveva conosciuto. E amato.
Milah.
La stessa voce che da un po’, non riusciva a distinguere perfettamente.
Quella dell’unica altra donna che era riuscita a disorientarlo, quasi come riusciva a fare Emma.
L’unica altra donna nella quale si era completamente perso.
Adesso gli gridava che quell’agglomerato di sensazioni, emozioni, sentimenti che provava in quel momento, nei confronti di un’altra donna, era Amore.
Amore, che assurdità.
Dopo di lei, non avrebbe mai pensato di essere in grado di poter amare di nuovo.
Ma lei sapeva, sapeva che la sua anima non sarebbe riuscita a resistere alla solitudine per molto tempo e gliel’aveva anche detto.
E Milah, forse, sapeva anche verso chi, il suo cuore freddo e malandato avrebbe fatto rotta.
Emma.
Colei che, anni prima, gli aveva frantumato il cuore, adesso stava rimettendo insieme i pezzi.
Si riaddormentò, cullato dal battito dei loro organi che, per qualche assurdo motivo, cantavano insieme.
 
 
Non poteva essere quel Killian Jones!
Emma le avrebbe sicuramente accennato qualcosa se lui avesse tentato di rimettersi in contatto con lei.
Sì, Regina l’avrebbe saputo o quantomeno, se ne sarebbe accorta.
Conosceva bene i rimorsi della giovane Swan e sapeva che Killian Jones era tra questi, non tanto per essersi trasferita, quanto per non avergli detto nulla, per essere sparita dalla sua vita, quasi non si fossero mai conosciuti.
Se l’uomo fosse, in qualche imprecisato modo, rientrato nella sua vita, Emma non sarebbe stata così allegra. Certo, non che in quei giorni sembrava propriamente allegra, ma era solo a causa dei… tre? lavori che portava avanti. Contando badare ad Henry e pulire la casa, quattro.
Sì, Emma forse era stressata, stanca ma sicuramente non triste o rancorosa.
Questo portò Regina alla conclusione che quella appena comparsa sullo schermo del suo computer, fosse il primo tentativo dell’uomo di rimettersi in contatto.
Ma Emma ne aveva realmente bisogno?
Con un colpo secco di quello che Henry chiamava “mouse” (perché avevano deciso di chiamare quell’aggeggio “topo” era ancora un mistero per lei e dubitava che sarebbe mai stata in grado di risolverlo…), aprì la mail.
«Male, male, male…» mormorò tra sé e sé, prendendo nota dell’appuntamento su un post-it e cancellando immediatamente l’email.
Quello, Henry, gliel’aveva insegnato.
 
 
«Senti, Mary Margaret, capisco che per te è tutto nuovo, forse sono troppo affrettato ma quello che volevo dirti è… Oh, ma che sto facendo?»
David, scosse la testa, davanti allo specchio appannato del bagno. Dopo il volontariato (doveva ammettere che si era piuttosto divertito) e una veloce sosta ad un café vicino lo studio di Killian, era rientrato nel suo appartamento. Mary Margaret, invece, aveva preso posto dietro la sua solita scrivania.
Non appena varcata la soglia di casa sua, David si era lanciato sul divano.
Ma cosa diavolo gli prendeva?
Per schiarirsi le idee, aveva deciso di farsi una doccia ma a quanto pare, non tutto era andato secondo i suoi piani se adesso si ritrovava a parlare con uno specchio.
Cos’è che voleva dirle poi?
Che con lei, si sentiva davvero bene? Che non provava quei sentimenti per qualcuno da tanto, troppo tempo?
O forse che era solo e soltanto uno stupido senza speranze?
Sì, forse.
Si incamminò verso la sua camera, cercando di ricordare quando fosse stata l’ultima volta che aveva fatto un po’ di pulizie all’interno di quella casa.
Decisamente, troppo tempo.
Distrarsi, aveva solo bisogno di distrarsi.
Si vestì e ritornò in bagno. Non ebbe neanche il coraggio di guardarsi allo specchio, mentre si lavava i denti.
Sembrava stupido, forse avventato, ma aveva vissuto davvero dei momenti indimenticabili nelle ultime dodici ore.
E sì, era decisamente stupido, visto e considerato che non avevano fatto niente di che… insomma, guardare Game Of Thrones? Volontariato? Eppure, si sentiva felice, felice e sereno e non poteva che attribuire questi sentimenti, ad una sola persona.
Mary Margaret.
Era, forse, la persona più odiosa e pignola e permalosa che avesse mai conosciuto. Voleva avere per forza l’ultima parola e si divertiva a precisare anche le cose più ovvie.
Ma era anche la più dolce, la più sensibile, la più buona…
Ed era stupido, perché la conosceva da quanto? Un mese? Tre settimane?
Vederla, di fronte a quegli animali, era stato uno degli spettacoli più belli che avesse mai visto nella sua lunga vita. Vedere il modo in cui li carezzava, li coccolava, si prendeva cura di loro e vedere quanto loro, quei piccoli esserini, l’adoravano, gli aveva fatto cambiare visione del mondo.
Adesso, tutto ruotava attorno a lei.
E ammetterlo a se stesso, in quel bagno, di fronte ad uno specchio appannato, fu una delle cose più difficili che avesse mai fatto.
 
 
Aveva lottato con tutte le sue forze. Il suo istinto, le diceva che avrebbe fatto meglio a mettere Swan al corrente di tutto quello. Il suo cervello, però (o forse il suo cuore?) non voleva che la sua amica, soffrisse ancora.
Dopo aver rifiutato la proposta di matrimonio di Walsh (ottenendo la sua completa approvazione! Quell’uomo era un idiota!), Emma stava finalmente riacquistando quell’equilibrio che l’aveva da sempre contraddistinta. Con il nuovo “lavoro” di investigatrice privata, con il negozio aperto da qualche mese e sì, perfino con quella topaia del “Rabbit Hole”, piano piano stava ritornando in sé. Sbatterle in faccia quella notizia, non avrebbe fatto altro che farla cadere nella depressione più assoluta, Regina ne era certa. E lei, non poteva permetterlo, in primis per Emma, ma anche e soprattutto per Henry.
Così, aveva tenuto la notizia per sé e il giorno previsto aveva lasciato Swan a sbrigarsela con delle faccende al negozio mentre lei si precipitava all’appuntamento.
Non sapeva ancora bene cosa aveva intenzione di fare, se parlare con quest’uomo o semplicemente stare ad osservare le sue reazione non vedendo Emma comparire.
Non aveva messo in conto che, quello che lui aveva scelto, sarebbe stato un posto piuttosto isolato e che quindi, di certo, non avrebbe potuto fingere di essere passata di lì per pura coincidenza.
Se ne accorse solo quando parcheggiò la sua macchina rossa affianco ad una nera.
Sbuffò e uscì. Tanto valeva giocare no?
Ciò che si trovò davanti, però, la spiazzò non poco.
«Tu non sei Emma Swan!» esclamò un uomo.
Sembrava piuttosto vecchio, delle rughe gli incorniciavano buona parte del viso e dei capelli bianchi spuntavano da sotto un cappello logoro.
Regina lo squadrò, con le mani sui fianchi.
«E suppongo che tu non sia Killian Jones…»
«No… sono Isaac Jones, suo padre!» mormorò quello, porgendole una mano nodosa.
 
 
Mary Margaret si era finalmente accomodata sulla sua poltrona. Da quando aveva salutato David, aveva dovuto sbrigare molte faccende che di norma, competevano al suo capo. Ma se il signor Jones non c’era, allora lei prendeva il comando.
Certo, non le sarebbe dispiaciuto fare anche qualche cambiamento estetico a quel posto, approfittando della sua assenza, ma non osava neanche spostare un libro, sapendo quanto quello studio significasse per il suo capo. Si limitava a comprare una piantina ogni tanto, da mettere sulla sua scrivania e cambiare qualche volta, le foto accanto al suo computer.
Adesso per esempio, ce n’era una dell’ultimo viaggio che lei, Aurora e Ruby aveva fatto. Erano state a Disneyland, in seguito ad una proposta buttata a caso da Ruby, una serata come tante. E dopo due giorni, si erano ritrovate in fila per le montagne russe, in uno dei più grandi parco divertimenti del mondo. Indimenticabile.
Accanto a quella, ce n’era una che Mary Margaret non aveva mai avuto il coraggio di cambiare. Ricambiò commossa, gli sguardi sorridenti di suo padre e sua madre che felici, la fissavano da dietro quel vetro.
Quanto le mancavano… In momenti come quello, quando si ritrovava a fissare quella foto quasi per caso, la nostalgia si ripresentava prepotente nel suo cuore.
Portò lo sguardo, sull’ultima fotografia. Questa invece, l’aveva da poco stampata. L’aveva cambiata, neanche da una settimana, forse anche prima.
Fissandola, non riuscì neanche a ricordare perché l’aveva fatto, visto che in fondo non le era mai piaciuta.
Era difficile trovare una foto in cui potesse definirsi bella. Non si considerava certo una star di Hollywood, ma aveva sempre pensato di essere piuttosto fotogenica.
Quella foto era orrenda.
Era sicuramente ubriaca quando aveva deciso di incorniciarla.
Guardandola meglio, forse mancava qualcosa.
In mezzo a tutti quegli alberi…
Sì, decisamente.
Qualcosa o qualcuno?
Oh, Mary Margaret cosa vai a pensare adesso? Ti sembra il momento?
In fondo sei soltanto sola come un cane in uno studio deserto e silenzioso alle prese con i tuoi stupidi e sciocchi pensieri da ragazzina innamorata!
Sbuffò, abbassando la foto e dedicandosi al computer.
Forse avrebbe potuto accendere la musica, così le avrebbe fatto compagnia, ma non aveva voglia di alzarsi di nuovo.
Fissò lo schermo del suo computer, decidendo se iniziare o meno a compilare quei documenti che aveva come arretrato da un po’ di tempo.
No, non le andava. E poi, non c’era neanche Killian il signor Jones. Si corresse mentalmente, scuotendo la testa.
Maledetto David! L’aveva contagiata! Adesso, anche nella sua mente il suo capo non era più “Il signor Jones” ma “Killian”.
David.
Ecco, di nuovo.
Maledetto cervello! Menomale che avresti dovuto non pensarci!  
Ticchettò nervosamente sul mouse.
No, il silenzio quel giorno non era affatto d’aiuto.
Costrinse la sua mente ad evitare quell’argomento per più tempo che poté, ma non sembrava riuscirci visto che più pensava a non pensarlo e più gli occhi blu e il sorriso smagliante di David facevano capolino nella sua testa.
Maledizione!
La verità è che era stata davvero bene in sua compagnia, forse fin troppo bene. È che non riusciva a spiegarsi come fosse possibile, insomma, non aveva mai provato per nessuno ciò che sentiva adesso…
Forse, cominciava a rimpiangere i giorni in cui lo odiava. Sì, decisamente.
Lui e le sue battute squallide, il suo sarcasmo troppo poco velato, le sue prese in giro.
Sì, lo odiava.
E odiava anche quel suo lato gentile, forse addirittura sensibile, quella mania di voler accontentare tutti e non ammettere mai, neanche una volta, di stare male. Quell’allegria che le trasmetteva ogni volta, quella sua capacità di sdrammatizzare, perfino in una camera d’ospedale.
Ma chi stava prendendo in giro?
Cominciò a sentire le guance divenire bollenti mentre e spalancando gli occhi, ammise ciò che in fondo al suo cuore, aveva saputo sin dal giorno dell’incidente.
Si era innamorata di David Nolan.
E ammetterlo a se stessa, in quel momento, davanti ad un muto schermo del computer, fu una delle cose più difficili che avesse mai fatto.
 
 
«Suo padre?! Sta scherzando?» sbottò la donna, incrociando le braccia al petto e alzando un sopracciglio.
«Perché dovrei? Lei, piuttosto chi è? Dov’è Emma?»
Regina strinse lo sguardo, cercando di ricordare se la sua amica, avesse mai accennato al padre di Killian Jones.
«Oh ma certo! Non dovrebbe essere in prigione?»
Il viso di Isaac si incupì. Abbassò il volto e distolse lo sguardo.
«Questi non sono affari che la riguardano! Piuttosto, lei chi è?»
Regina stentava ancora a fidarsi di un individuo del genere.
Certo, se solo avesse provato ad alzare un mignolo, il suo telefono avrebbe chiamato direttamente la polizia. Anche se, a prima vista, aveva un’aria stanca, disperata quasi… Dubitava le avrebbe fatto qualcosa…
«Sono Regina Mills, la… socia… di Emma…»
«Perché lei non è qui?» chiese Isaac, cominciando a girare intorno e scuotere la testa.
«Be’ signor Jones, non penso che siano affari vostri!» lo apostrofò la donna, stufa per aver preso un’ora del suo tempo inutilmente.
«E adesso, se non ha niente da dirmi, me ne vado! E le assicuro che se osa anche solo avvicinarsi ad Emma, io la spedisco di nuovo dietro le sbarre, fosse l’ultima cosa che faccio!»
«E come farebbe, scusi?»
Il volto di Regina si aprì in uno dei sorrisi più malefici e spietati che Isaac avesse mai visto.
«Oh, semplice! Mi basterà chiamare la polizia e affermare che qualcuno ha tentato di violentarmi…» disse, con voce soave e innocente.
«E chi vuole che crederebbero? Una ricca donna d’affari senza alcun precedente o un vecchio appena uscito di prigione?»
Regina aveva la situazione in pugno.
Ed anche Isaac Jones se ne rese conto. Ingoiò quel pesante malloppo salitogli in gola e cercò di resistere allo sguardo intimidatorio e trionfante della donna che aveva davanti.
«Va bene, signorina Mills, ha vinto…»
Regina sorrise un’ultima volta e si voltò per tornare alla sua auto. Aveva fatto bene a non dirlo ad Emma. Si sarebbe soltanto allarmata, per nulla.
«Aspetti!»
L’uomo la rincorse.
«Cosa vuole ancora?»
«Ho bisogno del suo aiuto…»
«Per trovare la strada di casa? Sa, può cominciare entrando in macchina…»
«Voglio ritrovare mio figlio»
 
 
Robin non riusciva a dire se quel giorno di prova, fosse andato bene o no…
Insomma, non che avesse fatto chissà che… Sicuramente, quando qualche settimana prima, aveva letto l’annuncio su internet, si era immaginato qualcosa di un po’ più elettrizzante…
Invece si era limitato a servire cocktail in un locale a luci rosse.
Fantastico no?
Perché poi, si era immaginato sparatorie e cartelli mafiosi, era ancora un mistero. Forse, cominciava sicuramente a vedere troppe serie poliziesche.
Doveva darci un taglio, anche con i gialli.
Solo uomini di tutte le età, mezzi ubriachi, che si divertivano a spendere i loro soldi inutilmente.
No, forse non era esattamente il lavoro adatto a lui.
Rimpianse, per un momento, la sua piccola locanda nel suo paese natale. Quello sì, che era un locale. Una piccola attività di famiglia, che aveva ereditato da suo padre. Servivano qualsiasi cosa, roba fresca e genuina cucinata al momento. Il tutto, accompagnato dalla birra più buona di tutta l’Irlanda.
Sì, bei tempi.
Marian, però, si ammalò e Robin fu costretto a vendere la locanda e trasferirsi.
Non avrebbe mai rimpianto la scelta che, ben quattro anni prima dovette compiere. Trovare un modo, uno qualsiasi, per salvare sua moglie, era un motivo più che valido per trasferirsi.
Però, alle volte, gli mancava l’aria pura dell’Irlanda. I piccoli paesini, la birra, il conoscere ogni singolo abitante e ogni singolo bambino con cui suo figlio andava a scuola…
Sì, alle volte tutto quello gli mancava.
Non gli piaceva demoralizzarsi, però.
È vero, New York gli aveva tolto Marian, sua moglie, la sua casa, il suo punto fermo.
Ma gli aveva dato anche molto.
Un posto in cui suo figlio potesse avere un futuro più certo, il football, dei lavori niente male e soprattutto, amici veri.
Ringraziava tutti i giorni Dio per aver conosciuto David e Killian, perché senza di loro, a quest’ora sarebbe completamente e irreparabilmente perso chissà dove…
E da qualche tempo, anche un’altra persona popolava i suoi pensieri, una persona entrata nella sua vita quasi per caso e che, chissà per quale motivo, aveva deciso di restarci. O almeno, se lo augurava.
Regina si era rivelata davvero una bella persona, una di quelle vere e genuine di cui, purtroppo, il mondo è privo al giorno d’oggi.
L’aveva vista indossare maschere, barricarsi dietro i suoi muri.
Ma l’aveva vista anche accanto al capezzale di sua madre o abbracciare un bambino per lo più sconosciuto.
Sentiva che qualcosa dentro di lei, si era spezzata e che, invece di rimetterla a posto, aveva preferito nascondersi, ignorare il sangue che fuoriusciva da quelle ferite mai rimarginate.
Non sapeva perché riusciva a capirla così bene, probabilmente a lui era toccata la stessa sorte.
Si sa, però, alle volte, è più facile capire gli altri, che se stessi.
E Robin, riusciva a capirla così bene, che quasi se ne spaventava.
Non era bello dirlo, ma era curioso. Curioso di sapere la sua storia, il suo passato. Curioso di conoscere le sue ferite e chissà, magari aiutarla a guarire.
Strinse più forte la mano immobile della donna di fronte a sé. Era lecito formulare quei pensieri lì?
Marian dormiva, come al solito. Il volto, calmo e tranquillo, disteso in un accenno di sorriso.
Come avrebbe voluto capire anche lei, allo stesso modo in cui riusciva a capire Regina…
Ma sua moglie restava sempre lì, ferma e impassibile, bloccata in quel maledetto letto d’ospedale.
Strinse gli occhi. Non poteva di certo piangere.
Che stupido.
Non poteva incolpare Marian per tutto quello. Non aveva scelto lei di ammalarsi, non aveva scelto lei tutto quello.
Eppure gli mancava.
Eppure a volte era più facile incolpare qualcuno, piuttosto che incolpare se stessi.
Perché, sì, in fondo Robin, si sentiva colpevole.
Non sapeva precisamente di cosa, ma lo era.
Forse, non tanto per la malattia di sua moglie, quanto per non aver vissuto appieno quei giorni che Dio gli aveva concesso, assieme a lei. Forse per non averla amata abbastanza, per non averla fatta sentire speciale abbastanza, per aver preferito troppe volte, il lavoro alla sua compagnia.
Sì, si sentiva decisamente colpevole.
E dopo tanti anni, tutto quello che desiderava era che si svegliasse, che gli sorridesse e che lo perdonasse.
La amava ancora?
Non avrebbe mai smesso.
Ma non poteva continuare a vivere, senza vivere davvero.
 
 
Regina si rese conto che, la sua prima impressione su Isaac Jones, era giusta.
Quell’uomo era disperato.
Disperato e completamente solo.
Riusciva a leggerglielo negli occhi incavati, nelle rughe che gli solcavano il viso, nella fede nuziale che ancora scintillava al suo anulare.
Non ne aveva pietà, anzi. Sapeva che quell’uomo si era macchiato di crimini molto, troppo gravi.
«Mi sta ascoltando?»
Regina scosse la testa. Erano seduti l’uno di fronte all’altra, in un locale lì vicino. La donna, non aveva ancora deciso se aiutarlo o meno.
Sicuramente, in entrambi i casi, Emma non avrebbe dovuto sapere niente.
«Diceva?»
«Le stavo parlando di mio figlio, Killian. Ho saputo che si è trasferito qui, qualche mese fa…»
«Quindi?»
«Non vuole essere trovato… o almeno non da me…» commentò, triste, l’uomo.
«Di certo, non posso biasimarlo, signor Jones» aggiunse Regina, con tono freddo.
Isaac finse di ignorare quelle ultime parole.
«Deve trovarlo signorina Mills, dirmi se sta bene, se è sposato, se ha bisogno d’aiuto…»
Regina lo squadrò in silenzio.
«Perché dovrei?» chiese infine, dopo secondi interminabili di silenzio.
«Insomma! – urlò l’uomo, alzando il tono di voce – è o no un’investigatrice privata?!»
«Si calmi signor Jones… sì, certo che lo sono…» mentì la donna.
«Trovare le persone non dovrebbe essere suo compito?» continuò quello, gli occhi scintillanti di rabbia repressa.
«Dovrebbe, sì. Ma posso decidere se accettare o meno l’incarico… quindi mi dica, signor Jones, perché dovrei cercare suo figlio? Soprattutto se lui non vuol essere trovato?» gli domandò seria Regina, guardandolo dritto negli occhi.
«Deve trovarlo… lei… io, io voglio chiedergli scusa…»
 
 
Continuò a correre.
Corse, corse, corse.
I polmoni gli bruciavano, il fiato cominciava a mancargli.
«Mi scusi… Oh, mi scusi…»
Un piede dopo l’altro, una strada che ormai conosceva a memoria.
Zigzagò nel traffico, superò uomini e donne inconsci che lui, lì, in quel momento, stava per decidere il suo destino.
Corse, corse, corse.
Ed eccolo, finalmente.
Quel palazzo familiare, quei mattoni familiari, quelle scale familiari. Salì i gradini a due a due, ignorando il telefono che continuava a squillare a sproposito nella sua tasca.
Zitto! Non sai che qui, adesso, deciderò il mio futuro?
Entrò, correndo, fermandosi di fronte ad una scrivania per riprendere fiato.
E lei era lì.
Arrivò, correva anche lei e si stupì, nel trovarlo proprio lì, al centro della stanza, esattamente dove proprio qualche istante prima, l’aveva immaginato.
«David» esclamò.
Lui alzò lo sguardo e sorrideva come un bambino che guarda un arcobaleno per la prima volta.
«Mary Margaret»
Nessun’altra parola fu necessaria.
Nessun’altra parola avrebbe avuto senso in quel momento.
La donna lasciò cadere il telefono con cui, da mezz’ora, cercava di chiamarlo e gli si avvicinò, sicura come lo era stata poche altre volte in vita sua.
David l’accolse tra le sue braccia.
Le loro labbra si scontrarono, i loro cuori si toccarono.
E tutto, finalmente, ebbe un senso.
«Ci hai messo un po’ troppo, Charming…» rise la donna, prendendogli il viso tra le mani.
 
 
«Va bene»
«Davvero?» chiese l’uomo, rialzando lo sguardo.
«Sì… ovviamente, tutto questo ha un costo…»
«Lo so, ma sono pronto a pagarlo…» mormorò convinto.
«Bene… Mi farò sentire io! Lei non dovrà fare altro che aspettare una mia chiamata… E come ho detto, non contatti per nessun motivo al mondo Emma, altrimenti il nostro accordo, salta…»
Isaac annuì.
Regina si alzò, pronta a ritornare a casa.
«Quindi, mi sembra di capire, che non sono insieme…»
«Chi?»
«Emma e Killian… loro, non sono insieme?»
«No signor Jones, non si vedono da un po’… e adesso, con permesso…»
La donna si voltò.
«Ah voglio dirle un’ultima cosa, signor Jones: non si aspetti che suo figlio sarà così felice di vederla e pronto a perdonarla… certe cose, certe cose non possono essere dimenticate…»
«Buona giornata signorina Mills…» mormorò quello, alzando il bicchiere davanti a sé, con voce dura.
«Buona giornata signor Jones…»
 
 
«Che ci fai qui?» domandò la donna, spalancando gli occhi.
Robin alzò lo sguardo verso di lei, sorridente.
«Ti aspettavo… e nel frattempo, chiacchieravo con tua madre…» sorrise in direzione dell’anziana donna, stesa sul letto d’ospedale accanto a lui.
Aveva capito da chi Regina, aveva ereditato il suo bel caratterino.
La donna, si avvicinò al letto, lasciando sul comodino i fiori che aveva comprato per sua madre.
Era visibilmente sconvolta.
Non avrebbe mai immaginato di dover assistere ad una scena così surreale come quella. Perché le sembrava così strano? Dopotutto, lei si era intrufolata nella stanza della moglie dell’uomo e ci aveva anche scambiato due paroline, nonostante la povera donna fosse incosciente.
«Allora… di cosa parlavate di bello?» chiese cercando di mascherare il suo imbarazzo.
«Oh niente di che tesoro… stavo raccontando al tuo fidanzato che l’altro giorno ti sei slogata una caviglia ballando… povera cara! Non dovresti portare scarpe così alte!»
Regina, se possibile, divenne ancora più rossa alla parola “fidanzato”.
Insomma, che assurdità!
«Mamma… lui non è il mio fidanzato…» si sforzò di sorridere.
«Certo certo! E io non sono tua madre!»
«Robin! Volevi dirmi qualcosa?» esclamò sbuffando e, trovando il pretesto per sviare il discorso.
L’uomo si alzò di scatto, strofinandosi i pantaloni.
«Sì, io…»
«Usciamo… Mamma, arrivo subito!»
«Tranquilla tesoro, prendetevi tutto il tempo che volete! Io non mi muoverò di qui!»
«È stato un piacere signora Mills!» la salutò cortesemente Robin, prendendole la mano e uscendo dalla stanza.
Regina si chiuse bruscamente la porta dietro di sé.
«Ma che cosa ti è saltato in mente?» urlò, quasi. Troppi sguardi si voltarono verso di loro. Regina li fulminò uno ad uno.
«Cosa? Che ho fatto?»
«Ti sembra normale? Mia madre è già confusa, non ha bisogno di altre distrazioni!»
La donna se lo sentiva. I suoi nervi sarebbero andati in frantumi in pochi secondi.
«A me è sembrata piuttosto felice invece! A proposito, come sta la tua caviglia?»
«Ma sei scemo? Non ho niente alla caviglia! È successo più di dieci anni fa! Ma mi ascoltavi quando ti ho detto che mia madre ha l’Alzheimer?»
«Ah… Non sapevo che ballassi…»
«Robin! Ti prego dimmi cosa vuoi perché oggi, non è assolutamente la giornata giusta per prendermi in giro!» sbuffò la donna, certa che se avesse continuato così, o l’avrebbe schiaffeggiato oppure se ne sarebbe andata a prendersi un caffè.
Forse una camomilla.
Da sola.
«Non ti sto prendendo in giro!» si giustificò l’uomo, ricevendo, di tutta risposa, un’altra occhiata poco amichevole.
«Ok…» Robin si guardò intorno, prendendo un respiro «Qui?»
«Non va bene? È così importante?»
Lui non rispose, ma Regina capì lo stesso. Sbuffò e lo trascinò verso un angolo più appartato.
«Allora?» chiese, ormai completamente spazientita.
«Bene… ci ho pensato molto e davvero, non so se sia esattamente la cosa giusta ma…»
La donna alzò un sopracciglio.                                                                                                                         
Lui le prese il viso tra le mani e senza ulteriori esitazioni, toccò le labbra con le sue.
 
 
«Buongiorno raggio di sole!» le sussurrò una voce in un orecchio.
Emma mugugnò qualcosa, sotterrando ancora di più il viso nelle coperte calde e morbide. Ricordava una piacevole sensazione di calore, che purtroppo era già svanita. Dormire un altro po’ sicuramente non avrebbe fatto del male a nessuno…
Ma quello era odore di…?
«Cannella!» esclamò, aprendo di colpo gli occhi.
Qualcuno, accanto a lei, rise di cuore.
Emma si voltò e lui era lì, bello come lo era sempre stato o forse ancora di più.  
«Perché ridi?» chiese, fingendosi offesa e cercando di non farsi contagiare. Ma quella mattina, era troppo felice perché le sue labbra non si aprissero, a loro volta, in un sorriso spontaneo.
«Hai ragione Swan! Dovrei sentirmi offeso, visto che un dolce alla cannella riesce a svegliarti più della mia calda voce sexy!»
«“Calda voce sexy”?»
Emma alzò un sopracciglio, poi scoppiò a ridere assieme a lui. E la cosa non migliorò quando Killian decise di farla morire del tutto, facendole il solletico.
«Smettila, Killian, smettila!»
Quando ripresero a respirare, Emma gli tirò un pugno sul braccio.
«Sei il solito bambino…» si lamentò, prima che l’uomo decidesse di torturarla in altre maniere, forse più piacevoli.
«Kill»
«Mmm» mugugnò, lasciandole una scia di baci sul collo.
«Se continui così, non ci alzeremo mai più…»
Emma non l’avrebbe mai ammesso ma mettere insieme quelle poche parole, fu uno sforzo tutt’altro che semplice.
«E chi ha detto che vogliamo alzarci?» chiese l’uomo, guardandola con quell’espressione contemporaneamente maliziosa e innocente. Come riusciva a sembrare nello stesso momento un cucciolo indifeso e un pervertito, Emma non l’avrebbe mai capito.
«Non vogliamo… ma, dobbiamo…» mormorò la donna, prima di stampargli un bacio sulle labbra e alzarsi, tirandosi buona parte delle coperte.
«Vediamo che hai portato?» chiese, avvicinandosi al tavolo dove erano sistemati un vassoio pieno di brioches e due tazze fumanti.
«Io non ho preso proprio niente! È stata una gentile concessione di Granny…»
Emma arrossì, al pensiero che la nonnina non se l’era di certo bevuta quando avevano affittato due camere… sapeva perfettamente che, comunque e dovunque si trovassero, erano insieme.
Afferrò una brioches alla crema e la divorò in pochi bocconi.
«Vedo che l’attività fisica ti mette più fame del solito, Swan!» la prese in giro l’uomo, beatamente steso sul letto.
«Cretino!»
L’uomo rise e la raggiunse.
La fissò intensamente, con quei suoi occhi blu come il mare e il cielo insieme.
«Se continui così, mi perforerai la fronte…»
L’uomo rise, scuotendo la testa e attirando a sé il corpo della donna.
«Perché ci hai messo tanto Swan?»
Ci aveva messo tanto, troppo. Ma alla fine, l’aveva ritrovata.
 
 
Passarono secondi interminabili.
Interminabili e piacevoli, a dirla tutta.
Quando, dopo un tempo imprecisato, Regina riaprì gli occhi, la fronte dell’uomo era appoggiata alla sua e la sua bocca ancora troppo vicina.
Era scioccata.
Anzi, “scioccata” era forse un eufemismo.
Cosa diavolo le era preso?
Quando aveva di preciso deciso di contraccambiare quel bacio?
«Regina? Regina ci sei? Ti prego, dì qualcosa!»
Robin la scosse, prendendola dalle spalle.
La donna lo guardò spaesata.
«Ma sei impazzito?» urlò.
L’uomo sgranò gli occhi.
Certo, quando aveva deciso che avrebbe cominciato a vivere appieno la sua vita, aveva messo in conto che Regina, probabilmente, avrebbe avuto quella reazione.
«Ma cosa diavolo ti è preso? E tutti quei discorsi sul matrimonio e sulla fedeltà?» continuò isterica.
Forse, prendersela con lui sarebbe stato più facile che prendersela con se stessa.
Perché, dopotutto, avrebbe potuto respingerlo, urlare, schiaffeggiarlo, allontanarsi… e invece, era rimasta.
Perché, in fondo, quel bacio del tutto inaspettato, le era anche piaciuto.
Oh andiamo Regina, smettila!
Sì, prendersela con lui, sarebbe stato molto più facile.
«Regina calmati! Non mi scuserò per ciò che ho fatto…»
La donna smise di camminare avanti e indietro. Si bloccò sul posto, alzando un sopracciglio.
Robin capì che quello era un silenzioso invito a continuare a parlare.
Prese un profondo respiro.
«Non mi scuserò per ciò che ho fatto…» ripeté.
«…Sono anni, Regina… tu non puoi neanche immaginare… anni che aspetto un minimo segno, anche il più piccolo, il più banale… quando mi avevano chiesto di firmare per sospendere l’ossigeno, mi sono rifiutato… tornerà, mi dicevo, un giorno tornerà! Ma niente, tutto continuava come al solito, ogni singolo giorno la stessa routine… finché sei arrivata tu… hai sconvolto tutto e mi sono chiesto se fossi realmente felice, se non stessi sprecando la mia vita… non voglio sprecare la mia vita Regina e non voglio sprecare ciò che provo per te…»
«Robin, i-io…»
L’uomo le prese le mani tra le sue e la costrinse a guardarlo negli occhi.
«So che ti sto chiedendo tanto, forse troppo, ma ti prego, fidati di me…»
Regina abbassò lo sguardo, fissando le loro mani intrecciate.
Era inutile continuare a negarlo. Quell’uomo era riuscito a far ripartire il suo vecchio cuore consumato, chissà in che modo…
Ma aveva paura.
Imboccando la strada che il suo cuore le indicava, forse sarebbe stata felice. Ma niente sarebbe stato facile, probabilmente avrebbe sofferto ancora e si sarebbe fatta male…
«Ho bisogno di tempo…» mormorò.
«Per capire se ne vale davvero la pena, per capire se sono davvero pronta ad affrontare una cosa del genere…»
Le labbra dell’uomo si piegarono impercettibilmente verso il basso, ma non si scompose, né mollò la presa.
Ormai, aveva imparato a conoscere Regina e sapeva che non era una persona impulsiva.
«Va bene»
La donna sorrise appena, prima di lasciargli le mani e voltarsi per tornare nella camera di sua madre.
Come se avesse dimenticato qualcosa, si voltò di scatto.
«Non te la cavi male per essere uno che non bacia da anni!»
Robin sorrise.
Forse, la sua vita era ricominciata davvero.
 
 
Fissò quella pietra bianca e immacolata e le lettere nere incise sopra. Si inginocchiò e le percorse con il dito, proprio come faceva tempo prima.
Posò il mazzetto di primule che aveva comprato ai piedi della lapide e guardò i petali ondeggiare assieme al vento.
Aveva giurato che non sarebbe mai più tornato in quel paesino e invece, eccolo lì, ai piedi dell’unica persona che adesso avrebbe potuto dargli delle risposte.
Emma, accanto a lui, si stringeva nella sua giacca di pelle rossa. Gli occhi lucidi, i capelli scompigliati che volavano dietro le sue spalle, le guance arrossate dal freddo.
 
Elizabeth Jones.
1965 - 1997
“Nessuno muore sulla terra
finché vive nel cuore di chi resta.”
 
Sentì la mano della giovane sulla sua spalla, una presenza piccola e confortante al tempo stesso.
Non voleva piangere, aveva pianto fin troppo nella sua breve vita.
Ma seppur breve, quella vita era stata segnata da tante, troppe perdite.
Ferite che non si sarebbero mai rimarginate.
La prima a lasciarlo era proprio lì, sotto quella terra, sotto quei fiori, sotto quell’erba.
«Mi manchi tanto, mamma…» sussurrò, carezzando quel marmo freddo e respirando il profumo di terra bagnata.
Alzò gli occhi al cielo che, quasi a voler rispecchiare il suo stato d’animo, era divenuto improvvisamente grigio.
Dov’era finito il sole di quella mattina?
Prese la mano di Emma e insieme, fissarono quella piccola lapide ancora per un po’.
«Vorrei che fosse qui…» mormorò la donna, poggiando la testa sulla spalla dell’altro.
«Anche io»
«Credi che le cose sarebbero andate diversamente?»
«Probabilmente…»
L’uomo lanciò un ultimo sguardo a quella tomba e poi, spinto da chissà quale forza, si incamminò zigzagando tra le altre, quasi conoscesse a memoria ogni singolo percorso possibile.
Emma si fermò lì, davanti a quella donna, davanti alla vita che lei avrebbe voluto offrirle.
Riusciva quasi a vederla, in un angolino della sua mente.
Una casa, un letto, una camera, due fratelli, dei regali a Natale e per il suo compleanno, il pranzo pronto, la merenda, i dolci fatti in casa.
Le sarebbe piaciuto.
Ma Killian aveva ragione.
Sicuramente, c’era un motivo, aldilà della sua inesorabile sfortuna, per cui le cose avessero seguito un corso differente.
Probabilmente non sarebbe stata lì, a quell’ora.
Vide l’uomo, lontano, di fronte ad una lapide sconosciuta.
Si guardò intorno.
Qualcosa attirò la sua attenzione.
Si incamminò verso una tomba bianca, più bianca della neve.
 
Ingrid Snow
1970 – 2004
 
Emma si bloccò sul posto.
Aveva girato ore nel cimitero, cercando di trovare il luogo nel quale era stata sepolta, e adesso era lì, proprio a due passi dalla mamma di Killian.
Non c’era che dire, alle volte, il destino giocava davvero dei brutti scherzi.
Avrebbe voluto dire tante cose, chiederle tante cose, ma rimase in silenzio.
Strinse più forte la grande rosa bianca che aveva in mano.
L’aveva comprata per lei.
Appoggiò con cura quel piccolo fiore sul bordo della lapide.
Alzò lo sguardo, Killian era ancora lontano.
«Ciao» disse.
«Sai, mi sento così stupida…» continuò.
«Lo sai, non sono mai stata una tipa sentimentale… né me la sono mai cavata con le parole…»
Il vento continuò a sollevarle i capelli.
«La verità è che, indipendentemente da ciò che dice la gente, non ti ho mai ringraziato abbastanza…»
Prese un profondo respiro, cercando di trattenere le lacrime che inevitabilmente le punsero gli occhi.
«Non so se tu fossi davvero mia madre, ma sei stata colei che più si è comportata come tale… quindi grazie… per aver creduto in me e nei miei sogni da ragazzina… per avermi scelto… per quei dolci… sai, non ci crederai mai ma sono diventata abbastanza brava ai fornelli…» sorrise, pensando ai disastri che combinava quando la donna, cercava di spiegarle come sbattere un uovo o sciogliere del cioccolato.
«Ho commesso tanti sbagli… sto cercando di rimediare… Killian dice di avermi perdonato, io non so se lo farò mai veramente… non mi perdonerò mai per averlo lasciato, né per aver lasciato te… per non essere venuta a trovarti neanche una volta… mi dispiace… come vedi, non sono brava con le parole…» toccò la lapide fredda e lasciò che le lacrime, scorressero libere sul suo viso.
 
 
«Ciao» mormorò, fermandosi davanti alla familiare lapide nera. Era l’unica lì in mezzo, tra tutte le altre bianche e grigie.
Lei doveva distinguersi, perfino nella morte.
«Sono tornato» continuò, avvicinandosi e leggendo quelle lettere dorate che tutte le volte, gli provocavano una fitta al cuore.
«Non so perché parlo con te, visto che so che tu non sei qui sotto…»
Il vento continuava a soffiare imperterrito, infiltrandosi nei suoi vestiti, nella sua pelle, nelle sue ossa.
«Sai, è difficile ammetterlo, ma forse, forse avevi ragione… per quanto abbia chiuso, sotterrato il mio cuore quel giorno, assieme a te, non ci sono riuscito… non sono riuscito a tenerlo a freno…»
Delle piccole gocce, cominciarono a scendere dal cielo, bagnandogli il viso.
«È arrivata, così come se n’era andata… inaspettatamente, come un fulmine a ciel sereno… e ha messo tutto in discussione e io non ho potuto fare a meno di perdonarla… mi sono reso conto che, probabilmente, le perdonerei qualsiasi cosa…»
L’acqua cominciò a scendere giù con più violenza, ma lui non vi badò.
«Mi manchi Milah, ogni singolo giorno… Non so dove tu sia in questo momento ma non pensare neanche per un secondo che io ti abbia dimenticato… non potrei mai farlo…» si inginocchiò, trovandosi alla stessa altezza del nome della giovane, inciso sulla pietra.
«Sto cercando di seguire il tuo consiglio…»
Era fradicio ormai, ma non gli importava.
«Sto continuando a vivere…»  
Improvvisamente smise di piovere. Alzò lo sguardo e vide un ombrello scuro sopra la testa. Si voltò ed Emma era lì.
«Ho sempre un ombrello in borsa, sai per ogni evenienza…» spiegò, accennando un sorriso mesto.
Aveva gli occhi arrossati e Killian capì che aveva trovato ciò che stava cercando e che aveva pianto.
Chissà, forse stava piangendo anche lui ma la pioggia, grazie a Dio, era arrivata in suo soccorso.
Era vero, aveva pianto davvero troppe volte nella sua vita.
Ma si ripromise che quella, sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe permesso a qualcuno di andarsene senza di lui.
Si rialzò, in silenzio e senza neanche sapere come, si ritrovò tra le braccia di Emma.
Due anime antiche quanto il tempo, segnate da fin troppe ferite, avevano finalmente trovato nelle braccia dell’altro, un motivo per andare avanti.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Buonasera a tutti! :)
Vi parlo dall’aldilà! Devo dire che non si sta poi così male, si continua a piangere e bramare spoiler come fossimo assetati nel deserto!

Ok, mi ricompongo.
Come avete potuto notare, non mi sono ancora del tutto ripresa dopo la puntata di lunedì (e mai lo farò), ma sto cercando di fare del mio meglio, davvero, dandomi da fare e aumentando la mia produttività...
Quidni finalmente sono riuscita ad aggiornare!!! (Come sempre si sentono i cori degli angeli in lontananza!)
E finalmente qualche nodo è venuto al pettine… Sono davvero curiosa di sapere cosa ne pensate! Ve l’aspettavate??? E adesso cosa succederà???? Regina riuscirà ad utilizzare un computer a trovare Killian?
Per Emma e Killian, a Storybrooke, è arrivato il momento di chiudere con il passato… Robin, possiamo dire, che affronta una decisione molto simile…
Mary Margaret e David invece sono nella modalità carini e cucciolosi! *-*
Ringrazio infinitamente tutte coloro che continuano a dimostrare affetto per questa storia! Grazie a voi che recensite e leggete… senza di voi, non sarei mai arrivata a scrivere il sedicesimo capitolo!! Grazie, grazie, grazie!!
Non vedo l’ora di sapere i vostri pareri!!
Sicuramente, sarà un modo per risollevare il mio morale completamente a terra #Post5x10
E non oso immaginare dopo il MidSeason Finale!! X.X La fine!
Ad ogni modo, sono arrivata alla conclusione che non riesco a pubblicare più di un capitolo al mese, soprattutto se così lunghi… quindi, se non mi faccio sentire, non sono sparita, sono solo piena di impegni/compiti/interrogazioni e altre cose, che mi tengono lontana dalla tastiera! :|
Per quanto riguarda il capitolo di dicembre (per chi seguisse la raccolta) vi giuro che adesso la smetto di parlare a vanvera arriverà a breve… non appena sarò di nuovo in grado di scrivere qualcosa di dolce e coccoloso! :P
GRAZIE ANCORA A TUTTI! <3
Un forte abbraccio
Kerri :*
 
 
 
PS: Per chi avesse Twitter e avesse voglia di commentare gli episodi, sbavare sulle foto di Colin, ricercare disperatamente spoiler o anche solo fare due chiacchiere, il mio contatto è questo https://twitter.com/Mi_kerri
Baciiii :* 

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Capitolo 18
*** Could you take care of a broken soul? ***


17. Could you take care of a broken soul?

 
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Came to you with a broken faith
Gave me more than a hand to hold
Caught before I hit the ground
Tell me I'm safe, you’ve got me now

[…]
If I'm lying here
Will you take me home?
Could you take care of a broken soul?
Will you hold me now?
Oh, will you take me home?
 
«Penso che dovremmo tornare a casa…» mormorò la giovane, voltandosi verso l’uomo accanto a lei.
Lui la guardò. La pioggia le aveva arruffato un po’ i capelli e sciolto quel po’ di trucco che le piaceva mettere, ma per qualche ragione, la trovava comunque bellissima.
Emma continuò.
«Ormai ho capito che le risposte che cerco, sono seppellite qui e va bene così, dovrò imparare a conviverci…»
Killian le prese una mano e cominciarono a camminare, in silenzio.
«So cosa stai pensando, ma non è stato un viaggio del tutto inutile Killian e non sto gettando la spugna…»
Lui sorrise. Da quando erano usciti dal cimitero, non aveva aperto bocca. Eppure Emma affermava di sapere cosa stesse pensando…
Be’, in realtà, non aveva tutti i torti… Non pensava che quel viaggio fosse stato un completo fiasco però molte domande non avevano ancora trovato una risposta e a lui, questo, non andava bene.
«Non voglio profanare la sua tomba…» continuò la giovane, persa nei suoi pensieri «…Soltanto per un mio capriccio…»
Killian si bloccò, costringendo anche Emma a fermarsi di colpo.
«Non è un capriccio il tuo, Emma!» affermò.
«Tu meriti di sapere la verità!»
Emma sorrise un poco, mesta. L’aveva creduto anche lei, ma alle volte, c’erano segreti che dovevano restare tali e a quanto pare, l’identità dei suoi genitori era tra questi.
«Troveremo un modo…»
Con il pollice carezzò il dorso della mano dell’uomo.
Da dove era saltata fuori tutta questa speranza?
Lo ringraziò con un altro sorriso e annuì.
 
New York, Aprile 2012
 
Regina non era un genio del computer e probabilmente, non è una cosa così difficile da capire. Quindi, l’ipotesi di trovare Killian Jones, grazie a quella scatola malefica, fu subito scartata.
Anche perché, non poteva rischiare che Emma scoprisse qualcosa.
Era, infatti, ancora fermamente convinta che non fosse un bene per la sua amica sapere che il suo eterno rimpianto viveva nella sua stessa città.
Ad ogni modo, New York era una delle più grandi città del mondo e rincontrarsi era, se non del tutto impossibile, alquanto improbabile.
«Ehi, che fai?»
Proprio la voce della sua amica la riscosse dai suoi pensieri.
Era entrata come al solito stringendo un grande bicchiere ricolmo di caffè o cioccolata calda e aveva il viso sporco di briciole.
«Aspetto che la mia amica, nonché dipendente, si presenti al negozio!» mormorò Regina, sarcasticamente.
Emma alzò gli occhi al cielo, poi prese posto dietro il suo computer.
Diede una rapida occhiata alle e-mail e Regina pensò che il cuore le sarebbe uscito dal petto.
Lo sguardo della giovane si spense, così come si era acceso.
«Che c’è?!» domandò la donna dai capelli corvini preoccupata. All’improvviso una marea di dubbi le erano saliti alla mente.
Era riuscita a cancellare la lettera oppure quella scatola l’aveva ingannata per l’ennesima volta?
«Non ho ricevuto ancora nessuna chiamata…» mormorò la donna, cercando di nascondere alla meglio la sua delusione.
Chissà perché si era davvero convinta di poter diventare un’investigatrice. E, da poco, aveva ammesso a se stessa che la cosa non le dispiaceva neanche più di tanto.
Le sarebbe passata.
Come ogni altra cosa, pensò.
Aveva persino pensato che, se le cose fossero andate bene, avrebbe lasciato il Rabbit Hole, ma a quanto pare, la fortuna non era dalla sua parte.
«Non abbatterti… prima o poi arriverà qualcosa!»
Emma sorrise.
Sì, era davvero fortunata ad avere un’amica come Regina.
 
 
«Sei sicura?!» chiese, ancora una volta, l’uomo. Il suo volto sembrava realmente preoccupato e nei suoi occhi, Emma vi lesse, forse, qualcosa in più della semplice preoccupazione.
«Sì… se tu non hai nulla in contrario, vorrei partire… il prima possibile…»
Killian scosse la testa.
«Come vuoi…»
Emma gli si avvicinò e posizionò la testa nell’incavo del suo collo. Le sue braccia, qualche secondo dopo, l’avvolsero e finalmente, Emma si sentì di nuovo a casa.
«Grazie Killian» mormorò e sperò che lui l’avesse sentita, raggomitolata com’era.
«Non ho fatto niente, Swan…»
Emma si staccò, per fissarlo negli occhi.
«Non è vero! Hai fatto di tutto e io non lo dimenticherò mai! Non lo meritavo eppure tu sei rimasto…»
Prima che Emma potesse continuare a delirare, Killian unì le loro labbra in un bacio che esprimeva i suoi sentimenti, molto meglio delle parole.
Ecco perché l’aveva fatto.
L’aveva fatto perché l’amava e probabilmente l’aveva amata sempre e avrebbe fatto di tutto per lei.
Qualsiasi cosa.
Ecco perché, quando un’idea gli attraversò il cervello, per quanto folle e improbabile fosse, lui non la cacciò via.
Anzi.
Si distaccò un po’ dalle sue labbra e poggiò la fronte contro la sua.
«Prima di andare però, devo fare una cosa…» sussurrò ed Emma, ancora ad occhi chiusi, annuì.
Le diede un altro rapido bacio e decise che l’avrebbe fatto per lei.
«Dove vai?» chiese.
«A chiudere gli ultimi conti con il mio passato…» esclamò, prima di prendere al volo la giacca di pelle abbandonata sul letto e incamminarsi verso la porta.
«Killian…» lo richiamò
«Fa’ attenzione» mormorò. L’uomo annuì e poi si richiuse la porta alle spalle.
Avrebbe scoperto chi fossero i genitori di Emma, fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto in vita sua.
 
 
Avevano passato il resto della giornata in negozio. Qualche cliente si era fatto vivo, incuriosito dalla vetrina o dal nome. Certo, Henry ci aveva visto davvero giusto. “Once Upon A Time” era davvero un gran bel nome.
Emma non si era mossa dalla sua scrivania, Regina invece aveva accolto e catalogato alcuni degli oggetti che i clienti avevano portato loro.
«Swan, quando ti degnerai di darmi una mano, te ne sarò davvero grata!»
Emma alzò lo sguardo dallo schermo e di malavoglia si alzò.
Proprio in quel momento, il campanellino all’ingresso suonò, segno che qualcuno aveva da poco varcato la soglia del negozio.
«Ciao mamma! Ciao Regina!»
Henry le chiamò, in modo da farsi riconoscere e subito si recò verso il retro.
«Ciao Henry! Potresti cortesemente dire a tua madre che la pago perché mi aiuti e non perché stia tutto il giorno davanti al computer?!»
Regina sollevò l’ultima pila di libri e la ripose con cura sulla mensola del comò.
«Mamma ha detto Regina che non ti paga perché…»
«Sì, ragazzino, ho capito! Ce le ho le orecchie!» disse sorridendo sarcasticamente in direzione di Regina.
«Tutto bene a scuola?»
«Il solito…» disse, alzando le spalle.
«Ti va di andare al cinema?» propose Emma, di punto in bianco.
«Certo!» esclamò il bambino, super entusiasta di passare del tempo con la madre.
«Regina, tu vieni?» chiese la donna, spostando lo sguardo sull’amica.
«Scusa Swan, per oggi passo… Ho altre cose da fare… Sai, a differenza tua, io lavoro!» esclamò, alzando gli occhi al cielo.
Emma ignorò quell’ultima battuta e afferrò la giacca dall’attaccapanni e l’infilò. Quella giornata non era iniziata nel migliore dei modi, ma questo non voleva dire che doveva finire alla stessa maniera! E da quando Henry era nato, passare del tempo con lui, era per lei la migliore medicina.
«Come vuoi! A dopo allora!»
«A dopo…» mormorò, fingendosi interessata a quel polveroso libro che teneva in mano.
Non appena la figura bionda della sua amica e quella più piccola di suo figlio scomparvero all’interno di un maggiolino giallo, la donna dai capelli corvini chiuse di scatto il volume.
Finalmente poteva cominciare le ricerche.
Ci aveva pensato tutto il giorno e se le nuove tecnologie non avevano intenzione di aiutarla, allora si sarebbe affidata a quelle vecchie.
 
 
Non aveva mentito, dopotutto.
Almeno non del tutto.
Aveva davvero intenzione di chiudere i conti con il passato e sapeva che Emma non sarebbe mai andata avanti completamente, con il dubbio costante che l’attanagliava e che, dopo quel viaggio, si era fatto ancora più insistente.
Se Ingrid era davvero sua madre, lui l’avrebbe scoperto.
Si recò alla stazione dello sceriffo, cercando di pensare a ciò che avrebbe dovuto dire per convincere qualcuno ad aiutarlo e sembrare, al tempo stesso, il meno pazzo possibile.
Più facile a dirsi, che a farsi.
«Salve! C’è nessuno?» chiese, varcando la soglia.
«Da questa parte!» gli rispose una voce femminile con uno strano accento. Killian cercò di seguirla e si ritrovò in una stanza più o meno grande con diverse scrivanie, non tutte in ordine, e che terminava con due celle.
Seduta, dietro una di quelle scrivanie vi era una donna dai lunghi capelli rossi, immersa nella lettura di qualche fascicolo.
«Salve!» esclamò la donna, alzandosi e porgendo la mano all’uomo.
«Mi chiamo Merida e sono il nuovo sceriffo di Storybrooke…» esclamò la giovane, estraendo il distintivo e mostrandolo all’uomo davanti a lei.
«Tu chi sei?»
Killian le strinse la mano e cercò di sembrare il più cordiale possibile. Non voleva che pensasse che fosse un poco di buono e non si fidasse di lui.
«Mi chiamo Killian Jones… non so se ti ricordi di me! Abitavo anche io qui, qualche anno fa…»
La donna dai lunghi capelli ricci e rossi lo fissò per un po’, assorta e con le braccia conserte, poi scosse la testa.
«Mi dispiace, ma non penso di averti mai visto in vita mia!»
Killian accennò un sorriso.
Sì, probabilmente era così… Anche lui se la sarebbe ricordata, no? Dopotutto era un individuo di sesso femminile e come Emma aveva sottolineato qualche giorno prima, erano poche le donne che non fossero uscite con lui, almeno una volta o che lui non conoscesse.
«Come posso aiutarti?» continuò quella, appoggiandosi alla scrivania.
Bene, qui arrivava la parte difficile.
Killian prese un respiro, pregando chiunque potesse ascoltarlo di concedergli almeno un pizzico di fortuna e che non lo stava facendo per sé, ma per la donna che amava…
Amava… Davvero era arrivato a pensare questo di Emma?
«Vedi, io e la mia amica…» cominciò, scuotendo la testa.
«Puoi dire “ragazza”… Non capisco perché questa parola spaventi tanto gli uomini!» sorrise la giovane.
Killian abbassò lo sguardo imbarazzato. Evidentemente mentire non gli risultava più facile come una volta… Sempre se lo era mai stato avendo avuto come migliore amica Emma e il suo “superpotere”.
«Sì, be’, abbiamo lasciato Storybrooke, credendo di non farci più ritorno molto tempo fa… Tuttavia alcune… complicazioni… ci hanno riportato qui e vorrei il tuo aiuto per risolvere, almeno in parte, i nostri problemi…»
Merida alzò un sopracciglio.
«Se rimani sempre così sul vago, non potrò mai aiutarti…»
Killian dovette ammettere che la donna aveva ragione.
Basta giochetti.
«Emma, la ragazza di cui ti parlavo prima, è stata abbandonata qui, al confine di Storybrooke quando ancora era in fasce… Siamo ritornati per scoprire chi fossero i suoi veri genitori… Qualche giorno fa, in biblioteca, abbiamo trovato un certificato che mia madre stava compilando per chiedere il suo affidamento ma purtroppo è morta prima che le cose potessero andare in porto…»
«Mi dispiace…»
Killian continuò.
«Già… - abbassò lo sguardo - così siamo andati a cercare delle risposte da mio padre, non so se lo conosci, Isaac Jones…»
Le sopracciglia della donna si alzarono e Killian capì che finalmente, aveva capito chi lui fosse.
Il bambino picchiato e maltrattato dal suo stesso padre.
Una fama che, purtroppo, non lo aveva mai del tutto abbandonato in quel di Storybrooke.
«Lui ha detto che forse, la donna che aveva preso Emma in affidamento quando ormai aveva quindici anni, potrebbe essere la sua vera madre ma purtroppo anche lei è morta e non possiamo chiederglielo…»
La donna sembrava assente, persa in qualche suo pensiero spuntato chissà da dove.
«Merida? Ci sei?»
La donna riposò gli occhi su di lui e a quel punto, non ci furono più dubbi.
«Jones… - mormorò a bassa voce, il tono leggermente incrinato - tu sei il fratello di Liam!»
Killian perse un battito sentendo il nome di suo fratello.
La donna spalancò la bocca. Killian giurò persino che gli occhi le divennero un po’ lucidi.
«S-sì… Come fai a saperlo?» chiese, titubante.
Non amava parlare di suo fratello, non da quando non aveva ricevuto sue notizie da così tanto tempo.
«Lo conosci?» aggiunse.
Eppure, lui non le aveva mai parlato di lei, non aveva mai accennato ad una donna dai capelli rossi e lo sguardo penetrante, altrimenti, sicuramente, se la sarebbe ricordata.
«Certo che lo conosco! O Dio, perché non me lo hai detto subito?» mormorò, sedendosi di nuovo dietro la scrivania e abbandonandosi sulla sedia. Aveva chiaramente gli occhi lucidi, più verdi e brillanti di prima.
«M-ma lui non mi ha mai parlato di te, tu…»
«L’ho conosciuto lì» sussurrò la giovane, spiando la reazione dell’uomo.
Come si aspettava, non fu delle migliori. Anche Killian dovette aggrapparsi ad una scrivania.
Suo fratello! Da troppo tempo non osava neppure toccare questo argomento e adesso, gli si rovesciava addosso improvvisamente, come una doccia gelata.
«Lui è…?»
Non riusciva neanche a pensarlo. Per un attimo credette che la giovane dai capelli rossi gli avrebbe confermato ciò che, in cuor suo, aveva sempre temuto. Suo fratello non ce l’aveva fatta. Se n’era andato, con la sua solita pacatezza. Senza far rumore, senza avvisare, senza lasciargli nessun appiglio al quale aggrapparsi.
Altrimenti, perché non farsi sentire per così tanto tempo?
«Disperso» concluse la giovane, abbassando gli occhi.
«Oh»
Disperso, però, non voleva dire morto.
Qualcuno potrebbe averlo catturato.
Chiuse gli occhi per qualche secondo e si ricompose.
«Quand’è stata l’ultima volta che lo hai visto?» chiese e in quel momento avrebbe voluto che Emma fosse lì con lui.
«Tre anni fa! Killian… come ho fatto a dimenticarlo?! Mi parlava sempre di te!» esclamò la donna, portandosi una mano sulla fronte.
Killian sorrise. Una piccola fiammella di speranza si riaccese anche in lui. Tre anni erano tanti, davvero. In tre anni la sua vita era stata scombussolata del tutto, ma questo non voleva dire niente, Liam poteva essere ancora vivo.
Ma perché aveva così paura? Perché non voleva neanche ammettere a se stesso, l’esistenza di quella fiammella? Forse, sapeva, avrebbe fatto troppo male, ancora e lui ne aveva abbastanza.
«E tu? Come sei capitata in questa sperduta cittadina?» chiese il giovane puntando i suoi penetranti occhi azzurri sul volto della donna, cercando di cambiare discorso.
Quella sorrise.
«Forse, per lo stesso motivo per cui ci sei anche tu… Allora, la tua amica? Come posso aiutarti?»
Killian si ricordò improvvisamente del piano.
Chiese a Merida se potesse accompagnarlo e la donna, senza troppe remore, accettò.
Era il minimo che potesse fare per il fratello dell’uomo che le aveva salvato la vita.
 
 
Gli elenchi telefonici.
Benedetto colui che aveva inventato gli elenchi telefonici.
Regina si chiese perché, il signor Jones, non aveva fatto tutto da solo.
Sicuramente, pensava a qualcosa di molto più complicato e invece, tutto ciò che aveva dovuto fare era cercare il nome dell’uomo su un elenco telefonico, per scoprire l’indirizzo di casa e dell’ufficio.
Mandò un messaggio privato ad Isaac Jones, dove gli chiedeva di incontrarsi.
L’uomo rispose dopo qualche minuto, quasi aspettasse tutto il giorno davanti al telefono in attesa di un segno.
«Dove vai?» chiese la giovane dai capelli biondi non appena si accorse che Regina si stava infilando la giacca.
«Ho degli affari da sbrigare…» mormorò.
Emma affilò lo sguardo e incrociò le braccia al petto, mettendo all’opera il suo “super potere”.
Alzò un sopracciglio.
«Che affari?» chiese.
«Secondo te, Swan? Per il negozio, ovviamente! E ora, se vuoi scusarmi… ci vediamo più tardi…»
«A più tardi…» mormorò la giovane, ancora le braccia incrociate, appoggiata allo stipite della porta, non del tutto convinta.
Regina uscì dal locale, evitando di girarsi. Sapeva bene che Emma non le stava togliendo gli occhi di dosso, sentiva il suo sguardo perforarle le spalle.
“Scusa Swan, ma è per il tuo bene…” pensò, prima di infilarsi in macchina e dirigersi verso il luogo dove aveva incontrato Isaac Jones per la prima volta.
 
 
Killian se n’era andato da quasi due ore.
Emma aveva impacchettato tutto e adesso era appollaiata sul letto matrimoniale, a gambe incrociate, intenta a fissare l’orologio.
Dove diavolo era finito?
Perché non tornava?
Che gli fosse successo qualcosa?
Il suo sguardo si spostava dall’orologio al telefono ogni due secondi.
Alla fine, di scatto, si alzò e decise che sarebbe andata a cercarlo.
Storybrooke non era grande e i posti in cui poteva essere, non erano di certo molti.
Devo chiudere i conti con il mio passato, aveva detto.
Emma rabbrividì.
Sapevo dove fosse l’uomo.
Afferrò al volo la giacca di pelle rossa e uscì dalla camera, sbattendosi la porta alle spalle.
 
 
«Signorina Mills, l’indirizzo e il numero di telefono di mio figlio potevo cercarmeli da solo!» esclamò l’uomo, alzando il tono di voce.
«Ciò di cui ho bisogno è sapere se sta bene, che lavoro fa, se è sposato, se ha bisogno di soldi! Ma l’ha mai fatto prima!?»
Regina spalancò gli occhi.
«Come osa!» urlò.
«Certo che l’ho già fatto e come ogni volta, prima di entrare in contatto con qualcuno, devo chiedere prima al cliente… sto solo seguendo le regole signor Jones, non si scaldi!»
Isaac tacque. Regina sorrise.
«Mi scusi… i-io, aspetterò sue notizie…» mormorò.
La donna si alzò, fiera e spavalda.
«Bene! Arrivederci!»
Si voltò e si incamminò verso la sua macchina.
Il signor Jones fissò prima la sua schiena allontanarsi e poi i suoi occhi si mossero verso il piccolo foglio di carta dove, un’elegante e pulita calligrafia, aveva segnato l’indirizzo e il numero di telefono di suo figlio.
Chiuse gli occhi e bevve un altro sorso.
 
 
Emma si guardò intorno. La sua macchina non c’era ma questo non voleva dire che lui non ci fosse.
Come un fulmine, la nostalgia per il suo piccolo maggiolino giallo le attraversò il cuore.
Le costava ammetterlo ma Regina aveva ragione.
Storybrooke non aveva niente da offrirle se non qualche cartaccia e ulteriori domande.
La sua famiglia, la sua casa, la sua macchina, il suo lavoro, il suo posto erano a New York.
Chiuse gli occhi e per infondersi coraggio, prese un profondo respiro.
Poi bussò.
All’iniziò, non si mosse nulla.
Poi Emma sentì dei passi pesanti avvicinarsi e la porta si spalancò.
«Emma…» mormorò l’uomo, evidentemente sorpreso di vederla lì, sull’uscio della sua abitazione.
«Buonasera signor Jones…» lo salutò, cercando di essere il più cortese possibile.
«Posso entrare?»
L’uomo alzò le sopracciglia, in una maniera vagamente familiare, poi si fece da parte e la lasciò entrare.
 
 
Regina aveva dovuto inventarsi un’altra scusa per sviare le domande di Emma e avere la sera libera per seguire il suo caso.
Le suonava piuttosto strano dirlo in verità, ma più pensava che non fosse giusto, più si convinceva che fosse la cosa migliore.
Aveva imparato che non sempre le cose giuste, sono anche le più corrette e poteva sembrare un paradosso agli occhi di tutti, ma a lei non importava. Tutto ciò che stava facendo era proteggere la sua migliore amica e, ne era sicura, anche Emma avrebbe fatto la stessa identica cosa al suo posto.
Fissò un uomo sulla trentina scendere dal palazzo dove, in teoria, avrebbe dovuto trovarsi il suo studio, seguito da una giovane donna dai lunghi capelli neri.
«Bene, bene, bene…» mormorò.
I due si avviarono verso due direzioni opposte. Regina non ci mise molto ad accendere il motore e seguire l’auto nera, appartenente all’uomo.
Questo, dopo essersi fermato ad un take-away cinese, si diresse verso un locale, probabilmente a bere.
«Se dobbiamo giocare…» esclamò la donna, mettendosi il rossetto rosso e uscendo dalla macchina.
 
 
Emma fissò per qualche altro secondo la bevanda scura che le aveva riscaldato la gola, poi alzò le lunghe ciglia nere in direzione dell’uomo.
«Killian è passato?» chiese, rompendo quello strano e imbarazzante silenzio che si era creato dacché la giovane aveva accettato quella tazza di thè.
L’uomo sorrise mestamente e scosse la testa.
Poi abbassò lo sguardo, fissando anche lui la sua tazza, ormai vuota.
Emma inarcò le sopracciglia.
Eppure era piuttosto sicura, anzi, era sicurissima.
“A chiudere i conti con il mio passato” aveva detto e dove sarebbe potuto andare se non lì, dall’uomo che per primo gli aveva fatto del male?
Prese un altro sorso della bevanda, sentendosi del tutto inadeguata in quella casa, dalle pareti troppo grigie e dai ricordi troppo spessi.
Ancora una volta, la solita domanda inopportuna fece capolino nella sua testa.
Come sarebbe stato?
Non lo avrebbero mai saputo.
Chissà, magari quelle pareti non sarebbero state grigie e l’uomo di fronte a lei non sarebbe stato così disperato.
Non lo avrebbero mai saputo.
«Emma…» cominciò l’uomo, con tono basso, quasi intimorito di rivolgerle la parola.
Aveva gli occhi bassi e quel giorno i capelli bianchi risaltavano maggiormente, le rughe intorno agli occhi e le mani raggrinzite.
«…Come sta?»
Finalmente rialzò lo sguardo. Era nero e profondo ed Emma ne ebbe quasi paura.
«Killian… come sta?»
La donna spalancò gli occhi. Ciò che più la spiazzò non fu tanto la domanda in sé, quanto il tono che l’uomo aveva usato, il suo sguardo, i suoi occhi, la piega delle labbra.
Tutto, ogni segnale che il suo corpo mandava le gridava una sola cosa.
Quell’uomo era seriamente preoccupato per suo figlio.
Ed Emma se ne stupì perché aveva da sempre pensato che un essere del genere, un mostro, non avesse sentimenti, non potesse provarne perché, se fosse così, non si sarebbe macchiato delle colpe delle quali era, invece, accusato.
E odiava percepire questi suoi assurdi e inadeguati sentimenti perché non poteva provarli, non dopo ciò che aveva fatto. Come poteva anche solo considerare che Killian avrebbe potuto perdonarlo, un giorno?
Una vocina, continuava a ripeterle che se aveva perdonato lei, allora perdonerebbe il mondo intero.
Eppure, suo padre, non aveva niente a che vedere con ciò che lei gli aveva inflitto.
Le sue ferite erano molto più profonde.
Ne sei davvero sicura?
Oh, al diavolo, odiava quella voce!
«Io… ehm…»
L’uomo bramava una risposta, desiderandola come un assetato nel deserto.
Cosa poteva rispondergli Emma?
Che Killian stava bene? Che era felice? Che era completo?
In realtà non lo sapeva bene neanche lei.
Killian non era felice. Era soltanto un uomo distrutto, ferito dalle ingiustizie della vita che cercava, piano piano, di rimettere insieme i pezzi e tirare avanti.
Lui era l’uomo più coraggioso che avesse mai incontrato sì, ma anche il più fragile.
Gli occhi del signor Jones erano fissi su di lei, aspettando una risposta. La bocca semi aperta, le dita strette intorno alla tazza.
Chi era lei per raccontare quelle cose a suo padre? Non poteva dirgli tutto e allo stesso tempo, non poteva semplicemente scappare.
«Bene…» sentì pronunciare la sua voce.
L’uomo strinse più forte la tazza, quasi a voler assorbire quel po’ di calore che vi era rimasto.
Forse si accorse che stava mentendo, ma non lo diede a vedere.
Forse pensò che sarebbe stato meglio illudersi che fosse davvero così, che suo figlio stava “bene” e non accettare la triste verità.
«Io… Sono stato davvero sorpreso di trovarvi insieme…» mormorò l’uomo, alzandosi e dirigendosi verso la cucina. Emma intuì che non se l’era bevuta, sapeva che sotto c’era dell’altro.
«Perché?» chiese la donna seguendolo.
Non credeva che sapesse tutto.
Di colpo, il senso di colpo prese di nuovo possesso del suo cuore.
Si vergognava di ciò che aveva fatto. Le ferite che lei aveva inflitto a Killian, forse, erano perfino peggiori di quelle inferte dal padre.
Se questo gli aveva lacerato la carne, lei gli aveva squarciato l’anima.
Davvero poteva considerarsi migliore di lui?
Oh, voce della coscienza del cavolo!
«Ho saputo cos’è successo dodici anni fa… ripeto, sono stato davvero sorpreso di vedervi insieme…»
Emma poggiò la tazza nel lavello, fissandone per un po’ il bordo scheggiato.
«Si sta chiedendo perché lui è riuscito a perdonare me e non lei?» chiese e la sua sfacciataggine, sorprese anche lei.
L’uomo la guardò di sottecchi, mentre sciacquava prima una tazza e poi l’altra.
«Se vuole saperlo, non lo so neanche io…» continuò poi.
«Dammi del tu, Emma…»
La donna annuì. Si sentiva parecchio a disagio con quei suoi occhi neri e indagatori puntati addosso.
Erano così diversi da quelli di Killian…
«Te lo dico io perché… lui ti ha sempre amato, forse dalla prima volta che ti ha visto… riuscirebbe a perdonarti tutto…»
Quelle parole, pronunciate dal padre di Killian, risultarono strane all’orecchio di Emma eppure, le fecero venire la pelle d’oca.
Probabilmente aveva ragione lui, probabilmente anche lei l’aveva sempre amato. Eppure questo, non giustificava il suo comportamento.
«Ha amato anche te…» precisò la donna.
Isaac annuì, stanco.
«Hai ragione, ha amato anche me un tempo… ma io sono stato troppo egoista, troppo stupido, troppo codardo e ho rovinato tutto…»
Emma non parlò. Se fossero esistite delle parole da pronunciare in situazioni del genere, lei di certo non ne conosceva, così preferì tacere.
«Ho cercato di rimediare, credimi, di diventare un uomo migliore ma penso di aver peggiorato la situazione…»
A quel punto, la curiosità di Emma fece capolino e incrociando le braccia e affilando lo sguardo, assunse la solita posizione da investigatrice.
«Cosa ha fatto signor Jones? Killian non me ne ha mai parlato…»
«Perché Killian non lo sa…» mormorò l’uomo.
La faccenda diventava sempre più strana.
«Cosa ha fatto signor Jones?» ripeté Emma.
L’uomo si guardò intorno, la donna intuì che cercava una via di fuga e fece di tutto per non fargliela trovare. A quel punto, Isaac chiuse gli occhi e prese un bel respiro.
«Qualche anno fa, quando Killian lasciò Storybrooke, io… io assoldai un investigatore privato lì a New York…»
Emma alzò entrambe le sopracciglia.
 
 
Le prime volte, Regina aveva preferito non avvicinarsi. Così, si metteva comoda da qualche parte, ordinava un drink analcolico e osservava Killian Jones flirtare con una ragazza diversa quasi ogni sera, per poi uscire con lei e dirigersi sicuramente a casa di uno dei due.
Regina doveva ammettere che dopotutto, era un bell’uomo, eppure tutto questo fascino, non riusciva proprio a vederlo.
Le donnine che di solito abbordava, si scioglievano ad un suo sguardo o ad un suo tocco. Certe volte, arrivava con un altro uomo. Stando alle sue ricerche, quello doveva essere David, uno dei suoi migliori amici, se non l’unico. Aveva osservato anche lui nel breve periodo in cui aveva tenuto d’occhio Killian Jones e parecchie volte, quando era sovrappensiero e credeva che nessuno lo guardasse, si rigirava tra le mani un piccolo anello con una pietra verde.
La donna preferiva non farsi troppe domande. Dopotutto, mica la pagavano per tenere d’occhio David, no?
Finalmente, una sera, Killian Jones sembrò notarla e lei, colse la palla al balzo.
«Buonasera tesoro…» la salutò l’uomo, sedendosi sullo sgabello accanto al suo e facendo segno al barista di portargli un altro bicchiere di qualsiasi cosa stesse bevendo.
La donna lo squadrò da capo a piedi, convincendosi sempre di più che aveva fatto la cosa migliore non lasciando che Emma si occupasse di questo caso. Probabilmente la visione del suo migliore amico ridotto ad un dongiovanni da quattro soldi, non le avrebbe fatto altro che male.
«Anche tu bevi per dimenticare?» mormorò la donna, stampandosi un sorriso finto in volto, cosa che da quanto aveva dovuto rimettere insieme i pezzi dopo la morte di Daniel, le riusciva piuttosto bene.
L’uomo ingoiò il contenuto del bicchiere in un fiato, strizzò gli occhi e poi scosse la testa.
«Purtroppo ho imparato a mie spese che non funziona così…»
La donna alzò un sopracciglio chiedendosi, per un attimo, se non ci fosse dell’altro dietro quel futile tentativo di impressionarla.
«Allora… cosa ci fa una donna bella come te in un posto squallido come questo?»
L’uomo ritornò all’attacco, gesticolando.
«Potrei chiederti la stessa cosa…» mormorò la donna, assaggiando un po’ del suo cocktail analcolico.
Doveva restare lucida per ciò che aveva in mente di fare.
E per attuare il suo piano, doveva agire subito, prima che fosse troppo tardi.
Fece segno al barista di portare un altro bicchiere.
«Offro io…» mormorò suadente, fissando Jones negli occhi.
Quando il barista fece scivolare il bicchiere di nuovo pieno, Regina fissò un punto imprecisato, alle spalle di Killian.
«Cosa guardi?» mormorò con voce roca, voltandosi.
Fu una questione di secondi.
«Quelle due… non riescono a staccarti gli occhi di dosso…» mormorò. E allo stesso tempo, estrasse dalla tasca una piccola pasticca rotonda e come un gatto, la infilò nel bicchiere dell’uomo.
Killian fissò incuriosito le due donne.
«Non mi interessa…» mormorò, voltandosi verso la mora e mantenendo lo sguardo fisso nei suoi occhi.
«Oggi ho messo gli occhi su qualcun’altra…»
Regina rise, abbassando lo sguardo e carezzandogli una coscia. Poi, gli porse il bicchiere.
«Bene» mormorò quando l’uomo trangugiò il liquore sotto i suoi occhi.
«Molto bene…»
Si prospettava una lunga serata.
 
 
«Be’ ha abbastanza senso, signor Jones…» mormorò Emma, mentre fissava l’uomo passarsi tra le mani un vecchio strofinaccio.
Quello abbassò lo sguardo.
«Per tutti questi anni… ogni giorno speravo che si rifacesse vivo, che chiamasse… sapevo fosse diventato un architetto e controllavo il suo sito… era bravo, è bravo… un giorno, però, mi chiesero come stesse mio figlio e io non seppi rispondere… così decisi che l’avrei trovato…»
Il cuore di Emma batteva all’impazzata. Perché, quell’uomo aveva deciso di confidarsi con lei? Perché continuava a provare dei sentimenti? Perché continuava a comportarsi da… uomo?
Solo, disperato, triste, senza più nulla da perdere.
Ma pur sempre un uomo.
«Contattai un investigatore lì a New York e le chiesi di darmi notizie su di lui, sulla sua vita, notizie che non avrei trovato su internet o da qualsiasi altra parte… Dopo, cominciai ad inviargli dei soldi…»
Le sopracciglia di Emma volarono verso l’alto.
«Soldi?! E lui lo sa?» chiese, stupita.
«No… o almeno non credo… potrebbe averlo sospettato, visto che non ha mai riscosso nessun assegno…»
Emma si appoggiò al tavolo, cercando di assimilare la quantità di notizie che aveva appreso.
E, qualcosa le diceva, che non era finita lì.
«Signor Jones…» cominciò e allo stesso tempo, pensava a ciò che avrebbe dovuto dire.
«Isaac» la corresse.
«Isaac… non so perché mi stia raccontando queste cose ma se lo sta facendo perché, in qualche modo ha bisogno della mia approvazione o compassione… mi dispiace, non posso dargliele…»
Fece un attimo di silenzio per studiare la reazione dell’uomo.
«Perché non sono io la persona a cui deve delle risposte… lei, si è macchiato di colpe terribili signor Jones e non sono sicura che qualcuno riuscirebbe mai a perdonargliele… però, fortunatamente per entrambi, suo figlio è una persona con un grande cuore… immenso…»
Le lacrime cominciarono a pizzicarle gli occhi.
«Lui non vuole ascoltarmi»
«E, sinceramente, ha tutte le ragioni del mondo per non farlo… i soldi, gli investigatori privati… non sono la soluzione… le parole, lo sono… i fatti, lo sono…»
«Forse non hai capito… lui non vuole ascoltarmi!»
«E lei faccia in modo che lui lo faccia! Se ci tiene veramente a ricostruire un rapporto con suo figlio, non può permettersi di lasciarlo partire così…»
Gli occhi di Isaac si sbarrarono.
«State partendo?!» sussurrò, il tono pieno di paura, rimorsi e sorpresa.
La donna annuì.
Questo è più di ciò che avrebbe dovuto dirgli.
«Quando?»
«Presto…»
Isaac abbassò lo sguardo. Lo strofinaccio cadde a terra.
Un’altra occasione era stata sprecata.
«I-io devo andare…»
Così come era entrata, Emma si infilò la sua giacca e uscì, lasciando l’uomo con solo con il suo strofinaccio, le parete grigie e il cuore pieno di rimpianti.
 
 
Non appena varcata la soglia della sua camera, Killian aveva intuito subito che Emma non fosse più lì.
Ma dove poteva essere andata?
Si precipitò dabbasso, chiedendo alla nonnina dietro il bancone se sapesse dove la giovane dai capelli biondi fosse diretta.
«Mi dispiace Killy, è uscita più di un’ora fa ma non so dove sia andata…»
L’uomo annuì. Una strana sensazione si impossessò del suo cuore.
Perché?
Dopotutto, non era mica detto che si trovasse in pericolo…
Forse era solo uscita per delle faccende, per schiarirsi le idee, per mettere finalmente un punto al suo passato.
E se…
No, non poteva neanche pensarlo.
Lei non lo avrebbe rifatto, non di nuovo, non dopo tutto quello che si erano promessi e ripromessi, non dopo tutto quello che avevano passato.
Non finì neanche di elaborare quel pensiero inopportuno che il campanello appeso alla porta d’entrata tintinnò.
Killian si voltò e il sollievo che lo pervase alla vista di Emma fu tanto, quanto strano.
Non poteva averlo pensato veramente, giusto?!
Sbagliato.
«Ehi…» lo salutò la giovane, avvicinandosi.
«Che fine avevi fatto, Swan? Mi hai fatto preoccupare…» mormorò, portandola verso un tavolino libero.
L’uomo la fece sedere, a prima vista sembrava piuttosto sconvolta, e poi si accomodò di fronte a lei.
«I-io… ero venuta a cercarti…» disse, cominciando a contorcersi le mani fredde.
L’uomo alzò un sopracciglio, il cuore fece un balzo.
Che avesse scoperto tutto? Ma non c’era ancora nulla da scoprire, no?
Almeno, non ancora.
Sentiva il bisogno impellente di confessarle tutto, di parlarle di Merida e di Liam e della piccola e stupida fiammella di speranza che non era riuscito a non far accendere dentro di sé, alimentata dalla convinzione di essere a pochi passi dalla risoluzione di tutti i problemi della donna che aveva di fronte.
Ma si trattenne.
Emma sembrava già alquanto sconvolta di suo.
«Ero nella stazione dello sceriffo… dove sei andata Emma?» chiese, cauto.
La donna alzò e abbassò lo sguardo più volte. Sembrava agitata, colpevole quasi.
«Ecco… i-io ero preoccupata e tu hai detto che saresti andato a chiudere i conti con il tuo passato così…»
Non servirono altre parole. Killian capì tutto e si maledisse perché non ci aveva pensato prima.
E poi, maledisse la sua dannata vena poetica che gli faceva pronunciare frasi del genere a cuor leggero, senza pensare a come una persona normale, potrebbe interpretare.
«Sei andata da lui» disse e non fu una domanda, né un rimprovero, quanto una piccola e dura constatazione.
Emma se ne accorse e abbassò lo sguardo. Sapeva che non avrebbe dovuto immischiarsi e si sentiva in colpa… non voleva aver dato ad Isaac Jones delle speranze inutili e non voleva neanche ferire o perdere Killian, dopo averlo da poco riguadagnato nella sua vita.
«Ti ha detto o fatto qualcosa di male?» chiese l’uomo e il suo tono di voce tradì, come sempre, quell’innato senso di protezione che provava nei confronti della giovane.
Emma scosse la testa.
«No, ma mi ha chiesto di te…»
Killian annuì, come se si aspettasse tutto quello, come fosse normale che l’uomo che aveva popolato i suoi incubi peggiori, adesso fosse preoccupato per lui.
Era normale?
No, certo che no.
«Mi dispiace Killian, so che non avrei dovuto interferire in tutta questa faccenda… io, non so cosa mi è passato per la testa… è il tuo passato e io non sono nessuno per…»
L’uomo la fermò, prima che potesse generare. E dentro di sé, provò persino un moto d’ilarità visto che anche lui, poche ore prime, si era immischiato nella vita della giovane e nel suo passato.
Non poteva arrabbiarsi con lei per un qualcosa che lui stesso aveva commesso.
«Emma, Emma va bene… è stata colpa mia… ti ho detto che sarei andato a chiudere i conti con il mio passato ed era logico che tu pensassi che sarei andato da mio padre… l’importante è che adesso sei qui…»
La donna tirò un po’ sul col naso, chiedendosi perché Killian avesse quest’innata predisposizione a caricarsi le colpe del mondo sulle spalle.
Strinse un po’ le mani dell’uomo, carezzandone il dorso.
«È tutto pronto, allora?» chiese l’uomo, cercando di alleggerire la tensione creatasi.
La donna annuì.
«Possiamo partire quando vuoi!» esclamò, sorridendo alla cameriera che le aveva appena riempito una tazza di caffè.
 
 
Partirono il mattino dopo, al sorgere del sole.
Killian aveva insistito nel restare ancora un’altra notte, insieme, fuori dal mondo e dai problemi, rinchiusi nella loro piccola bolla di paradiso.
Dormirono ancora una volta abbracciati nel letto e così si svegliarono.
Dopo aver sceso tutti i bagagli e aver pagato tutto, salutarono Granny e le altre poche persone che erano nel locale.
«Fate buon viaggio e tornate presto!» si raccomandò la donna, abbracciandoli a turno. Ad Emma pizzicarono gli occhi. Per tutta la vita, quell’anziana signora, con le sue lasagne e la sua cioccolata calda, avevano rappresentato per lei il modello di una nonna ideale. Quando le capitava di pensare ad una sua, ipotetica, nonna, questa aveva inevitabilmente i capelli bianchi e il grembiule, proprio come Granny.  
Stavano per lasciare il locale, quando un uomo fece il suo ingresso.
Era piuttosto in avanti con l’età ma il suo completo marroncino e i suoi occhi vispi lasciavano intuire al mondo che non si era ancora arreso alla vecchiaia. Scrutò il locale con quel suo sguardo acceso e indagatore che infine, si posò su Killian.
«Buongiorno signor Jones… mi avevano detto che si trovava di nuovo in città e non potevo non venire a salutarla…»
Killian strabuzzò gli occhi.
«Professor Montgomery?»
L’uomo sorrise e porse la mano al giovane architetto, che la strinse con foga.
«Sono felice di vederla signor Jones! Vedo che è in ottima forma e che ha finalmente trovato la sua strada!» esclamò, dandogli una pacca sulla spalla.
Emma fissava la scena in disparte, con le braccia incrociate e un sorriso vero stampato in volto.
Killian, in imbarazzo, si grattò la nuca e abbassò lo sguardo.
«Sì, be’, non è stato facile ma penso che prima o poi capiti a tutti…» mormorò.
«Anche ad un ragazzo scapestrato come lei!» rise il professore e Killian si unì a lui.
«Anche ad un ragazzo scapestrato come me!» ripeté l’uomo, ridendo.
«Se solo avesse scoperto prima la voglia di studiare, signor Jones…» continuò, strizzandogli l’occhio.
Killian sorrise ancora un po’.
«Professore, vorrei presentarle Emma… Emma, lui è uno dei pochi che credette in me quando… - fece una pausa, un secondo che solo Emma notò- quando tu te ne andasti…»
Ad Emma vennero i brividi e le lacrime e poi di nuovo i brividi ma cercò di ignorarli e strinse la mano a quell’uomo dai capelli bianchi e grigi e il sorriso simpatico.
Killian si sarebbe aperto poco alla volta, lo sapeva, ed il fatto che le avesse presentato quell’uomo, ne era un chiaro segno.
«È un piacere Emma!»
«Il piacere è mio, professore!»
L’uomo, solo allora, notò i borsoni abbandonati sul pavimento.
«Oh, vedo che state già partendo… Vi lascio allora…»
Killian ed Emma annuirono.
Il professore strinse ancora una volta la mano ad Emma e poi, salutò Killian.
Strinse la mano anche a lui e poi, spinto da un sentimento quasi paterno, gli circondò le spalle, sussurrandogli qualcosa che Killian non avrebbe mai e poi mai dimenticato.
Non arrenderti mai Killian Jones, non arrenderti mai.
 
 
Erano quasi arrivati al confine della città.
I finestrini chiusi, a causa di un vento freddo, permettevano comunque ad Emma di ammirare gli alberi immensi che circondavano il paesino, così come aveva fatto cinque giorni prima.
Erano cambiate parecchie cose in quei cinque giorni ma le domande che le attanagliavano il cuore erano ancora lì, dure e pesanti come non mai.
Tuttavia si sentiva comunque più leggera di quando era arrivata perché, in qualche modo, sentiva di aver accettato quella triste verità.
Non avrebbe mai saputo chi fossero i suoi genitori, men che meno cosa li avesse spinti ad abbandonare la loro bambina sul ciglio di una strada.
Ma andava bene così. C’erano segreti che dovevano restare tali, parole che non dovevano essere pronunciate.
Killian, dal canto suo, guidava placidamente, lasciando volare la mente e sperando che Merida gli inviasse il più presto possibile tutto ciò che era riuscita a trovare.
Ancora una volta, cercava di non pensare a suo padre e a suo fratello.
L’unica famiglia di cui aveva bisogno era a New York e lo stava aspettando. David, Robin, Roland, Mary Margaret ed Emma, ovviamente…
«A cosa pensi?» chiese di punto in bianco la giovane, staccando gli occhi dalla strada e puntandoli su Killian.
«A niente…» mormorò, ricambiando per qualche istante lo sguardo di Emma, per poi riposarlo sulla strada.
«Non è vero»
L’uomo piegò le labbra in un sorriso tirato e quasi stanco, e sospirò.
«Pensavo a mio fratello» disse, la voce roca.
Gli occhi della donna si abbassarono, tristi.
«Ti va di raccontarmi cosa è successo?»
«Non adesso Em… Devo restare concentrato sulla strada…»
La donna annuì, capendo al volo che Killian si era di nuovo richiuso dietro le sbarre del suo passato.
«Quel professore… come si chiamava?!»
«Montgomery»
«Sì, giusto, Montgomery… cosa ti insegnava?»
“A sopravvivere” avrebbe voluto rispondere ma strinse le mani sul volante e si contenne.
«Storia… fu l’unico a scommettere su di me quando nessun altro lo fece…»
«Mi sarebbe piaciuto conoscerlo meglio…»
«Possiamo invitarlo al nostro matrimonio…» disse serio Killian.
Emma strabuzzò gli occhi.
«COSA?!»
L’uomo non resse più e scoppiò in una fragorosa risata.
«Dovevi vedere la tua espressione Em!» rise ancora ed Emma si unì a lui, dopo avergli assestato un pungo sul braccio ovviamente.
«Scemo!»
Risero e la tensione si alleggerì, l’aria divenne meno pesante e più respirabile.
Killian rise ancora sotto i baffi e girò il volante. In lontananza Emma riuscì a vedere il segnale verde che li avrebbe portati, questa volta, fuori da Storybrooke.
Sotto di questo, parcheggiata all’angolo della carreggiata, vi era una macchina grigia.
Emma guardò Killian stringere la mascella.
Il sorriso di qualche istante prima si trasformò in un’espressione dura e severa.
«Che diavolo ha intenzione di fare?» sussurrò.
Solo allora Emma si accorse che appoggiato alla macchina grigia vi era Isaac Jones, lo sguardo perso che vagava a destra e a sinistra.
Cosa ci faceva lì?!
L’uomo distinse finalmente la macchina del figlio e lo sguardo si illuminò. Aveva creduto di esser arrivato tardi, di non avere mai più l’opportunità di spiegare.
Killian, però, non aveva nessuna intenzione di ascoltare.
Spinse più forte il piede sull’acceleratore, togliendo ad Emma qualsiasi dubbio su quali fossero le sue intenzioni.
Sarebbe andato avanti, passandogli accanto e continuando con la sua vita come se niente fosse.
Ancora una volta, Emma non poteva dargli torto, né biasimarlo.
Tuttavia Killian aveva di gran lunga sottovalutato la testardaggine di suo padre (e non avrebbe dovuto, visto che dopotutto, anche lui ne aveva ereditata in grande quantità…).
L’uomo si incamminò al centro della strada, pronto a farsi travolgere.
Emma sbarrò gli occhi.
Killian serrò ancora di più la mascella.
Poi la macchina si fermò.
«Resta qui» intimò alla giovane con un tono di voce così lontano dal suo che Emma, per una volta, preferì fare come disse.
Uscì dalla macchina, sbattendo la portella, e a grandi falcate si avvicinò a quell’uomo pazzo e solo e stupido e dio, non riusciva più a pensare a cos’altro.
«Ma che diavolo volevi fare?» chiese minaccioso, prendendo il padre per il colletto della giacca.
«Volevo salutarti Killian…» mormorò quello.
«Facendoti ammazzare?!»
«Sapevo che ti saresti fermato…» disse e Killian si rese conto di ciò che stava facendo e lo lasciò andare. Sarebbe diventato qualsiasi cosa nella vita ma mai un uomo come suo padre.
«O almeno lo speravo… Non ti avrei biasimato se non l’avessi fatto…»
Killian tacque.
«Cosa vuoi? Finiamo questa messa in scena il prima possibile perché devo tornare a casa…»
Il giovane sapeva che quelle parole avrebbero ferito il padre ma non gliene importava un bel niente. Casa non era Storybrooke e non era lui da anni e doveva cominciare ad accettarlo.
«Killian io…» abbassò lo sguardo.
«Mi dispiace… Mi dispiace, figliolo… so che non potrai mai perdonarmi e non ti sto chiedendo di farlo… voglio solo che tu sappia che sono diverso ora… ho capito i miei errori e me ne vergogno… mi dispiace…»
Delle piccole lacrime cominciarono a rigare il volto di quel piccolo ometto. Killian tacque, ancora, serrando la mascella.
«Ho cercato di trovarti, di chiederti scusa e rimediare almeno in parte ai miei sbagli… quei soldi erano uno stupido tentativo di farlo…» aggiunse poi, tra i singhiozzi.
«Allora eri davvero tu!» mormorò sorpreso l’uomo e il padre annuì.
«Quando ti trasferisti a New York assunsi un’investigatrice privata per cercarti… volevo sapere se stessi bene, se avessi bisogno di qualcosa… lei mi disse che eri un architetto brillante ed io ero così fiero di te ma poi… mi diede questi fogli… - disse, tirando fuori dalla macchina una cartellina verde – ed io capii che non stavi bene, che avevi bisogno di qualcos’altro…»
Killian prese tra le mani quella cartellina e la aprì. Conteneva una serie di fogli e foto, qualche post-it e una lettera scritta con una grafia ordinata e pulita.
Rialzò gli occhi sul padre.
«Scioccamente mi sono illuso che avessi bisogno di me, così cominciai a inviarti quei soldi, i risparmi di una vita intera che ti eri guadagnato più che onestamente… guadagni che sarebbero stati comunque i tuoi, prima o poi…»
«Sono stato un gran bastardo per la maggior parte della mia vita ma non potevo vivere o morire sapendo che i miei stessi figli mi odiassero…»
«”Un gran bastardo” è un eufemismo…» mormorò Killian, stringendo tra le mani la cartellina verde.
«Già… Perdonami… volevo dirti solo questo… Buon viaggio…»
L’uomo curvò le spalle e aprì la portiera della macchina grigia.
Killian gli porse la cartellina.
«Puoi tenerla, se vuoi…» mormorò il padre, infilandosi al posto del conducente.
«Ormai so che stai bene… Emma si prenderà cura di te, così come tu ti prenderai cura di lei…»
L’uomo annuì. Nessun sentimento trapelò dai suoi occhi, dal suo sguardo o dalla sua espressione.
«Papà…» lo chiamò e quel nome sembrò amaro anche sulla sua lingua.
«…Ho passato metà della mia vita a temerti e l’altra metà ad odiarti…» fece una piccola pausa e poi continuò.
«Sei sempre stato l’esempio da non seguire, la persona da non diventare e sono felice di poter dire di esserci riuscito…»
Le parole uscirono dure e taglienti dalla sua gola e gli parve che ad ogni sillaba, la schiena di suo padre si afflosciasse un po’ di più, che i suoi occhi si abbassassero un po’ di più.
«Tuttavia oggi mi sono reso conto che, ormai, non ti odio più… non potrò mai perdonarti per ciò che mi hai fatto ma non ti odio più… sei semplicemente “un esempio da non seguire e una persona da non diventare…”»
Isaac annuì, rendendosi conto che quello era sicuramente molto più di ciò che sperava. Non sapeva se Killian fosse davvero sincero ma preferì credere che lo fosse.
«Addio figliolo e buona vita. Per ciò che vale, io sono fiero di te…» mise in moto e partì.
Killian lo guardò superare la sua macchina e tornare verso il paese. Il vento gli scompigliava i capelli e le nocche erano diventate quasi bianche a stringere la cartellina verde che suo padre gli aveva lasciato.
Lentamente, ritornò in macchina.
Emma non aveva mai spostato lo sguardo dall’uomo di fronte a sé, chiedendosi che diavolo ci facesse in macchina e non al suo fianco a supportarlo.
Non disse niente quando, dopo qualche secondo, si accomodò di nuovo al suo posto e si abbandonò a lei, ancora una volta, al suo collo, al suo profumo e ai suoi capelli.
Sei la persona più forte che io conosca Killian, pensò o forse glielo disse, non importava.
Tutto ciò che importava era lì, ed erano loro.
 
 
Regina accompagnò l’uomo fino all’ultimo piano della sua abitazione e lo appoggiò sul divano. Quello continuava a farfugliare parole senza senso e a lamentarsi, a ridere e poi di nuovo a piagnucolare.
Lo lasciò lì, sperando che si addormentasse e soprattutto, che, il giorno dopo, fosse talmente disorientato e occupato a rimettersi in sesto dal post sbornia, che non si ricordasse della mora che aveva adocchiato in quello squallido locale.
E poi, si trovava talmente tanto lontana da casa sua e dai posti che di solito frequentava, che sicuramente non l’avrebbe mai più rivisto.
Cercò di autoconvincersi di questo mentre vagava, indisturbata, per la casa dell’uomo.
Prima sfogliò qualche rivista accatastata vicino al grande televisore e poi aprì qualche libro.
Assolutamente niente di interessante.
Non che lei amasse romanzi rosa o cose del genere ma sicuramente libri su come fare bene dei nodi o come decifrare le costellazioni, non le interessavano minimamente.
Alzò le sopracciglia e ritornò sui suoi passi. Si incamminò verso la cucina. Aprì tutte le ante e costatò che, a parte qualche bottiglia di birra e liquore (rhum), quell’uomo praticamente moriva di fame.
Quindi, come aveva già intuito, nessuna traccia di presenza femminile; cosa che confermò quando entrò in bagno e vi trovò solo uno spazzolino.
Di colpo, pensò che tutti quegli stupidi film che Emma le aveva fatto vedere, finalmente le servivano a qualcosa.
Si guardò in giro anche in bagno e aggiunse una voce alla lista nella sua testa, che poi avrebbe dovuto scrivere e far recapitare al signor Jones.
Killian era sicuramente una persona molto ordinata. Ogni cosa era dove doveva essere, neanche un millimetro fuori posto, perfino i preservativi erano rinchiusi in una scatolina ben nascosta dietro il rasoio e lo specchio.
Regina chiuse tutto ed entrò nel suo studio. Neanche una foto, una piantina, un piccolo e intangibile segno di vita. Le sembrò tutto spoglio e triste, per quanto ben arredato che fosse.
Infine, l’ultima camera nella quale entrò, fu la stanza padronale.
Un grande letto troneggiava al centro della stanza e sopra di esso, era appeso un quadro che aveva già visto da qualche parte.
A giudicare dagli ori e dai colori, doveva essere Klimt, ma non ne era molto sicura.
Aprì l’armadio e il non trovare neanche una maglietta colorata, non la stupì più di tanto.
Le scarpe erano perfettamente ordinate in una scarpiera nel corridoio.
Si incamminò verso un comodino, lo aprì ed era completamente vuoto. L’altro, invece, conteneva un ciondolo, un foglio ingiallito e…
Cosa diavolo era quel rumore?! Qualcuno stava entrando in casa?
Maledizione!
Non poteva permettere che la vedessero.
Controllò la piccola sveglia sul comodino.
Erano le due meno un quarto di notte.
Spense la luce, si sfilò le scarpe e aspettò.
«Jooooones! Perché dormi al mio posto?!» chiese qualcuno e Regina capì si trattasse di quel tale, David.
Ma che diavolo ci faceva a casa di Jones alle due di notte?
Alzò gli occhi al cielo, il cuore le batteva forte nel petto. Perché, anche quando le cose sembravano andare bene, qualcosa le si ritorceva contro?
Dio, odiava gli imprevisti!
L’uomo sembrò inciampare in qualcosa e Regina si chiese cosa potesse farlo inciampare visto che a parte un grande tappeto tra il divano e la tv, non c’era molto. O almeno così ricordava…
Sentì un tonfo e poi, dopo minuti che le parvero ore, David cominciò a russare, proprio come Jones.
Via libera.
Si incamminò in punta di piedi verso l’ingresso.
Posò le mani sulla maniglia fredda e stava per abbassarla quando…
«Ehi e tu chi sei?!» chiese una voce impastata, alle sue spalle.
«I-io…» balbettò la donna, sperando che il suo interlocutore fosse almeno così ubriaco quanto lo era Jones e che, il giorno dopo, non si sarebbe ricordato di nulla.
«Ho capito chi sei! Sei Biancaneve!»
La donna strabuzzò gli occhi. Ok, questa era davvero il massimo.
In altre circostanze, gli sarebbe scoppiata a ridere in faccia. Adesso, l’adrenalina e l’ansia la bloccarono.
«Esatto…» mormorò, preferendo assecondare quell’omone grande e grosso che sognava principesse.
«E io sono il Principe Azzurro?!» chiese David, sorridendo e riaccucciandosi sul divano.
Regina colse quell’occasione al volo.
«Proprio così… Sono intrappolata… Devi trovarmi… Non sposare Katryn, devi trovare me, scegli me…» e mentre continuava a pronunciare queste assurde e stupide frasi che Henry le aveva fatto leggere sul suo libro, uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
Avrebbe dovuto farsi pagare il doppio solo per questo. Oppure, avrebbe richiesto l’Oscar come miglior attrice dopo aver passato una serata intera a far ubriacare Jones e l’altra metà a convincere il suo migliore amico del fatto che fosse un principe azzurro.
Principe un corno!
Perché aveva accettato quello stupido caso? A volte, aveva seriamente bisogno di un promemoria.
Ah sì, giusto.
Emma.
Maledizione! Avrebbe potuto anche non presentarsi! E invece no, aveva deciso di essere l’eroina della situazione!
Sbuffò, uscendo finalmente da quel palazzo e riprendendo aria.
Ormai aveva abbastanza informazioni. Quel caso, finalmente, poteva essere chiuso.
 
 
“Che diavolo ci facciamo sul divano?” chiese, la voce ancora roca e impastata dal sonno.
La testa continuava a pulsare, sembrava che qualcuno gli avesse installato un gong direttamente nel cervello.
Da quando non prendeva una sbornia così?!
“Non ne ho idea”
“Spero solo che…”
“Che non mi sia saltato addosso perché ho una fidanzata, tu sei il mio migliore amico e, soprattutto, sono felicemente eterosessuale?! Be’ sì, lo spero anch’io…”
Killian rise.
Ahia! Mossa sbagliata. Altri capogiri.
“Stavo per dire, ‘spero solo che non abbiamo provocato nessuna rissa o nessun incidente’ ma anche ciò che hai detto tu va bene…”
David si alzò, a malapena, e cercò di stiracchiarsi, evitando, il più possibile, di vomitare.
“Sai cosa ho sognato Jones?!” chiese ad un tratto, dopo lunghi secondi di silenzio.
Killian sembrava essersi riaddormentato.
“Non so se voglio saperlo…” borbottò, afferrando un cuscino e coprendosi la testa.
“Biancaneve” rispose quello e dopo scoppiò a ridere.
“Biancaneve?!”
David alzò le spalle. Di certo, lui non aveva nessuna colpa! Non poteva certo controllare che razza di sogni la sua mente producesse.
“Dio, spero davvero che TU non mi sia saltato addosso, considerando quanto fossi fatto!” rise poi Killian, lanciandogli un cuscino.
 
 
Si erano da poco rimessi in cammino, dopo essersi fermati per qualche minuto ad una stazione di servizio. La macchina aveva bisogno di carburante e sia Emma che Killian ne approfittarono per respirare un po’ d’aria fresca e andare in bagno.
Emma stringeva in grembo la cartellina verde.
«So che muori dalla voglia di aprirla, Swan…» mormorò Killian, lanciandole un’occhiata sarcastica.
Emma non voleva ammetterlo ma era vero, era davvero curiosa.
Chi era questa fantomatica investigatrice? Cosa aveva raccolto su Killian da spingere suo padre a inviargli dei soldi?
«Posso?!» chiese, con voce incerta e speranzosa.
L’uomo ridacchiò e annuì.
Lei, non se lo fece ripetere due volte.
La strada era poco trafficata e mancava ancora poco per arrivare a New York, a casa. Killian guidava silenziosamente, lanciando, di tanto in tanto, uno sguardo alla donna al suo fianco.
Emma era intenta ad esaminare tutte le foto, i biglietti, i post-it.
«C’è anche una lettera…» mormorò, prima di prenderla in mano per esaminarla.
C’era qualcosa…
Qualcosa di familiare in quelle lettere, in quel modo di scrivere la A e la C…
Qualcosa che aveva già visto…
Un momento.
No, non poteva essere vero.
Quella calligrafia, quelle lettere…
«Regina…»
 
 
Could you take care of a broken soul?
Will you hold me now?
Oh, will you take me home?

 
 
 
 
 
 
 
Buonasera a tutti! :)
Lo soo, non ho scuse! È passato più di un mese dall’ultimo aggiornamento e io davvero non ho scuse! Potrei elencarvi i milioni di impegni della mia vita ma non voglio annoiarvi, per cui, vi prego solamente di perdonarmi!
Questo capitolo è persino un po’ più lungo del solito… A dirla tutta, neanche mi convince poi così tanto però ho voluto pubblicarlo comunque, giusto per farvi sapere che sono ancora viva!
Emma e Killian hanno lasciato Storybrooke. Forse, questo soggiorno è servito più al nostro Killian che alla giovane… ha dovuto confrontarsi con suo padre, chiudendo per sempre una parte dolorosa della sua vita. Come si può immaginare, non potrà mai perdonarlo (come si fa?) però ha deciso di andare avanti…
E in più, ha incontrato la bella Merida che qui è lo sceriffo della città! (Sì, mi piace complicare le cose xD) Cosa avranno scoperto? Ingrid è veramente la madre di Emma? E Liam è vivo?
Al momento, però, la situazione più urgente è un’altra…
Emma ha scoperto ciò che Regina ha fatto due anni fa. Come la prenderà?
Ho cercato di rendere il capitolo il meno pesante possibile. Non so se ci sia riuscita, anche perché i temi affrontati non sono dei più felici, però spero che, nonostante tutto, il capitolo vi sia piaciuto!
Ringrazio tutti coloro che hanno dimostrato affetto e passione alla mia storia, regalandomi i loro pensieri e le loro recensioni! Grazie! Non mi stancherò mai di ripeterlo! Perdonate i miei ritardi estremi! Questo capitolo è soprattutto per voi! <3
Grazie anche a chi legge solamente e a chi vorrà farmi sapere cosa ne pensa di quest’altro pezzetto di storia!
Non so quando riuscirò a pubblicare di nuovo perché sono veramente sommersa, però spero il più presto possibile!
In attesa che questa luuunga attesa finalmente giunga al termine (6 Marzo dove sei?), vi abbraccio tutti e vi ringrazio ancora una volta per essere arrivati fin qui!
Un bacio
Vostra
Kerri :*
 
 
 
PS: la canzone che ha ispirato questo capitolo https://www.youtube.com/watch?v=2ebfSItB0oM <3
PSS: ANCORA TRE DOMENICHEEEE 

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Capitolo 19
*** Confessions ***


18. Confessions

 
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C’è un momento in cui bisogna scegliere tra
perdersi nella vita e
perdersi la vita.
 
«Emma…» cominciò l’uomo, afferrandole il polso.
«No, Killian non ricominciare! Non riesco a credere che sei veramente dalla sua parte!» urlò Emma, cercando di divincolarsi.
«No Emma, ti prego ascoltami! È importante!» la pregò l’uomo, stringendo un po’ più forte la presa sul suo braccio.
«Si tratta di Ingrid…»
 
Due Settimane prima
 
«Io non ci posso credere!» urlò la donna, sbattendo la cartellina verde sul tavolo di legno.
Regina non disse niente. In quei giorni, aveva messo in conto che Emma avrebbe potuto scoprire tutto ma non credeva sarebbe capitato per davvero.
O forse, non voleva pensarci.
Oppure chissà, una parte di lei si era persino stancata di continuare quella messa in scena e voleva che lei lo scoprisse.
Ad ogni modo, lo sguardo di Emma le fece capire che non l’aveva presa molto bene.
Davvero si aspettava che l’avrebbe capita?
Non fu tanto la sua rabbia ciò che più la ferì, quella era più che comprensibile, anche perché poi, si spegne piuttosto facilmente.
Ciò che più le fece male fu l’espressione della sua amica, triste, ferita, delusa, tradita.
«Emma… Davvero vuoi cominciare questa scenata davanti a tuo figlio?»
Emma alzò gli occhi verso il suo bambino, comparso da qualche secondo in cucina. L’aveva da poco riabbracciato e sì, le era mancato tantissimo. Ma al momento, aveva una questione più seria da risolvere.
«Henry per piacere potresti andare con Killian a prendere qualcosa per cena?»
Il ragazzino, capendo al volo che qualcosa non andava, annuì e raggiunse Killian fuori dalla grande abitazione di Regina.
Dopo aver seguito con lo sguardo suo figlio, sorridendo debolmente e indossando la maschera da madre perfetta, Emma ritornò a puntare gli occhi accusatori su Regina.
«Che diavolo hai combinato? Perché non me ne hai parlato?» mormorò, cominciando a camminare avanti e indietro e passandosi le mani tra i capelli biondi.
«Dio, si trattava del mio migliore amico! Sapevi, tu meglio di chiunque altro, sapevi quanto tenessi a lui! Perché Regina? Perché?»
La donna non abbassò lo sguardo neanche una volta, fiera e sicura come sempre. Le mani però, ad ogni accusa, si stringevano di più a pugno, le unghia conficcate nella carne.
«Adesso tutto torna!» mormorò la bionda, calpestando il pavimento, sempre più arrabbiata.
«Adesso capisco perché non volevi che lo frequentassi, perché non fossi minimamente sorpresa quando ti ho detto che era in città! Dio Regina… come hai potuto?!»
Ad Emma cominciarono a pizzicare gli occhi. Odiava rimpiangere il passato e odiava quelle stupide domande che ogni tanto le annebbiavano la mente. Come sarebbe stato se avesse saputo tutto due anni prima? Cosa sarebbe successo?
Odiava sapere che aveva perso delle occasioni. Odiava Regina per non avergliene parlato e odiava se stessa, soprattutto, per non essersi accorta di niente, per aver perso così tanti treni che ormai non riusciva neanche più a contarli tutti.
A quel punto, Regina scoppiò. Abbandonò quella grigia indifferenza in cui si era raggomitolata e si alzò di scatto, sbattendo i pugni sul tavolo.
«Cazzo Emma! Ma davvero non capisci?!»
Emma spalancò gli occhi.
«Sei davvero convinta che io mi sia divertita Emma?! Che sia stato bello nasconderti tutto?! Perché se anche lo avessi pensato, vorrei dirti che no, non mi sono divertita! L’agente segreto, James Bond, la CIA, chiamali come cazzo vuoi, ma non fanno per me! E vuoi sapere perché, nonostante questo, l’ho fatto?! Vuoi saperlo?! L’ho fatto per te! Perché non potevo permettere che ricadessi in depressione, perché sei mia amica e anche se sei talmente egocentrica da non pensare a nessun altro all’infuori di te stessa, io ti voglio bene!» urlò.
«Proprio in nome di quell’amicizia Regina, non credi che avevo il diritto di scegliere? E mi dispiace ma qui non si tratta solamente di me e di te! Dimentichi Killian! L’hai drogato! Ma ti rendi conto?»
A quel punto, Regina scoppiò a ridere.
«Oh scusa tanto per aver avvelenato il tuo caro fidanzatino! Se solo avessi letto con cura questi fogli, sapresti che non era “puro e pulito” come pensi!»
Emma a quel punto, non ci vide più.
Accusare lei era un conto, ma accusare Killian era qualcosa di ben diverso. Soprattutto considerando che la donna non avesse la minima idea di ciò che l’uomo aveva dovuto passare.
Certo, si era limitata a indagare sulla sua vita a New York, ma sapeva di sua madre? E di Milah? E Liam?
No di certo.
Anche solo sapendo ciò che lei, Emma Swan, gli aveva fatto passare, Regina avrebbe dovuto tapparsi la bocca per sempre, invece che sputare insulti e frecciatine.
«Smettila! Come puoi parlare di lui senza neanche conoscerlo? Sai cosa ha dovuto passare? Lo sai? NO! Quindi non ti permettere, non osare Regina!»
Regina alzò gli occhi al cielo.
«Pensala come vuoi Emma! Io ho visto cosa hai dovuto passare tu e in base a quello ho deciso!»
Emma strinse i pugni e gli occhi, cercando di calmarsi.
«Esatto Regina, HAI deciso da sola e non ne avevi il diritto…» mormorò, prima di afferrare la cartellina verde e uscire da quella casa.
Per sempre.
O almeno così credeva.
 
 
«Stai scherzando?» mormorò l’uomo, spalancando gli occhi chiari.
Doveva ammetterlo, la chiamata della donna l’aveva sorpreso e non poco, però gli aveva fatto sicuramente piacere. Anche se, non riusciva ancora a capacitarsi di ciò che la donna dai capelli scuri, gli aveva appena raccontato.
«No, Robin…»
«Hai fatto ubriacare Killian? Dovrebbero darti una medaglia! Quel tipo regge l’alcool meglio di qualsiasi essere umano abbia mai incontrato!»
Regina sorrise un po’, abbassando gli occhi. Sapeva che quello, era un vano tentativo dell’uomo di tirarla su di morale ma, purtroppo, non molto efficace come egli aveva sperato.
Emma non le parlava da due settimane.
Andava al negozio, lavorava come se niente fosse e ignorava le sue chiamate.
Per ironia della sorte, in quelle ultime settimane aveva parlato più con Killian che con lei ed era davvero il colmo visto che l’uomo era la causa dei suoi problemi.
Ad ogni modo, Killian Jones aveva voluto chiarire anche con lei. In una delle conversazioni più strane e imbarazzanti che ella avesse mai avuto (escludendo, ovviamente, quella con il suo amico David quella famosa notte…), l’uomo aveva ammesso che capiva il motivo per cui lei si era comportata a quel modo. Aveva detto proprio così “Regina, capisco perché tu abbia agito così…” e le parole erano morte nella gola della donna, pronta a sentire tutto, fuorché quello.
Killian aveva detto che anche lui, al suo posto, forse avrebbe fatto la stessa cosa, anzi, forse peggio. L’alcool o la pasticca, non erano un problema per lui, davvero.
Quello che, però, aveva voluto mettere in chiaro erano le sue intenzioni con Emma.
“Capisco che ai tuoi occhi, non sia esattamente un buon partito e forse è un po’ anche colpa mia… però, ormai dovresti averlo capito, io la amo Regina… E ci ho messo forse una vita intera per capirlo e un’altra vita per ammetterlo, però è così e non posso farci niente… Sto cercando di essere migliore per lei ed anche lei, piano piano, si sta lasciando andare… Ti rendi conto? L’ho perdonata per avermi lasciato senza una parola, le perdonerei qualsiasi cosa adesso che è di nuovo nella mia vita… Non ho nessuna intenzione di prendere il tuo posto, se è questo che ti spaventa…”
E Regina l’aveva rassicurato “No, assolutamente non è questo…” e allora Killian aveva annuito e poi aveva continuato a parlare e raccontare ciò che gli passava per la testa, per farle capire che lui era davvero diverso adesso e che, per nulla al mondo, si sarebbe fatto sfuggire questa seconda occasione di restare accanto ad Emma, ora che il destino aveva voluto regalargli un’altra chance.
Alla fine aveva ceduto di fronte alla cruda e amara verità.
Aveva commesso un errore.
E per Regina Mills, tutto ciò era inaudito.
Impossibile.
Inconcepibile.
Il Killian Jones che aveva spiato due anni fa, probabilmente non aveva neanche un capello dell’uomo che adesso aveva davanti agli occhi.
«Regina… Mi stai ascoltando?»
Robin la riscosse dai suoi pensieri, riportandola alla realtà.
Chiarire con Killian Jones, sicuramente, era molto più facile che chiarire con Emma.
«S-sì, scusa… dicevi?»
Robin rise.
«Dicevo, ti va di andare a cena?»
La donna arrossì un po’ e annuì.
 
 
Storybrooke, un mese prima
 
Killian seguì la donna dai capelli rossi per le vie del paese. Continuava a pensare a ciò che gli aveva rivelato poco fa e non poteva fare a meno di chiedersi se ci fosse stato qualcosa tra lei e suo fratello.
Certo, questo era solo uno dei tanti pensieri che gli affollavano la testa e la mente, ma al momento era quello di cui aveva deciso di occuparsi. Perché, gli altri, erano troppo grandi persino per lui.
«Posso chiederti una cosa?» chiese ad un tratto la giovane, voltandosi per verificare se di fatto, l’uomo fosse ancora lì, dietro di lei.
Killian annuì.
«Perché questa donna… Come hai detto che si chiama?» chiese, aggrottando un po’ le sopracciglia arancioni.
«Emma»
«Sì, giusto! Perché non è venuta lei… sì, insomma, è una questione che riguarda lei principalmente…»
Killian abbassò lo sguardo e si grattò la nuca, imbarazzato.
Cosa avrebbe dovuto dirle? Che aveva deciso di ficcare il naso negli affari della sua ragazza (perché Emma era la sua ragazza, giusto?!), soltanto perché l’amava troppo e non voleva vederla infelice per il resto della vita? Era davvero così presuntuoso da pensare che avrebbero passato il resto della vita insieme?
Sì, certo che lo era.
«Oh… lei non lo sa, giusto?» intuì la giovane, storcendo un po’ le labbra.
«Lei aveva gettato la spugna… Si è arresa all’idea che la verità resterà nascosta… Io no…»
«Così ti sei gettato in questa ultima disperata crociata, sperando di trovare qualcosa…»
«Detta così, sembra una pazzia!» mormorò Killian, con sarcasmo.
«Be’, ma lo è! Sono passati dieci anni Killian…» mormorò la giovane, scrutandolo con quegli occhi grandi e azzurri.
«Lo so, Merida, credimi! Ma non voglio rischiare di avere rimpianti di ogni genere, da oggi in poi… Non voglio tornare a casa sapendo che avrei potuto trovare qualcosa, fare qualcosa!» disse, mantenendo lo sguardo fisso e risoluto in quello della donna.
Quella annuì, il suo sguardo si addolcì un po’, ricordando quanto quello spirito combattivo e quella fermezza fosse tipica dei fratelli Jones.
«Stando ai fascicoli, dovrebbe essere questa…» mormorò, indicando una grande casa bianca alla loro destra.
La casa spiccava per il suo candore, Killian la ricordava bene e credeva che, con gli anni, quel bianco latte fosse andato via via sporcandosi.
Evidentemente, aveva commesso un errore.
«È come dieci anni fa…» mormorò.
I piedi lo portarono sullo stesso selciato che aveva calpestato una miriade di volte quando, anni prima, andava a prendere la sua migliore amica per accompagnarla alle lezioni di danza.
Era identica a quel giorno, l’ultimo, quel giorno che aveva dato inizio a tutto.
«Da due anni, ci vive la famiglia Caroll…» mormorò Merida prima di avviarsi verso il campanello.
I suoi capelli rossi spiccavano ancor di più, contrastando il pallore di quella casa.
«Salve sceriffo!» mormorò una piccola bimba paffutella, corsa ad aprire la porta.
«Ciao Sophie, c’è tua madre?» chiese sorridente la donna, scompigliando un po’ i capelli alla bambina.
«Mammaaaaa è per te!»
Una giovane donna, probabilmente sulla trentina, si avvicinò alla porta d’ingresso, strofinandosi le mani bagnate sul grembiule.
«Buon pomeriggio sceriffo! A cosa devo l’onore?»
«Buon pomeriggio signora Caroll! Ci scusi il disturbo ma io ed il mio… - lanciò un’occhiata a Killian-...amico, vorremmo farle delle domande! Non si preoccupi, non è successo niente di importante!» si affrettò a chiarire la giovane, con il suo strano accento.
«Chiamatemi pure Alice! E prego, accomodatevi! Stavo sminuzzando i funghi per la cena…»
Killian sorrise educato, seguendo le due donne verso la cucina.
Pensò che certe cose non sarebbero mai cambiate. Storybrooke, nella sua piccolezza, non sarebbe mai cambiata.
Tutti conoscevano tutti. Per quanti pettegolezzi e malelingue ci fossero, una persona per bene non avrebbe mai rinunciato a dare una mano a chiunque ne avesse bisogno.
E di primo acchito, la signora Alice e la piccola Sophie, gli erano sembrate sicuramente delle persone per bene.
Si era perso un po’ a vagare con lo sguardo in cerca di qualcosa che non fosse cambiato, che fosse rimasto uguale a ciò che lui conosceva anni prima.
Tuttavia, tranne per la disposizione delle camere, ogni cosa era diversa.
«Gradite del caffè?» chiese la padrona di casa, mentre lanciava un’occhiata distratta a sua figlia che aveva deciso che era giunto il momento di giocare con le bambole in salotto.
«Sì, grazie volentieri…» rispose lo sceriffo per entrambi.
Dopo che la donna ebbe riempito due tazze fumanti, Merida e Killian si accomodarono dietro ad un bancone, osservando Alice mentre terminava ciò che aveva cominciato.
«So che tu e Cyrus vi siete trasferiti qui da poco…» cominciò lo sceriffo.
«Dalla nascita di Sophie a dir la verità quindi… più o meno quattro anni…» contò la donna, alzando gli occhi al soffitto.  
«Bene… noi ci chiedevamo se… ecco…»
«Se sapessi qualcosa del proprietario precedente…» intervenne Killian che non aveva fiatato dacché avevano varcato la soglia di quella casa.
«Oh» il volto della giovane donna si aprì di stupore.
«Be’, io… non so molto… quando abbiamo comprato la casa lei… era già morta…» mormorò, quasi non amasse parlare di quell’argomento.
E come darle torto, dopotutto?!
«Sì ma avete trovato qualcosa, conservato qualcosa che le apparteneva?» chiese d’impeto l’uomo, ricevendo un’occhiata poco gentile da parte della donna dai capelli rossi seduta al suo fianco.
Che aveva fatto adesso?
«Mmm non saprei… fatemi pensare… ma a cosa vi serve?»
L’uomo si rese conto di non essersi neanche presentato e riparò subito al danno.
«Comunque io sono Killian Jones, mi scuso per non essermi presentato prima… vivevo qui a Storybrooke, fino a qualche tempo fa… poi per vari motivi, mi sono trasferito a New York… la donna che viveva qui, Ingrid… - fece una piccola pausa, per riordinare il mare di parole che svolazzavano nella sua testa- vede… una persona a cui tengo molto, non ha avuto neanche l’occasione di salutarla per l’ultima volta e adesso, se le spiegassi tutto per bene, ci impiegherei delle ore… vorrei solo chiederle, signorina Alice, di fidarsi di me… e di pensare… se ha una spazzola, un portafoto, qualsiasi cosa che possa essere appartenuto ad Ingrid, le sarei grato a vita!»
Killian pronunciò quelle parole, veramente, con il cuore in mano. Forse, non era stato così impulsivo e sincero neanche con Merida, troppo occupato a calibrare le parole, a sceglierle, per convincere la donna a seguirlo in quella sua assurda “crociata”, come lei l’aveva definita.
Probabilmente la donna se ne accorse, perché pensò e ricordò che in soffitta, dovevano esserci dei vecchi scatoloni che erano lì a prendere polvere da prima del loro arrivo.
Killian si illuminò, una piccola fiammella di speranza, si riaccese.
Si diressero verso la soffitta e quegli scatoloni erano proprio lì.
Pieni di polvere, consumati e maleodoranti ma erano lì.
Killian, aiutato dalle due donne, li sollevò, tossendo un po’.
«Prendeteli tutti! Spero per lei, Killian, che riusciate a trovare ciò che state cercando…» li salutò Alice, con un sorriso.
Killian ricambiò.
Non tutto era perduto. Almeno per il momento.
 
 
«E tu?» chiese entusiasta la giovane, non riuscendo a trattenere che un sorriso le si dipingesse sul volto.
«Ho detto di ‘sì’, ovviamente!» saltellò l’amica, non riuscendo a contenere l’entusiasmo.
Mary Margaret si precipitò ad abbracciare la sua coinquilina, baciandole entrambe le guance.
Era davvero felice per lei.
Conosceva Aurora da quasi sei mesi ma di certo non poteva dire che la giovane dai capelli ramati non fosse entrata nella sua vita e nel suo cuore.
La convivenza non era facile e Mary Margaret, che prima di lei aveva conosciuto ben altre realtà, era a dir poco spaventata quando quella buffa donna, si era presentata alla sua porta.
Temeva fosse un’altra a cui non piaceva fare le pulizie o peggio, un’altra che si portava a casa uomini diversi una sera sì e l’altra pure.
Sicuramente la giovane Sepinard aveva anche lei i suoi difetti, però erano niente in confronto a ciò che Mary Margaret aveva dovuto sopportare dopo la morte dei suoi genitori.
«Oh Aurora, sono così felice per te!» mormorò, non riuscendo a smettere di abbracciarla.
Aurora rise.
Non era mai stata così felice in vita sua. Philip era il suo unico, vero amore e lei lo aveva sempre saputo, da quando aveva incrociato, per caso, il suo sguardo la prima volta, in una piccola saletta di un cinema sgangherato.
Non credeva nei colpi di fulmine eppure, il destino volle che proprio lei, scettica all’idea dell’amore, provasse sulla sua pelle quella scossa, quel terremoto interiore a cui, solo in seguito, si può dare un nome.
I più bravi riescono persino a definirlo o descriverlo.
Lei, non ci era mai riuscita.
La fortuna volle anche che Philip provasse le stesse identiche emozioni e un legame molto più profondo di ciò che si sarebbe potuto cogliere con gli occhi, li legò indissolubilmente.
Nonostante questo, però, Aurora non considerava il loro amore scontato. Avevano dovuto attraversare momenti bui, per niente facili e spesso il loro amore era stato messo a dura prova, a cominciare dall’odiosa mamma di Phil. Quel matrimonio, quell’anello che portava all’anulare, significava tutto, significava che non si erano arresi, che avevano continuato a combattere per qualcosa di puro e sincero come solo l’amore vero può essere e finalmente, avevano vinto.
Poco importava se la sua futura suocera non la vedeva di buon occhio, lei aveva vinto.
«Avete già fissato una data?» chiese Mary Margaret, entusiasta se non più di lei, almeno alla stessa maniera.
«Non ancora! Pensavamo in primavera o in estate… tu che dici?»
«Dico che in qualsiasi mese, giorno o anno… sarete perfetti! Tu sarai perfetta!»
Aurora arrossì e abbassò lo sguardo.
«Grazie Mary! Non so cosa farei senza di te!»
Continuarono a chiacchierare sul matrimonio, già ipotizzando la lista degli invitati o i dettagli del vestito, quando, all’improvviso, il campanello squillò.
La ragazza dai corti capelli neri si alzò ad aprire.
«Chi è?»
«David!» mormorò e il suo sorriso divenne più grande. Aurora non poté fare a meno di notare che da qualche giorno (cioè da quando la sua amica aveva finalmente ammesso i suoi sentimenti verso quell’uomo biondo e gentile), Mary Margaret sembrava davvero più felice, quasi più sana. Emanava luce, le sue guance sembravano più rosee e contrastavano con la carnagione pallida.
Persino gli occhi sembravano più brillanti del solito.
Sembrava guarita, finalmente, da quel malessere interiore, quell’insoddisfazione perenne che continuava a portarsi dentro dalla morte dei genitori. O almeno così dicevano le sue amiche, quelle di vecchia data, che aveva avuto la fortuna di conoscere Mary prima che un fardello le cadesse sulle spalle.
«Parlando di principi azzurri…» la prese in giro l’amica, felice per quell’inaspettata svolta che le loro vite avevano deciso di prendere.
«Scema!»
«Buonasera!» le salutò David, con un sorriso a trentadue denti, non dissimile da quello della sua ragazza.
Poteva definirla così, ormai, vero?
«Prendo la giacca e arrivo!» mormorò Mary Margaret, carezzando leggermente la guancia dell’uomo, prima di sparire in camera da letto.
 
 
«Grazie Merida! Io non so davvero come ringraziarti…»
«Ho capito Killian, se lo ripeti un’altra volta giuro che ti rinchiudo in cella e do fuoco a tutto!» rispose sorridente la giovane, prima di alzare gli occhi al cielo.
Da quando avevano fatto ritorno alla centrale con quei due scatoloni, Killian non faceva altro che ripetere quanto le era grato.
Certo, per lei non era esattamente una passeggiata convincere il laboratorio della scientifica più vicino ad analizzare quegli oggetti, alla ricerca di qualche traccia di DNA, ma lo faceva con piacere.
Killian abbozzò un altro sorriso, prima di lanciare un’occhiata fugace all’orologio appeso al muro.
Era via da quasi due ore. Sicuramente Emma aveva finito di riordinare le sue cose. Se la immaginava seduta sul letto, a gambe incrociate, con il suo sguardo verde perso chissà dove.
«Tranquillo, vai! Io me la saprò cavare…»
Killian sorrise imbarazzato, colto in flagrante.
«Sicura? Pensi di poterlo fare?» chiese ancora una volta.
«Sì, non c’è problema! Ma tu devi ricordarti di portarmi un campione di DNA di Emma! Altrimenti con cosa faccio comparare i campioni che preleveranno?!»
“Sempre se riusciranno a prelevare qualcosa” aggiunse la donna nella sua mente e preferì non dirlo, per evitare di buttare giù il suo nuovo amico.
«Maledizione! È vero!» mormorò, passandosi le dita tra i capelli.
Non ci aveva pensato.
E adesso?
A questo punto, l’unica soluzione era dirglielo.
Cosa avrebbe dovuto fare? Entrare in camera e chiederle un campione di saliva?!
Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto farlo ma temeva che lei sarebbe stata contraria. Lui, invece, sentiva quasi al posto suo questo bisogno insaziabile di verità e di risposte, e sapeva che non era a lui che erano dovute, ma non gli importava. Doveva farlo, aveva deciso di andare fino in fondo.
«Stai scherzando?! Non dirmi che non ci avevi pensato?!»
«Certo che ci avevo pensato! Mi era solo sfuggito di mente… ok, senti una cosa, torno da Granny e ti porto tutto… spero davvero che riescano a ricavare qualche pelo o che so io, da quegli scatoloni!»
Merida scosse la testa e la sua cascata di capelli ricci si mosse assieme a lei.
«Vedi se ti muovi!»
 
 
«Cosa? Sei entrato in camera di nascosto?» chiese Emma, scandalizzata.
Killian si grattò la nuca, imbarazzato. Di certo, quello non era esattamente il dettaglio che riteneva più importante in tutta quella faccenda. Sapeva a cosa andava incontro, sapeva che Emma avrebbe potuto non prenderla molto bene ma, quel giorno, aveva deciso di andare fino in fondo e così fece.
Rubare lo spazzolino di Emma, mentre lei si faceva beatamente la doccia, era un “reato” che era stato pronto a commettere, pur di scoprire la verità.
E adesso, quella verità era tra le sue mani, in quella busta bianca, rettangolare e un po’ sgualcita che stringeva.
L’aveva ricevuta poche ore prima e quando aveva letto l’indirizzo del mittente si era precipitato da Emma. Sapeva dove trovarla, sapeva che era arrivato il momento di dirle ogni cosa e sapeva che lei era l’unica che poteva aprire quella busta.
«Sì, be’, spero tu possa perdonarmi Swan, ma forse non hai capito! Qui ci sono i test del DNA!» mormorò, portandole la busta sotto gli occhi.
«Finalmente avrai le tue risposte!»
Emma stava ancora valutando se essere arrabbiata per la sua insistenza, quando lei gli aveva più volte detto che non le importava più, oppure essergli grata per non aver mollato.
Si sentiva lusingata? Oppure quella sensazione all’altezza dello stomaco era fastidio?
La donna chiuse gli occhi, prendendo un bel respiro e arrivando alla semplice e chiara conclusione che in fondo, non le interessava.
«Perché lo hai fatto Killian?» chiese invece, chiara, con un filo di voce, prendendo la busta tra le mani. In cuor suo, forse sapeva già la risposta, ma aveva bisogno di certezze, aveva bisogno di un appiglio, prima di aprire quella busta e forse, chissà, cadere nel baratro.
Killian scosse la testa, abbassò lo sguardo e sorrise un po’. Di certo, si era aspettato ben altre reazioni (non così calme), ma non era riuscito a prevedere una domanda del genere.
Non così presto, almeno. Pensava che avrebbe avuto il tempo di prepararsi una risposta, una bella risposta a quella domanda, una risposta che avrebbe convinto entrambi, ma non fu così.
Non aveva avuto tempo e fu costretto a dire ciò che il suo cuore gli urlava.
E in fondo lo sapeva che non era il momento né il luogo adatto. Insomma, si trovavano in uno sgabuzzino pieno zeppo di vecchi oggetti e schedari, non esattamente il massimo.
Però, non gli importò, non importava il luogo, e chi se ne frega del momento. Ciò che importava era lì, ed erano loro ed era quella maledetta busta che Emma stringeva tra le mani e di cui, probabilmente, non capiva appieno l’importanza.
Dimenticò ogni altra contingenza, ogni altra cosa, perché il suo cuore martellava nel petto e si stupì che lei non riuscisse a sentirlo, così vivo e veloce che quasi galoppava, quasi usciva.
«Non l’hai capito Emma?» chiese e il suo tono fu sarcastico, perché era logico, era alla luce del sole da sempre.
«Perché ti amo»
Gli occhi di Emma si spalancarono ancora di più. Fu un millisecondo, un piccolo impercettibile istante che nessuno, fuorché l’uomo di fronte a lei, avrebbe mai notato.
Killian si rese conto di ciò che aveva detto, solo dopo, solo quando quelle parole erano inevitabilmente scivolate via dalla sua bocca.
Era troppo presto? Forse.
Aveva imparato che con Emma, nulla era dato per scontato.
Cercò qualcos’altro da dire ma non gli venne in mente niente. Niente di sensato o intelligente, almeno.
Aspettò una qualunque reazione della donna di fronte a sé, una qualsiasi, persino una risata. Avrebbe accettato di tutto, in quel momento.
Lei sembrava paralizzata. Gli occhi verdi, così lucidi che gli sembrò che stesse per piangere. Il viso pallido e le mani bianche, quasi quanto la busta che stringevano.
Non disse niente, perché neanche lei trovava le parole.
Ciò che sentiva in quel momento era troppo grande da poter descrivere e il suo cuore stava per scoppiare.
Chiuse gli occhi e si avvicinò, impercettibilmente. Poggiò la sua fronte contro quella dell’uomo e gli fu talmente vicina da poter sentire il suo respiro caldo, un po’ affannato e il suo profumo, lo stesso di sempre, lo stesso di casa.
Avrebbe voluto dirgli che anche lei lo amava, forse da sempre. Avrebbe voluto dirgli che non avrebbe voluto essere in nessun’altra parte del mondo, perché con lui, lì, si sentiva a casa.
Avrebbe voluto ringraziarlo e poi arrabbiarsi con lui e poi ringraziarlo ancora e forse baciarlo.
Optò per quell’ultima opzione quando, dopo istanti che le parvero infiniti con la fronte contro la sua, sigillò quelle parole con un bacio.
Sapeva che lui sapeva e sapeva che lui capiva, capiva che non era ancora pronta. Ma non gli importava.
Quando molto tempo dopo, ripensò a quel bacio, realizzò che forse, era stato uno dei baci più intimi che si scambiarono a quei tempi.
Avevano già condiviso tanto ma quel bacio, quel bacio scavò nelle profondità dei loro animi, mettendo a nudo il loro amore e le loro debolezze.
Quel bacio toccò ogni cosa e sancì ogni cosa.
Non le importava neanche più la busta, non aveva senso, perché lei una famiglia ce l’aveva già.
 
 
«Così finalmente lui le ha chiesto di sposarlo!» mormorò Mary Margaret con gli occhi sognanti. Il suo animo era da sempre stato piuttosto romantico. Il suo sogno del vero amore, ne era la piena dimostrazione.
Aveva una teoria, secondo la quale due persone sono destinate, ovunque esse siano e chiunque esse decidano di essere. Queste due persone si appartengono e si cercano, per tutta la loro vita.
E alla fine, si trovano sempre.
Continuò a sognare, chiedendosi se, questa volta, la sua persona fosse davvero lì, di fronte a lei. Al solo pensiero, il suo cuore perse un battito e sentì le guance in fiamme. Chissà… solo il tempo avrebbe potuto dirlo. Anche se, vuoi il suo animo da eterna ottimista, vuoi quello perennemente romantico, lei era davvero convinta che, lui, finalmente, era lì ed era riuscito a trovarla.
Spostò gli occhi sull’uomo, sperando che non si fosse accorto di nulla.
Lo trovò intento a fissarla, gli occhi blu così concentrati su un qualche particolare del suo viso, che non poté fare a meno di arrossire.
«David?!» lo chiamò e lui ritornò in sé, lo sguardo ancora un po’ lontano.
«A cosa pensavi?» chiese curiosa e lui rise, imbarazzato e abbassò un po’ lo sguardo.
«A niente…» mormorò, alzando le spalle e cercando di cacciare quei pensieri dalla sua testa.
«Dai, puoi dirmelo! Voglio sapere cosa passa per la tua testa!»
«Non stavo meditando di uccidere te o nessun altro, se è questo che vuoi sapere…» mormorò, distendendo le labbra in un sorriso e beccandosi un calcio da sotto il tavolo.
«Ahi!»
«Non fare il bambino! Avanti, dimmelo! Lo sai che sono curiosa!»
«E impaziente, irruenta, irascibile… Potrei continuare lo sai?»
Mary Margaret stava per ribattere ma il cameriere, con il conto, la interruppe e quella faccenda finì con l’essere, momentaneamente, dimenticata.
Dopo aver pagato, si incamminarono sottobraccio, per le strade di una silenziosa New York. Era piuttosto strano, eppure in quel quartiere, non sembrava esserci anima viva, o per lo meno, anima sveglia.
La serata era fresca, ma non troppo. Il genere di sera adatta ad una passeggiata ma ancor di più ad un buon film sul divano.
Mary Margaret amava quel genere di serate e, ormai lo sapeva, anche David. Continuavano a parlare e a battibeccare di tanto in tanto finché arrivarono nel luogo in cui David aveva parcheggiato la macchina.
Entrarono e il silenzio cadde su di loro.
Non fu pesante, né ingestibile. Fu quel silenzio speciale che si condivide con pochi, con le persone che ci conoscono da una vita e con le persone che ci amano da molte più vite.
Fu Mary Margaret, la prima a romperlo.
«Me lo dici ora?» chiese, la voce limpida.
David non capì, almeno non subito.
«Cosa?»
«Ciò a cui stavi pensando prima?»
David aveva sperato che la donna se ne fosse dimenticata, ma evidentemente, l’aveva sottovalutata.
«Se te lo dico, probabilmente sarai tu ad uccidermi!» scherzò lui, grattandosi la nuca. Un’abitudine che aveva evidentemente ereditato da Killian Jones.
«È davvero così brutto?!» rise la donna, mascherando quel pizzico di preoccupazione che le era salita in gola.
«No no! In realtà no… Anzi! Pensavo a noi…» mormorò, non avendo il coraggio di guardarla negli occhi e facendo vagare lo sguardo sul volante che, all’improvviso, diventò davvero interessante.
«Oh… David, se ci hai ripensato, se non sei pronto, se non vuoi che ne so, andare avanti… puoi dirmelo, lo sai!» mormorò la donna, cercando il suo sguardo.
L’uomo si scandalizzò.
«Cosa?! No, certo che no! Mary Margaret io sono pronto! Non ho mai provato per nessun altro essere umano ciò che provo per te… è così grande che a volte, penso che il cuore non potrà più reggere e scoppierà… tu, tu eri l’ultima persona al mondo della quale mi sarei innamorato e adesso?! Adesso non posso farne a meno, non posso evitare di farti ridere, di comportarmi da idiota quale sono, perché dopo tu mi sorridi così e nessuno mi hai mai sorriso così!»
«Dav…»
«No, lasciami parlare! So che è presto per dirlo, so che ci conosciamo da qualche mese ma quello che provo per te è qualcosa che va oltre il tempo. Io non so neanche come definirlo! E quando tu mi hai detto di Aurora e Filippo, io non ho potuto fare a meno di sognare lo stesso… con te…»
«So che è presto, so che non ti ho dato neanche il tempo di parlare e so che forse ti sembro un folle, pazzo scellerato, troppo sicuro che anche tu provi le stesse cose per me e forse non è così e io sto delirando ma è questo l’effetto che mi fai… Mary Margaret io ti amo!»
Mentre parlava, le sua mani si erano automaticamente poggiate intorno al viso della donna, carezzandolo e asciugando quelle piccole gocce salate che avevano bagnato quella pelle così bianca.
«Mio stupido principe azzurro!» rise e le lacrime continuarono a scendere. Portò le sue mani sul suo viso, carezzandolo come lui stava facendo con lei.
«Ti amo anch’io, ti amo anch’io…»
 
 
Regina gli era grata, davvero. Sapeva che l’uomo di fronte a lei, stava provando in tutti i modi di farle passare una serata indimenticabile, nonostante i presupposti non fossero esattamente i migliori.
Prima di tutto, non doveva dimenticare che era uscita a cena con un uomo sposato e il suo piccolo e adorabile figlio.
E poi, ovviamente, c’era il suo umore, che non era propriamente dei migliori, vista la litigata con Emma. E a tutto questo, si erano aggiunte tante altre piccole sfortune che, ormai Regina ne era convinta, lei riusciva ad attirare.
Un tipo mezzo ubriaco le aveva versato del vino sul vestito; il suo telefono era completamente scarico e per di più, aveva dimenticato le chiavi di casa nella borsa che usava in ufficio.
Il suo cervello si rifiutava di collaborare, portandola a dimenticare le cose più ovvie e pensare solo e soltanto a ciò a cui, non avrebbe mai e poi mai, dovuto pensare.
Per esempio, adesso, mentre il cameriere le serviva il dolce al cioccolato che lei e Robin avevano deciso di condividere, si era ritrovata a pensare a come sarebbe stato bello poterlo baciare lì, davanti a tutti, con le labbra sporche di cioccolato.
E poi, ovviamente, c’era Emma. Lei e le sue parole, non uscivano mai da quell’ammasso di materia grigia che si ritrovava.
Maledizione!
Scosse la testa, ritornando alla realtà e cercando di spegnere quell’assurda macchina.
«Buono eh?» chiese Robin che non si era reso ancora conto di essere completamente imbrattato di cioccolato
«Sì, molto! A proposito, sei un po’ sporco…» mormorò la donna, porgendogli il suo tovagliolo.
«No, aspetta, non lì!» senza pensarci due volte, Regina prese in mano la situazione, pulendo per bene i rimasugli del dolce sul volto dell’uomo.
Non badò a quell’altra macchina che si ritrovava nel petto. Adesso, aveva deciso di battere un po’ più velocemente, così, tanto per.
Sorrise.
Aveva cercato di evitare il contatto fisico il più possibile ma, con Roland addormentato e lei a pochi passi da lui, la situazione cominciava ad essere alquanto difficile da gestire.
«Penso sia ora di andare…» mormorò, prima che Robin potesse fraintendere.
«Sì, hai ragione! Ti riaccompagno a casa…»
La donna annuì. Mentre Robin pagò il conto, Regina si occupò di svegliare il piccolo Roland.
Dopo essersi infilati in macchina, la donna si ricordò delle chiavi.
«Maledizione!» mormorò, chiedendosi come avrebbe fatto adesso.
«Che c’è? Cosa è successo?» chiese Robin, continuando a guidare.
«Ho lasciato le chiavi a casa! E adesso non so come entrare!» borbottò la donna, stropicciandosi gli occhi. Quella giornata si stava rivelando davvero troppo lunga.
«Vieni a ca-a nosta…» mormorò Roland, soffocando un grande sbadiglio.
«Sì, beh in effetti non è una cattiva idea… puoi dormire nel mio letto… io starò sul divano…»
Regina non si sarebbe mai sognata un’offerta del genere e di certo, non avrebbe neanche considerato di accettarla. Così scosse la testa, decisa a rimare ferma sulla sua posizione.
«Pensa Regina! È tardi! Il tuo ufficio sicuramente sarà chiuso... puoi stare da noi per stanotte e domattina, ti occuperai di tutto il resto…»
Controllò l’ora ed effettivamente era piuttosto tardi. Avrebbe potuto farsi accompagnare a scuola di danza, sicuramente il custode le avrebbe aperto ma non poteva chiedere a Robin di farle da taxi in giro per New York, a maggior ragione con un bambino semi addormentato sul sedile posteriore.
Sospirò.
«Va bene, se sei sicuro che non vi è di nessun disturbo… accetterò la vostra offerta…»
Robin glielo assicurò più volte.
Regina sapeva che non era esattamente il caso, visto ciò che lui le aveva confessato qualche settimana prima, ma non ci badò.
Per qualche assurdo motivo, credeva e sperava che gli fosse passato, che non pensasse più a niente del genere.
Perché lei, in un angolino del suo cuore, in fondo ci stava pensando ancora.
Arrivarono ad un piccolo appartamentino, schiacciato da due grandi negozi.
«Non viviamo in una reggia, però… benvenuta!» mormorò l’uomo, aprendole la porta di casa e dandole il benvenuto. Roland zampettò subito dietro di lei e il padre lo prese in braccio, pronto a cambiarlo per la nanna e portarlo finalmente nel tanto bramato letto.
Effettivamente, le camere non erano molto grandi. Eppure, quella piccolezza, le sembrò accogliente, calda. In quella piccola casa, due uomini (o uno e mezzo?!) avevano costruito la loro vita, distrutta dalla malattia della donna, moglie di uno e madre dell’altro.
Non era ordinato, ma neanche disordinato.
Era semplicemente casa loro e le sembrò bellissima.
Robin la lasciò gironzolare per la casa, promettendole in seguito un piccolo tour. Lei rise e lo vide dirigersi verso quella che sembrava la stanza di suo figlio.
Vide delle piccole foto, sparse per la casa. La maggior parte, ritraevano Robin e Roland insieme, in alcune c’erano persino Killian e David. Solo in una, riposta con cura su di una mensola, c’era anche Marian, gli occhi allegri e brillanti. Sorrideva, circondata dal verde di quella che doveva essere la loro terra natia, stringendo tra le mani un batuffolino rosa e bianco, con una zazzera di capelli neri.
Robin le cingeva le spalle, sorridente.
«Quel giorno festeggiavamo il battesimo di Roland…» mormorò l’uomo, ricomparso magicamente alle sue spalle.
Regina sussultò.
Si voltò e gli sorrise, debolmente.
Il cuore, riprese a martellare nel petto. Sperò che non avesse un udito sopraffino perché se così fosse, sicuramente sarebbe riuscito a sentirlo.
«Se vuoi… posso restare io sul divano…» mormorò, accennando al divano di pelle verde dietro di lei.
«Non se ne parla! Che razza di gentiluomo sarei se ti lasciassi dormire sul divano?!»
Regina sorrise, scuotendo la testa.
Quando i maschi avrebbero capito che tutto ciò che le donne chiedevano era che le si trattasse al loro stesso livello, allora avrebbe gioito.
Le mostrò la camera.
Era un po’ più grande di come l’aveva immaginata ma, nel complesso, era perfettamente in linea con il resto della casa. Sobria, forse un po’ spoglia.
«Grazie, Robin…»
«Figurati! Non avrei mai permesso che vagabondassi da sola per le strade di New York…» scherzò, infilandosi le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni.
«No, grazie di tutto! Grazie per essere corso da me oggi pomeriggio, per la bella serata e sì, anche per avermi gentilmente concesso un riparo per la notte…»
L’uomo rise, chiedendosi perché qualcosa di così semplice come ciò che provava per quella donna, dovesse apparire così complicato.
Desiderò annullare definitivamente le distanze e desiderò di poter davvero guarire ogni sua ferita, dalla più piccola alla più grande.
Desiderò tutto questo e non si accorse che Regina, spinta da chissà quale forza sovrumana, si era alzata sulle punte, lasciandogli un tenero bacio agli angoli delle labbra.
«Regina…»
«No, Robin… - sospirò – Non possiamo. Non voglio rovinare tutto, non voglio perderti…»
«Non mi perderai!»
«Sì, invece! Perché sei sposato e io mi sentirò in colpa, terribilmente in colpa dopo! E non devi esserne triste, non devi incolpare nessun altro, se non noi… Siamo stati avventati, sciocchi… È una cosa passeggera… sì, ci passerà…» detto questo, lo guardò ancora un po’ e poi si ritirò nella sua stanza, chiudendo la porta e appoggiandovisi con la schiena.
Perché tutto doveva essere così dannatamente complicato?
Chiuse gli occhi e cercò di ingoiare quel malloppo che le era salito in gola.
Sarebbe potuta stare con tutti gli uomini sulla faccia della terra e lei? Lei si innamorava dell’unico che non avrebbe mai potuto avere.
Si tolse le scarpe e si distese sul letto. Non aveva neanche la forza di togliersi il vestito, avrebbe dormito con quello.
Controllò il suo telefono che, nell’attimo in cui lo illuminò, esalò il suo ultimo respiro. Avrebbe potuto chiedergli un carica batterie, ma adesso, non aveva più importanza.
Nessuna chiamata, nessun messaggio.
Questo era riuscito a vederlo.
Emma Swan era sicuramente una delle persone più orgogliose che aveva mai conosciuto.
Certo, sempre dopo di lei.
Vide una porta dall’altro lato della camera e la aprì, ritrovandosi in un piccolo bagno.
Si diede una rinfrescata, restando forse più tempo del dovuto. Il rumore dell’acqua, seppur per poco tempo, metteva a tacere i suoi pensieri, permettendole di rilassarsi.
Quando tornò in camera, i suoi occhi si spalancarono.
«Che ci fai qui?»
«Al diavolo i sensi di colpa, al diavolo!» mormorò l’uomo avvicinandosi a grandi falcate.
Le prese il viso tra le mani.
«Non può essere una cosa passeggera Regina, non può…» mormorò, prima di unire le loro labbra in un bacio che agognava dal primo momento che l’aveva vista quel giorno.
Lei non lo respinse. Forse si era stancata, forse anche lei, in cuor suo, sapeva che non poteva essere una cosa passeggera.
Gli circondò il collo e se lo tirò più vicino.
Era giusto, era giusto così.
Ai sensi di colpa, ci avrebbe pensato domani. Adesso, era il momento di amare.
Era la prima volta che quella parola attraversava il suo cervello, da molto tempo, da Daniel. Eppure non le sembrò fuori luogo, come aveva creduto, perché quell’uomo così gentile, aveva conquistato il suo cuore di pietra, insinuandosi nelle più piccole fratture del suo animo.
Le era entrato dentro e forse, non ne sarebbe più uscito.
Perché Regina era così. Amava poche persone ma amava per sempre, con tutta se stessa.
Sì, probabilmente era amore.
Ai sensi di colpa, ci avrebbe pensato domani.
Adesso, la notte, o quel che ne restava, era loro e non avevano intenzione di sprecarla.
 
 
«Kill…» mormorò.
«Shh! Lo so, Emma… Lo so…» le rispose gentilmente lui, carezzandole ancora una volta la guancia.
«Suppongo sia arrivato il momento!» scherzò lui, riprendendo la busta che chissà come, era caduta sul pavimento.
Emma l’afferrò. Aveva deciso di non arrabbiarsi (come avrebbe potuto?), perché tutto ciò che lui aveva fatto, l’aveva fatto per lei. E non gli sarebbe mai stata grata abbastanza.
«Qualsiasi cosa dirà questa busta, non dimenticare ciò che Ingrid è stata per te… ciò che lei ha fatto per te…»
«Non potrei mai…» mormorò, sorridendogli debolmente e aprendo quella busta.
Ne estrasse diversi fogli. Li sfogliò, finché non trovò ciò che stava cercando.
Killian, di fronte a lei, aveva il cuore in gola. Letteralmente. Non riusciva a spiegarsi perché, perché si sentiva tanto coinvolto in quella faccenda. Si rispose, che in fondo, l’aveva vissuta anche lui in prima persona, decidendo di caricarsi un po’ di quel peso, sulle sue spalle.
Vide gli occhi di Emma spalancarsi e poi diventare di nuovo lucidi.
Era davvero…?
Ingrid?
Oh no.
«Em? Allora?» chiese, il tono più agitato di quanto avesse predetto.
La donna gli porse il foglio e lui lo afferrò al volo.
Lasciò scorrere il suo sguardo, finché non trovò ciò che stava cercando.
76% di compatibilità.
Che?
«Lei non era mia madre Killian… era mia zia!» mormorò la donna, cercando di fermare le lacrime che, impetuose, le scivolavano sul viso.
Ingrid era davvero una sua parente.
Ingrid era davvero la sua famiglia.
Di colpo, tutti i tasselli ritornarono al loro posto.
Ecco, perché aveva deciso di prenderla in affidamento, nonostante fosse così grande.
Ma perché non dirle niente? Perché tenere quel segreto?
E soprattutto, come aveva fatto a trovarla?
Senza neanche rendersene conto, si ritrovò circondata dalle braccia dell’uomo. Seppellì il viso nel suo collo, arrendendosi all’idea che gli avrebbe inzuppato sicuramente tutta la maglietta.
Non parlarono. Sentì le sue mani gentili accarezzarle la schiena.
Non parlarono ma sapeva che adesso, le cose forse sarebbero diventate più facili.
Bastava qualche ricerca su Ingrid e forse, avrebbe finalmente dato un volto ai suoi genitori.
Non sapeva cosa dire, non sapeva come ringraziare Killian, non sapeva neanche cosa pensare.
Era un’emozione che di certo, non si sarebbe mai aspettata di vivere. Eppure eccola lì e l’aveva investita di colpo.
Non era più la figlia di nessuno.
Era appena diventata la nipote di qualcuno, qualcuno a cui di fatto, aveva voluto molto bene.
Chiuse gli occhi, abbandonandosi al calore dell’uomo.
Non era più la figlia di nessuno.
Le sue domande, presto, avrebbero trovato delle risposte.
Nessuno, nessuno non era più suo padre.
Nessuna, non più sua madre.
Era qualcuno.
Forse la bimba sperduta sarebbe potuta riuscire a trovare i suoi genitori.
 
 
 
C’era da cercare la frase perfetta per dirtelo,
e purtroppo il miglior risultato
che ottenni fu «Io ti amo».
Mi sento prigioniero della nostra casa, e guai a te se mi lasci uscire.
-P.C. Freitas
 
 
 
 
Tadaann!
No, non è un miraggio! Ho veramente aggiornato e come al solito si sentono i cori di “Alleluja” in lontananza!!
È inutile ormai che continui a scusarmi perché penso, abbiate capito che la mia vita, ultimamente, è piuttosto incasinata e purtroppo il tempo per scrivere scarseggia!
Tuttavia qualcosa sono riuscita a metterla insieme ed ecco che, finalmente, riesco a pubblicarla!!
Spero vi sia piaciuto, spero di essere riuscita a trasmettere tutti i sentimenti che Emma, Killian, Regina, Robin, Mary Margaret e David hanno provato, spero di avervi emozionato almeno un po’!

Non vedo l’ora di leggere i vostri pareri, sono davvero curiosa!!
Emma, come avete immaginato, non ha preso molto bene questa faccenda e lei e Regina non si parlano da un po’! Tuttavia il piano di Killian ha avuto i suoi frutti (si è imbattuto in Alice, nel mentre!) e ha finalmente avuto i risultati del Dna!
E… sorpresa!! Ingrid è imparentata davvero con Emma! Ma non nel modo in cui lei credeva!!
E adesso? Cosa succederà? Emma e Killian si sono dimenticati della casa di Belle e Gold? Riusciranno a consegnarla in tempo? E soprattutto, Emma e Regina riusciranno a chiarire? E la donna, come si sentirà dopo aver passato la notte con Robin?
Non vi resta che continuare a seguire la storia per scoprirlo!!
Colgo l’occasione per ringraziare tutti coloro che continuano a farlo, che l’hanno fatto sin dal principio o che hanno cominciato adesso e sono già qui!
GRAZIE!

Senza di voi, non sarei riuscita a scrivere un bel niente! Grazie per le vostre recensioni, le vostre parole, le vostre visualizzazioni! Grazie per continuare ad inserire la storia nelle varie categorie!!
Spero di riuscire a pubblicare al più presto ma se così non fosse, non vi preoccupate! Prima o poi, ritorno sempre!!
Un grandissimo abbraccio a tutti
Grazie (anche per essere arrivati a leggere fin qui!)
La vostra
Kerri :* 

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Capitolo 20
*** I'll be better for you ***


 

19. I’ll be better for you


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“Ci sono persone legate da un filo invisibile,
resistente al tempo e allo spazio.
Lo stesso che, un giorno, le riporterà vicine."
~Eleonora Tisi
 
Il tempo passa.
Passa sempre, passa comunque.
Ci sono istanti così belli che vorremmo fermarli e come fossero vecchie pagine di un libro già scritto, ripiegarli e conservarli nell’angolino più luminoso del nostro cuore, al riparo da occhi indiscreti, al riparo dal tempo stesso che minaccia di strapparli alla memoria.
Ci sono periodi, invece, pieni di grigio, nuvole, temporali, quotidianità. Periodi in cui non fai che chiederti se tutto questo buio che ti circonda, prima o poi scomparirà, lasciando che qualche misero raggio di sole, riscaldi un po’ il tuo animo infreddolito.
Il tempo passa e passa per tutti, allo stesso modo e in egual misura.
Non fa sconti, il tempo.
Non ti regala niente che poi, non si riprenderà indietro.
Regina si sentiva presa in giro da quel tempo, da quei secondi che, fastidiosi, ticchettavano su quell’orologio, troppo tondo per i suoi gusti.
Pensava che ne avrebbe avuto di più, pensava che qualcuno gliene dovesse di più.
Tempo, certo.
Tempo per pensare, per capire, per decidere, per vivere.
Ma in primo luogo, tempo per amare.
E no, questa volta, non si stava riferendo a Robin.
Strinse gli occhi, cercando di trattenere quelle lacrime che credeva, di non dover mai versare.
Sua madre era lì, gli occhi chiusi, le labbra sorridenti.
Era lì e lei credeva che avrebbe avuto più tempo per stare con lei, per guarirla, per curarla, per farle capire chi fosse.
Aveva commesso un altro sbaglio, l’ennesimo che si andava ad aggiungere ad una lista fin troppo lunga.
Il tempo, lui, gliel’aveva strappata via.
E lei, lei non aveva potuto neanche salutarla.
«Regina!»
La donna si voltò di colpo, al suono di quella voce così familiare e allo stesso tempo, così inaspettata. Poi, una piccola insulsa lacrima le attraversò il viso, lasciando spazio a tutte le altre.
 
2 Settimane Prima
 
Doveva ammetterlo.
Non poteva più mentire a se stessa. Lo aveva fatto per così tanto tempo che pensava, adesso, sarebbe stato facile continuare a vivere come se niente fosse, rialzandosi e continuando a camminare.
Ci era persino riuscita, per qualche tempo.
Non era facile, per niente, ma quando le capitava di vedere una bella cornice o un rossetto rosso, si limitava a costringere il suo cervello a non pensare a lei, a non pensare a Regina.
Certo, vederla quasi tutti i giorni al negozio non era esattamente adatto ma se c’era una cosa che la sua infanzia da orfana le aveva insegnato (e anche bene) era l’indifferenza. Si era rinchiusa dietro quella grigia e invalicabile barriera, fatta soltanto di “Buongiorno” e cenni del capo.
Una piccola parte di lei, sapeva che quel comportamento non era affatto giusto, ma non riusciva a farne a meno. Il suo orgoglio le impediva di dimenticare, la sua mente non faceva che ripensare a cosa sarebbe successo se due anni prima avesse saputo di Killian.
Se l’era cavata piuttosto bene, fino a quel giorno, fino a che non aveva scoperto che Ingrid fosse davvero una sua parente. Aveva scoperto il volto di qualcun altro che condivideva il suo stesso sangue, le sue stesse cellule e buona parte del suo Dna.
Non appena le braccia di Killian la salutarono per l’ultima volta e la porta di casa si chiuse, gli occhi andarono a posarsi direttamente su quel foglio, bianco e stropicciato, e poi direttamente sul telefono.
Voleva dirglielo, sentiva questo strano e insensato bisogno, quasi non sarebbe stato vero se anche Regina non l’avesse saputo. Era normale, no?
Da quasi dieci anni, le rivelava ogni cosa, ogni più piccola parte di sé. Voleva dirle che di fatto esisteva qualcuno a cui era legata, che le sue radici non erano del tutto smarrite e soprattutto, che il viaggio a Storybrooke non era stato del tutto inutile.
Voleva dirglielo, doveva.
E adesso?
Adesso aveva deciso di mandare tutto all’aria. Se avesse cominciato lei o Regina, non riusciva più a dirlo.
Forse, forse aveva esagerato.
Prese il telefono e cominciò a digitare qualcosa.
La mente, però, le ricordò il verde di quella cartellina, nascosta sotto il suo pigiama nel comodino accanto al letto e la cura con cui la calligrafia di Regina aveva riportato ogni più piccolo spostamento dell’uomo che amava.
La rabbia ricominciò a montarle dentro.
Il suo orgoglio cancellò il messaggio che le stava inviando.
Non lo meritava, non meritava di saperlo. Non dopo ciò che aveva fatto.
L’aveva lasciata all’oscuro di qualcosa che forse avrebbe potuto cambiarle la vita (come di fatto stava accadendo) e lei l’avrebbe ripagata con la stessa moneta, nascondendole tutto.  
Sì, non avrebbe dovuto neanche pensarlo.
Era arrabbiata, furiosa nonostante fosse passato diverso tempo da quando lei e Killian erano tornati a New York.
Due settimane.
Sì, esatto quattordici giorni che le rivolgeva a stento la parola.
No, non li aveva contati!
Maledetta coscienza!
Avrebbe dovuto essere lei a scusarsi, perché era lei che aveva sbagliato.
Come aveva potuto? Aveva deciso al posto suo e non era un suo diritto. Lei, al suo posto, non si sarebbe mai sognata di fare una cosa del genere!
Davvero? Davvero Emma non l’avresti mai fatto? Pensaci bene…
Oh, ma stai zitta, stupida coscienza! Quando diavolo si era ripresentata?
Lanciò un’occhiata alla busta appoggiata accanto a lei sul divano.
Il cuore le si riempì, ancora una volta, di cosa non sapeva dirlo.
Una famiglia.
Una famiglia così vicina, che riusciva quasi a toccarla.
Chiuse gli occhi, abbandonandosi a quello strano sentimento che allagava il suo cuore.
 
48 ore prima
 
Emma chiuse gli occhi, abbandonandosi allo schienale della poltrona.
Il suo stomaco forse aveva cominciato a dare i primi segnali della fame ma aveva deciso di ignorarlo.
Si trovava nello studio di Killian.
Non si sarebbe mai immaginata che quell’uomo fosse stato capace di ritrasformare un simile ambiente.
Si guardò ancora un po’ intorno, cercando di allontanare quel dolore che le martellava la testa da qualche minuto.
Attaccate alle pareti c’erano delle piccole foto dell’appartamento (infatti quel posto era nato come un piccolo e fatiscente bilocale) prima che la mente geniale del giovane Jones intervenisse a rimodernare il tutto.
Certo, probabilmente gli ci erano voluti più soldi di quanti lei ne avrebbe mai guadagnati in un anno ma sicuramente ne era valsa la pena.
Era tutto così semplice ed elegante che per un attimo, si ritrovò a fissare le pareti bianche, giusto per permettere ai suoi occhi di rilassarsi un po’.
«Emma! Emma mi stai ascoltando?!» la voce dell’uomo la riportò alla realtà. Si girò verso di lui, sperando che ciò che le stava dicendo, fosse ciò che sperava.
«Dimmi, scusa… ero distratta!»
«Non ti preoccupare, sonnecchia quanto vuoi, me la cavo alla grande tra i progetti di casa Gold da finire entro domani e le ricerche per trovare una misera traccia dei genitori di Ingrid!»
Emma alzò gli occhi al cielo.
«Scusa mister “Tranquillo, possiamo cavarcela benissimo da soli, non c’è bisogno che chiamiamo nessuno!”»
Killian stava per ribattere, ma uno dei due computer che aveva davanti, si spense di colpo, probabilmente a causa della poca batteria.
«Merda, dimmi che non erano i progetti di Gold!» mormorò Emma, raggiungendolo dietro alla sua scrivania.
L’uomo si abbandonò a diverse imprecazioni.
«Deduco che lo fossero…»
Forse fare entrambe le cose contemporaneamente non era propriamente l’idea più intelligente che avessero avuto.
Emma aveva scoperto ormai da due settimane che Ingrid fosse una sua parente stretta ma ancora né lei né Killian erano riusciti a ricostruire un po’ del suo passato.
Era come se fosse comparsa dal nulla, il giorno in cui aveva deciso di prendere Emma in affidamento. Prima di allora, non c’era nessuna Ingrid Snow, o perlomeno nessuna che assomigliasse alla donna gentile che Emma e Killian avevano conosciuto.
Più i giorni passavano, più Emma si sentiva lontana da quella verità che aveva tanto desiderato raggiungere.
Credeva di esserci vicina, credeva che dopo quella scoperta sarebbe stato un gioco da ragazzi scoprire tutto e finalmente avere le risposte che da anni cercava ma, come sempre, aveva fatto i conti senza l’oste e il destino continuava a prendersi gioco di lei.
La porta dell’ufficio sbatté e sia Emma che Killian alzarono lo sguardo dallo schermo che stavano fissando.
«Salve piccioncini! Vi disturbo?»
David, il migliore amico di Killian, aveva fatto il suo ingresso. Emma non poté fare a meno di sorridere. Quell’uomo le infondeva un’allegria che pochi riuscivano a trasmetterle.
Killian glielo aveva presentato qualche giorno dopo il loro rientro e fin da subito, aveva capito che le sarebbe stato molto molto simpatico.
Prima di tutto, perché le raccontò diecimila aneddoti imbarazzanti su Killian e lei aveva riso ad ognuno di questi, aggiungendo alla sua lista alcuni della loro infanzia.
Quando lo costrinse ad andare al supermercato a comprarle gli assorbenti (Killian disse che ricordava ancora quel giorno come uno dei più traumatici della sua vita) oppure quando gli insegnò a fare uno chignon.
“Scommetto che hai conquistato chissà quante ragazze grazie ai miei insegnamenti!” lo prese in giro Emma e lui non poté fare altro che scuotere la testa.
Ritornò al presente, lanciando un’occhiata prima all’uomo al suo fianco, intento ad azzuffarsi con il caricabatteria del laptop, e poi a David.
«Che succede, guai in paradiso?!» mormorò sarcasticamente l’architetto, prima di riuscire finalmente a dare un senso a quel groviglio di fili che si ritrovava in mano.
«Vedo che siamo più acidi del solito oggi, Jones! – lo prese in giro l’uomo - Emma non gli hai dato la solita dose di cioccolata?! Lo sai che diventa piuttosto irritabile se non assume qualche zucchero di prima mattina…»
Emma soffocò una risata, perché quello non era davvero il momento di ridere. La sua vita era un casino, più o meno come quei fili, soltanto che lei non aveva ancora capito come districarla e no, quello non era davvero il momento di ridere.
«È successo qualcosa David? Perché se sei qui solo per disturbare ti pregherei di alzare quel tuo culo principesco dalla mia poltrona e uscire fuori di qui!»
Emma lanciò un’occhiataccia all’uomo. Non doveva trattarlo così. Non poteva permettersi di perderlo. Lui che aveva ancora la fortuna di averlo…
«Ciò che Killian voleva dire è “Ciao David! Qual buon vento ti porta qui? Possiamo fare qualcosa per te?”» mormorò, dandogli una gomitata.
Quello alzò gli occhi al cielo.
«Oh Emma, mi hai tolto le parole di bocca!» mormorò sarcastico.
David rise.
«In realtà sono qui per Mary Margaret…»
Killian, che continuava ad armeggiare con il computer, sperando di riuscire a recuperare qualcosa, rise sotto i baffi.
«Visto Emma?! Noi non gli serviamo proprio a niente… ormai viene qui solo per la sua bella fidanzata!»
«Avanti Killian, non dirmi che sei geloso!» mormorò la donna, incrociando le braccia e guardandolo dritto negli occhi.
Killian guardò prima lei e poi David. Quest’ultimo non riusciva a fare a meno che un sorrisino da idiota gli si dipingesse sul bel volto. Poi sia lui che Emma scoppiarono a ridere.
«Non guardare me, amico! Non le ho detto niente, giuro! Ma Emma, ti prego, resta qui per sempre! Mi piace avere qualcun altro con cui prendere in giro Jones!»
Emma rise, poi scosse la testa, avvicinandosi al bordo della grande sedia nera di Killian e sedendosi su di un bracciolo. Gli scompigliò i capelli, tirandogli un po’ la guancia.
«Certo, non me ne andrò tanto presto!» sorrise.
«Mary Margaret è uscita più o meno mezz’ora fa, comunque…» aggiunse, tornando a guardare David.
«Bene, perfetto! Voglio chiederti una cosa Killy…»
«Tutto quello che vuoi a patto che la smetti di chiamarmi così! Emma dovevi proprio dirgli anche questo?! Adesso non la finirà mai più!» si lamentò l’uomo, massaggiandosi la testa.
Emma rise ancora, poi alzò le spalle.
«È così carino! Non capisco perché non ti è mai piaciuto…»
«Vuol dire che io, da oggi in poi, ti chiamerò Emmy!» mormorò soddisfatto l’uomo, sfidandola con lo sguardo.
«Non oseresti!»
«Lo dico persino ad Henry!» la minacciò.
«Killian!»
David si schiarì la gola.
«Mi dispiace interrompervi perché, dico sul serio, siete uno spasso, ma ero venuto per chiedere a Killian se domani Mary Margaret può non venire a lavoro…»
«Ancora? La rapisci di nuovo? Adesso la porti dai tuoi zii?» rise Killian, cominciando a prendersi la rivincita che, di fatto gli spettava.
«Spiritoso! No… ecco io… domani è un mese che stiamo insieme, se non mi sbaglio, quindi vorrei portarla da qualche parte e…»
Il tono di David si era improvvisamente fatto più dolce. Era incredibile. Emma lo notò quasi subito. Era un cambiamento repentino, così facile da cogliere. David si trasformava e una scintilla si accendeva nei suoi occhi e il suo viso si distendeva, i suoi tratti diventavano più rilassati, quasi Mary Margaret fosse un calmante o un antidepressivo. Si era chiesta diverse volte se anche lei, quando parlava con Killian o di Killian, avesse la stessa luce.
«Ok, amico! Portala dove vuoi e mi raccomando, state attenti! Perché non penso di riuscire a reggere un altro incidente!»
Killian gli fece l’occhiolino e David si aprì in un sorriso.
«Certo, tranquillo! Lo so che non potresti vivere senza di me! Scusa Emma, ma è la verità!»
Risero, poi David se ne andò, portandosi dietro quel clima di allegria e spensieratezza che per qualche minuto aveva pervaso lo studio.
Emma e Killian si guardarono, ognuno perso nei propri pensieri.
Killian sapeva che dovevano darsi da fare. Gold non aveva esattamente dimostrato di essere un tipo paziente e se entro qualche giorno, non gli avessero presentato il progetto di tutte le camere, sicuramente li avrebbe spediti a casa senza neanche un soldo.
Provò uno strano moto di odio nei confronti di quell’uomo, così piccolo e così avaro.
Si chiese come potesse una giovane donna così bella come Belle, amarlo tanto da sposarlo. Era troppo persino pensare che si trattasse di un matrimonio di interesse. La donna sembrava davvero innamorata e, seppur a suo modo, anche lui lo era, Killian lo aveva capito subito.
«Killian»
Non riuscì a dire da cosa precisamente lo dedusse. Forse dal tono di voce, forse dalla sua espressione o forse dalle mani attorcigliate in grembo.
Non riuscì a dire come, ma capì.
«No…» mormorò, dopo averla guardata per un po’, quasi a volersi assicurare che avesse capito bene.
La donna alzò lo sguardo. Era verde, come al solito, e duro, forte, sicuro.
«Cosa “no”?»
«So cosa stai per dirmi Emma e no, non se ne parla, è assolutamente fuori discussione!»
Emma sorrise un po’, forse rendendosi di nuovo conto di quanto fosse facile per lui, leggerla dentro.
«Non mi hai neanche fatto parlare…»  obiettò.
«Fidati! Lo so! Emma, non puoi permetterti di mollare! Non dopo tutto quello che abbiamo fatto, non dopo tutti questi passi avanti!»
Era arrabbiato. Non riusciva a capirla, nonostante la capisse così bene. Oddio, era un controsenso.
Non lo sapeva, non sapeva proprio come fare. Un giorno era pronta a tutto pur di trovare la sua famiglia e il giorno dopo, si lasciava trasportare dallo sconforto più totale.
Ma lui non glielo avrebbe permesso! Non dopo ciò che aveva fatto!
Diavolo, aveva scavato tra oggetti polverosi in una soffitta abbandonata e aveva rubato uno spazzolino! Era ritornato a Storybrooke, l’unico luogo in cui aveva giurato di non mettere più piede!
Non poteva arrendersi, non poteva!
Si alzò, dirigendosi a grandi passi verso il centro dello studio.
«Se solo mi lasciassi parlare, capiresti che non è ciò che intendo fare!»
La donna lo raggiunse e gli si parò davanti, fiera e bellissima come sempre. Diamine, era arrabbiato con lei e non riusciva a non pensare a quanto fosse bella! Sì, aveva decisamente qualche problema…
«Killian, non ho intenzione di arrendermi!»
L’uomo la guardò, cercando di capire se fosse seria, guardando il suo viso e la sua mente che cercavano di trovare le parole adatte, quelle giuste che le avrebbero permesso di convincere anche lui.
«Voglio solo mettere tutto in pausa per un po’…»
«Ma…» cercò di ribattere.
«Lasciami finire, ti prego. Tu, meglio di chiunque altro, sai quanto io tenga a questa cosa ma guardiamo in faccia la realtà: sono due settimane che navighiamo nel vuoto, Killian! Forse non ci siamo impegnati abbastanza oppure ci è sfuggito qualcosa, non so dirtelo neanche io… So che ce la stai mettendo tutta Killian e probabilmente non troverò mai le parole giuste per ringraziarti o sdebitarmi, ma dobbiamo fermarci! Almeno fino a che non consegniamo la casa ai Gold… Sai anche tu che non stiamo dando abbastanza peso a questo progetto, un progetto che, se andasse a buon fine, potrebbe dare una svolta alla tua carriera! Gold ci licenzierà se entro la prossima settimana non gli mostriamo qualche progetto e io non voglio che lo faccia, perché tu non lo meriti…»
«Emma…»
«Ti prego, Killian! Promettimi che lo farai, prometti che smetterai di cercare… Fino a che non finiamo la casa, poi ricominceremo a fare tutte le ricerche e le indagini che vuoi!»
Killian la guardò per un po’, pensando a ciò che aveva appena detto. Ovviamente sapeva che non aveva tutti i torti ma una parte di lui, non voleva abbandonare quel progetto. Sapeva di trovarsi vicino alla verità, lo sentiva che era lì, proprio sotto il suo naso eppure era così cieco che non riusciva a vederla.
Annuì.
«Va bene»
Emma gli si raggomitolò contro e lui l’abbracciò, chiedendosi come fosse riuscito a sopravvivere dodici anni senza il suo odore e i suoi capelli e la sua presenza.
«Adesso mettiamoci a lavoro!» mormorò, sciogliendo l’abbraccio e incamminandosi verso la scrivania.
«Stupiamo quel folletto!»
Killian alzò un sopracciglio, divertito.
«Che c’è?! A me sembra un folletto… perfido, ma pur sempre un folletto!»
 
 
12 ore prima
 
«Ti prego, facciamo una pausa!»
Emma si allungò sul divano, stiracchiandosi il più possibile. Sentiva il corpo dolorante, reduce di un pomeriggio intero di lavoro, curvata su di un minuscolo tavolino.
«Mi bruciano gli occhi…» mormorò, prima di strizzarli un paio di volte. Tanti piccoli puntini colorati le annebbiarono la vista.
Killian seguì il suo esempio. Si alzò e cominciò a camminare per sgranchirsi le gambe.
Avevano terminato il progetto per la camera da letto dei Gold e adesso avevano appena cominciato quello del bagno. Dopo un paio di progetti di Killian, bellissimi per carità, ma bocciati perché Emma non aveva niente del genere in negozio, avevano comunemente deciso che l’unico modo per far sì che la cosa funzionasse, era lavorare insieme.
Emma si era portata un grande schedario pieno di tutto ciò che sarebbe potuto servire, in modo tale da controllare lì dentro prima di aggiungere quel particolare mobile nel progetto.
Belle non si era espressa minimamente riguardo ai soldi, ovviamente, ma Emma e Killian sapevano che di meno avessero fatto pagare a Gold, più felice sarebbe stato.
Oltre a quello schedario cartaceo, ovviamente c’era il computer del negozio, dove erano registrati quasi tutti gli oggetti.
Il progetto della camera da letto era stato approvato sia da Belle (e quindi anche dal suo futuro marito) che dall’ingegnere, quindi tutto ciò che restava da fare era dare l’avvio ai lavori.
Gold aveva chiamato l’impresa di un suo amico e la cosa non stupì né Emma né tantomeno Killian.
«Vuoi qualcosa da bere?» chiese l’uomo, spostandosi in cucina.
Si trovavano a casa dell’uomo. Mary Margaret e David erano partiti qualche ora prima e poiché Emma aveva dormito da Killian, avevano entrambi deciso di comune accordo, di restare lì per quel giorno.
«No, grazie… Devo chiamare Henry… sono una pessima madre!»
Killian alzò gli occhi al cielo, mentre si scolava mezza bottiglia di succo di frutta all’arancia. Quella era forse la decima volta che Emma lo ripeteva nell’arco di sole due ore. Se avesse dovuto contarle tutte, probabilmente avrebbero superato le duecento.
«Emma, Henry sta bene! Non devi preoccuparti! È al sicuro, in mezzo ai boschi, insieme ad altri trentotto ragazzini e quattro insegnanti!» la rassicurò.
Henry, in effetti, era in campeggio assieme alla sua classe. Quell’anno, i professori avevano optato per tende e notti stellate a sci e snowboard, visti i numerosi incidenti dell’anno prima.
Henry e Killian avevano dovuto sudare molto per riuscire a convincere Emma a permettere al ragazzino di partecipare a quella gita. Ovviamente non era una questione economica, quanto piuttosto l’immane preoccupazione della giovane nei confronti di suo figlio.
Alla fine, però, ce l’avevano fatta ed Henry era partito la sera precedente. Aveva voluto salutare Regina e lei lo aveva accompagnato ma, sotto le proteste di Killian, era rimasta in macchina.
Henry era rimasto nella grande casa bianca per un po’, lei ne aveva approfittato per farsi una partita a Candy Crush e mangiarsi una ciambella.
Era partito e lei si sentì davvero un mostro, seguendo con gli occhi il pullman giallo allontanarsi da New York.
Si ripromise che una volta tornato, avrebbe passato intere giornate con suo figlio. Non aveva ancora smaltito quei cinque giorni di lontananza che l’avevano portata a Storybrooke e questo, era anche uno dei motivi per cui non voleva assolutamente che il bambino partisse.
In più da quando era tornata, non aveva fatto altro che lavorare e cercare i suoi genitori, il tutto a discapito del povero Henry. Non che lui si fosse lamentato, ovviamente. Però, quando le aveva detto di quella gita, Emma aveva visto qualcosa riaccendersi nel suo sguardo, qualcosa che sembrava gli mancasse da un po’. Ecco perché alla fine, aveva acconsentito.
Avrebbe dovuto dirlo a Killian. Così, giusto per non fargli credere che fosse stato tutto merito suo.
«Non risponde…»
«È in mezzo al nulla! Come pretendi che risponda?» la apostrofò sarcastico l’uomo, ritornando a sedersi sulla poltrona.
«E allora perché diavolo gli hai regalato un cellulare se non può rispondere alle mie telefonate?!» sbuffò la donna, incrociando le braccia.
Killian alzò le spalle. In effetti, aveva comprato ad Henry un piccolo telefono, pratico e poco impegnativo, ma più che per fare un regalo ad Henry, lo aveva fatto per tranquillizzare sua madre durante la permanenza del ragazzino fuori casa.
Anche se, l’espressione che il bambino aveva mentre scartava il pacchettino, probabilmente se la sarebbe ricordata per tutta la vita.
Certo, ovviamente sperava che Emma non si accorgesse così presto che nei boschi, di solito, non c’era campo.
La donna sprofondò sul divano, portandosi il telefono con sé. Doveva essere pronta nel caso Henry le inviasse qualcosa o la chiamasse.
Poi qualcosa catturò il suo sguardo.
Quello era…?
No.
Era veramente ciò che credeva che fosse?
Impossibile.
Impossibile.
Si alzò per andare a controllare.
Killian seguì i suoi movimenti, curioso.
Non capiva cosa stesse facendo o cosa avesse visto.
Emma prese in mano il ciondolo, il suo, quello a forma di cigno che due mesi prima aveva perso in un ristorante di cui non ricordava neanche più il nome.
Lo accarezzò e le vennero le lacrime agli occhi.
Era lì. Era suo, lo sapeva perché Henry e Regina avevano fatto le cose per bene e solevano ripeterglielo spesso. “Questo ciondolo è unico, proprio come te mamma!”
Sentì la voce di Henry rimbombarle nella testa e si sforzò di ricacciare indietro le lacrime.
Ma come diavolo faceva Killian ad averlo?
«D-Dove l’hai trovato?!» chiese, cercando di nascondere il suo tono di voce. Sussultò quando la voce dell’uomo risuonò più vicina di quanto credesse.
«Emma? Tutto bene?» chiese, cercando di capire cosa fosse successo.
«Dove l’hai trovato?!» ripeté.
L’uomo guardò il ciondolo. Qualche giorno prima lo aveva notato nel comodino e aveva ripensato a quel giorno. In quel ristorante, dopo aver trovato quel piccolo cigno, da tanto tempo, si era concesso di ripensare a lei, al suo di cigno, e una settimana dopo, eccola lì, di nuovo nella sua vita.
Lo aveva tirato fuori, rigirandoselo tra le mani e lo aveva poggiato lì, pensando che forse avrebbe dovuto darglielo, dopotutto.
Si grattò la nuca.
«Be’, l’ho trovato un po’ di tempo fa in un ristorante… non ci eravamo ancora ritrovati e quel ciondolo… be’, mi ha fatto ricordare cose che non ricordavo più, così l’ho raccolto e l’ho messo nel comodino, assieme alle cose che già sai… Poi, qualche giorno fa, mi è capitato di nuovo tra le mani e ho pensato al destino, a quanto fosse assurdo, e ho pensato di dartelo…»
Era imbarazzato. Non voleva che pensasse che fosse il tipo d’uomo da riciclare un regalo. Per di più, qualcosa che aveva trovato a terra, sul pavimento di un assurdo ristorante, durante un’assurda serata.
Non riusciva a capire quale fosse la sua espressione.
Se stesse per scoppiare a ridere o a piangere.
Fissava quel ciondolo e se lo rigirava tra le dita.
«Em, se non ti piace…»
Finalmente alzò lo sguardo e incrociò gli occhi con i suoi. Notò un piccolo velo, un luccichio, rugiada in quel prato verde.
«Killian, questo ciondolo è mio…» mormorò.
 

«Allora, dove stiamo andando?» chiese, la voce squillante, un sorriso sulle labbra.
«Non dai miei genitori… Visto come si è concluso lo scorso viaggio, ho preferito evitare…» mormorò l’uomo, stringendo le mani sul volante.
«Ti ricordo che non è stata colpa tua! Comunque, non cambiare discorso, avanti, dimmelo!»
David ridacchiò, poi si rifece serio.
«Ma sei sicura?»
«Cosa?»
«Che il nostro anniversario sia oggi?! Io non mi ricordo proprio!»
Ovviamente si beccò un pugno e un sonoro “Idiota” ma dopo un po’, si mise a ridere anche lei.
In fondo, era anche per questo che si era innamorata di David Nolan.
«Siamo quasi arrivati!» disse, svoltando in una stradina che Mary Margaret non aveva neanche visto.
Erano piuttosto lontani dalla città. Guardandosi intorno, la donna non vide altro che una piccola casetta, sperduta in mezzo al niente.
Aveva un piccolo porticato, al quale si accedeva tramite tre scalini. Ad uno dei muri, era appoggiata una grande catasta di legna da ardere.
«Dove siamo?!»
David sorrise, poi uscì dall’auto. Mary Margaret lo imitò e insieme si incamminarono verso la casa.
L’uomo bussò.
Dopo qualche secondo, scandito dagli sguardi interrogativi della giovane donna dai capelli corti, la porta di casa si aprì.
Un uomo, sulla sessantina, andò ad aprire.
«Ciao Leroy! Come va?»
I due uomini si salutarono con una vigorosa stretta di mano.
«Tutto bene! Presumo che questa sia la tua bella fidanzata…» disse, rivolgendosi a Mary Margaret e prendendole la mano.
«Incantato!»
La donna arrossì e David scoppiò a ridere.
«Oh Leroy! Sei sempre stato così teatrale!»
«E tu un perfetto idiota! Non so come fa a sopportarlo signorina!»
«Sono Mary Margaret – rispose la donna - e, se lo vuoi sapere, certe volte me lo chiedo anch’io!»
Leroy rise.
«Bene amico, vi lasciamo la casa! Abbiamo appena finito di lucidarla!»
Poi fece un fischio e altri uomini arrivarono da ogni parte della casa.
Tutti strinsero le mani ad entrambi e uscirono fischiettando. L’ultimo fu Leroy che li salutò, dando loro appuntamento all’indomani.
Fu in quel momento che Mary Margaret se ne accorse.
«Ma sono…»
«Nani! Esatto!»
«Stavo per dire “bassi” … Ma sì, sono nani…»
David annuì.
«Lavorano qui vicino… hanno una fabbrica in cui tagliano legna o una cosa del genere…» le spiegò.
«E noi siamo qui per…?!» chiese curiosa la donna. Il suo desiderio nascosto non era propriamente lavorare in una fabbrica di legna “o cose del genere”.
«Questa casa è la loro, ma non abitano qui… Ne hanno un’altra più in fondo…»
«Stai evitando la domanda!» gli ricordò Mary Margaret, dandogli un leggero buffetto sulla spalla.
L’uomo alzò gli occhi al cielo.
«Un giorno riuscirò a farti una sorpresa! Te lo giuro!» disse, puntandole un dito contro il petto.
La donna rise, poi aspettò che David cominciasse a parlare.
«Oltre alla fabbrica, hanno anche un rifugio per animali feriti…»
Le labbra di Mary Margaret si aprirono sorprese. Poco dopo, un sorriso spontaneo comparve sul suo volto.
«E sì, domani andremo ad aiutarli!» mormorò l’uomo, rispondendo alla tacita risposta che leggeva negli occhi della donna.
Lei lo abbracciò di slancio.
Forse…
Forse era davvero quello giusto.
Anche se non era sicura che esistessero persone “giuste” e persone “sbagliate” …
Eppure in quel momento, non desiderava essere da nessun’altra parte nel mondo, se non lì, tra le sue braccia, sul portico di una casa, in mezzo al nulla.
 
 
2 Ore Prima
Il destino.
Emma non sapeva con che altro nome o appellativo chiamarlo.
Quell’ammasso di forze, più grandi di loro e più alte di loro che nascoste da qualche parte, tiravano i fili della loro vita.
Come era possibile che Killian si fosse trovato nel suo stesso posto, alla sua stessa ora e che non si fossero incontrati?
E soprattutto, come aveva fatto a vedere, tra migliaia di luci, persone, colori, proprio quel ciondolo, quel ciondolo che lei aveva perso?
Pensò che forse, sono cose che nessuno sa.
Penso che forse, tutto andava ben oltre la sua comprensione, la loro comprensione e che avrebbe fatto meglio a smetterla di domandarsi cosa fosse o non fosse accaduto se quel giorno o un altro, avesse incontrato Killian per caso.
Non lo aveva fatto, punto.
Non era successo, perché forse non era il momento.
Perché forse non era pronta.
Eppure, mai come in quell’istante, ebbero la sensazione che le loro vite non si fossero mai slegate del tutto, che c’era ancora un filo rosso, invisibile ai loro occhi, che ancora li univa e probabilmente li avrebbe uniti per sempre.
Adesso, forse avevano cominciato a riconoscerlo.
Killian le porse il ciondolo, non dubitando neanche per un istante delle parole di Emma. Ormai ci era abituato.
Ormai sapeva di cosa fosse capace la vita.
Poteva essere una stronza, poteva toglierti tutte le persone alla quale tenevi nel giro di una settimana, ma poteva anche sorprenderti, stravolgerti, stupirti.
Emma gli fece comunque vedere delle foto sul suo cellulare, foto che la ritraevano assieme a suo figlio e a Regina, foto che non aveva avuto il coraggio di cancellare, foto nelle quali il piccolo cigno spiccava attorno al suo collo.
«Ho bisogno di una doccia…» mormorò, prima di lasciare un bacio sulla guancia della donna, quasi a volersi assicurare che fosse vera, che fosse lì, per poi incamminarsi nel bagno.
Emma seguì i suoi movimenti, rapita, assorta nei suoi stessi pensieri.
Migliaia di cose le passavano per la mente ma lei non aveva la forza, né la voglia, di catturarne nessuna.
Fece vagare il suo sguardo alla ricerca di un appiglio, di un qualcosa che la distraesse dall’ammasso di pensieri che aveva nella testa.
E lo trovò.
Lo trovò nei dorsi di libri che campeggiavano su quasi tutte le mensole.
Libri su architetti che non aveva mai sentito nominare, alcuni romanzi, i classici, quelli che bisogna avere per forza nella libreria, e poi altre storie sconosciute, di autori che aveva sentito nominare da qualche parte che non ricordava.
Ne sfogliò qualcuno, distrattamente, finché qualcosa catturò la sua attenzione.
Ancora.
Era un libro più vecchio degli altri, un libro che lei aveva già visto.
Lo afferrò.
Lesse il titolo consumato e poi l’autore, sorrise.
Sollevò la copertina e si accorse che quel volume apparteneva alla loro vecchia scuola, un libro che a quanto pareva, Killian non aveva mai riportato indietro.
“Storybrooke, 14 Aprile 1999”
E sotto le loro piccole firme scarabocchiate.
Lo sfogliò, cercando di ricordare il giorno esatto in cui avevano preso quel libro.
Non ci riuscì.
Odiava la memoria.
Odiava quando le giocava quegli stupidi scherzi.
Odiava il fatto che tutto, prima o poi, cadesse nell’oblio.
Quelli erano giorni felici e per questo, caduti nella quotidianità, dimenticati.
Dopotutto, forse chi diceva che i giorni tristi sono più facili da ricordare, non aveva tutti i torti.
La difficoltà era ricordare quelli felici, così da combattere quelli più bui.
Sovrappensiero, non si accorse di un piccolo foglio sgualcito che scivolò da una pagina.
Cadde.
Lo raccolse.
Non voleva essere invadente.
Era piegato in quattro e lo aprì.
Si chiese perché le sue mani facessero esattamente il contrario di ciò che le diceva il suo cervello.
Dal bagno, riusciva a sentire il rumore dell’acqua e per un attimo, pensò di mollare tutto e raggiungere Killian sotto la doccia, dove le loro lacrime si sarebbero confuse con piccole gocce d’acqua.
La curiosità però fu più forte.
Era forse Silente che diceva che la curiosità non era sempre un bene?! Non ricordava.
La scrittura era di Killian.
La lettera era per lei.
 
Storybrooke, 30 Aprile 2012
Cara Emma,
Ci sono così tante cose che vorrei dirti e in questo istante non riesco a ricordarne neanche una.
Assurdo, vero?
Prima di tutto, non ho sprecato la mia vita e ho cercato sempre di seguire quei consigli che dieci anni fa mi lasciasti, graffiati su un foglio di carta.
C’è stato un periodo in cui sarei riuscito a recitarle a memoria, quelle parole, per quante volte le ho rilette e suppongo che anche adesso, se ci provassi, il risultato non sarebbe diverso. Sono scolpite nel mio cuore, così come lo sei stata tu.
È stupido. È stupido il fatto che ogni volta, ho il bisogno che tu sappia questo, che tu sappia che almeno in parte, la mia vita non è stata del tutto uno sfacelo.
In parte.
Adesso, ho perso un’altra persona, un’altra persona che mi aveva raccolto da qualche parte all’angolo di una strada e aveva cominciato a guarirmi.
L’ho amata Emma, di un amore genuino e sincero e la amo ancora, ma l’ho persa, proprio come ho perso te.
L’ho amata e non so perché continuo a riscrivertelo, non so neanche perché ti sto scrivendo, visto che non penso avrò il coraggio di spedirti qualcosa e anche se lo avessi, non so neanche in che parte del mondo sei, se sei viva, sposata, divorziata, se sei una ballerina o se sei una mamma o forse entrambe le cose.
Mi piace pensare che tu ci sia riuscita, Emma. Perché, altrimenti, il mio cuore sprofonderebbe, più giù del solito, e mi renderei conto che se tu non ce l’avessi fatta, allora tutto questo sarebbe stato vano, inutile, senza senso.
Ce l’hai fatta, Emma, lo so.
Lo so, perché ti conosco, ti ho vista crescere, maturare, stringere i denti e lottare come una tigre in quella stanza, in quella sala che per me, era fin troppo inquietante.
Non so come ci riuscivi, Emma, davvero! Quella sala, così grande in cui non puoi fare a meno di sentirti osservato, da te stesso e dagli altri, giudicato.
Eppure tu ci riuscivi, passavi tutto il tuo tempo lì e ce la mettevi tutta e hai sacrificato tutto e mi hai abbandonato ed è per questo che mi piace pensare che tu ce l’abbia fatta, che ci sia riuscita davvero.
Non importa se nessun sito internet riporta il tuo nome (sì, lo ammetto, ho cercato), io so che tu, da qualche parte, hai realizzato il tuo sogno.
Sai, è strano, ma in questo momento riesco persino a immaginare il tuo volto, i tuoi occhi umidi leggendo queste parole ed è strano, perché non le leggerai mai.
Continuo a scrivere perché mi distrae, mi distrae da tutto quello che mi succede intorno, da tutto ciò che avevo costruito piano piano e che è crollato, di nuovo.
Comincio a pensare che sia colpa mia, lo sai? Forse sono io il problema, io che non riesco a trattenere neanche una persona alla quale tengo. Mia madre, tu, mio fratello e adesso Milah.
Ma va bene così, le ho promesso, come ho promesso a te molto tempo fa, che sarei andato avanti e che non ci sarei ricascato.
È per questo che ho deciso di farlo, Emma. Ho bisogno di nuova aria, nuovo ossigeno, nuovi orizzonti, nuovi stimoli. Ho bisogno di novità e ho bisogno di mettere più distanza possibile tra me e questa cittadina.
Parto.
Parto così, da un giorno all’altro, proprio come facesti tu.
Non l’ho detto a nessuno ancora e lo sto dicendo a te, che non esisti, che non fai più parte della mia vita. Buffo, vero?
Ma sei sempre stata la prima a sapere qualcosa e ho dozzine di altre lettere da qualche parte, che dimostrano che lo sarai sempre.
Parto perché questo non è il mio posto, perché qui ho perso tutto e forse mi illudo che sia Storybrooke il problema, non io.
Ripeto, forse mi illudo.
Continuo a pensare che sia la cosa migliore.
Non sto cercando di dimenticare Milah, solo di andare avanti.
Raccogliere i pezzi e andare avanti, come ho sempre fatto.
Spero che la tua vita sia ciò che hai sempre desiderato e spero che tu, qualche volta, ripensi a me. 7Io, come vedi, non ne posso fare a meno.
Sei sempre Emma, sei per sempre e lo so, queste parole non sembrano affatto le mie, ma penso che io continuerò ad amarti fino alla fine dei miei giorni.
 
È stato difficile, scriverlo.
Quelle parole sono più calcate, forse te ne sei accorta.
Sono uscite fuori così violentemente, che non ho potuto non scrivere, assecondare la mia mano e scriverle.
Sono arrabbiato, Emma, molto, troppo e non
Arrabbiato e deluso e sì, ti ho odiato Emma, ti ho odiato più di chiunque altro, ti ho odiato almeno nella stessa misura in cui ti ho amato.
E non posso dimenticare una cosa del genere, non posso semplicemente adattarmi eppure tu salti sempre fuori e piano piano, avevo cominciato ad abituarmi a quella mancanza perenne che sentirò per il resto della vita.
Ti odio perché quando te ne sei andata, hai portato via un pezzo di me che non riesco più a trovare.
Non importa quanto cerchi di rimettermi in piedi e di riordinare tutto, non c’è, non riesco a trovarlo, perché è lì, assieme a te.
Lo rivoglio, Emma, lo pretendo dopo tutto quello che ho passato.
Lo merito e no, non è modestia, è stanchezza.
Ridammelo, fammi ritornare me stesso.
Fammi ritornare sano.
Ogni volta che ci penso, provo quasi un dolore fisico, come se mi stessero amputando la mano o il piede.
E poi, il respiro si fa più veloce e non mi basta più, non mi basta più lo spazio, non mi basta più niente.
Milah li chiamava “attacchi di panico”, io non so ancora bene come definirli ora che ho perso anche lei.
Sono arrabbiato e ti scrivo ancora per dirti quanto ti amo e quanto sia sicuro che tu ce l’abbia fatta.
Devo avercelo qualche problema, non credi?
Ormai quasi tutta la mia vita è una contraddizione, quindi tanto vale far diventare anche questa specie di lettera una di queste.
Penso di aver finito, per oggi. Mi sono sfogato abbastanza.
Volevo solo dirti che parto, parto e sono pronto a riprendermi ciò che è mio.
 
Killian
 
 
Non riuscì a dire quanto tempo restò lì, con quella lettera in mano, troppo scossa perfino per muoversi.
Si era illusa, illusa che Killian avrebbe potuto perdonarla e chissà, magari lo aveva anche fatto, ma questo non cambiava niente, non avrebbe mai potuto cambiare niente.
Tutto quello che l’uomo aveva passato, non sarebbe mai cambiato.
Per un momento, l’acqua finì di scrosciare.
Emma non voleva che lui la trovasse lì, con quella lettera in mano, non era pronta a vedere i suoi occhi, a leggere la consapevolezza che invadeva il suo animo.
L’aveva odiata.
Lo sapeva, nel profondo del suo animo, lo sapeva. E se lo meritava, si meritava ogni goccia d’odio che aveva attraversato il corpo di Killian Jones.
Non era questo, però, ciò che la scosse di più, quanto quelle altre parole, quella fiducia in lei che emergeva da ogni poro di quel vecchio foglio.
Erano passati due anni, due anni e ciò che a lui sembrava impossibile, di fatto stava accadendo.
Ripiegò la lettera con cura, cercando di ricacciare indietro le lacrime e poi se la infilò in tasca.
Chiuse gli occhi e capì cosa fare.
Una lampadina si accese.
Non poteva cambiare il passato, questo era vero, ma poteva migliorare il presente.
Capì, in quell’istante, quanto lo avesse deluso, quanto la persona che era diventata, fosse lontana dalle sue aspettative, aspettative che si era creato soltanto per dare un senso a quell’inspiegabile abbandono.
Trovarla nel “Rabbit Hole” a ballare attaccata ad un palo, non era esattamente l’idea di vita che Killian sperava per lei, quella che si illudeva che lei avesse pur di superare ciò che aveva fatto.
Aveva gridato una scusa qualsiasi a Killian, non si ricordava neppure quale e poi si era diretta lì, in quel locale che l’aveva vista crescere, diventare una donna chiusa e sola, viva solo nella danza.
Si recò lì e stupì tutti, perché il suo turno sarebbe cominciato tra due ore, era troppo presto, non c’era quasi nessuno.
Per una volta, voleva dare un senso a tutto, voleva ripagare Killian per tutto quello che aveva fatto per lei e non poteva più aspettare.
Strinse la lettera tra le mani.
Avrebbe trovato un modo, un’altra soluzione, lo sapeva. Ma era il momento di farla finita.
«Jefferson, mi licenzio!» disse seria, non appena vide il proprietario del locale.
L’uomo la guardò dalla testa ai piedi. Quante volte aveva assistito a quella scena? Troppe.
Eppure questa volta Emma Swan sembrava diversa, sembrava davvero convinta ad uscire da quel giro.
Un ghigno maligno si aprì sul suo volto. Impossibile. Ormai la conosceva troppo bene.
Ma se voleva giocare…
«Ma guarda un po’ chi si rivede… Il piccolo cigno! Non la dai a bere neanche ad un ubriaco tesoro!» mormorò l’uomo, lisciandosi il mento.
«Forse non mi sono spiegata Sebastian, mi licenzio! E ti posso garantire che, questa volta, non mi vedrai mai più in questo postaccio!»
«Postaccio?! Ti rendi conto che stai sputando nel piatto in cui hai mangiato per… lasciami fare il conto, ti prego, undici? Dodici anni?»
«Sai bene perché lo facevo!»
«Dolcezza, raccontati tutte le balle che vuoi, ma sappiamo entrambi perché lo facevi! Però se è questa la tua decisione… la accetto Emma! Accetto le tue dimissioni! Ma se provi a tornare, se provi anche solo a mettere un piede qui dentro per supplicarmi in ginocchio di tornare a lavorare per me, sai già quale sarà la mia risposta!»
Il tono di voce dell’uomo fu calmo, non ammetteva repliche. Emma, però, aveva imparato a non lasciarsi intimidire da sbruffoni simili né tantomeno da Jefferson.
Si voltò, fiera, e si allontanò.
Tutto quello che Killian aveva passato, non sarebbe stato vano.
Non era diventata esattamente chi desiderava essere a diciott’anni, è vero. Ma per troppo tempo, aveva vissuto illudendosi che quel lavoro, le servisse.
Non era così.
Non le serviva a un bel niente.
Killian non la meritava.
Non meritava la donna che mentiva a suo figlio e soprattutto a sé stessa, non meritava la ballerina di locali notturni.
Lui meritava di meglio.
Adesso voleva diventare ciò che Killian voleva che fosse e aveva intenzione di provare ad essere migliore, per lui, per suo figlio ma soprattutto per sé stessa.
«Mi scusi… ho la testa da tutt’altra parte, si è fatto male?»
Persa nei suoi pensieri, non si rese conto di stare per sbattere verso qualcuno.
Lo riconobbe subito, era facile riconoscerlo.
«Robin?!»
«Oh, ciao Emma… Mi dispiace, mi dispiace devo scappare…» disse, continuando a camminare spedito.
«Aspetta!» lo rincorse, una strana sensazione le attanagliò il cuore.
«Cosa, cosa è successo? Posso aiutarti? Che ci fai qui?»
L’uomo si fermò, la guardò negli occhi e riprese fiato.
Poi parlò e ciò che disse, le gelò il sangue.
«La madre di Regina… Cora…lei… è morta…» 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Salve mondo!! :)
Sono ritornata anche io (ve l’ho detto, torno sempre!) con un nuovo capitolo! Che cosa ne pensate?? Non vedo l’ora di sapere tutti i vostri pareri!
Ho cercato di muovermi perché penso che adesso, con gli esami, non riuscirò a scrivere un bel niente! (Pregate per me!) e non so quando avrei potuto aggiornare.
Quindi, approfittando di questi ultimi giorni, mi sono chiusa in camera e scribacchiando un po’ la tesina, un po’ il capitolo, sono riuscita ad arrivare alla fine!
Spero con tutto il cuore che vi sia piaciuto! È un capitolo piuttosto importante per Emma e per l’intera storia… Prima di tutto, si rende conto che non può investigare e lavorare allo stesso tempo e, poiché non può permettere che lei che Killian vengano licenziati, decide di mettere in pausa, per un po’, la ricerca dei suoi genitori.
Inoltre, compie un passo che mai, mai e poi mai si sarebbe sognata di fare prima che Killian rientrasse nella sua vita.
Per una volta, è lei che vuole essere migliore per lui, è lei che cerca di abbandonare il passato, per vivere meglio il presente.
Nel prossimo capitolo vedremo che impatto ha su Killian tutta questa faccenda. Non voleva che la giovane sapesse come avesse vissuto nel periodo in cui lei era via, perché non era pronto a rivivere tutto. E adesso? Cosa succederà? Come la prenderà?
Anche Regina non se la passa di certo bene, purtroppo. Cora è morta… Che cosa è successo? Chi è che va a trovarla? Robin? Emma? Henry? O è forse Killian? Scoprirete tutto nel prossimo episodio!! ;)
Come sempre vorrei ringraziare le otto meravigliose persone che hanno recensito lo scorso capitolo e ovviamente tutte coloro che lo hanno fatto in precedenza! Lo so che sono ripetitiva, ma voi siete la mia più grande ispirazione! GRAZIE davvero perché trovate sempre il tempo di immergervi nella storia, per condividere con me le vostre sensazioni, i vostri pensieri! E sapere che sono state le mie parole a suscitare tutto questo in voi mi rallegra in un modo che neanche immaginate!  
Inoltre vorrei ringraziare anche Eleonora per avermi concesso di utilizzare la sua frase ad inizio del capitolo! È una scrittrice sensazionale e se vi va, potete passare a dare un’occhiata ai suoi scritti su questa pagina: https://www.facebook.com/iltrenodelle2252/?fref=ts
E niente, adesso la smetto, perché altrimenti questo pezzettino diventa più lungo del capitolo! Grazie ancora a tutti (lettori silenziosi e non) e mi scuso in anticipo se in questo periodo mi perderò qualche storia per la strada! Prometto di recuperare tutto una volta libera!
Un bacio a tutti
OUAT mi manca tantissimo
Vostra
Kerri :*
 
PS: Lo so che non vi interessa ma sapete qual è l’argomento della mia tesina?! “Può un eroe essere corrotto?!” L’ho già detto che sono “leggermente” ossessionata vero? :P

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Capitolo 21
*** My faults, my darkness, my past, my beginning ***


20. My faults, my darkness, my past, my beginning

 
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Time has passed, hope it's been good to you,
Our names were meant to have arrows drawn through
We'd do it all again, do it all again
Do it all again, do it all again…
 
Emma era lì, impalata sulla porta.
Non riusciva a crederci, non poteva essere, doveva star sognando.
Quante volte, negli ultimi mesi, aveva temuto di riceve quella telefonata? Ogni qual volta squillava il telefono ed era lei, la gola le si seccava.
Ormai aveva imparato a non pensarci più e adesso, adesso non poteva davvero credere che quel momento fosse arrivato.
Si mosse, camminò, forse corse, non lo sapeva, ma la raggiunse.
«Mi dispiace…» mormorò, mettendole una mano sulla spalla.
Ogni cosa era svanita o forse aveva semplicemente perso importanza.
Cosa può essere più importante difronte alla morte?
Regina non riusciva a smettere di piangere e si stava odiando, si stava odiando perché si stava dimostrando debole ma lei era Emma, ed era lì e conosceva lati di sé che neanche lei sapeva di avere.
Si alzò da quella sedia che era diventata ormai troppo scomoda. Anzi, forse comoda non lo era mai stata. Lanciò ancora uno sguardo a sua madre e al suo corpo privo di vita eppure così sereno.
Come poteva sorridere così, in faccia alla morte? Forse non era poi così spaventosa come dicevano, forse sua madre l’aveva persino accolta con uno dei suo sguardi, forse l’aveva persino messa a disagio.
Sì, perché Cora Mills riusciva a mettere a disagio anche il più sicuro degli uomini, con quelle labbra rosse e carnose e quegli occhi indagatori.
Regina l’aveva odiata per gran parte della sua vita, credendo che la sua reputazione e la sua fama non le permettessero di avere un vero rapporto con il resto del mondo.
Regina l’aveva odiata anche dopo la scuola, per quella sua sicurezza che alle volte si trasformava in sfacciataggine, quel suo pretendere di sapere in continuazione cosa fosse meglio per lei.
Regina l’aveva odiata dopo la morte di Daniel perché non aveva avuto neanche il tempo di partecipare al suo funerale, di consolare il cuore infranto di sua figlia.
L’aveva odiata eppure le aveva voluto sempre bene e forse se ne era resa conto soltanto quando il dottore le comunicò la sua malattia.
Si asciugò un po’ le lacrime, sperò che fosse ancora più o meno presentabile, vide Robin fuori dalla stanza e un altro singhiozzo le salì alla gola.
«Che ci fai qui?» chiese, cercando di dare al suo tono di voce, la solita sicurezza.
«Ho incontrato Robin e mi ha detto di tua madre e volevo mandarti un messaggio ma lui ha detto che stava venendo quindi ho pensato di… oh al diavolo! Mi sei mancata!» mormorò, buttandosi su di lei e stringendola in un abbraccio che forse non si erano mai date.
Dopo un attimo di esitazione, anche la giovane donna dai capelli corvini ricambiò la stretta e altre gocce salate arrivarono a pungerle gli occhi.
«Non sei più arrabbiata con me?» chiese, cercando di non farle versare.
«Certo che lo sono! Ma hai bisogno di me e io sono qui… perché anche se sei un’idiota, sei mia amica, la mia migliore amica e ti voglio bene…»
«Mi sei mancata anche tu, Swan… Tu e le tue orribili scarpe!»
 

Il funerale si svolse il giorno dopo. Emma aiutò Regina ad organizzare il tutto. La donna non voleva che la morte di sua madre diventasse di dominio pubblico, così tutto si svolse in modo molto discreto.
Magari non era ciò che Cora Mills avrebbe desiderato ma andava bene così, lei non era brava a mostrare agli altri le sue debolezze.
Henry ritornò in tempo per la funzione.
Non fu poi così sorpreso quando vide Killian avanzare verso di lui, alla fermata del pullman. Non parlarono, lui forse gli disse “Mi dispiace”, non lo ricordava. Lo accompagnò alla grande casa di Regina e lì vi trovò sua madre, Robin e Roland.
Non fu sorpreso neanche di questo.
Non aveva mai conosciuto la morte così da vicino e sebbene non conoscesse Cora così bene, vedere Regina soffrire, lo rendeva triste.
Alla fine, quando le ultime persone se ne furono andate, Emma chiese a Killian di accompagnarla a casa di Regina.
L’uomo annuì, cingendole la vita.
Lei non aveva ancora avuto il modo di dirgli della lettera e del Rabbit Hole, di come aveva aperto gli occhi grazie a lui e sì, forse aveva un po’ paura, paura della sua reazione, paura che avesse potuto darle della “Spiona”, di quella che non riusciva a non ficcare il naso negli affari degli altri, paura che non la guardasse più con quello sguardo con cui la stava guardando ora.
Poggiò il viso sulla sua spalla e si diede della stupida.
Si ripromise di parlargli il prima possibile.
Adesso qualcun altro aveva più bisogno di lei.
«Mi dispiace per quello che è successo a Cora ma sono felice che vi siate riavvicinate…» mormorò l’uomo, entrando in macchina.
Henry li salutò da lontano, indicando Roland, Robin e Regina. Emma capì che aveva intenzione di tornare con loro e annuì, poi seguì Killian.
«Anche a me dispiace… Ma sai come sono… ho bisogno di veri e propri shock per riaprire gli occhi e mettere da parte l’orgoglio…»
Sì, Killian lo sapeva.
Eppure credeva che in dodici anni, di shock e imprevisti del genere ne avesse avuti parecchi, a cominciare dalla sua gravidanza ma, a quanto pare, non erano mai stati così importanti da farla tornare sui suoi passi, a farla tornare da lui, non era mai tornata e basta.
Scacciò via questi pensieri e continuò a guidare.
«Ti chiamo dopo…» mormorò la donna, prima di dargli un bacio sulla guancia e scendere dall’auto.
Annuì. La guardò uscire dall’auto e percorrere il vialetto. Si girò e gli sorrise. Era bella anche con gli occhi rossi e i capelli scompigliati.
Mise in moto e partì.
 

Henry dormiva sul divano. Sembrava sereno e per un istante, Regina lo invidiò.
«Dorme?» chiese sua madre, appollaiandosi sull’altra poltrona, accanto a lei. Teneva un vasetto di gelato in una mano e il cellulare nell’altra.
Regina annuì.
«Probabilmente quel gelato è scaduto…» sussurrò.
Sì, decise che il gelato fosse un pensiero molto più importante rispetto al gran caos che le affollava il cervello.
«Fa niente… Correremo il rischio…» mormorò la giovane, porgendole un cucchiaino.
Restarono lì, a mangiare gelato e a pensare a ciò che era appena accaduto, alla vita e alla morte e a quanto potesse essere labile il confine tra le due.
«Ti devo aggiornare su un po’ di cose Regina…» mormorò ad un tratto la donna dai capelli biondi, ingurgitando un altro cucchiaio di gelato.
«Sai cosa mi ha detto?»
«Chi?» chiese Emma, colta alla sprovvista.
«Sì, sai cosa mi ha detto?! – continuò, ignorando lo sguardo verde dell’altra – che sarei stata abbastanza… ti rendi conto?! Dopo una vita passata a torturarmi…»
Qualcosa le risalì in gola. Un malloppo di cose non dette e lacrime mai versate che continuava a torturarla da giorni.
Sentì il braccio di Emma sulla spalla.
Chiedeva compassione? No di certo.
Ciò che voleva erano soltanto delle risposte, risposte che purtroppo non riusciva a trovare.
«Ti voleva bene Reg… E anche tu gliene volevi…»
Regina non replicò, in fondo lo sapeva anche lei.
Forse era solo arrabbiata.
Arrabbiata con Cora per essersi ricordata troppo tardi di essere una madre.
Arrabbiata con quegli idioti dei medici che non avevano neanche avuto l’accortezza di chiamarla.
Arrabbiata con Emma perché lei, a differenza sua, poteva ricominciare, poteva essere felice con l’uomo che amava e chissà, forse avrebbe persino potuto incontrare la sua vera madre, il suo vero padre.
Ma soprattutto era arrabbiata con sé stessa, perché era arrivata tardi, perché non aveva mai avuto il coraggio di mettere da parte l’orgoglio e ammettere di aver torto, ammettere che anche lei amava e voleva essere amata, ammettere che anche lei fosse un essere umano come tutti gli altri.
«Mi dispiace Emma… Avrei dovuto dirtelo… I-io… Pensavo che fosse la cosa migliore per te, pensavo che lui ti avrebbe fatto soffrire…»
«Lo so Regina… Ma non pensarci adesso, ne parleremo domani…»
«No! È importante Emma! Perché ho sbagliato e sono pronta ad ammetterlo, perché lui è venuto da me capisci?! Mi ha detto che ti ama e che è cambiato e che forse avrebbe fatto lo stesso… che razza di idiota! Come se avessi bisogno di una spiegazione… come se io fossi qualcuno, qualcuno che può decidere chi tu sia o chi sia lui! Ho sbagliato…»
Ormai continuava a blaterare ed Emma aveva smesso persino di ascoltarla. Era sconvolta, glielo leggeva in faccia e sì, voleva e pretendeva delle scuse da parte sua ma aveva bisogno anche di una spiegazione, forse di un racconto più dettagliato.
La trascinò in cucina, temendo che Henry potesse svegliarsi.
«Regina!» disse, mettendole entrambe le mani sulle spalle e cercando di sembrare il più convincente possibile.
«Smettila! Smettila! Non è così che si affronta il lutto, non è incolpandoti di tutti i peccati di questo mondo che tua madre ritornerà indietro!»
«Emma che diavolo dici?! Mia madre non c’entra in questa storia! È stata colpa mia!» continuò l’altra, ignorando ciò che la donna davanti a sé aveva appena detto. Erano entrambe testarde e sicuramente quella era una qualità (o un difetto) che condividevano da sempre.
«Davvero?! Regina sei sconvolta! E adesso ti stai appigliando a ciò che è successo tra noi due per non pensare a tua madre e ti capisco, davvero! Hai un sacco di colpe da farti perdonare, ma la morte di tua madre… Regina, quella non è stata colpa tua…»
La donna annuì. Le lacrime ripresero a pizzicarle gli occhi.
«Ti voglio bene…»
«Sei forse ubriaca?» rise Emma, cercando a sua volta di non permettere alle lacrime di scendere. Poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui Regina Mills le aveva aperto davvero il suo cuore e, a quanto pareva, quella sera sarebbe stata una di quelle da aggiungere a quella breve lista.
Inutile dire quanto tutto quello le fosse mancato, persino le sue battute taglienti e i suoi modi di fare un po’ bruschi.
«No, ma fingi che lo sia…»
Risero.
«Mi sono licenziata dal “Rabbit Hole”…» disse Emma dopo qualche minuto di silenzio. Non sapeva quanto tempo fosse passato, lo aveva detto come se non fosse importante e in realtà, in quel momento non lo era, ma aveva bisogno di dirlo a qualcuno, qualcuno che avesse vissuto tutto assieme a lei, qualcuno che avrebbe capito veramente.
Spalancò gli occhi.
Cercò di asciugarsi le piccole gocce salate che le si erano seccate sul viso.
«Davvero?!»
Annuì.
Silenzio.
«Quante volte lo hai fatto negli ultimi anni, Swan?!»
La donna abbassò lo sguardo e poi lo rialzò.
Una nuova luce negli occhi.
«È diverso questa volta… Non ci metterò mai più piede!»
Regina non rispose. Si lasciò del tempo per ispezionarla, per capire se fosse davvero convinta di ciò che la sua voce aveva appena pronunciato, oppure fosse solamente un altro autoinganno. Negli ultimi anni, lei stessa aveva provato diverse volte a farle aprire gli occhi e a convincerla ma non ci era mai riuscita veramente.
«Ok, forse qui sei tu quella ubriaca!» sentenziò.
Emma si concesse di stirare le labbra in un piccolo sorriso. Un po’ si aspettava quella reazione da parte sua. Sapeva che Regina sarebbe stata la più restia a credere nelle sue buone intenzioni e aveva davvero voglia di dimostrarle che questa volta ce l’avrebbe fatta, ce l’avrebbe fatta sul serio.
Si sentiva una sorta di drogata alle prese con la disintossicazione e per certi versi, lo era.
«Fammi indovinare… Anche questa è opera sua?!»
Abbassò lo sguardo.
Arrossì.
«Forse… indirettamente...»
«Che significa?!»
Così Emma cominciò a raccontarle della lettera e di come lui avesse avuto bisogno di sapere che tutto ciò che lei avesse fatto nella sua vita fosse servito a qualcosa. Le raccontò di come si fosse sentita quel giorno a casa sua, di come avesse aperto gli occhi sulla realtà e soprattutto della sua voglia di essere migliore, per lui, per Henry e per sé e una volta terminato, le raccontò di Ingrid, di ciò che lei e Killian avevano scoperto.
L’emozione di Emma quando parlava della sua famiglia era ancora percepibile, seppur il solito scetticismo aveva ricominciato ad avvelenare le sue parole.
Regina ascoltava e per qualche istante, dimenticò il gran casino che era successo, dimenticò il dolore pulsante all’altezza del cuore che la morte di sua madre le aveva provocato e dimenticò anche quell’altro dolore, quella sorda rassegnazione mischiata al senso di colpa dopo aver capito che Robin Hood non sarebbe stata un’altra conquista.
«Mi dispiace…»
«Woh, Regina Mills che dice “Mi dispiace” due volte nella stessa sera… questo sì che è un evento da segnare sul calendario!» mormorò, aprendo il frigorifero e tirando fuori una lattina di birra.
«Che c’è?!» chiese, di fronte all’occhiataccia che la donna le riservò.
«Sul serio Emma…»
La donna annuì.
Accettava le sue scuse.
Era questo ciò che facevano le amiche, no? Non aveva una grande esperienza in merito, questo era vero, però sapeva che Regina sarebbe sempre stata sua amica, la sua migliore amica e non poteva perderla per colpa del suo stupido orgoglio. Anzi, del loro stupido orgoglio.
«Dispiace anche a me… Avevi ragione… Avrei fatto anche io la stessa cosa per te…»
Regina sorrise un po’, abbassando lo sguardo.
Il silenzio cadde di nuovo su di loro e per alcuni istanti, la casa sembrò ritornare tranquilla, Emma riusciva persino a percepire il respiro di Henry nel salotto.
Poi una di loro lo ruppe.
«Visto che stasera siamo in vena di confessioni, anche io ho qualcosa da dirti…»
Abbassò lo sguardo.
Sembrava imbarazzata.
Emma non aveva mai visto Regina Mills imbarazzata.
Con uno sguardo la incoraggiò a parlare.
«Sono stata con Robin…»
La donna per poco non si strozzò con la birra che stava bevendo.
«Cosa?! E quando?!»
«Qualche sera fa… Inutile dirti che mi sento una merda…»
Emma alzò gli occhi al cielo.
«Ci risiamo! Sai, tu e Killian andreste davvero d’accordo! Tutti e due occupati a portare il peso del mondo sulle spalle…»
«Sta parlando "Miss-è-tutta-colpa-mia-Killian-perdonami”…»
La donna le fece una linguaccia.  
«Ok, ok, forse anche io tendo ad essere leggermente critica con me stessa…»
Regina alzò un sopracciglio alla parola “leggermente”.
Sì, certo, come no!
«…Ma penso che ciò che è successo sia stata colpa tua quanto sua… Certe cose si fanno in due, Regina!» mormorò Emma, beccandosi un’altra occhiataccia.
«Pensi che non lo sappia?! È solo che…»
Lasciò la frase in sospeso ed Emma la colse al volo.
«Hai paura…» continuò l’altra per lei.
Non rispose.
Aveva paura?
Non aveva avuto neanche il tempo di soffermarsi a pensarci veramente.
Gli eventi degli ultimi giorni l’avevano travolta come un fiume in piena.
Aveva paura?
No, andiamo, di cosa avrebbe dovuto aver paura?
Del fatto che lui la facesse ridere? Del sobbalzo che il suo cuore faceva ogni qual volta lui era nei dintorni? Delle sorprese, del suo sorriso, del loro rapporto?
Cazzo, sì.
Aveva paura.
Paura che tutto quello fosse stato solo un grande sbaglio, paura della piega che quell’insolita relazione avrebbe potuto prendere, paura del modo in cui sarebbe potuta terminare. Ci era dentro fino al collo e se ne rendeva conto solo adesso, nel buio della sua cucina, con gli occhi della sua amica puntati addosso.
Quando aveva permesso al suo cuore di ricominciare a battere?
«Ti capisco… Anche io ne avevo e mentirei se ti dicessi che non ne ho ancora… suppongo sia nella nostra natura di donne costantemente sole e deluse dalla vita…»
«Che bella concezione hai di noi Swan!» mormorò sarcastica, agguantando la lattina di birra perché bere era sicuramente meglio che pensare ancora.
«Ma è la verità… Siamo state sole per troppo tempo e adesso che qualcuno è riuscito a smuovere qualcosa dentro di noi, abbiamo paura che tutte quelle certezze a cui siamo state legate per tutta la vita, verranno distrutte e…»
«Non hai capito il punto, Swan! – la interruppe Regina - sua moglie è in coma, è malata, lui è… è sposato!»
«E con questo?! Killian mi ha odiato per buona parte della sua vita e io credevo che non l’avrei mai più rivisto e che non mi avrebbe mai perdonato… Ci sono degli ostacoli e ce ne saranno sempre e tu lo sai meglio di me, ma se lui è entrato nella tua vita, sicuramente un motivo ci sarà… devi solo scoprire quale…»
Regina ascoltava e sì, era toccata dalle parole di Emma ma era più facile ritirarsi dietro il suo grigio cinismo che ammettere quanto la sua amica avesse ragione.
Era la sua natura e non avrebbe potuto cambiarla neanche in quella notte.
«Da quando sei diventata tipa da frasi dei biscotti della fortuna?!» chiese, ingoiando un altro sorso di birra.
Costatò con disappunto che la lattina fosse quasi vuota.
«Suppongo sia merito di Killian…»
Regina roteò gli occhi. Non aveva mai visto Emma così felice come quel periodo e nonostante i fantasmi del passato ancora la perseguitassero, stava davvero cercando di fare del suo meglio per scacciarli.
E, doveva ammettere, che Jones la stava aiutando molto.
«Penso che mi andrò a stendere sul divano assieme ad Henry… Ho un po’ di sonno!» mormorò soffocando uno sbadiglio.
«Non dire sciocchezze! Vi ho preparato la camera degli ospiti, è già pronta…»
Emma le sorrise, poi si incamminò verso il salotto, prese Henry in braccio e si diresse verso la camera che da tempo, considerava quasi sua.
Pensò che non sarebbe riuscita ancora per molto a trasportare Henry in quel modo perché il tempo passa e il suo bambino stava crescendo.
Il cuore le si strinse.
Sentì Regina seguire i suoi passi.
Le aprì la porta ed Emma adagiò piano Henry sul letto a due piazze della grande camera degli ospiti.
«Buonanotte Swan!»
«’Notte Regina…»
Chiuse la porta.
Adesso il cuore di Regina era ancora vuoto.
Ma i pezzi stavano pian piano ritornando al loro posto.
 

Il giorno dopo, l’umore di Emma non era dei migliori.
Parlare non era esattamente il suo forte, però era giunta l’ora, avrebbe dovuto farlo.
Si sarebbe arrabbiato?
Sperò di no, ma non lo sapeva con certezza.
Svegliò Henry e scesero di sotto, trovando la padrona di casa già in piedi e vestita di tutto punto, pronta ad andare a lavoro.
«Vai già a scuola?» chiese Emma, piuttosto sorpresa. Pensava che Regina si sarebbe presa qualche giorno per stare a casa, per affrontare il lutto e pensare. Anche se, riflettendoci bene, neanche lei, al suo posto, avrebbe voluto chiudersi in casa ad autocommiserarsi.
«Sì, lo spettacolo sarà tra qualche settimana e devo assistere alle prove…»
Sapeva fosse una bugia ma non commentò.
Annuì. Si versò un po’ di caffè e vide Henry mangiucchiare un po’ della famosa torta di mele di Regina, ancora leggermente assonnato.
«Henry se ti sbrighi, ti accompagno io a scuola, così non prendi il pullman…» mormorò la donna, versandosi a sua volta un altro po’ di caffè.
Gli occhi del bambino si illuminarono. Primo perché odiava prendere il bus perché, a suo dire, non riusciva mai a trovare un posto decente e per di più arrivava sempre troppo presto a scuola; secondo perché, quasi sicuramente, la donna lo avrebbe accompagnato con la sua fiammeggiante macchina rossa e lui la adorava.
In dieci secondi (Emma li contò), Henry finì il suo latte e corse di sopra a darsi una sistemata.
I libri erano al loro posto nell’armadietto e non avrebbe dovuto neanche passare da casa per prendere i quaderni perché, appena tornato dalla gita, non aveva avuto molti compiti.
«Che farai oggi?» chiese Regina, sorseggiando il suo caffè.
Quel giorno indossava un bellissimo tubino nero, che le fasciava il corpo mettendo in risalto le sue curve perfette. Emma avrebbe tanto voluto sentirsi a proprio agio in un abito del genere, corto e stretto, ma proprio non ci riusciva.
Non perché il suo corpo non le piacesse, anzi. Semplicemente non amava lasciare troppa pelle scoperta.
Quando ballava al “Rabbit Hole” invece…
No, Emma, dannazione! Non devi pensarci!
Scosse la testa per scacciare via quei pensieri.
«Niente di che… io e Killian dobbiamo finire i progetti di casa Gold! Il matrimonio si avvicina…»
Regina annuì.
«Glielo dirai oggi?» chiese ed Emma sapeva benissimo a cosa la donna si stava riferendo.
Annuì.
«Non ti preoccupare, non si arrabbierà… è totalmente cotto che potresti anche dirgli di andarsi a buttare dall’Empire e lui lo farebbe senza batter ciglio!»
«REGINA!» la apostrofò la donna, dandole una leggera pacca sulla spalla.
«Che c’è?! Non dirmi che non è la verità!»
Emma rimase in silenzio.
Sì, lui la amava, lo sapeva, sentiva ancora la sua calda voce sulla pelle mentre glielo diceva, come se fosse la cosa più ovvia e giusta del mondo.
Lo amava anche lei, così tanto da star male.
Eppure…
Eppure Regina non aveva visto la sua espressione, quel primo giorno a Storybrooke. Non aveva visto i suoi occhi incupirsi ed abbassarsi, al solo accenno di ciò che lei gli aveva fatto passare. Non aveva visto come si era ridotto, quella sera stessa, per cercare di dimenticare ciò che quel posto gli ricordava.
Non ne avevano più parlato perché Emma aveva deciso di dargli tutto il tempo che voleva, ma sapeva che c’era dell’altro, che quella calma apparente fosse soltanto una copertura e che anche Killian Jones soffriva.
«Mamma?! Ci sei?!»
La voce di Henry la riscosse da quei pensieri.
Il suo bambino (doveva smetterla di chiamarlo così, aveva quasi undici anni ormai!) era lì davanti a lei, pronto e sorridente.
«Ci vediamo dopo!» mormorò scoccandole un bacio sulla guancia.
Emma ricambiò.
«A casa! Oppure passa dal negozio!»
Il ragazzino annuì e la salutò ancora una volta con la mano, prima di varcare la grande porta bianca.
«A dopo Swan! Fammi sapere…»
Regina lo seguì, stringendo in una mano un bicchiere di caffè e nell’altra le chiavi della macchina.
Emma annuì.
Lanciò una breve occhiata all’orologio appeso in cucina e decise di muoversi.
Prese tutta la sua roba e quella di Henry e poi chiamò un taxi. Andò a casa, si fece una doccia e si vestì.
Mandò un messaggio a Killian ma non ottenne nessuna risposta. Molto probabilmente dormiva ancora oppure, conoscendolo, era già a lavoro.
Decise di raggiungerlo.
Si infilò le scarpe, prese la borsa e uscì.
Guidare la rilassava e si era ormai abituata ai ritmi di New York. Il traffico la infastidiva ancora un po’ però, soprattutto se era di fretta.
Raggiunse casa di Killian in molto più tempo di quanto si fosse prefissata. Si fermò al piccolo chiosco sotto casa sua, per comprare due caffè e poi suonò il campanello.
«Swan! Mattiniera oggi?» mormorò Killian, aprendole la porta.
Emma pensò che fosse bello e poi pensò che avrebbe dovuto darsi una calmata, perché, andiamo, non era mica un’adolescente alla sua prima cotta.
Si chiuse la porta alle spalle e gli porse il caffè che lui afferrò senza troppe cerimonie.
«Ti ho svegliato?!» chiese, assaggiando un po’ di liquido bollente e andandosi a sedere in cucina facendosi spazio tra la miriade di fogli e foglietti sparsi sul bancone.
«Tu puoi svegliarmi quando vuoi, tesoro!» mormorò Killian, facendole l’occhiolino.
Che idiota!
Alzò gli occhi al cielo, reprimendo un sorriso.
Perché era lì?
Ah, sì, giusto, la lettera.
Si toccò la tasca posteriore dei jeans, quasi a volersi assicurare che quel foglietto ripiegato fosse ancora lì.
«Devo dirti una cosa…» mormorò, fissando le mani intrecciate attorno al bicchiere di carta.
«Sì, beh anche io! Ieri dopo averti accompagnato da Regina non avevo un granché da fare, così mi sono messo a lavorare e ho abbozzato un piccolo progetto per tutte le altre camere che ci restano…»
«Tutte?!» chiese, stupita.
L’uomo annuì, poi continuò a parlare.
«Niente di speciale, Swan! Non guardarmi come un alieno! Ho semplicemente fatto il mio lavoro…» mormorò abbozzando un sorriso imbarazzato.
Emma sorrise. Da quando era diventato così modesto?!
«Mi piacerebbe vederli… Ho ricevuto un messaggio qualche giorno fa, non ricordo se te l’ho detto, ma una signora ha intenzione di portarmi tredici scatoloni in negozio…»
«Tredici?! Probabilmente ne butteremo la metà!» rise Killian, finendo di bere il suo caffè e dirigendosi verso il divano dove, quasi sicuramente, aveva abbandonato il suo laptop.
Emma sorrise ancora, perché Killian si era auto-incluso nella maggior parte della sua vita e anche in quell’operazione semi-noiosa che la aspettava una volta ricevuti i tredici scatoloni.
La lettera restò lì, nella tasca destra dei suoi jeans, dimenticata.
 

Regina doveva ammettere che quell’anno, lo spettacolo di Natale sarebbe stato un vero e proprio disastro. Non perché i suoi allievi non fossero all’altezza delle sue aspettative, anzi.
Probabilmente era il tema che gli insegnanti avevano scelto, che non la convinceva del tutto.
“Lo schiaccianoci” era fin troppo banale, per i suoi gusti.
Probabilmente le ricordava quando, qualche anno prima, lei stessa cercava di farsi largo in quel mare di piragna, per ottenere il ruolo della protagonista.
Sì, forse…
In realtà, non sapeva bene neanche lei cosa ci fosse di così poco convincente in tutta quella storia, se fossero le coreografie, gli insegnanti o i ballerini.
Sospirò, congedandosi e ritornando nel suo ufficio, seguita a ruota dalla sua segretaria.
Aprì la porta, massaggiandosi le tempie.
«Ehi…»
Per poco non urlò dallo spavento. Fortunatamente lei era Regina Mills e sapeva autocontrollarsi.
«Robin! Che ci fai qui?» chiese, cercando di reprimere anche l’altro miscuglio di sentimenti che si liberava quando l’uomo era nei paraggi.
«Ormai conosco la strada…» mormorò lui, alzando le spalle.
Era seduto su una piccola poltroncina di fronte alla scrivania di Regina, la stessa di qualche settimana prima, ricordò la donna. Scosse la testa, come se il posto dove fosse seduto, significasse qualcosa.
Regina andò a sedersi al suo posto, dietro di lei tanti piccoli grattacieli le facevano da sfondo.
«È successo qualcosa? Roland come sta?»
«Sta bene e non deve essere successo per forza qualcosa se vengo a trovarti…» mormorò lui, con ovvietà.
La donna non rispose.
Mosse il mouse (così come le aveva insegnato Henry) e aspettò che il grande schermo del computer si illuminasse.
«Tu come stai?»
Eccola.
Stava cominciando a chiedersi quando quella stupida domanda sarebbe arrivata.
Come stava…
Come voleva che stesse?!
«Sto bene Robin, non devi preoccuparti…»
L’uomo alzò gli occhi al cielo.
«Sei una pessima bugiarda!»
«Robin, ho molto lavoro da sbrigare…»
Di nuovo il muro, di nuovo le barriere.
«Perché non ti sfoghi Regina? Per una buona volta perché non mi dici cosa diavolo ti passa per la testa?!» sbottò l’uomo.
Forse stava oltrepassando il limite ma non poteva più continuare così.
La morte di Cora Mills gli aveva ricordato quanto poco tempo avessero a disposizione e no, non era pessimismo, era pura realtà.
Non aveva più intenzione di sprecare un singolo istante della sua esistenza e voleva che anche Regina facesse lo stesso.
«Chi ti credi di essere Robin? Ci conosciamo da neanche due mesi e vieni qui, ti metti comodo e pretendi sapere ogni cosa che mi passa per la testa?! Tu non mi conosci! Credi di farlo, ma non è così! Vuoi sapere come sto?! Beh, mi sento una merda! Perché ho perso mia madre, lo spettacolo sarà un buco nell’acqua e per giunta, mi sono innamorata di uno stupido uomo sposato!» urlò.
Cosa?
Entrambi spalancarono gli occhi.
Cosa?
«Regina…»
«Esci di qui Robin, ti prego…» mormorò la donna, cercando di mantenere, ancora per un po’, la sua grigia maschera di indifferenza.
Si sarebbe presa a pugni dopo, da sola.
L’uomo si alzò, lentamente, ancora intontito.
Aveva capito bene?
Aveva davvero detto quello che aveva sentito?
Certo che aveva capito bene, non era mica stupido.
Si diresse verso la porta e prima di aprirla, si voltò.
«Non puoi pretendere che io adesso dimentichi tutto…» disse, guardandola negli occhi e sperando che lo fermasse, che gli chiedesse di restare.
Non accadde.
Aprì la porta e uscì e poté giurare che, dall’altra parte, l’avesse sentita sussurrare qualcosa, qualcosa che assomigliava tanto ad un “mi dispiace”.
 
 
«Come siamo finiti qui?» chiese la donna, stropicciandosi gli occhi.
«Be’, tu hai detto che mi avresti cucinato la pasta e poi…»
Emma alzò gli occhi al cielo. Non capiva se fosse una malattia o meno ma, da quando aveva ricominciato a frequentare Killian Jones, la bambina impulsiva che era in lei, aveva cominciato a riemergere.
«Sì, però lasciami un po’ di coperte… Si gela!» si lamentò.
«Sai cosa?! Vado a farmi una doccia e poi ordino il pranzo… il sugo verde me lo farai un’altra volta!»
Emma rise, ancora stupita che non avesse mai assaggiato il pesto nel corso della sua lunga vita.
Killian si alzò e, senza alcuna inibizione, si diresse in bagno.
«Swan, se vuoi ti do qualche foto autografata…»
Di tutta risposta, si beccò un cuscino in faccia.
Rise e dopo aver preso un paio di boxer dal tiretto sotto l’armadio, si incamminò in bagno.
Mentre l’acqua gli scivolava addosso, pensò che la sua vita, adesso, gli piaceva.
Sì, pensò proprio questo.
Mi piace questa vita.
Mi piace svegliarmi la mattina e aspettare che Emma arrivi e mi porti il caffè.
Mi piace anche raggiungerla da qualche parte e lavorare assieme a lei.
Mi piace prenderla in giro, mi piace baciarla e mi piace passare del tempo con lei.
Pensò che non aveva mai formulato un pensiero del genere, dacché ne avesse memoria.
Tutta la sua vita era stata un susseguirsi di abbandoni, di difficoltà e per una volta, per una volta quell’ansia, quella rassegnazione e quella mancanza perenne che sentiva all’altezza del cuore, erano svaniti. Tutto era svanito.
Si rivestì velocemente e afferrò il telefono, chiamando il primo ristorante che trovò sulla rubrica.
«Ho ordinato il sushi… lo mangi vero?!» chiese, rientrando in camera.
Quando alzò lo sguardo, si sorprese un po’.
Emma aveva rifatto il letto, si era rivestita ed era seduta in un angolino, quasi temesse di sgualcire le coperte.
Aveva lo sguardo basso e Killian notò che fissava un piccolo foglietto che continuava a rigirarsi tra le mani.
Si andò a sedere accanto a lei e il materasso sprofondò sotto il suo peso.
Gli sembrò che il buonumore di prima fosse stato spazzato via e non sapeva ancora bene perché.
«È successo qualcosa? Cos’è quello?» chiese e si vergognò ad ammettere che un po’ aveva paura della risposta.
La donna puntò i suoi grandi occhi verdi su di lui e, senza dire nulla, gli porse il bigliettino.
Lo afferrò e cominciò a spiegare il foglio.
Riconobbe la sua scrittura, riconobbe la data e non ci mise molto a riconoscere ciò che c’era scritto.
Le parole gli ritornarono in mente quasi fossero state il testo di un’antica canzone che non cantava da tempo.
Probabilmente sbarrò gli occhi, non se ne accorse.
Strinse la presa su quel vecchio pezzo di carta.
Si passò una mano sugli occhi, di colpo incredibilmente stanchi.
Gli sembrò di ritornare nel suo vecchio appartamento, quello che condivideva con Liam dall’arresto di suo padre, quello che aveva conosciuto Emma e anche Milah, gli sembrò di tornare nella sua camera, gli sembrò di essere seduto sulla sua scrivania e gli sembrò di stringere in mano quella penna nera e di incidere quel foglio per la prima volta.
Gli sembrò perfino di riprovare gli stessi sentimenti, odio, amore, nostalgia, rassegnazione, ribellione e forse ancora odio.
«Dove l’hai trovata?» chiese e nessuno dei due riuscì a capire dopo quanto tempo.
«In un libro, in salone…»
Passarono altri secondi, interminabili.
Gli occhi di Killian continuavano a scorrere quelle parole.
«Inutile chiederti se l’hai letta, vero?»
Il suo tono sembrava sarcastico, forse un po’ troppo. Emma rialzò lo sguardo e lo puntò di nuovo su di lui.
Voleva spiegargli, voleva dirgli ciò che quella lettera le aveva fatto fare, voleva dirgli che lo capiva e che andava bene così, sapeva che si meritava tutto l’odio che lui le aveva indirizzato e voleva dirgli che, per lei, non sarebbe cambiato proprio niente e che avrebbe continuato ad aspettarlo, sempre.
«Killian, io…»
«No, Emma… Ho bisogno di… Ho bisogno di stare da solo… A-adesso, ho bisogno di stare da solo…»
La donna annuì.
Era giusto.
Lo capiva.
Ma doveva dirglielo.
«Ascolta, so che ci sono cose del tuo passato che non vuoi dirmi e va bene così, davvero… Sono la prima ad avere problemi con me stessa e le parole e, insomma, lo sai… Ma ciò che c’è scritto in quella lettera non cambierà niente tra di noi, almeno non per me… So quello che ti ho fatto Killian e so che per buona parte della mia vita mi hai odiato e non riuscirò mai a perdonare me stessa per questo… Non devi fartene una colpa se quell’odio che provavi ti ha spinto ad andare avanti, a diventare la bellissima persona che sei adesso… Non mi importa cosa tu abbia fatto o con chi sia stato, mi importi tu e…»
Faticava a trovare le parole adatte ed entrambi se ne accorsero.
«Emma io… n-non l’hai capito? Questa lettera è molto altro…» mormorò prendendo il foglietto tra l’indice e il medio.
«Ti ho odiato, ho cercato di odiarti con tutto me stesso, perché non riuscivo a capire, non riuscivo a spiegarmi perché…» disse e, probabilmente, lo ammise ad alta voce per la prima volta.
Le parole svolazzarono in aria per un po’ e lui le lasciò lì, in attesa che svanissero. Poi, dopo qualche secondo, continuò.
«Ma ti ho anche amato, sempre… e questa lettera, come tutte le altre, ne è la conferma…»
Entrambi avevano gli occhi lucidi.
«Lo so…» sussurrò, lasciandogli una carezza.
Lui chiuse gli occhi e si lasciò andare a quel tocco gentile che durò troppo poco.
Quando riaprì le palpebre, di Emma non c’era più traccia.
Sentì la porta di ingresso sbattere.
 
 
Il passato.
Cos’era in fondo?
Poteva davvero determinare una persona?
In quel momento, non lo sapeva neanche lui.
Era da un po’ che non si ritrovava a pensare a ciò che era successo, che gli era successo.
Per qualche tempo, aveva persino pensato che sarebbe riuscito a dimenticare, a superare tutto.
Aveva scelto il tipo di uomo che voleva diventare e lottava ogni giorno per continuare ad esserlo. Era inutile ripensare ai momenti di debolezza, perché aveva scelto di andare avanti, continuare la vita come se niente fosse.
Tuttavia quella lettera aveva lacerato quel sottile cielo di carta sopra di lui.
Come un automa, aprì le ante dell’armadio, frugò sotto dei vecchi vestiti e vecchie cianfrusaglie e prese una scatola.
Signori e signore tenetevi forte, il viaggio nel passato sta per cominciare
Un’insegna rossa continuava a lampeggiare nella sua testa e lui chiuse gli occhia per qualche istante, in modo da scacciarla via.
Aveva mentito, i suoi ricordi, le sue parole non erano sparse per l’appartamento, erano tutte lì, in quella scatola che strabordava di lettere, fotografie, libri e profumi e non riusciva a spiegarsi come quella lettera fosse finita in quel libro.
Suppose fosse tutto un altro scherzo del destino.
La aprì e raccolse tutti i fogli sparsi, ignorò le foto.
Ne aprì qualcuno e fu catapultato anni addietro, dodici, undici, non lo sapeva neanche lui, fu come se niente fosse cambiato e lui era ancora un adolescente ribelle alla disperata ricerca del suo posto nel mondo.
 
Credo di aver trovato l’unica persona in grado di guarirmi.
 
Oggi ho provato a cucinare. Non so perché, non so cosa mi abbia davvero spinto a mettermi davanti ai fornelli. Forse mia madre, da lassù, mi ha ricordato che non posso vivere di tonno in scatola per sempre.
 
Ho litigato con Liam. Sembra che voglia partire anche lui. Sai, forse sono io a non essere alla vostra altezza…
L’università è ciò che mi permette di restare a galla.
 
Erano ordinate, dalle più recenti alle più lontane.
Le mani cominciarono a tremargli quando arrivò ai mesi in cui lei se n’era andata.
Voleva rileggere quelle parole?
No.
Eppure non si fermò, spiegò quei fogli e li distese ordinatamente sul letto.
Era pronto a rivivere tutto quello? Era pronto a rispolverare i suoi scheletri?
No.
Ma lesse tutto comunque.
Storybrooke, 22 Ottobre 2003
 
Domani è il tuo compleanno.
Ti amo.
Non lo saprai mai ma ti amo.
  
C’era scritto solo quello sul quel pezzo di carta.
C’era scritto solo quello ma, su quel foglio, Killian riuscì a leggere molte altre cose, cose a cui non pensava da molto molto tempo.
Lesse di una notte più buia del solito, di un bagno sconosciuto e di labbra rosse. Lesse di un ragazzo senza più niente da perdere e pronto a tutto pur di dimenticare.
Lesse della sua eccitazione e della voglia di provare.
Lesse di un ago, infilato proprio nel suo braccio.
E poi lesse di stelle cadenti, fiamme e capelli biondi e luci bianche e letti d’ospedale.
Scorse la paura in un paio di occhi azzurri, così simili ai suoi eppure così lontani.
Lesse tutto quello su quel foglio o forse lo ricordò solamente.
Un ragazzo abbandonato dal mondo che aveva provato a vivere e non ce l’aveva fatta.
Nessuna Emma, nessuna Milah.
Solo lui, lui e le sue colpe, lui e i suoi scheletri.
Era questo che tanto lo spaventava?
Sì.
Sì, dannazione!
Aveva paura di ricascarci?
No, in realtà, no.
Aveva paura di ammetterlo, di ricordarlo, di raccontarlo.
All’epoca non sapeva perché lo avesse fatto. Non voleva mettere fine alla sua vita, non era davvero quella la sua intenzione. Avrebbe trovato qualcosa di più immediato, in quel caso, non era certo stupido.
Eppure quel giorno, quando si risvegliò in un letto d’ospedale, con la gola secca e qualcos’altro ficcato nel braccio, suo fratello lo accusò di quello.
Ma non era quella la sua intenzione, non lo era mai stata.
E allora perché lo hai fatto Killian? Continuava a ripetergli Liam e lui non lo sapeva, scuoteva la testa che gli pulsava e voleva solo farlo smettere di urlare, così alla fine, aveva ammesso ciò che lui voleva fargli ammettere.
Dopo non avevano più parlato di quell’episodio, non davvero, mai veramente.
Eppure, all’epoca, si rese conto che suo fratello divenne una presenza più insistente nella sua vita. Lo controllava da lontano, si preoccupava per lui e lui, da adolescente ribelle quale era, gli diede un bel po’ di filo da torcere. Per un po’ Liam aveva voluto persino rifilargli uno strizzacervelli ma lui non ci era mai andato.
Finì tutto la vigilia di Natale, in quel bagno grigio.
Quella sera si liberò dell’odio e del rancore, si liberò dell’alcool che aveva in circolo e si liberò di quei mesi di sregolatezze.
Liam se ne accorse non appena lo guardò in faccia, ma non disse nulla, preferì aspettare.
La paura di finire di nuovo in ospedale, la paura di perdere anche lui fu forte in quei mesi, ma non disse niente.
Gli lasciò i suoi spazi e i suoi tempi e piano piano, Killian ritornò ad essere sé stesso o, forse, la brutta copia di ciò che era stato.
Anche lui aveva odiato Emma e Killian lo sapeva.
L’aveva odiata perché era più facile incolpare lei che sé stesso, rinfacciarle il suo abbandono in modo tale da dimenticare la sua assenza e anche Killian cercò di farlo per la maggior parte della sua vita.
Entrambi preferivano non fare i conti con la realtà.
Una parte di Liam sapeva che se fosse stato più presente nella vita di suo fratello, se quel maledetto desiderio di abbandonare quella casa degli orrori non si fosse presentato, probabilmente quell’inferno non si sarebbe mai scatenato e Killian avrebbe sofferto per la perdita di Emma, sì, ma sarebbe andato avanti, come tutti si aspettavano che facesse, come lui si aspettava che facesse.
Non aveva fatto i conti però con il passato, un passato dal quale entrambi non poteva scappare, un passato che aveva segnato lui quanto Killian, spezzandolo.
Forse fu per questo che lo fece.
Ma lui preferiva non pensarci.
La colpa era di Emma, solo sua, e piano piano anche Killian cominciò a crederci.
La lettera che aveva trovato, ne era un esempio lampante.
Se lei non se ne fosse andata così, di punto in bianco, forse sarei stato intero, normale, si diceva.
Era la verità, la pura e semplice verità.
Tuttavia non poteva cancellare tutto quello che aveva condiviso con Emma, non poteva premere nessun bottone o prendere nessuna pozione. Si sforzava di odiarla ma in cuor suo, sapeva che non sarebbe mai riuscita a dimenticarla.
Nei mesi successivi, quando le parole dei libri cominciavano a sbiadire e il caffè non riusciva più a fargli tenere gli occhi aperti, si ripeteva quelle parole e si abbandonava ad un sonno profondo, senza sogni, pesante e ristoratore.
Il tentato suicidio, non fu mai più nominato.
Non lo sapeva neanche Milah.
L’aveva relegato in un luogo oscuro della sua mente, catalogandolo come un brutto sogno, qualcosa che non era davvero successa, qualcosa che non era mai successa.
Ma ormai aveva imparato che sì, il passato non sempre ci determina, ma che da lui non puoi sfuggire.
La voce di Emma ritornò a rimbombargli nelle orecchie.
Non le importa.
Non le importa.
Aveva tentato il suicidio?
No, non lo sapeva.
Adesso?
Una vocina, dentro la testa, continuava a ripetergli qualcosa, qualcosa di fastidioso e forse vero.
Non voleva morire quel giorno.
Ma se fosse successo, non ne sarebbe stato triste.
No, non perché lei non c’era più.
O meglio, sì, lei aveva una parte importante nella sua vita, ma non era tutto.
Le botte, i vetri rotti, i cocci di bottiglia, gli schiaffi, suo padre erano ancora un ricordo troppo vivido da poter essere definito tale.
Liam era al college, sua madre sotto terra, i suoi amici non erano davvero le persone su cui poter contare. All’epoca, gli avrebbe fatto comodo conoscere una persona come David perché lui, lui sicuramente lo avrebbe riportato a galla.
Era perso, perso e solo e sì, quella siringa forse gli avrebbe fatto vedere le stelle, forse lo avrebbe aiutato a guarire, a dimenticare, almeno per un po’, tutto quello che era successo.
Non lo sapeva nessuno, né Milah, né David, né nessun altro.
Emma.
Emma sarebbe stata la prima.
Lo era sempre e lo sarebbe rimasta.

 
«Sei diventato un incubo ormai…» mormorò la donna, quando, dopo essere rientrata a casa e aver trovato le luci accese, si era ritrovata i suoi occhi ad un palmo dal naso.
Si scostò velocemente, quasi potesse scottarsi da un momento all’altro. Posò il grande ombrello che aveva afferrato per proteggersi vicino all'ingresso e poi si diresse verso il salotto. 
«Faccio finta di non aver sentito…» decise lui, seguendo i movimenti della donna, attento.
«Sai mi aspettavo più fantasia da parte tua… Le chiavi sotto il vaso sono così fuori moda!»
Regina alzò gli occhi al cielo.
«Sono talmente fuori moda che nessuno ha mai pensato di vedere lì sotto da quando vivo qui!» constatò, incamminandosi verso il divano.
L’uomo la seguì, rapito dai suoi movimenti leggeri e aggraziati. A volte gli sembrava un felino, elegante e letale.
Era vero. Neanche lui era riuscito a trovarle al primo colpo.
Fortunatamente poi, aveva chiamato Emma e l’aveva pregata di venire in suo soccorso.
Adesso che ci pensava, sembrava abbastanza sconvolta. Forse avrebbe dovuto chiederle cosa fosse successo, invece di assillarla con i suoi problemi.
Forse avrebbe dovuto rifiutare quando la stessa donna, si era offerta di portare Roland a casa sua, per lasciare a lui e Regina il tempo e lo spazio per parlare.
Gli dispiacque. Quella donna gli ispirava fiducia e voleva esserle amico, considerando che lei e Killian sembravano davvero fare sul serio e considerando anche che anche lui voleva fare sul serio con Regina.
Aspetta, cosa?
Scacciò via quei pensieri dalla testa. Per quanto fossero importanti, aveva questioni ben più urgenti da sbrigare.
«È successo qualcosa?!»
La voce di Regina lo riportò alla realtà. Ci risiamo!
«Questo devi dirmelo tu Regina…» mormorò l’uomo, sedendosi accanto a lei.
«Chiederti di dimenticare ciò che hai sentito stamattina sarebbe troppo, vero?» chiese lei, con lo sguardo basso.
Sì, era vero si era innamorata di lui.
Ma questo non rendeva di certo le cose più facili, anzi!
«Sì, direi di sì! Anche perché anche io mi sono innamorato di te…»
La sua voce fu calma e naturale, come sempre, come se le stesse elencando la lista della spesa o le stesse chiedendo con cosa volesse la pasta. Per lui era tutto così facile! Avrebbe voluto vedere il mondo con i suoi occhi, anche se per qualche istante.
«Non possiamo Robin…» mormorò, abbassando di nuovo lo sguardo e scansandosi al suo tocco gentile. Lui non si arrese. Le prese la mano e ne carezzò il dorso.
«Perché?»
«Lo sai perché…»
«Non è vero, non lo so, dimmelo tu…»
Regina alzò gli occhi al cielo.
«Guardaci… tu hai un figlio e una moglie e io…»
Robin notò che la donna continuava a rigirarsi un piccolo anello tra le dita. Non l’aveva mai notato perché non era appariscente come gli altri. Era d’argento, sottile e semplice.
«Cosa è successo Regina?» chiese e la sua voce fu talmente gentile e calma che lei non poté che arrendersi ad essa e cominciare a parlare, a raccontare. Non poté negarglielo perché lui la guardava con quegli occhi azzurri carichi di aspettative e fiducia in lei, in loro, e lei si sentiva un mostro a dover distruggere ogni filo d’erba che piano piano, era ricominciato a spuntare sui loro cuori appassiti.
Gli raccontò di Daniel, dell’unico uomo che avesse mai amato veramente. Gli raccontò degli spettacoli, della loro chimica sul palcoscenico e fuori, di quanto fossero acclamati ed invidiati da tutti i loro compagni e di quanto poco importasse loro. Gli raccontò dei loro progetti, vivere e lavorare insieme, lontani da quella scuola congelata in vecchie regole e lontani dai loro genitori che desideravano di meglio, per entrambi.
Ma cosa ne sapevano loro? Cosa ne sapevano dei baci rubati dietro le quinte, delle estenuanti ore di lezione in cui tutto sembrava più facile se erano insieme, dell’ansia, dell’adrenalina di una presa uscita bene, del sudore e dei lividi? Cosa ne sapevano?
Era tutto perfetto, troppo, perfetto da starci quasi male.
Poi tutto si ruppe, in milioni e milioni di pezzi, schegge mortali che uccisero Daniel e uccisero anche lei.
Lui però, non riaprì mai più gli occhi.
E sì, il destino è proprio crudele, è proprio bastardo il destino, continuava a ripetere, perché sai che giorno era? Sai che giorno era? Era il giorno del nostro matrimonio, non l’avevamo detto a nessuno, lo sapevamo noi due, Emma ed un suo amico, i nostri testimoni, non l’avevamo detto a nessuno perché sapevamo che nessuno ci avrebbe appoggiato, né mia madre, né i suoi genitori, ma io l’amavo e lui amava me e non ce ne importava niente di ciò che pensava la gente.
Eravamo felici, capisci?
Poi una macchina, spuntata chissà da dove, lo ha investito ed è morto sul colpo, non ha sofferto, è morto e mi ha lasciato e il conducente non si è nemmeno fermato a vedere cosa aveva fatto, è scomparso.
Le parole fuoriuscivano dalle sue labbra come un fiume in piena. Erano rimaste per troppo tempo incollate al palato, in attesa di essere pronunciate ma lei non aveva mai avuto il coraggio, persino Emma l’aveva saputo da altri o forse era lì con lei, non lo ricordava.
Chiuse gli occhi perché faceva ancora male, il dolore non se n’era mai andato, forse non era forte come il primo giorno, ma era sordo, continuo e c’era ancora, ci sarebbe stato sempre.
Una singola lacrima le solcò il viso. Robin avrebbe voluto abbracciarla, consolarla.
L’anello, i muri, le barriere, i dubbi, i silenzi, avevano trovato una risposta.
Voleva dirle tante cose ma non sapeva da dove cominciare.
Non era facile, niente lo era mai stato.
«Regina io…»
«Se provi a dire che ti dispiace ti tiro un pugno!» lo minacciò e per qualche istante, il sorriso ritornò sulla bocca di entrambi. Forzato, ma era pur sempre un sorriso.
«Ok, non lo dirò… Anche se ciò che avrei voluto dirti era altro…»
La donna si asciugò un po’ gli occhi e gli fece un cenno con la testa, invitandolo a parlare.
«Non posso dirti che sarà facile, perché probabilmente non sarà così… Non posso neanche immaginare cosa tu debba aver passato, quanto dolore debba aver provato, ma sono passati tanti anni e non puoi semplicemente mettere il tuo cuore sotto vuoto, con la paura che possa spezzarsi ancora… Non puoi condurre una vita apatica e monotona soltanto perché hai paura di soffrire… Devi reagire e so che lo hai fatto, perché se non lo avessi fatto non saresti dove sei oggi, ma devi continuare a farlo! Perché te lo meriti, tutti meritano un lieto fine e anche tu…»
«Credi che il mio lieto fine possa essere tu?!» mormorò la donna, testarda.
«Non ho mai detto questo… Ma l’amore… Be’, quello penso sia il lieto fine di tutti…»
Lei annuì. Non sembrava ancora molto convinta e Robin non ne era per niente sorpreso. Forse lo sarebbe stato del contrario.
«E se tua moglie…»
«Non lo so, ci penseremo al momento… Sono sicuro, però, che capirà…»
La donna rialzò lo sguardo, puntando i suoi occhi scuri in quelli chiari di lui.
«Ho paura…» sussurrò e se ci fosse stata Emma avrebbe urlato che quello era un altro giorno da ricordare, da segnare su ogni calendario del mondo, perché Regina Mills, non ammetteva mai che qualcosa, di fatto, la spaventasse.
«Lo so, ne ho anche io… Ma voglio provarci comunque… e tu?»
Solo allora, la donna si accorse che le loro mani erano ancora intrecciate. Provò uno strano senso di completezza e decise che lei era Regina Mills e al diavolo la paura, niente poteva fermarla.
«Va bene…»
Erano felici e per il momento, le bastava solo quello.
Spinti da una forza e un bisogno che prima avevano cercato di reprimere si avvicinarono.
Un pensiero attraversò la mente di Regina, quasi fosse un vero e proprio fulmine in un cielo quasi del tutto sereno. Si guardò intorno, incerta.
«E Roland?!»
 

Bussò alla porta. Era agitato e accaldato, aveva guidato fin lì senza mai fermarsi e aveva lanciato qualche bestemmia al traffico insopportabile di New York.
Gli aprì Henry, seguito a ruota da un bambino piccolino dai folti capelli castani.
«Roland?!» chiese, sorpreso. Il bambino gli si appiccicò alle gambe.
Lui gli scompigliò i capelli, non lo vedeva da un po’, lo prese in braccio e constatò che fosse cresciuto.
«Che ci fai qui? Dov’è Emma?»
«Mamma ha detto che Robin e zia Regina volevano stare un po’ da soli, così ha portato Roland qui! Stiamo giocando insieme alla Wii!» rispose Henry, prendendolo per mano e trascinandolo in salotto, per mostrargli il nuovo gioco che un suo amico gli aveva prestato.
Killian lasciò Roland.
«Capisco…»
Si guardò ancora intorno, aspettando che da un momento all’altro una folta chioma di capelli biondi facesse capolino da qualche parte.
Henry forse se ne accorse.
«La mamma non c’è! È dovuta andare al negozio perché una signora l’ha chiamata! Ha detto che doveva portarle tredici scatoloni! Sì, proprio così, tredici scatoloni! E non poteva venire in nessun altro giorno, non ho capito bene perché… Sembrava un po’ antipatica a dirla tutta…»
Killian aveva bloccato il suo cervello alla prima frase.
«È uscita da molto?!»
«No, cinque, dieci minuti fa… Ha detto che però torna presto perché ci deve cucinare la cena! Ha promesso che ci avrebbe fatto gli hamburger come quelli del Mc Donald’s!»
Non ci mise molto a decidere cosa fare.
«Ehm… Vado… Vado ad aiutarla! Sapete, tredici scatoloni sono parecchi… Voi non combinate danni, mi raccomando!»
 Sparì in meno di due secondi. Henry guardò Roland.
«Secondo te cosa intendeva con “non combinate danni”?!»
Il bimbo alzò le spalle. Henry andò in cucina e tirò fuori dal frigo la panna montata.
«Ti va qualcosa di dolce?!»

 
La strada per il negozio fu meno trafficata tuttavia a lui sembrò lo stesso dannatamente lunga e quando finalmente scorse l’insegna in lontananza, sperò almeno di trovare un parcheggio.
La fortuna volle assisterlo e parcheggiò a due macchine di distanza dal maggiolino giallo di Emma.
Ignorò il cartello “CHIUSO” ed entrò.
Le campanelle sopra di lui tintinnarono come sempre.
Lei era di spalle, i biondi capelli sciolti sulle spalle e i cartoni impilati gli uni sugli altri che minacciavano di cadere da un momento all’altro.
«Siamo chiusi, non legge il cartello?!»
«Forse dovreste prenderne uno più grande, non l’ho proprio notato questo cartello!»
Si voltò all’istante, riconoscendo la sua voce. Killian era a pochi passi da lei e si grattava la nuca come sempre, quando era in imbarazzo.
«Ehi»
«Ehi… Sono passato da casa tua e Henry e Roland mi hanno detto che eri qui…»
«Sì, la signora mi ha portato gli scatoloni, “o adesso o mai più” ha detto… - imitò la voce stridula della vecchietta e Killian sorrise - Casa mia è ancora tutta intera?!»
«Per il momento…»
Fu il turno della giovane di sorridere. Gli fece segno di seguirla nel retro e si sedettero sui due sgabelli che di solito occupavano quando lavoravano lì al negozio.
«Devo dirti una cosa…» iniziò l’uomo, interrompendo quel silenzio che era calato su di loro.
«Mi sono licenziata dal “Rabbit Hole”…»
«Cosa? Davvero?»
Per un istante Killian dimenticò tutto e si concentrò su ciò che la donna aveva appena detto. Subito gli ritornò alla mente quella mattinata sul suo divano, quando aveva appena scoperto che Emma lavorasse lì, le sue parole gli rimbombarono nella mente.
«Mi sono perso qualcosa?»
Emma sorrise.
«La lettera… Tu avevi così tanta fiducia in me e io… io invece lavoravo in uno squallido night-club da quattro soldi… non riuscivo a sopportare l’idea di averti deluso così, quel pomeriggio, dopo averla letto, sono andata lì e mi sono licenziata… è stato quasi istintivo, non so ben spiegartelo… so che non posso cambiare il passato e so di averti fatto del male ma ho deciso che voglio essere migliore perché tu ti meriti questo, ti meriti la parte migliore di me…»
Killian la guardava commosso. Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere per lui. Emma aveva rinunciato a qualcosa che, di fatto, la rendeva felice, per quanto insensato fosse, perché lo amava e anche se non gliel’aveva mai detto apertamente, lui lo sapeva comunque.
Cercò la sua mano e l’attirò a sé.
«Swan, io vedrò sempre la parte migliore di te…»
«Ed io di te…»
«Non so se continuerai ad essere dello stesso parere dopo ciò che sto per dirti…»
Emma si ritrasse, leggermente preoccupata. Alzò un sopracciglio e Killian le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Cosa è successo?»
«Prometti che dopo ciò che dirò tu non darai di matto e non sprofonderai nei sensi di colpa perché davvero, è passato Swan… è il mio passato… io… io ho solo bisogno di dirtelo…»
«Ok, mi stai seriamente preoccupando…»
«Promettilo!» mormorò ed Emma lo fece, seppur ancora non del tutto convinta.
«È… sì, insomma… è successo molto tempo fa quando tu…»
«Killian, se non vuoi… Ti ho detto mille volte che posso aspettare…»
«…te n’eri andata. Era il giorno del tuo compleanno e io… io sono stato ricoverato in ospedale per overdose…»
 
 
We were born in those demon days
Wanted the world to know our names
Looking back, I'd do it all again
Oh, I'd do it all again, do it all again
We were born in those demon days
All those faces won't fade away
Looking back, I'd do it all again
We were born in those demon days
“Demon Days (Do It All Again)” – Wild wild Horses
 
 
Buonasera a tutti!! :)
Se vi state chiedendo cosa avete letto, be’, non vi biasimo…
Non so da dove sia uscito questo capitolo o come il mio cervello abbia effettivamente partorito un’idea del genere xD Spero di non avervi deluso e spero che vi abbia appassionato e sorpreso, così come ha sorpreso me, mentre lo scrivevo! È uno dei capitoli più lunghi che abbia mai scritto e ho deciso di non tagliare niente perché, 1) penso sia un po’ tutto importante 2) vorrei farmi perdonare il ritardo immane con cui pubblico xD Ecco spiegato il motivo per il quale Killian era così restio a dare dei dettagli sul suo passato! Non voleva che Emma si sentisse responsabile per ciò che gli era accaduto (in parte forse lo è veramente, voi che dite?) ma, allo stesso tempo, non aveva il coraggio di ricordare dettagli così dolorosi! Suo fratello non c’era, così come Emma e Killian, anche se non sembra, ha un animo piuttosto sensibile e semplicemente, non ce l’ha fatta più.
Come la prenderà adesso la giovane? Dopotutto, è stata anche un po’ colpa sua… Questo minerà il loro rapporto?
Per quanto riguarda Emma e Regina, molte di voi ci avevano visto giusto! Emma non può lasciare sola Regina in un momento del genere e fortunatamente, chiariscono tutto.
Ma Regina ha anche altro a cui pensare! Finalmente in questo capitolo si capisce cosa sia successo il giorno del famoso incidente… Insomma, il #MaiNaGioia è sempre in agguato! Però Regina non può permettersi di rinunciare a tutto per la paura di soffrire e così accetta la proposta di Robin! (SEAN CI MANCHIIII)
Posso annunciarvi che molto probabilmente, nel prossimo capitolo e nell’altro ancora ci sarà un salto temporale! E non dimenticatevi né di David e Mary Margaret, né di Belle e Gold perché li rincontreremo presto, con qualche sorpresina… :)

Non vedo l’ora di sapere cosa ne pensate! So che sono ripetitiva ma non posso non ringraziare tutte voi che con le vostre recensioni mi rendete la persona più felice del mondo! Grazie perché continuate a seguire la storia nonostante i miei ritardi immani! Grazie a chi inserisce la storia nelle varie categorie e chi legge in silenzio! Se volete condividere anche voi i vostri pensieri/pareri ne sarei più che felice!!
Un bacione e a prestissimo
Kerri :*
 
 
 PS: Ecco il link della canzone! https://www.youtube.com/watch?v=OsajgG0f5_Y e sì, nel video ci sono proprio la nostra Jen e la nostra Rose (Trilli)! Jen ha diretto questo piccolo cortometraggio! :) Vi consiglio di guardarlo e ascoltare tutte le canzoni se non lo avete ancora fatto! Io ho adorato entrambi! :**

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Capitolo 22
*** Regrets are a family thing ***


21. Regrets are a family thing
 

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«Siamo tutti esuli dal nostro passato».
~Fëdor Dostoevskij
 
 
Le sembrò che il tempo avesse smesso di scorrere, che gli orologi di colpo si fossero fermati, che tutto intorno a loro si fosse semplicemente congelato.
Cercava di dare un senso a quelle parole, quelle che aveva appena ascoltato, quelle che lui aveva appena pronunciato, ma non ci riusciva.
Le sembrava tutto così sbagliato, la testa le pulsava e non percepiva nient’altro che il vuoto.
Voleva vomitare e piangere allo stesso tempo ma chissà come, si impedì di fare l’una e l’altra cosa.
Perfino il volto dell’uomo di fronte a lei era sfocato, quasi fosse un ologramma, uno scherzo, perché era tutto uno scherzo no?
Non riusciva a trovare nessuna parola adatta da dire o per descrivere come si sentiva in quel momento.
C’erano così tante cose che voleva sapere, dire, urlare.
«Saresti potuto morire…» mormorò infine, la voce spezzata, quasi un sussurro che però lui udì.
Abbassò gli occhi, si grattò la nuca.
Ascoltarlo dalla sua voce, gli sembrò ancora più sbagliato.
Si era immaginato diverse volte quel momento, il momento in cui le avrebbe detto tutto.
In quegli anni di silenzio forzato, nei suoi momenti più bui e difficili, quella era stata una delle poche cose che riusciva a tirarlo su e a farlo andare avanti.
Era orribile da parte sua e lo sapeva ma il solo pensiero, lo faceva stare meglio.
Ripagarla con la sua stessa moneta.
Farla soffrire, farla annegare nei sensi di colpa, così che avrebbe potuto capire come si era sentito lui, quanto aveva sofferto, quanto dolore aveva dovuto sopportare.
Adesso, però, era diverso, tutto era diverso.
Con tutto quello che era successo, con tutti i sentimenti per lei che erano rifioriti come se non fossero mai passati dodici anni, avrebbe soltanto voluto stringerla e consolarla e ripeterle all’infinito che non era colpa sua.
Se l’era immaginata che dava di matto, che si arrabbiasse con lui per non averglielo detto prima, che urlasse, piangesse, lo lasciasse ma non avrebbe mai pensato di udire quelle parole fuoriuscire dalle sue labbra.
Sembrava stesse per spezzarsi, crollare e scomparire per sempre, schiacciata dal peso di ciò che aveva appena sentito.
«Emma… Non è colpa tua…» ripeté e si odiò, perché il suo tono non convinse neanche lui.
«Saresti potuto morire…»
Lo disse ancora, come se stesse cercando di convincersi che quella fosse la verità.
Lo disse come se quella fosse la sua paura più grande.
Stava cominciando a tremare e Killian stava cominciando a preoccuparsi davvero.
Cercò di avvicinarsi ma lei si scansò.
«Swan, sono qui, non è successo niente… va tutto bene…»
Lei chiuse gli occhi e calde lacrime le solcarono il viso.
Non poteva sopportare ancora a lungo quella vista e si avvicinò ancora e la strinse a sé, cullandola e consolandola, promettendole che se fosse servito, glielo avrebbe ripetuto per tutta la vita.
Non è colpa tua. Non è colpa tua. Non è colpa tua.
 
 
Quando la porta si aprì, Henry e Roland si lanciarono un’occhiata complice.
Entrambi si aspettavano di vedere entrare Emma da un momento all’altro, seguita a ruota da Killian che reggeva qualche scatolone con le mani (magari cibo!) e la faceva ridere.
Henry si era quasi abituato a condividere sua madre con quell’altro uomo.
In fondo, non era neanche poi così tanto male…
Era entrato nella loro vita quasi per scherzo (di fatto il bambino tendeva a darsi i meriti di tutto quello che era successo, per la sua idea della cena) e aveva spontaneamente deciso di restarci.
Gli era stato presentato come un amico, ma lui non era stupido e sapeva che c’era di più, riusciva a percepirlo.
Vedeva come lui guardava sua madre, più o meno come lui guardava il suo libro preferito. Non che lui, di fatto, avrebbe mai potuto guardare un individuo di sesso femminile con quello sguardo… Assolutamente no! Era fuori discussione! Grace però…
Ad ogni modo, la cosa che più l’aveva stupito però, era che anche sua madre guardava Killian Jones con lo stesso sguardo sognante e… innamorato?
Dacché aveva memoria, ce n’erano stati di uomini, nomi più che altro, a cui lui non riusciva a dare un volto, o perché era troppo piccolo da poterli ricordare o perché non li aveva mai incontrati.
Era questo il punto.
Gli altri, lui non li aveva mai visti.
Killian, invece, era una presenza, ormai costante, sia nella sua vita, che in quella di sua madre.
Non aveva neanche il più piccolo dubbio del fatto che lui non se ne sarebbe andato, che, nonostante quello che sarebbe successo tra loro due, lui, le sue barche e il suo talento innato per i video-giochi, non lo avrebbero abbandonato.
La mamma diceva sempre che il suo affezionarsi troppo presto alle persone, presto l’avrebbe portato ad una delusione.
Lui preferiva non pensarci, non sapeva se darle ragione o meno, forse era troppo piccolo per farlo davvero.
Ma Killian… Non riusciva a spiegarsi il perché ma sapeva che lui meritava la sua totale e completa fiducia.
Qualche anno più tardi, fu portato addirittura a pensare che quell’uomo avesse da sempre fatto parte della sua piccola famiglia, dapprima come un fantasma e solo in seguito, come una persona vera, in carne ed ossa.
I racconti di sua madre, i libri, i pirati, la cannella, il passato…
Erano tutti lì e lui era solo da incontrare, ma c’era sempre stato.
Una piccola parte di lui, sperava ancora che fosse davvero Killian Jones il suo vero padre.
Quella, quella sarebbe stata la notizia che lo avrebbe reso il bambino più felice del mondo.
Perché lui amava sua madre e sua madre amava lui e avrebbero potuto essere la famiglia che tutti e tre avevano sempre sognato.
Per questo fu sorpreso quando, a varcare la soglia di casa non furono loro due, ma soltanto sua madre.
Gli occhi rossi, i capelli arruffati, sembrava quasi che avesse pianto di recente.
«Ehi ragazzini! Tutto bene qui?»
I due annuirono.
«Bene, vado a prepararvi la cena…»
La sua voce era spenta, sembrava quasi grigia.
Si voltò e si incamminò verso la cucina.
Il bambino capì all’istante che c’era qualcosa che non andava, lo percepì sulla pelle.
Roland era ancora troppo piccolo per accorgersene o, più probabilmente, non conosceva sua madre così bene come la conosceva lui.
«Erri possiamo giocare con le macchinine?»
«Certo, tu comincia… io arrivo subito…»
Seguì sua madre in cucina.
Una parte di lui, voleva anche accertarsi che non si accorgesse della panna montata mancante in frigo o del fatto che lui aveva dovuto ripulire buona parte della cucina a causa della sua voglia di “dolce”.
Ma, per come le sembrava ridotta, dubitava che notasse un particolare di così poco conto.
O almeno, ci sperava…
Si sedette dietro il bancone, sullo sgabello che di solito occupava per colazione. Spostandolo, fece volutamente rumore, così che la donna davanti a lui si accorgesse della sua presenza.
Si sentiva un po’ Sherlock Holmes, anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce.
«Henry! Mi hai spaventato…» mormorò sua madre, voltandosi di scatto e mettendosi una mano sul petto.
Aveva di nuovo gli occhi lucidi, quasi stesse per scoppiare a piangere da un momento all’altro.
«Scusa…»
«Non fa niente… Allora, vi siete divertiti oggi pomeriggio senza di me?» chiese, cercando di sembrare il più interessata possibile.
«Sì, molto… è passato Killian qualche ora fa, ti cercava… è venuto al negozio?»
La donna annuì e continuò a fare ciò che stava facendo. Henry diede una sbirciatina.
Tagliava i pomodori.
Bene.
Quindi aveva aperto il frigorifero e non si era accorta di niente…
Ottimo!
«È successo qualcosa?» chiese, tastando il terreno e cercando di mantenere il suo tono di voce il più normale possibile. Di solito, quando era curioso, tendeva a diventare un po’… invadente, ecco.
«No, no… tutto bene…»
«Mamma lo sai che ho ereditato il tuo super potere, vero?»
La donna gli sorrise un po’.
«Non è vero, lo dici soltanto perché sono visibilmente sconvolta e in più, una pessima bugiarda…» constatò lei, mettendo da parte i pomodori e asciugandosi le mani ad uno straccio.
«Ok, forse potresti avere ragione… Ma sono davvero davvero davvero – marcò bene quell’ultima parola – preoccupato per te… è per zia Regina? Avete litigato di nuovo?»
Emma aprì di nuovo il frigo, mentre Henry tratteneva il respiro.
Ne estrasse il bacon, il formaggio cheddar e qualche foglia di insalata e poi la carne per gli hamburger.
«No, Henry… è… -stava davvero per dirglielo? Stava davvero per confessare tutto a suo figlio dodicenne? - Killian»
Il bambino sembrò sorpreso quando quel nome fuoriuscì dalle labbra di sua madre, non se lo aspettava.
«Vi siete lasciati?» chiese e il suo tono sembrava più preoccupato e triste di quanto sia lui che Emma avrebbero voluto ammettere.
«Chi ti ha detto che stiamo insieme?!» mormorò la donna, scioccata, mentre cuoceva la carne.
Henry alzò un sopracciglio e quell’espressione le ricordò così tanto suo padre da darle un improvviso capogiro, costringendola a voltare di scatto la testa e concentrarsi sulla cucina.
Prese del sale e ne versò un po’ sugli hamburger.
«Non sei troppo piccolo per questo genere di discorsi?»
«Se non cominciamo a parlare, non potrò di certo dirtelo!» constatò il bambino.
Emma rise. Suo figlio era davvero la medicina a qualsiasi male.
«Henry… Tu credi che io sia cattiva?» chiese di colpo e non sapeva neanche bene perché.
Forse voleva soltanto sentirsi contraddire, sentirsi dire che no, non poteva essere una persona cattiva.
Ma forse suo figlio non era poi la persona più adatta.
«Non intendo con te… Sai che quando ti metto in punizione lo faccio per il tuo bene… intendo con gli altri…»
Non aveva il coraggio di alzare lo sguardo e se l’avesse fatto, avrebbe incontrato l’espressione concentrata e leggermente spiazzata di suo figlio.
«No, mamma… Sei solo un po’… solitaria… a volte un po’ lunatica… Ma non sei cattiva… Non si nasce cattivi, lo si diventa e tu non lo sei, credimi…»
Emma alzò lo sguardo e incontrò quello di suo figlio. Era sincero e sicuro e questo la convinse che credeva davvero in ciò che aveva appena detto.
Un po’ del peso che portava nel cuore, si sgretolò.
«L’hai letto in qualche libro?» chiese, girando gli hamburger e controllando che il bacon si cuocesse bene nell’altra padella.
Un invitante profumino aveva invaso tutta la stanza, portando lo stomaco di tutti a brontolare un po’.
«Sì, ma perché me lo chiedi? E sì, intendo perché mi hai chiesto se potessi essere cattiva?»
Emma sorrise un po’ e poi abbassò lo sguardo.
«Perché lo sono stata…» sussurrò a bassa voce, piena di vergogna.
Non era facile parlare del suo passato, non lo era mai stato, men che meno con suo figlio.
«È per quella cosa terribile che hai fatto a Killian? Non ti aveva perdonato?» chiese il bambino e ancora una volta, Emma si stupì della memoria di ferro che il piccolo possedeva.
Almeno quella, l’ha ereditata da me, pensò.
«Lui dice di sì ma oggi mi ha rivelato una cosa… Una cosa terribile che gli è successa...»
«E tu credi sia colpa tua…» disse il bambino, leggendole nel pensiero. Che fosse quello il suo super potere?
«Già…»
«Quanto è terribile da uno a dieci?»
«Cento!»
Il bambino sbarrò gli occhi, poi appoggiò il mento sulle mani e si mise a pensare.
Ad Emma parve quasi surreale tutta quella situazione ma non le importò. Doveva parlarne con qualcuno, altrimenti sarebbe crollata.
Aveva bisogno che qualcuno le dicesse che sarebbe andato tutto bene e sì, era consapevole che avrebbe dovuto essere il contrario, che avrebbe dovuto essere lei a consolare suo figlio ma, in quell’istante, andava bene così, non le importava.
Si sentiva rotta, spezzata, velenosa.
Si sentiva in colpa.
Si sentiva sbagliata.
E suo figlio, per buona parte della sua breve vita, non aveva fatto altro che affievolire tutto questo, renderla migliore. Perché adesso doveva essere diverso?
«E lui che dice?»
«Chi?» chiese la donna, ritornando alla realtà.
«Killian!» mormorò il ragazzino, con ovvietà.
«Oh…» mormorò sorpresa.
«Lui-lui dice che non è colpa mia…» 
Gli occhi del bambino allora si illuminarono.
«E allora?! Deve essere vero, lui non ti mentirebbe! Non è colpa tua e ti ha perdonato! Nessun problema!» disse entusiasta, sbattendo una mano sul bancone.
Lei gli sorrise e si sporse ad abbracciarlo. Quanta purezza poteva esserci in una persona? Henry era davvero la persona più pura e genuina del mondo e avrebbe voluto che un po’ della sua bontà e del suo ottimismo si trasferissero nel suo corpo per osmosi, per cancellare un po’ quelle profonde cicatrici, quel male e quel veleno che si portava dentro.
Lui mi ha perdonato, forse è vero.
Ma il problema è un altro…
Io riuscirò a perdonarmi?
 
 
«Sei davvero un’ottima cuoca Regina!» mormorò l’uomo, servendosi un altro pezzo della torta che avevano preparato.
La donna infatti, si era resa conto che Robin non aveva ancora assaggiato la sua famosa crostata di mele e non poteva di certo uscire con un uomo che non l’avesse ancora fatto…
Uscire.
Lei stava uscendo con Robin?
Era quello il termine che lui avrebbe usato?
Gli lanciò una piccola sbirciatina e lo trovò tutto intento a spazzolarsi i pantaloni dalle ultime briciole.
Probabilmente no, non ce lo vedeva, le sembrava un’espressione troppo stereotipata per lui…
Anche se, forse, in tutta quella storia, un po’ di stereotipi avrebbero fatto piuttosto comodo.
Così lo chiese.
Non temeva la risposta.
O forse sì?
Aveva soltanto bisogno di certezze e si fidava di lui, del suo giudizio (anche se un po’ scapestrato e impulsivo) e della sua bontà d’animo. Era un uomo buono e Regina glielo aveva letto negli occhi, prima ancora che nel cuore.
«Che cosa siamo?»
Era una domanda sciocca, eppure le sembrò che neanche lui lo sapesse.
Alzò entrambe le sopracciglia e si passò una mano sul labbro. Lei aveva notato che tendeva a farlo quando era un po’ nervoso…
«Io e te… Adesso… Che cosa siamo?» ripeté, cercando di incontrare il suo sguardo.
«Siamo soltanto due persone innamorate che provano a stare insieme…» mormorò l’uomo, dopo qualche secondo di silenzio.
«E a conoscersi!»
«Ma io ti conosco Regina!» sorrise l’uomo, carezzandole la mano.
Lei alzò un sopracciglio, divertita.
«Ah sì?! E come si chiamava il mio primo gatto?»
«Hai avuto un gatto?» chiese l’uomo, piuttosto sorpreso.
«Ti facevo più una tipa da lupi… corvi, magari…»
Di tutta risposta si beccò un pugno sul braccio.
«Idiota…» borbottò.
«Vedi Regina… So che per te, probabilmente, conoscere il nome del mio primo cane (perché ho avuto un cane) può essere davvero vitale… Se lo vuoi sapere si chiamava Johnnie… - La donna alzò gli occhi al cielo e cercò di ribattere ma Robin continuò – Ma ciò che io ho bisogno di sapere, lo so già… Sei una donna fantastica Regina, forte e determinata, decisa, a volte fredda ed è questo il lato che mostri agli altri… ma sai anche essere dolce e amorevole e i bambini ti adorano, almeno Roland mi parla sempre di te! Hai sofferto, tanto, forse troppo, ma non ti sei arresa e ti sei rialzata e io ti ammiro per tutto questo, ti...»
Smise di parlare soltanto perché la donna premette forte le labbra sulle sue, circondandolo con le braccia e tenendolo stretto.
Chiuse gli occhi, perché se li avesse aperti, lui avrebbe potuto accorgersi che erano un po’ lucidi e lei odiava piangere davanti agli altri.
Robin ricambiò la stretta e il bacio e per un po’, chissà quanto, restarono così, l’uno nelle braccia dell’altro.
«E comunque il mio gatto si chiamava Sydney e no, non chiedermi perché…»
L’uomo scoppiò a ridere e le lasciò un altro bacio a stampo.
«Penso che prima o poi lo scoprirò!»
 
 
«Mamma?!»
La donna si girò. Avevano appena finito di mangiare e fortunatamente, come aveva avuto modo di scoprire in passato, le sue doti culinarie non sparivano se era di cattivo umore.
Certo, non che per cucinare qualche hamburger ci volesse chissà quale diploma ma le sembrò che i bambini avessero gradito, finendo tutto e dividendosene anche un altro.
Adesso, stava rispondendo a Regina che le aveva chiesto, a nome di Robin, se Roland potesse restare lì tutta la notte.
Il bambino si era dimostrato piuttosto entusiasta dell’idea e lei, ovviamente, aveva acconsentito.
La sua amica meritava un po’ di pace, dopo tutto quello che aveva dovuto passare ed era felice che Robin fosse lì accanto a lei.
Non che lo conoscesse più di tanto, ci aveva scambiato sì e no quattro parole, ma da quanto le avevano raccontato sia Regina che Killian, era davvero un brav’uomo. Anche lui, come lei, aveva dovuto sopportare tanto dolore nella vita e far fronte ad imprevisti che non avrebbe mai neanche immaginato, ma ne era uscito. Era riuscito a mandare avanti la famiglia, a badare ad un bambino e a pagare le spese mediche di sua moglie, quasi completamente da solo ed Emma credeva avesse fatto un ottimo lavoro, convincendosene del tutto quella sera, osservando Roland ridere e parlare come qualsiasi altro bambino.
Vedendo l’espressione di Henry, leggermente mortificata, pensò che forse a lui non facesse piacere avere Roland lì con loro quella sera, anche se la trovava un’opzione piuttosto strana…
«Che c’è tesoro? C’è qualche problema? Roland…»
«Dorme già…» mormorò il bambino. Di fatti, avrebbe preferito che il suo compagno restasse sveglio un altro po’, così lui avrebbe potuto leggergli qualche storia o avrebbero potuto giocare un po’ ma Roland si era addormentato non appena si era steso nel piccolo letto di Henry.
«Ti dà fastidio che stia qui?»
«Oh no, no… Mi fa piacere…»
Henry cercò di rassicurarla e lei annuì, non ancora del tutto convinta.
«Tu stai meglio?» le chiese suo figlio e lei fu colta alla sprovvista.
Pensare a Regina, Robin, Roland ed Henry le aveva fatto dimenticare per un po’ tutto il resto. Non che avesse potuto davvero dimenticare e in realtà, non avrebbe neanche voluto…
«Io… S-sì, tesoro, grazie…» balbettò.
Henry annuì.
«Posso farti una domanda?» chiese.
Ci aveva pensato per tutta la cena e alla fine, aveva capito che l’unico modo per mettere fine alle milioni di domande che gli lampeggiavano in testa, era cominciare a porle.
E a chi, se non a sua madre?
«Certo…»
Henry si avvicinò un altro po’ e si risedette allo stesso sgabello di sempre. Emma lo imitò, lasciando il telefono sul bancone e accomodandosi al suo fianco.
«Cosa c’è?»
Henry continuava a torturarsi le mani (un altro vizio che aveva ereditato da lei) e aveva lo sguardo basso.
«Lo sai che puoi chiedermi qualsiasi cosa, vero?» lo incitò la donna, mettendogli una mano sulla spalla.
Il bambino si voltò e puntò i suoi grandi occhi nocciola su di lei.
«Io… Il mio papà era cattivo?»
La mano di Emma si congelò all’istante, così come il suo sangue e i suoi pensieri.
Avrebbe dovuto immaginarlo.
Henry era troppo nervoso per chiederle semplicemente il permesso di andare da qualche parte o confessarle qualche marachella.
Il bambino continuava a fissarlo con i suoi grandi occhi castani, così simili a quelli di suo padre e lei non sapeva cosa rispondergli.
«No Henry…» disse infine.
«Non era cattivo… Ha soltanto fatto una cosa cattiva…»
Il bambino parve un po’ sollevato.
«A te?»
Emma annuì.
«Sì, ma non solo… Anche a delle persone a cui lui voleva bene…»
Non voleva dirgli che l’uomo avesse un’altra famiglia, probabilmente altri figli, non voleva farlo sentire più indesiderato di quanto, forse, si sentiva già in quel momento.
«Tu pensi che se lui sapesse che io… be’, che io esisto… mi vorrebbe bene?»
Il cuore di Emma si strinse in una piccola morsa, così forte da provocarle le lacrime agli occhi. In quel momento voleva soltanto prendere suo figlio e abbracciarlo forte, stritolarlo finché non fosse di nuovo dentro di lei, così che il mondo non avrebbe mai potuto ferirlo.
«Henry… Chiunque ti vorrebbe bene, credimi! Chiunque sarebbe fortunato ad averti nella propria vita!» disse, con enfasi. Non riuscendo più a trattenersi, lo attirò a sé e gli poggiò il mento sui capelli.
«E allora perché non lo cerchiamo? Mio padre, intendo… Sarebbe facile, un gioco da ragazzi… come quando zia Regina ti chiese di…»
«Temo che non sia possibile tesoro…» lo bloccò Emma, scostandosi e guardandolo negli occhi.
«Ma…»
«Non so dove sia, né cosa abbia fatto in tutto questo tempo… all’epoca poteva non essere cattivo, oggi chi lo sa? Non voglio rischiare che, una volta scoperta la tua esistenza, quell’uomo avanzi qualche richiesta, di affidamento o che so io… io…»
Si sporse di nuovo verso di lui e lo abbracciò ancora.
«Non voglio perderti Henry…» mormorò tra i suoi capelli, ispirando l’odore del suo shampoo preferito, quello che la obbligava a comprargli da quando aveva cinque anni.
«Sei l’unica cosa bella che ho fatto nella vita…» disse e stava per piangere, di nuovo.
Scese dallo sgabello e gli si inginocchiò davanti.
«Ascolta, so che vuoi sapere cosa sia successo, lo capisco, davvero… E ti prometto che un giorno te lo dirò, solo… non ora, non adesso…  - prese un piccolo respiro e poi continuò - Per favore, promettimi che non cercherai niente, né farai nulla per contattarlo… promettimelo… puoi farlo?»
Il bimbo annuì.
«Bene… Grazie…» disse, abbracciandolo ancora e tenendolo stretto, carezzandogli i capelli e la schiena.
«Mamma?!»
«Mhh…»
«Mi stritoli…»
Emma rise un po’, poi sciolse l’abbraccio.
«Ti va un po’ di cioccolata calda?» chiese, punzecchiandolo con un dito.
«Ma tu dici sempre che non si può bere la cioccolata dopo cena!»
«Be’ oggi si può… allora?!»
Henry annuì felice ed Emma si incamminò verso i fornelli.
«Visto che Roland è nel mio letto, posso dormire con te?!»
«Certo ometto! A patto che, dopo la cioccolata, ti lavi i denti e fili direttamente nel mondo dei sogni!»
«Signorsì signora!»
Risero e dopo un po’, Henry si incamminò verso la sua stanza per prendere il pigiama ma, a metà scala, si fermò.
«Mamma…»
«No, non puoi portare tutti i tuoi pupazzi nel mio letto! Puoi sceglierne al massimo uno!»
«Mr Bob sarebbe venuto comunque a dormire con me – disse con ovvietà – ma non era questo ciò che volevo chiederti…»
Emma si voltò e lo incitò a parlare con un sorriso.
«T-tu pensi che Killian potrebbe essere il mio papà anche se il mio papà vero è un altro?!»
La donna non poté fare a meno che un sorriso si dipingesse sul suo volto e il cuore le si sciogliesse nel petto. Non amava parlare del futuro perché non avrebbe mai potuto essere certo al cento per cento ma, doveva ammettere che nonostante tutto, l’idea che Killian facesse parte sia del suo che di quello di suo figlio, le portava un misto di gioia e serenità che non avrebbe potuto definire in alcun modo.
«Suppongo che a lui farebbe molto piacere, tesoro… ma forse, dovrai chiederglielo…» disse, cercando di mascherare l’emozione e il groppo alla gola.
Henry annuì felice e si precipitò di sopra.
Emma, ancora sovrappensiero e con il cuore avvolto in una strana sensazione, si diresse verso il frigo. Ricordava che aveva lasciato un po’ di panna montata per guarnire la cioccolata così come le aveva insegnato Ingrid.
Prese la ciotola, pronta a prenderne qualche cucchiaiata in più ma…
Cos’era successo?
Era…
Vuota!
«Henry!» mormorò incredula, fissando ancora la coppa e ciò che ne restava della panna al suo interno.
Almeno su quello non c’erano dubbi…
La golosità l’aveva sicuramente ereditata da lei!
 
 
La mattina dopo, David si alzò di buon umore. Gli capitava spesso ultimamente e non gli dispiaceva più ammettere che il merito era sicuramente attribuibile a Mary Margaret.
Si incamminò verso la cucina per prepararsi la colazione. Non sarebbe stata una buona giornata se non l’avesse cominciata con una tazza di latte e cereali.
Era un’abitudine che aveva sin da bambino e ricordava ancora la voce di sua madre che gli intimava di sbrigarsi a finire perché “Lo scuolabus non aspetta te, ragazzino!”
Sorrise, prendendo una delle tazze più grandi, quella di Flash che sua madre gli aveva regalato qualche anno prima per il compleanno… o era stato Jones?! Alzò le spalle, prendendo un’altra cucchiaiata.
Lanciò uno sguardo al calendario e vide che qualcuno aveva cerchiato quel giorno con un pennarello rosso.
Si avvicinò per leggere meglio e riconobbe la calligrafia ordinata di Mary Margaret.
 
“Visita di controllo!!! H 10.30”
 
Ma quanti punti esclamativi aveva messo?!
Sorrise ancora, immaginando la scena.
Lanciò uno sguardo all’orologio e dopo aver finito di mangiare i cereali, prese il telefono.
Avvisò il suo collega che non sarebbe andato a lavoro prima delle undici e poi, come ogni mattina, mandò il buongiorno alla sua fidanzata.
Quel giorno, trovò una foto di una cheesecake alle fragole su internet e gliela spedì, sapendo quanto le avrebbe fatto gola.
Si divertiva a stuzzicarla e amava le sue risposte taglienti e scocciate. Amava ancor di più sapere che fingeva di esserlo, per non fargli montare troppo la testa.
La risposta arrivò in meno di due secondi.
Ti odio.
Sorrise e corse a vestirsi.
Uscì dal suo appartamento mezz’ora dopo, con indosso un giubbotto leggero, jeans scuri e una camicia celeste. Quella l’aveva comprata ai saldi molto tempo prima o forse gliel’avevano regalata, non lo ricordava… comunque non se l’era mai messa, chissà perché.
Quando Mary Margaret l’aveva vista abbandonata all’angolo dell’armadio, gli aveva chiesto come mai e lui aveva semplicemente scrollato le spalle. Lei, scuotendo la testa, aveva affermato che quel colore avrebbe messo ancor di più in risalto i suoi “bellissimi occhi azzurri! E no, non far finta che tu non abbia sentito perché lo so che hai sentito benissimo e io non lo ripeterò di certo!”
Si fermò ad un chiosco e comprò un po’ di caffè e un baegel, nel caso gli fosse venuta fame più tardi.
Dopo guidò verso l’ospedale e parcheggiò al solito posto, sotto un grande albero, proprio di fronte alla struttura. Ci era andato parecchie volte nelle ultime settimane, qualche volta con Mary Margaret, qualche volta da solo e una volta, persino Jones gli aveva fatto l’onore di accompagnarlo.
Oggi però, era da solo e doveva anche muoversi, perché doveva lavorare. Si sarebbe preso una giornata libera se solo se ne fosse ricordato per tempo…
Entrò e salutò con un cenno le infermiere del Pronto Soccorso. Si diresse verso l’ascensore e vi entrò.
Il dottor Kingstone stava parlando con una giovane infermiera e quando lo vide gli fece cenno di avvicinarsi.
La visita fu sempre la solita, il dottore gli auscultò il cuore, gli controllò le pupille e i riflessi e altre cose che lui non capiva davvero. Poi gli chiese se avesse riscontrato nausee o mal di testa frequenti e lui scosse la testa.
«Bene, signor Nolan, penso che siate guarito del tutto… Spero di non rivederla tanto presto!» lo salutò il dottore, stringendogli la mano.
«Anche io dottore!»
Sorrise, felice che non avrebbe più dovuto mettere piede in ospedale così tanto spesso e si incamminò verso l’uscita.
Quando uscì dall’ascensore, gli occhi si spalancarono dalla sorpresa.
Seduta su una delle sedie d’aspetto, c’era Mary Margaret china su un giornale.
Pensò che probabilmente si era ricordata anche lei della visita ed era venuta per controllare che stesse bene…
Una strana sensazione di gioia gli inondò il cuore e si diresse verso di lei, pronto a darle la buona notizia.
Qualcuno però, lo precedette. Vide un uomo alto e dai capelli stranamente biondi, probabilmente tinti si disse, parlare con la sua fidanzata. Era sicuramente un medico, perché indossava un camice bianco.
Riuscì a cogliere solo qualche sprazzo della conversazione.
Esami… importante… domani… congrat…
Quando arrivò e la donna si accorse di lui, il dottore se n’era già andato.
Vide l’espressione sul volto di Mary Margaret e non seppe dire se era più sorpresa di trovarlo lì o preoccupata…
«David!» disse e la voce risuonò stranamente acuta ad entrambi.
«Che ci fai qui?!» continuò, usando lo stesso tono.
L’uomo aggrottò le sopracciglia.
«Oggi avevo l’ultima visita, pensavo che tu… Non sei qui per questo? Chi era quello?» chiese, con le mani sui fianchi.
«Oh… La visita, giusto! Sì, certo, com’è andata? Spero bene, così non…»
La donna aveva cominciato a straparlare e solo allora si rese conto di quanto fosse nervosa.
Abbassò gli occhi e vide che ciò che la donna stava leggendo e realizzò che non era esattamente un giornale.
Non era stupido e non ci mise molto a fare due più due.
«Mary Margaret tu…»
La donna chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e li riaprì.
Di colpo, tutte le parole le erano morte in gola.
«Ah signorina Blanchard, le conviene prenotare l’ecografia…»
«Sei incinta!» mormorò.
L’uomo sbarrò gli occhi.
L’ultima cosa che vide fu il bambino del volantino del corso pre-parto, che rideva.
Beato lui! pensò, prima di cadere nelle tenebre.
 
 
«Ehi…»
Emma non ascoltava quella voce da due giorni ormai.
Non dal vivo, almeno.
Aveva cercato di mantenere le distanze, aveva giurato a sé stessa che avrebbe potuto farcela, che non sarebbe stata poi una tragedia, che lo faceva soltanto per il suo bene, per schiarirsi le idee, ma non aveva fatto altro che continuare a mentire.
Ogni cosa glielo ricordava: le barchette di Henry, il tonno in scatola, la fotografia che avevano scattato un po’ di tempo prima e che aveva incorniciato, il suo bicchiere abbandonato nel negozio…
Così quando avvertì la sua presenza calda, accanto a lei, quando ascoltò la sua voce, fu quasi come ritornare a respirare dopo un lungo periodo di apnea.
Lo vide sedersi accanto a lei, su quel piccolo muretto che dava sull’oceano.
«Henry mi ha detto di questo posto…» cominciò.
«Dice che quando vuoi stare da sola e pensare, vieni qui…»
«Sì be’, è abbastanza isolato dal mondo… le panchine del parco erano tutte occupate e i bambini mi hanno cacciato dalla casetta con lo scivolo…» disse e la voce le risuonò più fredda e sarcastica di quanto avrebbe voluto.
Si voltò a guardarlo e il cuore le si rivoltò di nuovo nel petto. I capelli spettinati dal vento, la barba, gli occhi azzurri e preoccupati, il mento…
Quanto le era mancato?
Lui accennò un sorriso e poi continuò, quasi come se lei non le avesse detto, praticamente in faccia, che avrebbe preferito restare da sola.
«So che hai cercato di evitarmi, Em, non sono stupido… Dopo quello che ci eravamo promessi, però… Capisco che tu possa essere delusa o arrabbiata ma…»
«Non sono arrabbiata con te Killian, non potrei mai esserlo…» disse e il suo tono di voce gli sembrò dolce e stanco allo stesso tempo. Sembrava avesse lottato tutto il giorno contro qualcuno e ne fosse uscita sconfitta.
«Ma…» cercò di replicare, perché non poteva più sopportare tutta quella situazione, perché doveva convincerla che ciò che era successo non era colpa sua.
«Sono arrabbiata con me stessa…» disse e rimase in silenzio per un po’.
«Avrei potuto perderti Killian e soltanto l’idea mi fa venire i brividi! Ciò che ti è successo è colpa mia… Ho provato a evitarti, è vero, ma non ci sono riuscita… Penso che non ti merito, non ti merito neanche un po’, eppure non posso più fare a meno di te… è egoista, da parte mia, lo so, deplorevole e egoista ma…»
«Emma basta!» disse lui, scuotendo la testa.
«Tu non hai fatto niente! All’epoca hai fatto ciò che credevi fosse giusto e sebbene non mi fosse mai stato chiaro il motivo, avrei dovuto… avrei dovuto accettare e rispettare le tue decisioni…»
Sembrava in difficoltà, sembrava non riuscire a trovare le parole e ad Emma sembrò una cosa tanto strana quanto infinitamente tenera. Sapeva che non era vero, che le stava dicendo quelle parole soltanto per farle piacere… nessuno, al suo posto, avrebbe accettato di essere lasciato di punto in bianco, nel cuore della notte, con uno stupido biglietto…
«Sono stato io ad infilarmi quel coso nel braccio e l’ho fatto perché… oh non lo so neanche io perché! Perché Liam non c’era e mio padre era in carcere e mia madre…»
Serrò ancora la mascella e fissò l’orizzonte, forse cercando di ricacciare indietro le lacrime che gli avevano pizzicato gli occhi e che adesso colavano imperturbabili sul suo volto.
La donna se le asciugò e poi con un dito, tremante, cominciò a percorrere il profilo dell’uomo.
I capelli, la fronte, il naso, le labbra… quasi volesse rendersi conto che era davvero reale ed era lì.
Lui ritornò a guardarla, con uno sguardo interrogativo, e lei poté carezzargli gli zigomi e il mento.
«Ho seriamente pensato di sparire di nuovo Killian…» gli rivelò, mentre lui le prendeva la mano nella sua e gliela stringeva.
«Ho pensato che se ho quasi rischiato di ucciderti una volta, probabilmente l’avrei fatto ancora… ti avrei fatto soffrire ancora e non lo meriti, Killian, non dopo quello che hai passato, che io ti ho fatto passare…»
Lo guardò cercando di fissare bene a mente tutti i dettagli del suo viso.
«Ti avrei lasciato un altro biglietto, provando a convincerti che stavamo sbagliando, che non potevo andare avanti così, fingendo che ti amassi…»
«Swan…»
«Ci ho pensato e mentre lo pensavo, ho realizzato che non ne avrei mai avuto il coraggio…»
L’uomo sembrò tirare fuori tutta l’aria che aveva trattenuto, non si era accorto neanche quando.
«Non posso farlo, non ne ho la forza… Come potevo andarmene e fingere che non ti amassi? Come potevo? Se non ti ho mai detto che ti amo?!»
Gli occhi dell’uomo si spalancarono e divennero più azzurri del mare in tempesta.
«Ti amo Killian e non posso farne a meno… Non te lo so neanche spiegare… Sei in ogni cosa che faccio, a casa, nel negozio, dappertutto… tu mi rendi una persona migliore e mi dispiace, so che la tua vita senza di me sarebbe migliore forse, ma non ho la forza di rinunciare a te, non posso sopportare tutto ancora una volta… so che è egoista e mi dispiace, mi odio, io…»
Le lacrime ormai le solcavano il viso e lei non riusciva a fermarle. Sentì le braccia di Killian attorno al suo corpo, forti e sicure e il suo odore le inondò le narici, il cuore e la mente.
Sapone, pelle e mare.
Casa.
«Ti amo anch’io Swan… ti amerò sempre, nonostante tutte le stupidaggini che hai detto…» le sussurrò e lei, chissà perché, ci credette davvero.
 
 
«Killian…»
«Swan, se devi dire altre cazzate, ti prego di chiudere la bocca…»
La donna gli riservò un’occhiataccia.
«No, Emma davvero… tu credi che la tua partenza mi abbia fatto solo male e forse è così, mi ha fatto più male che bene, ma ci sono state delle cose belle, delle cose veramente belle!»
La donna alzò le sopracciglia, curiosa, incitandolo a parlare. Avevano sciolto l’abbraccio ma erano ancora vicini ed Emma riusciva a sentire ancora il suo odore e il suo respiro.
Le lacrime si erano seccate, alcune sulle guance, altre sulle ciglia. Ringraziò il cielo che, quel giorno, si era sentita talmente stanca che non aveva avuto neanche la forza di truccarsi.
«Dopo quell’incidente, continuai a bere e… vivere alla giornata, se così vuoi chiamarlo… fino a Natale…»
«Natale? Perché?» chiese la donna, non riuscendo a tenere a freno la curiosità. Se ne accorse e cercò di rimediare.
«Se non vuoi…»
«Non lo so… Stavo vomitando, di nuovo, e mi resi conto che non potevo sprecare la mia vita in quel modo, che non era questo che ti aspettavi da me e così, il giorno dopo, andai in quel rifugio dove qualche volta andavi tu… Mi fecero vestire da Babbo Natale e mi misero a servire stufato caldo… Non mi sono mai sentito più idiota di così sai?! Ma ero un idiota felice… Da allora, ho passato lì tutti i Natali… Avevi ragione… All’inizio non volevo ammetterlo ma non ci misi molto a capire quanto fossi stato stupido e arrogante…»
Così Emma conobbe Will, il bambino che, per primo, gli aveva chiesto di disegnare una casa; conobbe James e la sua fissazione per i gatti, la signora che amava le azalee e il signor Thompson che gli aveva insegnato a giocare a scacchi.
Killian le parlò di come decise di voler continuare gli studi, del giorno del diploma e di come Liam sembrava essere fiero di lui quando, vestito di tutto punto, chiamarono il nome di suo fratello e gli consegnarono quel pezzo di carta, sebbene un po’ di ritardo…
Le disse che, di tanto in tanto, andava ancora alla loro panchina e si chiedeva dove lei fosse e se fosse felice. Passò molto tempo, però, prima che potesse farlo quasi senza rancore nei suoi confronti.
Le raccontò della prima volta che vide Milah e del tuffo al cuore che lei gli provocò. Le disse di quando andarono a ballare e di quando lei gli fece cadere, per sbaglio, una caraffa intera di vino rosso addosso e lui, per vendicarsi, l’aveva ripagata con la stessa moneta.
Emma ascoltava in silenzio, sorridendo quando lui sorrideva.
Era la prima volta che lo vedeva così sereno.
Quando nominò Milah, il cuore di Emma si strinse. Non poteva essere gelosa, non ne aveva nessun diritto e lo sapeva.
Non era gelosia, forse invidia ma non le fece male come credeva, anzi.
Il pensiero di quella donna la consolò più di tutto il resto, perché era esattamente ciò che lei gli aveva augurato in quella lettera. Quella donna lo aveva curato, aveva cercato di ricucire le ferite che lei gli aveva provocato.
Le era stranamente riconoscente per aver fatto ciò che lei stessa, non aveva avuto il coraggio di fare.
Ma avrebbe rimediato.
«Mi dispiace per Milah…» disse, quando l’uomo finì di parlare. Gli posò una mano sulla spalla e sperò che bastasse, che capisse che le dispiaceva davvero.
«Anche a me…»
Fissò ancora il mare per un po’, quasi come volesse prendere in prestito un po’ della sua forza e poi lo spostò su di lei.
«Emma…» cominciò, dopo aver preso un lungo respiro.
«Non ti ho detto tutto questo perché mi piace parlare di me o del mio passato… Ci sono cose che, probabilmente, se potessi tornare indietro cambierei… Quello che sto cercando di dirti è che ti ho raccontato tutto questo, non perché volevo che provassi pietà per me ma per farti capire che ho dovuto affrontare parecchie difficoltà nella mia breve vita, è vero, ma ci sono stati tanti momenti belli, indimenticabili, momenti in cui ho davvero creduto che la felicità poteva essere alla mia portata! Il lavoro che ho scelto, mi ha dato tantissime soddisfazioni; le persone che ho amato le ho portate sempre con me e mi aiutavano ad andare avanti… Milah, mia madre, Liam e da due anni David e Robin, Roland e anche tu…»
Gli occhi di Emma si inumidirono di nuovo.
«Non mentivo quando ti ho detto che non ho mai potuto dimenticarti… c’eri il giorno del mio diploma, c’eri quel giorno in quel bagno schifoso, c’eri a Natale e sulla panchina e c’eri anche l’ultima volta che ho salutato Milah…»
«Killian…»
Gli carezzò la guancia, cercando di trattenere ancora le lacrime.
«Per cui ti prego, smettila di incolparti! Non ho avuto una vita miserabile, almeno non del tutto…» sorrise, abbassando lo sguardo.
«Ho smesso di incolparti per il mio passato, probabilmente nello stesso istante in cui ti ho rivisto e ti prego, ti prego smettila di farlo tu! Perdonati, perché io l’ho fatto… Smettiamola di parlare del passato, pensiamo al domani, a ciò che ci aspetta dopo Gold e la sua dannata casa! Pensiamo alla “Missione Genitori” – disse facendola ridere tra le lacrime – a Henry e alle sue prime cotte, a questo grande, immenso sentimento che provo ogni volta che ti guardo… ti va?»
Emma annuì e lo strinse a sé, provando l’innato e disperato desiderio di volerlo proteggere per sempre e, giurò a sé stessa che sarebbe stato tutto quello che avrebbe fatto per il resto della vita.
Amarlo e proteggerlo, sempre, cercando di rimediare agli errori che, dodici anni prima, lei stessa aveva compiuto.
 
 
David sbatté gli occhi, cercando di mettere a fuoco ciò che aveva davanti.
Sentiva un vocio indistinto intorno a lui ma non riusciva a distinguere nessuna voce in particolare.
Richiuse gli occhi, massaggiandosi la testa. Il braccio pesava più di quanto si aspettasse…
«David?! David?!»
L’uomo riaprì di scatto gli occhi e tutto divenne più chiaro.
Mary Margaret era difronte a lui, l’espressione preoccupata e timorosa.
Riuscì a distinguere ogni lineamento del suo viso, ogni piccolo capello che le copriva la fronte. Vide i suoi occhi piccoli, la bocca piegata all’ingiù.
«Presumo tu gli abbia dato la buona notizia Mary! Be’, da quanto mi dicevi, credo che l’abbia presa piuttosto bene…»
L’uomo che aveva visto poco prima era accanto a lui.
Sbatté le palpebre e si guardò intorno. Era su una barella, in uno dei tanti corridoi dell’ospedale.
Che fossero forniti anche del reparto “Padri sotto shock?!”
«Il nostro papà non ha niente di grave! Forse un calo di zuccheri…» disse, puntandogli una luce gialla negli occhi.
«Adesso vado Mary! Ci rivediamo qui domani per tutti gli accertamenti e, nel caso…»
Lasciò la frase in sospeso e David continuava a non capirci un bel niente.
“Nel caso…” cosa?
Il cuore cominciò a battere forte nel petto e lui guardò la sua fidanzata, cercando una spiegazione.
Lei era muta.
Il dottore se ne andò, il camice svolazzava dietro di lui come se fosse un mantello e lei gli fece un cenno di saluto.
«Mary…» cominciò, mettendosi seduto sulla barella, le gambe che quasi sfioravano il pavimento.
«David io non… Te lo avrei detto, lo giuro, io… Mi dispiace…»
L’uomo parve non ascoltare neanche una singola parola.
«Cosa intendeva prima quel dottore?!»
Lei alzò lo sguardo e lui notò che gli occhi le si erano velati di lacrime e allora capì, si maledisse per essere stato così stupido, così idiota da aver accostato il suo nome alla parola “Padre” nel giro di due secondi e, nel profondo, di aver provato perfino un segreto piacere nel farlo…
«Tu… Non lo vuoi?!» chiese e non seppe dire se quella voce che era fuoriuscita dalla sua gola fosse davvero la sua o meno. Era così grave e ansiosa e…triste?!
Mary Margaret non riuscì più a trattenere le lacrime che le scesero copiose sul viso, bagnandole le guance. Abbassò la testa e poi sentì che due mani calde la presero per le spalle.
«È… voglio dire… è mio figlio?!»
«Certo che è tuo, idiota! Come ti viene in mente di pensare una cosa del genere?!» mormorò la donna tra le lacrime. David sapeva che, se non fosse stata in quello stato, probabilmente gliene avrebbe fatte passare di tutti i colori dopo quella domanda.
«Mary hai pensato di…»
Abortire.
La parola era chiara nella sua mente, dolorosa, quasi fosse ricoperta di spine e pronunciarla gli avrebbe provocato un male fisico.
La ignorò, non l’avrebbe pronunciata, non poteva.
«Credevi che io potessi non esserne stato felice?»
La voce ridiventò calda e gentile, come sempre.
La donna cercò di asciugarsi le lacrime e parlare con voce ferma.
«Non ne avevo idea David! Non sapevo come avresti reagito e io…» lasciò la frase in sospeso, quasi temesse di scoppiare di nuovo a piangere da un momento all’altro.
«Tu?»
«Avevo paura… Avevo paura di perderti, ho paura di perderti! Guarda, sei svenuto non appena hai saputo tutto!»
«Ero sorpreso!» la interruppe l’uomo! «Non è esattamente una delle cose che mi sarei aspettato oggi!»
«È stato un incidente David e noi… ci conosciamo da così poco, come possiamo mettere su una famiglia e…»
Quell’odioso malloppo che aveva in gola, ancora non decideva a sparire. Si stava mordendo il labbro inferiore con tutta la forza del mondo per evitare di scoppiare a piangere di nuovo.
«Mary Margaret, guardami!» mormorò David, mettendole di nuovo le mani sulle spalle. I loro occhi si incontrarono e lei cercò in tutti i modi di non immaginare un meraviglioso bambino dagli occhi blu come i suoi.
«Tu vuoi questo? Vuoi tutto questo assieme a me? Perché io… Io penso che non potrei chiedere di meglio… Voglio dire: so che è presto e che non l’avevamo previsto e che io sono svenuto (non intenzionalmente, lo sai!) e che ci sono mille altre ragioni per cui non dovremmo farlo però io ti amo e tu ami me, chissà per quale motivo! E ho paura, ho una paura tremenda perché non avevo mai pensato di diventare padre tanto presto, però se ci sei tu, io penso che potrei affrontare qualsiasi cosa… ma solo se tu lo vuoi… tu lo vuoi?»
«Non c’è niente che desideri di più al mondo!» affermò, senza lasciargli neanche il tempo di finire di parlare e non mentiva.
Non appena aveva saputo di quella notizia inaspettata, il mondo aveva preso a girare in una direzione diversa. Sentiva la vita, la vita vera scorrerle nelle vene, quasi fosse magia. Per un attimo, si era sentita sopraffatta da tutto quello, da quell’agglomerato di sentimenti, amore ed emozioni che aveva provato quando le avevano detto che una nuova vita stava crescendo in lei.
Poi l’aveva visto lì, venirle incontro con il suo sorriso e i suoi occhi azzurri e aveva sentito tutto, aveva capito tutto e la paura le aveva attanagliato il cuore.
Se lui non l’avesse voluto? Se lui non fosse stato pronto?
Era svenuto tra le sue braccia, confermandole ciò che in cuor suo temeva.
Il dottor Whale le aveva parlato di quella possibilità, di abortire e aveva letto qualche cosa sul suo telefono ma il suo cuore sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo.
Quel bambino era vita ed era amore e non importavano le circostanze, non importava niente perché lei l’avrebbe amato e protetto nonostante tutto.
Tuttavia sentire quelle parole sincere pronunciate dalla voce dell’uomo che amava, le fece sparire un peso sul cuore che, era convinta, avrebbe dovuto sopportare per il resto della vita.
David l’attirò tra le sue braccia e lei, chiudendo gli occhi e ispirando il suo profumo, si lasciò finalmente andare alle lacrime e alle fantasie.
Dietro i suoi occhi chiusi, un bambino biondo dagli occhi azzurri, le sorrideva felice.
 
 
Erano sul pianerottolo dell’appartamento di Emma, lei cercava freneticamente le chiavi nella borsa e lui la guardava divertito.
Dopo ciò che gli aveva detto sul molo, il suo cuore aveva minacciato di uscire fuori dal petto e poi di essere calpestato e frantumato ancora una volta. Preferì non pensarci, preferì scuotere la testa e credere che lei ci avesse messo una pietra sopra e non avrebbe tirato più fuori quell’argomento. Sembrò assurdo, perfino a lui.
Quando finalmente Emma trovò ciò che stava cercando in quella borsa che, era sicuro, era più grande di quanto sembrasse, tirò un sospiro di sollievo.
Alla sua domanda del perché non si limitasse a suonare il campanello e aspettare che Henry accorresse ad aprire, lei gli rispose che nel caso il bambino stesse compiendo qualche marachella, lei l’avrebbe colto sul fatto.
Forse “marachella” non era esattamente il termine che aveva usato e forse, anzi, quasi sicuramente, quello non era esattamente un ragionamento che filava più della “questione Mc Donald’s”, ma lui si limitò a scuotere le spalle e la testa, divertito.
«Henry sono a casa!» annunciò, facendosi da parte per farlo entrare e appendendo il giubbotto rosso di pelle all’attaccapanni lì vicino.
Lui la imitò e la seguì in cucina.
Il bambino non ci mise molto a scendere di corsa le scale, stringendo forte un libro enorme. Salutò entrambi e prima che Emma potesse chiederglielo annunciò che aveva già finito tutti i compiti.
«Che bravo!» mormorò la donna, scompigliandogli i capelli.
Il bambino alzò gli occhi al cielo e poi sorrise.
«Allora posso giocare alla Wii?» chiese, speranzoso e quando la madre annuì, lui le diede un piccolo bacino sulla guancia e scomparve in salone.
Emma e Killian lo seguirono con lo sguardo.
«Prime cotte eh?! Non pensi sia ancora piccolo?» chiese la donna, ricordando ciò che lui le aveva detto prima.
«Che dici Swan! Io alla sua età ero già un piccolo rubacuori!» disse con un sorriso sghembo, sapendo che l’avrebbe sicuramente infastidita.
«Sì, me lo ricordo…» borbottò la donna, prendendo tutto l’occorrente per preparare il caffè.
L’uomo rise.
«Sai, dovresti dirlo a David…» mormorò la donna, dopo qualche minuto di silenzio.
Killian sembrò non capire. Aggrottò le sopracciglia, la domanda muta si leggeva chiara nei suoi occhi.
«Lui ti vuole bene… e anche tu gliene vuoi…» mormorò la donna.
«Certo che gli voglio bene!» affermò sicuro.
«E allora?»
«Be’, non posso uscirmene e dirgli “ehi Nolan, sappi che a diciott’anni sono quasi morto però adesso sto bene, tranquillo!”»
Il cuore di Emma sussultò ancora una volta a quelle parole ma cercò, quanto meglio poté, di mascherarlo.
«No, però penso ti farebbe bene parlarne con qualcuno che non sia… come dire… direttamente interessato nella vicenda… Che so, magari una serata tra uomini…»
«Emma…»
Aveva ricominciato, lo sentiva. Altro che pietra sopra!
«Che c’è?»
«Non so cosa voi donne pensate delle “serate tra uomini” ma dipingerci le unghie raccontandoci segreti, non è neanche nella lista!»
Emma gli lanciò un’occhiataccia, cercando di non ridere. Non ci riuscì e un sorriso divertito le si dipinse sul viso.
«Ok capitano! Come non detto! Che ne dici di andare a vedere cosa combina Henry? Vi porto la merenda tra qualche minuto…»
Alzando le sopracciglia, sorpreso che Emma avesse lasciato perdere così facilmente, si alzò dallo sgabello che aveva occupato e si andò ad accomodare accanto ad Henry.
Emma li seguì con lo sguardo e non poté evitare di sorridere. Una famiglia, ne era sempre più convinta, lei ce l’aveva già.
 
 
«Ehi giovanotto! Allora come andiamo?» gli chiese l’uomo, sedendosi accanto a lui sul tappeto.
Lui non distolse lo sguardo dallo schermo, mormorando un distratto “Bene”.
Dopo qualche minuto, quando tutti gli incursori erano stati uccisi, il bambino mise pausa, voltandosi prima verso la cucina e poi verso Killian.
«Tu e la mamma avete chiarito eh?» sussurrò per non evitare che la donna li sentisse anche se, Killian ne era piuttosto sicuro, l’avrebbe fatto comunque. Non sapeva come, ma l’avrebbe fatto.
Si grattò la nuca, imbarazzato. Quello non era esattamente un campo di conversazione adatto ad un bambino, per di più figlio di colei che… insomma, figlio di Emma.
«Tua madre ti ha detto che avevamo litigato?!»
«Be’… non proprio! Mi ha detto che…»
Prima che potesse finire la frase, Emma arrivò in salone con una tazza di caffè e un bicchiere di succo all’arancia.
Porse la prima a Killian e il secondo ad Henry, riservando ad entrambi un sorriso.
«Di che parlavate?» chiese, curiosa.
I due si scambiarono uno sguardo, in preda al panico.
«Ehm… Henry mi stava spiegando come funziona il suo nuovo gioco… Sai quello che gli ha prestato…»
Gli aveva prestato chi?
«Hans! Quello che mi ha prestato Hans!»
Il bambino accorse in suo soccorso.
Emma annuì e i due non seppero se lo fece perché l’avevano convinta o perché non l’avevano fatto.
Ad ogni modo, stupendo entrambi, la donna si alzò e annunciò che si sarebbe chiusa in bagno per una “doccia rigenerante”.
Killian alzò un sopracciglio, contrariato. Avrebbe potuto raggiungerla ma cosa avrebbero raccontato ad Henry?! Non era esattamente il caso di sparire, così si arrese all’idea di dover fare da babysitter per l’intero pomeriggio… Non che il bambino non gli piacesse, anzi! Ma aveva paura che ritirasse fuori l’argomento della “lite” e lui non ne aveva le forze. Aveva combattuto così tanto con Emma affinché non ne parlassero più e adesso era suo figlio a tirare fuori l’argomento…
In realtà era piuttosto sorpreso che Emma avesse deciso di parlarne proprio con lui. La conosceva, sapeva che non era esattamente il tipo da rivelare i suoi problemi così facilmente e soprattutto ad estranei. Ma Henry non era un estraneo, era suo figlio ed era un bambino. Forse aveva solo bisogno di sfogarsi, forse gli aveva detto qualche “bugia bianca” per spiegargli il suo malumore…
Con quelle domande in testa seguì la figura di Emma sulle scale e poi quando sentì una porta sbattere, riportò la sua attenzione allo schermo della televisione.
«Henry…» cominciò.
«Sono felice che tu e mia madre siate fidanzati!»
L’uomo per poco non si strozzò con quel po’ di caffè che era rimasto nella tazza.
«Mh… S-sì… Cioè io non potrei…» abbassò lo sguardo sul pavimento e si grattò la nuca.
Stavo balbettando e lo sapeva.
Era in imbarazzo e sì, sapeva anche questo. Ma cosa diavolo stava per dire?
Non potrei mai prendere il posto di tuo padre.
Si fermò in tempo, si fermò quando si accorse che quel ragazzino, un padre non l’aveva mai avuto, né l’aveva mai conosciuto.
«Io amo tua madre Henry e lei ama me… abbiamo fatto tanti errori in questi anni ma ci siamo ritrovati e io non ho intenzioni di lasciarla… di lasciarvi…»
Aveva bisogno di rassicurarlo, di dirgli che ci sarebbe stato per qualsiasi cosa avesse avuto bisogno e che, non importava cosa sarebbe successo, lui non l’avrebbe lasciato.
L’idea di diventare padre non gli era mai passata per il cervello o almeno, mai per un lasso di tempo così elevato. Eppure con gli occhi di quel bambino puntati addosso, non poteva non pensarci.
«Lo so…» gli disse e, dal suo tono di voce, Killian capì che forse non l’aveva mai neanche dubitato e questo gli provocò, al tempo stesso, una fitta di piacere e di paura.
«È per questo che ho bisogno che tu mi aiuti a fare una cosa…»
«Se posso, farò tutto ciò che mi è possibile…»
Il bambino continuava a fissarlo con i suoi occhi nocciola, curiosi e pronti a divorare il mondo.
«Voglio ritrovare mio padre»
 
 
 
 
 
 
 
 




Buonasera gentee! :)
Prima di cominciare il mio sproloquio mensile, volevo sinceramente ringraziare le undici persone che mi hanno lasciato una recensione per lo scorso capitolo!
GRAZIE! GRAZIE! GRAZIE!
Non immaginate quanto le vostre parole mi abbiano ispirato ed aiutato per tutto questo tempo, sin dall'inizio della storia! Grazie! Quando ho cominciato questo "viaggio" non avevo la minima idea che così tante persone l'avrebbero seguito e soprattutto, avrebbero seguito me! (parlo anche di voi, lettori silenziosi! E voi, che preferite/seguite/ricordate!)
Quindi Grazie davvero di cuore a tutti voi e in modo particolare a Spongass, Gaialor95, pandina, k_Gio, Lady Lara, Alexies, Arya, simogi, Persefone, Chipped Cup ed Erin (sì, so che ci sei anche tu, anche se Efp non mi fa leggere la recensione!)
Questo capitolo è per voi!  
Ok, questa era la parte importante! Adesso inizio lo sproloquio xD
Ecco a voi il nuovo capitolo!! È un capitolo molto ricco e spero davvero che vi sia piaciuto! Ho cercato di rendere le reazioni dei protagonisti il più naturalmente e fedelmente possibile e mi auguro di esserci riuscita! (Fatemi sapere!)
Emma (ovviamente) è sconvolta dalla rivelazione di Killian e si prende del tempo per pensare… Si rende conto però che non può più lasciarlo, perché non lo sopporterebbe! (Killian festeggia!)
E gli ha anche detto che lo ama! (Finalmente! xD)
Per quanto riguarda il rapporto con Henry… penso che l’avevamo un po’ tralasciato ultimamente e ho voluto riprenderlo! Henry è un bambino molto intelligente e perspicace e sebbene abbia promesso a sua madre che non si caccerà nei pasticci, ha tutte le intenzioni di ritrovare suo padre e ha chiesto addirittura l’aiuto di Killian per farlo… Cosa succederà?
Passando a Robin e Regina… Finalmente la donna ha avuto qualche gioia! Ma… quanto tempo durerà? (#Sìforsesonounpo’crudele)
E infine (ma non per importanza!!) Mary Margaret e David!! Vi avevo detto che ci sarebbero state delle sorprese! E spero, di fatto, di avervi sorpreso! È un’idea che mi frullava in testa sin dall’inizio della storia e… niente, vedremo come continuerà! :D
Ripeto (per la 29038939 volta!) Grazie a tutti! Sarei davvero felice di sapere i vostri pareri su quest’altro capitolo anche questa volta!!
Non so quando sarò in grado di pubblicare di nuovo (conoscendomi, passerà un po’ di tempo!) perché, molto probabilmente, mi trasferisco per via dell’università quindi ci metterò un po’ a sistemarmi! Ma tranquille, non potrei abbandonare né voi, né la storia! Soprattutto adesso che OUAT sta per tornareee!! (-12! *-*)
E inoltre, ci sono tante altre domande ancora a cui dare una risposta! Killian deciderà di aiutare Henry? E dov’è finito Neal? Si farà vivo? Gold licenzierà tutti perché non fanno altro che cincischiare? Bonolis aiutali tu O Belle riuscirà a tenerlo a bada? Chi sono i veri genitori di Emma? Mary Margaret e David hanno quindi deciso di tenere il bambino/a? 
Ma soprattutto… Perché il gatto di Regina si chiamava Sydney? E questo spazietto finirà mai o sarà più lungo del capitolo? xD
Se avete teorie o proposte, sono sempre qui, più curiosa che mai! :) 
Adesso la smetto sul serio... 

Un grande abbraccio a ciascuno di voi e se siete arrivati fin qui, siete dei veri eroi! xD
A presto!
Kerri :*
 
 
 
PS: ho notato che, andando avanti, i capitoli diventano sempre più lunghi! Per voi va bene?! Fatemi sapere! :*

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Capitolo 23
*** Missing ***


22. Missing

 

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Se sapessimo cosa ci aspetta, saremmo più bravi a vivere?
Eviteremmo di ficcarci nei guai, di commettere errori,
di dire cose di cui ci pentiamo?
Forse sì.
Faremmo la cosa giusta, prenderemmo la decisione migliore,
ma soprattutto non proveremmo quel fastidioso disagio
tutte le volte che la vita ci sorprende.
-Sara Rattaro
 
 
 
Tremava.
Tremava e non riusciva a respirare, né a pensare.
Dio. Dio. Dio.
Stava bestemmiando?!
Oh al diavolo, non gliene importava un fico secco.
Qual era il campanello giusto?
Maledizione, non poteva perdere altro tempo!
C’era il suo nome o quello del precedente inquilino sul campanello?
Maledizione, ma quanti erano?
Aveva detto due volte “Maledizione” nel giro di tre secondi…
Cazzo.
Ecco, meglio.
A che piano abitava?
Aspetta…
Aveva mai suonato il suo campanello?!
Oh no, certo che no.
Stupida.
Stupida.
Tremava più di prima.
Lui le aveva dato le chiavi, in quel periodo in cui era all’ospedale. Come aveva fatto a dimenticarlo?
Aprì la borsa.
Sentì il portone aprirsi e vide il portiere che la salutava, dall’altro lato del vetro.
C’era mai stato? Forse sì.
Ma non aveva il tempo di pensarci adesso.
Dio. Dio. Dio.
Cazzo.
Fa’ che sia in casa, fa’ che sia in casa.
Corse su per le scale, non aveva neanche tempo di aspettare l’ascensore.
Aveva il cuore in gola e il respiro affannato.
Aveva freddo e caldo e non riusciva a pensare a niente e grazie al cielo c’era il passamano perché aveva rischiato di cadere più di una volta.
Arrivò con il fiatone davanti alla sua porta.
Si appoggiò per qualche istante per riprendere fiato ma non aveva tempo neanche per quello.
Dio, Gesù, Allah qualunque sia il tuo nome, ti prego fa’ che sia qui, fa’ che sia qui!
Suonò il campanello.
Attese.
Suonò di nuovo.
Sentì dei passi strascicati, tirò fuori l’aria che non si era neanche accorta di aver trattenuto e la porta si aprì.
«Swan!»
Si precipitò dentro, andò in camera da letto, in cucina, in bagno e in salone.
«È qui?! Ti prego, dimmi che è qui!» mormorò quando l’uomo, spaesato, si frappose tra lei e la camera degli ospiti.
Lo scansò e aprì anche quella porta.
Vuota.
«Chi?! Swan ma che diavolo…?!»
Una strana consapevolezza le avvolse il cuore, il cervello e perfino lo stomaco.
Le veniva da vomitare e piangere e probabilmente tremava ancora perché quando Killian la prese per le spalle, preoccupato, cercando di calmarla, un brivido la scosse fin dentro le ossa.
«Emma! Emma che cosa è successo?! Parlami! Ti prego!»
Gli occhi si bagnarono e probabilmente anche le guance.
Era sul lastrico.
Tutte le sue paure stavano diventando realtà.
«Henry… - singhiozzò – Lui è…»
«Cosa Emma? È cosa?»
«È scomparso…» 

 
Una settimana prima
 
Se in quel momento gli avessero chiesto quale fosse il superpotere più utile, lui avrebbe sicuramente risposto “Diventare invisibile”.
Probabilmente aveva aperto la bocca o se non l’aveva fatto, l’avrebbe fatto di lì a pochi istanti.
Probabilmente era preparato a tutto, ma non a quello.
Si grattò la nuca, cercando di distogliere lo sguardo dagli occhi nocciola che, imperterriti, lo fissavano in attesa di una risposta.
Cosa doveva dire?
Cosa si diceva in quei casi?
C’era qualcuno che si era mai trovato in una situazione, anche lontanamente simile alla sua?
Ne dubitava fortemente.
Deglutì, cercando di guadagnare tempo.
Pensa pensa pensa pensa.
Cosa doveva fare?
Acconsentire a quella follia avrebbe significato mentire ad Emma e lui non pensava di riuscirci, non dopo ciò che era successo tra loro.
In più, lei gli aveva raccontato che razza di persona fosse il padre di suo figlio e quasi sicuramente, quest’ultimo non sapeva neanche dell’esistenza del bambino di fronte a lui.
Tuttavia non voleva neanche deludere il suddetto bambino perché credeva in lui a tal punto da avergli confidato una simile intenzione.
Era piuttosto sicuro che Emma sarebbe andata su tutte le furie se solo l’avesse saputo.
Pensa pensa pensa pensa.
«Henry…» cominciò, sperando di riuscire a trovare le parole adatte per non rovinare ciò che, in quei mesi, aveva costruito.
Di solito era bravo a scegliere le parole, quelle più giuste, le migliori, ma non l’aveva mai fatto di fronte ad un bambino semi-adolescente, un bambino a cui, di fatto, aveva cominciato a voler bene.
Cinque minuti fa gli era addirittura passato per la testa di potersi considerare a tutti gli effetti suo padre e adesso? Cos’era successo?
«Hai parlato con tua madre di questa tua… intenzione?» mormorò, pregando tutti i santi che conosceva e perfino quelli che non conosceva, che la donna in questione comparisse magicamente sulle scale e mettesse fine a quella situazione.
«Sì… ma lei non vuole raccontarmi tutta la storia! Dice che non è il momento, che sono piccolo e sciocchezze del genere! Non è vero! Io sono grande e voglio conoscerlo…»
«Sai che io non l’ho mai visto, vero?» chiese, titubante. Forse voleva farlo demordere ma non ottenne esattamente il risultato sperato.
«Sì, ma a te la mamma risponderà! Tu puoi chiederglielo, ovvio che sei più grande di me, anche se anche io sono grande ma comunque tu indagherai e poi mi dirai tutto, proprio come stai aiutando la mamma a trovare i suoi genitori…»
«Henry, so che sei grande ma…»
«A meno che… - l’espressione del bambino si illuminò e saltò in piedi, poi si ricordò che non avrebbe dovuto gridare e quindi cadde di nuovo sul tappeto, mormorando -…tu non sappia già qualcosa!»
Prese il silenzio di Killian come un “sì” e batté piano le mani, esultando. Se non fosse stato in bilico tra lo scegliere se mentire alla donna della sua vita e aiutare il figlio della donna della sua vita a cercare il padre che li aveva abbandonati senza neanche un ripensamento, probabilmente avrebbe anche sorriso.
«Avanti, dimmi tutto!»
L’uomo sospirò pesantemente.
«Henry… t-tu cosa sai esattamente?» chiese, timoroso, sapendo che probabilmente si stava cacciando in un guaio perfino peggiore.
«Che ha fatto una cosa brutta alla mamma però lui non era cattivo…»
Emma allora gli aveva detto qualcosa.
«Capisco… e nonostante questo tu vuoi cercarlo comunque? Non pensi che non sia giusto nei confronti di tua madre?» chiese, cercando in tutti i modi di farlo ragionare.
«No! Io voglio cercarlo così lui può chiederle scusa e io posso conoscerlo e così tutti e tre andremo avanti con le nostre vite… Mamma potrà sposarti e io potrò avere due papà!» mormorò il bambino.
Se avesse avuto qualcosa in bocca, sicuramente Henry si sarebbe ritrovato bagnato fradicio.
Lui? Sposarsi?! Con Emma?!
Cosa?
Perché poi Henry ne sembrava tanto certo?
Ovvio, l’amava, era la donna della sua vita, l’aveva pensato poco prima ma… il matrimonio?! Lui stesso, non ci aveva neanche pensato… Perché Henry ne sembrava tanto sicuro?
E poi, quando fu riuscito finalmente ad accantonare l’immagine di un’Emma radiosa in abito bianco in un angolo del suo cervello, un'altra domanda, lampeggiante e fastidiosa, gli si presentò davanti.
“Due papà…”
Aveva detto questo, no?
Quindi lo considerava come un padre, giusto?
Un grande sentimento di soddisfazione, tenerezza e gioia, gli inondò il petto ma durò troppo poco, tingendosi presto di una piccola sfumatura di invidia.
Lui non gli sarebbe bastato, non era abbastanza, Henry avrebbe sempre riservato nel suo piccolo cuore un posto per il suo padre biologico e una vocina (sicuramente quella fastidiosa della coscienza!) gli suggeriva che sarebbe stato da egoista, reclamare anche quel posto.
Quindi?!
Cosa aveva concluso? Un bel niente. Fantastico.
Maledizione.
Pensa pensa pensa pensa.
«Henry capisco come ti senti, davvero, ma penso che tua madre abbia ragione… ti prego non odiarmi!» disse e si sentì lui stesso un bambino, uno stupido e un bambino che supplicava ad un altro bambino di non andare a spifferare alla mamma che aveva mangiato i biscotti appena sfornati.
Fantastico.
L’espressione del ragazzino si incupì. Forse si rese conto che, colui che credeva potesse diventare un alleato, si era apertamente schierato dalla parte del nemico e Killian si odiò per questo.
«Ascoltami Henry… io capisco che tu voglia sapere la verità ma devi anche capire un’altra cosa… vedi, per me e per tua madre è molto difficile parlare del nostro passato e soprattutto della nostra infanzia… - prese un sospiro, chiedendosi se quella fosse la cosa giusta ma non lo sapeva, non l’avrebbe mai saputo, così continuò… - tua madre, come sai, non ha mai conosciuto i suoi genitori e, quando era piccola ha sofferto molto per questo…»
«Sì, ma che c’entra questo con mio padre?!» chiese stizzito il bambino.
«Ti prego, lasciami continuare… lei… lei soffre ancora per questo e non riesce a capire come quelle persone hanno potuto lasciarla così… io invece… be’, non so se Emma ti abbia raccontato qualcosa della mia infanzia ma per i primi anni è stata abbastanza normale… poi mia madre morì e mio padre non si riprese mai più… lui… - deglutì, non credeva che avrebbe riaperto quella ferita tanto presto – lui se la prese con me e mio fratello e qualche volta ci fece perfino del male…»
«Ma…»
«Quello che sto cercando di dirti Henry è che le persone non sono sempre buone come credi tu… alle volte ci sono delle persone che, per un motivo o per l’altro, commettono degli sbagli e fanno soffrire coloro che amano… Io so cos’è il dolore, fidati e anche Emma lo sa… Quello che lei sta cercando di fare è cercare di proteggerti da questo dolore, da questa delusione… Probabilmente tuo padre non è la persona che credi, probabilmente ha fatto qualcosa che ha ferito Emma e lei sta cercando di evitare che possa fare lo stesso anche con te, perché è tua madre e ti vuole bene…»
Henry non rispose.
Stava cercando di assimilare quelle parole, dare loro un senso o chissà, ritrovarlo.
«Quindi devo… arrendermi?» chiese infine, marcando quell’ultima parola, quasi fosse completamente estranea al suo vocabolario.
«No, no! Assolutamente!» si affrettò a rassicurarlo l’uomo.
«Nonostante questo, io penso che tu meriti di sapere la verità solo… non adesso… vedi, prima mi hai detto che tua madre ti avrebbe raccontato tutto, prima o poi! E stai pur certo che lo farà… Emma è una brava madre e non lo dico soltanto perché le voglio bene…»
«La ami…» lo corresse il bambino, con ovvietà.
Killian abbassò lo sguardo imbarazzato, poi annuì.
«Non lo dico perché la amo, ma perché lo è veramente! E tu ne sei la chiara dimostrazione! Ti ha cresciuto da sola in questi anni e ti ha reso quello che sei, intelligente, spontaneo, simpatico e gentile… ma, per quanto lei ti ami, sa che prima o poi dovrà lasciarti andare, sa che prima o poi anche tu riceverai la prima delusione, la prima ferita… sta soltanto cercando di ritardare il più possibile quel momento, sta solo cercando di proteggerti…»
Henry sembrava spaesato, Killian si passò una mano sugli occhi, cercando di riordinare le idee.
«Ascolta, so che questo discorso adesso potrà sembrarti sconclusionato e potresti non aver capito niente di ciò che ho detto e va bene così, però devi promettermi che aspetterai ancora un po’, che non farai niente di avventato… siamo intesi? E ti prego, tieni a mente ciò che ti ho detto perché prima o poi, ti sarà tutto chiaro…»
Il bimbo annuì.
«Io… io posso prometterti che potrei parlare con Emma per convincerla a far diventare quel “prima o poi” più prima e meno poi… che dici?!»
Il ragazzino sembrava ancora confuso ma, quando alzò lo sguardo, gli parve più tranquillo.
Annuì.
«Tu… tu non sai proprio niente quindi?»
«Posso solo ipotizzare Henry e se tutte le serie tv poliziesche mi hanno aiutato davvero a diventare un investigatore, posso dirti che ciò che lui le ha fatto, non è stato bello…»
«Quindi tu non gli concederesti neanche il “beneficio del dubbio”?»
Killian spalancò gli occhi.
«Qui qualcun altro è appassionato di NCIS, eh? Non sei un po’ troppo piccolo?» rise, chiedendosi come qualsiasi essere umano non potesse voler bene a quel bambino.
«Io no Henry, io non glielo concederei però capisco che tu voglia sapere qualcosa su di lui…»
«Sai dirmi almeno come si chiamava?» chiese, titubante.
Cavolo cavolo.
Killian prese un respiro.
«Neal, si chiamava Neal»
 
 
Emma prese un bel respiro. Stava cercando di metabolizzare quanto aveva appena sentito ma proprio non riusciva a trovare un senso a quelle parole.
Espirò.
Doveva calmarsi…
«Ma sei impazzito?!» urlò.
Ecco, tentativo fallito.
«Jones, te lo giuro, se fossimo in cucina ti avrei già tagliato una mano!»
Fortunatamente per Killian, prima di cominciare a raccontarle quella storia, era riuscito a farla accomodare sul divano, dandole anche un bicchiere d’acqua che temeva di ritrovarsi addosso da un momento all’altro.
«E poi, quando avevi intenzione di parlarmi di tutto questo?!»
Emma chiuse gli occhi, cercando di calmarsi.
«Te ne avrei parlato Swan, te lo giuro! Ma Henry sembrava avesse accantonato il discorso, sembrava fosse tornato tutto normale e io pensavo…»
«Mio figlio è… mio figlio! È più testardo di me e quando si mette in testa di fare qualcosa… Dio, dove sarà? E se lo rapiscono?» si alzò, passandosi una mano sugli occhi e cercando di pensare lucidamente.
«Non credi che…?» chiese l’uomo titubante, incapace di anche solo prendere in considerazione quella possibilità.
«Certo che lo credo! È andato a cercarlo, maledizione!»
Continuava a fare avanti e indietro, percorrendo tutta la stanza a grandi passi.
«Ma… ma che ne sa, insomma, non gli ho mica detto il cognome! Sei sicura che sia scomparso? Non è che ti sei dimenticata di andare a prenderlo da qualche amico?»
Cercare di allentare la tensione con un’Emma Swan furiosa e in preda a degli istinti omicidi a due passi di distanza?! Mai, mai, mai.
Killian se lo appuntò ad un angolo del cervello, sicuro che gli sarebbe sicuramente ritornato utile.
Si limitò a lanciargli un’occhiata a dir poco glaciale.
«Sono andata a prenderlo da scuola e la maestra ha detto che non si è presentato quando stamattina mi ha salutato e ha preso l’autobus come sempre!»
«Ok… E Regina? Non può essere con lei?»
«No, l’ho chiamata… è in Accademia, sta lavorando e non lo vede da due giorni! Dio, se solo riuscisse a trovarlo io…»
Lei cosa?
Cosa avrebbe fatto?
Avrebbe riaperto anche quell’altra ferita? Si sarebbe presentata alla sua porta come se niente fosse e gli avrebbe detto “Ehi ti ricordi di me? Sono quella che hai usato e sfruttato per un anno e poi abbandonato senza pietà… Ah guarda, c’è anche nostro figlio…”
Cercò di frenare quei pensieri perché altrimenti questa volta, avrebbe vomitato sul serio.
«E i suoi amici? Hai controllato in negozio? Hai provato a chiamarlo?»
Eccola, un’altra occhiata glaciale. Killian pensò che se le sue occhiate avessero davvero il potere di congelare qualcuno, di questo passo sarebbe diventato una statua di ghiaccio in meno di dieci minuti.
«Credi che sarei in queste condizioni se non l’avessi già fatto?!» mormorò minacciosa.
«Ok, ipotizziamo che avessi ragione e il ragazzino fosse andato davvero a cercare il padre… come ha fatto a trovarlo? E non abitava a Los Angeles?»
«Killian svegliati!! Siamo nel ventunesimo secolo, esiste Facebook, esiste Internet, esiste la tecnologia! Deve aver cercato il suo nome da qualche parte… - riabbassò il tono di voce-…Neal… l-lui non è come i miei genitori! Lui non ha motivo di nascondere le sue tracce e… Che diavolo stai facendo adesso?!» chiese, seguendo i movimenti dell’uomo.
Si era diretto speditamente verso il suo laptop, abbandonato sul bancone della cucina.
«Sto usando la tecnologia, Swan! Sai com’è, visto che esiste…»
Emma alzò gli occhi al cielo pensando a quanto, anche in casi estremi come quello, Killian dovesse sempre comportarsi da bambino. In due falcate lo raggiunse e si posizionò dietro le sue spalle.
«Il telefono che ho regalato ad Henry… deve pur avere un GPS no? Quindi almeno sapremo se si trova ancora a New York o no…»
Il battito del cuore di Emma non era mai stato così assordante come in quel momento. Se lo sentiva in gola, nel petto, nella pancia, dappertutto. Aveva la pelle d’oca e un malloppo in gola che non accennava a sparire, non finché non avesse ritrovato suo figlio.
«È a New York!» esclamò l’uomo, dopo aver smanettato qualcosa sulla tastiera.
«Sei sicuro?» chiese, cercando di mascherare il sollievo che, inevitabilmente, aveva cominciato a riempire la sua voce.
«Sì… un mio ex collega mi ha insegnato a usare questo programma ed è più che affidabile!»
«Non voglio neanche sapere a cosa vi serviva…» mormorò la donna, concentrandosi su quel pallino rosso che lampeggiava sotto la scritta New York.
«Motivi lavorativi…»
«Sì, certo…»
Alzò gli occhi al cielo.
«E adesso?» chiese la donna, sperando che tutta la lucidità che a lei mancava, fosse infusa nel cervello dell’uomo di fronte a lei.
«Cerchiamo di arrivare dal tipo, prima che lo faccia Henry…» mormorò quello, aprendo la sua pagina Facebook e cominciando a digitare il suo nome.
«Allora qual è il cognome?»
«Cassidy… Neal Cassidy…»
 
 
«No, ti prego!» si lamentò la donna, giungendo le mani e chiudendo gli occhi.
«Cosa? E perché no? Non c’è niente di male…»
Mary Margaret riaprì prima un occhio e poi l’altro e vedendo che David non aveva minimamente accennato a chiudere la chiamata, sperò almeno che nessuno rispondesse.
Chiunque stesse chiamando, certo.
Oh Dio.
«Ma che fretta c’è? Non possiamo aspettare, che ne so, un altro mese? Due? Tre?» si lamentò, lasciandosi cadere sul divano del suo fidanzato.
Ragazzo, si corresse mentalmente.
O fidanzato? Dopotutto stavano per avere un figlio…
No, ragazzo. Non le aveva mica chiesto di sposarlo, no?
No.
Vide l’uomo davanti a lei sbuffare e fissare il telefono, borbottando qualcosa.
Il suo cervello si ricollegò alla realtà.
«…ma perché diavolo quell’uomo non risponde mai? A cosa gli serve un telefono se non lo usa?»
Ipotizzò avesse chiamato Killian che, purtroppo (nel suo caso, per fortuna) non aveva risposto.
Mary Margaret non si era mai davvero considerata una donna riservata. Certo, quando aveva perso entrambi i suoi genitori, le costò molto aprirsi con il resto del mondo e lasciare che quest’ultimo, la aiutasse a superare il dolore ma all’epoca, era diverso.
Quello che stava vivendo non era un periodo felice, anzi.
Di solito, se si trattava di belle notizie, non aveva paura di condividerle con le persone a lei care perché sapeva che loro sarebbero state felici assieme a lei.
Ma questa volta, era ancora diverso. Era qualcosa di così privato e intimo che non se la sentiva di condividere la notizia con nessuno. Era la loro gioia, la loro piccola gioia, il frutto del loro amore.
Sapeva che tutti sarebbero stati felici per loro, ma questo e chissà cos’altro la bloccavano.
Dopotutto, erano solo tre settimane, sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa, sarebbe potuta sorgere qualsiasi complicazione e di colpo, tutta la felicità, tutta la gioia, sarebbero svanite.
Era strano, lo sapeva.
Essere pessimista non era da lei.
Ma sentiva che, questa volta, era giusto così. Tenere la notizia riservata per un po’.
Tuttavia, a quanto pareva, David non era dello stesso avviso.
«E adesso chi stai chiamando?!» chiese, notando che aveva ripreso in mano.
«Né Robin, né Killian mi rispondono! Peggio per loro! Adesso, è impossibile che lei non risponda!» disse allegro, mentre, mantenendo il telefono tra l’orecchio e la spalla, preparava il caffè per entrambi.
«Lei chi?»
L’uomo le fece segno di stare zitta e lei si trattenne dal lanciargli un cuscino direttamente su quel bel faccino che si ritrovava e no, non aveva minimamente accostato “bel” e “faccino” riferendosi al suo.
Una voce rispose dall’altra parte del telefono e il sorriso di David si allargò.
«Mamma!! Devo darti una bellissima notizia!»
Mary Margaret si passò le mani sul viso, sprofondando ancora di più nel divano e nei cuscini.
Sarebbe stata una lunga convivenza, questo era poco ma sicuro.
 
 
Erano in macchina.
Lo sapeva, Neal era a New York, maledizione! Strinse ancora di più le mani sul volante e sperò che l’uomo al suo fianco non se ne accorgesse.
Una parte del suo cervello, sapeva che era impossibile, che lui riusciva a leggerle dentro come mai nessuno aveva fatto però, come si diceva? La speranza è l’ultima a morire…
Cosa stava facendo, per l’amor del cielo?
Non vedeva il padre di suo figlio da undici anni e adesso aveva davvero intenzione di presentarsi nella sua camera d’albergo e dirglielo come se niente fosse? Come se fosse una questione di poco conto?
E cosa avrebbe significato per lei quell’incontro? E per lui? E per Killian? E per Henry?
Era pronta?
Era paranoica?
Sì, certo, ma c’erano ottime ragioni per esserlo.
Non aveva mai pensato all’eventualità di rivederlo, non di proposito, almeno. Se le fosse capitato di incrociarlo per strada (ne dubitava fortemente), avrebbe semplicemente cambiato strada. Ma adesso? Adesso era lei, con il suo cervello e le sue gambe ad andare dritta dritta da lui, a lanciarsi direttamente nel più profondo dei burroni.
Era in ansia perché era certa che se gli avesse detto la verità, l’uomo avrebbe insistito nel voler conoscere suo figlio.
Ovvio, sempre se lui non fosse già arrivato e non l’avesse già fatto…
Il solo pensiero, le fece rizzare i peli delle braccia e salire tanti piccoli brividi lungo la schiena.
Doveva concentrarsi.
Sulla strada, su quella situazione, sulla realtà.
Eppure frenare quei pensieri, quelle preoccupazioni, si stava rivelando più difficile del previsto.
Era sicura che sarebbe passata come la cattiva, colei che non aveva permesso ad un padre di godersi l’infanzia di suo figlio e a un figlio, di non poter crescere accanto a suo padre.
Ma cosa avrebbe dovuto fare?
Neal era sparito.
Neal le aveva mentito.
Neal aveva una famiglia dalla quale ritornare.
Lei era stata una semplice distrazione, un modo per rendere più piacevole la sua permanenza nella “Grande Mela”.
Lanciò un’occhiata all’uomo al suo fianco, cercando di scacciare tutti i pensieri negativi che le stavano annebbiando la mente e ritornando alla realtà.
Lo trovò con gli occhi puntati fuori dal finestrino.
Sembrava piuttosto comico, a dir la verità: un uomo grande e grosso, all’interno del suo piccolo maggiolino giallo. In altre circostanze (molto lontane da quella in cui si trovavano adesso) avrebbe sicuramento riso, prendendolo in giro.
Chissà come aveva fatto a convincerlo a salirci su e chissà perché lui non aveva insistito neanche più di tanto nel voler prendere la sua super macchina…
Ringraziò il cielo o chiunque ci fosse lì sopra per averglielo rispedito, per averglielo riportato accanto, dove avrebbe sempre dovuto essere, da dove non si sarebbe mai dovuto muovere.
Vide il semaforo al quale erano fermi diventare verde e ripartì.
«Sai dov’è l’hotel, vero?»
Non poté fare a meno di spostare ancora, per qualche secondo, lo sguardo verso Killian.
Non si era minimamente mosso.
Eppure era piuttosto certa di aver parlato.
O stava forse impazzando?
L’uomo non si era spostato di un millimetro, la testa appoggiata al braccio e lo sguardo perso nelle strade colorate e multietniche di New York che, piano piano, si preparavano ad accogliere quello che, di certo, era considerato da tutti come il periodo più bello di tutto l’anno: Natale.
Le vetrine avevano iniziato a diventare sempre più bianche, le prime luci erano comparse a illuminare le strade ed era sicura che da un giorno all’altro, al Rockfeller Center, avrebbero inaugurato, anche quell’anno, il grande albero.
Come se stesse leggendo i suoi stessi pensieri, capì subito ciò che turbava Killian, quasi turbasse lei stessa.
«Non è colpa tua…» mormorò, tornando a guardare la strada.
L’uomo spostò lo sguardo su di lei e sembrava indeciso se crederle o meno.
«Fammi indovinare… è colpa tua, no?!»
Emma sorrise, alzando gli occhi al cielo. Non era uno dei più bei sorrisi che Killian avesse mai visto sul suo volto, questo era certo, ma era diverso e lui, non l’aveva mai visto.
Era stanco e rassegnato e sicuro e divertito, triste e adulto.
Non avrebbe saputo come altro descriverlo…
«Già…»
«Sì, forse è vero…»
Emma alzò un sopracciglio, non credendo alle sue orecchie.
«Avresti dovuto raccontargli che razza di persona fosse ma, se non fosse stato per me, Henry non l’avrebbe mai trovato… Perdonami… i-io…»
Si grattò la nuca e ritornò a guardare fuori dal finestrino, stringendo la mascella.
«Pensavi che con quel discorso lui avesse abbandonato l’idea di cercare suo padre…»
Emma finì la frase per lui e Killian non se ne stupì neanche più di tanto.
«Già…»
«Non è colpa tua, Killian. Mio figlio è…testardo… e sì, avrei dovuto raccontargli tutto dalla prima volta però, non ne ho avuto il coraggio…»
Nessuno dei due parlò, persi nei propri pensieri.
«Ad ogni modo, per quel che ne vale, è stato proprio un bel discorso, mi sarebbe piaciuto ascoltarlo…» mormorò ad un tratto lei, guardandolo di traverso per spiare la sua reazione.
Scosse la testa e sorrise un po’.
Forse…
Forse aveva davvero bisogno di sentirselo dire. Certo, lei non sapeva della parte in cui suo figlio si era dimostrato piuttosto certo sul loro “neanche-poi-così-lontano” matrimonio ma, nel suo racconto, aveva preferito omettere quella parte per non provocarle ulteriori rischi di infarti.
Emma, dal canto suo, non mentiva.
Quello era stato davvero un bel discorso e ne era più che certa, Killian sarebbe stato un ottimo padre, un giorno.
 
 
«Questo spettacolo sarà un disastro…» mormorò Regina, scorrendo con gli occhi i fogli che Ella, la sua assistente, le aveva appena portato.
Avrebbe voluto dedicarlo a sua madre, a ciò che, in tutti quegli anni, aveva fatto per quella scuola, a tutti i sacrifici che aveva dovuto compiere per mandare avanti la sua prestigiosa reputazione.
Aveva persino immaginato di voler inaugurare una targa, in suo nome.
Ma come avrebbe potuto dedicarle un simile… sfacelo?!
Regina non trovava altre parole per definirlo.
Si massaggiò la testa con una mano, mentre con l’altra reggeva ancora quei documenti. Avrebbe voluto gettarli, incenerirli, darli in pasto ai cani…
Fortunatamente avrebbero usato il teatro interno alla scuola perché se non avessero avuto neanche quello, non avrebbero potuto permettersi neanche l’affitto di una stanzetta!
Ma dove diavolo erano finiti tutti i fondi?
Da quando sua madre si era ammalata, i registri che, di solito, annotava minuziosamente, erano tutti scarabocchiati e disordinati.
Come al solito, Cora non aveva sentito il bisogno di condividere con qualcuno ciò che le stava capitando, pensando semplicemente che, prima o poi, sarebbe semplicemente guarita, come se si trattasse di una normale influenza...
Lo nascose a tutti, persino a Regina e non fu neanche poi così tanto difficile visto che non si vedevano che due o tre volte al mese.
Poi la situazione peggiorò e le cose fecero il loro corso, fino ad arrivare a quel momento, a quei documenti che Regina adesso stringeva in mano.
Se non avesse trovato abbastanza fondi per finanziare tutto lo spettacolo, lo avrebbe annullato.
Avrebbe parlato con il sindaco, con chiunque, ma non vedeva altra soluzione.
Togliere le borse di studio?
Non avrebbe mai potuto.
La preside Mills, in quel po’ di tempo che era trascorso dal suo incarico, si era fatta conoscere e rispettare da tutti, questo sì, anche se molti ancora pensavano si trovasse lì solo per favoreggiamento, soltanto perché era la figlia dell’ex preside... Tuttavia, per quanti fossero, erano relativamente pochi se confrontati con tutti gli altri.
Aveva messo le cose in chiaro fin da subito e nessuno aveva osato contraddirla.
Ad ogni modo, per quanto fosse una persona autoritaria, Regina non era malvagia e non poteva togliere a molti dei suoi studenti la possibilità di realizzare il loro sogno.
Licenziare i docenti?
E chi? Tutti lì compivano il loro dovere, tutti erano indispensabili. Certo, avrebbe potuto almeno diminuire lo stipendio di alcuni ma se la scuola voleva mantenere il suo livello di prestigiosità, qualcuno doveva pur pagarne il prezzo.
Per un attimo, desiderò non avere tutte quelle responsabilità sulle spalle, desiderò essere al negozio, con Emma, a catalogare strani oggetti e a gettarne altri, sorseggiando del caffè, come ai vecchi tempi.
Fu un solo secondo perché, in fondo, sapeva lei stessa che quello, adesso, non era più il suo posto.
L’Accademia lo era e lei l’avrebbe salvata!
Doveva trovare una soluzione e in fretta...
Non poteva gettare la spugna, la scuola non poteva semplicemente chiudere.
Cosa avrebbero fatto gli insegnanti? Cosa avrebbe pensato la gente? E soprattutto cosa ne sarebbe stato dei suoi studenti?
Un momento…
Gli studenti…
E se…
Sì, forse poteva funzionare, forse aveva trovato una soluzione, forse avrebbe potuto dimostrare a tutti che non era semplicemente lì per nepotismo o favoreggiamento, ma perché valeva qualcosa.
«ELLAAAA!» urlò.
La giovane si presentò sull’uscio della porta, in meno di dieci secondi.
Bene, finalmente stava migliorando, pensò.
«Non far entrare nessuno per le prossime… due ore! Devo fare qualche telefonata!»
Lo disse con così tanta austerità che Ella non osò fiatare, né chiedere altro, intuendo da sola l’importanza di quanto le fosse stato detto.
La preside Mills si sarebbe giocata il tutto per tutto in quelle due ore.
«Va bene, signorina Mills… cancello tutti i suoi appuntamenti… Buon lavoro…» mormorò, chiudendosi la porta alle spalle.
Regina fissò il telefono per un po’, poi afferrò la cornetta e digitò qualche numero.
Che la fortuna sia dalla mia parte, pensò, almeno questa volta.
 
 
Avevano trovato un parcheggio esattamente di fronte all’hotel, dove si supponeva alloggiasse Neal. Lo avevano scoperto perché Emma aveva chiamato la reception, chiedendo che gli fosse recapitato un messaggio e il tipo, dall’altra parte, non aveva sbattuto ciglio.
Per modo di dire, ovviamente.
Non che si trovassero così vicini da poter vedere la reazione dell’uomo dietro il bancone…
Ad ogni modo, quest’ultimo, stranamente, la scambiò davvero per una conoscente dell’uomo, quasi lui stesso gli avesse detto che qualcuno avrebbe potuto contattarlo in giornata. Strano, ma neanche più di tanto, visto di chi stavano parlando.
Emma restò al gioco e, allo stesso tempo, indagò.
Secondo quell’uomo, nessun bambino solo si era presentato all’hotel quel giorno, in cerca del signor Cassidy.
Emma tirò un sospiro di sollievo quando, dopo aver sentito la notizia, chiuse letteralmente il telefono in faccia a quel tipo. Certo, sapeva che fosse troppo presto per cantare vittoria ma, almeno, era un inizio.
Killian, accanto a lei, aveva ascoltato tutto.
«Che facciamo?» chiese, puntando i suoi occhi chiari dritti in quelli di Emma.
«Non lo so…» mormorò la donna, a bassa voce, fissando ancora l’entrata dell’albergo.
«Potremo perlustrare la zona, vedere se Henry è qui…»
«E se Neal… - le costava un po’ pronunciare il suo nome ad alta voce, doveva ammetterlo – dovesse tornare?»
Killian la vide spostare lo sguardo alla ricerca di uno zaino o di una familiare sciarpa a strisce.
«Vai…» mormorò, capendo al volo, come sempre.
«…io aspetterò qui, se lui torna e Henry si fa vivo… cercherò di fermarlo prima che possa commettere qualche… sciocchezza…»
Emma annuì. Avrebbe voluto dirgli tante cose, ringraziarlo per essere lì con lei, per capirla, per incoraggiarla, per non forzarla, per capirla soprattutto.
Avrebbe voluto dirgli tante cose ma il suo cervello non riusciva a pensare lucidamente, non in quella situazione, non con suo figlio disperso, lì fuori, alla ricerca di un padre che, per colpa sua, non aveva mai avuto.
Avrebbe voluto dirgli tante e invece si sporse un po’ verso di lui e gli diede un rapido bacio sulla guancia e poi, uscì.
Una volta rimasto solo, Killian poté permettersi di lasciarsi andare, al nervosismo, alla frustrazione, alla preoccupazione.
Diamine sì!
Era dannatamente preoccupato!
Perché non aveva funzionato?
Pensava di essere stato bravo… non lo diceva per vantarsi, ma l’aveva pensato davvero, aveva davvero pensato di poter riuscire a compensare quella pesante assenza, a colmare se non tutto, almeno un po’ di quel vuoto che albergava nel cuore di quel bambino.
Era stato egoista?
Forse.
Sapeva che non era giusto giudicare una persona troppo presto, soprattutto se non l’aveva neanche conosciuta, tuttavia non poteva farne a meno.
Neal o come diavolo si chiamava, non era degno di Henry, non era degno di averlo nella sua vita, non era degno neanche di considerarsi suo padre, non dopo ciò che aveva fatto ad Emma.
Come poteva considerarsi suo padre se, per primo, non aveva portato fede alla famiglia? Se aveva tradito sua moglie con la prima giovane e ingenua ragazzina che gli era capitata sotto tiro?
E gli faceva male, Dio quanto gli faceva male, considerare Emma un’ingenua e giovane ragazzina ma, all’epoca, era questo e lui se n’era approfittato.
Si considerava migliore di quell’uomo?
Prima di Emma, prima di quella fatidica cena a casa dei Gold, probabilmente non avrebbe neanche notato la differenza.
Certo, sapeva che tipo di uomo fosse e che tipo di uomo volesse diventare ma anche lui aveva commesso i suoi sbagli, anche lui aveva i suoi scheletri nell’armadio.
Adesso?
Adesso stava cercando, in tutti i modi che riusciva ad escogitare, di meritarsi quell’amore che aveva trovato (o ritrovato, per certi versi) così, da un giorno all’altro, e che aveva riempito di colori la sua triste e monotona vita.
Adesso cercava di essere migliore, migliore di prima, non tanto per Emma, quanto per suo figlio.
Ed era stupido, lo sapeva, sapeva in cuor suo che avrebbe dovuto lasciare a quell’uomo “il beneficio del dubbio” come lo aveva chiamato Henry, potevano esserci diecimila spiegazioni per il suo comportamento e per un po’ ne valutò anche qualcuna ma, era più forte di lui, non ci riusciva, non riusciva a capacitarsi di come lui, che aveva avuto la fortuna di poter essere accanto ad Emma, l’avesse abbandonata così, da un giorno all’altro, come una vecchia bambola di pezza.
Ed era stupido anche il fatto che si fosse affezionato in così poco tempo a quel ragazzino ma non poteva farci niente, non volerlo ferire era divenuta anche la sua di missione…
Perso nei suoi pensieri non si accorse di una figura che, a testa bassa, si incamminava verso l’entrata dell’hotel.
Non ci mise molto a riconoscerlo e non ci mise molto neanche a decidere cosa fare.
Spinto dalla sua innata impulsività, prese le chiavi del maggiolino (anche se dubitava che qualcuno l’avrebbe mai rubato) e uscì. Attraversò in fretta la strada, probabilmente beccandosi qualche bestemmia da parte di qualche automobilista e lo raggiunse.
Cosa gli avrebbe detto?
Non ne aveva la più pallida idea.
Ma l’improvvisazione era il suo forte, no?
 
 
«Stia più attento!»
«Mi scusi…»
Che diavolo sta facendo?
Qualcuno lo fermi!
È completamente impazzito??
«Sto cercando questo ragazzino… per caso l’ha visto qui in giro?»
È completamente impazzito.
Adesso lo raggiungo e lo uccido!
Io, con le mie stesse mani e… Dio!
L’uomo, di fronte a lui, Neal, fissa per un po’ lo schermo del cellulare, poi scuote la testa, si gira ed entra nell’hotel, come se niente fosse, come se non avesse appena visto una foto di suo figlio.
Certo, come può saperlo?
Killian si guarda un po’ intorno, forse sta pensando di chiedere a qualcun altro passante, giusto per non destare sospetti o forse sta solo aspettando il momento giusto per attraversare.
Emma si stupisce di sapere, così bene, cosa gli passa per la testa.
Eppure, qualcosa nella loro specie di telepatia era andata storta perché se avesse saputo cosa l’uomo stava per fare, di certo glielo avrebbe impedito.
Killian guarda prima a destra e poi a sinistra e poi fissa il maggiolino. Si rigira le chiavi in mano, è nervoso.
È nervoso? Certo che lo è, lo era anche lei, lo è anche lei.
Sa quanto quello che ha appena fatto sia stato azzardato?
Certo che lo sa, come potrebbe non saperlo? Eppure l’ha fatto lo stesso!
Dio!
La vede, dall’altro lato della strada e in quell’istante Emma sa che lui ha capito, sa che lei ha visto tutto.
Glielo avrebbe detto? Probabilmente sì ma con calma, quando quella storia si sarebbe risolta e quell’incubo finito.
Era arrabbiata?
In cuor suo, sapeva che avrebbe dovuto esserlo.
Dopotutto, aveva passato dieci anni della sua vita nel cercare di dimenticare quell’uomo, di cancellarlo dalla sua memoria e dalla sua vita e questo implicava anche dimenticare che fosse il padre di suo figlio.
Per tutti quegli anni aveva cercato di mantenere un profilo basso, vivere la sua vita, se non nell’ombra, ma quasi. Sapeva che Neal non aveva più nessun interesse per lei e forse non si ricordava neanche più che faccia avesse ma, volente o nolente, quell’uomo aveva lasciato un’impronta indelebile nella sua vita, un’impronta che era difficile da ignorare perché, di fatto, camminava e respirava ed era la persona più bella e buona che avesse mai potuto incontrare.
Per tutti quegli anni, una parte di lei, però, aveva continuato ad illudersi.
Illudersi che, semmai Neal avesse visto Henry, un giorno, qualcosa in lui sarebbe scattato, lo avrebbe riconosciuto, se ne sarebbe accorto perché aveva le sue stesse sopracciglia e la sua stessa espressione furba e la sua stessa tendenza a mettersi nei guai.
Lo avrebbe riconosciuto e lei non aveva mai saputo dire cosa avrebbe fatto in quel caso.
La sua paura più grande era che lui, quell’uomo, glielo avrebbe portato via, avanzando pretese campate in aria, accusandola di non essere una buona madre.
A volte, si era svegliata nel cuore della notte, tremante e in lacrime e si era dovuta alzare per andare a controllare che Henry stesse tranquillamente dormendo nel suo letto, per calmarsi.
Alte volte, soprattutto nei primi tempi, si era ritrovata a fantasticare sul come sarebbe stato.
Come sarebbe stato se lui non se ne fosse andato?
Se lei glielo avesse detto?
Sarebbero stati una famiglia?
All’epoca, lei era innamorata di quell’uomo ma, prima o poi, sapeva che si sarebbe svegliata da quell’incantesimo e si sarebbe accorta che tipo di persona avesse al suo fianco.
Adesso?
Adesso non lo sapeva e non voleva saperlo, semplicemente perché non le importava.
Quel futuro, con lui, non le importava più.
Il suo futuro era Henry ed era Killian e loro, lo sarebbero stati per sempre.
Quindi sì, avrebbe dovuto essere arrabbiata perché, con quel gesto, Killian aveva mandato all’aria dieci anni di paure, di dubbi e sacrifici ma, quando lui la raggiunse e la guardò, con quei suoi occhi blu e disarmanti, lei capì che in fondo, non lo era.
Forse non ne aveva le forze, forse (e molto più probabilmente) aveva altre cose, ben più importanti a cui badare.
Quel gesto, per Neal, non aveva significato niente.
Per loro, invece, sapere che l’uomo non avesse incontrato Henry, era di vitale importanza.
«Emma…» cominciò lui.
«No, non dire niente, non devi scusarti, hai fatto ciò che credevi fosse giusto e adesso… adesso sappiamo che Henry non è stato qui…»
Lui annuì e poi la abbracciò e lei si lasciò abbracciare perché, in fondo, era ciò di cui entrambi, avevano bisogno.
 
 
Dopo essersi rinfilati nella macchina di Emma, non parlarono più di tanto. Passarono di nuovo dal negozio, dalla scuola, perfino dallo studio di Killian (anche se Henry non sapeva che fosse così vicino alla sua scuola) e andarono anche da Regina. La sua assistente, confermò loro che Henry non si era presentato lì e che non era possibile disturbare la preside Mills per nessuna ragione al mondo e lo disse con uno sguardo talmente spaventato e perentorio che né Emma, né Killian osarono controbattere.
Così, dopo un’ora e mezza a girovagare senza trovare nessuno, i due decisero che era meglio tornare a casa e, nel caso, coinvolgere la polizia.
«Hai provato a chiamarlo al cellulare vero?» chiese l’uomo, mentre salivano le scale dell’appartamento della sua ragazza.
«Mi prendi in giro?» chiese quella, minacciosa.
Se era un modo per allentare la tensione, be’, non ci stava riuscendo per niente.
E se in quell’ora, Henry fosse riuscito a trovare Neal? E se, proprio in quel momento, lui stava raccontando al bambino la sua versione della storia, convincendolo a lasciarla per sempre e scappare con lui e la sua famiglia perfetta?
Era paranoica?
Certo, ma questo l’aveva già appurato.
Aprì la porta, non stupendosi neanche che non fosse chiusa a chiave vista la fretta con cui aveva lasciato l’appartamento quella mattina.
Si fece da parte per lasciare a Killian lo spazio per entrare, poi la fece sbattere alle sue spalle e si sfilò il giubbino di pelle.
Tutti gesti automatici, tutti gesti dettati dalla quotidianità. Ma ci sarebbe stata ancora quotidianità se Henry non fosse stato più lì? E se neanche la polizia sarebbe stata capace di trovarlo? Certo, era la polizia ma quanti film aveva visto in cui la polizia non faceva che uno sbaglio dopo l’altro, finché non archiviava il caso perché non era in grado di risolverlo? Lei avrebbe dovuto aspettare finché che un giovane e in gamba detective, a distanza di chissà quanti anni, lo avrebbe riaperto e avrebbe fatto luce sulla sparizione di suo figlio…
Oh Gesù, stava peggiorando.
Henry non poteva essere… non riusciva neanche a pensarlo.
Scosse forte la testa, cercando di scacciare via quei brutti pensieri.
«Emma… dovresti venire in cucina un attimo!»
La voce di Killian risuonò più o meno lontana e la riportò alla realtà. Si diresse verso la cucina, quasi come un robot, e ciò che vide la spiazzò.
«Henry…»
 
 
«Credi sia una buona idea?» ripeté Regina per la duecentesima volta, mentre lo fissava mandare giù l’ultimo involtino di primavera.
Robin si pulì con il tovagliolo e bevve un sorso d’acqua, poi rivolse la sua attenzione al figlio che, proprio accanto a lui, stava litigando con le bacchette.
«Non lo credo… - mormorò- ne sono sicuro!»
Regina, di fronte a lui, tirò un sospiro di sollievo. Avere la sua approvazione era importante per lei. Non riusciva a capire quando esattamente aveva cominciato a dare peso al suo parere, se il giorno prima o quello in cui si erano conosciuti. In realtà, non le importava neanche più di tanto.
«Hai parlato con il sindaco e ti ha dato l’approvazione! Perché hai ancora questi dubbi?»
«Non lo so… ho paura… il sindaco è stato solo la prima delle tante persone da convincere…» ammise, guardando in basso, gli avanzi del pollo alle mandorle che aveva mangiato.
L’uomo le posò la mano sulla sua.
«Andrà bene! Ce la puoi fare…» disse, sicuro, fiducioso.
In quel momento della sua vita, Regina si accorse di aver esattamente bisogno di sicurezza e fiducia.
«Lo spero… Grazie per essere con me…» mormorò, abbozzando un sorriso.
«Grazie a te, per avermelo permesso…»
Anche lui sorrise e fu un sorriso bello, se fosse stata una tipa romantica, avrebbe addirittura detto che si trattava di un sorriso innamorato ma lei restava Regina Mills, e non si sarebbe spinta a tanto.
«Quindi nei prossimi giorni avrai parecchio da fare, immagino…»
«Già… e prima di tutto, mi aspetta un’altra persona da convincere ad aiutarmi in questo casino e credimi, sarà una delle cose più complicate e difficili che io abbia mai fatto in tutta la mia vita…»
Robin rise un altro po’.
«Cioè?»
Regina sospirò.
«Emma…»
«Credi che non vorrà aiutarti? Ma è tua amica e capirà…»
«Lo spero… dovrò convincerla in qualsiasi modo!»
«Ce la farai! Non ti ho mai visto fallire…»
«Sono umana anch’io eh!!» mormorò la donna, sorridendo, non avvezza a sentirsi così al centro dell’attenzione.
Qualcosa nello sguardo dell’uomo le diceva che tutto quello che stava dicendo, non erano bugie e non era un vano tentativo di portarla a letto.
Lui ci credeva veramente.
Come aveva fatto a meritarsi la stima di una persona così? Bella, pulita, sincera, onesta.
Come aveva fatto a lasciarsi amare?
Non ne aveva la più pallida idea.
Eppure era successo e pensò che dopotutto, la fortuna non le era poi così nemica.
 
 
Dopo, non avrebbe saputo dire se prima inciampò, lo abbracciò o pianse ma fece tutte e tre queste cose, non esattamente in ordine.
Lo strinse, lo strinse così forte che probabilmente sarebbe morto asfissiato e lo sentì anche lamentarsi ma non le importava perché era lì ed era vivo, sano e salvo tra le sue braccia.
Forse fu in quel momento che pianse.
«Mamma?!»
Si staccò e gli baciò tutta la faccia e i capelli e lo abbracciò ancora.
Qualche minuto più tardi si calmò e riuscì a parlare.
«Che hai fatto? Perché non rispondevi alle mie chiamate? Oddio ero così preoccupata! Perché non sei andato a scuola? Se non volevi andarci bastava dirmelo, sai che preferisco saperlo piuttosto che immaginarti in giro per New York tutto solo!»
Non la smetteva più di parlare e di abbracciarlo, quasi volesse assicurarsi che lui non si sarebbe più mosso di lì per i prossimi vent’anni o giù di lì…
Killian dovette metterle una mano sulla spalla per farla smettere.
Solo allora, asciugandosi le lacrime, notò che c’era qualcosa che non andava.
«Che hai fatto lì?!» mormorò sconvolta, fissando il livido non così piccolo che incorniciava il piccolo occhio di suo figlio.
Il bambino abbassò lo sguardo, imbarazzato.
«Ecco, io…»
«Non inventarti balle ragazzino, sai che lo capisco!» lo avvisò la donna.
«Stamattina, prima di entrare, un ragazzo un po’ più grande di me, stava prendendo in giro una nostra nuova compagna… Si è trasferita qui dall’Inghilterra e lui la prendeva in giro per il suo strano accento e perché è un po’… sì, un po’ grassottella! Ma non è mica un male questo, no? Allora io cercavo di spiegare a questo ragazzo che non è mica un male essere inglesi ma lui non mi ha ascoltato e mi ha tirato un pugno…» mormorò il bambino, distogliendo lo sguardo.
Ad Emma e Killian gli si strinse il cuore.
«E tu hai pensato bene di marinare la scuola piuttosto che andare a chiedere aiuto dalla signora Fitz? Perché non lo hai detto a lei? Perché non hai chiamato me?» chiese Emma, preoccupata.
«Perché non hai risposto alle mie chiamate? Pensavo ti fosse successo qualcosa di brutto, pensavo che… Non lo fare mai più Henry, mi hai capito?!»
Adesso la sua voce era ritornata autoritaria. Quella di una mamma che ha bisogno di farsi rispettare.
Killian non riusciva a credere alla facilità con cui quella donna, cambiasse in base alle esigenze che le si presentavano dinanzi. Ormai aveva perso il conto di quante diverse versioni di Emma aveva conosciuto…
«Ma Amy non voleva… si vergognava e così le ho promesso che non avrei detto niente ma non potevo entrare in classe così conciato e non potevo neanche tornare a casa perché… pensavo che…»
«Non avrei mai potuto sgridarti Henry… sei stato coraggioso oggi a difendere la tua amica, questo ti fa molto onore. Però hai sbagliato a non andare dalla tua maestra o a non venire da me… mi hai spaventato a morte! Pensavo che…»
Emma scosse la testa.
«Dobbiamo denunciare questa persona perché non può tirare pugni e prendere in giro le persone e passarla liscia!»
Il bambino abbassò il capo in un tacito consenso.
Poi rialzò il capo.
«Pensavi che… pensavi che fossi andato a cercare mio padre, vero?»
Emma fu spiazzata da quella domanda. Spostò lo sguardo su Killian, quasi volesse prendere un po’ della sua forza per capire cosa avrebbe dovuto fare.
«Sì…» disse infine.
«Glielo hai detto, vero?» chiese poi suo figlio, rivolgendosi all’uomo dietro di lei.
Lui annuì.
«Non lo avrei mai fatto, ve l’aveva promesso… io… io posso aspettare…»
Emma sospirò cercando di ricacciare indietro le lacrime.
Si alzò, fece il giro dell’isola e prese dal freezer gli spinaci congelati che aveva comprato qualche giorno prima dal supermercato.
Ne mise un po’ nella carta trasparente, quella che odiava con tutta sé stessa ma che, in certi casi, era più utile di quanto le costasse ammettere.
Per tutto il tempo, nessuno dei due uomini presenti in cucina, fiatò. La osservavano, incapaci di definire quale sarebbe stata la sua prossima mossa.
Emma era consapevole del loro sguardo che le perforava la schiena e la testa.
Prese un altro respiro e capì che era la cosa giusta.
Si diresse di nuovo verso suo figlio con quel pacchetto verde in mano.
«Tienilo sull’occhio e vieni a sederti sul divano…»
Il bambino non si oppose e fece ciò che sua madre gli aveva detto.
Emma e Killian seguirono i suoi movimenti.
Lui, come sempre, aveva già capito.
«È la cosa giusta?»
«Non lo so, Swan… vorrei tanto saperlo, ma non lo so…» mormorò lui, prima di appoggiare una mano sulla maniglia della porta.
«Che stai facendo?»
«Tolgo il disturbo… Non si vede?»
Cercare di scherzare in quella situazione era così inopportuno e così perfettamente da lui che Emma riuscì perfino a sorridere.
«Sì, si vede… ma perché?»
«È una cosa importante e io non c’entro niente…» mormorò, facendo segno verso il bambino che, poco in più in là, stava aspettando sua madre.
«È una cosa di famiglia e tu sei la mia famiglia…»
Non seppe dire se fu più felice o imbarazzato o timoroso in quel momento.
Abbassò lo sguardo e si grattò la nuca.
«Resta…» gli propose la giovane, tendendogli la mano.
Non ci fu bisogno neanche di pensarci. La afferrò senza remore o esitazioni inutili.
Si diressero in salotto, ognuno consapevole della presenza dell’altro accanto a sé.
«Bene Henry… è il momento di raccontarti una storia…»
 
 
 
 
Il dolore accade.
Non c’è niente da fare.
Il dolore accade. Ed è imprevedibile.
Nessuno riesce a prevedere il dolore – o almeno quanto male può fare. […]
Negare l’esistenza del dolore è negare l’esistenza della vita.
Quello che ci unisce è ciò che ci ha fatto soffrire. […]
Amare non è un «si salvi chi può»; amare è un «ti salvo perché posso».
 Ci salviamo sempre, quando ci sono lacrime da piangere. […]
Se soffri vengo da te, accolgo parte del tuo soffrire.
Soffri la metà di quanto potresti soffrire e io soffro la metà di quanto potresti soffrire.
-Pedro Chagas Freitas
 
 
 
 
 
Eccomi qui! :)
Prima di cominciare il mio solito sproloquio finale, volevo assicurarmi che stiate tutti bene! Io, fortunatamente non ho sentito niente e spero che valga lo stesso per tutti voi.
Posso solo immaginare lo spavento che, chi abita in quelle zone, abbia provato. Mi dispiace… :( 
Per quanto riguarda il capitolo… Be’ a primo impatto, questo può sembrare un capitolo meno ricco di altri e in parte, forse è così… tuttavia è molto importante ai fini della storia e non vi nascondo che è stato, in certi punti, persino più difficile da scrivere di altri! Ho amato raccontarvi del rapporto tra Henry e Killian, del discorso di quest’ultimo sulla vita e sul fatto che, nel bene e nel male, entrambi si stanno abituando alla presenza dell’altro, entrambi si stanno legando.
SPOILER: È una cosa che stiamo vedendo anche nella serie e la puntata di oggi ne è la conferma. Non inizio a parlare della puntata perché altrimenti non la finisco più… sappiate che mi è piaciuta davvero tanto e il mio povero cuore non poteva reggere tutti quegli sguardi tristi e feriti di Killian… menomale che adesso hanno chiarito tutto! <3 <3
È comparso, anche se indirettamente, anche Neal… Sono curiosa di sapere cosa ne pensate di lui... gli lascereste il “beneficio del dubbio"? E soprattutto cosa pensate del fatto che Killian si sia fatto già un’idea di questa persona… Non fraintendetemi, non lo sto difendendo perché ciò che ha fatto è chiaramente deplorevole ma quello di Killian è un pregiudizio secondo voi? Lo so che è una domanda strana xD
Quando scrivo, è come se entrassi nella testa del personaggio e Killian, in quel momento, pensava a quella cosa! Ma è giusto o sbagliato? Bah, forse sono io che mi faccio troppi problemi e sono piuttosto paranoica xD Potete anche dirmi questo, io e Emma in questo ci assomigliamo parecchio! 
Ad ogni modo questa sarà l’ultima entrata in scena per il padre del ragazzino? O potrebbe ricomparire? Vedremo vedremo…
Per quanto riguarda David, lui è felice e contento di questa super notiziona e non fa che sbandierarla ai quattro venti, anche se Mary Margaret (che è più chiacchierona di lui) non è molto d’accordo… Mi diverto troppo a scrivere le loro parti xD
Regina invece è alle prese con un gran bel problema… l’Accademia potrebbe chiudere per problemi finanziari e lei deve assolutamente trovare una soluzione. Ha un’illuminazione e ne parla con il sindaco e i suoi collaboratori e il primo la accetta di buon grado… cosa sarà? E perché ha bisogno di Emma? Lo scoprirete nel prossimo capitolo!
Ah, prima dei ringraziamenti, volevo dirvi un’ultima cosa: vi ricordate dei Gold, vero? Bene, non dimenticateli ahah e vi ricordate anche del salto temporale, vero? Non vi preoccupare, penso che ci sarà nel prossimo capitolo! :)
Bene, adesso è d’obbligo ringraziare tutte quelle persone che continuano a seguirmi. Non posso credere di essere arrivata al ventiduesimo capitolo! Questa storia è ormai parte integrante di me e solo il pensiero che prima o poi dovrà finire mi rattrista! Vi ringrazio perché se non fosse stato per voi che continuate a seguirla e a seguirmi, probabilmente non sarei arrivata fin qui.
Quindi grazie, grazie di vero cuore a tutti, in particolare a coloro che sprecano il loro tempo anche per lasciarmi una recensione. Sarei davvero felice di sapere cosa ne pensate anche di questo capitolo e spero che la storia continui a piacervi come sempre!
Un super abbraccio e alla prossima (spero presto)
Vostra
Kerri :*
 
 
 

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Capitolo 24
*** This is what you were born for ***



 

 

23. This is what you were born for



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Ama il tuo sogno se pur ti tormenta.
-Gabriele D’annunzio
 
 
Da qualche giorno, tutto era tornato alla normalità.
O quasi…
Come aveva immaginato, raccontare la verità ad Henry era stato sì liberatorio, ma forse, anche un po’ azzardato.
Ovviamente non aveva minimamente accennato al “Rabbit Hole” o al fatto che, a farle conoscere quel posto, era stato proprio il suo padre biologico. Suo figlio era intelligente ma ancora piccolo per sapere, quantomeno con certezza, che posti del genere esistessero e che, proprio sua madre, in quei posti lì ci aveva speso molto più tempo di quanto avrebbe mai immaginato.
Nei giorni successivi alla “Grande Verità”, come aveva cominciato a chiamarla nella sua testa, il morale del bambino era stato altalenante, passando da un profondo sconforto a un’utopica speranza, toccando, per un po’, persino una cieca rabbia.
Alla fine, da qualche giorno, il ragazzino aveva convenuto che il comportamento di suo padre non era stato corretto, che ciò che aveva fatto a sua madre era stato a dir poco “disdicevole”.
Sì, aveva usato proprio questo termine e sia Killian che Emma, si chiedevano ancora dove l’avesse mai sentito.
Ad ogni modo, Henry credeva ancora che, per quanto cattive fossero le sue intenzioni, Neal avesse ancora il diritto di sapere della sua esistenza, anche solo per rendersi davvero conto di ciò che aveva fatto, per toccare con mano i suoi errori.
Emma ovviamente si era arrabbiata moltissimo quando suo figlio aveva parlato di se stesso in quei termini e dopo avergli spiegato, per l’ennesima volta, che lui fosse stato la cosa migliore che le fosse mai capitata nella vita, gli aveva anche detto che non l’avrebbe fatto, che non avrebbe detto a quell’uomo della sua esistenza.
Ovviamente, dopo questa sorta di discussione, Emma ne era uscita ancora più sconvolta e preoccupata di prima.
Per questo, ora come ora, non aveva proprio tempo di pensare a ciò che Regina continuava a ripeterle da quanto? Una settimana?
«Scordatelo!»
«Ma non mi hai neanche fatto finire di parlare!» protestò la mora, stringendo i pugni lungo i fianchi.
«So dove vuoi arrivare e, no, Regina, non se ne parla!»
Emma le diede le spalle, doveva prendere le misure di quella cassapanca che le avevano portato l’altro giorno in negozio ed era meglio pensare a quello piuttosto che prendere anche solo lontanamente in considerazione l’idea di Regina.
Che pazzia.
No, non l’avrebbe fatto, non si sarebbe lasciata convincere come le altre volte.
Questa era una cosa ben diversa dal mettere o non mettere i tacchi.
No, no, no.
Assolutamente.
Ma ci stava ancora pensando?!
Dove aveva messo il metro?
«Emma, ti prego! L’Accademia potrebbe chiudere se non mi aiuti!»
Eccola, astuta come sempre.
Si stava già giocando la carta del senso di colpa. Ma questa volta, lei non si sarebbe lasciata convincere.
«Ma io ti aiuterò! Solo che… solo che non farò quella cosa!»
Regina sbuffò. Sapeva che sarebbe stata una battaglia difficile da vincere ma non era nella sua indole darsi per vinta. E poi, molte, moltissime persone contavano su di lei e lei sapeva, sapeva che Emma avrebbe potuto farle fare una bella figura! Se solo la sua amica fosse stata meno testarda e meno… be’, meno Emma!
«Perché?!» chiese, per l’ennesima volta, con le mani sui fianchi, seguendola, qualsiasi cosa avesse intenzione di fare.
«Sappiamo entrambe che muori dalla voglia di farlo da quando… be’, da quando sei nata praticamente!»
«Certo! E ho avuto i miei momenti! Adesso non è più tempo per me!»
Oh, finalmente, eccolo! Quanto avrebbe dovuto essere alta? Ci sarebbe stata bene nella camera da letto? O forse avrebbe potuto metterla nella soffitta…
E se…
No!
Emma, resta concentrata.
Resta concentrata.
Forse poteva chiamare Killian e chiedere il suo parere.
Su cosa, esattamente?
«Non essere ridicola!»
Oh, per la miseria!
«Ti sto ignorando, non si vede?!» sbottò Emma, quando, per l’ennesima volta, la donna si frappose tra lei e il dannato mobile che, dannazione, doveva misurare!
«Sì che si vede ma, ripeto, sei ridicola! Ti stai comportando da bambina capricciosa!»
Emma affilò lo sguardo e incrociò le braccia.
«Ma davvero?! Ok, lo farò…»
«Davvero?!» chiese e gli occhi della mora si illuminarono al solo pensiero.
«…Solo se lo fai anche tu!»
Il sorriso che si era aperto sulle labbra rosse di Regina, si spense così come si era acceso.
«Non essere ridicola! Io sono la preside!»
«E io non sono nessuno! O meglio, sono una povera donna che sta cercando di portare a termine un lavoro super importante, prima che il suo elfico e malvagio datore di lavoro la faccia fuori!» sbottò, arrendendosi e sedendosi a braccia incrociate sulla cassapanca o quel che diavolo era.
«Non giocare la carta di Gold, Emma! Perché te ne sei andata a Storybrooke da un giorno all’altro e lui non ti ha neanche licenziato!»
«Grazie a Belle! Sappiamo entrambe che l’avrebbe fatto se non fosse stato per lei!» sbottò Emma. Ma quando sarebbe entrato in testa a Regina che no, lei non avrebbe preso parte a quella pazzia?!
«E poi avete quasi finito, siete persino in anticipo! Quand’è che si sposano?!»
«A maggio…»
«E quando è prevista la consegna dei progetti completi e definitivi?»
«Tra una settimana…»
L’espressione di Regina era piuttosto chiara e Emma si stava innervosendo sempre di più. Sembrava dirle “Visto?! Io ho ragione e tu torto, quindi non c’è assolutamente nessun motivo perché tu non possa farlo!”.
«No, Regina, non se ne parla! E poi, consegniamo solo i progetti… sia io che Killian dovremmo comunque supervisionare che vengano presi alla lettera!»
Regina sospirò. Forse dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non ribattere ulteriormente e stava quasi per mandare tutto all’aria, quando, fortunatamente, si calmò in tempo.
Chiuse gli occhi, prese un bel respiro e si stampò in faccia un’espressione supplichevole.
«Ti prego, almeno pensaci! Oggi pomeriggio c’è il primo incontro, una specie di riunione, insomma, per vedere chi ha risposto effettivamente alla nostra richiesta! Ti prego, ti prego, vieni! Senti cosa diranno…»
«Cosa dirai! Scommetto che hai già il discorso pronto!»
«Non parlerò solo io e comunque sì, è pronto ma a te non interessa in questo momento! Vieni, portati Henry, Jones, Belle, Gold, chiunque tu voglia, ma vieni! Ho bisogno di te!»
Emma non rispose.
Restò imbronciata e pensierosa per qualche secondo.
«Perché? Perché mi vuoi così disperatamente?»
Forse fu ciò che Regina rispose in quel momento che le fece prendere in considerazione, per un solo, piccolissimo istante, la sua proposta.
«Perché ti conosco e so che puoi farcela…» mormorò, prima di raccogliere le sue cose e uscire.
Dio, quanto amava le uscite ad effetto!
E quanto era brava a convincere le persone!
 
 
«Ma perché ne stiamo discutendo adesso?!» urlò, esasperata, la donna.
«E quando vorresti farlo? Quando sarà ormai troppo tardi? No, è una cosa che dobbiamo decidere subito!»
David le si sedette accanto, sul grande divano del suo appartamento, poggiandole una mano sul ginocchio, un’aria così seria e pensierosa che, per un attimo, Mary Margaret si convinse che, in fondo, avesse ragione.
Fu un attimo, fortunatamente, perché, subito dopo, si ricordò su cosa esattamente verteva la loro conversazione.
«David, tesoro, sono incinta da neanche un mese e tu già vuoi scegliere la carta da parati della stanza del bambino!»
«Tu non vuoi scegliere il nome!» protestò lui, incrociando a sua volta le braccia.
«Perché non sappiamo neanche se sarà maschio o femmina!» protestò lei.
«Be’, potremmo fare un elenco…» azzardò lui.
«Sai che non chiamerò mio figlio “Geoffrey”, vero?!»
«Veramente io volevo proporre “Jon” e, se ci pensi, è una cosa carina, visto che è stato “Game of Thrones” che ci ha fatto avvicinare…»
«Non ci credo che tu l’abbia detto sul serio!» mormorò lei, seriamente preoccupata.
«E io non ci credo che tu voglia chiamarlo “Leopold”!»
«Ti ho solo detto che era il nome di mio padre, non che voglio chiamarlo così!» urlò lei, per l’ennesima volta.
«E poi… stai dando per scontato il fatto che sarà un maschio! E se è femmina? Giuro che se dici che vuoi chiamarla “Sansa” o “Dany”, ti uccido!»
David stava per aprire la bocca per replicare qualcosa ma la richiuse, prima che un’altra idea gli attraversasse il cervello.
«No! Neanche “Arya”!»
Mary Margaret lo bloccò, prima che potesse anche solo mettere voce ai suoi pensieri.
Ok, aveva afferrato il concetto, niente Game of Thrones…
Sbuffò.
«Come si chiamava tua madre?» chiese, dopo qualche minuto di silenzio.
«Eva…»
Lui ci pensò su un attimo.
«Non è male… mi piace!»
«David, abbiamo ancora tanto tempo per pensarci! Davvero…» mormorò lei, toccandogli un braccio.
L’uomo annuì.
«Hai ragione, Mary… abbiamo ancora tanto tempo!» convenne lui.
«Bene… vado a prepararmi una tisana!»
L’uomo la seguì con lo sguardo, mentre si incamminava verso la cucina e iniziava a trafficare con il bollitore.
Restò per un po’ in silenzio, perso nei suoi pensieri, poi, un lampo di genio.
«E cosa ne pensi di “Hermione”?»
«DAVID!»
 

«Cosa ci facciamo qui?» chiese, sbuffando e immaginando già la risposta.
«Sai Emma, non me ne avresti parlato se non fossi voluta venire…» affermò l’uomo, con ovvietà.
La donna storse la bocca ma non replicò perché, forse, in fondo aveva ragione.
Si guardò intorno e individuò subito la figura longilinea della sua amica, chiacchierare amabilmente (non avrebbe mai pensato di poter accostare “amabilmente” con la figura di Regina) con chissà chi.
Si nascose dietro Killian, sperando che lei non la notasse.
Se l’avesse fatto, l’avrebbe incastrata definitivamente e lei, lei non aveva ancora preso una decisione e riteneva di avere ancora voce in capitolo sulla sua vita… o no?
Si stava comportando come una bambina capricciosa?! Forse… ma, che importava?
Non avrebbe mai pensato che sarebbe ritornata in quella scuola, dopo così tanto tempo e adesso che era lì, non vedeva l’ora di scappare e ritornare a casa, al sicuro.
«Sai che odio lasciare Henry da solo…»
«Henry è grande e vaccinato e può benissimo restare da solo a casa per qualche ora… e, ad essere sincero, non so neanche se si sia accorto che ce ne siamo andati…»
Emma alzò gli occhi al cielo. Che idiota!
«Emma?! Sei davvero tu?»
Non seppe dire cosa accadde dopo ma si considerò piuttosto fortunata solo perché non cadde a terra, travolta da una ragazza dai lunghi capelli neri e da un profumo esotico e, allo stesso tempo, stranamente familiare.
«Esmeralda?!» chiese stranita, quando la donna si staccò.
Esmeralda era una delle ragazze con cui aveva più legato, durante gli anni in quella scuola. Aveva un talento naturale per ogni cosa, dal posare per una semplice fotografia, al ballare di fronte ad una platea gremita di gente. Emma ricordò che aveva anche una voce sensazionale e che, a volte, l’aveva persino invidiata.
«Non pensavo ci saresti stata anche tu! Che bello! Adesso non vedo davvero l’ora!» rispose la donna entusiasta.
Non era cambiata in tutti quegli anni.
Gli occhi erano ancora grandi e profondi, i capelli lunghi e neri, tenuti fermi da una fascia viola che, quasi sicuramente, era una qualche bandana che aveva comprato in chissà quale posto magnifico; alle orecchie dei grandi orecchini a forma di cerchio.
Sì, forse la invidiava ancora.
Non tanto.
Giusto un po’.
«Ma tu?! Dimmi un po’, vivi ancora in Francia?» chiese la giovane dai capelli biondi, cercando di sembrare il più entusiasta possibile.
E lo era, lo era davvero.
In fondo era felice per lei.
Ma non poteva evitare quei pensieri che, sin da quando Regina le aveva proposto di tornare, si erano appoggiati, fastidiosi, agli angoli della sua mente.
Rimpianti. Fallimenti. Ipotesi. Dubbi.
«Ho vissuto lì per un po’ di tempo, ho partecipato ad un grande musical e assieme alla compagnia abbiamo girato un po’ tutto il paese… è stato fantastico! Adesso però sono tornata in America, sai i francesi non sono molto simpatici…» rise e la sua risata, contagiò anche Emma.
«Sei sposata?»
«Oh per l’amor del cielo, no! Pensavo mi conoscessi meglio Emma!»
«Hai ragione, non sei mai stata il tipo da… relazioni durature…»
Risero.
A quel punto Esmeralda alzò lo sguardo e si accorse di Killian. Emma lo notò e quasi istintivamente, quasi a voler segnare il suo territorio, si appoggiò a lui, prendendogli una mano.
La donna dai capelli neri alzò un sopracciglio.
«E lui è…?» chiese, curiosa.
«Lui è Killian… il mio, ehm…»
«Il suo ragazzo» intervenne lui, andandole in aiuto e stringendo la mano della giovane in segno di saluto.
Si trattenne dal suo solito, galante, baciamano perché sapeva che, se lo avesse fatto, Emma lo avrebbe ucciso una volta tornati a casa.
Anche se forse non se ne sarebbe neanche accorta, considerando quanto fosse diventata rossa. Cosa aveva detto?
«Emma!»
Un’altra giovane donna andò loro incontro. Aveva la faccia cosparsa qui e lì di simpatiche lentiggini e i capelli arancioni, raccolti in due trecce che le cadevano sulle spalle.
Questa volta fu Emma stessa che, sorprendendolo, le si buttò tra le braccia.
«Anna! Non posso crederci! Oddio, non posso crederci… Mi sei mancata, mi sei mancata tanto!»
La giovane donna che, a quanto pareva, si chiamava Anna, la strinse a sua volta e Killian poté giurare persino di aver intravisto, sul suo viso, qualche lacrima.
Sorrise.
«Mi sei mancata anche tu!» mormorò, emozionata.
Anna la strinse ancora, eccitata e troppo sconvolta. Sì, si erano sentite qualche volta per email ma non aveva mai davvero abbandonato l’idea di poter rivedere la sua vecchia coinquilina un giorno.
Avevano condiviso così tanto insieme, in quel poco tempo in cui avevano convissuto…
Non poteva crederci che fossero passati così tanti anni!
La donna dai capelli rossi si guardò intorno e fece segno a qualcuno di raggiungerla.
Subito due tipetti piuttosto scatenati le andarono incontro, appendendosi alle sue gambe.
Lei li prese in braccio entrambi, sorridente.
«Loro sono Heike e Alfie, le mie piccole pesti!»
«Ciao piccoletti, ho sentito molto parlare di voi!» rispose Emma, stringendo le mani di entrambi e accarezzando loro la testa.
La bambina aveva i capelli biondi e le treccine come la madre mentre il piccolo, folti capelli arancioni e occhi chiarissimi.
«Lui è Kristoff e lei è Elsa, la ricordi vero?» mormorò quando, un uomo e una donna le si avvicinarono con un’espressione costernata, probabilmente per non essere riusciti ad evitare che i due bimbi si fiondassero in mezzo al caos tra le braccia della mamma.
«Certo che me la ricordo! Sogno ancora il semifreddo al cioccolato che ci preparasti una sera! Non penso di averne mai mangiato uno così buono!» mormorò Emma che, sorprendendo ancora una volta Killian, si stava trovando perfettamente a suo agio in mezzo a tutte quelle persone.
Elsa, una biondina dagli occhi color del ghiaccio, le sorrise imbarazzata e accettò di buon grado l’abbraccio che Emma le offrì.
Kristoff, invece, era un omone piuttosto alto e Killian non ci mise molto a capire che non solo non era americano, ma era completamente estraneo a tutto quello. Un po’ come lui, in fondo…
«Lui è…»
Stava ancora studiando quell’uomo bizzarro quando si ritrovò tra le braccia un alquanto calorosa Anna.
«Vi siete ritrovati! Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo!»
Killian guardò prima la donna e poi Emma che, divertita e piuttosto imbarazzata, scuoteva la testa.
«Salve, sono Killian!»
«Lo so! Ho sentito così tanto parlare di te! Volevo rompere una padella in testa ad Emma ogni volta che ne parlava…»
Killian rise. Quella donna era davvero… esuberante! E chiacchierona! E divertente! E gli era già simpatica!
«Anche io ho sentito molto parlare di te! Grazie per aver insegnato ad Emma a cucinare!» mormorò divertito quando lei si staccò e lo guardò, incapace di nascondere la sua felicità e la sua emozione.
Ecco, pensò Killian.
Al mondo servirebbero sicuramente più persone come Anna, pronte a gioire per un’altra persona, senza secondi fini, né tornaconti.
«Figurati! Lei ha sempre avuto un talento nascosto solo che non aveva voglia di applicarsi così un giorno le ho detto che se non si fosse messa ai fornelli, io non le avrei più cucinato niente e lei ha dovuto adattarsi e… Esmeralda!»
Killian rise quando la donna si accorse anche di lei e si buttò tra le sue braccia.
«Ma siete tutte qui?! Avete già incontrato Jane? E Tiana?» chiese emozionata, lasciando un bacio sulla guancia dell’altra.
«Non posso crederci che saremo di nuovo tutte insieme!» esclamò felice Esmeralda mentre stringeva la mano di Anna.
«Parteciperete tutte?» chiese Emma, ritornando al fianco di Killian, giusto per ricordarsi perché era lì.
«Certo che sì! Regina ci ha spiegato la situazione e non potevamo mancare!» mormorò Anna entusiasta.
«Già – le fece eco Esmeralda – A proposito, avreste mai immaginato che la giovane Mills, la pecora nera della famiglia, avrebbe preso il posto della madre un giorno?!» chiese, spostando lo sguardo proprio su Regina che adesso, si accingeva a salire sul palco.
«Lo farai anche tu, vero Emma?» chiese Anna, guardandola in attesa del suo consenso.
«Io veramente…»
Fortunatamente Regina accorse in suo aiuto, pur del tutto inconsapevolmente. Cominciò a provare il microfono e dopo essere sicura che fosse acceso, cominciò a parlare.
Emma non l’avrebbe ammesso neanche sotto tortura ma ero un po’ curiosa di sentire ciò che la sua amica avrebbe raccontato a quel vasto pubblico.
Sapeva che Regina non aveva alcun problema nel parlare davanti a molte persone o nell’intrattenere una folla e ne aveva dato prova diverse volte.
Tuttavia non amava neanche esporsi così tanto, ammettere di fronte a tutti di aver bisogno di una mano o peggio, di essere debole anche lei, come la restante parte del genere umano.
«Buon pomeriggio a tutti e benvenuti o per meglio dire, bentornati, alla “New York Arts Academy”! Prima di cominciare, volevo ringraziarvi dal più profondo del mio cuore per essere qui oggi…»
Come faceva la sua voce ad essere perfetta anche al microfono?!
Staccò per un attimo il cervello da ciò che Regina stava dicendo.
Decise che per quel giorno, ne aveva avuti abbastanza di discorsi di incoraggiamento e ne approfittò per guardarsi intorno.
L’attenzione dei presenti era rivolta a Regina che, come sempre, riusciva a catturare tutti, con il suo portamento, la sua eleganza e la sua austerità.
Persino Heike e Alfie sembravano rapiti da lei o, pensò più tardi, molto più probabilmente erano solo gli effetti del fuso orario… anche Kristoff, a dirla tutta, aveva tutta l’aria di una persona a cui non sarebbe per niente dispiaciuto distendersi sul pavimento e schiacciare un pisolino.
Emma sorrise un po’ sotto i baffi, poi mosse ancora lo sguardo.
C’erano molte persone, molte più di quanto avesse immaginato. Questo andò a incrementare le sue paure e la sua convinzione che Regina avesse troppa fiducia in lei e che, in fondo, non era poi così necessaria…
Intravide una coda di cavallo ondeggiare poco più lontano di dove si trovavano loro e riconobbe immediatamente Megara Egan. Anche lei era lì e aveva risposto all’appello.
In fondo, la cosa non la sorprese neanche più di tanto, considerando che persino Anna era tornata in America dalla Svezia… o era la Norvegia? Oh insomma, non ricordava bene, quei paesi europei erano tutti così dannatamente uguali!
Comunque non sapeva con precisione dove vivesse Meg ma era certa che, dovunque fosse, non avrebbe di certo rinunciato ad un’altra occasione per mettersi in mostra.
Era sempre stata vanitosa, amava essere al centro dell’attenzione ed essere ammirata e venerata come una dea.
Emma notò anche Tiana.
La riconobbe perché, come al solito, era completamente vestita di verde. Aveva da sempre avuto una fissazione per quel colore tant’è che, ricordò, qualche mese dopo l’inizio delle lezioni, aveva persino ordinato delle scarpe da punta di un bellissimo verde smeraldo! Le aveva pagate un occhio della testa ma quella smorfia di dolore, molto simile ad un sorriso, che le si dipinse sul viso quando le provò per la prima volta fu impagabile.
Da quel che ne sapeva, né Tiana, né Meg, lavoravano più nel mondo della danza. Avevano fatto le loro esperienze, avevano saziato quella fame di successo che, all’epoca, contraddistingueva tutti lì alla New York Academy e si erano ritirate alle loro vite, più o meno, monotone.
Tiana aveva messo su famiglia, Meg aveva tentato la carriera del cinema ma con scarsi risultati e alla fine, aveva aperto un negozio di vestiti.
Tutto questo stando alle loro pagine Facebook e no, Emma non aveva di certo controllato.
«…grazie signor Hopper! Questa era ciò che avremmo dovuto fare e che, come vi dicevo, prima o poi faremo. Tuttavia, qualcosa in me, continuava a dirmi che non era abbastanza…»
La voce di Regina, catturò di nuovo la sua attenzione ed Emma ritornò a guardarla e a prestarle attenzione.
«Non fraintendetemi! I vostri eredi sono più che degni di essere qui e non è colpa loro, né dei nostri insegnanti… so che, nonostante lo spettacolo sia stato rimandato, loro continueranno a dare il massimo! A questo punto, è bene che io vi spieghi, con chiarezza, costa sta veramente succedendo. Ho deciso di non mentirvi, né di indorarvi la pillola come, stando a questi fogli, avrei dovuto fare… vi racconterò le cose come stanno e voi, in seguito, potrete scegliere liberamente se restare o andarvene…»
In quel momento, Emma sentì lo sguardo di Regina su di sé e sapeva che era del tutto impossibile che la donna riuscisse ad individuarla in mezzo a così tanta gente, ma non aveva importanza. Quel discorso era per tutti, era vero, ma anche, e soprattutto, per lei.
«L’Accademia sta affrontando una grave crisi e il suo futuro è incerto…»
Regina lo disse senza mezzi termini, quasi volesse strappar via quel cerotto fastidioso il prima possibile.
«Non sappiamo se arriveremo al prossimo semestre, né se saremo in grado di fornire agli studenti i servizi che meritano… Finanziare uno spettacolo come quello che avremmo dovuto organizzare per Natale, sarebbe stato troppo dispendioso e ci avrebbe portato, quasi sicuramente, al collasso. Il consiglio, ha persino valutato di licenziare qualcuno, negare borse di studio o, addirittura, chiudere i battenti definitivamente…»
Fece una pausa, una di quelle tattiche che tennero tutti con il fiato sospeso e persino Emma, che sapeva già tutto, non staccò lo sguardo da lei neanche un momento.
«Come potrete immaginare, io mi sono fermamente opposta. Per me è impensabile dover chiudere questo luogo, questo luogo che è stato per me casa e inferno al tempo stesso, questo luogo che mi ha tolto tanto ma che, allo stesso tempo, mi ha dato molto più di quanto avrei mai immaginato… non potevo lasciare che cadesse nell’oblio, non potevo semplicemente arrendermi e restare a guardare… Per questo ho pensato a voi, ho pensato al passato glorioso, considerando quanto incerto sia e sarà il futuro… Voi, qui presenti, siete diventati quello che siete diventati grazie ai vostri sforzi, sicuramente, ma anche grazie a questa scuola che, con l’aiuto di Cora Mills, mia madre, vi ha sempre sostenuti e incoraggiati, vi ha sempre offerto tutte le migliori opportunità che questo mercato poteva offrirvi, per quanto sia difficile parlare di arte in questi termini. Adesso, l’Accademia ha bisogno dell’aiuto di tutti voi, ha bisogno che ognuno di voi la aiuti a risollevarsi, a ritornare quella che era un tempo. Per questo siete qui, perché noi abbiamo bisogno di voi, perché io ho bisogno di voi! Mi piacerebbe organizzare uno spettacolo in cui, ognuno di voi, ex-studenti, possa mostrare al mondo chi è diventato, cosa è diventato e se e quanto, questa Accademia, abbia giocato un ruolo importante nelle vostre vite… Il fatto che oggi siate qui, così numerosi e con così poco preavviso, mi rende estremamente felice ed estremamente ottimista… Faccio appello alla vostra gentilezza, alla vostra voglia di rimettervi in gioco, alla vostra competizione, faccio appello a voi, non come preside, ma come vostra collega, come ex-ballerina che sa quanto questo palco significhi per ognuno di noi e sa quanto insostituibile esso sia… -un’altra pausa, Dio quant’era brava! -…faccio appello a voi anche come figlia, perché mentirei se vi dicessi che tutto questo non sia nato come un modo per continuare ciò che mia madre, tempo fa, ha iniziato…»
Emma distolse lo sguardo e Killian se ne accorse. L’uomo poté giurare che la donna avesse gli occhi lucidi ma non commentò perché sapeva che non era il momento.
«Andiamo a casa…» mormorò, prima di congedarsi in fretta, con una scusa qualunque, da Esmeralda, Anna e la sua famiglia e trascinarlo fuori, all’aria aperta, dove finalmente ritornò a respirare.
 
 
«Swan?! Tutto bene?»
Emma ammise, con un sorriso forzato, che Killian avesse resistito in silenzio più tempo di quanto, all’inizio, avesse ipotizzato.
Ormai erano quasi arrivati al suo appartamento e per tutto il viaggio, l’uomo non aveva fatto altro che guidare in silenzio, limitandosi a lanciarle qualche occhiatina di tanto in tanto, giusto per controllare che respirasse ancora.
«Tutto bene…» mormorò, abbandonandosi, con stanchezza, sul sedile.
Le parole di Regina, quel palco, Anna, Esmeralda, Meg, tutto quello che aveva rivisto, tutto quello che aveva riprovato varcando di nuovo la soglia della sua vecchia scuola, le avevano provocato un forte mal di testa.
Non era pronta.
Non era pronta a tutto quello, a quell’ondata di sentimenti, ricordi, che l’avrebbero invasa una volta rientrata lì dentro.
E poi, aveva davvero preso in considerazione la possibilità di poter ritornare a ballare lì sopra? Ma davvero Emma?
Non essere stupida, cancellati immediatamente quest’idea dalla mente e ritorna alla tua banale e monotona vita!
Tutti lì dentro si erano guadagnati quel posto, avevano avuto un ruolo importante nel panorama internazionale, avevano ballato per le più importanti e prestigiose compagnie del mondo… e poi c’era lei, che non aveva fatto nulla se non restare incinta a diciott’anni, ballare per dieci anni in uno strip club e, da qualche tempo, arredare case, o meglio, cercare di arredare case.
Cosa poteva mai fare lei lì, su quel palco, assieme a tutte quelle persone?
Cosa poteva mai dimostrare?
«Emma? Ci sei?»
«Cosa?!» chiese, ritornando alla realtà.
«Ti ho chiesto se avessi fame… possiamo fermarci a prendere qualcosa da qualche parte, tipo… a quel ristorante indiano vicino casa tua?»
«Sì, sembra un’ottima idea…» mormorò, fingendosi entusiasta.
Killian parcheggiò subito dopo, spegnendo la macchina e girandosi completamente verso di lei.
«Ok, Swan, avanti… tu odi il cibo indiano da quando sei nata e, cosa più importante, non c’è un singolo ristorante indiano nei pressi di casa tua! Sapevo ci fosse qualcosa che ti preoccupava ma adesso ne ho la certezza! E ormai dovresti aver capito che puoi mentire a tutti, a Regina, ad Henry, perfino a te stessa, ma non a me! È per quello che ha detto Regina? Lo sai che non sei obbligata…»
Killian, in cuor suo, sapeva cosa preoccupasse Emma, l’aveva intuito nell’esatto istante in cui lei gli aveva parlato di tutto quello.
Tuttavia, sapeva anche che sbatterle in faccia la verità, così, di punto in bianco, non era la soluzione migliore perché lei, come al solito, avrebbe negato tutto e si sarebbe barricata dietro i suoi muri, ignorando testardamente tutto.
Nella migliore delle ipotesi, la donna ci sarebbe arrivata da sola e il suo cuore e avrebbe accettato tutto quello che, quella decisione, comportava.
Nella peggiore, Killian sarebbe intervenuto perché non poteva proprio permette che Emma soffrisse, era suo il compito di proteggere il suo cuore, no?
«Emma?! Perché piangi?»
La donna tirò su col naso, cercando di nascondere le lacrime che le rigavano il viso, evidentemente con scarsi risultati.
Non ce l’aveva fatta.
Ecco, un ulteriore fallimento.
Aveva trattenuto troppe cose e troppo al lungo ed era scoppiata, sopraffatta da tutto, dagli eventi di quell’ultimo periodo, Henry, Neal, i Gold e soprattutto, da quell’agglomerato di novità e passato che, quel giorno, aveva ritrovato.
Si strinse a Killian, in quella macchina che, da un po’, aveva imparato a conoscere e a distinguere.
Si strinse a lui e sentì il calore del suo corpo darle forza e sostegno, sentì che lui era lì e ci sarebbe rimasto, sempre, e questo, forse, contribuì ad allentare quella tensione che aveva provato fin dal primo istante nel quale aveva messo piede nella scuola.
«Emma, shh, calmati…» continuava a mormorarle in un orecchio e lei avrebbe tanto voluto, avrebbe tanto voluto calmarsi, ridarsi un contegno, ritornare forte come lo era sempre stata e pretendere che quell’attimo di debolezza non fosse mai accaduto, ma non ci riusciva, i singhiozzi scivolavano via dalla sua gola prima che lei stessa potesse fermarli.
Non riuscì a dire quanto tempo restò così, sperò non troppo, considerando che aveva lasciato suo figlio da solo a casa. Era più forte di lei, ma non riusciva a non pensare a lui, neppure per un momento.
Pensò che fosse il suo destino, comune a quello di tutte le mamme, preoccuparsi dei propri bambini, del sangue del proprio sangue.
Certo, tutte fuorché la sua.
Quell’improvvisa constatazione raggelò il suo cuore e lei, finalmente, riuscì ad asciugarsi le lacrime e a discostarsi da Killian.
«Va meglio?!»
Emma annuì.
«Scusa io non… non so davvero cosa mi sia preso…»
L’uomo scosse la testa.
Davvero lei credeva che avesse bisogno di giustificarsi? O che fosse, anche lontanamente, sorpreso dal suo comportamento?
Le porse un fazzoletto che aveva recuperato dal porta oggetti.
«Swan, non ti devi scusare, non con me…»
Restarono in silenzio per un po’, non molto, giusto il tempo che servì a Killian per raccogliere i pensieri e decidere che era giunto il momento adatto per cominciare a parlare.
«Emma, posso dirti una cosa senza che tu dia di matto?»
La donna annuì.
Forse, anzi, ne era quasi certa, sapeva cosa Killian stava per dirle, da sempre.
Lui però, era il più coraggioso, sempre, e il più bravo, almeno con le parole, e riusciva sempre a trasformare qualsiasi suo pensiero, che chissà come aveva intuito prima di lei, in un discorso sensato.
«Tu vuoi fare questo spettacolo Emma, vuoi farlo più di qualsiasi altra cosa. È il tuo mondo, è ciò per cui sei nata è… be’, sei tu. Tu vuoi fare questa cosa così tanto che ti spaventa. Hai sì paura di fallire, di non essere all’altezza, di cadere, ma ciò che più ti spaventa, è ammettere che quando Regina ti ha chiesto di farlo, tu hai esultato! Tu, dentro di te, sei pronta a tutto, sei pronta a correre il rischio, a cadere, a rialzarti, a rilanciarti in pasto ai leoni pur di salire di nuovo su quel palco! Lo sei sempre stata ed è per questo che sei così terrorizzata…»
Emma tacque.
Gli occhi le pizzicarono di nuovo.
Si sentiva vuota, si sentiva una massa di un liquido informe, la testa le pulsava, le guance e gli occhi ancora incrostati dalle lacrime di prima.
Si sentiva un corpo in una sala operatoria, aperto, esposto al mondo esterno e piccolo e fragile, pronto a mostrare a tutti che, dentro, non aveva che gli stessi organi e lo stesso sangue di qualsiasi altro essere umano.
«Come?» sussurrò, così piano che non fu sicura che Killian lo avesse sentito finché non si mise a parlare.
O meglio, a raccontare.
 
 
Storybrooke, febbraio 2002
 
Qualcuno bussò alla porta.
«Avanti!» disse, con il tono di voce più tranquillo che riuscì ad emettere. Non seppe dire se il risultato fu abbastanza convincente o se uscì un qualcosa di simile ad uno strano lamento.
Dalla faccia preoccupata del nuovo arrivato, probabilmente la seconda ipotesi era la più corretta.
«Ehi»
«Ciao, ippopotamo!» mormorò il ragazzo, porgendole un bigliettino e una grande scatola.
«Sai che oggi non è il mio cinquantesimo compleanno, vero?!» domandò lei divertita mentre leggeva il piccolo bigliettino d’auguri.
Killian si grattò la nuca imbarazzato, poi si accomodò ai piedi del letto, sfoderando uno dei suoi sorrisi furbi, uno di quelli che sfoggiava per far impazzire le ragazzine.
Povere illuse!
«Era il più carino! Gli altri erano abbastanza tristi, quelli con “guarisci presto” poi erano orribili! Solo infermiere in sovrappeso e siringhe! Ma chi è che disegna cose del genere?!»
Emma rise, come solo lui riusciva a farla ridere.
Soltanto Killian avrebbe potuto presentarsi al suo capezzale con un biglietto di buon cinquantesimo compleanno con un ippopotamo gigante che usciva da una torta!
«Che idiota che sei! E qui che c’è?» mormorò, aprendo la scatola.
Gli occhi le si illuminarono.
Ciambelle! Di tutti i tipi e di tutti i gusti!
«Ti adoro!» disse allungandosi, per abbracciarlo.
Una fitta però, a livello del ginocchio, glielo impedì.
«Ti fa male?!» chiese il ragazzo con voce grave, stringendole una mano.
«No no, va tutto bene…» mormorò la giovane, trasformando la smorfia di dolore in uno strano sorriso.
«Sei una pessima bugiarda, Swan! Lo sei sempre stata!»
Cercare di sdrammatizzare in situazioni come quella, era esattamente da lui e lei, in quel momento, non avrebbe potuto chiedere di meglio.
«Anche tu!»
«Solo perché tu riesci a capire quando sto mentendo, non vuol dire che anche io sia un pessimo bugiardo!» mormorò, con ovvietà.
«Comunque devi nascondere quelle ciambelle perché le ho prese dalla concorrenza e non voglio che Ingrid le veda e si arrabbi e non mi faccia più entrare in casa vostra!»
Emma scoppiò a ridere.
«Bel tentativo, Jones! Lo so che le hai prese da lei!»
«Non è vero!»
«Certo che è vero! Avresti dovuto pensarci prima di fargliele mettere in una delle scatole che io e lei abbiamo scelto qualche settimana fa! E poi, Ingrid ti adora, non ti caccerebbe mai! Ti farebbe vivere persino qui e fidati, è un gran privilegio, considerando il fatto che sei un maschio!»
Killian sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
«Ok, ok… mi hai beccato! Comunque non è colpa mia, tendo a fare questo effetto sulle donne!»
Emma gli diede un piccolo buffetto sulla spalla, poi gli offrì la scatola, sapendo già che, tanto, avrebbe scelto sempre e comunque quella glassata al cioccolato fondente con granella di cioccolato bianco.
Killian fissò un po’ la scatola, poi prese quella al cioccolato fondente con granella di cioccolato bianco e la addentò.
«Che c’è?!» mormorò, quando alzando lo sguardo, trovò un’Emma piuttosto divertita.
«No, niente…»
Lui scalciò via le scarpe, ignorando i lamenti della ragazza sulla terribile puzza che avrebbe inondato tutta la stanza di lì a poco, e si mise più comodo, a gambe incrociate, sul letto.
«Seriamente, come stai?!» le domandò, dopo un altro morso.
«Ho un tendine infiammato, Killy, non è niente che non sia già successo in passato… non capisco perché continuate a preoccuparvi!»
«Be’, perché, ad esempio, è la seconda volta che ti succede nel giro di quanto?! Tre settimane?!»
«Adesso non esagerare!»
«E guarda! Sei dimagrita ancora! Di questo passo le tue tette scompariranno!» mormorò, beccandosi un cuscino in faccia.
«Pervertito!»
«Mangia un’altra ciambella!» le ordinò, afferrando la scatola e mettendogliela sotto gli occhi.
Emma lo guardò male, poi prese quella con la glassa rosa e ne assaggiò un pezzetto.
«Contento?!»
Il ragazzo annuì, soddisfatto.
«Posso chiederti una cosa?!» mormorò, ad un tratto, dopo essere ritornato dal bagno e aver dato ad Emma una di quelle salviettine puzzolenti che a lei piacevano tanto.
«Tanto me la chiederai comunque! E no, per l’ultima volta, non ti dirò se Zoe Smith è ancora vergine o meno!»
«Non è quello e poi… so che non lo è!» mormorò, sfoderando un altro dei suoi sorrisi da mascalzone.
Emma alzò gli occhi al cielo.
«Chissà perché la cosa non mi sorprende!»
«Perché?! Sì, insomma… perché continui a farlo? Se ti fai male, se continui a soffrire? Perché non puoi semplicemente mollare un po’ la presa, allenarti come le persone normali, due o al massimo tre volte alla settimana?»
Emma lo fissò per un lasso di tempo che gli parve infinito.
Aveva uno sguardo indecifrabile, perfino per lui.
Moltissime volte, le avevano chiesto perché.
Ingrid, le sue compagne di classe, perfino Granny, una volta.
Perché continuare a fare una cosa, pur sapendo che potrebbe non darti da mangiare?
Perché vivere tra dolori, lividi, fratture, competizione e ansia?
Perché non scegliersi un lavoro, un vero lavoro e chiudere, per una buona volta, i sogni a chiave nel cassetto, da dove non si sarebbero più mossi?
Perché non concentrarsi piuttosto sulla scuola? Sul college? Perché non lasciarsi semplicemente andare?
Moltissime volte si era sentita chiedere tutto questo e, ogni volta, lei avrebbe sempre voluto rispondere la stessa cosa.
Perché mi fa stare bene.
Perché mi fa sentire parte di qualcosa, qualcosa di bello.
Perché mi fa ridere.
Perché mi fa anche piangere.
Perché mi ha fatto crescere.
Perché mi ha fatto cadere.
Perché mi ha fatto rialzare, sempre e comunque.
Perché mi ha insegnato l’arte di essere fragili.
Perché mi ha fatto capire l’essenza del sacrificio e della perseveranza.
Perché quella botta di adrenalina, prima di salire su un palco, non la scambierei per niente al mondo.
Perché gli applausi, dopo, quando tutto è finito e il sipario si chiude, non sono che l’apice di una montagna fatta di sacrifici, prove, sudore, tensione e felicità.
Perché la danza è tutto, è arte ed è vita al tempo stesso e non le importava neanche il giudizio degli altri, lei non danzava per loro, lei danzava per stessa, per scappare dai problemi della sua triste vita, per sfogarsi, semplicemente per esprimere, con un movimento, ciò che avrebbe tanto voluto urlare al mondo.
Lei danzava e questo bastava, questo le bastava, anche per vivere.
Non avrebbe fatto nient’altro nella vita, se non quello.
Così glielo disse, lo disse anche a lui, sicura che lui, più di tutti, avrebbe capito.
Non seppe dire se riuscì a trasmettergli tutto, quel misto di emozioni e sensazioni che solo ballando, aveva scoperto.
Sperò di sì. Di fatti, l’avrebbe scoperto solo molto tempo dopo.
Lei non era brava con le parole.
«Ecco, vedi, mi sono capitate tante cose brutte, ma la danza, la danza è per me valvola di sfogo e fonte di felicità, è ciò che voglio, è ciò per cui vivo… Tu non hai mai avuto qualcosa per cui vivere, Killy? Qualcosa che ti faccia battere il cuore e al tempo stesso tremare le ginocchia?»
Il ragazzo scosse la testa. Lo sguardo gli volò sul livido violaceo che aveva intorno al polso.
Distolse lo sguardo.
No.
Ma avrebbe tanto voluto.
 
 
«Come credi sia andata?» mormorò Regina, una volta che anche l’ultima persona presente si fosse congedata.
«Sei stata grandiosa!» le assicurò l’uomo, carezzandole una guancia.
«Il signor Hood ha ragione, signorina Mills! È stata fenomenale!» convenne Ella, mostrandole la lista di tutti quelli che si erano impegnati a partecipare a quel progetto.
«Blava ‘egina!»
Anche Roland volle dire la sua, battendo le mani, felice.
Robin lo prese in braccio, schioccandogli un bacio sulla guancia.
«Perché non vai a prendere a Regina una bottiglietta d’acqua? Sono sicuro che, dopo aver parlato con così tante persone, avrà molta molta sete…»
Roland non se lo fece ripetere due volte e, dopo essere tornato con i piedi sulla terra ferma, si precipitò verso uno dei grandi distributori automatici presenti lì vicino.
Ella lo seguì. Aveva preso questo compito da babysitter stranamente sul serio… ma Roland era un bambino così buono e tranquillo che era impossibile trovare un essere umano non in grado di affezionarglisi.
«Hai per caso visto Emma? O Killian?» chiese la donna, fingendosi più tranquilla di quanto in realtà non fosse.
«Sì, li ho intravisti entrambi ma c’erano troppe persone e non ho potuto salutarli… penso se ne siano andati prima che il discorso finisse però…» mormorò Robin, guardandosi intorno.
«Forse…» mormorò la donna, lasciandosi abbracciare.
Le piaceva che lui fosse lì con lei, pronto a darle manforte e a rassicurarla sempre, anche quando persino lei, non ci credeva più.
«Sono sicuro che Emma ci sarà domani…»
«Perché sei così sicuro?»
«Be’, perché la sua migliore amica e il suo ragazzo, sono le due persone più insistenti e ostinate che io abbia mai conosciuto!»
 

Emma rientrò nel suo piccolo appartamento, più tardi di quanto avesse calcolato. Gli occhi erano ancora umidi, così come le guance e le labbra.
Le parole di Killian le risuonavano in testa, insistenti, quasi quanto quelle di Regina.
In fondo, lo sapeva.
Forse, l’aveva sempre saputo.
Si incamminò verso il salone, credendo di trovarvi Henry, ancora sveglio, a giocare ai suoi videogiochi.
La luce era accesa ma del bambino non vi era traccia.
Preoccupata, mettendo da parte i suoi assurdi problemi, si diresse verso la sua camera.
Henry era lì, il volto pallido illuminato dalla luce della sua piccola abat-jour.
«Ehi ragazzino…» mormorò avvicinandosi e capendo al volo che qualcosa non andava.
«Ehi…»
Emma gli tastò la fronte.
Era bollente.
«Penso di avere la febbre…» concordò il bambino con voce flebile.
«Sì, lo penso anche io… Ti fa male la gola?»
Henry scosse la testa.
«Devo solo riposare… non preoccuparti! Piuttosto come è andata la riunione? Zia Regina ti ha convinto?»
Oh, questo Henry l’aveva sicuramente ereditato da lei. Il minimizzare qualsiasi cosa, una febbre, un raffreddore, cos’erano in confronto ad una piccola e insulsa riunione?
«Adesso questo non è importante. Prometto che ti racconto tutto quando starai meglio! Mi dispiace di averti lasciato Henry… avresti potuto chiamarmi, lo sai…»
«Certo che lo so!»
«Adesso riposa, io vado a preparare quella tisana che ti piace tanto…»
«Sai che quell’intruglio piace solo a te, vero?» rispose il bambino, chiudendo gli occhi e sistemandosi meglio sotto le coperte. Emma lo aiutò, sorridendo.
«Sì, certo! Ma tu da bravo bambino la berrai tutta e ti sentirai sicuramente meglio!»
Henry sbuffò. Il volto rosso dalla febbre faceva risaltare maggiormente i suoi occhi color nocciola.
Emma uscì, sapendo già che una volta ritornata, l’avrebbe ritrovato felicemente tra le braccia di Morfeo.
Per un momento, si ricordò di quando Henry si ammalò per la prima volta. Era piccolo, troppo piccolo e non faceva che piangere. Ricordò come si sentì, impotente, infelice, insicura. Mai come quella volta, mise in dubbio le sue capacità di essere, o meglio, poter essere una brava madre. Fortunatamente Anna e Regina erano con lei e la aiutarono a calmarsi e a portare il piccolo al pronto soccorso più vicino.
Da quel momento, Emma si ripromise che non avrebbe più lasciato che il suo piccolo soffrisse e che avrebbe fatto di tutto per evitarlo.
Ci era sempre riuscita, o almeno così credeva.
Quando aveva cominciato a mettere se stessa, prima di suo figlio?
Se non fosse andata a quella dannata riunione, sarebbe stata lì quando Henry ne aveva bisogno.
Non poteva, non poteva abbandonarlo.
Il suo unico obiettivo era di non compiere gli stessi errori di sua madre e suo padre.
Persa nei suoi pensieri, notò il telefono illuminarsi.
Due notifiche.
Qualcuno l’aveva inserita in un gruppo di Whatsapp “Spettacolo”.
Dannazione.
Lo ignorò e aprì l’altra conversazione.
Killian.
“Come stai?”
Si erano salutati da neanche mezz’ora e lui probabilmente non aveva neanche raggiunto il suo appartamento.
Sorrise involontariamente.
“Henry ha la febbre.” Scrisse velocemente.
Poi aggiunse “Non posso farlo”
Cinque secondi dopo, il telefono cominciò a vibrare.
Emma rispose al volo, immaginando già chi fosse.
«Sai che Henry non avrà la febbre per sempre, vero?» chiese una voce, dall’altro lato del telefono. Stranamente, non quella che si aspettava.
«Regina… io… come fai a sapere che Henry sta male?»
«Mi ha scritto il tuo capitano!»
«Cosa? Tu e Killian vi scrivete?» domandò allibita.
«Swan, non è questo il punto! Il punto è che lui credeva di averti convinta e che adesso, con Henry in quelle condizioni, temiamo tu possa ricadere di nuovo nel tuo circolo vizioso del “senso di colpa”…»
Emma alzò gli occhi al cielo.
Tipico.
Davvero tipico.
Tutti credevano di conoscerla meglio di quanto lei conoscesse se stessa! E la cosa che la fece infuriare più di tutte era che, dannazione! avevano ragione.
Che odio!
«Regina io davvero, non so che dire…»
«Dimmi che lo farai!»
Emma sospirò.
Dio, quanto lo voleva. Lo voleva davvero.
Ma cos’era successo l’ultima volta che aveva fatto qualcosa per sé? Aveva abbandonato il suo migliore amico a se stesso, aveva condannato entrambi a dodici anni di lontananza e quando finalmente si erano ritrovati, lo aveva costretto a riaprire ferite mai rimarginate che lui, ormai, stava cercando di dimenticare.
Cosa sarebbe successo adesso?
E se a rimetterci sarebbe stato davvero suo figlio? L’unica cosa buona che aveva fatto nella vita?
No.
«Swan? Sai che Henry vorrebbe che tu lo facessi! E anche tu lo vuoi, lo so, ti conosco! Non capisco perché ti stia facendo così tanti problemi! Non è un contratto, Emma. È un semplice spettacolo, quando finisce, quando il sipario calerà, ritornerai alla tua vita!»
Emma rimase in silenzio.
«Sai, è questo il problema Regina. Quando il sipario calerà, non so se potrò mai ritornare alla mia vita…»
Regina non disse niente.
Se non avesse percepito il suo sospiro, probabilmente Emma avrebbe creduto che avesse riattaccato, mandando a quel paese lei e tutti i suoi assurdi problemi adolescenziali.
«Emma, ascolta: il tuo problema è che tu non vivi il presente, davvero. Per dodici anni, non hai fatto che vivere nel passato, nei rimorsi e adesso che i nodi son venuti al pettine, il passato è diventato il futuro. Hai paura di perdere questo precario equilibrio che ti sei creata e lo capisco, Emma, davvero. Ma se continui così, non farai altro che perderti tutte le cose belle che ti capitano. E questo spettacolo, è una di quelle. Perché non puoi credere di poter essere felice? Non sei Dio, Emma, scendi dal piedistallo! Non tutto il mondo gira intorno a te, non hai il peso del mondo sulle spalle, Henry è grande ormai e sa badare a se stesso, un po’ di febbre non lo ucciderà e soprattutto, lui sa quanto danzare ti rende felice, così come lo sappiamo io e Jones. Smettila, smettila perché ti giuro, se fossi lì ti darei uno schiaffo così forte che ti risveglierebbe da questo stato di trance in cui ti trovi! Mettiti in gioco, dannazione! Rischia! Non sai cosa accadrà, magari non ti piace più, magari capisci che non è questo che ti rende felice! Ma se non lo fai, Emma, ti assicuro che te ne pentirai per tutta la vita!»
Questa volta fu Emma a restare in silenzio, cercando di assimilare tutto ciò che aveva udito. Se Killian le aveva ricordato il suo amore per la danza con ricordi felici e risate sommesse, Regina glielo aveva sbattuto in faccia con una tale violenza che poteva sentire ancora ogni parola rimbalzare nel suo cervello all’infinito. Le sembrò di ricevere un secchio d’acqua gelata addosso, un secchio che probabilmente si aspettava da tutta la vita.
Non pianse.
Non ce n’era bisogno.
«Okey» mormorò.
Regina, dall’altro lato, non fece in tempo a dire niente perché la linea cadde.
Emma, si dimenticò di ciò che stava facendo prima di quella chiamata e, come un automa, si diresse verso la sua camera da letto. In fondo all’armadio, sotto una pila di vestiti, c’era un cartone.
Lo tirò fuori e lo aprì e fu quasi come tornare a respirare, quasi come se la sua vita, da dodici anni in bianco nero, fosse divenuta di nuovo a colori.
 
 
 
 
Può darsi che non sarai ma felice. Perciò
Non ti resta che danzare,
danzare così bene da lasciare tutti a bocca aperta
-Haruki Murakami, “Kafka sulla spiaggia”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Non so davvero come cominciare.
Premetto che, probabilmente, ho impiegato più tempo per scrivere questo breve paragrafetto di scuse/spiegazioni che per scrivere l’intero capitolo.
Non sono scomparsa come, molti di voi, avranno sicuramente immaginato!
Lo so, sono passati mesi dall’ultimo aggiornamento e da quel momento, lo ammetto, mi sono pian piano allontanata da efp.
Prima di azzardare una qualche spiegazione, vorrei chiedere scusa ad ognuno di voi che, nel bene e nel male, continuate a dedicare tempo alle vostre storie, ai vostri personaggi, ai vostri impegni. Non vi ho dimenticato, così come non ho dimenticato questa storia che, come ogni storia che si rispetti, merita una degna conclusione.
Tuttavia in questi mesi sono successe parecchie cose, ne sono cambiate altre e prossimamente, cambierà ancora tanto. Ho sentito il bisogno di prendermi una pausa, per un po’, da questi personaggi e conoscerne ed esplorarne altri, di nuovi e solo miei che magari, un giorno mi piacerebbe farvi conoscere. Ovviamente, Emma, Killian, Regina e tutti gli altri avranno per sempre un posto speciale nel mio cuore. Devo ammettere che anche la notizia dell’addio di alcuni membri del cast (tra i quali Jen), mi ha un po’ destabilizzata, come penso abbia destabilizzato tutti voi. Non so cosa aspettarmi da questa settima stagione, spero che non combinino casini, confido che A&E non rinneghino la bellissima storia che da sei anni a questa parte hanno creato.
Ritornando alla mia storia, non posso fare premonizioni, non so precisamente quando ci sarà il prossimo aggiornamento e mi dispiace davvero essermi persa molti dei vostri. Ora come ora, non so se avrò il tempo di leggerli tutti e me ne rammarico. Ad ogni modo, spero che il capitolo vi sia piaciuto e come sempre, se volete, mi farebbe piacere leggere direttamente i vostri commenti e le vostre recensioni! È un capitolo importante per me e per la storia, non è stato facile scriverlo. Anche io, come Emma, ho avuto bisogno di non pochi discorsetti per mettere in discussione certe scelte e rischiare in altre. Spero che le parole di Regina possano essere d'aiuto anche a voi, semmai ne aveste bisogno! :) 
Ringrazio in anticipo tutti coloro che recensiranno e ringrazio anche chi non lo farà, chi si limiterà a leggere e a viaggiare solo con la fantasia. Ringrazio chi c’è sempre stato, chi vorrà esserci ancora e chi è appena entrato in questa storia di imprevisti e coincidenze che è parte di me da due anni ormai.
Spero vogliate restare qui con me fino alla fine di questo viaggio! 
Un grandissimo abbraccio a ognuno di voi,
A presto,
(scusate ancora)
Sempre vostra
Kerri :*

 
 
 
PS: che ne pensate delle varie principesse ballerine? Ce le vedete? :) Chissà, se qualcuna di loro sarà presente davvero nella settima stagione… 

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Capitolo 25
*** Lights on and off ***


24. Lights on and off


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Stringimi
come se
non c'è più
niente
Tornerai tu in mezzo agli altri
e sarà come impazzire
tornerai e ti avrò davanti,
spero solo di non svenire. 
Mentre torni non voltarti
che non voglio più sparire
nel ricordo dei miei giorni
resta fino all'imbrunire.
 
 
Emma chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni per l’ennesima volta.
Era pronta.
Era quasi il momento di andare in scena e lei era pronta.
Davvero?
Il cuore cominciò a batterle per l’ansia. Non si era mai considerata una persona ansiosa e forse avrebbe dovuto. Killian sicuramente sarebbe stato d’accordo, le diceva sempre che si faceva troppi problemi inutili.
Si ricordò di quella volta in cui aveva chiamato Killian al telefono per dieci volte, solo perché aveva paura che non arrivasse in tempo per uno degli ultimi incontri con i Gold…
Forse ansiosa lo era diventata in quell’ultimo periodo…
Ok, stava lasciando correre liberi i suoi pensieri e questo non era di certo un bene.
Doveva concentrarsi.
Inspira, espira, inspira, espira…
Andò avanti così finché il suo cuore riprese a battere più o meno normalmente.
Era pronta?
Sì, certo che lo era.
Conosceva tutti i passi a memoria, la sera prima li aveva ripetuti fino alla nausea, ignorando i “non ti stressare” di Regina e dimenticandosi persino di andare a prendere la cena. Erano serviti Killian, Henry e due grandi confezioni di anelli di cipolla per scollarla di lì. Ovviamente non li mangiò tutti lei perché se l’avesse fatto, a quest’ora probabilmente avrebbe ancora dovuto digerirli, però sicuramente le erano serviti da incentivo.
Sorrise pensando ai due che, quasi sicuramente, adesso erano seduti in prima fila accanto a Regina, tutti e tre più in ansia di lei, chi per un motivo, chi per un altro.
E chissà quanti altri pezzi grossi c’erano lì vicino a loro…
Il teatro era stato riempito. La notizia del sold out era giunta qualche minuto prima e tutte loro l’avevano accolta con felicità mista ad ansia.
Emma rabbrividì.
Stava davvero per farlo? Salire di nuovo su di un palcoscenico, mettere le punte, sentire il tulle leggero aderire al suo corpo e svolazzare assieme a lei.
Da quanto tempo non provava quel brivido? Non riusciva neanche a ricordarlo.
Bugiarda, bugiarda Emma, certo che lo ricordi.
La verità era che quell’ultima volta, Emma non sarebbe mai riuscita a dimenticarla: aveva appena scoperto di essere incinta. Quella volta, l’ultima, quando il sipario si aprì e la musica cominciò, lei ballò con il cuore e i sogni a pezzi, sola e incapace di immaginarsi un futuro.
Nonostante quello o forse, proprio per quello, Emma diede tutta se stessa su quel palco, lacrime e sudore. Per un’ora e mezza dimenticò i suoi problemi, dimenticò quell’ammasso di cellule pulsanti che cresceva dentro di lei e dimenticò di essere sola al mondo. Si immedesimò nel suo personaggio, ballò e volteggiò e sorrise, sorrise come non aveva mai fatto.
Una volta finito lo spettacolo e aver ricevuto moltissimi applausi, Emma seppe con certezza che quella sarebbe stata l’ultima volta. Per questo cercò di imprimere nella sua mente ogni piccolo dettaglio: il preciso colore della tenda del sipario, il punto in cui aveva quasi rischiato di perdere l’equilibrio e quello in cui era seduto Neal, l’unica persona che allora poteva considerare una specie di familiare. Ripercorse i camerini e si fermò davanti a quello che aveva condiviso con Regina e le altre ragazze. Quella sera fu l’ultima a lasciare il teatro, assieme a Danny, il custode. Quella sera fu un addio ed Emma, chissà come, l’aveva intuito.
Adesso però, tutto era diverso, tutto era cambiato, tutto era migliore. Un futuro finalmente ce l’aveva anche lei, un futuro che non aveva neanche più paura di immaginare. Aveva un figlio che amava più della sua stessa vita, un uomo al suo fianco che avrebbe fatto di tutto per lei, degli amici preziosi, un lavoro che le piaceva.
Quella sera sarebbe stata la ciliegina sulla torta della sua vita, un premio che chissà come era riuscita a guadagnarsi. Non riusciva ancora a credere che fosse per lei, troppo abituata alle batoste della vita per riuscire ad accettarne i pregi e le sorprese.
Pensò a quanto fosse infondata quella paura che un mese prima l’attanagliava e quanto fosse fortunata nell’aver avuto qualcuno al suo fianco ad illuminarle la strada.
Pensò che quando il sipario fosse calato e quell’ansia, mista ad entusiasmo, si fosse trasformata in ricordo, avrebbe dovuto ringraziare Regina che le aveva permesso tutto quello e sì, abbracciarla, anche contro la sua volontà perché sapeva che Regina non era proprio una fan degli abbracci…
Scosse le spalle e continuò a riscaldarsi, a tirare i muscoli e distendere la schiena. Vide che Anna e le altre stavano imitando i suoi movimenti e arrossì. Non era mai stata il leader della classe, quel posto spettava sempre a Regina.
Dopo la “riunione” della donna, un mese e mezzo prima, molti avevano deciso di non partecipare allo spettacolo, chi decidendo deliberatamente di ignorare la causa e l’Accademia, chi donando somme in denaro.
Regina aveva capito e non aveva insistito. Dopotutto, non si aspettava consenso da parte di tutti… 
Molti altri, però, erano rimasti e avevano deciso di rimettersi in gioco. Emma, inaspettatamente, era tra questi.
Ritornare ad allenarsi era stato piuttosto faticoso. Non avevano molto tempo, di mezzo c’era anche il Natale e gli insegnanti avevano dovuto metterli sotto con prove intensive per imparare al meglio le nuove coreografie e ritornare, più o meno, in forma.
Avevano addirittura fatto lezione il giorno della Vigilia, sfidando il freddo e il traffico di New York pur di essere lì, in orario, pronti per allenarsi.
Ma non fu un problema: tutti loro erano abituati a quei ritmi, chi più, chi meno di altri.
Nonostante molti avessero lasciato il mondo della danza per dedicarsi ad altre occupazioni, il loro essere ballerini non era mai scomparso del tutto.
La danza ti cambia la vita e anche se non fai di lei il suo mestiere, essa ti resta comunque incollata addosso, manifestandosi in un gesto, un passo o anche solo nella perseveranza di non voler abbandonare un impegno preso.
Tutti loro erano cambiati.
Nessuno era più lo stesso di dodici anni prima, non potevano essere più diversi da quelle persone. Era normale, il tempo cambia anche chi non lo dà a vedere, anche chi non vuole. Le circostanze, le perdite, le gioie, l’amore, il dolore cambiano e modellano anche i cuori più impassibili.
Anna aveva perso quella spensieratezza che aveva un tempo, non del tutto, certo, era impossibile per lei perderla del tutto, ma Emma l’aveva notato, i suoi occhi avevano perso quell’ottimismo assoluto e quella completa fiducia nella vita che aveva da ragazza, anche se lei stessa cercava di non darlo a vedere. La donna avrebbe voluto chiederle cosa le fosse capitato ma non amava essere invadente e aspettava che fosse l’amica a parlarne.
Esmeralda, invece, a dispetto di quanto volesse far credere alla gente, non sembrava più invincibile.
Non ci credeva più neanche lei.
Quante delusioni avevano avuto queste persone? Quante perdite? Cosa avevano dovuto affrontare?
Emma avrebbe voluto saperlo ma non chiese mai.
Sperò che quei giorni insieme, quelle settimane, servissero loro per alleviare i rispettivi demoni, proprio come stavano alleviando i suoi.
Si ritrovò di nuovo a pensare a quanto, per la maggior parte della sua vita, fosse stata egoista e cieca.
Aveva creduto di essere la sola a soffrire, la sola a condurre una vita di rimpianti, di perdite e di dolori.
Non era così, non lo era mai stato.
Ripensò ad una frase che aveva letto molto tempo prima, non ricordava più neanche dove.
“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre.”
Quanta verità in poche frasi. Si disse che le avrebbe stampate e appiccate da qualche parte, su un muro della sua camera o al negozio o persino sulla sua testa. Probabilmente ci avrebbe fatto addirittura una maglietta.
«Sei pronta Em? Non posso credere che dopo questa sera non ci vedremo più per chissà quanto tempo…» piagnucolò Anna, correndo ad abbracciarla per la duecentesima volta.
Emma ricambiò con affetto, stringendola più delle altre volte.
«Ti prometto che prima o poi verremo a trovarti Anna…» le mormorò su una spalla, cercando in tutti i modi di ingoiare quel grande malloppo che le si era formato in gola.
«Guarda che ci conto!»
«Verremo insieme!» propose Esmeralda ed Emma annuì piano, cercando di non rovinarsi lo chignon che le avevano appena fatto.
«Oppure possiamo vederci al tuo matrimonio Emma!» propose Tiana seduta davanti ad uno specchio, intenta a truccarsi.
Emma strabuzzò gli occhi e per poco non le andò la saliva di traverso.
Ok, Killian aveva ragione. Era decisamente una persona ansiosa.
«Che dici?! Per quello dovrete aspettare a lungo!» si difese la giovane, allungando un braccio di lato. Anna e Esmeralda la imitarono poi scoppiarono in un «Ma per piacere!»
«Sappiamo che è solo questione di qualche mese prima che Killian ti faccia la proposta!» aggiunse Esme.
«E tu ovviamente accetterai…» continuò l’altra.
«E qualcosa mi dice che Regina organizzerà un matrimonio perfetto, in cima ad un palazzo, con tanto di canzoncine sdolcinate in stile musical…» la prese in giro Tiana e poi tutte e tre scoppiarono a ridere.
«Smettetela!» ordinò Emma, cercando di togliersi dalla mente l’idea di lei in abito bianco e Killian in smoking che danzavano felici e innamorati.
Concentrazione Emma, concentrazione.
«Forse dimenticate che io e Killian stiamo insieme da soli – fece due calcoli veloci in mente – quattro mesi …» concluse, lei stessa chiedendosi come fosse possibile che in così poco tempo la sua vita fosse stata sconvolta al punto tale da farle addirittura prendere in considerazione l’idea di sposarsi.
«Non è importante da quanto tempo stiate insieme! Siete fatti l’uno per l’altra e questo basta!» esclamò Tiana, mostrando a tutte un inaspettato lato romantico.
«Già… Sembrate una coppia felicemente sposata con tanto di prole a seguito!» continuò Esmeralda.
«Voglio ricordarvi che questa qui – si infervorò Anna, puntando il dito contro Emma - è una delle persone più testarde che io conosca e quando io le dicevo che lei e Killian erano fatti l’uno per l’altra, tra l’altro, voglio precisare, senza neanche conoscere quest’ultimo, lei non mi dava ascolto!»
Emma guardò altrove. Odiava parlare della sua vita privata anche con loro, le sue amiche e Anna se ne accorse.
«Ma fortunatamente è acqua passata, hai Henry, vi siete rincontrati e stiamo per salire su un palco e Dio se sono agitata!»
Cominciò a saltellare a piedi uniti da una parte all’altra del piccolo camerino che occupava, provocando un sorriso in tutte loro, Emma compresa.
«Quindi, Killian non è il padre di Henry?» chiese Tiana ad un certo punto.
Doveva essersi persa qualche pezzo, pensò Emma.
«No, non lo è…» rispose semplicemente per poi cambiare discorso e continuare a riscaldarsi assieme alle altre.
Non sapeva che, dietro la porta, qualcuno indeciso se bussare o meno, aveva ascoltato la maggior parte dei loro discorsi.
Un’ombra che si dileguò prima che qualcuno potesse accorgersi della sua presenza.
 
 
Regina non lo dava a vedere, sapeva mascherare bene i suoi sentimenti ma era agitata, Dio se era agitata.
In cuor suo avrebbe preferito essere lì, dietro il palco, pronta ad entrare in scena, piuttosto che reggere tutte quelle responsabilità sulle spalle e caricarsi anche, l’eventuale, sconfitta.
Potrebbe essere anche una vittoria, la ammonì la sua coscienza che, stranamente, aveva cominciato a parlarle con la voce di Robin.
Scosse la testa.
Quando tutta quella storia sarebbe finita, avrebbe dovuto trovare uno psicanalista e anche uno bravo. Cos’era questa storia della coscienza? Lei non era di certo Pinocchio!
Qualcuno bussò alla porta del suo ufficio. Guardò l’orologio sulla sua scrivania.
Le diciannove e quindici minuti esatti.
Precisa e puntuale.
Le voci non sbagliavano.
«Avanti!»
Belle French fece il suo ingresso, accompagnata da Ella.
Regina congedò quest’ultima con un cenno del capo e poi si concentrò sulla prima. I capelli castani le incorniciavano il viso e gli occhi, ridotti a fessure felici, erano blu cielo.
«Signorina Mills, sono davvero contenta che lei abbia accettato il mio invito per un’intervista!» e stranamente, contenta lo era davvero.
Regina, in quelle circostanze, non si era mai fatta cogliere di sorpresa. Rispondeva sempre a poche e precise domande, controllando di persona ciò che i giornalisti davanti a lei annotavano sui loro taccuini.
Questa volta, però, si sentiva stranamente a disagio e Regina Mills odiava sentirsi così. Forse erano quegli occhi così felici e ingenui, del tutto privi di secondi fini o forse, la reverenza che tutti provavano per il fidanzato della giovane aveva alla fine contagiato anche lei.
«Prego, si accomodi… come sa, non ho molto tempo…»
Belle annuì e prese posto sulla sedie indicatale da Regina. Tirò fuori un piccolo registratore portatile, un quadernetto di pelle marrone e una penna a sfera apparentemente molto costosa.
«Cominciamo subito!» disse con professionalità e fece partire la registrazione.
 
 
«Henry! Henry! Sei pronto amico? Dobbiamo andare!» gridò l’uomo, indossando la giacca di pelle e prendendo le chiavi della macchina.
Henry scese velocemente dalle scale, rischiando di spezzarsi l’osso del collo e di provocare un infarto a Killian che, per quelle ore, era stato promosso a baby-sitter ufficiale.
«Sono pronto!» disse, arrivando giù di fronte all’uomo con un salto.
«Non lo fare mai più!» lo ammonì lui con un sorriso tirato, scompigliandogli i capelli.
«Oppure fallo, ma quando c’è tua madre!»
Henry sorrise scuotendo la testa.
Si infilarono in macchina e Killian mise in moto.
Emma aveva voluto invitare anche David e lui e Mary ovviamente avevano accettato. Tutto bellissimo, tranne per un solo dettaglio: toccava a lui dimenarsi nell’invivibile traffico di New York per andare a prendere la coppietta felice e portare tutti loro, sani e salvi, a teatro.
«Allaccia le cinture ragazzino! La Jolly Roger sta per salpare!»



«Allora signorina Mills, secondo lei, cosa penserebbe sua madre di questo spettacolo? E cosa pensa avrebbe fatto Cora Mills al suo posto?»
Regina credeva di essersela cavata piuttosto bene, credeva persino che aveva fatto male a preoccuparsi così tanto per quell’inutile intervista.
Almeno fino a quella domanda.
Non era stupida ed era piuttosto certa che neanche Belle French lo fosse, nonostante i suoi gusti in fatto di uomini lasciassero molto a desiderare.
Non era stupida e sapeva che prima o poi, sua madre sarebbe saltata fuori, come una sorpresa poco gradita dalla sua torta di compleanno.
Regina si portò le mani in grembo, pensando a quello che avrebbe risposto.
Poteva fare buon viso a cattivo gioco, di certo non le sarebbe risultato difficile stamparsi un finto sorriso in faccia e mentire, condire quella storia con banali cliché su quanto le mancasse sua madre e su quanto lei sarebbe stata fiera del lavoro che stava facendo al suo posto.
Sarebbe stato facile e probabilmente, in circostanze diverse l’avrebbe fatto.
Ma lì, in quel momento, non poteva.
Non sapeva precisamente perché, forse il senso dell’onore dell’uomo che stava frequentando di recente (faticava ancora a chiamarlo fidanzato), di Robin, l’aveva contagiata; oppure erano quegli occhi blu puntati su di lei come dei fari che aspettavano una risposta sincera, oppure era semplicemente stanca di mantenersi in faccia una maschera che, ormai, non le apparteneva più.
«Vuole sapere la verità, miss French? Io non so come avrebbe reagito mia madre se fosse stata qui. Non le nascondo che la sua morte prematura sia stata per me molto più che traumatica e che non mi sarei mai aspettata di poter sedere da questo lato della scrivania. Tuttavia voglio mettere in chiaro una cosa: io non sono lei, io non sono mia madre. Da sempre i nostri punti di vista non sono stati del tutto concordanti, anzi. Per molto tempo non ci siamo parlate, per molto tempo non ci siamo sopportate, incolpandoci a vicenda dei torti che avevamo subìto. La sua volontà di vedermi come preside della New York City Art Academy mi ha molto sorpreso, come ho già detto in altre sedi, e all’inizio mi è sembrato un misero tentativo di voler riallacciare i rapporti, un po’ come mettere del misero nastro adesivo su di una crepa molto più profonda… in seguito però, ho capito che non era così…»
«In che senso?»
Regina prese un respiro, fissò per un attimo Belle e poi continuò.
«Non è mai stata mia madre a designarmi come suo successore in questa scuola ma la preside Mills. Nonostante queste due identità, di fatto, portassero lo stesso viso e parlassero con la stessa voce, erano molto diverse e solo adesso, dopo la sua scomparsa, riesco a capirlo davvero…»
Belle non parlò ma Regina capì che era curiosa e che il suo sguardo le implorava di continuare a parlare, a raccontare e così lo fece, stupendo persino lei stessa.
Parlò dell’ultimo periodo di vita di sua madre, della demenza e di quei rari sprazzi di lucidità, quando a sua insaputa, l’aveva proposta al consiglio come futura preside. Loro ovviamente non avevano potuto rifiutare perché temevano ancora l’austera preside Mills e la sua influenza.
Quella, quella era la preside che Regina, in quei mesi non aveva mai incontrato.
Lei, per assurdo, in quel periodo di malattia e terrore, aveva conosciuto sua madre, quella che avrebbe potuto avere se solo le cose fossero andate diversamente, se solo entrambe fossero state meno cocciute. Aveva conosciuto la sua fragilità, il suo sorriso, la sua espressione sorpresa, le sue mani e quei ricordi che erano rimasti impressi nella sua memoria, vividi come non mai.
Disse che sua madre non aveva accennato neanche una volta alla sua nomina, anzi. Durante una crisi, una tra le più violente a cui lei avesse mai assistito, aveva ripetuto che odiava il suo lavoro, lo odiava perché l’aveva tenuta lontana da ciò per cui valeva veramente la pena vivere.
«Allora mi scusi, se sua madre non voleva che diventasse come lei, perché ha accettato il posto? Perché non ha semplicemente rifiutato l’offerta e continuato a fare ciò che stava facendo?»
Regina sorrise tra sé. Si era fatta quella domanda molte più volte di quanto Belle French avesse immaginato, alle volte senza trovare una vera risposta, altre cercando di costruirsela.
Ora, in quel momento, le sembrò chiara e precisa come non mai, come se fosse stata scritta sui giornali, sull’agenda, sul muro del suo ufficio, dappertutto, a chiare lettere.
«Perché sapevo di potercela fare, sapevo che non era mia madre ad avermi scelto, ma la preside Mills e non ho mai messo in dubbio le capacità di quest’ultima…»
Belle si sentiva più viva che mai. Adorava intervistare, adorava i segreti e adorava le storie. Non sapeva perché ma quel giorno Regina Mills, una delle donne più potenti e influenti della città, aveva deciso di aprirsi con lei, mettersi a nudo definitivamente e lei non poteva lasciarsi sfuggire questa opportunità che, era sicura, non le sarebbe ricapitata tanto presto.
«Non ha avuto paura delle voci? Di chi si lamentava del fatto che il posto andasse da padre in figlio, da madre a figlia in questo caso, come una sorta di gerarchia? Non è stanca di chi la accusa di nepotismo o favoreggiamento?» chiese con audacia.
«No, l’opinione degli altri non ha mai condizionato le mie scelte, né tantomeno quelle di mia madre» rispose la donna in tono franco.
«In questo, infatti, le somiglio molto. Per tutta la vita, ho cercato solo e soltanto l’approvazione e l’amore di una madre, approvazione che, mi piace pensare, ho ricevuto solo qualche mese fa. Ottenendo questo posto, non ho avuto che l’approvazione della preside Mills. È stata lei che mi ha scelta come suo successore perché mi riteneva in grado di ricoprire un ruolo del genere, di affrontare una crisi come quella che la scuola sta affrontando adesso, non perché ero sua figlia ma perché ho il carattere e la motivazione giusta per farlo.»


 
 
Era fatta.
L’aveva fatto, l’aveva fatto per davvero.
Si inchinò per l’ultima volta, prima che la tenda rossa del palcoscenico calasse definitivamente e li nascondesse del tutto.
Era sudata e accaldata e piena di energie. Avrebbe potuto ballare per altre due ore se avesse potuto.
Subito tutti proruppero in grida di gioia, qualcuno scoppiò a piangere. La tensione, fino a quel momento presente, si allentò fino a scomparire del tutto.
Emma si sentì prendere per mano e trascinare in mezzo a braccia, corpi sudati e rivestiti di tulle. Tutti si abbracciarono, c’era chi piangeva, chi tirava i muscoli, chi non poteva fare a meno di provare per un’ultima volta un grand-jeté su quel palco.
Anna l’abbracciò ed Emma ricambiò, trattenendo a stento le lacrime.
Si guardò intorno e capì che quella sera aveva preso parte a qualcosa di grande, che tutte quelle persone incapaci di scollarsi di lì, tutte quelle vite apparentemente così lontane, quella sera erano state legate insieme da qualcosa di grande e meraviglioso.
C’erano stati imprevisti e sacrifici, più di uno si era dimenticato qualche parte di coreografia, qualcun altro aveva decisamente improvvisato, ad una ragazza era venuto un attacco di panico e aveva lasciato il palco per correre in bagno a vomitare, avevano avuto problemi con la pece e i vestiti, un’amica di Tiana si era stirata un muscolo proprio durante un balletto e, tirando i denti, aveva continuato a ballare come se niente fosse.
Come in ogni spettacolo che si rispetti, non tutto era filato come previsto ma, forse proprio per quello, Emma non l’avrebbe dimenticato presto. Probabilmente mai.
L’adrenalina prima di salire, i muscoli in allerta, gli ultimi ritocchi prima di entrare in scena, il familiare dolore ai piedi, l’ansia di dimenticare qualche passo, la bellezza di poter girare e saltare, quasi volare, l’energia del pubblico, la loro muta e allo stesso tempo importante presenza, la consapevolezza che tra loro c’erano persone a cui teneva e che, a loro volta, tenevano a lei, l’orgoglio nel poter affermare, senza paure né remore che stava ballando per loro, solo per loro.
Regina li raggiunse poco dopo, seguita da Ella.
Anche lei sembrava emozionata e fu in quel momento che Emma capì quanto tutto quello che avevano fatto fosse stato importante per lei. Una piccola parte di lei, avrebbe voluto che anche Regina avesse ballato sul palco assieme a loro, proprio come ai vecchi tempi. Lei e la sua migliore amica a calcare la scena, sfidando i loro limiti e oltrepassandoli. Emma sapeva che anche Regina desiderava la stessa cosa ma purtroppo le circostanze non gliel’avevano permesso. Si sentì incredibilmente orgogliosa della sua amica, del modo in cui aveva affrontato tutto, con grazia e allo stesso tempo forza, come solo una ballerina avrebbe potuto fare.
Senza troppe cerimonie, lasciò le altre e andò dritta ad abbracciarla.
Non le importava il sudore, non le importava neanche il costoso vestito che Regina indossava.
Doveva farlo perché glielo doveva, perché se non fosse stato per lei, mai avrebbe pensato di poter rivivere una cosa del genere. Doveva farlo perché anche se di fatto Regina aveva fatto parte del pubblico quella sera, lei l’aveva comunque portata con sé sul palco, in tutti i passi, in tutte le coreografie.
La mora, dal canto suo, dopo un commento sarcastico su quanto Emma fosse sudata, si lasciò abbracciare.
La tensione abbandonò anche il suo corpo e per un attimo, furono solo due amiche, l’una felice per i traguardi dell’altra e viceversa.
Fu così che lui le trovò.
«Sei stata bravissima!»
 
 
Killian aveva visto molte cose nella sua vita, non tutte esattamente belle.
Solamente da poco, gli piaceva pensare da quando Emma era rientrata nella sua vita, il suo sguardo aveva ricominciato a soffermarsi sulla bellezza nel mondo.
Bello era svegliarsi la mattina con la sua fidanzata dall’altro lato del letto, ancora addormentata.
Bello era il suo lavoro, quella scintilla che si immaginava scattasse nel suo cervello prima di progettare qualsiasi cosa.
Bello era il panorama dal suo ufficio e il tramonto sul mare.
Bello era fare colazione fuori e chiacchierare con i suoi amici o preparare ad Henry la colazione.
Ormai si era allenato a riconoscere la bellezza, ormai pensava di avere le parole giuste per descrivere qualsiasi cosa.
Eppure quella sera, capì che di parole, lui, non ne aveva proprio nessuna.
Aveva visto Emma ballare, aveva visto Emma nel suo elemento. Aveva visto il candore, la grazia, l’eleganza che emanava e poi aveva visto il dolore, la passione, la forza.
Aveva visto tutto quello che Emma voleva, aveva letto ogni movimento delle braccia, della testa, delle gambe come fossero le sue braccia, la sua testa e le sue gambe a muoversi.
Aveva letto il suo sguardo, tutte le emozioni che erano in quegli occhi verdi e ne era rimasto incantato.
Come poteva, con una singola parola, descrivere tutto quello?
Come potevano le parole contenere tutto quello?
Lo spettacolo era finito e lui ormai si era spellato le mani a forza di applaudire.
Si vergognava ma aveva anche un po’ gli occhi lucidi.
Staccò gli occhi dal palcoscenico soltanto quando non fu più in grado di scorgerla e vide che Henry aveva il suo stesso sguardo.
Orgoglioso, pieno d’amore, velato da lacrime che stavano cercando di trattenere con tutte le forze.
Un sentimento di benessere si impossessò del suo corpo.
In quell’ultimo periodo si era allenato a riconoscere anche un’altra cosa, la felicità, e capì che in quell’istante era felice.
Felice senza attenuanti, felice e basta, felice punto.
E la cosa più bella era che non era felice per qualcosa che lui aveva fatto ma era felice per qualcun altro.
Emma gli si era radicata dentro a tal punto che era ormai parte di lui e per questo, pensava, non avrebbe potuto provare altro. Anzi, a pensarci bene, era sempre stato così, lui l’aveva sempre avuta lì, dentro il suo cuore, rannicchiata e da qualche mese ormai era semplicemente ritornata a galla.
Se lei era felice, lo era anche lui. Dipendeva da lei e le era grato per averlo accettato.
Mai, mai avrebbe pensato che scegliere liberamente di rinunciare alla propria libertà per donarla a qualcun altro, l’avrebbe fatto sentire così vivo.
 
 
«Robin! Grazie!» rispose Emma felice, staccandosi dalla sua amica.
Regina lo guardò con un sorriso a trentadue denti.
Si sentiva fiera di quello che avevano fatto quella sera, sapeva che, in un modo o nell’altro, quello spettacolo avrebbe sicuramente contribuito ad aiutare la scuola.
«Che te ne pare? Siamo stati bravi? Si è visto che non mi ricordavo praticamente nulla?» domandò Emma con una punta d’ansia. Sapeva che, nonostante non ci fosse niente a dividerli, il palcoscenico e la platea erano due mondi estremamente diversi e che, ciò che accadeva sul primo, non necessariamente veniva captato dal secondo e viceversa. Eppure aveva bisogno di un’ultima certezza, prima di affrontare Henry, Killian e gli altri.
«Certo, siete stati tutti bravissimi! Specialmente tu!»
Emma arrossì e gli sorrise, grata.
Era felice che la sua amica avesse trovato, per puro caso in un ospedale, quell’uomo tanto gentile e onesto. Sperava che le cose, tra loro, restassero per sempre così.
«Non dirgli che te l’ho detto ma Killian ha trattenuto le lacrime per buona parte dello spettacolo!»
Il sorriso di Emma si aprì ancora di più al nome di Killian e il cuore le si strinse nel petto.
Non vedeva l’ora di abbracciarlo.
«Non glielo dico, promesso!» disse, prima di fargli l’occhiolino e correre da lui, da loro.
Non ce la faceva più ad aspettare e non importava se avesse ancora addosso il costume di scena, se lo chignon le tirava i capelli o se ai piedi aveva ancora le mezze punte, doveva vederli.
Scese in fretta le scale e si addentrò nella platea.
Alcuni la riconobbero e le sorrisero o almeno così le parve.
Era felice, il cuore le batteva ancora nel petto e forse, non aveva ancora realizzato appieno ciò che aveva appena fatto.
Non fu difficile scorgerli.
Killian ed Henry erano insieme a David e Mary Margaret, parlottavano tra loro e si guardavano intorno, cercando di scorgere un volto familiare.
Il primo a riconoscerla fu Henry.
Si buttò tra le sue braccia proprio come, il giorno della sua recita, aveva fatto con Regina. Lei lo strinse e gli baciò i capelli.
«Sei stata bravissima, mamma! La migliore, la migliore in assoluto!»
«Grazie ragazzino!»
Subito li raggiunsero tutti gli altri.
Emma sorrise a tutti loro, per ultimo incrociò lo sguardo di Killian e vi lesse tutto l’amore e l’ammirazione che provava e si sentì anche lei sommersa, il suo cuore strabordante di emozioni.
Abbracciò tutti, quel giorno avrebbe potuto abbracciare chiunque e per ultimo, abbracciò lui.
Lui che l’aveva vista crescere assieme a quel sogno.
Lui che l’aveva incoraggiata ogni giorno.
Lui che, dodici anni prima, l’aveva persa per quell’insano desiderio di ballare e adesso era lì, come se niente fosse successo, pronta a sostenerla ancora, sempre.
Lui che adesso non l’avrebbe lasciata più.
Tutti i pezzi del puzzle della sua vita si ricomposero, presero vita e unirono tutte quelle persone, tutti quei sentimenti, in un’unica bellissima e indimenticabile immagine.
«Devo dirti una cosa» le sussurrò ad un orecchio.
«Cosa?»
«Ti amo»
«Lo so…» sorrise.
«Ti amo anche io»
 
Il teatro si era svuotato e lei stava raccogliendo le ultime cose dal suo camerino assieme a Killian. Aveva salutato le altre, promettendo loro che prima della loro partenza si sarebbero riviste e avrebbero pranzato insieme. Emma pensò che avrebbe potuto anche invitarle a casa sua, dopotutto era una brava cuoca no? Henry glielo diceva sempre e Killian l’aveva confermato.
Stava ancora valutando l’ipotesi quando sentì qualcuno bussare alla porta del camerino. Si voltò e accolse i nuovi arrivati con un sorriso.
«Emma sei pronta?» chiese l’uomo, appoggiandosi alla porta.
«Sì sì, devo solo raccogliere tutti i miei vestiti sparsi e infilarli qua dentro…» disse indicandogli il borsone mezzo vuoto, pronto per essere riempito.
«Ok, volevo dirti che c’è un uomo fuori che vorrebbe parlarti…»
Emma sollevò lo sguardo mentre prendeva il grande malloppo di vestiti, calze e body e lo infilava nella borsa.
«Un uomo? E chi è? Che vuole?»
Killian alzò le spalle.
«Non lo so ma non sono geloso, non ti preoccupare…» disse con una certa aria di superiorità.
Emma alzò gli occhi al cielo con una risata. Davvero, dopo tutto quello che avevano passato, lui pensava davvero che lei avrebbe potuto avere occhi per qualcun altro che non fosse lui?
No, certo che no. Ecco perché era così sicuro di sé.
Rise.
«Arrivo… e Henry?» chiese, guardandosi intorno per un’ultima volta.
«David ha proposto di andare a mangiare qualcosa e lui, Mary, Robin e Regina sono già andati al ristorante…»
«Wow, una cenetta di famiglia…» sorrise Emma scoccandogli un bacio sulla guancia poi continuò.
«Certo, il fatto che ci abbiano lasciati soli è un puro caso, uno scherzo del destino, no?»
Killian rise e ammiccò.
«Ovvio…»
Emma si avvicinò e gli prese la mano, intrecciando le dita con le sue. Poi si girò per un’ultima volta verso il camerino, diede un’ultima occhiata ai muri, alle scritte ancestrali e ad una, piccolissima, più recente. Inspirò ancora una volta l’odore di umidità e sentì tutto il peso del borsone premerle sulla spalla.
Quella era l’ultima volta.
Questa volta, a differenza di undici anni prima, non era triste, né tantomeno felice. Era una sensazione strana, una sorta di malinconia, come qualcosa che sai che prima o poi dovrà accadere e sai che ne sarai devastata e poi, quando arriva, non è così male come pensavi e tu sei perfettamente in grado di cavartela da sola. Si sentiva in qualche modo preparata a quell’addio, come se fosse qualcosa di inevitabile, qualcosa che rimandava da anni e che non poteva più aspettare. Per anni la danza era stata la sua vita. Per anni ballando aveva dato sfogo ai suoi demoni, alle sue angosce, ai suoi timori ma anche alla sua felicità. La danza era stata salvezza e dannazione al tempo stesso, una medicina e una droga.
Adesso però, era giunto il momento di smettere. Forse tutto quello che aveva passato, tutti gli anni passati a saltare e arrampicarsi su di un palo, tutti gli sbagli e le lacrime avevano come unico scopo quello di portarla lì, sull’uscio di un camerino, nel teatro che più di tutti aveva segnato la sua vita, con la mano intrecciata a quella del suo migliore amico.
Forse sì, forse era così, forse c’era davvero un piano da qualche parte.
Spense la luce.
Un grande, importante capitolo della sua vita era terminato.
O almeno così pensava.
 
«Possiamo sempre andare al Mc Donald’s!» propose Henry che ad arrendersi, proprio non ci riusciva e in questo, nessuno poteva obiettare che non somigliasse a sua madre.
«Henry, mi dispiace ma non ho intenzione di nutrire mio figlio non ancora nato con quelle porcherie…»
«David, caro, apprezzo l’interessamento ma sono io che mangio, ricordi?» gli rispose Mary Margaret che ad un bel panino, in fondo, non avrebbe detto di no.
Regina alzò gli occhi al cielo poi si voltò verso Robin con uno sguardo che parlava.
Sì, perché Robin capì immediatamente ciò che Regina avrebbe voluto dirgli e assomigliava a qualcosa tipo “perché diavolo ci siamo dovuti trasportare anche Biancaneve incinta e il Principe Azzurro?”
Erano loro sei, in piedi sul marciapiede e Regina pensò che di lì a poco sarebbe morta ibernata se non avessero trovato al più preso un locale dove mangiare. Era Gennaio inoltrato e il freddo a New York ti entrava fin dentro le ossa. Qualche giorno prima aveva addirittura nevicato ma i newyorkesi ci avevano fatto l’abitudine. Regina aveva tirato fuori dal suo armadio una sciarpa di lana nera che non indossava quasi mai perché troppo ingombrante. Tuttavia in quel momento, era davvero felice di averlo fatto. Chiamò Henry e Roland a raccolta, stringendo le loro piccole manine infilate nei guanti, poi si voltò di nuovo verso Robin.
«Se non troviamo qualcosa subito, giuro che chiamo un taxi e torno a casa! E mi porto i bambini!»
«Perché non andiamo in quel pub Robin, quello in cui…» David si interruppe a metà frase, probabilmente ricordando che in genere, a quell’ora nei pub non ci sono posti neanche per due persone, figuriamoci per tre coppie con due bambini, ammettendo sempre che li avessero fatti entrare i bambini.
Regina sbuffò e si guardò intorno. Quel quartiere le sembrava familiare…
«Venite, se non sbaglio qui vicino c’è un locale e dovrebbe esserci posto per tutti…»
«Sei sicura? Voglio ricordarti che abbiamo chiamato ben tre posti e tutti ci hanno detto che…» replicò David.
«Sì, so cosa ci hanno detto, grazie per avermelo ricordato Bello Addormentato, c’ero anch’io! Non ti preoccupare, questo posto è abbastanza grande e dovremmo starci tutti…»
Si incamminarono. Lei al centro, mano nella mano con i bambini. Robin dietro di lei e qualche passo dietro di loro, David e Mary Margaret che non osarono controbattere a ciò che disse la donna, vuoi per reverenza, vuoi perché in fondo aveva ragione e quella era la loro ultima speranza.
Poco dopo, si ritrovarono di fronte ad un ristorante tutto illuminato, con una grande insegna blu.
David spalancò gli occhi.
«Aspetta, ma io questo posto lo conosco!»
«Blue Mermaid Restaurant… che nome curioso!» commentò Mary Margaret prendendo sotto braccio David.
«Come fai a conoscerlo? Ci portavi le tue fidanzate?» continuò sarcastica.
«Mm una cosa del genere… Aspetta che lo scopra Killian!» rise, prima di seguire Robin, Regina e i bambini dentro il locale.
 
 
Our love is… m-m-m-m-m-mad-mad-mad madness.
«Be’ direi che la canzone è piuttosto appropriata…» commentò Emma, cercando di alleggerire la tensione che si respirava nell’abitacolo della macchina di Killian. Si stavano recando verso il ristorante che David e gli altri avevano scelto. Emma si guardò intorno, riconoscendo qualche palazzo e ricontrollando sul cellulare se si stavano muovendo verso la direzione esatta.
«Già… - commentò l’uomo, prima di tirare un profondo respiro e affrontare la questione che li tormentava da quando avevano lasciato il teatro- Emma, senti, tu non…» ma la donna lo zittì prima che lui potesse terminare qualsiasi frase avesse intenzione di pronunciare.
Non voleva aprire quel discorso.
Non ora che tutto era perfetto.
«Non dire niente, non ancora» lo pregò, cercando di rassicurarlo.
«Ma…» Killian cercò di obiettare qualcosa, anche se non sapeva neanche lui cosa avrebbe voluto dire.
«Ti prego, ne parliamo stasera, adesso… adesso facciamo finta che quell’uomo non si sia mai fermato, non ci abbia detto niente e…»
«Veramente ha parlato solo con te!» la corresse Killian, beccandosi un’occhiataccia alla quale rispose con un sorrisetto beffardo. Tuttavia la donna, dietro quell’espressione sarcastica, riuscì a scorgere un velo di tristezza, quasi di resa incondizionata, come se in fondo, sapesse già o avesse già vissuto la discussione che li aspettava dopo quella conversazione. Era lì, dietro l’angolo, Emma riusciva a vederla con chiarezza.
Tuttavia, non aveva voglia di imboccare quella strada, non ancora.
Per un volta voleva semplicemente godersi quella cena senza altri pensieri, senza problemi da risolvere, lacrime da versare, persone da abbandonare.
«Hai capito cosa intendo!» gli rispose Emma gesticolando e immaginando di rinchiudere le parole di quell’uomo in un baule e nasconderlo in una qualche parte remota del suo cervello. Henry le aveva detto che funzionava ma probabilmente lei non era in grado di farlo, visto che il viso tondo e sbarbato di Facilier (così si chiamava) continuava a saltare fuori, come una faccia spaventosa di quei clown inquietanti che saltavano fuori dalle scatole non appena le aprivi. Insomma, quelli che nei film horror non mancavano mai e che una volta, un’apparentemente innocua vecchietta le aveva portato al negozio.
Killian annuì pensieroso. Non sapeva bene come si sentiva, probabilmente se avesse dovuto descriverlo a parole avrebbe detto “in bilico”.
Sì, in bilico.
La sua felicità era in pericolo, come se un bellissimo palloncino colorato stesse volando improvvisamente troppo vicino ad un cactus.
Quell’uomo era il cactus.
Maledetto! Come aveva detto che si chiamava? “Facile-qualcosa”? Ad ogni modo, avrebbe potuto tranquillamente starsene a casa sua!
Sbirciò con la coda dell’occhio l’espressione della donna al suo fianco che sembrava stranamente tranquilla.
Strano, molto strano.
Killian non era stupido e conosceva Emma come le tasche dei suoi jeans e lo faceva sorridere il fatto che lei tentasse ancora di nascondergli qualcosa.
Emma si accorse del suo sguardo e gli sorrise, cercando di sembrare il più rassicurante possibile. Forse fallì, non ci badò, distolse subito lo sguardo, il faccione di quell’uomo si stava impossessando di nuovo dei suoi pensieri. Scosse la testa. No, doveva dire ad Henry che il suo metodo non funzionava affatto!
Fissò il panorama.
New York non deludeva mai. Ogni volta che passeggiava, passava in macchina o in taxi tra le strade del centro, qualcosa riusciva sempre a cogliere la sua attenzione: una vetrina, un eccentrico copricapo, una foglia caduta, un cagnolino. Quella volta, il suo sguardo cadde su un’insegna familiare.
Ricontrollò il messaggio di David.
«Ma io questo posto lo conosco!» esclamò, togliendosi la cintura e aspettando che Killian terminasse le ultime manovre del parcheggio.
L’uomo diede uno sguardo in giro, poi sbuffò.
«Di male in peggio!»
Emma lo guardò interrogativa.
«Perché dici così? Non ti piace? In realtà si mangia abbastanza bene, io e Regina ci siamo venute un po’ di tempo fa con dei clienti…»
Killian alzò le sopracciglia.
«Clienti? E da quando andate a cena con i clienti?!» chiese, fingendosi parecchio geloso.
Emma rise e a lui sembrò che le cose ritornarono magicamente al loro posto, che se lei avesse riso così per tutta la sera, forse poteva davvero riuscire a fingere che quell’ultima mezz’ora non fosse mai accaduta.
«Oh sai, qualche volta… Regina mi costrinse a mettere persino i tacchi!» disse, ridendo sotto i baffi.
«A proposito, quel giorno persi la collana! La collana che avevi tu, questo vuol dire che…»
«Dici che siamo stati nello stesso posto, allo stesso momento e non ce ne siamo neanche accorti?»
Emma annuì, sorridendo. Il destino stava giocando con loro da molto più tempo di quanto loro stessi avessero mai pensato.
«Assurdo!» commentò Killian, passandosi una mano sugli occhi. Quelle coincidenze continuavano a destabilizzarlo.
Nel frattempo erano scesi dalla macchina e si stavano incamminando verso il locale. Cominciava a sentirsi già l’odore di pesce ed Emma accelerò il passo, prendendo l’uomo al suo fianco per mano e trascinandoselo dietro.
«Fammi pensare io ero qui il… credo fosse Ottobre… no, Settembre…»
Killian si mise le mani in tasca, prese il cellulare e gli bastò scorrerei tra i vari messaggi per ricordare la data esatta.
«Noi siamo stati qui il 19 Settembre alle 22:21!»
«Noi chi?!» domandò Emma, cercando di non apparire troppo gelosa. Killian la guardò di sottecchi, sapeva che adesso gli avrebbe riservato un’altra delle sue risate contagiose e in fondo, ci sperava anche.
«Io e David…»
Emma, come previsto, scoppiò a ridere.
«E che cosa ci facevate in questo romantico ristorantino tu e David alle 22:21?!» cercò di chiedergli tra le risate.
«E poi perché sai con certezza che erano le 22:21?»
Killian cercò di trattenersi, ma alla fine non poté che ridere con lei.
Avevano varcato la soglia del ristorante e Ariel, la giovane cameriera dai capelli rossi dell’altra volta, li stava scortando al loro tavolo.
«Questo dovresti chiederlo a David!»
Emma rise.
Stava cercando di dimenticare che uno sconosciuto le aveva appena offerto un posto in una prestigiosa compagnia di balletto internazionale.
Per adesso, stava facendo un ottimo lavoro.
O forse no?
 
 
La serata trascorse in tranquillità. Certo, per loro probabilmente “tranquillità” aveva un’accezione diversa rispetto al resto del mondo. Significava ridere incessantemente per venti minuti dopo che David aveva raccontato come fossero andate le cose quella sera al Blue Mermaid Restaurant; sgridare Henry e Roland per aver condotto chissà quali esperimenti in un disgustoso bicchiere ricolmo di un liquido che probabilmente un tempo era stato Coca Cola; punzecchiare Regina perché si ostinava a chiamare Robin, il suo “appuntamento” invece che il suo ragazzo; stare a sentire Mary che si lagnava di quanto David fosse apprensivo durante la gravidanza, quasi dovesse trasportare lui il bambino per nove mesi nella pancia; commentare lo spettacolo che avevano appena visto... Probabilmente neanche la vita avrebbe immaginato che un gruppo di persone così diverse tra loro, potessero sedere allo stesso tavolo e persino divertirsi e scherzare insieme.
Presto Roland si addormentò e stranamente anche Henry si distese accanto a lui su di una specie di letto formato da tante sedie una accanto all’altra.
Il locale pian piano si svuotò, ma le chiacchiere non finirono. Emma riuscì a dimenticare per qualche ora, il grande e grosso elefante che l’aspettava tornata a casa. Si raccontarono qualche aneddoto adolescenziale, come quando Killian convinse Emma che doveva assolutamente provare il cibo indiano e lei stette male per i due giorni consecutivi, maledicendo Killian tra un conato di vomito e l’altro e giurando che mai più avrebbe mangiato una simile schifezza in tutta la sua vita; oppure la prima volta che Killian, David e Robin erano usciti insieme come un vero gruppo di amici, finendo sbronzi e bagnati in una fontana di Central Park, assieme ad un gigantesco orso di peluche; oppure di quando Regina aveva scambiato un cliente per una postino e gli aveva fatto una ramanzina infinita per aver lasciato le lettere sul pavimento e non nell’apposita cassetta.
Insomma, tutto stava andando per il meglio, Emma avrebbe voluto che quella serata non finisse più.
Lanciò un’occhiata a suo figlio che dormiva beatamente dall’altra parte del tavolo, assieme al suo nuovo amico.
Per un secondo, un millesimo di secondo, si lasciò trasportare dagli eventi. Si isolò da tutto il resto, dai suoni, dai colori, dagli odori del locale e stette semplicemente a guardare i suoi amici, quelli vecchi e quelli nuovi, quelli di una vita e quelli appena conosciuti, che ridevano e discutevano e legavano e per un attimo, un singolo attimo, credé di poter essere felice.
Fu un secondo.
Poi arrivò Ariel e con lei arrivarono i problemi.
Nuovi.
Pesanti come macigni.
Gelati come una doccia fredda dopo una giornata intera sotto il sole.
«Scusi signorina, mi avevate chiesto il conto e be’… quell’uomo ha già pagato tutto»
Si voltò.
Le sembrò che il sangue le si fermasse nelle vene, che il cuore e il cervello e persino i polmoni si bloccassero, smettessero di fare qualsiasi cosa fossero destinata a fare.
«Neal»
«Di male in peggio!» ripeté Killian sottovoce, per la seconda volta in quella serata, apparentemente tranquilla.
 
 
Tornerai tu in mezzo agli altri
e sarà come morire.
- “Resta fino all’imbrunire”, Negramaro
 
 
 
 
 
 
 
 
Salve a tutti!
Un aggiornamento all’anno eh? Che vergogna! Scusate davvero! Purtroppo è davvero difficile conciliare l’università con tutto il resto. Adesso, ad esempio, ho già riaperto i libri! So che non ho scusanti ma volevo rassicurarvi che questa storia AVRA’ una FINE (che ho deciso con certezza qualche giorno fa eheh) quindi prima o poi, sappiate che mi farò viva. Ci dovrebbero essere altri 3 capitoli più l’epilogo, se tutto va come previsto. Ad ogni modo, spero davvero che vi piaccia e spero che mi facciate sapere cosa ne pensate! Mi farebbe tantissimo piacere anche leggere delle teorie se ne avete, pareri, critiche, tutto quello che volete! Vi ringrazio tutti tutti tutti per la pazienza, per essere arrivati fin qui, per aver sopportato i miei ritardi indicibili e impronunciabili, per leggere e ricordarvi ancora di questa storia! GRAZIE! Scusate se vi rispondo tardi, scusate se aggiorno tardi, sappiate che vi leggo e vi rileggo sempre, quando ho bisogno di fiducia in me stessa, quando sono giù, voi siete lì!
Un grande abbraccio e a presto (spero)
Kerri
 
 
 
PS: quanto vi manca OUAT da 0 a 100? A me 1000000000! Che ne pensate del finale? Per me è stato perfetto! Certo, la stagione non è stata una delle mie preferite, ci sono state parecchie cose affrettate che facevano acqua da tutte le parti, ma il finale… quanto ho pianto!
 

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