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Avvertenza: per capire meglio
gli avvenimenti della fanfiction si consiglia la
lettura di “Forsaken”.
It’s time to change the world
Capitolo
1
Stranamente ero riuscito a
convincere Connor a collaborare con me, dopo aver
scoperto del tradimento di Church preferii concentrarmi su Benjamin, piuttosto
che perder tempo con il ragazzo e le sue rivoluzioni infantili.
Assurdo, ancora non mi
capacitavo del fatto che avesse tradito l’Ordine. Come aveva potuto? Era per
gente come lui se i Templari venivano definiti malvagi. Gliel'avrei fatta
pagare, poteva giurarci. Nessuno poteva permettersi di fottere così HaythamKenway. Gli avevo salvato
la vita, bastardo, e lui mi ripagava così.
Saltai da un tetto all'altro
con disinvoltura nonostante l'età, davanti a me vidi il porto di New York con
qualche nave attraccata. Era notte, il mio mantello si muoveva leggermente per
la brezza.
«Perché non mi hai ucciso al
nostro primo incontro? Cosa ti ha fermato?» la voce di mio figlio, dietro di me
di qualche passo, mi giunse alle orecchie come una pugnalata improvvisa alla
schiena. Non lo sapevo nemmeno io ad essere sincero. Non avevo avuto motivo di
saltargli addosso nel deposito, avrei potuto aspettare che se ne andasse e
allontanarmi a mia volta, invece no. Volli metterlo alla prova, vedere che uomo
era diventato, volevo vederlo con i miei occhi.
«Curiosità» tentai di
cavarmela così «Altre domande?»
«Cosa vogliono i Templari? »
fu prevedibile, mi aspettavo una domanda del genere.
Mi voltai verso di lui e
avanzai di qualche passo.
«Ordine. Giustizia. Libertà.
Indipendenza. Non è anche quello che cerchi tu, Connor?»
Scosse leggermente la testa.
«Come puoi parlare di
giustizia tu, che vuoi uccidere Washington? Il popolo ha scelto lui.» alzò di
poco il tono della voce ed io indurii lo sguardo.
«Io ero presente al
Congresso Continentale e ti assicuro che è stata una decisione fatta a
tavolino. Tu sei davvero convinto che ogni cosa che succede sia a favore del
popolo?» schioccai la lingua contro il palato «No, Connor,
ci sarà sempre qualcuno che si riempirà le tasche. Sto cercando di aprirti gli
occhi.»
Lo vidi aggrottare le
sopracciglia.
«Mettere al comando
dell'esercito Charles Lee non porterà nulla di buono! Tu stai facendo i tuoi
interessi senza pensare alla povera gente!» mi aveva puntato un dito contro.
«Ed è qui che sbagli.
Mettere al comando Charles significa dare una svolta alla guerra. Il nostro
esercito inizierebbe a vincere e, sconfitti gli Inglesi, le tasse che spremono
i coloni spariranno. Possibile che tu non capisca?» rimase in silenzio, quindi
continuai. «Con Charles al comando saremo presto in pace.» tentai ancora.
«No, state seguendo i vostri
scopi personali spacciandoli per buone azioni.» sospirai e portai le mani
dietro la schiena, provando sollievo nel ripararle dall'aria pungente.
«Tu parli a vanvera. Una
volta gli Assassini avevano un obiettivo assai più nobile, cioè la pace.»
«Libertà è pace.» disse d'impulso. Scossi il
capo. Quanto era ingenuo su una scala da zero
a Mr. Idiota?
«Se solo non fossi così
chiuso capiresti che abbiamo lo stesso scopo! Se solo ci unissimo potremmo
raggiungere il nostro obiettivo. Invece no, perdiamo tempo ad ammazzarci tra di
noi piuttosto che cambiare il mondo.»
«Abbiamo modi d'agire
diversi, non andremmo mai d'accordo.» buon Dio, che testone!
Sbuffai per l'ennesima
volta.
«È per questo che rimango
fedele all'Ordine nonostante i nostri Credo siano molto simili: perché siete
ottusi e ignoranti.» dissi senza timore a pochi centimetri dal suo viso.
«Hai detto tante belle
parole, ma non hai mai mostrato i fatti. Getti fumo negli occhi con i tuoi
discorsi, ma a me non basta. E le tue parole non mi toccano, perché anche
queste non sono motivate.» concluse fissandomi con astio. I fatti li avrebbe
avuti presto, parola mia. Indietreggiai di un passo e sospirai.
«Vuoi che le motivi?
Benissimo. Ammetto di non aver mai avuto a che fare con un Assassino per così
tanto tempo –mio padre non contava-, e se erano tutti come te, Connor, ringrazio di esserne stato nemico! Parlo per me, io
sono cresciuto imparando a ragionare sugli eventi, pensando con la mia testa e
senza lasciarmi influenzare da fattori esterni. Voi Assassini, invece, avete la
mente offuscata dalle vostre belle parole, "agite
nell'ombra per servire la luce", dite voi, ma io non vedo niente, dove
sono i risultati delle vostre azioni?» mi interruppi per prendere fiato e notai
che l'avevo spiazzato citando una loro frase.
«Siete ignoranti perché non
imparate dall'esperienza. Siete fissati con questa libertà=pace. Mai sentita un'affermazione più errata, Connor! Immagina un esercito senza generale, al completo
sbaraglio, senza piani, tattiche o altro. Questa è la libertà che tanto
predichi, e adesso immagina di mettere al comando di questo esercito un capo,
una guida sicura e capace, che sproni i deboli a dare il massimo e che freni le
teste calde. Applica questo semplice principio ad una città, ad uno Stato e poi
ad un Continente. Questo è ciò che vogliamo raggiungere, nient'altro.» riportai
le braccia, che avevo allargato, dietro la schiena, mentre attendevo una
qualsiasi risposta da Connor che, immobile, mi
fissava.
Spostò lo sguardo sulle
tegole del tetto su cui sostavamo, lasciando che il cappuccio gli coprisse gli
occhi, forse per impedirmi di vedere il dubbio che si insinuava nella sua
mente.
«Non sto cercando di
portarti dalla mia parte, ragazzo, voglio farti capire che l'intelligenza
dell'uomo sta nell'abbattere le barriere che lui stesso costruisce. Se due
persone hanno lo stesso obiettivo, ma sono di fazioni diverse e quindi si
combattono, si dimostrano stupide. Spero che almeno questo tu riesca a
comprenderlo.» detto ciò mi voltai dandogli le spalle e saltai giù dal tetto.
Lui mi imitò e poco dopo raggiungemmo il birrificio in cui si rifugiava
Church.... o almeno dove lo credevo. Il cancello e la porta erano spalancati,
nessuna guardia controllava l'ingresso, sembrava fossero fuggiti da poco.
Afferrai per un braccio Connor che, non essendosi accorto dell'insolito silenzio,
stava uscendo dal vicolo in cui eravamo.
«Che succede?» domandò
perplesso
«Church non c'è. Temo sia
scappato con i suoi da non molto.»
«E ora che si fa?» tempo di
chiederlo si sentì un tuono e, un attimo dopo, eravamo entrambi zuppi d'acqua.
Un improvviso acquazzone ci aveva letteralmente spiazzato.
«Magnifico, peggio di così
non poteva andare!» borbottò Connor, io sogghignai.
«Oh, sì invece, visto che i
miei alloggi sono dall'altra parte della città.» lo vidi roteare gli occhi
«Seguimi.» mi voltai dirigendomi verso Fort George.
M’incamminai verso il forte
a passo spedito, in pochi minuti si erano già formate pozze d’acqua ai lati
delle strade.
Quando raggiungemmo le
guardie ai lati del portone, non riuscii ad ignorare l’espressione confusa e
scioccata dei due uomini in divisa. Le oltrepassai seguito da Connor senza riuscire a trattenere un sorriso, poi estrassi
la chiave dalla redingote e aprii la porta. Entrammo in una stanza di media
grandezza; sulla sinistra, attaccato al muro per un lato, c'era un letto a una
piazza e mezza, mentre di fronte, esattamente sotto la finestra, c'era una
scrivania, con sopra una piccola candela, calamaio e piuma d'oca. Adiacente
c'era uno stanzino vuoto con dentro solo un recipiente con acqua per lavarsi.
Avanzai, estraendo da una tasca interna della veste il mio diario
–fortunatamente non si era bagnato-, appoggiandolo sul ripiano. Poi tornai
indietro togliendomi il tricorno -ormai zuppo- e appendendolo ad un gancio alla
parete, sulla destra. Stessa cosa feci con il mantello e la redingote, poi mi
sfilai gli stivali, restando con camicia e pantaloni. Mi sedetti sul letto
sbottonandomi la camicia, notando solo ora che Connor
era rimasto sulla porta, immobile.
«Hai intenzione di restare
lì ancora per molto o magari ti togli i vestiti? Sono fradici. Non dirmi che ti
vergogni, siamo fra uomini!» arrossì e con stizza si avvicinò alla sedia della
scrivania, appoggiando allo schienale la tunica da Assassino. Io mi alzai e,
con addosso solo i pantaloni, entrai nella stanza affianco, uscendone poi con
un panno pulito che stavo usando per asciugarmi. Vedendomi rientrare in stanza
si girò istintivamente nella mia direzione e mi accorsi che gli occhi gli
caddero sulla cicatrice che avevo sul fianco destro. Quella maledetta ferita,
lasciatami dal giovane Lucio, per poco non mi aveva ucciso e, anche ora, di
tanto in tanto, mi ricordava la sua presenza con dolorose e lancinanti fitte.
«Cos'è quello?» mi chiese Connor, che intanto si era seduto ai piedi del letto,
mentre premevo il panno sui capelli.
«Cosa?» indicò il diario con
il mento.
«Appunti, nulla che ti possa
interessare, suppongo. » gli lanciai la pezza dopo essermi asciugato petto e
schiena, poi mi sedetti sul letto pensieroso. Dovevamo trovare Benjamin Church,
dovevamo uccidere Washington e, soprattutto, dovevo riuscire a collaborare con Connor e Charles senza che uno sapesse dell’altro. Lee di
certo non avrebbe apprezzato e Connor… Beh, avrebbe
cercato di farlo fuori. No. Dovevo riuscire a lavorare parallelamente con
entrambi.
«Dove dormiamo?» mi domandò
posando il panno sulla scrivania. Alzai un sopracciglio.
«Questo letto non è qui per
bellezza.» mi sembrava piuttosto evidente.
«È singolo e noi siamo in
due.» sbuffai.
«Quando sono in dolce
compagnia non le porto di certo qui, le mie ospiti.» restò impassibile, non so
se perché non capì la battuta o per gelosia verso Tiio.
Sbuffai di nuovo «Adattamento, figliolo, ti ci vuole adattamento.» mi sdraiai e
lui ritornò a sedersi ai piedi del letto, mentre fuori continuava a diluviare.
Ci furono una decina di
minuti di silenzio. Connor se ne stava ad occhi
chiusi, seduto e con la schiena appoggiata al muro; io sdraiato, con gli occhi
socchiusi quanto bastava da guardarlo senza essere scoperto.
Era uguale a lei, diavolo.
Gli occhi, le labbra, le espressioni. Di colpo aprì gli occhi e, temendo che mi
avesse scoperto, chiusi rapidamente i miei.
«Dev’essere stato strano per
te scoprire della mia esistenza.» in effetti aveva ragione. Quando venni a
sapere che un ragazzino indiano con le vesti di un Assassino aveva iniziato a
seminare piccole rivoluzioni in città, ebbi subito il presentimento che
c’entrasse Tiio, o peggio ancora, io. Tiio… chissà cosa pensava di me.
L’ultima volta che l’avevo
vista, mi aveva minacciato di non farmi più vedere o mi avrebbe ucciso.
Ovviamente non ci sarebbe mai riuscita, ma che senso aveva restare se mi
odiava? Il tutto perché Braddock non era morto subito
sotto la mia lama, bensì qualche giorno dopo. Cos’altro avrei potuto fare?
Mentre stavo per finirlo mi ero accorto che stavano arrivando Washington e
altri soldati, quindi lasciai Braddock morente al
suolo e mi nascosi. Questo piccolo dettaglio non andò a genio a Tiio, che una volta scoperta la verità aveva deciso di
troncare i rapporti con me.
«Sono sempre stato curioso
di sapere cosa può aver detto tua madre di me. A proposito, come sta?» in cuor
mio speravo stesse bene, nonostante tutto.
«È morta. Uccisa.» mi lanciò
un’occhiata carica d’odio con la coda dell’occhio e, per un attimo, smisi di
respirare. Morta? Quando? Perché?!
«….. Mi dispiace molto.» per
una volta in vita mia ero serio e sincero.
«Ah, ti dispiace? Charles
Lee è colpevole del suo omicidio su tuo ordine! E ti dispiace?» era ufficiale.
Mio figlio era impazzito. Scattai seduto.
«Impossibile! Non ho dato
quell’ordine, avevo chiesto il contrario! Dissi di non cercare più il sito dei
precursori, dovevamo concentrarci su altre faccende!» alzò una mano per
interrompermi.
«É passato, ma non riesco a
perdonare.» chiuse di nuovo gli occhi e compresi, anzi, confermai, l'ipotesi
che avevo formulato quando scoprii che il ragazzino che Charles aveva
maltrattato anni fa era proprio Connor. Mentre ero in
Europa, Charles e gli altri avevano continuato le ricerche sul medaglione, ma
non riuscendo a capire altro, lui, Johnson e Church avevano deciso di recarsi
al villaggio di Tiio per costringere i vecchi a
parlare. Tuttavia non vi riuscirono poiché la locazione esatta la sapevo solo
io, in più Connor si rifiutò di parlare e, da quel
che seppi dopo, Johnson l'aveva colpito con il calcio del fucile, facendolo
svenire. Al suo risveglio il villaggio era in fiamme e per un ragazzino non fu
difficile capire che gli autori di quel massacro fossero i miei uomini.
Sbagliato.
Furono i soldati di
Washington, ma questo lo scoprii più avanti. Se solo sapesse. Se solo sapesse
che sua madre è morta per ordine dell'uomo che vuole aiutare. Non tentai
neanche di dirglielo, non mi avrebbe mai creduto.
«Che motivo avrei avuto per
dare un simile ordine? Avanti, dimmelo, sono curioso.» lo stuzzicai. Lo sopportavo
da un paio d’ore e già avevo esaurito la pazienza. Era decisamente troppo,
avevo rischiato il culo per entrare a Southgate e
salvare la sua gente da Silas, stessa cosa quando uccisi Braddock,
visto che Washington avrebbe potuto uccidermi senza problemi se Tiio l’avesse tirato giù da cavallo.
«Dovresti dirmelo tu!
Charles Lee agisce solo su tua richiesta, quindi è partito da te!» stavolta il
suo tono era acido.
«Insisti, eh? Scommetterei
ciò che vuoi sul fatto che Charles non avrebbe mai osato infrangere un mio
ordine, quindi non è stata una sua iniziativa.» ci avrei messo la testa sul
fuoco, nessuno di loro avrebbe avuto il coraggio di disobbedire a ciò che
dicevo e, beh, non li biasimavo.
Charles era però colpevole
di essere stato troppo avventato, si era guadagnato l'odio di Connor e questo era un problema per me.
Passai la notte a pensare;
come potevo risolvere la situazione? Dovevo fornirgli le prove che non era
opera mia la distruzione del suo villaggio. Accidenti a lui e a me quando
accettai l’incarico di Reginald. Avevo rischiato che
Charles e gli altri si accorgessero del mio spropositato interesse nel
preservare Tiio e i suoi simili, pena l’accusa di
tradimento all’Ordine Templare, e adesso questo ragazzino veniva ad accusarmi
su ciò che avevo voluto evitare? No. Anche a costo di farmi odiare gli avrei
dimostrato la verità. Se doveva detestarmi, che fosse almeno su qualcosa di cui
ero veramente colpevole.
Sospirai con Connor sdraiato alla mia sinistra, tra me e il muro,
beatamente addormentato. Ero supino da circa due ore e iniziavo a non poterne
più, quindi mi alzai dato che, nonostante la stanchezza, non riuscivo a
dormire. Sentii il ragazzo rigirarsi nel letto, notando che, accortosi della
mia assenza, aveva pensato bene di mettersi più comodo.
Accesi la candela sulla
scrivania e presi posto, ne avrei approfittato per aggiornare il mio diario.
Salve a tutti!
Sì, finalmente mi sono decisa a pubblicare la long su Assassin’sCreed a cui sto
lavorando da un po’ di mesi, quindi spero sia stato di vostro gradimento.
Grazie di cuore a chi è arrivato a leggere fin qui, sono ben
accette –ovviamente- critiche, pareri e consigli.
Sì, ricambio anche io con un
giorno di ritardo, happy B. Day!
Capitolo 2
Mi addormentai seduto alla
scrivania con il diario ancora aperto sotto gli avambracci, ai quali ero appoggiato.
All’improvviso mi sentii scuotere e aprii infastidito gli occhi, trovandomi la
mano di Connor sulla spalla e il suo viso poco distante dal mio. Mi destai di
botto come se mi fossi scottato, affrettandomi poi a richiudere il quadernetto
su cui appuntavo, più o meno regolarmente, la mia vita.
«Perché hai dormito qui?»
domandò con quella sua solita espressione ebete che tanto m’irritava.
«Mi sono alzato un attimo,
ma tu hai pensato bene di occupare tutto il letto nel frattempo.» borbottai
indispettito. Mi passai una mano sugli occhi, Dio, ero distrutto. Lo scostai
per alzarmi, raggiunsi il gancio al quale avevo appeso la redingote e,
constatando che si era asciugata, la indossai sopra la camicia, così come il
tricorno. Mentre Connor si vestiva, tornai alla scrivania e presi il diario per
infilarlo nella tasca interna della veste.
«Cosa facciamo? Church sarà
chissà dove con il carico che ha rubato a Washington.»
«Beh, per prima cosa direi
di fare colazione, poi ho appuntamento con uno dei miei informatori, chiederò a
lui se sa qualcosa.» e, senza aspettare risposta, mi diressi verso la porta.
Lui mi seguì senza esitare, evidentemente allettato dall’idea di mettere del
cibo nello stomaco.
Solo una volta che uscimmo
da Fort George mi accorsi che il cielo era ancora coperto da nuvoloni grigi,
mentre la via era cosparsa di pozzanghere qua e là. Mi misi subito a lato della
strada per evitare di venire inzuppato al passaggio di qualche carrozza e
iniziai a ragionare: non potevo di certo portare Connor al Green Dragon. Era la
base per le nostre ricerche, quindi optai saggiamente per la prima taverna che
incontrai sul mio cammino.
Una volta entrati presi
posto al primo tavolo libero che vidi e Connor occupò la sedia di fronte alla
mia. La fortuna volle che fossimo leggermente più distanti dagli altri che,
nonostante fosse mattina, stavano già facendo baldoria brindando con boccali di
birra. Bella la vita di chi non ha un cazzo da fare, vero?
Dopo qualche minuto una
delle cameriere si avvicinò a noi con un sorrisino inequivocabilmente
malizioso, per poi appoggiarsi al nostro tavolo lasciando che la scollatura
fosse in bella vista. E che vista.
«Qualcosa da mangiare e da
bere, grazie.» tagliai corto, mi ci mancavano le donnicciole vogliose di prima
mattina. Vedendo che l’avevo liquidata senza batter ciglio fece una smorfia
contrariata, allontanandosi con aria stizzita. Notai che Connor la seguì con lo
sguardo per un paio di metri, quindi decisi di stuzzicarlo un po’. Adoravo
farlo, mi mandava in estasi.
«Ti allettava l’idea? Potevi
dirlo, non l’avrei stroncata in quel modo.» arrossì violentemente.
«Ma cosa dici!? Non sono
interessato a certe cose, ho faccende ben più importanti a cui pensare.»
tentava di mantenere uno sguardo serio e furioso, ma ahimè, non avrebbe spaventato
nemmeno un poppante. Decisi di divertirmi ancora un po’.
«Suvvia, figliolo, ci
sarebbe da stupirsi se fosse il contrario. Specialmente alla tua età.»
sogghignai.
«Non è che, in realtà, sei
tu quello avrebbe voluto la sua compagnia?» oh, rigirava la frittata, il
ragazzo?
«Affatto, guarda cos’è
successo l’ultima volta che una donna mi si è concessa.»
«Di che parli?» santo cielo,
perché era così dannatamente stupido? Come poteva essere davvero mio
figlio?
«È seduto di fronte a me.»
aggrottò le sopracciglia, offeso per ciò che avevo detto ed io soffocai una
risata « Siamo permalosi, eh?» lui grugnì qualcosa, proprio mentre la cameriera
di prima appoggiava al centro del tavolo due bicchieri d’acqua e un piatto
fondo con dentro pane, brioches e delle salse.
Se io avevo preso con due
dita un pezzo di pane, Connor afferrò una brioche a mano aperta, per poi
morderla fino a metà. Restai immobile a fissarlo con il braccio sospeso nel
vuoto. Lui, sentendosi osservato, smise di masticare.
«Che c’è?» domandò a bocca
piena. Ebbi un flashback di me, di appena otto anni, venire colpito sulle dita
dal mio precettore Fayling per aver osato mettere in discussione ciò che mi
insegnava. E poi mi tornò in mente Edith, una delle mie bambinaie, riprendermi
severamente, ma con garbo, quando facevo qualcosa di sbagliato.
Li immaginai entrambi alle
prese con Connor e non ebbi dubbi su come sarebbe andata a finire la faccenda:
sarebbero fuggiti a gambe levate dopo un giorno, mio figlio era un caso perso.
Sbattei un paio di volte le
palpebre per destarmi e iniziai a mangiare, provando sollievo mentre riempivo
lo stomaco che già da un po’ aveva iniziato a gorgogliare. Ci rilassammo –per
così dire- nella locanda per una ventina di minuti, mangiammo con tutta calma,
poi mi pulii la bocca un con tovagliolo –da buon gentiluomo- mentre Connor si
passava la manica della tunica sulle labbra.
Scossi il capo ma non dissi
nulla, quindi mi alzai e mi diressi verso il bancone, poggiando tre monete sul
legno consumato. Pagai istintivamente anche per il ragazzo, mi sarei giocato
qualsiasi cosa che non avesse denaro con sé. Una volta usciti dalla taverna
giunsi le mani dietro la schiena, venendo affiancato da mio figlio.
«Grazie.» farfugliò senza
guardarmi. Capii immediatamente a cosa si riferiva e ricambiai con un cenno del
capo, poi, senza indugiare oltre, mi incamminai verso il porto, dove mi
aspettava il mio informatore. Raggiunsi il luogo dell’incontro passando per
strade secondarie, volevo evitare le giubbe rosse, chiunque potesse infastidirmi
o riferire a Charles che mi aveva visto in compagnia di Connor e, una volta
arrivati, mi appoggiai con disinvoltura ad una pila di casse di legno sistemate
vicino ad una bancarella. Pochi secondi dopo imprecai a denti serrati
intravedendo, una trentina di metri davanti a noi, un gruppo di soldati
Inglesi.
«Merda.» sibilai afferrando
Connor e tirandolo dietro di me.
«Che accidenti fai!?» mi
riservò un’occhiataccia, ma la ignorai totalmente.
«Maledetto Achille quando ha
deciso di darti questa cazzo di tunica!» sibilai nella sua direzione «Me lo
devi spiegare, Connor, come fate ad agire nell’ombra per servire la luce
con queste divise tanto vistose!» continuai tenendo d’occhio la mezza dozzina
di soldati che, marciando, stava venendo verso di noi.
Ultimamente incrociavo un
po’ troppe giubbe rosse; parlavano tutti di un ragazzo e delle sue gloriose
rivolte, chissà a chi si riferivano. Una volta. Una fottutissima volta, da
quando ero nelle Colonie, mi ero concesso una donna e guarda il casino che
andavo a combinare.
Cercai di calmarmi,
incrociai le braccia al petto e regolai il respiro. Mostrai indifferenza quando
mi passarono davanti, che cercavo di coprire Connor seminascosto dietro di me e
le casse impilate. Addirittura sollevai leggermente la punta del cappello,
guadagnandomi un’occhiata diffidente da una delle guardie. Ringhiai tra me e
me.
Connor venne salvato –perché
giuro che l’avrei preso a sberle- dall’arrivo del mio uomo che, come una manna
dal cielo, sbucò dalla folla venendomi incontro con passo rapido ma non
sospetto. Sciolsi le braccia serrate al petto e le portai dietro le schiena,
staccandomi dalla pila di casse.
«Eccoti, finalmente. Hai
scoperto qualcosa su Church? E sugli Inglesi?» cercai di mantenere la lucidità,
anche se in realtà mi ribolliva il sangue nelle vene.
«Sugli Inglesi nessuna
notizia, Signore, ma ho scoperto che Benjamin Church è partito per la Martinica
a bordo di una corvetta chiamata Welcome.» aveva detto frettolosamente e a
bassa voce.
«Vecchio stronzo.» borbottai
spostando lo sguardo sulle navi attraccate «Ben fatto, James. Continua a
indagare sui piani degli Inglesi e fammi sapere il prima possibile.» gli diedi
una pacca sul braccio e lo lasciai andare. Si abbassò il tricorno sugli occhi e,
dopo aver lanciato occhiate qua e là, si allontanò di corsa; quindi mi voltai
verso Connor.
«Ora che sappiamo dove si
nasconde, non ci resta che trovarlo e dargli una lezione.» sibilai con odio.
«E riprendere i rifornimenti
rubati!» aggiunse con ardore. Sgranai leggermente gli occhi e allargai le
braccia con fare drammatico.
«Dio, che sbadato, hai
ragione figliolo. Riprendiamo i rifornimenti, li riportiamo al caro vecchio
George, gli lasciamo perdere la guerra e poi vado a pestare a sangue Church, va
bene?» lui ignorò deliberatamente il mio sarcasmo. Questo era un motivo più che
valido per rifiutarlo come figlio.
«Ho una nave già pronta.
Dimmi quando vuoi partire.»
«Direi che non c’è altro
tempo da perdere!» lui mi fissò per qualche secondo, poi si voltò facendomi
strada verso la sua nave, o meglio, quella che avremmo usato per trovare
Benjamin.
Dopo un giorno di viaggio
avevo ormai perso le speranze.
Me ne stavo appoggiato al
parapetto del cassero affiancando Connor che gestiva la nave, convinto ormai
che stessimo vagando a vuoto quando, all’improvviso, vidi qualcosa
all’orizzonte. Strappai il cannocchiale dalla cintura di mio figlio e lo portai
all’occhio destro. Ghignai.
«Eccolo! Accelera, figliolo,
dobbiamo raggiungerlo!» abbassai le braccia, poggiando una mano sul legno
consumato e umido. Già pregustavo il momento, volevo averlo tra le mani per
ucciderlo a pugni.
«Spiegate le vele!» urlò
Connor ai marinai. In pochi secondi guadagnammo velocità e, pochi minuti dopo,
potevamo vedere la Welcome a un centinaio di metri da noi.
«Sembra tu voglia farlo
scappare, Connor! Fai andare più veloce questa bagnarola!» battei un pugno sul
legno. Ci stavamo avvicinando, sì, ma troppo lentamente ed io non ce la facevo
più ad aspettare. Ovviamente era più importante aggirare gli scogli per non
danneggiare la nave, certo, facciamo fuggire Church! Come se non bastasse
iniziarono a spararci contro palle di cannone, i nostri rispondevano, ma Connor
preferiva tenersi distante per non subire danni maggiori.
Al diavolo. Imprecai a mezza
voce e lo spinsi via dal timone senza troppe cerimonie, prendendo il comando
della situazione. Che diamine, avevo sangue pirata nelle vene!
«Che fai!?» sbottò mio
figlio una volta recuperato l’equilibrio. Già, l’avevo quasi mandato fuori
bordo, dritto in pasto ai pesci.
«Adesso basta!» virai con
veemenza speronando la nave su cui si nascondeva Benjamin con la prua
dell’Aquila, quindi lasciai il timone, presi la rincorsa e saltai dal
parapetto, aggrappandomi a quello dell’altra nave –il tutto sotto lo sguardo
scioccato di Connor. Avevo cinquant’anni, d’accordo, ma ero un Kenway!-.
Mi issai e salii sulla
Welcome. L’equipaggio mi imitò e un fragore di spade mi fracassò i timpani,
quando la mia attenzione si concentrò su un soldato che stava correndo verso di
me brandendo una spada corta con il braccio alzato.
Idiota. Fianco destro
scoperto: non fu difficile per me conficcargli la lama celata nelle costole. Lo
feci senza esitazione, poi ne approfittai per scendere sottocoperta sperando di
trovare Church, ma con mia grande sorpresa non trovai nulla: né lui né la merce
rubata a Washington. Mi guardai intorno e avanzai di qualche passo stando
attento a non far rumore, era sicuramente lì vicino e, col trambusto che c’era
sul ponte, non si sarebbe accorto di me. O almeno lo speravo.
Perlustrai ovunque, ma di
Benjamin non c’era traccia. Solo un paio di botti e qualche cima arrotolata.
Pochi secondi più tardi vidi
sulla sinistra una porta, sogghignai e, dopo essermi avvicinato silenziosamente,
la spalancai con un calcio, trovandomi davanti il mio ex socio. Tremava
chiaramente, era pallido, ma cercava di mantenere un’espressione aggressiva.
«Chi non muore si rivede,
vero Haytham?» sorrisi.
«Già, anche se tu tra poco
lascerai questo mondo.» lo afferrai dai capelli per poi caricare un destro e
colpirlo sul naso. Il suo volto divenne una maschera di sangue nel giro di due
secondi, così come il mio pugno. Non mi bastò vederlo a terra sanguinante,
quindi mi inginocchiai su di lui continuando a colpirlo.
«È stata una lunga
avventura, credimi, riuscire a schivare tutti i tuoi trucchetti e le tue
trappole. Astute! Alcune di loro, almeno. Questo lo ammetto. E la freddezza con
cui mi hai voltato le spalle…» gli colpii per l’ennesima volta il naso, rotto
ormai da un pezzo. «Avevamo un sogno, Benjamin!» stavolta urlai, ero fuori di
me. Era stato un colpo basso, il suo. Mi sarei aspettato un comportamento
simile da tutti, meno che lui –e Charles, s’intende-. Gli avevo salvato la
vita, cristo, e mi ripagava così «Un sogno che hai voluto distruggere! E per
questo, mio vecchio amico, per questo la pagherai cara!» continuai ad infierire
su di lui tenendolo per il colletto con la mano sinistra, mentre la destra
ormai si muoveva da sola.
La porta alla mia sinistra
si aprì di nuovo e Connor ci trovò così. Gli diedi un altro pugno.
«Basta! Siamo qui per un
motivo.» disse provando pena per Church. Dio, mi veniva da vomitare. Il suo
atteggiamento mi mandava in bestia, non esagero. Perché si imponeva il ruolo di
persona migliore che non prova mai rabbia o rancore?, che non cedeva
alla voglia di vendicarsi? Eppure, come me, aveva perso sua madre davanti ai
suoi occhi. E se proprio bisogna esser pignoli, io mio padre l’avevo visto
morire per mano dei suoi sicari. Come aveva potuto, scoprendo di avere davanti
il colpevole, non attaccare Washington? Non riuscivo a capacitarmi di questo
suo comportamento. Chi sbagliava tra i due?
«Per motivi diversi, temo.»
lo fissai negli occhi e lo colpii per un’ultima violentissima volta. Poi mi
alzai, la mano mi faceva male. Si avvicinò Connor stavolta, si abbassò con fare
misericordioso e con gentilezza chiese:
«Dov’è la merce che hai
rubato?» Church sollevò il busto di poco e, con quel poco e fetido fiato che
aveva ancora in corpo, riuscì a rispondere.
«Va all’inferno!» sussurrò,
ma Connor, colto dall’ira, gli conficcò la lama celata nel fianco, riuscendo a
strappargli di bocca il luogo dove erano nascosti i rifornimenti.
Salve!
Come si può
notare, la storia sta prendendo forma. Da ora in avanti i riferimenti alla
trama di Assassin’s Creed III saranno un po’ più vaghi e si inizierà a capire
cosa sta escogitando il vecchio Haytham.
Mille volte grazie
a chi ha lasciato un commento al primo capitolo, a chi ha iniziato a seguire la
storia e a chi leggerà soltanto.
Una volta recuperato ciò che
ci interessava -o meglio, che interessava a mio figlio- tornammo a New York ed
io incontrai nuovamente James, il mio informatore.
«Sono desolato, ma i soldati
non parlano» aveva esordito così, la gioia, insomma. Con la coda dell’occhio
vidi arrivare Connor, avvolto nella sua bellissima tunica da Assassino. Gli
feci cenno di attendere e da bravo bambino si fermò a pochi passi da noi.
Tornai a guardare James.
«Continua a indagare»
scandii ogni parola «Dobbiamo sapere i piani dei lealisti se vogliamo farla
finita»
«Certo, Signore, per ora i
soldati aspettano ordini dall'alto» spostai lo sguardo. Non mi sarei affidato
alle sue capacità per intuire una banalità simile. Sbuffai.
«Torna da me quando avrai
scoperto qualcosa» non disse nulla, annuì a mo’ di saluto in direzione di
Connor e si allontanò di fretta, lasciandomi nello sconforto più totale per
l’ennesimo buco nell’acqua. Guardai il ragazzo.
«Manca tanto così alla
vittoria. Qualche attacco mirato e la guerra civile terminerà, liberandoci
dalla corona» parlai più con me stesso che con lui, visto che di tattiche
militari e quant’altro ne sapeva veramente poco.
«Che cosa vuoi dire?» Ero
ben consapevole di essere io la mente tra i due, ma le domande stupide e
irritanti di Connor iniziavano a spazientirmi.
«Beh, niente, al momento.
Per ora brancoliamo nel buio» allargai le braccia e mi guardai intorno, sperando
di trovare un segno, uno qualsiasi, che mi suggerisse da che parte iniziare.
«Ma i Templari non avevano
occhi e orecchie ovunque?» Lo guardai malissimo. Da quando se ne usciva con
queste battutine?
«Oh, certo. Questo prima che
arrivaste tu e il tuo sarcasmo da quattro soldi» sibilai.
«Il tuo uomo ha detto ordini
dall'alto, ecco quindi cosa dobbiamo fare: trovare i comandanti inglesi»
Sbuffai, consapevole di non
avere altra scelta. Ci incamminammo quindi verso il quartiere ormai sotto il
totale controllo degli Inglesi, verso la Trinity Church. Dopo aver aggirato le
guardie a terra optai saggiamente di proseguire arrampicandomi sulle macerie di
ciò che rimaneva delle case. Era un delirio. Tutto intorno a noi era
carbonizzato, eravamo circondati da scheletri di abitazioni, l’aria era
pesante, intrisa di cenere, il cielo di un grigio tendente al nero nonostante
fosse giorno e le giubbe rosse erano ovunque. Cercai di essere il meno rumoroso
possibile mentre saltavo di cornicione in cornicione quando, finalmente,
raggiunsi il punto più vicino alle guardie britanniche. Mi fermai e mi
acquattai per origliare ma, come temevo, non scoprii nulla di nuovo. Non
facevano altro che commentare gli spostamenti delle truppe, proponendo
soluzioni riguardo i problemi che aveva causato loro l’esercito Continentale e
la resistenza di New York.
«Non arrivano a niente. E non
sapremo nulla, guardando da qui» sbottai irritato, quindi mi alzai, pronto ad
entrare in azione.
«Allora cosa proponi?
Entrare là dentro e chiedere risposte?» Connor, dietro di me, tentò di fare del
sarcasmo ma, ahimè, era proprio quello che avevo intenzione di fare.
«Beh, sì» e senza lasciargli
il tempo di ribattere saltai giù, atterrando due guardie e conficcando la lama
celata nel collo di entrambe. Poi mi alzai, fissando gli altri che, nonostante
avessero imbracciato i moschetti, mi fissavano sbigottiti. Mi spostai
lateralmente di qualche passo per avere una visuale completa della situazione,
notando che quel genio di mio figlio era ancora appollaiato sul cornicione.
«Connor?» lo chiamai «Mi
serve aiuto qui» balzò giù sospirando come se facesse un piacere a me. Buon
Dio, se non fosse stato per le giubbe rosse che mi stavano accerchiando gli
avrei assestato un paio di ceffoni. Dopotutto l’idea l’aveva avuta lui.
Non
fu complicato uccidere quell’ammasso di uomini tanto fieri delle loro divise.
Non per me, almeno. Avevano uno stile di combattimento piuttosto grezzo,
scoordinato e lento rispetto a ciò cui ero abituato. E sì, finimmo in breve
tempo anche grazie al ragazzo, lo ammetto. Per quanto odiassi i suoi metodi
magnanimi, se la cavava piuttosto bene. Era un valido alleato, dopotutto.
Legai
i polsi dei tre comandanti, godendomi le espressioni terrorizzate sui loro
volti bagnati. Già, perché nel frattempo aveva iniziato a piovere. Mi fissavano
come fossi il diavolo in persona. Dio, facevo così paura?
«Li porteremo ai miei
alloggi a Fort George per scoprire quali segreti custodiscono» dissi legando i
polsi del terzo comandante, ma non feci in tempo a finire la frase che il primo
sciolse i nodi e fuggì a gambe levate. Lo guardai correre goffamente mentre si
voltava a guardarci, sbuffai.
«Ti pareva!» Avanzai di
qualche passo, non avevo voglia di corrergli dietro sotto l’acqua per mezza
città. Ci avrebbe pensato Connor «Sarà il caso che tu lo insegua» doveva pur
rendersi utile, no?
«Vai tu, io penso ai
prigionieri» oh, fermi tutti. Un accenno di ribellione all’autorità paterna.
Questo giorno andava ricordato, per l’amor di Dio. Peccato non fosse il
momento più adatto per rivendicare i suoi diritti in quanto figlio di un Gran
Maestro. E forse non lo sarebbe mai stato.
«No, vai tu» i due
comandanti dovevano averci preso per deficienti, poco ma sicuro. Beh, che
pretendevo? Giravo con mio figlio, era il prezzo da pagare.
«E perché?» Domandò con un
tono stranamente sospettoso. Mi prudevano le mani.
«Perché lo dico io!» Insomma,
ero o non ero suo padre? Un ottimo padre, aggiungerei.
Il mio tono categorico
doveva averlo convinto, o molto più semplicemente non aveva voglia di discutere
e preferì cucirsi addosso il ruolo di uomo maturo, ma detto sinceramente le sue
motivazioni non m’importavano. Sorrisi compiaciuto nel vederlo correre
all’inseguimento dell’Inglese, mi bastava che obbedisse e non mi desse
problemi.
Non persi tempo, afferrai
per le braccia gli altri due e li portai a Fort George, chiudendoli in uno stanzino buio e angusto per interrogarli.
Vidi
arrivare Connor con il prigioniero dopo una buona mezz’ora, così gli andai
incontro, aspettandolo all’entrata del forte.
«Un momento. Ti dirò tutto
ciò che vuoi, tutto quanto, ma non farmi entrare lì dentro» arrivai appena in
tempo per godermi le preghiere del disgraziato.
«Vogliamo solo interrogarti»
ah, povero, stupido figliolo.
«Se entro lì dentro sono un
uomo morto» però, piuttosto sveglio, il nostro amico. Decisi di entrare in
scena e avanzai verso i due con passo svelto.
«Eccoti qui, Connor! Temevo
ormai che ti fossi perso» spostai lo sguardo sulla giubba rossa, trattenendo a
stento un sorrisino beffardo. «Vieni avanti, su!» Ma, ahimè, non vi riuscii col
sarcasmo, forse troppo evidente. Senza troppi complimenti lo spinsi verso
l’entrata, portandolo dentro Fort George con la forza. Lo condussi dove avevo
interrogato i suoi due colleghi, seduti immobili su due sedie nascoste nella
penombra.
Feci sedere il mio ospite
sull’unica sedia libera, legandogli i polsi dietro la schiena mentre tremava di
paura.
«Cos’hanno in mente gli
Inglesi?» Domandai senza troppi giri di parole. Vidi il suo petto gonfiarsi d’aria,
nel tentativo di calmare i nervi.
«Di andarsene da Filadelfia.
La città è perduta, New York è la chiave. Raddoppiano le truppe per cacciare i
ribelli» parlò con un fil di voce, a malapena udivo cosa stesse dicendo.
«Quando inizieranno?» Incalzai.
Indugiò qualche secondo. «A
due giorni da ora.»
«Il diciotto Giugno. Devo
avvisare Washington» ignorai di proposito il commento di Connor e continuai a
guardare il nostro amico britannico. Allargai le braccia.
«Visto? Non è stato poi così
difficile, giusto?» Deglutì. Non si fidava di me, forse?
«Vi ho… Vi ho detto tutto.
Ora lasciatemi» mi implorò con lo sguardo, ma mi lasciai intenerire? Ovviamente
no, che razza di domande.
«Ma certo» il tono
rassicurante che avevo usato -falso, ovviamente- doveva aver funzionato,
perché notai che assunse un’espressione più sollevata. Povero sciocco.
Era
logica come mossa, pensai mentre
gli tagliavo la gola con la lama celata.
«Gli altri due dicevano lo
stesso. Sarà vero» mi aggiustai il polsino e feci rientrare la lama
insanguinata, poi alzai lo sguardo verso Connor, notando con esasperazione la
sua indignazione.
«Lo hai ucciso! Li hai uccisi tutti, perché?» Sbottò indignato. Sbuffai sonoramente.
Chi me l'aveva fatto fare di collaborare con un tonto simile? Che fossero morti
mi sembrava piuttosto evidente dato che, tutti e tre, avevano la gola tagliata.
«Avrebbero avvisato gli Inglesi» risposi. Amavo il mio cinismo.
«Potevi trattenerli fino a dopo lo scontro» ah, maledetta la sua compassione!
«Per cosa? Per sprecare tempo e soldi preziosi? E a quale
scopo? Ormai avevano spiattellato tutto quanto» lo guardai, compiaciuto del fatto che non sapesse come
rispondermi «ci vediamo a Valley Forge» e senza dargli tempo di
ribattere, me ne andai.
Non aveva idea di cosa l'aspettava, avrei distrutto l'immagine
che Connor aveva del misericordioso comandante Washington, non l'avrebbe più visto
come un salvatore, un uomo ingenuo e buono, oh no. Gli avrei mostrato il suo
vero essere, discolpando così me da accuse infondate.
Finalmente
avrebbe capito che con la strage avvenuta quattordici anni prima io non
c'entravo niente, Charles non c'entrava, i Templari non c'entravano. Non vedevo
l'ora, ma poi perché mi interessava così tanto dimostrare la mia innocenza ad
un ragazzino che, qualsiasi cosa facessi, mi riteneva un nemico? Forse per
fargli capire che io ero stato l'unico ad avere veramente a cuore il suo
villaggio, che non l'avevo abbandonato per diletto -poiché nemmeno sapevo che
Tiio fosse incinta-, che quando lui se ne stava tranquillo nella sua capanna io
ero in Europa per cercare mia sorella, Jenny, dalla quale scoprii che Reginald,
il mio tutore, il mio maestro, socio e amico di mio padre, aveva fatto in modo
che rimanessi orfano.
Mentre
lui passava le giornate a scorrazzare nel bosco, io mi tormentavo sul perché
Jenny -dopo essere stata rapita la notte in cui avevano ucciso mio padre- aveva
passato la sua vita a fare la concubina di un sultano ed io, intanto, avevo
sprecato più di trent'anni a cercare un assassino che avevo avuto sempre sotto
il naso, che si prendeva gioco di me dicendomi che avrei avuto la mia vendetta.
Ero cresciuto nella menzogna. Ero diventato un Templare per puro caso. Ero
stato addestrato da un Assassino per entrare nella Confraternita, ma Reginald
pensò bene di estirpare il problema alla radice, togliendo di mezzo mio padre e
portandomi ai gradi più alti dell'Ordine.
Senza
nemmeno accorgermene avevamo raggiunto l'accampamento a Valley Forge e, quando
alzai gli occhi da terra, notai che eravamo già davanti alla tenda del caro
George. Stava leggendo una lettera, finché Connor non attirò la sua attenzione.
Come sperai, quel vecchio tonto lasciò incustodito il foglio sul tavolo situato
all’interno per poi raggiungere mio figlio. Giunsi le mani dietro la schiena e
con noncuranza entrai nella tenda fingendo di guardarmi intorno e, casualmente,
gli occhi mi caddero sulla lettera di Washington.
La
lessi velocemente, dopodiché la sollevai.
«E questa che cos’è?» Dissi appositamente ad alta voce. Il comandante si voltò
fulmineo, era sbiancato.
«Corrispondenza privata!» Tentò di strapparmela di mano ma fui più veloce di lui -non
che fosse difficile- e allontanai il foglio ingiallito.
«Ma certo. Vuoi sapere di che si tratta, Connor?» Lo guardai negli occhi sperando che
capisse. Taceva e mi fissava, così continuai. «Sembra che il tuo amico abbia ordinato di attaccare il tuo
villaggio. Anche se la parola attacco è riduttiva. Diteglielo,
comandante.» dichiarai
voltandomi verso di lui.
«Ci hanno riferito che alcuni indiani stanno collaborando con
gli Inglesi, ho solo detto ai miei di fermarli» cercava di restare
composto e controllato, ma ogni sua giustificazione era un’ulteriore prova che
confermava le mie idee.
«Bruciando i villaggi? Spargendo
sale sulla terra? Ordinando il loro sterminio? Qui c’è scritto questo» guardai
istintivamente mio figlio che, come in uno stato di torpore, aveva
indietreggiato di qualche passo.
«E non è la prima volta. Ditegli cos'avete fatto quattordici
anni fa» tacque per un paio
di secondi «È stato lui,
Connor, a dare l'ordine di attaccare il villaggio»
«Era tempo fa, la Guerra dei sette anni» mi ringhiò contro ed io guardai ancora il
ragazzo.
«Ora hai visto che anche il tuo grand’uomo è come tutti
gli altri. Accampa scuse. Fa a scaricabarile. Davvero qualsiasi cosa, insomma,
tranne che prendersi la responsabilità!» Stava per rispondermi, ma intervenne mio figlio.
«Basta! Ora non conta non è cosa ha fatto e perché. Ciò che
conta è la mia gente» tentai di calmarmi e serrai i denti. Sarebbe stato
dalla mia parte.
«Allora andiamo» mossi un
passo verso di lui.
«No. Noi due abbiamo chiuso»
rimasi di sasso, se la prendeva con
me, adesso?
«Fammi capire, Connor! Hai scoperto che lui è il responsabile
della morte di tua madre, ma dato che è uno dei buoni chiudi un occhio, ed io,
che non ho fatto niente e sono il nemico per definizione, vengo odiato a
prescindere?» Ero sbalordito
e incazzato. Soprattutto incazzato.
«Tu sapevi! Non sperare di convincermi del contrario, da
quanto avevi questa informazione? Il sangue di mia madre forse macchia le mani
di un altro, ma Charles Lee è comunque un mostro, e agisce sotto tuo
ordine» mi puntò un dito
contro. Scossi la testa, ma dovevo aspettarmelo. Ero davvero convinto che mi
avrebbe creduto? Suvvia, il buon George colpevole di omicidio? Chi ci
crederebbe? È molto più logico incolpare l’uomo cattivo della situazione, no?
«L'ho scoperto di recente, ma d’altronde non è una novità che
il caro Washington faccia la voce grossa con i deboli» lo guardai con la coda dell'occhio e il
diretto interessato mi incenerì con lo sguardo, mentre Connor fissava con
sdegno tutti e due.
«Smettetela entrambi! Adesso devo pensare alla mia gente e
ucciderò chiunque di voi oserà seguirmi o fermarmi» risi appena.
«Suvvia, Connor, non riusciresti mai ad uccidermi» lui assottigliò gli occhi.
«Lo vedremo»
e senza aggiungere altro ci diede le spalle, allontanandosi.
Nonostante
fossi parecchio tentato di seguirlo, decisi di lasciarlo andare. Era accecato
dall'ira e la mia presenza, mi duole ammetterlo, non l'avrebbe aiutato a
calmarsi. Mi voltai fulmineo verso Washington, quella canaglia aveva ancora
poco da vivere.
«State pur certo che la pagherete cara» sibilai con odio. Lui assottigliò lo
sguardo.
«Da quando avete a cuore gli indigeni, Kenway? Non credevo
foste tanto misericordioso»
Dio, per un attimo l'ironia di Connor mi parve lievemente più acuta.
«Qui non si tratta degli indigeni! Avete fatto una strage di
innocenti, di gente che in questa guerra è stata tirata da altre persone. Una
delle donne che avete ucciso era dalla vostra parte, credeva nel vostro nome e
sperava che l'avreste portata alla pace! E invece? Bruciata. Viva! Questo è ciò
che avete fatto, comandante, avete versato altro sangue inutile» ma avrebbe pagato, poco ma sicuro.
L’avrei ucciso con le mie mani con o senza la benedizione di Connor.
«È curioso sentire questi discorsi proprio da voi. Curioso e
ipocrita, aggiungerei. Non siete famoso per le vostre buone azioni, non è così,
Haytham?» Povero idiota.
«Evidentemente non mi conoscete abbastanza bene. Sono sempre
stato contro la violenza gratuita, difatti non ho mai approvato i metodi di
Braddock. Immagino ricorderete quel giorno, vero?» Avanzai di un passo, portandomi a pochi
centimetri dal suo volto. Eccome se lo ricordava, si era beccato un pugno sul
naso da Tiio, poteva scordarsi una scena del genere? «Solitamente non
sono un tipo avventato, ma forse
questa volta potrei fare un'eccezione.» lo vidi deglutire.
«Non potete uccidermi, le mie truppe vi scoverebbero subito e
non avreste scampo» povero
sciocco, mi credeva tanto stupido? Portai le mani dietro la schiena.
«State tranquillo, George, non è ancora giunta la vostra ora» sorrisi appena e sollevai di poco il
cappello «Buona fortuna per
la guerra, comandante»
e detto ciò m'incamminai verso l'uscita dell'accampamento.
****
Mi
allontanai da Valley Forgerapidamente.
Non volevo vedere nessuno, tantomeno mio padre.
Sinceramente
speravo fosse diverso da come me l’aveva descritto Achille, speravo che il
pregiudizio che avevo di lui fosse sbagliato. Affatto, era come tutti gli
altri. Da quanto sapeva che era stato Washington a dare quell'ordine?
Avrebbe potuto fermarlo se avesse tenuto al mio popolo come tanto diceva,
invece non aveva mosso un dito, si era limitato ad assimilare l’informazione e
attendere il momento migliore per sbattermi in faccia la verità, sperando che
perdessi fiducia in Washington. Cercava di farmi cadere in confusione, ma se
sperava che passassi dalla sua parte solo perché George aveva ucciso mia madre,
beh, si sbagliava. Non potevo permettere che finisse tutto, non potevo
stravolgere i piani per questo piccolo intoppo, dovevo salvare la mia gente,
fermare i Templari e raggiungere la libertà.
Mi
tolsi il cappuccio, passandomi una mano sui capelli. Assurdo, era tutto
assurdo. Avevo giurato di uccidere l’assassino di mia madre convinto com’ero
che fosse Charles –e, di conseguenza, mio padre-, invece non avevo mosso un
dito. Ma potevo mandare a monte la guerra per un motivo personale? No, non ero
così egoista.
Superato
un tratto fitto di alberi vidi stagliarsi davanti a me la tenuta, luogo dove mi
allenavo e vivevo da un paio d'anni con il mio maestro Achille, un Assassino
ormai in pensione. Aprii la porta e, come al solito, la casa era silenziosa
-fin troppo, a volte- e feci fatica a capire dove fosse. Lo chiamai e
la sua voce, proveniente dal piano superiore, mi fece intuire che fosse a
letto. Ormai era da un po' di tempo che lo vedevo stanco, le forze lo stavano
lentamente abbandonando. Bussai ed entrai nella sua stanza, trovandolo sdraiato.
«Come va, Connor?» Chiese quasi a fatica.
«Bene, sono stato in città, ho scoperto un po' di cose.» risposi sedendomi su una sedia affianco a
lui.
«Hai già eliminato i tuoi obiettivi? Hickey e Johnson sono
morti?»
«Sì, non daranno più problemi ora, però... Achille, ho riflettuto
su quello che devo fare e non sono sicuro di agire nella giusta maniera»
lo guardai negli occhi, stare con
mio padre mi aveva fatto riflettere. I patrioti ci avrebbero aiutati veramente?
Avrebbero rispettato la mia gente? Oppure erano come gli Inglesi? E Johnson,
l'uomo che avevo ucciso mentre discuteva con i saggi del mio villaggio, aveva
davvero intenzione di comprare la terra per tenerla al sicuro? Ed era stato mio
padre ad ordinarlo? Achille mi fissava di rimando, poi sospirò.
«Hai incontrato tuo padre, non è vero?»
«Sì» ammisi
immediatamente.
«E perché hai cambiato idea? Quando venisti qui per la prima
volta dicesti di volerlo morto»
deglutii, sentendo improvvisamente la gola secca.
«Lo so, Achille, ma ero convinto che avesse ordinato lui di
bruciare il mio villaggio, invece ho appena scoperto che il colpevole è
Washington» mi guardava in
silenzio e sospirai a mia volta «Lui non mi piace, non mi fido, ma abbiamo collaborato un paio di volte
e... Diavolo, pensa se ci unissimo! Pensa a cosa potremmo ottenere se
lottassimo insieme. Gli Assassini non esistono più, sono da solo, un uomo può
raggiungere grandi risultati, ma pensa uniti cosa potremmo fare» credevo in quello che dicevo, ma ai suoi
occhi dovevo essere folle.
«Quell'uomo ti ha fatto il lavaggio del cervello, Connor»
«No, Achille. Non passerò mai dalla sua parte, non
fraintendermi, ma se mettessimo per un attimo da parte la guerra personale tra
Assassini e Templari potremmo vincere contro gli Inglesi. È quello che vogliono
anche loro» tentai di
spiegargli.
«Forse potrete collaborare per cacciare la corona, ma dopo?
Tuo padre continuerà ad attuare i suoi piani e se ci riuscisse sarebbe la fine» non seppi cosa rispondere, sapevo che
quel giorno sarebbe arrivato. Una volta sconfitti gli Inglesi torneremo nemici,
ed io? Sarò in grado di ucciderlo? E lui? Avrebbe esitato a togliermi di mezzo?
«Cosa farai con Washington?» Cambiò discorso ed io sospirai.
«Non lo so, avrei dovuto ucciderlo, ma poi l'esercito sarebbe
passato a Lee e non potevo permetterlo» Achille annuì mettendosi più comodo sul letto.
«Giusto, Connor, ma capisci che Haytham deve morire» replicò tornando su mio padre. Spostò il
cuscino per alleviare il dolore alla schiena senza dare peso alla frase che aveva appena
detto. Stavamo parlando di mio padre, maledizione, anche se non era esattamente
un uomo da prendere come esempio, anche se era un nemico, era mio padre.
«Ma forse senza la presenza di Charles lui..»
«No» mi
interruppe bruscamente. «Quell'uomo
è pericoloso, non possiamo permettergli di espandere l'Ordine anche nelle Colonie.
Birch non l'avrà vinta»
«Chi?» Ci
capivo sempre di meno.
«Reginald Birch, il maestro di tuo padre. È stato lui a
portare Haytham al ruolo di Gran Maestro dei Templari. Lui l'ha mandato qui per
fare delle ricerche su un medaglione mohawk» quindi mio padre aveva
incontrato mia madre per via del medaglione?
«Di che parli, Achille? Non so nulla di questa storia»
«Capirai tutto a tempo debito, ora resta concentrato. Ne
parlammo all'inizio, Connor, sapevi che avresti dovuto uccidere tuo padre. Ora
che l'hai conosciuto speri che possa cambiare, ma credimi, non lo farà, e tu
non puoi permetterti di mandare a monte la tua missione!» Concluse senza fiato. Ero combattuto, mi
alzai di scatto iniziando a camminare avanti e indietro.
«Achille, tu non capisci! Io non ho certezze. Chi mi
garantisce che i Coloni rispetteranno la mia gente? Come faccio a sapere
che poi saremo in pace? Finora ho incontrato solo persone intenzionate a
sfruttare le terre in cui viviamo per espandere le città, non abbiamo rispetto
né voce in capitolo. Mio padre è stato l'unico, che ti piaccia o no, ad avere
un minimo d'interesse per quelli come me» mi voltai a guardarlo. Sapeva
che avevo ragione, doveva ammetterlo.
«E quindi per questo dovrebbe essere scagionato da tutto il
resto?» Mormorò con odio.
«No, ma penso che collaborando con lui ne ricaverà beneficio
anche il mio villaggio» lo
guardai negli occhi. Non facevo nulla di male, volevo solo mettere fine alle
violenze sui più deboli.
«Quindi vuoi sfruttare la posizione influente di Haytham per
salvare i tuoi simili? Fa' come credi, ma ti accorgerai che agendo da solo raggiungerai
risultati migliori» non
risposi ed uscii dalla stanza sospirando.
Non
avevo fiducia in mio padre, o meglio, ne avevo poco e niente, ma sapere di
combattere qualcosa di così grande al fianco di qualcuno mi metteva sicurezza.
I suoi modi diretti e sarcastici li avrei evitati senza batter ciglio, ma era
un valido spadaccino e, da quel che avevo potuto capire osservandolo, doveva
cavarsela bene anche a mani nude.
Buonsalve a tutti.
Lo so, lo so, avevo detto che da questo capitolo mi sarei staccata dalla
trama principale, ma temevo di essere andata un po’ troppo di corsa. Non volevo
saltare troppe scene. Dal prossimo in poi inizierete a vedere le differenze,
giuro.
Bom, mi dileguo. Grazie a tutti quelli che sono arrivati a leggere fin
qui, sayounara!
Capitolo 4 *** Figlio di sangue, figlio adottivo. ***
Capitolo 4
Uscii dall'accampamento a Valley Forge non dopo
aver rubato un cavallo, dirigendomi poi a gran velocità verso New York. Quel
buono a nulla di Washington non si era nemmeno accorto che la sua privatissima
lettera era ora custodita nella mia redingote, nella stessa tasca del mio
diario.
Il diario... Quel semplice libro racchiudeva la
mia vita e, ad essere sincero, non sapevo nemmeno perché lo scrivessi. Ricordo
che iniziai a otto anni circa, il mio precettore non faceva che ripetermi di
scrivere ogni cosa mi passasse per la testa affinché migliorassi lo stile e la
calligrafia. E continuai a farlo anche col passare degli anni, appena avevo
tempo scrivevo delle mie missioni, dei miei dubbi, del mio rancore, della sete
di vendetta. Era ciò che mi era più caro, racchiudeva i miei ricordi che,
seppur in maggior parte brutti, non volevo e non dovevo dimenticare.
Cavalcai senza sosta e a sera inoltrata entrai a
New York. Il cielo era scuro, un po' per l'ora, un po' per i nuvoloni che
ultimamente non avevano intenzione di abbandonare la città. L'aria era fredda e
umida, avanzando percepivo il gelo penetrarmi nelle ossa nonostante la
redingote fosse una delle più pesanti che avessi. Provai un enorme
sollievo nel varcare la soglia di Fort George, il forte dove c'erano i miei
alloggi. Smontai da cavallo lasciando che se ne occupassero le guardie,
dopodiché mi avviai verso il piccolo piazzale all'interno, al quale si accedeva
dopo una rampa di scale. In fondo, sulla destra, c'era la porta che portava
alla mia stanza, quindi mi avvicinai e l'aprii. Mentre la richiusi udii un
tuono, consapevole che una notte piovosa sarebbe arrivata. Avanzai con passo
lento e stanco, posai il diario sulla piccola scrivania e appesi il tricorno,
poi uscii per andare nell'altra ala del forte per rifocillarmi. Presi qualcosa
dalla dispensa e feci appena in tempo a riattraversare il piazzale ed entrare
nella mia stanza che fuori iniziò a piovere. Mangiai rapidamente, poi presi il
diario per scrivere le ultime cose accadute. Lo richiusi verso le undici ben
felice di avere, almeno stavolta, il letto tutto per me. Mi addormentai quasi
subito, perché ricordo il fumo della candela spenta come ultima immagine.
Ero intontito, sdraiato a terra, supino.
L'ambiente era caldo, ma intorno a me percepivo rumori strani, risate meschine
e soddisfatte. Strizzai gli occhi e li riaprii sperando che quel
fastidiosissimo appanno se ne andasse; dov'ero? Girai il viso verso sinistra,
capii immediatamente che affianco a me c'era qualcun altro. Il suo volto mi
fissava, ma non capivo chi fosse, non distinguevo i lineamenti. Sentivo il cuore
battere così forte che temevo mi uscisse dal petto. Dovevo fare qualcosa,
dovevo salvare mia madre, la mia casa, le mie cose. Sbattei di nuovo gli occhi
e solo dopo pochi secondi riuscii a distinguere i capelli biondo scuro e
spettinati dal viso. La cicatrice sulla guancia destra, gli occhi azzurri
-quasi spenti- e il naso dritto e regolare dei Kenway.
«Padre» non ebbi la forza di dire altro, lo vidi
muovere a fatica il braccio destro per prendermi la mano mentre la spada che
l'aveva colpito era ancora ben fissata nel suo petto.
«Haytham»
Aprii gli occhi di scatto come se mi avessero
gettato addosso una secchiata d'acqua gelida. Quella maledetta notte mi
perseguitava ancora ed ero sempre più convinto che Reginald non avesse pagato
abbastanza. Aveva avuto una morte troppo poco dolorosa per i miei gusti. Mi ero
pensato mille modi per torturare l'assassino di mio padre, una volta trovato, e
invece no, era crepato trafitto da una spada, nel medesimo modo della sua
vittima. L'ironia della sorte.
Dopo essermi lavato e vestito presi il mio diario
e uscii dalla stanza, il piazzale era coperto da uno strato di fanghiglia e un
fastidiosissimo odore di umido mi invase con prepotenza le narici. Non riuscii
a trattenere una smorfia disgustata, dopodiché camminai fino alla porta di
fronte alla mia, quella che portava all'altra ala del forte, agli alloggi di
Charles. Avevamo appuntamento quella mattina per parlare di alcune faccende,
tra cui ovviamente Washington. Dopo essermi chiuso alle spalle la porta mi
incamminai per il corridoio e poi su per le scale, fino a raggiungere una
stanza affacciata da un lato sul piazzale del forte e dall'altro su una parte
della città: la sala dove, normalmente, discutevamo su come agire. Mi avvicinai
alla finestra che dava su New York, giunsi le mani dietro la schiena e aspettai.
Guardai l'orizzonte, verso la periferia, dove sapevo fosse il villaggio di
Tiio. Serrai i denti.
Che a Connor fosse piaciuto o meno, avevo giurato
di vendicarla, e l'unico modo era uccidere quella sottospecie di comandante con
le mie mani. Sentii la porta aprirsi e d'istinto mi voltai verso
l'entrata, vedendo Charles richiudersela alle spalle.
«Signore» ricambiai il saluto con un cenno del capo, così mi voltai
allontanandomi dalla finestra e avanzando lentamente verso il grande tavolo al
centro della stanza. Sentii il suo sguardo addosso, attendeva che iniziassi a
parlare, così presi fiato.
«Le truppe inglesi marciano su New York.
Abbandonano Filadelfia»
iniziai «Forse ho un piano
per uccidere Washington» mi
appoggiai al tavolo con entrambe le mani, puntando gli occhi in quelli di
Charles.
«Spiegatevi meglio, Signore» notai i
suoi occhi ardere dalla voglia di combattere. Non aspettava altro che un mio
cenno, un mio ordine, lui era pronto a scattare, sempre e comunque. Ripensai un
attimo alla prima volta che lo vidi, mi accolse al mio arrivo a Boston e, da
quel momento, gli avevo insegnato tutto ciò che sapevo. Gli avevo spiegato come
muoversi tra la folla, come mimetizzarsi, come un Templare doveva pensare e
agire. L’avevo trasformato nell’uomo che avevo davanti e di cui ero
profondamente orgoglioso. Charles Lee poteva definirsi, a mio avviso, l’allievo
perfetto, che continua a guardare con ammirazione, soggezione e rispetto il suo
Maestro nonostante quest’ultimo non abbia più nulla da insegnargli.
«Con l'arrivo di altre giubbe rosse non
sarà difficile ucciderne un paio, indossare le loro uniformi e confonderci col
nemico»
«Come facemmo anni fa per uccidere Silas» annuii.
«Esatto. Solo che stavolta non ci
travestiremo da alleati del nostro bersaglio, ma da nemici, in modo che per la grave
perdita del comandante vengano incolpati gli Inglesi» continuai a guardarlo.
«Ottimo piano, Signore. Quando iniziamo?»
Sorrise.
«Il diciotto giugno arriveranno le truppe,
vedremo come si evolveranno le cose. Mi raccomando, Charles, non possiamo
sbagliare» ricambiai lo
sguardo, serio come non mai.
«Certo, Signore, mi chiedevo però..» qualcuno bussò alla porta, interrompendo
Lee. Sbuffai sonoramente.
«Sì?» La porta si aprì e da dietro sbucò una delle guardie del
forte.
«Signor Kenway, un indiano dice di volervi
vedere» mi si fermò il cuore.
«Come?!» Con la coda dell'occhio guardai Charles sperando con tutto
me stesso che non avesse capito, ma ahimè, dovetti ricredermi. Non era mai
stato un ragazzo sciocco, anzi, avevo sempre apprezzato la sua mente intuitiva
e sveglia. Diciamo che era esattamente l'opposto di quell'idiota di mio figlio
che, venendo nel mio covo, stava letteralmente mandando a farsi benedire i miei
piani.
«Che indiano, Signore?» Si aggiunse Lee. Magnifico, i miei
complimenti, Connor. Sbuffai ancora e mi voltai verso la guardia.
«Digli di aspettare fuori» ma non fece in tempo ad annuire che dal
corridoio udimmo urli e schiamazzi. Charles alzò lievemente un sopracciglio ed
io mi vergognai profondamente per aver generato un imbecille totale.
Nel giro di dieci secondi il cappuccio da
Assassino di Connor sbucò dalle spalle della guardia e, mi sarei giocato la
testa, che Charles fosse verde d'ira. Non ebbi il coraggio di guardarlo.
«Che diavolo ci fai qui?!» Sbottai. Avevo una voglia di prenderlo a
pugni che solo io sapevo. Feci cenno alla guardia di andare, preferivo
restassimo soli. Charles schioccò la lingua sul palato.
«Ancora tu?! È un vero peccato che quel
giorno tu non sia morto sulla forca» borbottò con tono acido. No, non sapeva che fui proprio io, il giorno
dell'esecuzione, a salvarlo lanciando un pugnale contro la corda -e sì, anche
con l'intervento di un Assassino portato da Achille, diciamolo-.
Vidi Connor serrare i denti e i pugni, si
sarebbero azzuffati, quindi intervenni.
«Charles, calma» lui spostò lo sguardo da mio figlio a me «Io e questo ragazzo abbiamo collaborato un
paio di volte» non dissi
esplicitamente che era mio figlio, forse lo sospettava, ma preferivo non dare
conferme. Continuava a fissarmi, poi si lasciò andare ad una risata tesa e
nervosa.
«Collaborato con un indiano? A questo punto
sarebbe stato meglio Hickey»
sogghignò guardando Connor. Beh, a dirla tutta non sapevo chi dei due fosse più
idiota, ma almeno Thomas Hickey obbediva senza fiatare. Qualsiasi cosa gli
dicessi di fare non aveva importanza se aveva garantito il suo piccolo gruzzolo
come ricompensa.
«Perché sei qui? Sbaglio o avevi detto di
aver chiuso con me?» Misi le
mani dietro la schiena e guardai mio figlio.
«Già, è quello che ho detto, ma ora sono
qui per un altro motivo» oh
no, non per quel motivo.
«Connor, esci immediata-»
«Non prima di averlo ucciso!» Non diede il tempo a nessuno dei due di
rendersi conto della situazione che scattò verso di noi, anzi, lui, brandendo
il tomahawk. Dopo un secondo di stupore, Charles spinse una sedia verso mio
figlio per interrompere la sua corsa, ma Connor la saltò senza problemi. Mi
mossi istintivamente, mi portai davanti al mio allievo e bloccai entrambi i
polsi di Connor con tutta la forza che avevo. Feci non poca fatica per
fermarlo, lo ammetto.
«S-signore..» la voce di Lee era tremante, ma non di paura, bensì di
preoccupazione. Per me.
«Tutto bene, Charles» il mio tono era grave e teso a causa
dello sforzo che stavo facendo per tenere Connor.
«Togliti di mezzo!» Sibilò lui.
«No. Non ti lascerò agire indisturbato!» E con un ultimo ed enorme sforzo lo
spinsi via. Presi fiato, sollevato dal fatto che Charles fosse ancora tutto
intero. Connor ci fissava roteando minacciosamente il tomahawk, forse indeciso
su chi attaccare per primo.
«Cerca di ragionare. Non è Lee che devi
uccidere, lui deve prendere il comando dell'esercito al posto di Washington»
«No. Non posso fidarmi di voi, io e te
potremo collaborare solo quando lui sarà morto» da dietro udii una risatina di Charles che, avanzando di
qualche passo, mi affiancò.
«Tu vorresti uccidermi? Non sei altro che
un fallito, un selvaggio, un inci-»
«Charles!» lo tirai per un braccio «Basta così. Smettetela di punzecchiarvi come donnicciole»
ma il mio intervento venne
beatamente ignorato da Connor che, per tutta risposta, aveva annullato la
distanza tra noi con due falcate. Io mi rimisi in mezzo, poggiandogli una mano
sul petto per fermarlo.
«Che cos'hai detto?!» Urlò a Charles, peccato che di mezzo ci
fosse il mio orecchio sinistro. Addio timpano.
«Che sei un sel-»
«Ho detto basta!» Alzai il tono di voce e, stavolta, si ammutolirono
entrambi. Che diamine. «Sembrate
due mocciosi in fasce, fate gli uomini, per Dio!» Li guardai entrambi, voltandomi prima a destra, verso
il mio pupillo, e poi a sinistra, verso mio figlio; infine tolsi le mani dal
petto dei due.
«Comportarci da uomini? Allora faccela
risolvere alla vecchia maniera, e non intervenire per difendere il tuo allievo.
O temi non sappia cavarsela?»
Lee ringhiò furioso.
«Che insolente» sibilò a denti serrati. Sbuffai.
«Charles sa perfettamente difendersi da
solo. L'ho addestrato personalmente» dissi con una punta d'orgoglio.
«Non sembrava da come ti sei buttato per
difenderlo. Sei una brava mammina» Charles fece per avanzare verso Connor ma lo fermai in tempo,
mettendogli una mano davanti.
«Curioso sentirlo da un orfano» disse ugualmente.
«Non si dimostra così di essere uomini, ma
parlando civilmente e ragionando. Vediamo se ne siete in grado, non ho voglia
di farvi da balia» avrei
dovuto parlare al singolare -rivolto a Connor- ma per evitare altri battibecchi
preferii rivolgermi anche a Charles. Ci furono alcuni attimi di silenzio in cui
aspettai che si calmassero tutti e due.
Non potevo di certo riprendere a parlare del
nostro piano per accoppare Washington davanti al buon cuore di mio figlio, non
sia mai, il caro George ci avrebbe portati alla vittoria, bla bla.
Certo, come no. L'unico modo in cui poteva
aiutarci era assistere all'ascesa di Lee dall'altro mondo.
«Di cosa stavate parlando?» Iniziò Connor dopo aver posato il
tomahawk.
«Di affari che non ti riguardano» la risposta di Charles, che lo fissava con
la coda dell'occhio, arrivò rapida come un fendente.
«Non parlavo con te» altra frecciatina acida di mio figlio.
Assurdo, si comportavano come lattanti.
«Volete smetterla o avete intenzione di
andare avanti ancora per molto?» Li fulminai entrambi, che diavolo, speravo almeno che Charles si
mostrasse superiore e ignorasse gli attacchi sottili di mio figlio.
Evidentemente mi sbagliavo.
«Avete ragione, Signore, perdonatemi»
ed eccolo, il mio pupillo, sempre
obbediente e rispettoso. Connor grugnì qualcosa che non compresi ed ignorai di
proposito.
«Che vi piaccia o no, signori, se vogliamo
vincere questa guerra dobbiamo collaborare. Siamo tutti d'accordo che siamo gli
unici in grado di scacciare gli Inglesi» mi riappoggiai al tavolo con entrambe le mani e sospirai.
«Hai già un piano?» Connor e le sue domande idiote.
«Mastro Kenway ha sempre un piano,
non è uno sprovveduto»
ringraziai mentalmente Lee ed alzai lo sguardo su di loro.
«Arriveranno le truppe a breve, ne
uccideremo tre e ci infiltreremo tra le loro fila, dopo aver fatto fuori chi li
comanda ci occuperemo dei soldati. Senza i comandanti non faranno molto,
penseremo poi ad un piano per sbarazzarci delle giubbe rosse.» preferii omettere la parte dell'uccisione
di George o sarebbe scoppiato un altro putiferio. Come mi aspettavo, Charles
comprese subito la temporanea modifica del piano e annuì concorde senza fare
accenni, Connor ugualmente si dimostrò dalla nostra parte.
«Siamo d'accordo, allora» continuai «Non ci resta che attendere il loro arrivo da
Filadelfia, ci vedremo qui il diciotto giugno mattina per decidere come
muoverci» dissi
principalmente a mio figlio, dato che Charles alloggiava a Fort George come me.
Lui annuì ancora.
«Ma sappiate che dopo questa breve collaborazione
non cambierà nulla» si voltò
verso Lee «Ti ucciderò,
parola mia» il mio compare mi
lanciò un'occhiata divertita, poi riportò l'attenzione su mio figlio.
«Ancora con questa assurda storia? Sei
sempre il solito ragazzino impertinente che incontrai nel bosco anni fa, avrei
dovuto ucciderti allora senza troppe cerimonie. A quest'ora avremmo una grana
in meno.» ridusse gli occhi a
due fessure.
«Pagherai caro questo errore, puoi contarci» li raggiunsi e nuovamente mi misi in
mezzo.
«Sei solamente un selvaggio, cosa speri di
fare, eh?» Entrambi
iniziarono ad avanzare l'uno verso l'altro, restando tuttavia separati da me,
che stavo al centro.
«Charles, piantala» tentai di calmarlo.
«Ha mancato di rispetto troppe volte,
Signore!» Sapevo avesse
ragione, ma speravo in uno sforzo di buona volontà da parte di entrambi.
Chiedevo troppo? Era proprio impossibile far
collaborare Templari e Assassini? Io non facevo testo, non ero mai stato puro,
nel cuore ero Templare, nella testa Assassino, grazie a mio padre.
Connor prese il mio polso destro, appoggiato sul
suo petto, e lo spostò con veemenza, pronto ad attaccare Lee. Vidi scattare la
lama celata dalla sua manica sinistra e tentai di salvare il salvabile.
Nonostante avessi perso le speranze di vedere Assassini e Templari uniti, nel
profondo ci credevo ancora.
Girai il busto completamente verso Connor per
farlo ragionare, ma fu un attimo.
Sentii la redingote improvvisamente bagnata e
insolitamente calda sul fianco destro, non avvertivo dolore, ma percepivo
chiaramente la debolezza farsi spazio nel mio corpo. Impedii alle mie gambe di
cedere per orgoglio, perché avevo intuito subito cos'era successo.
«Signore!» La voce di Charles era a dir poco allarmata e mi
afferrò per le spalle poco prima che cadessi all'indietro.
«Guarda cos'hai fatto, bastardo indiano!
Guardia!» Capii che stesse
urlando dalla vena gonfia sul collo e sulla tempia sinistra, ma il suono era
ovattato. Portai istintivamente la mano destra sul fianco colpito, poi la
spostai leggermente scoprendola completamente imbrattata di sangue.
Solo in quel momento mi accorsi di Connor. Mi
fissava immobile, conscio solo ora di aver infilzato la mia carne e non quella
di Charles. Ricordo solo la guardia entrare di corsa nella sala e afferrarmi
dal braccio sinistro, mentre Charles continuava a sostenermi da quello destro.
Poi il buio.
Buonasera.
Mi scuso per il ritardo, davvero. Contavo di
aggiornare molto prima, ma sono arrivata oggi nel paesino in cui trascorrerò le
mie “vacanze” fino a fine agosto e, beh, la connessione è praticamente
inesistente, forse peggio degli altri anni. Spero comunque di riuscire ad
aggiornare e seguire le ff.
Ma bando alle ciance, spero che il capitolo sia
stato gradito. Se avete consigli o complimenti non trattenetevi, lol. Oh, quasi dimenticavo, lunedì prossimo non credo riuscirò ad aggiornare a causa di problemi di connessione -che spero di risolvere presto-. Abbiate pietà, che il Padre della comprensione ci guidi (lo so, lo so, non c'entra, ma ci stava bene). Adiooos.
Quando aprii gli occhi ero nel mio letto, la
prima cosa che percepii fu il gelo che mi inibiva i sensi nonostante avessi, da
quel poco che riuscivo a capire, più di due coperte addosso.
«Signore, vi siete svegliato, finalmente» la voce di Charles arrivò alle mie
orecchie con la forza di una martellata, mentre venivo scosso da un ennesimo
brivido. Tentai di dire qualcosa, ma mi resi conto che dalle mie labbra non
uscì nessun suono. Lo vidi alzarsi dalla sedia della mia scrivania e
avvicinarsi rapidamente.
«Non sforzatevi, Mastro Kenway. Avete perso
molto sangue, ma siete stato curato. Il medico dice che non siete in pericolo,
dovete solo stare a riposo»
disse fissandomi. Mi limitai ad annuire, avevo forza solo per quello, poi notai
che oltre Lee, appoggiato al muro, c'era lui, Connor. Non aveva il cappuccio,
le braccia erano serrate al petto, lo sguardo fisso a terra. Tentai ancora di
parlare, ma una fitta al fianco mi fece morire le parole in gola. Speravo con
tutto me stesso che non avesse riaperto la ferita che mi aveva procurato Lucio
anni prima, anche se temevo fosse così.
«Ora riposate, penseremo io e l'indiano al
piano. Vi terrò aggiornato»
fece per allontanarsi ed uscire, ma udendo queste parole il dolore passò in
secondo piano.
«No!» gli afferrai il braccio con uno scatto e serrai gli occhi,
ma mi feci forza «Verrò anche
io. E non si discute»
deglutii e mi imposi di calmarmi, sperando così di alleviare il bruciore che mi
stava facendo impazzire.
«Siete impazzito? Non potete alzarvi dal
letto prima che la ferita si sia rimarginata, senza contare che siete stato colpito
su una vecchia cicatrice»
merda. Ne ero sicuro.
«Ho detto che verrò, piuttosto vai a
chiedere al medico di pensarsi qualcosa. Un antidolorifico, faccia lui» dissi a fatica, ma nonostante si
percepisse la sofferenza nella mia voce, Charles lo prese come uno dei miei
soliti ordini e uscì senza ribattere. Così restai solo con Connor, che ancora
non aveva il coraggio di alzare gli occhi dal pavimento.
Voltai gli occhi verso di lui, notando che aveva
un taglio sul naso e un livido sullo zigomo sinistro.
Scostai lo sguardo, fissando il soffitto.
«È stato Charles?» Dissi solamente, sicuro che avrebbe
capito.
«Mi dispiace, non volevo colpirti» riflettei su quelle parole, leggermente
sollevato dal fatto che, almeno per ora, non mi volesse morto. Sventolai la
mano destra, segno che accettavo le scuse.
«Ho visto quella cicatrice la sera in cui
cercavamo Church. Come te la sei procurata?» Cercava di instaurare una conversazione dopo avermi quasi
asportato il fegato?
«Storia lunga» mi limitai a dire. Beh, in fondo era
vero; non avevo voglia di rievocare la storia di mio padre, il rapimento di
Jenny, la farsa di Reginald, Lucio, il suicidio di Holden...
In quel momento sentii la porta aprirsi e pochi
istanti dopo vidi Charles e il Dottor Flatch farsi spazio nel mio campo visivo,
affiancando il mio letto.
«Il Signor Lee mi ha informato delle vostre
intenzioni, Mastro Kenway. Non posso legarvi al letto, ma vi consiglio
vivamente di non alzarvi per nessun motivo» scossi la testa.
«È una missione a cui devo prendere parte.
Fate in modo che si richiuda in fretta» dissi deciso.
«Beh, Signore, l'unico modo è cucirla» avevo già pensato a questa soluzione, fui
costretto ad accettare.
«E sia, ma facciamo in fretta» volevo finirla il prima possibile. Dopo
un po' d'esitazione lo vidi incamminarsi verso la porta e uscire mentre Charles
camminava avanti e indietro affianco al letto.
«Fermati, mi stai mettendo ansia» sbottai alla quinta volta che percorreva
gli stessi tre metri. Lui si voltò fulmineo verso di me con gli occhi sgranati.
«Voi siete impazzito, Signore. Anche con la
ferita cucita non siete in grado di muovervi, non potreste fare movimenti
bruschi e nemmeno andare a cavallo! Come sperate di spogliarvi in fretta e
indossare altrettanto velocemente la divisa inglese?» Roteai gli occhi, esasperato. Connor
taceva ancora.
«Prendi fiato, Charles, non stai parlando
con un inesperto. Ho passato di peggio» tipo scampare un'impiccagione.
«Qui non si tratta di esperienza, Mastro
Kenway, ma di impossibilità fisica. Come farete a muovervi?» Sbuffai per l'ennesima volta, nemmeno mia
madre si sarebbe comportata così.
«Starò a riposo fino all'arrivo delle
truppe»
«È domani» precisò.
«Basterà per farmi riprendere» un colpo sordo alla porta interruppe
Charles che stava per ribattere e con due falcate andò ad aprire al Dottor
Flatch, munito di ago e filo. Deglutii quando lo vidi arroventare l'ago sulla
fiammella della candela che avevo sulla scrivania; diciamo che farmi ricucire
da sveglio non era una delle mie priorità, ecco.
Con una mano scostai le coperte, vedendo poi la
fasciatura sporca di sangue che avevo sulla ferita. Il medico me la tolse con
attenzione e delicatezza, scoprendo il buco che avevo sul fianco. Versò un
liquido su una pezza e me l'adagiò piano sulla ferita, disinfettandola. Mi
alleviò il bruciore, lasciandomi una piacevole sensazione di fresco per pochi
secondi. Poi prese l'ago già con il filo e lo avvicinò ad un lembo di carne.
«Siete pronto, Signor Kenway?» Annuii con decisione e serrai in una
morsa il lenzuolo quando sentii chiaramente la carne bucarsi. Aspirai aria con
i denti serrati, quella tortura atroce durò circa mezz'ora e in quell'arco di
tempo non fiatai. Mi limitavo a stritolare il lenzuolo e a contrarre la
mascella. Quando mi resi conto che il Dottor Flatch aveva tagliato il filo
espirai tutta l'aria che avevo nei polmoni, sollevato oltre ogni dire.
«Ora è fondamentale che riposiate, Signor
Kenway» disse posando le
garze e il resto. Mi sdraiai stando attento a non fare movimenti bruschi,
dopodiché mi coprii fino al petto mentre il medico usciva. Charles mi fissava
preoccupato.
«Come vi sentite, Signore?» Roteai gli occhi.
«Bene, direi. Ho solo un buco nel fianco,
poteva andarmi peggio»
aspettai qualche secondo, poi sbottai «come pensi che stia?!»
«... Scusate, Signore, avete ragione» stettero con me per poco, poi Charles
andò a sbrigare altre faccende e Connor a combinare qualche casino in città,
supposi.
Lui e le sue stupide rivolte, non avrebbe
concluso nulla continuando così, ma era troppo sciocco e infantile per capirlo.
Troppo ottuso per darmi ascolto.
Per tutto il giorno me ne stetti a letto,
sonnecchiavo di tanto in tanto e il buon vecchio Charles mi portò pranzo e
cena, restando con me per assicurarsi che mangiassi tutto. Che mammina
premurosa, vero?
Quella sera, dopo avermi dato una scodella con
dentro una specie di zuppa, prese la sedia alla scrivania e la portò vicino al
letto.
«Siete proprio sicuro di voler venire,
Signore?» Ingoiai il boccone
ed alzai lo sguardo su di lui, puntando gli occhi nei suoi, preoccupati forse
-anzi, sicuramente- più di quelli di Connor.
«Ho la faccia di uno che parla a vanvera?
Verrò, Charles. Non sarà una ferita a mandare a monte il nostro piano. Dobbiamo
uccidere Washington, se resti solo con lui rischiamo di fallire, senza contare
che tenterebbe di farti fuori»
presi un altro boccone.
«Credete che non sappia difendermi da un
selvaggio?! Combatte con frecce e accetta quando potrebbe munirsi di pistola, è
un inetto!»
«Charles» lo richiamai «forse hai ragione, ma l'ho visto combattere. Non ha uno stile
impeccabile, lo ammetto, è piuttosto violento, si vede che non ha seguito delle
lezioni. Ha solo affinato le mosse che gli detta l'istinto»
«Un animale, ecco cos'è» sibilò a denti stretti.
«Ti assicuro che potrebbe metterti in
difficoltà. Avete due stili avulsi, Charles, a mani nude ti romperebbe le ossa» ingoiai l'ennesima cucchiaiata.
«Volete scherzare?»
«Affatto. Ti ripeto che punta sulla forza
fisica e non sulla tecnica, oserei definirlo brutale»
«Come
volete. Spero solo non succeda nulla»
Dopo aver finito la cena Charles portò via la
scodella, lasciandomi solo. Mi tastai piano il fianco destro per vedere se sentissi
dolore: per fortuna era sopportabile. Percepii giusto la pelle tirare a causa
dei punti, ma grazie alle cure del Dottor Flatch e alle pezze intrise di non so
cosa che avevo tenuto tutto il giorno sulla ferita, le fitte erano cessate.
Dovevo solo stare attento a non fare movimenti bruschi ed evitare di essere
colpito in quel punto. Sospirai e mi girai sul fianco sinistro, addormentandomi
quasi subito.
La mattina dopo mi svegliai di buon'ora, mi
passai una mano sul viso per destarmi completamente e guardai verso la finestra
alla mia destra. Nuvoloso. Sbuffai scostando le coperte e con un
movimento fluido e lento mi alzai, andando poi a darmi una lavata nello stanzino
affianco, separato dal resto della camera da una tenda –che non accostai-. Ero
solamente in mutande quando la porta si aprì, regalando a Charles la visione
della mia figura seduta su uno sgabello intenta a lavarsi con una spugna.
«Buon Dio, Charles!» Sbottai fissandolo. Lo vidi deglutire
imbarazzato.
«Io... Scusate, Signore, volevo assicurarmi
che foste sveglio» richiuse
la porta, restando fermo sulla soglia del bagno che faceva angolo con quella
d'ingresso.
«Le buone maniere, Lee, potevi bussare!
Ringrazia che non mi sarei vergognato nemmeno se fossi stato nudo» sospirai strizzando la spugna «Non come Connor, scommetto che il suo
livello di pudore non sia neanche la metà di quello delle nobildonne londinesi» borbottai afferrando un panno pulito per
asciugarmi. E in quel momento mi bloccai. L'avevo chiamato per nome, mostrando
una certa confidenza col ragazzo agli occhi di Charles.
«Avete detto Connor? Non mi sembra un nome indiano» sottolineò prontamente. Cazzo, quel
maledetto guastafeste era capace di mettermi nella merda anche quando non
c'era. Diedi le spalle al mio socio con la scusa di sistemare il panno e la
spugna, approfittandone quindi per deglutire e riprendere lucidità.
«No, infatti. Se non ricordo male è stato
il suo Mentore a ribattezzarlo così, sai, i nomi Mohawk non sono esattamente
semplici da pronunciare» sventolai
una mano con noncuranza. Come si chiamava in realtà, mio figlio? Radona-qualcosa,
bah.
«Vedo che avete fiducia in quel ragazzo, è
strano però che abbiate accettato di unirvi al nemico»
«Il nemico ora è la corona, Charles» risposi fulmineo, quasi senza attendere
che finisse la frase. Presi la camicia e la indossai, sempre dandogli le
spalle.
«Mastro Kenway, l'indiano è un Assassino» Non sapeva. Non sapeva nessuno perché mi
fossi avvicinato a lui. Quando lo trovai per puro caso nel deposito svaligiato
da Church avevo davanti un bivio: restare lì, nascosto sulla trave, nella
penombra e in silenzio, lasciarlo uscire e allontanare per poi riprendere le
ricerche di Benjamin da solo o avvicinarmi a lui, cercare un contatto, uno qualsiasi.
Ero sicuro che, una volta sentite le mie ragioni, sarebbe stato dalla mia
parte, speravo di recuperare ciò che restava della mia vecchia vita. Potevo dirglielo?
Potevo fidarmi di quello che consideravo quasi mio figlio?
«Charles..» mi voltai verso di lui con ancora la camicia sbottonata.
Avevo deciso «quel ragazzo è
mio figlio» trattenne il
respiro, me ne accorsi poiché notai il suo petto arrestarsi di colpo.
«...... Ne siete certo, Signore?» Lo sussurrò appena ed io annuii «È il figlio della vostra amica Mohawk?
Come fate ad esserne sicuro?»
Era alquanto scioccato, nemmeno gli avessi detto che era figlio suo.
«Ha i suoi occhi» dissi continuando a fissarlo «e il mio naso. Il naso dei Kenway, nessun
nativo potrebbe averne uno simile» mi abbottonai la camicia mentre Charles deglutiva rumorosamente,
passandosi poi una mano tra i capelli ispidi che gli ricadevano sulla fronte.
Avanzai fino ad essere ad un passo da lui, poi presi fiato prima che potesse
dire qualcosa.
«Non so come finirà tra noi, forse lo
ucciderò, forse lui ucciderà me, non ne ho idea. Adesso collaborerò con lui,
ammetto che Achille, il suo Mentore, l'abbia addestrato abbastanza bene, ma mi
serve il tuo aiuto, Charles. Ho bisogno di qualcuno che pensi e si muova come me.
Io e Connor agiamo in maniera totalmente diversa e non ascolta ciò che dico» mi fissava in silenzio, immobile «Sei l'unico di cui io mi fidi veramente» conclusi.
Gli occhi erano piantati nei miei, poi abbassò lo
sguardo, espirando aria dal naso.
«Ma certo, Signore» mi lasciai scappare un sorriso tirato,
sapevo -e speravo!- avrebbe capito. Annuii sollevato e gli diedi una pacca sul
braccio, poi lo superai tornando in stanza. Finii di abbottonarmi la camicia e
indossai i calzoni, infilai la redingote, presi il diario e lo misi nella
solita tasca interna, poi indossai il tricorno. Solo alla fine presi le
polsiere delle lame celate e le serrai sugli avambracci. Fui pronto in pochi
minuti, quindi uscimmo dalla mia stanza, attraversammo il piazzale per poi raggiungere
l'ingresso del forte. Il ragazzo era già lì, immobile, con le braccia strette
al petto e il cappuccio tirato giù, come un bravo bambino, davanti alle
guardie.
«Giorno, Connor» esclamai con finta allegria, lui accennò
un saluto col capo, Charles lo ignorò totalmente.
«Signor Kenway, i vostri cavalli» una voce alle mie spalle mi fece voltare.
Altre due guardie tenevano per le briglie i nostri tre destrieri.
«Molto bene, possiamo andare» montammo in sella e attraversammo New
York fino a raggiungere la periferia. Nessuno di noi fiatava, e la cosa mi
rallegrò non poco. Sinceramente non avevo voglia di sentirli battibeccare per
tutto il tempo, già da infante non tolleravo le frecciatine della mia
sorellastra Jenny –che per qualsiasi cosa mi riteneva troppo basso per
capire-, figuriamoci ora, a cinquant'anni suonati e per di più tra mio figlio
biologico e adottivo.
«Come entreremo in azione, Mastro Kenway?» Guardai Charles con la coda dell'occhio.
«Attendiamo la legione, lasciamo che passi
e uccidiamo gli ultimi tre della fila. Poi prendiamo i loro vestiti, il resto
lo sapete» Sentivo gli occhi
di Connor, indietro di qualche passo, puntati sulla schiena.
Nessuno
disse altro, quindi lasciai che il trotto mi cullasse. Avanzammo nella foresta inoltrata fino a tardo pomeriggio,
poi abbandonai il sentiero, dirigendo il cavallo su per una piccola collina. Mi
seguirono senza proferir parola e ne fui sorpreso, quindi smontai da cavallo,
legando le briglie ad un albero.
«Che si fa ora?» Chiese Connor imitandomi. Inspirai a
pieni polmoni e mi sedetti a terra appoggiando la schiena ad un masso.
«Aspettiamo» chiusi gli occhi e mi rilassai. Connor mi si sedette di
fronte a gambe incrociate, Charles mi affiancò, poggiandosi anche lui al masso.
Io e lui davamo le spalle al sentiero principale, solo mio figlio aveva una
visuale -seppur parziale- della carreggiata. Passarono un paio d’ore, non di
più, e sentii Charles sbuffare sonoramente.
«Ma quanto ci mettono queste cazzo di
giubbe rosse?» Il suo tono
era stizzito e irritato, non riuscii a trattenere un sorriso nel constatare la
mia fin troppo evidente parte da Assassino.
«Pazienza, Charles, ci vuole pazienza» Connor, infatti, era rimasto in silenzio.
«A forza di pazientare finirò per appisolarmi
e, quando finalmente saranno qui, sarò troppo fiacco per ucciderne uno»
sbiascicò chiudendo gli occhi e appoggiando la testa alla roccia.
Buonsalve, gentaglia. Chiedo perdono per aver saltato lunedì
scorso, ma ho avuto problemi di connessione, nel senso che sono stata
letteralmente isolata per la bellezza di cinque giorni, urrà! Ma nonostante
abbia risolto, il buon vecchio metodo wifi clandestino ha il suo perché, quindi
approfittiamone, no? lol
Su, dopo avervi annoiati a morte con le mie disgrazie, ringrazio
come sempre di cuore chi legge, recensisce e segue la fanfiction.
Attendemmo
in silenzio, poi il mio infallibile udito –aiutato dal mio sesto senso- mi fece
spalancare gli occhi e trattenere il respiro. Vedendomi muovere di scatto, Connor mi fissò e Charles si guardò intorno.
«Sono qui?» Sussurrò il mio socio.
«Sshh. Ho
sentito un rumore di ruote e zoccoli, devono essere loro» mi alzai restando acquattato dietro la roccia
e i cespugli, attendendo che le giubbe rosse entrassero nel mio campo visivo.
Ed eccole, infatti, avanzare marciando lungo il sentiero principale. A capo
c’era la cavalleria –saranno stati una trentina di soldati- di cui i primi tre
erano sicuramente i comandanti date le medaglie che addobbavano le loro divise,
seguiti a ruota da una decina di carri e dietro ancora la fanteria; a occhio e
croce quelli a piedi saranno stati un centinaio o due.
Aspettai che passassero tutti, persino che
l’ultimo superasse il masso dietro il quale eravamo nascosti di una decina di
metri, poi scivolai nei cespugli, seguendoli.
«Andate prima voi, Signore?» Sussurrò Charles
allungando il collo nella mia direzione. Mi voltai verso di lui e annuii, poi
accelerai il passo fino ad essere ad un paio di metri dalla mia vittima.
Fischiai piano, giusto quel che bastava per
essere udito dalla mia preda che, come previsto, si fermò per guardarsi
indietro. Non mi notò, ero mimetizzato nei cespugli e l’erba alta, quindi
fischiai di nuovo e, stavolta, la giubba rossa avanzò verso di me
–inconsapevolmente- di qualche passo. Aspettai qualche secondo, poi scattai in
piedi e l’afferrai con forza, premendogli una mano sulla bocca per poi tirarlo
giù nel cespuglio. Si dimenava come un forsennato, per Dio.
Misi l’altro braccio intorno al suo collo e lo
obbligai a sdraiarsi a terra. Lo bloccai mettendomi sopra di lui, poi presi un
sasso e glielo ficcai in bocca di prepotenza, usando due dita per spingerglielo
in gola. Boccheggiava e tentava di liberarsi graffiandomi il volto, ma io
continuavo a tenergli chiuse le labbra con entrambe le mani, mentre lo
sventurato sotto di me serrava gli occhi e li riapriva, piangendo. Dopo poco le
mani ricaddero lungo i fianchi, così gli tolsi la giacca, la camicia e i
calzoni.
Feci cenno a Charles di entrare in azione, lui e Connor partirono: uno correndo a terra, mio figlio saltando
di ramo in ramo, come sua madre. Ne approfittai per prendere gli abiti del
soldato senza però perdere d’occhio quei due. Charles si nascose dietro un
cespuglio, mio figlio era acquattato sul ramo esattamente sopra gli ultimi due
soldati. Li vidi mentre si guardavano come per attaccare insieme, infatti al
cenno d’intesa di Connor, Lee sbucò dal cespuglio e
il ragazzo si lasciò cadere dal ramo, conficcando la lama celata nel collo
della giubba rossa. Charles, invece, prese da dietro l’Inglese premendogli una
mano sulla bocca, per poi trascinarlo nell’erba alta. Dopo qualche secondo
sentii un crack inconfondibile, segno che il collo della giubba rossa si era
rotto sotto le mani del mio compare.
Sollevato dal fatto che fosse andato tutto
liscio, mi alzai sollevando la divisa del soldato, la piegai e la misi in un
borsone assicurato alla sella del mio cavallo, poi montai e li raggiunsi
tenendo gli altri due purosangue per le briglie.
Aspettai che Charles e Connor
spogliassero i cadaveri e posassero i loro vestiti nelle borse, poi montarono e
iniziammo a muoverci, seguendo a debita distanza le giubbe rosse che ormai si
erano allontanate. Non avevo fretta, li avremmo raggiunti all'accampamento e da
quel momento sarebbe iniziato il piano.
«Come va la ferita, Signore?» Domandò Charles
trottando alla mia destra.
«Per ora bene» feci una piccola pausa lanciando a
mio figlio -alla mia sinistra- un'occhiata «Anche se avrei preferito non
averla» Connor non disse nulla, ricambiando però il
mio sguardo.
«È stato un incidente» si giustificò tornando a
guardare la strada.
«Un po' come la tua nascita» Charles non perse
occasione, sbuffai.
Connor
si voltò fulmineo verso Lee, incenerendolo con lo sguardo.
«L'avreste evitata facilmente se non aveste avuto
a che fare con la mia gente» rispose acido, proprio come una vecchia zitella.
Stavolta non mi trattenni.
«Se non fossimo intervenuti sareste tutti morti,
e tu non saresti nato per il semplice fatto che vi avrebbero sterminati prima
ancora di dire A»
«Cosa che stanno ancora cercando di fare» e mai
smetteranno, mio caro ragazzo.
«Ma che noi abbiamo impedito» lo sentii
schioccare la lingua, contrariato.
«Non sei mai piaciuto a quelli del mio villaggio»
certo, tranne a tua madre.
«E indovina la cosa quanto mi turba? Dovreste
come minimo esserci riconoscenti» strinsi le redini tra le mani per trattenermi
dal dargli una sberla.
«Questo mai; persino mia madre ha tagliato con te
quando ha capito chi eri» sorrisi divertito e allargai le braccia, tenendo le
briglie del cavallo con la mano destra.
«L'ha mai chiesto, forse? Mai sostenuto di essere
un Assassino. Non ho mai nascosto la mia identità, si è lasciata confondere da
una stupida arma» mi pentii in quel preciso istante di non aver parlato quel
famoso giorno, quando venni cacciato da Tiio. Avrei potuto
giustificarmi, inventarmi qualcosa, ma sapevo non sarebbe servito. Quella donna
non era una stupida, non avrebbe comunque ascoltato quello che avrei detto a
mia discolpa. Era vero? Oppure stavo cercando l’ennesima giustificazione per il
poco coraggio che avevo avuto? Avevo solo rubato un’arma e nemmeno
intenzionalmente, me l’ero ritrovata in mano per scampare alla morte per
l’ennesima volta. Curioso, vero? Alla fine i legami con gli Assassini non
riuscivo ad evitarli.
«Arma che non ti appartiene. A chi l'hai rubata?»
«Ad un illuso che sperava di uccidermi» e che mi
fece perdere la mia spada corta, l’unico ricordo che avessi di mio padre.
Vecchio bastardo «Dev'essere una caratteristica comune agli Assassini,
l'idiozia» sentii Charles sghignazzare sottovoce «Ma questo è un altro
discorso» continuai «Le nostre azioni vengono interpretate diversamente in base
alla nostra ideologia? Buono a sapersi» era questo che non tolleravo e che mai
avrei perdonato a Tiio.
Ero stato un po’ opportunista con lei, lo ammetto.
Ero stato un uomo dal doppio volto e l’avevo usata per raggiungere i miei
scopi, ma non l’aveva fatto anche lei? Non mi aveva ricattato e sfruttato per
liberarsi di Braddock? L’aveva fatto eccome e me ne
resi conto subito, ma nonostante ciò sentivo che supportarla era la cosa giusta
e mi sentii meno bastardo autoconvincendomi che, in fondo, la stavo aiutando
perché volevo.
«L'ideologia non c'entra, ti stai nascondendo
dietro a delle belle parole. Avevate altri piani, a te interessava il
medaglione» restai in silenzio. Come faceva a conoscere il medaglione Mohawk?
Che gliene avesse parlato Tiio? Ma a che proposito?
Ad un moccioso di dieci anni non sarebbe importato. O forse... Achille.
«Non parlare di cose che non conosci, ragazzo» mi
limitai a dire.
«Ne so abbastanza da poter affrontare il
discorso» fece accelerare di poco il cavallo, affiancando il mio.
«Oh, no, non credo» lo guardai severo. Quel
marmocchio aveva appena iniziato a vivere e già aveva la presunzione di
mettersi al mio livello? Oh, no, non l’avrebbe avuta vinta con me. Spronai il
cavallo per il nervoso e troncai lì il discorso, non avevo né tempo né voglia
di parlare a vuoto con Connor, tanto non avrebbe
capito. Era troppo stupido e ottuso.
Proseguimmo ancora per un paio di chilometri, le
giubbe rosse erano ormai fuori dal nostro campo visivo, ma le tracce delle
ruote dei carri e le impronte degli zoccoli mi confermarono di aver imboccato
le strade giuste ai pochi bivi che avevamo incontrato. Provai pena più che per
i cavalli che per Connor –che dalla sua espressione
pareva stremato-, quindi decisi di fermarmi; uscii nuovamente dal sentiero e mi
addentrai tra gli alberi quel tanto che bastava per non essere visti a primo
impatto. Smontai da cavallo e legai le briglie al primo albero vicino, lo
stesso fecero Charles e Connor.
Mi guardai intorno, il sole stava tramontando e,
a breve, il buio del bosco ci avrebbe impedito ogni movimento.
«Meglio
muoverci a montare la tenda se vogliamo un riparo entro la notte» dissi
prendendo la pelle arrotolata e legata dietro la sella del mio cavallo. Charles
non se lo fece ripetere due volte, accorse subito aiutandomi a distendere la
pelle per terra. Guardai Connor.
«Mentre
noi la montiamo, tu pensa a saldarla al terreno, ok?» Indicai degli spuntoni di
legno legati a delle corde che, a loro volta, erano assicurate agli angoli
della tenda. Lui annuì, iniziando a piantare nella terra fredda e umida il
primo pezzo di legno appuntito per poi legargli attorno la corda.
Io,
intanto, presi un lembo della pelle e lo legai ad un piccolo ramo basso
sporgente, Charles fece la stessa cosa dall’altro lato.
«Ben
fatto, Signore.» sorrise soddisfatto del nostro lavoro. Mi limitai ad annuire,
dargli una pacca sul braccio ed uscire dalla tenda, constatando con immenso
piacere che Connor aveva appena finito di piantare
l’ultimo spuntone.
«Ottimo.
Sarà meglio che voi due andiate a cercare un po’ di legna» dissi avvicinandomi
ai cavalli.
«Perché
dovremmo andare noi? Non potete andare tu e l’altro?» Mi voltai giusto in tempo
per vedere l’espressione di Charles, che interpretai come un misto di odio,
ribrezzo e solo Dio sa cos’altro.
«Gradirei
che mi chiamassi con il mio nome, indiano» oh no, non di nuovo. Vi prego.
«Perdona
la mia mancanza, ma di solito non mi appunto i nomi di chi devo uccidere»
roteai gli occhi, esasperato.
«Non
saresti in grado di accoppare una lepre» mi morsi l’interno delle guance per
non scoppiare a ridere, poi mi voltai e presi dal purosangue di Charles le
pelli e le coperte che avremmo usato di notte.
«State
diventando noiosi, voi due» borbottai tornando vicino alla tenda «ora andate,
tra non molto sarà buio» sentii sbuffare e non ebbi dubbi su chi fosse: mio
figlio.
«Smettila
di dare ordini, non siamo i tuoi schiavi. Perché non vai tu a cercare la legna,
eh?» Dio santissimo, legatemi o lo uccido,
pensai.
«Mastro
Kenway è ferito, razza di idiota» intervenne Charles.
Ah, vecchio mio, se ti avessi lasciato solo con quel ragazzino non avreste
fatto molta strada. No, avreste perso tempo a litigare come marmocchietti.
«Esattamente,
e visto che è solo colpa tua, mi sembra il minimo che tu possa fare per
rimediare» lanciai le coperte dentro la tenda con indifferenza, quando mi
sentii afferrare il braccio dalla mano possente del ragazzo.
«Non
usarla come scusa» parlava della feria? Oh, cielo, pensava che fossi caduto
tanto in basso?
«Non
l’ho mai fatto. Allora obbedisci perché te lo sto ordinando io. Che ti piaccia
o no, figliolo, farai ciò che ho detto» strattonai il braccio ed entrai nella
tenda ignorando le frecciatine che continuavano a lanciarsi Charles e Connor, poi fortunatamente si allontanarono.
***
Charles
mi afferrò un braccio e mi tirò lontano dalla tenda. Io mi strattonai subito,
farmi toccare da quel tizio era l'ultima cosa che desideravo.
«So
camminare da solo, grazie!» Sbottai irritato.
«E
allora fallo, ragazzino» si abbassò a raccogliere un ramo secco, poi si guardò
intorno per cercarne altri. Lo imitai, raccogliendo ogni pezzo di legno che
potesse essere utile.
Di
tanto in tanto lo guardavo con la coda dell'occhio, stando sempre attento a non
farmi notare. Anche lui, come mio padre, sembrava tenersi in forma nonostante
l'età. Cercai di immaginarmelo a scalare palazzi e saltare da un tetto
all'altro, ma non mi sembrava il tipo.
Cosa
aveva visto mio padre in Charles? Perché lui e non Thomas? O Johnson? Era
davvero così abile? O era il suo prediletto semplicemente perché strisciava ai suoi piedi? Tutta questa
adulazione nei confronti di mio padre non la capivo; era il suo Maestro, sì,
quindi avrei dovuto fare lo stesso con Achille?
Un
improvviso fruscio mi destò dai miei pensieri, ma notai subito un coniglio
scappare impaurito, quindi non mi preoccupai.
Charles
scattò in piedi, portando la mano alla pistola alla cintola.
«Calma,
era solo un coniglio» tentai di rassicurarlo.
«E
perché non l'hai preso? Sarebbe stato la nostra cena»
«Speravo
in una preda migliore» lui roteò gli occhi, poi mi si avvicinò.
«Abbiamo
raccolto legna a sufficienza, vado a portarla dalla tenda. Tu pensa al cibo»
senza dire nulla gli posai la legna sul mucchietto di rami che aveva in
braccio, poi tornò indietro. Io, invece, mi arrampicai su un albero per
scrutare la zona.
***
Dopo
aver sistemato i giacigli per la notte, ero riuscito a trasportare due tronchi
di medie dimensioni vicino alla tenda, davanti alla quale avremmo acceso il
fuoco. Quando arrivò Charles mi ero seduto da poco -per riflettere- e notai
subito la mancanza di Connor.
«Ecco
la legna, Signore» la lasciò cadere a terra sbuffando «l'indiano sta cacciando»
aggiunse poi.
Mi
avvicinai ai rami e ne presi uno piccolo, impilai un paio di foglie secche ed
iniziai a sfregare un'estremità del legnetto su di esse.
«Non
sapevo sapeste accendere un fuoco, Signore» commentò Lee osservandomi.
Continuai a ruotare il rametto tra i palmi delle mani e, finalmente, una
fiammella iniziò a divorare le foglie.
«Ci
sono molte cose che non sai, Charles» avvicinai il focherello al resto della
legna, attendendo che anche gli altri rami prendesse fuoco.
«Siete
un uomo pieno di risorse, Mastro Kenway» sorrise. Si
era forse dimenticato della mia avventura
nel bosco con Tiio? Non vi badai molto e afferrai un
paio di rami dal falò non ancora completamente acceso.
Charles
mi si sedette accanto, prendendo posto alla mia sinistra; notai che stava
fissando l'anello, lo stesso che tolsi ad Edward Braddock
dopo averlo ucciso. Se lo rigirò all'anulare destro tenendolo con il pollice e
l'indice ed io non dissi nulla, limitandomi a smuovere la legna per alimentare
il fuoco.
«Sono
contento di aiutarvi in questa causa, Mastro Kenway.
In questi anni ho capito molte cose» mi voltai verso di lui abbozzando un
sorriso, poi tornai a guardare per terra.
«Lo
so, Charles. Lo so. È per questo motivo che ho scelto te come prossimo Gran
Maestro»
«La
vostra decisione mi riempie d'orgoglio, non sapete quanto» fece una piccola
pausa «mi sembra solo ieri il vostro arrivo a Boston, non sapevo chi o cosa
aspettarmi»
«Eri
un ragazzo sveglio, lo capii subito. Avevi voglia di fare, di agire, ho
apprezzato molto i tuoi sforzi per entrare nell'Ordine» presi fiato e alzai lo
sguardo, fissando l’albero di fronte a me «mi sono solo limitato ad insegnarti
ciò che sapevo»
«Siete
un ottimo Maestro, Signore. Dico davvero» non risposi, non sapevo che dire, in
realtà.
L'avevo
visto crescere, quel ragazzo. Lo incontrai quando era ancora un ventiduenne
inesperto e ingenuo, l'avevo visto comprendere, impegnarsi, migliorare.
Semplicemente ero fiero di lui.
«Signore»
girai lo sguardo nella sua direzione per farlo continuare «prima, quando ero a
raccogliere la legna, ho riflettuto molto...» si guardò ancora l'anello.
«Riguardo
cosa?»
«Questa
situazione, il ragazzo, voi. Comprendo bene che sia vostro figlio, ma rischia
di mandare in fumo i nostri sforzi. È pur sempre un nemico»
Deglutii
a fatica, come se in gola avessi un sasso grande abbastanza da soffocarmi. Mi
sentii stupido ancora una volta: Charles mi aveva dato l'ennesima dimostrazione
che Templari e Assassini si sarebbero sempre combattuti. Se solo avessi osato
confidargli la mia speranza di vederci uniti, probabilmente si sarebbe
dimenticato di essere il mio allievo, denunciandomi come traditore dell'Ordine.
Non
si sarebbero mai piaciuti, questo era chiaro.
«Non
ti è mai andata a genio nemmeno Tiio, dico bene?»
Sorrisi appena tendendo la mano verso il fuoco, ormai scoppiettante.
«Chi?»
Domandò perplesso.
«L'indigena,
Charles. La madre di Connor»
Ci
furono attimi di silenzio, forse cercava le parole adatte.
«In tutta
onestà, no, Signore. Mi sono domandato spesso cosa avesse acceso il vostro
interesse per quella femmina» a dire il vero non lo sapevo nemmeno io. Non
c’era una cosa in particolare, a dirla tutta, mi aveva colpito il coraggio, la
freddezza e la calma che la caratterizzavano. Raramente mi trovavo a mio agio
con le persone, forse solo con Holden e Charles. Senza il forse. Capii subito
di avere molto in comune con quella donna indiana e collaborare con lei fu,
forse, la cosa più strana ma sensata della mia vita.
«Non
saprei risponderti. È successo e basta, ma è acqua passata» smossi ancora la
legna, lo vidi annuire senza esserne però molto convinto.
«Siete
arrivato addirittura ad uccidere Edward Braddock.
Dovevate tenerci molto»
«Quell’idiota
non mi è mai piaciuto. Era un barbaro, un uomo senza scrupoli e
senza cervello. L’avrei fatto comunque, prima o poi» annuì ancora.
In
quel momento sentii un fruscio provenire da dietro la tenda, alzai lo sguardo e
vidi Connor con un’espressione soddisfatta in volto
e, in mano, teneva per le zampe un paio di lepri. Morte, ovviamente.
Hola! Siate sinceri, non è tenerello Charles? Dovete dire di sì, fatemi contenta. E
poi non fa altro che zittire e ridicolizzare Connor,
insomma, solo per questo “mille punti a Charles Lee!”. Vi stupirà quest’uomo,
garantito.
Grazie se siete arrivati a
leggere fin qui, ci si vede lunedì prossimo, adios!
«Finalmente,
figliolo. Temevamo ti fossi perso» lui non rispose, si limitò a sedersi sul
tronco di fronte al nostro per preparare la cena.
Sbuffai
ed afferrai uno dei rami che avevo tolto dal falò e guardai Charles.
«Ti
va una sfida?» Sogghignai, guadagnandomi uno sguardo incuriosito del mio compare
e uno poco interessato di mio figlio.
«Che
sfida, Signore?» Impugnai meglio il pezzo di legno e tracciai un quadrato sul
terriccio umido.
«Nulla
di pericoloso, Charles» feci altre linee all’interno della figura «una partita
a dama» sollevò un sopracciglio.
«Ma
non abbiamo le pedine. E poi perché dovremmo giocare a dama in mezzo alla
foresta?» Cielo, quante domande! Connor ci fissava di
tanto in tanto, mentre spellava le lepri con scarso impegno.
«Per
passare il tempo, no?» Presi dalla cintura un sacchettino con dentro delle
monete e lo svuotai sul palmo della mano destra. Diedi a Charles i centesimi di
rame, io presi le altre di color argento «Ecco le nostre pedine» scavai con
l’indice nel terreno per differenziare i quadrati su cui posizionare le monete.
Charles
si alzò, prendendo posto al fianco di Connor,
sedendosi quindi di fronte a me.
«A
te la prima mossa» lo osservai mentre spostava la prima pedina. Feci la stessa cosa,
speculare; andammo avanti così per un po’. Era curioso e divertente vederci,
entrambi volevamo avanzare ma, al contempo, difendere la prima linea; stessa
tattica. Solo dopo aver spostato la sesta moneta gli mangiai una pedina, che
fece la stessa fine in breve tempo.
«Scommettiamo
qualcosa, Mastro Kenway» distolsi un attimo lo
sguardo dal gioco e lo fissai.
«Proponi,
ti ascolto» spostai una moneta. Lui osservò la mia mossa passandosi una mano
sui baffi, pensieroso. Poi accennò un sorriso divertito, facendo avanzare una
pedina delle retrovie.
«Chi
perde dormirà vicino al ragazzo» lo indicò con un cenno del capo. Figlio o no,
non riuscii a trattenere una risata.
Connor non
volle dargli soddisfazione e soffocò un ringhio in direzione del mio socio, poi
continuò a spellare il cadavere della lepre.
«Suvvia,
figliolo. Non prendertela, stasera dormirai accanto a Charles» un po’ per uno,
che diamine, io avevo già dato. Mossi un’altra pedina e Lee schioccò la lingua
contro il palato.
«È
da vedere» ridacchiando fece avanzare una moneta.
«Merda!»
Non riuscii a trattenermi quando Charles mangiò la mia ultima pedina. Lui rise.
«Vi
tocca il posto centrale, Mastro Kenway» mugugnai
nella sua direzione con sdegno, quindi mi alzai dopo aver gettato nel fuoco ciò
restava della carne che avevo mangiato.
«Questa
la paghi, Lee» una volta entrato mi tolsi il tricorno e lo lanciai con stizza
sul giaciglio in mezzo agli altri due. La felicità: dormire schiacciato tra
Charles e Connor, wow!
«Suvvia,
non prendetevela, Signore. Si tratta solo di una notte» lo fulminai.
«Fa’
silenzio, Charles. Te lo consiglio vivamente»
Non
sapevo che ore fossero e non avevo voglia di alzarmi per prendere l’orologio
dalla tasca della redingote. Era notte fonda, qualcosa come le due o le tre e
sì, non avevo ancora chiuso occhio. Charles russava bellamente alla mia destra,
inconsapevole di essere parzialmente colpevole della mia insonnia, Connor, stranamente,
se ne era stato girato di spalle per tutto il tempo, dormendo silenziosamente e
senza invadere il mio spazio.
Chiusi
gli occhi per un ultimo tentativo di assopirmi e, come a farlo di proposito,
Charles si girò supino, russando più forte. Non riuscii a trattenermi e gli
rifilai una gomitata nel costato. Mugugnò qualcosa, ma ottenni silenzio per una
decina di minuti.
Mi
girai sul fianco sinistro –anche perché quello destro era ferito-, sperando che
dare le spalle al mio socio avrebbe allontanato i rumori molesti che emetteva.
Ovviamente non servì, dato che mi sembrava di condividere il giaciglio –Dio,
suona maledettamente male- con un rinoceronte. Contai fino a tre, poi gli
mollai un calcio degno di uno stallone imbizzarrito.
«Ahi..»
mugugnò nel dormiveglia. Serrai i denti: osava anche lamentarsi?
Chiusi
gli occhi pregando di addormentarmi in fretta.
La
mattina successiva uscii dalla tenda che era a malapena l’alba. Non avevo
chiuso occhio, se non qualche ora di sonno leggero e decisamente poco
rigenerante. Mi stiracchiai inspirando a pieni polmoni, poi mi avviai verso
l’interno del bosco per perder tempo. Tirai fuori l’orologio dalla tasca dei
calzoni: le cinque e mezza. Quei due non sarebbero usciti dal coma prima di un
paio d’ore, quindi non mi feci problemi e mi allontanai.
Non
molto lontano da dov’ero trovai un corso d’acqua, mi sbottonai la camicia
stando attento a non scucire i punti della ferita e appesi l’indumento ad un
ramo secco, poi mi abbassai, immergendo una mano nel fiumiciattolo. Rabbrividii,
era congelata, strinsi i denti e mi sciacquai alla bell’e meglio, passando la
mano con cautela lungo la cicatrice che già iniziava a formarsi. Sfiorai il
filo nero, e di conseguenza la ferita regalatami da Lucio, con l’indice e il
mio cuore saltò un battito, rivedendo il viso di Holden. Non avrei mai superato
la sua morte, di questo ne ero sicuro. Era colpa mia, dopotutto.
Tornai
alla tenda poco dopo, confermando ciò che pensai quando mi ero allontanato:
ronfavano ancora.
«Sveglia»
brontolai entrando. Presi la redingote e la infilai osservandoli «sto parlando
con voi, non abbiamo tempo da perdere» continuai.
Silenzio.
L’unica cosa che udii fu il leggero russare di Charles, comodamente sdraiato
sul fianco sinistro. Mi avvicinai stizzito e gli poggiai un piede sul bacino, scuotendolo
malamente.
«Charles
Lee!» Urlai. Scattò seduto in un secondo, gli occhi semichiusi e il fiato
corto.
«Mastro
Kenway…» gli tolsi il piede di dosso e andai verso Connor, ignorando l’espressione stralunata del mio socio.
«In
piedi, forza» scrollai anche lui, che mugugnò qualcosa, girandosi supino.
«È
già ora?» Ecco il buongiorno di mio figlio. Non risposi nemmeno ed uscii dalla
tenda. Raggiunsi il mio cavallo e presi da una delle borse appese alla sella
una zolletta di zucchero. Gliela lasciai annusare e poi mangiare, dandogli una
carezza sul muso.
«Come
va la ferita, Mastro Kenway? Avete dormito bene?» Mi
voltai verso Lee con gli occhi ridotte a due fessure. Gli avrei dato un pugno
con estremo piacere, ma mi trattenni.
«Non
esattamente, Charles. Di’ un po’, hai mai avuto compagnia di notte?» Lo vidi
avvampare. Si aggiustò il cappotto e raggiunse il suo cavallo, il quale era accanto
al mio.
«Come
mai me lo domandate? Insomma, non credevo vi interessas-»
«Non
mi interessa, infatti» lo bloccai «mi domandavo solamente quale donna sia
riuscita a dormirti vicino. Russi»
Connor
staccò la pelle dai rami e me la porse, quindi la piegai e la legai dietro la
sella del mio purosangue.
«Oh.
Mi dispiace, Signore. Non me l’aveva mai fatto notare nessuno» si assicurò che
la sella fosse ben fissata e montò a cavallo. Lanciai un’occhiata al ragazzo,
notando che stava piegando le coperte come una brava donnetta. Tornai a
guardare Charles.
«Questo
perché sono anni che dormi da solo» sogghignai imitando Lee, che mi fissò
offeso.
«Non
per mia decisione. Tra voi e Braddock ero sempre
molto impegnato» tornammo sul sentiero e riprendemmo a seguire gli Inglesi «comunque
anche voi, indiana a parte, non avete avuto molta compagnia»
Lo fulminai
«Che ne sai, eh? Cambiamo discorso, per carità di Dio, non in presenza del
ragazzo» tornai a guardare la strada «potrebbe traumatizzarsi, sai»
«Smettila»
venni affiancato dal cavallo di mio figlio «non sono io il problema, non fai
che ripetere questo da quando siamo partiti» lo guardai con finto dispiacere.
«Davvero
ho fatto ciò? Gesù, potrai mai perdonarmi, figliolo?»
«E
questo tuo umorismo non lo sopporto. So cavarmela meglio di quanto pensi, potrei
dimostrartelo anche subito»
«Il
punto non è questo, ragazzo, e lo sai» fu Charles a parlare «non discutiamo le
tue capacità, ma il tuo modo di agire, di pensare. Tu cerchi la soluzione meno
eclatante, meno gloriosa, noi quella più semplice. Ecco perché non riusciamo a
lavorare insieme»
«Hai
ragione» serrò la presa sulle briglie «io cerco sempre di evitare di uccidere,
voi non ci pensate due volte. Quando si tratta di fare i vostri interessi non
guardate in faccia nessuno» espirai dalla bocca abbassando le palpebre,
esasperato.
Charles
rise «Non la pensavi così quando hai cercato di farmi fuori. Sei contraddittorio,
ragazzino»
«Affatto.
Salvare un intero paese non è una faccenda personale, e tu minacci la pace di
tutti noi»
Stavolta
parlai io «Anche togliere il comando a George è nell’interesse del popolo, ci
sta rovinando, cristo, e nemmeno te ne rendi conto. Tu dai ascolto solo ad
Achille» alzai il tono «tutto quello che dice quel vecchio è oro colato, hai
mai preso in considerazione l’ipotesi di pensare con la tua testa? Dovresti
provare, sai?»
«Sembreresti
quasi intelligente» si aggiunse
Charles.
«Detto
dal cagnolino di mio padre è assurdo, davvero»
«Fa’
silenzio, bastardo» no, non di nuovo.
«Altrimenti
che fai? Chiedi ad Haytham di darmi una lezione?»
«Pensi
che non sappia spaccarti il muso da solo?» sogghignò scrocchiando il collo «Per
queste cose non ho bisogno di aiuto»
«Spaccone»
«Mezzosangue»
Voglio ucciderli entrambi.
«Assassino»
«Idiota»
«Piantatela!»
Urlai tirando le briglie del cavallo «Siete insopportabili, scommetto che
litighereste anche su chi ce l’ha più lungo» ringhiai scrollando le redini e
riprendendo la marcia.
Charles
ridacchiò «Non ci sarebbe motivo di discutere, sappiamo già chi ha il mozzicone
nei calzoni. Vero, bastardello?» Lanciai un’occhiata a Connor,
godendomi la sua espressione inebetita «E poi parliamoci chiaro, Mastro Kenway. Vostro figlio potrebbe anche avere un Signor
uccello, ma non se ne farebbe nulla oltre che per pisciare»
Risi
«E tu invece sì, Charles?»
«Saprei
farne buon uso, potete giurarci» continuai a ridere ed annuii.
Un
paio di ore dopo intravidi le mura di quello che ipotizzai fosse l’accampamento
degli Inglesi. Era situato su una piccola collina, nascosto tra gli alberi e
raggiungibile tramite un sentiero angusto.
«Si
inizia» spronai il cavallo e lasciai il viottolo, passando tra i tronchi e
allontanandomi dal campo visivo delle guardie.
«Qual
è il piano?» Charles smontò imitato da Connor, che
poi legò le redini ad un ramo basso.
«Indossate
le divise» tirai fuori la mia dalla borsa appesa alla sella, mettendo dentro la
redingote e la camicia. Mentre mi cambiavo lanciai un’occhiata a Connor, non sembrava a disagio nello spogliarsi davanti a
noi, ma poco importava. Meglio per lui, no?
«Charles,
tu ti occuperai delle guardie all’entrata» dichiarai abbottonandomi i calzoni «fingerai
di aver trovato il cadavere di un tuo compagno, correrai da loro e li porterai
qui dicendo di aver bisogno di aiuto. Poi ammazzali»
Annuì
chiudendosi la giacca «Certo. Vado e torno»
«Non
così in fretta» lo fermai «corri sul posto, su» sgranò gli occhi. Connor, che si stava infilando gli stivali da giubba rossa,
alzò lo sguardo su di me, assumendo la stessa espressione da trota lessa che
aveva Lee. Roteai gli occhi.
«Insomma,
hai appena trovato un tuo compagno d’armi immerso in una pozza di sangue, devi
pur assumere un’aria stravolta, no?» gli diedi una pacca sulla spalla «Coraggio,
corri sul posto per cinque minuti, giusto quel poco per far credere loro che tu
abbia corso come un disperato per avvertirli» dopo qualche secondo d’esitazione
obbedì, così mi voltai verso mio figlio.
«Noi
ci occuperemo del resto, tieni» gli porsi una mezza dozzina di bombe fumogene «quando
l’entrata sarà sgombra entreremo con naturalezza, ci divideremo e useremo
queste per stordirli e farli fuori. Credi di farcela?» mi riservò un’occhiata
carica di sufficienza, come a dire “insomma,
io sono colui che affianca il grande George Washington e che gli salva il culo
un giorno sì e l’altro pure, dubiti delle mie capacità da marmocchietto
viziato?”.
«Te
lo ripeto: mi sottovaluti» nascose le bombe nelle varie tasche e lanciò uno
sguardo compassionevole a Charles, che stava iniziando a sudare.
«Mi
genufletto al cospetto del nostro rivoluzionario!» Alzai le mani in segno di
resa «Sai? Non dimenticherò mai lo sguardo sconfortato di William nel vedere il
suo tè perso in mare, sei la reincarnazione del diavolo, ragazzo mio»
«Smettila»
«Altrimenti
che fai?» scosse la testa con compassione e scaricò il peso del corpo sulla
gamba sinistra, ignorandomi «Mi sculacci? Per l’amor di Dio, Charles! Più alte
quelle ginocchia!»
«S-sissignore!»
aumentò il ritmo ed io finii di abbottonarmi la giubba. Li guardai entrambi e,
nonostante non avessi mai avuto fede nelle divinità e non credessi nel destino,
pregai andasse tutto liscio, almeno stavolta.
«Si
entra in azione» Charles si fermò, si scrocchiò le dita e partì correndo verso
l’ingresso dell’accampamento. Doveva funzionare. Doveva.
Intanto chiedo venia per
aver saltato lunedì scorso, ma giuro che ogni minimo impegno che capita cade di
lunedì. Cosa che è successa anche oggi, ma mi sono obbligata a postare il
capitolo nuovo ewe
Ne approfitto per dirvi
che non so se riuscirò ad aggiornare lunedì prossimo, qui la connessione è
veramente pessima, ho poco tempo per scrivere e il pc che sto usando per
aggiornare sembra che stia per esalare l’ultimo respiro. Spero di farcela.
Non mi dilungo oltre oggi.
Grazie ancora a chi legge o segue e un biscotto a chi recensisce. A presto.
«Aiuto!
Per l’amor del cielo, aiutatemi!» nonostante si fosse allontanato di parecchio,
la voce di Charles si udiva forte e chiara. Io e Connor
gli andammo dietro restando nascosti nell’erba alta, stando attenti a non
essere scoperti.
Una
volta giunto davanti alle due guardie che controllavano l’entrata, Charles
rallentò la corsa, fino a fermarsi e appoggiare le mani alle ginocchia per
riprendere fiato.
«Che
diamine, cosa fai fuori dall’accampamento? Torna dentro!» Sbraitò il più alto
dei due. La barba incolta gli dava un’aria sciatta, accentuata dai primi due
bottoni aperti della divisa e dalla posa poco composta con cui era appoggiato
al portone di legno.
«L’hanno
ucciso, ho visto chi è stato, bisogna inseguirlo»
«Chi
ha ucciso chi?» Domandò l’altro, un uomo più basso e tarchiato. Lee assunse una
posizione eretta e più composta, deglutendo per prendere tempo.
«Un
mio compagno. L’ho trovato in un lago di sangue poco distante da qui, ho visto
due Mohawk fuggire verso nord»
«Che
stronzo» mormorò offeso Connor. Tornai a guardare il
mio pupillo.
«Ma
ho pensato fosse meglio avvertire e non agire di mia iniziativa. Scommetto che
quei bastardi si sono alleati con Washington» concluse con ancora il fiato corto.
Le due guardie si scambiarono una rapida occhiata, dentro fremevo, incitando
quei due smidollati a seguire Charles senza fiatare e lasciarci agire
indisturbati.
«Se
anche le tribù danno man forte all’Esercito Continentale saremo attaccati su
più fronti, che cazzo»
«Dobbiamo
intervenire, uccidiamo almeno quei due prima che avvertano i loro compagni. Non
dovrebbero essere lontani» il più alto imbracciò meglio il fucile, pronto a
sparare a chiunque avesse la pelle leggermente più scura della sua.
«Un
momento» l’altra guardia mise una mano davanti al petto del collega, poi spostò
lo sguardo su Charles, scrutandolo dubbiosamente e con scarso interesse.
«Prima
identificatevi» con la mano destra si tirò su i calzoni con decisamente poco
stile «o siete una spia, per caso?»
Charles
alzò le mani, come a tranquillizzarli «Generale Charles Lee, ho collaborato con
Edward Braddock. Immagino sappiate chi fosse»
«Certo,
capisco. Bene, fateci strada» impugnarono entrambi i moschetti e seguirono Lee
lungo il viottolo, lasciando incustodito l’ingresso dell’accampamento. Aspettai
di vederli sparire dietro la prima curva, inconsapevoli che trottando dietro a
Charles per ancora una ventina di metri sarebbero finiti all’altro mondo.
Quando uscirono dal mio campo visivo mi tirai su, scrollandomi dalla giubba i
residui di foglie.
«Fatti
vedere il meno possibile, guardandoti in viso capirebbero subito che sei un
infiltrato» gli diedi una pacca sul braccio e mi avvicinai al portone. Lo aprii
con uno strattone ed entrai, seguito dal ragazzo. Tenevamo la testa bassa, io
teoricamente non avrei avuto problemi, ma preferivo essere notato il meno
possibile. Passammo accanto ad un gruppo di soldati, tre dei quali portavano
sulle spalle degli zaini da dieci chili l’uno. Portai la mano destra alla tempia
a mo’ di saluto, lo stesso fece Connor, che colse
l’occasione per coprirsi il volto con il guanto. Trattenni il fiato per una
quindicina di secondi, sicuro che di lì a breve qualcuno ci avrebbe intimato di
fermarci e, di conseguenza, addio piano. Invece no, stranamente stava andando tutto per il verso giusto.
Percorremmo
una ventina di metri a passo spedito, quando Connor
mi afferrò il braccio sinistro.
«Dove
stiamo andando? Hai idea di come sia organizzato l'accampamento?» Roteai gli
occhi e mi strattonai dalla presa.
«Piantala
con tutte queste seghe mentali e vedi di assumere un atteggiamento da uomo» gli
lanciai un'occhiata, squadrandolo da capo a piedi «... o almeno provaci» lo
sentii sbuffare.
«Sei
sempre così simpatico o è una qualità che sfoderi solo con me?» Sogghignai. Spruzzava
acidità da tutti i pori, povero figliolo.
«Adoro
il sarcasmo, ma con te non è necessario sforzarsi. Ha già fatto tutto madre
natura» soppresse un ringhio continuando a venirmi dietro. Mi guardai intorno
con noncuranza, quindi mi abbassai dietro un muro alto poco più di mezzo metro
e studiai la situazione. A sinistra e alle spalle avevamo le mura
dell'accampamento, sulla destra c'erano una decina di tende, davanti un gruppo
di cinque soldati.
«Tieniti
pronto» misi una mano in tasca e sfiorai una delle bombe con l'indice. Ero
indeciso se colpire prima gli inglesi davanti a noi o intossicare quelli a
destra.
«Che
diavolo è questa puzza?» Guardai Connor, alla mia
sinistra, e provai pena per lui.
«Non
guardare me, non sono stato io» ma perché limitarmi al banale sarcasmo quando
potevo prenderlo bellamente per il culo? «Non lo sai che la gallina che canta
ha fatto l'uovo?»
«Cosa
stai insinuando?» Quasi mi pisciai addosso a causa del suo sguardo minaccioso.
«Buon
Dio, nulla, ragazzo. Nulla. Se non te ne fossi accorto, questa è la latrina
dell'accampamento. Ma dimenticavo che tu caghi rose» non disse nulla,
limitandosi a fissarmi con astio «ora passiamo al piano: al mio tre lancia una
bomba contro quei soldati di fronte a noi, poi preparati a colpire. Hai i pugnali
da lancio, vero?» Lo guardai come a dire 'prega
di averli, altrimenti uso te per accendere il fuoco di ‘stasera'.
«Certo»
spocchioso come un marmocchietto di sei anni «dà pure il via» strinsi la bomba
nella mano destra e, al mio segnale, le cinque giubbe rosse si ritrovarono in
una nube spessa e bianca. Iniziarono a tossire, quello che ci dava le spalle
crollò a terra con un pugnale conficcato nella nuca.
«Che
succede?» Dalla parte destra del l'accampamento arrivarono altri tre soldati,
sconvolti alla vista del cadavere e degli altri quattro in fin di vita. Uno di
loro mi colpì in particolar modo: il più basso e denutrito. Non doveva avere
più di diciassette anni.
«Chi
è stato?» Possibile che a quell'età fosse così vulnerabile di fronte alla
morte? Era la prima volta che vedeva un cadavere? Aveva già ucciso qualcuno?
Ero io l'eccezione? No, di questo ne ero praticamente sicuro. Connor, certamente Charles, Braddock
e chissà quanti altri, in età infantile, avevano visto morire qualcuno. La
morte di mio padre mi segnò, e nemmeno ora, dopo circa quarant’anni, saprei
dire se fu un bene o un male. Forse entrambe le cose. Sicuramente fu un’esperienza
traumatica che mi portò alla vendetta personale, ma mi diede forza, nessuno
immagina quanto. Quel ragazzino non sarebbe durato molto, non provai pietà per lui,
se non l'avessi ucciso io ci avrebbe pensato qualcun altro poco tempo dopo,
quindi la logica mi suggerì di eliminarlo prima che mandasse a puttane il mio
lavoro.
Allungai
una mano verso la saccoccia di Connor e afferrai un
paio di coltelli da lancio. Li scagliai senza indugi, colpendo l'adolescente in
pieno petto e il giovane accanto a lui.
«Ci
avrei scommesso che avresti ucciso lui. Non hai una coscienza?» Espirai dal
naso con violenza.
«Non
siamo qui per socializzare o bere del tè con loro, te lo sei dimenticato?» Mi
voltai verso di lui per l’ennesima volta «Che diavolo è quella faccia?» Aveva
un’espressione più tonta del solito.
«Ehi,
voi due! Siete al cesso da due ore» mi si gelò il sangue nelle vene,
consapevole di avere una giubba rossa alle spalle. Mi girai, tentando di
mantenere la calma «Cosa cazzo….?» Già, si accorse troppo tardi che, nonostante
fossimo alla latrina da dieci minuti buoni, non avevamo nemmeno i calzoni
abbassati. Merda, pensai –giusto per
restare in tema-. Lo afferrai per il bavero della giubba e lo tirai giù con me,
premendogli il volto nella terra umida impregnata di escrementi. Si dimenava,
il bastardo, quindi mi sedetti su di lui con tutto il mio peso.
«Lancia
un’altra bomba, a destra, però» sussurrai al ragazzo. Il corridoio dell’accampamento
venne invaso dal fumo tossico, accorsero altri soldati che, urlando, cercavano
di salvare i propri compagni. Noi ce ne stavamo nascosti, ad osservare il tutto
come fossimo estranei alla situazione, o almeno così credevo.
«Voi
due stronzi avete scelto il posto giusto per crepare» mi girai a sinistra
appena in tempo per familiarizzare con la canna del fucile a meno di un metro
da me. Pensai di essere fottuto sul serio quando l’Inglese caricò il colpo. Percepii
scattare la lama celata di Connor, che finì lungo a
terra dopo essere stato colpito allo zigomo destro con il calcio del fucile.
«Peccato
che a morire sarai tu» mi schizzò del sangue sul viso, la giubba rossa cadde a
peso morto sui secchi pieni di merda «Appena in tempo, Mastro Kenway» spostai lo sguardo sul mio pupillo giusto in tempo
per vederlo pulire il pugnale sporco di sangue.
«Grazie,
Charles. Tempismo perfetto» Connor si tirò su a
sedere massaggiandosi la guancia. Non ringraziò nemmeno Lee per avergli salvato
la vita.
«Hai
un debito con me, indiano»
Buonasera! Scusate se mi
riduco ad aggiornare a quest’ora, e scusate ancora se il capitolo è troppo
corto, ma l’ho scritto tutto -… quasi tutto- oggi pomeriggio, perché sapevo che
se avessi rimandato a domani, beh, non avrei postato un bel niente, LOL.
Coooomunque, Haytham
e Connor sono adorabili insieme, vero? No. Haytham e Charles sono adorabili, aww.
Grazie a chi segue e legge
la storia, davvero, e un altro biscotto a chi recensisce, a lunedì prossimo! :)
Avvertenza: le
parti in corsivo sono estratte da “Forsaken” di Oliver Bowden.
Capitolo 9
«Debito?»
sibilò con tono schifato. Charles si abbassò dietro al muretto della latrina
mettendo mano alla pistola, caricandola con maestria senza nemmeno guardare,
troppo impegnato a sorridere con strafottenza a Connor.
«Già.
Solitamente accade questo tra uomini che si salvano la vita» caricò il colpo
con uno strattone esagerato, puntando poi l’arma contro mio figlio «ma potrei
cambiare idea ed estinguerlo io» fece schioccare la lingua con un ghigno.
«Ma
piantala» scostò la canna della pistola con una manata, deviandone con aria
stizzita la traiettoria. Perché cedeva così facilmente alle provocazioni di
Charles? Scossi la testa ed imitai Lee, caricare la pistola era sicuramente la
cosa principale da fare.
«Non
ti scaldare, ragazzino, non ti avrei sparato. Non qui. La copertura sarebbe
saltata» li ignorai, non avevo voglia di sentire altri battibecchi. Ero ancora
indeciso sulla tattica da usare, sicuramente l’attacco a sorpresa avrebbe avuto
un impatto a nostro vantaggio, ma erano in superiorità numerica e ci avrebbero
messo in difficoltà. Decisi quindi di continuare a restare nascosti. Calcolai
mentalmente il percorso che avremmo potuto usare, che in sostanza consisteva
nel costeggiare il perimetro dell’accampamento e nasconderci tra l’erba alta
dietro le tende dei soldati.
Mi voltai
di scatto verso quei due, ancora intenti a punzecchiarsi. «Muoviamoci, dobbiamo
arrivare dietro quella tenda prima che il fumo si dissolva» non aspettai risposta
e scattai a destra, attraversai correndo la decina di metri che divideva la
latrina dalla prima tenda della fila e mi accasciai a terra. Gli Inglesi erano
ancora nel caos più totale, urlavano a squarciagola scorrazzando qua e là senza
criterio. Caricavano moschetti e se li passavano, alcuni, addirittura, si erano
catapultati fuori, convinti che li stessero attaccando dall’esterno.
«Ehi,
ehi, che maniere sono queste?» Era la voce di Charles, la riconobbi nonostante
il casino, quindi mi girai in tempo per vederlo dare una leggera spinta a Connor «Vado prima io, che diamine» non lo tolleravo quando
assumeva atteggiamenti tanto infantili, ma lo ringraziai mentalmente per aver
fatto cadere per la seconda volta il ragazzo nella merda. Una scena a dir poco
magnifica, giuro.
«Ma
ripensandoci…» si bloccò «questi potrebbero essere gli ultimi proiettili delle
giubbe rosse, quindi vai e sacrificati per la causa. Sarà il tuo modo di
estinguere il debito, su, vai» lo rimise in piedi afferrandolo per la spalla.
Connor mi
lanciò un’occhiata stralunata, braccia aperte dallo sgomento e un’espressione
in volto come a dire “aiutami, questo è
pazzo da legare”. E forse aveva ragione, ma mai l’avrei ammesso davanti a
lui. Insomma, era sempre il mio allievo, no?
«Giuro
che appena trovo questi bastardi li ammazzo! Parola d’onore che li uccido con
le mie mani!» Ed eccolo qui, l’orgoglio di Re Giorgio. Il suo amato esercito
non era nemmeno in grado di scovare tre uomini a malapena armati di spada,
pistola e bombe fumogene. «Li seppellisco fino al collo, gli piscio addosso e
poi li ammazzo, questi figli di puttana!» Restai immobile per una manciata di
secondi cercando di metabolizzare le parole.
«Holden…»
Sbarrai gli occhi. Non l’aveva detto davvero,
no, era una fottuta impressione.
«Tiratemi fuori di qui», implorò. «Tiratemi
fuori di qui, signore, per favore, adesso,
signore…»
No.
Non ora, ti prego. Non avevo la forza fisica né mentale per sopportare due cose
contemporaneamente.
Gli appoggiai di nuovo la fiaschetta alle
labbra e lasciai che sorseggiasse ancora un po’ d’acqua, poi presi il badile
che avevo portato con me e iniziai a togliere la sabbia imbevuta di sangue
attorno alla sua testa, continuando a parlargli mentre portavo alla luce le
spalle e il petto nudi.
Sbattei
le palpebre più volte per riprendere lucidità, ma i suoni ovattati mi fecero
intuire che ero ancora in balia del passato.
Più scavavo, più la sabbia era nera di sangue. «Oh, mio Dio, cosa
vi hanno fatto?» Ma già lo sapevo e, in ogni caso, ne ebbi conferma poco dopo,
quando arrivai alla vita e la trovai avvolta in bende, anche quelle nere e
incrostate di sangue.
Perché? Perché in quel momento? O meglio,
perché dovevo ricordare? Appoggiai una mano a terra per non cadere in avanti,
deglutii e inspirai a bocca aperta, sperando che facendo arrivare ossigeno al
cervello si interrompesse quella tortura.
«Fate attenzione là sotto, signore, per
favore», disse sottovoce, e capii che era trasalito, e che si stava mordendo la
lingua per il dolore. Dolore che alla fine fu troppo anche per lui che perse
conoscenza, una benedizione che mi permise di disseppellirlo.
«Mastro Kenway, tutto bene?» Non mi
voltai «Siete pallido, vi sentite male?» Non
risposi. Non avevo la forza, a dire il vero, ma mi obbligai ad alzare lo
sguardo per capire. I movimenti, i colori e soprattutto i suoni erano tornati
alla normalità. Sarei stato in grado di difendermi, se fosse stato necessario,
ma il problema ero io, o meglio, era dentro di me. L’immagine di Jim Holden insabbiato fino al collo, con le labbra
insanguinate a furia di mordersele per distrarsi dal dolore, non me la sarei
mai scordata. Con che coraggio sarei riuscito a sguainare la spada e fare
piazza pulita ignorando quel ricordo?
Deglutii
ancora «Andate voi, vi raggiungo tra poco» Charles
sospirò, non permettendosi nemmeno di chiedere altro. L’ultima cosa che vidi fu
Connor correre dietro a Lee, poi non fui più padrone
della mia mente.
«Il libro che avevi visto quella notte nella
carrozza, ce l’ha Reginald. È stato lui a organizzare
il saccheggio di casa nostra. È lui il responsabile della morte di nostro padre»
«Oh, l’hai capito, finalmente» mi schernì
Jenny.
«Mi ero rifiutato di crederci, ma ora lo so.
Sì»
Mi lasciai
andare, sedendomi nell’erba alta e prendendomi la testa tra le mani.
«Ho fatto ciò che ho fatto per il bene dell’Ordine, Haytham. Per il bene dell’intera umanità. Vi ho elevato a
Gran Maestro del rito coloniale, sapendo che anche voi avreste dovuto prendere
simili decisioni e confidando nella vostra capacità di prenderle, Haytham. Decisioni prese perseguendo un bene più grande»
Mi si chiuse lo stomaco nel risentire quella
voce melliflua e falsa. La ricordavo fin troppo bene. Ogni situazione, ogni
inganno, ogni promessa, tutto scandito da quel tono schifosamente amichevole e
rassicurante. Mi salì la nausea.
«Ciò che avete fatto ha contaminato tutto ciò
in cui credo e sapete perché? Non l’avete fatto applicando i nostri ideali, ma
ingannandomi. Come possiamo ispirare fiducia quando ciò che abbiamo nei nostri
cuori sono menzogne? Dobbiamo mettere in pratica ciò che predichiamo.
Altrimenti le nostre parole sarebbero vuote»
«Ora parla l’Assassino che è in voi» ribatté. «Vi considerate un
moderato?»
A quel tempo non avevo saputo rispondere, a
differenza di ora. Lo ero, ero impuro, se così si vuol dire, ma non negli
ideali. Ero fermamente convinto che si potesse trovare un punto d’incontro e
smetterla con quell’assurda lotta, ma non avevo mai osato dirlo a qualcuno. Mi rispecchiavo
totalmente nelle ideologie dell’Ordine, ma finché gente come Reginald o Braddock avrebbe
fatto parte delle nostre fila, beh, non potevo biasimare gli atteggiamenti
ostili di Connor.
Smisi di torturarmi l’unghia del pollice e
capii, finalmente. Era questo il mio compito: eliminare i traditori, dal primo
all’ultimo. Come potevo sperare che l’Ordine venisse apprezzato se io per primo
permettevo che ci fossero abusi di potere e tradimenti?
Mi alzai.
Non volevo essere come Reginald.
Ma lo ero stato? In fondo aveva solo
ucciso un Assassino, il fatto che fosse mio padre era solo un dettaglio, per
lui. Io quanti ne avevo sulla coscienza? Quanti padri di famiglia avevo mandato
all’altro mondo? Tanti, troppi, ma non avevo mai finto un approccio per
approfittare della loro ingenuità, questo no. Mi rincuorò, perché sapevo bene
che ciò che mi aveva fatto avvelenare il sangue era stato il tradimento di Birch.
Sentii uno sparo.
«Eccoli là, i due bastardi!» Una ventina di giubbe rosse corse accanto
alla tenda dietro la quale ero nascosto, raggiungendo il soldato che aveva
individuato Charles e Connor. «Hanno le nostre uniformi» commentò un altro caricando il moschetto.
Ringhiai. ‘Fanculo a Reginald
e a tutte le balle che mi aveva raccontato, non potevo permettere che mi
distraesse proprio ora. Caricai la pistola e mi sporsi di poco dal
nascondiglio, giusto quel tanto da mirare decentemente alla nuca del primo
soldato che mi capitò a tiro.
Sparai con rabbia. Rabbia per quello che
avevo vissuto e ricordato. Feci fuoco ancora atterrando un altro soldato, come
se sfogarmi sulle giubbe rosse rendesse giustizia a ciò che avevo subìto. Non me
ne importò nulla, corsi lateralmente, ancora a destra e ricaricai la pistola.
Charles continuava a sparare, Connor faceva la sua
parte con arco e frecce, una delle quali perforò con precisione sorprendente il
cranio dello sventurato.
Salve a tutti.
Sì, anche oggi posto con immenso ritardo, lool,
ma è sempre lunedì, giusto? Quindi sono perdonata.
Quanti di voi odiano ReginaldBirch? *dovete alzare tutti la mano*. Uh, giusto: non so
quanti di voi abbiano letto “Forsaken” –e siccome né in
ACIII né in Black Flag viene spiegato chi sia questo Birch-, ho ritenuto opportuno mettervi il link, giusto per ricordarvi chi è, nel caso non lo sapeste/ve lo foste dimenticato.
Ci si vede la settimana prossima, grazie come sempre a chi
legge, segue e recensisce^^.
Ne avevo uccisi quindici in quanto?, venti secondi? E sì, li
avevo contati come se stessi facendo una banalissima esercitazione e dovessi
tenere a mente i proiettili usati. Non
traggo piacere dall’uccidere, semplicemente mi riesce. Me lo ripetevo da
anni, ma iniziai a ricredermi. Mi piaceva, mi piaceva eccome, ma forse
dipendeva da chi mi trovavo davanti. Se dall’altro lato della canna della
pistola ci fosse stato Washington, avrei goduto quasi quanto Thomas Hickey con i servizietti delle puttane di Boston.
Caricai la pistola e piantai un proiettile nel cranio
all’Inglese che avevo davanti, poi lanciai un’occhiata a Charles, che sparava
come un ossesso da dietro la pila di casse di legno che usava come riparo. Connor, finalmente, si era deciso a lanciarsi nella mischia
e ad usare il tomahawk, e ne fui contento, dato che
sparava come una donnetta impaurita.
Ventidue.
Scossi la testa, pensare a come combatteva mio figlio poteva
benissimo passare in secondo piano, quindi afferrai un soldato per i capelli e
lo buttai a terra, per poi puntargli contro la pistola e trasformargli il collo
in un ammasso informe di carne e sangue. Gli presi il moschetto e, sentendo il
respiro affannato di un uomo sul collo, capii di avere un’altra giubba rossa
alle spalle e mi voltai fulmineo, piantandogli la baionetta nello stomaco. La estrassi
subito e sparai, non attesi nemmeno che toccasse il suolo che ruotai su me
stesso, impugnando il fucile dalla canna e sfondando il cranio del terzo uomo
col calcio dell’arma. Quei dannati imbecilli urlavano come se li stessimo
scuoiando vivi e non avevano il minimo autocontrollo. Non ci avrebbero messo in
difficoltà, questo era certo, ma erano tanti, troppi, e noi soltanto in tre.
Mi voltai verso Charles, intento a sparare e ricaricare «Usciamo da qui!»
Controllai i proiettili rimasti nel moschetto e li usai per uccidere altri cinque
soldati.
Trenta.
Mollai il fucile e corsi verso la palizzata di legno grezzo e
consumato, puntai il piede destro su una delle assi e mi diedi una spinta,
mentre mi aggrappavo con entrambe le mani all’estremità della staccionata. Connor non ebbe difficoltà nello scavalcare, abituato
com’era a saltare di ramo in ramo. Charles, invece, pensò bene di deliziarci
con una caduta di decisamente poco stile, mettendosi a cavalcioni sullo
steccato e atterrando dall’altro lato a gambe all’aria.
«Tutto bene?»
«Sì. Sì, sto bene»
si tirò su spolverandosi i calzoni e, da buon padre quale ero, notai
l’espressione beata di mio figlio. Sì, forse l’agilità era l’unica cosa per cui
poteva vantarsi. Solo nei confronti di Charles, almeno, perché se avessi avuto
qualche anno in meno gli avrei dato del filo da torcere.
«Muovete il culo e prendete quei tre! Muoversi,
muoversi!» No, non avevano capito che
avrebbero fatto meglio a godersi quel poco ossigeno che gli rimaneva. Dopo
pochi secondi, infatti, tutta la parte est dell’accampamento saltò in aria. La
bomba che avevo lanciato al di là della palizzata uccise una quarantina di
uomini, e il bulbo oculare di uno di questi, spiaccicato nello spazio tra due
assi, mi fissava inespressivo.
***
Tornai alla tenuta a piedi, cogliendo l’occasione per pensare
e schiarirmi le idee. Alla fine la collaborazione con mio padre era stata
piuttosto forzata, ma utile: a lui servivo io e a me serviva lui, ma era la
scelta giusta? Achille si ostinava a ripetere che il mio comportamento avrebbe
avuto ripercussioni negative su tutto. Sulla mia gente, su New York, sugli
Assassini. Quali Assassini, poi? Non c’era più nessuno, se non io e qualche
giovane adepto alle prime armi. Ero stato duro con lui, ne ero consapevole, ma
sapevo di fare la cosa giusta. Dovevo lavorare con Haytham,
almeno per il momento. Che piacesse o meno al mio Mentore, dovevamo respingere
gli Inglesi, e da solo non ci sarei mai riuscito.
Salii gli scalini con una fatica immane, come se le suole
facessero fatica a staccarsi dal terreno. E lo stesso fu per la porta, che mai
mi parve così pesante e rumorosa, tanto da far voltare verso l’uscio Achille,
seduto davanti al camino acceso.
«Ciao» dissi
mentre richiudevo la porta, nella speranza che, forse, il rumore della
serratura coprisse la mia voce. Non rispose, e a dirla tutta non mi aspettavo
reazione diversa, quindi tirai dritto, diretto verso le scale e quindi alla mia
stanza.
«Per quanto hai ancora intenzione di tirarla avanti?» Mi fermai e rimasi in silenzio pur sapendo a cosa si
riferisse «Stai mandando tutto in fumo.
Tutto quanto» strinsi un pugno. Odiavo
dare ragione a mio padre, raramente le sue parole mi ferivano, ma una cosa in
particolare mi aveva punto nell’orgoglio: “tu dai ascolto solo ad Achille, tutto quello
che dice quel vecchio è oro colato, hai mai preso in considerazione l’ipotesi
di pensare con la tua testa?”. Ci avevo provato spesso, veramente, ma il
punto era che del Credo, della Confraternita e di tutto il resto sapevo ben
poco. Conoscevo Ezio Auditore e le sue eroiche imprese, stessa cosa per AltaïrIbn-La'Ahad, e tutto grazie ai vecchi libri ingialliti e
impolverati, dimenticati sugli scaffali della libreria in soggiorno da chissà
quanti anni. Mi sarebbe piaciuto avere un compagno con cui collaborare o a cui
chiedere semplicemente un’opinione, ma l’unica persona dalla mia parte che
poteva aiutarmi in qualche modo era lui. Solo Achille era in grado di
indirizzarmi, però doveva comprendere che avevo il diritto di fare scelte
diverse dalle sue, forse un po’ azzardate e a primo impatto sbagliate, ma mai
prese senza riflettere.
«Abbiamo
fermato gli Inglesi, le truppe da Filadelfia non raggiungeranno più New York e
non la occuperanno. Abbiamo aiutato Washington, in fin dei conti» lo
annunciai fieramente senza nemmeno voltarmi. Tralasciando i battibecchi con
Charles Lee, era andato tutto liscio.
«Oh, scusami,
allora. Siete due eroi» sbuffai. Avevo bisogno di
consigli, ne ero consapevole, quindi li chiedevo. L’avevo sempre fatto. Era così
sbagliato appoggiarsi a qualcuno? In fondo mio padre non faceva altro che
parlare della debolezza umana, allora perché odiava così tanto le mie
incertezze?
«Stai
giocando con la vita delle persone di questa terra, ragazzo.» Oh,
certo, solo perché cercavo un contatto con Haytham,
giusto «Forse non
sei tagliato per questo ruolo»
Colpii
lo stipite con una manata, quindi mi voltai verso il soggiorno «Sei tu
quello adatto, vero? Cosa fai per ripristinare la Confraternita? Nulla. Te ne
stai qui seduto a dirmi cosa fare, mentre là fuori c’è gente che soffre, che
muore» tentai
di non urlare, cosa che mi riuscì difficile. Non volevo litigare un’altra
volta, non avevo voglia di giustificare le mie scelte ad un vecchio a cui non
importava niente della Confraternita.
Mi guardò
sconcertato «Come osi?» Puntò il
bastone a terra nel tentativo di alzarsi. Se fosse stato armato mi avrebbe
ucciso, poco ma sicuro «Con che faccia osi dirmi questo? Ti
ho accolto in casa mia e ti ho allenato, ti ho dato del cibo, un letto e la
tunica che indossi ora» non aveva fiato, ma nonostante
questo mi raggiunse, sopportando la fatica immane che aveva fatto per
percorrere il soggiorno.
«Cosa hai
fatto per il Credo? Cosa hai fatto per fermare i Templari?»
Domandai ancora.
«Non
collaboro col nemico, innanzitutto»
«Ti stai
comportando come mio padre» me l’ero cercata, dopotutto. Non mi
fece male, non più di tanto, ma lo schiaffo si sentì forte e chiaro nel
silenzio della tenuta.
«Non ti
permettere» tremava di rabbia, ma non m’importava. Pretendeva il
totale controllo delle mie azioni e la mia obbedienza, esattamente ciò cui
miravano i Templari «Stupido ragazzino impertinente, non
paragonarmi più a quel pazzo di tuo padre!»
«Non è
colpa mia, ho solo collaborato con lui e guarda che questione hai fatto. Te l’ho
già spiegato, Achille: fermeremo gli Inglesi insieme, stop» cercai
di calmarlo, ma fallii miseramente.
«E
Washington? Ucciderai Haytham per il bene del Paese o
lo lascerai agire? A questo punto sono convinto che passerai dalla sua parte,
ti stai facendo abbindolare, Connor!» Scossi
la testa. Quello mai.
«Vado a
riposare, sono stanco» non lo lasciai parlare e salii al
piano superiore. Non avrei mai abbandonato la Confraternita per aiutare mio
padre, di quello ne ero certo. Non approvavo i loro metodi e molte delle loro
idee. Tentavo solo di avere un rapporto civile con Haytham,
tutto qui. Non c’era nulla di male, volevo provare ad avvicinarmi a lui. Doveva
esserci un’alternativa alla morte, doveva.
Sì, sono viva. *si genuflette*. Lo
so, lo so, sono sparita per una settimana e aggiorno in ritardo, ma meglio di
nulla, no? Non ho avuto un rientro tranquillo, per nulla, e ho avuto veramente
pochissimo tempo da dedicare alla fanfiction. Ma non
mi arrendo, buona parte dei capitoli successivi è già scritta, quindi non
dovrei avere grossi problemi in futuro (le ultime parole famose), lool. Siete stupiti, eh? Insomma, Connor
che si ribella così è molto OOC, ma ci stava, dai. E vedrete Achille, quel
dannatissimo vecchio vi stupirà.
Bom, non spoilero
nulla e vado. Grazie come sempre a chi recensisce, legge, segue e preferisce, I
love you! *giusto perché oggi ho fatto un test
terrificante di inglese, ma sshh*. A lunedì prossimo
:3
La
lettera che trovai a Fort George catturò la mia attenzione appena entrai nella
mia stanza. Era lì, sulla scrivania, la busta bianca in netto contrasto con il
marrone scuro del legno. L’afferrai ed uscii di nuovo, diretto verso la sala in
cui Connor mi aveva squarciato un fianco. Inspiegabilmente
ero scosso, non sapevo il perché e, sinceramente, nemmeno lo collegai alla
lettera. Erano anni che non ricevevo corrispondenza, d’accordo, ma non lo
trovavo comunque un motivo valido. Improvvisamente mi punse la curiosità, e la
tentazione di tirarla fuori dalla tasca e leggere almeno chi la spediva fu
forte, ma mi trattenni, preferendo la calma e la comodità della sedia che mi
attendevano nel salone principale del forte.
Una
volta entrato la estrassi incuriosito e con le sopracciglia aggrottate,
rilassando i muscoli dallo sgomento –tranne il cuore, che cominciò a martellare
nel petto- quando lessi il nome del mittente.
***
Restare alla tenuta era
alquanto inutile, specialmente in quel frangente. Achille era strano e tutto
sembrava molto più silenzioso e freddo, quasi estraneo alla vita cui ero
abituato. Dove sarei andato, però? Me lo chiedevo da un paio d’ore, con la
speranza che fissare il soffitto della mia stanza mi aiutasse a capire cosa
fare. Non aveva senso restare, non con Achille che giudicava ogni mio passo.
Quindi mi alzai, afferrando
il tomahawk e le polsiere
delle lame celate. Posai una mano sul pomello e scrocchiai il collo piegandolo
di lato. Perché rischiare di incontrarlo
quando puoi uscire dalla finestra? No, sarebbe da codardi. Ed io non
lo sono. Perché altrimenti avrebbe
ragione Haytham? Perché non ho voglia di litigare
e di giustificare le mie azioni. E allora
dove vai?, da tuo padre? E da Charles Lee? Sei cambiato, Connor,
un tempo li avresti uccisi entrambi. Non ho detto che non lo farò. Non farti condizionare dall’affetto. Quale affetto,
poi? Ti trattano come un pezzente, passano il tempo a sfotterti e nemmeno te ne
rendi conto. Lasciami in pace. Non
vuoi sentire la verità? Perché sai che ho ragione, il legame di sangue non è
una scusa sufficiente per risparmiare Haytham. Aprii
la finestra e saltai giù, ammortizzando l’impatto con una capriola. Iniziai a
correre, come se stessi scappando, ma da chi? Achille? Forse non volevo che mi
vedesse.
New York era la risposta. Per
mio padre, per gli Inglesi, per Washington. Sfruttai un tronco abbattuto per
saltare ed aggrapparmi ad un ramo, evitando un paio di giubbe rosse e lupi
affamati. Ne approfittai per godermi la frontiera, viva e selvaggia. Che ne
sarebbe stato se gli Inglesi avessero vinto la guerra? Terra bruciata? O città?
Chi mai avrebbe voluto vivere in case costruite sulla terra macchiata del
sangue di altre persone? Questo mio padre non lo voleva, ne ero quasi sicuro. Non
per il momento, almeno.
Fui costretto a scendere a
terra, entrando così nella periferia della città. Dal tetto del primo palazzo
che scalai vidi Fort George in lontananza, e mi diressi lì, saltando da una
casa all’altra. Era la cosa giusta, sì. Non
più dell’omicidio. Sta’ zitto. Da quando
vai contro il nostro Mentore per aiutare i Templari, eh? Tu non capisci, è
una cosa diversa. Io capisco benissimo,
invece. Siamo la stessa persona. No, sbagli. Io non agisco senza
riflettere. Ti hanno fatto il lavaggio
del cervello. No, sono sempre un Assassino. Già, un Assassino che fraternizza col nemico. No. Sì.
«Charles Lee.» Senza
rendermene conto, ero già arrivato al forte.
«Ragazzo.»
***
Caro fratello,
ti scrivo dopo tanti anni per chiederti aiuto,
ancora una volta. So che non capirai questa richiesta, ma ho bisogno di te.
Sono a Londra. Ci sono tornata, sì, non ho saputo resistere, e lui lo sapeva.
Sapeva e mi ha anticipata, non sono riuscita a fare nulla per impedire questa
assurda situazione, non ne ho le capacità. È urgente, Haytham,
non so a chi chiedere, per questo mi sono rivolta a te. Sei l’unico che può
fare qualcosa, l’unico che può capire. Spero non ignorerai le mie parole, ti
aspetto nella casa di nostro padre.
A presto,
Jennifer Scott.
Mi
sentii mancare. No, non poteva essere un falso, era sicuramente lei, avrei
riconosciuto la calligrafia di Jenny tra mille. Aveva sempre avuto una scrittura
snella, tranquilla e dalle curve morbide, ma non quella volta. Il tratto era
leggermente mosso, troppo calcato rispetto al solito, ma comunque inclinato
verso destra, come sempre. Qualcosa, però, non andava. Perché proprio nella
nostra vecchia abitazione? Era uno scherzo. Sì, doveva esserlo per forza.
Posai
la lettera nella tasca interna della redingote –insieme al diario- e mi
appoggiai con entrambe le mani al tavolo, lasciandomi sfuggire un sospiro
mentre bussavano alla porta.
«Avanti»
Charles e Connor entrarono nella sala, notandomi
assente e pensieroso. E come potevo non esserlo? Insomma, mancava solo che
comparisse il fantasma di mio padre.
«Signore?
Che succede?» Sospirai nuovamente, premendomi due dita alla base del naso.
«Temo
di dovervi lasciare soli nelle prossime missioni. Devo tornare in Europa»
annunciai tornando in posizione eretta per darmi un contegno.
«Cosa?
Ma Mastro Ken-»
«Charles»
lo bloccai prima che potesse dire qualsiasi cosa. «Sono sicuro di poter fare
affidamento su di voi» ancora non mi capacitavo della situazione in cui mi
trovavo.
«Perché
in Europa? Ci sono problemi, Mastro Kenway?» Alzai
una mano per interromperlo.
«Sarebbe
troppo lungo da spiegare. Non preoccupatevi, ve la caverete anche senza di me»
mossi qualche passo di lato per calmarmi e riprendere lucidità.
Non
sapevo cosa diavolo succedesse a Londra, temevo che Connor
e Charles avrebbero finito per ammazzarsi a vicenda e mandare tutto all’aria.
Sbuffai ancora.
Charles
sospirò, mentre mio figlio era ancora in silenzio.
«Come
volete. Diteci almeno cosa fare in vostra assenza» mi fermai riappoggiandomi al
tavolo per poi fissare gli occhi in quelli di entrambi.
«Concentratevi
sulle giubbe rosse. Eliminate tutti i soldati in città, non importa come, liberate New York dagli Inglesi» Connor aprì bocca intenzionato a parlare, ma Charles lo
anticipò.
«…
Va bene, ma dopo? Insomma, è un lavoro che si risolve in un mese al massimo»
lanciò uno sguardo a Connor, come se potesse aiutarlo
a capirci qualcosa. Ma nessuno, nessuno tranne me, sapeva cosa provavo in quel
momento.
Era
come essere catapultati nel passato, a vent’anni prima, a quando Tiio mi aveva lasciato, a quando Holden mi aveva scritto
dicendomi di aver trovato Jenny.
Non
avrei spiegato il motivo della mia partenza, né a Connor
né a Charles. Non avrebbero capito e non avrebbero potuto aiutarmi. Dio, mi
scoppiava la testa.
«Sentite,
aspettatemi qui. Vado al porto» con poche falcate raggiunsi la porta.
«Al
porto? Cosa fai lì?» Dopo dieci minuti buoni, stavolta fu il ragazzo a parlare.
«A
cercare una nave che parta domani per Londra» aprii la porta e m’incamminai giù
per le scale.
Uscii
da Fort George e mi avviai verso le stalle, salendo sul primo cavallo sellato
che mi trovai davanti. Andai al trotto fino all’uscita, poi lo spronai, forse
troppo, visto che in più occasioni, dato che scivolava sulla strada, rischiammo
di cadere entrambi. Jenny. Perché piombava nella mia nuova vita così, senza
preavviso? Non che non ne fossi contento, per carità, ma c’era qualcosa dietro.
Qualcosa che, ci avrei scommesso le palle, non mi sarebbe piaciuto. Ed io, da
bravo idiota, mi stavo incasinando per l’ennesima volta. Con le mie mani, per
giunta, visto che stavo ci andando di mia iniziativa. Ma potevo sottrarmi? Mi aveva
esplicitamente chiesto aiuto, non potevo ignorare e basta. Era l’unica cosa che
mi ricordava la mia infanzia, mio padre, Londra. Era stata una sorella maggiore
un po’ stronza, sì, ma immagino che sia normale tra fratelli.
Vedendo
il porto avvicinarsi rallentai, smontai legando il cavallo ad un palo di una
locanda e mi avviai sul molo, raggiungendo un marinaio che caricava casse su
una nave. Che Dio me la mandi buona.
«Salve,
buon uomo. Posso chiedervi dove è diretta questo galeone?» Sentendo la mia voce
l’altro sussultò, girandosi improvvisamente.
«Chi
lo vuole sapere?» Chiese con aria dubbiosa, stringendo tra le braccia una cassa
di legno. Portai le mani dietro la schiena.
«HaythamKenway, lieto di
conoscervi… Signor?» Mi squadrò da capo a piedi.
«David
Murphy» rispose diffidente. Gli porsi la mano e lui me la prese timidamente.
Gliela strinsi con vigore.
«Ho
bisogno di un passaggio per Londra, Signor Murphy, dove posso trovare il
capitano della nave?»
David
posò la cassa e si asciugò la fronte con una mano, poi prese fiato. «Avete
trovato la bagnarola giusta. Il capitano è entrato in quella taverna davanti al
molo, Signor Kenway. Lo riconoscerete senza fatica,
indossa un tricorno rosso scuro. Chiedete a lui» mi alzai di poco il cappello
per ringraziare e ripercorsi il molo, fino ad entrare nella taverna indicatami
dal giovane marinaio.
Mi
guardai intorno rapidamente, cercando almeno un uomo con un tricorno in testa. Dopo
una manciata di secondi lo individuai seduto al bancone con in mano un boccale
di birra, quindi mi avvicinai, prendendo posto accanto a lui.
«Siete
un capitano?» Domandai. Era un galantuomo, beveva così avidamente che un rivolo
di birra gli stava colando dall’angolo della bocca fino al mento. Deglutì
rumorosamente, poi sbatté il boccale sul bancone.
«Chi
siete?» Mi guardò assottigliando lo sguardo e si pulì il mento con la manica.
«HaythamKenway. Uno dei vostri
uomini mi ha detto dove potevo trovarvi, mi serve un passaggio per Londra. È
urgente» lo guardai serio attendendo risposta, e non trattenni un ringhio seccato
quando ridacchiò fissando la birra.
«Londra,
eh?» Riprese il boccale dando un lungo sorso «Il nostro tragitto è un altro,
Signor Kenway. Il primo porto cui attraccheremo sarà
quello francese di Le Havre, poi faremo rotta per l’Inghilterra, ma ci
fermeremo a Folkestone»
«Quando
partite?»
«Domani»
la mia solita fortuna. Non potevo di certo girare tutto il porto alla ricerca
di un’altra nave diretta a Londra che partisse il giorno dopo. Mi sarei fatto
andare bene questa, una volta giunto in Inghilterra avrei trovato un modo per
raggiungere la mia meta.
«Potete
pagare?» Non gli diedi il tempo di bere ancora che poggiai sul bancone un
sacchettino pieno di monete. Sgranò gli occhi e fece per afferrarlo, ma lo
ripresi rapidamente.
«Tutto
a suo tempo. A che ora salpate?» Riposai il danaro alla cintola.
«All’alba.
Non dopo le sei» annuii.
«A
domattina, capitano» sollevai leggermente il tricorno e mi alzai dallo sgabello,
per poi uscire dalla taverna.
Buonsalve a tutti. Le cose iniziano
a farsi interessanti, eh? (dovete dire di sì, da bravi). E no, Connor non è impazzito, non è bipolare, diciamo che parla
con la sua coscienza. Chiamiamola così, dai, ma capirete più avanti.
Parlando di cose
importanti, i lunedì successivi aggiornerò sempre verso quest’ora, purtroppo ho
degli impegni che mi tengono fuori casa fino a tardi, quindi è l’unico momento
libero che ho a disposizione. Detto questo, spero che abbiate apprezzato il
capitolo, ringrazio come sempre chi legge, segue e recensisce *inchino*. A presto
:3
Ero
rimasto solo con Charles che, vedendo mio padre uscire di corsa, era rimasto
immobile a fissare la porta. Solo dopo qualche secondo si lasciò cadere su una
sedia, cosa che io avevo fatto già da un paio di minuti. Uccidilo, ora che siete soli.
Sbatté,
per la frustrazione, immagino, un pugno sul tavolo al quale eravamo seduti.
«Maledizione!»
Sbottò «Ci vorranno tre mesi solo per l’andata, chissà quanto dovrà trattenersi
per questo problema e altri tre per tornare. Diavolo!» lo guardai senza sapere
come reagire. Lo so io come. Piantagli la
lama celata in gola, pezzo d’idiota. Taci.
«Riusciremo
a cavarcela anche senza mio padre» tentai «quando tornerà ci faremo dire cosa
fare oltre ad eliminare le giubbe rosse» finalmente mi degnò di uno sguardo, un
misto tra il compassionevole e l’irritato.
«Tu
non capisci! In questo lasso di tempo Washington potrebbe perdere terreno e
uomini, non possiamo concentrarci solo
sulle giubbe rosse» sibilò riabbassando lo sguardo sul tavolo.
«Da
quanto tempo lavori con mio padre? Vent’anni, qualcosa di più, hai ancora
bisogno di lui?» Mi fulminò, se avesse potuto mi avrebbe tagliato la gola, ma
non lo fece. Perché? Perché lo stuzzichi
invogliandolo ad ammazzarti?
«Bada
a come parli, indiano! So perfettamente come comportarmi, ma Mastro Kenway ha comunque più esperienza di noi due messi insieme,
sa sempre qual è il modo migliore d’agire. Io potrei sapere cosa fare, ma i
dettagli, il piano e tutto il resto no, non avrei le abilità di tuo padre. O
forse sì, ma non riuscirei ad elaborare un piano in così poco tempo» lo guardai
scettico. Mio padre era così ben visto? Era davvero così abile? Alzai un
sopracciglio. A me sembrava solamente uno sbruffone egocentrico convinto di
sapere sempre tutto di tutti, di essere sempre dalla
parte della ragione e dalla mentalità chiusa. Sospirai. Sarebbe andata bene, doveva andare bene.
***
Rientrai
a Fort George con troppe cose in testa e salii le scale come un automa,
ritornando nella sala in cui avevo lasciato Connor e
Charles.
«Signore!»
Lee scattò in piedi vedendomi rientrare; alzai una mano per farlo accomodare,
poi mi sedetti di fronte a lui e accanto al ragazzo, a capotavola.
«Novità?»
Parlò mio figlio. Annuii.
«Partirò
domattina alle sei. Non so quanto starò via, credevo di aver chiuso con questa
faccenda» la tensione era alle stelle, se mi fossi concentrato, avrei potuto
sentire i battiti accelerati del cuore di Charles, per quanto era agitato.
«La stessa faccenda che vi costrinse a partire
per l'Europa vent'anni fa?» Annuii
e vidi Connor sobbalzare leggermente, capendo che a
quell'epoca avevo ancora dei legami con sua madre. Subito mi venne in mente
Holden e tutto ciò che aveva passato per aiutarmi a ritrovare Jenny. Ogni volta
che ci pensavo mi saliva il magone, mi sentivo terribilmente in colpa per il
suo suicidio.
«Sì, più o meno»
«Che successe vent'anni fa?» intervenne il ragazzo. Sbuffai.
«Problemi personali, cose che non ti
riguardano. Smettetela di fare domande» Lee si sistemò meglio sulla sedia umettandosi le labbra, poi
mi guardò.
«Dove alloggerete, Mastro Kenway? Giusto per sapere dove spedire le lettere in cui vi
terrò aggiornato sulla situazione» scossi la testa.
«Ancora non lo so, Charles. Ti scriverò io
per primo, così vedrai l'indirizzo della locanda in cui mi sarò stabilito» annuì concorde «voi dovete occuparvi solamente degli
Inglesi. La precedenza, ovviamente, ce l'ha Washington. Se l'esercito ha
bisogno d'aiuto, lasciate in secondo piano le giubbe rosse ed intervenite, so
che ve la saprete cavare bene»
mi guardarono in silenzio, quindi mi alzai, imitato da entrambi.
Diedi una pacca sulla spalla di tutti e due,
serrando la presa sulla giacca di Charles e sulla tunica del ragazzo.
«Collaborate» dissi «e non ammazzatevi. Le colonie sono nelle vostre mani, mi fido di voi, so
che posso contare sulle vostre capacità»Connor annuì debolmente,
abbassando poi lo sguardo e incatenandolo sui suoi stivali. Lee capì che questa
volta ero serio più che mai.
«Ma certo, Signore. Io e il ragazzo terremo
la situazione sotto controllo. Potete partire tranquillo» accennai un sorriso.
«Bene. Dì alle guardie di Fort George di
far entrare Connor, se lo chiederà. Parlate qui,
pianificate le mosse solo se siete tra queste mura, non andate in locande o taverne.
Gli Inglesi hanno orecchie ovunque»
«Non preoccupatevi» guardai mio figlio.
«E tu non fare casini. So già che farai di
tutto per non collaborare con Charles, ma per una volta prova a mettere
qualcos'altro davanti ai tuoi interessi» non mi rispose.
«Beh, sarà meglio che vada a riposare,
domani partirò presto» poi mi
congedai.
Avevo dormito poco quella notte e, veramente,
alzarsi alle cinque non era stato il massimo.
Giunto al porto vidi il marinaio con cui avevo
parlato, David Murphy, caricare la nave che a breve sarebbe salpata, quindi,
nell'attesa, mi sedetti su una cassa vuota. Solo in quel momento mi accorsi di
due sagome, una bianca e una marrone, salire sul molo e guardare in ogni
direzione. Dopo venti secondi buoni, fu Connor ad
individuarmi ed a raggiungermi -seguito a ruota a Charles-.
«Vi abbiamo trovato, Signore»
«Lo vedo, Charles. Cosa ci fate qui?»
«Che domande, siamo venuti a salutarvi,
Mastro Kenway» mi guardò come se chiesi la cosa più ovvia del mondo.
«Non era necessario, ma grazie» mi alzai; avevo sempre detestato
attendere e, ovviamente, con la mia solita fortuna, ero riuscito a trovare un
capitano ritardatario. Ancora non lo avevo visto arrivare. Tirai fuori dalla
tasca della redingote un orologio: le sei e cinque.
«Buon viaggio, padre» guardai Connor
e annuii, come a ringraziarlo.
«Non credo lo sarà, odio i viaggi in mare.
Non c'è mai nulla da fare»
borbottai in direzione della nave su cui stavo per salire. Mi tornò in mente il
viaggio per Boston. Tralasciando il fatto che avevano tentato di uccidermi,
beh, fu piuttosto noioso.
«Puoi sempre dare una mano ai marinai» mi voltai nuovamente verso di lui.
«Buon Dio, figliolo, hai imparato a fare
del sarcasmo o eri serio? Pagare e in più lavorare, hai il fiuto per gli
affari, fattelo dire. Achille doveva aprirti un'attività» Charles rise senza ritegno per qualche
secondo, per poi schiarirsi la gola e tornare composto. Stavo per aprir bocca,
quando un colpo sulla spalla a mano aperta mi fece scivolare il cappello sugli
occhi.
«Eccovi qui, siete voi HaythamKenway, o erro?» Mi voltai. Ed eccolo lì, il capitano. «Siete arrivato in anticipo»
«A differenza vostra» borbottai scocciato sistemandomi il
tricorno.
«Avete il danaro con voi?» Vecchio avido.
«Salderò il conto a bordo. Datemi un minuto
e vi raggiungo» lo vidi
annuire e incamminarsi sulla passerella di legno, quindi mi voltai verso Connor e Charles.
«Beh..» misi le mani dietro la schiena «a presto, allora»
«A presto, Mastro Kenway» mi voltai e percorsi la trave di legno
che collegava il molo alla nave; notai subito il capitano fissarmi
insistentemente, sbuffai e gli lanciai annoiato la saccoccia con dentro un
centinaio di sterline.
«Tenete»mendicante,
aggiunsi mentalmente. Lo prese senza esitazione per poi soppesarlo con la mano,
come se potesse contare le monete.
«La vostra cabina è l'ultima sulla
sinistra, Signor Kenway. Siete il benvenuto sulla mia
nave» giunsi le mani dietro
la schiena e sfoderai uno dei sorrisi più falsi e occasionali che avessi mai
fatto.
«Vi ringrazio. Ora, se permettete, andrei a
sistemarmi per il viaggio»
«Ma certo, andate pure» scesi in coperta e, percorso un angusto
corridoio e scavalcato botti, casse e altre cianfrusaglie, arrivai alla porta
della mia... stanza. Era piuttosto
spoglia: un'amaca, una scrivania e un piccolo oblò. Oh, per non dimenticare il
piacevole aroma di pesce marcio.
Rimasi chiuso lì dentro tutto il tempo e solo
dopo cena mi decisi a mettere fuori il naso. Già mi sembrava d'impazzire.
Salii sul ponte e notai subito la differenza con
il buco che osavano chiamare cabina. Feci qualche passo e mi appoggiai con
entrambe le mani al parapetto, osservando l'orizzonte e godendomi la leggera
brezza che si era alzata, mentre il capitano, sul cassero alla mia sinistra,
sbraitava di ammainare le vele.
«Ehi, riccone!» Chiusi gli occhi ed espirai dalla bocca.
Non di nuovo. Per favore.
«Parli con me?» Mi voltai guardandomi alle spalle:
quattro marinai, abiti logori, capelli sudici -per non parlare del resto-,
qualche dente mancante. Che bella combriccola. Sfottevo spesso gli uomini di Re
Giorgio, ma se questi esemplari fossero stati chiamati alle armi, beh, addio
indipendenza.
«Vedi altri figli di papà qui in giro,
amico?» Soffocai una risata. Non
ero un figlio di papà da oltre quarant’anni, cazzo.
«Cosa vuoi?» Domandai con scarso interesse. L'unico che fino a quel
momento mi aveva rivolto la parola fece qualche passo in avanti, venendomi più
vicino. Santo cielo, amico, dicono tanto
del vecchio Charles, ma nemmeno tu scherzi quanto a igiene personale.
«Solo sapere come mai un tipo come te se ne
va da una parte all'altra dell'Oceano» mi diede una pacca sul braccio; fissai infastidito la sua
mano sporca e maleodorante sulla mia redingote pulita, poi tornai sul suo viso.
«E perché dovrebbe interessarti? Ah, e non
toccarmi più» indietreggiò di
un paio di passi allargando le braccia, fingendo teatralmente di aver paura.
«Il nostro ospite fa il gradasso» intervenne un altro. Dei bizzarri
orecchini lunghi e stilizzati gli addobbavano l'orecchio sinistro, ma decisi di
concentrarmi su altro, tipo gli occhi lucidi tipici di chi aveva alzato un po'
troppo il gomito.
«Signori, non ho voglia di discutere con
voi, quindi se volete farmi la cortesia di anda-»
«Lascialo in pace, Edd.
Sta tremando come una foglia, non vedi?» Ed ecco il terzo idiota. Afferrai per il colletto
l’imbecille che aveva aperto bocca per ultimo e lo sbattei contro il parapetto
con forza.
«Ah!
Che cazzo fai? Lasciami!» Ovviamente non l’ascoltai e lo spinsi verso
l’esterno, facendolo andare fuori bordo di almeno mezzo busto.
«Apri
ancora una volta quella fogna che hai al posto della bocca e, lo giuro, stasera
dormirai sul fondo dell’Oceano. O nello stomaco di un pescecane. Scegli tu»
dissi con calma mentre quello agitava le braccia istericamente.
«Va-Va
bene! Lasciatemi, per carità di Dio!» Wow, era passato dal volermi pestare al
darmi del voi nel giro di tre secondi. Contai fino a cinque, poi lo ributtai
dentro, godendomi la scena nel vederlo gambe all’aria. Si rialzò di scatto
ancora senza fiato, spolverandosi i vestiti e guardandomi terrorizzato. Oh,
certo, ero io quello che tremava, sì.
Sera! Anche questa
settimana riesco ad essere puntuale con l’aggiornamento, wow! E boh, stasera
non ho molto da dire sul capitolo, lol, quindi ringrazio come sempre chi legge,
segue e recensisce. Alla prossima c:
Guardai la nave su cui era salito mio padre
salpare per il mare aperto. Provavo una sensazione strana: preoccupazione?
Curiosità? Non sapevo perché fosse partito con tanta urgenza senza nemmeno
portarsi dietro uno dei suoi uomini. Forse era convinto di riuscire a risolvere
la faccenda da solo, ma l'espressione di Charles, assorto in chissà quali
riflessioni, non mi trasmetteva nulla di buono. Approfittane ora e uccidi questo bastardo, ha incendiato il villaggio.
È stato Washington, che ti piaccia o no. A
me non piace Lee, quindi ammazzalo. Ora. Falla finita, per favore. Si può sapere qual è il problema? Aspetti
questo momento da anni, maledizione, e ora che ce l’hai sotto il naso non fai
nulla. Basta!
«Sarà meglio muoverci» Charles si destò di colpo «Dobbiamo liberare la città dagli Inglesi
il prima possibile» voltò le
spalle al mare e iniziò a dirigersi verso l'uscita del porto. Gli corsi dietro.
«Vuoi iniziare adesso?»
«Hai altro da fare, per caso? Washington
potrebbe perdere definitivamente tra una settimana, tra un mese o addirittura
domani. Non possiamo perdere tempo» lo fissai attentamente mentre lo seguivo. Forse era questo suo modo di
fare iperattivo che mio padre apprezzava di lui.
«Come vuoi. Hai già un piano?»
«Per prima cosa troviamo le giubbe rosse» e non fu difficile, dato che quasi ogni
due incroci spiccavano le divise dei soldati britannici. Puntammo un gruppo di
sei uomini, ero già pronto a far scattare la lama celata, quando Lee mi tirò
per il cappuccio.
Eravamo in un vicolo, o almeno così mi parve,
dato che diedi una capocciata contro una grondaia e un calcio ad una cassa di
legno, ma quando mi lasciò notai uno slargo abbastanza ampio. Sembrava un
cortile interno su cui si affacciavano le poche abitazioni circostanti.
«Fermo!» Stavo per ribattere, ma mi anticipò «Ascoltami bene. Mentre tu ti nascondi io
li avvicino e li porto qui con una scusa, una volta in trappola moriranno come
topi» ghignò sadicamente.
«Perché non posso andare io?»Uccidilo.
«Perché un indiano armato di arco e pistole
alla cinghia attirerebbe troppo l'attenzione, non credi?» Iniziai a credere che la mia coscienza
avesse ragione. Io ho sempre ragione,
sgozzalo.
«Il problema sarebbero le armi? Dì un po',
ti sei visto?» Alzò le
braccia con fare innocente, mostrando solo il pugnale che quasi tutti, di quei
tempi, portavano alla cintura.
«Ora non fare il marmocchio capriccioso e
fa' come ho detto» lo guardai
indispettito, tra lui e mio padre non so chi si divertisse di più a dare
ordini. Vuoi ancora risparmiarlo da una
morte lenta e dolorosa? Mio Dio.
Mi voltai verso l'albero alle mie spalle e salii
velocemente, rimanendo semi nascosto dalle fronde.
«Va' pure, ti aspetto» mi gustai l'espressione sconvolta che Lee
assunse vedendomi arrampicare e sorrisi soddisfatto. Senza aggiungere altro
girò sui tacchi, si schiarì la gola e iniziò a correre in direzione della
strada urlando:
«Guardie!
Guardie! Al ladro, presto! Un indiano, è stato un indiano! Guardie!» Sparì
dietro un palazzo, ma le sue urla restavano forti e chiare. Che diavolo stava
facendo? Avrei preferito decisamente un’azione più silenziosa e rapida, non di
certo questa pagliacciata. Sbuffai e attesi. Sicuramente aveva un piano. Lo
speravo, almeno.
Qualche
minuto dopo lo vidi tornare in compagnia di sei Inglesi.
«Venite,
da questa parte! Per carità, dategli una lezione, quel mascalzone mi ha
derubato!» Se non l’avessi conosciuto, lo ammetto, gli avrei creduto senza
batter ciglio. Attore nato. Figlio di
puttana nato.
«Dov’è
questo indiano? Qui non c’è nessu-» non gli fece
terminare la frase, gli conficcò il pugnale nella schiena e lasciando poi che
cadesse a peso morto accanto ai compagni. Non persi tempo e mi lasciai cadere
dal ramo, atterrando su altre due guardie e conficcando le lame celate nei loro
colli. Gli altri tre non ebbero nemmeno il tempo di urlare che raggiunsero gli
amici all’altro mondo.
«Tsk, è stato fin troppo facile, canaglie!» Colpì uno dei
cadaveri con un calcio nel costato, sputandogli poi addosso.
«Smettila,
è morto» e tu dovresti tenergli
compagnia.
«Ma
non mi dire» sghignazzò spostando lo sguardo dal soldato a me, aggiustandosi il
colletto della giacca e posando il pugnale alla cintura. Sarebbe stata dura
collaborare. Molto dura.
***
Quando arrivai a Londra era appena l'alba. Ero a
dir poco distrutto dopo un intero giorno di trotto da Folkestone,
e scioccato da come il mio cavallo si reggesse ancora in piedi.
Il cielo era per lo più grigio, le strade erano
deserte e il silenzio che mi circondava amplificava lo scroscio degli zoccoli
del mio purosangue sul terreno piastrellato. Era angosciante, sembravo un
fantasma che si aggirava con aria sperduta in una città abbandonata da anni.
Mentre mi dirigevo come un automa verso quel che
era rimasto della mia casa, la mia mente si tormentava sul quesito che, di lì a
breve, avrebbe avuto risposta: perché Jenny mi aveva chiamato così
urgentemente? Che fosse stata rapita di nuovo? E da chi? Fu in quel
momento che lo vidi. Lo scheletro di quella che era stata la mia casa era
ancora lì, esposto come in un museo nella piazza dedicata alla Regina Anna,
come per ricordarmi: "abbiamo
distrutto la tua infanzia, Kenway". Una parte
del muro era crollata, ma l'edificio era ancora in piedi; per un attimo la
immaginai integra, con la facciata pulita, senza crepe, il giardino in ordine,
le finestre chiuse con le tende bianche che, dall'esterno, lasciavano
intravedere a malapena le sagome. Scossi la testa e legai le briglie del
cavallo ad un palo in un vicolo, poi mi avviai a piedi. C'era un silenzio
surreale. Superai il cancello -distrutto anch'esso- e, attraversato il
giardino, non fu difficile entrare in casa, dato che la porta era sfondata.
«Jenny?» La chiamai. Col silenzio che c'era, sembrava avessi urlato a
squarciagola. Non rispose nessuno, quindi avanzai. Mi ritrovai in quella che,
un tempo, era la cucina; era insolito tornarci dopo tanti anni e, strano a
dirsi per uno come me, ma fece un certo effetto. Attraversai un paio di stanze
e mi trovai ai piedi delle scale; iniziai a salire con il cuore in gola,
deglutivo a fatica temendo di far rumore e, in cuor mio, pregavo che il legno
consumato e annerito degli scalini non mi tradisse con qualche scricchiolio.
Una volta in cima mi fermai; presi fiato e rividi
me, di soli dieci anni, infilzare con una spada l'occhio di un tizio dal viso
coperto sotto lo sguardo terrorizzato -e schifato-
di mia madre.
Sì, schifato.
Da quel momento in poi non fui più suo figlio, il
suo bambino. Non mi aveva più considerato. Ai suoi occhi ero solo un ragazzino
che, crescendo, sarebbe diventato un sicario, un assassino, un uomo senza
scrupoli. O forse lo ero già allora. Non aveva forse ragione sul mio futuro?
Avanzai ancora e, sulla destra, qualche metro più avanti, vidi la porta della
sala dei giochi, quella dove mi allenavo con mio padre e dove lo vidi morire.
Portai la mano all'elsa della spada, pronto a sfoderarla in caso di pericolo.
Non ero affatto tranquillo. Quando arrivai
davanti alla sala guardai dentro istintivamente. Notai una figura abbassata, in
fondo alla stanza, davanti alla libreria. Sobbalzai quando capii che era una
persona, una donna, dati i lamenti acuti che aveva iniziato a fare accorgendosi
di me. Iniziò a dimenarsi per liberare la bocca dal bavaglio, emettendo mugolii
incomprensibili.
«Jenny!» Mollai l'elsa della spada e con poche falcate entrai nella
stanza, inginocchiandomi davanti a lei. Notai che il vestito era
sgualcito all'altezza del petto e parte del seno era visibile. I polsi legati
da spesse corde erano appoggiati in grembo, le gambe piegate di lato.
«Cosa diavolo succede?» Fu una domanda istintiva, avevo intuito
che ci fosse qualcosa di anomalo -o non mi avrebbe scritto-, ma credevo ci
avrei capito qualcosa. Appena le liberai la bocca dalla stoffa, prese fiato
come se fosse stata in apnea per cinque minuti.
«È qui, è qui. Dobbiamo andarcene» farfugliò di fretta e sottovoce. Era come
impazzita. Mi tolsi il mantello e lo usai per coprirle la schiena e le spalle,
per poi accostare i lembi sul petto per rimediare lì dove il vestito non poteva
arrivare.
«Calmati. Di chi parli?»
«Non c'è tempo, andiamo via, per l'amor del
cielo» era fuori di sé, non
sarebbe riuscita a darmi una spiegazione logica finché saremmo rimasti lì
dentro. Feci scattare la lama celata per slegarle i polsi.
«Da quanto tempo, Haytham» mi bloccai con la lama ancora fuori e
guardai Jenny per una manciata di secondi. No. Era impossibile, l'avevo visto
morire come un cane con i miei occhi. Ora era tutto chiaro: la lettera, il
luogo d'incontro. Avrei dovuto capire che c'entrava lui, anche se non potevo -e volevo- crederci.
«Reginald» non mi voltai. Sapevo di averlo alle
spalle e mi alzai piano senza far rientrare la lama. Solo in quel momento mi
degnai di guardarlo in faccia -buio permettendo-.
«Come hai fatto a sopravvivere? Schifoso
bastardo» nonostante la quasi
totale oscurità, riuscivo a vederlo mentre sghignazzava soddisfatto. Mi aveva
spiazzato, senza dubbio, ma che senso aveva tutto questo? Perché rapire Jenny?
«Credevate di avermi ucciso, e ci è mancato
poco, lo ammetto. Avete risparmiato uno dei miei uomini, quella volta. Certo,
non era nei vostri piani, ma col suo aiuto riuscii a cavarmela» digrignai i denti imponendomi di
mantenere la calma. Con due falcate mi raggiunse, mi piazzò una mano sul petto
e mi spinse con forza contro la libreria, facendo cadere uno dei pochi
libri superstiti alla mia sinistra.
Soffocai un gemito di dolore, uno dei ripiani di
legno massiccio mi aveva quasi spezzato due costole e una vertebra. Ora potevo
vederlo in volto, la fioca luce che penetrava dalla finestra -o quel che ne
rimaneva- sulla sinistra gli illuminava il profilo, mostrandomi le labbra
incurvate in quello che interpretai come un sorriso sghembo.
«Non sei cambiato, Haytham.
Stupido e ingenuo come tuo padre» il suo fiato mi arrivò dritto in faccia come fosse un veleno letale
pronto ad uccidermi lentamente, feci una smorfia disgustata.
«La carcassa di un cane profumerebbe più
del tuo alito» sibilai
acidamente. Rise ancora. Si permetteva di ridere, quel figlio di puttana.
«Non è un linguaggio che vi si addice, signorino
Haytham» e osava anche prendermi per il culo, mentre Jenny, ancora immobile a
terra, farfugliava a ripetizione cose senza senso. Feci per muovermi, ma Reginald fece uscire un coltellino dalla manica sinistra.
Me lo poggiò sulla guancia e, con una lentezza snervante, lo fece scivolare
fino alla bocca.
«Fa' rientrare la lama, da bravo» premette il seghetto sulla carne fino a
farmela bruciare, ma non mostrai nessun timore. Nemmeno quando sentii
nettamente un rivolo di sangue colare fino al mento e poi giù, raggiungendo il
collo per poi fermarsi contro la stoffa della camicia. Mossi di poco il polso e
la lama scattò con un click.
«Che cosa vuoi, Reginald?» Chiesi senza troppi giri di parole. Avevo
mollato Charles e Connor per questa puttanata? Grandioso,
Washington rischiava di perdere la guerra da un momento all'altro ed io ero
qui, a parlare con questo verme.
«Finire il lavoro, semplice» capii immediatamente. Voleva cancellare i
Kenway dalla faccia della Terra, ucciderci tutti, dal
primo all'ultimo, eliminare ogni nostra traccia, come se non fossimo mai
esistiti. Ringhiai.
«Avresti potuto finirlo quella sera, invece
assoldasti una manciata di uomini per attaccarne uno, colto di sorpresa e di
notte, per giunta. Era davvero così bravo, mio padre? O eri tu a crederlo tanto
valoroso, date le tue scarse abilità?» Non si irritò nemmeno 'stavolta. Calmo e impassibile come
sempre. Girò di poco il coltellino, macchiandone la parte piatta col mio
sangue; rise ancora.
«Proprio non capisci? Avrei potuto ucciderti,
sì, ma vedi, chi avrebbe fatto il tuo lavoro? Chi avrei mandato a fare le
missioni che hai svolto? Ora, però, non mi servi più e, si sa, la feccia va
eliminata» mostrai i denti.
«Tu sei pazzo, Reginald.
Sei completamente folle»
ignorò bellamente il mio commento e sogghignò ancora, per l'ennesima volta.
«Morirete tutti, oh sì. Sparirete per
sempre e, finalmente, il mondo potrà essere guidato da noi» credevo parlasse dei Kenway,
ma finì la frase «sporchi
Assassini»
Salve a
tutti! Stasera sono più in ritardo del solito, ma ho avuto problemi dovuti al
maltempo e boh, è già tanto che sia riuscita a postare, loool.
Cooomunque, so per certo che un lettore starà fangirlando come pochi per aver azzeccato questo pezzo di
trama *lancia biscotto*. Su, voglio tanti commenti acidi sul vecchio Reginald, che mi ricorda tanto, ma taaanto,
l’oca degli Aristogatti, trolol.
Okay, la
smetto, muchasgracias come
sempre a chi legge, recensisce e segue! A presto!
«Non sono un Assassino, Reginald.
Lo sai!» Mi bastava vedere Connor, le sue stupide illusioni e i suoi scarsi risultati.
Forse un po' lo ero, non avevo smania di potere, non volevo conquistare il
mondo, nemmeno m'interessava. Avere dei princìpi, quindi, significava essere un
nemico?, uno di loro?
No. Ero un Templare e sempre lo sarei stato.
Forse un po' diverso, ma pur sempre un membro dell'Ordine.
«Non te ne rendi conto nemmeno tu, o forse
fingi, non lo so. Forse avrei dovuto uccidere Edward tempo prima» serrò l'altra mano sul mio collo e udii
Jenny singhiozzare. Dannata idiota, avrebbe anche potuto aiutarmi, invece no,
preferiva starsene raggomitolata per terra a frignare aspettando di essere
salvata.
Istintivamente portai la mano sinistra sul polso
di Reginald per allentargli la presa, aprii la bocca
cercando aria. Non potevo morire così, non in quel luogo, non in quel modo, non
per mano sua. Feci scattare la lama del braccio sinistro trapassandogli
l'avambraccio da parte a parte e, lo ammetto, quando mi mollò urlando e
tentando di fermare il sangue, mi sentii rinato. Barcollò all'indietro di
qualche passo macchiando il pavimento con gocce rosse e calde, quindi colsi
l'occasione per sguainare la spada.
«Ti pentirai di avermi fatto tornare qui.
Avresti potuto approfittarne e vivere tranquillamente la tua squallida esistenza
fino alla fine, continuare le tue inutili e sciocche ricerche su Coloro Che
Vennero Prima, invece morirai davvero» rise, nonostante la ferita.
«Vedi?» Raddrizzò la schiena e tolse la mano dal buco che aveva poco
sopra il polso, osservandosi il palmo scarlatto con orrore e rabbia «Proprio come Altaïr,
quell'Assassino. Uccise il proprio Mentore» sibilò continuando ad osservarsi la mano.
Gli puntai contro la spada.
«Oh, no, Reginald.
No. Non ho scopi più nobili, non ti ucciderò per salvare il mondo o stronzate
simili. La mia è pura vendetta personale, nulla di più» e stavolta risi anch'io. Era ferito, io
incazzato: l'avrei ammazzato in pochi secondi. Scattai in avanti serrando la
presa sull'elsa, puntai il piede destro sul pavimento e mi sbilanciai in avanti,
tentando di colpirlo al petto. Un attimo prima che gli infilzassi il torace,
riuscì a deviarmi la spada con un pugnale che aveva ancora in mano.
Non persi tempo e l'attaccai di nuovo, ferendolo
all'avambraccio sinistro. Lo guardai indietreggiare ed appoggiarsi allo stipite
della porta ormai annerito, le mani erano imbrattate di sangue, così come le
maniche della redingote.
«Non rallegrarti, Haytham.
Non sono solo» non mi stupii,
era una mossa prevedibile da parte sua. Impugnai meglio la spada e feci
scattare la lama del braccio sinistro, regolai il respiro.
«Sai, ammetto che un po' mi dispiace. Il
mondo sta per perdere un ottimo spadaccino» sogghignai.
«O un vecchio fallito infatuato di
antenati. Saranno le spade a dirlo» non avevo paura, semplicemente non vedevo l'ora di vederlo a terra
agonizzante in un lago di sangue e stare lì, davanti a lui, a godermi la scena
della sua dipartita. Mi scagliai contro il mio maestro ancora una volta,
la mia spada e il suo pugnale cozzarono tre, quattro volte, poi mi spinse via
urlando come un ossesso un nome che non capii. Nel giro di due secondi una
figura completamente oscurata, alta quasi due metri, comparve alle spalle di Reginald per poi fiondarsi con furia su di me. Lo evitai
spostandomi di lato; era un armadio, forse il doppio di me come massa
muscolare, ma era un totale idiota. Buon Dio: Connor?
Sogghignai a questo paragone.
L'energumeno frenò la corsa poco prima di
sbattere contro la libreria, poi si voltò verso di me, tentando in vano di
colpirmi con la spada e con un pugno. Indietreggiai istintivamente e mi sentii
intrappolato tra il colosso e il vecchio tavolo da biliardo. Merda. Tastai a mano aperta il ripiano
alla ricerca di qualsiasi cosa, quando con le dita sfiorai la stecca.
L'afferrai e, con uno scatto, colpii il tirapiedi di Birch
in piena testa.
«Aahn..» crollò a terra a peso morto e guardai l'asta spezzata ancora
stretta nella mia mano; scrollai le spalle e la lasciai cadere.
«Un po' scarsi, i tuoi nuovi allievi. Mi
hai sottovalutato o è il meglio che sei riuscito a trovare?»
«Dah, chiudi il becco» decisi di accontentarlo e con poche
falcate gli fui di nuovo a meno di un metro di distanza. Nonostante avesse
entrambi gli avambracci feriti, riusciva a parare o evitare i miei fendenti,
raramente tentava di contrattaccare. Mentre cercavo di disarmare definitivamente
Birch, sentii un lamento di Jenny che, istericamente,
stava tentando di liberare i polsi ancora legati. Non l'aiutai, che diamine,
avevo solo due mani. La vidi gattonare fino a nascondersi dietro al tavolo da
biliardo, poi tornai a guardare Reginald. Dovevo
uscire da quella situazione il prima possibile; pensa, Haytham,
pensa! Come se mi avesse letto nel pensiero, il mio ex mentore estrasse dalla
redingote una pistola e, con il suo classico sorriso calmo, di chi sa di avere
la situazione in pugno, me la puntò contro. Fu un attimo, mi abbassai fulmineo
rotolando a destra, affiancando Jenny dietro al tavolo da biliardo.
«Cazzo!» Imprecai a bassa voce. Mio padre doveva avermi salvato la
pelle dall'altro mondo, nel caso fosse esistito.
«Dobbiamo andarcene da qui. Per favore, fa'
qualcosa» Dio, che nervi.
«Fammi un piacere: taci e lasciami pensare» non rispose e seppur riuscissi a vedere Reginald solo dal ginocchio in giù, capii che stava
ricaricando la pistola. Deglutii ed estrassi la mia, mirando e sparando -da
sotto il tavolo- alla gamba sinistra di Birch. Lo
vidi cadere per terra e tenersi l'ennesimo arto ferito, quindi mi alzai tirando
Jenny.
Dovevamo andarcene al più presto, l'avrei ucciso
in un altro momento, magari senza quella piattola di una Scott tra i piedi. E
sì, lo ammetto, volevo ucciderlo in un modo migliore, umiliandolo, in modo che
se fosse esistito l'aldilà, quel momento l'avrebbe tormentato in eterno.
Scostai quell'infame dalla porta dandogli un calcio, feci per superarlo, ma mi
fermai un attimo per osservarlo sdraiato a terra, dolorante.
Aveva il fiato corto e il viso contratto in una
smorfia di dolore, gioivo nel vederlo così. Nella mano destra stringeva ancora
il coltellino con cui mi aveva ferito. Mi lasciai sfuggire un sorriso e
appoggiai il piede sul suo polso, pestando sempre con più forza.
Si lamentava, il bastardo, cercando di mantenere
un contegno nonostante il dolore; non sollevai il piede finché non sentii un
inconfondibile stock, segno che gli
avevo rotto il polso. Diedi un calcio al coltello, allontanandolo abbastanza in
modo che non potesse più prenderlo, poi mi abbassai e lo afferrai con forza per
il bavero della giacca, sollevandolo e sbattendolo violentemente contro lo
stipite della porta. Mostrò i denti, dolorante, e gli assestai una ginocchiata
nelle palle. Al diavolo l’umiliazione, mi bastava vederlo crepare.
«Ultime parole, Reginald?» Sibilai a pochi centimetri dal suo viso.
Lui deglutì a fatica, col viso pallido -non per la paura, bensì per le ferite-
e imbrattato di sudore.
«Credi che questo ti porterà onore? Dalla
mia morte non trarrai nessun vantaggio, Haytham» era senza fiato, ma nonostante ciò
continuava a dire stronzate. Strinsi di più la presa.
«Vedo che non ci capiamo. Te l'ho già
detto, questa è vendetta personale, non mi aspetto vantaggi di nessun tipo.
Voglio vederti morto» rise,
soffriva come un cane, ma continuava a prendersi giocodi me.
«Non ti credevo tanto sentimenta-»
non gli lasciai terminare la frase,
lo infilzai con la lama celata in pieno petto, evitando appositamente organi
vitali.
«Mai mettersi contro un Kenway,
Reginald. Mai» scoprì i denti imbrattati di sangue in
quello che sembrava essere l’ennesimo ghigno. E anche l’ultimo.
Estrassi la lama dal petto e gliela conficcai con
violenza nello stomaco. Strabuzzò gli occhi, come se non credesse a ciò che stava
accadendo. Deglutì serrando la mascella, forse per bloccare un conato di vomito
misto a sangue.
Estrassi la lama con forza, lasciando che la
carne venisse scossa dal metallo che si ritraeva e permettendo alle interiora
di fuoriuscire, ma non mi bastava. Gli affondai la lama nelle palle con tutta
la forza che avevo in corpo, togliendogli l’unica caratteristica virile che
madre natura gli avesse donato.
«Non era questa la morte che avevo pensate
per te, è fin troppo onorevole, ma mi basta il tuo cadavere» infine, come colpo di grazia, lo colpii al
collo, facendogli un buco in corrispondenza della giugulare. Il sangue mi
schizzò sulla manica, qualche goccia raggiunse il viso, ma non me ne curai.
Osservai gli occhi di Birch rivoltarsi all'indietro,
dandogli un'aria da folle mentre moriva come un cane per mano mia. Mollai la
presa sul colletto della redingote, lasciando che il cadavere scivolasse a terra
a peso morto, poi mi voltai verso Jenny dopo aver pulito la lama sulla veste di
Reginald.
Trovai una goletta che, almeno stavolta, ci avrebbe
portati direttamente a New York.
Pagai per entrambi, fortunatamente avevo ancora
abbastanza denaro con me. Ne sborsai fin troppo, dato lo schifo di cabina in
cui avremmo alloggiato; ma cosa potevo pretendere? Era una bagnarola che a
malapena galleggiava, l'unica che andasse a New York senza fare altre tappe o
scali.
Una volta sottocoperta impiegammo una decina di minuti
per trovare l'angolino appartato dove avremmo dormito. Passai in mezzo a botti,
cumuli di sacchettini pieni di polveri da sparo, bottiglie -probabilmente con
del rum dentro o chissà che altro-, cannoni e un paio di mozzi sbronzi
accasciati su delle cime arrotolate ordinatamente.
Alla fine del ponte svoltai a sinistra, trovando due
amache solo per noi. Dopo un attimo di stupore mi tolsi il cappello e lo
appoggiai su una botte lì vicino, dopodiché mi sdraiai su uno dei due teli a
mezz'aria, i quali erano sorretti da due nodi a dei grossi ganci fissati alle
pareti.
Chiusi gli occhi sperando di cadere in un sonno
profondo e risvegliarmi a Fort George, cosa impossibile, purtroppo.
«A cosa è dovuta tutta questa fretta di tornare a New
York?»
Aprii un occhio e la guardai mentre si sedeva con
cautela sul lenzuolo teso.
«Affari importanti»
«Una donna?» Oh, cielo, se sperava di spettegolare con me, beh, si
sbagliava di grosso.
«Ho detto affari, non svaghi»scosse la testa,
schioccando più volte la lingua sul palato in segno di diniego.
«Quanto sei rozzo! Le donne non sono uno svago, ma
l'impegno più difficile per un uomo»non per Hickey, pensai con un ghigno. Thomas, iniziavano a mancarmi
i suoi battibecchi con Charles.
«Sì, sì, come vuoi. Resta il fatto che le donne non
c'entrano. Siamo in guerra con l'Inghilterra, il comandante in capo
dell'esercito Continentale è più inesperto di te, militarmente parlando, e Re
Giorgio sta inviando altre truppe»Dio, avevo il mal
di testa solo al pensiero dei casini che poteva aver combinato Washington in
questi mesi. Non avevo avuto più nessuna notizia.
«A te cosa importa di questa guerra? E poi sei inglese,
stai aiutando la fazione sbagliata»sbuffai. Jenny ne
capiva di guerra quanto io di ricamo.
«Inglese o no, sono un Templare. Ho il dovere di
diffondere l'Ordine nel Nuovo Mondo, ma se Re Giorgio conquista la terra,
attuerà i suoi piani di espansione, intralciando i miei»
«Da quando sei diventato così diplomatico?»Sbuffai.
«Non lo sono, infatti. È solo che le sue azioni mi sono
scomode, tutto qui»si limitò ad annuire, capendo che non avevo voglia di
tirare avanti il discorso.
Non saprei dire con precisione quante ore passammo lì,
sdraiati su quelle brande -che, per quanto fossero scomode e lerce, non avrei
offerto neanche ad un vagabondo in fin di vita-, una dozzina, forse. Sapevo
solo che i pasti erano a malapena commestibili ed ero alquanto stupito di
essere sopravvissuto a ben due razioni.
Dopo cena mi alzai dalla branda e salii sul ponte,
avevo le gambe indolenzite e bisogno di aria fresca. Non avevo mai apprezzato
il mare e tanto meno avevo cercato di comprendere l'amore per il largo, per le
navi e cose varie, ma finita la rampa di scale dovetti ricredermi. Non avevo
mai visto un tramonto del genere, con quei rossi tendenti al viola e al blu
scuro, così in contrasto con l'azzurro chiaro dell'acqua, che rifletteva il
sole ormai basso.
Rimasi fermo per qualche istante a fissare quella
miscela di colori, avanzando di qualche passo come un automa fino ad appoggiare
le mani al parapetto.
«Bello, non è vero?» Non mi voltai nemmeno, consapevole di avere Jenny alle
spalle. Rimasi in silenzio a fissare l'orizzonte, chiedendomi quante volte mio
padre si fosse fermato ad ammirare un tale spettacolo.
«Non mi hai raccontato nulla di te, Haytham»me la ritrovai a
sinistra, appoggiata anche lei al parapetto.
«Non c'è nulla da dire»beh, forse qualcosa
sì «A parte il fatto che ho un figlio»
«Un figlio? Tu?!» Che diavolo, avevo avuto anche io le mie avventure,
perché si stupiva tanto?
«Già, un figlio. Spero di non doverti spiegare come si
faccia»mi diede un colpo
sul braccio, offesa.
«Quindi sei sposato?» Cercò con gli occhi la fede alla mano sinistra, senza
trovarla, ovviamente.
«No»
«Beh, avrai una compagna, almeno»
«È morta. E non era la mia compagna»dissi continuando a
fissare altrove. Non potevo definire Tiio in quel
modo e ne ero dispiaciuto, in fondo. Convivere per qualche settimana in una
tenda nel bel mezzo del bosco non era esattamente una relazione, diciamolo.
Era stata un'amica, un'alleata, la madre di mio
figlio. Ma non compagna.
«Oh, mi dispiace» scostò lo sguardo sentendosi a disagio, portandolo
sull'orizzonte. «Ti sei sempre
occupato tu del bambino, allora?» Dio, raccontarle la storia della vita melodrammatica
di Connor non era una delle mie priorità.
«No, me ne andai in Europa per salvare qualcuno» la guardai con la coda dell'occhio «sua madre morì quando lui aveva quattro anni, venne
accudito dalla gente del suo villaggio» notai solo pochi secondi dopo la sua espressione
stupita. «Già, sua madre
faceva parte della tribù dei Kanien'kehá:ka» nel dirlo trovai le mie mani estremamente
interessanti, decisamente più dello sguardo certamente sconcertato di Jenny, da
sempre abituata alla vita aristocratica e ciò che essa comportava. Dopotutto
non ero uguale a lei? Non avevo vissuto anch'io nel lusso della mia casa a
Londra? Vero, ma per un periodo più breve, e non avevo avuto il tempo di
comprendere i pregiudizi che quelli come noi avevano nei confronti dei meno
abbienti. Insomma, passai i primi dieci anni della mia vita tra le mura di
casa, senza un amico o uno schifo di persona con cui parlare, protetto come se
la vita oltre il nostro giardino avesse potuto infettarmi. Avrei socializzato
persino con un mendicante se ne avessi avuto l'opportunità, come avrei potuto
disprezzare gli altri basandomi solo sulla disponibilità economica?
«Oh, una donna indiana» ero pronto a qualsiasi commento. Su, cara sorella, non
risparmiarti sul più bello.
«Già»
«Era bella?» Trovai il coraggio di guardarla e, con mia enorme
sorpresa, stava fissando l'oceano, sorridendo. Cosa avrei dovuto rispondere?
«Sì» ovvio che lo era,
almeno per me. Diavolo, era una situazione a dir poco imbarazzante, quindi
cambiai argomento, tornando a parlare di Connor e
della sua triste vita tormentata «Crebbe poco fuori la periferia di Boston finché non
decise di..» deglutii con aria
disgustata, tentando di trattenere un conato «.. unirsi agli Assassini» si voltò nuovamente verso di me con una rapidità
inaudita, nemmeno le avessi annunciato la mia conversione alla Confraternita.
«Davvero? Dio, come nostro padre! E cos-»
«No!» La interruppi
malamente, alzando la voce, forse, un po' troppo. «Nostro padre era consapevole delle sue scelte, decise
di sua iniziativa di unirsi agli Assassini e, soprattutto, non era un idiota» presi fiato sbattendo una mano sul legno consumato «Connor si è unito a
quegli imbecilli andando per esclusione, ha in testa idee completamente
sbagliate ed è convinto che l'unico modo che abbia per raggiungere i suoi scopi
sia aiutare la fazione nemica alla mia. È convinto che sua madre sia morta per
colpa dell'Ordine, per questo sta con la Confraternita, non per reale
convinzione, non per gli ideali. È puro opportunismo, il suo!» Mi sfogai, dicendo tutto quello che pensavo e che non
avevo mai potuto tirar fuori. A chi avrei dovuto dirlo, poi? A Charles?
Direttamente a Connor? No, per carità di Dio. E
nemmeno Jenny era la più adatta, a dirla tutta, visto che non sapeva nulla.
Doveva avermi preso per folle.
Sospirai. Dovevo smetterla con questi discorsi.
Consapevole o no, Connor voleva la libertà, far
scorrazzare chiunque qua e là senza criterio, cosa che l'Ordine non avrebbe mai
permesso; quindi, a prescindere dai motivi personali, io e lui ci saremmo
sempre combattuti. Al diavolo le alleanze tattiche, alla fine, faccia a faccia,
armati fino ai denti, ci saremo noi due.
«Non andate molto d'accordo, eh?» astuta, la Scott.
«Non si può con persone infantili come lui. Ho provato
a farlo ragionare, ad aprirgli gli occhi, a spiegargli com'erano andati
realmente i fatti. Niente, non ho ottenuto un bel cazzo di niente» quanto potevo essere frustrato? Avrei avuto sempre
torto per Connor, qualsiasi cosa avessi fatto.
«Non devi convincerlo a passare dalla tua parte, Haytham. Anche se ha preso una strada diversa, devi
lasciarlo fare. Nostro padre non ti avrebbe impedito nulla» risi amaramente. Cosa ne voleva sapere? Per quanto mio
padre fosse aperto al dialogo, aveva già scelto per me, sicuro che sarei
diventato un Assassino coi fiocchi. Senza lasciarmi possibilità di ribattere
aveva iniziato ad allenarmi, non che la cosa mi dispiacesse, sia chiaro, ma non
ero consapevole di nulla.
«Nostro padre aveva programmato sin dall'inizio di
farmi entrare nella Confraternita. Come pensi avrebbe reagito se gli avessi
annunciato di voler entrare nell'Ordine?» Chi lo sa. Forse, se le cose fossero andate
diversamente e Reginald non l'avesse ucciso, avrei
seguito le sue orme. O forse, conoscendo meglio Birch,
che avrebbe sposato Jenny e sarebbe rimasto comunque in famiglia, sarei entrato
lo stesso nell'Ordine. E in quel caso avrebbe accettato?
Ma poi perché mi ostinavo a parlare con Jennifer, che
nella vita non aveva fatto altro che ricamare -e solo Dio sa cosa nel palazzo
del sultano-? Se avessi continuato a tenermi tutto dentro sarei impazzito, poco
ma sicuro. Mi passai una mano sugli occhi, esasperato. Era strano averla con
me, mi sembrava di mischiare due vite diverse, avulse l'una dall'altra. Dopo la
morte di Jim Holden cambiò tutto. Tutto ciò che mi
ricordava la mia vita a Londra era sparito: Jenny, Jim,
Reginald -o almeno così credevo-, avevo iniziato un
altro capitolo nel Nuovo Mondo, caratterizzato specialmente dalla presenza di Connor.
«Che hai intenzione di fare una volta arrivati a New
York?»
La guardai. Si appoggiò al parapetto con entrambi i
gomiti e sorrise, tenendo lo sguardo fisso sull'orizzonte.
«Ad essere sincera non lo so. Voglio ricominciare,
troverò qualcosa»alzai le sopracciglia, incredulo.
«Intendi un lavoro?» Risi «Per l'amor del
cielo, Jenny, non hai mai alzato un dito in vita tua, non dureresti un giorno» mi fulminò.
«Con che coraggio osi dirmi questo? Ho lavorato come
una schiava per anni, sono abituata alla fatica»rispose con
l'acidità degna della zitella che era.
«Era questione di
vita o di morte, è diverso» schioccai la lingua
contro il palato. «Ti dico io come andrà:
ti troverai un uomo benestante e ti accaserai. Anche se...» la squadrai da capo a piedi «dubito che qualcuno ti si prenda»
Salve salvino! No, non sono posseduta da NedFlanders, lol. Per caso
oggi posto in anticipo –contenti?-. Allora, quanto mi diverte prendere Connor per i fondelli? Tanto, troppo. Ma in fondo se lo
merita, eccome.
Non mi dilungo, dai. Grazie a chi segue, legge, recensisce e boh, non so che
altro aggiungere. A presto.
Capitolo 15 *** Con il ritorno inizia un altro viaggio. ***
Capitolo 15
Mio padre era partito da un paio di mesi e ancora non
avevamo ricevuto sue notizie. La cosa mi insospettiva non poco, aveva
assicurato a Lee che lo avrebbe aggiornato sui suoi spostamenti e che gli
avrebbe fatto sapere che altro fare, oltre a liberarci delle giubbe rosse,
invece niente.
Ormai alloggiavo a Fort George da cinque settimane
circa, avevo avvisato Achille di questa scelta e, beh, non l'aveva presa molto
bene. Ero nel covo del nemico, avrebbero potuto farmi fuori nel sonno o
avvelenare il cibo, ma non accadde nulla di tutto questo. E, stranamente, Charles
tentava anche di andare d'accordo con me, aveva iniziato addirittura a
chiamarmi "ragazzo" al posto di "indiano" o
"selvaggio". Era un passo avanti.
Quella mattina mi alzai di buon'ora, facendomi trovare
puntuale nel salone in cui abitualmente facevamo colazione. Quello dove avevo
ferito mio padre, per capirci. Raggiunsi la porta contemporaneamente a Charles
che, appena mi vide, annuì leggermente, come a salutarmi. Lo seguii all'interno
e restai stupito come ogni mattina. Il tavolo era apparecchiato per due, ma
nonostante questo c'erano leccornie di ogni tipo.
Presi posto a tavola imitato da Lee, che non perse
tempo ad afferrare una fetta di pane per spalmarci sopra della marmellata.
«Mangia, ragazzo. Oggi ci serviranno energie» presi della frutta senza distogliere lo sguardo da
lui, così composto e controllato in ogni circostanza.
«Ormai la città è quasi liberata. Manca solo la zona
del mercato» addentai una mela
attendendo risposta, masticando rapidamente mentre Charles mordeva con contegno
il pane farcito.
«Che, guarda caso, è vicino al porto»si pulì le labbra
con un tovagliolo di stoffa rosso scuro, poi lo piegò, adagiandolo accanto al
piatto «sperano ancora di poter controllare i commerci. Illusi»sorrise scuotendo
leggermente il capo.
«Ormai è questione di giorni, abbiamo quasi finito.
Dopo cosa faremo?» mi guardò come se
la cosa fosse ovvia anche per un moccioso di cinque anni.
«Prenderemo il controllo dell'esercito»
«Cosa? Ma Washin-»
«Stronzate»mi interruppe di
colpo «non lo ucciderò, se è questo che ti turba. Ho solo
intenzione di dare io gli ordini fino a che la situazione non migliorerà»bevve con calma
come se il suo piano fosse il massimo della legalità.
«Non puoi togliere il comando a Washington, non senza
una nomina ufficiale» espirò aria dal
naso e si sporse sul tavolo, avvicinandosi a me.
«E cosa proponi? Di dare fiducia a quel vecchio finché
non perde la guerra? Questo non è un gioco, ragazzo. Se il tuo caro George
sbaglia ancora un paio di mosse, siamo fottuti tutti quanti, non è il solo a
rischia il culo»si lasciò andare all'indietro, appoggiandosi allo
schienale «ammettilo, ho più
pratica di lui. Non che la cosa richieda un grande sforzo»riprese a mangiare
tranquillamente. No, era pura follia. Prendere il posto del Comandante in capo
era una delle idee più stupide che avessi mai sentito. Sbuffai.
«Credi che sarà così semplice? Washington non si
lascerà rimpiazzare così facilmente»
«Oh, giusto. Mi minaccerà di morte da venti metri di
distanza, magari nascosto dietro una delle sue guardie. Tsk,
apri gli occhi, non durerà a lungo. Lo conosco bene» non risposi alla sua ironia. Era inutile continuare
quel discorso insensato, non gli avrei fatto cambiare idea «avrà anche dei buoni propositi, ma questo non cambia
il fatto che sia un incapace.»
Finita la colazione uscimmo da Fort George,
raggiungendo la zona del mercato in pochi minuti. La strada era affollata come
al solito, gli uomini ai banconi urlavano per attirare clienti, i bambini
giocavano a rincorrersi, alcune donne elemosinavano poche monete.
Ad ogni angolo spiccavano i soldati inglesi, armati di
moschetti e dall'aria svogliata. Vidi Charles guardarsi intorno, come fosse
alla ricerca di qualcosa. Non feci in tempo a chiedere spiegazioni che mi tirò
verso una panchina della piazza.
«Che diavolo!» Borbottai una volta seduto.
«Quattro strade»
«Eh?» lo guardai senza
capire.
«Su questa piazza si affacciano quattro strade, quindi
dodici giubbe rosse»sorrise appena «Dovremmo riuscire a sbarazzarci di loro in fretta»mi diede un
colpetto sulla gamba come a rassicurarmi, poi si alzò. «Resta qui e controlla la situazione, me la sbrigo in
pochi minuti»non feci in tempo a ribattere che sparì tra la folla.
Diamine, perché doveva fare tutto lui?
Chiusi gli occhi e mi concentrai. Quando li riaprii
divenne tutto più semplice, la folla era una massa grigia, le guardie agli
angoli erano illuminate di un rosso vivo e Charles... Dio, era blu. Blu, un alleato. Un Templare era
mio alleato.
Deglutii seguendo Lee con lo sguardo; si avvicinò ad
una bancarella, prendendo una mela e lanciando con due dita una moneta al
venditore. Si girò con nonchalance, lasciando che qualcosa scivolasse dalla
manica dentro la cassetta della frutta.
Morse la mela e tornò a sedersi accanto a me
masticando, mostrando un ghigno divertito.
«Tre, due, uno» non feci in tempo a chiedere nulla che un'esplosione
mi stordì per qualche attimo. L'orecchio sinistro non smetteva di fischiare, la
gente iniziò a correre senza criterio, allontanandosi il più possibile dalla
bancarella distrutta. Tossii per il fumo. Sentii dei passi cadenzati correre
verso di noi, percepii chiaramente dei fucili caricarsi.
«Andiamo, il piano ha funzionato»mi prese per un
braccio, trascinandomi chissà dove.
«Chi è stato?» era una voce maschile che non conoscevo, cercai di
mettere a fuoco ciò che avevo davanti nonostante la nube e il caos, riuscendo a
distinguere le giubbe rosse con i moschetti puntati sulla folla «Chi cazzo è stato?» urlò un altro di loro. Mi voltai a destra convinto di
avere Charles accanto, sbagliandomi. Solo pochi secondi dopo lo vidi dietro di
loro, in piedi sulle macerie del banco del fruttivendolo.
Si lasciò cadere in avanti, ammazzando due soldati,
poi estrasse i pugnali dalle schiene dei cadaveri e si spostò di lato per
prepararsi a combattere con gli altri dieci. Parò i colpi del più coraggioso
che si fece avanti per primo, poi gli assestò un calcio nello stomaco,
sfregiandogli, infine, il viso con uno dei due coltelli. Quello cadde mollando
il fucile e portandosi le mani al volto, urlando e scalciando dal dolore.
«Qualcun altro si fa avanti?» disse ancora spostandosi lateralmente. Aspettai che il
secondo soldato si muovesse, quindi corsi verso di loro, conficcando le lame
celate nei colli di altre due giubbe rosse, che crollarono subito. Tutti gli
altri si voltarono verso di me.
«Chi cazzo sono questi due bastardi?» Urlò uno, proprio mentre Charles approfittava della
loro distrazione per ucciderne altri due.
Tagliò la gola ad entrambi, falciando i colli con i
pugnali e imbrattando il pavimento -e la sua camicia- di sangue.
Ne rimanevano tre; Charles rise divertito, non
sembrava nemmeno stanco, era chiaro che l'avesse addestrato mio padre.
Scostai lo sguardo da Lee appena in tempo per deviare
un fendente con la lama celata, per poi conficcarla nello stomaco della giubba
rossa. Lo lasciai cadere a terra e corsi verso gli ultimi due, afferrando il
braccio di uno di loro e girandoglielo innaturalmente, spezzandogli gomito e
spalla, proprio mentre il mio alleato uccideva l'ultimo.
Scambiai un'occhiata con Lee, che mi sorrise
soddisfatto per poi alzare un pugno in aria.
«New York è libera!» La folla gli andò dietro, iniziando ad urlare e a darci
pacche sulle spalle «Ben fatto, ragazzo.
Tuo padre sarà contento al suo arrivo» mi porse la mano. Lo guardai senza saper cosa dire,
dovevo fidarmi? Perché l'occhio dell'aquila me lo indicava come un alleato? Sospirai
sorridendo appena e gliela strinsi con vigore.
***
Fu un sollievo mettere piede sulla terra ferma dopo
tutto quel tempo passato su una barca dondolante. Inspirai a pieni polmoni
l'aria di New York che, nonostante fosse l'alba, sembrava nel pieno delle
attività. Portai le mani dietro la schiena e osservai il porto, sembrava tutto
tranquillo, cercai giubbe rosse ovunque e, con gran sollievo, non ne vidi
nemmeno una.
«Eccomi, possiamo andare»
«Seguimi. I miei alloggi non sono lontani da qui»m'incamminai verso
Fort George guardando ad ogni incrocio, angolo di strada o vicolo. Nessun
soldato britannico. Il pensiero che Charles e Connor
avessero davvero liberato New York si faceva sempre più spazio nella mia mente,
e la cosa non poteva che rincuorarmi. Forse non tutto era perduto.
Iniziai a intravedere le mura del forte e mi aggiustai
il tricorno.
«Siamo arrivati»annunciai
accelerando il passo. Arrivato davanti alle guardie che controllavano l'entrata
sollevai leggermente il cappello, venendo riconosciuto immediatamente.
«Signor Kenway, bentornato»annuii superandoli
seguito da Jennifer, attraversammo il piazzale ed entrammo nell'ala sinistra
del forte.
«Vivi qui?» Iniziai a salire la rampa di scale che portava agli
alloggi di Charles e alla sala dove di solito ci riunivamo.
«A quanto pare. È la nostra base, chiamiamola così»feci per imboccare
il corridoio sulla sinistra, ma delle voci provenienti dal salone dietro la
porta alla mia destra attirarono la mia attenzione. Affinai l'udito e non
impiegai molto per capire che fossero Charles e Connor.
Bussai.
«Avanti»Lee, vecchio mio. Quando aprii la porta notai subito i
suoi occhi brillare dalla commozione.
«Oh, cielo, Mastro Kenway!» Scattò in piedi raggiungendomi con poche falcate. Si
alzò anche il ragazzo, ma si limitò ad osservarmi dal tavolo.
Charles mi afferrò la mano con vigore, stringendola
forte come al nostro primo incontro, a Boston.
«Che sollievo vedervi intero, Signore. La missione è
andata ben-..» si interruppe di
colpo, notando solo ora la presenza femminile alle mie spalle.
«Sì, Charles. Grazie per l'interessamento»avanzai superandolo
e guardai mio figlio, vederlo al tavolo che dividevo con Lee mi faceva uno
strano effetto.
«A proposito di missioni, la vostra è andata a buon
fine?»
Chiesi senza voltarmi. Qualcosa mi suggeriva di sì.
Non ricevetti risposta.
«Charles?» Mi voltai e lo vidi ancora intento a fissare mia
sorella, che ricambiava lo sguardo. Buon Dio, no. No.
«Per l'amor del cielo, Lee! È solo una donna»si destò di colpo.
Jenny mi fulminò. Beh, oddio, Charles non vedeva due tette dall’era di Gesù
Cristo e mia sorella non era esattamente una di quelle per cui girarsi per
strada. Sì, due puttanate in una frase sola.
«Cosa, Mastro Kenway?» Si voltò verso di me rosso in viso, passandosi una
mano sui baffi. Sbuffai.
«Le giubbe rosse. Le avete eliminate tutte?»
«Oh, quelle, sì, certo. Proprio come avevate chiesto,
Signore»fu un sollievo
sentirmelo dire «Ma se posso
permettermi, Mastro Kenway: chi è la vostra ospite?» No, non sarebbe stato lucido fin quando non gli avessi
spiegato chi fosse.
«Jennifer, loro sono Connor,
mio figlio,» lo anticipai,
prima che si presentasse col suo impronunciabile nome Mohawk «e Charles Lee, mio allievo e futuro Gran Maestro
Templare. Charles, Connor, lei è Jennifer, mia
sorella»dopo un attimo di
perplessità, Charles si chinò leggermente per prenderle una mano e baciarla sul
dorso. Fermi tutti, devo vomitare.
«Lieto di conoscervi, Miss Jennifer Ken-»
«Scott»intervenni prima che quella piattola si lagnasse «Per carità di Dio, chiamala Scott.»
*Ehm-ehm*,
okay, Charles passa dall’essere schifosamente effeminato –e ringraziatemi, la
prima idea era quello di fargli abbracciare Haytham- all’uomo
in astinenza secolare –beh, più o meno è così, lol-
che salterebbe addosso al primo esemplare femmina che respiri. Anche animale.
Sì, sono cattiva con il piccolo Charlie nonostante lo ami quanto il Gran
Maestro in carica.
L’unico che
non merita affetto e/o considerazione è Connor, che
deve morire solo, lol.
Ringrazio chi
legge, segue, preferisce e un biscottino in omaggio a chi recensisce, ewe.
Notai lo sguardo confuso di Lee, non lo biasimai. Non
sapeva di avere di fronte una complessata e, beh, io non precisai che non
eravamo esattamente fratello e sorella. Non ci somigliavamo nemmeno. Lei così
esile e fine, di media statura e i tratti aggraziati, totalmente l’opposto dei Kenway. Io alto, di ossatura grossa, lineamenti duri e
spigolosi. Da quel che diceva mio padre era uguale sua madre sia esteticamente
sia caratterialmente, e spesso mi domandai come aveva potuto l’Edward Kenway che conoscevo io –o meglio, che immaginavo-, aver sopportato
una donna del genere per anni.
Parlò Jenny, stavolta.
«Non preoccupatevi, Signor Lee, io ed Haytham abbiamo solo nostro padre in comune, preferisco
usare il cognome di mia madre» Charles sorrise.
Gesù santo, quando mai aveva sorriso?
«Ma certo, come desiderate, Miss Scott»lei ricambiò.
Roteai gli occhi, Dio, avevo il voltastomaco. Chi si sarebbe immaginato una
scena tanto raccapricciante? Buon Dio, ad averlo saputo prima avrei depositato
Jennifer nella prima locanda con una stanza a disposizione.
«Se permettete vorrei andare a riposare, il viaggio è
stato stancante»non feci in tempo ad aprir bocca che Lee parlò.
«Certamente. Seguitemi, vi mostrerò i vostri alloggi»la superò uscendo
dalla sala e, ahimè, non mi trattenni.
«Charles? Mi raccomando, falle vedere quelli
disponibili, non i tuoi»sventolò una mano come per zittirmi, santo cielo! Mi
lasciai cadere sulla sedia che occupava quando arrivai.
«Bentornato, padre»e rimasi solo. Con Connor. La gioia.
***
Uscii dal salone imboccando il corridoio esattamente
di fronte, il quale portava ai miei alloggi e a quelli attualmente liberi, che
a breve avrebbe occupato Miss Jennifer. Nel fiore degli anni doveva essere stata una
gran bella donna, snella e slanciata. Il tempo l’aveva sicuramente sciupata,
sbiadendo i capelli –grigi qua e là- e accentuando le rughe in viso, senza però
privarla della grazia e dell’armonia che, nonostante tutto, le restava in volto.
Sentivo chiaramente i suoi passi seguire i miei,
rallentare per non perdersi i dettagli che la circondavano e accelerare
leggermente per raggiungermi, dopo essersi fermata a leggere le targhette delle
varie camere.
Superammo la mia stanza, sulla cui porta brillava la
targa in oro con su scritto nome, cognome e grado militare, poi svoltai a
destra.
«Siete un generale?» Mi voltai leggermente.
«Sì. Ero sotto il comando del tenente colonnello Edward
Braddock, poi decisi di unirmi all'Ordine e aiutare
vostro fratello nella sua nobile impresa» pregai non avesse notato
il leggero tremolio della mia voce. Mi stavo odiando. Modestia a parte non
avevo mai avuto problemi con le donne. Di nessun
tipo, sia chiaro.
«Capisco»mi fermai davanti
alla quinta porta sulla sinistra e tirai fuori dalla redingote un mazzo di
chiavi. Cristo, mi tremavano le mani come fossi un adolescente alle prime armi.
Calmo, Charles. Per l’amor di Dio,
rilassati.
L'aprii e controllai che fosse tutto in ordine, poi la
invitai ad entrare.
«Questa sarà la vostra stanza, Miss Scott. Per
qualunque cosa chiedete pure a me»mi superò,
raggiungendo il letto e sedendovisi sopra con delicatezza.
«Siete molto gentile, Signor Lee. Contateci»le sorrisi ed
accostai la porta, poi mi diressi ai miei alloggi.
***
Dopo aver sonnecchiato un paio d'ore trovai opportuno
farmi aggiornare da Charles sulla situazione. Dopo pranzo andammo in una
taverna per parlare davanti ad una birra. Nonostante New York fosse liberata,
non ero tranquillo. Mi sentivo impotente, non era qualcosa che potevo risolvere
da solo, non stavolta. Il problema più grande restava Washington, che dalla sua
aveva duecentomila e passa uomini, ma non sapeva da dove iniziare. Maledetto
lui e la sua incapacità.
«Allora, Charles, notizie di George?» Bevve un lungo sorso di birra e si asciugò le labbra
con l'indice.
«Fa un passo avanti e due indietro»sospirò gesticolando
con la mano destra «gli Inglesi
conquistano città con un ritmo più lento, questo sì, ma non va. Così non va»
«No,
non va. Hai già pensato a qualcosa?» Tamburellò la sinistra sul tavolo, poi
espirò dalla bocca accennando un sorriso.
«Nulla
di impossibile, solo prendere il posto di George per un po’, sistemare le cose
e cedergli nuovamente il comando» sollevai le sopracciglia. Era impazzito.
«Per
quanto sia d’accordo con te, sai che non posso lasciartelo fare, vero?» Si
passò una mano sui baffi.
«Lo
so, potrebbe ritorcersi contro, ma se con me le cose migliorassero, forse..»
«Migliorerebbero
sicuramente, non ci vorrebbe molto. Il punto è che Washington non gradirebbe»
sospirai. Quell’uomo era incapace, ma non stupido, avrebbe fatto in modo di
allontanare Lee dall’esercito, poco ma sicuro «non c’è altra soluzione»
continuai.
«Ucciderlo?»
«Già.
Se prendessi il comando al posto di Washington
verresti allontanato immediatamente, e questo non posso permetterlo. Mi servi
qui, una follia del genere non te la lascio fare, Charles» serrò la mascella e inspirò rapidamente dal naso,
appoggiandosi nervosamente al tavolo con entrambe le mani.
«Ucciderlo è molto più irragionevole!» Sibilò, temendo ci sentissero «Potrebbero capire, e in quel caso verrei sospeso dal
servizio o addirittura giustiziato, cristo» reprimeva la frustrazione, la vena sul collo
ingrossata e tanta ansia negli occhi.
«Calmati, non saresti comunque tu a farlo» si abbandonò contro lo schienale della sedia,
passandosi poi un palmo sulla fronte leggermente sudata. Prese fiato dopo pochi
secondi, lasciando ricadere la mano sulla coscia destra.
«Io conosco quell'uomo, Mastro Kenway,
tempo fa scrissi al colonnello Reed di quanto George
fosse inadatto al ruolo di comandante in capo, e sapete che successe?,
Washington lesse la lettera. Aveva già intuito che non lo avessi in simpatia,
ed era ovvio, cazzo, mi aveva rimpiazzato senza avere alcun merito!»
«Prendi fiato, per l'amor di Dio»
«Non fece nulla. Nonostante avesse scoperto che
gettassi merda sul suo lavoro non fece nulla» non risposi, non sapevo che dire, in realtà. «Quell'uomo non ha polso, non ha carattere e credo
nemmeno contempli la vendetta. Ucciderlo non ha senso, ci complicheremmo la
vita inutilmente, credetemi.» Aveva ragione, non
potevo negarlo, ammazzarlo avrebbe alzato un polverone che difficilmente si
sarebbe placato in fretta, ma Washington doveva sparire dall'esercito, dalla
politica e dalla mia vita. Perché parliamoci chiaro, in guerra non esiste la
democrazia. Che George fosse stato scelto dal popolo non me ne fotteva
niente, incapace era e tale restava. Bisognava mettere i soldati nelle mani di
un uomo capace, se alla gente fosse piaciuto o meno, era un dettaglio inutile.
«Credi che sostituirlo per un paio di mesi risolva le
cose? Ammettiamo che tu riesca a prendere il comando dell'esercito con la
forza, e tralasciamo il fatto che verresti visto come un dittatore, pensi
seriamente che Washington non cercherebbe di intralciare i nostri piani?» Schioccai la lingua contro il palato «È un debole, d'accordo, ma non è stupido. Se gli togli
il comando con la forza ti metterai tutti contro, farà in modo che ti mandino
chissà dove, e poi? Che farai?» Lo guardai negli
occhi, leggendovi insicurezza e timore. «Invece, se disgraziatamente il nostro amato George
venisse ucciso da un Inglese, tu saresti legittimamente chiamato a sostituirlo» deglutì, fissando il tavolo con poca convinzione. Non
volevo vederlo in quel modo, ma stava sbagliando. Non potevo permettere che
l'esercito gli si rivoltasse contro. Charles era ben visto dagli altri soldati,
ma chi mi garantiva che avrebbero eseguito i suoi ordini anche nei panni di un tiranno?
Perché così sarebbe stato dipinto.
«Dovrei esserci io al suo posto» vomitò a denti serrati «Sapete perché non mi hanno dato l'incarico?Perché sono Inglese. E che senso avrebbe mettere a
capo dell'esercito continentale un suddito che combatta contro le forze di sua
maestà Re Giorgio? Ah, per carità, è molto meglio dare il comando all'ultimo
soldato semplice»
«Proprio
per questo va tolto di mezzo. Ho già un piano» alzò gli occhi dal boccale e mi
fissò, intuendo quello che avevo in mente.
«Il
Congresso continentale?» Sogghignai.
«Esatto.»
Saaalve a tutti. Quanto è tenerello
Charles? Quanto? *vomita arcobaleni*. Oh, piccola curiosità. Questo tizio, il
colonnello Reed, è realmente esistito. E sì, la
faccenda della lettera di Charles che spettegola sul caro George è vera. Che adorabile
bastardo, il nostro Lee. Tanto amore per lui :3.
Grazie
a tutti, lettori, seguaci (?) e recensori. A presto!
Io e
Mastro Kenway rientrammo a Fort George per cena. Dopo
aver finito la birra aveva insistito per fare un giro per la città, ancora
incredulo che fosse liberata dall’assedio delle aragoste di sua Maestà. Non
avevo rifiutato, mi aveva fatto chiaramente capire di aver bisogno di camminare
su qualcosa di solito. Quei mesi in
mare dovevano averlo stravolto.
Una volta
rientrati avevamo trovato il ragazzo fissare imbarazzato Miss Scott
apparecchiare la tavola, compito che effettivamente non le apparteneva.
Era
strano, molto strano, dividere l’enorme tavolo della sala di Fort Georgecon altre due persone oltre ad Haytham. Al ragazzo indiano avevo quasi fatto l’abitudine,
ma i pasti con lui comunque li inquadravo in situazioni ben precise, in cui gli
unici ad occupare posto eravamo noi due. Sapere di averlo accanto mi suscitava
un fastidiosissimo prurito a tutta la parte destra del corpo, quasi come la sua
eccessiva vicinanza mi creasse allergia.
Di
tanto in tanto alzavo gli occhi dal piatto in direzione di Mastro Kenway, curioso di captare qualche smorfia contrariata per
il modo rozzo di mangiare del figlio o per i discorsi della sorella. La guardavo
spesso, Miss Jennifer.
Così
composta ed educata, chiaramente aristocratica. Alternavo lo sguardo da lei al
fratello, come a simulare interesse per la loro conversazione, ma la realtà era
un’altra. Era una scusa bella e buona per poterla guardare senza destare
sospetti, e poter osservare ogni dettaglio del suo viso, ogni espressione,
qualsiasi cosa. Mi stupii di me stesso per ciò che pensai. Bella. Era bella, diavolo. Non le si trovava un difetto in viso
neanche a volerlo.
Bella.
Le calzava a pennello.
Sembrava
che l’avessero pensato per lei, quell’aggettivo.
Un
dolore piacevole in mezzo alle gambe mi scaldò il basso ventre, costringendomi
a serrare i denti, deglutire e abbassare immediatamente lo sguardo sul mio
piatto. Merda, merda, così non va affatto
bene. Contrassi i muscoli delle gambe, ringraziando che il lembo della
tovaglia eccessivamente lunga mi coprisse tutta la zona del pube. Già mi
immaginavo la scena, col ragazzo che interrompeva i discorsi di Haytham per uscirsene con un “ehi, Lee, perché hai un
pugnale nei calzoni?”. Avrei potuto dire addio alla mia reputazione e
suicidarmi senza se e senza ma.
«…
Vero, Charles?»
Per
poco non mi strozzai col vino «Cosa, Mastro Kenway?»
Mi
guardò perplesso, sicuro che non avessi perso una sola sillaba dei loro
discorsoni «Stavo raccontando a mia sorella come sei entrato a far parte dell’Ordine»
annuii «… E sulla vocazione dell’eroe qui presente» lanciò un’occhiata sarcastica
a Connor, intento a mangiare e ignorare le
frecciatine di suo padre.
«Se
avete domande specifiche potete chiedere, Miss Scott» mi sorrise, poggiando con
delicatezza il bicchiere.
«Non
preoccupatevi, Signor Lee, volevo più che altro parlare con… Connor, giusto?» Haytham la
guardò male e non colsi il motivo. Ingoiai un altro boccone e l’accompagnai con
due sorsi di vino, cercando di capire cosa mai volesse Jennifer dal nipote
mezzosangue.
«Il
mio nome è Ratonhnhaké:ton, significa “vita
piena di graffi”, ma puoi chiamarmi Connor» non un sorriso,
non un’emozione. Mi chiesi spesso che diavolo avesse nel petto quel ragazzo. In
testa si sapeva già: segatura. O merda, ma propendevo più per la prima.
«Allora dimmi, Connor, come mai hai
deciso di unirti agli Assassini?» E per la seconda volta in cinque minuti, rischiai di
soffocare ancora con il vino. Lei sapeva di Assassini e Templari? Lo sospettavo,
nel profondo, aveva comunque vissuto a contatto con questa realtà, ma non
credevo fosse così interessata e informata al riguardo.
Mastro Kenway batté un palmo sul
tavolo «Questa la so: per la
libertà!» Trattenni una risata più
che altro per non fare brutta figura con Jennifer, della sensibilità del
ragazzo mi importava ben poco.
«Ha ragione» si limitò a dire, posò la forchetta e si pulì le labbra col
tovagliolo, scimmiottando spudoratamente e goffamente le mie movenze. Era chiaro
che lo stava facendo per la prima volta. «Principalmente miro alla libertà. Alla libertà del mio
popolo e degli innocenti, degli indifesi. Voglio un Paese giusto, che
garantisca gli stessi diritti per tutti e che assicuri protezione. Confido
nella bontà d’animo dell’uomo»
Mastro Kenway sbuffò «Cristo, sembrano parole da chierico» bevve e riposò il calice. «Cercherò di essere breve, figliolo, e non lo ripeterò più,
quindi ascoltami bene. Alla speranza ci si può affidare per altre cose, come
alla guerra, per esempio, visto che, oltre alla bravura e alla preparazione dei
soldati e del comandante –frecciatina
a George- è necessaria anche una buona
dose di fortuna. Questo ragionamento non puoi farlo per l’uomo, perché così è e
così resta. La guerra la vinci o la perdi, l’essere umano non lo cambi, capisci
che intendo?» Guardai il
ragazzo con la coda dell’occhio; non sembrava capirci molto «Tu vuoi fermare noi, vuoi impedire che ci sia ordine,
controllo, controllo non come lo intendi tu. Non vogliamo comandare nessuno, lo
capisci? Vogliamo garantire esattamente quello che hai detto prima»
«Ne abbiamo già parlato, Haytham. Non
siamo d’accordo»
«Togli il potere ad un uomo e automaticamente ce ne sarà un
altro che vorrà sostituirlo. Uccidine uno e preparati ad ucciderne un altro. Ti
diverte? Perché rimediare ai sintomi ammazzando chi sbaglia e non estirpare il
problema alla radice?» Il discorso non
faceva una piega.
«Quindi ti autoproclami capo per evitare che qualcun altro
tenti di prendere il potere? Chi ti dà questo diritto?»
Haytham sospirò,
stava perdendo la pazienza «Non io, nessuno di noi, Connor. L’Ordine.
Tutti noi garantiremo la giustizia»
«Haytham» intervenne Miss Sott, stavolta «Basta così, dai. Non voglio discussioni per queste
sciocchezze, non vi metterete mai d’accordo. È come nostro padre» lo vidi serrare la mascella, irritato per quel paragone. Non
compresi di cosa stessero parlando, sapevo poco e niente della vita di Mastro Kenway, e mai mi ero azzardato a chiedere, immaginando che
se poco ne parlava, poco gradiva che si domandasse.
«Non dire eresie, per favore, abbiamo parlato anche di
questo.»
«Che diavolo significa? Cosa c’entra suo padre?» Cristo, erano forse questi i modi di rivolgersi ad una
signora? Non gli mollai un ceffone per non far finire in rissa la serata.
«Un po’ di educazione quando ti rivolgi a Miss Scott,
ragazzino» oh, sì, questo mi avrebbe
fatto guadagnare un bel po’ di punti «Achille non t’ha insegnato come ci si rivolge ad una donna?» Mi ignorò bellamente, il selvaggio, ma in tutta onestà ero
interessato anche io alla questione.
Miss Jennifer scostò lo sguardo dal fratello, fissando Connor con attenzione, forse per trovare le parole adatte
per essere sintetica e allo stesso tempo chiara.
«Tuo nonno, Edward J. Kenway,
faceva parte della Confraternita.» Sgranai gli occhi per la leggerezza con cui l’aveva
annunciato. Guardai Haytham, rassegnato alla realtà
dei fatti e ignorando lo sguardo pesante del figlio, che lo fissava come fosse
la vergogna della famiglia.
«Perché non me l’hai mai detto?»
«Che avrei dovuto fare? Parlarti di mio padre senza nessun
motivo solo per informarti che indossavate le stesse ridicole vesti?» Schioccò la lingua e fulminò la sorella, colpevole di aver
tirato fuori il discorso. Ero sconvolto anche io, tutto avrei immaginato, ma mai
che il padre del Gran Maestro fosse stato un Assassino. Che la lama celata che
portava fosse appartenuta a questo Edward James Kenway?
Il ragazzo mostrò i denti «Perché non hai seguito le sue orme? Perché gli sei andato
contro? Non ti ha addestrato?»
Stava esagerando, lo intuii dalle nocche bianche
del pugni sinistro di Mastro Kenway, così serrato da
impedire la circolazione del sangue.
«Sta’ zitto. Non sai nulla»
«Certo che non lo so, non me ne parli»
Haytham afferrò il
calice, rovesciando in faccia al ragazzo il vino che gli era avanzato. Connor annaspò per qualche secondo, tossendo per il liquido
entratogli nel naso e negli occhi senza preavviso.
«Ma sei impazzito?» Strillò Jennifer.
«Non osare.» La ignorò bellamente «Non osare mai più parlare di cose che non sai, sono stato
chiaro?» Non l’avevo mai visto
perdere le staffe in quel modo, mai l’avevo sentito urlare così. Nemmeno contro
l’indiano.
Lo guardai attentamente, non lo riconobbi. Quello non era l’Haytham che conoscevo io, i suoi occhi erano strani, diversi. Incutevano
terrore.
Strisciò rumorosamente la sedia all’indietro e si alzò,
raggiungendo l’uscita con poche falcate. Calò il gelo, mi schiarii la gola per
spezzare quel silenzio insopportabile, attirando su di me lo sguardo di Miss
Scott.
«Lasciatelo solo, gli farà bene. Ha bisogno di calmarsi» annuì colpevole, abbassando lo sguardo e riprendendo a
mangiare.
Buonasera :3
Ebbene sì, Charles inizia a sentire gli
effetti della presenza femminile di Jenny, lol, tenerello. Ma che cena di famiglia è se non scoppia in
rissa, eh? Esatto, non lo è. Non mi dilungo, oggi sono già abbastanza in ritardo,
ewe.
Ringrazio chi segue, preferisce, legge e un
biscottino caldo a chi recensisce.
Abbandonai
la sala fottendomene altamente della figura da psicopatico che avevo appena
fatto. Affanculo le cene in famiglia ma, soprattutto, affanculo quel
decerebrato di mio figlio. Che cazzo ne voleva sapere lui di genitori, di
padri, di perdite? Aveva visto morire sua madre, d’accordo, ma aveva quattro
anni, cristo, e oltre a vedere la capanna in fiamme crollare su Tiio, non aveva capito nulla. Io, a dieci anni, mi ero
ritrovato nel bel mezzo di un assedio notturno, salvando mia madre e dicendo
addio alla mia bella infanzia.
All’età
che aveva Connor non comprendi nulla, realizzi solo
la mancanza di chi hai perso e ne soffri. Ne soffri molto, e non nego che anche
lui abbia provato dolore, ma che non si immoli, perché non è il solo ad aver
visto un genitore morire. E no, non è una gara a chi ne ha passate di peggiori,
ma cazzo, avrò avuto i miei motivi per non dirgli nulla, no? Insomma, che avrei
dovuto fare?, saltargli addosso dalla trave della chiesa di Valley Forge e
dirgli: “Connor!
Ultimo desiderio? Oh, a proposito, sai che tuo nonno era un Assassino?”.
Per carità di Dio, no.
Non
avevamo mai avuto modo di parlarne, molto semplicemente. Non era mai uscito il
discorso, oppure, senza troppi rigiri, non erano cazzi suoi. Si era sempre
lamentato della mia assenza, che non avevo fatto il padre e, beh, non avrei di
certo iniziato in quel momento a comportarmi da genitore modello per
illustrargli l’albero genealogico.
Raggiunsi
la porta della mia stanza, entrai e la richiusi con violenza. Sperai che la
targhetta in oro non si fosse staccata, ma non mi curai di andare a
controllare, preferendo sedermi alla scrivania e appuntare gli ultimi eventi
sul diario. Era da molto che non lo facevo.
Toc-toc.
«Charles,
non ho voglia di parlare» dissi ad alta voce, sperando mi sentisse.
Toc-toc.
«Cristo»
borbottai mollando la piuma d’oca «Charles! Voglio riposare, va via!»
Toc-toc.
Aprii
la porta scocciato, pronto ad urlare di tutto contro il mio successore «Connor» lo dissi col tono più schifato che riuscissi a fare
«fuori dai coglioni»
«Aspetta»
la pala che aveva al posto della mano fermò la porta prima che gli appiattisse
il muso «voglio parlare»
Roteai
gli occhi «Io no» cristo, me ne ero andato proprio per quello. Esercitò più
pressione e spalancò la porta, autoinvitandosi nella mia stanza.
«Parlerò
io, allora» Dei, spiriti, papà, Tiio, che qualcuno mi
trattenga, altrimenti lo uccido sul serio. Non mi mossi di un centimetro,
limitandomi ad osservarlo mentre avanzava con cautela verso il centro della
camera, come fosse la tana di un orso pronto a sbranarlo da un momento all'altro.
Oh, un paragone azzeccatissimo, direi. «Perché non mi hai accennato al fatto
che mio nonno fosse un Assassino come me?» E da quando aveva tutta quella
confidenza con mio padre per permettersi il lusso di chiamarlo nonno?
Mi
morsi la lingua «Molto semplicemente perché non sono cazzi tuoi. Ecco perché»
non aveva alcun diritto di entrare così nella mia vita, di venire a conoscenza
di faccende private e, per di più, di insistere come un moccioso.
«Come
sarebbe, scusa?» Gli poggiai una mano sul petto e lo spinsi via, lontano da me
e da quello che voleva sapere.
«Sono
faccende personali, cose che non riguardano uno stupido ragazzino come te»
Assottigliò
lo sguardo, risentito «Non sono stupido, voglio solo sapere» stavo perdendo il
controllo, gli avrei messo le mani addosso se quel briciolo di lucidità non mi
avesse abbandonato. Sentivo che da un momento all’altro la mia mano destra
avrebbe preso vita, stringendosi sul collo di mio figlio senza mollarlo finché
non fosse morto asfissiato.
«Non
ti è concesso sapere!» Ringhiai a denti stretti «Ti stai intromettendo nella
mia vita, nei miei ricordi» avanzai di un passo verso di lui facendolo
indietreggiare. Perché mi ostinavo a reprimere l'istinto omicida nei suo
confronti? Perché non lo uccidevo? Perché
non l'avevo già fatto? «Te ne sei sempre fottuto altamente di me e di
quello che mi circondava, e adesso che salta fuori che mio padre era un
Assassino diventa improvvisamente tutto più interessante?» La tentazione di far
scattare la lama celata era tanta, mi tremava il braccio sinistro tanto era lo
sforzo per non azionare il meccanismo.
«Io...»
«Tu
cosa, mh?» Mostrai di poco i denti con fare
aggressivo «Da quando ti interessa la vita di tuo padre?» Scontrò un piede
contro la scrivania, sobbalzando istintivamente. L'occhio gli cadde sul diario,
aperto e indifeso, pronto a svelare i miei segreti, le mie incertezze. Lo
richiusi con poca grazia, irritato da quello che io interpretai come ennesimo
tentativo di curiosare nella mia vita.
«Tu
però non hai esitato a chiedere di mia madre. Collaboravamo da un paio di
giorni»
«Piantala,
è una cosa diversa» mi imposi di calmarmi. Mi faceva male la tempia destra. Una
fitta mi attraversò il cervello, come un continuo ricordarmi dello stress che
quel ragazzo mi metteva addosso.
«Diversa
perché fa comodo a te?»
«Diversa
perché con tua madre avevo un rapporto» omisi volutamente sessuale, tanto non avrebbe capito.
Sorrise
amaramente «La conoscevi appena. L’hai sfruttata» uccidilo, cazzo, così te lo levi dai piedi una volta per tutte.
«So
molte più cose di quanto tu creda, ragazzino» lo guardai con odio. Odio puro. Chi
cazzo si credeva di essere per venire a sentenziare se avessi amato o no sua
madre?
«La
cosa non mi interessa, non parlare più di lei»
Provava
a darmi ordini, il moccioso «Dah, altrimenti che fai,
mh?» Gli puntellai un dito sul petto muscoloso,
sfidandolo.
«Non
hai il diritto di nominarla» ignorò appositamente la mia provocazione. Cercai
di trattenermi fino all’ultimo, lo giuro su mia madre ma, cristo, aspettavo da
anni quel momento.
Gli mollai
un ceffone. Una sberla di quelle sentite, che ti fanno sentire meglio, più
leggero. Diavolo, bastava così poco? Quasi
ripresi a respirare, il braccio destro ancora teso in avanti, Connor sconvolto, con il viso ancora girato e arrossato. Si
sfiorò la guancia lesa con due dita. Sì,
cazzo, ti ho schiaffeggiato. È un atteggiamento da padre, no? Non era quello
che volevi?
«Ora
togliti dai coglioni» riuscii a dire col poco fiato che avevo «Va’!» Agitai la
mano e gli diedi le spalle. Lo vidi lanciare un’ultima occhiata al diario prima
di aprire la porta e sparire in corridoio.
***
Da
quanto non provavo una sensazione simile? Da quanto non vedevo una donna con
così tanta classe ed eleganza? Pensandoci bene, forse, non l’avevo mai
conosciuta. Non ai livelli di Miss Scott, si intende. Fatti coraggio e invitala fuori. Cristo, era una delle idee
migliori che avessi avuto in oltre quarant’anni di vita. Mi avvicinai allo
specchio vicino alla porta e mi aggiustai il colletto, appiattendo la giacca su
petto e addome e, soprattutto, preparandomi psicologicamente. Imboccai il corridoio.
E se
non accetta? Certo che accetta, guardati,
sei uno schianto. Aggrottai le sopracciglia. Che diavolo di conversazioni
facevo? Forza, vai e falla cadere ai tuoi
piedi. Basterebbe anche solo in ginocchio. Quello, magari, più in là.
Guardai
la porta della stanza di Jennifer, indeciso sul da farsi. Che stai aspettando? Che esca e che si spogli di sua iniziativa? Idiota.
Sono ancora in tempo per evitarmi una figura di merda.
Bussai.
«Sì?»
Oh,
cristo. Parla. «Miss Jennifer, sono
io, Charles» sentii i suoi passi leggeri attraversare la stanza e raggiungere
la porta che, infatti, si aprì pochi secondi dopo.
«Ditemi,
vi serve qualcosa?» Sorrise. Cristo, stai giù, stai giù.
«Ecco,
io… Io mi chiedevo se vi andasse di visitare New York. È una bella
città, di notte è ancora più affascinante» iniziò a torturarsi una ciocca di
capelli, arrotolandola intorno all’indice. Almeno
fa’ che non mi umili, ti prego.
«Sì,
perché no. Datemi il tempo di prepararmi» richiuse la porta senza darmi tempo
di metabolizzare. Cazzo. Sì, bello mio,
ci siamo.
Quella
sera portai Miss Jennifer a visitare New York, mostrandole le vie principali e
lo stile di vita dei newyorchesi per poi fermarci al Bridge Cafè,
una delle migliori taverne del quartiere, all'angolo tra Water Street e Dover
Street. Alla faccia tua, Hickey. Sto andando alla grande, figlio di puttana.
Aprii
la porta e la feci entrare per prima, poi la seguii tentando di sopportare il
chiasso assordante che m'investì di colpo. Un gruppo di uomini al tavolo più
vicino si girò verso di noi, fischiando alla vista di Miss Scott.
«Ehi,
bambolina! Quanto prendi per un giro?» I compari risero sguaiati, elogiando
l'idiota che aveva osato rivolgersi a Jennifer con quei toni.
«Come
vi permettete?» Arrossì violentemente, era a disagio, quindi intervenni. Mi
avvicinai al simpaticone che aveva aperto bocca, un tizio dai capelli rossicci
ispidi e la barba accennata, con una camicia verde sbiadita e macchiata qua e
là di chissà cosa e dei calzoni di tela di poco valore. Appoggiai una mano sul
tavolo e mi abbassai verso di lui, reprimendo l'istinto omicida che mi
sussurrava di prendergli la testa e sbatterla al muro finché non fosse morto
col cranio in frantumi.
«Che
diavolo vuoi tu?» Puzzava d'alcool in un modo nauseante «Tornatene dalla tua
pupa o gliela do io una bella ripassatina» ringhiai e l'afferrai per il
colletto, tirandolo verso di me con poca grazia.
«Un
pezzente come te non ha il diritto nemmeno di posare gli occhi su una donna del
genere, quindi vedi di finire la tua birra e di sparire. Stai insudiciando
l'aria» restai seri0, anche se l'espressione furibonda e scioccata di
quell'imbecille era un invito bello e buono a far perdere credibilità alle mie
minacce.
«Altrimenti
che fai, eh? Ti faccio passare la voglia di fa-» non lo feci concludere,
afferrai il suo boccale e gli rovesciai il contenuto sui calzoni, in
corrispondenza della virilità. Beh, nel suo caso avevo seri dubbi ci fosse
qualcosa sotto la stoffa.
Gli
amici rimasero di sasso, mi credevano seriamente alle prime armi con risse o
cose del genere?
«Come
cazzo hai osato?» Si alzò strisciando la sedia, mostrando agli unici due della
locanda che si erano persi la scena, la chiazza bagnata sui pantaloni. Sembrava
si fosse pisciato addosso.
Caricò
un pugno e mirò al mio viso, ma non ebbi difficoltà nel prendergli il polso e
girargli il braccio dietro la schiena.
«Hai
ancora voglia di fare la voce grossa? Non ti conviene» esercitai più pressione
fino a fargli scricchiolare le ossa. Lo costrinsi a inarcarsi all'indietro,
mentre con la mano libera tentava di colpirmi il volto. Gli assestai un calcio nel
cavo popliteo e lo lasciai crollare a terra, mollandolo e portandomi di fronte
a lui. Mi abbassai per essere alla sua altezza e gli afferrai i capelli con
poca grazia, costringendolo a fissarmi negli occhi.
«Ascoltami,
coglione da quattro soldi: osa alzare di nuovo gli occhi da terra, infastidire
la mia signora o parlare con un tono leggermente più alto del mormorio e,
parola d'onore, ti apro il culo in venti parti» dissi a denti stretti «sono
stato abbastanza chiaro?» Annuì fissandomi con occhi sgranati, quindi lo mollai
con uno strattone e mi alzai, raggiungendo Miss Jennifer ancora in piedi vicino
all'entrata.
«Perdonatemi,
forse abbiamo attirato un po' l'attenzione, ma non potevo lasciar correre» le
porsi il braccio. Mi sorrise e lo prese delicatamente con entrambe le mani,
seguendomi mentre la conducevo ad un tavolo libero. Era rotondo e non troppo
ingombrante, ma abbastanza grande da accogliere quattro persone.
«Non
preoccupatevi, siete stato un po' duro, ma con certe persone non ci sono altri
modi»
«Sono
d'accordo» giunti al tavolo scostai la sedia per farla sedere «prego» mi
sorrise di nuovo e ricambiai, poi mi accomodai di fronte.
«Gradite
qualcosa da bere?»
«Perché
no, mi piacerebbe del whiskey.»
Buonasera :3
Oh, ammiratrici di Connor, non picchiatemi (ma chi vogliamo prendere in giro?,
Connie non ha fans, trolol). Bene, okay. Dopo questo
piccolo sfogo di Haytham troviamo un Charlie innamorato,
a dir poco adorabile, aaaww.
Non mi dilungo, visto che
anche oggi sono un po’ in ritardo –sshh, lol-, quindi ringrazio come sempre chi legge e segue, e un
biscotto a chi recensisce.
Capitolo 19 *** Con le mani dico quello che non so. ***
Avvertenza:il capitolo contiene
scene erotiche descritte dettagliatamente –non ho la presunzione di dire che
siano perfette, ma lo scrivo per correttezza, nel dubbio che legga qualche
minorenne-.
Capitolo 19
Imboccammo
le scale di fretta e col fiato corto, faticavo a camminare a causa del
rigonfiamento al cavallo dei calzoni, ma la vista di Miss Jennifer che saliva
impaziente mi fece ignorare quel piccolo impedimento. Dopo l'ultimo scalino la
presi per i fianchi e la sbattei al muro con decisione ma senza farle male,
l'afferrai per le natiche spingendole il bacino verso il mio basso ventre per
farle sentire la mia impazienza, poi la baciai con impeto.
Ricambiò
per qualche istante, ma si staccò poco dopo, poggiandomi una mano sul petto.
«Aspettate,
entriamo in camera» non risposi, a malapena respiravo, cristo. Mi prese
delicatamente un polso e mi portò fino alla stanza assegnataci, poi aprì la
porta tirandomi dentro. Avevo un dolore terribile alle palle, mi sembrava di
sentirle dire: "porca puttana, togli
questi cazzo di vestiti e sbattitela a letto finché non avrai forza nemmeno per
alzarti". La situazione non migliorò quando mi mise spalle alla porta,
strusciandomisi contro e baciandomi languidamente.
Persi
quel poco di lucidità che mi era rimasta e la sollevai di peso, avanzando a
tentoni verso il letto e adagiandola sul materasso, per poi togliermi in fretta
e furia gli stivali. Mi sbottonai la giacca con la stessa foga e la lasciai
cadere a terra, poi salii sul letto, sovrastandola. Che diamine, era ancora
vestita? Al diavolo. Le strappai l'abito all'altezza del petto seguito dal
corsetto, liberando il seno generoso da quella trappola infernale. Mi abbassai
su di lei, leccando e succhiando la pelle morbida e chiara, sentendomi
soddisfatto nel sentirla gemere affannata. Sentii le sue mani scorrermi sul
petto alla ricerca dei bottoni della camicia; iniziò ad aprirli con mani
tremanti e frettolose, alternando carezze sul collo e pettorali.
«Spogliatevi»
riuscii a dire, nonostante fossi senza fiato, con voce roca, causata dalla gola
improvvisamente troppo secca.
Mi
tirai su, restando in ginocchio a cavalcioni su di lei, liberandomi
dell'indumento il più velocemente possibile. Lanciai via la camicia mentre lei
si allentava i lacci del vestito, facendolo scivolare lungo il petto fino ai
fianchi e poi la vita. Mi slacciai i calzoni, pronto a sfilarli, ma una mano di
Jennifer si poggiò sulle mie, bloccando le mie intenzioni. Si intrufolò oltre
la stoffa e me lo prese in mano senza pudore, facendo scivolare il palmo su
tutta la lunghezza del mio membro.
Boccheggiai
e abbandonai la testa all'indietro, mentre lo sentivo pulsare in sincronia con
i suoi movimenti. Dischiusi le labbra e mugolai piacevolmente soddisfatto,
mentre con una mano mi abbassavo i pantaloni per farla lavorare meglio. Ero
veramente stupito dalla sua maestria e mi lasciai sfuggire un ansito.
Sorrise
compiaciuta e non si fermò, iniziando a lasciare scie umide di baci sugli
addominali. Scendeva, scendeva sempre più giù con una lentezza a dir poco
snervante e sembrò leggermi nel pensiero, realizzando la mia fantasia e
sostituendo la mano con la bocca.
Serrai
i denti e aspirai aria mentre la mia mano sinistra andò a stringerle i capelli
dietro la nuca, lasciandomi poi ipnotizzare dall'andatura regolare del suo
capo, che andava avanti e indietro.
La
scostai e la spinsi per farla sdraiare supina, consapevole che se l'avessi
lasciata continuare sarei durato ancora pochi minuti; le sfilai definitivamente
il vestito e mi misi su di lei, infilandole una mano tra le cosce. Dio, era già
calda e bagnata, persi il controllo quando iniziò a contorcersi e mugolare
mentre la penetravo con due dita.
Avevo
aspettato fin troppo. Tolsi la mano dalla sua intimità e le afferrai le gambe
dall'incavo dietro il ginocchio, divaricandole; mi riabbassai su di lei e con
una spinta decisa entrai. Tentai di trattenermi e di mantenere un ritmo
normale, perché se avessi seguito l'istinto, l'avrei sbattuta violentemente
come una qualsiasi puttana, ma volevo far durare la situazione il più a lungo
possibile. Serrai una mano sul lenzuolo, mentre accompagnavo ogni spinta con
gemiti soffocati.
No,
Miss Jennifer non era una donna qualsiasi, non per me. Non era un semplice
sfogo, almeno non credevo.
Mi
abbassai, lasciandole un bacio sul collo mentre appoggiava una mano sulla mia
spalla e respirando affannata nel mio orecchio.
La presi
dai fianchi e rotolai a destra, finendo supino con Miss Jennifer sopra. Mi sorrise,
abbassandosi su di me e schioccandomi un bacio sulle labbra. Iniziai a muovermi
tenendola dai fianchi, dandole il ritmo e lasciando che continuasse lei.
La lasciai
fare per un po’, beandomi della visione dal basso, del suo seno che ondeggiava
lentamente e dei sorrisi che mi dedicava ogni tanto. Ma ero io l’uomo, diamine,
dovevo avere io il controllo della situazione. Mi tirai su, restando seduto e
tenendola su di me, girandomi in modo da dare le spalle all’entrata,
spingendola verso di me sorreggendola dalle cosce. Non avrei resistito ancora
molto, me lo sentivo.
Un
attimo dopo sentii la porta spalancarsi e sbattere contro il muro, ansimare e
grugnire. Jennifer si aggrappò alle mie spalle e urlò sconvolta, perforandomi
il timpano destro.
«Uscite
immediatamente!» Strillò ancora.
«Che
cazzo?» Mi fermai e, sempre tenendola a cavalcioni, mi voltai. Un uomo sulla
cinquantina mezzo nudo e una ragazza non oltre i venticinque erano appoggiati
allo stipite della nostra porta, nessuno dei due abbastanza lucido da capire
che avevano aperto la porta sbagliata, cazzo. Il primo a rendersi conto dell’equivoco
fu proprio lui.
«Chi
cazzo siete voi?»
Istintivamente
coprii Jennifer, mettendola dietro di me «Uscite immediatamente, idioti!» Ti prego, non abbandonarmi ora, ti prego,
che figura ci farei?
«Calmati,
amico, è già tanto se riesci a scopartela, non agitarti troppo» se temevo di
fare cilecca a causa dell’interruzione, beh, questo aveva fatto riprendere la
circolazione del sangue.
«Vaffanculo,
lurido figlio di puttana!» Ringhiai risentito.
«Charles,
calma..» sussurrò Miss Jennifer. Non le diedi retta, continuai a fissare con
astio il tizio che con una mano tentava di tenersi su i calzoni per non inciampare.
Quando chiusero la porta percepii la sensazione che qualcosa là sotto mi stesse abbandonando. No, cristo, no.
L’afferrai
con decisione, serrando la presa sulle natiche e riprendendo con un ritmo
incalzante. Non tutto era perduto. Serrai
i denti quando mi conficcò le unghie nella carne, ma ignorai il dolore,
concentrandomi sul suo viso, appagato e teso.
Quando
l’orgasmo ci travolse ci accasciammo sul materasso per riprendere fiato. Affondai
la testa contro il cuscino, provando piacere ad appoggiare il viso accaldato
sulla stoffa fresca. Mi girai supino e osservai il soffitto, ancora incredulo
di quanto era appena successo. Haytham mi avrebbe
ucciso seduta stante.
«Oh,
cielo. Chissà che penserete di me» ruppe il silenzio.
«Mh?» Mi puntellai sul gomito, facendo scivolare giù le
coperte, e la guardai, così bella con i capelli scompigliati sul cuscino e gli
occhi lucidi.
«Concedermi
così, alla nostra prima uscita… Penserete che sia una poco di buono» sorrisi
intenerito. Intenerito, io. E quando mai?
«Affatto,
avete la mia parola d’onore» si strinse il lenzuolo all’altezza del petto e
sospirò, volgendo lo sguardo a sinistra, verso la finestra.
«Voi
non sapete nulla della mia vita, Signor Lee…»
Intervenni
«Chiamatemi Charles, ve ne prego»
Mi
sorrise dolcemente «Non ho mai incontrato un uomo come voi, non sono stata
fortunata da questo punto di vista» non dissi nulla, non sapevo che dire «Conoscete
ReginaldBirch?»
«Sì.
Non di persona, ma fu lui a consigliarmi a vostro fratello per le missioni
dell’Ordine nel Nuovo Mondo» la guardai e attesi qualche secondo. «Che legame
ha con voi?»
Si spostò
una ciocca di capelli dal viso e mi guardò. L’espressione seria, come la mia,
e, da quel che colsi, un po’ addolorata.
«Era
il mio promesso sposo» sgranai gli occhi. Cristo, se me l’avesse detto cinque
minuti prima sarei diventato un pezzo di carne morta. «Divenne un amico di mio
padre quando si stabilì a Londra. Nonostante fossero di fazioni opposte
tentarono di collaborare, ma capimmo troppo tardi che Reginald,
in realtà, era interessato ad un libro della libreria di casa nostra» non dissi
nulla, attendendo che continuasse. Grazie a quel racconto potevo capire qualcosa
in più su di lei e su Haytham. «Per quel libro arrivò
ad ucciderlo. Mi fece rapire e mi mandò a Damasco, dove fui venduta al Sultano
come concubina» istintivamente strinsi il lenzuolo.
«Questo
Birch è ancora vivo?» Domandai irritato.
«No.
È morto da poco. Haytham l’ha ucciso il mese scorso»
collegai tutto. Ecco il perché della lettera, il viaggio, la sua
preoccupazione.
«Ringraziate
vostro fratello, allora.» Abbassai lo sguardo sul pugno chiuso «Anche se dopo
queste rivelazioni l’avrei ammazzato con le mie mani» la sentii ridere piano,
quindi alzai gli occhi.
«Se vi
avessi incontrato quando ero giovane, sicuramente avrei avuto una vita più
soddisfacente» avvampai, non riuscendo a non pensare male.
«Mi
lusingate troppo, Miss Jennifer.»
«Affatto»
si girò sul fianco destro, guardandomi negli occhi «Sapete come far sentire sicura
una donna. Prima, quando avete discusso con quell’uomo, ho capito che con voi
al mio fianco non rischio nulla»
Sorrisi
e allungai una mano fino ad accarezzarle la guancia sinistra. «Siamo sempre in
tempo, no?» Mi abbassai su di lei, lasciandole un bacio sulle labbra. Posò entrambe
le mani sul mio viso, staccandosi di poco.
«Sapete?
Ho sempre avuto un debole per gli uomini con i baffi» risi di nuovo.
«Questo
Haytham non deve saperlo…»
«Cosa?
Che mi piacciono gli uomini con i baffi o la notte di passione appena
trascorsa?»
«… Entrambe.»
Salve :3 il nostro Charles diventa grande, aaw,
non siete contenti per questa nuova coppietta? Io sì, un sacco.
Ringrazio come sempre chi segue, segue, preferisce e recensisce, a lunedì
prossimo :)
Avevo
sborsato novanta sterline tra ingaggio, vestiti nuovi e pistola. Il tizio che
avevo scelto per l'attentato al nostro caro George corrispondeva al tipo di
uomo che serviva a me. Dall'aspetto non sospetto -solo una volta sbarbato e
ripulito-, agile e sveglio. Era un certo Robert Carter, avevo sentito parlare
bene di lui, da quelli dell'ambiente, ovvio.
Avevamo
appuntamento davanti al palazzo in cui si sarebbe tenuto il Congresso
Continentale, accompagnato da me e Charles non avrebbe dovuto aver problemi ad
entrare.
Il
dondolio della carrozza mi stava quasi facendo assopire, quindi mi misi in
posizione eretta per non addormentarmi. Guardai Charles con la coda
dell'occhio, notando che fissava con aria assente fuori dal finestrino.
«Agitato?»
Risi per alleggerire la tensione. Non rispose. «Che diavolo, nemmeno stessi per
scopare la prima volta» lo vidi serrare la mascella.
«Spero
solo vada tutto secondo il piano» si degnò di voltarsi, lo sguardo serio e il
volto teso. «Insomma, con vostro figlio tra i presenti…»
«Andrà
bene» tagliai corto «Connor non prevede il futuro,
magari cercherà di fare qualcosa, ma non credo riuscirà a salvare ancora il
culo a George» lo dissi più per convincere me stesso, in realtà.
La
carrozza frenò di colpo, prendendo in pieno una buca e sballottandoci sul
sedile. Non attesi che il cocchiere mi aprisse la portiera, quindi scesi
seguito da Charles.
«Come
avete detto che si chiama?»
«Robert»
risposi guardandomi intorno. Gli avevo comprato una camicia blu, ma in mezzo a
quella marea di gente mi sarebbe stato difficile trovare persino Connor e la sua tunica luminosa.
«Non
vedo vostro figlio»
«Se
Dio vuole» prima o poi il Signore mi avrebbe lasciato un giorno senza quella
piattola, no? «Ho visto Robert, seguimi» allungai il passo fino ad affiancare
il mio mercenario. Sussultò quando gli posai una mano sulla spalla.
«Eccovi,
finalmente. Credevo aveste cambiato idea, qui è pieno di guardie, cristo» gli
afferrai un braccio e lo portai con forza verso il portone spalancato,
sorvegliato da due uomini in divisa posti ai lati dell’entrata.
«Evita
questi discorsi qui, imbecille» sibilai a denti serrati. Superammoi due uomini armati senza difficoltà, non una
domanda, non uno sguardo sospetto. Ma cosa ci si poteva aspettare dai
protettori di George? O forse mi sottovalutavano?
Charles
mi affiancò, allentandosi il colletto con due dita.
«Calmati,
così peggiori solo la situazione»
«Voi
dite? A me sembra già critica» mi calmai. Potevo capire in parte come si
sentiva, se fosse successo qualcosa a Washington sarebbe stato il primo
sospettato, ne ero consapevole, ma che altro avremmo dovuto fare? Lasciare il
Continentale allo sbaraglio? Permettere che perdessimo la guerra? E per cosa,
poi?, per l’ipotesi che incolpassero Charles? Lo guardai con la coda
dell’occhio. Stava sudando freddo, anche se tentava di mostrarsi calmo.
Girammo
a sinistra, entrando nella prima stanza del corridoio, trovandoci nella sala
che avrebbe accolto il nostro onorevole comandante in capo. Diedi una rapida
occhiata, contando una trentina di tavoli.
«Siediti
lì» dissi a Robert dopo avergli dato una pacca sulla schiena, poi feci cenno a
Charles di seguirmi ad un altro tavolo. Non potevamo correre il rischio che
associassero l’attentato a noi, non sia mai.
Ne occupammo
uno sulla destra, uno dei pochi liberi, non che avessimo molta scelta. Charles
si sedette di fronte a me, dando la schiena a… mio figlio.
Feci
una smorfia. «C’è anche Connor, non voltarti, per
carità di Dio» sbuffò, appoggiandosi allo schienale imbottito. «E Adams è con
lui»
Ridacchiò
«Vanno in giro insieme come due sposini» sorrisi anche io, fissando la nuca di Connor e provando ad immaginare, solo per un attimo, a che
sarebbe successo se non fosse stato così cocciuto. Forse se non ci fosse stato
Achille di mezzo avrei avuto la strada spianata, ma quando mai un Kenway ha la vita facile, mh?
Mai.
«A
cosa sta pensando, Signore? Washington è arrivato» mi destai, volgendo lo
sguardo verso il fondo della sala.
Ed
eccolo lì, davanti a tutti noi, orgoglioso della divisa del Continentale
immacolata. Ovvio, no? Lui non andava a morire, non imbracciava fucili, non seguiva
i suoi uomini verso la gloria o la morte, no. Non conosceva l'ansia della
battaglia, il fiato della morte sul collo, il senso di colpa per aver ucciso un
tuo probabile assassino. Non sapeva nulla di tutto questo, eppure si atteggiava
da grand'uomo, da comandante valoroso, da eroe.
Lui
preferiva starsene al riparo nella sua tenda, da buon coniglio.
«Signori»
ci scrutò con quei suoi occhietti da roditore «Intanto vi ringrazio per essere
qui quest'oggi» oh, sì, che fantasia. «So bene cosa vi aspettate di sentire.
Dati i risultati abbastanza scarsi, crederete che voglia ritirarmi, o sbaglio?»
Charles
tamburellò le dita sul tavolo «Sarebbe l'ora, vecchio» borbottò.
«Ma
così sarebbe troppo facile, amici. Chiunque sarebbe bravo a lavarsene le mani e
lasciare il suo successore nei guai, ma non io. Io ho un onore, Signori miei.»
Oh, sì, lo stesso onore di una puttana a gambe aperte.
«Quante
stronzate. E la gente gli crede pure» ringhiò Charles.
«Calmo.
È solo un buon oratore, sa tenere la folla»
«Dalla
mia ho uomini forti, pieni di coraggio e valori. Vinceremo la guerra, questa è
una promessa. Vi garantisco che le cose miglioreranno» lanciai uno sguardo a Connor. Le mani giunte sul tavolo, il cappuccio tirato giù
e il volto teso. Sembrava dubitasse delle parole di George, come fossero le
solite promesse fatte da un bambino capriccioso e bugiardo. Che capisse,
diavolo. Ci speravo, era ancora recuperabile. Cacciai un colpo di tosse e, come
avevamo pianificato, Robert si alzò lentamente.
«Permettetemi,
Signori, di ringraziare a nome di tutti il nostro Comandante in capo» sorrise
folle, estraendo la pistola. «Lunga vita a George Washington!» I presenti
sbiancarono, qualcuno urlò, Sam Adams rimase pietrificato, l'unico lucido fu Connor, che in un secondo scattò verso il mio uomo,
colpendogli il braccio e deviando il colpo appena sparato.
«Cristo!»
Charles sbarrò gli occhi, io serrai la mascella mentre George cadde
all'indietro tenendosi il braccio ferito.
Mi
alzai, imitato da Lee che, profondamente dispiaciuto
per Washington, si precipitò a vedere se fosse in pericolo di vita. Non fece in
tempo a raggiungerlo che Robert Carter era già morto sotto la lama celata di Connor.
Strinsi
i pugni. Non potevo di certo andare lì e dargli una sberla per avermi fatto
buttare novanta sterline, no? Dio,
figliolo, prima di uccidere uno dei miei, fammi un fischio.
Gli
afferrai un braccio «Fermo, non peggiorare le cose. Rischieresti di scatenare
il panico» si strattono, come se il mio solo contatto lo infettasse.
«Sei
stato tu, vero?»
«Cosa?»
I suoi occhi accusatori tentavano di leggere i miei, ma confidavo ancora nel
mio autocontrollo «Credi davvero che sia io l’artefice di questa pagliacciata? Suvvia,
mi sottovaluti. Io non avrei certamente fallito» continuò a fissarmi dubbioso,
quindi giunsi le mani dietro la schiena. «Non starò qui a pregarti di credermi,
ho altro da fare, e visto che il caro George ha fallito anche qui, beh, ci si
vede» lanciai un’occhiata a Charles, ancora inginocchiato vicino a Washington,
e gli feci cenno di andare.
***
Seguii
Haytham verso l'uscita tentando di scansare la calca
in corridoio. Avevo i nervi tesi, l'indiano era riuscito a salvare Washington,
che se l'era cavata solo con una ferita sul braccio, e ad uccidere Robert.
Questa
Haytham non gliel'avrebbe perdonata. Avevo serie
difficoltà a capire la logica del ragazzo: si affaccendava tanto per proteggere
l’assassino della sua gente e che stava mandando a puttane l’indipendenza delle
colonie.
«Ehi»
mi sentii afferrare il braccio destro con forza. Mi voltai, trovandomi davanti
un mio collega «Ci sei anche tu, Charles» ArtemasWard serrò ancora di più la presa.
«Certo,
Artemas. Perché non dovrei?» Mi divincolai con un
leggero strattone. Mi fissò serio, indagatore, come se attribuire a me il fatto
che era appena successo fosse spontaneo. Beh, non aveva tutti i torti.
«Stai
attento a quello che fai, Lee. Potresti pentirtene» lanciai uno sguardo ad Haytham, bloccato dalla massa di gente qualche metro più
avanti.
Sbottai
«Che cazzo vuoi da me, eh? Non ho motivo di stare attento» divenni serio anche
io. Un peso nel petto mi fece inspirare a fatica. Che sapesse?
«Ti
ho visto qualche sera fa» ghignò, gelandomi il sangue. «Non fare casini di
nessun tipo, non vorrei che la tua amica si facesse male» lo afferrai per il
bavero della giacca, placando a fatica un'ira montata di colpo.
«Non
osare.» Replicai «Avvicinati a lei e sei un pezzo di carne morta. Mi sono
spiegato?» Tremavo di rabbia. Non doveva. Non doveva nemmeno avvicinarsi a Jennifer.
Punto. Credeva che non avessi il fegato di ucciderlo solo perché era un mio
pari? Non mi conosceva, allora. Non mi conosceva per un cazzo.
«Perché
ti allarmi tanto? Hai la coscienza sporca?» Sorrise di nuovo.
«Charles?»
Non mi voltai verso Haytham che mi chiamava,
preferendo di gran lunga continuare a fissare con sdegno e superiorità quel
coglione su due piedi «Andiamo.» Continuò.
«Tra
i due, devi stare attento tu. Avvicinati
e sei morto, spero di non dover avere un altro cadavere tra i piedi.» Lo mollai
malamente senza staccargli gli occhi di dosso.
Intanto mi scuso per il
ritardo *si sotterra*, ma ieri sono stata senza wifi
tutto il giorno, quindi non ho aggiornato per motivi di forza maggiore, ewe.
Cooomunque, il vecchio George se la
cava sempre, tzè.
Per chi non sapesse chi è ArtemasWard, fu un generale
statunitense dello stesso grado militare di Charles che Washington scelse come
suoi sottoposti –insieme a Philip Schuyler e IsraelPutnam-.
Va beh,
la smetto, lol. Grazie a chi legge, segue, preferisce
e, soprattutto, recensisce :3
Avevo freddo. Troppo per i miei gusti. Mi stavo sfregando le braccia da
mezz’ora, ormai, camminando sulla neve fresca e affondando fino a metà
polpaccio ogni due passi. Ero nella frontiera, questo mi fu subito chiaro, il
problema era capire esattamente in che punto mi trovassi. In realtà c’era una
persona a cui chiedere, ma il mio orgoglio mi impediva di scendere a tanto. Non
volevo e non potevo chiedere a Connor dove fossimo. Ma
poi come c’eravamo arrivati fin lì?
Imprecai a bassa voce.
Una folata di vento per poco non mi fece volare via il tricorno, e per
riflesso mi strinsi nelle spalle, cercando un po’ di calore nella redingote
troppo leggera per quel freddo pungente e umido. Mi appoggiai ad un albero,
lanciando un’occhiata alla schiena del ragazzo. Ringhiai. La voglia di andare
lì e tirarlo malamente per il cappuccio era tanta, ma non avevo voglia di
muovermi, né di scoprire con chi stesse parlando. Volevo tornare a Fort George,
al caldo, e togliermi gli stivali zuppi. Avevo mal di schiena ed ero stanco
morto, perché ero lì? Dov’era Charles? Guardai ancora Connor,
vedendo due braccia esili avvolgergli la schiena. Sbuffai scocciato e tornai a
guardare la distesa bianca davanti a me, realizzando in ritardo ciò che avevo
visto.
Li guardai ancora.
Le braccia della persona che abbracciava il ragazzo erano coperte da una
stoffa marrone, sembrava quasi…
«Non è possibile» una nuvoletta di condensa mi
oscurò per qualche secondo la vista. «Cristo» vinsi la pigrizia e mi staccai dal tronco, avvicinandomi goffamente a
quella scena irreale.
«Sono così fiera di te..» quella voce. No. No, cazzo, era
sicuramente un sogno.
Lo afferrai per la spalla e lo voltai senza troppe cerimonie, scoprendo
che ciò che avevo realizzato era corretto. Li fissai per una manciata di
secondi senza proferire parola. Non sapevo che dire, in realtà.
«Haytham? Che diavolo fai qui?» Mi destai, guardando Connor con la stessa
espressione che avrei avuto se mi avesse appena confessato di aver giaciuto con
Washington.
«Come sarebbe che ci faccio qui?» Non siamo venuti insieme? Ma questo
era il dettaglio che mi importava meno, ero sconvolto dal fatto che Tiio fosse lì, davanti a me, e non ero riuscito a trovare
il coraggio di guardarla negli occhi.
«Cosa…» la indicai, costringendomi a
guardare mio figlio «Lei…» indurì lo sguardo, facendomi sentire ancor più colpevole.
«Lei cosa?» Ah, diavolo. Perché non mi
aiutava? Sapeva benissimo a cosa mi riferissi «E perché mi hai seguito? Ti avevo detto che dovevo parlarle da solo» mi accorsi di avere la bocca aperta quando sentii pungere la gola. Cristo,
non sapevo nemmeno come ero arrivato fin lì, ricordo solo che dal momento in
cui avevo preso coscienza di essere nella frontiera avevo solo pregato che non
arrivassero lupi affamati e che calasse il vento.
Sospirai, decidendo di lasciar perdere il discorso con Connor. Mi feci coraggio e la guardai, tentando di
deglutire nonostante la lingua fosse secca come un pezzo di legno.
«… Come stai?» Mi parve la cosa più sensata da
chiedere. Sogno o no, morta o meno, che avrei dovuto domandare dopo vent’anni
che non la vedevo?
Mi riservò la stessa occhiata del figlio «State collaborando?» Disse rivolgendosi a lui.
«Sì. Abbiamo svolto insieme alcune missioni»
«Ratonhnhaké:tonkahontsi…
Basta, figlio mio» magnifico, sì, mi mancava la loro
lingua incomprensibile.
Roteai gli occhi e misi le mani nelle tasche della redingote per trovare
un po' di calore. «Potresti rendermi partecipe del
discorso?» Mi ignorò bellamente, continuando
a guardare Connor.
«Ascoltami bene, otsitsya. Non sprecare questa
occasione»
Connor scostò lo sguardo, a disagio «Madre..»
«No. Non dimenticare tutto, io non posso, non riesco. Onekwenhsa,
era ovunque, forse tu eri troppo piccolo per capire» la guardai. Era chiaro che dicesse in Mohawk le parole che non voleva
capissi, e in effetti così il discorso che fece non aveva molto senso. Non per
me, almeno. «Otsitsyaonyare»
Connor deglutì, guardandomi
istintivamente colpevole e impotente. Si pentì subito, come se potessi capire
ciò che stavano dicendo «... Onyare?»
Tiio annuì «Lee» serrai i denti e diedi un calcio
contro la neve fresca. Quello lo capii subito.
«Cosa diamine c'entra ora Charles?» Fissai prima lei, poi il ragazzo.
Perché ogni volta lo tiravano in ballo? Perché chiunque usava Charles per
ferire me? Perché cazzo doveva essere il mio punto debole?
«Haytham, stanne fuori» mi voltai fulmineo verso Tiio. Ero furioso,
ma non riuscivo ad odiarla. Molto probabilmente se quella frase l'avesse detta
un tizio qualunque, l'avrei ucciso senza pensarci due volte.
«Non ne sto fuori finché parlate di Charles. Che sta succedendo? Perché
siamo qui? Tu... Tu sei morta, cristo, non ci capisco più nulla»
«Morta?»Connor
perse l'espressione colpevole e mi fissò confuso, quasi preoccupato, convinto
che stessi delirando «Se fosse morta come potrebbe
essere qui?»
Mi calmai ed espirai con la bocca, condensando altro vapore acqueo «Infatti questo è un sogno, non c'è altra spiegazione. Non... Io non...»
Mi poggiò una mano sulla spalla «Calmati» mi scostai. Essere compatito era l'ultima cosa che volevo.
«Io non volevo... Non è stata colpa mia» barcollai, facendo due passi indietro. Cercai il suo sguardo per capire
se credeva alle mie parole, ma ovviamente non fu così.
«Stai male?» Come potevo anche solo sperare?
Le avevo mentito sull'unica promessa che le avessi fatto, non potevo pretendere
fiducia.
«... Devi credermi»
«Nostro figlio non è come te, Haytham» ignorò totalmente il mio discorso e cambiò argomento, come se non le
importasse nulla di ciò che avessi da dire, di ciò che provavo. «Ha un cuore diverso e obiettivi differenti, smettila di portarlo dalla
tua parte.» E quando mai ci avevo provato?
Non trattenni una risata nervosa. Quello era il colmo. «La vostra collaborazione finisce qui, gli hai fatto compiere troppi
sbagli» prese Connor per mano, tirandolo piano verso
di sé. Guardai il ragazzo, gli occhi fissi sulla madre, capo chino. Spostai lo
sguardo verso sinistra, dando una rapida occhiata al paesaggio ed espirando
ancora con la bocca.
«Dì qualcosa, Connor, per l'amor di Dio» giocava sporco? Avrei tentato la stessa cosa.
«... Ha ragione. Mi dispiace, Haytham»
Serrai i pugni «Non ti sei mai lamentato o
sbaglio? Non quando ti ho dato un letto a Fort George, e nemmeno quando ti ho
dato fiducia lasciandoti con Charles.» Perché davanti a lei fai la vittima? Stupido ragazzino. Tiio assottigliò lo sguardo, fissando Connor,
che abbassò gli occhi, vergognandosi di se stesso, e poi me. Scosse la testa
con disappunto e delusione. Mi fece male al cuore.
«Andiamocene» serrò la presa sul polso del
ragazzo e lo strattonò, dove gli alberi si diradavano, verso una pianura
completamente innevata, protetta dagli alberi solo da un lato. Connor non oppose resistenza, lasciandosi tirare.
«Ehi!» Mi destai solo dopo una ventina
di secondi, tempo sufficiente per farli allontanare abbastanza. Iniziai a
correre, inzuppandomi i calzoni a furia di cadere in avanti ogni volta che la
neve cedeva. «Aspettate!» Avevo il fiato corto, i muscoli delle gambe indolenziti e rigidi come
tronchi. Salii su un albero abbattuto per recuperare qualche metro, ma la neve
ghiacciata non fece attrito, facendo scivolare il piede di lato e
sbilanciandomi.
«Merda» mi rialzai con ancora il fiato
corto, la gola mi bruciava e sentivo il forte bisogno di pisciare, ma ripresi a
correre. Ignorai la fitta al fianco destro e imprecai, maledicendo la loro
agilità nel correre su terreni inagibili come questi. Rallentai gradualmente e
mi appoggiai ad un albero, constatando con disappunto che non li avrei mai
raggiunti. Erano in lontananza, non più grandi di due noci, iniziai a vederli
sfocati.
Strizzai gli occhi, sperando di
mettere a fuoco «Tornate qui!» Perché urlavo? Non mi avrebbero mai sentito, e anche se fosse, non mi
avrebbero dato ascolto. Iniziai a perdere le forze e senza un motivo apparente
guardai a terra, dove i miei piedi sparivano nella neve macchiata di sangue.
Boccheggiai, risalendo con lo sguardo lungo la scia scarlatta che dal terreno
saliva, imbrattando stivali, calzoni e redingote, fino alla ferita al fianco.
Saaalve a tutti.
No, non ho assunto sostanze di nessun tipo, lol, le
parole apparentemente senza senso hanno un significato reale nella lingua
Mohawk. Sono impazzita per trovarle, dannati indiani. Sì, ora capisco Haytham e il suo odio per questa lingua.
Va beh, non commento il capitolo, a voi la parola, ewe.
Come sempre grazie a tutti, vi vogliobbene (?). A
presto :)
«Sto bene, ragazzo, sto bene» aiutai George Washington a
rialzarsi, notando dopo qualche secondo la chiazza di sangue sulla manica della
giacca, poco sopra il gomito. Constatai subito che non era nulla di grave, ma
non riuscii a non ripensare alle parole di mio padre, prima che lo lasciassi
solo a Valley Forge. Non ero ancora riuscito a capacitarmi che l'ordine di
distruzione del mio villaggio fosse uscito dalla bocca del comandante. Non
volevo che anche lui fosse quel tipo d'uomo, eppure fui costretto ad ammettere
che su questo Haytham aveva ragione. I buoni
propositi e le idee politiche che condividevamo non dovevano e non potevano
cancellare gli errori commessi, sarebbe stato sciocco non accettare la realtà
dei fatti. Speravo solo che mia madre capisse. Non me la sentivo di mettere a
repentaglio la Rivoluzione per... Diavolo, per così poco. Mi sentivo in colpa a ritenere meno importante la
salvezza della mia gente. La vita di una persona cara vale più o meno della
libertà di un paese? Il sacrificio del singolo per un bene superiore può essere
ignorato?
Mi vergognavo a pormi certe domande, e pregavo di trovare le
risposte il prima possibile.
Sbuffai, osservando Washington, sorretto da due uomini,
uscire dalla sala. Il presentimento che mio padre fosse coinvolto in questa
faccenda iniziava a farsi sempre più spazio dentro me, e la cosa non mi
piaceva. Speravo di non dover più discutere con lui, sapevo che nessuno dei due
avrebbe cambiato idea, e neanche lo pretendevo, chiedevo solo che non mi
costringesse a fare sul serio, anche se non mi sembrava interessato o
preoccupato per come avrei potuto reagire.
Non volevo ucciderlo. Ero quasi certo che avesse chiesto a
Johnson di comprare la terra per tenerla al sicuro, ma non mi piaceva il resto.
Avevo ancora impressa l'immagine del mercenario di Church, con la testa
sfondata e grondante di sangue, accasciato nella neve e dimenticato anche da
Dio. Rabbrividii.
«Che riflessi! I miei complimenti, Connor, se non fossi intervenuto il nostro comandante sarebbe
in una cassa a tre metri sotto terra»
Guardai Adams senza troppo entusiasmo. «Dovere» gli diedi una pacca leggera sul
braccio. «Scusami,
devo andare»
mi allontanai senza attendere risposta, imboccando il corridoio.
Con la sua ultima trovata, Haytham
aveva dato dimostrazione della sua vera natura, facendomi perdere quella poca
fiducia che avevo riposto nei suoi buoni propositi di vederci uniti.
Tornai alla tenuta a piedi, scorgendo le stalle di Achille
solo a sera inoltrata. Mi scaldai le mani e accelerai il passo, ripensando a
ciò che mi era venuto in mente durante il tragitto. La verità era che non
conoscevo mio padre, né come uomo né come genitore. Sapevo a malapena le sue
idee politiche e le armi che usava, per questo non riuscivo a fidarmi di lui. E
non avevo nemmeno nessuno a cui chiedere un giudizio imparziale. Achille me lo
aveva da sempre descritto come un folle conquistatore, Charles Lee era forse il
meno indicato, che vedeva Haytham come un Dio sceso
in terra col solo scopo di accudirlo e farlo diventare il suo successore.
Sbuffai, creando un po' di condensa. Mia madre mi aveva
raccontato poco e niente, che era stato un soldato, se non ricordo male, e che
era uno importante, un pezzo grosso, insomma. Avrei tanto voluto avere una vita
normale, senza nemmeno conoscere Assassini e Templari.
Aprii la porta della tenuta e mi scaldai le mani. Stavo
vacillando e non mi piaceva. Non dovevo, non ora.
«Bentornato, Connor» mi voltai a destra, trovando
Achille seduto al tavolo con una bottiglia di chissà cosa in mano.
Presi posto davanti a lui e lo guardai con dispiacere,
constatando che in quei pochi anni la vecchiaia l'aveva indebolito senza pietà.
«Sono stato al Congresso
Continentale»
accennai. Pensandoci bene non trovavo le parole. Non avevo le prove che il
tizio che aveva tentato di uccidere George avesse un legame con mio padre, era
una sensazione, ma parlare male di lui con Achille mi sembrava ingiusto. «Un uomo ha sparato a Washington,
ma fortunatamente ho evitato il peggio» si versò altro liquore nel
bicchierino, bevendone il contenuto in un sorso solo.
Tossì piano, lanciandomi uno sguardo stanco. «C'era anche Haytham?»
Annuii, decidendo di fidarmi ancora una volta del mio
Maestro. «Credo...
Credo sia stata opera sua» calò il silenzio ed io abbassai lo sguardo sul ripiano,
udendo solo il bicchierino riempirsi ancora una volta. «Ma il problema non è questo» lo guardai. «Non cambierò mio padre e nemmeno
ci provo. Credo di aver dimenticato la ragione per cui ho preso questa strada.
Volevo salvare il mio villaggio e vendicare mia madre, ma oggi ho salvato il
suo assassino per uno scopo più grande» strinsi i pugni con rabbia,
mentre gli occhi iniziavano a pungere. La cosa che mi spaventava di più era
che, forse, mi sarei fatto meno problemi ad uccidere mio padre piuttosto che
Washington.
Achille impugnò meglio il bastone, alzando lo sguardo verso
il camino e poi sulla libreria, osservando le costine dei libri impolverati. «Ogni uomo fa le sue scelte. Tu hai
preso certamente quella più saggia.»
«Ma fa male» incalzai. «Non avere giustizia mi fa male. La
guerra non è una giustificazione, ha ucciso gente che non era schierata, questa
faccenda verrà dimenticata una volta finito il conflitto.» Serrai i denti. Come mio padre,
anche il comandante in capo era protetto dalla posizione che ricopriva, non
poteva essere processato e, a meno che non l'avessero ucciso, non avrebbe mai
pagato per l'errore commesso.
«La vendetta non porta mai nulla di
buono, ragazzo. Consuma il cuore e lo spirito»
«Ma molte volte porta giustizia»
«Pensa alle famiglie dei soldati
inglesi. Anche loro vorrebbero vendetta, suppongo» tenni lo sguardo basso, non del
tutto convinto. Se Washington non meritava la morte nonostante le azioni
compiute, allora Charles la meritava per un'intenzione?
Sospirai, mentre Achille beveva l'ennesimo bicchierino. Non
avevo altra scelta se volevo davvero capire cosa fare.
Mi alzai, consapevole che quella era l'unica soluzione.
«Hai già un piano?» Non domandai altro, capendo
subito che si riferiva a mio padre.
«Sì» dissi voltandogli le spalle e
uscendo dalla sala. «Aspetto solo il momento più adatto» svoltai l'angolo,
sparendo dietro il muro e riparandomi dai suoi occhi dubbiosi e indagatori. Mi
portai entrambe le mani sugli occhi. Non ero più sicuro di voler uccidere Haytham, non che avessimo chissà che rapporto, però ero
convinto di non saperne abbastanza per decidere della sua sorte.
Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi e sospirai. «Ci vediamo» aprii la porta ed uscii di nuovo,
rabbrividendo per lo sbalzo termico. Aveva iniziato a nevicare, ma non me ne
curai. Il freddo che sentivo sul viso non avrebbe retto il confronto con quello
che avevo dentro da anni.
Corsi a New York senza fermarmi, un po’ per il gelo, un po’
perché temevo di cambiare idea e tornare alla Tenuta. Probabilmente era una
follia, anzi, lo era sicuramente. Haytham non avrebbe
apprezzato per niente, ma per il momento questo dettaglio passava in secondo
piano. Preferivo vederlo furioso che morto, ecco. Era pur sempre mio padre e
avevo il diritto di sapere chi era realmente.
Raggiunsi le guardie posizionate all’entrata, sperando mi
riconoscessero ancora.
«Devo parlare con Haytham» dissi solo. I due si guardarono dubbiosi, poi quello a
destra mi fece un cenno scocciato, spostandosi di un passo. Sei pazzo, questa è follia. No. Devo sapere.
Ci ammazza, ne sono sicuro. Non
morirà nessuno, né io né lui. Spero.
Entrai dentro il forte, andando velocemente verso la rampa di
scale che portava agli alloggi. Pregai con tutto me stesso di non incontrare
Charles. Forse era vero, era una pazzia, però avevo scelta? Le avevo pensate
tutte, ma mio padre continuava a stare fermo sulle sue convinzioni, senza
nemmeno provare ad avvicinarsi alle mie. Mi sarei avvicinato io alle sue.
Il corridoio era libero, quindi ne approfittai per correre
silenziosamente fino alla porta di Haytham. Mi presi
un secondo per leggere la targhetta d’oro appesa, che aveva il compito di
ricordare a chiunque passasse di lì che lui era il Gran Maestro.
Aprii senza neanche bussare, cosa che l’avrebbe fatto
alterare non poco.
«Connor? Che diavolo fai qui a quest’ora?» Richiusi e portai mano al tomahawk. «E non si usa più bussare?» Aveva notato il mio movimento, ma
non disse nulla, limitandosi ad aggrottare impercettibilmente le sopracciglia. Credeva
fossi lì per ucciderlo?
«Mi dispiace, davvero» avanzai di qualche passo,
annullando i pochi metri di distanza.
«… Cosa vuoi fare?» Mi fissò con astio, spostandosi
di lato e facendo scattare la lama celata.
Sfilai l’arma dalla cinta e la maneggiai un paio di volte, senza
tuttavia avvicinarmi. «Non quello che pensi. Scusami» roteai il tomahawk
impugnandolo al contrario, poi scattai verso di lui che, impreparato, perse i
sensi dopo la botta in testa ricevuta. Lo presi in tempo, trascinandolo fino al
letto e adagiandolo con cura sul materasso, poi mi guardai intorno. Ed era lì,
aperto sulla scrivania. Il diario. Trattenni il respiro e mi avvicinai, fino a
riuscire a leggere le ultime parole scritte. Era la cosa giusta, sì. Solo così
l’avrei conosciuto per quello che era.
Soffiai sulla candela e me ne andai con la vita di mio padre
nascosta nella tunica, sperando che almeno così le cose mi sarebbero state più
chiare.
Salve a tutti :3
Non so se Connor abbia le
conoscenze per dire “sbalzo termico”, nel caso mi scuso, lol,
ma “differenza di temperatura” suona malissimo.
Dai, la smetto di essere cattiva con l’indianino e ringrazio
come sempre chi segue, recensisce e chi legge soltanto. Vi vogliobbene
(?).
Avvertenza: le parti in corsivo sono tratte da “Forsaken” di
Oliver Bowden.
Capitolo 23
Uscii
da Fort George con un peso nel petto che non riuscivo a spiegarmi. Era il
rimorso per aver stordito Haytham con così poca grazia o per avergli sottratto
il diario? Forse era preoccupazione. Preoccupazione per come avrebbe reagito.
Lo sentivo
quasi bruciare sotto la tunica. La curiosità che mi punse improvvisamente mi
spinse ad accelerare il passo. Potevo conoscerlo, finalmente. Non pensai ad
altro per tutto il tragitto, avevo finalmente l’opportunità di scoprire, in
parte, chi fosse realmente mio padre.
Quando
rientrai alla tenuta notai con piacere che Achille si era ritirato nella sua
stanza, quindi salii anch’io al piano superiore. Mi sedetti sul letto con una
strana ansia, guardando poi la copertina rigida in pelle del diario di mio
padre. Ansia per cosa, poi? Forse non volevo scoprire cose di cui mi sarei
pentito. Magari ne avrei conosciute di positive. Sospirai e lo aprii senza
riflettere oltre:
Io ero uno dei fortunati,
con dei genitori che volevano bene a me e alla mia sorellastra Jenny, che mi
parlavano di povertà e di ricchezza, […] un privilegiato, non come i bambini
che dovevano lavorare nei campi, nelle fabbriche e inerpicarsi su per i camini.
A volte, tuttavia, mi chiedevo se quei bambini avessero amici. E se ne avevano,
pur non invidiando le loro vite, sapendo che la mia era molto più confortevole
invidiavo loro gli amici.
Mi sentivo invisibile, come
se fossi bloccato in un limbo tra passato e futuro. Attorno a me gli adulti
intrattengono colloqui carichi di tensione. I loro volti sono tirati e le
signore piangono.
Ogni giorno, o a mezzogiorno
o dopo cena, a seconda del programma di lavoro di mio padre, ci riunivamo in
quella che chiamavamo la stanza dell’addestramento, ma che era semplicemente la
stanza dei giochi. E fu lì che la mia abilità con la spada iniziò a migliorare.
[…] E in quella sala mio padre, gli occhi lucidi, vispi ma gentili, sempre
sorridente, sempre pronto a incoraggiarmi: parata, copertura, gioco di gambe,
equilibrio, affondo. Ripeteva quelle parole come un mantra, a volte era tutto
ciò che ripeteva per l’intera lezione, urlando i comandi, annuendo quando li
eseguivo bene, scuotendo la testa quando sbagliavo.
Per me quelli sono, o erano,
i suoni e gli oggetti dell’addestramento alle armi: gli scaffali per i libri,
il tavolo da biliardo, i mantra di mio padre e suono del… legno.
Sì, legno. Con mio grande
dispiacere ci esercitavamo con spade in legno. L’acciaio l’avremmo usato in
seguito, diceva ogni volta che mi lamentavo.
L’amore
che provavo per mio padre minacciava di continuo di sommergermi con la sua mera
grandezza: più che amarlo lo idolatravo. A volte era come se noi due
condividessimo una conoscenza segreta al resto del mondo.
Smisi
di leggere per un secondo e guardai fuori dalla finestra. Avrei tanto voluto un
rapporto del genere con lui o con mia madre. Un po’ lo invidiavo, ad essere
sincero, ma non lo perdonavo per avermi negato quest’occasione, per avermi
costretto e rubargli il diario per conoscerlo, per diffidare così di lui. Non
c’era modo di provare amore per lui, né come figlio e nemmeno come marito.
Girai
pagina:
Mio
padre era solito dire: «Per vedere in modo differente, bisogna prima pensare in
modo differente», e ciò potrebbe suonare stupido o io potrei ripensarci anni
dopo e ridere, ma a volte era come se sentissi il mio cervello espandersi per
guardare il mondo con gli occhi di mio padre. Lui aveva un modo che nessun
altro aveva o così mi pareva; un modo che sfidava l’idea della verità.
«Come
va l’addestramento alle armi, se posso chiederlo?»
«Molto
bene, signore. Miglioro di giorno in giorno, o così sostiene mio padre.»
«Ottimo,
ottimo. E vostro padre vi ha mai rivelato lo scopo del vostro
addestramento?»
«Mio
padre dice che il vero addestramento inizierà il giorno del mio decimo compleanno.»
«Ecco,
mi chiedo cosa avrà da dirvi», disse Birch, accigliato. «Davvero non ne avete
idea? Neppure un sospetto?»
«Nossignore. So solo che mi
fornirà un cammino da seguire. Un credo.»
Un
credo. Appresi quindi che mio padre venne allenato fino ai dieci anni senza
sapere il motivo, con lo scopo di far parte della Confraternita insieme a suo
padre.
Corsi verso le scale
pensando solo a raggiungere i miei genitori.
L’atrio era buio, ma
colmo di grida e piedi che correvano e dei primi riccioli di fumo.
Tentai
di orientarmi. Da sopra giunse un altro strillo e vidi delle ombre danzanti sul
balcone e, brevemente, il balenio dell’acciaio nelle mani di uno dei nostri
assalitori. Stava combattendo con uno dei camerieri personali di mio padre, ma
la luce svolazzante mi impedì di vedere il destino di quel povero ragazzo. Udii
invece il sordo tonfo del suo corpo quando cadde dal balcone sul pavimento in
legno, non molto distante da me. Il suo assassino lanciò un urlo di trionfo e
io lo sentii correre verso le camere da letto.
«Madre!»
Chiamai, lanciandomi su per la scala nello stesso momento in cui vidi la porta
della camera dei miei genitori spalancarsi e mio padre uscire per affrontare
l’intruso. Indossava i calzoni e aveva tirato le bretelle sulle spalle nude, i
capelli erano spettinati e sciolti.
[…] Ma poi sentii un grido
provenire dall’interno della stanza dei giochi e ciò bastò per farmi
oltrepassare la porta. La prima cosa che vidi fu che lo scomparto nella libreria
era aperto e che dentro c’era la scatola con la mia spada. Per il resto la
stanza era come sempre, come l’avevamo lasciata dopo il mio ultimo allenamento,
con il tavolo da biliardo coperto e spostato per creare lo spazio per
addestrarmi, dove precedentemente quel giorno ero stato istruito e rimproverato
da mio padre.
Dove ora mio padre
era inginocchiato, morente. In piedi davanti a lui c’era un uomo con una spada
infilata fino all’elsa nel petto di mio padre, con la lama che sporgeva dalla
schiena da cui gocciolava sangue. Non molto distante c’era l’uomo dalle
orecchie appuntite, una grossa ferita in faccia. Ce n’erano voluti due per
sconfiggere mio padre, e solo per poco.
[…] e mi ritrovai a
terra, stordito, disteso di fronte a mio padre che giaceva sul fianco con la
spada infilzata nel petto. Nei suoi occhi c’era ancora vita e le palpebre batterono
per un attimo, come se cercasse di mettermi a fuoco. Per un momento giacemmo
così, l’uno di fronte all’altro, due uomini feriti.
[…] «Padre…» dissi,
ma in quell’istante l’assassino si avvicinò a noi e senza fermarsi si chinò ed
estrasse la spada dal corpo di mio padre che sobbalzò, s’inarcò in un ultimo
spasimo di dolore, mentre moriva.
Sentii
gli occhi pungere, quindi li chiusi, passandomi rapidamente la manica sulle
palpebre. Eravamo simili, dopotutto. Avevamo entrambi visto morire un genitore.
Sapeva cos’avevo passato, e nonostante questo non mi aveva dato conforto.
«Mi
dispiace, è veramente troppo pericoloso entrare, signorino Haytham», ripeté il signor
Birch. Poco dopo mi fece risalire nella carrozza, batté due volte con il bastone
sul soffitto, quindi partimmo.
«In
ogni caso», aggiunse, «ieri mi sono preso la libertà di recuperare la vostra spada»
[…]
«La notte dell’assalto, avete ucciso un uomo», riprese poi, girando la testa
per guardare fuori dal finestrino. Era ancora presto. Le strade erano
silenziose. «Che cosa avete provato, Haytham?»
«Stavo
proteggendo mia madre, signore.»
«Quella
era la vostra unica opzione, Haytham», concordò, «e avete fatto la cosa giusta.
Non pensate neppure per un attimo di avere sbagliato. Ma l’essere stata la
vostra unica opzione non cambia il fatto che non è una faccenda da poco
uccidere un uomo. Per nessuno. Non per vostro padre. Non per me. Ma soprattutto
non per un ragazzino tanto giovane.»
Sfogliai
ancora, sperando di arrivare al punto in cui arrivò qui, nel Nuovo Mondo.
«Non è molto
lontana», mi disse Charles. E io immaginai o sentii veramente il mio cuore
battere più forte. Era passato molto tempo da quando una donna mi aveva fatto
sentire così. Avevo trascorso la vita o studiando o spostandomi di continuo e,
per quello che riguardava le donne nel mio letto, non ce n’era stata una importante:
le lavandaie durante la vita militare con le guardie Coldstream, le figlie di
miei padroni di casa, donne che mi avevano dato conforto e sollievo non solo
fisici, ma che non avrei mai descritto come speciali. Questa donna, invece…
avevo visto qualcosa nel suo sguardo, come se fosse la mia anima gemella,
un’altra persona solitaria, un’altra guerriera, un altro spirito acciaccato che
guardava il mondo con occhi stanchi.
L’amo?
Trovo
arduo rispondere a questa domanda. Tutto ciò che sapevo era che mi piaceva stare
con lei e apprezzavo il tempo passato insieme.
Lei
era… diversa. C’era qualcosa in lei che non avevo mai trovato in nessun’altra donna.
Quello spirito di cui avevo parlato prima emergeva in ogni sua parola e gesto. Mi
scoprivo a osservarla, affascinato dalla luce che pareva infiammarle gli occhi
e a chiedermi, a continuare a chiedermi, cosa succedeva dentro di lei. Che cosa
stava pensando. Pensavo che mi amasse. Dovrei dire che credo mi ami,
sicuramente mi trova simpatico. C’è così tanto di lei che tiene nascosto. E,
come me, sa che l’amore non potrà progredire, che non potremo vivere le nostre
esistenze insieme, né nella foresta né in Inghilterra, che ci sono troppe
barriere tra noi e le nostre vite insieme: la sua tribù, tanto per cominciare.
Non vuole abbandonare la sua vita. Il suo posto è con la sua gente, deve
proteggere la sua terra, una terra che ritengono minacciata da persone
come
me. Pure io ho una responsabilità verso la mia gente. I principi del mio Ordine
sono in linea con gli ideali della sua tribù? Non ne sono sicuro. Se mi
chiedessero di scegliere tra Tiio e gli ideali in cui mi hanno cresciuto, cosa
sceglierei?
Questi
sono i pensieri che mi hanno tormentato nelle ultime settimane: anche mentre mi
abbandonavo a queste dolci ore rubate con Tiio, mi chiedevo cosa fare.
Deglutii
a fatica, come se incastrato in gola avessi un sasso abbastanza grosso da
soffocarmi. Leggere quelle parole rivolte a mia madre mi fece male al cuore,
facendomi sentire in colpa verso Haytham per le cose che gli avevo detto
qualche sera prima, a Fort George. Non potevo stabilire se l’avesse amata sul
serio, è una cosa così soggettiva l’amore, ma confermai ciò che avevo sempre
sostenuto: mio padre non voleva distruggere il villaggio. Già il fatto che si
fosse posto il problema di scegliere tra l’Ordine e mia madre mi rincuorava.
Il
tempo aveva avuto un impatto negativo sul suo aspetto e, sebbene ci fosse
ancora un barlume della sua antica bellezza, gli scuri capelli erano ora
striati di grigio, il volto era teso e rugoso e la pelle opaca, con scure
occhiaie sotto occhi stanchi. […] Mentre la fissavo, Jenny lanciò un’occhiata
dall’altra parte del cortile e mi vide. Per un attimo corrugò la fronte,
perplessa, e io mi chiesi se, dopo tutti questi anni, mi avesse riconosciuto.
«Jenny,
sono io. Sono Haytham».
Mentre
pronunciavo quelle parole, mi guardai nervosamente in giro, ma nel cortile era
tutto come prima, nessuno si era accorto di ciò che stava accadendo sotto il portico;
«Haytham»,
mormorò, «sei venuto a prendermi.»
«Sì,
Jenny, sì», risposi sottovoce, provando uno strano miscuglio di emozioni, almeno
una delle quali era senso di colpa.
«Sapevo
saresti venuto», aggiunse. «Lo sapevo.»
«Dimmi
che è morto. Dimmi che lo hai ucciso.»
Lacerato
tra il desiderio che rimanesse in silenzio e quello di sapere chi intendesse, sibilai:
«Chi? Chi devo dirti che è morto?»
«Birch»,
esclamò e questa volta a voce troppo alta. Oltre la sua spalla vidi una concubina.
Mentre scivolava verso di noi sotto il portico, forse diretta alla stanza del bagno,
mi era sembrata persa nei suoi pensieri, ma al suono di una voce aveva alzato gli
occhi e la sua espressione di tranquilla serenità fu sostituita da una di
panico e subito si sporse nel cortile e gridò l’unica parola che avevamo tutti
temuto.
«Guardie!»
Smisi
di respirare. Birch? Tornai indietro di una trentina di pagine e rilessi
il cognome. Birch. Reginald Birch che, da quel che avevo intuito, si era
occupato di mio padre dopo la morte di mio nonno, diventandone il Maestro. Con
che cuore? Con che coraggio aveva preso sotto la sua ala protettiva Haytham
sapendo di essere l’assassino di suo padre?
Non
molto distante da me, Holden ne aveva abbattuti tre, ma ora le guardie ci avevano
valutati e si stavano avvicinando con cautela, raccogliendosi per combattere, mentre
noi ci riparavamo dietro le colonne e ci scambiavamo occhiate preoccupate, chiedendoci,
se saremmo riusciti a tornare alla botola prima di venire annientati.
«Fuggite
voi due», mi esortò Holden da sopra la spalla.
«Neanche
per idea!» ribattei. Ci battemmo contro un altro attacco. Un eunuco cadde
morendo con un gemito. Neppure morendo, neppure con una spada nelle viscere,
questi uomini gridavano. Oltre le spalle di uno di quelli che avevamo davanti a
noi vidi che altri si stavano riversando nel cortile. Erano come scarafaggi. Ne
uccidevamo uno solo per vederne due prendere il suo posto.
«Andate,
signore!» insistette Holden «Li trattengo, poi vi seguirò.»
«Non
dite assurdità, Holden», urlai, senza riuscire a evitare un tono di scherno
nella voce. «È impossibile trattenerli. Vi uccideranno.»
«Mi
sono trovato in situazioni peggiori di questa, signore», borbottò Holden, continuando
a fendere colpi. Percepii comunque nella sua voce la falsa spacconeria.
«Allora
non vi importerà, se resto», replicai, schivando i colpi di spada di un eunuco e
sferrandogli un pugno in faccia che lo fece roteare su se stesso.
«Andate
via!» gridò Holden.
«Moriamo.
Moriamo entrambi», replicai. Ma Holden aveva deciso che non c’era più tempo per
la gentilezza. «Ascoltatemi, amico, o voi due ve ne andate di qui o non lo farà
nessuno. E allora che succederà?»
Nello
stesso istante, Jenny mi stava tirando la mano, la porta della stanza del bagno
era aperta, e altri uomini stavano arrivando da sinistra. Esitai, fin quando,
scuotendo la testa, Holden si girò bruscamente e gridò: «Dovete scusarmi,
signore», e, prima che avessi il tempo di reagire, mi spinse attraverso la
porta e la chiuse. […] Dall’altra parte della porta sentii i rumori del combattimento,
una strana battaglia silenziosa, e poi un rumore sordo contro la porta, cui
seguì un grido, un grido che apparteneva a Holden.
«Forza,
castrati, fatemi vedere come ve la cavate contro uno degli uomini di sua
maestà…». L’ultima cosa che sentimmo, mentre percorrevamo di corsa il
corridoio, fu un grido.
Al
mercato di Damasco avevo scoperto che Holden non era stato ucciso, come avevo pensato,
ma catturato e trasportato in Egitto nel monastero copto di Abou Gerbe, dove trasformavano
gli uomini in eunuchi. Per questo motivo ero venuto qui, pregando di non
arrivare troppo tardi, anche se, in cuor mio, sapevo che così sarebbe stato.
Era troppo tardi.
Con la
guardia morta dietro di me, entrai guardingo nel recinto. Era buio e per guidarmi
avevo solo la luce della luna, ma vidi che la sabbia attorno era sporca di sangue.
Quanti uomini, mi chiesi, avevano sofferto qui, mutilati e poi sepolti fino al collo?
Da poco distante giunse un fioco lamento e io strizzai gli occhi e notai una forma
irregolare al centro del recinto e compresi immediatamente che apparteneva al
soldato
semplice James Holden.
«Holden»,
sussurrai e un attimo dopo ero accovacciato dove la sua testa sporgeva dalla
sabbia, inorridito da ciò che vedevo. La notte era fresca, ma di giorno faceva caldo,
un caldo infido e il sole l’aveva scottato così tanto che pareva che la pelle
gli fosse caduta dalla faccia, ustionata. Le labbra e le palpebre erano
incrostate e sanguinanti, la pelle rossa e screpolata. Aprii una fiaschetta d’acqua
che avevo a portata di mano e gliela tenni vicino alle labbra.
«Holden?» ripetei. Lui si
agitò, aprì gli occhi e li mise a fuoco su di me, occhi acquosi e colmi di sofferenza,
ma mi riconobbe e lentamente sulle sue labbra, spaccate e pietrificate, apparve
l’ombra di un sorriso.
Poi,
rapidamente come era apparso, svanì e cominciò a contorcersi. Non capii se stesse
tentando di tirarsi fuori dalla sabbia o se fosse stato colpito da una convulsione,
ma sbatteva la testa da una parte all’altra, la bocca spalancata, e io mi
chinai in avanti e gli presi il viso tra le mani per impedirgli di farsi del
male.
«Holden»,
mormorai. «Holden. Smettetela, per favore…»
«Tiratemi
fuori di qui, signore», disse con voce stridula, gli occhi lucidi nella luce lunare.
«Tiratemi fuori.»
«Holden…»
«Tiratemi
fuori di qui», implorò. «Tiratemi fuori di qui, signore, per favore, adesso, signore…»
Più
scavavo, più la sabbia era nera di sangue. «Oh, mio Dio, cosa vi hanno fatto?» Ma
già lo sapevo e, in ogni caso, ne ebbi conferma poco dopo, quando arrivai alla vita
e la trovai avvolta in bende, anche quelle nere e incrostate di sangue.
«Fate
attenzione là sotto, signore, per favore», disse sottovoce, e capii che era trasalito,
e che si stava mordendo la lingua per il dolore.
La
prima cosa che sentii al mattino fu un grido. L’urlo di Jenny. Era entrata in cucina
e aveva trovato Holden appeso a una corda per asciugare i panni. L’avevo saputo
prima ancora che si precipitasse in camera mia, avevo capito cosa era accaduto.
Aveva lasciato un biglietto, ma non ne avrebbe avuto bisogno. Si era ucciso per
ciò che gli avevano fatto i preti copti. Tutto qui, nessuna sorpresa, realmente.
La
morte di mio padre mi aveva insegnato che uno stato di torpore era un buon indice
del dolore che sarebbe sopravvenuto. Quanto più uno si sente paralizzato, stordito
e sconvolto, tanto più lungo e intenso sarà il periodo del lutto.
[…] Charles,
la mia mano destra, che si sedeva con me ogni volta che ero nella stanza, la
cui devozione era tale che a volte la sentivo come un peso, altre volte come
una grande fonte di forza.
Che
Charles Lee fosse il prediletto di mio padre mi era sempre stato chiaro, ma
capii che l’affetto che Haytham riversava su di lui era, forse, quello che non
aveva potuto dare a questo Holden. O quello che lui per primo non aveva
ricevuto. Non ero sicuro di questa interpretazione, ma pensai istintivamente a
Kanen’tò:kon. Conoscevo bene la sensazione che si
prova nel perdere un amico, nel caso di mio padre forse l’unico che avesse mai
avuto, date le circostanze della sua infanzia.
Richiusi il diario tenendo l’indice in mezzo per non perdere
il segno. Mi si era chiuso lo stomaco. Riaprii il diario e lo appoggiai sul
letto con la copertina rivolta verso l’alto, poi mi alzai, dirigendomi verso il
bagno per sciacquarmi il viso. Notai che mi tremavano le mani quando le immersi
nel catino pieno d’acqua fresca. Eravamo uguali. Ci distinguevamo solo per
alcuni ideali, ma erano più le somiglianze che le differenze. Non era giusto
ucciderlo, e in quel momento mi resi conto che sottrargli il diario fu la cosa
più sensata che avessi potuto fare. Non avrebbe mai raccontato nulla di tutto
questo se gliel’avessi chiesto.
***
Per un attimo non credetti ai miei occhi. Sapevo
dove mi trovavo, riconoscevo quella radura, quegli alberi e quegli odori. Ero
all’interno del villaggio di Tiio, in parte me lo suggeriva l’istinto, perché
nulla era come ricordavo, ma ad aiutarmi furono le capanne in cui vivevano e la
staccionata che ne delimitava il perimetro. L’aria era pesante, calda e intrisa
di cenere, molte delle abitazioni –primordiali, ma pur sempre tali- erano
infuocate e ai nativi poco importava di vedere i loro averi bruciare, poiché
troppo impegnati a combattere contro i soldati dell’Esercito Continentale.
Alzai un sopracciglio. Continentale? Avevo visto
bene?!
Avanzai di qualche passo senza saper che fare,
vidi un armadio indiano combattere a mani nude contro un uomo armato di
moschetto, strapparglielo di mano e conficcargli nel ventre la baionetta. Dalla
stazza lo scambiai per Connor, ma mi accorsi dell’errore quando vidi il suo
volto allarmato girarsi verso di me e guardare oltre la mia figura. Mi voltai
seguendo la traiettoria del suo sguardo appena in tempo per vedere due soldati
sparare a bruciapelo ad un nativo, il quale cadde con un tonfo, esanime.
Mossi istintivamente un passo verso di lui, ma mi
fermai bruscamente quando, alla mia sinistra, vidi mio figlio. E non ebbi dubbi
dopo aver visto il tomahawk –seppur non indossasse la tunica da Assassino-.
Piantò l’accetta nella fronte di un uomo senza troppi problemi e istintivamente
mi avvicinai.
«Ragazzo»
posai la mano sulla sua spalla, o almeno, l’intenzione era quella. Passò oltre
la sua carne, come se davanti avessi un fantasma «Connor!» Alzai
la voce per farmi udire, ma si allontanò senza neanche voltarsi. D’accordo, non
ero stato un padre esemplare, affettuoso o altro, ma diamine, l’indifferenza
totale era esagerata, no? Gli andai dietro, nonostante questo. Dando una rapida
occhiata avevo contato una ventina di nativi, i soldati saranno stati almeno il
doppio, non avevano molte speranze, avrei potuto aiutarli. Portai una mano alla
cintura e afferrai l’elsa, estraendo la spada e conficcandola nella schiena di
un nemico alle spalle di Connor. Niente sangue, niente urla di dolore, solo il
clangore della lama contro l’accetta del ragazzo che, fulmineo, si era voltato
per parare l’attacco. Inconsapevolmente mi sentii più leggero nel vederlo
ancora vivo, e mi trovai faccia a faccia con lui quando il soldato cadde a
terra tra me e mio figlio.
«Che
sta succedendo?» Gli domandai. Non rispose,
si limitò a roteare il tomahawk e correre in soccorso di altri nativi.
Rinfoderai la spada e calciai un sasso, frustrato e incredulo del fatto che
sembrassi esterno alla situazione. Non meritavo un trattamento simile, cristo,
non…
«Che mi
venga un colpo» non riuscii a trattenermi
quando, esattamente di fronte a me, lontana una trentina di metri, vidi Tiio.
Era lei, mi ci sarei giocato le palle, cazzo, l’avrei riconosciuta ad occhi
chiusi. Era immobile, circondata da cadaveri, nella mano destra un pugnale, gli
occhi fissi su un punto indefinito davanti a lei.
Corsi
nella sua direzione. Com’era possibile? Come poteva essere viva se Connor era
già ventenne? Mi fermai al suo fianco e ripresi fiato, mi ignorò anche lei. Gesù,
mi odiavano così tanto?
«Perché
state combattendo contro i soldati di Washington? Che cazzo sta succedendo?» Non
ottenni nemmeno la sua attenzione, il che mi fece imbestialire oltre ogni mia
aspettativa «Credi che ignorandomi
risolverai la situazione? Posso aiutarvi, maledizione» serrai
i pugni e aspettai due secondi, poi le passai una mano davanti al viso.
Sembrava incantata. Notai i suoi muscoli facciali contrarsi, solo in quel
momento mi decisi a voltarmi nella sua stessa direzione per capire cosa
l’avesse colpita e per poco non bestemmiai. Non apertamente, almeno.
Washington, Putnam e Arnold, in sella ai loro cavalli, ci fissavano ghignando
dall’alto delle loro selle. George, al centro, borbottava qualcosa, lo capivo
dal labiale.
«Non
vorrai fare ciò che penso, vero?» Tornai
a rivolgermi a Tiio, che fissava il comandante con astio. «Per
carità di Dio, l’hai già atterrato una volta, vattene da qui. Ci penserò io» non
mi degnò neanche di uno sguardo.
«Non
potrete mai vincere!» Si rivolse a George
avanzando di un passo, fiera e senza timore. La seguii con gli occhi, Dio, e vi
chiedete perché l’amassi?
Lui
rise divertito «Tu. Sei ancora viva?
Sorprendente» mi voltai verso Washington
poggiando la mano destra sul calcio della pistola che avevo alla cintura «stavolta
mi accerterò che tu muoia»
tentai di metterlo a tacere, ma ciò che vidi mi fece morire le parole in gola.
Aveva la Mela incastonata in uno scettro, l’aria da folle che decisamente non
gli si addiceva, proprio no. Insomma, stiamo parlando di George Washington, il
comandante con la carriera più patetica della storia, chi se lo immaginerebbe
con un’espressione assassina sul volto? Io no, affatto.
«Come
l’avete ottenuta?» Domandai, ma nemmeno lui mi
rispose, dedicandosi esclusivamente a Tiio.
Fu
un attimo, serrò la presa sul pugnale e partì correndo verso di lui.
«No!» Le
andai dietro senza pensarci e sfoderai la pistola pronto a sparare, ma
Washington sollevò lo scettro, scatenando un fascio di luce dorata che la
investì in pieno. La vidi accasciarsi a terra, mollare il pugnale e abbandonare
questo mondo ancora una volta. Mi fermai, incredulo: non una ferita, non un
segno, sembrava semplicemente svenuta.
Rialzai
lo sguardo su George, che fissava il cadavere di Tiio ghignando soddisfatto.
Impugnai meglio la pistola e gliela puntai contro «Figlio
di puttana» premei il grilletto due
volte, colpendolo al petto e al viso, ma non cadde da cavallo. Abbassò lo
scettro e proseguì, anche lui privo di ferite, come se non ci fossi.
Gli
sparai di nuovo «Muori, bastardo! Muori!»
«Madre!» Mi
voltai, vedendo Connor correre verso di me.
«Si sta svegliando»
Aprire gli occhi e trovare Jenny e Charles al mio capezzale
era una delle ultime voci della lista delle cose da fare. Eppure erano lì,
entrambi sconvolti, mia sorella intenta a stringere la mano destra di Lee per
trovare un po’ di conforto. Sentii pungere le ghiandole salivari, temendo
seriamente di rimettere la cena.
Perché continuavo a sognarla? Ogni volta era una pugnalata al
cuore.
«Siete sveglio, finalmente» mi tirai su, la testa dolorante e una gran sete. Non feci
domande, ricordavo perfettamente ciò che era successo.
Connor. «Quel grandissimo
figlio di puttana»perdonami,
Tiio. Tu hai colpe quanto me, cioè zero.
«Haytham» oh,
dimenticavo che dinnanzi alla principessina Scott non era ammesso un linguaggio
tanto scurrile. Che razza di educazione avevo ricevuto? Mascalzone, signorino
Haytham.
«Che cazzo c’è?» Sì, lo facevo di proposito. Mi comportavo da persona matura,
insomma.
«Si può sapere che è successo? Ti ho trovato svenuto su letto
con un bernoccolo in fronte»
ovviamente. Non poteva non lasciare tracce del suo passaggio, il selvaggio.
Tastai piano il durone e soffocai a stento una bestemmia, ricordando solo in
quel momento il dettaglio principale: il diario. Quella ragazzetta aveva
pensato bene di farsi i cazzi miei dall’inizio alla fine.
«Lo ammazzo» furono le
prime parole che mi uscirono di bocca. «Parola mia che l’ammazzo»
Charles sgranò gli occhi «Chi?»
«Chi, secondo te?!» Sbottai istericamente «Connor, ecco chi! Figlio o non figlio ha le ore contate.»
Mi alzai
incurante del mal di testa e ignorando gli strepiti isterici di Jennifer. Mi urlava
di starmene a letto, come se perdere tempo a poltrire potesse calmarmi. Certo,
come no. Lei non aveva un figlio di vent’anni, ma adolescente cerebralmente,
che si divertiva rubando il diario personale di suo padre. No, quella fortuna
era capitata solo a me.
Attraversai
il piazzale di Fort George ed entrai nella stalla, sellando il primo cavallo che
mi capitò sotto mano e partendo al trotto verso quello sputo di terra di cui
tanto si vantava Achille. Che bruciasse, ecco cosa speravo. Lui e quella
catapecchia che si ostinava a definire casa.
Vedere
in lontananza il tetto della tenuta soltanto all’alba riaccese l’istinto
omicida che avevo represso fino a quel momento, e tentai di scaricare la
tensione stringendo le briglie. Mi permisi di entrare nelle scuderie Davenport
per sistemare il cavallo. Lo legai semplicemente ad un gancio ed uscii,
dirigendomi a grandi falcate verso la porta.
«Connor!» Bussai con decisamente poca grazia. «Apri questa
cazzo di porta o giuro che la butto giù!» Solo in quel momento pensai che forse
dormissero tutti, e in cuor mio speravo fosse così, meritavano un risveglio
tutt’altro che piacevole.
Salve.
Sì, mi diverto a far sognare Tiio ad Haytham, lol. A proposito,
è tratto dal DLC “La tirannia di re Washington”. È una bastardata? Suppongo di
sì, ewe. Per chi non sapesse chi è Holden –o meglio, per chi non riuscisse a
dargli un volto-, è quel simpatico personaggino -che compare per venti secondi all’inizio
di ACIII- che accompagna Haytham a teatro.
Detto questo, ringrazio come sempre chi legge e lascia un
commento, a lunedì prossimo :3
Un Templare che prende in prestito un medaglione per
aprire una grotta -rischiando di rivelare nozioni in grado di migliorare il
Mondo- è uno sporco ladro che merita l'impiccagione, ma un Assassino che ruba
il diario personale di un altro individuo è perdonato, poiché lo fa a fin di
bene. Spiegatemi il perché.
Ero frustrato come poche altre
volte nella vita. «Connor!» Indietreggiai di un passo e
sferrai un calcio sperando di abbatterla, fallendo miseramente l'entrata
teatrale che mi ero immaginato. In che modo avrei potuto ucciderlo? Sgozzato? Nah. Troppo rapido e indolore, troppo sangue da pulire.
Evirato? Gesù, scusami, Holden. Bruciato?.... Merda, Tiio.
Impiccato? Un bello spettacolino, mi sarebbe piaciuto vederlo agonizzare mentre
il poco ossigeno che aveva nei polmoni lo abbandonava lentamente, ma la corda
al collo mi rievocava brutti ricordi. Un colpo di pistola per ogni arto e un
quinto in testa? Come sprecare munizioni, non meritava tutta questa
considerazione. Avrei sempre potuto ridurlo ad un colabrodo a furia di
infilzarlo con la spada. Sì, sarebbe stato anche divertente, tutto sommato, se
non per il piccolo dettaglio che mi ricordasse mio padre. Affanculo.
«Smettila di dare colpi» riaprii gli occhi posandoli su Connor, stranamente senza la sua sottana da Assassino. Che qualcuno da lassù preghi per
l'incolumità del mezzosangue.
«Tu.. » annullai la distanza con una
falcata e lo afferrai con entrambe le mani per la maglia vecchia e sgualcita,
spingendolo in casa. «Come cazzo hai osato?!» Gli mollai un pugno sul naso.
Vederlo indietreggiare ma non cadere mi mandò in bestia. Ci sono andato leggero, mh? Rimedio subito.
Lo afferrai con rabbia per il
colletto e lo spinsi, sbattendolo al muro con forza.
«Fossi in te chiederei aiuto ai
tuoi amici spiriti, magari ti preparano un posticino nell'aldilà!»
«Aspetta..» avevo già il pugno chiuso e i
muscoli tesi per lo sforzo, ma mi bloccai lasciandolo a mezz'aria. Mi
incuriosiva, dopotutto. Era così complicato capire quello che gli passava per
la testa, che tappargli la bocca quando voleva parlare di sua volontà era quasi
un peccato. «Consapevolezza»
Serrai i denti, ringhiando. «Mi prendi in giro?!» Se sperava di salvare la pelle
utilizzando i termini del mio credo si sbagliava di grosso. Avrei scommesso
qualsiasi cifra sul fatto che non ne sapesse nemmeno il significato.
«Ho letto spesso questa parola nel
tuo diario. Era quello che cercavo» lo guardai severo, senza capire. «Mi dispiace.»
«La tua pietà è l'ultima cosa che
voglio» era questo ciò che temevo di più.
Odiavo il fatto che gli altri potessero guardarmi con occhio caritatevole solo
per ciò che avevo vissuto. Odiavo essere compatito, aiutato, consolato. Odiavo
immaginare ciò che la gente poteva pensare di me se solo avesse saputo della
mia infanzia felice, e già dicevano
peste e corna su mio padre. Dov'è scritto che chi soffre merita la stima e il
perdono? Io le meritavo? Non credo. E se qualche prete coraggioso mi avesse
purificato l'anima, il merito non sarebbe stato di certo del dolore tipico
degli orfani.
«Per tuo padre. Mi dispiace.» Sì, dispiaceva anche a me, ma che
avrei dovuto fare? Sbandierarlo ovunque per ricevere le condoglianze da tutta
New York? «E
anche per te, so cosa vuol dire veder morire un genitore» abbassò lo sguardo.
«Ti è servito a cosa?, mh?» Lo scrollai malamente per risvegliarlo dal torpore. «Adesso ti è più chiaro il quadro
della mia vita? Sei stato illuminato sul perché delle mie azioni? Hai capito il
motivo per cui sono partito abbandonando questo povero bambino?» Alzai il tono della voce e lo
sbattei al muro ancora una volta. «Per quale cazzo di motivo dovrei
giustificarmi con te?» Mi faceva male il petto da quanto forte batteva il cuore, e
la testa non era da meno, dato che da dieci minuti circa cercava di non
assecondare la vocina omicida che mi suggeriva di sgozzare Connor
come un maiale. «Che cazzo devo fare con te?!» Urlai «Eh?» Colpii la parete lì dove la tappezzeria
era strappata, esattamente ad un palmo dall'orecchio sinistro di mio figlio. Si
sforzò di restare impassibile, ma il riflesso involontario delle ciglia parlò
per lui.
«Io... Io...»
«E smettila di balbettare come una
ragazzina in piena tempesta ormonale» e se avevo immaginato di veder
spuntare qualche pugnale pronto a trapassarmi da parte a parte, la reazione di Connor mi fece ancora più male, dato che non solo non
l'avevo nemmeno presa in considerazione, ma la rifiutavo con tutto me stesso.
Mi abbracciò. Prima timidamente,
poi serrando la presa sulla redingote. Mi trovai stretto a lui, incapace di
reagire o pensare. Desiderai ardentemente che si staccasse, perché io non ero
in grado di farlo. Picchialo e vattene.
Oh, avrei voluto farlo, ma uno strano calore al petto mi impediva di immaginare
il ragazzo col naso rotto e un fiume di sangue in bocca. Ah, quanti sentimentalismi. Sto invecchiando.
«Ragazzo, smettila» mi ritrovai a poggiare una mano
sul suo petto e a spingere per interrompere quel contatto poco desiderato, ma
la stretta di Connor si fece più forte. Aprii la
bocca col respiro spezzato «Co-Connor!» Esercitai più pressione più che
altro per riprendere a respirare, ma sembrava fossi intrappolato in una
trappola mortale. «N-Non… respiro!»
«Mi dispiace, davvero» quel concetto l’avevo capito,
giuro.
«Lasciami- grugnii espirando
pesantemente. C’era qualcosa che non andava. Avevo notato qualcosa nel tono di
voce, troppo teso e acuto rispetto al normale.
Persi definitivamente la pazienza
quando iniziò a singhiozzare contro la mia spalla. Gesù, questo è troppo. Gli mollai una ginocchiata tra le gambe
senza troppi indugi, costringendolo a piegarsi e a mollare la presa. Indietreggiai
affannato fino ad appoggiare la schiena al muro opposto, sconvolto e incredulo
per ciò che stavo vedendo.
Con le mani sul cazzo e la testa
abbassata, attesi che facesse una mossa, una qualsiasi, per tentare di capire
cos’avesse in mente. Deglutii quando alzò il viso, mostrando appena gli occhi
gonfi, lucidi e arrossati.
«Cosa diavolo…?» Portai una mano in avanti per
calmarlo, ma sembrò quasi che il mio movimento l’avesse snervato. Infatti scattò,
ringhiando e afferrandomi il polso con una mano. Mi colse di sorpresa,
riuscendo a piegarmi il braccio dietro la schiena e a sbattermi contro il muro,
che ebbe un impatto piuttosto violento con il mio naso.
«Ah, merda» istintivamente tirai su,
consapevole che ingoiare non fosse esattamente salutare. Sempre meglio che la redingote sporca. «Perché?» Non chiesi altro, poiché quella
domanda racchiudeva tutto quello che avevo da dire. A cosa dovevo quella
reazione? «Allora?» Non disse nulla, dato che un
calcio nelle reni non equivaleva a rispondere.
Soffocai il lamento e tentai di
liberarmi, divincolando il polso destro e pregando che scivolasse tra le dita
forti e allenate del ragazzo. Sentii l’osso scricchiolare e imprecai, se avesse
stretto ancora un po’ me l’avrebbe spezzato come un legnetto secco.
Cazzo, pensa. Pensa a qualcosa o sei fottuto. Pensare? Dio, con quel dolore al
braccio mi era quasi impossibile, quindi agii d’istinto. Tirai una capocciata
all’indietro, colpendogli in pieno il naso. Sentii il polso libero nello stesso
istante in cui Connor emise un lamento, quindi ne
approfittai per sgusciare via e correre verso la porta. Era rimasta aperta, per
mia fortuna, e mi precipitai fuori saltando gli scalini due a due.
Feci appena in tempo a toccare il
suolo con un piede, che l’ombra del ragazzo oscurò la mia, facendomi intuire
mezzo secondo prima ciò che stava per accadere. Rotolammo entrambi giù per la
collina, verso la stalla, lui con l’intenzione di artigliarmi il viso o il collo,
io tentando di tenerlo il più lontano possibile da me. Perché improvvisamente
voleva uccidermi?
Istintivamente alzai la gamba
sinistra, affondandogli lo stivale in pieno stomaco e sbalzandolo via di
qualche metro, lasciando che rotolasse via. Ne approfittai per rialzarmi e
correre verso la stalla prima che si rimettesse in piedi, quindi sciolsi il
nodo delle briglie attorno al gancio e montai in sella col fiato corto.
Mi assicurai che entrambi i piedi
fossero saldi sulla staffa, concedendomi un secondo per guardare il ragazzo
inginocchiato sull’erba, sporco di terra e col naso sanguinante. Colpii il
fianco del cavallo con il tallone e partii, ancora scioccato e accaldato per il
pestaggio appena avvenuto. Mi allontanai di corsa dal terreno Davenport più
arrabbiato di prima, consapevole di aver lasciato il diario nella tenuta, nelle
grinfie di quel vecchio pazzo del ragazzino squilibrato.
Saaaaalve. Anche voi state
ancora rotolando causa troppo cibo ingerito nelle vacanze? lol,
io sì.
Ma parliamo di cose più interessanti, come ad esempio Connor e i suoi sbalzi d’umore, ewe.
No, non sono impazzita, capirete tutto più avanti, sperando che Haytham intanto non muoia a causa del mezzosangue isterico,
lol.
Va beh, terminiamola qui prima che divaghi e inizi a parlare
male di Connie.
Grazie come sempre a chi legge e una brioche calda –sì, nel
caso vi interessasse le ho appena sfornate- a chi recensisce.
Il sapore della birra mi tornò in
bocca dopo aver risalito l’esofago, costringendomi a serrare le labbra per
bloccare un eventuale rigurgito di bile e alcool. Ero al quinto boccale di
birra, forse il sesto, e avevo mangiato solo una misera minestra a base di
cereali e legumi.
Un povero vecchio, ecco cos’ero.
Un vecchio inutile che perdeva tempo in una taverna a tracannare birra invece
che aiutare l’esercito. Mi correggo: a tracannare birra e a tentare di capire
perché Connor –non l’avessi mai generato- andasse
fuori di testa senza un motivo apparente. Insomma, non sarà stato di certo la
ginocchiata ai gioielli, vero? Perché se il motivo era quello, diavolo, avrei
avuto tutte le ragioni del mondo per chiamarlo checca isterica. Dah, tanto lo è comunque.
In quel momento avrei tanto voluto
essere sopra il cadavere di Washington a deliziare le pupille con il suo collo
lacerato da orecchio a orecchio, il sangue ancora caldo a imbrattarmi le mani e
il cuore accelerato battere contro la cassa toracica. Oh, sì. Una seratina
tranquilla, direi.
«Tutto bene?» Alzai una mano in direzione dell’oste,
preoccupato forse per la mia brutta cera. Sì,
amico, mi sto sbronzando, e a te non dovrebbe importare finché ho denaro
sufficiente per pagarti da bere. Guardai il fondo di birra rimasto,
portando poi il vetro alle labbra e bevendo fino all’ultima goccia come se dentro
in realtà ci fosse acqua, e non alcool pronto a darmi alla testa. La gola
bruciò e il nuovo liquido ingerito mi annebbiò i sensi. Decisi quindi di dare
ascolto alla vocina che mi suggeriva di restarmene lì, sbracato sul bancone per
smaltire la sbornia. Sbronzo con solo sei birre? Io? Non ditelo a mio padre, vi
prego.
Quando rientrai a Fort George fui
sollevato dal fatto di aver già cenato e poter ritirarmi subito nella mia
stanza. Mi sentivo come se non dormissi da più di ventiquattr'ore, tra George e
Connor mi stavo consumando più di quanto mi
aspettassi.
Entrato nella mia stanza mi tolsi
tricorno e redingote, poi slacciai le polsiere con le
lame celate, appoggiandole sulla scrivania. Mi gettai sul letto vestito senza
nemmeno togliermi gli stivali, quindi chiusi gli occhi sperando di assopirmi il
prima possibile.
Le palpebre erano pesanti quasi
come quando lavoravo per Braddock. Con quel tizio non
si aveva tempo per riposare, talvolta neanche di notte, Lee poteva capirmi
bene.
Stunk.
Aprii gli occhi e voltai lentamente
il capo verso destra. Cosa diavolo era stato?
Stunk.
Scattai seduto. Chi osava
interrompere il mio sonno? Che stessero attaccando il forte?
Allungai il collo in direzione
della finestra. Tutto tranquillo. E poi c’erano guardie ovunque, no, era da
escludere.
Stunk.
Guardai il soffitto. Proveniva dal
piano superiore.
Un momento. Gli alloggi di Charles
erano al secondo piano.
Stunk.
«Ma che cazzo…» mi tolsi uno stivale e lo lanciai
contro il soffitto «Lee! Fa' un po' di silenzio, sant'Iddio!» Lo stivale cadde con un tonfo, che sperai
fosse seguito da un lungo silenzio.
Stunk.
Bestemmiai a mezza voce, quindi mi
alzai e afferrai lo stivale, infilandolo. Raggiunsi la porta con tre falcate e
l'aprii, pronto ad andare da Charles a dirgliene quattro.
Imboccai il corridoio e salii le
scale che portavano agli alloggi del mio pupillo, ma quando terminai gli
scalini iniziai a sentire strani versi. Erano curiosamente acuti e cadenzati. A
primo impatto parvero gemiti, o forse lo erano.
Sbuffai, venendo invaso da un
orribile presentimento. «No, Charles, no!» Ringhiai avanzando. Non c'erano
donne a Fort George, figuriamoci se Lee portasse qui una puttana per divertirsi
la notte, quindi la risposta mi fu chiara.
Stunk.
Misi una mano sulla maniglia della
porta di Lee, davanti agli occhi avevo la targhetta col suo nome e il grado
militare. In quel momento avrei tanto voluto declassarlo a stalliere, ma sapevo
che spalare merda per qualche mese non sarebbe servito, poiché era l’unico in
grado di prendere il mio posto e sarei stato costretto a ritirare tutto. Grandissimo figlio di puttana.
«Oh, Dio, sì!» Oh, la prima frase di senso
compiuto che sentii. Risi nervosamente sull'orlo di una crisi isterica e
spalancai la porta con un calcio. Che effetto sorpresa, eh?
«Sì, Charles, sì!» Fu questa l’accoglienza che mi
riservò quella cagna di mia sorella, che affondava le unghie nella schiena di
Charles e urlava senza ritegno.
«Charles Lee!» Lo urlai, sperando di fargli
afflosciare l’uccello in meno di mezzo secondo. La mia ombra si stagliò con
prepotenza sul muro improvvisamente illuminato, e Charles si staccò dal corpo
accaldato e nudo di Jenny come se avesse preso fuoco.
«Ma-Mastro Kenway…» deglutì, rabbrividendo. Gli volevo
bene come un figlio, ma provai una strana e macabra voglia di tagliargli le
palle e appenderle in bella vista al portone di Fort George. State tranquilli, e scusate se ho interrotto
la vostra scopata.
«Oh, cielo!» Jenny afferrò il lenzuolo per
coprirsi il petto mentre, affannata, mi guardava furibonda. Lei. Lei osava
essere incazzata con me.
«È inutile che ti agiti tanto per
coprire quelle prugne secche.» Gesù, per quanto fossi incazzato con Charles, ammisi che per
eccitarsi guardando quelle poppe cadenti e rugose ci volesse stomaco. Mi tornò
in mente il seno sodo di Tiio e scossi la testa. No.
Non era il momento giusto.
«Signor Ken-»
«Signor Kenway
questo gran cazzo, Charles!» Sbottai «Che diavolo v'è saltato in mente?» Anche se, a dire la verità, mi era
piuttosto evidente.
«Facciamo quello che ci pare, caro
fratellino. Non ti dobbiamo spiegazioni» Lee si voltò verso Jenny, ammirato
e sconvolto dal tono con cui osava rispondermi. Oh, lui non avrebbe mai avuto
il coraggio di parlarmi in quel modo, diamine, sapeva bene che l’avrei
rivoltato come un calzino.
«Tu, cane!» Lo indicai, mentre tremava senza
le forze per alzarsi dal letto. Cristo, una scopata valeva così tanto? Era
seriamente disposto a giocarsi l’uccello pur di fottere Jennifer almeno una
volta? «Meriteresti di girare per New York
nudo come un verme!» Dio, lo dissi per rabbia, ma a pensarci a mente lucida
sarebbe stato divertente. Amici
cittadini, vorrei presentarvi Charles Lee, mio successore come Gran Maestro
Templare che ha commesso il gravissimo errore di scoparsi mia sorella. Un
applauso, gentilmente.
«Calmatevi, Signore. Posso spiegare» alzò
le mani sperando di calmarmi, ma non funzionò affatto.
«Cosa c'è da spiegare? Che fossi
tra le sue gambe mi pare piuttosto evidente» raggiunsi il letto con due falcate
e scostai il lenzuolo, scoprendolo e rendendolo totalmente indifeso.
«Signore, avanti, stavamo solo…» lo afferrai per un polso tirandolo
giù con la forza, per poi girargli il braccio dietro la schiena. «Lo giuro sul mio onore, tengo
veramente a Miss Jennifer, altrimenti sarei andato in un bordello, non credete
anche voi? … Ahia!» Ignorai la dichiarazione d’amore di Lee e lo spinsi verso la porta, ancora
aperta. Sapevo che sarebbero finiti a letto, avrei dovuto capirlo dalla prima
volta che si videro, qui a Fort George.
«Onore?» Sogghignai «Charles, non parlare di onore con
quella sottospecie di sigaro calpestato che hai tra le gambe»
«Haytham, lascialo stare!» Strillò Jenny in sua difesa,
ahimè, inutilmente.
La ignorai bellamente e uscimmo in
corridoio.
«Ah! Signore, questo è un colpo
basso.»
E chi se ne frega.
«Non costringermi a dartelo
fisicamente, il colpo basso. Spero di essere stato chiaro»
Mi
implorò con lo sguardo di non farlo. Almeno
quello. Era già messo male di suo «Cristallino»
«E ora piantala di sventolare quella lumaca e cammina!»
«No!» Mi voltai, vedendo Jennifer avvolta
nel lenzuolo che, per metà, strisciava per terra. Che schifo.
«Lascialo stare, Haytham. È partita da me. Gli ho detto io che volevo
passare la notte insieme.» Quanto coraggio, davvero. Mi venne
spontaneo domandarmi come mai tutta questa grinta non l’avesse tirata fuori la
notte del tre Dicembre 1735, mentre nostro padre tirava le cuoia.
Soffocai
una risata nervosa. «Perdona
la mia crudeltà. Dimenticavo che certe abitudini non si abbandonano così
facilmente, vero? Mi duole dirlo, ma qui non siamo al palazzo Topkapi.» Che
razza di fratello, eh? Ero arrivato a portarla in salvo troppo tardi, proprio
quando aveva compreso che aprire le gambe era l’unica cosa che sapesse fare.
La
vidi sgranare gli occhi, indignata, mentre Charles, nudo e infreddolito, la
fissava senza capire. «Come
osi? Maledetto bastardo, come?» Si avvicinò, tenendo il lenzuolo con una mano e sollevando l’altra,
nel tentativo di colpirmi. La spinsi via senza fatica, sabotando l’ultimo
tentativo di Lee di liberare il polso.
«Muoviti» lo condussi giù per le scale fino
a raggiungere il pianterreno, e solo in quell'istante capì.
«Oh, no. No, Signore. Ditemi che
non farete ciò che penso!» Mi sentivo in colpa? No. Era Charles, gli
volevo ancora bene come un figlio, e proprio per questo andava punito.
«Non sono ancora in grado di
leggere nelle menti altrui, ma ritengo tu sia abbastanza sveglio da immaginare
le mie intenzioni» contro ogni mia aspettativa, mi uscì una voce fredda e
impassibile, nonostante fossi divertito, in fondo.
«Signore, vi prego, farò tutto ciò
che volete, ma non potete farmi questo, morirò!» Aprii la porta che si affacciava
sul piazzale del forte e lo spinsi fuori, sempre tenendogli il braccio dietro
la schiena.
«Starai al fresco per un po',
magari ti si calmano gli ormoni» lo mollai, spintonandolo in avanti.
Barcollò per qualche metro, poi si
voltò verso di me sfregandosi le mani sulle braccia. «Mastro Kenway…
È notte fonda, vi imploro, morirò assiderato» giunsi le mani dietro la schiena
come ero solito fare e lo guardai sogghignando.
«Vedila come una prova, Charles. Se
domattina non avrai le sembianze di un ghiacciolo, forse potrei lasciarti
sfogare gli istinti su mia sorella» feci per girarmi e rientrare, ma mi
fermò, indignato.
«Io e Miss Jennifer speriamo in
qualcosa di più solido!» Abbassai lo sguardo, facendolo scivolare sul suo uccello.
«Più del tuo cazzo, sicuramente» roteò gli occhi, esasperato.
«Queste battute di infimo livel-»
Lo
interruppi. «Buonanotte.»
Slam.
Sì, cari lettori, questa scena doveva esserci. Insomma, volevate
negare a Charles il piacere di pucciare il biscotto?
Okay, okay, non è il caso di scendere nei dettagli, quindi
concludo ringraziando chi legge e lascia un commento :).
Restai a guardare Charles dalla finestra per qualche minuto,
provando qualcosa di simile alla pietà e al senso di colpa nel vederlo lì, in
piena notte, col culo all’aria nel piazzale di Fort George. Tremava ad ogni
lieve spostamento d’aria, tentando di scaldare le membra strofinandosi le mani
addosso.
Poi, però, mi tornò in mente l’immagine in cui cavalcava mia
sorella e puff,
la preoccupazione scomparve, tornando da dove era venuta. Schifoso bastardo. Gli lancia un’ultima occhiata severa,
osservandolo mentre si accovacciava tra il muro che dava a sud e delle casse di
legno, nella vana speranza di ripararsi dal vento.
Lo sguardo basso, pentito. Forse arrabbiato, reputando la
punizione troppo rigida o addirittura insensata, ma non tornai sui miei passi,
avrei perso credibilità agli occhi di tutti. Giammai.
Me ne andai così, passo lento e mani dietro la schiena con
una stanchezza addosso che non avevo da anni.
«Charles?» Dei passi veloci e leggeri
percorsero il corridoio venendo nella mia direzione, e pochi secondi dopo vidi
sbucare da dietro l’angolo Jenny, ancora avvolta nel sudicio lenzuolo in cui si
era rotolata con Lee. «Tu!» Si arrestò di colpo, puntandomi un dito contro «Dove hai portato Charles?» Mi fermai, fissandola
indifferente. Lì dentro comandavo io, cristo, questo dettaglio sfuggiva un po’
troppo spesso per i miei gusti. Prendevo io le decisione, e sempre a me
spettava qualsiasi giudizio riguardo il comportamento dei miei sottoposti.
Oltre al fatto che fosse l’ultima arrivata, con che faccia osava contestare il
mio volere? Andiamo, era stata una concubina per tutta la sua triste esistenza,
quanto poteva valere la sua parola lì dentro?
Assottigliai ancora di più lo sguardo, per quanto fosse
possibile. «Dove
è giusto che sia»cioè non nel tuo letto.
«Dimmi che almeno sta bene» la voce preoccupata non mi scalfì
nemmeno.
«Non saprei, suppongo di sì» iniziavo ad averne abbastanza
delle loro avventure da innamorati. Non avrei permesso che distraesse Charles
dal nostro scopo primario, non l’avrei lasciato scodinzolare dietro alla sua
bellezza appassita con gli anni. Oh, chi volevo prendere in giro? Non c’era
stata mai nessuna bellezza esagerata. Mia sorella era semplicemente… Carina,
sì, ma nella norma. Indubbiamente piaceva, all’epoca, e mi chiesi spesso il
perché. Era piuttosto arrogante e acida, supponente e presuntuosa,
difficilmente l’avrei sopportata a lungo se fosse andato tutto liscio quella
famosa notte.
«Come sarebbe suppongo?!» Roteò gli occhi, volgendoli per caso sul piazzale interno
del forte. Ah, il richiamo dell’amore.
«Sant’Iddio, Charles!» La imitai, individuando Lee
proprio mentre starnutiva. «Fallo rientrare immediatamente! Si prenderà un malanno, oh,
cielo, sii ragionevole!»
«Pensa che per un attimo ho pensato
di…» simulai le forbici con le dita,
accompagnando il tutto con uno schiocco di lingua. Sì, giusto per rendere l’idea.
«Non provare nemmeno a portarlo
qui, la porta è chiusa a chiave.» La guardai con aria di sfida. Voleva
mettersi contro la mia autorità? Benissimo, l’avrei accontentata. «E nel caso in cui ti stessi
domandando dove sia la chiave…» misi le mani nelle tasche dei calzoni, facendo chiaramente
intuire dove volessi arrivare «sappi che sono al sicuro. Spero tu non voglia mettere mano
anche lì. Sono pur sempre tuo fratello.»
Spalancò la bocca, indignata. «Sei un lurido figlio di puttana,
ecco cosa!»
Sbraitò. Gesù, se sperava davvero di ferirmi insultando mia madre era
totalmente fuori strada. Anche perché sulla sua –o direttamente su di lei- si
poteva controbattere senza nessuna difficoltà.
Infatti sogghignai. «Quindi è stata lei ad insegnarti i
trucchi del mestiere» insomma, per dare piacere ad un Sultano credo ci voglia
maestria, no? Non le diedi il tempo di formulare una risposta sensata che la superai,
evitando persino di calpestare il lenzuolo.
Per chi si chiedesse se quella notte riuscii a dormire, la
risposta è sì. Non ebbi grandi difficoltà a reprimere il dispiacere, ma la
lucidità prese il sopravvento sulla vendetta, dato che pianificare il funerale
di Washington aveva ovviamente la precedenza.
Alle sei in punto di mattina scesi giù, raggiungendo il corpo
raggomitolato di Charles e svegliando malamente il mio socio lanciandogli
addosso i suoi vestiti.
Sobbalzò senza capire, col viso coperto per metà dai calzoni,
la redingote e la camicia a coprirlo dal petto in giù.
«S-Signore…»
«Alzati e vestiti, abbiamo delle
faccende da sbrigare» iniziò a maneggiare i vestiti di fretta e furia, e non capii
se lo fece per trovare calore il prima possibile o perché sperava di
accattivarsi la mia simpatia per non essere più punito. Ma poco m’importava,
sinceramente, volevo solo che si spicciasse e mi seguisse fuori da Fort George.
«Di che faccenda si tratta?» Charles mi affiancò, finendo di
allacciarsi la cintura. Lo afferrai per un braccio e lo tirai verso la taverna
più vicina.
«La solita.» Non aggiunsi altro ed entrai
facendo cenno all’oste di servirci qualsiasi cosa avessero di commestibile, poi
occupai l’ultimo tavolo sulla sinistra, nell’angolo. Lee mi raggiunse subito,
trascinando la sedia e sedendosi di fronte a me.
Su, forza, non ci vuole niente.
«Prima di iniziare il discorso...» abbassai lo sguardo sul tavolo e
presi fiato «io…
Sì, insomma, credo di aver esagerato ieri sera. Mi dispiace»visto? Non è stato poi così difficile. Charles sorrise appena, come
se aspettasse quelle scuse da un momento all’altro.
«Non importa, avrei dovuto
aspettarmi una reazione del genere, è pur sempre vostra sorella.»
«Ma non hai saputo resistere all’istinto,
dico bene?»
Dissi con una punta di acidità. Sì, mi dava fastidio, nonostante tutto. Jenny,
però, mi stava sul cazzo a prescindere per i suoi modi di fare che non
tolleravo nemmeno a dieci anni, non fraintendiamo.
Deglutì. «Veramente io credo di provare qualcosa per Jennifer.» Ritenni educato non scoppiargli a
ridere in faccia, ma la mia espressione parlò per me. Innamorato di Jenny?
Gesù, doveva aver pregato giorno e notte il Signore per avere la grazia di un
uomo che la sopportasse finché morte non li separi. Li immaginai all’altare e
soffocai a stento una risata. Che funerale avrei dovuto organizzare nel caso si
fossero sposati? Quello di Charles, per il suo suicidio?, o quello di Jenny,
sgozzata dopo due mesi dal maritino follemente innamorato?
«Sono pronto a dimostrarvelo»
Alzai le mani in segno di resa. «Per carità, la scena di stanotte
mi ha turbato abbastanza. Parliamo di George.» Annuì subito, ben felice di
cambiare argomento. «Aggiornami.»
«Ho sentito dai soldati che l’esercito
è a corto di polvere da sparo. Washington sa bene di essere in svantaggio
rispetto alle truppe Inglesi ed evita sempre lo scontro diretto., ma senza
polveri possiamo dire addio alle poche possibilità che avevamo di vincere.»
Sbuffai. «Quello è il meno, il vero problema è lui. Potrebbe avere armi
in quantità industriali che non saprebbe nemmeno da dove iniziare.»
«Intanto pensiamo ad armare l’esercito.
Non c’è bisogno del segnale del comandante in capo per salvare la pelle, sanno
sparare in caso di pericolo. I nostri soldati non sono stupidi, c’è solamente
molta disorganizzazione.» Fui costretto a trovarmi d’accordo con lui. La scarsità di
polvere da sparo era certamente un fattore che ci penalizzava, ma non era il
solo e non si poteva risolvere in fretta.
«Bisognerà chiedere rifornimenti,
sarà una faccenda piuttosto lunga. Intanto, però, possiamo fare una visita al
caro George. Ti va?»
Ogni settimana sempre peggio, lol, va
beh. Lo studio mi sta uccidendo psicologicamente, quindi la faccio breve.
Solo io ho immaginato Charles surgelato con le stalattiti pendenti dai baffi? lol. Non fateci caso, ripeto, è lo studio.
Non vi annoio oltre e ringrazio come sempre chi legge e recensisce, a lunedì
prossimo, ciaaao :3
«Odio la neve» borbottò Charles all'ennesima
volta che sprofondò fino al ginocchio nel soffice manto di acqua ghiacciata.
Eravamo stati costretti a lasciare i cavalli all'ultima locanda incontrata e
proseguire a piedi. Quelle povere bestie non ci sarebbero state d'aiuto su una
strada del genere.
Charles si strinse nella redingote
battendo i denti e lanciando imprecazioni, mentre io mi sentii improvvisamente
più leggero nello scorgere in lontananza i soldati all'entrata
dell'accampamento di Valley Forge. «Grazie a Dio.»
Mi ero già pentito di quella
pazzia. Avrei sicuramente litigato con Washington, mi sarei giocato la testa,
per ottenere cosa, alla fine? Nulla. Non ci avrebbe mai dato retta, quel
vecchio testone, ma tentar non nuoce,
mi ripetevo. È meglio coricarsi con la coscienza pulita piuttosto che con la
consapevolezza di non aver mosso un dito, no? E a dire la verità, non ero fatto
per starmene con le mani in mano e aspettare che gli eventi mi passassero
davanti. Non mi era mai piaciuto lasciarmi scivolare addosso ciò che accadeva
intorno a me, assistere e subire passivamente le decisioni degli altri. Per
carità di Dio.
«Ci siamo» la voce di Charles, sollevato nel
vedere i due uomini infreddoliti, mi destò di colpo.
«Non dovrebbero avere difficoltà
nel riconoscerti, no?»
Si alitò sulle mani, chiuse a
conca davanti alla bocca, creando una nuvoletta di condensa. «No. Non dovrebbero esserci
problemi» sentii gli occhi dei due soldati
puntati addosso nonostante fossimo lontani ancora una trentina di metri. Pregai
che riconoscessero Charles e ci facessero entrare, il vento gelido mi aveva intorpidito
il viso e le mani, e la redingote era così fredda e umida da sembrare zuppa
d'acqua.
Ci fermammo davanti ai due, che a
primo impatto non dovevano avere più di trent'anni. «Generale Charles Lee» si presentò prima che
domandassero chi fossimo.
Il più giovane dei due sgranò gli
occhi, scambiandosi un'occhiata con l'amico come se non credesse alle sue
orecchie. «Quel generale Lee?»
«Il solo e unico, ragazzo.»
«Sia lodato il cielo!» Sbatté il calcio del fucile a
terra, come se quel gesto lo avesse potuto rendere più virile e spavaldo. «Vi ha convocato Washington, non è
così? Finalmente, forse non è tutto perduto!»
«Calma l'entusiasmo» alzò entrambe le mani «sono qui per parlare con il
comandante, non ho nessun ordine ufficiale, purtroppo. Non ancora, almeno.»
«Certo, certo, capisco. Entrate
pure.»
«Un momento!» Parlò l'altro soldato,
bloccandoci sulla soglia. «E voi chi sareste?» Si rivolse a me.
Sbuffai. «HaythamKenway,
e non vedo come il mio nome possa aiutarti a capire chi io sia.» Mi fissò irritato.
«Sta' calmo, Jim» il ragazzino iniziava a starmi
simpatico «possiamo
fidarci se è venuto con il generale Lee.»
L'altro lo guardò compassionevole,
come se fosse l'ultimo degli scemi. D'accordo, in tempo di guerra la prudenza
non è mai troppa, ma dubitando di me stava insultando l'intelligenza di Charles,
che secondo lui non era in grado di accorgersi di una truffa. «Potrebbe essere un impostore, che
ne sai? Ci vuole cautela!»
«Finiscila» il mio pupillo tagliò corto,
stroncando quella discussione senza senso. «Il Signor Kenway
è un mio amico, è una persona fidata e si è offerto di aiutarmi in questa
guerra. Quindi lasciateci passare, è una questione piuttosto urgente.»
Il ragazzo spinse di poco il
compagno. «Hai
visto? Testone!» Ignorai i loro stupidi battibecchi e li superai, seguito da
Charles e dal suo nervosismo. Notai che guardava ogni angolo, ogni particolare,
scuotendo il capo e schioccando la lingua sul palato circa ogni dieci secondi. «Hai visto qualcosa che non va?» Domandai curioso.
«È un disastro» commentò. In risposta sollevai un
sopracciglio e guardai indietro, mentre avanzavamo in direzione della tenda di
George. «Guardate là» indicò un portafucili
rotto con le armi a terra, semi nascoste dalla neve. I rifornimenti malamente
accatastati tra una tenda e l'altra, vicino ai secchi colmi d'acqua che i
soldati usavano per lavarsi -se si lavavano-.
«Cristo»
«È un povero idiota, non conosce
nemmeno le nozioni base come l'igiene o l'ordine delle armi. Dah, per non parlare di loro» seguii il suo sguardo, incontrando
un gruppo di uomini sbracati a terra a riempire lo stomaco di chissà quale
liquore.
«Cerca di stare calmo, d'accordo?»
«So già che non ci riuscirò!
Quell'inetto se ne sta ore e ore nella sua tenda a leggere lettere consumate e
non muove un dito, porca puttana!» Aveva ragione, sembrava che non
gli importasse nulla delle condizioni dell'esercito, e se Connor
fosse stato presente, sarebbe stato costretto ad ammettere che l'organizzazione
non era delle più eccellenti.
«Lo so che vorresti mettergli le mani
al collo, ma vedi di trattenerti.»
«Generale Lee!» Un soldato ci bloccò la strada,
guardando Charles come fosse Dio sceso in terra. «È un sollievo vedervi, grazie per
essere venuto ad aiutarci!» Non aggiunse altro e corse via, forse in qualche tenda, a
ripararsi dal vento pungente e dalla neve che aveva ripreso a cadere.
«Lo conosci?»
«Di vista, credo fosse nella mia
truppa durante la battaglia di Lexington.»
Sogghignai. «Un miracolato, allora.»
«Già» Charles era sempre stato amato dai
soldati, ma dopo Lexington e Concord la loro stima nei suoi confronti era
aumentata, dato che aveva fatto scampare la morte a centinaia dei suoi. Aveva
palesemente disobbedito a Washington, che nella sua ignoranza credeva che
lanciarsi nella mischia avrebbe risolto qualcosa, preferendo la ritirata. Non
capii quale fosse il motivo di tanta rabbia, francamente. Ormai la maggioranza
sosteneva che George fosse un idiota, fallimento più fallimento meno cosa
cambiava? Nulla, tranne, appunto, quei cento e passa soldati in più per noi. E
nonostante tutto, Charles aveva dovuto sopportare in silenzio una lavata di
capo di un paio d'ore, senza mai ribattere o giustificarsi.
«Non pensarci ora, sai che ho
appoggiato la tua decisione, ma non scaldarti per quella faccenda» vidi la tenda del comandante e
istintivamente allungai il passo, impaziente di avere un po' di riparo.
«Fosse facile» fu l'ultima cosa che Lee borbottò
prima di raggiungere George, girato di spalle e ignaro della nostra presenza.
«Comandante.» Charles attirò la sua attenzione,
facendolo voltare di scatto. Realizzò dopo pochi istanti chi aveva davanti, e
mi si gonfiò il petto d'orgoglio nel vedere la sua espressione quando vide il
sottoscritto.
«Voi» disse con acidità «cosa fate ancora nel mio
accampamento?»
Sollevai i palmi. «Calmatevi. Non sono qui per
discutere con voi, ho solo accompagnato il generale Lee a farvi visita. Fate come
se non ci fossi.» Detto ciò abbassai le mani e avanzai verso l’interno della
tenda, trovando un po’ di sollievo. Mi guardò con astio, forse ricordava ancora
il nostro ultimo incontro, quando gli avevo esplicitamente detto che prima o
poi l’avrei ammazzato. Sì, sicuramente era così.
Fortunatamente mi considerò per
poco, concentrandosi poi su Charles, che pazientemente attendeva di essere
ascoltato. «Parlate
allora. Cosa vi porta qui, generale?»
«Il dovere, Signore.» Schiena dritta, braccia lungo i
fianchi. «Ho
ritenuto opportuno venire a darvi qualche consiglio,
se permettete.»
Charles alzò di poco il mento, fiero di sé e della sua parlantina.
«Vi state burlando della mia
pazienza, generale?!» George si sforzò di tenere un tono basso e pacato, ma il
volto paonazzo tradiva il suo autocontrollo. Avrebbe voluto prenderlo a sberle –perché
i pugni erano troppo virili per uno come lui-, ma mai avrebbe osato tanto. Era poco
amato, schiaffeggiare l’idolo di molti soldati non era una mossa saggia.
«No, Signore, con tutto il
rispetto, ma i vostri risultati sono abbastanza scarsi. Di questo passo
perderemo la guerra, se ne rende conto, vero?» Sorrisi impercettibilmente.
Nonostante il contenuto fosse poco gentile, Charles aveva usato toni pacati ed
educati.
«Rispetto!» Urlò con quella sua vocetta
odiosamente acuta. «Io esigo rispetto,
generale Lee, siamo intesi?» Fremeva di rabbia, i pugni chiusi, tremanti, e le nocche
bianche. Osa picchiarlo e ti faccio ingoiare
i denti, George.
Prese a girargli intorno come un
avvoltoio, squadrandolo da capo a piedi con sdegno. «Con che coraggio venite qui a dare
ordini a me? Dovreste essere onorato di essere un mio diretto sottoposto, vi ho
scelto personalmente come segno di stima e fiducia, e voi cosa fate?» Gli si fermò di fronte, sibilando
a denti serrati le ultime parole. «Venite qui per darmi consigli. No, grazie.» Iniziai a tamburellare un piede,
conscio che di lì a breve Charles avrebbe perso l’autocontrollo e gli avrebbe
sputato in faccia.
«Vi sto offrendo il mio aiuto senza
pretendere riconoscimenti, dovreste essermi grato!» Vomitò alzando il tono, i denti
scoperti in una smorfia irritata e le sopracciglia corrucciate. «Parliamoci chiaro, comandante. Se
fossi io a dare gli ordini, se fossi io a dirigere le operazioni, a muovere
le truppe, la situazione potrebbe migliorare.»Anche perché peggio di così si muore.
Washington non rispose. Si limitò
a fissare Lee con odio e a deglutire rumorosamente, lasciandoci col fiato
sospeso per un minuto abbondante.
«Sparite dalla mia vista.» Sibilò infine voltando le spalle a
Charles.
«Ragionate! Volete vincere la
guerra o ne state facendo una questione di orgoglio? Se vi impuntate in questo
modo non otterrete nulla!» Mi trattenni per non intervenire. ‘Sta calmo.
«Andate via, ora!» Guardai Charles ed annuii
impercettibilmente, suggerendogli di dargli retta. Avanzai verso i due, superando
il comandante e affiancando Lee, posandogli una mano sulla spalla per calmarlo.
«Voi state giocando con la vita di
quegli uomini per non darmi la soddisfazione di prendere il comando, non avete
un briciolo di vergogna?» Tentò di avanzare, ma feci pressione con la mano e lo tenni
fermo. «Ve ne state tutto il tempo qui, al
riparo, e in battaglia state nelle retrovie, mandando al macello i soldati, ma
questa situazione non durerà a lungo, statene certo.»
«Adesso basta» gli sussurrai, mentre George
rideva di gusto.
«Impegnatevi pure per togliermi il
comando, generale. La vostra presunzione vi porterà sotto terra prima del
tempo.»
Serrai la presa sulla giacca di
Charles e lo tirai via prima che uno dei due finisse in una pozza di sangue.
Come temevo, la visita si era
rivelata un buco nell’acqua, ma almeno mi confermò ciò che avevo in progetto dall’inizio:
andava ucciso.
Salve :3. Parlo a voi che non apprezzate Charlie: dovete
ammettere che ha dannatamente ragione, su. Templare o no, è un generale con i controcazzi –i francesismi post Unity,
capitemi, lol-.
Ma finiamola qui, tre righe di commenti e ho già scritto
idiozie, quiiiindi ringrazio come sempre chi legge e
chi spreca cinque minuti per lasciare una recensione. Siete l’ammoreh, a lunedì prossimo!
Una volta usciti dall'accampamento
di Valley Forge, Charles calciò la neve, frustrato.
«Figlio di puttana!»
«Calmati» dissi conscio che non mi avrebbe
ascoltato. Che avrei potuto fare? Doveva sfogarsi in qualche modo, e visto che
non poteva prendere a pugni George, lasciarlo inveire contro il comandante era
sicuramente la cosa migliore.
«Pensa all'orgoglio, lui. Pensa a
salvare la faccia! Che cazzo ha da perdere? Ormai la reputazione se l'è
rovinata!»
Lo seguii tenendo le mani dietro la schiena, osservando attentamente
l'accampamento e memorizzando i lati aperti da cui poter entrare senza essere
visti.
«Senti un po'» mi rivolsi a Charles che, però,
borbottava per gli affari suoi.
«È un inetto, un incapace»
«Lee!» Si obbligò a chiudere la
bocca e mi lanciò uno sguardo, quindi parlai. «Conosci bene la struttura di
questo schifo?»
La buttai lì.
Lui aggrottò le sopracciglia,
mettendo poi le mani nelle tasche della redingote. «Sì, perché?»Grazie a Dio. Se fossi una donna ti bacerei.
«Mi serve una mappa anche
abbozzata, segna solo le cose principali. A tua discrezione.» Rifletté in silenzio per qualche
istante, giusto il tempo di percorrere un paio di metri, e allora comprese.
Mi fissò preoccupato. «Non sarà quello che penso, spero.»
«Non so cosa stai pensando, fallo e
basta.» Mentii. Aveva capito, ma volevo
evitare altre discussioni. George sarebbe crepato con o senza il suo consenso.
«Il piano. Washington. Per una
volta non sono d'accordo con voi» e sai quanto me ne frega?
«Così mi ferisci, Charles» ironizzai. Sì, era un
comportamento egoista. Lee avrebbe rischiato abbastanza il culo se al caro
George fosse successo qualcosa, ma l'avevo presa un po' sul personale. Stava
mandando a puttane la guerra e i piani di espansione dell'Ordine, e oltre a
quello aveva ucciso Tiio. Non avevo dimenticato
affatto quella faccenda, mi ero giurato di fargliela pagare, e non sarebbe
stato Charles a farmi cambiare idea. «Hai forse ripensamenti? Mi era
sembrato di cogliere un certo astio fra voi due.»
«In effetti c'è, ed è più che
giustificato, ma mettetevi nei miei panni! Se a quel coglione torcono un
capello ci vado di mezzo io.»
Inchiodai. Stava oltrepassando il
limite. «Quindi che intendi fare, eh?
Lasciargli il comando e far vincere gli Inglesi perché temi che ti arrestino
per un paio di giorni?» Avanzai verso Lee senza mai distogliere gli occhi dai suoi.
Sapevo che non avrebbe rischiato così poco o non avrebbe fatto tante storie. Il
suo sguardo mi pesò, e parecchio. Tratteneva a stento la collera, ferito dal
fatto che avessi altre priorità, che mettessi la guerra prima della sua vita e
della sua carriera militare. Avrebbero potuto allontanarlo dall'esercito se
fosse stato sospettato dell'omicidio di Washington, ma era il prezzo da pagare.
C'è sempre il rischio.
«È facile parlare per voi!» Sbottò acidamente. «Tanto è Charles che va nei casini,
no? Qual è il problema?!»
Lo afferrai per il bavero e mi
imposi autocontrollo per non prenderlo a pugni. Non mostrò nessun accenno di
cedimento, nemmeno un battito di ciglia. «Come, scusa? Credi di essere
l'unico a mettere a repentaglio qualcosa? Come credi reagirebbero i soldati o
gli altri membri del Consiglio se mi scoprissero?, dandomi una pacca sulle
spalle?» Mi afferrò la mano, ancora salda
sulla sua redingote, scostandola malamente.
«Almeno voi una possibilità di
scampo l'avete, io invece no, in ogni caso verrò interrogato. Ma fate pure con
comodo.» Il suo sarcasmo non mi piacque
per niente, tanto meno la sua arroganza che, ad essere sincero, mi aveva
sconvolto. Non si era mai permesso di parlarmi con quei toni, c'era qualcosa
che non andava.
«Lo volevi morto quanto me fino a
qualche tempo fa'. Gradirei sapere cosa ti ha fatto cambiare idea.»
«Non discuterò oltre» e detto ciò riprese a camminare,
lasciandomi a fissare l'albero spoglio e innevato che aveva alle spalle. Lo
guardai, non riuscendo a staccare lo sguardo dalla sua schiena. Mi sentii un
po' bastardo, d'accordo, ma che dovevo fare? Meglio giocarmi la carriera di
Charles piuttosto che la sua e la mia vita. Perché parliamoci chiaro, Fort
George non era una roccaforte inespugnabile, rinchiuderci lì dentro e aspettare
che la guerra finisse non ci avrebbe salvato il culo. A sud era completamente
esposto ai bombardamenti marittimi, un paio di colpi ben assestati e le mura si
sarebbero sbriciolate.
Sbuffai, osservando il fiato
condensarsi, poi ripresi a camminare, guardandomi bene dal non affiancarlo per
evitare altri battibecchi. Era il mio ragazzo, non c'era dubbio. La grinta la
apprezzavo, ma il fatto che mi andasse contro per la prima volta mi aveva
lasciato l'amaro in bocca. Semplicemente non era da Charles, ecco tutto. Lui
era quello che si sarebbe gettato da un campanile se glielo avessi chiesto, e adesso,
di punto in bianco, tornava sui suoi passi dicendo di usare le buone maniere
con Washington, il comandante incapace che gli aveva soffiato il posto da sotto
il naso solo perché Lee aveva origini Inglesi.
Alzai lo sguardo, puntandolo sulla
sua nuca. Non volevo ce l'avesse con me, non volevo neanche litigare, Gesù. In
quel momento poi, che dovevamo restare uniti il più possibile.
Ringrazia Iddio quando vidi la
locanda, i nostri cavalli ancora lì, legati e al freddo, povere bestie. Mi
fiondai dentro, allettato dall'idea di un tè caldo e un letto. Ordinai una
tazza di tè due secondi dopo aver varcato la soglia, poi occupai un tavolo,
seguito da un Charles Lee svogliato. Non dissi nulla, nemmeno quando trascinò
malamente una sedia per prendere posto davanti a me. Lo osservai. Stavo attento
a non farmi notare, ma cercai di capire quale fosse il problema, perché giuro
che non l'avevo capito. Sicuramente una buona fetta di importanza l'avevano la
sua incolumità e la carriera militare, ma c'era dell'altro. Conoscevo Lee fin
troppo bene per lasciarmi ingannare così.
Continuai a guardarlo di sottecchi
anche mentre sorseggiavo il tè, quando improvvisamente alzò gli occhi dal
tavolo.
«Lascio Miss Jennifer.» Per poco non mi strozzai. La
presa sulla tazza si allentò, e lo sballottamento mi gettò in bocca una
quantità eccessiva di liquido bollente. Mi ustionai la lingua e mi sporcai in
calzoni. Merda.
«Cosa?!» Ma un attimo. Lasciare? Quei due avevano davvero una
relazione? Gesù misericordioso, ed io che avevo sperato che fosse solo un anti
stress per entrambi.
«Già, sarete contento, immagino.»
Aspirai aria con i denti serrati
sperando di raffreddare la lingua. «Veramente sono sorpreso» e non poco. «Come mai?»
Parve esitare e, buon Dio, aveva
gli occhi lucidi. «ArtemasWard.
Al Congresso ha sospettato di me per l'attentato a Washington, mi ha
minacciato.»
Datemi dell'insensibile, ma non trattenni una risata.
«Tutto qui?» Insomma, stavamo parlando di
Charles Lee, futuro Gran Maestro Templare, poteva temere una sciocchezza simile?
«Ha intenzione di punire me
prendendo di mira vostra sorella, quindi se taglio ogni legame..» ignorai la voce spezzata e tornai
serio, capendo tutto. Quindi era per questo. Era per Jenny che Charles non
voleva ammazzare Washington, perché temeva la vendetta di Ward.
Lurido ficcanaso.
Sorseggiai ancora il tè, che
intanto si era un po' freddato, mentre Charles riabbassò lo sguardo sul
ripiano. «Non
vorrai mica spezzare il cuore a mia sorella, vero, Charles?» Alzò lo sguardo dal tavolo,
fissandomi con gli occhi lucidi di lacrime.
«... Non potete chiedermi questo,
signore...»
si passò le dita tremolanti sugli occhi per asciugarli e ritrovare contegno,
poi prese fiato «Conosco Artemas, non voglio mettere
in pericolo Jennifer... Non voglio. Non posso» non credevo potesse avere crolli
emotivi del genere. Mi faceva male vederlo così, semplicemente perché nella mia
ingenuità, ero fermamente convinto che Charles non potesse crollare. Non
davanti a me, almeno. E non per colpa mia. Io, che dovevo difenderlo, lo avevo
reso vulnerabile. Troppo.
«Calmati. Non le accadrà nulla,
credi che stroncare così con lei risolva le cose? Se Ward
volesse uccidere Jenny lo farebbe a prescindere da chi dorme nel suo letto»ah, beh, questo sì che si chiama rincuorare.
«Artemas non ha niente contro di lei» ringhiò con la voce rotta. «Era un ricatto per me, per
l'attentato a Washington, quindi se taglio i rapporti con lei...»
Battei una mano sul tavolo «Cristo, Charles, smettila di
piangere come una verginella impaurita» che diamine. Non avevo Connor davanti, ma un uomo fatto e finito. Un uomo che
avevo plasmato io, oltretutto, potevo permettermi di usare le maniere forti. «Basta non farla uscire da Fort
George, Ward non assedierà mai il forte per una cazzo
di minaccia»
parve calmarsi.
«... Già. Forse avete ragione.» Si passò ancora una mano sul viso
e mi alzai, sollevato dal fatto di vederlo più tranquillo. Almeno Lee mi
ascoltava. Sospirò rumorosamente.
Gli poggiai una mano sulla spalla «Non credevo ti saresti
rincoglionito così per una femmina» lo vidi sorridere, e mi bastò.
Tornai al bancone e pagai il tè. «Io e il mio amico avremmo bisogno
di due stanze»
annunciai posando delle monete sul legno consumato.
Quello mi guardò colpevole. «Sono desolato, signore, ma l'unica
stanza rimasta è... Come dire, per un altro tipo di coppia.»
Gesù. Avrei dovuto dormire con
Charles in un letto matrimoniale? Guardai fuori attraverso la finestra:
nevicava. «Dah, andrà bene.»
Vi prego, non uccidetemi,
ma ultimamente non ho più vita sociale, urrà.
Cooomunque, è ancora lunedì, quindi
posate quelle pietre e rimandante la mia lapidazione ad un’altra volta, da
bravi, lol.
Mi è partita la shipyaoi in questo capitolo, s’è
notato?
E niente, crollo dal sonno, quindi mi dileguo. Grazie come sempre a chi legge e
recensisce, aaww, a presto!
Avvertenza: le parti in corsivo sono tratte da “Forsaken” di
Oliver Bowden.
Capitolo 29
Qualcuno mi aiuti.
Non avevo ancora realizzato che
avrei dovuto dividere il mio letto con Charles per la seconda volta, e la cosa
non mi allettava per niente. Troppo vicini per non sentirlo russare, diavolo,
ed io non potevo permettermi di perdere ore di sonno preziose. Non prima di un
omicidio.
Entrai in stanza e sospirai,
trovandomi davanti un semplice letto a due piazze. Sulla sinistra, attaccata al
muro, una piccola scrivania, dall’altro lato una finestrella che a malapena
lasciava entrare la luce.
Mi trascinai fino al letto e mi
lasciai cadere sul materasso. Ero stanco. Stanco di dover sempre intervenire
per rimediare ai danni degli altri, di avere problemi, di dovermi vendicare.
Stanco di chiedere semplicemente un po’ di pace. Pace? Non ne avrei mai avuta.
Non era destino. Ci sarebbe sempre stato qualcosa contro, da Washington, a Connor, a Sam Adams.
Puntellai il piede sinistro contro
il tallone destro e sfilai con disinteresse lo stivale, lasciando che cadesse a
terra con un tonfo. Feci la medesima cosa con l’altro, lanciando poi
un’occhiata a Charles che, con aria stralunata, si stava ancora guardando
intorno. Quando raggiunse l’altro lato del talamo si tolse la redingote
sospirando, evidentemente ancora scosso per il discorso affrontato prima.
Quando ci coprimmo entrambi calò
un silenzio imbarazzante. Non che avessi pregiudizi su due uomini che dormono
insieme, sia chiaro, senza contare che Lee poteva benissimo considerarsi mio
figlio, ma decisi di spezzare la tensione. O almeno ci provai.
«Vedi di non farti venire strane
idee, sai, nel caso credessi di avere mia sorella accanto.»
Attese
qualche secondo prima di rispondere. «Oh, state tranquillo, non correte questo rischio» il tono derisorio mi irritò non
poco. «Non siete così aggraziato.»
Risi. «Jenny invece sì, vero?» Serrai la presa sulla coperta,
conficcando le unghie nella trama. «Ma non farmi ridere» strattonai la trapunta con forza,
non tanto per coprirmi, quanto per fare un dispetto a Charles. Non si fece
attendere, infatti, tirando il lenzuolo dalla sua parte.
«Finirai per strapparlo» strattonai ancora, così come Lee.
«Avete iniziato voi.»
Sbuffai. «Per favore, nemmeno a sei anni la
usavo come scusa.» Trattenni la coperta prima che Charles potesse tirarla,
provocandogli un ringhio frustrato. «E adesso piantala, se proprio vuoi
fare qualcosa disegna quella cristo di piantina.» Tirai ancora.
«Sono stanco»oh, le coincidenze, vero?
«Allora fa’ silenzio e dormi» mi coprii fino al mento. «Ah, e non russare, per l’amor di
Dio.»
***
Raccolsi le gambe al petto e
abbandonai la testa all’indietro, lasciando che si appoggiasse al muro. Gli
occhi chiusi, i muscoli stanchi e doloranti per le troppe ore passate nella
stessa posizione. Da quanto me ne stavo chiuso nella stanza degli allenamenti?
Due, forse tre giorni. Sostanzialmente da quando mio padre era fuggito. E come
dargli torto? L’avevo aggredito senza motivo.
Di recente mi capitava spesso di
avere scatti d’ira incontrollati, e la cosa mi spaventava. Non volevo fare del
male ad Haytham. Almeno la mia parte razionale mi
suggeriva così, ma era come se avessi due personalità, e l’altro me cercasse disperatamente di toglierlo
di mezzo. Non ne capito il motivo nonostante fossero giorni che ragionavo.
Lanciai un’occhiata alla mia
tunica, posata con cura sul manichino. Ero realmente degno di indossarla? O
meglio, lo ero ancora? Avevo iniziato
a dubitare del Credo e questo mi metteva… ansia.
Ansia di fare la cosa sbagliata, di far parte della Confraternita anche se non
lo meritavo.
Stunk.«Connor! Esci da quella cantina!»Stunk. Ignorai gli schiamazzi di
Achille, che girava insistentemente il pomello nella speranza di aprire la
porta. Non volevo parlargli. Per sentirmi dire cosa, poi? Che ucciderlo era la
cosa giusta, che era un nemico, che minacciava la Confraternita e la pace.
Sempre le solite cose. Non volevo
vedere nessuno, tantomeno lui.
Voltai stancamente il capo verso
destra, in direzione dei ritratti di Haytham e
Charles, gli unici due senza un segno qualsiasi che indicasse la loro morte.
«Connor? Si può sapere che stai facendo
là sotto?»
Chiusi gli occhi ed espirai, tentando di elaborare rapidamente una scusa
qualsiasi.
«Mi sto allenando, è tutto a posto.» Risposi a tono alto, la voce
ferma per risultare credibile.
«Sei chiuso lì dentro da giorni,
ragazzo. Stai bene?»
«Sì!»Lasciami in pace. Ti prego. Contai sette secondi trattenendo il
respiro, poi udii i suoi passi allontanarsi.
Lanciai un’occhiata al diario di
mio padre, poggiato con cura accanto a me, e lo aprii a caso, leggendo le prime
righe che mi capitarono sotto gli occhi:
Gli sforzi degli ultimi giorni si fecero sentire e minacciarono di
sommergermi. Il fango mi risucchiava gli stivali, rendendomi la corsa un
diguazzare e il respiro nei polmoni era irregolare, come se stessi inalando
sabbia. Ogni muscolo protestava, implorandomi di fermarmi. Non potevo fare
altro che sperare che le cose per il mio amico fossero altrettanto dure, addirittura
più dure, perché l’unica cosa che mi spronava ad avanzare, l’unica cosa che mi
faceva muovere le gambe e permetteva al mio petto di respirare era sapere che
stavo accorciando la distanza.
[…]
Si rimise in piedi, urlando per il dolore e il disonore, spinto
forse dallo sdegno di non riuscire a vincere più facilmente e sferrò un calcio
con il piede sano. Glielo afferrai con l’altra mano e lo torsi con tutta la
forza che trovai, facendolo roteare e infine cadere a faccia in giù nel fango.
Tentò di rotolare via, ma era troppo lento o troppo stordito, così
riuscii a colpirlo dall’alto con la spada, trapassandogli la parte posteriore
della coscia fin nel terreno e infilzandolo lì. Nello stesso tempo usai
l’impugnatura per issarmi fuori dal fango, lasciandovi dentro il secondo
stivale. Lui gridò e si dimenò, ma era bloccato dalla spada che gli
attraversava la coscia. Il peso che esercitai su di lui nell’usare la spada
come leva per tirarmi fuori dalla melma deve essere stato insopportabile e lui
strillò dal dolore facendo delle smorfie terribili. Eppure continuò a menare
fendenti e io ero disarmato, così, mentre piombavo su di lui, la lama mi colpì
il collo, aprendo un taglio e facendo sgorgare il sangue che sentii caldo sulla
pelle.
Strinsi la collana che un tempo
era stata di mia madre e guardai il diario di Haytham.
Cosa avrei dovuto fare? Mio padre voleva vederci uniti con tutto se stesso, non
ne dubitavo più, e allora perché una parte di me ripudiava la sola idea di
vederci a braccetto? Era un preconcetto o era la presenza di Charles?
Deglutii, consapevole che Lee non
era poi un grosso problema. Quell'uomo pendeva dalle labbra di mio padre, se
avessi convinto Haytham ad usare metodi che non
contemplassero l'omicidio, Charles Lee sarebbe stato costretto ad obbedire.
Guardai ancora la tunica con un
peso nel petto, all'altezza del cuore. Mi sentivo in colpa anche solo a
fissarla mentre facevo tali pensieri.
Uccidili.
E se insieme vincessimo la guerra?
Se riuscissimo davvero a mettere da parte l'odio per raggiungere la pace?
I Templari non vogliono la pace. Vogliono il controllo. Se non è ora,
sarà dopo, ma moriranno.
Possibile che non ci fosse
soluzione?
Uccidili.
È mio padre, deve pur esserci un
modo.
Uccidili.
Allungai la mano per prendere il
quadernetto rivestito in pelle, ma una fitta mi mozzò il fiato. Mi si
irrigidirono i muscoli, le ossa indolenzite, i polmoni pieni d'aria e incapaci
di buttarla fuori. Il cuore martellava contro la cassa toracica, manifestando
il terrore che provavo in quel momento.
Uccidili.
Mi accasciai a terra, di lato,
tutto il peso a gravare sul braccio destro, la mano sinistra a stringere i
capelli. Le tempie pulsavano e il cervello bruciava. Era come se fosse
diventato improvvisamente una massa di magma e spingeva, spingeva sempre più forte
contro la fronte, tentando di uscire.
Uccidili.
Soffocai un urlo e graffiai il
pavimento. Iniziai a piangere dal dolore e il muscolo della gamba sinistra si
mosse da solo, facendomi scalciare nel vuoto. Iniziai a tremare. Tremavo per
gli spasmi e di paura, non capivo cosa mi stesse accadendo e, soprattutto, non
sapevo come interrompere quella tortura. Stavo andando a fuoco. No, era solo
un'illusione, vero?
Uccidili.
Achille. Se avessi urlato sarebbe
venuto in mio soccorso. O almeno pregai fossi così, se fosse stato al piano
superiore non avrei avuto speranze.
Aprii la bocca nel vano sforzo di
chiedere aiuto, ma non uscì altro che un flebile fischio che a stento percepii
io.
Uccidili.
Arrivò una scossa più forte e mi
voltai supino, sbattendo il fianco contro il muro. Mi lamentai dal dolore, gli
occhi sempre umidi di lacrime, la testa in fiamme e il petto compresso da un
macigno. Sotto le palpebre serrate presero forma strani segni, simboli curvi e
ondeggianti di vari colori si mescolavano fra loro, iniziando ad ammassarsi in
basso.
Diventarono rosse e capii. Erano
fiamme, e nel preciso istante in cui realizzai, il bruciore alle tempie
aumentò, facendomi dimenare come un ossesso.
Uccidili.
Il mio villaggio, la mia capanna,
mia madre.
«Basta!» Tutto avvolto da quelle strane
fiamme, che distruggevano ogni cosa al loro passaggio. «Ti prego, basta!» Aprii gli occhi, convinto che
fosse sufficiente per non rivivere più quella scena.
«Ratonhnhaké:ton..»
Mi tappai le orecchie e mi
rigirai, tornando prono. «Basta, basta.» Alzai di poco lo sguardo, riuscendo a vedere lo sguardo
severo di Haytham che mi rimproverava nonostante
fosse solo un dipinto. «Basta...» tentai di mettere a fuoco, ma la testa si fece
improvvisamente pesante, sbattendo a terra quando ormai avevo già perso
conoscenza.
Saaalve.
Sì, teoricamente sareste tenuti a lapidarmi/lanciarmi
qualsiasi cosa abbiate sottomano, MA –c’è un ma, signori miei- l’ispirazione mi
ha abbandonata sul più bello, quindi diciamo che il ritardo non è esattamente
solo colpa mia, lol.
Va beh, la pianto e invito tutti voi a shippareCharlesxHaytham perché sì, è illegale non vomitare
arcobaleni davanti a scene del genere, aaww.
Direi che posso chiuderla qui, scusate per il ritardo e un biscottino a chi
legge e/o recensisce, ciao! :3
Ero in dormiveglia, a metà tra l’incoscienza
e la capacità di aprire gli occhi e iniziare un’altra faticosa e fredda
giornata.
Fredda. Eppure un flebile getto di
aria calda mi faceva venire la pelle d’oca dietro la nuca a intermittenza. Ammetto
che per un po’ fu anche piacevole, ma alla ventesima volta iniziò a
spazientirmi. E solo in quel momento feci caso allo strano peso che gravava sul
mio fianco destro, ma muovere il gomito tendando di capire cosa fosse non mi
aiutò né a spostare l’oggetto ignoto né ad indentificarlo.
Mi voltai sull’altro fianco,
arrotolandomi nelle coperte e lasciando mezza scoperta la schiena, quando
scontrai contro qualcosa di morbido e caldo. Aprii gli occhi di scatto, ma la
vista era appannata, le ciglia ancora appiccicate, impedendomi di mettere a
fuoco quella macchia rosa e nera, causa del mio brusco risveglio.
«Che diavolo…» senza la forza di tirarmi su, mi
passai due dita sugli occhi nella speranza di togliere quel fastidioso appanno
e Dio mi è testimone –nel caso fosse esistito- che per poco non caddi dal letto.
«Gesù Cristo!» Charles Lee. Charles Lee a poco
più di cinque centimetri da me, con la punta del suo naso a un millimetro dal
mio, i suoi baffi troppo vicini alla mia bocca e, cielo, il braccio comodamente
appoggiato a me, come fossimo una coppia di sposini alla loro prima notte di
nozze.
Lo allontanai con una spinta
stizzita, una mano sul petto nudo e vigoroso e il piede contro una coscia.
Rotolò supino, finendo nella sua metà di letto senza svegliarsi. Dio, parlavo
di metà di letto riferendomi a Charles.
Mi si chiuse la bocca dello stomaco nell’esatto momento in cui Lee pensò bene
di riprendere a russare come un cinghiale. Già, ancora, perché quella notte
avevo chiuso occhio sì e no tre ore, alternando sbuffi esasperati a gomitati
nelle costole di Lee.
Gli lanciai un’occhiata,
invidiandolo mentre ronfava beato, raggomitolato e ignaro di tutto.
Scostai le coperte e mi alzai,
tanto non avrei più preso sonno e poltrire a letto non era nella mia indole,
quindi mi avvicinai al catino pieno d’acqua, poggiato a terra nello stanzino
adiacente. Aprii la tenda sgualcita per far entrare quella poca luce che l’alba
mi concedeva, giusto per darmi una sciacquata senza stare al buio, quindi
iniziai a pensare alle cose serie. A ciò di cui un Gran Maestro doveva
occuparsi, insomma, e stavolta non avevo nulla a distrarmi, non avevo il
continuo russare di Charles a tenere la mia mente occupata ad inventare nuove
bestemmie. Stavolta c’era solo il buon Washington nella mia testa. Che onore,
vero comandante? Non è da tutti essere il pensiero principale di un uomo che si
sbottona la camicia prima di lavarsi.
Patetico, ecco cos’era quella
situazione. Era tutto patetico. Lo ero io, che ogni momento libero lo dedicavo
a quel vecchio sconclusionato. Avevo pronto anche un piano per farlo fuori, ma
avevo bisogno della piantina dell’accampamento, quindi dell’aiuto di Charles.
Aiuto anche pratico, a dirla tutta, e convincerlo su quella parte del programma
non sarebbe stata una passeggiata. Lui doveva salvare Jenny e bla bla.
Afferrai la vecchia spugna
appoggiata sull’unico ripiano e la immersi nel catino, rabbrividendo al
contatto con l’acqua gelata.
Il fatto era che il senso di colpa
iniziava a farsi sentire. Era lì, come uno spillo invisibile a pungermi il
petto dall'interno, e continuava a ripetermi che qualsiasi cosa fosse accaduta,
Charles ne sarebbe andato di mezzo. E lo sapevo, cristo, sapevo che la mia
maledetta coscienza aveva ragione, ma che altro potevo fare? Non avevo nessuna
certezza che avrebbero ucciso Lee per un sospetto -quanto ero drammatico,
magari l'avrebbero solo punito-, al contrario vedevo già le nostre lapidi se
non avessi fatto nulla per togliere il comando a George.
D'altra parte non volevo vederlo
in pena in quel modo, speravo capisse che rischiavamo entrambi, che lui un
alibi avrebbe potuto crearselo, a differenza di me. Speravo capisse che tanto,
prima o poi, con Washington al comando saremmo morti nel giro di qualche mese.
Tanto valeva rischiare, no?
Charles comparve sulla soglia
dello stanzino con addosso solo i calzoni, i capelli scompigliati, gli occhi
mezzi chiusi e la mano destra impegnata a grattare l'inguine con uno stile che
tanto mi ricordava Thomas Hickey.
Lo guardai interdetto per qualche
secondo, la pezza ancora appoggiata alla spalla sinistra. «Buongiorno, principessa.» Mi guardò male, degnandomi di
poca attenzione con le palpebre socchiuse come a dire "una principessa si
gratterebbe le palle in questo modo?".
«Devo usare il catino.» Sbiascicò. Glielo indicai con un
cenno del capo, riprendendo a strofinare mentre Lee mi passava davanti per
raggiungere il secchio nell'angolo. Lo sentii trafficare coi calzoni, e gli
lanciai un'occhiata mentre il getto di urina s'infrangeva contro il metallo del
recipiente vuoto.
Schioccai la lingua contro il
palato. «Non ho chiuso occhio stanotte» come se gliene fregasse qualcosa.
Charles girò di poco il viso,
guardandomi da sopra la spalla. «Posso immaginare. Tutto questo
stress per Washington deve avervi provato molto»
«Per una volta quell'imbecille non
c'entra» rimbeccai infastidito. «È colpa tua, hai russato tutta la
notte. Vorrei tanto sapere con che coraggio mia sorella ti dorme accanto» fosse solo per il russare.
Lo vidi sogghignare. «Si addormenta prima di me da
quanto è sfinita»
«Oh-oh, se ti sentisse Hickey farebbe una battuta sul tuo uccello» Charles si richiuse i calzoni,
continuando a parlare rivolto verso il muro.
«Tom si atteggiava da grande
intenditore, come se fosse l'unico ad aver visto un paio di tette a differenza
di noialtri. Tsk, idiota.» In effetti aveva ragione, Hickey non aveva mai perso occasione per sottolineare
quante donne avessero avuto il privilegio di mettere la testa fra le sue gambe,
cosa che a Charles dava terribilmente fastidio. Non tanto per invidia,
suppongo, diciamo che pranzare immaginando l'uccello di Thomas non era tra le
mie priorità. E nemmeno tra quelle di Lee, che in tutti quegli anni,
poveraccio, un giorno sì e l'altro pure si era sentito chiamare frocetto inglesino del cazzo o verginello
da quattro soldi. Sorrisi malinconico. Mi mancavano un sacco quei momenti,
quando eravamo ancora tutti insieme, quando ancora andava tutto bene.
«Ti ricordi quando Tom ti chiamava frocetto inglesino del cazzo?» Gettai la pezza sul ripiano
vicino alla porta e mi alzai dallo sgabello, afferrando il panno asciutto e
passandolo su petto e schiena. Charles si voltò con una smorfia in viso e
trafficando ancora con la cintura. «Se ti avesse beccato lui, quella
notte, si sarebbe complimentato dandoti una pacca sul culo» dissi riferendomi a quando beccai
Lee e Jenny intenti a scopare come conigli.
«Sì, per poi chiedere di unirsi a
noi» si richiuse la cintura con uno
strattone. «Che
figlio di puttana, gliene ho fatte passare troppe. Forse avrei dovuto fargli
capire fin da subito chi era il coglione tra i due.»
Fissavo la bottiglia di rum che mi
ero fatto portare in camera da una decina di minuti, indeciso se aprirla o
meno. Ubriacarsi prima di un omicidio non era esattamente indicato nel manuale
dell'assassino perfetto, però avrebbe diminuito la tensione, cosa che ci
avrebbe fatto sicuramente bene.
Tanto ormai l'hai pagata. Giusto, tanto valeva non avere ripensamenti. La stappai
tenendo bloccato il sughero tra i molari per poi lo sputarlo di lato. Mandai
giù sei sorsi come se stessi bevendo acqua, abbandonandomi alla sensazione di
pace e al silenzio, rotto solo dal rumore dell'alcool che scivolava giù, fino
al mio stomaco. Sul letto, accanto a me, c'era un abbozzo dell'accampamento di
Valley Forge, datomi da Charles qualche ora prima. L'avevo convinto a farla,
sentendomi un po' in colpa per averlo trascinato in qualcosa in cui non voleva
immischiarsi. Allora non avrebbe dovuto
unirsi all'Ordine, direbbe chiunque. Vero, ma Charles non era un membro
qualunque, lui era semplicemente Charles Lee, quello odiato perché il preferito
del Gran Maestro, quello privilegiato che avrebbe preso le redini di tutto,
quello che anche se sbagliava -quelle rare volte- non veniva punito. Lui era
diverso, e nonostante mi consolassi ripetendomi che i compiti dei Templari
erano uguali per tutti e non ammettevano repliche, mi sforzai in ogni modo per
trovare una soluzione a tutto, anche se non c'era. Non c'era modo di dimostrare
l'innocenza di Charles se avessi ucciso George Washington. Avrebbe potuto avere
l'alibi più credibile di questo mondo, ma il beneficio del dubbio che avesse
assoldato un mercenario non potevo toglierlo a nessuno. E il cattivo rapporto
tra i due avvalorava le probabili accuse che avrebbero mosso contro Lee.
«Non offrite?» Alzai lo sguardo, osservando
l'uomo che era diventato e sorrisi. Sorrisi perché nonostante la discussione
del giorno prima, non aveva fatto altro che rendermi orgoglioso di lui.
Rischiava la carriera, la vita, la donna che... amava?, non ne ero certo, solo
per me, per non voltarmi le spalle. Potevo chiedere di meglio? Potevo
desiderare un amico migliore?
Gli porsi la bottiglia,
riabbassando gli occhi sulla calligrafia frettolosa di Charles che indicava i
lati dell’accampamento meno sorvegliati dai soldati.
Lo guardai ancora, mentre si
asciugava i baffi col dorso della mano sinistra.
«Il fianco a nord ha solo dei
tronchi appuntiti piantati nella neve e qualche cane, non sarà difficile
entrare da lì.»
Osservai di nuovo il foglio scarabocchiato, puntando la tenda di George,
identificata con una X, all'estremità
dell’ala ovest. Fortunatamente il giorno prima avevo fatto attenzione alla
disposizione delle tende, infiltrarmi di soppiatto con la notte a mio favore
sarebbe stato piuttosto semplice.
Ripresi la bottiglia e bevvi un
paio di sorsi. «Grazie.» Dissi senza guardarlo. Mi prese la bottiglia di mano e
ingoiò altro liquore, appoggiandola poi sul sedile della sedia, tra le gambe. «Non dovete farlo, era mio dovere.
Sono un Templare, no? Gli ordini valgono anche per me.» Picchiettò le unghie sul vetro e
sorrise, consolandosi.
«L'ultima cosa che voglio è
metterti in pericolo, lo sai. Ma questa faccenda va risolta. Lo volevi anche
tu.» Lo fissai, mentre dondolava la
bottiglia per far oscillare il liquido al suo interno. «Lascia perdere Jennifer, lei non
corre rischi. Se è questo che ti frena, puoi stare tranquillo. Se c'è
dell'altro, parla.» Arricciò le labbra ed espirò pesantemente, poi bevve ancora.
«C'è la mia carriera, ecco cosa, ma
tanto è rovinata comunque con quell'incapace al comando.» Aveva gli occhi lucidi, e non era
una crisi di pianto come la sera prima.
«Charles, dammi la bottiglia» scosse la testa, ma non per ciò
che gli dissi.
«Perché hanno scelto lui?» Alzò il viso nella mia direzione,
era stanco e affranto, quindi pensò bene di trovare conforto in altri tre sorsi
di rum. «Solo perché io sono Inglese» ridacchiò istericamente, perché
altrimenti avrebbe spaccato qualcosa. Charles era fatto così, aveva un
carattere impulsivo molto scomodo per l'Ordine, ma negli anni aveva imparato a
controllarsi, accumulando stress senza potersi sfogare con nessuno. Quello era
il prezzo da pagare. Sopporti il più possibile, ma poi scoppi. E Charles era
vicino all'esplodere.
Gli feci cenno di passarmi la
bottiglia con la scusa di voler dare un paio di sorsi, ma mi ignorò, portando
alle labbra il vetro scuro e freddo. «Potrei aiutare questo paese più di
quanto credete...» Borbottò con la voce impastata, «potrei farlo davvero»
«Lo so, Charles. Lo so» mi allungai sul materasso e gli
sfilai la bottiglia di mano, provocandogli una smorfia contrariata. «Ora basta bere, mettiti a letto» lo aiutai ad alzarsi dalla sedia
e lo portai a piccoli passi fino al letto, assicurandomi che stesse fermo e che
fosse abbastanza lontano dal rum, poi mi allontanai per prendere redingote e
tricorno, appoggiati con cura sulla scrivania.
«Non sono ubriaco» continuava a ripetere girandosi
su un fianco, «sono
solo stanco.»
«Allora dormi e non fare casini» non ricevetti risposta, quindi mi
voltai per capire il motivo per cui mi ignorasse.
Dormiva. Era crollato come un
moccioso di sei anni dopo aver trascorso un pomeriggio stancante al parco. Lo coprii
con la sua giacca, poi mi calai il cappello in testa ed uscii dalla stanza,
scendendo le scale con una calma surreale. La bozza dell’accampamento era al
sicuro nella tasca interna della veste. La sentivo bruciare, mi sentivo
colpevole, temevo che chiunque potesse scovarla attraverso la stoffa e
denunciarmi con l’accusa di voler uccidere il nostro amato comandante.
Mi portai una mano al petto con la
scusa di stringermi il cappotto per non patire il freddo, poi spalancai la
porta ed uscii, venendo travolto dal vento gelido e dal buio, affondando nella
neve fino alla caviglia. Imboccai il sentiero che portava a sud, camminando
svelto più che altro per non morire assiderato.
Stavo facendo la cosa giusta? Aveva
la priorità la vita di Charles o l’Ordine? Charles o il Nuovo Mondo?
Mi portai le mani alle tempie e
sospirai. Calmo. Stai per compiere un omicidio, mente lucida e sangue freddo. Avrei
dovuto essere abituato, eppure non riuscivo a calmarmi. Il pensiero che il mio
pupillo potesse andarci di mezzo non ne voleva sapere di abbandonarmi,
sussurrandomi di voltarmi e tornare indietro, di andare da Charles e dirgli che
avevo cambiato idea, che ucciderlo non era l’unico modo che avevamo per vincere
la guerra. Prima che fosse troppo tardi, prima di scorgere in lontananza, tra i
fiocchi, il portone sorvegliato dal ragazzo e dal tizio diffidente che credeva fossi
un impostore. Prima di gettare merda sulla carriera di Lee, prima di scatenare
un putiferio, prima che lo accusassero di omicidio.
Intravidi le due guardie davanti
all’ingresso e svoltai rapidamente a destra, passando tra alberi e cespugli. La
neve iniziò ad arrivarmi fino al ginocchio, impedendomi di avanzare
velocemente. Strizzai gli occhi e mi guardai intorno, poi tirai fuori dalla
tasca interna il foglio stracciato su cui avevo le indicazioni di Charles. Ero nel
posto giusto, nonostante il buio e la neve mi impedissero di vedere ad un palmo
dal naso, riuscii a vedere i tronchi appuntiti piantati in un cumulo di neve,
pronti ad infilzare il primo idiota che si fosse lanciato all’assalto.
Mi avvicinai piano, non c’era
traccia di cani e oltre la piccola collina gelata sembrava tutto tranquillo. Probabilmente
dormivano tutti come ghiri. Scivolai dall’altra parte, nascondendomi dietro una
delle tende, poi controllai ancora la mappa di Charles: ad occhio e croce avrei
dovuto percorrere ancora un centinaio di metri per trovarmi il regale culo di
Washington davanti. Quale onore, eh?
Rotolai di lato, proseguendo verso
ovest costeggiando il perimetro. Che gli avrei detto una volta lì? Magari stava
dormendo anche lui, ma così sarebbe stato troppo semplice, no? Sarebbe bastato
tagliargli la gola e svignarsela.
Uscii da dietro la tenda e
attraversai il piccolo piazzale che portava all’ala ovest, e corsi
silenziosamente verso la capanna di George.
Mi tornò in mente Charles, ma
strinsi i denti e mi feci coraggio, scostando un lembo di stoffa che mi
divideva da Washington. Se ne stava lì, in piedi davanti al tavolo con le
spalle rivolte all’entrata, come quando ero venuto il giorno prima in compagnia
di Lee. Entrai di soppiatto, avvicinandomi con due falcate e premendogli una
mano sulla bocca e pungendogli la schiena con la lama celata.
«Ci si rivede, comandante» un gemito morì contro il palmo
della mia mano, che fece più pressione sulle labbra fredde e tremolanti di
George, «com’è stare dall’altra parte, mh?» Girò di poco il capo, incrociando il mio sguardo con la coda
dell’occhio. Impallidì di colpo, mentre una goccia di sudore freddo scivolava
lentamente lungo la guancia destra.
Serrai le dita con più forza sul
suo viso, spingendo la punta della lama celata contro la sua carne,
squarciandola quel tanto che bastava per far sgorgare un po’ di sangue. George gemette
di dolore, tentando di urlare e liberarsi, ma le ginocchia cedettero, facendolo
crollare a terra. Seguii il suo corpo con la soddisfazione che mi invadeva il
petto, come un piccolo fuoco che piano iniziava a diffondere calore in tutto il
corpo. Spinsi la lama con più decisione nella schiena del comandante,
trattenendo a stento l’istinto di farlo a pezzi e bruciarlo, come aveva fatto
con Tiio.
«Ve l’avevo detto che vi avrei
ucciso, no?»
Non rispose, e in quel momento qualcosa di caldo mi bagnò la mano sinistra. Mi sporsi
per capire cosa fosse, sogghignando quando vidi solchi di lacrime sulle guance
di Washington. Per cosa piangeva?, per paura? Dolore? Era pentito per aver
rifiutato l’offerta di Charles? Poco mi importava, sinceramente. Sarebbe morto
comunque, e con la sua morte noi saremmo rinati, come una fenice dalla cenere.
Feci rientrare la lama con un
click e qualche goccia di sangue mi macchiò il polsino della redingote. «Se avessi accettato la proposta di
Charles a quest’ora non saresti inginocchiato con un buco nella schiena. Ne è
valsa la pena?»
Non rispose, deglutendo rumorosamente. Decisi di mettere fine alla sua vita in
un modo rapido e indolore, specialmente perché avevo freddo e il mio pensiero
principale era quello di tornare alla locanda per riscaldarmi.
Gli artigliai i capelli con la
mano destra e con uno strattone gli girai la testa di lato, spezzandogli l’osso
del collo.
Innanzitutto scusate, davvero. Vi avevo detto che avrei
postato con una settimana di ritardo, invece è quasi passato un mese, God, ma ho ripreso possesso della mia vita sociale da poco
più di un paio di giorni, tra esami e studio non sono proprio riuscita ad
aggiornare prima, abbiate pietà.
E siccome qualcuno di voi vorrà sicuramente lanciarmi
qualcosa… *lancia in aria biscotti caldi e fugge*, lol.
Graaaazie mille a chi legge e
segue, aw, siete l’amore.
Il giorno dopo eravamo rientrati a Fort George
con calma, come se Washington non fosse morto e come se la macchia di sangue
sul mio polsino bianco non fosse altro che innocuo condimento alimentare. Per
tutto il tragitto verso New York Charles era rimasto in silenzio, abbassando lo
sguardo sulla propria sella ogni volta che incrociavamo dei patrioti, ancora
ignari di tutto. Erano strani, i patrioti, ma ammetto che un po’ li invidiavo.
Erano consapevoli di essere nella merda, eppure combattevano con entusiasmo.
Con un entusiasmo che io non avevo mai avuto neanche negli anni d’oro della mia
gioventù, quando ancora ero una giubba rossa, quando ancora credevo che
imbracciare un fucile avrebbe avuto i suoi lati positivi e mi avrebbe donato un
minimo di gloria.
Invece
no. Uccidere non placa la sete di
vendetta e non ti fa sentire meglio, ti lascia solo sulla coscienza una
manciata di uomini e ti macchia l’animo, facendoti via via diventare
indifferente alla morte altrui, come fosse una cosa normale. Così normale da
farti considerare l’omicidio l’unica soluzione per cambiare qualcosa. Non ero
fiero di ciò che ero diventato, mentre ammazzavo George non avevo provato
rimpianto, né paura per ciò che mi avrebbe aspettato una volta morto, nel caso
ci fosse stato qualcosa. A dire il vero mi facevo un po’ timore. Sapevo di
essere freddo e distaccato, ma per quel genere di cose non te ne rendi conto
finché non ci rifletti seriamente, finché non ti trovi la realtà sbattuta in
faccia come uno schiaffo.
Anche
Charles sarebbe diventato così una volta diventato Gran Maestro? Non volevo.
Non volevo e non dovevo rovinare anche lui.
Lo
guardai ancora, voltando di poco il capo verso destra. A vederlo sembrava
semplicemente stanco e ancora stordito per la sbornia, ma io lo conoscevo bene.
Sapevo leggere il suo linguaggio del corpo, anche se Lee faceva di tutto per
apparire calmo e rilassato. La schiena era dritta e tesa, le mani strette sulle
redini di cuoio, i piedi irrigiditi sulle staffe, pronti a spronare il cavallo
per fuggire. Tentai di distrarlo, facendo battute sul fatto che non reggesse
l’alcool e che si fosse addormentato come un marmocchio, ma non servì molto. La
tensione era tanta, e quello che mi preoccupava era il fatto che avrei dovuto
spiegare a Jenny tutta la questione. Avrei dovuto parlarle di Washington, di Artemas, della carriera militare di Charles andata quasi
sicuramente a puttane. Tutto quanto. Temevo che me la sarei trovata contro per
aver messo Lee nei casini come se fosse un estraneo qualunque, perché mettere altre
venti guardie a controllare che Fort George non venisse preso d’assalto non
garantiva proprio nulla. Ward era un pari di Charles,
e la sua parola valeva ben più del volere di un paio di uomini a difesa di un
forte, e se la causa era un mandato d’arresto per un generale ritenuto
traditore, beh, non c’erano scuse. Senza contare che se Lee si fosse barricato
dentro avrebbe alimentato i sospetti su di lui. Confidavo comunque
nell’intelligenza di Charles, conosceva bene l’ambiente e sapeva come muoversi,
ma questo non placava il mio senso di colpa. L’unica cosa che mi restava da
fare era sperare che ArtemasWard
non fosse tanto folle da attaccare un forte per un sospetto. Faceva bene a
credere che Charles fosse coinvolto, ma non c’erano prove. Avevo fatto un
lavoro pulito, cancellando addirittura le tracce sulla neve per evitare che le
seguissero e raggiungessero la locanda in cui avevamo alloggiato. Non avevano
nessuna prova contro di me, che ero il sicario, figuriamoci contro Charles, che
non aveva neanche preso parte alla missione.
Deglutii,
tentando di calmarmi. Dovevo sperare nella giustizia. Insomma, non si può
arrestare un uomo su due piedi, no? Era la parola di Charles contro quella di Artemas, non avrebbero potuto fargli nulla.
Dio,
che situazione del cazzo.
«Tutto
bene?» La buttai lì, girandomi a sinistra fingendo di osservare il paesaggio.
Charles
inarcò le spalle facendo scricchiolare le ossa, mollando poi le redini con la
mano sinistra per riscaldare le dita intorpidite con un po’ di fiato caldo. «Diciamo
di sì.» Avrei voluto abbracciarlo e dirgli che sarebbe andato tutto bene, che
la cosa peggiore che gli fosse potuta capitare sarebbe stata la sospensione del
servizio militare, che avrei difeso la sua vita con la mia a qualunque costo,
ma non lo feci. Forse avrei dovuto anche chiedergli scusa, ma non trovai il
coraggio. A malapena riuscivo a guardarlo in faccia.
«Sta’
tranquillo, non è la prima volta che uccidiamo qualcuno di importante. Ricordi Braddock?» Gli scoccai un’occhiata. «Avrebbero dovuto impiccarmi
o spararmi a vista, invece eccomi qua.»
Annuì
debolmente, fissando distrattamente l’orizzonte e lasciandosi dondolare
dall’andatura del cavallo. «Probabilmente sarà come dite voi, mi sto fasciando
la testa prima del tempo.» Si sforzò di sorridere.
Per
tutto il resto del viaggio non dissi nulla. Capii che aveva bisogno di starsene
per i fatti suoi, di ragionare su ciò che di lì a breve sarebbe accaduto per
prendere le decisioni migliori, quindi lo assecondai.
Ero
sicuro che non gli sarebbe potuto accadere nulla, e in fondo è quello che
pensiamo tutti quando si tratta di disgrazie come la morte, no? Le vittime sono
sempre gli altri, mai noi in prima persona, mai gli amici o i familiari. Eppure
avrei dovuto pensarla diversamente. Con Charles, però, non ci riuscivo. Lui era
lì, intoccabile, e ogni volta mi ripetevo: figurati
se succede a lui.
Arrivammo
a New York di mattina presto. Inutile dire che mi chiusi immediatamente nella
mia stanza senza salutare nessuno. Insomma, avevo una decina di ore di sonno
arretrato da recuperare. Non amai così tanto il mio letto fino a quel momento.
Comodo, caldo e soprattutto singolo,
senza nessuno accanto pronto a russarmi nelle orecchie ogni venti secondi.
Quando
riaprii gli occhi era l’una passata. Scostai le coperte e mi tirai su, indeciso
se essere scocciato per il fatto che nessuno fosse venuto a svegliarmi per
pranzare o apprezzare la gentilezza che avevano avuto nel lasciarmi riposare
un’ora in più. Mi abbottonai la camicia e infilai la redingote, poi uscii dalla
mia camera, percorrendo il corridoio fino alle scale per raggiungere il salone
principale.
Vidi
Jenny arrotolarsi una ciocca di capelli attorno all’indice, lo sguardo perso
oltre il vetro della finestra che dava sul piazzale interno di Fort George,
intenta a guardare chissà cosa con un’espressione che tanto mi ricordava la
Jennifer di quarant’anni prima, quella che passava le ore dietro le tende
bianche di casa nostra per sbirciare le strade affollate di Londra.
Sorrise dolcemente, ignara del fatto che la stessi osservando, continuando a
torturare i capelli rossicci.
«Cosa c’è di tanto interessante da guardare?» La affiancai con le mani giunte
dietro la schiena, trovando risposta alla mia domanda prima che lei parlasse,
scorgendo Lee, con indosso solo la camicia, i calzoni e gli stivali, tirare di
spada con un giovane reclutato da poco nelle guardie di Fort George.
«Charles sta dando lezioni di scherma ad un ragazzo.» Movimento di gambe,
parata, affondo. Li ripeté tre volte con una naturalezza insolita, come se non
avesse fatto altro nella vita, spingendo poi a terra con una spallata il
novellino poco più che venticinquenne.
Prese
a camminare in tondo con strafottenza, sputando di lato e guardando con stizza
la matricola ancora a terra «Avanti, alzati» iniziò a roteare la spada per
riscaldare il polso, mentre il ragazzino si alzava con ancora il fiato corto. «Vedi
di impegnarti di più. L’avversario non aspetta che tu ti rimetta in piedi, ti
conficca la spada nel petto e vaffanculo!, funziona così!»
«Avete
ragione» si passò una mano sulla fronte, lasciando una chiazza di sporco. «Sono
pronto.» Lee stavolta non si mosse, preferendo lasciare l’iniziativa al ragazzo
che, poco dopo, si sbilanciò in avanti tentando un affondo. Charles parò il
colpo facendo strisciare le due spade sul filo della lama e causando un
fastidioso stridio, poi allontanò da sé l’arma nemica eseguendo una cavazione,
scattando infine all’indietro, scivolando sul terriccio. Il giovanotto non
perse tempo e accorciò le distanze con due falcate, tentando un rovescio che
Charles evitò senza fatica. Le due sciabole britanniche cozzarono un paio di
volte, gli stivali si muovevano rapidi, alzando una nube di polvere ad ogni
passo. Con un tondo più violento Charles disarmò il ragazzo, facendogli volare
di mano la spada che rotolò via di qualche metro. «Devi stringerla l’elsa, o
farai questa fine!» Si guardarono per una manciata di secondi, poi il mocciosetto scattò di lato per riprendere l’arma, ma Lee lo
anticipò, calciandola via e afferrando il marmocchio per i capelli. Gli serrò
un braccio attorno al collo senza soffocarlo, ma con la forza sufficiente per
impedirgli i movimenti «E ora come la mettiamo, eh?» Mai cantar vittoria prima
del tempo, vecchio mio. Due secondi dopo venne spinto via con un calcio, che
lasciò sulla camicia di Charles un’impronta marrone all’altezza dell’ombelico.
Lee fu costretto a mollarlo, indietreggiando per riprendere fiato, mentre il
pivellino corse a riacciuffare la spada, come se solo il fatto di impugnarla
potesse salvarlo a prescindere. «Non male, iniziamo a ragionare.» Stavolta la
prima mossa la fece Charles,eseguendo
uno sgualembro rapido parato per puro caso dal
ragazzo. Il contraccolpo fu così forte che a stento Charles trattenne la spada,
ma non perse tempo e roteò su se stesso, strisciando i piedi e colpendo per
l’ennesima volta la spada nemica con un tondo, disarmando ancora l’avversario.
Jenny
spalancò la finestra e si sporse fuori con un sorriso a trentadue denti. «Sei
bravissimo, tesoro!» Charles si girò, distendendo le labbra non appena la vide
affacciata, poi si avvicinò alla botte piena d’acqua lì vicino e ci si appoggiò
con i gomiti per riprendere fiato, mentre il ragazzo si spolverava i calzoni
sporchi di terra per riacquistare un minimo di dignità.
«La
tua tecnica è pessima, figliolo. Saresti morto sette volte»
L’altro
sbuffò, calciando l’arma a terra. «Se solo mi insegnassi a difendermi invece
che farmi cadere, forse imparerei qualcosa.» Rimbeccò acidamente.
Charles
soffocò una risata, come se insegnargli anche solo come impugnare una spada
fosse un’impresa titanica. «A furia di prendere culate per terra imparerai a
fare una parata come Dio comanda» calciò un sassolino nella sua direzione, «a
meno che tu non ci tenga a morire come un cane.» Si staccò dalla botte con un
colpo di reni e gli diede le spalle, immergendo le mani nell’acqua fredda. Si
sciacquò un paio di volte il viso sudato e il collo, poi passò le dita tra i
capelli neri e folti, bagnandoli e tirandoli indietro.
«Mi
è venuta voglia di tirare di spada» annunciai con un sorrisino.
«Cosa?!»
Ignorai gli strepiti di Jennifer e imboccai le scale. «Quel povero figliolo
riesce a malapena a difendersi e Charles ci sta andando piano! Sii ragionevole!»
Mi seguì correndo ed io sbuffai.
«Il
novellino è l’ultimo dei miei pensieri, ho voglia di divertirmi con Charles.»
Spalancai la porta ed uscii, guardando il mio pupillo rinfrescarsi e ravvivarsi
i capelli.
Mi
avvicinai con nonchalance alla sciabola britannica ancora a terra,
raccogliendola e rigirandomela in mano. Poi lanciai un’occhiata a Lee, ancora
occupato a darsi una sciacquata. «Che ne dici di un po’ di pratica come si
deve?» Sogghignai lucidando la lama.
Charles
si voltò con ancora il viso bagnato, un paio di gocce colarono dalla punta del
naso per poi schiantarsi a terra. «Perché no» allargò le braccia e riprese la
propria sciabola, asciugandosi alla bell’e meglio la faccia con la manica
sinistra, «non si nega a nessuno una possibilità.»
Mulinellai la
spada roteando il polso, portandomi di fronte a lui senza distogliere gli occhi
dai suoi. «Non credere che ci andrò leggero solo perché sei il mio allievo.
Anzi, al contrario.»
«Lo
spero, non ho bisogno di favoritismi.» Non gli lasciai concludere la frase e
scattai in avanti, colpendo la sua guardia con una stoccata. Puntai a terra il
piede destro e frenai, tentando un fendente e un tondo, e poi di nuovo una
stoccata, seguita da un ridoppio. Non andò a segno neanche un colpo, e Charles
mi obbligò ad indietreggiare provando un affondo. Lo parai e scattai di lato,
portandomi sul suo fianco scoperto, ma non mi lasciò il tempo di attaccare che
dovetti difendermi da un ridoppio da sinistra, uno sgualembro
da destra e un fendente. Risposi con un tondo e un montante, entrambi parati, mentre
il ragazzetto che poco prima si stava allenando con Charles ci fissava con gli
occhi sgranati.
Schivai
un fendente spostandomi a destra e con una falcata mi portai a mezzo metro da Lee,
afferrandolo per la camicia e sbattendolo al muro. Il gomito sinistro a
bloccargli il braccio con cui impugnava la spada, la gamba sinistra tra le sue,
la coscia premuta contro l’inguine per non farlo muovere, la mano destra a
bloccargli il polso sinistro contro la pietra grezza e fredda. «Ho vinto.»
Charles
grugnì infastidito, dimenandosi per liberare almeno la mano disarmata. «Non
ancora.» La voce era grave e tesa e aveva il fiatone. Una goccia di sudore gli colò
lungo i favoriti, mentre il bicipite destro si gonfiava nel tentativo di
contrastare la pressione del mio braccio.
Esercitai
più forza e riattaccai il polso di Charles al muro, sorridendo compiaciuto. «Arrenditi.»
«Mai.»
Scattò in avanti con il viso e indietreggiai prontamente prima che le nostre
labbra si toccassero. Questo movimento gli consentì di liberare il polso
sinistro, poi mi spinse via, tenendo la spada davanti al busto puntata contro
di me per tenermi a distanza.
Ne
approfittai per riprendere fiato, mentre l’orgoglio mi riempiva il petto.
Ripensai al ragazzo che avevo allenato nel medesimo posto circa vent’anni
prima, quello che dopo cinque parate doveva fermarsi per riposare, lo stesso
che se sbagliava si scusava e che non riusciva quasi mai a contrattaccare. Lo
avevo davanti a me, ma quella volta era un uomo perfettamente in grado di
tenermi testa, di mettermi in difficoltà, se avessi abbassato la guardia.
Addirittura sarebbe stato in grado di uccidermi, ne ero certo.
Mi
sentii decisamente più leggero, sapevo che in caso di necessità avrebbe saputo
difendersi senza problemi, ma testarlo in prima persona mi rassicurò
definitivamente. Nel caso in cui Artemas avesse
deciso di farla pagare a Lee, beh, avrebbe avuto pane per i suoi denti. E se
gli fosse successo qualcosa?
Mi
destai appena in tempo per vedere Charles prendere la rincorsa, saltare ed
eseguire un’imboccata. Riuscii a mettere di piatto la spada e deviare il colpo,
poi indietreggiai per evitare un affondo. Parai tre attacchi di fila e risposi
con un tondo che Lee deviò facilmente, poi parai una stoccata seguita da uno sgualembro, lasciando il fianco sinistro scoperto. Fu un
dettaglio che non sfuggì al mio pupillo, che si affrettò ad oltrepassare la mia
guardia con un ridoppio. Non mi accorsi nemmeno che frenò bruscamente
l’attacco, dandomi un colpetto sul fianco con la parte piatta della lama. Mi
sorrise quando alzai lo sguardo su di lui e non riuscii a trattenermi, conficcai
la sciabola a terra, sorrisi di rimando e gli afferrai una spalla, attirandolo
a me e stringendolo forte.
La
risposta mi fu chiara: se gli fosse successo qualcosa ne sarei morto. Poco ma
sicuro.
Sentii
gli occhi pungere quando Charles ricambiò la stretta con un braccio, dandomi
poi una pacca sulla schiena e arpionandomi la camicia. Dio, quanto gli volevo
bene.
Affondai
il viso nell’incavo tra la spalla e il collo. «Sei stato bravo» sussurrai
appena. Gli diedi una pacca sull’altra spalla per avvalorare le mie parole e lo
immaginai mentre sorrideva orgoglioso.
«Haytham…» Mi voltai a sinistra e vidi Connor. Quando era entrato?
Era pallido, un’espressione sconvolta ad occupargli il viso al posto di quella
apatica e indifferente che solitamente aveva. Due occhiaie gli infossavano gli
occhi, le spalle ricurve e deboli.
«Ragazzo,
qual buon vento?» Sciolsi l’abbraccio con Charles e avanzai di qualche passo
verso mio figlio, che mi fissava con aria stanca e stralunata. «Non hai un
bell’aspetto, è successo qualcosa?»
«Ce
l’ha lui» disse solamente. Lanciai un’occhiata a Charles, sperando che avesse capito
qualcosa in più di me, ma anche lui fissava Connor
con occhi sgranati.
«Chi
ha cosa? Spiegati.» Deglutì sfregandosi il braccio destro con la mano sinistra,
poi prese fiato.
«Achille.
Ha la mela e l’ha usata contro di me.»
Salve a tutti, lol.
Ebbene sì, è proprio come
pensate –nel caso steste pensando la cosa giusta, ewe-.
Connor non era e non è pazzo. Su, almeno stavolta che
non sono in ritardo clamoroso non la tiro per le lunghe, grazie come sempre a
chi legge e un biscottino caldo a chi recensisce, aaww,
vi adoroh (?).
«Achille ha
sempre avuto la Mela?!» Intervenne Charles. Sembrava quasi più sconvolto di me, e
diavolo, ripensando a tutto quello che era successo, sarei dovuto arrivarci
prima. «Ne sei
certo?»
«Sì» Connor abbassò
lo sguardo, mentre la mano destra si infilava nella tunica bianca e tirava
fuori il mio diario. Non gli lasciai il tempo di dire nulla che glielo strappai
di mano, gli occhi ridotti a due fessure e le labbra serrate. «Quella
volta... Quando eri venuto alla Tenuta per riprenderlo e io... Insomma, hai
capito» sospirò, «non è
stata colpa mia. Non volevo farti del male.»
Posai il quaderno nella solita
tasca interna della redingote e lo fissai in
silenzio, indeciso se credergli o no. In effetti quella volta aveva avuto uno
sbalzo d'umore non indifferente, e solitamente il ragazzo non era così. Poteva
anche essere una spiegazione plausibile, ma perché arrivare a tanto? Perché
usare un oggetto potente come la Mela per plagiare un ragazzino come Connor? Perché parliamoci chiaro, qualsiasi cosa gli avesse
detto Achille, mio figlio gli avrebbe creduto. Gli Assassini avrebbero potuto sostenere
che le acque dei mari fossero dolci, e con molte probabilità lui sarebbe stato
d'accordo. Doveva esserci sotto dell'altro. Per forza.
«No,
aspetta, vediamo se ho capito bene» Charles
parlò ancora, passandosi una mano tra i capelli ancora umidi e tirandoli
indietro. «Achille ha la Mela da chissà quanto tempo e l'ha usata sul suo
unico allievo e membro attivo della Confraternita?»
Ridacchiò. «È assurdo!»
Connor sospirò. «Non lo è» lo
guardammo incuriositi mentre si passava due dita sugli occhi. «Vorrebbe
che vi uccidessi.»
Sbuffai. «Smettila
di dire frase per frase, fa' un discorso, spiegati.»
Il ragazzo guardò prima
Charles, poi me. «Il mio unico obiettivo è sempre stato quello di uccidervi. Tutti e
due.»
«Quale
onore.» Ironizzò
Lee, beccandosi una gomitata nelle costole dal sottoscritto.
«Ma da
quando abbiamo iniziato a collaborare ho visto dei risultati, sono convinto che
lavorando insieme riusciremo a vincere la guerra e a liberare queste terre,
però Achille non è d'accordo. Continua a ripetermi che se e quando batteremo gli
Inglesi, dovrete morire comunque.»
«E hai
intenzione di farlo, ragazzo?» Sogghignò Charles.
«Non lo so» replicò
guardandolo negli occhi, «dipende dai piani che avrete in mente, se saranno nocivi per la
popolazione state pur certi che non resterò a guardare»
Charles schioccò la lingua
contro il palato, affondando le mani nelle tasche dei calzoni. «Sarà sicuramente
così, raramente le nostre filosofie di pensiero coincidono.»Connor si prese qualche secondo per trovare le parole più
adatte, quindi mi guardò.
«Haytham, sai
quanto me che questa lotta è stupida. Non voglio perdere tempo a combattere su
due fronti, e so che lo vuoi anche tu.» Alzai un
sopracciglio. Mi stava proponendo una tregua? Connor
voleva la pace tra Assassini e Templari? Forse leggere di straforo il mio
diario gli aveva schiarito le idee.
Raddrizzai la schiena, la mani
giunte sotto il mantello come ero solito fare. «È da anni
che propongo questa soluzione alla Confraternita, ma nessuno di loro ha mai
accettato. Achille per primo.» Abbassò lo sguardo, colpevole, sentendo gravare sulle spalle il
senso di colpa nell'aver difeso il suo Mentore senza che lui lo meritasse. «Sarei
contraddittorio se ora rifiutassi, dopotutto sono stato io il primo a proporti
di collaborare, quindi sì, hai ragione, questo combatterci continuamente è
inutile. Ma per lavorare insieme come si deve dovrete impegnarvi come quando
ero in Europa. Ciò significa stare a delle condizioni.» Guardai
sia Lee sia il ragazzo, sperando fossero disposti a cooperare. «Significa
niente battibecchi inutili, niente litigi, niente discorsi sulle ideologie,
sulla Confraternita o altro che non c'entri con i nostri compiti» mi
rivolsi a Charles, che acconsentì in silenzio mostrando i palmi delle mani.
«E sia.»
«E
significa anche niente minacce di morte, niente ripensamenti o ritirate, né
tradimenti di alcun genere. Mi sono spiegato?» Stavolta guardai
Connor, che annuì senza dire una parola. «Bene,
allora. Possiamo entrare» senza perdere altro tempo voltai le spalle a entrambi e
attraversai il piazzale, dirigendomi verso Jenny, a braccia conserte, ancora
sulla soglia.
La affiancai attendendo che il
ragazzo e Lee ci raggiungessero, e quando Charles fu abbastanza vicino, mia
sorella gli gettò le braccia al collo. «Sei stato
bravissimo» cinguettò per poi schioccargli un bacio appiccicoso sulle labbra.
Lui sorrise di rimando, solleticandole una guancia con le dita e scostandole
una ciocca di capelli dal viso.
Dio, non ero ancora abituato a
vederli in quei termini, e forse mai lo sarei stato. Insomma, stavamo parlando
di Jennifer Scott, la donna più dispotica e acida che avessi mai conosciuto, e
di Charles Lee, l'uomo che aveva attenzione solo per l'esercito, l’onore e
l'Ordine Templare, che desiderava combattere più di qualsiasi altra cosa e che
si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che tradire i suoi compagni. Erano
decisamente una coppia strana.
Charles le posò una mano sul
fianco destro, avvicinandola a sé. «Di che
parli?»
«Dell'allenamento.
Ti ho visto dalla finestra» appoggiò entrambi i palmi sui pettorali sudati di Lee, coperti
dal tessuto sottile della camicia, «e poi hai
battuto mio fratello» mi guardarono entrambi, avevo le guance in fiamme.
Mi schiarii la gola e
li fissai accigliato. «Non c'è da stupirsi che sia bravo, l'ho addestrato personalmente» perdere non
mi era mai sembrato tanto rincuorante. Già immaginavo il mio allievo prediletto
combattere contro cinque uomini armati e, Dio, dovetti fare uno sforzo enorme
per non immaginarmelo infilzato come un pezzo di carne da macello. Rabbrividii.
No, se la sarebbe cavata egregiamente. Deglutii a fatica e sbattei un paio di
volte le palpebre, Charles era lì, vivo e vegeto a flirtare con mia sorella.
Dovevo stare tranquillo.
Notai che Connor
era rimasto fermo sulla soglia, forse imbarazzato per gli atteggiamenti un po’
troppo intimi e confidenziali dei due innamorati, quindi appoggiai pesantemente
una mano a metà tra la nuca e il collo di Charles, facendolo sobbalzare come un
bambino. «Basta con queste smancerie inutili» mollai
Lee, avvicinandomi al ragazzo, «potrebbe fare domande inopportune e non ho voglia di spiegargli
com’è venuto al mondo. Su, entra, non startene lì impalato.» Lo
afferrai per il braccio muscoloso avvolto nella tunica bianca e lo tirai
dentro. Salimmo al primo piano, accomodandoci nella sala principale di Fort
George per bere un bicchiere di vino e per una volta presi posto vicino a mio
figlio. Dovevo capire come aveva fatto Achille ad essere in possesso della Mela
e, cosa più importante, perché usarla su Connor.
«Sa che sei qui?»
Chiesi guardandolo. Lui serrò la mascella e deglutì.
«No. Gli ho detto che
sarei andato da Washington, non credo neanche che sappia che me ne sono
accorto, ma io l’ho visto. Se ne stava chiuso nella sua stanza a contemplarla,
lanciava fasci di luce dorati e…» si coprì il viso con le mani «io credevo che
chi la usasse perdesse la ragione, ma lui non è impazzito, cerca solo di
convincermi ad uccidervi.»
Jenny riempì tre
bicchieri di vino, sedendosi poi vicino a Charles e dandogli un bacio innocente
all’angolo della bocca. Gesù.
Scossi la testa e
afferrai un calice per distrarmi, concentrandomi di nuovo su Achille.
«Quindi che
intenzioni hai?»
Sospirò. «Devo prenderla»
mi scoccò un’occhiata, «ma non la darò a te, sarebbe ancora peggio.»
Risi sommessamente.
Dio, era ancora convinto che mi servisse la Mela per mandare avanti l’Ordine? «Non
ne ho bisogno, credi seriamente che la userei per soggiogare le persone?
Diavolo, non hai ancora capito niente.» Fece per rispondermi, ma un paio di
colpi alla porta gli fecero morire le parole in gola.
«Scusate l’interruzione» una delle
guardie di Fort George fece capolino sulla soglia della sala principale, «un certo ArtemasWard chiede di voi,
generale Lee.» Lanciai un'occhiata a Charles, che aveva smesso di ondeggiare il
calice pieno di vino fino a metà.
Era sbiancato, ma aveva serrato
la mascella per darsi un minimo di contegno. «Arrivo
subito» posò con
cura il bicchiere sul tavolo e si alzò deglutendo. Scattai in piedi anch'io,
pronto a seguirlo, venendo imitato da Jennifer.
«Che
succede?»
«Nulla di
grave, è solo un colloquio» minimizzò Charles, che ostentando sicurezza era uscito dalla
stanza per imboccare le scale. Uscimmo anche noi, e mentre lo seguivamo nel
piazzale, verso il cancello, pensai che forse avrei dovuto escogitare un piano
per togliere di mezzo anche Ward.
Jenny mi afferrò il braccio
destro, costringendomi a rallentare. «Che
diavolo succede? Cosa vogliono da Charles? Non mentirmi.» Era
preoccupata quanto me, con la differenza che io riuscivo a nasconderlo
piuttosto bene. Dovevo farlo per lui, per non destare sospetti.
«Non lo so,
probabilmente dovranno discutere sulla prossima tattica militare da usare.
Charles è pur sempre un generale» mentii.
Mentii spudoratamente e il cuore prese a battere forte contro la cassa
toracica. E se avevo sperato che al Congresso Artemas
avesse bleffato per intimidirci, beh, avrei dovuto rimangiarmi tutto. Faceva
sul serio. Era seriamente convinto di scoprire qualcosa su Washington da noi?
In quel momento affiancammo
Charles, che fissava Ward con una calma innaturale.
«Vedo che
stai sempre in compagnia» mi scoccò un'occhiata derisoria, poi tornò a guardare Lee, «non avevi
il coraggio di fare una chiacchierata da solo con me?»
Sentendomi tirato in causa alzai
le mani in segno di resa ed indietreggiai di due passi. «Come
desideri» sogghignai,
«ero solo
curioso di sentire quello che avevi da dire, e dato che fino a prova contraria
sei tu quello che si è scomodato venendo da noi, credo di avere tutto il
diritto di assistere.» Non rispose, limitandosi a fissarmi con odio. Attendevo una
reazione, una qualsiasi per avere la scusa di cacciarlo a calci in culo, ma non
era stupido. Ingoiò la mia provocazione, tornando poi a dare attenzione a
Charles.
«Immagino
tu sappia perché sono qui, vero?»
«No, ad
essere sincero.»
«Non prendermi
per il culo, stronzetto» trattenni a stento una risata. Dio, gli parlava come se Charles
avesse vent'anni.
Lee non si scompose.«Smettila
di fare l'arrogante e parla. Perché sei qui?»
Artemas lo
afferrò con una mano per il bavero della giacca, strattonandolo malamente. «Lo sai
perfettamente visto che è colpa tua. Credevi davvero che nessuno avrebbe
sospettato di te? Traditore!»
Charles si tolse la mano di
dosso, spingendo Ward e facendolo arretrare di un
passo, poi sbottò indignato. «Traditore? Io?!»
Gli puntò contro un dito con
fare accusatorio. «Hai ucciso George Washington!»
«Cosa?!»
Fa' qualcosa. Intervieni,
inventa una scusa, una qualsiasi, ma fa' qualcosa.
«Fermi un
momento!» Ci
voltammo tutti verso Jenny, che con faccia tosta si era fatta avanti per
dividere Lee e Artemas. «Con che
prove state accusando Charles di omicidio?» Le mani
sui fianchi, i gomiti in fuori e la voce agguerrita.
Ward rise
sommessamente, indeciso se essere divertito per la banalità della domanda o per
il fatto che Charles avesse bisogno di essere difeso da una donna. O forse per
entrambe le cose. La squadrò da capo a piedi, scoccando poi un'occhiata
d'intesa al collega. «Quindi è lei che ti scalda il letto?» Jennifer
ignorò il commento, a differenza di Lee che aveva serrato i pugni, le braccia
tese lungo i fianchi. «E tu lo scaldi a lui» guardò
me.
Lo conoscevo abbastanza bene da
prevedere una reazione tutt'altro che tranquilla. «Sta'
zitto, Artemas. Non c'entro niente con George, l'ho
scoperto adesso. Quand'è successo?»
Ward scoppiò a
ridere. «Charles,
per favore. Non rendere le cose più difficili, ammettilo e basta, sanno tutti
quanto odiassi George Washington per averti sottratto il ruolo di comandante.
Speravi davvero che ti sarebbe bastato ucciderlo per essere nominato come
sostituto? Tu?, un traditore?»
«Non sono
un traditore» sibilò tra i denti, gli occhi ridotti a due fessure, «ho fatto
molto più di quello che credi per questo paese, ho salvato centinaia di uomini
destinati a morire se solo avessi eseguito gli ordini di George e ho subìto in
silenzio due ore di richiamo per insubordinazione! Tutto per vincere la guerra,
e non ammetto che tu venga qui ad accusarmi del suo omicidio solo perché non
gli ho leccato il culo come hai fatto tu.» Fece
appena in tempo a concludere la frase prima di incassare un pugno sul naso.
Jenny si portò le mani alle labbra mentre istintivamente mi allungai per
afferrarlo. Charles riuscì a mantenere l'equilibrio, ruotando su un piede e
bilanciando il peso con le braccia. Sanguinava dal naso, ma non sembrava nulla
di grave.
«Come
osate?!» Jenny si
lanciò contro Artemas, tempestandogli il petto di
pugni. «Come osate
alzare le vostre luride mani su Charles?»
«Tutto bene?» Gli domandai.
Lui annuì, portando una mano sotto
le narici e macchiandosi immediatamente di sangue. «Ah, cristo» strinse le dita pulite alla base
del naso per bloccare il flusso, poi si voltò verso Ward,
fissandolo con astio.
Nel vedere il volto di Lee
imbrattato di rosso dal naso in giù, Jenny sbiancò. «Santo cielo, stai perdendo sangue!» Gli si avvicinò preoccupata. «Non te l’avrà rotto, spero!» Gli accarezzò una guancia per
calmarlo, facendola poi scivolare sul petto.
«No, non è niente» tagliò corto Charles senza
neanche guardarla, troppo impegnato a fissare Artemas.
Oh, Dio, speravo di sbagliarmi. Conoscevo bene quell’atteggiamento, non
prevedevo nulla di buono.
«Ve lo ripeto!» Strillò Jennifer «Non potete venire qui e accusare
Charles senza prove. È a Fort George da una settimana intera, non può essere
stato lui!»
La guardai sorpreso. Lei non sapeva. Non sapeva niente né della nostra guerra
personale con Washington né delle minacce di Ward,
non sapeva che Lee era in minima parte colpevole, eppure aveva reagito come era
nei miei piani. L’aveva difeso senza neanche porsi il problema di essere in
errore.
Avrei dovuto avvertire subito le
guardie di dire a chiunque l’avesse chiesto che Charles non usciva dalle mura
da giorni, ma la stanchezza aveva preso il sopravvento. E a dirla tutta non
avevo preso in considerazione che Artemas, venuto a
conoscenza della morte di George, si sarebbe precipitato qui per chiedere spiegazioni.
Avevo sperato in almeno un giorno di tempo.
Ward sorrise sarcastico in direzione
di Jennifer. «Che
valore può avere detto dalla sua concubina?» Oh, Dio, ci teneva sul serio a
perdere un paio di denti.
Charles non sopportò oltre, come temevo. Con due falcate raggiunse il compagno
d’armi e lo prese per il bavero con entrambe le mani, per poi affondargli un
calcio in pieno ventre, all’altezza dello stomaco. «Ripetilo e t’ammazzo!» Ebbi la prontezza di afferrarlo
per le braccia e trattenerlo prima che continuasse ad infierire sul collega,
piegato in due a terra. «Parola mia che lo faccio se non te ne vai in questo istante!»
«Charles! Calmati!» Non mi sentì nemmeno, sgomitando
e agitandosi per liberarsi. Esercitai più pressione e gli unii i gomiti dietro
la schiena, poi lo attirai a me, tentando di tenerlo fermo. «Non fare cose di cui potresti
pentirti»
gli sussurrai in un orecchio.
«Lasciami, Haytham,
ho detto lasciami!» Senza rendermene conto allentai la presa, stupito dal fatto
che per la prima volta mi avesse chiamato per nome e non con quegli inutili appellativi
ossequiosi.
Lee si accorse che avevo involontariamente
diminuito la forza e tentò di sgusciare via, ma lo trattenni, mentre Ward si rialzava tossicchiando. «Non finisce qui, Lee. Non credere
di passarla liscia solo perché non ci sono prove, sospettano tutti di te!» Sabotai il suo ultimo tentativo
di liberarsi, tirando un sospiro di sollievo quando Artemas
varcò la soglia di Fort George e sparì dietro le mura. Solo quando fui certo
che fosse abbastanza lontano mollai Charles, che tornato lucido, si passò una
mano sul viso. Prendere a calci un generale non era come uccidere il comandane
in capo, però avrebbe potuto causargli problemi non indifferenti.
Si passò ancora una volta le dita
tra i capelli, poi sospirò, suppongo maledicendosi per aver reagito d’impulso. Gli
diedi una pacca sulla spalla sinistra e non so con quale coraggio riuscii a
guardarlo in faccia. Era solo colpa mia, cristo. Perché per una volta non
poteva andare tutto liscio?
Jenny lo abbracciò, affondando il
viso nella camicia bianca di Lee che, teso in viso, si limitò a deglutire. «Che facciamo ora? Perché accusano
Charles?» Piagnucolò guardandomi da sopra
la spalla del mio allievo. Bene. Ora devi
confessarle tutto, coraggio. Dio, perché la temevo così tanto? Cos’avrebbe
potuto farmi? Nulla, ma forse quello che mi spaventava di più era ciò che
avrebbe pensato di me, e ad essere onesti mi bastava già la considerazione che avevo di me stesso. Ero stato egoista, d’accordo? Ne ero consapevole. Ed ero stato un
bastardo senza scrupoli a non aver ammesso tutto davanti ad Artemas.
Avrei scagionato Lee, ma mi avrebbero impiccato senza neanche un processo. Onestamente
preferivo aspettare, lasciando la confessione come ultima spiaggia.
«Niente. Cosa vorresti fare? Armarti
di fucile e correre dietro a quell’imbecille? Smettila di parlare di cose che
non conosci.»
Mi si avvicinò minacciosa,
staccandosi da Charles in mezzo secondo. «Ho tutto il diritto di dire la
mia, e mi stupisco del fatto che tu non abbia aperto bocca davanti a una tale
calunnia! È così che proteggi i tuoi sottoposti? Sei o non sei il Gran Maestro?
Assumiti le tue responsabilità, Haytham!» Serrai le labbra lanciando un’occhiata
a Charles, che teneva gli occhi bassi. Forse anche lui si sarebbe aspettato un
intervento da parte mia, anche solo una parola.
«Le mie responsabilità non sono affar tuo, è chiaro?»
«E allora perché non l’hai difeso?»
«Perché sono stato io ad uccidere Washington, ora sei soddisfatta?»
Toh, una volta ogni tanto riesco ad aggiornare ad orari normali –non
fateci l’abitudine, lo dico per voi, lol-
Non voglio dilungarmi in commenti perché credo sia palese da che parte stia,
vero? Suppongo di sì. Ormai sono ripetitiva, ma va beh: grazie come sempre a
chi legge e recensisce, vi adoroh (?).
A lunedì prossimo c:
Haytham e
Jennifer discussero per qualche minuto, ed io preferii chiudermi nella mia
stanza per riflettere sulle probabili conseguenze delle mie azioni. Non si
erano neanche accorti della mia assenza, troppo impegnati a darsi addosso,
Jenny a colpirgli il petto, lui a ignorarla. Non volevo vederli litigare per
colpa mia.
Uccidere
Washington era stata la cosa giusta da fare per l'Ordine e per le colonie. La
mia carriera, e la mia vita, dovevano passare in secondo piano. E suppongo
fosse giusto così. Cristo, però, colpire Artemas in
quel modo mi avrebbe causato grattacapi, poco ma sicuro. Forse mi avrebbero
sospeso dal servizio per un paio di mesi, e tutto sommato sarebbe stata la cosa
meno grave.
Me
ne stavo seduto sul bordo del letto da mezz'ora, le mani nei capelli e l'ansia
nel petto. Non avevo poi tanta paura della morte in sé, temevo di soffrire. Che
mi giustiziassero pure se fosse servito a vendicare George, l'avrei accettato
con onore e coraggio, chiedevo solo di andarmene velocemente. Un colpo di
pistola in testa, per esempio. Mi sarebbe andato bene. Ah, cazzo, perché dovevo
morire per forza? Me la sarei cavata in qualche modo. E poi Haytham
continuava a ripetere che si sarebbe occupato lui di tutto, dovevo fidarmi, in
fondo l’aveva sempre fatto.
Jenny
aprì la porta ed entrò piano, raggiungendo il letto con passo felpato. Non mi
mossi, continuando a darle le spalle, troppo preso da altri pensieri, poi sentii
il materasso abbassarsi e cigolare sotto il suo peso.
Finché
si fosse trattato della mia incolumità mi sarebbe andato anche bene. Certo, la
paura c'era, morire non era una mia priorità, ma avevo coinvolto Jennifer. Se
le fosse capitato qualcosa non me lo sarei mai perdonato. Insomma, dovevo
proteggerla, avrei dovuto darle la sicurezza che ogni uomo deve assicurare alla
propria donna, ed io non ne ero stato in grado. Con che coraggio avrei potuto
guardarla ancora negli occhi? Strinsi l'indice e il pollice alla base del naso
quando un tocco leggero mi fece salire un brivido dall'osso sacro fino al
collo, le dita lisce di Jenny ad accarezzarmi la schiena, coperta solo dalla
camicia. «Sta' tranquillo» appoggiò entrambi i palmi sulla stoffa, facendoli
poi scivolare verso l'alto, fino alle spalle. Strinse dolcemente, iniziando a
massaggiare i muscoli tesi e indolenziti e Dio, aveva la capacità di farmi
dimenticare tutto ciò che di male poteva accadermi.
Fece
scricchiolare un paio di vertebre sotto la pressione dei pollici ed io chiusi
gli occhi, lasciandomi cullare dal suo tocco leggero ma deciso. Dio, quanto
l'amavo.
...
Quanto la amavo? Tanto. Troppo. Le mani di Jennifer scivolarono piano in
avanti, sul petto. Armeggiarono un po' con i primi bottoni e poi si
intrufolarono oltre la stoffa, accarezzando delicatamente la carne.
Mi
leccai le labbra e abbandonai la testa all'indietro, sulla sua spalla, la bocca
leggermente dischiusa per prendere quanto più ossigeno possibile. «Levala»
mugolò languida, il suo fiato caldo nell'orecchio e le sue dita sui capezzoli.
Sospirai mentre scendeva sugli addominali, chiudendo gli occhi e beandomi del
suo tocco lento e amorevole. Sbottonai frettolosamente la camicia con le dita
tremolanti, il cuore a mille e un principio di erezione tra le gambe. Cristo,
il formicolio più piacevole del mondo. Prese a lasciarmi piccoli baci sul
collo, prima dietro la nuca, poi più giù, sulle vertebre, e poi di lato, poco
sotto l'orecchio.
Mi
girò il viso verso sinistra, il palmo interamente appoggiato sulla guancia, e
mi baciò piano sulle labbra, quasi temesse che quel lieve contatto potesse
infastidirmi. Invece era tutto quello che potessi desiderare, riusciva ad
annebbiarmi il cervello con uno sguardo. Avrebbero potuto impiccarmi il giorno
dopo, non me ne sarebbe importato niente. Ero lì, con lei, e mi bastava. Con un
colpo di reni girai il busto verso di lei, salendo sul letto con una gamba e
ricambiando e approfondendo il bacio. Inspirai il suo profumo a pieni polmoni,
era fresco e buono. Jenny si staccò dalla mia bocca con uno schiocco,
sorridendo e tirandomi per il colletto della camicia verso il centro del letto.
Gattonai seguendola mentre si sdraiava, sovrastandola e cercando ancora le sue
labbra calde e morbide, mentre mentalmente ringraziavo Dio, il destino o
chiunque avesse deciso di farmela incontrare. Le mordicchiai il labbro
inferiore e la mano destra scese curiosa lungo il suo fianco sinistro,
soffermandosi sulla natica.
L'amavo
più della mia vita, quello era sicuro, e mentre pensavo di essere l'uomo più
fortunato del mondo, Jennifer mi graffiò piano il collo. Insinuò con un po' di
fatica le dita tra i capelli stretti nel nastro, grattando la cute, ed io
sorrisi contro le sue labbra.
Ti amo.
Avrei voluto dirglielo, giuro, ma preferivo usare il poco fiato che avevo in
corpo per riempire i polmoni. E comunque si capiva, no? Era chiaro che fossi innamorato
perso di lei da quando mise piede qui, a Fort George, e ogni giorno cercavo di
dimostrarle quanto fosse importante, quanto mi riempisse il cuore il solo
pensiero che qualcuno mi aspettasse la sera, o quanto calore potesse darmi
dormendo accanto a me. Dio, quante volte ero rimasto sveglio per guardarla
mentre sognava?
Ricordo
che una notte non riuscivo a prendere sonno, mi ero messo a ripensare a mio
padre e alla sua ambizione per me, a quando mi ripeteva che un giorno sarei
diventato un grande soldato, un generale, uno di quelli rispettati, pieno di
responsabilità e medaglie sul petto. E lo ero diventato sul serio, diamine,
nessuno poteva immaginare quanta fatica mi fosse costata, ma ne era valsa davvero
la pena? Sarei stato ricordato per le vittorie, ma rischiavo ogni giorno la
vita. Facevo preoccupare le persone che mi stavano accanto e Jenny non meritava
di aspettarmi ogni santa sera con l'ansia di non rivedermi più. O peggio
ancora, non volevo partire per la guerra lasciandola sola, magari con un
figlio, mentre io sarei stato chissà dove ad uccidere altri padri. O a morire
senza che lei lo sapesse. Ricordo che un brivido mi aveva attraversato la
schiena in mezzo secondo, e con il pollice avevo iniziato a ruotare l'anello
che avevo all'anulare destro, ripensando a quando il Gran Maestro mi aveva
ufficialmente nominato un suo fratello. Anche se non fossi stato un soldato
avrei rischiato lo stesso. Ero membro dell'Ordine, non avrei potuto abbandonare
la causa neanche volendo. Senza contare che se avessi chiesto ad Haytham di farmi lasciare i Templari perché non volevo far
soffrire sua sorella, mi avrebbe schiaffeggiato senza troppe cerimonie.
Soffocai una risata, immaginando il suo palmo aperto colpirmi in pieno viso.
Sì, l'avrebbe fatto davvero.
Mi
ero girato di nuovo per guardarla, gli occhi chiusi e un'espressione serena, e
d'istinto le avevo accarezzato una guancia. Sorrise nel sonno, e capii che
avrei dovuto godermi ogni attimo insieme a lei. Soldato o no, Templare o meno,
se fossi dovuto morire non sarebbe dipeso da me. Dovevo ringraziare per aver
trovato una donna come lei senza perdere tempo a domandarmi cosa fosse giusto o
no. Jenny si staccò con uno schiocco per riprendere fiato, riportandomi alla
realtà. Strinse le dita ancora intrecciate tra i miei capelli, passandomi
l'altra mano sulla guancia, accarezzando la barba. Era la cosa più bella che
avessi visto. Mi sorrise dolcemente, avvicinandosi ancora e poggiando di nuovo
le labbra sulle mie. Il respiro pesante di entrambi e il dolore tra le gambe mi
stavano mandando fuori di testa, e stavolta interruppi io il contatto, bramando
il suo collo candido e morbido. Presi a baciarla piano per paura di darle noia
con i baffi, e lentamente scesi giù, verso il petto che si alzava e abbassava
ad un ritmo veloce e costante. Strinsi tra i denti il laccio del corsetto e
tirai, sciogliendo il nodo e allenando l'indumento. Le lanciai un'occhiata
mentre intrufolavo l'indice per aprire definitivamente il vestito, e sorrisi
notando il rossore che le imporporava le gote. Con uno strattone più deciso le
scoprii il petto, abbassandomi di nuovo per baciarla all'attaccatura del seno.
Inspirai il suo profumo e scesi giù con la bocca, godendomi i suoi sospiri
mentre le succhiavo e leccavo il capezzolo destro.
Un
paio di manate sorde contro la porta mi bloccarono il respiro. «Charles? Non
voglio assistere allo spettacolo dell'ultima volta, qualsiasi cosa tu stia
facendo interrompila ed esci.» Ascoltai Haytham con
gli occhi puntati in quelli di Jennifer, ancora accaldata e invasa dal
desiderio. Mi tirai su rapidamente, abbottonandomi la camicia.
La
guardai di nuovo mentre si metteva seduta, la schiena contro il cuscino e le
gambe piegate di lato. «Non farlo aspettare, o chi lo sente poi» mi sorrise
complice, dandomi poi un altro innocente bacio sulle labbra.
Quando
aprii la porta trovai Mastro Kenway di spalle, le mani
unite dietro la schiena e lo sguardo perso oltre la finestra, attirato da
chissà cosa. «Alla buon'ora» si girò, evitando appositamente di abbassare lo
sguardo per non notare il rigonfiamento, seppur lieve, che avevo nei calzoni.
Dio, sarebbe stato imbarazzante.
«È
successo qualcosa?» Domandai preoccupato. E irritato, d’accordo, ma non lo
diedi a vedere. Dopotutto se mi aveva cercato con tanta urgenza, un motivo
doveva pur esserci.
Lui annuì,
avvicinandosi di due passi. «Domani il Congresso si riunirà per nominare il
sostituto di George Washington, hai intenzione di presentarti?» Cristo santo. Il
sogno di una vita. Se mio padre fosse stato ancora vivo probabilmente si sarebbe
messo a piangere dalla gioia.
Guardai
Haytham senza sapere che dire. In realtà sapevo già che
risposta dare, ma temevo che presentarsi e aspettare che mi incaricassero di
guidare l’esercito come nulla fosse avrebbe dato a Ward
un ulteriore motivo per sospettare di me. «Certo che sì, non vorrei mai
sprecare un’occasione del genere.» Al diavolo Artemas
e al diavolo Washington. Avevo passato una vita nell’esercito
solo per quello, non avrei permesso a nessuno di sottrarmi un ruolo che mi
spettava di diritto.
«Molto
bene» fece per andarsene, ma si bloccò lanciandomi un’occhiata con la coda dell’occhio
«e pulisciti quel naso. Sei ancora sporco di sangue.»
Ancora una volta ad orari
improponibili, ma va beh, sorvoliamo, ewe.
Vi sto confondendo? Perché
Charles passa da scene palesemente yaoi con Haytham al macho virile che ama Jenny e bla bla. Scegliete
quella che vi piace di più, l’importante è shippare
Charlie con qualcuno, aaw.
Graaazie come sempre a chi legge e
un biscotto a chi recensisce. A presto :3
Il
tizio imparruccato che stavo fissando da mezz’ora si decise finalmente a
parlare, spiegando il foglio che aveva in mano e leggendo ciò che vi era
scritto dopo un leggero colpo di tosse. «Signori, vi comunico che a fronte della disgrazia appena
avvenuta che ha lasciato il nostro esercito temporaneamente senza comandante,
il Consiglio si è riunito urgentemente per nominare un sostituto, il quale
ricoprirà il ruolo seduta stante date le gravi condizioni in cui vertono i
soldati che con coraggio e onore difendono queste terre.» Lanciai un’occhiata a Charles,
che per l’ansia stava torturando la tovaglia di velluto del tavolo cui eravamo
seduti.
Sapevamo tutti a chi sarebbe
passato il comando, ma l’agitazione c’era lo stesso. Temevo quell’un percento
di possibilità che Artemas, o chi per lui, soffiasse
il posto a Lee per l’ennesima volta, ma in cuor mio sapevo che quella sarebbe
stata la volta buona.
Dopo
una breve pausa l’uomo tornò a guardare i presenti. «Il generale Charles Lee, seppur di
origini britanniche, è chiamato al comando poiché ritenuto dall’ottantasei
percento il più idoneo a sostituire George Washington, deceduto per cause
ancora sconosciute, e a guidare l’esercito alla vittoria.» Lo guardai mentre serrava la
mascella in uno scatto istintivo che mi ricordò tanto l’HaythamKenway spensierato che viveva a Londra, che reagiva
nello stesso modo quando Edith, una delle mie bambinaie, si accorgeva dei danni
in giardino causati dall’irrefrenabile voglia di esplorare. Lo stesso Haytham il cui unico pensiero era quello di disporre i
soldatini al centro del corridoio, davanti alla stanza dei giochi, nell’attesa
dell’allenamento pomeridiano.
Sorrisi appena. Charles meritava
quel posto più di chiunque altro, aveva le capacità e l’impegno adatti per
poter vincere la guerra e solo Dio sa quanto fossi orgoglioso di lui in quel
momento. C’è forse qualcosa di più bello che vedere il proprio figlio
realizzare un sogno? Mi scoppiava il cuore.
Diedi una lieve gomitata a Lee,
ancora incredulo per ciò che aveva sentito, destandolo e facendolo alzare
scattando come una molla. Con passo deciso si avvicinò all’uomo che l’aveva
appena proclamato comandante in capo, quindi gli strinse la mano con vigore.
«Buona fortuna, comandante.»
Lui
sorrise di rimando. «Grazie,
anche se non credo molto a questo genere di cose.» Già. Charles era un
tipo più pragmatico. Non credeva al fato, al destino o stronzate simili. Ciò che accade è una conseguenza diretta
delle nostre azioni, avevo perso il conto di quante volte gliel’avessi
sentito dire.
Un colpo sordo alla mia destra mi
fece voltare verso il tavolo accanto, scorgendo Connor
e Adams seduti poco distante. Il volto di Samuel era teso ma rassegnato, come
se si aspettasse da un momento all’altro l’ascesa di Charles. Il ragazzo,
invece, tratteneva a stento l’ira. Se avesse potuto uccidere Lee con la sola
forza del pensiero, beh, state pur certi che il mio pupillo sarebbe affogato
nel suo stesso sangue in quel preciso istante.
Scostai lo sguardo da quei due
imbecilli con disinvoltura, tornando a fissare Charles che, a turno, stava
stringendo la mano a chi gli aveva dato fiducia. Con la coda dell’occhio
intravidi Artemas, sulla destra, leggermente più
avanti rispetto a me e Connor, notando un’espressione
poco rassicurante anche sul suo viso. Ci mise qualche secondo per scorgermi tra
gli astanti, interrompendo il discorso, che non riuscii a cogliere, che stava
facendo con il tizio che non conoscevo seduto accanto a lui. Sicuramente si
trattava di pettegolezzi su Charles e sulla misteriosa
morte di Washington, ma poco m’importava. Non avrebbe potuto fare piazzate, non
davanti a tutta quella gente, almeno.
Mi alzai istintivamente quando
vidi Ward e il suo amico allontanarsi dal tavolo e
aspettare che Lee fosse libero da tutte quelle formalità inutili.
L’intenzione era quella di
imitarli e raggiungere Charles insieme a loro, ma Connor
si avvicinò con poche falcate, sbattendo un pugno sul tavolo e attirando
l’attenzione dei pochi lì intorno. «Scommetto che ci siete voi due
dietro a queste cause sconosciute,
non è così?» Sibilò. Ignorai il tono acido e la voce strozzata, concentrandomi più che altro
sul dolore che dovesse provare per aver perso la sua nuova mamma adottiva. E se
avevo sperato di provare un minimo di compassione facendo leva su un dettaglio
del genere, dovetti ricredermi subito.
Adams lo raggiunse con calma, le
braccia lungo i fianchi e la schiena dritta.
«Se ti riferisci alla morte di
George, temo di doverti deludere. Io e Charles non ci siamo mossi da New York
per una settimana» e
nessuna prova può dimostrare il contrario, caro ragazzo mio.
«Potresti aver assoldato qualcuno,
è pieno di gentaglia pronta ad intascare il tuo denaro per fare il lavoro
sporco al posto tuo.»
Risi appena, soffiando aria
attraverso le labbra leggermente dischiuse. «Vero, ma non è questo il caso.» Vidi Lee tornare verso di me e
giunsi le mani dietro la schiena, intenzionato più che mai a stroncare
quell’assurdo discorso.
«Congratulazioni, Charles.»Artemas
e l’altro tizio spuntarono da dietro Samuel, e Ward
gettò un braccio intorno alle spalle del mio pupillo. «Sei contento? Finalmente hai
ottenuto quello che volevi, così non romperai più il cazzo a nessuno.» Lo strinse a sé, intrappolandogli
il collo nell’incavo del gomito e sorridendogli beffardo. I denti scoperti come
un cane affamato, pronto a banchettare al primo passo falso di Lee.
«Già. Ricordati che io non sono
come Washington, non ho bisogno delle tue visite notturne, d’accordo? Preferisco
dormire da solo.» Replicò senza scomporsi e sfoderando
un sorriso di circostanza.
Artemas rise, sorvolando sulla frecciatina
di Charles e scoccando un’occhiata all’amico. «Ma sentilo, Philip, gli piace
scherzare»
tornò quindi a guardare Lee, schioccando la lingua contro il palato. «Beh, buona fortuna. Dopo tanta
fatica goditi il freddo di Valley Forge, ti si congeleranno le palle dopo mezz’ora,
ti avverto.»
«Lo
so, non è la prima volta che ci vado.» Rise di nuovo, poi mi lanciò un’occhiata
divertita e si allontanò non prima di aver lasciato una pacca a mano aperta
sulla schiena di Lee. Li osservai fino a che non sparirono oltre la soglia
della stanza, poi tornai a guardare Connor, che
intanto si era avvicinato al mio allievo con fare minaccioso. Nel giro di un
secondo lo afferrò per il bavero con poca grazia, avvicinandoselo e facendolo
sbattere contro il bordo del tavolo.
«La
pagherete tutti e due, mi sono spiegato?»
Charles
aggrottò le sopracciglia, risentito per l’atteggiamento del ragazzo. «Vedo che
sta diventando un’abitudine» si tolse malamente di dosso la mano di Connor, «è un vizio che dovete togliervi, chiaro? Porta rispetto,
ragazzino, non ci metto niente a darti una lezione.»
Mio
figlio avanzò di mezzo passo, portandosi ad un palmo dal viso di Lee. «Non sfidare
la mia pazienza.» Prontamente afferrai Charles da dietro, infilando quattro
dita all’interno del colletto della giacca e tirandolo verso di me, lontano
dall’Assassino.
«Adesso
basta, state diventando ridicoli. Vedete di darvi una calmata. Tutti e due.» Posai
l’altra mano sulla spalla sinistra di Connor, «qui
nessuno ha ucciso Washington, puoi chiedere a tutte le guardie di Fort George,
non siamo stati noi.»
Con
una manata il ragazzo si liberò dalla mia presa, indietreggiando di un passo e
puntandomi contro un dito accusatore. «Se speri di convincermi sei fuori
strada. Tu, i tuoi compagni e le tue guardie siete gli ultimi uomini di cui mi
fiderei» lanciò un’occhiata a Charles, poi tornò a fissare me. «La collaborazione
finisce qui» e senza aggiungere altro raggiunse la porta senza neanche
aspettare Adams, che a capo chino gli andò dietro.
Una volta
soli sbuffai esasperato, portando due dita alla base del naso per fare il punto
della situazione. Sarei rimasto solo a New York, solo contro Connor, che sicuramente avrebbe scatenato altre rivoluzioni
inutili. Il lato positivo, almeno, era che non avrei più dovuto preoccuparmi
dell’esercito. Con Charles al comando sarebbe filato tutto liscio.
«Chi
era quell’altro tizio?» Domandai di punto in bianco riferendomi all’amico di Artemas. Era rimasto in silenzio per tutto il tempo,
guardando Lee di sottecchi e con aria dubbiosa e senza mai intervenire per
schernirlo.
Charles
si aggiustò il colletto della giacca. «Parlate di Philip Schuyler? È un mio pari. Anzi, era. George Washington
nominò me, lui, Artemas e IsraelPutnam come suoi secondi in comando.» Lo seguii fuori dalla sala ripensando a
Philip. Il suo sguardo non mi era piaciuto per niente.
«Se è simpatico come Ward,
bell’affare.» Rise piano,
godendosi gli ultimi istanti caotici tipici della città.
«Forse un po’ meglio. Non abbiamo mai avuto
modo di conoscerci. Non ce l’ho avuto con nessuno, in verità. Eravamo tutti
impegnati con le truppe, io in particolare, visto che faccio parte anche dell’Ordine.»
Svoltammo
un angolo, e nonostante la folla che ci separava dalla porta, riuscii a
scorgere il cavallo già sellato per Lee, il quale l’avrebbe portato a Valley
Forge.
«Beh,
sarà meglio che vada.» Si aggiustò il cappotto, chiudendo gli ultimi bottoni,
per poi farsi spazio tra le persone per arrivare all’uscita.
Lo seguii
stizzito. «Non si usa più salutare?» Charles si fermò di colpo, come se gli
avessi fatto notare di non avere la pistola. Mi guardò con aria colpevole, poi
mi gettò un braccio oltre la spalla, afferrando il mantello e stringendo forte.
Ricambiai la stretta, passandogli una mano sotto la coda bassa, i capelli
malamente raccolti sotto la nuca.
«Non
sarei partito senza salutarvi» sussurrò contro la mia camicia.
Sorrisi,
la pelle della guancia tirata contro il suo orecchio. «Lo so» gli diedi una
pacca sulla schiena e sciolsi l’abbraccio, guardandolo negli occhi, «su, vai. I
soldati ti aspettano.»
Annuì
con convinzione. «Dite voi a Jennifer che sono a Valley Forge. E tenetela d’occhio
al posto mio.»
Roteai
gli occhi, esasperato. «Non te la ruba nessuno, ti ci metto la firma col
sangue.» Mi guadagnai un’occhiata risentita da parte di Lee e non riuscii a
trattenere una risata. Mi diede un ultimo colpo sul braccio e senza aggiungere
altro raggiunse il cavallo davanti all’entrata, che partì al galoppo verso la
periferia di New York.
Anche oggi ad orari vergognosi, ma ormai va così, lool.
Graaazie come sempre a chi
recensisce e legge soltanto, aaww, a presto :3.
Erano passati due mesi da quando ero
partito per Valley Forge, la guerra non aveva preso chissà che svolta a nostro
favore, ma eravamo riusciti a riconquistare Philadelphia e Boston. Era un passo
piccolo, sì, ma pur sempre in avanti. Sempre meglio dei risultati ottenuti da George.
Avevo mantenuto la posizione su Monmouth con l’intenzione di spingere gli Inglesi verso la
costa e costringerli alla ritirata. Era una delle poche mossa a mia
disposizione, i nostri erano pochi, sperare di vincere in un testa a testa era
pressoché impossibile. L’unica soluzione era resistere, salvare il maggior
numero possibile di vite e avanzare, metro per metro, fino a pressare le giubbe
rosse per obbligarle alla fuga.
«Signore» mi voltai, stupendomi nel
trovarmi davanti Philips con le mani giunte sul ventre. Mi passai una mano tra
i capelli, lasciando perdere i piani e le tattiche e dedicandomi al mio collega.
«Non chiamarmi così» risposi con una smorfia. Dio, non
ero ancora abituato a sentirmi chiamare così da un mio pari, «hai novità?» Sfregai le mani tra loro un paio
di volte, sperando di riattivare la circolazione.
«In verità sì, ma non sono nuove
positive» annuii espirando dal naso, pronto
a ricevere la notizia. «Israel ha chiesto aiuto. Gli Inglesi stavano
raggiungendo il porto di Boston, a quest'ora saranno già nel pieno dello
scontro.» Ringhiai. Non potevo permettermi di avere
risultati scarsi quanto Washington, non in quel momento, che stava andando
tutto per il verso giusto.
«Manderò altri soldati, tanto qui la situazione è tranquilla.»
Philip annuì, concordando con l'unica cosa
che potessi fare. «Ho saputo anche che c'è il tizio che era con te al Congresso Continentale.» Smisi di respirare. Haytham? Cosa diavolo ci
faceva a Bunker Hill?
Lo
guardai ancora. «Ne sei sicuro?»
Annuì. «Il foriero
ha detto così» mi si congelò il sangue nelle vene più di quanto già non fosse. Perché era
andato a Boston? Cosa credeva di fare, armato solo di spada e pistola e senza
conoscere le tattiche militari che eravamo soliti usare?
Mi passai ancora una volta una mano tra i
capelli, indeciso sul da farsi. Cristo, si sarebbe ficcato in qualche guaio, me
lo sentivo.
«Affido a te il comando finché sarò via» gli
mollai una pacca sulla spalla, «vado a Boston, i soldati mi raggiungeranno
lì il prima possibile. Preparane un centinaio.» Lo
superai ignorando la sua espressione sconvolta e mi diressi verso la
staccionata coperta a nord, una sottospecie di stalla in cui tenevamo i
cavalli. Ne sellai uno in fretta e furia, le mani tremanti per il freddo e la
paura. Non volevo gli accadesse qualcosa. Non doveva, o i sensi di colpa mi avrebbero accompagnato fino alla
tomba.
«Stai scherzando, vero?» Philip berciò rauco, il volto paonazzo
per il vento e le braccia spalancate. «Abbandoni
l'esercito così, su due piedi?»
«Non abbandono niente. Vado da Israel, ha bisogno
di una mano.»
Montai a cavallo, le gambe tese e i piedi
irrigiditi sulle staffe. «Prepara i soldati il più in fretta possibile, cercherò di prendere tempo» lo lasciai in procinto di ribattere, la bocca mezza aperta e l'indice
sollevato.
Spronai il cavallo e mi allontanai,
dirigendomi verso l'uscita dell'accampamento col cuore in gola. Avevo un brutto
presentimento.
Cristo, perché doveva rendermi le cose più
difficili? Haytham voleva agire, non se ne sarebbe
rimasto a Fort George neanche se l'avessi supplicato in ginocchio, ma doveva
capire che sarebbe stato un intralcio per l'esercito, ed io non potevo
occuparmi anche di lui.
Colpii col tallone il fianco del
purosangue per l'ennesima volta, seguendo il sentiero più o meno sgombero con
l'ansia di aver fatto una stronzata a lasciare Valley Forge nelle mani di
Philip. Non che non mi fidassi, ma qualsiasi cosa fosse successa sarebbe stata
colpa mia. Stavo lasciando l'accampamento e delegando ad un uomo la sorte dei
miei soldati, e la solidarietà verso Putnam non
avrebbe giustificato un'eventuale disgrazia. Almeno credo.
Non mi resi conto di nulla e un secondo
dopo venni investito dal gelo. Un freddo improvviso mi ghiacciò il cervello, la
neve intorno al viso, nelle orecchie, la schiena zuppa, così come le gambe. Un
dolore del cazzo alla nuca mi costrinse a strizzare gli occhi e a grugnire con
disappunto.
Ero a terra. Aprendo a fatica gli occhi
riuscii a intravedere il mio cavallo ancora lì, ringraziando Iddio, leggermente
stordito, ma a pochi metri da me. Quindi ruotai il capo e guardai la sagoma che
mi sovrastava, senza riuscire a capire chi fosse. La sua mano pesante sul petto
mi spingeva l'aria fuori dai polmoni, impedendomi di inspirarne di nuova.
Non poteva che essere una sola persona. «Tu.»
«Charles» la sua solita espressione del cazzo stampata in viso.
«Togliti immediatamente, idiota.»
Scalciai e tentai di alzarmi, ma fallii miseramente. Beh, avrei dovuto
aspettarmelo, ero bloccato da settanta e passa chili. «Ho detto di toglierti!» Afferrai la tunica del mezzosangue e
spinsi, ma Connor non si mosse di mezzo centimetro.
«Disertore, eh? Con che coraggio osavi parlare male di Washington?»
Tentai di liberarmi con un colpo di reni,
ma riaffondai nella neve con un tonfo. «Non sto
disertando, per chi mi hai preso?» Ringhiai,
le mani ancora salde sulla sua casacca, il suo naso ad un palmo dal mio. «Ho un onore, io. Levami le mani di dosso.»
Mi fissò dubbioso per una manciata di
secondi, non si fidava di me. Non si sarebbe mai fidato di me. Il lavoro svolto
insieme in assenza di Haytham non gli aveva fatto
cambiare idea. Anche se, in tutta onestà, non capivo quale fosse il problema.
Non ero stato io a bruciare il suo villaggio, non avevo sua madre sulla
coscienza, quindi perché tutto quell'astio?
E la mia, di opinione? Mentirei se dicessi
di avere fiducia nel ragazzo. Mi ero seriamente impegnato per andare d'accordo
con lui, per dimostrargli che avremmo potuto ottenere dei risultati nonostante
fossimo rivali, ma non ci riuscivo. Non con il disprezzo che mi riservava ogni
volta che mi guardava. E porca puttana, se c'era uno tra noi che avrebbe dovuto
guardare l'altro dall'alto in basso, beh, quello ero io.
«Ti servirà a poco l'onore quando sarai morto» ah, se
sperava di ammazzarmi così facilmente si sbagliava di grosso. Alzai un
ginocchio colpendolo in mezzo alle gambe, approfittandone per spingerlo di lato
e alzarmi. La poca neve intrappolata tra i capelli mi scivolò sul collo, provocandomi
un brivido.
Imprecai, quello stupido ragazzino mi
aveva già fatto perdere abbastanza tempo.
Mi scrollai i residui di ghiaccio dai
calzoni e Connor si rimise in piedi, mettendo mano
all'accetta che si portava sempre dietro. No, non gli avrei concesso un
combattimento. Non mentre suo padre rischiava la vita.
Schivai in tempo un attacco piegandomi all'indietro,
i muscoli della schiena tesi per non cadere di nuovo in quella melma umida e
fredda. Tornato in posizione eretta calciai la neve con la punta dello stivale,
mandando pezzetti di acqua ghiacciata negli occhi del ragazzo. Sfruttai quei
pochi secondi in cui abbassò la guardia e gli tolsi l'arma, lanciandola via di
una decina di metri. Quindi lo afferrai ancora per la giubba, spingendolo
malamente contro il tronco più vicino.
Gemette all'impatto, ma me ne curai poco. «Mi stavi seguendo? Lasciami fare il mio lavoro, ragazzino. Torna da quello
stupido vecchio a tenergli la mano prima che esali l'ultimo respiro.»
«Sì» ammise senza vergogna, «ti stavo tenendo d'occhio. Non mi fido.»
«Credi che possa aiutare gli Inglesi?!»
Sbottai indignato. Quello era il colmo.
«Non so che piani tu abbia, so solo che non mi piaci. E non mi piacciono i
tuoi modi di fare.» Provai a trattenermi fino alla fine, lo giuro, ma non ci riuscii.
Le nocche impattarono contro le sue labbra
con violenza, la pelle tagliata dopo aver sfregato contro gli incisivi. «Fatteli piacere i miei metodi, perché salveranno il culo a tuo padre»almeno spero. Alzò il viso dalla
neve, guardandomi senza capire.
«Mio padre?» A fatica si rimise in piedi, pulendosi il labbro spaccato con la manica. «Cosa c’entra ora?»
«Si trova a Boston in questo momento. È a Bunker Hill, gli Inglesi stanno
per sbarcare e attaccare la città, spera di fermarli. Da solo!» Calciai ancora la neve, frustrato. Perché stavo perdendo tempo prezioso
con l’indiano? Dovevo pensare a Israel. E ad Haytham, per la miseria. Connor
non meritava altre attenzioni.
Mi avvicinai al mio cavallo e rimontai in
sella mentre il ragazzo si abbassò per raccogliere il tomahawk.
«Stai andando da lui?»
Tirai
lei briglie e calmai il purosangue, concedendo un’ultima occhiata al
mezzosangue. «Certo. Non posso permettere che Boston ricada nelle mani delle giubbe
rosse. Ho sputato sangue per riconquistarla.» Lasciai che mi guardasse qualche
secondo e non aggiunsi altro.
Spronai
il cavallo senza preoccuparmi di cosa avrebbe fatto. Che tornasse da Achille,
che proseguisse verso Valley Forge, non mi interessava. Ero ancora troppo
lontano da Boston e l’ansia mi stava uccidendo.
Per tutto
il tragitto mi era sembrato di essere seguito, ma non vi badai molto. In prossimità
di Bunker Hill avevo intravisto l’Assassino seguirmi a qualche metro di
distanza, credendo forse che saltare di ramo in ramo l’avrebbe reso anonimo. Ma
Haytham mi aveva insegnato a non lasciare nulla al
caso, istruendomi a far maggiore attenzione nella foresta, specialmente dopo l’incontro
con la donna Mohawk. Era rimasto affascinato dalla sua agilità, dalla sua
leggerezza. E noi facevamo fatica ad avanzare nella neve alta.
Udii i
primi colpi di cannone e istintivamente accelerai. Il cuore in gola, la camicia
appiccicata alla schiena e tanta ansia nel petto.
Connor mi affiancò poco
prima di entrare sul campo di battaglia, ma non dissi nulla, né che mi ero
accorto da subito che mi avesse seguito né commentando il fatto che fosse lì.
Tirai le
briglie, fermandomi poco fuori il bosco. Una decina di palle di cannone caddero
a pioggia sul terreno, martoriando più di quanto già non fosse la terra e
distruggendo trincee.
Smontai
da cavallo in silenzio e legai le redini ad un ramo basso, volgendo poi lo
sguardo verso la collina dove c’erano i patrioti. Cercai Putnam
con lo sguardo, ma in quel via vai di soldati non riuscii ad individuarlo.
«Che facciamo?»
La voce del ragazzo mi innervosì, ma tentai di calmarmi. Non potevo permettermi
di perdere la concentrazione.
«Per
prima cosa troviamo Israel, poi vediamo» senza
aspettare risposta mi incamminai, pregando che le navi attraccate al porto di
Boston non sparassero un’altra bordata in quell’istante. Accelerai il passo
scavalcando qualche cadavere, chi senza un arto, chi con il petto forato. Erano
irriconoscibili, a fatica si riusciva a distinguere il colore della giubba.
Raggiunta
la cima della collina non faticai ad scovare Putnam. Mi
dava le spalle, urlava ordini e gesticolava come un folle, bestemmiando contro
quei pochi soldati superstiti che sapevano di avere le ore contate.
Posai una
mano sulla spalla del generale, ma l’accoglienza non fu delle migliori.
«E tu
che cazzo vuoi?» Mi berciò contro senza neanche voltarsi.
Non mi
offesi, era fatto così. «Buongiorno anche a te.»
«Charles?»
Si tolse il sigaro di bocca e sputò a terra, «che Dio
mi fulmini, che diavolo fai qui?»
«Il
messaggio è arrivato e Philip manderà altri soldati il prima possibile, intanto
posso aiutarti a guadagnare tempo.»
Mi rise
in faccia, sputando ancora. «Neanche Gesù Cristo riuscirebbe a cavarsela, non ‘stavolta!»
Rimise il sigaro tra le labbra, indicando con un cenno della mano tutti i
cadaveri che ci circondavano. Sì, decisamente un bello spettacolo. «Abbiamo ancora
circa centocinquanta uomini, di cui cento sono già praticamente morti! Si cagano
in mano al solo sentirmi parlare, come speri di poterli mandare a combattere?
Ah, Dio!»
Un’altra
bordata partì dal porto, i patrioti urlarono.
«Resisteremo.»
Israel alzò le mani in segno di resa, arrendendosi di
fronte alla mia determinazione. «A proposito, hai visto un certo HaythamKenway? So che è stato
qui.» Vidi Connor alzare lo sguardo da terra e la
cosa mi stupì non poco. Da quando si preoccupava per suo padre?
«Se l’ho
visto?» Ridacchiò, «quel vecchio è tutto pazzo, te lo dico io. Ha insistito per
dare una mano, ma i fucili non bastano per l’esercito, figuriamoci per i volontari.»
«Dov’è
ora?» Incalzai, il cuore che riprese a martellare contro la cassa toracica.
«Non ne
ho idea, chissà in che casini s’è cacciato. E sai che ti dico? Ben gli sta!»
Sputò per la terza volta ed io pregai che si sbagliasse. Non poteva essere
morto, no. Come l’avrei detto a Jennifer? Con che coraggio sarei potuto tornare
a New York e annunciare una simile disgrazia? Senza neanche il corpo, magari.
Dio, non mi avrebbe più guardato in faccia.
Mi si
accapponò la pelle, un brivido di paura a scuotermi il petto.
«Delle
navi posso occuparmi io» ci voltammo verso Connor, «se
smettessero di sparare riuscireste a resistere fino all’arrivo dei rinforzi?»
Putnam lo guardò con
sufficienza, convinto che bleffasse. «Eccone un altro, stesso stampo di quell’altro.»
Sorrisi. Che a Connor piacesse o no, l’impronta di Haytham si vedeva eccome.
Il ragazzo
sembrò non gradire il paragone, indurendo lo sguardo con disappunto. «Forse. Voglio
delle scuse al mio ritorno.» Avrei riso per la risposta dell’indiano, ma quando
voltai lo sguardo oltre le spalle di Israel mi si
gelò il sangue nelle vene.
La nuova
bordata passò in secondo piano davanti al corpo di Haytham.
Era lì, a una ventina di metri da me, immobile e sporco di terra.
«Cristo.»
Mormorai deglutendo a fatica. Mi mossi come un automa, superando Putnam e passando in mezzo ai soldati che correvano senza
criterio, ormai in preda al panico. Scavalcai altri cadaveri e mi accovacciai a
terra, afferrandogli un braccio e girandolo supino, verso di me. Era ferito
alla tempia sinistra, il sangue si era seccato, ma non ero sicuro si fosse
coagulato completamente.
«Haytham?» Gli poggiai una mano sul petto e lo scossi piano,
temendo avesse qualche costola rotta. Cristo, davo per scontato che fosse vivo.
Portai l’indice
e il medio sulla giugulare e solo Iddio sa quanto mi sentii leggero nel sentire
il battito. Doveva essere svenuto per la botta in testa, non c’erano altre
ferite e il taglio in fronte non era sufficiente ad uccidere.
Chiusi gli
occhi e sospirai, la mano che dal collo scivolò verso il viso, il palmo
appoggiato sulla sua guancia sinistra.
Alzai lo
sguardo verso il porto, le navi che ancora sparavano contro la città in
ginocchio. Sbrigati, ragazzo. Ho bisogno
di aiuto.
Oggi ho superato me stessa, lol.
Chiudete un occhio sul ritardo
mostruoso, da bravi. Mi farò perdonare col prossimo capitolo.
Boh, ormai sono ripetitiva, ma graaaazie a tutti, aw.
A lunedì prossimo!
Fu la mezz’ora più lunga della mia vita. Le navi
inglesi attraccate al porto di Boston continuavano a sparare bordate, e mentre Putnam berciava ai soldati di raccattare i fucili e
togliersi dal centro del campo di battaglia, io ero riuscito a trasportare Haytham in un punto un po’ più coperto, ai piedi del bosco.
Lì le palle di cannone non erano ancora arrivate.
Pregavo che Connor si
sbrigasse. Non mi interessava la riuscita dell’impresa, le navi avrebbero
potuto anche raderla al suolo, Boston. A me interessava Mastro Kenway. Dovevo portarlo a New York.
Mi ritrovai a contare i secondi, perché starmene
con le mani in mano mentre il mio maestro rischiava di lasciarci la pelle, beh,
mi rendeva piuttosto nervoso. E vedere l’Assassino correre verso di me non mi
era mai sembrato tanto rincuorante. In un’altra situazione magari mi sarei
nascosto, troppo pigro per affrontare faccia a faccia quel ragazzone di un
metro e novanta, ma Haytham era a terra, privo di
sensi e con una ferita alla testa. Le cannonate erano cessate, facendomi
pensare che fosse riuscito ad uccidere gli equipaggi inglesi. Beh, tanto
meglio.
«Connor!» Con una mano gli feci cenno di avvicinarsi, e dopo aver
scambiato un paio di parole con Putnam mi raggiunse
con passo lungo e rilassato. «Muoviti,
per l’amor di Dio» ringhiai
quando era abbastanza vicino da sentirmi, ma sembrò allarmarsi solo dopo avermi
guardato in faccia.
«Che succede?» Gli occhi puntati sul corpo di suo padre,
i pugni stretti lungo i fianchi.
«È solo svenuto, aiutami a portarlo fino ai
cavalli» strinsi le caviglie
del mio maestro attendendo che il ragazzo lo sollevasse da sotto le ascelle, ma
con mio sorpresa non si mosse. Forse era sconvolto, e sperai in cuor mio fosse
così, perché mi rifiutavo di pensare che vederlo incosciente e ferito non gli
facesse provare neanche un minimo di dispiacere. «Si può sapere che stai aspettando?» Sbottai alzando lo sguardo.
L’Assassino sobbalzò. «Sì, scusa» lo afferrò saldamente per la redingote e lo alzò da terra,
aiutandomi a spostarlo da quella posizione scomoda e, sebbene riparata,
comunque troppo esposta.
Attraversammo la collina senza difficoltà,
specialmente grazie al sabotaggio delle navi inglesi e mentre camminavamo lanciai
un’occhiata ad Haytham. L’espressione rilassata, il viso
pallido, come fosse morto.
No. No, santo Dio, che diavolo andavo a pensare?
Aveva solo un taglio. Uno stupidissimo taglio sulla fronte. Non è mai morto
nessuno per una ferita del genere, e poi gli avevo sentito il battito pochi
minuti prima: era regolare. Un po’ debole, ma regolare. Sapevo riconoscere un
uomo in fin di vita, e lui non lo era.
«Issalo sul cavallo» borbottai adagiando i piedi a terra e
obbligandomi a controllare il tremore alle mani mentre scioglievo il nodo alle
redini.
«Dove vuoi che lo porti?»
Mi voltai verso il ragazzo. «Tu?»
«Certo, altrimenti chi?» Cercai di capire se fosse serio o se mi
prendesse in giro.
«Io, per esempio.» Serrò le braccia sul petto, le mani
nascoste sotto i bicipiti e lo sguardo strafottente.
«Tu dovresti restare qui, i soldati hanno
bisogno di te.»
«No» incalzai, «tuo
padre ha bisogno di aiuto»
sottolineai con disappunto. Ha bisogno di
me, cristo.
«Posso portarlo io ovunque serva. Hai
ammazzato Washington per avere questo incarico, non perdere tempo in altre
faccende.» Soffocai a stento
una risata isterica, imponendomi di non colpire il naso del nativo un’altra
volta. Il taglio sulle nocche bruciava già abbastanza per farmi desistere.
«Stammi a sentire, ragazzino» mossi un passo verso di lui,
puntellandogli un dito sul petto, «io non ho ucciso nessuno, gli Inglesi sono decimati, non attaccheranno
più dopo il tuo intervento e i rinforzi dei patrioti non arriveranno prima di
domani. Non c’è bisogno che resti qui, Israel saprà
dare istruzioni in caso di necessità.» Tirai il cavallo per le briglie per avvicinarlo al corpo,
poi sollevai Haytham, posizionandomi davanti a lui e
appoggiando le sue braccia sulle mie spalle.
«Gradirei mi dessi una mano» borbottai mettendo un piede sulla staffa,
le mani a stringere i polsi del Gran Maestro per tenerlo in posizione eretta. Connor sbuffò, spingendo suo padre per le gambe mentre io
salivo in sella.
Era una posizione alquanto scomoda, ed ero ben
consapevole che così facendo mi sarei limitato nella velocità, ma era l’unica
soluzione. Non avevo un carro e non avrei perso tempo a cercarlo.
«Parla tu con Putnam,
digli che ho avuto un imprevisto e che tornerò il prima possibile.» Attesi che annuisse e mi congedai,
spronando il cavallo e tornando sui miei passi. Mi misi il braccio sinistro di Haytham in torno alla vita, la sua mano appoggiata sul
cavallo dei miei calzoni, e l’altro appeso alla mia spalla, in modo da
afferrarlo facilmente nel caso rischiasse di cadere, la testa appoggiata alla
mia schiena.
Era ancora vivo, il suo respiro caldo e regolare
sul collo me lo confermò ed io mi calmai, stringendogli il polso destro e
accelerando leggermente l’andatura.
Il viaggio mi portò via sei ore, lasso di tempo
in cui credetti seriamente di arrivare a New York troppo tardi.
Prima che si facesse buio ne approfittai per
smontare –lasciando Haytham in sella- in prossimità
di un fiume e bagnare una pezza. Mi ero poi issato su una staffa per lavargli
la ferita alla tempia, per ripartire quindi al galoppo verso New York,
ignorando il fatto che spronare in quel modo il cavallo avrebbe rischiato di
far cadere entrambi, ma preferii correre il rischio. La foresta era un posto
pericoloso di giorno, di notte era insidiosa due volte tanto. Con me avevo solo
una spada e una pistola con qualche proiettile, armi che mi avrebbero salvato
la pelle contro una ronda di una decina di uomini al massimo, ma contro un
lupo, o peggio ancora un orso, non avrei avuto certamente la meglio.
Per grazia divina arrivammo a Fort George sani e
salvi, e le guardie all’entrata del forte mi aiutarono a tirare Haytham giù da cavallo e a portarlo dentro.
Istintivamente pensai a Jenny, a come avrebbe
preso la notizia e iniziando a formulare scuse plausibili per scagionarmi.
Un momento. Scagionarmi da cosa? Non era stata
colpa mia, perché mi sentivo responsabile? Avevo abbandonato l’esercito per
portarlo al sicuro, questo sarebbe dovuto bastare.
«Charles?!» Alzai lo sguardo, fermandomi a metà rampa di scale insieme
alla guardia. Jenny era lì, in cima, intenta a guardarci sconvolta. «Cosa ci fai qui? Cos’è successo a mio fratello?» Ripresi a salire, il braccio del mio maestro
intorno al collo e metà del suo peso sulla spalla sinistra.
«Calmati, è solo svenuto. Ha preso una
botta in testa.» Non aggiunsi
altro e trascinai a fatica Haytham nella sua stanza. Dopo
averlo adagiato sul letto intimai alla sentinella di uscire, venendo sostituita
prontamente da Jennifer. Entrò in camera affannata, una mano sul petto e gli
occhi sbarrati, puntati sul viso ferito del Gran Maestro.
«Dovrebbe riprendersi» parlai per primo, dandole forse la
risposta che più le interessava sentire. Afferrai uno stivale di quello che
avevo considerato mio padre negli ultimi vent’anni e lo sfilai, adagiandolo a
terra, accanto al letto. «L’ho
trovato ferito a Boston.»
«Credevo fossi a Valley Forge» sussurrò ancora scossa e chiudendo la
porta. Tolsi anche l’altro stivale, poi annuii.
«Infatti. Mi è giunta voce che a Boston
fossero sbarcati altre giubbe rosse, poi mi hanno detto che Haytham
era lì e…» gesticolai
imbarazzato, infilando poi la mano in tasca per non risultare ridicolo, «… e sono andato a Bunker Hill.»
«Dio mio. Gli hai salvato la vita.» Alzai lo sguardo su di lei giusto in
tempo per vederla mentre si tappava la bocca con una mano per soffocare un
singhiozzo, e mi si strinse il cuore. Non volevo vederla così. Avrei dovuto
fare qualcosa, avrei dovuto fare di più.
«Vieni qui.» Mi abbracciò di slancio e nascondendo il viso contro la
giacca, trattenendo il respiro e reprimendo un altro singulto. «Non piangere, non è in pericolo di vita» le poggiai una mano sulla schiena per
tranquillizzarla, lanciando un’occhiata al Gran Maestro per accertarmi che
respirasse ancora. Vidi il petto alzarsi lentamente e chiusi gli occhi, dando
una pacca sulla spalla di Jenny.
«Dovrebbe stare al caldo» dissi rompendo il silenzio, «va’ a prendere qualcosa per disinfettargli
la ferita, io ho potuto solo sciacquarla» si staccò da me asciugandosi gli occhi e la guardai in
silenzio mentre lasciava la stanza. Mi avvicinai al letto e coprii Haytham, poi spostai la sedia che teneva alla scrivania
portandola vicino al letto, quindi mi ci sedetti per aspettare Jennifer.
Quando aprii gli occhi la stanza era buia e
silenziosa e dovetti strizzare un paio di volte le palpebre per capire di
essere a Fort George.
Mi mossi di poco e feci scricchiolare la schiena,
accorgendomi in quel momento di avere una coperta addosso. Mi misi seduto
ancora mezzo assonnato, scorgendo Jennifer davanti a me, seduta su uno sgabello
ai piedi del letto del fratello, le braccia appoggiate al materasso e la testa
sugli avambracci. Dormiva profondamente, rabbrividendo di tanto in tanto.
Mi alzai sospirando, non avrei comunque ripreso
sonno, quindi la coprii per bene. Dopo essermi assicurato che fosse al caldo
lasciai la stanza, chiudendo delicatamente la porta e percorrendo il corridoio
con passo stanco, lasciandomi guidare dalla fioca luce lunare che a malapena
illuminava il pavimento. L’indomani sarei ripartito per Bunker Hill, con un po’
di fortuna sarei arrivato insieme ai rinforzi inviati di Philip.
Svoltai l’angolo, trovandomi davanti la guardia
che mi aveva aiutato a portare Haytham fino alla sua
camera.
«Stavo cercando voi, generale Lee.» Sussurrò timoroso.
«È successo qualcosa?» Scostai lo sguardo e sbirciai oltre la
finestra, tentando di capire cosa avesse spaventato la sentinella.
«No. No, è tutto a posto. Solo...» si torturò le mani, giocherellando con le
pellicine intorno alle unghie, «i vostri colleghi sono qui, signore. Parlo dei generali Ward, Schuyler e Putnam.»
Inarcai un sopracciglio. Ward
sarebbe stato plausibile, ma Philip e Israel? Com’era
possibile? Li avevo lasciati a Valley Forge e Bunker Hill. «Ne sei sicuro?»
«Sicurissimo. Hanno chiesto di voi.» Imprecai a mezza voce. Quei tre mi
avrebbero mandato nei casini, porca puttana.
Scesi le scale saltando gli scalini due a due,
raggiungendo la porta che si affacciava sul cortile interno. La spalancai con
poca grazia, attraversando il piazzale con passo pesante.
Li vedevo. Se ne stavano lì, davanti alle guardie
poste all’entrata del forte.
«Cosa ci fate qui?!» Sbottai inchiodando davanti a loro.
Artemas
sogghignò lascivo. «Potremmo
chiederti la stessa cosa, Charles. Credevo che un comandante non abbandonasse i
suoi soldati per tornare a casa. Che è successo?, ti
mancava la tua sgualdrina?»
Serrai un pugno e sorvolai obbligandomi a
mantenere il controllo, poi guardai Putnam. «Credevo che il ragazzo ti avesse spiegato
tutto.»
«Sappiamo perché sei qui, amico, ma sono
successi degli imprevisti.»
Alzai le sopracciglia.
«Ovvero? Sono arrivate altre giubbe rosse?»
«Temo che loro non possano sentire» indicò con il mento i soldati alle mie
spalle schioccando la lingua. Purtroppo aveva ragione. Le questioni riguardanti
l’esercito non potevano essere divulgate a terzi.
Feci cenno ai due vigilanti di rientrare, e solo
quando oltrepassarono la soglia e chiusero il cancello si degnarono di darmi
una spiegazione.
«Vedi, Charles, il fatto è che sospettiamo
ci sia un traditore tra le nostre fila.
«Cosa?» Sbottai sconvolto. «Non è possibile, chi sarebbe?»
Philip restò impassibile, e Ward
si passò una mano tra i capelli mentre Israel faceva
l’ennesimo tiro dal suo sigaro. «Tu.» Non
riuscii a schivare un pugno in pieno volto, poi persi i sensi.
Quando aprii gli occhi la prima cosa che vidi fu
il contorno sfocato delle mattonelle di New York. Capii che mi stavano
trascinando da qualche parte, perché mi sentivo sballottato, ma non avevo la forza
sufficiente per camminare da solo.
«Cristo, che mal di testa- borbottai con un
fil di voce. Alcuni risero, e improvvisamente mi fu tutto chiaro. Un terzo uomo
aprì una porta e di colpo venni investito dal buio. Non capivo dove fossi e per
un attimo ringraziai di essere guidato da chi evidentemente riusciva ad
orientarsi anche nell’oscurità più totale. Preso dal panico strizzai le
palpebre, riuscendo a mettere a fuoco i miei aguzzini.
ArtemasWard e Philip Schuyler, i
due generali dell'Esercito Continentale scelti dal Congresso oltre a me e IsraelPutnam, mi trascinarono di
peso fino a quello che, a primo impatto, definii uno scantinato. Era un luogo
buio e umido, illuminato a malapena da una finestrella, a stendo vedevo dove
stavamo andando. Il pavimento era di pietra grezza, lo intuii dal rumore della suola e dalla superficie sconnessa che più di una volta
aveva messo alla prova il mio equilibrio.
«Legate questo figlio di puttana» grugnì Ward, il
quale mi lanciò con poca grazia contro la sedia posta al centro della stanza.
Mi voltai verso di loro senza capire cosa stesse succedendo, ma senza darmi il
tempo di comprendere, Artemas e Philip mi costrinsero
a sedermi. Israel, davanti a me, trascinò un'altra
sedia e vi si accomodò dopo averla girata al contrario, come era solito fare il
ragazzo indiano. Si appoggiò allo schienale con un gomito e accese un sigaro
con tutta calma, inspirando e soffiando il fumo verso l'alto come nulla fosse.
«Cosa volete? Che cazzo significa questa
pagliacciata?» Non mi
risposero, limitandosi a prendermi i polsi e legarmeli dietro la schiena.
«Philip! Cosa diavolo...» tentai di dimenarmi, ma il pugno che mi
spaccò il labbro superiore assestatomi da Artemas mi
lasciò pietrificato. Erano impazziti tutti quanti? L'unico che non sembrava
interessato a pestarmi era Putnam, troppo concentrato
a fumare.
Ward
mi si piazzò davanti, poggiando un piede sul bordo del sedile della sedia sulla
quale sostavo, esattamente a un centimetro dalle mie palle.
«Parlerai. Eccome se parlerai, sporco
bastardo» ghignò sadico ed io
deglutii non sapendo cosa aspettarmi.
«Perché l'hai fatto, Charles? Eri uno dei
nostri, ma probabilmente speravi che nessuno avrebbe sospettato di te» intervenne Schuyler.
Li guardai alcuni secondi senza fiatare, che avessero capito?
«Fatto cosa?» Tentai di cavarmela.
«Sai benissimo di cosa parliamo, Lee.
Dell'omicidio di Washington. Se parlerai avrai un trattamento dignitoso, forse.
Non costringerci ad usare le maniere forti.»
Risi nervosamente. «State scherzando? Non so nulla di questa
storia, non ho ucciso io George» la gola divenne improvvisamente secca, il cuore iniziò a battere troppo
veloce, ma dalla mia parte avevo la mia innata abilità nel mentire, che mi
aiutò a sostenere gli sguardi inquisitori dei miei due colleghi.
«Parla!»Ward mi afferrò per il bavero
della giacca «Sanno tutti che
invidiavi il ruolo di Washington, chi altro avrebbe potuto ucciderlo? Sarebbe
passato a te l'incarico di Comandante in Capo, è inutile mentire» sputò delle gocce di saliva che mi
arrivarono dritte sul viso, non trattenni una smorfia.
«Ve lo ripeto: non l'ho ucciso io. Non
avete prove» mi colpì un
altro pugno, stavolta di Philip. Mi piegai in avanti e sputai a terra un grumo
di sangue mentre i piedi di Artemas uscivano dal mio
campo visivo. Mi sforzai di concentrarmi sul rumore metallico che udii alla mia
sinistra per capire cosa stesse facendo, ma il dolore alla mascella mi
offuscava i sensi.
Philip Schuyler mi
afferrò per i capelli, costringendomi ad appoggiarmi allo schienale. Deglutii
sangue e saliva, osservando Ward che trafficava sul
ripiano accanto a me.
«Spoglialo» disse senza nemmeno voltarsi. L'altro ridacchiò come se non
stesse aspettando altro, mi liberò i polsi e d'istinto mi alzai, ma non feci in
tempo a fare un passo, un calcio nelle reni mi spezzò il respiro, facendomi
inginocchiare. Non riuscii a trattenere un lamento e senza preavviso Philip mi
strappò via la redingote, afferrandomi un braccio e sbattendomi di nuovo sulla
sedia. Mi rilegò i polsi, stringendo la corda così forte quasi da impedire la
circolazione sanguigna.
«Cosa volete fare?!» Domandai nervosamente sforzandomi di non
entrare nel panico, anche se sapevo cosa mi attendeva. Le mani di Philip
spuntarono da dietro, infilò due dita nello spazio tra due bottoni, aprendomi
la camicia con un gesto deciso e lasciandomi a torso nudo. Solo in quel momento
Artemas si girò, osservando compiaciuto ciò che aveva
davanti. Si rigirò tra le mani delle pinze e avvertii chiaramente un macigno
all'altezza del petto, come una sfera infuocata che irradiava calore al resto
del corpo. Avrei dovuto interpretarla come adrenalina, ma scartai subito questa
ipotesi, dato che ero paralizzato. Era paura, consapevolezza, impotenza dinnanzi
agli eventi. Mi trovavo in balìa di due folli che mi accusavano dell'omicidio
del loro amato George Washington. Beh, forse un po' c'entravo, ma non era morto
per mano mia, Cristo santo.
«Vediamo quanto resisti, Lee» sorrise Artemas
appoggiando l'estremità appuntita sulla mia carne «È la tua ultima occasione per dire la
verità» potei notare una nota
di sadismo nella sua voce, come pregasse che tacessi per divertirsi a giocare
al chirurgo con me.
«Non la so la
verità, Ward. Con l'omicidio di Washington non
c'entro. Puoi chiedere a chi vuoi, quella notte ero a Fort George» risposi mantenendo la calma. Non potevano
farmi nulla, non senza le prove. Eravamo d’accordo con Jenny, che avrebbe detto
senza indugi che quella notte era nel mio letto, impegnandomi con altro.
Trascinò le pinze di lato lasciandomi un solco
arrossato sul pettorale, fino a stringere il capezzolo sinistro nella morsa di
metallo. Serrai i denti soffocando un gemito e guardai fisso Artemas, mentre Philip teneva le mani sulle mie spalle, come
ad assicurarsi che stessi fermo. Deglutii a vuoto, avevo la bocca secca come se
non bevessi da giorni.
«Non ricordi nulla?» Abbandonai la testa all'indietro e chiusi
gli occhi, aprii la bocca ed inspirai tentando di calmarmi.
«Non lo so, maledizione» raddrizzai il capo, tornando a fissarlo «Non lo so!» Urlai esasperato, le cosce dure e i polsi tremanti per lo
sforzo.
Fu un secondo, urlai con tutto il fiato che avevo
in corpo, fottendomene altamente dell'orgoglio, della reputazione e stronzate
varie. Con un gesto secco mi strappò il capezzolo, lasciando che cadesse a
terra come un qualsiasi pezzo di carne morta.
Una mano di Philip si staccò dalla mia spalla per
scivolare sul collo. Con due dita mi ruotò la testa, che avevo piegato in
avanti per fissare con orrore il sangue colare rapidamente fino alla vita e
imbrattare i calzoni. Non stava accadendo realmente. No.
«Ma guardalo, sta già piangendo» ridacchiò sadico. Sfiderei chiunque a
rimanere impassibile, maledetti bastardi. Strizzai gli occhi per liberarli dalle
lacrime e lanciai un'occhiata sofferente a Israel,
che buttò il mozzicone del sigaro a terra espirando l'ultima boccata di fumo,
come a implorarlo di farli smettere. Si alzò e lo spense definitivamente con la
punta dello stivale, solo allora si degnò di riservarmi attenzione. Dopo aver
messo le mani in tasca avanzò di pochi passi, affiancando Ward.
Lo guardai in silenzio con le guance rigate, le labbra spaccate e socchiuse e
un capezzolo in meno.
«Non ero favorevole a questo metodo e non
lo sono tutt'ora, fa' in modo che non duri oltre. Lo dico per te» appoggiò le mani sulle ginocchia e si
piegò in avanti, puntando gli occhi nei miei.
«Lo giuro, Israel,
non lo so. Non so niente» non
disse nulla, limitandosi a fissarmi dubbioso per qualche istante. Dopo essere
tornato in posizione eretta iniziò a camminare pensieroso, percorrendo avanti e
indietro e con nervosismo gli stessi metri. Artemas e
Philip non gli staccarono gli occhi di dosso per un solo istante, mentre io
faticavo a respirare dato il magone che avevo alla gola. Avrei voluto piangere
dal male fino a morire disidratato, il pettorale sinistro era in fiamme,
pulsava come se stesse per prendere vita, e iniziai a temere che mi avrebbero
fatto fuori sul serio.
«Forse dice il vero» parlò dopo poco.
Ward
sgranò gli occhi «Tu
gli credi? Che cazzo dici, Israel? Questo bastardo ha
ucciso Washington, porca puttana!» Mi indicò.
«Non sono stato io!» Tentai di difendermi ancora.
«Deve pagare» deglutì rumorosamente, continuando a tenere l'indice a
due centimetri dal mio viso. Stavo perdendo il controllo, ero cosciente del
fatto che la lucidità mi stesse abbandonando. E cosa avrei fatto, poi? Avrei
iniziato ad urlare? A piangere? No, quello lo stavo già facendo -per il dolore,
s'intende-. Sarei morto così? E chi l'avrebbe mai detto, ero sempre stato certo
che me ne sarei andato con una pallottola in corpo, travolto da una palla di
cannone o trafitto da una spada «E io so come farlo parlare» abbassai lo sguardo per terra e smisi di respirare nel vano tentativo
di rallentare il battito cardiaco che, a causa della mancanza di ossigeno,
avrebbe ritrovato un ritmo normale. Non servì, ovviamente. Il cuore continuava
a martellare contro la cassa toracica, mentre Artemas
trafficava sul ripiano. Non trovai il coraggio di guardare. Non volevo sapere,
anche se in fondo sospettavo.
Quando si girò notai nella sua mano destra un alare
con la punta incandescente.
«Cosa…? No» deglutii incredulo, con l’ansia nel petto che a malapena mi
lasciava respirare «No, Artemas, tu sei pazzo.» Ghignò sadicamente, rigirandosi tra le mani il metallo
rovente.
«Hai intenzione di collaborare?» Si abbassò su di me, avvicinando la punta
bollente alla mia carne. «Non
costringermi ad essere ancora più stronzo, Charles.» Urlai come un bambino quando mi infilò la
punta incandescente nell’ombelico. Mi conficcai le unghie nei palmi e strizzai
gli occhi, soffrendo di più per la dignità che stavano calpestando che per il
dolore fisico.
Avevo il volto bagnato di sudore e lacrime, il
ventre in fiamme e la gola secca, ma mi imposi di non dargli la soddisfazione
di vedermi sconfitto o di sentirmi implorare pietà. Quello mai.
Philip, ancora dietro di me, mi raddrizzò il capo
con poca grazia, indirizzando il mio sguardo verso Ward.
«Allora? Ti è venuto in mente qualcosa?» Lo osservai mentre mi si avvicinava di
nuovo, gli occhi lucidi d’eccitazione e la lingua a leccarsi le labbra. «Non farmi continuare» ma nel dirlo iniziò a tracciare una linea
verticale con l’alare sul mio addome, dall’ombelico fino al petto. Mi morsi
l’interno delle guance fino a sentire il sapore metallico del sangue. I capelli
malamente appiccicati alla fronte, iniziai a tremare dallo sforzo, gocciolando
sudore e fissandolo con odio, come a dirgli che non mi sarei piegato alla sua
bastardaggine, perché ero più stronzo di lui.
«Non mi farai ammettere una colpa che non
ho, nemmeno morto» nonostante
la voce strozzata, scandii ogni parola guardando negli occhi.
Mi tirò un manrovescio con la mano sinistra,
colpendomi poco sopra l’occhio e spaccandomi il sopracciglio, ma non urlai. Gli
incisivi ben conficcati nella mia stessa carne, a torturare il labbro inferiore
mentre Artemas e Israel mi
fissavano in silenzio.
«Bene, allora. Vorrà dire che useremo le
maniere forti» sorrise
sadico, appoggiandomi di piatto l’alare sotto il mento e scottandomi. Aspirai aria
tra i denti e scattai all’indietro, scontrando contro il petto di Philip,
costantemente dietro di me per bloccarmi qualsiasi movimento.
L’occhio mi cadde su Putnam,
nascosto nella penombra della stanza, gli occhi chiusi. Forse pensava che tutto
questo fosse sbagliato, che tentare di estorcermi una verità falsa fosse
sbagliato, e magari sarebbe intervenuto per interrompere quella follia. Ammetto
che avrei gradito, ma ovviamente non fu così. Insomma, sarebbe stato troppo
semplice, no?
Sentii Ward trafficare
con qualcosa di metallico, e non ebbi il coraggio di alzare lo sguardo da terra
per paura di scoprire quale diavoleria gli fosse saltata in mente. Fissai il bordo
dei calzoni macchiato di rosso e venni scosso da un brivido, constatando quanto
strano fosse essere schifati dal proprio sangue ma non da quello degli altri.
«Liberagli un polso» eh? Cosa?
Philip tagliò la corda che mi legava il polso
destro. Mi formicolava la mano, l’intero braccio era intorpidito e l’improvvisa
affluenza di globuli rossi diffuse un piacevole calore fino alla punta delle
dita.
Artemas
posò davanti ai miei piedi un secchio traboccante d’acqua, ed io notai solo in
un secondo momento il fumo che evaporava. Era bollente. Era acqua bollente,
Cristo santo, ed iniziai a capire che intenzioni avesse.
Con poca grazia mi afferrò il polso libero,
strattonandomi in avanti e avvicinandomi pericolosamente a quel pezzo di
metallo incandescente. Deglutii, sentendo improvvisamente il bisogno di
pisciare.
«Allora? Vuoi collaborare o ti ostini a
tacere?»
Inspirai a bocca aperta sperando di calmarmi. «Te l’ho già detto, Artemas.
Non ho ucciso nessuno, ero a Fort George a sbrigare altre faccende» puntai gli occhi nei suoi sperando che si
ricordasse di Jennifer, poi risi nervosamente. «Insomma, chi preferirebbe un omicidio ad una notte di piacere
con la propria donna?» Per
poco non caddi dalla sedia. L’altra mano di Ward mi
afferrò i capelli sulla nuca, spingendomi in avanti e facendomi scivolare verso
il bordo del sedile.
«Non fare lo spiritoso con me, Charlie» mi avvicinò la mano all’acqua, il vapore
mi scaldava la pelle quasi da scottarmela e per riflesso aprii il pugno,
guadagnando quei due centimetri in più prima di toccare il liquido. «Dimmi la verità» sibilò a denti stretti, le dita ancor più
serrate tra i miei capelli.
«Lo giuro» un’altra mano mi si appoggiò pesantemente sulla testa,
spingendomi verso il secchio e permettendo a Ward di
approfittarne. Vidi la mia mano sparire oltre il vapore in meno di un secondo,
immergendosi fino al polso nell’acqua bollente.
Urlai. Urlai con tutto il fiato che avevo in
corpo e cercai di trattenermi fino all’ultimo, ma non riuscii a trattenere le lacrime.
Abbandonai la testa contro la spalla di Artemas, che
ancora mi teneva saldo per il collo, e soffocai un singhiozzo serrando le
labbra tremolanti.
«Ti prego!» La mano bruciava, il braccio era scosso da spasmi ed io
strillavo e imploravo di avere pietà, imploravo di uccidermi, piuttosto, perché
non avrei retto oltre.
«Sshh» mi sussurrò all’orecchio, «è inutile urlare, tanto non può sentirti
nessuno.»
Okay, lol.
Qualcuno di voi starà fangirlando per aver azzeccato
parte di questo capitolo *lancia biscotto*. Sai che parlo a te, prendilo prima
che qualcuno te lo rubi, loool.
Ignoratemi, è l’ora che mi fa delirare. Grazie come sempre a chi legge e
recensisce, aw, vivogliobbene.
«Come sarebbe sparito?» La voce di Jenny, forte e chiara,
mi arrivò alle orecchie nonostante la porta della mia stanza fosse chiusa,
attraversandomi il cervello in una fitta lancinante, con la facilità che
avrebbe avuto una lama nel tagliare un blocco di gelatina. «Esigo una spiegazione!» Nelle sue urla riuscii a cogliere
una punta di preoccupazione, e il mio tentativo di abbandonare il letto venne
prontamente sabotato da un capogiro. Riatterrai sul cuscino con un tonfo, la
tempia sinistra dolorante, la vescica piena e lo stomaco vuoto. E per mille
diavoli: come ci ero tornato a Fort George? Avevo vaghi ricordi dell’ultima
volta che ero stato cosciente, e il bernoccolo sulla tempia sinistra mi fece
intuire che, forse, la mia presenza a Bunker Hill non aveva migliorato la
situazione.
Nonostante il mal di testa mi alzai, infilando gli stivali
senza la forza di aprire gli occhi. Ah, Dio, se un colpo in testa era riuscito
a ridurmi in questo stato avrei dovuto iniziare a preoccuparmi seriamente.
«Oh, cielo, ti sei svegliato?» Mi voltai verso la porta,
trovando Jennifer accanto allo stipite. Sembrava allarmata. «Ti senti meglio? Dio, ci hai fatti
preoccupare.»
«Ti ho sentita strillare, è
successo qualcosa?»
«In effetti sì. Charles è sparito» socchiuse la porta avvicinandosi
al letto, sedendosi poi sulla sedia alla mia scrivania. «Lui e Connor
ti hanno trovato a Boston, eri svenuto. Dopo averti portato qui, dei colleghi
di Charles sono venuti a parlargli e...»
«Artemas?» La interruppi. «ArtemasWard è
stato qui?»
«Non ne ho idea! Come puoi
pretendere che sappia i nomi dei comandanti dell’esercito?» Alzai una mano per farla tacere. Le
fitte non sarebbero cessate con lei intenta ad urlarmi nelle orecchie.
«Le guardie» portai due dita alla base del
naso. «Le guardie sapranno qualcosa. Con chi
stavi parlando prima?» Jenny agitò una mano, lasciandola poi ricadere sulle gambe.
«Con il giovane che l’ha aiutato a
portarti fin quassù. Lo stesso che gli ha annunciato la visita.»
«So io dov’è…» ci voltammo di nuovo verso l’entrata,
scorgendo la sentinella poco più che ventenne che aveva avuto l’onore di tirare
un po’ di spada con Charles. «Li ho seguiti di nascosto, ma non ho avuto il coraggio di
intervenire.»
«Ti ascolto» allargai le braccia reprimendo la
voglia di schiaffeggiarlo. Dopotutto era l’unico a sapere dove fosse Lee.
«Chi non muore si rivede, non è
così, Kenway?» Gli augurai di strozzarsi con
quel cazzo di sigaro un paio di volte e mi avvicinai a lui tentando di
mantenere la calma.
Ignorai la sua ironia e avanzai ancora, fermandomi a mezzo
passo da lui e unendo le mani dietro la schiena, sotto il mantello. «Dove avete portato Charles?» Le ciglia tremarono per riflesso
involontario, tradendolo in un istante. «Avanti, non ho tempo da perdere
con te.»
«Cosa ti fa credere che io sappia
dove sia finito?» Afferrai Putnam per il bavero e lo
misi spalle al muro con forza. Se credeva di prendermi per il culo solo perché
aveva gli amici di Washington dalla sua, beh, si sbagliava di grosso. Mi
credevano davvero così sprovveduto? Così facile da eliminare?
«Pensi che abbia usato il plurale
per risultare ossequioso? So che Ward si è fatto
aiutare da te e da quell’altro leccaculo. Non vi conviene farmi incazzare,
quindi te lo chiedo per l'ultima volta» feci scattare la lama celata,
pungendogli il collo. «Dov'è Charles?» Il pomo d'Adamo si alzò e abbassò
velocemente. Forse comprese in quell'istante che non scherzavo affatto. Se c'era
Lee di mezzo non scherzavo mai, volevo fosse chiaro.
Mostrò entrambi i palmi,
accennando un sorriso tirato. «Ehi, calma, amico»
Gli strappai dalle labbra quel cazzo di sigaro e lo gettai a
terra con stizza. «Non sono tuo amico, e adesso parla.»
«D’accordo, d’accordo. Va’ in fondo
alla strada, c’è un vicolo sulla sinistra» strinse le labbra, cercando forse
di capire quanto fossi deciso a spingermi oltre per ottenere le informazioni
che mi servivano. «C’è una porta sola, è lì dentro.» Lo mollai malamente facendo
rientrare la lama celata e gli riservai l’occhiata più compassionevole che conoscessi
mentre lo osservavo aggiustarsi la giacca per ridarsi un contegno.
«Credevo che tu fossi il meno
peggio, Israel. Mi sono fidato della stima che
Charles provava nei tuoi confronti. Evidentemente ho fatto male.» Ciò detto mi allontanai nella
direzione indicatami da Putnam, il passo svelto per
timore di arrivare troppo tardi, il cuore in gola, impaziente di vedere Lee
vivo.
Entrai in una specie di cantina, l'aria viziata intrisa di
polvere e l'odore dolciastro del sangue, l'interno illuminato da un timido
raggio di sole proveniente dal finestrella sulla parete opposta alla porta.
«Santo Dio» non riuscii a dire altro quando
intravidi Charles supino al centro della stanza, legato a una sedia ribaltata,
le braccia piegate dietro lo schienale sotto il peso del corpo, i polsi stretti
da una corda, una gamba appoggiata al sedile e l'altra a terra. «Cosa ti hanno fatto?» Mormorai. Lo chiesi più a me
stesso, consapevole di essere il solo responsabile del suo dolore. Mi avvicinai
incredulo, notando che sanguinava dal pettorale sinistro. In verità l'intero
busto era martoriato, ma con po' più di attenzione vidi che la ferita maggiore
era in corrispondenza del buco che aveva al posto del capezzolo. Cristo.
«Charles» mi inginocchiai e gli misi una
mano dietro la testa, sollevandola di poco e mettendolo finalmente in una
posizione naturale «Charles, avanti. Rispondi, per carità di Dio» gli colava sangue dal
sopracciglio destro, le labbra erano spaccate e secche. Da quanto non beveva?
Gli diedi un paio di schiaffi leggeri sperando che prendesse conoscenza. Perché
era vivo. Doveva. «Charles!» Trattenni la mano sulla sua guancia fredda e umida,
lasciando che la sua barba mi solleticasse il palmo.
Di scatto il medio e l'indice si posarono soli sulla
giugulare, e in cuor mio pregai che non fosse morto. Non l'avrei sopportato.
Sentii i polpastrelli appiccicosi percepire il battito debole.
Sangue, pensai. Sangue di Charles, del
mio pupillo, del mio ragazzo.
Serrai la presa sulla sua nuca, stringendogli i capelli tra
le dita tremolanti e un lamento flebile raggiunse i miei sensi, nonostante
l'unica cosa che sentissi da un paio di minuti fosse il sangue rimbombare nelle
orecchie.
Era cosciente «Resisti, ti porto fuori di qui.» Non ci pensai due volte e gli
liberai i polsi con la lama celata, portando le braccia indolenzite lungo i
fianchi. Diedi una rapida occhiata in giro, e alla vista del tavolo alla
sinistra di Lee mi piegai in due, colto alla sprovvista da un crampo allo
stomaco. Mi chiesi se fosse il ripiano dove i suoi carnefici avessero lavorato,
e una seconda fitta mi fece intuire di sì. Tentai di ignorare gli oggetti per
non immaginare nessuna scena, concentrandomi sulla ricerca di qualcosa di
utile, come il secchio in fondo. Fa' che
sia potabile. Ah, quanti problemi. Sarebbe morto comunque, disidratato o
avvelenato, tanto valeva provare.
Tornai da Charles ancora agonizzante, accostando il bordo del
secchio alle labbra spaccate. Al contatto con l'acqua sembrò rinascere, aprì
gli occhi e tese il collo verso il metallo freddo e sporco, tentando di ingurgitare
quanto più liquido possibile dopo giorni di fame e sete. Provai qualcosa di
simile alla pietà, ma sapevo che Charles era l'ultimo che avrei voluto e dovuto
compatire. Volevo piangere, uscire da lì e urlare al mondo che l'assassino del
loro amato Washington ero io, e che per vendicare la sua morte avevano quasi
ammazzato un innocente. Il senso di colpa mi chiuse lo stomaco ancora in
subbuglio. L'odore acre del sangue non mi aveva mai schifato, ma sapere che
fosse di Charles era tutta un'altra faccenda. E doveva esserne uscito tanto,
troppo, per impregnare in quel modo le pareti della cantina. Ringraziai che
fosse vivo, nonostante tutto.
«Signore...» stentai a credere che fosse lui,
troppo abituato a vederlo scattante e pieno di energie. Mi rifiutavo di credere
che fosse lo stesso uomo che, in quel momento, era a terra, senza voce e senza
forze, senza dignità, pestato a sangue per un sospetto dai suoi stessi
colleghi.
Putnam. E dire che quel bastardo mi era
sembrato il più ragionevole dei tre. Stronzate. Poteva essersi limitato a
spegnere il suo cazzo di sigaro sul petto di Charles, girare i tacchi e
andarsene, lasciando il lavoro sporco ad Artemas e
Philip.
«Zitto, ti porto fuori di qui» lo sollevai piano sperando non
avesse ossa rotte, e azzardai a mettergli un braccio intorno al mio collo per
aiutarlo a camminare.
Una volta in piedi iniziò a lamentarsi e a contorcersi e,
preso dall'ansia, controllai che non sanguinasse da qualche parte. «Che c'è?» Chiesi preoccupato, notando solo
in quel momento la mano poggiata sul ventre a torturare la carne. Non era
ferito e non vedevo segni. «Ti fa male?»
«Ho bisogno...» spalancò di più la bocca per
calmarsi e prendere fiato
«Di cosa?» Si conficcò i denti nel labbro
inferiore, già in pessimo stato.
«Ho bisogno... Ho bisogno di un
catino» si accartocciò su se stesso e
feci fatica a credere a ciò che la mia mente formulò in un istante.
«Da quant'è che non urini?» A pensarci non vedevo tinozze e
nella stanza non c'era cattivo odore. Che l'avesse trattenuta per tutto quel
tempo?
«Tre... Tre gior-ni» gli tremava la mano, che
istintivamente portò sulla patta dei pantaloni, stringendo.
«Gesù» girai facendolo voltare e avanzai
verso il muro in fondo «sei pazzo»
Soffocò un singhiozzo, trascinando i piedi e cercando di sballottare
la vescica il meno possibile. «Ho una dignità» ringhiò con rabbia, i denti
serrati e la mano sempre sotto la cintura. «Non mi vedranno mai in quello
stato pietoso, coi calzoni pisciati o affogato nel mio stesso sangue»oh, già, meglio con la vescica implosa, vero?
Mi tolsi il suo braccio dalle spalle e gli poggiai la mano al
muro, scoprendola insolitamente arrossata. «Svuotati» mi voltai di spalle e lo sentii
armeggiare con la cintura, immaginando la mano agitata e impaziente aprire il
bottone dei calzoni. Poi nel silenzio si udì un getto debole, accompagnato da
mugolii sofferenti e gemiti. Doveva far male, eccome.
Un “aahh”
più acuto degli altri mi costrinse a deglutire. Non girarti, per carità di Dio.
Come avevo potuto permettere un tale scempio? Come avevo
potuto lasciare che facessero una cosa del genere a Charles? Lanciai
un'occhiata alla sua schiena, lacerata qua e là senza criterio, e mi si strinse
il cuore. Era colpa mia, Cristo. Sarebbero bastate tre semplici parole per
evitare che gli facessero del male: sono
stato io. Artemas voleva un colpevole, che fosse
Charles o qualcun altro non credo avrebbe avuto importanza. O sì? Magari era
una scusa, era tutta una farsa per sfogare su qualcuno la frustrazione per non
essere stato scelto per guidare il Continentale.
No. No, assolutamente. Ward non era
interessato al comando. Nessuno di loro lo era. Volevano solo vendicare
Washington, diamine, e il coraggio di dire la verità forse non l’avrei mai
trovato.
Lanciai ancora un’occhiata alla carne lacerata di Lee, i
solchi di sangue secco a rigargli la schiena fino ad imbrattare i pantaloni. Lo
guardai in silenzio mentre si richiudeva la cintura, quindi mi avvicinai per
aiutarlo a camminare.
Gli presi di nuovo il polso destro, portandomi il braccio
intorno alle spalle. «Cosa ti hanno fatto?» Mormorai incredulo. In realtà non
lo volevo sapere, faceva già abbastanza male così.
Lui scrollò la testa accennando un sorriso, come se avesse
una banalissima ferita da arma bianca. «Nulla di tremendo. Hanno testato
la mia resistenza.» Ci voltammo verso la porta avanzando piano, ed io deglutii
senza staccare lo sguardo dal pavimento.
«Cristo santo, Charles, dimmi che
stai scherzando» serrai la presa sul suo polso e lo guardai. Due profonde
occhiaie gli cerchiavano gli occhi stanchi e seri e Dio, questo non mi aiutava
ad ignorare i sensi di colpa.
«Non ho detto niente, sta’
tranquillo. So che è questo che ti preoccupa»
«Stronzate!» Inchiodai bruscamente. «Davvero credi che per me la
priorità sia salvarmi il culo?»
Sì. Serrai i denti sorvolando sul
commento della mia coscienza, obbligandomi a guardarlo in viso. Il fatto che
non mi fissasse e che indugiasse nel rispondere confermò ciò che, in fondo,
pensavo anch’io.
«No» deglutì piano, passandosi con
cautela la lingua sul labbro spaccato. «Non l’ho mai pensato, ma è normale
che foste preoccupato. Lo sarebbe stato chiunque. Si sarebbero divertiti in
ogni caso, tanto valeva stringere i denti e non mandare all’aria il piano, no?»
Annuii debolmente. «Credo di sì.» Era stato coraggioso. D’impulso
lo abbracciai, girandogli il busto e tenendolo stretto col braccio sinistro. Non
avrei mai dovuto dubitare di lui. Mai. Se non mi fossi fidato di lui di chi
altro avrei potuto farlo? Gli avrei affidato la mia vita altre mille volte.
Lo sentii respirare debolmente contro la mia spalla,
staccandolo poi con garbo.
Iniziai a sbottonare la redingote, notando solo dopo qualche
secondo l’espressione stralunata di Charles. «Non farti strane idee, voglio solo
darti la mia camicia» appallottolai la veste tenendola tra le ginocchia, finendo
di aprire i bottoni.
«Oh, no. Non posso, la macchierei
di sangue»
«Non sarà la fine del mondo.» Sfilai entrambe le maniche,
porgendogli poi l’indumento di cotone. «Avanti, indossala. Non puoi girare
così.» Dopo un attimo di esitazione
accettò, infilando le braccia e macchiando la trama di rosso in meno di cinque
secondi.
Boh, niente, stavolta sarò sintetica al massimo, lol.
Un biscotto a chi continua a leggere e due biscotti a chi
recensisce, aw.
Quando rientrammo a Fort George
ringraziai di avere ancora una notevole resistenza fisica, anche se nonostante
ciò avevo perso sensibilità alla spalla sinistra, che aveva retto il peso di
Charles per tutto il tragitto. Trasportarlo fino al nostro covo e dargli la mia
camicia non era servito a diminuire i sensi di colpa. Sentirlo respirare a
fatica e vederlo sporco e infreddolito non mi faceva sentire in diritto neanche
di guardarlo in faccia. Per non parlare dell'odore dolciastro che stavo inalando
da almeno mezz'ora, tutto quel sangue ormai incrostato alla
stoffa aveva iniziato a darmi il voltastomaco.
Abbassai lo sguardo sulla mano
sinistra di Charles, stretta alla sua stessa carne all'altezza dello stomaco e
il gorgoglio che sentimmo poco dopo mi fece intuire che soffrisse per i crampi
dovuti alla fame. Istintivamente accelerai il passo, sperando che riuscisse a
starmi dietro. «Ce la fai?» Col braccio sinistro gli diedi una spinta da sotto
l'ascella, tirandolo su e alleggerendo di poco il peso. «Coraggio, mancano pochi metri.» Annuì in silenzio, la testa china
e gli occhi tenuti aperti a fatica.
Sussultai quando la porta che
collegava il piazzale e l'interno del forte si aprì sola, lasciandomi
interdetto e con la mano a mezz'aria.
«Charles!» Jenny comparve nel mio campo
visivo, attaccandosi con uno slancio al collo di Lee. Lo vidi sorridere appena
mentre mia sorella singhiozzava sulla sua spalla. «Amore mio, cosa ti è successo?» Charles non rispose, limitandosi
a guardarla con aria stanca mentre lei gli teneva entrambe le mani sul viso.
«Deve mangiare e riposare, ti
spiegherò tutto più tardi» intervenni. Mi lanciò un'occhiata preoccupata, asciugandosi
una lacrima con una mano.
«Sto bene.» Guardai il mio pupillo e deglutii
nonostante avessi la lingua secca come un pezzo di legno. «Finché respiro non c'è bisogno di
piangere.»
Per riflesso gli strinsi di poco il polso destro, il suo braccio ancora intorno
al mio collo.
«Smettila, non sai quanto mi hai
fatta preoccupare» e ignorando la mia presenza, Jenny gli schioccò un bacio
sulla bocca, mentre Charles gemeva per il brusco contatto con il labbro
spaccato. Nonostante questo sembrò apprezzare, riservandole uno sguardo
innamorato.
Io grugnii. «Avvisatemi quando la smettete di
copulare, voi due. Potreste avere almeno la decenza di farlo dentro.» Avanzai trascinando Lee oltre la
soglia, lasciando che si appoggiasse al muro e approfittandone per riposare i
muscoli. Lo guardai con la coda dell'occhio mentre mi massaggiavo la spalla con
una mano. Era pallido e a stento stava in piedi. La camicia era completamente
imbrattata di sangue, assumendo sfumature più sbiadite lì dove le ferite erano
meno profonde.
«Ti faccio preparare qualcosa di
caldo» ed eccola lì, Jennifer Scott, a
crogiolarsi nel ruolo della mogliettina premurosa e amorevole che ha sempre
tutto sotto controllo. «Io ti preparo l'acqua per il bagno» Charles distese le labbra in un
sorriso tirato, annuendo e prendendosi l'ennesima carezza, osservando poi Jenny
incamminarsi su per la rampa di scale.
«Riesci a salire?» Domandai riavvicinandomi. «O magari vuoi una moina anche da
parte mia?»
Sogghignai in risposta all'occhiataccia di Lee, che non reagì nemmeno quando
gli pizzicai una guancia con il pollice e l'indice.
«Ce la faccio» si staccò dal muro con un colpo
di reni e seguì Jennifer, salendo su per la rampa di scale senza mai togliere
la mano dalla parete.
Entrati nello stanzino da bagno
notai immediatamente la tinozza di legno piena d'acqua. Era grande abbastanza
da contenere una persona al suo interno, ma Charles non era in condizioni di
scavalcare ed immergersi. Puntò la punta del piede destro contro il tallone
sinistro, sfilando uno stivale e lasciandolo al centro della stanza; stessa
sorte toccò all'altro.
Jenny lo aiutò a togliersi la
camicia, che finì appallottolata in un angolo della stanza. La guardai un po'
dispiaciuto: mi sarebbe toccato buttarla, viste le condizioni in cui verteva.
Ma il peggio doveva ancora arrivare.
«Santo cielo» non riuscì a trattenersi davanti
al grumo di sangue che Lee aveva sul pettorale sinistro, lì dove mancava il
capezzolo. «Ma
che ti hanno fatto?» Chiese con un misto di ribrezzo e paura, ma Charles non
rispose, abbassando gli occhi sulla cintura e aprendosi i calzoni, anch'essi
sporchi, facendoli scivolare fino alle caviglie.
Non avrebbe parlato se non avessi
iniziato io il discorso, lo conoscevo bene. E cosa avrebbe dovuto dire, poi?
Che era stata colpa mia? Che l'avevano portato via con l'inganno per fargli
ammettere l'omicidio di Washington? No, non l'avrebbe mai fatto. Aveva difeso
il mio onore davanti alla morte, Jenny non poteva di certo competere con un
paio di pinze o una frusta.
«Ha salvato me» farfugliai. Glielo dovevo,
dopotutto. Se avesse dato aria alla bocca dopo il primo pugno avrebbe salvato
il capezzolo e qualche litro di sangue, invece aveva preferito tacere. Tacere
per me, per l'Ordine, era il minimo che potessi fare.
Jenny si voltò nella mia
direzione, mentre Charles si sfilava definitivamente i pantaloni, restando in
mutande. «Come
sarebbe?» Gli lanciai un'occhiata piena di
gratitudine, prontamente ricambiata da un sorriso di circostanza che
interpretai come un semplicistico "ho
fatto solo il mio dovere, Signor Kenway", e
la cosa non mi piacque. Non mi piacque affatto. Non volevo che mi difendesse perché
ero un suo superiore, perché era un suo dovere. Mi piaceva pensare che lo
facesse per affetto. Per motivi più intimi e personali.
Mentre prendevo coraggio per
parlare, Lee si appoggiò al recipiente con le mani, piegandosi leggermente in
avanti in attesa di Jenny, che intanto stava riempiendo d'acqua un secchio più
piccolo. Glielo rovesciò piano sulla testa, bagnandogli i capelli, il collo e
le spalle, iniziando poi a strofinare le pelle sporca di sangue con un panno
insaponato. E se Jennifer era più che disposta a fare del bene, sul viso di
Charles c'era solo tanta umiliazione. L'amore che Jenny metteva nel pulirgli le
macchie incrostate non era sufficiente a farlo sentire meglio, al contrario lo
convinceva del fatto di essere un debole, qualcuno di cui occuparsi, per cui
stare in pena.
Giunsi le mani dietro la schiena e
sospirai, appoggiandomi alla parete. «Artemas ha rapito Charles, poi l'ha
torturato per fargli ammettere di aver ucciso George Washington» con la seconda secchiata d'acqua
la pelle di Lee iniziò ad assumere un colorito normale, lavando via gran parte
del sangue secco ed evidenziando il contrasto con le ferite.
Jenny rallentò in prossimità di un
taglio sulla scapola, facendo scivolare l'altra mano fino alla nuca di Charles,
tra i capelli, in quello che interpretai come un gesto d'affetto. «E tu non hai detto nulla, vero?» Lo sapeva. Lo sapeva anche lei,
da lui non ci si poteva aspettare altro.
«Ho giurato» torse il collo di lato,
esasperato per la posizione scomoda e la carne martoriata. «Quando sono entrato nell'Ordine ho
giurato di difenderne i principi ad ogni costo, anche con la vita, se
necessario.»
Ed io, in quanto Gran Maestro, avrei dovuto salvaguardare la vita dei miei
uomini. Era uno dei miei compiti principali, ed ero stato a tanto così dal
perdere il mio ultimo fratello, nonché successore. «Non avevo scelta.» Non meritavo tanta fedeltà, e
riceverla incondizionatamente non aiutava a gettarmi alle spalle le mie
mancanze come Templare.
«Deve pagarla.» Alzai gli occhi da terra e guardai
mia sorella. «Deve
pagarla cara, Haytham. Non puoi lasciar correre»no, non posso, ma che faccio?, lo ammazzo e
rischio la forca per aver ucciso un generale dell'esercito continentale?... Oh,
beh, ho già sulla coscienza l'ex comandante in capo, per un banale sottoposto
non dovrebbe accadermi nulla. Come no.«Poteva ucciderlo, per la miseria.
Devi fare qualcosa.»Devi. Devi, HaythamKenway, non hai una
coscienza se non brami vendetta neanche per Charles.
E fu
lui a rispondere al posto mio. «No, non dovete fare niente.»
«Non essere sciocco!» Strillò smettendo di sfregargli
il braccio e voltandosi verso di me. «Che fine ha fatto la giustizia,
eh? Quell'uomo ha torturato Charles senza prove, ha lasciato l'esercito senza
un comandante» anche io, «dovranno punirlo in qualche modo!»Quindi puniranno anche me? E che ne sarà dell'Ordine?«Se non ci pensa il Consiglio lo
farai tu!»
«Smettetela.» Guardai ancora Charles, le mani
appoggiate al bordo di legno, l'acqua che gli gocciolava dai capelli. «Sono solo discorsi campati in
aria, non potete fargli nulla. Né a Ward né a Philip
e Israel.»
Jenny sbatté con frustrazione il
panno insaponato contro la tinozza cui era appoggiato Lee. «E perché?,
per la loro carica militare? E la tua non vale niente?»
«Se li fate arrestare non avrò più
qualcuno che guidi le truppe, il che significherebbe perdere la guerra. È
questo ciò che vuoi? Vuoi essere uccisa dalle giubbe rosse? Io no!»
Venni scosso da un paio di brividi
e improvvisamente sentii freddo. Il discorso di Charles era così razionale da
sembrare falso, quasi come se Artemas gli avesse
imposto di dissuaderci dai nostri propositi di vendetta.
«Ma ti stai ascoltando?» Guardai ancora Jenny, paonazza di
rabbia. «Hai intenzione di lasciar correre
solo perché altrimenti non vinceresti la guerra?»
«Non si tratta di vincere o
perdere, ma di vivere o morire» rispose acidamente, come se per noialtri fosse un concetto
troppo complicato da afferrare. «E poi non avrebbe senso. Lasciate
perdere, per favore» sussurrò passandosi una mano sugli occhi. «Lasciate perdere.»
«Non capisco» Jenny diede voce ai miei
pensieri, esternando tutto lo stupore di cui era capace.
Effettivamente era strano. Charles
non era così, non lo era mai stato. Lui era vendicativo e impulsivo, una testa
calda che spesso ero stato costretto a sedare. L'unica spiegazione che davo a
quell'atteggiamento così remissivo e controllato era la paura. Era ancora
sconvolto per ciò che gli era successo, e temeva che tirare la corda con Artemas gli avrebbe causato altri guai.
«Non c'è niente da capire!» Sbottò. «Io non sono come lui, e non ho
intenzione di abbassarmi a questi livelli. Senza contare che se puniste Ward dovrebbero subire lo stesso trattamento anche Philip e
Putnam.» Quindi la pensava veramente così?
Ripagare un uomo con la stessa moneta equivaleva ad abbassarsi al livello di un
omicida? Perché Charles sarebbe morto se non l'avessi trovato in tempo, i fatti
stavano così.
No, non ero d'accordo. Pretendere
giustizia non mi conferiva nessun potere decisionale sulla vita altrui, non
avrebbe dovuto elevarmi a essere superiore conferendomi l'onore di decidere chi
poteva vivere e chi doveva morire, semplicemente doveva ristabilire un
equilibrio compromesso, nulla di più.
Siamo uomini, no? Noi non
perdoniamo, siamo esseri imperfetti, e come tali sbagliamo. Ma c'è chi può porre
rimedio, ci sono le leggi e le norme morali appositamente per chi non sa vivere
secondo le basilari regole di convivenza del contratto sociale. E sarebbero
dovute valere anche per me. Ero un assassino, un omicida senza scrupoli, ma ero
scaltro. Scaltro e fortunato, talvolta, ma nel caso avessero trovato le prove
sarei finito sulla forca. Per Charles era diverso. Era innocente, Dio, non
avrebbero potuto torcere un capello a me, figuriamoci a lui.
«E qual è il problema?» Intervenni. Aveva ragione Jenny,
c'era poco da fare. Non mi importava chi fosse coinvolto, poteva esserci di
mezzo Gesù Cristo in persona, non avrei cambiato idea. Nessuno poteva credere
di fare i suoi porci comodi con uno dei miei uomini e sperare di farla franca. «Nominerai altri tre generali.»
«Il problema è che vanificherei gli
sforzi fatti finora solo per la vendetta!» Sbatté un palmo contro il legno,
il bicipite in tensione e pronto a scattare in un altro attacco d'ira.
«Stai mettendo da parte l'onore per
la tua carriera, santo Dio, Charles!» Parlò ancora Jenny, che con
stizza gettò a terra la pezza bagnata. «Dovresti rivedere le tue priorità!» Gli urlò contro.
«Vincere questa fottutissima guerra
mi darà onore! Quei tre figli di puttana mi aiuteranno a cacciare gli Inglesi
dalle colonie, e finché ci sarà anche solo una giubba rossa su queste terre non
vi permetterò di alzare un dito su di loro!» Ci guardò entrambi, un dito
accusatorio puntato contro Jenny. «Non ve lo posso permettere!»
«Quei tre ti hanno quasi ammazzato» dissi ancora. Avanzai di qualche
passo, Charles mi guardava in silenzio. «Ti hanno lasciato in uno
scantinato legato a una sedia, senza cibo e acqua per tre giorni. Ti hanno
ferito e picchiato, credi davvero che uscito di qui ti accoglieranno a braccia
aperte una volta tornato al comando?»
Deglutì a vuoto, serrando i denti
e il pugno sinistro. «Faranno ciò che gli ordinerò. Sono il comandante, devono
farlo!»
«Sai bene anche tu che non lo
faranno. Nelle migliori delle ipotesi tenteranno di sabotare i tuoi piani,
esattamente come hai fatto tu con Washington, o potrebbero ucciderti nel sonno,
mal che vada. Non aspettarti nulla di buono da Ward,
e neanche da Putnam! È un codardo opportunista!»
«Non permetterò che un intoppo del
genere rovini tutto. Questa è la mia occasione, non posso sprecarla!»
Ebbene sì, lol, dopo tre settimane ricompaio dal nulla. È tutta colpa
della sessione estiva, lo giuro, mi sta prosciugando l’anima.
Vaaaa beh, grazie come sempre a
chi lascia un parere e a chi legge soltanto, a presto –si spera, lol-.