It's time to change the world

di vegeta4e
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Eventi inaspettati. ***
Capitolo 2: *** Vendetta e collaborazioni. ***
Capitolo 3: *** Egoismo o libertà? ***
Capitolo 4: *** Figlio di sangue, figlio adottivo. ***
Capitolo 5: *** Che inizi il piano. ***
Capitolo 6: *** Sulle tracce del nemico. ***
Capitolo 7: *** Inglesi vs Kenway. ***
Capitolo 8: *** Situazioni scomode. ***
Capitolo 9: *** Ricordi che fanno coraggio. ***
Capitolo 10: *** Trust. ***
Capitolo 11: *** New day, old life. ***
Capitolo 12: *** Back in time. ***
Capitolo 13: *** Mentor or enemy? ***
Capitolo 14: *** Niente più dolore. ***
Capitolo 15: *** Con il ritorno inizia un altro viaggio. ***
Capitolo 16: *** Change the future. ***
Capitolo 17: *** Cena in famiglia. ***
Capitolo 18: *** Relationship. ***
Capitolo 19: *** Con le mani dico quello che non so. ***
Capitolo 20: *** Incidenti di percorso. ***
Capitolo 21: *** Non darsi modo di star bene. ***
Capitolo 22: *** Padre, nonostante tutto. ***
Capitolo 23: *** Passato e futuro. ***
Capitolo 24: *** Crowds power. ***
Capitolo 25: *** Niente sesso a Fort George. ***
Capitolo 26: *** Lucidità. ***
Capitolo 27: *** Calma e sangue freddo. ***
Capitolo 28: *** Numb. ***
Capitolo 29: *** Let me crazy. ***
Capitolo 30: *** Fenice. ***
Capitolo 31: *** Non aver paura mai. ***
Capitolo 32: *** Schiavo del profitto. ***
Capitolo 33: *** I'm not ready to die. ***
Capitolo 34: *** Looking to the future. ***
Capitolo 35: *** Some prayers find an answer. ***
Capitolo 36: *** Pain. ***
Capitolo 37: *** I need you. ***
Capitolo 38: *** Onore. ***



Capitolo 1
*** Eventi inaspettati. ***


Avvertenza: per capire meglio gli avvenimenti della fanfiction si consiglia la lettura di “Forsaken”.

 

 

It’s time to change the world

 

Capitolo 1

 

Stranamente ero riuscito a convincere Connor a collaborare con me, dopo aver scoperto del tradimento di Church preferii concentrarmi su Benjamin, piuttosto che perder tempo con il ragazzo e le sue rivoluzioni infantili.

Assurdo, ancora non mi capacitavo del fatto che avesse tradito l’Ordine. Come aveva potuto? Era per gente come lui se i Templari venivano definiti malvagi. Gliel'avrei fatta pagare, poteva giurarci. Nessuno poteva permettersi di fottere così Haytham Kenway. Gli avevo salvato la vita, bastardo, e lui mi ripagava così.

Saltai da un tetto all'altro con disinvoltura nonostante l'età, davanti a me vidi il porto di New York con qualche nave attraccata. Era notte, il mio mantello si muoveva leggermente per la brezza.

«Perché non mi hai ucciso al nostro primo incontro? Cosa ti ha fermato?» la voce di mio figlio, dietro di me di qualche passo, mi giunse alle orecchie come una pugnalata improvvisa alla schiena. Non lo sapevo nemmeno io ad essere sincero. Non avevo avuto motivo di saltargli addosso nel deposito, avrei potuto aspettare che se ne andasse e allontanarmi a mia volta, invece no. Volli metterlo alla prova, vedere che uomo era diventato, volevo vederlo con i miei occhi.

«Curiosità» tentai di cavarmela così «Altre domande?»

«Cosa vogliono i Templari? » fu prevedibile, mi aspettavo una domanda del genere.

Mi voltai verso di lui e avanzai di qualche passo.

«Ordine. Giustizia. Libertà. Indipendenza. Non è anche quello che cerchi tu, Connor

Scosse leggermente la testa.

«Come puoi parlare di giustizia tu, che vuoi uccidere Washington? Il popolo ha scelto lui.» alzò di poco il tono della voce ed io indurii lo sguardo.

«Io ero presente al Congresso Continentale e ti assicuro che è stata una decisione fatta a tavolino. Tu sei davvero convinto che ogni cosa che succede sia a favore del popolo?» schioccai la lingua contro il palato «No, Connor, ci sarà sempre qualcuno che si riempirà le tasche. Sto cercando di aprirti gli occhi.»

Lo vidi aggrottare le sopracciglia.

«Mettere al comando dell'esercito Charles Lee non porterà nulla di buono! Tu stai facendo i tuoi interessi senza pensare alla povera gente!» mi aveva puntato un dito contro.

«Ed è qui che sbagli. Mettere al comando Charles significa dare una svolta alla guerra. Il nostro esercito inizierebbe a vincere e, sconfitti gli Inglesi, le tasse che spremono i coloni spariranno. Possibile che tu non capisca?» rimase in silenzio, quindi continuai. «Con Charles al comando saremo presto in pace.» tentai ancora.

«No, state seguendo i vostri scopi personali spacciandoli per buone azioni.» sospirai e portai le mani dietro la schiena, provando sollievo nel ripararle dall'aria pungente.

«Tu parli a vanvera. Una volta gli Assassini avevano un obiettivo assai più nobile, cioè la pace

«Libertà è pace.» disse d'impulso. Scossi il capo. Quanto era ingenuo su una scala da zero a Mr. Idiota?

«Se solo non fossi così chiuso capiresti che abbiamo lo stesso scopo! Se solo ci unissimo potremmo raggiungere il nostro obiettivo. Invece no, perdiamo tempo ad ammazzarci tra di noi piuttosto che cambiare il mondo.»

«Abbiamo modi d'agire diversi, non andremmo mai d'accordo.» buon Dio, che testone!

Sbuffai per l'ennesima volta.

«È per questo che rimango fedele all'Ordine nonostante i nostri Credo siano molto simili: perché siete ottusi e ignoranti.» dissi senza timore a pochi centimetri dal suo viso.

«Hai detto tante belle parole, ma non hai mai mostrato i fatti. Getti fumo negli occhi con i tuoi discorsi, ma a me non basta. E le tue parole non mi toccano, perché anche queste non sono motivate.» concluse fissandomi con astio. I fatti li avrebbe avuti presto, parola mia. Indietreggiai di un passo e sospirai.

«Vuoi che le motivi? Benissimo. Ammetto di non aver mai avuto a che fare con un Assassino per così tanto tempo –mio padre non contava-, e se erano tutti come te, Connor, ringrazio di esserne stato nemico! Parlo per me, io sono cresciuto imparando a ragionare sugli eventi, pensando con la mia testa e senza lasciarmi influenzare da fattori esterni. Voi Assassini, invece, avete la mente offuscata dalle vostre belle parole, "agite nell'ombra per servire la luce", dite voi, ma io non vedo niente, dove sono i risultati delle vostre azioni?» mi interruppi per prendere fiato e notai che l'avevo spiazzato citando una loro frase.

«Siete ignoranti perché non imparate dall'esperienza. Siete fissati con questa libertà=pace. Mai sentita un'affermazione più errata, Connor! Immagina un esercito senza generale, al completo sbaraglio, senza piani, tattiche o altro. Questa è la libertà che tanto predichi, e adesso immagina di mettere al comando di questo esercito un capo, una guida sicura e capace, che sproni i deboli a dare il massimo e che freni le teste calde. Applica questo semplice principio ad una città, ad uno Stato e poi ad un Continente. Questo è ciò che vogliamo raggiungere, nient'altro.» riportai le braccia, che avevo allargato, dietro la schiena, mentre attendevo una qualsiasi risposta da Connor che, immobile, mi fissava.

Spostò lo sguardo sulle tegole del tetto su cui sostavamo, lasciando che il cappuccio gli coprisse gli occhi, forse per impedirmi di vedere il dubbio che si insinuava nella sua mente.

«Non sto cercando di portarti dalla mia parte, ragazzo, voglio farti capire che l'intelligenza dell'uomo sta nell'abbattere le barriere che lui stesso costruisce. Se due persone hanno lo stesso obiettivo, ma sono di fazioni diverse e quindi si combattono, si dimostrano stupide. Spero che almeno questo tu riesca a comprenderlo.» detto ciò mi voltai dandogli le spalle e saltai giù dal tetto. Lui mi imitò e poco dopo raggiungemmo il birrificio in cui si rifugiava Church.... o almeno dove lo credevo. Il cancello e la porta erano spalancati, nessuna guardia controllava l'ingresso, sembrava fossero fuggiti da poco.

Afferrai per un braccio Connor che, non essendosi accorto dell'insolito silenzio, stava uscendo dal vicolo in cui eravamo.

«Che succede?» domandò perplesso

«Church non c'è. Temo sia scappato con i suoi da non molto.»

«E ora che si fa?» tempo di chiederlo si sentì un tuono e, un attimo dopo, eravamo entrambi zuppi d'acqua. Un improvviso acquazzone ci aveva letteralmente spiazzato.

«Magnifico, peggio di così non poteva andare!» borbottò Connor, io sogghignai.

«Oh, sì invece, visto che i miei alloggi sono dall'altra parte della città.» lo vidi roteare gli occhi «Seguimi.» mi voltai dirigendomi verso Fort George.

M’incamminai verso il forte a passo spedito, in pochi minuti si erano già formate pozze d’acqua ai lati delle strade.

Quando raggiungemmo le guardie ai lati del portone, non riuscii ad ignorare l’espressione confusa e scioccata dei due uomini in divisa. Le oltrepassai seguito da Connor senza riuscire a trattenere un sorriso, poi estrassi la chiave dalla redingote e aprii la porta. Entrammo in una stanza di media grandezza; sulla sinistra, attaccato al muro per un lato, c'era un letto a una piazza e mezza, mentre di fronte, esattamente sotto la finestra, c'era una scrivania, con sopra una piccola candela, calamaio e piuma d'oca. Adiacente c'era uno stanzino vuoto con dentro solo un recipiente con acqua per lavarsi. Avanzai, estraendo da una tasca interna della veste il mio diario –fortunatamente non si era bagnato-, appoggiandolo sul ripiano. Poi tornai indietro togliendomi il tricorno -ormai zuppo- e appendendolo ad un gancio alla parete, sulla destra. Stessa cosa feci con il mantello e la redingote, poi mi sfilai gli stivali, restando con camicia e pantaloni. Mi sedetti sul letto sbottonandomi la camicia, notando solo ora che Connor era rimasto sulla porta, immobile.

«Hai intenzione di restare lì ancora per molto o magari ti togli i vestiti? Sono fradici. Non dirmi che ti vergogni, siamo fra uomini!» arrossì e con stizza si avvicinò alla sedia della scrivania, appoggiando allo schienale la tunica da Assassino. Io mi alzai e, con addosso solo i pantaloni, entrai nella stanza affianco, uscendone poi con un panno pulito che stavo usando per asciugarmi. Vedendomi rientrare in stanza si girò istintivamente nella mia direzione e mi accorsi che gli occhi gli caddero sulla cicatrice che avevo sul fianco destro. Quella maledetta ferita, lasciatami dal giovane Lucio, per poco non mi aveva ucciso e, anche ora, di tanto in tanto, mi ricordava la sua presenza con dolorose e lancinanti fitte.

«Cos'è quello?» mi chiese Connor, che intanto si era seduto ai piedi del letto, mentre premevo il panno sui capelli.

«Cosa?» indicò il diario con il mento.

«Appunti, nulla che ti possa interessare, suppongo. » gli lanciai la pezza dopo essermi asciugato petto e schiena, poi mi sedetti sul letto pensieroso. Dovevamo trovare Benjamin Church, dovevamo uccidere Washington e, soprattutto, dovevo riuscire a collaborare con Connor e Charles senza che uno sapesse dell’altro. Lee di certo non avrebbe apprezzato e Connor… Beh, avrebbe cercato di farlo fuori. No. Dovevo riuscire a lavorare parallelamente con entrambi.

«Dove dormiamo?» mi domandò posando il panno sulla scrivania. Alzai un sopracciglio.

«Questo letto non è qui per bellezza.» mi sembrava piuttosto evidente.

«È singolo e noi siamo in due.» sbuffai.

«Quando sono in dolce compagnia non le porto di certo qui, le mie ospiti.» restò impassibile, non so se perché non capì la battuta o per gelosia verso Tiio. Sbuffai di nuovo «Adattamento, figliolo, ti ci vuole adattamento.» mi sdraiai e lui ritornò a sedersi ai piedi del letto, mentre fuori continuava a diluviare.

Ci furono una decina di minuti di silenzio. Connor se ne stava ad occhi chiusi, seduto e con la schiena appoggiata al muro; io sdraiato, con gli occhi socchiusi quanto bastava da guardarlo senza essere scoperto.

Era uguale a lei, diavolo. Gli occhi, le labbra, le espressioni. Di colpo aprì gli occhi e, temendo che mi avesse scoperto, chiusi rapidamente i miei.

«Dev’essere stato strano per te scoprire della mia esistenza.» in effetti aveva ragione. Quando venni a sapere che un ragazzino indiano con le vesti di un Assassino aveva iniziato a seminare piccole rivoluzioni in città, ebbi subito il presentimento che c’entrasse Tiio, o peggio ancora, io. Tiio… chissà cosa pensava di me.

L’ultima volta che l’avevo vista, mi aveva minacciato di non farmi più vedere o mi avrebbe ucciso. Ovviamente non ci sarebbe mai riuscita, ma che senso aveva restare se mi odiava? Il tutto perché Braddock non era morto subito sotto la mia lama, bensì qualche giorno dopo. Cos’altro avrei potuto fare? Mentre stavo per finirlo mi ero accorto che stavano arrivando Washington e altri soldati, quindi lasciai Braddock morente al suolo e mi nascosi. Questo piccolo dettaglio non andò a genio a Tiio, che una volta scoperta la verità aveva deciso di troncare i rapporti con me.

«Sono sempre stato curioso di sapere cosa può aver detto tua madre di me. A proposito, come sta?» in cuor mio speravo stesse bene, nonostante tutto.

«È morta. Uccisa.» mi lanciò un’occhiata carica d’odio con la coda dell’occhio e, per un attimo, smisi di respirare. Morta? Quando? Perché?!

«….. Mi dispiace molto.» per una volta in vita mia ero serio e sincero.

«Ah, ti dispiace? Charles Lee è colpevole del suo omicidio su tuo ordine! E ti dispiace?» era ufficiale. Mio figlio era impazzito. Scattai seduto.

«Impossibile! Non ho dato quell’ordine, avevo chiesto il contrario! Dissi di non cercare più il sito dei precursori, dovevamo concentrarci su altre faccende!» alzò una mano per interrompermi.

«É passato, ma non riesco a perdonare.» chiuse di nuovo gli occhi e compresi, anzi, confermai, l'ipotesi che avevo formulato quando scoprii che il ragazzino che Charles aveva maltrattato anni fa era proprio Connor. Mentre ero in Europa, Charles e gli altri avevano continuato le ricerche sul medaglione, ma non riuscendo a capire altro, lui, Johnson e Church avevano deciso di recarsi al villaggio di Tiio per costringere i vecchi a parlare. Tuttavia non vi riuscirono poiché la locazione esatta la sapevo solo io, in più Connor si rifiutò di parlare e, da quel che seppi dopo, Johnson l'aveva colpito con il calcio del fucile, facendolo svenire. Al suo risveglio il villaggio era in fiamme e per un ragazzino non fu difficile capire che gli autori di quel massacro fossero i miei uomini.

Sbagliato.

Furono i soldati di Washington, ma questo lo scoprii più avanti. Se solo sapesse. Se solo sapesse che sua madre è morta per ordine dell'uomo che vuole aiutare. Non tentai neanche di dirglielo, non mi avrebbe mai creduto.

«Che motivo avrei avuto per dare un simile ordine? Avanti, dimmelo, sono curioso.» lo stuzzicai. Lo sopportavo da un paio d’ore e già avevo esaurito la pazienza. Era decisamente troppo, avevo rischiato il culo per entrare a Southgate e salvare la sua gente da Silas, stessa cosa quando uccisi Braddock, visto che Washington avrebbe potuto uccidermi senza problemi se Tiio l’avesse tirato giù da cavallo.

«Dovresti dirmelo tu! Charles Lee agisce solo su tua richiesta, quindi è partito da te!» stavolta il suo tono era acido.

«Insisti, eh? Scommetterei ciò che vuoi sul fatto che Charles non avrebbe mai osato infrangere un mio ordine, quindi non è stata una sua iniziativa.» ci avrei messo la testa sul fuoco, nessuno di loro avrebbe avuto il coraggio di disobbedire a ciò che dicevo e, beh, non li biasimavo.

Charles era però colpevole di essere stato troppo avventato, si era guadagnato l'odio di Connor e questo era un problema per me.

Passai la notte a pensare; come potevo risolvere la situazione? Dovevo fornirgli le prove che non era opera mia la distruzione del suo villaggio. Accidenti a lui e a me quando accettai l’incarico di Reginald. Avevo rischiato che Charles e gli altri si accorgessero del mio spropositato interesse nel preservare Tiio e i suoi simili, pena l’accusa di tradimento all’Ordine Templare, e adesso questo ragazzino veniva ad accusarmi su ciò che avevo voluto evitare? No. Anche a costo di farmi odiare gli avrei dimostrato la verità. Se doveva detestarmi, che fosse almeno su qualcosa di cui ero veramente colpevole.

Sospirai con Connor sdraiato alla mia sinistra, tra me e il muro, beatamente addormentato. Ero supino da circa due ore e iniziavo a non poterne più, quindi mi alzai dato che, nonostante la stanchezza, non riuscivo a dormire. Sentii il ragazzo rigirarsi nel letto, notando che, accortosi della mia assenza, aveva pensato bene di mettersi più comodo.

Accesi la candela sulla scrivania e presi posto, ne avrei approfittato per aggiornare il mio diario.

 

Salve a tutti!

Sì, finalmente mi sono decisa a pubblicare la long su Assassin’s Creed a cui sto lavorando da un po’ di mesi, quindi spero sia stato di vostro gradimento.

Grazie di cuore a chi è arrivato a leggere fin qui, sono ben accette –ovviamente- critiche, pareri e consigli.

A presto ewe

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Capitolo 2
*** Vendetta e collaborazioni. ***


A Emilia.

Sì, ricambio anche io con un giorno di ritardo, happy B. Day!

 

Capitolo 2

 

Mi addormentai seduto alla scrivania con il diario ancora aperto sotto gli avambracci, ai quali ero appoggiato. All’improvviso mi sentii scuotere e aprii infastidito gli occhi, trovandomi la mano di Connor sulla spalla e il suo viso poco distante dal mio. Mi destai di botto come se mi fossi scottato, affrettandomi poi a richiudere il quadernetto su cui appuntavo, più o meno regolarmente, la mia vita.

«Perché hai dormito qui?» domandò con quella sua solita espressione ebete che tanto m’irritava.

«Mi sono alzato un attimo, ma tu hai pensato bene di occupare tutto il letto nel frattempo.» borbottai indispettito. Mi passai una mano sugli occhi, Dio, ero distrutto. Lo scostai per alzarmi, raggiunsi il gancio al quale avevo appeso la redingote e, constatando che si era asciugata, la indossai sopra la camicia, così come il tricorno. Mentre Connor si vestiva, tornai alla scrivania e presi il diario per infilarlo nella tasca interna della veste.

«Cosa facciamo? Church sarà chissà dove con il carico che ha rubato a Washington.»

«Beh, per prima cosa direi di fare colazione, poi ho appuntamento con uno dei miei informatori, chiederò a lui se sa qualcosa.» e, senza aspettare risposta, mi diressi verso la porta. Lui mi seguì senza esitare, evidentemente allettato dall’idea di mettere del cibo nello stomaco.

Solo una volta che uscimmo da Fort George mi accorsi che il cielo era ancora coperto da nuvoloni grigi, mentre la via era cosparsa di pozzanghere qua e là. Mi misi subito a lato della strada per evitare di venire inzuppato al passaggio di qualche carrozza e iniziai a ragionare: non potevo di certo portare Connor al Green Dragon. Era la base per le nostre ricerche, quindi optai saggiamente per la prima taverna che incontrai sul mio cammino.

Una volta entrati presi posto al primo tavolo libero che vidi e Connor occupò la sedia di fronte alla mia. La fortuna volle che fossimo leggermente più distanti dagli altri che, nonostante fosse mattina, stavano già facendo baldoria brindando con boccali di birra. Bella la vita di chi non ha un cazzo da fare, vero?

Dopo qualche minuto una delle cameriere si avvicinò a noi con un sorrisino inequivocabilmente malizioso, per poi appoggiarsi al nostro tavolo lasciando che la scollatura fosse in bella vista. E che vista.

«Qualcosa da mangiare e da bere, grazie.» tagliai corto, mi ci mancavano le donnicciole vogliose di prima mattina. Vedendo che l’avevo liquidata senza batter ciglio fece una smorfia contrariata, allontanandosi con aria stizzita. Notai che Connor la seguì con lo sguardo per un paio di metri, quindi decisi di stuzzicarlo un po’. Adoravo farlo, mi mandava in estasi.

«Ti allettava l’idea? Potevi dirlo, non l’avrei stroncata in quel modo.» arrossì violentemente.

«Ma cosa dici!? Non sono interessato a certe cose, ho faccende ben più importanti a cui pensare.» tentava di mantenere uno sguardo serio e furioso, ma ahimè, non avrebbe spaventato nemmeno un poppante. Decisi di divertirmi ancora un po’.

«Suvvia, figliolo, ci sarebbe da stupirsi se fosse il contrario. Specialmente alla tua età.» sogghignai.

«Non è che, in realtà, sei tu quello avrebbe voluto la sua compagnia?» oh, rigirava la frittata, il ragazzo?

«Affatto, guarda cos’è successo l’ultima volta che una donna mi si è concessa.»

«Di che parli?» santo cielo, perché era così dannatamente stupido? Come poteva essere davvero mio figlio?

«È seduto di fronte a me.» aggrottò le sopracciglia, offeso per ciò che avevo detto ed io soffocai una risata « Siamo permalosi, eh?» lui grugnì qualcosa, proprio mentre la cameriera di prima appoggiava al centro del tavolo due bicchieri d’acqua e un piatto fondo con dentro pane, brioches e delle salse.

Se io avevo preso con due dita un pezzo di pane, Connor afferrò una brioche a mano aperta, per poi morderla fino a metà. Restai immobile a fissarlo con il braccio sospeso nel vuoto. Lui, sentendosi osservato, smise di masticare.

«Che c’è?» domandò a bocca piena. Ebbi un flashback di me, di appena otto anni, venire colpito sulle dita dal mio precettore Fayling per aver osato mettere in discussione ciò che mi insegnava. E poi mi tornò in mente Edith, una delle mie bambinaie, riprendermi severamente, ma con garbo, quando facevo qualcosa di sbagliato.

Li immaginai entrambi alle prese con Connor e non ebbi dubbi su come sarebbe andata a finire la faccenda: sarebbero fuggiti a gambe levate dopo un giorno, mio figlio era un caso perso.

Sbattei un paio di volte le palpebre per destarmi e iniziai a mangiare, provando sollievo mentre riempivo lo stomaco che già da un po’ aveva iniziato a gorgogliare. Ci rilassammo –per così dire- nella locanda per una ventina di minuti, mangiammo con tutta calma, poi mi pulii la bocca un con tovagliolo –da buon gentiluomo- mentre Connor si passava la manica della tunica sulle labbra.

Scossi il capo ma non dissi nulla, quindi mi alzai e mi diressi verso il bancone, poggiando tre monete sul legno consumato. Pagai istintivamente anche per il ragazzo, mi sarei giocato qualsiasi cosa che non avesse denaro con sé. Una volta usciti dalla taverna giunsi le mani dietro la schiena, venendo affiancato da mio figlio.

«Grazie.» farfugliò senza guardarmi. Capii immediatamente a cosa si riferiva e ricambiai con un cenno del capo, poi, senza indugiare oltre, mi incamminai verso il porto, dove mi aspettava il mio informatore. Raggiunsi il luogo dell’incontro passando per strade secondarie, volevo evitare le giubbe rosse, chiunque potesse infastidirmi o riferire a Charles che mi aveva visto in compagnia di Connor e, una volta arrivati, mi appoggiai con disinvoltura ad una pila di casse di legno sistemate vicino ad una bancarella. Pochi secondi dopo imprecai a denti serrati intravedendo, una trentina di metri davanti a noi, un gruppo di soldati Inglesi.

«Merda.» sibilai afferrando Connor e tirandolo dietro di me.

«Che accidenti fai!?» mi riservò un’occhiataccia, ma la ignorai totalmente.

«Maledetto Achille quando ha deciso di darti questa cazzo di tunica!» sibilai nella sua direzione «Me lo devi spiegare, Connor, come fate ad agire nell’ombra per servire la luce con queste divise tanto vistose!» continuai tenendo d’occhio la mezza dozzina di soldati che, marciando, stava venendo verso di noi.

Ultimamente incrociavo un po’ troppe giubbe rosse; parlavano tutti di un ragazzo e delle sue gloriose rivolte, chissà a chi si riferivano. Una volta. Una fottutissima volta, da quando ero nelle Colonie, mi ero concesso una donna e guarda il casino che andavo a combinare.

Cercai di calmarmi, incrociai le braccia al petto e regolai il respiro. Mostrai indifferenza quando mi passarono davanti, che cercavo di coprire Connor seminascosto dietro di me e le casse impilate. Addirittura sollevai leggermente la punta del cappello, guadagnandomi un’occhiata diffidente da una delle guardie. Ringhiai tra me e me.

Connor venne salvato –perché giuro che l’avrei preso a sberle- dall’arrivo del mio uomo che, come una manna dal cielo, sbucò dalla folla venendomi incontro con passo rapido ma non sospetto. Sciolsi le braccia serrate al petto e le portai dietro le schiena, staccandomi dalla pila di casse.

«Eccoti, finalmente. Hai scoperto qualcosa su Church? E sugli Inglesi?» cercai di mantenere la lucidità, anche se in realtà mi ribolliva il sangue nelle vene.

«Sugli Inglesi nessuna notizia, Signore, ma ho scoperto che Benjamin Church è partito per la Martinica a bordo di una corvetta chiamata Welcome.» aveva detto frettolosamente e a bassa voce.

«Vecchio stronzo.» borbottai spostando lo sguardo sulle navi attraccate «Ben fatto, James. Continua a indagare sui piani degli Inglesi e fammi sapere il prima possibile.» gli diedi una pacca sul braccio e lo lasciai andare. Si abbassò il tricorno sugli occhi e, dopo aver lanciato occhiate qua e là, si allontanò di corsa; quindi mi voltai verso Connor.

«Ora che sappiamo dove si nasconde, non ci resta che trovarlo e dargli una lezione.» sibilai con odio.

«E riprendere i rifornimenti rubati!» aggiunse con ardore. Sgranai leggermente gli occhi e allargai le braccia con fare drammatico.

«Dio, che sbadato, hai ragione figliolo. Riprendiamo i rifornimenti, li riportiamo al caro vecchio George, gli lasciamo perdere la guerra e poi vado a pestare a sangue Church, va bene?» lui ignorò deliberatamente il mio sarcasmo. Questo era un motivo più che valido per rifiutarlo come figlio.

«Ho una nave già pronta. Dimmi quando vuoi partire.»

«Direi che non c’è altro tempo da perdere!» lui mi fissò per qualche secondo, poi si voltò facendomi strada verso la sua nave, o meglio, quella che avremmo usato per trovare Benjamin.

 

Dopo un giorno di viaggio avevo ormai perso le speranze.

Me ne stavo appoggiato al parapetto del cassero affiancando Connor che gestiva la nave, convinto ormai che stessimo vagando a vuoto quando, all’improvviso, vidi qualcosa all’orizzonte. Strappai il cannocchiale dalla cintura di mio figlio e lo portai all’occhio destro. Ghignai.

«Eccolo! Accelera, figliolo, dobbiamo raggiungerlo!» abbassai le braccia, poggiando una mano sul legno consumato e umido. Già pregustavo il momento, volevo averlo tra le mani per ucciderlo a pugni.

«Spiegate le vele!» urlò Connor ai marinai. In pochi secondi guadagnammo velocità e, pochi minuti dopo, potevamo vedere la Welcome a un centinaio di metri da noi.

«Sembra tu voglia farlo scappare, Connor! Fai andare più veloce questa bagnarola!» battei un pugno sul legno. Ci stavamo avvicinando, sì, ma troppo lentamente ed io non ce la facevo più ad aspettare. Ovviamente era più importante aggirare gli scogli per non danneggiare la nave, certo, facciamo fuggire Church! Come se non bastasse iniziarono a spararci contro palle di cannone, i nostri rispondevano, ma Connor preferiva tenersi distante per non subire danni maggiori.

Al diavolo. Imprecai a mezza voce e lo spinsi via dal timone senza troppe cerimonie, prendendo il comando della situazione. Che diamine, avevo sangue pirata nelle vene!

«Che fai!?» sbottò mio figlio una volta recuperato l’equilibrio. Già, l’avevo quasi mandato fuori bordo, dritto in pasto ai pesci.

«Adesso basta!» virai con veemenza speronando la nave su cui si nascondeva Benjamin con la prua dell’Aquila, quindi lasciai il timone, presi la rincorsa e saltai dal parapetto, aggrappandomi a quello dell’altra nave –il tutto sotto lo sguardo scioccato di Connor. Avevo cinquant’anni, d’accordo, ma ero un Kenway!-.

Mi issai e salii sulla Welcome. L’equipaggio mi imitò e un fragore di spade mi fracassò i timpani, quando la mia attenzione si concentrò su un soldato che stava correndo verso di me brandendo una spada corta con il braccio alzato.

Idiota. Fianco destro scoperto: non fu difficile per me conficcargli la lama celata nelle costole. Lo feci senza esitazione, poi ne approfittai per scendere sottocoperta sperando di trovare Church, ma con mia grande sorpresa non trovai nulla: né lui né la merce rubata a Washington. Mi guardai intorno e avanzai di qualche passo stando attento a non far rumore, era sicuramente lì vicino e, col trambusto che c’era sul ponte, non si sarebbe accorto di me. O almeno lo speravo.

Perlustrai ovunque, ma di Benjamin non c’era traccia. Solo un paio di botti e qualche cima arrotolata.

Pochi secondi più tardi vidi sulla sinistra una porta, sogghignai e, dopo essermi avvicinato silenziosamente, la spalancai con un calcio, trovandomi davanti il mio ex socio. Tremava chiaramente, era pallido, ma cercava di mantenere un’espressione aggressiva.

«Chi non muore si rivede, vero Haytham?» sorrisi.

«Già, anche se tu tra poco lascerai questo mondo.» lo afferrai dai capelli per poi caricare un destro e colpirlo sul naso. Il suo volto divenne una maschera di sangue nel giro di due secondi, così come il mio pugno. Non mi bastò vederlo a terra sanguinante, quindi mi inginocchiai su di lui continuando a colpirlo.

«È stata una lunga avventura, credimi, riuscire a schivare tutti i tuoi trucchetti e le tue trappole. Astute! Alcune di loro, almeno. Questo lo ammetto. E la freddezza con cui mi hai voltato le spalle…» gli colpii per l’ennesima volta il naso, rotto ormai da un pezzo. «Avevamo un sogno, Benjamin!» stavolta urlai, ero fuori di me. Era stato un colpo basso, il suo. Mi sarei aspettato un comportamento simile da tutti, meno che lui –e Charles, s’intende-. Gli avevo salvato la vita, cristo, e mi ripagava così «Un sogno che hai voluto distruggere! E per questo, mio vecchio amico, per questo la pagherai cara!» continuai ad infierire su di lui tenendolo per il colletto con la mano sinistra, mentre la destra ormai si muoveva da sola.

La porta alla mia sinistra si aprì di nuovo e Connor ci trovò così. Gli diedi un altro pugno.

«Basta! Siamo qui per un motivo.» disse provando pena per Church. Dio, mi veniva da vomitare. Il suo atteggiamento mi mandava in bestia, non esagero. Perché si imponeva il ruolo di persona migliore che non prova mai rabbia o rancore?, che non cedeva alla voglia di vendicarsi? Eppure, come me, aveva perso sua madre davanti ai suoi occhi. E se proprio bisogna esser pignoli, io mio padre l’avevo visto morire per mano dei suoi sicari. Come aveva potuto, scoprendo di avere davanti il colpevole, non attaccare Washington? Non riuscivo a capacitarmi di questo suo comportamento. Chi sbagliava tra i due?

«Per motivi diversi, temo.» lo fissai negli occhi e lo colpii per un’ultima violentissima volta. Poi mi alzai, la mano mi faceva male. Si avvicinò Connor stavolta, si abbassò con fare misericordioso e con gentilezza chiese:

«Dov’è la merce che hai rubato?» Church sollevò il busto di poco e, con quel poco e fetido fiato che aveva ancora in corpo, riuscì a rispondere.

«Va all’inferno!» sussurrò, ma Connor, colto dall’ira, gli conficcò la lama celata nel fianco, riuscendo a strappargli di bocca il luogo dove erano nascosti i rifornimenti.

 

 

Salve!

Come si può notare, la storia sta prendendo forma. Da ora in avanti i riferimenti alla trama di Assassin’s Creed III saranno un po’ più vaghi e si inizierà a capire cosa sta escogitando il vecchio Haytham.

Mille volte grazie a chi ha lasciato un commento al primo capitolo, a chi ha iniziato a seguire la storia e a chi leggerà soltanto.

Alla prossima!

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Capitolo 3
*** Egoismo o libertà? ***


      Capitolo 3

    

Una volta recuperato ciò che ci interessava -o meglio, che interessava a mio figlio- tornammo a New York ed io incontrai nuovamente James, il mio informatore.

«Sono desolato, ma i soldati non parlano» aveva esordito così, la gioia, insomma. Con la coda dell’occhio vidi arrivare Connor, avvolto nella sua bellissima tunica da Assassino. Gli feci cenno di attendere e da bravo bambino si fermò a pochi passi da noi. Tornai a guardare James.

«Continua a indagare» scandii ogni parola «Dobbiamo sapere i piani dei lealisti se vogliamo farla finita»

«Certo, Signore, per ora i soldati aspettano ordini dall'alto» spostai lo sguardo. Non mi sarei affidato alle sue capacità per intuire una banalità simile. Sbuffai.

«Torna da me quando avrai scoperto qualcosa» non disse nulla, annuì a mo’ di saluto in direzione di Connor e si allontanò di fretta, lasciandomi nello sconforto più totale per l’ennesimo buco nell’acqua. Guardai il ragazzo.

«Manca tanto così alla vittoria. Qualche attacco mirato e la guerra civile terminerà, liberandoci dalla corona» parlai più con me stesso che con lui, visto che di tattiche militari e quant’altro ne sapeva veramente poco.

«Che cosa vuoi dire?» Ero ben consapevole di essere io la mente tra i due, ma le domande stupide e irritanti di Connor iniziavano a spazientirmi.

«Beh, niente, al momento. Per ora brancoliamo nel buio» allargai le braccia e mi guardai intorno, sperando di trovare un segno, uno qualsiasi, che mi suggerisse da che parte iniziare.

«Ma i Templari non avevano occhi e orecchie ovunque?» Lo guardai malissimo. Da quando se ne usciva con queste battutine?

«Oh, certo. Questo prima che arrivaste tu e il tuo sarcasmo da quattro soldi» sibilai.

«Il tuo uomo ha detto ordini dall'alto, ecco quindi cosa dobbiamo fare: trovare i comandanti inglesi»

Sbuffai, consapevole di non avere altra scelta. Ci incamminammo quindi verso il quartiere ormai sotto il totale controllo degli Inglesi, verso la Trinity Church. Dopo aver aggirato le guardie a terra optai saggiamente di proseguire arrampicandomi sulle macerie di ciò che rimaneva delle case. Era un delirio. Tutto intorno a noi era carbonizzato, eravamo circondati da scheletri di abitazioni, l’aria era pesante, intrisa di cenere, il cielo di un grigio tendente al nero nonostante fosse giorno e le giubbe rosse erano ovunque. Cercai di essere il meno rumoroso possibile mentre saltavo di cornicione in cornicione quando, finalmente, raggiunsi il punto più vicino alle guardie britanniche. Mi fermai e mi acquattai per origliare ma, come temevo, non scoprii nulla di nuovo. Non facevano altro che commentare gli spostamenti delle truppe, proponendo soluzioni riguardo i problemi che aveva causato loro l’esercito Continentale e la resistenza di New York.

«Non arrivano a niente. E non sapremo nulla, guardando da qui» sbottai irritato, quindi mi alzai, pronto ad entrare in azione.

«Allora cosa proponi? Entrare là dentro e chiedere risposte?» Connor, dietro di me, tentò di fare del sarcasmo ma, ahimè, era proprio quello che avevo intenzione di fare.

«Beh, sì» e senza lasciargli il tempo di ribattere saltai giù, atterrando due guardie e conficcando la lama celata nel collo di entrambe. Poi mi alzai, fissando gli altri che, nonostante avessero imbracciato i moschetti, mi fissavano sbigottiti. Mi spostai lateralmente di qualche passo per avere una visuale completa della situazione, notando che quel genio di mio figlio era ancora appollaiato sul cornicione.

«Connor?» lo chiamai «Mi serve aiuto qui» balzò giù sospirando come se facesse un piacere a me. Buon Dio, se non fosse stato per le giubbe rosse che mi stavano accerchiando gli avrei assestato un paio di ceffoni. Dopotutto l’idea l’aveva avuta lui.

 

Non fu complicato uccidere quell’ammasso di uomini tanto fieri delle loro divise. Non per me, almeno. Avevano uno stile di combattimento piuttosto grezzo, scoordinato e lento rispetto a ciò cui ero abituato. E sì, finimmo in breve tempo anche grazie al ragazzo, lo ammetto. Per quanto odiassi i suoi metodi magnanimi, se la cavava piuttosto bene. Era un valido alleato, dopotutto.

Legai i polsi dei tre comandanti, godendomi le espressioni terrorizzate sui loro volti bagnati. Già, perché nel frattempo aveva iniziato a piovere. Mi fissavano come fossi il diavolo in persona. Dio, facevo così paura?

«Li porteremo ai miei alloggi a Fort George per scoprire quali segreti custodiscono» dissi legando i polsi del terzo comandante, ma non feci in tempo a finire la frase che il primo sciolse i nodi e fuggì a gambe levate. Lo guardai correre goffamente mentre si voltava a guardarci, sbuffai.

«Ti pareva!» Avanzai di qualche passo, non avevo voglia di corrergli dietro sotto l’acqua per mezza città. Ci avrebbe pensato Connor «Sarà il caso che tu lo insegua» doveva pur rendersi utile, no?

«Vai tu, io penso ai prigionieri» oh, fermi tutti. Un accenno di ribellione all’autorità paterna. Questo giorno andava ricordato, per l’amor di Dio. Peccato non fosse il  momento più adatto per rivendicare i suoi diritti in quanto figlio di un Gran Maestro. E forse non lo sarebbe mai stato.

«No, vai tu» i due comandanti dovevano averci preso per deficienti, poco ma sicuro. Beh, che pretendevo? Giravo con mio figlio, era il prezzo da pagare.

«E perché?» Domandò con un tono stranamente sospettoso. Mi prudevano le mani.

«Perché lo dico io!» Insomma, ero o non ero suo padre? Un ottimo padre, aggiungerei.

Il mio tono categorico doveva averlo convinto, o molto più semplicemente non aveva voglia di discutere e preferì cucirsi addosso il ruolo di uomo maturo, ma detto sinceramente le sue motivazioni non m’importavano. Sorrisi compiaciuto nel vederlo correre all’inseguimento dell’Inglese, mi bastava che obbedisse e non mi desse problemi.

Non persi tempo, afferrai per le braccia gli altri due e li portai a Fort George, chiudendoli in uno stanzino buio e angusto per interrogarli.

 

Vidi arrivare Connor con il prigioniero dopo una buona mezz’ora, così gli andai incontro, aspettandolo all’entrata del forte.

«Un momento. Ti dirò tutto ciò che vuoi, tutto quanto, ma non farmi entrare lì dentro» arrivai appena in tempo per godermi le preghiere del disgraziato.

«Vogliamo solo interrogarti» ah, povero, stupido figliolo.

«Se entro lì dentro sono un uomo morto» però, piuttosto sveglio, il nostro amico. Decisi di entrare in scena e avanzai verso i due con passo svelto.

«Eccoti qui, Connor! Temevo ormai che ti fossi perso» spostai lo sguardo sulla giubba rossa, trattenendo a stento un sorrisino beffardo. «Vieni avanti, su!» Ma, ahimè, non vi riuscii col sarcasmo, forse troppo evidente. Senza troppi complimenti lo spinsi verso l’entrata, portandolo dentro Fort George con la forza. Lo condussi dove avevo interrogato i suoi due colleghi, seduti immobili su due sedie nascoste nella penombra.

Feci sedere il mio ospite sull’unica sedia libera, legandogli i polsi dietro la schiena mentre tremava di paura.

«Cos’hanno in mente gli Inglesi?» Domandai senza troppi giri di parole. Vidi il suo petto gonfiarsi d’aria, nel tentativo di calmare i nervi.

«Di andarsene da Filadelfia. La città è perduta, New York è la chiave. Raddoppiano le truppe per cacciare i ribelli» parlò con un fil di voce, a malapena udivo cosa stesse dicendo.

«Quando inizieranno?» Incalzai.

Indugiò qualche secondo. «A due giorni da ora.»

«Il diciotto Giugno. Devo avvisare Washington» ignorai di proposito il commento di Connor e continuai a guardare il nostro amico britannico. Allargai le braccia.

«Visto? Non è stato poi così difficile, giusto?» Deglutì. Non si fidava di me, forse?

«Vi ho… Vi ho detto tutto. Ora lasciatemi» mi implorò con lo sguardo, ma mi lasciai intenerire? Ovviamente no, che razza di domande.

«Ma certo» il tono rassicurante che avevo usato -falso, ovviamente- doveva aver funzionato, perché notai che assunse un’espressione più sollevata. Povero sciocco.

Era logica come mossa, pensai mentre gli tagliavo la gola con la lama celata.

«Gli altri due dicevano lo stesso. Sarà vero» mi aggiustai il polsino e feci rientrare la lama insanguinata, poi alzai lo sguardo verso Connor, notando con esasperazione la sua indignazione.

«Lo hai ucciso! Li hai uccisi tutti, perché?» Sbottò indignato. Sbuffai sonoramente. Chi me l'aveva fatto fare di collaborare con un tonto simile? Che fossero morti mi sembrava piuttosto evidente dato che, tutti e tre, avevano la gola tagliata.

«Avrebbero avvisato gli Inglesi» risposi. Amavo il mio cinismo.

«Potevi trattenerli fino a dopo lo scontro» ah, maledetta la sua compassione!

«Per cosa? Per sprecare tempo e soldi preziosi? E a quale scopo? Ormai avevano spiattellato tutto quanto» lo guardai, compiaciuto del fatto che non sapesse come rispondermi «ci vediamo a Valley Forge» e senza dargli tempo di ribattere, me ne andai.

 

Non aveva idea di cosa l'aspettava, avrei distrutto l'immagine che Connor aveva del misericordioso comandante Washington, non l'avrebbe più visto come un salvatore, un uomo ingenuo e buono, oh no. Gli avrei mostrato il suo vero essere, discolpando così me da accuse infondate.

Finalmente avrebbe capito che con la strage avvenuta quattordici anni prima io non c'entravo niente, Charles non c'entrava, i Templari non c'entravano. Non vedevo l'ora, ma poi perché mi interessava così tanto dimostrare la mia innocenza ad un ragazzino che, qualsiasi cosa facessi, mi riteneva un nemico? Forse per fargli capire che io ero stato l'unico ad avere veramente a cuore il suo villaggio, che non l'avevo abbandonato per diletto -poiché nemmeno sapevo che Tiio fosse incinta-, che quando lui se ne stava tranquillo nella sua capanna io ero in Europa per cercare mia sorella, Jenny, dalla quale scoprii che Reginald, il mio tutore, il mio maestro, socio e amico di mio padre, aveva fatto in modo che rimanessi orfano.

Mentre lui passava le giornate a scorrazzare nel bosco, io mi tormentavo sul perché Jenny -dopo essere stata rapita la notte in cui avevano ucciso mio padre- aveva passato la sua vita a fare la concubina di un sultano ed io, intanto, avevo sprecato più di trent'anni a cercare un assassino che avevo avuto sempre sotto il naso, che si prendeva gioco di me dicendomi che avrei avuto la mia vendetta. Ero cresciuto nella menzogna. Ero diventato un Templare per puro caso. Ero stato addestrato da un Assassino per entrare nella Confraternita, ma Reginald pensò bene di estirpare il problema alla radice, togliendo di mezzo mio padre e portandomi ai gradi più alti dell'Ordine.

Senza nemmeno accorgermene avevamo raggiunto l'accampamento a Valley Forge e, quando alzai gli occhi da terra, notai che eravamo già davanti alla tenda del caro George. Stava leggendo una lettera, finché Connor non attirò la sua attenzione. Come sperai, quel vecchio tonto lasciò incustodito il foglio sul tavolo situato all’interno per poi raggiungere mio figlio. Giunsi le mani dietro la schiena e con noncuranza entrai nella tenda fingendo di guardarmi intorno e, casualmente, gli occhi mi caddero sulla lettera di Washington.

La lessi velocemente, dopodiché la sollevai.

«E questa che cos’è?» Dissi appositamente ad alta voce. Il comandante si voltò fulmineo, era sbiancato.

«Corrispondenza privata!» Tentò di strapparmela di mano ma fui più veloce di lui -non che fosse difficile- e allontanai il foglio ingiallito.

«Ma certo. Vuoi sapere di che si tratta, Connor?» Lo guardai negli occhi sperando che capisse. Taceva e mi fissava, così continuai. «Sembra che il tuo amico abbia ordinato di attaccare il tuo villaggio. Anche se la parola attacco è riduttiva. Diteglielo, comandante.» dichiarai voltandomi verso di lui.

«Ci hanno riferito che alcuni indiani stanno collaborando con gli Inglesi, ho solo detto ai miei di fermarli» cercava di restare composto e controllato, ma ogni sua giustificazione era un’ulteriore prova che confermava le mie idee.

«Bruciando i villaggi? Spargendo sale sulla terra? Ordinando il loro sterminio? Qui c’è scritto questo» guardai istintivamente mio figlio che, come in uno stato di torpore, aveva indietreggiato di qualche passo.

«E non è la prima volta. Ditegli cos'avete fatto quattordici anni fa» tacque per un paio di secondi «È stato lui, Connor, a dare l'ordine di attaccare il villaggio»

«Era tempo fa, la Guerra dei sette anni» mi ringhiò contro ed io guardai ancora il ragazzo.

«Ora hai visto che anche il tuo grand’uomo è come tutti gli altri. Accampa scuse. Fa a scaricabarile. Davvero qualsiasi cosa, insomma, tranne che prendersi la responsabilità!» Stava per rispondermi, ma intervenne mio figlio.

«Basta! Ora non conta non è cosa ha fatto e perché. Ciò che conta è la mia gente» tentai di calmarmi e serrai i denti. Sarebbe stato dalla mia parte.

«Allora andiamo» mossi un passo verso di lui.

«No. Noi due abbiamo chiuso» rimasi di sasso, se la prendeva con me, adesso?

«Fammi capire, Connor! Hai scoperto che lui è il responsabile della morte di tua madre, ma dato che è uno dei buoni chiudi un occhio, ed io, che non ho fatto niente e sono il nemico per definizione, vengo odiato a prescindere?» Ero sbalordito e incazzato. Soprattutto incazzato.

«Tu sapevi! Non sperare di convincermi del contrario, da quanto avevi questa informazione? Il sangue di mia madre forse macchia le mani di un altro, ma Charles Lee è comunque un mostro, e agisce sotto tuo ordine» mi puntò un dito contro. Scossi la testa, ma dovevo aspettarmelo. Ero davvero convinto che mi avrebbe creduto? Suvvia, il buon George colpevole di omicidio? Chi ci crederebbe? È molto più logico incolpare l’uomo cattivo della situazione, no?

«L'ho scoperto di recente, ma d’altronde non è una novità che il caro Washington faccia la voce grossa con i deboli» lo guardai con la coda dell'occhio e il diretto interessato mi incenerì con lo sguardo, mentre Connor fissava con sdegno tutti e due.

«Smettetela entrambi! Adesso devo pensare alla mia gente e ucciderò chiunque di voi oserà seguirmi o fermarmi» risi appena.

«Suvvia, Connor, non riusciresti mai ad uccidermi» lui assottigliò gli occhi.

«Lo vedremo» e senza aggiungere altro ci diede le spalle, allontanandosi.

Nonostante fossi parecchio tentato di seguirlo, decisi di lasciarlo andare. Era accecato dall'ira e la mia presenza, mi duole ammetterlo, non l'avrebbe aiutato a calmarsi. Mi voltai fulmineo verso Washington, quella canaglia aveva ancora poco da vivere.

«State pur certo che la pagherete cara» sibilai con odio. Lui assottigliò lo sguardo.

«Da quando avete a cuore gli indigeni, Kenway? Non credevo foste tanto misericordioso» Dio, per un attimo l'ironia di Connor mi parve lievemente più acuta.

«Qui non si tratta degli indigeni! Avete fatto una strage di innocenti, di gente che in questa guerra è stata tirata da altre persone. Una delle donne che avete ucciso era dalla vostra parte, credeva nel vostro nome e sperava che l'avreste portata alla pace! E invece? Bruciata. Viva! Questo è ciò che avete fatto, comandante, avete versato altro sangue inutile» ma avrebbe pagato, poco ma sicuro. L’avrei ucciso con le mie mani con o senza la benedizione di Connor.

«È curioso sentire questi discorsi proprio da voi. Curioso e ipocrita, aggiungerei. Non siete famoso per le vostre buone azioni, non è così, Haytham?» Povero idiota.

«Evidentemente non mi conoscete abbastanza bene. Sono sempre stato contro la violenza gratuita, difatti non ho mai approvato i metodi di Braddock. Immagino ricorderete quel giorno, vero?» Avanzai di un passo, portandomi a pochi centimetri dal suo volto. Eccome se lo ricordava, si era beccato un pugno sul naso da Tiio, poteva scordarsi una scena del genere? «Solitamente non sono un tipo avventato, ma forse questa volta potrei fare un'eccezione.» lo vidi deglutire.

«Non potete uccidermi, le mie truppe vi scoverebbero subito e non avreste scampo» povero sciocco, mi credeva tanto stupido? Portai le mani dietro la schiena.

«State tranquillo, George, non è ancora giunta la vostra ora» sorrisi appena e sollevai di poco il cappello «Buona fortuna per la guerra, comandante» e detto ciò m'incamminai verso l'uscita dell'accampamento.

 

****

 

Mi allontanai da Valley Forge rapidamente. Non volevo vedere nessuno, tantomeno mio padre.

Sinceramente speravo fosse diverso da come me l’aveva descritto Achille, speravo che il pregiudizio che avevo di lui fosse sbagliato. Affatto, era come tutti gli altri.  Da quanto sapeva che era stato Washington a dare quell'ordine? Avrebbe potuto fermarlo se avesse tenuto al mio popolo come tanto diceva, invece non aveva mosso un dito, si era limitato ad assimilare l’informazione e attendere il momento migliore per sbattermi in faccia la verità, sperando che perdessi fiducia in Washington. Cercava di farmi cadere in confusione, ma se sperava che passassi dalla sua parte solo perché George aveva ucciso mia madre, beh, si sbagliava. Non potevo permettere che finisse tutto, non potevo stravolgere i piani per questo piccolo intoppo, dovevo salvare la mia gente, fermare i Templari e raggiungere la libertà.

Mi tolsi il cappuccio, passandomi una mano sui capelli. Assurdo, era tutto assurdo. Avevo giurato di uccidere l’assassino di mia madre convinto com’ero che fosse Charles –e, di conseguenza, mio padre-, invece non avevo mosso un dito. Ma potevo mandare a monte la guerra per un motivo personale? No, non ero così egoista.

Superato un tratto fitto di alberi vidi stagliarsi davanti a me la tenuta, luogo dove mi allenavo e vivevo da un paio d'anni con il mio maestro Achille, un Assassino ormai in pensione. Aprii la porta e, come al solito, la casa era silenziosa -fin troppo, a volte- e feci fatica a capire dove fosse. Lo chiamai e la sua voce, proveniente dal piano superiore, mi fece intuire che fosse a letto. Ormai era da un po' di tempo che lo vedevo stanco, le forze lo stavano lentamente abbandonando. Bussai ed entrai nella sua stanza, trovandolo sdraiato.

«Come va, Connor?» Chiese quasi a fatica.

«Bene, sono stato in città, ho scoperto un po' di cose.» risposi sedendomi su una sedia affianco a lui.

«Hai già eliminato i tuoi obiettivi? Hickey e Johnson sono morti?»

«Sì, non daranno più problemi ora, però... Achille, ho riflettuto su quello che devo fare e non sono sicuro di agire nella giusta maniera» lo guardai negli occhi, stare con mio padre mi aveva fatto riflettere. I patrioti ci avrebbero aiutati veramente? Avrebbero rispettato la mia gente? Oppure erano come gli Inglesi? E Johnson, l'uomo che avevo ucciso mentre discuteva con i saggi del mio villaggio, aveva davvero intenzione di comprare la terra per tenerla al sicuro? Ed era stato mio padre ad ordinarlo? Achille mi fissava di rimando, poi sospirò.

«Hai incontrato tuo padre, non è vero?»

«» ammisi immediatamente.

«E perché hai cambiato idea? Quando venisti qui per la prima volta dicesti di volerlo morto» deglutii, sentendo improvvisamente la gola secca.

«Lo so, Achille, ma ero convinto che avesse ordinato lui di bruciare il mio villaggio, invece ho appena scoperto che il colpevole è Washington» mi guardava in silenzio e sospirai a mia volta «Lui non mi piace, non mi fido, ma abbiamo collaborato un paio di volte e... Diavolo, pensa se ci unissimo! Pensa a cosa potremmo ottenere se lottassimo insieme. Gli Assassini non esistono più, sono da solo, un uomo può raggiungere grandi risultati, ma pensa uniti cosa potremmo fare» credevo in quello che dicevo, ma ai suoi occhi dovevo essere folle.

«Quell'uomo ti ha fatto il lavaggio del cervello, Connor»

«No, Achille. Non passerò mai dalla sua parte, non fraintendermi, ma se mettessimo per un attimo da parte la guerra personale tra Assassini e Templari potremmo vincere contro gli Inglesi. È quello che vogliono anche loro» tentai di spiegargli.

«Forse potrete collaborare per cacciare la corona, ma dopo? Tuo padre continuerà ad attuare i suoi piani e se ci riuscisse sarebbe la fine» non seppi cosa rispondere, sapevo che quel giorno sarebbe arrivato. Una volta sconfitti gli Inglesi torneremo nemici, ed io? Sarò in grado di ucciderlo? E lui? Avrebbe esitato a togliermi di mezzo?

«Cosa farai con Washington?» Cambiò discorso ed io sospirai.

«Non lo so, avrei dovuto ucciderlo, ma poi l'esercito sarebbe passato a Lee e non potevo permetterlo» Achille annuì mettendosi più comodo sul letto.

«Giusto, Connor, ma capisci che Haytham deve morire» replicò tornando su mio padre. Spostò il cuscino per alleviare il dolore alla schiena senza dare peso alla frase che aveva appena detto. Stavamo parlando di mio padre, maledizione, anche se non era esattamente un uomo da prendere come esempio, anche se era un nemico, era mio padre.

«Ma forse senza la presenza di Charles lui..»

«No» mi interruppe bruscamente. «Quell'uomo è pericoloso, non possiamo permettergli di espandere l'Ordine anche nelle Colonie. Birch non l'avrà vinta»

«Chi?» Ci capivo sempre di meno.

«Reginald Birch, il maestro di tuo padre. È stato lui a portare Haytham al ruolo di Gran Maestro dei Templari. Lui l'ha mandato qui per fare delle ricerche su un medaglione mohawk» quindi mio padre aveva incontrato mia madre per via del medaglione?

«Di che parli, Achille? Non so nulla di questa storia»

«Capirai tutto a tempo debito, ora resta concentrato. Ne parlammo all'inizio, Connor, sapevi che avresti dovuto uccidere tuo padre. Ora che l'hai conosciuto speri che possa cambiare, ma credimi, non lo farà, e tu non puoi permetterti di mandare a monte la tua missione!» Concluse senza fiato. Ero combattuto, mi alzai di scatto iniziando a camminare avanti e indietro.

«Achille, tu non capisci! Io non ho certezze. Chi mi garantisce che i Coloni rispetteranno la mia gente? Come faccio a sapere che poi saremo in pace? Finora ho incontrato solo persone intenzionate a sfruttare le terre in cui viviamo per espandere le città, non abbiamo rispetto né voce in capitolo. Mio padre è stato l'unico, che ti piaccia o no, ad avere un minimo d'interesse per quelli come me» mi voltai a guardarlo. Sapeva che avevo ragione, doveva ammetterlo.

«E quindi per questo dovrebbe essere scagionato da tutto il resto?» Mormorò con odio.

«No, ma penso che collaborando con lui ne ricaverà beneficio anche il mio villaggio» lo guardai negli occhi. Non facevo nulla di male, volevo solo mettere fine alle violenze sui più deboli.

«Quindi vuoi sfruttare la posizione influente di Haytham per salvare i tuoi simili? Fa' come credi, ma ti accorgerai che agendo da solo raggiungerai risultati migliori» non risposi ed uscii dalla stanza sospirando.

Non avevo fiducia in mio padre, o meglio, ne avevo poco e niente, ma sapere di combattere qualcosa di così grande al fianco di qualcuno mi metteva sicurezza. I suoi modi diretti e sarcastici li avrei evitati senza batter ciglio, ma era un valido spadaccino e, da quel che avevo potuto capire osservandolo, doveva cavarsela bene anche a mani nude.

 

 

 

Buonsalve a tutti.

Lo so, lo so, avevo detto che da questo capitolo mi sarei staccata dalla trama principale, ma temevo di essere andata un po’ troppo di corsa. Non volevo saltare troppe scene. Dal prossimo in poi inizierete a vedere le differenze, giuro.

Bom, mi dileguo. Grazie a tutti quelli che sono arrivati a leggere fin qui, sayounara!

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Capitolo 4
*** Figlio di sangue, figlio adottivo. ***


Capitolo 4

 

Uscii dall'accampamento a Valley Forge non dopo aver rubato un cavallo, dirigendomi poi a gran velocità verso New York. Quel buono a nulla di Washington non si era nemmeno accorto che la sua privatissima lettera era ora custodita nella mia redingote, nella stessa tasca del mio diario.

Il diario... Quel semplice libro racchiudeva la mia vita e, ad essere sincero, non sapevo nemmeno perché lo scrivessi. Ricordo che iniziai a otto anni circa, il mio precettore non faceva che ripetermi di scrivere ogni cosa mi passasse per la testa affinché migliorassi lo stile e la calligrafia. E continuai a farlo anche col passare degli anni, appena avevo tempo scrivevo delle mie missioni, dei miei dubbi, del mio rancore, della sete di vendetta. Era ciò che mi era più caro, racchiudeva i miei ricordi che, seppur in maggior parte brutti, non volevo e non dovevo dimenticare.

Cavalcai senza sosta e a sera inoltrata entrai a New York. Il cielo era scuro, un po' per l'ora, un po' per i nuvoloni che ultimamente non avevano intenzione di abbandonare la città. L'aria era fredda e umida, avanzando percepivo il gelo penetrarmi nelle ossa nonostante la redingote fosse una delle più pesanti che avessi.  Provai un enorme sollievo nel varcare la soglia di Fort George, il forte dove c'erano i miei alloggi. Smontai da cavallo lasciando che se ne occupassero le guardie, dopodiché mi avviai verso il piccolo piazzale all'interno, al quale si accedeva dopo una rampa di scale. In fondo, sulla destra, c'era la porta che portava alla mia stanza, quindi mi avvicinai e l'aprii. Mentre la richiusi udii un tuono, consapevole che una notte piovosa sarebbe arrivata. Avanzai con passo lento e stanco, posai il diario sulla piccola scrivania e appesi il tricorno, poi uscii per andare nell'altra ala del forte per rifocillarmi. Presi qualcosa dalla dispensa e feci appena in tempo a riattraversare il piazzale ed entrare nella mia stanza che fuori iniziò a piovere. Mangiai rapidamente, poi presi il diario per scrivere le ultime cose accadute. Lo richiusi verso le undici ben felice di avere, almeno stavolta, il letto tutto per me. Mi addormentai quasi subito, perché ricordo il fumo della candela spenta come ultima immagine.

 

Ero intontito, sdraiato a terra, supino. L'ambiente era caldo, ma intorno a me percepivo rumori strani, risate meschine e soddisfatte. Strizzai gli occhi e li riaprii sperando che quel fastidiosissimo appanno se ne andasse; dov'ero? Girai il viso verso sinistra, capii immediatamente che affianco a me c'era qualcun altro. Il suo volto mi fissava, ma non capivo chi fosse, non distinguevo i lineamenti. Sentivo il cuore battere così forte che temevo mi uscisse dal petto. Dovevo fare qualcosa, dovevo salvare mia madre, la mia casa, le mie cose. Sbattei di nuovo gli occhi e solo dopo pochi secondi riuscii a distinguere i capelli biondo scuro e spettinati dal viso. La cicatrice sulla guancia destra, gli occhi azzurri -quasi spenti- e il naso dritto e regolare dei Kenway.

«Padre» non ebbi la forza di dire altro, lo vidi muovere a fatica il braccio destro per prendermi la mano mentre la spada che l'aveva colpito era ancora ben fissata nel suo petto.

«Haytham»

 

Aprii gli occhi di scatto come se mi avessero gettato addosso una secchiata d'acqua gelida. Quella maledetta notte mi perseguitava ancora ed ero sempre più convinto che Reginald non avesse pagato abbastanza. Aveva avuto una morte troppo poco dolorosa per i miei gusti. Mi ero pensato mille modi per torturare l'assassino di mio padre, una volta trovato, e invece no, era crepato trafitto da una spada, nel medesimo modo della sua vittima. L'ironia della sorte.

Dopo essermi lavato e vestito presi il mio diario e uscii dalla stanza, il piazzale era coperto da uno strato di fanghiglia e un fastidiosissimo odore di umido mi invase con prepotenza le narici. Non riuscii a trattenere una smorfia disgustata, dopodiché camminai fino alla porta di fronte alla mia, quella che portava all'altra ala del forte, agli alloggi di Charles. Avevamo appuntamento quella mattina per parlare di alcune faccende, tra cui ovviamente Washington. Dopo essermi chiuso alle spalle la porta mi incamminai per il corridoio e poi su per le scale, fino a raggiungere una stanza affacciata da un lato sul piazzale del forte e dall'altro su una parte della città: la sala dove, normalmente, discutevamo su come agire. Mi avvicinai alla finestra che dava su New York, giunsi le mani dietro la schiena e aspettai. Guardai l'orizzonte, verso la periferia, dove sapevo fosse il villaggio di Tiio. Serrai i denti.

Che a Connor fosse piaciuto o meno, avevo giurato di vendicarla, e l'unico modo era uccidere quella sottospecie di comandante con le mie mani.  Sentii la porta aprirsi e d'istinto mi voltai verso l'entrata, vedendo Charles richiudersela alle spalle.

«Signore» ricambiai il saluto con un cenno del capo, così mi voltai allontanandomi dalla finestra e avanzando lentamente verso il grande tavolo al centro della stanza. Sentii il suo sguardo addosso, attendeva che iniziassi a parlare, così presi fiato.

«Le truppe inglesi marciano su New York. Abbandonano Filadelfia» iniziai «Forse ho un piano per uccidere Washington» mi appoggiai al tavolo con entrambe le mani, puntando gli occhi in quelli di Charles.

«Spiegatevi meglio, Signore» notai i suoi occhi ardere dalla voglia di combattere. Non aspettava altro che un mio cenno, un mio ordine, lui era pronto a scattare, sempre e comunque. Ripensai un attimo alla prima volta che lo vidi, mi accolse al mio arrivo a Boston e, da quel momento, gli avevo insegnato tutto ciò che sapevo. Gli avevo spiegato come muoversi tra la folla, come mimetizzarsi, come un Templare doveva pensare e agire. L’avevo trasformato nell’uomo che avevo davanti e di cui ero profondamente orgoglioso. Charles Lee poteva definirsi, a mio avviso, l’allievo perfetto, che continua a guardare con ammirazione, soggezione e rispetto il suo Maestro nonostante quest’ultimo non abbia più nulla da insegnargli.

«Con l'arrivo di altre giubbe rosse non sarà difficile ucciderne un paio, indossare le loro uniformi e confonderci col nemico»

«Come facemmo anni fa per uccidere Silas» annuii.

«Esatto. Solo che stavolta non ci travestiremo da alleati del nostro bersaglio, ma da nemici, in modo che per la grave perdita del comandante vengano incolpati gli Inglesi» continuai a guardarlo.

«Ottimo piano, Signore. Quando iniziamo?» Sorrise.

«Il diciotto giugno arriveranno le truppe, vedremo come si evolveranno le cose. Mi raccomando, Charles, non possiamo sbagliare» ricambiai lo sguardo, serio come non mai.

«Certo, Signore, mi chiedevo però..» qualcuno bussò alla porta, interrompendo Lee. Sbuffai sonoramente.

«Sì?» La porta si aprì e da dietro sbucò una delle guardie del forte.

«Signor Kenway, un indiano dice di volervi vedere» mi si fermò il cuore.

«Come?!» Con la coda dell'occhio guardai Charles sperando con tutto me stesso che non avesse capito, ma ahimè, dovetti ricredermi. Non era mai stato un ragazzo sciocco, anzi, avevo sempre apprezzato la sua mente intuitiva e sveglia. Diciamo che era esattamente l'opposto di quell'idiota di mio figlio che, venendo nel mio covo, stava letteralmente mandando a farsi benedire i miei piani.

«Che indiano, Signore?» Si aggiunse Lee. Magnifico, i miei complimenti, Connor. Sbuffai ancora e mi voltai verso la guardia.

«Digli di aspettare fuori» ma non fece in tempo ad annuire che dal corridoio udimmo urli e schiamazzi. Charles alzò lievemente un sopracciglio ed io mi vergognai profondamente per aver generato un imbecille totale.

Nel giro di dieci secondi il cappuccio da Assassino di Connor sbucò dalle spalle della guardia e, mi sarei giocato la testa, che Charles fosse verde d'ira. Non ebbi il coraggio di guardarlo.

«Che diavolo ci fai qui?!» Sbottai. Avevo una voglia di prenderlo a pugni che solo io sapevo. Feci cenno alla guardia di andare, preferivo restassimo soli. Charles schioccò la lingua sul palato.

«Ancora tu?! È un vero peccato che quel giorno tu non sia morto sulla forca» borbottò con tono acido. No, non sapeva che fui proprio io, il giorno dell'esecuzione, a salvarlo lanciando un pugnale contro la corda -e sì, anche con l'intervento di un Assassino portato da Achille, diciamolo-.

Vidi Connor serrare i denti e i pugni, si sarebbero azzuffati, quindi intervenni.

«Charles, calma» lui spostò lo sguardo da mio figlio a me «Io e questo ragazzo abbiamo collaborato un paio di volte» non dissi esplicitamente che era mio figlio, forse lo sospettava, ma preferivo non dare conferme. Continuava a fissarmi, poi si lasciò andare ad una risata tesa e nervosa.

«Collaborato con un indiano? A questo punto sarebbe stato meglio Hickey» sogghignò guardando Connor. Beh, a dirla tutta non sapevo chi dei due fosse più idiota, ma almeno Thomas Hickey obbediva senza fiatare. Qualsiasi cosa gli dicessi di fare non aveva importanza se aveva garantito il suo piccolo gruzzolo come ricompensa.

«Perché sei qui? Sbaglio o avevi detto di aver chiuso con me?» Misi le mani dietro la schiena e guardai mio figlio.

«Già, è quello che ho detto, ma ora sono qui per un altro motivo» oh no, non per quel motivo.

«Connor, esci immediata-»

«Non prima di averlo ucciso!» Non diede il tempo a nessuno dei due di rendersi conto della situazione che scattò verso di noi, anzi, lui, brandendo il tomahawk. Dopo un secondo di stupore, Charles spinse una sedia verso mio figlio per interrompere la sua corsa, ma Connor la saltò senza problemi. Mi mossi istintivamente, mi portai davanti al mio allievo e bloccai entrambi i polsi di Connor con tutta la forza che avevo. Feci non poca fatica per fermarlo, lo ammetto.

«S-signore..» la voce di Lee era tremante, ma non di paura, bensì di preoccupazione. Per me.

«Tutto bene, Charles» il mio tono era grave e teso a causa dello sforzo che stavo facendo per tenere Connor.

«Togliti di mezzo!» Sibilò lui.

«No. Non ti lascerò agire indisturbato!» E con un ultimo ed enorme sforzo lo spinsi via. Presi fiato, sollevato dal fatto che Charles fosse ancora tutto intero. Connor ci fissava roteando minacciosamente il tomahawk, forse indeciso su chi attaccare per primo.

«Cerca di ragionare. Non è Lee che devi uccidere, lui deve prendere il comando dell'esercito al posto di Washington»

«No. Non posso fidarmi di voi, io e te potremo collaborare solo quando lui sarà morto» da dietro udii una risatina di Charles che, avanzando di qualche passo, mi affiancò.

«Tu vorresti uccidermi? Non sei altro che un fallito, un selvaggio, un inci-»

«Charles!» lo tirai per un braccio «Basta così. Smettetela di punzecchiarvi come donnicciole» ma il mio intervento venne beatamente ignorato da Connor che, per tutta risposta, aveva annullato la distanza tra noi con due falcate. Io mi rimisi in mezzo, poggiandogli una mano sul petto per fermarlo.

«Che cos'hai detto?!» Urlò a Charles, peccato che di mezzo ci fosse il mio orecchio sinistro. Addio timpano.

«Che sei un sel-»

«Ho detto basta!» Alzai il tono di voce e, stavolta, si ammutolirono entrambi. Che diamine. «Sembrate due mocciosi in fasce, fate gli uomini, per Dio!» Li guardai entrambi, voltandomi prima a destra, verso il mio pupillo, e poi a sinistra, verso mio figlio; infine tolsi le mani dal petto dei due.

«Comportarci da uomini? Allora faccela risolvere alla vecchia maniera, e non intervenire per difendere il tuo allievo. O temi non sappia cavarsela?» Lee ringhiò furioso.

«Che insolente» sibilò a denti serrati. Sbuffai.

«Charles sa perfettamente difendersi da solo. L'ho addestrato personalmente» dissi con una punta d'orgoglio.

«Non sembrava da come ti sei buttato per difenderlo. Sei una brava mammina» Charles fece per avanzare verso Connor ma lo fermai in tempo, mettendogli una mano davanti.

«Curioso sentirlo da un orfano» disse ugualmente.  

«Non si dimostra così di essere uomini, ma parlando civilmente e ragionando. Vediamo se ne siete in grado, non ho voglia di farvi da balia» avrei dovuto parlare al singolare -rivolto a Connor- ma per evitare altri battibecchi preferii rivolgermi anche a Charles. Ci furono alcuni attimi di silenzio in cui aspettai che si calmassero tutti e due.

Non potevo di certo riprendere a parlare del nostro piano per accoppare Washington davanti al buon cuore di mio figlio, non sia mai, il caro George ci avrebbe portati alla vittoria, bla bla.

Certo, come no. L'unico modo in cui poteva aiutarci era assistere all'ascesa di Lee dall'altro mondo.

«Di cosa stavate parlando?» Iniziò Connor dopo aver posato il tomahawk.

«Di affari che non ti riguardano» la risposta di Charles, che lo fissava con la coda dell'occhio, arrivò rapida come un fendente.

«Non parlavo con te» altra frecciatina acida di mio figlio. Assurdo, si comportavano come lattanti.

«Volete smetterla o avete intenzione di andare avanti ancora per molto?» Li fulminai entrambi, che diavolo, speravo almeno che Charles si mostrasse superiore e ignorasse gli attacchi sottili di mio figlio. Evidentemente mi sbagliavo.

«Avete ragione, Signore, perdonatemi» ed eccolo, il mio pupillo, sempre obbediente e rispettoso. Connor grugnì qualcosa che non compresi ed ignorai di proposito.

«Che vi piaccia o no, signori, se vogliamo vincere questa guerra dobbiamo collaborare. Siamo tutti d'accordo che siamo gli unici in grado di scacciare gli Inglesi» mi riappoggiai al tavolo con entrambe le mani e sospirai.

«Hai già un piano?» Connor e le sue domande idiote.

«Mastro Kenway ha sempre un piano, non è uno sprovveduto» ringraziai mentalmente Lee ed alzai lo sguardo su di loro.

«Arriveranno le truppe a breve, ne uccideremo tre e ci infiltreremo tra le loro fila, dopo aver fatto fuori chi li comanda ci occuperemo dei soldati. Senza i comandanti non faranno molto, penseremo poi ad un piano per sbarazzarci delle giubbe rosse.» preferii omettere la parte dell'uccisione di George o sarebbe scoppiato un altro putiferio. Come mi aspettavo, Charles comprese subito la temporanea modifica del piano e annuì concorde senza fare accenni, Connor ugualmente si dimostrò dalla nostra parte.

«Siamo d'accordo, allora» continuai «Non ci resta che attendere il loro arrivo da Filadelfia, ci vedremo qui il diciotto giugno mattina per decidere come muoverci» dissi principalmente a mio figlio, dato che Charles alloggiava a Fort George come me.

Lui annuì ancora.

«Ma sappiate che dopo questa breve collaborazione non cambierà nulla» si voltò verso Lee «Ti ucciderò, parola mia» il mio compare mi lanciò un'occhiata divertita, poi riportò l'attenzione su mio figlio.

«Ancora con questa assurda storia? Sei sempre il solito ragazzino impertinente che incontrai nel bosco anni fa, avrei dovuto ucciderti allora senza troppe cerimonie. A quest'ora avremmo una grana in meno.» ridusse gli occhi a due fessure.

«Pagherai caro questo errore, puoi contarci» li raggiunsi e nuovamente mi misi in mezzo.

«Sei solamente un selvaggio, cosa speri di fare, eh?» Entrambi iniziarono ad avanzare l'uno verso l'altro, restando tuttavia separati da me, che stavo al centro.

«Charles, piantala» tentai di calmarlo.

«Ha mancato di rispetto troppe volte, Signore!» Sapevo avesse ragione, ma speravo in uno sforzo di buona volontà da parte di entrambi.

Chiedevo troppo? Era proprio impossibile far collaborare Templari e Assassini? Io non facevo testo, non ero mai stato puro, nel cuore ero Templare, nella testa Assassino, grazie a mio padre.

Connor prese il mio polso destro, appoggiato sul suo petto, e lo spostò con veemenza, pronto ad attaccare Lee. Vidi scattare la lama celata dalla sua manica sinistra e tentai di salvare il salvabile. Nonostante avessi perso le speranze di vedere Assassini e Templari uniti, nel profondo ci credevo ancora.

Girai il busto completamente verso Connor per farlo ragionare, ma fu un attimo.

Sentii la redingote improvvisamente bagnata e insolitamente calda sul fianco destro, non avvertivo dolore, ma percepivo chiaramente la debolezza farsi spazio nel mio corpo. Impedii alle mie gambe di cedere per orgoglio, perché avevo intuito subito cos'era successo.

«Signore!» La voce di Charles era  a dir poco allarmata e mi afferrò per le spalle poco prima che cadessi all'indietro.

«Guarda cos'hai fatto, bastardo indiano! Guardia!» Capii che stesse urlando dalla vena gonfia sul collo e sulla tempia sinistra, ma il suono era ovattato. Portai istintivamente la mano destra sul fianco colpito, poi la spostai leggermente scoprendola completamente imbrattata di sangue.

Solo in quel momento mi accorsi di Connor. Mi fissava immobile, conscio solo ora di aver infilzato la mia carne e non quella di Charles. Ricordo solo la guardia entrare di corsa nella sala e afferrarmi dal braccio sinistro, mentre Charles continuava a sostenermi da quello destro. Poi il buio.

 

 

Buonasera.

Mi scuso per il ritardo, davvero. Contavo di aggiornare molto prima, ma sono arrivata oggi nel paesino in cui trascorrerò le mie “vacanze” fino a fine agosto e, beh, la connessione è praticamente inesistente, forse peggio degli altri anni. Spero comunque di riuscire ad aggiornare e seguire le ff.

Ma bando alle ciance, spero che il capitolo sia stato gradito. Se avete consigli o complimenti non trattenetevi, lol. Oh, quasi dimenticavo, lunedì prossimo non credo riuscirò ad aggiornare a causa di problemi di connessione -che spero di risolvere presto-. Abbiate pietà, che il Padre della comprensione ci guidi (lo so, lo so, non c'entra, ma ci stava bene). Adiooos.

 

 

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Capitolo 5
*** Che inizi il piano. ***


Capitolo 5

 

Quando aprii gli occhi ero nel mio letto, la prima cosa che percepii fu il gelo che mi inibiva i sensi nonostante avessi, da quel poco che riuscivo a capire, più di due coperte addosso.

«Signore, vi siete svegliato, finalmente» la voce di Charles arrivò alle mie orecchie con la forza di una martellata, mentre venivo scosso da un ennesimo brivido. Tentai di dire qualcosa, ma mi resi conto che dalle mie labbra non uscì nessun suono. Lo vidi alzarsi dalla sedia della mia scrivania e avvicinarsi rapidamente.

«Non sforzatevi, Mastro Kenway. Avete perso molto sangue, ma siete stato curato. Il medico dice che non siete in pericolo, dovete solo stare a riposo» disse fissandomi. Mi limitai ad annuire, avevo forza solo per quello, poi notai che oltre Lee, appoggiato al muro, c'era lui, Connor. Non aveva il cappuccio, le braccia erano serrate al petto, lo sguardo fisso a terra. Tentai ancora di parlare, ma una fitta al fianco mi fece morire le parole in gola. Speravo con tutto me stesso che non avesse riaperto la ferita che mi aveva procurato Lucio anni prima, anche se temevo fosse così.

«Ora riposate, penseremo io e l'indiano al piano. Vi terrò aggiornato» fece per allontanarsi ed uscire, ma udendo queste parole il dolore passò in secondo piano.

«No!» gli afferrai il braccio con uno scatto e serrai gli occhi, ma mi feci forza «Verrò anche io. E non si discute» deglutii e mi imposi di calmarmi, sperando così di alleviare il bruciore che mi stava facendo impazzire.

«Siete impazzito? Non potete alzarvi dal letto prima che la ferita si sia rimarginata, senza contare che siete stato colpito su una vecchia cicatrice» merda. Ne ero sicuro.

«Ho detto che verrò, piuttosto vai a chiedere al medico di pensarsi qualcosa. Un antidolorifico, faccia lui» dissi a fatica, ma nonostante si percepisse la sofferenza nella mia voce, Charles lo prese come uno dei miei soliti ordini e uscì senza ribattere. Così restai solo con Connor, che ancora non aveva il coraggio di alzare gli occhi dal pavimento.

Voltai gli occhi verso di lui, notando che aveva un taglio sul naso e un livido sullo zigomo sinistro.

Scostai lo sguardo, fissando il soffitto.

«È stato Charles?» Dissi solamente, sicuro che avrebbe capito.

«Mi dispiace, non volevo colpirti» riflettei su quelle parole, leggermente sollevato dal fatto che, almeno per ora, non mi volesse morto. Sventolai la mano destra, segno che accettavo le scuse.

«Ho visto quella cicatrice la sera in cui cercavamo Church. Come te la sei procurata?» Cercava di instaurare una conversazione dopo avermi quasi asportato il fegato?

«Storia lunga» mi limitai a dire. Beh, in fondo era vero; non avevo voglia di rievocare la storia di mio padre, il rapimento di Jenny, la farsa di Reginald, Lucio, il suicidio di Holden...

In quel momento sentii la porta aprirsi e pochi istanti dopo vidi Charles e il Dottor Flatch farsi spazio nel mio campo visivo, affiancando il mio letto.

«Il Signor Lee mi ha informato delle vostre intenzioni, Mastro Kenway. Non posso legarvi al letto, ma vi consiglio vivamente di non alzarvi per nessun motivo» scossi la testa.

«È una missione a cui devo prendere parte. Fate in modo che si richiuda in fretta» dissi deciso.

«Beh, Signore, l'unico modo è cucirla» avevo già pensato a questa soluzione, fui costretto ad accettare.

«E sia, ma facciamo in fretta» volevo finirla il prima possibile. Dopo un po' d'esitazione lo vidi incamminarsi verso la porta e uscire mentre Charles camminava avanti e indietro affianco al letto.

«Fermati, mi stai mettendo ansia» sbottai alla quinta volta che percorreva gli stessi tre metri. Lui si voltò fulmineo verso di me con gli occhi sgranati.

«Voi siete impazzito, Signore. Anche con la ferita cucita non siete in grado di muovervi, non potreste fare movimenti bruschi e nemmeno andare a cavallo! Come sperate di spogliarvi in fretta e indossare altrettanto velocemente la divisa inglese?» Roteai gli occhi, esasperato. Connor taceva ancora.

«Prendi fiato, Charles, non stai parlando con un inesperto. Ho passato di peggio» tipo scampare un'impiccagione.

«Qui non si tratta di esperienza, Mastro Kenway, ma di impossibilità fisica. Come farete a muovervi?» Sbuffai per l'ennesima volta, nemmeno mia madre si sarebbe comportata così.

«Starò a riposo fino all'arrivo delle truppe»

«È domani» precisò.

«Basterà per farmi riprendere» un colpo sordo alla porta interruppe Charles che stava per ribattere e con due falcate andò ad aprire al Dottor Flatch, munito di ago e filo. Deglutii quando lo vidi arroventare l'ago sulla fiammella della candela che avevo sulla scrivania; diciamo che farmi ricucire da sveglio non era una delle mie priorità, ecco.

Con una mano scostai le coperte, vedendo poi la fasciatura sporca di sangue che avevo sulla ferita. Il medico me la tolse con attenzione e delicatezza, scoprendo il buco che avevo sul fianco. Versò un liquido su una pezza e me l'adagiò piano sulla ferita, disinfettandola. Mi alleviò il bruciore, lasciandomi una piacevole sensazione di fresco per pochi secondi. Poi prese l'ago già con il filo e lo avvicinò ad un lembo di carne.

«Siete pronto, Signor Kenway?» Annuii con decisione e serrai in una morsa il lenzuolo quando sentii chiaramente la carne bucarsi. Aspirai aria con i denti serrati, quella tortura atroce durò circa mezz'ora e in quell'arco di tempo non fiatai. Mi limitavo a stritolare il lenzuolo e a contrarre la mascella. Quando mi resi conto che il Dottor Flatch aveva tagliato il filo espirai tutta l'aria che avevo nei polmoni, sollevato oltre ogni dire.

«Ora è fondamentale che riposiate, Signor Kenway» disse posando le garze e il resto. Mi sdraiai stando attento a non fare movimenti bruschi, dopodiché mi coprii fino al petto mentre il medico usciva. Charles mi fissava preoccupato.

«Come vi sentite, Signore?» Roteai gli occhi.

«Bene, direi. Ho solo un buco nel fianco, poteva andarmi peggio» aspettai qualche secondo, poi sbottai «come pensi che stia?!»

«... Scusate, Signore, avete ragione» stettero con me per poco, poi Charles andò a sbrigare altre faccende e Connor a combinare qualche casino in città, supposi.

Lui e le sue stupide rivolte, non avrebbe concluso nulla continuando così, ma era troppo sciocco e infantile per capirlo. Troppo ottuso per darmi ascolto.

Per tutto il giorno me ne stetti a letto, sonnecchiavo di tanto in tanto e il buon vecchio Charles mi portò pranzo e cena, restando con me per assicurarsi che mangiassi tutto. Che mammina premurosa, vero?

Quella sera, dopo avermi dato una scodella con dentro una specie di zuppa, prese la sedia alla scrivania e la portò vicino al letto.

«Siete proprio sicuro di voler venire, Signore?» Ingoiai il boccone ed alzai lo sguardo su di lui, puntando gli occhi nei suoi, preoccupati forse -anzi, sicuramente- più di quelli di Connor.

«Ho la faccia di uno che parla a vanvera? Verrò, Charles. Non sarà una ferita a mandare a monte il nostro piano. Dobbiamo uccidere Washington, se resti solo con lui rischiamo di fallire, senza contare che tenterebbe di farti fuori» presi un altro boccone.

«Credete che non sappia difendermi da un selvaggio?! Combatte con frecce e accetta quando potrebbe munirsi di pistola, è un inetto!»

«Charles» lo richiamai «forse hai ragione, ma l'ho visto combattere. Non ha uno stile impeccabile, lo ammetto, è piuttosto violento, si vede che non ha seguito delle lezioni. Ha solo affinato le mosse che gli detta l'istinto»

«Un animale, ecco cos'è» sibilò a denti stretti.

«Ti assicuro che potrebbe metterti in difficoltà. Avete due stili avulsi, Charles, a mani nude ti romperebbe le ossa» ingoiai l'ennesima cucchiaiata.

«Volete scherzare?»

«Affatto. Ti ripeto che punta sulla forza fisica e non sulla tecnica, oserei definirlo brutale»

«Come volete. Spero solo non succeda nulla»

Dopo aver finito la cena Charles portò via la scodella, lasciandomi solo. Mi tastai piano il fianco destro per vedere se sentissi dolore: per fortuna era sopportabile. Percepii giusto la pelle tirare a causa dei punti, ma grazie alle cure del Dottor Flatch e alle pezze intrise di non so cosa che avevo tenuto tutto il giorno sulla ferita, le fitte erano cessate. Dovevo solo stare attento a non fare movimenti bruschi ed evitare di essere colpito in quel punto. Sospirai e mi girai sul fianco sinistro, addormentandomi quasi subito.

La mattina dopo mi svegliai di buon'ora, mi passai una mano sul viso per destarmi completamente e guardai verso la finestra alla mia destra. Nuvoloso.  Sbuffai scostando le coperte e con un movimento fluido e lento mi alzai, andando poi a darmi una lavata nello stanzino affianco, separato dal resto della camera da una tenda –che non accostai-. Ero solamente in mutande quando la porta si aprì, regalando a Charles la visione della mia figura seduta su uno sgabello intenta a lavarsi con una spugna.

«Buon Dio, Charles!» Sbottai fissandolo. Lo vidi deglutire imbarazzato.

«Io... Scusate, Signore, volevo assicurarmi che foste sveglio» richiuse la porta, restando fermo sulla soglia del bagno che faceva angolo con quella d'ingresso.

«Le buone maniere, Lee, potevi bussare! Ringrazia che non mi sarei vergognato nemmeno se fossi stato nudo» sospirai strizzando la spugna «Non come Connor, scommetto che il suo livello di pudore non sia neanche la metà di quello delle nobildonne londinesi» borbottai afferrando un panno pulito per asciugarmi. E in quel momento mi bloccai. L'avevo chiamato per nome, mostrando una certa confidenza col ragazzo agli occhi di Charles.

«Avete detto Connor? Non mi sembra un nome indiano» sottolineò prontamente. Cazzo, quel maledetto guastafeste era capace di mettermi nella merda anche quando non c'era. Diedi le spalle al mio socio con la scusa di sistemare il panno e la spugna, approfittandone quindi per deglutire e riprendere lucidità.

«No, infatti. Se non ricordo male è stato il suo Mentore a ribattezzarlo così, sai, i nomi Mohawk non sono esattamente semplici da pronunciare» sventolai una mano con noncuranza. Come si chiamava in realtà, mio figlio? Radona-qualcosa, bah.

«Vedo che avete fiducia in quel ragazzo, è strano però che abbiate accettato di unirvi al nemico»

«Il nemico ora è la corona, Charles» risposi fulmineo, quasi senza attendere che finisse la frase. Presi la camicia e la indossai, sempre dandogli le spalle. 

«Mastro Kenway, l'indiano è un Assassino» Non sapeva. Non sapeva nessuno perché mi fossi avvicinato a lui. Quando lo trovai per puro caso nel deposito svaligiato da Church avevo davanti un bivio: restare lì, nascosto sulla trave, nella penombra e in silenzio, lasciarlo uscire e allontanare per poi riprendere le ricerche di Benjamin da solo o avvicinarmi a lui, cercare un contatto, uno qualsiasi. Ero sicuro che, una volta sentite le mie ragioni, sarebbe stato dalla mia parte, speravo di recuperare ciò che restava della mia vecchia vita. Potevo dirglielo? Potevo fidarmi di quello che consideravo quasi mio figlio? 

«Charles..» mi voltai verso di lui con ancora la camicia sbottonata. Avevo deciso «quel ragazzo è mio figlio» trattenne il respiro, me ne accorsi poiché notai il suo petto arrestarsi di colpo.

«...... Ne siete certo, Signore?» Lo sussurrò appena ed io annuii «È il figlio della vostra amica Mohawk? Come fate ad esserne sicuro?» Era alquanto scioccato, nemmeno gli avessi detto che era figlio suo.

«Ha i suoi occhi» dissi continuando a fissarlo «e il mio naso. Il naso dei Kenway, nessun nativo potrebbe averne uno simile» mi abbottonai la camicia mentre Charles deglutiva rumorosamente, passandosi poi una mano tra i capelli ispidi che gli ricadevano sulla fronte. Avanzai fino ad essere ad un passo da lui, poi presi fiato prima che potesse dire qualcosa.

«Non so come finirà tra noi, forse lo ucciderò, forse lui ucciderà me, non ne ho idea. Adesso collaborerò con lui, ammetto che Achille, il suo Mentore, l'abbia addestrato abbastanza bene, ma mi serve il tuo aiuto, Charles. Ho bisogno di qualcuno che pensi e si muova come me. Io e Connor agiamo in maniera totalmente diversa e non ascolta ciò che dico» mi fissava in silenzio, immobile «Sei l'unico di cui io mi fidi veramente» conclusi.

Gli occhi erano piantati nei miei, poi abbassò lo sguardo, espirando aria dal naso.

«Ma certo, Signore» mi lasciai scappare un sorriso tirato, sapevo -e speravo!- avrebbe capito. Annuii sollevato e gli diedi una pacca sul braccio, poi lo superai tornando in stanza. Finii di abbottonarmi la camicia e indossai i calzoni, infilai la redingote, presi il diario e lo misi nella solita tasca interna, poi indossai il tricorno. Solo alla fine presi le polsiere delle lame celate e le serrai sugli avambracci. Fui pronto in pochi minuti, quindi uscimmo dalla mia stanza, attraversammo il piazzale per poi raggiungere l'ingresso del forte. Il ragazzo era già lì, immobile, con le braccia strette al petto e il cappuccio tirato giù, come un bravo bambino, davanti alle guardie.

«Giorno, Connor» esclamai con finta allegria, lui accennò un saluto col capo, Charles lo ignorò totalmente.

«Signor Kenway, i vostri cavalli» una voce alle mie spalle mi fece voltare. Altre due guardie tenevano per le briglie i nostri tre destrieri.

«Molto bene, possiamo andare» montammo in sella e attraversammo New York fino a raggiungere la periferia. Nessuno di noi fiatava, e la cosa mi rallegrò non poco. Sinceramente non avevo voglia di sentirli battibeccare per tutto il tempo, già da infante non tolleravo le frecciatine della mia sorellastra Jenny –che per qualsiasi cosa mi riteneva troppo basso per capire-, figuriamoci ora, a cinquant'anni suonati e per di più tra mio figlio biologico e adottivo.

«Come entreremo in azione, Mastro Kenway?» Guardai Charles con la coda dell'occhio.

«Attendiamo la legione, lasciamo che passi e uccidiamo gli ultimi tre della fila. Poi prendiamo i loro vestiti, il resto lo sapete» Sentivo gli occhi di Connor, indietro di qualche passo, puntati sulla schiena.

Nessuno disse altro, quindi lasciai che il trotto mi cullasse. Avanzammo nella foresta inoltrata fino a tardo pomeriggio, poi abbandonai il sentiero, dirigendo il cavallo su per una piccola collina. Mi seguirono senza proferir parola e ne fui sorpreso, quindi smontai da cavallo, legando le briglie ad un albero.

«Che si fa ora?» Chiese Connor imitandomi. Inspirai a pieni polmoni e mi sedetti a terra appoggiando la schiena ad un masso. 

«Aspettiamo» chiusi gli occhi e mi rilassai. Connor mi si sedette di fronte a gambe incrociate, Charles mi affiancò, poggiandosi anche lui al masso. Io e lui davamo le spalle al sentiero principale, solo mio figlio aveva una visuale -seppur parziale- della carreggiata. Passarono un paio d’ore, non di più, e sentii Charles sbuffare sonoramente.

«Ma quanto ci mettono queste cazzo di giubbe rosse?» Il suo tono era stizzito e irritato, non riuscii a trattenere un sorriso nel constatare la mia fin troppo evidente parte da Assassino.

«Pazienza, Charles, ci vuole pazienza» Connor, infatti, era rimasto in silenzio.

«A forza di pazientare finirò per appisolarmi e, quando finalmente saranno qui, sarò troppo fiacco per ucciderne uno» sbiascicò chiudendo gli occhi e appoggiando la testa alla roccia.

 

 

Buonsalve, gentaglia. Chiedo perdono per aver saltato lunedì scorso, ma ho avuto problemi di connessione, nel senso che sono stata letteralmente isolata per la bellezza di cinque giorni, urrà! Ma nonostante abbia risolto, il buon vecchio metodo wifi clandestino ha il suo perché, quindi approfittiamone, no? lol

Su, dopo avervi annoiati a morte con le mie disgrazie, ringrazio come sempre di cuore chi legge, recensisce e segue la fanfiction.

A presto!

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Capitolo 6
*** Sulle tracce del nemico. ***


Capitolo 6

 

Attendemmo in silenzio, poi il mio infallibile udito –aiutato dal mio sesto senso- mi fece spalancare gli occhi e trattenere il respiro. Vedendomi muovere di scatto, Connor mi fissò e Charles si guardò intorno.

«Sono qui?» Sussurrò il mio socio.

«Sshh. Ho sentito un rumore di ruote e zoccoli, devono essere loro» mi alzai restando acquattato dietro la roccia e i cespugli, attendendo che le giubbe rosse entrassero nel mio campo visivo. Ed eccole, infatti, avanzare marciando lungo il sentiero principale. A capo c’era la cavalleria –saranno stati una trentina di soldati- di cui i primi tre erano sicuramente i comandanti date le medaglie che addobbavano le loro divise, seguiti a ruota da una decina di carri e dietro ancora la fanteria; a occhio e croce quelli a piedi saranno stati un centinaio o due.

Aspettai che passassero tutti, persino che l’ultimo superasse il masso dietro il quale eravamo nascosti di una decina di metri, poi scivolai nei cespugli, seguendoli.

«Andate prima voi, Signore?» Sussurrò Charles allungando il collo nella mia direzione. Mi voltai verso di lui e annuii, poi accelerai il passo fino ad essere ad un paio di metri dalla mia vittima.

Fischiai piano, giusto quel che bastava per essere udito dalla mia preda che, come previsto, si fermò per guardarsi indietro. Non mi notò, ero mimetizzato nei cespugli e l’erba alta, quindi fischiai di nuovo e, stavolta, la giubba rossa avanzò verso di me –inconsapevolmente- di qualche passo. Aspettai qualche secondo, poi scattai in piedi e l’afferrai con forza, premendogli una mano sulla bocca per poi tirarlo giù nel cespuglio. Si dimenava come un forsennato, per Dio.

Misi l’altro braccio intorno al suo collo e lo obbligai a sdraiarsi a terra. Lo bloccai mettendomi sopra di lui, poi presi un sasso e glielo ficcai in bocca di prepotenza, usando due dita per spingerglielo in gola. Boccheggiava e tentava di liberarsi graffiandomi il volto, ma io continuavo a tenergli chiuse le labbra con entrambe le mani, mentre lo sventurato sotto di me serrava gli occhi e li riapriva, piangendo. Dopo poco le mani ricaddero lungo i fianchi, così gli tolsi la giacca, la camicia e i calzoni.

Feci cenno a Charles di entrare in azione, lui e Connor partirono: uno correndo a terra, mio figlio saltando di ramo in ramo, come sua madre. Ne approfittai per prendere gli abiti del soldato senza però perdere d’occhio quei due. Charles si nascose dietro un cespuglio, mio figlio era acquattato sul ramo esattamente sopra gli ultimi due soldati. Li vidi mentre si guardavano come per attaccare insieme, infatti al cenno d’intesa di Connor, Lee sbucò dal cespuglio e il ragazzo si lasciò cadere dal ramo, conficcando la lama celata nel collo della giubba rossa. Charles, invece, prese da dietro l’Inglese premendogli una mano sulla bocca, per poi trascinarlo nell’erba alta. Dopo qualche secondo sentii un crack inconfondibile, segno che il collo della giubba rossa si era rotto sotto le mani del mio compare.

Sollevato dal fatto che fosse andato tutto liscio, mi alzai sollevando la divisa del soldato, la piegai e la misi in un borsone assicurato alla sella del mio cavallo, poi montai e li raggiunsi tenendo gli altri due purosangue per le briglie.

Aspettai che Charles e Connor spogliassero i cadaveri e posassero i loro vestiti nelle borse, poi montarono e iniziammo a muoverci, seguendo a debita distanza le giubbe rosse che ormai si erano allontanate. Non avevo fretta, li avremmo raggiunti all'accampamento e da quel momento sarebbe iniziato il piano.

«Come va la ferita, Signore?» Domandò Charles trottando alla mia destra.

«Per ora bene» feci una piccola pausa lanciando a mio figlio -alla mia sinistra- un'occhiata «Anche se avrei preferito non averla» Connor non disse nulla, ricambiando però il mio sguardo.

«È stato un incidente» si giustificò tornando a guardare la strada.

«Un po' come la tua nascita» Charles non perse occasione, sbuffai.

Connor si voltò fulmineo verso Lee, incenerendolo con lo sguardo.

«L'avreste evitata facilmente se non aveste avuto a che fare con la mia gente» rispose acido, proprio come una vecchia zitella. Stavolta non mi trattenni.

«Se non fossimo intervenuti sareste tutti morti, e tu non saresti nato per il semplice fatto che vi avrebbero sterminati prima ancora di dire A»

«Cosa che stanno ancora cercando di fare» e mai smetteranno, mio caro ragazzo.

«Ma che noi abbiamo impedito» lo sentii schioccare la lingua, contrariato.

«Non sei mai piaciuto a quelli del mio villaggio» certo, tranne a tua madre.

«E indovina la cosa quanto mi turba? Dovreste come minimo esserci riconoscenti» strinsi le redini tra le mani per trattenermi dal dargli una sberla.

«Questo mai; persino mia madre ha tagliato con te quando ha capito chi eri» sorrisi divertito e allargai le braccia, tenendo le briglie del cavallo con la mano destra.

«L'ha mai chiesto, forse? Mai sostenuto di essere un Assassino. Non ho mai nascosto la mia identità, si è lasciata confondere da una stupida arma» mi pentii in quel preciso istante di non aver parlato quel famoso giorno, quando venni cacciato da Tiio. Avrei potuto giustificarmi, inventarmi qualcosa, ma sapevo non sarebbe servito. Quella donna non era una stupida, non avrebbe comunque ascoltato quello che avrei detto a mia discolpa. Era vero? Oppure stavo cercando l’ennesima giustificazione per il poco coraggio che avevo avuto? Avevo solo rubato un’arma e nemmeno intenzionalmente, me l’ero ritrovata in mano per scampare alla morte per l’ennesima volta. Curioso, vero? Alla fine i legami con gli Assassini non riuscivo ad evitarli.

«Arma che non ti appartiene. A chi l'hai rubata?»

«Ad un illuso che sperava di uccidermi» e che mi fece perdere la mia spada corta, l’unico ricordo che avessi di mio padre. Vecchio bastardo «Dev'essere una caratteristica comune agli Assassini, l'idiozia» sentii Charles sghignazzare sottovoce «Ma questo è un altro discorso» continuai «Le nostre azioni vengono interpretate diversamente in base alla nostra ideologia? Buono a sapersi» era questo che non tolleravo e che mai avrei perdonato a Tiio.

Ero stato un po’ opportunista con lei, lo ammetto. Ero stato un uomo dal doppio volto e l’avevo usata per raggiungere i miei scopi, ma non l’aveva fatto anche lei? Non mi aveva ricattato e sfruttato per liberarsi di Braddock? L’aveva fatto eccome e me ne resi conto subito, ma nonostante ciò sentivo che supportarla era la cosa giusta e mi sentii meno bastardo autoconvincendomi che, in fondo, la stavo aiutando perché volevo.

«L'ideologia non c'entra, ti stai nascondendo dietro a delle belle parole. Avevate altri piani, a te interessava il medaglione» restai in silenzio. Come faceva a conoscere il medaglione Mohawk? Che gliene avesse parlato Tiio? Ma a che proposito? Ad un moccioso di dieci anni non sarebbe importato. O forse... Achille.

«Non parlare di cose che non conosci, ragazzo» mi limitai a dire.

«Ne so abbastanza da poter affrontare il discorso» fece accelerare di poco il cavallo, affiancando il mio.

«Oh, no, non credo» lo guardai severo. Quel marmocchio aveva appena iniziato a vivere e già aveva la presunzione di mettersi al mio livello? Oh, no, non l’avrebbe avuta vinta con me. Spronai il cavallo per il nervoso e troncai lì il discorso, non avevo né tempo né voglia di parlare a vuoto con Connor, tanto non avrebbe capito. Era troppo stupido e ottuso.

 

Proseguimmo ancora per un paio di chilometri, le giubbe rosse erano ormai fuori dal nostro campo visivo, ma le tracce delle ruote dei carri e le impronte degli zoccoli mi confermarono di aver imboccato le strade giuste ai pochi bivi che avevamo incontrato. Provai pena più che per i cavalli che per Connor –che dalla sua espressione pareva stremato-, quindi decisi di fermarmi; uscii nuovamente dal sentiero e mi addentrai tra gli alberi quel tanto che bastava per non essere visti a primo impatto. Smontai da cavallo e legai le briglie al primo albero vicino, lo stesso fecero Charles e Connor.

Mi guardai intorno, il sole stava tramontando e, a breve, il buio del bosco ci avrebbe impedito ogni movimento.

«Meglio muoverci a montare la tenda se vogliamo un riparo entro la notte» dissi prendendo la pelle arrotolata e legata dietro la sella del mio cavallo. Charles non se lo fece ripetere due volte, accorse subito aiutandomi a distendere la pelle per terra. Guardai Connor.

«Mentre noi la montiamo, tu pensa a saldarla al terreno, ok?» Indicai degli spuntoni di legno legati a delle corde che, a loro volta, erano assicurate agli angoli della tenda. Lui annuì, iniziando a piantare nella terra fredda e umida il primo pezzo di legno appuntito per poi legargli attorno la corda.

Io, intanto, presi un lembo della pelle e lo legai ad un piccolo ramo basso sporgente, Charles fece la stessa cosa dall’altro lato.

«Ben fatto, Signore.» sorrise soddisfatto del nostro lavoro. Mi limitai ad annuire, dargli una pacca sul braccio ed uscire dalla tenda, constatando con immenso piacere che Connor aveva appena finito di piantare l’ultimo spuntone.

«Ottimo. Sarà meglio che voi due andiate a cercare un po’ di legna» dissi avvicinandomi ai cavalli.

«Perché dovremmo andare noi? Non potete andare tu e l’altro?» Mi voltai giusto in tempo per vedere l’espressione di Charles, che interpretai come un misto di odio, ribrezzo e solo Dio sa cos’altro.

«Gradirei che mi chiamassi con il mio nome, indiano» oh no, non di nuovo. Vi prego.

«Perdona la mia mancanza, ma di solito non mi appunto i nomi di chi devo uccidere» roteai gli occhi, esasperato.

«Non saresti in grado di accoppare una lepre» mi morsi l’interno delle guance per non scoppiare a ridere, poi mi voltai e presi dal purosangue di Charles le pelli e le coperte che avremmo usato di notte.

«State diventando noiosi, voi due» borbottai tornando vicino alla tenda «ora andate, tra non molto sarà buio» sentii sbuffare e non ebbi dubbi su chi fosse: mio figlio.

«Smettila di dare ordini, non siamo i tuoi schiavi. Perché non vai tu a cercare la legna, eh?» Dio santissimo, legatemi o lo uccido, pensai.

«Mastro Kenway è ferito, razza di idiota» intervenne Charles. Ah, vecchio mio, se ti avessi lasciato solo con quel ragazzino non avreste fatto molta strada. No, avreste perso tempo a litigare come marmocchietti.

«Esattamente, e visto che è solo colpa tua, mi sembra il minimo che tu possa fare per rimediare» lanciai le coperte dentro la tenda con indifferenza, quando mi sentii afferrare il braccio dalla mano possente del ragazzo.

«Non usarla come scusa» parlava della feria? Oh, cielo, pensava che fossi caduto tanto in basso?

«Non l’ho mai fatto. Allora obbedisci perché te lo sto ordinando io. Che ti piaccia o no, figliolo, farai ciò che ho detto» strattonai il braccio ed entrai nella tenda ignorando le frecciatine che continuavano a lanciarsi Charles e Connor, poi fortunatamente si allontanarono.

 

***

 

Charles mi afferrò un braccio e mi tirò lontano dalla tenda. Io mi strattonai subito, farmi toccare da quel tizio era l'ultima cosa che desideravo.

«So camminare da solo, grazie!» Sbottai irritato.

«E allora fallo, ragazzino» si abbassò a raccogliere un ramo secco, poi si guardò intorno per cercarne altri. Lo imitai, raccogliendo ogni pezzo di legno che potesse essere utile.

Di tanto in tanto lo guardavo con la coda dell'occhio, stando sempre attento a non farmi notare. Anche lui, come mio padre, sembrava tenersi in forma nonostante l'età. Cercai di immaginarmelo a scalare palazzi e saltare da un tetto all'altro, ma non mi sembrava il tipo.

Cosa aveva visto mio padre in Charles? Perché lui e non Thomas? O Johnson? Era davvero così abile? O era il suo prediletto semplicemente perché strisciava ai suoi piedi? Tutta questa adulazione nei confronti di mio padre non la capivo; era il suo Maestro, sì, quindi avrei dovuto fare lo stesso con Achille?

Un improvviso fruscio mi destò dai miei pensieri, ma notai subito un coniglio scappare impaurito, quindi non mi preoccupai.

Charles scattò in piedi, portando la mano alla pistola alla cintola.

«Calma, era solo un coniglio» tentai di rassicurarlo.

«E perché non l'hai preso? Sarebbe stato la nostra cena»

«Speravo in una preda migliore» lui roteò gli occhi, poi mi si avvicinò.

«Abbiamo raccolto legna a sufficienza, vado a portarla dalla tenda. Tu pensa al cibo» senza dire nulla gli posai la legna sul mucchietto di rami che aveva in braccio, poi tornò indietro. Io, invece, mi arrampicai su un albero per scrutare la zona.

 

***

 

Dopo aver sistemato i giacigli per la notte, ero riuscito a trasportare due tronchi di medie dimensioni vicino alla tenda, davanti alla quale avremmo acceso il fuoco. Quando arrivò Charles mi ero seduto da poco -per riflettere- e notai subito la mancanza di Connor.

«Ecco la legna, Signore» la lasciò cadere a terra sbuffando «l'indiano sta cacciando» aggiunse poi.

Mi avvicinai ai rami e ne presi uno piccolo, impilai un paio di foglie secche ed iniziai a sfregare un'estremità del legnetto su di esse.

«Non sapevo sapeste accendere un fuoco, Signore» commentò Lee osservandomi. Continuai a ruotare il rametto tra i palmi delle mani e, finalmente, una fiammella iniziò a divorare le foglie.

«Ci sono molte cose che non sai, Charles» avvicinai il focherello al resto della legna, attendendo che anche gli altri rami prendesse fuoco.

«Siete un uomo pieno di risorse, Mastro Kenway» sorrise. Si era forse dimenticato della mia avventura nel bosco con Tiio? Non vi badai molto e afferrai un paio di rami dal falò non ancora completamente acceso.

Charles mi si sedette accanto, prendendo posto alla mia sinistra; notai che stava fissando l'anello, lo stesso che tolsi ad Edward Braddock dopo averlo ucciso. Se lo rigirò all'anulare destro tenendolo con il pollice e l'indice ed io non dissi nulla, limitandomi a smuovere la legna per alimentare il fuoco.

«Sono contento di aiutarvi in questa causa, Mastro Kenway. In questi anni ho capito molte cose» mi voltai verso di lui abbozzando un sorriso, poi tornai a guardare per terra.

«Lo so, Charles. Lo so. È per questo motivo che ho scelto te come prossimo Gran Maestro»

«La vostra decisione mi riempie d'orgoglio, non sapete quanto» fece una piccola pausa «mi sembra solo ieri il vostro arrivo a Boston, non sapevo chi o cosa aspettarmi»

«Eri un ragazzo sveglio, lo capii subito. Avevi voglia di fare, di agire, ho apprezzato molto i tuoi sforzi per entrare nell'Ordine» presi fiato e alzai lo sguardo, fissando l’albero di fronte a me «mi sono solo limitato ad insegnarti ciò che sapevo»

«Siete un ottimo Maestro, Signore. Dico davvero» non risposi, non sapevo che dire, in realtà.

L'avevo visto crescere, quel ragazzo. Lo incontrai quando era ancora un ventiduenne inesperto e ingenuo, l'avevo visto comprendere, impegnarsi, migliorare. Semplicemente ero fiero di lui.

«Signore» girai lo sguardo nella sua direzione per farlo continuare «prima, quando ero a raccogliere la legna, ho riflettuto molto...» si guardò ancora l'anello.

«Riguardo cosa?»

«Questa situazione, il ragazzo, voi. Comprendo bene che sia vostro figlio, ma rischia di mandare in fumo i nostri sforzi. È pur sempre un nemico»

Deglutii a fatica, come se in gola avessi un sasso grande abbastanza da soffocarmi. Mi sentii stupido ancora una volta: Charles mi aveva dato l'ennesima dimostrazione che Templari e Assassini si sarebbero sempre combattuti. Se solo avessi osato confidargli la mia speranza di vederci uniti, probabilmente si sarebbe dimenticato di essere il mio allievo, denunciandomi come traditore dell'Ordine.

Non si sarebbero mai piaciuti, questo era chiaro.

«Non ti è mai andata a genio nemmeno Tiio, dico bene?» Sorrisi appena tendendo la mano verso il fuoco, ormai scoppiettante.

«Chi?» Domandò perplesso.

«L'indigena, Charles. La madre di Connor»

Ci furono attimi di silenzio, forse cercava le parole adatte.

«In tutta onestà, no, Signore. Mi sono domandato spesso cosa avesse acceso il vostro interesse per quella femmina» a dire il vero non lo sapevo nemmeno io. Non c’era una cosa in particolare, a dirla tutta, mi aveva colpito il coraggio, la freddezza e la calma che la caratterizzavano. Raramente mi trovavo a mio agio con le persone, forse solo con Holden e Charles. Senza il forse. Capii subito di avere molto in comune con quella donna indiana e collaborare con lei fu, forse, la cosa più strana ma sensata della mia vita.

«Non saprei risponderti. È successo e basta, ma è acqua passata» smossi ancora la legna, lo vidi annuire senza esserne però molto convinto.

«Siete arrivato addirittura ad uccidere Edward Braddock. Dovevate tenerci molto»

«Quell’idiota non mi è mai piaciuto. Era un barbaro, un uomo senza scrupoli e senza cervello. L’avrei fatto comunque, prima o poi» annuì ancora.

In quel momento sentii un fruscio provenire da dietro la tenda, alzai lo sguardo e vidi Connor con un’espressione soddisfatta in volto e, in mano, teneva per le zampe un paio di lepri. Morte, ovviamente.

 

 

Hola! Siate sinceri, non è tenerello Charles? Dovete dire di sì, fatemi contenta. E poi non fa altro che zittire e ridicolizzare Connor, insomma, solo per questo “mille punti a Charles Lee!”. Vi stupirà quest’uomo, garantito.

Grazie se siete arrivati a leggere fin qui, ci si vede lunedì prossimo, adios!

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Capitolo 7
*** Inglesi vs Kenway. ***


Capitolo 7

 

«Finalmente, figliolo. Temevamo ti fossi perso» lui non rispose, si limitò a sedersi sul tronco di fronte al nostro per preparare la cena.

Sbuffai ed afferrai uno dei rami che avevo tolto dal falò e guardai Charles.

«Ti va una sfida?» Sogghignai, guadagnandomi uno sguardo incuriosito del mio compare e uno poco interessato di mio figlio.

«Che sfida, Signore?» Impugnai meglio il pezzo di legno e tracciai un quadrato sul terriccio umido.

«Nulla di pericoloso, Charles» feci altre linee all’interno della figura «una partita a dama» sollevò un sopracciglio.

«Ma non abbiamo le pedine. E poi perché dovremmo giocare a dama in mezzo alla foresta?» Cielo, quante domande! Connor ci fissava di tanto in tanto, mentre spellava le lepri con scarso impegno.

«Per passare il tempo, no?» Presi dalla cintura un sacchettino con dentro delle monete e lo svuotai sul palmo della mano destra. Diedi a Charles i centesimi di rame, io presi le altre di color argento «Ecco le nostre pedine» scavai con l’indice nel terreno per differenziare i quadrati su cui posizionare le monete.

Charles si alzò, prendendo posto al fianco di Connor, sedendosi quindi di fronte a me.

«A te la prima mossa» lo osservai mentre spostava la prima pedina. Feci la stessa cosa, speculare; andammo avanti così per un po’. Era curioso e divertente vederci, entrambi volevamo avanzare ma, al contempo, difendere la prima linea; stessa tattica. Solo dopo aver spostato la sesta moneta gli mangiai una pedina, che fece la stessa fine in breve tempo.

«Scommettiamo qualcosa, Mastro Kenway» distolsi un attimo lo sguardo dal gioco e lo fissai.

«Proponi, ti ascolto» spostai una moneta. Lui osservò la mia mossa passandosi una mano sui baffi, pensieroso. Poi accennò un sorriso divertito, facendo avanzare una pedina delle retrovie.

«Chi perde dormirà vicino al ragazzo» lo indicò con un cenno del capo. Figlio o no, non riuscii a trattenere una risata.

Connor non volle dargli soddisfazione e soffocò un ringhio in direzione del mio socio, poi continuò a spellare il cadavere della lepre.

«Suvvia, figliolo. Non prendertela, stasera dormirai accanto a Charles» un po’ per uno, che diamine, io avevo già dato. Mossi un’altra pedina e Lee schioccò la lingua contro il palato.

«È da vedere» ridacchiando fece avanzare una moneta.

 

«Merda!» Non riuscii a trattenermi quando Charles mangiò la mia ultima pedina. Lui rise.

«Vi tocca il posto centrale, Mastro Kenway» mugugnai nella sua direzione con sdegno, quindi mi alzai dopo aver gettato nel fuoco ciò restava della carne che avevo mangiato.

«Questa la paghi, Lee» una volta entrato mi tolsi il tricorno e lo lanciai con stizza sul giaciglio in mezzo agli altri due. La felicità: dormire schiacciato tra Charles e Connor, wow!

«Suvvia, non prendetevela, Signore. Si tratta solo di una notte» lo fulminai.

«Fa’ silenzio, Charles. Te lo consiglio vivamente»

 

Non sapevo che ore fossero e non avevo voglia di alzarmi per prendere l’orologio dalla tasca della redingote. Era notte fonda, qualcosa come le due o le tre e sì, non avevo ancora chiuso occhio. Charles russava bellamente alla mia destra, inconsapevole di essere parzialmente colpevole della mia insonnia, Connor, stranamente, se ne era stato girato di spalle per tutto il tempo, dormendo silenziosamente e senza invadere il mio spazio.

Chiusi gli occhi per un ultimo tentativo di assopirmi e, come a farlo di proposito, Charles si girò supino, russando più forte. Non riuscii a trattenermi e gli rifilai una gomitata nel costato. Mugugnò qualcosa, ma ottenni silenzio per una decina di minuti.

Mi girai sul fianco sinistro –anche perché quello destro era ferito-, sperando che dare le spalle al mio socio avrebbe allontanato i rumori molesti che emetteva. Ovviamente non servì, dato che mi sembrava di condividere il giaciglio –Dio, suona maledettamente male- con un rinoceronte. Contai fino a tre, poi gli mollai un calcio degno di uno stallone imbizzarrito.

«Ahi..» mugugnò nel dormiveglia. Serrai i denti: osava anche lamentarsi?

Chiusi gli occhi pregando di addormentarmi in fretta.

 

La mattina successiva uscii dalla tenda che era a malapena l’alba. Non avevo chiuso occhio, se non qualche ora di sonno leggero e decisamente poco rigenerante. Mi stiracchiai inspirando a pieni polmoni, poi mi avviai verso l’interno del bosco per perder tempo. Tirai fuori l’orologio dalla tasca dei calzoni: le cinque e mezza. Quei due non sarebbero usciti dal coma prima di un paio d’ore, quindi non mi feci problemi e mi allontanai.

Non molto lontano da dov’ero trovai un corso d’acqua, mi sbottonai la camicia stando attento a non scucire i punti della ferita e appesi l’indumento ad un ramo secco, poi mi abbassai, immergendo una mano nel fiumiciattolo. Rabbrividii, era congelata, strinsi i denti e mi sciacquai alla bell’e meglio, passando la mano con cautela lungo la cicatrice che già iniziava a formarsi. Sfiorai il filo nero, e di conseguenza la ferita regalatami da Lucio, con l’indice e il mio cuore saltò un battito, rivedendo il viso di Holden. Non avrei mai superato la sua morte, di questo ne ero sicuro. Era colpa mia, dopotutto.

 

Tornai alla tenda poco dopo, confermando ciò che pensai quando mi ero allontanato: ronfavano ancora.

«Sveglia» brontolai entrando. Presi la redingote e la infilai osservandoli «sto parlando con voi, non abbiamo tempo da perdere» continuai.

Silenzio. L’unica cosa che udii fu il leggero russare di Charles, comodamente sdraiato sul fianco sinistro. Mi avvicinai stizzito e gli poggiai un piede sul bacino, scuotendolo malamente.

«Charles Lee!» Urlai. Scattò seduto in un secondo, gli occhi semichiusi e il fiato corto.

«Mastro Kenway…» gli tolsi il piede di dosso e andai verso Connor, ignorando l’espressione stralunata del mio socio.

«In piedi, forza» scrollai anche lui, che mugugnò qualcosa, girandosi supino.

«È già ora?» Ecco il buongiorno di mio figlio. Non risposi nemmeno ed uscii dalla tenda. Raggiunsi il mio cavallo e presi da una delle borse appese alla sella una zolletta di zucchero. Gliela lasciai annusare e poi mangiare, dandogli una carezza sul muso.

«Come va la ferita, Mastro Kenway? Avete dormito bene?» Mi voltai verso Lee con gli occhi ridotte a due fessure. Gli avrei dato un pugno con estremo piacere, ma mi trattenni.

«Non esattamente, Charles. Di’ un po’, hai mai avuto compagnia di notte?» Lo vidi avvampare. Si aggiustò il cappotto e raggiunse il suo cavallo, il quale era accanto al mio.

«Come mai me lo domandate? Insomma, non credevo vi interessas

«Non mi interessa, infatti» lo bloccai «mi domandavo solamente quale donna sia riuscita a dormirti vicino. Russi»

Connor staccò la pelle dai rami e me la porse, quindi la piegai e la legai dietro la sella del mio purosangue.

«Oh. Mi dispiace, Signore. Non me l’aveva mai fatto notare nessuno» si assicurò che la sella fosse ben fissata e montò a cavallo. Lanciai un’occhiata al ragazzo, notando che stava piegando le coperte come una brava donnetta. Tornai a guardare Charles.

«Questo perché sono anni che dormi da solo» sogghignai imitando Lee, che mi fissò offeso.

«Non per mia decisione. Tra voi e Braddock ero sempre molto impegnato» tornammo sul sentiero e riprendemmo a seguire gli Inglesi «comunque anche voi, indiana a parte, non avete avuto molta compagnia»

Lo fulminai «Che ne sai, eh? Cambiamo discorso, per carità di Dio, non in presenza del ragazzo» tornai a guardare la strada «potrebbe traumatizzarsi, sai»

«Smettila» venni affiancato dal cavallo di mio figlio «non sono io il problema, non fai che ripetere questo da quando siamo partiti» lo guardai con finto dispiacere.

«Davvero ho fatto ciò? Gesù, potrai mai perdonarmi, figliolo?»

«E questo tuo umorismo non lo sopporto. So cavarmela meglio di quanto pensi, potrei dimostrartelo anche subito»

«Il punto non è questo, ragazzo, e lo sai» fu Charles a parlare «non discutiamo le tue capacità, ma il tuo modo di agire, di pensare. Tu cerchi la soluzione meno eclatante, meno gloriosa, noi quella più semplice. Ecco perché non riusciamo a lavorare insieme»

«Hai ragione» serrò la presa sulle briglie «io cerco sempre di evitare di uccidere, voi non ci pensate due volte. Quando si tratta di fare i vostri interessi non guardate in faccia nessuno» espirai dalla bocca abbassando le palpebre, esasperato.

Charles rise «Non la pensavi così quando hai cercato di farmi fuori. Sei contraddittorio, ragazzino»

«Affatto. Salvare un intero paese non è una faccenda personale, e tu minacci la pace di tutti noi»

Stavolta parlai io «Anche togliere il comando a George è nell’interesse del popolo, ci sta rovinando, cristo, e nemmeno te ne rendi conto. Tu dai ascolto solo ad Achille» alzai il tono «tutto quello che dice quel vecchio è oro colato, hai mai preso in considerazione l’ipotesi di pensare con la tua testa? Dovresti provare, sai?»

«Sembreresti quasi intelligente» si aggiunse Charles.

«Detto dal cagnolino di mio padre è assurdo, davvero»

«Fa’ silenzio, bastardo» no, non di nuovo.

«Altrimenti che fai? Chiedi ad Haytham di darmi una lezione?»

«Pensi che non sappia spaccarti il muso da solo?» sogghignò scrocchiando il collo «Per queste cose non ho bisogno di aiuto»

«Spaccone»

«Mezzosangue»

Voglio ucciderli entrambi.

«Assassino»

«Idiota»

«Piantatela!» Urlai tirando le briglie del cavallo «Siete insopportabili, scommetto che litighereste anche su chi ce l’ha più lungo» ringhiai scrollando le redini e riprendendo la marcia.

Charles ridacchiò «Non ci sarebbe motivo di discutere, sappiamo già chi ha il mozzicone nei calzoni. Vero, bastardello?» Lanciai un’occhiata a Connor, godendomi la sua espressione inebetita «E poi parliamoci chiaro, Mastro Kenway. Vostro figlio potrebbe anche avere un Signor uccello, ma non se ne farebbe nulla oltre che per pisciare»

Risi «E tu invece sì, Charles?»

«Saprei farne buon uso, potete giurarci» continuai a ridere ed annuii.

 

Un paio di ore dopo intravidi le mura di quello che ipotizzai fosse l’accampamento degli Inglesi. Era situato su una piccola collina, nascosto tra gli alberi e raggiungibile tramite un sentiero angusto.

«Si inizia» spronai il cavallo e lasciai il viottolo, passando tra i tronchi e allontanandomi dal campo visivo delle guardie.

«Qual è il piano?» Charles smontò imitato da Connor, che poi legò le redini ad un ramo basso.

«Indossate le divise» tirai fuori la mia dalla borsa appesa alla sella, mettendo dentro la redingote e la camicia. Mentre mi cambiavo lanciai un’occhiata a Connor, non sembrava a disagio nello spogliarsi davanti a noi, ma poco importava. Meglio per lui, no?

«Charles, tu ti occuperai delle guardie all’entrata» dichiarai abbottonandomi i calzoni «fingerai di aver trovato il cadavere di un tuo compagno, correrai da loro e li porterai qui dicendo di aver bisogno di aiuto. Poi ammazzali»

Annuì chiudendosi la giacca «Certo. Vado e torno»

«Non così in fretta» lo fermai «corri sul posto, su» sgranò gli occhi. Connor, che si stava infilando gli stivali da giubba rossa, alzò lo sguardo su di me, assumendo la stessa espressione da trota lessa che aveva Lee. Roteai gli occhi.

«Insomma, hai appena trovato un tuo compagno d’armi immerso in una pozza di sangue, devi pur assumere un’aria stravolta, no?» gli diedi una pacca sulla spalla «Coraggio, corri sul posto per cinque minuti, giusto quel poco per far credere loro che tu abbia corso come un disperato per avvertirli» dopo qualche secondo d’esitazione obbedì, così mi voltai verso mio figlio.

«Noi ci occuperemo del resto, tieni» gli porsi una mezza dozzina di bombe fumogene «quando l’entrata sarà sgombra entreremo con naturalezza, ci divideremo e useremo queste per stordirli e farli fuori. Credi di farcela?» mi riservò un’occhiata carica di sufficienza, come a dire “insomma, io sono colui che affianca il grande George Washington e che gli salva il culo un giorno sì e l’altro pure, dubiti delle mie capacità da marmocchietto viziato?”.

«Te lo ripeto: mi sottovaluti» nascose le bombe nelle varie tasche e lanciò uno sguardo compassionevole a Charles, che stava iniziando a sudare.

«Mi genufletto al cospetto del nostro rivoluzionario!» Alzai le mani in segno di resa «Sai? Non dimenticherò mai lo sguardo sconfortato di William nel vedere il suo tè perso in mare, sei la reincarnazione del diavolo, ragazzo mio»

«Smettila»

«Altrimenti che fai?» scosse la testa con compassione e scaricò il peso del corpo sulla gamba sinistra, ignorandomi «Mi sculacci? Per l’amor di Dio, Charles! Più alte quelle ginocchia!»

«S-sissignore!» aumentò il ritmo ed io finii di abbottonarmi la giubba. Li guardai entrambi e, nonostante non avessi mai avuto fede nelle divinità e non credessi nel destino, pregai andasse tutto liscio, almeno stavolta.

«Si entra in azione» Charles si fermò, si scrocchiò le dita e partì correndo verso l’ingresso dell’accampamento. Doveva funzionare. Doveva.

 

 

Intanto chiedo venia per aver saltato lunedì scorso, ma giuro che ogni minimo impegno che capita cade di lunedì. Cosa che è successa anche oggi, ma mi sono obbligata a postare il capitolo nuovo ewe

Ne approfitto per dirvi che non so se riuscirò ad aggiornare lunedì prossimo, qui la connessione è veramente pessima, ho poco tempo per scrivere e il pc che sto usando per aggiornare sembra che stia per esalare l’ultimo respiro. Spero di farcela.

Non mi dilungo oltre oggi. Grazie ancora a chi legge o segue e un biscotto a chi recensisce. A presto.

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Capitolo 8
*** Situazioni scomode. ***


Capitolo 8

 

«Aiuto! Per l’amor del cielo, aiutatemi!» nonostante si fosse allontanato di parecchio, la voce di Charles si udiva forte e chiara. Io e Connor gli andammo dietro restando nascosti nell’erba alta, stando attenti a non essere scoperti.

Una volta giunto davanti alle due guardie che controllavano l’entrata, Charles rallentò la corsa, fino a fermarsi e appoggiare le mani alle ginocchia per riprendere fiato.

«Che diamine, cosa fai fuori dall’accampamento? Torna dentro!» Sbraitò il più alto dei due. La barba incolta gli dava un’aria sciatta, accentuata dai primi due bottoni aperti della divisa e dalla posa poco composta con cui era appoggiato al portone di legno.

«L’hanno ucciso, ho visto chi è stato, bisogna inseguirlo»

«Chi ha ucciso chi?» Domandò l’altro, un uomo più basso e tarchiato. Lee assunse una posizione eretta e più composta, deglutendo per prendere tempo.

«Un mio compagno. L’ho trovato in un lago di sangue poco distante da qui, ho visto due Mohawk fuggire verso nord»

«Che stronzo» mormorò offeso Connor. Tornai a guardare il mio pupillo.

«Ma ho pensato fosse meglio avvertire e non agire di mia iniziativa. Scommetto che quei bastardi si sono alleati con Washington» concluse con ancora il fiato corto. Le due guardie si scambiarono una rapida occhiata, dentro fremevo, incitando quei due smidollati a seguire Charles senza fiatare e lasciarci agire indisturbati.

«Se anche le tribù danno man forte all’Esercito Continentale saremo attaccati su più fronti, che cazzo»

«Dobbiamo intervenire, uccidiamo almeno quei due prima che avvertano i loro compagni. Non dovrebbero essere lontani» il più alto imbracciò meglio il fucile, pronto a sparare a chiunque avesse la pelle leggermente più scura della sua.

«Un momento» l’altra guardia mise una mano davanti al petto del collega, poi spostò lo sguardo su Charles, scrutandolo dubbiosamente e con scarso interesse.

«Prima identificatevi» con la mano destra si tirò su i calzoni con decisamente poco stile «o siete una spia, per caso?»

Charles alzò le mani, come a tranquillizzarli «Generale Charles Lee, ho collaborato con Edward Braddock. Immagino sappiate chi fosse»

«Certo, capisco. Bene, fateci strada» impugnarono entrambi i moschetti e seguirono Lee lungo il viottolo, lasciando incustodito l’ingresso dell’accampamento. Aspettai di vederli sparire dietro la prima curva, inconsapevoli che trottando dietro a Charles per ancora una ventina di metri sarebbero finiti all’altro mondo. Quando uscirono dal mio campo visivo mi tirai su, scrollandomi dalla giubba i residui di foglie.

«Fatti vedere il meno possibile, guardandoti in viso capirebbero subito che sei un infiltrato» gli diedi una pacca sul braccio e mi avvicinai al portone. Lo aprii con uno strattone ed entrai, seguito dal ragazzo. Tenevamo la testa bassa, io teoricamente non avrei avuto problemi, ma preferivo essere notato il meno possibile. Passammo accanto ad un gruppo di soldati, tre dei quali portavano sulle spalle degli zaini da dieci chili l’uno. Portai la mano destra alla tempia a mo’ di saluto, lo stesso fece Connor, che colse l’occasione per coprirsi il volto con il guanto. Trattenni il fiato per una quindicina di secondi, sicuro che di lì a breve qualcuno ci avrebbe intimato di fermarci e, di conseguenza, addio piano. Invece no, stranamente stava andando tutto per il verso giusto.

Percorremmo una ventina di metri a passo spedito, quando Connor mi afferrò il braccio sinistro.

«Dove stiamo andando? Hai idea di come sia organizzato l'accampamento?» Roteai gli occhi e mi strattonai dalla presa.

«Piantala con tutte queste seghe mentali e vedi di assumere un atteggiamento da uomo» gli lanciai un'occhiata, squadrandolo da capo a piedi «... o almeno provaci» lo sentii sbuffare.

«Sei sempre così simpatico o è una qualità che sfoderi solo con me?» Sogghignai. Spruzzava acidità da tutti i pori, povero figliolo.

«Adoro il sarcasmo, ma con te non è necessario sforzarsi. Ha già fatto tutto madre natura» soppresse un ringhio continuando a venirmi dietro. Mi guardai intorno con noncuranza, quindi mi abbassai dietro un muro alto poco più di mezzo metro e studiai la situazione. A sinistra e alle spalle avevamo le mura dell'accampamento, sulla destra c'erano una decina di tende, davanti un gruppo di cinque soldati.

«Tieniti pronto» misi una mano in tasca e sfiorai una delle bombe con l'indice. Ero indeciso se colpire prima gli inglesi davanti a noi o intossicare quelli a destra.

«Che diavolo è questa puzza?» Guardai Connor, alla mia sinistra, e provai pena per lui.

«Non guardare me, non sono stato io» ma perché limitarmi al banale sarcasmo quando potevo prenderlo bellamente per il culo? «Non lo sai che la gallina che canta ha fatto l'uovo?»

«Cosa stai insinuando?» Quasi mi pisciai addosso a causa del suo sguardo minaccioso.

«Buon Dio, nulla, ragazzo. Nulla. Se non te ne fossi accorto, questa è la latrina dell'accampamento. Ma dimenticavo che tu caghi rose» non disse nulla, limitandosi a fissarmi con astio «ora passiamo al piano: al mio tre lancia una bomba contro quei soldati di fronte a noi, poi preparati a colpire. Hai i pugnali da lancio, vero?» Lo guardai come a dire 'prega di averli, altrimenti uso te per accendere il fuoco di ‘stasera'.

«Certo» spocchioso come un marmocchietto di sei anni «dà pure il via» strinsi la bomba nella mano destra e, al mio segnale, le cinque giubbe rosse si ritrovarono in una nube spessa e bianca. Iniziarono a tossire, quello che ci dava le spalle crollò a terra con un pugnale conficcato nella nuca.

«Che succede?» Dalla parte destra del l'accampamento arrivarono altri tre soldati, sconvolti alla vista del cadavere e degli altri quattro in fin di vita. Uno di loro mi colpì in particolar modo: il più basso e denutrito. Non doveva avere più di diciassette anni.

«Chi è stato?» Possibile che a quell'età fosse così vulnerabile di fronte alla morte? Era la prima volta che vedeva un cadavere? Aveva già ucciso qualcuno? Ero io l'eccezione? No, di questo ne ero praticamente sicuro. Connor, certamente Charles, Braddock e chissà quanti altri, in età infantile, avevano visto morire qualcuno. La morte di mio padre mi segnò, e nemmeno ora, dopo circa quarant’anni, saprei dire se fu un bene o un male. Forse entrambe le cose. Sicuramente fu un’esperienza traumatica che mi portò alla vendetta personale, ma mi diede forza, nessuno immagina quanto. Quel ragazzino non sarebbe durato molto, non provai pietà per lui, se non l'avessi ucciso io ci avrebbe pensato qualcun altro poco tempo dopo, quindi la logica mi suggerì di eliminarlo prima che mandasse a puttane il mio lavoro.

Allungai una mano verso la saccoccia di Connor e afferrai un paio di coltelli da lancio. Li scagliai senza indugi, colpendo l'adolescente in pieno petto e il giovane accanto a lui.

«Ci avrei scommesso che avresti ucciso lui. Non hai una coscienza?» Espirai dal naso con violenza.

«Non siamo qui per socializzare o bere del tè con loro, te lo sei dimenticato?» Mi voltai verso di lui per l’ennesima volta «Che diavolo è quella faccia?» Aveva un’espressione più tonta del solito.

«Ehi, voi due! Siete al cesso da due ore» mi si gelò il sangue nelle vene, consapevole di avere una giubba rossa alle spalle. Mi girai, tentando di mantenere la calma «Cosa cazzo….?» Già, si accorse troppo tardi che, nonostante fossimo alla latrina da dieci minuti buoni, non avevamo nemmeno i calzoni abbassati. Merda, pensai –giusto per restare in tema-. Lo afferrai per il bavero della giubba e lo tirai giù con me, premendogli il volto nella terra umida impregnata di escrementi. Si dimenava, il bastardo, quindi mi sedetti su di lui con tutto il mio peso.

«Lancia un’altra bomba, a destra, però» sussurrai al ragazzo. Il corridoio dell’accampamento venne invaso dal fumo tossico, accorsero altri soldati che, urlando, cercavano di salvare i propri compagni. Noi ce ne stavamo nascosti, ad osservare il tutto come fossimo estranei alla situazione, o almeno così credevo.

«Voi due stronzi avete scelto il posto giusto per crepare» mi girai a sinistra appena in tempo per familiarizzare con la canna del fucile a meno di un metro da me. Pensai di essere fottuto sul serio quando l’Inglese caricò il colpo. Percepii scattare la lama celata di Connor, che finì lungo a terra dopo essere stato colpito allo zigomo destro con il calcio del fucile.

«Peccato che a morire sarai tu» mi schizzò del sangue sul viso, la giubba rossa cadde a peso morto sui secchi pieni di merda «Appena in tempo, Mastro Kenway» spostai lo sguardo sul mio pupillo giusto in tempo per vederlo pulire il pugnale sporco di sangue.

«Grazie, Charles. Tempismo perfetto» Connor si tirò su a sedere massaggiandosi la guancia. Non ringraziò nemmeno Lee per avergli salvato la vita.

«Hai un debito con me, indiano»

 

 

Buonasera! Scusate se mi riduco ad aggiornare a quest’ora, e scusate ancora se il capitolo è troppo corto, ma l’ho scritto tutto -… quasi tutto- oggi pomeriggio, perché sapevo che se avessi rimandato a domani, beh, non avrei postato un bel niente, LOL.

Coooomunque, Haytham e Connor sono adorabili insieme, vero? No. Haytham e Charles sono adorabili, aww.

Grazie a chi segue e legge la storia, davvero, e un altro biscotto a chi recensisce, a lunedì prossimo! :)

 

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Capitolo 9
*** Ricordi che fanno coraggio. ***


Avvertenza: le parti in corsivo sono estratte da Forsaken di Oliver Bowden.

 

 

Capitolo 9

 

«Debito?» sibilò con tono schifato. Charles si abbassò dietro al muretto della latrina mettendo mano alla pistola, caricandola con maestria senza nemmeno guardare, troppo impegnato a sorridere con strafottenza a Connor.

«Già. Solitamente accade questo tra uomini che si salvano la vita» caricò il colpo con uno strattone esagerato, puntando poi l’arma contro mio figlio «ma potrei cambiare idea ed estinguerlo io» fece schioccare la lingua con un ghigno.

«Ma piantala» scostò la canna della pistola con una manata, deviandone con aria stizzita la traiettoria. Perché cedeva così facilmente alle provocazioni di Charles? Scossi la testa ed imitai Lee, caricare la pistola era sicuramente la cosa principale da fare.

«Non ti scaldare, ragazzino, non ti avrei sparato. Non qui. La copertura sarebbe saltata» li ignorai, non avevo voglia di sentire altri battibecchi. Ero ancora indeciso sulla tattica da usare, sicuramente l’attacco a sorpresa avrebbe avuto un impatto a nostro vantaggio, ma erano in superiorità numerica e ci avrebbero messo in difficoltà. Decisi quindi di continuare a restare nascosti. Calcolai mentalmente il percorso che avremmo potuto usare, che in sostanza consisteva nel costeggiare il perimetro dell’accampamento e nasconderci tra l’erba alta dietro le tende dei soldati.

Mi voltai di scatto verso quei due, ancora intenti a punzecchiarsi. «Muoviamoci, dobbiamo arrivare dietro quella tenda prima che il fumo si dissolva» non aspettai risposta e scattai a destra, attraversai correndo la decina di metri che divideva la latrina dalla prima tenda della fila e mi accasciai a terra. Gli Inglesi erano ancora nel caos più totale, urlavano a squarciagola scorrazzando qua e là senza criterio. Caricavano moschetti e se li passavano, alcuni, addirittura, si erano catapultati fuori, convinti che li stessero attaccando dall’esterno.

«Ehi, ehi, che maniere sono queste?» Era la voce di Charles, la riconobbi nonostante il casino, quindi mi girai in tempo per vederlo dare una leggera spinta a Connor «Vado prima io, che diamine» non lo tolleravo quando assumeva atteggiamenti tanto infantili, ma lo ringraziai mentalmente per aver fatto cadere per la seconda volta il ragazzo nella merda. Una scena a dir poco magnifica, giuro.

«Ma ripensandoci…» si bloccò «questi potrebbero essere gli ultimi proiettili delle giubbe rosse, quindi vai e sacrificati per la causa. Sarà il tuo modo di estinguere il debito, su, vai» lo rimise in piedi afferrandolo per la spalla.

Connor mi lanciò un’occhiata stralunata, braccia aperte dallo sgomento e un’espressione in volto come a dire “aiutami, questo è pazzo da legare”. E forse aveva ragione, ma mai l’avrei ammesso davanti a lui. Insomma, era sempre il mio allievo, no?

«Giuro che appena trovo questi bastardi li ammazzo! Parola d’onore che li uccido con le mie mani!» Ed eccolo qui, l’orgoglio di Re Giorgio. Il suo amato esercito non era nemmeno in grado di scovare tre uomini a malapena armati di spada, pistola e bombe fumogene. «Li seppellisco fino al collo, gli piscio addosso e poi li ammazzo, questi figli di puttana!» Restai immobile per una manciata di secondi cercando di metabolizzare le parole.

 

«Holden…»

Sbarrai gli occhi. Non l’aveva detto davvero, no, era una fottuta impressione.

«Tiratemi fuori di qui», implorò. «Tiratemi fuori di qui, signore, per favore, adesso,

signore…»

No. Non ora, ti prego. Non avevo la forza fisica né mentale per sopportare due cose contemporaneamente.

Gli appoggiai di nuovo la fiaschetta alle labbra e lasciai che sorseggiasse ancora un po’ d’acqua, poi presi il badile che avevo portato con me e iniziai a togliere la sabbia imbevuta di sangue attorno alla sua testa, continuando a parlargli mentre portavo alla luce le spalle e il petto nudi.

Sbattei le palpebre più volte per riprendere lucidità, ma i suoni ovattati mi fecero intuire che ero ancora in balia del passato.

Più scavavo, più la sabbia era nera di sangue. «Oh, mio Dio, cosa vi hanno fatto?» Ma già lo sapevo e, in ogni caso, ne ebbi conferma poco dopo, quando arrivai alla vita e la trovai avvolta in bende, anche quelle nere e incrostate di sangue.

Perché? Perché in quel momento? O meglio, perché dovevo ricordare? Appoggiai una mano a terra per non cadere in avanti, deglutii e inspirai a bocca aperta, sperando che facendo arrivare ossigeno al cervello si interrompesse quella tortura.

«Fate attenzione là sotto, signore, per favore», disse sottovoce, e capii che era trasalito, e che si stava mordendo la lingua per il dolore. Dolore che alla fine fu troppo anche per lui che perse conoscenza, una benedizione che mi permise di disseppellirlo.

 

«Mastro Kenway, tutto bene?» Non mi voltai «Siete pallido, vi sentite male?» Non risposi. Non avevo la forza, a dire il vero, ma mi obbligai ad alzare lo sguardo per capire. I movimenti, i colori e soprattutto i suoni erano tornati alla normalità. Sarei stato in grado di difendermi, se fosse stato necessario, ma il problema ero io, o meglio, era dentro di me. L’immagine di Jim Holden insabbiato fino al collo, con le labbra insanguinate a furia di mordersele per distrarsi dal dolore, non me la sarei mai scordata. Con che coraggio sarei riuscito a sguainare la spada e fare piazza pulita ignorando quel ricordo?

Deglutii ancora «Andate voi, vi raggiungo tra poco» Charles sospirò, non permettendosi nemmeno di chiedere altro. L’ultima cosa che vidi fu Connor correre dietro a Lee, poi non fui più padrone della mia mente.

 

«Il libro che avevi visto quella notte nella carrozza, ce l’ha Reginald. È stato lui a organizzare il saccheggio di casa nostra. È lui il responsabile della morte di nostro padre»

«Oh, l’hai capito, finalmente» mi schernì Jenny.

«Mi ero rifiutato di crederci, ma ora lo so. Sì»

 

Mi lasciai andare, sedendomi nell’erba alta e prendendomi la testa tra le mani.

 

«Ho fatto ciò che ho fatto per il bene dell’Ordine, Haytham. Per il bene dell’intera umanità. Vi ho elevato a Gran Maestro del rito coloniale, sapendo che anche voi avreste dovuto prendere simili decisioni e confidando nella vostra capacità di prenderle, Haytham. Decisioni prese perseguendo un bene più grande»

Mi si chiuse lo stomaco nel risentire quella voce melliflua e falsa. La ricordavo fin troppo bene. Ogni situazione, ogni inganno, ogni promessa, tutto scandito da quel tono schifosamente amichevole e rassicurante. Mi salì la nausea.

«Ciò che avete fatto ha contaminato tutto ciò in cui credo e sapete perché? Non l’avete fatto applicando i nostri ideali, ma ingannandomi. Come possiamo ispirare fiducia quando ciò che abbiamo nei nostri cuori sono menzogne? Dobbiamo mettere in pratica ciò che predichiamo. Altrimenti le nostre parole sarebbero vuote»

«Ora parla l’Assassino che è in voi» ribatté. «Vi considerate un moderato?»

A quel tempo non avevo saputo rispondere, a differenza di ora. Lo ero, ero impuro, se così si vuol dire, ma non negli ideali. Ero fermamente convinto che si potesse trovare un punto d’incontro e smetterla con quell’assurda lotta, ma non avevo mai osato dirlo a qualcuno. Mi rispecchiavo totalmente nelle ideologie dell’Ordine, ma finché gente come Reginald o Braddock avrebbe fatto parte delle nostre fila, beh, non potevo biasimare gli atteggiamenti ostili di Connor.

Smisi di torturarmi l’unghia del pollice e capii, finalmente. Era questo il mio compito: eliminare i traditori, dal primo all’ultimo. Come potevo sperare che l’Ordine venisse apprezzato se io per primo permettevo che ci fossero abusi di potere e tradimenti?

Mi alzai.

Non volevo essere come Reginald. Ma lo ero stato? In fondo aveva solo ucciso un Assassino, il fatto che fosse mio padre era solo un dettaglio, per lui. Io quanti ne avevo sulla coscienza? Quanti padri di famiglia avevo mandato all’altro mondo? Tanti, troppi, ma non avevo mai finto un approccio per approfittare della loro ingenuità, questo no. Mi rincuorò, perché sapevo bene che ciò che mi aveva fatto avvelenare il sangue era stato il tradimento di Birch.

Sentii uno sparo.

«Eccoli là, i due bastardi!» Una ventina di giubbe rosse corse accanto alla tenda dietro la quale ero nascosto, raggiungendo il soldato che aveva individuato Charles e Connor. «Hanno le nostre uniformi» commentò un altro caricando il moschetto.

Ringhiai. ‘Fanculo a Reginald e a tutte le balle che mi aveva raccontato, non potevo permettere che mi distraesse proprio ora. Caricai la pistola e mi sporsi di poco dal nascondiglio, giusto quel tanto da mirare decentemente alla nuca del primo soldato che mi capitò a tiro.

Sparai con rabbia. Rabbia per quello che avevo vissuto e ricordato. Feci fuoco ancora atterrando un altro soldato, come se sfogarmi sulle giubbe rosse rendesse giustizia a ciò che avevo subìto. Non me ne importò nulla, corsi lateralmente, ancora a destra e ricaricai la pistola. Charles continuava a sparare, Connor faceva la sua parte con arco e frecce, una delle quali perforò con precisione sorprendente il cranio dello sventurato.

 

 

Salve a tutti.

Sì, anche oggi posto con immenso ritardo, lool, ma è sempre lunedì, giusto? Quindi sono perdonata.

Quanti di voi odiano Reginald Birch? *dovete alzare tutti la mano*. Uh, giusto: non so quanti di voi abbiano letto “Forsaken” –e siccome né in ACIII né in Black Flag viene spiegato chi sia questo Birch-, ho ritenuto opportuno mettervi il link, giusto per ricordarvi chi è, nel caso non lo sapeste/ve lo foste dimenticato.

Ci si vede la settimana prossima, grazie come sempre a chi legge, segue e recensisce^^.

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Capitolo 10
*** Trust. ***


Capitolo 10

 

Quindici.

Ne avevo uccisi quindici in quanto?, venti secondi? E sì, li avevo contati come se stessi facendo una banalissima esercitazione e dovessi tenere a mente i proiettili usati. Non traggo piacere dall’uccidere, semplicemente mi riesce. Me lo ripetevo da anni, ma iniziai a ricredermi. Mi piaceva, mi piaceva eccome, ma forse dipendeva da chi mi trovavo davanti. Se dall’altro lato della canna della pistola ci fosse stato Washington, avrei goduto quasi quanto Thomas Hickey con i servizietti delle puttane di Boston.

Caricai la pistola e piantai un proiettile nel cranio all’Inglese che avevo davanti, poi lanciai un’occhiata a Charles, che sparava come un ossesso da dietro la pila di casse di legno che usava come riparo. Connor, finalmente, si era deciso a lanciarsi nella mischia e ad usare il tomahawk, e ne fui contento, dato che sparava come una donnetta impaurita.

Ventidue.

Scossi la testa, pensare a come combatteva mio figlio poteva benissimo passare in secondo piano, quindi afferrai un soldato per i capelli e lo buttai a terra, per poi puntargli contro la pistola e trasformargli il collo in un ammasso informe di carne e sangue. Gli presi il moschetto e, sentendo il respiro affannato di un uomo sul collo, capii di avere un’altra giubba rossa alle spalle e mi voltai fulmineo, piantandogli la baionetta nello stomaco. La estrassi subito e sparai, non attesi nemmeno che toccasse il suolo che ruotai su me stesso, impugnando il fucile dalla canna e sfondando il cranio del terzo uomo col calcio dell’arma. Quei dannati imbecilli urlavano come se li stessimo scuoiando vivi e non avevano il minimo autocontrollo. Non ci avrebbero messo in difficoltà, questo era certo, ma erano tanti, troppi, e noi soltanto in tre.

Mi voltai verso Charles, intento a sparare e ricaricare «Usciamo da qui!» Controllai i proiettili rimasti nel moschetto e li usai per uccidere altri cinque soldati.

Trenta.

Mollai il fucile e corsi verso la palizzata di legno grezzo e consumato, puntai il piede destro su una delle assi e mi diedi una spinta, mentre mi aggrappavo con entrambe le mani all’estremità della staccionata. Connor non ebbe difficoltà nello scavalcare, abituato com’era a saltare di ramo in ramo. Charles, invece, pensò bene di deliziarci con una caduta di decisamente poco stile, mettendosi a cavalcioni sullo steccato e atterrando dall’altro lato a gambe all’aria.

«Tutto bene?»

«Sì. Sì, sto bene» si tirò su spolverandosi i calzoni e, da buon padre quale ero, notai l’espressione beata di mio figlio. Sì, forse l’agilità era l’unica cosa per cui poteva vantarsi. Solo nei confronti di Charles, almeno, perché se avessi avuto qualche anno in meno gli avrei dato del filo da torcere.

«Muovete il culo e prendete quei tre! Muoversi, muoversi!» No, non avevano capito che avrebbero fatto meglio a godersi quel poco ossigeno che gli rimaneva. Dopo pochi secondi, infatti, tutta la parte est dell’accampamento saltò in aria. La bomba che avevo lanciato al di là della palizzata uccise una quarantina di uomini, e il bulbo oculare di uno di questi, spiaccicato nello spazio tra due assi, mi fissava inespressivo.

 

***

Tornai alla tenuta a piedi, cogliendo l’occasione per pensare e schiarirmi le idee. Alla fine la collaborazione con mio padre era stata piuttosto forzata, ma utile: a lui servivo io e a me serviva lui, ma era la scelta giusta? Achille si ostinava a ripetere che il mio comportamento avrebbe avuto ripercussioni negative su tutto. Sulla mia gente, su New York, sugli Assassini. Quali Assassini, poi? Non c’era più nessuno, se non io e qualche giovane adepto alle prime armi. Ero stato duro con lui, ne ero consapevole, ma sapevo di fare la cosa giusta. Dovevo lavorare con Haytham, almeno per il momento. Che piacesse o meno al mio Mentore, dovevamo respingere gli Inglesi, e da solo non ci sarei mai riuscito.

Salii gli scalini con una fatica immane, come se le suole facessero fatica a staccarsi dal terreno. E lo stesso fu per la porta, che mai mi parve così pesante e rumorosa, tanto da far voltare verso l’uscio Achille, seduto davanti al camino acceso.

«Ciao» dissi mentre richiudevo la porta, nella speranza che, forse, il rumore della serratura coprisse la mia voce. Non rispose, e a dirla tutta non mi aspettavo reazione diversa, quindi tirai dritto, diretto verso le scale e quindi alla mia stanza.

«Per quanto hai ancora intenzione di tirarla avanti?» Mi fermai e rimasi in silenzio pur sapendo a cosa si riferisse «Stai mandando tutto in fumo. Tutto quanto» strinsi un pugno. Odiavo dare ragione a mio padre, raramente le sue parole mi ferivano, ma una cosa in particolare mi aveva punto nell’orgoglio: “tu dai ascolto solo ad Achille, tutto quello che dice quel vecchio è oro colato, hai mai preso in considerazione l’ipotesi di pensare con la tua testa?”. Ci avevo provato spesso, veramente, ma il punto era che del Credo, della Confraternita e di tutto il resto sapevo ben poco. Conoscevo Ezio Auditore e le sue eroiche imprese, stessa cosa per Altaïr Ibn-La'Ahad, e tutto grazie ai vecchi libri ingialliti e impolverati, dimenticati sugli scaffali della libreria in soggiorno da chissà quanti anni. Mi sarebbe piaciuto avere un compagno con cui collaborare o a cui chiedere semplicemente un’opinione, ma l’unica persona dalla mia parte che poteva aiutarmi in qualche modo era lui. Solo Achille era in grado di indirizzarmi, però doveva comprendere che avevo il diritto di fare scelte diverse dalle sue, forse un po’ azzardate e a primo impatto sbagliate, ma mai prese senza riflettere.

«Abbiamo fermato gli Inglesi, le truppe da Filadelfia non raggiungeranno più New York e non la occuperanno. Abbiamo aiutato Washington, in fin dei conti» lo annunciai fieramente senza nemmeno voltarmi. Tralasciando i battibecchi con Charles Lee, era andato tutto liscio.

«Oh, scusami, allora. Siete due eroi» sbuffai. Avevo bisogno di consigli, ne ero consapevole, quindi li chiedevo. L’avevo sempre fatto. Era così sbagliato appoggiarsi a qualcuno? In fondo mio padre non faceva altro che parlare della debolezza umana, allora perché odiava così tanto le mie incertezze?

«Stai giocando con la vita delle persone di questa terra, ragazzo.» Oh, certo, solo perché cercavo un contatto con Haytham, giusto «Forse non sei tagliato per questo ruolo»

Colpii lo stipite con una manata, quindi mi voltai verso il soggiorno «Sei tu quello adatto, vero? Cosa fai per ripristinare la Confraternita? Nulla. Te ne stai qui seduto a dirmi cosa fare, mentre là fuori c’è gente che soffre, che muore» tentai di non urlare, cosa che mi riuscì difficile. Non volevo litigare un’altra volta, non avevo voglia di giustificare le mie scelte ad un vecchio a cui non importava niente della Confraternita.

Mi guardò sconcertato «Come osi?» Puntò il bastone a terra nel tentativo di alzarsi. Se fosse stato armato mi avrebbe ucciso, poco ma sicuro «Con che faccia osi dirmi questo? Ti ho accolto in casa mia e ti ho allenato, ti ho dato del cibo, un letto e la tunica che indossi ora» non aveva fiato, ma nonostante questo mi raggiunse, sopportando la fatica immane che aveva fatto per percorrere il soggiorno.

«Cosa hai fatto per il Credo? Cosa hai fatto per fermare i Templari?» Domandai ancora.

«Non collaboro col nemico, innanzitutto»

«Ti stai comportando come mio padre» me l’ero cercata, dopotutto. Non mi fece male, non più di tanto, ma lo schiaffo si sentì forte e chiaro nel silenzio della tenuta.

«Non ti permettere» tremava di rabbia, ma non m’importava. Pretendeva il totale controllo delle mie azioni e la mia obbedienza, esattamente ciò cui miravano i Templari «Stupido ragazzino impertinente, non paragonarmi più a quel pazzo di tuo padre!»

«Non è colpa mia, ho solo collaborato con lui e guarda che questione hai fatto. Te l’ho già spiegato, Achille: fermeremo gli Inglesi insieme, stop» cercai di calmarlo, ma fallii miseramente.

«E Washington? Ucciderai Haytham per il bene del Paese o lo lascerai agire? A questo punto sono convinto che passerai dalla sua parte, ti stai facendo abbindolare, Connor!» Scossi la testa. Quello mai.

«Vado a riposare, sono stanco» non lo lasciai parlare e salii al piano superiore. Non avrei mai abbandonato la Confraternita per aiutare mio padre, di quello ne ero certo. Non approvavo i loro metodi e molte delle loro idee. Tentavo solo di avere un rapporto civile con Haytham, tutto qui. Non c’era nulla di male, volevo provare ad avvicinarmi a lui. Doveva esserci un’alternativa alla morte, doveva.

 

 

Sì, sono viva. *si genuflette*. Lo so, lo so, sono sparita per una settimana e aggiorno in ritardo, ma meglio di nulla, no? Non ho avuto un rientro tranquillo, per nulla, e ho avuto veramente pochissimo tempo da dedicare alla fanfiction. Ma non mi arrendo, buona parte dei capitoli successivi è già scritta, quindi non dovrei avere grossi problemi in futuro (le ultime parole famose), lool. Siete stupiti, eh? Insomma, Connor che si ribella così è molto OOC, ma ci stava, dai. E vedrete Achille, quel dannatissimo vecchio vi stupirà.

Bom, non spoilero nulla e vado. Grazie come sempre a chi recensisce, legge, segue e preferisce, I love you! *giusto perché oggi ho fatto un test terrificante di inglese, ma sshh*. A lunedì prossimo :3

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Capitolo 11
*** New day, old life. ***


Capitolo 11

 

La lettera che trovai a Fort George catturò la mia attenzione appena entrai nella mia stanza. Era lì, sulla scrivania, la busta bianca in netto contrasto con il marrone scuro del legno. L’afferrai ed uscii di nuovo, diretto verso la sala in cui Connor mi aveva squarciato un fianco. Inspiegabilmente ero scosso, non sapevo il perché e, sinceramente, nemmeno lo collegai alla lettera. Erano anni che non ricevevo corrispondenza, d’accordo, ma non lo trovavo comunque un motivo valido. Improvvisamente mi punse la curiosità, e la tentazione di tirarla fuori dalla tasca e leggere almeno chi la spediva fu forte, ma mi trattenni, preferendo la calma e la comodità della sedia che mi attendevano nel salone principale del forte.

Una volta entrato la estrassi incuriosito e con le sopracciglia aggrottate, rilassando i muscoli dallo sgomento –tranne il cuore, che cominciò a martellare nel petto- quando lessi il nome del mittente.

 

***

Restare alla tenuta era alquanto inutile, specialmente in quel frangente. Achille era strano e tutto sembrava molto più silenzioso e freddo, quasi estraneo alla vita cui ero abituato. Dove sarei andato, però? Me lo chiedevo da un paio d’ore, con la speranza che fissare il soffitto della mia stanza mi aiutasse a capire cosa fare. Non aveva senso restare, non con Achille che giudicava ogni mio passo.

Quindi mi alzai, afferrando il tomahawk e le polsiere delle lame celate. Posai una mano sul pomello e scrocchiai il collo piegandolo di lato. Perché rischiare di incontrarlo quando puoi uscire dalla finestra? No, sarebbe da codardi. Ed io non lo sono. Perché altrimenti avrebbe ragione Haytham? Perché non ho voglia di litigare e di giustificare le mie azioni. E allora dove vai?, da tuo padre? E da Charles Lee? Sei cambiato, Connor, un tempo li avresti uccisi entrambi. Non ho detto che non lo farò. Non farti condizionare dall’affetto. Quale affetto, poi? Ti trattano come un pezzente, passano il tempo a sfotterti e nemmeno te ne rendi conto. Lasciami in pace. Non vuoi sentire la verità? Perché sai che ho ragione, il legame di sangue non è una scusa sufficiente per risparmiare Haytham. Aprii la finestra e saltai giù, ammortizzando l’impatto con una capriola. Iniziai a correre, come se stessi scappando, ma da chi? Achille? Forse non volevo che mi vedesse.

New York era la risposta. Per mio padre, per gli Inglesi, per Washington. Sfruttai un tronco abbattuto per saltare ed aggrapparmi ad un ramo, evitando un paio di giubbe rosse e lupi affamati. Ne approfittai per godermi la frontiera, viva e selvaggia. Che ne sarebbe stato se gli Inglesi avessero vinto la guerra? Terra bruciata? O città? Chi mai avrebbe voluto vivere in case costruite sulla terra macchiata del sangue di altre persone? Questo mio padre non lo voleva, ne ero quasi sicuro. Non per il momento, almeno.

Fui costretto a scendere a terra, entrando così nella periferia della città. Dal tetto del primo palazzo che scalai vidi Fort George in lontananza, e mi diressi lì, saltando da una casa all’altra. Era la cosa giusta, sì. Non più dell’omicidio. Sta’ zitto. Da quando vai contro il nostro Mentore per aiutare i Templari, eh? Tu non capisci, è una cosa diversa. Io capisco benissimo, invece. Siamo la stessa persona. No, sbagli. Io non agisco senza riflettere. Ti hanno fatto il lavaggio del cervello. No, sono sempre un Assassino. Già, un Assassino che fraternizza col nemico. No. Sì.

«Charles Lee.» Senza rendermene conto, ero già arrivato al forte.

«Ragazzo.»

 

***

 

Caro fratello,

ti scrivo dopo tanti anni per chiederti aiuto, ancora una volta. So che non capirai questa richiesta, ma ho bisogno di te. Sono a Londra. Ci sono tornata, sì, non ho saputo resistere, e lui lo sapeva. Sapeva e mi ha anticipata, non sono riuscita a fare nulla per impedire questa assurda situazione, non ne ho le capacità. È urgente, Haytham, non so a chi chiedere, per questo mi sono rivolta a te. Sei l’unico che può fare qualcosa, l’unico che può capire. Spero non ignorerai le mie parole, ti aspetto nella casa di nostro padre.

A presto,

 

Jennifer Scott.

 

 

Mi sentii mancare. No, non poteva essere un falso, era sicuramente lei, avrei riconosciuto la calligrafia di Jenny tra mille. Aveva sempre avuto una scrittura snella, tranquilla e dalle curve morbide, ma non quella volta. Il tratto era leggermente mosso, troppo calcato rispetto al solito, ma comunque inclinato verso destra, come sempre. Qualcosa, però, non andava. Perché proprio nella nostra vecchia abitazione? Era uno scherzo. Sì, doveva esserlo per forza.

Posai la lettera nella tasca interna della redingote –insieme al diario- e mi appoggiai con entrambe le mani al tavolo, lasciandomi sfuggire un sospiro mentre bussavano alla porta.

«Avanti» Charles e Connor entrarono nella sala, notandomi assente e pensieroso. E come potevo non esserlo? Insomma, mancava solo che comparisse il fantasma di mio padre.

«Signore? Che succede?» Sospirai nuovamente, premendomi due dita alla base del naso.

«Temo di dovervi lasciare soli nelle prossime missioni. Devo tornare in Europa» annunciai tornando in posizione eretta per darmi un contegno.

«Cosa? Ma Mastro Ken

«Charles» lo bloccai prima che potesse dire qualsiasi cosa. «Sono sicuro di poter fare affidamento su di voi» ancora non mi capacitavo della situazione in cui mi trovavo.

«Perché in Europa? Ci sono problemi, Mastro Kenway?» Alzai una mano per interromperlo.

«Sarebbe troppo lungo da spiegare. Non preoccupatevi, ve la caverete anche senza di me» mossi qualche passo di lato per calmarmi e riprendere lucidità.

Non sapevo cosa diavolo succedesse a Londra, temevo che Connor e Charles avrebbero finito per ammazzarsi a vicenda e mandare tutto all’aria. Sbuffai ancora.

Charles sospirò, mentre mio figlio era ancora in silenzio.

«Come volete. Diteci almeno cosa fare in vostra assenza» mi fermai riappoggiandomi al tavolo per poi fissare gli occhi in quelli di entrambi.

«Concentratevi sulle giubbe rosse. Eliminate tutti i soldati in città, non importa come, liberate New York dagli Inglesi» Connor aprì bocca intenzionato a parlare, ma Charles lo anticipò.

«… Va bene, ma dopo? Insomma, è un lavoro che si risolve in un mese al massimo» lanciò uno sguardo a Connor, come se potesse aiutarlo a capirci qualcosa. Ma nessuno, nessuno tranne me, sapeva cosa provavo in quel momento.

Era come essere catapultati nel passato, a vent’anni prima, a quando Tiio mi aveva lasciato, a quando Holden mi aveva scritto dicendomi di aver trovato Jenny.

Non avrei spiegato il motivo della mia partenza, né a Connor né a Charles. Non avrebbero capito e non avrebbero potuto aiutarmi. Dio, mi scoppiava la testa.

«Sentite, aspettatemi qui. Vado al porto» con poche falcate raggiunsi la porta.

«Al porto? Cosa fai lì?» Dopo dieci minuti buoni, stavolta fu il ragazzo a parlare.

«A cercare una nave che parta domani per Londra» aprii la porta e m’incamminai giù per le scale.

 

Uscii da Fort George e mi avviai verso le stalle, salendo sul primo cavallo sellato che mi trovai davanti. Andai al trotto fino all’uscita, poi lo spronai, forse troppo, visto che in più occasioni, dato che scivolava sulla strada, rischiammo di cadere entrambi. Jenny. Perché piombava nella mia nuova vita così, senza preavviso? Non che non ne fossi contento, per carità, ma c’era qualcosa dietro. Qualcosa che, ci avrei scommesso le palle, non mi sarebbe piaciuto. Ed io, da bravo idiota, mi stavo incasinando per l’ennesima volta. Con le mie mani, per giunta, visto che stavo ci andando di mia iniziativa. Ma potevo sottrarmi? Mi aveva esplicitamente chiesto aiuto, non potevo ignorare e basta. Era l’unica cosa che mi ricordava la mia infanzia, mio padre, Londra. Era stata una sorella maggiore un po’ stronza, sì, ma immagino che sia normale tra fratelli.

Vedendo il porto avvicinarsi rallentai, smontai legando il cavallo ad un palo di una locanda e mi avviai sul molo, raggiungendo un marinaio che caricava casse su una nave. Che Dio me la mandi buona.

«Salve, buon uomo. Posso chiedervi dove è diretta questo galeone?» Sentendo la mia voce l’altro sussultò, girandosi improvvisamente.

«Chi lo vuole sapere?» Chiese con aria dubbiosa, stringendo tra le braccia una cassa di legno. Portai le mani dietro la schiena.

«Haytham Kenway, lieto di conoscervi… Signor?» Mi squadrò da capo a piedi.

«David Murphy» rispose diffidente. Gli porsi la mano e lui me la prese timidamente. Gliela strinsi con vigore.

«Ho bisogno di un passaggio per Londra, Signor Murphy, dove posso trovare il capitano della nave?»

David posò la cassa e si asciugò la fronte con una mano, poi prese fiato. «Avete trovato la bagnarola giusta. Il capitano è entrato in quella taverna davanti al molo, Signor Kenway. Lo riconoscerete senza fatica, indossa un tricorno rosso scuro. Chiedete a lui» mi alzai di poco il cappello per ringraziare e ripercorsi il molo, fino ad entrare nella taverna indicatami dal giovane marinaio.

Mi guardai intorno rapidamente, cercando almeno un uomo con un tricorno in testa. Dopo una manciata di secondi lo individuai seduto al bancone con in mano un boccale di birra, quindi mi avvicinai, prendendo posto accanto a lui.

«Siete un capitano?» Domandai. Era un galantuomo, beveva così avidamente che un rivolo di birra gli stava colando dall’angolo della bocca fino al mento. Deglutì rumorosamente, poi sbatté il boccale sul bancone.

«Chi siete?» Mi guardò assottigliando lo sguardo e si pulì il mento con la manica.

«Haytham Kenway. Uno dei vostri uomini mi ha detto dove potevo trovarvi, mi serve un passaggio per Londra. È urgente» lo guardai serio attendendo risposta, e non trattenni un ringhio seccato quando ridacchiò fissando la birra.

«Londra, eh?» Riprese il boccale dando un lungo sorso «Il nostro tragitto è un altro, Signor Kenway. Il primo porto cui attraccheremo sarà quello francese di Le Havre, poi faremo rotta per l’Inghilterra, ma ci fermeremo a Folkestone»

«Quando partite?»

«Domani» la mia solita fortuna. Non potevo di certo girare tutto il porto alla ricerca di un’altra nave diretta a Londra che partisse il giorno dopo. Mi sarei fatto andare bene questa, una volta giunto in Inghilterra avrei trovato un modo per raggiungere la mia meta.

«Potete pagare?» Non gli diedi il tempo di bere ancora che poggiai sul bancone un sacchettino pieno di monete. Sgranò gli occhi e fece per afferrarlo, ma lo ripresi rapidamente.

«Tutto a suo tempo. A che ora salpate?» Riposai il danaro alla cintola.

«All’alba. Non dopo le sei» annuii.

«A domattina, capitano» sollevai leggermente il tricorno e mi alzai dallo sgabello, per poi uscire dalla taverna.

 

 

Buonsalve a tutti. Le cose iniziano a farsi interessanti, eh? (dovete dire di sì, da bravi). E no, Connor non è impazzito, non è bipolare, diciamo che parla con la sua coscienza. Chiamiamola così, dai, ma capirete più avanti.

Parlando di cose importanti, i lunedì successivi aggiornerò sempre verso quest’ora, purtroppo ho degli impegni che mi tengono fuori casa fino a tardi, quindi è l’unico momento libero che ho a disposizione. Detto questo, spero che abbiate apprezzato il capitolo, ringrazio come sempre chi legge, segue e recensisce *inchino*. A presto :3

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Capitolo 12
*** Back in time. ***


Capitolo 12

 

Ero rimasto solo con Charles che, vedendo mio padre uscire di corsa, era rimasto immobile a fissare la porta. Solo dopo qualche secondo si lasciò cadere su una sedia, cosa che io avevo fatto già da un paio di minuti. Uccidilo, ora che siete soli.

Sbatté, per la frustrazione, immagino, un pugno sul tavolo al quale eravamo seduti.

«Maledizione!» Sbottò «Ci vorranno tre mesi solo per l’andata, chissà quanto dovrà trattenersi per questo problema e altri tre per tornare. Diavolo!» lo guardai senza sapere come reagire. Lo so io come. Piantagli la lama celata in gola, pezzo d’idiota. Taci.

«Riusciremo a cavarcela anche senza mio padre» tentai «quando tornerà ci faremo dire cosa fare oltre ad eliminare le giubbe rosse» finalmente mi degnò di uno sguardo, un misto tra il compassionevole e l’irritato.

«Tu non capisci! In questo lasso di tempo Washington potrebbe perdere terreno e uomini, non possiamo concentrarci solo sulle giubbe rosse» sibilò riabbassando lo sguardo sul tavolo.

«Da quanto tempo lavori con mio padre? Vent’anni, qualcosa di più, hai ancora bisogno di lui?» Mi fulminò, se avesse potuto mi avrebbe tagliato la gola, ma non lo fece. Perché? Perché lo stuzzichi invogliandolo ad ammazzarti?

«Bada a come parli, indiano! So perfettamente come comportarmi, ma Mastro Kenway ha comunque più esperienza di noi due messi insieme, sa sempre qual è il modo migliore d’agire. Io potrei sapere cosa fare, ma i dettagli, il piano e tutto il resto no, non avrei le abilità di tuo padre. O forse sì, ma non riuscirei ad elaborare un piano in così poco tempo» lo guardai scettico. Mio padre era così ben visto? Era davvero così abile? Alzai un sopracciglio. A me sembrava solamente uno sbruffone egocentrico convinto di sapere sempre tutto di tutti, di essere sempre dalla parte della ragione e dalla mentalità chiusa. Sospirai. Sarebbe andata bene, doveva andare bene.

 

***

Rientrai a Fort George con troppe cose in testa e salii le scale come un automa, ritornando nella sala in cui avevo lasciato Connor e Charles.

«Signore!» Lee scattò in piedi vedendomi rientrare; alzai una mano per farlo accomodare, poi mi sedetti di fronte a lui e accanto al ragazzo, a capotavola.

«Novità?» Parlò mio figlio. Annuii.

«Partirò domattina alle sei. Non so quanto starò via, credevo di aver chiuso con questa faccenda» la tensione era alle stelle, se mi fossi concentrato, avrei potuto sentire i battiti accelerati del cuore di Charles, per quanto era agitato.

«La stessa faccenda che vi costrinse a partire per l'Europa vent'anni fa?» Annuii e vidi Connor sobbalzare leggermente, capendo che a quell'epoca avevo ancora dei legami con sua madre. Subito mi venne in mente Holden e tutto ciò che aveva passato per aiutarmi a ritrovare Jenny. Ogni volta che ci pensavo mi saliva il magone, mi sentivo terribilmente in colpa per il suo suicidio.

«Sì, più o meno»

«Che successe vent'anni fa?» intervenne il ragazzo. Sbuffai.

«Problemi personali, cose che non ti riguardano. Smettetela di fare domande» Lee si sistemò meglio sulla sedia umettandosi le labbra, poi mi guardò.

«Dove alloggerete, Mastro Kenway? Giusto per sapere dove spedire le lettere in cui vi terrò aggiornato sulla situazione» scossi la testa.

«Ancora non lo so, Charles. Ti scriverò io per primo, così vedrai l'indirizzo della locanda in cui mi sarò stabilito» annuì concorde «voi dovete occuparvi solamente degli Inglesi. La precedenza, ovviamente, ce l'ha Washington. Se l'esercito ha bisogno d'aiuto, lasciate in secondo piano le giubbe rosse ed intervenite, so che ve la saprete cavare bene» mi guardarono in silenzio, quindi mi alzai, imitato da entrambi.

Diedi una pacca sulla spalla di tutti e due, serrando la presa sulla giacca di Charles e sulla tunica del ragazzo.

«Collaborate» dissi «e non ammazzatevi. Le colonie sono nelle vostre mani, mi fido di voi, so che posso contare sulle vostre capacità» Connor annuì debolmente, abbassando poi lo sguardo e incatenandolo sui suoi stivali. Lee capì che questa volta ero serio più che mai.

«Ma certo, Signore. Io e il ragazzo terremo la situazione sotto controllo. Potete partire tranquillo» accennai un sorriso.

«Bene. Dì alle guardie di Fort George di far entrare Connor, se lo chiederà. Parlate qui, pianificate le mosse solo se siete tra queste mura, non andate in locande o taverne. Gli Inglesi hanno orecchie ovunque»

«Non preoccupatevi» guardai mio figlio. 

«E tu non fare casini. So già che farai di tutto per non collaborare con Charles, ma per una volta prova a mettere qualcos'altro davanti ai tuoi interessi» non mi rispose.

«Beh, sarà meglio che vada a riposare, domani partirò presto» poi mi congedai.

 

Avevo dormito poco quella notte e, veramente, alzarsi alle cinque non era stato il massimo.

Giunto al porto vidi il marinaio con cui avevo parlato, David Murphy, caricare la nave che a breve sarebbe salpata, quindi, nell'attesa, mi sedetti su una cassa vuota. Solo in quel momento mi accorsi di due sagome, una bianca e una marrone, salire sul molo e guardare in ogni direzione. Dopo venti secondi buoni, fu Connor ad individuarmi ed a raggiungermi -seguito a ruota a Charles-.

«Vi abbiamo trovato, Signore»

«Lo vedo, Charles. Cosa ci fate qui?»

«Che domande, siamo venuti a salutarvi, Mastro Kenway» mi guardò come se chiesi la cosa più ovvia del mondo.

«Non era necessario, ma grazie» mi alzai; avevo sempre detestato attendere e, ovviamente, con la mia solita fortuna, ero riuscito a trovare un capitano ritardatario. Ancora non lo avevo visto arrivare. Tirai fuori dalla tasca della redingote un orologio: le sei e cinque.

«Buon viaggio, padre» guardai Connor e annuii, come a ringraziarlo.

«Non credo lo sarà, odio i viaggi in mare. Non c'è mai nulla da fare» borbottai in direzione della nave su cui stavo per salire. Mi tornò in mente il viaggio per Boston. Tralasciando il fatto che avevano tentato di uccidermi, beh, fu piuttosto noioso.

«Puoi sempre dare una mano ai marinai» mi voltai nuovamente verso di lui.

«Buon Dio, figliolo, hai imparato a fare del sarcasmo o eri serio? Pagare e in più lavorare, hai il fiuto per gli affari, fattelo dire. Achille doveva aprirti un'attività» Charles rise senza ritegno per qualche secondo, per poi schiarirsi la gola e tornare composto. Stavo per aprir bocca, quando un colpo sulla spalla a mano aperta mi fece scivolare il cappello sugli occhi.

«Eccovi qui, siete voi Haytham Kenway, o erro?» Mi voltai. Ed eccolo lì, il capitano. «Siete arrivato in anticipo»

«A differenza vostra» borbottai scocciato sistemandomi il tricorno.

«Avete il danaro con voi?» Vecchio avido.

«Salderò il conto a bordo. Datemi un minuto e vi raggiungo» lo vidi annuire e incamminarsi sulla passerella di legno, quindi mi voltai verso Connor e Charles.

«Beh..» misi le mani dietro la schiena «a presto, allora»

«A presto, Mastro Kenway» mi voltai e percorsi la trave di legno che collegava il molo alla nave; notai subito il capitano fissarmi insistentemente, sbuffai e gli lanciai annoiato la saccoccia con dentro un centinaio di sterline.

«Tenete» mendicante, aggiunsi mentalmente. Lo prese senza esitazione per poi soppesarlo con la mano, come se potesse contare le monete.

«La vostra cabina è l'ultima sulla sinistra, Signor Kenway. Siete il benvenuto sulla mia nave» giunsi le mani dietro la schiena e sfoderai uno dei sorrisi più falsi e occasionali che avessi mai fatto.

«Vi ringrazio. Ora, se permettete, andrei a sistemarmi per il viaggio»

«Ma certo, andate pure» scesi in coperta e, percorso un angusto corridoio e scavalcato botti, casse e altre cianfrusaglie, arrivai alla porta della mia... stanza. Era piuttosto spoglia: un'amaca, una scrivania e un piccolo oblò. Oh, per non dimenticare il piacevole aroma di pesce marcio.

 

Rimasi chiuso lì dentro tutto il tempo e solo dopo cena mi decisi a mettere fuori il naso. Già mi sembrava d'impazzire.

Salii sul ponte e notai subito la differenza con il buco che osavano chiamare cabina. Feci qualche passo e mi appoggiai con entrambe le mani al parapetto, osservando l'orizzonte e godendomi la leggera brezza che si era alzata, mentre il capitano, sul cassero alla mia sinistra, sbraitava di ammainare le vele.

«Ehi, riccone!» Chiusi gli occhi ed espirai dalla bocca. Non di nuovo. Per favore.

«Parli con me?» Mi voltai guardandomi alle spalle: quattro marinai, abiti logori, capelli sudici -per non parlare del resto-, qualche dente mancante. Che bella combriccola. Sfottevo spesso gli uomini di Re Giorgio, ma se questi esemplari fossero stati chiamati alle armi, beh, addio indipendenza.

«Vedi altri figli di papà qui in giro, amico?» Soffocai una risata. Non ero un figlio di papà da oltre quarant’anni, cazzo.

«Cosa vuoi?» Domandai con scarso interesse. L'unico che fino a quel momento mi aveva rivolto la parola fece qualche passo in avanti, venendomi più vicino. Santo cielo, amico, dicono tanto del vecchio Charles, ma nemmeno tu scherzi quanto a igiene personale.

«Solo sapere come mai un tipo come te se ne va da una parte all'altra dell'Oceano» mi diede una pacca sul braccio; fissai infastidito la sua mano sporca e maleodorante sulla mia redingote pulita, poi tornai sul suo viso.

«E perché dovrebbe interessarti? Ah, e non toccarmi più» indietreggiò di un paio di passi allargando le braccia, fingendo teatralmente di aver paura.

«Il nostro ospite fa il gradasso» intervenne un altro. Dei bizzarri orecchini lunghi e stilizzati gli addobbavano l'orecchio sinistro, ma decisi di concentrarmi su altro, tipo gli occhi lucidi tipici di chi aveva alzato un po' troppo il gomito.

«Signori, non ho voglia di discutere con voi, quindi se volete farmi la cortesia di anda-»

«Lascialo in pace, Edd. Sta tremando come una foglia, non vedi?» Ed ecco il terzo idiota. Afferrai per il colletto l’imbecille che aveva aperto bocca per ultimo e lo sbattei contro il parapetto con forza.

«Ah! Che cazzo fai? Lasciami!» Ovviamente non l’ascoltai e lo spinsi verso l’esterno, facendolo andare fuori bordo di almeno mezzo busto.

«Apri ancora una volta quella fogna che hai al posto della bocca e, lo giuro, stasera dormirai sul fondo dell’Oceano. O nello stomaco di un pescecane. Scegli tu» dissi con calma mentre quello agitava le braccia istericamente.

«Va-Va bene! Lasciatemi, per carità di Dio!» Wow, era passato dal volermi pestare al darmi del voi nel giro di tre secondi. Contai fino a cinque, poi lo ributtai dentro, godendomi la scena nel vederlo gambe all’aria. Si rialzò di scatto ancora senza fiato, spolverandosi i vestiti e guardandomi terrorizzato. Oh, certo, ero io quello che tremava, sì.

 

 

Sera! Anche questa settimana riesco ad essere puntuale con l’aggiornamento, wow! E boh, stasera non ho molto da dire sul capitolo, lol, quindi ringrazio come sempre chi legge, segue e recensisce. Alla prossima c:

 

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Capitolo 13
*** Mentor or enemy? ***


Capitolo 13

 

Guardai la nave su cui era salito mio padre salpare per il mare aperto. Provavo una sensazione strana: preoccupazione? Curiosità? Non sapevo perché fosse partito con tanta urgenza senza nemmeno portarsi dietro uno dei suoi uomini. Forse era convinto di riuscire a risolvere la faccenda da solo, ma l'espressione di Charles, assorto in chissà quali riflessioni, non mi trasmetteva nulla di buono. Approfittane ora e uccidi questo bastardo, ha incendiato il villaggio. È stato Washington, che ti piaccia o no. A me non piace Lee, quindi ammazzalo. Ora. Falla finita, per favore. Si può sapere qual è il problema? Aspetti questo momento da anni, maledizione, e ora che ce l’hai sotto il naso non fai nulla. Basta!

«Sarà meglio muoverci» Charles si destò di colpo «Dobbiamo liberare la città dagli Inglesi il prima possibile» voltò le spalle al mare e iniziò a dirigersi verso l'uscita del porto. Gli corsi dietro.

«Vuoi iniziare adesso?»

«Hai altro da fare, per caso? Washington potrebbe perdere definitivamente tra una settimana, tra un mese o addirittura domani. Non possiamo perdere tempo» lo fissai attentamente mentre lo seguivo. Forse era questo suo modo di fare iperattivo che mio padre apprezzava di lui.

«Come vuoi. Hai già un piano?»

«Per prima cosa troviamo le giubbe rosse» e non fu difficile, dato che quasi ogni due incroci spiccavano le divise dei soldati britannici. Puntammo un gruppo di sei uomini, ero già pronto a far scattare la lama celata, quando Lee mi tirò per il cappuccio.

Eravamo in un vicolo, o almeno così mi parve, dato che diedi una capocciata contro una grondaia e un calcio ad una cassa di legno, ma quando mi lasciò notai uno slargo abbastanza ampio. Sembrava un cortile interno su cui si affacciavano le poche abitazioni circostanti.

«Fermo!» Stavo per ribattere, ma mi anticipò «Ascoltami bene. Mentre tu ti nascondi io li avvicino e li porto qui con una scusa, una volta in trappola moriranno come topi» ghignò sadicamente.

«Perché non posso andare io?» Uccidilo.

«Perché un indiano armato di arco e pistole alla cinghia attirerebbe troppo l'attenzione, non credi?» Iniziai a credere che la mia coscienza avesse ragione. Io ho sempre ragione, sgozzalo.

«Il problema sarebbero le armi? Dì un po', ti sei visto?» Alzò le braccia con fare innocente, mostrando solo il pugnale che quasi tutti, di quei tempi, portavano alla cintura.

«Ora non fare il marmocchio capriccioso e fa' come ho detto» lo guardai indispettito, tra lui e mio padre non so chi si divertisse di più a dare ordini. Vuoi ancora risparmiarlo da una morte lenta e dolorosa? Mio Dio.

Mi voltai verso l'albero alle mie spalle e salii velocemente, rimanendo semi nascosto dalle fronde.

«Va' pure, ti aspetto» mi gustai l'espressione sconvolta che Lee assunse vedendomi arrampicare e sorrisi soddisfatto. Senza aggiungere altro girò sui tacchi, si schiarì la gola e iniziò a correre in direzione della strada urlando:

«Guardie! Guardie! Al ladro, presto! Un indiano, è stato un indiano! Guardie!» Sparì dietro un palazzo, ma le sue urla restavano forti e chiare. Che diavolo stava facendo? Avrei preferito decisamente un’azione più silenziosa e rapida, non di certo questa pagliacciata. Sbuffai e attesi. Sicuramente aveva un piano. Lo speravo, almeno.

Qualche minuto dopo lo vidi tornare in compagnia di sei Inglesi.

«Venite, da questa parte! Per carità, dategli una lezione, quel mascalzone mi ha derubato!» Se non l’avessi conosciuto, lo ammetto, gli avrei creduto senza batter ciglio. Attore nato. Figlio di puttana nato.

«Dov’è questo indiano? Qui non c’è nessu-» non gli fece terminare la frase, gli conficcò il pugnale nella schiena e lasciando poi che cadesse a peso morto accanto ai compagni. Non persi tempo e mi lasciai cadere dal ramo, atterrando su altre due guardie e conficcando le lame celate nei loro colli. Gli altri tre non ebbero nemmeno il tempo di urlare che raggiunsero gli amici all’altro mondo.

«Tsk, è stato fin troppo facile, canaglie!» Colpì uno dei cadaveri con un calcio nel costato, sputandogli poi addosso.

«Smettila, è morto» e tu dovresti tenergli compagnia.

«Ma non mi dire» sghignazzò spostando lo sguardo dal soldato a me, aggiustandosi il colletto della giacca e posando il pugnale alla cintura. Sarebbe stata dura collaborare. Molto dura.

 

***

Quando arrivai a Londra era appena l'alba. Ero a dir poco distrutto dopo un intero giorno di trotto da Folkestone, e scioccato da come il mio cavallo si reggesse ancora in piedi.

Il cielo era per lo più grigio, le strade erano deserte e il silenzio che mi circondava amplificava lo scroscio degli zoccoli del mio purosangue sul terreno piastrellato. Era angosciante, sembravo un fantasma che si aggirava con aria sperduta in una città abbandonata da anni.

Mentre mi dirigevo come un automa verso quel che era rimasto della mia casa, la mia mente si tormentava sul quesito che, di lì a breve, avrebbe avuto risposta: perché Jenny mi aveva chiamato così urgentemente? Che fosse stata rapita di nuovo? E da chi? Fu in quel momento che lo vidi. Lo scheletro di quella che era stata la mia casa era ancora lì, esposto come in un museo nella piazza dedicata alla Regina Anna, come per ricordarmi: "abbiamo distrutto la tua infanzia, Kenway". Una parte del muro era crollata, ma l'edificio era ancora in piedi; per un attimo la immaginai integra, con la facciata pulita, senza crepe, il giardino in ordine, le finestre chiuse con le tende bianche che, dall'esterno, lasciavano intravedere a malapena le sagome. Scossi la testa e legai le briglie del cavallo ad un palo in un vicolo, poi mi avviai a piedi. C'era un silenzio surreale. Superai il cancello -distrutto anch'esso- e, attraversato il giardino, non fu difficile entrare in casa, dato che la porta era sfondata.

«Jenny?» La chiamai. Col silenzio che c'era, sembrava avessi urlato a squarciagola. Non rispose nessuno, quindi avanzai. Mi ritrovai in quella che, un tempo, era la cucina; era insolito tornarci dopo tanti anni e, strano a dirsi per uno come me, ma fece un certo effetto. Attraversai un paio di stanze e mi trovai ai piedi delle scale; iniziai a salire con il cuore in gola, deglutivo a fatica temendo di far rumore e, in cuor mio, pregavo che il legno consumato e annerito degli scalini non mi tradisse con qualche scricchiolio.

Una volta in cima mi fermai; presi fiato e rividi me, di soli dieci anni, infilzare con una spada l'occhio di un tizio dal viso coperto sotto lo sguardo terrorizzato -e schifato- di mia madre. 

Sì, schifato.

Da quel momento in poi non fui più suo figlio, il suo bambino. Non mi aveva più considerato. Ai suoi occhi ero solo un ragazzino che, crescendo, sarebbe diventato un sicario, un assassino, un uomo senza scrupoli. O forse lo ero già allora. Non aveva forse ragione sul mio futuro? Avanzai ancora e, sulla destra, qualche metro più avanti, vidi la porta della sala dei giochi, quella dove mi allenavo con mio padre e dove lo vidi morire. Portai la mano all'elsa della spada, pronto a sfoderarla in caso di pericolo.

Non ero affatto tranquillo. Quando arrivai davanti alla sala guardai dentro istintivamente. Notai una figura abbassata, in fondo alla stanza, davanti alla libreria. Sobbalzai quando capii che era una persona, una donna, dati i lamenti acuti che aveva iniziato a fare accorgendosi di me. Iniziò a dimenarsi per liberare la bocca dal bavaglio, emettendo mugolii incomprensibili.

«Jenny!» Mollai l'elsa della spada e con poche falcate entrai nella stanza, inginocchiandomi davanti a lei.  Notai che il vestito era sgualcito all'altezza del petto e parte del seno era visibile. I polsi legati da spesse corde erano appoggiati in grembo, le gambe piegate di lato.

«Cosa diavolo succede?» Fu una domanda istintiva, avevo intuito che ci fosse qualcosa di anomalo -o non mi avrebbe scritto-, ma credevo ci avrei capito qualcosa. Appena le liberai la bocca dalla stoffa, prese fiato come se fosse stata in apnea per cinque minuti.

«È qui, è qui. Dobbiamo andarcene» farfugliò di fretta e sottovoce. Era come impazzita. Mi tolsi il mantello e lo usai per coprirle la schiena e le spalle, per poi accostare i lembi sul petto per rimediare lì dove il vestito non poteva arrivare.

«Calmati. Di chi parli?»

«Non c'è tempo, andiamo via, per l'amor del cielo» era fuori di sé, non sarebbe riuscita a darmi una spiegazione logica finché saremmo rimasti lì dentro. Feci scattare la lama celata per slegarle i polsi.

«Da quanto tempo, Haytham» mi bloccai con la lama ancora fuori e guardai Jenny per una manciata di secondi. No. Era impossibile, l'avevo visto morire come un cane con i miei occhi. Ora era tutto chiaro: la lettera, il luogo d'incontro. Avrei dovuto capire che c'entrava lui, anche se non potevo -e volevo- crederci.

«Reginald» non mi voltai. Sapevo di averlo alle spalle e mi alzai piano senza far rientrare la lama. Solo in quel momento mi degnai di guardarlo in faccia -buio permettendo-.

«Come hai fatto a sopravvivere? Schifoso bastardo» nonostante la quasi totale oscurità, riuscivo a vederlo mentre sghignazzava soddisfatto. Mi aveva spiazzato, senza dubbio, ma che senso aveva tutto questo? Perché rapire Jenny?

«Credevate di avermi ucciso, e ci è mancato poco, lo ammetto. Avete risparmiato uno dei miei uomini, quella volta. Certo, non era nei vostri piani, ma col suo aiuto riuscii a cavarmela» digrignai i denti imponendomi di mantenere la calma. Con due falcate mi raggiunse, mi piazzò una mano sul petto e mi spinse con forza contro la libreria, facendo cadere uno dei pochi libri superstiti alla mia sinistra.

Soffocai un gemito di dolore, uno dei ripiani di legno massiccio mi aveva quasi spezzato due costole e una vertebra. Ora potevo vederlo in volto, la fioca luce che penetrava dalla finestra -o quel che ne rimaneva- sulla sinistra gli illuminava il profilo, mostrandomi le labbra incurvate in quello che interpretai come un sorriso sghembo.

«Non sei cambiato, Haytham. Stupido e ingenuo come tuo padre» il suo fiato mi arrivò dritto in faccia come fosse un veleno letale pronto ad uccidermi lentamente, feci una smorfia disgustata.

«La carcassa di un cane profumerebbe più del tuo alito» sibilai acidamente. Rise ancora. Si permetteva di ridere, quel figlio di puttana.

«Non è un linguaggio che vi si addice, signorino Haytham» e osava anche prendermi per il culo, mentre Jenny, ancora immobile a terra, farfugliava a ripetizione cose senza senso.  Feci per muovermi, ma Reginald fece uscire un coltellino dalla manica sinistra. Me lo poggiò sulla guancia e, con una lentezza snervante, lo fece scivolare fino alla bocca.

«Fa' rientrare la lama, da bravo» premette il seghetto sulla carne fino a farmela bruciare, ma non mostrai nessun timore. Nemmeno quando sentii nettamente un rivolo di sangue colare fino al mento e poi giù, raggiungendo il collo per poi fermarsi contro la stoffa della camicia. Mossi di poco il polso e la lama scattò con un click.

«Che cosa vuoi, Reginald?» Chiesi senza troppi giri di parole. Avevo mollato Charles e Connor per questa puttanata? Grandioso, Washington rischiava di perdere la guerra da un momento all'altro ed io ero qui, a parlare con questo verme.

«Finire il lavoro, semplice» capii immediatamente. Voleva cancellare i Kenway dalla faccia della Terra, ucciderci tutti, dal primo all'ultimo, eliminare ogni nostra traccia, come se non fossimo mai esistiti. Ringhiai.

«Avresti potuto finirlo quella sera, invece assoldasti una manciata di uomini per attaccarne uno, colto di sorpresa e di notte, per giunta. Era davvero così bravo, mio padre? O eri tu a crederlo tanto valoroso, date le tue scarse abilità?» Non si irritò nemmeno 'stavolta. Calmo e impassibile come sempre. Girò di poco il coltellino, macchiandone la parte piatta col mio sangue; rise ancora.

«Proprio non capisci? Avrei potuto ucciderti, sì, ma vedi, chi avrebbe fatto il tuo lavoro? Chi avrei mandato a fare le missioni che hai svolto? Ora, però, non mi servi più e, si sa, la feccia va eliminata» mostrai i denti.

«Tu sei pazzo, Reginald. Sei completamente folle» ignorò bellamente il mio commento e sogghignò ancora, per l'ennesima volta.

«Morirete tutti, oh sì. Sparirete per sempre e, finalmente, il mondo potrà essere guidato da noi» credevo parlasse dei Kenway, ma finì la frase «sporchi Assassini»

 

 

Salve a tutti! Stasera sono più in ritardo del solito, ma ho avuto problemi dovuti al maltempo e boh, è già tanto che sia riuscita a postare, loool.

Cooomunque, so per certo che un lettore starà fangirlando come pochi per aver azzeccato questo pezzo di trama *lancia biscotto*. Su, voglio tanti commenti acidi sul vecchio Reginald, che mi ricorda tanto, ma taaanto, l’oca degli Aristogatti, trolol.

Okay, la smetto, muchas gracias come sempre a chi legge, recensisce e segue! A presto!

 

 

 

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Capitolo 14
*** Niente più dolore. ***


Capitolo 14

 

«Non sono un Assassino, Reginald. Lo sai!» Mi bastava vedere Connor, le sue stupide illusioni e i suoi scarsi risultati. Forse un po' lo ero, non avevo smania di potere, non volevo conquistare il mondo, nemmeno m'interessava. Avere dei princìpi, quindi, significava essere un nemico?, uno di loro?

No. Ero un Templare e sempre lo sarei stato. Forse un po' diverso, ma pur sempre un membro dell'Ordine.

«Non te ne rendi conto nemmeno tu, o forse fingi, non lo so. Forse avrei dovuto uccidere Edward tempo prima» serrò l'altra mano sul mio collo e udii Jenny singhiozzare. Dannata idiota, avrebbe anche potuto aiutarmi, invece no, preferiva starsene raggomitolata per terra a frignare aspettando di essere salvata.

Istintivamente portai la mano sinistra sul polso di Reginald per allentargli la presa, aprii la bocca cercando aria. Non potevo morire così, non in quel luogo, non in quel modo, non per mano sua. Feci scattare la lama del braccio sinistro trapassandogli l'avambraccio da parte a parte e, lo ammetto, quando mi mollò urlando e tentando di fermare il sangue, mi sentii rinato. Barcollò all'indietro di qualche passo macchiando il pavimento con gocce rosse e calde, quindi colsi l'occasione per sguainare la spada.

«Ti pentirai di avermi fatto tornare qui. Avresti potuto approfittarne e vivere tranquillamente la tua squallida esistenza fino alla fine, continuare le tue inutili e sciocche ricerche su Coloro Che Vennero Prima, invece morirai davvero» rise, nonostante la ferita.

«Vedi?» Raddrizzò la schiena e tolse la mano dal buco che aveva poco sopra il polso, osservandosi il palmo scarlatto con orrore e rabbia «Proprio come Altaïr, quell'Assassino. Uccise il proprio Mentore» sibilò continuando ad osservarsi la mano.

Gli puntai contro la spada.

«Oh, no, Reginald. No. Non ho scopi più nobili, non ti ucciderò per salvare il mondo o stronzate simili. La mia è pura vendetta personale, nulla di più» e stavolta risi anch'io. Era ferito, io incazzato: l'avrei ammazzato in pochi secondi. Scattai in avanti serrando la presa sull'elsa, puntai il piede destro sul pavimento e mi sbilanciai in avanti, tentando di colpirlo al petto. Un attimo prima che gli infilzassi il torace, riuscì a deviarmi la spada con un pugnale che aveva ancora in mano.

Non persi tempo e l'attaccai di nuovo, ferendolo all'avambraccio sinistro. Lo guardai indietreggiare ed appoggiarsi allo stipite della porta ormai annerito, le mani erano imbrattate di sangue, così come le maniche della redingote.

«Non rallegrarti, Haytham. Non sono solo» non mi stupii, era una mossa prevedibile da parte sua. Impugnai meglio la spada e feci scattare la lama del braccio sinistro, regolai il respiro.

«Sai, ammetto che un po' mi dispiace. Il mondo sta per perdere un ottimo spadaccino» sogghignai.

«O un vecchio fallito infatuato di antenati. Saranno le spade a dirlo» non avevo paura, semplicemente non vedevo l'ora di vederlo a terra agonizzante in un lago di sangue e stare lì, davanti a lui, a godermi la scena della sua dipartita. Mi scagliai contro il mio maestro ancora una volta, la mia spada e il suo pugnale cozzarono tre, quattro volte, poi mi spinse via urlando come un ossesso un nome che non capii. Nel giro di due secondi una figura completamente oscurata, alta quasi due metri, comparve alle spalle di Reginald per poi fiondarsi con furia su di me. Lo evitai spostandomi di lato; era un armadio, forse il doppio di me come massa muscolare, ma era un totale idiota. Buon Dio: Connor? Sogghignai a questo paragone.

L'energumeno frenò la corsa poco prima di sbattere contro la libreria, poi si voltò verso di me, tentando in vano di colpirmi con la spada e con un pugno. Indietreggiai istintivamente e mi sentii intrappolato tra il colosso e il vecchio tavolo da biliardo. Merda. Tastai a mano aperta il ripiano alla ricerca di qualsiasi cosa, quando con le dita sfiorai la stecca. L'afferrai e, con uno scatto, colpii il tirapiedi di Birch in piena testa.

«Aahn..» crollò a terra a peso morto e guardai l'asta spezzata ancora stretta nella mia mano; scrollai le spalle e la lasciai cadere.

«Un po' scarsi, i tuoi nuovi allievi. Mi hai sottovalutato o è il meglio che sei riuscito a trovare?»

«Dah, chiudi il becco» decisi di accontentarlo e con poche falcate gli fui di nuovo a meno di un metro di distanza. Nonostante avesse entrambi gli avambracci feriti, riusciva a parare o evitare i miei fendenti, raramente tentava di contrattaccare. Mentre cercavo di disarmare definitivamente Birch, sentii un lamento di Jenny che, istericamente, stava tentando di liberare i polsi ancora legati. Non l'aiutai, che diamine, avevo solo due mani. La vidi gattonare fino a nascondersi dietro al tavolo da biliardo, poi tornai a guardare Reginald. Dovevo uscire da quella situazione il prima possibile; pensa, Haytham, pensa! Come se mi avesse letto nel pensiero, il mio ex mentore estrasse dalla redingote una pistola e, con il suo classico sorriso calmo, di chi sa di avere la situazione in pugno, me la puntò contro. Fu un attimo, mi abbassai fulmineo rotolando a destra, affiancando Jenny dietro al tavolo da biliardo.

«Cazzo!» Imprecai a bassa voce. Mio padre doveva avermi salvato la pelle dall'altro mondo, nel caso fosse esistito.

«Dobbiamo andarcene da qui. Per favore, fa' qualcosa» Dio, che nervi.

«Fammi un piacere: taci e lasciami pensare» non rispose e seppur riuscissi a vedere Reginald solo dal ginocchio in giù, capii che stava ricaricando la pistola. Deglutii ed estrassi la mia, mirando e sparando -da sotto il tavolo- alla gamba sinistra di Birch. Lo vidi cadere per terra e tenersi l'ennesimo arto ferito, quindi mi alzai tirando Jenny.

Dovevamo andarcene al più presto, l'avrei ucciso in un altro momento, magari senza quella piattola di una Scott tra i piedi. E sì, lo ammetto, volevo ucciderlo in un modo migliore, umiliandolo, in modo che se fosse esistito l'aldilà, quel momento l'avrebbe tormentato in eterno. Scostai quell'infame dalla porta dandogli un calcio, feci per superarlo, ma mi fermai un attimo per osservarlo sdraiato a terra, dolorante.

Aveva il fiato corto e il viso contratto in una smorfia di dolore, gioivo nel vederlo così. Nella mano destra stringeva ancora il coltellino con cui mi aveva ferito. Mi lasciai sfuggire un sorriso e appoggiai il piede sul suo polso, pestando sempre con più forza.

Si lamentava, il bastardo, cercando di mantenere un contegno nonostante il dolore; non sollevai il piede finché non sentii un inconfondibile stock, segno che gli avevo rotto il polso. Diedi un calcio al coltello, allontanandolo abbastanza in modo che non potesse più prenderlo, poi mi abbassai e lo afferrai con forza per il bavero della giacca, sollevandolo e sbattendolo violentemente contro lo stipite della porta. Mostrò i denti, dolorante, e gli assestai una ginocchiata nelle palle. Al diavolo l’umiliazione, mi bastava vederlo crepare.

«Ultime parole, Reginald?» Sibilai a pochi centimetri dal suo viso. Lui deglutì a fatica, col viso pallido -non per la paura, bensì per le ferite- e imbrattato di sudore.

«Credi che questo ti porterà onore? Dalla mia morte non trarrai nessun vantaggio, Haytham» era senza fiato, ma nonostante ciò continuava a dire stronzate. Strinsi di più la presa.

«Vedo che non ci capiamo. Te l'ho già detto, questa è vendetta personale, non mi aspetto vantaggi di nessun tipo. Voglio vederti morto» rise, soffriva come un cane, ma continuava a prendersi gioco di me.

«Non ti credevo tanto sentimenta-» non gli lasciai terminare la frase, lo infilzai con la lama celata in pieno petto, evitando appositamente organi vitali.

«Mai mettersi contro un Kenway, Reginald. Mai» scoprì i denti imbrattati di sangue in quello che sembrava essere l’ennesimo ghigno. E anche l’ultimo.

Estrassi la lama dal petto e gliela conficcai con violenza nello stomaco. Strabuzzò gli occhi, come se non credesse a ciò che stava accadendo. Deglutì serrando la mascella, forse per bloccare un conato di vomito misto a sangue.

Estrassi la lama con forza, lasciando che la carne venisse scossa dal metallo che si ritraeva e permettendo alle interiora di fuoriuscire, ma non mi bastava. Gli affondai la lama nelle palle con tutta la forza che avevo in corpo, togliendogli l’unica caratteristica virile che madre natura gli avesse donato.

«Non era questa la morte che avevo pensate per te, è fin troppo onorevole, ma mi basta il tuo cadavere» infine, come colpo di grazia, lo colpii al collo, facendogli un buco in corrispondenza della giugulare. Il sangue mi schizzò sulla manica, qualche goccia raggiunse il viso, ma non me ne curai. Osservai gli occhi di Birch rivoltarsi all'indietro, dandogli un'aria da folle mentre moriva come un cane per mano mia. Mollai la presa sul colletto della redingote, lasciando che il cadavere scivolasse a terra a peso morto, poi mi voltai verso Jenny dopo aver pulito la lama sulla veste di Reginald.

 

Trovai una goletta che, almeno stavolta, ci avrebbe portati direttamente a New York.

Pagai per entrambi, fortunatamente avevo ancora abbastanza denaro con me. Ne sborsai fin troppo, dato lo schifo di cabina in cui avremmo alloggiato; ma cosa potevo pretendere? Era una bagnarola che a malapena galleggiava, l'unica che andasse a New York senza fare altre tappe o scali.

Una volta sottocoperta impiegammo una decina di minuti per trovare l'angolino appartato dove avremmo dormito. Passai in mezzo a botti, cumuli di sacchettini pieni di polveri da sparo, bottiglie -probabilmente con del rum dentro o chissà che altro-, cannoni e un paio di mozzi sbronzi accasciati su delle cime arrotolate ordinatamente.

Alla fine del ponte svoltai a sinistra, trovando due amache solo per noi. Dopo un attimo di stupore mi tolsi il cappello e lo appoggiai su una botte lì vicino, dopodiché mi sdraiai su uno dei due teli a mezz'aria, i quali erano sorretti da due nodi a dei grossi ganci fissati alle pareti.

Chiusi gli occhi sperando di cadere in un sonno profondo e risvegliarmi a Fort George, cosa impossibile, purtroppo.

«A cosa è dovuta tutta questa fretta di tornare a New York?» Aprii un occhio e la guardai mentre si sedeva con cautela sul lenzuolo teso.

«Affari importanti»

«Una donna?» Oh, cielo, se sperava di spettegolare con me, beh, si sbagliava di grosso.

«Ho detto affari, non svaghi» scosse la testa, schioccando più volte la lingua sul palato in segno di diniego.

«Quanto sei rozzo! Le donne non sono uno svago, ma l'impegno più difficile per un uomo» non per Hickey, pensai con un ghigno. Thomas, iniziavano a mancarmi i suoi battibecchi con Charles.

«Sì, sì, come vuoi. Resta il fatto che le donne non c'entrano. Siamo in guerra con l'Inghilterra, il comandante in capo dell'esercito Continentale è più inesperto di te, militarmente parlando, e Re Giorgio sta inviando altre truppe» Dio, avevo il mal di testa solo al pensiero dei casini che poteva aver combinato Washington in questi mesi. Non avevo avuto più nessuna notizia.

«A te cosa importa di questa guerra? E poi sei inglese, stai aiutando la fazione sbagliata» sbuffai. Jenny ne capiva di guerra quanto io di ricamo.

«Inglese o no, sono un Templare. Ho il dovere di diffondere l'Ordine nel Nuovo Mondo, ma se Re Giorgio conquista la terra, attuerà i suoi piani di espansione, intralciando i miei»

«Da quando sei diventato così diplomatico?» Sbuffai.

«Non lo sono, infatti. È solo che le sue azioni mi sono scomode, tutto qui» si limitò ad annuire, capendo che non avevo voglia di tirare avanti il discorso.

 

Non saprei dire con precisione quante ore passammo lì, sdraiati su quelle brande -che, per quanto fossero scomode e lerce, non avrei offerto neanche ad un vagabondo in fin di vita-, una dozzina, forse. Sapevo solo che i pasti erano a malapena commestibili ed ero alquanto stupito di essere sopravvissuto a ben due razioni.

Dopo cena mi alzai dalla branda e salii sul ponte, avevo le gambe indolenzite e bisogno di aria fresca. Non avevo mai apprezzato il mare e tanto meno avevo cercato di comprendere l'amore per il largo, per le navi e cose varie, ma finita la rampa di scale dovetti ricredermi. Non avevo mai visto un tramonto del genere, con quei rossi tendenti al viola e al blu scuro, così in contrasto con l'azzurro chiaro dell'acqua, che rifletteva il sole ormai basso.

Rimasi fermo per qualche istante a fissare quella miscela di colori, avanzando di qualche passo come un automa fino ad appoggiare le mani al parapetto.

«Bello, non è vero?» Non mi voltai nemmeno, consapevole di avere Jenny alle spalle. Rimasi in silenzio a fissare l'orizzonte, chiedendomi quante volte mio padre si fosse fermato ad ammirare un tale spettacolo.

«Non mi hai raccontato nulla di te, Haytham» me la ritrovai a sinistra, appoggiata anche lei al parapetto.

«Non c'è nulla da dire» beh, forse qualcosa sì «A parte il fatto che ho un figlio»

«Un figlio? Tu?!» Che diavolo, avevo avuto anche io le mie avventure, perché si stupiva tanto?

«Già, un figlio. Spero di non doverti spiegare come si faccia» mi diede un colpo sul braccio, offesa.

«Quindi sei sposato?» Cercò con gli occhi la fede alla mano sinistra, senza trovarla, ovviamente.

«No»

«Beh, avrai una compagna, almeno»

«È morta. E non era la mia compagna» dissi continuando a fissare altrove. Non potevo definire Tiio in quel modo e ne ero dispiaciuto, in fondo. Convivere per qualche settimana in una tenda nel bel mezzo del bosco non era esattamente una relazione, diciamolo.

Era stata un'amica, un'alleata, la madre di mio figlio. Ma non compagna.

«Oh, mi dispiace» scostò lo sguardo sentendosi a disagio, portandolo sull'orizzonte. «Ti sei sempre occupato tu del bambino, allora?» Dio, raccontarle la storia della vita melodrammatica di Connor non era una delle mie priorità.

«No, me ne andai in Europa per salvare qualcuno» la guardai con la coda dell'occhio «sua madre morì quando lui aveva quattro anni, venne accudito dalla gente del suo villaggio» notai solo pochi secondi dopo la sua espressione stupita. «Già, sua madre faceva parte della tribù dei Kanien'kehá:ka» nel dirlo trovai le mie mani estremamente interessanti, decisamente più dello sguardo certamente sconcertato di Jenny, da sempre abituata alla vita aristocratica e ciò che essa comportava. Dopotutto non ero uguale a lei? Non avevo vissuto anch'io nel lusso della mia casa a Londra? Vero, ma per un periodo più breve, e non avevo avuto il tempo di comprendere i pregiudizi che quelli come noi avevano nei confronti dei meno abbienti. Insomma, passai i primi dieci anni della mia vita tra le mura di casa, senza un amico o uno schifo di persona con cui parlare, protetto come se la vita oltre il nostro giardino avesse potuto infettarmi. Avrei socializzato persino con un mendicante se ne avessi avuto l'opportunità, come avrei potuto disprezzare gli altri basandomi solo sulla disponibilità economica?

«Oh, una donna indiana» ero pronto a qualsiasi commento. Su, cara sorella, non risparmiarti sul più bello.

«Già»

«Era bella?» Trovai il coraggio di guardarla e, con mia enorme sorpresa, stava fissando l'oceano, sorridendo. Cosa avrei dovuto rispondere?

«» ovvio che lo era, almeno per me. Diavolo, era una situazione a dir poco imbarazzante, quindi cambiai argomento, tornando a parlare di Connor e della sua triste vita tormentata «Crebbe poco fuori la periferia di Boston finché non decise di..» deglutii con aria disgustata, tentando di trattenere un conato «.. unirsi agli Assassini» si voltò nuovamente verso di me con una rapidità inaudita, nemmeno le avessi annunciato la mia conversione alla Confraternita.

«Davvero? Dio, come nostro padre! E cos-»

«No!» La interruppi malamente, alzando la voce, forse, un po' troppo. «Nostro padre era consapevole delle sue scelte, decise di sua iniziativa di unirsi agli Assassini e, soprattutto, non era un idiota» presi fiato sbattendo una mano sul legno consumato «Connor si è unito a quegli imbecilli andando per esclusione, ha in testa idee completamente sbagliate ed è convinto che l'unico modo che abbia per raggiungere i suoi scopi sia aiutare la fazione nemica alla mia. È convinto che sua madre sia morta per colpa dell'Ordine, per questo sta con la Confraternita, non per reale convinzione, non per gli ideali. È puro opportunismo, il suo!» Mi sfogai, dicendo tutto quello che pensavo e che non avevo mai potuto tirar fuori. A chi avrei dovuto dirlo, poi? A Charles? Direttamente a Connor? No, per carità di Dio. E nemmeno Jenny era la più adatta, a dirla tutta, visto che non sapeva nulla. Doveva avermi preso per folle.

Sospirai. Dovevo smetterla con questi discorsi. Consapevole o no, Connor voleva la libertà, far scorrazzare chiunque qua e là senza criterio, cosa che l'Ordine non avrebbe mai permesso; quindi, a prescindere dai motivi personali, io e lui ci saremmo sempre combattuti. Al diavolo le alleanze tattiche, alla fine, faccia a faccia, armati fino ai denti, ci saremo noi due.

«Non andate molto d'accordo, eh?» astuta, la Scott.

«Non si può con persone infantili come lui. Ho provato a farlo ragionare, ad aprirgli gli occhi, a spiegargli com'erano andati realmente i fatti. Niente, non ho ottenuto un bel cazzo di niente» quanto potevo essere frustrato? Avrei avuto sempre torto per Connor, qualsiasi cosa avessi fatto.

«Non devi convincerlo a passare dalla tua parte, Haytham. Anche se ha preso una strada diversa, devi lasciarlo fare. Nostro padre non ti avrebbe impedito nulla» risi amaramente. Cosa ne voleva sapere? Per quanto mio padre fosse aperto al dialogo, aveva già scelto per me, sicuro che sarei diventato un Assassino coi fiocchi. Senza lasciarmi possibilità di ribattere aveva iniziato ad allenarmi, non che la cosa mi dispiacesse, sia chiaro, ma non ero consapevole di nulla.

«Nostro padre aveva programmato sin dall'inizio di farmi entrare nella Confraternita. Come pensi avrebbe reagito se gli avessi annunciato di voler entrare nell'Ordine?» Chi lo sa. Forse, se le cose fossero andate diversamente e Reginald non l'avesse ucciso, avrei seguito le sue orme. O forse, conoscendo meglio Birch, che avrebbe sposato Jenny e sarebbe rimasto comunque in famiglia, sarei entrato lo stesso nell'Ordine. E in quel caso avrebbe accettato?

Ma poi perché mi ostinavo a parlare con Jennifer, che nella vita non aveva fatto altro che ricamare -e solo Dio sa cosa nel palazzo del sultano-? Se avessi continuato a tenermi tutto dentro sarei impazzito, poco ma sicuro. Mi passai una mano sugli occhi, esasperato. Era strano averla con me, mi sembrava di mischiare due vite diverse, avulse l'una dall'altra. Dopo la morte di Jim Holden cambiò tutto. Tutto ciò che mi ricordava la mia vita a Londra era sparito: Jenny, Jim, Reginald -o almeno così credevo-, avevo iniziato un altro capitolo nel Nuovo Mondo, caratterizzato specialmente dalla presenza di Connor.

«Che hai intenzione di fare una volta arrivati a New York?» La guardai. Si appoggiò al parapetto con entrambi i gomiti e sorrise, tenendo lo sguardo fisso sull'orizzonte.

«Ad essere sincera non lo so. Voglio ricominciare, troverò qualcosa» alzai le sopracciglia, incredulo.

«Intendi un lavoro?» Risi «Per l'amor del cielo, Jenny, non hai mai alzato un dito in vita tua, non dureresti un giorno» mi fulminò.

«Con che coraggio osi dirmi questo? Ho lavorato come una schiava per anni, sono abituata alla fatica» rispose con l'acidità degna della zitella che era.

«Era questione di vita o di morte, è diverso» schioccai la lingua contro il palato. «Ti dico io come andrà: ti troverai un uomo benestante e ti accaserai. Anche se...» la squadrai da capo a piedi «dubito che qualcuno ti si prenda»

 

Salve salvino! No, non sono posseduta da Ned Flanders, lol. Per caso oggi posto in anticipo –contenti?-. Allora, quanto mi diverte prendere Connor per i fondelli? Tanto, troppo. Ma in fondo se lo merita, eccome.
Non mi dilungo, dai. Grazie a chi segue, legge, recensisce e boh, non so che altro aggiungere. A presto.

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Capitolo 15
*** Con il ritorno inizia un altro viaggio. ***


Capitolo 15

 

Mio padre era partito da un paio di mesi e ancora non avevamo ricevuto sue notizie. La cosa mi insospettiva non poco, aveva assicurato a Lee che lo avrebbe aggiornato sui suoi spostamenti e che gli avrebbe fatto sapere che altro fare, oltre a liberarci delle giubbe rosse, invece niente.

Ormai alloggiavo a Fort George da cinque settimane circa, avevo avvisato Achille di questa scelta e, beh, non l'aveva presa molto bene. Ero nel covo del nemico, avrebbero potuto farmi fuori nel sonno o avvelenare il cibo, ma non accadde nulla di tutto questo. E, stranamente, Charles tentava anche di andare d'accordo con me, aveva iniziato addirittura a chiamarmi "ragazzo" al posto di "indiano" o "selvaggio". Era un passo avanti.

Quella mattina mi alzai di buon'ora, facendomi trovare puntuale nel salone in cui abitualmente facevamo colazione. Quello dove avevo ferito mio padre, per capirci. Raggiunsi la porta contemporaneamente a Charles che, appena mi vide, annuì leggermente, come a salutarmi. Lo seguii all'interno e restai stupito come ogni mattina. Il tavolo era apparecchiato per due, ma nonostante questo c'erano leccornie di ogni tipo.

Presi posto a tavola imitato da Lee, che non perse tempo ad afferrare una fetta di pane per spalmarci sopra della marmellata.

«Mangia, ragazzo. Oggi ci serviranno energie» presi della frutta senza distogliere lo sguardo da lui, così composto e controllato in ogni circostanza.

«Ormai la città è quasi liberata. Manca solo la zona del mercato» addentai una mela attendendo risposta, masticando rapidamente mentre Charles mordeva con contegno il pane farcito.

«Che, guarda caso, è vicino al porto» si pulì le labbra con un tovagliolo di stoffa rosso scuro, poi lo piegò, adagiandolo accanto al piatto «sperano ancora di poter controllare i commerci. Illusi» sorrise scuotendo leggermente il capo.

«Ormai è questione di giorni, abbiamo quasi finito. Dopo cosa faremo?» mi guardò come se la cosa fosse ovvia anche per un moccioso di cinque anni.

«Prenderemo il controllo dell'esercito»

«Cosa? Ma Washin-»

«Stronzate» mi interruppe di colpo «non lo ucciderò, se è questo che ti turba. Ho solo intenzione di dare io gli ordini fino a che la situazione non migliorerà» bevve con calma come se il suo piano fosse il massimo della legalità.

«Non puoi togliere il comando a Washington, non senza una nomina ufficiale» espirò aria dal naso e si sporse sul tavolo, avvicinandosi a me.

«E cosa proponi? Di dare fiducia a quel vecchio finché non perde la guerra? Questo non è un gioco, ragazzo. Se il tuo caro George sbaglia ancora un paio di mosse, siamo fottuti tutti quanti, non è il solo a rischia il culo» si lasciò andare all'indietro, appoggiandosi allo schienale «ammettilo, ho più pratica di lui. Non che la cosa richieda un grande sforzo» riprese a mangiare tranquillamente. No, era pura follia. Prendere il posto del Comandante in capo era una delle idee più stupide che avessi mai sentito. Sbuffai.

«Credi che sarà così semplice? Washington non si lascerà rimpiazzare così facilmente»

«Oh, giusto. Mi minaccerà di morte da venti metri di distanza, magari nascosto dietro una delle sue guardie. Tsk, apri gli occhi, non durerà a lungo. Lo conosco bene» non risposi alla sua ironia. Era inutile continuare quel discorso insensato, non gli avrei fatto cambiare idea «avrà anche dei buoni propositi, ma questo non cambia il fatto che sia un incapace.»

 

Finita la colazione uscimmo da Fort George, raggiungendo la zona del mercato in pochi minuti. La strada era affollata come al solito, gli uomini ai banconi urlavano per attirare clienti, i bambini giocavano a rincorrersi, alcune donne elemosinavano poche monete.

Ad ogni angolo spiccavano i soldati inglesi, armati di moschetti e dall'aria svogliata. Vidi Charles guardarsi intorno, come fosse alla ricerca di qualcosa. Non feci in tempo a chiedere spiegazioni che mi tirò verso una panchina della piazza.

«Che diavolo!» Borbottai una volta seduto.

«Quattro strade»

«Eh?» lo guardai senza capire.

«Su questa piazza si affacciano quattro strade, quindi dodici giubbe rosse» sorrise appena «Dovremmo riuscire a sbarazzarci di loro in fretta» mi diede un colpetto sulla gamba come a rassicurarmi, poi si alzò. «Resta qui e controlla la situazione, me la sbrigo in pochi minuti» non feci in tempo a ribattere che sparì tra la folla. Diamine, perché doveva fare tutto lui?

Chiusi gli occhi e mi concentrai. Quando li riaprii divenne tutto più semplice, la folla era una massa grigia, le guardie agli angoli erano illuminate di un rosso vivo e Charles... Dio, era blu. Blu, un alleato. Un Templare era mio alleato.

Deglutii seguendo Lee con lo sguardo; si avvicinò ad una bancarella, prendendo una mela e lanciando con due dita una moneta al venditore. Si girò con nonchalance, lasciando che qualcosa scivolasse dalla manica dentro la cassetta della frutta.

Morse la mela e tornò a sedersi accanto a me masticando, mostrando un ghigno divertito.

«Tre, due, uno» non feci in tempo a chiedere nulla che un'esplosione mi stordì per qualche attimo. L'orecchio sinistro non smetteva di fischiare, la gente iniziò a correre senza criterio, allontanandosi il più possibile dalla bancarella distrutta. Tossii per il fumo. Sentii dei passi cadenzati correre verso di noi, percepii chiaramente dei fucili caricarsi.

«Andiamo, il piano ha funzionato» mi prese per un braccio, trascinandomi chissà dove.

«Chi è stato?» era una voce maschile che non conoscevo, cercai di mettere a fuoco ciò che avevo davanti nonostante la nube e il caos, riuscendo a distinguere le giubbe rosse con i moschetti puntati sulla folla «Chi cazzo è stato?» urlò un altro di loro. Mi voltai a destra convinto di avere Charles accanto, sbagliandomi. Solo pochi secondi dopo lo vidi dietro di loro, in piedi sulle macerie del banco del fruttivendolo.

Si lasciò cadere in avanti, ammazzando due soldati, poi estrasse i pugnali dalle schiene dei cadaveri e si spostò di lato per prepararsi a combattere con gli altri dieci. Parò i colpi del più coraggioso che si fece avanti per primo, poi gli assestò un calcio nello stomaco, sfregiandogli, infine, il viso con uno dei due coltelli. Quello cadde mollando il fucile e portandosi le mani al volto, urlando e scalciando dal dolore.

«Qualcun altro si fa avanti?» disse ancora spostandosi lateralmente. Aspettai che il secondo soldato si muovesse, quindi corsi verso di loro, conficcando le lame celate nei colli di altre due giubbe rosse, che crollarono subito. Tutti gli altri si voltarono verso di me.

«Chi cazzo sono questi due bastardi?» Urlò uno, proprio mentre Charles approfittava della loro distrazione per ucciderne altri due.

Tagliò la gola ad entrambi, falciando i colli con i pugnali e imbrattando il pavimento -e la sua camicia- di sangue.

Ne rimanevano tre; Charles rise divertito, non sembrava nemmeno stanco, era chiaro che l'avesse addestrato mio padre.

Scostai lo sguardo da Lee appena in tempo per deviare un fendente con la lama celata, per poi conficcarla nello stomaco della giubba rossa. Lo lasciai cadere a terra e corsi verso gli ultimi due, afferrando il braccio di uno di loro e girandoglielo innaturalmente, spezzandogli gomito e spalla, proprio mentre il mio alleato uccideva l'ultimo.

Scambiai un'occhiata con Lee, che mi sorrise soddisfatto per poi alzare un pugno in aria.

«New York è libera!» La folla gli andò dietro, iniziando ad urlare e a darci pacche sulle spalle «Ben fatto, ragazzo. Tuo padre sarà contento al suo arrivo» mi porse la mano. Lo guardai senza saper cosa dire, dovevo fidarmi? Perché l'occhio dell'aquila me lo indicava come un alleato? Sospirai sorridendo appena e gliela strinsi con vigore.

 

***

 

Fu un sollievo mettere piede sulla terra ferma dopo tutto quel tempo passato su una barca dondolante. Inspirai a pieni polmoni l'aria di New York che, nonostante fosse l'alba, sembrava nel pieno delle attività. Portai le mani dietro la schiena e osservai il porto, sembrava tutto tranquillo, cercai giubbe rosse ovunque e, con gran sollievo, non ne vidi nemmeno una.

«Eccomi, possiamo andare»

«Seguimi. I miei alloggi non sono lontani da qui» m'incamminai verso Fort George guardando ad ogni incrocio, angolo di strada o vicolo. Nessun soldato britannico. Il pensiero che Charles e Connor avessero davvero liberato New York si faceva sempre più spazio nella mia mente, e la cosa non poteva che rincuorarmi. Forse non tutto era perduto.

Iniziai a intravedere le mura del forte e mi aggiustai il tricorno.

«Siamo arrivati» annunciai accelerando il passo. Arrivato davanti alle guardie che controllavano l'entrata sollevai leggermente il cappello, venendo riconosciuto immediatamente.

«Signor Kenway, bentornato» annuii superandoli seguito da Jennifer, attraversammo il piazzale ed entrammo nell'ala sinistra del forte.

«Vivi qui?» Iniziai a salire la rampa di scale che portava agli alloggi di Charles e alla sala dove di solito ci riunivamo.

«A quanto pare. È la nostra base, chiamiamola così» feci per imboccare il corridoio sulla sinistra, ma delle voci provenienti dal salone dietro la porta alla mia destra attirarono la mia attenzione. Affinai l'udito e non impiegai molto per capire che fossero Charles e Connor. Bussai.

«Avanti» Lee, vecchio mio. Quando aprii la porta notai subito i suoi occhi brillare dalla commozione.

«Oh, cielo, Mastro Kenway!» Scattò in piedi raggiungendomi con poche falcate. Si alzò anche il ragazzo, ma si limitò ad osservarmi dal tavolo.

Charles mi afferrò la mano con vigore, stringendola forte come al nostro primo incontro, a Boston.

«Che sollievo vedervi intero, Signore. La missione è andata ben-..» si interruppe di colpo, notando solo ora la presenza femminile alle mie spalle.

«Sì, Charles. Grazie per l'interessamento» avanzai superandolo e guardai mio figlio, vederlo al tavolo che dividevo con Lee mi faceva uno strano effetto.

«A proposito di missioni, la vostra è andata a buon fine?» Chiesi senza voltarmi. Qualcosa mi suggeriva di sì.

Non ricevetti risposta.

«Charles?» Mi voltai e lo vidi ancora intento a fissare mia sorella, che ricambiava lo sguardo. Buon Dio, no. No.

«Per l'amor del cielo, Lee! È solo una donna» si destò di colpo. Jenny mi fulminò. Beh, oddio, Charles non vedeva due tette dall’era di Gesù Cristo e mia sorella non era esattamente una di quelle per cui girarsi per strada. Sì, due puttanate in una frase sola.

«Cosa, Mastro Kenway?» Si voltò verso di me rosso in viso, passandosi una mano sui baffi. Sbuffai.

«Le giubbe rosse. Le avete eliminate tutte?»

«Oh, quelle, sì, certo. Proprio come avevate chiesto, Signore» fu un sollievo sentirmelo dire «Ma se posso permettermi, Mastro Kenway: chi è la vostra ospite?» No, non sarebbe stato lucido fin quando non gli avessi spiegato chi fosse.

«Jennifer, loro sono Connor, mio figlio,» lo anticipai, prima che si presentasse col suo impronunciabile nome Mohawk «e Charles Lee, mio allievo e futuro Gran Maestro Templare. Charles, Connor, lei è Jennifer, mia sorella» dopo un attimo di perplessità, Charles si chinò leggermente per prenderle una mano e baciarla sul dorso. Fermi tutti, devo vomitare.

«Lieto di conoscervi, Miss Jennifer Ken-»

«Scott» intervenni prima che quella piattola si lagnasse «Per carità di Dio, chiamala Scott.»

 

 

*Ehm-ehm*, okay, Charles passa dall’essere schifosamente effeminato –e ringraziatemi, la prima idea era quello di fargli abbracciare Haytham- all’uomo in astinenza secolare –beh, più o meno è così, lol- che salterebbe addosso al primo esemplare femmina che respiri. Anche animale. Sì, sono cattiva con il piccolo Charlie nonostante lo ami quanto il Gran Maestro in carica.

L’unico che non merita affetto e/o considerazione è Connor, che deve morire solo, lol.

Ringrazio chi legge, segue, preferisce e un biscottino in omaggio a chi recensisce, ewe.

A lunedì prossimo, cari.

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Capitolo 16
*** Change the future. ***


Capitolo 16

 

Notai lo sguardo confuso di Lee, non lo biasimai. Non sapeva di avere di fronte una complessata e, beh, io non precisai che non eravamo esattamente fratello e sorella. Non ci somigliavamo nemmeno. Lei così esile e fine, di media statura e i tratti aggraziati, totalmente l’opposto dei Kenway. Io alto, di ossatura grossa, lineamenti duri e spigolosi. Da quel che diceva mio padre era uguale sua madre sia esteticamente sia caratterialmente, e spesso mi domandai come aveva potuto l’Edward Kenway che conoscevo io –o meglio, che immaginavo-, aver sopportato una donna del genere per anni.

Parlò Jenny, stavolta.

«Non preoccupatevi, Signor Lee, io ed Haytham abbiamo solo nostro padre in comune, preferisco usare il cognome di mia madre» Charles sorrise. Gesù santo, quando mai aveva sorriso?

«Ma certo, come desiderate, Miss Scott» lei ricambiò. Roteai gli occhi, Dio, avevo il voltastomaco. Chi si sarebbe immaginato una scena tanto raccapricciante? Buon Dio, ad averlo saputo prima avrei depositato Jennifer nella prima locanda con una stanza a disposizione.

«Se permettete vorrei andare a riposare, il viaggio è stato stancante» non feci in tempo ad aprir bocca che Lee parlò.

«Certamente. Seguitemi, vi mostrerò i vostri alloggi» la superò uscendo dalla sala e, ahimè, non mi trattenni.

«Charles? Mi raccomando, falle vedere quelli disponibili, non i tuoi» sventolò una mano come per zittirmi, santo cielo! Mi lasciai cadere sulla sedia che occupava quando arrivai.

«Bentornato, padre» e rimasi solo. Con Connor. La gioia.

 

***

 

Uscii dal salone imboccando il corridoio esattamente di fronte, il quale portava ai miei alloggi e a quelli attualmente liberi, che a breve avrebbe occupato Miss Jennifer. Nel fiore degli anni doveva essere stata una gran bella donna, snella e slanciata. Il tempo l’aveva sicuramente sciupata, sbiadendo i capelli –grigi qua e là- e accentuando le rughe in viso, senza però privarla della grazia e dell’armonia che, nonostante tutto, le restava in volto.

Sentivo chiaramente i suoi passi seguire i miei, rallentare per non perdersi i dettagli che la circondavano e accelerare leggermente per raggiungermi, dopo essersi fermata a leggere le targhette delle varie camere.

Superammo la mia stanza, sulla cui porta brillava la targa in oro con su scritto nome, cognome e grado militare, poi svoltai a destra.

«Siete un generale?» Mi voltai leggermente.

«Sì. Ero sotto il comando del tenente colonnello Edward Braddock, poi decisi di unirmi all'Ordine e aiutare vostro fratello nella sua nobile impresa» pregai non avesse notato il leggero tremolio della mia voce. Mi stavo odiando. Modestia a parte non avevo mai avuto problemi con le donne. Di nessun tipo, sia chiaro.

«Capisco» mi fermai davanti alla quinta porta sulla sinistra e tirai fuori dalla redingote un mazzo di chiavi. Cristo, mi tremavano le mani come fossi un adolescente alle prime armi. Calmo, Charles. Per l’amor di Dio, rilassati.

L'aprii e controllai che fosse tutto in ordine, poi la invitai ad entrare.

«Questa sarà la vostra stanza, Miss Scott. Per qualunque cosa chiedete pure a me» mi superò, raggiungendo il letto e sedendovisi sopra con delicatezza.

«Siete molto gentile, Signor Lee. Contateci» le sorrisi ed accostai la porta, poi mi diressi ai miei alloggi.

 

***

 

Dopo aver sonnecchiato un paio d'ore trovai opportuno farmi aggiornare da Charles sulla situazione. Dopo pranzo andammo in una taverna per parlare davanti ad una birra. Nonostante New York fosse liberata, non ero tranquillo. Mi sentivo impotente, non era qualcosa che potevo risolvere da solo, non stavolta. Il problema più grande restava Washington, che dalla sua aveva duecentomila e passa uomini, ma non sapeva da dove iniziare. Maledetto lui e la sua incapacità.

«Allora, Charles, notizie di George?» Bevve un lungo sorso di birra e si asciugò le labbra con l'indice.

«Fa un passo avanti e due indietro» sospirò gesticolando con la mano destra «gli Inglesi conquistano città con un ritmo più lento, questo sì, ma non va. Così non va»

«No, non va. Hai già pensato a qualcosa?» Tamburellò la sinistra sul tavolo, poi espirò dalla bocca accennando un sorriso.

«Nulla di impossibile, solo prendere il posto di George per un po’, sistemare le cose e cedergli nuovamente il comando» sollevai le sopracciglia. Era impazzito.

«Per quanto sia d’accordo con te, sai che non posso lasciartelo fare, vero?» Si passò una mano sui baffi.

«Lo so, potrebbe ritorcersi contro, ma se con me le cose migliorassero, forse..»

«Migliorerebbero sicuramente, non ci vorrebbe molto. Il punto è che Washington non gradirebbe» sospirai. Quell’uomo era incapace, ma non stupido, avrebbe fatto in modo di allontanare Lee dall’esercito, poco ma sicuro «non c’è altra soluzione» continuai.

«Ucciderlo?»

«Già. Se prendessi il comando al posto di Washington verresti allontanato immediatamente, e questo non posso permetterlo. Mi servi qui, una follia del genere non te la lascio fare, Charles» serrò la mascella e inspirò rapidamente dal naso, appoggiandosi nervosamente al tavolo con entrambe le mani.

«Ucciderlo è molto più irragionevole!» Sibilò, temendo ci sentissero «Potrebbero capire, e in quel caso verrei sospeso dal servizio o addirittura giustiziato, cristo» reprimeva la frustrazione, la vena sul collo ingrossata e tanta ansia negli occhi.

«Calmati, non saresti comunque tu a farlo» si abbandonò contro lo schienale della sedia, passandosi poi un palmo sulla fronte leggermente sudata. Prese fiato dopo pochi secondi, lasciando ricadere la mano sulla coscia destra.

«Io conosco quell'uomo, Mastro Kenway, tempo fa scrissi al colonnello Reed di quanto George fosse inadatto al ruolo di comandante in capo, e sapete che successe?, Washington lesse la lettera. Aveva già intuito che non lo avessi in simpatia, ed era ovvio, cazzo, mi aveva rimpiazzato senza avere alcun merito!»

«Prendi fiato, per l'amor di Dio»

«Non fece nulla. Nonostante avesse scoperto che gettassi merda sul suo lavoro non fece nulla» non risposi, non sapevo che dire, in realtà. «Quell'uomo non ha polso, non ha carattere e credo nemmeno contempli la vendetta. Ucciderlo non ha senso, ci complicheremmo la vita inutilmente, credetemi.» Aveva ragione, non potevo negarlo, ammazzarlo avrebbe alzato un polverone che difficilmente si sarebbe placato in fretta, ma Washington doveva sparire dall'esercito, dalla politica e dalla mia vita. Perché parliamoci chiaro, in guerra non esiste la democrazia. Che George fosse stato scelto dal popolo non me ne fotteva niente, incapace era e tale restava. Bisognava mettere i soldati nelle mani di un uomo capace, se alla gente fosse piaciuto o meno, era un dettaglio inutile.

«Credi che sostituirlo per un paio di mesi risolva le cose? Ammettiamo che tu riesca a prendere il comando dell'esercito con la forza, e tralasciamo il fatto che verresti visto come un dittatore, pensi seriamente che Washington non cercherebbe di intralciare i nostri piani?» Schioccai la lingua contro il palato «È un debole, d'accordo, ma non è stupido. Se gli togli il comando con la forza ti metterai tutti contro, farà in modo che ti mandino chissà dove, e poi? Che farai?» Lo guardai negli occhi, leggendovi insicurezza e timore. «Invece, se disgraziatamente il nostro amato George venisse ucciso da un Inglese, tu saresti legittimamente chiamato a sostituirlo» deglutì, fissando il tavolo con poca convinzione. Non volevo vederlo in quel modo, ma stava sbagliando. Non potevo permettere che l'esercito gli si rivoltasse contro. Charles era ben visto dagli altri soldati, ma chi mi garantiva che avrebbero eseguito i suoi ordini anche nei panni di un tiranno? Perché così sarebbe stato dipinto.

«Dovrei esserci io al suo posto» vomitò a denti serrati «Sapete perché non mi hanno dato l'incarico? Perché sono Inglese. E che senso avrebbe mettere a capo dell'esercito continentale un suddito che combatta contro le forze di sua maestà Re Giorgio? Ah, per carità, è molto meglio dare il comando all'ultimo soldato semplice»

«Proprio per questo va tolto di mezzo. Ho già un piano» alzò gli occhi dal boccale e mi fissò, intuendo quello che avevo in mente.

«Il Congresso continentale?» Sogghignai.

«Esatto.»

 

 

Saaalve a tutti. Quanto è tenerello Charles? Quanto? *vomita arcobaleni*. Oh, piccola curiosità. Questo tizio, il colonnello Reed, è realmente esistito. E sì, la faccenda della lettera di Charles che spettegola sul caro George è vera. Che adorabile bastardo, il nostro Lee. Tanto amore per lui :3.

Grazie a tutti, lettori, seguaci (?) e recensori. A presto!

 

 

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Capitolo 17
*** Cena in famiglia. ***


Capitolo 17

 

Io e Mastro Kenway rientrammo a Fort George per cena. Dopo aver finito la birra aveva insistito per fare un giro per la città, ancora incredulo che fosse liberata dall’assedio delle aragoste di sua Maestà. Non avevo rifiutato, mi aveva fatto chiaramente capire di aver bisogno di camminare su qualcosa di solito. Quei mesi in mare dovevano averlo stravolto.

Una volta rientrati avevamo trovato il ragazzo fissare imbarazzato Miss Scott apparecchiare la tavola, compito che effettivamente non le apparteneva.

Era strano, molto strano, dividere l’enorme tavolo della sala di Fort George  con altre due persone oltre ad Haytham. Al ragazzo indiano avevo quasi fatto l’abitudine, ma i pasti con lui comunque li inquadravo in situazioni ben precise, in cui gli unici ad occupare posto eravamo noi due. Sapere di averlo accanto mi suscitava un fastidiosissimo prurito a tutta la parte destra del corpo, quasi come la sua eccessiva vicinanza mi creasse allergia.

Di tanto in tanto alzavo gli occhi dal piatto in direzione di Mastro Kenway, curioso di captare qualche smorfia contrariata per il modo rozzo di mangiare del figlio o per i discorsi della sorella. La guardavo spesso, Miss Jennifer.

Così composta ed educata, chiaramente aristocratica. Alternavo lo sguardo da lei al fratello, come a simulare interesse per la loro conversazione, ma la realtà era un’altra. Era una scusa bella e buona per poterla guardare senza destare sospetti, e poter osservare ogni dettaglio del suo viso, ogni espressione, qualsiasi cosa. Mi stupii di me stesso per ciò che pensai. Bella. Era bella, diavolo. Non le si trovava un difetto in viso neanche a volerlo.

Bella. Le calzava a pennello.

Sembrava che l’avessero pensato per lei, quell’aggettivo.

Un dolore piacevole in mezzo alle gambe mi scaldò il basso ventre, costringendomi a serrare i denti, deglutire e abbassare immediatamente lo sguardo sul mio piatto. Merda, merda, così non va affatto bene. Contrassi i muscoli delle gambe, ringraziando che il lembo della tovaglia eccessivamente lunga mi coprisse tutta la zona del pube. Già mi immaginavo la scena, col ragazzo che interrompeva i discorsi di Haytham per uscirsene con un “ehi, Lee, perché hai un pugnale nei calzoni?”. Avrei potuto dire addio alla mia reputazione e suicidarmi senza se e senza ma.

«… Vero, Charles?»

Per poco non mi strozzai col vino «Cosa, Mastro Kenway

Mi guardò perplesso, sicuro che non avessi perso una sola sillaba dei loro discorsoni «Stavo raccontando a mia sorella come sei entrato a far parte dell’Ordine» annuii «… E sulla vocazione dell’eroe qui presente» lanciò un’occhiata sarcastica a Connor, intento a mangiare e ignorare le frecciatine di suo padre.

«Se avete domande specifiche potete chiedere, Miss Scott» mi sorrise, poggiando con delicatezza il bicchiere.

«Non preoccupatevi, Signor Lee, volevo più che altro parlare con… Connor, giusto?» Haytham la guardò male e non colsi il motivo. Ingoiai un altro boccone e l’accompagnai con due sorsi di vino, cercando di capire cosa mai volesse Jennifer dal nipote mezzosangue.

«Il mio nome è Ratonhnhaké:ton, significa “vita piena di graffi”, ma puoi chiamarmi Connor» non un sorriso, non un’emozione. Mi chiesi spesso che diavolo avesse nel petto quel ragazzo. In testa si sapeva già: segatura. O merda, ma propendevo più per la prima.

«Allora dimmi, Connor, come mai hai deciso di unirti agli Assassini?» E per la seconda volta in cinque minuti, rischiai di soffocare ancora con il vino. Lei sapeva di Assassini e Templari? Lo sospettavo, nel profondo, aveva comunque vissuto a contatto con questa realtà, ma non credevo fosse così interessata e informata al riguardo.

Mastro Kenway batté un palmo sul tavolo «Questa la so: per la libertà!» Trattenni una risata più che altro per non fare brutta figura con Jennifer, della sensibilità del ragazzo mi importava ben poco.

«Ha ragione» si limitò a dire, posò la forchetta e si pulì le labbra col tovagliolo, scimmiottando spudoratamente e goffamente le mie movenze. Era chiaro che lo stava facendo per la prima volta. «Principalmente miro alla libertà. Alla libertà del mio popolo e degli innocenti, degli indifesi. Voglio un Paese giusto, che garantisca gli stessi diritti per tutti e che assicuri protezione. Confido nella bontà d’animo dell’uomo»

Mastro Kenway sbuffò «Cristo, sembrano parole da chierico» bevve e riposò il calice. «Cercherò di essere breve, figliolo, e non lo ripeterò più, quindi ascoltami bene. Alla speranza ci si può affidare per altre cose, come alla guerra, per esempio, visto che, oltre alla bravura e alla preparazione dei soldati e del comandante –frecciatina a George- è necessaria anche una buona dose di fortuna. Questo ragionamento non puoi farlo per l’uomo, perché così è e così resta. La guerra la vinci o la perdi, l’essere umano non lo cambi, capisci che intendo?» Guardai il ragazzo con la coda dell’occhio; non sembrava capirci molto «Tu vuoi fermare noi, vuoi impedire che ci sia ordine, controllo, controllo non come lo intendi tu. Non vogliamo comandare nessuno, lo capisci? Vogliamo garantire esattamente quello che hai detto prima»

«Ne abbiamo già parlato, Haytham. Non siamo d’accordo»

«Togli il potere ad un uomo e automaticamente ce ne sarà un altro che vorrà sostituirlo. Uccidine uno e preparati ad ucciderne un altro. Ti diverte? Perché rimediare ai sintomi ammazzando chi sbaglia e non estirpare il problema alla radice?» Il discorso non faceva una piega.

«Quindi ti autoproclami capo per evitare che qualcun altro tenti di prendere il potere? Chi ti dà questo diritto?»

Haytham sospirò, stava perdendo la pazienza «Non io, nessuno di noi, Connor. L’Ordine. Tutti noi garantiremo la giustizia»

«Haytham» intervenne Miss Sott, stavolta «Basta così, dai. Non voglio discussioni per queste sciocchezze, non vi metterete mai d’accordo. È come nostro padre» lo vidi serrare la mascella, irritato per quel paragone. Non compresi di cosa stessero parlando, sapevo poco e niente della vita di Mastro Kenway, e mai mi ero azzardato a chiedere, immaginando che se poco ne parlava, poco gradiva che si domandasse.

«Non dire eresie, per favore, abbiamo parlato anche di questo.»

«Che diavolo significa? Cosa c’entra suo padre?» Cristo, erano forse questi i modi di rivolgersi ad una signora? Non gli mollai un ceffone per non far finire in rissa la serata.

«Un po’ di educazione quando ti rivolgi a Miss Scott, ragazzino» oh, sì, questo mi avrebbe fatto guadagnare un bel po’ di punti «Achille non t’ha insegnato come ci si rivolge ad una donna?» Mi ignorò bellamente, il selvaggio, ma in tutta onestà ero interessato anche io alla questione.

Miss Jennifer scostò lo sguardo dal fratello, fissando Connor con attenzione, forse per trovare le parole adatte per essere sintetica e allo stesso tempo chiara.

«Tuo nonno, Edward J. Kenway, faceva parte della Confraternita.» Sgranai gli occhi per la leggerezza con cui l’aveva annunciato. Guardai Haytham, rassegnato alla realtà dei fatti e ignorando lo sguardo pesante del figlio, che lo fissava come fosse la vergogna della famiglia.

«Perché non me l’hai mai detto?»

«Che avrei dovuto fare? Parlarti di mio padre senza nessun motivo solo per informarti che indossavate le stesse ridicole vesti?» Schioccò la lingua e fulminò la sorella, colpevole di aver tirato fuori il discorso. Ero sconvolto anche io, tutto avrei immaginato, ma mai che il padre del Gran Maestro fosse stato un Assassino. Che la lama celata che portava fosse appartenuta a questo Edward James Kenway?

Il ragazzo mostrò i denti «Perché non hai seguito le sue orme? Perché gli sei andato contro? Non ti ha addestrato?»

Stava esagerando, lo intuii dalle nocche bianche del pugni sinistro di Mastro Kenway, così serrato da impedire la circolazione del sangue.

«Sta’ zitto. Non sai nulla»

«Certo che non lo so, non me ne parli»

Haytham afferrò il calice, rovesciando in faccia al ragazzo il vino che gli era avanzato. Connor annaspò per qualche secondo, tossendo per il liquido entratogli nel naso e negli occhi senza preavviso.

«Ma sei impazzito?» Strillò Jennifer.

«Non osare.» La ignorò bellamente «Non osare mai più parlare di cose che non sai, sono stato chiaro?» Non l’avevo mai visto perdere le staffe in quel modo, mai l’avevo sentito urlare così. Nemmeno contro l’indiano.

Lo guardai attentamente, non lo riconobbi. Quello non era l’Haytham che conoscevo io, i suoi occhi erano strani, diversi. Incutevano terrore.

Strisciò rumorosamente la sedia all’indietro e si alzò, raggiungendo l’uscita con poche falcate. Calò il gelo, mi schiarii la gola per spezzare quel silenzio insopportabile, attirando su di me lo sguardo di Miss Scott.

«Lasciatelo solo, gli farà bene. Ha bisogno di calmarsi» annuì colpevole, abbassando lo sguardo e riprendendo a mangiare.

 

 

Buonasera :3

Ebbene sì, Charles inizia a sentire gli effetti della presenza femminile di Jenny, lol, tenerello. Ma che cena di famiglia è se non scoppia in rissa, eh? Esatto, non lo è. Non mi dilungo, oggi sono già abbastanza in ritardo, ewe.

Ringrazio chi segue, preferisce, legge e un biscottino caldo a chi recensisce.

See you soon.

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Capitolo 18
*** Relationship. ***


Capitolo 18

 

Abbandonai la sala fottendomene altamente della figura da psicopatico che avevo appena fatto. Affanculo le cene in famiglia ma, soprattutto, affanculo quel decerebrato di mio figlio. Che cazzo ne voleva sapere lui di genitori, di padri, di perdite? Aveva visto morire sua madre, d’accordo, ma aveva quattro anni, cristo, e oltre a vedere la capanna in fiamme crollare su Tiio, non aveva capito nulla. Io, a dieci anni, mi ero ritrovato nel bel mezzo di un assedio notturno, salvando mia madre e dicendo addio alla mia bella infanzia.

All’età che aveva Connor non comprendi nulla, realizzi solo la mancanza di chi hai perso e ne soffri. Ne soffri molto, e non nego che anche lui abbia provato dolore, ma che non si immoli, perché non è il solo ad aver visto un genitore morire. E no, non è una gara a chi ne ha passate di peggiori, ma cazzo, avrò avuto i miei motivi per non dirgli nulla, no? Insomma, che avrei dovuto fare?, saltargli addosso dalla trave della chiesa di Valley Forge e dirgli: Connor! Ultimo desiderio? Oh, a proposito, sai che tuo nonno era un Assassino?”. Per carità di Dio, no.

Non avevamo mai avuto modo di parlarne, molto semplicemente. Non era mai uscito il discorso, oppure, senza troppi rigiri, non erano cazzi suoi. Si era sempre lamentato della mia assenza, che non avevo fatto il padre e, beh, non avrei di certo iniziato in quel momento a comportarmi da genitore modello per illustrargli l’albero genealogico.

Raggiunsi la porta della mia stanza, entrai e la richiusi con violenza. Sperai che la targhetta in oro non si fosse staccata, ma non mi curai di andare a controllare, preferendo sedermi alla scrivania e appuntare gli ultimi eventi sul diario. Era da molto che non lo facevo.

 

Toc-toc.

«Charles, non ho voglia di parlare» dissi ad alta voce, sperando mi sentisse.

Toc-toc.

«Cristo» borbottai mollando la piuma d’oca «Charles! Voglio riposare, va via!»

Toc-toc.

Aprii la porta scocciato, pronto ad urlare di tutto contro il mio successore «Connor» lo dissi col tono più schifato che riuscissi a fare «fuori dai coglioni»

«Aspetta» la pala che aveva al posto della mano fermò la porta prima che gli appiattisse il muso «voglio parlare»

Roteai gli occhi «Io no» cristo, me ne ero andato proprio per quello. Esercitò più pressione e spalancò la porta, autoinvitandosi nella mia stanza.

«Parlerò io, allora» Dei, spiriti, papà, Tiio, che qualcuno mi trattenga, altrimenti lo uccido sul serio. Non mi mossi di un centimetro, limitandomi ad osservarlo mentre avanzava con cautela verso il centro della camera, come fosse la tana di un orso pronto a sbranarlo da un momento all'altro. Oh, un paragone azzeccatissimo, direi. «Perché non mi hai accennato al fatto che mio nonno fosse un Assassino come me?» E da quando aveva tutta quella confidenza con mio padre per permettersi il lusso di chiamarlo nonno?

Mi morsi la lingua «Molto semplicemente perché non sono cazzi tuoi. Ecco perché» non aveva alcun diritto di entrare così nella mia vita, di venire a conoscenza di faccende private e, per di più, di insistere come un moccioso.

«Come sarebbe, scusa?» Gli poggiai una mano sul petto e lo spinsi via, lontano da me e da quello che voleva sapere.

«Sono faccende personali, cose che non riguardano uno stupido ragazzino come te»

Assottigliò lo sguardo, risentito «Non sono stupido, voglio solo sapere» stavo perdendo il controllo, gli avrei messo le mani addosso se quel briciolo di lucidità non mi avesse abbandonato. Sentivo che da un momento all’altro la mia mano destra avrebbe preso vita, stringendosi sul collo di mio figlio senza mollarlo finché non fosse morto asfissiato.

«Non ti è concesso sapere!» Ringhiai a denti stretti «Ti stai intromettendo nella mia vita, nei miei ricordi» avanzai di un passo verso di lui facendolo indietreggiare. Perché mi ostinavo a reprimere l'istinto omicida nei suo confronti? Perché non lo uccidevo? Perché non l'avevo già fatto? «Te ne sei sempre fottuto altamente di me e di quello che mi circondava, e adesso che salta fuori che mio padre era un Assassino diventa improvvisamente tutto più interessante?» La tentazione di far scattare la lama celata era tanta, mi tremava il braccio sinistro tanto era lo sforzo per non azionare il meccanismo.

«Io...»

«Tu cosa, mh?» Mostrai di poco i denti con fare aggressivo «Da quando ti interessa la vita di tuo padre?» Scontrò un piede contro la scrivania, sobbalzando istintivamente. L'occhio gli cadde sul diario, aperto e indifeso, pronto a svelare i miei segreti, le mie incertezze. Lo richiusi con poca grazia, irritato da quello che io interpretai come ennesimo tentativo di curiosare nella mia vita.

«Tu però non hai esitato a chiedere di mia madre. Collaboravamo da un paio di giorni»

«Piantala, è una cosa diversa» mi imposi di calmarmi. Mi faceva male la tempia destra. Una fitta mi attraversò il cervello, come un continuo ricordarmi dello stress che quel ragazzo mi metteva addosso.

«Diversa perché fa comodo a te?»

«Diversa perché con tua madre avevo un rapporto» omisi volutamente sessuale, tanto non avrebbe capito.

Sorrise amaramente «La conoscevi appena. L’hai sfruttata» uccidilo, cazzo, così te lo levi dai piedi una volta per tutte.

«So molte più cose di quanto tu creda, ragazzino» lo guardai con odio. Odio puro. Chi cazzo si credeva di essere per venire a sentenziare se avessi amato o no sua madre?

«La cosa non mi interessa, non parlare più di lei»

Provava a darmi ordini, il moccioso «Dah, altrimenti che fai, mh?» Gli puntellai un dito sul petto muscoloso, sfidandolo.

«Non hai il diritto di nominarla» ignorò appositamente la mia provocazione. Cercai di trattenermi fino all’ultimo, lo giuro su mia madre ma, cristo, aspettavo da anni quel momento.

Gli mollai un ceffone. Una sberla di quelle sentite, che ti fanno sentire meglio, più leggero. Diavolo, bastava così poco? Quasi ripresi a respirare, il braccio destro ancora teso in avanti, Connor sconvolto, con il viso ancora girato e arrossato. Si sfiorò la guancia lesa con due dita. Sì, cazzo, ti ho schiaffeggiato. È un atteggiamento da padre, no? Non era quello che volevi?

«Ora togliti dai coglioni» riuscii a dire col poco fiato che avevo «Va’!» Agitai la mano e gli diedi le spalle. Lo vidi lanciare un’ultima occhiata al diario prima di aprire la porta e sparire in corridoio.

 

***

Da quanto non provavo una sensazione simile? Da quanto non vedevo una donna con così tanta classe ed eleganza? Pensandoci bene, forse, non l’avevo mai conosciuta. Non ai livelli di Miss Scott, si intende. Fatti coraggio e invitala fuori. Cristo, era una delle idee migliori che avessi avuto in oltre quarant’anni di vita. Mi avvicinai allo specchio vicino alla porta e mi aggiustai il colletto, appiattendo la giacca su petto e addome e, soprattutto, preparandomi psicologicamente. Imboccai il corridoio.

E se non accetta? Certo che accetta, guardati, sei uno schianto. Aggrottai le sopracciglia. Che diavolo di conversazioni facevo? Forza, vai e falla cadere ai tuoi piedi. Basterebbe anche solo in ginocchio. Quello, magari, più in là.

Guardai la porta della stanza di Jennifer, indeciso sul da farsi. Che stai aspettando? Che esca e che si spogli di sua iniziativa? Idiota. Sono ancora in tempo per evitarmi una figura di merda.

Bussai.

«Sì?»

Oh, cristo. Parla. «Miss Jennifer, sono io, Charles» sentii i suoi passi leggeri attraversare la stanza e raggiungere la porta che, infatti, si aprì pochi secondi dopo.

«Ditemi, vi serve qualcosa?» Sorrise. Cristo, stai giù, stai giù.

«Ecco, io… Io mi chiedevo se vi andasse di visitare New York. È una bella città, di notte è ancora più affascinante» iniziò a torturarsi una ciocca di capelli, arrotolandola intorno all’indice. Almeno fa’ che non mi umili, ti prego.

«Sì, perché no. Datemi il tempo di prepararmi» richiuse la porta senza darmi tempo di metabolizzare. Cazzo. Sì, bello mio, ci siamo.

 

Quella sera portai Miss Jennifer a visitare New York, mostrandole le vie principali e lo stile di vita dei newyorchesi per poi fermarci al Bridge Cafè, una delle migliori taverne del quartiere, all'angolo tra Water Street e Dover Street. Alla faccia tua, Hickey. Sto andando alla grande, figlio di puttana.

Aprii la porta e la feci entrare per prima, poi la seguii tentando di sopportare il chiasso assordante che m'investì di colpo. Un gruppo di uomini al tavolo più vicino si girò verso di noi, fischiando alla vista di Miss Scott.

«Ehi, bambolina! Quanto prendi per un giro?» I compari risero sguaiati, elogiando l'idiota che aveva osato rivolgersi a Jennifer con quei toni.

«Come vi permettete?» Arrossì violentemente, era a disagio, quindi intervenni. Mi avvicinai al simpaticone che aveva aperto bocca, un tizio dai capelli rossicci ispidi e la barba accennata, con una camicia verde sbiadita e macchiata qua e là di chissà cosa e dei calzoni di tela di poco valore. Appoggiai una mano sul tavolo e mi abbassai verso di lui, reprimendo l'istinto omicida che mi sussurrava di prendergli la testa e sbatterla al muro finché non fosse morto col cranio in frantumi.

«Che diavolo vuoi tu?» Puzzava d'alcool in un modo nauseante «Tornatene dalla tua pupa o gliela do io una bella ripassatina» ringhiai e l'afferrai per il colletto, tirandolo verso di me con poca grazia.

«Un pezzente come te non ha il diritto nemmeno di posare gli occhi su una donna del genere, quindi vedi di finire la tua birra e di sparire. Stai insudiciando l'aria» restai seri0, anche se l'espressione furibonda e scioccata di quell'imbecille era un invito bello e buono a far perdere credibilità alle mie minacce.

«Altrimenti che fai, eh? Ti faccio passare la voglia di fa-» non lo feci concludere, afferrai il suo boccale e gli rovesciai il contenuto sui calzoni, in corrispondenza della virilità. Beh, nel suo caso avevo seri dubbi ci fosse qualcosa sotto la stoffa.

Gli amici rimasero di sasso, mi credevano seriamente alle prime armi con risse o cose del genere?

«Come cazzo hai osato?» Si alzò strisciando la sedia, mostrando agli unici due della locanda che si erano persi la scena, la chiazza bagnata sui pantaloni. Sembrava si fosse pisciato addosso.

Caricò un pugno e mirò al mio viso, ma non ebbi difficoltà nel prendergli il polso e girargli il braccio dietro la schiena.

«Hai ancora voglia di fare la voce grossa? Non ti conviene» esercitai più pressione fino a fargli scricchiolare le ossa. Lo costrinsi a inarcarsi all'indietro, mentre con la mano libera tentava di colpirmi il volto. Gli assestai un calcio nel cavo popliteo e lo lasciai crollare a terra, mollandolo e portandomi di fronte a lui. Mi abbassai per essere alla sua altezza e gli afferrai i capelli con poca grazia, costringendolo a fissarmi negli occhi.

«Ascoltami, coglione da quattro soldi: osa alzare di nuovo gli occhi da terra, infastidire la mia signora o parlare con un tono leggermente più alto del mormorio e, parola d'onore, ti apro il culo in venti parti» dissi a denti stretti «sono stato abbastanza chiaro?» Annuì fissandomi con occhi sgranati, quindi lo mollai con uno strattone e mi alzai, raggiungendo Miss Jennifer ancora in piedi vicino all'entrata.

«Perdonatemi, forse abbiamo attirato un po' l'attenzione, ma non potevo lasciar correre» le porsi il braccio. Mi sorrise e lo prese delicatamente con entrambe le mani, seguendomi mentre la conducevo ad un tavolo libero. Era rotondo e non troppo ingombrante, ma abbastanza grande da accogliere quattro persone.

«Non preoccupatevi, siete stato un po' duro, ma con certe persone non ci sono altri modi»

«Sono d'accordo» giunti al tavolo scostai la sedia per farla sedere «prego» mi sorrise di nuovo e ricambiai, poi mi accomodai di fronte.

«Gradite qualcosa da bere?»

«Perché no, mi piacerebbe del whiskey.»

 

 

Buonasera :3

Oh, ammiratrici di Connor, non picchiatemi (ma chi vogliamo prendere in giro?, Connie non ha fans, trolol). Bene, okay. Dopo questo piccolo sfogo di Haytham troviamo un Charlie innamorato, a dir poco adorabile, aaaww.

Non mi dilungo, visto che anche oggi sono un po’ in ritardo –sshh, lol-, quindi ringrazio come sempre chi legge e segue, e un biscotto a chi recensisce.

Alla prossima :)

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Capitolo 19
*** Con le mani dico quello che non so. ***


Avvertenza: il capitolo contiene scene erotiche descritte dettagliatamente –non ho la presunzione di dire che siano perfette, ma lo scrivo per correttezza, nel dubbio che legga qualche minorenne-.

 

 

 

Capitolo 19

 

Imboccammo le scale di fretta e col fiato corto, faticavo a camminare a causa del rigonfiamento al cavallo dei calzoni, ma la vista di Miss Jennifer che saliva impaziente mi fece ignorare quel piccolo impedimento. Dopo l'ultimo scalino la presi per i fianchi e la sbattei al muro con decisione ma senza farle male, l'afferrai per le natiche spingendole il bacino verso il mio basso ventre per farle sentire la mia impazienza, poi la baciai con impeto.

Ricambiò per qualche istante, ma si staccò poco dopo, poggiandomi una mano sul petto.

«Aspettate, entriamo in camera» non risposi, a malapena respiravo, cristo. Mi prese delicatamente un polso e mi portò fino alla stanza assegnataci, poi aprì la porta tirandomi dentro. Avevo un dolore terribile alle palle, mi sembrava di sentirle dire: "porca puttana, togli questi cazzo di vestiti e sbattitela a letto finché non avrai forza nemmeno per alzarti". La situazione non migliorò quando mi mise spalle alla porta, strusciandomisi contro e baciandomi languidamente.

Persi quel poco di lucidità che mi era rimasta e la sollevai di peso, avanzando a tentoni verso il letto e adagiandola sul materasso, per poi togliermi in fretta e furia gli stivali. Mi sbottonai la giacca con la stessa foga e la lasciai cadere a terra, poi salii sul letto, sovrastandola. Che diamine, era ancora vestita? Al diavolo. Le strappai l'abito all'altezza del petto seguito dal corsetto, liberando il seno generoso da quella trappola infernale. Mi abbassai su di lei, leccando e succhiando la pelle morbida e chiara, sentendomi soddisfatto nel sentirla gemere affannata. Sentii le sue mani scorrermi sul petto alla ricerca dei bottoni della camicia; iniziò ad aprirli con mani tremanti e frettolose, alternando carezze sul collo e pettorali.

«Spogliatevi» riuscii a dire, nonostante fossi senza fiato, con voce roca, causata dalla gola improvvisamente troppo secca.

Mi tirai su, restando in ginocchio a cavalcioni su di lei, liberandomi dell'indumento il più velocemente possibile. Lanciai via la camicia mentre lei si allentava i lacci del vestito, facendolo scivolare lungo il petto fino ai fianchi e poi la vita. Mi slacciai i calzoni, pronto a sfilarli, ma una mano di Jennifer si poggiò sulle mie, bloccando le mie intenzioni. Si intrufolò oltre la stoffa e me lo prese in mano senza pudore, facendo scivolare il palmo su tutta la lunghezza del mio membro.

Boccheggiai e abbandonai la testa all'indietro, mentre lo sentivo pulsare in sincronia con i suoi movimenti. Dischiusi le labbra e mugolai piacevolmente soddisfatto, mentre con una mano mi abbassavo i pantaloni per farla lavorare meglio. Ero veramente stupito dalla sua maestria e mi lasciai sfuggire un ansito.

Sorrise compiaciuta e non si fermò, iniziando a lasciare scie umide di baci sugli addominali. Scendeva, scendeva sempre più giù con una lentezza a dir poco snervante e sembrò leggermi nel pensiero, realizzando la mia fantasia e sostituendo la mano con la bocca.

Serrai i denti e aspirai aria mentre la mia mano sinistra andò a stringerle i capelli dietro la nuca, lasciandomi poi ipnotizzare dall'andatura regolare del suo capo, che andava avanti e indietro.

La scostai e la spinsi per farla sdraiare supina, consapevole che se l'avessi lasciata continuare sarei durato ancora pochi minuti; le sfilai definitivamente il vestito e mi misi su di lei, infilandole una mano tra le cosce. Dio, era già calda e bagnata, persi il controllo quando iniziò a contorcersi e mugolare mentre la penetravo con due dita.

Avevo aspettato fin troppo. Tolsi la mano dalla sua intimità e le afferrai le gambe dall'incavo dietro il ginocchio, divaricandole; mi riabbassai su di lei e con una spinta decisa entrai. Tentai di trattenermi e di mantenere un ritmo normale, perché se avessi seguito l'istinto, l'avrei sbattuta violentemente come una qualsiasi puttana, ma volevo far durare la situazione il più a lungo possibile. Serrai una mano sul lenzuolo, mentre accompagnavo ogni spinta con gemiti soffocati.

No, Miss Jennifer non era una donna qualsiasi, non per me. Non era un semplice sfogo, almeno non credevo.

Mi abbassai, lasciandole un bacio sul collo mentre appoggiava una mano sulla mia spalla e respirando affannata nel mio orecchio.

La presi dai fianchi e rotolai a destra, finendo supino con Miss Jennifer sopra. Mi sorrise, abbassandosi su di me e schioccandomi un bacio sulle labbra. Iniziai a muovermi tenendola dai fianchi, dandole il ritmo e lasciando che continuasse lei.

La lasciai fare per un po’, beandomi della visione dal basso, del suo seno che ondeggiava lentamente e dei sorrisi che mi dedicava ogni tanto. Ma ero io l’uomo, diamine, dovevo avere io il controllo della situazione. Mi tirai su, restando seduto e tenendola su di me, girandomi in modo da dare le spalle all’entrata, spingendola verso di me sorreggendola dalle cosce. Non avrei resistito ancora molto, me lo sentivo.

Un attimo dopo sentii la porta spalancarsi e sbattere contro il muro, ansimare e grugnire. Jennifer si aggrappò alle mie spalle e urlò sconvolta, perforandomi il timpano destro.

«Uscite immediatamente!» Strillò ancora.

«Che cazzo?» Mi fermai e, sempre tenendola a cavalcioni, mi voltai. Un uomo sulla cinquantina mezzo nudo e una ragazza non oltre i venticinque erano appoggiati allo stipite della nostra porta, nessuno dei due abbastanza lucido da capire che avevano aperto la porta sbagliata, cazzo. Il primo a rendersi conto dell’equivoco fu proprio lui.

«Chi cazzo siete voi?»

Istintivamente coprii Jennifer, mettendola dietro di me «Uscite immediatamente, idioti!» Ti prego, non abbandonarmi ora, ti prego, che figura ci farei?

«Calmati, amico, è già tanto se riesci a scopartela, non agitarti troppo» se temevo di fare cilecca a causa dell’interruzione, beh, questo aveva fatto riprendere la circolazione del sangue.

«Vaffanculo, lurido figlio di puttana!» Ringhiai risentito.

«Charles, calma..» sussurrò Miss Jennifer. Non le diedi retta, continuai a fissare con astio il tizio che con una mano tentava di tenersi su i calzoni per non inciampare. Quando chiusero la porta percepii la sensazione che qualcosa là sotto mi stesse abbandonando. No, cristo, no.

L’afferrai con decisione, serrando la presa sulle natiche e riprendendo con un ritmo incalzante. Non tutto era perduto. Serrai i denti quando mi conficcò le unghie nella carne, ma ignorai il dolore, concentrandomi sul suo viso, appagato e teso.

 

Quando l’orgasmo ci travolse ci accasciammo sul materasso per riprendere fiato. Affondai la testa contro il cuscino, provando piacere ad appoggiare il viso accaldato sulla stoffa fresca. Mi girai supino e osservai il soffitto, ancora incredulo di quanto era appena successo. Haytham mi avrebbe ucciso seduta stante.

«Oh, cielo. Chissà che penserete di me» ruppe il silenzio.

«Mh?» Mi puntellai sul gomito, facendo scivolare giù le coperte, e la guardai, così bella con i capelli scompigliati sul cuscino e gli occhi lucidi.

«Concedermi così, alla nostra prima uscita… Penserete che sia una poco di buono» sorrisi intenerito. Intenerito, io. E quando mai?

«Affatto, avete la mia parola d’onore» si strinse il lenzuolo all’altezza del petto e sospirò, volgendo lo sguardo a sinistra, verso la finestra.

«Voi non sapete nulla della mia vita, Signor Lee…»

Intervenni «Chiamatemi Charles, ve ne prego»

Mi sorrise dolcemente «Non ho mai incontrato un uomo come voi, non sono stata fortunata da questo punto di vista» non dissi nulla, non sapevo che dire «Conoscete Reginald Birch

«Sì. Non di persona, ma fu lui a consigliarmi a vostro fratello per le missioni dell’Ordine nel Nuovo Mondo» la guardai e attesi qualche secondo. «Che legame ha con voi?»

Si spostò una ciocca di capelli dal viso e mi guardò. L’espressione seria, come la mia, e, da quel che colsi, un po’ addolorata.

«Era il mio promesso sposo» sgranai gli occhi. Cristo, se me l’avesse detto cinque minuti prima sarei diventato un pezzo di carne morta. «Divenne un amico di mio padre quando si stabilì a Londra. Nonostante fossero di fazioni opposte tentarono di collaborare, ma capimmo troppo tardi che Reginald, in realtà, era interessato ad un libro della libreria di casa nostra» non dissi nulla, attendendo che continuasse. Grazie a quel racconto potevo capire qualcosa in più su di lei e su Haytham. «Per quel libro arrivò ad ucciderlo. Mi fece rapire e mi mandò a Damasco, dove fui venduta al Sultano come concubina» istintivamente strinsi il lenzuolo.

«Questo Birch è ancora vivo?» Domandai irritato.

«No. È morto da poco. Haytham l’ha ucciso il mese scorso» collegai tutto. Ecco il perché della lettera, il viaggio, la sua preoccupazione.

«Ringraziate vostro fratello, allora.» Abbassai lo sguardo sul pugno chiuso «Anche se dopo queste rivelazioni l’avrei ammazzato con le mie mani» la sentii ridere piano, quindi alzai gli occhi.

«Se vi avessi incontrato quando ero giovane, sicuramente avrei avuto una vita più soddisfacente» avvampai, non riuscendo a non pensare male.

«Mi lusingate troppo, Miss Jennifer.»

«Affatto» si girò sul fianco destro, guardandomi negli occhi «Sapete come far sentire sicura una donna. Prima, quando avete discusso con quell’uomo, ho capito che con voi al mio fianco non rischio nulla»

Sorrisi e allungai una mano fino ad accarezzarle la guancia sinistra. «Siamo sempre in tempo, no?» Mi abbassai su di lei, lasciandole un bacio sulle labbra. Posò entrambe le mani sul mio viso, staccandosi di poco.

«Sapete? Ho sempre avuto un debole per gli uomini con i baffi» risi di nuovo.

«Questo Haytham non deve saperlo…»

«Cosa? Che mi piacciono gli uomini con i baffi o la notte di passione appena trascorsa?»

«… Entrambe.»

 

Salve :3 il nostro Charles diventa grande, aaw, non siete contenti per questa nuova coppietta? Io sì, un sacco.
Ringrazio come sempre chi segue, segue, preferisce e recensisce, a lunedì prossimo :)

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Capitolo 20
*** Incidenti di percorso. ***


Capitolo 20

 

Avevo sborsato novanta sterline tra ingaggio, vestiti nuovi e pistola. Il tizio che avevo scelto per l'attentato al nostro caro George corrispondeva al tipo di uomo che serviva a me. Dall'aspetto non sospetto -solo una volta sbarbato e ripulito-, agile e sveglio. Era un certo Robert Carter, avevo sentito parlare bene di lui, da quelli dell'ambiente, ovvio.

Avevamo appuntamento davanti al palazzo in cui si sarebbe tenuto il Congresso Continentale, accompagnato da me e Charles non avrebbe dovuto aver problemi ad entrare.

Il dondolio della carrozza mi stava quasi facendo assopire, quindi mi misi in posizione eretta per non addormentarmi. Guardai Charles con la coda dell'occhio, notando che fissava con aria assente fuori dal finestrino.

«Agitato?» Risi per alleggerire la tensione. Non rispose. «Che diavolo, nemmeno stessi per scopare la prima volta» lo vidi serrare la mascella.

«Spero solo vada tutto secondo il piano» si degnò di voltarsi, lo sguardo serio e il volto teso. «Insomma, con vostro figlio tra i presenti…»

«Andrà bene» tagliai corto «Connor non prevede il futuro, magari cercherà di fare qualcosa, ma non credo riuscirà a salvare ancora il culo a George» lo dissi più per convincere me stesso, in realtà.

La carrozza frenò di colpo, prendendo in pieno una buca e sballottandoci sul sedile. Non attesi che il cocchiere mi aprisse la portiera, quindi scesi seguito da Charles.

«Come avete detto che si chiama?»

«Robert» risposi guardandomi intorno. Gli avevo comprato una camicia blu, ma in mezzo a quella marea di gente mi sarebbe stato difficile trovare persino Connor e la sua tunica luminosa.

«Non vedo vostro figlio»

«Se Dio vuole» prima o poi il Signore mi avrebbe lasciato un giorno senza quella piattola, no? «Ho visto Robert, seguimi» allungai il passo fino ad affiancare il mio mercenario. Sussultò quando gli posai una mano sulla spalla.

«Eccovi, finalmente. Credevo aveste cambiato idea, qui è pieno di guardie, cristo» gli afferrai un braccio e lo portai con forza verso il portone spalancato, sorvegliato da due uomini in divisa posti ai lati dell’entrata.

«Evita questi discorsi qui, imbecille» sibilai a denti serrati. Superammo  i due uomini armati senza difficoltà, non una domanda, non uno sguardo sospetto. Ma cosa ci si poteva aspettare dai protettori di George? O forse mi sottovalutavano?

Charles mi affiancò, allentandosi il colletto con due dita.

«Calmati, così peggiori solo la situazione»

«Voi dite? A me sembra già critica» mi calmai. Potevo capire in parte come si sentiva, se fosse successo qualcosa a Washington sarebbe stato il primo sospettato, ne ero consapevole, ma che altro avremmo dovuto fare? Lasciare il Continentale allo sbaraglio? Permettere che perdessimo la guerra? E per cosa, poi?, per l’ipotesi che incolpassero Charles? Lo guardai con la coda dell’occhio. Stava sudando freddo, anche se tentava di mostrarsi calmo.

Girammo a sinistra, entrando nella prima stanza del corridoio, trovandoci nella sala che avrebbe accolto il nostro onorevole comandante in capo. Diedi una rapida occhiata, contando una trentina di tavoli.

«Siediti lì» dissi a Robert dopo avergli dato una pacca sulla schiena, poi feci cenno a Charles di seguirmi ad un altro tavolo. Non potevamo correre il rischio che associassero l’attentato a noi, non sia mai.

Ne occupammo uno sulla destra, uno dei pochi liberi, non che avessimo molta scelta. Charles si sedette di fronte a me, dando la schiena a… mio figlio.

Feci una smorfia. «C’è anche Connor, non voltarti, per carità di Dio» sbuffò, appoggiandosi allo schienale imbottito. «E Adams è con lui»

Ridacchiò «Vanno in giro insieme come due sposini» sorrisi anche io, fissando la nuca di Connor e provando ad immaginare, solo per un attimo, a che sarebbe successo se non fosse stato così cocciuto. Forse se non ci fosse stato Achille di mezzo avrei avuto la strada spianata, ma quando mai un Kenway ha la vita facile, mh? Mai.

«A cosa sta pensando, Signore? Washington è arrivato» mi destai, volgendo lo sguardo verso il fondo della sala.

Ed eccolo lì, davanti a tutti noi, orgoglioso della divisa del Continentale immacolata. Ovvio, no? Lui non andava a morire, non imbracciava fucili, non seguiva i suoi uomini verso la gloria o la morte, no. Non conosceva l'ansia della battaglia, il fiato della morte sul collo, il senso di colpa per aver ucciso un tuo probabile assassino. Non sapeva nulla di tutto questo, eppure si atteggiava da grand'uomo, da comandante valoroso, da eroe.

Lui preferiva starsene al riparo nella sua tenda, da buon coniglio.

«Signori» ci scrutò con quei suoi occhietti da roditore «Intanto vi ringrazio per essere qui quest'oggi» oh, sì, che fantasia. «So bene cosa vi aspettate di sentire. Dati i risultati abbastanza scarsi, crederete che voglia ritirarmi, o sbaglio?»

Charles tamburellò le dita sul tavolo «Sarebbe l'ora, vecchio» borbottò.

«Ma così sarebbe troppo facile, amici. Chiunque sarebbe bravo a lavarsene le mani e lasciare il suo successore nei guai, ma non io. Io ho un onore, Signori miei.» Oh, sì, lo stesso onore di una puttana a gambe aperte.

«Quante stronzate. E la gente gli crede pure» ringhiò Charles.

«Calmo. È solo un buon oratore, sa tenere la folla»

«Dalla mia ho uomini forti, pieni di coraggio e valori. Vinceremo la guerra, questa è una promessa. Vi garantisco che le cose miglioreranno» lanciai uno sguardo a Connor. Le mani giunte sul tavolo, il cappuccio tirato giù e il volto teso. Sembrava dubitasse delle parole di George, come fossero le solite promesse fatte da un bambino capriccioso e bugiardo. Che capisse, diavolo. Ci speravo, era ancora recuperabile. Cacciai un colpo di tosse e, come avevamo pianificato, Robert si alzò lentamente.

«Permettetemi, Signori, di ringraziare a nome di tutti il nostro Comandante in capo» sorrise folle, estraendo la pistola. «Lunga vita a George Washington!» I presenti sbiancarono, qualcuno urlò, Sam Adams rimase pietrificato, l'unico lucido fu Connor, che in un secondo scattò verso il mio uomo, colpendogli il braccio e deviando il colpo appena sparato.

«Cristo!» Charles sbarrò gli occhi, io serrai la mascella mentre George cadde all'indietro tenendosi il braccio ferito.

Mi alzai, imitato da Lee che, profondamente dispiaciuto per Washington, si precipitò a vedere se fosse in pericolo di vita. Non fece in tempo a raggiungerlo che Robert Carter era già morto sotto la lama celata di Connor.

Strinsi i pugni. Non potevo di certo andare lì e dargli una sberla per avermi fatto buttare novanta sterline, no? Dio, figliolo, prima di uccidere uno dei miei, fammi un fischio.

Gli afferrai un braccio «Fermo, non peggiorare le cose. Rischieresti di scatenare il panico» si strattono, come se il mio solo contatto lo infettasse.

«Sei stato tu, vero?»

«Cosa?» I suoi occhi accusatori tentavano di leggere i miei, ma confidavo ancora nel mio autocontrollo «Credi davvero che sia io l’artefice di questa pagliacciata? Suvvia, mi sottovaluti. Io non avrei certamente fallito» continuò a fissarmi dubbioso, quindi giunsi le mani dietro la schiena. «Non starò qui a pregarti di credermi, ho altro da fare, e visto che il caro George ha fallito anche qui, beh, ci si vede» lanciai un’occhiata a Charles, ancora inginocchiato vicino a Washington, e gli feci cenno di andare.

 

***

Seguii Haytham verso l'uscita tentando di scansare la calca in corridoio. Avevo i nervi tesi, l'indiano era riuscito a salvare Washington, che se l'era cavata solo con una ferita sul braccio, e ad uccidere Robert.

Questa Haytham non gliel'avrebbe perdonata. Avevo serie difficoltà a capire la logica del ragazzo: si affaccendava tanto per proteggere l’assassino della sua gente e che stava mandando a puttane l’indipendenza delle colonie.

«Ehi» mi sentii afferrare il braccio destro con forza. Mi voltai, trovandomi davanti un mio collega «Ci sei anche tu, Charles» Artemas Ward serrò ancora di più la presa.

«Certo, Artemas. Perché non dovrei?» Mi divincolai con un leggero strattone. Mi fissò serio, indagatore, come se attribuire a me il fatto che era appena successo fosse spontaneo. Beh, non aveva tutti i torti.

«Stai attento a quello che fai, Lee. Potresti pentirtene» lanciai uno sguardo ad Haytham, bloccato dalla massa di gente qualche metro più avanti.

Sbottai «Che cazzo vuoi da me, eh? Non ho motivo di stare attento» divenni serio anche io. Un peso nel petto mi fece inspirare a fatica. Che sapesse?

«Ti ho visto qualche sera fa» ghignò, gelandomi il sangue. «Non fare casini di nessun tipo, non vorrei che la tua amica si facesse male» lo afferrai per il bavero della giacca, placando a fatica un'ira montata di colpo.

«Non osare.» Replicai «Avvicinati a lei e sei un pezzo di carne morta. Mi sono spiegato?» Tremavo di rabbia. Non doveva. Non doveva nemmeno avvicinarsi a Jennifer. Punto. Credeva che non avessi il fegato di ucciderlo solo perché era un mio pari? Non mi conosceva, allora. Non mi conosceva per un cazzo.

«Perché ti allarmi tanto? Hai la coscienza sporca?» Sorrise di nuovo.

«Charles?» Non mi voltai verso Haytham che mi chiamava, preferendo di gran lunga continuare a fissare con sdegno e superiorità quel coglione su due piedi «Andiamo.» Continuò.

«Tra i due, devi stare attento tu. Avvicinati e sei morto, spero di non dover avere un altro cadavere tra i piedi.» Lo mollai malamente senza staccargli gli occhi di dosso.

 

 

Intanto mi scuso per il ritardo *si sotterra*, ma ieri sono stata senza wifi tutto il giorno, quindi non ho aggiornato per motivi di forza maggiore, ewe.

Cooomunque, il vecchio George se la cava sempre, tzè.

Per chi non sapesse chi è Artemas Ward, fu un generale statunitense dello stesso grado militare di Charles che Washington scelse come suoi sottoposti –insieme a Philip Schuyler e Israel Putnam-.

Va beh, la smetto, lol. Grazie a chi legge, segue, preferisce e, soprattutto, recensisce :3

A lunedì.

 

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Capitolo 21
*** Non darsi modo di star bene. ***


Capitolo 21

 

Avevo freddo. Troppo per i miei gusti. Mi stavo sfregando le braccia da mezz’ora, ormai, camminando sulla neve fresca e affondando fino a metà polpaccio ogni due passi. Ero nella frontiera, questo mi fu subito chiaro, il problema era capire esattamente in che punto mi trovassi. In realtà c’era una persona a cui chiedere, ma il mio orgoglio mi impediva di scendere a tanto. Non volevo e non potevo chiedere a Connor dove fossimo. Ma poi come c’eravamo arrivati fin lì?

Imprecai a bassa voce.

Una folata di vento per poco non mi fece volare via il tricorno, e per riflesso mi strinsi nelle spalle, cercando un po’ di calore nella redingote troppo leggera per quel freddo pungente e umido. Mi appoggiai ad un albero, lanciando un’occhiata alla schiena del ragazzo. Ringhiai. La voglia di andare lì e tirarlo malamente per il cappuccio era tanta, ma non avevo voglia di muovermi, né di scoprire con chi stesse parlando. Volevo tornare a Fort George, al caldo, e togliermi gli stivali zuppi. Avevo mal di schiena ed ero stanco morto, perché ero lì? Dov’era Charles? Guardai ancora Connor, vedendo due braccia esili avvolgergli la schiena. Sbuffai scocciato e tornai a guardare la distesa bianca davanti a me, realizzando in ritardo ciò che avevo visto.

Li guardai ancora.

Le braccia della persona che abbracciava il ragazzo erano coperte da una stoffa marrone, sembrava quasi…

«Non è possibile» una nuvoletta di condensa mi oscurò per qualche secondo la vista. «Cristo» vinsi la pigrizia e mi staccai dal tronco, avvicinandomi goffamente a quella scena irreale.

«Sono così fiera di te..» quella voce. No. No, cazzo, era sicuramente un sogno.

Lo afferrai per la spalla e lo voltai senza troppe cerimonie, scoprendo che ciò che avevo realizzato era corretto. Li fissai per una manciata di secondi senza proferire parola. Non sapevo che dire, in realtà.

«Haytham? Che diavolo fai qui?» Mi destai, guardando Connor con la stessa espressione che avrei avuto se mi avesse appena confessato di aver giaciuto con Washington.

«Come sarebbe che ci faccio qui?» Non siamo venuti insieme? Ma questo era il dettaglio che mi importava meno, ero sconvolto dal fatto che Tiio fosse lì, davanti a me, e non ero riuscito a trovare il coraggio di guardarla negli occhi.

«Cosa…» la indicai, costringendomi a guardare mio figlio «Lei…» indurì lo sguardo, facendomi sentire ancor più colpevole.

«Lei cosa?» Ah, diavolo. Perché non mi aiutava? Sapeva benissimo a cosa mi riferissi «E perché mi hai seguito? Ti avevo detto che dovevo parlarle da solo» mi accorsi di avere la bocca aperta quando sentii pungere la gola. Cristo, non sapevo nemmeno come ero arrivato fin lì, ricordo solo che dal momento in cui avevo preso coscienza di essere nella frontiera avevo solo pregato che non arrivassero lupi affamati e che calasse il vento.

Sospirai, decidendo di lasciar perdere il discorso con Connor. Mi feci coraggio e la guardai, tentando di deglutire nonostante la lingua fosse secca come un pezzo di legno.

«… Come stai?» Mi parve la cosa più sensata da chiedere. Sogno o no, morta o meno, che avrei dovuto domandare dopo vent’anni che non la vedevo?

Mi riservò la stessa occhiata del figlio «State collaborando?» Disse rivolgendosi a lui.

«Sì. Abbiamo svolto insieme alcune missioni»

«Ratonhnhaké:ton kahontsi… Basta, figlio mio» magnifico, sì, mi mancava la loro lingua incomprensibile.

Roteai gli occhi e misi le mani nelle tasche della redingote per trovare un po' di calore. «Potresti rendermi partecipe del discorso?» Mi ignorò bellamente, continuando a guardare Connor.

«Ascoltami bene, otsitsya. Non sprecare questa occasione»

Connor scostò lo sguardo, a disagio «Madre..»

«No. Non dimenticare tutto, io non posso, non riesco. Onekwenhsa, era ovunque, forse tu eri troppo piccolo per capire» la guardai. Era chiaro che dicesse in Mohawk le parole che non voleva capissi, e in effetti così il discorso che fece non aveva molto senso. Non per me, almeno. «Otsitsya onyare»

Connor deglutì, guardandomi istintivamente colpevole e impotente. Si pentì subito, come se potessi capire ciò che stavano dicendo «... Onyare?»

Tiio annuì «Lee» serrai i denti e diedi un calcio contro la neve fresca. Quello lo capii subito.

«Cosa diamine c'entra ora Charles?» Fissai prima lei, poi il ragazzo. Perché ogni volta lo tiravano in ballo? Perché chiunque usava Charles per ferire me? Perché cazzo doveva essere il mio punto debole?

«Haytham, stanne fuori» mi voltai fulmineo verso Tiio. Ero furioso, ma non riuscivo ad odiarla. Molto probabilmente se quella frase l'avesse detta un tizio qualunque, l'avrei ucciso senza pensarci due volte.

«Non ne sto fuori finché parlate di Charles. Che sta succedendo? Perché siamo qui? Tu... Tu sei morta, cristo, non ci capisco più nulla»

«Morta?» Connor perse l'espressione colpevole e mi fissò confuso, quasi preoccupato, convinto che stessi delirando «Se fosse morta come potrebbe essere qui?»

Mi calmai ed espirai con la bocca, condensando altro vapore acqueo «Infatti questo è un sogno, non c'è altra spiegazione. Non... Io non...»

Mi poggiò una mano sulla spalla «Calmati» mi scostai. Essere compatito era l'ultima cosa che volevo.

«Io non volevo... Non è stata colpa mia» barcollai, facendo due passi indietro. Cercai il suo sguardo per capire se credeva alle mie parole, ma ovviamente non fu così.

«Stai male?» Come potevo anche solo sperare? Le avevo mentito sull'unica promessa che le avessi fatto, non potevo pretendere fiducia.

«... Devi credermi»

«Nostro figlio non è come te, Haytham» ignorò totalmente il mio discorso e cambiò argomento, come se non le importasse nulla di ciò che avessi da dire, di ciò che provavo. «Ha un cuore diverso e obiettivi differenti, smettila di portarlo dalla tua parte.» E quando mai ci avevo provato? Non trattenni una risata nervosa. Quello era il colmo. «La vostra collaborazione finisce qui, gli hai fatto compiere troppi sbagli» prese Connor per mano, tirandolo piano verso di sé. Guardai il ragazzo, gli occhi fissi sulla madre, capo chino. Spostai lo sguardo verso sinistra, dando una rapida occhiata al paesaggio ed espirando ancora con la bocca.

«Dì qualcosa, Connor, per l'amor di Dio» giocava sporco? Avrei tentato la stessa cosa.

«... Ha ragione. Mi dispiace, Haytham»

Serrai i pugni «Non ti sei mai lamentato o sbaglio? Non quando ti ho dato un letto a Fort George, e nemmeno quando ti ho dato fiducia lasciandoti con Charles.» Perché davanti a lei fai la vittima? Stupido ragazzino. Tiio assottigliò lo sguardo, fissando Connor, che abbassò gli occhi, vergognandosi di se stesso, e poi me. Scosse la testa con disappunto e delusione. Mi fece male al cuore.

«Andiamocene» serrò la presa sul polso del ragazzo e lo strattonò, dove gli alberi si diradavano, verso una pianura completamente innevata, protetta dagli alberi solo da un lato. Connor non oppose resistenza, lasciandosi tirare.

«Ehi!» Mi destai solo dopo una ventina di secondi, tempo sufficiente per farli allontanare abbastanza. Iniziai a correre, inzuppandomi i calzoni a furia di cadere in avanti ogni volta che la neve cedeva. «Aspettate!» Avevo il fiato corto, i muscoli delle gambe indolenziti e rigidi come tronchi. Salii su un albero abbattuto per recuperare qualche metro, ma la neve ghiacciata non fece attrito, facendo scivolare il piede di lato e sbilanciandomi.

«Merda» mi rialzai con ancora il fiato corto, la gola mi bruciava e sentivo il forte bisogno di pisciare, ma ripresi a correre. Ignorai la fitta al fianco destro e imprecai, maledicendo la loro agilità nel correre su terreni inagibili come questi. Rallentai gradualmente e mi appoggiai ad un albero, constatando con disappunto che non li avrei mai raggiunti. Erano in lontananza, non più grandi di due noci, iniziai a vederli sfocati.

Strizzai gli occhi, sperando di mettere a fuoco «Tornate qui!» Perché urlavo? Non mi avrebbero mai sentito, e anche se fosse, non mi avrebbero dato ascolto. Iniziai a perdere le forze e senza un motivo apparente guardai a terra, dove i miei piedi sparivano nella neve macchiata di sangue. Boccheggiai, risalendo con lo sguardo lungo la scia scarlatta che dal terreno saliva, imbrattando stivali, calzoni e redingote, fino alla ferita al fianco.

Saaalve a tutti.
No, non ho assunto sostanze di nessun tipo, lol, le parole apparentemente senza senso hanno un significato reale nella lingua Mohawk. Sono impazzita per trovarle, dannati indiani. Sì, ora capisco Haytham e il suo odio per questa lingua.
Va beh, non commento il capitolo, a voi la parola, ewe.
Come sempre grazie a tutti, vi vogliobbene (?). A presto :)

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Capitolo 22
*** Padre, nonostante tutto. ***


Capitolo 22

 

«Come vi sentite?»

«Sto bene, ragazzo, sto bene» aiutai George Washington a rialzarsi, notando dopo qualche secondo la chiazza di sangue sulla manica della giacca, poco sopra il gomito. Constatai subito che non era nulla di grave, ma non riuscii a non ripensare alle parole di mio padre, prima che lo lasciassi solo a Valley Forge. Non ero ancora riuscito a capacitarmi che l'ordine di distruzione del mio villaggio fosse uscito dalla bocca del comandante. Non volevo che anche lui fosse quel tipo d'uomo, eppure fui costretto ad ammettere che su questo Haytham aveva ragione. I buoni propositi e le idee politiche che condividevamo non dovevano e non potevano cancellare gli errori commessi, sarebbe stato sciocco non accettare la realtà dei fatti. Speravo solo che mia madre capisse. Non me la sentivo di mettere a repentaglio la Rivoluzione per... Diavolo, per così poco. Mi sentivo in colpa a ritenere meno importante la salvezza della mia gente. La vita di una persona cara vale più o meno della libertà di un paese? Il sacrificio del singolo per un bene superiore può essere ignorato?

Mi vergognavo a pormi certe domande, e pregavo di trovare le risposte il prima possibile.

Sbuffai, osservando Washington, sorretto da due uomini, uscire dalla sala. Il presentimento che mio padre fosse coinvolto in questa faccenda iniziava a farsi sempre più spazio dentro me, e la cosa non mi piaceva. Speravo di non dover più discutere con lui, sapevo che nessuno dei due avrebbe cambiato idea, e neanche lo pretendevo, chiedevo solo che non mi costringesse a fare sul serio, anche se non mi sembrava interessato o preoccupato per come avrei potuto reagire.

Non volevo ucciderlo. Ero quasi certo che avesse chiesto a Johnson di comprare la terra per tenerla al sicuro, ma non mi piaceva il resto. Avevo ancora impressa l'immagine del mercenario di Church, con la testa sfondata e grondante di sangue, accasciato nella neve e dimenticato anche da Dio. Rabbrividii.

«Che riflessi! I miei complimenti, Connor, se non fossi intervenuto il nostro comandante sarebbe in una cassa a tre metri sotto terra»

Guardai Adams senza troppo entusiasmo. «Dovere» gli diedi una pacca leggera sul braccio. «Scusami, devo andare» mi allontanai senza attendere risposta, imboccando il corridoio.

Con la sua ultima trovata, Haytham aveva dato dimostrazione della sua vera natura, facendomi perdere quella poca fiducia che avevo riposto nei suoi buoni propositi di vederci uniti.

 

Tornai alla tenuta a piedi, scorgendo le stalle di Achille solo a sera inoltrata. Mi scaldai le mani e accelerai il passo, ripensando a ciò che mi era venuto in mente durante il tragitto. La verità era che non conoscevo mio padre, né come uomo né come genitore. Sapevo a malapena le sue idee politiche e le armi che usava, per questo non riuscivo a fidarmi di lui. E non avevo nemmeno nessuno a cui chiedere un giudizio imparziale. Achille me lo aveva da sempre descritto come un folle conquistatore, Charles Lee era forse il meno indicato, che vedeva Haytham come un Dio sceso in terra col solo scopo di accudirlo e farlo diventare il suo successore.

Sbuffai, creando un po' di condensa. Mia madre mi aveva raccontato poco e niente, che era stato un soldato, se non ricordo male, e che era uno importante, un pezzo grosso, insomma. Avrei tanto voluto avere una vita normale, senza nemmeno conoscere Assassini e Templari.

Aprii la porta della tenuta e mi scaldai le mani. Stavo vacillando e non mi piaceva. Non dovevo, non ora.

«Bentornato, Connor» mi voltai a destra, trovando Achille seduto al tavolo con una bottiglia di chissà cosa in mano.

Presi posto davanti a lui e lo guardai con dispiacere, constatando che in quei pochi anni la vecchiaia l'aveva indebolito senza pietà. «Sono stato al Congresso Continentale» accennai. Pensandoci bene non trovavo le parole. Non avevo le prove che il tizio che aveva tentato di uccidere George avesse un legame con mio padre, era una sensazione, ma parlare male di lui con Achille mi sembrava ingiusto. «Un uomo ha sparato a Washington, ma fortunatamente ho evitato il peggio» si versò altro liquore nel bicchierino, bevendone il contenuto in un sorso solo.

Tossì piano, lanciandomi uno sguardo stanco. «C'era anche Haytham?»

Annuii, decidendo di fidarmi ancora una volta del mio Maestro. «Credo... Credo sia stata opera sua» calò il silenzio ed io abbassai lo sguardo sul ripiano, udendo solo il bicchierino riempirsi ancora una volta. «Ma il problema non è questo» lo guardai. «Non cambierò mio padre e nemmeno ci provo. Credo di aver dimenticato la ragione per cui ho preso questa strada. Volevo salvare il mio villaggio e vendicare mia madre, ma oggi ho salvato il suo assassino per uno scopo più grande» strinsi i pugni con rabbia, mentre gli occhi iniziavano a pungere. La cosa che mi spaventava di più era che, forse, mi sarei fatto meno problemi ad uccidere mio padre piuttosto che Washington.

Achille impugnò meglio il bastone, alzando lo sguardo verso il camino e poi sulla libreria, osservando le costine dei libri impolverati. «Ogni uomo fa le sue scelte. Tu hai preso certamente quella più saggia.»

«Ma fa male» incalzai. «Non avere giustizia mi fa male. La guerra non è una giustificazione, ha ucciso gente che non era schierata, questa faccenda verrà dimenticata una volta finito il conflitto.» Serrai i denti. Come mio padre, anche il comandante in capo era protetto dalla posizione che ricopriva, non poteva essere processato e, a meno che non l'avessero ucciso, non avrebbe mai pagato per l'errore commesso.

«La vendetta non porta mai nulla di buono, ragazzo. Consuma il cuore e lo spirito»

«Ma molte volte porta giustizia»

«Pensa alle famiglie dei soldati inglesi. Anche loro vorrebbero vendetta, suppongo» tenni lo sguardo basso, non del tutto convinto. Se Washington non meritava la morte nonostante le azioni compiute, allora Charles la meritava per un'intenzione?

Sospirai, mentre Achille beveva l'ennesimo bicchierino. Non avevo altra scelta se volevo davvero capire cosa fare.

Mi alzai, consapevole che quella era l'unica soluzione.

«Hai già un piano?» Non domandai altro, capendo subito che si riferiva a mio padre.

«» dissi voltandogli le spalle e uscendo dalla sala. «Aspetto solo il momento più adatto» svoltai l'angolo, sparendo dietro il muro e riparandomi dai suoi occhi dubbiosi e indagatori. Mi portai entrambe le mani sugli occhi. Non ero più sicuro di voler uccidere Haytham, non che avessimo chissà che rapporto, però ero convinto di non saperne abbastanza per decidere della sua sorte.

Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi e sospirai. «Ci vediamo» aprii la porta ed uscii di nuovo, rabbrividendo per lo sbalzo termico. Aveva iniziato a nevicare, ma non me ne curai. Il freddo che sentivo sul viso non avrebbe retto il confronto con quello che avevo dentro da anni.

Corsi a New York senza fermarmi, un po’ per il gelo, un po’ perché temevo di cambiare idea e tornare alla Tenuta. Probabilmente era una follia, anzi, lo era sicuramente. Haytham non avrebbe apprezzato per niente, ma per il momento questo dettaglio passava in secondo piano. Preferivo vederlo furioso che morto, ecco. Era pur sempre mio padre e avevo il diritto di sapere chi era realmente.

Raggiunsi le guardie posizionate all’entrata, sperando mi riconoscessero ancora.

«Devo parlare con Haytham» dissi solo. I due si guardarono dubbiosi, poi quello a destra mi fece un cenno scocciato, spostandosi di un passo. Sei pazzo, questa è follia. No. Devo sapere. Ci ammazza, ne sono sicuro. Non morirà nessuno, né io né lui. Spero.

Entrai dentro il forte, andando velocemente verso la rampa di scale che portava agli alloggi. Pregai con tutto me stesso di non incontrare Charles. Forse era vero, era una pazzia, però avevo scelta? Le avevo pensate tutte, ma mio padre continuava a stare fermo sulle sue convinzioni, senza nemmeno provare ad avvicinarsi alle mie. Mi sarei avvicinato io alle sue.

Il corridoio era libero, quindi ne approfittai per correre silenziosamente fino alla porta di Haytham. Mi presi un secondo per leggere la targhetta d’oro appesa, che aveva il compito di ricordare a chiunque passasse di lì che lui era il Gran Maestro.

Aprii senza neanche bussare, cosa che l’avrebbe fatto alterare non poco.

«Connor? Che diavolo fai qui a quest’ora?» Richiusi e portai mano al tomahawk. «E non si usa più bussare?» Aveva notato il mio movimento, ma non disse nulla, limitandosi ad aggrottare impercettibilmente le sopracciglia. Credeva fossi lì per ucciderlo?

«Mi dispiace, davvero» avanzai di qualche passo, annullando i pochi metri di distanza.

«… Cosa vuoi fare?» Mi fissò con astio, spostandosi di lato e facendo scattare la lama celata.

Sfilai l’arma dalla cinta e la maneggiai un paio di volte, senza tuttavia avvicinarmi. «Non quello che pensi. Scusami» roteai il tomahawk impugnandolo al contrario, poi scattai verso di lui che, impreparato, perse i sensi dopo la botta in testa ricevuta. Lo presi in tempo, trascinandolo fino al letto e adagiandolo con cura sul materasso, poi mi guardai intorno. Ed era lì, aperto sulla scrivania. Il diario. Trattenni il respiro e mi avvicinai, fino a riuscire a leggere le ultime parole scritte. Era la cosa giusta, sì. Solo così l’avrei conosciuto per quello che era.

Soffiai sulla candela e me ne andai con la vita di mio padre nascosta nella tunica, sperando che almeno così le cose mi sarebbero state più chiare.

 

 

Salve a tutti :3

Non so se Connor abbia le conoscenze per dire “sbalzo termico”, nel caso mi scuso, lol, ma “differenza di temperatura” suona malissimo.

Dai, la smetto di essere cattiva con l’indianino e ringrazio come sempre chi segue, recensisce e chi legge soltanto. Vi vogliobbene (?).

A lunedì prossimo.

 

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Capitolo 23
*** Passato e futuro. ***


Avvertenza: le parti in corsivo sono tratte da “Forsaken” di Oliver Bowden.

 

Capitolo 23

 

Uscii da Fort George con un peso nel petto che non riuscivo a spiegarmi. Era il rimorso per aver stordito Haytham con così poca grazia o per avergli sottratto il diario? Forse era preoccupazione. Preoccupazione per come avrebbe reagito.

Lo sentivo quasi bruciare sotto la tunica. La curiosità che mi punse improvvisamente mi spinse ad accelerare il passo. Potevo conoscerlo, finalmente. Non pensai ad altro per tutto il tragitto, avevo finalmente l’opportunità di scoprire, in parte, chi fosse realmente mio padre.

Quando rientrai alla tenuta notai con piacere che Achille si era ritirato nella sua stanza, quindi salii anch’io al piano superiore. Mi sedetti sul letto con una strana ansia, guardando poi la copertina rigida in pelle del diario di mio padre. Ansia per cosa, poi? Forse non volevo scoprire cose di cui mi sarei pentito. Magari ne avrei conosciute di positive. Sospirai e lo aprii senza riflettere oltre:

 

Io ero uno dei fortunati, con dei genitori che volevano bene a me e alla mia sorellastra Jenny, che mi parlavano di povertà e di ricchezza, […] un privilegiato, non come i bambini che dovevano lavorare nei campi, nelle fabbriche e inerpicarsi su per i camini. A volte, tuttavia, mi chiedevo se quei bambini avessero amici. E se ne avevano, pur non invidiando le loro vite, sapendo che la mia era molto più confortevole invidiavo loro gli amici.

 

Mi sentivo invisibile, come se fossi bloccato in un limbo tra passato e futuro. Attorno a me gli adulti intrattengono colloqui carichi di tensione. I loro volti sono tirati e le signore piangono.

 

Ogni giorno, o a mezzogiorno o dopo cena, a seconda del programma di lavoro di mio padre, ci riunivamo in quella che chiamavamo la stanza dell’addestramento, ma che era semplicemente la stanza dei giochi. E fu lì che la mia abilità con la spada iniziò a migliorare. […] E in quella sala mio padre, gli occhi lucidi, vispi ma gentili, sempre sorridente, sempre pronto a incoraggiarmi: parata, copertura, gioco di gambe, equilibrio, affondo. Ripeteva quelle parole come un mantra, a volte era tutto ciò che ripeteva per l’intera lezione, urlando i comandi, annuendo quando li eseguivo bene, scuotendo la testa quando sbagliavo.

Per me quelli sono, o erano, i suoni e gli oggetti dell’addestramento alle armi: gli scaffali per i libri, il tavolo da biliardo, i mantra di mio padre e suono del… legno.

Sì, legno. Con mio grande dispiacere ci esercitavamo con spade in legno. L’acciaio l’avremmo usato in seguito, diceva ogni volta che mi lamentavo.

 

L’amore che provavo per mio padre minacciava di continuo di sommergermi con la sua mera grandezza: più che amarlo lo idolatravo. A volte era come se noi due condividessimo una conoscenza segreta al resto del mondo.

 

Smisi di leggere per un secondo e guardai fuori dalla finestra. Avrei tanto voluto un rapporto del genere con lui o con mia madre. Un po’ lo invidiavo, ad essere sincero, ma non lo perdonavo per avermi negato quest’occasione, per avermi costretto e rubargli il diario per conoscerlo, per diffidare così di lui. Non c’era modo di provare amore per lui, né come figlio e nemmeno come marito.

Girai pagina:

 

Mio padre era solito dire: «Per vedere in modo differente, bisogna prima pensare in modo differente», e ciò potrebbe suonare stupido o io potrei ripensarci anni dopo e ridere, ma a volte era come se sentissi il mio cervello espandersi per guardare il mondo con gli occhi di mio padre. Lui aveva un modo che nessun altro aveva o così mi pareva; un modo che sfidava l’idea della verità.

 

«Come va l’addestramento alle armi, se posso chiederlo?»

«Molto bene, signore. Miglioro di giorno in giorno, o così sostiene mio padre.»

«Ottimo, ottimo. E vostro padre vi ha mai rivelato lo scopo del vostro

addestramento?»

«Mio padre dice che il vero addestramento inizierà il giorno del mio decimo compleanno.»

«Ecco, mi chiedo cosa avrà da dirvi», disse Birch, accigliato. «Davvero non ne avete idea? Neppure un sospetto?»

«Nossignore. So solo che mi fornirà un cammino da seguire. Un credo.»

 

Un credo. Appresi quindi che mio padre venne allenato fino ai dieci anni senza sapere il motivo, con lo scopo di far parte della Confraternita insieme a suo padre.

 

Corsi verso le scale pensando solo a raggiungere i miei genitori.

L’atrio era buio, ma colmo di grida e piedi che correvano e dei primi riccioli di fumo.

Tentai di orientarmi. Da sopra giunse un altro strillo e vidi delle ombre danzanti sul balcone e, brevemente, il balenio dell’acciaio nelle mani di uno dei nostri assalitori. Stava combattendo con uno dei camerieri personali di mio padre, ma la luce svolazzante mi impedì di vedere il destino di quel povero ragazzo. Udii invece il sordo tonfo del suo corpo quando cadde dal balcone sul pavimento in legno, non molto distante da me. Il suo assassino lanciò un urlo di trionfo e io lo sentii correre verso le camere da letto.

«Madre!» Chiamai, lanciandomi su per la scala nello stesso momento in cui vidi la porta della camera dei miei genitori spalancarsi e mio padre uscire per affrontare l’intruso. Indossava i calzoni e aveva tirato le bretelle sulle spalle nude, i capelli erano spettinati e sciolti.

[…] Ma poi sentii un grido provenire dall’interno della stanza dei giochi e ciò bastò per farmi oltrepassare la porta. La prima cosa che vidi fu che lo scomparto nella libreria era aperto e che dentro c’era la scatola con la mia spada. Per il resto la stanza era come sempre, come l’avevamo lasciata dopo il mio ultimo allenamento, con il tavolo da biliardo coperto e spostato per creare lo spazio per addestrarmi, dove precedentemente quel giorno ero stato istruito e rimproverato da mio padre.

Dove ora mio padre era inginocchiato, morente. In piedi davanti a lui c’era un uomo con una spada infilata fino all’elsa nel petto di mio padre, con la lama che sporgeva dalla schiena da cui gocciolava sangue. Non molto distante c’era l’uomo dalle orecchie appuntite, una grossa ferita in faccia. Ce n’erano voluti due per sconfiggere mio padre, e solo per poco.

[…] e mi ritrovai a terra, stordito, disteso di fronte a mio padre che giaceva sul fianco con la spada infilzata nel petto. Nei suoi occhi c’era ancora vita e le palpebre batterono per un attimo, come se cercasse di mettermi a fuoco. Per un momento giacemmo così, l’uno di fronte all’altro, due uomini feriti.

[…] «Padre…» dissi, ma in quell’istante l’assassino si avvicinò a noi e senza fermarsi si chinò ed estrasse la spada dal corpo di mio padre che sobbalzò, s’inarcò in un ultimo spasimo di dolore, mentre moriva.

 

Sentii gli occhi pungere, quindi li chiusi, passandomi rapidamente la manica sulle palpebre. Eravamo simili, dopotutto. Avevamo entrambi visto morire un genitore. Sapeva cos’avevo passato, e nonostante questo non mi aveva dato conforto.

 

«Mi dispiace, è veramente troppo pericoloso entrare, signorino Haytham», ripeté il signor Birch. Poco dopo mi fece risalire nella carrozza, batté due volte con il bastone sul soffitto, quindi partimmo.

«In ogni caso», aggiunse, «ieri mi sono preso la libertà di recuperare la vostra spada»

[…] «La notte dell’assalto, avete ucciso un uomo», riprese poi, girando la testa per guardare fuori dal finestrino. Era ancora presto. Le strade erano silenziose. «Che cosa avete provato, Haytham?»

«Stavo proteggendo mia madre, signore.»

«Quella era la vostra unica opzione, Haytham», concordò, «e avete fatto la cosa giusta. Non pensate neppure per un attimo di avere sbagliato. Ma l’essere stata la vostra unica opzione non cambia il fatto che non è una faccenda da poco uccidere un uomo. Per nessuno. Non per vostro padre. Non per me. Ma soprattutto non per un ragazzino tanto giovane.»

 

Sfogliai ancora, sperando di arrivare al punto in cui arrivò qui, nel Nuovo Mondo.

 

«Non è molto lontana», mi disse Charles. E io immaginai o sentii veramente il mio cuore battere più forte. Era passato molto tempo da quando una donna mi aveva fatto sentire così. Avevo trascorso la vita o studiando o spostandomi di continuo e, per quello che riguardava le donne nel mio letto, non ce n’era stata una importante: le lavandaie durante la vita militare con le guardie Coldstream, le figlie di miei padroni di casa, donne che mi avevano dato conforto e sollievo non solo fisici, ma che non avrei mai descritto come speciali. Questa donna, invece… avevo visto qualcosa nel suo sguardo, come se fosse la mia anima gemella, un’altra persona solitaria, un’altra guerriera, un altro spirito acciaccato che guardava il mondo con occhi stanchi.

 

L’amo?

Trovo arduo rispondere a questa domanda. Tutto ciò che sapevo era che mi piaceva stare con lei e apprezzavo il tempo passato insieme.

Lei era… diversa. C’era qualcosa in lei che non avevo mai trovato in nessun’altra donna. Quello spirito di cui avevo parlato prima emergeva in ogni sua parola e gesto. Mi scoprivo a osservarla, affascinato dalla luce che pareva infiammarle gli occhi e a chiedermi, a continuare a chiedermi, cosa succedeva dentro di lei. Che cosa stava pensando. Pensavo che mi amasse. Dovrei dire che credo mi ami, sicuramente mi trova simpatico. C’è così tanto di lei che tiene nascosto. E, come me, sa che l’amore non potrà progredire, che non potremo vivere le nostre esistenze insieme, né nella foresta né in Inghilterra, che ci sono troppe barriere tra noi e le nostre vite insieme: la sua tribù, tanto per cominciare. Non vuole abbandonare la sua vita. Il suo posto è con la sua gente, deve proteggere la sua terra, una terra che ritengono minacciata da persone

come me. Pure io ho una responsabilità verso la mia gente. I principi del mio Ordine sono in linea con gli ideali della sua tribù? Non ne sono sicuro. Se mi chiedessero di scegliere tra Tiio e gli ideali in cui mi hanno cresciuto, cosa sceglierei?

Questi sono i pensieri che mi hanno tormentato nelle ultime settimane: anche mentre mi abbandonavo a queste dolci ore rubate con Tiio, mi chiedevo cosa fare.

 

Deglutii a fatica, come se incastrato in gola avessi un sasso abbastanza grosso da soffocarmi. Leggere quelle parole rivolte a mia madre mi fece male al cuore, facendomi sentire in colpa verso Haytham per le cose che gli avevo detto qualche sera prima, a Fort George. Non potevo stabilire se l’avesse amata sul serio, è una cosa così soggettiva l’amore, ma confermai ciò che avevo sempre sostenuto: mio padre non voleva distruggere il villaggio. Già il fatto che si fosse posto il problema di scegliere tra l’Ordine e mia madre mi rincuorava.

 

Il tempo aveva avuto un impatto negativo sul suo aspetto e, sebbene ci fosse ancora un barlume della sua antica bellezza, gli scuri capelli erano ora striati di grigio, il volto era teso e rugoso e la pelle opaca, con scure occhiaie sotto occhi stanchi. […] Mentre la fissavo, Jenny lanciò un’occhiata dall’altra parte del cortile e mi vide. Per un attimo corrugò la fronte, perplessa, e io mi chiesi se, dopo tutti questi anni, mi avesse riconosciuto.

«Jenny, sono io. Sono Haytham».

Mentre pronunciavo quelle parole, mi guardai nervosamente in giro, ma nel cortile era tutto come prima, nessuno si era accorto di ciò che stava accadendo sotto il portico;

«Haytham», mormorò, «sei venuto a prendermi.»

«Sì, Jenny, sì», risposi sottovoce, provando uno strano miscuglio di emozioni, almeno una delle quali era senso di colpa.

«Sapevo saresti venuto», aggiunse. «Lo sapevo.»

«Dimmi che è morto. Dimmi che lo hai ucciso.»

Lacerato tra il desiderio che rimanesse in silenzio e quello di sapere chi intendesse, sibilai: «Chi? Chi devo dirti che è morto?»

«Birch», esclamò e questa volta a voce troppo alta. Oltre la sua spalla vidi una concubina. Mentre scivolava verso di noi sotto il portico, forse diretta alla stanza del bagno, mi era sembrata persa nei suoi pensieri, ma al suono di una voce aveva alzato gli occhi e la sua espressione di tranquilla serenità fu sostituita da una di panico e subito si sporse nel cortile e gridò l’unica parola che avevamo tutti temuto.

«Guardie!»

 

Smisi di respirare. Birch? Tornai indietro di una trentina di pagine e rilessi il cognome. Birch. Reginald Birch che, da quel che avevo intuito, si era occupato di mio padre dopo la morte di mio nonno, diventandone il Maestro. Con che cuore? Con che coraggio aveva preso sotto la sua ala protettiva Haytham sapendo di essere l’assassino di suo padre?

 

Non molto distante da me, Holden ne aveva abbattuti tre, ma ora le guardie ci avevano valutati e si stavano avvicinando con cautela, raccogliendosi per combattere, mentre noi ci riparavamo dietro le colonne e ci scambiavamo occhiate preoccupate, chiedendoci, se saremmo riusciti a tornare alla botola prima di venire annientati.

«Fuggite voi due», mi esortò Holden da sopra la spalla.

«Neanche per idea!» ribattei. Ci battemmo contro un altro attacco. Un eunuco cadde morendo con un gemito. Neppure morendo, neppure con una spada nelle viscere, questi uomini gridavano. Oltre le spalle di uno di quelli che avevamo davanti a noi vidi che altri si stavano riversando nel cortile. Erano come scarafaggi. Ne uccidevamo uno solo per vederne due prendere il suo posto.

«Andate, signore!» insistette Holden «Li trattengo, poi vi seguirò.»

«Non dite assurdità, Holden», urlai, senza riuscire a evitare un tono di scherno nella voce. «È impossibile trattenerli. Vi uccideranno.»

«Mi sono trovato in situazioni peggiori di questa, signore», borbottò Holden, continuando a fendere colpi. Percepii comunque nella sua voce la falsa spacconeria.

«Allora non vi importerà, se resto», replicai, schivando i colpi di spada di un eunuco e sferrandogli un pugno in faccia che lo fece roteare su se stesso.

«Andate via!» gridò Holden.

«Moriamo. Moriamo entrambi», replicai. Ma Holden aveva deciso che non c’era più tempo per la gentilezza. «Ascoltatemi, amico, o voi due ve ne andate di qui o non lo farà nessuno. E allora che succederà?»

Nello stesso istante, Jenny mi stava tirando la mano, la porta della stanza del bagno era aperta, e altri uomini stavano arrivando da sinistra. Esitai, fin quando, scuotendo la testa, Holden si girò bruscamente e gridò: «Dovete scusarmi, signore», e, prima che avessi il tempo di reagire, mi spinse attraverso la porta e la chiuse. […] Dall’altra parte della porta sentii i rumori del combattimento, una strana battaglia silenziosa, e poi un rumore sordo contro la porta, cui seguì un grido, un grido che apparteneva a Holden.

«Forza, castrati, fatemi vedere come ve la cavate contro uno degli uomini di sua maestà…». L’ultima cosa che sentimmo, mentre percorrevamo di corsa il corridoio, fu un grido.

 

Al mercato di Damasco avevo scoperto che Holden non era stato ucciso, come avevo pensato, ma catturato e trasportato in Egitto nel monastero copto di Abou Gerbe, dove trasformavano gli uomini in eunuchi. Per questo motivo ero venuto qui, pregando di non arrivare troppo tardi, anche se, in cuor mio, sapevo che così sarebbe stato. Era troppo tardi.

Con la guardia morta dietro di me, entrai guardingo nel recinto. Era buio e per guidarmi avevo solo la luce della luna, ma vidi che la sabbia attorno era sporca di sangue. Quanti uomini, mi chiesi, avevano sofferto qui, mutilati e poi sepolti fino al collo? Da poco distante giunse un fioco lamento e io strizzai gli occhi e notai una forma irregolare al centro del recinto e compresi immediatamente che apparteneva al

soldato semplice James Holden.

«Holden», sussurrai e un attimo dopo ero accovacciato dove la sua testa sporgeva dalla sabbia, inorridito da ciò che vedevo. La notte era fresca, ma di giorno faceva caldo, un caldo infido e il sole l’aveva scottato così tanto che pareva che la pelle gli fosse caduta dalla faccia, ustionata. Le labbra e le palpebre erano incrostate e sanguinanti, la pelle rossa e screpolata. Aprii una fiaschetta d’acqua che avevo a portata di mano e gliela tenni vicino alle labbra.

«Holden?» ripetei. Lui si agitò, aprì gli occhi e li mise a fuoco su di me, occhi acquosi e colmi di sofferenza, ma mi riconobbe e lentamente sulle sue labbra, spaccate e pietrificate, apparve l’ombra di un sorriso.

Poi, rapidamente come era apparso, svanì e cominciò a contorcersi. Non capii se stesse tentando di tirarsi fuori dalla sabbia o se fosse stato colpito da una convulsione, ma sbatteva la testa da una parte all’altra, la bocca spalancata, e io mi chinai in avanti e gli presi il viso tra le mani per impedirgli di farsi del male.

«Holden», mormorai. «Holden. Smettetela, per favore…»

«Tiratemi fuori di qui, signore», disse con voce stridula, gli occhi lucidi nella luce lunare. «Tiratemi fuori.»

«Holden…»

«Tiratemi fuori di qui», implorò. «Tiratemi fuori di qui, signore, per favore, adesso, signore…»

Più scavavo, più la sabbia era nera di sangue. «Oh, mio Dio, cosa vi hanno fatto?» Ma già lo sapevo e, in ogni caso, ne ebbi conferma poco dopo, quando arrivai alla vita e la trovai avvolta in bende, anche quelle nere e incrostate di sangue.

«Fate attenzione là sotto, signore, per favore», disse sottovoce, e capii che era trasalito, e che si stava mordendo la lingua per il dolore.

 

La prima cosa che sentii al mattino fu un grido. L’urlo di Jenny. Era entrata in cucina e aveva trovato Holden appeso a una corda per asciugare i panni. L’avevo saputo prima ancora che si precipitasse in camera mia, avevo capito cosa era accaduto. Aveva lasciato un biglietto, ma non ne avrebbe avuto bisogno. Si era ucciso per ciò che gli avevano fatto i preti copti. Tutto qui, nessuna sorpresa, realmente.

La morte di mio padre mi aveva insegnato che uno stato di torpore era un buon indice del dolore che sarebbe sopravvenuto. Quanto più uno si sente paralizzato, stordito e sconvolto, tanto più lungo e intenso sarà il periodo del lutto.

 

[…] Charles, la mia mano destra, che si sedeva con me ogni volta che ero nella stanza, la cui devozione era tale che a volte la sentivo come un peso, altre volte come una grande fonte di forza.

 

Che Charles Lee fosse il prediletto di mio padre mi era sempre stato chiaro, ma capii che l’affetto che Haytham riversava su di lui era, forse, quello che non aveva potuto dare a questo Holden. O quello che lui per primo non aveva ricevuto. Non ero sicuro di questa interpretazione, ma pensai istintivamente a Kanen’tò:kon. Conoscevo bene la sensazione che si prova nel perdere un amico, nel caso di mio padre forse l’unico che avesse mai avuto, date le circostanze della sua infanzia.

 

Richiusi il diario tenendo l’indice in mezzo per non perdere il segno. Mi si era chiuso lo stomaco. Riaprii il diario e lo appoggiai sul letto con la copertina rivolta verso l’alto, poi mi alzai, dirigendomi verso il bagno per sciacquarmi il viso. Notai che mi tremavano le mani quando le immersi nel catino pieno d’acqua fresca. Eravamo uguali. Ci distinguevamo solo per alcuni ideali, ma erano più le somiglianze che le differenze. Non era giusto ucciderlo, e in quel momento mi resi conto che sottrargli il diario fu la cosa più sensata che avessi potuto fare. Non avrebbe mai raccontato nulla di tutto questo se gliel’avessi chiesto.

 

***

Per un attimo non credetti ai miei occhi. Sapevo dove mi trovavo, riconoscevo quella radura, quegli alberi e quegli odori. Ero all’interno del  villaggio di Tiio, in parte me lo suggeriva l’istinto, perché nulla era come ricordavo, ma ad aiutarmi furono le capanne in cui vivevano e la staccionata che ne delimitava il perimetro. L’aria era pesante, calda e intrisa di cenere, molte delle abitazioni –primordiali, ma pur sempre tali- erano infuocate e ai nativi poco importava di vedere i loro averi bruciare, poiché troppo impegnati a combattere contro i soldati dell’Esercito Continentale.

Alzai un sopracciglio. Continentale? Avevo visto bene?!

Avanzai di qualche passo senza saper che fare, vidi un armadio indiano combattere a mani nude contro un uomo armato di moschetto, strapparglielo di mano e conficcargli nel ventre la baionetta. Dalla stazza lo scambiai per Connor, ma mi accorsi dell’errore quando vidi il suo volto allarmato girarsi verso di me e guardare oltre la mia figura. Mi voltai seguendo la traiettoria del suo sguardo appena in tempo per vedere due soldati sparare a bruciapelo ad un nativo, il quale cadde con un tonfo, esanime.

Mossi istintivamente un passo verso di lui, ma mi fermai bruscamente quando, alla mia sinistra, vidi mio figlio. E non ebbi dubbi dopo aver visto il tomahawk –seppur non indossasse la tunica da Assassino-. Piantò l’accetta nella fronte di un uomo senza troppi problemi e istintivamente mi avvicinai.

«Ragazzo» posai la mano sulla sua spalla, o almeno, l’intenzione era quella. Passò oltre la sua carne, come se davanti avessi un fantasma «Connor!» Alzai la voce per farmi udire, ma si allontanò senza neanche voltarsi. D’accordo, non ero stato un padre esemplare, affettuoso o altro, ma diamine, l’indifferenza totale era esagerata, no? Gli andai dietro, nonostante questo. Dando una rapida occhiata avevo contato una ventina di nativi, i soldati saranno stati almeno il doppio, non avevano molte speranze, avrei potuto aiutarli. Portai una mano alla cintura e afferrai l’elsa, estraendo la spada e conficcandola nella schiena di un nemico alle spalle di Connor. Niente sangue, niente urla di dolore, solo il clangore della lama contro l’accetta del ragazzo che, fulmineo, si era voltato per parare l’attacco. Inconsapevolmente mi sentii più leggero nel vederlo ancora vivo, e mi trovai faccia a faccia con lui quando il soldato cadde a terra tra me e mio figlio.

«Che sta succedendo?» Gli domandai. Non rispose, si limitò a roteare il tomahawk e correre in soccorso di altri nativi. Rinfoderai la spada e calciai un sasso, frustrato e incredulo del fatto che sembrassi esterno alla situazione. Non meritavo un trattamento simile, cristo, non…

«Che mi venga un colpo» non riuscii a trattenermi quando, esattamente di fronte a me, lontana una trentina di metri, vidi Tiio. Era lei, mi ci sarei giocato le palle, cazzo, l’avrei riconosciuta ad occhi chiusi. Era immobile, circondata da cadaveri, nella mano destra un pugnale, gli occhi fissi su un punto indefinito davanti a lei.

Corsi nella sua direzione. Com’era possibile? Come poteva essere viva se Connor era già ventenne? Mi fermai al suo fianco e ripresi fiato, mi ignorò anche lei. Gesù, mi odiavano così tanto?

«Perché state combattendo contro i soldati di Washington? Che cazzo sta succedendo?» Non ottenni nemmeno la sua attenzione, il che mi fece imbestialire oltre ogni mia aspettativa «Credi che ignorandomi risolverai la situazione? Posso aiutarvi, maledizione» serrai i pugni e aspettai due secondi, poi le passai una mano davanti al viso. Sembrava incantata. Notai i suoi muscoli facciali contrarsi, solo in quel momento mi decisi a voltarmi nella sua stessa direzione per capire cosa l’avesse colpita e per poco non bestemmiai. Non apertamente, almeno. Washington, Putnam e Arnold, in sella ai loro cavalli, ci fissavano ghignando dall’alto delle loro selle. George, al centro, borbottava qualcosa, lo capivo dal labiale.

«Non vorrai fare ciò che penso, vero?» Tornai a rivolgermi a Tiio, che fissava il comandante con astio. «Per carità di Dio, l’hai già atterrato una volta, vattene da qui. Ci penserò io» non mi degnò neanche di uno sguardo.

«Non potrete mai vincere!» Si rivolse a George avanzando di un passo, fiera e senza timore. La seguii con gli occhi, Dio, e vi chiedete perché l’amassi?

Lui rise divertito «Tu. Sei ancora viva? Sorprendente» mi voltai verso Washington poggiando la mano destra sul calcio della pistola che avevo alla cintura «stavolta mi accerterò che tu muoia» tentai di metterlo a tacere, ma ciò che vidi mi fece morire le parole in gola. Aveva la Mela incastonata in uno scettro, l’aria da folle che decisamente non gli si addiceva, proprio no. Insomma, stiamo parlando di George Washington, il comandante con la carriera più patetica della storia, chi se lo immaginerebbe con un’espressione assassina sul volto? Io no, affatto.

«Come l’avete ottenuta?» Domandai, ma nemmeno lui mi rispose, dedicandosi esclusivamente a Tiio.

Fu un attimo, serrò la presa sul pugnale e partì correndo verso di lui.

«No!» Le andai dietro senza pensarci e sfoderai la pistola pronto a sparare, ma Washington sollevò lo scettro, scatenando un fascio di luce dorata che la investì in pieno. La vidi accasciarsi a terra, mollare il pugnale e abbandonare questo mondo ancora una volta. Mi fermai, incredulo: non una ferita, non un segno, sembrava semplicemente svenuta.

Rialzai lo sguardo su George, che fissava il cadavere di Tiio ghignando soddisfatto. Impugnai meglio la pistola e gliela puntai contro «Figlio di puttana» premei il grilletto due volte, colpendolo al petto e al viso, ma non cadde da cavallo. Abbassò lo scettro e proseguì, anche lui privo di ferite, come se non ci fossi.

Gli sparai di nuovo «Muori, bastardo! Muori!»

«Madre!» Mi voltai, vedendo Connor correre verso di me.

 

«Si sta svegliando»

Aprire gli occhi e trovare Jenny e Charles al mio capezzale era una delle ultime voci della lista delle cose da fare. Eppure erano lì, entrambi sconvolti, mia sorella intenta a stringere la mano destra di Lee per trovare un po’ di conforto. Sentii pungere le ghiandole salivari, temendo seriamente di rimettere la cena.

Perché continuavo a sognarla? Ogni volta era una pugnalata al cuore.

«Siete sveglio, finalmente» mi tirai su, la testa dolorante e una gran sete. Non feci domande, ricordavo perfettamente ciò che era successo.

Connor. «Quel grandissimo figlio di puttana» perdonami, Tiio. Tu hai colpe quanto me, cioè zero.

«Haytham» oh, dimenticavo che dinnanzi alla principessina Scott non era ammesso un linguaggio tanto scurrile. Che razza di educazione avevo ricevuto? Mascalzone, signorino Haytham.

«Che cazzo c’è?» Sì, lo facevo di proposito. Mi comportavo da persona matura, insomma.

«Si può sapere che è successo? Ti ho trovato svenuto su letto con un bernoccolo in fronte» ovviamente. Non poteva non lasciare tracce del suo passaggio, il selvaggio. Tastai piano il durone e soffocai a stento una bestemmia, ricordando solo in quel momento il dettaglio principale: il diario. Quella ragazzetta aveva pensato bene di farsi i cazzi miei dall’inizio alla fine.

«Lo ammazzo» furono le prime parole che mi uscirono di bocca. «Parola mia che l’ammazzo»

Charles sgranò gli occhi «Chi?»

«Chi, secondo te?!» Sbottai istericamente «Connor, ecco chi! Figlio o non figlio ha le ore contate.»

Mi alzai incurante del mal di testa e ignorando gli strepiti isterici di Jennifer. Mi urlava di starmene a letto, come se perdere tempo a poltrire potesse calmarmi. Certo, come no. Lei non aveva un figlio di vent’anni, ma adolescente cerebralmente, che si divertiva rubando il diario personale di suo padre. No, quella fortuna era capitata solo a me.

Attraversai il piazzale di Fort George ed entrai nella stalla, sellando il primo cavallo che mi capitò sotto mano e partendo al trotto verso quello sputo di terra di cui tanto si vantava Achille. Che bruciasse, ecco cosa speravo. Lui e quella catapecchia che si ostinava a definire casa.

Vedere in lontananza il tetto della tenuta soltanto all’alba riaccese l’istinto omicida che avevo represso fino a quel momento, e tentai di scaricare la tensione stringendo le briglie. Mi permisi di entrare nelle scuderie Davenport per sistemare il cavallo. Lo legai semplicemente ad un gancio ed uscii, dirigendomi a grandi falcate verso la porta.

«Connor!» Bussai con decisamente poca grazia. «Apri questa cazzo di porta o giuro che la butto giù!» Solo in quel momento pensai che forse dormissero tutti, e in cuor mio speravo fosse così, meritavano un risveglio tutt’altro che piacevole.

 

Salve.

Sì, mi diverto a far sognare Tiio ad Haytham, lol. A proposito, è tratto dal DLC “La tirannia di re Washington”. È una bastardata? Suppongo di sì, ewe. Per chi non sapesse chi è Holden –o meglio, per chi non riuscisse a dargli un volto-, è quel simpatico personaggino -che compare per venti secondi all’inizio di ACIII- che accompagna Haytham a teatro.

Detto questo, ringrazio come sempre chi legge e lascia un commento, a lunedì prossimo :3

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Capitolo 24
*** Crowds power. ***


Capitolo 24

 

Diedi altri tre pugni alla porta.

Un Templare che prende in prestito un medaglione per aprire una grotta -rischiando di rivelare nozioni in grado di migliorare il Mondo- è uno sporco ladro che merita l'impiccagione, ma un Assassino che ruba il diario personale di un altro individuo è perdonato, poiché lo fa a fin di bene. Spiegatemi il perché.

Ero frustrato come poche altre volte nella vita. «Connor!» Indietreggiai di un passo e sferrai un calcio sperando di abbatterla, fallendo miseramente l'entrata teatrale che mi ero immaginato. In che modo avrei potuto ucciderlo? Sgozzato? Nah. Troppo rapido e indolore, troppo sangue da pulire. Evirato? Gesù, scusami, Holden. Bruciato?.... Merda, Tiio. Impiccato? Un bello spettacolino, mi sarebbe piaciuto vederlo agonizzare mentre il poco ossigeno che aveva nei polmoni lo abbandonava lentamente, ma la corda al collo mi rievocava brutti ricordi. Un colpo di pistola per ogni arto e un quinto in testa? Come sprecare munizioni, non meritava tutta questa considerazione. Avrei sempre potuto ridurlo ad un colabrodo a furia di infilzarlo con la spada. Sì, sarebbe stato anche divertente, tutto sommato, se non per il piccolo dettaglio che mi ricordasse mio padre. Affanculo.

«Smettila di dare colpi» riaprii gli occhi posandoli su Connor, stranamente senza la sua sottana da Assassino. Che qualcuno da lassù preghi per l'incolumità del mezzosangue.

«Tu.. » annullai la distanza con una falcata e lo afferrai con entrambe le mani per la maglia vecchia e sgualcita, spingendolo in casa. «Come cazzo hai osato?!» Gli mollai un pugno sul naso. Vederlo indietreggiare ma non cadere mi mandò in bestia. Ci sono andato leggero, mh? Rimedio subito.

Lo afferrai con rabbia per il colletto e lo spinsi, sbattendolo al muro con forza.

«Fossi in te chiederei aiuto ai tuoi amici spiriti, magari ti preparano un posticino nell'aldilà!»

«Aspetta..» avevo già il pugno chiuso e i muscoli tesi per lo sforzo, ma mi bloccai lasciandolo a mezz'aria. Mi incuriosiva, dopotutto. Era così complicato capire quello che gli passava per la testa, che tappargli la bocca quando voleva parlare di sua volontà era quasi un peccato. «Consapevolezza»

Serrai i denti, ringhiando. «Mi prendi in giro?!» Se sperava di salvare la pelle utilizzando i termini del mio credo si sbagliava di grosso. Avrei scommesso qualsiasi cifra sul fatto che non ne sapesse nemmeno il significato.

«Ho letto spesso questa parola nel tuo diario. Era quello che cercavo» lo guardai severo, senza capire. «Mi dispiace.»

«La tua pietà è l'ultima cosa che voglio» era questo ciò che temevo di più. Odiavo il fatto che gli altri potessero guardarmi con occhio caritatevole solo per ciò che avevo vissuto. Odiavo essere compatito, aiutato, consolato. Odiavo immaginare ciò che la gente poteva pensare di me se solo avesse saputo della mia infanzia felice, e già dicevano peste e corna su mio padre. Dov'è scritto che chi soffre merita la stima e il perdono? Io le meritavo? Non credo. E se qualche prete coraggioso mi avesse purificato l'anima, il merito non sarebbe stato di certo del dolore tipico degli orfani.

«Per tuo padre. Mi dispiace.» Sì, dispiaceva anche a me, ma che avrei dovuto fare? Sbandierarlo ovunque per ricevere le condoglianze da tutta New York? «E anche per te, so cosa vuol dire veder morire un genitore» abbassò lo sguardo.

«Ti è servito a cosa?, mh?» Lo scrollai malamente per risvegliarlo dal torpore. «Adesso ti è più chiaro il quadro della mia vita? Sei stato illuminato sul perché delle mie azioni? Hai capito il motivo per cui sono partito abbandonando questo povero bambino?» Alzai il tono della voce e lo sbattei al muro ancora una volta. «Per quale cazzo di motivo dovrei giustificarmi con te?» Mi faceva male il petto da quanto forte batteva il cuore, e la testa non era da meno, dato che da dieci minuti circa cercava di non assecondare la vocina omicida che mi suggeriva di sgozzare Connor come un maiale. «Che cazzo devo fare con te?!» Urlai «Eh?» Colpii la parete lì dove la tappezzeria era strappata, esattamente ad un palmo dall'orecchio sinistro di mio figlio. Si sforzò di restare impassibile, ma il riflesso involontario delle ciglia parlò per lui.

«Io... Io...»

«E smettila di balbettare come una ragazzina in piena tempesta ormonale» e se avevo immaginato di veder spuntare qualche pugnale pronto a trapassarmi da parte a parte, la reazione di Connor mi fece ancora più male, dato che non solo non l'avevo nemmeno presa in considerazione, ma la rifiutavo con tutto me stesso.

Mi abbracciò. Prima timidamente, poi serrando la presa sulla redingote. Mi trovai stretto a lui, incapace di reagire o pensare. Desiderai ardentemente che si staccasse, perché io non ero in grado di farlo. Picchialo e vattene. Oh, avrei voluto farlo, ma uno strano calore al petto mi impediva di immaginare il ragazzo col naso rotto e un fiume di sangue in bocca. Ah, quanti sentimentalismi. Sto invecchiando.

«Ragazzo, smettila» mi ritrovai a poggiare una mano sul suo petto e a spingere per interrompere quel contatto poco desiderato, ma la stretta di Connor si fece più forte. Aprii la bocca col respiro spezzato «Co-Connor!» Esercitai più pressione più che altro per riprendere a respirare, ma sembrava fossi intrappolato in una trappola mortale. «N-Non… respiro!»

«Mi dispiace, davvero» quel concetto l’avevo capito, giuro.

«Lasciami- grugnii espirando pesantemente. C’era qualcosa che non andava. Avevo notato qualcosa nel tono di voce, troppo teso e acuto rispetto al normale.

Persi definitivamente la pazienza quando iniziò a singhiozzare contro la mia spalla. Gesù, questo è troppo. Gli mollai una ginocchiata tra le gambe senza troppi indugi, costringendolo a piegarsi e a mollare la presa. Indietreggiai affannato fino ad appoggiare la schiena al muro opposto, sconvolto e incredulo per ciò che stavo vedendo.

Con le mani sul cazzo e la testa abbassata, attesi che facesse una mossa, una qualsiasi, per tentare di capire cos’avesse in mente. Deglutii quando alzò il viso, mostrando appena gli occhi gonfi, lucidi e arrossati.

«Cosa diavolo…?» Portai una mano in avanti per calmarlo, ma sembrò quasi che il mio movimento l’avesse snervato. Infatti scattò, ringhiando e afferrandomi il polso con una mano. Mi colse di sorpresa, riuscendo a piegarmi il braccio dietro la schiena e a sbattermi contro il muro, che ebbe un impatto piuttosto violento con il mio naso.

«Ah, merda» istintivamente tirai su, consapevole che ingoiare non fosse esattamente salutare. Sempre meglio che la redingote sporca. «Perché?» Non chiesi altro, poiché quella domanda racchiudeva tutto quello che avevo da dire. A cosa dovevo quella reazione? «Allora?» Non disse nulla, dato che un calcio nelle reni non equivaleva a rispondere.

Soffocai il lamento e tentai di liberarmi, divincolando il polso destro e pregando che scivolasse tra le dita forti e allenate del ragazzo. Sentii l’osso scricchiolare e imprecai, se avesse stretto ancora un po’ me l’avrebbe spezzato come un legnetto secco.

Cazzo, pensa. Pensa a qualcosa o sei fottuto. Pensare? Dio, con quel dolore al braccio mi era quasi impossibile, quindi agii d’istinto. Tirai una capocciata all’indietro, colpendogli in pieno il naso. Sentii il polso libero nello stesso istante in cui Connor emise un lamento, quindi ne approfittai per sgusciare via e correre verso la porta. Era rimasta aperta, per mia fortuna, e mi precipitai fuori saltando gli scalini due a due.

Feci appena in tempo a toccare il suolo con un piede, che l’ombra del ragazzo oscurò la mia, facendomi intuire mezzo secondo prima ciò che stava per accadere. Rotolammo entrambi giù per la collina, verso la stalla, lui con l’intenzione di artigliarmi il viso o il collo, io tentando di tenerlo il più lontano possibile da me. Perché improvvisamente voleva uccidermi?

Istintivamente alzai la gamba sinistra, affondandogli lo stivale in pieno stomaco e sbalzandolo via di qualche metro, lasciando che rotolasse via. Ne approfittai per rialzarmi e correre verso la stalla prima che si rimettesse in piedi, quindi sciolsi il nodo delle briglie attorno al gancio e montai in sella col fiato corto.

Mi assicurai che entrambi i piedi fossero saldi sulla staffa, concedendomi un secondo per guardare il ragazzo inginocchiato sull’erba, sporco di terra e col naso sanguinante. Colpii il fianco del cavallo con il tallone e partii, ancora scioccato e accaldato per il pestaggio appena avvenuto. Mi allontanai di corsa dal terreno Davenport più arrabbiato di prima, consapevole di aver lasciato il diario nella tenuta, nelle grinfie di quel vecchio pazzo del ragazzino squilibrato.

 

 

Saaaaalve. Anche voi state ancora rotolando causa troppo cibo ingerito nelle vacanze? lol, io sì.

Ma parliamo di cose più interessanti, come ad esempio Connor e i suoi sbalzi d’umore, ewe. No, non sono impazzita, capirete tutto più avanti, sperando che Haytham intanto non muoia a causa del mezzosangue isterico, lol.

Va beh, terminiamola qui prima che divaghi e inizi a parlare male di Connie.

Grazie come sempre a chi legge e una brioche calda –sì, nel caso vi interessasse le ho appena sfornate- a chi recensisce.

A preeeesto.

 

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Capitolo 25
*** Niente sesso a Fort George. ***


Capitolo 25

 

Il sapore della birra mi tornò in bocca dopo aver risalito l’esofago, costringendomi a serrare le labbra per bloccare un eventuale rigurgito di bile e alcool. Ero al quinto boccale di birra, forse il sesto, e avevo mangiato solo una misera minestra a base di cereali e legumi.

Un povero vecchio, ecco cos’ero. Un vecchio inutile che perdeva tempo in una taverna a tracannare birra invece che aiutare l’esercito. Mi correggo: a tracannare birra e a tentare di capire perché Connor –non l’avessi mai generato- andasse fuori di testa senza un motivo apparente. Insomma, non sarà stato di certo la ginocchiata ai gioielli, vero? Perché se il motivo era quello, diavolo, avrei avuto tutte le ragioni del mondo per chiamarlo checca isterica. Dah, tanto lo è comunque.

In quel momento avrei tanto voluto essere sopra il cadavere di Washington a deliziare le pupille con il suo collo lacerato da orecchio a orecchio, il sangue ancora caldo a imbrattarmi le mani e il cuore accelerato battere contro la cassa toracica. Oh, sì. Una seratina tranquilla, direi.

«Tutto bene?» Alzai una mano in direzione dell’oste, preoccupato forse per la mia brutta cera. Sì, amico, mi sto sbronzando, e a te non dovrebbe importare finché ho denaro sufficiente per pagarti da bere. Guardai il fondo di birra rimasto, portando poi il vetro alle labbra e bevendo fino all’ultima goccia come se dentro in realtà ci fosse acqua, e non alcool pronto a darmi alla testa. La gola bruciò e il nuovo liquido ingerito mi annebbiò i sensi. Decisi quindi di dare ascolto alla vocina che mi suggeriva di restarmene lì, sbracato sul bancone per smaltire la sbornia. Sbronzo con solo sei birre? Io? Non ditelo a mio padre, vi prego.

 

Quando rientrai a Fort George fui sollevato dal fatto di aver già cenato e poter ritirarmi subito nella mia stanza. Mi sentivo come se non dormissi da più di ventiquattr'ore, tra George e Connor mi stavo consumando più di quanto mi aspettassi.

Entrato nella mia stanza mi tolsi tricorno e redingote, poi slacciai le polsiere con le lame celate, appoggiandole sulla scrivania. Mi gettai sul letto vestito senza nemmeno togliermi gli stivali, quindi chiusi gli occhi sperando di assopirmi il prima possibile.

Le palpebre erano pesanti quasi come quando lavoravo per Braddock. Con quel tizio non si aveva tempo per riposare, talvolta neanche di notte, Lee poteva capirmi bene.

Stunk.

Aprii gli occhi e voltai lentamente il capo verso destra. Cosa diavolo era stato?

Stunk.

Scattai seduto. Chi osava interrompere il mio sonno? Che stessero attaccando il forte?

Allungai il collo in direzione della finestra. Tutto tranquillo. E poi c’erano guardie ovunque, no, era da escludere.

Stunk.

Guardai il soffitto. Proveniva dal piano superiore.

Un momento. Gli alloggi di Charles erano al secondo piano.

Stunk.

«Ma che cazzo…» mi tolsi uno stivale e lo lanciai contro il soffitto «Lee! Fa' un po' di silenzio, sant'Iddio!» Lo stivale cadde con un tonfo, che sperai fosse seguito da un lungo silenzio.

Stunk.

Bestemmiai a mezza voce, quindi mi alzai e afferrai lo stivale, infilandolo. Raggiunsi la porta con tre falcate e l'aprii, pronto ad andare da Charles a dirgliene quattro.

Imboccai il corridoio e salii le scale che portavano agli alloggi del mio pupillo, ma quando terminai gli scalini iniziai a sentire strani versi. Erano curiosamente acuti e cadenzati. A primo impatto parvero gemiti, o forse lo erano.

Sbuffai, venendo invaso da un orribile presentimento. «No, Charles, no!» Ringhiai avanzando. Non c'erano donne a Fort George, figuriamoci se Lee portasse qui una puttana per divertirsi la notte, quindi la risposta mi fu chiara.

Stunk.

Misi una mano sulla maniglia della porta di Lee, davanti agli occhi avevo la targhetta col suo nome e il grado militare. In quel momento avrei tanto voluto declassarlo a stalliere, ma sapevo che spalare merda per qualche mese non sarebbe servito, poiché era l’unico in grado di prendere il mio posto e sarei stato costretto a ritirare tutto. Grandissimo figlio di puttana.

«Oh, Dio, sì!» Oh, la prima frase di senso compiuto che sentii. Risi nervosamente sull'orlo di una crisi isterica e spalancai la porta con un calcio. Che effetto sorpresa, eh?

«Sì, Charles, sì!» Fu questa l’accoglienza che mi riservò quella cagna di mia sorella, che affondava le unghie nella schiena di Charles e urlava senza ritegno.

«Charles Lee!» Lo urlai, sperando di fargli afflosciare l’uccello in meno di mezzo secondo. La mia ombra si stagliò con prepotenza sul muro improvvisamente illuminato, e Charles si staccò dal corpo accaldato e nudo di Jenny come se avesse preso fuoco.

«Ma-Mastro Kenway» deglutì, rabbrividendo. Gli volevo bene come un figlio, ma provai una strana e macabra voglia di tagliargli le palle e appenderle in bella vista al portone di Fort George. State tranquilli, e scusate se ho interrotto la vostra scopata.

«Oh, cielo!» Jenny afferrò il lenzuolo per coprirsi il petto mentre, affannata, mi guardava furibonda. Lei. Lei osava essere incazzata con me.

«È inutile che ti agiti tanto per coprire quelle prugne secche.» Gesù, per quanto fossi incazzato con Charles, ammisi che per eccitarsi guardando quelle poppe cadenti e rugose ci volesse stomaco. Mi tornò in mente il seno sodo di Tiio e scossi la testa. No. Non era il momento giusto.

«Signor Ken-»

«Signor Kenway questo gran cazzo, Charles!» Sbottai «Che diavolo v'è saltato in mente?» Anche se, a dire la verità, mi era piuttosto evidente.

«Facciamo quello che ci pare, caro fratellino. Non ti dobbiamo spiegazioni» Lee si voltò verso Jenny, ammirato e sconvolto dal tono con cui osava rispondermi. Oh, lui non avrebbe mai avuto il coraggio di parlarmi in quel modo, diamine, sapeva bene che l’avrei rivoltato come un calzino.

«Tu, cane!» Lo indicai, mentre tremava senza le forze per alzarsi dal letto. Cristo, una scopata valeva così tanto? Era seriamente disposto a giocarsi l’uccello pur di fottere Jennifer almeno una volta? «Meriteresti di girare per New York nudo come un verme!» Dio, lo dissi per rabbia, ma a pensarci a mente lucida sarebbe stato divertente. Amici cittadini, vorrei presentarvi Charles Lee, mio successore come Gran Maestro Templare che ha commesso il gravissimo errore di scoparsi mia sorella. Un applauso, gentilmente.

«Calmatevi, Signore. Posso spiegare» alzò le mani sperando di calmarmi, ma non funzionò affatto.

«Cosa c'è da spiegare? Che fossi tra le sue gambe mi pare piuttosto evidente» raggiunsi il letto con due falcate e scostai il lenzuolo, scoprendolo e rendendolo totalmente indifeso.

«Signore, avanti, stavamo solo…» lo afferrai per un polso tirandolo giù con la forza, per poi girargli il braccio dietro la schiena. «Lo giuro sul mio onore, tengo veramente a Miss Jennifer, altrimenti sarei andato in un bordello, non credete anche voi? … Ahia!» Ignorai la dichiarazione d’amore di Lee e lo spinsi verso la porta, ancora aperta. Sapevo che sarebbero finiti a letto, avrei dovuto capirlo dalla prima volta che si videro, qui a Fort George.

«Onore?» Sogghignai «Charles, non parlare di onore con quella sottospecie di sigaro calpestato che hai tra le gambe»

«Haytham, lascialo stare!» Strillò Jenny in sua difesa, ahimè, inutilmente.

La ignorai bellamente e uscimmo in corridoio.

«Ah! Signore, questo è un colpo basso.» E chi se ne frega.

«Non costringermi a dartelo fisicamente, il colpo basso. Spero di essere stato chiaro»

Mi implorò con lo sguardo di non farlo. Almeno quello. Era già messo male di suo «Cristallino»

«E ora piantala di sventolare quella lumaca e cammina!»

«No!» Mi voltai, vedendo Jennifer avvolta nel lenzuolo che, per metà, strisciava per terra. Che schifo.

«Lascialo stare, Haytham. È partita da me. Gli ho detto io che volevo passare la notte insieme.» Quanto coraggio, davvero. Mi venne spontaneo domandarmi come mai tutta questa grinta non l’avesse tirata fuori la notte del tre Dicembre 1735, mentre nostro padre tirava le cuoia.

Soffocai una risata nervosa. «Perdona la mia crudeltà. Dimenticavo che certe abitudini non si abbandonano così facilmente, vero? Mi duole dirlo, ma qui non siamo al palazzo Topkapi.» Che razza di fratello, eh? Ero arrivato a portarla in salvo troppo tardi, proprio quando aveva compreso che aprire le gambe era l’unica cosa che sapesse fare.

La vidi sgranare gli occhi, indignata, mentre Charles, nudo e infreddolito, la fissava senza capire. «Come osi? Maledetto bastardo, come?» Si avvicinò, tenendo il lenzuolo con una mano e sollevando l’altra, nel tentativo di colpirmi. La spinsi via senza fatica, sabotando l’ultimo tentativo di Lee di liberare il polso.

«Muoviti» lo condussi giù per le scale fino a raggiungere il pianterreno, e solo in quell'istante capì.

«Oh, no. No, Signore. Ditemi che non farete ciò che penso!» Mi sentivo in colpa? No. Era Charles, gli volevo ancora bene come un figlio, e proprio per questo andava punito.

«Non sono ancora in grado di leggere nelle menti altrui, ma ritengo tu sia abbastanza sveglio da immaginare le mie intenzioni» contro ogni mia aspettativa, mi uscì una voce fredda e impassibile, nonostante fossi divertito, in fondo.

«Signore, vi prego, farò tutto ciò che volete, ma non potete farmi questo, morirò!» Aprii la porta che si affacciava sul piazzale del forte e lo spinsi fuori, sempre tenendogli il braccio dietro la schiena.

«Starai al fresco per un po', magari ti si calmano gli ormoni» lo mollai, spintonandolo in avanti.

Barcollò per qualche metro, poi si voltò verso di me sfregandosi le mani sulle braccia. «Mastro Kenway… È notte fonda, vi imploro, morirò assiderato» giunsi le mani dietro la schiena come ero solito fare e lo guardai sogghignando.

«Vedila come una prova, Charles. Se domattina non avrai le sembianze di un ghiacciolo, forse potrei lasciarti sfogare gli istinti su mia sorella» feci per girarmi e rientrare, ma mi fermò, indignato.

«Io e Miss Jennifer speriamo in qualcosa di più solido!» Abbassai lo sguardo, facendolo scivolare sul suo uccello.

«Più del tuo cazzo, sicuramente» roteò gli occhi, esasperato.

«Queste battute di infimo livel-»

Lo interruppi. «Buonanotte.»

Slam.

 

 

Sì, cari lettori, questa scena doveva esserci. Insomma, volevate negare a Charles il piacere di pucciare il biscotto?

Okay, okay, non è il caso di scendere nei dettagli, quindi concludo ringraziando chi legge e lascia un commento :).

Ps. E shippate la Scottee fino alla morte.

See you soon c:

 

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Capitolo 26
*** Lucidità. ***


Capitolo 26

 

Restai a guardare Charles dalla finestra per qualche minuto, provando qualcosa di simile alla pietà e al senso di colpa nel vederlo lì, in piena notte, col culo all’aria nel piazzale di Fort George. Tremava ad ogni lieve spostamento d’aria, tentando di scaldare le membra strofinandosi le mani addosso.

Poi, però, mi tornò in mente l’immagine in cui cavalcava mia sorella e puff, la preoccupazione scomparve, tornando da dove era venuta. Schifoso bastardo. Gli lancia un’ultima occhiata severa, osservandolo mentre si accovacciava tra il muro che dava a sud e delle casse di legno, nella vana speranza di ripararsi dal vento.

Lo sguardo basso, pentito. Forse arrabbiato, reputando la punizione troppo rigida o addirittura insensata, ma non tornai sui miei passi, avrei perso credibilità agli occhi di tutti. Giammai.

Me ne andai così, passo lento e mani dietro la schiena con una stanchezza addosso che non avevo da anni.

«Charles?» Dei passi veloci e leggeri percorsero il corridoio venendo nella mia direzione, e pochi secondi dopo vidi sbucare da dietro l’angolo Jenny, ancora avvolta nel sudicio lenzuolo in cui si era rotolata con Lee. «Tu!» Si arrestò di colpo, puntandomi un dito contro «Dove hai portato Charles?» Mi fermai, fissandola indifferente. Lì dentro comandavo io, cristo, questo dettaglio sfuggiva un po’ troppo spesso per i miei gusti. Prendevo io le decisione, e sempre a me spettava qualsiasi giudizio riguardo il comportamento dei miei sottoposti. Oltre al fatto che fosse l’ultima arrivata, con che faccia osava contestare il mio volere? Andiamo, era stata una concubina per tutta la sua triste esistenza, quanto poteva valere la sua parola lì dentro?

Assottigliai ancora di più lo sguardo, per quanto fosse possibile. «Dove è giusto che sia» cioè non nel tuo letto.

«Dimmi che almeno sta bene» la voce preoccupata non mi scalfì nemmeno.

«Non saprei, suppongo di sì» iniziavo ad averne abbastanza delle loro avventure da innamorati. Non avrei permesso che distraesse Charles dal nostro scopo primario, non l’avrei lasciato scodinzolare dietro alla sua bellezza appassita con gli anni. Oh, chi volevo prendere in giro? Non c’era stata mai nessuna bellezza esagerata. Mia sorella era semplicemente… Carina, sì, ma nella norma. Indubbiamente piaceva, all’epoca, e mi chiesi spesso il perché. Era piuttosto arrogante e acida, supponente e presuntuosa, difficilmente l’avrei sopportata a lungo se fosse andato tutto liscio quella famosa notte.

«Come sarebbe suppongo?!» Roteò gli occhi, volgendoli per caso sul piazzale interno del forte. Ah, il richiamo dell’amore.

«Sant’Iddio, Charles!» La imitai, individuando Lee proprio mentre starnutiva. «Fallo rientrare immediatamente! Si prenderà un malanno, oh, cielo, sii ragionevole!»

«Pensa che per un attimo ho pensato di…» simulai le forbici con le dita, accompagnando il tutto con uno schiocco di lingua. Sì, giusto per rendere l’idea. «Non provare nemmeno a portarlo qui, la porta è chiusa a chiave.» La guardai con aria di sfida. Voleva mettersi contro la mia autorità? Benissimo, l’avrei accontentata. «E nel caso in cui ti stessi domandando dove sia la chiave…» misi le mani nelle tasche dei calzoni, facendo chiaramente intuire dove volessi arrivare «sappi che sono al sicuro. Spero tu non voglia mettere mano anche lì. Sono pur sempre tuo fratello.»

Spalancò la bocca, indignata. «Sei un lurido figlio di puttana, ecco cosa!» Sbraitò. Gesù, se sperava davvero di ferirmi insultando mia madre era totalmente fuori strada. Anche perché sulla sua –o direttamente su di lei- si poteva controbattere senza nessuna difficoltà.

Infatti sogghignai. «Quindi è stata lei ad insegnarti i trucchi del mestiere» insomma, per dare piacere ad un Sultano credo ci voglia maestria, no? Non le diedi il tempo di formulare una risposta sensata che la superai, evitando persino di calpestare il lenzuolo.

 

Per chi si chiedesse se quella notte riuscii a dormire, la risposta è sì. Non ebbi grandi difficoltà a reprimere il dispiacere, ma la lucidità prese il sopravvento sulla vendetta, dato che pianificare il funerale di Washington aveva ovviamente la precedenza.

Alle sei in punto di mattina scesi giù, raggiungendo il corpo raggomitolato di Charles e svegliando malamente il mio socio lanciandogli addosso i suoi vestiti.

Sobbalzò senza capire, col viso coperto per metà dai calzoni, la redingote e la camicia a coprirlo dal petto in giù.

«S-Signore…»

«Alzati e vestiti, abbiamo delle faccende da sbrigare» iniziò a maneggiare i vestiti di fretta e furia, e non capii se lo fece per trovare calore il prima possibile o perché sperava di accattivarsi la mia simpatia per non essere più punito. Ma poco m’importava, sinceramente, volevo solo che si spicciasse e mi seguisse fuori da Fort George.

«Di che faccenda si tratta?» Charles mi affiancò, finendo di allacciarsi la cintura. Lo afferrai per un braccio e lo tirai verso la taverna più vicina.

«La solita.» Non aggiunsi altro ed entrai facendo cenno all’oste di servirci qualsiasi cosa avessero di commestibile, poi occupai l’ultimo tavolo sulla sinistra, nell’angolo. Lee mi raggiunse subito, trascinando la sedia e sedendosi di fronte a me.

Su, forza, non ci vuole niente.

«Prima di iniziare il discorso...» abbassai lo sguardo sul tavolo e presi fiato «io… Sì, insomma, credo di aver esagerato ieri sera. Mi dispiace» visto? Non è stato poi così difficile. Charles sorrise appena, come se aspettasse quelle scuse da un momento all’altro.

«Non importa, avrei dovuto aspettarmi una reazione del genere, è pur sempre vostra sorella.»

«Ma non hai saputo resistere all’istinto, dico bene?» Dissi con una punta di acidità. Sì, mi dava fastidio, nonostante tutto. Jenny, però, mi stava sul cazzo a prescindere per i suoi modi di fare che non tolleravo nemmeno a dieci anni, non fraintendiamo.

Deglutì. «Veramente io credo di provare qualcosa per Jennifer.» Ritenni educato non scoppiargli a ridere in faccia, ma la mia espressione parlò per me. Innamorato di Jenny? Gesù, doveva aver pregato giorno e notte il Signore per avere la grazia di un uomo che la sopportasse finché morte non li separi. Li immaginai all’altare e soffocai a stento una risata. Che funerale avrei dovuto organizzare nel caso si fossero sposati? Quello di Charles, per il suo suicidio?, o quello di Jenny, sgozzata dopo due mesi dal maritino follemente innamorato?

«Sono pronto a dimostrarvelo»

Alzai le mani in segno di resa. «Per carità, la scena di stanotte mi ha turbato abbastanza. Parliamo di George.» Annuì subito, ben felice di cambiare argomento. «Aggiornami.»

«Ho sentito dai soldati che l’esercito è a corto di polvere da sparo. Washington sa bene di essere in svantaggio rispetto alle truppe Inglesi ed evita sempre lo scontro diretto., ma senza polveri possiamo dire addio alle poche possibilità che avevamo di vincere.»

Sbuffai. «Quello è il meno, il vero problema è lui. Potrebbe avere armi in quantità industriali che non saprebbe nemmeno da dove iniziare.»

«Intanto pensiamo ad armare l’esercito. Non c’è bisogno del segnale del comandante in capo per salvare la pelle, sanno sparare in caso di pericolo. I nostri soldati non sono stupidi, c’è solamente molta disorganizzazione.» Fui costretto a trovarmi d’accordo con lui. La scarsità di polvere da sparo era certamente un fattore che ci penalizzava, ma non era il solo e non si poteva risolvere in fretta.

«Bisognerà chiedere rifornimenti, sarà una faccenda piuttosto lunga. Intanto, però, possiamo fare una visita al caro George. Ti va?»

 

 

Ogni settimana sempre peggio, lol, va beh. Lo studio mi sta uccidendo psicologicamente, quindi la faccio breve.
Solo io ho immaginato Charles surgelato con le stalattiti pendenti dai baffi? lol. Non fateci caso, ripeto, è lo studio.
Non vi annoio oltre e ringrazio come sempre chi legge e recensisce, a lunedì prossimo, ciaaao :3

 

 

 

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Capitolo 27
*** Calma e sangue freddo. ***


Capitolo 27

 

«Odio la neve» borbottò Charles all'ennesima volta che sprofondò fino al ginocchio nel soffice manto di acqua ghiacciata. Eravamo stati costretti a lasciare i cavalli all'ultima locanda incontrata e proseguire a piedi. Quelle povere bestie non ci sarebbero state d'aiuto su una strada del genere.

Charles si strinse nella redingote battendo i denti e lanciando imprecazioni, mentre io mi sentii improvvisamente più leggero nello scorgere in lontananza i soldati all'entrata dell'accampamento di Valley Forge. «Grazie a Dio.»

Mi ero già pentito di quella pazzia. Avrei sicuramente litigato con Washington, mi sarei giocato la testa, per ottenere cosa, alla fine? Nulla. Non ci avrebbe mai dato retta, quel vecchio testone, ma tentar non nuoce, mi ripetevo. È meglio coricarsi con la coscienza pulita piuttosto che con la consapevolezza di non aver mosso un dito, no? E a dire la verità, non ero fatto per starmene con le mani in mano e aspettare che gli eventi mi passassero davanti. Non mi era mai piaciuto lasciarmi scivolare addosso ciò che accadeva intorno a me, assistere e subire passivamente le decisioni degli altri. Per carità di Dio.

«Ci siamo» la voce di Charles, sollevato nel vedere i due uomini infreddoliti, mi destò di colpo.

«Non dovrebbero avere difficoltà nel riconoscerti, no?»

Si alitò sulle mani, chiuse a conca davanti alla bocca, creando una nuvoletta di condensa. «No. Non dovrebbero esserci problemi» sentii gli occhi dei due soldati puntati addosso nonostante fossimo lontani ancora una trentina di metri. Pregai che riconoscessero Charles e ci facessero entrare, il vento gelido mi aveva intorpidito il viso e le mani, e la redingote era così fredda e umida da sembrare zuppa d'acqua.

Ci fermammo davanti ai due, che a primo impatto non dovevano avere più di trent'anni. «Generale Charles Lee» si presentò prima che domandassero chi fossimo.

Il più giovane dei due sgranò gli occhi, scambiandosi un'occhiata con l'amico come se non credesse alle sue orecchie. «Quel generale Lee?»

«Il solo e unico, ragazzo.»

«Sia lodato il cielo!» Sbatté il calcio del fucile a terra, come se quel gesto lo avesse potuto rendere più virile e spavaldo. «Vi ha convocato Washington, non è così? Finalmente, forse non è tutto perduto!»

«Calma l'entusiasmo» alzò entrambe le mani «sono qui per parlare con il comandante, non ho nessun ordine ufficiale, purtroppo. Non ancora, almeno.»

«Certo, certo, capisco. Entrate pure.»

«Un momento!» Parlò l'altro soldato, bloccandoci sulla soglia. «E voi chi sareste?» Si rivolse a me.

Sbuffai. «Haytham Kenway, e non vedo come il mio nome possa aiutarti a capire chi io sia.» Mi fissò irritato.

«Sta' calmo, Jim» il ragazzino iniziava a starmi simpatico «possiamo fidarci se è venuto con il generale Lee.»

L'altro lo guardò compassionevole, come se fosse l'ultimo degli scemi. D'accordo, in tempo di guerra la prudenza non è mai troppa, ma dubitando di me stava insultando l'intelligenza di Charles, che secondo lui non era in grado di accorgersi di una truffa. «Potrebbe essere un impostore, che ne sai? Ci vuole cautela!»

«Finiscila» il mio pupillo tagliò corto, stroncando quella discussione senza senso. «Il Signor Kenway è un mio amico, è una persona fidata e si è offerto di aiutarmi in questa guerra. Quindi lasciateci passare, è una questione piuttosto urgente.»

Il ragazzo spinse di poco il compagno. «Hai visto? Testone!» Ignorai i loro stupidi battibecchi e li superai, seguito da Charles e dal suo nervosismo. Notai che guardava ogni angolo, ogni particolare, scuotendo il capo e schioccando la lingua sul palato circa ogni dieci secondi. «Hai visto qualcosa che non va?»  Domandai curioso.

«È un disastro» commentò. In risposta sollevai un sopracciglio e guardai indietro, mentre avanzavamo in direzione della tenda di George. «Guardate là» indicò un portafucili rotto con le armi a terra, semi nascoste dalla neve. I rifornimenti malamente accatastati tra una tenda e l'altra, vicino ai secchi colmi d'acqua che i soldati usavano per lavarsi -se si lavavano-.

«Cristo»

«È un povero idiota, non conosce nemmeno le nozioni base come l'igiene o l'ordine delle armi. Dah, per non parlare di loro» seguii il suo sguardo, incontrando un gruppo di uomini sbracati a terra a riempire lo stomaco di chissà quale liquore.

«Cerca di stare calmo, d'accordo?»

«So già che non ci riuscirò! Quell'inetto se ne sta ore e ore nella sua tenda a leggere lettere consumate e non muove un dito, porca puttana!» Aveva ragione, sembrava che non gli importasse nulla delle condizioni dell'esercito, e se Connor fosse stato presente, sarebbe stato costretto ad ammettere che l'organizzazione non era delle più eccellenti.

«Lo so che vorresti mettergli le mani al collo, ma vedi di trattenerti.»

«Generale Lee!» Un soldato ci bloccò la strada, guardando Charles come fosse Dio sceso in terra. «È un sollievo vedervi, grazie per essere venuto ad aiutarci!» Non aggiunse altro e corse via, forse in qualche tenda, a ripararsi dal vento pungente e dalla neve che aveva ripreso a cadere.

«Lo conosci?»

«Di vista, credo fosse nella mia truppa durante la battaglia di Lexington.»

Sogghignai. «Un miracolato, allora.»

«Già» Charles era sempre stato amato dai soldati, ma dopo Lexington e Concord la loro stima nei suoi confronti era aumentata, dato che aveva fatto scampare la morte a centinaia dei suoi. Aveva palesemente disobbedito a Washington, che nella sua ignoranza credeva che lanciarsi nella mischia avrebbe risolto qualcosa, preferendo la ritirata. Non capii quale fosse il motivo di tanta rabbia, francamente. Ormai la maggioranza sosteneva che George fosse un idiota, fallimento più fallimento meno cosa cambiava? Nulla, tranne, appunto, quei cento e passa soldati in più per noi. E nonostante tutto, Charles aveva dovuto sopportare in silenzio una lavata di capo di un paio d'ore, senza mai ribattere o giustificarsi.

«Non pensarci ora, sai che ho appoggiato la tua decisione, ma non scaldarti per quella faccenda» vidi la tenda del comandante e istintivamente allungai il passo, impaziente di avere un po' di riparo.

«Fosse facile» fu l'ultima cosa che Lee borbottò prima di raggiungere George, girato di spalle e ignaro della nostra presenza.

«Comandante.» Charles attirò la sua attenzione, facendolo voltare di scatto. Realizzò dopo pochi istanti chi aveva davanti, e mi si gonfiò il petto d'orgoglio nel vedere la sua espressione quando vide il sottoscritto.

«Voi» disse con acidità «cosa fate ancora nel mio accampamento?»

Sollevai i palmi. «Calmatevi. Non sono qui per discutere con voi, ho solo accompagnato il generale Lee a farvi visita. Fate come se non ci fossi.» Detto ciò abbassai le mani e avanzai verso l’interno della tenda, trovando un po’ di sollievo. Mi guardò con astio, forse ricordava ancora il nostro ultimo incontro, quando gli avevo esplicitamente detto che prima o poi l’avrei ammazzato. Sì, sicuramente era così.

Fortunatamente mi considerò per poco, concentrandosi poi su Charles, che pazientemente attendeva di essere ascoltato. «Parlate allora. Cosa vi porta qui, generale?»

«Il dovere, Signore.» Schiena dritta, braccia lungo i fianchi. «Ho ritenuto opportuno venire a darvi qualche consiglio, se permettete.» Charles alzò di poco il mento, fiero di sé e della sua parlantina.

«Vi state burlando della mia pazienza, generale?!» George si sforzò di tenere un tono basso e pacato, ma il volto paonazzo tradiva il suo autocontrollo. Avrebbe voluto prenderlo a sberle –perché i pugni erano troppo virili per uno come lui-, ma mai avrebbe osato tanto. Era poco amato, schiaffeggiare l’idolo di molti soldati non era una mossa saggia.

«No, Signore, con tutto il rispetto, ma i vostri risultati sono abbastanza scarsi. Di questo passo perderemo la guerra, se ne rende conto, vero?» Sorrisi impercettibilmente. Nonostante il contenuto fosse poco gentile, Charles aveva usato toni pacati ed educati.

«Rispetto!» Urlò con quella sua vocetta odiosamente acuta. «Io esigo rispetto, generale Lee, siamo intesi?» Fremeva di rabbia, i pugni chiusi, tremanti, e le nocche bianche. Osa picchiarlo e ti faccio ingoiare i denti, George.

Prese a girargli intorno come un avvoltoio, squadrandolo da capo a piedi con sdegno. «Con che coraggio venite qui a dare ordini a me? Dovreste essere onorato di essere un mio diretto sottoposto, vi ho scelto personalmente come segno di stima e fiducia, e voi cosa fate?» Gli si fermò di fronte, sibilando a denti serrati le ultime parole. «Venite qui per darmi consigli. No, grazie.» Iniziai a tamburellare un piede, conscio che di lì a breve Charles avrebbe perso l’autocontrollo e gli avrebbe sputato in faccia.

«Vi sto offrendo il mio aiuto senza pretendere riconoscimenti, dovreste essermi grato!» Vomitò alzando il tono, i denti scoperti in una smorfia irritata e le sopracciglia corrucciate. «Parliamoci chiaro, comandante. Se fossi io a dare gli ordini, se fossi io a dirigere le operazioni, a muovere le truppe, la situazione potrebbe migliorare.» Anche perché peggio di così si muore.

Washington non rispose. Si limitò a fissare Lee con odio e a deglutire rumorosamente, lasciandoci col fiato sospeso per un minuto abbondante.

«Sparite dalla mia vista.» Sibilò infine voltando le spalle a Charles.

«Ragionate! Volete vincere la guerra o ne state facendo una questione di orgoglio? Se vi impuntate in questo modo non otterrete nulla!» Mi trattenni per non intervenire. ‘Sta calmo.

«Andate via, ora!» Guardai Charles ed annuii impercettibilmente, suggerendogli di dargli retta. Avanzai verso i due, superando il comandante e affiancando Lee, posandogli una mano sulla spalla per calmarlo.

«Voi state giocando con la vita di quegli uomini per non darmi la soddisfazione di prendere il comando, non avete un briciolo di vergogna?» Tentò di avanzare, ma feci pressione con la mano e lo tenni fermo. «Ve ne state tutto il tempo qui, al riparo, e in battaglia state nelle retrovie, mandando al macello i soldati, ma questa situazione non durerà a lungo, statene certo.»

«Adesso basta» gli sussurrai, mentre George rideva di gusto.

«Impegnatevi pure per togliermi il comando, generale. La vostra presunzione vi porterà sotto terra prima del tempo.»

Serrai la presa sulla giacca di Charles e lo tirai via prima che uno dei due finisse in una pozza di sangue.

Come temevo, la visita si era rivelata un buco nell’acqua, ma almeno mi confermò ciò che avevo in progetto dall’inizio: andava ucciso.

 

 

Salve :3. Parlo a voi che non apprezzate Charlie: dovete ammettere che ha dannatamente ragione, su. Templare o no, è un generale con i controcazzi –i francesismi post Unity, capitemi, lol-.

Ma finiamola qui, tre righe di commenti e ho già scritto idiozie, quiiiindi ringrazio come sempre chi legge e chi spreca cinque minuti per lasciare una recensione. Siete l’ammoreh, a lunedì prossimo!

 

 

 

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Capitolo 28
*** Numb. ***


Capitolo 28

 

Una volta usciti dall'accampamento di Valley Forge, Charles calciò la neve, frustrato.

«Figlio di puttana!»

«Calmati» dissi conscio che non mi avrebbe ascoltato. Che avrei potuto fare? Doveva sfogarsi in qualche modo, e visto che non poteva prendere a pugni George, lasciarlo inveire contro il comandante era sicuramente la cosa migliore.

«Pensa all'orgoglio, lui. Pensa a salvare la faccia! Che cazzo ha da perdere? Ormai la reputazione se l'è rovinata!» Lo seguii tenendo le mani dietro la schiena, osservando attentamente l'accampamento e memorizzando i lati aperti da cui poter entrare senza essere visti.

«Senti un po'» mi rivolsi a Charles che, però, borbottava per gli affari suoi.

«È un inetto, un incapace»

«Lee!» Si obbligò a chiudere la bocca e mi lanciò uno sguardo, quindi parlai. «Conosci bene la struttura di questo schifo?» La buttai lì.

Lui aggrottò le sopracciglia, mettendo poi le mani nelle tasche della redingote. «Sì, perché?» Grazie a Dio. Se fossi una donna ti bacerei.

«Mi serve una mappa anche abbozzata, segna solo le cose principali. A tua discrezione.» Rifletté in silenzio per qualche istante, giusto il tempo di percorrere un paio di metri, e allora comprese.

Mi fissò preoccupato. «Non sarà quello che penso, spero.»

«Non so cosa stai pensando, fallo e basta.» Mentii. Aveva capito, ma volevo evitare altre discussioni. George sarebbe crepato con o senza il suo consenso.

«Il piano. Washington. Per una volta non sono d'accordo con voi» e sai quanto me ne frega?

«Così mi ferisci, Charles» ironizzai. Sì, era un comportamento egoista. Lee avrebbe rischiato abbastanza il culo se al caro George fosse successo qualcosa, ma l'avevo presa un po' sul personale. Stava mandando a puttane la guerra e i piani di espansione dell'Ordine, e oltre a quello aveva ucciso Tiio. Non avevo dimenticato affatto quella faccenda, mi ero giurato di fargliela pagare, e non sarebbe stato Charles a farmi cambiare idea. «Hai forse ripensamenti? Mi era sembrato di cogliere un certo astio fra voi due.»

«In effetti c'è, ed è più che giustificato, ma mettetevi nei miei panni! Se a quel coglione torcono un capello ci vado di mezzo io.»

Inchiodai. Stava oltrepassando il limite. «Quindi che intendi fare, eh? Lasciargli il comando e far vincere gli Inglesi perché temi che ti arrestino per un paio di giorni?» Avanzai verso Lee senza mai distogliere gli occhi dai suoi. Sapevo che non avrebbe rischiato così poco o non avrebbe fatto tante storie. Il suo sguardo mi pesò, e parecchio. Tratteneva a stento la collera, ferito dal fatto che avessi altre priorità, che mettessi la guerra prima della sua vita e della sua carriera militare. Avrebbero potuto allontanarlo dall'esercito se fosse stato sospettato dell'omicidio di Washington, ma era il prezzo da pagare. C'è sempre il rischio.

«È facile parlare per voi!» Sbottò acidamente. «Tanto è Charles che va nei casini, no? Qual è il problema?!»

Lo afferrai per il bavero e mi imposi autocontrollo per non prenderlo a pugni. Non mostrò nessun accenno di cedimento, nemmeno un battito di ciglia. «Come, scusa? Credi di essere l'unico a mettere a repentaglio qualcosa? Come credi reagirebbero i soldati o gli altri membri del Consiglio se mi scoprissero?, dandomi una pacca sulle spalle?» Mi afferrò la mano, ancora salda sulla sua redingote, scostandola malamente.

«Almeno voi una possibilità di scampo l'avete, io invece no, in ogni caso verrò interrogato. Ma fate pure con comodo.» Il suo sarcasmo non mi piacque per niente, tanto meno la sua arroganza che, ad essere sincero, mi aveva sconvolto. Non si era mai permesso di parlarmi con quei toni, c'era qualcosa che non andava.

«Lo volevi morto quanto me fino a qualche tempo fa'. Gradirei sapere cosa ti ha fatto cambiare idea.»

«Non discuterò oltre» e detto ciò riprese a camminare, lasciandomi a fissare l'albero spoglio e innevato che aveva alle spalle. Lo guardai, non riuscendo a staccare lo sguardo dalla sua schiena. Mi sentii un po' bastardo, d'accordo, ma che dovevo fare? Meglio giocarmi la carriera di Charles piuttosto che la sua e la mia vita. Perché parliamoci chiaro, Fort George non era una roccaforte inespugnabile, rinchiuderci lì dentro e aspettare che la guerra finisse non ci avrebbe salvato il culo. A sud era completamente esposto ai bombardamenti marittimi, un paio di colpi ben assestati e le mura si sarebbero sbriciolate.

Sbuffai, osservando il fiato condensarsi, poi ripresi a camminare, guardandomi bene dal non affiancarlo per evitare altri battibecchi. Era il mio ragazzo, non c'era dubbio. La grinta la apprezzavo, ma il fatto che mi andasse contro per la prima volta mi aveva lasciato l'amaro in bocca. Semplicemente non era da Charles, ecco tutto. Lui era quello che si sarebbe gettato da un campanile se glielo avessi chiesto, e adesso, di punto in bianco, tornava sui suoi passi dicendo di usare le buone maniere con Washington, il comandante incapace che gli aveva soffiato il posto da sotto il naso solo perché Lee aveva origini Inglesi.

Alzai lo sguardo, puntandolo sulla sua nuca. Non volevo ce l'avesse con me, non volevo neanche litigare, Gesù. In quel momento poi, che dovevamo restare uniti il più possibile.

Ringrazia Iddio quando vidi la locanda, i nostri cavalli ancora lì, legati e al freddo, povere bestie. Mi fiondai dentro, allettato dall'idea di un tè caldo e un letto. Ordinai una tazza di tè due secondi dopo aver varcato la soglia, poi occupai un tavolo, seguito da un Charles Lee svogliato. Non dissi nulla, nemmeno quando trascinò malamente una sedia per prendere posto davanti a me. Lo osservai. Stavo attento a non farmi notare, ma cercai di capire quale fosse il problema, perché giuro che non l'avevo capito. Sicuramente una buona fetta di importanza l'avevano la sua incolumità e la carriera militare, ma c'era dell'altro. Conoscevo Lee fin troppo bene per lasciarmi ingannare così.

Continuai a guardarlo di sottecchi anche mentre sorseggiavo il tè, quando improvvisamente alzò gli occhi dal tavolo.

«Lascio Miss Jennifer.» Per poco non mi strozzai. La presa sulla tazza si allentò, e lo sballottamento mi gettò in bocca una quantità eccessiva di liquido bollente. Mi ustionai la lingua e mi sporcai in calzoni. Merda.

«Cosa?!» Ma un attimo. Lasciare? Quei due avevano davvero una relazione? Gesù misericordioso, ed io che avevo sperato che fosse solo un anti stress per entrambi.

«Già, sarete contento, immagino.»

Aspirai aria con i denti serrati sperando di raffreddare la lingua. «Veramente sono sorpreso» e non poco. «Come mai?»

Parve esitare e, buon Dio, aveva gli occhi lucidi. «Artemas Ward. Al Congresso ha sospettato di me per l'attentato a Washington, mi ha minacciato.» Datemi dell'insensibile, ma non trattenni una risata.

«Tutto qui?» Insomma, stavamo parlando di Charles Lee, futuro Gran Maestro Templare, poteva temere una sciocchezza simile?

«Ha intenzione di punire me prendendo di mira vostra sorella, quindi se taglio ogni legame..» ignorai la voce spezzata e tornai serio, capendo tutto. Quindi era per questo. Era per Jenny che Charles non voleva ammazzare Washington, perché temeva la vendetta di Ward. Lurido ficcanaso.

Sorseggiai ancora il tè, che intanto si era un po' freddato, mentre Charles riabbassò lo sguardo sul ripiano. «Non vorrai mica spezzare il cuore a mia sorella, vero, Charles?» Alzò lo sguardo dal tavolo, fissandomi con gli occhi lucidi di lacrime.

«... Non potete chiedermi questo, signore...» si passò le dita tremolanti sugli occhi per asciugarli e ritrovare contegno, poi prese fiato «Conosco Artemas, non voglio mettere in pericolo Jennifer... Non voglio. Non posso» non credevo potesse avere crolli emotivi del genere. Mi faceva male vederlo così, semplicemente perché nella mia ingenuità, ero fermamente convinto che Charles non potesse crollare. Non davanti a me, almeno. E non per colpa mia. Io, che dovevo difenderlo, lo avevo reso vulnerabile. Troppo.

«Calmati. Non le accadrà nulla, credi che stroncare così con lei risolva le cose? Se Ward volesse uccidere Jenny lo farebbe a prescindere da chi dorme nel suo letto» ah, beh, questo sì che si chiama rincuorare.

«Artemas non ha niente contro di lei» ringhiò con la voce rotta. «Era un ricatto per me, per l'attentato a Washington, quindi se taglio i rapporti con lei...»

Battei una mano sul tavolo «Cristo, Charles, smettila di piangere come una verginella impaurita» che diamine. Non avevo Connor davanti, ma un uomo fatto e finito. Un uomo che avevo plasmato io, oltretutto, potevo permettermi di usare le maniere forti. «Basta non farla uscire da Fort George, Ward non assedierà mai il forte per una cazzo di minaccia» parve calmarsi.

«... Già. Forse avete ragione.» Si passò ancora una mano sul viso e mi alzai, sollevato dal fatto di vederlo più tranquillo. Almeno Lee mi ascoltava. Sospirò rumorosamente.

Gli poggiai una mano sulla spalla «Non credevo ti saresti rincoglionito così per una femmina» lo vidi sorridere, e mi bastò. Tornai al bancone e pagai il tè. «Io e il mio amico avremmo bisogno di due stanze» annunciai posando delle monete sul legno consumato.

Quello mi guardò colpevole. «Sono desolato, signore, ma l'unica stanza rimasta è... Come dire, per un altro tipo di coppia.»

Gesù. Avrei dovuto dormire con Charles in un letto matrimoniale? Guardai fuori attraverso la finestra: nevicava. «Dah, andrà bene.»

 

 

Vi prego, non uccidetemi, ma ultimamente non ho più vita sociale, urrà.

Cooomunque, è ancora lunedì, quindi posate quelle pietre e rimandante la mia lapidazione ad un’altra volta, da bravi, lol.

Mi è partita la ship yaoi in questo capitolo, s’è notato?
E niente, crollo dal sonno, quindi mi dileguo. Grazie come sempre a chi legge e recensisce, aaww, a presto!

 

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Capitolo 29
*** Let me crazy. ***


Avvertenza: le parti in corsivo sono tratte da “Forsaken” di Oliver Bowden.



Capitolo 29

 

Qualcuno mi aiuti.

Non avevo ancora realizzato che avrei dovuto dividere il mio letto con Charles per la seconda volta, e la cosa non mi allettava per niente. Troppo vicini per non sentirlo russare, diavolo, ed io non potevo permettermi di perdere ore di sonno preziose. Non prima di un omicidio.

Entrai in stanza e sospirai, trovandomi davanti un semplice letto a due piazze. Sulla sinistra, attaccata al muro, una piccola scrivania, dall’altro lato una finestrella che a malapena lasciava entrare la luce.

Mi trascinai fino al letto e mi lasciai cadere sul materasso. Ero stanco. Stanco di dover sempre intervenire per rimediare ai danni degli altri, di avere problemi, di dovermi vendicare. Stanco di chiedere semplicemente un po’ di pace. Pace? Non ne avrei mai avuta. Non era destino. Ci sarebbe sempre stato qualcosa contro, da Washington, a Connor, a Sam Adams.

Puntellai il piede sinistro contro il tallone destro e sfilai con disinteresse lo stivale, lasciando che cadesse a terra con un tonfo. Feci la medesima cosa con l’altro, lanciando poi un’occhiata a Charles che, con aria stralunata, si stava ancora guardando intorno. Quando raggiunse l’altro lato del talamo si tolse la redingote sospirando, evidentemente ancora scosso per il discorso affrontato prima.

 

Quando ci coprimmo entrambi calò un silenzio imbarazzante. Non che avessi pregiudizi su due uomini che dormono insieme, sia chiaro, senza contare che Lee poteva benissimo considerarsi mio figlio, ma decisi di spezzare la tensione. O almeno ci provai.

«Vedi di non farti venire strane idee, sai, nel caso credessi di avere mia sorella accanto.»

Attese qualche secondo prima di rispondere. «Oh, state tranquillo, non correte questo rischio» il tono derisorio mi irritò non poco. «Non siete così aggraziato.»

Risi. «Jenny invece sì, vero?» Serrai la presa sulla coperta, conficcando le unghie nella trama. «Ma non farmi ridere» strattonai la trapunta con forza, non tanto per coprirmi, quanto per fare un dispetto a Charles. Non si fece attendere, infatti, tirando il lenzuolo dalla sua parte.

«Finirai per strapparlo» strattonai ancora, così come Lee.

«Avete iniziato voi.»

Sbuffai. «Per favore, nemmeno a sei anni la usavo come scusa.» Trattenni la coperta prima che Charles potesse tirarla, provocandogli un ringhio frustrato. «E adesso piantala, se proprio vuoi fare qualcosa disegna quella cristo di piantina.» Tirai ancora.

«Sono stanco» oh, le coincidenze, vero?

«Allora fa’ silenzio e dormi» mi coprii fino al mento. «Ah, e non russare, per l’amor di Dio.»

 

***

 

Raccolsi le gambe al petto e abbandonai la testa all’indietro, lasciando che si appoggiasse al muro. Gli occhi chiusi, i muscoli stanchi e doloranti per le troppe ore passate nella stessa posizione. Da quanto me ne stavo chiuso nella stanza degli allenamenti? Due, forse tre giorni. Sostanzialmente da quando mio padre era fuggito. E come dargli torto? L’avevo aggredito senza motivo.

Di recente mi capitava spesso di avere scatti d’ira incontrollati, e la cosa mi spaventava. Non volevo fare del male ad Haytham. Almeno la mia parte razionale mi suggeriva così, ma era come se avessi due personalità, e l’altro me cercasse disperatamente di toglierlo di mezzo. Non ne capito il motivo nonostante fossero giorni che ragionavo.

Lanciai un’occhiata alla mia tunica, posata con cura sul manichino. Ero realmente degno di indossarla? O meglio, lo ero ancora? Avevo iniziato a dubitare del Credo e questo mi metteva… ansia. Ansia di fare la cosa sbagliata, di far parte della Confraternita anche se non lo meritavo.

Stunk. «Connor! Esci da quella cantina!» Stunk. Ignorai gli schiamazzi di Achille, che girava insistentemente il pomello nella speranza di aprire la porta. Non volevo parlargli. Per sentirmi dire cosa, poi? Che ucciderlo era la cosa giusta, che era un nemico, che minacciava la Confraternita e la pace.

Sempre le solite cose. Non volevo vedere nessuno, tantomeno lui.

Voltai stancamente il capo verso destra, in direzione dei ritratti di Haytham e Charles, gli unici due senza un segno qualsiasi che indicasse la loro morte.

«Connor? Si può sapere che stai facendo là sotto?» Chiusi gli occhi ed espirai, tentando di elaborare rapidamente una scusa qualsiasi.

«Mi sto allenando, è tutto a posto.» Risposi a tono alto, la voce ferma per risultare credibile.

«Sei chiuso lì dentro da giorni, ragazzo. Stai bene?»

«Sì!» Lasciami in pace. Ti prego. Contai sette secondi trattenendo il respiro, poi udii i suoi passi allontanarsi.

Lanciai un’occhiata al diario di mio padre, poggiato con cura accanto a me, e lo aprii a caso, leggendo le prime righe che mi capitarono sotto gli occhi:

 

Gli sforzi degli ultimi giorni si fecero sentire e minacciarono di sommergermi. Il fango mi risucchiava gli stivali, rendendomi la corsa un diguazzare e il respiro nei polmoni era irregolare, come se stessi inalando sabbia. Ogni muscolo protestava, implorandomi di fermarmi. Non potevo fare altro che sperare che le cose per il mio amico fossero altrettanto dure, addirittura più dure, perché l’unica cosa che mi spronava ad avanzare, l’unica cosa che mi faceva muovere le gambe e permetteva al mio petto di respirare era sapere che stavo accorciando la distanza.

[…]

Si rimise in piedi, urlando per il dolore e il disonore, spinto forse dallo sdegno di non riuscire a vincere più facilmente e sferrò un calcio con il piede sano. Glielo afferrai con l’altra mano e lo torsi con tutta la forza che trovai, facendolo roteare e infine cadere a faccia in giù nel fango.

Tentò di rotolare via, ma era troppo lento o troppo stordito, così riuscii a colpirlo dall’alto con la spada, trapassandogli la parte posteriore della coscia fin nel terreno e infilzandolo lì. Nello stesso tempo usai l’impugnatura per issarmi fuori dal fango, lasciandovi dentro il secondo stivale. Lui gridò e si dimenò, ma era bloccato dalla spada che gli attraversava la coscia. Il peso che esercitai su di lui nell’usare la spada come leva per tirarmi fuori dalla melma deve essere stato insopportabile e lui strillò dal dolore facendo delle smorfie terribili. Eppure continuò a menare fendenti e io ero disarmato, così, mentre piombavo su di lui, la lama mi colpì il collo, aprendo un taglio e facendo sgorgare il sangue che sentii caldo sulla pelle.

 

Strinsi la collana che un tempo era stata di mia madre e guardai il diario di Haytham. Cosa avrei dovuto fare? Mio padre voleva vederci uniti con tutto se stesso, non ne dubitavo più, e allora perché una parte di me ripudiava la sola idea di vederci a braccetto? Era un preconcetto o era la presenza di Charles?

Deglutii, consapevole che Lee non era poi un grosso problema. Quell'uomo pendeva dalle labbra di mio padre, se avessi convinto Haytham ad usare metodi che non contemplassero l'omicidio, Charles Lee sarebbe stato costretto ad obbedire.

Guardai ancora la tunica con un peso nel petto, all'altezza del cuore. Mi sentivo in colpa anche solo a fissarla mentre facevo tali pensieri.

Uccidili.

E se insieme vincessimo la guerra? Se riuscissimo davvero a mettere da parte l'odio per raggiungere la pace?

I Templari non vogliono la pace. Vogliono il controllo. Se non è ora, sarà dopo, ma moriranno.

Possibile che non ci fosse soluzione?

Uccidili.

È mio padre, deve pur esserci un modo.

Uccidili.

Allungai la mano per prendere il quadernetto rivestito in pelle, ma una fitta mi mozzò il fiato. Mi si irrigidirono i muscoli, le ossa indolenzite, i polmoni pieni d'aria e incapaci di buttarla fuori. Il cuore martellava contro la cassa toracica, manifestando il terrore che provavo in quel momento.

Uccidili.

Mi accasciai a terra, di lato, tutto il peso a gravare sul braccio destro, la mano sinistra a stringere i capelli. Le tempie pulsavano e il cervello bruciava. Era come se fosse diventato improvvisamente una massa di magma e spingeva, spingeva sempre più forte contro la fronte, tentando di uscire.

Uccidili.

Soffocai un urlo e graffiai il pavimento. Iniziai a piangere dal dolore e il muscolo della gamba sinistra si mosse da solo, facendomi scalciare nel vuoto. Iniziai a tremare. Tremavo per gli spasmi e di paura, non capivo cosa mi stesse accadendo e, soprattutto, non sapevo come interrompere quella tortura. Stavo andando a fuoco. No, era solo un'illusione, vero?

Uccidili.

Achille. Se avessi urlato sarebbe venuto in mio soccorso. O almeno pregai fossi così, se fosse stato al piano superiore non avrei avuto speranze.

Aprii la bocca nel vano sforzo di chiedere aiuto, ma non uscì altro che un flebile fischio che a stento percepii io.

Uccidili.

Arrivò una scossa più forte e mi voltai supino, sbattendo il fianco contro il muro. Mi lamentai dal dolore, gli occhi sempre umidi di lacrime, la testa in fiamme e il petto compresso da un macigno. Sotto le palpebre serrate presero forma strani segni, simboli curvi e ondeggianti di vari colori si mescolavano fra loro, iniziando ad ammassarsi in basso.

Diventarono rosse e capii. Erano fiamme, e nel preciso istante in cui realizzai, il bruciore alle tempie aumentò, facendomi dimenare come un ossesso.

Uccidili.

Il mio villaggio, la mia capanna, mia madre.

«Basta!» Tutto avvolto da quelle strane fiamme, che distruggevano ogni cosa al loro passaggio. «Ti prego, basta!» Aprii gli occhi, convinto che fosse sufficiente per non rivivere più quella scena.

«Ratonhnhaké:ton..»

Mi tappai le orecchie e mi rigirai, tornando prono. «Basta, basta.» Alzai di poco lo sguardo, riuscendo a vedere lo sguardo severo di Haytham che mi rimproverava nonostante fosse solo un dipinto. «Basta...» tentai di mettere a fuoco, ma la testa si fece improvvisamente pesante, sbattendo a terra quando ormai avevo già perso conoscenza.

 

 

Saaalve.

Sì, teoricamente sareste tenuti a lapidarmi/lanciarmi qualsiasi cosa abbiate sottomano, MA –c’è un ma, signori miei- l’ispirazione mi ha abbandonata sul più bello, quindi diciamo che il ritardo non è esattamente solo colpa mia, lol.
Va beh, la pianto e invito tutti voi a shippare CharlesxHaytham perché sì, è illegale non vomitare arcobaleni davanti a scene del genere, aaww.
Direi che posso chiuderla qui, scusate per il ritardo e un biscottino a chi legge e/o recensisce, ciao! :3

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Capitolo 30
*** Fenice. ***


Capitolo 30

 

Ero in dormiveglia, a metà tra l’incoscienza e la capacità di aprire gli occhi e iniziare un’altra faticosa e fredda giornata.

Fredda. Eppure un flebile getto di aria calda mi faceva venire la pelle d’oca dietro la nuca a intermittenza. Ammetto che per un po’ fu anche piacevole, ma alla ventesima volta iniziò a spazientirmi. E solo in quel momento feci caso allo strano peso che gravava sul mio fianco destro, ma muovere il gomito tendando di capire cosa fosse non mi aiutò né a spostare l’oggetto ignoto né ad indentificarlo.

Mi voltai sull’altro fianco, arrotolandomi nelle coperte e lasciando mezza scoperta la schiena, quando scontrai contro qualcosa di morbido e caldo. Aprii gli occhi di scatto, ma la vista era appannata, le ciglia ancora appiccicate, impedendomi di mettere a fuoco quella macchia rosa e nera, causa del mio brusco risveglio.

«Che diavolo…» senza la forza di tirarmi su, mi passai due dita sugli occhi nella speranza di togliere quel fastidioso appanno e Dio mi è testimone –nel caso fosse esistito- che per poco non caddi dal letto. «Gesù Cristo!» Charles Lee. Charles Lee a poco più di cinque centimetri da me, con la punta del suo naso a un millimetro dal mio, i suoi baffi troppo vicini alla mia bocca e, cielo, il braccio comodamente appoggiato a me, come fossimo una coppia di sposini alla loro prima notte di nozze.

Lo allontanai con una spinta stizzita, una mano sul petto nudo e vigoroso e il piede contro una coscia. Rotolò supino, finendo nella sua metà di letto senza svegliarsi. Dio, parlavo di metà di letto riferendomi a Charles. Mi si chiuse la bocca dello stomaco nell’esatto momento in cui Lee pensò bene di riprendere a russare come un cinghiale. Già, ancora, perché quella notte avevo chiuso occhio sì e no tre ore, alternando sbuffi esasperati a gomitati nelle costole di Lee.

Gli lanciai un’occhiata, invidiandolo mentre ronfava beato, raggomitolato e ignaro di tutto.

Scostai le coperte e mi alzai, tanto non avrei più preso sonno e poltrire a letto non era nella mia indole, quindi mi avvicinai al catino pieno d’acqua, poggiato a terra nello stanzino adiacente. Aprii la tenda sgualcita per far entrare quella poca luce che l’alba mi concedeva, giusto per darmi una sciacquata senza stare al buio, quindi iniziai a pensare alle cose serie. A ciò di cui un Gran Maestro doveva occuparsi, insomma, e stavolta non avevo nulla a distrarmi, non avevo il continuo russare di Charles a tenere la mia mente occupata ad inventare nuove bestemmie. Stavolta c’era solo il buon Washington nella mia testa. Che onore, vero comandante? Non è da tutti essere il pensiero principale di un uomo che si sbottona la camicia prima di lavarsi.

Patetico, ecco cos’era quella situazione. Era tutto patetico. Lo ero io, che ogni momento libero lo dedicavo a quel vecchio sconclusionato. Avevo pronto anche un piano per farlo fuori, ma avevo bisogno della piantina dell’accampamento, quindi dell’aiuto di Charles. Aiuto anche pratico, a dirla tutta, e convincerlo su quella parte del programma non sarebbe stata una passeggiata. Lui doveva salvare Jenny e bla bla.

Afferrai la vecchia spugna appoggiata sull’unico ripiano e la immersi nel catino, rabbrividendo al contatto con l’acqua gelata.

Il fatto era che il senso di colpa iniziava a farsi sentire. Era lì, come uno spillo invisibile a pungermi il petto dall'interno, e continuava a ripetermi che qualsiasi cosa fosse accaduta, Charles ne sarebbe andato di mezzo. E lo sapevo, cristo, sapevo che la mia maledetta coscienza aveva ragione, ma che altro potevo fare? Non avevo nessuna certezza che avrebbero ucciso Lee per un sospetto -quanto ero drammatico, magari l'avrebbero solo punito-, al contrario vedevo già le nostre lapidi se non avessi fatto nulla per togliere il comando a George.

D'altra parte non volevo vederlo in pena in quel modo, speravo capisse che rischiavamo entrambi, che lui un alibi avrebbe potuto crearselo, a differenza di me. Speravo capisse che tanto, prima o poi, con Washington al comando saremmo morti nel giro di qualche mese. Tanto valeva rischiare, no?

Charles comparve sulla soglia dello stanzino con addosso solo i calzoni, i capelli scompigliati, gli occhi mezzi chiusi e la mano destra impegnata a grattare l'inguine con uno stile che tanto mi ricordava Thomas Hickey.

Lo guardai interdetto per qualche secondo, la pezza ancora appoggiata alla spalla sinistra. «Buongiorno, principessa.» Mi guardò male, degnandomi di poca attenzione con le palpebre socchiuse come a dire "una principessa si gratterebbe le palle in questo modo?".

«Devo usare il catino.» Sbiascicò. Glielo indicai con un cenno del capo, riprendendo a strofinare mentre Lee mi passava davanti per raggiungere il secchio nell'angolo. Lo sentii trafficare coi calzoni, e gli lanciai un'occhiata mentre il getto di urina s'infrangeva contro il metallo del recipiente vuoto.

Schioccai la lingua contro il palato. «Non ho chiuso occhio stanotte» come se gliene fregasse qualcosa.

Charles girò di poco il viso, guardandomi da sopra la spalla. «Posso immaginare. Tutto questo stress per Washington deve avervi provato molto»

«Per una volta quell'imbecille non c'entra» rimbeccai infastidito. «È colpa tua, hai russato tutta la notte. Vorrei tanto sapere con che coraggio mia sorella ti dorme accanto» fosse solo per il russare.

Lo vidi sogghignare. «Si addormenta prima di me da quanto è sfinita»

«Oh-oh, se ti sentisse Hickey farebbe una battuta sul tuo uccello» Charles si richiuse i calzoni, continuando a parlare rivolto verso il muro.

«Tom si atteggiava da grande intenditore, come se fosse l'unico ad aver visto un paio di tette a differenza di noialtri. Tsk, idiota.» In effetti aveva ragione, Hickey non aveva mai perso occasione per sottolineare quante donne avessero avuto il privilegio di mettere la testa fra le sue gambe, cosa che a Charles dava terribilmente fastidio. Non tanto per invidia, suppongo, diciamo che pranzare immaginando l'uccello di Thomas non era tra le mie priorità. E nemmeno tra quelle di Lee, che in tutti quegli anni, poveraccio, un giorno sì e l'altro pure si era sentito chiamare frocetto inglesino del cazzo o verginello da quattro soldi. Sorrisi malinconico. Mi mancavano un sacco quei momenti, quando eravamo ancora tutti insieme, quando ancora andava tutto bene.

«Ti ricordi quando Tom ti chiamava frocetto inglesino del cazzo?» Gettai la pezza sul ripiano vicino alla porta e mi alzai dallo sgabello, afferrando il panno asciutto e passandolo su petto e schiena. Charles si voltò con una smorfia in viso e trafficando ancora con la cintura. «Se ti avesse beccato lui, quella notte, si sarebbe complimentato dandoti una pacca sul culo» dissi riferendomi a quando beccai Lee e Jenny intenti a scopare come conigli.

«Sì, per poi chiedere di unirsi a noi» si richiuse la cintura con uno strattone. «Che figlio di puttana, gliene ho fatte passare troppe. Forse avrei dovuto fargli capire fin da subito chi era il coglione tra i due.»

 

Fissavo la bottiglia di rum che mi ero fatto portare in camera da una decina di minuti, indeciso se aprirla o meno. Ubriacarsi prima di un omicidio non era esattamente indicato nel manuale dell'assassino perfetto, però avrebbe diminuito la tensione, cosa che ci avrebbe fatto sicuramente bene.

Tanto ormai l'hai pagata. Giusto, tanto valeva non avere ripensamenti. La stappai tenendo bloccato il sughero tra i molari per poi lo sputarlo di lato. Mandai giù sei sorsi come se stessi bevendo acqua, abbandonandomi alla sensazione di pace e al silenzio, rotto solo dal rumore dell'alcool che scivolava giù, fino al mio stomaco. Sul letto, accanto a me, c'era un abbozzo dell'accampamento di Valley Forge, datomi da Charles qualche ora prima. L'avevo convinto a farla, sentendomi un po' in colpa per averlo trascinato in qualcosa in cui non voleva immischiarsi. Allora non avrebbe dovuto unirsi all'Ordine, direbbe chiunque. Vero, ma Charles non era un membro qualunque, lui era semplicemente Charles Lee, quello odiato perché il preferito del Gran Maestro, quello privilegiato che avrebbe preso le redini di tutto, quello che anche se sbagliava -quelle rare volte- non veniva punito. Lui era diverso, e nonostante mi consolassi ripetendomi che i compiti dei Templari erano uguali per tutti e non ammettevano repliche, mi sforzai in ogni modo per trovare una soluzione a tutto, anche se non c'era. Non c'era modo di dimostrare l'innocenza di Charles se avessi ucciso George Washington. Avrebbe potuto avere l'alibi più credibile di questo mondo, ma il beneficio del dubbio che avesse assoldato un mercenario non potevo toglierlo a nessuno. E il cattivo rapporto tra i due avvalorava le probabili accuse che avrebbero mosso contro Lee.

«Non offrite?» Alzai lo sguardo, osservando l'uomo che era diventato e sorrisi. Sorrisi perché nonostante la discussione del giorno prima, non aveva fatto altro che rendermi orgoglioso di lui. Rischiava la carriera, la vita, la donna che... amava?, non ne ero certo, solo per me, per non voltarmi le spalle. Potevo chiedere di meglio? Potevo desiderare un amico migliore?

Gli porsi la bottiglia, riabbassando gli occhi sulla calligrafia frettolosa di Charles che indicava i lati dell’accampamento meno sorvegliati dai soldati.

Lo guardai ancora, mentre si asciugava i baffi col dorso della mano sinistra.

«Il fianco a nord ha solo dei tronchi appuntiti piantati nella neve e qualche cane, non sarà difficile entrare da lì.» Osservai di nuovo il foglio scarabocchiato, puntando la tenda di George, identificata con una X, all'estremità dell’ala ovest. Fortunatamente il giorno prima avevo fatto attenzione alla disposizione delle tende, infiltrarmi di soppiatto con la notte a mio favore sarebbe stato piuttosto semplice.

Ripresi la bottiglia e bevvi un paio di sorsi. «Grazie.» Dissi senza guardarlo. Mi prese la bottiglia di mano e ingoiò altro liquore, appoggiandola poi sul sedile della sedia, tra le gambe. «Non dovete farlo, era mio dovere. Sono un Templare, no? Gli ordini valgono anche per me.» Picchiettò le unghie sul vetro e sorrise, consolandosi.

«L'ultima cosa che voglio è metterti in pericolo, lo sai. Ma questa faccenda va risolta. Lo volevi anche tu.» Lo fissai, mentre dondolava la bottiglia per far oscillare il liquido al suo interno. «Lascia perdere Jennifer, lei non corre rischi. Se è questo che ti frena, puoi stare tranquillo. Se c'è dell'altro, parla.» Arricciò le labbra ed espirò pesantemente, poi bevve ancora.

«C'è la mia carriera, ecco cosa, ma tanto è rovinata comunque con quell'incapace al comando.» Aveva gli occhi lucidi, e non era una crisi di pianto come la sera prima.

«Charles, dammi la bottiglia» scosse la testa, ma non per ciò che gli dissi.

«Perché hanno scelto lui?» Alzò il viso nella mia direzione, era stanco e affranto, quindi pensò bene di trovare conforto in altri tre sorsi di rum. «Solo perché io sono Inglese» ridacchiò istericamente, perché altrimenti avrebbe spaccato qualcosa. Charles era fatto così, aveva un carattere impulsivo molto scomodo per l'Ordine, ma negli anni aveva imparato a controllarsi, accumulando stress senza potersi sfogare con nessuno. Quello era il prezzo da pagare. Sopporti il più possibile, ma poi scoppi. E Charles era vicino all'esplodere.

Gli feci cenno di passarmi la bottiglia con la scusa di voler dare un paio di sorsi, ma mi ignorò, portando alle labbra il vetro scuro e freddo. «Potrei aiutare questo paese più di quanto credete...» Borbottò con la voce impastata, «potrei farlo davvero»

«Lo so, Charles. Lo so» mi allungai sul materasso e gli sfilai la bottiglia di mano, provocandogli una smorfia contrariata. «Ora basta bere, mettiti a letto» lo aiutai ad alzarsi dalla sedia e lo portai a piccoli passi fino al letto, assicurandomi che stesse fermo e che fosse abbastanza lontano dal rum, poi mi allontanai per prendere redingote e tricorno, appoggiati con cura sulla scrivania.

«Non sono ubriaco» continuava a ripetere girandosi su un fianco, «sono solo stanco.»

«Allora dormi e non fare casini» non ricevetti risposta, quindi mi voltai per capire il motivo per cui mi ignorasse.

Dormiva. Era crollato come un moccioso di sei anni dopo aver trascorso un pomeriggio stancante al parco. Lo coprii con la sua giacca, poi mi calai il cappello in testa ed uscii dalla stanza, scendendo le scale con una calma surreale. La bozza dell’accampamento era al sicuro nella tasca interna della veste. La sentivo bruciare, mi sentivo colpevole, temevo che chiunque potesse scovarla attraverso la stoffa e denunciarmi con l’accusa di voler uccidere il nostro amato comandante.

Mi portai una mano al petto con la scusa di stringermi il cappotto per non patire il freddo, poi spalancai la porta ed uscii, venendo travolto dal vento gelido e dal buio, affondando nella neve fino alla caviglia. Imboccai il sentiero che portava a sud, camminando svelto più che altro per non morire assiderato.

Stavo facendo la cosa giusta? Aveva la priorità la vita di Charles o l’Ordine? Charles o il Nuovo Mondo?

Mi portai le mani alle tempie e sospirai. Calmo. Stai per compiere un omicidio, mente lucida e sangue freddo. Avrei dovuto essere abituato, eppure non riuscivo a calmarmi. Il pensiero che il mio pupillo potesse andarci di mezzo non ne voleva sapere di abbandonarmi, sussurrandomi di voltarmi e tornare indietro, di andare da Charles e dirgli che avevo cambiato idea, che ucciderlo non era l’unico modo che avevamo per vincere la guerra. Prima che fosse troppo tardi, prima di scorgere in lontananza, tra i fiocchi, il portone sorvegliato dal ragazzo e dal tizio diffidente che credeva fossi un impostore. Prima di gettare merda sulla carriera di Lee, prima di scatenare un putiferio, prima che lo accusassero di omicidio.

Intravidi le due guardie davanti all’ingresso e svoltai rapidamente a destra, passando tra alberi e cespugli. La neve iniziò ad arrivarmi fino al ginocchio, impedendomi di avanzare velocemente. Strizzai gli occhi e mi guardai intorno, poi tirai fuori dalla tasca interna il foglio stracciato su cui avevo le indicazioni di Charles. Ero nel posto giusto, nonostante il buio e la neve mi impedissero di vedere ad un palmo dal naso, riuscii a vedere i tronchi appuntiti piantati in un cumulo di neve, pronti ad infilzare il primo idiota che si fosse lanciato all’assalto.

Mi avvicinai piano, non c’era traccia di cani e oltre la piccola collina gelata sembrava tutto tranquillo. Probabilmente dormivano tutti come ghiri. Scivolai dall’altra parte, nascondendomi dietro una delle tende, poi controllai ancora la mappa di Charles: ad occhio e croce avrei dovuto percorrere ancora un centinaio di metri per trovarmi il regale culo di Washington davanti. Quale onore, eh?

Rotolai di lato, proseguendo verso ovest costeggiando il perimetro. Che gli avrei detto una volta lì? Magari stava dormendo anche lui, ma così sarebbe stato troppo semplice, no? Sarebbe bastato tagliargli la gola e svignarsela.

Uscii da dietro la tenda e attraversai il piccolo piazzale che portava all’ala ovest, e corsi silenziosamente verso la capanna di George.

Mi tornò in mente Charles, ma strinsi i denti e mi feci coraggio, scostando un lembo di stoffa che mi divideva da Washington. Se ne stava lì, in piedi davanti al tavolo con le spalle rivolte all’entrata, come quando ero venuto il giorno prima in compagnia di Lee. Entrai di soppiatto, avvicinandomi con due falcate e premendogli una mano sulla bocca e pungendogli la schiena con la lama celata.

«Ci si rivede, comandante» un gemito morì contro il palmo della mia mano, che fece più pressione sulle labbra fredde e tremolanti di George, «com’è stare dall’altra parte, mh?» Girò di poco il capo, incrociando il mio sguardo con la coda dell’occhio. Impallidì di colpo, mentre una goccia di sudore freddo scivolava lentamente lungo la guancia destra.

Serrai le dita con più forza sul suo viso, spingendo la punta della lama celata contro la sua carne, squarciandola quel tanto che bastava per far sgorgare un po’ di sangue. George gemette di dolore, tentando di urlare e liberarsi, ma le ginocchia cedettero, facendolo crollare a terra. Seguii il suo corpo con la soddisfazione che mi invadeva il petto, come un piccolo fuoco che piano iniziava a diffondere calore in tutto il corpo. Spinsi la lama con più decisione nella schiena del comandante, trattenendo a stento l’istinto di farlo a pezzi e bruciarlo, come aveva fatto con Tiio.

«Ve l’avevo detto che vi avrei ucciso, no?» Non rispose, e in quel momento qualcosa di caldo mi bagnò la mano sinistra. Mi sporsi per capire cosa fosse, sogghignando quando vidi solchi di lacrime sulle guance di Washington. Per cosa piangeva?, per paura? Dolore? Era pentito per aver rifiutato l’offerta di Charles? Poco mi importava, sinceramente. Sarebbe morto comunque, e con la sua morte noi saremmo rinati, come una fenice dalla cenere.

Feci rientrare la lama con un click e qualche goccia di sangue mi macchiò il polsino della redingote. «Se avessi accettato la proposta di Charles a quest’ora non saresti inginocchiato con un buco nella schiena. Ne è valsa la pena?» Non rispose, deglutendo rumorosamente. Decisi di mettere fine alla sua vita in un modo rapido e indolore, specialmente perché avevo freddo e il mio pensiero principale era quello di tornare alla locanda per riscaldarmi.

Gli artigliai i capelli con la mano destra e con uno strattone gli girai la testa di lato, spezzandogli l’osso del collo.

 

 

Innanzitutto scusate, davvero. Vi avevo detto che avrei postato con una settimana di ritardo, invece è quasi passato un mese, God, ma ho ripreso possesso della mia vita sociale da poco più di un paio di giorni, tra esami e studio non sono proprio riuscita ad aggiornare prima, abbiate pietà.

E siccome qualcuno di voi vorrà sicuramente lanciarmi qualcosa… *lancia in aria biscotti caldi e fugge*, lol.

Graaaazie mille a chi legge e segue, aw, siete l’amore.

 

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Capitolo 31
*** Non aver paura mai. ***


Capitolo 31

 Il giorno dopo eravamo rientrati a Fort George con calma, come se Washington non fosse morto e come se la macchia di sangue sul mio polsino bianco non fosse altro che innocuo condimento alimentare. Per tutto il tragitto verso New York Charles era rimasto in silenzio, abbassando lo sguardo sulla propria sella ogni volta che incrociavamo dei patrioti, ancora ignari di tutto. Erano strani, i patrioti, ma ammetto che un po’ li invidiavo. Erano consapevoli di essere nella merda, eppure combattevano con entusiasmo. Con un entusiasmo che io non avevo mai avuto neanche negli anni d’oro della mia gioventù, quando ancora ero una giubba rossa, quando ancora credevo che imbracciare un fucile avrebbe avuto i suoi lati positivi e mi avrebbe donato un minimo di gloria.

Invece no.  Uccidere non placa la sete di vendetta e non ti fa sentire meglio, ti lascia solo sulla coscienza una manciata di uomini e ti macchia l’animo, facendoti via via diventare indifferente alla morte altrui, come fosse una cosa normale. Così normale da farti considerare l’omicidio l’unica soluzione per cambiare qualcosa. Non ero fiero di ciò che ero diventato, mentre ammazzavo George non avevo provato rimpianto, né paura per ciò che mi avrebbe aspettato una volta morto, nel caso ci fosse stato qualcosa. A dire il vero mi facevo un po’ timore. Sapevo di essere freddo e distaccato, ma per quel genere di cose non te ne rendi conto finché non ci rifletti seriamente, finché non ti trovi la realtà sbattuta in faccia come uno schiaffo.

Anche Charles sarebbe diventato così una volta diventato Gran Maestro? Non volevo. Non volevo e non dovevo rovinare anche lui.

Lo guardai ancora, voltando di poco il capo verso destra. A vederlo sembrava semplicemente stanco e ancora stordito per la sbornia, ma io lo conoscevo bene. Sapevo leggere il suo linguaggio del corpo, anche se Lee faceva di tutto per apparire calmo e rilassato. La schiena era dritta e tesa, le mani strette sulle redini di cuoio, i piedi irrigiditi sulle staffe, pronti a spronare il cavallo per fuggire. Tentai di distrarlo, facendo battute sul fatto che non reggesse l’alcool e che si fosse addormentato come un marmocchio, ma non servì molto. La tensione era tanta, e quello che mi preoccupava era il fatto che avrei dovuto spiegare a Jenny tutta la questione. Avrei dovuto parlarle di Washington, di Artemas, della carriera militare di Charles andata quasi sicuramente a puttane. Tutto quanto. Temevo che me la sarei trovata contro per aver messo Lee nei casini come se fosse un estraneo qualunque, perché mettere altre venti guardie a controllare che Fort George non venisse preso d’assalto non garantiva proprio nulla. Ward era un pari di Charles, e la sua parola valeva ben più del volere di un paio di uomini a difesa di un forte, e se la causa era un mandato d’arresto per un generale ritenuto traditore, beh, non c’erano scuse. Senza contare che se Lee si fosse barricato dentro avrebbe alimentato i sospetti su di lui. Confidavo comunque nell’intelligenza di Charles, conosceva bene l’ambiente e sapeva come muoversi, ma questo non placava il mio senso di colpa. L’unica cosa che mi restava da fare era sperare che Artemas Ward non fosse tanto folle da attaccare un forte per un sospetto. Faceva bene a credere che Charles fosse coinvolto, ma non c’erano prove. Avevo fatto un lavoro pulito, cancellando addirittura le tracce sulla neve per evitare che le seguissero e raggiungessero la locanda in cui avevamo alloggiato. Non avevano nessuna prova contro di me, che ero il sicario, figuriamoci contro Charles, che non aveva neanche preso parte alla missione.

Deglutii, tentando di calmarmi. Dovevo sperare nella giustizia. Insomma, non si può arrestare un uomo su due piedi, no? Era la parola di Charles contro quella di Artemas, non avrebbero potuto fargli nulla.

Dio, che situazione del cazzo.

«Tutto bene?» La buttai lì, girandomi a sinistra fingendo di osservare il paesaggio.

Charles inarcò le spalle facendo scricchiolare le ossa, mollando poi le redini con la mano sinistra per riscaldare le dita intorpidite con un po’ di fiato caldo. «Diciamo di sì.» Avrei voluto abbracciarlo e dirgli che sarebbe andato tutto bene, che la cosa peggiore che gli fosse potuta capitare sarebbe stata la sospensione del servizio militare, che avrei difeso la sua vita con la mia a qualunque costo, ma non lo feci. Forse avrei dovuto anche chiedergli scusa, ma non trovai il coraggio. A malapena riuscivo a guardarlo in faccia.

«Sta’ tranquillo, non è la prima volta che uccidiamo qualcuno di importante. Ricordi Braddock?» Gli scoccai un’occhiata. «Avrebbero dovuto impiccarmi o spararmi a vista, invece eccomi qua.»

Annuì debolmente, fissando distrattamente l’orizzonte e lasciandosi dondolare dall’andatura del cavallo. «Probabilmente sarà come dite voi, mi sto fasciando la testa prima del tempo.» Si sforzò di sorridere.

Per tutto il resto del viaggio non dissi nulla. Capii che aveva bisogno di starsene per i fatti suoi, di ragionare su ciò che di lì a breve sarebbe accaduto per prendere le decisioni migliori, quindi lo assecondai.

Ero sicuro che non gli sarebbe potuto accadere nulla, e in fondo è quello che pensiamo tutti quando si tratta di disgrazie come la morte, no? Le vittime sono sempre gli altri, mai noi in prima persona, mai gli amici o i familiari. Eppure avrei dovuto pensarla diversamente. Con Charles, però, non ci riuscivo. Lui era lì, intoccabile, e ogni volta mi ripetevo: figurati se succede a lui.

 

Arrivammo a New York di mattina presto. Inutile dire che mi chiusi immediatamente nella mia stanza senza salutare nessuno. Insomma, avevo una decina di ore di sonno arretrato da recuperare. Non amai così tanto il mio letto fino a quel momento. Comodo, caldo e soprattutto singolo, senza nessuno accanto pronto a russarmi nelle orecchie ogni venti secondi.

Quando riaprii gli occhi era l’una passata. Scostai le coperte e mi tirai su, indeciso se essere scocciato per il fatto che nessuno fosse venuto a svegliarmi per pranzare o apprezzare la gentilezza che avevano avuto nel lasciarmi riposare un’ora in più. Mi abbottonai la camicia e infilai la redingote, poi uscii dalla mia camera, percorrendo il corridoio fino alle scale per raggiungere il salone principale.

Vidi Jenny arrotolarsi una ciocca di capelli attorno all’indice, lo sguardo perso oltre il vetro della finestra che dava sul piazzale interno di Fort George, intenta a guardare chissà cosa con un’espressione che tanto mi ricordava la Jennifer di quarant’anni prima, quella che passava le ore dietro le tende bianche di casa nostra per sbirciare le strade affollate di Londra.
Sorrise dolcemente, ignara del fatto che la stessi osservando, continuando a torturare i capelli rossicci.
«Cosa c’è di tanto interessante da guardare?» La affiancai con le mani giunte dietro la schiena, trovando risposta alla mia domanda prima che lei parlasse, scorgendo Lee, con indosso solo la camicia, i calzoni e gli stivali, tirare di spada con un giovane reclutato da poco nelle guardie di Fort George.
«Charles sta dando lezioni di scherma ad un ragazzo.» Movimento di gambe, parata, affondo. Li ripeté tre volte con una naturalezza insolita, come se non avesse fatto altro nella vita, spingendo poi a terra con una spallata il novellino poco più che venticinquenne.

Prese a camminare in tondo con strafottenza, sputando di lato e guardando con stizza la matricola ancora a terra «Avanti, alzati» iniziò a roteare la spada per riscaldare il polso, mentre il ragazzino si alzava con ancora il fiato corto. «Vedi di impegnarti di più. L’avversario non aspetta che tu ti rimetta in piedi, ti conficca la spada nel petto e vaffanculo!, funziona così!»

«Avete ragione» si passò una mano sulla fronte, lasciando una chiazza di sporco. «Sono pronto.» Lee stavolta non si mosse, preferendo lasciare l’iniziativa al ragazzo che, poco dopo, si sbilanciò in avanti tentando un affondo. Charles parò il colpo facendo strisciare le due spade sul filo della lama e causando un fastidioso stridio, poi allontanò da sé l’arma nemica eseguendo una cavazione, scattando infine all’indietro, scivolando sul terriccio. Il giovanotto non perse tempo e accorciò le distanze con due falcate, tentando un rovescio che Charles evitò senza fatica. Le due sciabole britanniche cozzarono un paio di volte, gli stivali si muovevano rapidi, alzando una nube di polvere ad ogni passo. Con un tondo più violento Charles disarmò il ragazzo, facendogli volare di mano la spada che rotolò via di qualche metro. «Devi stringerla l’elsa, o farai questa fine!» Si guardarono per una manciata di secondi, poi il mocciosetto scattò di lato per riprendere l’arma, ma Lee lo anticipò, calciandola via e afferrando il marmocchio per i capelli. Gli serrò un braccio attorno al collo senza soffocarlo, ma con la forza sufficiente per impedirgli i movimenti «E ora come la mettiamo, eh?» Mai cantar vittoria prima del tempo, vecchio mio. Due secondi dopo venne spinto via con un calcio, che lasciò sulla camicia di Charles un’impronta marrone all’altezza dell’ombelico. Lee fu costretto a mollarlo, indietreggiando per riprendere fiato, mentre il pivellino corse a riacciuffare la spada, come se solo il fatto di impugnarla potesse salvarlo a prescindere. «Non male, iniziamo a ragionare.» Stavolta la prima mossa la fece Charles,  eseguendo uno sgualembro rapido parato per puro caso dal ragazzo. Il contraccolpo fu così forte che a stento Charles trattenne la spada, ma non perse tempo e roteò su se stesso, strisciando i piedi e colpendo per l’ennesima volta la spada nemica con un tondo, disarmando ancora l’avversario.

Jenny spalancò la finestra e si sporse fuori con un sorriso a trentadue denti. «Sei bravissimo, tesoro!» Charles si girò, distendendo le labbra non appena la vide affacciata, poi si avvicinò alla botte piena d’acqua lì vicino e ci si appoggiò con i gomiti per riprendere fiato, mentre il ragazzo si spolverava i calzoni sporchi di terra per riacquistare un minimo di dignità.

«La tua tecnica è pessima, figliolo. Saresti morto sette volte»

L’altro sbuffò, calciando l’arma a terra. «Se solo mi insegnassi a difendermi invece che farmi cadere, forse imparerei qualcosa.» Rimbeccò acidamente.

Charles soffocò una risata, come se insegnargli anche solo come impugnare una spada fosse un’impresa titanica. «A furia di prendere culate per terra imparerai a fare una parata come Dio comanda» calciò un sassolino nella sua direzione, «a meno che tu non ci tenga a morire come un cane.» Si staccò dalla botte con un colpo di reni e gli diede le spalle, immergendo le mani nell’acqua fredda. Si sciacquò un paio di volte il viso sudato e il collo, poi passò le dita tra i capelli neri e folti, bagnandoli e tirandoli indietro.

«Mi è venuta voglia di tirare di spada» annunciai con un sorrisino.

«Cosa?!» Ignorai gli strepiti di Jennifer e imboccai le scale. «Quel povero figliolo riesce a malapena a difendersi e Charles ci sta andando piano! Sii ragionevole!» Mi seguì correndo ed io sbuffai.

«Il novellino è l’ultimo dei miei pensieri, ho voglia di divertirmi con Charles.» Spalancai la porta ed uscii, guardando il mio pupillo rinfrescarsi e ravvivarsi i capelli.

Mi avvicinai con nonchalance alla sciabola britannica ancora a terra, raccogliendola e rigirandomela in mano. Poi lanciai un’occhiata a Lee, ancora occupato a darsi una sciacquata. «Che ne dici di un po’ di pratica come si deve?» Sogghignai lucidando la lama.

Charles si voltò con ancora il viso bagnato, un paio di gocce colarono dalla punta del naso per poi schiantarsi a terra. «Perché no» allargò le braccia e riprese la propria sciabola, asciugandosi alla bell’e meglio la faccia con la manica sinistra, «non si nega a nessuno una possibilità.»

Mulinellai la spada roteando il polso, portandomi di fronte a lui senza distogliere gli occhi dai suoi. «Non credere che ci andrò leggero solo perché sei il mio allievo. Anzi, al contrario.»

«Lo spero, non ho bisogno di favoritismi.» Non gli lasciai concludere la frase e scattai in avanti, colpendo la sua guardia con una stoccata. Puntai a terra il piede destro e frenai, tentando un fendente e un tondo, e poi di nuovo una stoccata, seguita da un ridoppio. Non andò a segno neanche un colpo, e Charles mi obbligò ad indietreggiare provando un affondo. Lo parai e scattai di lato, portandomi sul suo fianco scoperto, ma non mi lasciò il tempo di attaccare che dovetti difendermi da un ridoppio da sinistra, uno sgualembro da destra e un fendente. Risposi con un tondo e un montante, entrambi parati, mentre il ragazzetto che poco prima si stava allenando con Charles ci fissava con gli occhi sgranati.

Schivai un fendente spostandomi a destra e con una falcata mi portai a mezzo metro da Lee, afferrandolo per la camicia e sbattendolo al muro. Il gomito sinistro a bloccargli il braccio con cui impugnava la spada, la gamba sinistra tra le sue, la coscia premuta contro l’inguine per non farlo muovere, la mano destra a bloccargli il polso sinistro contro la pietra grezza e fredda. «Ho vinto.»

Charles grugnì infastidito, dimenandosi per liberare almeno la mano disarmata. «Non ancora.» La voce era grave e tesa e aveva il fiatone. Una goccia di sudore gli colò lungo i favoriti, mentre il bicipite destro si gonfiava nel tentativo di contrastare la pressione del mio braccio.

Esercitai più forza e riattaccai il polso di Charles al muro, sorridendo compiaciuto. «Arrenditi.»

«Mai.» Scattò in avanti con il viso e indietreggiai prontamente prima che le nostre labbra si toccassero. Questo movimento gli consentì di liberare il polso sinistro, poi mi spinse via, tenendo la spada davanti al busto puntata contro di me per tenermi a distanza.

Ne approfittai per riprendere fiato, mentre l’orgoglio mi riempiva il petto. Ripensai al ragazzo che avevo allenato nel medesimo posto circa vent’anni prima, quello che dopo cinque parate doveva fermarsi per riposare, lo stesso che se sbagliava si scusava e che non riusciva quasi mai a contrattaccare. Lo avevo davanti a me, ma quella volta era un uomo perfettamente in grado di tenermi testa, di mettermi in difficoltà, se avessi abbassato la guardia. Addirittura sarebbe stato in grado di uccidermi, ne ero certo.

Mi sentii decisamente più leggero, sapevo che in caso di necessità avrebbe saputo difendersi senza problemi, ma testarlo in prima persona mi rassicurò definitivamente. Nel caso in cui Artemas avesse deciso di farla pagare a Lee, beh, avrebbe avuto pane per i suoi denti. E se gli fosse successo qualcosa?

Mi destai appena in tempo per vedere Charles prendere la rincorsa, saltare ed eseguire un’imboccata. Riuscii a mettere di piatto la spada e deviare il colpo, poi indietreggiai per evitare un affondo. Parai tre attacchi di fila e risposi con un tondo che Lee deviò facilmente, poi parai una stoccata seguita da uno sgualembro, lasciando il fianco sinistro scoperto. Fu un dettaglio che non sfuggì al mio pupillo, che si affrettò ad oltrepassare la mia guardia con un ridoppio. Non mi accorsi nemmeno che frenò bruscamente l’attacco, dandomi un colpetto sul fianco con la parte piatta della lama. Mi sorrise quando alzai lo sguardo su di lui e non riuscii a trattenermi, conficcai la sciabola a terra, sorrisi di rimando e gli afferrai una spalla, attirandolo a me e stringendolo forte.

La risposta mi fu chiara: se gli fosse successo qualcosa ne sarei morto. Poco ma sicuro.

Sentii gli occhi pungere quando Charles ricambiò la stretta con un braccio, dandomi poi una pacca sulla schiena e arpionandomi la camicia. Dio, quanto gli volevo bene.

Affondai il viso nell’incavo tra la spalla e il collo. «Sei stato bravo» sussurrai appena. Gli diedi una pacca sull’altra spalla per avvalorare le mie parole e lo immaginai mentre sorrideva orgoglioso.

«Haytham…» Mi voltai a sinistra e vidi Connor. Quando era entrato? Era pallido, un’espressione sconvolta ad occupargli il viso al posto di quella apatica e indifferente che solitamente aveva. Due occhiaie gli infossavano gli occhi, le spalle ricurve e deboli.

«Ragazzo, qual buon vento?» Sciolsi l’abbraccio con Charles e avanzai di qualche passo verso mio figlio, che mi fissava con aria stanca e stralunata. «Non hai un bell’aspetto, è successo qualcosa?»

«Ce l’ha lui» disse solamente. Lanciai un’occhiata a Charles, sperando che avesse capito qualcosa in più di me, ma anche lui fissava Connor con occhi sgranati.

«Chi ha cosa? Spiegati.» Deglutì sfregandosi il braccio destro con la mano sinistra, poi prese fiato.

«Achille. Ha la mela e l’ha usata contro di me.»

 

 

Salve a tutti, lol.

Ebbene sì, è proprio come pensate –nel caso steste pensando la cosa giusta, ewe-. Connor non era e non è pazzo. Su, almeno stavolta che non sono in ritardo clamoroso non la tiro per le lunghe, grazie come sempre a chi legge e un biscottino caldo a chi recensisce, aaww, vi adoroh (?).

A lunedì prossimo! :3

 

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Capitolo 32
*** Schiavo del profitto. ***


Capitolo 32

«Achille ha sempre avuto la Mela?!» Intervenne Charles. Sembrava quasi più sconvolto di me, e diavolo, ripensando a tutto quello che era successo, sarei dovuto arrivarci prima. «Ne sei certo?»

«» Connor abbassò lo sguardo, mentre la mano destra si infilava nella tunica bianca e tirava fuori il mio diario. Non gli lasciai il tempo di dire nulla che glielo strappai di mano, gli occhi ridotti a due fessure e le labbra serrate. «Quella volta... Quando eri venuto alla Tenuta per riprenderlo e io... Insomma, hai capito» sospirò, «non è stata colpa mia. Non volevo farti del male.»

Posai il quaderno nella solita tasca interna della redingote e lo fissai in silenzio, indeciso se credergli o no. In effetti quella volta aveva avuto uno sbalzo d'umore non indifferente, e solitamente il ragazzo non era così. Poteva anche essere una spiegazione plausibile, ma perché arrivare a tanto? Perché usare un oggetto potente come la Mela per plagiare un ragazzino come Connor? Perché parliamoci chiaro, qualsiasi cosa gli avesse detto Achille, mio figlio gli avrebbe creduto. Gli Assassini avrebbero potuto sostenere che le acque dei mari fossero dolci, e con molte probabilità lui sarebbe stato d'accordo. Doveva esserci sotto dell'altro. Per forza.

«No, aspetta, vediamo se ho capito bene» Charles parlò ancora, passandosi una mano tra i capelli ancora umidi e tirandoli indietro. «Achille ha la Mela da chissà quanto tempo e l'ha usata sul suo unico allievo e membro attivo della Confraternita?» Ridacchiò. «È assurdo!»

Connor sospirò. «Non lo è» lo guardammo incuriositi mentre si passava due dita sugli occhi. «Vorrebbe che vi uccidessi.»

Sbuffai. «Smettila di dire frase per frase, fa' un discorso, spiegati.»

Il ragazzo guardò prima Charles, poi me. «Il mio unico obiettivo è sempre stato quello di uccidervi. Tutti e due.»

«Quale onore.» Ironizzò Lee, beccandosi una gomitata nelle costole dal sottoscritto.

«Ma da quando abbiamo iniziato a collaborare ho visto dei risultati, sono convinto che lavorando insieme riusciremo a vincere la guerra e a liberare queste terre, però Achille non è d'accordo. Continua a ripetermi che se e quando batteremo gli Inglesi, dovrete morire comunque.»

«E hai intenzione di farlo, ragazzo?» Sogghignò Charles.

«Non lo so» replicò guardandolo negli occhi, «dipende dai piani che avrete in mente, se saranno nocivi per la popolazione state pur certi che non resterò a guardare»

Charles schioccò la lingua contro il palato, affondando le mani nelle tasche dei calzoni. «Sarà sicuramente così, raramente le nostre filosofie di pensiero coincidono.» Connor si prese qualche secondo per trovare le parole più adatte, quindi mi guardò.

«Haytham, sai quanto me che questa lotta è stupida. Non voglio perdere tempo a combattere su due fronti, e so che lo vuoi anche tu.» Alzai un sopracciglio. Mi stava proponendo una tregua? Connor voleva la pace tra Assassini e Templari? Forse leggere di straforo il mio diario gli aveva schiarito le idee.

Raddrizzai la schiena, la mani giunte sotto il mantello come ero solito fare. «È da anni che propongo questa soluzione alla Confraternita, ma nessuno di loro ha mai accettato. Achille per primo.» Abbassò lo sguardo, colpevole, sentendo gravare sulle spalle il senso di colpa nell'aver difeso il suo Mentore senza che lui lo meritasse. «Sarei contraddittorio se ora rifiutassi, dopotutto sono stato io il primo a proporti di collaborare, quindi sì, hai ragione, questo combatterci continuamente è inutile. Ma per lavorare insieme come si deve dovrete impegnarvi come quando ero in Europa. Ciò significa stare a delle condizioni.» Guardai sia Lee sia il ragazzo, sperando fossero disposti a cooperare. «Significa niente battibecchi inutili, niente litigi, niente discorsi sulle ideologie, sulla Confraternita o altro che non c'entri con i nostri compiti» mi rivolsi a Charles, che acconsentì in silenzio mostrando i palmi delle mani.

«E sia.»

«E significa anche niente minacce di morte, niente ripensamenti o ritirate, né tradimenti di alcun genere. Mi sono spiegato?» Stavolta guardai Connor, che annuì senza dire una parola. «Bene, allora. Possiamo entrare» senza perdere altro tempo voltai le spalle a entrambi e attraversai il piazzale, dirigendomi verso Jenny, a braccia conserte, ancora sulla soglia.

La affiancai attendendo che il ragazzo e Lee ci raggiungessero, e quando Charles fu abbastanza vicino, mia sorella gli gettò le braccia al collo. «Sei stato bravissimo» cinguettò per poi schioccargli un bacio appiccicoso sulle labbra. Lui sorrise di rimando, solleticandole una guancia con le dita e scostandole una ciocca di capelli dal viso.

Dio, non ero ancora abituato a vederli in quei termini, e forse mai lo sarei stato. Insomma, stavamo parlando di Jennifer Scott, la donna più dispotica e acida che avessi mai conosciuto, e di Charles Lee, l'uomo che aveva attenzione solo per l'esercito, l’onore e l'Ordine Templare, che desiderava combattere più di qualsiasi altra cosa e che si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che tradire i suoi compagni. Erano decisamente una coppia strana.

Charles le posò una mano sul fianco destro, avvicinandola a sé. «Di che parli?»

«Dell'allenamento. Ti ho visto dalla finestra» appoggiò entrambi i palmi sui pettorali sudati di Lee, coperti dal tessuto sottile della camicia, «e poi hai battuto mio fratello» mi guardarono entrambi, avevo le guance in fiamme.

Mi schiarii la gola e li fissai accigliato. «Non c'è da stupirsi che sia bravo, l'ho addestrato personalmente» perdere non mi era mai sembrato tanto rincuorante. Già immaginavo il mio allievo prediletto combattere contro cinque uomini armati e, Dio, dovetti fare uno sforzo enorme per non immaginarmelo infilzato come un pezzo di carne da macello. Rabbrividii. No, se la sarebbe cavata egregiamente. Deglutii a fatica e sbattei un paio di volte le palpebre, Charles era lì, vivo e vegeto a flirtare con mia sorella. Dovevo stare tranquillo.

Notai che Connor era rimasto fermo sulla soglia, forse imbarazzato per gli atteggiamenti un po’ troppo intimi e confidenziali dei due innamorati, quindi appoggiai pesantemente una mano a metà tra la nuca e il collo di Charles, facendolo sobbalzare come un bambino. «Basta con queste smancerie inutili» mollai Lee, avvicinandomi al ragazzo, «potrebbe fare domande inopportune e non ho voglia di spiegargli com’è venuto al mondo. Su, entra, non startene lì impalato.» Lo afferrai per il braccio muscoloso avvolto nella tunica bianca e lo tirai dentro. Salimmo al primo piano, accomodandoci nella sala principale di Fort George per bere un bicchiere di vino e per una volta presi posto vicino a mio figlio. Dovevo capire come aveva fatto Achille ad essere in possesso della Mela e, cosa più importante, perché usarla su Connor.

«Sa che sei qui?» Chiesi guardandolo. Lui serrò la mascella e deglutì.

«No. Gli ho detto che sarei andato da Washington, non credo neanche che sappia che me ne sono accorto, ma io l’ho visto. Se ne stava chiuso nella sua stanza a contemplarla, lanciava fasci di luce dorati e…» si coprì il viso con le mani «io credevo che chi la usasse perdesse la ragione, ma lui non è impazzito, cerca solo di convincermi ad uccidervi.»

Jenny riempì tre bicchieri di vino, sedendosi poi vicino a Charles e dandogli un bacio innocente all’angolo della bocca. Gesù.

Scossi la testa e afferrai un calice per distrarmi, concentrandomi di nuovo su Achille.

«Quindi che intenzioni hai?»

Sospirò. «Devo prenderla» mi scoccò un’occhiata, «ma non la darò a te, sarebbe ancora peggio.»

Risi sommessamente. Dio, era ancora convinto che mi servisse la Mela per mandare avanti l’Ordine? «Non ne ho bisogno, credi seriamente che la userei per soggiogare le persone? Diavolo, non hai ancora capito niente.» Fece per rispondermi, ma un paio di colpi alla porta gli fecero morire le parole in gola.

«Scusate l’interruzione» una delle guardie di Fort George fece capolino sulla soglia della sala principale, «un certo Artemas Ward chiede di voi, generale Lee.» Lanciai un'occhiata a Charles, che aveva smesso di ondeggiare il calice pieno di vino fino a metà.

Era sbiancato, ma aveva serrato la mascella per darsi un minimo di contegno. «Arrivo subito» posò con cura il bicchiere sul tavolo e si alzò deglutendo. Scattai in piedi anch'io, pronto a seguirlo, venendo imitato da Jennifer.

«Che succede?»

«Nulla di grave, è solo un colloquio» minimizzò Charles, che ostentando sicurezza era uscito dalla stanza per imboccare le scale. Uscimmo anche noi, e mentre lo seguivamo nel piazzale, verso il cancello, pensai che forse avrei dovuto escogitare un piano per togliere di mezzo anche Ward.

Jenny mi afferrò il braccio destro, costringendomi a rallentare. «Che diavolo succede? Cosa vogliono da Charles? Non mentirmi.» Era preoccupata quanto me, con la differenza che io riuscivo a nasconderlo piuttosto bene. Dovevo farlo per lui, per non destare sospetti.

«Non lo so, probabilmente dovranno discutere sulla prossima tattica militare da usare. Charles è pur sempre un generale» mentii. Mentii spudoratamente e il cuore prese a battere forte contro la cassa toracica. E se avevo sperato che al Congresso Artemas avesse bleffato per intimidirci, beh, avrei dovuto rimangiarmi tutto. Faceva sul serio. Era seriamente convinto di scoprire qualcosa su Washington da noi?

In quel momento affiancammo Charles, che fissava Ward con una calma innaturale.

«Vedo che stai sempre in compagnia» mi scoccò un'occhiata derisoria, poi tornò a guardare Lee, «non avevi il coraggio di fare una chiacchierata da solo con me?»

Sentendomi tirato in causa alzai le mani in segno di resa ed indietreggiai di due passi. «Come desideri» sogghignai, «ero solo curioso di sentire quello che avevi da dire, e dato che fino a prova contraria sei tu quello che si è scomodato venendo da noi, credo di avere tutto il diritto di assistere.» Non rispose, limitandosi a fissarmi con odio. Attendevo una reazione, una qualsiasi per avere la scusa di cacciarlo a calci in culo, ma non era stupido. Ingoiò la mia provocazione, tornando poi a dare attenzione a Charles.

«Immagino tu sappia perché sono qui, vero?»

«No, ad essere sincero.»

«Non prendermi per il culo, stronzetto» trattenni a stento una risata. Dio, gli parlava come se Charles avesse vent'anni.

Lee non si scompose.«Smettila di fare l'arrogante e parla. Perché sei qui?»

Artemas lo afferrò con una mano per il bavero della giacca, strattonandolo malamente. «Lo sai perfettamente visto che è colpa tua. Credevi davvero che nessuno avrebbe sospettato di te? Traditore!»

Charles si tolse la mano di dosso, spingendo Ward e facendolo arretrare di un passo, poi sbottò indignato. «Traditore? Io?!»

Gli puntò contro un dito con fare accusatorio. «Hai ucciso George Washington!»

«Cosa?!»

Fa' qualcosa. Intervieni, inventa una scusa, una qualsiasi, ma fa' qualcosa.

«Fermi un momento!» Ci voltammo tutti verso Jenny, che con faccia tosta si era fatta avanti per dividere Lee e Artemas. «Con che prove state accusando Charles di omicidio?» Le mani sui fianchi, i gomiti in fuori e la voce agguerrita.

Ward rise sommessamente, indeciso se essere divertito per la banalità della domanda o per il fatto che Charles avesse bisogno di essere difeso da una donna. O forse per entrambe le cose. La squadrò da capo a piedi, scoccando poi un'occhiata d'intesa al collega. «Quindi è lei che ti scalda il letto?» Jennifer ignorò il commento, a differenza di Lee che aveva serrato i pugni, le braccia tese lungo i fianchi. «E tu lo scaldi a lui» guardò me.

Lo conoscevo abbastanza bene da prevedere una reazione tutt'altro che tranquilla. «Sta' zitto, Artemas. Non c'entro niente con George, l'ho scoperto adesso. Quand'è successo?»

Ward scoppiò a ridere. «Charles, per favore. Non rendere le cose più difficili, ammettilo e basta, sanno tutti quanto odiassi George Washington per averti sottratto il ruolo di comandante. Speravi davvero che ti sarebbe bastato ucciderlo per essere nominato come sostituto? Tu?, un traditore?»

«Non sono un traditore» sibilò tra i denti, gli occhi ridotti a due fessure, «ho fatto molto più di quello che credi per questo paese, ho salvato centinaia di uomini destinati a morire se solo avessi eseguito gli ordini di George e ho subìto in silenzio due ore di richiamo per insubordinazione! Tutto per vincere la guerra, e non ammetto che tu venga qui ad accusarmi del suo omicidio solo perché non gli ho leccato il culo come hai fatto tu.» Fece appena in tempo a concludere la frase prima di incassare un pugno sul naso. Jenny si portò le mani alle labbra mentre istintivamente mi allungai per afferrarlo. Charles riuscì a mantenere l'equilibrio, ruotando su un piede e bilanciando il peso con le braccia. Sanguinava dal naso, ma non sembrava nulla di grave.

«Come osate?!» Jenny si lanciò contro Artemas, tempestandogli il petto di pugni. «Come osate alzare le vostre luride mani su Charles?»

«Tutto bene?» Gli domandai.

Lui annuì, portando una mano sotto le narici e macchiandosi immediatamente di sangue. «Ah, cristo» strinse le dita pulite alla base del naso per bloccare il flusso, poi si voltò verso Ward, fissandolo con astio.

Nel vedere il volto di Lee imbrattato di rosso dal naso in giù, Jenny sbiancò. «Santo cielo, stai perdendo sangue!» Gli si avvicinò preoccupata. «Non te l’avrà rotto, spero!» Gli accarezzò una guancia per calmarlo, facendola poi scivolare sul petto.

«No, non è niente» tagliò corto Charles senza neanche guardarla, troppo impegnato a fissare Artemas. Oh, Dio, speravo di sbagliarmi. Conoscevo bene quell’atteggiamento, non prevedevo nulla di buono.

«Ve lo ripeto!» Strillò Jennifer «Non potete venire qui e accusare Charles senza prove. È a Fort George da una settimana intera, non può essere stato lui!» La guardai sorpreso. Lei non sapeva. Non sapeva niente né della nostra guerra personale con Washington né delle minacce di Ward, non sapeva che Lee era in minima parte colpevole, eppure aveva reagito come era nei miei piani. L’aveva difeso senza neanche porsi il problema di essere in errore.

Avrei dovuto avvertire subito le guardie di dire a chiunque l’avesse chiesto che Charles non usciva dalle mura da giorni, ma la stanchezza aveva preso il sopravvento. E a dirla tutta non avevo preso in considerazione che Artemas, venuto a conoscenza della morte di George, si sarebbe precipitato qui per chiedere spiegazioni. Avevo sperato in almeno un giorno di tempo.

Ward sorrise sarcastico in direzione di Jennifer. «Che valore può avere detto dalla sua concubina?» Oh, Dio, ci teneva sul serio a perdere un paio di denti.
Charles non sopportò oltre, come temevo. Con due falcate raggiunse il compagno d’armi e lo prese per il bavero con entrambe le mani, per poi affondargli un calcio in pieno ventre, all’altezza dello stomaco.
«Ripetilo e t’ammazzo!» Ebbi la prontezza di afferrarlo per le braccia e trattenerlo prima che continuasse ad infierire sul collega, piegato in due a terra. «Parola mia che lo faccio se non te ne vai in questo istante!»

«Charles! Calmati!» Non mi sentì nemmeno, sgomitando e agitandosi per liberarsi. Esercitai più pressione e gli unii i gomiti dietro la schiena, poi lo attirai a me, tentando di tenerlo fermo. «Non fare cose di cui potresti pentirti» gli sussurrai in un orecchio.

«Lasciami, Haytham, ho detto lasciami!» Senza rendermene conto allentai la presa, stupito dal fatto che per la prima volta mi avesse chiamato per nome e non con quegli inutili appellativi ossequiosi.

Lee si accorse che avevo involontariamente diminuito la forza e tentò di sgusciare via, ma lo trattenni, mentre Ward si rialzava tossicchiando. «Non finisce qui, Lee. Non credere di passarla liscia solo perché non ci sono prove, sospettano tutti di te!» Sabotai il suo ultimo tentativo di liberarsi, tirando un sospiro di sollievo quando Artemas varcò la soglia di Fort George e sparì dietro le mura. Solo quando fui certo che fosse abbastanza lontano mollai Charles, che tornato lucido, si passò una mano sul viso. Prendere a calci un generale non era come uccidere il comandane in capo, però avrebbe potuto causargli problemi non indifferenti.

Si passò ancora una volta le dita tra i capelli, poi sospirò, suppongo maledicendosi per aver reagito d’impulso. Gli diedi una pacca sulla spalla sinistra e non so con quale coraggio riuscii a guardarlo in faccia. Era solo colpa mia, cristo. Perché per una volta non poteva andare tutto liscio?

Jenny lo abbracciò, affondando il viso nella camicia bianca di Lee che, teso in viso, si limitò a deglutire. «Che facciamo ora? Perché accusano Charles?» Piagnucolò guardandomi da sopra la spalla del mio allievo. Bene. Ora devi confessarle tutto, coraggio. Dio, perché la temevo così tanto? Cos’avrebbe potuto farmi? Nulla, ma forse quello che mi spaventava di più era ciò che avrebbe pensato di me, e ad essere onesti mi bastava già la considerazione che avevo di me stesso. Ero stato egoista, d’accordo? Ne ero consapevole. Ed ero stato un bastardo senza scrupoli a non aver ammesso tutto davanti ad Artemas. Avrei scagionato Lee, ma mi avrebbero impiccato senza neanche un processo. Onestamente preferivo aspettare, lasciando la confessione come ultima spiaggia.

«Niente. Cosa vorresti fare? Armarti di fucile e correre dietro a quell’imbecille? Smettila di parlare di cose che non conosci.»

Mi si avvicinò minacciosa, staccandosi da Charles in mezzo secondo. «Ho tutto il diritto di dire la mia, e mi stupisco del fatto che tu non abbia aperto bocca davanti a una tale calunnia! È così che proteggi i tuoi sottoposti? Sei o non sei il Gran Maestro? Assumiti le tue responsabilità, Haytham!» Serrai le labbra lanciando un’occhiata a Charles, che teneva gli occhi bassi. Forse anche lui si sarebbe aspettato un intervento da parte mia, anche solo una parola.

«Le mie responsabilità non sono affar tuo, è chiaro?»

«E allora perché non l’hai difeso?»

«Perché sono stato io ad uccidere Washington, ora sei soddisfatta?»

 

Toh, una volta ogni tanto riesco ad aggiornare ad orari normali –non fateci l’abitudine, lo dico per voi, lol-
Non voglio dilungarmi in commenti perché credo sia palese da che parte stia, vero? Suppongo di sì. Ormai sono ripetitiva, ma va beh: grazie come sempre a chi legge e recensisce, vi adoroh (?).
A lunedì prossimo c:

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Capitolo 33
*** I'm not ready to die. ***


Capitolo 33

Haytham e Jennifer discussero per qualche minuto, ed io preferii chiudermi nella mia stanza per riflettere sulle probabili conseguenze delle mie azioni. Non si erano neanche accorti della mia assenza, troppo impegnati a darsi addosso, Jenny a colpirgli il petto, lui a ignorarla. Non volevo vederli litigare per colpa mia.

Uccidere Washington era stata la cosa giusta da fare per l'Ordine e per le colonie. La mia carriera, e la mia vita, dovevano passare in secondo piano. E suppongo fosse giusto così. Cristo, però, colpire Artemas in quel modo mi avrebbe causato grattacapi, poco ma sicuro. Forse mi avrebbero sospeso dal servizio per un paio di mesi, e tutto sommato sarebbe stata la cosa meno grave.

Me ne stavo seduto sul bordo del letto da mezz'ora, le mani nei capelli e l'ansia nel petto. Non avevo poi tanta paura della morte in sé, temevo di soffrire. Che mi giustiziassero pure se fosse servito a vendicare George, l'avrei accettato con onore e coraggio, chiedevo solo di andarmene velocemente. Un colpo di pistola in testa, per esempio. Mi sarebbe andato bene. Ah, cazzo, perché dovevo morire per forza? Me la sarei cavata in qualche modo. E poi Haytham continuava a ripetere che si sarebbe occupato lui di tutto, dovevo fidarmi, in fondo l’aveva sempre fatto.

Jenny aprì la porta ed entrò piano, raggiungendo il letto con passo felpato. Non mi mossi, continuando a darle le spalle, troppo preso da altri pensieri, poi sentii il materasso abbassarsi e cigolare sotto il suo peso.

Finché si fosse trattato della mia incolumità mi sarebbe andato anche bene. Certo, la paura c'era, morire non era una mia priorità, ma avevo coinvolto Jennifer. Se le fosse capitato qualcosa non me lo sarei mai perdonato. Insomma, dovevo proteggerla, avrei dovuto darle la sicurezza che ogni uomo deve assicurare alla propria donna, ed io non ne ero stato in grado. Con che coraggio avrei potuto guardarla ancora negli occhi? Strinsi l'indice e il pollice alla base del naso quando un tocco leggero mi fece salire un brivido dall'osso sacro fino al collo, le dita lisce di Jenny ad accarezzarmi la schiena, coperta solo dalla camicia. «Sta' tranquillo» appoggiò entrambi i palmi sulla stoffa, facendoli poi scivolare verso l'alto, fino alle spalle. Strinse dolcemente, iniziando a massaggiare i muscoli tesi e indolenziti e Dio, aveva la capacità di farmi dimenticare tutto ciò che di male poteva accadermi.

Fece scricchiolare un paio di vertebre sotto la pressione dei pollici ed io chiusi gli occhi, lasciandomi cullare dal suo tocco leggero ma deciso. Dio, quanto l'amavo.

... Quanto la amavo? Tanto. Troppo. Le mani di Jennifer scivolarono piano in avanti, sul petto. Armeggiarono un po' con i primi bottoni e poi si intrufolarono oltre la stoffa, accarezzando delicatamente la carne.

Mi leccai le labbra e abbandonai la testa all'indietro, sulla sua spalla, la bocca leggermente dischiusa per prendere quanto più ossigeno possibile. «Levala» mugolò languida, il suo fiato caldo nell'orecchio e le sue dita sui capezzoli. Sospirai mentre scendeva sugli addominali, chiudendo gli occhi e beandomi del suo tocco lento e amorevole. Sbottonai frettolosamente la camicia con le dita tremolanti, il cuore a mille e un principio di erezione tra le gambe. Cristo, il formicolio più piacevole del mondo. Prese a lasciarmi piccoli baci sul collo, prima dietro la nuca, poi più giù, sulle vertebre, e poi di lato, poco sotto l'orecchio.

Mi girò il viso verso sinistra, il palmo interamente appoggiato sulla guancia, e mi baciò piano sulle labbra, quasi temesse che quel lieve contatto potesse infastidirmi. Invece era tutto quello che potessi desiderare, riusciva ad annebbiarmi il cervello con uno sguardo. Avrebbero potuto impiccarmi il giorno dopo, non me ne sarebbe importato niente. Ero lì, con lei, e mi bastava. Con un colpo di reni girai il busto verso di lei, salendo sul letto con una gamba e ricambiando e approfondendo il bacio. Inspirai il suo profumo a pieni polmoni, era fresco e buono. Jenny si staccò dalla mia bocca con uno schiocco, sorridendo e tirandomi per il colletto della camicia verso il centro del letto. Gattonai seguendola mentre si sdraiava, sovrastandola e cercando ancora le sue labbra calde e morbide, mentre mentalmente ringraziavo Dio, il destino o chiunque avesse deciso di farmela incontrare. Le mordicchiai il labbro inferiore e la mano destra scese curiosa lungo il suo fianco sinistro, soffermandosi sulla natica.

L'amavo più della mia vita, quello era sicuro, e mentre pensavo di essere l'uomo più fortunato del mondo, Jennifer mi graffiò piano il collo. Insinuò con un po' di fatica le dita tra i capelli stretti nel nastro, grattando la cute, ed io sorrisi contro le sue labbra.

Ti amo. Avrei voluto dirglielo, giuro, ma preferivo usare il poco fiato che avevo in corpo per riempire i polmoni. E comunque si capiva, no? Era chiaro che fossi innamorato perso di lei da quando mise piede qui, a Fort George, e ogni giorno cercavo di dimostrarle quanto fosse importante, quanto mi riempisse il cuore il solo pensiero che qualcuno mi aspettasse la sera, o quanto calore potesse darmi dormendo accanto a me. Dio, quante volte ero rimasto sveglio per guardarla mentre sognava?

Ricordo che una notte non riuscivo a prendere sonno, mi ero messo a ripensare a mio padre e alla sua ambizione per me, a quando mi ripeteva che un giorno sarei diventato un grande soldato, un generale, uno di quelli rispettati, pieno di responsabilità e medaglie sul petto. E lo ero diventato sul serio, diamine, nessuno poteva immaginare quanta fatica mi fosse costata, ma ne era valsa davvero la pena? Sarei stato ricordato per le vittorie, ma rischiavo ogni giorno la vita. Facevo preoccupare le persone che mi stavano accanto e Jenny non meritava di aspettarmi ogni santa sera con l'ansia di non rivedermi più. O peggio ancora, non volevo partire per la guerra lasciandola sola, magari con un figlio, mentre io sarei stato chissà dove ad uccidere altri padri. O a morire senza che lei lo sapesse. Ricordo che un brivido mi aveva attraversato la schiena in mezzo secondo, e con il pollice avevo iniziato a ruotare l'anello che avevo all'anulare destro, ripensando a quando il Gran Maestro mi aveva ufficialmente nominato un suo fratello. Anche se non fossi stato un soldato avrei rischiato lo stesso. Ero membro dell'Ordine, non avrei potuto abbandonare la causa neanche volendo. Senza contare che se avessi chiesto ad Haytham di farmi lasciare i Templari perché non volevo far soffrire sua sorella, mi avrebbe schiaffeggiato senza troppe cerimonie. Soffocai una risata, immaginando il suo palmo aperto colpirmi in pieno viso. Sì, l'avrebbe fatto davvero.

Mi ero girato di nuovo per guardarla, gli occhi chiusi e un'espressione serena, e d'istinto le avevo accarezzato una guancia. Sorrise nel sonno, e capii che avrei dovuto godermi ogni attimo insieme a lei. Soldato o no, Templare o meno, se fossi dovuto morire non sarebbe dipeso da me. Dovevo ringraziare per aver trovato una donna come lei senza perdere tempo a domandarmi cosa fosse giusto o no. Jenny si staccò con uno schiocco per riprendere fiato, riportandomi alla realtà. Strinse le dita ancora intrecciate tra i miei capelli, passandomi l'altra mano sulla guancia, accarezzando la barba. Era la cosa più bella che avessi visto. Mi sorrise dolcemente, avvicinandosi ancora e poggiando di nuovo le labbra sulle mie. Il respiro pesante di entrambi e il dolore tra le gambe mi stavano mandando fuori di testa, e stavolta interruppi io il contatto, bramando il suo collo candido e morbido. Presi a baciarla piano per paura di darle noia con i baffi, e lentamente scesi giù, verso il petto che si alzava e abbassava ad un ritmo veloce e costante. Strinsi tra i denti il laccio del corsetto e tirai, sciogliendo il nodo e allenando l'indumento. Le lanciai un'occhiata mentre intrufolavo l'indice per aprire definitivamente il vestito, e sorrisi notando il rossore che le imporporava le gote. Con uno strattone più deciso le scoprii il petto, abbassandomi di nuovo per baciarla all'attaccatura del seno. Inspirai il suo profumo e scesi giù con la bocca, godendomi i suoi sospiri mentre le succhiavo e leccavo il capezzolo destro.

Un paio di manate sorde contro la porta mi bloccarono il respiro. «Charles? Non voglio assistere allo spettacolo dell'ultima volta, qualsiasi cosa tu stia facendo interrompila ed esci.» Ascoltai Haytham con gli occhi puntati in quelli di Jennifer, ancora accaldata e invasa dal desiderio. Mi tirai su rapidamente, abbottonandomi la camicia.

La guardai di nuovo mentre si metteva seduta, la schiena contro il cuscino e le gambe piegate di lato. «Non farlo aspettare, o chi lo sente poi» mi sorrise complice, dandomi poi un altro innocente bacio sulle labbra.

Quando aprii la porta trovai Mastro Kenway di spalle, le mani unite dietro la schiena e lo sguardo perso oltre la finestra, attirato da chissà cosa. «Alla buon'ora» si girò, evitando appositamente di abbassare lo sguardo per non notare il rigonfiamento, seppur lieve, che avevo nei calzoni. Dio, sarebbe stato imbarazzante.

«È successo qualcosa?» Domandai preoccupato. E irritato, d’accordo, ma non lo diedi a vedere. Dopotutto se mi aveva cercato con tanta urgenza, un motivo doveva pur esserci.

Lui annuì, avvicinandosi di due passi. «Domani il Congresso si riunirà per nominare il sostituto di George Washington, hai intenzione di presentarti?» Cristo santo. Il sogno di una vita. Se mio padre fosse stato ancora vivo probabilmente si sarebbe messo a piangere dalla gioia.

Guardai Haytham senza sapere che dire. In realtà sapevo già che risposta dare, ma temevo che presentarsi e aspettare che mi incaricassero di guidare l’esercito come nulla fosse avrebbe dato a Ward un ulteriore motivo per sospettare di me. «Certo che sì, non vorrei mai sprecare un’occasione del genere.» Al diavolo Artemas e al diavolo Washington. Avevo passato una vita nell’esercito solo per quello, non avrei permesso a nessuno di sottrarmi un ruolo che mi spettava di diritto.

«Molto bene» fece per andarsene, ma si bloccò lanciandomi un’occhiata con la coda dell’occhio «e pulisciti quel naso. Sei ancora sporco di sangue.»

 

 

Ancora una volta ad orari improponibili, ma va beh, sorvoliamo, ewe.

Vi sto confondendo? Perché Charles passa da scene palesemente yaoi con Haytham al macho virile che ama Jenny e bla bla. Scegliete quella che vi piace di più, l’importante è shippare Charlie con qualcuno, aaw.

Graaazie come sempre a chi legge e un biscotto a chi recensisce. A presto :3

 

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Capitolo 34
*** Looking to the future. ***


Capitolo 34

Il tizio imparruccato che stavo fissando da mezz’ora si decise finalmente a parlare, spiegando il foglio che aveva in mano e leggendo ciò che vi era scritto dopo un leggero colpo di tosse. «Signori, vi comunico che a fronte della disgrazia appena avvenuta che ha lasciato il nostro esercito temporaneamente senza comandante, il Consiglio si è riunito urgentemente per nominare un sostituto, il quale ricoprirà il ruolo seduta stante date le gravi condizioni in cui vertono i soldati che con coraggio e onore difendono queste terre.» Lanciai un’occhiata a Charles, che per l’ansia stava torturando la tovaglia di velluto del tavolo cui eravamo seduti.

Sapevamo tutti a chi sarebbe passato il comando, ma l’agitazione c’era lo stesso. Temevo quell’un percento di possibilità che Artemas, o chi per lui, soffiasse il posto a Lee per l’ennesima volta, ma in cuor mio sapevo che quella sarebbe stata la volta buona.

Dopo una breve pausa l’uomo tornò a guardare i presenti. «Il generale Charles Lee, seppur di origini britanniche, è chiamato al comando poiché ritenuto dall’ottantasei percento il più idoneo a sostituire George Washington, deceduto per cause ancora sconosciute, e a guidare l’esercito alla vittoria.» Lo guardai mentre serrava la mascella in uno scatto istintivo che mi ricordò tanto l’Haytham Kenway spensierato che viveva a Londra, che reagiva nello stesso modo quando Edith, una delle mie bambinaie, si accorgeva dei danni in giardino causati dall’irrefrenabile voglia di esplorare. Lo stesso Haytham il cui unico pensiero era quello di disporre i soldatini al centro del corridoio, davanti alla stanza dei giochi, nell’attesa dell’allenamento pomeridiano.

Sorrisi appena. Charles meritava quel posto più di chiunque altro, aveva le capacità e l’impegno adatti per poter vincere la guerra e solo Dio sa quanto fossi orgoglioso di lui in quel momento. C’è forse qualcosa di più bello che vedere il proprio figlio realizzare un sogno? Mi scoppiava il cuore.

Diedi una lieve gomitata a Lee, ancora incredulo per ciò che aveva sentito, destandolo e facendolo alzare scattando come una molla. Con passo deciso si avvicinò all’uomo che l’aveva appena proclamato comandante in capo, quindi gli strinse la mano con vigore.

«Buona fortuna, comandante.»

Lui sorrise di rimando. «Grazie, anche se non credo molto a questo genere di cose.» Già. Charles era un tipo più pragmatico. Non credeva al fato, al destino o stronzate simili. Ciò che accade è una conseguenza diretta delle nostre azioni, avevo perso il conto di quante volte gliel’avessi sentito dire.

Un colpo sordo alla mia destra mi fece voltare verso il tavolo accanto, scorgendo Connor e Adams seduti poco distante. Il volto di Samuel era teso ma rassegnato, come se si aspettasse da un momento all’altro l’ascesa di Charles. Il ragazzo, invece, tratteneva a stento l’ira. Se avesse potuto uccidere Lee con la sola forza del pensiero, beh, state pur certi che il mio pupillo sarebbe affogato nel suo stesso sangue in quel preciso istante.

Scostai lo sguardo da quei due imbecilli con disinvoltura, tornando a fissare Charles che, a turno, stava stringendo la mano a chi gli aveva dato fiducia. Con la coda dell’occhio intravidi Artemas, sulla destra, leggermente più avanti rispetto a me e Connor, notando un’espressione poco rassicurante anche sul suo viso. Ci mise qualche secondo per scorgermi tra gli astanti, interrompendo il discorso, che non riuscii a cogliere, che stava facendo con il tizio che non conoscevo seduto accanto a lui. Sicuramente si trattava di pettegolezzi su Charles e sulla misteriosa morte di Washington, ma poco m’importava. Non avrebbe potuto fare piazzate, non davanti a tutta quella gente, almeno.

Mi alzai istintivamente quando vidi Ward e il suo amico allontanarsi dal tavolo e aspettare che Lee fosse libero da tutte quelle formalità inutili.

L’intenzione era quella di imitarli e raggiungere Charles insieme a loro, ma Connor si avvicinò con poche falcate, sbattendo un pugno sul tavolo e attirando l’attenzione dei pochi lì intorno. «Scommetto che ci siete voi due dietro a queste cause sconosciute, non è così?» Sibilò. Ignorai il tono acido e la voce strozzata, concentrandomi più che altro sul dolore che dovesse provare per aver perso la sua nuova mamma adottiva. E se avevo sperato di provare un minimo di compassione facendo leva su un dettaglio del genere, dovetti ricredermi subito.

Adams lo raggiunse con calma, le braccia lungo i fianchi e la schiena dritta.

«Se ti riferisci alla morte di George, temo di doverti deludere. Io e Charles non ci siamo mossi da New York per una settimana» e nessuna prova può dimostrare il contrario, caro ragazzo mio.

«Potresti aver assoldato qualcuno, è pieno di gentaglia pronta ad intascare il tuo denaro per fare il lavoro sporco al posto tuo.»

Risi appena, soffiando aria attraverso le labbra leggermente dischiuse. «Vero, ma non è questo il caso.» Vidi Lee tornare verso di me e giunsi le mani dietro la schiena, intenzionato più che mai a stroncare quell’assurdo discorso.

«Congratulazioni, Charles.» Artemas e l’altro tizio spuntarono da dietro Samuel, e Ward gettò un braccio intorno alle spalle del mio pupillo. «Sei contento? Finalmente hai ottenuto quello che volevi, così non romperai più il cazzo a nessuno.» Lo strinse a sé, intrappolandogli il collo nell’incavo del gomito e sorridendogli beffardo. I denti scoperti come un cane affamato, pronto a banchettare al primo passo falso di Lee.

«Già. Ricordati che io non sono come Washington, non ho bisogno delle tue visite notturne, d’accordo? Preferisco dormire da solo.» Replicò senza scomporsi e sfoderando un sorriso di circostanza.

Artemas rise, sorvolando sulla frecciatina di Charles e scoccando un’occhiata all’amico. «Ma sentilo, Philip, gli piace scherzare» tornò quindi a guardare Lee, schioccando la lingua contro il palato. «Beh, buona fortuna. Dopo tanta fatica goditi il freddo di Valley Forge, ti si congeleranno le palle dopo mezz’ora, ti avverto.»

«Lo so, non è la prima volta che ci vado.» Rise di nuovo, poi mi lanciò un’occhiata divertita e si allontanò non prima di aver lasciato una pacca a mano aperta sulla schiena di Lee. Li osservai fino a che non sparirono oltre la soglia della stanza, poi tornai a guardare Connor, che intanto si era avvicinato al mio allievo con fare minaccioso. Nel giro di un secondo lo afferrò per il bavero con poca grazia, avvicinandoselo e facendolo sbattere contro il bordo del tavolo.

«La pagherete tutti e due, mi sono spiegato?»

Charles aggrottò le sopracciglia, risentito per l’atteggiamento del ragazzo. «Vedo che sta diventando un’abitudine» si tolse malamente di dosso la mano di Connor, «è un vizio che dovete togliervi, chiaro? Porta rispetto, ragazzino, non ci metto niente a darti una lezione.»

Mio figlio avanzò di mezzo passo, portandosi ad un palmo dal viso di Lee. «Non sfidare la mia pazienza.» Prontamente afferrai Charles da dietro, infilando quattro dita all’interno del colletto della giacca e tirandolo verso di me, lontano dall’Assassino.

«Adesso basta, state diventando ridicoli. Vedete di darvi una calmata. Tutti e due.» Posai l’altra mano sulla spalla sinistra di Connor, «qui nessuno ha ucciso Washington, puoi chiedere a tutte le guardie di Fort George, non siamo stati noi.»

Con una manata il ragazzo si liberò dalla mia presa, indietreggiando di un passo e puntandomi contro un dito accusatore. «Se speri di convincermi sei fuori strada. Tu, i tuoi compagni e le tue guardie siete gli ultimi uomini di cui mi fiderei» lanciò un’occhiata a Charles, poi tornò a fissare me. «La collaborazione finisce qui» e senza aggiungere altro raggiunse la porta senza neanche aspettare Adams, che a capo chino gli andò dietro.

Una volta soli sbuffai esasperato, portando due dita alla base del naso per fare il punto della situazione. Sarei rimasto solo a New York, solo contro Connor, che sicuramente avrebbe scatenato altre rivoluzioni inutili. Il lato positivo, almeno, era che non avrei più dovuto preoccuparmi dell’esercito. Con Charles al comando sarebbe filato tutto liscio.

«Chi era quell’altro tizio?» Domandai di punto in bianco riferendomi all’amico di Artemas. Era rimasto in silenzio per tutto il tempo, guardando Lee di sottecchi e con aria dubbiosa e senza mai intervenire per schernirlo.

Charles si aggiustò il colletto della giacca. «Parlate di Philip Schuyler? È un mio pari. Anzi, era. George Washington nominò me, lui, Artemas e Israel Putnam come suoi secondi in comando.» Lo seguii fuori dalla sala ripensando a Philip. Il suo sguardo non mi era piaciuto per niente.

«Se è simpatico come Ward, bell’affare.» Rise piano, godendosi gli ultimi istanti caotici tipici della città.

«Forse un po’ meglio. Non abbiamo mai avuto modo di conoscerci. Non ce l’ho avuto con nessuno, in verità. Eravamo tutti impegnati con le truppe, io in particolare, visto che faccio parte anche dell’Ordine.»

Svoltammo un angolo, e nonostante la folla che ci separava dalla porta, riuscii a scorgere il cavallo già sellato per Lee, il quale l’avrebbe portato a Valley Forge.

«Beh, sarà meglio che vada.» Si aggiustò il cappotto, chiudendo gli ultimi bottoni, per poi farsi spazio tra le persone per arrivare all’uscita.

Lo seguii stizzito. «Non si usa più salutare?» Charles si fermò di colpo, come se gli avessi fatto notare di non avere la pistola. Mi guardò con aria colpevole, poi mi gettò un braccio oltre la spalla, afferrando il mantello e stringendo forte. Ricambiai la stretta, passandogli una mano sotto la coda bassa, i capelli malamente raccolti sotto la nuca.

«Non sarei partito senza salutarvi» sussurrò contro la mia camicia.

Sorrisi, la pelle della guancia tirata contro il suo orecchio. «Lo so» gli diedi una pacca sulla schiena e sciolsi l’abbraccio, guardandolo negli occhi, «su, vai. I soldati ti aspettano.»

Annuì con convinzione. «Dite voi a Jennifer che sono a Valley Forge. E tenetela d’occhio al posto mio.»

Roteai gli occhi, esasperato. «Non te la ruba nessuno, ti ci metto la firma col sangue.» Mi guadagnai un’occhiata risentita da parte di Lee e non riuscii a trattenere una risata. Mi diede un ultimo colpo sul braccio e senza aggiungere altro raggiunse il cavallo davanti all’entrata, che partì al galoppo verso la periferia di New York.

 

 

Anche oggi ad orari vergognosi, ma ormai va così, lool.

Graaazie come sempre a chi recensisce e legge soltanto, aaww, a presto :3.

 

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Capitolo 35
*** Some prayers find an answer. ***


Capitolo 35

Erano passati due mesi da quando ero partito per Valley Forge, la guerra non aveva preso chissà che svolta a nostro favore, ma eravamo riusciti a riconquistare Philadelphia e Boston. Era un passo piccolo, sì, ma pur sempre in avanti. Sempre meglio dei risultati ottenuti da George.

Avevo mantenuto la posizione su Monmouth con l’intenzione di spingere gli Inglesi verso la costa e costringerli alla ritirata. Era una delle poche mossa a mia disposizione, i nostri erano pochi, sperare di vincere in un testa a testa era pressoché impossibile. L’unica soluzione era resistere, salvare il maggior numero possibile di vite e avanzare, metro per metro, fino a pressare le giubbe rosse per obbligarle alla fuga.

«Signore» mi voltai, stupendomi nel trovarmi davanti Philips con le mani giunte sul ventre. Mi passai una mano tra i capelli, lasciando perdere i piani e le tattiche e dedicandomi al mio collega.

«Non chiamarmi così» risposi con una smorfia. Dio, non ero ancora abituato a sentirmi chiamare così da un mio pari, «hai novità?» Sfregai le mani tra loro un paio di volte, sperando di riattivare la circolazione.

«In verità sì, ma non sono nuove positive» annuii espirando dal naso, pronto a ricevere la notizia. «Israel ha chiesto aiuto. Gli Inglesi stavano raggiungendo il porto di Boston, a quest'ora saranno già nel pieno dello scontro.» Ringhiai. Non potevo permettermi di avere risultati scarsi quanto Washington, non in quel momento, che stava andando tutto per il verso giusto.

«Manderò altri soldati, tanto qui la situazione è tranquilla.»

Philip annuì, concordando con l'unica cosa che potessi fare. «Ho saputo anche che c'è il tizio che era con te al Congresso Continentale.» Smisi di respirare. Haytham? Cosa diavolo ci faceva a Bunker Hill?

Lo guardai ancora. «Ne sei sicuro?»

Annuì. «Il foriero ha detto così» mi si congelò il sangue nelle vene più di quanto già non fosse. Perché era andato a Boston? Cosa credeva di fare, armato solo di spada e pistola e senza conoscere le tattiche militari che eravamo soliti usare?

Mi passai ancora una volta una mano tra i capelli, indeciso sul da farsi. Cristo, si sarebbe ficcato in qualche guaio, me lo sentivo.

«Affido a te il comando finché sarò via» gli mollai una pacca sulla spalla, «vado a Boston, i soldati mi raggiungeranno lì il prima possibile. Preparane un centinaio.» Lo superai ignorando la sua espressione sconvolta e mi diressi verso la staccionata coperta a nord, una sottospecie di stalla in cui tenevamo i cavalli. Ne sellai uno in fretta e furia, le mani tremanti per il freddo e la paura. Non volevo gli accadesse qualcosa. Non doveva, o i sensi di colpa mi avrebbero accompagnato fino alla tomba.

«Stai scherzando, vero?» Philip berciò rauco, il volto paonazzo per il vento e le braccia spalancate. «Abbandoni l'esercito così, su due piedi?»

«Non abbandono niente. Vado da Israel, ha bisogno di una mano.» Montai a cavallo, le gambe tese e i piedi irrigiditi sulle staffe. «Prepara i soldati il più in fretta possibile, cercherò di prendere tempo» lo lasciai in procinto di ribattere, la bocca mezza aperta e l'indice sollevato.

Spronai il cavallo e mi allontanai, dirigendomi verso l'uscita dell'accampamento col cuore in gola. Avevo un brutto presentimento.

Cristo, perché doveva rendermi le cose più difficili? Haytham voleva agire, non se ne sarebbe rimasto a Fort George neanche se l'avessi supplicato in ginocchio, ma doveva capire che sarebbe stato un intralcio per l'esercito, ed io non potevo occuparmi anche di lui.

Colpii col tallone il fianco del purosangue per l'ennesima volta, seguendo il sentiero più o meno sgombero con l'ansia di aver fatto una stronzata a lasciare Valley Forge nelle mani di Philip. Non che non mi fidassi, ma qualsiasi cosa fosse successa sarebbe stata colpa mia. Stavo lasciando l'accampamento e delegando ad un uomo la sorte dei miei soldati, e la solidarietà verso Putnam non avrebbe giustificato un'eventuale disgrazia. Almeno credo.

Non mi resi conto di nulla e un secondo dopo venni investito dal gelo. Un freddo improvviso mi ghiacciò il cervello, la neve intorno al viso, nelle orecchie, la schiena zuppa, così come le gambe. Un dolore del cazzo alla nuca mi costrinse a strizzare gli occhi e a grugnire con disappunto.

Ero a terra. Aprendo a fatica gli occhi riuscii a intravedere il mio cavallo ancora lì, ringraziando Iddio, leggermente stordito, ma a pochi metri da me. Quindi ruotai il capo e guardai la sagoma che mi sovrastava, senza riuscire a capire chi fosse. La sua mano pesante sul petto mi spingeva l'aria fuori dai polmoni, impedendomi di inspirarne di nuova.

Non poteva che essere una sola persona. «Tu.»

«Charles» la sua solita espressione del cazzo stampata in viso.

«Togliti immediatamente, idiota.» Scalciai e tentai di alzarmi, ma fallii miseramente. Beh, avrei dovuto aspettarmelo, ero bloccato da settanta e passa chili. «Ho detto di toglierti!» Afferrai la tunica del mezzosangue e spinsi, ma Connor non si mosse di mezzo centimetro.

«Disertore, eh? Con che coraggio osavi parlare male di Washington?»

Tentai di liberarmi con un colpo di reni, ma riaffondai nella neve con un tonfo. «Non sto disertando, per chi mi hai preso?» Ringhiai, le mani ancora salde sulla sua casacca, il suo naso ad un palmo dal mio. «Ho un onore, io. Levami le mani di dosso.»

Mi fissò dubbioso per una manciata di secondi, non si fidava di me. Non si sarebbe mai fidato di me. Il lavoro svolto insieme in assenza di Haytham non gli aveva fatto cambiare idea. Anche se, in tutta onestà, non capivo quale fosse il problema. Non ero stato io a bruciare il suo villaggio, non avevo sua madre sulla coscienza, quindi perché tutto quell'astio?

E la mia, di opinione? Mentirei se dicessi di avere fiducia nel ragazzo. Mi ero seriamente impegnato per andare d'accordo con lui, per dimostrargli che avremmo potuto ottenere dei risultati nonostante fossimo rivali, ma non ci riuscivo. Non con il disprezzo che mi riservava ogni volta che mi guardava. E porca puttana, se c'era uno tra noi che avrebbe dovuto guardare l'altro dall'alto in basso, beh, quello ero io.

«Ti servirà a poco l'onore quando sarai morto» ah, se sperava di ammazzarmi così facilmente si sbagliava di grosso. Alzai un ginocchio colpendolo in mezzo alle gambe, approfittandone per spingerlo di lato e alzarmi. La poca neve intrappolata tra i capelli mi scivolò sul collo, provocandomi un brivido.

Imprecai, quello stupido ragazzino mi aveva già fatto perdere abbastanza tempo.

Mi scrollai i residui di ghiaccio dai calzoni e Connor si rimise in piedi, mettendo mano all'accetta che si portava sempre dietro. No, non gli avrei concesso un combattimento. Non mentre suo padre rischiava la vita.

Schivai in tempo un attacco piegandomi all'indietro, i muscoli della schiena tesi per non cadere di nuovo in quella melma umida e fredda. Tornato in posizione eretta calciai la neve con la punta dello stivale, mandando pezzetti di acqua ghiacciata negli occhi del ragazzo. Sfruttai quei pochi secondi in cui abbassò la guardia e gli tolsi l'arma, lanciandola via di una decina di metri. Quindi lo afferrai ancora per la giubba, spingendolo malamente contro il tronco più vicino.

Gemette all'impatto, ma me ne curai poco. «Mi stavi seguendo? Lasciami fare il mio lavoro, ragazzino. Torna da quello stupido vecchio a tenergli la mano prima che esali l'ultimo respiro.»

«» ammise senza vergogna, «ti stavo tenendo d'occhio. Non mi fido.»

«Credi che possa aiutare gli Inglesi?!» Sbottai indignato. Quello era il colmo.

«Non so che piani tu abbia, so solo che non mi piaci. E non mi piacciono i tuoi modi di fare.» Provai a trattenermi fino alla fine, lo giuro, ma non ci riuscii.

Le nocche impattarono contro le sue labbra con violenza, la pelle tagliata dopo aver sfregato contro gli incisivi. «Fatteli piacere i miei metodi, perché salveranno il culo a tuo padre» almeno spero. Alzò il viso dalla neve, guardandomi senza capire.

«Mio padre?» A fatica si rimise in piedi, pulendosi il labbro spaccato con la manica. «Cosa c’entra ora?»

«Si trova a Boston in questo momento. È a Bunker Hill, gli Inglesi stanno per sbarcare e attaccare la città, spera di fermarli. Da solo!» Calciai ancora la neve, frustrato. Perché stavo perdendo tempo prezioso con l’indiano? Dovevo pensare a Israel. E ad Haytham, per la miseria. Connor non meritava altre attenzioni.

Mi avvicinai al mio cavallo e rimontai in sella mentre il ragazzo si abbassò per raccogliere il tomahawk.

«Stai andando da lui?»

Tirai lei briglie e calmai il purosangue, concedendo un’ultima occhiata al mezzosangue. «Certo. Non posso permettere che Boston ricada nelle mani delle giubbe rosse. Ho sputato sangue per riconquistarla.» Lasciai che mi guardasse qualche secondo e non aggiunsi altro.

Spronai il cavallo senza preoccuparmi di cosa avrebbe fatto. Che tornasse da Achille, che proseguisse verso Valley Forge, non mi interessava. Ero ancora troppo lontano da Boston e l’ansia mi stava uccidendo.

 

Per tutto il tragitto mi era sembrato di essere seguito, ma non vi badai molto. In prossimità di Bunker Hill avevo intravisto l’Assassino seguirmi a qualche metro di distanza, credendo forse che saltare di ramo in ramo l’avrebbe reso anonimo. Ma Haytham mi aveva insegnato a non lasciare nulla al caso, istruendomi a far maggiore attenzione nella foresta, specialmente dopo l’incontro con la donna Mohawk. Era rimasto affascinato dalla sua agilità, dalla sua leggerezza. E noi facevamo fatica ad avanzare nella neve alta.

Udii i primi colpi di cannone e istintivamente accelerai. Il cuore in gola, la camicia appiccicata alla schiena e tanta ansia nel petto.

Connor mi affiancò poco prima di entrare sul campo di battaglia, ma non dissi nulla, né che mi ero accorto da subito che mi avesse seguito né commentando il fatto che fosse lì.

Tirai le briglie, fermandomi poco fuori il bosco. Una decina di palle di cannone caddero a pioggia sul terreno, martoriando più di quanto già non fosse la terra e distruggendo trincee.

Smontai da cavallo in silenzio e legai le redini ad un ramo basso, volgendo poi lo sguardo verso la collina dove c’erano i patrioti. Cercai Putnam con lo sguardo, ma in quel via vai di soldati non riuscii ad individuarlo.

«Che facciamo?» La voce del ragazzo mi innervosì, ma tentai di calmarmi. Non potevo permettermi di perdere la concentrazione.

«Per prima cosa troviamo Israel, poi vediamo» senza aspettare risposta mi incamminai, pregando che le navi attraccate al porto di Boston non sparassero un’altra bordata in quell’istante. Accelerai il passo scavalcando qualche cadavere, chi senza un arto, chi con il petto forato. Erano irriconoscibili, a fatica si riusciva a distinguere il colore della giubba.

Raggiunta la cima della collina non faticai ad scovare Putnam. Mi dava le spalle, urlava ordini e gesticolava come un folle, bestemmiando contro quei pochi soldati superstiti che sapevano di avere le ore contate.

Posai una mano sulla spalla del generale, ma l’accoglienza non fu delle migliori.

«E tu che cazzo vuoi?» Mi berciò contro senza neanche voltarsi.

Non mi offesi, era fatto così. «Buongiorno anche a te.»

«Charles?» Si tolse il sigaro di bocca e sputò a terra, «che Dio mi fulmini, che diavolo fai qui?»

«Il messaggio è arrivato e Philip manderà altri soldati il prima possibile, intanto posso aiutarti a guadagnare tempo.»

Mi rise in faccia, sputando ancora. «Neanche Gesù Cristo riuscirebbe a cavarsela, non ‘stavolta!» Rimise il sigaro tra le labbra, indicando con un cenno della mano tutti i cadaveri che ci circondavano. Sì, decisamente un bello spettacolo. «Abbiamo ancora circa centocinquanta uomini, di cui cento sono già praticamente morti! Si cagano in mano al solo sentirmi parlare, come speri di poterli mandare a combattere? Ah, Dio!»

Un’altra bordata partì dal porto, i patrioti urlarono.

«Resisteremo.» Israel alzò le mani in segno di resa, arrendendosi di fronte alla mia determinazione. «A proposito, hai visto un certo Haytham Kenway? So che è stato qui.» Vidi Connor alzare lo sguardo da terra e la cosa mi stupì non poco. Da quando si preoccupava per suo padre?

«Se l’ho visto?» Ridacchiò, «quel vecchio è tutto pazzo, te lo dico io. Ha insistito per dare una mano, ma i fucili non bastano per l’esercito, figuriamoci per i volontari.»

«Dov’è ora?» Incalzai, il cuore che riprese a martellare contro la cassa toracica.

«Non ne ho idea, chissà in che casini s’è cacciato. E sai che ti dico? Ben gli sta!» Sputò per la terza volta ed io pregai che si sbagliasse. Non poteva essere morto, no. Come l’avrei detto a Jennifer? Con che coraggio sarei potuto tornare a New York e annunciare una simile disgrazia? Senza neanche il corpo, magari. Dio, non mi avrebbe più guardato in faccia.

Mi si accapponò la pelle, un brivido di paura a scuotermi il petto.

«Delle navi posso occuparmi io» ci voltammo verso Connor, «se smettessero di sparare riuscireste a resistere fino all’arrivo dei rinforzi?»

Putnam lo guardò con sufficienza, convinto che bleffasse. «Eccone un altro, stesso stampo di quell’altro.» Sorrisi. Che a Connor piacesse o no, l’impronta di Haytham si vedeva eccome.

Il ragazzo sembrò non gradire il paragone, indurendo lo sguardo con disappunto. «Forse. Voglio delle scuse al mio ritorno.» Avrei riso per la risposta dell’indiano, ma quando voltai lo sguardo oltre le spalle di Israel mi si gelò il sangue nelle vene.

La nuova bordata passò in secondo piano davanti al corpo di Haytham. Era lì, a una ventina di metri da me, immobile e sporco di terra.

«Cristo.» Mormorai deglutendo a fatica. Mi mossi come un automa, superando Putnam e passando in mezzo ai soldati che correvano senza criterio, ormai in preda al panico. Scavalcai altri cadaveri e mi accovacciai a terra, afferrandogli un braccio e girandolo supino, verso di me. Era ferito alla tempia sinistra, il sangue si era seccato, ma non ero sicuro si fosse coagulato completamente.

«Haytham?» Gli poggiai una mano sul petto e lo scossi piano, temendo avesse qualche costola rotta. Cristo, davo per scontato che fosse vivo.

Portai l’indice e il medio sulla giugulare e solo Iddio sa quanto mi sentii leggero nel sentire il battito. Doveva essere svenuto per la botta in testa, non c’erano altre ferite e il taglio in fronte non era sufficiente ad uccidere.

Chiusi gli occhi e sospirai, la mano che dal collo scivolò verso il viso, il palmo appoggiato sulla sua guancia sinistra.

Alzai lo sguardo verso il porto, le navi che ancora sparavano contro la città in ginocchio. Sbrigati, ragazzo. Ho bisogno di aiuto.

 

 

Oggi ho superato me stessa, lol.

Chiudete un occhio sul ritardo mostruoso, da bravi. Mi farò perdonare col prossimo capitolo.

Boh, ormai sono ripetitiva, ma graaaazie a tutti, aw.
A lunedì prossimo!

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Capitolo 36
*** Pain. ***


Capitolo 36

Fu la mezz’ora più lunga della mia vita. Le navi inglesi attraccate al porto di Boston continuavano a sparare bordate, e mentre Putnam berciava ai soldati di raccattare i fucili e togliersi dal centro del campo di battaglia, io ero riuscito a trasportare Haytham in un punto un po’ più coperto, ai piedi del bosco. Lì le palle di cannone non erano ancora arrivate.

Pregavo che Connor si sbrigasse. Non mi interessava la riuscita dell’impresa, le navi avrebbero potuto anche raderla al suolo, Boston. A me interessava Mastro Kenway. Dovevo portarlo a New York.

Mi ritrovai a contare i secondi, perché starmene con le mani in mano mentre il mio maestro rischiava di lasciarci la pelle, beh, mi rendeva piuttosto nervoso. E vedere l’Assassino correre verso di me non mi era mai sembrato tanto rincuorante. In un’altra situazione magari mi sarei nascosto, troppo pigro per affrontare faccia a faccia quel ragazzone di un metro e novanta, ma Haytham era a terra, privo di sensi e con una ferita alla testa. Le cannonate erano cessate, facendomi pensare che fosse riuscito ad uccidere gli equipaggi inglesi. Beh, tanto meglio.

«Connor!» Con una mano gli feci cenno di avvicinarsi, e dopo aver scambiato un paio di parole con Putnam mi raggiunse con passo lungo e rilassato. «Muoviti, per l’amor di Dio» ringhiai quando era abbastanza vicino da sentirmi, ma sembrò allarmarsi solo dopo avermi guardato in faccia.

«Che succede?» Gli occhi puntati sul corpo di suo padre, i pugni stretti lungo i fianchi.

«È solo svenuto, aiutami a portarlo fino ai cavalli» strinsi le caviglie del mio maestro attendendo che il ragazzo lo sollevasse da sotto le ascelle, ma con mio sorpresa non si mosse. Forse era sconvolto, e sperai in cuor mio fosse così, perché mi rifiutavo di pensare che vederlo incosciente e ferito non gli facesse provare neanche un minimo di dispiacere. «Si può sapere che stai aspettando?» Sbottai alzando lo sguardo.

L’Assassino sobbalzò. «Sì, scusa» lo afferrò saldamente per la redingote e lo alzò da terra, aiutandomi a spostarlo da quella posizione scomoda e, sebbene riparata, comunque troppo esposta.

Attraversammo la collina senza difficoltà, specialmente grazie al sabotaggio delle navi inglesi e mentre camminavamo lanciai un’occhiata ad Haytham. L’espressione rilassata, il viso pallido, come fosse morto.

No. No, santo Dio, che diavolo andavo a pensare? Aveva solo un taglio. Uno stupidissimo taglio sulla fronte. Non è mai morto nessuno per una ferita del genere, e poi gli avevo sentito il battito pochi minuti prima: era regolare. Un po’ debole, ma regolare. Sapevo riconoscere un uomo in fin di vita, e lui non lo era.

«Issalo sul cavallo» borbottai adagiando i piedi a terra e obbligandomi a controllare il tremore alle mani mentre scioglievo il nodo alle redini.

«Dove vuoi che lo porti?»

Mi voltai verso il ragazzo. «Tu?»

«Certo, altrimenti chi?» Cercai di capire se fosse serio o se mi prendesse in giro.

«Io, per esempio.» Serrò le braccia sul petto, le mani nascoste sotto i bicipiti e lo sguardo strafottente.

«Tu dovresti restare qui, i soldati hanno bisogno di te.»

«No» incalzai, «tuo padre ha bisogno di aiuto» sottolineai con disappunto. Ha bisogno di me, cristo.

«Posso portarlo io ovunque serva. Hai ammazzato Washington per avere questo incarico, non perdere tempo in altre faccende.» Soffocai a stento una risata isterica, imponendomi di non colpire il naso del nativo un’altra volta. Il taglio sulle nocche bruciava già abbastanza per farmi desistere.

«Stammi a sentire, ragazzino» mossi un passo verso di lui, puntellandogli un dito sul petto, «io non ho ucciso nessuno, gli Inglesi sono decimati, non attaccheranno più dopo il tuo intervento e i rinforzi dei patrioti non arriveranno prima di domani. Non c’è bisogno che resti qui, Israel saprà dare istruzioni in caso di necessità.» Tirai il cavallo per le briglie per avvicinarlo al corpo, poi sollevai Haytham, posizionandomi davanti a lui e appoggiando le sue braccia sulle mie spalle.

«Gradirei mi dessi una mano» borbottai mettendo un piede sulla staffa, le mani a stringere i polsi del Gran Maestro per tenerlo in posizione eretta. Connor sbuffò, spingendo suo padre per le gambe mentre io salivo in sella.

Era una posizione alquanto scomoda, ed ero ben consapevole che così facendo mi sarei limitato nella velocità, ma era l’unica soluzione. Non avevo un carro e non avrei perso tempo a cercarlo.

«Parla tu con Putnam, digli che ho avuto un imprevisto e che tornerò il prima possibile.» Attesi che annuisse e mi congedai, spronando il cavallo e tornando sui miei passi. Mi misi il braccio sinistro di Haytham in torno alla vita, la sua mano appoggiata sul cavallo dei miei calzoni, e l’altro appeso alla mia spalla, in modo da afferrarlo facilmente nel caso rischiasse di cadere, la testa appoggiata alla mia schiena.

Era ancora vivo, il suo respiro caldo e regolare sul collo me lo confermò ed io mi calmai, stringendogli il polso destro e accelerando leggermente l’andatura.

 

Il viaggio mi portò via sei ore, lasso di tempo in cui credetti seriamente di arrivare a New York troppo tardi.

Prima che si facesse buio ne approfittai per smontare –lasciando Haytham in sella- in prossimità di un fiume e bagnare una pezza. Mi ero poi issato su una staffa per lavargli la ferita alla tempia, per ripartire quindi al galoppo verso New York, ignorando il fatto che spronare in quel modo il cavallo avrebbe rischiato di far cadere entrambi, ma preferii correre il rischio. La foresta era un posto pericoloso di giorno, di notte era insidiosa due volte tanto. Con me avevo solo una spada e una pistola con qualche proiettile, armi che mi avrebbero salvato la pelle contro una ronda di una decina di uomini al massimo, ma contro un lupo, o peggio ancora un orso, non avrei avuto certamente la meglio.

Per grazia divina arrivammo a Fort George sani e salvi, e le guardie all’entrata del forte mi aiutarono a tirare Haytham giù da cavallo e a portarlo dentro.

Istintivamente pensai a Jenny, a come avrebbe preso la notizia e iniziando a formulare scuse plausibili per scagionarmi.

Un momento. Scagionarmi da cosa? Non era stata colpa mia, perché mi sentivo responsabile? Avevo abbandonato l’esercito per portarlo al sicuro, questo sarebbe dovuto bastare.

«Charles?!» Alzai lo sguardo, fermandomi a metà rampa di scale insieme alla guardia. Jenny era lì, in cima, intenta a guardarci sconvolta. «Cosa ci fai qui? Cos’è successo a mio fratello?» Ripresi a salire, il braccio del mio maestro intorno al collo e metà del suo peso sulla spalla sinistra.

«Calmati, è solo svenuto. Ha preso una botta in testa.» Non aggiunsi altro e trascinai a fatica Haytham nella sua stanza. Dopo averlo adagiato sul letto intimai alla sentinella di uscire, venendo sostituita prontamente da Jennifer. Entrò in camera affannata, una mano sul petto e gli occhi sbarrati, puntati sul viso ferito del Gran Maestro.

«Dovrebbe riprendersi» parlai per primo, dandole forse la risposta che più le interessava sentire. Afferrai uno stivale di quello che avevo considerato mio padre negli ultimi vent’anni e lo sfilai, adagiandolo a terra, accanto al letto. «L’ho trovato ferito a Boston.»

«Credevo fossi a Valley Forge» sussurrò ancora scossa e chiudendo la porta. Tolsi anche l’altro stivale, poi annuii.

«Infatti. Mi è giunta voce che a Boston fossero sbarcati altre giubbe rosse, poi mi hanno detto che Haytham era lì e…» gesticolai imbarazzato, infilando poi la mano in tasca per non risultare ridicolo, «… e sono andato a Bunker Hill.»

«Dio mio. Gli hai salvato la vita.» Alzai lo sguardo su di lei giusto in tempo per vederla mentre si tappava la bocca con una mano per soffocare un singhiozzo, e mi si strinse il cuore. Non volevo vederla così. Avrei dovuto fare qualcosa, avrei dovuto fare di più.

«Vieni qui.» Mi abbracciò di slancio e nascondendo il viso contro la giacca, trattenendo il respiro e reprimendo un altro singulto. «Non piangere, non è in pericolo di vita» le poggiai una mano sulla schiena per tranquillizzarla, lanciando un’occhiata al Gran Maestro per accertarmi che respirasse ancora. Vidi il petto alzarsi lentamente e chiusi gli occhi, dando una pacca sulla spalla di Jenny.

«Dovrebbe stare al caldo» dissi rompendo il silenzio, «va’ a prendere qualcosa per disinfettargli la ferita, io ho potuto solo sciacquarla» si staccò da me asciugandosi gli occhi e la guardai in silenzio mentre lasciava la stanza. Mi avvicinai al letto e coprii Haytham, poi spostai la sedia che teneva alla scrivania portandola vicino al letto, quindi mi ci sedetti per aspettare Jennifer.

 

Quando aprii gli occhi la stanza era buia e silenziosa e dovetti strizzare un paio di volte le palpebre per capire di essere a Fort George.

Mi mossi di poco e feci scricchiolare la schiena, accorgendomi in quel momento di avere una coperta addosso. Mi misi seduto ancora mezzo assonnato, scorgendo Jennifer davanti a me, seduta su uno sgabello ai piedi del letto del fratello, le braccia appoggiate al materasso e la testa sugli avambracci. Dormiva profondamente, rabbrividendo di tanto in tanto.

Mi alzai sospirando, non avrei comunque ripreso sonno, quindi la coprii per bene. Dopo essermi assicurato che fosse al caldo lasciai la stanza, chiudendo delicatamente la porta e percorrendo il corridoio con passo stanco, lasciandomi guidare dalla fioca luce lunare che a malapena illuminava il pavimento. L’indomani sarei ripartito per Bunker Hill, con un po’ di fortuna sarei arrivato insieme ai rinforzi inviati di Philip.

Svoltai l’angolo, trovandomi davanti la guardia che mi aveva aiutato a portare Haytham fino alla sua camera.

«Stavo cercando voi, generale Lee.» Sussurrò timoroso.

«È successo qualcosa?» Scostai lo sguardo e sbirciai oltre la finestra, tentando di capire cosa avesse spaventato la sentinella.

«No. No, è tutto a posto. Solo...» si torturò le mani, giocherellando con le pellicine intorno alle unghie, «i vostri colleghi sono qui, signore. Parlo dei generali Ward, Schuyler e Putnam.»

Inarcai un sopracciglio. Ward sarebbe stato plausibile, ma Philip e Israel? Com’era possibile? Li avevo lasciati a Valley Forge e Bunker Hill. «Ne sei sicuro?»

«Sicurissimo. Hanno chiesto di voi.» Imprecai a mezza voce. Quei tre mi avrebbero mandato nei casini, porca puttana.

Scesi le scale saltando gli scalini due a due, raggiungendo la porta che si affacciava sul cortile interno. La spalancai con poca grazia, attraversando il piazzale con passo pesante.

Li vedevo. Se ne stavano lì, davanti alle guardie poste all’entrata del forte.

«Cosa ci fate qui?!» Sbottai inchiodando davanti a loro.

Artemas sogghignò lascivo. «Potremmo chiederti la stessa cosa, Charles. Credevo che un comandante non abbandonasse i suoi soldati per tornare a casa. Che è successo?, ti mancava la tua sgualdrina?»

Serrai un pugno e sorvolai obbligandomi a mantenere il controllo, poi guardai Putnam. «Credevo che il ragazzo ti avesse spiegato tutto.»

«Sappiamo perché sei qui, amico, ma sono successi degli imprevisti.» Alzai le sopracciglia.

«Ovvero? Sono arrivate altre giubbe rosse?»

«Temo che loro non possano sentire» indicò con il mento i soldati alle mie spalle schioccando la lingua. Purtroppo aveva ragione. Le questioni riguardanti l’esercito non potevano essere divulgate a terzi.

Feci cenno ai due vigilanti di rientrare, e solo quando oltrepassarono la soglia e chiusero il cancello si degnarono di darmi una spiegazione.

«Vedi, Charles, il fatto è che sospettiamo ci sia un traditore tra le nostre fila.

«Cosa?» Sbottai sconvolto. «Non è possibile, chi sarebbe?»

Philip restò impassibile, e Ward si passò una mano tra i capelli mentre Israel faceva l’ennesimo tiro dal suo sigaro. «Tu.» Non riuscii a schivare un pugno in pieno volto, poi persi i sensi.

 

Quando aprii gli occhi la prima cosa che vidi fu il contorno sfocato delle mattonelle di New York. Capii che mi stavano trascinando da qualche parte, perché mi sentivo sballottato, ma non avevo la forza sufficiente per camminare da solo.

«Cristo, che mal di testa- borbottai con un fil di voce. Alcuni risero, e improvvisamente mi fu tutto chiaro. Un terzo uomo aprì una porta e di colpo venni investito dal buio. Non capivo dove fossi e per un attimo ringraziai di essere guidato da chi evidentemente riusciva ad orientarsi anche nell’oscurità più totale. Preso dal panico strizzai le palpebre, riuscendo a mettere a fuoco i miei aguzzini.

Artemas Ward e Philip Schuyler, i due generali dell'Esercito Continentale scelti dal Congresso oltre a me e Israel Putnam, mi trascinarono di peso fino a quello che, a primo impatto, definii uno scantinato. Era un luogo buio e umido, illuminato a malapena da una finestrella, a stendo vedevo dove stavamo andando. Il pavimento era di pietra grezza, lo intuii dal rumore della suola e dalla superficie sconnessa che più di una volta aveva messo alla prova il mio equilibrio.

«Legate questo figlio di puttana» grugnì Ward, il quale mi lanciò con poca grazia contro la sedia posta al centro della stanza. Mi voltai verso di loro senza capire cosa stesse succedendo, ma senza darmi il tempo di comprendere, Artemas e Philip mi costrinsero a sedermi. Israel, davanti a me, trascinò un'altra sedia e vi si accomodò dopo averla girata al contrario, come era solito fare il ragazzo indiano. Si appoggiò allo schienale con un gomito e accese un sigaro con tutta calma, inspirando e soffiando il fumo verso l'alto come nulla fosse.

«Cosa volete? Che cazzo significa questa pagliacciata?» Non mi risposero, limitandosi a prendermi i polsi e legarmeli dietro la schiena.

«Philip! Cosa diavolo...» tentai di dimenarmi, ma il pugno che mi spaccò il labbro superiore assestatomi da Artemas mi lasciò pietrificato. Erano impazziti tutti quanti? L'unico che non sembrava interessato a pestarmi era Putnam, troppo concentrato a fumare.

Ward mi si piazzò davanti, poggiando un piede sul bordo del sedile della sedia sulla quale sostavo, esattamente a un centimetro dalle mie palle.

«Parlerai. Eccome se parlerai, sporco bastardo» ghignò sadico ed io deglutii non sapendo cosa aspettarmi.

«Perché l'hai fatto, Charles? Eri uno dei nostri, ma probabilmente speravi che nessuno avrebbe sospettato di te» intervenne Schuyler. Li guardai alcuni secondi senza fiatare, che avessero capito?

«Fatto cosa?» Tentai di cavarmela.

«Sai benissimo di cosa parliamo, Lee. Dell'omicidio di Washington. Se parlerai avrai un trattamento dignitoso, forse. Non costringerci ad usare le maniere forti.»

Risi nervosamente. «State scherzando? Non so nulla di questa storia, non ho ucciso io George» la gola divenne improvvisamente secca, il cuore iniziò a battere troppo veloce, ma dalla mia parte avevo la mia innata abilità nel mentire, che mi aiutò a sostenere gli sguardi inquisitori dei miei due colleghi.

«Parla!» Ward mi afferrò per il bavero della giacca «Sanno tutti che invidiavi il ruolo di Washington, chi altro avrebbe potuto ucciderlo? Sarebbe passato a te l'incarico di Comandante in Capo, è inutile mentire» sputò delle gocce di saliva che mi arrivarono dritte sul viso, non trattenni una smorfia.

«Ve lo ripeto: non l'ho ucciso io. Non avete prove» mi colpì un altro pugno, stavolta di Philip. Mi piegai in avanti e sputai a terra un grumo di sangue mentre i piedi di Artemas uscivano dal mio campo visivo. Mi sforzai di concentrarmi sul rumore metallico che udii alla mia sinistra per capire cosa stesse facendo, ma il dolore alla mascella mi offuscava i sensi.

Philip Schuyler mi afferrò per i capelli, costringendomi ad appoggiarmi allo schienale. Deglutii sangue e saliva, osservando Ward che trafficava sul ripiano accanto a me.

«Spoglialo» disse senza nemmeno voltarsi. L'altro ridacchiò come se non stesse aspettando altro, mi liberò i polsi e d'istinto mi alzai, ma non feci in tempo a fare un passo, un calcio nelle reni mi spezzò il respiro, facendomi inginocchiare. Non riuscii a trattenere un lamento e senza preavviso Philip mi strappò via la redingote, afferrandomi un braccio e sbattendomi di nuovo sulla sedia. Mi rilegò i polsi, stringendo la corda così forte quasi da impedire la circolazione sanguigna.

«Cosa volete fare?!» Domandai nervosamente sforzandomi di non entrare nel panico, anche se sapevo cosa mi attendeva. Le mani di Philip spuntarono da dietro, infilò due dita nello spazio tra due bottoni, aprendomi la camicia con un gesto deciso e lasciandomi a torso nudo. Solo in quel momento Artemas si girò, osservando compiaciuto ciò che aveva davanti. Si rigirò tra le mani delle pinze e avvertii chiaramente un macigno all'altezza del petto, come una sfera infuocata che irradiava calore al resto del corpo. Avrei dovuto interpretarla come adrenalina, ma scartai subito questa ipotesi, dato che ero paralizzato. Era paura, consapevolezza, impotenza dinnanzi agli eventi. Mi trovavo in balìa di due folli che mi accusavano dell'omicidio del loro amato George Washington. Beh, forse un po' c'entravo, ma non era morto per mano mia, Cristo santo.

«Vediamo quanto resisti, Lee» sorrise Artemas appoggiando l'estremità appuntita sulla mia carne «È la tua ultima occasione per dire la verità» potei notare una nota di sadismo nella sua voce, come pregasse che tacessi per divertirsi a giocare al chirurgo con me.

«Non la so la verità, Ward. Con l'omicidio di Washington non c'entro. Puoi chiedere a chi vuoi, quella notte ero a Fort George» risposi mantenendo la calma. Non potevano farmi nulla, non senza le prove. Eravamo d’accordo con Jenny, che avrebbe detto senza indugi che quella notte era nel mio letto, impegnandomi con altro.

Trascinò le pinze di lato lasciandomi un solco arrossato sul pettorale, fino a stringere il capezzolo sinistro nella morsa di metallo. Serrai i denti soffocando un gemito e guardai fisso Artemas, mentre Philip teneva le mani sulle mie spalle, come ad assicurarsi che stessi fermo. Deglutii a vuoto, avevo la bocca secca come se non bevessi da giorni.

«Non ricordi nulla?» Abbandonai la testa all'indietro e chiusi gli occhi, aprii la bocca ed inspirai tentando di calmarmi.

«Non lo so, maledizione» raddrizzai il capo, tornando a fissarlo «Non lo so!» Urlai esasperato, le cosce dure e i polsi tremanti per lo sforzo.

Fu un secondo, urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, fottendomene altamente dell'orgoglio, della reputazione e stronzate varie. Con un gesto secco mi strappò il capezzolo, lasciando che cadesse a terra come un qualsiasi pezzo di carne morta.

Una mano di Philip si staccò dalla mia spalla per scivolare sul collo. Con due dita mi ruotò la testa, che avevo piegato in avanti per fissare con orrore il sangue colare rapidamente fino alla vita e imbrattare i calzoni. Non stava accadendo realmente. No.

«Ma guardalo, sta già piangendo» ridacchiò sadico. Sfiderei chiunque a rimanere impassibile, maledetti bastardi. Strizzai gli occhi per liberarli dalle lacrime e lanciai un'occhiata sofferente a Israel, che buttò il mozzicone del sigaro a terra espirando l'ultima boccata di fumo, come a implorarlo di farli smettere. Si alzò e lo spense definitivamente con la punta dello stivale, solo allora si degnò di riservarmi attenzione. Dopo aver messo le mani in tasca avanzò di pochi passi, affiancando Ward. Lo guardai in silenzio con le guance rigate, le labbra spaccate e socchiuse e un capezzolo in meno.

«Non ero favorevole a questo metodo e non lo sono tutt'ora, fa' in modo che non duri oltre. Lo dico per te» appoggiò le mani sulle ginocchia e si piegò in avanti, puntando gli occhi nei miei.

«Lo giuro, Israel, non lo so. Non so niente» non disse nulla, limitandosi a fissarmi dubbioso per qualche istante. Dopo essere tornato in posizione eretta iniziò a camminare pensieroso, percorrendo avanti e indietro e con nervosismo gli stessi metri. Artemas e Philip non gli staccarono gli occhi di dosso per un solo istante, mentre io faticavo a respirare dato il magone che avevo alla gola. Avrei voluto piangere dal male fino a morire disidratato, il pettorale sinistro era in fiamme, pulsava come se stesse per prendere vita, e iniziai a temere che mi avrebbero fatto fuori sul serio.

«Forse dice il vero» parlò dopo poco.

Ward sgranò gli occhi «Tu gli credi? Che cazzo dici, Israel? Questo bastardo ha ucciso Washington, porca puttana!» Mi indicò.

«Non sono stato io!» Tentai di difendermi ancora.

«Deve pagare» deglutì rumorosamente, continuando a tenere l'indice a due centimetri dal mio viso. Stavo perdendo il controllo, ero cosciente del fatto che la lucidità mi stesse abbandonando. E cosa avrei fatto, poi? Avrei iniziato ad urlare? A piangere? No, quello lo stavo già facendo -per il dolore, s'intende-. Sarei morto così? E chi l'avrebbe mai detto, ero sempre stato certo che me ne sarei andato con una pallottola in corpo, travolto da una palla di cannone o trafitto da una spada «E io so come farlo parlare» abbassai lo sguardo per terra e smisi di respirare nel vano tentativo di rallentare il battito cardiaco che, a causa della mancanza di ossigeno, avrebbe ritrovato un ritmo normale. Non servì, ovviamente. Il cuore continuava a martellare contro la cassa toracica, mentre Artemas trafficava sul ripiano. Non trovai il coraggio di guardare. Non volevo sapere, anche se in fondo sospettavo.

Quando si girò notai nella sua mano destra un alare con la punta incandescente.

«Cosa…? No» deglutii incredulo, con l’ansia nel petto che a malapena mi lasciava respirare «No, Artemas, tu sei pazzo.» Ghignò sadicamente, rigirandosi tra le mani il metallo rovente.

«Hai intenzione di collaborare?» Si abbassò su di me, avvicinando la punta bollente alla mia carne. «Non costringermi ad essere ancora più stronzo, Charles.» Urlai come un bambino quando mi infilò la punta incandescente nell’ombelico. Mi conficcai le unghie nei palmi e strizzai gli occhi, soffrendo di più per la dignità che stavano calpestando che per il dolore fisico.

Avevo il volto bagnato di sudore e lacrime, il ventre in fiamme e la gola secca, ma mi imposi di non dargli la soddisfazione di vedermi sconfitto o di sentirmi implorare pietà. Quello mai.

Philip, ancora dietro di me, mi raddrizzò il capo con poca grazia, indirizzando il mio sguardo verso Ward. «Allora? Ti è venuto in mente qualcosa?» Lo osservai mentre mi si avvicinava di nuovo, gli occhi lucidi d’eccitazione e la lingua a leccarsi le labbra. «Non farmi continuare» ma nel dirlo iniziò a tracciare una linea verticale con l’alare sul mio addome, dall’ombelico fino al petto. Mi morsi l’interno delle guance fino a sentire il sapore metallico del sangue. I capelli malamente appiccicati alla fronte, iniziai a tremare dallo sforzo, gocciolando sudore e fissandolo con odio, come a dirgli che non mi sarei piegato alla sua bastardaggine, perché ero più stronzo di lui.

«Non mi farai ammettere una colpa che non ho, nemmeno morto» nonostante la voce strozzata, scandii ogni parola guardando negli occhi.

Mi tirò un manrovescio con la mano sinistra, colpendomi poco sopra l’occhio e spaccandomi il sopracciglio, ma non urlai. Gli incisivi ben conficcati nella mia stessa carne, a torturare il labbro inferiore mentre Artemas e Israel mi fissavano in silenzio.

«Bene, allora. Vorrà dire che useremo le maniere forti» sorrise sadico, appoggiandomi di piatto l’alare sotto il mento e scottandomi. Aspirai aria tra i denti e scattai all’indietro, scontrando contro il petto di Philip, costantemente dietro di me per bloccarmi qualsiasi movimento.

L’occhio mi cadde su Putnam, nascosto nella penombra della stanza, gli occhi chiusi. Forse pensava che tutto questo fosse sbagliato, che tentare di estorcermi una verità falsa fosse sbagliato, e magari sarebbe intervenuto per interrompere quella follia. Ammetto che avrei gradito, ma ovviamente non fu così. Insomma, sarebbe stato troppo semplice, no?

Sentii Ward trafficare con qualcosa di metallico, e non ebbi il coraggio di alzare lo sguardo da terra per paura di scoprire quale diavoleria gli fosse saltata in mente. Fissai il bordo dei calzoni macchiato di rosso e venni scosso da un brivido, constatando quanto strano fosse essere schifati dal proprio sangue ma non da quello degli altri.

«Liberagli un polso» eh? Cosa?

Philip tagliò la corda che mi legava il polso destro. Mi formicolava la mano, l’intero braccio era intorpidito e l’improvvisa affluenza di globuli rossi diffuse un piacevole calore fino alla punta delle dita.

Artemas posò davanti ai miei piedi un secchio traboccante d’acqua, ed io notai solo in un secondo momento il fumo che evaporava. Era bollente. Era acqua bollente, Cristo santo, ed iniziai a capire che intenzioni avesse.

Con poca grazia mi afferrò il polso libero, strattonandomi in avanti e avvicinandomi pericolosamente a quel pezzo di metallo incandescente. Deglutii, sentendo improvvisamente il bisogno di pisciare.

«Allora? Vuoi collaborare o ti ostini a tacere?»

Inspirai a bocca aperta sperando di calmarmi. «Te l’ho già detto, Artemas. Non ho ucciso nessuno, ero a Fort George a sbrigare altre faccende» puntai gli occhi nei suoi sperando che si ricordasse di Jennifer, poi risi nervosamente. «Insomma, chi preferirebbe un omicidio ad una notte di piacere con la propria donna?» Per poco non caddi dalla sedia. L’altra mano di Ward mi afferrò i capelli sulla nuca, spingendomi in avanti e facendomi scivolare verso il bordo del sedile.

«Non fare lo spiritoso con me, Charlie» mi avvicinò la mano all’acqua, il vapore mi scaldava la pelle quasi da scottarmela e per riflesso aprii il pugno, guadagnando quei due centimetri in più prima di toccare il liquido. «Dimmi la verità» sibilò a denti stretti, le dita ancor più serrate tra i miei capelli.

«Lo giuro» un’altra mano mi si appoggiò pesantemente sulla testa, spingendomi verso il secchio e permettendo a Ward di approfittarne. Vidi la mia mano sparire oltre il vapore in meno di un secondo, immergendosi fino al polso nell’acqua bollente.

Urlai. Urlai con tutto il fiato che avevo in corpo e cercai di trattenermi fino all’ultimo, ma non riuscii a trattenere le lacrime. Abbandonai la testa contro la spalla di Artemas, che ancora mi teneva saldo per il collo, e soffocai un singhiozzo serrando le labbra tremolanti.

«Ti prego!» La mano bruciava, il braccio era scosso da spasmi ed io strillavo e imploravo di avere pietà, imploravo di uccidermi, piuttosto, perché non avrei retto oltre.

«Sshh» mi sussurrò all’orecchio, «è inutile urlare, tanto non può sentirti nessuno.»

 

 

Okay, lol.
Qualcuno di voi starà fangirlando per aver azzeccato parte di questo capitolo *lancia biscotto*. Sai che parlo a te, prendilo prima che qualcuno te lo rubi, loool.
Ignoratemi, è l’ora che mi fa delirare. Grazie come sempre a chi legge e recensisce, aw, vivogliobbene.

 

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Capitolo 37
*** I need you. ***


Capitolo 37

«Come sarebbe sparito?» La voce di Jenny, forte e chiara, mi arrivò alle orecchie nonostante la porta della mia stanza fosse chiusa, attraversandomi il cervello in una fitta lancinante, con la facilità che avrebbe avuto una lama nel tagliare un blocco di gelatina. «Esigo una spiegazione!» Nelle sue urla riuscii a cogliere una punta di preoccupazione, e il mio tentativo di abbandonare il letto venne prontamente sabotato da un capogiro. Riatterrai sul cuscino con un tonfo, la tempia sinistra dolorante, la vescica piena e lo stomaco vuoto. E per mille diavoli: come ci ero tornato a Fort George? Avevo vaghi ricordi dell’ultima volta che ero stato cosciente, e il bernoccolo sulla tempia sinistra mi fece intuire che, forse, la mia presenza a Bunker Hill non aveva migliorato la situazione.

Nonostante il mal di testa mi alzai, infilando gli stivali senza la forza di aprire gli occhi. Ah, Dio, se un colpo in testa era riuscito a ridurmi in questo stato avrei dovuto iniziare a preoccuparmi seriamente.

«Oh, cielo, ti sei svegliato?» Mi voltai verso la porta, trovando Jennifer accanto allo stipite. Sembrava allarmata. «Ti senti meglio? Dio, ci hai fatti preoccupare.»

«Ti ho sentita strillare, è successo qualcosa?»

«In effetti sì. Charles è sparito» socchiuse la porta avvicinandosi al letto, sedendosi poi sulla sedia alla mia scrivania. «Lui e Connor ti hanno trovato a Boston, eri svenuto. Dopo averti portato qui, dei colleghi di Charles sono venuti a parlargli e...»

«Artemas?» La interruppi. «Artemas Ward è stato qui?»

«Non ne ho idea! Come puoi pretendere che sappia i nomi dei comandanti dell’esercito?» Alzai una mano per farla tacere. Le fitte non sarebbero cessate con lei intenta ad urlarmi nelle orecchie.

«Le guardie» portai due dita alla base del naso. «Le guardie sapranno qualcosa. Con chi stavi parlando prima?» Jenny agitò una mano, lasciandola poi ricadere sulle gambe.

«Con il giovane che l’ha aiutato a portarti fin quassù. Lo stesso che gli ha annunciato la visita.»

«So io dov’è…» ci voltammo di nuovo verso l’entrata, scorgendo la sentinella poco più che ventenne che aveva avuto l’onore di tirare un po’ di spada con Charles. «Li ho seguiti di nascosto, ma non ho avuto il coraggio di intervenire.»

«Ti ascolto» allargai le braccia reprimendo la voglia di schiaffeggiarlo. Dopotutto era l’unico a sapere dove fosse Lee.

 

«Chi non muore si rivede, non è così, Kenway?» Gli augurai di strozzarsi con quel cazzo di sigaro un paio di volte e mi avvicinai a lui tentando di mantenere la calma.

Ignorai la sua ironia e avanzai ancora, fermandomi a mezzo passo da lui e unendo le mani dietro la schiena, sotto il mantello. «Dove avete portato Charles?» Le ciglia tremarono per riflesso involontario, tradendolo in un istante. «Avanti, non ho tempo da perdere con te.»

«Cosa ti fa credere che io sappia dove sia finito?» Afferrai Putnam per il bavero e lo misi spalle al muro con forza. Se credeva di prendermi per il culo solo perché aveva gli amici di Washington dalla sua, beh, si sbagliava di grosso. Mi credevano davvero così sprovveduto? Così facile da eliminare?

«Pensi che abbia usato il plurale per risultare ossequioso? So che Ward si è fatto aiutare da te e da quell’altro leccaculo. Non vi conviene farmi incazzare, quindi te lo chiedo per l'ultima volta» feci scattare la lama celata, pungendogli il collo. «Dov'è Charles?» Il pomo d'Adamo si alzò e abbassò velocemente. Forse comprese in quell'istante che non scherzavo affatto. Se c'era Lee di mezzo non scherzavo mai, volevo fosse chiaro.

Mostrò entrambi i palmi, accennando un sorriso tirato. «Ehi, calma, amico»

Gli strappai dalle labbra quel cazzo di sigaro e lo gettai a terra con stizza. «Non sono tuo amico, e adesso parla.»

«D’accordo, d’accordo. Va’ in fondo alla strada, c’è un vicolo sulla sinistra» strinse le labbra, cercando forse di capire quanto fossi deciso a spingermi oltre per ottenere le informazioni che mi servivano. «C’è una porta sola, è lì dentro.» Lo mollai malamente facendo rientrare la lama celata e gli riservai l’occhiata più compassionevole che conoscessi mentre lo osservavo aggiustarsi la giacca per ridarsi un contegno.

«Credevo che tu fossi il meno peggio, Israel. Mi sono fidato della stima che Charles provava nei tuoi confronti. Evidentemente ho fatto male.» Ciò detto mi allontanai nella direzione indicatami da Putnam, il passo svelto per timore di arrivare troppo tardi, il cuore in gola, impaziente di vedere Lee vivo.

Entrai in una specie di cantina, l'aria viziata intrisa di polvere e l'odore dolciastro del sangue, l'interno illuminato da un timido raggio di sole proveniente dal finestrella sulla parete opposta alla porta.

«Santo Dio» non riuscii a dire altro quando intravidi Charles supino al centro della stanza, legato a una sedia ribaltata, le braccia piegate dietro lo schienale sotto il peso del corpo, i polsi stretti da una corda, una gamba appoggiata al sedile e l'altra a terra. «Cosa ti hanno fatto?» Mormorai. Lo chiesi più a me stesso, consapevole di essere il solo responsabile del suo dolore. Mi avvicinai incredulo, notando che sanguinava dal pettorale sinistro. In verità l'intero busto era martoriato, ma con po' più di attenzione vidi che la ferita maggiore era in corrispondenza del buco che aveva al posto del capezzolo. Cristo.

«Charles» mi inginocchiai e gli misi una mano dietro la testa, sollevandola di poco e mettendolo finalmente in una posizione naturale «Charles, avanti. Rispondi, per carità di Dio» gli colava sangue dal sopracciglio destro, le labbra erano spaccate e secche. Da quanto non beveva? Gli diedi un paio di schiaffi leggeri sperando che prendesse conoscenza. Perché era vivo. Doveva. «Charles!» Trattenni la mano sulla sua guancia fredda e umida, lasciando che la sua barba mi solleticasse il palmo.

Di scatto il medio e l'indice si posarono soli sulla giugulare, e in cuor mio pregai che non fosse morto. Non l'avrei sopportato. Sentii i polpastrelli appiccicosi percepire il battito debole.

Sangue, pensai. Sangue di Charles, del mio pupillo, del mio ragazzo.

Serrai la presa sulla sua nuca, stringendogli i capelli tra le dita tremolanti e un lamento flebile raggiunse i miei sensi, nonostante l'unica cosa che sentissi da un paio di minuti fosse il sangue rimbombare nelle orecchie.

Era cosciente «Resisti, ti porto fuori di qui.» Non ci pensai due volte e gli liberai i polsi con la lama celata, portando le braccia indolenzite lungo i fianchi. Diedi una rapida occhiata in giro, e alla vista del tavolo alla sinistra di Lee mi piegai in due, colto alla sprovvista da un crampo allo stomaco. Mi chiesi se fosse il ripiano dove i suoi carnefici avessero lavorato, e una seconda fitta mi fece intuire di sì. Tentai di ignorare gli oggetti per non immaginare nessuna scena, concentrandomi sulla ricerca di qualcosa di utile, come il secchio in fondo. Fa' che sia potabile. Ah, quanti problemi. Sarebbe morto comunque, disidratato o avvelenato, tanto valeva provare.

Tornai da Charles ancora agonizzante, accostando il bordo del secchio alle labbra spaccate. Al contatto con l'acqua sembrò rinascere, aprì gli occhi e tese il collo verso il metallo freddo e sporco, tentando di ingurgitare quanto più liquido possibile dopo giorni di fame e sete. Provai qualcosa di simile alla pietà, ma sapevo che Charles era l'ultimo che avrei voluto e dovuto compatire. Volevo piangere, uscire da lì e urlare al mondo che l'assassino del loro amato Washington ero io, e che per vendicare la sua morte avevano quasi ammazzato un innocente. Il senso di colpa mi chiuse lo stomaco ancora in subbuglio. L'odore acre del sangue non mi aveva mai schifato, ma sapere che fosse di Charles era tutta un'altra faccenda. E doveva esserne uscito tanto, troppo, per impregnare in quel modo le pareti della cantina. Ringraziai che fosse vivo, nonostante tutto.

«Signore...» stentai a credere che fosse lui, troppo abituato a vederlo scattante e pieno di energie. Mi rifiutavo di credere che fosse lo stesso uomo che, in quel momento, era a terra, senza voce e senza forze, senza dignità, pestato a sangue per un sospetto dai suoi stessi colleghi.

Putnam. E dire che quel bastardo mi era sembrato il più ragionevole dei tre. Stronzate. Poteva essersi limitato a spegnere il suo cazzo di sigaro sul petto di Charles, girare i tacchi e andarsene, lasciando il lavoro sporco ad Artemas e Philip.

«Zitto, ti porto fuori di qui» lo sollevai piano sperando non avesse ossa rotte, e azzardai a mettergli un braccio intorno al mio collo per aiutarlo a camminare.

Una volta in piedi iniziò a lamentarsi e a contorcersi e, preso dall'ansia, controllai che non sanguinasse da qualche parte. «Che c'è?» Chiesi preoccupato, notando solo in quel momento la mano poggiata sul ventre a torturare la carne. Non era ferito e non vedevo segni. «Ti fa male?»

«Ho bisogno...» spalancò di più la bocca per calmarsi e prendere fiato

«Di cosa?» Si conficcò i denti nel labbro inferiore, già in pessimo stato.

«Ho bisogno... Ho bisogno di un catino» si accartocciò su se stesso e feci fatica a credere a ciò che la mia mente formulò in un istante.

«Da quant'è che non urini?» A pensarci non vedevo tinozze e nella stanza non c'era cattivo odore. Che l'avesse trattenuta per tutto quel tempo?

«Tre... Tre gior-ni» gli tremava la mano, che istintivamente portò sulla patta dei pantaloni, stringendo.

«Gesù» girai facendolo voltare e avanzai verso il muro in fondo «sei pazzo»

Soffocò un singhiozzo, trascinando i piedi e cercando di sballottare la vescica il meno possibile. «Ho una dignità» ringhiò con rabbia, i denti serrati e la mano sempre sotto la cintura. «Non mi vedranno mai in quello stato pietoso, coi calzoni pisciati o affogato nel mio stesso sangue» oh, già, meglio con la vescica implosa, vero?

Mi tolsi il suo braccio dalle spalle e gli poggiai la mano al muro, scoprendola insolitamente arrossata. «Svuotati» mi voltai di spalle e lo sentii armeggiare con la cintura, immaginando la mano agitata e impaziente aprire il bottone dei calzoni. Poi nel silenzio si udì un getto debole, accompagnato da mugolii sofferenti e gemiti. Doveva far male, eccome.

Un aahh più acuto degli altri mi costrinse a deglutire. Non girarti, per carità di Dio.

Come avevo potuto permettere un tale scempio? Come avevo potuto lasciare che facessero una cosa del genere a Charles? Lanciai un'occhiata alla sua schiena, lacerata qua e là senza criterio, e mi si strinse il cuore. Era colpa mia, Cristo. Sarebbero bastate tre semplici parole per evitare che gli facessero del male: sono stato io. Artemas voleva un colpevole, che fosse Charles o qualcun altro non credo avrebbe avuto importanza. O sì? Magari era una scusa, era tutta una farsa per sfogare su qualcuno la frustrazione per non essere stato scelto per guidare il Continentale.

No. No, assolutamente. Ward non era interessato al comando. Nessuno di loro lo era. Volevano solo vendicare Washington, diamine, e il coraggio di dire la verità forse non l’avrei mai trovato.

Lanciai ancora un’occhiata alla carne lacerata di Lee, i solchi di sangue secco a rigargli la schiena fino ad imbrattare i pantaloni. Lo guardai in silenzio mentre si richiudeva la cintura, quindi mi avvicinai per aiutarlo a camminare.

Gli presi di nuovo il polso destro, portandomi il braccio intorno alle spalle. «Cosa ti hanno fatto?» Mormorai incredulo. In realtà non lo volevo sapere, faceva già abbastanza male così.

Lui scrollò la testa accennando un sorriso, come se avesse una banalissima ferita da arma bianca. «Nulla di tremendo. Hanno testato la mia resistenza.» Ci voltammo verso la porta avanzando piano, ed io deglutii senza staccare lo sguardo dal pavimento.

«Cristo santo, Charles, dimmi che stai scherzando» serrai la presa sul suo polso e lo guardai. Due profonde occhiaie gli cerchiavano gli occhi stanchi e seri e Dio, questo non mi aiutava ad ignorare i sensi di colpa.

«Non ho detto niente, sta’ tranquillo. So che è questo che ti preoccupa»

«Stronzate!» Inchiodai bruscamente. «Davvero credi che per me la priorità sia salvarmi il culo?»

. Serrai i denti sorvolando sul commento della mia coscienza, obbligandomi a guardarlo in viso. Il fatto che non mi fissasse e che indugiasse nel rispondere confermò ciò che, in fondo, pensavo anch’io.

«No» deglutì piano, passandosi con cautela la lingua sul labbro spaccato. «Non l’ho mai pensato, ma è normale che foste preoccupato. Lo sarebbe stato chiunque. Si sarebbero divertiti in ogni caso, tanto valeva stringere i denti e non mandare all’aria il piano, no?»

Annuii debolmente. «Credo di sì.» Era stato coraggioso. D’impulso lo abbracciai, girandogli il busto e tenendolo stretto col braccio sinistro. Non avrei mai dovuto dubitare di lui. Mai. Se non mi fossi fidato di lui di chi altro avrei potuto farlo? Gli avrei affidato la mia vita altre mille volte.

Lo sentii respirare debolmente contro la mia spalla, staccandolo poi con garbo.

Iniziai a sbottonare la redingote, notando solo dopo qualche secondo l’espressione stralunata di Charles. «Non farti strane idee, voglio solo darti la mia camicia» appallottolai la veste tenendola tra le ginocchia, finendo di aprire i bottoni.

«Oh, no. Non posso, la macchierei di sangue»

«Non sarà la fine del mondo.» Sfilai entrambe le maniche, porgendogli poi l’indumento di cotone. «Avanti, indossala. Non puoi girare così.» Dopo un attimo di esitazione accettò, infilando le braccia e macchiando la trama di rosso in meno di cinque secondi.

 

 

Boh, niente, stavolta sarò sintetica al massimo, lol.

Un biscotto a chi continua a leggere e due biscotti a chi recensisce, aw.

 

 

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Capitolo 38
*** Onore. ***


Capitolo 38

Quando rientrammo a Fort George ringraziai di avere ancora una notevole resistenza fisica, anche se nonostante ciò avevo perso sensibilità alla spalla sinistra, che aveva retto il peso di Charles per tutto il tragitto. Trasportarlo fino al nostro covo e dargli la mia camicia non era servito a diminuire i sensi di colpa. Sentirlo respirare a fatica e vederlo sporco e infreddolito non mi faceva sentire in diritto neanche di guardarlo in faccia. Per non parlare dell'odore dolciastro che stavo inalando da almeno mezz'ora, tutto quel sangue ormai incrostato alla stoffa aveva iniziato a darmi il voltastomaco.

Abbassai lo sguardo sulla mano sinistra di Charles, stretta alla sua stessa carne all'altezza dello stomaco e il gorgoglio che sentimmo poco dopo mi fece intuire che soffrisse per i crampi dovuti alla fame. Istintivamente accelerai il passo, sperando che riuscisse a starmi dietro. «Ce la fai?» Col braccio sinistro gli diedi una spinta da sotto l'ascella, tirandolo su e alleggerendo di poco il peso. «Coraggio, mancano pochi metri.» Annuì in silenzio, la testa china e gli occhi tenuti aperti a fatica.

Sussultai quando la porta che collegava il piazzale e l'interno del forte si aprì sola, lasciandomi interdetto e con la mano a mezz'aria.

«Charles!» Jenny comparve nel mio campo visivo, attaccandosi con uno slancio al collo di Lee. Lo vidi sorridere appena mentre mia sorella singhiozzava sulla sua spalla. «Amore mio, cosa ti è successo?» Charles non rispose, limitandosi a guardarla con aria stanca mentre lei gli teneva entrambe le mani sul viso.

«Deve mangiare e riposare, ti spiegherò tutto più tardi» intervenni. Mi lanciò un'occhiata preoccupata, asciugandosi una lacrima con una mano.

«Sto bene.» Guardai il mio pupillo e deglutii nonostante avessi la lingua secca come un pezzo di legno. «Finché respiro non c'è bisogno di piangere.» Per riflesso gli strinsi di poco il polso destro, il suo braccio ancora intorno al mio collo.

«Smettila, non sai quanto mi hai fatta preoccupare» e ignorando la mia presenza, Jenny gli schioccò un bacio sulla bocca, mentre Charles gemeva per il brusco contatto con il labbro spaccato. Nonostante questo sembrò apprezzare, riservandole uno sguardo innamorato.

Io grugnii. «Avvisatemi quando la smettete di copulare, voi due. Potreste avere almeno la decenza di farlo dentro.» Avanzai trascinando Lee oltre la soglia, lasciando che si appoggiasse al muro e approfittandone per riposare i muscoli. Lo guardai con la coda dell'occhio mentre mi massaggiavo la spalla con una mano. Era pallido e a stento stava in piedi. La camicia era completamente imbrattata di sangue, assumendo sfumature più sbiadite lì dove le ferite erano meno profonde.

«Ti faccio preparare qualcosa di caldo» ed eccola lì, Jennifer Scott, a crogiolarsi nel ruolo della mogliettina premurosa e amorevole che ha sempre tutto sotto controllo. «Io ti preparo l'acqua per il bagno» Charles distese le labbra in un sorriso tirato, annuendo e prendendosi l'ennesima carezza, osservando poi Jenny incamminarsi su per la rampa di scale.

«Riesci a salire?» Domandai riavvicinandomi. «O magari vuoi una moina anche da parte mia?» Sogghignai in risposta all'occhiataccia di Lee, che non reagì nemmeno quando gli pizzicai una guancia con il pollice e l'indice.

«Ce la faccio» si staccò dal muro con un colpo di reni e seguì Jennifer, salendo su per la rampa di scale senza mai togliere la mano dalla parete.

Entrati nello stanzino da bagno notai immediatamente la tinozza di legno piena d'acqua. Era grande abbastanza da contenere una persona al suo interno, ma Charles non era in condizioni di scavalcare ed immergersi. Puntò la punta del piede destro contro il tallone sinistro, sfilando uno stivale e lasciandolo al centro della stanza; stessa sorte toccò all'altro.

Jenny lo aiutò a togliersi la camicia, che finì appallottolata in un angolo della stanza. La guardai un po' dispiaciuto: mi sarebbe toccato buttarla, viste le condizioni in cui verteva. Ma il peggio doveva ancora arrivare.

«Santo cielo» non riuscì a trattenersi davanti al grumo di sangue che Lee aveva sul pettorale sinistro, lì dove mancava il capezzolo. «Ma che ti hanno fatto?» Chiese con un misto di ribrezzo e paura, ma Charles non rispose, abbassando gli occhi sulla cintura e aprendosi i calzoni, anch'essi sporchi, facendoli scivolare fino alle caviglie.

Non avrebbe parlato se non avessi iniziato io il discorso, lo conoscevo bene. E cosa avrebbe dovuto dire, poi? Che era stata colpa mia? Che l'avevano portato via con l'inganno per fargli ammettere l'omicidio di Washington? No, non l'avrebbe mai fatto. Aveva difeso il mio onore davanti alla morte, Jenny non poteva di certo competere con un paio di pinze o una frusta.

«Ha salvato me» farfugliai. Glielo dovevo, dopotutto. Se avesse dato aria alla bocca dopo il primo pugno avrebbe salvato il capezzolo e qualche litro di sangue, invece aveva preferito tacere. Tacere per me, per l'Ordine, era il minimo che potessi fare.

Jenny si voltò nella mia direzione, mentre Charles si sfilava definitivamente i pantaloni, restando in mutande. «Come sarebbe?» Gli lanciai un'occhiata piena di gratitudine, prontamente ricambiata da un sorriso di circostanza che interpretai come un semplicistico "ho fatto solo il mio dovere, Signor Kenway", e la cosa non mi piacque. Non mi piacque affatto. Non volevo che mi difendesse perché ero un suo superiore, perché era un suo dovere. Mi piaceva pensare che lo facesse per affetto. Per motivi più intimi e personali.

Mentre prendevo coraggio per parlare, Lee si appoggiò al recipiente con le mani, piegandosi leggermente in avanti in attesa di Jenny, che intanto stava riempiendo d'acqua un secchio più piccolo. Glielo rovesciò piano sulla testa, bagnandogli i capelli, il collo e le spalle, iniziando poi a strofinare le pelle sporca di sangue con un panno insaponato. E se Jennifer era più che disposta a fare del bene, sul viso di Charles c'era solo tanta umiliazione. L'amore che Jenny metteva nel pulirgli le macchie incrostate non era sufficiente a farlo sentire meglio, al contrario lo convinceva del fatto di essere un debole, qualcuno di cui occuparsi, per cui stare in pena.

Giunsi le mani dietro la schiena e sospirai, appoggiandomi alla parete. «Artemas ha rapito Charles, poi l'ha torturato per fargli ammettere di aver ucciso George Washington» con la seconda secchiata d'acqua la pelle di Lee iniziò ad assumere un colorito normale, lavando via gran parte del sangue secco ed evidenziando il contrasto con le ferite.

Jenny rallentò in prossimità di un taglio sulla scapola, facendo scivolare l'altra mano fino alla nuca di Charles, tra i capelli, in quello che interpretai come un gesto d'affetto. «E tu non hai detto nulla, vero?» Lo sapeva. Lo sapeva anche lei, da lui non ci si poteva aspettare altro.

«Ho giurato» torse il collo di lato, esasperato per la posizione scomoda e la carne martoriata. «Quando sono entrato nell'Ordine ho giurato di difenderne i principi ad ogni costo, anche con la vita, se necessario.» Ed io, in quanto Gran Maestro, avrei dovuto salvaguardare la vita dei miei uomini. Era uno dei miei compiti principali, ed ero stato a tanto così dal perdere il mio ultimo fratello, nonché successore. «Non avevo scelta.» Non meritavo tanta fedeltà, e riceverla incondizionatamente non aiutava a gettarmi alle spalle le mie mancanze come Templare.

«Deve pagarla.» Alzai gli occhi da terra e guardai mia sorella. «Deve pagarla cara, Haytham. Non puoi lasciar correre» no, non posso, ma che faccio?, lo ammazzo e rischio la forca per aver ucciso un generale dell'esercito continentale?... Oh, beh, ho già sulla coscienza l'ex comandante in capo, per un banale sottoposto non dovrebbe accadermi nulla. Come no. «Poteva ucciderlo, per la miseria. Devi fare qualcosa.» Devi. Devi, Haytham Kenway, non hai una coscienza se non brami vendetta neanche per Charles.

E fu lui a rispondere al posto mio. «No, non dovete fare niente.»

«Non essere sciocco!» Strillò smettendo di sfregargli il braccio e voltandosi verso di me. «Che fine ha fatto la giustizia, eh? Quell'uomo ha torturato Charles senza prove, ha lasciato l'esercito senza un comandante» anche io, «dovranno punirlo in qualche modo!» Quindi puniranno anche me? E che ne sarà dell'Ordine? «Se non ci pensa il Consiglio lo farai tu!»

«Smettetela.» Guardai ancora Charles, le mani appoggiate al bordo di legno, l'acqua che gli gocciolava dai capelli. «Sono solo discorsi campati in aria, non potete fargli nulla. Né a Ward né a Philip e Israel.»

Jenny sbatté con frustrazione il panno insaponato contro la tinozza cui era appoggiato Lee. «E perché?, per la loro carica militare? E la tua non vale niente?»

«Se li fate arrestare non avrò più qualcuno che guidi le truppe, il che significherebbe perdere la guerra. È questo ciò che vuoi? Vuoi essere uccisa dalle giubbe rosse? Io no!»

Venni scosso da un paio di brividi e improvvisamente sentii freddo. Il discorso di Charles era così razionale da sembrare falso, quasi come se Artemas gli avesse imposto di dissuaderci dai nostri propositi di vendetta.

«Ma ti stai ascoltando?» Guardai ancora Jenny, paonazza di rabbia. «Hai intenzione di lasciar correre solo perché altrimenti non vinceresti la guerra?»

«Non si tratta di vincere o perdere, ma di vivere o morire» rispose acidamente, come se per noialtri fosse un concetto troppo complicato da afferrare. «E poi non avrebbe senso. Lasciate perdere, per favore» sussurrò passandosi una mano sugli occhi. «Lasciate perdere.»

«Non capisco» Jenny diede voce ai miei pensieri, esternando tutto lo stupore di cui era capace.

Effettivamente era strano. Charles non era così, non lo era mai stato. Lui era vendicativo e impulsivo, una testa calda che spesso ero stato costretto a sedare. L'unica spiegazione che davo a quell'atteggiamento così remissivo e controllato era la paura. Era ancora sconvolto per ciò che gli era successo, e temeva che tirare la corda con Artemas gli avrebbe causato altri guai.

«Non c'è niente da capire!» Sbottò. «Io non sono come lui, e non ho intenzione di abbassarmi a questi livelli. Senza contare che se puniste Ward dovrebbero subire lo stesso trattamento anche Philip e Putnam.» Quindi la pensava veramente così? Ripagare un uomo con la stessa moneta equivaleva ad abbassarsi al livello di un omicida? Perché Charles sarebbe morto se non l'avessi trovato in tempo, i fatti stavano così.

No, non ero d'accordo. Pretendere giustizia non mi conferiva nessun potere decisionale sulla vita altrui, non avrebbe dovuto elevarmi a essere superiore conferendomi l'onore di decidere chi poteva vivere e chi doveva morire, semplicemente doveva ristabilire un equilibrio compromesso, nulla di più.

Siamo uomini, no? Noi non perdoniamo, siamo esseri imperfetti, e come tali sbagliamo. Ma c'è chi può porre rimedio, ci sono le leggi e le norme morali appositamente per chi non sa vivere secondo le basilari regole di convivenza del contratto sociale. E sarebbero dovute valere anche per me. Ero un assassino, un omicida senza scrupoli, ma ero scaltro. Scaltro e fortunato, talvolta, ma nel caso avessero trovato le prove sarei finito sulla forca. Per Charles era diverso. Era innocente, Dio, non avrebbero potuto torcere un capello a me, figuriamoci a lui.

«E qual è il problema?» Intervenni. Aveva ragione Jenny, c'era poco da fare. Non mi importava chi fosse coinvolto, poteva esserci di mezzo Gesù Cristo in persona, non avrei cambiato idea. Nessuno poteva credere di fare i suoi porci comodi con uno dei miei uomini e sperare di farla franca. «Nominerai altri tre generali.»

«Il problema è che vanificherei gli sforzi fatti finora solo per la vendetta!» Sbatté un palmo contro il legno, il bicipite in tensione e pronto a scattare in un altro attacco d'ira.

«Stai mettendo da parte l'onore per la tua carriera, santo Dio, Charles!» Parlò ancora Jenny, che con stizza gettò a terra la pezza bagnata. «Dovresti rivedere le tue priorità!» Gli urlò contro.

«Vincere questa fottutissima guerra mi darà onore! Quei tre figli di puttana mi aiuteranno a cacciare gli Inglesi dalle colonie, e finché ci sarà anche solo una giubba rossa su queste terre non vi permetterò di alzare un dito su di loro!» Ci guardò entrambi, un dito accusatorio puntato contro Jenny. «Non ve lo posso permettere!»

«Quei tre ti hanno quasi ammazzato» dissi ancora. Avanzai di qualche passo, Charles mi guardava in silenzio. «Ti hanno lasciato in uno scantinato legato a una sedia, senza cibo e acqua per tre giorni. Ti hanno ferito e picchiato, credi davvero che uscito di qui ti accoglieranno a braccia aperte una volta tornato al comando?»

Deglutì a vuoto, serrando i denti e il pugno sinistro. «Faranno ciò che gli ordinerò. Sono il comandante, devono farlo!»

«Sai bene anche tu che non lo faranno. Nelle migliori delle ipotesi tenteranno di sabotare i tuoi piani, esattamente come hai fatto tu con Washington, o potrebbero ucciderti nel sonno, mal che vada. Non aspettarti nulla di buono da Ward, e neanche da Putnam! È un codardo opportunista!»

«Non permetterò che un intoppo del genere rovini tutto. Questa è la mia occasione, non posso sprecarla!»

 

 

Ebbene sì, lol, dopo tre settimane ricompaio dal nulla. È tutta colpa della sessione estiva, lo giuro, mi sta prosciugando l’anima.

Vaaaa beh, grazie come sempre a chi lascia un parere e a chi legge soltanto, a presto –si spera, lol-.

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