Cuore di vetro di fren (/viewuser.php?uid=22998)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La lettera ***
Capitolo 3: *** I doveri di un Duca ***
Capitolo 4: *** La Spada di Ombra ***
Capitolo 5: *** Ritrovarsi ***
Capitolo 6: *** Fragile ***
Capitolo 7: *** Le figlie del buio ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
Prologo
L’amore
è un’illusione.
L’amore non esiste.
Levo
il braccialetto con il ciondolo di smeraldo e resto a guardarlo
dondolare sulla superficie scura e immobile del lago, indecisa se
lasciarlo cadere nell’acqua gelida e vederlo svanire per
sempre.
Intorno
c’è solo silenzio, un silenzio che mette i
brividi.
Ma
io non ho paura. Ciò che temevo di più si
è avverato, cosa dovrei temere?
Nei
miei incubi c'era sempre il vetro.
Vetro
sottile, vetro che poteva andare in frantumi da un momento
all'altro, sbriciolandosi in migliaia di schegge impossibili da
rimettere insieme.
A
terrorizzarmi, tuttavia, non era solo questo. A stringermi le viscere
in una morsa di paura era quella sua inquietante trasparenza, dietro
cui scorgevo, confusi, i lineamenti di Gourry.
Gourry,
che non poteva vedermi, che non riusciva a sentirmi.
Gourry,
per sempre separato da me da quella lastra così
delicata eppure, allo stesso tempo, così invincibile.
Niente
è più fragile e freddo del vetro.
Ora
lo so.
*Grazie
a Raffy Chan per la bellissima copertina, che personalmente adoro!
<3
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Capitolo 2 *** La lettera ***
La lettera
La lettera
Mi chiedo spesso se tu sei
felice come me.
Se poi ti basta quello che ci unisce,
un po’ di amore e poche regole.
(Chiara, Straordinario)
Tre mesi prima
Il mare era
una tavola piatta, liscia e trasparente. Le onde lambivano il
bagnasciuga, per poi ritrarsi pigramente. Nel cielo del tardo
pomeriggio i gabbiani lanciavano rauchi richiami, le ali spiegate
nel blu.
Quanta pace. Quanta stramaledetta quiete.
Mi ritrassi
dalla finestra e gettai un'occhiata torva al mio adorabile marito, che
dormiva della grossa tra lenzuola fresche e immacolate, nel grande
letto a baldacchino che troneggiava al centro della stanza. Nulla
sembrava turbare il suo sonno.
Tossicchiai, dapprima in maniera lieve, poi in modo sempre più insistente. Gourry mi ignorò.
Sollevai
tra l’indice e il pollice il testo magico che stavo sfogliando,
prima di annoiarmi anche di quello, e lo lasciai cadere a terra con un
tonfo.
«Ops!»
Gourry non fece una piega.
Sconfortata,
e anche un po’ irritata, tornai a rivolgere al mare il mio
sguardo. Il sole iniziava a tramontare, rendendo l'orizzonte una linea
infuocata.
Era la nostra luna di miele.
Benché
fossero passati quattro anni dal matrimonio, non avevamo mai avuto un
attimo di pace, da allora. Tra viaggi e missioni in cui, volente e
nolente, ci eravamo trovati coinvolti, avevamo sempre rimandato il
momento in cui ci saremmo lasciati ogni cosa alle spalle per rifugiarci
in un paradiso tropicale.
Mare, sole,
abiti leggeri, cocktail di frutta con gli ombrellini e tanto meritato
relax. Questo era quello a cui pensavamo quando, più spesso di
quello che avremmo voluto, passavamo le notti all'addiaccio, stretti
l'una tra le braccia dell'altro. Quando ci sfilavamo gli abiti
infangati e ricoperti di polvere, dopo aver passato tutto il giorno in
viaggio, e ci amavamo in giacigli di fortuna, in vecchi materassi
infestati di parassiti, braccia e gambe doloranti per le battaglie e le
ferite che iniziavano appena a rimarginarsi, sognavamo sempre quel
posto.
Quel
paradiso perduto era il nostro rifugio segreto, il luogo in cui
andavamo con la fantasia, immaginandoci felici e rilassati in riva a un
mare cristallino; senza pensieri, senza preoccupazioni. Solo io e
Gourry.
Avremmo
mangiato aragosta grigliata, bevuto latte di cocco e dormito con le
finestre spalancate, mentre il profumo del sale ci accarezzava la pelle
nuda.
Per quattro anni, tuttavia, eravamo stati troppo presi dalla vita per realizzare quel sogno.
E poi era successo.
Una mattina
mi ero svegliata con lo stomaco in subbuglio. Mi mancavano le forze. Mi
ero trascinata fino al catino sentendomi uno straccio e maledicendo, in
cuor mio, l'oste della locanda in cui alloggiavamo. La zuppa di pesce
che ci aveva servito la sera prima era fin troppo speziata per non
sembrare sospetta. Al ricordo della cena le mie viscere si erano
contratte in uno spasmo e non avevo potuto fare altro che piegarmi sul
catino e vomitare, fino a quando un sapore acre non mi aveva invaso il
palato. Gourry si era sollevato dai cuscini, intontito dal sonno eppure
stranamente vigile, come era sempre quando, in un modo che dopo tutti
quegli anni non avevo compreso del tutto, avvertiva che qualcosa non
andava.
«Lina!»
aveva esclamato, scostando le coperte e precipitandosi a sorreggermi.
Le ginocchia mi si erano piegate e sarei caduta a terra se lui non mi
avesse afferrato al volo.
«Va
tutto bene, Gourry» avevo mormorato qualche minuto dopo, seduta
sul bordo del letto. Lui, al mio fianco, mi guardava con aria
preoccupata.
«Sarà stata la zuppa di ieri a farmi male. Chissà che diamine c'era, là dentro.»
«Ho
mangiato anche io quella zuppa, Lina, e non mi ha fatto niente.»
Mi aveva portato una ciocca di capelli dietro l'orecchio, poi la sua
mano, fresca e delicata, si era posata sulla mia fronte.
«Non scotti. Non hai la febbre.»
Mi ero stretta nelle spalle.
«Avrò preso freddo, tutto qua.»
Solo quando Gourry, dopo essersi vestito, era sceso a farmi preparare un infuso, mi ero portata le mani al ventre, deglutendo.
Da due mesi non perdevo sangue.
Non avrei
dovuto stupirmene. Ero sposata da quasi quattro anni, amavo mio marito
e lui amava me. Benché non avessimo mai affrontato l'argomento,
sapevo che Gourry desiderava dei figli, e in fondo non avevamo mai
fatto nulla per evitare che accadesse.
Tuttavia, era stato come ricevere una doccia gelata senza preavviso.
Un bambino.
Io, Lina Inverse, terrore dei banditi, sterminatrice di draghi, maga geniale... alle prese con pappe e pannolini?
Era troppo. Ero tornata al catino e avevo vomitato di nuovo.
Nei giorni
successivi ci eravamo mossi entrambi come se avessimo del cristallo
sotto i piedi. Non parlavamo di quel mio strano malessere che mi
rivoltava lo stomaco e mi faceva avvertire sapori e odori in maniera
del tutto diversa da come li avevo percepiti fino a poco tempo prima.
Fingevo di avere una forma influenzale e ignoravo quel minuscolo
essere, che immaginavo più minuto di un petalo di viola, che si
era impossessato del mio corpo, iniziando a stravolgerlo. Avrebbe fatto
lo stesso con la mia vita e io... non volevo. Ne ero terrorizzata.
Poi, una
sera, Gourry mi aveva abbracciato, sul piccolo letto che condividevamo,
e aveva posato una lieve carezza sul mio ventre ancora piatto.
«Io sono felice, schifosamente felice. Vorrei che lo fossi anche tu.»
Ero rimasta immobile, lo sguardo fisso nella notte.
Ero felice? Non lo sapevo.
Ero spaventata, arrabbiata, impreparata. E mi sentivo impotente, sopraffatta e un milione di altre cose. Ma felice?
La
verità era che pensavo di non esserne in grado, di non essere
all'altezza di quel compito che mi avrebbe tolto ogni libertà.
Come potevo
prendermi cura di qualcuno che avrebbe dipeso completamente da me?
Capirne i bisogni, anticiparli, fare in modo che non avesse mai fame,
mai freddo, che non soffrisse?
Lo facevo con Gourry, è vero. Ma io e Gourry ci eravamo scelti.
Noi ci eravamo scelti.
Una lacrima era scesa silenziosa sulla mia guancia e io avevo sperato che Gourry non se ne rendesse conto.
Nei giorni
successivi avevo finto un coraggio che non trovavo da nessuna parte, in
me, e mi ero definita contenta. Ero una donna, ormai. E amavo un uomo
che non mi aveva mai deluso. Non potevo essere io a deludere lui.
Sarebbe stato un padre fantastico, Gourry, ne ero convinta.
Poi, una sera, mi aveva lasciato del tutto spiazzata.
«Forse
dovremmo fermarci» aveva detto, cercando la mia mano attraverso
il tavolo su cui stavamo cenando. «Per un periodo. Sei
così pallida, ti stanchi facilmente…»
«Non
sono malata, Gourry» avevo ribattuto, piccata, sottraendo le dita
dalla sua stretta. Avevo ricominciato a mangiare, ignorando il suo
sguardo colmo di apprensione.
Sì,
ero stanca. Ed era vero, la nausea non mi dava tregua. Ma non glie
l’avrei data vinta, non mi sarei fermata. Non potevo lasciare che
quella nuova condizione mi limitasse. Che mi vincolasse, sottraendomi
alla vita che avevo sempre vissuto.
«Stavo pensando che potremmo…»
«No.»
«Lina, cerca di essere ragionevole. Non siamo più solo io e te, non si tratta più solo di noi…»
Quella
frase mi aveva turbato più di quanto, in seguito, sarei riuscita
ad ammettere. Quella frase aveva ribaltato il mio mondo,
Non volevo che quel bambino cambiasse ciò che eravamo. Non volevo che cambiasse me.
Mi ero sollevata e, lasciando il piatto quasi pieno, ero uscita dalla locanda. Avevo bisogno di aria, mi sentivo soffocare.
In seguito,
quando lo avevo perso, quel bambino che avevo avvertito come una
minaccia, finché era esistito, Gourry non mi aveva rimproverato
niente di quello che avevo detto o fatto.
Gourry mi era rimasto accanto, in silenzio. Comprensivo, paziente, premuroso.
Gourry.
Era stata
sua l’idea di concederci quella luna di miele tardiva, quella che
non avevamo mai fatto, perché eravamo troppo impegnati a
inseguire la vita.
Avevamo
bisogno di allontanarci da tutto, forse persino da noi stessi. Ricucire
una ferita invisibile era molto più difficile che sanare una
ferita reale, per cui sarebbe bastato un Recovery.
Mi ero stretta nelle spalle, quando me ne aveva parlato una notte, tenendomi stretta a lui, ma non mi ero opposta.
Se Gourry
sentiva di non riuscire più ad andare avanti, mi sarei fermata
anch’io, anche se non ne avevo bisogno. Ero forte, più di
lui. Ero Lina Inverse, per tutti i diavoli.
Così,
da due settimane abitavamo quell’isola pressoché deserta.
Dormivamo di giorno e di notte ci concedevamo lunghe passeggiate al
chiaro di luna. Andavamo in giro mezzi svestiti, disarmati, senza
preoccuparci di nulla.
E ci annoiavamo, a dismisura.
Mi chinai a
raccogliere da terra il libro che avevo lasciato cadere solo pochi
minuti prima e lo lanciai verso di lui, colpendolo a una spalla. Si
tirò su di scatto, i capelli arruffati e un velo di barba che
gli sporcava le guance. Avevamo smesso di pettinarci, a volte persino
di lavarci. Non potevamo andare avanti così, o nel giro di poco
saremmo diventati due selvaggi.
«Che diamine…?»
«Avevi una zanzara sul braccio.»
Gourry aggrottò le sopracciglia, sollevando il libro. Doveva avere circa settecento pagine.
«Sei
sicura che fosse una zanzara? A giudicare dalla mole, sembrava che
volessi sterminare un intero esercito di zanzare.»
«Beh, era una zanzara molto grossa» specificai, facendo spallucce.
Gourry decise che era più saggio lasciar perdere. Si stropicciò gli occhi con il dorso della mano, sbadigliando.
«Usciamo a fare due passi?»
«Sono stufa, Gourry.»
«Allora restiamo qua.»
«Sono stufa anche di quello.»
«Ahi, ahi… qualcuno fa i capricci?»
Incrociai
le braccia al petto, guardandolo storto. La sua pelle, solitamente
chiara, aveva assunto una sfumatura dorata che lo rendeva, se
possibile, ancora più bello. Anche i capelli si erano schiariti
con il sole e il mare. Sembrava un Dio caduto, per sbaglio, nel mio
letto.
Dei, nostro figlio sarebbe stato bellissimo, se solo…
Scossi la testa, per scacciare quel pensiero.
«Temo che la mia pazienza sia stata messa fin troppo alla prova» replicai, sbuffando.
Anche io ero abbronzata. E stavo bene.
«Vorrei
rimettermi in viaggio, Gourry. Ormai conosco ogni singolo sasso di
questa benedetta isola.» Lui restò a guardarmi per un
periodo che mi parve lunghissimo e nei suoi occhi lessi il timore che
stessi bleffando. Era da me, in effetti. Però ero davvero
stanca; era stato fantastico staccare da tutto e tutti, ma io volevo
tornare a viaggiare, a inseguire ambizioni. Volevo tornare a essere me
stessa.
«D'accordo, Lina. Possiamo ripartire domani, se vuoi.»
Mi lanciai verso di lui e gli riempii il volto di baci.
«Sì!»
La luna,
quella notte, era un disco perfetto. Sospesa sopra il mare lanciava
riflessi d'argento sull'acqua scura e immobile. Seduti sulla spiaggia,
la mia guancia posata sulla spalla di Gourry e la sua mano che mi
accarezzava dolcemente i capelli, restammo a osservare il paziente
rincorrersi delle onde che si infrangevano sul bagnasciuga, in un gioco
che andava avanti da millenni.
Il mare, così profondo, insondabile.
Guardarlo
mi faceva rabbrividire. Sarei stata sua, se l'ostinazione di un uomo
non mi avesse strappato a quegli abissi scuri, riportandomi alla vita.
Per un breve istante il volto di Joy si fece strada tra i miei
pensieri. I ricci scuri, gli occhi grigi, l'espressione cinica volta a
nascondere ogni fragilità.
Mi mancava,
Joy. Non lo avevo più rivisto, dopo il matrimonio. Ma avrei
mentito dicendo che non lo avevo pensato. Più di una volta avevo
steso una pergamena davanti a me, intingendo il pennino
nell'inchiostro. Ma la mia mano si era bloccata dopo le prime,
superficiali, parole. Cosa avrei dovuto scrivergli, esattamente? Cosa
si scrivevano due persone che avevano condiviso un'esperienza unica e
indescrivibile come quella di compenetrarsi completamente, fondendosi
l'una nell'altra? Non c'erano parole che sarebbero risuonate abbastanza
forti. Accartocciavo il foglio e lo gettavo via quasi intonso. Uno
spreco che in altre circostanze mi avrebbe fatto rabbrividire, ma non
in quel caso. Le lettere che iniziavo per Joy non potevano essere
riciclate in nessun modo.
Nemmeno lui
mi aveva mai scritto, in fondo. Forse mi aveva dimenticata, assorbito
dalla sua nuova vita. Ma, più probabilmente, la verità
era che nemmeno lui sapeva cosa dirmi.
Sollevai il
viso, guardando il volto liscio e perfetto di Gourry. Si era fatto
fatto la barba, prima di uscire. Posai una lieve carezza sulla sua
mascella forte, scendendo verso le linea più sinuosa del collo.
Mio marito.
Dopo quattro anni quel pensiero continuava a incantarmi. Amavo
quell'uomo più di qualsiasi altra cosa, non mi ero mai pentita
di averlo scelto per il resto della vita.
«Ti
mancherà questo posto?» mormorò lui, continuando a
guardare il mare. Il rumore delle onde era l'unico suono a riempire il
silenzio.
«Probabilmente sì.»
«Ora,
però, non vedi l'ora di andartene.» Scosse la testa e io
capii che avrebbe voluto aggiungere dell'altro. Attesi qualche secondo,
ma Gourry rimase in silenzio. Mi scostai da lui, guardandolo accigliata.
«C'è qualche problema, Gourry?»
«No. Beh... è solo che...»
«Che?»
«Non lo so, Lina. A volte ho l'impressione che tu non riesca a essere felice in nessun posto.»
«Di
che diavolo stai parlando, Gourry? Io sono felice quando sono con te,
dove siamo non conta nulla. Non ha mai contato nulla.»
«Lo
so. Scusa, era solo un pensiero così» si affrettò a
dire lui, cingendomi le spalle con un braccio. Ma io sentivo che dentro
covava qualcosa, qualcosa che non era ancora riuscito ad esternare. Di
certo doveva avere a che fare con quella piccola scintilla di vita che,
per un breve istante, aveva riempito il suo cuore di gioia e colmato il
mio di terrore. Non ne avevamo più parlato. Forse avremmo
dovuto, ma per dire che cosa?
«Torniamo a casa» disse Gourry, sciogliendo il nostro abbraccio e sollevandosi.
«Non
è la nostra casa, quella» ci tenni a puntualizzare. Le mie
parole si persero nella notte. Gourry si era già allontanato.
Quando mi
stesi sul materasso, dopo aver spento la candela, Gourry mi
attirò a sé. La sua bocca si impadronì della mia,
mentre con le mani mi accarezzava le cosce, risalendo fino ai fianchi.
C'era irruenza nei suoi gesti, non la delicatezza con cui mi aveva
preso dopo quello che era successo, quando temeva che fossi fragile
come vetro e che sarebbe bastato un nulla per mandarmi in pezzi. Se
voleva la guerra, avrebbe avuto pane per i suoi denti. Mi sottrassi
alla sua presa, invertendo le nostre posizioni, e mi misi a cavalcioni
su di lui. Gourry abbassò con uno strattone le sottili spalline
della camicia da notte, prendendo tra le mani i miei seni. Affondai le
dita tra i suoi capelli, stringendo le ciocche dorate nei pugni e
schiusi le labbra con un gemito quando la sua lingua lambì i
miei capezzoli.
Facemmo
l'amore pervasi da una passione rabbiosa, stringendoci l'uno all'altra
come se non avessimo altri appigli per non affondare. Facemmo l'amore
con gli occhi chiusi, per non scorgere ciò che non ci andava di
vedere. Quando era ormai al limite, Gourry mi afferrò il volto
con le mani. Avvertii il suo fiato caldo sul lobo dell'orecchio.
«Dammi
un figlio» sussurrò. «Con i tuoi occhi, con i tuoi
capelli. Non desidero altro.» Il suo non era un ordine, ma una
richiesta che risuonò come una supplica. Avrei voluto scostarmi,
invece lui mi tenne su di sé fino alla fine, impedendomi di
sottrarmi.
Dopo, con
il piacere che risaliva a ondate lungo il mio corpo, spandendosi come
un'eco tra i miei confusi pensieri, rimasi con gli occhi aperti nel
buio, fino a quando il respiro di Gourry non divenne pesante e
regolare. Attesi ancora qualche minuto, per sicurezza, poi mi sollevai
e, senza darmi il disturbo di rivestirmi, mi avvicinai al baule dove
avevo riposto i miei abiti e tutti i miei orpelli. Il mio mantello
magico giaceva arrotolato e impolverato. Lo sollevai, scrollandolo, e
infilai la mano in una delle numerose tasche segrete che avevo creato
con la magia. Non ci misi molto a trovare quello che cercavo:
stramonio. Un'erba che, se usata nelle giuste dosi, costituiva un
rimedio pressoché infallibile contro una gravidanza
indesiderata.
Quando l'infuso fu pronto gettai solo una breve occhiata a Gourry, che dormiva inconsapevole a pochi passi da me.
Gli stavo mentendo, e avevo giurato di non farlo mai. Ma non ero tagliata per fare la madre, come poteva non rendersene conto?
Avevo già fallito una volta, non potevo permettere che accadesse di nuovo.
Sollevai il bicchiere e me lo portai alle labbra.
Era
egoista, da parte mia, ne convenivo. Tuttavia, non avevo mai preteso di
essere una brava persona. Gourry pensava che lo fossi, e questo mi
lusingava. Ma, di fatto, non lo ero.
Trangugiai
il liquido scuro e amaro prima di riporre ogni cosa ordinatamente. Poi
tornai a letto e mi stesi accanto a lui, sentendomi uno schifo.
«Mi
dispiace» mormorai, nel silenzio della notte. «Ti amo, ma
non posso darti ciò che mi chiedi, Proprio non posso.»
Il giorno
dopo eravamo, finalmente, in viaggio. Lasciare l'isola mi aveva un po'
immalinconito. In fondo, eravamo stati bene. Ora, però, potevamo
ripartire, avevamo le energie per farlo. Raggiungemmo la costa su
un'imbarcazione piuttosto precaria e a piedi ci incamminammo lungo la
strada che portava alla locanda delle Tre Arance. Avevamo lasciato quel
recapito per chiunque avesse voluto scriverci nel periodo che avremmo
trascorso sull'isola, ma in tutta onestà dubitavo di trovare
delle missive. Di solito, chi aveva bisogno di contattarci usava ben
altri stratagemmi, tipo apparire all'improvviso in uno sbuffo di fumo o
altre cose del genere.
Invece,
contro ogni previsione, c'era una busta ad aspettarci e, a giudicare
dalla grana della carta e dagli svolazzi dell'inchiostro, doveva essere
qualcosa di importante.
L'oste fece
spallucce quando gli chiedemmo chi la aveva consegnata: non riusciva
proprio a ricordarselo. Sulla busta c'era solo il nome di Gourry.
Gourry
Gabriev. Non 'Signori Gabriev' o 'Famiglia Gabriev'. Chiunque gli
avesse scritto non mi aveva tenuto in nessuna considerazione.
Gourry si
girò la missiva tra le mani per qualche istante, incerto. Forse
aveva riconosciuto la calligrafia, o lo stemma sul sigillo in
ceralacca, che ruppe dopo una breve esitazione.
Dalla busta
cadde fuori un foglio. Mio marito aggrottò le sopracciglia e io
mi sollevai in punta di piedi, cercando di scorgere il testo.
Non erano che poche parole:
Nostro padre sta morendo. Ha chiesto di te.
Torna a casa, se puoi.
William
Sollevai lo
sguardo su di lui. Non sapevo cosa dire, né tantomeno cosa fare.
La sua famiglia era sempre stato un argomento spinoso. Gourry non amava
parlarne e io, dopo aver posto qualche cauta domanda, all'inizio della
nostra amicizia, avevo capito che non avrei ottenuto nulla di
più di qualche nebulosa informazione. Sua madre era morta quando
era ancora un bambino in fasce e a crescerlo era stata la nonna, una
figura quasi mitica della sua infanzia. Quanto al padre e al fratello,
che dovevano essere fatti della stessa pasta, non gli avevano mai
perdonato di essere fuggito portando con sé la leggendaria Spada
di Luce, una preziosa eredità che la famiglia Gabriev si
trasmetteva di generazione in generazione.
«Non
l'ho presa perché la desideravo» mi aveva rivelato, tanti
anni prima. «L'ho portata via perché stava avvelenando il
cuore delle persone che amavo. Il potere logora l'anima degli
uomini.»
Le sue parole mi avevano fatto rabbrividire. Sì, io lo sapevo. L'avevo provato sulla mia pelle.
Gourry,
invece, sembrava estraneo a quel richiamo. Infatti non si era fatto
problemi a cedere la Spada, quando gli era stato imposto come prezzo da
pagare per riavere me.
La sua anima era incorruttibile. Il suo cuore era puro e trasparente come il vetro.
Solo lui poteva portare l'arma di luce senza restarne abbagliato. Questo, la sua famiglia, non lo aveva mai accettato.
E ora suo padre stava morendo, e voleva la resa dei conti.
«Cosa
pensi di fare?» gli domandai, aggrottando le sopracciglia. In
fondo, non avevo nessun bisogno di chiederglielo.
«Devo andare. Non posso sottrarmi ai miei doveri.»
«Già.»
«Non sei obbligata a venire con me. Non sarà una cosa... allegra.»
«Elmekia
dista tre giorni di cammino, da qua. Se ci mettiamo in viaggio adesso,
entro domani saremo già a buon punto.»
«Lina...»
Allungai
una mano, stringendo le sue dita tra le mie. Erano calde, leggermente
sudate. Più sopra, legato al polso, portava il braccialetto con
il ciondolo di smeraldo che ci eravamo scambiati il giorno delle nozze.
Il simbolo della nostra unione.
«Non ti lascio andare da solo, Gourry. Io non ti lascio.»
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Capitolo 3 *** I doveri di un Duca ***
I doveri di un Duca
I doveri di un Duca
L'unico modo di liberarsi di una tentazione è cedervi.
(Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray)
La
vecchietta sedeva sotto l'albero di pere, le braccia incrociate davanti
al petto e l'espressione ostinata. Io e Anouk la osservavamo dal
ballatoio che affacciava sul cortile interno.
«Vacci tu.»
«No, vacci tu. »
Sospirai, irritato.
«Perché devo andarci sempre io?»
«Sei il fratello maggiore, le grane spettano a te. Pensavo fosse così che funzionava.»
Feci per
ribattere, ma avevo esaurito le mie argomentazioni. Anouk mi rivolse un
sorriso limpido, che non riusciva a mascherare la crudele soddisfazione
di avermi appena incastrato. Dei, a volte rimpiangevo i giorni in cui
non parlava. A quattordici anni era più astuta di una volpe, e
stava diventando terribilmente sfacciata.
Mi gettai il mantello su una spalla, sbuffando, e le puntai un dito contro.
«Mi devi un favore.»
«Joy, io ho perso il conto di tutti i favori che mi devi tu.»
«Questo... non cambia le cose. Mi devi un favore. E non gongolare.»
«Non sto gongolando» rispose mia sorella, trattenendo a stento un sogghigno compiaciuto.
«Vipera.»
Anouk mi salutò con la mano, mentre mi dirigevo verso la scala che portava al giardino.
«Resterò a guardarti da quassù mentre tenti di convincerla! Farò il tifo per te.»
Mi
incamminai nell'erba fresca di rugiada, fino a raggiungere le fronde
ombrose del pero. La Vecchia Scorbutica, come la aveva soprannominata
Anouk, teneva il mento alzato e finse di non vedermi quando arrivai al
suo fianco.
«E
dunque, Lady Selina, vedo che siete ancora qua. Questo giardino deve
piacervi davvero molto...» dissi, cercando di mantenere un tono
conciliante.
«In
tutta onestà trovo che il vostro giardiniere sia un tremendo
sfaccendato, oltre che un incompetente» rispose lei, sputando
fuori ogni parola come se fosse un insulto. «Dovrebbe potare
quelle rose, tanto per cominciare. Stanno invadendo tutto il
muro.»
«A noi piacciono così» risposi, ripetendomi che dovevo stare calmo.
Conta fino a dieci, Joy. Tanto non puoi ucciderla, è già morta purtroppo per te.
Mi piegai
al suo fianco, cercando i suoi occhi. Era il suo punto debole.
Guardandomi avrebbe dovuto ammettere che era finita. Che il suo tempo
si era concluso e che era venuto il momento di accomiatarsi. Non c'era
più nulla che potesse fare, doveva solo passare oltre, per non
prolungare quell'amarezza. Ma Lady Selina non voleva arrendersi. Gli
spiriti come lei erano i peggiori. Arrivavano fino a Solaria e poi si
rifiutavano di oltrepassare il confine. Non gli restava più
nulla, ma non accettavano che fosse tutto finito.
«Lady Selina» la chiamai piano, quasi un sussurro.
Lei
sospirò, accigliata, poi si voltò verso di me. La sua
pelle era bianca come il latte, segnata da infinite rughe che ne
indicavano l'avanzata età. Gli occhi di un azzurro chiarissimo.
Era abbigliata con vesti sfarzose, che lasciavano intendere la sua
appartenenza a un alto rango sociale. Io, tuttavia, non sapevo chi
fosse. Mi aveva rivelato solo il suo nome quando era arrivata, con fare
altezzoso. Poi si era seduta sotto quell'albero e non si era più
mossa, caparbia come poche. Avevo conosciuto solo un'altra persona
altrettanto ostinata.
Anouk aveva provato prima di me a farla passare oltre, e aveva ricevuto in cambio solo un'aspra ramanzina.
«Non
sta bene che una ragazzina della tua età si rivolga a una della
mia con questo tono» la aveva rimproverata Lady Selina, quando
Anouk aveva, infine, perso la pazienza. Da qui il soprannome di Vecchia
Scorbutica.
Da tre giorni infestava il nostro giardino, e non aveva la minima intenzione di spostarsi da lì.
«Cosa vi trattiene, lady Selina? Questo indugio non serve a nulla, se non a prolungare il vostro dolore.»
«Cosa ne sapete del mio dolore?» C'era asprezza nel suo tono, i suoi occhi lanciavano dardi infuocati.
«Nulla,
in tutta onestà. A meno che voi non vogliate rivelarmi il motivo
per cui ancora non siete passata oltre. Le vostre questioni in
sospeso.»
«Non
ho questioni in sospeso» asserì, algida. «E anche se
le avessi, non vedo perché dovrei rivelarle a un giovanotto come
voi, uno che puzza ancora di latte!»
«Voi
mi lusingate, signora. Ma temo di aver passato i tre lustri, ormai. E
comunque, se non avete nulla che vi tiene legata qua, perché vi
ostinate a restarci? Questo posto nemmeno vi piace!»
«No, infatti.»
Distolse lo sguardo dal mio, alzando il mento con aria di superiorità, e incrociò le braccia al petto.
Per la
miseria, era più cocciuta di un mulo! Avrebbe fatto perdere le
staffe anche a un santo. Ma io avevo una certa esperienza di donne con
la testa più dura di una noce di cocco. O meglio, un'unica
esperienza. E mi era bastata per il resto della vita.
«Fate
come volete. Se preferite restare qua, per me non fa alcuna differenza.
Sappiate però che, qualsiasi sia il rimorso che vi tormenta, non
se ne andrà se resterete.»
«Come sapete che si tratta di un rimorso?»
«Si tratta sempre di un rimorso.»
Lei tornò a guardarmi. I suoi occhi avevano perso un po' della loro abituale aria di superiorità.
«Io...
ho fatto degli errori. Errori... imperdonabili» disse infine, in
un soffio. «Non posso andarmene senza la certezza che qualcuno vi
porrà rimedio.»
«D'accordo, vediamo cosa si può fare.»
«Voi...?»
«Sì, in genere sono io che mi occupo di queste cose.»
Lo spirito mi guardò con aria sospettosa e fu il mio turno di incrociare le braccia al petto.
«Temo che non troverete altre persone disposte ad ascoltarvi. In tutti i sensi.»
Lei
aggrottò le sopracciglia. Doveva aver capito che ero la sua
ultima occasione per levarsi dall'anima ciò che vi pesava sopra,
forse da troppi anni.
Rientrai a palazzo che imbruniva. Il cielo si era coperto e grosse nubi gonfie di pioggia sovrastavano le guglie. Ero esausto.
Anouk si affacciò alla porta della sua stanza mentre passavo nel corridoio.
«Se ne è andata?»
«Sì, finalmente.»
«E quindi?»
«Quindi cosa?»
«Cosa la tratteneva?»
Lasciai
passare qualche secondo. La storia di Lady Selina era, in effetti,
piuttosto triste. La sua unica figlia era morta nel dare alla luce una
bambina nata dall'unione con un cavaliere sconosciuto, che si era
fermato nel loro feudo solo per il tempo di avere una fugace avventura
amorosa. Lady Selina e suo marito non avevano voluto avere niente a che
fare con la nipote, che ritenevano frutto di un atto deplorevole e
colpevole, al tempo stesso, della morte della loro adorata figlia. La
avevano abbandonata a un incerto destino, quella piccola creatura,
senza più saperne niente. Anche se pensava di aver fatto la cosa
giusta, quella vecchia signora altera e irremovibile aveva portato per
tutta la vita nel cuore una ferita che non poteva e non riusciva a
rimarginarsi.
«Se
andrò dall'altra parte, ci sarà mia figlia ad aspettarmi.
E lei mi rimprovererà per non aver saputo proteggere la sua
bambina. Per averla allontanata. Trovatela, Messer. Trovate la mia
nipotina e accertatevi che stia bene.»
Ci era
voluto del tempo per convincere Lady Selina a passare il confine. Gli
spiriti che avevano questioni in sospeso erano i più tenaci.
«Voleva che cercassi sua nipote» risposi ad Anouk, passandomi la mano sugli occhi.
«E tu cosa le hai risposto?»
«Che l'avrei cercata.»
«Ma non hai la minima intenzione di farlo.»
«Certo che no.»
Anouk mi
scrutò con quel suo nuovo sguardo sempre pronto a giudicare.
Avrei sostituito volentieri la ragazzina con gli ormoni in subbuglio
che era diventata con la dolce e timida bambina che era stata. Lei non
mi avrebbe guardato in quel modo.
«Cosa
dovrei fare, Anouk, mettermi a cercare tutti i maledetti parenti degli
spiriti che faccio passare oltre e risolvere le loro questioni in
sospeso?»
«Il Dono dovrebbe servire a quello. A fare in modo che gli spiriti siano in pace.»
«Beh,
Lady Selina se ne è andata in pace, se è questo che ti
preme sapere. Tanto lo sappiamo entrambi come va a finire. Non
troverà sua figlia dall'altra parte, la sua anima sarà
già stata rigenerata.»
«Questo non cambia le cose. Avevi il dovere di aiutarla. Dovresti mantenere la promessa che le hai fatto.»
Un cupo
boato, all'esterno, fece tremare i vetri. Stava arrivando una tempesta
con i fiocchi, gli alberi erano già scossi dal vento.
«Non posso aiutare tutti gli spiriti che incontro, Anouk.»
«No, infatti. L'unica persona che hai aiutato, aiutato davvero, è stata Lina Inverse.»
Deglutii, serrando le dita in un pugno tanto stretto che le nocche sbiancarono.
«Queste
non sono faccende che ti riguardano» sbottai, adirato. «E
comunque, se ci tenevi tanto che Lady Selina avesse il suo lieto fine,
avresti potuto aiutarla più, invece di battezzarla Vecchia
Scorbutica e tenerti alla larga da lei!»
«Io
non le avrei fatto promesse che non ero in grado di mantenere» fu
il suo gelido commento. «Promesse che non avrei nemmeno provato a
mantenere.»
«Beh, tanto meglio per te, che sei così irreprensibile.»
Lei mi
osservò con aria di profondo disgusto, prima di sbattermi la
porta in faccia. Se Elizabeth fosse stata lì con noi, forse le
cose sarebbero state diverse. Ma Elizabeth non c'era più, e
Anouk doveva accontentarsi di me.
Tornai in
camera mia con un diavolo per capello. Ecco cosa ci avevo guadagnato,
da quella nuova vita: spiriti lamentosi e una sorella adolescente
pronta a farmi la guerra a ogni passo falso che commettevo. Mi tolsi il
mantello e la tunica con gesti rabbiosi e li lanciai in un angolo della
stanza. Aveva iniziato a piovere e lungo i vetri colavano lunghi
rigagnoli d'acqua. Fuori c'era il finimondo.
Mi buttai sul letto, l'aria fredda della sera che mi sfiorava la pelle nuda del petto, e mi coprii gli occhi con i palmi.
Mi mancava
viaggiare. Mi mancava la vita che facevo prima della grossa
responsabilità che mi era piombata addosso quando avevo capito
chi ero davvero, e quale era il mio dovere. Solaria non era un semplice
ducato. Era un passaggio, e io ero il custode di quel passaggio.
Nessuno mi aveva insegnato a fare quello che facevo, più o meno
consapevolmente, da tutta la vita: interagire con il mondo dell'ombra,
con gli spiriti dei defunti che non trovavano la strada per passare
oltre.
Era un
compito che non avevo scelto, ma nascere con il Dono non mi aveva
lasciato scampo: combattere quella parte di me stesso si era rivelato
troppo impegnativo. La avevo accettata, alla fine, perché non
c'era altro che potessi fare.
Però
a volte mi pesava essere ciò che ero. Mi sentivo inchiodato a un
ruolo che non avevo scelto, e questo mi faceva rabbia.
Che diavolo
si aspettava da me, Anouk? Che mi mettessi sulle tracce di una donna di
cui si erano perse le tracce vent'anni prima? Lady Selina non aveva
saputo più nulla di sua nipote, dopo averla lasciata nelle
braccia di una fantesca che, per denaro, era stata incaricata di
sbarazzarsene. Poteva anche essere morta, quella bambina.
«Al
diavolo tutto» sbottai, voltandomi su un fianco e sprofondando il
volto nel cuscino. Rimasi a osservare l'acqua sbattere contro i vetri
sentendomi sempre più malinconico, fino a quando il sonno non si
impadronì di me.
A svegliarmi, dopo quelli che mi parvero solo pochi istanti, fu un insistente bussare alla mia porta.
«Vostra Grazia?»
Mi tirai su di scatto, sbattendo le palpebre, confuso. Fuori era ancora notte. Il mio primo pensiero andò ad Anouk.
«Cosa
c'è?» gridai, sollevandomi e andando ad aprire. Fuori,
sulla soglia, c'era uno dei miei servitori con un candelabro in mano.
Il suo volto appariva sinistro tra le ombre gettate dalla luce delle
candele.
«C'è una persona, ai cancelli, che chiede di voi.»
«A quest'ora? Con questo tempo? Chi diavolo è?»
«Una donna, Vostra Grazia. Non vi avrei disturbato se non mi fosse sembrata una faccenda... importante.»
«Ah sì? E com’è, carina?»
Il servitore attese qualche secondo. La sua espressione era accigliata.
«Dato
che lo chiedete, sì, è una donna bellissima, Vostra
Grazia. Dice che un tempo questo era il suo palazzo; Il suo nome
è...»
«Camelia» lo anticipai, incupendomi.
Il servitore annuì.
Sospirai.
«Falla entrare.»
Dopo che se ne fu andato rimasi diversi minuti immobile, a fissare il corridoio buio e silenzioso.
Camelia.
Camelia e Nayden. Nayden che prendeva accordi con lei e con sua madre.
Nayden, che non si sarebbe fatto scrupoli a uccidermi per ottenere
quello che voleva: il Ducato, il ruolo che era mio di diritto. Lui lo
sapeva, lo aveva sempre saputo, contrariamente al sottoscritto, e se ne
era servito per muovermi come una marionetta. Nayden, il burattinaio. E
Camelia, la donna che lo amava.
Mi infilai la tunica e scesi nel salone.
Camelia era
in piedi davanti al fuoco. Mi dava la schiena, lo sguardo rivolto alle
fiamme. Lanciai una breve occhiata alla sua figura esile; la vita
sottile, le braccia snelle. I vestito che indossava, intriso di
pioggia, le stava appiccicato addosso. I capelli erano raccolti in una
treccia pesante, da cui gocciolavano rivoletti di acqua.
Non si
voltò subito verso di me, ma quando lo fece rimasi, per un breve
istante, senza fiato. Sì, era bella come la ricordavo. Forse
anche di più. In un volto di porcellana brillavano due occhi
verdi come smeraldi e insolitamente penetranti.
«Joy» disse, con un sussurro. «O, forse, dovrei chiamarvi Vostra Grazia.»
«Joy va benissimo» tagliai corto, brusco. «Cosa vuoi? Perchè sei... tornata?»
Lei
sospirò. Tremava, doveva essere gelata. Eppure non provavo
pietà per lei. Qualcosa si era incrinato in me nell'esatto
istante in cui i suoi occhi avevano incontrato i miei. Il passato mi
era caduto addosso come una valanga, travolgendomi. Camelia, Rebecca,
Nayden. Gourry. Lina.
Lina.
Guardare
Camelia mi faceva ricordare quello che aveva passato Lina. Non lo avevo
mai superato del tutto. I capelli bianchi che mi sporcavano le tempie,
ad appena trent'anni, ne erano la prova.
«Io... non avevo un altro posto dove andare. Mia madre è morta.»
Rimasi in silenzio. Non avevo parole di cordoglio da offrirle.
«Mi fermerò solo una notte, se accetterai di ospitarmi. Sono in viaggio verso il Continente.»
Incrociai le braccia al petto. Fuori infuriava la tempesta, non potevo cacciarla via, anche se avrei desiderato farlo.
«Solo
una notte concessi. Ripartirai all'alba, ti presterò una
carrozza. Ti condurrà fino al porto. Non voglio che Anouk ti
veda. Non deve sapere che sei stata qui.»
Camelia annuì, poi i suoi occhi si spostarono verso la porta.
Anouk era sulla soglia, aveva ascoltato ogni cosa.
Era passato
un mese, e Camelia era ancora lì. Cercavo di evitarla, le
rivolgevo il minor numero di parole possibile. Buongiorno, buonasera,
non toccare le rose. Cose di questo tipo. Desideravo ardentemente che
se andasse, lo desideravo più di ogni altra cosa, ma Anouk, dopo
lo smarrimento iniziale, sembrava essersi legata a lei in una maniera
che mi lasciava sconcertato. Non capivo se il suo atteggiamento era una
ripicca nei miei confronti, oppure se davvero il fatto di aver
ritrovato quella donna, con cui in fondo era cresciuta considerandola
una sorella, avesse risvegliato in lei sentimenti sopiti ma mai
scomparsi.
Le
guardavo, dal ballatoio, passeggiare insieme nel giardino, ridere in
modo complice e sussurrarsi segreti all'orecchio. Mi sentivo escluso da
quella loro ritrovata sorellanza, ed ero preoccupato per Anouk. Non
volevo che si affezionasse a una persona che, lo sapevo, potevo essere
subdola e perfida.
Quando avevo provato a discuterne con mia sorella, tuttavia, la sua risposta era stata capace di farmi rimanere senza parole.
«Sei
solo geloso. Pretendi che viva qua, con te, senza amiche, senza altri
che te, che sei arrabbiato per la maggior parte del tempo.»
«Io sarei arrabbiato? Senti da che pulpito! E comunque non sono geloso, affatto.»
Però
lo ero. Guardavo Camelia aggirarsi in quello che un tempo, quando io
ero ancora un mercenario senza un soldo, era stato il suo palazzo, e mi
facevo il sangue amaro. Era cresciuta lì, conosceva ogni angolo
di quel castello tenebroso, si muoveva con una naturalezza che io ci
avevo messo mesi ad acquisire.
La guardavo
e non sopportavo i suoi capelli di seta, le labbra rosse e turgide, il
seno stretto nel corpetto. Era tanto bella da levare il fiato. Ma era
stata la donna del mio perfido fratello, la sua anima, ne ero certo,
era altrettanto nera. Avevo giurato a me stesso che non mi sarei
lasciato irretire.
Anche se
non toccavo una donna da tanto, troppo tempo. Anche se lei mi lanciava
occhiate che mi facevano ribollire il sangue nelle vene.
Non avrei ceduto, ne andava della mia sopravvivenza.
Poi, una sera, Camelia bussò alla porta della mia stanza.
Era tardi,
Anouk dormiva da un pezzo. Le aprii, ma rimasi sulla soglia,
impedendole di entrare. Lei indossava la camicia da notte, aveva i
piedi nudi e i capelli sciolti sulle spalle.
«Sono venuta a dirti che domani parto. Ho approfittato fin troppo della tua ospitalità.»
«Bene»
fu il mio unico commento. Averla tanto vicina offuscava la mia
razionalità. La odiavo, la disprezzavo, ma il mio corpo non era
d’accordo. Il mio corpo la voleva al punto che le mani mi
formicolavano per il desiderio che avevo di posarle sulla sua pelle
liscia e candida. Ero un uomo, dopotutto, e avevo passato troppe notti
solitarie.
Anouk aveva ragione. Vivere lì, isolati da tutto e da tutti, ci stava consumando.
«Saluta Anouk per me. Mi mancherà. E mi mancherai anche tu.»
«Bugiarda.» Le parole mi erano uscite spontanee, e non mi pentii di averle pronunciate.
Lei sgranò leggermente gli occhi.
«Credi
che ti stia mentendo? Perché dovrei? Non ho problemi ad
ammettere quello che provo: mi sei sempre piaciuto, Joy. Forse non le
hai mai notate le occhiate che ti rivolgevo, quattro anni fa.»
«Stavi con mio fratello, quattro anni fa.»
«Accordi. Semplici accordi. Non significava niente.»
«Accordi
pericolosi, che ti hanno fatto fare una brutta fine» replicai,
aspro. Non le avrei permesso di fare breccia nella mia corazza.
«Sì,
hai ragione. Ma, credimi, ho scontato fino all'ultimo le mie colpe. Ho
sbagliato, e ho pagato. Sto cercando di essere una persona migliore. Tu
ci sei riuscito, perché io non dovrei quantomeno provarci?»
La sua espressione comunicava una fiera dignità.
«Dove andrai?»
«Te
l'ho detto, nel Continente. Non c'è più nulla che mi
tenga legata alla Penisola, ho perso tutte le persone che mi erano
care. Tranne Anouk. E te. Ma voi non mi volete nella vostra vita.»
«Anouk
ti vuole» dissi, e mi diedi subito dell'idiota. Era la mia
occasione per liberarmi di lei, invece stavo facendo di tutto per
trattenerla. Che diavolo mi diceva il cervello.
Forse non
era il cervello, a farmi parlare in quel momento. O, forse, le sue
parole sul fatto di diventare una persona migliore mi avevano colpito
più di quanto fossi stato disposto ad ammettere.
«Sì,
forse Anouk vorrebbe che restassi. Ma non è lei a decidere, e io
non voglio importi la mia presenza.»
«Saggia decisione.»
Camelia
sospirò. Le sue labbra si schiusero, mostrando il bianco dei
denti, e il petto si alzò e si abbassò sotto la stoffa
leggera della camicia da notte. Era scollata e io riuscii a scorgere la
pelle candida e la linea dei seni. Fu come se mi avessero colpito
dietro la nuca, per un attimo mi mancò il respiro.
«Addio, Joy.»
«Addio.»
Prima ancora che potesse darmi le spalle l'avevo trascinata dentro la stanza, chiudendo la porta e spingendoci Camelia contro.
Se non fosse stata così bella, non avrei ceduto. Se non fossi stato tanto solo, se...
Le strappai
la camicia, aprendola sul petto, e affondai il volto tra i suoi seni,
morsicandoli. Lei non protestò. La sentii infilare le dita
sottili tra i miei capelli e gemere.
«Era questo che volevi?» domandai, accarezzandola tra le gambe. Non portava biancheria intima.
Le afferrai
la gola con una mano, costringendola a sollevare il viso verso il mio.
Sotto alle dita sentivo i muscoli tesi del suo collo, il lieve pulsare
delle vene. Gli occhi di Camelia erano verdi come acqua di lago, ne
possedevano la stessa insidiosa profondità.
«Allora, era questo che volevi?» domandai di nuovo, esigente, con voce roca.
«Sì» confessò lei, con un orgoglio che mi strinse le viscere in una morsa di desiderio.
La presi
lì, contro la porta, in silenzio. La mia bocca era troppo
impegnata ad assaggiare la sua pelle. Le sollevai una gamba, tenendo
l'incavo del ginocchio nel palmo della mano, e mi spinsi in lei. Per
tutto il tempo non la baciai sulle labbra. Non lo feci nemmeno dopo,
quando eravamo scivolati sul pavimento, le membra aggrovigliate e i
respiri affannosi.
«È
stato un errore» dissi, provando a scostarmi da lei. Eppure
bramavo il suo corpo come un assetato brama l'acqua. Non mi era bastato
quello che mi ero già preso, ne volevo ancora. Con le dita
percorsi la curva dei suoi fianchi, l'avvallamento dell'ombelico, la
dolce rotondità del seno pieno. Sì, era stato un errore,
ma volevo continuare a sbagliare. Mi piegai su di lei, prendendo un
capezzolo tra le labbra. Camelia sospirò, la bocca aperta e gli
occhi chiusi, e io sentii l'eccitazione pervadermi di nuovo. Le
divaricai le gambe e la amai ancora, sul pavimento, tra i vestiti
laceri e ammucchiati per terra. Senza tenerezza, senza sentimento. Era
solo disperato desiderio. Era un bisogno che sentivo l'urgenza di
levarmi.
Quando
sorse il sole guardai Camelia dormire nel mio letto. La schiena bianca,
i capelli neri come la notte sparpagliati sul cuscino. Le ciglia erano
tanto lunghe da sfiorarle le guance. Nel sonno non sembrava una perfida
intrigante.
Avrei
dovuto svegliarla, ricordarle che doveva partire. Aveva detto che lo
avrebbe fatto, e io mi sarei finalmente liberato di lei. Invece rimasi
in silenzio. Rimasi in silenzio anche quando, dopo qualche ora, lei si
svegliò e mi posò una mano sul petto, proprio sopra il
cuore.
«Non mandarmi via. Permettimi di restare.»
Anouk ne sarà felice, pensai solo, le labbra serrate. E io avrò qualcuno che renderà meno gelide le mie notti.
«Ci
devo pensare» risposi, freddo, senza guardarla. Desideravo con
tutto me stesso potermi accendere una sigaretta, invece avevo smesso di
fumare quattro anni prima. Un'altra cosa che dovevo a Lina Inverse,
accidenti a lei.
Detestavo
ammettere che quella notte, per un breve istante, avevo immaginato che
i capelli che stringevo tra le dita, mentre facevo l'amore con la donna
che in quel momento avevo accanto, fossero rossi come il fuoco.
Qualunque
decisione avessi immaginato di prendere sulla possibilità o meno
che Camelia restasse a Solaria, venne influenzata da ciò che
accadde a colazione.
Anouk
sedeva davanti a una tazza di cioccolata e aveva due lunghi baffi
marroni disegnati sotto al naso. Le sedetti di fronte, sorridendo al
pensiero che, anche se faceva la dura, c'erano momenti in cui sembrava
ancora una bambina.
Se avesse
saputo cosa era accaduto quella notte, a poche porte dalla sua camera
da letto, mi avrebbe rovesciato quella cioccolata bollente direttamente
nei pantaloni. Non potevo darle torto. Ero suo fratello, e Camelia sua
sorella. Il che faceva apparire la nostra unione come qualcosa di
torbido e incestuoso.
Anouk mi
guardò con le sopracciglia aggrottate. Non aveva perso
l'abitudine di tenere la metà ustionata del suo volto coperta
dai capelli; era una cicatrice che avrebbe portato per tutta la vita,
un dolore che non sarebbe mai scomparso. Non avrei dovuto stupirmi del
fatto che stesse vivendo l'adolescenza in maniera tanto traumatica.
«Nottataccia? Hai una faccia.»
Mi passai una mano tra i riccioli disordinati, cercando di renderli meno ribelli.
«Non ho chiuso occhio» ammisi, tacendo, ovviamente, sul motivo per cui non lo avevo fatto.
Afferrai il
pacco della corrispondenza, che il maggiordomo si premurava di
lasciarmi ogni mattina sul tavolo della colazione, e distrattamente,
con il coltello, iniziai a lacerare le buste. Le scartai una dopo
l’altra, annoiato, fino a quando non me ne capitò in mano
una dai bordi neri. Sbattei le palpebre, stupefatto. Il sigillo di
ceralacca portava lo stemma della famiglia Gabriev.
Avevo visto
quello stemma centinaia di volte. Quando io e Gourry eravamo mercenari
non facevano che arrivargli missive da Elmekia. I suoi non si erano
rassegnati alla sua fuga con l'arma leggendaria e non mancavano di
scrivergli per ricordarglielo. Gourry, alla fine, non le leggeva
nemmeno più le loro lettere.
Con una certa apprensione aprii la busta ed estrassi il foglio che conteneva.
Anouk, dall'altro lato del tavolo, si accorse della mia espressione torva.
«Funerale?» domandò, con noncuranza. Eravamo esperti di tutto ciò che riguardava la morte.
«Sì» risposi, sospirando. «Il padre di Gourry Gabriev.»
Senza rendermene conto strinsi la pergamena tra le dita tanto forte da stropicciarla.
Camelia
entrò nel salone in quel momento, indossando una vestaglia che
non faceva altro che mettere in risalto la forma, pressoché
perfetta, del suo corpo. I capelli, appena lavati, erano lisci e
lucenti. Mi resi conto che non mi ero levato nemmeno metà della
voglia che mi pervadeva quando la vedevo. Accidenti a me.
«Buongiorno»
disse, ignorandomi ma posando una carezza tra i capelli di Anouk, che
le sorrise. Mi resi conto che Anouk bramava le attenzioni di Camelia
come si brama il sole. Poi mi ricordai che, quattro anni prima, Camelia
era altera e capricciosa, e non le avevo mai visto rivolgere un gesto
di affetto ad Anouk.
Forse era davvero cambiata. Forse stava provando con tutta se stessa a essere una persona migliore.
Sedette a
un lato del tavolo, evitando il sguardo, e io mi incupii ulteriormente.
La nostra convivenza, se fosse rimasta, si sarebbe rivelata complicata
e pericolosa. Tuttavia, per il momento, avevo questioni più
urgenti da risolvere.
«Devo andarci. Gourry Gabriev è il mio migliore amico» dissi, rivolgendomi solo ad Anouk.
Lei posò il cucchiaio sul tavolo.
«Ti
allontani dal Ducato?» domandò, sollevando le
sopracciglia. Era stupefatta, in quei quattro anni non avevo mai messo
piede fuori da Solaria.
«Non
posso esimermi» risposi, e mentre lo dicevo mi resi conto che,
dopo quattro anni, avrei incontrato di nuovo Lina. Deglutii.
C'era solo
un problema. Chi sarebbe rimasto a Solaria nel periodo in cui sarei
stato via? Anouk era troppo piccola per sovrintendere un Ducato. Quel Ducato, soprattutto.
Camelia
sembrò leggermi nel pensiero quando, con noncuranza, mentre
imburrava una fetta di pane, disse: «Non preoccuparti, Joy.
Resterò io con Anouk. Ce la caveremo benissimo da sole, vero
tesoro?»
Spostai lo
sguardo tra di loro, accigliato. Non avrei dovuto accettare il suo
aiuto. Non avrei dovuto fidarmi di lei. Ma volevo rimettermi in
viaggio.
Più
di ogni cosa desideravo allontanarmi da Solaria per un breve periodo.
Prendermi una pausa, anche se per un motivo tanto triste.
Inoltre, anche se detestavo ammetterlo, volevo rivedere Lina. Erano passati quattro anni.
«Starò via solo qualche giorno» dissi, più a me stesso che a loro.
Anouk e Camelia sorrisero.
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Capitolo 4 *** La Spada di Ombra ***
La spada di Ombra
La Spada di Ombra
Tutto ciò che esiste, getta un’ombra.
(Neil Gaiman)
Arrivammo a
Elmekia stanchi e infreddoliti. Gli alberi apparivano già
spogli, salvo qualcuno che conservava una spruzzata di foglie color
zafferano sui rami nodosi. Risalimmo a piedi una collina, dopo aver
approfittato del passaggio offertoci da un contadino con un calesse, e
ci fermammo a guardare la vallata che si estendeva sotto di noi. Il
maniero dei Gabriev appariva imponente e fortificato, circondato
com'era da alte mura oltre cui si allargavano, come una macchia d'olio,
le abitazioni del villaggio.
Guardai le
torri merlate e il mastio che svettava contro il cielo livido del tardo
pomeriggio. Grosse nubi color albicocca sfumavano nel blu della sera
ormai imminente. Quel posto non mi parlava di Gourry. Sembrava ostile,
altero, freddo. Tutto ciò che Gourry non era. Mi strinsi le
braccia al corpo, sentendo un brivido percorrermi la schiena, e lanciai
un'occhiata a mio marito. Il suo sguardo era puntato su quella che un
tempo, tanti anni prima, era stata la sua casa. L'espressione era tesa,
velata di preoccupazione. Non trovavo strano che se ne fosse andato.
Anche da quell’altezza riuscivo a percepire il vento gelido che
spirava dalla pianura. Ti entrava nei vestiti e ti prendeva alla gola,
ti frantumava le ossa. Era un vento cattivo, che rendeva aride le
persone e la terra su cui camminavano.
Stavo per
stemperare quell’inquietante silenzio con qualche battuta, ma
Gourry mi anticipò: «Andiamo» disse solo. Sembrava
nervoso, e io non potevo dargli torto. Non aveva parlato molto,
nell'ultima parte del viaggio. L'avevo lasciato in pace, senza
assillarlo di chiacchiere, anche se mi sarebbe piaciuto smorzare quella
gravosa assenza di parole tra di noi. Non ci ero abituata. Ma era pur
vero che si trattava di una situazione nuova: non mi aveva mai portato
a Elmekia, in tutti quegli anni. Non avevo mai conosciuto nessun membro
della sua famiglia, il che, anche se odiavo ammetterlo, mi rendeva
sottilmente agitata.
Scendemmo dal pendio tenendo i cappucci con le mani, il vento che ci sferzava le guance e ci faceva lacrimare gli occhi.
A metà strada ci venne incontro un araldo su un cavallo grigio. Dovevano averci avvistato dalla torre.
«Sir Gabriev» disse, quando Gourry scostò il cappuccio. «Bentornato.»
Mi fece uno
strano effetto vedere con quanta riverenza quell’uomo si
rivolgeva a mio marito, il mio squattrinato compagno di viaggio. Gourry
lanciò un’occhiata al castello che svettava alle spalle
del servitore.
«Non
è un ritorno lieto. Mio padre…?» Non ebbe il
coraggio di chiederlo e le parole gli morirono sulle labbra.
«Siete in tempo, signore» disse il servitore, intuendo il suo disagio.
L’espressione
di Gourry si adombrò. In quel momento, con un po’ di
sgomento, mi resi conto che per tutto il viaggio aveva creduto di non
riuscire a dire addio a suo padre. Ora, invece, l’idea di doverlo
affrontare lo terrorizzava.
Varcammo il
ponte levatoio. L’araldo era sceso da cavallo e teneva
l’animale per le briglie. Il rumore degli zoccoli sul selciato
era l’unico suono a riempire il silenzio. Mi avvicinai a Gourry,
mentre i muri del maniero ci inghiottivano al loro interno, e sfiorai
la sua mano con la mia. Lui la strinse, voltandosi verso di me, e mi
rivolse uno sguardo pieno di angoscia.
«Grazie per essere qui.»
«Non dirlo neanche.»
Quando fummo all’interno delle mura sollevai lo sguardo e deglutii.
Per la miseria.
Avevo
sempre saputo che Gourry proveniva da una famiglia nobile. Ma saperlo e
vederlo con i miei occhi erano due cose molto differenti.
Il mastio
ci sovrastava, solido e imponente. C’erano più finestre di
quelle che sarei mai riuscita a immaginare sulla facciata di un
palazzo, ed erano tutte alte e strette, fatte di vetri colorati. Dai
balconi che si affacciavano sul cortile interno pendevano drappi neri.
La fine di lord Gabriev doveva essere prossima.
Un uomo
apparve in cima all’ampia scalinata di ingresso e io dovetti
trattenere il fiato per lo stupore: era identico a Gourry.
«William.»
«Gourry.»
I due fratelli arrivarono uno davanti all’altro, soppesandosi con lo sguardo, studiandosi.
«Ne
sono passati, di anni» mormorò William, che aveva gli
stessi capelli biondi di mio marito, ma più corti, e occhi
identici ai suoi, ma freddi e ostili. «Eri solo un ragazzino
quando te ne sei andato.»
«Anche tu eri un ragazzo» rispose mio marito, le labbra tese a una linea sottile.
Non ci
furono sorrisi, tra di loro, né abbracci. Il tempo e le
incomprensioni avevano tracciato un solco difficile da superare.
«Lei è Lina Inverse, mia moglie» disse Gourry, voltandosi verso di me.
William mi
guardò con aria di sufficienza. Sembrava che una paralisi gli
impedisse di atteggiare le labbra in una qualsiasi espressione che non
fosse la smorfia di disgusto che aveva dipinta sul volto.
«Avevo sentito dire che avevi sposato la sterminatrice di draghi.»
«È
solo uno dei miei tanti soprannomi, e non è nemmeno il mio
preferito. Non è che renda poi così bene
l’idea» dissi, con aria noncurante, sorridendogli come si
sorride a un serpente. Mio cognato, che personcina adorabile. Ero
pronta a scommettere che gli rodesse ancora per la Spada di Luce. Aveva
proprio l’aria del rosicone, in effetti.
«Nostro
padre ti sta aspettando» tagliò corto William, dandoci le
spalle e sparendo oltre l’ampio portale. Non ci restò
altra scelta che seguirlo.
L’interno
del palazzo era ancora più cupo dell’esterno; il che era
bizzarro, considerando le numerose finestre. Ma sembrava che attraverso
quelle feritoie alte e strette la luce non trovasse un varco per farsi
strada. Percorremmo lunghi corridoi rivestiti di preziosi tappeti. Le
torce appese alle pareti emanavano un chiarore spettrale, da cui
scaturivano ombre scure che danzavano sui muri di pietra. L’aria
era umida e fredda.
Con la coda
dell’occhio sbirciai Gourry, cercando di capire quali sentimenti
risvegliasse in lui il fatto di trovarsi nella dimora in cui era
cresciuto. Quali ricordi si stavano affacciando nella sua mente in quel
momento? Erano tutti dolorosi o ce n’era qualcuno dolce, su cui
valesse la pena soffermarsi? Com’era stata la sua infanzia tra
quelle pareti grigie, in quel castello che sembrava aver bandito la
luce e il calore?
Mi si strinse il cuore immaginando il bambino che era stato. Avrei voluto stringerlo a me e confortarlo.
Poi, quasi
che i miei pensieri si fossero concretizzati, un bambino sbucò
davvero da una porta aperta, correndo a perdifiato nel corridoio. Non
poteva avere più di tre anni, indossava solo una leggera camicia
di cotone e i suoi capelli erano una nuvola d’oro.
«Signorino! Tornate subito qui!»
Una donna
si precipitò fuori dalla stessa stanza da cui era scappato il
bambino, inseguendolo. Quando ci vide, tuttavia, cercò di darsi
un contegno.
«Signore, io…» balbettò, guardando il fratello di Gourry.
William mi
apparve ancora più corrucciato di quanto non mi forse sembrato
fino a quel momento. Il che aveva dell’incredibile. Il bambino
corse verso di lui e gli si aggrappò alle gambe.
«Non voglio fare il bagno, papà!» esclamò, con una vocina sottile e piagnucolosa.
«Cosa sono questi capricci, Gael?» Il tono di William avrebbe gelato un vulcano in eruzione.
Io e Gourry
ci rivolgemmo una breve occhiata, poi tornammo a guardare il bambino,
che si teneva aggrappato ai calzoni del padre con ostinazione,
indifferente ai suoi rimproveri. Doveva avere l’acqua proprio in
antipatia per preferire le occhiate minacciose di William.
«Non sapevo che avessi avuto un figlio» disse Gourry, con una traccia di amarezza nella voce.
«Non
sai tante cose» ribatté William, cercando lo sguardo della
balia di suo figlio e intimandole di riprendersi il bambino.
Gourry si
piegò sui talloni, arrivando all’altezza di Gael. Era suo
nipote, quello, e lui fino a quel momento ne aveva ignorata
l’esistenza.
Beh, in teoria era nostro
nipote. Ma io non avevo così voglia di mettermi alla prova come
zia, contrariamente a Gourry. Sentii qualcosa stringermi la gola quando
vidi mio marito allungare una mano verso quel piccolo diavoletto, e
posargli una delicata carezza sui capelli.
«Gael…» mormorò. «Sei proprio un bel bambino.»
Gael si
voltò, puntando su Gourry due sospettosi occhioni azzurri.
Avrebbe potuto essere suo figlio, tanta era la somiglianza che li
legava. Fui costretta a distogliere lo sguardo.
«Avete
poco polso con lui» stava dicendo William alla balia, che si fece
avanti con passo spedito e sollevò il bambino da terra. Gael si
mise a strillare e le lacrime iniziarono subito a scorrere sulle sue
guance rotonde.
«Papà, papà!» gridò, tendendo verso il padre le braccia cicciotte. William lo ignorò.
«Non
ti sembra di essere un po’ troppo severo, con lui? È
così piccolo…» tentò di dire Gourry,
rialzandosi. Suo fratello lo fulminò con un’occhiataccia.
«Se
nostro padre fosse stato, con te, severo almeno la metà di
quanto io sono con Gael, ci saremmo evitati tutti un sacco di problemi.
Non voglio che mio figlio prenda una brutta strada. Ha bisogno di
disciplina.»
Gourry
incassò il colpo e non fiatò. Qualcosa, nella sua
espressione, catturò l’attenzione di William; suo fratello
lo studiò alcuni secondi, prima di domandare: «Tu non hai
figli, vero?»
«No.»
A rispondere ero stata io. William mi osservò con gli occhi socchiusi.
«Beh, allora evitate di immischiarvi in cose che non sapete. Andiamo adesso.»
Ci
superò, incamminandosi nel corridoio. Io e Gourry evitammo di
guardarci. Da dietro la porta chiusa arrivava il pianto disperato del
piccolo Gael, che stava per essere immerso nella vasca e strofinato
fino a diventare rosso vivo.
Davanti alla stanza di lord Gabriev rivolsi a Gourry un’occhiata preoccupata.
«Ti
aspetto qui…» mormorai, incerta. Non avevo idea di quale
fosse il comportamento da tenere in una simile circostanza.
«No, ti prego, entra con me. Da solo non ce la faccio» confessò lui, prendendomi la mano.
Aspettavo solo che me lo chiedesse.
Entrammo e
subito fummo avvolti da un odore acre e penetrante. I due bracieri di
incenso che ardevano nella camera lo coprivano a malapena: era
l’odore della morte.
Lo riconobbi immediatamente, disgustata, e il passato tornò a tormentarmi.
Non avevo
mai dimenticato quello che mi era successo. Come avrei potuto, del
resto? Per mesi ero stata in bilico su una linea di confine, né
viva, né morta. Sospesa.
Avrei
mentito dicendo che gli incubi avevano smesso di perseguitarmi, che il
dolore che avevo provato, morendo, era stato cancellato dalla vita che
era tornata a rianimarmi. La verità era che non potevo liberarmi
da quei ricordi, dall’ombra scura che mi si era impressa addosso
come un marchio.
La morte mi aveva afferrata e aveva lasciato dei lividi sulla mia pelle, lividi che non scolorivano. Che non guarivano.
La morte continuava a braccarmi.
Inconsciamente
portai le mani al ventre, un riflesso involontario che mi turbò
più di tutto il resto. Mi affrettai a lasciarle ricadere lungo i
fianchi, stringendo le dita in un pugno.
Gourry non
si era accorto di niente. Il suo sguardo era concentrato sul grande
letto a baldacchino che troneggiava al centro della stanza. Lì,
illuminato da alti candelabri, giaceva suo padre. Un uomo che un tempo
doveva essere stato temibile, ma che il vento imperioso di Elmekia
aveva consumato fino a rendere un guscio fragile, minato dalla
malattia.
I capelli,
che immaginavo biondi come quelli di tutti i Gabriev, erano ora radi e
candidi. Le mani due artigli bianchi, che emergevano dalle coperte. Il
volto appariva emaciato, ma gli occhi erano vigili e splendevano di un
azzurro tanto intenso da lasciare senza fiato. Per un breve istante mi
chiesi se stessi guardando il futuro di mio marito, poi scacciai con
forza quel pensiero. Era spaventoso e inquietante.
«Gourry? Sei tu?» chiese lord Gabriev, con voce roca.
Sentii Gourry, al mio fianco, emettere un flebile sospiro.
«Sì, padre. Sono io. Sono tornato.»
Gli
costò ammetterlo, lo percepii nel suo tono trattenuto. Era una
sfumatura impercettibile, che sarebbe sfuggita a chiunque, ma non a me.
Era mio marito, lo conoscevo meglio di chiunque.
«Avvicinati.»
Gourry serrò la mascella. Io mi feci più vicina e gli posai una mano sul braccio, stringendolo per incoraggiarlo.
Quando arrivammo al suo fianco lord Gabriev lo scrutò alcuni secondi con quella che mi parve una curiosa aspettativa.
«Sei
proprio tu. La mia spina nel fianco» sputò fuori le parole
con un colpo di tosse. Gli spasmi lo scossero per alcuni secondi e vidi
Gourry mordersi un labbro, fino a quando il silenzio non calò
nuovamente sulla stanza.
«Sto
morendo, Gourry» biascicò suo padre. Il suo sguardo si
spostò su di me e vi rimase il tempo necessario a imprimersi le
mie fattezze nella memoria. «È lei la donna per cui hai
gettato tutto quanto alle ortiche? Non è nemmeno bella.»
Gourry scosse la testa. Non lo avevo mai visto così pallido.
«Sapevo
che sarebbe stato un errore tornare. Andiamocene, Lina.» Si
voltò, pronto a lasciare la stanza a grandi passi.
«Non sei cambiato» gridò suo padre. «Credi sempre di saperne più degli altri.»
Gourry si bloccò, voltandosi di scatto.
«Su questo vi sbagliate. Non ho mai preteso di saperne più di voi, o di William, o…»
«Però hai rubato la spada.»
Gourry sospirò. Un sospiro profondo, pesante.
«Non me lo perdonerete mai, vero? Del resto, ho smesso di cercarlo tanti anni fa, il vostro perdono.»
Gli occhi del vecchio Gabriev si fissarono in quelli del figlio.
«Credi
che non sarebbe stato in mio potere riprendermela? Credi che non avrei
potuto farti tornare a casa, in tutti questi anni, con o senza la tua
volontà? Se non lo ho fatto è
perché…» lasciò passare qualche secondo.
«La Spada ha scelto te. Non avrei potuto impedirti di tenerla, in
nessun modo. Allo stesso modo in cui non avrei potuto impedirti di
disporne come meglio credevi.» Tossì forte, contro la mano
stretta a pugno, poi tornò a rivolgere la sua attenzione al
figlio. «Tuo fratello, questo, non lo ha mai capito. Pensa che tu
gli abbia portato via qualcosa che gli spettava di diritto in quanto
figlio maggiore. Non lo sa che quella dannata spada aveva una
volontà propria. È l’arma a scegliere il suo
portatore, non il contrario. Doveva essere tua.»
Guardai Gourry. Era incredulo. Lo ero anch’io, in effetti.
«Io…»
Suo padre
agitò l’aria con la mano, liquidando la questione con
gesto secco, che denotava la sua abitudine al comando.
«Non
mi resta molto tempo, e c’è una cosa che ho bisogno di
dirti…» mi rivolse una breve occhiata colma di
disapprovazione. «Da solo.»
Mio marito si irrigidì.
«Lina è mia moglie, non ho segreti per lei.»
«Che idiozia, ci sono sempre dei segreti in un matrimonio.»
«Non
nel nostro.» La sicurezza con cui Gourry fece
quell’affermazione mi costrinse ad abbassare lo sguardo, nella
speranza che nessuno scorgesse il mio bruciante senso di colpa.
Tuttavia, quando lo sollevai, dopo alcuni secondi, vidi che il vecchio
Gabriev mi fissava con le sopracciglia aggrottate.
«Lei sarà la tua rovina, figlio mio. Le donne lo sono sempre.»
«Non
sono tornato per permettervi di insultare mia moglie»
sussurrò Gourry. «Se avete qualcosa da dirmi, fatelo e
basta.»
Lord
Gabriev mi parve interdetto davanti a quello che doveva sembrargli un
atteggiamento inusuale da parte del suo figlio minore.
Forse si
ricordava un ragazzino dolce e remissivo. Gourry lo era ancora, dolce e
remissivo, ma adesso era un uomo e, quando occorreva, sapeva farsi
valere.
«Ho sentito dire che sei diventato uno spadaccino molto esperto.»
«Me la cavo.»
«Se fossi rimasto a Elmekia avrei potuto insegnarti molte cose…»
«Ho
imparato comunque molte cose. E continuo a impararle, ogni
giorno.» Si voltò verso di me, rivolgendomi un sorriso
appena accennato, che mi riscaldò il cuore.
«Non ti penti mai delle scelte che hai compiuto? Di quello che ti sei lasciato alle spalle?»
Gourry lasciò passare qualche secondo.
«Ho seguito il mio destino.»
«Già.»
Suo padre chiuse gli occhi, sospirando. «Doveva andare
così. Voglio che tu sappia una cosa, Gourry: non ti biasimo per
aver preso la spada, anche se apparteneva a questa famiglia da
generazioni. Come ti ho già detto, è lei ad averti
scelto. Ora, però, è giusto che tu ti assuma le
responsabilità di quel gesto. Come puoi ben immaginare,
c’è sempre un prezzo da pagare. Io ho pagato la mia parte,
credimi. E adesso che la mia fine è prossima, ti chiedo di fare
altrettanto.»
«Perdonatemi, ma non capisco le vostre parole. Cosa volete che faccia?» Gourry sembrava confuso.
«Non
c’è luce senza ombra, Gourry. Esiste
l’oscurità, che può essere più nera della
notte. Ma ovunque ci sia luce, c’è sempre un’ombra
che la segue.»
«Cosa state cercando di dirmi?»
Gli occhi di lord Gabriev si spostarono verso una massiccia madia accostata alla parete.
«Apri quell’anta. Troverai un astuccio di velluto nero: prendilo.»
Dopo un
attimo di incertezza Gourry fece quello che suo padre gli chiedeva. Io
ero rimasta in disparte e osservavo la scena in silenzio. Sentivo che
stava per accadere qualcosa di importante.
Gourry trovò quello che lord Gabriev gli aveva chiesto e tornò verso il letto tenendolo tra le mani.
Suo padre gli rivolse un’occhiata penetrante.
«Ora
aprilo. Ma stai attento a non toccare in nessun modo ciò che
contiene, è della massima importanza.»
La custodia si aprì con uno scatto. Mi avvicinai per scrutare al suo interno e rimasi senza fiato.
Conteneva
l’elsa di una spada, uguale in tutto e per tutto alla Gornova.
Solo che al posto dei rubini, che ricordavo incastonati nella guardia
della Spada di Luce, c’era una sola pietra, montata sul pomolo
alla base dell’impugnatura, ed era trasparente come il vetro.
Guardando con più attenzione mi resi conto che ricordava
vagamente la forma di un cuore.
«Cosa significa?» mormorò Gourry.
«È
il prezzo che dovrai pagare per essere diventato il portatore
dell’arma di luce. Ho cercato di evitartelo, figlio mio, credimi.
Ma ora sto morendo e questa… non posso lasciarla ad altri che a
te. È la gemella della Spada che hai portato via da qui. La sua
gemella cattiva. Si chiama Spada di Ombra.»
Aggrottai
le sopracciglia, continuando a guardare l’arma con un misto di
timore e fascinazione. Non ne avevo mai sentito parlare, il che era
strano, perché conoscevo quasi tutti i grandi oggetti magici
sparsi per la Penisola. Se non altro, almeno di fama. La Gornova era
un’arma leggendaria. Ma non avevo idea che avesse una gemella
malvagia.
La cupidigia fece brillare il mio sguardo.
Dei, doveva essere stata forgiata con i più potenti incantesimi di magia nera. Dovevo sapere cosa poteva essere in grado di fare.
«Voi… volete che la tenga io?»
«Sì,
è la tua eredità, Gourry. A William andrà il
palazzo. A te le spade. Era così che doveva andare.»
«E cosa dovrei farne?» domandò mio marito, corrucciato.
«Non
usarla, mai. Tienila nascosta, custodiscila, sorvegliala. Ma non
mettere mai mano all’elsa di questa spada, giuramelo.»
«Io…»
«Giuramelo, Gourry!»
Lord
Gabriev sembrava ormai allo stremo delle forze. Ero pronta a
scommettere che avesse resistito fino a quel momento solo per passare
quella spinosa eredità nelle mani del figlio. Ora era pronto ad
accomiatarsi.
«Ve lo giuro, padre. Solo… non capisco…»
«Non
c’è niente da capire, Gourry. L’ombra segue la luce,
le permette di esistere. Ora sono davvero stanco…»
Gourry chiuse la custodia della sua nuova spada. Una spada che non poteva usare e che andava tenuta nascosta. Che affare.
«Vi lasciamo risposare.»
«Sì,
lasciatemi risposare. Ho proprio bisogno di riposare…»
mormorò Lord Gabriev, chiudendo gli occhi.
Solo quando eravamo alla porta sentimmo la voce del vecchio Gabriev, come un sussurro.
«Hai
fatto tutto a modo tuo, figlio mio. Non ho potuto fare altro che
guardarti da lontano, senza poterti guidare. Senza proteggerti. Non
posso farlo nemmeno adesso. Non potrò farlo mai più,
perciò… Stai attento… stai molto attento.»
Lord
Gabriev morì quella notte. Sentimmo bussare alla porta della
nostra stanza, venne un servitore a dircelo. William non si era
sprecato a informare di persona suo fratello.
Gourry non
pianse. Rimase seduto sul letto con lo sguardo vacuo. Ci rimase tanto a
lungo che non potei fare altro che stringerlo a me, accarezzando i suoi
capelli e baciandogli una tempia.
Il suo
dolore fu sordo e silenzioso. Se avesse esternato ciò che
provava avrei potuto fare qualcosa per lui, ma Gourry non fiatò.
«Ci
saranno un sacco di cose di cui occuparsi…»
balbettò, rivolgendo un’occhiata all’alba che si
faceva strada tra le tenebre.
«Se ne occuperà William.»
«Non posso lasciare tutto sulle sue spalle. L’ho fatto per troppi anni…»
Impotente rimasi a guardarlo alzarsi e vestirsi con movimenti meccanici.
«Posso fare qualcosa per te, Gourry? Qualsiasi cosa. Mi si spezza il cuore a vederti così…»
Solo a quel
punto lui si avvicinò a me, che sedevo sul letto tra le lenzuola
sfatte, posandomi un delicato bacio tra i capelli.
«Quello che fai è già moltissimo.»
«Non sto facendo niente, Gourry. Niente di concreto…»
Lui si era piegato su di me, guardandomi negli occhi.
«Sei qui. Sei tu. È più di quanto potessi chiedere» aveva mormorato, prima di lasciare la stanza.
Avevo
passato il giorno a ciondolare per la camera. Non osavo uscire per non
dovermi imbattere nei famigliari di Gourry e nei molti ospiti che
stavano sopraggiungendo da tutta la Penisola, per il monumentale
funerale che si sarebbe tenuto il giorno dopo.
La custodia
della Spada di Ombra, che Gourry aveva riposto nell’armadio, mi
chiamava a sé, e io stavo facendo di tutto per non cedere a quel
richiamo. Ma era dannatamente difficile.
Tuttavia,
non volevo causare a Gourry più problemi di quanti già
non ne avesse in quel momento. Avrei fatto la brava, anche se....
Più
di una volta avevo passato le dita sul velluto dell’astuccio. Mi
incuriosiva il fatto che, proprio come la Gornova, ci fosse la sola
elsa. Mi chiedevo cosa sarebbe apparso al posto della lama. Supponevo
un fascio di oscurità. Ero maledettamente curiosa di scoprirlo.
Mi
tormentai con quei dubbi fino alla sera, quando Gourry tornò
trascinando i piedi. Aveva ombre scure sotto agli occhi e il suo volto
era bianco come il gesso. Si stese a letto, coprendosi gli occhi con i
palmi. Sembrava distrutto, contrariamente a me che mi ero sentita un
leone in gabbia per tutto il giorno e friggevo di impazienza. Le dita
mi prudevano per il desiderio che avevo di studiare quell’arma da
vicino, e a nulla serviva ricordare a me stessa che la situazione era
drammatica.
Mio marito
aveva appena perso suo padre. Un padre con cui era sempre stato in
conflitto. Ma davanti alla morte ogni cosa cambiava prospettiva e, in
fondo, Gourry aveva scoperto che lord Gabriev lo aveva sempre capito
meglio di quanto lui potesse immaginare. Suo padre lo aveva guardato da
lontano, senza mai interferire nelle sue scelte. Era amore anche questo.
Mi
avvicinai a mio marito, stendendomi al suo fianco, e passai un braccio
attorno alla sua vita, posando la testa contro la sua schiena.
Dovevo smettere di pensare a quella spada. Gourry era più importante.
Restammo
così fino a quando non sentii il suo respiro diventare pesante e
regolare. Aveva bisogno di dormire. Io, però, non avevo sonno.
Non potevo sopportare l’idea di stare in quella stanza un secondo
di più. Infilai la vestaglia sulla camicia da notte e mi chiusi
l’uscio alle spalle.
Il
corridoio era insopportabilmente freddo. Mi chiesi dove diavolo stessi
andando; non conoscevo il palazzo, né i suoi abitanti. Avrei
preferito avere a che fare con una schiera di lumache piuttosto che
imbattermi in William, che in quanto a viscidità non aveva nulla
da invidiare a una lumaca.
Camminai
rapida, la vestaglia che si gonfiava attorno alle mie gambe nude come
una nuvola. Doveva esserci una porta aperta, perché il vento
soffiava impetuoso nel corridoio e aveva spento tutte le torce. Non
avevo un lume e non mi andava di castare un lighting, che mi avrebbe
esposto ancora di più. A un certo punto mi parve di udire delle
voci, poco distante. Mi appiattii contro la parete, trattenendo il
respiro. Un servitore stava facendo strada a un ospite. La luce della
candela che aveva in mano illuminava la strada davanti a lui, rendendo
difficile scorgere chi lo stesse seguendo. Spalancò una porta,
invitando lo sconosciuto a entrarvi, poi si accomiatò.
Deglutii,
aspettando che il nuovo arrivato scivolasse oltre l’uscio della
sua stanza. Era già molto tardi. Passarono alcuni secondi, in
cui il silenzio fu assoluto. Aguzzando la vista tra le ombre del
corridoio non distinguevo più la sagoma dell’uomo. Mi
staccai dalla parete, facendo qualche cauto passo, prima di irrigidirmi
di colpo.
Sentivo il
suo respiro agitare l’aria. All’improvviso il buio mi
faceva paura, non riuscivo più a sopportarlo.
«Lighting» sussurrai, tendendo la mano davanti a me.
Il fiato mi si congelò sulle labbra.
Il volto di
Joy apparve tra le ombre della notte. I riccioli scuri erano più
lunghi, gli sfioravano le spalle. Un filo di barba sporcava le sue
guance. Ma era Joy, non potevano esserci dubbi.
I suoi
occhi si fissarono nei miei e il tempo si arrotolò su se stesso.
Non erano passati quattro anni, ma pochi istanti. Lasciai morire
l’incantesimo nel palmo della mano e, nell'oscurità,
sentii che lui si avvicinava, stringendomi a sé.
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Capitolo 5 *** Ritrovarsi ***
Ritrovarsi
Ritrovarsi
Proverai la tremenda ansia di non essere abbastanza. L'amore ci rende fragili.
(Dell'amore e di altri Demoni, Gabriel Garcia Marquez)
La sua pelle, il suo profumo, il suo respiro.
Lina.
La strinsi a me. Era rimasta esile e minuta, sentivo le
scapole sporgere dalla schiena come due accenni di ali. Fragile come un
uccello, e come un uccello altrettanto inafferrabile, incapace di
piegarsi a qualunque gravità. Affondai le dita tra i suoi
capelli, ancora più lunghi, sempre più indomabili.
Avevo ceduto subito, al primo sguardo. Maledizione.
Per tutto il viaggio mi ero ripromesso di mantenere un
formale distacco, di non lasciarle capire che in quei quattro anni non
c'era stato un giorno, un solo giorno, in cui il suo ricordo non fosse
tornato a tormentarmi. Le avrei sorriso, forse. Più
probabilmente mi sarei limitato a un breve cenno del capo.
Ah, Lina. Ci sei anche tu?
Così, indifferente.
Invece, in quel corridoio buio tutti i miei buoni propositi
si erano sgretolati come un castello di sabbia. In quel corridoio buio,
era bastata una scintilla di luce a farmi crollare. Perché in
quella scintilla di luce avevo scorto i suoi occhi, e ai suoi occhi non
potevo nascondermi. In nessun modo.
Restammo lì, senza parlare, fino a quando una porta
non si aprì, lasciando che un fascio di luce ci illuminasse.
Volevo tenerla ancora stretta addosso, invece fui costretto a
separarmene e fu doloroso quasi come l'ultima volta che ero stato
obbligato a farlo.
Ci sono cose a cui non ci si abitua mai.
«Cosa diavolo...?»
Un uomo era apparso sulla soglia della stanza da cui
proveniva quella luce tanto beffarda. Per un breve istante lo scambiai
per Gourry. Poi mi accorsi che non poteva essere lui: l'espressione era
gelida, la bocca atteggiata a una smorfia che il mio amico non sarebbe
mai riuscito ad esibire.
Lina fece un passo indietro, fissando quello che doveva
essere suo cognato con malcelato disprezzo. Supponevo che tra di loro
non corresse buon sangue. Gourry mi aveva accennato qualcosa, in
passato, riguardo al brutto carattere del fratello. Sul brutto
carattere di Lina, invece, ne sapevo quanto bastava per riempire un
libro intero. Un libro molto grosso.
«Posso presentarti Joy Shadow, Duca di Solaria?»
disse Lina, rivolta al cognato. Sebbene la distanza fra di noi fosse
ormai quella che si conveniva, lui continuava a fissarci con le
sopracciglia aggrottate. «È il migliore amico di
Gourry» aggiunse, come se questo bastasse a sgravarci da ogni
sospetto. Ma Gabriev non sembrava affatto convinto. Sorprendere la
moglie di suo fratello che abbracciava uno sconosciuto
nell'oscurità di un corridoio deserto poteva fare sorgere
qualche dubbio, in effetti.
«... e del gelato alla crema, William esclamò in
quel momento una voce femminile, dall'interno della camera. Con della
panna!»
William si riscosse, senza tuttavia smettere di spostare lo
sguardo da me a Lina e viceversa. Uno scalpiccio di piedi, alle sue
spalle, ruppe la tensione. Sulla porta si affacciò una donna con
dei lunghi capelli color miele. Era molto giovane e incredibilmente
bella. La vestaglia aperta sulla camicia da notte lasciava scorgere la
dolce rotondità di una gravidanza.
«Anzi, no, non crema. Meglio... fragola. Sì,
gelato alla fragola» trillò, sorridente. «E una
montagna di panna!» disse, stringendo il braccio di William.
«Dove diavolo pensi che possa trovare delle fragole in questa stagione, Isobel?» rispose lui, brusco.
Lei si imbronciò.
«Non vorrai che il tuo secondo figlio nasca con delle
orribili voglie a forma di fragola, vero Will? O, peggio, a forma di
cono gelato!»
Lui sospirò e solo a quel punto lei sembrò
rendersi conto di me e Lina, che eravamo rimasti immobili e silenziosi
nel corridoio.
«Oh, scusate... non volevo interrompervi.» Ci
sorrise con calore e io vidi Lina rivolgere un'occhiata torva al suo
ventre gonfio, prima di distogliere rapidamente lo sguardo.
«Si è fatto tardi. Gourry sarà molto
felice di sapere che sei arrivato. A domani, Joy. William,
Isobel...» le parole le morirono sulle labbra e io percepii che
qualcosa l'aveva turbata, spingendola lontana da me. Lontana da tutti.
Avrei voluto afferrarla di nuovo ma lei ci diede le spalle e si
allontanò nel corridoio buio, svanendo fra le ombre.
La mattina dopo rimasi a guardare l'alba farsi strada tra nubi grigie e un cielo spento, che sapeva di polvere.
C'era qualcosa di ironicamente macabro nel fatto di
rincontrare Lina in occasione di un funerale. Mi passai la mano sul
volto, tastando la barba ispida che mi copriva le guance; avevo dormito
poco e male, ma ormai con l'insonnia avevo legato. Si poteva dire che
fossimo quasi amici, dopo tutti quegli anni. Oltre le finestre della
mia stanza scorsi i servitori predisporre il cortile per la cerimonia
funebre, che si sarebbe svolta qualche ora dopo.
Quando mi voltai mi resi conto di non essere più solo nella stanza.
Un'anziana signora sedeva sul letto su cui mi ero solo
appoggiato, senza disfarlo. I capelli d'argento erano lungi e
inanellati in una complicata acconciatura. Il volto, per quanto segnato
dall'età, conservava una fiera dignità.
«Joy Shadow» disse, sorridendomi. Un sorriso
gentile, pieno di affetto. «Mio nipote parlava sempre di te,
nelle sue lettere di mercenario.»
«Anche Gourry mi parlava sempre di voi, Lady Gabriev.»
La vecchia signora agitò la mano davanti a sé.
«Oh, chiamami Ivy. Ci sono un po’ troppe signore
Gabriev in questo palazzo» rispose, riferendosi alle mogli dei
suoi nipoti.
«Ivy» ripetei, inclinando il volto e guardandola
con più attenzione. «Perché siete ancora qua? Sono
passati tanti anni da…»
«Dalla mia morte? Sì, sono passati tanti anni.
Gourry se ne era andato di casa da pochi mesi, quando successe.»
Si portò una mano al petto. «Il cuore, sai. Il cuore non
ha retto. Era il mio nipote prediletto. Lo è ancora, in effetti.
Anche se non dovrei avere preferenze.» Scosse la testa. «Li
amo entrambi, ma Gourry… Gourry è stata la luce della mia
vita, non mi vergogno ad ammetterlo.»
«Sarete felice di sapere che non siete l’unica a
pensarla così. Gourry è, ed è stato, luce per
molte persone, accanto a lui.»
«È un ragazzo speciale» concordò
Ivy, annuendo. «Beh, ora è un uomo. Un marito. Ha sposato
una strana ragazza, ma sembra esserne davvero innamorato. E lei di
lui.»
Lasciai passare solo qualche secondo prima di rispondere.
«Sì, è così. Sono stato il loro
testimone di nozze, posso garantirvi che non esistono due persone che
si amano quanto si amano loro.»
«Questo mi è di grande conforto. I Gabriev, sai,
non hanno fatto buoni matrimoni. Quello di mio figlio è stato
fragile e tormentato. Mia nuora era sempre infelice e lui...»
Lasciò passare qualche secondo «Lui ha fatto tanti
errori.»
«Chi non ne fa?» commentai, con un sussurro.
Lady Ivy sollevò gli occhi nei miei.
«Tutti sbagliamo, su questo hai ragione. Ma alcuni
errori sono più grandi di altri. E più alto è il
prezzo da pagare.»
«Vi riferite alla fuga di vostro nipote?» domandai, scrutando nel blu delle sue iridi.
«Sì, ma non solo. Gourry ha seguito quello che
era il suo destino. Suo padre questo lo ha sempre saputo, e lo ha
lasciato libero di agire. Ora, però, Gourry dovrà fare i
conti con…» si bloccò, come se cercasse le parole
giuste. «Con le scelte sbagliate di chi lo ha preceduto.»
«Per questo siete rimasta?» le domandai, con dolcezza.
Lady Ivy annuì.
«Dovevo assicurarmi che mio nipote avrebbe avuto
qualcuno, al suo fianco, in grado di dividere con lui il peso
dell’eredità che mio figlio gli ha lasciato.»
«Gourry ha Lina, Lady Ivy. Credetemi, se volessi avere
qualcuno accanto capace di sostenermi… vorrei lei.» dissi,
tutto d’un fiato. Nel pronunciare quelle parole qualcosa mi
punse, dentro. In un punto un po’ troppo vicino al cuore.
L’espressione della vecchia signora si ammorbidì.
«Deve essere una persona speciale, la moglie di mio nipote.»
«Lo è.» Deglutii. «Lina ha sempre
combattuto, per Gourry. Lo ama più della sua stessa vita.
Sarebbe disposta a tutto, per proteggerlo.»
Lady Ivy spostò lo sguardo oltre i vetri della finestra. Il cielo era plumbeo, color peltro.
«Il cuore è un fragile strumento. E
l’amore… l’amore può diventare una trappola.
Promettimi che veglierai su di loro, Joy Shadow.»
«Ve lo prometto. Farò quello che è in mio potere fare.»
«Grazie.»
Gourry mi venne incontro, nel cortile gremito di gente vestita di scuro, e mi abbracciò.
«Sono felice di vederti, Joy.»
«Anche io, amico.»
Lina era rimasta un passo indietro. Indossava un abito lungo,
di velluto nero, che accentuava il pallore della sua pelle. I capelli
erano raccolti in una reticella di perline d’onice. Mi rivolse un
breve e tirato sorriso, e io pensai, di nuovo, che c’era qualcosa
che la teneva prigioniera, in un posto lontano. Non era la Lina che
ricordavo, quella che avevo davanti. Se la notte appena trascorsa ne
avevo avuto un lieve sentore, vederla lì, nella luce gelida del
mattino, non fece che confermare i miei dubbi. Qualcosa aveva smorzato
la luce del suo sguardo. Un dolore inconfessato, un segreto.
Guardai Gourry, e anche lui mi apparve provato.
Cos’era successo ai miei amici? Quale dura prova la
vita aveva inflitto loro per piegarli dentro, per renderli un pallido
riflesso delle persone che ricordavo?
Non feci in tempo a domandarlo. La bara contenente le spoglie
mortali di Lord Gabriev uscì dal palazzo in quel momento,
portata a spalla da quattro portantini.
La cerimonia si svolse secondo i riti classici.
L’incenso bruciava nella piccola e gremita cappella, facendo
lacrimare gli occhi dei presenti. Le parole del sacerdote rimbombavano
tra le pareti grigie e fredde. Lord Gabriev era stato un signore temuto
e rispettato. Immobile, accanto al feretro riccamente decorato di fiori
azzurri come i suoi occhi, lo vidi guardare verso i suoi figli, le
folte sopracciglia bianche aggrottate.
William sedeva accanto alla graziosa moglie, avvolta in un
mantello di pelliccia nera. Accanto a loro c’era quella che
presumevo essere la balia, con un bambino biondo, chiaramente un
Gabriev, sulle ginocchia. Il bimbo si dimenava come un’anguilla e
scalpitava per correre a giocare. Gli angoli della bocca di William
erano piegati all’ingiù, nessuna emozione traspariva dal
suo sguardo. Isobel si accarezzava piano il pancione, che spuntava dal
mantello come una luna piena, e sussurrava paroline dolci
all’altro figlio per tranquillizzarlo. Mi chiesi cosa diavolo ci
facesse una ragazza così adorabile con un pezzo di ghiaccio come
il fratello di Gourry. Dall’altra parte della navata sedevano
Lina e Gourry. Sembravano stranamente fragili, sperduti. Vidi Lina
tenere la mano stretta in quella del marito, che aveva lo sguardo fisso
alla bara del padre e gli occhi lucidi. Nonostante la distanza e le
incomprensioni, Gourry aveva amato profondamente suo padre.
Il vecchio Gabriev lo scrutò con aria preoccupata per
alcuni secondi, poi sollevò gli occhi verso di me. Gli feci un
cenno con la testa e lui annuì: era tempo di andare. Scorsi Lady
Ivy, in un angolo della cappella. La nonna di Gourry non sembrava
intenzionata a seguire il figlio oltre il confine. Mi chiesi quali
questioni in sospeso, oltre a quelle di cui mi aveva parlato, la
trattenessero ancora nel nostro mondo.
Al banchetto commemorativo presi posto accanto a Lina, che
sbocconcellava un pezzo di fagiano ripieno senza entusiasmo. Non era da
lei. La Lina che conoscevo non si sarebbe fatta problemi a fare piazza
pulita di tutto quello che aveva nel piatto, anche se si trattava del
funerale di suo suocero.
«Che ti succede, Lina?» le domandai, dopo alcuni secondi di silenzio.
«Beh, mi sembra piuttosto evidente. Il padre di Gourry
è morto e… insomma…» rigirò la
forchetta tra le carote e i piselli del contorno, evitando il mio
sguardo, poi lanciò una breve occhiata a Gourry. Stava parlando
con la moglie di suo fratello, poco distante. Tra le braccia teneva il
nipotino, che gli stava spalmando della crema di formaggio sui capelli,
prima di attaccarci delle stelline di pastina. Al mio amico non
sembrava dare fastidio.
«I bambini sono così maledettamente
irritanti…» commentai, bevendo un sorso di birra. Lina
aggrottò le sopracciglia.
«Sì, condivido. Versami un po’ di birra.»
«A cosa brindiamo?» domandai, sollevando il boccale.
«A noi» rispose Lina. «E al vecchio Gabriev, la cui dipartita ci ha dato modo di rincontrarci.»
«Sono d’accordo.»
Bevemmo, poi Lina mi rivolse uno sguardo indagatore.
«E dunque, Joy, come te la passi?»
Mi strinsi nelle spalle.
«Ah, il solito mortorio.»
Un lieve sorriso comparve sulle sue labbra.
«Simpaticone.»
«E tu, cosa mi dici di te? Quattro anni sono lunghi.»
«Sì, quattro anni sono lunghi.»
Sospirò. «Noi… abbiamo viaggiato. La nostra vita
non è poi così diversa da quella che abbiamo sempre
vissuto.»
Di nuovo, guardò verso suo marito. Gourry si era messo
il nipote sulle spalle e il bambino teneva strette nei pugni alcune
ciocche dei suoi capelli, come se fossero le redini di un cavallo.
Isobel Gabriev li guardava sorridendo.
Lina bevve un sorso di birra, pulendosi la bocca con la manica del vestito.
«Sono tutti così dannatamente biondi, i Gabriev.
Temo che Gourry abbia interrotto una tradizione millenaria, sposando
me.»
«Ha fatto la cosa migliore della sua vita, sposandoti.»
Lina scosse la testa.
«Non ne sono così convinta.»
«Spero tu stia scherzando. Mi sono fatto venire i
capelli bianchi per permetterti di sposare quell’uomo»
scherzai. Lina, però, sembrava aver smarrito chissà dove
molto del suo proverbiale sarcasmo. La vidi incupirsi.
«Sai, Joy… qualche volta mi chiedo come sarebbe
andata, se non ti fossi intestardito a volermi salvare. Forse sarebbe
stato meglio. Per tutti.»
«Tutti chi? Intendi… la corporazione dei
locandieri, i demoni che infestano la Penisola e quelli a cui hai
pestato i piedi in questi anni? Perché non vedo chi
altro…»
«Intendo te e Gourry.»
Mi allungai sul tavolo, togliendole il boccale di birra dalla mano.
«Mi ricordavo che reggessi meglio l’alcol,
Inverse. Perché sei decisamente ubriaca, e stai
straparlando.»
«Non straparlo affatto.»
«Oh, assolutamente sì. E hai anche la sbornia
triste. Andiamo, siamo a un funerale… cerchiamo di stare
allegri. O ci ritroveremo a camminare sull’argine del fossato con
una pietra al collo prima ancora di avere il tempo di dire William-faccia-da-culo.»
«Sei sempre il solito sbruffone.»
Mia cara, vorrei poter dire lo stesso di te, credimi.
Lo pensai, ma le mie labbra rimasero sigillate. Che fine aveva fatto la
Lina esuberante, chiacchierona e prepotente che avevo conosciuto una
sera di cinque anni prima in una taverna malfamata? Non la riconoscevo
in quella ragazza pallida e tesa che mi sedeva davanti, facendo
discorsi assurdi e tristi.
«Come sta Anouk?» mi domandò, per smorzare un po’ l’atmosfera cambiando discorso.
«Anouk sta bene. Ha una missione, adesso che è
cresciuta: mettere al tappeto il sottoscritto in qualsiasi circostanza.
Devo ammettere, a malincuore, che ci riesce anche piuttosto bene.»
«L’adolescenza è un periodo buio. Quanti anni ha, adesso?»
«Quattordici, quasi quindici.»
«La stessa età che avevo io quando sono scappata di casa e ho conosciuto Gourry.»
«Se stai cercando di farmi paura, non
abboccherò. Anouk non andrà da nessuna parte senza il mio
benestare. Quanto al fatto di conoscere un uomo… dovranno
passare almeno altri dieci anni. Come minimo.»
«Che fratello opprimente!»
«Nella maniera più assoluta.»
«Ma la hai lasciata a Solaria da sola?»
Aprii la bocca, poi la richiusi. Non sarebbe stato saggio
rivelare a Lina con chi avevo lasciato Anouk. Qualcosa mi diceva che,
se ci tenevo a tenere la testa sul collo, era meglio non svelare
affatto chi si aggirava per il mio palazzo in quel momento. Al pensiero
di Camelia un brivido mi percorse la schiena, ma Lina non se ne accorse.
«C’è la servitù. Persone fidate, su
cui faccio affidamento. E comunque starò via solo pochi
giorni.»
Qualcosa di simile alla delusione offuscò i lineamenti della maga.
«Oh… riparti di già?»
«Non ho altra scelta.»
«Beh, comunque anche noi ripartiremo a breve. Credo.»
Lina lanciò l’ennesima occhiata a Gourry, sempre
intento a giocare con il nipotino. Sembrava non riuscisse a
staccarsene. In quel momento compresi i dubbi della mia amica. Ora che
Gourry aveva ritrovato la sua famiglia, separarsi da loro non sarebbe
stato semplice.
«Tu e Gourry non lo fate un marmocchio?»
domandai, senza riflettere. Forse, se lo avessi fatto, avrei capito che
si trattava di un argomento spinoso. Gli sguardi che Lina rivolgeva a
quel bambino biondo e al ventre gravido della cognata sarebbero state
sufficienti a farmi capire che qualcosa non andava come avrebbe dovuto.
Ma la perspicacia che sentivo di aver sviluppato nei confronti della
maga venne meno, proprio quando mi sarebbe servita.
«Sai, Joy, forse hai ragione. Credo di aver bevuto
troppo, stasera. Penso che mi ritirerò» disse lei,
alzandosi.
«Lina…» mormorai solo, osservando la sua figura esile allontanarsi.
Gourry mi raggiunse poco dopo.
«Lina?»
«Era stanca, è andata a dormire. Mi è sembrata piuttosto… scossa, stasera.»
Il volto di Gourry si adombrò. Prese una sedia e sedette al mio fianco, passandosi una mano sul volto.
«È… un momento difficile. Non so cosa fare.»
«Hai appena sepolto tuo padre. Prenditi un po’ di tempo, amico.»
«Non mi riferisco a questo. Parlo di Lina. Qualcosa si
è rotto, da qualche parte, e non riusciamo a rimetterlo
insieme.»
Lo guardai per un lungo istante. Mi sembrava sfinito.
«Siete Gourry e Lina. Le cose si sistemeranno.»
Gourry rimase in silenzio, giocherellando distrattamente con alcune briciole di pane sparse sulla tovaglia.
«Per gli dei, io vi ho visto. Vi ho visto sfidare la
morte per stare insieme» sussurrai, abbassando la voce.
«Litigare è normale» aggiunsi subito dopo, con tono
normale.
«Forse è questo il problema. Noi non litighiamo. Lina… io ho paura che lei si sia arresa.»
Stava versando dell’acqua in un bicchiere, ma
all’improvviso si bloccò. I suoi occhi si sgranarono, la
bocca socchiusa.
«Gourry?»
La mano con cui il mio amico reggeva la brocca si
irrigidì e la caraffa cadde a terra andando in mille pezzi.
Centinaia di schegge di vetro si allargarono sul pavimento come comete
in una notte d’estate.
«Gourry, cos’hai?» domandai, alzandomi e avvicinandomi a lui, che era rimasto immobile, come congelato.
«Gourry?!»
I presenti smisero di parlare tra di loro e concentrarono la
propria attenzione su di noi. Fu in quel momento che il mio amico
sbatté le palpebre, scrollando le spalle, e tornò in
sé.
«Io… niente, non ho niente. È stato… solo un attimo.»
Sospirai.
«Un attimo di cosa, esattamente? Sembrava che stesse per venirti un infarto…»
Gourry abbassò lo sguardo, osservando i pezzi di vetro ai suoi piedi.
«Come se qualcosa mi avesse punto, vicino al
cuore…» disse, tastandosi il petto con le sopracciglia
aggrottate. Un lieve sbuffo di vapore uscì dalla sua bocca, ma
la stanza era calda dato che nel grande camino a parete crepitava il
fuoco. «Ma adesso sto bene.»
«Forse dovresti raggiungere tua moglie e metterti a letto» commentai, con aria grave.
«Sì, forse hai ragione. È stata una lunga giornata.»
Lo aiutai ad alzarsi e lui mi strinse la mano in segno di saluto.
«A domani, Joy.»
«Sì, a domani.»
«Sono davvero felice che tu sia qui. Le sei mancato
più di quanto sia riuscita ad ammettere in questi quattro anni.
Forse con te riuscirà ad aprirsi, a parlare di quello che a me
si ostina a nascondere.»
Quando se ne fu andato aprii la mano che lui aveva appena stretto. Era gelida.
Gourry non aveva mai le mani fredde.
Rimasi nel salone, a bere e chiacchierare fino
all’alba. Non facevo un simile bagno di folla da… bah, non
ricordavo più nemmeno io da quando. La cosa commovente era che
erano tutti in vita, per una volta.
Il cielo rischiarava appena quando, con passo strascicato, mi
incamminai nel corridoio che portava alla mia stanza. Avevo appena
superato una porta quando percepii, nel silenzio, un respirare
affannoso, seguito da un singhiozzo. Mi immobilizzai, ascoltando. Avevo
la mente annebbiata dal vino, ma non servivano riflessi lucidi per
rendersi conto che qualcuno stava piangendo, oltre una di quelle porte.
Lentamente mi avvicinai, e scoprii che l’uscio era
accostato. Deglutii, poi lo spinsi. Si aprì su una stanza in cui
sembrava essere passato un tornado. I mobili erano rovesciati, i
vestiti sparsi a terra. L’anta di un armadio era divelta e
scalfita, come se qualcuno ci si fosse accanito con forza; le coperte
del grande letto a baldacchino giacevano aggrovigliate sul pavimento e
lì, in mezzo a quel disastro, c’era Lina, con lo sguardo
fisso nel vuoto. Era nuda e si teneva un lembo di lenzuolo premuto
addosso, a difendere il suo esile corpo. Accanto a lei c’era una
tazza da cui si era rovesciato del liquido scuro e una custodia di
velluto nero, aperta. Era vuota.
«Oh miei dei. Lina» sussurrai, vinto dall’orrore di quella scena.
Speravo che fosse un incubo. Forse avevo già raggiunto la mia stanza e stavo sognando.
Ma quando Lina sollevò nei miei due occhi lucidi di
lacrime, e io vidi i sangue che le sporcava le labbra tumefatte, e il
livido blu intorno alla palpebra, rimasi impietrito.
No, non era un incubo. Era troppo, persino per un incubo.
«Se ne è andato» disse solo, con voce tremante. «Gourry se ne è andato.»
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Capitolo 6 *** Fragile ***
Fragile
Fragile
Per
noi, la vita costituisce un pericolo maggiore: noi siamo fatti di
vetro; quando cadiamo, guai a noi! Quando cadiamo, tutto, per noi,
è perduto.
(Friedrich Nietzsche, La gaia scienza)
«Quello che dici non ha senso…» mormorò Joy. Sembrava incerto sulle gambe, lo sguardo stravolto.
Chiusi gli
occhi, sperando con tutta me stessa di riaprirli su un altro scenario.
Ma quello che avevo dentro non cambiava. Nemmeno al buio potevo
sfuggire allo strappo doloroso che si era aperto al centro della mia
anima. Era come se tutti i sentimenti stessero defluendo da quella
ferita insanabile. Restavano solo una dolorosa impotenza e un bruciante
senso di colpa.
Non avrei dovuto toccare la spada.
Tanti anni
di studi e pratica per venire meno alla più importante delle
lezioni: mai approcciarsi a un oggetto magico se non se ne conoscono
tutti i pericoli.
E adesso Gourry se ne era andato. E io ero a pezzi, in tutti i sensi.
Mi strinsi
addosso il lenzuolo, misera difesa contro il freddo. Il gelo che
sentivo addosso veniva da dentro. Era l’impronta delle mani
ghiacciate di Gourry quando mi aveva afferrato e scaraventato contro
l’armadio.
Dei, aveva la forza di dieci uomini. Ero scivolata sul pavimento, tenendomi un polso. Doveva essersi slogato.
Gourry non
mi aveva dato modo di riprendermi dal confuso stupore in cui mi
trovavo. Mi aveva sollevato e stretto le mani alla gola al punto che,
per un breve istante, avevo pensato che mi avrebbe ucciso.
I suoi
occhi erano pozzi vuoti, abissi profondi in cui non riuscivo a vederlo.
Solo una volta, in tanti anni, gli avevo visto quello sguardo.
Mentre
rantolavo, cercando di divincolarmi, lui aveva sbattuto le palpebre.
Qualcosa, dell'uomo che amavo, era emerso per un breve istante in
superficie, per poi sprofondare di nuovo dentro di lui. Quell'attimo di
incertezza, tuttavia, mi aveva dato modo di sgusciare dalla sua presa
di acciaio. Tossendo e ansimando mi ero accasciata a terra, strisciando
lontana da lui. Dovevo difendermi, a qualunque costo. Avevo afferrato
un candelabro d'argento da uno dei comodini e, quando Gourry si era
avvicinato, per finire quello che aveva cominciato, non avevo esitato a
colpirlo con quello.
Un rumore assordante, di vetro incrinato, aveva raggiunto le mie orecchie e il mio cuore si era rattrappito.
Che cosa avevo fatto? Che cosa avevo fatto?
Joy si piegò al mio fianco.
«Lina, cosa...chi ti ha ridotto così? Dov'è Gourry?»
«Te lo ho detto, Joy. Se n'è andato.»
Il tono di
voce di Joy era stridulo, il mio eccessivamente calmo. Le lacrime si
stavano cristallizzando sulle mie guance, presto non ne avrei avute
più da versare. Qualcosa si stava indurendo, dentro di me. Era
un modo come un altro per non cedere, supponevo. Per restare integra.
Se mi fossi lasciata andare, se fossi crollata, sarei stata perduta.
Lo sapevo, lo avevo già vissuto.
«Ma chi...» Joy mi sfiorò una spalla e io mi ritrassi come se mi avesse ustionato con il tocco delle dita.
«Non
toccarmi!» esclamai. Mi faceva male tutto, ma più di ogni
cosa non volevo essere sfiorata da nessuno. Dovevo capire cosa era in
grado di fare quella spada maledetta, prima di fare altri disastri.
Prima che il danno diventasse irreparabile, sempre ammesso che non lo
fosse già.
Joy si ritrasse, disorientato. Poi, nei suoi occhi passò un barlume di comprensione.
«Non
sarà stato...» Ebbe un attimo di esitazione, di
incredulità. «Non è stato Gourry a farti questo,
vero?»
Il silenzio
si insinuò fra di noi come uno spiffero di aria gelida. C'era
una finestra aperta, da qualche parte, e da lì stavano entrando
nubi di tempesta.
«Non è stato Gourry, vero Lina?»
Scossi piano la testa, ma non fu sufficiente. Joy vedeva dentro di me.
«Lo uccido» disse, voltandosi verso la porta. «Lo uccido e poi gli faccio un discorso.»
«Joy...»
«Lo uccido con le mie mani. Poi lo riporto in vita e lo uccido di nuovo.»
«Joy!»
Joy
inciampò nei suoi stessi piedi, tanto era sconvolto. Si
aggrappò alla maniglia, stringendola fino a far sbiancare le
nocche.
«Non servirà a niente. Se ne è andato per sempre!» gridai, con tutto il fiato che avevo in gola.
L'urlo rimbombò nel silenzio, rimbalzando tra le pareti della stanza come una palla impazzita.
Joy
deglutì, poi, dopo alcuni istanti, colpì la parete al suo
fianco con il pugno chiuso. La smorfia di dolore che si dipinse sul suo
volto non fu sufficiente a dissipare il cipiglio scuro che induriva i
suoi lineamenti.
Perfetto, ora eravamo in due ad avere un polso slogato.
Mentre il
Recovery faceva effetto mi costrinsi a non guardare negli occhi grigi
del mio amico. Mi ci sarei riflessa ed era l'ultima cosa che volevo
fare. Seduti sul letto disfatto, tra le macerie del mio matrimonio,
entrambi guardammo verso la custodia vuota che aveva ospitato la Spada
di Ombra, la terribile eredità che Lord Gabriev aveva lasciato a
suo figlio.
«Quella cos’è?» chiese Joy.
«Il motivo per cui Gourry ha…» le parole mi morirono in gola.
Non ero
sincera, non del tutto. La spada di certo aveva un potere oscuro, lo
avevo percepito subito, appena la avevo stretta tra le mani. Ma Gourry
era già arrabbiato. Gourry era fuori di sé.
E la colpa era solo mia.
La sera
prima ero tornata in camera piena di collera. Per me, per Gourry, per
quello che stavamo passando. Non volevo ricordare ciò che
avevamo perso. Qualcosa che, lì per lì, mi era parso solo
una liberazione e che, a lungo andare, si era trasformato in una
prigione da cui non riuscivo a liberarmi.
Un muro invisibile ci separava. I nostri desideri non collimavano più.
Gourry voleva una famiglia e io… io non sapevo più quello che volevo.
Mi ero
chiusa la porta alle spalle, strappandomi la reticella dai capelli e
lasciandola cadere sul pavimento. Ciocche scomposte mi si erano
appiccicate alla nuca sudata. Quello stupido vestito di velluto era
troppo pesante. Era opprimente. Me lo ero sfilato con gesti bruschi,
restando solo con la sottoveste addosso.
Rivedere Joy mi aveva turbato. Mi aveva ricordato la persona che ero, quattro anni prima.
Lui non era
cambiato, ma aveva trovato cambiata me, lo avevo letto nel suo sguardo
sconcertato. Ricordava una combattente; una guerriera. E si era trovato
davanti una donna spezzata, logorata nello spirito.
Mi ero
seduta davanti alla specchiera, scrutando il mio riflesso. Che fine
aveva fatto il mio entusiasmo? Avevo pensato a Gourry, giù nel
salone, che vezzeggiava il piccolo Gael e posava la mano sul pancione
della cognata.
«Spero
che sia una femmina» aveva detto lei, con un sorriso speranzoso.
Lo stesso che le aveva rivolto lui. Già, Gourry, in quel breve
periodo, ci aveva sperato. Chissà se, in quelle poche settimane
di consapevolezza, aveva nutrito delle preferenze sul sesso del
bambino. Io non lo avevo fatto, ma Gourry di certo sì. Lui
immaginava un volto dove io vedevo solo macchie confuse. Vedeva un
futuro dove io scorgevo solo buio.
Un
mormorio, dall’armadio, aveva raggiunto le mie orecchie. Il lato
oscuro aveva una voce molto suadente, a cui difficilmente ero riuscita
a resistere nella mia vita.
«Darò solo un’occhiata…» avevo sussurrato al mio riflesso.
Chi vuoi prendere in giro, Lina?
«Ci vorrà un secondo…»
Mi ero
avvicina all’armadio, aprendo le ante con delicatezza. La
custodia di velluto era così invintante… Così
proibita.
Mi ero inginocchiata davanti a quello scrigno perfetto e, dopo una breve esitazione, avevo fatto scattare la chiusura.
L’elsa
era di ottima fattura. Vederla, per un breve istante, mi aveva
ricordato la sua gemella, la Spada di Luce, e qualcosa di simile al
rimorso si era impadronito di me. Gourry l’aveva ceduta per
riavermi. Era il suo bene più prezioso, ma la sua
priorità ero diventata io. Avrei dovuto meritare il suo amore,
invece lo stavo imbrogliando come la peggiore delle vigliacche.
Le mie dita
risultavano sottili e pallide vicino al manico massiccio. L'acciaio
lanciava bagliori sinistri nella penombra della stanza.
Lord
Gabriev ci aveva proibito di toccarla. Ma ero pronta a giurare che
avesse detto la stessa cosa della Spada di Luce. In fondo, se la
impugnavo senza usare formule, che male potevo fare? Era solo un'elsa.
E io sentivo scorrere in me il brivido di eccitazione che oggetti come
quello avevano sempre esercitato sulla mia persona.
Potere, brama di conoscenza, gusto del proibito. C'era un motivo se avevo scelto la magia nera a discapito della bianca.
L'avevo
presa tra le mani, sollevandola davanti a me. Era pesante, fredda,
immensamente bella. Avevo scrutato le finiture della guardia, il modo
in cui la pietra era incastonata nel pomolo. Sì, aveva proprio
la forma di un cuore. Un cuore liscio e trasparente. All'improvviso,
qualcosa aveva catturato la mia attenzione. Mi ero avvicinata e avevo
visto delle sottili venature rosse sporcare la trasparenza del vetro.
C'erano anche quando avevo guardato la spada la prima volta? Non
ricordavo, ma del resto l'avevo avuta sotto agli occhi per così
poco tempo che quel particolare poteva anche essermi sfuggito.
Mi ero
sollevata, brandendola davanti a me, per saggiarne il peso. Avevo
compiuto qualche mossa, come mi aveva insegnato Gourry, ma senza la
lama l'equilibrio era incerto. Poi avevo guardato di nuovo la pietra
sul pomolo. Era diventata quasi completamente rossa. Un rosso cupo, che
ricordava il sangue.
Spaventata,
avevo cercato di riporre la spada, ma proprio in quel momento un lungo
nastro di nebbia scura era scaturito dal manico. Un fascio di ombra,
che si confondeva tra il buio della notte.
L'avevo gettata a terra, incapace di sopportarne ancora il peso tra le mani.
Ci erano
voluti pochi secondi perché tornasse a essere una semplice elsa,
mentre la pietra riacquistava la sua trasparenza. Io, però, mi
sentivo scossa. Qualcosa mi aveva inquietato mentre la stringevo tra le
mani.
Era stato
in quel momento che avevo sentito i passi di Gourry, davanti alla
porta. Non avevo tempo per rimettere la spada a posto, così
avevo sollevato il mio abito da terra e lo avevo lasciato cadere
sull’elsa e sulla custodia. Dubitavo che Gourry se ne sarebbe
preoccupato, e io avrei provveduto più tardi a sistemare ogni
cosa.
Mio marito era entrato nella stanza. Sembrava scosso, come se qualcosa lo avesse turbato nel profondo.
«Sei ancora sveglia?»
Mi ero stretta nelle spalle.
«Non riesco a dormire.»
Lo avevo
scrutato sedersi sul bordo del letto e massaggiarsi i polsi. Sì,
suo padre era morto da poche ore, ma Gourry sembrava soffrire anche
fisicamente, oltre che nell’anima.
«Tutto bene, Gou?» gli avevo domandato, sedendomi accanto a lui.
«Sì… no. Non lo so, Lina. Non mi sento molto bene, in effetti.»
Gli avevo posato una mano sul braccio. Era freddo, gelido. E stranamente rigido.
«Cosa ti senti?»
«Io…»
Gourry si era portato una mano al petto, dove c’era il cuore.
«Nulla di cui preoccuparsi, davvero. Ho solo bisogno di dormire,
sono ore che non chiudo occhio.»
«Sì,
avresti proprio bisogno di dormire…» avevo concordato,
mordendomi il labbro e lanciando un’occhiata nervosa al mio
vestito afflosciato a terra.
«Sdraiati
qui, accanto a me» aveva sussurrato mio marito, prendendomi tra
le braccia. Avevo capito che aveva bisogno di me, più di quanto
riuscisse ad ammettere, così mi ero stesa al suo fianco. Il suo
respiro, tuttavia, usciva come uno sbuffo di fumo. Il suo fiato era
gelato.
«Gourry…
sei sicuro di stare bene? Sei… gelido» avevo mormorato,
sollevandomi e scrutandolo. La pelle, sulle sue tempie, era tanto
pallida che riuscivo a intravedere sottili vene blu. No, non era
pallida… era quasi trasparente. Cosa diavolo…?
Ma non ebbi
modo di domandarmelo. In quel momento Gourry mi aveva attirata a
sé, baciandomi. C’era una tale disperazione, in quel
bacio, che ero rimasta inerte, incapace di sottrarmi alla sua presa,
che diventava sempre più possessiva.
Ne ho
bisogno, dicevano le sue mani su di me. Eppure, c’era qualcosa di
stonato nei suoi movimenti. Una rigidità che non gli
apparteneva. Conoscevo il tocco di Gourry su di me più di ogni
altra cosa. Il mio corpo era una mappa che lui aveva tracciato, un
territorio che, solo, aveva esplorato e conquistato con dolcezza e
pazienza, con passione e calore.
Ma le sue dita, in quel momento, lasciavano tracce di neve e brina sulla mia pelle.
«Gourry…»
«Ti prego, Lina. Ho bisogno di sentirti, adesso.»
Non avevo
protestato. Il modo in cui l’aveva detto era stato sufficiente a
farmi tacere. Con mia sorpresa mi aveva fatta voltare, prendendomi da
dietro. Mi negava anche il suo sguardo. Non capivo.
Era
scivolato in me senza indugi, e io avevo chiuso gli occhi, mordendomi
le labbra. Senza le sue carezze a prepararmi, non ero pronta.
Per la
prima volta avevo l’impressione di fare l’amore con un
perfetto sconosciuto, ed era una sensazione che non mi piaceva. Non mi
piaceva affatto.
Dopo eravamo rimasti immobili, l'uno accanto all'altra.
«Perché, Lina?»
«Perché... cosa?»
«Perché non mi parli? Io... ho come l'impressione che tu mi stia tagliando fuori. Cosa ho sbagliato?»
Avevo lasciato passare qualche secondo.
«Niente, Gourry. Non hai sbagliato niente.»
Sono io che ho sbagliato tutto.
«Credevo che insieme avremmo potuto affrontare tutto. Ma questa cosa... questa non riusciamo a superarla, vero?»
Avevo chiuso gli occhi, scostandomi da lui.
«Ti sbagli, l'abbiamo superata. Io l'ho superata.»
«Io... forse no» aveva ammesso lui.
Quella
confessione, per qualche strano motivo, mi aveva irritata. Mi ero
voltata dall'altra parte, affondando il volto nel cuscino.
Volevo che
la smettesse di rinvangare il passato: non faceva bene a nessuno dei
due. Volevo che si addormentasse in fretta, per darmi modo di sistemare
quello che andava sistemato.
Quando ero
certa che avesse, infine, ceduto al sonno, ero scivolata fuori dal
letto. Prima della spada dovevo pensare alla pozione, o non avrebbe
più avuto effetto.
Mi stavo portando quel liquido amaro alle labbra quando la voce di Gourry mi aveva fatto trasalire.
«Lina, non dormi? Cosa stai facendo?»
«Niente. Avevo un po' di mal di stomaco. Ho preparato un infuso...»
Gli occhi
di Gourry mi avevano cercato, nella penombra. Mio marito era in grado
di fiutare le bugie da un miglio. Le mie, soprattutto.
«Perché ti nascondi?»
«Non mi sto nascondendo...»
«Lina»
Gourry aveva abbassato il tono di voce, sollevandosi dal letto.
«Non starai... Quello non è...» Non riusciva a
dirlo. Era troppo, persino per lui, che pure mi conosceva come le sue
tasche. Ma Gourry non sapeva quando potevo diventare meschina ed
egoista. O forse lo sapeva, e preferiva ignorarlo.
«Miei
dei» un barlume di comprensione era passato sul suo volto.
«Per questo non è più successo.»
Quelle
parole ebbero l'effetto di un sasso lanciato con violenza in uno
stagno. Portarono a galla tutto ciò che se ne stava immobile sul
fondo.
«Non
è successo perché io non volevo che succedesse»
avevo risposto, con le parole che mi tremavano fra le labbra.
«Ma tu avevi detto...»
«Ho
mentito!» avevo esclamato. «Ho mentito, Gourry. Io... non
sono pronta. Forse non lo sarò mai.»
«È
normale avere paura...» aveva tentato lui, per quanto sconcertato
dalle mie affermazioni. «E, dopo quello che è
succes...»
«Non dirlo!» lo avevo ammonito. «Non voglio parlare di quello è successo.»
«Invece
dovremmo, perché, da quello che vedo, non parlarne ti ha fatto
più male che bene.» Il suo tono era asciutto. Percepivo la
delusione, il biasimo per il mio assurdo comportamento. Ciononostante,
Gourry si stava sforzando di essere comprensivo. Anche davanti alle mie
menzogne. Anche davanti al fatto che, da mesi, lo stavo imbrogliando
alimentando in lui false speranze, non mi rimproverava nulla.
Oh, Gourry. Sei sempre stato migliore di me, in tutto.
«Tu...
non capisci» avevo risposto, scuotendo la testa. Sentivo qualcosa
di duro incastrato nella gola, qualcosa che non voleva sciogliersi. Un
nodo stretto con troppa forza.
«Se
non capisco è perché tu stai facendo di tutto per non
farmi capire, per confondermi!» aveva detto lui, alzando la voce.
Non era arrabbiato, sembrava solo... amareggiato. Ferito. «Che
cosa vuoi, Lina?»
«Io…
non lo so, va bene? Vorrei avere le risposte… vorrei riuscire ad
affrontare il futuro con serenità ma… non ci riesco.
Quello che so è quello che non voglio. E quello che non voglio
è…»
«Un figlio.»
Ero rimasta immobile, senza distogliere lo sguardo dal suo, i pugni stretti con violenza.
Gourry si era morsicato le labbra, poi, dopo quelli che mi erano parsi secoli, aveva scosso piano la testa.
«È
un tuo diritto. Quello che mi fa male è che hai deciso anche per
me, senza farmene parola. Credevi che non avrei capito?»
Quell’affermazione
mi aveva lasciato senza parole. Già, credevo che non avrebbe
compreso la mia decisione, che non l’avrebbe accettata? Mi ero
convinta che il suo desiderio di una famiglia fosse più forte di
quello che provava per me?
Gourry aveva compiuto qualche passo nella stanza, coprendosi le tempie con le mani.
Avrei
potuto dire molte cose. Che mi dispiaceva, tanto per cominciare. Che il
rimorso per quello che gli avevo nascosto non mi faceva dormire la
notte. Che era complicato, dannatamente complicato. Non eravamo
più due ragazzini spensierati, per gli dei. Eravamo adulti.
Ma non
avevo detto nulla di tutto questo. Mi ero stretta le braccia al corpo,
chiudendomi in un ostinato mutismo. Avevo guardato mio marito camminare
su un abisso e non gli avevo teso alcuna mano per salvarsi dalla
voragine che rischiava di risucchiarlo da un momento all’altro.
Non ne avevo la forza.
Io, Lina
Inverse, colei che aveva quasi distrutto il mondo con il più
temibile degli incantesimi, mi sentivo annichilita, inerte.
Gourry, alla fine, si era fermato. Quasi sovrappensiero aveva raccolto il mio abito da terra, porgendomelo.
«Mettiti addosso qualcosa, si gela qua dentro…»
Poi la aveva vista. L’elsa della Spada di Ombra, che giaceva a terra vicino alla sua custodia.
Prima che
potessi dire o fare qualcosa si era piegato, afferrandola. La mano si
era stretta all’impugnatura e io avevo sgranato gli occhi.
«Non potevi proprio farne a meno, vero?» aveva detto mio marito scuotendo la testa.
«Gourry, mettila giù. Io… credimi, è meglio se non la tocchi!»
Ma lui non
stava più ascoltando. Il suo sguardo era ipnotizzato dal sottile
fumo nero che aveva iniziato a sprigionarsi dalla guardia.
«Gourry!»
Era stato
un attimo. Se tra le mie esili mani la spada aveva prodotto
un’esile ombra, in quelle di Gourry si era trasformata. Una lama
più scura della notte era apparsa a completare l’arma. Il
cuore di vetro sul pomolo si era fatto rosso cupo, e poi nero come
l’inchiostro.
Mi ero
fatta avanti, per togliergli quella spada maledetta dalle mani. Era
stato allora che Gourry mi aveva spinto via, lontana. Avevo sbattuto
contro l’armadio, mi ero slogata il polso.
Ma a lui non era importato niente.
I suoi
occhi erano vuoti, lontani. L’arma lo stava possedendo, e aveva
un potere terribile. In un istante ero tornata indietro di anni, quando
Phibrizio lo aveva rapito e assoggettato al suo potere.
Quello non
era il mio Gourry e io… io dovevo difendermi. Nella
colluttazione che era seguita avevamo rovesciato e capovolto tutto
ciò che c’era nella stanza.
Infine, lo
avevo colpito con il candelabro. E il rumore di vetro che era scaturito
da quell’impatto mi aveva fatto trasalire.
Gourry era tornato in sé.
«Cosa…?»
Aveva guardato la spada,tra le sue mani, poi aveva guardato me. Il suo volto era stravolto dall’orrore.
«Cosa ti ho fatto?»
Mi ero
portata una mano alle labbra. Erano spaccate, sanguinavano. Il polso
faceva un male terribile. Gourry si era coperto la bocca con la dite
tremanti, reprimendo un gemito.
«È
la spada… mettila giù…» avevo detto, e la
mia voce mi era sembrata lontana, come se non mi appartenesse
più.
«Cosa
ti ho fatto…» aveva ripetuto lui, indietreggiando. Avevo
teso una mano verso di lui e Gourry era arretrato ancora di più.
«No!
Non ti avvicinare…» Aveva scosso la testa, incredulo. Il
mio volto doveva essere uno spettacolo tremendo per lui.
«Lina…» aveva mormorato, con un singhiozzo.
«Gourry, va tutto bene. Lo so che non sei tu. È… è quella stupida spada. Mettila giù!»
«Non ci riesco.»
«C-cosa?»
«Io… devo andarmene.»
Si era voltato, e io lo avevo guardato afferrare confusamente i suoi abiti dal bracciolo di una poltrona.
«Gourry!»
«Non capisci! Se restiamo insieme, in questa stanza… potrei anche ucciderti.»
«Di che diavolo stai parlando?»
«Io… non lo so. Sento che potrei farti… qualsiasi cosa. Io... io desidero farlo.»
«Non lo faresti mai. Gourry, guardami!»
«Lo
ho già fatto!» aveva gridato lui. Aveva teso una mano
verso di me, indicandomi, e solo allora avevo scorto le crepe che si
tendevano sulla sua pelle, risalendo sul braccio, fino al gomito.
Fratture di vetro rotto.
Era il punto in cui lo avevo colpito con il candelabro. Il panico mi aveva serrato la gola.
«Che cosa ci sta succedendo, Gourry…?»
«Perdonami.»
Mi aveva rivolto un breve sguardo, colmo di disperazione, poi era sparito oltre l’uscio.
Era un incubo, non poteva essere vero. Eppure i minuti erano passati, e io ero rimasta lì, intontita, raggelata.
Gourry non era tornato.
Non sarebbe tornato mai più.
«Lina…» Joy mi prese il volto tra le mani, costringendomi a guardarlo. «Mi stai ascoltando?»
Ci misi qualche istante a metterlo a fuoco.
«Dove pensi che possa essere andato?» mi domandò il mio amico.
«Io…
non lo so. È tutto così assurdo, Joy. Noi… stavamo
litigando. E poi ha preso in mano quella dannata spada e…»
«Quindi è stata la spada?»
«Io…
credo di sì, non lo so. L’ho tenuta in mano anche io, ma
non mi è successo nulla del genere.»
Ero
confusa. Sentivo che i pensieri si sovrapponevano nella mia mente senza
un ordine ben preciso. Riuscivo solo a pensare a Gourry, al modo in cui
mi aveva aggredito, al suo sguardo vuoto. Alle crepe sul suo braccio.
Come se…
Scossi la testa a quel pensiero: era assurdo.
«D’accordo.
Allora dobbiamo prima di tutto capire cosa è in grado di fare
quella spada.» Gli occhi di Joy si spostarono per la stanza, fino
a raggiungere la custodia della spada. Era rimasta abbandonata per
terra, come un guscio vuoto e inutile. Si alzò e andò a
prenderla, rigirandosela tra le mani.
«C’è
un’incisione qui» disse, avvicinandola al volto.
«Ma… è illeggibile.»
«Fammi vedere.»
Presi
l’astuccio e scrutai il punto che Joy mi indicava.
All’interno, effettivamente, c’erano dei segni senza senso.
Provai a ruotare la custodia, ma non assumevano alcun significato.
«Dovrei contattare la Gilda…»
«Lo puoi fare?»
Aggrottai le sopracciglia.
«Non
a quest’ora della notte, suppongo. Ho bisogno che qualcuno tenga
aperto un canale, e adesso staranno tutti dormendo.»
Joy scrutò fuori dalla finestra. Il cielo nero non lasciava presagire alcuno spiraglio di luce.
«E
allora non resta altro da fare che aspettare» disse, tornando sul
letto e stendendosi accanto a me, che mi ero raggomitolata su me
stessa, troppo scossa per fare o dire alcun che. Immaginavo fosse lo
shock. Doveva essere quello che succedeva quando tutte le tue certezze
crollavano. Quando la vita che avevi vissuto fino a poco prima si
sbriciolava davanti a te come un castello di sabbia.
Avevo
già vissuto qualcosa di simile, con Gourry, ma le premesse
cambiavano completamente in quel caso. Lui era mio marito, adesso;
avevamo affrontato una discussione lunga e penosa per entrambi, aveva
scoperto le mie bugie, il mio scarso coraggio nell’affrontare la
situazione.
Una lacrima
scese silenziosa sulla mia guancia tumefatta. Con il Recovery avevo
curato solo il polso, non trovavo l’energia per nient’altro.
Joy mi attirò a sé, stringendomi tra le braccia, e io nonostante tutto lo lasciai fare.
«Andrà tutto bene. Lo troveremo, vedrai. Si chiarirà ogni cosa.»
«No, Joy, è un casino» balbettai, affondando il volto nel suo collo.
«Sai,
qualcuno una volta mi ha insegnato che, se c’è un
problema, da qualche parte c’è anche la soluzione per
risolverlo.»
«Ho
paura che questa volta il problema sia più grosso della
soluzione.» Non riuscivo a togliermi dalle orecchie il suono del
vetro rotto.
«Ssst, ora dormi. Ci sono io qua con te. Ci sono io.»
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Capitolo 7 *** Le figlie del buio ***
Le figlie del buio
Le figlie del buio
Chi non ha visto il calar della notte non giuri d’inoltrarsi nelle tenebre. (J.R.R.Tolkien)
Dalle imposte filtrava un debole spiraglio di luce. Mi sollevai, sbattendo le palpebre. Lina non era più al mio fianco.
La cercai
con lo sguardo e la trovai seduta al centro della stanza. Indossava i
suoi abiti da viaggio e i lunghi capelli rossi erano raccolti in una
treccia che le scendeva tra le scapole. Alzandomi vidi che aveva
spostato tutti i mobili e ammassato i cocci rotti della sera prima
contro le pareti. Sul pavimento aveva disegnato con un gesso un grosso
pentagramma e, in quel momento, si trovava al suo interno. Con gli
occhi chiusi e le sopracciglia aggrottate salmodiava formule e
incantesimi che mi fecero venire i brividi.
«Lina… Cosa stai facendo?»
«Contatto
la Gilda» borbottò, concentrata. Disegnò in aria
alcuni simboli, poi posò il palmo aperto al centro del
pentagramma. «Devono dirmi tutto quello che sanno su quella spada
maledetta. Poi partirò per cercare Gourry.» Il suo tono,
risoluto, non lasciava spazio a repliche.
Deglutii.
«Pensavo che, per avere simili informazioni dalla Gilda, bisognasse avere un colore.»
«Io ce l'ho, un colore.»
«Ah sì?»
Ero sorpreso. Conoscendola, mi sembrava strano che non se ne fosse mai fatta vanto.
«Certo
che ho un colore.» C'era una punta di irritazione nella sua voce,
che mi fece tirare un sospiro di sollievo. Preferivo saperla
arrabbiata, persino infuriata, piuttosto che triste e spenta come mi
era apparsa nelle ultime ore.
Gettò
una manciata di sale in una ciotola che aveva davanti e un fumo spesso
si sollevò nella stanza in una lunga colonna di nebbia.
«William
penserà che stiamo dando fuoco ai suoi preziosi mobili
istoriati» commentai, coprendomi la bocca e il naso con la mano.
«Che
pensi quello che gli pare, deve solo provare a venire a protestare.
Sono proprio dell'umore adatto per scambiare quattro chiacchiere con il
mio adorabile cognato...»
Oh, sì. Tira fuori il carattere, piccola.
«Se
è un uomo avveduto non lo farà. Dubito che voglia correre
il rischio di vedere il tuo simpatico falò esteso a tutto il
palazzo.»
«Non è un falò, ma un passaggio.»
Fu
sufficiente una formula perché un forte vento iniziasse a
spirare tra le pareti della stanza. Ma le finestre erano tutte chiuse.
La colonna di fumo tremolò, poi, lentamente, mutò forma
assumendo sembianze sempre più umane, finché non si
tramutò in una donnina dall'aria caparbia. Indossava una tunica
verde e i suoi capelli erano grigi come il ferro.
«Lina la Rosa, perché mi chiami al tuo cospetto?»
Per un istante pensai di aver capito male.
«Rosa? Il tuo colore è il rosa?!» bisbigliai, avvicinandomi alla maga.
«Taci,
Joy!» sibilò Lina, prima di rivolgersi all'apparizione.
«Vi ringrazio per aver ascoltato la mia chiamata, Viviana la
Verde. Mi trovo impossibilitata a raggiungere la Gilda e ho urgente
bisogno del vostro aiuto...»
«Hahahahaha! Ma davvero il suo colore è il rosa?!»
«Chi è questo individuo?»
«È solo un cretino» rispose Lina, impassibile. «Vi prego di non fare caso a lui.»
Viviana la Verde sembrava sconcertata. Lina mi diede una gomitata nelle costole.
«Torniamo
a noi. Ho...» Lina si morse le labbra. «Sono stata incauta,
e avventata, Viviana. Ho commesso un grave errore e ora a farne le
spese è mio marito.»
«Di cosa si tratta?»
«Un
oggetto magico, molto potente, di cui non conoscevo l'esistenza,
né i poteri. Il suo nome è Spada di Ombra, è stata
lasciata da lord Gabriev in eredità a suo figlio, Gourry
Gabriev, il portatore dell'arma di luce.» Prese un respiro, lo
sguardo rabbuiato. «Io temo che quell'arma si sia impossessata di
mio marito. Ha stravolto il suo carattere, portandolo a compiere azioni
che non gli appartengono. Ho bisogno di sapere quali sono le
conseguenze per chi impugna quella spada, e cosa è in grado di
fare.»
Viviana la Verde annuì, pensierosa.
«Dammi qualche minuto» disse, prima di dissolversi.
Lina
sospirò, abbassando le spalle. Era tesa, lo capivo dal modo in
cui teneva i pugni serrati. Mi chiesi dove fosse Gourry, e che cosa gli
stesse passando per la mente. Lasciare Lina era l'ultima cosa che
avrebbe fatto, in una situazione normale. Ma se la situazione fosse
stata normale, la mia amica in quel momento non avrebbe avuto il volto
tumefatto e il cuore spezzato. Se Gourry era cosciente di quello che
aveva fatto a sua moglie, ero pronto a giurare che il senso di colpa lo
stesse divorando.
Passarono
alcuni minuti, in cui nessuno dei due parlò, poi Viviana
riapparve all'interno del pentagramma. Tra le mani teneva un libro.
«E'
più complicato di quanto potessi immaginare, Lina la Rosa»
disse, porgendole il volume. Era spesso e impolverato, le pagine
ingiallite. Lina lo prese in mano e lo studiò, sfogliandolo. La
sua espressione si incupì.
«Ma
è... illeggibile!» esclamò quindi, mostrando a
Viviana il testo. Le pagine erano rigide e riportavano le stesse
incisioni che erano contenute nella custodia della spada.
Viviana
scosse la testa. «E' illeggibile per noi, che non conosciamo
questo alfabeto. E' un tipo di linguaggio messo a punto per impedire
che chiunque venga a conoscenza di segreti troppo oscuri. Per questo
non avevi mai sentito parlare di questa spada. Nulla, sul suo conto,
è stato tramandato nella nostra lingua. Si tratta di un'arma che
appartiene al mondo delle tenebre, i suoi poteri sono oscuri, senza
dubbio, ma ci sono sconosciuti. Tutto ciò che la riguarda
è riportato in quel volume.»
Vidi la vena, sulla tempia di Lina, pulsare lievemente. Oh, non era mai un buon segno.
«D'accordo.
E come diavolo faccio a informarmi su quella dannata spada se tutto
ciò che la riguarda è scritto in un libro impossibile da
leggere?!»
«Temo, Lina la Rosa, che dovrai recarti nel luogo in cui il libro è stato inciso.»
«E sarebbe?»
«Il Santuario delle figlie del buio.»
Lina sbatté le palpebre e io sentii un brivido percorrermi la schiena.
«Le figlie del buio?»
Viviana annuì.
«Sono
vestali che il destino ha votato all'oscurità. E' compito loro
custodire e tramandare il sapere sulle arti occulte.»
«Non
capisco. Ho studiato magia nera per anni, e questa è la prima
volta che sento parlare di queste sacerdotesse...»
«Non stiamo parlando di semplice magia nera, Lina. Stiamo parlando di maledizioni.»
«Intendi dire che... la spada è maledetta?»
«Temo proprio di sì.»
Spirava un
forte vento sulla pianura di Elmekia. A testa bassa, per impedire che
le folate ci gettassero la sabbia negli occhi, io e Lina procedevamo
sui due cavalli che William Gabriev era stato così gentile da
concederci, quando gli avevamo detto che si trattava di una questione
della massima urgenza.
«E Gourry dove diavolo è finito?» aveva domandato William, con la consueta espressione truce.
«Emh...»
Avevo
guardato Lina e lei aveva sollevato le spalle. Certo, ero io il
bugiardo patentato, chi altro avrebbe dovuto rifilare a William, su due
piedi, un'improbabile palla sulla scomparsa di suo fratello?
«Gourry...
è già partito. Ha detto solo che era una sua usanza,
quella di lasciare casa nel cuore della notte senza salutare nessuno.
Insomma, le tradizioni vanno rispettate...»
Per nostra fortuna, William non aveva nessun senso dell'umorismo.
«Già, beh... almeno questa volta non aveva una spada rubata, con sé.»
Io e Lina ci eravamo scambiati una breve occhiata.
In teoria, questa volta non aveva rubato nessuna spada. Gli apparteneva di diritto, purtroppo.
La mappa
che Viviana la Verde ci aveva fornito per trovare il santuario era
piuttosto sbiadita, i contorni dei confini si distinguevano a malapena.
Io e Lina ci litigavamo sopra da ore.
«Dobbiamo andare di qua.»
«Joy, la stai guardando al contrario.»
«Sei tu che sei dalla parte sbagliata. Se la guardi da questa parte appare evidente che la direzione giusta...»
«Spero
che tu non dia le stesse indicazioni agli spiriti che fai passare
oltre. Non voglio nemmeno sapere dove siano finiti quei
poveretti.»
«Ah! Ha parlato Lina la Rosa, la maga più confettosa della Penisola!»
Il pungo in testa me lo meritai, ad onor del vero. Rimasi un po' rintronato, poi sbattei le palpebre ed ebbi un'illuminazione.
«Lina!
Ma siamo già arrivati da un pezzo...» le strappai la mappa
dalle mani, strizzando gli occhi per vedere meglio, poi puntai l'indice
al centro del foglio.
«Guarda
qua! Quel masso, è questo puntino, vicino alla X»
esclamai, indicando un accumulo di pietre poco distante. «Forse
è un... ingresso.»
«Sembra l'imbocco di una grotta. Noi stiamo cercando un santuario, Joy.»
«Un santuario votato all'oscurità. Perché non una grotta, dunque? O anche... un tempio sotterraneo?»
Lina mi guardò sgranando gli occhi.
«Forse non sei così stupido come sembri nella maggior parte delle occasioni.»
«Oh, ti ringrazio, Lina la Rosa.»
«Quando la smetterai sarà sempre troppo tardi, uomo avvisato mezzo salvato.»
«Correrò il rischio. È troppo divertente.»
«Beh, divertiti adesso. Dopo ti sarà difficile farlo, con una mascella rotta.»
Ci
inoltrammo fino al punto indicato dalla mappa. Le pietre, che da
lontano erano apparse impenetrabili, lasciavano in realtà spazio
per un passaggio. Io e Lina ci affacciammo, poi ci guardammo. Spirava
un vento gelido da quella fessura, e il buio non lasciava scampo.
La storia
che ci aveva raccontato Viviana la Verde, sulle sacerdotesse che
vegliavano in quel tempio, metteva i brividi. Si trattava di donne
predestinate in modo crudele.
«Le
figlie del buio nascono con le palpebre sigillate. Quando capita che in
una famiglia arrivi una bambina così, i genitori non hanno altra
scelta che portarla ai cancelli del santuario: il suo destino è
segnato. Isolate da tutto, queste donne custodiscono i più
terribili segreti legati all’occulto. La cecità permette
loro di restare immuni a incantesimi e maledizioni; i loro occhi non
conoscono la luce, il loro cuore non comprende l'odio, la passione,
l'amore. Sono immuni a ogni anatema.»
«Deve
essere tremendo, vivere così…» borbottai, mentre ci
inoltravamo nell’oscurità. Lina aveva creato una sfera
luminosa, che ci permetteva di vedere dove mettevamo i piedi.
Percorremmo un lungo tunnel umido. Da qualche parte gemevano dei
pipistrelli, l’aria si faceva sempre più sottile. Alla
fine sbucammo in uno spazio più aperto, e restammo a bocca
aperta. Davanti a noi si innalzava un cancello, oltre cui scorgevamo un
colonnato, e una cupola.
Un mondo sotterraneo.
«Che mi prenda un colpo…» balbettai.
«Pensavi
di essere il solo, ad avere accesso al mondo di sotto, ma a quanto pare
non è così» commentò Lina, sinceramente
ammirata. «Quante cose ci sono di cui non abbiamo il minimo
sentore…» mormorò dopo alcuni secondi.
«Sì,
beh… ma queste figlie del buio non ce l’hanno un
campanello?» borbottai, guardandomi intorno. «Come diamine
facciamo ad annunciarci?»
«Temo»
disse Lina, dopo aver spostato brevemente lo sguardo sulla cancellata.
«Che ci occorrerà farlo nel modo più ovvio.»
«E sarebbe?» domandai, irritato.
«Joy,
so che adesso sei un duca, e hai uno stuolo di servitori che ti
annunciano gli ospiti, ma noi comuni mortali in genere facciamo
così: ehilà, c’è nessuno?»
esclamò, portandosi le mani ai lati della bocca e gridando a
pieni polmoni.
Passò
qualche secondo, poi una porta cigolò, da qualche parte. Ci
irrigidimmo. Non scorgevamo granché con quel misero lighting a
farci luce.
«Chi…
chi siete?» domandò, dopo alcuni secondi, una voce. Una
voce talmente sottile che sembrava appartenere a una bambina.
«Io…
sono Lina Inverse, e lui è Joy Shadow. Abbiamo bisogno del
vostro aiuto» disse Lina, con tono fermo.
«Che tipo di aiuto?»
«Dobbiamo
decifrare un testo. Non conosciamo l’alfabeto con cui è
stato scritto, ma voi sì. È davvero importante.»
«Siete malintenzionati?»
Sollevai un sopracciglio.
Anche se lo fossimo non lo verremmo di certo a dire a te, bambina.
«Non abbiamo cattive intenzioni. Abbiamo solo bisogno di aiuto.»
«Beh… in questo caso…»
Dalla
penombra spuntò una figura. Indossava una lunga veste bianca con
il cappuccio sollevato. Si avvicinò a piccoli passi e solo
quando fu vicina io e Lina scorgemmo la benda che le copriva gli occhi.
Nonostante la cecità, tuttavia, si muoveva senza indugi. Dalle
vesti estrasse un grosso mazzo di chiavi.
In
silenzio, la osservammo con un misto di stupore e fascinazione
scegliere una chiave tra cento e, con una singolare sicurezza,
infilarla nella serratura. Che non scattò.
«Mmmm…
no, non è questa» disse la sacerdotessa, provandone
un’altra. «Beh, nemmeno questa, e questa neanche. No, non
è questa… caspita, credevo che fosse… ma no,
questa è troppo piccola. Questa è troppo grande.
Ah,questa è quella rotta! Mi dimentico sempre di toglierla. Beh,
in realtà una volta ci ho provato, ma ho tolto quella sbagliata.
Questa… no, questa deve essere quella della serra. Oh, dopotutto
non è neanche questa, e quest’altra è quella della
biblioteca. No, questa è la dispensa, lo capisco perché
è un po’ unta. Ma allora… accidenti, non è
che…? Forse l’ho persa.»
Io e Lina,
dopo l’iniziale sconcerto, iniziammo a spazientirci, mentre la
ragazzina, perché solo di una ragazzina poteva trattarsi,
provava, una dopo l’altra, tutte le chiavi del mazzo.
Alla quarantesima chiave che infilava nel chiavistello mi schiarii la voce.
«Scusate… posso darvi un suggerimento?»
Lei
sollevò il volto verso di me, anche se non poteva vedermi. La
pelle del suo viso era bianca come cera, le labbra piene ricordavano la
forma di un cuore, ma erano pallide e screpolate.
«Ma… ma certo!»
«Qual è l’ultima chiave che usereste per aprire?»
Ci pensò un po’ su, poi ne scelse una.
«Forse questa.»
«Ecco, provate con quella.»
La serratura scattò.
«Accidenti, ha funzionato! Come facevate a saperlo?»
«Lo sanno tutti che la chiave che apre è l’ultima del mazzo.»
Lina roteò gli occhi al cielo, anche se sopra di noi c’erano solo rocce umide e stalattiti.
«Siete forse un profeta?» domandò la sacerdotessa.
«No,
è solo un idiota» disse Lina, precedendomi. Seguimmo
quella bizzarra figura in un lungo corridoio spoglio. I pochi mobili
che c'erano erano completamente impolverati e ricoperti di ragnatele.
«Dovete
scusarmi, ma non riceviamo spesso visite. Oh, diciamo che
l’ultima è stata… cinque anni fa. Credo. Forse
erano di più. O forse…»
Mentre
parlava a ruota libera, come se non lo facesse da anni, ci condusse in
un’ampia sala circolare. C’era un altare sovraelevato, e fu
lì davanti che ci lasciò.
«Aspettate
qui» disse, con aria improvvisamente solenne. Si voltò per
allontanarsi, e inciampò nei suoi stessi vestiti. La afferrai al
volo prima che toccasse terra.
«State attenta...»
«Oh,
non vi dovete preoccupare. Il naso me lo sono già rotto diverse
volte. E' colpa di questi abiti, a volte sanno essere così
ingombranti...»
Si rimise
in piedi con facilità, rassettandosi la gonna. Guardai la benda
che le copriva gli occhi. Doveva essere orribile nascere con le
palpebre incollate. Io, che nella mia vita avevo sempre sofferto per il
fatto di essere in grado di vedere cose che erano negate agli occhi
degli altri, mi sentii dispiaciuto per lei: non vedere affatto doveva
essere una sorte ben peggiore.
«Vado a chiamare la lettrice» disse la sacerdotessa, allontanandosi.
Restammo a
guardare quella minuta ragazza allontanarsi a passo spedito. Dopo
qualche secondo, tuttavia, la vedemmo tornare indietro. Era lei,
indubbiamente; la riconobbi dal profilo del volto, dalla forma delle
labbra, gli unici particolari che non fossero coperti di tessuto.
Salì gli scalini che portavano all'altare e posò le mani
sul marmo freddo.
«Sì,
beh ecco... sono sempre io la lettrice» disse, con un lieve
imbarazzo. «Diciamo che... qui faccio tutto io. Allora, questo
libro dov'è?»
Lina sollevò le sopracciglia.
«Ma... non ci sono altre sacerdotesse, qui?»
«Oh, beh. C'erano. Tanti anni fa.»
«E adesso... ci siete solo voi?»
La ragazza finse di pensarci, arricciando le labbra.
«Beh...
sì.» Si grattò una guancia. «Tutto sommato me
la cavo. Tengo in ordine la biblioteca e la serra, coltivo l'orto,
venero gli idoli e faccio un'ottima torta al caramello. Oh, e accolgo
gli ospiti, ovviamente. Quando sono tanto bravi da trovare questo
posto» aggiunse, con una risatina nervosa.
In quel
momento un pezzo di soffitto si staccò e cadde a terra con un
tonfo. La ragazza non fece una piega, contrariamente a me e Lina, che
trasalimmo.
«Qui...
cade tutto a pezzi!» bisbigliai alla maga, che stava guardando
verso l'altro con aria preoccupata. In effetti c'erano delle crepe che
si tendevano, lunghe e profonde, su di noi. L'umidità stava
corrodendo ogni cosa e, dai sinistri scricchiolii che si sentivano, era
probabile che stessimo per restare sepolti vivi da un momento
all'altro. Guardando con più attenzione tra l'oscurità
che regnava sovrana mi resi conto che il pavimento era disseminato di
detriti e schegge di pietra.
Lina sospirò, poi tolse dalla sacca da viaggio il libro e la custodia della spada.
«Meglio sbrigarsi» sussurrò.
Salì gli scalini e li depose sull'altare.
«Ho bisogno di sapere tutto che si può sapere su un'arma chiamata Spada di Ombra.»
«Spada di Ombra, certo» disse la sacerdotessa.
«La conoscete?» Una lieve traccia di speranza sporcava la voce della maga.
«Mmmm... no, mai sentita.»
Roteai gli
occhi al cielo. Se dovevamo affidarci a quell'inetta, per avere
informazioni, eravamo, per dirlo poeticamente, fottuti. Quella tizia
sembrava vivere completamente scollegata dalla realtà e di certo
non si rendeva conto che il mondo, fuori da quel buco buio, era un
posto con ritmi e problematiche che lei nemmeno si immaginava.
La
guardammo posare le mani sul libro e passarsi la lingua sulle labbra.
Leggeva grazie alle incisioni, con il tocco delle dita. Non sempre gli
occhi sono indispensabili, in fondo.
«Qui
c'è scritto...» fece una pausa di alcuni secondi.
«Spada di Ombra» disse infine, con tono solenne.
«Lina, sei sicura di quello che stai facendo? A me questa sembra matta...»
«Probabilmente
lo è, ma non abbiamo altre alternative» rispose la maga,
stringendosi nelle spalle. «E poi può darsi che sulla
copertina ci sia scritto davvero Spada di Ombra. Ha un senso, in
effetti...»
Mentre la
sacerdotessa sfogliava le pagine, umettandosi l'indice, nonostante non
ce ne fosse alcun bisogno dato che erano rigide, su di noi piovve una
pioggia di intonaco che ci fece tossire. Starnutì anche lei,
pizzicandosi il naso tra le dita.
«Oh, da quando hanno iniziato a fare i lavori, qua sopra, succede di continuo...»
«I... lavori? Quali lavori?»
«Credo che stiano costruendo una diga, qualcosa del genere... Si sentono certi schiocchi!»
Pensai ai
massi ammonticchiati fuori dalla grotta e rabbrividii. Se stavano
costruendo qualcosa, là fuori, era probabile che bloccassero
l'unico passaggio che portava al tempio. O, cosa ancora peggiore,
l'intero santuario sarebbe franato su se stesso, seppellendo chiunque
ci fosse là sotto.
Noi, in quel caso. E quella sacerdotessa squinternata.
«Non è molto saggio che voi continuate a vivere qui, da sola. Potrebbe essere pericoloso...»
«Ma
questa è la mia casa. Inoltre, sono rimasta l'unica custode del
tempio. Se me ne vado, chi penserà a questo posto?»
«Se crolla tutto, non vi sarà alcun bisogno che qualcuno si occupi di questo posto» la interruppi, brusco.
«Ragione per cui dovremmo accelerare i tempi» esclamò Lina. Quindi, cosa dice sulla spada?»
«Oh,
dunque...» la sacerdotessa stava per ricominciare a parlare,
quando un boato ci interruppe di nuovo. Questa volta si era staccato un
intero pezzo di parete, franando su se stesso.
«Per gli dei, oggi sono particolarmente rumorosi disse la ragazza, tossicchiando.»
«Dobbiamo andarcene bisbigliai alla maga. Rischiamo di restare sepolti.»
«Non
prima che mi abbia rivelato ogni singolo dettaglio su quella orribile
spada!» sibilò Lina. Quando si metteva in testa qualcosa
era dannatamente difficile farle cambiare idea.
«E allora ce ne andremo tutti.»
«Cosa? Vuoi... rapire la sacerdotessa?»
«Per
gli dei, no! Però dobbiamo portarla fuori di qui, e alla svelta.
Sta per caderci il soffitto sulla testa!»
La maga si
morse le labbra, lanciando un'occhiata preoccupata alle crepe, sempre
più numerose, che si tendevano sopra di noi.
«D'accordo, facciamo in fretta.»
Non ci fu
bisogno di parole per coordinarci. Mentre Lina ampliava il lighting e
creava uno scudo di protezione io salii gli scalini e chiusi il libro
davanti al naso della ragazza.
«La lettura è rimandata, dolcezza. Ora andiamo a fare una passeggiata.»
«Passeggiata?» chiese lei, confusa.
«Prima che la festa inizi e a noi venga un terribile mal di testa.»
«Ma... io non posso proprio venire. Ho fatto un giuramento, non posso uscire dal tempio!»
«I giuramenti, a volte, vanno infranti. Soprattutto quando si tratta di salvarsi la pelle.»
«Il mio destino è legato a questo luogo. Se me ne vado non potrò portarlo a compimento!»
«Preferite essere una sacerdotessa che ha infranto le regole o una sacerdotessa morta?»
«Beh, se la mettete in questi termini...»
«Ecco, e allora andiamo!»
Senza troppi complimenti la afferrai e me la caricai sulle spalle, mettendomi il libro sotto braccio.
«Ma... un attimo, io...»
«Niente capricci, bambina» dissi, categorico. «Adesso andiamo.»
Uscimmo
appena in tempo. Quando sbucammo dall'imbocco della grotta, alcuni
uomini, probabilmente giunti sul posto dopo il nostro arrivo, stavano
lavorando agli scavi. Ci guardarono come fossimo fantasmi, ovvero come
in genere io guardavo la gente con cui avevo a che fare.
Misi a terra la sacerdotessa e lei si coprì il volto con le mani.
«Cos'è...
cos'è questa...» scosse la testa, poi si
rannicchiò, affondando il viso tra le braccia.
«Forza, è solo un po' di sole...»
«Brucia!»
«Oh, se credete che questo bruci è solo perché non avete ancora fatto arrabbiare Lina.»
Lina mi rivolse un'occhiataccia.
«Forza, andiamocene da qui. Nel bosco, lontano da sguardi indiscreti.»
«E lei?»
«Lei viene con noi, che domande. Deve leggermi il libro.»
«E poi? Non possiamo abbandonarla in mezzo a una strada...»
«Ci penseremo a tempo debito.»
Lina, quando voleva, sapeva essere estremamente sintetica.
«Dove
andiamo? Io... voglio tornare al tempio!» balbettò la
ragazza, tirandosi il cappuccio della veste fino al mento, così
da coprire tutta la faccia.
«Mi dispiace darvi questa triste notizia, ma il vostro tempio non esiste più.»
«Cosa? E... che ne sarà di me?»
«Per ora verrete con noi. Coraggio.»
Tenendola
per il gomito, io da un lato e Lina da quell'altro, la scortammo fino
ad inoltrarci nella boscaglia. Inciampò su numerose radici,
mentre camminava, e cercammo di tenerla in piedi come meglio potevamo.
«E' tutto così... così bizzarro. Cos'è questo odore?»
«Resina di pino.»
«Cos'è un pino?»
«Andiamo
bene...» bofonchiai, già stufo di essermi accollato quella
responsabilità. Ma, del resto, se l'avessimo lasciata dov'era, a
quell'ora avrei comunque avuto a che fare con lei sotto forma di
spirito. E io preferivo le persone in carne ed ossa, nella maggior
parte dei casi.
Ci fermammo in una radura ombrosa. La ragazza si sedette a terra, raggomitolandosi su se stessa. Sembrava terrorizzata.
In effetti
doveva essere terribile, per lei, aver perso tutti i punti fissi a cui
era abituata. Brancolava nel buio da una vita, in un tempio che
conosceva come conosceva le sue tasche. Ora era libera nel mondo. Un
mondo che non poteva vedere e che non comprendeva. Ci sarebbero volute
dosi massicce di pazienza con lei.
E la pazienza era proprio l'unica cosa che, sia io che Lina, possedevamo in scarsissime quantità.
Lina prese il libro dalle mie mani e glielo porse.
«Coraggio. Ho bisogno che tu lo legga per me» disse, mettendo da parte i formalismi.
«No, no, no! Lasciatemi in pace!» gridò lei, con una vocina sottile. «Riportatemi a casa!»
Io e la
maga ci scambiammo un'occhiata. Nel suo sguardo lessi la frustrazione
che tutta quella situazione le stava provocando. I suoi nervi erano
corde sottili prossime a spezzarsi. Dovevo intervenire.
Mi piegai verso la sacerdotessa e, con lo stesso tono calmo che usavo con gli spiriti più tenaci, provai a parlarle.
«So
che sei confusa e spaventata. Ma non devi avere paura, non vogliamo
farti del male. Ti abbiamo portato via da quella che era la tua casa
perché restarci sarebbe stato troppo pericoloso, per te.
Penseremo noi a proteggerti, faremo in modo che non ti accada nulla di
male. Però, per favore, aiutaci. Sei l'unica che può
farlo.» Posai una mano sulla sua e lei sobbalzò. La pelle,
sul dorso, era tanto bianca che le vene sembravano sottili decori blu.
Paragonata alla mia era molto più piccola e incredibilmente
delicata.
La sentii emettere un lieve singhiozzo.
«Come
ti chiami?» le domandai quindi, rendendomi conto solo in quel
momento che non avevo idea di quale fosse il suo nome.
«Hazel.»
«Hazel, io sono Joy. Puoi fidarti di me.»
Solo a quel
punto lei sollevò il volto verso il mio. Aveva ancora il
cappuccio a coprirle il viso e glielo scostai gentilmente. Una folta
matassa di capelli biondi si srotolò sulla sua schiena,
riflettendo l'oro del sole. Hazel indietreggiò, scostando la mia
mano, che era rimasta sospesa a mezz'aria; sembrava volesse difendersi,
proteggersi.
«Non ti farò del male» dissi ancora, pacato.
«Non è per questo, è che… non so se posso davvero aiutarvi.»
«Sei una figlia del buio, l’ultima
figlia del buio. Sei più preziosa di quanto immagini, per
noi.» A parlare era stata Lina, che si era piegata al mio fianco.
«Ti prego, ho bisogno del tuo aiuto.»
«Ma
io…» Hazel si portò le mani tremanti al volto,
sciogliendo la benda che li copriva. «Non sono una vera figlia
del buio.»
Due occhi
azzurri, grandi e spauriti, si fissarono nei miei per un breve istante.
La ragazza li chiuse, abbagliata, poi li riaprì, sconcertata.
Vidi il terrore colmare le sue iridi.
Si portò le mani al volto e si accasciò contro di me con un breve gemito, svenuta.
Cazzo, eravamo proprio nella merda.
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